Sei sulla pagina 1di 1045

1

Guglielmo Peirce

GENTE DI GALERA.
La guerra nautica nel Mediterraneo tra Medioevo ed Evo Moderno.

GENTE DI GALERA. La guerra nautica nel Mediterraneo tra Medioevo ed Evo Moderno.
by Guglielmo Peirce

Prima stesura depositata alla S.I.A.E.-SEZIONE OLAF con il n. diepertorio 9998747 e con decorrenza 8.12.2010.
2

Abbreviazioni.

lt. = latino.
tlt. = tardo latino, latino medievale.
prlt. = proto-latino.
lc. = lucchese.
ol. = olandese.
lem/ctm. = lemosino/catalano medievale.
sic. = siciliano.
fr. = francese.
frm. = francese medievale.
It/itm. = italiano/italiano medievale.
gr. = greco.
gri. = greco ionico.
gre. = greco ellenistico.
grb. = greco bizantino.
gra. = greco antico.
gt. = gotico.
tr. = turco.
vn. = veneziano.
arag/sp. spagnolo.
in. = inglese.
td. = tedesco.
fm. = fiammingo.
sv. = svedese.
gn. = genovese.
prt. = portoghese.
np. = napoletano.
npm. = napoletano medievale
arc. = arcaico.
corr. = corruzione.
ltg. = latino-germanico.
prlt. = parlata locale.
cst. = castigliano.
lg. = longobardo.
volg. = volgare.
mrs. = moresco.
sl. = sloveno.
ts. toscano.
mc. = marchigiano.
lt.prov. = provenzale.
contr. = contrazione.
3

PREFAZIONE.

Per scrivere di storia si sono usati fino ad oggi principalmente due metodi e cioè uno, più antico,
consistente in una narrazione molto compromessa dal soggettivismo, cioè più o meno arbitraria o
addirittura più o meno fantasiosa, e un altro, più moderno, limitantesi a ripresentare vecchi testi
con un corredo di commenti annotati a piede di pagina, metodo questo che però riesce ovviamente
solo parzialmente esegetico e inoltre risulta molto poco comunicativo; con la presente opera noi ci
proponiamo invece di inaugurare un terzo e nuovo modo di fare storia e si tratta in sostanza di
ricostruire aspetti del passato mediante un testo formato soprattutto da una sequenza di citazioni
tratte da antichi testi e documenti, concatenate e puntualmente commentate, in maniera da lasciar
il minor posto possibile a eventuali interpretazioni soggettive e personali. Certo siamo consapevoli
che in questa maniera si presenta al lettore un’opera di ben ostica e tutt’altro che rilassante lettura,
ma siamo convinti che coloro che vorranno intraprenderla, anche se magari limitandosi a qualche
solo brano o al più capitolo del certo ponderoso testo, non potranno che acquistarne ulteriore
capacità di riflessione e quindi di giudizio; e come si potrebbe infatti raggiungere la verità delle
cose se non avvalendosi di un giudizio esercitato con la riflessione? Dobbiamo però confessare
che questa fatica, proprio in quanto formulata nella maniera predetta, non è, nonostante la gran
mole, del tutto compiuta e né forse potrebbe mai esserlo, perché occorrerebbe vivere una
lunghissima vita per poter leggere, consultare e studiare tutto il relativo scibile accumulatosi nei
secoli in archivi e biblioteche; abbiamo quindi deciso di pubblicarla così com’è ora, come del resto
ci apprestiamo a fare anche con le altre due che stiamo preparando, sperando che le sue lacune e
imprecisioni possano nel complesso risultare alla fine poco rilevanti ai fini di una compiuta
comprensione della materia. Ci riserviamo comunque di continuare ad arricchirla negli anni futuri
ed è soprattutto per questo motivo che scegliemmo di pubblicare i nostri lavori on line, come oggi
si dice, cioè in maniera da poter sempre ampliare o correggere quanto già scritto; e preferimmo
pure mantenerli gratuiti perché pensiamo che il lettore, scegliendo di leggerci, già ci concede la
migliore delle ricompense.
Questo nostro studio non affronta temi quali la costruzione dei vascelli (gr. πορεῖα θαλάττια,
ὀχήματα θαλάττια, πελάγια; l. vasa) né le tecniche della navigazione (gr. πλόος, πλοῦς) né gli
aspetti finanziari della marineria del passato, ma unicamente quello che riteniamo di nostra
competenza e cioè la guerra nautica così come si combatteva in tempi ormai tanto lontani. Si tratta
infatti di un argomento che non è possibile affrontare senza presumere di avere una buona
conoscenza di come la guerra avveniva anche sulla terra ferma e quindi delle tecniche usate allora
dalla fanteria, dalla cavalleria e dall’artiglieria, argomenti da noi trattati in altre opere che affiancano
4

la presente, e ciò per gli ovvi motivi di stretta attinenza che tutti possono facilmente comprendere;
transeat anche per il tema delle fortificazioni militari di terra, tema che, richiedendo conoscenze
professionali specifiche, ci siamo solo altrove limitati a considerare nei suoi principali concetti
ispiratori. Al lettore che fosse invece più interessato agli aspetti costruttivi delle galere, che qui
chiameremo indifferentemente con l’it. galee o con l’ispanismo galere, possiamo consigliare i
seicenteschi trattati francesi dell’Hobier e dell’Hoste e i vari manoscritti della Biblioteca Marciana di
Venezia e della Magliabechiana di Firenze; per quanto invece riguarda l’arte della navigazione e
del pilotaggio di quei tempi, suggeriamo la lettura dei testi a stampa del Medina, del Crescenzio,
del Bayfio e ancora dell’Hoste.
Il mancato studio della materialità storica della guerra e delle sue dirette conseguenze sull’esito
degli avvenimenti porta frequentemente gli studiosi a mancare l’individuazione dei veri fattori che
hanno determinato importanti fatti storici; clamoroso, per esempio, il generale ridimensionamento
dell’importanza della battaglia di Lepanto che da tempo quasi tutti gli autori, copiandosi le
mancanze e le ignoranze belliche a vicenda, pretendono di fare; e ciò solo perché hanno visto che
nel secolo successivo i turchi continuarono a togliere possedimenti ionici ai veneziani. Non
considerano però che gli ottomani, pur continuando le loro conquiste marine, lo fecero da allora in
poi solo nei pressi di casa loro e che in realtà, dopo lo shock, anche psicologico, di quella
gravissima sconfitta, non furono più in grado di progettare e minacciare conquiste più lontane nel
Mediterraneo, come prima invece quasi impunemente facevano; di conseguenza anche le loro
offensive terrestri verso Vienna s’affievolirono per lungo tempo, dandosi così inizio a un lentissimo
ma costante declino dell’impero ottomano. Insomma è certamente a Lepanto e ai suoi eroi che
dobbiamo se oggi a Malta, a Messina, a Bari - e probabilmente anche a Palermo, Napoli e
Budapest - i fedeli vanno a pregare ancora nelle chiese e non nelle moschee, come al contrario
avviene in quella che una volta era la cristianissima Bisanzio. Insomma Lepanto riuscì là dove non
erano riuscite le Crociate e cioè riuscì a fermare l’espansionismo mussulmano nel Mediterraneo e
nell’Europa cristiana; perché in verità questo era lo scopo che la Chiesa di Roma si era sempre
proposto con l’indizione delle Crociate e non la cosiddetta ‘liberazione’ del Santo Sepolcro, anche
se bisogna dire che i più maligni allora sostenevano che invece lo faceva per mettere le mani sul
ricco affare del pellegrinaggio in Terra Santa e infatti nelle relazioni di quel viaggio approvate dal
Vaticano sempre si trova dare gran risalto alle vessazioni, angarie e balzelli a cui i mussulmani di
Palestina immancabilmente avrebbero sottoposto i ricchi pellegrini cristiani - ricchi perché i poveri
non se lo potevano certo permettere.
Dalle sue antiche origini a tutto il Cinquecento la guerra nautica fu esercitata nel Mediterraneo
quasi esclusivamente a mezzo di vascelli che erano remieri (gr. ἐπίϰωποι) e velieri insieme; in
5

seguito l'uso di tali vascelli cominciò molto lentamente a declinare a favore dei grandi velieri, sino a
terminare del tutto nella prima metà dell’Ottocento con l’uso delle galeotte bombardiere
napoletane, e ciò perché la navigazione eolica andava continuamente perfezionandosi e
permettendo quindi una mobilità e una manovrabilità sempre maggiore; inoltre, poiché la forza di
spinta del vento è ovviamente molto superiore a quella che può essere offerta da un numero
anche grande di remi (gra. πηδὰ, ϰώπαι; grb. ϰῶπαι; fr. anche rangs), i velieri (gr. ἲστιοφόροι νῆες),
oltre a offrire il riparo d’alte murate (gr. τείχισματα, τειχίσματα) da opporre alla forza delle onde - il
che era importante perché significava poter far la guerra nel Mediterraneo anche durante la cattiva
stagione, permettevano anche di portare un gran numero di grosse artiglierie, cosa impossibile alle
leggere e bassissime galere. La tecnica e la tattica della guerra fatta appunto con le galere -
specie per quanto riguarda il periodo post-rinascimentale, periodo in cui le armi da fuoco
diventarono più rigorosamente razionali e quindi moderne – sono state invece sino a oggi solo
marginalmente trattate, in quanto molto a torto considerate argomenti ‘chiusi’, isolati, che non
interagiscono con gli altri e quindi non possono dare un importante contributo all’evolversi dello
studio della storia. Che questo giudizio sia sbagliato è dimostrato dalla ovvia considerazione che,
se anche il coraggio e l’impeto degli uomini possono aver prevalso in qualche battaglia, sin
dall’antichità qualsiasi guerra è sempre stata vinta talvolta per una migliore strategia, talvolta per
una migliore tattica ma molto più spesso per una superiore tecnologia, cioè sia pure
semplicemente per l’uso di un miglior giavellotto, quale era per esempio il pilum romano, oppure
più tardi per quello di migliori cavalli di Frisia o di miglior filo spinato; sempre però che tale
superiorità si sia voluta mettere in campo sino in fondo e non come recentemente fecero gli
americani nel Vietnam, dove impararono a loro spese che la guerra non può esser combattuta solo
in maniera parziale, perché in tal modo si rischia di prenderle anche da un nemico molto più
debole.
Nonostante quest’impostazione squisitamente marziale del presente lavoro, vogliamo però
tranquillizzare il lettore assicurandogli che non ci siamo certo messi a descrivere lo svolgersi delle
battaglie, sia perché si tratta di descrizioni che si trovano facilmente nelle cronache e relazioni del
tempo, documenti facilmente reperibili da tutti, sia perché alla maggior parte dei lettori risultano
sempre uggiose e poco significative sia infine perché questo libro si propone di raccontare
soprattutto il ‘come’ e molto meno il ‘che cosa’; inoltre diremo che, nel descrivere le armi da fuoco
delle fanterie e delle cavalleria del tempo abbiamo tralasciato quelle numerose invenzioni o
proposte che spesso inventori esperti - o anche poco esperti - presentavano ai principi del tempo,
perlopiù trattandosi di armi a ripetizione o a carica multipla – vedi per esempio il trattatello di
Giuliano Bossi – con le quali si voleva cercare di aumentare la potenza di fuoco; ciò perché
6

spiegare anche quei documenti significherebbe innanzitutto confondere il lettore, facendogli


credere che si trattasse di armi poi effettivamente usate in battaglia, mentre risultavano perlopiù
non geniali e poco pratiche da usare, e inoltre vorrebbe dire entrare in dettagli tecnici di nessun
influenza né importanza sugli eventi storici.
Poiché tanto di questo nostro lavoro è ‘esegetico’, ossia consiste in gran parte nello spiegare e
provare concetti e circostanze avvalendoci di puntuali e pertinenti citazioni, di queste abbiamo
dovuto necessariamente ‘modernizzare’ l’italiano in modo da renderne più agevole la lettura e la
comprensione, ma abbiamo comunque usato ogni attenzione a non privarle del loro ‘sapore
d’antico’, perché il nostro principale intento è quello di far ‘sì che il lettore possa in breve tempo
trovarsi immerso nell’atmosfera e nella mentalità del tempo che andiamo descrivendo. In buona
sostanza abbiamo innanzitutto dotato le predette citazioni di un’interpunzione moderna e rigorosa,
poi abbiamo aggiunto tra parentesi parole che, se fossero state presenti nello scritto originale,
avrebbero molto contribuito a farne comprender il vero senso e inoltre, tra parentesi e virgolette
semplici, abbiamo spesso aggiunto a disusate parole ed espressioni dei sinonimi e delle locuzioni
moderne per spiegarne il significato persosi nel corso del tempo. Purtroppo abbiamo dovuto al
contrario, ma allo stesso scopo e per quel poco che ci è stato possibile, in un certo senso
‘riantichizzare’ le numerosissime citazioni delle relazioni diplomatiche veneziane pubblicate
dall’Albéri, studioso che, come purtroppo tutti quelli nostrali dell’Ottocento, si affaticava, pensando
di far bene, a stravolgere e impoverire il ricco, raffinato e colto italiano del Cinquecento, lingua che
pure aveva al suo tempo culturalmente conquistato tutto l’ancora rozzo resto dell’Europa; lo stesso
lavoro ci è stato invece impossibile con il Nicolini, il cui lavoro di ‘modernizzazione’ del suddetto
linguaggio dei consoli residenti veneziani del Cinquecento è stato talmente perfetto da renderlo del
tutto irreversibile, a meno che non si trovasse pure il tempo d’andare a riprendere gli stessi
documenti originali utilizzati da lui. Precisiamo comunque che, da qualsiasi lingua, antica o
moderna, esse siano ricavate, le traduzioni sono esclusivamente nostre, eccezion fatta di qualcuna
opportunamente segnalata al lettore, e ciò perché i traduttori di professione, non conoscendo le
particolari sfumature di significato dei termini bellici usati in quel lontano passato, potrebbero
restarne facilmente ingannati.
Abbiamo voluto inoltre arricchire questa nostra opera riportando - nella grafia originale ricavata
soprattutto dall’Aubin - anche la terminologia francese e olandese del tempo, ma facendo
innanzitutto attenzione a non utilizzarne termini più tardi, relativi cioè a situazioni e tecnologie nate
nel corso del Seicento e quindi in epoca successiva a quelle che ci proponiamo di descrivere,
tenendo poi anche sempre presente che il suddetto autore non si dimostra esperto di navigazione
mediterranea, ma solo di quella oceanica. Ciò abbiamo fatto sia perché la Francia era ovviamente
7

una delle più importanti potenze protagoniste del Mediterraneo sia in quanto la presenza navale
fiammingo-olandese in detto mare era già nel Cinquecento rilevante, anche se, a causa della
sudditanza alla Spagna di quei popoli, i trattati commerciali stipulati dai loro stati con l’impero
ottomano sono un po’ più tardi di quelli conchiusi invece dagl’inglesi; questi frequentavano invece
correntemente e stabilmente i mari di Levante già all’inizio del Quattrocento, attratti soprattutto dai
vini mediterranei, per esempio dalla pregiatissima malvasia che andavano a caricare a Cipro, ma
abbinando il commercio al corseggio, com’era praticato in quei secoli un po’ da tutti:

… È da saper come a dì 17 (settembre) se intese, per lettere di Cicilia, come una barza de bertoni
havia preso sopra la Licata 2 nave siciliane carghe di ognì cargato ai Zerbi [om.] e che il viceré
(Giovanni La Nuza), saputo la nova, subito armoe 3 nave e 3 galie nostre dil trafego, capiano
Jacomo Cocho. Andono a trovar la ditta nave bertona e quella prese e recuperò la preda… (M.
Sanudo, Diarii. Anno 1496. T. I , col. 326.)

Didascalia:
Cicilia = Sicilia
una barza de bertoni = una caravella dei britanni
carghe di ogni cargato = cariche di ogni sorta di mercanzie
ai Zerbi = alle Isole delle Gerbe (Libia)
3 galie nostre dil trafego = 3 galee veneziane da commercio
capiano Jacomo Cocho = (comandate dal) capitano Giacomo Coco
nave bertona = nave britannica
prese = presero
recuperò la preda = recuperarono le prede (fatte dagli inglesi)

Con la suddetta citazione e relativa didascalia abbiamo voluto fare subito al lettore un esempio del
tipo di lavoro da cui è scaturita la presente nostra opera.
Era dunque già nel Medioevo primaria l’importanza della marineria olandese, tanto che il cardinale
Guido Bentivoglio (1579-1644) scriveva che ai suoi tempi c’erano nei porti e nei cantieri delle
Province Unite tanti vascelli quanti in tutto il resto dell’Europa; ma, per evitare un risultato
pleonastico, mi sono limitato a riportare solo i termini d’etimo del tutto differente da quello dei
vocaboli italiani e per lo stesso motivo ho voluto tralasciare quasi del tutto la terminologia
spagnola, assimilabile sostanzialmente a quella allora usata in Italia; abbiamo inoltre riportato un
po’ della terminologia greco-bizantina, quella cioè che abbiamo ritenuto più significativa, mentre,
del tutto ignoranti come siamo delle lingue turca, araba e barbaresche, certamente la grafia
rinascimentale europea dei nomi propri in quelle lingue che spesso riportiamo potrà risultare in
gran parte erronea a chi invece se ne intenda; ma bisogna dire che, nonostante la loro certo
soverchiante presenza nei nostri mari, dette lingue non europee non hanno mai inciso in maniera
significativa sulla cultura marittima occidentale, checché se ne pensi; e, se è vero che nei gerghi
8

marinari europei non è infrequente trovare etimi afro-mediorientali, è d’altra parte costatabile
facilmente – e direi molto maggiormente - anche l’opposto.
Il lettore noterà, probabilmente con disappunto, che manca purtroppo un indice dei nomi, ma,
trattandosi nel nostro caso di una pubblicazione on-line, si può in parte ovviare con la funzione di
ricerca di cui il programma di scrittura è ovviamente dotato; inoltre non poche delle circa 1500
citazioni, soprattutto quelle riportate in traduzione, non portano il riferimento alla pagina del libro o
del foglio del documento a cui si riferiscono e ciò perché, a causa appunto del loro ingente
numero, non abbiamo avuto il tempo di completare anche un tale gravoso lavoro. Abbiamo poi
ritenuto di non dover aggiungere anche una lista semplicemente bibliografica, perché
sinceramente, data la già ingente lista delle fonti che il lettore troverà alla fine del volume,
l’abbiamo ritenuta del tutto superflua.
Ma per tornare alle considerazioni iniziali, qualcuno che non ne fosse rimasto convinto potrebbe
alla fine di nuovo domandarci a che cosa può esser servito spiegare così dettagliatamente una
realtà storica qual è quella bellica dell’inizio dell’Evo Moderno, se non unicamente a comporre
un’opera d'erudizione fine a se stessa, visto che tale realtà sembra proprio non avere più alcun
nesso con quella presente; ebbene, non ce la sentiamo di opporci a questi probabili critici portando
i soliti triti argomenti e cioè che la storia non ha bisogno di giustificazioni e che serve soprattutto a
insegnare agli uomini a non ripetere gli stessi errori fatti nel passato; possiamo invece solo
consigliar loro di non intraprendere la lettura di questo libro. Se invece ci sarà qualcuno che vorrà
vedere con maggior chiarezza come la crudele tragedia dell'umana convivenza si sia sviluppata
sempre uguale nel corso della storia e cioè attraverso le sue tre principali imperiture figure sociali,
le quali sono il tiranno, l'aguzzino e il forzato, allora si addentri pure in questa lettura, magari solo
un po' per sera tanto per prender sonno, e s’accorgerà che purtroppo, dal tempo delle galere, gli
uomini non sono appunto sostanzialmente cambiati e che il traguardo d'un effettivo rispetto della
vita e della dignità altrui è non solo ancor oggi lontanissimo, ma probabilmente, come tutte le mete
ideali, resterà tale per sempre. Infine, per tagliar corto e per rispondere alla maniera di Socrate ai
soliti cui usui est o cui bono o insomma cui prodest che possono esserci rivolti dai tanti che queste
minuziose ricerche di filologia militare giudicano del tutto inutili, concludiamo con l’obiettare che,
anche se non sappiamo dire se fare questi studi sia utile o inutile, tuttavia è indubbio che il non farli
non sarebbe di alcuna utilità ad alcuno.
Altri potrebbero invece obiettarci che un gran lavoro del genere c’era già, cioè quello fatto da
Auguste Jal nell’Ottocento con la sua Archéologie navale; infatti noi ne abbiamo tenuto molto conto
citandolo frequentemente, ma dobbiamo osservare che, nonostante la vastità delle letture fatte da
quell’autore e il suo conseguente gran lavoro analitico, egli non riesce a darci una visione organica
9

della materia che tratta, non riesce cioè a raggiungere le necessarie sintesi e spesso si affida
all’apparenza superficiale delle cose, senza andare a ‘lavorar di zappa’, per così dire, ossia senza
andare a ‘riesumare’ personalmente il passato, come ogni storico che si rispetti dovrebbe invece
scegliere di fare…
Vogliamo infine ringraziare il personale tutto dell'Archivio di Stato di Napoli, specie quello della
Sezione militare, della Biblioteca Nazionale di Napoli, della Società Napoletana di Storia Patria e
d’altre istituzioni culturali partenopee, personale che per così tanti anni ci ha aiutato e consigliato
nelle nostre ricerche sempre con massima competenza e cortesia, ciò a ulteriore dimostrazione
che questa Città di Napoli non merita solo reprimenda e condanne, ma anche apprezzamenti, per
lo meno per quanto di culturale riesce ancora, nonostante le tante difficoltà, a offrire e a produrre.
10

Capitolo I.

VASCELLI TONDI E VASCELLI LATINI.

Fino a tutto il Cinquecento qualsiasi tipo d'imbarcazione, grande o piccola che fosse, era ancora
chiamato col termine medievale generico di vascello, dal tlt. vasellum, mentre in gr. il termine
equivalente era ϰατίνα (o anche ἂμαλα, come leggiamo in Esichio Alessandrino, Lexicon. Iena,
1867) e quindi per esempio ‘vascello granario’ si diceva ϰατίνα σιτοφόρος; solo a partire dal secolo
successivo si comincerà in Italia a limitare questo nome ai grossi velieri a vela quadra (ol. raa-
schepen), secondo un uso improprio importato dalla marineria oceanica della Spagna e che, per
quanto riguarda la Francia, sarà adottato dapprima a Marsiglia. I vascelli si dividevano in due
principali categorie e cioè quelli che avevano, oltre naturalmente al pagliolo di fondo, un solo
ponte, quello di coperta, o non avevano nemmeno quello e quelli che avevano più ponti, cioè
avevano altri ponti oltre a quello di coperta; i primi si dicevano barche e i secondi navi. I primi,
essendo di poco pescaggio e potendo quindi navigare più velocemente, usavano una velatura e di
riflesso anche un’alberatura più leggera e versatile, cioè erano a prevalente vela latina; i secondi,
pescando molto di più e dovendo quindi navigare spostando col loro corpo un volume d’acqua
molto maggiore, avevano invece bisogno di un’alberatura e quindi di una velatura più vasta, solida
e potente, vale a dire erano a prevalente vela quadra; ne consegue che le navi erano
generalmente vascelli di dimensioni notevoli per quei tempi, mentre le barche potevano essere
delle misure più disparate, magari anche piccolissime, come erano per esempio perlopiù molto
piccole quelle di salvataggio che si portavano a bordo dei vascelli (schifi, copani ecc.) e quelle che
usavano i piloti portuali. Se si tiene presente la basilare predetta suddivisione, si può evitare di
cadere in tutte quelle sterili discussioni che spesso si fanno a proposito del significato del termine
barca e di quali vascelli fossero un tempo da chiamarsi così; per esempio è per questo motivo che
nell’Archivio Storico per le Province Napoletane ecc. troviamo delle citazioni del termine barca
come trovatosi più volte nella segreteria angioina napoletana attorno all’anno 1300 senza che il
citante si azzardi a dare delle spiegazioni:

… Barca de parascalmo (‘poliscalmo’) cum falchis (‘banchis’) et clambiis (‘scalmis’) ac aposticiis…


… Barca que dicitur Copanellus (‘la barca che chiamano Copanello’)…
… Barca que dicitur lintus (‘la barca che dicono piroga’)…
… Barca piccola con remi diciotto (‘barcetta’)…
(Anno XXII – Fascicolo I. P. 718. Napoli, 1897).
11

Insomma, come abbiamo già detto, qualsiasi imbarcazione che fosse o non pontata o anche solo
copertata era da considerarsi una barca; un concetto di cui quindi ancora oggi noi, anche senza
averne magari più coscienza, ci serviamo, con la differenza che allora le barche erano spesso
remiere o semi-remiere, mentre oggi la navigazione remiera è solo poco più di un ricordo.
Le due suddette categorie di vascelli si suddividevano a loro volta in quattro specie fondamentali in
relazione al loro tipo di velatura (gr. ἰστία, ἂρμενα) e cioè in onerari a prevalente o preminente vela
quadra ((gr. όλϰάδες, γαῦλοι; ct. naus; i. shiffs), onerari a preminente vela latina (gr. ϰάραβοι
(‘granchi’), da cui poi caravella, onerari a vela latina (vn. balche; tlt. barcae, barchae; ct. barcas; i.
boats) e bellici o avvisatori a remi e vela latina (ct. lenijs; i. long boats), detta quest'ultima vela dai
marina veneti anche vela da taglio o semplicemente taglio, in quanto atta a ‘tagliare’ il vento con i
suoi margini; era naturalmente anche in uso la più antica delle vele [gr. φώσ(σ)ωνες], detta a
orecchio di lepre, cioè una vela triangolare disposta in modo da ‘insaccare’ il vento in poppa,
mentre non ancora affermate erano quelle bomate, triangolari o trapezoidali che fossero. La
distinzione tra vascelli quadri e vascelli latini si comincia a leggere nella storiografia del Basso
Medioevo e a opera soprattutto dei bizantini (gr.Ῥωμαῑοι, quindi ‘romei’ e non romani) i quali, al
concetto dell’ολϰάς, ossia della nave oneraria a velatura totalmente quadra dell’antichità, avevano
affiancato quello del ϰάραβος, ossia del vascello onerario a parziale velatura latina; infatti, mentre
il primo nome si ritrova anche nel greco antico, il secondo non appare prima del greco bizantino.
Questo però non significa che la vela latina non fosse già usata, specie nel Mediterraneo, anche
nell’Alto Medioevo e infatti nel suo dizionario enciclopedico il Suida (x sec.), tra i vari tipi di vascelli
che menziona nel suo Lexicon, include anche la ‘nave orto-antennata’ (ὀρθόϰραιρος ναῦς), ossia
‘quella che ha le antenne verticali’ (ἠ ὀρθὰς ϰεραίας ἒχουσα); ora è chiaro che l’antenna verticale
porta la vela triangolare, a meno che non si voglia supporre una vela quadrangolare tesa tra due
antenne verticali, il che però avrebbe reso naturalmente impossibile l’orientamento della stessa
(Lexicon, graece et latine. T. II, p. 714. Halle e Brunswick, 1705). D’altra parte Sesto Pompeo
Festo, lessicografo e grammatico romano del II sec. d.C., parla di una vela di prua che chiama
velum mendicum (‘vela difettosa’) (De verborum significatione. Parte I, p. 90. Budapest, 1889).
Prima di quei secoli i vascelli si dividevano ancora come si erano suddivisi nell’antichità, cioè
semplicemente in onerari e bellici, anche se in generale non sembra che nell’Evo Antico i vascelli
da carico [gr. όλχάδες, φορτηγὰ πλοῑα oppure φορτηγοί νῆες, solo φορτικά in Tucidide, φορτηγιϰὰ
πλοῑα, φορτίδες oppure φορτηγὶδες, φορταγωγοί νῆες, ϰομισιχὰ πλοῖα, ἀγώγιμοι oppure
πεφορτισμοῖ o anche ἐμποριϰαῖ o ancora γλαφυραὶ νῆες, ϰᾰμᾰτηρά oppure ϰαματέρα πλοῑα,]
potessero già raggiungere cospicue dimensioni. In verità nella storia della guerra lazica (VI sec.
d.C.) narrata da Agazia Scolastico, poeta e storico bizantino coevo di quegli eventi, a proposito
12

della presa bizantina di Fhasis, città fortificata costiera tenuta dai persiani, avvenuta nel 556, si
parla di grandi navi da carico [gr. νῆες δὲ φορτίδες μεγάλαι, μυριαγωγοί, μυριοφόρ(τ)οι όλχάδες,
μυριοφόρ(τ)οι νῆες] fornite di alberi corbiti più alti delle torri delle mura della città che assediavano
(Historiarum LT. III). Inoltre, a giudicare da Plauto, dovevano essere grossi mercantili i cercuri (gr.
ϰέρϰουροι):

… Mentre domandavo ai gabellieri se fosse arrivata dall'Asia nessuna nave e quelli dicevano non
esserne arrivate, in quel mentre scorsi un cercuro, del quale non penso di averne mai visto uno più
grosso, che col vento a favore e la vela distesa giungeva al porto. Ci domandammo: da dove verrà
questa nave? Che cosa trasporterà? (Dum percontor portitores, ecquae navis venerit ex Asia,
negant venisse; conspicatus sum interim cercurum, quo ego me maiorem non vidisse censeo, in
portum vento secundo, velo passo pervenit. Alius alium percontamur: quojas est navis? Quid
vehit? In Stico, Atto II, scena III).

Troviamo infine poi anche όλχάδες μαϰραῖ (‘onerarie lunghe’), la quale può sembrare dizione
contradditoria, ma si trattava invece di vascelli da carico tipo quelle galee grosse trasformate che
poi i veneziani chiameranno barchoni e marani e di cui diremo, e quindi mal traduce in lt. il Suida il
suo stesso greco laddove travisa Έν ταῖς δὴ λεγομέναις ὀλϰάσι μαϰραῖς… (“Nelle cosiddette
‘olcadi lunghe’…”) con un erroneo Ιn navigiis longis, quae holcades vocantur… (“Nei navigli lunghi
che chiamano ‘olcadi’… Lexicon, graece et latine. T. II , p. 678. Halle e Brunswick, 1705.), poiché
detto così sembrerebbe come se tutti i ‘vascelli lunghi’ si dicessero olcadi.
La circostanza che sin dall’antichità ci fossero tanti modi di dire in greco ‘navi da carico’ ci dimostra
che il commercio marittimo è sempre stato nel Mediterraneo particolarmente fiorente; a proposito
poi del sostantivo πλοῑα va detto che, perlomeno nella lingua greca post-ellenistica ( secc. IV-VI
d.C.), esso aveva avuto, più che il senso di vascello compiutamente armato per la navigazione,
quello di imbarcazione o di scafo generico (gr. σϰάφος, σϰἇφη, γάστρα; lt. scapha) non ancora
definitivamente corredato, cioè di quello che poi nel Rinascimento si dirà in Italia arsile; lo vedremo
quando citeremo, a proposito dei famosi dromoni, il cronista bizantino del sesto secolo Giovanni
Malalas.
Il navigare alla quadra, ossia con la prima delle tre predette specie, si usava soprattutto nei mari
oceanici, dove più forti erano i venti e più lunghi i viaggi, e infatti i vascelli muniti in prevalenza di
vele quadre (fr. voiles à trait quarré; ol. raa-zeilen, vierkant zeilen) erano generalmente grandi e
d'alto bordo, cioè in grado di sopportare le alte ondate dell'oceano senza restarne sommersi e
travolti; essi, detti nel Basso Medioevo genericamente navi (ct. naus), erano invece ora, con
riferimento alla loro velatura, chiamati pertanto talvolta vascelli quadri [vn. le (navi) quare], ma
anche e soprattutto vascelli tondi (gr. στρογγὗλα πλοῖα, στρογγΰλαι νῆες, γαῦλοι; cst. naos;
lem/ctm. naus) e ciò perché la forma del loro scafo ricordava quella del pesce tondo o delfino, cioè
13

la sezione trasversale (fr. bouchin) del loro scafo era più larga all'altezza della seconda coperta o
ponte che a quella della tolda o prima coperta (gr. ϰατάστρωμα; ven. baladore), al fine d’opporre
meno resistenza al tormento (‘travaglio’) del mare traverso, forma questa che non poteva essere
né dei vascelli a vela latina, né di quelli a remi per non essere né gli uni né gli altri abbastanza alti
di scafo da avere più d’una sola coperta. Troveremo usato Il termine nave tonda ancora nel 1621,
mentre quello generico medievale di navi tornerà in auge, come sappiamo, in epoca
contemporanea. A Bisanzio invece di chiamarsi tondi si erano chiamati alti (ύψηλoi), come
vedremo, cioè in quella civiltà si era soprattutto voluto mettere in risalto la loro maggior altezza e il
loro maggior pescaggio rispetto a quelli delle sottili galee; tra di essi si includevano anche i vascelli
remieri porta-cavalli (gr. ἰππαγωγοῖ), i quali furono detti nel Medioevo bizantino chelandi, dal gr.
ϰέλες, ‘cavallo da sella’, oppure οὐσίαι (gr. ‘patrimonii, provviste’) o meglio οὺσιαχὰ χελάνδια (gr.
‘chelandi delle provviste’), in quello latino-veneziano arsili e marani e in quelli latino-tirrenico prima
uscieri (lt. uxera; tlt. uxerii, usserii; appunto dal gr. οὐσία, ‘provviste’, e non dall’it. ‘uscio’, come si
crede), questo nel decimo secolo secondo il Mutinelli, e poi in italiano arsili o fusti, ecco una delle
tante note storiche apposte secoli più tardi al famoso Codex Ambrosianus; in questa ci si riferisce
all’armata veneziana che nel 1117 fu inviata in soccorso dei regni crociati in Medio Oriente:

… Classis verô, quæ profecta est in Syriam, fuit IV navium onerariarum prægrandium, in quibus
commeatus, maximè arma omnifariam imposita sunt, arsili multi ad deferendos equos & milites
& XL triremes inftructæ; quæ secessit ex Venetiis VIII Augusti MCXVII (LT.A. Muratori, Rerum, t.
XII, p. 271, n. I).

Per quanto riguarda arsili recanti fanteria, ecco un dispaccio inviato il 4 dicembre 1465 al suo doge
a Venezia da Jacomo Barbarigo, provveditore generale veneziano della Morea che presto morirà
da valoroso all’assedio di Patrasso, cioè nel corso delle guerre che i veneziani combattevano
allora contro gli invasori turchi del Peloponneso:

… Adì primo del presente zonse l'arsil (del) patron Stefano Bon, el qual per informazion che ho
havuto, l’è venuto de fuora via e presto e portatosse benissimo con i soldati (che) condusse de qui,
come loro istessi dicono, el qual condusse do (‘due’) contestabeli con pag(h)e (‘soldati’) 300, i
qualli ho fato alozar qui, e, fata li haverò la monstra, li darò la suo paga; atendo l'altro arsile con li
altri, i quali mandarò allozare a Corone, dove ho debutato (‘deputato’?) e aparechiato suo
alozamento (cit. Pp. 70-71).

E poi ancora nel secolo seguente, durante la guerra della Lega di Cambrai:

(Maggio 1509): … Fu stabilito dal Collegio dei Savi (di Venezia) di mandare in Romagna, dedotti
da questo numero di cavalli di stratioti giunti al Lido (di Venezia) con questi due arsilii, 170 cavalli e
300 zagdari; il rimanente di stratioti e zagdari siano mandati a combattere (Fu posto per i savij
mandar in Romagna, de questo numero di cavali di stratioti zonti a Lio con questi do arsilij, cavali
numero 170 et zagdari 300; il resto di stratioti e zagdari siano mandati in campo. In Andrea
14

Mocenigo, Belli memorabilis Cameracensis adversus Venetos historiae libri vi. Libro I. Venezia,
1525).

Gli zagdari erano fanti cimeroti (‘albanesi’) gialdonieri, cioè armati di un dardo detto gialda, vale a
dire di zagaglia o giavellotto, ma perlopiù privi di armi difensive (agreste ac semiferum genus
hominum); sapevano correre velocemente e a volte riuscivano buoni combattenti, ma talvolta i
veneziani, quando non li impegnavano subito in battaglia, dovevano licenziarli perché derubavano
anche le popolazioni amiche e le importunavano con insistente accattonaggio. Marin Sanudo nei
suoi Diarii (gennaio 1495) li aveva definiti anche axapi, forse perché servivano d’abitudine anche
come marinaresca sulle armate ottomane:

... zagdari sonno etiam expediti et mandati in campo; ma fo mala opinion, perché sono
danari persi, non sanno parlar et sono homeni di pocha descrition e disarmati. (ib. Maggio 1509)
… Gionse in questo zorno a Lio uno arsil de stratioti con cavali numero 136, venuti tardi, et restono
cussì a Lio. Nota. Li zagdari, numero 60, im Peschiera si portono valentissimamente, et
combatendo da valenti homeni, sonno tuti morti (ib. Giugno 1509).
…Item, li zagdari sono stà licentiati di campo, perchè erano ladri e robavano cussì nostri come
i nimici; et in questa terra andavano dimandando per l'amor di Dio (ib.).

Quando qui si dice che gli zagdari albanesi non sapevano parlare, ovviamente s’intende che non
conoscevano né veneziano né latino né greco. I porta-cavalli turchi si chiamavano invece
parandarie; ecco un brano tratto dagli Annali veneti del Malipiero:

(1472:) Annunziati questi successi alla Porta, el Turco dete ordene de fabricar l'inverno 200 galie e
100 parandarie con le pupe basse, averte a modo d'arsili; portano securamente gran quantità de
artelarie e 120 cavali per una; e ordenò anche che fosse fabricà 120 fuste e 200 schirazzi, simili a i
burchi da legne che se usa qua in Veniesia, i quali, levade le falche dalle bande, restano con le
sue postize e può vogar 80 in 100 remi per uno (Domenico Malipiero, Annali veneti dall’anno 1457
al 1500 etc. Parte prima, p. 78. In Archivio storico italiano etc. Tomo VII. Firenze, 1843).

In pratica qui il Malipiero, per spiegare le sue parole, dice come sono e a che servono le
parandarie turche e dice infatti che sono simili agli arsili veneziani, cioè basse di poppa (mentre i
vascelli in genere ce l’hanno alta) per poter così avere l’apertura dalla quale far entrare i cavalli;
trasportano quindi ognuna, oltre a 120 cavalli, anche molte artiglierie da consegnare poi all’esercito
di terra. In effetti i veneziani, in tempo di guerra, preferivano molto usare per i trasporti bellici li
arsili, cioè gli scafi di galee grosse disarmate, perché se li trovavano così già quasi pronti allo
scopo:

(1495:) È stà anche preso (‘deliberato’) che sia messo in ordene li arsili, che zè (‘sono’) le galie da
mercà (‘mercato’) tornae el mese de Decembrio da i viazi, per traghettar le zente in Pugia o dove
besognerà (ib. P. 423).
15

Comed poi più avanti meglio vedremo, le fuste erano quelle minori galee alle quali poi, già dal
Trecento, a Venezia si cominciavano a preferire le galeotte, essendo appunto queste vascelli di
dimensioni intermedie tra quelle di fuste e galee; infatti i francesi ponentini, poco esperti di nautica
mediterranea, le chiamavano galeotte. Gli schirazzi erano anch’essi imbarcazioni remiere, ma
turche e da trasporto, simili, dice il Malipiero, ai burchi da legne, cioè a delle imbarcazioni (vn.
barchesi) lagunari e fluviali destinate al trasporto di grosso legname da costruzione; probabilmente
erano protetti da una tenda bianca perché il loro predetto nome, il quale era quello dato da noi
italiani e non dai turchi, veniva dal gra. σϰίρον, cioè ‘ombrello bianco da sole’, da cui l’accr. It.
schirazzo, ‘grosso ombrello’. Infatti il il gentiluomo cortigiano francese Jacques de Villamont, il
quale nel 1589, tornato dal pellegrinaggio in Terra Santa, si recò da Venezia a Padova
approfittando appunto di un burchio che faceva quel percorso, ricorda la comodità di quelle
barcacce mercantili e nei suoi appunti scrive che erano completamente coperte; evidentemente lo
erano per riparare dal sole le merci più deperibili (J. De Villamont, Les voyages. Arras, 1606):

… Questo mi dette motivo di lasciare Venezia solo per imbarcarmi in una delle barche che ogni
giorno vanno da Venezia a Padove, tutte coperte e comodissime, costando a persona solo sedici
soldi veneziani, che sono sei soldi dei (francesi) nostri, per andare a Padove, dove sono
venticinquemila abitanti. In dette barche si trova comunemente gente di varie nazioni e conviene ai
più esser modesti quando si parla per evitare di trovarsi in qualche incidente, perché la maggior
parte di quelli che vanno e vengono indossano giacchi di maglia sono pronti a pugnalare.
Navigando così cinque miglia di mare, giungemmo al traghetto di Lizza Fusina (‘rettilineo color
fuco’), che è alla foce del mare e del fiume Brenta, il quale traghetto somiglia ad un grandissimo
marciapiede che separa il mare dal fiume, però il luogo dove si innalzano le barche è fatto di legno,
sul quale, mediante certe macchine che un cavallo fa girare, le barche sono elevate in un
momento dal mare al fiume. Il motivo per cui questo traghetto fu costruito fu quello di preservare e
impedire la mescolanza dell'acqua dolce con la salata, perché da Lizza Fusina (quella) si trasporta
in battello fino a Venezia. Quantio a Venezia, c’è un numero infinito di pozzi e di cisterne allo
scopo di servire .la gednte comune che non ha la comodità di avere pozzi o cisterne nelle loro
case.
Da Lizza Fusina si può andare, se si vuole, in carrozza a Padova, tuttavia il corso dell’acqua è più
gradevole grazie ai bei palazzi che sorgono sulle sue rive. Dopo aver superato Dolo e altri villaggi
che si affacciano sul fiume, arrivammo all'antica città di Padova.... (ib. L. III.)

Dovendosi però far tornare al normale uso di guerra i suddetti vascelli remieri, a bordo di questi si
liberavano le due posticcie (lt. pusticae), cioè le due grosse travi laterali fuori-bordo di cui poi
diremo, dalle due file di falche (‘botti’) che spesso, per guadagnare spazio, proprio su quelle
poggiate tra scalmo e scalmo in due file spesso si portavano, e si potevano così istallare da 80 a
100 remi per navigare vogando; a Venezia c’era infatti il modo di dire ‘caricare le galee di spoglie
fino alle posticcie’, quando cioè in guerra si era fatto così tanto bottino da doverne sovraccaricare
vergognosamente i vascelli (ib. P. 376).
16

Tornando però ora ai modi di veleggiare, diremo che il navigare alla latina era invece più tipico del
Mediterraneo, mare per lo più non soggetto a violente tempeste perché riparato dai forti venti, dove
le traversate erano molto più brevi per via dei numerosi golfi e isole che vi si trovano e dove in
effetti gran parte della navigazione era un semplice randeggiare o cabotare [fr. cabot(t)er, arriver,
tanger la coste, courir terre à terre], termine quest’ultimo che non deriva affatto, come alcuni
paradossalmente credono, dal cognome dei famosi navigatori veneziani di lungo corso Giovanni e
Sebastiano Caboto, quest’ultimo dapprima - cioè dal 1518 - piloto maggiore (gr. ἀρχῐϰῠβερνήτης)
di Carlo V, bensì dallo spagnolo con il significato di navegar de cabo en cabo; questo tipo di
navigazione, unico prima dell’invenzione della bussola [ctl. brúixula; cst. brújula, brújola; fr.
boussole, ma specialmente compas de mer ou de rout(t)e; ol. volet, zee-kompas], diventerà poi,
con l’evoluzione delle tecniche veliche, prerogativa dei vascelli corsari non da guerra (ltm
praedales), i quali usavano appunto tendere le loro insidie soprattutto ai numerosi mercantili (gr.
φορταγωγοὶ νῆες; gr. ναυτιϰαί φορτίδες) che si potevano incontrare nei pressi delle coste, il qual
modo di corseggiare, cioè il limitarsi ad affrontare i soli mercantili al fine d’arricchirsi senza rischio
né fatica, dicevano i francesi courir le bon bord. I vascelli latini erano pertanto di forma più leggera,
bassa, stretta e allungata, forma che permetteva quindi una maggior speditezza e che, come
vedremo, era comune anche ai vascelli spinti sia dalle vele da taglio sia dai remi.
Iniziando ora a parlare dei vascelli detti quadri o tondi, a seconda che ci si riferisse alla loro
velatura o al garbo (‘forma’) del loro scafo, premetteremo un altro paio di nomi, questi meno
comuni, con i quali essi erano conosciuti e cioè vascelli navareschi, per via del loro timone
multiplo, molto comune e detto appunto alla navaresca (lt. ad navarescham) o anche alla navarola,
cioè ‘alla navesca’, a mo’ di nave (nulla a che fare quindi con la Navarra), e infine talora il nome del
santo protettore attribuito al loro modello. Questi vascelli tondi, i quali, a motivo della loro grande
capacità, erano ovviamente soprattutto da carico, ma spesso erano usati anche armati a guerra,
specie i più leggeri e manovrabili, presentavano una tipologia molto varia, a seconda del loro garbo
[fr. gabari(t)], ossia delle proporzioni delle loro parti principali, e si avevano quindi la nave
propriamente detta [gr. ναῦς; gri. νηῦς; fr. nef, nav(ir)e], nome questo che viene dall’antichità, la
caracca (prt. & sp. carraca, il galeone, il bertone, l'urca, la marsiliana, la caravella, la polacca, la
sultana, la germa, il caramusale o caramusalino, la palandaria o parandaria, lo schi(e)razzo e il
garbo, essendo gli ultimi sei vascelli turco-levantini; infatti, sin dalla fine del tredicesimo secolo i
turchi - come presto scriverà lo storico bizantino Niceforo Gregoras (c. 1296-1360), approfittando
dello stato di debolezza politica, militare e soprattutto economica che in quei tempi l’impero
romano d’oriente stava attraversando, avevano iniziato a formare una loro potente marineria
17

corsara – in seguito anche commerciale e militare, con la quale avevano preso a scorrere e
infestare pressocché indisturbati tutto l’arcipelago greco (Historiae byzantinae. LT. VIII, par. 10).
Erano invece nel Cinquecento ormai obsoleti nomi quali il francese coque (tlt. coho-nis, cogo-nis,
caucha; frm. quoquet; lem/ctm. cocha; fr. coque; td. Kogge; i. cock-boat)), il latino gaulus, gli
antichi greci παρὢν, ϰάρἂβος, ϰάνθαρος, σϰιόθηρα (‘peschereccio di Chio’), i τρίηρον o τρηρόν
menzionati da Esichio e da non confondersi ovviamente con τριήρης, cioè con la grande trireme, i
ῥαμφίς e i ῥώνιξις, il primo marino e il secondo fluviale, anch’essi ricordati dal predetto autore;
inoltre il bizantino ϰαράβιον (da cui ϰαραβιτής, ‘marinaio’), i catalani tarida o tareda, rampín e brisa,
i genovesi buto e butetto (‘botte’ e ‘bottino’), il siciliano tafureya, gli italiani beltresca, barbot(t)a,
gatto, di cui anche diciamo nel nostro libro dell’artiglieria.
A proposito di coque, nel Chronicon Richardi de Sancto Germano (1189-1243), laddove si narra
della presa crociata della città di Damiata avvenuta nel 1217, si dice che i cristiani, per assalire la
città dal mare, noleggiarono una nave (una conducta cochone) e la munirono di cuoi freschi (coriis
morticinis) e di quant’altro necessario per difenderla dalle materie incendiarie che gli assediati le
avrebbero lanciate dall’alto; il nome si volgarizza poi in cocca o cogga nelle cronache dei Villani in
relazione all’anno 1304 (o comunque a un anno molto a questo vicino) e nel Chronicon tarvisinum
del de Redusiis; fu poi nell’Adriatico molto generalizzato assumendo il senso di vascello tondo in
generale, per cui per esempio verso la fine del Trecento, con regolamento decretato ill 25 maggio
1396 dal senato veneziano, si concedeva che i traffici commerciali tra Venezia ed Alessandria
d’Egitto potessero avvenire, oltre che a mezzo delle solite galee mercantili, anche tramite coche,
da una o due cohoperte (’ponti’) che fossero e si trattava di un regolamento molto dettagliato, tra
l’altro anche per quanto riguardava le merci caricabili e le linee di carico non oltrepassabili
(Hippolyte Noiret, Documents inédites pour servir a l’histoire de la domination vénitienne en Crete
de 1380 a 1485 etc. Tomo VI. Pp. 78-81. Parigi, 1892); ma a partire dal secolo successivo detto
nome comincerà nell’oceano a scomparire a favore di quello tutto portoghese di caravella (dal gr.
ϰάραβος, ‘granchio’, un vascello a parziale velatura latina) e nel Mediterraneo invece a favore della
locuzione di barza di Spagna:

… In questo medesimo tempo certi di Baiona in Guascogna con loro navi, le quali chiamano
‘cocche’, passarono per lo stretto di Sibilia (‘Gibilterra’) e vennero in questo nostro mare
corseggiando e feciono danno assai; e d’allora innanzi i genovesi e viniziani e catalani usarono di
navicare con le cocche e lasciarono il navicare delle navi grosse per più sicuro navicare, e che
sono (le cocche) di meno spesa; e questo fu in queste nostre marine grande mutazione di naviglio
(Villani, Nova chronica, p. 140).

L’innovazione stava principalmente nell’essere la cocca o caravella o barza di Spagna un vascello


medio-piccolo che dopo il Medioevo raggiungerà poi le duecento tonnellate e che, pur
18

appartenendo alla categoria dei quadri, era a prevalente vela latina; infatti solo la vela detta
trinchetto era quadra, avendole gli altri tre alberi triangolari, rendendo quindi questi vascelli, come
vedremo poi ben spiegare il Crescenzio, anche se di capacità inferiore, di navigazione invece
molto più flessibile e duttile di quella delle normali navi o barze e soprattutto delle caracche; inoltre
in queste caravelle, proprio perché era l’unico albero (gr. ἰστὸς) a vela quadra, quindi
sufficientemente doppio, era il trinchetto ad avere gabbia ((l. specula; tlt. cavea, cabia; vn. cheba;
ol. mars), ma, a leggere il più antico racconto dei viaggi di Colombo, quello pubblicato nel 1507, e
anche il d’Angheria si evince che a quei tempi non l’aveva nemmeno a quell’albero e che proprio in
seguito alle nuove necessità portate dalla navigazione transoceanica vi fosse poi stata applicata;
infatti Pietro Martire d’Angheria, il quale conosceva personalmente Colombo, nel suo De oceaneae
decadis liber primus, scritto nel 1493, così scriveva dei vascelli assegnatl dai sovrani di Spagna al
grande genovese per il suo primo viaggio al Nuovo Mondo:

… dal Regio Fisco (gli) furono destinati tre vascelli: un cargo da gabbia (cioè una nave) e altri due
da commercio più leggeri e senza gabbie che dagli spagnoli sono chiamati ‘caravele’ (In De rebus
oceanicis et orbe novo decades tres etc. F. 1 recto. Basilea, 1533).

Navi e caracche avevano il castello di prua, le caravelle no e si limitavano ad avere la prua come
un naso ‘all’insù’. A proposito poi del secondo viaggio, dove le navi di gabbia (vn. cheba) sono 3 e
le caravelle 12 [celoces vero duodecim absque specula (‘senza gabbia’). An. Novus orbis
regionum ac insularum veteribis incognitarum etc. P. 94. Basilea, 1532] e in aggiunta ci sono due
vascelli da gabbia particolarmente grandi, cioè di quelle che in Italia si chiamavano gabbioni grandi
di Portogallo, trattandosi probabilmente di due caracche, per un totale di 17 vascelli, ancora il
d’Angheria scriveva:

… xvii ad secundam expeditionem navigia parari iubent, tria oneraria caveata magna, xii id genus
navium quas dici apud hispanos caravelas, scripsimus, sine caveis. Eiusdem generis duas
aliquanto grandiores atque ad sustinendas caveas propter malorum magnitudinem aptas (ib. F. 2
verso).

La caravella doveva essere considerata nel Mediterraneo un vascello molto agile e veloce se agli
inizi del 1405 vediamo una galea veneziana portare appunto l’improprio ma evidentemente
elogiativo nome di Caravella (H. Noiret, cit. P. 155). Non abbiamo in effetti trovato altri autori che
accennino a quest’interessantissima rivoluzione nautica avvenuta nel Mediterraneo all’inizio del
Trecento, ma la descrizione e l’evoluzione della marineria nel Medioevo, materia diversa, non è
l’oggetto di questo nostro studio.
La denominazione dei vascelli tondi derivava comunque spesso, oltre che dal loro garbo, anche
dal paese in cui quel particolare tipo di vascello quadro soprattutto si costruiva e usava e si
19

avevano quindi la nave ragusea, la biscaglina, la valenziana, la genovese, l'inglese, ecc. Ragusa in
Dalmazia, per esempio, era rinomata per la costruzione di galeoni, i migliori del Mediterraneo:

... de gli artefici o maestranze de' galeoni sono più in numero e forse più prattichi in questo mare i
ragusei, poscia che essi non fanno altra sorte di vascelli. (Bartholomeo Crescenzio, Della nautica
mediterranea etc. LT. I, p. 4. Roma, 1607.)

Eccelleva in questa costruzione a Ragusa, nella seconda metà del Cinquecento, la famiglia dei
Sagri, soprattutto il capitano Nicolò, autore di varie opere sulla navigazione, Giovanni Maria suo
fratello, inventore di speciali barche di salvataggio munite di coperta (con che ogni ora mille ne'
naufragij salvano le vite che prima perdevano) e mirabile architetto di navi e galeoni, così come lo
era anche suo nipote Francesco. Peccato che il Crescenzio, che ci ha lasciato queste notizie, non
ci dica anche qual era il segreto costruttivo delle predette barche di salvataggio; probabilmente si
trattava di quelle che usiamo ancor oggi e cioè di barche fornite di casse d'aria impermeabili che le
rendevano pertanto inaffondabili anche se si riempivano d'acqua; il Crescenzio solo così ribadirà
più avanti:

... barche, come quelle delle navi [...] con le sue coperte, conforme che alla moderna si usano...
(ib.)

Vascelli ragusei (navi, caracche e galeoni) con equipaggi d’albanesi in genere, cioè di gente
proveniente da paesi allora neutrali tra cristianità e islamismo, servivano spesso come vascelli
mercenari nell'armate cristiane, trattandosi d’una delle migliori marinerie a vela del Mediterraneo e
ciò ancora a Seicento inoltrato; per esempio in un real ordine spagnolo del 17 febbraio 1623, con il
quale s’imponeva al regno di Napoli l’arruolamento d’un tercio (‘reggimento’) di 1.500 fanti da
inviare all’armata oceanica della Spagna come sua nuova fanteria di marina, tra l’altro così si
legge:

… que esta gente se ha de conducir en los galiones arraguses que por assiento se van a servir…

Ma parleremo ancora dei galeoni; invece passiamo ora alla descrizione dei principali tipi di vascelli
tondi che si usavano nel Mediterraneo o che lo frequentavano. La nave propriamente detta aveva
la mezzania spiccatamente insellata (fr. vaisseau gondolé) ed era di forme larghe e grosse sia
dalla parte della prua (gr. πρώρα; fr. prouë; cap; ol. boeg; voor-ship, neus, hoofdt, borst) sia ai
fianchi (gr. πλευραί), ma si restringeva alquanto alla poppa, la quale da dietro finiva in forma piatta;
essa era alta sia nel corpo, detto anche fusto (‘legno’; sp. fusta) o guscio [fr. r(o)uche; ol. romp], sia
nelle principali opere morte, cioè in quei palchi di poppa e di prua – e talvolta anche di mezzania -
chiamati sia castelli [dal lt. castr(ell)a, luoghi recintati e fortificati)] sia baluvari, perché ricordavano i
20

baluardi delle fortezze di terra, sia anche cassari, essendo pure questo nome di origine terrestre
perché dall’itm. c(h)assaro, torrione, luogo murato elevato (vedi infatti il Libro dei Cassari e dei
Fortilizi del Comune di Siena, sec. XIV) e dal quale quindi anche deriva l’ar. al-Cazar e non
viceversa, come erroneamente si crede; infine in lm. anche buttifredi, quando costruiti per la
guerra:

… et ibi conduci fecit totum navigium Ferrariae, scilicet sex galeas, unam mazimam navim
castellatam cum tribus buttifredis et duobus pontibus et uno lupo (lt. class. rostro; gra. ἒμβολον; ctl.
rampín), et plures alias naves, galiones… (Chronicon estense etc. In LT. A. Muratori, Rerum
italicarum scriptores etc. All’anno 1308. T. XV. Milano, 1729.)

La nave, oltre a essere un vascello molto castellato, si distingueva anche per avere due coperte o
ponti (cst. navios doblados) o anche tre, a seconda della sua grandezza, delle quali quella più alta
ed esterna era chiamata talvolta anche tolda (fr. dernier pont). La nave di gabbia, aveva una
capacità di carico molto variabile, la quale poteva infatti andare generalmente dalle 200 alle
duemila botti di portata (fr. portage; ol. groote, dragtbaarheid), corrispondendo la botte a duemila
libre, quindi possiamo anche dire dalle 800 alle 8mila salme di capacità, tenendosi conto che nella
marineria medioevale e proto-moderna le 400 botti di portata facevano all’incirca da confine tra i
vascelli considerati medio-grandi e quelli invece medio-piccoli; ma come si faceva nel Cinquecento
a calcolare la portata di carico d’una nave, ossia il volume di mare che esso occupava
affondandovi? Prendiamo per esempio una nave lunga da ruota di poppa a ruota di prua (e
vedremo poi che significa) piedi veneziani 90, larga al centro, all'altezza della seconda coperta, 30
piedi e alta dal fondo del madiero di sentina (gr. ἀντλία) al madiero della seconda coperta piedi 15;
moltiplicando queste tre predette misure tra di loro si ottiene il prodotto di 40.500, dal quale si
toglie un terzo, e dal resto, cioè da 27mila, si toglie ancora il 5%, ossia 1.350; poi il residuo 25.650
si divide per 10 e il risultato finale di 2.565 rappresentava il numero delle salme generali di Sicilia
che poteva contenere la predetta nave; tutto questo ce lo insegna il già citato Crescenzio. Ci
conviene però a tal punto, per una miglior comprensione, cercare di rapportare le misure di
capacità usate in quel tempo a quelle odierne e diremo che la salma generale di Sicilia era una
misura di capacità che corrispondeva a un rubbio romano di grano, cioè era all'incirca 275 litri;
sette salme generali erano quasi un carro di Napoli e ogni carro era 36 tomoli di Napoli; ogni
tomolo era poi circa 55 litri e mezzo, per cui un carro era una capacità d’un po' meno di 2.000 litri;
3 tomoli equivalevano a 2 staja o stari veneziani e 5 salme generali a circa 16 stari; 3 stari
corrispondevano poi quasi a un rubbio e quindi a una salma generale; infine, a uno stajo e mezzo
equivaleva la mina romana, essendo quindi quest'ultima un mezzo rubbio. Riassumendo ora quindi
queste principali misure grosse italiane di capacità:
21

Salma = rubbio = lt. 275


Carro = lt. 1.925/1.998
Tomolo = lt. 55,5
Staro = lt. 83,25
Mina = lt. 125.

Grossissimi vascelli da carico a due o tre coperte (fr. anche tillacs), le più grandi del mondo, erano
le caracche (prt. ca(r)racas; ol. karaken; kraaken), nome che sembra derivare dall’gr. χάραξ¸ αϰος,
‘palo, palizzata’, quindi anche ‘murata di legno’, oppure dall’gr. χαράσσω, ‘fendo, solco’ (in questo
caso il mare), specie quelle portoghesi che circumnavigavano l’Africa e andavano in Oriente;
queste ‘pescavano’ tanto da aver bisogno perlomeno di 10 braccia di profondità d’acqua per
navigare (gra. πλεῖν, πλωίζειν; grb. πλῴζειν) e quindi erano particolarmente fatte per navigare in
alto mare (gr. πελᾰγίζειν); i lusitani le mandavano a commerciare in Brasile e nelle Indie Orientali,
ma le usavano anche i genovesi e cavalieri di Malta. Di questi grandi vascelli mercantili oceanici
portoghesi che facevano rotta verso le Indie Orientali si fa menzione anche in una relazione sul
Portogallo del 1588:

… Partono per l'ordinario il mese di marzo quattro o sei navi grandissime e molto forti di legname
cariche di soldati e di molte meranzie, le quali non ritornano più quell'anno talché ogni muda di
naui stà fuori 8 mefi; ma ogn'anno di marzo se ne parte una compagnia ogni settembre se ne parte
un'altra. Queste naui si dividono in caricare parte nell'Africa e parte nell’Indie e in Asia. E perché
nel ritorno non hanno se non li marinari e pochi mercanti, se gli mandano incontro sei galeoni
beniffimo armati sin quasi al Capo Verde, per assicurare la flotta da’ corsari francesi ed Inglesi, i
quali, se intendessero che venissero le navi dell'Indie (da sole), andariano a prenderle, come
hanno fatto altre volte, depredando anco l'Isola di Madera (In Accademia italiana di Colonia,
Tesoro politico, cioè relationi, instruttioni, trattati, discorsi varij di ambasciatori ecc. T. I, p. 223.
Colonia, 1598).

Si trattava quindi di grossi vascelli dalla portata lorda di 1.500/2mila botti o tonelli (da ‘tonno’,
perché quello salato si trasportava appunto nelle botti; da ciò poi appunto ‘tonnellata’), intenendosi
allora per tonello venti quintali da cento libre ognuno e non da cento chili come oggi; avevano lo
scafo più stretto in alto che in basso, non tanto lungo né largo, bensì molto alto, arrivando ai 30
piedi dalla carlinga al centro della coperta e 50 alla sommità dei castelli di poppa e prua, essendo
suddiviso anche in quattro alti oppure in sette od otto piattaforme da carico; a tali piattaforme
s’accenna in una citazione fatta dallo Jal, a proposito d’una carraca portoghese predata
dall’inglese John Barrough nel 1592:

... Questa carraca, dice l'autore inglese, era del porto di milleseicento botti, di cui novecento di
mercanzie; portava trentadue pezzi di artiglieria di rame (‘bronzo’) e da sei a settecento uomini.
Aveva ponti che formavano sette piani, uno ampio e inclinato, molto insellato da dietro in avanti
(cioè il ponte di coperta), tre ponti riavvicinati uno all'altro [...] un castello davanti e un ponte
volante […] di due impiantiti l'uno e l'altro... (Auguste Jal, Archéologie navale. T. I. Parigi, 1840.)
22

Tale vascello misurava in piedi inglesi 165 di lunghezza massima, 47 di larghezza massima e 100
di lunghezza di chiglia; il suo albero di maestra misurava piedi 121 d’altezza ed 11 di
circonferenza, il suo pennone di maestra era lungo 106 piedi.
In questi più grandi vascelli si notava dunque una corsia sopraelevata coperta che univa il cassero
di poppa al castello di prua e della quale ci si potesse servire per soccorrersi reciprocamente in
combattimento e, probabilmente, come ancora oggi in molti cargoes, anche per andare da
un'estremità all'altra della nave senza farsi portar via dall'ondate di burrasca che talvolta spazzano
la coperta. Probabilmente era questa sovrastruttura, allora evidentemente nuova, a cui circa un
secolo e mezzo prima, cioè il 5 agosto del 1435, si erano riferiti gli aragonesi nel descrivere
l’armata genovese con cui stavano, con esito sfortunato, per scontrarsi nelle acque di Ponza:

… e i genovesi (con le loro galere e galeotte) trainavano tredici carrache, otto delle quali erano
maravigliosamente grandi e con castelli molto strani e nella più piccola d’esse venivano
quattrocento e più combattenti e nelle altre più di seicento, mentre in quella del re d’Aragona ne
venivano ottocento… (Raccolta di cronache meridionali inedite, B.N.N. Sez. Nap. II.B.2.)

In ogni caso, passaggio pedonale sopraelevato a parte, sulle navi da carico del passato bisognava
aver cura di lasciare un corridoio libero in coperta, il quale andasse da poppa a prua, per potervi
trasportare grossi oggetti o merci in caso di necessità; nell’antichità romana questo passaggio si
chiamava via agea, da agĕre (‘spingere innanzi’).
Questi grandi vascelli potevano dunque imbarcare sino a 1.300 uomini, di cui 700 od 800 soldati,
anche se in effetti erano inadatti alla linea di combattimento, soprattutto perché, pur essendo dei
buoni velieri col vento in poppa, non valevano niente col vento di bolina; portavano 35/40 cannoni
tutti di bronzo, quindi pesanti dalle tre alle cinquemila libre ognuno, non usando i portoghesi
fondere anche in ferro i pezzi di marina maggiori, come invece facevano i francesi per
sovraccaricare di meno i loro vascelli, e da un numero di spingarde e petrieri, bocche minori con le
quali armavano anche le grandissime coffe, capaci ciascuna anche di 10/12 d’uomini, e costruite
su alberi così enormi che la loro costruzione affastellata doveva essere tutt’altro che semplice. Il
gran peso delle artiglierie in bronzo era necessario a queste carrache portoghesi, perché, a causa
della loro pericolosa struttura troppo alta e relativamente leggera, quando erano poco cariche
diventavano soggette a rovesciarsi; occorreva quindi, oltre alla consueta zavorra (lt. saburra; ts.
saona; ita. taia; gr. ἒρμα, σάβουρα; grb. σαβούρα), un gran peso di carico che n’aumentasse il
pescaggio [fr. tirant (de l’eau); ol. peil(ing), water-dragt] e le rendesse così sufficientemente stabili;
la loro ammiraglia (gr. στρατηγίς) era chiamata dai portoghesi a Grande Nau. A proposito di questi
grandi vascelli in una dissertazione anonima spagnola, presumibilmente scritta nel biennio1581-
23

1582, in cui si discettava su quali obiettivi militari fosse meglio porsi dopo la recente conquista del
Portogallo, così si diceva delle grandi forze di mare allora a disposizione del re di Spagna:

… per il grande apparecchio d’armata che egli si trova in essere, che non solo è tutto quello che
fece l’anno addietro l’impresa di Portogallo, ma cento e cinquanta navi di più conquistate in quel
regno, le quali prolungate (‘poste in fila’?) e per la grandezza loro empirono di stupore non che
altro il mare istesso. (Cit.)

E d’altra parte la circumnavigazione dell’Africa e soprattutto del suo terribile Capo di Buona
Speranza, tanto praticata dai portoghesi, aveva costretto, allora come oggi dopo la chiusura del
Canale di Suez del 1967, al gigantismo navale. I comandanti delle caracche portoghesi provenienti
dall’Indie Orientali, una volta arrivati all’isola di Sant’Elena, facevano affondare le loro scialuppe (lt.
scaphae; ct. barcas; gr. σϰἇφαι, σϰᾰφίδες, σϰᾰφίδια, ἐφόλϰια) e i loro canotti (gr. σϰάφια) di
servizio in modo da togliere ai loro marinai la possibilità di fuggirsene subito nei loro paesi prima
ancora che si arrivasse a destinazione; evidentemente dopo un viaggio così lungo e stancante
infatti i marinai (gr. ναύται, βᾰρίβαντες; fr. compagnons) dovevano aver paura d’esser subito
costretti a reimbarcarsi per qualche nuova lunga assenza da casa. Altro aneddoto interessante che
riguarda questi vascelli era il chiamarsi – ancora nel Settecento – la più fine porcellana d’Olanda
Kraak Porzellan (‘porcellana di caracca’), nome che ricordava infatti le prime finissime di Cina che
tali vascelli portoghesi avevano nel passato portato in Europa, mentre quelle che ancora adesso
portavano non erano ormai da tempo più di tale raffinata fattura ed erano divenute quindi molto più
dozzinale ed economiche.
In generale gli alberi più grandi dei vascelli tondi di almeno 100 tonelli di portata (navi, galeoni,
caracche, ecc.), quindi di quelli a prevalente vela quadra (cioè maestro, mezzana e trinchetto,
escludendosi pertanto bompresso e contramezzana) si dividevano in due o tre tronconi
inchiavardati, cioè, partendosi dal basso, maestro (fr. grand mât), trinchetto (fr. mât de hune) e
parucchetto [fr. mât de (du grand) perroquet o arbre du papafique], ognuno dei quali reggeva una
vela (gr. ιστίον); le vele della nave erano da sette a 12, delle quali una o due latine. L'albero di
maestra si diceva e scriveva (grand-)mât o (grand-)mast in francese, groote mast e middel-mast in
olandese e (main) mast in inglese, trattandosi dell'antica sincope commerciale italiana ma.st.
(magister), in quanto era di competenza diretta del magister navis (gr. ναυϰλήρος), mentre la
manovra del trinchetto era comandata dal nostromo (lt. gubernator, gr. ϰυβερνῆτης, fr. maître-
d’équipage; nocher; ct. notxer; ol. boots-man; sp. maestre). Nei grandi vascelli da guerra, non
potendovi il capitano interessarsi di tutto, a prua, al di sopra del nostromo, comandava il
comandante in seconda (fr. contre-maistre o second maître), il quale colà pure alloggiava con la
gente appunto addetta alla manovra di prua e la necessaria attrezzatura (pulegge ecc.); si trattava
24

cioè della camera sita tra il trinchetto e le bitte per le gomene e che i francesi chiamavano fosse à
lion, forse perché anticamente vi si rinchiudevano le belve feroci che dall’Africa si trasportavano in
Europa per gli spettacoli circensi. Il termine mast fu poi esteso a tutti gli alberi della nave nella
marineria oceanica, mentre in quella mediterranea il francese usava invece arbres e quindi arbre-
maître per albero-maestro e così via. Quest'albero, piantato nel mezzo della nave in un buco
quadrato scavato nella carlinga o contro-chiglia, reggeva la vela quadra dalla quale prendeva il suo
nome e cioè la maestra [lt. acatium; fr. cape, grande voile, grand-pa(c)fi; ol. schoover zeil, groote
zeil], la quale era la maggiore; sopra d’essa, al calcese (dal lt. carchesium), si metteva un’altra vela
quadra più piccola chiamata trinchetto di gabbia (fr. grand hunier) e, in caso di vascelli
particolarmente grandi come per esempio i galeoni portoghesi, sopra quest'ultima, quando la
mitezza del vento lo permetteva (fr. tems à perroquet), si poneva una terza vela quadra ancora più
piccola detta perucchetto [da perucca, ossia parrucca, in quanto questa è un capo d'abbigliamento
che sovrasta tutti gli altri; fr. (grand) perroquet; ol. bram-zeil e il relativo troncone bram-steng];
detto per inciso, Perucca o Peruca fu il cognome o soprannome con il quale era conosciuto uno
dei due più famosi corsari napoletani, essendo l’altro Franzino Pastore, i quali nelle guerre tra
angioini e aragonesi della fine del Quattrocento per il dominio del regno di Napoli continuarono
ambedue a servire fedelmente i secondi anche quando la fortuna piegava dalla parte dei primi;
cosa che del resto fecero anche i notissimi corsari catalani Villa Marino e Francesco di Pau.
Bisogna però dire che l’uso dei parrocchetti riguarda soprattutto i vascelli da guerra (gr.
στρατιῶτιδες νῆες, nel Polluce anche στρατηγία) e che i mercantili li portavano raramente; infatti,
quando un galeone o una nave armata a guerra voleva attirare un legno corsaro o pirata lontano
facendosi credere un semplice mercantile, per prima cosa ammainava i pennoni di parrocchetto
con le loro eventuali vele, poi nascondeva le sue gallerie di poppa, se ne aveva, stendendovi
intorno delle tele impeciate in modo da nasconderle a un occhio lontano, poiché anche queste
ultime distinguevano in genere il vascello da guerra; da queste costruzioni presero poi il loro nome
le gallerie architettoniche di cui nel Medioevo si cominciarono a dotare talvolta più importanti edifici
terrestri.
All'albero di prua si poneva una vela detta trinchetto (lt. dolon), nome che si estese poi a tutto
l'albero che la reggeva e che, derivando dal latino triquetrus (‘triangolare’), sta a significare che in
origine doveva essere una vela latina; sopra di questa se ne innalzava una minore detta anch'essa
trinchetto di gabbia, come quella corrispondente dell'albero di maestra, e, se il vascello era grosso,
come per esempio i predetti galeoni portoghesi, anche quest'albero portava in alto il suo
parucchetto. All'estrema prua c'era la zevedera, vela tipica dell'albero inclinato in avanti sullo
sperone e quindi sulla serpe (fr. estrave, êtrave, poulaine, bouline; a Marsiglia serpe) e che
25

portava lo stesso nome di zevedera, ma che sarà invece sempre più conosciuto come bompresso
(ol. boeg-spriet). Era la zevedera una vela tanto bassa da toccare quasi il mare e pertanto
presentava due grandi buchi in corrispondenza degli angoli inferiori, buchi che servivano a far
defluire l’acqua marina che di tanto in tanto vi si depositava; essa sarà dimessa in Francia nella
prima metà del Settecento, mentre le altre potenze marittime lo faranno più tardi, ancora
considerandone i vantaggi che portava maggiori degl’inconvenienti.
L'albero di mezana situato a poppa, prendeva il nome dalla sua generalmente unica vela, cioè
appunto la mezana (lt. epidromus), nome a sua volta dovuto all’essere questa la vela di dimensioni
mezzane tra la maestra e il trinchetto di prua; si trattava per lo più dell’unica latina della nave e si
manovrava sopra il cassero di poppa. I francesi lo chiamavano mât d’artimon, ma anche mât de
fougue o de foule o d’arriére (ol. besaans-mast), così come chiamavano artimon anche la relativa
vela, e per loro le mât de misaine o mizaine o miséne era invece quello d’avanti di trinchetto (ol.
fokke-mast, voor-mast), il quale però chiamavano pure mât d’avant o de borcet, mâterel o
mâtereau e nel Mediterraneo, specie nel caso dei vascelli più piccoli, usavano anche loro il termine
trinquet; la sua predetta generalmente unica vela petit-pa(c)fi o pa(c)fi de borcet [ol. fok(ke)(-zeil)].
Più tardi nel secolo successivo, quando i velieri saranno più grandi, l’albero di trinchetto potrà
anch’esso esser composto da due o tre tronconi e questi i francesi chiameranno mât de mizaine,
hune de mizaine e perroquet de mizaine, le rispettive vele voile de mizaine o pacfi de borcet, petit
hunier e voile du perroquet de mizaine. Anche bompresso e mezzana potranno comunque portare
un loro trinchetto e persino un loro parucchetto.
In conclusione le navi ordinarie portavano quattro alberi, sei vele quadre e una scalena, ma le
maggiori ne useranno poi anche 10 e cioè le seguenti:

Albero di maestra:
gran vela [fr. anche grand pa(c)fi(s), cape; ol. anche schoover-zeil]
gran gabbia (fr. grand hunier; ol. groot mars-zeil)
gran parrocchetto (fr. (grand) perroquet; ol. groot bram-zeil)

Trinchetto:
vela detta trinchetto (fr. miséne, petit pa(c)fi, pa(c)fi de bourcet; ol. voor-ast-fok)
piccola gabbia (fr. petit hunier; ol. voor-mars-zeil)
parrocchetto (fr. perroquet de mizaine; ol. voor-bram-zeil)

Bompresso:
zevedera [fr. voile du beaupré o sivadiere; ol. (groote)(onder-)blinde; eerste blindt,
onderste blindt]
parrocchetto [fr. tourmentin, petit beaupré; ol. boven-blinde, (kleine) bovenste) (tweede)
blindt]

Mezzana:
26

vela detta mezzana (gr. ἐπίδρομος; fr. artimon; ol. besaan, agter-zeil) parrocchetto (fr. perroquet
de foule o de fougue o d’artimon; ol. kruis-zeil).

Si poteva però anche arrivare ad avere 10 vele quadre e due scalene, perché un galeone o altro
maggior vascello innalzava la contramezana, vela anch'essa alla latina, posta su un quinto albero
dallo stesso nome (fr. contre-misaine o petit artimon) e piantato ancora più addietro di quello di
mezzana, praticamente sulla poppa, come era appunto il caso dei grandi galeoni oceanici
portoghesi del Cinquecento e dei galeoni in generale del Seicento, e questo quinto albero poteva
anche portare un suo perucchetto. Quello di maestra, quello di trinchetto e quello di zevedera,
poiché erano alberi che portavano vele quadre, erano ovviamente corredati da un gran pennone;
altri piccoli pennoni superiori reggevano i perucchetti ed erano accomodati in maniera che
facilmente si potessero alzare o abbassare secondo il bisogno, mentre le vele latine erano, come
nelle galere, sorrette da antenne (in gr. ἐπίϰρια, ma, secondo il Suida, ai sui tempi questo vocabolo
significherà invece ‘tavolati’ (Cit. T. I, p. 816).
Le vele quadre si facevano più strette in alto che in basso, perché il prendere troppo vento in alto
faceva appruare troppo il vascello e talvolta poteva provocarne addirittura il rovesciamento. La
velatura dei vascelli tondi si poteva aumentare con vele latine di straglio (ol. stag-zeilen) oppure
con le giunte, ossia con vele di coltellaccio, stretti teli di vele che si affiancavano (fr. bonnettes en
étuy, coutelas) o si attaccavano sotto (fr. bonnettes maillées) alle vele ordinarie, le quali sotto
presentavano appunto dei buchi (fr. yeux de pie, ‘occhi di gazza’) fatti a questo scopo, affinché,
con questa maggior superficie, prendessero più vento quando questo era debole; inoltre bisogna
dire che i velieri destinati a navigazione equatoriale, cioè in mari che andavano soggetti a lunghe
bonacce, potevano anche portare doppi parrocchetti e che i mercantili, in caso di vento in poppa,
usavano talvolta una vela detta in francese tappecu, perché, essendo attaccata a un pennone
posto sulla poppa, finiva infatti per esser posta dietro quest’ultima; diremo ancora che gli olandesi,
in caso di bonaccia (gr. μᾰλᾰϰία; lt. flustra, malacia) o di poco vento, usavano talvolta la cosiddetta
vela d’acqua [ol. (water-)(drijf-)zeil], cioè una vela stesa anche questa dietro la poppa (gr. πρύμνᾰ,
πρύμνη; fr. anche queüe) del vascello, ma più in basso della precedente e ben fissata
lateralmente, in maniera che, essendo la sua parte inferiore immersa nell’acqua, venisse così
spinta anche dalla corrente marina, e la consideravano un accorgimento utile anche ad aumentare
la stabilità del vascello riducendone il rollio. Andandosi avanti nel tempo si arriverà ai grandi velieri
da guerra del Settecento e poi soprattutto dell’Ottocento in cui la suddetta velatura sarà ancora più
differenziata e complessa; nell’antichità invece, cioè quando l’alberatura (sp. palazón) era stata
ovviamente molto più semplice rispetto all’epoca che stiamo considerando, le vele usate erano
perlopiù tre, chiamandosi in greco la maggiore ἀϰάτιος, la minore δόλων e quella di mezzana
27

(quando presente) ἐπίδρομος, cominciandosi poi più tardi a usarne una non rettangolare ma
scalena e cioè l’artimone (gr. ἐπισείων): Secondo il Polluce, c’era ancora un'altra vela di riserva,
detta in gr. λοίπαδος (da λείπειν, ‘tralasciare, tenere da parte’), vela che però egli non sa ben
qualificare, ed è probabile che si trattasse di una vela ‘di fortuna’, cioè da usare in caso di tempo
burrascoso, insomma di quella che, come poi vedremo, sulle galee rinascimentali e successive si
chiamerà trevo.
Quando il tempo era asciutto, le vele messe in opera andavano talvolta bagnate affinché,
restringendosi, trattenessero meglio il vento, lavoro che si faceva gettandovi sopra dell’acqua a
mezzo di cucchiare o secchie, ma gli olandesi lo faranno presto a mezzo d’una specie di pompa.
Eccezion fatta di diversi tipi di vascelli olandesi in cui si sostenevano le vele, oltre che con pennoni
e antenne, anche con verghe a corno (ol. gaffel) o a buttafuori (fr. anche baleston; ol. spriet), la
predetta essenziale struttura e nomenclatura velica si può considerare comune alla quasi totalità di
quelli a vela quadra, quindi anche ai famosi galeoni. Quest’ultimo nome si ritrova già nelle
cronache del dodicesimo secolo perché nel Medioevo si era già adoperato, ma non per grandi
velieri, come più tardi, cioè a partire dal Cinquecento, bensì per più piccoli vascelli remieri (gr.
ἀϰάτια) che si usavano in gran numero in fiumi e laghi per il commercio e per la guerra; ma lo
vedremo più avanti. Ciò non vuol dire che vascelli remieri maggiori non potessero, in caso di
necessità, essere usati anche su laghi e fiumi quando si trattava di acque sufficientemente ampie e
infatti, verso la fine del 1478, prima di decidersi a chiedere una dolorosa pace ai turchi, i quali, oltre
ad assediare importanti possedimenti veneziani in Albania, facevano razzie in Friuli e anche più in
là, cioè in terre del Sacro Romano Impero, i veneziani avevano preso in considerazione di
soccorrere l’assediata Scutari trasportando galee e fuste nel grande lago omonimo (D. Malipiero,
cit. Parte prima, p. 121).
Il primo grande galeone marino di cui abbiamo invece trovato memoria era stato fabbricato a Pisa
e faceva parte dell’armata francese che doveva assistere Carlo VIII nel suo ritorno in Francia
dall’impresa di Napoli; durante quel drammatico ritorno i genovesi gli catturarono 7 galere e
appunto un grande galeone (uno galeone grosso fatto in Pissa) che avevano fatto scalo nel porto
di Rapallo (Diario di Giovanni Portoveneri dall’anno 1494 all’anno 1502. All’anno 1496. A.S.I. Tomo
VI. Parte II, sez. II. Firenze, 1845). Seguono poi quelli, anch’essi al servizio francese, che sono
ricordati nel De rebus genuensibus di Bartolomeo Senarega all’anno 1510, anno in cui si
combatteva nel Genovese un aspro conflitto tra ghibellini e guelfi per il predominio su quella
repubblica; i primi, allora padroni di Genova, preparavano con i loro alleati francesi un’armata di
mare per resistere a quella guelfa che si avvicinava; tra i protagonisti di parte ghibellina troviamo
anche un cavaliere giovannita, certo Bernardino, esperto della costruzione di galeoni:
28

… C’era un altro di nome Bernardino della Religione Gerosolomitana (‘un cavaliere giovannita’),
famoso corsaro, il quale aveva costruito galeoni con mirabile arte (e gli si attribuiva anche la nave
ispanica), con i quali superarva in velocità di corso tutte le altre navi. Si aggiungano quattro galeoni
e due grandi navi e alquanti brigantini… (In LT. A. Muratori, R.I.S. TC. 602, t. XXIV. Milano, 1738).

Per galeoni e galioncelli s’intenderanno quindi da ora in poi non più solo i vascelli remieri fluviali
medio/piccoli forniti di gabbia - e se per uso di guerra anche di ballatoio laterale esterno - che
potevano essere monoponte o, i più grandi, biponte e che, come più avanti vedremo, si erano
molto usati nel Medioevo nei grandi fiumi e laghi dell’Italia settentrionale (Po, Adige, Adda ecc.),
ma grandi vascelli tondi velieri marittimi, grossi in genere un terzo in più delle caravelle; perché
però dei grandi vascelli potevano prendere un nome uguale a quello portato da vascelli molto più
piccoli e perlopiù remieri? Che cosa potevano avere in comune? In realtà nulla. Infatti molto
probabilmente quel galeone sta per galeonato, cioè ‘a forma di galea’, e infatti quei non grandi
vascelli fluviali erano considerati le ‘galee dei fiumi e dei laghi’, mentre i grandi velieri marini dallo
stesso nome erano così chiamati perché si distinguevano dagli altri velieri per non aver castello a
prua così come non lo aveva la galea; infatti il bertone, tipico veloce vascello d’alto bordo inglese, il
quale era privo sia del cassero di poppa sia del castello di prua, era chiamato in Spagna e in Italia,
per questa sua caratteristica, ‘galeone dei britanni’. Dunque erano così chiamati unicamente per il
loro garbo di prua, che ricordava quello delle galee, e non perché la loro forma complessiva
facesse pensare al corpo del pescecane o squalo (γαλεός in greco antico), come alcuni già dalla
fine del Cinquecento erroneamente pensavano; insomma semplicemente perché non erano naos
de castil davante, come si diceva in castigliano medievale, cioè perché, proprio come le galere,
non avevano a prua una pesante sovrastruttura di opera morta, presentando un forma più
affusolata e oblunga di quella delle navi e delle caracche e godendo di conseguenza di maggior
manovrabilità e velocità. In ciò erano simili, oltre che alle galere, pure alle caravelle, anch’esse
prive d’incastellatura di prua, ma di quelle più grossi di circa la metà; infatti, quando, alla fine del
Quattrocento, si caricavano di soldati per uso di guerra, su una caravella se ne imbarcavano circa
200 e sui galeoni circa 300. In seguito, nel corso dei secoli, per i galeoni si cominciò però ad
adottare una leggera e non alta incastellatura di prua e quindi il significato originario del nome si
perse. Insomma il nome non rappresenta un semplice accrescitivo di galea, come si pensa, non
essendo in spagnolo medievale, come del resto neppure in italiano medievale, il suffisso -on allora
considerato un accrescitivo; infatti l’accr. di galea era, in spagnolo come in italiano, galeaza e non
galeon. Quest’ultimo nome doveva dunque, come noi riteniamo, essere solo un accorciativo
tachigrafico di galeonado che finì per essere adottato anche oralmente, come a tante parole secoli
fa succedeva; vedi per altro esempio l’espressione inglese man’ of war (‘vascello da guerra’),
29

derivante dalla tachigrafia man. of war di after the manner of war, cioè (vascello equipaggiato) a
mo’ di guerra.
Premettendo che tutte le misure che da ora in poi daremo vogliono essere ovviamente solo
indicative, diremo che alla fine del Cinquecento un galeone ordinario era lungo da giogo a giogo,
quindi ruote di poppa e di prua escluse, 90-93 piedi per una larghezza di 30-32 e un’altezza dello
scafo pure d’un terzo pure d’un terzo della lunghezza. Infatti c'erano all'incirca piedi nove dalla
sentina (gr. ἀντλία; ol. durk, sood) alla prima coperta, piedi 6½ dalla prima alla seconda coperta, in
corrispondenza della quale anche il galeone raggiungeva la sua maggior larghezza, e piedi 7¾
dalla seconda coperta alla tolda; piedi cinque era infine la sponda, detta pavesata o scalmata,
anche se il secondo termine ovviamente molto di più si addiceva a una sequenza di scalmi e
quindi a un vascello a remi, cosa che un galeone non era assolutamente. Per quanto riguarda poi
la maggior larghezza frontale dei vascelli tondi, diremo che essa era di regola a un terzo della sua
lunghezza, partendosi dalla prua, e da tale punto andava invece solitamente restringendosi
gradatamente verso la poppa.
Il càzaro di poppa [‘cassero’; fr. chasteau, château, gaillard (derrière); ol. kasteel; schans, agter-
verdek, (stuur-)plegt] del galeone ordinario era alto circa 30 piedi, cioè anche in questo caso siamo
a un terzo della lunghezza del telaio; la camera più alta del cassero era quella del piloto, detta
dunette (‘piccola duna’) in francese, perché questi doveva poter guardare il più lontano possibile, e
sotto la sua c’era quella del pa(d)rone o capitano comandante, la più bella e grande del vascello;
sotto la seconda c’era la Santa Barbara (fr. anche gardionnerye), cioè la camera degli artiglieri, e
sotto di questa il deposito delle polveri e munizioni da guerra, quindi giustamente era l’alloggio
degli artiglieri a essere dedicato alla santa, loro patrona, e non il deposito delle polveri, come
invece più tardi si è poi stati portati a credere, evidentemente fuorviati dalla circostanza che nei
vascelli più piccoli i due ambienti talvolta coincidevano. La posizione estrema di questo pericoloso
deposito dava due vantaggi; il primo, una certa e sufficiente attenzione del capitano alla sicurezza
delle polveri, perché, in caso d’incidente, lui stesso sarebbe stato tra i primi a saltare in aria; il
secondo, lo scoppio delle polveri, o per incidente o perché colpito dal nemico in combattimento,
non capitando in posizione centrale, non avrebbe spezzato in due il vascello e affrettatone quindi
l’affondamento. In ogni caso lo scoppio accidentale di una S. Barbara fornita tendeva a risultare
esiziale per la galera, come avvenne per esempio nel porto di Palermo l’11 marzo 1628:

… Successi un gran caso.Essendo li galeri di Sicilia allo molo, ci era una galera di fora di l’altri
chiamata Sancta Maria. A ori 15 in circa, giorno di sabato, li fu gettato foco alla pulviri in detta
galera et in uno momento foro ammazzati et annigati per fina 400 personi intra turchi e cristiani et
agenti di galera. Et la dicta galera stava di andari a Spagna et eraci chiurma adumbrata. Come fu
dicto foco non si sapi, sebeni si gittao bando che a cui rivilassi cui avissi gettato dicto foco Sua
30

Eccellenza ci daria scuti milli di viviraggio (Diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX. V. II.
P. 64.. Palermo, 1869.)

Interessante l’italiano ‘sicilianizzato’ di questi diari… Fortunatamente questa galera ‘Santa Maria’
non era, come sembra, attraccata adiacente al molo (‘porto’), evidentemente per mancanza di
spazio all’interno, ma era un po’ più fuori, forse all’ancora; altrimenti ci sarebbero naturalmente
state vittime e danni anche sullo stesso molo. Lo scoppio avvenne alle ori 15, cioè alle 11 del
mattino; i turchi erano gli schiavi mussulmani catturati in azioni di guerra e condannati al remo; per
agenti di galera s’intendeva il personale libero di bordo; la chiurma adumbrata significa che,
nonostante la stagione, doveva trattarsi di una giornata di sole deciso e che pertanto la tenda di
galera era stesa; infine viviraggiu (‘beveraggio’) in siciliano significava mancia.
Il baluvaro o ballauro o anche bellouardo di prora (fr. anche gaillard devant; ol. anche bak) era la
parte fortificata più avanzata del vascello, proprio come in una fortezza di terra, e da esso si
affrontava dapprima il nemico durante l'abbordaggio; esso, caratteristico da sempre di navi e
caracche, fu dopo il Medioevo adottato progressivamente anche per i galeoni. Queste due opere
morte così imponenti però avevano, con il progresso dell'artiglieria da sparo, perso gradualmente
la loro importanza sia difensiva che offensiva e non servivano ormai ad altro che a rendere più
difficile la navigazione del vascello quando il mare era a traverso, ossia quando percuoteva il
galeone di fianco; ciò era stato già compreso dagl’inglesi, i quali pertanto sui loro vascelli tondi o
bertoni ai castelli fissi preferivano dei tendali stesi su strutture di reti di corda, mentre i francesi
cominceranno ad adeguarsi solo nel 1670, quando cioè un’ordinanza reale proibirà di costruire
castelli di prua sui trepponti reali da guerra appunto per renderli più leggeri alla vela, dando così il
via a una progressiva riduzione dell’opere morte, il cui peso comprometteva infatti l’agilità e la
manovrabilità che si confacevano soprattutto a un vascello da guerra:

… Deve (il buon vascello) essere raso per il veleggiare della burrina (‘di bolina’), perche l'opere
morte lo portano indietro & non lassano caminare avanti, ma la scadono sotto a vento ed anco
molestano il vassello nelle fortune, per rispetto del peso che hanno sopra e (inoltre) anche le tante
commodità di stanze e stanzole fanno il marinaro pigro, se bene poi, nel combattere, l'essere alto è
molto (di) vantaggio; ma non si possono havere tante commodità in sé contrarie (Alessandro
Falconi, Breve instruzione appartenente al capitano de vasselli quadri. P. 12. Firenze, 1612).

La forma particolare della poppa dei galeoni si diceva alla bastardella, il che significava che si
trattava d’un vascello quartierato a poppa, cioè che il quartiero di poppa - quella parte di vascello
che andava dalla ruota di poppa alla dispensa - era particolarmente largo e capace rispetto al resto
dello scafo. La tolda o coperta del galeone, a differenza di quella della nave, era stesa, ossia
continua e dritta dal cassero di poppa al castello di prua; sotto d’essa i galeoni avevano altri due
31

ponti e in corrispondenza di quello centrale lo scafo, come abbiamo già detto, raggiungeva la sua
massima larghezza.
I galeoni, detti dai turchi sultane, erano assai più veloci delle navi in ogni condizione atmosferica,
sia cioè col vento in poppa, sia col vento dell'oste (fr. vent largue, vent de quartier), ossia con quei
venti intermedi tra quello di poppa e quello di fianco o di bolina; avevano due alberi di mezzana,
quindi cinque in tutto, e la stessa velatura delle navi maggiori; portavano generalmente da 2mila a
5mila salme di carico, ma qualcuno anche di più:

... ma se ne sono veduti di molto maggior grandezza, che ne hanno portato sino a dodici millia,
come quello che fu fabricato in Venezia dal Fausto, che pareva un castello in mare, e un altro
molto maggiore parimente fatto in Venezia, che, per essere stato spinto da una improvisa
tempesta di mare tutto il peso dell'artigliaria da una banda, si affogò l'anno 1559 nel porto di
Malamocco; ed hoggidì scorrono nei nostri mari doi galeoni del Gran Duca di Toscana di stupenda
grandezza e molti altri fanno il viaggio dell'Indie per servizio del Re Catolico. (Pantero Pantera,
L’armata navale etc. P. 42. Roma, 1614.)

Il predetto galeone fabbricato dal famoso architetto navale Vittorio Fausto, attivo a Venezia nel
secondo quarto del secolo, fu, a differenza dello sfortunatissimo secondo sopra ricordato, un legno
longevo, tant’è vero che, come ricorda Giovan Pietro Contarini, nel 1570, essendone allora patrone
un altro Contarini, cioè Girolamo, ancora faceva parte dell’armata che Venezia stava in quell’anno
preparando per il soccorso di Cipro. Attorno al 1628 sarà molto noto per la sua grandezza anche le
grand galion de Malte e verso il 1644 uno del Mar Nero da 56 pezzi d’artiglieria, il quale la Sublime
Porta usava noleggiare; ma i galeoni più forti e più grandi erano generalmente quelli costruiti dai
portoghesi, i quali alla fine del Cinquecento portavano il vanto di un’armata di tali vascelli
imponente e fortissima, la maggiore che allora esistesse. Soprattutto era divenuto famoso per la
sua grandezza il cosiddetto galeone di Portogallo, vascello portoghese dal nome di S. Bastiano, il
quale partecipò all'impresa del Peñon de Vélez nell’agosto del 1564, quando Filippo II mandò a
conquistare quella fortezza Garcia de Toledo a capo d’una forte armata della quale faceva parte
anche Gioan Andrea d’Oria (l. de Auria. 1539-1606), detto Andrettino, principe di Melfi in quanto
erede del prozio Andrea, capitano generale delle galere dei particolari genovesi; anzi, a quanto
scriveva Pierre de Bourdeilles visconte di Branthôme (c. 1540-1614), il quale poi afferma d’essersi
trovato a quell’impresa – ma chissà poi a quale titolo visto che era un francese, fu proprio il d’Oria
a prendere quella rocca, che però sembra fosse ormai stata abbandonata dai suoi difensori; tale
galeone portava ben 360 pezzi d'artiglieria tra grandi e piccoli. Anche galeone di Portogallo era
chiamato uno dei quattro grandissimi che fecero parte della famosa e sfortunata Invencible
Armada del 1588.
32

I ragusei riconoscevano che, se i portoghesi avessero avuto a disposizione un legname ottimo


come quello che essi traevano di fronte a loro dal monte S. Angelo in Puglia, i loro galeoni
sarebbero stati i migliori del mondo, superiori anche a quelli costruiti nei cantieri di Ragusa. I
lusitani comunque avevano un buon sistema per rinforzare e proteggere le superfici esterne ed
emerse dei loro vascelli diretti alle Indie Orientali, cioè di quelli che facevano i viaggi più
deterioranti; ricoprivano infatti le opere esterne dello scafo con una mistura di consistenza
bituminosa, detta gala o gale o galegala, appresa come si diceva dai cinesi, i quali l’usavano per
preservare il fasciame dei loro vascelli dagl’insulti atmosferici e marini. Tale mistura, applicata in
uno strato spesso un’oncia, faceva sul legname fortissima presa e ne rendeva la superficie
talmente dura e resistente da ricevere spesso poco danno anche dai colpi d'artiglieria; per
ottenerla si pestavano in mortai con grossi pestoni del gesso, acqua calda, olio di pesce, chiare
d'uova o altra colla equivalente, ma scelta tra le più economiche, infine zucchero di palma,
quest'ultimo abbondantissimo a Lisbona; nel pestare si aggiungeva continuamente stoppa di
canape trita o tagliata minuta finché il tutto fosse ben incorporato. Nel corso del Seicento, col
progressivo aumento di potenza dell’artiglieria, naturalmente la suddetta gala non sarà più in grado
di respingere nemmeno qualcuno dei più deboli colpi di cannone; questa funzione sarà comunque
talvolta assunta da quello che i francesi chiameranno soufflage, cioè dal raddoppio del fasciame
esterno del vascello da guerra, il che significava aggiungere un secondo strato di tavole sul primo
per uno spessore aggiuntivo che poteva andare dai 3 agli 8 pollici, ma il cui scopo principale era
comunque quello di dare stabilità a un vascello che rollasse e si tormentasse troppo sotto la
velatura.
Nel corso della seconda metà del Seicento il galeone perderà gradatamente la sua individualità,
assimilandosi in forme e velatura al nascente standard europeo dei grandi vascelli di rango,
continuando a usare ancora di ben distinti e anche di molto grandi solo i turchi sotto il nome, come
già sappiamo, di sultane; ma resterà comunque il suo nome unicamente in Spagna, usato però
adesso in maniera generica, a indicare un po’ tutti i grandi mercantili da tre o quattro ponti che
s’inviavano nelle Indie Occidentali, anzi gli spagnoli giungeranno a chiamare galeoni unicamente e
tutti quei vascelli – grandi o piccoli, mercantili o da guerra che fossero – che ogni anno s’inviavano
a Cartagena e Portobello, ossia nei porti di quello che allora era il grande Perù, vascelli che però,
si badi bene, se impiegati in viaggi diversi da quello, perdevano questo improprio nome; allo stesso
modo essi chiameranno galeonistas i mercanti marittimi (gr. ἒμποροι) che commerciavano con le
Indie Orientali e inoltre riserveranno il nome di flota o flotilla (fr. anche navage) solo al convoglio
navale (tlt. caravana) che invece inviavano più a nord a Nueva Vera Cruz, porto della Nuova
Spagna.
33

Il bertone (tr. burtun dall’in. Briton, ‘britanno’) era un vascello tondo inglese tanto apprezzato che, a
partire dal Settecento, il suo garbo sarà adottato in tutta Europa per tutti i grossi vascelli da guerra,
i quali solamente sarà da quel momento riservato questo nome di vascello. Erano i bertoni non
molto lunghi, ma molto alti e larghi, soprattutto erano larghi dal fondo alla prima coperta, mentre da
questa in sù la larghezza si andava invece molto restringendo, pescavano assai e andavano
benissimo alla vela perché ‘armati a piano’, cioè praticamente privi d’incastellature od opere morte;
erano in sostanza vascelli molto robusti e, come allora si diceva, molto reggenti, cioè avanzavano
nel mare ben dritti ed equilibrati anche quando c'era maretta o mare grosso, senza coricarsi né
piegarsi a destra o a sinistra. Avevano sette vele, come del resto anche gli altri vascelli tondi, di
buone dimensioni, ma alcuni portavano anche il parucchetto; strutturati in due coperte, portavano
da 1.500 a più di 3mila salme di carico.
Singolarmente quasi di un’unica forma erano i vascelli tondi chiamati urche od orche [dal gr. ὒρχη
(‘largo vaso’); lt. orca; fr. ho(u)rque, (h)oucre; ol. hoeker(tje), hoek-boot; in. hulk, ‘scafo’], e quelli
detti invece marsiliane o marciliane; le prime, anche se avevano un nome di origine mediterranea,
erano vascelli tipicamente fiandro-olandesi, ma molto usate anche dagl’inglesi, navigavano oltre
che sul mare anche molto nei canali olandesi e le seconde, generalmente più grandi, erano invece
molto adoperate dai veneziani nell'Adriatico come navi da gran carico (gr. μνριοφόροι όλχάδες),
facendo per lo più la traversata da Venezia all’isola di Zante, e nella seconda metà del Seicento i
maltesi, equipaggiatele con circa 25 uomini, le useranno anche per andare in corso in Levante. Le
circostanze che le urche, anche se vascelli atlantici, avevano un nome di origine mediterranea (gr.
ολϰάς-αδος, ‘nave oneraria’) e che somigliavano grandemente alle marsiliane veneziane fanno
pensare che le rotte commerciali che portavano appunto dal Mediterraneo fino in Fiandra e a
Londra fossero nel Medio Evo frequentate, oltre che dalle galee grosse veneziane e dalle galeazze
tirreniche italiane, anche da vascelli mercantili bizantini e, in effetti, essendo quello di
Costantinopoli un impero tanto importante e potente, sarebbe veramente singolare se così non
fosse stato.
La principale caratteristica distinguente della marciliana (dal vn. S. Marcilian, ‘San
Marziale’), tipo di vascello di origine adriatica che forse prese il nome da uno squero (o squaro,
‘cantiere nautico veneziano’, dal lt. scharium, ‘cantiere nautico’, e questo a sua volta dal gr.
σϰευἆριον, diminutivo di σϰεῦος, ‘attrezzi, attrezzature, cantiere’; nel Salernitano c’è infatti Scario,
località costiera), sito appunto nelle vicinanze di quella chiesa veneziana fondata nel 1133, che ne
costruì le prime (quindi niente a che fare con la città di Marsiglia), consisteva in una particolare
velatura, dove cioè coesistevano la vela quadra (lata) e la vela trasversa; avevano inoltre, sia le
marsiliane sia le orche, un garbo o taglio decisamente diverso da quello delle navi per esser più
34

larghe che alte e per avere prora più grossa e più rotonda, forma che si andava poi restringendo,
ma solo a partire dalla metà del vascello indietro sino alla poppa quadrata; più piccole sia delle
navi che dei galeoni, avevano dai due ai quattro alberi - a seconda della grandezza, non usavano
generalmente, come già detto, più di sette vele, di cui sei quadre e una – quella d’artimone - a
triangolo scaleno; avevano due coperte (tolda inclusa) e portavano, le marsiliane, da 1.500 a poco
più di 3mila salme di carico, ossia le più grandi potevano arrivare a portare 14 o 15mila quintali,
ossia un massimo di 750 tonelli oceanici o botti; le urche portavano invece dai 50 ai 200 dei detti
tonelli e potevano esser lunghe un’ottantina di piedi francesi. Queste urche olandesi, delle quali
era in gran maggioranza costituita la marineria dei Paesi Bassi, avevano alberatura en fourche ou
à corne, come dicevano i francesi, ossia avevano anche una verga che andava a sporgere non di
fianco, bensì era orientata fissa all’indietro; di questo particolare tipo di alberatura, dal quale
probabilmente deriva anche lo stesso nome francese di tali vascelli, nome poi anche
olandesizzatosi, erano del resto attrezzati diversi altri tipi di velieri che solcavano quei mari, tra
questi c’erano le galeotte olandesi, gli heus, i boïers, gli inglesi yachts [fr. (h)yac(ht)s o yagts; ol.
(advijs-)yachts, (speel-)jagts; it. giachetti]; questi ultimi, muniti di albero di maestra, di trinchetto e
d’una piccola civadiera, erano ottimi bordeggiatori e a partire dal Seicento saranno anche molto
usati dai gran signori come imbarcazioni da diporto. Dall’alberatura degli heus, vascelli di cui in
seguito diremo, si differenziavano però soprattutto perché, oltre agli alberi di maestra e di
mezzana, portavano in più un abbozzo di bompresso con una specie di zevedera, e questa loro
particolare attrezzatura le rendeva molto più adatte a navigare bordeggiando, di bolina e contro
vento a piccole bordate che se avessero avuto una semplice velatura alla quadra. Le urche
avevano inoltre fasciame rotondo come quello dei flauti (vn. lauti; lt. tibiae, gingrinae) – vascelli di
cui presto anche diremo, avevano inoltre il fondo [fr. varangues, coulée, querat; ol. kielgangen) e il
relativo fasciame (fr. gabord(s); ol. gaarborden, sandt-strooken, sandt-streeken) costruiti del tutto
piatti per via dei molti bassifondi e canali di quelle coste settentrionali, così come anche lo avevano
avuto nel Medioevo le marsiliane di Venezia per ovviare ai bassifondi lagunari; i veneziani però
usavano anche generalizzare questo nome di marsiliane a tutti i navigli quadri minori, così come
anche generalizzavano quello di navi di gabbia a tutti quelli maggiori, per cui le caratteristiche di
questi vascelli adriatici diventeranno sempre meno precise e nel Settecento si chiameranno così
solo dei vascelletti (lt. nauculae, naviculae, navicellae; gr. πλοιάρια, πλοιαρίδια, vn. navigoti,
navilioti) di non più di 70/80 tonelli.
Per concludere l’argomento delle orche o urche, ci resta da dire dell’etimologia del nome delle
Isole Orcadi (gr. Ὀρχάδες; i. Orkney) che gli antichi navigatori e geografi greci e romani, come si
sa, conoscevano e chiamavano Orchades; ma da quale dei due nomi si generò l’altro? Quello
35

greco sembra essere l’originale, avendo quello britannico, a causa di quella sua ‘n’, tutto l’aspetto
di una sincope della probabile abbreviazione grafica lt. Orch. In.e (cioè ‘Orchades Insulae).
I caramoussa(i)l [it. caramusali(ni)] erano vascelli mercantili turchi paragonabili alle caravelle in
quanto a funzioni - infatti i cristiani nel Seicento prenderanno a chiamarli le caravelle de’ turchi - e
s’incontravano molto frequentemente nel Mediterraneo; erano molto sottili e pertanto assai agili, di
garbo dunque alquanto bislungo e molto stretto con ambedue l’estremità molto arrotondate e la
poppa particolarmente alta, caratteristica quest’ultima che i francesi dicevano en huche o enhuché.
Si trattava di velieri buoni e velocissimi, specialmente col vento di fianco, perché i loro scafi erano
fatti a forma di vero pesce tondo come quello dei galeoni, ossia erano più larghi a metà fiancata
che all'altezza dell'unica coperta; erano pertanto molto reggenti con mare traverso e navigavano
meglio con vento di bolina perché il mare, battendo sulle loro fiancate (gr. πλευραί), sfuggiva
all'insù nel senso della scarpata di legno della fiancata e li travagliava così molto di meno; nel
Seicento saranno molto usati per la guerra di corso (gr. ὀ δρόμος; gr. ϰοῡρσον) dai turco-
barbareschi, specie dagli algerini - anzi addirittura costruiti appositamente - in sostituzione dei
vascelli remieri usati invece nel secolo precedente, con conseguente gran danno per i cristiani, ma
non erano vascelli utili in battaglia reale, come allora si diceva. Poiché non avevano trinchetto,
essendo infatti la loro alberatura costituita da un altissimo albero di maestra munito di coffa, dal
bompresso e da una piccola mezzana, e non portavano perucchetti, eccezion fatta per quello di
bompresso, spiegavano non più di cinque, ma grandi vele, in maggioranza latine, di cui la maestra
ordinariamente ampliata al di sotto con un coltellaccio; si trattava d’alberi fatti d’un ottimo legno,
migliore di quelli di Norvegia che allora erano in Europa considerati quelli più adatti per la
fabbricazione dell’alberature dei velieri. Sotto l'unica coperta portavano da mille a 1.500 salme di
carico, erano, quando armati a guerra, dotati di18 o più bocche da fuoco e montati da 50 a 60
uomini.
Altre imbarcazioni da carico usate dai turchi erano le palandarie (corr. di parandarie; infatti vn.
parandarie e cst. parenderas), vascelli remieri corrispondenti agli uscieri, ai marani, agli arsili dei
cristiani veneziani e ponentini e alle ολϰάδες μαϰραι (‘onerarie lunghe’) dei bizantini, contraddistinti
talvolta da un vasto portellone che si apriva nel fasciame poppiero a livello dei moli a mo’ dei
moderni traghetti, per poter essere così adibiti, oltre che al trasporto di salmerie, anche a quello di
cavalleria, la quale si faceva entrare e uscire appunto dalla suddetta apertura; altre invece si
usavano come bombardiere e portavano infatti grosse bombarde che tiravano eccezionalmente da
poppa e che si caricavano a bordo probabilmente attraverso lo stesso predetto uscio, il quale,
prima di salpare, si sigillava con un accurato calafataggio. A questo secondo uso accennava il
Sanudo nelle sue cronache della discesa in Italia di Carlo VIII, a proposito dell’armata di mare
36

preparata, tra l’altro, dai turchi nel 1495 per timore che Carlo, dopo esser sceso in Italia,
scendesse anche in Grecia (D. Malipiero, cit. Parte prima, pp. 145-148):

… zoé galie 80, 100 fuste grosse, 30 palandarie con bombarde zuso che traze da pope, 30 altre
palandarie da portar cavalli et zente, 4 nave grosse (La Spedizione di Carlo VIII. in Italia etc. In
Archivio Veneto. Anno terzo. P. 254. Venezia, 1873 – D. Malipiero, Ib. Parte prima, p. 145).

Queste fuste sono definite grosse e infatti i vascelli remieri senza corsia potranno nel Cinquecento
arrivare persino ai 20 banchi per lato e ai tre remiganti per banco; inoltre quelle grandi si
distinguevano subito per portare copano, cioè per essere dotate di una scialuppa di ausilio o di
salvataggio, come diremmo oggi; ma comunque, specie nel Medioevo erano generalmente molto
più piccole come più piccoli erano, come abbiamo detto, generalmente tutti i vascelli remiei. Nella
primavera del 1481 la galea veneziana del sopraccomito Constanzo Loredan, navigando nelle
acque della Grecia, perché diretta a Napoli di Romania, catturò una fusta armata dell’isola di
Leucade o di Santa Maura, come la chiamavano i veneziani, ufficialmente corsara perché
ostentante le insegne del signore di quell’isola, ma in pratica pirata perché agente ai danni sia dei
cristiani che dei turchi, e a bordo della quale c’era un equipaggio di soli 41 uomini, i quali furono
impiegati nei lavori che allora i veneziani stavano eseguendo per il riassesto del porto di quella
Napoli (C.N. Sathas, Documents inédites relatifs à l’histoire de la Grèce au Moyen Âge etc. Vol. VI
P. 165. Parigi, 1884).
In una lettera da Costantinopoli della fine del 1466 così si diceva dell’armata turca che si andava
allora preparando:

... Hanno anche (oltre a 100 galere ordinarie) 7 galie grosse e 3 bastarde e 24 parandarie de 20 fin
24 remi a 3 homeni per remo; e queste se stimano quasi più che le galie, perché vano meglio a la
vela; poi numero infinito de fuste e griparie (D. Malipiero, ib. P. 39).

E’ da ritenersi che qui per galere bastarde non s’intendessero quelle quartierate a poppa che
vedremo dopo il Rinascimento e di cui poi diremo, bensì le semplici triremi, visto che allora la gran
maggioranza di quelle ordinarie, specie nel Tirreno, era ancora costituita da biremi [gr. διήρεις o
διῆρεις (νῆες), δίϰωπα, δίϰροτα]; ma la cosa più interessante da notare sono i 3 homeni per remo
delle parandarie; insomma i remi di scaloccio, di cui poi diremo, non furono quindi inventati nella
seconda metà del Cinquecento, come comunemente si crede, ma già esistevano in precedenza,
come del resto non può che esser logico, non trattandosi in fondo di una gran trovata.
In una sua relazione sui movimenti dell’enorme armata messa in mare dai turchi nel 1470 (Il mar
parea un bosco) il sovraccomito veneziano Geronimo Longo scriveva di essersi messo in caccia di
una parandaria turca perché, in quanto alberata, gli era sembrata una galera; il che significa
37

evidentemente che quelle delle potenze cristiane non erano alberate; inoltre si evince anche che
queste parandarie non erano usate solo come passa-cavalli [la trovai carga de’ biscoti (‘gallette’)
bianchissimi come i nostri de munizion e de gran quantità de chiodi da cavallo (ib. P, 51)]
Il bailo, ossia il residente diplomatico veneziano, a Costantinopoli Antonio Barbarigo così
descriveva le palandarie turche destinate ai cavalli nella sua relazione del 1558, laddove
quantificava brevemente il naviglio ottomano:

... Ha questo Signore (il sultano) circa 26 navi di 600 in 8OO botte l'una, le quali navigano per la
Soria (‘Siria') con mercanzie. Ha molte altre navi piccole fino a 400 botti al numero di quaranta e
nel Mar Maggiore e di Morea infiniti schirazzetti e naviliotti. Tiene anco circa trenta palandarie, che
sono certa sorta di navigli che hanno il fondo piano e la poppa e proda alla barcesca (‘barchesca’)
ed hanno dietro alla poppa un buco grande, alto quanto un uomo e lungo tre piedi, che
commodamente si apre e serra, per dove caricano li cavalli; ed ognuna di queste porta circa venti
cavalli e pesca in fondo circa quattro piedi; con queste tragittano cavalli per poco viaggio da luogo
a luogo e artiglieria e munizioni. (Eugenio Albéri, Le relazioni degli ambasciatori veneti al Senato
durante il secolo decimosesto, S. III, v. III, p. 153. Firenze, 1839-63.)

Secondo lo storico bizantino Laonikos Kalkokondulos, quando l’emiro Maometto (più tardi
Maometto II), dopo aver preso Bisanzio il 29 maggio 1453, procedendo nella conquista di
quell’impero, prese anche Sinope sul Mar Nero e vi trovò molte navi ormeggiate di varie
nazionalità, tra cui una grande di 900 botti che si portò a Bisanzio, essendo la più grossa che gli
fosse mai capitato di avere sino a quel momento; sempre secondo detto storico, gli unici che prima
di lui avessero avuto grosse navi erano stati solo il re ‘Alfonso dei tarragonesi’ (Άλφόνσος
Ταραϰωνησίων) - e supponiamo volesse dire Alfonso XI di Castiglia (1311-1350), il quale era stato
infatti il primo a farsene costruire una di ben 4mila botti, imitato poi dai veneziani dopo la pace di
Torino del 1381 (De rebus turcicis, LT. IX) e dallo stesso Maometto II con una nave di 3mila botti. Il
Malipiero ci dice che nel 1495 i genovesi avevano noleggiato ai francesi di Carlo VIII quattro
grosse navi di cui una che andava dalle 3.600 alle 4mila botti (Cit. P. 423)
Secondo il vicebailo Andrea Dandulo - relazione del 1562 - le palandarie turche portavano invece
80 cavalli, ma la verità è che erano di varie dimensioni:

... Ha (il sultano) molte palandarie e poco avanti il partir mio (da Costantinopoli) ve n’erano
dieciotto fatte di nuovo, ciascuna delle quali può condurre cavalli ottanta in circa (ib.)

Le palandarie turche erano quindi eredi di quelle galere passa-cavalli medioevali che, appunto per
la presenza dell’uscio posteriore (Princep, yo se que vos havets XX galees obertes per popa en
Brandis… Muntaner (Crónica catalana etc. Barcellona, 1860), all’anno 1283; … e l’almirall fo
apparellat ab les quaranta galees, en les quals navia XX obertes per popa, en que anaven
38

quatrecents cavallers e molts almugavers. Ib. All’anno 1284). Gli almogavari erano montanari,
perlopiù catalani, molto bellicosi. Talvolta nella storiografia medievale italiana si ricordano i vascelli
predisposti al trasporto dei cavalli col nome di galee grosse o di uscieri (vn. usserij), termine
questo usato anche nelle cronache medievali catalano-aragonesi e castigliane, la cui lettura è
senza dubbio essenziale a una comprensione della marineria da guerra basso-medievale; si
trattava dunque di quelle galee grosse di mercato veneziane, corrispondenti alle galeazze
tirreniche, che si adattavano al trasporto di cavalli, cioè principalmente si rendevano apribili da
poppa in modo da farvi accedere comodamente detti animali e di conseguenza non avevano più
un timone centrale bensì due laterali alla poppa medesima (… usceriis, seu galeis grossis… A.
Dandulo, Chronicon, c. 445. In LT.A. Muratori, Rerum italicarum scriptores etc. T. XII. Milano,
1728), insomma un doppio timone detto alla navaresca, come abbiamo già spiegato. Infatti nella
Cronaca del re Pietro IV d’Aragona (v. fonti) si dice chiaramente che nelle armate di mare gli
uscieri erano da computarsi nel numero delle galere:

… e passò in rivista tutta la nostra armata, la quale consisteva di 45 galere, tra galere e uscieri, e
quattro legni armati e cinque navi armate, tre castellane e due catalane,…
… 45 galere tra uscieri grossi e galere mediane e sottili…

Qui per galere mediane e sottili, cioè quelle dette dai veneziani legni del Golfo – ossia del Mar
Adriatico, in quanto questo era convenzionalmente chiamato in Italia Golfo di Venezia -
s’intendevano le triremi, più usate da veneziani, catalani e napoletani, e le biremi, preferite invece
da genovesi e pisani, quantunque, per convenzione sia nel Medioevo sia nel Rinascimento fossero
generalmente chiamate da tutti triremi pure le seconde, specie dai bizantini; anche il genovese
Foglietta, sebbene autore di secoli più tardo degli avvenimenti che descrive nelle sue Historiae, le
chiamerà triremes, ma lui lo farà non solo perché così leggerà nelle cronache medievali, ma anche
perché triremi erano ormai le galere ordinarie che s’usavano ai suoi tempi. Il doge veneziano
Andrea Dandulo (1306-1354) nel suo Chronicon, a proposito dei frequenti conflitti marittimi in corso
a quei tempi tra genovesi e veneziani, scriveva che nel 1294 un’armata veneziana di 60 galee
comandata da Nicolao Quirino era alla ricerca di una genovese di 40 la cui presenza era stata
segnalata nelle acque siciliane; l’incontro avvenne all’imboccatura meridionale dello Stretto di
Messina, ma i genovesi, inferiori di numero e d’armamento, si sottrassero allo scontro; i Veneziani
non poterono inseguirli perché le biremi genovesi erano più leggere e veloci delle loro triremi (quia
januensium galeae subtilissimae erant, venetorum vero grossissimae) e, non trovandocisi più
evidentemente nella stagione favorevole alla navigazione, andarono a disarmare a Genova.
Nella Cronaca del re Pietro I di Castiglia all’anno 1359 così si legge:
39

… però il re aveva colà un’altra galera molto grande che dicevano ‘Uxel’ (forse dal già menzionato
gr. ύψηλoi), la quale era stata dei mori ed era stata ottenuta con altre galere dei mori al tempo di re
Alfonso suo padre quando assediava Algeciras, perché i mori facevano queste galere così grandi
per passare molte truppe da Ceuta a Gibilterra e ad Algeciras e infatti potevano venire in quella
galera quaranta cavalli sotto coperta…

Quanto fosse grande questa galera non sappiamo, probabilmente all’incirca quanto una galea
grossa commerciale veneziana, visto che il re la rafforzò per la guerra aumentandone le
sovrastrutture, evidentemente intendendo così utilizzarla non tanto come passa-cavalli quanto
come vascello da battaglia:

… E il re entrò in quella grande galera e fece fare in essa tre castelli, uno a poppa, un altro nella
mediania e un altro a prua, ai quali nominò tre castellani (‘tres alcaudes’)… (ib.)

Di grossi uscieri si dice più volte anche negli Annales genuenses (1298-1435) etc. di G. & G.
Stella, in LT. A. Muratori, Rerum italicarum scriptores etc. Vol. 17. Milano 1730. (:)

Anno 1320, col. 1.042: … Nell’ultimo giorno dello stesso mese (‘settembre’) gli estrinseci (‘i
ghibellini savonesi’), nel tentativo di entrare nella città, condussero al porto di Genova una gran
nave fortemente armata e munita di alti castelli tanto a poppa quanto a prua e altri tre navigli
chiamati ‘uscieri’ (‘uscheria’), dei quali due erano provvisti di coperta di legname verso poppa e nel
terzo c’era uno strumento da lanciare grosse pietre detto ‘trabucco’; e con questi c’erano due
cumbe (altrove scaffe) coperte allo stesso modo e altro piccolo naviglio in gran numero. E c’era in
uno di quegli uscieri un castello di legno molto alto perché volevano togliere e incendiare la catena
e i legni posti a difesa dagl’intrinseci (‘guelfi genovesi’)...

Anno 1319: (novem grossis navigiis appellatis uscheriis); anno 1320: (navigia grossa vocata
uscheria decem numero cum equis & militibus); anno 1325: (navigiorum, quae grossa sunt et
dicuntur uscheria […] grossi navigiis, quae dicuntur, uscheria duodecim); anno 1379: (navigia
quatuor grossa, quae dicuntur uscheria); anno 1403: (galeae novem fuerunt [om.] et naves septem
unaque grandis galea grossa (cioè una triremi oppure una galera di mercanzia) unumque grossum
navigium nuncupatum uscherium […] galeae undecim venetorum duaeque aliae grossiores
galeae, uscherii nuncupatae).

Un caso di galee grosse di mercanzia veneziane adattate evidentemente all’uso di uscieri fu per
esempio quello del 1438 e cioè quando i veneziani dovettero andare a imbarcare soldatesche
mercenarie a Rimini:

… A dì primo di marzo vennero due galee di mercato nel porto d’Arimino per levare le genti d’arme
di Cristoforo e di Giovanni daTolentino, e poi anche vennero sette galee nel detto porto e anche di
poi a dì VIII di maggio ci vennero quattro altre galee, le quali tutte levarono la gente d’arme la
quale andò al soldo della Signoria di Venezia. E a dì XVII di maggio si partirono i detti Cristoforo e
Giovanni da Arimino e andarono con dieci barche armate in compagnia (Ann. Chronicon
ariminense etc.. In LT. A. Muratori, Rerum italicarum scriptores etc. C. 934, t. XV. Milano, 1727).
40

Abbiamo detto che nelle cronache trecentesche del re Pietro IV. d’Aragona (op cit.) vediamo gli
uscieri computati nel numero delle galee, ma, se andiamo amcora più indietro nel tempo, cioè
all’inizio del Duecento, possiamo costatare invece che i veneziani nelle loro armate li
consideravano a parte; ecco infatti quanto tra l’altro si legge nel patto stipulato nell’aprile 1201
dal doge Enrico Dandulo con i principi crociati Baldovino IX conte di Fiandra, Teobaldo conte di
Troyes e Ludovico conte di Blois in materia di preparativi per la quella che sarà la quarta
crociata:

… vi daremo naviglio per trasferire 4500 militi ben armati e altrettanti cavalli e novemila
scudieri (scutiferos) (…) e 20mila fanti ben armati (…) per trasferire i predetti cavalli dovremo
dare tanti uscieri (uscerios) quanti saranno conformemente necessari (…) D’altro canto
daremo tante navi quante saranno sufficienti per trasportare tanti uomini secondo la
nostra discrezione e la buona fede dei nostri baroni (…) D’altra parte in aggiunta a queste
cose e per nostra propria volontà dovremo dare cinquanta galee armate al servizio di Dio,
le quali resteranno similmente saranno al servizio del Signore per un anno se sarà necessario…
(A. Dandulo. Cit. C. 323 e segg.)

Per la cronaca, Venezia s’impegnava a fornire anche il cibo essenziale necessario a nutrire per un
anno uomini e cavalli, cioè pane, farina, legumi, biada, acqua e vino.
Contratti diversi troviamo invece tra quelli per l’ottava crociata, cioè quella del 1270, che il re di
Francia Luigi IX detto Il Santo stipulerà con genovesi e marsigliesi, poiché si tratterà in parte di noli
e in parte di coommesse di nuove costruzioni corredate di tutto il necessario per il viaggio inclusi
gli equipaggi; infatti il re cominciò a fare questi preparativi due anni prima della programmata
crociata e cioè nel 1268. Poiché i fornitori, pur vendendo al re queste loro nuove realizzazioni,
conservavano il diritto di riprendersele a fine crociata, a meno che ovviamente durante quella non
fossero andate perdute, i prezzi erano mantenuti più convenienti rispetto a quello che sarebbero
stati se si fosse trattato di vendere sic et simpliciter; questo per evitare al re, terminatane un giorno
la necessità, di doversele andare a rivendere sul mercato con un raelizzo probabilmente tutt’altro
che soddisfacente. Insomma oggi la definiremmo una forma di leasing. Vediamo a questo
proposito le dimensioni delle prime due navi che Luigi commissionò al grande cantiere genovese di
San Pier d’Arena, di cui al contratto firmato a Genova il 26 novembre 1268, calcolando il palmo di
Genova mm. 247,600, il piede mm. 297,312, come riportato da più studiosi (Pietro Rocca, Pesi e
misure antiche di Genova e del Genovesato ecc. P.53. Genova, 1871), e il cubito pari a un piede e
mezzo:

E come è detto di seguito, tali devono essere le misure, il sartiame e l’apparato di ciascuna nave:
e in primis, cioè a proposito di quanto ogni nave debba essere di lunghezza in chiglia di trentuno
cubiti (m. 13,83); di lunghezza da ruota in ruota di cinquanta cubiti (m. 22,30); d’altezza in sentina
(‘cala’) di diciassette palmi e mezzo (m. 4,34); di altezza nella prima coperta inferiore di nove palmi
41

(m. 2,23); di altezza nella seconda coperta di palmi otto (m. 1,98); di altezza nella pavesata di
palmi cinque (m. 1,24); di ampiezza a metà nave di quaranta palmi e mezzo (m. 10,04)
(Champollion Figeac, Documents historiques inédites tires des collections manuscrites etc. T. I°.
Pp. 520-522. Parigi, 1841).

Si tratta dunque di dimensioni da medio yacht da diporto di oggi, ma notevoli per quei tempi,
ragguardevole soprattutto il numero dei ponti, cioè tre, anche se di altezza limitata perché anche
di altezza limitata erano gli uomini di allora. La disponibilità del vasto cantiere di San Pier d’Arena
permetteva ai genovesi di costruire correntemente navi di dimensioni che gli altri potentati marinari
italiani con più difficoltà e solo saltuariamente potevano permettersi e ciò molto contribuiva ad
aumentare quella boria e quell’alterigia che li avevano resi tanto antipatici nel Mediterraneo, specie
a levante, e che cominciarono a perdere solo con la sconfitta che subirono nel 1381alla guerra di
Chioggia combattuta contro i veneziani. Vediamone adesso le scialuppe di salvataggio, le quali
dovevano esere corredate di tutto il sartiame e altre attrezzature a esse pertinenti:

- Una scialuppa di cantiere (barcham unam canterii; ossia di lavoro, di servizio), imbarcazione della
quale non si danno le misure perché evidentemente ormai standardizzate; due scialuppe
poliscalmo (barchas duas de parascalmo, da quanti scalmi anche si omette): una gondola, cioè,
come poi meglio vedremo, una scialuppa che si vogava restando in piedi e facendo leva con una
pertica sul fondo marino quando raggiungibile (ib.)

Quattro scialuppe possono sembrare troppe e dovevano occupare gran parte della superficie di
coperta, anche se quella di cantiere, la maggiore, si portava a traino; ma in una nave da trasporto
bellico erano necessarie per effettuare eventuali operazioni di sbarco di uomini, cavalli e materiali;
e infatti, come vedremo, anche la provvista di remi per queste barche doveva essere superiore alla
norma. Doveva poi ogni nave disporre di due timoni di nove palmi ciascuno (m. 2,228) laborati et
asse(c)tati, cioè rifiniti e politi. Ecco l’alberatura:

- Un albero di prua, il quale allora, non chiamandosi ancora di trinchetto, prendeva il nome
d’artimone dalla sua maggior vela (lt. artimonum; gra. αρτέμων͵ αρτέμονος, ‘da appendere’, da
ὰρτάω, ‘appendo’), di lunghezza di cinquantuno cubiti (m. 22,75) e di grossezza di dodici palmi e
tre quarti (m. 3,16), ma non meno di dodici e mezzo quando dirozzato; un albero di mezzo di
lunghezza di 47 cubiti (m. 20,96), di grossezza di palmi undici e tre quarti (m. 2,91), ma non meno
di undici e mezzo (m. 2,85) quando dirozzato (ib.)

L’albero di prua non si diceva ancora di trinchetto, perché dal nome della vela principale che
porterà. Si trattava dunque di velieri bialberi e quando poi si arriverà ai trealberi, cioè con
l’introduzione con un terzo albero centrale detto di maestra, perché dal nome della vela principale
che porterà, quello di mezzo o della medianina sarà spostato a poppavia, ma riterrà un nome che
ricorderà la sua antica posizione e cioè di mezzana, nome che riterrà o prenderà anche la vela
42

principale che quell’albero porterà. Insomma vogliamo ribadire che, nell’evolutivo passaggio da
bialberi a trialberi, l’albero nuovo introdotto non fu quello a poppavia detto di mezzana, bensì
quello grosso e alto centrale, detto di maestra. Passiamo adesso alle antenne:

- antenne di prua, pezzi tre, delle quali due devono essere di quarantuno cubiti (m. 18,28); e sono
penne, mentre l’altro pezzo deve essere di trentacinque cubiti (m. 15,61) e deve essere un carro,
di grossezza di palmi sette e mezzo (m. 1,86); e devono essere dirozzate di palmi sette e un
quarto ( m. 1,79) (ib.)
- antenne di mezzo, pezzi due, una delle quali deve essere di lunghezza di cubiti trentasette (m.
16,501), l’altra di cubiti trentadue (m. 14,27), di grossezza di palmi sei e tre quarti (m. 1,67) e
devono essere dirozzate di palmi sei e mezzo (m. 1,61).
- 1 antenne per il velono (dal lt. velonum, allora la maggiore delle vele), pezzi tre, due delle quali
devono essere ciascuna di lunghezza di cubiti 38 (m. 16,95) e l’altra invece di cubiti 30 (m. 13,38);
e devono essere di grossezza ciascuna di palmi sei e tre quarti (m. 1,67) e dirozzate di palmi sei e
mezzo (m. 1,61).
- 40 centenaria (tlt. centenarium, ‘cento rotoli’ pari a 150 libbre) di canapa lombarda filata e
commessa fare e risarcire sartiame della nave e delle barche.
- 6 vele di cotone, di cui 4 per l’albero di prua e 2 per l’albero di mezzo, delle seguenti misure
d’altezza: all’albero di prua per artimone, cioè per vela maggiore, una di sessantasei cubiti, per
terzarolio una di cubiti sessantuno, una di cubiti cinquantasei, una di quarantadue. All’albero di
mezzo una di cubiti cinquantotto e un’altra di cubiti cinquantadue (ib.)

Le due vele maggiori, le quali erano ambedue di prua, vale a dire il velono e il terzarolio, dovevano
essere di un cotone più forte e cioè di cotone di Marsiglia. La circostanza che il numero delle vele
di prua fosse il doppio di quelle del mezzo fa capire che l’albero di prua, non esistendo ancora
quello di maestra, era a quei tempi il principale. Più la vela era alta rispetto all’albero che doveva
accoglierla e più forti dovevano essere evidentememte le brezze che doveva intercettare, nel
senso che doveva gonfiarsi di più.
Dovevano queste navi avere ciascuna ben 26 ancore di ferro, di cui 20 da cantaria (più tardi
cantara) 8 ciascuna e e 6 da cantaria 10 ciascuna, pesando il cantarium genoveve 150 libbre;
questo gran numero era dovuto al loro essere vascelli destinati ad operazioni di guerra, cioè a
situazioni in cui non infrequentemente, per salvarsi dal nemico, non c’era tempo per sarpare le
ancore e bisognava tagliarne le gomene; il che naturalmente poteva avvenire anche
indipendentemente dalla guerra e cioè per sottrarsi al tormento dei flutti e delle ondate di un mare
sconvolto da un’improvvisa burrasca.
Per quanto riguardava le grosse attrezzature interne, dovevano avere ognuna tante vegge (‘botti’)
quante necessarie per contenervi duemila mezarolie di acqua in tutto, essendo la mezarolia
equivalente a due barili, il barile a 50 pinte, la pinta a tre libbre di vino; quindi un totale che
superara i 200mila litri d’acqua; non poco. Inoltre dovevano avere ognuna cento stabularia o
staiaria, cioè cioè stallaggi per 100 cavalli. Nel Cinquecento le potenze marittime cristiane finirono
poi con l’adattare in qualche caso al trasporto dei cavalli anche normali galere, come abbiamo già
43

accennato, mentre quelle armate da guerra ordinarie, in casi di eccezionale necessità, potevano
accettare di caricarsene a bordo qualcuno, ma non più di 3 o 4 a seconda della loro larghezza, e
ce n’erano infatti nell’armata che Giovanni d’Austria raccolse a Messina nel 1572. Bisogna però
considerare che nel Basso Medioevo le galee ordinarie erano generalmente delle biremi e quindi
più strette delle triremi che vennero poi in auge nel Rinascimento. Infine, sempre a solo livello di
grosse attrezzature interne, ai fini di ormeggio ogni nave doveva avere 14 fasci (festos) di gomene
(ib.)
In un documento del giorno successivo si tratta del nolo della nave genovese Paradiso, la quale,
secondo lo Jal, il quale ha avuto il gran merito di pubblicare questi documenti, era destinata a
portare a Tunisi detto re Luigi IX, anche se noi non siamo d’accordo su questa interpretazione
perché, come abbiamo visto, della flotta per questa Crociata faranno parte bialberi di nuova
costruzione, mentre la Paradiso era vecchia e monoalbero, quindi sensibilmente più piccola.
Tralasciando la complessa e particolareggiata specifica del sartiame, cavi e gomene in dotazione a
questo vascello, materia di cui non siamo assolutamente competenti, cominceremo invece col dire
che l’albero (sana et nova), pur essendo l’unico, era detto in quei tempi di prora, perché nei
monoalberi si istallava in una posizione intermedia rispetto a quelle dei due che nei secoli
successivi saranno invece detti di maestra e trinchetto; quando invece bialberi, l’albero centrale
aveva il giusto nome di albero di mezzana, portando appunto il la vela di mezzana, nome che, pur
diventando esso in effetti l’albero di poppa, conserverà nei più tardi trealberi; era quello di questa
nave lungo 50 cubiti genovesi (m. 22,30) e grosso 12 palmi e 1 quarto (m. 3,04). Risultano a bordo
della stessa dodici gavitelli o boe che dir si voglia, con ogni probabilità di sughero, e uno
scandaglio; per la barca di cantiere c’era una provvista di 52 remi a una spata, cioè a una sola
pala, due ancore e un arganello per tirarle su e un calderone per renderla evidentemente
autonoma per i pasti durante le maggiori missioni; per le altre due minori, dette barche di
poliscalmo, cioè a più scalmi, la provvista di remi a una sola pala (spata una) era di 32 per ognuna,
la quale aveva anche arganello e un rampino, e 34 per l’altra. C’era poi anche qui una gondola
provvista di 12 remi, i quali erano però in questo caso delle pertiche prive di pala perché, come
abbiamo già detto, le gondole del passato erano imbarcazioni da bassifondi lagunari, dove si
spingevano avanti facendo appunto leva sui fondali. Perché gli antichi chiamassero la pala del
remo spata è presto detto, perché essa non era, come oggi, larga e corta ma appunto stretta e
lunga come la lama di una spada; la preferivano così perché il remo fosse più resistente allo
spezzarsi.
Tralasciando il dettagliato elenco delle piccole attrezzature da lavoro (rebus de camera) della
Paradiso, riteniamo più interessante soffermarci su quello di cambusa (rebus de compagna):
44

- 16 vegge (‘botti’) per acqua, delle quali alcune di larice e alcune di faggio, dalla capacità
complessiva di mezarolie da 350 a 375.
- 5 vegge per vino, alcune di larice ed altre di faggio, dalla complessiva capacità di mezarolie da
40 a 50.
- 4 botticelle piccole da nave (quae sunt in navis) per aggottare l’acqua di cala.
- una vecchia manichetta con cuoio e imbuto.
- 3 calderoni.
- 2 barili.
- una padella.
- lebéte (‘catino, bacino’).
- 3 coltelli.
- 100 scodelle.
- 10 ossari (inosoriis).
- 10 gamelle.
- 25 coppe.
- 6 chiaretti (‘brocchette da vinello’).
- un catino (cuantino, cantino, ‘misura di liquidi’) e ½ catino per misurare.
- una damigiana (jatera) per l’olio da un barile e mezzo.
- un barile per l’olio.
- 4 pezzi (tolti da) formaggi (de termagis).

… quae res sunt omnes in ipsa navi. E’ invece dell’8 maggio 1269 un secondo contratto di
noleggio stipulato con i genovesi, questa volta per la nave bialbero Bonaventura, la quale era
allora in cantiere a Varazze (in schario Varaginis), forse perché ancora in costruzione, e della
quale si danno le seguenti caratteristiche. Premesso che nel noleggio era incluso un equipaggio di
38 marinari, questa nave era linga cubiti genovesi 25 (m. 11,15) in carena e 38 (m. 16,95) in alto
invece da ruota a ruota, mentre era ampia in coperta 30 palmi (m. 7,44) con un’impavesata - o
bastingaggio che dir si voglia - di palmi 4 (m. uno circa). Era alta in sentina palmi 13,75 (m. 3,41),
da questa alla prima coperta palmi 8,66 (m. 2,15), il corredorio, cioè il primo ponte, dalla coperta
inferiore a quella superiore, palmi 6,5 (m. 1,61); l’altezza di questo corredorio può sembrare
insufficiente, ma, oltre alla considerazione che gli uomini di quei tempi erano sensibilmente più
bassi di noi, c’è da considerare che si trattava di un ponte di solo servizio, cioè di supporto a quello
esterno di coperta, nel senso che, scendendovi eed uscendone tramite le boccheporte, era molto
utile per depositarvi materiali d’uso corrente nei lavori di coperta e anche per spostarsi lungo la
nave restando al coperto, quando cioè il ponte esterno fosse spazzato dalle onde di burrasca e da
rovesci di pioggia, usandosi invece le artiglierie nel ponte al corridoio sottostante e riservando il
ponte di sentina, il più basso e alto, al grosso carico di nolo commerciale o, nelle fazioni di guerra,
al deposito delle provviste e riserve per l’esercito. Questo ci fa capire quanto a quei tempi lo spazio
di bordo fosse ridotto e quanto fosse importante il poter disporre nei locali sottocoperta di un
centimentro di più o di uno di meno. L’albero di prua era lungo cubiti 40 (m. 17,84) con una
grossezza di palmi 8 (quasi m. due), quello di mezzo (de medio) cubiti 37 (m. 16,50) e grosso
45

palmi 7,5 (m. 1,86) e dovevano essere corredati di sufficiente sartiame… que arbores sunt et esse
debeant sane (ib. Pp. 551-552).
A bordo della Bonaventura troviamo inoltre 7 pezzi d’antenna (tra carri e penne, evidentemente),
124 centenaria di sartiame di canapa, 5 vele di cotone, 18 ancore dal peso di cantaria (abbr. di
centenaria) 5/6 ciascuna, essendo il cantarium genovese, come già detto, libbre 150, 2 timoni
grossi 7 palmi (m. 1,73), 2 barche poliscalmo con tutti i ncessari fornimenti, remi e pale (spatae),
botti per l’acqua per una capacità totale di mezarolie mille, quindi di circa centomila litri:

… la quale precisata nave […] a voi signori ambasciatori in nome del detto signor Re lochiamo,
ossia noleggiamo, al prezzo onnicomprensivo di lire tornesi duemilaquattrocento… (ib.)

La nave predetta, come del resto le altre di cui abbiamo detto, doveva essere consegnata ai
francesi ad Aquae Mortuae, cioè all’odierna Saint-Tropez, cioè al porto di Francia più vicino al
podestato di Genova. Si contratta poi con i genovesi per un terzo noleggio, quello della nave San
Salvatore, larga al centro 24 palmi (m. 5,94), lunga in carena 21 cubiti (m. 9,36) e in alto da ruota a
ruota 31,5 (m. 14,05), alta in sentina 12,5 palmi (m. 3,09) e da questa alla coperta 8 (m. 1,98),
avendo un bastingaggio alto un minimo di 5,5 palmi (m. 1,34). Si tattava dunque di una due ponti,
coperta inclusa, con regolari castelli di poppa e di prua (et habet talamum ad popam et prodam
bonum et sufficientem), con l’albero di prua lungo cubiti 30 (m. 13,38) e doppio 6 palmi (m. 1,49) e
quello di mezzo invece alto cubiti 27 (m. 12) e spesso palmi 5,5 (m. 1,36). Disponeva inoltre la
nave di sette pezzi d’antenna, 5 vele di cotone (bonas et novas), 65 centenaria di sartiame di
canapa intrecciata, cioè libbre 9.750, 12 ancore di cantaria 4 e mezzo ciascuna, una barca
poliscalmo con un rampino (rapegello) e una gondola, ambedue attrezzate, tante botti da acqua
quante bastavano per contenere 300 metrete, questa un’antica misura genovese per i liquidi
equivalente a 100 pinte, cioè a due barili; ancora, 22 marinari e 3 mozzi (pueros), inclusi il padrone
(nauta) e stallieri per cavalli, infine vecchi funami da porre sotto i piedi dei cavalli per evitare che in
quei lunghi viaggi per mare si rovinassero gli zoccoli e per l’appunto tutto quant’altro fosse al
programmato viaggio necessario (et demum omnes alias res necessarias ipsi navi pro dicto
passagio).
Il 4 giugno 1269 i francesi noleggiano un’altra nave genovese, la San Nicola, cioè una biponte le
cui fiancate, le coperte e il castello erano stati recentemente raddobbati e che aveva le seguenti
misure; lunga in carena cubiti 22 (m. 9,81), invece in alto da ruota a ruota 34 (m. 15,16), larga di
piatto in chiglia piedi 6 (m. 1,48), alta in sentina palmi 13 (m. 3,22) e da questa alla coperta 7,75
(m. 1,92); la battagliola (‘orlo’) era alta palmi 4,5 (m. 1,11) e la coperta larga al centro palmi 26 (m.
6,44); l’albero di prua lungo cubiti 33 (m. 14,72) e grosso palmi 6,33 (m. 1,57), quello di mezzo
invece lungo cubiti 29,5 (m. 13,16) e grosso palmi 5,5 (m. 1,36). C’erano poi 2 timoni (boni et
46

convenientes dictae navi), sette pezzi d’antenna, cinque vele nuove di cotone e sartiame
sufficiente a quegli alberi; 12 ancore pesanti cantaria 4,5 ciascuna, 12 gomene, cinque prodesi,
inoltre groppiali, cioè funi di ritenzione posteriore, e altro sartiame a sufficienza; botti da acqua per
un totale di capacità di 400/500 metrete, 22 marinari e tre mozzi (famuli), una barca poliscalmo e
una gondola, ambedue attrezzate ‘sufficientemente’, infine stallaggi per cavalli approntati.
Il 4 giugno 1269 gli ambasciatori di Luigi IX sottoscrissero il contratto per la costruzione di un’altra
nave treponti da farsi in un cantiere tra Savona ed Albissola Marina ed eccone le principali misure:
lunghezza in carena cubiti genovesi 26 (m. 11,59) e lunghezza da ruota a ruota cubiti 41 (m.
18,28), altezza in sentina palmi genovesi 14,5 (m. 3,59), del secondo ponte palmi 8,5 (m. 2,10), del
corredorio o primo ponte palmi 6 (m. 1,48) e della battagliola palmi 4 (m. 0,99); la larghezza in
coperta avrebbe dovuto essere di palmi 32,5 (m. 8,05). Erano allora dunque le navi effettivamente
vascelli tondi, nel senso che, come si può qui ben notare, l’ampiezza, nei confronti della
lunghezza, era notevole. Passando all’alberatura, l’albero di prua, da essere bonam et sanam, il
che fa pensare che fosse uso comune adoperare per nuove costruzioni anche alberi usati, avrebbe
dovuto esser alto cubiti 41 (m. 18,28) e grosso palmi 8,5 (m. 2,10), quello di mezzo cubiti 38 (m.
16,95) per uno spessore di palmi 7,5 (m. 1,86). 7 pezzi d’antenna, 5 vele di cotone nuovo e timoni
due grossi palmi 7 (m. 1,73) ciascuno, 18 ancora pesanti cantaria da 5 a 6 ciascuna, 135
centenaria di sartie nuove di canapa intrecciata; due barche poliscalmi, una grande e una piccola;
botti da acqua per una capienza totale di metrete 800, marinari 38 e mozzi (‘servientes’) 4; infine
stabularia per cavalli e vecchi funami (‘restes’) da porre sotto gli zoccoli di quegli animali.
Ma Luigi IX, oltre che di navi, aveva bisogno anche di salandri o salandrini, cioè di velieri porta-
cavalli, [leggesi falandriae nel Chronicon di Andrea Dandulo (1306-1354), galandria e zalandria in
quello di Giovanni Diacono, appunto salandri nei contratti di acquisto e nolo stipulati dal predetto re
con genovesi e marsigliesi (1268-1270), mentre Antonio de Capmany (Ordenanzas de las
armadas navales de la Corona de Aragon etc. Madrid, 1787) riporta xalandro.
Andrea Dandulo scriveva dunque che circa l’anno 850 i veneziani terminarono la costruzione delle
loro due prime galandrie, un tipo greco di vascelli che prima non avevano mai avuto:

Duces itaque duas naves bello aptas ad sua tuenda loca miserunt, quæ more græcorum
falandriæ dictae sunt, numquam ante apud Venetos usitatæ (Chronicon Venetum etc.)

Da lui prese Giovanni Diacono, cronachista che visse nella seconda metà del nono secolo:

… Illud etiam non praetermittendum quod antedicti duces ad sua tuenda loca, eo tempore duas
bellicosas naves tales perficere studuerunt quales nunquam apud Venetiam antea fuerant quae
græca lingua galandriae dicuntur (Chronicon Venetum omnium etc.)
47

Questi vascelli sono, come si vede, più volte definiti naves, il che ci fa capire che erano della
categoria dei vascelli tondi, ossia velieri, e non di quella dei vascelli remieri alla quale invece
appartenevano altri porta-cavalli di cui presto diremo e che però portavano, come vedremo, un
nome simile e cioè chelandri. Il 30 maggio 1269 dunque i delegati di Luigi IX stipulano il contratto
per la costruzione di un sallandro nel cantiere di San Pier d’Arena, le misure del quale ci
permettono di capire dove stava la principale differenza tra questi porta-cavalli e le ordinarie
naves; dunque sarebbe stato lungo in carena 28 cubiti genovesi e mezzo (m. 12,71) e da ruota a
ruota 41 (m. 18,28), largo palmi 26,5 (m. 6,56). Si tratta dunque di un vascello di forma uin po’ più
allungata di quella della navi ordinarie, cosa spiegabile o dalle sequele di stabularia (‘stallaggi per
cavalli’) che doveva principalmente contenere o dall’aggiunta della struttura della porta di poppa
attraverso la quale gli equini dovevano entrare e uscire. Doveva esser alto in sentina palmi 10,5
(m. 2,60) e dal ponte di questa alla coperta palmi 9 (m. 2,23); la battagliola doveva esser alta palmi
5,5 (m. 1.46); l’albero di proda alto cubiti 32 (m. 14,27) e grosso palmi 7 (m. 1,73) e quello di
mezzo alto cubiti 29 (m. 12,93) e grosso palmi 6 (m. 1,48). Avrebbe poi dovuto avere 7 pezzi
d’antenna e 13 ancore da cantarii 4,75 ciascuna; inotre 5 vele di cotone nuovo, una barca
poliscalmo e una gondola, ambedue fornite di remi (ma, per quanto riguarda la seconda, per ‘remi’
s’intenderà evidentemente ‘pertiche’), centenaria 80 di sartiame di canapa intrecciata; tante vegge
da poter contenere un totale di metrete, ossia mezarolie, 600 d’acqua, stabularia (‘stallaggi’) per
cavalli e vecchio funame da mettere sotto i loro piedi; infine marinari 25 e mozzi 3 incluso un
patrone (nauta) ... et habebit talamum (‘castello’) ad popam et ad prodam bonum et decentem…
Quindi, eccetto che nella forma un po’ più allungata, per il resto questo sallandro, anche se qui
correntemente chiamato lignum per distinguerlo appunto dalle navi, da una normale nave biponte
sostanzialmente non differisce. Un secondro sal(l)andrino fu ordinato il giorno seguente, questo da
costruirsi tra San Pier d’Arena e Capo di Monte.
Per tornare però ora alle parandarie da bombe dei turchi di fine Medioevo, diremo che vascelli
triremi bombardieri si costruivano alla fine Quattrocento anche in Italia dove li chiamavano delfini,
forse perché con un’incastellatura protettiva di prua che si elevava sulla batteria delle bombarde e
quindi ricordava la grossa testa del delfino:

(Anno 1495:)… e nel ditto tempo ditto re di Napoli fecie grande armata per mare, cioè galee 42
sottile, circa nave 30, con delfini (sic) c(h)iamati l’uno Albatrosso (‘albatros’), l’altro Scorpione,e
quali vogavano circa remi sessanta per uno. Su ditti navili aveano due bombarde per uno,
gittavano pietre grosse libre 150 l’una; e questo per affondare nave grosse (Memoriale di Giovanni
di Portovenere etc. In A.S.I. T. VI, parte II, p. 283-284).

Useranno i napoletani queste bombardiere remiere ancora nell’Ottocento, anche se col diverso
nome di galeotte da bombe, in quanto probabilmente, usando ora mortari dal tiro arcuato e non più
48

bombarde dal tiro diretto, la sopraelevazione di prua non c’era più; queste del Rinascimento, per
avere 60 remi, dovevano essere da 15 banchi biremi per lato. Avevano imparato a costruirle dai
toscani, come si legge in una lettera del 13 gennaio 1488 inviata da Ferdinando re di Napoli a
Lorenzo il Magnifico e citata in una nota a detto Diario:

Rex Siciliae – Magnifice Vir, amice noster carissime, havendo noi persentito che in lo Arcenale de
questa Signoria è un capo mastro nominato ‘mastro Ioanni’, lo quale noviter (‘ultimamente’) ha
trovato certa natura de navili, quali chiama ‘arbatrocti’ (‘albatros’), che teneno bombarde supra
quale tirano preta de 250 libre; me è stato piacere intendere la invenzione et havevamo assai da
caro vederne l’effecto. Pertanto ne pregamo ne vogliate mandare lo dicto mastro Ioanni (per)
quanto monstrarà lo modo di taglio de dicti navili ad questi nostri, acciò che ne possiamo o ad lui o
ad li nostri far construere uno per satisfazione del animo nostro che de ciò ne farete piacere etc.
(Ib.)

Queste memorie non specificano se le grosse bombarde in discussione erano normali canne ‘a tiro
di volata’ o mortari a tiro d’arcata; ma si trattava sicuramente dei secondi perché le canne delle
gigantesche prime sarebbero state troppo lunghe per esser manovrate su un vascello del tempo e
il forte rinculo sarebbe stato troppo pericoloso per le loro strutture. A questi vascelli si ispireranno
le esiziali galeotte da bombe dell’ultimo quarto del Seicento che poi vedremo. Per tornare però ora
ai suddetti trabucchi, cioè alle macchine lapidarie ossidionali medievali, diremo che ne trattiamo
diffusamente in altra nostra opera e, per quanto riguarda le scafe, abbiamo già detto che
nell’antichità greca il termine signficava una sorta di scialuppe, ma, a partire dal Basso Medioevo,
prese ad indicare imbarcazioni più complesse, come poi vedremo. Resta da osservare che per
cumbe (lt. cumbae; gr. ϰύμβαι, ϰύμβια) s’intendevano piccoli legni, i quali erano usati per la pesca,
come leggiamo per esempio nelle citazioni fatte da Nonio Marcello (De compendiosa doctrina per
litteras ad filium etc. P. 366. Basilea, 1842), ma che erano anche molto adoperati nelle armate a
loro supporto, ma questi ultimi, essendo coperti, dovevano essere più grandi della media, non
avendo infatti coperta quelli minori. Il nome cumba - ci fa sapere il già citato S. Pompeo Festo –
non è latino ma sabino e significava in origine ‘lettiga’, ciò a dimostrazione di quanto fosse
precipuo, almeno in origine, il ruolo di supporto militare esercitato da quei piccoli legni; il senso di
‘lettiga’ si conserva nel verbo succumbere - da super (e non sub ovviamente) cumbam, anch’esso
di natura militare, significando in effetti ridursi, ferito o moribondo, in lettiga.
Interessante è anche sapere che gli uscieri, vascelli di cui abbiamo già detto, anche se di mole
generalmente maggiore delle galere sottili ordinarie, non erano sempre provvisti di coperta e
talvolta solo parzialmente a poppa, e che di conseguenza i banchi ((lt. transtra; gr. e grb. σελίδα,
σέλματα, ζυγά e ζυγὰ, ἒδωλα e ἐδώλια, ἲϰρια e ἰϰρία, θράνιοι e θράνια, θρᾶνοι e θρῆνυες, θρῆνυϰες
e θρᾶνυϰες; vn. poggi; ol. vrikken) dei remiganti dovevano probabilmente esser posti in palchi
laterali costruiti in alto all’interno delle fiancate. Più tardi, a proposito dell’armata messa in mare da
49

Alfonso V d’Aragona nel 1438, vedremo lo Zurita usare il nuovo nome di taffureas, anch’esso nel
senso, come sembra, di vascelli bellici da salmerie (su armada de naos y galeras de tres y de dos
remos, con otras taffureas y fustas. LT. XIII, c. L).
Gli uscieri erano nei mari di Levante adibiti al trasporto, oltre che di cavalli, anche di ogni sorta di
munizioni e provviste militare; quelli ottomani, come già detto, erano generalmente chiamati
palandarie (vn. parandarie; cst. parenderas), mentre i veneziani chiamavano i loro marani (lg.
Mähre, ‘cavallo’), nome apparentemente di origine germanica e che sopravvive ancora nell’odierno
catamarano; infatti, a p. 35 della Perdita di Negroponto del frate Iacopo dalla Castellana, leggiamo:
parandarie, cioè marani (A.S.I. Appendice. Tomo 9). A Venezia esiste ancora un canale che si
chiama Canal de i Marani, dove probabilmente una volta vi si tenevano ormeggiati appunto dei
marani. Nel 1465 Jacomo Barbarigo, il già ricordato provveditore generale veneziano della Morea,
in un dispaccio da lui inviato il 19 settembre al suo doge a Venezia chiedeva che gli mandassero
da Venezia 40 0 50 cavalli perché la sua gente d’arme ne aveva bisogno:

… seria bona cosa Vostra Signoria mandasse 40 over 50 cavalli con primo maran, acio ise
posino meter a cavallo (C. N. Sathas, cit. P. 48).

Come vedremo, a partire dal terzo quarto del Trecento si comincerà a usare questi marani non
solo come porta-cavalli ma anche per il trasporto di materiali pesanti sia civili sia militari.
Le galere medievali, biremi o triremi che fossero, generalmente eccezion fatta per quelle di
comando, non avevano la soprelevazione di poppa di quelle più tarde, il che infatti ancora si può
notare nella quattrocentesca Tavola Strozzi, ma vi portavano solo un leggero telaio per reggere il
tendale che serviva a riparare da sole e dalla pioggia il comandante e i suo ospiti, particolare
comune anche agli antichi vascelli remieri da guerra romani, come ben si vede da quello
realisticamente raffigurato in un affresco del Museo Nazionale di Napoli proveniente dal tempio di
Iside di Pompei, vascello offerto al pubblico come trireme, ma che, se invece di identificarlo
dall’affollamento dei remi perché particolare molto poco chiaro, si volesse farlo dalla scarsa
lunghezza dello scafo, si potrebbe anche credere invece una monoremo; vero è che molto spesso
gli artisti rappresentarono i vascelli remieri più corti del reale per esigenze pittoriche. Comunque in
realtà che anche le antiche triere offrissero per alloggio del comandante solo un tabernacolo, ossia
un padiglione, una tenda insomma, lo leggiamo in G. Polluce, cioè laddove dice della struttura
della poppa di quei vascelli:

… luogo che si dice anche tabernacolo, (cioè) quello innalzato per il capitano generale o per il
trierarco (ἐϰεῖ που ϰαὶ σϰηνὴ ὀνομάζεται, τὸ πηγνύμενον στρατηγῷ ὴ τριηράρχῳ. Giulio Polluce,
Onomastikon grece et latine. I.IX, p. 60-61. Basilea, 1541 – Amsterdam, 1706).
50

Dunque anche il detto grande passa-cavalli era stato costruito a plat, come dicevano i catalani,
cioè senza alcuna sovrastruttura sulla coperta. Invece tra le quaranta galere aragono-catalane che
proprio in quell’occasione andranno ad affrontare le castigliane a Calpe sulla costa alicantese ve
n’erano due gruesas di comando con incastellature, come si legge sempre nella suddetta Cronaca,
ma quante e in quali parti della coperta le avessero non è specificato.
Il re vi fece poi imbarcare ben 160 uomini d’arme e 120 balestrieri [grb. prima τζαγγρατοξόται; poi
τζαγγράτορες o τζαγκράτορες, infine latinizzato in μπαλαιστροὶ o μπαλeστροὶ e βαλλιστράριοι. In fr.
arbalestiers, se a cavallo, e cren(n)equiniers o cranequiniers, se a piedi] e, considerando che per
‘castellano’ della prua aveva scelto Garcia Alvaréz de Toledo, già patrone della sua personale
galera reale, c’è da pensare che volesse fare di quel vascello una sua risorsa bellica molto
importante.
Vascelli levantini, specie ottomani, erano le germe (nel Medioevo dette ‘giarme’), adoperate per il
trasporto di mercanzie. Si trattava in questo caso d'imbarcazioni non molto lunghe, ma assai
larghe; non avevano tolda e quindi ben poco anche di opere morte (bastingaggi, palchi e castelli);
e portavano da mille ad 11.500 salme di carico; avevano quattro vele grandissime che si potevano
permettere in quanto vascelli molto stabili e assai reggenti; probabilmente trovavano la loro origine
nelle gelve del Mar Rosso, imbarcazioni molto piatte che si usavano specie lungo le coste sub-
sahariane del Mar Rosso per ovviare alle molte secche che le caratterizzavano. Imbarcavano, oltre
ai carichi di merci, frequentemente anche passeggeri, i quali ovviamente, non essendoci una
coperta, erano alloggiati tra le merci malissimo, come racconta il già ricordato de Villamont; ma di
questo suo viaggio poi molto altro diremo.
Le caravelle propriamente dette (ol. karvels; dall’gr. ϰάραβος) erano vascelli oceanici molto usati
dai portoghesi, tant’è vero che nel Mediterraneo rinascimentale erano chiamati caravelle i vascelli
oceanici spagnoli e portoghesi in generale, proprio come poi nel Seicento saranno chiamati
genericamente galeoni tutti quelli spagnoli che, di conserva, faranno la rotta per e dalle Americhe;
ma non erano di origine lusitana in quanto derivati, anche da punto di vista lessicale, appunto dai
càrabi dei mari di Levante, ossia da quelli che poi furono detti saicá da greci e ponentini e
caramussali dai turchi; avevano fondo di chiglia, poppa quadra, fiancata curva e, pur se piccoli,
ben quattro alberi, di cui però il solo trinchetto con gabbia; erano pertanto molto leggere e veloci
(gr. σωβῆριδες νῆες), tanto da essere considerate i migliori velieri esistenti ancora nel
Cinquecento; il loro albero di prua aveva normalmente vela quadra, ma le altre vele di questi
vascelli erano tutte latine e pertanto navigavano con tutti i venti, essendo questo un tipo
d’attrezzatura velica che i francesi dicevano mâture en caravelle:
51

... Hanno queste caravelle [...] quattro alberi oltre la zevadera e nel primo di proda portano la vela
quadra con il suo trinchetto di gabbia, ma, negli altri tre, tre vele latine con le quali camminano
contro i venti, come fanno le tartane francesi in questo Mare (Mediterraneo), e sono 'sì snelle e
leggiere a voltare che pare che habbiano i remi. (B.Crescenzio. Cit. LT. V. p. 526.)

Avevano una sola coperta e non erano adatte a ricevere molto carico, avendo infatti una portata
che andava dalle 90 alle 140 botti o tonelli solamente – anche se poi nel secolo successivo furono
ingrandite stabilizzandosi sulle 200 tonnellate - ed erano insomma vascelli che allora, nel
Cinquecento, i portoghesi usavano sia per lunghi viaggi sia per azioni belliche di supporto che
richiedessero prontezza e velocità; nel secolo precedente, cioè sino allo stabile instaurarsi dei
grandi viaggi transoceanici per la cui sicurezza s’imporranno poi le grandi naus e i grandi galeoni,
le caravelle s’erano molto usate sia per i viaggi mercantili atlantici verso la Fiandra, le isole Azzorre
e le Canarie, a quei tempi chiamate Isole dei Beati, sia anche per costituirne in prevalenza le flotte
da guerra ispano-portoghesi, le quali entravano spesso anche nel Mediterraneo, tanto che il loro
nome venne dai popoli mediterranei presto impropriamente esteso a tutti i vascelli tondi atlantici;
pertanto, quando alla fine del secolo il ligure Cristoforo Colombo fu dotato, come si disse, di
quattro ‘caravelle’ per il viaggio che poi l'avrebbe portato alla grande scoperta, anche se
certamente non si trattò delle grandissime carracas che proprio in quel tempo i portoghesi
cominciavano a usare per il viaggio di circumnavigazione dell’Africa verso le Indie orientali, non
sembra che si sia trattato effettivamente solo di caravelle, a giudicare dal troppo numeroso
equipaggio che dai documenti coevi risulta avessero.
Assai usate in Italia erano le polacche, nome che non si rinviene prima del Cinquecento e che
corrispondeva a piccoli vascelli tondi di forma allungata, ma non stretta, i quali portavano tre alberi
o comunque tre velature distinte (gr. τριάρμενοῐ ὀλϰάδες) – ma dalla fine del Seicento spesso
anche il bompresso - e quattro vele, cioè due quadre (la maestra con il suo trinchetto di gabbia) e
due latine (trinchetto e mezzana); secondo l’Aubin, il quale comunque non sembrava intendersi di
navigazione mediterranea, le polacche potevano, in caso di necessità, essere spinte anche a remi
e, se effettivamente così, dovevano poterlo fare molto probabilmente come si faceva con le barche
spagnuole, di cui poi diremo; avevano anch’esse una sola coperta e portavano da 800 a mille
salme di carico; armate con un numero di cannoni ferrieri, ossia a palle di ferro, che andava da
quattro a sei e sempre con qualche petriero, erano montate da 25 a 30 uomini e, armate a guerra
e guarnite di fanteria, erano usate anche per la difesa costiera e talvolta per il corso (Nicolas
Aubin, Dictionaire de marine, Amsterdam, 1702).
I vascelli tondi a più coperte erano strutturalmente superiori a quelli che n’avevano invece una
sola, perché erano più forti nell'urtare vascelli nemici, sopportavano meglio le tormente, erano più
comodi per alloggiarvi e portare quidi più gente e infine potevano disporre anche di più artiglierie.
52

Generalmente l'albero di maestra d’un vascello tondo doveva esser lungo quanto lo era il vascello
stesso da ruota a ruota, ma questo all'altezza della seconda coperta; un quinto di meno di questa
lunghezza era il trinchetto e un quinto meno dell'albero di trinchetto era quello di mezzana
maggiore; le antenne o pennoni maggiori del maestro e del trinchetto erano spessi al centro circa il
doppio che all’estremità ed erano lunghi un quinto meno dei loro rispettivi alberi, mentre le antenne
delle mezzane, più sottili perché reggevano vele latine, erano lunghe quanto i loro rispettivi alberi,
così come anche lo era il pennone della zevedera o bompresso; quest'ultimo albero era lungo e
spesso quanto quello di trinchetto. I trinchetti delle gabbie dovevano, sempre generalmente,
essere lunghi la metà delle antenne o pennoni dei loro rispettivi alberi. Le regole però seguite in
questo campo variavano da paese a paese e per esempio quella più osservata in Olanda era che
l’albero di maestra doveva essere lungo due volte la somma di due misure del vascello e cioè della
larghezza e del puntale (fr. anche creux), ossia del vivo al centro, mentre gl’inglesi lo facevano
lungo tre volte i 4/5 della larghezza e inoltre volevano il trinchetto e il bompresso lunghi i 4/5 del
maestro e l’artimone la metà sempre del maestro. Una regola generale era però che più lungo era
un vascello, mentre proporzionalmente più lunghi dovevano essere i suoi pennoni, più corti
dovevano invece relativamente essere i suoi alberi; questo perché, navigandosi con vento in
poppa, alti alberi avrebbero fatto piombare sul naso un vascello lungo, ossia l’avrebbero fatto
ricadere bruscamente in avanti (fr. enfourner, tanquer ; ol. stamp-rijen, stamp-stooten, bokken,
induikken) e imbarcare eventualmente acqua dalla prua, mentre su uno più corto non avrebbero
avuto quest’effetto, descrivendo infatti una linea corta una minor sezione di circonferenza nell’aria;
tale inconveniente poteva però talvolta esser dovuto anche a un semplice eccesso di velatura a
prua o a una cattiva stiva. I turchi, non intendendosi di tecnologia e quindi di conseguenza anche
poco di navigazione, si vantavano d’usare alberi e antenne lunghissimi in modo da poter portare
una maggior velatura, ma questa lunghezza era invece un difetto perché faceva piegare sul fianco
i loro vascelli.
Divisa idealmente la lunghezza della seconda coperta, da ruota a ruota, in sette parti, l'albero di
maestra si doveva piantare a 4/7 da prua e quindi a 3/7 da poppa; esso, come del resto anche
quello di mezzana, si piantava un po’ inclinato all’indietro in modo da resistere meglio alla
pressione che il vento in poppa esercitava sulle sue vele, mentre quello di trinchetto si poteva
piantare o perfettamente diritto oppure anzi leggermente inclinato di 2 o 3 pollici verso prua, a
meno però che il corpo del vascello non fosse alquanto debole davanti, perché in quest’ultimo
caso conveniva inclinare un po’ all’indietro anche il trinchetto. Per quanto riguarda invece lo
spessore degli alberi, bisognava distinguere quelli d'un sol pezzo da quell’imbottati, ossia fatti di
più pezzi; i primi dovevano essere, per ogni 12 piedi della loro altezza, spessi un piede nel terzo
53

più basso, 2/3 di piede nel terzo di mezzo e ½ piede nel terzo più alto; i secondi, per ogni 11 e a
volte anche solo 10 piedi della loro altezza, dovevano essere spessi un piede nel terzo più basso,
4/5 di piede nel terzo di mezzo e 3/5 nel terzo più alto. In effetti l'albero di maestra, a causa della
sua altezza e del suo spessore, rarissimamente poteva esser ricavato da un solo albero e quindi
era per lo più affastellato, cioè fatto di due o tre fusti (fr. brisures), ma più tardi anche di quattro o
cinque, ognuno dei quali era chiamato ‘albero’ a sua volta ed era innestato a coda di rondine od à
queües perdües, come dicevano i francesi, in quello sottostante, sistema questo inventato verso il
1570 dal maestro carpentiero olandese Krein Wouterz d’Enkhuizen, perché in precedenza i fusti
erano sempre stati solo semplicemente legati l’uno sull’altro. Quando un grande veliero doveva
restare disarmato per molto tempo in un porto, gli ‘alberi’ superiori, cioè quelli di gabbia e di
parrocchetto, si toglievano e si conservavano in acqua salata a evitare che all’intemperie si
curvassero.
Un vascello tondo poteva avere da quattro a otto ancore per la maggior parte ancipiti (lt. ancorae
ancipites; gr. άγκυραι αμφίβολοι), cioè a due teste, di cui perlomeno una acuminata, e le relative
gomene [dal fr. go(u)ë(s)mon. Fr. cables; lt. rudentes; spirae (‘voltolate’); tlt. palamaria; gr. ϰάλοι,
ϰάλῳ, ϰάλωνες, σχοινία, ἐπίγυ(ι)α], incluse quelle di riserva, a seconda della sua portata e
grandezza. L’ usto (‘cavo’) da ancora (fr. maistre-cable, di circa 120 braccia) d’un vascello quadro
doveva essere in proporzione alla portata del vascello stesso. Prendiamo per esempio un usto che
pesasse all'incirca 21 cantàra; l'ancora (gr. ἂγϰυρα) maggiore doveva pesare 2/3 dell'usto, ossia ,
nel nostro caso, cantàra 14, e la minore la metà dell'usto (fr. grelin), cioè cantàra 10,5, essendo il
cantàro di Napoli 100 rotoli, il rotolo 33 once, la libra 12 once; pertanto un cantàro equivaleva a
3.300 once, ossia a 275 libre, e, poiché un’oncia di Napoli o di Francia era circa grammi 26, il
cantàro corrispondeva a circa kg. 85,800. Le altre ancore di bordo dovevano essere di peso
intermedio tra le predette due. Le gomene di poppa per ormeggiare i vascelli alle banchine
avevano in greco nomi che le distinguevano dalle altre e cioè πρυμνήσια, πρυμνήται ϰάλῳ,
ἀπόγαια o anche σπεῖραι se di fibre voltolate. Riassumiamo ora le unità di peso napoletane ora
menzionate:

Cantàro = 100 rotoli = kg. 85,800


Rotolo = 33 once = gr. 858
Oncia = gr. 26
Libra = 12 once = gr. 312

La parità libra/oncia ci servirà più avanti. Precisiamo che il cantàro era misura che si usava anche
in Portogallo, ma quello portoghese equivaleva solamente a 66 libre veneziane circa.
54

Per quanto riguarda costruzioni navali molto grandi per i loro tempi, le prime di cui abbiamo letto
nelle storie, sono quelle che si trovarono di fronte i bizantini quando, nel 1261, riconquistarono
Costantinopoli alle dinastie latine che se ne erano impadronite sin dal lontano 1204. Si trattava di
navi tanto grandi da navigare ‘come città trascinate sul mare’ (ὢσπερ πόλεις ἐπὶ θαλάττης
ϰινούμεναι. Niceforo Gregoras, Historiae byzantinae. LT. IV, par. 109); ma l’autore racconta che,
poiche le navi bizantine, anche se molto più piccole, erano di numero molto maggiore e inoltre,
proprio perché di mole tanto inferiore, anche molto più agili e veloci e quindi ne avevano facilmente
la meglio (Ib). Si presume che si trattasse di navi genovesi, perché in quei secoli le più grandi navi
che nel Mediterraneo si trovassero disponibili al noleggio, specie a quello francese, erano di solito
appunto quelle della repubblica di Genova.
Nella famosa cronaca della guerra di Chioggia di Daniello Chinazzo si legge che nel 1379 le galee
veneziane s’impadronirono della più grande nave che solcasse allora i mari e cioè della genovese
Bichignana, nave che aveva tre ponti, cosa comunque sì infrequente nei mari di Levante di quei
tempi ma non nel Tirreno, forse perché questo era più vicino e quindi più influenzato dalla
marineria oceanica, ed era, oltre che difesa da circa trecento uomini armati, talmente carica di
preziose mercanzie che i veneziani, prima di bruciarla, in quanto evidentemente irreparabilmente
danneggiata dal combattimento, ne caricarono ben tre loro navi di medie dimensioni, avendo
rinunziato a ricavarne solamente il piombo e altri costosi materiali di zavorra:

… sopra vi erano 300 combattitori ed era di 3 coperte, tutta incorata (‘incuoiata’) di fuori via, e
pareva a vedere un castello […] perché essa Bichignana fu il maggiore e il più bel naviglio che
fosse mai veduto in quelli mari (Daniello Chinazzo, Cronaca della guerra di Chioza etc. In LT.A.
Muratori, Rerum italicarum scriptores etc. C. 750-751, t. XV. Milano, 1727).

Per spiegare quel tutta incorata diremo che nell’antichità e nel Medioevo si era molto usato
ricoprire la parte emersa delle fiancate dei vascelli di cuoi freschi (lt. segestria; gr. δέῥῥεις,
διφθέραι, βύρσαι), i quali vi si inchiodavano con chiodi ovviamente più piccoli dei normali chiodi
navali, e ciò si faceva non solo perché si trattava di un materiale dalle naturali proprietà ignifughe e
quindi in grado di riparare abbastanza il fasciame esterno dai lanci di fuoco del nemico, ma anche
e soprattutto perché aiutava a difendere dagli abbordaggi, perché, per avvicinare e trattenere il
vascello nemico da abbordare aderente al vascello abbordante, s’usava lanciare da questo nel
fasciame delle fiancate di quello dardi legati con lunghe corde che vi si andavano ad infiggere e
quindi, loro tramite, si poteva tenere avvinti i due legni e così consentire le operazioni
d’abbordaggio; il cuoio fresco non permetteva questa profonda infissione e di conseguenza i
55

difensori potevano, usando delle pertiche, svellere facilmente quei dardi e liberarne così il proprio
vascello portandolo ad allontanarsi di nuovo.
Oltre il proteggere nella maniera predetta le fiancate dei vascelli, era anche consueto cercare di
difendere dalla teredine marina la loro parte immersa inchiodandovi sottili lamine di piombo, come
poi meglio spiegheremo; ma, per tornare ora al tempo qui in esame, si ha notizia d’una gran nave
armata francese di cui disponeva Francesco I; d’essa scriveva il residente veneto Marini Giustinian
in una sua relazione da Parigi del 1535:

... In Normandia (il re Francesco I) ha in porto di Grasse quella sua gran nave di gran portada, la
quale ha sopra sessanta pezzi di artiglieria, come dicono; de' quali trenta sono di metallo (‘bronzo’)
e sono doppi cannoni e colubrine... Ha ancora quattro galeoni. (E. Albéri. Cit. S. I, v. i, p. 186.)

C’è da chiarire che, mentre in italiano per metallo s’intendeva generalmente il bronzo, in spagnolo
invece il bronzo si chiamava comunemente bronce, mentre metal (con i suoi sinonimi latón e
azófar) significava ottone.
Anche se non raggiungeva le dimensioni dei detti smisurati galeoni e naus portoghesi, doveva ciò
nondimeno essere ben grande questa nave, chiamata in Francia le Caraquon, se doveva
sopportare il peso di tanti e dei più pesanti pezzi d'artiglieria, quali erano infatti, basilischi turchi a
parte, i doppi cannoni e le colubrine! Lo Jal scrive che essa aveva una portata di 800 botti o tonelli
ed era armata con 100 pezzi d’artiglieria tra grandi e piccoli e racconta che, mentre faceva parte
dell’armata che nel 1545 l’ammiraglio di Francia Claude d’Annebaut stava da due anni
raccogliendo intorno a Le Havre (de Grace) per invadere l’Inghilterra, impresa che risulterà
sfortunata, questa grossa nave, ammiraglia e vanto della marina francese del tempo, considerata
allora anche il miglior veliero di ponente, mentre era all’ancora e fortunatamente prima che il
predetto ammiraglio vi s’imbarcasse, prese fuoco e affondò tra le fiamme. C’era però prima di
questa stata un’altra grande carraca francese, una che nel 1501 il re Luigi XII incluse nell’armata
che mandò contro i turchi invadenti la Grecia, spedizione che, postasi all’assedio di Metelino o
Mitilene che dir si voglia, finì in un disastro, e di tale nave parla il cronachista Jean d’Auton, così
citato dallo Jal:

… la grande nave o carraca chiamata ‘la Charente’, una delle più adatte di tutto il mare alla
guerra… era armata di 1.200 uomini di guerra senza (contare) il vantaggio di duecento pezzi
d’artiglieria, dei quali quattordici a ruote che tiravano grosse pietre e palle serpentine (‘palle di
metallo’); (era) vettovagliata per nove mesi e aveva vele tanto abbondanti che in mare non c’erano
pirati o grassatori che le (potessero) prender vento davanti. A bordo c’era un gentiluomo di
Bretagna, capitano di quella, di nome messer Jean de Porcon, signore di Beaumont e
luogotenente del Re nel mare di Normandia. (A. Jalt. Cit.)
56

Il cognome del suddetto capitano non deve meravigliare il nostro lettore; esso ha, con tutta
probabilità e come tanti altri, un’origine araldica, nel senso che questo cavaliere poteva per
esempio portare nello stemma di famiglia la raffigurazione d’un cinghiale, animale in araldica
onorevole perché armato di zanne e combattivo; luogotenente generale (gr. ἐπιστολεύς; lt. legatus
e in seguito subpraefectus) di quell’armata era invece Philippe de Ravestain e capitano generale
(gra. e grb. στολάρχης; ἒπαρχος στόλου; lt. praefectus classis et orae maritimae) lo stesso re. Altra
nave, ancora più antica a giudicare dal nome con cui si ricordava nel Mediterraneo per le sue
forme smisurate, era la caraca di Rodi, vascello risalente al tempo in cui quell'isola era ancora
sede dei cavalieri di S. Giovanni di Gerusalemme, sede subentrata a Cipro nel lontano 1309 e
perduta il giorno di Natale del 1522 dopo cinque mesi d’assedio turco iniziato, e probabilmente
partecipante anche alla battaglia di Laiazza del 1510, dove dalla flotta dei predetti cavalieri fu
sonoramente sconfitta quella del sultano burgita d’Egitto, la quale riportava a Costantinopoli un
figlio di Bayazid II (1481-1512) che veniva pellegrino dalla Mecca e forse si trattava dello stesso
Selim I che nell’aprile 1512 subentrerà al padre defunto; secondo il d’Aquino (v. fonti) essere come
la gran caracca di Rodi diventò poi anche proverbio, per dirsi di persone molto corpulente e di
tardo moto. Anche il Sanudo ricorda nei suoi Diarii quest’enorme legno laddove arriva all’anno
1495, definendola però non caracca, bensì barza de botte 3.000 benissimo in ordene; barza
(sincope tachigrafica di barcaza, ‘grossa barca’) significava in veneziano semplicemente ‘nave’:
… Fo concluso tra tutti di partir le nave e le galie, videlicet parte di le barze con parte di le galie…
(M. Sanudo, Diarii. T. I, col. 280.)

Ma anche la nave d’Andrea Loredano (1455-1499) era particolarmente grossa, presentando infatti
una stazza di 2.000 botti:

… Andrea Loredan, capitano di le nave armade, a dì 2 ditto (marzo 1497), compite di dar danari a
tutti li homeni di la sua barza nuova per num.° 450, munitissima di artellarie di ogni sorta, boche
zerca 400, ‘maxime’ alcune bombarde grosse e certe passavolante novamente butate (‘gettate,
fuse’), fornita ‘etiam’ di vituarie in gran quantità ed era di botte 2.800 [om.] Ancora in questo giorno
l’altra nave di botte 1.800, patron Daniel Pasqualigo, comencioe ad armar e ponersi in hordine…
(ib. Col. 534.)
… A dì 18 april (1497), martadì matina, Andrea Loredan, capetanio di la barza granda armata,
essendo su ditta barza col nome di ‘Christo' montado a dì 9, la qual era benissimo in hordine con
homeni 450 suso e 400 boche e più diartellarie e bombarde grosse da bombardar ogni gran terra,
le qual trazeno piere dipeso di lire 150 l’una, e fornita di munizione e vituarie, bischoti (‘gallette’) in
gran quantità, la qual era al sorzidor (‘alla fonda’) e molti andava(no) a vederla per esser una di le
belle cosse che in questi tempi né zà molti anni (‘e da gran tempo’) sia stato sul mar, e li oratori di
al liga (‘gli ambasciatori della Lega’) fo’ (‘andarono’) a vederla e in questa matina, a dì 18, fe’ vella
per andar in Istria. E il zorno sequente lìaltra nave di comun (‘d’armamento pubblico’),
(‘essendone’) patron Daniel Pasqualigo, armata con homeni 300, ‘etiam’ si partì e fece vella. E
57

dicta barza capetania era di portà di botte 2.000 e si vedeva molto da lonzi velizar e pareva uno
castello sul mar… (ib. Col. 607.)

C’è qui da chiarire che quella del Loredano era dunque una nave non piccola, ma che comunque i
450 uomini a bordo e le 400 bocche da fuoco rappresentavano non certo una dotazione ordinaria,
bensì un trasporto di guerra. Gli esemplari più piccoli, detti barzotti o barzotte, potevano esser
anche di solo un centinaio di botti di portata. Sempre a proposito dello stesso anno 1495 il Sanudo
menziona pure una nave di botte 3.000 chiamata Jansilla, la quale si trovava allora in porto a
Genova in attesa di salpare per Barcellona, mentre per il precedente 1494 scrive d’altre due
enormi, cioè della Negrona, vascello d’addirittura 4.000 botti che i genovesi, allora alleati della
Francia, avevano allestito per la persona del duca d’Orléans, generale dell’armata franco-
genovese destinata ad appoggiare dal mare l’esercito invasore di Carlo VIII, e della Salvega,
anche questa grandissima e facente parte della predetta armata. Di una nave turca grande come
una città galleggiante, presente nell’armata di mare anti-veneziana preparata dalla Porta Ottomana
nel 1499, si legge in un antica cronologia (Cronache di Antonello Coniger, gentilhuomo leccese in
Raccolta di varie croniche, diarij ed altri opuscoli etc. T. V, p. 591. Napoli, 1782):

El Gran Turco fe’ una grandissima armata de’ vele, fra grandi e picciole 500, dove tra l’altre navi
era una nave di 4.000 botti che portava una cetà in mare, nella quale ‘nci era tutta piena de ‘
muneccione, le bombarde grandi 50, butti de polvere, diece butti pieni di aspri, una catena di ferro
che circondava tre millie; e di quella era capitano Jemalì e, de’ tutto el resto, el filio del Gran Turco
era capitano.

Altre navi smisurate costruite in seguito tra Cinquecento e Seicento furono le inglesi Great Jack e
Sovereign, questa dalla portata di 1637 tonelli e si diceva non potesse la sua sola chiglia essere
trainata da meno di 28 buoi e quattro cavalli; inoltre la danese Fortuna e la svedese
Impareggiabile, la quale portava ben 200 pezzi d’artiglieria; infine le francesi Cordeliere e
Couronne, quest’ultima lunga 200 piedi, larga 46, alta 75 e il cui solo albero di maestra, bastone
dello stendardo incluso, era formato da ben 216 parti. Ma questi enormi velieri correvano
paradossalmente pericoli molto maggiori degli altri, perché in essi finivano per ingigantirsi anche
gl’inevitabili errori di costruzione, come affermava il Savérien:

… Per quanti vantaggi essi portino, l’architettura navale è ancora troppo imperfetta per esporsi ai
pericoli d’una cattiva costruzione, la quale è inevitabile, come si è potuto sperimentare nell’uso che
si è fatto di tali (smisurati) vascelli… (Alexandre de Savérien, Dictionnaire historique et pratique de
Marine, Parigi, 1758.)
58

Eppure il Savérien scriveva ormai nel tecnicamente evoluto Settecento; ecco perché ai suoi tempi,
a differenza d’inglesi, olandesi e altri, i francesi avevano ormai rinunziato a queste costruzioni
molto grosse e avevano invece introdotto la razionale e ordinata classificazione a ranghi, a
seconda della loro stazza, del numero dei loro ponti e delle bocche da fuoco portate, chiamando
vascelli di linea, ossia di corpo d’armata, quelli non inferiori al quinto rango e stabilendo le loro
caratteristiche e dimensioni con due ordinanze reali, una del 1670 e l’altra del 1688; tale nuova
suddivisione verrà, come quasi tutto ciò che di militare veniva dalla Francia, presto adottato anche
da altre importanti potenze marittime, ma questa è altra storia.
Chi avesse ideato e costruito i primi galeoni grossi marini rinascimentali, adattissimi anche alla
navigazione oceanica, non si sa; i primi di cui ci è stato dato di leggere sono appunto i predetti
quattro del re di Francia nel 1535; inoltre, nel 1551, il residente veneto Daniel Barbaro,
descrivendo le forze di mare britanniche in una sua relazione da Londra, tra l'altro così scriveva:

... Ci sono anco da settanta navigli che essi chiamano galeoni, non molto alti, ma lungi e grossi,
con li quali hanno fatto nelle guerre passate tutte le fazioni (E. Albéri. Cit. S. I, v. II, p. 253)

Non intendeva però il Barbaro dire con queste parole che i galeoni fossero originalmente vascelli
usati soprattutto dagl’inglesi, ma sicuramente invece che, riferendosi ai bertoni di cui abbiamo già
detto, gl’inglesi li chiamavano galleons, in quanto quello di bertoni era ovviamente nome dato loro
dagli stranieri e non dagli stessi inglesi; in realtà il nome era solo parzialmente improprio perché in
effetti i bertoni ricordavano parecchio i galeoni, però con la differenza che questi, come sappiamo,
non avevano il castello di prua, quelli invece non avevano nemmeno quello di poppa. Gli ultimi ad
adottare i galeoni furono i turchi e ciò avvenne tra il 1575 e il 1590, come si evince dalla relazione
del bailo veneziano Matteo Zanne del 1594, e ciò accadde evidentemente in quel contesto
generale imitativo della marineria cristiana che s’instaurò a Costantinopoli come complesso
d'inferiorità dopo il grande e irreversibile trauma causato dalla rovinosa resa dei conti subita dai
turchi a Lepanto (gr. Ναυραϰτος; tr. Inebahti); perché si dica quello che si voglia e si minimizzi pure
Lepanto quanto si creda, ma quella battaglia fu uno di quegli avvenimenti che più cambiarono il
corso degli eventi in questo mondo..
Ma quale doveva essere dunque il garbo d’un buon vascello tondo, ossia a prevalenti vele quadre,
perché avesse buone qualità nautiche? Se il vascello si faceva, come si diceva allora, ben
quartierato, cioè di corpo più grosso alla prua e rimpicciolentesi gradatamente all'indietro fino alla
poppa, e lo si faceva di gran fondo, ossia di pescaggio profondo, e non molto lungo, allora avrebbe
navigato meglio con forte vento in poppa e avrebbe resistito meglio alle burrasche, risultando, per
questa sua forma, forte e reggente, né avrebbe temuto tanto il mare di fianco; però con il bel
59

tempo (fr. temps à perroquet) un simile vascello non avrebbe fatto molta strada né sarebbe
risultato molto agile né si sarebbe potuto girare facilmente a causa del suo profondo pescaggio e
della sua gran larghezza.
Se invece il vascello tondo si faceva, come anche si diceva allora, pianello, ossia con poco
pescaggio, alquanto lungo e con poco quartiero, cioè con poco corpo alla prua, allora anche con i
venti leggeri o in bonaccia risultava essere molto veloce, agile col vento dell'oste, vale a dire col
vento del quarto posteriore, e poteva ben orzare (fr. aller au lof), cioè mantenere la prora contro il
vento. In una parola un tal tipo di vascello tondo era molto più flessibile e volubile del precedente,
ma nelle borasche, ossia nei forti venti dal nord – aquilone, tramontana, borea (vn. forean, furian,
detto dai marinai bizantini Ταναίτης, da ‘Tanai’, cioè il fiume Don), e con i venti impetuosi in
generale questo secondo tipo di vascello tondo risultava pericoloso, soprattutto perché geloso o
caminoso (vn. vergolo; fr. rouler) – termini questi tutti levantini, ossia mediterranei, cioè facile a
piegarsi ora da un lato e ora dall'altro durante la navigazione, specie se a vela, e quindi correva il
rischio di traboccare, vale a dire di capovolgersi (ts. ingavonarsi); infatti, essendo di quella forma
allungata e con poco quartiero, non poteva reggersi bene sotto la spinta delle vele e di
conseguenza era facile a scoprire i fianchi ora da una parte e ora dall'altra. I marinai pratici
dicevano che un vascello che non reggeva non poteva mai navigare bene alla vela con i venti
freschi, ossia gagliardi. Un vascello geloso, ossia uno che non si riusciva a metter bene in stiva
perché difettoso di costruzione nello scafo o nell’alberatura, si poteva riconoscere facilmente
anche quando stava alla fonda, perché molto probabilmente sarebbe stato in giolito (gr. ἐν σάλῳ,
quindi σᾰλεύειν; lt. in salo; fr. en jolly, en travail, en tourment, in cargue, à la bande), cioè, pur
stando all'ancora, avrebbe troppo rollato e si sarebbe quindi pressocché coricato ora da un fianco
e ora dall'altro per effetto delle traversie portuali; ma questo termine giolito non significava solo
qualcosa di negativo, perché infatti stare o trattenersi in giolito significava più comunemente
starsene all’ancora in rada (gr. ἀποσᾰλεύειν) invece d’andare a ormeggiarsi (gr. ἐνορμίζεσθαι) a
terra e far dimora in giolito significava scegliere di dormire a bordo invece di andarlo a fare con
maggior comodità a terra.
Solo dalla metà del Seicento troveremo nel Mediterraneo chiamare anche pinco il flauto [fr. flûte,
pinque, pinke; ol. fluijt(-schip; npm. panzonum), pink, ing. pink], vascello quadro oceanico dal porto
di due o tre centinaia di botti o tonelli – ma potrà arrivare anche alle cinque; era molto piatto di
fondo, tanto tondo di poppa quanto di prua, ma con la poppa lunga e alta, tanto panciuto da esser
largo al ponte a fior d'acqua [fr. franc-tillac, premier pont; ol. onderste dek] il doppio che alla
coperta, per cui questa sua fiancata a scarpa risulterà di difficile arrembaggio, capace di circa otto
pezzi d’artiglieria, maggiori, se velicamente armato in corso o minori (p. es. falconetti), se armato
60

invece con attrezzatura velica a quattro alberi uguale a quella degli altri vascelli quadri, ma più
stretta, che gli permetterà pertanto di perdere poco il vento e d’essere quindi buon navigatore (gr.
πλώïμος), anche se non quanto i vascelli a poppa quadra; nemmeno troviamo ancora nominati nel
Mediterraneo del Cinquecento l'adriatico trabac(c)olo, il mercantile turco samkin, ancora i turchi
londro (ma anche lontro o londra), garbo e sultana, quest’ultima il galeone turco, la greco-ottomana
saic(c)á, vascello questo dall’alberatura sostanzialmente uguale a quella del caramussale turco,
ma più pesante di scafo per contrappesare la smisurata altezza dell’albero, il quale però sovente si
smonterà; né infine il fregatone, grosso cargo veneziano a poppa quadra, comune nell’Adriatico,
attrezzato con mezzana, maestro e bompresso, ma privo di trinchetto, capace, se molto grande, di
caricare da otto a 10mila quintali, essendo però allora, come sappiamo, un quintale solo 100 libre
e non 100 chili come oggi. Il non averli noi trovati nominati non significa però ovviamente che non
incominciassero già a vedersi nel Cinquecento, cosa al contrario molto probabile. Tralasceremo
inoltre di descrivere parecchi tipi di vascelli tondi che erano tipici delle coste atlantiche dell’Europa
e che nel Mediterraneo difficilmente potevano a quei tempi comparire, tra questi i fiammingo-
olandesi (beitel-)aak, boot, boïer o boyer, galjoot, (haring-)buis, kaag o kaeg, kat(-schip), (beitel-
)aak o a(c)que, lo scandinavo kraay (fr. craie), la barca normanda gribane, costruita à sol(l)e, cioè
a fondo piatto privo di chiglia, le francesi chatte e traversier, quella portoghese mulete, la tialk, la
semaque, imbarcazioni quest’ultime dall’alberatura caratteristica, la heu (ol. hui; in. hulk; td. hulek),
vascello piatto di fondo, molto usato da olandesi, fiamminghi e inglesi, ecc. Diremo solo qualcosa
della beland(r)a di Fiandra, questa piccola imbarcazione da carico, molto piatta di fondo e molto
comune su quelle coste settentrionali, la cui stazza partiva dalle 30 botti o tonelli, ma arrivando,
per lo meno poi nel Settecento, alle 80; essa, come i summenzionati boïers, yachts, heus e le
semaques, ossia come tutte le imbarcazioni nordiche dal fondo piatto o semipiatto, ma ciò
nonostante destinate a navigare egualmente in mare, era caratterizzata dall’esser provvista di
derive [fr. dérives, semelles (de basbord); ol. swaarden], cioè da un assemblaggio mobile
semiovale fatto di tre tavole di legno posto a ogni fianco del vascello e che si facevano calare in
acqua alternativamente quando si voleva navigare alla bolina ed evitarne così appunto la
conseguente deriva o falsa rotta (fr. anche abbattement); si distingueva inoltre dall’avere la coperta
più alta del bastingaggio di circa un mezzo piede, per cui tra coperta e pavesata c’era uno spazio a
corridoio di circa un piede e mezzo che correva per tutta la lunghezza del fianco; questo veliero,
omologo oceanico del leuto (dal lt. laudus, per il tramite di lautus; ctm. laúd) mediterraneo pur nella
grande diversità di velatura, era anche usato sulle coste francesi della Manica col nome di
quaiche, chaie, ma nulla aveva a che fare con la palandaria passacavalli ottomana, a cui abbiamo
più sopra accennato, e neppure con la predetta esiziale pal(l)andra o galeotta da bombe che
61

nascerà nell'ultimo quarto del Seicento. Molto più piccola era poi, sempre nell'oceano, la flette
(prob. dall'iberico flete, noleggio), trattandosi di un battello (dall’ol. boot, attraverso lo sp. batél)
coperto usato per brevi passaggi o per trasporti di piccole quantità di merci.
I grandi vascelli da guerra avevano di solito sul fondo di cala uno spazio detto in fr. rum od r(e)un
e in ol. ruime, nel quale si conservava quella mercanzia che per lo più anch’essi sempre
portavano, uso dal quale sono venuti il verbo francese arrumer, arr(e)uner, arrimer, col significato
di sistemare la mercanzia nel rum, e la locuzione inglese to have room, nel senso comune di
‘avere spazio’; probabilmente anche l’omonimo e ben noto liquore marittimo prese il suo nome da
questo spazio di carico. Tra la prima e la seconda coperta si tenevano principalmente le artiglierie,
di cui anche i vascelli mercantili (fr. bâtimentes) erano necessariamente dotati, e i cavalli.
A proposito di ponti, abbiano appena detto come gli olandesi chiamavano il primo, cioè quello più
basso; diremo ora che davano invece al secondo, se presente, i nomi di (schut-)overloop,
(o)verdek o tweedw dek e alla coperta quello di bovenste o boevenet; essi preferivano i vascelli a
due ponti, anche se alquanto elevati sull’acqua e alti al loro interno per facilitare il maneggio
dell’artiglieria, perché quelli a tre, anche se più consoni alla guerra in quanto molto più difficilmente
arrembabili, trattenevano al loro interno troppo il fumo degli spari e inoltre sul ponte di coperta non
si potevano mettere molti cannoni come nei due inferiori, perché il loro gran peso a quell’altezza
avrebbe messo in pericolo la stabilità del vascello; si preferiva dunque disporre sulla coperta dei
trepponti archibugeria e moschetteria.
A volte si ovviava al problema della ritenzione del fumo o rinunziando all’intera coperta tra i due
castelli [fr. pont coup(p)è] o dotando il vascello solo d’una coperta parziale o mezza coperta (fr.
suzain; susain), cioè privandola di quella parte anteriore che andava dall’albero di maestra al
castello di prua, parte che all’occorrenza si sostituiva o con una copertura di carabottino [corr. del
fr. caillebo(t)t-e/is, ‘gabbia per le quaglie’; quarreaux, treillis] o con una di corda intrecciata [fr.
(Saint-)Aubinet, pont de corde], sostenuto questo da pezzi d’albero posti di traverso sui parapetti
anteriori; questi ponti à jour si portavano nella stiva in pezzi precostruiti da assemblare (fr. en
fagot) erano, come del resto anche le boccaporte e le altre eventuali aperture, protetti dalla pioggia
e dai colpi di mare coprendoli con tele catramate (fr. prelarts), ma bisognava togliere (fr. ferler) il
predetto ponte di corda in occasione di colpi di vento, perché in tal casi avrebbe impedito la
manovra. C’erano poi anche ponti interi di corda intrecciata che si stendevano sopra la coperta di
mercantili monoponte e risultavano molto utili per difendersi da un arrembaggio, in quanto
standovi sotto si potevano attraversare con spade, mezze-picche e spari così colpendo il nemico
che vi fosse saltato sopra.
62

Terminata la descrizione dei vascelli tondi o quadri, detti anche genericamente navi, cioè di quelli a
prevalente velatura quadrangolare, passeremo ora a quelli latini, detti originariamente - e anch’essi
genericamente - barche specie se piccoli, ossia a quelli a sola velatura triangolare e molto
orientabile, vascelli quindi non superanti generalmente le 900 botti di portata e che nel Medioevo
erano stati anche più piccoli (parvis navigiis quae barchae dicuntur in G. & G. Stella, Annales
genuenses etc. Cit. Anno 1332, col. 1.066); ma, poiché in effetti anche i vascelli remieri
viaggiavano in alto mare come quelli latini e cioè principalmente a vela latina, questo nome di
barche si troverà facilmente usato anche per taluni di questi ultimi e quindi vedremo barche
lunghe, barche spagnuole, barche armate:

(1345:) … acompanyades d’una barca armada […] Era una barca de dotze rems…
(c. 1390:)… barca armada de XXIIII rems…
(1399:)…tres barche Turchorum armate in culpho Patraxii […] de remis XX vel circa pro qualibet

Tutte queste appartenendo alla categoria dei vascelli lunghi (gr. νῆες μαϰραὶ, μακρά πλοῖα), vale a
dire dei remieri da guerra. A proposito dell’ultima di queste tre citazioni aggiungeremo che il senato
di Venezia accolse una richiesta d’aiuto del governatore di Corfù Marino Charavello e, con decreto
del 27 novembre di quel 1399, deliberò di inviargli un nuovo legno da guerra:

… ut dignemur sibi mittere unum lignum, mensure lignorum Istrie, vadit pars quod mitti debeat
Corphoy unum lignum novum mensure Istrie ad navarescham (H. Noiret, cit. Pp. 103-104).

Del timone alla navaresca abbiamo già detto, mentre non sapremmo dire quali fossero le
dimensioni dei legni qui definiti ‘della misura d’Istria’. Nel Settecento per barca s’intenderà invece
unicamente un veliero con coperta e tre alberi (gr. τριάρμενος ὀλϰάς). Dell'etimologia della
locuzione vela latina [fr. anche tri(n)quette, voile à oreille de liévre ou à tiers-point; ol. drie-hoekig
zeilen, drie-kantig zeilen] già si discuteva in Italia nello stesso Cinquecento, mentre sarà in Francia
chiara più a lungo, cioè ancora nel Seicento; veniva cioè da ‘navigare alla maniera latina’ in
opposizione a ‘navigare alla maniera franca (fr. franque)’. Insomma, essendo nel Medioevo i
franchi un popolo considerato non latino bensì germanico, un popolo quindi soprattutto di ponente
(provenzali, linguadochesi, rossiglionesi e catalani esclusi ovviamente), vale a dire ‘oceanico’, il
loro modo più consueto di navigare era ritenuto ovviamente quello alla vela quadra, mentre i popoli
latini, essendo soprattutto mediterranei, potevano permettersi di navigare principalmente alla vela
di taglio, detta dal loro nome quindi anche ‘vela latina’; questa distinzione delle due denominazioni
si può trovare espressa per esempio in una lettera scritta il 26 novembre 1619 dal principe di
Piombino Carlo Bindi al sig. Gian Piero Dalviani e dalla quale venne poi tratta una relazione in
63

francese pubblicata a Lione l’anno successivo; in essa si descrivevano le feste che in quell’anno si
erano tenute a Costantinopoli in occasione della circoncisione del figlio di Ahmed I, giovinetto di 12
o 13 anni d’età, il quale sarà poi a sua volta sultano nel 1623 col nome di Amurat IV (Les
cérémonies, magnificence, triomphe et choses estranges et admirable faicte durant 40 jours dans
la grande et superbe ville de Constantinople etc. Chambery, 1620. B.N.P.) Questa distinzione tra
‘navigare alla franca’ e ‘navigare alla latina’ dimostra ulteriormente che l’introduzione della vela
latina fu più tarda dell’antichità, altrimenti sarebbe stata certamente diversamente espressa, per
esempio ‘navigare alla greca’ (cioè a prevalente vela quadra) e ‘navigare alla latina’. L’ipotesi
dunque che il detto ‘alla latina’ possa etimologicamente derivare da ‘alla trina’, nel senso di
navigare con vele triangolari, si rivela dunque solo un esempio di come talvolta si cerchi di
sopperire con la fantasia alla mancanza di studio.
Per quanto riguarda il nome generico di barche dato ai vascelli latini, esso non è dunque da
confondersi con i medievali bargae e bargiae (ing. barge; vn. barza), vascelli latini più grandi, vere
e proprie navi, e nome che si conserverà nella marineria veneziana con il termine di barzotto
ancora nell’Evo Moderno. I vascelli latini navigavano ovviamente molto meglio dei quadri sia con
vento dell'oste, ossia con vento latero-posteriore, come abbiamo già detto, sia all'orza, e ciò anche
se la vela latina era di più difficile maneggio di quella quadra perché non si poteva orientare da una
parte all'altra senza doversi spostare anche la relativa antenna (gr. ϰεραία). Portavano da una a tre
vele al massimo (una per albero), a seconda della loro grandezza, e, a paragone dei quadri, erano
di forma lunga e sottile. I più grandi di questi erano le saettie (tlt. sagittiae, sagitteae, sagictiae,
sagyptiae, saiteae, sagictivae; lem/ctm. sageties; cst. saetinas), vascelli latini a tre vele e cioè
maestra, trinchetto e mezana, il cui nome ricorre già nelle cronache dalla prima metà del
Duecento, specie perché, per la loro velocità e maneggevolezza, erano nel Medioevo molto usati
da corsari (blt. cursores; gr. πειραταῖ) e pirati (blt. piratae; gra. λῃστριϰοὶ, πειραταῖ, περιδήλιοι; grb.
περάται, πορθμεῖς); infatti nel Medioevo erano state vascelli sottili (grb. λεπτὰ πλοῖα), cioè erano
state condotte anche a remi (p.e. sageties de setze rems. D’Esclot, Chronica, all’anno 1282; barca
armada de 24 rems, Muntaner (Cit.), all’anno 1308; sagyptiam cum XXII remis, Chroncon estense,
all’anno 1348), il che significa che erano di bordo molto basso. I pisani si servivano molto di tale
trasformazione (XI sagittias ad modum galearum velociter ordinaverunt… XIIII sagittias ad
similitudinen galearum praeparaverunt… Cronaca pisana del Marangone all’anno 1163. In A.S.I.
Tomo VI, parte II, p. 30. Firenze, 1845); ma ora quelle che ancora potevano andare anche a voga
non si chiamavano più saettìe bensì barche spagnuole; queste erano vascelli stretti e ottimi velieri
e tra le molte peculiarità che presentavano avevano appunto quella di poter esser spinte
64

normalmente anche a remi. In sostanza qualsiasi piccolo veliero che non superasse all’incirca le
300 botti di portata poteva essere corredato anche di remi:

.. Dise ancora ce, sopra Bichieri, ditta nave soa era stà presa dal, galion de Batin Cerisola, corsaro
zenoese, di botte 300, di remi 28 per banda che vogava, el qual era in conserva con 2 altra
barzete di corsari… (M. Sanudo, Diarii. Anno 1496. T. I, col. 270.)

Vediamo che già nel Duecento le saettie, specie se più grandi, erano non infrequentemente usate
anche per commerci veloci di merci meno voluminose ma magari più costose e questo fu il caso
delle due sa(e)gitiae genovesi che furono prese nel 1273 da corsari provenzali e nizzardi, ma che,
poiché portavano a bordo beni e persone non solo di mercanti genovesi, nazionalità considerata
ostile dagli angioini, ma anche di commercianti milanesi e toscani, i quali fecero sì che le loro
signorie chiedessero al re Carlo I un suo autorevole intervento perché facesse loro ottenere un
pieno risarcimento (G. Del Giudice, Diplomi inediti di re Carlo I° d’Angiò riguardanti cose marittime
etc. Pp. 15-16. Napoli, 1871). Vi saranno infatti più tardi, cioè nel Rinascimento, alcune saettìe,
per lo più francesi e appunto genovesi, con vele anche quadre, come per esempio quelle
marsigliane, che arrivavano anche alle 100 botti di portata, essendo allora, come abbiamo già
detto, il tonello o botte una misura di capacità oceanica francese costituita da 20 quintali o barili;
quest’ultima misura poi – conformemente a una commistione tra capacità e peso tipica del tempo –
si trasforma appunto in misura di peso e va a comprendere 100 libre:

Tonello o botte di Bordeaux [fr. tonneau; ol. ton(ne), vat] = (equivalente a) 4 quattro barili di
Bordeaux o due pipe o 20 quintali o 2.000 libbre od 840 pinte di Parigi.
Barile di Bordeaux [fr. bar(r)ique; ol. oxhoofdt; it. anche botticella] = 500 pesi [fr. pesants; ing.
pound; it. libre] ossia cinque quintali, ossia 210 pinte di Parigi o 360 d’Olanda.
Pipa di Bordeaux ( più tardi detta millier) = 2 barili di Bordeaux, ossia 10 quintali.
Quintale (ol. centenaer; ct. quintalades) = 100 libre.
Giara (fr. jar) = 40 pinte d’olio.
Damigiana (fr. Dame Janne; ol. vul-geldt) = 1/12 di botticella.
Libra (fr. pesant, poids de marc) = 16 once.
Bottiglia (fr. setier o chopine) = ½ pinta.
Mezza bottiglia (fr. demi-setier; ol. mutsje).
Quarto di bottiglia (ol. halfje, halve-mutsje).
Ottavo di bottiglia (ol. pimpeltje).
Moggio (fr. muid) = 6,666 quintali.

Il tonello di Bordeaux era usato da sempre anche a La Rochelle e si era poi esteso a tutta la costa
atlantica della Francia, mentre nei mari del nord s’usava il last(e) o lest (misura e termine
prettamente olandesi), il quale equivaleva a due tonelli di Bordeaux presso fiamminghi e inglesi (fr.
last de tonneaux) e due tonelli e mezzo presso gli olandesi (fr. last pesant); fino a Quattrocento
65

inoltrato i capitolati di diritto marittimo della Lega Anseatica, cioè la lega tra le città che davano sul
mare (an der See) consideravano un vascello mercantile piccolo quando non superava le 24 lastes
di portata (J. M. Pardessus, Collection de lois maritimes antérieures au XVIIIe siècle. Vollt. II e III.
Parigi, 1828-1834) .
La suindicata equivalenza in pinte del tonello era stata prescritta in Francia da un regolamento di
Luigi XIII, mentre in precedenza vigeva quello d’Enrico IV che voleva invece la botte di 300 pinte.
Bisogna però puntualizzare che la libra, come tante altre misure europee del tempo, poteva variare
a seconda del paese e della mercanzia a cui ci si riferiva, essendo infatti talvolta usata pari non a
16 once, come a quella antica francese suddetta, bensì a 12 o a 15. A Venezia c’erano in uso due
libre, quella detta di peso grosso e quella detta di peso sottile, equivalendo per esempio la prima a
libre di Livorno 1,35 e la seconda a 0,88. Altrettanto variabile era il suddetto last(e), per esempio in
Svezia e in Russia un grande lest o grande leth si divideva in 12 barili o botticelle strette e il piccolo
lest sei barili, mentre anche del tutto differente era il leth quale unità di peso delle aringhe; ancora
nell’Ottocento in Svezia s’userà un last per la birra divisibile in 12 barili e uno per il sale francese in
18 (ib.)
A proposito della suddetta etimologia dell’aggetivo ‘anseatico’, dobbiamo dire che il farla invece
derivare, come si fa di solito, dalla parola alto-tedesca Hanse o Hanse, ‘associazione tra mercanti’,
è erroneo, perché fu questo vocabolo a derivare appunto da quella per similitudine e non
viceversa; infatti la Lega Anseatica fu un trattato importante e secolare perché nato tra istituzioni
cittadine e non tra semplici effimeri individui.
Le scafe erano, come le saettie a tre vele, vascelli latini destinati alla navigazione costiera e con i
quali non bisognava mai ingolfarsi, cioè spingersi al largo [gr. μετεωρεῑσθαι, μετεωρίζεσθαι; fr.
s’élever, si alarguer, tirer à la mer, porter ou mettre le cap à la mer, cour(r)ir ou se mettre au
larg(u)e (de la terre), prendre le larg(u)e (de la mer); ol. de ruime zee kiesen], perché erano
lunghissimi e poco sicuri. Tre vele portavano anche le veloci tartane, barche queste originarie di
Marsiglia e pertanto dette a Genova marsigliane, non avendo però nulla a che fare con le
veneziane marsiliane, le quali avevano invece solo due alberi, cioè quelli di maestra e di trinchetto;
a volte usavano anche più di tre vele, ma allora si trattava di vele piccole (gr. δόλωνες) e sistemate
in modo da navigare benissimo con ogni vento e quasi con ogni tempo; esse però, a differenza
dell’altre barche grandi, usavano anche una vela quadra di fortuna, ossia di burrasca, detta in
italiano trevo come quella delle galere; in caso di necessità esse potevano, come le polacche,
andare a remi, anche in questo caso probabilmente come le già menzionate barche spagnuole.
Ancora come le polacche, queste tartane, molto usate nell’Italia meridionale anche per formarne
convogli granari, erano talvolta armate a guerra con un minimo di quattro pezzi grossi e una
66

quarantina di combattenti, numeri questi che però potevano infatti anche essere alquanto superiori
a seconda della loro grandezza. Si trattava di vascelli latini ponentini ed erano usate, oltre che per
il corso, anche per la difesa costiera e come vascelli ippagogoi (gr. ἰππἂγωγοί; lt. hippagines o
hippagògoe); il nome tartane dervava chiaramente da quello delle taride, probabilmente attraverso
la variazione taritane. La versione atlantica della tartana mediterranea era la pinassa (tlt.
spinachium; itm. spinazza, cst. pinaça; fr. espinace; ol. spiegel-schip), piccolo tre-alberi stretto,
lungo e leggero a poppa quadra, a vela, ma in caso di necessità spingibile anche a remi, molto
usato in Biscaglia, Bretagna, Normandia e Olanda perché molto adatto al corso, all’avanscoperte e
agli sbarchi di milizie e più tardi, per merito della sua grande versatilità e nelle sue versioni
maggiori, sarà usato dai francesi e dagl’inglesi anche nelle rotte transoceaniche per i loro
approvvigionamenti e commerci con le Americhe. Il nome si legge per la prima volta nei Diaria
neapolitana di anonimo all’anno 1388:

Alli 13 (di settembre) vennero ad 8 hore de notte (oggi le 5 di mattina) cinque galere, tre bregantini
e tre galeotte; e venne una nave spinazza ed una destera (sic) imbarbuttata e due parascarmi de li
nemici per soccorrere il castiello, dove fo una fiera battaglia… (In LT. A. Muratori, Rerum italicarum
scriptores etc. C. 1.058, t. 21. Milano, 1732.)

Le destere, tipo di imbarcazioni remiere poco più avanti dette destrieri, non erano altro che quelle
dette in latino uscieri e a Venezia marani, cioè le porta-salmerie, usate per trasportare, oltre ai
cavalli, tutte le provvisioni necessarie a una spedizione militare marittima; imbarbuttata è invece
sinonimo del già incontrato e spiegato incorata, in quanto i cuoi pendenti lungo i fianchi
ricordavano, come del resto anche i camagli delle barbute, appunto una barba. L’armata
castigliana che il 22 giugno 1481, sotto il comando del capitano generale Francisco Enriquez,
salpò per recarsi al soccorso di Otranto, assalita dai turchi, si componeva di 24 navi e di 11
pinacce (Zurita, Anales. T. 2-2, lt. XX, c. XLI). Non più di due sole vele portavano i leuti o liuti e le
barche e barcacce propriamente dette, vale a dire la maestra e il trinchetto.
Il petacc(hi)(i)o [it. anche pataca, petaggio, pattaggia fr. patac(c))he, postillon; ol. petas(zen),
vitlegger, post-vaartuig], essendo un vascello latino fatto principalmente per attività belliche,
necessita di qualche parola di più. Esso era un ‘legno’ (gr. ξύλον, anche appunto nel senso di
‘vascello’) medio-piccolo che poteva raggiungere anche le mille salme, ossia le 250 botti, montato
da una dozzina d’uomini e destinato al servizio d’armata dei grandi navigli, alla sorveglianza
armata delle coste e delle piazze marittime, alla ‘scoperta’ del nemico e al portar avvisi; era anche
destinato al servizio di conserva (dai lt. cum e servio, ‘servo insieme con’) dei grandi vascelli e c’è
qui da spiegare che si dava il nome di conserva [fr. (vaisseau-)matelot, (vaisseau-)second] a un
qualsiasi vascello che viaggiasse con un altro, ma in seguito prese a significare generalmente un
67

qualsiasi vascello da guerra che viaggiasse con mercantili allo scopo di proteggerli [fr. conserve,
convoi; ol. geley(-schip); convoy] era infine un tipo di vascelletto normalmente anche molto adibito
alla guardia doganale costiera e a uscire dal porto (gr. ὂρμος; ναύλοχος, λῐμέν) per andare a
fermare e riconoscere qualsiasi vascello che volesse entrarvi, eventualmente ispezionandolo, per
vedere se aveva effettivamente titolo per farlo o se doveva invece esserne interdetto; cioè gli
andava a chiedere se avesse passaporto per entrare, da dove venisse – ciò per decidere se il suo
equipaggio dovesse essere eventualmente sottoposto a quarantena o purga - e dove fosse poi
diretto; rispondere a queste domande si diceva in francese raisonner ou haler à la patacche ou à la
chaloupe. Nel giugno del 1624, per essersi trascurato uno dei predetti dovuti controlli sanitari, si
attaccò a Trapani e Palermo una grave pestilenza portata da un galeone sul quale erano arrivati
dalla Barbaria gli schiavi cristiani trabaldati (‘riscattati’); vi perì moltissima gente, tant’è vero che
anche grandi personaggi ne morirono e tra questi il 31 luglio il segretario del vicerè Antonio
Navarra, poi l’auditore generale Juan Fajardo e infine se ne ammalò lo stesso vicerè Emanuele
Filiberto di Savoia (1622-1624) e passò anch’egli a miglior vita il 3 agosto seguente; per ordine del
re Filippo IV il suo corpo imbalsamato sarà poi con gran pompa trasferito a Barcellona a mezzo
della galera Reale o Capitana Generale (gr. ναυαρχίς, στρατηγίς ναῦς) del marchese di S. Croce,
la quale sarà scortata in quel viaggio da sette di Sicilia e quattro di Malta, e infine sarà seppellito a
S. Lorenzo del Escurial accanto alla tomba di suo fratello il principe Filippo e non lontano da quelle
dei reali di Spagna. A proposito dei petacchi, c’è da citare un interessante ordine di commissione
livornese del 29 luglio 1606 inviato a un fiduciario d’Amsterdam e riportato dal Guarnieri, in cui si
parla appunto dell’acquisto d’un petaccio da usare per scorta a un mercantile da inviarsi in
Cambaia (regione costiera dell’India occidentale) e d’una lancia – termine questo allora del tutto
inusuale nel Mediterraneo, ambedue ordinati ai cantieri d’Amsterdam e che si attendevano a
Livorno, la lancia in pezzi da assemblare e il petacchio carico di grano per non farlo viaggiar
inutilmente vuoto:

… E la lancia ha da essere in pezzi nella nave, come si è scritto, ed il petaccio ha da essere


proprio per il viaggio dell’Indie Orientali e si ha da caricare di grano al suo venire in qua…Il
petaccio chiestovi lo manderete ben fornito di tutte le sue appartenenze per il viaggio d’Indie,
perché ha da far compagnia alla nave suddetta… (Gino Guarnieri, Livorno Medicea nel quadro
delle sue attrezzature portuali e della funzione economico-marittima, Livorno, 1970.)

Col passar del tempo sembra che il petacchio abbia poi perso le sue precipue prerogative militari e
d’uno d’essi carico di grano e farina catturato ai turchi, unitamente a una saicá piena di legnami, si
leggerà in una corposa relazione delle gesta dell’armata alleata che nel 1686 attaccherà le
fortezze costiere degli ottomani in Morea (Scalletari). Il nome dovrebbe derivare per metatesi da
quello tardo-latino di vacheta, vascelletto remiero su cui più avanti ritorneremo e che nelle armate
68

medievali era servizio alla singola galea per le incombenze veloci, quali portare ordini, missive,
persone a terra o andare in esplorazione.
Si trovano poi nominati, specie nelle cronache spagnole della prima metà del Cinquecento dei
velieri detti (e)scorchapines, (‘alberi del sughero’), dei quali però non abbiamo reperito alcuna
descrizione e possiamo solo ritenere che si trattasse di piccole imbarcazioni ‘alla latina’
particolarmente leggere e agili.
Tutte le barche finora menzionate avevano una sola coperta, ma al di sopra di quella le più grandi
potevano anche presentare quello che i francesi chiamavano un suzain o sus(a)in, ossia un mezzo
ponte che andava dal cassero di poppa all’albero di maestra, mentre quello che nasceva dalla
prua e andava verso poppa era detto dai transalpini courcives e dagli olandesi (leg-)wa(a)ringen,
wanderingen o anche gangen; esse potevano trasportare, a seconda della loro grandezza, dalle
150 alle 600 salme di carico. I leuti, molto diffusi nel tardo medioevo, e le tartane si usavano
maggiormente sulle coste della Provenza, ma i primi, molto anche a Genova e le seconde, un po’
più piccole delle polacche, a cui, alberatura e velatura a parte, molto somigliavano, e lunghe quindi
tra i 60 e i 70 palmi, erano molto comuni anche a Napoli; le barche e le barcacce erano molto
diffuse sulle coste d'Italia e delle saettie abbondava invece molto la Sicilia, anche se si trattava
d'imbarcazioni costruite soprattutto nell'isola di Candia, e si trattava per lo più di vascelli destinati al
trasporto di vino, olio, grano, formaggio e vettovaglie in genere.
C'erano poi piccoli vascelli latini a una sola vela e senza coperta, quali la barchetta, imbarcazione
con un equipaggio di sei uomini e, in mancanza di vento, talvolta mossa a mezzo d’alcuni remi; il
fregatone, da non confondersi con quello predetto veneziano che era invece, come abbiamo visto,
un vascello tondo, e il passacavalli, i quali avevano la sola vela maestra ed erano a volte anch’essi
spinti a voga come le gondole veneziane, ossia con grossi e lunghi remi che si maneggiavano
stando in piedi sui banchi; si trattava ovviamente d'imbarcazioni molto lente e usate solo in
prossimità della terra. Di queste barche e fregatoni se ne vedevano assai a Napoli, mentre i
passacavalli si usavano in Levante; i vogatori che remavano nel predetto modo, ossia
maneggiando in piedi un solo remo posteriore, si dicevano in francese coqueters. A proposito delle
gondole veneziane, già nel Cinquecento, come ci illustra il Vecellio, Venezia risolveva con il loro
servizio a noleggio la maggior parte delle sue necessità di comunicazione interna:

… Sono in Venezia le barche di tanta comodità che difficilmente la potrebbe credere chi non la
prova. Sono in Venezia traghetti in grandissimo numero e ciascuno d’essi ben fornito di barche,
ciascuna con un huomo in poppa apparecchiato, a richiesta di chiunque vuol passar dall’altra parte
del canale ovvero andare in altro luogo. I nobili poi e massime i più ricchi tengono ancora essi
ciascuno la sua barca a due remi con uomini salariati a questo effetto. Queste barche sono
69

coperte di rascia nera e le banche per sedere sono di legno, coperte per lo più di cuoio… (Vecellio,
Cesare, Habiti antichi et moderni di tutto il mondo etc. P. 122v. Venezia, 1590).

La rascia nera era d’inverno incerata per renderla impermeabile alla pioggia e comunque il
copertino o coperchio della gondola, fatto di un telaio di semicerchi di legno, era chiamato in gergo
felce, perché d’estate, invece che con l’incerata nera, si copriva di grandi foglie di felce per rendere
l’interno, oltre che protetto dal sole, anche fresco; di conseguenza il falegname (gra. ναυπηγής
ναυπηγός) che faceva o riparava i copertini si chiamava felcer e sua moglie era conosciuta come
la felcera (Giuseppe Boerio, Dizionario del dialetto veneziano. P. 214. Venezia, 1829). I sedili delle
piccole imbarcazioni, cioè quelli che vanno da un bordo all’altro, si chiamavano a Venezia (e forse
ancora si chiamano) trasti. Dunque anche allora le gondole da traghetto (gr. πορθμεῖα, πορθμήια,
πορθμίδες, τράμπιδες) erano spinte da un solo vogatore o traghettatore (gr. πορεύς, πορθμεύς),
ma quelle dei nobili da due (gr. δίϰωπα) ed erano anche diffuse gondole da quattro remiganti (gr.
τεσσᾰράϰωπα). Nei primi secoli di Venezia, come leggiamo nel Galliccioli, i natanti a noleggio per
traghettare il Canal Grande si erano chiamate sceole (da ‘scediole’; gra. σχήδιαι, ‘zattere’), forse
perché in effetti erano solo delle rozze piccole zattere.
Per quanto riguarda l’etimologia del nome gondola il Dufresne du Cange ci dice che il termine
viene dal greco bizantino ϰοντελάς, anche se, con ogni probabilità, i bizantini idearono quel
vocabolo proprio per la navigazione della laguna veneziana durante il lungo periodo in cui essi ne
furono i padroni, in quanto nel loro impero non avevano in precedenza avuto necessità di farsi
un’esperienza di navigazione lagunare; però, certo perché non esperto di navigazione, il suddetto
autore non ne individua l’esatta etimologia. Infatti si tratta di un bitematico derivato da ϰοντός
(‘pertica’) e dal verbo ἐλαύνω, che significa ‘spingo avanti’. E perché questo dunque questo nome?
Perché, evidentemente, in quei primissimi tempi della città di Venezia i letti dei suoi canali non
erano stati ancora regolarmente scavati come poi si è fatto nei secoli seguenti per agevolarne la
navigazione, ma erano ancora per la maggior parte poco profondi e quindi era più comodo
navigarli non a remi ma a pertica, cioè facendo leva sui fondali.
Non era allora ancor tempo perché nel Mediterraneo si sentissero nominare molto correntemente
vascelli latini quali la marticana, la bombarda, lo sciabecco, la greco-turca setì, nomi che invece
ricorreranno frequentemente a partire dalla seconda metà del Seicento, anche se questo non
significa che non esistessero in qualche numero anche prima. Lo sciabecco, vascello latino medio-
grande da guerra, detto all’inizio del Cinquecento a Napoli sciaveca e in italiano corrotto anche
sambecchino, sarà molto usato a partire dal Seicento specie dai corsari barbareschi e, quando
usato dai cristiani, sarà anche adoperato per il trasporto di munizioni; poteva essere armato anche
da una trentina di pezzi tra grandi e piccoli.
70

Per quanto riguarda i nomi propri che si attribuivano ai vascelli del tempo, diremo che, dismessi da
secoli quelli molto combattivi, aulici o mitici che si usavano sin dall’antichità specie per i vascelli da
guerra - e vedi infatti le triere e le liburne dagli antichi romani che si chiamavano Augusta, Radians,
Sagita, Armata, Nilus, Capricornus, Gryphus, ecc., ora invece sia per quelli bellici, generalmente
ancora agiografici, sia per quelli commerciali gli usi non erano sostanzialmente cambiati rispetto al
precedente Alto Medioevo e vedi per esempio la nave pisana San Giovanni che nell’estate del
1159 trasporto tre grandi colonne lapidee – evidentemente archeologiche – alla terra ferma perché
ornassero la costruenda o ristrutturanda chiesa di S. Giovanni (Cronaca pisana di Marangone. Cit.
P. 14); poi le tre grandi navi onerarie dell’armata che nel 1201 i veneziani spedirono contro Muggia
e Trieste, allora ambedue covi di pirati, ed i cui nomi erano Paradisa, Aquila e Peregrina (Lorenzo
Monaci, Chronicon de rebus venetis), mentre contemporaneamente, tra i vascelli tondi che gli
stessi veneziani stavano allora costruendo per l’esercito crociato che l’anno successivo si sarebbe
imbarcato alla Quarta Crociata, ce ne era uno tanto grande da esser stato battezzato Il Mondo
(Niketas Koniatos, Storie. Alessio Comneno, lt. III). Nel 1248 c’era nei mari di napoli una terida
chiamata La Sarracena, nel periodo 1275-1280 una saettia chiamata Gaeta (sagictiva vocata
Gaetas). Nella seconda metà del Duecento una nave definita maxima si chiamava Rochaforte (ib.)
e un’altra detta praegrandis invece Buccaforte (Andrea Dandulo, Chronicon, LT. X, c. VII, p.
XXVII); quelle ricordate dal Muntaner, e.g. la nave catalana la Buona Ventura all’anno 1283 e al
1314 e il Falcone, nave dell’Ordine del Tempio di Gerusalemme comandata da fra’ Ruggiero,
all’anno 1303; inoltre la galera detta la Española al 1308. Ci fu poi in quegli stessi tempi l’italiana
Regina:

… Tunc navis magna quondam mantuanorum, quae vocabatur ‘Regina’, ubi prope Pontem Sancti
Georgii affundavit et ibi est (Chronicon estense, all’anno 1309. Cit.)

Tra le navi genovesi e marsigliesi negli anni 1268-1270 costruite per o noleggiate dal re Luigi IX di
Francia detto Il Santo nell’ambito dei suoi preparativi per la crociata appunto del 1270, troviamo la
Comitissa (‘contessa’) del Hospital e la Paradisus; nel 1402 due galee veneziane si chiamavano la
Grimana e la Cornaria in omagglio alle nobili famiglie che le avevano armate, nel 1410 vediamo la
Morexina, evidentemente armata dalla nobile famiglia Moro; nel 1496 altre due delle migliori galee
veneziane, la Corfiota e la Catharina, furono incaricate di riportare in Francia gli ultimi seguaci di
Carlo VIII rimasti nel Regno di Napoli, purché se ne andassero. Le prime 4 navi grosse che
Venezia armò nel 1499 in appoggio all’armata di galee si chiamavano Pandora (nome quindi
fantastico), Trivisana e Marcella grossa (nomi familiari), mentre della quarta (quella de Pietro
Ruzier de 1.500 bote) il Malipiero non riporta il nome; ne seguirono poi qualche mese dopo altre 4,
71

tutte con nomi familiari, e cioè la Mema di 900 botti, la Marin da Cherso di 600, la Soranza di 400 e
la Pesara di 400 . (D. Malipiero, Cit. Parte prima, p. 163). Per quanto rigurada i nomi familiari
veneziani, troveremo in quella seconda metà del secolo anche una nave Duoda, una Priola, una
galea Cornera (1465), una galea grossa Morisina (1466) e un’altra Bragadina (1495); altre
portavano nomi che ricordavano il luogo marittimo dei possedimenti veneziani in cui erano state
costruite [Sebinzana, Tragurina (1466)]. Tra le galere spagnole che nei primi giorni di maggio del
1538, recando a bordo lo stesso Carlo V, si scontrarono con galere francesi e turche alle isole
Hyères, notiamo i nomi Vitoria e Condesa, mentre a quella di comando, per antico uso che
ritroviamo anche in Italia, non ci si riferisce mai con il suo nome proprio ma solo con un ‘la
Capitana’ (Colección de documentos inéditos para la historia de España etc. Tomo II. P. 393 e
segg. Madrid, 1843).
Gli antichi greci avevano un ufficiale pubblico al quale era demandato il compito di dare un nome
alle nuove triere e si chiamava infatti trieronòmo (τριηρονόμος). Si continuavano a usare molto i
nomi dei santi, a volte lunghi come Vergine Maria del Rosario e S. Giovanni Battista, ma anche
appunto quelli profani, come per esempio lo spagnolo la Mañana, il veneziano la Montagna Nigra, i
bellicosi aragono-napoletani Drago, Aquila, Squarciafica e quello toscano Lupa, quello spagnolo
Los tres reyes e quelli aggettivati dei rispettivi cittadini proprietari (ct. bourgeois de la nef), come il
genovese Spinazza e i veneziani la Contarina, la Morosina, la Moceniga, la Querina, la Loredana,
la Malipiera, la Bonaldra, la Balba, la Ferrandina, la Forbina, la Capella, la d’Oria, la Barbariga, la
Dandola, la Pasqualiga ecc. - erano molto comuni e ciò già nel Quattrocento, come si legge alla
data del 25 agosto 1495 nelle cronache della guerra franco-aragonese per il dominio del regno di
Napoli raccolte da Marin Sanudo:

A dì 25 ditto zonse a Napoli do nave grosse de zenoesi, zoé una chiamata la 'Negrona' e l'altra
'Camila', benissimo in hordine... (La spedizione di Carlo VIII etc. Cit. P. 576.)

Sanuda si chiamava, per fare un altro esempio, la nave veneziana che tra il 1562 e il 1563, mentre
tornava a Venezia da Cipro, fu assalita piratescamente dalla galera francese del capitano Charlieu,
e l’allora residente veneziano in Francia, Marc’Antonio Bragadino, fu incaricato dal suo doge di
presentare una formale protesta alla corte di Parigi e di chiedere l’inflizione d’un grave castigo al
predetto Charlieu (Tommaseo). I vascelli non da guerra veneziani erano comunque in Italia quelli
che più portavano nomi profani, a riprova di una maggior indipendenza di quella repubblica dalla
soggezione religiosa; per esempio una delle navi di supporto (lt. inerme oppure non munitum
navigium) all’armata inviata da Venezia nell’Alto Tirreno negli ultimi anni del Quattrocento per
sbarrare il passo a quelle francesi si chiamava Salvadega (‘Selvatica’). Per quanto riguarda i nomi
72

delle galere, quelle veneziane, pur portando generalmente anche loro nomi di santi, erano spesso
identificate - come abbiamo visto che pure succedeva ai vascelli tondi della Serenissima - con
appellativi che richiamavano i cognomi delle famiglie che le possedevano; alla fine della guerra di
Chioggia (1381) alcune infatti erano la Dandola, la Celsa, la Sannuda e la Faliera, mentre le tre
candiote che servivano la Serenissima nel 1496 si chiamavano Pasqualiga, Salamona e Zena (M.
Sanudo, Diarii. T. I, col. 280). I catalani usavano spesso dedicarle non a un santo ma a due,
pensando probabilmente di ottenere così una doppia protezione, ed ecco per esempio i nomi di
nove loro galee (così essi infatti preferivano chiamarle, cioè come i veneziani, e non galere come
invece gli spagnoli) riportati dal de Capmany e si trattava di quelle che nel 1506 accompagnarano
il re Ferdinando il Cattolico e la sua seconda moglie Germaine de Foix a Napoli, nuovo suo regno
da poco conquistatogli dal suo Gran Capitano Gonzalo Fernández de Córdoba (Ordenanzas etc.
Cit. Pp. 28 e 29):

1) La Reale, che portava il nome di San Juan Bautista y San Juan Evangelis.
2) San Severo y Santa Eulalia.
3) San Pedro y San Gerónimo.
4) San Francisco y Santa Élena.
5) Santa Maria del Rosario y Santa Elisabet.
6) San Christobal y San Agustíin.
7) San Onofre y Santa Magdalena.
8) San Jorge y San Jayme.
9) San Miguel y Santa Bárbara.
A differenza degli spagnoli e catalani che preferivano dunque i nomi di santi e degli olandesi che
usavano quelli di città, province e altri geografici, i francesi amavano attribuire ai loro vascelli da
guerra aggettivi marziali, quali per esempio quello della galeotta lancia-bombe Le Foudroïant,
usata contro Algeri nel 1683, e poi l’Invincible, Le Victorieux, Le Chasseur ecc., nomi che poi,
durante la grandeur del regno di Luigi XIV, diventeranno sempre più bellicosi ed eroici e quindi
avremo LeTerribile, Le Ferme, L’Ambitieux, Le Foudroyant ecc. I nomi più profani erano forse
quelli usati dagl’inglesi ed ecco infatti quelli d’alcuni vascelli britannici che nel 1597 toccarono
Livorno, nomi riportati in un documento coevo citato dal Guarnieri (Cit.) e che, sebbene molto
storpiati, dovrebbero esser così interpretati:

- Susannah, del cap. Roland Cottemore.


- Margaret, del cap. Jacob Roche.
- Jackes, del cap. George Jacob Barker.
- Shield, del cap. William Severe.
- The dawn of Plymouth, del cap. William Carkite.

I barbareschi usavano nomi tipo La stella d’Algeri, Il falco di Tripoli o La Mezzaluna. Andando
molto indietro nel tempo, troviamo nel Medioevo, oltre ai soliti dei santi, nomi quali la Madre di
73

tutte, la Montagna Nera, la Dovizia, la Meliorata, la Vittoria, il Falconcello, il Dragone, la Miana, la


Madre di Dio, il Leone, la Delfina, la Miana, Tartarin, il Leopardo, i francesi la Clarente, la
Cordelière, la Croisic ecc. Nell’antichità, come si deduce dalla lettura del Lexicon di Esichio
Alessandrino, c’era stato un funzionario, una persona di cultura detta τριηρονόμος, il quale, tra
l’altro, aveva appunto il compito di scegliere i nomi per le nuove triere.
74

Capitolo II.

L’EQUIPAGGIO.

Erano tempi in cui al comandante di un vascello toccava scegliere personalmente tutti gli uomini
del suo equipaggio, eccezion fatta per qualche nobile di poppa o altro personaggio che il suo
principe gli imponesse di portare o perché apprendesse l’arte di navigare o perché controllasse il
suo operato; e doveva scegliere tenendo conto solo della competenza delle persone e non di
raccomandazioni o di costi salariali, altrimenti un giorno se ne sarebbe potuto pentire amaramente:

Deve il capitano stare avertito nel pigliare li officiali perché in loro stà il condurre il vassello a
salvamento e scamparlo nelle fortune di mare e dalle mani di corsari, però (‘perciò) non bisogna
correre né per mezzo di amici né per migliori prezzi , ma ben per il suo (‘loro’) valore e perl oro
buona fama delli servizii passati, perché al bifogno di fortune (‘fortunali’) e guerre te ne avedresti
(‘accorgeresti’) e pentiresti… (A. Falconi, cit..P. 4-5.)

Il 13 luglio del 1400, essendosi costatatto che, evidentemente per risparmiare sui costi, i vascelli
mercantili veneziani non avevano equipaggi sufficienti a garantire una navigazione sicura, un
decreto del senato di Venezia prescriveva che sui vascelli dalle 200 alle 400 botti o tonelli di
portata, dovevano esserci 5 uomini e due mozzi (pueri) per ogni cento botti; questo numero saliva
a sei uomini e tre mozzi nel caso di una stazza che andasse invece dalle 400 alle 600, infine sette
uomini e tre mozzi (famuli) per portate superiori alle 600 botti (H. Noiret, cit. P. 109).
Agli inizi dell’Età Moderna, il numero d’uomini necessari alla gestione d’un vascello tondo non
armato a guerra era invece calcolato dagli esperti in 18 persone per ogni 100 carri di portata,
ufficiali e bombardieri inclusi, ma questo era un equipaggio ottimale e in realtà gli uomini a bordo
erano spesso sensibilmente di meno; dunque l'equipaggio d’una pinassa, grande vascello tondo
come sappiamo, poteva anche superare i 70 uomini, quello d’un bertone poteva contare una
cinquantina d’uomini, quello d’un flauto o d’un garbo levantino andranno dalla trentina alla dozzina,
a seconda del tonnellaggio; quello d’un galeone fluviale, vascello biponte remiero medievale, detto
in genere anche galeoncino o galioncello (lt. galeonculus) se a un solo ponte, di cui presto diremo,
era sui settantacinque inclusa una sessantina di remiganti, quello della barca, ossia d’un gran
vascello latino poteva invece contare dagli otto ai 14 uomini complessivamente e per governare
una tartana servivano una decina uomini; c’erano poi urche di 50 o 60 tonelli che facevano il
viaggio dell’Indie Orientali montate da non più di cinque o sei marinai, cioè tanti quanti n’aveva una
polacca o n’avevano altri vascelli tondi olandesi di media grandezza come galjooten e boïers,
mentre un pinco era equipaggiato con quattro uomini più il piloto e una belandra solo da tre o
quattro; i vascelli inglesi portavano equipaggi più numerosi di quelli olandesi perché i marinai
75

albionici, anche se di quelli più sobri, non amavano molto faticare. I marittimi fiammingo-olandesi
erano dunque noti per la loro propensione all’alcool, come oggi quelli scandinavi, e infatti nel 1628
il corsaro inglese sir Kenelm Digby, avendo imposto l’alt (modo di dire dall’it. fare alto braccio, cioè
alzare in alto un braccio per fermare la marcia d’un seguito militare) a due mercantili di quella
nazionalità incontrati durante le sue scorrerie nel Mediterraneo, così poi annotò nel suo giornale di
bordo:

… Si erano preparati al combattimento e, secondo il loro costume in tali occasioni, i loro uomini
erano tutti ubriachi, così che si misero a questionare con i miei che avevo mandato a bordo delle
loro navi, tanto che dovetti mandarne ancora una quarantina per domarli; ma anche i miei si
sbagliarono e saccheggiarono le casse ed il vestiario dei marinai. In seguito ai loro reclami, feci poi
restituire il bottino e punire i colpevoli… (Sir Kenelm Digby, Journal of a Voyage Into the
Mediterranean. Londra, 1868 Trad. di V. Gabrieli.)

Non ce l’aveva infatti il Digby con gli olandesi; egli era stato mandato nel Mediterraneo a far guerra
di corso contro i francesi, con il compito d’interrompere le loro grandi pratiche commerciali con
l’Egitto e la Siria. I velieri da guerra erano ovviamente montati da equipaggi molto più numerosi,
portando inoltre a bordo anche fanterie di marina e un maggior numero di bombardieri, e nei secoli
successivi diventerà invalso l'uso di valutare la loro necessità d’equipaggio in base al numero dei
cannoni che avevano, il che significherà 7 o 8 uomini per cannone nel Seicento e 10 nel
Settecento; usavano poi i vascelli corsari essere sovraffollati d’uomini per poter così più facilmente
soverchiare qualsiasi legno nemico e lo stesso Digby incontrerà nel Mediterraneo una saettia
maltese da guerra di corso che stazzava 100 tonelli, armata con 11 bocche da fuoco ed
equipaggiata con ben 120 uomini. Nei predetti numeri d’equipaggio si devono intendere inclusi
anche i mozzi (lt. famuli, pueri; sp. grumetes; fr. pages; vn. scanagalli), giovanissimi ancora
adolescenti, la cui vita a bordo era particolarmente dura perché a loro toccava pulire il vascello,
servire i marinai e, se tanto non bastasse, arrampicarsi assai pericolosamente sino ai parrocchetti;
questi ragazzini, per esempio, nella marineria francese dovevano, pesa la sferza, sempre portare
alla loro cintura quelle corte corde dette rabans (it. Matafioni), le quali servivano per aborrare
(‘legare forte’) e assettare le vele e per altri eventuali urgenti interventi alle manovre. Il suddetto
nome di scanagalli che portavano a Venezia ci fa capire che a loro era affidato anche il compito di
tirare il collo ai polli per la mensa degli ufficiali.
Lo Jal (Cit.) riporta la consistenza degli equipaggi delle quattro ‘caravelle’ con cui Cristoforo
Colombo, partito dalla costa sivigliana il mercoledì 3 aprile 1502, compì il suo quarto viaggio nelle
Indie Occidentali, consistenza che era stata rinvenuta nell’Archivo General de Simancas,
Valladolid, dallo studioso spagnolo Martín de Navarrete:
76

Caravella Capitana.

Capitano.
Mastro (‘nostromo’).
Contromastro (‘nostromo del trinchetto’).
Piloto maggiore della flottiglia.
14 marinai.
5 scudieri (‘nobili di poppa’)
20 grumetes (‘mozzi’, fr. pages).
Barilaro.
Calafato.
Marangone.
Lombardero mayor (artigliero maggiore).
Lombardero (artigliero)
2 trombetti.

Caravella Santiago de Palos.

Capitano.
Mastro.
Contromastro.
Scrivano, il quale era anche prevosto maggiore della flottiglia.
11 marinai.
6 scudieri.
14 grumetes.
Lombardero.
Barilaro.
Calafato.
Marangone.

Caravella galiziana.

Capitano.
Mastro.
Contromastro.
9 marinai.
Scudiero.
14 grumetes.

Caravella biscaglina.
Capitano.
Mastro.
Contromastro.
8 marinai.
2 scudieri.
12 grumetes.
77

In effetti, in tempi in cui gli equipaggi dei vascelli tondi o navi mercantili erano ancora di
configurazione medievale, ossia semplicemente composti da un comandante, un nostromo, un
piloto e dalla bassa forza per un totale complessivo, nel caso di una caravella, di una decina
d’uomini solamente, la suddetta più numerosa, complessa e articolata composizione di quelli della
spedizione di Cristoforo Colombo, fa, come abbiamo già detto, ulteriormente capire come non si
trattasse di quattro vascelletti, come poi erroneamente si è sempre creduto, ma di vascelli oceanici
tutt’altro che piccoli e anche ben armati. A proposito poi del termine lombardero nel senso di
bombardero, si trattava d’una contaminazione dovuta all’esser già allora i lombardi molto noti e
apprezzati anche per la fabbricazione delle armi da fuoco, specie i milanesi e i bresciani.
Il 3 marzo 1499, poiché i turchi approntavano una grande armata per andare ad assalire di nuovo
Rodi, a titolo precauzionale Venezia, oltre a nuove galee, approntò nove navi armate a guerra e si
pagavano cento uomini d’equipaggio per ciascuna, se piccola o media, e 110 per quelle più grosse
da 600 botti di stazza in su. La piccola differenza di uomini non significava però che il numero di
armati da porre su una nave armata a guerra fosse alll’incirca sempre lo stesso a prescindere dalle
dimensioni di quella, ma solo che in quel momento non si disponeva di più uomini:

Sono sati divisi sulle galee e navi che si armano fuori dal porto 200 uomini fatti venire dalla riviera
del lago di Garda e dalla Bergamasca per mancamento di uomini qua nella terra (D. Malipiero, cit.
Parte prima, p. 165. Tr. dal ven.).

Infatti, solo un paio di mesi dopo, condotte (‘assoldate’) altre due navi da armare, su una delle due,
grande di 2mila botti, furono imbarcati 300 uomini e sull’altra di 600 botti solo 100 (Ib. Parte
seconda, P. 551).
Andando ancora indietro nel tempo fino al 1273 e cioè all’armata che il re di Napoli Carlo I d’Angiò
stava raccogliendo a Brindisi per azioni di guerra contro Bisanzio, troviamo un ordine reale del 23
marzo che comandava al secreto (‘camerlengo, camerario’) della Puglia di fornirle il seguente
armamento:

… 600 balestre di legno tra le quali siano 150 da due piedi e le rimanenti a strevo (‘staffa’) con
guarnizioni, duplici corde – buone e di buon filo - e tutto l’altro necessario apparato per le stesse,
800 rotoli di canapa per le corde delle balestre […] e, per quanto riguarda buoni quadrelli, (siano
per balestre) da due e da un piede, inastati con le loro aste ed impennati, nella maggior quantità
che potrai efrecce per gli archi similmente in grande quantità e munite di aste e penne (G. Del
Giudice, cit. P. 14).

Per balestre da due piedi, cosiddette perché da caricarsi tenendole ferme con ambedue i piedi,
s’intendevano quelle più pesant e potenti da usare in postazione, cioè in un luogo fisso, mentre
quelle più leggere ad un solo piede si usavano in itinere e a bordo dei vascelli. Inoltre bisognava
78

approntare una quantità di ben 8mila tra lance e lancioni per le galee, usando le prime la fanteria
ordinaria su di quelle imbarcata e i secondi - bilanciati - gli equipaggi dei vascelli per contrastare gli
abbordaggi nemici.
L’anno successivo, il 1274, troviamo nel porto di Baia la nave ‘S. Marco’ comandata
dall’avignonese Guillaume Forcalquier e alla quale, con ordine del re Carlo I d’Angiò del 25 marzo,
si comandava di raggiungere l’armata che allora si stava radunando a Brindisi; l’equipaggio era di
55 uomini, ma si trattava di un vascello armato appunto a uso di guerra; si doveva fornire di una
barca de canterio (‘di cantiere’, ossia di lavoro, di servizio, come già detto) e delle seguenti armi:

… 20 balestre di legno, di cui la metà da due piedi e la metà a strevo con guarnizioni e loro duplici
corde e tutto il loro necessario apparato, nonché del filo di canapa per (fare) altre corde per le
stesse balestre e per altre due balestre da tornio da assegnarsi a sé (cioè al predetto Guillaume)
per nostro mandato, a sua richiesta, ossia la canapa opportuna (Ib. Nota a p. 12).

Gli ufficiali mercantili in ct. erano detti collettivamente panesos, ma è termine che però a poco da
condividere con quello italiano di pennesi (vn. penasi), cioè con quelle sentinelle di galera che si
mettevano, quando necessario, a cavalcioni della penna dell’antenna – infatti in gr. si chiamavano
tertredoni (τερθρηδόνες, ‘coloro che siedono sulla penna’) - e che però, in premio di questo loro
coraggio e di questa loro abilità, erano impiegati comunemente soprattutto come ‘aiuto-nostromo’ o
‘magazziniere di prua’ nei velieri o come sotto-còmito in quelli remieri; nelle marinerie della Lega
Anseatica i predetti ufficiali erano detti Bo(e)s(s)man(n)en, Boslude, Boessleuten o anche
Officerer, Officirer, Officianten in opposizione a Schipman(n)en, Schepesman(n)en,
Schi(j)pkijnder(e)n, Schepeskijnder(e)n, Schijppeskijndt, Schepesfolk(e), Schiff(e)sfolk,
(Schiffs)kinder(n) o Schiffman(n)en ossia ai semplici marinai (sp. marineros rasos), come si legge
nei suoi vari capitolati di diritto marittimo (1369-1614, J. M. Pardessus. Cit.); ma questo termine in
seguito contraddistinguerà, come vedremo, il solo nostromo e vedi infatti l’inglese fonetico bousən,
al quale poi i linguisti albionici attribuiranno invece, chissà perché, l’umiliante grafia di boatswain.
L’equipaggio nel suo complesso si si diceva anche Schiffsleute (gr. πλήρωμα).
Mentre in turco il capitano si diceva raís e in barbaresco arraéz, qualsiasi fosse il tipo di legno a
vela o a remi che comandasse, nella marineria cristiana il comandante d’un galeone o d’una nave
armata a guerra (gr. ναύαρχης) era detto capitano come sulle galere, mentre quello d’una nave
mercantile o d’una barca postale [tlt. vacheta; fr. paque(t)-bo(o)t; ol. pak-boot; in. packet-boat) si
chiamava nel Mediterraneo parone o patrone o padrone (tlt. patronus; lem/ctm. patrò; lt. nauclerus;
gr. ναύϰληρος; ma, nel caso di un vascello da guerra, gr. πλωτάρχης o πρωτοϰάραβους ma
talvolta anche ϰαραβιὰς), invece senior de la nau in ct. medievale, e maistre de navire (fr.) o
master of ship (in.) o maestre de buque (sp.) o schipper (ol. fm. e td.) o skeppare (sv.) o Menster
79

(td.) nell'Atlantico; solo qualche secolo dopo si comincerà a chiamare capitano anche il
comandante d’un vascello mercantile e questo sia nell’oceano che a Levante.
Completamente diversi erano i vocaboli attinenti alla navigazione che usava la gente di mare
francese di ponente, ossia dell'oceano, da quelli che gli stessi francesi usavano invece nella loro
marineria di levante, ossia del Mediterraneo, e ciò perché diverse erano le radici culturali delle due
tradizioni marinare; nel Mediterraneo i francesi usavano in sostanza la nomenclatura in uso sulle
galere, quindi si trattava di vocaboli d'origine italiana, come italiana era stata l'origine delle
moderne galere. Eccone un numero dei più noti, tratti soprattutto da quelli elencati dall’Aubin (cit.)
e dal de la Gravière (v. fonti), tutti già in uso al tempo che qui ci occupa:

ATLANTICO. MEDITERRANEO.

fret, loüage nolis, naulis (‘nolo’)


(af)freter, loüer noliser, nauliser, noliger (‘noleggiare’)
fret, freter le navire charger le navire (‘caricare la nave’)
connoissement, (af)frètement nollissement, police de chargement (‘polizza di carico’)
gaillard château de poupe
mât arbre (‘albero’)
grand mât (arbre de) mestre (‘albero di vela maestra’)
mât d'artimon arbre de misaine (‘albero di mezzana’)
mât de misaine, de borcet
ou de l’avant arbre de trinquet (‘albero di trinchetto’)
mât de hune gabi à Marseille (‘albero di gabbia a Marsiglia’)
grand pacfi voile de mestre (‘vela maestra’)
hune gabi(e), gabüe, cage o couffe (‘gabbia o coffa’)
quart garde (‘quarto di guardia’)
chaloupe, barge caicq, cajc, esquif (‘scialuppa’)
(fond de) cale o rum estive (‘stiva’)
tonture estive (‘buon assetto’)
cuisine, foyer fougon (‘cucina’)
creux pontal (‘puntale’)
sabord portel (‘portello o cannoniera’)
éscubier, éscuban œil, oëil (‘occhio o cubia’ del columbarium)
pompe trombe (‘tromba o pompa’)
charpentier maistre de hache (‘mastro d’ascia’)
mat(h)elot, (frm.) maronnier marinier (‘marinaro’)
tonneau boute (‘botte’)
tonnelier boutade, barillat (‘bottaro’)
proue cap
amarre cap (‘cavo’)
gouvernail timon (‘timone’)
anguillere, ossec, vitonniere sentine (‘sentina’)
pavillon, enseigne banniere, êtendard, êtandart (‘vessillo’)
quille carèn(e)e, cran, colombe (‘chiglia o primo’)
pont, tillac couverte (‘coperta’)
cambuse taverne (‘dispensa, compagna’)
80

hau(t-)bans coustieres, sartis (‘sartie’)


ca(r)lingue, contre-quille paramezzale, contre-carene (‘paramezzale’
passe, canal friou (‘stretto’)
maistre-valét majordome, dépensier (‘tavernaro’)
bàton de pavillon aste de banniere (‘asta di vessillo’)
cabestan argue, arganeau (‘argano’)
càble gumene (‘gomena’)
grelin gumenette (‘gomenetta’)
(plomb de) sonde, escandaille (‘scandaglio’)
toucher ou echoüer investir (‘toccare col fondo o con le estremità’)
cabane, cajute camagne (‘letto incastrato con pagliericcio’)
mai(s)tre de navire patron (‘comandante’)
maistre d'équipage (da esquif) nocher (‘nostromo’)
contre-maistre gardien, nocher de misaine (‘nocchiero di mezzana)
quartier-maistre cap de garde (‘sottocapo’)
mouiller (une ancre), toucher,
rendre le bord donner fonde, mettre sur le fer (‘ancorarsi’)
lever l'ancre serper (sarpare)
siffler fisquer (‘suonare col fischietto o col flauto panico’)
raban mataffion (‘mattafione’)
(dex)(ex)(es)(s)tribord, tienbord poge, bande droite o destre (‘dritta’)
bà(s)bord orse, bande gauche, bande sénestre (‘sinistra’)
vent frez, fresche (’brezza’)
vent de nord, septentrion tramontane, boréal, aquilon (‘tramontana, borea’)
vent de nord-est, d’amont (tramontane de) grec, bise (‘vento greco’)
vent de nord- oüest, d’aval maëstral, mistral, galliego, galerne (‘vento maestro’)
vent de oüest, d’aval, occident ponant, couchant, zéphir(e) (‘vento di ponente ; vn.
provenza)
vent de est, d’orient levant (‘vento di levante; sp. solano’)
vent de sud-est siroc(o) (‘scirocco’)
vent de sud, midi mijour, auster (‘vento di mezzodì, ostro’)
vent de sud-oüest lebe(s)che, garbin (‘libeccio, vn. garbino’)
faire de l’eau faire aiguade (‘fare provvista d’acqua potabile’)
donner la route ou la volte donner la prouë ou le cap (‘prescrivere la rotta’)
la belle saison pour navig(u)er armogan (‘bella stagione’).
agreils sartie (‘canapi che reggono l’albero’; ts. sarzie)
é(s)tambord, è(s)tambot capion ou rode de poupe (‘giogo o ruota di poppa’)
étrave, (franc-)étable, étante,
éstante, éstable, étaule capion ou rode de proüe (‘giogo o ruota di prua’)
charter à cuëillette, au tonneau,
en grenier charger au quintal (‘caricare alla rinfusa’)
paradis, chambre (de port) darses, darse(ne), darsine, darcine (‘darsena’)
forme bassin (‘bacino di carenaggio’)
étap(p)e, port de trafic, relâche échelle, escale (‘scalo marittimo’).
relâcher faire escale (‘fare scalo’)
puchot, pompe de mer, dragon,
siphon, trombe, trompe eschillon (‘tromba di mare’)
caréner, bailler l’oeuvre de marée éspalmer (‘carenare’) ; vn. mettere a carena.
cuëilles ferses, ferzes de cotonnine (‘ferzi’)
ancre fer (‘ferro, àncora’)
toüer remorquer (‘rimorchiare’)
81

l(‘)est, bal(l)ast quintel(l)age, saorre (‘zavorra’)


château ou gaillard d’avant théatre (‘castello di prua’)
louv(o)ier bordeger, carreger (‘bordeggiare, volteggiare’)
verg(u)e antenne (‘antenna, pennone’)
faire vent arriére, ariver moler en poup(p)e, po(u)ger (‘avere vento in poppa’)
plongeur, plongeon mourgon (‘palombaro’)
au lof ! orse! (‘orza !’)
mousse gourmette (‘mozzo’)
rechange respect, répit (‘riserva’)
marchandise roba, robé, robes (‘mercanzia’)
haler paumer (‘alare’).
mât de perroquet arbre de papafique
voillier trevier (‘velaio’)
varangue madier (‘madiero’)
ramer voguer.

A proposito del (re)connoissement/police de chargement (ol. vragt-brief) ci sembra utile


aggiungere che si trattava appunto dell’atto di ‘riconoscimento’ rilasciato dal comando della nave e
che certificava la proprietà d'una partita ben individuata tra le merci caricate a bordo di quella nave
in quel dato viaggio e destinate a un viaggio di sola andata; esso già nel Settecento verrà firmato -
per lo più dallo scrivano di bordo (lt. scriba) - in tre copie, cioè una per il caricatore [fr. (marchand)
chargeur; ol. reeder, bevragter, belader], una per il destinatario (fr. adressée) e una per la nave.
Quando invece un negoziante prendeva a nolo l'intera nave per un viaggio comprensivo sia
d’andata che di ritorno, allora il relativo atto prendeva il nome di charte-partie o acte o contract
d'affrétement nell'Atlantico e acte de nolissement nel Mediterraneo.
Il padrone o capitano era coadiuvato dal nobile di poppa, vale a dire da quello che oggi si direbbe
'prim'ufficiale' o chief-mate in inglese, dove mate (‘compagno’) condivide il tema originario con il
francese mat(h)elot (it. ‘marinaio’; fm. schipluid; td. Schipman) e con l’istro-friulano matto (‘tizio,
uomo’); molte parole venete si ritrovano infatti oggi nelle lingue dei paesi bagnati dal Canale della
Manica dove furono portate nel Medioevo appunto dalle galee grosse mercantili veneziane di cui
più avanti parleremo. Il noc(c)hiero o nostromo comandava con l’ausilio del suo fischietto ed era
coadiuvato a prua dal nocchiero del trinchetto e a poppa dal consigliero, il quale sui vascelli minori
aveva luogo di piloto. Sui vascelli ‘nordici’ (tedeschi-fiamminghi-olandesi-inglesi-scandinavi) il
nostromo si diceva, come abbiamo già accennato, bosmano [fr. bosseman, td. (Hovet-)
Bos(s)man(n), (Haupt-)bossmann, (Heupt-)Bo(e)(s)sman(n); forse da ol. boot-man] e poi nascerà il
contramastro, detto anche, ma ormai - come vedremo - impropriamente, anche pen(n)ese, ossia
un aiuto-nocchiero, il quale si occuperà del magazzino di prua dove si tenevano funi (gr. σχοινία,
ϰαλώδια; lt. rudentes), corde (lt. restes), gùmene (gr. ϰάλωνες, ἀπόγαια, ἀπόγεια, πρυμνήσια),
ancore e gavitelli e sarà anche il magazziniere delle vettovaglie della bassa forza; nascerà anche il
82

parone, detto anche agozzino e più tardi prevosto, un bass’ufficiale che dirigeva il servizio dei
marinai ed era luogotenente del nocchiero, dovendo però pure occuparsi della buona tenuta e
conservazione della velatura, del sartiame e di tutta l’attrezzatura velica; come pure alle dirette
dipendenze del nocchiero erano il guardiano o nocchiero di mezzana, il nocchiero del trinchetto e
poi il pen(n)ese, cioè il dispensiero, al quale si affidavano le provviste delle vettovaglie e che
doveva distribuirle agli addetti al vitto con oculatezza e masserizia, cioè economia e risparmio. I
marinai erano pure spesso chiamati la ciurma (vn. zurma), corr. del lt. turma (et armatis turmis
galearum. Bartolomeo di Neocastro, cit. Cap. LXXVI), termine però più usato nei vascelli remieri
per indicare l’insieme dei remiganti [gr. (περι)έρέττοντες; ἐπισφελίται, ἐρέται, ἐρεταί, ἐλάται ἐλαταί,
τριηρέται, ἐλατῆρες, ϰωπηλάται, πρόσϰοποι, ἐπίϰωποι, ἐπιϰωπητήρες; grb. ὐπειρελίκοῖ,
προσϰόποι, έρεττόντες, ϰωπηλατὲς, λεώς]. La molteplicità dei vocaboli che i greci usavano per
indicare i remiganti era certamente uno dei più evidenti prodotti della millenaria tradizione nautica
di quel popolo.
Per una migliore comprensione proviamo a schemattizzare quanto fin’ora detto a proposito degli
ufficiali della marineria mercantile, tenendo presente però che sui piccoli vascelli non tutti questi
personaggi erano ovviamente presenti e che i loro compiti potevano presenatre delle variazioni a
seconda della nazionalità dei vascelli e delle tradizioni delle singole merinerie:

Fino alla fine del Medioevo


taride commerciali, navi, navi armate, carrache, arsili, marani veneziani
patrone (Mediterraneo) o maestro (Oceano)
1° nocchiero
2° nocchiero
Cinquecento e Seicento
vascelli quadri (cioè navi, carrache, taride e galeoni)
patrone o maestro
nocchiero, poi nostromo
guardiano o nocchiero di mezzana
nocchiero del trinchetto
barbiero
scrivano

Del barbiero e dello scrivano diremo quando parleremo del personale delle galee. All’inizio del
Seicento i toscani per il secondo di bordo usavano ancora il nome di nochiero e non ancora quello
di nostromo.
In una grande nave o galeone avrebbero poi dovuto servire quattro timonieri (lt. gubernatores), un
calafato (fr. calfas, calfateur; lt. calefatus, aupiciarius), un marangone (mastro d’ascia; lt.
naupegus), uno scalco (‘macellaio’), un barbiero, un secretario, ossia uno scrivano, sei mozzi e a
83

volte un bottaro o barilaro e quattro quartiermastri (fr. anche quarteniers, compagnons de quartier;
ol. anche esquimannen); quest'ultimi, detti anche capi delle guardie, ts. guardiani, affiancavano i
quattro timonieri e a loro si affidava infatti, oltre ad altri compiti secondari, il comando dei quattro
quarti di guardia e di lavoro, da cui il loro nome; non bisogna dunque pensare che il loro incarico
fosse in qualche modo legato al comando di quartieri nel senso di parti del vascello. bensì, come
abbiamo detto, a quello dei quarti di guardia. Ciò non vuol dire però che a bordo dei legni (gr.
ϰᾶλα) non fossero anche carichi di competenza e comando relativi alle varie parti del vascello; in
velieri a vela quadra particolarmente grandi si poteva per esempio trovare un quinto quartiermastro
al quale si affidava non un tempo di lavoro bensì un luogo e cioè il fondo del vascello, perché
sorvegliasse che non vi si formassero falle, che lo tenesse ben calafatato e sgottato, perché anche
partecipasse alla sorveglianza esercitata dal bombardiero a evitare che qualcuno
sconsideratamente portasse del fuoco nei pressi del deposito delle poveri d'artiglieria e perché
infine avesse cura di tener sempre preparati i materiali bellici da gettare dalle coffe sul nemico che
eventualmente venisse all'abbordaggio. In effetti le varie parti del vascello erano già affidate al
comando ordinario e non c’era quindi necessità di nominare degli altri che ne fossero responsabili;
ciò era stato molto chiaro nella marineria antica e alto-medievale e infatti nel Suida (X sec.)
leggiamo a questo proposito non solo di una precisa ripartizione delle zone di competenza, ma
anche della relativa subordinazione che ne scaturiva:

… Al toicarco comanda il proreta; al proreta il timoniero; al timoniero il nocchiero (Tœcharcho


imperat proreta; proretæ, gubernator; gubernatori nauclerus. Cit. T. III, p. 515).

Infatti, quando si voleva affermare la propria preminenza sull’interlocutore, c’era questo vecchio
adagio:

Si tu proreta istius navis es, ego gubernator ero.

Il toicarco (gr. τοίχαρχος, ‘capo delle fiancate’, da τοῖϰος, ‘fiancata’)) era, nei maggiori vascelli
remieri antichi, il ‘comandante delle fiancate’, cioè della zona mediana del vascello, e il suo
compito principale era il remiero capo-voga di tutti i remiganti, quindi sia di quelli di destra (gr.
δεξιότοιχοι) sia di quelli di sinistra (gr. ἀριστερότοιχοι); il suo ruolo sarà quindi nel Medioevo
assorbito dall’importantissima figura del còmito, il quale comanderà, come vedremo, voga e
manovra insieme, prendendo quindi il sopravvento sul proreta (lt. proretae; gr. πρῳράτης);
quest’ultimo comandava le manovre di prua e dell’albero, l’unico che allora c’era sia nelle triremi
sia nella maggior parte dei legni mercantili, inoltre doveva osservare i venti e segnalare al
timoniero l’eventuale presenza di scogliere, scogli affioranti, sirti o altri eventuali ostacoli e
potenziali pericoli alla rotta che si presentassero davanti alla prua durante la navigazione o
84

l’approdo; il timoniero [lt. gubernator; gra. ϰῠβερνήτης, ϰῠβερνητήρ, ϰῠβερνατήρ, εὒθυνος,


εὐθυντήρ, εὐθυντής; νήοχος, νηοῦχος; οἰακιστής, οἰαϰοστρόφος; fr. anche gouverneur; ol.
stuurman, stierman; td. St(e)u(e)rman(n); Steurmanne, Steurleute (plt.), sv. stÿrman; dn. stÿreman,
stÿrsman] era addetto alla rotta di navigazione e manovrava il doppio timone alla navaresca dei
vascelli antichi; infatti il Polluce, riferendosi al suo ruolo dice che sedeva ‘ai timoni’ e non ‘al
timone’:

… quello che siede ai timoni si chiama timoniero… (ὀ δὲ ἐπὶ τῶν ὀιάϰων ϰαθήμενος, ϰαλεῖται
ϰυβερνήτης. Cit. LT. I, cap.IX, pag.69)

Il proreta era anche sottotimoniero (lt. progubernator; gr. ὐποϰυβερνήτης) e, in caso di necessità,
faceva da timoniero pro tempore (gr. προϰυβερνήτης). Infine il nocchiero era il comandante
maggiore del vascello; ma questo al tempo del Suida, cioè alla fine dell’Alto Medioevo, perché più
tardi diventerà il luogotenente del comandante, come già sappiamo, e prima invece, nell’antichità,
nocchiero e timoniero erano stati, specie nella marineria mercantile, la stessa persona. Infatti così,
proseguendo il periodo precedente, leggiamo ancora nel Polluce:

… il dominatore della nave, il comandante dei marinai, colui che stava ai timoni; e, secondo
Antifonte, il ‘podocone’ (‘colui che tiene i timoni’) o, come preferirei io, il ‘podegone’ (‘colui che
guida i timoni’). (τῆς νεὼς ἠγεμὼν , ὀ ναυτῶν ἂρχων , ὀ ἐπὶ τοῖς οἲαξιν ἐστηϰώς. ϰαὶ κατ' Ἀντιφῶντα
, ὀ ποδοχῶν. ἢ μᾶλλον ϰατ' ἐμὲ, ὀ ποδηγῶν. Ib.)

Infatti in greco antico ‘timoni’ si diceva anche πηδά(λια), cioè ‘piedi, ossia pale, dei remi’,
trattandosi appunto nell’antichità, com’è noto, di non altro che di due robusti remi azionati ai fianchi
della poppa. In seguito però, cioè nel Basso Medioevo, vedremo un’evoluzione di questi ruoli in un
senso di avvicinamento a quelli vigenti nella marineria mercantile; infatti il toicarco, col nuovo nome
di còmito, assumerà il comando anche delle manovre e di conseguenza il proreta diventerà il suo
secondo col nome appunto di vice-còmito; il timoniero, pur continuando a dipendere unicamente
dal nocchiero, perderà il suo ruolo di comando; il nocchiero sarà sostituito dal padrone e nei
vascelli mercantili il suo nome diventerà sinonimo di nostromo come abbiamo già visto. Più tardi
nella marineria da guerra il padrone, lasciando ad altro ufficiale (patrone; gr. Δίοπος; lt. scriba) i
suoi compiti amministrativi, aggiungerà al comando di tutto il vascello anche quello della condotta
bellica, prima esercitato da un militare posto a capo dei soldati di bordo. Ci rendiamo conto che
questa nostra sintesi, trattandosi di avvenimenti che si svilupparono nel corso di non pochi secoli,
è probabilmente un po’ troppo concisa e restrittiva, ma il nostro lettore potrà, proseguendo la
lettura di questo studio, dissipare eventuali suoi dubbi.
85

I quartiermastri potevano avere anche i loro luogotenenti, ai quali, in caso d'abbordaggio, affidare
metà della loro gente mentre con l'altra metà andavano a contrastare il nemico che abbordava;
altro compito di questi luogotenenti in battaglia era quello di rimpiazzare volta per volta i morti e i
feriti del quartiermastro con gente fresca.
Non esistendo a bordo dei vascelli mercantili un cappellano, vi era a carico dello stesso
comandante o del piloto leggere all’equipaggio le sacre scritture e guidarne il canto dei salmi e le
preghiere, così come officiare le dovute funzioni religiose.
Riassumiamo quindi i ruoli degli ufficiali principali incentrandoli storicamente soprattutto nel secolo
sedicesimo:

UFFICIALI DI POPPA
patrone
nocchiero
consigliero
nobile
scrivano
scalco
barbiero

UFFICIALI DI PRUA
penese
parone
marangone
calafato
2 bombardieri

MEZZI UFFICIALI.
4 timonieri
nocchiero del trinchetto
4 capi delle guardie

Ecco, a proposito di composizione degli equipaggi, un interessante brano d'una relazione dell'Indie
Orientali letta al senato veneziano nel lontano 1506 dal bailo Vincenzo Quirini:

... Arma il Serenissimo re di Portogallo da 12 in 14 navi, la maggiore da 800 in 1.000 botti, la


minore da 250 in 300, delle quali da otto in nove sono per il carico delle spezierie e parte resta in
corso per la costa dell'India. Sono tutte nuove, ovver talmente calafattate che si ponno stimar per
nuove, fornite benissimo di vittuaria e di tutte le cose che sono necessarie al navigare e massime
di artiglierie, di polvere e di tutte le altre munizioni che si adoperaro nelle guerre di mare; ed
ognuna di essa ha da quaranta uomini, computando una per l'altra secondo la sua portata, nel
numero de' quali è un proto (padrone), un maestro (‘nocchiero’) e un contramaestro (‘nocchiero del
trinchetto’) ed il resto sono marinari e deputati agli officij che bisognano. (E. Albéri. Cit. App. p. 6)
86

Per quanto riguarda le direttive di navigazione, l’ufficiale più importante era il piloto, ma di lui
parleremo diffusamente più avanti, quando cioè tratteremo degli ufficiali di galea, ma il
comandante in seconda del vascello mercantile, cioè il luogotenente del comandante, non era lui,
era il nochiero, nome che poi, raddoppiandosi nella comune parlata la consonante della sillaba
accentata, fenomeno comune a tante altre parole della lingua italiana, diventerà nocchiero. Egli
doveva pertanto saper farsi ubbidire prontamente da tutto l’equipaggio ed essere inflessibile sulle
punizioni quando necessarie; doveva inoltre innanzitutto accertarsi che il vascello fosse ben
stagno e ben zavorrato, per cui doveva saper metterlo in stiva, cioè equilibrarne bene i pesi,
affinché navigasse il più possibile dritto, leggero e spedito, e doveva far attenzione che
mantenesse lo stesso equilibrio ogni volta che si prendesse del nuovo carico.
Il vascello mercantile, tondo o quadro che allora si preferisse dire, era dotato di qualche pezzo
d’artiiglieria, caratteristica che mantenne, anche se alla fine sempre più sporadicamente, fino alla
Prima Guerra Mondiale, ma, se era armato da guerra, oltre ad avere un numero molto maggiore di
bocche da fuoco, portava anche la guarnizione militare [gr. ναυτιϰή δΰνᾰμις, ναυμαχόι, ἐπιβάτάι,
(πλέων) μᾰχηταί, μᾰχᾱταί, μᾰχαίται. μᾰχᾱτάρες; lt. (propugnatores) classiarii], comprendente un
capitano, ufficiali di compagnia e soldati, la cui piazza d'armi si stabiliva in combattimento per lo più
nel largo che si trovava tra l'albero di maestra e quello di trinchetto; c'erano infine due bombardieri
o uno solo se il vascello era più piccolo. La polvere d'artiglieria era tenuta sul fondo del vascello
per lo più sotto il castello di prua, in luogo quindi appartato dalla gente di bordo e ben serrato,
calafatato e ricoperto di pelli vaccine con il pelo tenuto all'infuori, affinché non v'entrasse né acqua
né fuoco; ma, seppure tali pelli hanno buone proprietà ignifughe, l’umidità della cala poteva
sempre insinuarsi tra esse e rendere inefficace la povere, per cui era necessario farle prender ogni
tanto aria, come ben si legge al Cap. XVIII del più tardo codice marittimo che sarà promulgato in
Svezia nel 1667, cioè durante il regno di Carlo XI (1655-1697):

Tutti i patroni che hanno vascelli armati avranno cura… che la polvere sia rimossa ogni quindici
giorni e che sia seccata e arieggiata sulla coperta, quando il tempo è limpido ed i fuochi ben
spenti; si farà preferibilmente questa operazione a terra quando fosse possibile… (J. M.
Pardessus. Cit.)

Per ‘vascelli armati’ il suddetto codice intendeva quelli dotati di almeno 14 pezzi d’artiglieria, di
ferro o di bronzo che fossero (ib.), perché era normale che anche i mercantili avessero qualche
bocca da fuoco per difendersi da corsari e pirati.
Il capitano della guarnizione militare poteva servirsi dello scrivano di bordo allo stesso modo del
patrone, ossia per la contabilità della gente, delle razioni, dei materiali e delle armi. Così come la
gente di capo (lem/ctm. companya de cap), ossia i marinai e le maestranze, anche la guarnizione
87

militare di bordo si divideva in quattro quarti e s’affidava a quattro capi (‘caporali’), cosa che, come
vedremo avveniva anche sulle galere; ogni quarto di soldati doveva anche aver cura dell'artiglierie
del suo quartiero, ciò però agli ordini del bombardiero, affinché le stesse fossero sempre in ordine
e messe in punto.
C'è però da chiarire che nella composizione dell'equipaggio d’un vascello, specie tondo, potevano
esserci sostanziali variazioni e differenze a seconda se esso era o non era armato a guerra e, in
caso affermativo, se era armato a guerra totalmente o solo parzialmente e se era armato per
battaglia reale o per il corso (gr. ϰοῡρσος); anche i vascelli mercantili navigavano comunque
sempre relativamente armati, perché se un padrone o comandante si vedeva nella necessità di
combattere, i suoi marinai erano tenuti ad aiutarlo fedelmente a difendere sia la nave sia il suo
carico, come per esempio si legge nel diritto marittimo della Lega Anseatica all’anno 1434 (J. M.
Pardessus. Cit.), e i suoi impresari (oggi diremmo, anche se impropriamente, ‘armatori’) erano
tenuti, specie nel caso di viaggi in mari lontani, ad armare a loro spese la nave anche con
artiglieria, come abbiamo appena detto, e con tutto il corredo necessario al suo uso e maneggio,
anche se nella maggior parte dei casi si trattava di poche e piccole artiglierie che i marinai di bordo
sapevano normalmente adoperare anche senza essere degli artiglieri professionisti; quest’obbligo
si legge nel Guidon de la mer, raccolta di regolamenti marittimi francesi della fine del Cinquecento
che tratta soprattutto delle assicurazioni marittime (ib.) e che include anche un’ordinanza del 1584
riguardo all’armamento a cui s’obbligavano i mercantili. In quest’ultima infatti si disponevano, per
quanto riguarda i mercantili da 30 a 40 tonelli di portata, un equipaggio non inferiore ai 12 uomini e
due mozzi, due doppie barces (cortaldi) e due moiane, sei mezze-picche e quattro archibugi o
balestre guarniti del necessario; i mercantili da 50 a 60 tonelli almeno 18 uomini, due passa-
volanti, quattro barces, sei picche e sei mezze-picche, quattro archibugi o balestre; quelli da 90 a
100 tonelli di 36 uomini, due pezzi di gran calibro per palle da bastarda, due passa-volanti e otto
barces, 12 picche e 12 mezze-picche, 12 lance di fuoco (sputafuoco, fr. lances à feu, cioè armi
astate che all’apice avevano, oltre alla punta acuminata, anche una piccola tromba di galera da
accendere, arma di cui poi diremo), 8 archibugi o balestre; quelli da 110 a 120 tonelli di 45 uomini,
due cardinali o altri pezzi tiranti palle da bastarda, quattro passa-volanti (du nouveau calibre), 12
barces, 24 picche 12 mezze-picche, 12 lance di fuoco, 2 false lance, dardi ferrati da gabbia in
quantità sufficiente, 12 archibugi o balestre; inoltre tutti i mercantili dovevano esser ben muniti di
polveri e proiettili e, a partire dai 90 tonelli in su, dovevano anche esser strutturalmente ben pontati
e pavesati; quelli ancora più grandi sarebbero stati soggetti a particolari regolamenti
dell’ammiraglio di Francia.
88

Étiennede Cleirac (Us et coustumes de la mer etc. Bourdeaux, 1661), a cui si deve la citazione
dell’ordinanza suddetta, più avanti pure ne riporta – più dettagliata e tradotta in francese - una
fiamminga emessa da Filippo II stranamente nello stesso 1584, per cui non si capisce quale dei
due sovrani si sarebbe voluto così mettere all’altezza della legislazione marittima dell’altro. Per
quanto riguarda l’equipaggio, i mercantili da 40 a 50 tonelli di portata dovevano esser montati
almeno da 8 uomini di non meno di 18 anni d’età; da 50 a 80 di 12; da 80 a 100 di 16; di 150 a 200
di 24; di 200 a 250 di 28; di 250 a 300 di 36; oltre di 300 di 44. Da detti numeri erano esclusi mozzi
e ragazzi di età inferiore ai 18 anni. A proposito invece dell’armamento, i mercantili da 40 a 50
tonelli di portata dovevano presentare perlomeno 6 cortaldi (barces) semplici o doubles (cioè di
calibro molto maggiore dei semplici), sei archibugi da cavalletto (à croc) e sei picche; quelli da 50 a
80 due cortaldi doppi e sei semplici, sei archibugi da cavalletto e 12 picche; da 80 a 100 quattro
falconetti, sei cortaldi doppi, 12 archibugi da cavalletto e 18 picche; da 100 a 150 sei falconetti, due
cortaldi doppi e sei semplici, sei archibugi da cavalletto e sei moschetti (omesse le picche); da 150
a 200 otto falconetti, quattro cortaldi doppi e otto semplici, otto archibugi da cavalletto, otto
moschetti e 30 picche; da 200 a 250 dieci falconetti, sei cortaldi doppi e sei semplici, 18 archibugi
da cavalletto, altrettanti 18 moschetti e 36 picche; da 250 a 300 dodici falconetti, 12 cortaldi doppi,
24 archibugi da cavalletto, 48 picche. Per mercantili più grandi ancora, quantitativi d’uomini e armi
a proporzione; tutti dovevano poi avere palle e polveri per almeno 25 tiri da ciascun pezzo e tutti
dovevano essere opportunamente corredati degli attrezzi e dei materiali necessari al maneggio
dell’artiglieria e alla preparazione delle polveri.
Quanto suddetto riguarda i mercantili che lasciavano i porti fiamminghi, i quali non potevano esser
inferiori ai 40 tonelli e, se diretti in Spagna e in altre province a essa soggette, alle 80,
evidentemente per una questione di mantenimento del prestigio nazionale; ma quelli che vi erano
diretti dalla Spagna, i quali erano, per lo stesso e maggior motivo, di solito più grandi, dovevano
esser anche meglio armati; quindi, da 100 a 150 tonelli 32 uomini, di cui 25 abili a portare le armi
compresi tre artiglieri, quattro passavolanti, due corsieri o pezzi di gran calibro (cioè cannoni da
30/32 libbre) e 10 cortaldi; 10 archibugi, sei balestre d’acciaio, 72 picche, 72 spade o coltellacci
(daghe a un taglio) e un numero di rondacci e di pavesi o scudi da difesa statica, infine palle e
polveri per tirare 24 colpi da ciascun pezzo. Mercantili di maggior o minor tonnellaggio armati a
proporzione; secondo una più vecchia ordinanza dell’ottobre 1565, i pescherecci (ltm. tractae) più
grandi, per esempio quelli che andavano a pescare sui banchi di Terranova, dovevano esser
anch’essi convenientemente armati e cioè dovevano avere almeno un falconetto, due o tre
cortaldi, cinque o sei archibugi da cavalletto, da otto a 10 picche e dei marinai che s’intendessero
di artiglieria.
89

Per meglio difendersi i mercantili dovevano poi viaggiare il più possibile di conserva (fr. en flotte)
eleggendo tra loro un vice-ammiraglio (gr. ἐπιστολεύς) che comandasse e giurandosi assistenza
reciproca; era tutti severamente proibito di caricare il vascello troppo o comunque in maniera tale
da impacciare il maneggio delle bocche da fuoco.
Gli olandesi, i cui mercantili di lungo corso (lt. naves mercatoriae longinquae) erano andati nel
Cinquecento sempre molto più armati di quanto appena descritto, dopo aver unificato il 20 marzo
1602 i loro traffici d’oltremare in una grande unica ‘Compagnia delle Indie Orientali’ (De
Oostindische Maatschappije, compagnia i cui vascelli avevano diritto a essere nei loro lunghi
viaggi sempre scortati da quelli da guerra, cominceranno pertanto a ridurre l’armamento a quello
detto appunto ‘a mercanzia’; il momento in cui cominciò ad avvenire questo cambiamento s’evince
per esempio in un’interessante relazione datata in Venezia il 12 dicembre 1606 e citata dal
Guarnieri nella sua opera sul porto di Livorno, relazione nella quale, descrivendosi le attività
marinare di lungo corso degli olandesi e dopo essersi valutate dalle 6 alle 8 le grandi navi che ogni
anno Olanda e Zelanda inviavano allora a Capo Verde e dalle 20 alle 25 quelle che mandavano
più a sud in Guinea, così si prosegue:

… per Angola vi va poc(h)e nave e non carricano che puoc(h)issimo oro, ma tutto lor negozio
consiste in comprar de (s)chiavi o negri, li quali le revendino poi con grosso utile in Brasil od alle
Indie di Nuova Spagna, ma la più parte si conducono al Brasil… Hodie (‘oggi’) per gli soprascritti
signori Stati (‘Stati Uniti d’Olanda’) è fatto tutta una compagnia e vi anderà l’anno in tutto da 30
vaselli grandi et in oltra per la securezza loro vi terranno di continuo da dieci navi grande di guerra,
ancor che li vaselli delli mercanti sono armati quanto gli vaselli di guerra… (Cit.)

Questo brano è molto interessante perché ci dice due cose oggi molto poco note e cioè che i
vascelli ‘negrieri’ erano in gran parte olandesi, che non andavano in Africa a catturarne e a farne
schiavi gli abitanti con la violenza come molti oggi credono, ma gli schiavi li trovavano già pronti da
comprare in mercati tenuti da trafficanti, i quali nel caso dell’Angola, considerata la lontananza,
dovevano essere anch’essi gente locale e non i soliti negrieri arabi che operavano più a nord.
L’Angelucci (v. fonti) riporta l’inventario del corredo e dell’armamento di una nave acquistata dal
duca di Ferrara Ercole II d’Este con atto del 17 giugno 1541 rogato dal proto-notaio Battista
Saracco, nave presumibilmente veneziana a giudicare dal nome Bisenin e dalla circostanza che
allora era ormeggiata a S. Biagio di Venezia; aveva una portata di 24 charate (‘carrate’) veneziane
corrispondenti a circa 4mila staia ferraresi e dunque, poiché lo staio di Ferrara era equivalente a
dmc. (ossia a litri) 30,862 di oggi (Lazzarini), si trattava di una nave all’incirca da lt. 123.448,
quindi 250 tonelli: a bordo, tra gli altri corredi e munizioni presenti si trovavano le seguenti armi:
90

4 bombarde de ferro cum mascoli (‘camere mobili’) n° 8, zoè de reparo.

Sono bocche a palla di pietra, probabilmente bombardelle incavalcate di quelle che poi saranno
dette da braga, cioè a retrocarica con mascolo, e ne spiegheremo più avanti il funzionamento.

2 passavolanti de ferro cum mascoli n° 4.

Sono artiglierie a palla di piombo incavalcate, ma anche in questo caso sono bocche
impropriamente chiamate passavolanti, come abbiamo già visto in un caso precedente, anche se
stavolta non si tratta di cierbottane bensì di quelle allora dette moschetti da braga e in seguito
smerigli; e ciò sia perché a retrocarica, cosa che i passavolanti non erano, sia perché questi erano
in proporzione le bocche più lunghe allora esistenti e quindi le più inadatte a fare da artiglierie
navali.

1 passavonte intriego (‘intiero, di un sol pezzo’) de ferro.

Ecco invece un normale moschetto da reparo, cioè da posta marittima, incavalcato come i
precedenti ma ad avancarica.

1 spingarda.
12 spingardelle cum li sui mascoli n° 22, computando dui che sono al castello per pegno.

Queste sono piccole e piccolissime bocche da fuoco fatte di due pezzi, incavalcate e a
caricamento da camera, cioè posteriore, ma si trattava di un tipo diverso da quello più tardo detto
da braga; spieghiamo questa differenza che nella nostra opera dedicata all’artiglieria.

8 balestre con le sue lieve et li sui passadori, dozene n° 10.

Dunque nel 1541 le balestre facevano ancora parte degli armamenti di bordo marittimo; queste
presenti a bordo della Bisenin si caricavano a leva e non a mano o a mulinello; tiravano vari tipi di
dardi da balestra che potevano essere, a seconda se preparati per balestre più piccole da caricarsi
tenendole ferme con un solo piede o per quelle più grandi da due piedi, di canna, di legno o
d’acciaio e cioè passatori o verrettoni, ossia saette da balestra, con normali impennatura e punta di
ferro appunto da saetta, muschette a punta alata per fare peggior ferita e quadrelli a punta e asta
d’acciaio quadrangolare.
91

11 piche de frassino cum li sui ferri.


120 dardili (aste da dardo?) de frassino.
1 caza per cargar el pezo intriego.
4 martelli per far le ballote de piera et uno majo picho (‘mazzuolo’).
2 bastoni de dar fuogo (‘buttafuoco o porta-miccia’).
2 brag(h)e de ferro (‘code direzionali a braga da cavalletto’) per li passa volanti et due verigole
(verine, succhielli).

Anche quando, nel Basso Medioevo, ancora non si erano diffuse le armi da polvere (oggi diremmo
‘da fuoco’), i marinai arruolati su vascelli mercantili erano stati tenuti a presentarsi armati, anche se
non sappiamo di quali armi in particolare, e, se non l’avessero fatto, le armi sarebbero state loro
fornite dal comandante, ma detraendone poi il costo dai loro salari; ecco infatti l’art. CXXXIII del il
trecentesco codice barcellonese di legislazione marittima detto Consolato del Mare, poi adottato –
o perlomeno rispettato - da tutte le principali potenze navali mediterranee:

… Ancora, il marinaio è tenuto a portare le armi che avrà convenuto col comandante della nave e,
se non le porta, il comandante può comprarle a debito del suo salario senza bisogno dell’assenso
del marinaio, il tutto essendo annotato dallo scrivano. (Pardessus. Cit.)

Poiché un’armata genovese era uscita minacciosa dalle sue basi, il re Pedro IV di Aragona, con un
ordinanza del 4 marzo 1354, la quale il 16 luglio 1356 sarà inasprita persino con un divieto a tutte
le imbarcazioni di ingolfarsi, cioè di navigare in alto mare, disponeva le minlme provvisioni di
sicurezza che i vascelli mercantili dovevano adottare nel navigare nei mari di Catalogna; i vascelli
di tre ponti dovevano imbarcare 150 persone e cioè 80 marinai, 40 balestrieri e 30 mozzi (lim/ctm.
servicials; sp. grumetes), tutti di età non inferiore ai 16 anni e portatori di armi proprie; quelli di due
ponti, ma dalla portata di duemila salme, 60 marinai, 20 balestrieri e 20 mozzi; infine quelli di due
ponti o di un solo ponte dalla portata di mille e cinquecento salme 40 marinai, 20 balestrieri e 20
mozzi. Tutti i vascelli dovevano poi essere encuyrades (cst. encorades; ‘incuoiate’), cioè dovevano
avere i fianchi ricoperti quanto più possibile di cuoiame fresco, come abbiamo già spiegato
(Ordenanzas etc. Cit. Pp. 129-131).
L’art. XVI d’un editto della Lega Anseatica promulgato nel 1447 imponeva a tutti i vascelli
mercantili di quelle città marinare di portare a bordo un numero d’armature proporzionato alla loro
portata; un naviglio (gr. πλοιάρια) di 100 lastes doveva esser munito di 20 Manne Harnsch
(‘armature da uomo’) e un naviglio più grande o più piccolo doveva esserlo in proporzione, sotto
pena per il suo padrone d’una ammenda d’un marco d’oro ogni volta che ne fosse trovato privo
dagli ispettori delle predette città o dai preposti degli uffici consolari anseatici in Fiandra e in
Inghilterra (ib.) L’art. XXXII del regolamento anseatico del 1530 - poi ripetuto nel XXXVI di quello
92

del 1591 - faceva obbligo ai marinai di quelle città di difendere nave e carico in caso d’attacco di
pirati sotto pena di perdere il salario; se poi la nave restava catturata, l’art. XXXVII del predetto
ordinamento del 1591 prevedeva la pubblica fustigazione con verghe del colpevole all’uopo legato
al ceppo di prua e questa pena sarà poi confermata dall’art. XXVIII del regolamento del 1614 (ib.)
L’art. XXVI del detto ordinamento del 1530 ci fa vedere i marinai anseatici riconoscibili da un’ascia,
essendo evidentemente quella la loro arma corporativa:

… Item. Nessun marinaio dovrà portare qui (‘a terra, nelle città della Lega’) asce nelle strade, sotto
pena di confisca dell’ascia e sotto pena d’essere punito dal venerabile senato; nondimeno, un
timoniero e un nostromo (“eijn Sturman unnd eijn hovet-Bossman”) potranno portare un’ascia. (ib.)

Questo concetto di ’armamento’ fu metonimicamente esteso dalle sole armi a tutto il necessario
corredo di bordo già nell’antichità, come leggiamo nell’Onomastikon del Polluce:

… In effetti tutti gli strumenti (di bordo) si dicono armi (τὰ δὲ σύμπαντα σϰεύη, ὂπλα ϰαλεῖται. G.
Polluce, cit. I.IX, p. 65).

Se dunque un vascello mercantile s’imbatteva in un legno da guerra nemico, poteva senz’altro


decidere di difendersi prima di darsi per vinto; ma, se sfortunatamente incontrava più vascelli
nemici, una squadra (itm. banda) o addirittura un’intera armata (itm. brigata)? Era consuetudine,
come si legge all’art. CLXXXV del predetto Consolato, offrire al nemico il pagamento d’un riscatto
per non essere assaliti e l’entità di questa era concordata col nemico sulla base del valore della
nave e delle merci trasportate; ma per questo, se al viaggio partecipavano mercanti caricatori, il
comandante era tenuto a chiedere anche il loro assenso e ognuno di loro doveva partecipare al
pagamento del riscatto in relazione al valore delle proprie merci presenti sulla nave e di metà della
stessa nave; i mercanti non potevano opporsi se il comandante si dichiarava disponibile a pagare
di persona il riscatto sull’altra metà del valore della nave. Se poi a bordo non c’erano mercanti,
allora il comandante doveva ottenere l’assenso dell’equipaggio. In caso d’incontro con vascelli
armati amici ovviamente non si offrivano taglie, ma era d’uso offrire loro regali e rinfreschi, perché
poteva sempre capitare di dover poi in qualche occasione aver bisogno del loro soccorso; anche in
questo caso però il comandante doveva ottenere l’assenso dell’equipaggio perché altrimenti
avrebbe dovuto dato questi regali e rinfreschi di sola tasca sua (ib.)
E se il vascello mercantile s’imbatteva in un vascello altrettanto mercantile, ma nemico? Il
comandante poteva pensare d’assalirlo per impadronirsene, ma doveva ottenere per questo
l’assenso dei mercanti caricatori, se presenti a bordo, e, se questi invece non c’erano, doveva
93

desistere, perché non poteva mettere a repentaglio il carico (grb. πλήρωμα) di sua sola iniziativa, a
meno naturalmente che, testimone l’equipaggio, non dimostrasse poi che era stato assalito lui (ib.)
Nel Settecento, la maggior parte dei vascelli francesi adibiti a viaggi di lungo corso (ol. verre-
reisen, verre-zee-vaarten, verre-togten, lange Raisen) - e per tali s’intenderà soprattutto quelli
diretti alle Indie, sia orientali che occidentali, in cui si dovrà passare la linea equinoziale - saranno
armati per metà a guerra e per metà a mercanzia, il che significava avere sì il vantaggio di potersi
difendere, ma contemporaneamente anche lo svantaggio di non poter commercialmente ricavare
quanto si sarebbe invece potuto da vascelli totalmente adibiti a mercanzia.
Per riassumere infine alla grossa quanto finora detto dei vascelli tondi citeremo il Malipiero laddove
ricorda l’armata che nel 1496 volle raccogliere a Genova l’imperatore Massimiano I d’Austria per
cercare di sbararre il passo a quella francese che si diceva asrebbe venuta a portar soccorso alle
filo-francesi Livorno e Firenze:

L'armata era di tre nave genoese, sei barze, sei galeoni et otto nostre galee et do genoese; et do
bergantini… (D. Malipiero, cit. P. 545)

Dunque navi, cioè vascelli tondi a prevalente vela quadra, barze o caravelle, cioè vascelli tondi a
prevalente vela latina; galeoni, questi vascelli tondi dalla forma più allungata, provvvisti di un quinto
albero e privi del cassero di prua, quindi più veloci e potenti delle navi e delle caravelle; galee, cioè
vascelli remieri di media grandezza e bergantini, ossia vascelli remieri piccoli che potremmo
definire quarti di galea.
94

Capitolo III.

Le esperienze di un passeggiero.

Abbiamo pensato di concludere il discorso dei vascelli mercantili traducendo un po’ dei Voyages di
Jacques de Villamont, interessantissimi appunti di viaggio di un gentiluomo e cortigiano francese
già più sopra ricordato e cioè di Jacques de Villamont, il quale fu pellegrino in Terra Santa nel
1589, dal momento che non mi sembra che in secoli alcun altro si sia mai preso la briga di tradurlo
in italiano. Egli dunque, come la maggior parte dei pellegrini europei, pur partendo dalla Francia,
s’andò ad imbarcare a Venezia, perché in tal modo il passaggio per mare, cioè la parte più
disagiata di quell’allora impegnativo viaggio, s’abbreviava di molto rispetto a quello che si poteva
fare invece da Marsiglia e inoltre quelli benestanti avevano così anche l’opportunità di visitare
parte dell’attraente Italia, nazione allora poco attrezzata e comoda per i viaggiatori, ma ricca di
bellezze artistiche e di curiosità. Aveva lasciato la Francia nel giugno del 1588 e, dopo aver
viaggiato per diporto in Italia, era arrivato a Venezia il 4 marzo dell’anno seguente, per poi partire
in nave per levante il 19 aprile. A differenza di tanti altri pellegrini che viaggiavano in galea, come
poi vedremo, egli si affidò alla marineria mercantile, anche a quella turca viaggiando in germe e
caramussali, e inoltre fa delle interessanti considerazioni sui lazzaretti di Venezia che non abbiamo
trovato in altri autori. Si mise d’accordo per condizioni e costi del viaggio con il patrone della
grande nave dal nome Nave ferrea – o qualcosa di simile – diretta a Tripoli di Siria, il quale era un
gentiluomo veneziano che si chiamava Candido Barbaro e da lui i passeggeri riceveranno solo
cortesie e buon trattamento, potendo muoversi sulla nave dappertutto senza limitazioni; però non
gli seppe dire con precisione in che giorno sarebbero partiti, e allora qualcuno gli dette il consiglio
di regolarsi sull’imbarco dello scrivano:

… dal momento che c’è un proverbio generale e cioè che, dopo che lo scrivano si è imbarcato, si
fa vela immediatamente senza attendere più alcun’altra persona (J. de Villamont, Libro II. Cit.)

Gli fu inoltre consigliato di portarsi a bordo provviste di cibo salato perché altrimenti avrebbe
mangiato sicuramente malissimo, e inoltre una barile di vino perché quello che si beveva a bordo
era generalmente annacquato per più della metà. Non portò il barvile d’acqua che pure gli avevano
consigliato, ma se ne pentì, perr cui lo portò poi nel viaggio di ritorno. Egli aveva comunque preso
95

accordi per consumare i pasti alla tavola del patrone, cioè a quella dove si sarbbe mangiato meno
peggio, mentre altri passeggeri, o per mancanza di posto o per risparmiare, pagarono invece per
frequentare quella dello scalco, cioè dell’imbanditore e maestro di cucina, ma anche lì si era
generalmente trattati proprio male. Portò ancora rimedi di farmacia sia contro il vomito sia contro la
febbre sia contro la costipazione del ventre, tre mali molto comuni tra i passeggeri nautici di quei
tempi. Si portò infine anche il letto ed era fatto in questa maniera; si trattava di un a cassa di abete
di 5 piedi per 2, nella quale erano riposte tutte le sue cose e sulla quale adagiava il materasso, un
po’ più lungo e largo della cassa stessa e imbottito di lana di Cipro, unica qualità di lana che non si
accumulava. Aggiunse una coperta trapuntata e lenzuola di lino in buon numerro perché le
potesse cambire spesso:

...è necessario cambiarle spesso per evitare l'inconveniente dei parassiti, i quali abbondano troppo
nelle navi, e il modo per sfuggirli è rifornirsi spesso di lino bianco e di avere a che fare il meno
possibile con marinai e con altri passeggeri poveri che non hanno il modo di mantenersi puliti (ib.)

Pe quanto riguardava gli abiti da portarsi, si era abbastanza liberi, ma facendo attenzione a un
paio di cose:

… e, nonostante nella nave si possano portare tutti i tipi di vestiti che si vorranno, nondimeno,
considerando che in essa potranno esserci diverse nazioni straniere che hanno in orrore gli abiti
corti, io comprai una lunga veste leggera fatta alla turca e di poco prezzo; perché è molto meglio
andarci abbigliati modestamente e non portare su di sé cose che siamno ricche o desiderabili
perché turchi, mori e arabi se ne impadronirebbero immediatamente, includendo cappellini, coltelli
e spille se se ne accorgono, essendo essi molto amanti di quelle piccole sciccherie. Bisogna anche
essre avvistai di non portare nulla di (color) verde, dal momento che presso di loro nessuno ha il
potere di portarne se non coloro che sono diretti discendenti del loro falso profeta Maometto (ib.) .

Per gli stessi suddeti motivi non era consigliabile di portare più danaro contante di quanto potesse
servire per andata e ritorno, magari calcolando qualcosa di più se si aveva intenzione di
approfittare di quel viaggio per andare a visitare Damasco o Il Cairo o anche per tornarsene
passando per Costantinopoli. Salito a bordo, restò dapprima male impressionato dal non riuscire
ad alloggiare in maniera comoda e tranquilla a causa del gran numero di persone che venivano a
portare le lro mercanzie e i clamori che i marinai facevano a tutte le ore nel caricare quelle merci e
nel levare le ancore, lavori che accompagnavano con quelli che i marittimi greci chiamavano
ϰελεύσματα, cioè canti cadenzati.

Ma il giorno seguente il patrone ordinò il suo posto a ciascuno e fece trainare la nave dal porto con
trentasei barche che aveva fatto venire da Venezia proprio per questo scopo, dato che il tempo era
calmo, e in ciascuna di queste barche c’erano sei uomini che con tutte le loro forze la trainavano in
pieno mare ed era molto bello vederli vogare e tirarsi dietro un così gran corpo di legno (ib.).
96

In realtà si trattava di una nave davvero grossa per quei tempi in quanto sotto quello di coperta
aveva ben tre altri ponti e il de Villamiont ne da pure le misure e le principali caratteristiche,
tenendosi presente che il piede comune o dell’Arsenale veneziano misurava cm. 32 di oggi:

Lunghezza dello scafo alla sommità: piedi 188.


Lunghezza dello scafo alla base: piedi 150.
Larghezza dello scafo alla sommità: piedi 59.

Il primo ponte era alto 12 piedi, il secondo 10 e il terzo 7½. Sotto il castello di poppa, a livello
della coperta, c’era un’ampia sala dove ci si sedeva ai pasti e si trattava di 39 persone, tra
passeggeri e ufficiali, quasi tutti a uno stesso lungo tavolo, ma nessuno osava sedersi se
prima non lo avevano fatto il patrone, il nocchiero e lo scrivano; sopra questa sala c’era un
livello in cui si trovavano la camera dello scrivano, quella in cui dormivano passeggeri e,
davanti a queste due, un largo spiazzo che serviva al maneggio delle vele e dei cordami
dell’albero di mezzana, il che significa che si trattava di un trealberi; al secondo ponte
superiore c’era la camera del patrone, anche questa con uno spiazzo davanti in cui
sitrovavano la bussola e il piloto che governava la rotta; ancora più in alto, al terzo ponte
superiore, c’era la camera del piloto con un altro spiazzo davanti e poi c’era sopra ancora
un livello in cuji, in caso di neecssità, si poteva fare un’altra camera, magari per un opite
importante, per esempio un ammiraglio o un principe; insomma a poppa i livelli, dal basso
all’alto della nave, erano sei o sette, mentre al castello di prua erano cinque o sei.
La nave si difendeva con 24 grosse bocche da fuoco governate da 4 artiglieri, ma a quale
ponte queste fossero il de Villamont non lo dice; probabilmente erano non troppo in alto per
non togliere stabilità alla nave e non troppo in basso per non essere molto soggette ai
marosi. Il patrone aveva detto al de Villamont che la nave era costata agli armatore
cinquantamila scudi, equipaggio compreso, e che di solito portava un grosso carico di
milleottocento pipe di vino, cioè di novecento tonnellate, il che, scriveva il francese, poteva
sembrare forse troppo, ma, date le dimensioni della nave, in effetti non lo era. Queste
proporzioni e caratteristiche ci fanno capire come nel passato fosse trascurabile il costo del
lavoro rispetto al preponderante valore delle merci, se il nolo di novecento tonnellate di vino
poteva coprire le spese di esercizio e manutenzione, tra l’altro, di 24 grosse canne di
artiglieria. La scialuppa di salvataggio era una piccola fregata.
97

Quanto al resto della nave, sarebbe troppo lungo descriverla: mi accontenterò di dire che la vela
maestra era larga ottantotto piedi e lunga settanta piedi e che in cima alla coffa potevano starci
comodamente trenta uomini. In breve, era un nave di ammirevole grandezza che merita più di
essere vista che scritta (ib.)

Il de Villamont era uno di quei viaggiatori gentiluomini e cortigiani francesi molto ben abituato a
tavola e quindi ci descrive come i pellegrini erano trattati ai pasti in una nave veneziana che,
quando anche condotta da veneziani, si era di solito, come detto, ben trattati in tutto per quel che
si poteva in quei tempi:

… Sulla tavola si mette il coltello, il cucchiaio, la forchetta e il bicchiere nel quale versare il vino da
un boccaleche è anch’esso sulla tavola;è ben vero che il vino è mescolato per la metà con acqua,
la quale, divenuta putrefatta, non prova certo molto piacere a berla; ma si ricorre al vino che si è
portato in scorta personale. Per i primi due o tre giorni si mangia del pane fresco, ma, una volta
terminato quello, si serve in tavola del biscotto (‘galletta’). La cosa sembra molto scomoda all'inizio,
ma si può immergere il biscotto nel vino o nell'acqua per ammorbidirlo e così abituarcisi. Per
quanto riguarda le vivande, se ne mangia anche di fresche all’inizio, poi saranno servite in tavola
quelle salate, ma nei giorni proibiti dalla Chiesa si mangiano uova e sardine salate con fave
spellate, minestre di lenticchie e di riso in un po’ d’acqua e olio e a mfine pstao si hanno delle noci
e del formaggio, il quale è a volte buono e a volte cattivo (ib.)

Non era d’accordo il de Villamont con quei pellegrini i quali avevano poi raccontato di quel viaggio
che i marinai li avevano trattato male e con parole villane, arrivando persino al punto di pungerli da
dietro (‘poinçonner par le derrier’); lui questa cattiva esperienza non l’aveva assatto avuta:

Non voglio dire che i marinai non ti deruberanno se possono e non ti dicono al volo qualche parola
arrabbiata e che sopportiamo molte pene e disagi a causa del mare e del cambiamento di vita, ma
per il resto protesto con verità che è il massimo piacere che si può avere per la moltitudine di paesi
che si vedono dirigendosi verso la Terra Santa... (ib.)

Verso la fine del viaggio si seoppe che a Tripoli di Siria imperversava la peste e pertanto i
pellegrini, sbarcati altrove, dovettero continuarono il loro viaggio con altri passaggi marittimi, ma
stavolta su vascelli mediorientali che non risultarono per nulla comodi e ospitali come lo era stata
la grande nave comandata dal gentiluomo veneziano Candido Barbaro:

… Navigando dunque verso il Regno di Cipro per andare a Damietta, sopportammo un caldo così
grande che fin dal primo giorno fui assalito da una febbre continua, accompagnata da un
veemente flusso di stomaco, tanto che di giorno in giorno le mie forze diminuivano, perché né
bevevo né mangiavo altro che pane e acqua, soprattutto perché il ‘rais’ non voleva che si
accendessero fuochi nel suo vascello né i turchi e i mori che io bevessi del vino per rispetto del
loro Romadan.
Mi diceano mille villanie e tra l'altro che ero una spia della Spagna, di Malta o del Papa e che
dovevo essere gettato in mare, passando e ripassando su di me come su una povera bestia; e
98

quello che mi rendeva più infelice era che mi passavano così tanti pidocchi che non potevo
provvedere ad ucciderli (ib. L. III.)
Qui si trattava di una germa, vascello da carico privo di coperta e quindi molto scomodo per i suoi
pur tanti passeggeri, i quali dovevano quiandi adattarsi a sistemarsi in mezzo al carico; più tardi,
trovandosi invece su un caramussale, il de Villamont viaggiò in maniera molto meno disagiata:

… e così m’imbarcai il sesto giorno d’ottobre in un caramussale che faceva vela per Damietta, nel
quale io fui molto meglio accomodato di come lo ero stato nella germa, dal momento che questo
vascello è ben più grande e più pronto alla vela e migliore nel difendersi (ib.)

Ma comunque il peggio per lui doveva ancora arrivare e fu infatti quando decise di tornare a casa,
anche stavolta via Venezia, approfittando di una nave commerciale veneziana, ma con equipaggio
greco, che si chiamava Trevisana e che stava per partire da Alessandria d’Egitto. Aveva preso
accordi prima con lo scrivano della nave, poi con lo stesso patrone, un greco di Zante, al quale
aveva pure dato, oltre a otto ducati veneziani in pagamento del nolo e del passaggio, sei scudi e
mezzo d’oro perché a bordo fosse ben nutrito; ma poi, una volta partiti, tutti quegli impegni furono
immediatamente disattesi:

… (il patrone) ci trattò molto miseramente per tutto il tempo del nostro viaggio, facendoci mangiare
carne salata puzzolente biscotto (‘gallette’) nero pieno di vermi e facendoci bere vino peggiore
dell’acqua, non mangiandosi nei giorni di magra che delle fave cotte nell’acqua senza alcun
condimento. A quelli che le avevano fatte le provviste straordinarie sono state di grande utilità.
Se il patrone era avaro e disumano, i marinai erano ladroni, bestemmiatori e pieni di ogni vizio,
derubandoci di notte mentre dormivamo, e perfino lo scrivano della nave, senza che fosse
possibile scoprire l’indomani chi aveva commesso il furto dal momento che il patrone non ne
teneva alcun conto, perché erano tutti greci come lui, una nazione che ci odia più dei turchi e dei
barbari, preferendo dare le proprie figlie in servitù ai turchi che in matrimonio ai cattolici; e così ,
anche il castigo di Dio è caduto sulle loro teste, perdendo il loro Impero e tutti i loro possedimenti e
riducendoli come in servitù in varie parti del mondo, arrivando io a paragonarli in ostinazione agli
ebrei eccetto per quanto riguarda la fede e il nome di cristiani che portano.
Il patrone aveva promesso di alloggiarmi al coperto, ma, una volta imbarcati, mi disse di affittare la
capannuccia in cui dormiva il nocchiero, il che fui costretto a fare pagando tre zecchini d’oro e
questo solo per poter dormire di sopra (ib.)

Questo viaggio da Alessandria d’Egitto a Venezia, a causa di varie traversie e di venti contrari,
durò ben 108 giorni e molti, tra passeggeri e marinai, vi trovarono la morte a causa di un’epidemia
di febbre tifoidea o di colera che scoppiò sulla nave; a un certo punto trovandosi, senza volerlo, nel
Golfo della Sirte, corsero inoltre il rischio di finiore nelle mani dei barbareschi, dai quali a differenza
di quando si erra presi dai turchi, era molto difficile liberarsi, perfhé i turchi, abituati a trafficare con
i cristiani, chiedevano riscatti, mentre i barbareschi, non avendo nulla da scambiare perché nulla
99

producevano, mentenevano gli europei catturati in una durissima schiavitù a vita e, quando pure
talvolta offrivano l’occasione di un riscatto, non ci si poteva assolutamente fidare della loro parola.
Furono costretti a bere acqua corrotta e a mangiare carne cotta il giorno prima:

... erano trascorse più di due settimane da quando l'acqua aveva cominciato a mancarci e la
stavamo distribuendo a razione, ricevendo ognuno solo una pinta al giorno da bere e per di più era
così piena di vermi e puzzava così tanto che eravamo costretti a filtrarla attraverso una tela e a
tapparci il naso mentre la bevevamo. D’altra parte si faceva cuocere la carne per due giorni per
risparmiare sia l’acqua sia la dispensa, non ricordandomi di aver mai sopportato tanta sete come in
questo viaggio, perché da una parte mi ardeva la febbre e dall'altra il caldo terribile del tempo, e,
se i vermi brulicavano nell'acqua, altrettanto facevano nel biscotto. Fummo talmente maltrattati che
i bisogni della vita ci costringevano a bere e a mangiare ciò che trovavamo, senza d’altro canto
badare alle cose che vi fossero dentro (ib.) .

Una volta arrivati poi finalmente a Venezia, i naviganti supertisti dovettero poi sopportare altri 40
giorni di isolamento per quarantena sanitaria.

… Finalmente il 6 luglio arrivammo in Istria, dove la nave ancorò nel porto di Quieto, che vuol dire
porto di riposo, il quale dista cento miglia da Venezia e tutti i vascelli che vengono sia da levante
sia da ponente sono obbligati a farvi sosta e a prendervi un pilota che li conduca al porto di
Malamocco, che dista da Venezia cinque miglia... GIi scrivani di tutte le navi sono soliti prendere
una barca per avviarsi a Venezia portando con sé i passeggeri che vogliono imbarcarsi, pagando
ciascuno un ducato e talvolta uno zecchino; ma succederà che saranno per dieci, venti o trenta
giorni tenuti al Lazzaretto a differenza di quelli che invece resteranno nelle navi finché non avverrà
che le dette navi possano prendere porto a Venezia così come anche loro (i passeggeri in
quarantena), il tutto a seconda delle occasioni dei tempi. Noi passeggeri che eravamo sulla detta
nave ci siamo imbarcati nella barca del suddetto scrivano [...] e dal detto luogo fummo subito
mandati dai Signori della Salute al Lazaretto Vecchio, che è il luogo dove si va a purgarsi per
quaranta giorni prima di mettere piede a Venezia. Al Lazaretto Nuovo si portano (invece) tutte le
merci perché si vendano dopo gli stessi quaranta giorni. Si tratta di due luoghi fabbricati su paludi
circondate dal mare e situati a circa due miglia da Venezia, dove le gondole portano ogni giorno il
necessario per la vita di chi si trova lì, a condizione che paghino le vettovaglie e il lavoro dei
gondolieri.
I fabbricati degli alloggi sono molto belli e divisi tra loro da ampi giardini, nei quali si può
passeggiare avendone licenza dal loro custode, altrimenti si correrebbe il pericolo di ricominciare
la quarantena, anche se non si ha nessun contatto con coloro che sono ospitati negli altri alloggi,
essendo, per così dire, come una vera prigione, eccetto la speranza che si ha d’uscirnesubito non
appena lanave e le persone sqaranno prive di sospetto di contagio; tuttavia sono restii a darne loro
congedo fino a che non si sono purgati perlomeno per il tempo di quindici giorni….faticano a dar
loro il permesso finché non si saranno purgati almeno per il tempo di quindici giorni... (ib.)

Ma, a causa di alcune morti da accertare colà avvenute, la dimissione fu ritardata:

… Dopo essere stati tenuti in cattività per trentasette giorni, finalmentefummo liberati , il 14 agosto,
nel qual giorno entrai per la seconda volta a Venezia… (ib.)
100

Capitolo IV.

I VASCELLI REMIERI.

Abbiamo trattato finora di navi e di barche; ora parleremo invece di quelli che costituiscono il
nostro principale tema, cioè dei vascelli remieri (gr. ἐπίϰωπα, ϰωπῆρη πλοῖα; lt. remivagi; navigia
remivaga; tlt. vassella (subtilia) de remis; tr. çektiri) da guerra, i quali, oltre che tali, erano però
anche velieri e avevano una velatura simile a quella dei suddetti vascelli latini; essi infatti
navigavano in mare aperto (vn. per schiena de mar, ‘senza cabotare, senza scalo’) normalmente a
vela, riservando l’uso dei remi al piccolo cabottaggio, specie quando mancasse il vento, alla
navigazione portuale e alle operazioni di battaglia; differivano però sostanzialmente dai vascelli
latini nel garbo, cioè nella forma, perché l’uso dei remi implicava uno scafo molto basso di bordo e
inoltre di forma molto allungata. Erano stati chiamati nel Medioevo a Ponente generalmente lenij
(‘legni’, ct. lenijs, sp. leños; navigiis quae ligna dicuntur in Annales genuenses Cit. Anno 1332 e
altri), dividendosi in lenij de teriis e lenij de bandis (‘da ale o fianchi’) a seconda che avessero o no
coperta, ma dal Rinascimento prevalse poi la definizione bizantina vascelli sottili (gr. ἂϰᾰτοι, se
grandi o mezzani, e ἀϰατία se piccoli, da cui il lt. naves actuariae, nome questo con cui però
s’intendevano solo quelli piccoli); in gr. si dicevano comunque pure ϰοῡφα πλοῑα, ‘vascelli leggieri
o sottili’ e ϰατέργοι, ‘vascelli remieri in generale’. Si badi però questa loro sottigliezza rispetto ai
vascelli tondi e latini non era da intendersi nel senso della larghezza bensì in quello dell’altezza,
qualità infatti necessaria a permettere la voga (gr. εἰρεσία, ϰωπηλăσία), ma nel secolo successivo
a Venezia s’userà distinguerli pure da quelle galee dette bastarde, bastardelle o anche quartierate,
perché queste, pur essendo altrettanto basse, erano però alquanto più larghe, specie a poppa. A
Levante invece il termine lignum era usato in significato generico di ‘vascello’ già appunto all’inizio
del Trecento, come leggiamo in Marino Sanudo il Vecchio [cum tribus galeis et duobus lignis
grossis et uno minori. In Liber secretorum Fidelium Crucis super Terrae Sanctae Recuperatione et
Conservatione etc. (1321-1323.) P. 315. Hannover, 1611].
Nel Basso Medio Evo, per quanto riguarda i piccoli vascelli da carico e da messaggi impiegati nei
porti, lungo le coste e per il supporto logiostico alle armate, le categorie generiche erano tre e cioe
c’erano quelli remieri o legni di cui abbiamo appena detto, quelli latini (ossia a vela latina, magari
unica) o barche, detti grippi o griparie nell’Adriatico e nei mari di Levante in genere, infine quelli
anch’essi latini ma dal fondo piatto, utilizzabili quindi anche nelle lagune o alle foci dei fiumi,
magari aiutandosi con qualche remo, chiamati invece leuti.
101

Delineeremo ora i tratti principali della marineria da guerra medievale, marina che, come quella
antica, era esclusivamente remiera, e lo faremo però soprattutto per quanto riguarda quella basso-
medievale, perché di quella alto-medievale, dromoni a parte, ci sono rimaste ben poche memorie;
le cronache catalane, veneziane e bizantine sono le letture più importanti da fare a questo fine.
Cominceremo con quella fluviale perché, a differenza di quanto lo sia poi stato nell’Evo Moderno,
fu molto importante nel Medioevo, specie nell’Italia settentrionale. A Bisanzio c’era un vecchio
detto, ϰοντῷ πλεῖν, il quale alla lettera si traduceva ‘navigare con la pertica’, cioè facendo
avanzare la barca nel fiume o nella palude puntando e spingendo una pertica sul fondale, e voleva
dire ‘vivere in maniera acconcia, conveniente’, a dimostrazione di quanto anticamente fosse
importante e praticata la navigazione fluviale (Suida, cit. T. II, p. 347).
Abbiamo già accennato che il nome galeone si ritrova già nelle cronache del dodicesimo secolo
perché nel Medioevo si era già adoperato, ma non, come succederà più tardi a partire dal
Rinascimento, per i grandi velieri di cui abbiamo già detto, bensì per vascelli remieri fluviali più
piccoli delle galee che erano di grande uso per operazioni sia mercantili sia belliche da condursi
appunto su fiumi e laghi (ut vulgo appellant, galeones); il nome tendeva però a essere usato in
maniera un po’ generica per cui detti galioni fluviali potevano essere o monoponte e di basso
bordo, cioè quelli chiamati generalmente ganzerie (o ganzarie o ganzare o ganzaroli, ma spesso
anche gazare) e che potremmo assimilare ai bergantini (gr. e grb. ἐπαϰτροϰέλητες) che poi
vedremo usati in mare, oppure sempre remieri ma biponte e quindi più alti di una galea. Saba
Malaspina, quando racconta di nunzi inviati nel 1284 dalla regina Costanza d’Aragona a Corrado di
Antiochia, cioè dalla Sicilia all’allora Stato Ecclesiastico, scrive che essi traversarono il mare ‘in un
veloce galeone’ (in quodam aligero galione. Cit. LT. X, cap. XXIV), il che conferma il suo coevo
Bartolomeo di Castronuovo laddove questo dice del nunzio inviato all’inizio dello stesso predetto
anno dai messinesi all’imperatore bizantino Andronico II Paleologo (… Et parato ac dato sibi
galeono pro transitu suo… Historia sicula. LT. I, cap. LT. Ib.)
In un ordine di Carlo I d’Angiò del 15 marzo 1273 si comanda di approntare due galionos per dare
la caccia ai vascelli, sia corsari sia commerciali, dell’allora ostile Genova che frequentavano le
coste di Principato e Terra di Lavoro, dovendosi spingere in quest’attività di contrasto fino a
Corneto (‘Tarquinia’) nel basso Lazio; bisognava armarli per due mesi di missione di timonieri,
galeotti, marinai, panatica, armi e quant’altro necessario. I due comiti o comandanti avrebbero
ricevuto un compenso mensile di 27 tareni ciascuno, i timonieri di 20, i militari (supersalientes) di
13 e un terzo e i marinai di un augustale, ricordandosi che il tareno o tarì era la trentasima parte
dell’oncia e l’augustale la quarta; inoltre ogni persona avrebbe ricevuto ogni mese un quarto di
cantario di biscotto [lt. buccellatum, maza; gr. ϰίρϰος, μᾶζα, παξαμάδιον (poi anche παξιμάδιον); fr.
102

gallette; np. fresella; ol. twee-bak, hardt-broodt] ossia di panatica, mentre, calcolandosi che allora
ogni galea riceveva mensilmente 3 cantaria e mezzo di formaggio e 2 e mezzo di carne salata, lo
stesso si doveva a ognuno dei suddetti due galeoni, ma pro-rata in base al numero delle persone
di bordo. Ma l’attribuire questo nome di galeone, nel Duecento in verità più spesso della 2°
declinazione (galionus-i), a vascelli remieri minori non avrà poi, come già sappiamo, seguito sul
mare, mentre lo troveremo comunque restar in uso per molto più tempo su fiumi e laghi e così
infatti circa due secoli dopo descriverà i galeoni fluviali medievali Giovanni Simoneta (1420-1490)
nelle sue Sfortianae historiae:

… Sono poi i galeoni delle galee più corti, ma più larghi ed alti. Si ergono infatti verso la sommità
divisi in più ponti con le poppe e le prue elevate più in alto. Sono spinti talvolta con le vele talvolta
con i remi, acconci solamente alla navigazione dei fiumi, e portano sugli alberi più vaste coffe,
dalle quali uomini armati con giavellotti, con spiedi di ferro e insomma con lancio di ogni tipo di
dardi aspramente combattono i nemici sottostanti (in LT. A. Muratori, Rerum italicarum scriptores
etc. T. 21. Milano 1732).

Abbiamo voluto tradurre noi il suddetto brano perché la traduzione in volgare di queste historiae
fatta da certo Sebastian Fausto e pubblicata a Venezia nel 1543 ci è apparsa davvero
estremamente imprecisa e talvolta anche fuorviante a causa di manifesta ignoranza
dell’evoluzione delle armi in uso avvenuta appena nel secolo precedente; per esempio, tra le altre
amenità, traduce colubrina con serpentina, essendo nel Medioevo quella invece null’altro che lo
schioppetto (grb. ἐλεβολίσκος, corr. di ἐϰηβολίσκος).
Descrivendo una battaglia fluviale combattutasi nel 1427 tra veneziani e sforzeschi appunto sul
fiume Po, il de Redusiis, unico tra i cronisti di storie medievali, spende qualche parola anche sui
suddetti galeoni propriamente detti e sulle ganzerie, queste anch’esse un tipo di vascelli remieri
fluviali medievali per uso sia commerciale sia bellico, ma bassi e sottili, adoperati su fiumi e laghi
veneti e lombardi specie dai padovani e dai veneziani. Poco più tardi, cioè nel 1438, i veneziani,
nel corso delle operazioni che intrapresero contro il traditore marchese di Mantova, Gianfrancesco
Gonzaga (1395-1444), il quale si era alleato con i loro nemici sforzeschi, fecero risalire il Po a
un’armata che includeva molti dei predetti galeoni fluviali, come racconta il Doglioni:

… Intesasi dunque a Venezia questa ribellion del Gonzaga, subito posta insieme vna potentissima
armata di sessanta galeoni, cinque galee e di altri nauigli minori, e creatovi generale Pietro
Loredano, la mandarono su per lo Po a danneggiar il Mantoano… (Giovan Nicolò Doglioni, Historia
venetiana etc. Venezia, 1598.)

Questo gran numero di sessanta fa capire che trattavasi di piccoli vascelli, tra cui certamente
redeguardi, barbotte e gatti di cui poi diremo, e che devono esser stati molto impiegati i marinai
103

come alaggiatori (lt. helcyarii, dal gra. έλϰύειν, ἒλϰειν o anche έλϰέειν, ‘tirare, trascinare’). Ma
perché i detti galeoni fluviali da gran tempo non s’adoperavano più anche sul mare? La ragione è
intuitiva e cioè quelle loro alte sovrastrutture e le loro molto scarse agilità nautiche li avrebbero resi
poco adatti a resistere ai venti e alle correnti marine e quindi anche facilmente rovesciabili; questa
considerazione comunque non impediva di aggiungere alte sovrastrutture anche ai vascelli marini,
ma solo all’occasione, cioè per operazioni belliche mirate, e per esempio nel 1081 Roberto il
Guiscardo, volendo tentare la bizantina Durazzo, preparò a Brindisi una grande armata e fece tra
l’altro appunto costruire sulle navi più grandi torri di legno ricoperte di cuoi inchiodati per difenderle
dal fuoco e quindi si preparava ad assalire la città per mare e per terra (περιζῶσαι τοῡτο διὰ τῶν
ἐλεπόλεων ἁπό τε θαλάττης ϰαὶ ἠπείρου. Anna Comnena, Alexiadis. LT. III, 12); non esistendo
ancora le artiglierie da polvere, erano dunque allora comunementre tre i generi di luoghi dei
vascelli dai quali si combatteva e cioè coperta, torri e gabbie. Nello stesso Medioevo usavano i
veneziani invece nella guerra nautica, per elevare i loro combattenti al livello dei difensori delle
mura costiere nemiche, vascelli a due alberi (gr. δυάρμενοῐ νῆες) tra i quali, all’altezza delle gabbie
stendevano un solido ponte impavesato, dal quale si bersagliava il nemico con archi, piccole
catapulte, fustibali e trombe di galera senza dover soffrire così più dello svantaggio di chi combatte
dal basso verso l’alto; tanto leggiamo a proposito della partecipazione veneziana alla quarta
crociata (Flavio Biondo, De origine et gestis venetorum in Opere, p. 283 C. Basilea, 1559), mentre,
a proposito dello stesso avvenimento, Andrea Dandulo scriveva che nel 1204 i crociati ripresero
Bisanzio legando insieme due grosse navi veneziane affiancate, la Paradiso e la Peregrina, e vi
poterono elevare su così delle alte e salde scale che permisero agli assedianti di scavalcare le
mura e impadronirsi della città (Chronicon, lt. X, c. III parte 34); ma il più antico avvenimento bellico
ricordato, in cui i veneziani si avvalsero di questo combatter le mura dall’altezza delle alberature
delle loro navi, fu la presa di Ravenna fatta dai bizantini e dai veneziani del doge Orso (726-737),
città allora presidiata dai langobardi di Ildeprando, nipote del re Luitprando, e di Perendeo, duca di
Vicenza:

… gli alberi delle navi maggiori e l'antenne cariche d'uomini armati, gettati i ponti, furono sopra
le mura e incominciarono a leuare le difese dal più alto loco della città con dardi e con sassi…
(Bernardo Giustiniano, Historia dell’origine di Vinegia ecc. L. X, ff. 144 verso e 145 recto. Venezia,
1545.)

I veneziani, scesi poi dalle mura all’interno della città e ordinata una formazione a cuneo per difesa
davanti alla porta del mare, la ruppero e fecero entrare l’esercito bizantino. Nel 1348 infine i
genovesi che assaltavano Bisanzio soprattutto dal mare lo facevano, oltre che con galee, anche
con tre grandi navi da carico, su due delle quali avevano piazzato mangani che lanciavano carichi
104

di pietre aldilà delle mura e sulla terza, la più grande, avevano costruito una larga torre la cui base
si estendeva dalla mediana alla prua e la cui sommità superava in altezza le stesse mura che
doveva offendere; da essa, protetti da filari di scudi, combattenti scelti bersagliavano con successo
i difensori bizantini (Niceforo Gregoras, Historiae byzantinae. LT. XVII, par. 3). I càrabi russi, di cui
poi di più diremo, erano vascelli remieri onerari che nelle operazioni di guerra, forse quando ben
legati affiancati, erano considerati adatti – forse perché più ampi e stabili - a reggere l’impianto di
congegni e macchine d’assedio costiero, come leggiamo in un passo del già ricordato Giorgio
Pakymeres, cioò laddove si dice dei preparativi bizantini del 1295 per assediare la ribelle fortezza
costiera di Melanudio, la quale si trovava nel territorio di Mileto di Lidia:

… divisando di legare (tra di loro) con le funi i carabi di quelle acque, inviando anche grossi tronchi
per istallare su di loro torri d’assedio… (ἑπισχὼν τοὺς τῆς λίμνης ϰαράβους συνδεῖ σχοίνοις, ϰαὶ
ξύλα μέγιστα ἑνιεὶς ἑπʹ ἑϰείνων ϰατασϰενάζεται μόσυνας.· In De Michaele et Andronico Palaeologis
libri XIII.T. II, lt. III, par. 9.)

Càrabi più piccoli (quindi non dei ϰάραβοι bensì dei ϰαράβια) detti ἐφύλκια (Esichio) o ἐφόλκια (G.
Polluce) si usavano per rimorchiare a forza di remi velieri che si fossero fermati a causa di
bonaccia, come spiega Esichio nel suo Lexicon (cit. p. 290). Troviamo per la prima volta questo
nome càrabo - in origine abbrev. di scafocarabo, ‘vascello-aragosta’, in quanto appunto derivante
da ϰάρᾶβος, ϰαράβιον e ϰἅρᾶβίς (‘aragosta’), da cui quindi caravella e carabottino – attribuito a un
tipo di vascelli remieri onerari medievali usato dai russi nel Mar Nero e nei fiumi suoi affluenti già
negli avvenimenti dell’anno 626 d.C., cioè al tempo dell’assedio avaro-persiano di Costantinopoli,
essendone allora imperatore Eraclio Nuovo Costantino, il quale poi sarà ricordato come Eraclio I°
(575-641), come si legge nel Chronicon Paschale scritto da un anonimo cronachista bizantino
contemporaneo (… εἰς αὐτὴν ϰάραϐον… ἐϰ τῶν σϰαφοϰαράϐων… οἰ σϰαφοϰαράϐοι… etc.)
Quando non si avesse da assaltare mura costiere nemiche molto elevate e impegnative, più
leggere scale d’assedio si potevano montare anche su coppie di galere [grb. ϰλιμαϰοφόροι
τριήρεις, ossia ‘galere porta-scale’); ma torniamo ora alle due summenzionate flotte veneziana e
sforzesca che si affrontarono sul Po nel 1427; di esse dunque così scriveva il de Redusiis:

... Marino Contareno vice-capitano della predetta armata veneziana [...] navigando sul Po con 50
galeoni, 2 galee, 12 ganzarole e 30 barche... {Marinus Contareno vicecapitaneus armatae
venetorum praedictae […] per Padum navigans cum galeonis L et galeis II ganzarolisque XII et
barchis XXX… (A. de Redusiis, Chronicon. In LT. A. Muratori, Rer. It. script. T. XIX, c. 860-861.)}

Quest’armata veneziana, pur se più lenta di quella milanese perché era quella che risaliva il corso
del fiume, procedeva in sapiente ordine militare:
105

… Infatti dapprima avanzavano 30 barche leggere, quindi seguivano 11 galeoni con due
‘castellati’; dopo i quali seguivano due galee che navigavano a voga forzata, i rimanenti galoni
seguivano a tergo, nei flutti del Po, scambievolmente incatenati. E avendo dunque i veneti così
messi avanti per primi loro galeoni, avevano infitto un robusto legno di straordinaria lunghezza e
armato di ferre cuspidi, affinché tenesse lontano il fuoco dai galeoni
Nam primò barchae XXX leves praecedebant, deinde galioni XI duabus in battaleis sequebantur.
Post quos galêae duae sequebantur enixis viribus navigantes, reliquis galeonibus intra Padi fluenta
mutuis nexibus catenatis ad terga sequentibus. Itaque veneti primis galeonis suis praemissis;
singulae prorae robur lignum infixerant mirae longitudinis ferreis cuspidibus armatum, ut ignem
arceret à galeonis…

Perché tante barche leggere a fronte dei soli due grossi burchi da carico che ora vedremo invece
usati dai lombardi? Evidentemente i veneziani non avevano pensato di portarsi dietro tutte le
provviste necessarie bensì di razziarle volta per volta alle popolazioni nemiche rivierasche del Po,
utilizzando appunto leggere e piccole barche atte ad avvicinarsi a qualsiasi punto di quelle rive
fluviali; ma aperché farle andare in avanguardia, visto che non si trattava di imbarcazioni atte a
combattere? Anche questa tattica non sembra di difficile comprensione e cioè, tenendole avanti si
potevano tenere sott’occhio e sorvegliare, ad evitare così che quei barcaioli (gr. πορθμεῖς; lt-
lintrarii, portitores; vn. peateri, bari) civili disertassero, fuggendo indietro o andandosi magari a
nascondere negli anfratti delle rive. Perché poi le due galee procedevano a voga forzata? Qui il
perché è molto semplice, navigavano contro corrente. Perché inoltre i galeoni fluviali di
retroguardia, i quali si chiamavano propriamente redeguardi, procedevano incatenati tra di loro? In
questa maniera si evitava che qualche vascello nemico, il quale si fosse infilato nella formazione
veneziana e fosse magari arrivato a scorrerla fino alla fine, riuscisse, trovandosi colà la via chiusa
dalle catene, a scompaginarla del tutto. Infine, perché dotare i galeoni anteriori di un lungo
sperone, da quale fuoco nemico li si voleva tenere lontani? Se si fosse trattato di bocche da fuoco,
nessuno sperone avrebbe potuto essere utile ad evitarne i tiri; evidentemente, si trattava ancora di
quei sifoni di prua che emettevano fuoco liquido, ossia quello che in tempi moderni sarà poi detto
impropriamente ‘fuoco greco’. In realtà nella guerra fluviale, essendo frequenti gli assalti costieri
ma rari gli scontri tra vascelli nemici, armare la prua delle maggiori imbarcazioni con trombe di
galea era abbastanza inutile e infatti Marin Sanudo il Vecchio (cit.) consigliava invece istallare a
prua qualche grossa balestra da postazione, cioè quelle che ai suoi tempi – siamo all’inizio del
Trecento – erano le balestre da tornio (lt. a turno), e inotre di disporre di un numero quelle balestre,
sempre da postazione ma più piccole, che lui chiama a pesarola, perché evidentemente si
caricavano non a tornio come le precedenti ma a torchio (cit. P. 59); ma passiamo ora all’armata
fluviale nemica:

… Della quale armata del duca di Milano era una flotta costituita da 41 galeoni, di cui due (armati)
a mo’ di ganzeria, la quale è una specie di nave stretta e lunga, due furono fatte con tre battaglie
106

(‘parapetti’) elevati verso l’alto a guisa di castelli, al di sopra di ognuna delle quali si elevava un
grande albero, alla sommità delle cui gabbie c’era una struttura meravigliosamente fortificata, in
ognuna delle quali otto uomini maneggiavano spiedi sia per difesa che per offesa... [Cuius armatae
Ducis Mediolani classis erat de XLI galeonibus, ex quorum duobus in modum ganzeriae, quae est
species navis strictae et longae, duae facte sunt cum III battaleis elevatis in altum ad instar
Castrorum, supra quas grandis eminebat arbor pro singula, quarum pinna erat cabiarum structura
mirabiliter communita, in quibus octo homines pro singula ad defensionem et offensionem sudibus
laborabant ( A. de Redusiis, Chronicon. In LT. A. Muratori, Rer. It. script. T. XIX, c. 860-861.)]

Completavano l’armata fluviale milanese due burcli (‘burchi’) da carico che portavano attrezzature
e materiali; i lombardi non disponevano dunque di galee, ma sopperivano con una grossa ganzara
quadriremi:

Pachino de Papia, capitano dell’armata del duca di Milano, delle due fa andare avanti una grande
ganzara quadrireme, la quale con la sua leggerezza, allora favorita dal corso del fiume, scivola con
grande impeto contro le barche dei veneti, le quali, non volendo sopportarne l’urto, si dettero alla
fuga… (Paxinus de Papia armatae Ducis Mediolani Capitaneus ex duabus unam magnam
praemittit ganzaram quadriremem, quae cum sua levitate, tum fluvii discursu adiuta, magno cum
impetu adversus barchas venetorum dilabitur, quae, impetum sufferre nequeuntes, sibi de fuga,
providerunt… Ib.)

Per la cronaca, i veneziani vinsero questa battaglia fluviale, le cui fasi e particolari comunque
risparmiamo al lettore, com’è nostra abitudine. Questi brani ci confermano la genericità dell’uso del
nome galeone o galioncello d’allora, in quanto a quei tempi spesso riferito, come già accennato, ai
vascelli remieri fluviali in generale, di cui i maggiori, appunto i galeoni, erano, quando monoponte,
non più grandi dei bergantini marittimi, e quindi per esempio anche ai gatti, cosiddetti per avere
non una gabbia ma una mezza gabbia chiamata appunto gatto dai ponentini (sp. gata), in quanto,
come gli occhi dei gatti, unici animali domestici ad averli in posizione frontale, permettevano di
vedere solo in avanti e un po’ di fianco, essendo infatti questi vascelli tenuti in avanguardia; inoltre
alle barbot(t)e, barche da carico invece così chiamate perché, essendo soggette particolarmente al
lancio di dardi incendiari proprio perché il nemico tentava di incendiarne il carico, erano difese,
soprattutto ai fianchi, come da una ‘barba’ di cuoi freschi ignifughi; infine ai già menzionati
redeguardi, così chiamati perché chiudevano i convogli armati fluviali restando di retroguardia e
avendo quindi anche le poppe armate di piccole bocche da fuoco. Più tardi tutti questi vascelli
fluviali maggiori, quando usati per scopi bellici, saranno abbandonati e generalmente sostituiti da
un unico tipo marittimo detto bergantino, molto più raramente anche dalla galeotta, perché questa
non sarà un vascello sostanzialmente minore della galea medievale, quindi alquanto grande per
navigare agevolmente in un fiume:
107

(24 aprile 1509): Item, fo ordinato a sier Sabastian Moro, capetanio electo di l'armada im Po o in
l’Adexe (‘Adige’), qual era in hordine, con la fusta, compita in l'arsenal, (che) manchava ussir, e
(con) le barche di San Nicolò e contrade, fate conzar a furia in l'arsenal, li redeguarda, barbote e
altro, con le artilarie, ita che era una bona e grossa armada per aqua dolze; e fo (così) terminato
(di) soprasieder (in I diarii di Marino Sanudo. T. VIII, p. 124. Venezia, 1882).

Per esempio, verso la fine del Cinquecento, l’armata fluviale del Sacro Romano Impero, il quale,
per motivi geografici, non disponeva di una sua stabile armata marittima, operava ovviamente
principalmente nel Danubio, aveva base a Vienna e si componeva soprattutto appunto di
bergantini e qualche fusta:

… Nell’arsenale suo di Vienna sono tra fuste e brigantini 50 e può hauer'assai gran numero di
navilij dagli unghari detti ‘nasadi’, il cui fondo è piano, longhi quanto due gondole. Sono vogati da
20
huomini e hanno quattro ufficiali, il patrone, nocchiero, timoniero e bombardiero; e queste naui
sono quelle che fanno le fattioni. Sua Maestà si serve in questo d’ungari, schiauoni, italiani, greci e
poco de' tedeschi (Tesoro politico ecc. Cit. T. I, p. 162).

Da notarsi poi nel suddetto Chronicon del de Redusiis la grande ganzara quadrireme - un numero
di ordini di remi che, trattandosi dunque di un tipo di vascello sottile per uso fluviale, era del tutto
insolito; per quanto riguarda infine i due galeoni incastellati e gli altri due fatti invece in modum
ganzeriae, cioè privi delle dette alte soprastrutture, abbiamo già spiegato che i galeoni fluviali
medievali della Val Padana potevano essere a uno o a due ponti remieri, considerandosi quindi i
primi vascelli di basso e i secondi invece d’alto bordo. A proposito invece dei suddetti battalei, essi
erano dunque due o tre incastellature costruite, ma solo quando c’erano esigenze belliche,
ciascuna attorno a uno degli alberi, muniti questi anche di una falsa gabbia per i combattenti;
naturalmente si trattava di sovrastrutture adatte solo per uso fluviale, perché alla navigazione
marina sarebbero certo risultate molto inadatte e pericolose e ciò sia per il peso sia per la
soggezione ai venti, come era accaduto nel 1081 alla già ricordata armata napoletana di Roberto il
Guiscardo, quando, in previsione dell’assalto che si andava a dare a Durazzo, si erano costruite
sulle navi più adatte delle torri, come si usava quando si voleva combattere i difensori di mura
costiere stando alla loro stessa altezza. Queste torri furono, come anche s’usava, rese ignifughe
rivestendole di ampi cuoi inchiodati nel loro legno; ma, a fronte di questa sua qualità di non far
attecchire il fuoco, il cuoio grezzo e non ingrassato ha il difetto di intridersi d’acqua in caso di
pioggia e ciò infatti puntualmente avvenne poco dopo che la suddetta armata fu salpata da Brindisi
a causa di una tempesta che la colse durante la navigazione; questi cuoi, dunque molto
appesantiti dall’acqua piovana, si schiodavano, pendevano e, spinti come vele dal forte vento,
ondeggiavano e alla fine cadevano, trascinando talvolta nella loro caduta le leggere strutture che
108

le avevano rette e provocando così in qualche caso persino l’affondamento di qualche vascello più
instabile degli altri (Anna Comnena, Alexiadis. LT. III, 12). Si usavano anche zattere fluviali (lt.
rates, schediae, naves caudicariae, naves codicariae, trabicae naves; gr. πλάται, ϰορμοί, σχεδίαι,
ἐπηγϰενίδες; fr. rats, radeaux; ol. vlotten; vn. rade; arag. almadías) beltrescate (grb. ἀγγεῖα), sulle
quali cioè erano state costruite sovrastrutture fortificate (… ganzarolis, & duabus platis Mantuanis
beltrescatis… A. Dandulo, Chronicon, all’anno 1372 circa, in LT.A. Muratori, Rerum italicarum
scriptores etc. C. 437, t. XII. Milano, 1728; Suida, cit. T. III, p. 123).
Nel suddetto scontro fluviale c’è ancora da notare che il gran numero di galeoni presenti, da una
parte e dall’altra, aldilà di una marcata differenziazione già esistente tra gli stessi soli vascelli detti
propriamente galeoni - e cioè galeoni grandi a due ponti, due tipi diversi di galeoni grandi ad un
solo ponte e galeoni piccoli o galioncelli, fa capire che si trattava del nome generico che allora si
dava ai vascelli bellici che si adoperavano su fiumi e laghi. I due suddetti contendenti si
affronteranno ancora sul Po nel 1439:

… A dì XIV d’aprile del detto Millesimo (‘1439’) Niccolò Piccinino, capitano del duca di Milano,
ruppe l’armata de’ galeoni della Signoria di Venezia e fu una grandissima rotta nell’Adige; per la
qual rotta il prefato capitano passò l’Adige e tolse molte castella in quello (‘nel territorio’) di Verona
e di Vicenza (Ann. Chronicon ariminense etc.. In LT. A. Muratori, Rerum italicarum scriptores etc.
C. 935, t. XV. Milano, 1727).

E poi ancora nel 1448:

Il giorno 16 luglio l’illustre conte Francesco Sforzia, capitano generale di tutto l’esercito dell’illustre
comunità di Milano, con esercito terrestre e pochi galeoni si scontrò, presso Casal maggiore nella
campagna cremonese, con l’armata dell’illustrissimo dominio dei Veneti, la quale era del numero di
80 legni, computate galee, galeoni e barche armate… (Chronicon estense, c. 539. Cit.)

Per la cronaca, in questa occasione i veneziani persero pesantemente, rimettendoci tutta quella
loro armata fluviale, la quale fu incendiata dal nemico, e inoltre circa 2mila uomini. Il Simoneta
nelle sue Sfortianae historiae la dice di 32 galeoni di non exigua altitudine, 2 triremi, 2 biremi e una
moltitudine di vascelli onerari e vascelletti attuari, ossia veloci monoremo, e a quest’ultimo
proposito c’è da precisare che in latino la differenza tra vascelli remieri da guerra e vascelli da
carico - questi sostanzialmente velieri – si esprime con naves actuariae e naves onerariae, come
leggiamo in un frammento di Lucio Cornelio Sisenna:

… uccisi quelli, abbruciano attuarie fino a 20 alberi (‘vascelli’), altresì parecchie onerarie (quibus
occisis, actuarias ad viginti malis, idem conplures onerarias incendunt. In Nonio Marcello, cit. P.
366.)
109

Interessante quell’ ‘alberi’ per ‘vascelli’ perché conferma che – almeno sino a quel primo secolo a.
C. in cui scriveva il Sisenna, i legni nautici – da guerra o da carico che fossero – erano ancora,
perlomeno in gran maggioranza, dei monoalbero. Per tornare ora però ai predetti galeoni, un
importante scontro fluviale con l’utilizzo di un gran numero di essi si era comunque già combattuto
nel 1397 tra Gian Galeazzo Visconti, allora duca di Milano, e una lega alla quale partecipava
Venezia; i milanesi persero la loro flottiglia con 6 galeoni affondati e 36 catturati dal nemico
(Guernerio Bernio, Chronicon eugubinum etc. C. 949-950; in LT. A. Muratori, Rerum italicarum
scriptores etc. Milano, 1732). Questi galeoni erano dunque vascelli fluviali usati soprattutto dai
veneziani, come dimostra anche il Commentarius di Pietro Curneo, guerra tra veneziani ed estensi
che si combatté appunto particolarmente sul fiume Po tra il 1482 e il 1484 (novem ex quinque et
viginti navibus, quas galeones appellant. Pietro Curneo, De bello ferrariensi commentarius etc. In
LT. A. Muratori, Rerum italicarum scriptores etc. C. 1.200, t. 21. Milano, 1732), e questa loro
peculiarità dimostra che allora i grandi e famosi vascelli dallo stesso medesimo nome che poi
attraverseranno mari e oceani ancora non esistevano.
Il succitato Curneo descrive anche una specie di catamarano fluviale veneziano:

… e rimiravano non senza stupore la nave medesima mandata da Venezia; era infatti di gran
lunga la più forte e robusta delle navi turrite veneziane. Avevano infatti le navi venete turrite sullo
scafo un edificio di due ponti a mo’ di torre con propugnacoli e merli; ma questa (fatta) su due
scafi, a due passi di distanza (l’uno dall’altro), aveva altresì una torre coperta a mo’ di case con
finestre, dove si trovavano i difensori, con legni grossi e robusti, e con catene con le quali
elevavano un ponte, con il quale si passava da uno scafo all’altro (ib.)

Anche imbarcazione fluviale tipica del nord-ovest dell’Italia era allora quella detta in veneto
belinzeri, secondo la trascrizione delle Memorie del da Soldo, oppure baloneri (cst. balleneres; np.
balloneri; ‘palconaro’), in quella del Chronicon del Bernio:

… A dì 28 di marzo fu messa in acqua la quarta galea e uno belinzero, il qual’era un notabilissimo


legno e grandissimo (Cristoforo da Soldo, Memorie delle guerre contra la signoria di Venezia etc.
All’anno 1440. In LT. A. Muratori, Rerum italicarum scriptores etc. C. 819, t. 21. Milano, 1732).

Nel predetto Chronicon si dice qualcosa della sua struttura e del suo impiego:

…un navilio bellissimo che per nome era chiamato ‘balonere’, il quale era più alto assai d’ogni gran
galeone, nella sommità del quale era artifiziato un ponte per il quale molta gente si buttava su le
mura di qualunque fortezza (Guernerio Bernio, Chronicon eugubinum etc. Ib. C. 978).

Dunque niente a che vedere con le baleniere oceaniche; si trattava cioè del suddetto galeone
fluviale, modificato, cioè fornito di un alto palco piantato sulla coperta e dal quale i soldati imbarcati
110

potevano cimentarsi a parità di altezza con nemici che difendessero mura fortificate prospicienti il
fiume o il lago.
Ma la frequente genericità del nome galeone usato per i vascelli bellici fluviali in uso nella Val
Padana, non significa che alcuni di quelli non fossero effettivamente dei galeoni remieri di tutto
rispetto, armati di numeroso equipaggio, come si può per esempio leggere nei preventivi di spesa
fatti nel 1472 a Milano per preparare un’armata fluviale nell’ambito delle guerre che si
combattevano in quei tempi tra lombardi e veneziani (Carlo E. Visconti, Ordine dell’esercito ducale
sforzesco 1472-1474. in Archivio Storico Lombardo etc. Anno III. P. 491 e segg. Milano 1876):

Spese per uno galione per tegnire (‘da tenere’) in Adda, de navaroli (‘marinai’) tanto per uno mese:

Primo. Per lo comitale (‘comandante’)…


Item, paroni (‘secondi ufficiali’) duy…
Item, magistro (‘nostromo’) uno da nave…
Item, bombardero uno…
Item, navaroli 72…
Balestreri 50…
Homini armati 30…

Dunque a bordo di questo galione fluviale, il quale era un vascello remiero, ma a due ponti, ed era
armato d’artiglieria, c’erano ben 77 uomini di equipaggio (navaroli), tra cui un bombardiero; il gran
numero fa capire che comprendeva una sessantina di quelli che più avanti saranno definiti gabieri,
ma che al bisogno evidentemente facevano anche da remiganti e che doveva quindi trattarsi di
una bireme avente, nel ponte remiero principale più basso, una quindicina di banchi per lato;
inoltre erano previsti ben 80 uomini combattenti, tra balestrieri e fanti provvisti di armi difensive, i
quali non erano forse troppi come sembra se si legge che servivano per defendere el fiume de
Adda e quindi non solo il vascello.

Per quatro gatti per usare in Adda, voleno al manco l’infrascripto ordine; per cad(a)uno gatto:

Primo. Uno comitale…


Item. Uno parone…
Item. Navaroli 20…
Item. Magistro da nave…

Le proporzioni, rispetto al vascello precedente, sono, a giudicare dall’equipaggio, all’incirca di uno


a quattro; insomma questi gatti erano vascelli fluviali d’avanguardia monoremo alquanto piccoli,
forse di otto banchi per lato, e si capisce perché in Italia venne fuori il detto Sono solo quattro gatti,
per dire allora che si trattava di ur’amata fluviale senza il suddetto galeone centrale, armato di
111

artiglierie e di combattenti, e quindi per nulla temibile e oggi invece si usa metaforicamente quando
si vuo dire che si sta parlando di pochissime persone.

Per quatro redeguardi per usare ut supra, ut infra:

Primo. Uno comitale…


Item. Uno parone…
Item. Navaroli 10…

Erano questi redeguardi, vascelletti monoremo, probabilmente di 3 o 4 banchi per lato, che
costituivano la retroguardia della piccola armata fluviale, da cui il nome; né per essi né per i
precedenti gatti è però indicato, a differenza dei galeoni, alcun numero d’armati.
In effetti, si decise però che i galeoni di guardia al fiume Adda dovessero essere non uno ma tre,
perché oltretutto in tal maniera si sarebbero potuti ingaggiare meno uomini armati in totale, e che
dovessero incrociare tra il Ponte di Lodi e quello di Pizighettone; uno solo però, quello già sopra
descritto, doveva essere di duy sollari, cioè a due ponti, gli altri due dovevano invece essere due
galioncelli a un solo ponte remiero, premettendosi che non era però il numero dei ponti a rendere
un galeone grande o piccolo bensì le sue misure ‘fuori tutto’. Per il primo, cioè il più grande, si potè
così ora arruolare un minor numero di combattenti e cioè 30 balestrieri e 20 homini armati
solamente, risparmio importante perché, per quanto riguardava il personale da impiegare,
rappresentavano la spesa principale; ognuno poi dei due galioncelli de uno sollaro, cioè da un
solo ponte, era equipaggiato, oltre che da comitale, 2 paroni, bombardero e magistro da nave, da
34 navaroli e 20 tra balestrieri e ‘uomini armati’.
Questa flottiglia di 7 vascelli era accompagnata da 4 vascelletti minori e cioè da una barbotta, cioè
di una navicella che, come abbiamo già spiegato, avendo i fianchi ricoperti di pellami ignifughi,
poteva avvicinarsi maggiormente alle postazioni nemiche per il compimento di operazioni
particolari, e da tre burgelli (‘burchielli’; ven. burchiele) da piscatore montati ognuno da 4 uomini,
mentre della predetta barbotta manca la specifica dell’equipaggio.
Si pensava poi di tenere a Lodi un’altra flottiglia fatta di 3 redeguardi spaldati, cioè muniti di ballatoi
laterali, e di 3 barbotte o gatti; pertanto, si decise anche di non far imbarcare marinai lodigiani
sull’armata sopra descritta per riservarli a questi altri 6 vascelli. Bisognava poi stabilire in quel
percorso fluviale, cioè tra Lodi e Pizzighettone, una linea di scolte, cioè di sentinelle che si
passassero gli avvisi l’un l’altra:

… gli sia misso le scolte cum li casotti tanto spessi (‘frequenti) che l’uno olda (dal lom. oldire,
‘udire’) la voce dell’altro, in modo che l’una voce cum l’altra in uno momento fariano intendere a li
dicti galioni quanto sarà bisogno. Non dubita dicto Phylippo (Filippo di Eustachio, allora castellano
112

di Pavia) che, servando dicto ordine, et (anche) sentano li inimici (di) dicti galioni in Adda (e quindi
né) ardiscano de butare ponte (fluviale) alcuno né passare de Lode in zoso (‘giù’) (ib. P. 493 e
segg.).

Ma sarebbe stato necessario disporre per questa guerra di fin’anche 25 di questi galeoni fluviali:

… non gliene essendo se non 15 che fuossino sufficienti ad damnificare la campagna (‘le rive’),
perché li spaldi de li altri picinini (‘galioncini’) sono tanto bassi che’l terreno (delle rive) è mazore et
superchia dicti spaldi, unde dicti galioni picinini sariano una spesa frustratoria (‘inutile’) a condurli
in alcuno loco… (Ib.)

In realtà tre di questi più piccoli si sarebbero anche potuti usare come avanguardia:

… perché se la Signoria de Venetia (il nemico’) mandasse (nell’Adda) qualche naviglio basso,
come sono barche, fuste et galee, che quelli tre per più agilità (‘essendo vascelli più agili’)
andariano inanzi a l’altri che li seguitarieno… (Ib.)

Di aspaldati completamente nuovi se ne sarebbero dovuti costruire otto e gli alberi, roveri e olmi, in
genere si andavano a tagliare nei boschi del Pavese o del Piacentino:

… dagando (‘tagliando’) la signoria sua (Galeazzo Maria Sforzia) le rovere et ulmi necessarij o nel
Barco o in Piasentina, como meglio parerà ad sua signoria… (Ib.)

L’equipaggio di questi galeoni grandi sarebbe stato, come già suddetto, di circa 80 uomini
ciascuno:

… no se po dire il giusto, ma se li dà approssimativo paghe 80 de navaroli, fra comitale, paroni,


bombarderi, magistri de navi et gabieri… (Ib.)

I combattenti erano ora molti di più di quanti in proporzione ce n’erano sul primo galeone che
abbiamo descritto; insomma per ognuno, di questi 17 galeoni grandi a un solo ponte erano previsti
ben 160 tra balestrieri e scoppiettieri e 60 homini armati, insomma quasi tre volte di più di quanti
se ne volevano a bordo di quello. Ci sarebbero poi stati 3 galeoni grandi de un’altra sorte, cioè da
soli 70 navaroli, 120 balestrieri e 50 ‘uomini armati’ per ciascuno; poi due galeoni grandi da duy
sollari, i quali, pur avendo quindi due ponti, non erano però più grandi dei precedenti, anzi erano
più piccoli perché il loro monte paghe per i navaroli era inferiore e i combattenti imbarcati solo 100
per ciascuno.
Questa flottiglia maggiore, la quale doveva assommare a 25 vascelli, si completava quindi con tre
galionzelli per ognuno dei quali si pagavano 44 navaroli, ufficiali inclusi, e 30 balestrieri per
113

ciascuno. Insomma, il sovraffollamento di armati su questi legni fa capire che non si trattava solo
di guarnizioni di fanti ma di veri e propri trasporti di milizie che si facevano per le comode vie
d’acqua della pianura padana.
Come si preparavano a queste guerre fluviali dal canto loro i veneziani? Leggiamo il Malipiero, a
proposito dell’aprile 1482 (cit. P. 253); si trattava perlopiù di barche piccole ma in numero davvero
impressionante:

… è stà speso 400.000 ducati et è stà spazzà (‘spedita’) tanta armata in cinque dì:

- 100 barche picole dalle contrade (‘parrocchie’) con 16 homeni per una, interzate de (marinai)
nicoloti et povegioti;

Qui interzate stà solo per ‘con equipaggi integrati’, in quanto ovviamente barche remiere troppo
piccole perché si intendesse che si trattava di triremi.

- 100 barche forzate de homeni da S. Nicolò, da Muran, da le contrade, da Castello, da Grao, da


Cao d’Istria e da Giran, a 10 fin 12 homeni per barca;

Queste altre 100 erano forzate o per forza, cioè avevano ai remi non liberi volontari bensì
carcerati.

- 100 redeguardi lunghi, a 24 homeni armadi per uno;

Qui veniamo a sapere che i redeguardi potevano essere di varie dimensioni, al massimo però da
12 banchi monoremo per lato, e che i loro remiganti erano armadi, cioè, oltre a remigare,
all’occorrenza erano chiamati anche a combattere.

- 16 fuste da 20 fin 25 banchi;

Ecco ora passare a vascelli remieri più grandi, di media misura, cioè a quelli usati soprattutto nellle
guerre marittime; le fuste, come meglio vedremo più avanti, erano generalmente delle biremi
copertate, ma talvolta anche triremi, e quindi 25 banchi per lato significava che avevano dai 100 ai
150 remiganti ciascuno; anche questi erano remiganti armati.

- barbote coverte, fatte de barche de nave et burchiele da ruinazo n.° 10;

Abbiamo già visto che cosa si intendeva per barbotte; c’è qui però da notare che in questa
funzione, cioè di barche da trasporto bellico di provviste e munizioni, i veneziani, come qui
leggiamo, usavano generalmente barche da nave, cioè barcacce (oggi diremmo ‘bettoline’) per
andare a prendere e a portare a terra il carico di navi che non avessero trovato posto alla
114

banchina, ma che fossero per questo rimaste alla fonda in rada, oppure, per questo stesso motivo,
a portar loro a bordo le merci che avrebbero dovuto caricare sul molo; inoltre burchiele de ruinazo,
cioè barcacce adibite al trasporto di detriti edilizi nei canali di Venezia. Infine, c’è da aggiungere
che queste barbotte sono definite ‘coperte’ non nel senso che avessero coperta - perché in
veneziano la ‘coperta’ dei vascelli non si chiamava così, ma si diceva solaro e in italiano ponte -
ma proprio in quel significato che abbiamo già spiegato e cioè perché ricoperte di cuoi freschi in
funzione ignifuga.

- 50 galioni grossi fatti in questa Terra e 20 fatti a Verona.

I primi 50 galeoni erano dunque stati costruiti nell’arsenale di Venezia, mentre gli altri 20 nel
cantiere nautico di Verona situato sulla riva del fiume Adige, cantiere che poi nell’Ottocento
diventerà l’arsenale austriaco d’artiglieria. A Verona infatti le maestranze locali erano ovviamente
esperte di costruzioni fluviali e non di quelle marittime; non a caso Venezia cercava, per la sua
armata anti-sforzesca, barcaioli adusi alla navigazione fluviale e non marinai esperti di quella
marittima:

… e per haver homeni da remo è stà mandà in Trevisana, Padoana e Visentina a comandar
homeni pratichi a navegar per le aque de i fiumi. E’ stà fatto capitanio general in le aque dolce
Damian Moro…

Passando però ora alla principale guerra nautica, ossia a quella marittima, diremo che
diventeranno poi obsoleti nel Cinquecento anche il termine lt. celoces (gr. ϰέλητες e ϰελήτια,
’approdatori’; ἐπαϰτρίδες e ἐπαϰτροϰέλητες, ‘vascelli cacciatori’) e i volg. grip(p)o e griparia; si
trattava di nomi adriatici e medioevo-rinascimentali di cui i secondi derivati dai greci antichi γρίπων
(‘rete’) e γρῖπεύς (‘reziario’), indicanti quindi i pescherecci a vela, i quali, quando piccoli,
all’occorrenza diventavano σϰάφαι, o ἐφόλϰια, cioè battelli di servizio nelle armate, ma
comprendevano anche monoremo maggiori usati da carico o da porta-messaggi (ven. grippi a
posta), i quali potevano avere anche equipaggi di una ventina di uomini:

(24 febbraio 1465:) Adi 21 del presente de qui (Candia) zonsse ser Francesco Damar (in orig.
Aldemari) zenovese, patron de una griparia cum orzi, vini, e megli (‘migli’), vien da Otranto, e de
Puglia… (H. Noiret, cit. P. 88.)

Poco dopo la stessa suddetta griparia è definita grippo, a dimostrazione quindi che i due termini
sono sinonimi. In mansioni di servizio alle armate, specie nei porti, erano spesso addetti anche
altri piccoli legni da pesca detti lembi (gr. λέμβοι) con il loro dim. lat. lenunculi (in lenunculo
115

piscandi. Gaio Sallustio Crispo, Historiarum libri. LT. II, in Quae supersunt. V. II, p. 54- Lipsia,
1859):

… El general Soranzo, (mandato) con 24 galie, 2 fuste grosse e 78 gripi grossi e 600 stradiothi
all’impresa della Pugia (‘Puglia’) e della Calavria, ha messo in terra 7.000 persone su quelle
marine… (D. Malipiero, cit. All’anno 1482. P. 264.)
… Dominus Nicolaus Pisani Capitaneus Generalis cum galèis XXXV, lignis XI, grepariis XX. […] et
etiam navibus tribus optimè castellatis. (Andrea Dandulo, Chronicon, agli anni 1354-1355. In LT.
A. Muratori, Rerum italicarum scriptores etc. C. 424, t. 12. Milano, 1728.)
… classe unius et viginti triremium, duarumque biremium, ac celocium, quas grippos appellant,
circiter sexdecim instructa et armata egregie. (Pietro Curneo. Cit.. C. 1.207.)
… navigiolum quoddam, gripus ab adriaticis maritimis appellatus. (Pietro Martire d’Anghiera, De
rebus oceanicis etc. F. 79 verso. Basileas, 1533.)

Il termine griparia o griparea (lt. celoces) si trova usato, ma qui in senso generico di grippi in
generale, più volte anche dal Monaci (gripareae) e nei decreti ed ordinanze veneziane quale per
esempio quella disciplinare delle galee veneziane promulgata nel 1420 da Pietro Mocenigo, allora
capitano generale del mare di Venezia, ordinanza alla quale più avanti ritorneremo; esso derivava
dal gra. γρίπων (‘peschereccio da rete’) e quindi si trattava di piccoli velieri (lt. navigiola) che
avevano quell’origine e che potevano anche essere armati per operazioni belliche. Anche un altro
termine, indicante anche questo piccoli vasceIli da guerra, e cioè pistrices (o anche pristices) non
più s’usava; così anche i greci ϰώρυϰοι, barchette primordiali fatte di cuoio cucito, ἀλιάδες, natanti
per la raccolta e il trasporto del sale, ἀμφηρικά, αμφήρεις, cioè le piccole imbarcazioni, magari
anche piratiche (Esichio, cit.), in cui ogni singolo vogatore manovrava due remi (ἀμφηρικὰ ἀκάτια,
λῃστρικὰ ἀκάτια), uno a dritta e uno a sinistra – da non confondersi però con le δίϰωπα, cioè con
le gondole a due vogatori e quindi due remi di cui abbiamo già detto - e infine i ϰύδαροι, ϰύδαλοι,
piccole imbarcazioni dalle perdute caratteristiche. Probabilmente invece ancora si sentivano nomi
come ϰαϰϰώνια, cioè le barche fluviali per il trasporto degli escrementi animali da concime, e
ϰητήνια ‘baleniere’ (lt. cetaria). Il suddetto nome greco di ‘approdatori’ dato a questi piccoli vascelli
era probabilmente dovuto al potersi farli approdare semplicemente spiaggiandoli (gr. ὀϰελλέιν),
senza cioè bisogno di andare a ormeggiarli in qualche porto.
I grippi (vn. anche griparie; lt. celoces) erano quei piccoli velieri (lt. navigiola) molto usati a
Levante, specie dai veneziani, per trasmettere corrispondenza e messaggi, mentre nella
navigazione fluviale e lacustre si preferivano i piccoli remieri detti galladelli; anche a Ponente, cioè
nel Tirreno, si preferiva affidare questa funzione di messaggeria a vascelletti remieri e cioè a
fragate, fragatine e, quando più grandi, bergantini. Perché queste differenze? Perché nei fiumi si
navigava ovviamente molto più comodamente a remi che a vela e a Ponente c’era abbondanza di
di remieri forzati e talvolta anche di schiavi africani e mediorientali, disponibilità che invece
116

mancava quasi del tutto ai veneziani. A proposito poi del nome legni, esso era sì usato già nel
Medioevo nel senso generico di vascelli remieri, ma indicava in particolare quelle lunghe e leggere
biremi che erano molto usate nel Mediterraneo pur senza avere però il rango di galee; si dicevano
anche fusti, ma quest’ultimo nome sarà poi, nella seconda metà del Cinquecento, usato
preferibilmente al femminile (fuste), anche se la forma maschile sopravviverà nel Tirreno con il
nuovo significato di uscieri.
Altro nome disusato era quello basso-medievale di chelandro (poi anche chelandra), corruzione
dell’alto-medievale gr. chelandio, con cui però talvolta ancora s’indicavano nello scrivere formale i
vascelli remieri usati per il trasporto di cavalli o materiali e quindi non armati a guerra, come si
legge per esempio dell’armata (volg. brigata) di mare che l’imperatore Federico II nel 1225
s’impegnò a preparare per la prossima sesta crociata, ossia quella indetta dal papa Onorio III:

… il detto imperatore giurò di osservare questi capitoli, vale a dire che da allora fino al compimento
dei due anni in agosto, si sarebbe recato personalmente oltremare in soccorso della Terra Santa e
vi avrebbe tenuto al suo servizio mille soldati per due anni e avrebbe portato con sé cento
chelandri e vi avrebbe tenuto cinquanta galee ben armate… (Chronicon Richardi de Sancto
Germano in Raccolta di varie croniche, diarij ed altri opuscoli etc. T. IV, p. 208. Napoli, 1782.)

In sostanza questi chelandi, vascelli remieri monoponte dall’uso sia militare sia civile, furono gli
antenati sia delle galee grosse veneziane del Basso Medioevo sia di quelle galee grosse ‘mancate’
che nel Tirreno si diranno prima uscieri in latino e poi in italiano fusti e a Venezia prima marani e
poi arsili; nell’armate di mare alto-medievali bizantine si erano distinti in οὺσιαχὰ χελάνδια (com.
οὐσίαι), cioè ‘chelandi da salmerie’ (quindi anche da trasporto cavalli, da cui poi infatti l’altro nome
medievale uscieri), i quali erano biremi da circa 108 vogatori, e χελάνδια πάμφυλοι (‘chelandi-
pamfuli’), queste delle triremi da circa 150 vogatori; nell’alto Medioevo anche questi ultimi
potevano essere addetti al trasporto dei cavalli, quando cioè si voleva trasportarne di più insieme,
ed erano in tal caso pertanto detti ἱππαγωγούς τριήρεις; si trattava insomma di vascelli non certo di
basso bordo come le galee, come si evince dal lt. X del De rebus turcicis del già citato
Kalkokondilos a proposito delle iniziative belliche anti-ottomane dei veneziani negli anni che
seguirono la caduta di Bisanzio :

… Avendo imbarcato opliti italici e duemila cavalli in alte navi, gli trasportarono nel Peloponneso.
(... Καὶ όπλίτας μὲν Ιταλούς, ἰππέας δισχιλίους, έμβαλόντες ἐς τὰς ύψηλὰς ναῡς διεπόρθμευον ἐς
τἠν Πελοπόννησον·)

La prima menzione di questi chelandi che reperiamo è quella fattane da Teofane Isauro all’anno
709 della sua Chronographia, dove appaiono però qui usati, anche se implicitamente, come
ἀγραρία, ossia come vascelli ‘da caccia’, cioè da corso (tlt. apta ad cursum), e infattti; lo stesso
117

autore poi ci racconta che parecchio più tardi, ossia nel 765, l’imperatore Costantino V capitanò
un’armata di duemila chelandi inviata nel Mar Nero contro i Bulgari, perché questi attaccavano la
Romania, e inoltre per entrare nel Danubio a combattere anche i russi. Ora, a prescindere da quel
numero, sicuramente esagerato, di duemila, un’esagerazione allegorica tipica di Teofane, perché
solo chelandi e non anche dromoni? La ragione è intuibile e cioè, non aspettandosi i bizantini
grandi battaglie navali nel Mar Nero, perché né i bulgari né i russi disponevano di forti armate
navali (gr. ναυτιϰαὶ δυνάμεις) ma solo di vascelletti leggeri, specialmente i secondi, sarebbe stato
sprecato inviarvi dei dromoni, e quindi in questo caso l’armata bizantina e formata praticamente
solo di vascelli da trasporto di milizie, cavalli, materiali e rifornimenti.
I chelandi furono dunque i primi vascelli remieri ippagogoi e da carico che solcassero il
Mediterraneo medievale; e, per quanto riguarda il loro garbo, ossia la loro forma, è molto probabile
che ricordassero il vascello maggiore dei tre bellici raffigurati nella famosa stele di Novilara (anche
se questa è di circa un millennio più antica), ossia un vascello remiero-veliero ma di bordo non
basso come quello delle galee e inoltre con l’albero posto non a pruavia ma al centro dello scafo
come già negli antichi vascelli onerari. Insomma essi erano porta-cavalli che accompagnavano le
armate di galee e quindi erano cosa diversa dai salandri, vascelli di cui abbiamo già più sopra
parlato, i quali erano invece porta-cavalli che accompagnavano le flotte di vascelli tondi o velieri;
ma perché nomi tanto simili? Perché evidentemente in origine erano stati lo stesso nome, in
seguito nei secoli differenziatisi perché sviluppatisi in due ambienti nautici diversi e cioè uno in
quelle dei vascelli remieri e l’altro in quello dei vascelli tondi. L’origine è greca e cioè da ϰέλες,
‘cavallo da sella’, come già detto, e da ἀνδρών, ‘passaggio, passerella, ballatoio’; infatti ancora
oggi usiamo ‘scalandrone’, per indicare la passerella che dal molo permette di ascendere a bordo
del vascello, dove ‘scala’ non si riferisce a una scalinata, la quale infatti non c’è, ma a ’scala’ nel
senso di ‘approdo marittimo’. Alla corr. salandro evidentemente si arrivò - attraverso la forma
xalandro più sopra già menzionata - per assimilizione in prima sillaba della ‘a’ della seconda.
I generi di vascelli bellici usati sui mari nei secoli pre-rinascimentali erano dunque sei: galere, legni
armati (’biremi’), galadelli (‘monoremo’) e inoltre navi, salandri e barche (vn. griparie) armate od
onerarie di supporto; ma comunque nell’ordine mandato il 28 giugno 1269 dal re di Napoli Carlo I
d’Angiò a Matteo Rufolo, suo secreto (‘governatore’) delle Puglie, troviamo un breve elenco, più
stringente del suddetto nostro, dei vascelli da guerra che si dovevano allora approntare per la
formazione di un’armata nautica destinata all’impresa di Sicilia, elenco che riassume in un certo
senso quanto sinora da noi esposto riguardo al Basso Medioevo:
118

… Cum galeas, teridas, saggectias, galiones, varkettas et uxera […] reparari mandemus […]
muniri velimus municionibus et necessariis infrascriptis videlicet assarciis, velis, anchoris, vexillis,
baneriis et pinnonibus…(Giuseppe del Giudice. Cit. Pp. 5-6.)

Nel Basso Medioevo i cavalli della cavalleria però soprattutto si portavano, perché di più comune
reperimento, nelle teride [lem/ctm. terides; ltm taretae, tarede, tarade, taride, tarite, tritae; dal tlt.
tara (‘pondus)’, unità di misura medievale], come si legge, oltre che nella Cancelleria angioina di
Napoli e nelle suddette cronache (E la tarida era bona per adur los cavals… Cron. Catalt. del re
Giacomo I. Par. 104), in tutti i documenti genovesi inerenti alle forniture alla Francia per la
preparazione di crociate in Terra Santa, e nella sua Historia sicula Bartolomeo di Neocastro (1250-
1293), a proposito delle guerre tra Carlo I di Francia e Pietro III d’Aragona per il possesso dell’Italia
meridionale, le chiama teridis galeis (o anche galeis teridis) pro portandis equis (Cap. XXXII. In
Giuseppe Del Re, Cronisti e scrittori sincroni napoletani etc. Vol II. Napoli, 1868) mentre il suo
coevo Bartolomeo di Neocastro preferisce teridas galearum (ib. Cap. LXXVIII), definizione
quest’ultima che fa più chiaramente capire che si trattava di vascelli remieri d’appoggio alle galee
antesignani degli uscieri, sia che ne trasportassero le provviste sia i cavalli. Queste taride
potevano essere di varia stazza, avendo nel Tirreno e nella seconda metà del Duecento
generalmente 112 remi quindi scalmi, e per esempio nella flotta franco-papalino-napoletana
dell’ammiraglio angioino Narjaud di Toucy (‘Narzone’) che nel 1286, nell’ambito delle prime guerre
per il dominio della Sicilia (1282-1302), si opponeva a quella catalano-messinese del famoso
ammiraglio aragonese Roger de Lauria, i due grandi stendardi dell’armata – quello dello Stato
della Chiesa e quello di Carlo d’Angiò, principe di Salerno – erano portati da due grandi teride
(‘magnis teridis’) e non da galee di comando (ib. Cap. CX); questo perché, come abbiamo già
detto, le galee medievale, in quanto perlopiù biremi, erano, se non più corte, meno ampie di quelle
che le seguiranno nel Cinquecento e quindi il necessario luogo di dispiegamento e di guardia di un
grande stendardo non vi si trovava facilmente.
La prima volta che si legge delle teride nelle storie levantine è in quelle del niceano Giorgio
Pakyimeres (c. 1242-1310), il quale, a proposito delle concessioni di navigazione nel Mar Nero che
ai suoi tempi i bizantini rilasciavano ai genovesi, ci dice che questi vi andavano a navigare più che
con le grandi navi con altre di piccole dimensioni che chiamavano appunto tarite (ἄς ἐϰεῖνοι ταρίτας
λέγουσι. In De Michaele et Andronico Palaeologis libri tredecim. LT. V, par. 30). Un elogio alle
qualità nautiche delle taretae, usate appunto come vascelli da carico, troviamo fatto nel primo
quarto dl Trecento da Marin Sanudo il Vecchio, il quale nel suo Levante veneziano le vedeva usare
a suoi tempi solo dai genovesi per servizio della loro enclave di Pera (lt. Galatae):
119

... Inoltre, in quanto a naviglio buono per le vettovaglie predette e per il legname da trasportarsi, le
tarete che i genovesi usano attualmente a Pera sia per il loro trasportare molte cose sia per il loro
equipaggiarsi adeguatamente con (solo) pochi marinai; si aggiunga che a vele spiegate subito
navigano attraversando il mare; ciò perché gli scafi lunghi orzano e guadagnano con il vento
contrario meglio di quanto facciano gli altri navigli più corti (Præterea navigium est bonum pro
victualibus antedictis et lignamine deferendo, taretæ, quibus in Pera utuntur nunc temporis
Januenses, tam pro ferendo multa quam pro paucis nautis commode se muniendo; quamque
etiam ut velis extensis mare subito transeant navigando: eo quod vasa longa ad Orsam incedunt
melius et lucrantur cum vento sibi contrario, quam alia navigia breviora (cit. P. 58).

Interessante questo brano perché ci fa capire che la medievale terida (poi dal Rinascimento
sostituita dalla tartana) non era una nave, cioè un vascello pluriponte a prevalente vela quadra
bensì una barca, ossia un vascello monoponte a prevalente vela latina; pertanto è qui considerato
nella categoria dei vasa longa, vale a dire dei vascelli dal garbo allungato, se non proprio sottile
come quello delle galee ordinarie, e quindi non tondo, come più tardi si dirà delle navi. Presso i
bizantini invece i cavalli si portavano in guerra con le triremi ippagogoe dette però soprattutto
dromoni ippagogoi (ἱππἂγωγούς τριήρεις…; δρομώνων ἱππαγωγών…) e talvolta anche navi
ippagogoe (νῆες ἲππἂγωγοῐ) semplicemente oppure con le mahone; nel Tirreno forse talvolta
anche con quelle porta-bombarde dette sino alla fine del Quattrocento arbatoze o albitozi e che
l’erudito genovese Senarega così definiva:

… Tertium genus navium, quod ‘arbatociam’ appellabant, quod ad majores bombardas emittendas
aptius erat (Commentaria de rebus genuensibus. LT.A. Muratori, R.I.S. C. 539. T. XXIV. Milano,
1738).

In sostanza, i vascelli porta-cavalli dovevano essere grandi e infatti nel Basso Medioevo erano
generalmente i più grandi della triplice tipologia allora usata per le armate di mare e cioè galee,
taride (‘tritae’) e appunto porta-cavalli:

… vela multa, marinis accommodata cursibus, alia cum uteris grossioribus, colligatorum
lignorum structura firmatis pro equis transeundis…
… apparatus innumeros galearum, tritarum, et lignorum grossorum pro equis… (Saba
Malaspina, Historia. LT. VII, capp. I e XII. In Giuseppe Del Re, Cronisti e scrittori sincroni
napoletani etc. Vol II. Napoli, 1868.)

Non servivano però le palandarie solo a traghettare cavalli e a fare da batterie galleggianti, come
spiegava anche il segretario Marcantonio Donini nella sua relazione del 1562:

... Furono fatte di nuovo l'anno passato venti palandarie, dieci grandi e altrettante mediocri, le quali
insieme con le vecchie, tra grandi e piccole, computate però quelle che ordinariamente traghettano
li cavalli, non sono manco di sessanta, attissime tutte a portar cavalli, artiglierie e munizioni; delle
quali cinque o sei sono occupate in condurre legnami dal Mar Maggiore e dal golfo di Nicomedia
120

per l'arsenale, dove con tutto questo se ne ha qualche poco di bisogno. (E. Albéri. Cit. S. III, v. III,
p. 193)

Verso la fine del secolo, secondo quanto si legge nella relazione del bailo a Costantinopoli Matteo
Zanne, letta al senato veneziano nel 1594, i turchi erano diventati però più pratici e spicciativi nel
trasporto marittimo dei cavalli e avevano infatti scoperto che non avevano più tanto bisogno di
mantenere a tal scopo una flottiglia d’apposite palandarie:

... Di palandarie poi, o passacavalli, ne possono avere quanti vogliono perché ogni 'caramussal' si
accommoda facilmente a quest'uso. (ib.)

Poiché i suddetti passa-cavalli, chiamati a Venezia marani, essendo solo saltuariamente utilizzati,
risultavano vascelli anti-economici e pertanto, come si legge nel Capitolare dei Patroni e dei
Provveditori all’Arsenale di Venezia, documento questo promulgato il 22 gennaio 1377, nel
Medioevo a Venezia si prese l’abitudine, come più sopra accennato, di usarli anche come vascelli
ex-remieri da carico; infatti vediamo, per esempio, che il 26 giugno 1412 il Senato autorizzò al
governo di Creta la costruzione ex-novo di un marano da impiegare nei lavori portuali..
La galera e gli altri vascelli da guerra non erano allora ancora comandati da un capitano bensì da
un còmito (gr. πρωτελάτης, poi ϰόμης), il quale aveva come suo secondo il nocchiero [dal lt.
nauclerus; gr. ναύϰληρος; lem/ctm. nau(t)xer o notxer; cstm. navicher], detto questo invece dai
bizantini secondo còmito (gr. δευτεροελάτης, poi δεύτερος χόμης)]; ma bisogna precisare che nella
marineria non remiera bizantina, mancando il còmito, ναύϰληρος si usava col significato di
‘nostromo’. Nel Tirreno del Basso Medioevo per nauclerii si intendevano gli ufficiali di poppa in
genere, piloti inclusi, essendo pertanto allora, per esempio la gente di galea, da suddividersi in
questa maniera:

Comes (‘comandante’)
Nauclerij (‘ufficiali di poppa’)
Proderij (‘marinai’)
Balistarij (‘soldati’)
Remerij (‘remiganti’).

Invece a Venezia si dicevano in lt. nauclerii i marinai in generale, per distinguerli dagli uomini da
remo e da quelli da guerra. Chiamare nauclearij gli 8 ufficiali di poppa era ancora in uso nelle galee
alto-medievali veneziane. La galea poteva anche occasionalmente trasportare dei soldati da
sbarco e nel Medioevo essi erano detti generalmente lancearij, in quanto la lancia non era ancora
diventata un’arma prerogativa della cavalleria, ma, tornando al termine nauclerij, nell’antichità il
nome ναύϰληρος aveva invece avuto un altro significato, cioè quello di ‘impresario di una nave’, e
121

si diceva anche ναυϰράτωρ e ναυϰρατής. Più tardi, nella marineria bizantina, che a bordo allora
comandasse il còmito ce lo dice Marin Sanudo il Vecchio all’inizio del Trecento (sed hoc vere quasi
totum restat in comito, qui galeæ est rector… Cit. P. 63); ma si evince anche per esempio
chiaramente da quanto Saba Malaspina racconta della spedizione navale siculo-catalana contro le
angioine Reggio e Nicotera del 1284, laddove immagina la concione esortativa fatta da quello che
sarà più tardi chiamato còmito reale agli altri còmiti della squadra (cit. LT. X, cap. XXII).
Le galee (da un lt. alto-medievale galedae e galadae, questo a sua volta da un gr. bizantino
γαλαία) si dividevano nel Basso Medievo in galee leggiere (ma poi, dal Trecento dette sottili, anche
a Venezia) e galee grosse; le prime erano perlopiù biremi e le seconde triremi, preferite
generalmente queste, come abbiamo già detto, dai catalani e dai veneziani, ma comunque usate
in tutte le marinerie mediterranee come galee di comando e talvolta, specie nel Quattrocento come
vedremo, anche per il trasporto di pellegrini in Terrasanta; ma già allora s’incominciavano talvolta a
chiamare galee grosse anche le galee di mercanzia, le quali in realtà erano invece, come del resto
anche le galeazze tirreniche, vascelli tondi e non sottili, però di bordo alquanto basso per potersi
aiutare con i remi, e così anche gli uscieri per il trasporto di salmerie e cavalleria, i quali ultimi
potevano essere o dei vecchi pamfii (pamfuli, vascelli così chiamati perché originari della
Pamphylia) e dromoni oppure quelle che i veneziani chiamarono marani e più tardi arsili (nel
Tirreno fusti), praticamente degli scafi di galere di mercanzia non armate, non corredate, o anche
delle potenziali triremi bastarde, tutti vascelli che avevano in comune l’essere stati modificati con
l’apertura di un portello d’accesso posteriore per i cavalli e con due timoni laterali in necessaria
sostituzione di quello unico centrale delle normali galee. A volte i veneziani usavano marani, ossia
scafi di vecchie galee grosse ancora atte alla navigazione, se non più ai lungi viaggi mercantili
oltremarini, per trasportare pesanti materiali da costruzione, cioè per esempio massi e pietre per
costruire o riparare moli e argini portuali, come quello che i 27 novembre 1399 il senato di Venezia
ordinò di preparare ai patroni dell’arsenale perché bisognava trasportare massi per riparazioni da
fare al molo del porto di Candia, in quanto quello che di solito per questo si usava era colà
affondato; bisognava a questo scopo che scegliessero una vecchia galea grossa della misura
d’Alessandria, cioè della stazza di quelle che facevano la linea commercaile Venezia-Alessandria
d’Egitto, che la facessero resegare (‘trasformare’) alla navarescha, cioè a mo’ di nave (‘veliero’),
seguendo le istruzioni del protomastro dell’arsenale; insomma in sostanza bisognava privarlo della
coperta – e quindi anche dei banchi di voga - per poter calare sul suo fondo il pesante carico - e
poi all’arrivo da lì estrarlo – senza impaccio (H. Noiret, cit. P. 104).
122

Che gli uscieri fossero dunque più grandi delle galere ordinarie lo leggiamo nel Chronicon de rebus
venetis di Lorenzo Monaci (? – 1428) laddove, a proposito di preparativi bellici veneziani, così si
legge:

… armanturque XXXIII naves longae, quae dicunt galeae, ex quibus XVIII corpulentiores fuerunt,
habentes in pupe hostium pro equis introducendis… (LT. X, p.178. Venezia, 1758.)

Bisogna chiarire che la locuzione ad navarescham si usava per significare qualsiasi aspetto
nautico che fosse peculiare delle navi – nome comune qui usato in generale nel senso di vascelli
tondi – e quindi nel Medioevo, cioè quando la navigazione remiera era ancora quella
preponderante, anche navigare a vela invece che a remi si diceva navigare ad navarescham;
infatti, per fare un esempio, con decreto del 16 agosto 1400 il senato di Venezia ordinava che
fossero subito inviate a Candia due galee sottile armate; ma, poiché era a destinazione che
sarebbero state completamente ciurmate, bastava ora equipaggiarle appunto ad navarescham (‘a
mo’ di nave’), cioè con sola marinaresca, per metterle in grado di fare quel viaggio a vela.
Alla fine del Rinascimento, cioè dalla prima metà del Cinquecento le triremi diventeranno le galere
sottili ordinarie e le biremi saranno definitivamente declassate a galeotte; di uscieri non si parlerà
più, trasportandosi ora la cavalleria soprattutto in velieri quadri e latini, essendo diventata la
navigazione veliera già nel Cinquecento più agile e dirigibile e con il vantaggio di poter far
viaggiare ora i cavalieri assieme ai loro animali, mentre per galee grosse s’intenderanno ora solo
quelle di mercanzia, chiamate propriamente così a Venezia, invece in Turchia maone (dal grb.
μαγούνες, ‘vascelli in multiproprietà’ e di conseguenza anche ‘società commerciali’) e galeazze nel
Mediterraneo; infine si diffonderanno, alla fine del Cinquecento, le galere bastarde o bastardelle,
cioè quelle che erano sì ordinarie ma più ampie, specie a poppa, delle comuni sottili, fatte per 4 o 5
vogatori per banco e atte a portare equipaggi in generale più numerosi di quelli che potevano
permettersi le galere sottili.
In realtà le suddette galere leggiere biremi medievali erano talvolta potenziate con l’interzamento,
cioè con l’aggiunta di terzarolo o terzo vogatore per banco, talvolta solo a un certo numero di
banchi posteriori, ma, poiché, essendo, eccezion fatta di quelle di comando, solo delle biremi, non
erano sufficientemente larghe e, quando erano potenziate così, dovevano necessariamente
rinunziare a un pari numero di balestrieri; ciò era molto criticato dal Muntaner, il quale più volte
nella sua Cronica sconsigliò il perseguire un guadagno di velocità del vascello a discapito delle sue
potenzialità offensive (Que trezol no metats en leustol, all’anno 1323) e, se proprio questo talvolta
si fosse ritenuto utile, non bisognava comunque farlo in più di un quinto delle galere di cui si
disponeva, sempre però che si disponesse di ottimi balestrieri di ruolo (lem/ctm. ballesters en
taula), quali erano soprattutto quelli catalani regolarmente assoldati, capaci non solo di un tiro
123

preciso e potente anche se magari senza l’ausilio del gancio (lem/ctm. fibayll) con cui, in uno
spazio adeguato, la balestra si agganciava al bordo superiore della pavesata per una maggiore
stabilità e fermezza del tiro, ma anche abili a costruirsi da sé le loro balestre:

… i quali balestrieri catalani son tutti tali che saprebbero fare una balestra nuova, dal momento che
ciascuno la sa accomodare e sa fare quadrelle e un teniere (lem/ctm. matras, ‘materasso’) e corda
e incordare e legare e tutto ciò che pertiene al balestriero; perché i catalani non intendono che sia
(ritenuto) balestriero nessuno se non sappia fare dall’inizio alla fine tutto ciò che pertiene alla
balestra; e pertanto porta tutto il suo corredo in una cassa, come dovrebbe tenerlo un operaio di
balestreria; e nessun’altra gente ha questo, mentre i catalani lo apprendono dalla mammella
(‘dall’infanzia’) e nessun altro popolo del mondo lo fa; per cui i catalani sono i più veloci balestrieri
del mondo.
Per il suddetto motivo gli ammiragli e i capitani degli stuoli dei catalani devono aver la massima
cura a questa singolare eccellenza che presso altre genti non si trova, non lasciando che si
facessero mai lavorare, per cui non è conveniente che tali balestrieri voghino da terzaroli, che, se
lo fanno, perdono l’abilità della balestra. E inoltre i balestrieri di ruolo fanno anche un altro bene e
cioè che, quando vedono un marinaio o un posticcio che voga al suo banco stanco e desideroso di
bere o di mangiare, si fanno avanti e si mettono a vogare al suo remo per diletto finché quello non
habbia fatto ciò che aveva da fare o che si sia rinfrescato; e così tutti i balestrieri vanno riposatie
freschi e fanno andar anche la ciurma fresca. Non dico che uno stuolo non debba esser tale da
non avere dieci galere ogni centinaio con terzaroli, perché in tal modo quelle possano raggiungere
galee che navighino davanti… (Muntaner. Cit.)

Premesso che il nome stuolo era poco appropriato nel caso di un’armata di centinaia di galee
perché meglio significava invece ‘squadra, distaccamento’, in quanto dal lt. extollo (‘cavo fuori,
faccio uscire’), aggiungiamo qui che i balestrieri catalani, essendo riuniti generalmente in
compagnie (lem/ctm. compagñas), erano chiamati ‘compagni di balestra’. Nelle galere, continuava
il Muntaner, c’era sì bisogno di gente di riserva, ma intendendosi per ciò solo uomini a ciò
designati (cst. sobresalientes) e cioè nocchieri (termine questo allora usato come generico e più
tardi sostituito da ‘gente di poppa’), ossia scrivano, timonieri e mastri artigiani, proeri, cioè gabbieri,
balestrieri e remiganti ordinari, e bisognava pertanto lasciar lo spazio disponibile a questi e non
occuparlo perciò con terzaroli, cioè con persone non designate, magari utili sporadicamente nella
guerra di corso ma non in una battaglia reale, ossia in un combattimento ordinato. Bisogna poi
considerare che nel Medio Evo, imbarcando balestrieri, si dava la precedenza a quelli che, in caso
di necessità, sapessero anche exercere naucleriam, vale a dire fare i marinai.
Ai tre quarti del Duecento (Cancelleria angioina, Cronaca del padre domenicano Marsilio e
Cronaca del re Giacomo Primo) fece la sua comparsa anche il nome di galeotta, nome che nel
corso del secolo successivo si cominciò molto lentamente a dare alle biremi a confronto delle
triremi, le quali solo nel Rinascimento cominceranno a esser ritenute non più galee più grandi delle
ordinarie, ma sensiglie (‘semplici’), cioè esse stesse ordinarie; infatti nel 1366, quando papa
124

Urbano V venne in Italia nel primo fallito tentativo di riportare la sede del Papato a Roma, era
accompagnato da una squadra di un centinaio di legni, tra i quali 60 galere, molte delle quali
magnae; il che non significa però che fossero galeazze, vascelli molto lenti, inadatti ai trasferimenti
veloci riservati ai grandi personaggi, ma galee triremi, dette magnae a confronto di quelle biremi,
ovviamente ancora più strette (sottili) e leggere anche se più veloci; egli era portato dalla più bella
di queste galere, costruita nell’arsenale di Ancona:

… Ipse autem Papa fuit in una galea anconitana mirabiliter et eleganter fabricata, quae reputabatur
singularissima inter ceteras galeas mundi (Cornelius Zantfliet, Chronicon etc. In Veterum
scriptorum et monumentorum etc. C. 290, lt. V. Parigi, 1729).

Il tentativo sarà poi ripetuto, questa volta con successo, da Papa Gregorio XI, il quale il 2 ottobre
1376 s’imbarco anch’egli su una squadra di galere che lo doveva portare a Porto Pisano (antico
porto sito a Livorno Nord) per il suo successivo trasferimento a Roma: la squadra si componeva
stavolta di un minor numero di vascelli, di cui 14 sole galere, ma perlopiù grosse, cioè triremi, e di
una galeotta; anche questo Papa prese posto nella galea grossa d’Ancona, molto probabilmente
ancora quella suddetta di dieci anni prima.
I termini della suddetta evoluzione si cominciano a definire negli Annales dei fratelli Stella all’anno
1379, col. 1.113, dove si dice di alcuni vascelli remieri dell’imperatore bizantino Kalojanes
(Giovanni V Paleologo):

… Avendo dunque lo stesso imperatore una galera armata di tre remi per singolo scanno e di
trecento uomini o più e inoltre due galeotte, in una delle quali c’erano centodue uomini e in un’altra
novantasei, con otto navigli che in volgare chiamano ‘paliscarmi’ e molti altri piccoli scafi… (Cit.)

Eppure a quei tempi la galeotta non era un legno molto apprezzato, come appare da questo
decreto del Senato di Venezia promulgato il 24 ottobre 1388:

… Si scriva al governo di Creta per quella galeotta di circa venti banchi che è nel nostro arsenale
di Creta e che è troppo grossa e inadatta alle nostre esigenze, che si debba vendere nel medo che
sia ritenuto migliore, dal momento che la galeotta medesima occupa un volto dell’arsenale in cui
c’era una buona galea completa (Item scribatur regimini Crete per illam galeotam de banchis viginti
vel circa, quae est in arsenatu nostro Crete et quae est nimis grossa et non abilis pro factis nostris,
debeat vendere per illum modum qui sibi melior videbitur, etiam quia ipsa galeota occupat unum
voltum arsenatus , ubi stabit una bona galea completa. (H. Noiret, cit. P.23).

Ma negli anni seguenti si ebbe evidentemente a Venezia più considerazione delle galeotte da 20
banchi per lato, perché con delibera del 9 novenbre 1408 se ne inviò una a Patrasso per guardia di
125

quelle marine dannificate dai corsari turchi e si incaricava l’ammiraglio (l. admiratus) veneziano di
quel possedimento di assumerne direttamente il comando diventandone così il patrone (ib. P. 27).
La galeotta avrà vita lunga, anzi a Napoli addirittura più lunga di quella delle galere. La galera che
portava l’ammiraglio o addirittura il re era dunque nel Medioevo generalmente non una semplice
biremi bensì una triremi e a bordo quindi aveva, oltre al còmito con il suo nocchiero ossia
luogotenente, anche un vicecòmito a prua, anche questo con un suo nocchiero che lo coadiuvava.
Ecco uno schema della predetta evoluzione dei vascelli da guerra remieri marini dall’antichità alla
prima metà del Seicento in base a quanto già finora detto:

EVO ANTICO/ALTO MEDIOEVO → BASSO MEDIOEVO/RINASCIMENTO → ETA’ MODERNA

Minori monoremo:
Triacòntori, pistrici → miuoparoni, legni armati, barche lunghe, gatti, redeguardi, teride → fragate e
bergantini.

Ordinarie:
Pentecòntori, triere, tragi, liburne → fuste galere leggiere (poi dette galere sottili) biremi o triremi

galeotte biremi e fuste biremi o triremi, galere sottili triremi.

Di comando:
Tetrere, pentere (quadriremi, quinqueremi) → galee grosse (dal sec. XIV galere bastarde) →
galere bastarde (quadriremi, quinqueremi e qualche exera).

A due ponti remieri:


……………………. → galeoni fluviali e dromoni → galeazze alla francese.

Da carico e da battaglia:
……………………. → ………….. → Galee grosse veneziane e galeazze.

Dei predetti tragi (gr. τράγοι) poco si sa, se non che in un frammento del Sisenna leggiamo che
potevano essere grandi (… prores actuariae, tragi grandes ac faseli primo. Nonio Marcello, cit. P.
366) e che il loro nome era tratto da quello di un tipo di conchiglia non buono da mangiarsi, come
leggiamo in Paolo Diacono (Tragus: genus conchae mali saporis.), il che ci fa dunque pensare che
si trattasse effettivamente di un vascello grande e offensivo.
Ai tempi di Anna Comnena (prima metà del dodicesimo secolo) si chiamavano galee anche le
velocissime monere (εἰς μονήρη γαλέαν. A. Comnena, Alexiadis. LT. VI, 6), molto usate specie
come vascelli messaggeri (… avendo l’imperatore inviata una missiva a mezzo di una nave a un
solo ordine di remi… ἐϰ βασιλέως πεμφθέντα γράμματα ϰαὶ ναῡς σὺν ἐρέταις μονέρες .Nikeforo
Briennio, Commentari etc. LT. II, par. 27), mentre più avanti nell’Alto Medioevo saranno
126

considerate tali sono le diere e le triere; infine poi, dal Cinquecento, solo le triere saranno dette
galee, mentre le diere si chiameranno galeotte.
Una normale galera leggiera biremi medievale aveva generalmente una novantina di remiganti,
compresa una decina di riserva per interzare magari i banchi posteriori o per rimpiazzare le perdite
e i malati; portava inoltre un nujmero di balestrieri – 30, se veneziana - provvisti di balestre piccole
e di grandi - cioè sia di quelle da caricarsi con un solo piede sia di quelle più grandi da caricarsi
tenendole invece ferme con ambedue i piedi, mentre gli altri uomini di bordo, remiganti compresi,
erano in grado di combattere da semplici serventes masnadae, cioè soldati di fanteria ordinaria
(sp. infantes rasos), armati oltre che di daga, anche di lance d’abbordaggio e di lancioni (cioè di
lunghe lance contro-bilanciate come erano quelle per le giostre di cavalleria) anti-abbordaggio;
alcuni, specie graduati e ufficiali, erano dotati di capsa o cassa, cioè di ‘cassa toracica, lorica’.
Anche le galee grosse di mercato portavano a bordo balestrieri a loro difesa, ma in numero
minore rispetto a quello delle galee sottili da guerra; per esempio il 19 febbraio del 1400 il senato
veneziano decretò che le galee mercantili che arrivavano addirittura sino a La Tana, città
nell’estremo oriente della costa del Mar d’Azov sita a poca distanza da quella maggiore di nome
appunto Azov e che nell’antichità si era chiamata Tanais, dovevano portarne solo 15 ciascuna,
gente che però si imbarcava a Creta e non già alla partenza di questi vascelli da Venezia (H.
Noiret, cit. P. 105); a Creta infatti questi soldati specializzati non mancavano e infatti sette giorni
prima un altro decreto senatorio prescriveva di inviare in guarnigione a Corfù 200 balestrieri
arruolati a Venezia e nella stessa Creta, in quanto quelli locali non davano molto affidamento (ib):

… Molti dei balestrieri di Corfù hanno mogli e figli, il che presenta gravi svantaggi per le chiamate
alle armi. Si scrive al bailo di farne equipaggiare duecento a Venezia o a Creta per rimpiazzare
quelli che fossero disutili o inadeguati (trad. dal fr.)

Per i balestrieri veneziani era previsto anche un armamento difensivo e infatti il 15 dicembre 1403
il senato decretava che si acquistassero a Creta, a spese pubbliche, centum armature fulcite a
ballistario. Ma a La Tana arrivavano anche cocche (‘vascelli tondi’) mercantili veneziane che
viaggiavano di conserva, cioè in gruppo sotto il comando di capo-flottiglia con la qualifica di
capitaneo, e queste, per sicurezza dei loro traffici nei confronti dei pirati balcanici e, in quel
periodo, anche e soprattutto dei corsari ottomani, furono anch’esse obbligate a prendere a bordo a
Candia 15 balestrieri ciascuna; ma, poiché il quindi non indifferente costo del loro ingaggio ed
equipaggiamento gravava troppo su quello delle merci che portavano, furono presto – il 23 marzo
seguente - autorizzate in deroga a sbarcare questi balestrieri già a Modone o a Corone, cioè dopo
aver compiuto il tratto del viaggio più pericoloso (ib.) Tra detti 15 balestrieri, a seconda della
127

distanza geografica dal pericolo ottomano, 4 oppure 5 dovevano essere di nobile stirpe, perché
erano tempi in cui si credeva – e forse a ragione – che la nobiltà d’animo e quindi il conseguente
comportamento in guerra derivassero da educazione familiare. L’11 luglio 1401 per il viaggio di
Alessandria fu autorizzata anche una cocca di 500 botti e bisognava che questa avesse 10
balestrieri a sue spese (ib. P. 148-151); l’11 gennaio del 1406 ne furono auorizzate due per il
viaggio di Siria, le quali dovevano essere imbertescate e imbattagliate, cioè attrezzate con opere
morte da difesa bellica, inoltre dovevano essere equipaggiate con cento uomini ciascuna, tra
marinai e balestrieri, questi con le mansioni che solitamente si richiedevano ai balestrieri dei
vascelli commerciali, cioè che svolgessero anche lavori di bordo quando necessario; infine,
ognuna, oltre che con le solite armi, doveva essere armata di quattro bombarde, 10 balestre a
mulinello con altrettante casse di verrettoni, cento lance da marina, 200 dardi, ossia giavellotti, e
altre casse di verrettoni per le normali balestre dei balestrieri.
Il Noiret trascrive poi anche un interessante decreto del 26 aprile dello stesso 1400 con cui si
mandavano a Candia due galeotte perché l’isola era rimasta contingentemente priva di vascelli
armati a sua difesa, del materiale nautico, dell’altro bellico aggiuntivo da sbarcare nell’isola e cioè,
per ognuna delle due galeotte:

- remi da galeotta in numero di 600. Questo numero includeva sia remi d’esercizio, sia quelli di
riserva sia alcune centinaia da sbarcare a Candia per le esigenze dell’isola.
- Corite (dal gra. ϰόρυθες) da galea, ossia celatine - o cervelliere che dir si voglia - in numero non
ancora definito.
- lancee da galea, non descritte ma presumibilmente del genere delle corte e sottili lance’ da
fanteria, in quanto a bordo delle strette galee non se ne sarebbero potute maneggiare di lunghe
come quelle della cavalleria leggera.
- 100 corazze da pedoni, quindi evidentemente delle corazzine, che tali difese di cuoio ancora si
usavano prima dell’adozione delle armi da fuoco leggere e di conseguenza dei corsaletti di ferro a
prova di scoppietto.

Nel caso della piccola armata di 25 vascelli, tra galee, teride, uscieri e un legno sottile da 52 remi,
preparatasi nel 1270 nei porti della Puglia per ordine dato da Carlo I d’Angiò l’11 maggio, quando
cioè era ancora re di Sicilia e non ancora di Sicilia Citra, cioè di Napoli, allo scopo di portare aiuto
a Guillaume de Villehardouin principe d’Acaia, ad ognuno dei predetti vascelli bisognava fornire
100 lance, 300 lancioni, 2.000 quadrelli per balestre sia da uno sia da due piedi e inoltre un certo
numero di loriche (G. del Giudice, cit. P. 7). Questa flottiglia, certamente nel tempo rinnovata, sarà
poi adoperata nell’estate del 1279 per trasportare in Romania l’angioino Ugo, detto Rosso de Sully,
perché inviato colà con delle milizie ad assumerne il carico di vicario reggente ed al quale l’anno
successivo furono inviate galere con milizie di rinforzo; nello stesso 1280 Carlo I utilizzerà ancora
la suddetta flottiglia, specificandosi che trattavasi di 25 teride con 2 galere e un galeone di scorta
128

che allora si trovavano raccolte nel porto di Brindisi e che dovevano approntarsi per farle partire
immancabilmente il giorno 10 aprile di quell’anno 1280. Ogni terida, la quale aveva un equipaggio
formato dal comito o ‘comandante politico’, dal suo luogotenente o nocchiero, il quale si poteva
considerare il ‘comandante d’esercizio’, e dai marinari, avrebbe dovuto caricare 30 cavalli, il che
significa anche i rispettivi cavalieri:

… Ordina ancora doversi trasportare cento balestrieri, i più istruiti e valenti che ha fatto ricercare,
cinquanta nel giustizierato di di Terra di Bari e cinquanta in Terra di Otranto, i quali, oltre di essere
esperti e valorosi nell’arte loro, hanno mogli, famiglie e proprietà in que’ giustizierati. In Archivio
Storico Italiano. Quarta Serie, Tomo III. Anno 1879. P. 7. Firenze, 1879.

Perché era utile che questi balestrieri fossero scocialmente ben radicati in quelle terre? Perché,
poiché avevano molto da perdere, si poteva ottenere da loro un comportamento corretto e un
servizio fedele. Questi vascelli dovevano inotre caricare:

6 balestre da due piedi e 6 da un solo piede (con le rispettive bandoliere e corde duplicate, una
cioè per tirare e l’altra, detta ‘falsa’, per riserva; e con ogni altro corredo di ciascuna balestra).
25mila quadrelli per balestre da un piede e tremila per balestre da due piedi (ib.)

I predetti balestrieri erano tenuti a presentarsi al servizio muniti della loro arma personale e infatti
le predette 12 balestre e parte dei quadrelli non erano per loro, erano da consegnarsi alla
guarnigione di Corfù per munirne il castello di Pariornia allora in ristrutturazione; inoltre a Corfù, a
disposizione del capitano napoletano-angioino di quell’isola Giordano di Sanfelice, sarebbero
anche rimasti 30 degli stessi suddetti balestrieri, di cui 20 destinati alla custodia del castello di
Butrontoi e 10 a quella di Subotoi, ed è interessante qui notare che essi sono qui chiamati
servienti, vocabolo da cui verrà poi il termine europeo ‘sergenti’, ma che allora aveva solo il
significato di ‘soldati scelti’. In realtà, come risulterà poi nello stesso aprile, alla spedizione
verranno poi aggiunti almeno 100 fanti lancieri regnicoli, almeno 20 balestrieri francesi e 20
balestrieri a cavallo, questi ultimi dunque già allora esistenti. Bisognava poi che questi vascelli
portassero, in dotazione di bordo, cento grandi scudi (denominari pavesi), ognuno largo quattro
palmi, da porre in fila alle balestriere o fiancate dei vascelli come ripari del ponte di coperta, ed altri
50, più grandi, larghi sei palmi da usare invece soprattutto come ripari dei ponti di comando.
Sennonché il 22 giugno successivo il re Carlo I scriverà ancora al predetto giustiziero di Terra
d’Otranto in merito ai 50 balestrieri inviati a Ugo Rosso de Sully:

… il quale Sully ora gli ha scritto che que’ 50 balestrieri sono affatto incapaci e inutili, perché per
nulla esercitati nell’arte di mirare e di operare… (ib. P. 20.)
129

Pertanto il re addebitava al giustiziero i tre mesi anticipati di paga che si erano dati ai detti
balestrieri perché si era reso colpevole di una elezione sbagliata e inoltre nello stesso giorno
scriveva anche al giustiziero di Terra di Bari una lettera dello stesso identico tenore. Il 24 giugno
ordinava al detto giustiziero di Terra d’Otranto di inviare al de Sully altre 12 teride cariche di armati
e di viveri per gli stessi e a quelli di Terra di Bari e di Capitanata di mandare, sempre al de Sully e
a mezzo delle dette 12 teride, 60 fanti arcieri saraceni, 20 maestri falegnami, 10 mazzonieri
(‘muratori’; tlt. murarii), 5 tagliatori di pietre ed alcuni maestri fabbri ed alcuni esperti in costruzione
di macchine da guerra (ib.)
Questi vascelli non avevano artiglierie, non potendosi considerare tali le trombe di galera, e quindi
il numero e la qualità dei balestrieri era particolarmente importante; comunque, nel caso di assedi
marittimi, si sgombrava ad alcune la prua per montarvi a ognuna una briccola con cui battere dal
mare la città assediata; e che s’usassero nel Medioevo anche trabocchetti (fr. trebuchets)
abbastanza piccoli da poter appunto esser montati a prua delle anguste galere di quei tempi lo
leggiamo nelle cronache medievali catalane (Per quel senyor infant En Jacme, lendema, feu
arborar dos trabuchs que tragueren de les galees. Muntaner, all’anno 1283). Per quanto riguarda i
legni armati, essi, detti dal Trecento in lem/ctm. anche fustes de rem (‘legni da remo’), non erano
altro che vascelli biremi privi di opere morte (lem/ctm. armat a plat) dalle dimensioni inferiori a
quelle della galera leggiera, quindi non rientravano nella categoria delle sottili monoremo, cioè di
quelle che invece dette varchette, galadelle, monere e più tardi berghentini e fregatine, e andavano
pertanto dalla quarantina alla ottantina di remi in totale, non superando quindi la ventina di banchi
per lato come più tardi faranno fuste e galeotte, mentre le galee, anche nei secoli successivi, non
supereranno i 30 banchi per lato, come leggiamo nel Pantera; solo la famosa cinquecentesca
grande quinquereme Faustina, progettata dal veneziano Vittorio Fausto, arrivava ai 32 banchi per
lato, per un totale quindi di ben 320 vogatori.:

… cum galeis XVIII et aliis duorum remorum LIII, quae lingua vulgaris ‘ligna’ nominant… (G. & G.
Stella. Cit. C. 984).

… E così le galere partirono da Marsiglia e andarono a Napoli; e, quando furono a Napoli, il


principe (Carlo lo Zoppo, principe di Salerno e futuro re Carlo II di Francia) fece armare sette legni,
ciascuno da ottanta remi e da settanta remi, i quali andassero con le galere (d’Esclot, Chronica,
all’anno 1283)…

Quelli da 80 remi erano i maggiori, in quanto, quando invece capaci di un armamento di 100 remi e
più, allora non si parlava più di legni bensì di galere:
130

… E poi fecero venire un legno armato di ottanta remi che era di Nicotera ed era il maggior legno
che si sapesse (ib. All’anno 1282).

I loro nomi si differenziavano dunque solo per il numero di remi che avevano (legno armato da 24
remi, legno armato da 40 remi, legno armato da 60 remi, legno armato da 80 remi ecc. (Ib.) E. g.
vedi anche: unum lignum de XL remis Communi Chersi in N. (b) a c. 389 in LT.A. Muratori, Rerum
italicarum scriptores etc. T. XII. Milano, 1728); … et lignum subtile unum Curiae nostrae remorum
quinquaginta duorum quod in Apulia esse dicitur… in G. del Giudice, cit. P. 7. Essi si usavano
molto nella guerra di corso, ma alcuni erano sufficientemente grandi e armati da potersi
confrontare anche con galere d’armata (armaron siete leños y eran tales que podian combatir cada
uno con una galera delos enemigos. (Zurita, Anales. T. I, LT. III.) Abbiamo visto uno di questi
grossi legni armati remieri a proposito dell’armata genovese del 1351; in seguito, nel
Rinascimento, prenderanno, come abbiamo già detto, i più individuali nomi di fuste e galeotte.
I mussulmani agareni (oggi diremmo ‘sciiti’), i quali avevano cominciato a impadronirsi dell’isola di
Creta nell’824, cioè dai tempi dell’imperatore bizantino Michele II Amoriano, imperversavano
nell’Egeo con le loro flotte piratiche,cioè corsare. Dopo l’871, cioè ai tempi invece di Basilio il
Macedone, l’emiro (grb. ὀ ἀμηρᾶς) di Creta Shuʿayb I ibn ʿUmar (855-888), ricordato dagli storici
bizantini come Sael Apocapo, essendosi posto a capo di una trentina di vascelli piratici [gr.
λῃστρίδες (νῆες) λῃστ(ρ)ιϰaὶ νῆες, λῃστ(ρ)ιϰά πλοία, ἐξωϰέλεις) λῃστ(ρ)ιϰὰς νῆας μαϰρὰς) da 22
remi, intensificò la pirateria in quei mari, arrivando ad invadere persino le coste del Peloponneso.
C’è qui da chiarire che in greco bizantino πειρᾶτής non significava ‘pirata’ bensì ‘corsaro’,
dicendosi invece λῃστής per dire pirata nel nostro senso di briganti del mare; ma anche corsari
sono da considerarsi, oltre ai πειρατιϰά πλοία, anche le antiche ἠμιολὶδες o (τρι)ἠμιολίαι νῆες
(quando piccole ἠμιόλια) menzionate da Esichio e dal Polluce, le quali erano, a dire del primo di
questi autori, ‘vascelli lunghi, ossia remieri, privi di coperta’ (τριημιολία. ναῦς μακρὰ ἂνευ
καταστρώματος. Esichio, cit. p. 93).

Ma, tornando ai predetti episodi di cui narra il cronachista Giorgio Franzes nel suo Chronicon (lt. I,
cap. 34), se per i detti 22 remi intendesse 22 remi per lato o in totale non è esplicitato, ma in
genere nei secoli di guerra remiera s’indicava il numero per lato se si trattava di banchi e quello
totale se invece di remi, intendendosi per questi i remiganti che li manovravano; inoltre, come
abbiamo forse già accennato, una monoreme con 22 banchi per lato non era possibile, in quanto
sarebbe stata troppo lunga rispetto alla larghezza e quindi di pericolosa navigazione, mentre una
biremi di 11 banchi per lato avrebbe presentato il difetto opposto, incominciandosi infatti in
generale nella navigazione remiera a parlare di biremi nel caso di una teorie di banchi di minimo
15/ 16 per lato.
131

Per quanto riguarda le suddette varchette (tlt. vachetae o vac(c)et(t)ae o varkettae; cfr. np. varca),
dette anche in it. galadelle, esse si utilizzavano per servizio d’armata e ogni terida, ossia ogni
vascello remiero da carico, doveva averne necessariamente una perché a quei tempi le qualità
nautiche e quindi la manovrabilità costiera dei vascelli, anche se remieri e per nulla grandi quali in
effetti erano le teride, erano limitate; inoltre in caso di bonaccia con una barca a 8 remi, come era
generalmente appunto la vacchetta, si poteva anche trainare per un po’ la terida:

… perché senza una vacchetta le stesse teride non possono navigare in buon modo, secondo il
parere di quelli che sono esperti di tali cose. (quia sine vaccecta una bono modo teridae ipsae
navigare non possunt secundum consilium in talibus peritorum (G. Del Giudice, cit. Pp. 31).

Pertanto:

… conti e baroni […] o in loro assenza i procuratori degli stessi […] facciano che si verifichi
affinché nel termine in cui le teride stesse siano complete e preparate a navigare si provveda di
avere infallibilmente le vacchette medesime fatte e complete (… comites et barones […] vel in
eorum absentia procuratores ipsorum […] fieri faciant ut in termino quo teridas ipsas completas et
ad navigandum paratas esse providimus vaccectae ipsae factae et completae infallibiliter
habeantur. Ib. P. 32).

Queste citazioni sono tratte dall’ordine che in data 31 giugno 1277 il re di Napoli Carlo I d’Angiò
inviò ai giustizieri del Regno e in cui si comandava che i feudatari che allora dovevano a loro spese
costruire le teride per la nuova armata che si stava raccogliendo di provvederle anche di una
vacchetta ciascuna che fosse lunga 3 canne e 3 palmi napoletani, cioè poco più di 7 metri, larga in
bucca, cioè al centro sotto la coperta da fiancata a fiancata, 7 palmi, quindi quasi 2 metri, e alta di
puntale, ossia del vivo al centro fino alla coperta, 3 palmi, vale a dire circa m. 0,80, mentre alla
prua e alla poppa erano più alte, rispettivamente 5 palmi e 5 palmi e ¼ (ad modum baccecti, ‘a
modo appunto di vacchetta’). Esse sarebbero state da otto remi, ma da soli sei banchi, perché sui
due centrali avrebbero seduto due vogatori ciascuno, il che significa che molto probabilmente
questa imbarcazione aveva una forma più raccolta che allungata. La vacchetta nel Medioevo
spesso accompagnava anche la galea, perché questa, essendo allora generalmente non una
trireme bensì una più piccola biremi, non si poteva permettere di trasportare a bordo un còpano o
fregatina o schifo (gra. σϰάφη; grb. Θύσϰη; vn. galaldelo) degno di questo nome:

… ma essendosi una galea veneziana dello stuolo nemico indugiata presso terra con una
barchetta (cum autem quedam galea venetorum cum vacetta una hostilis extolii ad terram
haesisset… Bartolomeo di Neocastro, cit. Cap. LXXVIII.)
132

La circostanza che poi, qualche rigo dopo, l’autore chiami questa barchetta (lt. scapha; gr. σϰᾰφίά;
σϰάφιον) ‘sagittiam’, si può considerare un semplice errore, in quanto, come sappiamo le saettie
erano vascelli latini piuttosto grandi. Nelle armate esse erano naturalmente molto utili anche come
vascelletti porta-ufficiali e porta-ordini e quindi erano sempre presenti in buona quantità, come ne
leggiamo per esempio nei succitati ordini di Carlo I d’Angiò re di Napoli e nel De origine et gestis
venetorum di Flavio Biondo, a proposito dei conflitti navali tra veneziani e genovesi avvenuti ai
tempi della già ricordata quarta crociata:

… e parimente il doge Rainerio Zeno (armò) nelle Venezie 15 triremi, 10 tarade e agivano i
veneziani di Tolemaide, onde prepararono quaranta vacchette e dieci altre navi … et pariter
(armavit) Rainerius Zenus dux triremes Venetijs quindecim, taradas decem et qui ex enetis
Ptolemaidae agebant, unde quadraginta vachetas, naves ceteras decem paravere… (De origines
ac gestis venetorumin liber. In Opere, p. 287. Basilea, 1559.)

Oltre alle vachetas, sono particolarmente da notarsi dunque in queste citazioni le taradas (‘taredas’
o più comunemente ‘taridas’ o anche ‘tarìdes’, come già sappiamo; … tres taridas Venetorum
oneratas pane. Andrea Dandulo, Chronicon. LT. X, c. VII, p. XXVII)), perché nome generalmente
non usato nei mari di Levante, e naves ceteas (‘navi cetacee’), cioè ‘navi onerarie tonde’. A
proposito delle teride, vascelli remieri perlopiù portacavalli, negli anni tra il 1271 e il 1275 si ordinò
a Napoli di costruirne di nuove da 28 ordini di remi, con aposticci che dovevano infatti avere scalmi
per 112 remi (quelibet terida habeat remos centum duodecim quorum medietas sit longitudinis
palmorum viginti octo et alia medietas… palmorum viginti novem). Queste teride, considerando
che la canna napoletana era lunga m. 2,1164 e il palmo maggiore m. 0,26455, dovevano
presentare le seguenti caratteristiche:

- Lunghezza 18 canne (m. 38,10), quindi circa un metro e mezzo di meno di quella delle galere
di quei tempi.
- Larghezza (a cinta in cintam, cioè da murata a murata) 15 palmi maggiori (m. 3,97), quindi circa
cm. 27 di più di quella delle suddette galee. In un’altra ordinanza del 1274 si dirà invece 15
palmi e mezzo (de cinta in cintam de palmis quindecim et medio).
- Altezza di puntale, cioè al centro della terida, dal fondo alla coperta (a tabula sentinae usque ad
tabulam cohopertae) palmi maggiori 8, cioè m. 2,12, quindi circa cm. 7 di più di quella di una
galea. Nel 1274 invece palmi 7 e mezzo (altitudiniis a paliolo ubi equi debent tenere pedes
palmorum septem et medii).

Non appesantiremo inutimente il discorso riportando le altezze a poppa e a prua, diverse da quella
centrale; diremo invece che la tarida doveva avere due alberi (debet habere arbores duas), due
vele di ferze di bambagina, ossia di tela di cotone, e una più robusta di tela di canapaccio, inoltre
tre ancore e quattro porte, due inferiori e due superiori (et debet habere portas quatuor, duas
133

videlicet subtus et duas superius), intendendosi per porte superiori due aperture che davano sulla
coperta, ma in quali punti della coperta non sappiamo. Delle due inferiori una era a poppa e
doveva essere rotonda, cioè larga, in modo da permettere il passaggio di cavalli armati e insellati
[rotunda in puppi in modum conduci ad hoc (e cioè) ut equus possit intrare et exire armatus et
insellatus], i quali vi accedevano o ne uscivano tramite un semplice ponte di legno (pontem unum
pro ascendendis equis ipsis loco scalae) e perché a prua del pagliolo di fondo, il quale doveva
ricevere almeno 30 cavalli (impaliolata in fundo pro rcipiendis triginta equis ad minus), bisognava
lasciarne l’ultimo tratto libero da cavalli per potervi invece caricare viveri e provviste,
evidentemente attraverso una boccaporta. Il tratto di pagliolo destinato ai cavalli doveva essere
quindi lungo 12 canne e fatto di robusto rovere per sostenere il peso e il calpestio degli animali. I
cavalli si legavano ad anelli (debet habere anulos necessarios pro ligandis et appendendis equis
ipsis) che dovevano evidentemente essere posti in alto, dato che si parla di ‘appendervi’ gli
animali.
Nell’ordinanza del 1274 si precisa diversamente la posizione delle porte, perché in essa si dice di
tre porte superiori e di una sola porta inferiore. Il problema dei punti deboli dello scafo
rappresentato da queste porte, le cui fessure si ricalafatavano evidentemente dopo ogni apertura,
è apertamente considerato in queste ordinanze; si risolveva rinforzandole con false catene o
catene morte, come allora si diceva, cioè con catene tese a contatto dietro di esse che offrissero
resistenza alla pressione dei flutti (in qualibet porta… fiant falsae catenae, ut in eo in quo sunt
teridae debiles propter magnam aperturam portarum fiant fortes propter catenas). Il nome del tipo
di catene era quindi dovuto al loro particolare ruolo, il quale non era infatti quello classico di unire
due oggetti fortemente; a cosa fossero poi tenute fortemente appigliate le estremità di queste
catene morte non siamo in grado di spiegare. Questo sistema di tenuta è interessante anche
perché sarà probabilmente lo stesso che si era usato e che si userà in tutti i tipi di vascelli porta-
cavalli medievali e rinascimentali (chelandi, uscieri, marani, palandarie ecc.)
Le navi erano già allora talvolta di due e anche qualcuna di tre coperte, come si legge nel
Muntaner e anche, come segue, nella Crónica del re d’Aragona Pietro IV:

… vint naus grosses appellades: naus de covent (dal lt. conventus, ‘società, carataggio’; in.
covenant; it. convenzione), qui son de dues cubertes… (Cit.)

Nel 1423 Genova allestì, con una partecipazione minoritaria della Francia, un’armata in funzione
anti-regno di Napoli e quindi anti-catalana. Si trattava di 13 navi, 21 galere, 3 galeotte e un
brigantino, oltre naturalmente a naviglio minore; delle navi, come leggiamo nei già più volte citati
Annales genuenses, nove erano di grandi dimensioni e cioè di una portata che andava dagli 8mila
134

ai 18mila cantaria; ora, poiché per cantario s’intendevano, a Genova come a Napoli, cento rotoli (a
Venezia invece 100 libbre), il rotolo equivaleva a una libbra e mezza e la libbra era allora grossius
corrispondente a quell’anglosassone odierna, la capacità di detti vascelli è oggi abbastanza
correttamente valutabile. Su ognuna d’esse, poiché in quell’occasione adibite a trasporti di guerra
e quindi affollatissime, erano imbarcati circa 500 uomini, mentre nella altre quattro, le quali erano
piccole e di cui due erano ballenere, circa duecento. La cosa si ripeté nel 1435, quando i genovesi
andarono al soccorso di Gaeta, assediata dagli spagnoli, e si trattò allora dapprima di tre galere,
una galeotta, 12 navi e appunto 2 balleneras (Zurita, Anales. LT. XIII, c. XXV); in seguito, il 5
agosto 1435, con un afflusso di forze più consistente, l’armata genovese sconfiggerà, come già
ricordato, quella di Alfonso V d’Aragona in un epica battaglia nelle acque di Ponza.
Sia le navi armate sia e le barche armate erano detti i vascelli onerari quando armati a guerra, le
prime a opera viva rotonda e prevalente vela quadra, le seconde a opera viva sottile bassa e vela
latina, ma conducibili anche a remi, remi che potevano andare da 6 a 12 per lato; tra queste ultime
tipiche e numerose erano nel Mediterraneo le già ricordate taride, imbarcazioni onerarie
generalmente non castellate, ma che spesso s’incastellavano quando dovevano partecipare a
operazioni di guerra, circostanza che dimostra erratissima l’opinione del Veneroso e cioè che
tarida fosse solo un antico nome della galeazza, vascello questo fabbricato massicciamente
incastellato. Più piccole delle taride erano nel Medioevo i ctlt. trabuces, in verità vascelletti
nominati solo nella Crònica di padre Marsilio e una sola volta; che non si tratti di un nome derivato
da errore di trascrizione lo testimonia il molto più tardo nome trabaccolo, il quale, come si sa
denominava un’ampia barca adriatica a tre alberi compreso il bompresso. In una lettera- relazione
della fine del 1466 inviata al nuovo capitano generale Vittorio Capello, da pochi mesi eletto,
laddove si consigliava l’armata sufficiente da tener sempre disponibile contro quelle che potessero
armare i turchi, così si diceva delle navi armate:

... 20 navi grosse de 500 in 600 bote con 100 homeni per una [...] Dico navi de questa portada,
perché sonpiù destre a levarse de porto, a dar remurchio ed a far ogn’altra cosa che non sono
quelle di maggior portada; dico con 100 homeni per una per manco spesa; e sarano assai, purché
le navi siano ben coverte come bisogna, fornite de pali, de dardi, de bocali, de calcina, de piera e
de oglio (D. Malipiero, cit. Parte prima , pp. 39-40).

Per ‘ben coverte’ qui s’intendeva probabilmente che dovevano esser costruite con tolda completa
e non parziale, come a volte si vedeva nei vascelli onerari; inoltre dovevano esser ben fornite di
materiali offensivi da lanciare dalle gabbie negli scontri ravvicinati [e quindi dardi (gr. βέλεμνα), pali
di ferro, frecce e pignate incendiarie (bocali), calcina viva, pietre e olio bollente], perché soprattutto
in questo consisteva, prima che venissero in uso generale le artiglierie navali, la guerra marina
135

ravvicinata tra vascelli prima che si venisse all’abbordaggio. Le pietre dovevano essere da 25
libbre in su, perché, una volta lasciate cadere dalle gabbie sul vascello nemico, da quello non
potessero essere più lanciate iin alto in ritorno. Poteva essere utile del materiale per accecare il
nemico:

… Alcune pignate di ‘poluere di Vascello’ o altre polvere volative (‘volatili’) o fiore di calcina, ch'alli
vasselli sotto a vento si può dare assai molestia all'impedire la vista, che in uno abordare il vento
sfumi (‘sparga’) della poluere a quei di sotto di maniera che non impedisca (però) quei di sopra (A.
Falconi, cit. P. 4).

Occorreva dunque cercare di disporre anche di un magister calcariae, ossia di un mastro


calcinario, ma bisognava dunque fare in ogni caso molta attenzione nell’usare detti materiali; ecco
per esempio quanto si legge nei Diaria neapolitana di anonimo a proposito della predetta battaglia
navale di Ponza:

… Ed al fine, fino alla Vespera di questo dì, combattuto con sapone, oglio, pignatielli artificiali,
pietre di calce che buttaro sopra le navi nemiche dalle gabbie loro, le redussero che l’uno non
vedeva l’altro ed alcuna volta offendevano li loro medesimi, credendosi nemici (in LT. A. Muratori,
Rerum italicarum scriptores etc. C. 1.101, t. 21. Milano, 1732).

Ed ecco come brevemente descriveva una battaglia tra angioini e aragonesi avvenuta nelle acque
di Malta circa due secoli e mezzo prima della predetta di Ponza, cioè nel 1283, il Saba Malaspina
nella sua già citata Historia, opera iniziata nel 1284 e terminata, come l’autore stesso dichiara, a
Perugia il 29 marzo 1285:

… Dalle contrapposte fronti vengono dunque a congiungersi le galee [urtandosi e sconnettendosi i


fianchi con i forti speroni] e per ambedue volano sassi e piumate frecce incendiarie gettate dall’alto
(delle coffe) e dardi sono saettati e acute lance sono scagliate e si frangono remi e vagano timoni
privi di governo, questa galea fa entrare il mare, quell’altra fluttua ormai nuda d’armeggi e tanta
strage di marinai e di (altri uomini) imbarcati avviene da una parte e dall’altra che per il sangue deii
tanti cadenti nel mare l’acqua mutava colore (cit. LT. X, cap. VIII).

L’anno seguente (1284) galee angioino-napoletane e siculo-catalane s’affrontano di nuovo,


stavolta nelle acque del golfo di Napoli; fuggite quelle regnicole, quelle francesi, di molto inferiori di
numero ma non di valore, rifiutavano di arrendersi:

… A ciò i catalani e i siciliani […] lanciavano fuoco acceso, vasi di creta, tinozze, pignatte di terra
cotta pieni di di sego e mistura artificiata di sapone sui tavolati di coperta delle galee dei francesi
all’ovvio scopo che i piedi francesi, inesperti di tali combattimenti, con un versamento di liquido di
tal natura sdrucciolassero pericolosamente, né dessi francesi potessero stare alla difesa, cosicché,
scivolando i piedi, o si precipitassero nell’interno o andassero a finire nelle tenebrose onde…
gettavano certi altri vasi di creta colmi di calce in polvere mantenuta del tutto asciutta, affinché,
136

ottenebrandosi così la vista dei francesi a causa della polvere di calce volatile, non potessero
vedere (ib. LT. X, cap. XV)..

Di come ci si preparasse alla battaglia a bordo di una galea medievale ci da un’idea Bartolomeo di
Neocastro a proposito dei fatti bellici del 1287 che vedevano contrapposi l’armata fa mare siculo-
catalana dell’ammiraglio aragonese Roger de Lauria e quella franco.napoletana dell’ammiraglio
francese Narjaud di Toucy (‘Narzone’):

… egli (cioè Roger de Lauria) ordinò i forti e valorosi che dovessero custodire tutt’intorno le
insegne reali, altri che, armati dei ferri più adatti, abbattessero i vessilli dei nemici, altri che
difendessero i gioghi (meglio sarebbe stato dire ‘ruota’) e il castello (più tardi detto ‘rembate’) di
prua, altri che non abbandonassero mai le poppe, altri che saltassero all’arrembaggio del nemico,
altri che con astati uncini mantenessero discoste le galee dei nemici, altri dalle forti braccia che
fiondassero pietre ed altri che inanimissero i combattenti siciliani e suscitassero con la voce le virtù
dei combattenti…

Non bisogna però credere che l’uso di lanciare al nemico grosse pietre dalle coffe o dall’alto delle
torri di prua fosse comune, oltre che da bordo dei vascelli tondi, anche da quello delle leggere e
veloci galee, oltretutto perlopiù solo biremi, le quali, oltre al carico delle pietre di zavorra, non
potevano certo permettersi di portare anche un pesante carico di altre pietre, come del resto di
nessun’altra cosa, come leggeremo nell’Historiae byzantinae di Niceforo Gregoras, laddove narra
della riconquista bizantina di Costantinopoli avvenuta nel 1261:

… Ma le triere, le quali navigavano di conserva non molto vicino, usavano come proiettili da lungi
solo i dardi. (αἰ δἐ τριήρεις οὐ μάλα τοι ἐγγύθεν παραπλέουσαι μόνοις ἐχρῶντο τοῑς τηλεβόλοις
βέλεσι. LT. V, par. 5.)

Certo qualche fromboliere poteva anche esserci, come abbiamo letto nelle suddette citazioni, ma
pochi, perché, non potendo far roteare le loro armi in coperta a causa della strettezza degli spazi e
l’affollamento degli uomini, erano sicuramente costretti a guadagnarsi qualche scomodo, precario
e pericolo posto in alto, sulle sovrastrutture delle opera morte. A proposito di questo argomento,
dobbiamo aggiungere che Tucidide nel libro VII della sua Storia della guerra del Peloponneso ci
parla di δελφινοφόροι νῆες, cioè di navi onerarie ateniesi che, trovandosi adibite ad operazioni di
guerra, usarono i delfini che portavano alle antenne e con essi sfondarono due navi nemiche
siracusane… e che cosa erano questi delfini? Ce lo spiega meglio l’enciclopedista Suida; si
trattava di due grossi e pesanti piombi oblunghi, ai quali si usava dare per vezzo la forma di
delfino, che si appendevano alle due estremità dell’antenna dell’unico albero della nave antica e
che, trovandocisi accostati ad un vascello nemico, si lasciavano cadere su di quello riuscendo così
spesso a provocargli un grosso danno strutturale, talvolta anche l’affondamento (Suida, Lexicon,
137

graece et latine. Tomo I. Halle e Brunswick, 1705). Questo stratagemma dei ‘delfini’ di piombo era
dunque una caratteristica della guerra nautica antica e lo stesso Suida, citando a tal proposito
Tucidide, ne parla come di cose del passato; ai suoi tempi evidentemente le imbarcazioni erano
costruite in maniera ormai più robusta e i ‘delfini’ non avrebbero funzionato.
Ma, per tornare al suddetto scontro tra Roger de Lauria e Narzone, il primo raccomandò infine ai
suoi di sostenere il primi impeto degli oppositori e poi, una volta che quelli avessero esaurito le
armi da getto e che mostrassero i primi segni di stanchezza, li attaccassero furiosamente; infine
ordinò di dar di remi verso il nemico (Bartolomeo di Neocastro, cit. Cap.CXI). C’è qui forse da
chiarire che ad alcuni valorosi e fedeli cavalieri si affidava la difesa e conservazione del principale
vessillo del vascello durante la battaglia, conservazione molto importante tant’è vero che ad altri si
dava il compito contrario di cercare di abbattere, con asce o mazze di ferro, il vessillo del vascello
nemico il prima possibile; il nerbo degli armati di bordo si poneva sullla torre di prua, se
predisposto, perché generalmente era quello che andava a urtare il vascello nemico e dal quale
dunque più facilmente poteva arrivare l’abbordaggio degli avversari; d’altra parte alcuni cavalieri di
gran fiducia dovevano trattenersi a poppa – l’estremo baluardo ed estrema difesa della galea - e
non lasciare quella posizione per nessun motivo; le pietre si fiondavano da uomini postisi in alto,
magari a cavalcioni di qualche opera viva, perché essi, dovendole volteggiare, avevano bisogno di
spazio d’intorno; se invece le pietre erano usate con lanci a mano (gr. χειροπληθὲς χερμαδίοι), il
lancio doveva avvenire da molto in alto e quindi chi era addetto a farlo si istallava sulla coffa
dell’albero di maestra ecc.
A proposito poi della predetta torre di prua, dobbiamo specificare che esso si elevava nelle galee
triremi e, dove esistenti, nelle quadriremi solo in caso si prevedesse una battaglia di linea o
quando esse dovessero essere usate nell’assedio di alte fortificazioni costiere; lo facevano
soprattutto i provenzali e ancor di più i bizantini, popoli più legati alla tradizione delle antiche
pesanti triere romane di quanto invece non più fossero le repubbliche marinare italiane:

… e così, avendo allestito il più celermente possibile le loro triere e quadriere, le quali erano un po’
più di trenta, ed avendo levato torri di legno sulla prua della maggior parte (di quelle), navigano
veloci (… ϰαὶ δὴ τὴν ταχίστην συσϰενασάμενοι τὰς τριήρεις ϰαὶ τετρήρεις αὐτῶν μιϰρὸν ὐπὲρ τὰς
τριάϰοντα οὒσας ϰαὶ πύργους ξυλίνους ταῑς πρώραις τῶν πλειόνων ἐπιστήσαντες ταχυναυτοῡσιν·
Niceforo Gregoras, Historiae byzantinae. LT. IV, par. 10).

Che le antiche triere fossero certamente più pesanti delle susseguenti galee si evince per esempio
anche dal numero di vele che portavano a bordo e cioè sette, quindi lo stesso numero delle vele
che useranno poi i vascelli tondi, mentre la galea alto-medievale ne adoperava, come vedremo,
quattro, ma tutte per l’unico albero che avevano, in quanto l’alberello di mezzana non sarà
138

aggiunto prima nel Basso Medio e l’albero di trinchetto non prima del Rinascimento; pertanto
l’albero, essendo unico e non dovendosi quindi distinguere da altri, non aveva un nome particolare
e assunse quello di ‘albero di maestra’ solo quando appunto sarà aggiunto quello di trinchetto. Da
notare inoltre che furono quindi le vele a dare il loro nome agli alberi che le portavano e non
viceversa, come invece comunemente si crede; ma, tornando ora alle antiche triere:

… da sette vele è spinta la triera, delle quali ciascuna prende nome dall’ordine, (quindi) ‘primo
getto (di vele)’, così ‘secondo’ e così via {ἐπτὰ δέ ἐνίοις [leggi ἀνεμ(ια)ῖοις, ‘vele’] ἀνίσταται ἠ
τριήρης, ὦν ἒϰαστος ϰατὰ τάξιν ϰαλεῖται͵ πρῶτος βόλος, καὶ δεύτερος, ϰαὶ ἐφεξῆς} (G. Polluce, cit.
I.IX, p. 60).

Da notare che questo brano è stato sempre mal interpretato e tradotto in quanto si è sempre
acriticamente creduto che quel numero ‘sette’ si riferisse a ordini di remi (gr. ταρσώματα) e non,
come invece in effetti è, alle vele; nessuno cioè si è semplicemente chiesto come si potessero
attribuire sette ordini di remi alle triere, vascelli remieri che avevano invece tre ordini di remi per
definizione! Nel Quattrocento gli ottomani avevano gran preoccupazione delle navi armate
nemiche perché loro non ne sapevano far uso e dunque non ne avevano; infatti, quando a
Costantinopoli arrivava notizia dell’uscita in mare di un’armata veneziana si domandava sempre se
contava anche navi (ib.) D’altra parte i turchi erano allora consapevoli della loro immaturità bellica
per mare e, anche se ai veneziani davano con disprezzo del mercadanti, in realtà ne temevano la
potenza marinara:

... Questi (i turchi) fano conto che la Signoria (di Venezia) non possi armar più de 40 galie e
stimano che 4 o 5 de’ suoi (‘loro’) legni siano sufficienti per uno dei nostri. Hanno (infatti) questa
natura – e l’o veduto per esperienzia, che stimano più che non si convien il suo (‘loro’) nemico e
(quindi) provedeno a quel che bisogna senza alcun sparagno. Così voria che facessino (anche) i
nostri (Domenico Malipiero, Annali veneti etc. P 40. Firenze, 1843).
.
Ancora nel Quattrocento una galea grossa commerciale veneziana poteva, se ben armata, tener
testa a una squadriglia corsara turca o moresca, essendo in quel secolo l’uso delle artiglierie
ancora poco significativo e ancora tentandosi, più che di sfondare, di bruciare i vascelli nemici,
come successe nel caso del combattimento avvenuto, per un semplice equivoco in materia di
saluti, il venerdì 30 giugno 1497 nelle acque di Cerigo tra la galea grossa del Zafo, cioè a una che,
comandata dal patrone Alvise Zorzi (‘Luigi Giorgi’), faceva il viaggio di Giaffa in Palestina portando
soprattutto pellegrini – in totale a bordo c’erano, come sembra, circa duecento persone - e una
flottiglia corsara ottomana composta di 5 fuste, 2 galee sottili, 1 barza e 1 schirazzo, episodio del
quale poi più avanti ancora diremo. Questo vascello veneziano, essendosi allora in pace con i
139

turchi, si trovava purtroppo quasi disarmato, trovandosi a bordo solo 3 corazzine, 25 armi in asta,
oltretutto da inastare al momento, poi qualche spada e un po’ di rotelle e targhette, cioè scudi
piccoli tondi e quadrati, e null’altro, ma seppe egualmente difendersi con grandissimo onore anche
se restandone poi molto malconcio; i pellegrini, perlopiù francesi e tedeschi, come era sempre in
quelle galee da viaggio veneziane, non avendo corazzine per difendersi dalla pioggia di frecce, si
misero addosso i loro strapontini (‘materassini da navigante’) dopo averli bucati al centro per farvi
passare la testa:

… La battaglia durò 4 ore e mezza et non fu turco che montasse su la galea che non restasse
morto. Se la galia fosse stata armada come si conveniva, i turchi non si sarebbero accostati,
ovvero gli avremmo procurato vergogna e giudico che avremmo avuto una delle maggiori vitlorie
che si siano avute già da molti anni. Per grazia di Dio scapolammo dalle loro mani, ma abbiamo
avuto il nostro da fare a resistere non solamente alle loro armi e artelarie, ma anche a una gran
quantità di fuochi che di continuo gettavano in galea, da i quali per defendersene, è stata
consumata tutta l'aqua che avevamo e 200 barili di vino. Questi fuochi ne hanno bruciato
l'antenna, l'artimone, la mezzana e molte cose; e infine s'appiccò fuoco nel castello (di prua)… (D.
Malipiero, cit. Parte prima, pp. 154-158. Nostra trad. dal veneziano).

La galea poi, come ancora si legge in questa lettera-relazione del 6 luglio successivo scritta dal
mercante Zaccaria Ferriero che si trovava tra i passeggeri, andò a farsi raddobbare a Candia, dove
era arrivata a mezzogiorno del lunedì 3 luglio:

…Abbiamo avuto in galea 11.000 frecce, ed una quantità di pignatte di fuoco e di (pietre di)
bombarde. Sono state tirate nella galea alcune pietre di bombarda dalla circonferenza di 4 palmi.
Abbiamo 95 feriti con (un totale di) 613 ferite; e tra gli altri, il patrone ferito da 5 frecce. Fin qui ne
sono morti 6 e cioè un cavaliere tedesco, il còmito e 4 altri; dei turchi ne sono morti 30 e molti
(sono stati) feriti.
Sono pochi su questa galea che non abbiano avuto danno nel corpo o nella roba. A me è toccato
nella roba, perché si appicco il fuoco nel castello (di prua) e mi ha bruciato 4 forzieri pieni. Lodato
Dio che non mi ha toccato nel corpo!. Mediante il suo aiuto ne farò dell'altra. È cosa miracolosa
che un sasso che venne (‘che fu lanciato giù’) dalla gabbia mi rasó i capelli et non m'ha fatto danno
alcuno (ib.)

Probabilmente fu per lo stesso motivo di divergenze sui saluti che l’anno successivo, cioè il 3
agosto 1498, il provveditore d’armata (gra. ἑπιμελετής) veneziano Benedetto Pesaro, il quale si
trovava alla testa di 5 galee, si scontrò con uno schirazzo turco commerciale, ma anche ben
armato, della stazza di 300 botti, il quale portava un carico di piombo e cera ad Alessandria; ciò è
da pensarsi perché lo stato di belligeranza tra Venezia e Costantinopoli iniziò solo l’anno seguente.
Sullo schirazzo c’erano artiglierie e 150 uomini che si difesero strenuamente, tant’è vero che alla
fine, dopo cioè che era stato alla fine affondato con tutti quelli dl suo equipaggio sopravvissuti alla
scontro – infatti il Pesaro non aveva voluto catturarlo per evitare appunto rimostranze della corte
140

ottomana, alla fine dunque la galea del provveditore ne aveva riportato ben 10 morti, ta i quali il
còmito, e 86 feriti, inoltre lo scafo sfondato in corrispondenza della g(h)iava del còmito (più tardi del
vice-còmito o del pennese), cioè del gavone di prua; invece la galea detta Sebenzana, perché
evidentemente costruita a Sebenico, 2 morti e 64 feriti (ib. P. 160)
Nelle infedeli traduzioni ottocentesche in it. delle cronache medievali catalane del d’Esclot e del
Muntaner, documenti comunque molto importanti per averne ricavato gran parte di quanto
abbiamo appena detto del Medioevo, si rende molto spesso erroneamente legni e legni armati con
uscieri, nome questo che si sarebbe invece dovuto usare solo per quei vascelli remieri ippagogoi e
da salmerie, come abbiamo già detto. Ecco l’armata veneziana che nel 1361 sbarcò a Candia per
reprimere una ribellione di quegli isolani:

… Major pars exercitus galearum multarum et IX usceriorum apertorüm a puppi, continentium


equos, pervenit ad locum Fraschiæ, ubi descendens equitavit ad Armiro (A. Dandulo, Chronicon, c.
430. In LT.A. Muratori, Rerum italicarum scriptores etc. T. XII. Milano, 1728).

Le galere viaggiavano verso la battaglia disposte perlopiù a scala (lem/ctm. en huna escala), come
poi meglio spiegheremo, e, una volta avvicinatesi alla giusta distanza da quelle del nemico, si
ponevano in formazione di battaglia, cioè in linea di fronte (lt. equatis proris; gr. παράταξις),
legandosi però l’una alle altre lateralmente per non perdere la formazione; se invece volevano
restare ferme in attesa dell’avvicinamento nemico, allora, oltre a legarsi, s’ancoravano a poppa.
Insomma si cercava di combattere la battaglia su un suolo che, anche se galleggiante, fosse
quanto più stabile possibile, quanto più simile possibile a una battaglia di terra; ciò perché ancora
si seguivano le concezioni della guerra nautica antica, specie quelle romane. Così avvenne infatti
nel 1353 nella già ricordata battaglia di Porto Conte in Sardegna, nella quale, come sappiamo,
un’armata di galere catalane e veneziane ne sconfisse una genovese:

… ed erano tutte legate, cioè una dei catalani ed un’altra dei veneziani (alternate), eccettuate 6
galere tra bastarde e sottili che stavano dietro con le 5 navi armate… e, come furono quasi a un
tratto di balestra dal nostro stuolo, i genovesi s’ancorarono per poppa tutte le loro galere, tranne 10
sottili che stavano dietro le altre loro galere… (Cronaca di Pietro IV. Cit.)

Ma in quella occasione anche le galere genovesi s’erano, oltre che ancorate, legate tra di loro,
come leggiamo nelle Historiae bizantinae di Niceforo Gregoras, e ciò fecero non solo per non dar
agio a galere nemiche d’introdursi nella loro formazione e così magari scompaginarla, ma anche
per non lasciar spazio di manovra a qualcuna di loro stesse che, presa dalla paura, volesse magari
virare e fuggire la battaglia (Δεσμοΰσι μὲν γὰρ σειρᾶς δίϰην ἀλλήλαις ἀλλήλας τὰς πλείους ἑαυτῶν
τριήρεις ὑπὲρ τοΰ μὴ τῇ διεϰεία ϰαὶ τῷ σϰεδασμῷ διδόναι πάροδον ταΐς πολεμίαις ναυσι, μηδʹἒχειν
141

ἐϰ τοΰ ρᾴστου φυγοαχεΐν τοὺς οἰϰείους. LT. XXVIII, 24). Dunque frequentemente le galere in
formazione di battaglia si legavano in fila di fronte, magari anche con una sola lunghissima catena
non doppia ma d’acciaio e gelosamente portata da quella Capitana, come per esempio fece
l’ammiraglio turco Zaca quando sconfisse quello bizantino Niceta Castamonita attorno all’anno
1089 e gli prese l’isola di Chio, e lo facevano non solo per evitare di essere scompaginate da
qualcuna di quelle nemiche oppure che qualcuna delle proprie corresse troppo più delle altre in
avanti facendo così perdere l’ordine a tutte, ma anche per evitare che qualche ciurma (gr.
ὐπηρεσία), presa dal panico, virasse e se ne vogasse via, seguita magari anche da altre perché la
paura è contagiosa, e la battaglia fosse così persa; ma quando ci si trovava vicino alla riva, legate
(lt. frenelatas) e unite da ponti (lt. injunctas pontibus) che fossero o no, gli uomini potevano sempre
fuggirsene, come accadde nel giugno del 1266 alla battaglia di Drepano (quam vulgares Trapenam
dicunt), quando il comandante delle galere genovesi alla fine decise di farle schierare non solo
legate tra loro, ma anche davanti alla riva; quando i veneziani le videro così, capirono che avevano
paura e li assalirono con le loro galere urlando. Il risultato fu che lo stesso Borborigo, i suoi
consiglieri, i suoi còmiti e tutti quelli che poterono se ne fuggirono a terra lasciando i loro vascelli
nelle mani del nemico. Il Comune di Genova requisì i beni di tutti quelli che erano fuggiti e al
Borborigo si proibì di tornare a Genova a meno che non versasse 10mila lire genovesi di
risarcimento, 2mila i consiglieri e mille i còmiti (G. & G. Stella, Annales genuenses etc. Cit.).
Narrando della battaglia avvenuta al largo di Durazzo nel 1081 tra un’armata veneziana e quella
napoletana di Roberto il Guiscardo, Anna Comnena scriveva che i vascelli più grandi della
Serenissima si erano appunto schierati legati assieme, a formare cioè quello che allora si diceva
‘formare un porto marino’. In effetti i vascelli maggiori si disponevamo in una forma convessa verso
il nemico e, tenendo quelli minori nel mezzo del semicerchio, li proteggevano; questi ultimi a loro
volta potevano così correre in soccorso di qualcuno dei maggiori che durante la battaglia,
oppresso dal nemico, si trovasse in difficoltà (συναπαρτίσαντες τὸν λεγόμενον πελαγολιμένα, τὰ
ομιϰρὰ τούτων σϰάφη εἰς μέσον ἢλασαν. In Alexiadis. LT. IV, 2; VI, 5). Per quanto riguarda invece
le formazioni di viaggio mantenute dalle armate di quei tempi, la predetta Comnena narra anche
che nel 1107 quella di Boemondo di Taranto, capitano di condotta crociato divenuto signore di
Antiochia, il quale si opponeva alle forze di mare approntate da Alessio I Comneno, imperatore di
Bisanzio, sembrava voler riprodurre nella forma una fortezza di terra:

… Boemondo era al centro di uno schieramento di dodici navi corsare (cioè ‘da guerra di corso’),
tutte biremi, avendo quindi acquisito così tanto remeggio da far grende strepito e fragore col
continuo calar dei remi, inoltre avendo disposto intorno a cosifatto stuolo vascelli tondi (‘navi da
carico’)… (Cit.)
142

Ecco la bella traduzione letteraria – anche se non letterale – che del detto brano fece il Rossi:

… ecco Baimundo, spiegate le vele, condurre di persona la flotta ordinata nel modo seguente. Egli,
il duce, occupava il centro di dodici armati vascelli, aventi ognuno doppio palamento e molta copia
di valentissimi rematori, i quali, con isforzo, strepito ed urto concordi e col mai interrotto dimenar
delle braccia proseguendo l’impeto del remeggio, spignevano avanti con moto generale ed
uniforme la navale armata. Cingevano poi la ordinanza altri rotondi vascelli sparsi nell’ esterno
giro, rimanendo così ovunque, valgami il concetto, da navali rocche e palancati difesa, per cui
veduta in lontananza da qualche altura presentavasi con mirabile aspetto quasi città galleggiante
fabbricata sulle acque. Fu per sorte in quel giorno tranquillissimo il mare spirando piacevolmente il
solo Noto, le cui dolci aure gonfiavano appena le vele delle onerarie, laonde sospinte da poppa
solcavan le acque con facile discorrimento, nè così veloce e precipitoso che perturbata fossene la
sempre eguale distanza da quelle fatte avanzare co’ remi (L’Alessiade di Anna Comnena etc. LT.
12, XXXV. Milano, 1849).

Quelli che il Rossi qui traduce ‘dodici vascelli armati’ in effetti nel testo originale sono detti ‘piratici’,
cioè corsari (come già spiegato), termine che non significava necessariamente di stazza minore,
bensì armati e corredati non per la battaglia frontale ma alla leggera per la guerra di corso:

… Instruxit Boemundus duodecim piraticas naves, quarum quaeque duplicem habebat remorum
ordinem, remigum vero tantam copiam, ut magnam sonum fragoremque frequenti remorum pulsu
ederent, quam quidem classem cingebat rotundis compluribus navibus, quibus ipsa expedition
quasi vallaretur, plane ut si quis de specula natantem procul classem prospiceret, urbem eam esse
in mari sitam putaret; qua in re quodammodo eum etiam fortuna adiuvit. Fuit enim mare tunc
tranquillum, uno noto in tantum flate ut mare imborresceret et onerarium vela implerentur; quo
factum est, ut hae secundo vento cursum tenerent, remis vero acta navigia aequali semper ab illis
distantia ferrentur… (Cit.)

I remieri toglievano i remi onde permettere ai balestrieri di mettersi a bersagliare il nemico a loro
agio; poi, ripresa la voga e arrivatisi all’accostamento, si aggiungeva un nutrito lancio di giavellotti,
pietre, calce viva e fuochi, ciò durando di solito fino a che uno dei due contendenti avesse esaurito
questi materiali da getto; poiché il primo tentativo era dunque soprattutto quello di appiccare il
fuoco al vascello avversario a mezzo di frecce incendiarie o di brulotti, s’usava talvolta
imbarbottare, cioè ricoprire il più possibile di cuoio il fasciame esterno più alto della propria galera
(coriatae galeae) e non solo delle galere (… alcune navi, tra le quali ve n’era una molto grande
incuoiata... Dalla Cronaca di Pietro IV. Cit.). Leggiamo di questa protezione ignifuga anche nelle
storie bizantine, a proposito dell’assedio crociato di Costantinopoli avvenuto nel 1204:

… navi [...] queste ricoperte da pellami di bue, onde esser protette dal fuoco (… τὰ πλοῑα [...]
βοείαις δοραῑς φραξάμενοι ταῡτα, ὡς εἷεν πυρὶ ἀδῄωτα. Niketas Koniatos, Storie. Alessio
Comneno, lt. III).
143

E anche più tardi nella seconda metà di quel secolo, cioè durante i conflitti tra i bizantini, sostenuti
dai veneziani, e i genovesi di Galata:

… che anzi in verità pure allestirono i fianchi della nave con pelli bovine secche e li munirono di
armi, affinché sufficientemente resistesse al fuoco e a quant’altro fosse lanciato sulla nave… (οὐ
μὴν δὲ ἀλλὰ ϰαὶ τὰ πλευρὰ τῆς νηὸς βόαις αὒαις ἑξήρτυον ϰαὶ ὄπλοις ϰατεϰοσμοῡντο͵ ὡς
ἁποχρώντως ἁνθεξούσης μὲν πρὸς πῡρ ϰαὶ πᾶν τὸ βαλλόμενον τῆς νεώς... Giorgio Pakymeres.
Cit. T. I, lt. V, par. 30.)

Il Pakymeres, il quale nel primo tomo dei suoi scritti pubblicati nel Corpus si dimostra d’altra parte
del tutto digiuno di cose militari – e inoltre anche ad esse disinteressato, qui sbaglia platealmente,
perché ovviamente le pelli bovine risultavano tanto più ignifughe quanto più erano fresche e quindi
non dovevano essere ‘secche’, come lui dice; altra cosa è invece il secondo tomo, nel quale
l’autore tratta volentieri e con discreta proprietà di linguaggio anche della materia militare, per cui
noi pensiamo che in realtà solo uno dei due tomi sia davvero da attribuirsi alla sua penna. Ma
troviamo comunque forniture di pellami o di panni di setole protettivi da farsi alle armate nautiche di
Bisanzio anche in tempi tanto precedenti, per esempio tra quelle prescritte da Costantino VII
Porfirogenito (905-949) nel suo De ceremoniis aulae byzantinae (II.45):

… cuoiami per i detti tavolati 20… cuoiami per i chelandi 100… panni di cilicio dieci a dromone…
(βυρσάρια λόγῳ τῶν αὐτῶν ϰαλυβομάτων ϰʹ; … βυρσάρια λόγῳ τῶν χελανδίων ρʹ; … ἀτέγια
ϰιλιϰέῑνα ϰατὰ δρομόνιον ιʹ).

Il predetto imbarbottamento, così chiamato perché i cuoi attaccati ai fianchi del vascello gli davano
quasi un aspetto ‘barbuto’, era servito nel Medioevo anche ad attutire i deboli colpi di pietra delle
bombarde e spesso a evitare così che danneggiassero troppo il fasciame (… inbarbotade le
barche, acciò non siano offese da qualche colpo di bombarda di la tera... M. Sanudo, Diarii. Anno
1496. T. I, col. 334.) Le imbarcazioni d’uso bellico fluviale, se appunto provviste di quel suddetto
cuoiame protettivo, specie se anche incamerate, cioè con la coperta protetta da un tetto anti-lapidi
appunto anch’esso imbarbottato, erano allora pertanto genericamente chiamate barbotte […
navigis coopertis (barbottas appellant). Pietro Curneo, Commentarius de bello ferrariensi etc. In
LT. A. Montanari, Rerum italicarum scriptores etc. C. 1.202, t. 21. Milano, 1732], ma non erano per
questo da confondersi con le barchette fatte strutturalmente di pellami (pelliceis navibus) e talvolta
rapidamente costruite per usi occasionali, come furono per esempio quelle fatte dagli avari o
ungari che nel 906, dopo aver sconfitto per terra il re d’Italia carolingio Berengario I, invasero la
laguna di Venezia, dove furono a loro volta vinti da un’armata di mare veneziana capeggiata dal
doge Pietro Tribuno. Questi popoli avarici, stabilitisi in Pannonia (‘Ungheria’) nel sesto secolo,
144

erano detti ungari in occidente ma turchi dai bizantini, i quali infatti chiamavano allora l’Ungheria
Τοῡρϰια; dunque da là venivano i ‘turchi’ che poi invasero l’Anatolia persiana, anche se poi, secoli
dopo, proprio dall’Anatolia e dalla Grecia torneranno per riconquistare la loro Ungheria. Anche le
galee, pur essendo di basso bordo, si proteggevano fal fuoco in quella maniera (coriatae galeae),
quando necessario; sì perché bisogna chiarire che l’imbarbottamento non era una condizione
permanente, le galee non uscivano già imbarbottate dalla loro base, ma i loro equipaggi le
guarnivano di cuoio solo prima di uno scontro in cui il nemico avrebbe potuto tentare di incendiarle.
Così per esempio si fece a bordo delle galee veneziane che il 30 giugno 1495 assalirono
Monopoli, la quale si era data a Carlo VIII di Francia, perché i suoi difensori avevavo rifiutato di
arrendersi (Domenico Malipiero cit. P. 373); ma, su quest’ultimo episodio conviene trattenersi
ancora un momento perché ha altro da insegnarci riguardo agli usi di guerra di quei tempi. Anche
considerando che nei documenti Bassomedievali la città è chiamata Monopolo e non Monopoli, è
molto probabille che questo nome derivi dal greco antico μονοπώλιον (‘monopolio’), nel senso che
si trattava dell’unico mercato marittimo che fosse abilitato a vendere i prodotti agricoli di quel ricco
entroterra alle navi straniere. Era per l’appunto una città doviziosa e che aveva tanto da perdere, il
che spiega perché non si volle arrendere alla potente armata veneziana, preferendo così tentare la
sorte della difesa armata; e che fosse molto ricca ce lo conferma lo stesso Malipiero, il quale la
diceva esser allora senza dubbio la più importante città del regno di Napoli dopo la stessa capitale:

… In questa città sono 2.000 homeni da fatti (‘da guerra’), et è ricchissima… La terra è fortissima
da mar e da terra; è grande come Zara, et è più bella; il suo territorio è longo 60 miglia et largo 30;
è pieno di olivari, i quali danno 4.000 bote d'ogio all'anno, che importano 70 fin 100.000 ducati;
oltra la gran quantità de formenti (frumenti’) et altre cose. Concludo che de Napoli indriedo, questa
è la prima città del Regno (D. Malipiero, cit. P. 374).

La circostanza che i monopolitani non si fossero arresi purtroppo non li fece meritevoli di accordi e
rispetto, secondo la spietata concezione del tempo, e quindi la città, assaltata e presa dai
veneziani, anche se i suoi cittadini non furono massacrati, fu però saccheggiata completamente e
crudelmente:

… Fu cosa pietosa veder tante cose notabili, ricche, spogiade (‘spogliate’) tutte e i homeni e le
donne tormentade da’ galioti per haver danari… (Ib.)

I mori, invece del costoso cuoio, proteggevano dal fuoco lanciato dal nemico i loro vascelli
stendendovi su coperte di lana ben bagnata (… E i mori tenevano le galere coperte da mante di
lana inzuppate d’acqua… Juan Nuñez de Villasan. Cit.).
La fase finale dello scontro marittimo era l’abbordaggio, il quale avveniva generalmente di fianco,
alla mezzania, ma talvolta, sebbene in quel caso molto più difficile da portarsi a termine, si
145

sceglieva di farlo da prua perché questa era la parte meno esposta al predetto lancio, e gli uomini
si affrontavano corpo a corpo fino alla graduale conquista di tutto il vascello nemico.
Intendiamoci, i remi si usavano soprattutto per uscire dai porti in mancanza di vento e per andare
così a cercarlo in alto mare, poi nelle manovre di approdo o di traino, nel piccolo cabotaggio, nei
fiumi e nei laghi, nei combattimenti e infine dovendosi navigare in tempo di bonaccia; per il resto i
vascelli remieri navigavano in alto mare a vela come i normali velieri, anzi talvolta meglio dei
velieri, perché, oltre a disporre di alcuni marinai specializzati, avevano a bordo una folla di remieri
che, quando non addetti alla voga, erano impiegati in tutti i lavori pesanti di bordo, specie
nell’elevazione degli alberi, delle vele e delle ancore. Bisogna usare però molti ‘distinguo’, perché,
fermo restando che, come principio generale, nella marineria remiera da guerra si remava molto di
più che in quella mercantile, in quanto nella prima i remiganti, a qualsiasi categoria
appartenessero, erano trattati molto più duramente, più sfruttati e vessati, l’uso della voga andò
comunque, dall’antichità all’Evo Moderno, via via decrescendo nel tempo in misura inversa allo
sviluppo di una sempre più sofisticata navigazione velica. Facevano infine eccezione le galeazze
tirreniche, le galee grosse di mercanzia veneziane e le maone turche, perché in tutti e tre i casi si
trattava in effetti di vascelli tondi di medio bordo, sui quali si usavano i remi solo per aiutare le
manovre portuali, non risultando utili nemmeno per ovviare alle bonacce o a pericolosi venti
contrari; infatti già da una dettagliata relazione anonima coeva della campagna di Napoli del re
Carlo VIII e riportata dal de Bourdeilles sappiamo che alla fine del Quattrocento in Francia le galee
grosse commerciali si chiamavano galere a vela (gallées à voiles, ainsin les nommoit on alors) e
ciò perché avevano una velatura da vascello quadro e usavano dunque i remi solo per le manovre
d’attracco o per uscire dal porto a cercare il vento. Ciò è dimostrato già da un episodio del 1380,
avvenuto cioè durante la famosa guerra di Chioggia combattutasi tra veneziani e genovesi, quando
cioè a Venezia si preparò una squadra di galere da mandare a Candia e tra queste ce n’erano 5
grosse di mercanzia, le quali, servendo allora molti remieri per la guerra, furono armate solo d’uno
o due vogatori per banco col proposito di arruolare i molti così mancanti nella stessa Candia prima
del ritorno a Venezia; ora, per galere che allora volevano almeno cinque vogatori per banco,
portarne solo uno o due significava che navigavano regolarmente a vela (Daniello Chinazzo,
Cronaca della guerra di Chioza ecc. In LT.A. Muratori, Rerum italicarum scriptores etc. C. 777, t.
XV. Milano, 1727.) In realtà anche nelle galere ordinarie si vogava il meno possibile, preferendosi
naturalmente avvalersi della forza del vento, quando questo andasse in una direzione utile, ed
inoltre al vento addirittura abbandonarsi quando fosse burrascoso. Ovviamente in situazioni
d’emergenza, per esempio nei casi di bonaccia, si poteva chiedere ai remiganti uno sforzo
supplementare e quindi di navigare per più tempo, magari con la promessa di un premio, il quale,
146

nel caso dei buonavoglia, era di solito in denaro, mentre, quando essi fossero forzati, quindi non
salariari, si poteva promettere qualche incremento delle loro consuetudinarie libertà portuali oppure
del miglior vitto o delle razioni supplementari di vino. A tal proposito il Suida cita un proverbio
marinaresco, un adagio probabilmente già noto nell’antichità perché lo stesso Aristofane, al verso
109 del suo Le donne al parlamento, sembra alludervi:

… Purché ci sia denaro, tutte le cose si risolvono velocemente e navighiamo (ugualmente) anche
senza né venti né remi (Ἀλλ' ὂταν ἀργύριον ᾗ, πάντα θεῖ κᾀλαίνεται. οὒτ' ἀνέμοις, οὒτε κώπαις
πλέομεν. Cit. T. II, p. 193).

Per quanto riguarda le suddette maone turche, esse si vedono menzionate la prima volta a
proposito dell’assedio ottomano di Costantinopoli del 1453, adoperate dagli ottomani quindi anche
ad uso di guerra ma come vascelli porta-cavalli; poi si ritrovano in una cronologia anonima
nascimentale e cioè laddove si parla dell’armata che i turchi agareni (sciiti) misero in mare nel
1498 sotto il comando dell’ammiraglio Mustafà Pascià; si trattava di più di 300 vascelli remieri oltre
a grandi vascelli da carico e appunto due maone, di cui una si chiamava Kiamale Reïs e un’altra
Mparak Reïs (Corpus scriptorum historiae byzantinae. Historiae politica et patriarchica
Constantinopoleos. Epirotica. P. 55. Bonn, 1849). Le ritroviamo ancora nel successivo 1499:

(Dicembre:) Il signor Turco fa fabricare nel Mar Maggiore (oggi ‘Mar Nero’) 100 galee sottili e e 20
grosse a similitudine delle nostre (D. Malipiero, cit. Parte prima, p. 189).

I vascelli remieri si dividevano dunque innanzitutto in grandi, ossia gale(r)e, galee grosse, galeazze
e maone; in mezzani, quali galeotte, bergantini e fuste, fragate o fregate (dal nome dell’uccello
marino) e barche lunghe, questi tutti, galeotte escluse, detti in precedenza, cioè nel Basso
Medioevo, legni, galedelle (anche galladelle e galladelli. Dal ltm. galedellus); infine in piccoli come
filuche, castaldelle, speroniere, fisolere, capariole, scovazzere, grottoline, gondole, schifi, battelli,
barchette, sandoni, sandalii (questi erano scialuppe in origine al servizio dei vascelli bizantini,
specie dei dromoni), fregatine, lintri; (lt. lintres, ‘piroghe, scorciapini’; gr. μονόξυλα πλοῖα,
‘imbarcazioni fatte di un solo tronco’, ἂδρυα πλοῖα, ‘imbarcazioni prive di alberi’), trabarie,
perm(in)e - queste ultime una specie di gondole turche che facevano servizio tra Costantinopoli,
Pera (gr. Peràia, dall’avv. πέρᾰ, ‘aldilà’; tc. Galatà) e altre località di quello stretto, da non
equivocarsi con le già ricordate germe - e peot(t)e (‘pedotte, pilotine’) ovvero caic(c)hi, questi ultimi
a loro volta differenti dalle piccole remiere turco-cosacche dallo stesso nome, allora tipiche del
Mediterraneo di levante e del Mar Nero, soprattutto dai caiches o quaiches o anche quesches (ing.
147

ketch; ol. kits; sp. queche), piccoli velieri della costa atlantica dell’Europa continentale a un solo
ponte e alberati en fourche, alberatura particolare a cui abbiamo già accennato. Il nome sandalio
veniva dal gra. σανδἇλιον, poi corrotto nel grb. σάνδαλον, nome di un pesce allora esistente, e a
Napoli, città greca nell’antichità, fu poi confuso con quello della calzatura femminile anch’essa
greca e chiamata σάνδαλον; infatti ancor oggi i napoletani chiamano sandalo un’alquanto piatta
barca di servizio portuale per il trasporto di persone e merci e più grande della bettolina (da ‘vitto’,
attr. ‘bettola’; sic. tafuraia, dal gr. τό φορεῖον, ‘barella, portantina’), questa in origine usata appunto
per il tasporto di viveri. I sandalii bizantini erano provvisti di una vela antennata erano equipaggiati
di quattro rematori e un capo-voga. I greci dicevano le più piccole imbarcazioni remiere ἐπαϰτρίδες
πολυήρεις, ‘vascelletti poliremi’; quelle che avevano solo due remi per lato erano dette ἐπαϰτρίδες
ἀμφηριϰαί.
Per quanto riguarda dunque le suddette lintri, si è sempre creduto a torto che le piroghe fossero
imbarcazioni di popoli selvaggi; le ricordava invece già Virgilio nel libro I delle sue Georgiche al
verso 162 (cavat arbore lintres) e Marco Tullio Cicerone, nel suo Brutus, parlando dell’oratore
Curione, racconta che aveva il difetto di declamare piegando continuamente il corpo da un lato
all’altro come se parlasse stando in piedi in una rullante piroga [Chi parlerebbe da una piroga?
(Quis loqueretur e lintre? Par. LX)]. Nel Basso Medioevo e nel Rinascimento queste imbarcazioni
monotronco, quando a vela, erano conosciute soprattutto con il nome di scorciapini (dal lt.
scorcium pini, ‘scorza o corteccia di pino’) e le più grandi spesso servivano le armate di mare a mo’
di grippi o di fregatine remiere:

… si unirono insieme ventiotto navi grosse, due galeoni, 12 scorciapini e grippi, 7 bergantini e 16
fregate… (Alfonso de Ulloa, La historia dell’impresa di Tripoli di Barbaria ecc. F. 4 verso. Venezia?
1566.)

I vascelli remieri grandi e i mezzani (gr. ἰουλόπεζοι νῆες, ‘vascelli multiremi’) erano anche detti
vascelli da guerra (lt. navigia actuaria, da lt. acta, ossia ‘atti, azioni militari’), perché, per la loro
agilità e manovrabilità, molto più atti a combattere dei lenti e impacciati vascelli tondi, la cui
attrezzatura velica era ancora molto poco evoluta, e dei veloci ma poco stabili vascelli latini;
potevano inoltre questi vascelli abbordarsi meglio, darsi più velocemente la caccia e traccheggiarsi
più facilmente. Disusati erano ormai nomi medievali quali pamfi o pamfuli, le(g)nij, ganzar(i)e o
ganzer(i)e, ganzaroli, cumbe e lembi.
In sostanza i vascelli remieri presentavano caratteristiche di dimensioni e di peso che erano
logicamente in stretta relazione con i compiti operativi per i quali erano stati previsti e il numero dei
vogatori da impiegarsi quando mancasse il vento doveva di conseguenza essere in relazione a tali
dimensioni e peso. La categoria a cui essi appartenevano era determinata per semplicità, oltre che
148

per dette dimensioni e peso, anche in base alla presenza o meno del ponte di coperta; non in base
al numero dei remiganti in quanto quelli senza corsia come le fuste potevano arrivare anche ai tre
per banco; li diremo quindi grandi se galeazze, galee grosse o maone, medi se galere sottili,
galere bastarde o galeotte, e minori se privi di corsia quali le fuste o privi sia di corsia sia di coperta
quali bergantini, fragate, gondole, peote, filuche, castaldelle, schifi, copani ecc.
Le gale(r)e, i vascelli da guerra per antonomasia sino alla fine del Seicento, ma ancora in uso fino
alla seconda metà del secolo successivo, erano di due sorti e cioè bastardelle e sottili; le prime
avevano l'estrema poppa divisa in due, come doi spichi d'aglio (Pantera), ossia come due
mammelle e infatti il termine plurale poppe (gr. πρύμναι) verrà presto in Italia esteso anche a quel
fondamentale attributo femminile, ed erano pertanto a poppa più quartierate (vn. alla barchesca),
cioè più larghe e capaci, e anche erano più reggenti delle sottili; inoltre a volte erano più larghe
interamente, ossia dalla poppa alla prua, e allora si chiamavano non più galere bastardelle, bensì
galere (in)quartierate. Le galere sottili avevano invece la poppa unita, stretta e aguzza (vn. tagliata
o in taglio), erano inoltre non quartierate anche a prua e pescavano poco; queste così stringate
erano più veloci e andavano meglio a remi, mentre le bastardelle e le quartierate andavano meglio
a vela e, data la loro maggior capienza, potevano portare più combattenti e artiglierie; per il resto
tutte queste galee erano completamente simili. Dobbiamo aggiungere inoltre che una galera si
diceva pianella quando il suo fondo era molto piano e pescava poco.
Per quanto riguarda l’etimologia del nome galea, esso - come di conseguenza anche i suoi derivati
galeotta, galeazza e galeone – è sincopato, nascendo infatti da un originario greco antico
γẵλεοειδής (‘pesce spada’) poi divenuto nel Medioevo γẵλειδάς (lt. galeida), ma anche γαλεότες,
γẵλαῖα (vedi e.g. Leone VI (X sec.), Тάϰτιϰα. Constit. XIX, par. 10) e γαλέα-αι (ib. Constit. XX, par.
74). D’altra parte nel già più volte citato Lexicon del Suida, coevo di Leone VI, leggiamo:

Galéa: il pesce. Anche galéos, ugualmente (Γαλέα. ὀ ἰχθύς. ϰαὶ γαλεὸς, ὀμοίως. T. I, p. 465).

Nel mondo bizantino quel semplificare in galèa che incominciamo a vedere dunque già nel
secolo decimo prese il sopravvento su galeidá e il nome si stabilizzò appunto in γαλέα-αι, come
può confermare la lettura di Costantino Porfirogenito, Teofane, Leone Diacono e di altri autori
inclusi nella preziosa raccolta Corpus scriptorum historiae byzantinae etc. Bonn, 1828-1897. Da
Bisanzio poi si estese a Venezia (galia) e a tutta l’Europa, ma in Italia troviamo galeide ancora
alla fine del tredicesimo secolo:

Anno Domini 1298, in vigilia Nativitatis Dominae nostrae, veneti et cum nonaginta armatis
galeidis et Januenses cum totidem galeidis armatis in mari convenerunt; a Venetiis vix
quinquaginta milliaria latina et in immensum conflictum pariter habuerunt… (Chronicon
149

excerptum de diversis chronicis etc. In Illustrium veterum scriptorum etc. T. I. Francoforte,


1583.)

Ma, poiché questo stesso nome galèa era in latino da secoli già usato a significare ‘celata, elmo’,
nei primi tempi, come ci fa sapere il Suida, quando si usava questo termine si poteva causare
confusione e pertanto, quando si voleva sottolineare l’ambiguità di cose di cui si stava parlando, si
usava in Grecia il detto Πλοῖον, ἢ κυνῆ, il quale potremmo oggi tradurre con un nostro Vascello o
cappello? (Cit. LT. III, p. 134.)
Frattanto il latino medievale usava ancora spesso triremis, questo dal greco antico τριήρης
attraverso il lt. trieris, ma in gr. si diceva anche – e anzi più specificamente - ναῡς τριϰρότος
oppure σϰάφη τρίϰροτος. Nel già più volte citato Lexicon di Esichio leggiamo di particolari triere
dette ψάριδες, delle quali però non sono purtroppo riportate le caratteristiche (Ψάρις: εἷδος νεὼς
τριήρους. Cit. p. 93). Nelle cronache normanne di Romualdo di Guarna leggiamo che nel 1128
Boemondo d’Altavilla (1108-1130), II di Antiochia, veleggiava appunto verso quella città con
triremis navibus XIX e con aliis sex onenariis, ma nel 1130 il nuovo papa Innocenzo II arrivò a Pisa
portato da una galea pisanorum e più tardi nello stesso anno le galee pisanorum presero e
saccheggiarono Amalfi; infine nel 1129 Ruggero II di Sicilia pose un blocco navale alla città di Bari
con un‘armata che contava, come si riportava, fino a sessanta velocissime velate galee (stolium,
quod, usque ad sexaginta ut fertur, velates galeae erant velocissimae; questo abbinare i due
concetti di velatura e velocità conferma quanto più avanti si dirà dell’evoluzione dalla triera romana
e dal dromone bizantino alla galea. Le galee normanne di Sicilia, per esser tanto veloci, erano
presumibilmente già allora delle biremi, come del resto anche quelle pisane e genovesi;
certamente lo saranno nel 1177, cioè al tempo della pace di Venezia tra l’imperatore Federico I
Barbarossa, la Lega Lombarda e l’allora re di Sicilia Guglielmo II, quando cioè Romualdo di
Guarda, plenipotenziario di Guglielmo, vantò che il suo re ogni anno allestiva le sue biremi per
contrastare i nemici di Cristo saraceni e per permettere quindi un viaggio sicuro ai pellegrini che
s’imbarcavano per la Terra Santa [singulis annis biremes suas praeparat et cum eis armatam
militiam destinat. In Cronica (1121-1178)].
Era nel Medioevo in Italia comune anche il diminutivo galedella o anche galadella (lm. galedelus),
questo significante però non una galeotta, perché allora questa era semplicemente una galea
biremi, bensì una monoremo senza corsia, cioè quella che sarà poi detta nel Rinascimento fusta
monoremo oppure, se priva anche di coperta, bergantino monoremo (gr. μονήρης oppure μονῆρες
ἀϰάτιον); a Bisanzio, perlomeno nel decimo secolo d.C., si dirà popolarmente anche μονέριov.
Questo suddetto diminutivo galedella è importante perché evidenzia che il nome basso-medievale
150

galea effettivamente si originò da un alto-medievale galeda, mentre galera ne è solo una


derivazione nata nei mari della penisola iberica, come tra poco meglio vedremo.
In un editto ligure del 1307 che il Garoni trasse dal della Torre, ma che citò, purtroppo troppo
stringatamente, nel suo Codice della Liguria e col quale, non sappiamo per quale minaccia allora
contingente, si vietava ai finariensi per sicurezza di uscire dal loro porto salvo che con galee [salvo
quod cum galeis, vel lignis armatis exire non possint de Finario (da ‘Confinario’, poi corr. in
‘Finale’), ben si chiarisce che cosa nel Medioevo s’intendeva esattamente per galee:

… E s’intendano per ‘galee’ o ‘legni armati’, in questo tempo di pace, quelle che portano più di un
uomo da voga per banco, (quindi) ufficiali e balestrieri a parte; ma in tempo di guerra s’intendano
per ‘galee armate’ quelle vogate ossia che abbiano più di centoventi vogatori (‘vogerios’. Raffaele
della Torre, Cyrologia, P. II, p. 56).

Ciò valeva dunque per le triremi, le quali aveva generalmente 25 o talvolta anche 26 banchi per
lato, e, per quanto riguarda invece le biremi, vascelli da circa 18 banchi per lato - e comunque da
non meno di 16 e da non più di 22 banchi, non potevano dunque certo raggiungere quel numero di
vogatori e infatti nel Rinascimento prenderanno il nome diminutivo di galeotte, essendo inadeguate
alla linea di battaglia e più atte invece a funzioni di avanscoperta [lt. prosumiae (poi prorsumiae),
naves speculatoriae; gr. πρόπλοι νῆες, πρωτόαλοι νῆες], guardia costiera e contrasto della
pirateria. A proposito del termine prosumia, esso si legge tra le citazioni raccolte da Nonio Marcello
ed è sempre stato considerato un nome nautico mal riportato e di difficile interpretazione; niente di
più semplice invece per chi mastichi un po’ di materia militare, perché viene dall’avverbio proto-
latino prosum (più tardi prorsum) significante ‘avanti, innanzi’ e insomma si trattava di vascelletti
che andavano appunto avanti alle armate ai fini di avanscoperta.
Nelle antiche triere, non essendo ovviamente stata ancora inventata l’ingombrante artiglieria, la
coperta di prua era abbastanza sgombra da contenere anche un banco per far seder gli uomini
addetti alle manovre e al sifone:

… c’è un banco prodiero su cui ci si siede (ἒστι δὲ τι εìἐδώλιον πρωρατικὸν, ἐφ' οὖ ϰάθηνται. G.
Polluce. Cit. I.IX. pag. 60).

A proposito del suddetto nome galeida, diremo che fu così in Italia per tutto il Trecento, poi nel
secolo successivo fu sostituito appunto dalla sua suddetta sincope volgare galea, forse per un
influsso esercitato dal sempre più importante catalano, dicendosi infatti galea già in quella lingua,
mentre il latino medievale preferiva usare triremis. La similitudine tra detto vascello e il pesce
spada (gr. γαλέα e γαλεὸς) era infatti chiara e semplice, essendo stata alle sue origini la galea
151

provvista di un forte sperone, strumento diventato poi del tutto inutile con l’aumentare
dell’efficienza delle artiglierie da sparo. Perché poi gli spagnoli dicessero galera invece di galea si
può spiegare con una contaminazione, cioè con quella ricevuta dall’agg. calero, cioè ‘adatto alle
cale’; infatti l’opera viva della galera - e dei vascelli sottili remieri in generale - era di così poco
pescaggio da permetterle l’addentrarsi appunto nelle cale; infatti il verbo sp. calarse ha, oltre al
significato corrente di ‘immergersi’, anche quello più antiquato di ‘introdursi’. La c proto-latina vi fu
poi sostituita dalla g del medio-latino, come del resto spesso avvenne e vedi e.g. i noti casi di
Caius, Caia / Gaius, Gaia e Cneus/ Gneus.
Che il termine non ci fosse giunto dall’antichità era di comune costatazione:

… Ben si puote affermare ne gli antichi libri greci e latini questo vocabolo ‘galea’ non trovarsi et
essere egli moderno, cioè usato se non dopo che l’Imperio di Roma fu traslatato in Constantinopoli
(Filippo Pigafetta, Trattato brieve dello schierare in ordinanza gli eserciti et dell’apparecchiamento
della guerra di Leone, per la gratia di Dio, Imperatore etc. Venezia, 1586).

Ma quasi due secoli prima del qui citato Pigafetta alla stessa conclusione era già giunto il
cronachista genovese Giorgio Stella:

... Armaverunt januenses maritima vasa decem, quae galeae non vetusto vocabulo dicta sunt.
... Vasis namque januensibus, galeis appellatis ad praesens,...
... Armata sunt enim Januae vasa sexaginta, non valde prisco vocabulo nuncupata galeae, ...
... Viginti quinque navigia, galeae modernis et non vetustis temporibus nominata, ... (G. & G.
Stella, Annales genuenses (1298-1435) etc. In LT. A. Muratori. Cit. Vol. 17, col. 1.066, 1.071,
1.091-1.092 & 1268. Milano, 1730.)

E il fratello Giovanni aggiungeva che chiamare ‘galee’ le triremi era in ogni caso da ignoranti
(triremes, nuncupatas modo idiotarum sermone galeas. Ib.) In realtà il nome era di conio bizantino
e ci appare più volte nella sua forma finale γαλέας per la prima volta nel decimo secolo, cioè nel
trattato De cerimoniis aulae byzantinae scritto al tempo dell’imperatore bizantino Costantino VII
Porfirogenito (905-959), specie nei cap. 44-45 del secondo libro, e poi anche nel lt. VIII delle Storie
del coevo Leone Diacono, all’anno 972 e cioè ricordando la preparazione di vascelli da guerra che
fece allora l’imperatore Giovanni I Zimiske per cercare di risolvere il dannosissimo fenomeno della
pirateria e delle razzie esercitate dai taurosciti, popolo che abitava allora la Crimea:

… superavano i trecento, tra lembi e attuari, i quali chiamano ora comunemente ‘galèe’ e
‘monèrii’… (ἐτύγχανον δὲ ὐπὲρ τὰς τριαϰοσίας, συνάμα λέμβοις ϰαὶ ἀϰατίοις, ἄ νῡν γαλέας ϰαὶ
μονέρια ϰοινῶς ὀνομάζουσι (VIII.1).
152

Mentre monèrii (gr. μονέρια o μονήρεις) significava ‘vascelli monoremo’ da tempo immemorabile,
secondo questo autore quel nome volgare alto-medievale delle triere (poi risoltosi alla fine in
galèa) sarebbe dunque entrato nell’uso (perlomeno a Bisanzio) ai suoi stessi tempi, cioè nella
seconda metà del decimo secolo e ciò avvenne probabilmente perché in effetti le triére del
Medioevo erano più spesso delle diere, cioè delle molto meno costose e più gestibili biremi, e
quindi mantenere quell’antico nome di triere non sarebbe stato più nemmeno appropriato. Per fare
un esempio, relativo questo però agli anni delle guerre civili bizantine (1341-1355) combattute tra
gli imperatori Giovanni V Paleologo e Giovanni VI Cantacuzeno, ecco l’armata con cui il primo si
avvicinava a Costantinopoli:

… con lembi assieme a diciotto tra monoremo e biremi e una triremi (… λέμβοις ὁμοῡ ϰαὶ μονήρεσι
ϰαὶ διήρεσιν ὀϰτωϰαίδεϰα τριήρει μιᾷ. Niceforo Gregoras, Historiae bizantinae libri XXXVII. LT.
XXVIII, 18).

In realtà appena nel libro successivo il Gregoras attribuisce all’armata del predetto imperatore
Giovanni V anche delle quadriremi, il che è interessante perché è la menzione medievale più
antica di queste più grandi galee:

… salpando da Tessalonica l’imperatore Giovanni Paleologo con triremi e biremi, quadriremi e


molte moremo… (ᾃρας ὀ βασιλεὐς Ίωάννης ὀ Παλαιολόγος ἐϰ Θεσσαλονίϰης τριήρεσι τε ϰαὶ
διήρεσι τέτρασι ϰαὶ μονήρεεσι πλείοσιν. Ib. LT. XXIX, 119.)

Mentre il suddetto nome di γαλέα è,come abbiamo detto, senza alcun dubbio riferibile al cetaceo
dallo stesso nome, non altrettanto si può pensare per il termine γαλεάγρα (‘trappola per mustelidi’,
dal gr. γαλῆ, ‘mustela’, e, quindi per analogia, anche ‘prigione, carcere’), soprattutto in quanto le
ciurme bizantine erano composte da volontari salariati e non da condannati e ciò per una ben
consolidata tradizione greca che vedremo poi continuare nella marineria veneziana, la quale si
serviva infatti anch’essa soprattutto di ciurme greco-schiavone assoldate. A proposito della
similitudine tra detto vascello e il pesce spada il già ricordato d’Aquino cita una chiosa di Filippo
Pigafetta alla già da noi citata Тάϰτιϰα bizantina:

… Il pesce spada, del quale ho preso conoscenza a Constantinopoli, ha nel muso una spada più
d’un braccio lunga, che si confà col becco della galeotta… Le pinne che il pesce ‘galeotis’ tiene al
ventre, di qua e di là, dissegnano li remi della galeotta vasello e la coda parimente di quel pesce
rappresenta il timone e la poppa, usando gl’antichi greci di chiamar la poppa de’ navili ‘coda’…
(Cit.)

Erronee sono infine le considerazioni che nel Settecento sia il Muratori sia Desiderio Spreti fecero
su quell’iscrizione funeraria ravennate di un classiario romano includente il termine galea;
153

abbastanza ben interpretata invece in seguito da Clemente Cardinale, è a nostro avviso da tradursi
definitivamente in questo modo:

PHALLAEUS. DIOCLIS. F. GUBER. DE. GALEA. TRIERI. [‘Falleo Dioclide fu timoniere (sbarcato)
dalla triera (di nome) Galea’].

Insomma era morto un vecchio timoniero greco di nome Falleo Dioclide, il quale, al tempo in cui
era stato giubilato, serviva su una trireme romana che si chiamava Galea (‘celata, elmetto’; gr. ),
forse perché portava come insegna l’elmo di Minerva, dea, tra l’altro, anche delle battaglie; qui
Galea era dunque il nome proprio di una singola trireme, non un nome comune, né si ha notizia di
altre triremi dell’antica Roma che, per consuetudine, portassero quello stesso nome e che quindi
possano aver dato origine al del resto tanto più tardo nome comune.
C’è infine da notare, in quanto ai nomi che presero nel tempo i vascelli remieri da guerra, che, a
partire dal secolo successivo a quello della fine dell’impero bizantino, cioè nel greco proto-
moderno, s’affiancò a γαλέας il nuovo termine χάτεργον, col senso di ‘galea carceraria’, cioè spinta
da vogatori condannati al remo, il quale quindi riguardava le triremi e le biremi, e poi anche
φοῡστης, ossia l’it. ‘fusta’, per quanto concerneva invece i maggiori vascelli remieri non provvisti di
corsia o addirittura nemmeno di coperta, non essendo questi infatti mai carcerari, perché non
potevano portare un equipaggio di sorveglianza adeguato e quindi erano adatti solo al servizio dei
remiganti volontari (Corpus scriptorum historiae byzantinae. Historiae politica et patriarchica
Constantinopoleos. Epirotica. P. 126. Bonn, 1849).
Lo scafo della galera doveva avere una struttura più larga al costato centrale, più stretta alla prua e
ancora di più alla poppa; il perché di questa massima strettezza alla poppa c'è spiegato dal
capitano Pantero Pantera, il quale ce la vuole però propinare come sua invenzione:

... Hora, tornando alla forma della galea, sarei di opinione che, se il quartiero della poppa si
facesse alquanto più stretto del quartiero della prora, verrebbe la galea a caminare con maggiore
velocità; perché, essendo il quartiero della prora più largo di quello della poppa, romperà e aprirà
in modo il mare che il quartiero della poppa, per essere più stretto, non vi troverà poi tanta
resistenza e così con più facilità passerà la galea avanti e, per essere ben quartierata a prora,
reggerà anco meglio sotto le vele. (Cit. P. 71.)

Ma altrove il Pantera ci fa anche capire che al tempo in cui egli scriveva il suo trattato, cioè
soprattutto nel 1612, già prevaleva comunque una concezione più scientifica della nautica e
dell'idrodinamica:

... perciò che la forma proporzionata e regolata con termini matematici, oltre che fa il vaso più
veloce, più sicuro e più forte, lo rende anco più risguardevole e più vago. (Ib. P. 66).
154

Un altro nome della galera, questo molto raro a trovarsi e ricordato solo dall’Aubin, era il francese
pla(i)ne e non a caso è vocabolo che fa parte del moderno aéroplane; dunque era nome che
doveva riferirsi principalmente allo scafo della galera, cioè a quella parte principale che anche gli
aerei hanno, però con il nome di carlinga o fusoliera. Come può esser però nato tale inusitatissimo
nome? Forse, poiché sappiamo che gli antichi vascelli prendevano nome generalmente da pesci e
mammiferi marini – così come le antiche bocche da fuoco lo prendevano invece dagli uccelli, non
sarà sbagliato ricordare il latino plani pisces, cioè quei pesci che vulgo furono poi chiamati
‘passere di mare’; ma che forma abbiano questi e se possano eventualmente aver ispirato
anticamente i costruttori di galere (gr. nτριηροποιόι) non siamo in grado di dire.
Il fusto, ossia lo scafo della galera, cioè la parte sottostante al telaro che reggeva l'unica coperta,
era detto il vivo della galera, mentre tutte le strutture soprastanti erano dette il morto. Verso l'anno
1600 – ma quanto stiamo per dire vale all’incirca per tutto il precedente Cinquecento, le galere
ordinarie erano lunghe, da tamburo di poppa a palmetta di prua inclusi (quindi con il solo sperone
escluso), 58 cubiti napoletani (m. 42,38), ossia passi veneziani 24½ circa; erano larghe - le
ponentine, ossia quelle tirreniche - circa palmi 22,80 (m. 5.55), equivalenti a piedi veneziani 16,
mentre le veneziane erano più strette d'un piede (m. 5,20); infine le ponentine erano alte di scafo
sei piedi veneziani (m. 2, o8) e le veneziane un piede di meno. La larghezza del fondo della galera
andava dai 7½ agli otto piedi per le veneziane e circa un piede in più per le ponentine. Esse
avevano comunemente da 24 a 26 banchi di voga per ogni lato, ma se ne trovavano anche
moltissime più grosse da 28 e parecchie da 30 e più banchi, le quali servivano come galere Reali,
Capitane o anche Padrone delle squadre, cioè come vascelli di comando. Non si poteva allungare
una galera più di tanto perché si sarebbe poi dovuto anche allargarla in proporzione, andando così
oltre i limiti d’un vascello sottile, col risultato di renderla troppo pesante, lenta nel corso e pigra
nelle manovre. Questa importante questione è discussa diffusamente dal Pantera laddove
confronta le galere moderne del suo tempo a quelle dell'antichità:

... come si vede per esperienza ne i legni che hanno il corpo molto largo, i quali, se non sono
aiutati dal gran numero de i vogatori, hanno tardissimo moto. Per(ci)ò le galee di vent'otto e trenta
banchi che hoggidì si usano, per haver il corpo più largo ed esser più lunghe delle galee ordinarie
di ventisei, se non si armano a più di cinque huomini per banco, sono più pigre e più lente nel
caminare a remi delle ordinarie armate a quattro o cinque [...] per esser la forza movente de i
remiganti, in comparazione della grandezza e gravezza del vaso (‘vascello’), molto picciola e poco
efficace. Il che mostrò manifestamente l'esperienza l'anno 1567, quando il Re Catolico fece
fabricar in Barcellona una galea di trentasei banchi di sette remi per uno e con un huomo per remo
all'usanza antica, la quale riuscì molto grave e pigra e poco atta a caminare a remi...(ib. P. 20.)
155

Vedremo più avanti che cosa significava quel all'usanza antica; dunque, nonostante avesse ben
sette ordini di remi questa galera non riuscì utile e ciò perché, come ben spiega il predetto
Pantera, più lunga era una galera più larga anche doveva essere; il che significava che il sesto,
settimo ed eventualmente anche ottavo rematore, trovandosi molto distanti dal bordo della galera,
dovevano necessariamente essere muniti di remi adeguatamente più lunghi, quindi anche più
spessi per evitare che si spezzassero molto facilmente. Il maggior peso di questi remi rendeva
dunque la loro voga molto più faticosa, lenta e inefficace di quella degli altri. Tutto sommato, la
principal ragione del passaggio al sistema a scaloccio - sistema che poi spiegheremo - è proprio
questa e cioè la necessità d’aumentare il numero dei rematori senza dover ingrandire la galera né
complicare gli ordini di remi; tale esigenza non si era sentita nel Medioevo perché le galere, fino a
Cinquecento inoltrato, erano state in effetti ancora come quelle dell’antichità, cioè a banchi poliremi
- biremi se ordinarie (leggiere, come nel Medioevo fino al quattordicesimo secolo si era detto),
come per esempio si vede chiaramente nell’affresco senese della battaglia di Punta S. Salvatore di
Spinello Aretino (1346-1410), e triremi se grosse, come nel Medioevo quelle s’erano chiamate),
insomma vascelli alquanto stretti in ambedue i casi, non superando appunto di norma i tre
remiganti per banco, eccezion fatta per alcune galere reali, quale per esempio una quadrireme del
re di Napoli Alfonso I d’Aragona. Un’importante differenza da notare tra le galee medievali e quelle
successive stava nel numero dei banchi e quindi dei remiganti; si perché quelle medievali ne
avevano avuto generalmente un numero maggiore, contandone le biremi perlopiù 27 per lato con
108 remiganti in totale, come più avanti vedremo, mentre le triremi, specie se iberiche, arrivarono,
alla fine del Quattrocento ad averne talvolta anche 30 con 180 remiganti, e ciò nonostante i pratici
della materia raccomandassero di non superare i 26 banchi operativi; per esempio, nel 1484 Gioan
Andrea d’Oria (1466-1560), soprintendente generale dell’armata di mare spagnola, nella sua
corrispondenza con il sovrano di Spagna Filippo II:

Da alcuni anni in qua si è cominciato a far galere più grandi di quanto si soleva, perché la maggior
Capitana che fosse in armata non aveva più di 26 banchi; ora si fanno di 27 e 28 e, se Vostra
Maestà non comanderà di limitarlo, presto arriveranno a 30. Pertanto riterrei giusto che Vostra
Maestà comandasse che in nessun luogo dei suoi regni si potessero far galere maggiori di 26
banchi, i quali in effetti, con i due che si mantengono impediti, cioè quelli del focone e della
scialuppa, saranno 28; e creda Vostra Maestà che queste galere tanto grandi sono, sotto molti
aspetti, molto inutili e molto dannose all’armata di Vostra Maestà e particolarmente perché hanno
bisogno di così tanta ciurma per poter camminare che le altre ne restano disfatte e di molto poco o
nessun servizio (Colección de documentos inéditos para la historia de España etc. Tomo II. P.
181-182. Cit.)

Il d’Oria vuol dire che la ciurma in più per le galere più grosse finiva immancabilmente per essere
sottratta alle altre della squadra, le quali finivano così per avere carenza di remiganti. Poi invece,
156

nel secolo successivo, troviamo le triremi avere solo 25 o 26 banchi per lato; perché questo?
Erano state le medievali più lunghe? No, non lo erano e la risposta sta nella circostanza che a prua
portavano solo sifoni da soffiar sul nemico materie incendiarie e non ancora quell’artiglieria di prua
che, specie perché bisognosa di rinculo, avrebbe poi sottratto spazio ai remigi (gr. εἰρεσίαι,
ϰωπωτῆρα), cioè alla zona dei banchi di voga, la quale infatti non era lunga quanto la galea ma era
delimitata a prua e a poppa da zone necessariamente prive di banchi; quella tra la poppa di
comando e appunto i remigi era detta le spalle della galea, in gr. παρεξείρέσια, e quella di prua era
il luogo destinato all’artiglieria principale; ma quando questa comparve a bordo delle triremi? Le
galere napoletane della Tavola Strozzi, la quale sembra rappresentare un episodio del 1464, non
ne mostrano assolutamente e le prime notizie in proposito che ci è stato dato di trovarne sono
quelle del settembre del 1496 nel Diarii del Sanudo, laddove cioè si descrive brevemente la galera
napoletana di Federico d’Aragona, principe di Altamura e di lì a poco nuovo re di Napoli, la quale
partecipava al blocco navale di Gaeta, fortezza allora occupata dai francesi e dai napoletani di
parte angioina:

El pizuol (‘La camera di poppa’) di don Federico è tutto soazado (‘incorniciato’) e dorado a quadri
con uno tornoleto vergado, una verga d’oro e l’altra di veludo cremexin, con uno covertor d’oro et
cusini, uno studio (‘studiolo’) tutto dorado con do fenestrele in colomba (‘a colombaia’) de la galia,
zoè verso le canchare (‘gangheri del timone’), con i soi veri (‘vetri’). Portano uno fanò (‘fanale’)
brutissimo. Tutta la sua zurma vestita di rosso fino le barete. Porta a prova una bombarda, pesa la
piera mejo di lire (‘più di libbre’) 120. Tuta la zurma è incatenata (M. Sanudo, Diarii. T. I, col. 342).

Interessante qui notare che già allora a Napoli s’impiegavano ciurme ‘incatenate’, cioè di
condannati al remo, i quali, nel caso di galere reali, ossia adibite al trasporto di principi di sangue
reale, si facevano vestire in livrea, cioè d’uno stesso colore, berretta inclusa. Inoltre in
quell’occasione Federico, nonostante piovesse molto, volle far visita a una delle galee veneziane
che allora partecipavano al detto blocco:

… Volse veder il pomo dil stendardo e le arme di pizuol (‘le decorazioni esterne all’estrema
poppa’); molto (g)li pia(c)que e el fanò e il pomo e la croce d’argento. Messer (il sovracòmito) (g)li
oferse agradandoli (‘cibi gradevoli’), tamen (‘tuttavia’) nulla volse; e volse aldir i frauti (‘ascoltare i
flauti di bordo’) e andar per tutta la galia fino a prova (‘prua’) e volse veder manizar (‘maneggiar’) la
bombarda e veder la piera (‘il proiettile di pietra’) e molto (g)li pia(c)que, volendo meterla la sua
anche in corador (‘dare anche la sua pietra in corsia da sparare’). Tornando a poppe, tolse licentia
(‘prese licenza di accomiatarsi’)… Ib. Collt. 341-342.)

Da notare qui quel poppe, perché, più che un errore di trascrizione, potrebbe voler dire che le
galere di comando erano già allora bi-poppute.
157

Nelle Cronache dei re di Castiglia troviamo parlarsi due volte di galere da 180 remi, quindi da 30
banchi per lato; la prima volta è all’anno 1370, quando cioè il re Enrico II fece preparare venti
galere per combattere l’armata portoghese ma non si riuscì a reperire un numero sufficiente di
remi:

… Perciò il re fece ripartire i remi che aveva in maniera che ogni galera avesse cento remi; e
quantunque mancassero (così) in ogni galera ottanta remi, il re volle che si provvedesse a far
arrivare con le maree quelle venti galere (fino) alla flotta del Portogallo per combattere con essa…
(Cit.)

C’è poi una clausola del patto di alleanza stipulato il 9 maggio 1386 a Windsor tra il re d’Inghilterra
Riccardo II e la Corona di Portogallo:

… Promettiamo e concediamo che il prenominato nostro signore re del Portogallo nella prossima
estate già imminente raggoglierà e invierà al predetto signor re d’Inghilterra dieci galere (a carico e
spese dello stesso nostro signor re di Portogallo) ben’armate, cioè di un patrono, tre alcaldi, sei
arraizi, due carpentari, da otto a dieci marinari, trenta balistarii, centottanta remieri, e due sutanei,
(e ciò) in qualsiasi delle predette galere… (Foedera, conventiones, literae et cujuscunque generis
acta publica etc. P. 524. Tomo VII. Londra, 1709.

Il Portogallo, sebbene potenza oceanica e non mediterranea, aveva infatti anch’esso


correntemente tenuto e usato galere nel Medioevo, specie nelle sue guerre contro il Marocco e
contro il regno di Castiglia. I portoghesi avrebbero sostenuto tutte le spese di dette galere per sei
mesi e, in caso di prolungamento del servizio chiesto da Riccardo, quest’ultimo sarebbe subentrato
nel loro mantenimento; ma vediamo di interpretare alcuni ora incarichi dell’equipaggio. I tre alcaldi
erano sicuramente tre ufficiali di poppa e cioè presumibilmente il piloto, il còmito e un consigliero o
nobile di poppa; i sei arraizi erano con ogni probabilità l’aguzino, i suoi aiutanti e i marinari (vn.
navaruoli) che l’aiutavano a sorvegliare e controllare i remiganti e che più tardi saranno chiamati
compagnii; infine i due sutanei (‘gente di sotto’; gra. μεσογάστωρες, ’quelli nel ventre della nave’)
saranno stati il cambusiere e il suo aiutante. Per quanto riguarda comunque questo argomento
dell’equipaggio di galera, ne tratteremo molto più compiutamente in altri capitoli.
Con un contratto datato 10 dicembre 1250, registrato alla carta 63 recto del notulario del notaro
genovese Giovanni de Corso e citato dall’ottimo Luigi Tommaso Belgrano (v. fonti) il mastro
d’ascia Buonavera di Porto Venere s’impegnava con i sigg. Giovanni Mettifuoco e Antonio di
Perretto di costruir loro – al prezzo di lire genovesi 229 - al cantiere di Fontanella di Genova o a
quello di San Pier d’Arena una galera di buon legno di rovere o quercia e completa di ferramenta
dalle seguenti dimensioni espresse in cubiti o goe e palmi, essendo il cubito o goa genovese tre
palmi e il palmo genovese cm. 247, divisibili in 9 pollici o dita:
158

Lunghezza da ruota a ruota (quindi escludendo il solo sperone): goe 48 (m. 35,57).
Larghezza massima in coperta (“in plano”): palmi 12 (m. 2,96).
Aperta in bocca, cioè misura di cala della carena da bordo a bordo, palmi 16 a 17.
Altezza di puntale (“ad rectam lineam”): palmi 8 (m. 1,98).

Naturalmente il prezzo suddetto era solo per il corpo della galera, oltre al quale gli acquirenti
avrebbero dovuto poi sostenere quelli per l’armamento della stessa, ossia per sartiame, velame e
altre attrezzature di bordo, inoltre calafataggio, spalmatura, marinaresca ecc.
Tra il 1274 e l’inizio dell’anno successivo, su ordine del re di Napoli Carlo I d’Angiò, furono
costruite nei cantieri del regno un certo numero di galee su perfetto modello di una galea
provenzale rossa che era arrivata qualche tempo prima nell’arsenale di Brindisi:

… dello stesso calibro (‘stazza’), forma e tipo della detta galea rossa, tanto riguardo al suo scafo
quanto a tutti i suoi infissi e guarnimenti… [de huiusmodi gallipo, forma et modo dictae galeae
rubrae, tam de corpore eius quam de omnibus afisis (affixis) et guarnimentis suis. G. Del Giudice,
cit. P. 25.)

Poiché, come già sappiamo, il rosso era un colore che distingueva il comando, si potrebbe qui
pensare che la predetta fosse appunto una galea preminente; ma, poiché essa doveva servire
come modello di costruzione per un buon numero di galee, non poteva esserlo e d‘altra parte si
sarebbe dovuto trattare di una trireme, mentre, dalle misure (comunque approssimate) che
seguono, questo non appare. La galea provenzale era dunque lunga 18 canne antiche napolitane
e 6 palmi (essendo quella canna divisibile in 8 palmi), cioè m. 39,6825, misura che andava da
spalla a spalla incluse (de palma in palmam; più tardi avremmo detto ‘da ruota a ruota’ incluse). La
lunghezza massima dunque non si discostava molto da quelle che saranno anche in seguito
consuete; quella in carena era di canne 13 e palmi 3, ossia m. 27,5132. Era alta di puntale, cioè al
centro dal fondo alla coperta, m. 2,0502625, mentra a poppa m. 3,6375 e a prua m. 2,9982; era
larga ‘da cinta a cinta’ (vale a dire da murata a murata) alla bocca, cioè al centro, m. 3,7037, una
larghezza che dimostra trattarsi di vascelli strutturati da biremi in quanto, come poi vedremo, quella
delle triremi rinascimentali sarà maggiore di circa un metro e mezzo. All’estrema prua la larghezza
scendeva a m. 1,6754 e all’estrema poppa a m. 1,5873, come da concezioni nautiche del tempo
che poi meglio vedremo; l’angusta corsia centrale era larga m. 0,6613 e alta sulla coperta m.
0,3968. Su queste galee si vogava con 108 remi (quindi scalmi), il che significa che, si trattava di
biremi con 27 ordini di banchi (gra. ζυγοῖ; grb. ζυγά) e ribadiamo che non devono sembrare troppi,
visto che l’artiglieria non era stata ancora inventata e che quindi a prua non serviva lasciare libero
da banchi uno spazio molto lungo; i remi erano lunghi m. 6,8783, ma ce ne erano alcuni più lunghi,
159

cioè di m. 7,9365, da usare ai banchi estremi di prua e a quelli estremi di poppa, zone, come
sappiamo, più strette (ib. Pp. 25-26). Degli alberi e delle vele, le cui misure sono purtroppo giunte
sino a noi rese imprecise da sciatte trascrizioni, possiamo dire che erano allora due e ambedue
fissi, cioè il maggiore di prua circonferente 3½ palmi maggiori (m. 0,9259), alto cubiti 23 (m.
12,1693), con un’antenna di cubiti 34 (m. 17,9894) e quello minore mediano circonferente 3 palmi
maggiori (m 0,7936), lungo cubiti 14 (m. 7,4074), con un’antenna di cubiti 26 m. 14,2857. La vela
maggiore si usava ovviamente sull’albero maggiore, il quale era dunque allora quello di prua, ed
era fatta di 35 ferze, lunga quindi, sia dal lato legato all’antenna, detto appunto antennalis, sia dal
lato del ferzo più lungo, detto invece vallumina (‘ballumina’) 34 cubiti, cioè quanto l’antenna a cui si
legava; quella di mezzana, destinata invece appunto all’albero di mezzo, di ferze 27 era lunga ad
ambedue i suddetti due lati 26 cubiti, ossia m. 14,2857, anch’essa quindi quanto l’antenna a cui si
legava. C’era poi una terza vela, detta terziarolo, di ferze 20 lunga c. 19½ cubiti (m. 10,3174) e
così chiamata appunto perché terza vela della galea, un significato molto semplice, ma di cui poi
col tempo, con il graduale aumentare della complessità della velatura dei vascelli, si perderà
inevitabilmente la memoria.
La circostanza che della vela terzaruolo non si nominassero nell’ordine antennale e vallumina e
che la sua lunghezza non corrispondesse a quella di un’antenna può significare una sola cosa e
cioè che essa era vela di prua, cioè una vela che si legava tra la punta dello sperone e la sommità
dell’albero anteriore per eumentare occasionalmente la velatura.
Circa un quarto di secolo più tardi, cioè alla fine del Duecento, nel regno di Napoli si ordinò la
costruzione di una nuova galea, in relazione alla quale lo studioso Riccardo Bevere trasse e
raccolse dai documeni della Cancelleria angioina numerose informazioni che, anche se il numero
di cubiti della lunghezza è stato riportato palesemente sbagliato in quanto dovrebbe essere il
doppio, tutto sommato confermano le precedenti; però adesso i remi, cioè gli scalmi, sono 116
(Galea remorum centum sedecim completa ut decet. In Archivio Storico Italiano etc. Anno 1879.
Cit. P. 716), cioè 8 in più di quelli che avevano le galee precedenti. Questo significa che gli ordini
di banchi non erano più 27 ma 29 e ripetiamo che questo gran numero di ordini era possibile in
quanto a questa galee alto-medievali, rispetto a quelle post-rinascimentali, a prua bisognava
lasciare solo uno spazio per una tromba o una briccola, armi prive di rinculo e quindi bisognose di
poca lunghezza di ponte; d’altra parte non è da supporre che magari nei primi banchi da poppa si
facessero sedere non due ma tre remieri per banco perché la larghezza limitata di queste galee
medievali non lo poteva suggerire. Questo gran numero di banchi, unito alla limitata larghezza, fa
pensare che i criteri di proporzione tra larghezza e lunghezza che saranno poi adottati per le galee
cinquecentesche e – ancor di più – per quelle seicentesche erano sconosciuti nel Medioevo e che i
160

vascelli remieri cosiddetti sottili lo erano allora realmente, presentando cioè un garbo molto
allungato, garbo che sarà poi mantenuto solo dalle cosiddette barche lunghe adriatiche.
Un altro contratto genovese di costruzione di una galere pubblicato in una miscellanea del 1933 -
questo però del secolo successivo perché datato 2 giugno 1383 - disponeva le seguenti misure:

Lunghezza da ruota a ruota: goe 50 e palmi uno (m. 37,297).


Larghezza massima in coperta: palmi 17½ (m. 4,32).
Larghezza a tre palmi d’altezza dal fondo: palmi 14½.
Larghezza al fondo: palmi 10¼.
Altezza di puntale: palmi 7 e dita 2 (m. 1,783).

Qui le tre larghezze suddette sostituivano insieme quella unica detta apertura di bocca che
leggiamo tra le misure precedenti e che era più comune.
Notiamo però innanzitutto che le galere medievali, come del resto già sappiamo, erano, soprattutto
nel Mediterraneo di ponente, in maggioranza delle biremi, quindi più strette e corte di quelle post-
rinascimentali che qui soprattutto ci occupano; per esempio quelle dell’armata genovese messa in
mare da Genova nel gennaio del 1351 contro veneziani e aragonesi e così ricordate dallo Zurita:

… A metà d’agosto s’ebbe notizia che i genovesi avevano armato sessanta galere, di cui venti
navigavano molto in ordine e quaranta portavano (invece) centoventi uomini al remo e trenta
balestrieri per galera, e che erano partite da Genova e facevano la via di Pera… (Anales. T. II, LT.
VIII.)

La battaglia avverrà poi infatti davanti a Costantinopoli. Dunque delle sessanta galere genovesi
venti erano molto in ordine, il che significava che un certo numero dei loro sessanta banchi (che
tanti erano quelli che galere non ancora ingombrate da artiglierie di prua potevano permettersi), se
non talvolta anche tutti e sessanta, erano armati ognuno di tre rematori, quindi in totale avevano un
numero di remiganti intermedio tra 120 e 180; le altre quaranta galere invece ne avevano solo 120,
ossia navigavano a due rematori per ogni banco. Ecco perché le triremi erano nel Medioevo
chiamate grosse e le biremi invece sottili, essendo cioè le prime più larghe delle seconde in quanto
previste anche per un armamento di tre remiganti a banco; e, quando una triremi, per deficienza di
ciurma disponibile, navigava, totalmente o parzialmente, solo a due remi per banco, ciò non
significa che era diventata una biremi, in quanto sempre una galea grossa, ossia più ampia,
restava. Marino Sanudo il Vecchio, detto il Torsello, (c. 1270 – c. 1343) chiedeva che le galee
veneziane fossero pro minori (‘perlomeno’) disposte ad terzarolos, cioè a tre remiganti per banco,
possibilmente anche ad quartarolos, ossia a quattro remiganti, e, per quanto riguarda quelle di
comando, persino a cinque remi per banco, perché le diceva decisamente più veloci delle semplici
bireme e velocità significava maggiori opportunità di sfuggire non solo a un nemico superiore ma
161

anche a un uragano (Cit. P. 57); ma il Sanudo non si dimostra qui un esperto di navigazione
remiera, perché, come abbiamo già accennato, l’aumento del numero dei remi Implicava anche un
aumento della stazza della galea e quind una sua maggir pesantezza; vedremo infatti, come
esempio massimo di quanto vogliamo dire, che le galeazze, le quali, quando si muovevano a remi,
nonostante lo facessero con un gran numero di vogatori, riuscivano al massimo a fare qualche
manovra portuale e, in mancanza di vento, per avanzare dovevano sempre essere trainate. Altro
argomento del Sanudo dovuto a inesperienza troveremo più avanti alla p. succesiva, cioè laddove
chiede galee ordinarie con un castello centrale, quindi senza rendersi conto dell’insopportabile
aggravio di peso su una navgazione remiera. Comunque egli scrive presumibilmente attorno al
1320 e, anche se le sue argomentazioni non sono sottili, ci fa sapere una cosa importante e cioè
che trent’anni prima di allora – con precisione ancora nel 1290 - anche le galee veneziane, cioè le
ora tanto apprezzate triremi, erano state delle biremi così come ancora invece lo erano a Ponente
le genovesi e le pisane:

Sapendosi che nell’anno del Signore 1290 quasi in tutte le galee che traversavano il mare
remigavano due remieri per banco, in seguito uomini più perspicaci si resero conto che tre remieri
potevano remigare aldilà di qualsiasi pronostico, come (in effetti) a questo tempo presente tutti
usano (Sciendum quòd in MCCXC Anno Domini, quasi in omnibus galeis quæ transfretabant per
mare, duo in banco remiges remigabant; postmodum perspicaciores homines, cognoverunt quòd
tres possent remigare remiges super quolibet prædictorum, quasi omnes ad præsens hoc utuntur
Ib.)

Nonostate fossero all’ora biremi come quelle genovesi, le galee veneziane erano comunque di
quelle più grosse e pesanti, come lo stesso Sanudo narra a proposito della battaglia navale del
marzo 1293 che avvenne nelle acque di Aiaccio in Armenia tra 28 galee della Serenissima e 22 di
Genova, battaglia vinta da queste ultime, le quali attesero l’assalto del nemico ben frenellate, ossia
legate lateralmente tra di loro e inoltre anche unite da ponti in modo da formare quasi una fortezza
difficilmente espugnabile:

… Infatti le galee dei veneziani erano per la maggior parte molto grandi e fortissime e inoltre
caricate per colpire d’impeto e venivano dal mare avendo il vento a favore; mentre le galee dei
suddetti genovesi si presentavano più piccole e deboli e, trattenendosi vicino alla terra, avevano le
prore preparate e armate al’incontro di detto vento (Nam pro maiori parte venetorum galeae
maximae erant et fortissimae et etiam oneratae ad impetum inferendum, bonumque ventum
habentes de pelago veniebant. Galeae vero ianuensium praedictorum, minores et debiliores galeis
suorum hostium existebant, quae prope terra morantes tenebant proras paratas vel armizatas in
contrarium dicti venti. Ib. P. 83.)
162

Le circostanze negative per i veneziani si ripeterono poi qualche anno dopo, cioè nel 1299, alla
battaglia avvenuta nelle acque di Cursola in Dalmazia, dove appunto la maggior manovrabilità dei
genovesi l’ebbe ancora vinta sulla maggior forza di quelli:
… avendo i predetti genovesi un numero di circa 60 galee mentre i veneziani di circa 90, con la
(ulteriore) differenza che gli scafi delle suddette galee erano più grandi ai veneziani che ai
genovesi ed inoltre in quelli c’era un maggior numero di gente (habendo januenses prædicti circa
sexagesimum, veneti vero circa nonagesimum numerum galearum, excepto que januensium
prædictarum corpora galearum venetis erant maiora et in eis gens in pluri numero collocata (ib.)

Evidentemente, considerato che le loro galee più pesanti delle genovesi già erano, dopo queste
sconfitte i veneziani decisero di trasformarle perlomeno in potenti triremi ed è un peccato che, pur
trattandosi di un passaggio miliare ed epocale nella storia della marineria della Serenissima, non
se ne trovi accenno in nessun libro, né vecchio né nuovo, che pretenda di trattare l’argomento;
dunque a partire dall’inizio del Trecento a Venezia le galee biremi militari si abbandonarono per
preferire decisamente quelle più grosse triremi, eventualmente da utilizzare anche ad quartarolos,
cioè col quarto uomo ad ogni banco, e quelle di comando persino ad quintarolos, anche se in
questa maniera si perdeva in agilità di navigazione e in realtà anche in velocità di corso. Si
costruirono quindi da allora galee più larghe e robuste ed eccone le misure, secondo quanto
proposto da Marin Sanudo il Vecchio per la partecipazione alle Crociate nel primo quarto del
Trecento; le tramuteremo anche in metri secondo questa seguente tabella di misure veneziane:

Passo geometrico o passo di misura (5 piedi) = m. 1,60.


Piede comune o piede dell’Arsenale = cm. 32
Dito comune o dito dell’Arsenale (4 grani) = cm. 2
Grano comune o grano dell’Arsenale = cm. 0, 5.

Galee grandi (da trasporto materiali).


Lunghezza (sperone escluso): 23 passi e 2 piedi (m. 37,44).
Ampiezza di bocca (cioè al centro del vascello): 25 piedi (per errore di trascr. 15) e 3 dita (m. 8,06).
Altezza centrale dal fondo alla linea di galleggiamento: 9 piedi e mezzo (m. 3,04).
Altezza centrale dalla linea di galleggiamento alla coperta: 7 piedi e 3 dita (m. 2,30).

Galee mediane.
Lunghezza: Uguale a quella delle precedenti (m. 37,44).
Ampiezza di bocca: 20 piedi e un terzo (m. 6,50).
Altezza centrale alla linea di galleggiamento: Uguale a quella delle precedenti (m. 3,04).
Altezza dalla linea di galleggiamento: 7 piedi e 3 dita (m. 2,30).

Galee minori.
Lunghezza: 23 passi e 1 piede (m. 37,12).
Ampiezza di bocca: 14 piedi mezzo (m. 4,64).
Altezza centrale immersa: 9 piedi e mezzo (m. 3,04).
Altezza centrale emersa: 6 piedi e mezzo (m. 2,08).
163

Le suddette galee grandi sono quelle castellate a prua e a poppa che saranno più tardi dette galee
grosse, vascelli leggermente più piccoli delle galeazze tirreniche, e le galee minori erano invece le
biremi che però i veneziani, come abbiamo già detto, avevano da poco rinnegato a favore delle
triremi; una definitiva conferma delle misure delle galee mediane medievali veneziane è stata data
dal ritrovamento dell’opera viva d’una reale galera medievale che è stata infatti molto
recentemente portata alla luce nella laguna veneziana e che gli archeologici fanno con giuste
motivazioni risalire al periodo a cavallo tra Duecento e Trecento, relitto quindi unico al mondo nel
suo genere, misura 38 metri di lunghezza e cinque di larghezza centrale, misure che quindi ben
confermano anche quelle medievali genovesi sopra descritte, facendoci solo maggiormente
dubitare della già discussa larghezza della prima; per quanto rigarda l’equipaggio delle triremi
veneziane in questo periodo è lo stesso Marin Sanudo il Vecchio che ci da una descrizione di
quello ottimale, il quale doveva quindi ammontare a 250 uomini in totale:

1 còmito, il quale prendeva 15 soldi al mese di salario.


1 o 2 gentiluomini di poppa a 10 soldi e mezzo ciascuno.
4 scrivani (‘razionieri’) a 7 soldi e mezzo ciascuno.
8 nauclerij (‘ufficiali di poppa’) a 7 soldi e mezzo ciascuno.
1 o 2 marangoni (‘falegnami’), a seconda delle necessità, a 7 soldi e mezzo ciascuno.
1 o 2 calefati, a seconda delle necessità, a 7 soldi e mezzo ciascuno.
1 cucinatore (lt. coquinator) a 4 soldi.
30 prodieri (gente di prua) a 5 soldi.
50 balestrieri
10 portolatti (‘spallieri’; ‘portoladi’ in veneziano) da 6 soldi mensili ciascuno.
20 portolatti da 5 soldi ciascuno
120 remieri (lt. remigatores) a 4 soldi ciascuno.

C’era poi a poppa di solito qualche adolescente che faceva da mozzo al comandante, ma che non
era ufficialmente incluso nel numero dell’equipaggio. Doveva trattarsi di galee trireme di 25 banchi
per lato, visto che i remiganti, tra remigatori e portolatti, erano appunto in tutto 150; non erano
previste riserve perché, all’occorrenza, anche i prodieri erano chiamati a remigare, così come
viceversa i remiganti erano regolarmente impiegati nei più pesanti lavori di inalberamento e
velatura e, essendo quelli veneziani dei volontari scapoli, cioè liberi da ceppi, nel caso in cui il
nemico venisse all’abbordaggio, si facevano partecipare alla difesa della galea. lI còmito, come già
sappiamo, era allora il comandante della galea, il suo ruolo sarà poi sminuito e diventerà simile a
quello di un nostromo, i gentiluomini di poppa erano eletti dal capitano generale o dallo stessa
Serenissima e avevano un doppio ruolo, cioè fare da consiglieri del còmito e sorvegliare che la
galea fosse condotta in conformità agli interessi generali dell’armata. Due scrivani contabilizzavano
e distribuivano le vettovaglie e gli altri due le armi; dei nauclerij facevano parte il nocchiero, ossia il
164

comandante in seconda, il timoniero con due aiutanti, il barbiero, il tavernaro, l’aguzzino e il


cappellano.
30 prodieri possono sembrano troppi, ma solo perché allora includevano i marinai compagni, cioè
quelli che, alle dipendenze dell’aguzzino, sorvegliavano i remiganti. I balestrieri erano 50. perché,
dovendo combattere alle balestriere, se ne poteva colà appostare non più di uno per banco, e
perlomeno quattro di loro dovevano saper suonare strumenti musicali e cioè dovevano esserci un
trombettiere, un pifferaio, un flautista e un naccarista o timpanista oppure tamburista. I remiganti
scelti, cioè i portolatti, nelle altre armate chiamati spallieri, sedevano ai primi banchi a partire dalla
poppa e, oltre a quello di dare il tempo alla voga, avevano anche l’incarico di remare nella
scialuppa di bordo, quando quella fosse usata, cosa che avveniva ovviamente soprattutto quando
ci si ancorava in rada di fronte ad un porto, da cui il loro nome. Quasi tutti i remieri veneziani
erano, come già sappiamo, volontari e quindi ricevevano una paga, la quale ammontava all’incirca

ai ¾ di quella dei fanti che servivano sugli stessi vascelli.


Il suddetto era dunque l’equipaggio ordinario di una galea mediana e sembra già troppa gente per
un vascello lungo meno di 38 metri; ma poi il Sanudo ci fa sapere che, in caso di trasporto di
milizie in un teatro di guerra, la galea grande poteva arrivare ad avere a bordo 400 persone, la
mediana 300 e la minore da 260 a 270; ecco spiegato perché le epidemie scoppiavano sulle
armate di galee tanto frequentemente.
Per quanto riguardava lo stato maggiore che in quei tempi doveva essere a disposizione del
capitano generale dell’armata, il Sanudo elenca il seguente personale ottimale:

2 admirati (‘luogotenenti generali’).


6 probi homines (‘consiglieri’).
4 masarij (‘contadori, responsabili delle vettovaglie e capi degli scrivani’).
2 suprastantes (‘responsabili delle armi’).
3 medici fisici e altrettanti medici chirurghici ai primi subordinati.
5 maestri prothi ingeniarij (‘capi ingegneri’) marangoni falegnami.
4 maestri prothi fabri (‘capi ferrari’).
12 maestri fabbricatori di passatori da balestra e di dardi in generale.
5 corazarij, i quali sapessero anche costruire celate e copricapi difensivi in genere
15 maestri prothi remarij, i quali sapessero costruire non solo remi ma anche armi astate, essendo
anche quello loro precipuo compito (pertinentia ad officium eorumdem).
10 incisores lapidum (‘minatori e tagliapietre’).
10 maestri balestrari (qui sint ex melioribus, qui poterunt reperiri).
20 musicanti, tra trombettieri, pifferai, flautisti, naccaristi o tamburisti, ma anche suonatori di
strumenti dolci, quali viole, cetre e crotte.

Ovviamente c’erano poi i famuli, ossia i famigli, degli ufficiali e dello stesso capitano generale;
tornando però ora alla già menzionata armata genovese del 1351, di essa si legge pure nel già
165

ricordato Chronicon estense, dove però con maggior precisione ci si dice che le galere approntate
erano non 60 ma 55 e di tutte si da il nome del comandante, del proprietario o della città armatrice:

Ammiraglio (admiragius): Paganinus de Oria, con 4 consiglieri di galera, di cui due nobili,
Capitaneo Spinola e Lanfranco da Meloria, e due popolari, Marino di Moro e Nicolao da Mugio.
Marcello Spinola, nobile
Araono Lomellino, nobile
Segurano da Nigro, nobile
Federico, nobile
Jacopino Grillo, nobile
Parabolo da Cagiale, popolare
Domenico da Campo Fregoso, popolare
Jacopino Castellani, popolare
Bertono Portenarius (‘portinaio’), popolare
Saracino Maruffo, popolare
Girardino Spinola, nobile
Racaello d’Oria, nobile
Botono da Flisco, nobile
Lucano Grimaldo, nobile
Tartarino Salvatico, nobile
Bizerono Imperiale, nobile
Zorzino Lomellino, nobile
Antonio da Nigro, nobile
Marino, popolare
Ambrogio Marino, popolare
Negrono dei Negroni, popolare
Uberto Pizamio, popolare
Il figlio del signor Giovanni Amari, popolare
Bernabò Malogello, popolare
Uno dei Beccari, popolare
Erro (‘Herr’) Pelavicinus (‘Pallavicino’), popolare
Uno dei… popolare
Uno da Castello, popolare
Tommaso Guercio, popolare, mandato dal Comune di Genova
Tre galere mandate dal Comune di Savona.
Una galera…
Pietro da Ventimiglia
Due galere inviate dalla comunità di Albegena (‘Albenga’)
Una mandata da Adyano (‘Diano Marina’)
Una da Santo Romolo (‘Sanremo’)
Una da Veltri
Una da Porto Venere
Una da Patrizia (?).
Tommaso da Leone
Bertonio Papavero
Drahonus (‘Dragone’?)
Guillielmo Uscio
Antonio da Sarzana
Nicolosio Monachino
Franceschino da Roso
166

Una dagli Alifligoni (famiglia greca)


Canpagnino Ferrario
Rainerio da Prestero
Bernabo da Vignola
Giovanni Scurtavecchia
Guasparino Apoloniense (’da Apolonio’)

A queste 55 galere s’aggiungevano 5 galee grosse cariche di biscotto, di carni salate, di balestre,
di scale ecc. Infine un portatinus (forse ‘portantinus’) da 60 remi, cioè un legno armato porta-ordini
di cui poi meglio diremo:

… Item unus portatinus cum 60 remis, qui habet officium praecipiendi omnibus parte admiralii
(Chronicon estense. Cit.)

Il predetto elenco è importante perché si tratta della più antica rivista nominale di un’armata di
galere che sia giunta sino a noi. Certo c’è un brano del Muntaner che sembra smentire quanto più
sopra detto; egli vi descrive una battaglia navale avvenuta il 29 dicembre 1325 nella rada di
Cagliari per il possesso di quella città tra galere genovesi e pisane comandate dall’ammiraglio
genovese Gaspare d’Oria e aragono-catalane capitanate dall’ammiraglio aragonese Francisco
Carrós; per la cronaca, fu vinta dai secondi i quali così sottrassero Cagliari al dominio pisano. Il
d’Oria, non segnalato e confidando nella sorpresa, s’avvicinava con i suo vascelli a quelli nemici, i
quali si trovavano all’ancora in rada; ma il Carrós l’aveva ben visto e ordinò a tutte le sue galere di
non ritirare l’ancora, ma di tagliarne la gomena direttamente, perché altrimenti il nemico, capendo
da quel trambusto di esser stato scoperto, avrebbe subito fatto marcia indietro sottraendosi allo
scontro, scontro che invece l’ammiraglio catalano, confidando nelle sue forze, anche se inferiori di
numero, voleva:

... che ciascuna lasciasse andare la gomena (dell’ancora) perché, se l’avessero invece sarpata,
immediatamente quelle se ne sarebbero fuggite, che più velocemente sarebbero andate quelle con
20 remi di quanto avrebbero fatto quelle dell’ammiraglio (nostro) con 150 (Muntaner. Cit.)

Ci sembra però evidentemente che qui ci troviamo di fronte a due errori del trascrittore, perché,
parlandosi in altri punti di detta Crónica di una maggior leggerezza e velocità delle galere pisane e
genovesi (ταχυναυτοΰσαι τριήρεις. Niceforo Gregoras, Historiae bizantinae, lt. XXVIII, 25), si sarà
certo pure qui voluto dire che, anche se dette galere erano soprattutto delle biremi e quindi con un
numero di rematori molto inferiore a quello che avevano le triremi catalane dell’ammiraglio Carrós,
ciò nonostante esse erano più veloci in quanto più agili e leggere e si sarebbero quindi facilmente
sottratte allo scontro appunto approfittando della loro velocità; infatti minor stazza e minor numero
di uomini significava anche minor disponibilità a scontrarsi in battaglia con delle pesanti e affollate
triremi. In sostanza, secondo noi, quel con 20 remi va interpretato come ‘con 120 remi’, cioè 2
167

remiganti x 60 banchi, e quel con 150 invece come ‘con 180’, avendo infatti le triremi 3 remiganti
per i detti 60 banchi. D’altra parte il d’Oria, a volte anche troppo prudente, non avrebbe certo
affrontato delle galee da battaglia con delle piccole monoremo da 20 remi, cioè con quelle che i
greco-bizantini chiamavano εἰϰόσοροι o anche εἰϰοσήρεις, tipo del quale nell’antichità aveva forse
fatto parte anche la pistrice, nome questo del pesce-sega (dal gr. πρίστις, attraverso i
corrispondenti lt. pristis, pistris e pistrix) e che questo vascello aveva forse perché munito di un
lungo sperone.
Nel 1296, nell’ambito della guerra tra Venezia e Genova per il predominio sui ricchi traffici marittimi
di merci orientali che dalle rive del Mar Nero, attraverso il Bosforo e i Dardanelli, andavano a
raggiungere l’Europa, una grossa armata di 75 vascelli remieri (μαϰραῖς ναυσὶ) veneziani, la quale
era stata inviata ad assalire Galata, sobborgo genovese di Costantinopoli, mentre, entrata
dall’Ellesponto, s’avanzava nel Mar di Marmara vogando – evidentemente perché in tempo di
bonaccia, s’imbatté in una di biremi genovesi e, forte della sua superiorità d’armamento, si mise in
caccia per andare ad affrontarle; ma quelle, più leggere e veloci delle grosse triremi veneziane,
non si fecero raggiungere, sottraendosi così a uno scontro sicuramente svantaggioso per loro:

… Mentre dunque quelli (i veneziani) si avanzavano a remi, essendo loro apparse navi lunghe dei
genovesi naviganti non lungi, affrettarono il corso verso di loro; ma, essendo quelle più leggere e
confidenti nella loro velocità, indugiarono per un po’, ma poi, appunto perché navigavano molto
meglio e più velocemente di quelli che si avvicinavano, mantenevano la distanza. Allora, fatti due o
tre tentativi, visto che si sforzavano invano, le lasciarono perdere e riempirono delle loro navi il
porto di Keras [ἐϰεῖνοι δὲ τότε͵ ὠς προσελῶντες ᾀνήγοντο͵ νῆας μαϰρὰς φανείσας Γεννονἳτῶν
ἐγγύθεν πλεούσας ἐπέσπευδον τὴν (φοράν) πρὸς ἐϰείνας. ἁλλʹ αἰ μὲν ἐλαφραὶ οὗσαι͵ θαρροῦσαι
τῇ ταχύτητι͵ ἐπʹ ὁλίγον προσέμενον͵ ϰαὶ πλησιαζόντων ἑϰείνων ἀὐτοὶ ταχυναυτοῦντες πολλῷ πλέον
ἣ πρότερον ἀπεῖχον διάστημα. τοῦτο δὶς ϰαὶ τρὶς γεγονός͵ ἑπεὶ ἐώρων πονοῦντές ἀνήνυτα͵
ἀφέντες ἐϰείνους πληροῦσι νεῶν τὸν λιμένα τὸ Κέρας. Giorgio Pakymeres, cit. T. II, LT. III, par. 18].

L’armata veneziana poteva far scalo a Keras (porto di Costantinopoli) perché l’imperatore bizantino
Andronico II Paleologo (1282-1328) si era in quella guerra dichiarato neutrale. E’ appunto di
questo periodo, ossia dei primi anni del Trecento, la vicenda del corsaro genovese Andrea (forse
un d’Oria), il quale, al comando di due navi ‘pirate’, come le chiamavano i bizantini, e usando come
base lo stesso porto di Costantinopoli, predava in quei mari vascelli di ogni nazionalità; egli
corrispondeva all’imperatore parte dei bottini e per questo era da lui tacitamente tollerato, ma,
poiché, nonostante le raccomandazioni di Andronico, il corsaro assaliva e depredava molto
volentieri anche i mercantili degli odiati veneziani, i diplomatici di questi se ne lamentavano con
l’imperatore in maniera sempre più imbarazzante per lui. Alla fine Andronico dovette cedere alle
insistenze della potente Venezia ed accettare che si eliminasse il corsaro; nottetempo uomini
168

armati salirono a bordo di una delle due navi di Andrea alla fonda, uccisero quelli che si trovavano
a bordo e la incendiarono, mentre la seconda nave riusciva a salvarsi con la fuga. Da quel
momento nessuno sentì più parlare del corsaro Andrea; probabilmente era tornato a Genova a
godersi le ricchezze in quegli anni accumulate e depositate al sicuro presso i banchieri genovesi
(Giorgio Pakymeres, cit. T. II, LT. VI, par. 10).
La suddetta maggior velocità delle galere delle signorie italiane ponentine di allora rispetto, rispetto
oltre a quella che potevano le veneziane, anche a quella delle coeve catalano-aragonesi (galie
catelane overo aragonese. M. Sanudo, Diarii. T. I, col. 529) sarà confermata anche dallo Zurita
laddove narrerà dell’assedio aragonese di Alghero del 1354:

… passarono venticinque galere di Genova in ordine di battaglia […] però, vedendo che la nostra
armata si stava loro avvicinando, arrancarono con i remi e si fecero al largo con tanta velocità
(‘ligereza’) che non si poterono seguire e in tal maniera tornarono a porsi davanti alla nostra
armata altre due volte in ordine sia di battaglia, se ne avessero considerata buona l’occasione, sia
di fuggire se fosse loro convenuto, perché in velocità le loro galere avevano gran vantaggio sulle
nostre… (Anales. T. II, LT. VIII.)

La stessa difficoltà incontrava in quello stesso anno nell’Adriatico il capitano generale veneziano
Nicolao Pisani, uscito in mare il 12 marzo dello stesso suddetto anno alla testa di 14 triremi e di
una nave armata a guerra, cercando d’intercettare 4 biremi genovesi che stavano facendo guerra
di corso nelle acque dalmate:

… e scrisse allora al doge che le galee del nemico erano armate contro i veneziani a mo’ di corso,
tanto agili e veloci nel remigare che a loro piacere e senza alcun rischio potevano aggredire,
inseguire e fuggire; al contrario le triremi veneziane, lente a causa della loro corpulenza, valevano
molto negli scontri ed erano sempre adatte al combattimento aperto e regolare, dove bravamente
combattevano con i nemici… (LT. Monaci, Chronicon. LT. XII, p. 218.)

In sostanza il Pisani chiedeva al suo governo di fornirgli galere altrettanto agili e veloci di quelle di
cui disponeva il nemico genovese. Questo non vuol dire che generalmente a Venezia non si
apprezzasse il ruolo delle galere leggere da corso (iuxta cursum), solo che era considerato molto
secondario rispetto a quello delle triremi da battaglia e infatti solo qualche mese prima della
predetta richiesta del Pisani il dogato aveva ordinato ai cretesi di armare, oltre alle solite
feudatarie, cioè a quelle di proprietà privata, galere pubbliche proprio da corso:

… oltre alle galee dei feudatari armino a mo’ di corso contro i genovesi; se trovano armatori, dando
loro gratis corpi di galea, armi ed altre agevolazioni ed inoltre panatica, purché non imbarchino né
merci né mercanti, essendo loro il lucro (‘bottino’) suddiviso dei beni dei nemici… e, se non
trovassero chi volesse armare in corso, armino a stipendio pubblico quattro galee oltre a quelle dei
feudatari (ib. P. 211).
169

Due anni dopo di quanto suddetto, cioè nel 1356, terrà conto Pietro IV d’Aragona nel preparare
un’armata di mare da inviare in Sardegna contro i genovesi e contro i suoi ribelli:
… e si vararono sei nuove galere, due di ventinove banchi perché fossero più agili e leggere nel
corso e le altre quattro di trenta banchi, com’era il più normale (‘como era lo mas ordinario’) … (G.
Zurita, Anales. T. II, LT. VIII, p. 268 recto

Naturalmente qui lo Zurita, quando dice ‘29’ e ‘30 banchi, intende per ogni lato e non in totale.
Dunque è pienamente confermato quanto da noi già più sopra concluso e cioè che le galere
medievali, le quali nella loro poca iconografia rimastaci sono generalmente raffigurate alquanto più
corte di quelle moderne, devono questa loro irrealistica immagine all’economia dello spazio
pittorico di cui gli artisti, allora non preoccupati da necessità di realismo, tenevano molto conto; le
galere insomma avevano nel Medioevo alcuni ordini (gr. στίχοι) di banchi in più di quelli che si
potranno poi permettere a partire dallo stesso Cinquecento, a causa della presenza
dell’ingombrante artiglieria che queste ultime dovranno portare a prua. Chiariamo che per ‘ordini di
banchi’ s’intendevano le file di questi in orizzontale e quindi e.g. una galea da 26 ordini aveva 52
banchi in totale, cioè 26 per lato; sia in latino sia in greco ‘ordini di banchi’ si diceva, come già
scritto, ‘gioghi’ (lt. juga; gra. ζυγά, grb. ζυγοῖ). La predetta circostanza significa una cosa
importante e cioè che le medievali non erano sostanzialmente più corte delle moderne, se si
eccettua infatti quel prolungamento di prua detto palmetta che queste presentavano e che serviva
per il caricamento frontale delle artiglierie, ma la vera differenza con queste stava nella circostanza
che quelle erano spesso più spesso biremi che triremi mentre le moderne erano quasi tutte triremi.
A proposito della detta palmetta, bisogna dire che essa poteva essere anche comoda per far
sbarcare in fretta delle fanterie, facendole calare da lì in schifi e fregatine, evitando così di dover
impacciare e affollare le scalette di poppa; per questo stesso motivo nel Medioevo, cioè quando le
galee non avevano dunque palmetta in quanto l’artiglieria da polvere non era stata ancora
inventata, talvolta in vista della battaglia o dello sbarco per andare a contribuire a scontri di terra si
preferiva togliere qualche banco di quelli mediani della galera per crearvi un piccolo largo nel quale
i soldati potessero affollarsi per scendere o salire a bordo più comodamente da quel punto; così si
fece sulle galee genovesi che si preparavano alla battaglia di Porto Conte in Sardegna avvenuta
nel 1353, come racconta Niceforo Gregoras nelle sue Historiae bizantinae (Έξαιροΰσι δʹαὗ τῶν
ἐρετιϰῶν ἐϰ μέσων ἐνίας ϰαθέδρας, ἴνʹὡς ἐν ἐπιπέδῳ τὴν μάχην ποιῶνται ϰαὶ ἀϰωλύτους τάς τε
ἒξελάσεις ϰαὶ ἐπελάσεις ϰαὶ τὰς παρόδους ἔχωσιν. LT. XXVIII, 20).
Che nel Trecento le galere catalane fossero più grosse dell’ordinario, cioè in sostanza erano quelle
che, a Ponente, più ricordavano le antiche e pesanti triere della Roma imperiale, mentre nel
170

Levante erano così le bizantine, è confermato anche da un altro passo delle predette Historiae
bizantinae di Niceforo Gregoras nel quale si narra degli antefatti della nel frattempo intercorsa
battaglia di Porto Conte in Sardegna, avvenuta il 27 agosto 1353, con la quale Genova perse
Alghero, perché la sua armata di mare comandata da Antonio Grimaldi, la quale contava 65
galere, fu sconfitta dal summenzionato veneziano Nicolao Pisani, alla cui armata di 30 galee se ne
era però in precedenza unita una catalana anch’essa di 30 vascelli:

… e si congiunse ai catalani con le loro, come dicemmo, trenta triere, grandi e assai cariche di
molti e scintillanti opliti (… ϰαὶ ξυμμιγνὺς τοῒς Κατελάνοις σὺν οὖς εἰρήϰειμεν τριάϰοντα τριήρεσι
μεγάλαις τε ϰαὶ μάλα γε λαμπροῒς ϰαὶ πολλοΐς τοῒς ὅπλοις βριθούσαις. LT. XXVIII, 24).

Di detta grandezza si legge anche al precedente anno 1352 negli Historiarum libri IV di Giovanni VI
Cantacuzeno (… ἐϰ Κατελάνων τρεἴς τριήρεις μέγισται.... IV, 31). Anche le stesse ordinanze
marittime catalane del Trecento attestano che si trattava di triremi, come per esempio si legge
nella prima grande ordinanza per galere che la storia ricordi, cioè quella appunto aragono-catalana
promulgata a Barcellona il 5 gennaio 1354 dal re Pietro IV d’Aragona a beneficio del suo
ammiraglio, il catalano Bernat de Cabrera, allora tornato da una grande vittoria marittima ottenuta
in Sardegna sui genovesi; in essa si ordinava che in ogni dominio di quel re ciascuna galea
disponesse di 156 remieri - il che significa quindi galee triremi di 26 banchi per lato, due dei quali
erano palomers (cst.. palomeros, “palombari”), cioè erano dei bravi sommozzatori utilizzati per
andare a controllare lo stato del fasciame immerso del vascello, specie appunto la paloma
(“colomba; chiglia”) quando magari si fosse con essa inavvertitamente toccato un fondale
scoglioso. In più, dell’ordine dei remiganti faceva parte anche il senescal, cioè quello che più tardi
sarà chiamato alguacil (‘aguzzino’) e che era in pratica era un esecutore di giustizia (Ordenanzas
de las armadas navales de la Corona de Aragon etc. Pp. 94, 100. Madrid, 1787}. In verità la coeva
Ordinacio dels salaris è forniments dels acordats de les armades aggiunge che, nel caso di galee
di 29 banchi (per lato), i remiganti dovevano essere 4 di più, ma, poiché questi numeri non
tornano, deve esser stato molto probabilmente tramandato un errore di trascrizione, cioè o sono
troppi i 29 banchi o sono troppo pochi i 4 remieri in più (ib.)
Prima dell’invenzione dell’artiglieria o canne da polvere, cioè della necessità che le galee
potessero da prua tirare proiettili a fior d’acqua (per il nivello dell’anima o anche di punto in bianco,
come allor si diceva) quelle catalane si distinguevano anche per aver poppa e prua
particolarmente più elevate di quanto normalmente già le avessero le altre galee che si vedevano
nel Mar Tirreno {… Catalani […] cum XXII galeis habentibus altas puppes et proras aliquantulum
elevatas… Saba Malaspina, Cit. All’anno 1282. LT. IX, cap. XIX; … Vertunt igitur versus Regium
proras altas… Ib. All’anno 1284. LT. X, cap. XXII}. Questa caratteristica doveva dar loro un aspetto
171

laterale alquanto arcuato e quindi un garbo meno vantaggioso dal punto di vista della velocità
remiera.
Per quanto riguarda invece le galee bizantine, il suddetto autore parla poi di una squadra
composta appunto da ‘due grandi triremi e undici monoremi’ che accompagnava il già menzionato
imperatore Giovanni V Paleologo (1332-1391) in un suo viaggio per mare (μεγίσταις μὲν τριήρεσι
δυοῒν, μονήρεσι δʹἐϰϰαίδεϰα. Ib. LT. XXIX, 27); poco più avanti lo descrive poi ancora
accompagnato da veloci monoremi e biremi e da una triremi (ταϰυναυτούσαις μονήρεσι ϰαὶ
διήρεσιν [...] ϰαὶ τριήρει μιᾷ), confermandosi quindi che le triremi bizantine erano grandi e pesanti
(τριήρεσι μαϰραῑς. Giovanni Cantacuzeno, Historiarum libri IV. I, 26) e di conseguenza meno veloci
delle le galee più sottili; e ancora:

… L’imperatore, condotte tre grandi triremi da Bisanzio e parecchie piccole biremi e monoremo da
Tenedo, Lesbo e Lemno… (τριήρεις ὁ βασιλεὺς ἐϰ Βυξαντίου μεγίστας μὲν τρεῑς, μιϰρὰς δὲ διήρεις
ϰαὶ μονήρεις πλείους ἀθροίσας ἐϰ Τενέδόυ τε ϰαὶ Λέσβου ϰαὶ Λήμνου. Niceforo Gregoras, Historiae
byzantinae. LT. XXXVII, 59).

Perché poi le triremi bizantine fossero pesanti vascelli sembra fosse dovuto, più che alla loro
stazza, sottile come qualle di tutte le galee, al mantere l’uso antico di portare in guerra opere morte
aggiuntive innalzate in coperta, ossia piccole torri dall’alto delle quali poter più comodamente
bersagliare il nemico; ciò infatti sembra di capire a quanto scriveva il suddetto Cantacuzeno a
proposito dello scontro navale bizantino-genovese avvenuto nel 1348 al largo del sobborgo
costantinopolitano di Galata, allora possedimento genovese, quando cioè le triremi bizantine,
prima ancora i vascelli nemici, furono sorprese e messe fuori combattimento da un improvviso
forte vento che tra l’altro abbattè le loro torri di legno (οἱ ξύλινοι πύργοι. Historiarum libri IV. IV, 11).
A proposito di quest’armata che Cantacuzeno, pur se il suo impero versava già allora in grosse
ristrettezze finanziarie dalle quali non si sarebbe più ripreso, aveva fatto preparare e costituire ex-
novo per combattere i genovesi, Niceforo (Niceforo Gregoras, fa un accenno alla sua consistenza
iniziale (Historiae byzantinae. LT. XVII, par. 5) e si trattava dunque di nove triremi - definite ‘grandi’
galee - e per il resto monoremo e biremi {… τριήρεις […] μεγάλαι μὲν ἐννέα, μονήρεις δὲ ϰαὶ διήρεις
πλείους,…}; inoltre si era ottenuto da molti dei plutocrati di Bisanzio che armassero a loro spese
scialuppe e piccoli vascelli d’appoggio e cioè lembi militari e vascelli attuari (λέμβους στρατιώτιδας
ϰαὶ ἁϰάτια. Ib.) Il comandante del lembo militare aveva un grado e infatti in greco si diceva
lembarco (gr. λέμβαρχος). Un’altra difficoltà era stata la mancanza di un tempo sufficiente a fornire
ai vascelli ciurme ben addestrate alla voga di guerra,essendo state in gran parte formate con
legniaiuoli e zappatori frettolosamente reclutati a forza nelle campagne della Tracia, la quale
restava in sostanza l’unico importante possedimento del già molto declinante impero bizantino:
172

… non tutti avendo infatti familiarità con il mare e i remi, ma al contrario per la maggior parte
sostentandosi con il far legna e con la zappa. I quali (vascelli) infatti, essendo solo di poco
avanzati, già non affondavano certamente i remi con la velocità e il buon ordine militare, ma anzi
esercitando perlopiù una voga disordinata e ineguale e deviando dalla rotta (μηδὲ γὰρ εῒναι πάντας
ἐν συνηθεία θαλάττης ϰαὶ ϰώπης, ἀλλʹ ἀπόζοντας τοὺς πλείους δεηδροτομίας τε ϰαὶ σϰαπάνης· αἱ
δὲ μιϰρὸν προβᾶσαι σχάζουσι τὰς ϰώπας, οὐ μάλα σὺν τάξει ϰαὶ ϰόσμῳ στρατηγιϰῴ, ἀλλʹ ἐν
ἀϰοσμίᾳ τὸ πλεῑστον, ϰαὶ ἐτεροζυγοῡσαν τὴν εἰρεσίαν ποιούμεναι, ϰαὶ τοῡ εὑθέος παραγομένην.)
(Ib.)

Nel 1378 Vittorio Pisani, figlio del predetto Nicolao, incontrate nell’Adriatico forze di galere
genovesi inferiori alle sue, vide il nemico fuggire a rifugiarsi nel porto croato di Jadra (‘Zara’), ma
ritenne inutile inseguirlo per due ragioni e cioè che le sue galee erano più grosse e quindi più lente
delle genovesi, anche perché erano in quella circostanza cariche di frumento e di altri viveri:

… prima, quia galerae venetorum grossiores erant et pigriores; secunda, quia oneratae erant
frumento et aliis victualibus… (A. de Redusiis, Chronicon. In LT. A. Muratori, Rer. It. script. T. XIX,
c. 768.)

Il primo gennaio dell’anno seguente egli si trovò fermo a Pola a spalmare (‘insegare’; tlt. palmizare,
palmisare; vn. impalmare; gr. Κονιάειν; sp. despalmar), cioè a rinnovare il sego che proteggeva la
parte immersa dello scafo, con 5 galee grosse e16 galere sottili, finalmente a due remi per banco,
come i due Pisani da tempo dunque sognavano, ma tutte cariche di frumento, quando inattese si
presentarono davanti a quel porto 14 galere sottili genovesi, mentre altre 10 si erano fermate, non
viste, nei pressi di Pola; i veneziani uscirono ad affrontare il nemico, ma, nel pieno della battaglia,
apparvero le altre 10 galere genovesi e i veneziani, presi dal panico, si dettero alla fuga a terra,
lasciando ben 15 dei loro vascelli in mano al nemico con duemila prigionieri, tra remiganti, marinai
e balestrieri. Insomma quest’episodio insegnò che i veneziani non erano da tempo più fatti per
battagliare con leggere galere biremi, come invece appunto ancora facevano molto ben fare i loro
nemici genovesi.
C’è comunque da chiarir meglio che, anche se genovesi e pisani preferivano le biremi - e ciò
risulterà ancora nel 1478 (arribaron seys galeras sotiles de genoveses y una fusta. Zurita, Anales.
LT. XX, c. XVIII), ciò non significa che al bisogno non si dotassero anche di triremi; infatti per
esempio nel 1295 i genovesi, cercarono d’intimorire la nemica Venezia, dichiararono di essere in
grado di approntare facilmente contro di lei un’armata di ben 162 galere, in maggioranza triremi
(‘CLXII galeas, quarum LXXXX erant triremes, reliquae biremes’. LT. Monaci, Chronicon, p. 256).
Per la cronaca, lo scontro principale avverrà il 15 agosto dell’anno successivo all’isola di Curzola,
dove le settanta galere genovesi di Campa d’Oria prevarranno, ma con pesantissime perdite, sulle
90 veneziane di Andrea Dandulo.
173

Col passare dei secoli, il numero delle triremi aumenterà a discapito delle biremi, fino ad arrivare al
Cinquecento, quando cioè, come già detto, le biremi saranno di numero tanto inferiore da non
chiamarsi più, come già detto, nemmeno galere bensì solamente con il più riduttivo nome di
galeotte, nome già di qualche uso nel Medioevo, come leggiamo per esempio nel Muratori (Rerum,
t. 12, p. 250, n. I) a proposito dell’armata di mare che verso il 1082 l’imperatore bizantino Alessio
chiese al doge veneziano Domenico Selvo d’inviargli in aiuto contro la minaccia di Roberto il
Normanno; soprattutto le biremi non saranno più considerate vascelli di linea di battaglia, perché
troppo meno armate ed equipaggiate delle triremi nemiche che si sarebbero trovate di fronte; anzi
dalla stessa fine del detto sedicesimo secolo le galere da schieramento di battaglia cominceranno
lentamente a trasformarsi in quadriremi e talvolta anche quinqueremi. Per fare un esempio,
l’armata che nel 1415 il re Giovanni di Portogallo portò a combattere in Africa e che conquistò
Ceuta (Cepta) in Maritania comprendeva 33 navi, 27 galere di tre remi per banco, 32 di due remi
per banco e 120 vascelli minori, quindi numeri pressocché pari di triremi e biremi (Zurita, Anales,
LT. XII, c. LII); quella di Giovanni II d’Aragona nel 1469 sarà invece di 15 triremi, 6 biremi e 6 navi
grosse d’armata (ib. LT. XVIII, c. XXIV). Avrebbe però fatto eccezione l’armata turca che andò alla
conquista di Costantinopoli nel 1453, la quale, secondo lo storico bizantino coevo Laonikos
Kalkokondilos (c.1423-1490), includeva, oltre a numerose triremi, anche diverse quinqueremi,
laddove narra della necessità che ebbero a un certo punto i turchi di trasportare via terra settanta
delle loro migliori galee, per aggirare così gli impedimenti marittimi predisposti a difesa del porto
dagli assediati (διεβἰβασε δὲ πλοῑα ἐς τὰ ἑβδομήϰοντα, πεντηϰοντόρούς τε ϰαὶ τριηϰοντόρους. In
De rebus turcicis, lt. I).
Da quanto narra dei suoi tempi il già citato cronachista bizantino Giorgio Franzes, sembra che i
veneziani - e gli italiani in genere - fossero soddisfatti dalle loro triremi e che quindi non sentissero
il bisogno di quadriremi; infatti, a proposito del viaggio fatto in Italia nel 1438 (anno 6945 del
calendario bizantino) dal suo imperatore Giovanni VIII Paleologo, del cui seguito Giorgio fece
parte, con il purtroppo vano proposito di chiedere aiuto finanziario e militare contro la crescente
minaccia ottomana, narra che l’8 febbraio, giorno del suo arrivo a S. Niccolò del Lido, il doge andò
a riceverlo in pompa magna per portarlo in città e il suo Bucintoro era scortato da una dozzina di
galee per l’occasione tanto ornate di ori e pitture e con il personale di bordo tanto vestito di tessuti
intessuti d’oro da aver poco da invidiare allo stesso Bucintoro; si trattava, scriveva il Franzes, di
quelle ‘semitriere’ che i ‘latini’ nella loro lingua – in questo caso in veneziano - chiamavano
quadriere (… ἦλθον δὲ μετʹ αὐτοῦ ϰαὶ ἒτεραι ἠμιτριήρεις, αὶ ϰατὰ τὴν τῶν Λατίνῶν διάλεϰτον
τετραήρεις ἐπονομαζόμεναι, ὠσεὶ δύο ἐπὶ δέϰα… Cit. LT. II, cap. XIV.) In quest’osservazione del
Franzes si legge un’implicita stizza perché tanta ostentazione di ricchezza da parte di Venezia
174

strideva con le ristrettezze in cui allora versava Costantinopoli; infatti la galea sulla quale
l’imperatore aveva viaggiato faceva parte di un’intera squadra messa graziosamente a
disposizione dalla stessa Venezia per quell’occorrenza ed era solo una normale seppur molto
veloce trireme; in effetti, quando dice che le galee che i veneziani facevano passare per delle
quadriremi erano in realtà solo delle semi-triremi (semitriere); si tratta di fatto di un semi detto con
intenzione non sminuitiva bensì contenitiva, in quanto non intendeva mezze-triremi nel senso che
solo una metà dei remigi era vogata da tre remiganti per banco mentre l’altra metà magari da due,
ma in realtà che solo una metà, quella posteriore, era vogata da 4 rematori per banco e la metà
davanti invece da tre; questa era d’altra parte una prassi allora abbastanza comune a Venezia,
essendosi costatato che inquartare anche i banchi della metà anteriore non portava poi un
giovamento tale da giustificare il costo dei necessari remiganti supplementari. I governi delle
repubbliche marinare italiane erano amministrazioni oculate e non sperperavano il denaro
pubblico, oculatezza che mancava invece evidentemente ai bizantini, i quali non a caso stavano
infatti per perdere il loro impero a causa soprattutto di difficoltà finanziarie.
I primi ponentini a rinunziare del tutto alle biremi d’armata sembra siano stati proprio i turchi e ciò
perché lo Zurita, a proposito dell’armata navale (grb. ἡ ἁρμάδα) che nel 1488 questi inviarono in
Cilicia contro il sultano mamelucco di Egitto e Siria, così scrisse:

… ed era l’armata di 55 galere di tre remi per banco e portava molte navi grosse per passar cavalli
e artiglieria, le quali in quelle parti d’Oriente chiamavano ‘parendere’ (it. palandarie. T. 2-2, lt. XX,
c. LXXIX).

Erano certo in ciò agevolati gli ottomani dall’aver allora un’illimitata disponibilità di remiganti, sia
schiavi cristiani sia volontari – ma in realtà semi-schiavi – mediorientali, sia di danaro tributario. Ciò
detto, ritorniamo ora alle misure delle galere medievali e, sperando che tutte le suddette siano
state riportate con esattezza, specie la larghezza della prima galera (un po’ poca, come a noi
sembra), notiamo che la maggior larghezza della seconda potrebbe anche giustificare quella d’una
triremi, anche se poi la limitata lunghezza della stessa sembra smentirlo; altra singolarità è che la
prima, anche se più corta, era però un po’ più profonda (palmi 8 invece di 7,2).
In effetti, qualche metro di lunghezza in più delle galere del Cinquecento rispetto a quelle medievali
dovrebbe essere giustificato in queste soprattutto dalla presenza della palmetta, copertino
d’estrema prua che, in quanto serviva principalmente ai bombardieri per caricare i loro pezzi, non
doveva logicamente esser presente nelle galere quando non ancora non esisteva l’artiglieria a
polvere pirica, cioè prima del Rinascimento, e le galee avevano a prua solo un sifone, vale a dire
un grosso e leggero lancia-fiamme fatto di ferro, ma ricoperto di rame perché non si arruginisse
175

troppo presto; di tale arma, con la quale si tentava (spesso con successo) d’incendiare la nave
nemica per evitare in tal modo di doverla sanguinosamente abbordare, così infatti, con nostra
traduzione, si dispone nella già citata Тάϰτιϰα bizantina del sec. IX°:

… Avrai senza dubbio avanti a prua un sifone rivestito di rame, com’è d’uso, per lanciare sui
nemici l’approntatosi fuoco; e in alto sopra detto sifone un falso-ponte di tavole circondato da
una murata d’assi nel qual stiano uomini che combattano chi assale da prua o che bersaglino
tutta la nave nemica con quante armi si conoscano (Constit. XIX, par. 3. Trad.d.A.).

Il sifone, il quale spesso, perché incutesse più timore al nemico, era a forma di leone o d’altro
animale feroce con le fauci aperte, dalle quali usciva il fuoco, poggiava su banco quadrupedato
(τετράϰουλον) e che fosse uno strumento alquanto delicato, da riparare con semplici stagnature
quando fosse deteriorato dal fuoco, e di conseguenza pericoloso per chi gli stava dattorno durante
il suo uso è dimostrato da una delle voci di spesa che troviamo al par. II.45 del già citato De
cerimoniis:

… si erogarono per un totale di altre 200 libbre di stagno date al fonditore Michele per vari lavori di
stagnatura dei sifoni del naviglio dell’imperatore … 36.0. (ἐδόθη ὐπὲρ ἀγορᾶς ἐτέρου ϰασιτέρου
λίτραι σʹ τὰ δοθέντα Μιχαὴλ χυτῇ λόγῳ ϰαταϰολλήσεως διαφόρων ἒργων τῶν σιφουνίων τοῡ
βασιλιϰοῡ πλοῒμου ͵͵ λς√.)

Supponiamo che la cifra di denaro λς√ voglia significare 36 follis di rame e 0 pentanummi di
bronzo, monetazione in vigore al tempo del predetto trattato. Poco più tardi l’imperatore Costantino
VII Porfirogenito raccomanderà che ogni dromone disponesse di tre sifoni per poter così sostituire
in battaglia quello in uso che si deteriorasse e inoltre che l’armata ne portasse altri di riserva (De
cerimoniis aulae byzantinae. II.45). Inoltre in un’armata s’armava di soffione di prua anche la
naggior parte dei vascelli d’appoggio; nel caso di quella di 20 dronomi prevista dal suddetto
imperatore, si doveva armare di due sifoni ciascuno dei 40 usiachi (‘uscieri’) e di un sifone 24 dei
50 pàmfuli. Al predetto scopo incendiario s’usava lanciare nella nave degli antagonisti anche
pignatte di creta molto frangibili e piene dello stesso materiale igniforo, come leggiamo per
esempio nel Chronicon di Giorgio Franzes laddove si descrive di uno scontro tra vascelli cristiani e
preponderanti turchi avvenuto nel 1453 nell’ambito del conflitto che sfociò nella conquista
ottomana di Costantinopoli e si dice appunto dei materiali offensivi che dall’alto delle coffe dei primi
si lanciavano sui secondi per contrastarne i tentativi d’abbordaggio:

… essi con pignatte ben riempite di fuoco liquido e con pietre da lungi di rimando gli ostacolavano
determinandosi una grande strage tra di loro (αὐτοὶ δὲ μετὰ χύτρων ϰατασϰευασμένων τεχνιϰῶς
176

πυρὶ ὐγρῴ ϰαὶ πετρῶν πάλιν αὐτοὺς μαϰρόθεν ἀπεμπόδιζον διὰ τὸ γίνεσθαι πολὺν φόνον ϰατʹ
αὐτούς. Cit. LT. III, cap.III).

In tempi precedenti, come leggiamo nello Στρατηγιϰόν del VI° sec. attribuito all’imperatore Maurizio
(539-602), i dromoni dell’Impero Romano d’Oriente alto-medievale avevano portato spesso a prua,
invece del suddetto sifone, una piccola ballista, in modo da poter colpire da lontano il nemico con
più grossi proiettili, e ciò s’usava non solo quando tali vascelli non dovevano impegnarsi in una
battaglia navale, ma magari anche quando erano utilizzati in un fiume in appoggio a una
spedizione di terra; si trattava di una macchina lanciatrice sì di piccole palle di pietra o di piombo
(da cui appunto il nome ballista) spinte sul canale centrale del fusto, ma soprattutto di grossi
quadrelli o giavellotti dalla punta incendiaria, perché limitarsi a colpire un vascello nemico con un
grosso dardo (gr. ἰός, βολίς) appuntito sotto la linea di galleggiamento per procurargli solo una falla
significativa non era cosa facile, così come non lo sarebbe stata anche più tardi con la
pirobalistica.
Certamente i suddetti dromoni, avendo due livelli di voga sovrapposti e quindi essendo più alti
delle galee, erano di queste più grosse e pesanti, e, considerato anche il loro relativamente non
grande numero di vogatori, non erano, come vedremo, affatto grandissimi.e non erano quindi per
nulla da paragonarsi per dimensioni a quelle che poi, dall’Alto Medioevo, saranno le galee grosse
di mercanzia veneziane e le galeazze tirreniche, queste peraltro vascelli a un solo livello di voga; si
trovano comunque storici alto-medievali che li dicevano grandi vascelli e vedi già Alberto di Acqui
(nel sec. XI (navem immanissimam, quam appellant dromonem. Hystoria hierosolymitanae
expeditionis, LT. X, cap. XIV. In Patrologiae cursus cumpletus etc. T. CLXVI. Parigi, 1854), a
seguire poi con il grossissimo dromone da carico che il re inglese Riccardo I catturò nelle acque
della Palestina nel 1191, vascello che, proveniente da Baruti (‘Beiruth’) carico di mercanzie e
materiali bellici, era diretto ad Acon (‘Acri’) in soccorso di quella guarnigione mussulmana allora
assediata dai crociati, ma il quale, col suo ricco carico di mercanzie e materiali bellici e soprattutto
con i suoi millecinquecento (sic) uomini a bordo (a meno che non si trattasse di un numero
erroneamente esagerato), non poteva certo essere un dromone classico, per quanto grande
potesse essere; a finire con il Chronicon anglicanum di Roger de Wendower (secondo altri di
Matteo de Paris o di Giovanni de Oxenedes o di Bartolomeo de Cotton o di Radulfo de
Coggeshall), in cui si dice apparuit navis quaedam permaxima, quam dromundam (altrove
Dromundam) appellant.
Si è sempre creduto che, nonostante il loro doppio livello di voga e quindi la loro non indifferente
mole, i dromoni non dovevano essere per nulla lenti visto che il loro nome (δρόμων) aveva tutta
l’aria di derivare da quello di δρόμος, ‘corso, corsa’; si poteva forse supporre che la loro velocità
177

fosse dovuta a una particolare dotazione veliera, ma purtroppo l’imperatore Leone VI, quando ne
descrive l’equipaggio nella sua Tattica, non parla assolutamente di marinaresca addetta ad alberi o
velatura di sorta. C’è comunque anche da considerare che ai tempi in cui fu scritta la suddetta
Tattica, cioè attorno all’inizio del decimo secolo, non c’era ancora stato lo sviluppo veliero che
troveremo invece nella seconda metà dell’undicesimo, quando cioè s’incominciano a trovare
testimonianze addirittura di velieri a tre alberi (gr. τριάρμενοι), specie nella narrazione di Anna
Comnena, la quale due volte parla di grandi vascelli ‘a tre vele’ (quindi a tre alberi), una prima volta
appunto di τριάρμενοι όλχάδες nel lt. VIII e la seconda volta nel lt. X a proposito della battaglia
navale che nel 1081 si combatté tra alcuni vascelli lunghi (tlt. naves longae) bizantini comandati da
Mariano Maurocatacalone e uno grosso dell’armata di Baimundo, figlio di Roberto il Guiscardo, il
quale era comandato da Bertrando II conte di Provenza, e ciò avvenne nell’ambito delle guerre che
il suddetto Roberto aveva nel precedente 1081 intrapreso contro l’imperatore Alessio I Comneno:

… avendo assoldato un trealberi corsaro da gran carico del valore di seimila stateri d’oro e con
duecento rematori, la quale era accompagnata da tre rimorchi (μνριοφόρον ναῦν λῃστριϰὴν
μισθωσάμενος τριάρμενον ἐξαϰισχιλίων χρυσίου στατήρων, ἐν ᾖ ἐρέται μὲν διαϰόσιοι, ἐφόλϰια δὲ τὰ
συνεφεπόμενα ταύτῃ τρία. In Alexiadis. LT. X, 8).

Premesso che il Suida, autore bizantino del decimo secolo, parla di ‘onerarie veloci’ (δρομάδας
ὀλϰάδας), come però prima di lui già Aristofane e il Polluce e invece più tardi la Comnena, il che
potrebbe confermare l’esistenza di onerarie multivela ribadiamo, come già accennato, che
l’aggettivo ‘piratico’ non si riferisce al tipo o alla stazza del vascello – trattandosi qui infatti di un
grosso remiero, bensì all’armamento e alle funzioni per le quali era stato noleggiato (e non a caso
questo si trascinava dietro tre imbarcazioni nemiche abbottinate), i duecento rematori possono
solo essere attribuiti a un grosso chelandio-pamfulo monoponte, tipo di vascello veliero-remiero di
cui abbiamo già detto. Ma, per quanto riguarda questo grosso vascello noleggiato dai normanni,
abbiamo da esporre un’altra ipotesi, a nostro avviso più realistica, e più avanti lo faremo. Infine,
per quanto riguarda l’uso dei vascelli a tre alberi, Giulio Polluce (II sec.) nel suo Onomastikon ne
attribuisce uno già al re di Macedonia Antigono II Gonata (319 a.C. – 239 a.C.).
Fatto dunque come era il dromone tradizionale, cioè a due ponti remieri e quindi con garbo più
tondo che sottile, a causa di questa sua altezza e pesantezza non poteva essere certo avere, ma
nemmeno lontanamente, la velocità della galea, essendo questa appunto sottile e monoponte, ma
forse poteva gareggiare almeno con i larghi chelandi, i quali qui sappiamo essere, perlomeno a
questa tarda epoca, vascelli veliero-remieri. Che comunque il doppio livello di voga conferisse
necessariamente a quel vascello remiero una notevole stazza erano consapevoli già gli stessi
178

bizantini, come si evince dalle raccomandazioni fatte al riguardo dall’imperatore Leone VI (866-
912) nella sua Тάϰτιϰα:

… Ogni dromone sia di ragguardevole lunghezza, ma di misure proporzionate, dal momento che
ha i due predetti ordini di remi, uno superiore e uno inferiore (Constit. XIX, par. 7. Trad.d.A.).

Ma l’errore di fondo è stato, già a partire dall’Alto Medioevo, proprio quello di credere che il nome
derivasse da ὀ δρόμος (‘corsa, corso, carriera’), mentre esso, allo stesso modo di quello di galea,
deriva semplicemente da quello di un animale marino e cioè dall’omonimo δρόμων (‘granchio’),
nome il cui significato Esichio Alessandrino (V sec.) nel suo Lexicon spiega brevemente appunto
così: Δρόμων͵ ὀ μιϰρός ϰαρϰῖνος· (‘dromone, il piccolo granchio’). Lexicon. P.n.n. Venezia, agosto
1514. Si potrà obiettare che il vascello così chiamato non era ‘piccolo’, tutt’altro; ma il raffronto
delle dimensioni non è rilevante, perché Esichio scriveva nel V sec. e del vascello dromone, come
abbiamo visto, si comincia a parlare nelle storie più tardi, cioè nel VI; infatti Esichio, visto che ai
suoi tempi ancora non c’era, non lo include nel suo lessico. Non si capisce però perché non lo
includa nemmeno Suida nel suo, visto che con lui siamo ormai al IX secolo; il primo a includerlo è
invece quel Lexicon di anonimo da qualcuno attribuito a Giovanni Zonaras (XI-XII sec.), ma da altri
considerato precedente: Δρόμων͵ εἶδος πλοίου (‘Dromone, tipo di vascello’). Lexicon. T. I, c. 570.
Lipsia, 1808.
Leone VI scriveva chiaramente che, per operazioni veloci, quali guardie e missioni, bisognava
usare le galee o monere, cioè quei vascelli remieri particolarmente leggeri in quanto non solo
avevano un solo ponte di voga ma erano anche monoremo (... che chiamano ‘galaie’ o ‘monere’ …
οἰονεὶ γαλαίας ἢ μονήρεις λεγομένους. Constit. XIX, par. 10); veniamo qui a sapere una cosa molto
interessante e cioè che galee era un nome che fu dato dapprima a vascelli monoremo che
avevano evidentemente cominciato ad affiancare le antiche biremi romane dette liburne e che in
seguito fu esteso anche a evoluzioni biremi e triremi di quelli monoremo iniziali. E che il garbo dei
dromoni non fosse pertanto consono a vascelli sottili lo dimostra anche la circostanza che, quando
poi anche in battaglia si preferirono a loro le galee, ai dromoni resterà, per quanto riguarda la
guerra, quasi esclusivamente il compito di tragittare con maggior sicurezza la cavalleria e infine
quello di trasportare materiale bellico di supporto; ecco per esempio quanto, nella seconda metà
del dodicesimo secolo, Guglielmo da Tiro ricordava della grande armata navale preparata nel 1144
dall’imperatore bizantino Manuele I Comneno per la sua prima campagna di Antiochia:

… Nella detta armata c’erano effettivamente 150 navi remiere (longae) rostrate, fornite di due
ordini di remi, più atte agli usi di guerra, le quali chiamano comunemente ‘galee’; inoltre un numero
di più grandi, sessanta in tutto, era destinato al trasporto dei cavalli, avendo usci alle poppe in
179

modo da introdurli e da estrarli liberamente, agevolandosi l’ingresso e l’uscita, sia dei cavalli sia
degli uomini, anche con qualche ponte; infine, ancora più grandi di quelle, dieci o dodici che
chiamano ‘dromoni’ e che erano caricate fino alla sommità di vario genere di vettovaglie e di
molteplici di armi, di macchine e congegni bellici. In Belli sacri historia etc. P. 493. Basilea, 1549.)

Queste parole di Guglielmo confermano quanto da noi qui osservato e cioè che le armate
medievali di galee erano generalmente costituite da biremi e che i dromoni, poiché biponte, erano
vascelli remieri alquanto pesanti; questo lascerebbe intendere anche la seguente frase di Teofilatto
Simocatta:

… essendosi disposte onerarie dalla veloce navigazione (di quelle) che generalmente solevano
chiamare ‘dromoni’ (ταχυναυτούσας ὀλϰάδας παραστησάμενος, ἂς δρόμωνας εἲωθεν ὀνομάζειν τὸ
πλῆθος (Historiae. LT. VII, par. 10).

In verità il Simocatta si dimostra qui poco esperto di marineria; le ὀλϰάδες erano comuni vascelli
onerari non remieri, mentre i dromoni lo erano e inoltre, anche se remieri alquanto panciuti, cioè un
primo esempio di quella che poi sarà la categoria delle galee grosse e delle galeazze, non si
potevano certo considerare dei velieri né tanto meno onerari. D’altra parte si smentisce più avanti,
cioè quando narra della fuga da Costantinopoli dell’imperatore Maurizio, il quale, per realizzarla,
s’imbarcò proprio su un dromone (… quella che i più usano chiamare dromone… δρόμωνα δὲ
ταύτην εὶώθασι τὰ πλήθη ἀποϰαλεῖν. Ib. LT. VIII, par. 9.) Una scelta che non avrebbe certo fatta se
si fosse trattato di una lenta oneraria.
Vero è che le galee, una volta armate anche di alberatura, cominciarono esse stesse a navigare a
vela di regola e a riservare la voga solo alle manovre portuali, all’uscita dai porti alla ricerca del
vento, al piccolo cabotaggio in tempo di bonaccia e infine al remare con forza disperata contro
vento o corrente contrari quando ci fosse pericolo di andare a rompersi contro delle scogliere, per
cui la ciurma dei remiganti, smise di essere anche milizia combattente, ma divenne anche
marinaresca. Bisogna però anche dire che, se i dromoni, allora usati solo per uso bellico, fossero
stati vascelli troppo lenti, il detto imperatore bizantino Leone VI non avrebbe deciso, come invece
leggiamo nel trattato De administrando imperio (cap. 51) scritto dal figlio Costantino VII
Porfirogenito (905-959), di usarne per spostarsi per mare al posto del tradizionale chelandio
agrario (‘chelandio armato a corso’) - non sappiamo però quanto scortato – che era stato usato
fino ad allora dai suoi augusti predecessori, come confermano vari scritti, a cominciare dalla stessa
Tattica del suddetto Leone VI laddove ci informa che l’imperatore, quando fosse lui stesso a capo
dell’armata, doveva navigare non su un dromone ordinario, ma su uno che fosse non solo
equipaggiato con uomini di prim’ordine, ma anche più grande e veloce, il quale era detto pamfulo:
180

… sarai portato da un dromone più grande e più veloce di tutti gli altri, in quanto, quando sarai al
comando di detto tuo dromone che chiamano pamfulo, sarai a capo di tutta l’ordinanza di battaglia.
(… τὀν δρόμωνα δὲ μεγέθει ϰαὶ ταχύτητι τῶν ἂλλων ἀπάντων διαφέροντα͵ ὡς ἂτε ϰεφαλήν τινα τῆς
παρατάξεως ἀπάσης· ϰαὶ ϰαταστῆσαι τὸν τῆς σῆς ἐνδεξότητος τοιοῡτον δρόμωνα͵ τὸ δὴ λεγόμενον
πάμφυλον· Constit. XIX, par. 37.)

Ecco dunque perché ancora oggi diciamo pamfili gli yachts privati particolarmente grandi e
lussuosi. Chiuderemo questa questione dell’ipotetica velocità dei dromoni con un’osservazione
curiosa e cioè che dagli antichi autori greci il dromedario era detto δρομὰς ϰάμηλος, cioè
‘cammello veloce’; Giovanni Malalas, autore bizantino del sec. sesto, lo chiama invece ‘cammello
dromonario’ [δρομωναρίαν ϰάμηλον (2) (lt. XII); ϰαμήλους δρομωναρίας (lt. XVIII)], quindi non da
δρομὰς (‘veloce’) bensì da δρόμων (‘dromone’). Insomma evidentemente per lui, se il cammello
era la ‘nave del deserto’, allora il veloce dromedario era il ‘dromone del deserto’…
Che gli imperatori facessero in precedenza uso di un chelandio, anzi di un chelandio rosso, di quel
tipo da corso detto agrario (εἰς ῥούσιον ἀγράριον. In De administrando imperio. Cap. 51) si legge
anche nel cap. 18 del De cerimoniis aulae bizyantinae, opera dello stesso predetto imperiale
autore, e soprattutto nella Chronographia di Teofane, in cui si narra infatti che nel 789 l’imperatore
Costantino VI fu portato in un chelandio a Bisanzio, dove, per ordine della sua stessa madre, che
voleva prenderne il posto, e di consiglieri di questa, fu poi crudelmente accecato. A disposizione
dell’imperatore c’erano sempre stati ben dieci chelandi agrarii ormeggiati nel fiordo di Stenos sulla
costa albanese e, per privilegio imperiale, equipaggiati appunto di steniti, marinai allora molto
apprezzati, essendo in effetti questi chelandi grandi vascelli remiero-velici generalmente non
armati e usati per l’ordinario in guerra solo come onerari di sostegno, ecceziona fatta appunto per
quelli detti agrarii (‘cacciatori’), cioè un tipo armato, agile e veloce da usarsi, se non in battaglia
formata come invece i tetragoni dromoni, certamente per la guerra di corso. In realtà Leone VI
aveva preso l’dea dal padre Basilio I, il quale, avendo necessità o desiderio di portarsi dietro un
numero molto maggiore di cortigiani, già aveva interrotto la tradizione iniziando a viaggiare in un
dromone equipaggiato sia di rermiganti provenienti dal chelandio agrario di cui si era dunque sino
ad allora tradizionalmente servito sia appunto di marinai steniti (De administrando Imperio, cap.
51) e navigante di conserva con un secondo dromone che portava appunto il resto della sua corte
e che da questo suo compito subalterno prese poi appunto il nome di Secondo. Si dirà che
avrebbe potuto scegliere di viaggiare con due agrarii senza ricorrere ai dromoni, ma
evidentemente era più facile far viaggiare uniti di conserva due stabili e forti dromoni che due più
leggeri vascelli di corso. I remiganti imperiali dei suddetti agrarii e poi quindi anche dei due
dromoni dell’imperatore erano in parte russi ed in parte africani subsahariani (ib.), il che significa
certamente che erano schiavi, e la loro gestione dipendeva dal protospatario reale, il più
181

importante funzionario della corte bizantina; ma, quando i due dromoni imperiali tornavano dal
servizio dell’imperatore, allora i remiganti imperiali li lasciavano e al loro posto subentravano
remieri steniti, cioè della stessa nazionalità dei marinai.
Il suddetto Costantino VII, in ottemperanza della decisione del padre, viaggiava dunque ora per
mare in un dromone di rango imperiale accompagnato da un secondo (ib.); infatti, narrando dei
fatti di quell’imperatore nel suo Compendio storico, Giorgio Cedreno (sec. XI) menziona più
volte ό βασιλιϰός δρόμων (‘il dromone imperiale’), lo farà inoltre una volta pure il suo coevo
Nikeforo Briennio (1062-1137) nei Commentarii relativi all’imperatore Alessio I Comneno (LT. I,
par. 4) e lo stesso Costantino VII nell’Appendice al libro I° del predetto De cerimoniis [… e,
sbarcato dal dromone, salì a cavallo (ϰαὶ ἑξελθὼν τοῡ δρόμονος ἐπιβὰς ἴππῳ)] e poi anche nel
libro. II. ai par. 12, 13 [… e l’imperatore passa dal palazzo al dromone imperiale… (… ϰαὶ ὀ
βασιλεὐς εἰσέρχεται ἀπὸ τὸ παλάτιον εἰς τὸν βασίλειον δρόμονα...)] e 14 [i remiganti dei dromoni
imperiali (οἰ ἐλάται τῶν βασιλιϰῶν δρομονίων)], a dimostrazione che, pur se i dromoni militari
erano allora omai disusati, essendo stati finalmente sostituiti dalle galee anche nelle armate di
mare bizantine, i due d’uso imperiale furono mantenuti in servizio ancora nella seconda metà
dell’undicesimo secolo; e che fossero due lo conferma lo stesso imperatore

Nello stesso suddetto De cerimoniis leggiamo però che, se l’imperatore partecipava in persona
ad un’armata di mare, egli era allora portato e difeso da ben sei pamfuli:

… Dio condurrà il sacro Imperatore con la potente difesa lignea di 6 pamfuli [… Διὰ τῶν ὲξ
παμφύλων δόρϰας (ʹ δόρεας ʹ) ὄσας ὀδηγήσει ὁ Θεὸς τὸν βασιλέα τὸν ἄγιον· Ib. II.45.]

Infatti, anche se vascelli d’appoggio, a questi pamfuli o chelandi-pamfuli d’armata si forniva un


armamento difensivo e cioè, ai tempi predetti, a ciascuno 60 clibanii (‘corsaletti’), 60 casidii
(‘elmetti’) e 10 lorichi (gr. λωρίϰια; ζάβα; lt. loricae) (‘toraciere’), mentre per ciascun chelandio-
usiaco i clibanii erano 10, altrettanti i casidii, i lorichi leggeri 2 e quelli comuni 8. Nella suddetta
Тάϰτιϰα, attribuita dunque a Leone VI ma probabilmente da lui semplicemente
commissionata a un suo esperto, al cap. XIX, artt. VII, VIII e IX si legge che il dromone era un
vascello remiero da guerra, ma con il quale, come del resto anche con la galea sottile,
occasionalmente si trasportava anche qualche mercanzia, ed ecco dunque entrare in ballo il
significato bizantino del termine δρόμος, il quale da quello antico di corso si era evoluto in quello
più generale di ‘via, cammino’; è possibile dunque che, per trasporti veloci minori i bizantini
usassero appunto i dromoni, in quanto vascelli provvisti di remi e quindi non affidati unicamente
alle bizze dei venti. Era lo stesso concetto che aveva spinto le repubbliche marinare italiane a
182

usare per i loro traffici marittimi extra-mediterranei galee grosse e galeazze, con la differenza però
che quelli erano vascelli molto capaci, mentre i dromoni avrebberio potuto, come già accennato,
solo piccole quantità di merci più pregiate e degne quindi di viaggiare con maggiore velocità e
sicurezza.
Si legge inoltre che differiva dunque dalla galera basso-medievale soprattutto per il suo taglio o
garbo, ossia per la sua forma, perché non era, abbiamo detto, come questa un vascello proprio
sottile ma era invece alquanto tondo, ossia era del genere sia delle triere dell’antica Roma sia di
quelle che saranno poi la galea grossa veneziana e la galeazza tirrenica, anch’esse del Basso
Medioevo; e che non fosse molto sottile si legge nella menzione fattane da Paolo Silenziario, poeta
bizantino del sesto secolo, il quale lo dice ϰύϰλιος, ‘rotondo’ (ϰύϰλιον εἰσορόωσα δρόμον
διδυμάονος ἂρϰτου, in Descriptio Sanctae Sophiae). Ancora nella predetta Тάϰτιϰα si dispone
comunque che i dromoni si dovessero costruire non troppo corposi, perché non risultassero poi
troppo lenti al corso, ma nemmeno tanto esili da non resistere all’urto di vascelli nemici; essi erano
stati introdotti dai bizantini non in aggiunta alle antiche triere romane ma in completa sostituzione
di quelle, come si evince da un altro passo della stessa Тάϰτιϰα:

… con quelle che una volta si dicevano ‘triere’ ed oggi invece si chiamano ‘dromoni’… (διὰ τῶν
ποτε λεγομένων τριηρῶν͵ νῦν δὲ δρομώνων ϰαλουμένων. Const. XIX, par. 1.)

Ma questo non significa affatto che triere e dromoni fossero vascelli molto simili, anzi il dromone
differiva da tutti i suddetti vascelli soprattutto perché aveva remiganti distribuiti su due ponti di voga
differenti, mentre la triera romana in tutte le immagini che ci sono d’essa rimaste mostra sempre un
solo livello di voga; un’altra differenza era che questa presentava però due camminamenti laterali
sopraelevati di combattimento, mentre i dromoni, strutturati con due ponti remieri, certamente non
li avevano; il peso totale sarebbe stato infatti insopportabile per un vascello squisitamente remiero.
I banchi, prescriveva l’imperatore Leone VI nella sua Tattica, dovevano essere almeno 25 per
fianco, quindi almeno 50 per livello, volendo in sostanza dire che un dromone ordinario doveva
avere non meno di 25 banchi, ma, mentre ai banchi inferiori sedevano sempre 50 remiganti, cioè
uno a destra e uno a sinistra della stessa fila, i remiganti superiori potevano variare di numero, in
genere da uno a tre per lato di banco; quindi andavano generalmente da un minimo di 100 a un
massimo di 200-220 in totale. Certo è che, nell-ambito dei preparativi per la seconda impresa di
Creta, quella cioè del 949, per l’allestimento di un’armata di 20 dromoni il suo succitato figlio
Costantino VII prevedeva una fornitura di 2.400 remi, cioè 120 a dromone, non essendoci però
purtroppo possibile capire dal corrotto testo rimastoci se trattavasi di remi ordinari o invece di remi
di riserva (II. 45). Poiché i remiganti bizantini e generalmente balcanici non erano criminali
183

condannati alla voga ma generalmente volontari e solo in minor parte schiavi, essi avevano
l’obbligo di fungere anche da soldati e quindi combattevano regolarmente; molto disposti al
servizio remiero bizantino erano gli τζάϰωνας (‘zàcconi’; corr. di λαϰώνες, ‘lacòni’), cioè i greci di
Morea e dei territori occidentali della Grecia in generale, ottimi quelli dell’arcipelago, e li
chiamavano popolarmente προσελῶντες (‘coloro che spingono avanti’). Anche pronti al servizio
militare navale in generale erano quei costantinopolitani διγενεῖς (gra. δίγονοι), cioè dalla doppia
genìa, che colà dicevano volgarmente γασμοῦλοι (‘gasmùli’); erano quei cittadini, figli di padri
italiani (generalmente mercanti genovesi o anche veneziani) e di madri bizantine, ai quali
evidentemente non si offrivano molte opportunità nella vità civile, costringendoli pertanto a cercar
fortuna nel mestiere delle armi, e si trattava insomma dell’equivalente greco dei giannizzeri di
Napoli, cioè di quei cittadini partenopei figli di padre spagnolo e di madre napoletana, i quali però,
al contrario dei suddetti gasmùli, non si vergognavano della loro generazione, anzi ne andavano
fieri essendo gli spagnoli i conquistatori. Nella lingua veneziana c’era un termine simile, italianadi, il
quale però aveva un significato più generico, significando figli di stranieri vissuti ed educati in Italia.
I remieri superiori, scriveva Leone VI, dovevano essere i più esperti, combattivi e i meglio armati,
trovandosi in battaglia a maggior contatto col nemico, e manovrando i remi più lunghi e quindi più
pesanti, dovevano necessariamente esser più abili e forti anche nella voga, infatti i dromoni erano
anche letterariamente chiamati δολιχήρετμοι νῆες, cioè ‘vascelli dai lunghi remi’; al contrario quelli
del ponte inferiore, poiché adibiti a una voga meno faticosa e inoltre più riparati dal nemico, erano
solitamente i meno esperti ed abili e dovevano, per quanto riguarda il combattere, solo servire a
rimpiazzare i caduti e i feriti dei ranghi superiori e ciò facevano, salendo in coperta, generalmente
armati di picche predisposte nei pressi dei loro banchi di voga. Probabilmente fu la suddetta
disposizione dei rematori che farà poi preferire le galee ai dromoni e renderà questi obsoleti, cioè
perché ci si rese finalmente conto che vogare a un livello superiore a quello del pelo d’acqua
significava un molto maggior dispendio di energie, il quale naturalmente si risolveva in minor
velocità e minor resistenza allo sforzo; si preferì dunque, ai fini quindi di acquisire maggior velocità
ed agilità natiche, rinunziare non solo ai due livelli di voga ma anche ad un tipo di combattimento
nautico più adatto a una stabile fanteria, quel modo cioè che si era sempre tenuto nelle antiche
triere greco-romane perché facilitato dal potersi combattere da due corridoi laterali sopraelevati, e
ci si abituò invece a farlo dalle strette e impacciate balestriere (gr. πάροδοι; lt. interscalmia,
balistariae) poste tra gli ordini di banchi di voga e le basse fiancate. Ma i dromoni avevano una
corsia centrale sopraelevata come quela delle galere? Da un ricordo narrato nel cap. 51 del De
administrando imperio, opera che si attribuisce allo stesso imperatore Costantino Porfirogenito,
sembrerebbe di sì; Micaele, il vecchio protospatario del predetto imperatore, il quale, come spesso
184

avveniva a Bisanzio, era stato in precedenza a lungo comandante del principale dromone
imperiale, accompagnando il suo sovrano nei viaggi per mare ci teneva a comandare lui stesso
talvolta la voga ponendosi, come ai suoi vecchi tempi, al centro del dromone, il che significa
pertanto ovviamente in posizione più elevata dei banchi.
Questi dromoni erano dunque di varie dimensioni e di vario numero di vogatori, restando infatti
sempre 50 solo quelli del ponte inferiore; inoltre Leone dispone che quelli maggiori, oltre a una
incastellatura sul sifone lancia-fuoco di prua, potevano avere anche un castello di tavoloni alla
mezzania, dal quale si potevano lanciare sul vascello nemico abbordato, oltre a materiali
incendiari, oggetti molto pesanti per sfondarne la coperta e uccidere soprattutto i poveri remieri
sottostanti, castello che ovviamente doveva appesantire non poco il vascello:

… Ma, nei più grandi dromoni, s’intende da edificarsi con assi anche la detta incastellatura di legno
attorno al piede mediano dell’alberatura, dalla quale alcuni uomini scaglino nel mezzo della nave
nemica o pietre di macina o pesanti ferri come palle cuspidate con le quali o infrangano la nave o,
violentemente cadendo, schiaccino coloro che sono al disotto o versino qualche altra cosa che
possa o incendiare la nave degli avversari o uccidere direttamente i nemici (Constit. XIX, par. 7.
Trad.d.A.).

La presenza di questo castello centrale nei dromoni più grandi depone anch’essa per una
navigazione, a dispetto di quel nome, tutt’altro che agile e veloce naturalmente e fa capire come in
effetti i dromoni e non le galee triremi medievali siano da considerarsi i più diretti eredi delle
pesanti triere dell’antica Roma. Di incastellature sui dromoni parla anche un brano del poema
cavalleresco duecentesco Le roman de Blanchandin, brano citato dal du Cange, ma si tratta
certamente di versi scritti da un poeta molto digiuno di marineria, perché vi usa chalant (chelando)
come sinonimo di dromone, perché di un dromone da costruire dice che deve avere tre
incastellature, dette dall’autore broches ma in seguito chiama più compiutamente bretesches
(‘bertesche’), cioè le voleva a prua, al centro e a poppa, un numero eccessivo per un vascello
remiero. Inoltre dice che deve esser lungo 30 piedi (circa 15 metri), lunghezza quindi del tutto
insufficiente per far posto a tre fortificazioni; scrive infine che gli alberi dovevano elevarsi dritti
verso l’alto (Li mas en fu droit contremont) ed è l’unico che accenni all’alberatura dei dromoni,
nemmeno Leone VI lo fa; eppure non è possibile che un grande vascello non avesse anche degli
alberi per poter logicamente sfruttare in navigazione prima la forza dei venti e poi
subordinatamente quella delle braccia umane. Noi comunque pensiamo che, data anche la
tardezza dei tempi in cui il poema fu scritto, tempi in cui i dromoni erano già da considerarsi
vascelli del passato, il nome è stato dall’autore impropriamente utilizzato per un vascello d’altro
185

tipo, improprietà non infrequente anche nei secoli successivi (Charles Dufresne du Cange,
Glossarium etc. Cc. 902-903. T. II. Basilea,1762).
Disponendo i dromoni di poco luogo, fanterie e cavallerie bizantine per specifiche azioni di guerra
generalmente si trasportavano, come del resto provviste e attrezzature, nei velieri di sostegno; ma
anche allo si sapeva fare di necessità virtù, come leggiamo per esempio in un episodio della
guerra greco-gotica avvenuto nell’anno 548 e che è ricordato appunto nel De bello gothico di
Procopio di Cesarea; Claudiano, uomo del generale bizantino Belisario, deve andare a combattere
il goto Ilauf (‘Ilaulfo’), il quale si è impadronito di alcune località della costa dalmata, passandone
crudelmente a fil di spada gli abitanti, e pertanto imbarca soldatesche nei così chiamati dromoni
(τῶν ϰαλουμένων δρομώνων) e frumento e altri viveri su navi d’altra sorta (ἄλλα πλοῖα) (lt. III, 35).
Questo episodio è molto importante perché ci dimostra che i dromoni erano vascelli bizantini alto-
medievali più antichi di quanto si possa pensare. Ai suddetti vogatori s’aggiungevano gli ufficiali:

… Oltre a questi ci saranno il centarco del dromone, il vessillifero e due timonieri alle timoniere del
dromone, i quali chiamano anche πρωτοϰαράβοι (‘primi ufficiali’); e magari anche qualcuno
necessario al servizio del centarco. Dei rematori prodieri gli ultimi due saranno il sifonatore e l’altro
colui che getta le ancore in mare; ci sarà, sedendo armato, anche il prodiero in alto sul palchetto di
prua e il giaciglio del navarco ossia del centarco si troverà a poppa e insieme con lui si manterrà in
disparte l’arconte, insieme anche guardandosi dai dardi scagliati dai nemici durante la battaglia,
dal qual luogo l’arconte, tutte le cose vedendo, darà gli ordini per condurre vantaggiosamente il
dromone (Ib. Par. 8 Tr.d.a.)

Dunque, nella marineria da guerra bizantina alto-medievale, l’arconte (ἂρχων) (anche centarco
(ἐϰατοντάρχης, nel caso di un dromone da 100 remiganti-soldati) era il comandante militare
dell’equipaggio, ma sovrastato, per quanto riguardava la competenza della navigazione, dal
comandante marittimo del vascello, cioè dal δρομώναρχος, nel caso di un dromone, del
τριήραρχος, nel caso di una triera, del πεντηϰόνταρχος, nel caso di un pentecontoro, e cosi via;
l’arconte pertanto mancava nei vascelli mercantili. Il navarco (ναυάρχης, ναύαρχος), pur nascendo
come comandante di una sola generica nave, diventerà col passare dei secoli sempre più
autorevole e cioè prima il comandante di tutte le navi d’appoggio di un’armata di triere, poi di una
squadra e in seguito anche di un’intera armata (ναυάρχης στόλου, ναύαρχος στόλου), cioè
l’ammiraglio (lt. praefectus), quindi passando a suo carico anche le competenze militari; infatti nel
Basso Medioevo a Bisanzio sarà così chiamato il capitano generale d’armata e ναυαρχίς
significherà dunque ‘vascello ammiraglio’. Poiché però già nell’antichità l’ammiraglio non sempre
era disponibile a guidare di persona la sua armata, disponeva di un diàdoco, ossia di un suo
‘secondo’, cioè di un capitano generale detto ἐπιστολεύς, nome che così spesso si confondeva con
186

quello di ἀπόστολος (‘inviato, messo’) che questo finirà col tempo addirittura per significare anche
una spedizione militare navale (G. Polluce, cit. I. IX, pag. 67).
Sempre a Bisanzio, per quanto riguarderà gli ufficiali maggiori di un vascello da guerra grande,
ossia di un dromone o anche di un agrario, troveremo invece chiamato protocàrabo
(πρωτοϰαράβος) il capitano, protelate (πρωτελάτης) il còmito e deuterelate (δευτεροελάτης) il
sotto-còmito.
Se da tre a cinque dromoni dovevano navigare insieme (anche se magari facenti parte di un’intera
più grande armata), si dava ad essi un comandante di distaccamento chiamato comite (ϰόμης),
insomma più o meno quello che nelle armate napoletano-angioine del Ducento si diceva
protontino, nelle veneziane capitaneo e nelle ponentine del Cinquecento vedremo poi chiamarsi
invece cuatralbo, come più avanti spiegheremo. Questo nome di comite, corrotto però in comito,
avrà, come vedremo, molto successo nel Mediterraneo, ma molto svalutato di significato e ruolo.
Per il drungario o capitano generale di un’armata di mare bizantina (gr. δρουγγάριος τῶν πλωΐμων,
mentre ϰαπετανίος quello delle galee grosse commerciali, per esempio nel 1453 aveva
quest’ultimo incarico un certo Antonio (G. Franzes, cit. LT. III, cap. IV), e στρατηλάτης quello di
un’armata di terra) troviamo un’annotazione di spesa interessante tra quelle per l’impresa di Creta
dell’anno 911 (Costantino VII, De cerimoniis aulae byzantinae. II.45) e cioè la rameria per la sua
cucina particolare:

… si erogarono per l’insieme di varia ramiera in una dotazione per servizio del capitano generale
della flotta (ossia) per pentole grandi 2, altre mezzane due, pentolini stagnati 4, cucume grandi 2,
tegami grandi 2, orciuolo di rame stagnato 1, fiaschi stagnati 2, catinelle 2 … 24 follis di rame.
(ἐδόθη ὑπὲρ ἀγορᾶς χαλϰώματος διαφόρου τῷ δοθέντι λόγῳ τῆς ὐπουργίας τοΰ δρουγγαρίου τοΰ
πλοΐμου ὐπὲρ ϰαϰαβίων μεγάλων βʹ͵ ϰαὶ ἐτέρων ϰαϰαβίων μεσίων βʹ͵ ϰαὶ χυτροϰαϰαβίων
γανωτῶν δʹ͵ ϰαὶ ϰουϰουμίων μεγάλων βʹ͵ ϰαὶ τιγανίων μεγάλων βʹ͵ χαλϰοσταμνίου γανωτοῡ ἐνος͵
φλασϰίων γανωτῶν βʹ͵ χερνιβοξέστων βʹ͵͵ ϰδʹ. Ib.)

Tra gli scritti aggiunti al De cerimoniis del figlio di Leone VI, cioè del succitato Costantino VII
Porfirogenito, si legge dell’imponente armata di mare con la quale i bizantini, come suddetto, nel
911 tentarono senza successo la riconquista dell’isola di Creta, da tempo caduta nelle mani dei
corsari dei saraceni (cosiddetti perché si dicevano discendenti da Sara, moglie ufficiale di Abramo)
o arabi, come si sono sempre chiamati nel basso-medioevo i mussulmani africani, iberici, siciliani e
anche sardi - v. Alghero, da al-Jazā’ir, ‘le isole’, per le sue isolette in antico più numerose, cioè
proprio come Algeri; in seguito gli arabi della penisola arabica furono chiamati ismaeliti (infine
sunniti), perché si dicevano discendenti da Ismaele, unico figlio di Abramo e della sua concubina
Agar), distinguendosi così dai mussulmani mediorientali detti invece agareni (infine sciiti), perché si
dicevano discendenti dalla predetta Agar, ma poi anche musulini (gr.μουσουλινοὶ), specie quelli
187

della regione della città, oggi irachena, di Mosult. Al par. 44 del 2° libro del De cerimoniis aulae
byzantinae del detto Costantino si trova appunto riassunta la consistenza dell’armata di mare
capitanata dall’ammiraglio Imerio con cui il padre Leone aveva fatto quello sfortunato tentativo; si
trattava dunque di 102 dromoni, ognuno con ciurma di 230 uomini tra rematori, marinai e cavalieri,
ossia ufficiali di comando di bordo e dell’esercito, più una guarnigione di 70 fanti-arcieri di marina,
inoltre di 75 pamfuli, cioè di grandi chelandi da cavalli e da carico, di cui 33 equipaggiati con 160
tra remiganti, marinai e cavalieri e le restanti 42 con 130. Il totale preciso degli uomini di mare era
dunque di 34.037 più circa 7.140 fanti di marina (gr. ναυμαχόι, επιβάται), ma bisognava poi
aggiungere a questi i fanti di terra, cioè 700 mercenari russi distribuiti sui dromoni imperiali, inoltre
5087 mardaiti occidentali, popolazione di lingua greca della regione anatolica di Attalia, bravi
costruttori di galee, i quali infatti ne avevano messo 15 a disposizione dell’armata, equipaggiate da
loro stessi e destinate soprattutto alla guardia delle vicine coste della stessa Attalia, da dove cioè i
saraceni avrebbero potuto più facilmente ricevere soccorsi a Creta. C’erano però ancora da
aggiungere undici vascelli soprannumerari e cioè 9 càrabi (gr.ϰαράβια), vascelli remieri onerari
russi, come già detto, che potevano essere anche grandi (ἐπὶ μεγίστου ϰαράβου), provvisti in
questo caso di mangani di cui però non si chiarisce né il tipo né l’impiego, e due monere vogate
da prigionierri di guerra. Ogni dromone disponeva di un sandalio, imbarcazione di servizio di cui
abbiamo già detto, e inoltre l’armata aveva 6 aliadìe, queste più lunghe dei sandalii perché da 8
rematori, le quali, usate anche dai pescatori, servivano nell’armata da porta-ordini e porta-ufficiali.
La parte che avrebbe poi dovuto formare l’esercito di terra era di circa un quarto delle forze
suddette e cioè di 12.502 uomini.
Anche nel 935 i bizantini si serviranno di galee in una spedizione di soccorso al re d’Italia Ugone di
Provenza impegnato in una guerra contro i longobardi dell’Italia meridionale suoi ribelli e cioè i
fratelli Landolfo e Atenolfo, signori di Capua e Benevento, e gli altrettanto fratelli Vaimario e
Vaiferio, signori di Salerno [i comandanti delle galee (οἰ ναύϰληροι τῶν γαλεῶν); la ciurma delle
galee, cioè quei mardaiti occidentali di cui abbiamo già detto (ὀ λαὸς τῶν γαλεῶν͵ ἢτοι οἰ
Μαρδαΐται. Costantino VII, De cerimoniis aulae byzantinae etc. LT. II, par. 44); la spedizione,
comandata dal prefetto dell’armata di mare (gr. ὀ δρουγγάριος τοῡ πλοῒμου) Epifanio,
comprendeva anche 11 chelandi (sicuramenre ippagogoi) e 7 càrabi, vascelli remieri russi di cui
abbiamo già detto, per un totale di circa 1.900 combattenti trasportati. Al par. 45 del lt. II del
predetto De cerimoniis si riassumono anche le forze della seconda spedizione sfortunata bizantina
contro Creta, quella del 949 guidata da Costantino Gongyles, ma a noi il testo, chissà quante volte
copiato e ricopiato, è giunto palesemente incompleto e confuso, per cui la consistenza totale di
quell’armata non vi è più chiaramente ricavabile; vi si trovano comunque ancora espressi dei
188

particolari molto interessanti, quale l’essere ogni dromone equipaggiato da 220 uomini e inoltre
accompagnato e servito da due usiai o chelandi usiaci carichi di cavalli e salmerie, l’essere i detti
usiai molti (centinaia) e montati perlopiù da 108 uomini ognuno e invece i chelandi-pamfuli pochi
(decine) ed equipaggiati perlopiù con 150 uomini ciascuno; inoltre anche stavolta partecipavano le
solite 15 galee di Attalia, qualche decina di càrabi russi, soldatesche mercenarie russe e armene,
tributarie slave e volontarie mardaite. Come di solito avveniva nelle grandi armate inviate ad assedi
importanti, anche in questa alcuni chelandi erano destinati ad essere schiodati e smontati perché
l’esercito potesse utilizzare il loro materiale ligneo per la costruzione di macchine e congegni
d’assedio. In questi casi ovviamente anche i materiali ferrosi ovviamente si recuperavano per
fonderli e farne dei nuovi; per tal motivo, nel caso di vascelli vecchi o del nemico da eliminare, era
in generale preferibile, piuttosto che affondarli, portarli a secco e incendiarli, in modo da poter poi
così recuperarne il ferro, oltretutto già fuso dal fuoco; e fu soprattutto per tal motivo che nel 1284 i
messinesi, bisognosi di ferro per difendersi dagli assedianti francesi, incendiarono navi e galere
che qualche tempo prima, cioè quando i messinesi non si era ancora a loro ribellati, gli stessi
transalpini avevano approntato e lasciato a Messina per una programmata spedizione in Grecia
(Bartolomeo di Neocastro, cit. Cap. XXXVIII).
Nelle storie del Teofane continuato si daranno poi in breve i numeri della terza spedizione di Creta,
quella fortunata del 961 voluta dall’allora imperatore Romano II, ma si tratta di numeri non realistici
bensì da panegirico, vista la loro indubitabile esagerazione:

… Le navi erano cioè duemila con fuoco liquido, (di cui) i dromoni mille, i carabi onerari, i quali
portavano cibarie e attrezzature belliche, trecentosette... [Νῆες γὰρ ὑπῆρϰον μετὰ ὑγροῢ πυρὸς
δισϰιλιμι͵ δρόμωνες ϰίλιοι͵ ϰαράβια ϰαματηρὰ σιτήσεις ἕϰοντα ϰαὶ ὅπλα πολεμιϰὰ τριαϰύσια έπτά
(LT. VI, p. 10)].

Premesso che per ‘fuoco liquido’ ((ὐγρόν πῦρ) s’intendeva quello che nei secoli successivi sarà
generalmente ricordato come ‘fuoco greco’ in quanto furono appunto i bizantini a usarlo per primi
intensivamente in guerra, diremo che naturalmente è impossibile che Bisanzio, come del resto
qualsiasi altro impero per potente che fosse, potesse disporre di mille dromoni; oltretutto, sulla
base dei numeri precedenti, ciò avrebbe voluto dire mettere insieme ben trecentomila uomini solo
per i dromoni; d’altra parte nella Chronographia dello stesso Teofane si legge non
infrequentemente di altre magnificazioni allegoriche di questo tipo. Niceforo Focas, il capitano
futuro imperatore che comandava quest’ultima spedizione, mandò in avanscoperta ‘alcune veloci
galee, perché tornassero poi a riferirgli sui movimenti e preparativi del nemico. Questa circostanza
fa capire quanto i dromoni, nonostante il loro nome, fossero delle galee indubbiamente più lenti;
189

inferiorità inevitabile, data la loro maggior elevazione e il loro maggior peso, inconvenienti dovuti ai
loro due livelli di voga:

… saggiamente inviò in avanscoperta veloci galee perché a prender lingua (del nemico)…
[Ἓμπροσθεν δἐ ὁ συνετὸς ταχυδρόμους γαλέας ᾀποστειλας ϰατασϰοπῆσαι γλῶσσαν προσέταξεν
(ib.)]

Prender lingua del nemico significava catturare qualche povero pescatore o marinaio del luogo per
chiedergli o estorcergli informazioni su quanto avesse visto o sapesse dell’armata nemica. Lo
stesso fecero poi i saraceni di Africa e Spagna, chiamati in aiuto da quelli di Creta, cioè inviarono
anch’essi veloci galee (εὐθυδρόμους γαλέας) alla scoperta del nemico bizantino (ib.); ma del resto i
saraceni usavano poco i più lenti e costosi dromoni. Si legge per la prima volta dei dromoni negli
scritti bizantini del sesto secolo e cioè in quelli del poeta Paolo Silenziario, come già detto, nello
Στρατηγιϰόν attribuito all’imperatore Maurizio (539-602) e nei llt. IX, XI, XVI e XVIII della
Cronografia di Giovanni Malalas (c. 491-578), nel secondo dei quali per esempio quest’ultimo
autore tratta delle campagne partiche dell’imperatore Traiano (113-116 d.C.) e, però certamente
attribuendo a quei tempi cose dei suoi, descrive il detto autocrate viaggiante appunto in dromone
nel fiume Tigri ed è veramente molto improprio che il traduttore del testo in latino più volte renda
molto impropriamente δρόμων con navigium o addirittura con celox. Come già più sopra
accennato, ai tempi del Malalas si usava il termine πλοῑα più per significare ‘scafo’ che ‘vascello’,
come avverrà invece più tardi, e infatti nei suoi scritti troviamo talvolta πλοῖα δρομώνων πολλῶν
(‘scafi per numerosi dromoni’. LT. IX) o anche τὰ πλοῖα τῶν δρομώνων (lt. XVI), intendendosi
quindi dire che si erano preparati scafi da attrezzarsi e ancor di più da equipaggiarsi alla maniera
di dromoni. Troviamo poi più volte nominati i dromoni nel Chronicon di Teofilatto Simocatta (sec.
VII).
Che i dromoni fossero in realtà vascelli poco veloci si evince anche dalla suddetta Tattica
dell’imperatore Leone VI (866-912) in cui si dispone di adoperare, oltre a dromoni grandi e piccoli,
per guardie e missioni vascelli remieri non armati da battaglia e a un solo ponte di banchi:

… Anche quelle che chiamano ‘monere’; e anche le galee (Καὶ ἒστι τά τε μονήρια λεγόμενα͵ ϰαὶ τὰς
γαλέας… Cap. XX, par. 74).

Questi nuovi vascelli detti galee, dapprima monoremi ma ora anche evidentemente biremi, erano,
come già abbiamo detto, avevano preso il posto delle suddette antiche e ormai disusate diere
romane che si erano chiamate liburne (gr. λίβυρνα, λιβυρνίδες), specie perché, essendo come e
più di quelle molto bassi sull’acqua, risultavano pertanto anche molto più leggeri, agili e
190

maneggevoli dei dromoni e non molto più tardi, cioè attorno alla metà del secolo successivo, cioè
del decimo, saranno già preferiti e di quelli più numerosi, finendo più tardi per soppiantarli
completamente.
Certo non ci è purtroppo rimasta, a quanto sinora sembra, alcuna immagine iconografica
significativa dei dromoni bizantini, ma perlomeno abbiamo i resti di un inventario di quanto fornito a
quelli che costituivano il nerbo dell’armata che nel 949 Bisanzio inviò contro l’emirato di Creta nel
secondo sfortunato tentativo di recuperare quell’isola e da tal documento si possono capire molte
cose, specie sulle forze che li equipaggiavano (Costantino VII, De cerimoniis aulae byzantinae,
II.45). Ecco dunque la dotazione d’armi di un singolo dromone in quell’occasione storica, armi che
ci limitiamo ora a inquadrare nella logica della loro funzione, ma per le quali potremo poi certo fare
qualche ulteriore considerazione confrontandole con quanto ne diceva nella sua predetta Tattica
l’Imperatore Leone VI un paio di secoli prima:

Corsaletti (ϰλιβάνια) 70
Lorichi leggeri (λωρίϰια ψιλὰ) 12
Lorichi comuni (λωρίϰια ϰοινὰ) 10
Elmetti (ϰασίδια o ϰασσίδια, ma anche ϰασσίδα ) 80
Celate (αὐτοπρόσωπα) 10
Coppie di manopole (χειρόψελλα o χειρόψελα-ζυγαὶ) 8
Spade (σπαθία) 100
Scudi di cuoio impuntiti (σϰουτάρια ῥαπτὰ) 70
Scudi lidici (σϰουτάρια Λυδιάτιϰα) 30
Tridenti astati (ϰοντάρια μετά τριβελλίων) 80
Aste falcate (λογχοδρέπανα) 20
Spuntoni (μεναύλια, corr. di βεναύλια) 100
Giavellotti (ῥιϰτάρια, corr. di ῥιπτάρια) 100
Archi bizantini con doppia corda 50 (τοξαρέας Ῥωμαίας σύν ϰόρδων διπλών)
Frecce (σαγίτας) 10mila
Un sandalio armato di arcobalista a mano e corde sericate (‘filate’) [ναύϰλας (ναυϰέλια)
μετἁ χειροτοξοβολίστρων ϰαὶ ϰόρδων μεταξοτῶν].
Moschette (cioè ‘verrettoni, quadrelle’) (μύας) 200
Triboli (τρίβολοι o τριβόλια; lt. anche murices) 10mila
Uncini con catenelle [αγρίφοι (αγρίφαι) μετὰ ἀλυσιδίων] 4
191

Giornee (ἐπιλώριϰα) 50
Berretti (ϰαμελαύϰια) 50

I clibani erano armature di scintillante ferro ben polito del genere dei corsaletti, cioè armature
che copriranno il corpo dei fanti più esposti alle offese del nemico dalle spalle alla metà della
coscia, armi difensive che saranno molto in uso a partire dal Rinascimento, cioè col diffondersi
dei battaglioni di picchieri; questa bizantina doveva, come leggiamo nella suddetta Tattica,
difendere il busto del soldato, se non da dietro, perlomeno completamente davanti. Nel libro
primo del suo Dei magistrati romani Giovanni Lido (490-557), autore e funzionario bizantino
coevo dell’imperatore Giustiniano I, così definiva i soldati armati di clibani:

Clibanari (o anche) olosiderari: infatti i romaici chiamano ‘clibani’ le armature di ferro (usate) al
postodi quelle di giunco. [Κλιβανάριοι͵ ὀλοσίδηροι: ϰηλίβανα (da χαλύβινα, infine ϰλίβανα) γὰρ
οἰ Ῥωμαῑοι τὰ σιδηρᾱ ϰαλύμματα ϰαλοῡσιν͵ ἀντὶ τοῡ ϰηλάμινα (τῶν ϰαλάμινων)].

I clibani si chiamavano così perché evidentemente in origine specialità dei Calibi, popolo
dell’antichità che si trovava ad est del Mar Nero e che era famoso per la sua abilità nella
lavorazione del ferro e dell’acciaio; ma, per tornare al caso suddetto, è da notarsi che questi
clibani erano 70, cioè dello stesso numero dei fanti-arcieri di marina assegnati a ogni dromone,
ed erano proprio ad essi destinati in quanto soldati che, sia perché poco potevano muoversi
nelle ristrettezze di bordo sia perché destinati ad esser primi negli abbordaggi, e lo stesso si
può dire dei 70 scudi di cuoio impuntiti, da usarsi evidentemente, più che in aggiunta, in
alternativa ai clibani nei casi di un combattimento meno impegnativo. Gli elmetti sono invece 80,
cioè 10 in più sia perché naturalmente più facili da perdersi in mare sia perché qualche ufficiale
avrebbe potuto scegliere di servirsene, e si trattava di copricapi di ferro che difendevano anche
il viso; nella sua Tattica Leone VI, padre di Costantino, raccomandava che questi elmetti
avessero piccola la τουφία (np. tuppo; fr. toupet), ossia la cresta. Le 10 celate, di ferro
anch’esse, difendevano solo la calotta cranica e il retro del collo; sia queste ultime sia i 10
lorichi comuni, ossia le toraciere di cuoio cotto oppure di giunchi, sia le 8 manopole dovevano
essere a disposizione degli ufficiali di bordo; le ultime, a quanto leggiamo nella predetta Tattica;
potevano esser sostituite dalle χειρομάνιϰα, ossia da intere maniche di maglia di ferro, specie
dagli ufficiali, i quali anche potevano scegliere d’indossare gambiere di ferro (gr. ποδόψελλα; gr.
περιϰνεμίδες), ossia come generalmente facevano i soldati a cavallo, le cui gambe erano nelle
mischie tanto esposte ai colpi dei fanti nemici, e ciò perché nel combattimento navale gli
ufficiali, bersaglio naturalmente preferito degli arcieri e dei balestrieri nemici, erano
192

particolarmente vulnerabili. I lorichi leggeri, cioè le toraciere di tela di lino ben impuntita per
trattenere l’imbottitura di bambagia pressata, erano 12 in quanto molto probabilmente
destinante a essere, durante il combattimento, indossate da quella parte d’equipaggio addetta
al controllo della ciurma di remiganti, quindi in primis dal còmito. Sempre secondo Leone VI, le
spade dovevano esser portate dai soldati a bandoliera mentre alla cinta dovevano portare un
pugnale (παραμήριον). I 50 archi bizantini con relative frecce, erano usati dai fanti-arcieri di
marina prima che si arrivasse all’abbordaggio ed erano solo 50 perché ufficiali e sotto-ufficiali
non li usavano; infatti anche le giornee (‘sopravvesti’) di munizione e i ‘berretti da quartiere’
erano 50. Ancora Leone VI voleva che gli archi fossero portati in foderi ampi, onde poterne
essere estratti il più rapidamente possibile, che l’arciere portasse nel πουγγίος (‘zaino’) corde di
ricambio in abbondanza, che la sua grande faretra fosse provvista di un coperchio protettivo e
contenesse almeno trenta o anche quaranta frecce, infine che portasse nella cintola limette per
appuntire le cuspidi delle frecce e protezioni di cuoio per la mano sinistra; ma della fanteria e
cavalleria bizantina diremo di più in altra nostra opera. Per quanto riguarda poi i 20 sandalii
armati ognuno di un’arcobalista a mano con relative moschette (‘frecce quadrellate’), poiché nel
caso in questione si parlava della già ricordata armata di 20 dromoni e ogni dromone disponeva
di un sandalio o scialuppa di bordo, si deve intendere che anche le relative manubalestre, le
quali erano non di legno ma di ferro, quindi sicuramente di tipo da posta, cioè di tipo più grande
e pesante di quello da fante. I 4 uncini catenati sono strumenti da prolungamento, cioè da usare
dopo aver affiancato il nemico per tenerne il bordo dello scafo avvinto al proprio in modo da
evitarne un discostamento che avrebbe reso così vano l’abbordaggio, per il quale anche
servivano ovviamente le varie armi astate; ben 10mila i triboli da gettare sulla coperta della
nave nemica, specie di quelle degli scalzi saraceni, ma il numero non sorprenda visto che poi,
sempre per l’armamento dei predetti 20 dromoni, se ne calcolano ben 500mila (τριβόλια
χιλιάδες φʹ). Un’ultima osservazione da fare è che tra queste armi mancano le ϰοντάρια non
tridentate, cioè i normali spuntoni da pedone, mentre - a meno che non si tratti in effetti delle
stesse suddette tridentate - sembrano trovarsene 15 di rame incluse nella soprannumeraria
fornitura d’armi offensive fatta al capitano generale (δρουγγάριος, στόλαρχος, στολάρχης,
ναύαρχος) di quest’armata dal provveditore dell’armamento (ϰατεπάνος τοῡ ἂρματος; lt.
duumvir navalis, ma ai tempi della Roma repubblicana); quest’ultimo, il catepano (nome poi
corrotto in Europa in ‘capitano’) si diceva τοῡ ἂρματος, cioè del ‘carro’, perché nel Medioevo tutti
le forniture e i ricambi d’armamento (frecce, quadrelle, corde di ricambio per archi e balestre,
scudi, materiali e attrezzi per le riparazioni delle armature, delle corazze e delle balestre ecc.) si
portavano in un grande carro, detto in Italia carro de l’artelarie, che seguiva l’esercito in marcia
193

(vedi per esempio in Angelo Angelucci, Documenti inediti etc. Nota 114 a pag. 57. Torino,
1969). Dunque la fornitura complessiva di armi leggere comprendeva spade 3mila, scudi 3mila,
spiedi 3mila, frecce 240mila, moschette 4mila; forse c’era anche altro, ma la trascrizione
pervenutaci si chiude qui.

Allo stesso predetto par. II.45, tra i materiali da fornire ancora per la suddetta armata di 20 dromoni
notiamo una riserva di 200 materassi in soprappiù (ϰέντουϰλα ϰατὰ περίσσιαν σʹ) e 100 coltroncini
in soprappiù (ἀρμενόπουλα ϰατὰ περίσσειαν ρʹ) c’è quindi da domandarsi a che cosa servissero,
cioè se per il sonno dei soldati o per ripararsi dai colpi nemici. La seconda ipotesi è la meno
probabile, visto che a quel tempo le uniche armi dal tiro penetrativo diretto, cioè non parabolico,
erano le ben poche baliste in uso, di posta o da fante che fossero, troppo poche da giustificare
l’approntamento di difese mobili così abbondanti, né, d’altra parte, considerando invece la prima
ipotesi, un’armata che partisse per una lontana impresa di guerra poteva tener preventivamente
conto anche dell’eventuale necessità e possibilità di un successivo afflusso di rinforzi d’uomini;
dunque il motivo da prendere in più giusta considerazione era che, non esistendo allora le
artiglierie, il modo più usato che nella guerra nautica ci fosse per aver ragione di un vascello
nemico - volendosi certo evitare quello estremo di vincerlo all’abbordaggio - era cercare di
incendiarlo e, di conseguenza, i materassi che a bordo rischiavano di finire consumati dal fuoco
erano sempre molti. Ci sono poi 5 rotoli di grossa corda sericata (’filata’) di sparto (ϰόρδας
μεταξωτὰς παχέας σπαρτίνας εʹ), evidentemente per i grossi congegni d’assedio, e 5 piccoli per le
arcobalestre da fante (εἰς τὰς μιϰρὰς τοξοβολίστρας σπαρτίνας εʹ). Poi, un pò più avanti nel trattato
di Costantino VII, troveremo questi tipi di cordami tra i materiali soprannumerari forniti alla stessa
suddetta armata allestita nel 949.
Abbiamo tralasciato di riportare la fornitura di materiale e attrezzi attinenti più alla navigazione e al
lavoro di marangoni e artieri che alle necessità militari propriamente dette, specie quelli a peso
come la pece, la pece liquida, la canapa o l’olio di cedro, sia perché esorbitante dal nostro tema, il
quale, come si sa, attiene soprattutto al primo secolo dell’età moderna, sia anche perché non
sempre di agevole interpretazione; non vogliamo però tralasciare le 6 ancore (σιδηροβόλια) e i 6
arganelli per sollevarle (σιδηροβόλιστιϰἀ) per ogni dromone più le 50 ancore, le 60 funi per dette
(σχοινία σιδηρόβολα ξʹ) e i 50 arganelli di riserva che i chelandi dell’armata portavano; inoltre le
sottili lamine di piombo che, inchiodate sulla parte immersa delle fiancate del vascello, servivano a
dar a quelle una certa protezione dalla corrosione prodotta dalla teredine marina; di queste ultime
ogni dromone e ogni chelandio ne ricevevano cinque dal peso di libbre 30 ciascuna, il che lascia
supporre che ne dovevano essere usate solo due per lato, che dovevano quindi necessariamente
194

essere ampie e lunghe, ma rivestenti la sola parte alta e centrale dell’ ‘opera viva’, cioè ruote di
poppa e prua escluse, e che la quinta probabilmente si teneva di riserva.
Abbiamo sopra accennato ai duumviri navali della Roma repubblicana e riteniamo di dover
precisare che, a quanto narra Tito Livio, questi due provveditori furono istituiti nell’anno 443 a.C. su
proposta del tribuno della plebe Marco Decio, in quanto c’era allora da riallestire e rifornire la flotta
della repubblica (T. Livio, Ab urbe condita libri. L. IX, par. XXX). Questo contraddice platealmente
tutta quella storiografia che vuol vedere i romani inesperti di guerra marittima prima della Prima
Guerra Punica; d’altra parte sostenere che essi, nonostante l’inesperienza, cominciarono subito a
battere sul mare gli esperti cartaginesi è palesemente contradditorio e improponibile ed è quindi
confermato che gli storici, generalmente digiuni di consecutio militaris, ci narrano purtroppo solo in
parte correttamente il passato; ma torniamo ora alla marineria di Bisanzio.
Leone Diacono, storico bizantino nato attorno all’anno 950 e da non confondersi con il suddetto
omonimo imperatore, ricordando nel LT. I - par III - delle sue Storie, lo sfortunato tentativo
bizantino di riconquistare Creta ai saraceni fatto nel 949, tra l’altro così scriveva:

… e preparate triere ignifore in gran quantità, le invio contro Creta (… ϰαὶ τριήρεις ἐξαρτύσας
πυρφόρους μάλα συχνὰς͵ ϰατὰ τῆς Κρήτης ἒστελλεν…)

La riconquista riuscirà invece più tardi, nel 961:

… Niceforo (qui ‘Niceforo il Vecchio’), navigando velocemente e conducendo un gran numero di


triere ignifore - le quali i romei (‘bizantini’) chiamano ‘dromoni’, mosse verso Creta {ὸ Νίϰηφόρος
[...] ταχυπλοήσας, πυρφόρους τε τριήρεις πλείστας επαγόμενος (δρόμονας ταύτας Ῥωμαῑοι
ϰαλοῠσι), τή Κρήτη προσώρμισεν. Ib.}

… e lasciate le ignifore triere a guardia della medesima (Creta)…(ϰαὶ πυρφόρους τριήρεις ἐς


φυλαϰὴν ταύτης ϰαταλιπὼν… Ib. LT. II. 8.)

Insistamo sulla circostanza che le triere bizantine sono dette qui e altrove ignifore (πυρφόρους)
essendo, come abbiamo detto che spiegava l’imperatore Leone VI, armate a prua di sifoni, più
tardi detti trombe o soffioni di galea, che emettevano fuoco liquido, come allora si diceva, per
incendiare i vascelli del nemico, in quanto ciò riteniamo avvalori la tesi che sosteniamo nella nostra
opera sulle origini delle artiglierie e cioè che è praticamente inammissibile che ai bizantini, i quali
per diversi secoli mantennero un solitario primato nell’uso di detto fuoco liquido e di detti sifoni, non
sia da attribuirsi con certezza anche quello dell’invenzione della polvere propulsiva o da sparo che
dir si voglia; invenzione in seguito magari meglio valorizzata e sviluppata da altri popoli, come
spesso accade alle invenzioni. In un caso Leone Diacono, a titolo di ‘licenza poetica’, chiamerà
queste triremi sifonate anche ‘navi ardenti’ (τῶν ἐμπύρων νεῶν. Ib. LT. VII. 7).
195

Dai suddetti brani si evince poi che al tempo dell’autore ormai le armate dei bizantini erano da
qualche tempo costituite non più di dromoni, come invece ancora evidentemente erano state ai
tempi del predetto omonimo imperatore, ma di galee; il che ci dice che la detta evoluzione avvenne
appunto nella prima metà del decimo secolo. Nei primi secoli del secondo millennio troveremo
infatti chiamare dromoni i soli passa-cavalli e ciò anche nel Tirreno, forse perché, essendo questi
più alti delle galee leggiere, ricordavano appunto quei dromoni usati nell’Alto Medio Evo talvolta
anche come passa-cavalli in ambedue i mari; ecco per esempio alcuni dei preparativi fatti nel 1081
a Brindisi dal capitano normanno Roberto il Guiscardo per andare ad assalire i bizantini a Corfù e
poi a Durazzo:

… approntando dromoni e diere e triere e raccogliendo dermoni (‘dromoni’) e altre abbondanti navi
da carico dalle zone costiere (δρόμωνάς τε ϰαὶ διήρεις ἐτοιμάζων ϰαὶ τριήρεις, ϰαὶ δέρμωνας ϰαὶ
σέρμωηας φορταγωγοὺς ἐτέρας παμπληθεῖς ναῦς ἐϰ τῶν παραλίων εὐτρεπίζων χχωρῶν. Anna
Comnena, Alexiadis. LT. III, 9.)

Qui dromoni è, come si vede, detto due volte e cioè sia nella sua dizione propria δρόμωνάς per
indicare i passa-cavalli e sia nella sua più tarda dizione corrotta δέρμωνας per indicare vascelli da
carico generici; è chiaro che in tutti e due i casi doveva certamente trattarsi di vascelli in cui non
era più usato il livello di voga inferiore perché sarebbe risultato incompatibile con le necessità di
carico.

… Avendo caricate diligentemente sulle navi tutte le cose necessarie a un assedio e avendo fatto
entrare nei dromoni cavalli e cavalieri armati… (Καὶ πάντα τὰ πρὸς τειχομαχίαν ἐπιτήδεια ἐν ταῑς
ναυσὶν εἰσαγαγὼν σπουδαίως, εἲς τε τοὺς δρόμωνας ἲππους τε ϰαὶ ἐνόπλους ἰππέας εἰσελάσας. Ib.
LT. III, 12).
… sciolti gli ormeggi, allestiti i dromoni, le triere e le monere a mo’ di guerra con riguardo alle cose
nautiche, iniziò il viaggio in buon ordine (λύσας τὰ πρυμνήσια, τούς τε δρόμωνας ϰαὶ τριήρεις νῆας
ϰαὶ μονήρεις ϰατὰ τὴν τῶν ναυτιϰῶν ἐμπειρίαν εἰς πολέμου σχῆμα διατυπώσας, σὺν εὐταξία τοῦ
πλοὺς ἀπεπειρᾶτο. Ib.)

Nella seconda citazione, oltre all’uso di chiamare dromoni i passa-cavalli perché si continuava a
farne gli scafi usando il garbo di quelli, c’è da notare la mancanza di diere, ma si tratta di una
semplice omissione perché, come già visto in altra precedente, anche Roberto ne aveva, come del
resto ne aveva il suo nemico l’imperatore bizantino Alessio I Comneno, padre della stessa
narratrice Anna Comnena:

Egli, allestite diere, triere ed ogni genere di navi corsare, le inviò contro Roberto (Αὐτὸς δὲ διήρεις
ϰαὶ τριήρεις ϰαὶ παντοῖον εὶδος λῃστριϰῶν νηῶν ϰατασϰενάσας ϰατὰ τοῦ Ῥομπέρτου ἐξέπεμψεν. Ib.
LT. VI, 5).
196

Anche i veneziani, alleati di Alessio, persa una prima battaglia navale nelle acque di Durazzo, ne
inviarono contro Roberto una maggiore e stavolta lo sconfissero:

I veneziani, allestiti dromoni, triere e altri più piccoli e veloci vascelli... (δρόμωνάς τε ϰαὶ τριήρεις
εὑτρεπίσαντες οὶ Βενέτιϰοι ϰαὶ ἅλλ' ἄττα τῶν μιϰρῶν ϰαὶ ταχυδρόμων νηῶν... Ib.)

Pure il rinnegato Zarca, ammiraglio dei turchi, ne avrebbe allestito a Smirne verso il 1090:

E di nuovo allestiva diligentemente navi piratiche (cioè armate da guerra di corso), dromoni, diere,
triere e altre simili navi più leggere (Καὶ αὗθις λῃστριϰὰς ἐπιμελῶς ϰατεσϰεύαζε ναῦς, δρόμωνάς τε
ϰαὶ διήρεις ϰαὶ τριήρεις ϰαὶ ἂλλʹ ἂττα τῶν ϰουφοτέρων νηῶν. Ib. LT. IX, 3).

Lo stesso i pisani, ai quali i crociati francesi, dopo aver preso Nicea nel 1097, chiesero uno stabile
aiuto marittimo logistico per poter così ricevere in Medio Oriente i consistenti rinforzi di cui avevano
bisogno per poter continuare quella prima crociata; a dire della Comnena, Pisa preparò pertanto
una grande armata di ben novecento vascelli circa, tra diere, triere e dromoni e altri remieri più
piccoli e veloci (διήρεις τε ϰαὶ τριήρεις ϰαὶ δρόμωνας ϰαὶ ἔτερα τῶν ταχυδρόμων πλοίων. Ib. XI, 10),
ma anche qui per questi dromoni l’autrice bizantina intendeva però gli uscieri, se non altro perché,
come abbiamo già detto, i veri originali dromoni erano stati un tipo di vascello caratterizzante
solamente le armate di mare bizantine - o perlomeno solo quelle del Levante del Mediterraneo e
non quelle del Ponente. Premesso che naturalmente il predetto numero di novecento è
un’esagerazione tendente a ingigantire le forze nemiche o potenzialmente nemiche che suo padre
Alessio si era trovato via via a dover affrontare durante il suo impero e che la Comnena avrebbe,
pensiamo, forse fatto meglio a limitare invece a novanta, è qui notevole leggere del timore che la
potenza marittima pisana poteva suscitare anche in un impero grande e possente com’era allora
quello romano d’Oriente.
Oltre a questo ormai invalso uso di usare i dromoni per passa-cavalli (o perlomeno di chiamare
questi così) in quanto, adottate ormai le leggere e veloci galee, quelli erano divenuti obsoleti, c’è
qui da notare il mettere in risalto la velocità di vascelli remieri più piccoli e non dei medesimi
dromoni, a riprova di quanto già detto e cioè che il nome dromoni, pur derivando da δρόμος
(‘corso, corsa’), non significava una particolare velocità.
L’imperatore Alessio dunque, temendo dunque l’uscita in mare di tale grande armata, la quale
avrebbe forse potuto esser tentata di rivolgersi contro la ricca Costantinopoli, fece a sua volta
preparare l’armata bizantina; ed ecco quanto di strano e inusitato fece anche preparare, nella
traduzione, certo più letteraria che letterale, fattane nell’Ottocento da Giuseppe Rossi:
197

… Imperciocchè nota essendogli la grande sperienza di que’ da Pisa nelle marittime guerre e con
ragione paventando non la sua flotta soggiacesse, guerreggiandoli, a gravi sinistri disponeva di
formare mediante rame e ferro teste leonine o di altri feroci animali con bocca spalancata, e porre
ognuna di esse ad elevazione assai maggiore delle prore, oltre di che, a renderle vieppiù terribili,
comandava si cuoprissero di oro o colori e che dalle fauci lanciassero fiamme, introdottevi per
arcani meati e torti canali, contro al nemico, non per offenderlo, ma per incutergli colla sorpresa più
grande spavento alla vista dell’improvviso e nuovo martoro (‘tormento’) uscente dalle terribilissime
gole di que’mostri cosi tanto orrendi allo sguardo (L’Alessiade di Anna Comnena etc. LT. 11, XLIII.
Milano, 1849).

In realtà la Comnena fu ingenua qui a pensare che tali opere fossero state istallate solo al fine di
incutere spavento; si trattava in effetti di una versione sì più artistica e impressionante ma anche
più efficace di quell’arma lancia-fiamme prodiera chiamata sifone e più tardi tromba di galera, già
più volte da noi menzionata, la quale era comunemente usata prima dell’invenzione della polvere
da sparo e di cui più avanti diremo; anzi, una nuova miscela di fuoco usata dai bizantini in questo
conflitto marittimo con i pisani si dimostrò offensivamente più efficace di quelle che erano state in
precedenza usate e narra infatti ancora la Comnena che, scontratisi poi effettivamente nello Ionio i
vascelli bizantini con quelli pisani, il conte imperiale Eleemone, sebbene i nemici li avessero più
grossi e potenti dei loro, riuscì con il suo solo vascello a incendiarne ben quattro degli avversari,
essendo questo nuovo tipo di fuoco, sconosciuto ai pisani, composto in maniera che non si
lanciava più, come i tipi tradizionali sino ad allora usati, in alto sul vascello nemico perché poi vi
ricadesse sopra, ma si poteva ‘sparare’ in orizzontale contro di esso (ἐϰδειματῶθέντες οἰ βάρβαροι
τὸ μὲν διὰ τὸ πεμπόμενον πῦρ - οὐδὲ γὰρ ἐθάδες ἠσαν τοιούτων σϰευῶν ἢ πυρὸς ἂνω μὲν φύσει
τὴν φορὰν ἒχοντος, πεμπομένου δ' ἐφʹ ἂ βούλεται ὀ πέμπων ϰατά τε τὸ πρανὲς πολλάϰις ϰαὶ ἐφ'
ἐϰάτερα. Ib. LT. 11, XLIV); dunque i pisani, sia per questo nuovo artificio dei bizantini sia
soprattutto a causa di una tempesta che cominciava a imperversare, furono costretti a ritirarsi. E’
da pensarsi che questo nuovo tipo di ‘fuoco liquido’, avendo un effetto meno volatile di quello dei
tipi precedenti, doveva probabilmente contenere una maggior quantità di sostanze bituminose
grasse e corpose; dunque in questi conflitti collegati alla prima crociata (1095-1099), se è vero che
i bizantini conobbero per la prima volta - e a loro danno - l’uso della manuballista, ossia della
piccola balestra da fante usata contro di loro dai normanni, come scrive la cronachista coeva Anna
Comnena e come narriamo in altro di questi nostri lavori, essi pure ebbero, in fatto di armamenti,
delle novità da far provare ai loro nemici. Per completezza diremo che quest’arma fu detta a
Bisanzio prima τζαγγρατόξον; poi solo τζάγγρας ο τζάγκρας e χειροτοξοβολίστρα, infine il nome fu
definitivamente latinizzato in μπαλαὶστρα ο μπαλέστρα. Per quanto riguarda questo argomento
dell’armamento dei dromoni, aggiungeremo infine che Leone VI raccomandava anche una
dotazione di mangani, nel caso si andasse appunto ad assediare una città marittima o anche si
198

prevedessero combattimenti statici contro armate nemiche; in quel caso si legavano due dromoni
assieme e li si usava affiancati a mo’, si potrebbe dire, di bilancina o di catamarano, e così la larga
base ruotante di un mangano, troppo larga e ingombrante perché potesse poggiare su uno solo di
quei sottili scafi, si montava appunto su ambedue gli scafi appaiati, come però forse meglio
spieghiamo nel nostro libro dedicato all’artiglieria. Marin Sanudo il Vecchio spiegava invece la
possibilità di applicare pedane di base sui due lati di un solo vascello privo di ponte e di far
scendere così la cassa del contrappeso del mangano nel mezzo fin dentro lo scafo, evitando in
questo modo un’altezza eccessiva della pertica di lancio, altezza che avrebbe potuto minacciare la
stabilità del vascello (Cit. Pp. 79-80).
L’uso di appaiare scafi onde formare una stabile e ampia base per l’istallazione di macchine
d’assedio costiero o fluviale era molto antico e infatti gli storici romani ci raccontano della grande
sambuca costruita nel 212 a.C. dai romani per assediare Siracusa, macchina che poggiava su ben
otto vascelli legati insieme; detto in breve, la sambuca era un sistema con cui, tirando molte funi da
varie angolazioni, si elevava una pedana carica di soldati fino alla sommità delle difese nemiche e
il suo nome era mutuato appunto dall’omonimo strumento musicale, caratterizzato da molteplici
corde sonore. Questa macchina d’assedio non ebbe però molta fortuna perché risultò alquanto
vulnerabile e infatti fu prontamente fracassata e resa inutilizzabile dagli assediati siracusani
(Plutarco, Vita di Marcello). Più successo avrà nel 1550 la sambuca costruita dagli spagnoli
all’assedio di Africa (oggi Mahdiya), allora una temibile città fortificata turco-saracena sulla costa
tunisina; in questo caso la macchina, ultimo esempio storico dell’utilizzo di una sambuca in guerra,
poggiava su quattro vascelli allineati e cioè due navi all’interno e due galere all’esterno e,
nonostante vari tentativi che gli assediati fecero per incendiarla, contribuì moltissimo alla caduta
della piazzaforte (Tomaso Fazelli, De rebus siculis etc. T. III, p. 255. Catania, 1753).
Ma, tornando ora ai dromoni, circa un secolo dopo vediamo ancora chiamare così i passa-cavalli:

Anno Domini 1175. Rex Guilielmus Siciliae misit exercitum magnum in Egyptum super
Alexandriam, in principio Iulii; qui exercitus fuit 150 galearum et 50 dermonum (‘dromonum’) pro
equis portandis… (Cronaca pisana del Marangone. Cit. P. 71.)

E ancora, a proposito dei preparativi fatti in Europa per la Quarta Crociata (1202-1204):

… si può dire che i vascelli di quasi tutta l’armata furono costruiti a Venezia per tre anni continui,
circa centodieci dromoni, formati a regola d’arte, per caricarvi i cavalli e inoltre sessanta tra navi e
triremi (πλοῑα δ' ἐτύχθη παντὸς ὡς εἰπεῑν στόλου εἰς Βενετίαν ἐν τρισὶν ὄλοις χρόνοις, δρόμωνες
ἴππων εἰσδοχεῑς πρὸς τοῑς δέϰα ἑϰατόν, εὗ πως τῇ τέχνῃ πεπηγμένοι, ἑξήϰοντα νῆές τε τριήρεις
πάλιν. Efremio, Imperatorum et patriarcharum recensus. De Alexio Angelo, all’anno 1202.)
199

Tra gli importantissimi documenti annotati in margine ai fogli del al Codex Ambrosianus e trascritti
dal Muratori troviamo appunto il contratto originale stipulato nell’aprile del 1201 tra il doge Enrico
Dandulo e i principi franco-borgognoni organizzatori della suddetta Crociata; ecco i servizi che la
Serenissima si impegnava a fornire all’esercito crociato:
Per quanto riguarda invece i pamfii tirrenici, li troveremo usati dai genovesi nel loro antico ruolo di
mercantili ancora alla fine del Trecento:

… e vi trovò anco un pamfulo pur de’ genovesi con cento sacchi di cottone ed il resto de’ pisani…
(Daniello Chinazzo, Cronaca della guerra di Chioza etc. In LT.A. Muratori, Rerum italicarum
scriptores etc. C. 791, t. XV. Milano, 1727).

Con la caduta di Costantinopoli anche i dromoni passa-cavalli sparirono e lasceranno poi il campo
prima alle teride come abbiamo già visto, e poi a quelle galee grosse modificate provviste di un
grande portello d’ingresso posteriore e chiamate in latino e in italiano tirrenico uscieri (più tardi detti
impropriamente fusti) e in veneziano invece, come abbiamo già accennato, marani e più tardi arsili,
mentre sui fiumi i veneti usavano allo scopo le ganzare o ganzaroli; ecco pertanto una tabella
riassuntiva di quanto appena detto dei vascelli passa-cavalli:

Alto Medioevo

Tirreno: uscieri
Adriatico: chelandi

Basso Medioevo

Tirreno: teride - uscieri


Adriatico: ex-dromoni - chelandi (gr. οὺσίαι o οὺσιαχὰ χελάνδια) – marani – ganzare.

Cinquecento

Tirreno: fusti
Adriatico: arsili

I passa-cavalli turchi invece mantennero sempre il loro nome di parandarie. Poiché anche
nell’antichità i vascelli sottili da remo dovevano necessariamente esser costruiti a misura di
vogatore, essi non potevano, quanto a dimensioni, essere sostanzialmente diversi dalle moderne
galere, fuste e bergantini che sono l’oggetto di questa nostra trattazione; ciò anche perché
sappiamo che ogni triera romana disponeva di un’intera centuria di fanteria, cioè all’incirca lo
stesso numero di fanti che vedremo affollare in combattimento la moderna galera. Nel lt. II delle
200

Storie di Niketas Koniatos vediamo che circa un secolo e mezzo dopo la predetta riconquista di
Creta, cioè nel 1144, preparando la campagna navale e terrestre di Antiochia, l’imperatore
bizantino Manuele I Comneno aveva approntato un’armata marittima così diversificata:

… furono radunati i pentecòntori, convocati i miuoparoni, impeciati gli ippagogoi, caricate di


commestibili le onerarie, apparecchiati i brigantini (ἀθροίζονται πεντηϰόντοροι, ἀγείρονται
μυοπάρωνες, αἱ ὶππαγωγοὶ ἁσφαλτοῡνται, αἱ φορταγωγοὶ πληροῡνται τῶν ἐδωδίμων, οἱ
ἐπαϰτροϰέλητες εὐτρεπίζονται.)

Dei pentecòntori abbiamo già detto, dei miuoparoni presto diremo; non si impeciavano, per
proteggerle dalle intemperie, solo le opere vive degli ippagogoi, come erroneamente si potrebbe
credere da questo brano, ma quelle di tutti i vascelli, mentre le parti immerse si spalmavano di
sego, come sappiamo; ecco e.g. un brano tratto dalla Historia sicula di Bartolomeodio Neocastro
dove si narra delle prime guerre angioino-aragonesi (1282-1302) per il predominio sull’Italia
meridionale:

… In seguito, poiché i genovesi restavano inerti in quanto, per il fatto che, preparate le suddette
galee, difettavano di pece per impeciarle, riunito il consiglio, inviarono ambasciatore al re Alfonso il
nobile Francesco da Camilla, loro concittadino, sotto colore di concludere un accordo con lui
riguardo ai danni apportati qui e là dai loro corsari. Avendo quindi raggiunto un accordo su quelle
cose che quello aveva chiesto, poiché la catalogna abbondava di pece, il detto re, pregatone del
predetto ambasciatore, concesse loro graziosamente di estrarne 400 sporte da trasportare a
Genova senza (pretendere) alcun diritto d’esportazione, (pur) non ignorando che i genovesi ne
erano privi e che era necessaria alle galee che essi preparavano a danno della Sicilia e dei suoi
(Cap. CXIV).

In epoca imperiale alle tradizionali pesanti triere gli antichi romani avevano incominciato ad
affiancare le leggere liburne, vascelli diere (gr. ηῆες δίϰρόταῑ), cioè biremi, tanto più agili, veloci e
manovrieri, inoltre molto più economici soprattutto in gestione e quindi più alla portata, per
esempio, di quelle che più tardi saranno le piccole repubbliche marinare italiane, le quali
riserveranno di solito alle triere i soli ruoli di comando; vero è però che Bisanzio sarebbe stata
molto ricca e molto ricche sarebbero anche divenute prima Venezia e poi anche Adrianopoli e
infatti questi potentati continueranno a preferire in guerra l’uso dei dromoni il primo e delle galee
triremi gli altri. Ma quando avvenne questa introduzione delle leggere diere, le quali, guidate da
alcune triremi di comando, cioè da vascelli a tre ordini di remi come erano le antiche triere romane,
ma comunque anch’esse di queste molto più snelle e leggere, andavano appunto prima ad
affiancarsi e più tardi a sostituirsi a dette pesanti triere e agli altrettanto pesanti dromoni bizantini? I
romani, come sappiamo, fino all’inizio dell’impero avevano usato triere molto pesanti, in quanto si
trattava di vascelli di bordo non basso come quello che avranno poi le galee in quanto sopra i
201

remigi, ossia sopra le due teorie laterali di banchi di voga, avevano due camminamenti sui quali si
ponevano a combattere i soldati e questo sia perché, al tempo della repubblica, le loro battaglie
navali erano state molto statiche, in un certo senso alquanto simili a quelle terrestri, e quindi
necessitavano di vascelli molto saldi, robusti, affollati di combattenti e di conseguenza alti, larghi e
pesanti. Quando poi alla battaglia di Azio del 31 a:C. Augusto si rese conto del gran servizio che
gli rendevano le leggere e più agili liburne, basse di bordo e prive di sovrastrutture, dei suoi alleati
dalmatini, considerando inoltre che la secolare lotta che Roma conduceva alla pirateria, specie
appunto a quella illirica, si poteva condurre solo con vascelli remieri leggeri e sottili di quel tipo,
come appunto erano quelli usati dai pirati, volle che le liburne diere, ma in seguito anche le triere o
maggiori, entrassero a far stabile parte delle sue armate; fu dunque l’adozione delle liburne un
passo intermedio tra l’uso della triera classica e quello della galea medievale, dotata questa anche
di vele. Che queste liburne fossero nell’antichità romana delle biremi ce lo dicono molti autori
antichi, specie Appiano Alessandrino e il poeta Luciano, ambedue vissuti nel II sec. D. C., i quali a
tal proposito così si esprimevano:

… I liburni erano un altro popolo illirico che pirateggiava per il Mar Ionio e le sue isole con vascelli
veloci e leggeri, donde oggi i romani chiamano ‘liburnidi’ le biremi leggere e veloci (Έγένοντο
Λιβυρνοὶ γένος ἒτερον Ίλλυριῶν͵ οἲ τὸν Ίώνιον ϰέ τὰς νῆσυς ἑλῄστευον ναυσὶν ὠϰείαις τε ϰέ
ϰούφαις͵ ὂθεν ἒτι νῦν Ῥωμαῖοι τὰ ϰοῦφα ϰὲ ὀξέα δίϰροτα Λιβυρνίδας προσαγορεύουσιν. Appiano
Alessandrino, Illyricum.)

… Meditando io di navigare in Italia, mi fu allestita una di quelle veloci biremi tanto apprezzate dai
liburni, popolo che abita il seno ionico (Ἐπ᾽ Ἰταλίαν μοι πλεῖν διανοουμένῳ ταχυναυτοῦν σϰάφος
εὐτρέπιστο τούτων τῶν διϰρότων, οἷς μάλιστα χρῆσθαι Λιβυρνοὶ δοϰοῦσιν͵ ἔθνος Ἰονίῳ ϰόλπῳ
παρῳϰισμένον. Luciano di Samosata, Amores.)

I liburni erano quelli che poi più tardi, cioè nel Medioevo, saranno conosciuti come ‘pirati segnani’,
in quanto Segna era il principale abitato di quella loro regione alto-illirica detta appunto Liburnia. Le
squadre di mare regionali che guardavano l’Impero Romano ed erano dislocate a Ravenna, al
Miseno, sulle coste nord-africane, siriache e del Canale della Manica saranno quindi da allora
formate non più solo da classiche triere ma anche da liburne; c’era comunque generalmente per
ogni grande flotta una dozzina di vascelli maggiori, cioè una decina di tetreres e un paio di
penteres, adibiti evidentemente a vascelli di comando, e infine una hexeres per il praefectus
classis. Vediamo l’elenco di questi vascelli ricavatone dal Mommsen nel suo volume sui
ritrovamenti epigrafici dei tempi dell’impero romano che si fecero nel Regno di Napoli:

Classe misenense. Classe ravennate. Classe non indicata.


202

Liburne: Aesculapius
Aquila
Armata
Clementia
Fides
Iustitia
Minerva
Neptunus
Nereis
Virtus

Biremi: Fides

Triere: Aesculapius
Annona
Apollo
Aquila
Asclepius
Athen.
Aug.
Ceres
Concordia
Cupido
Danuvius
Diana

Diomedes
Euphrates
Fides
Fortuna
Hercules
Isis
Liber pater
Libertas
Lucifer
M…
Mars
Mercurius
Minerva
Neptunus
Nilus
Parthicus
Pax
Pietas
Pollux
Providentia
Quadriga
Rhenus
Salvia
Salus
Silvanus
203

Sol
Spes
Taurus
Tiberis
Triumphus
Venus
Vesta
Victoria
Virtus

Quadriremi: Annona
Dacicus
Fides
Fortuna
M…
Minerva
Olivus
Venus
Vesta

Quinqueremi: Torus
Victoria

Exera: Ops.

(tipo non espresso) Venus


Vesta
Victoria

Non avevano i romani i poco agili vascelli remieri di cui ci si servirà nel Medioevo, ossia quelli
monoponte chiamati pamffi o pamfuli nel Tirreno e quelli biponte detti dromoni in Levante; avevano
invece vascelli fluviali, naturalmente più corti di quelli marini perché altrimenti avrebbero avuto
difficoltà a dar di volta, cioè a virare per tornare indietro. Negli ultimi secoli dell’impero, le flotte che
percorrevano il Danubio, fiume che rappresentava il suo naturale confine orientale, erano formate
da qualche centinaio di lusoriae (corr. di collisoriae, cioè ‘da battaglia’, equivalenti alle triere
marittime), da parecchie decine di agrariae (cioè attuarie ‘da caccia’, ossia da corso, equivalenti
alle liburne marittime) e da alcune judiciariae, vale a dire ‘da servizio dei finium judices’, cioè dei
funzionari confinari che avevano il compito di decidere come e dove migliorare le fortificazioni
confinarie a seconda dei movimenti dei popoli nemici che cercavano di passare il fiume. Per
quanto riguarda il nome agrariae, esso entrerà a far parte anche del vocabolario bizantino, ma,
come vedremo, ora per vascelli marittimi, e Anna Comnena ci dice che ai suoi tempi si trattava di
204

imbarcazioni coperte (σσαράϰοντα ἀγράρια σϰεπαστά. In Alexiadis. LT. VII, 8); probabilmente
perché, destinate all’avanscoperta, erano più soggette ad essere bersagliate all’improvviso.
Una prima menzione di diere – quindi di liburne - usate in battaglia sarà fatta dallo storico bizantino
Zosimo, vissuto a cavallo tra quinto e sesto secolo, e cioè a proposito della battaglia
dell’Ellesponto del 324 d.C. In quel lungo e stretto passaggio si scontrarono 80 diere triacόntori (gr.
διήρεις τριαϰόντοροι; grb. τριηϰόντοροι), cioè biremi da quindici banchi per lato (quindi da 60
vogatori), che combattevano ora per Flavio Valerio Aurelio Costantino, più tardi Costantino I, ed
erano comandate dal figlio dell’imperatore Flavio Giulio Crispo, e di contro 200 vascelli di Valerio
Valeriano Licinio capitanati da Abanto, praefectus classis non meglio identificato, e tra i quali molti
erano triere pentecόntori (τριήρεις πεντηϰόντοροι), cioè triremi da 25 banchi per lato (quindi da 150
vogatori); e fu proprio la ristrettezza del luogo, l’inferiore numero e la maggior agilità de vascelli di
Costantino a fargli vincere la battaglia, essendovisi impacciati e impediti a vicenda i troppi e troppo
grossi vascelli di Licinio (Storie. LT. II, par. 23 e 24). La suddetta battaglia dell’Ellesponto fu certo
un caso particolare, ma è indubbio che i romani avevano sempre dovuto avere un bisogno tattico
di vascelli leggeri, perché, come già accennato, per inseguire le imbarcazioni piratiche tra le sirti
(‘secche’) e le formiche [‘scogli affioranti costieri’; gr. ἐρμαῖοι, ὒφαλοι (πέτραι), χοιράδες], le triere
classiche avrebbero ‘pescato’ pericolosamente alquanto di più e quindi ecco il grande uso che
facevano di leggere liburne, le quali ovviamente sarebbero invece state inadeguate in battaglie
frontali, in quanto assolutamente non vi avrebbero retto l’urto di triere avversarie, egiziane o
romane che fossero, di loro tanto più pesanti ed equipaggiate.
La seconda menzione delle diere che abbiamo potuto trovare è nella Chronographia dello storico
bizantino Teofane Isauro, laddove si narra dei preparativi di guerra fatti appunto dai bizantini negli
anni 706-709 e in ambedue i casi esse vengono incluse nell’armata di mare assieme ai dromoni
(δρόμωνάς τε χαὶ διήρεις; …δρόμωνάς τε χαὶ διήρεις); la terza è, ancora nella suddetta
Chronographia, a proposito dell’armata saracena che tre anni più tardi tenterà senza successo di
prendere Costantinopoli e nella quale, secondo Teofane, erano anche dromoni (πολεμιχὰς χατίνας
χαὶ δρόμωνας), sicuramente però appartenenti a mercenari cristiani, perché gli arabi non ne
costruivano. La quarta menzione sarà fatta, anche se qui implicitamente, dall’imperatore Leone VI
(866-912) nella sua Tattica.
Nell’antica marineria greca e poi anche in quella bizantina c’erano anche quelli che oggi diremmo
catamarani, cioè leggeri vascelli remieri biscafo, allora chiamati miuoparoni o paroni (gr.
μυοπάρωνες o πἂρῶνες; lt. myoparones); essi potevano essere da carico leggero o armati da
guerra, μόνωποι, ossia a un solo ordine di remi, quindi delle monere (lt. moneres, gr. μονήρεες o
μονήρεις ma anche ἐνήρεις, come leggiamo in Suida), molto usati questi nella guerra anti-piratica
205

(lt. ad piraticam eundo) ma anche e soprattutto in quella piratica, oppure potevano essere δίϰωποι,
cioè a due ordini di remi, pertanto delle diere; secondo un continuatore di Teofane questi
miuoparoni erano da molti per consuetudine chiamati σα(ϰ)τούραι, da cui evidentemente il nostro
zattere, anche se questo termine ha ora un significato del tutto diverso (ϰαὶ πλῆθος μυοπαρώνων
ϰαὶ πεντηϰοντόρων, ἂς σαϰτούρας ϰαι γαλέας ὀνομάζειν ειώθασι πάμπολλοι. In Historiae
byzantinae scriptores post Theophanem etc. - De vita et rebus gestis avi sui Βasilii Μacedonis.
Par. 299. Parigi, 1863). Di essi già si legge nell’antico De verborum significatione di Sesto
Pompeio Festo:

Myoparone: tipo di naviglio formato da due dissimili; infatti sia il mydio sia il parone sono ognuno a
modo suo (Myoparo: genus navigii ex duobus dissimilibus formatum; nam et mydion et paron per
se sunt. Cit. Parte I, p. 129.

Quindi i vascelli remieri si potevano dividere in tre classi, ϰουμβάρια i piccoli, σατοῡραι, i medi,
γαλέαι e δρόμωνες, i grandi. Gli ippagogoi (ἱππαγωγοί) erano invece i passa-cavalli, come già
sappiamo; i fortagogoi (φορταγωγοὶ oppure φορτηγὰ πλοῐα) erano le navi da carico e gli
epattrocheliti erano invece le fregate e fregatine. Come già detto, i dromoni caratterizzarono solo
l’Alto Medio Evo, mentre nel Basso non saranno più usati, essendo però allora ancora talvolta
chiamati così l suddetti ippagogoi, come leggiamo a proposito delle costruzioni navali veneziani del
triennio 1201-1203 per la Quarta Crociata [dromoni cioè ippagogoi (δρομώνων μὲν ἱππαγωγῶν.
Niketas Koniatos, Storie. Alessio Comneno, lt. III)], e più tardi prenderanno questo nome generico
gli equivalenti levantini delle galee grosse veneziane e delle galeazze ponentine, come già
accennato. Giorgio Franzes nel suo Chronicon (LT. III, cap. III) ci dice che la prima parte
dell’armata di mare ottomana che nel 1453 si presentò all’assedio di Costantinopoli si componeva
di circa trenta tra triere e dromoni più centotrenta tra monere, velieri da carico (νῆες) e naviglio
minore (πλοιάρια); ora, poiché il nerbo delle armate medievali era formato dai maggiori vascelli
remieri (triere/dromoni/galee/fuste) e dagli imprescindibili vascelli ippagogoi, come già sappiamo, e
in particolar modo dovevano esserlo quelle arabo-turche, dal momento che i loro eserciti erano in
massima parte composti di cavalleria leggera, vuol dire che qui per dromoni, essendo i classici
vascelli remieri di questo nome in disuso ormai da secoli, si intendevano appunto vascelli
ippagogoi. Più tardi arrivò la seconda e più corposa parte dell’armata e si trattava di più di 320
vascelli, di cui 18 triere, 48 diere e per il resto ‘navi lunghe’ (monere) e onerarie che trasportavano,
oltreb alle provviste, un grandissimo numero di arcieri protetti da giacchi di bambagia, come in quei
secoli si usava [τοξότων ἀνδρῶν (μ)παμπόλλων. Ib.] e tra le quali c’erano anche 25 dromoni
onerari (δρόμωνες φορτίοι, in seguito detti anche dal Franzes τριήρεις ἐμποριϰαί) carichi di
206

legname, calce e pietre, ossia di materiali d’assedio, ma che, ribadiamo, dromoni in realtà non
erano, non esistendo più quelli da lungo tempo e non essendo stati quei vascelli del passato tali da
poter esser caricati nella suddetta grave maniera (ib.). Si trattava dunque, come già accennato, di
vascelli bizantini equivalenti alle galee grosse veneziane e che erano utilizzati anche dai turchi col
nome, come già detto, di maone. Insomma alla fine i bizantini si videro assediati, oltre che da un
immenso esercito di terra di più di 258mila uomini, anche da una grandissima armata di mare di
circa 420 vascelli tra grandi e piccoli, mentre loro non avevano, per difendere una metropoli così
grande e con mura tanto estese, che 4.973 uomini locali, più gli stranieri alleati, specie italiani, che
assommavano a stento a duemila. L’imperatore dette il compito di calcolare il numero totale, in
uomini e armi, di tali scarse forze proprio al Franzes, il quale poi gli trasmise il riassunto di quei
miseri dati con la morte nel cuore, come egli stesso ricorda nel suo Chronicon (ib.) Infinita
vergogna quella dell’Europa che, trattenuta e impedita da un Papato nel corso della storia sempre
dimostrantesi esiziale, sia in Europa sia in nel Nuovo Mondo, il quale, dopo aver sponsorizzato per
secoli le inutili, sciocche e tanto sanguinose crociate, le quali solo servirono a perpetuare senza
fine l’odio dei mussulmani verso i cristiani, anche nutriva chiara ostilità contro la Bisanzio
ortodossa e quindi religiosamente autonoma da Roma, tanto da chiedere con insistenza alle grandi
potenze occidentali, ancora nel secolo scorso, un urgente intervento armato contro la Serbia
ortodossa che stava avvicinandosi con le sue forze armate sempre di più ai confini della religione
cattolica romana, l’Europa dunque non corse alla difesa di quell’importantissimo baluardo della
Cristianità; si poi aggiunga che Venezia aveva un po’ il dente avvelenato con quell’impero che
aveva sempre privilegiato e agevolato in quelle regioni il commercio genovese rispetto a quello
veneziano; solo alcune centinaia di valorosi volontari italiani, specie genovesi ma anche veneziani
e catalani, combatterono a fianco degli assediati romei (ἂριστοι ἂνδρες Ἰταλοί τε ϰαὶ Ῥωμαῖοι. Ib.),
ma non riuscirono a salvare né Costantinopoli né l’onore dell’Europa. E Il risultato di quella miope
e meschina politica fu che gli ottomani si permetteranno poi di arrivare ad oppugnare Vienna per
ben due volte e di prendersi gran parte dell’Ungheria, infestando e devastando inoltre spesso, con
veloci incursioni delle loro infinite cavallerie leggere, gli stessi territori istriani e dalmatini
appartenenti alla repubblica di Venezia. Il millenario impero di Costantinopoli - o di Bisanzio che dir
si voglia – fu di enorme importanza perché fece da provvidenziale trait d’union tra il mondo antico e
quello moderno, tramandandoci la cultura e la scienza del mondo romano, anche se solo
attraverso quei miseri poveri resti sopravvissuti alle distruzioni ottomane e poi fortunatamente
proprio dai mussulmani in seppur piccola parte salvatici.
Nel secolo successivo Filippo Pigafetta (1533-1604) scriverà che il nome era ancora usato ai suoi
tempi in Levante, però adesso, a suo dire, per dei vascelli piccoli:
207

Nelle riuiere di Constantinopoli, et di Salonichi, et di tutti quei mari usansi certi vaselletti, che
s'appellano Dromognia (Annotazioni al Trattato brieve dello schierare in ordinanza gli eserciti etc.
P. 292. Venezia, 1586).

Ma si parlava dunque ormai di vaselletti, ossia probabilmente di simili a quelli oggi conosciuti dai
turisti come caicchi. Nella Storia di Giovanni Kinnamo, storico bizantino della seconda metà del
dodicesimo secolo, leggiamo che all’assedio di Corfù del 1149 il vascello imperiale dell’imperatore
Manuele I Comneno era una galea biremi {ἐπἰ τῆς βασιλιϰῆς […] διήρους}. Come racconta poi
nelle sue Storie Giovanni Cantacuzeno, la flotta di 105 vascelli che l’imperatore Andronico III
Paleologo preparò nel 1329 per la riconquista di Chio, isola allora feudo del genovese Martino
Zaccaria, non solo non comprendeva più i dromoni, ma nemmeno vi erano più chiamati così gli
ippagogoi; essa era infatti composta, a parte alcune poche monere, solo di diere e triere, otto delle
quali erano ippagogoi e portavano 300 cavalli; il che significa che ognuna di queste ne poteva
portare dai 35 ai 40 (Historiarum libri IV. II, 11). Come erano tenuti i cavalli nei vascelli porta-
cavalli? Possiamo solo immaginarlo con l’aiuto di alcuni materiali forniti agli uscieri della già
ricordata che nel 1270 fu approntata nei porti pugliesi per ordine di Carlo I d’Angiò re di Napoli:

… et in praedictis usceriis et teridis tabulata, nec non in teridis et usseriis stangas, stangarolas,
traversas et pectoralia oportuna pro equis ad transfetandum stabiliendis (G. de Giudicis, cit. P. 7).

I tabulata con i quali evidentemente costruirsi sotto-coperta i pavimenti per il calpestio dei cavalli,
stanghe, stangarole e traverse di legno per recintare li stessi e i pectoralia per proteggere i petti
degli animali dagli inevitabili urti contro le stangarole frontali. Si può quindi ritenere con
un’accettabile approssimazione che in un vascello orientativamente largo circa 5 metri e mezzo i
cavalli fossero ritenuti con il capo verso il centro del vascello e in due contrapposte ‘stalle’
disposte ortogonalmente rispetto alla chiglia, lasciando dunque uno strettissimo corridoio centrale
per la dazione di foraggio e inoltre anche strettissime separazioni laterali tra posta e posta per
l’asportazione del letame; in sostanza gli ordini di posta potevano andare dai 15 ai 20, a seconda
della lunghezza dello spazio disponibile, per un totale quindi di 30 o 40 cavalli a vascello.
A quanto racconta ancora il succitato Cantacuzeno, la flotta che il predetto imperatore preparò un
paio d’anni dopo per rinconquistare Lesbo (poi Mitilene), nel frattempo occupata per ripicca dai
genovesi, presentava invece una composizione molto diversa perché su un totale di 84 vascelli da
guerra solo 44 erano triere e diere – le seconde più popolari come dίcroti - e per il resto monere
(ib. II, 29); a parte c’erano poi le solite onerarie di supporto che seguivano i vascelli combattenti,
includendo tra queste ultime ovviamente anche quelli remieri passacavalli. A quest’ultimo proposito
208

bisogna peré precisare che in guerra, mentre i vascelli combattenti remieri viaggiavano e - a meno
che il maltempo o il mare forte non le allargassero o anche disperdessero - si muovevano in ordini
stretti (lt. strigae), i velieri di supporto – nel Medioevo soprattutto piccole taride – seguivano
necessariamente l’armata in ordine sparso, cioè meglio e più presto che potevano, considerando
che si affidavano solamente ai venti e che in quei secoli le velature erano ancora rozze e poco
sviluppate; ecco per esempio l’armata di Carlo I d’Angiò che il 26 settembre 1282, avvicinandosi
un forte esercito aragonese nemico, s’imbarca abbandonando l’assedio di Messina:

… le galee simultaneamente sciolgono gli ormeggi, memtre le navi, le quali (ovviamente) non
potresti vedere remigare in schiere, né la flotta allontanarsi con vele agguagliate, ma inegualmente
e in non preordinate conserve or ingolfarsi or ritornare per non lasciare (a terra ) gli ultimi rimasti
(Saba Malaspina, cit. L IX, cap. XVII).

Bisogna a questo punto però chiarire che la denominazione numerica dei vascelli remieri antichi e
dell’Alto Medioevo va suddivisa in tre tipologie, a seconda che si tratti di numeri semplici o di
numeri decadici; la prima, cioè quella delle monere, diere, triere (τριήρεις διήρεις τε ϰαὶ μονήρεις.
G. Franzes, cit. LT. III, par. III) e così via fino alle più teoriche che reali eptere (Giulio Polluce
prendeva in considerazione addirittura le ennere), significava il numero di ordini di voga,
intendendosi per tali il numero dei vogatori che sedevano in ogni singolo banco di voga; la
seconda era precipuamente greca e indicava invece il numero di scalmi – ossia di remi - per ogni
lato (e.g. δεχάσϰαλμον αϰάτιον, ossia vascello attuario da dieci scalmi per lato); la terza infine con
le sue più usate denominazioni di eicosoro (‘ἐειϰόσορος’), triacòntoro e pentecòntoro - ma anche
triacòntero, pentecòntero - specificava il numero totale dei banchi di voga di un vascello remiero,
ossia 20, 30, 50 ecc. In realtà i termini originari devono esser stati triacòntaro, pentecòntaro ecc.,
perché derivati da τριἇϰοντα e τριήϰοντα ('trenta), πεντήϰοντα e πεντείήϰοντα ('cinquanta’) ecc. In
verità generalmente si crede che questi numeri si riferiscano ai vogatori e non ai banchi e ciò sulla
base del Lexicon di Esichio, dove si dice:

τριαϰοντόριοι· πλοῖα ὐπὸ λή πηλατούμενα (‘Triacontori: vascelli da 38 remiganti’).

E’ ovvio che quel ‘38’ non ha alcun senso e si tratta dunque di un numero mal trascritto, volendo
Esichio evidentemente dire invece ‘30’; ma, come forse abbiamo già detto, dividendo trenta uomini
per due, dovremmo ammettere 15 banchi monoremo per lato, il che significherebbe uno scafo
troppo stretto per esser tanto lungo e quindi si può solo pensare che o egli voleva intendere
‘banchi’ e non ‘remiganti’ oppure che, essendo ai suoi tempi ormai passati secoli dall’uso di quegli
antichi nomi, non se ne sapesse più il giusto significato. Certo si potrebbe anche pensare a delle
209

diere in cui uno solo dei 16 banchi per lato fosse occupato da un solo vogatore, ma si trattava di
situazioni che si potevano verificare solo in caso di carenza di uomini e quindi non per una prassi
tale da determinare addirittura il nome di un tipo di vascello.
Insomma, per fare un esempio, per liburna diera se ne intendeva una che aveva due vogatori per
banco, per vascello triera uno da tre vogatori per banco, quindi superiore alla liburna che non
raggiungeva quel numero di ordini; per triacòntoro una liburna o simile da quindici banchi per lato,
monoremo o biremi che fosse, e tali dovevano dunque essere i triacòntori alla cui costruzione
accennava Eunapio di Sardi, storico greco nato appunto a Sardi nel 347 d.C. e che narrò gli
avvenimenti del Basso Impero del suo tempo:

… Si costruirono veloci triacònteri con la subbia (‘lesina’, cioè ‘con il garbo, forma’) delle libernidi (=
liburnidi, liberne, liburne) [Πηξάμενος δρομάδας τριαϰοντήρεις Λιβερνίδων τύϰῳ. Al n. 25 dei
Fragmenta, in Corpus Scriptorum historiae byzantinae etc. Parte I. Bonn. 1829).

Dunque questi vascelli erano stati anche costruiti con il garbo o forma delle liburnae monoremo
aventi appunto 15 vogatori per lato. Per vascello pentecòntoro se ne intendeva dunque invece uno
da 50 banchi in totale, 25 per lato; ma questo doveva essere non meno di una triera, altrimenti
sarebbe stato troppo stretto e lungo e quindi troppo soggetto a piegarsi pericolosamente di fianco.
Un teorico vascello ecatòntoro, cioè da 100 banchi in totale, avrebbe dovuto, avendone 50 per
lato, necessariamente essere anche un’eptera o anche un’ennera, cioè un vascello a sette, otto o
nove vogatori per banco.
Il Suida, citando proprio questo suddetto brano, assimila le liberne ai càrabi (cit. P. 444), ma
questa può essere un’osservazione da prendersi con le pinze, visto che questo autore visse
parecchi secoli dopo quelli delle liburne e che dei càrabi nelle storie bizantine si dice più volte che
erano vascelli, anche se remieri, atti a portare un carico, quindi non certo agili e veloci come le
liburne; poco dopo poi, però sotto il sinonimo liburniche, aggiunge importanti caratteristiche di
questi vascelli:

Liburniche: erano vascelli non del genere delle triremi, ma di quello dei legni corsari, dal rostro di
bronzo, forti, provvisti di coperta e dall’incredibile velocità (Λιβυρνιχαί. νῆες ἧσαν οὐ ϰαὶ τόν
τριηρικὸν ἐχηματισμεύϰαι τύπον, ἀλλὰ λῃστριϰώτεραι, χαλϰέμβολοί τε, ϰαὶ ἰσχυραὶ, ϰαὶ
ϰατάφραϰτοι, ϰαὶ τὸ τάχος αὐτες ἂπιστον. Ib. P. 445).

Qui il Suida ci dice di due importanti caratteristiche delle antiche liburne e cioè che portavano un
pesante rostro di bronzo (gr. ἒμβολον o ἒμβολος) – pesantezza che non deve meravigliare, visto
che poi le galee porteranno a prua le loro maggiori artiglierie – e che erano provviste di coperta (gr.
πλοῖα ϰατάφραϰτα, σεσανιδωμένα πλοῖα), il che le faceva effettivamente capaci non solo di una
210

dotazione di corredo e armamento complessi ma anche di trasportare piccoli carichi, magari quelli
di merci più preziose, per esempio i drappi di seta che porteranno poi spesso le galee. A proposito
dell’uso di pesanti rostri di bronzo, se ne parlava già nell’Onomastikon di Giulio Polluce, cioè
laddove si menzionano vascelli libici chiamati ‘montoni’ o anche ‘caproni’ [τινα πλοῖα Λύβια
(Λἶβυα), λεγόμενα ϰριοὶ ϰαὶ τράγοι. Onomasticum grece et latine. I.IX, p. 56. Amsterdam, 1706];
Esichio ci dice che pertanto si chiamavano anche νῆες τραγιϰαί (‘navi capronidi’). In generale
nell’antichità i vascelli remieri da guerra maggiori erano sempre forniti di rostro, in particolare le
triere (gr. χαλϰέμβολα, χαλϰέμβολοι νῆες, χαλϰεμβολάδες νῆες).
Nel libro III delle Historiarum di Agazia Scolastico (sec. VI d.C.) troviamo:

… Avendo dunque armato le triere e quanti triacòntori ci fossero… (τοιγάρτοι τάς τε τριήρεις ϰαὶ
ὄσοι τριαϰόντοροι παρώρμουν πληρώσαντες…)

Qui, primo secolo del Medioevo, ancora vediamo in uso vascelli dell’antichità romana e cioè le
triere, le quali erano, come sappiamo, di circa 25 banchi completi, cioè di quelli lunghi che
andavano da fianco a fianco, con sei remieri per ogni banco, dei quali però tre remavano a dritta e
tre a sinistra, quindi 150 rematori in tutto; poi i triacòntori, ossia le liburne da 15 banchi per lato,
cioè diere da 60 rematori. D’altra parte in quel secolo era ancora troppo presto perché si possa
pensare che si usassero ancora vecchi nomi (triere e triacòntori) per vascelli più ‘moderni’ quali le
galee triremi e biremi; invece questo è certamente da pensarsi per ciò che leggiamo nelle tanto più
tarde Storie del Cantacuzeno, cioè laddove si narra dell’assedio bizantino dei ribelli di Tomocastro
in Acarnania, avvenuto nel 1339; vi si dice infatti che agli assediati arrivò un soccorso inviato dai
tarentini che contava dieci triere e tre pentecòntori (δέϰα τριήρεις ϰαὶ πεντηϰόντοροι τρεῑς.
Giovanni VI Cantacuzeno, Historiarum libri IV. II, 37), in effetti tutte triremi, sia le prime sia le
seconde, ma probabilmente di garbo diverso; forse per triere l’autore intendeva delle ‘moderne’
galee triremi e per pentecontori delle triremi di più vecchio stampo. Insomma il Cantacuzeno, lui sì,
usava antichi nomi a fini evidentementi letterari, non solo ma forse sbagliava anche in sostanza
oltre che in forma, visto che ci sembra molto improbabile che il principato angioino di Taranto
potesse disporre all’occasione di una squadra di 13 legni remieri di cui non meno di 10 addirittura
triere, vascelli questi dalla gestione molto onerosa e di cui in quell’area allora solo la ricca Venezia
abbondava. Per fare un altro esempio che, a nostro avviso, attesta l’imprecisione del Cantacuzeno
in questa materia, un po’ più avanti nelle sue Storie egli racconta di una spedizione navale
genovese inviata nelle acque di Chio che sarebbe stata composta, a suo dire, di 32 triere
(‘τριήρεις, III, 95); ora, come abbiamo già spiegato, le armate e squadre dei genovesi e dei pisani
medievali si distinguevano dalle altre tirreniche per esser composte per la quasi totatiltà di biremi e
211

ciò sia per la maggior leggerezza sia soprattutto per il minor costo di gestione, preferendo pertanto
generalmente di sottrarsi alla battaglia offerta da un nemico armato di triere quando non potessero
contrapporgli un deciso vantaggio numerico. Dunque le galee medievali non erano altro che
evoluzioni delle antiche liburne, le quali, ribadiamo, avevano differito dalle coeve pesanti triere
specie per non presentare i due camminamenti di combattimento sopraelevati sui fianchi.
Stiamo qui ora parlando del Medioevo bizantino e dell’antichità romana, ma in effetti anche
nell’antichità greca le cose, in quanto a precisione, non sembra andassero molto diversamente;
infatti Erodoto, narrando nelle sue Storie del tempo della battaglia di Salamina (480 a.C.),
ogniqualvolta parla delle squadre e delle armate marittime greche non menziona altro che
pentecόnteri e triere e inoltre lo fa anche ben differenziandole (p. e. πεντηϰόντερους ϰαὶ τριήρεας.
H.36). Si aggiunga che erano quelli secoli in cui ci si affidava molto alla dea Fama, la quale, come
si sa, tra le altre sue caratteristiche aveva quella di saper correre molto velocemente, e Cicerone
diceva rumor multa perfert (‘la fama porta lontano molte cose’), concetto che più tardi diventerà il
famoso rumor crescit eundo (‘le dicerie si accrescono propagandosi’). Per farne un tipico esempio,
diremo che Giulio Polluce (II secolo d.C.) attribuisce alla famosa gigantesca nave del faraone
Tolomeo IV ben 15 ordini di remi (Πτολεμαίου ναῦς πεντεϰαιδεϰήρης. Cit. I-IX. Pp. 55-56), il quale
in verità è già numero incredibile perché significherebbe circa 1.500 vogatori; ma, come se questo
non bastasse, nel tempo quei numeri continuarono a crescere ed arrivarono, come si sa, a 40
ordini di remi e 4mila remiganti! E la cosa più stupefacente e che su tali frottole oggi s’impiantano
dotte discussioni e si cerca persino di costruire ‘fedeli’ modellini di tale inammissibile vascello!
Il nome di liburne, corr. di liburnidi, come si evince dal succitato Luciano di Samosata, o di
liburnicae, come invece spiega Renato Flavio Vegezio, trattatista romano del 4° secolo, derivava
dalla Liburnia, cioè dalla regione croata di Zara, porto in cui quei vascelli trovavano la loro origine;
questi vascelli, ancora solo biremi nel primo secolo d.C., erano usati dai potenti pirati illirici
narentini e poi dal Medioevo anche da quelli più settentrionali detti segnani); i romani le avevano
adottate proprio per combattere la pirateria con i suoi stessi mezzi (… navi lunghe di Liburnia, le
quali erano molto necessarie a guerreggiare per mare… Bernardo Giustiniano, cit. L. XIII, f. 189
recto). Appunto nella pirateria dalmatina detto nome sarà poi nel Medio Evo sostituito da quello da
sempre coesistente di barche lunghe (gra. σϰάφαι μαϰραῖ), detto però solo nel senso che erano di
forma allungata e sottile e non perché fossero particolarmente lunghe; infatti presenteranno ora
una lunghezza sensibilmente inferiore a quella dei suddetti pentecònteri, per non parlare di quella
delle grosse navi onerarie, fin a ridursi poi nel Rinascimento a fuste e nel corso del Cinquecento
anche a bergantini, cioè con una lunghezza ulteriormente diminuita. Per quanto riguarda ancora i
vascelli da guerra romani conviene forse ribadire che tra triere e liburne la differenza non stava
212

solo nel numero di remi, ma anche nella struttura; le prime, con il loro bordo di media altezza, le
loro sopraelevate corsie laterali per i soldati che sovrastavano i banchi di voga, erano vascelli
pesanti e lenti; mentre le altre, di bordo molto basso, prive di sopraelevazioni, anticipavano quelli
che saranno poi i cosiddetti vascelli lunghi alto-medievali, detti poi legni sottili o armati nel Basso
Medioevo e disusati dopo il Rinascimento, quando cioè lasciarono campo libero ai vascelli sottili
copertati, cioè le galee, le galeotte, le fuste, i brigantini e le piccole fragate. Una terza struttura
presenteranno poi, come già accennato, i suddetti dromoni bizantini, cioè con due ponti di voga
sovrapposti.
Vegezio narra che Augusto volle introdurre le liburne nelle due armate fisse di Roma, quella di
Miseno e quella di Classe nel Ravennate (in seguito trasferita a Grado), dopo averne apprezzato
l’ottimo lavoro fatto come vascelli gregari alleati nella battaglia di Azio da lui vinta contro Antonio
nel 31 a.C. Lo storico bizantino del tardo quinto secolo Zosimo nella sua Storia nuova (LT. V, par.
20) ci dice che le liburne, entrate in auge nelle armate della Roma imperiale per essersi
dimostrate più agili, veloci ed economiche delle pesanti triere e in seguito anche non meno veloci
di quelli che saranno i miuoparoni bizantini, monoremo o biremi che fossero, erano state usate con
detto nome di liburne dai romani ancora nel secolo precedente al suo, ma erano ai suoi tempi
ormai disusate, perché dimostratesi in guerra invece meno veloci delle nuove galee, biremi o
triremi che fossero, essendo queste sicuramente più attrezzate in velatura e probabilmente anche
più basse sull’acqua di quanto fossero stati i suddetti pentecòntori; bisogna però anche dire che ai
suoi tempi, se le biremi erano dunque in disuso, erano invece già molto usate le veloci monoremo,
prive della pesante coperta, e infatti, a leggere il di poco successivo Procopio da Cesarea (prima
metà del sesto secolo), l’armata bizantina di 500 vascelli comandata da Calonimo Alessandrino e
che nel 533 era andata a combattere il regno vandalico costituitosi in quella parte dell’Africa
settentrionale che più tardi dai cristiani sarà detta Barbaria includeva 92 vascelli da guerra (gr. &
gr. πολεμιϰαὶ νῆες), i quali erano tutti monoremo (μονήρεις) con equipaggi fatti solo di remieri, atti
però, quando necessario, a espletare, secondo la già detta antica tradizione greca, anche
incombenze marinare e a combattere, come molto più tardi si vedrà usarsi anche a bordo delle
monoremo basso-medievali:

… erano tra quelli anche novantadue ‘vascelli lunghi’ monoremo da presentare in battaglia navale,
peraltro anche dotati di copertura, affinché in tal modo i remiganti non fossero bersaglio dei colpi
dei nemici; ora la gente chiama tali vascelli ‘dromoni’; possono infatti navigare con grandissima
velocità. In essi navigavano circa duemila bizantini, tutti anche remiganti; non essendoci infatti
alcun ‘scapolo’ in essi (ἦσαν δὲ αὐτοΐς χαὶ πλοῑα μαχρὰ, ὡς ἐς ναυμαχίαν παρεσχευασμένα,
ἐνενήχοντα δύο, μονήρη μέντοι χαὶ ὀροφὰς ὔπερθεν ἒχοντα, ὄπως οἰ ταῡτα ἐρέσσοντες πρὸς τῶν
πολεμίων ὠς ἤχιστα βάλλοιντο. δρόμωνας χαλοῡσι τὰ πλοῑα ταῡτα οἰ νῡν ᾂνθρωποι· πλεῑν γὰρ
213

χατὰ τάχος δύνανται μάλιστα. Έν τούτοις δὴ Βυζάντιοι δισχίλιοι ἔπλεον, αὐτερέται πάντες· περίνεως
γὰρ ἦν ἐν τούτοις οὐδείς. In De bello vandalico, LT. I, 11.)

La circostanza che ravvisasse i dromoni in vascelli remieri a un solo ordine di remi ci conferma
chiaramente quanto già altri passi delle sue storie ci hanno fatto di Procopio sospettare e cioè che,
pur dimostrando di avere dei buoni rudimenti della guerra terrestre, non s’intendesse per nulla
invece di quella marittima e dei vascelli in generale. Infatti solo qualche pagina dopo, a proposito
cioè di in un successivo episodio della guerra vandalica, narra che il capitano generale bizantino
Belisario aveva tra l’altro ordinato che i dromoni si ponessero in circolo attorno al resto dell’armata
marittima per farle come da cinta muraria di difesa, il che non si sarebbe naturalmente potuto
pretendere da dei piccoli e leggeri vascelli monoremo e quindi ciò significa che i dromoni erano
ben altri:

Inoltre Belisario comandò che restassero di presidio cinque arcieri per nave condotta e che i
dromoni fosser ancorati tutt’intorno a quelle per proteggerle dalle frecce dei nemici (πλην γε δὴ ὄτι
τοξότας πέντε ἑν νηὶ ἑχάστῃ Βελισάριος ἐϰέλευε μεῑναι φνλαχῆς ἕνεχα, χαὶ τοὺς δρόμωνας ἐν
ϰύϰλῳ αὐτῶν όρμίζεσ&αι, φυλασσομένους μή τις ἐπ'αὑτὰς ϰαϰουργήσων ἵοί (ib.)

Paragonandosi invece ora le galee medievali alle galere moderne, poiché la palmetta di queste,
non presente nelle prime, non rappresentava un allungamento dello scafo bensì in effetti solo
un’opera morta esterna allo scafo stesso, la lunghezza della zona dei remiggi delle medievali,
ossia degli spazi destinati alla voga, finiva per essere maggiore di quella delle moderne, perché
queste dovevano riservare la prua alle artiglierie, armi che quelle medievali non avevano, come
abbiamo più sopra già detto; infatti abbiamo visto che le galee costruite tra 1274 e inizio del 1275
in Italia per Carlo I di Francia, anche se biremi, avevano ben 27 banchi per lato. Di conseguenza,
anche se le galere da guerra moderne, perlomeno dalla seconda metà del Cinquecento,
aumentarono la loro stazza col diventare galere bastarde o quartierate, il numero dei loro ordini di
banchi restò sempre di 25 o 26 con forse qualche raro esempio di 27. Venezia era stata nel
Cinquecento la potenza marittima che più si era lanciata in questi tentativi d’aumentare le
dimensioni delle galere, tentativi falliti finché si era usata la voga a sensile o a zenzile, ossia con
impugnatura tradizionale del remo e con un remo per vogatore; l'esempio più ricordato era quello
della galera faustina varata nel 1529 e sulla quale più ci diffonderemo in un altro capitolo. Ci fu poi
un’altra galea veneziana - questa da 28 banchi - di cui parla il Baifio nel suo De re navali e il
Pantera c'informa che ai suoi giorni, vogandosi ormai da tanto tempo a scaloccio, le galere
maggiori potevano permettersi i 28 banchi, cioè tanti quanti n’aveva avuto verso la metà del
Cinquecento quella ricordata dal Baifio:
214

... come sono anco hora ordinariamente le ‘Capitane’ di squadra, se ben so che è uscita
dell'arsenal di quella Città (‘Venezia’) alcuna galea sino di 32 banchi per servizio di alcun
Generale, ma ordinariamente non passano vent'otto. (P. Pantera. Cit. P. 22.)

D’una galera siciliana abortita proprio perché riuscita troppo grande ci da notizia nel 1571 il
Bonrizzo, residente veneziano a Napoli, in un suo dispaccio al senato di Venezia datato 13
novembre:

… La galea ov’era don Giovanni nella giornata di Lepanto è molto maltrattata; si voleva farla
riparare qui, ma, poiché a Napoli non si trova legname stagionato, verrà mandata (invece) qui da
Messina quella troppo grande costruita già da don Garzia di Toledo e la si ricostruirà daccapo in
proporzioni più piccole… (Nicola Nicolini, La città di Napoli nell'anno della battaglia di Lepanto, dai
dispacci del residente veneto Alvise Bonrizzo, in «Archivio Storico per le Province Napoletane»,
LIII (1928), B.N.N. Sez. Nap. Per. 2001.)

Ovviamente, per ridurre le proporzioni di una galera già esistente non serviva altro legname ben
stagionato. Interessante la predetta notizia perché la galera tanto malconcia di don Giovanni
dimostra materialmente come in quei tempi lo stesso capitano generale di mare (gr. έναρχος
στόλου) si mantenesse in prima linea in battaglia e affrontasse così il pericolo come l’ultimo dei
suoi soldati, anzi con più rischio, perché ogni soldato nemico, al solo intravederlo, subito tentava
ovviamente di colpirlo. Il Bonrizzo, dopo aver dato - in un altro dispaccio del 29 dicembre - notizia
che nell’arsenale napoletano si stava effettivamente lavorando alla trasformazione della predetta
galera, il 21 gennaio dell’anno seguente così ancora ne scriveva:

… Si lavora con molta alacrità alla galera destinata a don Giovanni; è bellissima e, quantunque
contenga ben trenta banchi (s’intende per lato), così proporzionata da sembrare una galea
ordinaria. Il Vicerè voleva farvi adattare la poppa, molto bella, della galea usata da Sua Altezza a
Lepanto, ma don Giovanni ha voluto serbarla per ricordo… (Ib)

Nonostante questo insuccesso, i messinesi non perderanno in seguito questa loro propensione a
fare galere più lunghe delle consuete e infatti nel 1612 li troveremo intenti alla costruzione di una di
32 banchi. D’una grande galera si doterà pure Uluch-Alì (detto anche Ulugh-Alì, Alì Oulouj, Ulugj-
Alì, Uluz(u)-Alì e infine El-Euldj-Alì), rinnegato cristiano calabrese nato a Le Castella (Cutro) nel
golfo di Squillace, secondo alcuni al secolo Giovan Dionigi Galeni e secondo altri Luca Galeni -
nome questo forse più probabile per la sua similitudine con quello turco, storpiato in Italia con
U(lu)ccialì o anche O(c)chiali:

… All’inizio del mese di settembre 1568 il Gran Turco inviò in qualità di re o di governatore d’Algeri
Uluch-Alì, rinnegato calabrese, colui che fu in seguito grand’ammiraglio e che per corruzione noi
215

chiamiamo Ochalì, ma il suo nome è Uluch-Alì, il che in lingua turca significa ‘il rinnegato Alì’,
poiché quelli che noi diciamo rinnegati, i mori appellano ‘elche’ ed i turchi ‘aluc’. (Ib.)

Da non confondersi questo famosissimo Uluch-Alì, dirà poi il de Rotalier, con un suo omonimo
rinnegato greco, soprannominato d’Escander ou de Candelissa; il de Bourdeilles nelle sue
Mémoires così racconta di lui:

… era nativo della Calabria, dove io ho veduto il luogo e alcuni dei suoi congiunti, i quali egli
veniva talvolta a visitare e ai quali faceva del bene e del favore; era monaco, si dice, e, mentre se
ne andava a Napoli per studiare, fu catturato, poi rinnegò e poco a poco, facendosi corsaro,
progredì come s’è visto. Credo che prese il turbante più per nascondere la tigna che si dice l’abbia
accompagnato tutta la vita, senza che mai riuscisse a liberarsene, che per altro e, benché egli
facesse buona professione di rinnegato, tuttavia non abbandonò mai la religione cristiana. Ho
udito dire questo da monsieur de Dage, ambasciatore del Re in Levante che l’aveva visto a
Costantinopoli. Ho udito tuttavia dire che era più crudele di Dragut e non aveva così gran civiltà
come Dragut, il quale amava i francesi; così, quando (quest’ultimo) fu impiegato per la Francia e
comandato dal gran Signore di correre il mare, per amor di quella s’impiegò di molto buon grado.
Ho udito dire così da monsieur il Barone de la Garde che l’ha condotto e comandato per ordine del
gran Signore. (Pierre de Bourdeilles, Mémoires, T. II, pp. 75-76. Leyde, 1666.)

Uluch-Alì dunque, fatto capitano generale dell'armata di mare turca dopo la sconfitta subita a
Lepanto, si fece costruire una Capitan(i)a particolarmente grande, forte e bella di ben 36 banchi
per lato, i cui remi di scaloccio erano grossissimi e lunghissimi in quanto proporzionati all'insolite
dimensioni di quella galera. Il Pantera, al quale si deve questa notizia storica, non ci dice però
quanti vogatori erano posti a ognuno di questi grossi remi; certo non meno di 6 o 7. Questo atto di
megalomania di quel parvenu, assurto a uno dei più importanti e prestigiosi carichi dell'impero più
potente del mondo d’allora dalla miseria e ignoranza in cui viveva e ancor oggi certamente da
considerarsi il calabrese più importante della storia, meravigliò persino i turchi, nonostante essi
fossero certo abituati a un certo gusto del gigantismo militare nell'artiglieria e nelle dimensioni dei
loro eserciti:

... Della qual galea uscì voce fuora che sarebbe stata meravigliosissima, di maniera che Sultan
Amurat, tirato dalla fama della grandezza e bellezza sua, si mosse di Costantinopoli per andar a
vederla sino alla Torre della Laguna. (P. Pantera. Cit. P. 59.)

Siamo portati comunque a credere che nemmeno questa maxi-galea ebbe un buon successo,
visto che nessun altro più ne scriverà. Il passaggio al remo di scaloccio permetterà comunque
d'ingrandire gradatamente le galere, aumentandone, come abbiamo già detto, il numero dei
rematori, e infatti nel Settecento la galera ordinaria arriverà a una lunghezza media di m. 47 e a
sette rematori per banco. Questo processo d’ingrandimento comincerà dopo la guerra di Cipro
216

(1570-1573) e infatti in una relazione del 23 marzo1602 sulla produzione allora in corso
nell’arsenale di Venezia il Provveditore di turno così tra l’altro scriveva:

… E perché le galee dopo la passata guerra si sono fatte assai maggiori (di) come convenne a
quel bisogno e perché possino portare e quantità di vittuaria e di soldati ancora, li trinchetti fatti al
bisogno delle gallee che innanti la guerra s’usavano sono così picoli che hora possono prestare
poco servizio a queste che hora si fabricano, onde farian bisogno trentasettemilla brazza di tella da
Viadana, (il) che importeria ducati ottomille… (Relazione del Provveditore sopra le cento galee
letta nell'eccellentissimo Senato a' dì 23 marzo 1602, Venezia, 1868. B.N.N. Misc.103 (8.)

Gigantismi eccezionali e sempre inutili a parte, la forma della galera ordinaria era dunque lunga,
stretta e bassa e c'era una sola coperta, sotto la quale lo scafo era ripartito in sei camere (tlt.
thalami) divise da tramezzi detti parasguardi (vn. partitori; fr. fronteau, cloison, clisson) - termine
che poi verrà corrotto in parasquadri e così ancor oggi usato - e ognuna d’esse aveva in coperta la
sua boccaporta (fr. ecoutillon) con il suo sportello [fr. êcoutille, panau (oggi panneau)], termine
anch'esso oggi ancor usatissimo, ma nella sua forma corrotta di ‘boccaporto’, mentre nessun
autore da noi letto parla anche di posterle o anditi [fr. couloirs, cour(r)oirs, courriers, allées; ol.
gangen] che, come nei velieri, le rendessero intercomunicanti. Partendo dalla poppa, la prima di
queste camere era detta appunto la camera della poppa ed era riservata alle persone, alle armi e
alla roba del capitano, dei gentiluomini di poppa, dei passeggeri (gr. επιβάτοι, περίνεῳ; lt. vectores,
ol. anche scheepelingen) di qualità e altre persone di riguardo; essa era fornita d’una pancaccia
(bancazza) che faceva da letto al comandante e dalla sua estremità posteriore dava in un
minuscolo gabinetto di lavoro riservato anch’esso al capitano, il quale si chiamava lo scagnetto o
scannello (vn. studio o studietto; fr. gavon) e prendeva luce da due finestrelle rotonde, dette
cantarette (fr. cantanettes; vn. fenestrele in colomba), le quali si trovavano ai due lati del timone
(gra. πηδάλιον, οἰήίον, οἳαξ; grb. οἰάϰιον); dalla fine del Seicento, secolo certamente più ‘luminoso’
del precedente, la luce sarà data invece da tre finestre per ogni lato dell’ambiente. Dunque nelle
galere nemmeno il comandante poteva permettersi di dormire da solo. Contigua alla camera della
poppa era la seconda, detta questa lo scandolaro, la cui funzione era, oltre a quella di deposito
delle armi minute di bordo, di servire la prima e infatti in essa si conserva il resto della roba della
gente di poppa (gr. πρυμνήται), vale a dire dei predetti ufficiali e personaggi che nella prima
camera appunto alloggiavano:

... e nei bisogni vi sta anco qualche botte di vino, come è costume delle galee di Malta. (P.
Pantera. Cit. P. 45.)
217

Beoni questi cavalieri di S. Giovanni! Lo Jal cita uno statuto genovese del 1441 in cui, all'art. 34, si
consente di depositare sopra o sotto il banco dello scandolaro - ossia il banco che correva
tutt'attorno la predetta camera - non altro che l'oro, l'argento, le perle, le corazze, le celate, i
collaretti di ferro, le balestre con i loro verrettoni guarniti, le altre armi e le armature dei mercanti,
eccetto le armi che si portassero come mercanzia da vendere; insomma bisognava che questo
locale riprendesse la sua funzione originale e cioè quella di luogo sicuro e serrato dove tenere
valori e armi e non certo vino o leccornie per la gola degli ufficiali! Il nome scandolaro significa
‘scala’ e viene dal lt. scandilium (‘gradino di scala’); la circostanza che solo quella scala della galea
desse il nome al locale con la quale vi si scendeva fa pensare che, ai tempi delle antiche triere,
avesse una maggiore importanza per discendere nella poppa.
La terza camera, detta la compagna (dal lt. cum pane) o dispensa, era il luogo in cui si
conservavano in botti e barili (vn. vezzotti) il grosso del vino e il companatico, cioè la carne vaccina
salata, quella di maiale, il lardo, le aringhe o le sardine salate, la tonnina, lo stoccafisso, il baccalà,
il formaggio, il burro, l'olio, l'aceto, l’acquavite, il sale ecc. Le botti di vino andavano conservate con
il cocchiume in alto e arrestate al pavimento con dei cunei, affinché non si mettessero a rotolare; i
vini peggiori si mettevano sotto ai migliori, perché l’esperienza diceva che i vini posti più in alto e
quindi tenuti più aerati si conservavano a bordo meglio e questo era anche il motivo per cui era
consigliabile far commercio marittimo di vino a mezzo di piccole imbarcazioni; v’erano poi in questa
compagna anche le tinozze (fr. bailles; ol. verse-baalien, varse-baalien, week-bakken; vuilen-
brassen) in cui si ponevano a stemperare i cibi disseccati, specie lo stoccafisso (fr. anche moruë
séche; ol. stokvisch; gedroogde bakkeliauw), a lavare quelli che andavano lavati e a dissalare i
salumi perché potessero essere poi consumati; ma come si procedeva per salare (fr. brailler) a
bordo le aringhe, il salume allora più consumato dalla gente di mare? I francesi, dopo averle
debitamente decapitate ed eviscerate, le cospargevano di sale, le rimescolavano con pale e poi ne
riempivano le botti (fr. caquer; ol. kaaken, kaeken); gli olandesi preferivano tenerle in panieri piatti,
da cui poi prenderle a strati da inserire nelle botti e salandole direttamente in queste uno strato alla
volta; a terra si usava invece più spesso cospargerle di sale nei panieri, ma poi, afferrati questi per
i due manici, scuotere e far saltare le aringhe in modo da mescolarle al sale. L’insieme della pesca
e della preparazione delle aringhe si diceva in fr. drogherie, termine il cui significato si è poi esteso
a dismisura. Il grasso tolto dalla carne salata da cucinare si conservava e si utilizzava per
arricchire le minestre, ma, se esso era troppo salato, si adoperava invece per i lavori di
manutenzione di bordo. Lo stoccafisso, detto allora in Francia volgarmente merluche, si doveva
arieggiare spesso e ciò perché era l’alimento più soggetto all’attacco delle tignole; questo pesce,
era un tipo particolare di baccalà che si pescava principalmente tra le isole d’assunzione e il Capo
218

Breton e si poteva conservare per lungo tempo in quanto, oltre che salato, era anche disseccato al
sole appeso a dei pali, da cui il suo nome; c’era poi un terzo tipo di baccalà, detto questo in
francese ‘verde’ o anche ‘bianco’ (ol. groene bakkeliauw), il quale era molto apprezzato e
consumato a Parigi e si pescava anch’esso sul grande banco di Terranova come la maggior parte
del comune baccalà [fr. moruë, moluë; ol. bakkelia(a)uw].
La quarta camera, chiamata il pagliolo [fr. so(û)te, paillo], serviva a conservare in botti stagne le
vettovaglie secche o panatica, come il biscotto, la farina, il pane, il riso, la fava, i ceci, l’orzo la
semola e i legumi in genere, i quali prendevano questo loro nome dall’essere generalmente
conservati in sacchi chiusi con legacci – pertanto anche il biscotto rientrava nella categoria dei
legumi, mentre i salumi si conservavano in botti o barili. Bisognava mantenere questo locale ben
asciutto a evitare che le provviste, specie il biscotto, andassero a male e quindi, prima di riempirlo,
andava preparato accendendovi dentro del fuoco che ne prosciugasse l’umidità raccoltavi,
operazione questa delicata e pericolosa per il vascello, come ricorda nel 1628 il già ricordato Digby
nel suo giornale di corso nel Mediterraneo:

… Noleggiai poi il ‘Samuele’, un veliero di duecento tonelli, che fu però distrutto completamente da
un incendio mentre asciugava il deposito del pane, quando era già quasi allestito. (Cit.)

Non esistendo allora pratici sistemi di refrigerazione, tutti i cibi freschi erano inadatti alla provvista
di bordo, specie il pane, il quale, a causa dell’umidità marina che trasudava dalle tavole di legno, si
guastava spesso in un solo giorno; il Brasca, il quale di ciò si trovò un giorno a tavola a lamentarsi
casualmente con i frati della chiesa del Santo Sepolcro di Gerusalemme, così racconta nel suo
diario:

… ed, essendo intrati in ragionamenti quanto sia alieno da la natura humana el navigare e quanto
presto si guastano le victualie in mare, maxime el pane, che in un giorno è mufolento, levasi in
piede el patre guardiano e dice: Piglia uno de questi panni (‘pani’) che sono sopra la mensa e
portalo in nel bucco de la Sancta Croce e puoi portalo in galea e dove ti pare, che mai si guasterà.
Tolsi questo pane e con devozione lo feci toccare el bucco de la Sancta Croce, puoi lo portai in
galea e, quando fui a Vinezia, lo trovai nel grado proprio ch’io lo tolse in la chiesia del Sancto
Sepulchro, videlicet frescho, mondo e bello como se allora fosse portato dal forno. (Anna Laura
Momigliano Lepschy, Viaggio in Terrasanta di Santo Brasca (1480) con l’Itinerario di Gabriele
Capodilista (1458), Milano, 1966.)

A giudicare dal già citato contratto genovese del 1383, sembra che le galere medioevali di quella
repubblica marinara avessero un locale compagna che conteneva anche il pagliolo e dove quindi
si dovevano certamente conservare anche il pane e i legumi; questo spiegherebbe la ragione del
suo nome. La quinta camera, conosciuta ora come la camera di mezo, ma nel Rinascimento anche
219

genericamente carena, termine questo poi per sineddoche ridotto nell’Italia del Cinquecento alla
sola chiglia mentre in Francia le resterà il senso d’intera parte immersa del vascello, era contigua
all'albero di maestra e in essa si tenevano le vele, una parte del sartiame, la mercanzia, la roba dei
passeggeri non di riguardo, le armi della bassa forza e dei soldati e le altre provvisioni; inoltre in
questa camera si conservavano le polveri e le altre munizioni per l'artiglieria, perché le galere non
disponevano - come i vascelli più grandi - d’un locale S. Barbara, così detto perché dedicato alla
Santa patrona dei bombardieri. In alcune galere si usava tenere le polveri chiuse in un cassone
posto in un canto, in altre si preferiva mettere tal cassone dietro l'albero di maestra, cioè all'incirca
nel mezzo della camera.
Sesta e ultima camera era quella detta la camera della prora, la quale, sebbene formasse in
effetti un locale unico con quella di mezzo non essendovi tra le due divisione alcuna, pure aveva
questo suo nome particolare perché era munita una sua altra entrata dalla prora, entrata della
quale ci si serviva per incombenze diverse; infatti, mentre dell'entrata detta all'albore, usata per
accedere dalla coperta alla camera di mezzo, cioè alla camera grande detta nel Medioevo carena,
si serviva il còmito per prendere vele, sartiami e le su cose personali, si servivano anche i
passeggeri e da quella si prendeva anche la mercanzia, dell'ingresso di prora facevano invece uso
il sotto-còmito e i marinai per i loro effetti personali e, soprattutto, per i sartiami e le gùmene. Nella
camera di prora avevano inoltre il loro posto per dormire e per conservarvi i medicamenti sia il
cappellano che il barbiero, i quali dovevano quindi far camerata, ossia far vita d'alloggio in comune;
in essa poi, come però anche in quella di mezzo, trovavano posto per dormire anche i marinai e i
soldati e vi giacevano infine i malati e i feriti. Non si parla mai a quest’epoca dell’uso d’amache o
brande di tela sospese [fr. branles, (e)strapontins, hamacs, ol. Hang-makken]; infatti, come sembra
di capire leggendo l’Aubin, si tratterebbe d’un tipo di giaciglio usato dei selvaggi americani per
difendersi dall’attacco d’insetti importuni e velenosi e adottato dagli europei solo nel
diciassettesimo secolo, prima dai filibustieri e poi dalla generalità dei vascelli, specie da quelli
oceanici; infatti anche i pavimenti dei vascelli erano, come i suoli tropicali, da tenersi lontani, in
quanto brulicanti di parassiti. All'estrema prua della galera c'era infine il gavone, cioè quello
strettissimo vano che, data appunto la sua estrema angustia, non poteva servire da camera; in
quest'ambiente, così come anche del resto all'estrema poppa, non si potevano tenere pesi gravosi
perché ciò avrebbe compromesso la buona stiva, ossia l’assetto di bilanciamento (fr. estive,
arrimage, assiette, tanquage, tangage, contrepoids) del vascello e pertanto nel gavone si tenevano
per lo più materiali poco pesanti come la stoppa o il muschio per calafatare, qualche sottile tavola
e vimini per acconciare il barilame, il tutto per un peso totale corrispondente a quello che a poppa
si soleva mettere nello studiolo in servizio del capitano.
220

Nel Settecento le camere della galera saranno circa in un numero doppio, perché, in un processo
d’evoluzione individualistica della mentalità comune europea, verranno via via suddivise quelle
preesistenti, ma si tratta dunque d’un tempo diverso da quello da noi qui soprattutto preso in
esame.
Lo scafo della galera si divideva in tre parti o quartieri e cioè il quartiero di poppa, che andava
dall'estrema poppa al banco di voga detto il banco della dispensa; la mez(z)ania, dal banco
predetto all'albero di maestra; infine il quartiero di prua. A questi tre quartieri corrispondevano in
coperta tre zone, la poppa, i remig(g)i e la prua; la poppa era la parte posteriore e più alta della
galea, era lunga poco più di cinque metri e, come anche la sottostante camera di poppa (vn.
pizuol, poi ghiava; lt. penetrale; gr. ἐνθέμιον), era riservata al capitano, ai nobili e personaggi
particolari, ma vi stazionavano però per necessità in permanenza anche coloro ai quali era affidato
il governo del timone. La galera, a partire dal Rinascimento, portava ormai solo il timone singolo
detto latino o alla bayonisca (evidentemente dalla città di Bayonne) o ancora alla barchesca, cioè
‘a mo’ di barca’, per distinguerlo sia da quello che più sopra abbiamo detto alla navaresca, ossia ‘a
mo’ di nave’, sia da quello doppio, cioè consistente in due timoni posti ai due lati della poppa,
sistema antico che nel Rinascimento sopravviveva ancora, ma unicamente in quel tipo di nave da
carico veneziana detta maran, allora ancora comune nei mari di Levante, e che nel Tirreno
medievale si era chiamato generalmente usciero, nome che però, come abbiamo già spiegato, non
derivava dalla loro caratteristica di avere un ‘uscio’, cioè un portellone d’ingresso a poppa per
l’ingresso dei cavalli, da cui l’impossibilità per questi vascelli di avere un solo timone centrale, ma
dal bizantino οὺσίαι, nome semplificato con cui infatti si chiamavano in quell’impero i chelandri
usaici, cioè la maggior parfte dei vascelli remieri porta-salmerie e ippagogoi (lt. hippagines); ma dal
già ricordato contratto genovese del 1383 e dalla Fabrica di galee, trattato anonimo veneziano del
Quattrocento, risulta che, perlomeno in quei secoli, oltre a due timoni latini, di cui uno era però di
rispetto, tutti i tipi di galee veneziane erano anche dotate d’uno o due altri timoni di riserva alla
navaresca, detti anche baonensi, ossia coadiuvati da due grossi remi, a mo' di vascello tondo. Il de
la Gravière da queste misure approssimative del timone di galera latino: lunghezza m.7, larghezza
in basso m.1, larghezza in alto cm. 33, spessore cm. 11 (Jean Baptiste Jurien de la Gravière, Les
derniers jours de la marine a rames., Parigi, 1885). In caso che per avaria si perdesse in mare il
timone, si usava cercare di governare provvisoriamente la galera passando all'altezza delle due
scalette d'accesso alla galera poste - una per banda - alle spalle (gr. αἱ ἀναβάθραι εις τῶν
παρεξειρεσίῶν, ‘le scale alle spalle’), cioè ai due piccoli copertini posti davanti al quartiero di
poppa, due remi dei banchi di spalla, a mo' appunto di timoneria navaresca o anche di timoneria
antica, perché così vediamo nelle poche immagini rimasteci delle triere dell’antichità. Dietro alla
221

timoniera la poppa terminava con degli sporti a banco sostenuti dai termini (fr. termes; ol. beeldt-
werk, beelden, termen, staat-houten, hoek-mannen), vale a dire da grandi cariatidi (blt. tuscia) di
legno intagliato raffiguranti angeli (fr. termes angeliques), ercoli, amazzoni, sirene (fr. termes
marins), satiri (fr. termes rustiques), turchi ed altri, figure possenti e non necessariamente ben
rifinite, le quali reggevano un piano di balcone chiuso al di fuori da una piccola balaustrata di
colonnelle dette gelosie e da una scultura figurata detta coronamento; il tutto decorato con ricche
dorature e simboli araldici (vn. arme di pizuol) che andavano naturalmente ripristinate
frequentemente perché spesso cancellate dai flutti e dall'altre intemperie. Il lavoro artistico
d’intaglio delle sculture di poppa delle nuove galere non era quindi eseguito da personale
dell’arsenale, ma s’affidava a partitari (‘appaltatori’) esterni, e particolarmente specializzati in
questo tipo di decorazioni navali era l’arsenale di Napoli. Grandi figure lignee significative e
decorative si erano sempre usate a poppa dei vascelli e Erodoto ci racconta che i fenici ne
usavano alcune rappresentanti loro particolari divinità marine chiamate in greco Pàttaicoi
(Πάτταιϰοι), facendo però l’errore, peraltro corretto dal Suida, di crederle a prua (Suida, cit. LT. III,
p. 59), posizione estremamente improbabile perché, a meno che non fossero una sorta di polene,
vi avrebbero ostacolato l’alacre e continuo lavoro dei proeri.
Talvolta le predette gelosie erano sostituite dalla galleria (fr. galeries, balcons, sardins, jardins),
ossia da una lunga balconata incurvata, scoperta o coperta, la quale circondava esternamente
tutta la poppa ed era soprattutto adibita al passaggio, in modo da non doversi così
necessariamente infastidire il capitano e la gente di poppa in generale, ma vi si tenevano
ordinariamente anche i grossi orci o giare di terracotta in cui si ancora si conservava l’acqua dolce,
se non più l’olio e il vino come s’era invece dall’antichita al Basso Medioevo; a partire dalla
seconda metà del Seicento queste gallerie, le quali gl’inglesi usavano fare molto grandi e ornate,
se coperte, verranno talvolta arredate con armadi e piccoli letti per dormirvi al fresco e si diranno
pure giardini perché spesso anche utilizzate per tenervi all’aperto i vasi delle piante medicinali da
cui il medico fisico e i barbieri più esperti traevano alcuni dei loro medicamenti; inoltre
cominceranno a essere fatte talvolta anche a prua, spesso solo per puro ornamento, e così sarà
per esempio per le galee veneziane del Settecento, le quali porteranno questi giardini appunto sia
a poppa che a prua. Esistevano vascelli dotati di gallerie lungo le intere fiancate e ciò quando, in
mancanza di una corsia centrale, ci fosse carico tenuto in coperta che rendesse più accidentato
del solito il passare da poppa a prua; a Venezia tali gallerie laterali si chiamavano spassizai.
Dal giogo (‘trave maestro’) della poppa sino a quello della prua c'erano prima le suddette spalle,
cioè due piazze lunghe meno di due metri, divise dalla corsia centrale, debordanti dai fianchi della
galera e nel cui debordo sbucavano le già ricordate scalette di cinque o sei gradi che
222

fiancheggiavano la poppa e servivano per salire a bordo della galera; erano tali piazze munite di
banchi lungo le murate laterali (gr. τοῖχοι) che servivano di giorno per sedere e di notte per dormirvi
sopra alla meglio; e poi da queste piazze iniziavano i remiggi o bancate (fr. chiourme), vale a dire
la lunga zona centrale della galera di quasi 29 metri dove stava seduta la ciurma a vogare, e più
propriamente si trattava della sequela di spazi di cinque palmi (circa m. 1,22) ognuno tra un banco
e l'altro, essendo invece ogni banco largo 2/3 di palmo (circa cm. 16,23). Nella succitata Fabrica di
galee l'altezza del banco di voga viene prescritta in piedi due e 5/6 per quanto riguarda i banchi
verso prua, mentre quelli verso poppa dovevano essere più alti di due dita. Questa differenza
d'altezza non viene motivata, ma noi pensiamo che probabilmente nelle galee veneziane del
Quattrocento si facevano sedere i remiganti più alti a poppa e i più bassi a prua, visto che la
Serenissima si serviva comunemente sia di vogatori dalmatini, del cui arruolamento si occupava
soprattutto il rettore veneziano di Zara, che di greci e i primi erano uomini sensibilmente più alti e
grossi dei secondi. L'interscalmo, vale a dire la distanza tra banco e banco, è detto dal Crescenzio
di quattro piedi (m. 1,29 circa), ossia tre assi di coperta. Ogni banco di voga era sorretto
all’estremità interna da uno zoccolo (fr. michon) addossato alla parete laterale della corsia e a
quell’esterna da un reggi-mensola attaccata al solo pavimento
Lateralmente alla zona dei remiggi, ai bordi della galera, correvano le bal(l)estriere (fr. courroirs),
cioè due tavolati - uno per lato - larghi una quindicina di pollici, ossia una quarantina di centimetri,
sui quali trovavano posto, tra i remi manovrati dai remiganti, i soldati, i quali altrimenti avrebbero
impacciato sia la voga sia il riposo della ciurma; questa infatti con i suoi banchi ingombrava tutta la
coperta dei remiggi fino alla corsia centrale. Le balestriere servivano anche per adagiarvi per lungo
i remi quando se ne disarmava la galea; il nome di questi tavolati derivava dall'esser stati fino al
Quattrocento incluso il luogo dove - tra uno scalmo e l'altro - si appostavano i balestrieri per
bersagliare il nemico, cosa che invece ora si faceva con gli archibugi.
Tutta la descritta zona - spalle e remiggi - era divisa da una strada sopraelevata centrale più alta
della coperta di circa un metro e larga altrettanto, la quale permetteva il transito da poppa a prua e
si chiamava infatti corsia [fr. corsi(v)e; vn. corador; sp. cruxía, corredor]; questa era formata da due
paretine laterali (galle in veneziano) ed era coperta da un tavolato le cui tavole, chiamate quartieri,
si potevano mettere o togliere secondo il bisogno perché l'interno della corsia era, come vedremo,
usato come comodo ripostiglio sia della tenda che delle manovre di pronto impiego; terminava a
poppa con un palco posto tra le due predette spalle, lungo circa quattro piedi veneziani e più
rilevato d’un mezzo braccio rispetto al resto della corsia, palco che, detto in veneziano
capomartino (gr. ἐπισείων; lem/ctm. tabernacle; cst. carroza), prendeva, per metonimia, nella
marineria di ponente o tirrenica lo stesso nome d’un pilastrino a esso retrostante, cioè dello
223

stentarolo o stendarolo (dal tlt. stentarium, ‘stendardo’; gr. στηλίς, στηλίον), così chiamato in
quanto, se si trattava della Capitana, vi si alberava il vessillo del capitano generale o, in caso di
combattimento, quello, un po’ più grande, della Corona o dello Stato, e se invece di una galera
sensiglia semplicemente la bandiera della compagnia di fanteria che quella galera imbarcava; nelle
armate catalane medievali i viceammiragli avevano portato sul detto tabernacolo delle loro galere
una bandera reyal, cioè un vessillo con le armi del sovrano ma più piccolo di uno stendardo; infine
diremo che nelle triere antiche vi si teneva appeso il vessillo del vascello, il quale aveva la forma di
una lunga striscia di tessuto e si diceva in greco ταινία. Sul predetto palco soleva intrattenersi il
còmito a comandare le manovre o la voga.
All'estrema prua si alzavano invece per circa quattro piedi veneziani, da una parte e dall'altra della
corsia, due palchi o piazze uguali e unite, chiamate rembate (vn. garide), sopra le quali stavano i
marinai addetti al servizio del trinchetto oppure una trentina di soldati, se si doveva combattere,
mentre in navigazione o in sosta i tavolati che ne costituivano la parte superiore, detti sbarre, si
tenevano aperti e sollevati di fianco per dare più agio alle manovre di prua; le strutture sulle quali
poi s’abbassavano e poggiavano per combattere erano forse quelle dette contra-rambate a cui si
fa cenno nell’interessantissimo Governo di galere, trattatello manoscritto post-rinascimentale,
opera d’un anonimo capitano della squadra di Sicilia (Discorso circa il modo et maniera ha da
tenere un Capitano in governare bene la sua galera in tutti viaggij et occasioni li potessero
occorrere, cosi parimente de tutti officiali et ministri di essa (s.d.) S.N.S.P. Ms. XXII.C.7.). Queste
rembate, dette a volte anche rambate o rombate, erano un’evoluzione del castelletto di tavoloni
che abbiamo già ricordato a proposito del trombone che, come abbiamo visto, s’usava
comunemente alla prua delle galere medievali prima dell’invenzione dell’artiglieria pirobalistica; a
sua volta il detto castelletto medievale era stato un’evoluzione della torre di prua, cioè di un’ opera
morta di fortificazione spesso presente nella galera antica. Il nome rembate veniva per sineddoche
dal greco ρεβαμμέναι πρώραι, ‘prore miniate’, cioè rosse, perché, come poi meglio ricorderemo, gli
antichi greci usavano dipingere appunto di rosso le ‘guance’ (lt. genae; gr. παρειαῖ) della prua dei
vascelli da guerra e difatti nell’Iliade, oltre a leggere in diverse occasioni di navi da carico
semplicemente nere - perché già da tale antichità s’usava di proteggerene le opere morte dei
navigli (ma non di quelli piccoli) dalle intemperie marine ricoprendole di catrame, ne troviamo in
una dodici ‘dalle rosse guance (gr. μιλτοπάρῃοι), quindi trattandosi evidentemente in questo caso
di vascelli da guerra:

… Procedevano con lui novanta navi da carico (Τῷ δ' ἐνενήϰοντα γλαφυραὶ νέες ἐστιχόωντο).
… Avanzavano con lui quaranta navi nere (Τῷ δ' ἂμα τεσσαράϰοντα μέλαιναι νῆες ἒποντο).
224

… Avanzavano con lui dodici navi dalle rosse guance (Τῷ δ' ἄμα νῆες ἓποντο δυώδεκα
μιλτοπάρῃοι).
… Avanzavano con loro ottanta navi nere (Τοῖσι δ' ἂμ' ὀγδώκοντα μέλαιναι νῆες ἒποντο).
… Procedevano con loro trenta navi da carico (Τοῖς δὲ τριήϰοντα γλαφυραὶ νέες ἐστιχόωντο).
(The Iliad of Homer etc. LT. II, vv. 602-733. Boston, 1835.)

Chiamavano comunque le guance di prua anche ale (gr. πτερά). Nella guerra di corso, per render
la galera più leggera e veloce, alcuni, come per esempio il famoso corsaro tunisino Murat Rais,
preferivano non solo non usare rembate, ma nemmeno portarle a bordo.
Sotto le rembate c'era il tamburetto o tarmoletto (fr. tambouret), ossia quella breve parte iniziale
della galera che andava dalla ruota di prua al giogo di prua e che era lunga poco più di 2 metri e
mezzo, ma riuscendo, ciò nonostante, a contenere, oltre all’artiglieria di prua, la quale era la più
importante della galera, anche gli armeggi, ossia le ancore e le loro gùmene, i proesi, cioè le funi e
gomenette con le quali si ancoravano per prora i vascelli.
Avanti al tamburetto c'era infine un piano basso, triangolare e non pavesato né tanto meno
soppalcato (lt. contabulatus), il quale sovrastava il tagliamare e terminava in avanti a punta con lo
sperone e, in quanto quasi a fior d'acqua, faceva parte dell'opera viva (ol. onder-huidt, buiten-
huidt) dello scafo, ossia del fasciame esterno, il quale si diceva in francese – nel caso delle galere
– rombaliere e nel caso dei vascelli tondi franc-bord(age), dovuto quest’ultimo nome all’originale
significato di franc, cioè appunto ‘esterno’, e, anche se ponte inferiore si chiamava franc-tillac,
questa non era una contraddizione in quanto in origine tale ponte era stato logicamente l’unico dei
vascelli e quindi esterno. Questo piano, detto palmetta, serviva soprattutto, come abbiamo già
detto, all'avancarica dell'artiglieria di prua, ma era anche utile alla manovra delle ancore e dei
gavitelli. Lo stesso nome di tamburetto portava un ripostiglio posto a proravia dell'albero di
maestra, nel quale i bombardieri tenevano una saccoccia di polvere e altri materiali e attrezzi più
urgenti per il servizio dell'artiglieria.
Avanti alla prua e sopra il tagliamare sporgeva in avanti lo sperone [vn. sprone, becco; fr. éperon,
espron, po(u)laine, pouleine, cap, avantage, nez; ol. galjoen, neus], strumento anticamente
chiamato rostro (gr. προέμβολον, ἀϰροτόλιον) e atto a urtare e sfondare il vascello nemico, ma ora,
cioè da quando agli inizi dell’Impero Romano d’Oriente i bizantini, secondo un uso però già
inaugurato dagli antichi rodiesi, gli avevano preferito a prua il sifone lancia-fuoco, era invece di
semplice legno sottile non armato, perché usato solo come mira del corso del vascello; oltretutto
l’urto fatto con l’antico rostro aveva avuto il difetto di rischiare di danneggiare la prua dello stesso
vascello assalente, quando la stessa non fosse stata ben fatta. Considerando ora la lunghezza
della galera, che abbiamo detto di m. 42,38, divisa in 47 parti, secondo un calcolo teorico originale
del tempo, abbiamo la seguente ripartizione:
225

Poppa (5/6 parti) = m. 5,41 max.


Spalle (2 parti) = 1,80
Remiggi (32 parti) = 28,85
Coniglia (3 parti) = 2,70
Tamburetto (4 parti) = 3,61

Tot. 42,37

Le sei boccaporte (fr. écoutilles) delle camere della galera erano botole quadrangolari adiacenti
alla corsia, alcune aperte alla sua destra, altre alla sua sinistra; erano poste tra banco e banco e
quindi quei vogatori interni che sedevano in loro corrispondenza poggiavano i piedi sopra le loro
cateratte [fr. pan(ne)aux]. La prima delle 6, quella cioè della camera di poppa, si apriva solitamente
nel tavolato della spalla destra ed era spesso rettangolare e posta nell'angolo che la corsia
formava con il rialzo del tavolato di poppa; ma la posizione di tutte queste boccaporte è così
indicata dallo Hobier: quella predetta della camera di poppa, a fianco del capomartino; quella dello
scandolaro, al sesto banco di dritta; quella della compagna, al decimo banco di sinistra; quella del
pagliuolo, al dodicesimo banco di dritta; quella della camera di mezzo, al sedicesimo banco di
sinistra presso l'albero e, quella della camera di prua, al ventitreesimo banco a dritta. Queste sei
boccaporte, le quali saranno invece generalmente sette nelle galere del Settecento, erano protette
da incerate di canovaccio a evitare le infiltrazioni d'acqua; in caso di mare grosso quelle di prua
addirittura si calafatavano temporaneamente.
A causa dell’adozione del più lungo e doppio remo di scaloccio, si era dovuto ingrossare e
allargare di molto anche il grosso telaio (telaro) rettangolare che poggiava sullo scafo della galera,
una struttura fatta di robusti tavoloni spessi un palmo napoletano, la quale era ora più larga dello
scafo stesso di circa un metro per lato e quindi dai lati sporgeva sensibilmente sul mare; esso era
costituito, a poppa e a prua, da due grosse e spesse travi chiamate i giuochi e, nei suoi lati
maggiori, da altre due grosse travi che, iniziando subito dopo la spalla, finivano alla coniglia (fr.
conille; sp. curulla) e si chiamavano le posticcie o, più raramente, i posticci (grb. προεξειρεσίαι); al
tempo dei remi a voga sensile, queste travi laterali avevano poggiato direttamente sui bordi dello
scafo, ora invece sporgevano decisamente dai fianchi della galera, essendo sostenuti da circa 25
legni trasversali per ogni lato detti baccalari e lunghi quasi quattro piedi veneziani, che andavano a
conficcarsi nella coperta della galera e sui quali si poggiavano le reggiole, ossia tavole che
riparavano la gente e la roba di coperta dal cadere in mare. Poiché gli scalmi (gr. σϰαλμοί,
ϰοπητῆρες) dei remi erano piantati su queste posticcie, il telaro assumeva due importantissime
funzioni; la prima era quella di fornire un sostegno al giusto punto d’appoggio dei remi, cioè al
subscalmium (gr. ἐπισϰαλμίς) cosa che non sarebbe stata possibile senza di esso sia perché che
lo scafo della galera, visto dall'alto, presentava una forma a fuso e non a rettangolo e sia perché
226

tutto il tormento prodotto dal lavorio dei remi restava così assorbito proprio da questo telaio e non
dalle fiancate della galera, le quali, quando appunto erano state prive di questo importante rinforzo,
ne risultavano inevitabilmente presto danneggiate. La predetta necessità di una gran sporgenza
delle grosse posticcie non si era sentita invece nella costruzione delle galeazze ponentine e delle
galee grosse veneziane in quanto questi vascelli molto più simili di garbo ai vascelli tondi che ai
sottili e quindi già di per sé molto più ampi. Le antiche triere non avevano dunque avuto queste
posticcie attorno alla zona centrale della galea, quella dei remigi insomma, presentavano però un
telaio di travi attorno alla poppa, probabilente per difesa dagli abbordaggi, come leggiamo in G.
Polluce:

… le travi prominenti attorno alla poppa si chiamano ‘peritonee’ (τὰ δὲ περὶ τὴν πρύμναν
προὓχοντα ξύλα, περιτόναια ϰαλεῖται. Cit. I.IX, pag. 60).

Le galere portavano ordinariamente due alberi, il maestro e il trinchetto; il primo era alto nelle
galere ordinarie 27 cubiti, ossia m. 19,73 (ma 21,69, secondo il più tardo Furtenbach), aveva
un’antenna di cubiti 50, cioè m. 36,53 (44,58), era spesso due palmi di diametro al piede e palmi
uno ed 1/3 al calcese ed era piantato ai 2/3 della lunghezza del vascello a partire dall'estrema
poppa, vale a dire verso il 17mo banco. Quando si alberava, lo si faceva discendere dalla corsia in
un condotto (gr. ληνός, ἰστοδόϰη) che terminava sulla scassa (gr. πτέρνα, πέδη, πέδα; fr. michon),
posta sul paramezzale della chiglia della carena o controcarena [fr. contre-quille,
(ê)(es)ca(r)lingue; ol. tegen-kiel] della chiglia della galera, sulla quale lo si doveva imbiettare;
invece, quando si voleva disarborare (fr. demâter; ol. reggen) la galera, magari per meglio
occultarla in qualche d’una costa nemica, si abbatteva l'albero di maestra adagiandolo nella corsia
fino allo stentarolo, cioè fino al palco di comando di cui abbiamo detto. I marinai lo abbassavano
tirandone pian piano dalla quarnara il calcese verso poppa, mentre la ciurma dei remiganti lo
sosteneva dalla dritta con un prodano. L'albero di trinchetto era lungo cubiti 18, ossia m. 13,15
(13,01, sempre secondo il Furtenbach), portava un’antenna di 32, cioè m. 23,38 (26,99) ed era
posto a prua a poppavia delle rembate; in qualche squadra o stuolo (dal lt. ex-tollo, ‘faccio uscire’.
Gr. στόλος, ‘armata di mare, flotta militare’) poi si usava, se necessario per una maggior velocità,
inalberare anche un albero di mezzana o artimone (fr. mezanin) di 15 cubiti (m. 10,96) con
un’antenna di 26 (m. 18,99) tra il maestro e la poppa e anche mezzana (fr. mezanin) si chiamava
infatti la vela che a quello si alzava; le galere di Sicilia per esempio non l’usavano. Il trinchetto, a
differenza dell'albero di maestra, nasceva dalla stessa coperta, dove era sostenuto da due forti
ganasce di legno dette maimoni. Nelle antiche galee greche i remiganti, i quali, tra l’altro, erano
anche adibiti ad abbattere e a reinalberare l’albero di maestra perché considerati i più esperti in
227

questo importante compito, avevano un nome particolare, cioè erano chiamati ortiòcopoi
(ὀρθιόϰωποι).
Come abbiamo già visto nel caso delle galee del re di Napoli Carlo I d’Angiò del 1274, fino a
Rinascimento inoltrato le galere avevano però portato invece un solo albero, cioè quello maestro,
più uno di mezzana di riserva con la sua antennella; il primo allora disponeva di due sole vele, cioè
l'artimone, lungo in antennale 15 passi, e il terzaruolo, lungo in antennale 12 passi; il secondo della
sola mezzana, dall'antennale d’otto passi. Non si era usato quindi allora il trinchetto, il quale sarà
introdotto in sostituzione del predetto di mezzana per allontanare evidentemente dal comando di
poppa l’impaccio della manovra d’un albero. Lo Jal si meravigliava di vedere immagini di galee
veneziane quattrocentesche con un solo albero, mentre il materiale elencato per costruirle ne
comprendeva due; avrebbe in verità dovuto capire agevolmente che quello di mezzana con la sua
antenna anche allora s’inalberava solo eccezionalmente per aumentare la velatura. Era portato
inoltre, da queste galee veneziane del Quattrocento, anche un pennone di rispetto (fr. vergue de
beille), evidentemente per una vela talvolta usata dalle galere, la cochina che poi vedremo.
Secondo alcuni autori le galere turche furono molto più tarde delle cristiane ad adottare il
trinchetto, ma non è da credersi tanto se il Diedo, nella sua narrazione della battaglia di Lepanto, a
lui contemporanea, scriveva che l’armata turca, avvicinandosi a quella della Lega, se ne veniva a
vela co’ trinchetti col vento di levante (Carlo Téoli, La battaglia di Lepanto descritta da Gerolamo
Diedo e la dispersione della Invincibile Armata di Filippo II illustrata da documenti sincroni. P. 20.
Milano, 1863.)
All’assedio e blocco navale di Algeciras del 1342-1343 i castigliani, tra i vascelli moreschi che
tentavano di portare soccorso alla città, videro venire una galera a due alberi, caratteristica
evidentemente allora insolita:

… videro venire quella galera che i mori inviavano carica di vivanda e portava due alberi e due
vele e, poiché c’era un forte vento, avanzava verso la città molto velocemente…. (Juan Nuñez de
Villasan, Cronaca del re Alfonso XI di Castiglia. F. 181 recto).

Gli alberi migliori e più adatti da farne alberatura di galere erano quelli che s’importavano dalla
Fiandra e dall’Olanda, ma molto apprezzati a tal scopo erano anche i pini della Sila cosentina.
L'antenna dell'albero di maestra - detto anche di maestra, se ci si voleva riferire alla vela che
portava - era formata da due lunghe palanche legate insieme, delle quali quella a poppavia si
chiamava penna (vn. ventame) ed era più lunga e sottile di quella a proravia, detta invece carro
(vn. stello); la penna si allungava con un altro pezzo di legno di circa 15 piedi (m. 5,20) chiamato lo
spigone, ma questo si applicava solo quando si voleva spiegare (lt. pandere; fr. deferler) la vela
maggiore. Il predetto nome di penna derivava dall’essere il detto legno quello a cui era legato
228

l’angolo superiore della vela latina, angolo che, a causa della sua forma, si chiamava appunto con
questo stesso nome. Anche in due parti erano divise le antenne di trinchetto e della mezzana.
Questa descrizione dell’antenna della galea è importante anche perché, confrontata con quanto
nel secondo secolo d.C. Giulio Polluce (cit. I.IX, pp. 62-63) scriveva invece dell’antenna dell’antica
triera greco-romana, risalta una grande differenza nautica dei due vascelli; infatti, mentre l’antenna
della prima era dunque mobile, asimmetrica. parallela e convergente con la lunghezza dello scafo,
fatta soprattutto per reggere vele latine, quella dell’antica triera era invece fissa, simmetrica e
perpendicolare, destinata quindi a sostenere vele quadre secondo l’uso di tempi in cui il veleggiare
con vele latine non era ancora conosciuto.
La galera ordinaria portava solo due vele e cioè la maestra e il trinchetto, sempre però che non si
alzasse anche la suddetta mezzana. La maestra era di quattro tipi, ognuno dei quali si usava a
seconda del vento che spirava e uno solo dei quali era quadro, cioè quello chiamato trevo [vn.
cochina; fr. treou, (voile de) fortune; ol. bree-fok), una vela che si usava da sola per correre
durante i fortunali e per montare la quale la galera era, come abbiamo detto, anche fornita d’un
normale pennone che si conservava nella corsia e il cui nome aveva ovviamente la stessa origine
di quello suddetto di penna, essendo inoltre anch'esso, come le antenne, composto di due pezzi
legati; usavano il trevo anche le galeotte e, come abbiamo già detto, le tartane. Gli altri tre tipi di
vela maestra erano latini e si chiamavano bastardo, borda e marabut(t)o, qui menzionati in ordine
di grandezza decrescente. Il marabut(t)o o marabotto era dunque la più piccola di queste tre vele e
si usava con i venti freschi e gagliardi; il bastardo invece si adoperava solitamente con i venti estivi
perché dolci e temperati; la borda infine con i venti di media forza. Le sole galere di Malta usavano
ancora una quarta vela latina detta artimone o bastardino (actlt. artimons borts. Muntaner) e di
grandezza intermedia tra bastardo e borda, la quale era invece stata d’uso generale nel Medioevo,
come vedremo più avanti nell’ultimo capitolo, quello cioè dedicato alle galee medievali catalane. Le
vele del trinchetto e della mezzana, ambedue latine, portavano lo stesso nome dei loro rispettivi
alberi, ma la prima, usata alternativamente al trevo o con esso nelle maggiori tempeste, era stata
chiamata tradizionalmente lupo dalla gente di mare ponentina fino a tutto il Rinascimento. Per
quanto concerne la velatura che usavano le galere levantine, sia veneziane e sia turche,
rimandiamo al capitolo sulle più antiche galere a voga a sensile, in quanto poco era cambiato da
quell'epoca; solo notiamo che lo Jal attribuisce alla vela detta mezzana delle galee veneziane del
Quattrocento il nome di papafico, nome che invece noi troviamo usato a quell’epoca solo dalle
galeazze o galee grosse e, per quanto invece riguarda le galee veneziane ordinarie, non solo non
prima del Settecento, ma anche come seconda vela dopo il terzaruolo, usato questo come nei
secoli precedenti; d'altra parte l'autorevolissimo ufficiale generale di galee veneziane Cristofaro da
229

Canal (lt. de Canali; in grb. invece Δεϰανάλης), vissuto nella prima metà del Cinquecento, nel suo
trattato Della milizia marittima, manoscritto che sarà pubblicato per la prima volta a Roma non
prima del 1930, non menziona mai tal nome ‘papafico’ e nega assolutamente l'uso d’una terza vela
sulle galere sottili veneziane, anzi considera questa mancanza un difetto delle galere della
Serenissima. All'occorrenza, in caso di venti troppo forti, si potevano restringere sia la vela detta
maestra sia quella di trinchetto di circa un terzo, legandole alle rispettive antenne a mezzo di
matafioni, ossia di corde attaccate alle vele stese, e ciò si diceva far il terzaruolo alla vela. Così
fece la flottiglia del corsaro Barbarossa nel 1533 all’isola di Pantelleria, dove, mentre si trovava
all’ancoraggio, fu sorpresa da un fortunale:

… salpammo e doppiammo un capo e corremmo in terzaruoli verso il levante dell’isola dove


pensavamo di trovare qualche riparo… (Colección de documentos inéditos para la historia de
España etc. P. 385. Tomo II. Cit.)

Le vele delle galere bastardelle erano di solito alquanto più grandi di quelle delle galere sottili. A
proposito del da Canal, c’è da dire che egli apparteneva a una famiglia la quale sul mare si era già
distinta anche nei fatti di guerra tra Venezia e i turchi che si svolsero dopo la caduta di
Costantinopoli e infatti nel 1470 troviamo Nicola da Canal prima provveditore d’armata e poi
capitano generale dell’armata di mare veneziana:

… il capitano generale del mare dei veneziani di nome Nicola Decanale… (ὂ τῶν Ένετῶν
ναύαρχος τοὒνομα Νιϰόλαος Δεϰανάλης. Giorgio Franzes, cit. LT. IV, cap. XXIII.)

In seguito però il Franzes lo chiamerà anche solo Κανάλης, cioè senza il Δε. E’ probabile che dalla
medesima famiglia verrà molto più tardi anche il famoso pittore Giovanni Antonio Canal detto il
Canaletto (1697-1768) e ciò perché in quei secoli le famiglie non avevano ancora avuto né il tempo
né i modi di ramificarsi particolarmente. La circostanza però che in latino il cognome si trovi
sempre scritto de Canali, cioè con un ablativo in -i che invece, come i latinisti ben sanno, per esser
corretto, dovrebbe essere in -e, ci fa prendere in considerazione un altro più antico cognome
patrizio veneziano e cioè Nani, non ritenendo infatti improbabile che il cognome originario dei da
Canal fosse in effetti de Ca’ Nani, ossia ‘da Casa Nani’.
Riteniamo utile adesso riassumere in un quadro, dividendoli per epoche, i nomi delle vele delle
galere cristiane ordinarie in cui ci siamo imbattuti, chiarendo che non si tratta pertanto di tutte le
vele allora usate:

Rinascimento:

Ponentine
230

artimone fz. 60
lupo fz. 54
borda fz. 32
trevo

Veneziane
artimone fz. 52
terzarolo fz. 36
cochina

Controriforma:
Ponentine
bastardo
borda
marabuto
trevo
trinchetto

Veneziane
cochina

Settecento:
Veneziane
terzaruolo fz. 48
papafigo fz. 34
cochina fz. 19.

Vogliamo anche riportare per completezza i nomi delle vele delle galere francesi post-
rinascimentali riportati dal già ricordato de la Gravière, anche se citiamo questo autore sempre
‘con beneficio d’inventario’, sia perché descrive galere più tarde d’almeno un secolo di quelle che
ci occupano sia perché, per palese superficialità, non fa distinzione tra tempo e tempo, non
intravedendo minimamente l'evoluzione che si ebbe tra Medio Evo e Settecento nella navigazione
remiera, inoltre anche per i marchiani errori interpretativi e per il voler attribuire a quei tempi
immagini della navigazione della sua propria epoca:

Grand marabout fz. 50


Maraboutin fz. 44
Mizaine (mejane) fz. 36
Voilette o boufette fz. 28
Polacron
Grand Trinquet fz. 38.
Trinquenin fz. 28
Tréou (quadra) fz. 34.
231

Si tratterebbe di vele tutte fatte di cotonina doppia, tranne il grand marabout e il grand trinquet di
cotonina semplice.
Ogni galera, come del resto ogni altro vascello abbastanza grande, portava il suo schifo (dall’gr.
σϰάφος, ‘imbarcazione’; td. Schiff; in. ship) o palischermo (dall’gr. πολυσϰαλμοι, tlt. anche
parascernus; lem/ctm. panescal; gr. σανδάλος) o fregatina, ossia una barchetta chiamata in cst.
barco, a Venezia còppano e più tardi in Francia caique o anche chaloupe, il quale era tenuto al lato
destro della coperta in un luogo detto pertanto barcariggio o barcherizzo e cioè in corrispondenza
dell'ottavo banco, dove poteva o stare poggiato su due cavalletti di legno, sovrastando così i
remiganti di quel banco, oppure poteva occupare il remiggio stesso; nel primo caso questo
bastimento mobile della galera era più fortemente tenuto affinché i forti venti o il piegarsi della
galera alla banda non lo facessero cadere in acqua. Tenendolo sui cavalletti c'era lo svantaggio
che si appesantiva e s’ingombrava alquanto la galera sulla destra e si aveva un po' di fastidio nel
prueggiare, cioè nell'andar contro vento; nel secondo caso si doveva invece rinunziare a un remo.
Lo schifo non avrebbe dovuto essere tanto piccolo perché in teoria doveva servire anche per
sbarcare fanteria, anzi in tali occasioni e in altre che vedremo spesso più avanti si armava con
qualche piccolo pezzo d'artiglieria; però in realtà e per lo più esso era un piccolo battello di servizio
adatto a portare non più di tre persone, le quali del resto erano sufficienti a governarlo, e ciò non
perché non ve n’entrassero di più, ma perché era pericoloso sovraccaricarlo di gente, dato il
particolare sistema con cui si metteva a mare e s’issava a bordo; esso infatti si faceva scivolare in
mare e si ritirava poi a bordo mollandolo o tirandolo lentamente con delle barbette sul piano
inclinato formato - a mo' di scivolo e di rampa - dal palamento tenuto a tal scopo dai remiganti con
le pale nell'acqua e, per facilitare questa manovra, la galera si faceva preventivamente sbandare
facendo ammassare tutti gli uomini sul lato destro. Era questa una manovra che era stata resa
possibile dall’adozione dei grossi remi di scaloccio, in quanto molto più grossi e forti dei precedenti
sensigli che si sarebbero spezzati; si trattava di manovre da eseguirsi comunque con molta
attenzione perché, come si può facilmente immaginare, bastava che la ciurma tirasse più da una
parte che dall'altra per far rovesciare a mare lo schifo e farlo così affondare.
Nel Quattrocento, come si legge nella già citata Fabrica di galee, tutte le galee grosse veneziane
portavano, oltre al còppano, anche una barcha, ossia una piccola imbarcazione a vela latina e
quest'uso di portare a bordo, oltre al caique, pure un canot (gr. ἐφολϰίς, ἐφόλϰιον; lt. scapha; it.
fregatina, cst. e mrs. zabra), viene riferito dal de la Gravière anche per le galere francesi post-
rinascimentali (Cit.); bisogna però considerare che il più delle volte questa seconda piccola
imbarcazione, per non ingombrare e appesantire eccessivamente la leggera galea, si portava a
rimorchio (lt. remulcum, promulcum), specie se si navigava in condizioni atmosferiche favorevoli
232

che permettessero appunto i traini. Le scialuppe portate a rimorchio dai vascelli bizantini si
dicevano ἐφόλκαια o anche ἐφολκίδες, appunto dal verbo ἒλϰειν, ‘tirare, rimorchiare’, che però si
diceva anche ἐλκύειν e ῥυμουλϰέιν, da non confondersi però con gli ἐφύλκια o ἐφόλκια, i quali,
come già detto, erano quei piccoli càrabi usati non da rimorchi ma al contrario per rimorchiare.
Ogni galera portava quattro ferri, termine tipico delle galere [vn. rampiconi o rampegoni; fr.
(hé)(é)risson, (grapin de) fer, (ha)rpeau(x); ol. (enter-)dreggen], ossia quattro ancore a quattro
bracci curvi all’insù e terminanti a punta di freccia, tipici delle galere e dei vascelli di basso bordo in
genere; due d’essi si trovavano a prora sotto le rembate, poggiati orizzontalmente ai due lati
dell’artiglieria, e due ai fianchi, cioè uno allo schifo e uno al fogone, vale a dire il luogo per cucinare
di cui parleremo; la gùmena di un’ancora ordinaria doveva pesare circa otto cantára. I veneziani
chiamavano la maggiore anchoressa e questa pesava 600 libre (kg. 265,50 e s’usava solo durante
i più forti fortunali; chiamavano poi la mezzana marzocco e questa - di libre 550 - si adoperava
durante i fortunali di media forza; il terzo e ultimo, detto sempre a Venezia ferro della posta e nei
mari di ponente invece guardiano, pesava 500 libre ed era quello col quale ordinariamente si
sorgeva, ossia ci si ancorava a prora, quando il mare era abbastanza calmo. Ogni galera portava
quante funi e gomene si poteva permettere e il da Canal scriveva che tra galere levantine e
ponentine non c'erano a questo proposito sostanziali differenze ed era notorio (et ciascuno sa) che
la gùmena da galera sottile era lunga 65 passi (m. 113 circa) e che pesava 10 libre al passo; che
una palombara era lunga 50 passi (m. 87 circa) e pesava otto libre al passo; che un provese era
lungo 66 passi (m. 114,5) e pesava sei libre al passo. C'erano poi molti altri tipi di funi la cui
doppiezza e il cui peso variavano a seconda dell'uso a cui erano destinati, come per esempio
all’ormeggio, il quale generalmente avveniva di poppa. La fune più grossa in assoluto era l'usto (tlt.
palamarium; lem/ctm. palomer), grossa gomena incatramata che si adoperava per ormeggiare alle
bitte o longoni portuali [lt. pali prymesii (da praemitto, ‘metto innanzi’), tonsillae; gr. λογγόνες
oppure λιθοϰλιμένοι. Suida, cit. P. 456] i vascelli più grossi o anche le galere in tempo di fortunale
(fr. anche grand tems, gros tems; ol. anche onweer, swaar weeder, verleegen weer, verwaait weer,
rouw weer, hardt weer). Le tonsillae erano dei pali appuntiti dal lato che si piantava nel suolo
costiero e all’altra estremità invece ferrati per fortificarli (Sesto Pompeo Festo, cit. P. 539).
Al tempo della voga a sensile le galere avevano portato invece comunemente tre soli ferri, i quali,
come scriveva il già menzionato da Canal, si usavano uno alla volta a seconda della forza del
mare. Se andiamo ancora più indietro nel tempo troviamo le galee grosse veneziane del
Quattrocento, sia le quattro dette di Fiandra sia quelle dette invece di Romania, cambiando infatti il
garbo costruttivo a seconda del viaggio a cui erano destinate, provviste di cinque ferri di 600 libre
ognuno e di cinque canapi o gomene di 70 passi ognuna e pesanti sette libre al passo, mentre le
233

galere sottili volevano tre soli ferri di 400 libre e quattro canapi da 50 passi a 6 libre al passo; non
sappiamo quali ferri avessero invece le cinque galee grosse di Barbaria. In realtà nel Medioevo - e
ancora alla fine del Quattrocento – si faceva una distinzione tra ancora e ferro, essendo la prima
tridimensionale, cioè a più di due bracci, e il secondo invece bidimensionale, ossia a due soli
bracci contrapposti. Nel Seicento troveremo ancore anche di sei bracci; nel Settecento le galere
ordinarie avranno due ancore a prua, due a poppa e due piccole di rispetto e si tratterà, nel caso
delle prime quattro, di ferri più pesanti in quanto più pesanti saranno le galere di quel secolo; per
esempio le galere sottili veneziane porteranno due ancore da mille libre e due da 900.
Il fogone o fogone (foccolare in toscano; ol. haart) si trovava, per contrappeso e simmetria dello
schifo, in luogo dell'ottavo banco di sinistra e pertanto privava sempre la galera d’un remo;
secondo le descrizioni datane dal già citato Jurien de la Gravière, sostanzialmente simili anche se
così lontane nel tempo, si trattava d’un pesante cassone di legno ferrato a forma di parallelepipedo
e pieno d'argilla, i cui bordi reggevano graticole, fornelli e porta-spiedi; tale cassone, lungo
all'incirca quanto un banco, poggiava su quattro piedritti e seguiva, per forza di cose, la stessa
angolazione dei banchi della sua banda. Sulle galee veneziane sia il luogo del fogone sia quello
dello schifo erano alquanto elevati e protetti da un’incastellatura della pavesata. In caso di guerra
di corso, attività in cui la velocità era qualità essenziale, spesso il capitano rinunziava a portare il
fogone per poter aggiungere un altro banco di voga a sinistra e inoltre, venendo così a mancare un
sufficiente contrappeso con il lato destro, portava invece del predetto schifo, una fragatina
rinforzata, posta su cavalletti che sovrastavano anche il banco di sinistra e quindi l’intermedia
corsia, imbarcazione che sarebbe stata alla galera molto più comoda del troppo piccolo schifo per
mettere della gente a terra e per fare dell’acqua. Naturalmente, mancando il fogone, non era
possibile servire al personale cibi caldi e la sua alimentazione era decisamente peggiore, ma tutti
sopportavano volentieri anche questo disagio in vista di una compartecipazione pro quota ai bottini
(fr. pillages).
Ora che si usava il grosso remo di scaloccio, i remi (fr. anche gaches, sebbene antiquato) istallati a
bordo erano ovviamente tanti quanti i banchi e si fermavano, come abbiamo già detto, sopra quelle
parti d'opera morta chiamate (a)posticci o posticcie; ogni remo era legato al suo scalmo (gr.
σϰαλμός; lt. lorum; fr. tolet, échome; ol. dol, pen), ossia a un legno lungo circa un piede e piantato
nel posticcio, con uno stroppo (dal lt. strophium; gr. τροπός, τροπωτήρ, ἰμάς; fr. anche gerseau;
cst. estrobo; lem/ctm. strop), cioè con un pezzo di fune intrecciata, ma al punto di frizione tra il
remo e l'aposticcio c'era un cuscinetto formato dalla calaverna, ossia da un pezzo di tavola di
legno giovane, quindi più elastico, che si applicava al remo e che si cambiava quando fosse
usurato; nell’antichità invece, cioè quando i remi uscivano della murata attraverso quei fori rotondi
234

(lt. orbiculati) detti occhi di scalmo (gr. τρῆματα), per proteggere sia questi sia i remi dal reciproco
attrito, si fasciavano a quel punto i secondi con delle guaine fatte con le pelli più resistenti e
chiamate in lt. folliculi e in gr. ἂσϰωματα (nel Lexicon di Suida con accento diverso: ἀσϰώματα). La
cura e manutenyione di queste guaine era tanto importante per la conservazione dei remi e degli
scalmi che, come sappiamo da S. Pompeo Festo, la vita da remigante era nell’antichità romana
anche detta vita folliculare (Cit. Parte I, p. 60. Budapest, 1889). Ai suoi esordi il remo di scaloccio
era lungo - nella galera sottile ordinaria - circa 30 piedi, ossia circa metri 10, di cui ⅔ tenuti fuori
dell’aposticcio e ⅓ di dentro; il suo spessore era del diametro d’un palmo al girone (fr. mantenen;
lt. manubrium; gr. ἐγχειρίδιον), cioè all'estremità interna, e di mezzo palmo allo scalmo, cioè alla
parte mediana (gr. οὐραϰός). La pala (gr. πλάτη, πτερόν, ταρσός; lt. palmula, ala), nome derivato
per similitudine dalla palma della mano, era larga appunto un palmo. Il maggior spessore della
parte interna del remo serviva a equilibrare il peso della maggior lunghezza della parte esterna,
equilibrio che comunque generalmente si aiutava con il contrappeso d'una placca di piombo
applicata al girone e ciò per evitare di dover fare la stessa parte interna d'una eccessiva
doppiezza. L'insieme dei remi si chiamava palamento (vn. remezo).
I remi potevano essere di legno di faggio o d'acero, ma il primo era preferibile e generalmente
usato in tutte le squadre perché di gran lunga più forte e resistente al mare dell'acero, il quale,
sebbene più flessibile, assorbiva l'acqua, se ne gonfiava e diventava pertanto molto più pesante;
inoltre del faggio c'era maggior disponibilità. Il già menzionato Fausto suggeriva che comunque, in
caso di necessità belliche, si potevano benissimo usare anche l'abete e il larice, legni non forti e
adatti come i precedenti, ma che comunque erano facilmente reperibili in quanto d’essi erano fatti i
travamenti delle case. Grandi centri di produzione ed esportazione di remi da galera erano nel
Tirreno il regno di Napoli, specie Cetraro in Calabria, e Livorno; ma la falegnameria napoletana
eccelleva anche per la fabbricazione di ruote d'artiglieria e d'ambedue questi prodotti partivano dal
porto partenopeo frequenti carichi destinati soprattutto alla squadra di galere di Spagna e agli
eserciti che quella monarchia impiegava sui vari campi di battaglia europei e americani.
La galera, come abbiamo già ricordato, portava all'estrema prua uno sperone che fino a un recente
passato, cioè finché si era usata la voga a sensile e finché non si erano ancora diffuse
sistematicamete le artiglierie di prua, era stato di prassi ed efficacemente usato per urtare e
sfondare il vascello nemico e infatti allora era di ferro ricoperto di rame (adversus venientes hostes
prorars dirigere violenter. Bartolomeo di Neocastro, cit. Cap. LIII); ma ora era divenuto un
elemento dell’opera morta debolissimo perché di legno e inoltre lungo, sottile e così alto,
soprattutto nelle galere quartierate a prua, cioè dalla prua più larga e alta di quella ordinaria, che al
massimo avrebbe potuto danneggiare leggermente al nemico le opere morte. Quest'altezza dello
235

sperone faceva sì che esso si trovasse in genere proprio di fronte all'importantissimo cannone di
corsia (fr. coursier) e pertanto, quando si voleva sparare questo grosso pezzo d'artiglieria,
bisognava spesso prima tagliare l'inutile sperone per aprire la via sia alla mira del bombardiero sia
al proiettile stesso.
Poiché le galere turche avevano il becco, ossia l’estrema prua, più alto di quello delle cristiane,
specie delle veneziane, a Lepanto molti dei tiri d’incontro delle loro artiglierie si limitavano a
sorvolare quest’ultime senza colpirle e, quando i loro artiglieri, per ovviare a quest’inconveniente,
sceglievano di tirare il pezzo di corsia leggermente di ficco, cioè un po’ dall’alto in basso, oltre a
rendere il loro tiro di per sé più debole, spesso colpivano così il loro stesso sperone e lo
spezzavano, per cui il proiettile finiva per rimbalzare in alto e passare ugualmente al di sopra delle
galere cristiane senza danneggiarle:

... (Il nemico), mas aunque disparò su artilleria, danò poco, porque sus vasos eran màs altos de
ruedas y de trigante (‘dragante’) que los de Poniente...
…tenia la galera de Don Juan cortado el espolón y la de Alì (il capitano generale nemico) era màs
alta y assì entrò y cargò mucho sobre ella... (Lorenzo van der Hamen y León, Don Juan de
Austria. Historia etc. P. 177v. - 178r. Madrid, 1627.)

La circostanza è meglio spiegata dallo storico veneziano Giovan Pietro Contarini:

... Molti non fecero danno a' christiani perché le prove (‘prue’) delle galee turchesche erano tanto
alte più delle christiane che le bocche (d'artiglieria, pur) abbassate sin su i speroni, portavano
ancora tanto alto che cimavano di sopra le pavesate delle galee christiane... (Historia delle cose
successe dal principio della guerra mossa da Selim ottomano a' venetiani fino al dì della gran
giornata vittoriosa contra turchi etc. P. 51v. Venezia, 1645)

Ma perché i turchi preferivano costruire i capi, ossia le prue, delle loro galere così alti? Ce lo
spiega il bailo veneziano Marino Cavalli nella sua relazione sull'impero ottomano del 1560:

... Usano far li capi delle galee assai alti perché non si affoghino tanto nel mare come le nostre, lo
che dà ancora maggior vantaggio nel combattere e non cascano tanto... (E. Albéri. Cit. S. III, v. I,
p. 294.)

Dunque il Cavalli giudicava tale aspetto una buona qualità e non un difetto; ma ai suoi tempi non
c'era stata ancora Lepanto. É certo comunque che alla battaglia all’isola di S. Michele nelle
Terzeire (‘isole Azzorre’), avvenuta il 26 luglio del 1582 e con la quale gli spagnoli finirono di
recuperare quelle isole che erano state sino allora sotto il controllo di don Antonio di Portogallo
(1531-1595), priore gerosolimitano d’Ocrat (‘Crato’), il marchese di Santa Cruz, per evitare il
suddetto inconveniente, prima dello scontro con l'armata di don Antonio, fece tagliare gli speroni
236

dei suoi vascelli e lo stesso, a dire di Giuseppe Buonfiglio Costanzo (Historia siciliana etc. Venezia,
1604), sembra abbiano fatto i cristiani a Lepanto. Il Santa Cruz, forse il miglior capitano generale di
mare che la Spagna abbia mai avuto, fu prima generale delle galere di Napoli e poi fu chiamato dal
re a comandare l’armata oceanica della Spagna per fronteggiare il dannosissimo corsaro inglese
Francis Drake, il quale così è definito dal de Bourdeilles nelle sue famose Mémoires:

… le milord Drach anglois, le plus fameux homme de dessus cette mer qui ait esté il y a plus de
deux cent ans et qui a bien donné de l’affaire en Espagne. (Cit. T. II, p. 83.)

Fino a Cinquecento inoltrato, lo sperone era stato dunque molto solido e forte e anche allora con
un orientamento verso l’alto che serviva a ferire la galera nemica al fianco dell'opera morta, cioè a
fracassarle la posticcia, mandandone in rovina tutta la relativa impavesata, o direttamente questa
se quella ancora non c’era; il che era come aprire una breccia tra le merlature d'una città; non
serviva quindi a sfondarle il fianco più sotto e tantomeno sotto la linea di galleggiamento per aprirle
una falla, come oggi si crede. Inoltre questa sua inclinazione all'insù evitava appunto, anche nelle
più forti mareggiate, che esso cascasse (‘si tuffasse’) nel mare e anche facilitava al tagliamare il
suo compito di fendere le onde, il che rendeva la galera molto più nautica e veloce nel prueggiare,
cioè nel governare (gr. πηδαλιουχεῖν) contro vento. Lo sprone così inclinato era stato arma
offensiva anche delle galere turche, invece i veneziani avevano sempre preferito portarlo lungo e
orizzontale, quindi basso, e anche debole, per esser solo formato da due travicelli; pertanto non
solo si tuffava nell'acqua a ogni più piccolo movimento del mare, dando così grande impedimento
alla velocità del corso, ma in guerra andava a colpire l'opera viva della galera nemica, ricevendone
quindi, a causa della predetta sua debolezza, più danno di quanto ne potesse infliggere, anzi così
fracassandosi e lasciando la prua della sua galera disarmata.
Che le prue si fracassassero facilmente nello speronare il nemico, quando ciò appunto si era
usato, lo leggiamo nella Cronica del Muntaner a proposito della battaglia che nell’anno 1283
avvenne nella rada di Malta tra le galere aragono-catalane dell’ammiraglio Roger de Loria e quelle
provenzali dell’ammiraglio marsigliese Guillaume Cornut:

… G. Cornut, almirall de Marsella… feu tocar les trompes e lleva volta a les palomeres e be
apparellat e en cuns de la batalla vengue enevers les galees den Roger de Luria e aquelles den
Roger enevers ells; e el mig del port vanse ferir tant vigorosamente que totes les proes de cascuns
de romperen e la batalla fo mol cruel e fellona… (Cit.)

Questo documento ci fa capire perché ora lo sperone non si faceva più offensivo come ancora
avveniva dunque a quei tempi medievali, ma solo posticcio, ossia decorativo, rinunziandosi così
all’appoggio che avrebbe potuto dare alle artiglierie di prua e si tratta di un perché che troveremo
237

confermato nella relazione stesa nel 1560 dal bailo veneziano Marino Cavalli di ritorno da
Costantinopoli, laddove egli scriveva delle galere turche:

... Li sproni delle galee sono posticci perché, se si rompono per qualche sinistro, il 'vivo' non senta
nocumento alcuno... (E. Albéri. Cit. S. III, v. I, p. 292.)

Infatti uno sperone offensivo doveva, per forza di cose, essere molto ben impiantato nell'opera viva
della galera e quindi, in caso fosse rimasto esso stesso danneggiato dall'investimento fatto sul
nemico, anche la nostra galera ne sarebbe potuta restare facilmente molto danneggiata a prua,
forse anche tanto gravemente da renderla ormai inservibile; inoltre uno sperone lungo e robusto
avrebbe ritardato il corso della galera a causa della sua pesantezza, facendola cadere e ricadere
troppo sulla prua, e anche avrebbe procurato troppo ostacolo al corso e scotimento al vascello,
quando avesse opposto resistenza a onde di prua. Per tali motivi sempre più anche sui velieri si
prenderà in seguito a farli corti e arrotondati, non più utili quindi ad offendere. Insomma nel
Cinquecento, con il miglioramento e il maggior uso delle bocche da fuoco, la pratica dello
speronamento di prua divenne inutile e superata, mentre nell’antichità e nell’Alto Medioevo era
stata invece molto importante, tant’è vero che la potenza dell’urto di prua era a volte potenziata
con l’aggiunta allo sperone centrale di altri due a quello laterali che i greci chiamavano ἐπωτίδες
(Tucidide, De bello peloponnesiaco. LT. VII, 36).
Uno degli ultimi apparenti tentativi di usare uno sperone costruito ancora in maniera da offendere
lo leggiamo nella relazione del già più sopra ricordato scontro che le galere spagnole di Carlo V
ebbero con quelle francesi alle isole Hyères nei primi giorni di maggio del 1538:

… e (quella del capitano) Aguila, poiché è galera molto ben armata e leggera, raggiunse la
Capitana di Francia, la quale le si girò dalla parte dello sperone con l’intenzione di investirla e, non
dandole il vento spazio né prestando quelli dell’Aguila il fianco a una tanto cattiva ricezione, le
passò di lato… (y el Aguila como es galera mas bien armada y ligera, alcanzó á la capitana de
Francia, la cual se le volvió al rostro y quiso embestir con ella, y no le dando el viento lugar ni los
del Aguila poniéndose á tan mal recaudo, pasósele á una banda. In Colección de documentos
inéditos para la historia de España etc. P. 394. Tomo II. Cit.)

Un’altra caratteristica delle galere era la gran tenda che si teneva arrotolata nella corsia e si
stendeva su tutta la zona dei remiggi per proteggere i vogatori dall'intemperie, quando la galera
era ferma all'ancora od ormeggiata in porto; in navigazione quasi mai si usava perché non solo
ritardava il moto della galera, ma ne impacciava anche le manovre, e, se il sole o la pioggia era
proprio così forte da non potersene fare a meno, allora, poiché impacciava anche la visione del
mare, bisognava mettere dei marinai di guardia al calcese, sulle rembate e sulla freccia alla poppa.
238

Era quella invernale fatta di due strati cuciti insieme con spago sottile, cioè sopra di tela incerata
color burro e sotto d'arbascio (anche albagio, oggi ‘orbace’: sp. frisa), in modo da difendere così
sia dalla pioggia che dal freddo, e quell'estiva invece di canavaccio o di cotonina, per difendere dal
sole e dall'umidità della notte, la prima generalmente a fasce nere e grigie e la seconda bianche e
azzurre, alternate e perpendicolari alla galera; talvolta quella d'albagio si usava anche d'estate per
preservare i remieri da una forte pioggia e in questo caso si doveva però mantenere aperta anche
passata la intemperie, per quel tanto cioè che bastava perché si asciugasse alquanto, e poi subito
si abbatteva perché, oltre ad aggravar troppo la galera, l'albagio di cui era fatta rendeva il caldo
sulla coperta insopportabile.
La struttura che sosteneva la tenda era costituita dal mezzanino e dalle capre; il primo era una
lunga corda tesa che correva longitudinalmente sul centro della corsia della galera e su d’essa
poggiava il mezzo della tenda, da cui il suo nome; le capre erano cavalletti mobili di legno che si
montavano appunto sulla corsia e che reggevano detto mezzanino. La tenda doveva naturalmente
essere ben stesa e aggiustata su questa semplice struttura, mentre i suoi lembi si legavano alle
reggiole laterali della galera e ai filari, cioè ai travicelli che circondavano la coperta come parapetti;
questi filari erano retti dalle battagliole, ossia da ferri forcuti verticali così chiamati perché in
combattimento servivano ad appoggiarci sopra i moschetti portatili da mettere in mira; potevano
anch’esserci battagliole di legno che reggevano filari più leggeri, i quali erano chiamati infatti
filaret(t)i e ciò per completare la struttura che faceva da parapetto. Per sollevare la tenda dalle
bande, sopra le battagliole si ponevano dei prolungamenti di legno detti appunto battagliolette (vn.
pontali). La tenda aveva quattro porte, ossia lembi apribili, due alle spalle e due alle coniglie, cioè
ai banchi così detti che erano gli ultimi prima delle rembate, ed erano fatte degli stessi tessuti che
costituivano il resto della tenda.
In caso di pioggia la tenda doveva essere ben accomodata, in modo che l'acqua scorresse bene
dai suoi lembi fuori bordo della galera; quando si voleva che essa coprisse meglio la coperta, si
abbassavano le capre che sostenevano il mezzanino e ciò si diceva tesare a basso, ma, in caso di
vento freddo, si usava anche completare la tenda tutt'intorno con altre porte, ossia con pezzi di
tenda d'albagio che si attaccavano ai filari e coprivano le balestriere, circondando così la coperta e
impedendo al vento d'entrarvi.

... La mattina, quando si naviga, si deve far la tenda circa un'hora dopò levato il sole, acciò che,
mentre esso ha poca forza e si può sopportare, la galea e le genti possano asciugarsi dall'humidità
e dalla guazza o rugiada che sarà caduta lor sopra la notte. (P. Pantera. Cit. P. 223.)

Quest'osservazione fa capire che l'uso della tenda in navigazione non doveva poi essere così
imbarazzante e poco frequente come si è più sopra invece detto. Nelle ore estive in cui il sole era
239

invece forte, perché a perpendicolo sulla galera, si usava cannonare (fr. embrouiller) la tenda, vale
a dire si arrotolava ai due lati affinché vi potesse passar sotto il vento e portar così un po' di
refrigerio alla ciurma accaldata; mano a mano poi che il sole seguiva il suo corso da levante a
ponente, si sciamprava, ossia si distendeva e abbassava, quella parte della tenda cannonata che
guardava il sole nascente o calante e si lasciava così cannonata solo la parte opposta, sempre al
fine di farvi entrare il fresco. Quando si stava all'ormeggio (gr. ὀρμεῖν) con l'asse mediano della
galera orientato all'incirca in direzione nord-sud, verso le ore due del pomeriggio si poteva
rinfrescare maggiormente la ciurma facendo la mezzaluna, ossia si poteva ritirare la tenda dalla
sola metà di levante, in modo che l'altra metà rimasta spiegata bastasse a ombreggiare tutta la
coperta; ma ciò non era ovviamente possibile quando la galera navigava o era ormeggiata nel
senso della latitudine (fr. anche hauteur, bande du Nord, bande du Sud) e allora si doveva solo
cannonare il più possibile dalle bande e, quando si stava in porto, si poteva anche alzare di più la
tenda stessa con le capre, il che i marinai allora dicevano fare il buttafuori.
La tenda estiva si abbatteva la sera e si riponeva in corsia o nella camera di mezzo o anche nel
pagliolo, a seconda dello spazio disponibile; si poteva anche poggiarla - ripiegata - sui filari laterali,
ma ciò solo per pochissimo tempo perché in tal posizione impacciava il lavoro e ritardava il moto
della galera.
La tenda non copriva anche la poppa della galera perché il cassero di poppa era parecchio più alto
della coperta e inoltre la gente di poppa non avrebbe certo voluto respirare il tanfo emanato dai
remiganti e che inevitabilmente si accumulava sotto la tenda; a poppa si usava quindi un’altra
tenda più piccola detta tendale, generalmente bianca, per respingere il calore dei raggi del sole, e
munita di faccia posteriore, la quale si stendeva su un tetto a pergolato fatto di legni inarcati detti
garitte o pertichette o anche furcate; queste erano conficcate e inchiodate in una trave orizzontale
e un po' inclinata detta freccia, fissata per la lunghezza della poppa sopra archi principali detti
forbici o pertiche e sostenuta a proravia dal già ricordato pilastrino chiamato stentarolo. Sopra
questa freccia, oppure alla battagliola delle spalle, si poneva il pennello [fr. girouëtte, flouëtte,
gabet; ol. (split-)vleugel, (split-)vaan(tje), top-staander], ossia una piccolissima banderuola di
stamigna, tafettano o tela, di forma quadrangolare oppure biforcuta alla fiamminga, ossia come
una cornetta, od ancora lunga e stretta all’inglese, la quale serviva per conoscere la direzione del
vento, metodo però questo utile solo se la galera era ferma o quasi, perché altrimenti e ovviamente
il suo moto - soprattutto se veloce - avrebbe fatto restare il pennone volto all'indietro. Sulla poppa
dei vascelli tondi c’era un equivalente del suddetto pergolato, cioè una struttura di carabottino o di
sbarre detta in francese tugue o tuque, soprastruttura che ai vascelli reali francesi sarà proibita nel
240

1670 perché li rendeva più pesanti alla vela, permettendosi quindi da allora in poi solo quelle fatte
di cordami.
Una galera cristiana ordinaria, mentre sino a tutto il Rinascimento, aveva portato in genere sette
vessilli [fr. pavillons; iac(q)(que)s; ol. haar-doek, vlagge-doek], ora ne portava otto, di stamigna o di
seta, cioè quattro fiamme e quattro gagliardetti (fr. anche galans), con i quali si ostentavano le armi
reali e quelle del capitano generale e potevano servire sia d’ornamento sia per segnali. Le fiamme
(fr. anche pendants; ol. wimpels) erano lunghissime, terminanti a punta biforcuta (ol. split-tong) e
poste in asta verticale; secondo l’autorevole Giovanni Lido (VI sec.) – autorevole in quanto non
era solo uno storico bensì anche un funzionario amministrativo di carriera dell’impero bizantino – le
flamule (ven. flamole) si chiamavano così perché in origine erano state dei semplici cenci rossi
portati sulla punta delle loro aste dai flamulari, cioè da vessilliferi dell’esercito romano (cit. Lib. I, p.
158). I gagliardetti o gagliardi o gonfaloni (dal tlt. guntfano-onis) o bandiere chinate erano grandi,
triangolari, biforcuti anch'essi, ma in asta orizzontale pendula. Detti otto vessilli non erano di
misura né convenzionale né ancora d’ordinanza e quindi la loro grandezza variava sensibilmente a
seconda dei paesi e anche dei singoli vascelli, ma quelli quadrangolari erano in genere un po’ più
lunghi di battente che di ghindante; ecco la loro più comune collocazione:

Gagliardetto grande all'antenna di maestra e a quella di trinchetto.


Gagliardetto piccolo al calcese di maestra e a quello di trinchetto.
Fiamma alla cima di maestra e a quella di trinchetto.
Fiamma all'antenna di maestra e a quella di trinchetto.

Alla fine del Quattrocento il vascello che intendeva combattere inalberava gagliardo di battaglia.
Nel già ricordato Governo di galere i vessilli della galera vengono invece quantificati in 14, sette
per parte, e, per quanto riguarda le galere turco-barbaresche, queste portavano in battaglia, oltre
agli stendardi, infinita quantità di bandiere, come è di loro costume sparse un po’ dappertutto
(Discorso circa il modo et maniera ha da tenere un Capitano etc.) Il gagliardetto grande all'antenna
dell'albero di maestra, per la grande religiosità di quei tempi, mostrava per lo più l'immagine del
santo a cui era dedicata la galera, immagine dipinta che nei vascelli tondi era invece perlopiù
esposta in un’edicoletta a poppa, luogo che i francesi chiamavano miroir du navire; la fiamma alla
stessa predetta antenna esibiva invece generalmente le armi del capitano della galera. La sola
galera Capitana della squadra poteva portare la bandiera o stendardo quadrangolare come segno
di comando generale (ol. bevel-flag) e di combattimento e lo portava a destra all’oste, ossia alla
spalla destra della galera, a meno che però non si entrasse in battaglia, perché allora lo portava
più alto sul pilastrino di poppa; tuttavia alla galera Patrona e ad altre che avessero qualche
comando minore poteva il generale concedere un gagliardetto quadrangolare con le armi reali
241

appeso al calcese dell'albero di maestra, d’una forma dunque che ricordava lo stendardo e che
infatti stendardo era anch’esso impropriamente chiamato. In Spagna, poiché questo gagliardetto
quadrangolare era bianco, tale essendo infatti il colore di fondo dell'armi reali degli Asburgo di
Spagna, il comandante a cui si concedeva prendeva il nome di cuatralbo (‘quadro bianco’) e quindi
non perché comandasse una squadriglia (lt. vexillatio) di quattro galere, condizione che d’altra
parte pure generalmente coesisteva, come si evince per esempio dalla lettura del Cervantes
Saavedra e dalla composizione della squadra che la Spagna inviò in partecipazione alla
grand’armata che combatterà poi a Lepanto; il 23 agosto 1571 Giovanni d’Austria si presentò infatti
alla massa di Messina, dove prima di lui erano arrivate, provenienti da Napoli, solamente le 12
galere toscane, molto ben armate, poste dal duca Cosimo I a disposizione del pontefice e
comandate da Marc’Antonio Colonna, creato capitano generale del mare dal Papa il precedente 11
maggio; conduceva dunque 25 galere così suddivise:

- 14 di Spagna, di cui quattro comandate da Luiz de Requesens, commendator maggiore di


Castiglia (grado superiore dell’ordine di Malta) e luogotenente e principale consigliere di Giovanni
d’Austria, quattro da Juan Vasquez de Coronado capitano della Reale, quattro da Gil de Andrada,
commendatore dello stesso predetto ordine cavalleresco, e due da Luiz de Acosta capitano della
Padrona reale;
- le tre di Savoia, le quali, a istanza della signoria di Venezia, servivano da galere venturiere, ossia
a solo bottino, sotto il comando di monsignor de Leiny;
- le tre della repubblica di Genova, anch’esse come venturiere, comandate da Ettore Spinola
cavaliere dell’ordine d’Alcántara;
- cinque di condottieri (‘noleggiatori viaggianti’; lt. navicularii) genovesi particolari (‘privati’)- ossia
galere di proprietà privata assoldate, noleggiate (condotte) per l’occasione, di cui quattro di Pier
Battista Lomellino e una di Bandinello Sauli.

Per la cronaca, il giorno seguente arrivarono a Messina 10 galere siciliane comandate dal catalano
Juan Francisco de Cardona e 12 dei particolari (‘privati’) genovesi, mentre dopo qualche giorno da
Candia 74 veneziane comandate dai provveditori Girolamo da Canal (?-1535), detto il Canaletto, e
Quirini, poi 11 dei particolari di Gioan Andrea d’Oria con una di Malta, 30 di Napoli comandate dal
loro generale Àlvaro de Bazán marchese di Santa Cruz e infine altre veneziane e maltesi che
porteranno il numero totale a 208. A differenza di quanto si faceva a Genova, a Venezia non si
usava rimarcare tanto la differenza tra galee armate da privati e galee armate de comun, cioè
direttamente a spese di quella Signoria, per cui poche volte troveremo nelle storie e nelle cronache
indicata questa distinzione:

(Febbraio 1497:) Qua (a Venezia) se arma do barze de comun - una de 2,000 bote, l'altra de 1,800
- e la nave ‘Marcela’ de 1,600, Andrea Loredan (essendone) Capitanio (D. Malipiero, cit. P. 485)...

Questi velieri armati, oltre a essere grossi, erano anche carichi di gente da guerra:
242

(Aprile 1497:) A’ 18 d'Avril Andrea Loredan, capitanio delle do barze armade, ha fatto vela. La
mazor ha su 420 homeni, l' altra 400 (ib. P. 486).

Ma, tornando ai suddetti numeri di galere ammassate per la guerra contro i turchi, come si vedrà,
essi non corrisponderanno in totale a quello di 203 che, secondo il meticoloso elenco fattone dal
Contarini, si troveranno poi effettivamente in quella battaglia, ma, dovendosi tener conto che
durante il viaggio d’avvicinamento all’armata nemica Giovanni d’Austria deciderà poi di rinunziare
alle peggiori quattro galere (non sappiamo di quale nazionalità, ma probabilmente veneziane), per
distribuirne gli uomini e le attrezzature ad altre che avevano appunto bisogno d’essere così
rinforzate, resta una differenza d’una sola galera; a proposito poi della nazionalità delle galere,
bisogna dire che il Contarini elencherà come presenti alla battaglia non 12, ma 13 galere papaline,
non 30, ma 28 napoletane, non 10, ma solamente 6 siciliane e, per quanto riguarda le veneziane,
un massimo di 106 o 107. Detta armata cristiana comprendeva anche 22 vascelli tondi e 40
fregate.
Probabilmente si deve al suddetto vessillo di comando quadro se gli ufficiali prenderanno poi
l’abitudine di dire ‘riunirsi al quadro’ e in seguito, per sineddoche, ‘riunirsi nel quadro o nel quadrato
di poppa’; ma com’erano le principali bandiere o stendardi reali che si potevano allora vedere
navigando sui mari del mondo? Eccone un breve elenco:

Francia: bianco, ma diventava rosso e seminato di gigli se stendardo di combattimento.


Inghilterra: Croce rossa in campo bianco; era stata già dei crociati e specie dei cavalieri templari.
Danimarca, Savoia e Guyenne: Croce bianca in campo rosso.
Svezia: Croce gialla in campo azzurro.
Bretagna: Croce bianca in campo azzurro.
Gerusalemme: ora Croce gialla potenziata in campo bianco, ma nel Medio Evo Saladino che la
prese la portava bianca, rossa e nera, come del resto anche Tamerlano.
Portogallo: bande discendenti bianche, rosse e azzurre e una Croce nera.
Cavalieri di S. Giovanni di Gerusalemme o di Malta: Croce bianca ottagona in campo rosso.
Borgogna: Croce bastonata di S. Andrea rossa in campo bianco.
Castilla: c.s. ma con bande rosse, gialle e azzurre.
Scozia: Croce in collana bianca in campo rosso o azzurro o talvolta rosso, giallo e verde e la
Croce in uno dei canti.
Normandia: Scacchiera bianca e nera.
Poitou, Piccardia e Fiandra fiamminga: bande trasversali rosse, bianche e azzurre.
Le 17 Province Unite d’Olanda: Bande trasversali arancioni, bianche e azzurre, ma lo stendardo
di combattimento era arancione.
Germania: inquartato di rosso e di giallo.
Turchia: una falce di luna bianca con i corni verso destra in campo rosso e azzurro, ma quello
personale del sultano presentava non una ma 4 falci. Si diceva che venisse da quello degli antichi
fenici e che questi avevano uno stendardo con falce di luna, però con i corni verso l’alto e in
campo rosso.
243

Barbaria: una falce di luna con i corni in basso in campo metà rosso e metà azzurro, ma i rinnegati
cristiani o pirati d’Algeri, Tunisi, la Goletta e Salè rosso a 8 bande (pans) e una testa di
marmocchio (fr. marmot) turco con turbantino.
Cina: due piccole stelle e due falci di luna di traverso.
Portoghesi d’India: una sfera su fondo bianco.
Spagna: inquartato dei suoi principali regni su fondo bianco, ma quello di combattimento azzurro.

A proposito della suddetta testa di ‘marmocchio turco’, c’è da osservare che l’attuale stemma della
Sardegna è purtroppo frutto di un’illustrazione tratta sì da un antico libro ma purtroppo mal
disegnata e che ebbe malauguratamente molta fortuna e molto credito, nella quale cioè il
turbantino si presentava tracciato troppo basso sino a sembrare calato sugli occhi, interpretandosi
quindi dai posteri non come un tale copricapo, bensì come una semplice benda che fasciasse gli
occhi del ‘marmocchio’! Sappiamo che i sardi non vorranno così facilmente rinunziare alla loro
testa bendata perché così fa tanto affascinante mistero, ma purtroppo la verità è quanto abbiamo
teste spiegato e basta andare a ricercare le immagini più antiche di detto stemma per verificare
che trattavasi in origine di null’altro che di un normale turbantino e questa circostanza che nelle
figure originali non si vede mai un gran turbante da mussulmano adulto ma sempre appunto un
turbantino, tanto piccolo da esser confuso più tardi, come abbiamo detto, con una semplice benda,
conferma che l’immagine voleva rappresentare il capo di un ragazzo o comunque di un giovane
pirata. Piuttosto ci sembra storicamente più affascinante, suggestiva e tutta da spiegare la
costatazione che l’originale stemma della Sardegna coincideva con quello dei pirati barbareschi; ci
sarebbe pertanto da pensare a insediamenti saraceni (‘moreschi’) medievali nell’isola.
Termineremo questo argomento dei vessilli di bordo ricordando la già citata ordinanza aragono-
catalana del 1354, la quale permetteva l’uso di bandiere personali ai patroni (‘comandanti’) di
galea da affiancare a quella del sovrano e a quella dell’ufficiale generale comandate di squadra o
d’armata solo se si trattava di personaggi di chiara nobiltà, cioè perlomeno figli cadetti (cast.
hidalgos), e a maggior ragione se titolati (richomes; cast. rico-hombres, dal gt. Rike, ‘podere’).
Altrimenti un patrone poteva solo inalberare la sua personale insegna in un piccolo pennone
quadro (lem/ctm. panon de quarter; cast. banderola quadra) o anche a prua come voleva (Cit. P.
95).
Molti elementi decorativi potevano esser dati alla galera dai tendami e abbiamo già detto della
tenda e del tendale, trattandone però solo dal punto di vista strutturale; aggiungeremo ora che il
normale tendale di poppa, a titolo appunto decorativo, era spesso sostituito da quello detto di
garitta, che era di panno azzurro con quattro porte dello stesso panno, due di poppa e due di prua,
il tutto foderato di canovaccio, ma poteva anche essere foderato di damasco, anzi era comune
avere a bordo talvolta anche un tendale più appariscente e ornamentale, probabilmente quello
detto nelli inventari cameretta, cioè uno di damasco cremisi, e bisogna pensare che il più delle
244

volte questi vasti drappi erano intessuti o ricamati in oro o in argento con disegni floreali, fogliami e
stemmi reali o gentilizi. Altri supporti di decorazione potevano essere dell’impavesate di
tappezzeria che, in occasioni di feste o di domeniche, si ponevano attorno a tutto il vascello e alle
gabbie [fr. bastingue, bastingu(e)re, pavesade, paviers, pavois; ol. schans-kleedt] di panno, tela o
cordella], ma d'estate anche di cotonina; si trattava cioè di strisce di tessuto, generalmente rosso,
che si ponevano verticalmente lungo le fiancate, di solito due alle bande, due alla poppa e una alla
prua, e che servivano anche da paravento durante il combattimento affinché il nemico non potesse
vedere ciò che si faceva in coperta e prendere pertanto una mira precisa. C'erano poi incerate che
si ponevano a poppa in aiuto al tendale per una maggior protezione dalla pioggia e ce n’era quasi
sempre una di cotonina verde e talvolta un’altra di canovaccio bianco. c'era poi spesso un tendale
di cotonina, in qualche caso tinto di leonato (beige) e bianco, guarnito di due parasole o tendaletti
anch'essi di cotonina; c'erano infine ancora un parafumo e un parasego di canovaccio o di
cotonina e, talvolta, una soprattenda di cotonina, ma di tutti questi ultimi tendami non sapremmo
spiegare l'uso pratico se non andandocene per un’idea in relazione al loro nome, a eccezion del
parafumo, il quale era documentatamente il camino del fogone e si usava appunto fatto di tela.
Una galera ordinaria non doveva però portar ornamenti tali da metterla a paragone della galera
Capitana, della Patrona o con altre eventuali galere di fanò, ossia galere che portavano fanale di
comando (lem/ctm. pharaó; sp. farol, fanal; fr. porter le feu, faire fanal; ol. vuuren, vuur-voeren);
essa doveva infatti poter essere riconosciuta come subordinata anche a distanza, anche per non
dar adito al sospetto che volesse in qualche modo usurpare prerogative e privilegi delle galere
'titolate'.
Una galera in tenuta di gala era in ogni caso un bello spettacolo e tale sarà descritta nel
Settecento dal de Savérien nel suo Dictionnaire:

... Non c'è alcun bastimento di mare più magnifico della galera. La sua poppa è sostenuta da
termini ed ornata da bassorilievi, d'ornamenti e da modanature dorate. Parecchie delle sue
bandiere, delle sue banderuole, delle sue fiamme e dei suoi stendardi sono o della livrea adottata
dalla nazione alla quale la galera appartiene o di damasco cremisi con ricami in oro. Sulla bandiera
le armi del sovrano sono ricamate in oro od in seta e la tenda è di damasco cremisi guarnito di
frange e di penero d'oro. (Cit.)

Quando una galera di comando doveva portare in viaggio un personaggio di sangue reale, allora
gli ori, i tendami pregiati, i colori e gli ornamenti in genere erano profusi molto maggiormente; ciò
per esempio accadeva ogni volta che bisognava portare a Barcellona una nuova regina, vale a dire
una giovinetta d’una Casata reale europea che andava a nozze con il nuovo re delle Spagne, e nel
1701 fu questo il caso di Maria Luisa di Savoia che doveva andare a raggiungere il suo sposo
245

Filippo V e che, come già altre volte era stato fatto per le reali spose, sarebbe stata portata a
Barcellona dalla galera Capitana di Napoli, scelta tra tutte per questo grande onore; così infatti
annotava il diarista Angelo di Costanzo, predicatore cappuccino il quale, come del resto la maggior
parte dei cronachisti di quei secoli, non ebbe la soddisfazione di vedere la sua opera pubblicata:

... Quali (galere napoletane) ritornate in questa Città nel luglio, ebbero di nuovo l'ordine di
prepararsi ad andare a Nizza di Provenza, ove si sarebbe fatta l'unione delle altre galere, così di
Spagna come di Francia, per levare la figlia secondogenita del duca di Savoia, destinata per sposa
di Filippo V Re di Spagna, che calava in Barcellona a giurare li privilegi di quel Contato. Per la qual
cagione si prepararono le nostre galere ed in particolare la Capitana, mentre si diceva che la
Regina voleva far quest'onore alla Capitana di Napoli; onde si vide tutta la poppa indorata, li remi,
il nuovo stendardo, tutti i forzati con giubbe di damasco rosso con barrette (‘berrette’) in capo e
altre bizzarrie, che v'accorse tutta la Città a vederla ed il giorno prima della partenza vi calò la
Viceregina colle sue dame di Corte e furono complimentate di rinfreschi. E poi a' 27 d'agosto
partirono al numero di 15 alla volta di Nizza. Stavano (ormai a Nizza) di giorno in giorno
aspettando l'avviso dell'imbarco della sudetta Regina, essendo sino ora un mese e mezo che sono
partite, col continuo buon tempo, e non è giunta la nuova del suo arrivo... (Cronaca di Napoli dal
1701 al 1716. S.N.S.P. Man. XXXI.B.3.)

Con la suddetta Capitana era partito il principe Caracciolo di Santo Buono, il quale portava un
regalo del valore di 300mila scudi mandato dall’allora vicerè Luiz de la Cerda duca di Medina Coeli
(1695-1702) e che i napoletani offrivano alla nuova regina, ma la giovanetta si faceva dunque
molto aspettare; poi finalmente il 25 ottobre giunse avviso a Napoli che la novella regina si era non
solo imbarcata, ma aveva anche fatto tappa a Tolone. Certo addobbi ricchi, ma non così tanto,
furono preparati dalle galere di Toscana che nel 1567 imbarcarono a Palermo Leonora de Toledo
per portarla a Firenze, viaggio probabilmente collegato allo scadere in quello stesso anno del vice-
regnato di suo padre Garcia; fecero sosta a Pozzuoli, dove la predetta signora prese alloggio nel
grande e famoso palazzo paterno (Tutte le vittoriose imprese delle galere del Serenissimo
Granduca di Toscana fatte nei viaggi dall’anno 1565 al 1575. Biblt. Marc. di Venezia. Ms. VI. CVI.,
B.N.N. Sez. Nap. Per. 2001.)
Nel 1589, leggiamo nel Guarnieri, la lussuosa e appositamente costruita galera toscana Cristina
portò a Livorno da Marsiglia la principessa Cristina di Lorena che andava sposa al granduca
Ferdinando I; Michelangelo il Giovine descrisse tale galera come riccamente decorata, con i
remiganti vestiti di damasco cremisino e con i cavalieri di S. Stefano, elegantissimi, al posto dei
normali soldati. Ancora più sontuosa fu la nuova Capitana toscana che il 16 ottobre del 1600
imbarcò a Livorno la regina di Francia Maria de’ Medici, figlia del defunto granduca Francesco I, la
quale aveva sposato in Firenze per procura il re di Francia Enrico IV di Navarra e andava a Lione a
celebrare tale matrimonio; la predetta Capitana fu scortata in viaggio da 16 altre galere tra
toscane, pontifice, francesi e maltesi sotto il comando del generale pisano Marc’Antonio Calafati (o
246

Calafatto), e arrivò a Marsiglia il 3 novembre. Immaginiamo con qual pompa si siano presentate
anche le 14 galere (triremis) e gli altri vascelli che la domenica 1° novembre del 1506 arrivarono a
Napoli portando il re Ferdinando il Cattolico e sua moglie la regina Germana de Foix, sposatisi il 18
marzo precedente, a visitare il regno conquistato dal loro Gran Capitano Gonzalo Fernández de
Córdoba, con il quale poi se ne andarono il 4 giugno dell’anno successivo; certo poi con minor
sfarzo, eppure accompagnate da circa 16 galere, il 24 maggio 1534, come annotava un anonimo
diarista partenopeo, arrivarono a Napoli dalla Spagna la consorte del vicerè Pedro de Toledo, le
sue figliuole e tutta la sua servitù e sbarcarono solennemente al molo grande tra salve di
cannonate.
Particolare fu pure l’addobbo delle galere francesi che si trovavano nell’oceano quando il tre volte
generale della squadra remiera di Francia, Antoine Escalin des Aimars, barone della Garde,
piccolo feudo del padre, poi marchese di Brigançon in Provenza (1544-1548; 1551-1557; 1566-
1578), un parvenu detto le Capitaine Poulin o anche Poulin de la Garde, lo fece eseguire a sue
spese perché gli si era fatto credere, forse per un crudele scherzo da cortigiani, che avrebbe
dovuto guidarle in Inghilterra dove la regina Elisabetta l’avrebbe sposato; tali inutili e penosi
preparativi così saranno poi ricordati dal de Bourdeilles:

… tra gli altri il più bello fu che tutti i forzati della sua galera ‘la Reale’ ebbero ciascuno un
abbigliamento di velluto cremisi alla marinara (il signor Gran Priore di Lorena aveva già da molto
tempo prima abbigliato i suoi) la poppa e la camera della poppa tutte tappezzate e addobbate dello
stesso velluto con ricami d’oro e d’argento, gonfiato e agitato da tutti i venti, con delle parole
greche che dicevano ‘Benché io sia e sia stato agitato ben forte, giammai sono né caduto né
cambiato’… I letti, le coperte, i guanciali, i banchi di camera e di poppa (addobbati) alla stessa
maniera, gli stendardi, le fiamme, le banderuole, per metà allo stesso modo e per metà di damasco
tutto frangiato d’oro e d’argento; in breve, era una cosa tanto magnifica a vedersi. Ed in tal superbo
apparato doveva entrare con l’altre galere, le quali potevano arrivare fino a dieci, nel fiume Tamigi
fino a Londra… e tutto ciò non servì a nulla a quel povero signor barone della Garde se non a
spendere soldi (più di 20mila scudi) e qualche volta egli faceva preparare così la sua camera della
poppa, cosa che io vidi, e, me indegno, mi sono coricato ed ho dormito nei suoi bei letti, dove si
faceva ottimamente… Infine è morto lasciando ai suoi eredi più onori che beni e a l’età di più
d’ottant’anni… Quanto a me, anche se una volta m’ha fatto perdere un bottino di dodicimila scudi
che m’aveva fatto un bastimento ch’avevo in mare e, non giudicandolo egli di buona guerra né di
buona presa, me lo fece restituire, del che mi fece molte scuse, dirò sempre le sue virtù… (Cit.)

Il ‘gran priore’ a cui il de Bourdeilles qui si riferisce era fra’ François de Lorraine, gran priore di
Francia, fratello del duca di Guisa, il quale, quando era generale delle galere di Malta, essendo
appena stato destituito per la seconda volta l’Escalin, nel 1557 fu nominato capitano generale di
quelle di Francia, distinguendosi in seguito nel corso del conflitto anglo-scozzese per esser
passato nell’oceano con le sue galere ed esser andato fino in Scozia in soccorso della regina
Maria di Lorena-Guisa, un’impresa alla quale partecipò anche il de Bourdeilles, come questi
247

ricorda nelle sue memorie senza però purtroppo abbondare in particolari e che deve essere
avvenuta in coincidenza del trattato d’Edimburgo del 6 luglio 1560, perché sulla via del ritorno la
regina Elisabetta gli farà grandi accoglienze. Ebbe come suoi principali ufficiali il signor de Carses,
luogotenente generale della squadra, il signor de Basche Martel, ottimo uomo di mare, il quale
infatti sarà poi chiamato dal duca di Guisa al generalato delle sue galere, e i genovesi e parenti
conte Fieschi e Cornelio Fieschi. Morì il 6 marzo 1563 a soli 29 anni a causa delle complicazioni di
un’infreddatura e il suo posto fu preso dal fratello René, marchese d’Elbeuf, il quale morirà però,
anch’egli molto giovane, nel 1566 all’età di 30 anni, lasciando così posto al nuovo e definitivo
ritorno del capitano Poulin, riabilitato per la seconda volta; quest’ultimo sarà capitano generale sino
alla sua morte, avvenuta nel suo castello della Garde verso le 8 del mattino del giorno seguente il
Corpus Domini del 1578, dunque nello stesso infausto anno in cui la cristianità perderà anche il re
Sebastián di Portogallo (4 agosto) e un altro famoso capitano generale marittimo, Giovanni
d’Austria (25 settembre).
Nelle ricorrenze e in altre occasioni quella vista festosa era poi esaltata dall'uso della musica e
infatti a ogni galera si forniva una cassa di legno contenete otto strumenti musicali, ossia sei
trombette e due clarini, e li suonavano, postisi sulle rembate, quei remieri che mostravano d'avere
più talento musicale:

... Habbiano insieme i lor trombetti e tamburi e simili bellici instrumenti, che non solamente
piacciano a gli amici, ma rechino meraviglia e confusione a gl’inimici loro, potendosi credere che, si
come ne gli eserciti terrestri le imprese, le divise, le bell'arme, le sopraveste e'l suono delle trombe
e de i tamburi hanno forza di eccitar alle lodevoli azioni gli animi de i soldati e di sbigottir gl’inimici,
così, quando le armate navali sono ricche di pompa e piene di gioia e di festa, si accendano gli
spiriti della gloria ne i cuori de i combattenti e se n’attristino gli avversarij; e, ben che queste paiano
estrinsecamente leggiere e vane apparenze, si vede però che fanno mirabili effetti a favor della
vittoria... (P. Pantera. Cit. P. 187.)

Nel Trecento a bordo della galea triremi aragono-catalana c’era stato solo un trombetta, ossia un
clarinettista, evidentemente a scopo più di conduzione della voga e di trasmissione di ordini che di
fare della musica; egli doveva imbarcarsi fornito di spada e corazza guarnita, come leggiamo nella
da noi già pluricitata ordinanza del 1354; invece lo stato maggiore dell’armata era già allora dotato
di una vera e propria orchestrina, la quale comprendeva suonatori di due trombe, un clarinetto, una
cornamusa e un timballo o timpano o naccara che dir si volesse (Ordenanzas etc. Cit. P. 100), i
quali all’atto dell’arruolamento, oltre al consueto anticipo sul primo salario, ricevevano una tantum
un’indennità di vestiario; il che significa che, quando suonavano, dovevano farlo in livrea. In effetti
il numero dei musicanti di bordo dipendeva allora da cosa ne pensavano i comandanti naviganti,
specie i capitani generali; per esempio, in un’ordinanza catalano-maiorchina del 20 aprile 1363
248

relativa alla squadra di 6 galere che si stata allora facendo armare a Barcellona nell’ambito delle
operazioni della guerra che Pedro IV Il Cerimonioso re di Aragona e conte di Barcellona preparava
contro il Pedro I Il Crudele re di Castiglia, visto che per capitano generale di quella si nominava il
procidano Atenolfo, conosciuto come Olfo da Procida, il quale voleva nella sua Capitana solo i due
trombetta, ritenendo evidentemente altri musicanti inutili e superflui, si disponeva che gli si
pagasse appunto solo per due vestiti l’indennità di vestiario di livrea per musicisti, la quale era
valida per 4 mesi, a 4 lire catalane per vestito (Ib. P. 116). Questo Atenolfo doveva essere una
persona abituata a fare di testa sua e probabilmente talvolta anche in contrasto con l’almirante del
regno dal quale in teoria avrebbe dovuto dipendere, perché il suo successore Gilaberto de
Crudiliis, amato consigliere del re Pedro IV, il 22 dicembre 1373 fu nominato dal sovrano, oltre che
capitano generale, anche luogotenente dell’almirante, cioè del visconte Hugo de Cardona,
anch’egli consigliere del re, quasi a volerne puntualizzare la subordinazione (Ib. P. 123).
Nel Medioevo s’erano comunque usati a bordo delle galere cristiane, oltre alle naccare o timpani o
timballi, talvolta anche i tabur o thabur (‘tamburi’), ma più raramente degli altri strumenti, perché
questi, essendo normalmente usati dalla fanteria, non facevano parte della generale dotazione
marittima di bordo; ovviamente i tamburini cominciavano a essere anch'essi presenti quando a
bordo c'era almeno una mezza compagnia di fanti. L’11 marzo del 13399 il senato veneziano
decretò che si riformasse una squadra di galee per la difesa del Golfo, cioè dell’Adriatico da
Venezia a Creta, mare che i veneziani consideravano Mare Nostrum, e che se ne eleggesse il
capitaneo, in tale ambito si prescriveva pure che ognuna di queste galee avesse 25 balestrieri –
numero che presto fu però aumentato a 30 - e che gli emolumenti previsti per detto capitaneo
prevedessero stipendio e mensa per 5 musicanti e cioè due tubetti, due zaramelle (‘cennamelle’) e
un naccarino (H. Noiret, cit. Pp. 99-101).
Sulle galee veneziane del Quattrocento, a quanto si legge al par. 239 del già citato diario di viaggio
del Brasca, sarebbero poi stati presenti anche dei liutisti, ma riteniamo che si sia trattato d’un
errore di trascrizione e che originalmente l’autore avesse invece inteso parlare di clarinisti, in
quanto gli strumenti a corde non potevano certo emettere suoni sufficienti alle vastità marine. Più
tardi, aumentando nelle galere ordinarie il numero di vogatori, aumenterà a 10/12 anche quello dei
predetti musicanti. Sulle galere barbaresche, oltre ai tamburi e alle particolari trombe di quei paesi
che gli spagnoli chiamavano añafiles s’usavano anche le suddette cennamelle.
E del vessillaggio che si usava nel Medioevo prima del Rinascimento sappiamo qualcosa? Sì, se
ne legge nel già più volte citato ordine di Carlo I d’Angiò del 1270; bisognava che allora ogni galea
del regno di Napoli disponesse di un vessillo, di una bandiera e di trenta pannucellos (‘pannicelli,
piccoli panni’, da cui poi le corr. pennoncelli e pennoni), tutto di zendato, ossia di mezza seta, ogni
249

terida o usciero (cioè ogni vascello non combattente) di due bandiere e venti pannicelli, il tutto di
panno, ossia di lino, come allora s’intendeva, perché invece nei secoli modermi per ‘panno’
s’intenderà generalmente quello di lana, inoltre ogni legno sottile (cioè ogni vascello remiero
combattente ma non copertato) una sola bandiera e soli dieci pannicelli, il tutto di zendato; infine
ogni varchetta una bandierola di zendato. Quest’ultimo più pregiato tessuto era dunque riservato ai
soli vascelli combattenti, armi ed insegne da dipingere su tutto questo vessillaggio essendo
ovviamente quelle di Carlo I e della sua casata. Tra queste una galea doveva comunque
distinguersi dalle altre e cioè quella che, accompagnata da altre naturalmente, era destinata a
traghettare dalla Slovenia alla Puglia la figlia del re d’Ungheria, novella nuora di Carlo, in quanto
era da fornirsi anche di uno stentario (‘stendardo’), cioè del vessillo reale, e di tendame di color
rosso (ma in altra lettera successiva del 16 dettembre si dirà più precisamente de scarlato), anche
questa una prerogativa che in genere distingueva appunto le galee ‘Reali’, cioè quelle destinate a
portare sovrani o loro familiari (G. del Giudice, cit. P. 7).
In un’anonima cronaca napoletana da noi già citata si descrive brevemente quanto si usava
mettere in atto da quella squadra di galere il 24 giugno, cioè in occasione della festa di S. Giovanni
Battista:

… La sera di detto giorno e nell’antecedente si videro tutte le regie galere dimoranti nella tarcina
(‘darsena’) adorne di infiniti lumi, che resero una vaga vista al numeroso popolo che concorse a
vagheggiarle, e con queste luminarie si sentirono diversi suoni fatti dalli schiavi di quelle con
diversi istrumenti musicali. (Cit.)

Nei porti delle città principali, quando erano appena arrivate delle galere, specie se straniere, si
usava andare a passeggio sul molo per vedere le nuove arrivate e soprattutto per farne occasione
di mondanità e d'incontro sociale. Ciò era tradizionale anche a Barcellona, ed ecco infatti l’arrivo in
quelle acque della squadra delle galere toscane nel 1567:

…e poi, facendo vela, seguì il suo camino alla volta di Barzalona, città principale di Spagna, ed
insu l’ora di vespro, doppo l’usato saluto al arivo di queste galere in tai luoghi, si dié fondo lungi
dalla città un miglio o poco più per esser spiaggia e non porto, ma subito soggiunse(ro) infinite
barchette e fregate alle galere cariche di varij ed illustri signori e cavalieri, i quai desideravano
veder le galere (sic)come veramente son degne d’esser bramate vedere, essendo hoggi le meglio
ordinate e guarnite d’ogni sorta (di) cosa che fece di bisogno a tai vascelli, e però (‘perciò’) molti de
‘sti detti sen’andorono sopra la Capitana e con le solite lor cerimonie al(l)a spagnola non mancorno
visitare l’illustrissimo signor Alfonso (Alfonso Aragona d’Appiano) ed offerirsi a quanto gli piacesse
lor comandare. In questo mezzo ne andò (andorno) altri sopra le altre galere, in fra le quale ne
venne andare sopra ‘la Pisana’ et questi tali erono Canonici di santa Madre Eclesia… (Aurelio
Scetti, Diario fino al 17 marzo 1576. In Tutte le vittoriose imprese etc. Cit. Bitlt. Marciana, Ms. CVI
Classe VI. Venezia.)
250

Per amor di cronaca, le galere toscane, chiamate dai barbareschi le galere d’Elba, furono presto
raggiunte a Barcellona da quelle dei particolari genovesi, comandate allora da Gioan Andrea
(Andreetta) d’Oria, da diverse di Napoli e a tutte queste si unirono in seguito le quattro galere
dell’assentista (‘appaltatore’) genovese Lomellino; bisognava infatti imbarcare le milizie del duca
d’Alba destinate in Fiandra e andare a sbarcarle a Villafranca portava in Fiandra, ma si approfittò
di questo concentramento di galere anche per condurre con successo un’azione comune contro
una squadriglia di corsari algerini che in quei giorni infestava le Baleari.
Evidentemente i barcellonesi avevano perso il ricordo del brutto episodio avvenuto nel 1551,
quando cioè Leone Strozzi, allora capitano generale della squadra di Francia, partì da Marsiglia
con una dozzina di galere, ufficialmente per andare a fare impresa in Levante e quindi salutando la
città come se avesse dovuto allontanarsi per mesi, ma in realtà voleva in questo modo solo
ingannare le spie spagnole, in quanto intendeva invece assalire la vicina Barcellona, approfittando
dell’assenza della squadra di Spagna, la quale generalmente incrociava nello stretto di Gibilterra in
funzione anti-barbaresca, ma era allora impegnata contro l’armata turca che quell’estate assalirà
Malta, Tripoli e Gerba; presentò dunque le sue galere davanti al porto nemico dopo averle
perfettamente travestite da galere spagnole e i barcellonesi, credendo che si trattasse delle loro
galere che ritornavano da quell’impresa di Barbaria, scesero come al solito tutti al passeggio sulla
marina e sul porto per dar loro il bentornato e per la curiosità di vederne le prede, i prigionieri ed
eventualmente anche le perdite. Poiché però s’usava, come abbiamo detto, anche d’andare ad
avvicinarle in barchetta, ne fu presto scoperta la vera nazionalità e allo Strozzi non restò quindi che
rinunziare all’azione progettata e si limitò a far sbarcare genti fuori dal porto per fare razzia dei
tantissimi cavalieri, dame e mercanti che erano al detto proposito andati a passeggiare sul
lungomare fuori delle mura della città, rinunziando però poi a trattenere le dame per cortese
cavalleria. Probabilmente fu proprio quest’insuccesso la goccia che fece traboccare il vaso delle
ingiuste e malevoli critiche di cui da tempo era oggetto e che qualche mese dopo convincerà il
fiorentino ad abbandonare questa sua prestigiosa carica, facendo così posto al ritorno del
sunnominato Antoine Escalin; la sua fama dunque non agguagliò certamente quella del suo
grande predecessore il guascone fra’ Prégent de Bidoux, priore di S. Gilles, generale di mare di
Luigi XII dal 1497 al 1518, anno in cui lasciò questa sua carica per andare a difendere Rodi contro
i turchi, il quale compì sia nel Mediterraneo sia nell’oceano grandi imprese che non staremo però
qui a ricordare, ma poté però paragonarsi nei primi tempi a quella del suo maestro Andrea d'Oria. Il
de Bourdeilles molto elogia quest’italiano, il cui nome ai suoi tempi ancora era tanto ricordato nei
discorsi della gente di mare francese:
251

… talmente che il suo nome ancora li riempie ed io non ho quasi mai sentito marinai, forzati,
schiavi, capitani e soldati che non l’abbiano detto il più grande capitano di mare dei suoi tempi e
ben fortunato era colui (come io ho sentito in parecchi luoghi del Mediterraneo) che poteva dire: io
ho navigato e combattuto sotto il Priore di Capua; ed, anche che non fosse vero, molti lo facevano
credere per ostentazione e per essere più stimati. Quando andammo al soccorso di Malta (nel
1565), se ne vide in quelle coste di gente che veniva ad abbordare, salutare ed onorare il signor
Strozzi (Filippo) suo nipote per la sola memoria del suo grande zio… (Cit.)

Il predetto Escalin, ripreso questo posto di capitano generale delle galere di Francia che era già
stato suo, sarà impegnato nella guerra corso-toscana e otterrà presto un bel successo contro gli
spagnoli quando, proveniente con sei galere da Civitavecchia, dovrà fermarsi nel golfo corso di S.
Fiorenzo per ripararsi da un’improvvisa tempesta (fr. anche grand temps, gros temps) e, passata
questa, avvisterà e attaccherà un convoglio di 11 velieri spagnoli trasportanti 6mila soldati a
Genova, riuscendo, dopo un intenso combattimento, ad affondarne due e a far perire così tra le
onde circa 1.500 nemici; estraneo però alle regole del potere aristocratico, il capitano Poulin verrà
di nuovo destituito nel 1557.
Il descritto costume dei barcellonesi, del resto comune a tutte le importanti città portuali del tempo,
è confermato dal residente genovese in Spagna Giulio della Torre, il quale così scriverà nel 1622:

... ed è anche solito in quella città, quando arrivano galere, di far il corso e spasseggio de' cocchi
da quella parte del mare sul muolo e sopra la muraglia della terra così le dame come la Corte ed i
cavaglieri. (Raffaele Ciasca, Istruzioni e relazioni degli ambasciatori genovesi. V. II, p 48. Roma,
1951.)

Particolarmente pomposa era l’accoglienza che si riservava a un’armata che dovesse poi andare a
combattere gl’infedeli ed ecco – nella traduzione dallo spagnolo del Croce - una descrizione
dell’arrivo a Napoli delle 30 galere di Spagna che nel 1575, provenienti da Genova e capitanate da
Giovanni d’Austria, il trionfatore di Lepanto, dovevano costituire il primo nucleo di un’armata
destinata all’impresa d’Orano:

…Entrarono nel porto di Napoli il vespro di S. Giovanni, all’Ave Maria ( cioè il 24 giugno subito
dopo il tramonto), e, nell’entrare, ad ogni galeotto fu dato un fascio di sarmenti impeciati che
ardeva più di quattro torce e che doveva esser tenuto alto col braccio; i soldati, più di…, furono
disposti nelle balestriere ed i marinai nei due lati a prora con l’archibugio ciascuno ed, a vista delle
case della città, vennero legati i remi. La galea Reale salutò con un pezzo d’artiglieria e subito
risposero infinite artiglierie dai castelli, torrioni e baluardi, accompagnate da quelle delle galee
(napoletane) e dall’archibugeria; e negl’intervalli, mentre si ricaricava, non solo dalle mura di
Napoli, ma da tutte le galee, fregate e feluche che, come formiche, andavano pel mare, si udivano
musiche soavissime di clarini, cennamelle, cornette e violini, trombe, timballi e tamburi con infinite
luminarie, girandole e diverse invenzioni di polvere (‘polvere pirica’), che le minori erano razzi. Si
celebravano tre feste insieme, la notte di S. Giovanni, la venuta di un principe così grande e così
amabile e quella di un’armata così grossa. Dissipato il fumo degli spari, sbarcò don Giovanni coi
252

titolati, i cadetti ed i capitani… (Benedetto Croce, Scene della vita dei soldati spagnuoli a Napoli in
«Studi di storia napoletana in onore di Michelangelo Schipa», Napoli, 1926.)

Anche ad Algeri e negli altri porti della Barbaria l’arrivo o il ritorno di vascelli remieri da corso era
accolto da una folla di baldì (‘cittadini’), soprattutto attratta dalla curiosità di vedere le prede fatte
sia in schiavi sia in roba:

… Quando un vascello torna dal corso e fa scalo in qualche luogo, gli abitanti hanno l’abitudine
d’accorrere, alcuni per vendere dei rinfreschi, altri per comprare il vestiario; altri infine,
semplicemente curiosi, vengono a esaminare gli oggetti ed i prigionieri… (Diego de Haedo, De la
captivité à Alger par Fray Diego de Haëdo. Traduction de Moliner-Violle, Alger, 1911.)

Prima di lasciare di trattare della struttura d’una galera vogliamo dare alcune delle proporzioni in
piedi di Parigi prescritte dall’ordinanza reale di Francia del 3 settembre 1691 e riportate più tardi
dal Savérien, perché il lettore possa comprendere anche l’aumento delle principali dimensioni di
questo tipo di vascello da guerra, aumento già iniziatosi in maniera generalizzata alcuni anni dopo
Lepanto, e le misure che le galere avranno raggiunto dopo circa un secolo dal tempo che è
principale oggetto di questo nostro studio:
Piedi Pollici
Lunghezza da giogo a giogo 144 0
Larghezza all’assone maestro (cioè centrale) 18 0
Larghezza da scalmo a scalmo 26 1½
Altezza al puntale (cioè centrale) 7 2
Interbanco 3 10
Lunghezza del banco 6 6
Larghezza del predetto 0 6
Spessore del predetto 0 5
Lunghezza della banchetta 7 0
Larghezza della predetta 1 5
Spessore della predetta 0 1½
Larghezza interna della corsia 2 1½
Altezza della predetta 2 8
Spessore dei quartieri 0 4½
Lunghezza del remo 37 3
Lunghezza dell’albero di maestra, calcese incluso 70 0
Diametro del predetto a 12 piedi dall’estremità inferiore 1 7
Diametro del predetto all’estremità superiore 1 4
Lunghezza dell’albero di trinchetto, calcese compreso 52 6
Diametro del predetto a 9 piedi dall’estremità inferiore 1 2½
Diametro del predetto all’estremità superiore 0 9 2/3
Lunghezza della penna di maestra 68 0
Diametro della predetta a 24 piedi dall’estremità grossa 1 1 1/3
Diametro della predetta all’estremità piccola 0 5 2/3
Lunghezza del carro di maestra 60 0
Diametro del predetto a 24 piedi dall’estremità grossa 1 1 1/3
Diametro del predetto all’estremità piccola 0 7½
253

Lunghezza della penna di trinchetto 74 (sic) 0


Diametro della predetta a 20 piedi dall’estremità grossa 0 10 ¼
Diametro della predetta all’estremità piccola 0 7½
Lunghezza del carro di trinchetto 50 0
Diametro del predetto a 20 piedi dall’estremità grossa 0 10 ¼
Diametro del predetto all’estremità piccola 0 7½
Lunghezza delle gambe (sic) del pennone del trevo 33 6.

Anche l’armamento da guerra di queste grandi galere era ovviamente maggiore e infatti il residente
veneziano a Genova Cornioni in un sua informativa del 22 maggio 1701 così scriverà:

… È stata varata ad Arenzano e rimorchiata in questo porto una galea governativa della portata di
cinquanta cannoni; sarà montata da uno dei capitani Viviani. (Ruggero Moscati, Relazioni degli
ambasciatori veneti al senato (Secolo XVIII). Milano, 1943.)

Naturalmente il termine cannoni era qui usato molto impropriamente, includendosi certamente nel
suddetto numero di 50 non solo le poche grandi e medie bocche da fuoco di prua, ma anche la
cosiddetta spingarderia, ossia tutti quei piccoli pezzi posti lungo le murate su forcelle o cavalletti
girevoli che soprattutto le galee veneziane, ma, a quanto qui pare, anche le genovesi usavano.
Passando ora agli altri vascelli sottili diremo delle galeotte, nome che si ritrova già nelle cronache
del Dodicesimo secolo [galeotum atque alias naves ceperunt. In Cronaca pisana del Marangone,
p. 44 all’anno 1166; unum ianuensium galeotum cepere… duos ianuensium galeotos cum habere
ceperunt… et ultra XL naves, intra msgnas et parvas, et galeotos prendidere, (ib.) all’anno 1167] e
che si riferisce alle galere biremi, anche se però nel Medioevo, come si evince dai documenti
borgognoni citati dal Finot, erano, almeno nell’Oceano - dove poco si capiva di navigazione
remiera, talvolta confuse con le fuste, cioè con vascelli privi di corsia. Nelle stesse cronache,
all’anno 1175, troviamo poi una grossa galeotta, la quale però, nonostante le dimensioni, non è in
grado di tener testa a una galera; va bene che questa in particolare, impegnata in un viaggio dai
fini principalmente commerciali, era probabilmente poco armata per un combattimento:

Anno Domini 1175…in mense Iunio alia quaedam pisanorum galea navigavit in Provincia (‘nelle
acque della Provenza’) et unum magnum galeotum venientem de Sancto Egidio, multis et magnis
pannis et caris (‘generi costosi’) honeratum, cepit. (Ib.)

Veniva dunque questa galeotta dalla fiera di St. Gilles in Provenza, carica di quei tessuti di lusso e
di altre merci pregiate, le sole di cui potevano caricarsi le galere, non avendo gran disponibilità di
stivaggio e disponendo invece di sufficienti armamenti per difendere da pirati e corsari il loro
carico; erano infatti quei mari di solito frequentati da pirati e corsari proprio perché percorsi da
navigli recanti ricchi carichi; per esempio il 24 giugno del 1175 i marsigliesi, avendo avuto notizia
254

che la galera del pirata pisano Gerardo (di) Marcuccio incrociava in quelle acque, inviarono alla
sua caccia due galere sulle quali si erano imbarcati anche dei genovesi allora in quella città per
affari e, dopo averla inseguita per qualche tempo, riuscirono a catturarla in alto mare. Ora invece,
cioè a partire dal Cinquecento, così come la galera ordinaria era tornata a esser stabilizzata nel
suo classico rango di triremi, come lo era stata infatti ai tempi delle triere della Roma imperiale, le
biremi o legni medievali erano state definitivamente ribattezzate galeotte o fuste, mentre i
monoremo, vascelletti senza corsia e perlopiù anche senza coperta, erano chiamati adesso
bergantini, caicchi, fregatoni ecc. Ma di questi poi diremo. Erano dunque in sostanza le galeotte
non altro che le vecchie galere biremi medievali prive di rembate, mancanti queste perché
sarebbero state troppo ingombranti e soprattutto pesanti per i loro pochi remiganti, e si potevano
pertanto ora dire anche ‘mezze galere’; avevano, a seconda della loro grandezza, da 17 a 23
banchi biremi per lato, anche se nel Medioevo e nel primo Cinquecento ne avevano spesso avuto
anche qualcuno di meno; eccone infatti nel 1380 una genovese da 14 banchi per lato:

… Giunsero lettere a Venezia con un galladello (fragata nel Rinascimento, caicco più tardi) che
cinque galee veneziane avevano preso una galea di Pera (colonia genovese sul Bosforo) con tutti
gli huomini ed una galeotta di 28 banchi de’ genovesi, che era carica di spezie… (Daniello
Chinazzo, Cronaca della guerra di Chioza etc. In LT.A. Muratori, Rerum italicarum scriptores etc.
C. 774, t. XV. Milano, 1727.)

Precisiamo che questa non è la versione originale della cronaca, la quale fu scritta dal Chinazzo in
latino, ma ne è una tarda infedele traduzione in volgare e che, per esempio un veneto come lui mai
avrebbe scritto galere bensì galee. Nel 1409 troviamo una galeotta veneziana di ben 25 banchi per
lato, la quale si doveva dare a Marco Bembo, rettore di Mykonos e Tinos, per guardia di quelle
isole greche (C.N. Sathas, cit. Vol. I, pp. 32-33). Ora, alla fine del Cinquecento, erano comunque
molto diffuse le galeotte da 18 e da 22; esse portavano tutte ovviamente l'albero di maestra, ma
non tutte il trinchetto; avevano anch'esse una sola coperta e lo schifo; si trattava d'imbarcazioni
leggere, molto adatte alla guerra di corso perché velocissime e molto maneggevoli, specie quando
andavano a remi, e inoltre erano imbarcazioni ἐπιπρώροι, come dicevano i greci, cioè con esse si
prueggiava particolarmente bene.
Sebbene tanto vantaggiose alla guerra di corso, la quale si esercitava allora soprattutto facendo
cabotaggio, le galeotte erano vascelli poco usati dai cristiani, mentre lo erano molto dai corsari
turchi e quasi esclusivamente da quelli barbareschi, i quali però fino a tutto il Rinascimento
avevano adoperato quasi esclusivamente le più agili fuste; esse avevano generalmente (ma non
sempre) due remieri per ogni banco di voga e pertanto anche e soprattutto per questo offrivano,
255

rispetto alle galere, un notevole risparmio d’uomini. I barbareschi usavano comunque spesso
galeotte che in realtà avevano le dimensioni delle galere:

... Ma in Barbaria si fanno molte galeotte grandi come le galee ordinarie e molto simili alle galee,
se non quanto non portano le rembate né il trinchetto inarborato, e lo fanno i padroni per non
essere sforzati a servire al Gran Turco quando ne sono ricercati, come sarebbono se fossero
galee, che hanno quest'obligo, però (‘perciò’) le mettono fuori sotto il nome di galeotte. (P. Pantera.
Cit. P. 48.)

Verso la fine del Seicento le potenze marinare cristiane di ponente, avendo nel corso di quel
secolo considerato che le biremi in effetti non erano vascelli né tanto potenti, come le galere, da
poter partecipare a una battaglia né abbastanza agili e leggere per i compiti di guerra di corso e di
guardia costiera che si affidavano invece alle maggiori monoremo, ne dismetteranno quasi del
tutto l’uso, restandone comunque per esempio fino alla fine del Settecento nel Regno di Napoli,
però come galeotte da bombe, mentre altre monoremo, le cosiddette impropriamente barche
lunghe, anche sopravvivranno, ma perlopiù nei soli Adriatico e Ionio, sino allo stretto di Messina.
Bisogna inoltre ricordare, come abbiamo già accennato, che a partire dal Seicento gli olandesi
daranno questo nome di galeotte anche a dei loro vascelli tondi di media grandezza e di tutto
rispetto, generalmente lunghi dagli 85 ai 90 piedi francesi, con i quali essi raggiungeranno anche le
Indie, e inoltre a vari altri tipi di vascelli più piccoli, alcuni d’una forma che stava tra quella dei
predetti e quella delle pinasse, altri di basso bordo che serviranno da yachts, ossia da ’avvisi’, e
altri ancora da pesca; questi vascelli saranno caratterizzati, oltre che dall’alberatura en fourche,
soprattutto dall’aver la loro maggiore larghezza in corrispondenza della sommità della prua; ma,
tornando ora agli altri vascelli remieri, diremo che similmente ora più usati in guerra, però più dai
turco-barbareschi che dai cristiani, erano i suddetti bergantini ma ancora di più le fuste, nomi
questi che si trovano già nelle cronache della fine del Duecento; si trattava di vascelli che, pur
essendo più piccoli delle galeotte, mantenevano di queste la forma, eccetto che non portavano la
corsia alta e, nel caso dei bregantini, nemmeno la coperta; si potevano quindi considerare dei
‘quarti di galera’, per usare un linguaggio però più proprio all’artiglieria. Portavano una sola vela,
cioè la maestra, e per ogni lato da 8 a 16 banchi, essendo comunque molto comuni quelli da 14 o
15, dove vogavano altrettanti uomini a uno per banco, ma, nel Rinascimento, bregantini (gr. e grb.
ἐπαϰτροϰέλητες) e fuste avevano raggiunto spesso persino i 22 banchi per lato (M. Sanudo, Diarii.
T. I - p. I, col. 146), specie quando ancora erano chiamati lenij; avevano remi assai lunghi e sottili,
pertanto dal facile maneggio, ed erano velocissimi e comodi per il poco spazio che occupavano,
per esempio all'ormeggio, quindi si trattava di legni molto agili e adatti alla guerra di corso e alle
scorrerie costiere. Il loro equipaggio complessivo, specie nelle fuste turco-barbaresche, le quali
256

erano un po’ più grandi dei bregantini, superava normalmente di poco il numero dei rematori,
generalmente dai 30 ai 40, essendo questi in tali più piccoli vascelli remieri, come del resto anche
in quelli saraceni che li avevano preceduti nel tempo, pure marinari e combattenti (gr. μάχιμοι
αὐτερέται, ‘combattenti che remano da sè’) e non quindi degli schiavi cristiani come invece erano
nelle galere e galeotte e come spesso anche saranno nei secoli seguenti; ma in realtà, in caso di
guerra o di guerra di corsa portavano a bordo molti più uomini, talvolta addirittura più di 130 e ciò
perché, seppure tanti uomini non servivano alla navigazione, servivano però nelle azioni di guerra
che andavano a fare. Nell’estate del 1504 nei pressi dell’isola d’Elba quattro fuste capitanate dai
due famosi fratelli corsari Barbarossa catturarono in due azioni distinte due galere dello Stato
Ecclesiastico e poi, con tre sole di queste fuste, inseguirono e presero nelle acque di Lipari una
grossa nave spagnola che stava andando dalla Spagna a Napoli, la Caballería, la quale, benché
facesse acqua a causa d’una precedente tempesta che l’aveva colpita, essendo infatti tutti gli
uomini di bordo impegnati alle pompe, cioè a quei due condotti, posti generalmente uno a tribordo
e uno a babordo dell’albero di maestra, per vuotare la sentina (dal lt. sentire nel senso di ‘putire’),
ossia quell’acqua marcia puzzolente, risultante soprattutto dalla pulizia dei ponti, che si raccoglieva
sul fondo di cala d’un vascello lungo la chiglia e che gli antichi romani chiamavano più
comunemente nautea, e non potesse quindi alla fine sottrarsi alla cattura, pur portava, oltre a un
ricco carico di falconi, altri uccelli pregiati e 30 cani di razza, ben 300 soldati, 60 cavalieri aragonesi
ed 80 marinai; nell’estate del 1510 poi, mentre una galera turca dannificava le marine pugliesi
portandone via schiavi moltissimi abitanti, come racconta il diarista leccese Antonello Coniger,
quattro fuste barbaresche entrarono audacemente nel porto di Napoli e s’impadronirono alla
sprovvista di tre galere di quella squadra, le quali erano evidentemente tenute alla fonda prive di
guarnizione militare; inoltre il 29 maggio dell’anno successivo una squadriglia corsara turca,
comprendente due barche, una galera e cinque fuste assalirono S. Cataldo di Lecce, ne presero la
torre ammazzando tutti quelli che vi si trovavano e fecero gran preda (Cit.).
Fino al Trecento i brigantini remieri (gr. τράμπιδες, ἂϰάτια, νῆες ἄκᾰτοι) del Mediterraneo erano
stati chiamati anche bragantini (vedi appunto lo storico Marin Sanudo); probabilmente questo
nome, da non confondersi però con quello omonimo del più tardo brigantino veliero oceanico, fu
dato non perché avesse qualcosa a che fare con il regno di Braganza o con i grassatori, visto che
a quei tempi briganti aveva il suo significato originario di soldati e non ancora di delinquenti, ma
perché si trattava in origine di un tipo di vascello remiero caratteristico del Lago di Costanza o
Lacus Bragantinus, come lo chiamava Plinio in quanto dominato dalla città di Bragantium, oggi
Bregenz; nel Rinascimento il nome bregantino o brigantino verrà infine usato anche corrotto in
bergantino. Si trattava di una vascello attuario privo di coperta, usato anche per il trasporto di
257

merci, il quale poi seguirà la sorte di tutta la marineria bellica remiera, destinata a terminare
sostanzialmente con la fine della repubblica di Venezia; ne troviamo una prima menzione del nome
negli Annales degli Stella all’anno 1.379 (cum duabus ex illis scaffis quae brigantini dicuntur.), al
1412 (ex iis, quas vulgares galeottas et brigantinos dicunt, galeottas duas ac unum brigantinum
deducens) e al 1419 (unam galeottam cum altero vase, quia brigantinum vocatur); poi anche negli
Anales dello Zurita all’anno 1438, ma quest’ultimo autore non era, come sappiamo, coevo bensì
molto più tardo. Inoltre al 4 settembre 1384 nel racconto del viaggio di Terra Santa del fiorentino
Lionardo di Nicolò Frescobaldi, il quale nelle acque di Venezia andò a raggiungere l’ormeggio della
cocca veneziana che doveva portarlo ad Alessandria d’Egitto condottovi, assieme ad altri
pellegrini, da ‘uno brigantino a sedici remi’, intendendosi 16 remi per lato (Viaggio di Lionardo di
Nicolò Frescobaldi fiorentino in Egitto e in Terra Santa etc .P. 53. Parma, 1845). A questo
proposito dobbiamo dire che il termine cocca si era presto esteso nel Mediterraneo anche alle navi
mercantili più grandi della caravella, specie alle caracche, e infatti nella stessa predetta relazione
di viaggio del 1384 a un certo punto leggiamo il brano che segue:

… Arrivòvi messer Arcoletto Riccio e messere Pieruccio Malipieri gentiluomini Viniziani, che
veniano di ponente con una cocca a due coverte, grandissimo legno, e per lo lungo cammino non
l'aveano potuta conciare (‘calafatare’) in quell'anno, di che ella metteva (‘faceva’) assai acqua,
tanto che tra dì e notte se n’avea a gottare (‘sgottare’) circa a cento cogna (misura equivalente a
dieci barili) (cit. P. 132).

Un documento fanese del 1586, pubblicato da Mario Bartoletti nel suo Una città adriatica fra
Medioevo e Rinascimento (P. 58. Urbania, 1990), ci da il ragguaglio dell’equipaggio di una fusta da
20 banchi per lato a quei tempi, un equipaggio più complesso che nel passato, in quanto l’uso
delle fuste era ormai allora in fine perché le galeotte le stavano sostituendo; si trattava di un
vascello da adibire alla difesa di quelle acque e che l’amministrazione pontificia di Fano pensava di
farsi farsi costruire dall’arsenale di Venezia; tralasciamo il dettaglio dei soldi:

Capitano, (il quale) mena seco per il meno suoi quindici in diciotto (uomini).
Còmito.
Sotto-còmito.
Agozino.
8 marinari
72 vogadori.
36 soldati.
Peotta.
Bombardiero.
Sotto-bombardiero
258

La fusta era qui comandata non più dal còmito, come nel passato, ma da un capitano, cioè come
le galere; i vogatori, i quali erano volontari perché prendevano una paga e cioè due ducati il mese,
possono sembrare pochi per quaranta banchi bireme, ma evidentemente i mancanti erano inclusi
in quei 18 uomini portati dal capitano. Anche l’artiglieria era diventata notevole per quel tipo di
vascello e cioè ben 9 bocche da fuoco di bronzo, tra cui tre maggiori su affusti e sei piccole girevoli
a mezzo di codesse, ossia poste su cavalletto fisso, quindi probabilmente si trattava di smerigli da
braga o, se a carica anteriore, di archibugi da posta, artiglierie per fiancate di cui poi diremo.
A leggere il Guillet e l’Aubin, autori comunque molto più esperti di navigazione oceanica che di
quella mediterranea, nella seconda metà del Seicento sia il brigantino che la fusta subiranno poi
notevoli trasformazioni e cioè il primo, ora fornito anche di trinchetto, avrà generalmente 12 banchi
monoremo per ogni lato e sarà ancora molto apprezzato dai corsari e dai pirati mediterranei per la
sua leggerezza, oltre che per la preesistente comodità che in esso ogni remigante vi era anche
marinaro e soldato; la seconda sarà invece un’imbarcazione, sempre a vela e a remi (fr. à trait et à
rames, à la voile et aux rangs), ma usata ora principalmente da bettolina, cioè per la discarica dei
vascelli più grossi, e nel Settecento prenderanno questo nome di fuste tutti i legni che in un’armata
navale serviranno da magazzino, da ospedale e talvolta anche da trasporto di soldatesche.
Più piccole dei bergantini erano le fragate o fregate (vn. fregade; sp. fragatas), ma i turco-
barbareschi però, a quanto scriveva il de Haedo, le dicevano anch’esse bergantini; alcune - a
dispetto del loro predetto nome cristiano (dall’gr. άφραϰτος, privo di coperta) - avevano la coperta
e altre no, e si potevano considerare degli ‘ottavi di galera’; portavano una piccola corsia e
avevano la poppa più bassa, con meno rilievo di quella dei bergantini e priva delle scale d’accesso
che avevano i vascelli remieri più grandi, potendosi infatti accedere a bordo anche da prua come in
una comune barca da pesca; i banchi di questi legni andavano da 6 a 12 per lato e un uomo per
banco, ma a Venezia erano chiamati così anche dei grossi copani (gr. ϰύπαι) da 8 remiganti in
tutto con un nono uomo conduttore a poppa; i remi erano simili a quelli dei bergantini e spesso in
tali vascelli il timone era costituito da un semplice remo manovrato da un timoniero. Portavano
anch'esse una sola vela ed erano agili e veloci, soprattutto quelle dei corsari, ma quelle che si
facevano per il trasporto di mercanzie erano più grandi e meno veloci. Le fragate ponentine
pescavano poco e avevano la prora e la poppa tagliate, ossia ristrette, e inoltre sollevate all'insù,
quasi come quelle delle gondole veneziane, due caratteristiche queste che le facevano molto più
leggere e veloci degli altri tipi di vascelli, sia quando andavano a remi sia a vela, ed erano infatti
molto usate al seguito dell’armate come avvisatrici, scopritrici e passatrici veloci. Come tutti gli altri
piccoli vascelli sottili anche le fregate non erano in grado di sostenere lo scontro in battaglia
259

ordinata, ma erano utilizzabili per una guerra di corso minore e in tante altre utili mansioni, come
scriveva il Sereno:

… Le quali, sebbene per combattere a’ fatti d’arme son poco utili vascelli, a traghettar genti, portar
artigliarie e munizioni e a mantener gli esserciti forniti di quanto richiede l’espugnazione delle
fortezze e delle città sono attissime. (Bartholomeo Sereno, Commentarij della guerra di Cipro e
della Lega dei principi cristiani contra il Turco etc. Pp. 53-54. Monte Cassino, 1845.)

Simili alla fragata erano la barca lunga oceanica, di cui poi diremo, e la barca lunga adriatica, della
quale però non abbiamo trovato descrizioni; la seconda fu introdotta dai corsari uscocchi, di cui
anche parleremo più avanti, poi fu adottata dagli albanesi e nella seconda metà del Seicento
anche dai barbareschi; 15 di queste barche albanesi facevano parte nel 1617 dell’armata
veneziana proprio in funzione anti-uscocca. Pur restando più piccole dei bergantini, le fragate
diventeranno più corpose nel Seicento, quando il loro bordo sarà più alto di quello delle galere e
presenteranno pertanto delle aperture nel bordo stesso - a mo' di piccoli sabordi - per il passaggio
dei remi; inoltre saranno sempre provviste di coperta. Pure nel Seicento, gl’inglesi saranno i primi
ad attribuire il nome di fregata a un veliero oceanico da guerra ordinariamente a due soli ponti,
lungo, basso sull’acqua (fr. ras à l’eau), leggero di legname e alla vela, povero d’opere morte e ciò
sempre per aumentarne la leggerezza, armato con un numero di pezzi che poteva andare dai 36 ai
50, trattandosi forse d’una evoluzione dei cinquecenteschi bertoni di cui abbiamo già detto; l’unica
parte della fregata che si faceva sensibilmente più pesante, per esempio, di quella d’un flauto era
la prua, per cui un tale vascello tendeva a ricadere di più sul naso (ol. neus, bek), come dicevano i
francesi, ossia sulla punta dello sperone. Ci sarà anche una versione più ‘leggera’ e molto più nota
e fortunata di questa moderna fregata, ossia un buon veliero (fr. fin de voile, leger à la voile) a un
solo ponte, molto usato per il corso, armato con un numero di cannoni che andava dai 16 ai 28,
per esempio la francese Le Chasseur, la quale nel 1657 avrà 180 uomini d’equipaggio e 28 pezzi,
di cui 18 in ghisa, confondibile quindi, più che con il flauto, con il fiammingo phlibot (ol. vlie-boot,
fluyt-boot; ing. fleet-boat, fly-boat; fr. flibot; it. flibotto, lilibotto), essendo quest’ultimo, come il nome
stesso fa intendere, nient'altro che un flauto o pinco piccolo, ma largo e molto fondo, dai bordi
arrotondati, cioè senza squadratura, e dalla poppa ordinariamente rotonda, provvisto del solo
albero di maestra senza parrocchetto e dalla portata massima di 100 botti. Infine, ci sarà anche un
piccolo legno detto in francese frégate ou patache d’avis (ol. advijs-jacht, advijs-fregat), il quale
sarà utilizzato com’avvisatore o come postale militare, mentre una qualsiasi nave da guerra che
allora porterà un numero di pezzi d'artiglieria superiore al predetto di 50 si dirà, invece di fregata,
un vascello, monopolizzando così un nome che in precedenza, come sappiamo, era sempre stato
comune a qualsiasi legno, grande o piccolo, a vela o a remi che fosse.
260

Una sorte simile a quello di fregata avrà il nome di corvetta e anche quello di brigantino (in. brick);
ma tornando ora al nostro Cinquecento, diremo ora che i vascelli sottili più piccoli di tutti erano le
filuche, le capariole, le castaldelle e gli altri più sopra nominati; erano tutti privi di coperta (fr.
bâtiments ras), avevano da tre a cinque remi monouomo per lato e una sola vela. Erano vascelli
sottilissimi e velocissimi.
La scovazzera veneziana si vogava con 8 remiganti, ma era pesante e di non facile voga, e la
capariola, anch’essa veneziana, invece con 6; la castaldella si vogava in piedi a cinque remi per
lato; il caico o caic(c)hio si vogava invece sedendo e a 5/6 remi per lato. Quest'ultimo era molto
usato nel Mediterraneo orientale e Venezia soprattutto se ne serviva come velocissimo vascello
corriero e porta-ordini e infatti quella repubblica disponeva d’un certo numero di caicchi publici, con
i quali manteneva i contatti con le sue armate di mare e le sue colonie e mandava e riceveva la
posta diplomatica da Costantinopoli, ma erano spesso usati anche per il corso minore e i più
grandi talvolta anche per il trasporto di piccole partite di legname; a partire dal Seicento troveremo
però chiamare con lo stesso nome (ca(v)ichio), specie dai maltesi e dai veneziani, lo schifo di
galera e talvolta anche il battello di servizio e salvataggio dei velieri. Poco compare a quest'epoca
un altro nome con cui era conosciuto il caicchio e cioè peot(t)a, nome che è quanto restava della
locuzione veneziana barcha di peota (‘pedota, pilota’) – oggi diremmo quindi ‘pilotina’ (gr. πορθμίς,
πορθμίδιον) - e che troveremo più diffuso nell'Adriatico veneziano nel Settecento, quando anche
comuni saranno altre specie di caicchi, quali il peot(t)one, la margarota, barca da 6 rematori che si
costruiva a Marghera, e la bissona, questa veloce barca sottile da 8 remi. Nel 1386 troviamo però
usato da Venezia come vascello corriero anche un brigantino.
Le filuche napolitane (dette anche feluche e felucche; dal lt. fulica, ‘folaga’), scialuppe di origine
palustre già menzionate nel Trecento, erano i più piccoli dei vascelletti remieri, equivalenti nel
Mediterraneo occidentale ai predetti caicchi levantini, velocissime a cinque, ma più spesso a sei
remi per lato, erano inoltre a vele latine o a saccoleva e a doppia poppa (gr. ἀμφίπρυμνα πλοῖα) –
o doppia prua (gr. ἀμφίπρῳροι νῆες) se si preferisce, quindi a doppia timoneria, cioè col timone
velocemente trasferibile da un’estremità all'altra in caso di bisogno, e questa particolarità dimostra
il loro uso soprattutto palustre o fluviale, cioè per traghettare velocemente da una riva all’altra o per
invertire più agevolmente la rotta in acque strette, cioè senza bisogno di girare il vascello, un tipo
di imbarcazione questo già menzionato nel VI sec. dal bizantini Agazia Scolastico (ἐπαϰτρίδας
τινὰς ἀμφίπρυμνους δέϰα. Historiarum, lt. III) e dal suo continuatore Menandro Protettore
(ἒμπαλιν διελθεῑν παρεσϰεύασε τὸν Ἲστρον ἐν ταῑς ϰαλουμέναις ἀμφιπρύμνοις οτῶν νεῶν. In
Excerpta ex Historia. All’anno 576); anche Giorgio Cedreno (sec. XI) molto più tardi ne farà
menzione nel suo Compendio storico, laddove narra che l’imperatore Giustiniano, attorno al’anno
261

559 d.C., inviò il generale Belisario a combattere gli unni e gli preparò a questo scopo delle navi
bipoppa (πλοῑα δίπρυμνα) con le quali risalire il Danubio. Giovanni Zonara, altro storico bizantino,
ma questo del sec. XII, scrivendo dei fatti dell’imperatore Costantino su dette imbarcazioni bipoppa
alquanto si dilunga:

… i vascelli erano per la maggior parte monoremi e per il resto biremi e in alcuni di loro si
manovravano timoni sia a prua sia a poppa e avevano anche doppi marinai timonieri e ciò sia
nell’andare sia nel tornare, non avendo quindi bisogno di virare di bordo e non facendo
comprendere ai nemici se si stessero avvicinando o si stessero allontanando. (… πλοῑα δʹἦσαν τὰ
μἔν πλεῑστα μονήρη, ἒστι δʹἂ ϰαὶ δίϰροτα; ϰαὶ τισὶν αὑτῶν ϰαὶ ἐϰ τῆς πρώρας ϰαὶ ἑϰ τῆς πρύμνης
πηδάλια ἤσϰητο, ϰαὶ ϰυβερνήτας ναύτας τε διπλοῦς εἷχον, ὃπως ϰαὶ ἑπεὶ πλέωσι ϰαὶ ἁναχωρῶσι,
μὴ ἀναστρεφόμενοι, ϰαὶ τοὺς ἐναντίους ἑν τῷ πρόσπλῳ ϰαὶ τῷ ἀπόπλῳ αὐτῶν σφάλωσιν. In
Epitomē historiarum.)

Il predetto brano è pressappoco uguale a quello che sullo stesso argomento troviamo in Suida e,
poiché quest’ultimo scriveva secoli prima, vuol dire che o Zonara copiò da lui o ambedue
copiarono da un terzo autore a loro precedente. C’è da supporre che solo le monere, ossia le
monoremi, potessero essere attrezzate in tal senso, perché, per potersi sedere ugualmente da un
lato o dall’altro del banco, era necessario che il banco stesso fosse perpendicolare alla fiancata e
non obliquo, anche se magari con doppio scalmo od occhio di scalmo; c’è inoltre da pensare che,
oltre alla possibilità di non far comprendere al nemico il loro senso di marcia, la doppia poppa
fosse anche molto utile a questi vascelli in caso decidessero di sottrarsi velocemente al
combattimento e infatti Esichio le dice umoristicamente τὰ ἐπὶ σωτηρίᾳ πλοῖα, cioè ‘le navi verso la
salvezza’. Naturalmente, se il vascello remiero non era piccolo e aveva quindi i banchi non
perpendicolari alle fiancate ma inclinati verso prua, non si poteva vogare in questa maniera, cioè
all’indietro, se non per un breve tempo e bisognava al più presto davvero girare il vascello; ciò
perché non bastava portare i remi dall’altro lato dello scalmo ( gr. τροπώσασθαι ναῦν, ‘ristroppare il
vascello’), ma bisognava necessariamente anche che si invertisse l’inclinazione dei banchi. Erano
queste piccole e veloci imbarcazioni bipoppa utilizzate talvolta anche in mare come porta-ordini e
corrispondenza e per passaggi veloci e diventeranno molto comuni e apprezzate a partire dal
Seicento, quando - in versioni più grandi dette feluconi e con maggior numero di remi – saranno
talvolta usate da turchi, napoletani e francesi anche per la guerra di corso di piccolo cabotaggio e
serviranno inoltre al diporto marittimo e lacustre dei regnanti, come quella riccamente decorata in
dotazione alla Corte di Napoli, adoperata per le gite che quei vicerè e poi re amavano fare
nell'acque di Posillipo, e il cui ultimo esemplare ancor oggi si può ammirare al museo partenopeo
di S. Martino. Il battello veneziano aveva due vogatori. La fisolera, anch’essa veneziana, che
sembra si chiamasse così perché utilizzata soprattutto per la caccia al fisolo d’acqua dolce
262

(colymbus fluvialis), un uccelletto acquatico una volta molto comune, detto in Toscana Tuffetto o
Tuffolino (G. Boerio, cit. P. 224); ma l’etimo potrebbe essere comune a quello del faselo
napoletano (lt. phaselus; tlt. faselus), trovando così ambedue i nomi origine nel l. vascellum. Era
spinta questa generalmente da un solo remigante ed era tanto leggera che un solo uomo poteva
portarla sulle spalle come una canoa e pertanto, così come abbiamo già detto per il nome francese
pla(i)ne, ha dato il nome alla carlinga degli aerei, anch'essa necessariamente molto leggera; non
sappiamo però né di quale materiale fosse fatto né se avesse qualcosa in comune anche con la
più tarda battana, altra piccola imbarcazione veneziana che si vogava come la canoa, ossia con
remo a doppia pala e senza scalmo, o con i simili zopoli o ciopoli, leggerissime canoe fluviali
croato-bosniache. C’erano comunque a Venezia anche fisolere più grandi, capaci di quattro
remiganti e, per quanto riguarda il faselo, c’è a notare che Bartolomeo di Neocastro ne menziona
uno bireme, senza però indicarne il numero dei banchi di voga (quandam faselum biremen
ascendens. Cit. Cap. LXXXII).
Terminiamo questa enumerazione dei vascelli da remo più piccoli con lo schifo [vn. còpano; fr.
esquif, caïc(que), chalou(p)pe; ol. boot, schuit, chaloep, sloep], ossia con la barca di salvataggio
dei predetti vascelli tondi e latini, della quale aveva di solito il carico un solo marinaio (ct. barquer;
fr. maistre de chaloupe), esso nei vascelli maggiori era di solito accompagnata da una seconda
imbarcazione più piccola detta in francese canot o scute e in italiano fragatina; alla fine del
Seicento talvolta si nominerà nel Mediterraneo talvolta un vascelletto da carico detto schiffo
portoghese.
Passando ora alle qualità nautiche dei vascelli sottili, diremo che una buona galera doveva essere
pianella, vale a dire con fondo piano e poco profondo, scarsa di quartieri sia a poppa che a prua,
cioè un po' stretta alle due estremità, ma ben quartierata, ossia larga e corposa, alla mezzania e
così sarebbe andata velocissima a remi o anche a vela con la bonaccia, proprio perché, per avere
fondo piatto, poco pescaggio e poco quartiero, offriva poca resistenza al mare solcandolo e
fendendolo così più facilmente. D'altro canto i vascelli molto pianelli come le galere, per ogni poco
di maretta e di vento fresco che ci fosse, subito incominciavano a navigare male sia a remi che a
vela e risultavano gelosi e insicuri nelle burrasche; inoltre proeggiavano difficilmente con la maretta
perché erano poco quartierati alla prora, la quale era così sopraffatta e soffocata dal mare, e
anche perché erano molto bassi e quindi, stando il loro scafo per lo più sommerso, procedevano
con difficoltà ogni volta che il mare non fosse del tutto tranquillo. Le galee poi che non erano tanto
pianelle, che pescavano cioè molto di più dell'ordinarie e che avevano maggior quartiero alla prora,
erano sì più reggenti e più sicure nei fortunali, riuscivano sì meglio alla vela con i venti freschi,
andavano anche meglio a remi con la maretta e meglio proeggiavano delle pianelle, erano infine
263

più belle a vedersi per esser più alte di poppa e di prua, ma non erano altrettanto veloci ai remi né
tanto facili al moto e al giro in particolare e inoltre, essendo molto più quartierate alla prora,
proeggiavano più difficilmente col vento fresco e quest'ultima operazione era molto importante
perché, quando una galera si vedeva in balia d’un mare troppo forte e temeva di non farcela, per
salvarsi era utile appunto proveggiare, cioè sforzare i remi controvento.
Non si potevano certo definire vascelli sottili le galeazze né le galee grosse o galee di mercanzia
veneziane né le maone ottomane, vascelli a remi e a vela latina come le galere, ma grossi e alti di
bordo come i vascelli tondi, vascelli dunque che, a causa appunto di questa loro mole, navigavano
bene a vela, ma male a voga e quindi usavano i remi solo per uscire dai porti alla ricerca di vento
utile e quindi nemmeno in caso di totale bonaccia, cioè quando non ci fosse nemmeno la
possibilità d’orzare, perché, per il loro gran peso, le loro grandi dimensioni, la profondità della loro
carena e la grande altezza da cui dovevano scendere in mare i loro remi, la loro voga risultava
molto lenta e faticosa; erano comunque i loro remi molto utili appunto nelle manovre portuali e, per
quanto riguarda il loro impiego in guerra, avendo dunque una voga troppo sforzata, dovevano
essere in bonaccia trainate dalle galere, mentre in combattimento, potevano eventualmente usare i
remi per un brevissimo tratto per andare all’abbordaggio del nemico. Ciò significava che in guerra
non potevano mai viaggiare da sole, ma sempre di conserva con delle galere che appunto le
trainassero in caso di mancanza di vento e che le sostenessero in battaglia.
Ci si chiederà a questo punto a che servisse allora tenere a bordo un numero così rilevante di
remieri se poi alla navigazione a voga ben poco si poteva ricorrere; bisogna quindi chiarire che
essi servivano principalmente, come del resto anche nelle galere sottili, a tutti i molti e gravosissimi
lavori di bordo, quali il maneggio degli alberi e delle vele, delle ancore, delle gomene, gli imbarchi e
gli sbarchi dei carichi di provviste e di merci, alla raccolta a terra di acqua e fascine, gli
sbandamenti su un lato del vascello per effettuargli i lavori di carenamento ecc. Infine anche come
remiganti, quando necessario e possibile.
La galeazza era un vascello lungo e largo circa un terzo più della galera sottile ordinaria, ma, per
quanto riguarda l’altezza, quelle ponentine rivaleggiavano con i vascelli tondi; infatti, così si
scriveva in una lunga lettera anonima inviata nel 1588 dall’Inghilterra a Bernardino de Mendoza
(1540/1-1604), ambasciatore di Spagna in Francia, e nella quale si dava relazione del recente
disastro della Invencible Armada, narrandosi tra l’altro dell’audace impresa di due gentiluomini
della Corte inglese, William Harvey e l’italiano Tomaso Ghirardi, i quali, avvicinatisi di soppiatto in
una barchetta alla capitana delle quattro galeazze napoletane, la S. Lorenzo, la scalarono e vi
andarono a uccidere il suo comandante Nuñez de Moncada, nipote del molto più noto Hugo de
Moncada di cui poi diremo, passando così a Londra dalla totale oscurità alla maggiore notorietà:
264

… Questi due si misero a rischio della barca di una nave di scalare la gran galeazza nella quale
era Moncada e vi entrarono solamente con le loro spade, rischio a cui, secondo che comunemente
si ragiona, non si trova un altro simile, se si fa paragone dell’altezza di quella gran galeazza e di un
così picciol battello. (La dispersione della invincibile armata di Filippo II illustratta da documenti
sincroni. P. 141. Milano, 1863.)

Tant'era grande questa galeazza napoletana che anche il de Bourdeilles così ne scriveva :

… cette grande galeasse tant celebre et renommée en ecette armée-là, qu’on pouvoit dire plûtost
une montagne de bois qu’un vaisseau de mer… (Cit. Pp. 190-191.)

Secondo un decreto emanato nel 1520 dal Senato di Venezia e ribadito poi da un’altro del 1549,
ambedue menzionati da Cesare A. Levi (Navi venete da codici, marmi e dipinti, Venezia, 1892),
autore comunque da leggersi con molta prudenza a causa delle sue continue imprecisioni e
approssimazioni, le galee grosse veneziane si sarebbero da allora in poi dovute costruire delle
seguenti misure: lunghezza da ruota a ruota passi 27½, larghezza di bocca piedi 23 e altezza di
puntale, ossia del vivo al centro, piedi 9; il che significa che la lunghezza era molto inferiore a quel
terzo in più di cui parlano sia Pantero Pantera che Famiano Strada e che, in sostanza, le galee
grosse veneziane non erano altro che delle galeazze un po’ più piccole di quelle ponentine, ma
comunemente – anche se erroneamente - i loro nomi erano considerati sinonimi, come fa qui di
seguito il Franzes elencando i vascelli di varie nazionalità che nel 1453 difendevano Costantinopoli
dall’assedio turco:

… vi prendevano parte inoltre tre grandi triere commerciali dei veneziani, le quali gli italiani
sogliono chiamare ‘galee grosse’ o piuttosto dicono ‘galeazze’ (ἒτυχον δὲ ϰαὶ ἐϰ τῶν Ένετῶν
τριήρεις ἐμποριϰαὶ μεγάλαι τρεῖς, ἄς οὶ Ίταλοὶ εἱώθασι γρόσσας γαλέρας ϰαλεῖν ἢ μᾶλλον εἰπεῖν
γαλεάτζας. Cit. LT. III, cap.III).

A proposito di questo non numeroso gruppo di galee che vari potentati occidentali avevano inviato
a Costantinopoli per contribuire a una difesa solo ‘di facciata’, esse erano una quindicina e
comprendevano, oltre alle predette tre galee grosse veneziane, tre galee genovesi, una
castigliana, tre cretesi, delle quali una della citta di Xandax e due da quella di Chydonia, qualcuna
francese, ed infine alcune leggere veneziane, le quali però si trovavano lì non tanto per difendere
la città quanto più tosto il traffico di merci:

… e altre veloci triere poste alla protezione e sussidio delle merci. [ϰαὶ ἒτεραι τριήρεις ταχεῖαι πρὸς
φύλαξιν ϰαὶ ὐπηρεσίαν τῶν ἐμποριϰῶν τεταγμέναι· (ib.)]
265

L’imperatore pretese che restassero in zona per difendere invece la città; ma era ben poca cosa
rispetto all’armata approntata dall’invasore. All’inizio del Seicento la galeazza portava ancora tanti
remi quanti ne portava una galea ordinaria di circa 25 banchi per lato – in seguito arriverà a 32, ma
tali remi erano posti molto più distanziati l'uno dall'altro per la maggior lunghezza dello scafo ed
erano anche molto più lunghi e grossi, tanto da dover infatti esser manovrati da un minimo di sei o
sette vogatori ognuno:

... poi che vediamo che il remo delle galeazze è talmente lungo che, per esser ben maneggiato, ha
bisogno di sette e di otto vogatori e anco di maggior numero, secondo che sono più o meno
armate, essendo per la terza parte più lunghe delle galee ordinarie di venticinque banchi e perciò
tarde al moto. Però (‘perciò’), quando le armate christiane andorono del 1571 (anno di Lepanto)
per combatter la turchesca, commandarono i generali della Lega che, non potendo le galeazze
andare a vela per mancamento di vento, dovessero esser remurchiate dalle galee più leggiere
acciò che rimanessero a dietro. (P. Pantera. Cit. Pp. 23-24.)

Perché si capisca più facilmente la differenza di voga che c’era tra una galera e una galeazza
basterà la considerazione che i remi della prima quasi radevano l’acqua, mentre sotto quelli della
seconda potevano passare e navigare tranquillamente schifi e battelli (gr. ἀλιάδες; βᾶρεις, βᾶριδες,
σκαφίδια). In verità il Contarini nella sua Historia contemporanea della guerra di Cipro scriveva
che, tra i vari aspetti dell’armata cristiana che sbigottirono i turchi, ci fu anche il vedere le sei galee
grosse veneziane che ne facevano parte così agilmente vogare che mai non avevano creduto…
(Cit.); ma si trattava probabilmente solo di patriottica esaltazione o comunque al massimo d’una
breve vogata d’avvicinamento finale all’armata nemica, perché effettivamente non era possibile
spostare con i remi quei grossi vascelli per lunghi tratti. In effetti si trattava di vascelli che, per la
loro imponenza e potenza d’armamento, impressionarono lo stesso Giovanni d’Austria, come il 24
settembre 1571 fu raccontato al già citato Alvise Bonrizzo dall’arcivescovo Odescalchi appena
giunto da Messina, dove questi aveva visto il 16 precedente partire l’armata cristiana che avrebbe
vinto poi a Lepanto e ne aveva anche contato le vele:

… M’ha detto… che le sei galee grosse destano l’ammirazione generale e che lo stesso don
Giovanni, vedendole, esclamò: ‘Con altre sei galee simili (cioè anche senza galee sottili) mi
batterei contro tutta l’armata turchesca! Che lo stesso don Giovanni vuole indurre il re cattolico a
costruirne dieci eguali per la sua flotta e che dello stesso avviso è il famoso corsaro cavalier
Ramagas, intendentissimo di cose di mare… (N. Nicolini. Cit.)

Portava la galeazza tre alberi con le stesse vele della galera e in più il già nominato papafico, vela
anche questa latina, ma si trattava d’alberi molto più alti e grossi, soprattutto quello di maestra, per
cui erano anche fissi, cioè non correntemente e facilmente abbattibili come invece abbiamo visto
erano quelli della galera; aveva talvolta il timone detto alla navaresca, cioè a uso di nave, ossia di
266

vascello tondo, come abbiamo già detto, consistente in un timone affiancato da due gran remi che
lo aiutavano a far girare più presto un vascello tanto grosso e pesante; disponeva, oltre dello
schifo, anche d’una barchetta. A poppa e a prua c'erano due gran piazze per uso dell'artiglieria e
dei soldati e tutt'intorno impavesate alte, solide e fisse, dotate di feritore (fr. meurtriéres, jalousies;
ol. schiet-gaaten, musquet-gaaten) attraverso le quali i soldati sparavano moschetti e archibugi
senza poter essere né veduti né offesi. Dietro l'impavesata c'era una strada o corsia di tavolato,
posta al di sopra dei remi manovrati dai vogatori, la quale circondava così tutto il corpo della
galeazza, ma all'interno d’essa, e sopra la quale si trattenevano i soldati per combattere e per
accomodarsi e riposare in una maniera che, rispetto a quella che si usava sulle anguste galere,
dove i soldati dovevano praticamente tenere le gambe tra i remi in movimento, era giudicata al
tempo più che confortevole.
Anche le galeazze avevano la loro corsia centrale e una sola coperta, sotto la quale c'era però un
maggior numero di camere e stanze rispetto alle galere. Il vantaggio principale della galeazza era il
poter portare molta grossa artiglieria anche a poppa e sui fianchi come una grande nave e, sempre
come una grande nave, d'essere molto ferma e solida in combattimento. Sei galee grosse
veneziane furono le principali artefici della vittoria cristiana a Lepanto ed erano comandate dai
seguenti capitani:

Ambroso Bragadino
Antonio Bragadino
Iacomo Guoro
Francesco Duodo
Andrea Pesaro
Piero Pisani.
Almeno due galeazze napoletane parteciparono alla sopramenzionata e anch'essa vittoriosa
battaglia dell'isole Terzeire, mentre molto più sfortunate furono le quattro, pure napoletane, che,
durante il vice-regnato a Napoli di Juan de Zuñiga conte di Miranda (1586-1595), fecero parte della
Invencible armada inviata dalla Spagna contro l'Inghilterra e che con quella si persero in quel
fatidico settembre del 1588, episodio che, se avesse avuto un esito favorevole alla Spagna,
avrebbe potuto far intraprendere un corso molto diverso alla storia d'Europa e quindi del mondo,
come aveva già fatto quello di Lepanto anche se gli storici ancora oggi non se ne accorgono.
A proposito delle predette quattro galeazze napoletane, vediamo cosa ne scriveva in latino
Famiano Strada (1572-1649), storico coevo:

... le quali (anche) sono spinte a vele e a remi, ma sono del tutto più lunghe e più larghe di un terzo
dell'altre galere. Infatti (queste) non solo avevano armato i ripari molto alti di prora e di poppa con
molti soldati e artiglierie, ma soprattutto avevano tanto guarnito tutt'intorno i fianchi e i lati i singoli
267

interscalmi e banchi dei remiganti con singoli pezzi d'artiglieria che, in qualsiasi direzione si fosse
girato il vascello, alla stessa maniera nociva avrebbe sparato. Dal che conseguiva che, poiché
questi scanni dei remiganti, a causa delle frapposte artiglierie, distavano pertanto tra loro molto di
più che nell'altre galere, a motivo di questa grandezza degl'interscalmi, il vascello fosse stato
ingrandito con garbo più lungo. (Della guerra di Fiandra etc. Roma 1639-1648.)

Abbiamo detto della gravosità e delle decisamente scarse qualità veliche delle galeazze, difetto
dovuto essenzialmente all’improprietà della prevalente velatura latina datasi nel Medioevo al
grosso e doppio corpo di quei vascelli; a ciò s’incominciò a ovviare solo dopo le predette grandi
battaglie del Cinquecento, le quali avevano appunto messo in luce, oltre ai vantaggi, anche gli
svantaggi dell’uso bellico di questi vascelli. Il Crescenzio, il quale scriveva il suo trattato negli anni
1594-1595, c'informa che in Spagna da qualche tempo avevano convertito le galeazze alla vela
quadra, più adatta a scafi le cui forme si avvicinavano a quelle dei vascelli tondi, così come anche
tipico delle galeazze iberiche era il già menzionato timone alla navaresca, il quale permetteva di
governare meglio nel più agitato Oceano Atlantico.
Ma le trasformazioni più risolutive furono evidentemente quelle apportate dagli stessi veneziani, i
quali erano quelli che più apprezzavano queste galee grosse. Scriverà infatti il Pantera più tardi,
verso il 1610, a proposito della indubbia gravezza di tali vascelli:

... Ma hoggidì, essendosi affinata l'arte e la disciplina sì del fabricare come dell'armare i vascelli
maritimi, si fanno nel meraviglioso arsenale di Venezia da poco tempo in quà galee grosse tanto
agili che, quantunque non siano inferiori di grandezza all'altre fatte prima nel medesimo arsenale,
anzi siano più aggravate d'artigliaria, sono tanto preste e flessibili che forse concorrono con le
sottili in velocità... (Cit. P. 24.)

... sono di tardo moto, se ben s’intende hoggidì che si fanno in Venezia con tanta maestria (om.)
che, quantunque siano grandi come gli altri fabricati molt'anni prima della loro specie e più
aggravati d'artiglieria, si movon e si girano facilmente e senza remurchio, quasi come le galee
ordinarie chiamate sottili. (Ib. P. 45.)

Bisogna però sempre tener presente della minor grandezza di questi vascelli veneziani rispetto alle
galeazze ponentine; erano comunque sempre grandi vascelli e i veneziani usavano vecchi scafi di
galee grosse per la formazione di ponti galleggianti provvisori sul Canal Grande a Venezia o
altrove. Il miglioramento nautico delle galeazze in generale ci è comunque confermato nel 1623 dal
Frezza (Fabio Frezza, Discorsi in torno a i rimedii d'alcuni mali etc. Napoli, 1623), il quale appunto
scriveva che al suo tempo le galeazze o galee grosse (che con l'uno e l'altro nome si chiamano)
erano ormai così perfezionate da poter navigare quasi a pari con le galere sottili. Che dei
miglioramenti certi, anche se non tanto sostanziali, fossero effettivamente in corso evolutivo è
dimostrato dalle relazione della battaglia del canale di Scio che i veneziani combatteranno contro i
turco-barbareschi il tre maggio del 1657. In tale relazione, scritta dal capitano generale dell'armata
268

veneziana Lazzaro Mocenigo, si nota come, se anche le galeazze della Serenissima in quella
occasione andranno agevolmente all'abbordaggio del nemico come delle comuni galee, dovranno
però in navigazione, quando bisognerà andare a remi per mancanza di vento, ancora sempre
essere tirate a rimorchio - parola appunto derivata dal termine ‘remi’ - e cioè erano migliorate le
loro qualità veliche, ma non quelle remiere, queste ovviamente non migliorabili su vascelli così alti
e grossi; ogni galeazza, data la sua grande stazza andava di solito trainata da tre galere.
Il primo impiego delle galee grosse e delle galeazze in generale squisitamente come batterie
galleggianti fu proprio quello di Lepanto, perché in precedenza erano state sì molto usate in campo
militare ma come vascelli multimpiego, cioè come navi armate, per esempio dai veneziani già alla
fine del 1379 durante la famosa guerra di Chioggia:

… E fu creato capitano generale di tutta l’armata Andrea Contarini doge […] e fu fatto ammiraglio
di detta armata Vettor Pisani […] In questa armata di galere ve n’erano anco delle grosse. Le quali
furono fatte imbattagliare e così, queste come le altre, furono ben fornite di munizioni e vittuarie…
(Daniello Chinazzo, Cronaca della guerra di Chioza etc. In LT.A. Muratori, Rerum italicarum
scriptores etc. C. 732-733, t. XV. Milano, 1727.)

Per la cronaca, le galee grosse imbattagliate erano nove e i loro nove comandanti erano il
generale doge Andrea Contarini, Leonardo Dandulo, Giovanni Trivisano, Andrea Donato, Marco
Barbaro, Polo Faliero, Pietro Mocenigo, Giacomo da Molino e Lorenzo Gradenigo. Vedremo poi
altri numerosi impieghi bellici di questi grossi vascelli veliero-remieri specie alla fine del
Quattrocento.
Questi grossi vascelli remieri, per veneziani, toscani, napoletani, genovesi o savoiardi che fossero,
fino a tutto il Rinascimento avevano però avuto un loro ordinario impiego di vascelli mercantili con
il nome adriatico veneziano di galie de mercado o anche galie de viazi e con quello tirrenico di
galeazze di mercanzia (vn.); questi grossi vascelli, ben armati anche di passavolanti e d’altre
artiglierie pesanti, si portavano non solo in Nord Africa (galeazze di Barbaria) e in Grecia, Mar
Nero, Mar d’Azov, Medio Oriente (galeazze di Romania) a trafficare con i paesi dell'Impero
Ottomano, tanto è vero che Venezia doveva mantenere, oltre alla guardia di Candia, la quale
resterà anche in seguito, squadre di galere sottili fisse per sorvegliare anche quei più lontani traffici
(guardia di Beirut, guardia di Alessandria):

(22 luglio 1412:) Si ordina che una una galea di Creta accompagni fino a Costantinopoli le galee di
Romania a causa degli armamenti che preparavano i turchi (H. Noiret, cit. P. 212. T.d.A).

Questi vascelli portavano con linee regolari carichi di vino, pepe, zenzero e altre merci anche in
Fiandra e in Inghilterra, partendo già dal Duecento da Genova (il primo viaggio a Bruges delle
269

galee commerciali genovesi sarebbe infatti avvenuto nel 1297), ma nei secoli seguenti anche da
Venezia (‘duas galeas de Flandria redeuntes’. LT. Monaci, Chronicon de rebus venetis, al 1343),
da Porto Pisano, da Napoli e da Barcellona, cabotando veuë par veuë et cours(e) par cours(e),
come dicevano i francesi e come si faceva prima dell’uso della bussola, vale a dire costeggiando in
un interminabile, ma evidentemente lucroso viaggio tutta la penisola italiana, la Provenza, la
Spagna, il Portogallo, la Bretagna, la Normandia, Southampton, Ostenda, Bruges, Anversa e
infine, risalito il Tamigi, andavano a scaricare le merci residue a Londra; poi, stivate principalmente
di lane e di piombo inglesi, ritornavano indietro a commerciare di nuovo di porto in porto fino a
rivedere Genova, Venezia, Porto Pisano, Napoli; non sappiamo quanto potesse durare un simile
viaggio, certo molto tempo, anche perché dopo magari le galeazze, tornate al loro porto
d’armamento, non finivano lì il loro viaggio, ma proseguivano magari per Tunisi (lt. Tunitium), come
dalle cronache risulta che fece nel 1436 la genovese S. Maria del Salvatore. Queste vascelli, detti
appunto allora galee (poi galeazze) di Fiandra perché avevano un garbo fatto proprio per
affrontare l'oceano, per il gran volume di carico che portavano, la gran manovrabilità portuale, la
possibilità di spostarsi a remi, anche se per brevissimi tratti, quando era assente il vento, l’altezza
del bordo e il buon armamento di difesa dai corsari, ne facevano i vascelli allora più adatti a fare
questi gran cabotaggi lungo le coste oceaniche; essi furono certo i principali vettori del
Rinascimento italiano in Inghilterra e la presenza nella lingua inglese non solo di tantissime parole
d’origine latina (vedi per esempio l’affermativo yes, chiaramente derivante da quelli latino ita est e
id est, poi nelle enumerazioni item da idem, inoltre master e anche l’appellativo mister, cioè m.ster,
abbr. tachigrafica di magister, e gossip (‘diceria, pettegolezzo’), dal lt. gossypion, tessuto o
indumento di bambagia, cioè di scarso valore), ma anche dal successo ottenuto da numerose altre
parole proto-italiane, vedi il tipico gun, ‘canna’; e il caso di jail ‘carcere’, accor. di jealousy,
‘sospetto, quindi sbarre od opere difensive istallate per sospetto (per gelosia) dell’arrivo di ladri o di
nemici - vedi i ‘panciuti’ graticolati o traforati che si ponevano una volta a difesa delle finestre
basse - e quindi anche le sbarre del carcere (to send to jail, ‘mandare dietro le sbarre del
carcere’), esistendone d’altra parte una rimanenza proto-italiana anche nella lingua francese
(geôle, ‘carcere’). Si tratta dunque di termini spesso qui da noi in Italia ormai disusati, talvolta
anche dimenticati o il cui significato si è nel tempo trasformato in altro, mentre all’estero sono
ancora lingua corrente e mantengono il significato originario, ciò dovendosi sicuramente
all'esportazione commerciale e culturale operata prima dagli antichi romani con le loro conquiste e
poi dagli italiani medievali e rinascimentali tramite i suddetti vascelli; vedi ancora per esempio il
veneziano antico delivrar, ‘consegnare’ (in. to deliver) e il saluto di commiato piemontese cerèa (in.
cheerio, ‘arrivederci’). E, poiché molta marinaresca che lavorava a bordo delle galee grosse
270

veneziane era di origine balcanica, si può trovare nella lingua inglese anche qualche parola greca
non intermediata dal latino, quale per esempio il verbo to call (gr. ϰαλέω, ‘chiamo’). Un esempio
poi di parola latina che nell’italiano moderno ha il significato di ‘criminale’ e in inglese ha invece
mantenuto quello che aveva anche nell’italiano rinascimentale, cioè quello di ‘moroso’, è
delinquens-tis (in. delinquent). Introdussero queste galee veneziane di Fiandra in Inghilterra anche,
tra le tante cose d’uso civile e militare, per esempio un’arma che ebbe colà tantissimo successo e
sviluppo, tanto da credersi poi inventato dagli anglo-sassoni, e cioè l’arco lungo friulano, il quale
s’opponeva tradizionalmente a quello corto detto turco o anche soriano. Amalfi fu l’unico potentato
marittimo che non si servì mai galeazze e ciò perché fu sempre dedita molto di più alla pirateria
che ai commerci.
Nei Diurnali di Matteo Spinelli all’anno 1256 leggiamo:

… A la fine de lo ditto mese (‘marzo’) corse traversa (‘si spiaggiò’) una galeazza de veneziani a la
marina de Molfetta e Almazz sarracino, cha era vice-miraglio, ne habbe gran ricchezze.

Perché un vice-ammiraglio saraceno a Molfetta? Perché nel 1230 l’imperatore Federico II, di
ritorno da Terra Santa, non avendo più quella gente, specie veneziana, che aveva equipaggiato la
sua armata di mare all’andata, in sostituzione di quella aveva imbarcato un gran numero di
mercenari saraceni e poi, una volta sbarcato in Italia, non potendo rimandarli indietro, li aveva
dispiegati a difesa di terre e castelli del Meridione in funzione anti-guelfa; e quelli si erano resi
padroni di quanto loro affidato, specie di Lucera, sposando, oltre a quelle che vi avevano portato
con sé, anche donne locali e mettendovi al mondo una vera e propria nuova generazione di
saraceni. All’aurora del 25 maggio 1319 sei galere armate delle 28 a disposizione dei ghibellini
savonesi entrarono nel porto di Genova, allora dominata dalla fazione guelfa, e s’impadronirono
d’una galea grossa pronta per il viaggio di Fiandra (unam galeam grossam tunc oneratam et
paratam versus Flandriam navigare. In Annales genuenses Cit. Col. 1.035). Per tutta risposta i
guelfi genovesi armarono contro i savonesi 33 galere (quarum decem erant galeae grossae) e una
nave grossa e le posero sotto il comando di Gaspar de Grimaldis (ib.) L’armata approntata contro
gli estrinseci l’anno successivo (‘ghibellini’) includerà tre delle predette galee grosse allestite pro
Flandria (ib. Col. 1.040). Ma le galere di mercanzia genovesi, come quelle veneziane, andavano a
commerciare anche nella cosiddetta Romania, cioè in Grecia, e in Siria; nel luglio del 1326
accadde che cinque delle predette galere genovesi guelfe, tornando appunto dalla Siria,
incrociassero altre due galere di mercanzia, anch’esse genovesi ma ghibelline, le quali erano
dirette in Grecia. Le galere guelfe attaccarono le ghibelline e ne catturarono una con tutto il suo
ricco carico, mentre l’altra riusciva a fuggire (ib.) Nel 1336 galere genovesi provenienti da Monaco
271

s’impadronirono di due galee grosse veneziane che tornavano dal viaggio di Fiandra cariche di
merci di pregio; il risultato fu che l’anno successivo tra Genova e Venezia ci fu guerra (ib.). Nel
marzo del 1344 Luciano de Grimaldis, governatore di Monaco, tuttavia ribelle al dominio di
Genova, cominciò a danneggiare i genovesi piraticamente con una galera armata e prese la galea
grossa di Daniele Cibo proveniente dalla Fiandra carica di panni e di molte altre merci di valore,
tenendola sequestrata con tutto il carico contro la volontà dello stesso Cibo e dei marinai (ib.). A
giudicare però da quanto scrisse lo Zurita nei suoi Anales all’anno 1371, a quei tempi le galee
grosse genovesi che rifornivano Genova di frumento sardo non erano galeazze bensì dei pamfii o
pamfuli (gra. πάμφυλοι, perché forse originari della Panfilia, regione dell’Anatolia) , come poi
vedremo, cioè erano degli scafi di galee grosse non armati a guerra (algunos navios, que llamavan
pamfiles, cargados de trigo, que yvan a Genova… LT. X, f. 360 verso); nel 1381 l’armata
veneziana che venen a combattere i genovesi nell’Alto Tirreno prese uno di questi pamfuli carico di
100 balle di cotone e altre merci di proprietà pisana
Nel 1403 galere genovesi di ritorno a Genova s’imbatterono in una galea grossa veneziana e la
catturarono (ib.). Oltre al diario di bordo di due galere da mercanzia fiorentine in viaggio per e da
Southampton nel biennio 1429/1430 sotto il comando di Maso degli Albizzi, diario pubblicato da
M.E. Mallet nel 1967, anche le stesse cronache di Firenze ci testimoniano dei regolari viaggi con i
quali nella seconda metà del Trecento e per tutto il Quattrocento le galeazze toscane
raggiungevano il Canale della Manica e tra l’altro ci raccontano di due d’esse che, reduci dal
viaggio di Fiandra, attorno all’8 luglio 1448 portarono trecento fanti alla difesa di Piombino, la quale
sarà infatti poi attaccata da un’armata marittima napoletana. Il 17 gennaio 1496 i fiorentini fecero
un’incursione nell’arsenale pisano di S. Vito e dettero fuoco alle cinque galeazze che vi erano
custodite; i pisani accorsi riuscirono a salvarne tre.
Le Cronache di Notar Giacomo dicono d’un viaggio fatto in Fiandra da due galeazze di re Alfonso
d’Aragona, le quali erano partite da Napoli il 5 novembre 1473 sotto il comando del capitano Anello
Pirozo e di cui erano patroni Anello de Preia e Gasparo de Scocio da Napoli, mentre si ha pure
memoria d’un viaggio fatto nel 1455 dalla galeazza mercantile napoletana di Pietro Pujades. Il
viaggio di Fiandra decadde probabilmente agli albori del Cinquecento e Gasparo Contarini
scriveva infatti nel 1525 che al suo tempo tale viaggio non era più molto frequentato; il Paruta però
racconta che l’anno seguente, in occasione della lega santa stretta a Cognac il 22 maggio tra la
Serenissima, Firenze, Roma, Francia, Cantoni Svizzeri e Inghilterra allo scopo di mantenere la
libertà in Italia, a Venezia si decise quanto segue:

… e perché fosse co’l re (d’Inghilterra) maggiore la loro grazia e auttorità, deliberò il Senato,
sapendo ciò dover al regno d’Inghilterra riuscire commodo e grato, di mettere per lo viaggio di
272

quell’isola le galee grosse, le quali già alquanti anni non vi avevano navigato. Sono queste certa
sorte di navigij molto grandi fatti a somiglianza delle navi da carico e per lo medesimo servizio, ma
in questo differenti, che con meraviglioso artificio sono in modo accommodate che trascorrono il
mare non solo con pura vela co’l beneficio de’ venti, ma con forza di remi ancora, come fanno le
galee sottili, e di queste sono soliti i viniziani valersi a navigare per occasioni de’ loro trafichi a’
luoghi maritimi delle lontanissime nazioni…(Paolo Paruta, Della historia vinetiana [om.] nella quale
in libri tre si contiene la guerra contro Selino Ottomano. LT. III, p. 155. Venezia, 1605.)
Ma fu principalmente costume antico che molte galee grosse ordinate alla mercanzia navigassero
in diversi paesi, così de’ christiani come d’infideli, per levare da quelle parti varie cose, le quali non
solamente avessero a servire al commodo de’ cittadini, ma con grandissimo guadagno si
mandassero alle nazioni esterne. Con queste galee erano soliti di navigare molti giovani della
nobiltà, ‘sì per occasione d’essercitare le mercanzie come per apprendere l’arte marinaresca e la
cognizione d’altre cose maritime; altri poi si dimoravano del continuo per molti anni appresso le
nazioni forestiere, quasi in tutti quei luoghi ove si facevano solenni mercati, per trattare le loro
proprie e l’altrui facende; quindi nasceva che, oltre le ricchezze, ne acquistassero la esperienza di
molte cose, in modo che, quando ritornati a casa avevano a prendere il governo della Republica,
non rozzi né inesperti si ponevano ad essercitare i carichi publici… (Ib. P. 156.)
Il viaggio solito a tenersi dalle galee, delle quali poco innanzi habbiamo fatta menzione, che
volgarmente solevano chiamarsi, per li molti negozij che intraprendevano, le galee del traffico, era
tale: dipartite da Vinezia, drizzavano il loro primo viaggio all’isola di Sicilia alla città di Saragosa, di
là erano portate a Tripoli d’Affrica, dapoi, avendo toccato l’isola del Gerbe non lungi dalle Sirte, a
Tunisi; quindi voltavano il suo corso verso il Regno del Tresimisen, fermandosi principalmente a
Tusen e a Mega (sono queste oggidì dette One ed Orano) come in luoghi più opportuni e più
frequen(ta)ti di quelle regioni. Finalmente andavano a diverse terre del Regno di Marocco, detto in
lingua loro ‘di Fez’, a Bedis della Gomiera ed, avendo già tocchi tutti i porti della Barberia che
erano anticamente compresi sotto’l nome di due provincie, Mauritania e Numidia, si trasferivano
nella Spagna, negoziando in molte città, cioè in Almeria, detta anticamente Abdara, indi in Malica,
Valenza e Forora ancora. Ma il traffico che essercitavano non era in tutti i paesi il medesimo, ma
diverso, perché da Vinezia portavano a’ mori d’Affrica varie sorti di metalli e molti panni di lana, le
quali cose per comprare solevano i mori a certo terminato tempo dell’anno conferirsi con molto oro
ne’ luoghi poco prima nominati; con questo oro passando i mercanti alle riviere della Spagna,
compravano ivi diverse sorti di merce, cioè sete, lane, grane e altre cose che quel paese produce,
e tutte queste erano da loro a Vinezia portate; tale navigazione, che lungamente e con
grandissimo utile era stata da’ viniziani esercitata, cominciò per le cagioni che di sopra narrato
habbiamo, ad essere disturbata e dapoi varij accidenti sopravvenendo, mutato lo stato delle cose e
de’ negozij, è del tutto intermessa e perduta… (Ib. LT. IV, p. 179.)

In effetti, mentre durante il regno di Ferdinando il Cattolico i traffici veneziani non avevano
incontrato problemi, con Carlo V le cose cambiarono molto in peggio, perché questo imperatore
pretendeva che tutto il traffico europeo delle merci barbaresche fosse concentrato nei porti dei suoi
possedimenti africani e cioè di Orano e d’altri centri costieri, quali Mers-El-Kébir e Mazalkibir, a
una sola lega dal precedente, Arzen, a sette leghe, Melilla nel regno di Tlemcen, Bougie, el Peñon
e altri minori, e quindi cominciò a proibire l’entrata dei vascelli veneziani nei porti dei suoi domini se
prima si fossero fermati in quelli in possesso dei mori a commerciare; inoltre, mentre prima i
veneziani avevano sempre pagato nei domini della Spagna una sola decima e solo sulle sole
merci che vi compravano, sotto Carlo V ne dovevano invece pagare due e su tutte le merci
273

importate o esportate da quei luoghi; quindi i veneziani avevano abbandonato quel viaggio
divenuto non più conveniente per loro. Un viaggio che invece le galee grosse veneziane
continuavano a intraprendere con buon utile era quello a Creta, Negroponto, Alessandria, Tripoli,
Baruti (‘Beirut’), Zafo (‘Giaffa’) e altri scali del Levante, mentre il viaggio di Siria i veneziani lo
facevano con dei velieri detti navi di Soria; si trattava di viaggi che Venezia proteggeva soprattutto
con le sue galee da guerra di stanza a Creta:

(26 agosto 1395:) Ordine del capitano del Golfo, allorché l’ultima galea armata a mercato sarà
entrata nel Golfo (‘sarà ritornata nell’Adriatico’), di licenziare le galee di Creta, le quali si
disarmeranno (H. Noiret, Cit. P. 71. Parigi, 1892).

I turchi, pratici mercanti a differenza degli spagnoli, permettevano questi commerci e non li
intralciavano, trattandosi di traffici che consideravano anche di loro convenienza, mentre avevano
proibito gli scali del Mar Nero a tutte le repubbliche marinare italiane sin dal tempo della caduta di
Costantinopoli e ciò chiaramente per obbligare queste a comprare le merci provenienti dall’oriente
da loro e non più direttamente dalle carovane e dai mercati che su quel mare s’affacciavano.
Quanto durassero questi viaggi commerciali nel Mediterraneo orientale lo possiamo capire da una
nota del Sanudo (Diarii. T.I, col. 400):

… In ditto Consejo di Pregadi, a dì 2 (dicembre 1496), fo posto 3 galie al viazo dil trafego, con
condition dovesseno far do viazi e mezo (all’anno), che l’anno passato le galie non lo fece(ro).

Quanto a lungo poi durò la predetta ripresa del viaggio d’Inghilterra fatto dai veneziani non
sappiamo, ma nel 1524 tutti i viaggi di Barbaria, Fiandra, Alessandria e Baruti erano ancora
soggetti a regolamenti daziari (Alessandro Moresini, Tariffa ecc.) Il famoso mercante e navigatore
Alvise da Ca’ da Mosto a 22 anni s’imbarcò a Venezia per la prima volta su una galera mercantile
che era in partenza per la Fiandra e che salpò l’8 agosto 1454; certo è che ora si trattava di veri e
propri convogli marittimi, come quello di ben 45 vascelli che il 7 gennaio del 1495, assalito da una
violenta tempesta, incappò nelle secche dell’isola di Sein in Bretagna; delle tre galee grosse di
Fiandra che ne facevano parte, cioè quella comandata da patron Piero Bragadino e due del
capitano Polo Tiepolo, il quale era ulteriormente cognominato da Londra, evidentemente perché
colà nato o residente, solo la Bragadina si salvò, e, per quanto riguarda le altre 42 vele, si credé
dapprima superstite la sola nave Malipiera d’Angelo Malipiero, ma poi arrivò a Londra anche la
‘Zorza’, cioè quella di fra’ Hieronimo Zorzi, carica di vini destinati appunto al mercato inglese, e la
notizia di questo secondo arriverà a Venezia il 5 giugno a mezzo d’un corriero partito da Londra il
16 del mese precedente; in totale annegarono nel terribile naufragio 500 uomini tra cui più di 20
274

patrizi veneziani. Il Sanudo, il quale narra questo triste episodio, a dimostrazione della robustezza
e dell’altezza del bordo delle galee di mercanzia, così conclude:

… che fo ‘mirum quid’ che le nave zonzesse et le galie perisse, che raro ‘aut numquam’ galie suol
romper et perir in mar per fortuna; benché del 1437, (essendone) capetanio Marin Mozenigo, in
questo medemo luogo do’ altre galie de Fiandra si rompete et el capetanio con gli altri (finirono)
annegati. (La spedizione di Carlo VIII etc. Cit. p: 275.)

Ecco la lista dei soli patrizi delle galee grosse morti in quel disastro, elenco che vogliamo riportare
perché il lettore possa avvertire maggiormente la materiale realtà di quel tempo che oggi ci sembra
tanto lontano:

Prima galea:

Capitano Polo Tiepolo


Patrone Andrea Tiepolo di Matteo

Nobili di poppa:

Mafio Girardo fu Francesco


Gabriele Soranzo fu Zaccaria
Cristoforo Tiepolo di Matteo
Andrea valzer di Dolfino
Hieronimo Giustinian di Dardi (sic)
Giovan Maria Pasqualigo di Marco
Dolfino Venerio fu Cristoforo.

Seconda galea:

Patrone Bartolomeo Donado fu cavalier Antonio


Nobili di poppa:

Antonio Donado del cavalier Hieronimo


Benedetto Orio di Giovanni
Santo Venerio fu Piero
Hieronimo Foscarini fu Zaccaria
Andrea Girardo fu Francesco
Francesco Mocenigo fu Lorenzo
Giacomo de Mezzo fu Alvise
Andrea Pisani fu Francesco dal Banco (sic)
Lorenzo Donado fu Alvise.

Alla perdita delle dette tre galee il senato veneziano sopperì all’inizio dell’aprile successivo
decretando che altre tre fossero immesse in quel viaggio d’Inghilterra e il comando di queste fu poi
affidato il 10 dello stesso mese al capitano Domenico Contarini, il quale era stato capetanio di le
275

galie di Beruto, sennonché poi a queste galee non fu consentito d’intraprendere il loro viaggio
perché, avvicinandosi la guerra contro la Francia, non era certo conveniente che i vascelli
veneziani andassero a commerciare sulle coste transalpine e per lo stesso motivo non furono
quest’anno destinate galere al viaggio di Acque Morte, approdo (gr. ἐπίνειον, ναύλοχος; vn. navilio)
alla foce del Rodano cosiddetto perché soggetto a marea particolarmente bassa. Altri drammi
avevano già colpito nel passato le galee da mercato veneziane; nel 1396 ci fu un grave
ammutinamento su quattro galee del viaggio di Fiandra e alla fine del 1400 altre 4 galee grosse,
queste del viaggio di Beyrouth, naufragarono nelle acque di una località, non meglio identificata,
detta Sancta Herinim, ma si riuscì a recuperare parte delle loro merci (H. Noiret, cit. P. 113).
Tra la fine dello stesso predetto aprile 1495 e l’inizio del mese seguente furono invece
regolarmente deliberate in senato, messe all’incanto a Rialto e provviste di patrone le consuete 11
galee grosse al trafego (“al commercio”) annualmente destinate ai viaggi di Levante e si trattava di
tre alla Romania (‘Grecia’), delle quali fu eletto capitano Sebastiano Contarini, quattro ad
Alessandria sotto la capitanìa d’Alvise di Priuli e quattro a Baruti facendone capitano Marco Orio;
poco dopo vi furono aggiunte due galee per il viaggio di Barbaria e ne fu nominato capitano
Giacomo Capello.
Come sembra di capire dalle purtroppo lacunose citazioni che lo Jal fa del già citato codice
veneziano magliabechiano intitolato Fabrica di galee e della pure già ricordata ordinanza del
Mocenigo del 1420, inclusa nel codice vaticano den. ‘Urbino – A. 1821’, fino a Quattrocento
inoltrato il traffico mercantile veneziano - sia quello mediterraneo che quello atlantico - era stato
affidato a galee grosse della lunghezza di poco meno di 24 passi, il che è la lunghezza delle
normali triremi del secolo successivo, essendo invece allora riservato il nome di galee sottili (se
dobbiamo credere che lo Jal abbia ben interpretato il detto codice), a galee veneziane di circa 17
passi e rivelantisi quindi delle biremi, ossia quelle che poi nel Cinquecento saranno declassate a
galeotte (Auguste Jal, Archéologie navale, Parigi, 1840).
Le suddette galee grosse medioevali si dividevano in galee del sexto (garbo, ‘forma’) di Fiandra
over de Londra, destinate ai viaggi atlantici, e galere del sexto de Romania, destinate invece ai
viaggi di Levante, chiamando ancora allora i turchi con l’antico nome di Romania (Rumli) tutti i loro
possedimenti europei in quanto una volta erano stati tutti parte dell’impero romano; ambedue
questi tipi erano forniti d’un argano e d’un tre taglie doppie per caricare e scaricare le merci.
L’argano era uno strumento già presente nella marineria antica e infatti Giulio Polluce lo include
nell’armamento delle triere romane:

… c’è poi una macchina, cioè l’argano o arganello (ἒστι δέ τις ϰαι μηχανὴ, ϰαὶ τροχὸς, ϰαὶ τροχίλια.
Cit. I.IX, p. 64).
276

Anche in questo caso, come si può vedere, le accentazioni di talune parole non sono più quelle del
greco classico o ellenistico ma sono ‘bizantineggiate’ dai trascrittori. Questo autore aggiunge pure i
verricelli (gr. ϰύχλοι, ϰίρχοι ο anche ϰρίχοι).
Lo Jal menziona le misure prescritte per una galea grossa veneziana del 1318 (lunga passi 23,
piedi 1¼ - alta al mezzo della coperta piedi 7, dita due grosse - larga in mezzo piedi 15¼ e dita 1);
per una del 1320 (passi 23 piedi 1- piedi sette dita due - piedi 16 dita 1); per una grossa di Fiandra
dell'inizio del Quattrocento (passi 23 piedi 3½ - piedi otto meno dita due - piedi 17½); la galera
della stazza detta di Romania - perché era quella che viaggiava verso Negroponto - dello stesso
periodo aveva misure che poco si discostano dalla precedente (Ib.)
Comunque ogni epoca ebbe le sue galere anche nel campo mercantile; per esempio, a
prescindere dalle misure riportate dallo Jal, misure che purtroppo non abbiamo mai avuto
l’occasione di andare a verificare, probabilmente anche le galere di mercanzia erano nel Medioevo
erano più piccole di quelle che vedremo poi nel Cinquecento e c’è un episodio che ce lo fa
pensare. Nel 1359, preparando un’armata di mare per far guerra al regno d’Aragona, il re Pietro I
di Castiglia detto il Crudele fece sequestrare una grossa caracca veneziana di più coperte che
navigava nelle acque dell’arcipelago di Cabrera per aggregarla agli altri vascelli che stava
raccogliendo a Cartagena e ciò nonostante Venezia fosse allora sua amica; certo allora così
s’usava perché si consideravano le esigenze belliche prevalenti sul diritto internazionale e sul
mantenimento di buoni rapporti tra gli stati. Ma il re, trovate a bordo della caracca anche una
quantità di gioielli e merci preziose, invece di conservarle ai veneziani, come sarebbe stato suo
dovere, non seppe resistere alla tentazione di appropriarsene. Qualche tempo dopo i suoi
consiglieri gli fecero sapere che dodici galee grosse di mercanzia veneziane stavano per ritornare
dal solito viaggio di Fiandra e, considerato che i veneziani con ogni probabilità gli avrebbero
chiesto conto del suo comportamento a proposito della loro predetta caracca e che non era
impensabile si vendicassero unendosi militarmente al regno d’Aragona contro di lui, tanto valeva a
quel punto cercare di appropriarsi anche delle gran ricchezze di cui quelle galere ritornavano
cariche. Il re, il quale aveva evidentemente bisogno di rimpinguare le casse del suo regno, accettò
il consiglio e invio venti delle sue galere da guerra allo stretto di Gibilterra perché vi tendessero un
agguato a quelle mercantili; ma caso volle che queste, trovandosi a passare lo stretto in un giorno
in cui quelle castigliane si erano dovute un po’ allontanare per sottrarsi a un pericoloso forte vento,
passassero non viste e si salvassero dall’aggressione. Ora, anche nei secoli successivi si
vedranno galere di mercanzia veneziane navigare di conserva al viaggio di Fiandra, ma mai in
277

numero così elevato, qui addirittura di dodici, e pertanto c’è da ritenere che anche le galee grosse
da carico siano state nel corso dei secoli ingrandite come lo furono quelle da guerra.
Qual è la prima notizia storica di una galea grossa veneziana che si può trovare? Noi pensiamo
che sia una che leggiamo nell’Alessiade e cioè dove si narra del tentativo fatto nel 1081 dai
normanni di invadere l’impero bizantino; la Comnena come abbiamo già detto, scrive che il conte
di Provenza, allora Bertrando II, si era imbarcato in Italia con un suo contingente militare per
andare a unirsi al grosso dell’esercito invasore in Albania e si era imbarcato su una μνριοφόρον
ναῦν λῃστρικὴν μισθωσάμενος τριάρμενον […] ἐν ᾖ ερέται μὲν διακόσιοι (Cit. X.8. P. 40), cioè su
una ‘portarinfuse pirata noleggiata a tre velature e con duecento remiganti’, ma si tratta di una
frase molto contradditoria, perché i pirati non andavano certo allora in giro con vascelli da carico
grossi e pesanti né con dei trealberi provvisti di ben 200 vogatori né infine si rendevano
ufficialmente disponibili sul mercato dei noleggi. In realtà tutto si spiega se, considerandosi che si
trattava di spedizioni di guerra che si dovevano svolgere nel Levante, anzi in questo caso
addirittura nell’Adriatico, si comprende che quel grosso vascello a nolo poteva solo essere
certamente veneziano e, visti i 200 remieri, certamente una galea grossa veneziana. Perché la
Comnena la definisce ‘pirata’? Evidentemente voleva in quella occasione dare del ‘pirati’ ai
veneziani visto che per denaro le portavano in casa il nemico, tutto qui.
Un altro comune uso delle galee grosse e sottili veneziane era quello del trasporto di pellegrini in
Terrasanta, soprattutto francesi e tedeschi. come per esempio quella di patron Antonio Lauredano,
patrizio veneziano, che il 5 giugno 1458 sbarcò colà un centinaio di pellegrini tra cui anche il già
citato padovano Gabriele Capodilista, autore del noto diario di questo viaggio. Queste galere si
riconoscevano in mare perché inalberavano, oltre allo stendardo di S. Marco, anche quello della
Croce cristiana. Sino a tutto il Trecento, i veneziani trasportarono questi pellegrini con le loro galee
grosse, ma poi, nel secolo successivo, con il grande incremento dei traffici mercantili portato dal
Rinascimento, pensarono che non valeva la pena di impegnare in tal modo grossi vascelli che
potevano invece, molto più proficuamente, esser ben stivati di redditizie mercanzie e quindi, forse
con il decreto senatorio del 1414 menzionato - ma purtroppo poco citato - dalla A. LT. Momigliano
Lepschy, cominciarono a rilasciare patenti specifiche per il trasporto dei pellegrini a un paio di
patroni di galee sottili, in quanto una sola di queste, talvolta anche solo biremi, non sarebbe
bastata a soddisfare tutte le richieste, arrivando gente a Venezia per acquistare il passaggio in
Terra Santa pellegrini da tutta Europa, cioè sin dalla Scozia e Scandinavia a nord e dalla Polonia a
est. Nel 1520 due galee veneziane dedicate al pellegrinaggio ancora c’erano e infatti il pellegrino
francese Greffin Affagart racconta che in quell’anno lui e gli altri pellegrini che, come succedeva
tutti gli anni, verso Pentecoste si erano riuniti a Venezia per iniziare da lì la traversata oltremare,
278

ebbero la possibilità di scegliere appunto tra due e presero a nolo la Delfina, della quale era
padrone un certo Giannotto (homme assez inhumain), perché questa, a differenza della prima, era
triremi e quindi più equipaggiata sicura; infatti anche queste galere di pellegrini rischiavano di
essere assalite da corsari nemici. Avvenne infatti – episodio già da noi più sopra ricordato e che
più avanti ancora ricorderemo - che il 23 giugno 1497 la galea grossa commerciale del patrono
Alvise Zorzi (‘Giorgi’), la quale, in quanto galea soprattutto al servizio dei pellegrini, faceva il
viaggio Venezia-Giaffa in Palestina, sebbene allora Venezia fosse in pace con Costantinopoli, per
divergenze sorte sulle modalità di saluto, materia di cui poi diremo, fu assalita nel canale di Cerigo
da una flottiglia turca composta di 5 fuste, 2 galere sottili e 1 barza e 1 schirazzo; questa galea dil
Zaffo, nonostante la grande inferiorità numerica e lo scarsissimo armamento, si difese con onore
ed efficacia, riportandone però gravi danni e costringendola ad andare a raddobbarsi nell’isola di
Candia; dalla descrizione di detti danni fatta in una relazione del 6 luglio successivo vediamo che
le galee veneziane erano allora già fornite di cassero di poppa, mentre al tempo della tavola
Strozzi, come sappiamo, le napoletane non ancora l’avevano avuto; i veneziani riportarono 90
feriti, dei quali poi 6 morirono a Candia, e tra di essi c’erano anche pellegrini stranieri che avevano
partecipato al combattimento (M. Sanudo, Diarii. T. I, col. 728 e segg.).
Ma quando quattordici anni dopo, cioè nel 1533, il suddetto Affagart compì il suo secondo
pellegrinaggio in Terra Santa, preferì andarvi da Marsiglia con una nave di quella città che
l’avrebbe portato ad Alessandria Egiziaca. Infatti dopo la predicazione anti-gerosolimitana di
Lutero, supportata anche da analoghe tesi demolitorie del contemporaneo Erasmo, Venezia era
diventata molto meno conveniente per un francese in quanto, essendosi conseguentemente
rarefatto sempre di più il numero dei tanti pellegrini di qualità, colti e danarosi, provenienti
dall’Europa centrale, soprattutto dalla Germania e dalle Fiandre, giungendo da quei paesi ormai
solo poveracci restati intatti dalla riforma luterana, non trovando più padroni disposti a prendere la
suddetta patente in quanto da tal viaggio non c’era ormai più nulla da guadagnarci, ma al contrario
solo da rimetterci a causa appunto della sopraggiunta scarsità di richieste, la Serenissima aveva
cessato di metter a disposizione dei pochi pellegrini residui galere a loro dedicate. Pertanto adesso
un pellegrino europeo aveva solo queste possibilità; partire da Marsiglia come l’Affagart, pagarsi a
Venezia un passaggio su un vascello mercantile di una qualsiasi nazionalità che fosse diretto in
Egitto, Palestina o Siria o perlomeno a Candia o meglio a Cipro, da dove poi proseguire; infine,
sempre a Venezia, trovarsi all’imbarco su una delle suddette galee grosse veneziane che, cariche
di mercanzie, una volta all’anno partivano per Alessandria Egiziaca oppure per Tripoli Siriaca. In
effetti non era una totale novità che si andasse in Terra Santa con normali mercantili e infatti s’era
usato anche a Venezia prima del Quattrocento; lo attesta il viaggio del pellegrino fiorentino
279

Lionardo di Niccolò Frescobaldi, il quale partì da Firenze il 10 agosto 1384 e a Venezia s’imbarcò,
come già più sopra ricordato e unitamente a parecchi altri pellegrini, su una grande cocca di
nuovissima costruzione:

… La Cocca in sulla quale andamo si chiamava Pola e 'l padrone di detta Cocca si chiamava
Messer Lorenzo Morosini, nobile e gentile uomo di Vinegia. La detta mattina a dì 4 di Settembre
tiramo la detta Cocca tre miglia di lungi a Vinegia e quivi missono le ancore in mare e compierono
il suo carico, che 'l forte erano panni lombardi (1) e ariento (‘argento’) in panni e rame fino ed olio e
zafferano (Cit. P. 53).

Alla fine del Quattrocento i pellegrini erano correntemente portati da Venezia in Terrasanta più da
navi che da galee; ecco per esempio, in in un tempo in cui incombeva la minaccia della grande
armata di mare turca, quanto scriveva alla Serenissima dalla sua base di Modone il generale da
mar veneziano Antonio Grimani:

(1499): Il generale scrive che l'è giunta a Modone la nave di pellegrini di 600 botti. I pellegrini sono
14 e ha avuto da loro 6.000 ducati che la Signoria gli ha mandato e ha detto ai pellegrini che ha
bisogno della (loro) nave e che li avrebbe provvisti di una casa a terra dove, senza spesa,
avrebbero aspettato un passaggio e gli ha offerto onorevole convitto. E essi si sono offerti non
solamente di cedere la nave, ma anche di dare la vita per difesa della fede di Cristo e gli hanno
detto che essi hanno con loro una buona somma di denari con offerta di imprestarglieli.

La proposta dei pellegrini non era del tutto altruista, perché in quel modo essi avrebbero
ottemperato ugualmente agli obblighi e alle spese di un pellegrinaggio senza però doverne
sopportarne anche fino in fondo i disagi di viaggio. Abbiamo poi il resoconto del viaggio in Terra
Santa fatto in un vascello tondo dallo spagnolo Fadrique Erriquez de Rivera, marchese di Tarifa, il
quale lasciò la sua casa di Bornos il il mercoledì 24 novembre del 1518 e fece ritorno a Siviglia il
20 ottobre 1520; egli si imbarcò a Venezia su una nave di 400 toneles (tonnelli o botti) che si
chiamava Coresa, località costiera non lontana da Éfeso, in quanto di proprietà di coresi nativi di
Azio che vivevano a Venezia. Nel contratto d’imbarco il patrone di quel vascello, Marco Antonio
Dandolo, di impegnava ad armarla nella seguente maniera:

Che il patrone conduca la sua nave ben fornita di artiglieria, armi e marinai per il governo del
vascello e per la difesa dei pellegrini; e che porrà nella nave quattro ‘tiri’ (bocche da fuoco) di
bronzo e di quelli di ferro almeno 20 ‘lombarde’ (bombarde) (Este libro es de el viaje que hize a
Ierusalem etc. P. 39 recto. Siviglia, 1606)

Interessante qui notare che il de Rivera chiama tiros le artiglierie di bronzo e lombardas quelle,
prettamente navali e più leggere, di ferro, a riprova che lombarda era il nome antico che si usò in
Spagna alle origini dell’artiglieria, cioè quando appunto le canne da polvere si facevano di ferro e
280

non ancora di bronzo; il nome fu poi in Italia corrotto in bombarda. Purtroppo il marchese dovette
poi rendersi conto che gli impegni contattuali presi con i pellegrini erano dai patroni veneziani
molto poco mantenuti e, per quanto riguarda gli armamenti, ecco di che cosa si accorse:

… dal momento che non portò più di due tiri di bronzo e quasi nessun arma, perché non vidi se
non due paia di corazze, che tutte le altre si mettevano imbottite (‘erano corpetti imbottiti’) sul
petto, come mi capitò di vedere; e i marinai (erano) molto pochi, che, esclusi gli ufficiali della nave,
tra marinai e grumetti non ce n’erano che ventiquatro… e non più di un lombardiero; e polvere
molto poca… il chirurgo era un barbiero; vero è che portava medicine (ib. P. 40 verso)

La Coresa portava 85 pellegrini, ma c’era una seconda nave veneziana, la Dolfina, che poi si unirà
a quella e ne portava 105; era questa comanndata dallo stesso proprietario, cioè da un altro
gentiluomo veneziano il quale aera appunto della nobile famiglia Dolfin (ib.). Il trasporto di
pellegrini era autorizzato dal Senato veneziano volta per volta:

(13 marzo 1386): … Perché si conceda a Pietro da Creta, nostro suddito, patrone d una nave che
andrà dalle parti di Zaffo ossia Siria, affinché possa imbarcare su detta nave circa centoventi
pellegrini che si dirigono al Sepolcro del Signore e condurli a lle dette parti, come in circostanze
simili ad altri si è fatto (Quod concedatur Petro de Creta, fideli nostro, patrono unius navis iture ad
partes Zaffi sive Syrie, quod possit super dicta navi levare peregrinos centum et viginti vel circa,
qui vadunt ad Sepulcrum Dominicum et conducere illos ad dictas partes, sicut in casu simili aliis
factum est ( H. Noiret, Cit. P. 5).

Tornando ora alle maone o galee grosse ottomane, diremo che esse erano grandissimi vascelli
levantini simili alle galeazze cristiane (…maone, non molto dalle nostre galeazze differenti,
scriveva il Sereno), ma ne differivano per l’uso che se ne faceva, trattandosi infatti di vascelli che i
turchi utilizzavano molto più per i trasporti militari che per quelli commerciali, cioè all’opposto di
come invece facevano gli stati cristiani con le loro galeazze e galee grosse; di conseguenza erano
vascelli poco diffusi, nei quali si caricavano generalmente soldati, cavalli, artiglierie e rifornimenti
bellici. Il nome veniva dall’it. magona (‘emporio, mercato’) e dalla circostanza che in origine vascelli
di questa fatta erano stati armati, caricati e spediti nel Medioevo in Levante da associazioni
commerciali italiane, specie genovesi, del tipo delle moderne società anonime. Dopo l’amara
esperienza di Lepanto, i turchi le rivalutarono molto e cercarono di farle ora a imitazione di quelle
veneziane che li avevano così duramente sconfitti, ma, sicuramente abili nella marineria leggera,
non riuscivano mai altrettanto bene in quella pesante. Comunque i baili della Serenissima residenti
a Costantinopoli nel Cinquecento riportano le maone sempre presenti nell’armata di mare turca;
ecco per esempio quanto nel 1573 ne scriveva Costantino Garzoni, il quale poteva veder i
movimenti della marina turca nell'arsenale di Peràia (Pera), situato questo proprio di fronte alla
città di Costantinopoli:
281

... Il giorno seguente, cioè il dì de' morti, entrò il Pialì Bascià con centotrenta galere sottili, molto
mal in ordine d'uomini, remi e artiglierie. Entrarono ancor insieme dodici maone, fatte all'imitazione
delle nostre galee grosse, ma non hanno né tanta piazza a poppa e prora né sono di gran lunga
fornite di artiglieria come le nostre; vanno però a remi e alcune d’esse sono assai buone [...] Alli 19
del medesimo entrò l'Ucchialì con sessantacinque galere sottili, molte di esse assai buone... (E.
Albéri. Cit. S. III, v. I, p. 381.)

Marc'Antonio Tiepolo nel 1576 confermerà al suo doge sostanzialmente quanto scritto dal predetto
Garzoni:

... Si ritrova il Turco (‘il sultano’) al presente il numero di più di trecento galee, più di venti maone,
che non sono altro che galee grosse all'usanza di quelle della Serenità Vostra, circa venticinque
galeotte e molte palandre, che sono vascelli per portare cavalli... (Ib. S. III, v. II, p. 145.)

Palandre è una corruzione del termine tlt. parandariae che aveva preso piede in Italia.

... Non pare che (i turchi) abbiano ancora saputo imitare la Serenità Vostra nel numero delle
artiglierie, si come hanno fatto nel voler ridurre le maone quasi veloci al pari delle galee, perché
non hanno più d'un pezzo da quaranta e due altri da venti a prua e dodici per li fianchi... (Ib. P.
150.)

Quindi queste maone avevano forse migliori qualità nautiche delle galeazze e galee grosse
cristiane in quanto volutamente più leggere, ma certo non pari qualità belliche, e ciò nonostante gli
sforzi poi fatti per migliorarle dal già nominato Ucchialì (‘Uluch-Alì’), quando questi, dopo la rotta di
Lepanto del 7 ottobre 1571, fu capitano generale dell'armata di mare turca, sebbene questi
riuscisse invece nel compito più importante assegnatogli dal Sultano e cioè quello di portare in una
diecina d'anni la cantieristica e la nautica delle galere ottomane ai livelli qualitativi di quelle
cristiane e ciò in virtù sia delle sue grandi capacità personali, sia delle numerosissime maestranze
cristiane schiave o mercenarie che lavoravano nell'arsenale di Peràia (Pera) e in quello non meno
rinomato di Chio, sia dei tanti rinnegati italiani che impiegava a bordo delle galere stesse; così
infatti si legge nella relazione del 1583 letta al senato veneziano dal bailo Paolo Contarini di ritorno
da Costantinopoli:

... É vero per altro che finora (i turchi) non hanno saputo fare una galeazza che stia a
comparazione di quelle di Vostra Serenità, ancor che ne siano state lavorate molte e che
nell'arsenale ne siano sin al numero di venti; né meno sanno governarle e questo si è veduto per
esperienza a Cerigo, quando le armate s’incontrarono, che il Capitano (Uluch-Alì), dubitando che
gli fussero di impedimento due che aveva seco, le lasciò a Napoli di Romania; il che si può avere
per gran caparra che nell'avvenire siano per far lo stesso... (Ib.)
282

Il sostanziale fallimento di queste galee grosse turche si evince anche dalla relazione del bailo
Giovanni Moro, la quale è del 1590:

... Ma, tornando alle galee, ne sono al presente a Costantinopoli circa 200, comprese quelle delle
guardie ordinarie; 104 in Alessandria, due in Damiata, due in Cipro che stanno in Famagosta, sette
nella Natolia, 12 a Rodi e circa dieci con 34 fuste distribuite in diversi luoghi separatamente
nell'Arcipelago, dove, se ben v'è una sola galea alla guardia, chi la comanda vien chiamato 'bei',
che vuol dir capo o signore.
Vi sono ancora otto vascelli maggiori, che prima servivano per portar munizione e altri bisogni
per l'armata, ma dopo che, nella felice e memorabile vittoria navale ( a Lepanto) seguita già venti
anni appunto con tanta riputazione della Christianità e con immortal gloria di questa Serenissima
Republica, (i turchi) fecero prova della forza delle galee grosse della Serenità Vostra con perdita di
tanti loro legni, n’armarono alcune che, come ho inteso, riuscirono assai bene; benché adesso, da
due in fuora, che servono per portar legnami per uso dell'arsenale, siano tutte in terra già molti
anni, ridotte in poco buono stato. É vero che sin dall'anno passato fu dato ordine di fabricarne due
altre nel Mar Maggiore insieme con 25 galee sottili, ma vi si provvedeva con tanta tiepidezza e con
tanta negligenza per mancamento de' danari che non si potria dire.
Hanno appresso certo numero di galeotte e molte palandarie fabricate col fondo piano per
condurre cavalli, né mancano poi galeoni e caramussali di private persone, che tutti - bisognando -
accompagnariano le armate per portar munizioni e altri apprestamenti da guerra... (Ib.)

Alla fine del secolo le maone risultavano definitivamente relegate al trasporto di materiali pesanti e
ciò nel contesto del già generale declino della marineria bellica ottomana, come informava il bailo a
Costantinopoli Matteo Zanne con relazione del 1594:

... Nelli squeri del Mar Nero si trovano alcune maone e altre sono in Costantinopoli, fabricate ad
imitazione di galeazze, ma più grevi e non in tutto simili, e si servono di alcune per portar legne al
serraglio e per altri bisogni e se ne contano forse 18 tra dentro e fuora di Costantinopoli; ma, dopo
che hanno introdotti i galeoni, pare che non ne facciano molta stima... (Ib.)

Secondo l’Aubin, ai suoi tempi - ossia alla fine del Seicento - le maone turche saranno più piccole
e deboli delle galee grosse veneziane, ma chissà se egli, esperto solo di marineria oceanica, ne
aveva mai effettivamente viste, come del resto sembra non averne mai viste, tanto tempo prima di
lui, nemmeno il Pantera, poiché è lui l’unico che dice le maone essere non delle galee grosse,
bensì vascelli a vela quadra e senza remi. Comunque il capitano pontificio, pur se certamente si
sbagliava per quanto riguarda i suoi tempi, s’avvicinava invece senza saperlo al vero per quanto
concerne l’Alto Medioevo; infatti i bizantini chiamavano mahone tutte le navi da carico o porta-
cavalli che seguivano l’armata di galere (Тάϰτιϰα).
Del tipo della galeazza e della galea grossa veneziana erano pure i bucentori (grb. πορθμεία), nel
senso che anche questi partecipavano sia della nave sia della galera, ma si trattava di vascelli di
rappresentanza posseduti e usati specie a Venezia dalla Repubblica per comodità del doge ed il
cui nome prendevano, anche se impropriamente, pure i ricchi vascelli di alcuni titolati di prima
283

sfera usati in occasione di feste, cerimonie pubbliche e traferimenti stagionali nelle ville di
campagna della riviera del Brenta; erano un po' insomma le limousines di Venezia – ma non solo
di Venezia, perché comunemente usati anche in altri stati italiani, per esempio a Roma sul Tevere
e nel ducato di Savoia, e stranieri e infatti il de Bourdeilles ne ricorda uno usato in Francia dal re
Enrico II in occasione d’una naumachia. Pochi sanno poi che in alcuni stati non marittimi dell’Italia
settentrionale, per esempio a Ferrara, si chiamava nel Medioevo Bucintoro anche la carrozza
ducale, probabilmente perché ornata anch’essa anteriormente, come l’omonimo vascello, di un
simulacro della dea Justitia, il che dimostra ad abundantiam che l’etimologia del nome non ha
relazione né con buque né con la marineria in genere. Il 16 maggio 1477 all’ora quattordicesima
(cioè alle nove di mattina) Eleonora duchessa di Ferrara salì sul bucintoro ducale a Porta S. Paolo
(poi Porta Paola) e, passando per Modena, raggiunse Pisa, dove alcune galere l’aspettavano per
portarla a Napoli, in quanto colà suo padre, il re Ferdinando d’Aragona, stava per convolare a
seconde nozze:

… Et intravit Bucintorum ad Portam Sancti Pauli et ivit Mutinam, tendens versus Pisas, quia ibi
ascendere habet sua Excellentia in Portu Pisano naves seu galeras, quas pro eadem conducenda
Neapolim… (Chronicon estense, c. 544-545. Cit.)

Rivedremo il suddetto Bucintoro al mezzogiorno del 14 giugno successivo, quando cioè porterà in
esilio da Ferrara tre gran signori:

… Die vero XIV mensis junii hora XVII exierunt civitate Ferrariae, intrantes Bucintorum, comitati a
praefatis domino Duce nostro, domino Sigismundo, domino Raynaldo Estense et quamplurimis
nobilibus, usque ad Turrim Fovae et iverunt coenatum Argentam (ib. C. 545-546).

Per quanto riguarda l’origine del nome, è innegabile che nelle cronache e documenti medievali
quel vascello dogale è in lt. dottamente ricordato come navis Bucinatoria, cioè come di
un’imbarcazione dalla quale i bucinatores (grb. (ἰ)βυχανητεῖς), i trombettieri richiamatori,
segnalavano alla gente di Venezia l’arrivo del Doge; ecco per esempio l’episodio del doge
Giovanni Mocenigo che nel 1483 riceve a Venezia Renato duca di Lotaringia:

… cui intranti urbem Venetias maximi honores impensi fuerunt; nam Johannes dux cum suis
proceribus navi Bucinatoria obviam profectus est et palatium illi marchionis paratum fuit (Pietro
Cyrneo, Commentarius de bello ferrariensi ab anno 1482 ad anno 1484. In LT. A. Montanari,
Rerum italicarum scriptores etc. C. 1.213, t. 21. Milano, 1732).

Premesso che negli eserciti antichi romani e in quelli medievali bizantini i suonatori di buccina (lt.
bucinatores; grb. βουϰινάτορες) servivano gli stati maggiori, quelli di lituo (lt. liticines; gr. σαλπισταὶ
284

ἰππέων) nella cavalleria, quelli di tuba (lt. tubicines; gr. σαλπισταὶ πεζῶν; grb. τούβιϰες) nella
fanteria e quelli di corno (lt. cornicines; gr. ϰεραύλαι; grb. ϰόρνιϰες) nei reparti leggeri quali i veliti a
piedi e le turme di arcieri a cavallo, è pensabile che nelle predette occasioni cerimoniali veneziane
si era in origine preferito ovviamente l’uso della buccina (lt. bucina; gra. (ἰ)βῠϰάνε; grb. ίβύϰινον) a
quello del lituo o della tuba, anche perché quella aveva un suono più potente e si udiva a
maggiore distanza; ciò non toglie che in seguito, andando in disuso negli eserciti la buccina, si sia
poi a Venezia semplificato facendo montare sul Bucintoro dei semplici trombettieri. Vero è che le
denominazioni popolari Bucintoro a Venezia e Oroburchio a Ferrara erano già allora le più comuni
– anche se quello ferrarese, dalla descrizione del Franzes, appare esser stato più un grosso
veliero treponti che un grande vascello remiero, qual’era invece quello veneziano (cit. LT. II, cap.
16); solo a partire dal Quattrocento il nome si comincerà a travisare anche in bucintaurus e vedi a
tal proposito A. Gabrieli, Libellus hospitalis munificentiae venetorum etc. Venezia, 1° settembre
1502 e P. Marcello, Vite de’ prencipi di Vinegia etc. Venezia, 1588. Dunque sembrerebbe che il
nome del Bucintoro non avesse originariamente nulla a che vedere né con i termini marinari, in
particolare con i vn. burchio e buzo o con il cst. e sp. buque, npm. buc(c)ius, buczus; it. nave [vedi
p.e. bucius ad duas caveas (‘a due gabbie’) qui vocatur Sanctus Salvator. In Archivio Storico per
Le Province Napoletane etc. Anno XXII- Fascicolo I. P. 718. Napoli, 1897] né con le ricche
dorature che adornavano quel vascello; e nemmeno era quindi da ritenersi dovuto alla grande
figura femminile, molto più completa di una semplice polena, che troneggiava sulla sua prua e che
rappresentava la Giustizia di Venezia, ricordando quindi per tale conformazione vagamente a
taluni, come per esempio a Bernardo Giustiniano (Historia etc. P. 121 verso. Venezia, 1545), il
bucentaurus (dal bizantino βουϰένταυρος, ‘il gran centauro’), figura fantastica della tarda classicità
immaginata sulla falsariga di quella del centauro, la quale era fatta peraltro per metà di toro e per
metà di uomo; appare comunque questa prima interpretazione etimologica fatta dai veneziani
impensata e disconosciuta dagli stessi bizantini, visto che lo storpiavano in Puzidoro (… ϰατὰ τὴν
ἐϰείνων πουτζιδῶρον ϰαλούμενον (ib. LT. II, cap. XIV); essi d’altra parte difficilmente ne avrebbero
potuto suggerire la giusta etimologia, considerato che nella loro lingua bucinatores si diceva in
tutt’altra maniera e cioè σαλπιγϰταῖ .
Ma, tornando ai vascelli del tipo della suddetta famosa imbarcazione veneziana di detto nome,
essi erano più lunghi d’una galera e alti come un galeone senz’alberi (gr. ἂδρῠς ναῦς) né vele,
talvolta con ponte di coperta talvolta invece con sole corsie laterali stese sui remiggi di voga come
quelle delle galeazze, comunque coperti da una volta di legno scolpito e tutto dorato all’interno,
sostenuta tutt’intorno da tre ordini di grandi figure di legno scolpito e dorato, due laterali e uno
centrale; nel caso del detto grande bucintoro c’erano – su detta coperta o su dette corsie - due
285

gallerie laterali di banchi sui quali sedevano i più di 200 senatori veneziani per assistere alle
funzioni in programma; al centro della più elevata poppa sedeva il doge con la sua trentina di
consiglieri, con il nunzio pontificio alla sua destra e l’ambasciatore di Francia alla sua sinistra.
Che nel Medio Evo – secoli certo molto più poveri sia dei precedenti dell’antichità sia dei
successivi moderni - si fossero usate molto le più economiche biremi, dette in seguito galeotte, è
testimoniato da affreschi veneziani e da codici miniati del Quattrocento, ma anche di secoli
precedenti, quale per esempio quello franco-napoletano del 1352 che riporta e illustra gli statuti
dell’Ordine di S. Spirito o dei cavalieri del Nodo, codice che si conserva alla Biblioteca Nazionale di
Parigi; così inoltre si legge nel cap. XXXIV del Richardi regis iter, cronaca del dodicesimo secolo
scritta da Gahfrid de Winesalf, il quale seguì appunto il re Riccardo in Terrasanta:

... Classis bellica, quae senis olim decurrebat ordinibus, nunc binos raro excedit. (Itinerarium
pèeregrinorum et gesta regis Ricardi etc. P. 80. Londra, 1864.)

Chiari sono poi, a tal proposito, sono anche gli affreschi di Spinello Aretino nella cappella del
Palazzo Pubblico di Siena, i quali rappresentano la vittoria marittima dei veneziani sulle forze
dell'imperatore Federico Barbarossa e dove tutte le galere rappresentatevi sono appunto molto
chiaramente delle biremi; anche se qui c’è però da considerare che, per economia di spazio
pittorico, spesso l’artista era costretto a rappresentare vascelli di dimensioni minori del reale,
specie nel caso di raffigurazioni di intere armate o battaglie, stravolgendo a volte talmente
l’immagine del reale dall’arrivare a dare all’immagine un senso più allegorico che storico. E’ questo
purtroppo il caso della famosa Tavola Strozzi, opera che vuole rappresentare un trionfo navale
napoletano del Quattrocento – forse quello delle galere aragonesi che nel 1464 ritornarono
vittoriose dalla battaglia dell'isola d'Ischia sostenuta, sotto il comando del de Requesens, contro
una squadra angioina, essa, pur volendo raffigurare una potente squadra reale aragonese, quindi
sicuramente fatta soprattutto di triremi di più di 40-42 metri di lunghezza e di biremi, mostra vascelli
di non più di 14 o al massimo di 15 metri sperone escluso – quindi a livello nemmeno di galeotte,
ma di fuste o di bergantini, dotandoli però di 20 o 21 banchi di voga per lato – cosa da galere
biremi o galeotte – e di tre remi per banco – cosa invece questa da più grande galera triremi; e che
si tratti di vascelletti così corti si ricava proporzionandoli alle figure umane che in essi si vedono.
Inoltre la ventina di banchi di voga è troppo raccolta e compressa in lunghezza (chiaramente per
farcela entrare insomma); le alberature sono troppo piccole e prive di gabbia, quindi non da galera;
il trionfo manca degli addobbi appropriati (bandiere più grandi di quelle nel quadro mostrate,
grandissimi gagliardi cadenti giù dagli alberi e tendoni decorati fascianti la poppa e la gabbia, in
tutto sempre in numero di perlomeno 7 o 8 pezzi. Che manchino poi questi vascelli anche d’opere
286

morte prodiere, ossia di rembate e di palmette, è cosa invece più ammissibile anche per delle
grandi triremi, perché sia il castelletto di prua medievale sia le rembate rinascimentali erano fatte di
tavoloni che si montavano solo in preparazione d’un combattimento e non in occasione d’un trionfo
e, per quanto riguarda invece la palmetta, questa può esser stata senz’altro una comodità adottata
più tardi, a Rinascimento più inoltrato, per gli artiglieri, i quali invece ora a bordo, tranne che in casi
particolari, ancora non c’erano.
Il de la Gravière cita poco e male, purtroppo come era suo solito in quanto poco competente, un
interessante contratto di servizio firmato da Aitone d’Oria il 25 ottobre del 1337, in cui questo
capitano di condotta genovese s’impegnava a servire il re di Francia con un massimo di 20 galere,
le quali avrebbero dovuto, a quanto riporta un po’ superficialmente il de la Gravière, essere
equipaggiate di patrone, còmito e sotto-còmito, due scrivani (ma più probabilmente si trattava di un
razioniero e del suo aiutante scrivanello), un maestro-chirurgo (più tardi detto barbiero), 25
balestrieri armati di tutto punto e 180 tra marinai e remiganti. Mentre è estremamente probabile
che per due scrivani per galera il de la Gravière intendesse in realtà uno scrivano e uno
scrivanello, è molto superficiale associare i marinai ai remiganti e ciò perché per marinari
s’intendevano gli uomini di destrezza (proeri, ossia ‘gabbieri’) e gli uomini di sorveglianza
(compagni), mentre per remiganti gli uomini di fatica; vero è che, nel caso appunto di volontari,
quali erano generalmente i remieri medievali, ambedue i tipi finivano per far parte della stessa
categoria dei cosiddetti scapoli, specie se si trattava di volontari veneziani. Insomma sulla base di
questi dati alquanto superficiali dovremmo pensare che si trattasse di triremi di 26 0 27 banchi di
una ventina di marinari.
In maniera poi ancor meno comprensibile il de la Gravière riporta la specifica della dotazioni d’armi
di bordo di cui, secondo questo contratto, ogni galera era tenuta a disporre e l’unica cosa che si
capisce chiaramente è che c’erano armi anche per i remiganti, soprattutto picche e giavellotti;
abbiamo comunque il chiaro dettaglio dell’armamento disposto per ogni galea aragono-catalana
dalla più volte menzionata ordinanza del 1354, non ancora includendosi le ancora troppo giovani
armi da fuoco:

400 lance (si trattava di lance leggere, qualcosa insomma tra le picche e le mezze picche, e si
comprende dal loro numero elevato);
1.000 dardi (corti giavellotti da lancio manuale);
5.000 verrettoni, cioè frecce quadrellate da balestra;
30 lance romagnole (romanyoles), armi astate simili alla partigiana;
6 roncole astate, soprattutto utili a tagliare le funi di manovra del vascello nemico;
10 scuri (destrals, così dette perché generalmente usate con la mano destra);
6 falci astate (guadañas) per andare a terra a far legna;
120 pavesi (‘grandi scudi rettangolari dalla base piatta per difesa statica, da poggiare infatti
soprattutto in fila sulla fiancata del vascello a protezione degli uomini’).
287

100 corazze guarnite.

Questo era però l’armamento prescritto per le missioni di poche galee, ma, in caso di intere
squadre, era il capitano generale a deciderne la consistenza (Cit. P. 94). Le armi da galea inviate
alla fine dl 1394 da Venezia a Creta su richiesta di quel governatore veneziano sono
sostanzialmente ancora le suddette:

Prima balla 1 de canevaza grossa per vesta de curace (qui il canapaccio serviva a imbottire
sottovesti difensive di cuoio, probabilmente raggiungenti il ginocchio).
Item chiodi mataci miera 200 (mataci? 200mila).
Item chiodi per armar pavesi miera 500.
Item stoparoli per armar pavesi 4.
Item lanze de posta, fassi 50 (‘fasci 50).
Item lanze de pedoni, fassi 50.
Item spade de taio 60 (‘spade da taglio’, cioè non solo da punta)..
Item ronchoni 50 (erano ronche astate bipénne).
Item barili de vernise 2.
Item muole da molar 2.
Item barila 1 de ferri de veretoni (quindi i verrettoni da balestra si fornivano a barili) .
Item lumiera d'asta 40 (aste portalumi).
Item squarza velle 40 (‘squarciavele’, specie di falci astate).

Una registrazione del secolo successivo, riportata dalla Simbula, menziona una galera catalana di
25 banchi a tre uomini a banco, con còmito, sotto-còmito, chirurgo, trombetta e 40 balestrieri ( XL
companyons de ballesta bons e suficients. Pinuccia F. Simbula, Corsari e pirati nei mari di
Sardegna. Cagliari, 1993); si trattava qui certamente d’una triremi, ma forse proprio per questo
ricordata.
Per riassumere invece a questo punto le trasformazioni più sostanziali avvenute nella marineria
remiera da guerra non più prima, ma subito dopo il Rinascimento ribadiremo che si trattò
principalmente d’un progressivo aumento delle galere quartierate a discapito di quelle sottili e
infatti le galere cristiane ordinarie, che nel Rinascimento erano in effetti ancora le strette triremi
dell'antichità a remo sensile, a partire dall’inizio della seconda metà del Cinquecento diventeranno
progressivamente galere quartierate a quattro o cinque uomini per remo di scaloccio, ma
mantenendo generalmente i 25/26 banchi per lato e solo nell’ultimo quarto del Seicento le
vedremo arrivare correntemente ai 27 banchi; ecco a tal proposito un Avviso di Napoli datato 23
aprile 1687:

Sabato della caduta (settimana) fu data all'acque la nuova galera padrona di questa squadra, che
è riuscito uno delli più belli scafi che siano stati fabbricati in questo arsenale per l'intagli della
poppa tutta dorata e per il numero di banchi, portandone 27 per ciascuna banda e fra breve se ne
daranno due altre, lavorandosi a tutta fretta, premendo all'inesplicabile vigilanza di
288

quest'eccellentissimo signor Viceré l'accrescere il numero della squadra (Avvisi di Napoli. B.N.NA.
Sez. Nap. Per. 120).

La seconda delle predette tre nuove galere sarà varata sabato 23 maggio, mentre si lavorava
alacremente anche alla terza.
La suddetta evoluzione avvenuta nel corso del Seicento porterà queste galere quartierate, ora in
qualche caso anche a sei uomini per banco, a sostituire progressivamente quelle che erano state
dette sottili e a diventare così esse quelle communes, anche se usate in numero molto minore di
quanto si faceva in passato; le ultime squadre a rinunziare del tutto alle sottili saranno quelle turco-
barbaresche e, tra le cristiane, quella pontificia. D’altra parte il nome sottili si era già cominciato a
perdere in Spagna nella seconda metà del Cinquecento, come si evince dagli Anales dello Zurita
(diez galeras, de las que llamavan aun en este tiempo ‘sotiles. LT. XV, c LII). ’Per quanto riguarda
le galeazze, nella seconda metà del Seicento vedremo la galeazza ordinaria stabilizzarsi ai 32
banchi - per esempio quelle toscane - con sei o sette vogatori per ciascuno d’essi e batterie di
bocche da fuoco più ordinate e razionali, caratteristica questa però comune a tutti i vascelli e
dovuta ai progressi compiuti in quel secolo dalla artiglieria in generale; noteremo inoltre all'inizio
del Settecento una distinzione a Venezia tra galeazze e galee grandi chiamate da mercanzia; i
conquistatori napoleonici, dai quali la navigazione remiera venne finalmente abolita in tutt'Europa,
troveranno nell'arsenale di Venezia alcune galee grosse mercantili ancora in costruzione. I
veneziani saranno dunque gli ultimi a continuare ad apprezzare questo tipo di vascello e non a
torto, secondo quanto scriveva il de Savérien nel Settecento:

... Tale vascello, il quale, per la sua prodigiosa grandezza, assomiglia abbastanza ad una fortezza
sul mare, è stata un tempo in uso in Francia; ma oggi non ci sono che i veneziani che se ne
servono. Ci sono solo i nobili veneziani a comandarle; i quali ancora si obbligano per giuramento e
rispondendone con le loro teste che mai rifiuteranno di combattere (anche) contro venticinque
galere nemiche. Ciò deve farci pensare che la galeazza è un vascello molto utile e che noi
abbiamo forse il torto di non farne per nulla uso. (Cit.)

Il predetto autore enumera le bocche da fuoco portate da una galeazza ai suoi tempi, ma, poiché si
tratta appunto d’artiglieria del Settecento, basata cioè su concezioni francesi che nel frattempo
avranno preso piede in Europa, non riteniamo utile riportarla; spiega poi i molteplici vantaggi che
egli ancora vedeva nell'uso delle galeazze e cioè innanzitutto la capacità di portare, data la loro
grande mole, bocche da fuoco molto pesanti e potenti quali le colubrine e quindi, al seguito di
un’armata e in tempo di calma, di potersi opporre a distanza anche a un vascello nemico di 100
cannoni; potevano inoltre con i loro remi rimorchiare (gr. ἒλϰειν, ἐνέλϰειν) un veliero in difficoltà
lontano dal pericolo e difenderlo dal nemico sia con il fuoco della loro grossa artiglieria sia con
289

quello della numerosa moschetteria di cui pure solitamente erano dotate e qui ordinairement
domine le canon (Ib.); potevano infine, dal momento che pescavano solo circa 12 piedi d’acqua,
esser poste sotto costa a difesa d’una città litoranea come baluardi avanzati sul mare, senza che il
nemico potesse pertanto avvicinarle per tentarne l’abbordaggio e impedendo così, con la loro
predetta grande capacità di fuoco, anche l’avvicinamento d’esiziali vascelli bombardieri nemici alla
città; potevano esse stesse fare da batterie galleggianti di mortai, grevi bocche di cui pure
potevano essere armate, e desolare quindi con le bombe una costa nemica, preparando così il
terreno a uno sbarco della propria fanteria. Quanto sostenuto dal de Savérien potrà sembrare in
parte contraddire quanto già successo nell’ormai lontano 11 giugno 1628, quando cioè la flottiglia
del già ricordato corsaro inglese Digby, la quale era composta di cinque vascelli, ma dei quali tre
erano dei mercantili catturati e quindi solo due, l’Eagle e l’Elizabeth and George, erano veramente
potenti vascelli da guerra inglesi, tanto aveva ridotto a mal partito un pari numero di galee grosse e
galeoni veneziani nella rada d’Alessandretta da obbligare i lagunari a una vergognosa resa. La
battaglia, a dire poi dei veneziani, era stata da loro iniziata perché il Digby, non salutandolo per
primo e nei modi d’uso, aveva dimostrato di non riconoscere la supremazia del generale veneziano
in quel luogo, ma in verità avvenne perché il corsaro inglese voleva impadronirsi d’alcuni mercantili
francesi che si trovavano allora ormeggiati in quel porto e i veneziani invece intendevano
difenderne le attività; Kenelm Digby poi così scriverà nel suo giornale di bordo a proposito di quel
significativo scontro:
… Il solo nome delle galeazze era di per sé una cosa che incuteva spavento… Le galeazze hanno
ognuna dalle trenta alle quaranta bocche da fuoco di bronzo di straordinaria grossezza ed
imbarcano dai sei ai settecento uomini. I galeoni erano di circa ottocento tonelli, uno di essi aveva
quaranta grossi pezzi d’artiglieria di bronzo e gli altri trenta…
… tirammo con tale precisione sui galeoni che gli uomini si nascosero nella stiva e lasciarono le
navi alla propria sorte senza più governarle. Le galeazze che vennero in loro aiuto ricevettero da
noi un rude benvenuto, tanto che si ritirarono vogando a tutta forza e si ripararono dietro le navi
inglesi nella rada… Avevano ormai i remi a pezzi e avevano ricevuto molti colpi mortali… Durante
questo combattimento, che durò circa tre ore, noi sparammo circa duecento colpi dalla nostra nave
e solamente da un fianco, perché la bonaccia non ci permise di virare, e circa cinquecento dal
complesso della flotta. Il nemico ne sparò altrettanti, se non di più, contro di noi. Essi non uccisero
nessuno dei nostri uomini e ne ferirono soltanto pochi, grazie a Dio… Per loro successivo
riconoscimento noi uccidemmo quarantanove dei loro uomini, oltre a ferirne un gran numero…
(Cit.)

Fu un gran colpo, anche psicologico, per i veneziani, i quali in quell’occasione erano comandati dal
generale delle galeazze Marino Capello, conosciuto però come Signor Antonio, e da quello dei
galeoni Giovan Paolo Gradenigo:
290

…tanta era la presuntuosa fiducia che nutrivano nei proprii formidabili vascelli, costruiti con così
ammirevole robustezza e arte che sino a quel momento nessun’altra nave aveva mai osato di
resister loro… (Ib.)

Ma quella dei lagunari si rivelò in tal occasione una potenza bellica solo formale, non sostanziata
dal valore degli uomini, e infatti nel 1647 lo stesso Antonio Marino Capello, allora ancora generale
del mare, sarà richiamato a Venezia e imprigionato ai Piombi per viltà di fronte al nemico; morirà in
quel carcere prima del processo. In effetti la battaglia d’Alessandretta del 1628 segna uno
spartiacque tra il vecchio superato modo statico mediterraneo di far la guerra sul mare e quello
atlantico più dinamico, determinato, efficace e incisivo portato nel Mediterraneo da quel corsaro
inglese:

… i nemici avevano soltanto una fama artificiosamente gonfiata, non conquistata con il proprio
valore, ma basata sulla potenza dei loro vascelli… il che rivelò che cosa l’impeto giudizioso può
fare contro uomini che abbiano più fiducia nei loro castelli galleggianti e nel numero che nel proprio
valore; essi inviarono un umile messaggio per chiedere una pace vergognosa. (Ib.)

A proposito di questa richiesta di pace inviatagli dal suddetto Capello il Digby aveva però nel suo
diario già meglio precisato:

… Il generale allora mandò a scongiurarmi di concedere la pace, riconoscendo il proprio errore


nella maniera più abietta ed incrociò i pennoni e alzò l’ancora per esser pronto ad uscire dalla rada
se avessi rifiutato. Su preghiera del vice-console inglese, che era salito a bordo, gli accordai la
pace, ma a condizioni molto dure, la prima delle quali era che egli avrebbe dovuto abbandonare le
navi francesi alla mia discrezione. Le feci tutte prigioniere meno una che si era andata ad
incagliare… (Ib.)

I veneziani descriveranno poi mendacemente e spudoratamente la stessa battaglia come una loro
vittoria. Le galeazze continueranno però a essere apprezzate come navi mercantili anche sulle
coste atlantiche e infatti nel Settecento alcune galeazze di potenze oceaniche provenienti dal
Canale della Manica appariranno talvolta nel Mediterraneo col nome di navi-galere, come si legge
in un avviso marittimo di Livorno del tre marzo 1719:

É qua capitata la nave galera 'Fontana' olandese d'Amsterdam, dicesi destinata per Venezia, la
quale, avendo toccato Cadice [..]. Partita lunedì per il Zante la nave galera 'Colonia' e per Venezia
la nave 'Due fratelli', ambidue inglesi... (Avvisi di Napoli. Cit.)

Dunque le galee grosse veneziane del tipo detto di Fiandra, alle quali abbiamo già accennato,
avevano aperto una linea che fu poi evidentemente utilizzata sia dagli olandesi che dagl'inglesi con
291

grossi vascelli a vela e a remi, quindi dello stesso tipo; le navi-galere non potavano infatti essere
null'altro che delle galeazze e di queste seguivano pure le rotte mercantili.
Tra coloro che si vogliono oggi interessare di questa materia si fa una certa confusione tra galea,
galeone e galeazza e per esempio alcuni, forse confusi dal quelle cronache medievali che, come
abbiamo già detto, parlano di galeoni remieri fluviali, arrivano persino a credere che i famosi
galeoni marini fossero vascelli che andassero anche a remi; altri, vedi il de la Gravière, il quale fa
suo acriticamente un errore del padre Fournier, hanno scritto che i galeotti delle galeazze
rinascimentali e moderne vogavano sotto coperta, il che non era assolutamente vero, se si
eccettua un particolare e poco pratico tipo di galeazza medioevale erede del dromone, ancora
usato dai francesi nella prima metà del Cinquecento e menzionato per esempio nella relazione
dalla Francia stesa nel 1535 dal residente veneto Marino Giustinian, laddove tratta dei vascelli
posseduti da quella corona:

... Ha cinque galeazze, tra vecchie e nuove, e sono più corte delle nostre galee grosse, più alte e
più larghe, di due coperte e di due ordini di remi, uno per coperta; gl’interiori sono lunghi piedi
ventiquattro; li superiori trentasei, ma poco giovano, che non ponno servire se non a voltare e
guadagnare un cavo e cose simili. Portano artiglieria in gran numero. (E. Albéri. Cit. S. I, v. I, p.
187.)

In sostanza l'eccessiva elevatezza sull'acqua rendeva la voga dei remi superiori molto difficoltosa,
poco pratica e solo utile in qualche particolare manovra; questo è uno dei motivi - essendo gli altri
il peso e il garbo tutt’altro che affusolato - per cui anche le galeazze, anche quelle più moderne
settecentesche, sebbene fornite di ben sette vogatori per remo, finivano, in caso di bonaccia o
comunque di vento non favorevole, per dover essere trainate dalle galere. Questi grossi vascelli
remieri francesi non erano però delle galeazze, come impropriamente le chiamavano i veneziani,
perché non avevano come queste un solo ponte di remigi; erano invece appunto gli ultimi esempi
del dromone medievale. Nel novembre del 1965 due di queste pseudo-galeazze francesi erano in
Levante a commerciare, come il 27 di quel mese scriveva a Venezia dal Peloponneso il già
ricordato Jacomo Barbarigo:

… Hozi, che è 27 del presente, zonsse de qui do galeaze de Franza, le qual partì da questa parte
za 40 di, tochò a Napoli de’ Puia, donde se parti hozi fa 20 di; dice da (‘di’) nuovo che re
Ferdinando feva fare feste e trionphi, per haver sentido che el re de Franza havea fato pace con
quelli signori (con cui) era in guera… dite galeaze son carg(h)e de pani, mieli, o(r)gi et altre merze,
dieno toccare a Sio, Rodi e Alexandria e, del ritorno, a Rodi e Sio, poi tornare drieto… (Cit. P. 68.)

Di un’altro dei detti vascelli francesi si parla poi in una cronaca del 1495 a proposito della flotta
d’invasione transalpina preparatasi a Genova su mandato di Carlo VIII di Francia:
292

… E le galee (napoletane) che li si portò a ditto Rappallo, venendovi l’armata da Genova, massime
una galea franciossa di botte centocinquanta e una nave grossa genovesse, si fuggì in Porto
Pissano […] A questi dì è passato fuor di Porto Pissano, lontana circa miglia undici, l’armata del re
di Francia fatta a Genova. Sono galee sottili circa di 20, nave 11 grosse, galeoni 14 e ditta
galeassa di Francia alla volta di Roma (Diario di Giovanni Portoveneri etc. Cit. All’anno 1495).

La detta galeazza caricherà poi a Porto Pisano artiglierie per l’esercito del re che proseguiva verso
Roma (ib.). Troveremo poi a Napoli tre di questi grossi e antiquati vascelli remieri francesi:

(Maggio 1495:) Sono a Napoli per guardia del Regno 12 galie sottili, 3 galeazze grosse francesi, 2
galioni grossi, una nave grossa genoese de 1,700 botti et 8 barche armate a soldo di Sua
Maestà… (D. Malipiero, cit. P. 346-347.)

Qualche anno più tardi, cioè nel 1499, la Francia preparò una spedizione navale da inviare in aiuto
di Venezia, allora minacciata dall’uscita dal Bosforo di una potente armata turca, e in essa
ritroviamo ancora le dette pseudo-galeazze transalpine:

… Ai 31 di luglio detto, per lettere da Genoa, 4 galeazze e 24 barze armade in Provenza, con
7.000 fanti preparati per Rodi, vien de ordene del Re de Franza (Luigi XII) a obedienzia del
Generale (Antonio Grimani) (D. Malipiero, cit. Parte Prima, p. 171).

Ma lasciamo ora le galeazze francesi e torniamo invece ai già menzionati pamfi:

… galeae LVIII et majora galeis VIII grossa navigia, ‘pamfia’ nuncupata, januenses armarunt
(Annales genuenses etc. Cit. Anno 1222. Col. 983).
.
Siamo nel 1222, Genova è in guerra con Pisa; le suddette galere e i suddetti pamfii si uniscono
nelle acque della Corsica ad altre 30 galere genovesi comandate dal praeceptor (‘capitano
generale’) Benedetto Zaccaria e, ora sotto il comando generale affidato a Oberto de Auria
(praeses, armiragius nominatus), sconfissero i pisani nelle acque di Porto Pisano (oggi ‘Livorno’.
Ib.) Ma nei predetti Annales i pamfii sono menzionati più volte:

… aliquas galeas grossas et aliqua non parva navigia, quae pamfi dicebantur, et ligna… (ib. Anno
1334, col. 1.067)

Nei primi secoli del Basso Medioevo prima i chelandri levantini e più tardi i pamfii tirrenici saranno
sostituiti rispettivamente dalle galee grosse veneziane e dalle galeazze, cioè in effetti ambedue da
uno stesso nuovo tipo di vascello remiero dalle peggiori qualità remiere ma dalle migliori qualità
veliche, adatti onfatti anche al cabotaggio atlantico.
293

Erano comunque in uso a quell’epoca anche le galere ordinarie, eredi dunque delle liburne degli
antichi romani, erano dette galee sottili, ma, come abbiamo già accennato, non tanto nel senso di
sottili in larghezza, come si è subito portati a pensare, bensì perché sottili in altezza di fiancata,
altezza limitata perché fatte per un solo livello di voga; queste s’adoperavano allora, nei loro primi
secoli, appunto come le loro antenate liburne e cioè soprattutto per azioni di supporto,
esplorazione, sorpresa e per la guerra di corsa, ma anche all’occasione per il fronte di battaglia se
già il nemico v’usava questo tipo di vascelli, come dispone la già citata Тάϰτιϰα dell’imperatore
Leone VI:

Apparecchiarai galee grandi e picciole, conforme alla qualità dell’armata de’ nemici co’ quali
combatti, perciocché i saracini e gli sciti del Bosforo non hanno una medesma sorte di apparato di
armata, usando i saracini una maniera di vascelli detti ‘cumbarij, maggiori e più tardi al corso; ma
gli sciti usano ‘acatij’ (gr. αϰάτια, ‘brigantini’), più piccioli e più spediti e più veloci, perciocché
scorrono per alcuni fiumi nel Mar Maggiore e per questa cagione non potriano usargli (‘usarli’)
maggiori (Constit. XX, par. 69).

A proposito delle suddette gumbare (lm. cumbaria; gr. ϰουμβάρια, talvolta ϰομβάρια), come si
diceva in veneziano, vascelli che dovevano essere tondi, visto che il Suida li definisce appunto
nave rotundae e che Thomas Ryves (Historiae navalis mediae libri tres. Cap. 24. Londra, 1640),
confondeva con le camerae, onerarie pontiche a vela quadra dei tempi dell’imperatore Nerone. Se
si chiamavano così, è probabile che sotto coperta avessero una particolare disponibilità di cumbe,
cioè dei predetti giacigli per soldati o pellegrini. Dalle storie del Sabellico risulta che anche i pirati
narentini avevano vascelli chiamati gombarie e, come scriveva invece il già citato Giovanni
Diacono nel suo Chronicon, memoria ripresa in quello, molto più tardo, di Andrea Dandulo, li
usarono, come già accennato, anche i veneziani e proprio in una spedizione navale (gr. ἐπίπλοος,
ἐπίπλους) mandata contro detti pirati dal doge Pietro I Candiano nel corso del biennio 847/848:

… inviò contro gli slavi narentini trentatré vascelli che i veneziani chiamano ‘gumbarie’ e a capo dei
quali furono preposti Orso Badoario e Pietro Rosolo; essi (però) tornarono con un nulla di fatto
(triginta & tres naves quas Venetici ‘gumbarias’ nominant, contra Narentanos Sclavos misit, quibus
Ursus Badoarius & Petrus Rosolus præfuerunt. Qui absque effectu reversi sunt.Cit.)

Queste gombarie sicuramente facevano parte di quella categoria che i bizantini chiamavano, oltre
πειρατιϰαὶ νῆες (‘navi corsare’) e λῃστριϰaὶ νῆες (‘navi piratiche’), ma non perché, come abbiamo
appena visto, fossero caratteristici appunto dei pirati saraceni e narentini, ma perché, come già più
volte accennato, erano armati alla leggera, cioè non per una battaglia di linea o reale, come si dirà
più tardi. I vascelli usati dai corsari e dai pirati propriamente detti erano perlopiù monoremi privi di
coperta (μονήρεις πειρατιϰὰς. Giovanni VI Cantacuzeno, Historiarum libri IV. IV, 17), a motivo della
294

loro insuperabile velocità [… navigando in rotta diretta e velocemente in monera… (εὑθὺς


ταχυναυτοῦντες ἐν ἑνήρει. Giorgio Pakymeres, cit. T. I, lt. I, par. 31)], ma si servivano anche di
biremi copertate come quelle - magari di dimensioni maggiori - usate anche dai veneziani e spesso
anch’esse talvolta dette ‘piratiche’ (come abbiamo letto per esempio nella suddetta Тάϰτιϰα), ma
non perché fossero usate per esercitare pirateria, bensì semplicemente perché non corredati e
armati da battaglia; infatti Niceforo Gregoras (c. 1295-1360) parlava addirittura di triere piratiche
[… due triere di tipo ed uso piratici… (δύο τριήρεις ἐπὶ δίαιταν ϰαὶ τρόπον πειρατιϰὸν. In Historiae
byzantinae. LT. V, par. 3 e 4)] e, un po’ più avanti, persino di una grossa nave da carico ‘piratica’:

… Venendo dunque poco dopo con forza la borea giù dal cielo, apparve giunta dal largo del mare
anche quella nave oneraria corsara in mezzo a una moltitudine di (vascelli) armati, quasi un’intera
città avanzatasi nei flutti o piuttosto a guisa di un uccello che sui flutti avesse volato. (ἐπεὶ δὲ μετὰ
μιϰρὸν σφοδρότερος ἂνωθεν ϰατεῥῤάγη βορέας͵ ἐπιφαίνεται ϰατιοῡσα ϰαὶ ἡ πειρατιϰὴ ἐϰείνη
ὀλϰὰς ἀπὸ πολλοῡ τοῡ πελάγους͵ μυρίοις ἐστεφανωμένη τοῑς ὀπλίταις͵ ϰαθάπερ πόλις ὂλη ϰατὰ
ϰυμάτων πεζεύουσα ἢ μᾶλλον πτηνοῡ δίϰην ἐφιπταμένη τοῑς ϰύμασιν. Ib.)

E si trattava in questo caso di una nave oneraria bizantina in precedenza addirittura definita
‘imperatoria’ (ἡ βασιλιϰὴ ὁλϰὰς. Ib.); qui invece si dice ‘corsara’ perché evidentemente usata dai
vascelli armati a corso di quella squadra come vascello d’appoggio, cioè per tenervi depositato il
carico delle loro prede. Abbiamo già accennato che i vascelli corsari e piratici si distinguevano non
tanto per le generalmente minori dimensioni quanto perché privi delle opere morte difensive che in
guerra si elevavano sulla coperta di quelli destinati a ingaggiare, se necessario, anche battaglie
frontali, insomma di linea o reali, come più tardi anche si dirà.
Il nome gumbarie o gombarie deriva, come già detto, da kύμβη, una alquanto piccola imbarcazione
adibita tra l’altro a servire in guerra vascelli più grandi e che i bizantini costruivano da una vela
antennata e da otto rematori più un capo-voga; ed è quindi supponibile che si chiamassero così
perché magari portavano in coperta o a traino una cimba [‘cumba’; gr. ϰύμβη, ϰυμβίον (‘piccola
cimba’)] o piatta (ts.) di supporto. Infine diremo che alla fine dell’XI secolo - dunque a distanza di
due secoli e più da quegli avvenimenti - lo storico bizantino Giorgio Cedreno dirà anche lui di
questo tipo di vascelli remieri e confermerà, a proposito dei ripetuti attacchi portati dai mussulmani
agareni (sciiti) di Siria e di quelli saraceni (sunniti) di Creta, Africa e Sicilia ai territori marittimi
bizantini tra l’880 e l’885 d. C., che si trattava di grandi vascelli, ma in più affermando che il loro
nome cumparia era vocabolo saraceno; il che però fa pensare che si fosse limitato a leggere - e
male - il predetto Leone VI:
295

… avendo armato trenta grandi navi che i saraceni usano chiamare ‘cumpari’… [τριάϰοντα πλοῖα
μέγιστα ἓξαρτυσάμενος (ϰουμπάρια ταῡτα ϰαλεῖν εἰώθασιν οἱ Σαραϰηνοὶ). G. Cedreno, Historiarum
compendium. Agli anni suddetti.]

Ma, per tornare alle suddette liburne o liburnidi o liburniche, in realtà, come si legge nel Vegezio,
autore del quarto d.C., ai suoi tempi esse non erano più solo le originarie biremi, ma si costruivano
anche triremi, quadriremi e quinqueremi; insomma erano ormai in effetti già delle galee, alle quali
ora venendo, diremo che esse, grosse, sottili o bastarde che fossero, erano sì a più ordini di remi,
ma erano ordini posti tutti allo stesso livello, ossia in coperta, e si trattava allora, cioè nel
Medioevo, più di biremi o legni che di triremi, mentre mai erano state dismesse le monoremo, le
quali ora si chiameranno però perlopiù galladelli (ma più oltre, cioè dal Rinascimento brigantini,
caicchi e fragate); questa conformazione remiera - a più ordini ma a un solo livello - s’evince da
documenti basso-medievali riportanti elenchi d’equipaggi e, per quanta riguarda la quantità
d’uomini che portavano a bordo, questa sembra esser all’incirca la stessa di quella delle sagitteae
o sagittiae, contr. del più antico saguntiae (da Sagunto, quindi ‘vascelli saguntini’), ossia quei
grandi e veloci vascelli latini medievali il cui nome poi più tardi, come abbiamo già visto, si
contrarrà ulteriormente in saettie. La voga sotto coperta non fu mai più ripresa, anche se riproposta
nel Cinquecento dal Crescenzio, il quale, in una figura del suo succitato trattato, presenta un tipo di
vascello a vela e a remi da lui immaginato e proposto, ma avendone probabilmente preso spunto
dai galeoni fluviali medioevali di cui abbiamo più sopra detto, e inoltre battezzato galeoncino, il
quale appare essere un vascello a metà strada tra una galeazza e un galeone marino, ma con i
remiganti situati sotto coperta; si tratta però d’una proposta che non fu presa in considerazione da
nessuno e, anche se presentava il vantaggio di diminuire l'angolo d'incidenza dei remi sul livello
del mare avvicinandolo così alquanto a quello dei remi delle galere, toglieva però spazio di carico
interno perché occupato dai remiggi. Comunque sicuramente questo comunissimo errore di
credere che i remiganti delle galeazze rinascimentali sedessero sotto coperta fu dovuto all'essere i
remi di tali vascelli sovrastati dalle predette corsie laterali di tavolato, caratteristica che, mai ben
visibile nelle illustrazioni del tempo, rafforza l'impressione che fossero i banchi situati sotto la tolda.
Le marinerie ponentine o tirreniche consideravano le galee veneziane e i loro equipaggi e sistemi i
migliori esistenti e quindi i più da imitarsi; i veneziani d'altro canto, pur accettando questa fama di
primato nella navigazione e nella guerra remiera, erano tanto veramente esperti e superiori da
riconoscere anche i molti aspetti in cui le loro galee erano invece inferiori a quelle di ponente o
anche a quelle turche. Nel fare le nostre osservazioni su questo argomento useremo soprattutto
come fonte la già citata Milizia marittima di Cristofaro da Canal, scritta dopo il 1542 e pertanto
avvertiamo il lettore che, trattandosi di circa mezzo secolo prima del tempo che noi stiamo
296

principalmente descrivendo, si parlerà di galere triremi a sensile o a zenzile (1450-1580) e che in


seguito molte differenze costruttive e operative tra le galere ponentine e quelle levantine furono
eliminate dal comune passare dalla detta voga a sensile a quella a remo di scaloccio. Premettiamo
inoltre che molte delle caratteristiche delle galere a sensile ponentine erano estensibili a quelle
turche, in quanto gli ottomani cercavano d'imitarle considerandole migliori di quelle veneziane. Il
bailo Marino Cavalli, da noi più volte citato, così si esprimeva infatti nel 1560 a proposito dei
galeotti turchi, intendendosi allora per galeotti la ‘gente di galera’ in generale, ossia remiganti,
marinai, soldati ed anche gli eventuali passeggieri (lt. classiarii o classici; gr. τριηρίται; gr. οὶ
πλοΐμοι o anche ὀ πλώιμος στρατός; blt. extollerii), mentre in latino medievale essa era
generalmente suddivisa in nautae e supersalientes (marinai e altri imbarcati):

... Governano ancora (‘anche’) come li ponentini, dalli quali pigliano volentieri tutte le foggie che
usano questi. (E. Albéri. Cit. S. III, v. I, p. 292.)

Ma migliori nel Mediterraneo occidentale erano non i vascelli, bensì i combattenti, specialmente
quelli delle galere dei cavalieri di Malta, di S. Stefano e di S. Lazzaro, cioè delle savoiarde. Una
tipica galea veneziana a sensile della prima metà del Cinquecento (ma anche della seconda del
secolo precedente), cioè una triremi da 50 banchi (25 per lato) e quindi 150 galeotti, era lunga 24
passi veneziani (m. 41,640), alta un passo (m. 1,735) e larga tre passi (m. 5,205). Premesso che le
galee veneziane erano senza alcun dubbio le più belle ed eleganti di tutte, sia nella forma che
nella tessitura del fasciame, il predetto da Canal asseriva di preferire, se non la forma, le misure
delle galere di ponente, generalmente più larghe di bocca di quelle veneziane, ossia piedi 16 (m.
5,55) invece di 15, e più alte di puntale, cioè piedi sei (m. 2,08) invece di 5, perché la maggior
larghezza le faceva essere più salde al mare sia quando si navigava a remi sia a vela e inoltre la
maggior altezza le rendeva più veloci, evitando che troppa parte terminale dei remi restasse
nell'acqua alla fine della vogata, offrendo così una maggior resistenza al corso della galea, e per lo
stesso motivo si evitava che i traversetti o cèntene facessero la stessa resistenza pescando
nell'acqua; lo stesso effetto negativo che pure faceva, come abbiamo già spiegato, lo sperone
diritto usato dai veneziani; inoltre l'estremità sporgenti del giuoco di prua, sempre a causa di
questa sensibilissima minor altezza delle galee veneziane, addirittura percuotevano il mare così
ritardando anch'esse il corso del vascello; ciò accadeva anche perché fin quasi alla metà del
Cinquecento i telari veneziani erano stati larghi, grossi e pesanti, per cui, oltre a gravare con tutte
le opere morte eccessivamente sugli scafi, rovinando quindi presto le galee e facendole durare
poco, quando la galea navigava a vela dell'asta, vale a dire quando si portava la vela attraversata
dall'uno dei lati dello scafo e non nel mezzo dello stesso, come si faceva quando si navigava
297

invece col vento in poppa, avveniva che la galea si coricava da quel lato stendendosi sull'onde e
provocando, con il margine del telaro tuffato, una grandissima scia che rallentava ovviamente
moltissimo il corso. Negli anni Trenta del secolo però il summenzionato famoso architetto navale
veneziano Vittorio Fausto cominciò a costruire galere provviste del cosiddetto mezzo telaro,
struttura più stretta e posta in maniera che, invece di gravare sulla galea, le dava sostentamento e,
in qualsiasi modo si navigasse, non toccavano il pelo dell'acqua.
Per tutte le suddette ragioni il da Canal avrebbe voluto le galee veneziane del suo tempo più alte,
a imitazione dunque di quelle ponentine, o per lo meno tanto più alte quanto lo erano quelle
progettate dal detto Fausto, le quali sopravanzavano in tutte le loro parti le altre che si costruivano
nell'arsenale di Venezia; ma addirittura egli le avrebbe fatte ancora più alte:

... aggiungo che, se le galee di altra provincia hanno mestiero di una convenevole altezza in
puntale, le nostre lo hanno assai più almeno di quello che esse si fanno e questo principalmente
per cagione de' galeotti dalmatini che sopra gli vanno, i quali, oltre che seco portano per lo meno
tre o quattro mude - o vogliamo dir sorte di panni - nelle galee, tengono eziandio ordinariamente
appresso il barile dell'acqua, uno assai maggior di vino e altre infinite bagaglie che i nostri più
litterati scrittori, servendosi dell'antico vocabulo, chiamerebbono impedimenti. Il che fa che esse,
tutto dì come potete vedere, assembrano all'occhio di chi le mira poco meno che affondate nel
mare e rende loro impedimento grandissimo così nell'andar (a remi) come nella vela. (Della milizia
marittima etc. Cit. P. 156.)

Come qui si vede, il da Canal, uomo del Rinascimento, già usava per sineddoche il termine
‘galeotti’ con il significato che gli diamo noi oggi e cioè riferendosi ai soli remiganti, mentre in realtà
esso aveva denominato in origine tutta la gente di galea. C'era anche un altro motivo per cui le
galee veneziane risultavano più appesantite di quelle ponentine e turche era il maggior numero
d'artiglierie che portavano, argomento però che tratteremo in un altro capitolo; la maggior altezza
in puntale delle galere di ponente era comunque la caratteristica fondamentale che le rendeva più
veloci di quelle veneziane, altrimenti non si sarebbe spiegato come, quando si navigava a voga,
molte volte ciurme ponentine costituite da tisicucci potevano superare (fr. depasser) nell'arregare,
ossia nel vogare in modo competitivo, quelle veneziane formate invece d'atletici dalmatini,
superiorità che non si poteva certo spiegare solamente con l'altra innegabile circostanza che,
come meglio diremo più avanti a proposito dei modi di vogare, la (voga ar)rancata ponentina
rendeva molto di più della stroppata veneziana:

... noi che per ordinario armiamo le nostre (galee) dalmatine di huomini che io vi dissi di bellissimi
corpi [...] nondimeno l'esperienza dimostra assai chiaro che gl’italiani, i corsi, i sardi, i siciliani, i
spagnuoli, i turchi, gli africani e gli etiopi e altre molte diversissime nazioni che sono in grandissimo
numero in catena per le galee di ponente possono non pure coi loro corpi piccioli e sparuti sempre
stare a paragone coi miei schiavoni belli e grandi, ma molte volte eziandio vincerli e lasciarli a
298

dietro, il che per certo non potrebbono fare quando solo dalla condizione delle ciurme questa tal
prestezza delle galee avvenisse. (Ib. P. 155.)

Sia per la predetta maggior altezza sia per aver un minor numero di partitori (‘paratie’) lo scafo
delle ponentine era, oltre che più veloce, anche più comodo e abitabile. Il da Canal preferiva anche
le belle poppe delle galere di ponente, per esser quasi sempre fabbricate di legno di noce in ogni
loro parte, pertichette e furcate incluse, così come ogn’altra guarnizione dei morti (‘opere morte’) di
poppa, cosa che non sempre si usava in quelle veneziane, dove anzi questi morti erano quasi
sempre di larice o d'altro legno similmente di poco prezzo:

... Vorrei dunque che tutte queste parti fossero di noce, perché questo legno è bello ed honorevole
e perché è forte e assai più durevole di molti altri. Sicome io laudo che esse parti siano gentilmente
lavorate e apparenti, così biasmo quella soverchia spesa che vi si vuol fare di oro e di colori,
percioché in pochi dì sono dalle pioggie e dal mare tali ornamenti guasti, oltre che non aggiungono
bontà alla galea. (Ib. P. 68.)

Era comunque bene fare il pagiolo, ossia la tolda della poppa, d'altro legno, perché il noce,
essendo per sua natura liscio, quando era bagnato faceva facilmente sdrucciolare chi sopra vi
camminasse.
Diverso e più agevole era invece il maneggio del timone nelle galee della Serenissima, perché
mentre infatti nelle galere ponentine e turco-barbaresche esso si manovrava a mezzo d'una barra
detta argnola, i veneziani lo tiravano da destra e da sinistra con due capi di fune detti freni e avvolti
d'ambedue le parti su due legni detti schelmi, cioè proprio come le briglie d'un cavallo; questo
secondo sistema era considerato molto più efficace perché l'argnola era ingombrante,
estendendosi all'interno della poppa almeno per un braccio e mezzo, e, quando si voleva mandare
il timone a un suo estremo, essa andava a urtare nelle banche laterali della poppa e quasi
impediva tale manovra:

... Anzi è tanta differenza dall'un modo all'altro quanto è dal reggere un cavallo col morso o
maneggiarlo senza freno. (Ib. P. 70.)

Il timoniero veneziano era però posto all'esterno senz'alcuna protezione ed era quindi facile
bersaglio al nemico; quello ponentino e quello turchesco (‘turco-barbaresco’) sedeva invece sotto
poppa, dietro una tavola fatta a graticola o a gelosia (fr. à jour), detta sopratrigante, la quale solo
allora alcune galee veneziane incominciavano a usare, e quindi era molto più protetto; si ovviava
comunque sulle galere di Venezia ponendo un pagliericcio dietro la schiena del timoniero.
299

Le galere turchesche avevano poi a poppa una comodità che mancava sia a quelle veneziane che
alle ponentine e cioè fissata sopra i sei o sette capi di travicelli, detti catenelle in veneto e che
sporgevano sotto ambedue i lati della poppa per un mezzo braccio, avevano una tavola della loro
stessa larghezza, le cui estremità destra andava a fissarsi anche alle scalette d'accesso alla
galera, queste peraltro mobili, formando così attorno alla poppa un comodo corridore di balconata
per chi volesse andare all'estrema poppa senza infastidire gli ufficiali e i nobili che colà
stazionavano. Questa loggia sarà più tardi usata anche a ponente, specie nelle galere francesi
post- rinascimentali, come si legge nel trattato di Claudio Bartholomeo Morisoto (Orbis maritimi
sive rerum in mari et littoribus gestarum generalis historia, Digione, 1643), con il nome però
appunto di gal(l)erie, nome che farà fortuna anche nell'architettura di terra per indicare appunto le
lunghe logge e in seguito anche i corridoi. Adottata nel frattempo tale comodità anche dai vascelli
tondi, sebbene in versione per lo più coperta, sarà in quelli chiamata giardino, togliendo così un
poco usato nome a una zona dei remiggi della galera di cui poi diremo.
Altra scomodità delle galee veneziane, rispetto però stavolta a quelle di ponente, era il portello
della camera di poppa situato nel mezzo della poppa stessa, anche se fuori della ruota, per cui,
essendo esso quasi sempre aperto per le ricorrenti necessità, si rischiava sempre che qualcuno vi
cadesse dentro e inoltre non si poteva far dentro quella camera - almeno nella parte vicina alla
scala che vi scendeva - nulla che dall'alto la gente di poppa non potesse osservare attraverso
appunto detto portello; invece le galere ponentine lo avevano spostato a sinistra, anche se dentro
la predetta ruota. Bisogna però tener conto che la camera di poppa delle galee veneziane era
sempre ben fornita d'armi in asta da potersi prendere così anche urgentemente, tanto da poter in
tal modo armare dalle 60 alle 80 persone alla occorrenza, armi che invece nelle ponentine e nelle
turchesche erano tenute nello scandolaro, ma poche in quanto poche queste n’usavano,
soprattutto le turche, e usavano anche tenere quelle poche rinchiuse in certe casse riposte nella
corsia. Il perché di questa differenza sta nella circostanza che i galeotti della Serenissima, essendo
in massima parte volontari e non condannati, potevano in caso di necessità anche combattere e
quindi in tali casi c'era bisogno d’armare anche loro oltre i soldati di bordo; quest’impiego di
remiganti combattenti veniva da lontano nella storia ed infatti gli antichi greci avevano un nome
.particolare per loro, li chiamavano αὐτερέται; inoltre, per quanto riguarda i turchi, la cui tattica di
terra non prevedeva l'uso di fanterie ordinate, essi non erano usi alle armi inastate, come nel 1560
confermava anche il già citato bailo Marino Cavalli:

... Hanno pochissime armi d'asta e quasi nessuna, se bene ora mostrano volerne avere più che
possono da mare e da terra, ma si risolvono alle freccie, all'archibugio e alla spada, le quali tre
300

cose maneggiano benissimo, e fino alla morte combattono come leoni. (E. Albéri. Cit. S. III, v. I, p.
293.).

Le galee della Serenissima erano quasi tutte sottili, ossia a poppa stretta, come sappiamo, mentre
tra le ponentine se ne trovavano già parecchie bastardelle, quindi a poppa più larga, a mo' di nave,
il che rendeva queste più salde in navigazione specie col mare di poppa, cioè quando si correva al
dritto del mare come dicevano i veneziani; inoltre la poppa così quartierata delle bastardelle era
più spaziosa di sopra e di sotto, dove, volendo, si poteva anche costruire un secondo camerino
oltre lo studietto del comandante. Ancora dalla suddetta relazione del Cavalli (1560) apprendiamo
che i turchi preferivano le galere bastardelle;

... Vogliono le galere allargate per mettervi sopra molti uomini da combattere, salvo che ne hanno
da quindici o venti stringate e tagliate per esser preste, si come porta il dovere, perché tutte non
vogliono esser grosse né tutte possono esser veloci. (Ib. P. 292.)

Mentre nelle galere di ponente il tendaletto della poppa era di dietro tenuto abbassato
strettamente, in quelle veneziane si era cominciato nel primo quarto del Cinquecento a fare in
modo che d'estate si potesse tenere sollevata di poppa a mezzo di due ferri lunghi bracci 1½ e
posti ai due lati, in modo da far passare più aria e da conferire un aspetto più leggiadro alla poppa.
La pavesata, ossia la cortina di tavole laterali poste una accanto all'altra su ognuno dei due bordi
laterali della galera, specie in corrispondenza del luogo del fogone e di quello dello schifo, essendo
questi i posti che in battaglia per lo più fungevano da corpi di guardia, era una struttura mobile che
serviva da parapetto per difendere soldati e vogatori dal fuoco nemico ed era anche munita di
feritore; era nelle galere di ponente molto alta e robusta, in quanto di noce o talpone spesso
quattro dita e alto sino al petto dell'uomo, mentre in quelle veneziane erano di tavola sottile d'abete
o di pioppo e non arrivavano che alla cintura, il che conferiva alle galere di Venezia sì maggior
leggerezza, ma metteva i suoi combattenti in condizioni d'inferiorità per quanto riguarda sia la
difesa dai proiettili d'arma da fuoco sia dai colpi di picca e dagli assalti nemici nei casi di
prolungamento, ossia d'abbordaggio. Erano queste pavesate veneziane, oltre che sottili, solo
legate sulle pertichette con piccoli capi di fune detti muselli e ciò attraverso due piccoli fori praticati
in ogni tavola della pavesata stessa; ma perché i veneziani le usavano così deboli? In effetti esse
erano soprattutto concepite per la difesa dalle frecce turche, principale arma da getto degli
ottomani, i nemici storici di Venezia, mentre quest'ultimi, non servendosi più da tanto tempo i
soldati cristiani, greci esclusi, degli archi e solo ormai molto poco delle balestre, non le usavano
come ci spiega ancora Marino Cavalli nel 1560:
301

... Non portano pavesate, ma tutte le galere son rase, e lo fanno perché dai nemici non temono di
freccie, dalle quali le pavesate li difendariano, ma ben di archibusi, al che quelle non servono. Noi
faremo in vero benissimo a portarne, ma saria bene che facilmente si potessero levare e che noi
usassimo anco degli archi, che sono ottimi e di poco intrigo. (Ib.)

Insomma, o si portavano pavesate leggere che servivano benissimo, ma per riparare dalle sole
frecce e per ostacolare la mira del nemico, e inoltre, appunto per la loro leggerezza, erano facili da
mettersi e da togliersi quando, acquisito vantaggio, si fosse voluto andare all'arrembaggio, oppure
si portavano quelle massicce usate dai ponentini, le quali difendevano sì anche dai colpi
d'archibugio, ma erano più difficili da maneggiarsi e molto appesantivano la galera; in ogni caso ne
l’une ne l’altre avrebbero comunque difeso dalle potenti palle del moschetto da braccio. Si usavano
quindi, come del resto anche le traverse, ossia barricate, solo in occasione di combattimenti, ma
alcuni capitani di galera non le usavano mai perché ritenevano che appesantissero il vascello e ne
ritardassero quindi il corso e ciò sia che si andasse a remi sia a vela; in effetti si trattava invece
d’utilissime difese, anche perché, oltre a riparare, erano di molto impedimento al nemico che
tentasse di venire all'arrembaggio e l'unico vero difetto che avevano era che, quando si
prueggiava, offrivano resistenza al vento e ritardavano quindi il moto del vascello; ma di ciò non
sembravano preoccuparsi affatto i veneziani, perché essi spesso anche portavano queste loro
leggere impavesate addirittura fisse, cioè inchiodate ai filari; bisognava comunque che fossero
poste in maniera da non esser di molto impaccio anche agli stessi servizi di bordo della galera,
oltre che al nemico. Se comunque un capitano sceglieva di non portarle temendo che
appesantissero la sua galera, allora in caso di combattimento doveva usare come impavesate da
un lato la tenda d’albagio e dall’altro quella di canovaccio, rinforzandole però con tutti i cappotti e le
schiavine disponibili a bordo.
Le impavesate veneziane non erano dunque sostanzialmente cambiate dal Quattrocento, mentre
gli ottomani le avevano in quel secolo anche loro portate; anzi ne circondavano allora
completamente il vascello, fisse e forti a prua e leggere e asportabili (vn. in bertoela) per il resto.
Differenti erano state invece prima dell'epoca in esame le opere morte a prua delle galee
veneziane, le quali nella prima metà del Cinquecento erano state infatti già munite di garide, ossia
di palchi o rembate, cosa che, pur se le galee bizantine l’avevano portata nell’alto Medioevo, come
si legge nel trattato di Leone VI, allora invece né le ponentine né le turco-barbaresche avevano
ancora, infatti in esse mescolandosi e confondendosi insieme sulle prue aperte artiglieri, soldati e
proeri (‘prodieri’; gr. πρωρεῑς), correndo il pericolo del fuoco delle loro stesse artiglierie; inoltre i
tavolati posti sulle garide e detti sbarre erano nelle galee veneziane elevabili in verticale
lateralmente e in tale posizione immorsabili in modo da formare come una cinta quasi continua che
avvolgeva la prua, dalla quale sboccavano sul davanti le artiglierie, e ne difendeva i difensori. In
302

qualche caso i veneziani prolungavano i palchi delle rembate all'indietro sino all’albero per formare
così anche un piano di sostentamento ad alcuni falconetti, i quali andavano dunque a incrementare
le possibilità offensive delle loro galere; ma a ciò meglio accenneremo nel capitolo dedicato
all'artiglierie, come pure in altro capitolo abbiamo già detto delle differenze tra gli speroni usati dai
veneziani e quelli di cui invece disponevano ponentini e turco-barbareschi.
Per quanto riguarda i remi a sensile, i soli usati al tempo del da Canal, nelle galere di ponente essi
erano molto più politi, più sottili e con le pale più piccole di quanto usassero invece le galere della
Serenissima; ciò comportava che, poiché era molto necessario contrappesare i remi all'estremità
interna, come abbiamo accennato, altrimenti il rematore - per forte che fosse - non avrebbe
resistito alla voga se non per breve tempo, i ponentini contrappesassero la parte esterna del remo,
due volte più lunga e gravosa di quell'interna, applicando a quest'ultima due galaverne, vale a dire
due bande o tavolette di legno più o meno grosse a seconda del remo e conficcate una sopra e
una sotto al zirone, intendendosi per girone del remo a sensile tutto il terzo di lunghezza interno
allo scafo e non solo l'apice interno, come poi sarà invece nel remo a scaloccio; i veneziani invece
usavano tenere alquante libre di piombo conficcate nel girone e necessarie a contrappesare un
remo sensibilmente più grosso e pesante, sistema questo meno pratico perché questa gravezza e
grossezza del molto piombo, andandosi ad aggiungere alla generale gravezza e grossezza dei
remi veneziani, rendeva lo spazio tra banco e banco meno ampio e abitabile di quello a
disposizione dei remiganti delle galere a sensile ponentine. La maggior piccolezza e sottigliezza
delle pale faceva sì che i remi tirrenici fossero più leggeri e quindi affaticassero di meno i galeotti;
inoltre la sottigliezza rendeva questi attrezzi più flessibili e quindi più duraturi perché si rompevano
così più raramente, permettendo ai remieri ponentini di piegarsi maggiormente all'indietro nella
voga senza offrir loro troppa resistenza. I veneziani usavano poi l'acero per fabbricarli, con
gl'inconvenienti già detti più sopra. Anche alcuni dei remi bizantini dovevano, perlomeno nell’Alto
Medioevo, esser abbastanza leggeri, se, come leggiamo nel Suida, si potevano all’occorrenza
sostiituire con semplici ventilabri, ossia con quelle pale che usavano i contadini per spagliare il
grano:

… Avendo legato agli episcalmi molti ventilabri, presero a remare. (Πτύα ώς πλεῖστα ταῖς
ἐπισϰαλμίσιν ἐντροπωσάμενοι͵ ἢρεττον· Cit. Tomo I. P. 828.)

I remi a sensile delle triremi, chiamati a Venezia - dall'esterno all'interno - pianero, postizzo e
terzicio, nomi che per traslato prendevano anche i tre vogatori che li usavano, potevano essere,
per quanto riguarda la lunghezza, basati su due diverse concezioni. La prima, la quale era la più
generalmente accettata a Venezia perché si sosteneva che addirittura raddoppiasse la velocità
303

delle galee, voleva i tre remi di lunghezza rimarchevolmente diversa e cioè il pianero di piedi 32
(m. 11,10), il postizzo di piedi 30,5 (m. 10,58) e il terzicio di piedi 29,5 (m. 10,236). Questa
soluzione faceva sì che le pale dei remi affondassero nel mare in punti sensibilmente diversi,
dando quindi, dalla punta della pala del pianero a quella della pala del terzicio, una distanza in
mare di poco meno di tre piedi. La seconda concezione voleva invece i remi d'ugual lunghezza,
per cui le punte delle pale predette entravano in mere a una distanza di soli due piedi, distanza
dovuta in questo caso alla sola differente lontananza dei tre rematori dagli scalmi. In effetti fu
proprio questo considerare la maggior spinta che una più estesa azione dei tre remi nell'acqua
conferiva alla galera che produsse poi l'adozione del sistema di scaloccio, caratterizzato questo da
una sola pala, ma considerevolmente più estesa.
Le galee veneziane avevano l'albero di maestra più lungo e sottile e la relativa antenna (gr.
ϰεραία), anch'essa più sottile, lunga quanto la galera stessa; turchi e ponentini usavano invece
l'albero più grosso e più corto e la sua antenna lunga due volte l'albero. Il sistema veneziano era
migliore perché l'albero corto e grosso, a causa della sua grossezza, era nella cima meno flessibile
e quindi più pericoloso, perché pertanto più soggetto a rompersi sotto l'urto d’un forte vento; questo
difetto si esprimeva allora definendosi tali alberi cimaruoli; inoltre questo secondo tipo d’albero
rendeva più difficile la manovra del volger la vela ora da un lato ora dall'altro, manovra detta fare il
carro e, dai veneziani, gittar da brazzo, operazione comunque pericolosa per la stabilità della
galera e che quindi alcuni capitani vietavano ai loro còmiti.
Sia le galere di ponente che quelle della Serenissima avevano poi un altro disturbo alla manovra di
fare il carro e cioè la presenza sulla cima dell'albero d’una mezza gabbia frontale chiamata, come
già detto, gatto dai ponentini (sp. gata), attrezzo però utilissimo nelle battaglie, come si vedrà;
infatti il predetto bailo Marino Cavalli (1560) criticava i turchi che non l'usavano:

... Non usano mezza gabbia, il che credo sia male perché due o tre uomini da alto possono far
gran male a quelli da basso. (Ib.)

Prima d’iniziare a parlare delle differenze di velatura, premettiamo che all'epoca delle galere a
sensile nella marineria a remi di ponente era ancora in uso una nomenclatura velica tipicamente
italiana, mentre più oltre nel Cinquecento, a causa delle sempre maggior influenza della Spagna,
verrà in uso appunto quella spagnola che abbiamo già dato. La velatura delle galere a sensile
ponentine era sostanzialmente migliore di quella in uso nelle galee veneziane, perché le prime
avevano vele praticamente per ogni condizione di tempo, mentre le seconde n’usavano un numero
minore; non solo, ma le vele veneziane erano anche più piccole e quindi rendevano le galere
adriatiche meno veloci di quelle tirreniche. Il principale elemento di superiore ampiezza velica delle
304

ponentine era la maggior lunghezza - e quindi anche ampiezza - del poggiale delle vele, cioè di
quella loro parte posteriore che, sempre più restringendosi, formava quasi come una coda; il
poggiale delle vele veneziane, più corto e stretto, detto pertanto scannato a ponente, faceva
ricevere a queste meno vento e quindi rendeva quelle galere più tarde. Inoltre le vele ponentine
avevano anche qualche ferza (‘telo’) di più sia delle veneziane che delle turche, la cui ampiezza
invece si equivaleva.
Per quanto riguarda l'albero principale, poi detto maestro, i ponentini usavano una vela
maggiore detta l'artimone e larga ferze 60, mentre quella maggiore dei turchi e dei veneziani
era invece larga solo 52 (il che quanto alla velocità importi non è da dimandare. C. da Canalt.
Cit. P. 83). Quando i venti si rinforzavano i ponentini sostituivano all'artimone una vela più
piccola detta il lupo e di ferze 54 e, quando quelli si facevano addirittura impetuosi usavano
quella detta la borda e larga ferze 32; avevano dunque una vela per ogni qualità di vento,
mentre i veneziani, oltre a quella maggiore già detta e che anch'essi chiamavano artimone,
n’avevano un’altra sola di ferze 36 e detta il terzaruolo, la quale adoperavano sia nei maggiori
sia nei minori fortunali. Le galere a sensile avevano poi già anche loro l'albero di trinchetto e ce
lo dicono, come abbiamo già detto, i documenti d'archivio, ma sia quelle ponentine che quelle
veneziane lo inalberavano in così rare occasioni che nelle loro scarse immagini pittoriche giunte
sino a noi tal albero non compare mai; leggiamo che lo innalzarono nelle galere di Carlo V in
preparazione del già ricordato scontro che queste ebbero con quelle francesi alle isole Hyères
nei primi giorni di maggio del 1538 (… y nos partimos al remo y con los trinquetes puestos… In
Colección de documentos inéditos para la historia de España etc. P. 393. Tomo II. Cit.) Si
usava infatti solo quando si riteneva di aver bisogno di una maggior agilità e velocità di
navigazione, specie quindi in caso di guerra di corso, o di prendere più vento possibile quando
questo fosse molto debole; lo usavano invece molto di più i turchi e infatti, quando una galera
corsara cristiana voleva in Levante farsi credere da lontano turca, magari per sfuggire alla
vigilanza del nemico, usava la velatura alla turchesca, ossia navigava anche con il trinchetto, la
cui vela infatti non a caso era detta dai ponentini il turco. Il trinchetto delle galere di ponente era
lungo quasi cinque passi, mentre quello delle veneziane era alto solo circa tre passi; la vela
detta trinchetto (fr. trinquette; ol. lul) era larga 24 ferze, mentre il trinchetto di veneziani e turchi
non era più largo di 13 ferze, perciocché si usava solo in due casi e cioè per aiutare la voga,
quando questa era accompagnata da una leggera brezza, e nelle disperate fortune, vale a dire
nelle più furibonde tempeste, quando cioè bisognava andare quasi senza vele, ma d'altra parte
non si voleva esser completamente in balia delle onde. Secondo il da Canal, il trinchetto di
veneziani e turchi, data la sua strettezza, non serviva però nemmeno nelle due predette
305

circostanze, perché prendeva tanto poco vento da non risultare di nessun aiuto ai remiganti e,
durante le tempeste, nell'orzare e poggiare aumentava piuttosto la difficoltà di reggere la galera,
la quale, non essendone spinta avanti con sufficiente velocità, ne risultava quindi più
combattuta e offesa dal mare; dunque migliore era la concezione del trinchetto che avevano i
ponentini, sia perché l'albero più alto permetteva di prendere più vento, sia perché il turco, più
largo, come abbiamo detto, e posto a metà dell'albero principale invece che a quello di
trinchetto aiutava, quello sì, mirabilmente nei più pericolosi fortunali, portando così avanti
sicuramente la galera senza molto travaglio.
Il da Canal concludeva quindi nel suo dialogo Della milizia marittima che la velatura delle galere
ponentine era perfettissima ed egli tale l'avrebbe voluta in una sua galera ideale, ma il suo ideale
interlocutore, il capitano generale Vincenzo Cappello, gli faceva osservare che alle galere
ponentine, più alte di puntale, insomma più corpose delle veneziane, si conveniva pertanto portare
maggior velatura; tali più grandi vele era però adatta alle galere concepite dal preclaro architetto
veneziano Fausto (le quali sono di giusta e perfetta misura e possono sicuramente portare ogni
sorte di vele) (Cit. P. 84.)
Quando tratta delle partizioni interne dello scafo il da Canal diventa poco chiaro e si limita ad
affermare anche qui che il sistema ponentino era migliore, avendo meno partitori, ossia meno
divisioni, di quello veneziano; egli scriveva cioè che le galere di ponente avevano, escludendo dal
discorso quelli estremi di poppa e di prua, solo altri due camerini o ghiave o ghiavi (vn. gaete
(‘gavette’), dal lt. cavus e da cui più tardi gavoni), di cui uno era il luogo in cui albergava lo scrivano
di bordo e vi si teneva il pane, la polvere e le palle d'artiglieria, le saette e tutte le altre munizioni
della galera, quindi all’incirca il locale che poi chiameremo pagliolo, ma questo tenere pane e
polveri nello stesso locale non risulterà più, almeno per quanto riguarda le galere di ponente, nella
seconda metà del secolo, mentre, come sembra di capire dalla relazione di Lepanto del Contarini,
forse sarà ancora usato nelle veneziane; l'altro camerino serviva da cantina, quindi quello che
diremo compagna, e vi si conservavano gli strumenti della cucina e vi abitavano il cuciniero (lt.
coquinator; gr. ἐσχᾰρεύς, παρεσϰαρίτης)) e il bottigliero (vn. canevaro; fr. barillard); probabilmente
il secondo era colui che sarà poi chiamato scalco, ossia mozzo della compagna, del quale diremo.
Tutto il resto della galera verso prua era libero e spazioso a guisa d’una sala comune a tutti, dove
si potevano conservare, oltre al materiale velico e alle gomene, grandi quantità di vettovaglie o
tenervi gran numero di soldati con una certa comodità e inoltre gl'infermi e i feriti. Insomma; la
ripartizione del carico di cose e persone risulterebbe da questa descrizione diversa da quella che
abbiamo già vista in dettaglio a proposito delle galere ponentine a scaloccio della fine dello stesso
secolo.
306

La fune grossa due dita e detta mezzanino (o anche borosa a Venezia), la quale correva, come già
sappiamo, tesa su tutta la corsia per reggervi infatti nel mezzo la grande tenda, era, sulle galee
veneziane e turche, retta a sua volta da puntali larghi quattro dita e lunghi 13 o poco più, i quali,
puntati sulla corsia e per tutta la lunghezza d’essa, avevano all'estremità superiore un’immorsatura
puntata contro il mezzanino e in tal modo lo puntellavano; appese al mezzanino medesimo c'erano
poi delle funi più sottili a tre braccia di distanza l'una dall'altra, le quali, tesate trasversalmente,
andavano legate intorno alla pertichetta superiore di sostegno delle due pavesate laterali. Questa
era la struttura su cui si adagiava, per così dire, la tenda; ma le predette funi laterali (vn. rigami)
costituivano un insieme abbastanza molle, non permettendo così di tener la tenda sufficientemente
tesata, e quindi questa faceva spesso e in più luoghi sacco, come allora si diceva; inoltre i puntali,
posti com'erano nel mezzo della corsia, impedivano molto il percorrerla agevolmente e infine,
poiché erano molto mal fissati, bastava un piccolo alito di vento perché una buona metà d’essi
cadesse, andando così a volte a colpire e ferire i sottostanti galeotti seduti sui loro banchi.
Nel sistema in uso nelle galere di ponente mancavano i puntali di corsia e si usavano invece, oltre
ai rigami, dei puntali assai più leggeri e lunghi, i quali, provvisti d'immorsatura ad ambedue le
estremità, andavano dal mezzanino alla pertichetta inferiore della pavesata (e talvolta invece sino
alla posticcia), dove anche s’immorsavano. Sul mezzanino poi ogni puntale s’immorsava contro
un’altro proveniente dalla pavesata del lato opposto della galera e, tra un puntale e l'altro, c'erano i
rigami a ulteriore supporto della tenda. Questa struttura sosteneva la tenda più alta e
assolutamente molto più tesa di quella veneziana e rendeva le galere di ponente più spaziose e
ordinate in coperta, facendole inoltre esser dall'esterno incomparabilmente più belle e anche
sembrar più grandi e larghe di quelle levantine. Questo modo ponentino era detto portar la tenda
puntellata in cavra e si trasformerà poi al tempo delle galere a scaloccio, come già sappiamo, in un
puntellamento con vere e proprie capre di sostegno.
Per ciò che concerne i tendali della poppa, le differenze, in verità non di molta importanza rispetto
alla comodità e al vantaggio, erano però tante, a seconda del parere, del gusto personale e del
senso dell'apparenza dei singoli sovraccòmiti e quindi il da Canal non ritiene opportuno trattarne.
Diversa era la disposizione del fogone e del barcariggio nelle galere di Venezia rispetto a quella in
uso nelle ponentine e anche in molte delle turche, disposizione che, per quanto riguarda le
veneziane, il da Canal non spiega ritenendola evidentemente notoria, mentre elogia quella delle
seconde, dove, come abbiamo già detto, il fogone è su lato sinistro e il barcariggio su quello
destro, ma in maniera che i due luoghi potevano essere interscambiabili e lo schifo poteva così
esser varato e ritirato a bordo sia dalla destra sia dalla sinistra a seconda dell'esigenze del
momento; evidentemente nelle galere della Serenissima questa intercambiabilità non era
307

predisposta e quindi possibile. Il da Canal esprime le sue idee anche sull'uso delle bandiere ai suoi
tempi, diverso da quanto abbiamo già visto per le galere di fine secolo; egli ne voleva molte altre
oltre alle necessarie (perché le bandiere porgono alle galere non so che di magnificenza e
terribilità) e quindi voleva bandiere alla gabbia, ai due capi dell'antenna e in genere per ogni dove
sulla galera, diverse e di varia forma a seconda del luogo; ma, quando si combatteva, la bandiera
doveva esser una e posta sul capomartino, come usavano le galee veneziane e turche. In tal
modo si doveva a bordo difendere una sola bandiera, la quale inoltre - stando per così dire al
centro della galera - prima d'esser conquistata dal nemico, questi doveva, se assaltava da prua, far
molta strada combattendo prima di raggiungerla e, se da dietro, doveva prima conquistar tutta la
poppa; ma il da Canal non spiega perché non prevedeva assalti laterali. Quando poi la bandiera
venisse abbattuta da un colpo d'artiglieria, cadeva nella galera e non in mare, come facevano
invece le due portate in battaglia dai ponentini e tutti sanno come perdere la bandiera significasse
per lo più perdere la stessa galera, la quale non si trovava così più ad avere quel simbolo
aggregatore di tutte le sue forze. I ponentini, poiché, oltre al capitano di galera, avevano
conservato l’uso medievale di tenere in servizio a bordo anche un ufficiale comandante dei soldati
e dell’armamento da guerra (tlt. armiregius), cioè quello che nelle città si chiamava capitano a
guerra); portavano infatti due bandiere, una sulla pertichetta della spalla destra e l'altra accanto
alle sbarre di prua, luoghi in cui il nemico poteva facilmente o conquistarle o farle precipitare in
mare e in ogni caso bisognava che ne difendessero due invece d'una sola.
308

Capitolo V.

LA GENTE DI REMO.

Abbiamo ritenuto, dovendosi ora parlare della gente di galera del periodo che principalmente
trattiamo e cioè della fine del Cinquecento, d’incominciare dai remiganti o remieri perché senza
dubbio la realtà umana più tragica e interessante presente su quei tristi vascelli; il nome era in
origine chiurma o chiusma (ltm. zurma) ed ecco da dove verrà poi l’espressione schiuma dei mari,
con riferimento ai pirati), pronunciato però alla spagnola; la sua etimologia è incerta. Cominceremo
dalle ciurme delle galere di ponente, ossia del Mar Tirreno, le quali si componevano di tre ordini di
persone, gli sforzati (‘forzati’), gli schiavi, cioè i mussulmani catturati e le buonevoglie, vale a dire i
volontari, e ogni ordine si distingueva dagli altri per una rasatura particolare, come vedremo.
Gli sforzati (fr. forsaires) erano la gran maggioranza dei remieri ponentini e si trattava di quei
popolari o civili – i nobili erano infatti esenti dalla poena remigationis - che erano stati condannati a
vogare in galera a tempo limitato o a vita, a seconda della gravità dei crimini commessi, e non si
lasciavano mai uscire dalla galera né dalla catena che li teneva avvinti in nessuna occasione che
non fosse una delle poche che poi diremo e ciò finché non fosse finito il tempo della loro
condanna; il loro compito era, molto più che vogare, eseguire tutti i lavori pesanti necessari alla
galera e inoltre cucire le vele, le tende e i vestiti di tutta la ciurma; si distinguevano dagli altri
galeotti per portare il capo e il viso completamente rasi. Avevano per vitto, scriveva il Pantera, 30
once il giorno di biscotto, cioè di galletta, ma 26 secondo Mateo Alemán nel suo Guzmán
(Guzmán de Alfarache, Madrid, 1926) e 36 ai remiganti francesi nel 1630 secondo il de la
Gravière, il quale cita le memorie del viaggiatore parigino Jean-Jacques Bouchard, il quale
usufruiva d’un passaggio di galera per andare da Parigi a Roma appunto in quell'anno; inoltre
ricevevano acqua e minestra, ma quest'ultima, servita nella gavetta (‘scodella, tafferìa’; vn.
vernicale; fr. e ts. gamelle; ol. bak, schotel), vale a dire in una scodella di legno, fonda e senza
bordo, si dava solo quando si stava in porto o perlomeno all’ancora e, per precisare, tutti i giorni
durante la stagione buona, in cui si poteva uscire a navigare, e un giorno sì e uno no quando in
porto ci si trovava invece per sciovernare (‘svernare’); ciò perché quando non si usciva in mare si
aveva ovviamente bisogno d’un minor numero di calorie e si era notato che, nonostante il gran
freddo che d'inverno si poteva patire sotto la tenda di galera, se mangiavano minestra tutti i giorni, i
galeotti in quella stagione, a causa della forzata inattività, ingrassavano. Perché poi la minestra si
desse solo quando si stava in porto e mai in navigazione, contraddicendo quindi apparentemente
quanto abbiamo appena detto, ce lo spiega ancora il Pantera:
309

La minestra è di tre oncie di fava, condita con un quarto d'oncia d'oglio per ciascuna testa, e non si
da quando si naviga, perché non aggravi la ciurma in tempo che deve essere agilissima e più atta
alla fatica e perché, mentre si camina, non si può far bene la cucina in galea. (L’armata navale etc.
Cit.)

Insomma anche una semplice scodella di fave condite con l’olio si pensava facesse troppo
appesantire i poveri remiganti, i quali si riteneva dovessero essere mantenuti fisicamente il più
asciutti possibile; probabilmente si temeva anche che avessero in navigazione deiezioni troppo
frequenti e fetide. In effetti quando la galera in navigazione faceva sosta in qualche cala o spiaggia
per la spalmatura, ossia per il carenamento, o per altro, si sarebbe dovuto approfittarne per dare
minestra alla ciurma, ma capitava non infrequentemente che il padrone, volendo risparmiarla,
allegasse mancanza d’acqua per prepararla. Le galere che andavano in corso, poiché dovevano
toccar terra il meno possibile come poi spiegheremo, facevano provvista soprattutto di biscotto,
olio e aceto, ma portavano ben poco d’altri alimenti, quali per esempio cacio e legumi; questi ultimi
si potevano infatti cucinare solo in qualche sporadica occasione, cioè nel caso ci si dovesse
fermare necessariamente in qualche isola deserta.
Ai tempi aragonesi del regno di Napoli ci si preoccupava particolarmente delle forniture di biscotto
alle galere della potente regia armata di mare, allora sotto il comando del capitano generale
Galcerán de Requesens conte di Trivento, ed, essendo diverse di queste poste a guardia anche di
marine di stati italiani alleati, si cercava di costituire depositi di derrate alimentari appunto anche in
città costiere estere. Per esempio, con due dispacci reali del 16 marzo 1467 si richiamava a Napoli
il grosso di detta armata napoletana, il quale allora si trovava in missione nell’Alto Tirreno,
eccettuate due galere che dovevano restare a sorvegliare le marine liguri e cioè quella armata dal
nobile Bertoldo Carrafa e quella patroneata, ossia comandata, dal catalano Simonot de Belprat, e
si informava il predetto capitano generale che a Livorno avrebbe trovato un deposito di biscotto di
rifornimento inviato da Napoli ed affidato ad un depositario in quel porto all’uopo appena nominato:

… et ad sua cautela farrite che, del biscocto assignarà ad qualsevole de le nostre galee,
recuperarà apodixa (‘ricevuta’) del padrone che menarà quella galea a la quale assignarà lo
biscocto (Francesco Trinchera, Codice aragonese o sia lettere regie, ordinamenti ecc. Vol. I, p. 83.
Napoli 1866).

La minestra di fave, anche se diffusissima, non era però considerata quella nutritivamente più
appropriata; ecco infatti cosa ne aveva scritto ai suoi tempi il da Canal:

... vorrei che ai miei galeotti fossero dati ogni giorno due sorti di minestra, cioè riso e cece,
variandone or l'una or l'altra e lasciandone fuora la fava come cibo che gonfia e fà gli uomini di
soverchio pesanti e grassi. (Cit. P. 165.)
310

E con ciò questo gran capitano di mare chiedeva di prendere esempio dalle galere ponentine che
usavano invece allora principalmente la minestra di riso:

... Dico dunque che si osservano diversi modi tra tutte le armate percioché le galee di ponente
usano di dare rare volte ai loro sforzati minestra e quelle pochissime che loro ne danno elle sono
ordinariamente di riso; quanto al pane (‘biscotto’) lo compartono loro largamente in modo che non
ne hanno disagio. É vero che in capo di otto o dieci giorni, quando eglino affaticati non sono, loro
concedono una minestra di herbette la quale ha virtù di fare purgare i loro corpi, percioché nei
tempi che non si affaticano nel remeggiare, non potendo fare essercizio alcuno, essendo loro tolta
la facoltà di partirsi dai loro banchi, avviene che essi non possono far la digestione che si
conviene, onde nasce loro doglie molte volte e di ventre e di capo grandissime.
Sogliono anco, quando essi hanno sostenuta qualche grave fatica, dar loro della carne e alcuna
volta eziandio del vino, ma questo mal volentieri e quasi non mai per rispetto che essi, non
essendo avvezzi al vino, s’imbriacano sconciamente. (ib. P. 164.)

Le buonevoglie delle galere ponentine, le quali non avevano questo problema della stitichezza in
quanto, come sappiamo, quando non vogavano, era loro permesso di girarsene sferrati per la
galera proprio come lo era a quelle di Venezia, vivevano di quello che compravano alla taverna
della loro galera con i danari della loro paga, eccetto il pane biscotto perché lo ricevevano di
munizione come gli altri galeotti. I remieri delle galere turche e more erano i peggio trattati; di riso
era la zuppa che essi ricevevano, in quanto tale alimento era quello più solito e tradizionale
nell'impero ottomano, ma, come anche diremo altrove, tale minestra era loro data molto raramente
e dovevano in genere accontentarsi del solo biscotto; questo era trattato al momento di mangiarlo
con brodaglie ammorbidenti dagli stessi remieri, ma nell’antichità greca invece preventivamente da
mozzi chiamati per l’appunto ‘ammorbiditori’ (μαλατήρες), ed era sui vascelli barbareschi spesso
non di frumento, bensì d’orzo, ma anche e per lo più integrato da olive nere, aceto e fichi secchi,
mentre privatamente si potevano portare a bordo anche riso e cuscus. Nell’antichità il biscotto ra
stato fatto generalmente di farro, tant’è vero che è da questo nome che appunto deriva quello di
‘farina’; il grano era stato in quei tempi roba da ricchi e da dissoluti, come sembra capirsi da una
citazione di Marco Terenzio Varrone (116 a.C.– 27 a:C) che fa il Nonio, attribuendo al termine
nefarii (‘coloro che non mangiano il farro’) il significato addirittura di ‘scellerati’ (cit. P. 79).
Che il biscotto sia rimasto comunque per molti secoli universalmente l’alimento nautico primario,
sia perché sufficientemente calorico sia perché di facile e lunga conservazione, bastando far
attenzione a preservarlo da umidità e da parassiti, lo attesta anche il vecchio proverbio genovese
No bezeugna imbarcâse senza bescheutto (M. Staglieno, Proverbi genovesi etc. Genova, 1869)
corrispondente all’it. Senza biscotto non far fagotto, per dire che non bisogna darsi ad alcuna
impresa senza il necessario per condurla a termine.
311

... Gli sforzati delle galee di Levante rare volte hanno dalli loro capi minestra e l'ordinario loro è
solo il pane, il quale è anchor loro dato a misura e parcamente. (ib.)

In verità i remieri delle galere turche, schiavi cristiani a parte, non erano in maggior parte dei veri e
propri sforzati, come il da Canal qui impropriamente li definisce, bensì buonevoglie con regolare
soldo, reclutate però in gran parte con metodi forzosi; per quanto riguarda l'alimentazione della
gente di galera turca, leggiamo però anche il bailo Marino Cavalli, il quale nel 1560 la spiegava in
maniera più esauriente:

... Governan gli uomini con gran diligenza e non li lasciano mangiar frutti né salumi, perché
bisogneria bere e, bevendo acqua, si ammalariano presto. Il biscotto, l'aceto e l'olio, cipolle, agli e
qualche fiata pesce è il loro passatempo (‘la loro tavola’); e, per la tavola de' scapoli, mele, riso,
butirro, olio, aceto e lente con poco altro più; ma gli agli e le cipolle sono il loro vero companatico.
Così si mantengono più (esenti) dalle malattie, se bene vanno in diversissime regioni, e son più
gagliardi; né mettono scala in terra. Nelle quali due cose vorrei che li imitassimo volentieri e in non
mettere tanto studio in delicate vivande e banchetti, come si fà, né in tante pompe di vestimenti e
d'argenti, che certo ho veduto farsi tali cose in galee nostre che a pasti di nozze saria troppo. (E.
Albéri. Cit. S. III, v. I, p. 294.)

Il suddetto termine scap(p)oli (dal lt. copula, ‘laccio, vincolo, fune, guinzaglio, ceppo, catena’;
quindi con il significato di ex-copulis, ‘fuori dai vincoli’) era molto usato a indicare la gente di galera
libera di muoversi, quindi la marinaresca, i bassi ufficiali e i soldati, per distinguerla da quella
incatenata o comunque anche solo vincolata alla voga, non includendosi quindi in essa i
buonavoglia, anche se quelli delle galee veneziane, a differenza dei ponentini, vogavano liberi da
catene; lo stesso senso di scapoli aveva il greco ἐπιβάται, ma il Suida lo attribuisce sia ai marinai
sia ai soldati della guarnigione di bordo (cit. Tomo I. P. 802). In realtà, il termine ci lascia capire
che in origine i marinari di galera erano correntemente scelti tra quei remieri che, quando non
impegnati nella voga, più avevano dimostrato impegno nei diversi lavori di bordo, specie in quelli
della manovra dell’antenna e delle vele, ed ecco perché ex-copulis, cioè ‘svincolati dai cappi, dalle
catene”.
Tornando ora però all’alimentazione dei galeotti, l'ironia della sorte volle che poi a ponente, nella
seconda metà di quel secolo, si abbandonasse il riso e si adottasse la pietanza di fave come
minestra unica; né Venezia la dismise, anzi, nonostante la suddetta autorevole opinione contraria
espressa dal da Canal, nel biennio 1556-1557 s’accaparrò ingenti importazioni di fave dall’Egitto e
non lo fece certo perché tanta ne fosse la richiesta dei sui mercati! Certo la fava era un cibo allora
molto economico e quindi più conveniente, tant'è vero che a Napoli, per significare che si andava a
lavorare a giornata senza remunerazione pecuniaria ma con il solo compenso di pasti caldi, uso
312

purtroppo ancora comunissimo nell’Italia meridionale al tempo della seconda guerra mondiale, si
diceva con antico motto che lo si faceva Pe' na magnata 'e fave; inoltre, ad attestare lo stretto
legame che c'era tra la navigazione e questo legume, citeremo un altro antico detto, anche questo
napoletano, che si usava quando si voleva dire che tutto procedeva regolarmente e cioè La varca
cammina e la fava se coce (G. Marulli – V. Livigni, Guida pratica del dialetto napolitano ecc.
Napoli, 1877). Si dava comunque, in alternativa a quella di fave, anche la zuppa di biscotto intero
o, essendo esaurito a bordo questo, di mazzamurro (dal gr. μᾶζα, ‘focaccia’, e μόρια, ‘frammenti,
pezzetti’) [vn. frixopo, poi frisop(p)o; fr. mache(-)moure, grignon; ol. kruimelingen], ossia di piccoli
rottami e briciole di biscotto, come si legge nel Guzmán di Mateo Alemán e nello stesso da Canal
laddove descrive la dieta dei remieri della Serenissima:

... Ma noi costumiamo dar alle nostre ciurme ogni mattina una sorte di minestra che per lo più è
fava e la sera un vernicale (‘gavetta’) di biscotto cotto con l'olio ed onze 17 di pane per ciascuno.
Diamo loro eziandio moltissime volte - quando essi hanno lunga pezza e con molta forza vogato
od in qualunque altro modo si sono affaticati - del vino; ma questo è dono della liberalità del
capitano e sopra còmito delle galee. Né altro ai nostri galeotti per noi si suol dare. (Cit. P. 165.)

Il Mutinelli (Fabio Mutinelli, Lessico veneto etc. Venezia, 1852) ci spiega che a Venezia si soleva
chiamare anche frisopin chi serviva in galea, perché gente abituata a mangiare anche le zuppe di
frisoppo, e frisopine le loro vedove o orfane alle quali si riconosceva il diritto di riceverne a titolo di
vitalizio (Cit. P. 171). Nel Seicento un’ordinanza del re di Francia destinata ai suoi vascelli stabilirà
che sarebbero stati da considerarsi mazzamurro – e quindi non utilizzabili per le razioni ordinarie -
solo i frammenti di galletta più piccoli d’una nocciola e ciò evidentemente a evitare ulteriori
contestazioni in materia. C’è da considerare che, poiché il biscotto o galletta si cuoceva senza
alcuna aggiunta di grassi, lo sbriciolamento era sempre notevole e il mazzamurro s’accumulava in
grandi quantità; per tanto si tendeva a lasciare il biscotto preparato per l’armata di mare in
possesso dei fornai, perché questi avevano l’obbligo di vendere solo quello intero, cioè senza
frisoppo, a differenza di quanto avrebbero fatto poi i grossisti, nelle cui forniture faceva di
consuetudine peso anche il frisoppo accumulatosi.
Per quanto riguarda le suddette 17 once, dobbiamo chiarire che si tratta qui d’once veneziane e
non franco-napoletane e quindi, poiché l'oncia di Venezia equivaleva a circa gr. 40, ogni remigante
riceveva la sera circa gr. 680 di pane; in effetti questo quantitativo conferma quello che, secondo
Marin Sanudo il Vecchio, i veneziani davano ai galeotti ai suoi tempi, cioè all’inizio del Trecento,
vale a dire una libbra e mezza appunto di pane biscotto; lo stesso Sanudo, il quale servì, come lui
stesso ci dice, anche su armate di mare veneziane, chiarisce che però i quantitativi regolari
suddetti potevano anche essere diminuiti dai comandi di bordo, per esempio a 15 o anche 12
313

once, quando ci fosse di carenza di cibo; ma i galeotti non se ne dovevano lamentare, perché in
nessun caso perdevano il loro credito alimentare e quindi, appena possibile, sarebbero stati
risarciti in denaro o in cibo stesso:

... E fui anche in un armata n cui non si davano se non nove once a ciascuno dei predetti, ma
quello è il limite massimo; però, venendone meno la necessità, il luogo e il tempo, ci sia o in
denaro in altre cose dai patroni la restituzione ai suddetti uomini della detta gente, quantunque i
detti uomini dal loro stipendio comprino a luogo e tempo vino e vitto come ad essi sembri e piaccia,
(cioè) a loro libera discrezione, mentre che accedono in un luogo in cui possano ottenere le cose
suddette (Et etiam ego fui in armata in qua non dabantur nisi novem unciæ cuilibet prædictorum,
sed illud est ultimum extremorum, sed cessante necessitate, loco & tempore, sit vel de denariis vel
de aliis rebus a dominis restitutio supradictis hominibus dictæ gentis: quanquam dicti homines ex
proprio stipendio emant loco et tempore vinum & vičtum ut eis videtur & placet, ad suum libitum
voluntatis, dum accedunt ad locum in quo possunt recipere supradicta (Cit. P. 64).

Non potevano ovviamente i galeotti scendere a terra e comprare nelle botteghe del luogo ma
potevano farlo alla taverna di bordo, quando questa fosse stata rifornita dei cibi usali. I predetti
quantitativi di biscotto di regola nel Medioevo risultano ancora proporzionati persino a quanto
parecchi secoli dopo l’Aubin ci dirà distribuito al suo tempo, a norma della grande ordinanza di
marina del 1689, a marinai e soldati dei vascelli da guerra francesi, i quali riceveranno infatti allora
sì 18 once di biscotto per uno al giorno, ma si tratterà d’once non solo transalpine, ma anche del
già ricordato poids de marc, quindi in sostanza d’un quantitativo di biscotto parecchio inferiore a
quello delle dette 17 once veneziane; questo perché la fatica fisica pur certamente rilevante dei
marinai non era da paragonarsi a quella dei condannati alla galera e quindi la razione (fr. lot) di
questi doveva essere per forza di cose molto più generosa; vero è che i francesi risulteranno
ricevere pure ¾ di pinta - misura di Parigi - di vino allungato con altrettanto d’acqua, rinfresco
giornaliero che ai disgraziati remieri di galera si dava solo saltuariamente (un secolo dopo la
razione francese giornaliera di vino sarà detta canade chez les portugais e corrisponderà a un
trecentesimo di pipa). Inoltre, per amor di completezza, aggiungeremo che anche il companatico
settimanale d’ordinanza dei predetti marinai e soldati sarà invidiabile, trattandosi infatti di 4 portate
di carne, 3 di pesce e 7 di legumi, ed eccone anche il dettaglio, dovendosi però tener presente che
i seguenti quantitativi di cibo sono non a uomo, bensì a tavolata da sette uomini, suddivisione che
appunto si userà a quel tempo a bordo dei vascelli francesi da guerra:

Domenica, martedì e giovedì: 18 once di lardo cotto.


Lunedì: 3 libre e mezza di manzo sans piés ni têtes.
Mercoledì, venerdì e sabato: 28 once di baccalà crudo.
Ogni giorno a cena: 28 once di piselli o di semola o di fave o di fagioli o d’altri legumi crudi
oppure 14 once di riso crudo.
314

Condimenti: per la suddetta carne una pinta del suo brodo, brodo che servirà per farne poi
minestre di legumi; per il baccalà un ottavo di pinta d’olio d’oliva e un quarto di pinta d’aceto,
sempre ogni sette uomini, e per legumi, semola e riso del sale e una chopine (‘mezza pinta’) d’olio
d’oliva versata direttamente nella grande, unica caldaia da mille porzioni del predetto brodo che si
distribuiva con i legumi (N. Aubin. Cit..)

Mentre l’Aubin nulla qui aggiunge a proposito del déjeuner, il quale certamente sulle navi da guerra
francesi non mancava, precisa però che tra un pasto e l’altro era servito a quella parte
dell’equipaggio impegnato nel quarto di guardia la già ricordata bevanda d’acqua e aceto, che gli
ufficiali avevano una razione e mezza e che la razione era a tutti raddoppiata in occasione di
festeggiamenti. Nel 1673 si era anche provato in Francia a far fare alle galere una campagna
senza fogoni e ciò per evitare il grande ingombro della legna, del carbone e dell’acqua che nel loro
uso si consumavano, ma questo esperimento non deve aver avuto alcun successo perché non
risulta ripetuto negli anni successivi.
Se poi, invece di andare avanti, volessimo andare indietro nel tempo, potremmo innanzitutto
menzionare l’ordine che nel 1269 Carlo I d’Angiò inviò al governatore delle Puglie, nel quale, tra
l’altro, si istruiva di far affluire a Barletta milleduecento salme di frumento per l’approntamento della
panatica, cioè del biscotto necessario al consumo dell’armata che si stava allora appunto in Puglia
formando per l’impresa di Sicilia (cit.) Dovremmo inoltre ricordare che il codice di diritto mercantile
marittimo che s’osservava nei mari dell’Europa settentrionale durante il Basso Medievo e che trovò
espressione in vari tempi e in vari luoghi (Oléron in Francia, Damme in Fiandra, Wisby in
Götaland) ci fa sapere, a proposito dell’alimentazione marittima, una curiosità e cioè che in quei
secoli i marinai francesi della Bretagna avevano diritto a un solo pasto al giorno di munizione,
essendo il costo degli altri da detrarsi dal loro soldo, e a bere vino, mentre quelli della Normandia a
due pasti al giorno perché bevevano solo acqua, e questo è in effetti uno di quei rari segni storici
che, se fossero i soli, deporrebbero per un origine non franca dei normanni; ancora nel Basso
Medioevo, ma stavolta nel Mediterraneo, il già citato Consolato del Mare così disponeva all’art. C:

… Ancora, è tenuto il comandante della nave o del legno, che sia (però) coperto, a dar da
mangiare a tutti i marinai tre giorni alla settimana carne, cioè la domenica, il martedì ed il giovedì, e
negli altri giorni della settimana zuppa (‘cuynat, cucinato’), e ogni sera di ciascun giorno
companatico e tre volte ogni mattina deve far dispensare del vino e altrettanto deve fare ogni sera;
ed il companatico deve esser come segue, cioè formaggio o cipolle o sardine od altro pesce.
Ancora, il comandante è tenuto a dispensare vino dal costo contenuto nei tre bisanti e mezzo; e se
trova zibibbo (‘uva passa’) od anche fichi, ne deve far vino; e, se non trova zibibbo né fichi oppure
gli costano più di 30 migliaresi la migliera, il comandante della nave o del legno non è tenuto a
dispensare vino. Inoltre, è tenuto il comandante della nave o del legnosi raddoppiare la razione (di
vino) ai detti marinai alle feste solenni. Ancora, deve haver servigiali che preparino da mangiare ai
marinai. (Pardessus. Cit.).
315

Anche se chiaramente nomi derivati dal numero mille, non siamo purtroppo in grado di spiegare
che moneta fossero i ‘migliaresi’ e che unità di capacità la ‘migliera’, anche perché sappiamo che a
quei tempi la marineria catalana usava generalmente la livra catalana, suddivisa in sous (‘soldi’),
nei mari di ponente e il besant bizantino in quelli di levante, valendo il besant tre soldi e quattro
denari barcellonesi. A proposito degli ordinamenti catalani, la già citata ordinanza per l’armata
navale del 1354 comminava sanzioni penali a quei galeotti che frodassero sulle paghe o sui
senyals de taula (oggi diremmo ‘buoni pasto’), facendosene assegnare di non dovuti approfittando
della molteplicità delle mesas de alistamiento (‘banchi di arruolamento’), varie essendo le basi
navali della Corona aragonese, la cui armata era infatti suddivisa tra i porti di Barcellona, Valencia
e Maiorca (Cit. Pp. 90-91).
Sempre in materia di cibo, saltando però ora al 1530, leggiamo la traduzione dell’art. IX del
regolamento emesso quell’anno dalla Lega anseatica, trattandosi quindi di alimentazione di
marittimi oceanici

Item. Ogni padrone dovrà, secondo le antiche usanze, nutrire la gente del suo equipaggio a bordo
della nave e darle nei giorni grassi, come cibo bollito, del lardo e dei piselli od altri cibi e della
carne di bue; nei giorni magri, della semola, dei fagioli, dei piselli od altri cibi bolliti e due sorte di
pesce salato, come aringhe, merluzzi o merluzzo fresco. (Ib.)

Ma andando ancora più avanti, cioè tornando all’epoca che soprattutto ci occupa e cioè a quella
che segue immediatamente il Rinascimento, è interessante quanto scriveva il già più volte citato
Bonrizzo al suo senato in data 21 gennaio 1572:

… Accludo la relazione chiesta sulle cibarie nelle galee del Re Cattolico.


La carne salata è tutta di maiale, perché né a Napoli né in Sicilia s’usa salare il manzo (si sala per
altro in Spagna); se non che, quando sono nei porti, le galee consumano sempre carne fresca. I
salumi consistono in sardelle e tonnine salate, che qui abbondano, ed in diverse specie di
formaggi. Per minestra si danno per lo più fave, ceci o riso.
Ai servi di pena (‘forzati’) e agli schiavi toccano 30 oncie di biscotto il giorno e tre volte la settimana
minestra (se di fave, 4 oncie; se di ceci, 3; se di riso, 2) e carne (11 oncie, se fresca; la metà, se
salata). Gli ammalati hanno pollo o quel che ordina il medico. Durante i viaggi o i periodi di grande
fatica si aggiunge mezza pinta di vino il giorno e si elargisce minestra anche in qualche altro giorno
della settimana.
I remieri volontari, i marinari ed i fanti imbarcati ricevono ogni giorno una pinta di vino, due libre di
biscotto o di pane, minestra e una libra di carne fresca oppure mezza di salata o di formaggio o di
tonnina. Agli officiali toccano un rotolo di pane al giorno e, pel resto, porzione doppia dei marinari.
((N. Nicolini. Cit.)

In Francia la carne di bue si salava invece comunemente e, perlomeno ancora all’inizio del
Seicento, era considerata in quel paese gustosa solo se condita con moûtarde, ma riteniamo che
questo deperibile e non economico condimento non fosse di corrente disponibilità nelle cambuse e
316

che quindi anche a bordo dei vascelli francesi come su quelli delle altre nazioni la carne salata si
mangiasse insaporita dal suo proprio brodo.
Nella marineria olandese, sia commerciale che bellica, della seconda metà del Seicento troveremo
invece come pietanza ordinaria la minestra di frumento decorticato (ol. grutte), la quale nella
maggior parte dei vascelli era servita all’equipaggio come antipasto anche 21 volte alla settimana,
in sostanza od ognuno dei tre pasti giornalieri nessuno escluso, perché le si attribuiva un benefico
effetto rinfrescante. Il frumento andava, come il biscotto, preso ben secco e inoltre ben chiuso nelle
botti; una volta però che tali botti erano state aperte la prima volta, a evitare che si guastasse
bisognava sovente rimuoverlo e fargli prendere aria, perché in tal modo evaporasse la pericolosa
umidità che inevitabilmente a bordo vi si andava a depositare.
In quattro giorni fissi dell'anno la ciurma aveva una razione di carne e di vino e cioè il giorno di
Natale, quello di Pasqua, alla Pentecoste e a Carnevale; la birra e il sidro erano bevande d’uso
comune nella navigazione oceanica, ma non in quella mediterranea. La buona conservazione degli
alimenti, affinché cioè andassero a male il più tardi possibile, era una delle principali
preoccupazioni d’un capitano di galera; per quanto riguarda l’acqua, si credeva che quella portata
dai ruscelli che discendevano da Settentrione si conservasse buona più a lungo delle altre e in
secondo luogo era stimata quella proveniente da Ponente.
I vestiti della ciurma erano anch'essi di munizione, ossia forniti uniformemente dal sovrano o dal
privato proprietario della galera, e a ogni vogatore si davano due camicie, due paia di calzoni di
tela, i quali, piùche calzoni, dovevano essere per comodità dei pantaloni; una camiciola, ossia una
giubba di panno lunga sino al ginocchio e per lo più di color rosso, sempre per la già ricordata
funzione di nascondere il sangue a cui questo colore ben assolveva, ma a volte d'altro colore
uniforme scelto per quella singola galera; un berrettino di lana rossa e un gabbano o cappotto
d'albagio con cappuccio e lungo sino ai piedi; d'inverno si aggiungeva un paio di calzettoni pure
d'albagio, panno di lana scuro grossolano riservato infatti al vestiario dei poveri e che in francese si
diceva bureau:

Aussi bien sont amourettes sous bureau que sous brunettes.

Questo vecchio detto cinquecentesco francese significava che l’amore colpisce egualmente sia i
poveri, vestiti di bureau, sia i ricchi, vestiti appunto allora, come anche gli spagnoli, generalmente
di brunette, cioè di panno di lana fine tendente al nero. Per quanto riguarda le camiciole rosse dei
remiganti forzati, si ricorda l’antico proverbio veneziano Pitosto velada rossa da ludro che velada
verde da disparà; cioè, ‘meglio esser ladri che pezzenti’.
317

Il Vecellio, nella sua famosa opera sulle fogge di vestiario civile e militare, lavoro dalle belle e
interessantissime illustrazioni, ma dalle didascalie non esenti da imprecisioni, così spiega
sommariamente la figura che mostra molto chiaramente l’abbigliamento degli schiavi e dei forzati
remiganti:

… Si radono le teste e le barbe tutte da’ mustacchi in fuora e mettono loro una grossa camicia e
una camiciola di griso con un tabarro del medesimo lungo sino a mezza gamba, il quale ha un
cappuccio di dietro a guisa di quelli de’ frati. In testa gli pongono un berrettino rosso e gli danno un
passo di corda da cingersi esso gabbano… (Cit. P. 136. Venzia, 1598.)

Bartolomé José Gallardo (Ensayo, Ensayo de una biblioteca española de libros raros y curiosos
etc. T. I, c.1368. Madrid, 1863) riportava, a proposito del vestiario dei remieri, i seguenti inediti
versi del sec. XVI da lui ritrovati:

Luego me mandaron dar


una almilla colorada,
aforrada con pesar,
dos camisas sin prensar,
de tela desventurada;
un bonete colorado,
un capote y dos calzones
cosidos con mil pasiones
de buen paño deseado;
zapato y calza, a montones.

Questo tipo di vestiario era generalizzato su tutte le galere sforzate, cioè con vogatori forzati,
d'ogni nazionalità esse fossero, specie però di ponente; ma, a quanto si legge nel Guzmán
dell'Alemán, poteva esserci qualche eccezione; infatti Guzmán, ora forzato di galera, riceve dal
patrone della galera, ossia da un ufficiale di bordo che poi vedremo, il raro privilegio non solo di
poter fare, come tavernaro, un piccolo commercio di viveri a bordo della sua galera, ma anche di
comprarsi un abito fuori ordinanza con il danaro così ricavato:

... convertii, con licenza del mio padrone, quel guadagno in un vestitino da forzato vecchio, calzone
e giubba di tela nera orlata, la quale, poiché si era in estate, era più fresco e a proposito. (Cit.)

In effetti i remieri (lt. remiges; gr. ἐρέται) subivano, tra gli altr'incomodi, anche lo stesso
inconveniente che sarà imposto ai soldati fino al XIX secolo, cioè il dover usare l'unica uniforme di
lana anche d'estate.
Gli schiavi avevano lo stesso vitto e lo stesso vestiario dei forzati, vino incluso, perché in mare e in
guerra, nonostante la loro legge teocratica, i mussulmani generalmente non vi rinunciavano; e, se
318

anche vi rinunciavano, lo davano però alle ciurme, specie se cristiane, delle loro galere, essendo il
vino l'unico e saltuario piacere concesso ai disgraziati galeotti. Gli schiavi si distinguevano però dai
forzati per portare una sola ciocca di capelli sulla sommità del capo e per il resto erano anch'essi
completamente rasi. A loro toccava, oltre alla voga quando necessaria, soprattutto l'aiutare le
maestranze nei lavori di bordo e lo scendere a terra a far acqua, brusca, legna (i corsari
barbareschi usavano dire: a far legna e carne, perché scendevano anche per far preda di cristiani
da rendere schiavi), inoltre a caricare il biscotto o per altre ricorrenti fatiche, quali per esempio
caricare le provviste e le merci a bordo d’altri vascelli che si trovavano in porto, tutte attività che
non si potevano invece affidare ai forzati, i quali in nessuna occasione dovevano essere liberati
dalla loro catena, per il semplice motivo che, trovandosi in terra cristiana, sarebbero facilmente
scappati, mentre i maomettani non avrebbero saputo né dove andare né come confondersi con la
popolazione cristiana. Di tali prestazioni a terra molto abusavano i capitani di galera a scopo di
lucro e questa era un’altra bruttura di quell'infelicissima vita; di ciò si legge nella relazione scritta
nel triennio 1578-1580 dal residente veneto a Napoli Alvise Lando, durante il viceregnato di Juan
de Zuñiga principe di Pietra Perzia (1579-1582):

... Stanno ordinariamente le galere di Napoli al molo senza palamento, senza soldati e spesso
senza la metà della ciurma, la quale vien noleggiata dai capitani a' mercanti, nobili e altri per
scaricar navi e per servizi domestici; di maniera che in un bisogno (come fu quello dell'anno
passato, che all'isola di Capri otto galeotte turche avendo preso due galere di Sicilia, si spese un
giorno per spedir dietro a quelle, non si trovando né remi né soldati) si può dubitare di sentir molto
poco servizio di una spesa così importante che fa il re in quelle galere, le quali sono con
pochissima esperienza e con le ciurme o di turchi schiavi o di condannati, gli uni che servono
dispettosamente e con pericolo, gli altri inesperti e poco atti al patire l’incommodo del mare (E.
Albéri. Cit. S. II, t. 5, p. 469).

A quest'ultimo proposito, tralasciando per ora invece l’accennato episodio avvenuto nel 1578 alle
due galere di Sicilia e di cui poi diremo, conviene leggere anche il Pantera:

... Gli schiavi sono quei turchi che si pigliano o si comprano e sono di tre sorti, cioè mori (‘nord-
africani’), turchi e negri. I mori sono i migliori e tra loro ottimi quelli che si pigliano sopra le fuste o
sopra i bregantini o galeotte o galee o sopra altri vascelli da corso, i quali, per haver fatto l'habito
ne i patimenti e nelle fatiche del mare e del remo, sono migliori de gli altri e sono perfetti vogatori;
ma sono per natura talmente superbi, bestiali, traditori e sediziosi che bisogna osservar bene i loro
andamenti, come di gente che alcune volte si è condotta sino ad ammazzare i patroni.
I turchi non sono buoni nél remo né alle fatiche come i mori, ma sono ben più mansueti e più docili,
tra i quali riescono meglio quelli che si pigliano in mare e nelle fuste e nelli altri vascelli da remo
che quelli che si pigliano in terra o ne i vascelli di vela quadra, che sono quasi tutti mercanti o
passaggieri avezzi in terra alle commodità.
I negri sono peggiori di tutti e muoiono la maggior parte di pura malinconia. (Cit. P. 131).
319

I mori - oggi diremmo i maghrebbini - erano quindi considerati gente di indole etnicamente rissosa
e i comandanti di galea dovevano farli sorvegliare in maniera speciale:

… Un uomo che litiga in un esercito di cui faccia parte è colpevole come un traditore, perché un
litigante può improvvisamente sovvertire l'intero esercito e indurlo al nulla (homo rixator in exercitu
in quo fuerit est tam reus quemadmodum vnus proditor: quia unus rixator totum exercitu subito
potest subvertere et ad nihilum prouocare (Marin Sanudo il Vecchio. Cit. P. 78).

Gli schiavi negri sub-sahariani erano chiamati morlacchi, ma ovviamente non avevano nulla a che
fare con i montanari dalmati d'ugual nome, se non forse l’etimologia del nome (sp. morlaco, ‘tonto
e ignorante’); sulla loro scarsissima adattabilità alla vita del remiero così si esprimeva anche il
Crescenzio:

... Morlacchi la maggior parte muoiono di malenconia ed ostinazione. (Cit. P. 95).

Immaginiamo che per ostinazione quest'autore intenda un’innata apatia alle frustate e alle
bastonate più dure, fino a quelle mortali, una sopportazione ormai genetica formatasi, in quella che
una volta si diceva la razza camitica, durante secoli di maltrattamenti ricevuti dai razziatori arabi
che scorrevano l’Africa in caccia di schiavi, mentre, per quanto riguarda la malinconia, abbiamo
visto che anche il Pantera vi accenna con statistica freddezza, come se lo strazio dell'anima fosse
solo un semplice difetto. Ma il pessimo giudizio delle etnie centroafricane era a quei tempi
generale, basta leggere per esempio la relazione del Regno di Portogallo che troviamo tra quelle
anonime raccolte nel 1588 nel già citato Tesoro politico, laddove si dice che le fortezze portoghesi
stabilite sulla costa nord- occidentale dell’Africa (Maragano, Fanier e Mina, cioè, da nord a sud,
Marrakech, Akhfennir ed Elmina) non avevano nulla da temere dalle popolazioni locali:

… essendo nel paese de’ negri, genti più tosto irrazionali che di ingegno, sempre a competere fra
loro per mangiarsi l'un l'altro, come costumano, overo per vendersi a’ christiani di Fanier, Senta e
Maragano, luoghi vicini al re di Fetz, potentissimo signore de' mori (T. I, p. 221).

L’astiosità e odiosità di carattere dei mori o barbareschi verrà confermata anche dai capitani di
galera francesi del Settecento, i quali li accuseranno che dell'abitudine di derubare i compagni di
sventura e quindi di creare tra i remiganti uno stato di nervosismo, diffidenza e aggressività
reciproche. Anche il Cervantes Saavedra, nel suo Don Quijote fa dire a uno dei personaggi:

... non fidarti di nessun moro, perché sono tutti traditori. (Miguel de Cervantes Saavedra, El
ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha. Madrid, 1989.)
320

Sulle galere di Spagna, oltre ai buonavoglia, molti erano anche gli schiavi barbareschi, perché
tradizionalmente gli spagnoli usavano rifornirsi di remiganti razziando gli abitanti delle coste (gr.
παραλίται, παραλιώται) del Magreb; il primo accenno storico rimastoci di questa loro prassi è del
1426, cioè quando l’armata di mare di Alfonso V d’Aragona, dopo essersi soffermata sulle coste
liguri e poi su quelle campane, sotto il comando congiunto del fratello del re Pietro e del generale
Federico d’Aragona conte di Luna assalì le isole Kerkenna, prendendone schiavi i giovani maschi
appunto per adibirli al remo delle sue galere; si trattava infatti di gente considerata molto atta a
quel faticoso mestiere (… la gente de aquella isla, que es para mucho trabajo. Zurita, Anales. LT.
XIII, c. XVI).
I vogatori d’uno stesso banco dovevano sorvegliarsi a vicenda affinché nessuno di loro tentasse di
fuggire; se ciò avveniva nelle galee veneziane, subito agli altri del banco, a quanto scriveva il da
Canal, si troncavano il naso e le orecchie come pena per non aver scoperto i propositi di fuga del
loro compagno; questa mutilazione era, nelle squadre di ponente e alla fine del secolo, riservata ai
solo schiavi, ossia ai maomettani e ai negri non cristiani, sia come punizione sia come marchio di
pericolosità e la doppia mutilazione era necessaria per distinguere questi schiavi dai semplici ladri,
in quanto nel Cinquecento in Spagna questi ultimi si castigavano con la fustigazione al primo furto,
con il taglio dell'orecchie al secondo, perché ne fosse così riconosciuta pubblicamente la
pericolosità, e con la forca al terzo.
A Venezia invece, per tanti altri versi la più evoluta e civile delle signorie italiane, come del resto
avverrà anche nella vicina Austria ancora nel Settecento, le mutilazioni erano prassi corrente e
giornaliera della giustizia criminale, ma ne riparleremo più avanti; qui ora ci limitiamo a ricordare la
mutilazione della lingua che si faceva ai blasfemi incorreggibili. Pirma di arrivare a ciò costoro si
punivano con la gioia alla bocca, cioè stringendo loro con un cerchietto le labbra unitamente alla
lingua tirata fuori, e così, portatili alla berlina (corrr. di alla berlinga, cioè ‘al chiacchiericcio, al
mormorio’) in mezzo alle due colonne di Piazza San Marco, li si teneva colà legati ed esposti
appunto al pubblico ludibrio (F. Mutinelli, cit. P. 185-186); detto cerchietto di chiamava gioia, ossia
anello, baccialetto, perché ricordava la modanatura di rinforzo che circondava la bocca dei
cannoni, detta appunto gioia della bocca.
Lo Stato della Chiesa aveva invece dal canto suo – oggi incredibilmente – l’altro triste primato della
gran facilità con cui vi si comminava la pena di morte, sopravanzando in ciò di gran lunga tutti gli
altri potentati d'Italia.
Nel Medioevo si era praticata molto la punizione del taglio della lingua per tutti i reati di
insubordinazione commessi a mezzo di tumulto o ammutinamento vocale, per esempio quando lo
si faceva contro gli ordini del còmito o per chiedere una paga non ancora ricevuta o per pretendere
321

che si prendesse porto di disarmo; ecco per esempio la già citata ordinanza aragono-catalana del
1354:

… se una galea grida ‘paga!’ o grida alcun luogo dove vuole disarmare, i còmiti (còmito e
vicecòmito) della galea siano tenuti a prendere immediatamente quelli che hanno gridato e a
portarli e a denunciarli al capitano, il quale a quelli faccia tagliare la lingua, perché ciò è un modo di
ammutinarsi e richiede un gran castigo […] e allo stesso modo siano puniti con la perdita della
lingia quelli che tale ammutinamento avranno mosso. E questo si fa per quanto molti danni sono
seguiti in molte armate per analoghi annutinamenti {si alguna galéa crida pagua, ò crida algun loch
on vulla desarmar; los cómits de la galéa sien tenguts, que aquells qui cridarán prenguen
encontinent, è aquells denuncien è amenen al capitá, qui à aquells faça tolre la lengua, car açó es
manera de avolot, è qui requer gran cástich [...] è no res menys sien ponits à perdre la lengua
aquells qui aytal avolot haurán mogut. E açós fá per tal com molts damnatges s'en son seguits en
moltes armades per semblants avolots… In Ordenanzas de las armadas navales de la Corona de
Aragon etc. Cit. P. 86}.

Ma, se il taglio della lingua - come del resto anche quelli delle orecchie e del naso - era ammesso
e praticato, invece, in quei tempi di lavori forzati, nella marineria si probiva ovviamente di
condannare a quello di una mano o di un piede; in tal caso infatti il giustiziato sarebbe diventato
inservibile ai gravi lavori di bordo:

… che si ordini che nessuno che sia impiegato in qualsiasi galea per nessuna colpa perda mano o
piede, perché dopo quell’uomo non è più buono a nessuna cosa, considerato che gli varrà più la
morte che la vita; ma sia invece punito col fargli correre la via o la corsia a frustate, a perdere la
lingua, le orecchie o a essere appeso, a seconda della colpa che sarà (que sia feta ordinació, que
null acordat de alguna galéa per neguna colpa no perda puny ne peu, per ço com despuys aquel
hom no es à res bo, perque li valdria mes la mort que la vida; más sia ponit en correr vila ò cossía
ab açots, perdre lengua, orelles, ò en esser penjat, segons que la colpa será. Id. P. 87.)

Nella giustizia di terra invece per il taglio della mano non c’erano di queste considerazioni e, per
esempio, all’inizio del Settecento la giustizia militare austriaca ancora lo praticava per punire i ladri.
Generalmente nei paesi che si affacciavano sul Tirreno vigevano bandi che proibivano sia ai laici
che agli ecclesiastici di dar ricetto ad alcun schiavo o forzato di galera che non fosse in grado di
mostrare la carta di libertà con il sigillo del capitano generale delle galere; anzi, chiunque avesse
catturato uno di questi remieri perché trovato privo del suddetto congedo, avrebbe ricevuto un
premio in danaro pubblico:

... Né pensate che questi schiavi possano andare molto a longo senz'essere conosciuti, percioché
l'abito, lo havere la testa e mascelle rase gli fà manifesti. E che è più, nell'una delle gambe i segni
della catena. (C. da Canalt. Cit. P. 172.)
322

Terza e ultima categoria di remieri erano i cosiddetti buonevoglie (sp. buenasboyas de bandera),
così chiamati perché vogavano ‘di buona voglia’, ossia di loro volontà. Essi erano a volte dei forzati
che, scaduto il tempo della loro condanna, non erano stati liberati dalla catena per essere debitori
di qualche somma di danaro al loro sovrano e si tenevano a vogare finché non avessero saldato il
loro debito, percependo ora un soldo solo nominale; costoro erano pertanto molto ben disposti alla
voga, come del resto a ogni altro servizio di galera, perché cercavano di crearsi a bordo
un’atmosfera a loro molto favorevole per aver più occasioni di guadagnare qualche soldo in più e
d’estinguere così più presto il loro debito. Erano oppure i buonavoglia dei vagabondi, i quali, per
vivere o per giocare o, specialmente, per sottrarsi alla giustizia che li cercava, vendevano la
propria libertà assumendo l'obbligo di servire al remo di galera per un periodo determinato, salvo
poi a farlo, una volta così scongiurato il pericolo e intascati i denari dell’ingaggio, magari con
l’intenzione di disertareil più presto possibile. Tra questi sono ottimi gli spagnoli ed i napoletani,
scriveva il Pantera e il Crescenzio così confermava:

... I meglio sono gli spagnoli e napolitani, si come anchora sono i più. (Cit. P. 95.)

Anche se all’epoca del Pantera quelli napoletani erano evidentemente ancora reperibili, certo non
erano però più numerosi quanto al tempo dei re aragonesi; ecco infatti l’armata d’Alfonso II
d’Aragona che giunse al porto di Livorno il 5 luglio 1494, come la riporta il Sanudo:

… la qual armada era galie 35, computa’ 7 per forza, di le qual ne son 5 di Franzin Pastor corsaro,
che fu quello soccorse Rodi al tempo de’ turchi, e 2 dil Re; su una è il suo capitano don Fedrigo.
Le altre 28 (sono) tutte volontarie. Nave 18 di gabia… Su la ditta armada era zerca fanti 4.800…
(La spedizione di Carlo VIII etc. Cit. P. 65.)

I dati suddetti sono sostanzialmente confermati dal Guazzo, laddove elenca i vascelli componenti
la stessa armata, e cioè 34 galere, di cui almeno 4 per forza, ossia spinte da forzati, e tra queste
quella del Pastore, 2 fuste, 4 galeoni, tra cui quello del Peruca, 4 navi e 15 o 16 barze (‘navi
piccole‘), tra le quali la più grande di 900 botti comandata da lo stesso predetto Peruca o da un suo
parente. Quest’elenco del Guazzo è interessantissimo, in quanto d’ogni galera è indicato il porto
d’armamento e il nome del comandante e d’ogni veliero il patrone e il numero d’uomini a bordo; dei
vascelli medesimi sono omessi invece i nomi, in quanto fino alla fine del Cinquecento considerati
poco importanti (Marco Guazzo, Historie di Messer Marco Guazzo […] qual hanno principio l’anno
1509 etc. Venezia, 1547).
Accettare di servire al remo di galera non era cosa comune e quindi a chi si presentava per farlo
non si stava certo a chiedere conto del suo passato; per esempio, l’Ordenanza sobre el arbitrio de
323

reclutas para la Real Armada promulgata nel 1359 dal re Pedro IV, re di Aragona e Catalogna,
disponeva che chi fosse ricercato per un qualsiasi crimine, eccetto alcuni quale per esempio la
lesa Maestà, ma che si fosse presentato a far domanda di reclutazione nell’armata di mare, nei
due giorni precedenti all’arruolamento non potesse essere più arrestato (Ordenanzas de la
Armadas Navales etc. Cit. P. 110).
C’è da dire che i predetti giudizi del Pantera riguardano certamente le sole squadre di galere
tirreniche, perché in effetti i buonavoglia migliori di tutti erano invece quelli usati da Venezia, i quali,
oltre a essere tanto numerosi che le squadre di quella repubblica si basavano esclusivamente su
di loro, non usando che pochissimi forzati e schiavi, servivano veramente con buona volontà,
essendo molto ben trattati e liberi d'andarsene non appena scaduto il loro impegno; invece nelle
squadre della corona di Spagna costoro erano trattati malissimo, all'incirca come gli schiavi, e,
quando arrrivava il giorno in cui avrebbero potuto lasciare il servizio, vi erano per lo più trattenuti
con falsi o malvagi pretesti, per esempio facendoli indebitare ad arte per obbligarli a restare ancora
a lavorare per riscattare i nuovi debiti, per cui finivano per diventare anch'essi degli schiavi
impossibilitati a liberarsi e a lasciare quella penosissima vita. I buonavoglia erano di gran
giovamento alla vita economica di una galera, perché, oltre a servire generalmente bene,
portavano alla ciurma il beneficio di spendere il loro soldo, soldo che essi soli tra i galeotti
avevano, spendendolo soprattutto nella taverna della stessa galera in cui servivano e ciò con utilità
di tutti per il notevole incremento di liquidità e quindi d'incentivo commerciale che ne scaturiva. Essi
facevano a terra gli stessi servizi degli schiavi e come questi in tali occasioni erano provvisti di
scarpe e di calzette affinché potessero camminare. Quando si combatteva questi volontari erano
sferrati e armati affinché partecipassero alla battaglia dando così aiuto ai soldati e ai marinai:

... e alcune volte da questa sorte di huomini si sono riusciti notabili servitij. Però (‘perciò’) procurino
i capitani di haverne molti e gli trattengano quanto più possono, acciò che non si partano. (P.
Pantera. Cit. P. 132.)

Di giorno e quando non si navigava i buonavoglia ponentini si sferravano e si lasciavano andare


liberamente per la galera con una sola maniglia o gambetto di ferro a un piede, ma non si
lasciavano uscire dalla galera se non sotto buona guardia, e la sera si rimettevano comunque in
catena al loro banco per evitare che approfittando della notte, pur essendo volontari, pensassero di
fuggire; quelli delle galere ponentine erano sferzati come i forzati, quando le esigenze di voga lo
richiedevano, in quanto costoro - per uniformità di voga - remavano appunto incatenati come i
forzati; ma non si potevano invece sferzare i buonavoglia delle galee veneziane, perché questi
vogavano liberi da ogni catena e liberi erano tenuti a bordo in ogni momento. Questa sostanziale
differenza, cioè di catena e di sferza, rendeva quindi il servizio di galera dei buonavoglia ponentini
324

drammaticamente simile a quello dei forzati; essi erano infatti come carcerati, in quanto, per
esempio, non potevano scegliere di fuggire o di gettarsi in mare durante la battaglia, come invece
spesso facevano i buonavoglia di Venezia che erano tenuti sempre liberi da ceppi. Sulla predetta
disparità di trattamento riferiva il residente veneziano Antonio Tiepolo nella relazione della sua
residenza presso Filippo II di Spagna, terminata nel 1567:

… essendo tutte le galere di Sua Maestà di schiavi e di forzati, questi non posson mai essere in
tanta copia che bastino ad armarne ogni gran numero. Armar di liberi, come fa la Signoria Vostra
(doge di Venezia), non è possibile così tosto, perché, non essendo introdotto in alcuna parte de’
suoi paesi questo essercizio di buona voglia, non v’è alcuno al presente che vi pensasse, tanto più
che non è ascoso ad alcuno il mal trattamento de’ galeotti nelle galere di Spagna, dove muoiono
per disagio di tutte le cose, e l’intendersi anco per certo che, se pur vi fu alcuno a servire di
volontà, è stato poi tenuto a forza tutto il tempo della sua vita – la qual cosa occorre
ordinariamente in coloro che vanno condannati o per un anno o per quanto tempo si voglia, onde
non può havere il misero più speranza d’uscire e massimamente se è stimato buon remo – ha
causato un timore così eccessivo ed horribile in tutti di quella nazione che forse non basterebbe
oro a farne loro venir la voglia. (E. Albéri. Cit. S. I, v. V, p. 141.)

In effetti, come abbiamo visto, una seppur piccola percentuale di buonevoglie nelle squadre
ponentine c’era. I buonavoglia si distinguevano dagli altri remieri per portare i mustacchi, mentre
per il resto erano anch'essi completamente rasi; due di loro servivano come mozzi dell'aguzzino,
personaggio di bordo di cui parleremo. Ricevevano vestiario, una razione di viveri e vino da
marinaio ogni giorno e, sulle galere di ponente, 2 scudi di stipendio mensile (2 ducati su quelle di
Napoli, valendo il ducato napoletano un 10% in meno dello scudo spagnolo e quindi, equivalendo
lo scudo d’oro spagnolo a 2 dobloni e mezzo, all’incirca 2,70 dobloni), sebbene in alcune squadre
non prendessero soldo d'inverno; di due scudi era pure il mensile che prendevano sulle galere di
Malta, a dimostrazione che gli stipendi di galera erano sostanzialmente gli stessi nella maggior
parte delle squadre cristiane e ciò a evitare l'eccessivo passaggio di personale dall'una all'altra alla
ricerca d’un miglior salario. C’era ogni tanto qualche eccezione fatta per occasioni particolari, come
fu quella del 1571, dovuta alla grande Lega cristiana tra il Papa, il re di Spagna e la repubblica di
Venezia stretta il 25 maggio di quell’anno e pubblicata a Venezia il 2 luglio seguente, quando cioè
l’allora vicerè Antonio Perrenot cardinale di Granvelle (1571-1575), pressato dalla Corte di Spagna
a potenziare lo stuolo di galere napoletane, arrivava nel maggio di quell’anno, come scriveva da
Napoli il residente veneto Alvise Bonrizzo, a offrire fino a 8 scudi al mese per i prossimi quattro
mesi di campagna estiva (N. Nicolini. Cit.) Diremo infine dei buonavoglia che, benché
disponessero quindi d’un salario, dovevano vestire come e quando il resto della ciurma per
uniformità estetica. Anche il vestiario dei semplici remiganti (sp. remeros rasos) poteva talvolta
impreziosirsi nel caso di una galea di comando che partecipasse a qualche evento importante
325

dove bisognava fare una gran figura; fu questo il caso per esempio del già ricordato incontro tra il
doge di Venezia e l’imperatore bizantino Giovanni VIII Paleologo, avvenuto l’8 febbraio 1438 nelle
acque di S. Niccolò del Lido ( Giorgio Franzes, cit. LT. II, cap. XIV).
Secondo una generale convinzione che si ritrovava tra gli esperti ponentini, la principale superiorità
delle galee veneziane rispetto a quelle di ponente stava proprio nell'abbondanza delle buonevoglie
greco-dalmatine, le quali costituivano infatti, come abbiamo detto, la quasi totalità delle ciurme di
Venezia; infatti questi volontari della Serenissima, quando dotati di corazza, morrione e armi
d'offesa, avrebbero potuto combattere come i soldati e quindi in una galea veneziana inquartata,
ossia rinforzata con un quarto rematore a ogni remo – perlomeno dall’albero alla poppa, come
perlopiù s’usava allora, e non equipaggiata (cst. tripulada) per guerra d'armata c'erano dunque
circa 200 remieri potenziali combattenti (eccetto i pochi forzati e schiavi) più un 30 soldati fissi;
dunque in totale più combattenti dei circa 150 archibugieri d’una galera spagnola o filo-spagnola
preparata per la battaglia, dei quali inoltre 25 o 30 non si potevano calcolare perché impiegati a
sorvegliare gli schiavi, affinché questi non approfittassero del combattimento per ribellarsi, ma che
nelle grandi imprese si potevano considerare pareggiati dall’apporto dei venturieri, tipo di
combattenti di cui poi diremo. Il Vecellio, nel descriverne il consueto abbigliamento, definisce
questi vogatori volontari di Venezia uomini forti e anco robusti nelle fattioni e li dice anche usi a
portare, oltre che una coltellaccia, anche un’accetta personale, evidentemente perché tra i loro
compiti c’era anche quello di sbarcare per andare alla fascinata (Cit.).Tutti questi vantaggi erano
però alquanto teorici e vedremo infatti che le cose non andavano proprio così, tant'è vero che gli
esperti veneziani, con la sempre esistita convinzione che l’erba del vicino è sempre più verde,
consideravano invece le loro ciurme di buonevoglie molto inferiori a quelle di forzati incatenati delle
ponentine e ciò da ogni punto di vista.
Che fino alla prima metà del Cinquecento i remiganti volontari di Venezia fossero ancora in gran
parte veneti e che da loro si pretendesse anche l’uso delle armi da fuoco in caso di combattimento
è dimostrato da una ducale veneziana del 7 novembre 1527, documento che ordinava ai territori
della Riviera di Salò e della Gardesana d’inviare al provveditore Gioan Andrea Moro, il quale allora
si trovava a Livorno con 16 galee veneziane per appoggiare l’armata francese impegnata nella
guerra per Napoli e vedeva i suoi equipaggi assottigliarsi giorno dopo giorno a causa d’una grave
epidemia che li aveva colpiti, homini 200 da remo cum li soi archibugi per integrar le galee…
essendo impossibile poterli ritrovar in quelli lochi dove el si ritrova (Archivio veneto. Anno Quinto.
P. 150. Venezia, 1875.); mentre si mandava ad acquistare i 200 archibugi a Brescia, si ordinava
pertanto ai rettori di quei territori di far subito l’elezione dei detti buonavoglia e poi, una volta
ricevute le armi, d’avviarli a piedi a Livorno via Parma (‘che non è molto cammino’); evidentemente
326

per invogliare a questo arruolamento, erano state previste paghe più regolari del solito e cioè tre
mensilità anticipate – a lire 10 ciascuna, aggiuntavi un’indennità di lire 4 per le piccole spese di
viaggio, essendo quelle grosse degli alloggiamenti e vitto a carico della repubblica, ma detrattovi
quello che sarebbe stato il costo dell’archibugio, il quale era purtroppo a carico del volontario; poi
avrebbero ricevuto una quarta mensilità al loro arrivo a Livorno e le successive di mese in mese.
Ogni 100 uomini bisognava inoltre eleggere un capo, ossia un caporale, al quale anche si
sarebbero corrisposte le predette paghe, ma a ducati cinque mensili. Per la cronaca, dei 100
volontari inviati dalla predetta Riviera, i quali erano pronti a partire per il 18 novembre e il cui capo
era certo Giorgio de Flocchis da Polpenazze, tre morirono per via e solo quattro in galea,
probabilmente a causa dell’epidemia suddetta; certo, se quella squadra avesse anche combattuto,
cosa che poi non fece, le buonevoglie ritornate ai loro paesi sarebbero stati certamente molti di
meno. A proposito del suddetto provveditore Moro, c’è da chiarire che nella Venezia
rinascimentale questo titolo di provveditore aveva acquisito anche il profilo di generale
combattente, forse per esigenze contingenti avvenute in un certo tempo, e, poiché troviamo questo
doppio profilo anche nella Bisanzio degli ultimi tempi, ci resterebbe solo da capire quale dei due
potentati abbia preso esempio dall’altro:

… il provveditore dell’armata navale dei veneti ossia il capitano genenerale (ὀ προμηθεὺς τῶν
Ἐνετῶν τοῦ στόλου ἢ ναύαρχος)…
… il predetto capitano generale cioè il provveditore dell’armata (ὀ ρηθεὶς ναύαρχος ἢτοι ὀ τοῦ
στόλου προμηθεὺς. Giorgio Franzes, cit. LT. IV, cap. XXII)…

C’è poi, sempre a proposito del predetto Moro, da ricordare che è proprio dall’equivoco questo
importante cognome veneziano (in un suo ramo, quello degli scenografi, restato nell’originale
Mauro) che il ferrarese Giovambattista Giraldi (1504-1573) prese fantasioso spunto per la sua
novella de Il capitano Moro e la veneziana Disdemona, poi messa in scena a Londra con qualche
variante dallo Shakespeare.
Perché poi Venezia si deciderà, verso la fine del Rinascimento, ad assoldare sempre di più i suoi
buonavoglia in Dalmazia e in Grecia invece che nelle campagne venete? Per la difficoltà di
trovarne appunto tra i suoi sudditi, i quali, a differenza per esempio di spagnoli e napoletani, erano
poco propensi a quel faticosissimo, disagiatissimo, pericolosissimo e poco remunerato mestiere,
così come anche risultavano poco adatti al servizio militare in genere. C’è un episodio della guerra
che Venezia combatté sul fiume Po contro Ravenna tra gli anni 1482 e 1484 che ci lascia capire
quanto predetto:
327

… A quei tempi i remiganti, che erano pochissimi a Venezia, ricusavano di andare di complemento
e si rifiutavano di eseguire glì ordini del loro stesso patrone, specie a Lagoscuro (‘Pontelagoscuro’,
base fluviale veneziana). Per il qual motivo, essendo state minacciate sanzioni, alcuni della plebe
emigrarono (Pietro Curneo, De bello ferrariensi commentarius etc. In LT. A. Muratori, Rerum
italicarum scriptores etc. C. 1.216, t. 21. Milano, 1732).

In effetti, l’abitudine di considerare i buonavoglia dei potenziali combattenti era appunto residuata
dalla marineria da guerra medievale, marineria in cui i remiganti erano stati anche soldati e
marinai; se si leggono infatti i trattati bizantini rimastici che trattano di guerra nautica, cioè sia
l’anonima Ναυμαχία scritta allo stesso tempo del già ricordato Στρατηγιϰόν del VI° sec. sia la
suddetta Тάϰτιϰα del IX° secolo, s’evince molto chiaramente che a bordo delle galere di Bisanzio i
remiganti, i soldati e i marinai erano gli stessi uomini e addirittura nel primo dei due predetti trattati
si vuole che ai remieri venga insegnato a nuotare anche sott’acqua per poter così fungere da
palombari. Se leggiamo poi Tucidide, storico ateniese del quinto sec. a.C., e i lessicografi Giulio
Polluce ed Esichio d’Alessandria, questi ambedue del secondo secolo d.C., vediamo che anche
nell’antichità s’usavano soldati-remiganti e infatti in greco si dicevano αὐτερέται (‘coloro che
remano da sé’); non troviamo invece un termine corrispondente in latino e infatti non risulta che i
soldati romani, quando imbarcati sulle triere, fossero addetti anche alla voga e ciò anche se poi a
terra fossero, come ben si sa, anche guastatori e tra l’altro dopo ogni giornata di marcia, stanchi o
non stanchi che fossero, dovessero prendere zappe e pale e costruirsi il loro alloggiamento per la
notte; questa differenza di comportamento dei romani tra guerra di terra e guerra di mare era
probabilmente dovuta sia alla grande disponibilità di schiavi e prigionieri che essi sempre avevano
e sia alla più breve tradizione remiera dei romani rispetto a quella millenaria dei popoli balcanici.
Nella relazione che il residente veneto Federico Badoero approntò nel 1557 così è scritto riguardo
alla generalità dei remieri delle squadre che servivano la Corona di Spagna:

... Le ciurme di essa armata, che sono al numero di 8.500 persone, la metà in circa è d'infedeli,
l'altra di christiani. Di quelli la maggior parte è di mori e turchi, di questi, genovesi, milanesi,
siciliani, catalani, valenziani, tedeschi d'Austria, Stiria e Carinzia, boemi, moravi, ungheri,
schiavoni, fiamminghi e provenzali che toccano la paga; e questo per mancamento di schiavi, che
già molto tempo non ne hanno potuto prendere; e tra tutti i galeotti quelli di Spagna sono stimati i
più forti e robusti. (E. Albéri. Cit. S. I, v. III. P. 285.)

Il Badoero non è qui abbastanza chiaro, perché, mentre dice che la metà dei remiganti impiegati
sulle varie squadre tirreniche della Spagna è costituita da ‘infedeli’, poi afferma un mancamento di
schiavi, né è possibile che dei maomettani fossero impiegati come buonevoglie e non appunto
come schiavi senza paga; per quanto riguarda i remieri cristiani, dimentica i napoletani -
certamente più numerosi di tedeschi e moravi - e fa creder che tutti questi tocchino paga, come se
328

si trattasse di sole buonevoglie, mentre, come sappiamo, la maggioranza dei vogatori cristiani di
ponente era costituita da forzati, chiamando infatti i veneziani quei vascelli galere sforzate.
Comunque, a prescindere da queste palesi inesattezze, rare e gravi a quei tempi specie se fatte
da un residente veneziano, è l'unico che accenni a buonevoglie o comunque a remieri provenienti
dall'Europa centrale. Sicuramente vera è invece la buona considerazione che godevano le
buonevoglie spagnole, ma non perché quella nazione fosse particolarmente abile alla voga, bensì
per lo stesso motivo per cui erano anche tanto apprezzati i soldati spagnoli e cioè per l'innato
senso della subordinazione e la grande capacità di sopportare le privazioni e le fatiche che in ogni
occasione dimostravano; erano però piuttosto pochi, per esser gli spagnoli generalmente fieri e
dignitosi e quindi più propensi a fare i soldati che i galeotti volontari:

... essendo in quella provincia poca quantità di gente vile e contadina. (Ib. P. 261.)

Né c'era in Spagna quell'infestante quantità di briganti, grassatori, rapinatori, ricattatori, assassini,


ladri d'appartamento, falsari ecc. che si riscontrava e che ancor oggi si riscontra nell'Italia
meridionale e quindi nemmeno tanti da condannare alla voga.
C'è anche da dire che molti buonavoglia spagnoli, proprio per la loro buona fama, finivano a servire
su galere appartenenti a squadre diverse da quella di Spagna propriamente detta e soprattutto ne
faceva incetta la Repubblica di Genova, la quale doveva poi però sopportare le proteste spagnole;
tanto si legge per esempio nella relazione che l'ambasciatore straordinario di Genova alla corte di
Madrid, Francesco de Mari, scriverà nel 1693, anno in cui questo diplomatico tornerà in patria
dopo aver soggiornato qualche tempo presso quella Corte per dirimere alcune controversie nate
appunto tra quella signoria e la Spagna, come per esempio:

... per sopire la pretensione de' buona voglia spagnuoli che vogavano nelle galee della Republica,
sopra di che si faceva (‘facevano’) dal ministro (spagnolo) incessanti le premure per il loro rilascio
con il mottivo di poco decoro alla nazione, di violenza ed inganno che moveva l'animo reale a
sciogliere da così vergognosa catività (‘cattività’) tanti suoi sudditi, li quali fu representato essere di
qualità ed in quantità tali che meritavano la sua regia e autorevole applicazione. Soffocai questo
fuoco che molto ardeva e nel quale soffiavano molti ministri d'Italia... (R. Ciascia. Cit. Vol. V, pp.
238-239)

Evidentemente il mestiere del buonavoglia non era dalla Corte di Madrid considerato disonorevole
solamente quando lo si esercitava per il proprio sovrano e ciò perché ogni tempo e ogni paese ha
avuto le sue grandi ipocrisie! In realtà, a dimostrazione che la voga come mestiere volontario e
retribuito era in Spagna tradizionale e che al contrario non esisteva una tradizione di voga forzata,
di condannati al remo insomma, basta ricordare la da noi già citata Ordinacio dels salaris è
329

forniments dels acordats de les armades del 1354, dove si dispone che i 156 remiganti di ogni
galea percepiscano ognuno sei lire barcellonesi di salario per quattro mesi di servizio, ma che
ognuno di loro dovesse imbarcarsi già munito di spada, stroppo e puntapiedi personali; premesso
che ovviamente non si sarebbe pretesa la spada se fossero stati dei condannati, il puntapiedi era
meglio che ognuno se lo facesse da sé, adattato il meglio possibile alle proprie caratteristiche
fisiche, e il che valeva a dirsi anche per lo stroppo, robustissimo pezzo di corda dal quale molto
dipendeva l’efficacia della propria vogata. Insomma, tutto questo deponeva chiaramente per dei
‘professionisti’ della voga e non per dei forzati (Ordenanzas de las armadas navales de la Corona
de Aragon etc. Cit. P. 100).
Se i ponentini non facevano altro che invidiare e considerare migliori le ciurme di Venezia appunto
perché costituite quasi integralmente di buonevoglie e portavano inoppugnabili e prevedibili
argomenti a sostegno di tale loro opinione, i veneziani da parte loro asserivano l'esatto contrario e
sempre dicevano che erano molto migliori le ciurme formate di forzati e schiavi, come si usavano
nelle galere di ponente, e presentavano ragionamenti che mettevano in mostra l'altra faccia della
due medaglie, vale a dire gli aspetti positivi della voga forzata e quelli negativi della voga
volontaria; ci avvarremo pertanto ancora delle parole dell'ottimo Cristofaro da Canal, il quale così
spiega perché Venezia tradizionalmente non si avvalesse della voga forzata:

... dicono che non si conviene alla nostra Republica, che sempre è stata esemplar di religione e di
santi e pietosi costumi, fare ischiavi le genti battezzate e tenere in servitù gli huomini liberi,
allegando che ella per millecento e più anni ha potuto con le armate sue volontarie vincere tutti i
suoi nemici e acquistar così grande imperio. (Cit. P.173.)

Ma se lo facevano i religiosissimi cavalieri di S. Giovanni Gerosolimitano, ossia di Malta, il


Christianissimo re di Francia, il Catholico re di Spagna e perfino il Papa, vicario di Cristo in terra? E
non era inoltre molto più umano e utile condannare i delinquenti alla galea piuttosto che lasciarli
disperati e invalidi, mutilandoli di qualche membro come si usava tanto comunemente a Venezia,
anche si domandava il da Canal? E aggiungeva che la vita di galea aveva l'effetto di redimere i
forzati perché colà essi non potevano esercitare la bestemmia, il gioco, la crapula, la lussuria, il
furto e l'inosservanza dei riti religiosi; ma ciò era vero solo in teoria e lo dimostreremo poi con
l'aiuto d’altri autori. Né le buonevoglie che i veneziani usavano erano loro concittadini, perché il
popolo del territorio di Venezia, ormai benestante quando non anche ricco, mai avrebbe
volontariamente servito al remo come invece aveva usato fare nei secoli passati:
330

... E che ciò sia vero non vediamo noi che le galee che tal’hora si armano in questa Città sono le
peggiori di tutte le altre, il che nasce solo dal non andarvi se non quei mendichi e scalzi che vivono
tra esso popolo e gli boni se le fuggono. (Ib.P. 174.)

I veneziani costituivano quindi le loro ciurme di buonevoglie e si trattava di schiavoni, cioè


dalmatini, e di greci dell'Arcipelago, in quanto di nessun’altra nazione come di quelle se ne
trovavano in tale quantità, anche se, già nella prima metà del Cinquecento, sia la Dalmazia sia le
isole greche erano ormai molto spopolate rispetto al passato e ciò era dovuto sia all'urbanesimo
verso Venezia sia per le continue scorrerie dei turchi; gli schiavoni e gl'isolani greci erano infatti
naturalmente portati e ben disposti alla voga sia per la loro grande dimestichezza col mare sia per
la loro povertà, condizione che li spingeva ad accettare di buon grado un così duro e pericoloso
lavoro:

... Li schiavoni ed i greci sono perfettissimi alle fatiche del remo e ai travagli del mare, si come
quelli che paiono dalla natura prodotti all'una cosa e all'altra; ma anzi vi è tra loro non picciola
differenza percioché, se prima alla statura e alla forma del corpo riguardiamo, trovaremo che li
schiavoni avanzano quasi sempre la comune grandezza degli huomini e all'incontro che i greci per
lo più non v'arrivano; quei si veggono grassi e carnosi, questi nervosi e asciutti. Di qui fò
argomento che gli schiavoni siano di complessione debole, il quale ragionamento è confermato
dall'effetto che sempre avviene, che il primo anno che vengono sulle galere essi infermano o di
febre o di strano pericoloso male. Sono appresso grandissimi mangiatori, ma ben parchi nello
spendere e prudenti in compartire i denari delle paghe loro, in guisa che insino al fine del viaggio
non ne sentono mancamento; usano pulitezza nel vestire e sono sempre mondi nella persona.
Trovansi amatori della religione, fideli osservatori delle promesse né fuggono, come molti altri, ma
servono di continuo fino che è finito il loro tempo. Egli è vero che essi sono tumultuosi e, come si
dice, di picciola levatura come quelli che abbondano di collera e questi tumulti nascono
egualmente in tutti e massimamente quando la loro dimora nelle galere sia più a longo di quello
che essi vorrebbono; ma la loro collera è breve ed ogni picciola riprensione che per via di losinghe
o di minaccie venga lor fatta da qualche huomo di autorità leggiermente gli acqueta, quantunque,
per l'esperienza che io ne ho avuto, molto più oprano le parole dolci che l'acerbe, perché se questi
tali huomini sono timidi sono anco amorevoli molto più. (ib. Pp. 110-111.)

Queste buonevoglie dalmatine erano convenienti perché si accontentavano anche di bassi salari,
come nel 1525 spiegava Gasparo Contarini, laddove trattava delle galee veneziane:

... A' vogadori non si usa dare molto grande stipendio perché tutte queste galere si armano in
alcuni luoghi, si come nella riviera di Schiavonia o Dalmazia, dove gli habitatori, essendo poveri,
per poco prezzo pigliano tale impresa volentieri. (Gasparo Contarini, De magistratibus et Repubica
Venetorum libri quinque. Venezia, 1544.)

Vediamo ora com'erano invece le buonevoglie greche:


331

… Ma d'altra parte i greci che a cotale essercizio si pongono, si come sono dalli schiavoni diversi
di statura e di complessione così parimente sono di animo e di natura, percioché nel mangiare
agguagliano la sobrietà e temperatezza degli spagnuoli, ma nel bere trapassano i tedeschi in
modo che si può dire che nel vino consumano in un giorno le paghe intiere d'un mese. Di nettezza
e pulitezza non curano e quei pochi panni che vestono sono sempre lordi, in più parti rotti e
sdruciti; a che aggiongendovi l'esser naturalmente neri e diformi, sopra modo si assomigliano non
a huomini, ma a quei mostri che si trovano alcuna volta descritti nelle favole de' romani. Appresso
non portano riverenza a Dio né agli huomini e, quantunque dimostrino di aver qualche poco di
devozione alla vergine Madre di Christo, non di meno per ogni picciola speranza che si desti
nell'animo loro di guadagno, non facendo stima né di fede né di giuramenti, sempre pongono
innanzi l'utile all'honestà. Dove gli schiavoni, per gran tumulto e disordine che da essi ne deriva le
galee non abbandonano, i greci senza strepito e movimento alcuno, per ogni picciol segno che
accendi le menti loro, da soli a soli si dipartono tacitamente e, poiché nell'opere malvagie sono
arditi e animosi molto, nulla temono la pena de' supplizij che potrebbono esser dati; e, che più,
hanno la crudeltà e la ostinazione in modo proprio e naturale che né dolcezza di parole né
riverenza di capitano può muovergli o mitigarli giamai. (C. da Canalt. Cit. Pp. 111-112.)

In sostanza, ecco dunque la differenza tra dalmatini e greci:

... dunque li schiavoni sono buoni, religiosi, amorevoli, fedeli, prudenti e appresso mondi e politi,
come li dipinge il Contarini, nel vestire e per contrario i greci senza devozione, malvagi, crudeli,
perfidi, imprudenti, implacabili e sozzi nella vita e costumi... (ib.)

Forse non a caso il nome di maraiuoli (‘uomini del mare’) con cui gli isolani greci erano conosciuti
nell'impero ottomano, nome adottato poi anche a Venezia, si trasformò presto in proto-italiano in
mariuoli con il significato di 'ladri' e oggi ancora infatti così lo conserva la lingua napoletana. Ma la
mala fama non riguardava solo gli isolani; per esempio il già ricordato Digby si trovò molto a mal
partito quando, bisognoso di approvvigionarsi di vettovaglie, fu costretto a far sostare i suoi vascelli
a Patrasso, città che s’era ben adattata alla ladronesca amministrazione turca; infatti alcuni suoi
uomini, nonostante la presenza in quella città d’un console inglese, furono picchiati
selvaggiamente e imprigionati, lui stesso corse il rischio d’essere rinchiuso in prigione e tutto ciò
per obbligarlo a mettere a terra le sue mercanzie e costringerlo così a venderle tutte a prezzi
bassissimi o a farsele rubare tranquillamente; ma egli, non avendo alternative per procacciarsi dei
viveri perché con le sue ripetute scorrerie s’era ormai fatti solo nemici nel Mediterraneo, eccezion
fatta appunto per gli ottomani e i barbareschi nell’onestà dei quali però non credeva
assolutamente, si vedeva quindi costretto a sopportare quei greci ottomanizzati:

… Perciò la pazienza ed il temporeggiare con i loro furori era il miglior rimedio cui appigliarsi in
simili frangenti, visto che questa popolazione è incontrollabile e sorda ad ogni consiglio nella
violenza dei propri impulsi… (K. Digby. Cit.)
332

Ma per tornare alle popolazioni isolane, gli stessi greci continentali non ne avevano buona
opinione e per esempio uno dei loro più noti ed antichi proverbi, a proposito di chi si dava a fatiche
vane e superflue, diceva Πρὸς Κρῆτα κρητίζων, cioè ‘è come volere andare a imbrogliare
(‘cretizzare’) a Creta’, luogo in cui si era notoriamente maestri dell’imbroglio (Suida, cit. LT. III, p.
202). A prescindere poi dalla personale reputazione della famosa poetessa Saffo (VII sec.),
generalmente scandalosa era quella di tutti gli abitanti dell’isola di Lesbo, considerati appunto già
nell’antichità persone molto licenziose. L’alessandrino Esichio (V sec.) dice che le donne erano
note per il piacere sessuale che sapevano dare all’uomo con la bocca:

Lesbizzare. Dar piacere all’uomo con la bocca. Infatti dicono ‘lesbìadi’ le prostitute (Λεσβιάζειν·
πρὸς ἂνδρα στόματύειν· Λεσβιάδας γὰρ τὰς λαιϰαστρίας ἒλεγον· In Lexicon, c. 974. Iena, 1867.)

Il bizantino Suida (X sec.) aggiungerà che a Lesbo anche gli uomini erano soliti praticare la fellatio
penis e a questo proposito cita un verso delle Vespe di Aristofane:

Lesbicare. Insozzarsi la bocca e la lingua con nefanda oscenità. Fellare. Infatti i lesbii Per questa
turpitudine avevano mala reputazione. Aristofane: “Già essendoci orale accondiscendenza per i
convitati.” (Λεσβίσeiv. Οs & linguam nefanda obscenitate polluere. Fellare. Lesbii enim ob hanc
τμrpίtudinem male audiebant. Αriftophanes: ‘”Cum iam ore morigeratura esset convivis.” Λεσϐίσειν·
μολΰνειν τὸ στόμα· Λέσϐιοι γὰρ διεβάλλοντο ἐπὶ αἰσχρότητι. Άριστοφάνης· Μέλλουσαν ἢδη λεσϐιεῖν
τοὺς ξυμπότας· Cit. T. 2, p. 431.)

La predetta cattiva nomea dei lesbii trova conferma nel nome che gli antichi greci davano al 'dildo',
cioè al surrogato del pene usato dalle donne per raggiungere la soddisfazione sessuale,
trattandosi allora di un succedaneo fatto di cuoio; infatti si chiamava ὂλισβος, quindi un nome che
palesemente si richiamava all’isola di Lesbo (ὀ Λέσβιος, ‘quello di Lesbo’). Persosi poi, col passare
dei secoli, quel significato etimologico, si attribuirà l’uso costante di tale attrezzo di piacere
soprattutto alle cittadine di Mileto, colonia greca in Lidia, avendo evidentemente già allora le donne
anatoliche, a partire da Elena di Troia in poi, quella reputazione di licenziosità di cui ancora nel
Cinquecento parleranno nelle loro relazioni i diplomatici veneziani residenti a Costantinopoli (ib. P.
678).

Ciò non ostante, era molto preferibile avere ciurme greche piuttosto che schiavone:

... io eleggo li greci come più forti, più destri e più durevoli alle fatiche e che niuno li avanzi in
sofferire fame, sete, freddo e l'altre corporali necessità che occorrono alla giornata. Non mi
partendo poi dal vogare, che è l'offizio che ricerchiamo, vi affermo che così spesse volte questo
333

fanno per il spazio di trenta e più miglia in quella maniera che da noi è detta 'stroppata', che è con
quanta forza l'huomo può mettersi senza punto fermarsi, termine che addimandiamo 'fornellare'.
Ed, havendo essi continuato tale fatica senza mai dimostrar alcun segno di stanchezza, tosto che
avviene che la galea getti le anchore e si fermi, il che accade talhora per un miglio o poco meno
lontano da terra, allora si veggono in un tratto porre i loro vernicali in capo e mettersi destramente
sotto i bracci li barili dell'acqua, indi, senza rispetto di essere infiammati e pieni di sudore, saltando
nel mare, nuotando gagliardamente al litto (‘lido’), al quale pervenuti si rinfrescano nei fiumi e nelle
fontane e nel fine coi pieni d'acqua si ritornano alle galee pur nuotando; né però questi contrari
accidenti che è di passare senza mezzo dal caldo al freddo mortalissimo sopra modo non
nuociono ad alcuno di loro né meno come si essi non di carne, ma di ferro fossero dalla natura
formati; ma dall'altro canto, se alle volte avviene che alli galeotti schiavoni convenga far
quest'effetto, rarissimi sono quelli che non infermino e molti eziandio ne muorono in pochi giorni.
(C. da Canalt. Cit. P. 113.)

Anche nel carattere i greci sono più forti dei dalmatini:

... Quanto al sostenere i disagi, troviamo sempre i greci forti ed intrepidi, ma li schiavoni deboli e
paurosi, quelli che negli avvenimenti contrarij prendono vigore e questi si avviliscono; i primi poco
si turbano e questi si attristano senza fine. (ib.)

Pertanto le buonevoglie greche, specie quelle di Candia e dell'altre isole dell'Arcipelago, sono
assolutamente preferibili e, perché non diano problemi nel servizio, bisogna che a bordo non
manchi mai il vino:

... Che, se il capitano potrà oprare in guisa che loro il vino non venga meno, esso non ne sentirà
mai querela o lamento alcuno. (ib. Pp. 113-114.)

Riguardo alla resistenza degl'isolani greci ai disagi il da Canal racconta un’esperienza del suo
grande avo Hieronimo, quando questi si trovò al comando di 13 galee veneziane nell'arcipelago
greco in pieno inverno e senza pane. Si distribuì allora alla ciurma grano da macinare con l'intento
che se lo macinassero nei loro scali con macine che si trovassero a terra per poi farne delle
focacce; ma, sia perché le poche macine che trovarono non erano sufficienti a tanta moltitudine di
gente sia perché non si ebbe modo di tener le galee ferme per il tempo necessario in nessun
luogo, le misere ciurme furono costrette a mangiar il loro grano arrostito o, per dir meglio, alquanto
riscaldato nella caldaia. Sennonché questo modo di mangiare il grano risultò alle ciurme, invece
che ostico, addirittura preferibile alle focacce che si usava mangiare a bordo quando le scorte di
biscotto erano finite, in quanto nella farina era per lo più necessario mettere acqua di mare a causa
della scarsità delle scorte di quella dolce e quindi in quella campagna cominciarono a fare per
scelta quello che all'inizio avevano fatto per necessità:
334

... Si avvide adunque per questa tale occasione il Canal che i greci più che i dalmatini erano
possenti a soffrir i disagi, percioché essi né mai del poco cibo si dolsero e questi spesso se ne
rammaricarono; né la qualità del nutrimento - per sé cattivo - hebbe forza non che d'accidente
alcuno, ma di far danno pur ad un solo ed i dalmatini invece in gran parte morirno e quasi tutti
furono soprapresi dall'infermità. (Ib.P. 114)

Inoltre, considerando l'eventualità di dare le armi alle buonevoglie nelle occorrenze della battaglia,
anche in tal caso i greci erano più affidabili:

... certo non si può negare che, appresso l'altre parti da me sopradette, i greci, per esser agili e
destri nella persona, non siano anco più pronti in adoperarsi nelli assalti delle guerre overo
nell'impeto delle fortune; senza che, essendo da natura assai tirati ad ogni picciol utile, entrano
ordinariamente in qualsivoglia pericolo, la qual cosa può apportar molte volte grandissimo
giovamento al capitano. Ma che questa nazione nelle cose di mare sia migliore di tutte le altre,
oltre alle ragioni, giudico buon testimonio alle mie parole il consiglio che diede Artemisia regina di
Charia a Mardonio capitano di Serse, dicendogli che i greci di tanto avanzano nelle guerre
marittime le altre genti di quanto nelle terrestri li huomini soprastavano alle femmine. (ib. P. 115.)
E certamente la grande vittoria che le galere d’Augusto ebbero ad Azio su quelle di Marc'Antonio,
le prime equipaggiate di ciurme dalmatine e le seconde di greche, non poteva far testo, in quanto
quella vittoria, come si sa, fu principalmente dovuta alla defezione delle 200 galere egiziane di
Cleopatra.
Dunque caratterialmente migliori i greci degli schiavoni; ma lo erano, come abbiamo già detto,
anche fisicamente perché corrispondevano ai seguenti canoni:

... I galeotti vorrei che essi fussero anzi di picciola che di grande statura; né carnosi e corpulenti,
ma nervosi e asciutti, che tal complessione gli rende forti e di gran vigore (ib. P. 271)
…quando io elessi il galeotto più tosto greco che schiavone, mezzano che grande, asciutto e
nervoso che carnoso e grasso e somigliantemente più tosto bruno che bianco, dicendovi che così
fatti huomini erano sempre più animosi, più agili, di maggior lena e meno sottoposti al sudore che
verun altro. (Ib. P. 148.)

Il grande apprezzamento delle buonevoglie greche espresso dal da Canal non gl’impedisce però di
rilevare tutti i difetti connessi all'impiego dei volontari del remo e inizia dal sistema di paga praticato
da Venezia; di solito infatti le buonevoglie della Serenissima erano pagate solo quattro o cinque
volte in un’intera stagione di voga e ciò rendeva impossibile la soddisfazione dei loro bisogni
economici giornalieri durante il servizio; ma ciò che di questo aspetto risultava pregiudizievole per
gl’interessi di Venezia era che in tal maniera si trovavano alla fine del loro ingaggio creditori di
molto danaro e quando, ricevuti poi questi loro avanzi, i quali di solito ammontavano a circa 30 e a
volte anche 40 ducati, sbarcavano con questa buona somma in tasca, affrontavano la vita di terra
con più animo e quindi, invece di ritornare poi alle fatiche e ai disagi delle galere, si davano chi a
lavorare a terra, cioè chi a pescare, chi a trafficare, chi ad altro ancora; di conseguenza la
335

repubblica doveva ogni anno andarsene a cercare di nuovi molto più di quanto sarebbe stato
necessario se si fosse corrisposto alle buonevoglie più danaro da spendere durante il servizio e
sarebbe bastato, secondo il da Canal, arrivare alle sei paghe stagionali. In tal maniera i remiganti
avrebbero vissuto a bordo più comodamente e contenti e non si sarebbero avute, come invece si
avevano, le galee veneziane piene di lamenti e lordure; inoltre, una volta sbarcati con pochi soldi in
tasca a Venezia, cioè lontani dal loro paese natio, non avrebbero potuto far altro di meglio che farsi
reingaggiare al servizio di galera.
Per gli stessi motivi, sia di conforto di vita sia d'anticipo di danaro, il da Canal consigliava di
distribuire alle buonevoglie anche più vestiario:

... Vorrei appresso che questi miei huomini fossero vestiti da capo a piedi due volte l'anno, il che
più che ad altra nazione conviene ai greci per rispetto che, essendo essi poveri e trascurati, ne
vanno quasi tutte le stagioni dell'anno discalzi ed ignudi, e vorrei che i loro drappi fossero l'estate
di buone tele ed il verno di schiavine e di grisi molto perfetti, i quali però non venissero loro donati,
ma venduti, né avesse alcuno la noia di pagare se non finito il viaggio, la qual cosa recarebbe lor
commodo e a noi, come ho detto, o a quel signore che questo ordine serbasse utile. (Ib. Pp. 116-
117.)

C’erano però delle occasioni in cui, dovendosi equipaggiare delle galee con urgenza e non
trovandosi abbondanza di volontari, per invogliarli si dava loro più denaro già all’ingaggio (trad. dal
veneziano):

(Febbraio 1500:) È stato deliberato di armare 30 galee, cioè 6 in Candia, 4 in Puglia, 4 in


Dalmazia e il resto qua in la terra; e, perché non si presentano galeotti, è stato deliberato di
arruolarne 2.000 con paga di 12 lire al mese e con tre mesi anticipati, con obbligo de servire sei
mesi e che al ritorno godano esenzione da angarie reali e personali (‘in denaro e in prestazioni’)
per due anni (D. Malipiero, cit. Parte prima, p. 197).

A quei tempi i nicoloti (isolani di S.Nicolò al Lido) e i povegioti (isolani dell’isola di Poveja) erano
considerati i migliori remiganti della laguna di Venezia e con essi, non sempre disponibili perché
ovviamente pochi, in genere si interzavano, cioè si potenziavano, i vascelli remieri minori usati
nella navigazione del Po; ma. come abbiamo già detto, gli esperti veneziani ritenevano però
generalmente più vantaggiosa la voga forzata e una prima considerazione da fare per spiegarne il
perché era che evidentemente gli ufficiali di galera non potevano esercitare su quella volontaria lo
stesso potere:

... percioché, venendo 'sì fatti huomini a servir volontariamente e non astretti da forza, il nostro
capitano non ha sopra di essi piena podestà e l'obedire ed il non obedire sarebbe egualmente in
arbitrio loro. (Ib.)
336

... havendosi riguardo all'obedienza [...] nessuna altra può agguagliarsi a quella delli sforzati, onde
io spero di farvi vedere 'sì come di obedienza nel vivere così di sigurtà nel combattere, di velocità
nell'andare, di prestezza nei serviggi, di mondezza e di sanità è tanta diversità nei galeotti, dalle
galee sforzate alle volontarie, quanto è da uno solo arboro a una tutta selva, da un fonte al mare e
da un torchio (‘torcia’) acceso al splendor del sole. (Ib. P. 149.)

Vediamo ora il perché di questo drastico giudizio del da Canal, che è poi lo stesso del Contarini e
del Cappello, anch'essi ufficiali generali marittimi veneziani di gran nome a quel tempo,
premettendo però per una più chiara comprensione del nostro lettore che, a differenza delle
buonevoglie delle galee veneziane, le quali servivano libere da ogni ceppo, quelle ponentine
vogavano, come abbiamo già ricordato, incatenate ai loro banchi come gli schiavi e i forzati:

... dico che dalla catena nasce il timore in questi huomini e dal timore l'obedienza e percioché
eglino a un picciol cenno de marinari fanno prestamente tutto quello che è loro imposto [...] questi
(‘i nostri galeotti’) non temono alcuno, ma fanno la maggior parte delle cose quali si adoprano a
voglia loro, si partono quando lor piace da i banchi e se ne vanno per la galea travagliando e
confondendo ogni cosa; né possono i capitani, con qualche asprezza castigandoli, ridurli alla
debita disciplina temendo che essi, come spesso fanno, fuggendo abbandonino la galea. La
qualcosa dico spesso fanno o da solo a solo o, come delli schiavoni si disse, tutti insieme. (ib. P.
150.)

Bisognava anzi che gli ufficiali generali veneziani qualche volta formalizzassero la possibilità che le
buonevoglie avevano d’avanzar loro delle rivendicazioni, come si legge sempre nella Milizia
marittima:

... li huomini da remo [...] volli che in ciascuna galea fosse lor data podestà di elegger due o più
capi, i quali in ogni occasione havessero potuto indursi alla presenza mia e proporre tutto quello
che fosse lor di mestiero. (ib. P.187.)

Ecco dunque un bell'esempio di sindacalismo ante tempus. La libertà di cui godevano a bordo le
ciurme dei veneziani era deleteria ai fini bellici per vari motivi; uno era che durante la battaglia, se
le sorti volgevano a sfavore, i remiganti il più delle volte si gettavano in mare per salvarsi la vita,
trasformando così una situazione sfavorevole in una rotta sicura; un altro era che le galere sforzate
dei ponentini portavano più soldati di quelle volontarie dei veneziani e non solo per elezione, bensì
anche per la necessità delle doppie guardie che quelle richiedevano, avendo necessità di
sorvegliare anche i remieri. Nelle galee veneziane il numero degli uomini di spada, ossia soldati e
marinai, usualmente non superava la sessantina, mentre il da Canal ne giudicava necessari da 70
a 90; inoltre nelle galere sforzate il capitano, avendo prima della battaglia necessità d'altri soldati,
poteva levar dalla catena alcuni forzati che gli sembrassero più forti e valorosi e armarli,
337

promettendo loro la libertà quando avessero combattuto arditamente. Ecco che si spiega perché i
veneziani, pur avendo le più numerose e meglio armate squadre di galere della cristianità,
ottenevano raramente dei grandi successi contro le armate turche:

... gli huomini delle galee sforzate, essendo ritenuti dalla catena, non possono gettarsi in mare e
per conseguenza sono astretti a combattere loro malgrado, dove per contrario i galeotti delle
libbere per ogni minimo accidente vi si gettano con pericolo e danno in tutta la galea. La qual cosa,
come che essa sia tanto importante che nessun’altra, né più non vi trovano rimedio né sanno
ripararvi i nostri capitani... (Ib. P. 152.)

In realtà non si usava dai sovracòmiti (‘capitani di galera’) veneziani applicare in questi casi alcuna
severa punizione, perché non si sarebbe ottenuto altro che scoraggiare dal servizio di galera tutte
le altre buonevoglie, provocandone così una maggior penuria. Non a caso il famoso antico
comando “Duri ai banchi! (‘Tenetevi saldi ai banchi!’) era veneziano ed è poi diventato a Venezia
addirittura un consueto modo di dire, capitava infatti spesso che bisognasse comandare alle
buonevoglie di restarsene seduti e fermi ai loro posti, specie qando incombeva una minaccia
bellica o un pericolo meteorico.
Era dunque vero solo in teoria quello che in generale pensavano i ponentini, cioè che in occasione
di combattimenti le buonevoglie delle galee veneziane, essendo libere dalla catena, potevano
essere armate e trasformarsi in combattenti; infatti ciò si otteneva solo talvolta e quando la
battaglia volgeva al meglio, perché in caso contrario, come abbiamo visto, preferivano fuggire
gettandosi in mare. Un uomo molto sperimentato, quale senza alcun dubbio era Andrea d’Oria,
non sembrava condividere questa generale invidia ponentina della teorica possibilità che avevano i
veneziani d’affidarsi alle buonevoglie anche per il combattimento, il che è ben dimostrato da
quanto racconta il Buonfiglio Costanzo a proposito dell’armata della lega cattolica stretta tra
Venezia, Spagna e Roma che combatté la battaglia della Prévesa nel 1538 proprio sotto il
comando generale del principe genovese:

… Ma il principe Doria, prima che si deliberasse nulla, volle riconoscere l’armamento di tutte le
galee, onde vidde che le galee veneziane haveano pochissima gente da combattere, confidati
solamente nelle ciurme, le quali loro, a tre per banco, costumavano di portare armati di corazza,
morrione, mezze picche, spade e archi, con corbe di sassi e, con certi tavoloni nelle bande,
portando un lung’ordine di schioppi, li quali con una mina erano scaricati (tutt’insieme) da un
remiere; e però, quest’antico e rozzo armamento non parendo bastante al principe, che (ne) sicuro
ne certo fosse di vittoria, dovendosi azzuffare con giannizzeri, gente valorosa ed in grosso numero,
perché (‘per il che’) richiese al general veneziano (Vincenzo Capello) che, a maggior sicurtà,
ricevesse venticinque archibugieri spagnoli per ciascuna delle sue galee. Questo partito proposto
spiacque al veneziano e abborrillo, recandogli non poca gelosia, avendo l’escusa in pronto, non
potere ciò fare senza espressa licenza del (suo) Senato, ma che soddisfazione bastevole avrebbe
dato a’ colleghi (senatori) con armare le galee, in cambio de’ spagnoli, de’ candioti, atti a
338

combattere assai valorosamente in mare. Con ‘sì fatta risoluzione navigarono… (Cit. LT. III, p.
461.)

In effetti la scarsezza d’archibugieri era un punto debole, non solo delle galere turche, bensì anche
di quelle della Serenissima, come anche ci narra il suddetto autore a proposito della battaglia di
Lepanto. D'altra parte ancora più esagerato era il voler credere possibile un uso combattivo dei
forzati, come anche si legge nel trattato del veneziano da Canal:

... è agevole a comprendere che gli sforzati acquistino la vittoria combattendo, la qual ostinazione
accresce con la speranza di guadagnar la libertà, percioché, venendo al capitano di queste galee
occasione di dover combattere, egli (avendo) conosciuto i nemici se essi sono o saraceni o
cristiani, il che si comprende di lontano non pur alle insegne, ma al modo di portar le vele e, ch'è
più, alle nude antenne e alla maniera del vogare, sciogliendo all'hora delle catene [...]
principalmente quei galeotti che sono differenti di religione e di setta di quegli che vengono ad
incontrarlo e promettendo loro, se valorosamente combatteranno, la libertà e appresso il particolar
utile di tutto quello che essi prenderanno, è cosa che tanto gl’infiamma e così accresce loro l'animo
ed il vigore che indubiamente vincono. E questo confermano parimente le armate di ponente ed in
tutte le nostre memorie dalla fronte de' nemici non si sono già mai se non vittoriose dipartite. (Cit.
P. 169.)

Eppure il da Canal era stato, come egli stesso afferma, il primo ad addestrare alle armi e ad
armare sistematicamente le buonevoglie di Venezia:

... Dico adunque che, parendomi di oprar cosa di molto caso, ho voluto io essere il primo de'
capitani che abbi comandato galea della nostra Republica che volto si sia a far disciplinare i
galeotti a maneggiar l'archibugio. Il che fino ad hora non hanno eglino fatto giammai, parendo che
bastassero assai, nell'investir l'inimico, lanciargli contro di molte pietre e, ciò fatto, venire
immediatamente alla spada, rimettendosi liberamente a quella battaglia senza alcun termine
d'avantaggio e donandosi - come si dice - alla fortuna. (Ib. P.133.)

Egli si sofferma poi a spiegare come aveva organizzato questa innovazione a bordo delle sue
galere e come essa avesse portato a ottimi risultati, ma, trattandosi d'un esperimento che non
risulta esser stato in seguito imitato da altri ufficiali generali marittimi veneziani e quindi d’un
argomento da non generalizzare, preferiamo non esaminarlo al fine di non appesantire
ulteriormente questa nostra trattazione; è comunque interessante notare che nel Cinquecento si
considerava ancora utile i battaglia il soldato 'lanciatore', ossia quello adibito a lanciare con le nude
mani sul nemico proiettili contundenti, quali palle di piombo e pali di ferro, ma soprattutto sassi, dei
quali, caricati in corbe, le galere medievali erano state sempre ben fornite; a tal proposito la già
citata ordinanza del Mocenigo del 1420 ci fa però capire che armare le buonevoglie in tal semplice
maniera era antica usanza:
339

... Item: da Corfù in là tutte le arme da huomeni da remo sia in coperta [...] Item: tute le galie debia
ser fornide de piere da man de soto e per coverta... (Ordini et capitoli di Pietro Mocenigo. Biblt.
Vat. A 281. In A. Jalt. Cit.)

Lo Jal, il quale cita la predetta ordinanza veneziana, pure ne menziona un’altra molto più antica ,
cioè una del 1279 tratta dallo Zanetti e con la quale s’imponeva a tutti i vascelli forniti di coperta di
portare almeno due barcate di pietre e di tenerle a portata di mano; cambiando poi mari, vediamo
che lo statuto danese di Schleswig (c. 1150) al cap. XVIII ci dice che i pirati dei Mari del Nord di
allora venivano usualmente all’attacco lanciando pietre (Pardessus. Cit.); ma, andando ancora più
indietro nel tempo, sull’utilità di quest’arma primitiva nella guerra nautica medievale così si legge
nel già citato trattato del nono secolo d.C. attribuito all’imperatore bizantino Leone VI, tradotto in
questo caso dall’erudito napoletano Alessandro Andrea:

… e le galere (‘dromoni’) habbiano sassi da tirar con mano, nomati ciottoli, e se ne servano per
arme, che le pietre son buon’arme e certe... (Cit.)

E molto interessante continuare a leggere questo brano della Тάϰτιϰα perché da esso s’evince
chiaramente come si svolgeva un combattimento marittimo nel Mediterraneo dell’Alto Medioevo,
cioè molto prima dell’invenzione delle armi da fuoco:

… Non tirino però le pietre in modo che in quelle consumino tutta la robustezza delle forze e nel
rimanente sian ociosi (‘oziosi’), perche’ nemici, giungendo insieme gli scudi e schifando
(‘schivando’) l’empito, resistan loro ed eglino habbian consumato tutte le pietre, le quali finite e
stancati(si) i tiratori, levandosi gli inimici ristretti, si sforzino defendersi con le spade e con le picche
e, stimati(si) più forti, con (‘a seguito di’) questo empito ammassatisi, assalendo i soldati stanchi,
potriano rompergli (‘romperli’) e vincer facilmente, che così soglion fare i barbari.
I saracini dal principio sostengono l’empito della battaglia e, poi che veggono i nemici già lassi e
che lor mancano i dardi (‘verruti, pili, giavellotti’); o le saette o le pietre o le altre cose ‘sì fatte,
assaliscono furiosamente e spaventano i nemici e dan dentro d’appresso (‘vengono
all’arrembaggio’) con forze e con empito, venendo alle strette con le spade e con le spade… perciò
che si deve misurar la forza (‘resistenza’) de’ soldati e’l numero de’ dardi che si hanno a lanciare…
(Ib.)

Ecco dunque una guerra nautica combattuta ancora come si faceva nell’antichità, dove i vascelli,
non potendo colpirsi a distanza per mancanza d’artiglierie a lunga gittata, finivano per essere
unicamente dei veicoli di trasporto che portavano i combattenti all’incontro col nemico, per poi, a
incontro avvenuto, diventare essi stessi un campo di battaglia nel quale avvenivano prima lanci di
proiettili a cortissima gittata e poi scontri fisici; perché ciò avvenisse era però necessario prima
attaccarsi strettamente al nemico con grappini d’abbordaggio, mentre il nemico poteva, se si
riteneva di forze inferiori, cercare d’evitare la battaglia respingendo i vascelli assalitori per mezzo di
340

lunghe picche puntate saldamente contro il loro bordo. Un altro modo di cercare di non combattere
era quello che usarono i franco-provenzali degli ammiragli Raymond Marquet e Berlinguer Mallol
contro i siculo-aragonesi dell’ammiraglio Ruggiero de Loria nel 1285, come raccontava il d’Esclot
nella sua Historia de Cataluña etc. Barcellona, 1616:

… Le galere del re d’Aragona infrattanto dettero nelle trombe e nei timballi, e gridarono a gran
voce “Aragona! Aragona!” E quelli delle galere del re di Francia che udirono gridarono parimente
“Aragona! Aragona!” per non far conoscere quali fossero le une, quali le altre. E i siciliani che
udirono gridarono “Sicilia! Sicilia! E i provenzali che stavano con le galere del re di Francia
gridarono egualmente “Sicilia! Sicilia!”, cosicché, quando furono tutte mescolate, non si poteva
facilmente capire quali galere fossero del re d’Aragona né quali erano del re di Francia. E pertanto
don Ruggiero volle che nelle galere del re di Aragona accendessero un fanale a poppa; e i
provenzali che stavano con le galere del re di Francia fecero altrettanto. E don Ruggiero de Loria,
non vedendo possibile altro rimedio, disse: “Orsù! Visto che è così, faccia attenzione ciascuno,
come meglio può, a non far danno ai suoi; e addosso a quelli, in nome di Dio!”…

È’ interessante infine notare nella suddetta citazione una delle prime testimonianze della potenza
bellica marittima dei saracini, ossia dei magrebini, potenza che poi, a partire dal sec. XIV,
diventerà solo ausiliaria di quella ottomana.
Diremo infine che queste pietre da pugno, dette pure chiacchi da pugno, s’usavano comunemente
ancora nel Cinquecento e Christoforo da Canal (Della militia marittima. Roma, 1930) scriveva che
riuscivano di grand’effetto e un capitano prudente avrebbe fatto bene a imbarcarne
preventivamente almeno due barcate, come del resto si consiglia anche nel summenzionato
Governo di galere.
Oltre al vantaggio che i loro remieri, perché incatenati, non potevano fuggire (vn. fallire), le galere a
voga forzata avevano anche quello della prestezza con cui, ad un toccar di fischio, erano eseguiti i
servizi di bordo e che nasceva dall'esser i galeotti in catena sempre pronti e ai loro posti, posti che
erano fisicamente vicini ai luoghi in cui andavano svolte quelle particolari manovre; erano quindi
pronti e svelti, non appena i marinai avevano portato la vela sopra coperta, a legarla all'antenna e
a farla così salire sino alla sommità della gabbia dell'albero e, tosto che i predetti marinai avessero
invece portato qualche fune o capo d'ormeggio [lt. rudens; tlt. palamarium, gr. πρυμνήσιον,
ωρυμνήσιον; ἐπίγυ(ι)ον], a svolgerlo, tenderlo fortemente e imbrogliarlo in un momento; bastava
poi accennare loro che bisognava aprire o serrare la tenda perché la cosa venisse eseguita in un
batter d'occhio:

… Né è da tacere che, si come la prestezza nasce dalla prontezza che io ho detto, così la
prontezza nasce similmente dal timore, (il quale) partorisce ogni diligenza e bontà che in questi
galeotti si trova; ma da i galeotti liberi non si può ritrarre questo utile percioché non che stiano a'
luoghi loro, ma, come s'è detto, di continuo vanno discorrendo per la galea, si come quelli che si
sogliono valere della libertà loro né hanno, come gli sforzati, i loro capi. (C. da Canalt. Cit. P. 157.)
341

L'ordine e l'uniformità dell'equipaggiamento era un altro elemento che rendeva le ciurme


incatenate molto più efficienti di quelle volontarie ed erano, tra l'altro, di gran vantaggio le seguenti
circostanze:

... lo havere gli sforzati tutti i loro banchi ad una medesima maniera coperti d'un piccolo pagliariccio
di canevaccia e sopra questo, strettamente cucita, una pelle acconcia di vacchetta di color negro o
rovano, come direbbono fiorentini, e dal di sotto di questa attaccate due correggie alle quali essi
appendono l'archibugio di quel soldato che ha la sua balestriera vicino al banco loro; lo essere
eglino vestiti ad una medesima livrea (‘con un vestiario uniforme’), il tener ciascuno il suo
schiavinetto (‘schiavina, coperta da schiavo di galea’) bene e gentilmente piegato e posto
acconciamente nella corsia... (ib. Pp. 158-159.)

Questi e altri vantaggi, già spiegati o da spiegare, rendevano l'ambiente di bordo molto più
razionale di quello delle galee veneziane:

... e sono special cagione della somma politezza ch'elle tengono, la quale invero è tale che le
nostre non si ponno pareggiare seco; percioché queste hanno i banchi carichi d'infiniti panni
coperti con una lorda schiavina, qual con un gabbano sdrucito e qual con una sozza e fetida pelle
di bue col pelo volto alla parte di fuora e tale con un rozzo e ammarcito tappeto e sono poscia tutti
ligati con cento milia capezzi di aggroppata fune ed infine talmente gonfi e male acconci e assettati
si veggono che da ponentini per loro proverbio è detto:

Banchi gravi e mal legati


non si agguagliano a sforzati. (ib.)

Anche l'igiene era molto più curata sulle galere di ponente che in quelle veneziane; ecco per
esempio come i remieri inceppati si mantenevano scevri dai pidocchi:

... A questo si aggiunge la nettezza - parte molto necessaria nei soldati e molto più negli huomini
della galea - e questa negli sforzati è non meno debita che ordinaria, poiché è dato loro per legge
da i loro capi e chi non l'osserva a punto è fieramente battuto con una qualità di sferze che non si
adoperano coi fanciulli. Hanno adunque per necessario ordine, dal quale ne deriva uno infallibile
costume, di nettarsi ogni mattina sul levar del sole, ond'essi vanno dal di fuora della galea, cioè
sopra il palamento, appresso la banda di essa galera di rimpetto ciascuno al suo luogo e tanto di
fuora quanto può concedere la longhezza della catena ed ivi ciascuno con molta prestezza, trattosi
i panni d'addosso, con molta diligenza gli va ricercando e purgando, scuotendo fuora ciò che vi si
trova; indi, rivestitigli prestamente, ciascuno con una scopetta in mano è intento a nettar il luogo
che gli serve per stanza così del giorno come della notte. (ib. Pp. 157-158.)

La lunghezza della catena permetteva a questi remiganti d'andare alla banda pure per vuotare o
scaricare il ventre, come allora pudicamente si diceva, dovendo infatti fare anche questo in mare,
mentre per orinare usavano degli orinali (lt. matulae, matellae, matelliones) in dotazione che si
342

passavano l'un l'altro e poi svuotavano fuori bordo; i buonavoglia veneziani, non essendo
incatenati, andavano anch'essi a defecare fuori bordo, ma in un punto a loro all'uopo concesso e
detto la poggia e cioè a sinistra in corrispondenza del fogone, luogo dove pure si tenevano a volte
piccoli animali vivi destinati alla macellazione.
I remieri ponentini, a differenza delle buonevoglie di Venezia, avevano anche l'obbligo di lavarsi
ricorrentemente:

… Hanno eziandio per ordinario il lavarsi un giorno per settimana e farsi levar tutti i peli a talché
rimangono mondi come noi e, perché nulla possa mancar a tal mondezza, hanno due mude di
vestiti l'una delle quali tengono sotto coperta nella ghiave (‘cavo, cavone’) dello scrivano e se ne
coprono quando è bisogno o per esser bagnati o per levarsi l'immondizia. Il che nei galeotti liberi
non avviene, i quali né mai si lavano se non quando loro viene voglia di nuotare e di rado
adoprano forbici o rasoio di barbiero e, se hanno doppi panni, in capo di molti giorni se gli vestono;
ma parecchi di essi non ne hanno se non quelli che per ordinario portano, onde ad ogni tempo - e
bagnati e asciutti - sono sforzati di tenerseli sempre; e per questo, di leggieri facendo de' vermini
(‘parassiti’), di leggieri eziandione empiono tutta la galea e, che più, non sogliono nettarsi già mai.
(ib.)

Qui il da Canal si riferisce certamente non ai dalmatini, di cui erano fatte la maggior parte delle
ciurme di Venezia e dei quali già decantò la buona igiene e la disponibilità di vestiti, bensì
evidentemente ai greci, i quali, anch'essi apprezzati, come sappiamo, però per altri motivi, erano
per lo più seminudi e ignari d'ogni regola d'igiene:

... Tornando ai nostri (remieri) affermo che la immondizia è cagione, appresso quello che sopra ho
detto, di diverse infirmità, percioché le loro armi (‘ascelle’) di estate puzzano e dal fetore si
generano poscia doglie di capo e altri mali [...] quegli ch'usano gettarsi sovente in mare sono per lo
più solamente greci, i quali, quantunque tutto dì nell'acque come i pesci si stiano, sono però
sempre sordidi ed estremamente puzzano e quindi principalmente per cagione d'immondizia
apportano le febri ed ogni altro male nelle galee. Hanno tutti 'sì fatti huomini i capegli lunghi insino
agli homeri e le barbe insino al petto, il che fa che essi siano sempre puzzolenti e pieni di vermini
(‘parassiti’), percioché non che essi prezzino nettezza e politezza ed offizio di barbiero, ma ha
questa nazione 'sì fatto costume che anzi si lascierebbono tagliar un orecchio che permetere già
mai che si scortasse loro la barba o capegli. (ib. Pp. 162-163.)

Le diverse condizioni e i diversi ordini di servizio conferivano dunque ai remiganti di ponente una
sanità di gran lunga maggiore di quella di cui potevano usufruire quelli della Serenissima:

... La qual sanità per comune opinione viene dall'esser tutti quelli per la maggior parte schiavi de'
capitani delle lor galee, i quali, per l'utile che ne hanno, ne prendono cura e gli governano in guisa
che se fratelli o figli loro fossero; percioché, come fanno i buoni medici, doppo le fatiche ed i sudori
impongono che i marinari o vero che essi stessi l'uno all'altro scambievolmente si freghino con un
drappo di lino tutti gli humori e, poi che sono rivestiti, non lasciano che per buono spazio, cioè per
insino che hanno riposato a bastanza, si diano al bere o altro disordine commettano; indi fanno
343

recar loro il consueto mangiare - che per ordinario è il riso - e a quelli che si sono ottimamente
affaticati danno a bere vino con bona e larga misura e di buona sorte, e carni eziandio in 'sì fatti
tempi costumano dar loro in molta copia. Oltre a ciò, non potendo come i volontari andar tutto dì
per ogni terra e conseguentemente né alle taverne né a' chiassi (‘bordelli’), due effetti che
indeboliscono e ammorbano gli huomini, è cosa che sopra modo conserva la loro sanità. Non
possono somigliantemente, come riscaldati sono, col vernicale in capo e barili di sotto il braccio
gettarsi in mare un mezzo miglio e più lontano da terra e andarsene poi così caldi dentro alcun
fiume o fonte ad attinger nell'acque dolci per cagione di bere, come sovente veggiamo fare ai
nostri, il che come io dissi, è cagione che molti rimangono alterati, molti infermano e molti anco
moiono... (ib. P. 160.)

Per quanto riguarda l'alimentazione a cui il da Canal qui si riferisce, abbiamo più sopra già detto e
ribadiamo che differisce da quella da noi in precedenza descritta in quanto lui scriveva nella prima
metà del Cinquecento, mentre nella seconda le cose cambieranno; fa comunque ora questo autore
comprendere un’altra differenza importante con il successivo periodo della Controriforma e cioè
l’abbondanza di schiavi privati al remo delle galee veneziane. Si trattava di disgraziati comprati dai
mercanti d’uomini nei territori balcanici più interni e non soggetti a Venezia; di russi, lituani, ucraini,
georgiani, insomma di slavi di ogni nazionalità acquistati nell’Europa orientale; di tartari, di
calmucchi, di kirghisi e di innumerevoli altri deportati asiatici che i patroni di galera acquistavano -
o direttamente o tramite mediatori - perlopiù in mercati della Dalmazia, dei quali il più fiorente, se
così si può dire, era quello di Ragusa.
Dunque le galere ponentine, come del resto abbiamo già visto anche delle turche, erano certo più
ordinate e sobrie delle veneziane, la cui gestione - calcolava il Contarini - costava alla
Serenissima 700 ducati veneziani circa il mese d'esercizio per ognuna, mentre il Mantelli reperisce
la somma di 6.000 ducati castigliani per il mantenimento d’una galera sottile spagnola verso il 1560
e di 6.666 ducati napoletani per una partenopea nel 1578, fanti di marina esclusi [Roberto Mantelli,
Il pubblico impiego nell’economia del Regno di Napoli: retribuzioni, reclutamento e ricambio sociale
nell’epoca spagnola (secc. XVI – XVII), Napoli, 1986.]; infatti il da Canal, il quale, come sappiamo,
le riteneva migliori delle veneziane, così ancora le elogiava:

... quelle lor galee, le quali tutte sono fatte per commodo e utile e non per pompa come le altre
nazioni, imitando l'essercito di Dario, le fanno... (Ib. P. 159.)

Ovviamente qui il predetto autore per le altre nazioni intende implicitamente solo la sua Venezia,
dato che, come abbiamo appena visto, sulle galere turche si viveva in maniera ancora più
spartana; inoltre le squadre di galere della Serenissima erano travagliate da gravi pestilenze le cui
principali cause erano l'imprudenza e la sporcizia:
344

... Da questo dunque procedono nelle galee volontarie di molte infirmità, 'sì come petecchie, quello
che noi diciamo mazzucco e mille altre sorti di mali contagiosi che di leggieri d'un ad un altro si
appigliano e di febri pestilenziali parimente, le quali le più volte non saprebbono guarir non dirò
Hippocrate o Galeno, ma Esculapio medesimo. La sanità di quelli nasce dunque, come s'è detto,
dal buon governo de' capitani e sopra còmiti, così il contrario di questo nasce dalla poca cura che
vi prendono i nostri, onde convengono le nostre galee rimanersi molte volte con poco honore in
sioverno (‘scioverno’) o mandracchio che dir vogliamo, inutili e presso che del tutto disarmate. (ib.
Pp. 160-161.)

Premesso che scioverno e mandracchio (dal gr. μάνδρα-ας, ‘zona recintata’, attraverso il derivato
μανδράхης-ου) erano ambedue sinonimi di darsena, arsenale (lt. navale, navalia; tlt. arsenatus;
gra. νεώριον; grb. νεώρια, νηοφυλαϰεῖον, νεώσοιϰοι; cst. tarazanas) ed erano usati, specie il
secondo termine, soprattutto nel Levante, questo giudizio del da Canal non significa però che sulle
galere ponentine le condizioni igienico-sanitarie fossero ottime; è comunque vero che su quelle di
Venezia esse fossero veramente pessime e lo testimoniano le terribili epidemie che appunto la
storia ci riporta esser frequentemente scoppiate soprattutto sull'armate di galee veneziane, ultima
quella del 1687 nei porti della Morea.
Otre alle regole igieniche che si praticavano nel Tirreno, gli esperti veneziani ne invidiavano di
quella marineria molte altre; per esempio molto apprezzati erano i seguenti usi invalsi sulle galere
sforzate francesi e dello Stato della Chiesa; il primo cioè che al ritorno dalle loro missioni i capitani
di galera erano tenuti a riconsegnare tanti galeotti quanti in partenza n’avevano ricevuto e ciò nel
caso non potessero giustificare le perdite con atti di guerra o con grandi e irreparabili incidenti
subiti; il secondo che la riconsegna dei galeotti, oltre che per numero, doveva avvenire anche per
nome e altri contrassegni, in modo che, nel caso fosse stato condannato al remo un gentiluomo o
comunque una persona anche d'altra condizione, ma da buon riscatto, non lo rimettessero
arbitrariamente in libertà per guadagnarne così una grossa somma di danaro, sostituendolo magari
alla catena con un altro remiero comprato a bassissimo prezzo. Questi ottimi ordini non si
sarebbero potuti tenere sulle galere volontarie di Venezia dove, ogni volta che un buonavoglia
moriva, era in facoltà del suo sovraccòmito di trovarne un altro che lo sostituisse in qualsiasi scalo
capitasse, anzi alla fine della missione la Camera dell'Armare della Serenissima gli avrebbe
rimborsato il costo di quell'ingaggio; quest'uso era dannosissimo - pestilente lo definisce il da
Canal - per la buona salute dei vogatori, perché i sovraccòmiti non avevano quindi alcun interesse
a curarli e a mantenerli in vita. Nelle galere degli stati di ponente invece il capitano era costretto ad
avere ogni riguardo per la salute e la conservazione dei suoi remieri, in quanto, per sostituirne uno
fuggito o morto per ingiustificati motivi, era costretto o a combattere per far credere che fosse
morto in battaglia o a predarne un altro o ad acquistarne uno schiavo in qualche luogo; ma il
combattere per questo solo scopo poneva a rischio inutile tutta la galera, predare era una cosa
345

malagevole e spesso risultava anche ciò pericoloso e infine il comprare era oneroso, perché i
buoni remiganti molto costavano e d'altra parte di quelli cattivi poco si sarebbe potuto valere.
La galera sforzata o armata de forcza o per forza, come si diceva nel Quattrocento, era
vantaggiosa rispetto alla libera o armata de bona voglia anche per quanto riguarda i costi di
gestione che comportava, in quanto i remieri buonavoglia percepivano soldo e questa spesa era
molto superiore a quella dei vestiti e degli altri generi di munizione che pur si dovevano distribuire
ai remieri incatenati; inoltre una galera ponentina francese, imperiale, toscana, maltese, papalina o
genovese che fosse - o anche una turca - durava il doppio di quanto durasse una veneziana,
perché le buonevoglie, essendo uomini liberi, volevano scendere continuamente a terra e
bisognava quindi che le galere di Venezia facessero molti scali, usurandosi di conseguenza molto
di più di quelle di ponente, le quali invece non facevano scalo se non per le pure necessità di
bordo:

... Percioché, non mettendo esse giamai scalla (‘scala’) in terra, mancano di quel continuo
quassamento che è poi cagione che, a breve andare, si scavezzano nel mezzo della colomba
(‘chiglia’), come delle nostre tutte avviene; conciosiacosaché le ciurme libere vogliono non solo nei
loro bisogni andar fuora di galea, ma ad ogni loro beneplacito. Onde da questo ne segue che le
sforzate si conservano 25 e alle volte 27 anni salde ed intere e le nostre con difficoltà alli 12 e non
mai alli 14 pervengono. (Ib. P. 167.)

Inoltre per lo stesso motivo si faceva nelle galee veneziane un gran sciupio di palamento, perché,
affrettandosi esse continuamente a prender posto nei porti dove si poteva mettere la scala (gra.
ἐπιίβάθρα, διαβάθρα) a terra e contendendo tra di loro per arrivare a occupare la miglior posta,
ossia il miglior posto d'ormeggio, sempre succedeva che in queste gare si stringevano e
percuotevano l'una con l'altra, spezzandosi vicendevolmente un gran numero di remi. Queste
arregate avvenivano pure tra le galere ponentine, ma, poiché, come abbiamo detto, queste
facevano scalo molto raramente, le occasioni di danneggiarsi a vicenda erano dunque molto meno
frequenti.
Il frequente disperdersi a terra delle buonevoglie faceva sì che a volte le squadre veneziane
perdevano l'occasione di far qualche buona impresa per il tempo che si doveva perdere ad andare
a sollecitane il ritorno a bordo:

... E dove, per ridurgli alla galea, è mestiero che‘l trombetta o il tamburo vadano sonando in volta e
partitamente questo e quello per la città, gli sforzati, stando di continuo - per così dire - attaccati al
banco loro, al primo fischio del còmito danno i remi all'acque o le vele al vento e subito mettono in
opra il comandamento del capitano. (ib. P. 169.)
346

Si aggiunga ancora che nei quattro mesi invernali in cui non si usciva a navigare per esser la
stagione inadatta a vascelli di bordo così basso e di voga all’aperto i forzati e gli schiavi delle
galere ponentine potevano esser impiegati nella costruzione a basso costo di grandiose opere
pubbliche, come aveva fatto il principe d'Oria quando fabbricò il porto di Genova e il Barbarossa,
ossia il tanto famoso corsaro barbaresco rinnegato e generale ottomano Kheir Eddine (‘Il bene
della religione’) - soprannominato però, come sembra, Khizr, quando, dopo essere diventato re
d’Algeri nel 1518 al posto del defunto fratello Baba Arouj, fortificò quella sinistra città; egli poi,
costretto dal capo cabilo Ahmed Ben el-Cadi e dal traditore Kara Hasan ad abbandonarla nel
1520, vi tornerà però l’anno successivo, provocando con ciò l’assassinio del detto Ahmed, ma
riuscendo a insignorirsene di nuovo stabilmente solo nel 1525 e ricevendone poi nel 1527 il titolo
ufficiale di beglerbegi dalla ‘Sublime Porta', iniziandosi così la lunga reggenza ottomana della città.
Si ricordi infine che i galeotti incatenati non potevano fuggire dalla galera, cosa che invece le
buonevoglie facevano a ogni pie' sospinto, lasciando spesso le galere del tutto disarmate di remieri
e obbligando i loro sovraccòmiti ad andare a ingaggiarne di nuovi in diverse regioni, anticipando il
danaro necessario, soldi che poi avrebbero avuto non prima del loro ritorno dalla missione, il che
per di più con grande aggravio dell'erario pubblico.
Anche il Crescenzio, esperto ponentino e non veneziano, riconosce la superiorità delle galere a
voga forzata e infatti, laddove tratta degli schieramenti di battaglia, dice che le galere più deboli si
ponevano al corno sinistro, così come si faceva con le fanterie più deboli nelle battaglie di terra, e
cioè il predetto corno andava costituito con le galee di manco peso, anzi galeotte, e altri vascelli
leggieri armati di remieri scapoli, intendendosi per quest'ultimi appunto i remiganti volontari non
incatenati; il de la Gravière cita poi il militare francese Colbert de Maulevrier, il quale nel 1666,
scrivendo al fratello, allora ministro di Francia e tra i principali fondatori della potenza marittima di
quel regno, parlava della campagna anti-turca da lui appena condotta sulle coste di Candia e così
giudicava:

... En fait de galériens, il n'y a que les forçats qui puissent bien servir. (Jean Baptiste Jurien de la
Gravière, Les derniers jours de la marine a rames., Parigi, 1885.)

Insomma, un poveraccio incatenato, vilipeso, angariato e sollecitato da frequenti frustate riusciva


sicuramente più efficiente di chi vogava invece per libero mestiere e poteva, d'accordo con i suoi
compagni, mettere in ogni momento in discussione gli ordini degli ufficiali di bordo e abbandonare
eventualmente anche il servizio senza alcun preavviso.
Certo le tante predette argomentazioni del da Canal a favore delle galere sforzate ottennero il loro
effetto e infatti sembra certo che già nel 1545 Venezia ne abbia, nonostante i suoi principi cristiani,
347

approntate finalmente alcune, perlomeno con condannati provenienti da altri stati; le relazioni
d’alcuni suoi ambasciatori della seconda metà del Cinquecento confermano infatti questa nuova
scelta laddove ci informano che in quei loro tempi nei ducati di Ferrara e Urbino, stati che non
avevano galere proprie, si condannava al remo ugualmente perché i condannati si cedevano alla
repubblica di Venezia; per esempio il residente Matteo Zanne nel 1575 così riferiva al suo doge in
senato a proposito del ducato d’Urbino:

... Ha la Sublimità Vostra i condannati alla galea da quello Stato, ma oltre quelli, in occasione di
guerra e di bisogno, si potrebbe sperare d'averne qualche numero di buona voglia, parte allettati
dal premio, parte dalla persuasione del Duca; ma, per lo vero, si come quelle genti sono
buonissime alla guerra così non sono molto atte alla marinarezza (‘marinaresca; tlt’. marinaritia).
(E. Albéri. Cit.)

Bisogna qui chiarire che il termine marinarezza già era a quei tempi impropriamente adoperato per
indicare il mestiere di marinaio o anche l’insieme dei marinai di un luogo o di uno stato, ma in
realtà il suo significato originario era stato solo quello di salario pagato o da pagarsi agli uomini di
mare.
Il ducato di Milano, non disponendo di sbocchi sul mare non aveva una sua squadra di galere e
pertanto cedeva i suoi condannati alla Repubblica di Genova a beneficio delle galere del duca di
Tursi e la citazione che segue, anche se è tratta da una relazione diplomatica d’un secolo più
tarda, riflette una situazione già esistente alla fine del Cinquecento:

… Alla squadra del duca di Tursis (‘Tursi’), solita a stanziare in Genova, manda il governator di
Milano di tanto in tanto i condannati a galea di quello Stato. Questa catena - o ‘ligata’ che
chiamano - per uso antico, non si sa come introdotto, ma per inavertenza o dissimulazione de’
nostri maggiori lungo tempo continuato, entrava liberamente a’ confini e, con permissione poi di
Palazzo introdotta in Città, dopo la ricognizione che nelle case del ministro (‘legato’) di Spagna e
del detto duca si facea de’ medesimi, si conduceva all’imbarco. (R. Ciasca. Cit. Vol. V, p. 54.)

Qui l’ambasciatore genovese Gioan Andrea Spinola, inviato alla Corte di Madrid, non voleva certo
stigmatizzare l’invio di forzati tanto necessari alle galere armate dai suoi conterranei, ma solo la
circostanza che la loro catena si facesse entrare liberamente in città, spettacolo certo poco
piacevole e non consono al decoro d’una capitale, mentre si sarebbe potuto certamente farla
proseguire per Finale, come si faceva del resto per le fanterie provenienti dal Milanese, e colà le
galere sarebbero andate a imbarcarli con tutto comodo; ma la verità era che il residente spagnolo li
voleva prima comodamente al suo domicilio per assicurarsi che tra essi non ci fossero suoi
connazionali, perché a questi non era consentito vogare su galee che non fossero quelle spagnole,
e il generale delle stesse galee – il detto duca di Tursi di Casa d’Oria – approfittava anch’egli di
348

tale circostanza per passare i condannati in rassegna e dare così la sua preventiva approvazione
formale al loro imbarco senza dover per questo allontanarsi da Genova.
La squadra dei particolari genovesi, la quale era formata da condotti di galera, ossia da proprietari
di galere conduttizie (‘da noleggio, mercenarie’), per lo più delle famiglie d’Oria, Grimaldi,
Lomellino, Sauli, Centurione, de’ Mari e nei secoli precedenti anche altre come Fiesco, Volta,
Negro e Spinola, riceveva condannati anche dalla repubblica di Lucca, uso che sembra sia stato
iniziato dallo stesso principe di Melfi, il quale, informato dal Consiglio degli Anziani di Lucca del
fallimento della sollevazione dei tessitori detta degli Straccioni, avvenuta nell’aprile del 1531, subito
rispondeva rallegrandosi dello scampato pericolo:

… Quando Andrea Doria ebbe ricevuto dalla Repubblica di Lucca la notizia che la sedizione degli
Straccioni era stata vinta, rispose da Pegli il 15 aprile 1532 (sic) per esprimere la sua incredibile
allegrezza. In essa lettera soggiunse:
‘… e perché mi persuado che di quelli malfactori che sono incarcerati ne vorranno fare diverse
demonstrazioni, come in tal caso si richiede, gli raccordo che tengo numero di galere, delle quali e
d’ogni altra cosa mia Vostre Signorie possano disporre come me medesimo. E per questo e per
essere continuamente e maximamente adesso bisognoso di forzati e huomini da remo, pregole
siano contente farmi parte d’essi malfactori; che quanto sarà maggiore, tanto più obligato mi
haveranno e potranno promettersene maggior servizio, oltra che la punizione di quelli non sarà
minore di quella che gli potesse esser data per altra via (Anziani al tempo della Libertà, registro n.°
544).’
In forza di questa proposta del Doria, che fu accettata, i giudici lucchesi ebbero a condannare una
parte de’ sediziosi alla pena della galera, insolita fino ad allora e taciuta nelle varie compilazioni
delle leggi repubblicane. Anche lo Statuto del 1539 non ne fece parola, ma oramai l’uso era invalso
e nel progresso de’ tempi il Consiglio Generale o i giudici da lui delegati e investiti d’autorità
arbitraria seguitarono ad applicarla non raramente. Si seguitò del pari a mandare i condannati al
remo sulle galere di Andrea e degli altri ammiragli della sua casa. Sciolta poi la squadra al servizio
di Spagna, si fecero convenzioni per allogare i forzati sul naviglio della Repubblica di Genova.
Allorquando i tribunali lucchesi avevano inflitta questa sorta di pena, i condannati si mandavano a
Viareggio, da dove venivano a levarli gli aguzzini genovesi per mezzo di feluche. A questo effetto
carteggiavano gli Anziani cogli ammiragli Doria; poi i Cancellieri della Repubblica col Magistrato
genovese sulle Galere. La trasmissione a Genova di questi disgraziati cessò nel 1746, avendo
quel Magistrato stesso mancato all’invito di mandare a prenderne alcuni e dichiarato l’anno dipoi
che l’eccessivo numero che se ne aveva impediva di accettarne più oltre… (Inventario del R.
Archivio di Stato in Lucca. Vol. II. Carte del Comune di Lucca, parte II e III. Pp. 406-407. Lucca,
1876.)

Dopo qualche anno allora Lucca concluse con Venezia l’accordo di mandarle i suoi condannati.
Quanta ciurma (gr. λᾱός) serviva a bordo d’una galera ordinaria alla fine del Cinquecento e come
la si disponeva alla voga? Questa disposizione è stata frequentemente discussa perché, come al
solito, nessuno ha voglia di andarsi a leggere gli spesso ostici e uggiosi trattati coevi, limitandosi
sempre, in materie militari, gli studiosi contemporanei al solo leggersi e citarsi tra di loro,
trasmettendosi quindi gli errori dall’uno all’altro, anche talvolta aggravandoli; si aggiunga che si
sono prese per buone le fantasiose e assurde ricostruzioni tecniche della voga militare
349

dell’antichità fatte da Marcus Meibomius (De fabrica triremium liber. Amsterdam, 1671), autore che
nulla sapeva di marineria e il cui studio in materia, pur utilissimo dal punto di vista della ricerca
filologica, non è certo di nessunissimo valore da quello tecnico-storico. Eppure sarebbe bastato
rendersi conto che i maggiori equivoci e le maggiori oscurità in materia sono dovuti al continuo
sottintendimento nei testi antichi di una semplice parola e cioè banchi. Infatti, quando nell’antichità
si diceva vascelli biremi, triremi, quadriremi ecc. s’intendeva in realtà dire a banchi biremi, triremi o
quadriremi; cioè a ognuno dei banchi disposti all’aperto in coperta lungo le due fiancate
corrispondevano due o tre o quattro remi azionati da altrettanti remiganti seduti su quel banco
medesimo; il che vale inoltre perfettamente anche per le galere medievali e moderne. La detta
disposizione di remi e remiganti s’intende per esempio chiaramente dalla lettura del Pantera,
eppure l’unico dei trattatisti coevi alquanto letti e le cui affermazioni al proposito tornano con le
purtroppo poche e poco chiare immagini pittoriche, grafiche e lapidarie delle galere medioevali e
rinascimentali che ci sono rimaste; il capitano pontificio infatti così scriveva:

... Per queste ragioni possiamo creder che la Republica di Venezia non assegni alle sue galee più
che quattro huomini al remo e ciò, da poi che si è introdotto il remo grande chiamato 'di scaloccio';
che prima, quando si armavano le galee a tre e quattro e cinque remi per banco, secondo l'uso
antico, in luoco d'un remo che usano adesso con quattro huomini, non mandavano fuori le lor
galee con più di tre huomini per banco che vogavano altritanti remi, ciascuno il suo; il qual modo
d'armare - come ho inteso da huomini vecchi che hanno governato galee armate in quella maniera
- riusciva meglio che quando sono state armate con un remo tirato da tre vogatori. Ma, quando se
ne mettano quattro ad un solo remo, caminaranno senza dubbio meglio che se saranno vogate da
quattro huomini con quattro remi. (P. Pantera. Cit. P. 150.)

Spiegheremo poi il motivo tecnico di quanto afferma il Pantera, ma per ora limitiamoci a prendere
nota dell'importantissime affermazioni che in poche righe questo praticone ci ha dato. Egli scriveva
all'inizio del Seicento, dunque ci conferma che il passaggio dal sistema antico di voga, detto a
sensile (dallo sp. sencillo, semplice), ossia un remo piccolo per ogni vogatore, a quello moderno
detto di scaloccio (da ‘galloccia’ o ‘gallozza’, callosità patologica che si forma sui rami delle piante),
ossia un remo grosso per ogni banco e vogato da più vogatori, avvenne a partire dalla metà del
Cinquecento, ma molto, molto gradatamente. Il Pantera deve aver inteso raccontare delle galere a
sensile da vecchi consiglieri di bordo o ex-capitani quando egli era stato giovane, probabilmente
quando era ancora un nobile di poppa.
Nella sua relazione di Spagna del 1557 il residente veneziano Federico Badoero trattava tra l'altro
delle forze di mare di cui allora disponeva nel Mediterraneo la corona di Spagna e che erano allora
ancora sotto il comando generale del vecchissimo e tanto storicamente discusso principe
genovese Andrea d'Oria, il quale, nato a Oneglia il 30 novembre 1466, morirà a Genova
novantaquattrenne il lunedì 25 novembre del 1560, venendo il suo corpo seppellito nella chiesa di
350

S. Matteo; il Badoero scriveva che tali galere erano tutte sottili da 25 banchi per ogni lato, all'infuori
di due bastarde - galere di cui abbiamo detto - e due quadriremi, ossia a quattro remi sensili per
banco, secondo lo stile tradizionale che veniva dall'antichità, le quali ultime quattro avevano quindi
un numero di banchi superiore ai 25. Poco dopo però chiarisce che molte di queste galere erano a
voga di scaloccio, cioè già dotate del nuovo sistema, e a suo giudizio inferiori alle veneziane sia in
strutture che in armamenti; questa valutazione negativa viene mitigata quando egli tratta in
particolare di quelle spagnole, anche se continua a ritenerle non delle migliori:

... le quali però non sono né di bel sesto né molto ben tenute; vogano molte di esse ad un remo
per banco e sono assai preste. (E. Albéri. Cit. S. I, v. III, p. 261.)

Dunque apparvero le prime galere ordinarie a scaloccio alla metà del secolo, ma questo tipo di
voga, come abbiamo già dimostrato, esisteva anche prima perché precipuo delle galeazze, galee
grosse, maone e parandarie, e che quello fosse il periodo è anche confermato nel 1560 dalla
relazione letta al suo doge dal bailo a Costantinopoli Marino Cavalli, laddove scriveva delle galere
turche:

... Vanno ogni giorno facendo nuove esperienze di voghe, ora con quattro ora con cinque remi per
banco, mettendo tre, quattro e cinque uomini ad un remo; ma per verità non fanno quel profitto né
riescono loro le cose così bene come nell'arsenale di Vostra Serenità. (E. Albéri. Cit. S. III, v. I, p.
293.)

In genere sempre disposti, come abbiamo già detto, ad adottare le novità che vedevano sulle
galere ponentine, i turchi, solo per quanto riguarda questa trasformazione della voga delle galere
ordinarie da sensile a scaloccio, pur dunque pronti a sperimentarla, furono poi in effetti più lenti dei
cristiani ad avvalersi in grande stile tale innovazione e lo fecero, sembra, con una quindicina d’anni
di ritardo, cioè qualche tempo prima di Lepanto, se confrontiamo quanto ne dice il suddetto
Governo di galere con le affermazioni fatte dal bailo Jacopo Ragazzoni nella sua relazione del
1571, la cui stesura precedette evidentemente di qualche mese la detta battaglia:

... Sono le galee turchesche più alte che le nostre e vogano quasi tutte a un remo solo per banco,
tirato per l'ordinario da tre uomini; e sono i loro remi molto più sottili de' nostri e dicono usarli di
quella maniera perché affannano manco i galeotti. (E. Albéri. Cit. S. III, v. II, p. 100.)

Anche le galere di comando turche avevano però generalmente un maggior numero di vogatori e
infatti nell’ottobre 1572, mentre l’armata della lega cattolica assediava quella turca a Modone, la
Capitana di Napoli del marchese di Santa Cruz, opponendosi a una sortita del nemico, riuscì a
catturare con poco contrasto la galera di Mehmed o Mamut Bey, nipote del Barbarossa e genero di
351

Torgud, questo, generalmente conosciuto dai cristiani come Dragut, forse il più audace corsaro
barbaresco di tutti i tempi, perché a un certo punto i 210 cristiani che questa aveva al remo –
quindi evidentemente quattro per remo - si rifiutarono di vogare, e mentre, il Santa Cruz li
arrembava, attaccarono i corsari barbareschi, costringendoli a ritirarsi a poppa, e li fecero a pezzi;
ciò nondimeno Mamut si difese valorosamente sino alla morte. Chiaramente la maggior altezza
delle galere ottomane suggeriva l'uso di remi più sottili, per non eccedere così in peso gli
evidentemente più corti remi delle cristiane e non provocare così uno svantaggio di fatica ai remieri
di quelle; ma può anche darsi che questa maggior sottigliezza semplicemente derivasse da una
concezione più umana della condizione di remiero; comunque, l’adibire al remo di scaloccio solo
tre uomini significa che gli ottomani non ne avevano capito la vera convenienza e cioè quella di far
vogare quattro o anche cinque uomini per banco senza esser costretti a predisporre e gestire sulla
galera un troppo complicato e disagevole intrico di remi sensili o tradizionali che dir si voglia.
Questa principale motivazione è infatti data in un dialogo manoscritto della Biblioteca Marciana
ritrovato dall’ammiraglio Fincati e immaginato svolgersi verso il 1583 tra il capitano generale
genovese Gioan Andrea d’Oria (1539-1606), nipote del più famoso Andrea (da non confondersi
quindi con il suo omonimo che circa un secolo prima era stato soprintendente generale dell’armata
di mare spagnola al tempo del re Filippo II), e il provveditore d’armata veneziano Nicolò Surian a
bordo della galera comandata dal fratello di quest’ultimo Angelo; in esso il predetto provveditore
espone il certo vantaggio della maggior velocità prodotta dall’antico sistema dei tre remi sensili
rispetto a quello moderno dei tre vogatori a scaloccio e si profonde nelle motivazioni tecniche di
tale convenienza; poi, poiché il d’Oria si dichiara d’accordo con il suo giudizio, egli gli chiede come
mai allora non pensi di far tornare le sue galere all’antico sistema a sensile e il genovese così
risponde:

… È a causa dei nostri peccati che abbiamo abbandonato la vecchia voga. Il nuovo sistema
adottato ci offre un solo beneficio; noi dobbiamo spesso fare dei lunghi viaggi in Spagna, in
Barbaria, in Sicilia, nel Levante e le nostre galere vi sono molto esposte ad incontri con i corsari
barbareschi; noi disponiamo allora i banchi di esse in tal maniera che possono ricevere quattro o
cinque uomini per banco. Abbiamo così la facoltà di rinforzare le nostre ciurme prendendo in
prestito uomini dalle altre galere… (Biblioteca Marciana di Venezia – Sez. Ms.)

Il d’Oria voleva qui dire che la maggior velocità dei più agili e leggeri vascelli corsari nord-africani si
poteva pareggiare solamente aumentando all’occorrenza la spinta vogatoria, cioè aumentando il
numero dei vogatori; questo s’otteneva dunque molto più facilmente stipando più uomini allo
stesso remo, oltre che sullo stesso banco, e ciò senza dover aumentare le misure dei remiggi della
galera.
352

Il sistema a sensile era stato quello sino allora usato nelle galere sin dalla più remota antichità e
comportava dunque che ogni remigante avesse il suo remo, pur condividendo il banco con altri
vogatori; quindi, a seconda del numero di remiganti che sedevano su ogni singolo banco della
galera, questa poteva essere, come già sappiamo, bireme, trireme, quadrireme, quinquereme,
esareme, eptareme ecc.
Mentre nell’antichità si era combattuto soprattutto con triere, cioè con vascelli a tre ordini di voga,
invece nel Medioevo, evo certo economicamente più povero sia del precedente sia del seguente,
si combatteva, come meglio vedremo, più spesso con le più modeste biremi, allora dette galeae
anch’esse come le triremi, ma erano in realtà le stesse cioè poi nel tardo Rinascimento
prenderanno il nome di galeotte lasciando così quello di galee o galere alle moderne triremi e, a
maggior ragione poi a quelle più tarde a remo di scaloccio, le quali saranno dette bastarde o
quartierate e avranno un numero di remiganti superiore ai tre per banco. Nel 1560 il vescovo di
Mondoñedo Antonio de Guevara, predicatore e cronista, membro del consiglio dell’imperatore
Carlo V, nel 1560 non prendeva proprio più in considerazione ormai galere d’armata che fossero
solo biremi:

... y, al fin de muchas esperiencias hechas en las galeras, resumieron se todos en que la buena
galera ni ha de subir de cinco remos por banco, ni abaxar de tres. (Arte del marear y de los
inventores della y los trabajos de la galeras con muchos avisos para los que navegan con ellas.
Valladolid, 1538 e Barcellona, 1613.)

I banchi di voga a sensile non erano - né avrebbero potuto essere - perpendicolari all'asse
longitudinale della galera, bensì erano obliqui, cioè l'estremità interna del banco era più arretrata
verso poppa di quella esterna e pertanto tutto l'insieme dei banchi presentava la forma d'una spina
di pesce; ciò perché ovviamente gli scalmi dei due, tre o più remi d’ogni banco erano posti in
sequenza e con un banco perpendicolare avrebbero dovuto coincidere; poiché poi, nelle poche
immagini di galere dell'evo antico che ci sono pervenute, sono stati a volta rozzamente e
sproporzionatamente rappresentati degli occhi di scalmo - tanti quanti si voleva che fossero i remi
della galera - posti in serie oblique e uno leggermente più in basso dell'altro, gli archeologi ne sono
rimasti spesso ingannati e portati a credere che, invece di più ordini di remiganti, ce ne fossero più
livelli, alcuni dei quali posti magari sotto coperta; in aggiunta a ciò c’è da osservare che la coperta
della galea, come generalmente le coperte di tutti i vascelli, non era del tutto piatta bensì da
ambedue i lati era lievemente declinante verso la fiancata e ciò al fine di far defluire in mare sia
l’acqua piovana sia quella marina che le onde, quando alte, le lasciavano; quindi il remigante più
interno, cioè quello più vicino alla corsia, sembrava forse stare un po’ più in alto di quello più
esterno, ossai quello più vicino alla battagliola, ma in effetti non lo era perché le gambe del banco,
353

essendo d’altezza leggermente differente, pareggiavano il detto declivio della coperta; altrimenti
anche il banco sarebbe risultato declinante e quindi scomodissimo.
Il de Savérien, esperto di marineria vissuto nel settecento, a proposito di quest'argomento delle
galere antiche e nonostante questo tipo di vascelli ancora esistesse ai suoi tempi, confessava di
non capire come nell'antichità fossero stati disposti i rematori e così scriveva a proposito delle
semplicissime biremi:

...On a beaucoup écrit pour savoir comment étoient placés ces rangs de rames; et c'est, malgré
cela, un point d'histoire très-inconnu. (Cit.)

In effetti, qualche esemplare di grossa galera nella quale si vogasse anche sotto coperta ci fu e
abbiamo già detto che, per esempio, n’aveva ancora qualcuna la Francia nella prima metà del
Cinquecento; ma abbiamo anche visto che i remi dell'ordine esterno e superiore, a causa della loro
minore inclinazione sul mare, servivano solo per aiutare a girare il vascello e comunque, anche se
gli antichi fossero in qualche caso riusciti a trovare la giusta inclinazione per ambedue gli ordini di
remi, magari facendo quelli superiori molto più lunghi degl'inferiori, pure sarebbe stato pressocché
impossibile governare la galera, per non veder gli uni quello che facevano gli altri o, per lo meno,
per non poter i vogatori superiori agire in buona sincronia con quelli di sotto.
Il sistema a scaloccio nelle galere ordinarie si diffuse dunque lentamente, come scriveva il
Pantera, dalla metà del Cinquecento; ma questo, come abbiamo già più volte chiarito, esisteva già
da prima su altri tipi di vascelli a remi, anzi è estremamente improbabile che un’idea così semplice
non sia stata sperimentata anche nell'antichità. Abbiamo già visto che per esempio le parandarie
turche del Quattrocento erano spinte da remi di scaloccio a tre rematori per remo; ma anche le
galeazze, le quali esistevano, come abbiamo detto, ed erano usatissime già nel basso Medio Evo,
cosa che si legge per esempio nelle cronache del Quattrocento, e le galee grosse veneziane,
anch'esse tanto menzionate dal Sanudo nei suoi annali dello stesso predetto secolo, e le maone
turche non potevano esser spinte a sensile e ciò a causa della loro mole e altezza, proporzioni che
avrebbero in tal caso obbligato all'uso di remi individuali o troppo pesanti per un uomo solo o
troppo sottili rispetto alla loro lunghezza; dovevano pertanto esser spinte sicuramente a scaloccio,
cioè da remi lunghi, ma anche doppi e pesanti, manovrati ognuno da più uomini seduti sullo stesso
banco. Ora, con la voga di scaloccio, i banchi avrebbero potuto essere costruiti non più obliqui
bensì perfettamente perpendicolari all’asse centrale della galera; e invece si continuò a disporli
obliquamente. Perché? Le galere erano vascelli di linea, cioè in battaglia si disponevano in linea di
fronte, quindi non dovevano occupare lateralmente uno spazio esterno troppo ampio, cosa che
sarebbe accaduta con banchi e remi perpendicolari al loro asse; quindi si preferiva perdere in
354

potenza di voga, d’altra parte quasi mai necessaria, ma guadagnare invece in manovrabilità e
spazio in combattimento.
Nelle sue Mémoires Pierre de Bourdeilles visconte di Branthôme (1540 -1614), laddove elogia il
già ricordato generale delle galere di Francia Antoin Escalin, il quale aveva ricevuto questa
importante nomina una prima volta il 23 aprile 1544, accenna ai primi esperimenti di voga a
scaloccio sulle galere ordinarie tirreniche e cioè quello del 1535 voluto da Andrea d'Oria e quella
dell’anno successivo in Francia con la costruzione della galera La Reale:

... Era un uomo che intendeva bene il mestiere del mare. Fu lui che fece fare quella bella galera
che si chiamava 'La Reale' e che armò alla galoccia e a cinque per banco, delle quali per il passato
non se n’era veduta alcuna in Francia. In seguito si è continuato tal uso, il quale è molto migliore di
quello vecchio che è stato abbandonato da lungo tempo da tutto il Levante (cioè ‘il Mediterraneo’,
per i francesi). Quella che Andrea d'Oria aveva fatto per l'impresa di Tunisi e per ricevervi
l'Imperatore non era che da quattro e fu considerata a quei tempi molto bella e superba.
La galera Reale che io dico fu tanto ben fatta e comandata dal valoroso generale che essa è
durata in servizio ordinario più di trent'anni, ancor che essa ha avuto (un) breve ritorno sotto il
defunto signor Gran Priore; e certamente per questo quel defunto patrone, il signor marchese
d'Elbeuf, ne fece fare una molto bella e del tutto simile che si chiamò 'La Marchesa' dal suo nome.
Il conte di Rets l'acquistò in seguito e dura ancora, ma migliore come veliero. Ella servì da galera
generale lui vivente e rese al signor de la Garde la sua Reale, perché egli servì ancora abbastanza
tempo da generale; ma, non potendosene più servire se non come d'un vecchio cavallo che non
ne può più, egli ne fece fare una ancora più bella e migliore sia della Reale sia della 'Marchesa',
tanto bene quell'uomo s’intendeva della sua professione e l’amava. (Cit.)

Della predetta galera La Reale dava notizia anche Lazaro Bayfio nella dedica del suo De re navali
liber al re Francesco I di Valois, dedica datata 8 settembre 1536; ci sembra pertanto che il de
Bourdeilles sbagli ad attribuirne la realizzazione al capitano Poulin, il quale era allora lontano
ancora ben sette anni da quella carica di luogotenente del capitano generale delle galere conte
d’Enghien che infatti riceverà solo con lettera di nomina del 9 marzo 1543, per poi ricevere quella
di capitano generale con lettera del 23 aprile dell’anno successivo; riteniamo pertanto che la
paternità della prima galera ordinaria a scaloccio francese sia da attribuirsi all’allora capitano
generale Antoine de la Rochefoucault, signore di Barbesieux, il quale era divenuto tale al posto del
d’Oria con lettera del 1° giugno 1528 e lo resterà fino al 1537, anno della sua morte.
Tornando ora alla questione posta dal Pantera, cioè perché mai la voga a scaloccio risultava
conveniente solo dalla quadrireme in su? Perché, rispondeva il capitano pontificio, si era notato
che il peso d’un remo grosso mosso da due o tre uomini era più difficilmente vinto di quello
complessivo di due o tre remi piccoli manovrati da altrettanti uomini, la galera a scaloccio
risultando così meno veloce e potente di quell'antica a sensile, e inoltre tre uomini posti al pesante
remo di scaloccio si stancavano presto e duravano poco, come l’esperienza aveva dimostrato; ma,
a partire dai quattro uomini per banco in su, lo svantaggio diventava vantaggio e la voga a
355

scaloccio risultava più potente ed efficace di quella a sensile. Tutto qui; era dunque
un’osservazione tratta dalla esperienza.
Ad avvalorare questa tesi del Pantera bastava il ricordo dell'insuccesso della famosa quinqueremi
costruita a Venezia dal summenzionato notissimo professore di letteratura greca e architetto
Vittorio Fausto, detta pertanto quinqueremi faustina, la quale fu varata il 24 aprile 1529 e nei suoi
diari Marin Sanudo scriveva che questa supergalera a voga sensile era lunga 28 passi (m. 48,58)
e che fu provata il 23 maggio successivo; fu una prova deludente perché, in una regata (arregata,
corr. di arrancata) contro la triremi del sovraccòmito Marco Cornario (vn. Corner) dal porto di
Malamocco a quello di Lido, non riuscì a dimostrarsi più celere di questa. Nell'agosto dello stesso
anno venne armata e ne fu affidato il governo al sovraccòmito Girolamo da Canal detto il
Canaletto, destinato a divenire presto uno dei più fulgidi ufficiali generali marittimi veneziani e a
sconfiggere anche il Barbarossa in una battaglia marittima svoltasi nelle acque di Sàseno nel 1537
e alla quale poi torneremo; però dopo un solo anno il da Canal, promosso provveditore d'armata
(grb. προμηθεὺς τοῦ στόλου), ossia ufficiale generale, rimandò la galera a Venezia dove fu
disarmata e mai più riarmata - né altre simili se ne fecero - a causa del suo elevatissimo costo di
gestione che derivava dal gran numero di galeotti che le era necessario, soprattutto in rapporto alla
chiara costatazione che non era risultata né dalla migliore nautica né più celere dell'ordinarie
triremi, anzi nella voga a cinque remi per banco si generava spesso confusione e non per niente,
come abbiamo visto, il Pantera era favorevole alla voga a sensile solo fino alla triremi inclusa.
Eppure il da Canal aveva una volta sostenuto con questa sola galera un fiero combattimento di
cinque ore contro tre galere del corsaro barbaresco Bassà Guli, il che significa che, pur deludente
dal punto di vista nautico, questa quinqueremi faustina doveva però esser potentemente armata.
Prima del Pantera però i pareri in materia erano stati molto discordi; infatti il già ricordato
provveditore d'armata veneziano Nicolò Surian, nel già citato dialogo del 1583, lamentava la
scomparsa delle triremi e sosteneva addirittura che quelle potevano star al pari e anco con
avantaggio delle bastarde armate con remo grande di scaloccio manovrato da quattro uomini
(galere inquartate) (Cit.). Dunque, mentre il Pantera considerava le classiche triremi superiori sì
alle galere a scaloccio interzate, vale a dire a quelle con tre uomini a remo, ma non all’inquartate, il
Surian le preferiva anche a quest'ultime; ma, anche se il giudizio del Surian dovrebbe sembrarci
più fondato visto che egli visse quel periodo di transizione e il Pantera, nato molto più tardi del
provveditore, non aveva potuto conoscere le vecchie triremi, cosa che del resto, come abbiamo
visto, egli stesso riconosce, pure il residente veneziano Giovan Francesco Morosini aveva già dato
una testimonianza contraria alla tesi più tardi sostenuta dal suo connazionale Surian quando, nella
356

sua relazione dal Piemonte del 1570, così aveva scritto delle tre galere d’Emmanuel Filiberto duca
di Savoja:

... Al presente ne tiene solamente tre armate, due delle quali vanno con quattro uomini per remo e
la ‘Capitana’, ch'è la terza, la quale è di venticinque banchi, è più grande assai dell'altre e va con
cinque uomini per remo, usando loro armar tutte le galere con un remo solo per banco, credendo
che in quel modo vadano più forte per la ragion che dicono che la virtù unita suol crescere, come
disunita si sminuisce. E veramente queste galere del signor duca si possono nominar tra le migliori
di ponente, perché io le ho vedute vogar con quelle della Signoria di Genova e con quelle del
signor Gioan Andrea d’Oria, che sono riputate eccellentissime, e non solo sono andate del pari,
ma piuttosto hanno avanzato di qual cosa in poco spazio, talché in molto si può credere che
averiano anco fatto più. (E. Albéri. Cit. S. II, v. II, pp. 133-134)

Questa testimonianza deponeva dunque già allora per quanto più tardi avrebbe affermato il
Pantera e cioè che il sistema di voga a scaloccio era conveniente dalle galere inquartate in su; ma
dimostrava anche un’altra cosa pure importante, ossia che Genova e Venezia furono le ultime tra
le potenze marittime mediterranee ad adottare il sistema monoremo, perché qui appare
chiaramente che le galere savoiarde in ciò differivano non solo dalle genovesi, ma anche da quelle
di parte del Morosini, cioè dalle veneziane.
Per i predetti motivi ancora all'inizio del Seicento c'erano alcuni che avrebbero voluto che le galere
a tre uomini per banco fossero attrezzate a voga di sensile, come nel passato, e non di scaloccio e
ciò anche perché, se si ammalava un vogatore, il remo di scaloccio di quel banco si fermava, dal
momento che due uomini soli non avevano la forza sufficiente per manovrarlo, mentre due vogatori
a sensile avrebbero potuto continuare a vogare anche senza il terzo remo e ciò, visto che
evidentemente le malattie dei remieri erano ora considerate molto meno benevolmente, è un
esempio di come il prevalere dell'esigenze di produttività su quelle dell'uomo tanto spesso
costituisca un peggioramento delle condizioni di lavoro. Naturalmente quanto appena detto era
però in dipendenza dalla grandezza del remo di scaloccio che si adoperava; vale a dire che quello
usato, per esempio, dalle galeotte era abbastanza più piccolo e leggero di quello della galera da
poter essere ben manovrato dai due soli uomini che gli erano destinati.
D'altro canto era innegabile che un solo remo di scaloccio, per quanto grosso, ingombrava la
galera molto di meno di più remi piccoli sensili. Era poi vero che si sarebbero potute approntare
esclusivamente galere a quattro uomini per banco e così si sarebbe evitato il predetto problema
rappresentato dalle eventuali malattie dei vogatori, poiché al remo di scaloccio, se due non
potevano fare per tre, tre potevano invece fare per quattro; ma spesso non si trovavano tanti
rematori per ciurmare galere inquartate e bisognava quindi accontentarsi di tenerle solo interzate;
lo stesso Pantera riconosceva di non avere comunque la ricetta sicura da consigliare:
357

... sarebbe meglio armar le galee a tre remi per banco, al modo antico che chiamavano - come lo
chiamano hoggi ancora gli huomini maritimi - a zenzile, che con un remo vogato da tre huomini, e
che costarebbe molto meno, valendo i tre remi piccioli la metà meno del remo grosso, e si
risparmiarebbe la spesa di un huomo. Ma, perché non ho ancor veduta alcuna galea armata in
questa maniera, non ardisco di darne giudicio né saprei eleggere il miglior modo. dirò bene che la
moltitudine di tanti remi, al parer mio, sarebbe di grande impedimento ed incommodo a i soldati,
non vedendo come potessero haver luoco e stare alle ballestriere; e, quando si trattasse di alzare
un tavolato sopra di loro, come si suol fare nelle galeazze per servizio de i medesimi soldati,
sarebbe necessario che la galea riuscisse molto ingombrata e che, quanto più fosse aggravata,
caminasse anco tanto meno. (P. Pantera. Cit. P. 151.)

Dall’uso di inquartare le galere per accelerare la loro corsa, magari in un inseguimento, nacque il
detto napoletano inquartarsi nel senso di arrabbiarsi. Per quanto riguarda le scarse immagini di
galere dell'antichità che ci sono pervenute, queste non mostrano combattenti alle balestriere, ma in
piedi su impavesate di legname - probabilmente su una strettissima pedana costruita sulla
sommità di quella - e senz'alcuna balaustra che li assicurasse dal cadere in mare; ma
evidentemente o si tratta d'immagini più allegoriche che irrealistiche, come quasi sempre
nell’iconografia antica e medievale, o gli antichi fanti di marina, com'è più probabile, salivano lassù
solo un momento prima dell'abbordaggio.
Se dunque da un canto il Pantera scriveva di non aver mai visto galere a sensile e da un altro,
come abbiamo visto, Genova e Venezia ancora ne avevano nel 1570, vuol dire che queste
scomparvero definitivamente solo verso il 1580 e quindi a Lepanto probabilmente di galere
ordinarie a remo di scaloccio ce ne dovevano esser poche o nessuna; a conferma di ciò c’è la
relazione di Savoia del 1570 scritta dal residente veneziano Giovan Francesco Morosini, nella
quale si giudicavano le galere savoiarde di allora qualitativamente molto superiori a quelle delle
altre potenze tirreniche per diversi rispetti, tra cui anche quello di esser armate con il nuovo
sistema dei remi di scaloccio.
In ogni modo, prosegue lo stesso Pantera, le galere si dovevano possibilmente armare sempre a
quattro uomini per remo grosso:

... come fa anco il Re Cattolico (‘il re di Spagna’), il quale, nelle occasioni d'imminente battaglia,
suole armar le sue galee a quattro huomini al remo [...] et questo è veramente il vero modo di
armar le galee. (ib.)

E preferiva questo re piuttosto portare in battaglia meno galere che in numero maggiore, ma
equipaggiati con meno ciurma. In verità però, non più tardi del 1570 Filippo II aveva sì ordinato che
tutte le sue galere fossero armate a quattro uomini per banco, ma non perché considerasse questo
il numero ottimale, bensì perché in tal maniera si sarebbe potuto all'occorrenza togliere dalle
358

galere fino a un quarto dei remieri per armarne delle altre, magari utilizzandoli come esperti capi-
voga; ma quest'ordinanza fallì il suo intento perché, seppure quella corona aveva tanti buoni
marinai come i catalani, i biscaglini, i maiorchini, i sardi e gl'italiani in genere, trovava invece
difficoltà a reperire galeotti a sufficienza, oltre al molto danaro necessario per mantenerli; fu quindi
quel re costretto a far marcia indietro ed ha stabilire che ogni galera di tutte le sue squadre del
Mediterraneo avesse 164 vogatori a tre per ognuno dei 25 o 26 banchi per lato della galera sottile
ordinaria, inclusi però i mozzi di bordo; quest'ordinamento, che fu mantenuto anche dal figlio
Filippo III, valeva sia per le galere direttamente mantenute dall'erario regio sia per quelle
assegnate, vale a dire date in assiento, cioè in appalto ad alcuni nobili genovesi, i quali le
armavano d’uomini in proprio e percepivano per questo dal re un soldo complessivo o
appannaggio annuo con il quale dovevano mantenere e rifornire la galera e pagare il suo
equipaggio; alla fine del periodo contrattuale erano poi obbligati a restituire i vascelli nelle stesse
condizioni in cui li avevano ricevuti. Verso la fine del Seicento troveremo questa forma di gestione
delle galere anche nello Stato Ecclesiastico. Un rapporto fatto al re di Spagna il 13 giugno del 1603
dal consigliere siciliano Gambacorta, essendo allora vicerè di Sicilia Lorenzo Juarés de Figueroa y
Córdova duca di Feria (1602-1606), suggeriva al sovrano che si dessero in assiento tutte le galere
di quel regno, visto che in tal maniera non solo la loro gestione sarebbe venuta a costare al Real
Patrimonio esattamente la metà, ma anche tali vascelli sarebbero così risultati finalmente e
sicuramente sempre in ordine e pronti all’azione:

…como por lo que importa más al servicio de Vuestra Majestad que nunca se hallan las dichas
galeras en orden como devieran, tanto que de muchas son pocas las que, quando es menester,
pueden navegar y muchas ha sido menester de dos hazer una... (Modesto Gambacorta, Discurso
del Regente Gambacorta sobre el mantenimiento de las galeras del Reyno de Siçilia à 13 de Junio
1603. S.N.S.P., Ms. XXII.C.7.)

Spesso infatti le galere erano impreparate all’improvvise partenze perché, oltre a disporre d’un
numero incompleto di rematori per i motivi che poi vedremo, erano anche carenti d’ufficiali
maggiori e minori, perché i capitani generali autorizzavano con troppa liberalità licenze anche
estive, le quali, a norma di regolamento si sarebbero dovute dare solo per justa causa e cioè solo
per gravi motivi familiari (ib.); ma, anche se il Gambacorta non può affermarlo esplicitamente, in
realtà lascia capire che ciò era dovuto alla cupidigia degli ufficiali generali, i quali concedevano le
dette licenze dietro compensi in danaro. Bisognava dunque che ogni mese si passasse la dovuta
mostra, ossia rivista, alla gente di galera per tenerne sotto controllo la presenza, ma in realtà era
molto invalso l’abuso di ritardare tali mostre di molti mesi proprio per nascondere le assenze
dovute a compiacenti licenze o a mancate sostituzioni di resi inabili o deceduti (ib.); eppure nel
359

passato le galere siciliane erano state considerate buone, superiori a quelle di Napoli, come aveva
scritto il già citato Badoero nel 1557 e inoltre le galere condotte (‘mercenarie’) dalla corona di
Spagna erano state a quel tempo, vedi la relazione del Soriano che è, come sappiamo, del 1559,
esse più costose di quelle di diretta gestione reale, soprattutto ovviamente di quelle date in partito
o assiento, cioè in appalto a privati:

… Nelle galere proprie Sua Maestà spende 3.500 ducati l’anno per ciascuna e nelle condotte
6.000. Spende manco nelle proprie e li capitani ne hanno più utile perché non stanno armate più di
otto mesi dell’anno, mentre le altre sono obligate per tutto l’anno e li capitani hanno da far la spesa
continua alli schiavi e provvederli quando ne mancano… (E. Albéri. Cit. S. I, v. III, p.368.)

In realtà un ordine reale del 15 gennaio dell’anno precedente aveva già prescritto di dare in
assiento tutte le galere di Sicilia tranne la Capitan(i)a e la Padrona, ma nessuno si era presentato
a chiederle perché alcune clausole del capitolato d’appalto lo rendevano molto poco conveniente;
pertanto ora il predetto Gambacorta sollecitava la ripetizione della gara d’appalto, ma in termini più
appetibili. D’altra parte non si trattava d’idee nuove in Sicilia, visto che, in un parlamento popolare
tenutosi a Palermo il 24 aprile 1561 durante il viceregnato di Juan de la Cerda duca di Medina
Coeli (1556-1565), si era approvato un donativo per aumentare le galere di Sicilia da 10 a 16, con
condizione che (le nuove sei) si dovessero dare al soldo e che i generali e capitani d’esse galere
dovessero essere siciliani… (M. Gambacorta. Cit.) Il numero delle galere siciliane si era sempre
tenuto alquanto basso perché in caso di necessità, per esempio dovendosi scontrare con molte di
quelle di Algeri, le quali erano sempre una ventina, usavano farlo unite a quelle di Malta.
Nonostante i grandi vantaggi che i partiti (‘appalti’) di galera apportavano, nel corso della prima
metà del Seicento questi saranno però in Sicilia come altrove gradatamente dismessi per diversi
inconvenienti, non ultimo la rapacità dei funzionari reali, dalle cui persecuçiones infatti nel predetto
1603 certo Cesare della Torre, il quale pare sia stato l’ultimo asientista di galere siciliane, chiedeva
d’essere finalmente difeso (Ib.). Non a caso forse il primo dei due lunghi generalati delle galere
siciliane che furono esercitati da Pedro de Gamboa y Leyva, iniziato nel 1588, termina proprio in
quel 1603, anno in cui egli, il giorno 14 agosto, lascia l’incarico e, caso più unico che raro, appena
il giorno seguente viene sostituito dal governatore maggiore di Castiglia (adelantado) Juan de
Padilla; costui però, alla fine d’agosto del 1606, morirà in una disastrosa sconfitta che, come
abbiamo già accennato, i siculo-maltesi, sbarcati da una squadra composta di 7 galere siciliane e
tre di Malta il 15 agosto a 7 miglia a ponente di Mahomette (oggi Hammamet) in Tunisia, dopo aver
preso facilmente questa città, subiranno dopo qualche giorno a terra in quei pressi combattendo
pessimamente contro forze di reazione soverchianti raccolte in tutta fretta dai mori (Henry du
Henry, L’esclavage du brave chevalier François de Vintimille etc. Lione, 1608), e, dichiarato
360

ufficialmente decaduto il suo generalato solo il 24 agosto 1609, sarà richiamato il Gamboa a
riprenderne il posto a partire dal seguente 15 settembre, carico che poi manterrà, secondo il
registro degli Uffici di galera citato dall’Auria, sino alla fine di luglio del 1616.
Eppure, sempre secondo lo stesso predetto autore, la squadra siciliana che nel 1613, essendo
vicerè di Sicilia Pedro Giron duca d’Ossuna e conte d’Ureña (1611-1616), riportò nell’Arcipelago
una bella vittoria sui turchi, della quale più avanti diremo, era sotto il comando del palermitano
Ottavio d’Aragona Tagliavia, figlio di Carlo, principe di Castel Vetrano, duca di Terranova e
marchese d’Avola, promosso a quell’incarico proprio in quell’occasione, evidentemente per i meriti
guadagnatisi nell’anno precedente; evidentemente il de Gamboa y Leyva doveva ormai essere
troppo anziano e acciaccoso per poter capitanare di persona le imprese della sua squadra.
Nonostante si fosse saputo dunque in quell’anno che l’armata turca, ora sotto il comando di
Mehmed Pasha, era uscita da Costantinopoli, a dimostrazione della grande fiducia nelle proprie
forze marittime acquisita dopo Lepanto dai potentati cristiani e invece quindi di pensare solo a
potenziare le difese costiere come si sarebbe fatto in passato, il suddetto vicerè subito fece
allestire e inviò nell’Arcipelago la predetta squadra siciliana, allora forte d’otto galere, ponendola
sotto il capitanato appunto del d’Aragona, perlomeno così narra l’Auria nella sua Historia
cronologica terminata nel 1697 e compilata soprattutto attingendo dalla precedente cronologia dei
vicerè di Sicilia scritta dal messinese Antonino d’Amico, canonico della chiesa di Palermo, per
incarico del vicerè d’allora Francisco de Mello duca di Braganza (1639-1640) e stampata nella
stessa Palermo nel 1640; queste otto galere dunque, fatti dapprima degli schiavi sulle marine
ottomane, l’inviarono poi a Palermo utilizzando un veliero turco carico di mercanzie da loro preso
mentre proveniva da Modone e poi, avendo saputo il d’Aragona di 10 galere turche che
navigavano nell’acque di Xame e Naquena (Samo e Nicaria?), a 30 miglia dall’isola di Scio, le
andarono a raggiungere e le affrontarono il giorno 29 agosto, convincendole tutte alla resa nello
spazio d’una sola ora, liberandone dunque i tanti cristiani incatenati al remo e rimorchiandole infine
a Palermo, dove furono naturalmente accolte con grandi festeggiamenti. In seguito, nel corso del
suo viceregnato, il d’Ossuna invierà anche sei grossi velieri carichi di soldatesca nel Golfo di
Venezia, come allora si chiamava l’intero Mar Adriatico, a dar man forte ai veneziani nel tener quel
mare sicuro dai corsari turchi (Vincenzo Auria, Historia cronologica delli signori Vicerè di Sicilia
(1409-1697). P.63. Palermo, 1697.)
Tornando ora però alla questione dei rematori che bisognava porre a ogni banco, diremo che tre
erano in realtà sufficienti a un normale servizio di scorta o di trasporto di milizie o di leggeri
materiali da un luogo all'altro, ma, per affrontare vere e proprie battaglie marittime n’erano
necessari almeno quattro, altrimenti non si sarebbero ottenute la potenza e la velocità necessarie
361

in quelle circostanze; anzi, nell'imprese in cui occorreva essere ancora più veloci, quali il
sorprendere una località rivierasca del nemico, devastarla, saccheggiarla, corseggiare sul mare,
costeggiare (gr. ἐν χρῷ παραπλώεῖν; fr. ranger la coste, aller ou courir terre-à-terre) le proprie
riviere per sorvegliarle, ecc., occorrevano per lo meno cinque uomini per banco, se la ciurma era
buona, ossia veterana; ma, se la ciurma era in tutto o in parte costituita da remieri nuovi e
inesperti, allora non si poteva star tranquilli nemmeno con 5, perché i novizi si stancavano presto e
spesso si ammalavano, e bisognava quindi tenere a bordo parecchi remiganti di più e di riserva
per sostituire quelli che venissero meno. Se poi la galera era bastarda, ossia più quartierata e
pesante della sottile ordinaria, anche se il numero dei banchi era lo stesso, era consigliabile porre
sei vogatori a ogni remo dalla spalliera (fr. espale), cioè dalla prima fila dei banchi di poppa, alla
mezzania e cinque dalla mezzania alla prua; completamente a sei uomini per remo conveniva
infine che si armassero le galere Capitane o di comando in genere, essendo queste solitamente
più grandi dell'altre e inoltre più bisognose di potenza e velocità; il Morisoto ne menzionerà infatti
una spagnola del suo tempo chiamata Navia e molto apprezzata, la quale era diventata famosa in
quanto, appunto all'epoca di questo trattatista e cioè nel secondo quarto del Seicento, le galere
ordinarie erano arrivate a essere ormai stabilmente delle quinqueremi, ma non dell’esaremi,
ulteriore evoluzione questa che si verificherà solo nella seconda metà di quel secolo, e infine, già
cioè dal primo quarto del Settecento, saranno dell’eptaremi; questi aumenti di ciurma saranno
infatti sempre più agevoli in quanto il numero delle galere tenderà nella guerra remiera a ridursi
sempre di più a vantaggio di quella velica. A proposito poi dell'armare le bastardelle con un
numero maggiore di remieri dalla spalliera alla mezzania, bisogna dire che più tardi il predetto
trattato del Morisoto consiglierà l'opposto, cioè cinque uomini per ogni banco dalla prua all'albero
di maestra e quattro da questo alla spalliera, e lo spiega così

... maiori enim impulsu prora, qua fluctus finduntur, eget quam puppis. (Cit.)

Le galere preminenti erano dunque armate con ciurma più numerosa; esse generalmente,
dovendo appunto impiegare al palamento un maggior numero d’uomini, erano per lo più
bastardelle, ossia, come già sappiamo, più larghe e forti delle comuni sottili:

... come si vede essere stato usato sempre nelle prime galee che habbiano messe in mare i
cristiani per così fatte imprese sin'à i tempi nostri. (P. Pantera. Cit. P. 148.)

Per quanto riguarda le galere sottili ordinarie, abbiamo appena detto che conveniva inquartarle
(rinforzarle in genovese), ossia armarle a quattro uomini per remo in caso di battaglia e a cinque in
362

caso di guerra di corso; ma non sarebbe stato allora meglio armarle, potendo, senz'altro a cinque
uomini anche in battaglia? No, perché in tali occasioni le galere erano generalmente stracariche di
soldati e tanta ciurma non avrebbe lasciato loro lo spazio necessario per muoversi e combattere
agevolmente; inoltre tanto carico d'uomini a bordo avrebbe troppo appesantito il leggero vascello, il
quale sarebbe così risultata impacciata e lenta; infine, poiché alle battaglie si partecipava di solito
con molte galere, difficilmente si sarebbe potuto trovare tanta ciurma per tutte; comunque, nelle
grandi armate si soleva tenere sempre una buona squadra di galere rinforzate di ciurma più delle
altre e quindi velocissime, il cui compito era fare la scorta, l'avanscoperta, pigliar lingua dei nemici,
vale a dire, cone già detto, andare a informarsi della loro consistenza e delle loro mosse, ecc.
Queste galere inquintate, ossia a cinque uomini per remo, sia quelle che avevano i predetti compiti
delicati sia quelle bastardelle che facevano da Capitan(i)e o Padrone di squadra, usavano portare
anche vogatori di riserva, generalmente novizi del remo, i quali in tal maniera, oltre a sostituire gli
stracchi, i feriti e i malati, imparavano a turno la voga:

... Le quali cose tutte vediamo usarsi continuamente nelle nostre galee bene armate, per che, dove
si suole vogare co' cinque huomini per remo, vi si mette bene spesso il sesto, il quale, se bene è di
poco aiuto al remo, 'sì per esser per il più huomo nuovo come per il sito in che si trova, tuttavia ne i
bisogni è di grandissimo giovamento, poi che con questo supplemento si alleggeriscono i più
stanchi con fargli mutar luoco e sostituirgli ne i luochi de gl'infermi e de i convalescenti e de i morti.
(Ib. P. 21.)

Questo privilegio delle galere preminenti e di comando era importante perché sempre c'erano a
bordo uomini più deboli o malati da sostituire e una galera nominalmente da cinque per banco, se
priva di questi rincalzi, finiva per vogare a quattro o anche a meno. Naturalmente il problema
esisteva anche per le galere da tre o quattro uomini per remo, ma in quel caso i capitani dovevano
e potevano semplicemente arrangiarsi, perché sulle galere ordinarie i vogatori di riserva non erano
previsti.

Sulla necessità di una preminenza delle galere di comando anche in fatto di remiganti si può
leggere tra l’altro una raccomandazione del soprintendente generale Gioa Andrea d’Oria fatta nel
1584 al suo re Filippo II di Spagna:

Se i capitani generali delle galere di Vostra Maestà chiedono prender per assiento le loro ‘capitane’
e ‘padrone’, non importa in che misura Vostra Maestà comanderà di dargliele – capisco che con
ciò avrà un risparmio, ma è da avvertire che le ‘capitane’ devono portare cinque remieri per ogni
banco e le ‘padrone’ quattro, con tener poi sempre un po’ di ciurma in soprannumero da poterla
utilizzare al posto di quelli che si vanno ammalando (Colección de documentos inéditos para la
historia de España etc. P. 181. Tomo II. Cit.)
363

Le galeazze ponentine e le galee grosse veneziane, vascelli grandi, grevi e tardi, ma utilissimi,
come abbiamo già detto, nelle grandi imprese, si dovevano armare con non meno d’otto uomini
per banco e dei migliori che si avessero; ovviamente, se un remo era mosso da numerosi remieri,
esso doveva essere più lungo e il suo apice interno arrivare sino alla corsia centrale del vascello.
Le galeotte, che Pantero Pantera diceva da i nostri tanto poco usate, quanto molto stimate da i
turchi (cit.), si armavano a due uomini per remo se erano vascelli da 16 a 18 banchi e a tre se
invece da 18 a 22; stavano da qualche tempo sostituendo le vecchie fuste, le quali erano biremi
dai 12 ai 18 banchi per lato.
L'uomo che vogava all'estremità interna del remo a scaloccio, cioè vicino alla corsia, e pertanto
manovrava il girone o giglione (lt. manubrium; gr. ἐγχειρΐδιος), ossia l'apice interno del remo a
forma di fuso e lungo circa un palmo, si chiamava vogavanti (vn. pianero) ed era il capovoga del
suo remo; egli, poiché dava l’impulso iniziale al remo, comandava infatti gli altri e faceva la
maggior fatica, dovendo egli solo alzarsi e risedersi a ogni palata; doveva pertanto essere forte e
robusto e dei migliori vogatori della galera. I vogavanti del primo remo dopo la poppa – in ambedue
i lati – erano capivoga non solo del loro rispettivo remo ma di tutto il loro rispettivo lato della galera;
il remigante seduto accanto al vogavanti si chiamava posticcio, il terzo, quello più vicino al bordo
della galera, si chiamava terzarolo (vn. terzicio o terzichio); se si trattava invece di una quadriremi
o quinqueremi, allora al terzarolo seguivano il quartarolo, eventualmente il quintarolo e così via.
Nelle triremi bizantine s’usava un'altra terminologia per distinguere i remiganti e cioè quelli più
interni si chiamavano traniti (θρανίται) ed erano quindi, in quanto vogavanti, molto apprezzati e
valutati perché scelti tra i migliori; quelli di mezzo erano detti invece zoighiti (gra. ζευγίται; grb.
ζυγίται). Gli ultimi, quelli più esterni che sedevano alla fiancata, dovendo fare il movimento di voga
meno ampio e veloce e quindi meno faticoso, erano di solito i meno esperti e validi e si dicevano in
gra. θᾰλᾰμίται e in grb. θαλάμιοι, ossia ‘camerieri’; infatti nel Suida vediamo θαλαμίδιοι ϰῶπαι (‘remi
talamidici’) spiegato in lt. con remi lente remigantes (T.II, pp. 162; 203). Ma perché questi nomi? I
traniti (θρανῖται) perché, come leggiamo nel Suida, essendo dunque quelli che dovevano fare il
movimento più ampio e veloce e quindi sopportare una fatica maggiore, disponevano di un
poggia-piede dal quale darsi la spinta di voga, attrezzo che si chiamava θρᾶνος o anche θρᾰνίος,
nome che non significava dunque affatto, come diversi studiosi inesperti di marineria remiera
hanno poi creduto, che egli sedesse su un banco (un ‘trono’) tutto suo più alto di quelli dei suoi
compagni di voga; gli zoighiti [ζύγιοι)], vogatori di qualità intermedia e spesso uomini di nazionalità
alleate, erano detti così da giogo (ζεῦγος), perché facevano in un certo senso da intermediari tra
talamiti e traniti come il giogo tra i due buoi, e infatti Omero chiama i vascelli poliremo πολύζυγοι,
‘poligiogo’; infine i talamiti [‘camerieri’; θαλαμίται, θαλάμαϰες, θαλαμιοί], così chiamati perché
364

vogavano a fianco alla stretta corsia di fiancata, la quale si chiamava ϰατάστρωμα, ma era detta
ironicamente talamo (gr. θἆλᾰμος, ’letto nuziale’), in quanto di notte serviva da letto a soldati e
passeggieri - ma più tardi, quando si incominceranno ad imbarcare soldati balestrieri, sarà
ribattezzata balestriera; dunque il nome talamiti non era dovuto a un trovarsi questi remiganti ‘nella
parte più bassa e scura’ dei remigi, cioè sotto coperta, come leggiamo talvolta anche nei migliori
vocabolari! Infatti i remigi di triremi e galee non erano per nulla su livelli di coperta differenziati,
come a volte si vede erroneamente addirittura raffigurato in libri di autori moderni; ma in questo
campo anche gli antichi talvolta ‘mancavano clamorosamente il bersaglio’ e per esempio il
lessicografo ’Giulio Polluce (Ὀνομαστικὸν ἐν βιβλίοις δέϰα), al secolo Giulio Poliudoiches, vissuto nel
secondo secolo d.C., addirittura scriveva che le suddette tre categorie di rematori prendevano
nome non dal posto a sedere che occupavano nel loro banco ma da quello di zone differenti della
coperta della galea, zone in realtà assolutamente inesistenti.
Il remo di scaloccio era troppo grosso perché le mani dei remieri potessero impugnarlo e quindi
v'erano inchiodate delle maniglie di legno dette maniccie o galloccie (gr. ἐπιϰωπητῆρες), da cui
appunto l'italiano remo di scaloccio e il francese rame à la galoche. Il remo poggiava, come
abbiamo già detto, su un lungo legno orizzontale detto posticcio e dal quale prese evidentemente il
nome il predetto secondo vogatore, perché egli sedeva appunto vicino a quel legno al tempo delle
galere medioevali, le quali, come abbiamo già detto, erano più spesso delle biremi e queste erano
infatti allora le sole a chiamarsi galee, mentre quelle a tre remieri per banco erano dette in quei
secoli non galere, bensì ancora triremi come nell’antichità (galeae et triremis è non a caso una
dizione che si reperisce frequentemente nelle leggi e prammatiche rinascimentali).
Il remigante teneva il piede sinistro incatenato al banco e fermo su una panchetta molto bassa
posta tra banco e banco sulla coperta e detta banchetta (fr. contre-pédagne), mentre, vogandosi
con forza, con il piede destro montava sulla pedagna (vn. pontapiede), ossia su un asse attaccato
dietro al banco davanti, un piede più in basso, per potersi dare così una spinta all'indietro, tirare il
remo con tutta la forza necessaria e cascare infine a sedere sul suo banco, il quale, come abbiamo
già ricordato, era ricoperto da un cuscino di cuoio imbottito di canna trita, detto strappontino (gr.
ὐπηρέσιον), affinché il vogatore, cascando in tal maniera sul banco, non si facesse male; questo
era però il tipo di voga più impegnativo e ne vedremo più avanti i vari modi che erano usati.
Generalmente la banchetta era abbastanza larga da servire anche da letto per il vogavanti del
banco, il quale aveva così un giaciglio riservato e privilegiato rispetto ai suoi compagni; dobbiamo
però precisare che al tempo delle galere a sensile sulle galere ponentine essa era stata invece
molto piccola e detta scalettino, mentre - sempre a quell'epoca - la pedagna non esisteva per
niente né a ponente né a levante, non usandosi ancora vogare dandosi quella spinta col piede
365

destro se non nel particolare tipo di voga veneziana che si diceva stroppata e che poi
descriveremo, dove però i galeotti salivano col piede destro direttamente sul banco davanti e
quindi non avevano bisogno d’altri sostegni. Facevano eccezione i suddetti privilegiati traniti greco-
bizantini, i quali invece, come abbiamo già accennato, disponevano di uno sgabello poggia-piedi
detto θράνος o θράνιον, da cui il loro stesso nome (ib.) Nel Settecento le galere francesi
risulteranno avere, come si legge nel Dictionnaire del Savérien, anche un pedagnon, ossia un
punta-piede da usare quando si sciava, cioè quando si vogava per avanzare di poppa, ma
l’accenno fattone da questo autore è un po’ troppo laconico perché si possa capire in che punto
del banco o del remiggio era situato (Alexandre de Savérien. Cit. P. 221. Parigi, 1758).
A conferma di quanto appena detto riteniamo interessante riportare dal de la Gravière un brano
delle memorie del remiero Jean Marteille de Bergerac, condannato nel 1701 in Francia alla galera
perché protestante, e ciò perché, anche se si tratta d’epoca molto più tarda, il passo ben si adatta
pure a quella da noi descritta:

... Tutti i forzati sono incatenati a sei per banco. I banchi sono distanziati di quattro piedi e coperti
d'un sacco imbottito di lana, sul quale è gettata una bazzana che discende fino alla banchetta o
predella. Il còmito, il quale è il capo della ciurma, si trattiene in piedi indietro, vicino al capitano, per
ricevere i suoi ordini. due sottocòmiti sono l'uno nel mezzo, l'altro vicino alla prua. Ciascuno di loro
è armato d'una frusta che usa sui corpi affatto nudi degli schiavi. Allor che il capitano ordina che si
voghi, il còmito dà il segnale con un fischietto d'argento che porta appeso al collo. Questo segnale
è ripetuto dai sottocòmiti e subito gli schiavi battono l'acqua tutti insieme: si direbbe che i cinquanta
remi non ne siano che uno.
Immaginate sei uomini incatenati ad un banco, nudi come se fossero appena nati, un piede sulla
pedagna, l'altro sollevato e messo sul banco che è davanti a loro, impugnando un remo d'un peso
enorme, allungando i loro corpi verso la poppa della galera e le braccia distese per spingere il
remo al di sopra del dorso di quelli che sono davanti a loro e che prendono la stessa attitudine;
portati così avanti i remi, essi sollevano l'estremità che tengono in mano per immergere l'estremità
opposta nel mare. Ciò fatto, essi si gettano essi stessi all'indietro e ricadono sulla panca, la quale
si piega nel riceverli.
Qualche volta il galeotto rema così dieci, dodici e anche venti ore di seguito senza il minimo riposo.
In tale occasione il còmito od altri marinari mettono nella bocca dei remiganti un boccone di pane
inzuppato di vino per prevenire lo svenimento. Allora il capitano grida al còmito di raddoppiare i
suoi colpi. Se uno degli schiavi sviene sul suo remo, il che succede frequentemente, egli viene
sferzato finché non sia tenuto per morto, poi lo si getta in mare senza cerimonia. (Cit.)

Un tale sprezzo della vita dei remieri era forse possibile al tempo del Marteille perché le galere
erano ormai poche; ma prima, quando le galere erano state tante e i galeotti quindi sempre
insufficienti, non pensiamo che ci si potesse comportare con tanto spreco.
I due migliori vogavanti, ossia i due migliori remiganti della galera, si ponevano ai due banchi di
spalla, i quali erano i primi subito dopo le spalle della galera, quindi in effetti i più vicini alla poppa,
e i cui remiganti si chiamavano pertanto spallieri; il più bravo al banco di destra, essendo tale lato
366

sempre stato considerato - sia in mare che in terra - il più nobile dei due e per il semplice motivo
che all'ala destra di qualsiasi schieramento di battaglia si ponevano reparti migliori, e l'altro al
banco di sinistra. Questi due uomini, generalmente alti, sani e robusti, si chiamavano vogavanti
spallieri (vn. portoladi) e dovevano avviare la voga (fr. donner bonne rime; ol. gelijk roen, wel roen)
non solo ai loro compagnia di banco bensì a tutti gli altri vogatori della galera:

... il che è principal causa che la galea camini bene, però (‘perciò’) son trattati nella razione come
buonevoglie e dai capitani sono accarezzati e fadvoriti ed esentati da gli altri servitij della galea,
acciò che facciano più volentieri il debito loro. (P. Pantera. Cit. P. 132.)

Gli spallieri e i vogavanti in generale dovevano essere più alti e robusti degli altri galeotti perché,
trovandosi a remare all'estremità interna del remo, erano obbligati a un lavoro più duro di quello
che toccava ai loro compagni di remo; infatti essi dovevano alzarsi in piedi e risedersi a ogni colpo
di remo anche quando si usava la voga più comoda e corrente, cioè quella che permetteva ai suoi
compagni di restare invece comodamente seduti e ciò perché il girone, da loro manovrato, doveva
ovviamente salire più in alto del resto del remo; di conseguenza la loro catena doveva essere più
lunga di quella che avvinceva gli altri. Inoltre la voga dei due vogavanti-spallieri era spesso un po'
impacciata dalla sporgenza di quella spessa tavola di legno che formava il già menzionato
capomartino, perché questa era non solo ampia quanto bastasse a farvi stare sopra comodamente
in piedi il còmito a comandare, ma lo era in genere più del necessario e ciò non per un motivo
pratico, ma semplicemente per maggior pompa del còmito medesimo.
Gli altri remieri dei banchi di spalla erano utilizzati, oltre che per la voga, per i numerosi servizi di
poppa. Essi infatti caricavano e ammollavano il mezzanino, cioè la corda che, come abbiamo già
detto, sosteneva la tenda che copriva i remiggi quando si era in darsena o in cantiere (gra.
ηεὡρια, ἐπίνειον, ναύσταθμον, οὐρός, ναύσταθμος, λιμένιον ναύφραϰτον; grb. ναυστάθμος,
σϰεῦος, σϰευἆριον; lt. navale; lem/ctm. escala) o alla fonda; si prendevano cura delle bozze,
quando si alavano o ammollavano i capi o gomene con le quali era ormeggiato il vascello, e dei
mantelletti che sotto di quelle si ponevano; bagnavano e coprivano il sego spalmato di fresco
affinché il sole non ne rovinasse lo strato; scopavano e mantenevano pulite le spalle, le scalette e
il tabernacolo; suonavano, essendo per lo più anche trombetti e clarini, l'Ave Maria subito dopo il
tramonto e anche alla sera, quando si portava a seppellire a terra qualcuno ch'era morto; avevano
infine cura della scotta, quando si andava a vela, e di dar volta all'orza di poppa.
Si sceglievano ancora dalla ciurma altri due vogavanti molto esperti e li si ponevano ai due ultimi
banchi prima della prora, quelli detti della coniglia, e pertanto sia essi che gli altri remieri di tali
banchi erano chiamati coniglieri (sp. curulleros). Essi avviavano a tutta la ciurma la sia, ossia la
367

voga all'indietro, mentre i loro compagni di banco, oltre a vogare, dovevano aver cura delle ancore,
gettandole in mare al comando Fondo! e salpandole (assarpandole in napoletano), delle bozze con
le quali si fermavano le gomene della prora e dei relativi mantelletti sottostanti; davano e levavano
volta al mezzanino della tenda, quando questa si montava o si abbatteva, e al giunco del trinchetto
e dell'orza davanti a esso, quando si faceva o si ammainava la vela.
I due banchi della coniglia si chiamavano così dall'omonimo, pavidissimo animale, perché a essi -
se si eccettuano i due predetti esperti vogavanti - si ponevano i galeotti più vili e più inefficienti,
ignominia quindi nell'ignominia; si trattava in sostanza di banchi punitivi e le incombenze di questi
semplici coniglieri sono dettagliatamente descritte dall'Alemán, laddove il suo Guzmán, appunto a
titolo punitivo, viene spostato alla coniglia:

... E comandarono al còmito che non me ne perdonasse nessuna, anzi che avesse molta cura di
castigarmi sempre i peccati veniali come se fossero mortali; ed egli, il quale forzatamente doveva
ubbidire al suo capitano, mi castigava con inusitato rigore, perché alle ore stabilite non dormivo
oppure perché non ricordavo qualcosa. Se, per sovvenire a qualche necessità, vendevo la razione,
mi frustavano, trattandomi sempre tanto male che senza dubbio dovevano voler farla finita con me.
Per aver dunque migliori occasioni di farlo con loro giustificazione, mi dettero carico di tutto il
lavoro della 'coniglia', con intimazione che, per qualsiasi cosa che ad esso mancasse, sarei stato
molto ben castigato. Dovevo vogare quando necessario come tutti gli altri forzati. Il mio banco era
l'ultimo e quello del maggior lavoro, (esposto) all'inclemenze del tempo, d'estate per il calore e
d'inverno per il freddo per tenere sempre la galera la prua al vento.
Erano a mio carico le ancore, le gomene, il dar fondo ed il sarpare quando necessario; quando
andavamo a vela, avevo cura della orza d'avanti e dell'orza novella; filavo tutti i frenelli, le sagole
che si consumavano in galera; mi occupavo delle bozze, dell'attorcigliare i giunchi, del farli portare
ai proeri e asciugarli per ingiuncare la vela del trinchetto; intugliavo i cavi spezzati, facevo cavi
usati e nuovi alle gomene; dovevo aiutare gli artiglieri a girare i pezzi; m'occupavo di tappar loro i
fogoni, che nessuno si avvicinasse a quelli e di custodire i cunei, le cucchiare, le lanate ed i
calcatori dell'artiglieria, di fare stoppacci dalla filàccica vecchia, per coloro che andavano alla
banda a defecare, che questa è l'infima miseria e maggior bassezza di tutte, quando porgevo
quelli, destinati a un tal sudicio ministero, li dovevo baciare prima di metterglieli in mano. Chi era
incaricato di tutto il predetto lavoro e non era stato ad esso avvezzato pareva impossibile che non
sbagliasse. (Cit.)

C’erano anche altri banchi dove conveniva porre i migliori vogavanti e cioè uno al banco del
fogone e uno a quello dei trombetti, perché dessero la voga quando si andava a quartiero alla
mezania, ossia quando non vogava il quartiero di poppa dei remiggi, insomma quando si faceva
riposare il terzo posteriore dei galeotti; due altri buono vogavanti dovevano invece stare ai due
banchi che si trovavano ai fianchi dell'albero di maestra, perché dessero la voga quando non
vogava nemmeno il quartiero della mezzania, bensì solamente quello di prua, quartiero che
cominciava appunto da quei due banchi. Vogare a quartieri poteva significare sia una navigazione
tranquilla, senza alcuna fretta d’arrivare in qualche posto, sia al contrario in battaglia l’avvicinarsi
368

allo scontro col nemico in modo da non farvi giungere le ciurme esauste (… affrettando la voga,
che a uso di battaglia andava a’ quartieri, scriveva il Sereno).
Oltre a quelli già detti la ciurma doveva eseguire molti altri servizi di vela, dei quali il più
impegnativo era certamente, al comando Izza!, alzare tutti insieme l'antenna dell'albero di maestra,
tirandone i ritorni, cioè le apposite funi legate in basso fuori della corsia, operazione per la quale
l'intera ciurma era a stento sufficiente; Amaina! era il comando opposto, vale a dire quello di calare
l'antenna. I remieri che stavano ai secondi banchi della poppa avevano cura della manovra delle
vette (gr. ὐπέραι) secondo i comandi del còmito; quelli dei quarti banchi avevano invece cura
dell'oste, dandole o togliendole volta o raccogliendola secondo il bisogno; quelli dei noni banchi
dovevano issare o ammainare (da amaniare) la carnara e si occupavano anche del cordino della
vela; quelli del decimo e undecimo banco di sinistra s’interessavano delle barbette dello schifo,
quando questo si varava o si tirava a bordo; quelli degli stessi banchi di destra dovevano invece
accomodare e assicurare lo stesso schifo bene sui suoi cavalletti affinché il vento forte non lo
spingesse in mare, specie quando la galera era gelosa, ossia facile a sbandare (sp. barloventear);
quelli dei banchi dai tredicesimi ai diciannovesimi inclusi avevano cura delle sarte della maestra,
facendole entrare e ammollare secondo il bisogno; quelli dei sedicesimi banchi dovevano pure
interessarsi delle anche; quelli dei diciannovesimi anche della scotta del trinchetto; a quelli delle
ultime cinque file di banchi prima della prua toccava interessarsi delle braccia del trinchetto e a
quelli delle ultime quattro file si affidava anche l'oste dello stesso trinchetto; i remieri dei penultimi
banchi prima della prora si prendevano cura dell'orza davanti della maestra e della orza novella, la
quale era quella che si teneva di rispetto in caso si strappasse la precedente; infine i rematori dal
fogone all'estrema prua, vale a dire quelli dei due quartieri di prua e della mezzania, dovevano
maneggiare le vette per tirare il cannone alla prora e anche ingiuncare la penna del trinchetto.
La predetta grande quantità delle fatiche di manovra riservate ai remieri, oltre al loro più precipuo
lavoro della voga, spiega perché a bordo della galera il numero dei marinai addetti alla velatura,
agli ormeggi e alle ancore fosse tanto limitato.
Quando occorreva portare una disposizione a conoscenza di tutta la ciurma, la si diceva allo
spalliero vogavanti di destra, accompagnandola con il comando Passa parola!; questi la
comunicava al vogavanti destro dietro di lui e così via via fino al vogavanti conigliero di destra, il
quale la passava a quello di sinistra; costui, di vogavanti sinistro in vogavanti sinistro, la rimandava
in avanti sino allo spalliero di sinistra, il quale ripeteva la disposizione all'ufficiale di poppa dal
quale era originariamente partita e così quest'ultimo poteva verificare se essa era passata
correttamente per tutta la ciurma.
369

Come e dove dormivano i remiganti d’una galera? Si dovevano ranicchiare sulla coperta
degl’interscalmi, come spiega il de la Gravière senza menzionarne però la fonte:

... Quattro uomini almeno dovevano trovar posto in uno spazio la cui larghezza non superava il
metro e 25 centimetri; essi si sistemavano di maniera che i piedi di due di loro era prospicienti alla
corsia ed i piedi degli altri due alle balestriere. Il quinto remigante, quando la galera si trovava
all'ancoraggio, era generalmente ammesso a condividere il posto dei marinai; in mare, egli ha la
risorsa di dormire sul banco. (Cit.)

Il vogavanti però, come abbiamo già detto, in quanto remigante scelto del banco, poteva dormire di
diritto sul già menzionato e largo poggia-piedi detto banchetta, perché il banco, anche se alquanto
allargato dalla presenza del cuscino di cuoio, era pur sempre troppo stretto per esser comodo. La
suddetta disposizione a testa-piedi alternati per dormire si ritroverà poi adoperata negli eserciti di
terra del Settecento, dove i letti da campo e di caserma per i soldati semplici (lt. gregales; sp.
soldados rasos) saranno generalmente, anche se piuttosto stretti, a tre posti.
Nella navigazione a remi, la quale era quella che predominava in battaglia guerra, il primo
accorgimento da usare era il comandare una voga discreta in modo che la ciurma potesse durarvi
a lungo e non si stremasse invece in poco tempo; era però frequente a quei tempi non solo che
due o più còmiti d’una stessa squadra si mettessero a fare tra di loro le arregate, ossia le gare di
velocità tra galere, per semplice vanagloria e con l'unico risultato di sfiancare così inutilmente le
ciurme, ma lo facevano anche i Reali, cioè i còmiti delle galere di comando, equipaggiate con
ciurme migliori, meglio corredate e quindi più veloci, per mostrare la loro bravura e la potenza della
propria galera; questi prendevano dunque improvvisamente la corsa, facendo 'sì che l'intera
squadra si sgranasse all'inseguimento e presentandosi talvolta allo incontro col nemico in tale
critica e debolissima disposizione; di conseguenza la Capitan(i)a, non potendo affrontare la
battaglia da sola senza l'aiuto delle sue conserve, ossia dell'altre galere della sua squadra, doveva
mettersi ad aspettarle o tornare indietro col pericolo d’essere maltrattata dall'artiglierie nemiche. Un
episodio del genere predetto avvenne nel settembre del 1529 al biscaglino Rodrigo de Portundo,
generale dell'armata di Spagna, il quale, alla testa d’otto galere e d’un brigantino, stava tornando
da Genova dove aveva portato Carlo V, questi venuto in Italia a farsi consacrare imperatore dal
papa Clemente VII; egli dunque, trovandosi con questi vascelli tra Barcellona e Valencia, fu
avvisato dal conte feudatario di Oliva che numerose famiglie moresche sue vassalle, secondo
alcune fonti ben 200, portando con sé molto argento e gioielli, si erano imbarcate in quel porto e
stavano fuggendo su 14 vascelli sottili d’Algeri (ma secondo altri 11), tra galeotte, fuste e brigantini,
inviati dal Barbarossa in corso alle Baleari e che tale squadriglia corsara dovevasi ora trovare di
nuovo nelle acque di quelle isola; infatti, dopo i marranos, nel 1502 la Santa Inquisizione aveva
370

incominciato a espellere dalla Spagna anche i moreschi ( quelli di Valencia nel 1525 e quelli
d’Aragona l’anno successivo). Il de Portundo si mise subito alla ricerca del nemico e, incontrati nei
pressi di Formentera i vascelli algerini, i quali erano comandati dallo smirnese Hay ed-din, detto
Cacciadiavoli (sp. Cacha Diablo), e, in subordine, da Salah Raís, futuro governatore (tr. flamburari,
governatore militare o anche colonnello) d’Algeri, e da principali raís di nome Chaban, Tabaca,
Haradin e Jousouf, invece di cannoneggiarli prima per bene, evidentemente per timore di mandare
così a fondo i preziosi dei moreschi di cui voleva impadronirsi, prese senz’altro a inseguirli per
catturarli e quest’avidità fu la sua rovina. Infatti la sua galera, meglio equipaggiata di ciurma, si
lasciò ben presto indietro tutte le altre in fila sgranata e allora il de Portundo, resosi conto
dell'errore compiuto, fece alzare i remi per aspettarle; Cacciadiavoli comandò subito ai suoi raís
turchi Hassan Celebin e Sulaiman di invertire la rotta e d'assalire con le loro due galeotte la
Capitana spagnola, cosa che quelli fecero investendola uno al fianco e l'altro alla prua, così
prendendola e uccidendone tutti gli uomini compreso lo stesso de Portundo, colpito al torace da
un’archibugiata, senza che le altre galere cristiane potessero portargli aiuto alcuno; anzi queste,
sbigottite dalla perdita del loro capitano generale, furono anch'esse facile preda del nemico,
restandovi uccisi anche i noti corsari spagnoli Juan Vizcaíno e Mateo Sanchez, perché arrivavano
a incontrarlo sgranate e non in formazione di battaglia e una sola si salvò con la fuga a Ibiza; le
sette galere prese furono portate trionfalmente ad Algeri e il vessillo e gli ornamenti di poppa della
Capitana del de Portundo furono da Cacciadiavoli inviati a Costantinopoli al sultano Solimano
(sincope di Selim Ottomano), secondo di questo nome. Fu in quell’occasione, tra gli altri capitani di
galera, preso prigioniero anche Juan Domingo de Portundo, figlio del predetto Roderigo, il quale,
donato al Barbarossa, due anni più tardi si renderà ad Algeri protagonista d’una cospirazione di
schiavi e, scoperto, finirà crudelmente impalato.
Perché dunque tutte queste corse scriteriate? Così ne scriveva il Pantera:

... si è osservato - ed io ne ho fatto l'esperienza - che ne sono causa quasi sempre i còmiti per
l'ambizione che hanno di mostrarsi più prattici e più intendenti de gli altri e di commandare a
vascelli di esquisita bontà e velocità. (Cit. P. 220.)

Ma l'abuso predetto non implicava solo un eccessivo quanto inutile sforzo di voga, perché per
esercitarlo i còmiti delle galere Capitane approfittavano dell'autorità del loro ufficio anche per
prendersi dalle altre galere della loro squadra gli uomini migliori sia tra i vogatori che tra i marinai e
gli ufficiali; inoltre usavano vele maggiori di quelle adoperate dall'altre galere e rifiutavano il
trasporto di carichi straordinari, i quali lasciavano alle altre, in modo da essere così più scarichi e
leggeri, quando avrebbero potuto invece sopportare tali sovraccarichi con maggior sicurezza delle
371

altre galere per esser di quelle, come sappiamo, più quartierate, migliori e meglio equipaggiate;
anzi molto spesso i Reali rifiutavano persino le loro stesse vettovaglie e altri necessari ed
essenziali corredi di bordo e imponevano ad altre galere di portarli per loro, senza aver alcun
riguardo per l'altrui incomodo e rischiando così, una volta allontanatisi dalle loro compagne, di
restare privi di vettovaglie e d'altre munizioni. Il buon generale non avrebbe quindi dovuto
permettere che s’impoverisse l'armamento degli altri vascelli per rafforzare la Capitana, fermo
restando comunque il principio che quest'ultima doveva essere molto ben armata in quanto
principale bersaglio del nemico e anche per una questione di necessaria maggior dignità.
Se non c'era dunque qualche motivo fondato per affrettare la voga, quali per esempio dover in
bonaccia dar la caccia a un vascello nemico in fuga o pigliare la caccia (fr. anche élargir; ol.
ontvlieden), cioè esserne fatti oggetto dal nemico, bisognava sempre avviare la voga più lenta e
comoda possibile, il che implicava un indugio tra una palata e l'altra, in modo che la ciurma
potesse sostenerne agevolmente la fatica specie nei lunghi viaggi; nel gergo di galera questo tipo
di voga si chiamava largatira (vn. voga larga; fr. en dedans du banc) e corrispondeva più o meno a
quella voga di scialuppa che nell’oceano i francesi chiamavano longue rime e gli olandesi langen
wis; non bisogna però pensare che si trattasse d'una voga di tutto riposo e ne fa l'esperienza il
suddetto Guzmán, laddove, seppure avrebbe potuto evitarlo perché ormai entrato nelle grazie del
suo còmito, prende egualmente l'iniziativa di mettersi al remo quando la sua galera deve spostarsi
dalla foce del Guadalquivir alla vicina Cadice, perché tra i porti d'ordinario si voga in maniera
riposata e senza frustate, come per diporto, e si stanca invece talmente che alla fine crolla in un
sonno profondo (M. Aléman. Cit.).
La voga detta invece montacasca (à passer le banc) era più impegnativa ed energica, ma ancora
abbastanza agevole; il remigante doveva, spingendo il remo in avanti, portare il piede destro sulla
banchetta, come abbiamo già detto, da quella prendere la spinta all'indietro e infine cascare sul
cuscino di cuoio imbottito del suo banco in modo da aggiungere il peso del suo corpo alla forza di
trazione che esercitava; la sequenza dei movimenti che includeva il montare sulla pedagna,
l'abbassare molto il girone del remo e il cadere poi con gran forza sul banco si diceva ribalzare (à
toucher le banc). Veniva dopo questa una voga gagliarda e affrettata, quindi veloce, detta la
passavoga, la quale era senza dubbio molto faticosa; infine c'era il rancare o arrancare o far forza
(gr. ῥοθιάζειν, vn. far stroppata), cioè il vogare con tutta la forza possibile, ma, quando i còmiti
avevano comandato col fischietto Arranca!, dovevano far attenzione che lo si facesse con voga
forte e larga e non semplicemente affrettata e veloce, il che avrebbe stancato gli uomini molto
prima e gli avrebbe fatti venire a mancare all’improvviso; questa rancata o voga arrancata si diceva
anche voga battuta, memoria questa di quando si era usato cadenzarla con il battito di un tamburo.
372

Il I° agosto 1496 il capitano generale veneziano Marchionne Trivisan scriveva al suo Senato di
essersi trovato con la sua squadra a dover navigare contro vento al largo di Belvedere Marittimo in
Calabria ed era stata una dura impresa:

… Item, che sempre avia navegato contra mar e vento né mai un zorno avia auto vento secondo e
che zerca sei galioti erano crepadi per il vogar e vinti erano ammalati… (M. Sanudo, Diariii. T. I,
col. 269)

Il suddetto verbo greco ῥοθιάζειν veniva dall’aggettivo ῥόθιος o anche ῥοθιάς, significante
‘fragoroso, strepitoso’, e questo perché tanti remi manovrati tutti insieme con forza facevano
appunto un caratteristico rumore fragoroso (Suida, cit. LT. III, pag. 272). Nell’antichità e nell’Alto
Medioevo non si era ancora cominciato a dare i comandi di voga utilizzando un fischietto o
lasciandone il ritmo alla voce di guida dei semplici vogavanti di poppa; allora si erano dati ‘a voce
di comando’ e per esempio in greco l’esortazione a vogare, come ci informa il Suida, si dava con il
grido Riupapài ! (Ῥυπαπαί). I comandi vocali, dati da un ufficiale che allora non ancora si chiamava
cómito, ma era detto in greco ‘incitatore’ (ϰελευστής) e in latino portisculus, il quale si poneva di
fronte ai remiganti in una piccola loggia della poppa, erano espressi in maniera cantilenante, tant’è
vero che si diceva che egli li ‘cantasse’; si aiutava proprio come fa oggi il direttore d’orchestra, cioè
maneggiando una verga detta in lt. appunto portisculus, dalla quale quindi egli stesso prendeva il
nome, e, a seconda della posizione in cui la teneva, il suo comando poteva signficare ‘accelerate’
o ‘rallentate’ la voga:

PORTISCOLO: è propriamente l’esortatore dei remiganti, cioè colui che tiene quella lunga verga
che è detta ‘portiscolo’, con la quale governa sia il corso di voga sia le esortazioni a vogare
(PORTISCVLVS proprie est hortator remigum , id est, qui eam perticam tenet, quae portisculus
dicitur, qua et cursum et hortamenta moderatur. Nonio Marcello, cit. P. 220).

Plautus, ‘Asinaria’ : … ti lascio sia la mia parte sia la tua del discorso: tu hai il portiscolo perché si
parli o si taccia (ét meam partém loquendi ét tuam tradó tibi: ád loquendum atque ád tacendum
túte habes portísculum (ib.)

Sesto Pompeo Festo scriveva che la suddetta verga si chiamava portisculus perché usata
principalmente nei porti; e non aveva torto in quanto, come abbiamo già spiegato, la voga,
eccezion fatta per le situazioni di battaglia e di bonaccia o di pericoloso vento contrario, si usava
normalmente solo nelle manovre portuali e se ci si voleva addentrare nelle cale della costa (cit. P.
299).
Vere e proprie cantilene (gr. ϰέλευσματα) erano soprattutto quelle usate per guidare vocalmente
la cadenza di voga e, leggendo ancora il Suida, veniamo a sapere che una di queste, la quale era
373

tra le più note nella marineria bizantina dell’Alto Medievo, si chiamava: A undici remi (Έφʹ ἒνδεϰα
ϰώπους. Cit. LT. I, p. 919) e quindi fa un po’ venire alla mente quella settecentesca dei ‘15
uomini’ che cantavano i pirati inglesi del Settecento e che abbiamo appreso dal famoso romanzo
di Louis Stevenson (“Fifteen men on the dead man's chest…”) A dette cantilene i remiganti
dovevano partecipare facendo loro da coro, come leggiamo in Longus:

… l’incitatore cantava loro con la canzone nautica; gli altri, come un coro, echeggiano all’unisono
al giusto tempo di quella cantilena (εἶς μὲν αὐτοῖς ϰελευστὴς ναυτικὰς ᾖδεν ᾠδάς· οἰ δὲ λοιποὶ,
ϰαθάπερ χορὸς ὀμοφώνως ϰατὰ ϰαιρὸν τῆς ἐϰείνου φωνῆς ἐβόων. In Longi Pastoralium de
Daphnide et Chloë libri IV, LT. II, cap. XIII, pp. 336-338. Lipsia, 1777).

Non c’era dunque alcun batter di tamburo a cadenzare la voga, come invece si vede talvolta
rappresentar erroneamente nei film storici colossal di un recente passato; un tamburo si poteva
non infrequentemente trovar sì a bordo di una galera, ma perché v’era usato come strumento
musicale festivo o trionfale alla stregua degli altri, e non perché con esso si desse il ritmo di voga;
infatti il tamburo s’udiva a grande distanza (ricordiamo, a proposito di bei film del passato, quello
che si chiamava appunto Tamburi lontani) e all’approssimarsi di una battaglia sarebbe stato molto
pericoloso, soprattutto se in vista del nemico, fargli capire che cosa si stava facendo, cioè se si
stava accellerando o ritardando l’andatura verso di lui. Inoltre talvolta la galera, specie se addetta
all’avanscoperta, si trovava a dover forzare un passo nottetempo, cioè a dover passare
nell’oscurità ‘sotto il naso’ del nemico con tutte le luci di bordo spente e senza far rumori di sorta
per non farsi scoprire; e certo in situazioni come quelle i comandi non avrebbero potuto esser dati
a rullo di tamburo!
Per quanto riguarda il gergo di voga della marineria remiera degli antichi romani ben poco si
riesce e recuperare; Sesto Pompeo Festo cita Quinto Ennio (III-II sec. a.C.), primo grande poeta
di Roma, che si esprimeva in un latino ancora alquanto arcaico e del quale ci è rimasto purtroppo
molto poco; nel lt. VI – sembra dei suoi Annales - così diceva a proposito del vogare:

… Poi reclinate (all’indietro) e spingete i vostri petti con i remi. (Postere cumbite, vestraque
pectora pellite tonsis.)
… Traggono all’indietro e quindi riportano i remi al petto. (Pone petunt, exim referunt ad
pectora tonsas.) (Cit. Pp. 538-541.)

Ma tra un gergo e il linguaggio di un poeta c’è di solito tanta differenza… I remi erano allora
chiamati tonsae perché dovevano essere fabbricati molto ben lisciati e arrotondati; infatti, se
avessero avuto una superficie ruvida, in corrispondenza dello scalmo si sarebbero ovviamente
molto presto spezzati.
374

C’era inoltre sulle antiche triremi anche un flautista o tibicinista (gr. τριηραύλης; lt. tibicen, flatron,
gingriator), il quale con le sue melodie accompagnava e abbelliva per esempio l’ingresso in
porto, ma, contrariamente a quanto alcuni oggi credono, non comandava i ritmi di voga, in quanto
appunto strumento melodico e non ritmico; insomma, allo stesso modo in cui nella guerra di terra
i flautisti potevano piacevolmente accompagnare sì la marcia dei soldati ma non i loro movimenti
di battaglia, per i quali occorreva invece il rude e deciso tamburo.
La rancata di partenza, fatta per raggiungere la velocità necessaria uscendo dal porto, si
chiamava leva. A quanto sembra di capire leggendo i trattatisti della fine del Cinquecento,
all'epoca delle galere a sensile queste voghe eseguite alzandosi in piedi e con movimenti più
ampi erano state possibili solo alle ciurme levantine non incatenate; in seguito, con l'avvento
della voga a scaloccio, esse furono rese praticabili anche dalle ciurme ponentine incatenate
perché furono contestualmente introdotte allo scopo catene più lunghe, le quali permettevano
quindi ai remieri di discostarsi maggiormente dal loro banco; ciò nonostante, il da Canal
considerava al suo tempo le galere sforzate molto superiori alle volontarie anche per quanto
riguarda la celerità di navigazione e il far forza nel vogare, a causa della maggior efficacia del
tipo di voga usato dalle prime:
... Quanto al vogar le ciurme libere usano longhezza di spazio e tardità di tempo e gl’incadenati il
contrario, il che avviene perché la catena non consente loro adoperarsi in altra maniera, dove i
volontarii, non essendo astretti da alcuna necessità, maneggiano il remo come a lor pare. Quale
adunque di queste due guise di remeggiare - o la 'stroppata' longa e tarda che usano le genti
libere o la 'rancata' veloce e corta che serbano gli sforzati - sia migliore, più utile e più continua
hora mi affaticarò a dimostrarvi.
Voi dovete sapere che gli sciolti, come essi incominciano a tirar il remo, fermano il manco piede
sopra una trave da loro addimandata 'pontapiede', la qual è posta nella bilancia tra banco e
banco, ed indi tanto s’inalzano che aggiongono col pie' dritto sin sopra il banco che loro è davanti
(e), con molta forza pontandovisi, si gettano poi all'indietro verso il loro banco, in questo modo
distendendo e allargando il remiggiare quanto essi più possono. Di qui è che questa maniera di
vogare, come si è detto, sia longa e tarda ed è anco per due cagioni dannosa non meno agli
huomini che l'usano che all'andar delle galee. All'andar poiché così fatta tardanza fà perdere alla
galea l'impeto e la velocità, a gli huomini conciosiacosaché quel rigettarsi indietro ch'essi fanno
con tutta la persona toglie molto loro di forza e scuotendo loro il cervello gli abbalordisce.
Ma per contrario la 'rancata', come ho detto, breve e veloce - delle quali due condizioni ne è sola
cagione la catena che vieta ai galeotti il montar così alto ed il ributtarsi indietro - è buona non solo
perché ella manca di ambedue le dette incommodità, ma perché eziandio ella apporta due diversi
commodi; l'uno è che la prestezza del movimento che li dà il corto e veloce vogare tiene di
continuo senza riposo e senza fermezza (‘sosta’) alcuna la galea in una viva fuga e cellerità,
l'altro è che, non potendo i galeotti far altro vogando che levarsi dritti e fermar il loro pie' manco
sopra un picciol grado posto loro davanti che ‘scalettino’ sogliono chiamare i ponentini, stanno nel
vero e col corpo tutto e col capo e col cervello più riposati e quieti. (C. da Canalt. Cit. Pp. 153-
154.)
375

E che le galere spinte da ciurme incatenate primeggiassero sia nel vogare sia nel veleggiare si
poteva sempre praticamente costatare:

... percioché, contendendo con altre di prestezza, sempre d'assai se le lasciano adietro
occupando di continuo i primi luoghi. (ib. P. 170.)

Vogare all'indietro per mandare avanti la poppa invece della prua, per esempio per ritirarsi senza
però dare al nemico l’impressione che si stesse fuggendo, si diceva siare o ziare (gra. πρύμνᾰν
(ἀνα)ϰρούειν, ἐπαναϰρούειν; grb. ἐπανάϰρουειν; ol. deisen, riemen strjken, averregts roeijen) ed
era comune adagio usare questo verbo nel significato di remar contro, osteggiare: …e, quando si
da una voga, subito ci si arma contro una scia!; invece sia scorre (vn. e sp. sia voga, fr. faire
sressecourre) si ordinava quando da una banda del vascello si doveva siare e dall'altra vogare,
affinché la galera girasse su se stessa. Palpare era invece quando si tenevano le pale dei remi
nell'acqua con i gironi alti in modo da frenare il vascello. Il comando Leva remo! significava:
'fermatevi, ma tenete i remi fuori dall’acqua pronti a riprendere'; se poi la sospensione diventava
una vera e propria sosta, allora si dava il comando Affornella (cioè ‘Affrenella !’), il che significava
che si dovevano legare i giglioni o gironi dei remi giù alle pedagne con delle frenelle o trinelle, in
attesa di riprendere la voga più tardi.
Nell'ultimo periodo della voga a zenzile, cioè nella prima metà del Cinquecento, il sistema di
frenellaggio dei remi era stato diverso, in quanto il collo d’ogni gironcello, ossia del girone del
piccolo remo a sensile, era infilato in un suo anello di ferro fisso sulla coperta; in questa maniera
la parte esterna alla galera del palamento risultava più alta e lontana dal mare e quindi c'era
minor pericolo che le forti onde potessero spezzare qualche remo. Fino all'inizio dello stesso
secolo si era usato invece frenellare i predetti gironcelli sotto alcuni gradini di legno
appositamente fissati sulla coperta e alti 4, sei e otto dita, i quali si chiamavano infatti scalette,
però con l'inconveniente appena descritto. Con l'affermarsi della voga a scaloccio si ritornò a
questo frenellare i remi un po' più in alto, ossia ora alle pedagne, forse per il motivo che il remo di
scaloccio era molto più grosso e forte di quello a sensile e quindi meno soggetto a rompersi sotto
l'impeto delle onde.
Il comando Acconiglia! voleva dire che bisognava ritirare i remi in galera e ciò si faceva quando
s'iniziava la sosta alla fonda o all'attracco. Nella imminenza della battaglia si potevano legare i
remi, invece che alla pedagna, più sù al banco, in modo da tener in tensione il nemico, facendogli
così credere che si tenevano inguala, ossia agguagliati in mano, pronti ad attaccarlo, mentre
magari si stava solo facendo mangiare la ciurma, impedendo però in tal modo al nemico di
dedicarsi alla stessa cosa. Il comando Dritto! significava che il quartier dritto, vale a dire la metà
376

destra della ciurma, doveva vogare mentre quello sinistro doveva star fermo, in modo da far così
girare il vascello; il comando Sinistro! si riferiva ovviamente alla manovra opposta.
Portare il vento in mano voleva dire navigare sì a remi, ma con tanta velocità e scioltezza da far
sembrare la galera spinta da un vento gagliardo invece che dal palamento e si diceva d’una ciurma
particolarmente forte ed esperta; invece portare il vento in corsia significava far avanzare la galera
minacciando e picchiando la ciurma, ma non era ragionevole né proficuo eccedere in tale pratica:

... Guardisi il còmito di batter la ciurma senza causa e particolarmente mentre ella ha il remo in
mano, perché, se ben pare che le bastonate la faccian lavorar con maggior forza, nondimeno si ha
a far con molta discrezione, perché la indeboliscono ancora; però (‘perciò’) non si deve darle
questo travaglio se non con causa e quando bisogni fare alcuna estraordinaria forza; ma più tosto
si accarezzi e si procuri di tenerla allegra. (P. Pantera. Cit. P. 221.)

Ma come tenere 'allegra' quella sventurata gente che conduceva una vita tanto disumana? Per
ottenere ciò non era buon sistema darle del vino mentre vogava sotto sforzo; piuttosto la si poteva
rinfrescare, termine che propriamente significava fornirle cibi freschi, ma in questo caso
semplicemente ristorarla somministrandole un po' di biscotto, d’aglio, d'olio e d’aceto diluito in
cinque o sei parti d’acqua (fr. oxycrat; ol. eek-waater, azijn-waater), bevanda questa che si dava
anche ai malati credendosi attenuasse i disturbi dovuti alla calura e alle infiammazioni; il vino le si
sarebbe distribuito solo dopo la fatica, per rinvigorirli e incoraggiarli a rinnovare il loro impegno per
l'avvenire, mentre l’acquavite era solo per la gente di poppa e il tabacco del Brasile, commerciato
in balle, entrerà in uso solo nella seconda metà del Seicento.
Quando a bordo un inferiore rispondeva a un ordine d’un superiore con un Ia va! (‘Già va!’), voleva
dire che ciò che gli era comandato era già in esecuzione; il comando Leva lingua! significava
invece 'Fare silenzio!' Quando si doveva vogare si ordinava alla ciurma di spogliarsi
completamente con il comando Fuori robba!; poi con il comando Arma i remi! si ordinava di
sfrenellare i remi dalle pedagne (lem/ctm. donar rems de llonch) e si dava il successivo o comando
Palamento in mano! (fr. Borde les avirons!; sp. Aguanta!), al che i remieri impugnavano i remi e
ponevano il piede sinistro alla pedagna, pronti così alla palata. Se il còmito notava che qualche
remo era tenuto male, ordinava Palamento inguala!, ossia 'agguaglia il palamento!'; ma
quest'ultimo comando poteva anche includere il precedente, il quale era così omesso. Infine il
còmito gridava Avanti! o Cala remo!, il che significava 'vogate a passo ordinario'.
Nella Grecia antica e alto-bizantina il comando di smettere di vogare era oóp! (“ Ώόπ “) o anche
oopóp (“ Ώοπόπ “) e i remiganti che restavano appunto fermi con i remi tenuti orizzontali alla
superficie del mare si dicevano ὀρθιόϰωποι, ossia ‘quelli dai remi diritti’; d’altra parte il comando
opposto al precedente, vale a dire il ‘dare il via’ a far qualcosa tutti insieme, era stranamente quasi
377

uguale e cioè oόπs! (“ Ώόψ “); in ambito letterario il suddetto ordine oóp! poteva anche avere il
senso di ‘andiamo ora ad approdare a terra dove smetteremo di vogare’ (Suida, cit. LT. II, p. 758).
Perché i remieri resistessero a lungo alla fatica della voga era necessario che portassero bene il
remo a poppavia, perché in tal modo avrebbero preso fiato, non si sarebbero stancati tanto e
avrebbero fatto poi maggior forza cascando sul banco. Oltre a far forza nel cascare, essi dovevano
anche cascare unitamente, il che era ovviamente importantissimo, e pertanto il còmito controllava
questa sincronia osservando le pale dei remi per vedere se queste si calavano e alzavano tutte
insieme. Nei lunghi viaggi si usava talvolta la voga a quartiero, cioè si divideva idealmente la
platea dei banchi in tre quartieri e si faceva, per esempio, vogare solamente i galeotti del quartiero
di poppa oppure solo quelli di prua o anche solo i remiganti del quartiero di mezzania, mentre
quelli degli altri due quartieri si riposavano e magari prendevano il cibo. Gli antichi greci
chiamavano quelli di mezzania μεσόνεοι (‘navali di mezzo’) e li consideravano i più importanti,
perché, come spiega Aristotele nel suo Μηχάνιϰα, quelli dalla spinta propulsiva nell’acqua più
diretta, forte ed efficace:

Poiché muovono la nave soprattutto i remieri della mezzania (Διά τί οι μεσόνεοι μάλιστα τήν ηαῦν
ϰινεῦσι. Aristotele, Μηχάνιϰα. P. 61. Parigi, 1599).

I vogatori stessi si rendevano conto con la pratica di quanto avanzasse a ogni palata la loro galera;
misuravano infatti l'effetto della palata in bancate, ossia prendendo come unità di misura della
distanza percorsa l'interscalmo e le bancate, anche con la voga più energica, non potevano essere
più di sette; questa misurazione a occhio poteva solo avvenire a mare calmo, calcolandosi infatti la
distanza tra mulinello e mulinello d'acqua, come lasciati dalle pale di due remi consecutivi sulla
superficie del mare.
Si diceva, specie dai naviganti [lt. vectores; gr. ναυβάται, βαρίβαντες, ἐπιβεβηϰόταi, πλώοντες,
(ἐμ)πλέοντες, πλωτήρες, πλωτῆρες, περίνεῳ] francesi, navigare a secco, quando un vascello
avanzava senza remi (gr. ἀπώπητος, ἂϰωπος) né alcuna vela, ma semplicemente perché il suo
stesso scafo era spinto dal vento, ciò facendosi magari nella guerra di corso per non essere
scoperti da lontano; correre per cattivo tempo o per violenza di fortuna, ossia per tempesta di
mare, indicava il lasciarsi trascinare passivamente dalla forza eccezionale del vento o dei flutti a
evitare guai maggiori; navigare col terreno in mano si diceva invece quando ci si manteneva
sempre a vista della terra e, al contrario, navigare a camin francese quando si andava da un luogo
all'altro per la rotta più breve, senza far scalo intermedio in alcun porto; quest'ultimo modo di
navigare era infatti praticato forzatamente dai vascelli francesi nel Mediterraneo di ponente, mare
dove avevano rarissimi porti amici.
378

In navigazione il còmito - personaggio che nei vascelli remieri corrispondeva la nostromo dei
velieri, ma che in più governava anche la navigazione a remi - doveva far scendere dei marinai giù
per le due scalette laterali, perché si abbassassero per guardare sotto le reggiole e così controllare
che non vi fossero cose che, pendendo da quella cinta di tavolame laterale, rastrellassero
nell'acqua, ossia toccassero il mare ritardando così il moto della galera, il che talvolta si vedeva
succedere a causa di negligenza o di malizia di qualche remigante; succedeva cioè a volte - per
esempio mentre si subiva una caccia - che qualche schiavo maomettano, per dare una mano ai
suoi correligionari che stavano tentando di raggiungere la galera, approfittasse delle cordicelle che
servivano per legare la tenda alle reggiole e ai filari, le quali erano per comodità lasciate sempre in
opera, e vi appendesse di nascosto qualche cappotto, schiavina o delle camicie ecc., cose cioè
che, trascinate in tal modo sommerse nel mare e quindi invisibili, potevano ritardare così tanto il
corso della galera [come che rimorchiasse un altro vascello, e non farrà la mità del solito camino
(Ib.)]; ciò diventava ancora più certamente dannoso quando si proeggiava o ponteggiava, ossia si
navigava contro vento, e anzi bisognava naturalmente togliere dalla coperta tutto ciò che potesse
offrire resistenza al vento contrario, cioè la tenda, caso mai fosse spiegata, il tendale, le camerette
e ogni altro riparo in tessuto della poppa; a quest'effetto le galeotte turco-barbaresche portavano
queste garitte o camerette di poppa accomodate in modo che si potessero mettere e levare a
seconda del bisogno. Si toglievano inoltre tutte quelle cose che stessero attaccate ai filari, come
porte di tenda o impavesate, si faceva sedere giù sul tavolato tutta la gente che non dovesse
necessariamente muoversi per il servizio della navigazione, si toglieva il fanale (fr. anche feu; ol.
vuur, lantaarn) - quando questo era molto grande - perché la sua superficie avrebbe offerto una
notevole resistenza al vento contrario, e infine, sempre proeggiandosi e se il mare non era
traverso, ossia se non percuoteva il vascello di fianco, si poteva addirittura abbassare l'uno o i due
alberi perché certo anch'essi ostacolavano il vento.
Mentre i vascelli tondi potevano navigare [fr. navig(u)er, gouverner, faire (routte ou voiles ou leur
course), cour(r)ir, porter (le cap), in qualsiasi mare e in qualsiasi stagione, in quanto navigli d'alto
bordo e dallo scafo profondo, i vascelli sottili come le galere e le galeotte, essendo di bordo
bassissimo, di poco pescaggio e di leggera struttura, erano inadatti ad affrontare le violentissime
tempeste e le altissime onde che squassavano l’Oceano Atlantico e pertanto, date alcune
eccezioni nordiche che poi vedremo, generalmente navigavano nel Mediterraneo e nel Mar Nero,
mari chiusi e relativamente tranquilli, e ciò all'incirca dal 20 marzo al 22 novembre, date
ovviamente non significative dal punto di vista meteorologico, ma solo da quello tradizionale; ciò
perché anche nel Mediterraneo potevano però esser messe in grave pericolo da un’improvvisa
burrasca e non erano stati rari i casi, come vedremo, di grandi naufragi di questi esili vascelli con
379

centinaia e a volte migliaia di vittime, disastri dovuti appunto al maltempo, come nell’autunno del
1572 avvenne alla galera papalina San Pietro, la quale, mentre era con l’armata della Lega
nell’Arcipelago e sulla via del ritorno in Italia, finì di notte su uno scoglio in località Pacassò a
causa del mare grosso e affondò, salvandosi solo parte degli scappoli perché prontamente raccolti
da due galere toscane, mentre gli altri e tutti i poveri remieri incatenati ai loro banchi finivano
miseramente affogati; simile triste sorte toccherà nell’ottobre del 1573 a una galera napoletana
nelle acque dell’isola Faviana (‘ricca di fave selvatiche’; oggi Favignana), mentre la sua squadra
tornava dall’impresa di Tunisi. Un altro episodio del genere, del quale però non sappiamo se abbia
fatto anch’esso molte vittime, fu quello delle galere della squadra di Malta, le quali intorno all’anno
1606, a causa del maltempo, andarono (a) traverso (‘finirono spinte di fianco’) su un’isola
barbaresca chiamata allora del Zimbaro (‘Cembalo?’) e che oggi non sapremmo individuare,
correndo così il pericolo d’esser prese dai turco-barbareschi; ne restò indenne solo la galera
Padrona, la quale corse a Palermo a chiedere aiuto e allora il già ricordato vicerè duca di Feria
mandò in loro soccorso le galere di Sicilia e L’Arca di Noé, un galeone molto ben armato e vulgo
conosciuto come la nave palermitana, e le salvò. Come se ciò non bastasse, le imprese
guerresche delle galere dovevano essere riservate a un periodo dell'anno ancora più ristretto,
ossia quello che va dal 20 maggio al 24 settembre, come affermava Vegezio, il quale, come del
resto tutti gli autori d’arte della guerra della tarda antichità, era considerato valido e utile ancora nel
Cinquecento, mentre è solo dal secolo successivo che si comincerà ad aver piena coscienza della
modernità della guerra e ciò in conseguenza della sostanziale evoluzione delle armi da fuoco che
si ebbe a partire dalle guerre di Fiandra. Sempre dunque a seguire il Vegezio, il periodo invece in
cui la navigazione, specie delle galere, era sì possibile, ma poco sicura e andava intrapresa solo
per necessità era quello che andava dal 24 settembre al 22 novembre. Ambigua era poi detta la
navigazione dal 20 marzo al 20 maggio, mentre bisognava assolutamente evitare di praticarla dal
22 novembre al predetto 20 marzo, ma ciò parlandosi di vascelli sottili perché, per quanto riguarda
i tondi, essi potevano navigare in ogni tempo con molto minor pericolo. Il lettore potrà forse
sorridere all'enunciazione di date così precise, ma in effetti si trattava di convinzioni tradizionali che
già al tempo del trattatista latino scaturivano da secoli e secoli d'esperienza marinara e quindi di
tutto rispetto. Ottima cosa era naturalmente navigare con le galere in piena estate:

... onde soleva dire il principe (Giovann’Andrea) d'Oria che luglio e agosto e'l porto di Cartagena
erano i migliori porti che si trovassero... (Ib. P. 185.)

Proprio per aver voluto fare nel 1541 l'impresa d'Algeri contro stagione, cioè nell'ottobre-novembre,
e contro il parere di suoi più esperti capitani, cioè il duca d’Alba, Andrea d’Oria, Bernardino de
380

Mendoza e Alfonso de Ávalos marchese del Vasto, Carlo V fece andare la sua armata incontro a
quel terribile naufragio davanti alla costa africana di cui la sua imprevidenza e testardaggine furono
le uniche responsabili; in tal disastro l'imperatore perse, oltre al grande numero di vite umane, più
di 140 navi, 15 galere, molta grossa artiglieria, molti cavalli spagnoli da guerra e inoltre egli e il suo
esercito, in conseguenza di questa sventura, travagliarono e patirono assai senz'ottenerne alcun
guadagno; ma Carlo V, il quale i turco-barbareschi chiamavano Sultan Kalassy, aveva così deciso
proprio sperando che, a motivo della stagione contraria, l'armata turca non se l'aspettasse e che
quindi non avrebbe fatto poi in tempo ad allestirsi e a raggiungere le coste africane dall'Asia
minore, nei cui porti andava a disarmare tradizionalmente proprio a ottobre d'ogni anno. La
consistenza dell'armata preparata da Carlo V contro Algeri ci è data da una precisa relazione che
fu pubblicata a Parigi l'anno successivo (Nicolas Durand de Villegaignon, Caroli Quinti expeditio in
Africam ad Algieram etc. Parigi, 1542) e si trattava quindi di 65 galere comprendenti le squadre di
Spagna, Napoli, Sicilia, Stato Pontificio, Toscana, dei d'Oria e d’altre condotte (‘noleggiate’)
genovesi e quattro galere maltesi; 451 vascelli tondi e latini da trasporto, tra grandi e piccoli, di cui
150 portavano da Napoli e Sicilia 6mila fanti spagnoli e 400 cavalli leggieri, 100 recavano da La
Spezia 6mila fanti alemanni e 5mila italiani, 200 da Cartagena 700 cavalli spagnoli e 400 fanti
insieme a gran massa di bagagli e alla grossa artiglieria. Gli uomini da sbarco erano comunque in
tutto 24mila e quelli d'equipaggio 12mila. Tra gli ufficiali generali di quest'armata spiccavano Georg
Frontispero (Von Speer?) colonnello dei 6.000 fanti alemanni; Camillo Colonna, figlio di Marcello e
signore di Zagarolo, e augustino Spinola, comandanti dei 5.000 fanti italiani; Giannettino d'Oria
capitano generale delle 36 galere genovesi, tra le quali era la Temperanza, galera che, come più
tardi narreranno vecchi marinai genovesi al de Bourdeilles, era stata in origine veneziana, poi
catturata da Torgud ai lagunari nel Mar Adriatico insieme ad altre tre di cui era galera di comando,
presa infine al corsaro barbaresco da Giannettino, il quale la fece sua Capitana; Bernardino de
Mendoza, generale delle 15 spagnole e, di quelle siciliane, Fernando Gonzaga principe di Molfetta
e duca d’Ariano, allora vicerè di Sicilia (1535-1546), il quale nel 1535 aveva già accompagnato
l’imperatore alla conquista di Tunisi, impresa dalla quale aveva ricavato appunto quel titolo di
vicerè, e nel 1538 si era trovato alla Prévesa coinvolto suo malgrado nell’ignominioso
comportamento d’Andrea d’Oria di cui poi diremo. Lo stato maggiore dell'armata allestita contro
Algeri comprendeva, oltre all'imperatore in persona, i più bei nomi della nobiltà guerriera di Spagna
e cioè, tra gli altri, Fernando Álvarez de Toledo duca d'Alba e capitano generale dell'armata
medesima (?-12.12.1582), Gonzalo Fernández de Córdoba duca di Sessa, Pedro Hernández de
Córdoba y Figueroa conte di Feria, Luiz de Leyva principe d'Ascoli, Claudio de Quiñones conte di
Luna e governatore d'Orano, Pedro de Guevara conte d’Oñate, Pedro de la Cueva gran
381

commendatore d'Alcàntara e generale dell'artiglieria, Hernàn Cortés marchese della Valle di


Huaxaja e conquistatore del Messico, i suoi due figli Martín e Luis. Era allora beglerbegi, ossia
governatore, d'Algeri il successore del Barbarossa e cioè il rinnegato sardo Khadim-Hassan-Aga,
detto dai cristiani Azanagà, fatto schiavo in Sardegna appunto da Kheir-ed-Din. Avendosi tenuto
dunque in tanto poco conto l'asprezza del tempo in quel periodo dell'anno, l'armata di Carlo V,
partita dalle Baleari, il 20 ottobre dette fondo nella cala di Capo Matifoux, 18 miglia a est d’al-
Djezaïr (‘Algeri’), la quale non era però luogo sufficiente dove ridurla tutta, mentre si sarebbe
potuta riparare completamente e sicuramente nell'insenatura detta Le cascine, a sole 12 miglia a
ovest dalla predetta città barbaresca; e così, sopraggiunta una fortissima tempesta che durò dal 25
al 26 ottobre, buona parte dell'armata affondò o naufragò in quella rada, salvandosi sì la maggior
parte degli uomini perché già sbarcati il 23 precedente, non senza trovare resistenza, ma
purtroppo non 1.200 di loro, non i loro materiali di guerra e le loro provviste né la maggior parte dei
cavalli, i quali furono, come il resto del carico, gettati a mare per alibare (‘alleggerire’) i vascelli
assaliti dalla tempesta:

… poiché i cavalli non furono risparmiati, tanto i ginetti di Spagna quanto i bei corsieri di Napoli e
altri così belli, così ben scelti e così generosi, i quali erano tanto valsi e costati che non s’ebbe
cuore che non fosse ferito da pietà e da cordoglio nel vederli galleggiare in pieno mare; fendendolo
a nuoto e sforzandosi di salvarsi, sebbene disperando della terra per esser questa troppo lontana,
essi seguivano di vista e di nuoto, per quanto potevano, le loro navi ed i loro padroni, i quali li
guardavano pietosamente affondare e annegare davanti i loro occhi. A Genova udii raccontare da
dei vecchi marinai di quei tempi che la cosa che più intenerì loro il cuore in tal naufragio fu, dopo
quello gli uomini, questo pietoso spettacolo dei cavalli ed essi non facevano tanto racconto né
manifestavano tanto dolore d’altre perdite quanto di quella. Paolo Giovio ne ha raccontato molto,
ma io l’ho udito dire ancor meglio da altri… (P. de Bourdeilles. Cit.)

Certo che Pierre de Bourdeilles era da considerarsi un uomo degno d’encomio per queste
accorate parole spese a favore proprio d’un animale al quale doveva quella sua inguaribile e
dolorosa menomazione che lo costringeva a vivere a letto sin da età ancor giovanile; ma la vita di
questo prolifico, raffinato, intelligente, anche se un po’ farraginoso autore esula dal nostro tema.
Gettare a mare i cavalli nelle situazioni di pericolo era uso comune e capiterà di doverlo fare al
largo di Mazalkibir, a una lega da Orano, anche all’armata di velieri che all’inizio del 1543 condurrà
in Barbaria Martín de Córdova y de Velasco, conte di Alcaudete e signore di Montemayor:

… e colà venne un’altra burrasca abbastanza pericolosa, anzi molto, perché in verità ci mise in
notevole pericolo e affanno, tanto che gettarono dalle navi a mare molti cavalli a causa del grande
affanno in cui si videro. (Francisco de la Cueva, Relacion dela guerra del Reino de Tremecen etc.
Baeza 1543, in «Guerras de los españoles en África», Madrid, 1881.)
382

Dopo aver tentato inutilmente di prendere egualmente Algeri, Carlo V fu costretto a far marciare il
suoi esercito verso Capo Matifoux per farlo reimbarcare, mentre di nuovo il mal tempo prendeva a
martoriare l’armata e una delle più grosse navi sparì tra i flutti con il suo carico di ben 400 uomini;
altri due vascelli furono gettati sulla costa presso Algeri e gli spagnoli che li montavano, dopo aver
combattuto eroicamente, si dettero prigionieri ai turchi e furono imprigionati nei famigerati bagni
penali della città; la marcia dei cristiani fu martoriata dalla cavalleria araba, dalla pioggia e dalla
necessità d’attraversare dei fiumi e lo stesso imperatore, in attesa che le condizioni atmosferiche
permettessero il ritorno in Spagna, fu costretto a soggiornare qualche giorno a Bougie, la quale
allora, come sappiamo, era come Tripoli, Tunisi e Orano tenuta da presidi cristiani; infatti,
conquistata da Diego Fernandez de Córdoba Mers-El-Kébir nel 1505, poi il Peñon de Vélez (oggi
Benyounes) nel 1507, il 18 maggio 1509 Francisco Jiménez de Cisneros, arcivescovo di Toledo
e primo ministro, inviato da Ferrando ed Elisabella d’Aragona la prima volta in Barbaria a capo
d’un esercito, aveva preso Orano, principale porto del regno di Tlemcen, e altri luoghi marittimi
minori della costa mediterranea occidentale dell’Africa; ancora, nel 1510 il generale spagnolo
Pedro Navarro, andata anche a buon fine l’impresa di Tripoli e Bougie e sottoposte a tributo
Tenès, Cherchell e Mostaganem, lasciò Tripoli il 28 agosto di quello stesso anno alla testa di
15mila soldati spagnoli e sbarcò il giorno seguente alle Gerbe con l’intenzione d’impadronirsene,
per estirpare anche da quell’isola la pirateria barbaresca, la quale vi era stata stabilmente istallata
dal corsaro Barbarossa nel 1503; ma, volendo portarsi dietro una pesante artiglieria d’assedio e
non disponendo né di buoi né di guastatori, commise un errore ingenuo e indegno di lui, come
riporta il de la Gravière dal Sandoval, il quale partecipò a quell’imprese del Navarro, cioè la fece
penosamente trascinare e le fece aprire la strada dai suoi stessi fanti, i quali arrivarono quindi il
giorno 30 a una agognata sorgente disordinati, stanchi, accaldati e assetati e vi trovarono ad
attenderli, tra fanti e cavalli, 4.500 mori imboscati; furono quindi da questi messi in fuga, ebbero
tremila morti e 500 prigionieri, mentre il resto nel panico generale riusciva fortunatamente a
reimbarcarsi; perì in quell’azione anche Garcia de Toledo, figlio di Federico, primo duca d’Alba, e
fratello di quel Pedro Alvaréz che sarà poi marchese di Villafranca e il più duraturo vicerè di Napoli
(1532-1554), essendo stato colpito da molti colpi mentre tentava di fermare la fuga dei suoi.
Tornando ora a parlare d’Algeri, diremo che la sua impresa era già fallita nell’agosto del 1516
anche agli spagnoli di Diego de Vera, il quale, per portar aiuto alla guarnigione del Peñon assalita
dagli algerini, con una gran armata di mare e 10mila uomini era andato a cingere d’assedio la città,
confidando anche nella promessa d’aiuto fattagli dallo sceicco di Tlemcen Bû Hamû, vassallo
della Spagna, il quale aveva, come sembra, promosso e sollecitato quell’impresa; sennonché,
approfittando d’una furiosa tempesta che stava disperdendo l’armata spagnola alla fonda nei
383

pressi della città e ne stava mandando tanti vascelli a naufragare sulla costa, Baba Arouj, il quale
l’anno precedente s’era impadronito della città togliendola allo sceicco Selim ed-Teumi, fece
un’improvvisa e massiccia sortita, con la quale travolse la batteria e poi tutto l’esercito spagnolo, di
cui appena un migliaio d’uomini scampò alle sciabole nemiche e fu fatto schiavo, mentre del
promesso soccorso di Bû Hamû non s’era vista nemmeno l’ombra. Mancò ancora Algeri la Spagna
nel 1518 con il vicerè di Sicilia Hugo de Moncada, il quale, come in seguito meglio vedremo,
tentava d’approfittare dell’appena avvenuta morte del suo re Baba Arouj (nome storpiato in Italia in
Barbarossa, anche se il personaggio non aveva per nulla la barba di questo colore), ma la sua
spedizione finì un disastro a causa anch’essa d’una tempesta di mare; Algeri era ora difesa dal
fratello di Baba Arouj, Kheir Eddine, detto dai cristiani anch’egli Barbarossa. Il de Moncada, alla
testa d’una armata italo-spagnola comandata da lui stesso e dal generale spagnolo Martín de
Argote, armata della quale non conosciamo l’effettiva consistenza, ma che pare portasse solo
7.500 uomini e quindi non fosse potentissima, e con la determinante promessa d’aiuto sia dello
sceicco di Tlemcen, Buhammud, sia del caid di Ténès, fece un parziale sbarco in agosto a ponente
d’Algeri. Passò una decina di giorni a scaramucciare col nemico nella speranza di vedersi arrivare
gli aiuti barbareschi promessi, ma gli unici che vide furono invece i continui e sostanziosi soccorsi
di turchi, mori e arabi che arrivavano al nemico; poi un’improvvisa tempesta gettò sulla costa,
proprio in pasto agli uomini del Barbarossa, un gran numero di vascelli cristiani ancora carichi di
gente, e il Moncada dovette reimbarcarsi in tutta fretta per Ibiza con i pochi vascelli e uomini
rimastigli. Nel 1558 l’impresa fallì anche al sunnominato conte di Alcaudete, governatore d’Orano,
il quale il 26 agosto di quell’anno fu rovinosamente sconfitto e ucciso a Mostaganem in Barbaria
dal nuovo re d’Algeri Hassan Pachà, figlio del Barbarossa, restando prigionieri e schiavi dei
barbareschi ben ottomila dei suoi 10mila spagnoli tra cui lo stesso figlio del suddetto conte, mentre
nel 1601, per altre avverse circostanze atmosferiche, nemmeno un’altra spedizione guidata dal
principe Gioan Andrea d’Oria, soprintendente generale del mar Mediterraneo di Filippo III, riuscirà
ad averne ragione. Il 19 agosto di quest’ultimo anno era infatti stata rassegnata a Maiorca
un’imponente armata di 73 galere, essendosi colà ammassate quelle di Spagna, Napoli, Sicilia,
Savoia, Toscana, Roma, Genova e particolari genovesi, con più di 10mila soldati, tra i quali molta
fanteria inviata dal Milanese dal conte di Fuentes, allora governatore di quello stato oltre che
capitano generale dell’esercito del nord-Italia, e imbarcata a Savona, con comandanti prestigiosi,
tra cui Ranuccio I duca di Parma e Piacenza, Virginio Orsino duca di Bracciano e Pedro de
Moncada vicerè di Sicilia; arrivata tale armata davanti ad Algeri il 1° settembre, fu investita da un
forte vento di levante che la trascinò a ponente, costringendola infine a tornarsene a Maiorca il 4
successivo con un completo nulla di fatto e molte galere danneggiate dal maltempo; l’insuccesso
384

fu dovuto al ritardo con cui s’era arrivati ad Algeri, ritardo dovuto a vari fattori, specie alla
circostanza che il Fuentes, per cedere sue soldatesche al d’Oria, aveva voluto dalla Spagna un
secondo ordine di conferma, che le galere napoletane, andate in corso in Levante nonostante le
raccomandazioni contrarie del principe, erano tornate a Napoli solo il 7 luglio e anche bisognose di
raddobbo e infine anche al maltempo. Le galere dei particolari genovesi comandate dal duca di
Tursi Carlo d’Oria, figlio del principe di Melfi Gioan Andrea, e sei della repubblica di Genova,
caricate in Liguria il 27 giugno le soldatesche italo-spagnole provenienti dal Milanese, unitesi a
cinque del Papa e a quattro del Granduca di Toscana e avendo fatto sosta a Napoli dal 15 al 17
luglio, arrivarono con queste per prime alla massa di Messina il 19 luglio, mentre il 24 arrivarono
18 galere di Napoli, le quali non arano state ancora nemmeno spalmate, quelle di Sicilia giunsero il
1° agosto e quelle di Spagna arrivarono più tardi di tutte. Gioan Andrea inviò in Levante le galere
più forti perché tenessero i turchi distolti dalla Barbaria, suo vero obbiettivo, e chiese al gran
maestro di Malta, allora Luigi de Vignacourt, d’inviare anche le sue in Levante allo stesso scopo;
imbarcati intanto mille uomini del battaglione di Calabria, l’armata si spostò poi a Maiorca per
nascondere al nemico le sue vere intenzioni e si fornì di piloti maiorchini esperti delle acque di
Algeri; alla fine l’armata si trovò costituita dalle seguenti galere:

- 17 dei particolari genovesi, inclusa la Reale di Gioan Andrea;


- 2 del duca di Savoia, le quali erano però al soldo del re di Spagna ed erano comandate, come
anche le precedenti, da Carlo d’Oria;
- 16 di Napoli comandate da Pedro de Toledo;
- 12 di Sicilia, di cui nove di proprietà del re e tre del duca di Macheda, tutte comandate da Pedro
de Leyva;
- 11 di Spagna comandate dal conte de Buendia;
- 5 del Papa comandate dal commendator Magalotto, suo luogotenente generale;
- 6 della repubblica di Genova, agli ordini del conte Gio (sic), ma di cui era generale Tomaso
d’Oria;
- 4 di Toscana comandate da Marc’Antonio Calafatto, generale delle galere dell’ordine di S.
Stefano.

Dunque 73 galere in tutto; ma le squadre di Spagna, Napoli e Sicilia erano in cattivo ordine e fu
necessario rinunziare a una parte delle loro galere perché le altre fossero fornite d’un sufficiente
numero di rematori. Per quanto riguarda le fanterie imbarcate su detta armata, tutte sotto il
comando del mastro di campo generale Manuel de Vega Cabo de Vaca, c’erano 6.300 spagnoli,
così ripartiti.

- 1.600 del terzo di Lombardia, agli ordini del loro mastro di campo Iñigo de Borgia;
- 1.000 del terzo di Bretagna, agli ordini di Pedro de Toledo de Anaya;
- 2.000 del terzo di Napoli, agli ordini di Pedro Vivero;
385

- 1.200 del terzo di Sicilia, agli ordini del Salazar, castellano di Palermo;
- 500 del terzo Armada, agli ordini del governatore Antonio de Quiñones.

C’erano poi 2.500 italiani comandati da Barnaba Barbo e 1.500 miliziani del Battaglione del Regno
di Napoli, guidati dal mastro di campo Annibale Macedonio, mentre le galere papaline potevano
sbarcare 350 fanti e le toscane 400 oltre a numerosi cavalieri di S. Stefano; infine c’erano da
aggiungere, come la solito, molti venturieri, tra cui il duca di Parma con 200 cavalieri suoi vassalli e
vecchi soldati di Fiandra, imbarcati sulla Capitana di Carlo d’Oria; Virginio Orsino duca di
Bracciano sulla Capitana di Firenze; il marchese d’Elche, primogenito del duca di Macheda, sulla
Reale, e poi Alonzo Idiaqués, generale della cavalleria leggera dello Stato di Milano e
luogotenente di Gioan Andrea d’Oria, Diego Pimentel, Manuel Manriques, gran commendatore
d’Aragona, il conte di Celano, il marchese di Garesfi (sic), Ercole Gonzaga, Gian Geronimo d’Oria,
Aurelio Tagliacarte e molti altri, tra cui 7 od 8 gentiluomini romani. Il 30 agosto l’armata arrivò in
vista delle coste africane, ma con le galere tutte disperse e ci vollero più di 3 ore a raccoglierle;
poi, poiché i piloti non riconoscevano la costa da quella distanza, furono mandati verso riva con
delle feluche, mentre a bordo s’abbattevano gli alberi e si raccoglievano le vele per prepararsi ad
attaccare a remi; ma i piloti non tornarono che a sera, con gran collera del principe, il quale temeva
fossero stati presi prigionieri o che fossero fuggiti, e riferirono che le correnti avevano portato
l’armata a 50 miglia a levante d’Algeri e quindi si dovette tornare indietro; si fecero poi scendere in
feluche e fregate 300 archibugieri spagnoli e due petardi destinati a far saltare la porta della città
detta ‘della marina’, ma alla fine della notte cominciò a soffiare un fortissimo Greco e quindi si fu
costretti a far risalire a bordo delle galere queste soldatesche e ad allontanarsi da quel luogo
lasciando che l’armata andasse portata dal vento. Ci si ritrovò così a Maiorca il 3 settembre e il
vento contrario continuò per diversi giorni; quando si calmò, ripartendo ci si sarebbe ritrovati a
destinazione dopo il 10 settembre, cioè dopo che la guarnigione turca della città, la quale s’era
allontanata nell’entroterra per andare a raccogliere il tributo annuale detto garama, sarebbe tornata
e quindi la città sarebbe stata molto più difesa, aggiungendosi a ciò che l’effetto sorpresa s’era
ormai probabilmente perso e che le galere avevano biscotto solo per il mese di settembre; il
principe d’Oria decise pertanto di rinunziare e congedò l’armata. Dopo quest’insuccesso Gioan
Andrea darà le dimissioni e sarà sostituito da Juan de Cardona; così i d’Oria principi di Melfi non
saranno più capitani generali del Mediterraneo, ma presto in questo prestigioso carico
subentreranno i d’Oria duchi di Tursi.
Algeri, dopo aver subito azioni navali offensive dalla flotta inglese nel 1616 e nel 1620, da quella
olandese nel 1619, da quella francese del duca di Beaufort nel biennio 1662-1663 e ancora da
quella inglese nel 1669, dopo aver respinto una spedizione navale francese inviata da Luigi XIV
386

contro di lei e contro Tunisi, la quale fu costretta ritirarsi con perdite, dopo esser stata poi ridotta
pressoché in cenere da tre bombardamenti navali francesi vendicatori di quell’episodio e diretti
dall’ammiraglio du Quesne (1683 -1684 -1688), dopo aver messo in rotta uno sbarco spagnolo
guidato dal generale irlandese O’Reilly l’8 luglio del 1775, esser stata duramente bombardata
dall’ammiraglio spagnolo Angelo Barcelo sia nel 1783 che nel 1784, esser stata attaccata nei primi
anni dell’Ottocento due volte persino da navi militari degli Stati Uniti, esser stata pressocché
distrutta dalla flotta anglolandese di Lord Exmouth con un terribile bombardamento iniziato il 27
agosto del 1816, cadrà finalmente solo il 5 luglio 1830, quando verrà presa dall’armata francese
dell’ammiraglio Duperré e del generale de Bourmont e l’ultimo dei suoi bagni per gli schiavi
cristiani, solo qualche centinaio allora, verrà finalmente chiuso! Ma perché questa città corsara era
tanto imprendibile? Ce lo spiega il residente veneziano in Spagna Lorenzo Priuli nella sua
relazione del 1576:

… l’impresa d’Algieri, la quale è molto ardua per esser questa città sempre ben provvista di molta
gente da guerra, difficile da esser assediata e facile da esser soccorsa, e finalmente perché di
estate non si può tentarla per sospetto (‘il pericolo’) dell’armata turchesca e d’inverno quella
spiaggia è pericolosa da praticare per non vi esser porto da salvar l’armata. (E. Albéri. Cit. S. I, v.
V, p. 239.)

Allo stesso infausto modo nel 1570, avendo Venezia, Roma e il re di Spagna, pur senza che si
fosse formalizzata alcuna lega tra di loro, formata a Suda in Candia, porto appunto atto a dar
ricetto a grossi numeri di vascelli, un’armata di 180 galere, 12 galeazze e sei navi grosse per
soccorrere Cipro invasa dai turchi e trattenendosi questa in mare senza decidersi a passare
all’azione, sebbene si fosse ormai arrivati all’ottobre, i veneziani persero ben 11 galere, perché
queste, mentre si trasferivano il giorno 6 dal porto di Candia a quello di Suda, andarono a
naufragare sulle spiagge dell’isola a causa d'un terribile fortunale di tramontana; la squadra
pontificia di Marc’Antonio Colonna ne aveva appena perse 2 delle sue 12 nel predetto porto di
Candia per lo stesso motivo e il precedente 26 settembre quell’asburgica di Gioan Andrea d’Oria,
sempre a causa del mal tempo, ne aveva già perse a Scárpanto quattro delle sue 49; quest’ultima
disgrazia era avvenuta perché il d’Oria aveva voluto che le sue galere sostassero all’ancora in
rada invece d’entrare in porto, come avevano invece in maniera ortodossa fatto le altre squadre,
pericoloso comportamento del resto già tenuto dal genovese quando l’armata cristiana era stata a
Calamata, e la cosa deponeva, secondo quanto lascia capire il Colonna nella sua suddetta
relazione a Filippo II, per una sostanziale inesperienza di Gioan Andrea nelle cose pratiche di
mare, inesperienza che, unita alla tradizionale spilorceria dei d’Oria, può senz’altro spiegare poi
anche il criticabilissimo modo di fare del generale genovese a Lepanto, dove permetterà a Uluch-
Alì di salvarsi con un buon gruppo di galere e di conseguenza consentirà all’impero ottomano una
387

più rapida ripresa dalla gravissima sconfitta. L’anno seguente poi, ossia il fatidico 1571, come se
non fossero bastate tutte queste recenti sventure patite dalla marineria bellica della Serenissima,
accadde, essendosi però ora in piena estate, che il nuovo capitano generale veneziano, il
settantacinquenne Sebastiano Venerio, nell’ambito dei preparativi della grande armata che i
potentati cristiani stavano preparando contro il Gran Turco, recatosi con 35 galere a Tropea in
Calabria per provvedersi colà di vino, venne assalito da un forte temporale e, poiché il suo
ammiraglio (vn. armiragio; luogotenente di capitano generale), cioè lo schiavone Uranna, pur
essendo molto sperimentato e stimato in Levante, non aveva in realtà conoscenza di quelle coste
e non s’accorse della presenza di certi scogli, vide ben otto delle sue galere andare a fracassarcisi
e di queste solo due si poterono il giorno seguente con molta fatica recuperare; s’aggiungeva poi a
tal danno la fuga a terra di molti galeotti veneti, anche se il cardinale di Granvelle, a richiesta dello
stesso Venerio, dette presto ordine al governatore di Tropea di catturarli; infine negli stessi giorni al
provveditore Barbarico che si recava per lo stesso motivo con altre galere a Melazzo (‘Milazzo’) la
burrasca faceva perderne due che erano andate anch’esse a rompersi in terra.
La pericolosità insita anche nella navigazione primaverile delle galere fu purtroppo dimostrata dal
terribile naufragio dell'aprile del 1569, quando cioè, allo scopo di reprimere la rivolta dei moriscos
di Granada scoppiata nel novembre seguente, la Spagna aveva raccolto a Genova 24 galere, di
cui sei spagnole, quattro dell’assentista genovese Lomellino, quattro del già nominato Negroni e
10 toscane sotto il comando d’Alfonso Aragona d’Appiano signore di Piombino – succeduto, ora
ufficialmente, l'anno precedente nel capitanato di tali galere al fratello Jacopo VI, gravemente ferito
mentre combatteva contro i turchi, per imbarcare nella città ligure un terzo spagnolo di stanza in
Piemonte e trasferirlo alla predetta guerra in Spagna; la squadra era sotto il comando del gran
commendator di Castiglia Luiz Berengario de Requesens. Imbarcati da ogni galera 150 soldati, si
partì e poi, mentre si faceva sosta a Marsiglia in attesa che il tempo minaccioso (fr. temps grand;
temps gros) migliorasse per poter proseguire il viaggio, si videro arrivare dalla parte di Spagna le
galere di Gioan Andrea d’Oria; il de Requesens, vedendo quel generale, esperto uomo di mare,
navigare tranquillamente, ne trasse la conclusione che anche la sua squadra poteva
evidentemente farlo e la fece rimettere in viaggio, sebbene sconsigliatone vivamente dai suoi
generali, specie dal d’Appiano e dall’espertissimo còmito reale di questi, Pier Tiragallo; una terribile
tempesta prese le galere nel vicino Golfo del Leone e le disperse in tutto il Mediterraneo
occidentale; se ne affondarono 12 con la perdita di diverse migliaia di vite umane e cioè quattro di
Spagna, tre del Negroni e quattro del d’Appiano, ossia la Patrona, La Pace, La Toscana, La
Colonna più una galeotta che era stata recentemente immessa nella squadra toscana, mentre le
altre 12 restarono tutte seriamente danneggiate. Se si fa eccezione di quello avvenuto il lontano 6
388

dicembre 1285 nello stesso Golfo del Leone ai danni dell’armata di 46 galere dell’esperto
ammiraglio Roger de Lauria e nel quale se ne persero 6 siciliane, sia questo grave naufragio sia
quelli precedenti del 1541, avvenuto durante la sfortunata impresa d’Algeri di Carlo V, e del 1562
nella baia di Herradura, di cui poi diremo, sia infine quello successivo e catastrofico del 1588, il
quale vedrà la rovina dell’Invencible Armada del Medina Sidonia, dimostrano chiaramente quanto
fosse dissennata la conduzione del ramo marittimo della Spagna, le cui armate di mare erano
infatti spesso guidate da titolati di gran nome, ma assolutamente inesperti di navigazione e, quel
che era peggio, ottusamente sordi ai saggi e accorati suggerimenti dei loro tanti esperti consiglieri.
Eppure Luiz de Requesens aveva avuto altri ben più gloriosi precedenti in famiglia, specie nel
1515, quando un palermitano suo avo e suo omonimo dei baroni di S. Giacomo, allora generale
delle galere di Sicilia sotto il viceregnato d’Hugo de Moncada balì gerosolimitano di S. Eufemia
(1509-1516), mentre portava la sua squadra contro la Barbaria, s’incontrò all’isola di Pantelleria
con una numerosa squadriglia di corsari africani comandati dal famoso e molto temuto Sulaiman
Rais, i quali avevano da poco catturato una galera papalina e dannificato gravemente le marine di
Trapani e Marsala, e, accesa con essi una feroce battaglia nella quale restò ucciso il Sulaiman, gli
sconfisse, facendo preda di sei vascelli corsari con 400 prigionieri e mettendo in fuga gli altri;
Berlinghiero, il figlio di questo Luiz, fu anch’egli generale delle galere siciliane e partecipò con 10
galere alla sfortunata spedizione in Barbaria del 1560, impresa alla quale prese parte lo stesso
vicerè di Sicilia Juan de la Cerda duca di Medina Coeli (1557-1564); infine anche generale delle
stesse galere fu il nipote Francesco. Ancora un importante naufragio di galera avvenne nella
primavera del 1618; il capitano generale toscano Giulio Barbolani da Montauto, mentre portava la
sua squadra in Spagna, s’accorse che la vecchia galera S. Maria Maddalena comandata da
Giovan Paolo del Monte non reggeva bene il mare e sbandava; egli allora ordinò al suo capitano di
lasciare al squadra e di portare il suo legno a Bonifacio per farla riparare le avarie e la galera fu
infatti colà riparata, ma, quando riprese il viaggio per raggiungere le altre in Spagna, fu sorpresa
da una libecciata nel pericoloso Golfo del Leone e si capovolse. Morirono così affogate ben 450
persone, tra cui due capitani di fanteria e sette cavalieri di S. Stefano; il del Monte, dopo aver
trascorso quasi 30 ore in mare aggrappato a una catena del relitto rimasto galleggiante, poté
afferrare il caicco, fortunatamente staccatosi dai paranchi della galera, e salvarsi su tale
imbarcazione unitamente a 3 cavalieri, 2 ufficiali e 7 marinai.
I disastri suddetti non significavano però che in piena estate le galere potessero navigare
tranquillamente e infatti un grave disastro accadde proprio nella prima metà del luglio 1551,
quando cioè Marc’Antonio del Carretto, più conosciuto come Antonio d’Oria e in seguito principe di
Melfi perché era stato adottato dal principe Andrea d’Oria, e Berlinghiero de Requesens, capitano
389

generale della squadra di Sicilia, guidavano 15 galere che portavano un migliaio di soldati italiani e
duecento spagnoli a rinforzare il presidio di Tripoli, poiché sera saputo dei grandi preparativi fatti
quell’anno dall’armata turca, la quale, forte di 120 galere, due maone e un numero di galeotte,
fuste, brigantini e fregate, comandata da un Couradin Bascià (forse l‘Hassan Pasha Ben Kheir
Eddine, figlio del Barbarossa, di cui poi meglio diremo) e da Torgud, il quale ne comandava
l’avanguardia, in verità aveva come obiettivo principale Malta e, fallito questo, dopo aver però
devastato quest’isola e preso Gozo, riconquisterà effettivamente Tripoli solo per non tornarsene a
Costantinopoli a mani vuote, condizione che il sultano avrebbe potuto facilmente far pagare al suo
kapudan pasha (‘capitano generale del mare’) con il taglio della testa, come ci spiega il de
Bourdeilles:

… Non parliamo poi dei turchi, poiché, se sbagliano, sono avvezzi a perdere subito la testa, perfino
a portarla loro stessi al Gran Signore per farsene privare. (Cit.)

Pervenute dunque le dette 15 galere all’altezza di Malta, furono prese da una violenta tempesta e
solo sette riuscirono a raggiungere Tripoli, mentre le altre otto andarono a naufragare su
Lampedusa e vi trovarono la morte ben 1.500 uomini.
Come ci si doveva comportare in una galera sorpresa da un violento fortunale? Bisognava
innanzitutto, con voce familiare ai marinai veneziani, libare (da ‘liberare’, ossia alleggerire) il
vascello il più possibile a evitare che le onde lo sommergessero o che il grave peso trasportato,
sbattuto dalla violenza dei flutti, ne aprisse lo scafo affondandolo. Al comando far getto! si
cominciava a gettare in mare i pavesi e il tavolame o legname di garbo (gr. ὐποζώματα, ‘legname
navale’), ossia di servizio e di rispetto; poi ci si liberava del fogone e dello schifo, poi dell'artiglieria
e di tutto quanto di mobile si trovasse sulla coperta, eccetto dei barili d'acqua potabile e del
palamento, perché con quest'ultimo si faceva da contrappeso al vascello spinto dalla burrasca,
aiutandolo così ad avanzare diritto senza piegarsi troppo da un lato o dall'altro, e inoltre, passato il
maltempo, una galera senza remi sarebbe rimasta pressocché incapace di navigare. Se tanto non
fosse bastato, allora si cominciava a gettare in mare la mercanzia, l'alberatura, i corredi e le
provviste tenute sotto coperta, iniziandosi dalle più vili o meno necessarie, ma, prima che si
addivenisse a tale disperata e funesta risoluzione, bisognava che il capitano si consultasse con i
suoi principali ufficiali ed eventualmente anche con i mercanti caricatori della merce a nolo, se a
bordo ce ne fosse; in quest'ultimo caso doveva il capitano prendere minutissima nota di tutto
quanto si gettava in mare, in modo da poterne avere un giorno valida giustificazione e, delle
implicazioni legali dell’esecuzioni di un getto si può leggere, per esempio, nell’Excerpta
controversiarum de lege Rhodia de jactu etc. di Johann Heinrich Feltz, pubblicata a Strasburgo nel
390

1715. Proseguendo poi nei suddetti gravissimi provvedimenti, sgombrate dunque ormai le camere
sotto coperta, si cominciava, da poppa verso prua, a demolire i già menzionati parasguardi, ossia i
tramezzi di tavole che separavano le varie camere, in maniera che, se il vascello incominciato a far
acqua, si poteva trovare subito la falla (gr. εὐδιαῖος, gre. ἐυδίαιος), tapparla con cappotti, schiavine,
cuoi, placche di piombo, cordami navali (gr. τοπεῖα), stoppa, sacchi di lana, ecc. e mettersi subito a
got(t)are (‘aggottare, vuotare’) la galera da un capo all'altro senza impedimenti e impacci; inoltre gli
stessi parasguardi si gettavano immediatamente a mare alleggerendo così ulteriormente il
vascello. Nel caso summenzionato della tempesta che colse l’armata dell’ammiraglio Roger de
Lauria nel 1285 lo storico Bartolomeo di Neocastro ci racconta che si cominciò col gettare in mare
davvero il superfluo del superfluo e cioè tutto il ricco bottino fatto a spese dei francesi nella
precedente battaglia terrestre di Rosa in Catalogna; ma ciò non bastò a salvare tutte le galee e ne
naufragarono infatti 6 siciliane (cit. LT. I, cap. 101). Interessanti le raccomandazioni fatte ai suoi
uomini che il predetto storico attribuisce a Roger de Lauria in occasione di quel fortunale:

… Ecco, l’uragano ci è addosso e la notte sopraggiunge nuvolosa e tempestosa, né questo furore


cesserà domani. Ci è negato il ritorno dal momento che non possiamo opporci a tale forza. Ogni
galera si tenga lontano dalle altre; vasto è il mare, ma una la via che noi, guidati da Dio, potremo
seguire. Mantenete le prore tra oriente e noto (‘sud’); abbiate vostri lumi a prora onde ne riceviate
segno perché ogni galera eviti l’altra. Restate tutti uniti e attenti alla (vostra) sicurezza; marinai e
scapoli si rinchiudano giù nei talami (‘camere’) affinché non siano vuoti; scrutino e indaghino
prudentemente coste e fianchi delle galere affinché il mare, abbattendosi, non danneggi i comenti
e l’onda del mare non entri attraverso crepe e fenditure. Si chiudano le boccaporte, affinché
l’irruente acqua del mare non trovi porte aperte e renda (que)gli ambienti pericolosi per i marinai.
Restino disopra solo gli ufficiali, i quali, vigilando a poppa e a prua delle galee, con il loro impegno
e con la loro arte della spada conducano le galee, e, quando sarà venuto il giorno scelto da Dio,
(allora) ritornate alla nostra rotta. Fate (infine) attenzione che l’uragano di mare non vi faccia
capitare su qualche occulto scoglio (Cit. Cap. CI).

Premesso che qui per talami si intendono dunque i castelli di poppa, cosiddetti perché nelle loro
camere vi dormiva la gente di poppa, e non si intendono le balestriere, cioè le strette corsie di
fiancata in coperta che nelle galee di Bisanzio portavano lo stesso nome, in esse dormendo gente
di coperta, e di cui abbiamo in precedenza detto quando abbiamo appunto menzionato i remieri
talamiti, il suddetto passo merita anche qualche altra spiegazione. Navigare in una tempesta
richiede che le galere si tengano lontane l’una dall’altra per evitare il rischio di collisioni dovute alla
gran forza dei venti e delle correnti. Così allargandosi, inevitabilmente si disperderanno, ma ciò
nonostante non dovranno cercare di mantenere ad ogni costo la giusta rotta perché questo le
esporrebbe maggiormente agli insulti del maltempo; la riprenderanno a tempesta finita, anche se
ormai però non più viaggiando di conserva con le altre. Durante il fortunale, una volta raccolte le
vele per evitare che il violento vento le laceri o che peggio, troppo gonfiandole, provochi la frattura
391

degli alberi e magari anche il rovesciamento e quindi il naufragio della galera, non c’è altro servizio
che i marinai possano rendere in coperta e quindi sia loro sia soldati ed eventuali passeggieri
dovranno scendere giù nelle camere per dare, con il loro peso, maggior stabilità alla galera; inoltre,
avendo provveduto a rinchiudersi le boccaporte dietro di sé per evitare che vi entrino poi anche
quei flutti che inevitabilmente verranno a spazzare la bassa coperta, ne approfitteranno anche per
tener lì dentro costantemente sott’occhio l’interno delle fiancate, pronti a intervenire in caso di falle
o di fratture di coste. In coperta, oltre ai disgraziati remiganti, seduti sgomenti ai loro banchi e
sbattuti e inzuppati dai flutti, resteranno solo timonieri e ufficiali, i primi badando bene di
assecondare la tempesta e i secondi pronti a prendere quelle estemporanee decisioni che si
rendessero di volta in volta necessarie, quali per esempio ordinare il progressivo getto in mare dei
più pesanti materiali di bordo, in extremis perfino il palamento; ma dovranno tener pronte anche le
spade, per uccidere eventualmente subito e senza pietà quei remiganti che, liberatisi dalle catene
e abbandonati i loro posti perché vinti dal terrore, mettessero in pericolo il precario assetto della
galera.
Il modo più efficace d'estrarre l'acqua era di farlo attraverso lo sportello, ossia la boccaporta della
camera di poppa, ma poteva capitare che la burrasca fosse tale che le onde entrassero nella
galera proprio per la poppa e allora si doveva fare subito uno sportello nella corsia
immediatamente dopo il tabernacolo, luogo dove minore era il pericolo delle onde. Bisognava
frattanto che si calafatassero e si coprissero di cuoio crudo di vacca tutte le aperture e gli sportelli
di tutte le camere dalla poppa alla prua, affinché per quelli non entrasse il mare nella galera; si
doveva infine far andare sotto coperta tutti i soldati e i passeggeri e ciò sia per aumentare la
stabilità del vascello sia perché i paurosi non infondessero sgomento agli altri. Alla fine, se proprio
era divenuto inevitabile per non aboccare, ossia per non affondare, si doveva far getto a mare
anche del palamento. Questi accorgimenti salvavano molte galere, anche se poi alcune ne
restavano del tutto inutili alla navigazione.
Non tratteremo delle tecniche di maneggio delle vele di quei tempi sia per non esser materia
strettamente militare sia per nostra incompetenza; ci limiteremo pertanto a qualche osservazione e
cominceremo col dire che, quando la galera andava a vela, era molto importante che ogni uomo
stesse al suo posto, perché gli spostamenti di gente da una parte all'altra del vascello potevano
procurare la perdita della stiva, ossia dell'equilibrio stesso della galera, con un maggior travaglio
delle strutture e minore velocità. Non si doveva quindi permettere a soldati e marinai di mettersi a
sedere sui filari, cioè sui parapetti laterali, e ciò specialmente sottovento, a evitare che la galera
piegasse più da un lato che dall'altro; né d'altronde costoro dovevano, per motivi diversi dal
servizio, starsene in piedi camminando qua e là, ossia stare in bricollo, come allora si diceva
392

d’uomini e cose non ben compartite sulla coperta, travagliando così la galera ora da una parte e
ora dall'altra, e ciò specialmente con il vento in poppa; bisogna inoltre, sempre ai fini d’ottenere
una maggiore stabilità e un maggior equilibrio del vascello, far sedere la ciurma giù alla pedagna, il
che si otteneva con il comando Senta a basso! (fr. Tout le mond bas!) Era comunque compito del
còmito ordinare la disposizione degli scapoli e soldati da un lato o dall'altro della coperta, a evitare
che la galera piegasse più da una parte e perdesse così la buona stiva. Se, ciò nonostante,
durante la navigazione a vela ci si fosse visti a un certo punto piegare troppo da un lato, allora da
quello stesso lato e all'incirca dall'albero alla prua, secondo il bisogno, si acconigliavano od
intrecciavano o tessevano - che in tanti modi si poteva dire - i remi, cioè si ritiravano in galera per il
traverso della stessa appoggiandoli ai posticci, a evitare così che le loro estremità si tuffassero
nell'acqua rompendosi o che nell'acqua rastellassero, ossia facessero resistenza al moto del
vascello e così lo ritardassero, o infine che ne potessero nascere altr'inconvenienti.
Bisognava poi stare attenti che, prima d'ammainare la vela maestra, venissero opportunamente
sfrenellati o sfornellati i remi sottovento, vale a dire venissero slegati dalle pedagne dei banchi alle
quali, durante la navigazione a vela, erano tenuti appunto frenellati o fornellati, cioè tenuti legati
per il giglione con un frenello, mantenendone così le pale sollevate dall'acqua, ... che diciamo noi
propriamente quando i remi si fermano alti dal mare e fanno parere la galera quasi un uccello che
apra e stenda l'ali... (Ib.); ciò si faceva perché la vela, cadendo giù, vi si sarebbe potuta restare
intricata e stracciarsi; allo stesso scopo, ossia affinché non vi si andasse a stracciare, prima
d’ammainare la vela si coprivano con schiavine la prua e la poppa dello schifo di bordo.
Le galere non s’impiegavano d’inverno se non per motivi di grande importanza, quali soprattutto la
difesa o la conquista di regni, e non solo perché, come abbiamo già spiegato, di bordo troppo
basso per affrontare mari agitati, ma anche perché la gente di bordo, specie i remiganti che
vivevano solo in coperta, quando talvolta si trovavano a navigare in quella stagione, si
ammalavano immediatamente:

… Importa molto che le galere riposino d'inverno e possano tornare nelle loro darsene, perché è
una cosa incredibile e penosisima vedere la ciurma e la marinarezza che si ammalano e muoiono
navigando d'inverno e trovandosi le galere fuori dei loro luoghi ordinari; inoltre i marinai con molta
riluttanza si arruolano per navigarvi se non sia con la speranza di poter, dopo aver lavorato tutta
l'estate, tornare alle loro case e riposare l'inverno. (Carta de Juan Andrea d’Oria a Felipe II etc.Ca.
1594. In Colección de documentos inéditos para la historia de España etc. P. 179. Tomo II. Cit.)

Le ciurme andavano, se possibile, esercitate anche d'inverno, quando fattosi fuori il palamento,
ossia disarmatesi le galere dei loro remi, si stava fermi in darsena ad aspettare il ritorno della
buona stagione, e bisognava quindi conservare almeno una galera provvista di palamento per
393

approfittare ogni tanto di qualche giornata di buon tempo (fr. tems à perroquet; ol. bram-zeils weer,
top-zeils koelte) e uscire con quella in mare a esercitare a turno i remieri alla voga; anche utile era
mantenere su ogni galera un certo numero di remi per insegnarne il maneggio ai novizi, i quali così
avrebbero pure imparato a intendere il fischietto del còmito. In ogni caso bisognava far lavorare la
ciurma sia a bordo che a terra a evitare che nel lungo inverno s’impigrisse, ingrassasse e quindi
s’indebolisse tanto da non ritrovare più la lena di prima quando si fosse tornati a navigare e anzi
molti magari subito si ammalassero non sopportando più quella gravosissima fatica; ciò perché
con l'esercizio si consumano gli humori superflui, scriveva modernamente il Pantera (Cit. P. 143).
Le squadre di galere cristiane più efficienti ed esercitate erano quella dei cavalieri gerosolimitani,
ossia di Malta, e quella della signoria di Toscana, le quali scorrevano con molto profitto il
Mediterraneo da ponente a levante in qualsiasi stagione e tenevano le loro ciurme in continuo
moto, tanto da essere il flagello dei corsari turchi e il terrore dei ladroni di mare barbareschi, la cui
dannosissima e funesta attività queste galere, sicure e atte a qualsiasi impresa, avevano
grandemente ridotto già all'inizio del Seicento; ciò perché i cristiani a Lepanto avevano sì portato a
più miti consigli il Gran Turco, ma non avevano con quella vittoria, seppur grandissima,
compromesso l'attività dei corsari turco-barbareschi nel Mediterraneo. Da parte loro i cavalieri
giovanniti, cioè di Malta - come del resto dal 1562 anche quelli di S. Stefano - assalivano
regolarmente quella grande caravana marittima (‘convoglio’) di musulmani, ossia di pellegrini
maomettani, i quali, riunitisi annualmente al Cairo a volte anche in 60 o 70mila, andavano alla
Mecca a visitare il sepolcro di Maometto e quindi s’imbarcavano ad Alessandria per Costantinopoli,
tanto che fare una caravana o andare in caravana era divenuto tra le nuove giovani reclute dei
predetti cavalieri gerosolimitani comune modo di dire per significare fare una prima esperienza di
campagna marittima contro i nemici della fede e, un secolo dopo, significherà per loro invece, più
genericamente, fare un corso d’apprendistato per mare; altre caravane annuali erano quella che si
riuniva a Damasco, quella di Babilonia e una quarta che si formava invece a Zibith, città posta
all’imboccatura del Mar Rosso e di cui non sapremmo indicare il nome attuale. Anche per i
pellegrini che ritornavano dalla Mecca si organizzavano tali caravane, ovviamente per i percorsi
inversi. Il 21 ottobre del 1608, leggiamo nel Guarnieri, otto vascelli del granduca di Toscana
Ferdinando I assalirono la caravana d’Alessandria e ne catturarono molti caramussali, qualche
galeone e una germa (Cit.); in genere tale caravana era formata da 10 o 12 saicá e caramussali,
vascelli da carico sui quali s’imbarcava il grosso dei pellegrini, e poi da una decina di vascelli da
guerra di scorta e cioè sultane e grossi vascelli da 60/70 pezzi d’artiglieria. Anche i veneziani nel
Medioevo chiamavano caravane i convogli commerciali che, scortati da una grossa squadra delle
loro galee, inviavano in Medio Oriente e in Egitto; questo perché il nome caravana, anche se poi
394

rimasto solo alle teorie di cammelli che viaggiavano nel deserto del Sahara e attraverso i paesi del
Medio Oriente e con le quali i suddetti pellegrini cristiani percorrevano i tratti terrestri del loro
viaggio, non ha in effetti nulla di arabo, turco o moresco, non essendo altro che un’alterazione di
carabana, ossia di una teoria di càrabi, nome medievale questo di quei vascell remieri onerari russi
del Mar Nero che abbiamo già più volte menzionato.
Che la guerra di corso fosse esercitata senza sosta dai cavalieri di Malta, come facevano i
barbareschi, è confermato dalla testimonianza del de Bourdeilles, il quale si trattenne in quell’isola
qualche tempo:

… Et d’autant que la costume noble est là de ne les entretenir ny de les annichiler en oisiveté dans
le port, ordinairementelles vont en cours, comme i’ay veu et (quando) y suis esté… (Cit.)

Quest’incessante attività anti-corsara dei giovanniti, i quali erano in guerra spesso chiamati dai
francesi semplicemente les armez, in quanto usavano combattere sempre ben difesi da corsaletti,
faceva ‘sì che quell’ordine fosse legato a doppio filo con la Corona di Spagna e che fosse da
questa particolarmente protetta, come spiegava il già citato Francesco Vendramino (1595) :

… Della religione (‘ordine’) di Malta tiene esso Re particolare protezione, come anco essa dipende
affatto da’ suoi voleri ed eseguisce prontamente i comandamenti regi, servendo bene spesso a
tener guadate le marine della Spagna ed i regni di Napoli e di Sicilia dalle incursioni de’ corsari,
senza che il Re ne senta interesse alcuno di spesa. (E. Albéri. Cit. S. I, v. V, p. 473.)

La necessità di non mantenere d'inverno le galere ferme ad ammuffire nei porti era sentita pure a
Venezia, come suggeriva nel 1586 in una sua relazione mons. Maffeo Venerio:

... In questo stesso tempo si potrebbe spingere in Levante una banda di galere, che pure ve ne
sono, a corseggiare, danneggiare le marine, cercando le navi che andassero a Costantinopoli e
tenendo le ciurme esercitate, le quali per il più si avviliscono nei porti e, molte volte, in conserva
(‘compagnia) delle buone sono più d'incommodo che di servizio. (Ib. S. III, v. II, p. 307.)

Il rinnegato calabrese Uluch-Alì, capitano generale dell'armata turca, usava scorrere talvolta il
mare con gran numero di galere e non per far una determinata impresa, bensì ai solo scopi di far
bottino e di tenere così le ciurme e gli equipaggi esercitati, come appunto fece nel 1572, quando,
mentre era nell'arcipelago greco colla nuova armata costruita in fretta e furia dopo quella perduta
l'anno precedente a Lepanto, intese che l'armata veneziana, forte di 120 galee sottili e di sei
galeazze, non era ancora uscita dai suoi porti per unirsi ai collegati e venire ad attaccarlo;
pertanto, per non lasciare le proprie grandi forze inutilizzate, ne mandò una parte a infestare le
395

marine cristiane ed egli con 30 galee andò invece di persona a rivedere e presidiare le coste
ottomane, mantenendo in tal modo le sue genti in esercizio.
Bisognava inoltre che la ciurma fosse nutrita di buon biscotto, vestita di buoni abiti, tenuta riparata
dal freddo e dall'umidità notturna e che la si mantenesse pulita nei corpi e negli abiti facendole
cambiare spesso la camicia e facendo 'sì che si lavasse e stropicciasse spesse con l'acqua di
mare quando la stagione lo permetteva; infatti il sapone non era un genere che venisse fornito ai
galeotti di munizione. L'alimentazione con cibo cattivo e l'insufficiente riparo dal freddo erano i due
principali pericoli che, oltre a quelli bellici, la salute della ciurma correva:

... le genti delle armate navali [...] stando come in carcere, patendo ordinariamente del vivere,
mangiando poco altro che cibi salati e molto spesso guasti e non sani, bevendo quasi sempre
acqua - e alcune volte salmastra o di mala qualità - e vini non schietti, dormendo poco meno che
all'aria sopra un remo o in luoco angustissimo senza una minima commodità, vivendo sempre in
luoco dove si genera e mantiene un perpetuo fetore causato dal sudore, da i panni lordi e da altre
immondizie proprie di quei luochi, e stando esposti alle ingiurie della pioggia, del vento, del
ghiaccio, del sole e d'ogni altro disagio, con la mescolanza di tanti fiati cattivi, è necessario che
incorrano nelle infermità e le attacchino a i compagni, specialmente dove sono le ciurme o i soldati
nuovi e non assuefatti alle miserie della vita marinaresca. (P. Pantera. Cit. Pp. 207-208.)

Molteplici furono i casi d’armate sconfitte più dall'epidemie che dal nemico e, tra i più imponenti,
quello dell'armata cristiana guidata dal duca di Medina Coeli e che nel 1560 fu vanamente spedita
contro Tripoli; questa, poiché si era dovuta trattenere lungamente prima a Siracusa e poi a Malta
per diversi contrattempi intervenuti, disavventure alle quali poi torneremo, aveva visto durante
quelle lunghe soste forzate ridursi man mano le sue risorse umane a causa d'infermità contagiose
che portarono grandissima mortalità tra gli equipaggi e le guarnigioni e anche per le continue
diserzioni, perché gli uomini, resisi intollerabili i disagi dovuti alle ristrettezze di bordo, alle malattie
e al tedio, fuggivano appena potevano; l'armata andò dunque a combattere con appena la metà
della gente che vi era stata imbarcata, andando così incontro il 12 maggio a quella famosa
disastrosa sconfitta all'isola delle Gerbe (oggi Gerba), isola appetibile perché considerata uno dei
migliori empori africani e la cui conquista era già stata in passato più volte intrapresa dagli spagnoli
con alterna fortuna; era fallita infatti agli aragonesi nel 1424, quando Alfonso d’Aragona vi aveva
inviato il fratello Pietro alla testa di un’armata, impresa che poi questo re, partecipandovi egli
stesso, ritenterà nel 1426 con 79 navi e 26 galere e questa volta, coadiuvato dall’ammiraglio e
capitano generale delle galere di Sicilia Giovanni Ventimiglia marchese di Geraci, avrà miglior
esito, consolidando infine tale acquisizione nel 1432; persa in seguito l’isola, la sua impresa era di
nuovo fallita alla spedizione di Pedro Navarro nel 1510, come abbiamo già narrato, mentre riusciva
nel 1520 a quella di Hugo de Moncada e di Diego de Vera; ripersa poi, l’isola sarà attaccata
ancora dai cristiani nel 1611 in occasione dell’impresa dell’isola di Cherchen. Una sventura simile
396

a quella predetta del Medina Coeli era capitata nel precedente 1551 all'armata turca che era stata
tanto tempo all'assedio di Malta, dove era stata decimata, come dice il Pantera, in parte dai
cristiani, ma soprattutto dalla peste nata dall'ozio, volendo così affermare che era principalmente
l'inattività a predisporre la vita di bordo alle malattie epidemiche; ma in verità tali e non
scoppiavano mai nei lunghi mesi invernali in cui le ciurme stavano a bordo quasi del tutto inattive
in attesa della bella stagione e dunque la vera causa erano il grande sovraffollamento e il
conseguente peggioramento delle condizioni igieniche che avevano luogo a bordo delle galere,
quando queste, preparate ad azioni di guerra, erano mantenute troppo tempo in tali condizioni. Nel
biennio 1570/1571 era stata vittima di pestilenze anche l'armata ottomana che poi il 3 agosto del
1571 prese Famagosta dopo un lungo assedio, tanto che dopo la vittoria i turchi furono costretti a
lasciare in quell'isola molte delle loro galere disarmate per mancanza d'uomini; ma l'esempio più
tragico e più gravido di conseguenze negative per la cristianità fu quello della potente armata
veneziana che nell'anno precedente, mentre stava da maggio oziosamente raccolta nel porto di
Zara in attesa che si stabilissero situazioni adatte a portare soccorso a Cipro, isola che era stata
assalita da un’armata turca forte di 160 galere, 60 tra galeotte e fuste, otto maone, sei navi, un
galeone, tre palandre, 40 passacavalli, 30 caramusali e 40 fregate, mentre la cavalleria turca
dannificava rovinosamente lo stesso entroterra istriano per far mancare i viveri a quelle città e
quindi di conseguenza anche alle tante galere che vi stavano raccolte, soccorso quindi urgente,
ma che però per vari contrattempi era ritardato, dopo un paio di mesi di tale inattività e penuria di
viveri dunque l’armata veneziana fu presa da una virulentissima epidemia, la quale, nata nelle
ciurme, si propagò alla soldatesca con tanta veemenza e velocità da fare presto 20mila vittime e fu
inoltre tanto duratura che, secondo il Sereno, all’inizio del 1571, quando si poté finalmente
considerare finita, vi aveva ucciso più di 60mila uomini, tra cui il fiore della milizia italiana
imbarcatasi su quelle galere con lo spirito d’una nuova crociata contro i maomettani: a Venezia,
dove tutti l’anno precedente, data la grande armata raccolta e il concreto apporto dato alla causa
dalla Spagna e dal Papato, si erano aspettati di poter subito non solo liberare Cipro, ma anche
prendere ai turchi altri domini, non c’era invece ora famiglia che non fosse in lutto e che non
temesse che il nemico proseguisse nei suoi successi a danno del suo benessere:

… Erano tutte le case piene di pianti e d’afflizione, non si vedevano per lo più altro che vesti
lugubri… La plebe, per il mancamento de’ traffichi essendo in somma povertà e miseria ridotta, si
doleva… (B. Sereno. Cit. P. 75.)

Inoltre si dovette poi licenziare dal servizio una grandissima parte degli uomini rimasti perché resi
inabili dalla malattia, ritrovandosi così poi il capitano generale Girolamo Zanne solo 70 galere utili
397

delle 81 più due galeazze che sembra avesse in Istria inizialmente, e la conseguenza di ciò fu che
presto si persero Nicosia, Famagosta e tutta l'isola di Cipro rimasta così senza il necessario
soccorso; d'altra parte, come insegna la filosofia cinese, gli avvenimenti umani più malvagi e
sfortunati sono talvolta causa di beni maggiori e infatti, senza la perdita di Cipro e l'atroce martirio
di Marc'Antonio Bragadino non avremmo poi avuto Lepanto, pietra miliare nel cammino della civiltà
occidentale. La rovina accaduta fu tale che, unita la sua fama a quella d’altri eventi negativi
accaduti in quell’inizio della guerra di Cipro, l’anno successivo sarà difficile arruolare per l’armata
non solo a Venezia, ma anche negli altri stati d’Italia, come racconta il Sereno a proposito di quello
ecclesiastico, il quale, partecipando alla Lega anti-ottomana e non disponendo a quel tempo di
galere sue, aveva assoldato sotto il proprio stendardo 12 galere toscane governate da Alfonso
Aragona d’Appiano, fratello del loro generale Jacopo VI, e provvedute d’ogni cosa salvo che dei
soldati, per cui Pio V nel 1571 arruolò e armò nel suo stato 1.600 buoni fanti, i quali, divisi in otto
compagnie, s’imbarcarono sulle galere toscane a Civitavecchia il 19 giugno:

… benché paresse impossibile di trovare in quei tempi soldati, per esser tutti sbigottiti dalla
mortalità che l’anno addietro era stata nell’armata e dall’eccessivo patimento del vivere, senza che
pur una volta avessero veduto la faccia degl’inimici, per le quali cose, sentendo nominar le galere,
impauriti fuggivano… (Ib. P. 115.)

Anche nel regno di Napoli s’erano infatti trovate quell’anno più difficoltà del solito ad arruolare,
come risulta da alcuni dispacci del residente veneto Alvise Bonrizzo riportati dal Nicolini; il primo
che ne fa cenno, datato 17 marzo, dava notizia della prossima partenza delle galere napoletane, le
quali andavano incontro a quelle di Giovanni d’Austria provenienti dalla Spagna:

… La partenza forse sarebbe già accaduta, se non s’aspettasse che don Tiberio Brancaccio faccia
un colonnello di ottocento fanti, che dovranno imbarcarsi sulle galee; la cosa non è facile, giacché
è ancor vivo il ricordo dei mille fanti arrolati l’anno scorso dal medesimo Brancaccio e che,
contrariamente alle promesse, furono mandati alla Goletta, donde non ne tornaron vivi se non un
paio di centinaia… (N. Nicolini. Cit. P. 391. Napoli, 1928.)

Ciò nondimeno il Brancaccio riuscirà, per la fine di quello stesso mese, a mettere insieme il suo
tercio, il quale però si tenne insieme solo per qualche giorno, come leggiamo in un altro dispaccio
del 7 aprile:

… gli ottocento uomini raccolti da don Tiberio Brancaccio sono stati imbarcati su altre navi, ma,
poiché si sparse subito la voce che sarebbero stati inviati alla Goletta, si sono sbandati quasi tutti,
in guisa che ora ne restano appena una quarantina per compagnia. (Ib. P. 393.)
398

Un’altra virulenta pestilenza comparì nell’agosto del 1646 a bordo della squadra pontificia
impiegata alla guerra di Candia; solo nei primi giorni vi morirono 90 uomini e poi, falcidiata dalla
malattia, la squadra rientrò a Civitavecchia alla fine d’ottobre, seguendo il suo governatore
generale Alessandro Zambeccari, il quale aveva fatto rientro già il mese precedente, perché
evidentemente anch’egli infettato; infatti morirà poi di peste a Roma alla fine di dicembre e sarà
seppellito nella chiesa della Vallicella. Ancora una grave epidemia uccise nel 1661 metà degli
equipaggi dell’armata turca di 58 galere, restandovi morto anche il suo kapudan pasha, Alì
Mazzamama, nome che i cristiani storpiavano in Ammazzamamma, per cui nacque tra loro la
diceria che si chiamasse così perché sua madre era morta partorendolo; un’altra pestilenza desolò
la Morea nel 1668, mettendo in pericolo l’armata veneziana che colà allora operava nell’ambito
della lunga guerra per Candia, grave situazione che si ripeté poi identica nel 1688, quando la
detta armata si trovava a svernare nel porto di Napoli di Romania. Ma come si potevano difendere
dalle malattie le ciurme, ossia tanti uomini che vivevano non solo tutto l'anno all'aperto, di giorno e
di notte, ma anche incatenati ai loro banchi e a così stretto contatto l'uno con gli altri? Della tenda
che li riparava abbiamo già detto; bisogna aggiungere che nella stagione fredda si fornivano ai
galeotti delle coperte di panno albagio grossolano o di pelle villosa per la notte dette schiavine,
almeno due per banco, e cappotti d'albagio o di zigrino (altra lana pesante) che i rematori tenevano
indosso quando non dovevano vogare; l'isola di Cefalonia, ricchissima di greggi, produceva buona
parte delle schiavine di lana per l'armata di Venezia. Il Pantera raccomandava di curare i remiganti
malati dando loro la normale assistenza sanitaria che si dava agli scapoli e soldati della galera, ma
non tutti la pensavano così:

... si procuri che gli ammalati siano curati diligentemente, perché lo vuole la carità cristiana e
perché con il buon governo e con i medicamenti si ricuperaranno molti buoni huomini che, essendo
abandonati, si perderebbono [...] vedendosi chiaramente che la buona cura, accompagnata con i
medicamenti, rende la sanità a i galeotti anco nelle istesse galee dove stanno e che quelli che non
sono medicati all'incontro muoiono o tutti o la maggior parte [...] Il che dico perché ad alcuni pare
(non sò se per poca prattica o per avarizia) che ogni rimedio che si applichi alla gente inferma di
galea, mentre sta in galea, sia superfluo e affatto inutile, perché, come dicono, patendo molti
disagi, i medicamenti si gettano via e non le possono giovare e che, quando pare che la ciurma sia
ammalata, o non ha male veramente o muore.
(P. Pantera. Cit. P. 145.)

In verità l’opinione pubblica del tempo non era per nulla benevola verso quelli che nel secolo
successivo saranno sempre più spesso chiamati non più remieri, remiganti, sforzati, schiavi o
buonevoglie, ma galeotti, in generale, termine che invece nel Cinquecento, poco usato, aveva
indicato non tanto i vogatori quanto la marinaresca di galera; ecco infatti quanto ne scriveva
399

Tomaso Garzoni nel suo incolto, ma interessantissimo trattato su mestieri e professioni del suo
tempo, ossia della seconda metà del Cinquecento:

... la ciurma o di liberi o di sforzati, cioè galiotti, mestiero stentatissimo e da gente furfante c’habbia
bisogno di bastonate in luogo di pane o d’una catena in luogo di scarpe, d’una schiavina in luogo di
polizza, d’un remo in luogo di cavallo da cavalcare, perché questa canaglia non ritien cosa di buon
in sé, ma tutte le trufarie si trovano fra quella; le maledizioni, le bestemmie, l’imprecazioni
mostruose, l’impazienze terribili, le ghiottonerie espresse son più proprie di lor che il biscotto e
l’aceto non è per pasto; però (‘perciò’) non è maraviglia se l’agozino gli marca le spalle come si fa
alle bestie, non essendo tra loro e le bestie quasi alcuna differenza... (Tomaso Garzoni da
Bagnacavallo, La Piazza Universale di tutte le professioni del mondo. P. 874. Venezia 1665.)

E che fossero spesso trattati come bestie è confermato dal de Bourdeilles, che ne fu pietoso
testimone:

… et qui aura veu traiter des esclaves, comme j’eu ay veu, y trouvera de la pitié, car on n’en a
compassion non plus que des chiens et de bestes… (Cit.)

Un altro abuso denunciato dal suddetto Gambacorta era quello d’una disposizione reale del 1568
che permetteva ai capitani generali di vendere gli schiavi che fossero tanto malati da essere ormai
praticamente inabili alla voga; in realtà si vendevano ad altre squadre ottimi vogatori per vilissimi
prezzi con la copertura di certificati medici non veritieri o addirittura falsi che li avevano dichiarati
ormai inabili al servizio, il che significava che la galere rimanevano carenti d’uomini per qualche
tempo, cioè finché non se ne fossero acquistati degli altri, che questi altri erano poi comprati
ovviamente a un prezzo molto più alto di quello che ufficialmente era stato dichiarato come
ricavato dalla vendita dei falsi inabili e infine, anche quando si erano acquistati gli schiavi nuovi,
questi si dovevano addestrare alla voga e ciò significava per le galere altro tempo con braccia
insufficienti (Cit.).
Le galere sulle quali si trattavano schiavi e forzati in maniera alquanto più umana erano le tre del
duca Emanuele Filiberto di Savoia, come risulta dalla già citata relazione stesa nel 1570 dal
residente Giovan Francesco Morosini:

... Tratta Sua Eccellenza (il Duca) le ciurme di queste sue galere, come quello che n'ha poche,
eccellentemente, dando, oltre le minestre nei giorni ordinarij, trentasei oncie di pane per cadauno,
dove il signor Gioan Andrea d’Oria non ne dà più di trenta; per il che il galeotto, oltre il suo
bisogno, ha pane che gli avanza, il quale può vendere a chi più gli piace e delli denari comprarsi
altre cose; e comprano per il più vino, il quale in quelle parti si ha per buonissimo mercato, tanto
che rari sono quelli che bevano acqua.
Oltre questi, hanno quasi tutti essi forzati anco delli altri denari perché, quando non sono impediti
dal navigare, fanno tutti qualche mestiere e, tra gli altri, calzette di riguardo dalle quali cavano
ogn’anno molti denari; e nell'ultima andata a Nizza di Sua Eccellenza, dov'io mi ritrovai seco, non
400

fu alcuna di quelle sue galere che non vendesse calzette alli cortigiani per centoventi o
centocinquanta scudi d'oro almeno per ciascuna. (E. Albéri. Cit. S. II, v. II, p. 134.)

Far calzette, berretti e camiciole di lana, scarpe, dadi, stecchi e altri piccoli manufatti da
vendere era infatti generalmente concesso ai forzati di ponente, come si legge anche nel già citato
Guzmán di M. Alemán:

... Appresi a fare calze di maglia, dadi fini e dadi falsi, caricandoli di più o di meno, facendo loro
due assi, uno di rimpetto all'altro, oppure due sei, per i bari che li volevano fatti così. Anche appresi
a fare bottoni di seta di crine di cavallo, stuzzicadenti molto graziosi e forbiti, in varie forme e colori,
decorati di oro, materia che io solo potevo adoperare... (Cit.)

Di quest'uso di permettere ai remieri di lavorare a maglia o effettuare altri piccoli lavori


d'artigianato, quali il fabbricare ditali, ferri da calze e altri piccoli oggetti e dei relativi circuiti di
sfruttamento che s’instauravano a bordo delle galere intorno a queste povere attività parlerà anche
il già menzionato ex-galeotto Jean Marteille de Bergerac nelle sue memorie; prenderà col tempo
infatti sempre più piede e sarà sempre più concesso ai poveri vogatori quando le galere saranno
ferme negli arsenali a svernare; i forzati vendevano questa loro piccola produzione nei porti e con il
guadagno ricavatone potevano arricchire la loro povera alimentazione spendendo alla taverna di
bordo, come spiega il Pantera:

... e si aiutano grandemente, supplendo alla poca provisione del solo biscotto e acqua che hanno,
la qual veramente, se non è aiutata, difficilmente può sostentare i corpi affaticati lungamente. (Cit.
P. 134.)

A tal proposito citiamo una lettera inviata nel 1565 da una squadriglia di galere francesi inviate ai
tropici in viaggio esplorativo:

… Quando siamo arrivati nel detto luogo abbiamo messo i nostri forzati in piena libertà al fine che
potessero occuparsi e dedicarsi ai loro mestieri per guadagnarsi la vita gli uni con gli altri e
trafficare nei detti paesi di qualche mercanzia che ci fosse. (Copie d’une lettere envoyée au
gouverneur de la Rochelle par les capitaines des galleres de France etc. Parigi, 1565. B.N.P.)

Ecco inoltre un brano delle memorie del capitano Barras de la Penne scritte nel 1713 e riportato
dal de la Gravière, trattandosi quindi però, come nel caso del Marteille, d’epoca molto più tarda di
quella che soprattutto ci occupa:

... Quando si è ormeggiati in un buon porto, sembra che tutta la galera non sia che una locanda; si
vedono tavoli da poppa a prua con gente attorno che non manca assolutamente d'appetito; il
401

camino, che non è che di tela, fuma dallo spuntar del giorno sino alla notte. Mangiare e bere sono
talvolta, durante una giornata intera, l'occupazione dell'equipaggio e della ciurma; ci si sforza allora
di recuperare il tempo perduto, poiché si arriva qualche volta in mare a stare tre giorni di seguito
senza che si possa accendere il fuoco. Il Re dà ai forzati il pane, le fave, gli abiti e l'alloggio; egli
permette loro, inoltre, di procurarsi con il loro lavoro di che banchettare [...] La ciurma lavora con
assiduità i giorni lavorativi al fine di potere, le domeniche e le feste, bere in un giorno tutto quello
che ha guadagnato durante la settimana; qualsiasi diligenza si prenda, non si saprà impedire di far
più spesa in vino che in viveri; perciò si vedono pochi forzati diventare ricchi. (J. B. Jurien de la
Gravière. Cit.)

Erano però spesso i forzati anche condotti a terra a lavorare a opere pubbliche o per conto di
potenti privati e di ciò anzi da parte degli ufficiali generali di galera molto diffusamente si abusava,
tanto che nella succitata relazione del Gambacorta si richiedevano interventi per combattere tali
eccessi; in Sicilia sotto il viceregnato di Marc’Antonio Colonna duca di Paliano e Tagliacozzo, gran
contestabile del Regno di Napoli e cavaliere del Toson d’Oro (1577–2.8.1584) fu per tale motivo
privato del suo ufficio il contatore e pagatore delle galere Gaspare Bonifacio.
Dovevano spesso in porto i disgraziati remieri anche divertire i nobili annoiati, specie le dame che
erano portate a bordo delle galere perché si distraessero assistendo a degradanti esibizioni e
giochi che in tali occasioni erano imposti dai capitani e condotti dai còmiti. Ecco per esempio un
episodio riportato da un avviso di Napoli, il quale, anche se d'epoca molto più tarda, lascia capire
che si trattava d'usi inveterati; il giorno mercoledì 17 febbraio dell'anno 1700, essendo vicerè il già
ricordato duca di Medina Coeli, la contessa di Lemos, la marchesa della Valle, la principessa di
Santobuono e la nuora di questa si recarono alla darsena della città partenopea e salirono a bordo
della galera Capitan(i)a di quella squadra, dove vennero presto raggiunte dal marchese di Lemos,
allora generale delle galere napoletane, e da un principe straniero di Casa d'Harmstadt, il quale si
trovava di passaggio a Napoli; a bordo della galera gli illustri ospiti vennero serviti di rinfreschi e di
innumerabili curiosi giuochi da i forzati di quella, giochi che furono accolti con indicibile
sodisfazione di tutte quelle dame e cavalieri... (Cit.) A proposito della curiosità e dell'interesse che
le dame del 'gran mondo' manifestavano per queste esibizioni, forse, oltre alla noia procurata
dall'agiatezza, non era estranea la circostanza che, come sembra, i capitani maliziosamente
facessero spesso offrire dai forzati queste esibizioni nello stesso costume totalmente adamitico
con cui erano tenuti a vogare.
Quali potevano essere le esperienze e le sensazioni d'un condannato al remo al momento in cui
veniva per la prima volta portato a bordo d'una galera? Leggiamo che cosa Mateo Alemán fa
narrare al suo Guzmán, appunto condannato alla voga e inserito in un gruppo di disgraziati suoi
pari:
402

... Subito ci consegnarono agli schiavi mori, i quali vennero con i loro lancioni per accompagnarci
e, legateci le mani con i frenelli che per quello recavano, andammo con loro. Entrammo nella
galera, dove ci fecero raccogliere a poppa in attesa che il capitano ed il còmito venissero ad
assegnar ognuno di noi al suo banco e, quando arrivarono, se n’andarono passeggiando per la
corsia e i forzati dall'una e dall'altra banda cominciarono a chiamarli chiedendo che li mettessero a
loro. Alcuni dicevano di tenere lì da loro un poveretto inutile, altri che quanti c'erano in quel banco
erano tutti gente fiacca. E, vedendo che cosa più convenisse, a me toccò il secondo banco avanti
al fogone, a un dipresso alla capanna del còmito, ai piedi dell'albero. E Soto fu posto al banco del
patrone...
Quando mi portarono al banco, quelli mi dettero il benvenuto, al che volentieri avrei preferito delle
scuse. Mi dettero il vestiario di conto reale; due camicie, due paia di calzoni di tela, giubba rossa,
cappotto d'albagio e berrettino rosso. Venne il barbiero; mi rasero la testa e la barba, il che mi
dispiacque molto perché era cosa a cui molto tenevo; ma mi convinsi che così andavano le cose e
che altri erano precipitati da posti più alti del mio [...] Il mozzo dell'aguzzino venne subito a
mettermi un ceppo con il quale mi attaccò alla branca di catena degli altri miei camerati. Mi dettero
la mia razione di ventisei once di biscotto; capitò che fosse quello giorno di minestra e, poiché ero
nuovo ed ero sprovvisto di gavetta, ricevetti il mazzamurro in quella di un compagno; non volli
inzupparvi il biscotto, lo mangiai secco come fanno i principianti, finché col tempo mi feci esperto.
Il lavoro per il momento era poco, perché, poiché le galere si raddobbavano ed erano già
spalmate, la ciurma non serviva ad altro che a dare alla banda, quando ce lo comandavano,
perché con il sole non si liquefacesse il sego. Tutti i vestiti che portai in galera li misi insieme e li
vendetti; ne ricavai una sommetta di danaro, la quale unita ad un altro po' che avevo portato dal
carcere e non sapevo come né dove poterlo tenere custodito e segreto per far fronte a qualche
necessità che sempre può capitare o per farne qualche impiego, da potermi trovare per lo meno
con sei 'maravedì' quando n’avessi bisogno; e, poiché colà non avevo né baule né cassa né
scrittoio chiuso dove poterlo custodire, mi feci un po' inquieto, senza saper che farne... (Cit.)

A furia di pensarci Guzmán trova però la soluzione migliore:

... Mi procurai filo, ditale e ago, feci una tasca segreta, dove, cucendolo molto bene, lo portavo
senza perderlo d'occhio, al sicuro dagli amici suoi e nemici miei, i quali sempre me lo andavano
insidiando, specialmente un famoso ladrone, mio camerata che mi sedeva vicino, tanto che non fu
possibile derubarmene né durante la notte né nelle oscurità, visto che lo custodivo in quel posto.
Infatti, quando mi sentiva dormire, mi tastava tutto e, poiché l'abbigliamento non era molto, si
perquisiva facilmente; mi esaminava la bisaccia, il cappotto e i calzoni, finché arrivava alla giubba
[...] La quale, se qualche volta me la toglievo, la mettevo di tal maniera che sarebbe stato
impossibile potermela togliere da sotto, a meno di non portarmi via sulle spalle... (Ib.)

Questa persecuzione fa subito decidere Guzmán della necessità di trovarsi un autorevole


protettore; e chi meglio del còmito, il vero padrone dei galeotti?

... Inoltre perché lo tenevo più vicino ed, in quanto tale, avrei potuto omaggiarlo con facilità e per
esser lui quello che dispone di tutto. Così mi incuneai poco a poco al suo servizio, guadagnando
sempre terreno, procurando di passare avanti agli altri tanto nel servirlo alla mensa, come nel
montargli il letto, tenergli ordinati e puliti i vestiti, tanto che di lì a pochi giorni già mi guardava. Non
piccola mercede ricevevo dal suo guardarmi, sembrandomi, ogni volta che mi guardava, una bolla
od indulto di frustate e che mi mandava con ciò assolto da colpa e da pena. Ma mi ingannavo
perché, siccome sono naturalmente severi e si cercano tali per tale ufficio, mai guardano per
403

prendere in considerazione o gradire il buono, bensì per castigare il male; non sono persone che
dimostrano gratitudine, perché tutto loro è dovuto. Gli uccidevo di notte le zanzare, gli
massaggiavo le gambe, gli facevo vento, gli scacciavo le mosche con tanta puntualità che non
esisteva principe meglio servito, perché, se servono questo per amore, il còmito per timore del
cerchio (‘frusta’) o del cordino (‘scudiscio’) che mai gli cade di mano; e, quantunque sia vero che
questo modo di servire non è tanto perfetto e nobile quanto un altro, per lo meno il timoroso ci
mette più attenzione. Tra una cosa e l'altra, quando lo vedevo privato del sonno, l'intrattenevo con
storie e racconti piacevoli; sempre tenevo pronti detti arguti con i quali provocargli il riso, perché
non era poca soddisfazione vedergli la faccia allegr... (Ib.)

Tanto fece insomma Guzmán che il còmito gli fece cambiare banco e lo passò al suo servizio
personale - con il carico dei suoi vestiti e della sua mensa - in luogo del forzato di nome Fermín di
cui si era sino allora servito.
A bordo d’una galera, oltre che dai nemici esterni, bisognava guardarsi anche dall'insidie che
potevano tendere i remiganti nel tentativo di fuggire. Di giorno, quando si navigava, la guardia ai
remieri era fatta dall'aguzzino, personaggio di cui parleremo, dai soldati e dai marinai di servizio;
questi, con l'armi a portata di mano, li sorvegliavano ed erano sempre pronti a intervenire a ogni
minimo accenno di sedizione castigando rigorosamente i responsabili, magari anche uccidendoli
se ciò si fosse reso necessario alla sicurezza della galera; soprattutto importante era il compito dei
soldati di poppa, i quali da quell'elevata posizione potevano osservare il comportamento di tutta la
ciurma. I soldati comunque, tranne la spada e il pugnale di cui mai si privavano, dovevano tenere
tutte le altre armi sotto coperta a evitare che i remieri potessero impadronirsene; l'aguzzino e i suoi
aiutanti ispezionavano poi periodicamente le catene e i ceppi dei galeotti e scrutavano nei loro
sacchi contenenti gli effetti personali per sorvegliare che non vi fossero tenute nascoste armi, lime
o altri attrezzi atti a sferrarsi nascostamente per poi ribellarsi all'improvviso. Quando non si
navigava, cioè quando si era in porto o alla fonda, sia di giorno che di notte la predetta
sorveglianza della ciurma era demandata ai marinai detti appunto di guardia, di cui diremo; essi, in
parecchi e ben armati, accompagnavano anche i vogatori a terra, quando questi erano mandata a
far acqua, legna, fascine o altri servizi, e li sorvegliavano durante il lavoro. Quando la sera si
faceva la tenda vi si dovevano accendere sotto dei lumi detti lampioni di corsia, in modo che
l'oscurità non favorisse i tentativi di chi voleva sferrarsi o segarsi la catena che l'avvinceva al piede
e così fuggire. Se nottetempo qualche remigante limava la sua catena o i suoi ferri e scappava, la
responsabilità e l’oneroso risarcimento della perdita economica così subita dalla galera erano
addebitati ai predetti marinai di guardia; se invece la fuga era dovuta a negligenza o maldestrezza
nell’allacciamento dei ceppi alle catene, per cui una maniglia o una chiavetta se ne fosse uscita
dalla sua sede, oppure a un loro difetto intrinseco o anche a una loro rottura, ma avvenuta
precedentemente alla notte della fuga e tenuta sino a quel momento ben nascosta, ossia coperta
404

con cira, si come sogliono fare (P. Pantera. Cit.), allora la responsabilità era dell’aguzzino; per i
predetti motivi, quando avveniva la fuga di qualche remiero, di solito subito fuggivano anche
l’aguzzino e i compagni - personaggi di cui poi diremo - che erano stati di guardia quella notte e
che avevano il compito di sorvegliarli e infatti il capitano di galera prudente, a evitare queste
ulteriori fughe, doveva per prima cosa ordinare che tutti i predetti venissero messi subito ai ferri
(vn. imbogadi) sino al chiarimento delle loro responsabilità. I remieri non dovevano scapolare (itm.
da cui ‘scappare’), dice il Pantera, non solo nell'interesse del servizio, ma anche in quello della
società civile e per i seguenti motivi:

... ricuperano la libertà il più delle volte huomini sceleratissimi, che con i vitij e con le perverse
intenzioni possono turbar la pace e la tranquillità delle case e delle persone private e dell'istessa
republica, ed essendo stati convinti di bruttissimi delitti e perciò condannati a così acerbo supplicio
come è servire in galea ed havendo vivuto, mentre ci sono stati, in una sentina di tutte le corruttele,
non si deve credere che si siano punto emendati. (Cit. P. 247.)

Spesso i disonesti ufficiali di galera provocavano finte fughe di schiavi ormai ben addestrati alla
voga, mentre in realtà se li erano venduti a una galera di un’altra squadra; comprato in seguito a
loro spese un altro schiavo in sostituzione di quello perso, avevano egualmente realizzato un buon
guadagno e provocato un danno alla loro galera sia perché questa restava per parecchio tempo
priva d’un uomo sia perché il più delle volte il nuovo venuto non era pratico di voga come il
precedente e andava addestrato; nella già ricordata relazione del Gambacorta del 1603 si faceva
notare come dalle galere di Sicilia fossero infatti negli ultimi tempi avvenute troppe fughe, oltre che
di forzati, anche di schiavi, il che rendeva il fenomeno alquanto sospetto (M. Gambacorta. Cit.).
Non rare erano anche le fughe in massa, specie dalle galere turco-barbaresche, perché queste
impiegavano ai remi in gran parte schiavi cristiani; notevole fu per esempio quella che avvenne nel
1572 dall'armata ottomana, dalla quale fuggirono tutt'insieme molti schiavi; della cosa fu avvisato
Giovanni d'Austria, generale di quella cristiana, e gli venne precisato che - e per la predetta fuga e
per una pestilenza che aveva ucciso molti altri uomini - i turchi potevano ormai disporre di non più
di 100 galere e 40 fuste, sia per esserne rimaste tante disarmate d'uomini a Negroponto e a Malva
sia per esserne dovute ritornare parte a Costantinopoli per la stessa carenza; l'armata turca era
quindi molto indebolita e le sue risorse umane andavano via via sempre più scemando perché
continuava a morirvi molta gente d'infermità e di fame; solo le sue galere di comando avevano
ancora circa 120 soldati per una, mentre nelle altre non c'erano che militari inesperti perché
appena reclutati e ciurme rese inabili dalle malattie. Nonostante queste notizie così incoraggianti,
ai generali della lega cristiana non riuscì quell'anno di ripetere il grande successo ottenuto a
Lepanto l'anno precedente; infatti, mentre la loro armata se n’andava con vento prospero a
405

incontrare quella del generale nemico Uluch-Alì in maniera che costui non avrebbe potuto sfuggire
la battaglia, il vento si voltò diametralmente contro i vascelli cristiani, per cui le navi a vele quadre
non poterono procedere e, dopo molteplici tentativi di rimorchio fatti dalle galere e resi inutili dalla
forza del vento contrario, per non abbandonarle alla discrezione del nemico fu deliberato in una
consulta di guerra di rinunziare all'impresa, il che avvenne ovviamente con gran danno di tutta la
cristianità, la quale avrebbe potuto in quell'occasione infliggere probabilmente il colpo mortale alla
potenza ottomana.
Che le navi e i vascelli a vela quadra in genere fossero in quei tempi così poco manovrieri da aver
sempre bisogno in guerra d’una scorta di galere che li difendesse ed eventualmente trainasse,
anche se per brevi tratti, quando mancava il vento è dimostrato, oltre che dal, predetto, da
numerosi altri episodi delle guerre marittime che si svolsero nel Cinquecento; la fine della guerra
remiera sarà infatti dovuta, non alla necessità di portare a bordo un maggior carico d'artiglierie
come taluni hanno pensato e scritto, ma al grande sviluppo della manovrabilità dei velieri che si
avrà a partire dal Seicento. Che ciò sia vero è confermato dalla semplice costatazione che le
grosse navi in grado di portare numerose e pesanti artiglierie già esistevano anche nel
Quattrocento e già si usavano in battaglia in appoggio alle galere proprio per il loro ruolo di
baluardi marittimi irti di cannoni e colubrine.
Tornando all'argomento delle fughe, diremo che due in massa da galere napoletane ne avvennero
nel 1648, approfittando quei forzati della violenta rivoluzione anti-spagnola allora in corso a Napoli,
rivoluzione capeggiata dal partito filo-francese d’Enrico II di Lorena duca di Guise, il quale aspirava
al trono del regno. La prima accadde il sabato 18 gennaio dalla galera S. Francesco Borgia,
mentre questa, proveniente da Baia, s’avvicinava alla Capitale; i forzati, quasi tutti del partito
popolare, ammazzarono il còmito e il sotto-còmito, ferirono gravemente il capitano spagnolo e,
fuggendo, lo portarono prigione al duca di Guise. La seconda fu la mattina di domenica 2 febbraio
dalla galera Capitana di Napoli che si trovava allora con altre in porto a Pozzuoli; i forzati,
approfittando dell’assenza del loro capitano e del generale della squadra, scesi a terra per sentir
messa, s’impadronirono della galera e con essa si misero in fuga, ma furono inseguiti,
cannoneggiati e moschettati dalle altre galere, in particolare da quella di nome l’Annunziata;
arrivati a Capo Posillipo, molti forzati e schiavi fuggitivi, aiutati dal popolo napoletano, sbarcarono e
fecero perdere le loro tracce, ma a bordo della loro galera ne furono trovati poi molti uccisi dagli
spari degli inseguitori.
Due altre memorabili di schiavi cristiani avvennero nel 1562, la prima nell’agosto ai danni d’Uluch-
Alì e della quale più avanti diremo e la seconda il mese successivo dalle quattro galere che il
famoso raïs turco Kara Mustafà aveva condotto in Anatolia per costruirvi una fortezza costiera; egli
406

impiegava tutti i remieri schiavi in tale edificazione e una sera permise a buona parte dei suoi
equipaggi d'andare a una festa a terra e quelli che rimasero a bordo s’addormentarono; 172
schiavi cristiani ne approfittarono per sferrarsi e, prese l'armi dei soldati turchi così addormentati, li
ammazzarono tutti in silenzio, raïs incluso; poi s’impadronirono della miglior galera, cioè d’una di
quelle catturate ai cristiani alle Gerbe l’anno precedente, e, dopo aver acceso del fuoco molto
ritardato alle polveri dell'altre tre, s’allontanarono lentamente dal porto per non dar sospetto,
vogarono infine forte sino a Messina. Qualche tempo dopo una galera ottomana con ciurma di 200
cristiani fatti schiavi in Algeri capitò una notte all'isola di Scio dove, vedendosi mal sorvegliati, i
remieri si liberarono dalle catene, uccisero circa 90 turchi con il loro capitano e, condotta via la
galera con 30 soli maomettani superstiti, andarono a salvarsi alla solita Messina, terra promessa di
tutti gli schiavi cristiani che erano impiegati al remo nelle galere del Gran Turco. Nel 1575 il
generale Uluch-Alì mandò una sua galera, rinforzata di schiavi ai remi, ma con pochi soldati, a
esplorare gli andamenti dell’armata che Giovanni d’Austria stava preparando per l’impresa
d’Orano; a bordo di questo legno c'era un giovanetto napolitano schiavo del capitano, il qual per
suoi dishonesti appetiti lo amava grandemente e si fidava molto di lui (P. Pantera. Cit.); questo
ragazzo, quando si arrivò in prossimità della costa siciliana, pensò di liberarsi e si accordo a tal
scopo con gli altri schiavi; così, mentre egli ammazzava il capitano, gli altri s’impadronirono
d’alcune armi e uccisero i turchi dell'equipaggio fuggendosene infine in Sicilia. Non potendosi
portare a bordo delle donne, i rais turchi usavano frequentemente trovarsi qualche schiavo
giovanetto da usare a mo’ di femmina, categoria di poveri infelici il cui nome i francesi traducevano
con il loro bardaches, termine probabilmernte derivante da bardes, ossia da quei giovanetti che
nelle corti medievali si tenevano ufficialmente con il ruolo di cantori e poeti.
Trovare qualche arma disponibile era per gli schiavi cristiani delle galere turco-barbaresche,
quando volessero ribellarsi, più facile di quanto lo fosse a quelli maomettani o ai forzati delle galere
ponentine e ciò perché a bordo delle prime s’usava che i buonavoglia tenessero armi attaccate ai
loro banchi, in modo da potersene subito servire in caso fossero chiamati a soccorrere in
combattimento i loro soldati; inoltre era anche uso su quelle galere che nella dispensa o
compagna, locale in genere ben sorvegliato a evitare i furti di vettovaglie, si conservassero alcuni
yatagan ‘di pronto soccorso’, ma accadeva spesso che il dispensiere (gra. τᾰμίας; fr. maître-valet)
era uno schiavo cristiano, il quale poteva quindi anche decidere di aderire a una rivolta di cuoi
correligionari. L'ultimo dei predetti episodi, scriveva saggiamente il Pantera, dimostra che non
bisogna mai fidarsi d'un uomo che si è offeso, perché l'offendente scrive l'ingiuria nella polvere e
l'ingiuriato nel marmo, detto questo notissimo in quei tempi, ricordato infatti anche dal Centorio
[Ascanio Centorio degli Hortensii, pseud. di Castaldo, Giovan Battista ( 1480-?), Quattro discorsi
407

di guerra. Venezia, 1557-9]. Bisogna però tener conto della grande differenza di sensibilità
sessuale che c'era tra il mondo semitico e quello jafetita, essendo nel primo considerata la
pederastia un comportamento normale e nel secondo invece abnorme; a tale costume dei turchi si
riferisce anche il Cervantes Saavedra, laddove fa narrare a uno dei personaggi del suo Don
Quijote d’un don Gaspar Gregorio, giovane bellissimo, oggetto dell'interesse del vicerè d'Algeri:

... Mi turbai, considerando il pericolo che don Gregorio correva, perché tra quei barbari turchi di più
è tenuto e apprezzato un ragazzo od un bel giovanotto che una donna, per bellissima che sia. (M.
de Cervantes Saavedra. Cit.)

Un altro ammutinamento di schiavi cristiani che ebbe successo fu quello avvenuto il 23 giugno
1579 a bordo della galera di 25 banchi del rinnegato genovese Yussef Borrasquilla (‘burraschina’
in spag.), la quale si trovava a Bona per caricare grano, burro e altri viveri per Algeri, città allora in
preda a una severa carestia; poiché i turco-barbareschi erano quasi tutti andati ad alloggiare a
terra, erano rimasti a bordo solo 12 o 13 guardiani per i remiganti, di cui 108 erano schiavi cristiani;
questi, guidati da due di loro più intraprendenti e cioè lo spagnolo N. Navarro, nativo di Lorca nella
Murcia, il quale era stato catturato nel forte di Tunisi quando la Spagna aveva perso quel regno, e
il ventiquattrenne genovese Giovanni, detto però Gil de Andrade perché, come quel valoroso
condotto di galere spagnolo, era orbo, cioè privo d’un occhio; uccisi tutti i guardiani, tranne un
rinnegato catalano desideroso di ritornare cristiano, approfittando di un buon vento favorevole, la
galera in due giorni di vela arrivò a Maiorca, dove i fuggitivi, ostentando quattro grandi stendardi
catturati con la galera, andarono in processione alla chiesa principale a rendere grazie alla
Madonna, come allora s’usava quando si sbarcava da un viaggio lungo o periglioso; il Navarro,
gravemente ferito nel combattimento, dopo tre giorni morì e gli altri cristiani si spartirono il ricavato
della vendita della galera catturata; 49 di loro armarono presto un bergantino sotto il comando del
predetto genovese Giovanni e la mala sorte volle che questo legno, affrontato da 2 fregate o
bergantini d’Algeri mentre si trasferiva da Maiorca a Barcellona, fu da questi catturato e quindi i
cristiani superstiti a questo combattimento, riportati subito ad Algeri dove arrivarono il 30 agosto
seguente, si ritrovarono così presto di nuovo schiavi in quella città; Giovanni, quel giorno stesso
appeso per i piedi all’antenna della galera S. Angelo, la galera personale cioè del rinnegato
veneziano Hassan Pachà, allora governatore d’Algeri, la quale era stata l’anno prima conquistata
ai cristiani, come poi meglio spiegheremo, vi fece il giorno seguente da bersaglio alle frecce e ai
colpi d’archibugio degli algerini e così fu ucciso; il suo corpo fu poi gettato in mare.
Un tentativo di ammutinamento fallito e soffocato nel sangue fu invece quello iniziato alle nove del
mattino del 15 maggio 1580 a Kelibia in Tunisia, porto in cui tre corsari algerini, cioè i raïs Mami
408

Gancio, rinnegato veneziano, Margia-Mami e Caré, si trovavano in sosta, impegnati a far spalmare
le loro tre galeotte da 22 banchi; gli schiavi cristiani del primo, approfittando d’un momento in cui la
maggior parte dei marinai e dei soldati era a terra e l’unica galeotta con la attrezzature in opera era
la loro, quindi le altre due non avrebbero potuto inseguirla, cercarono d’impadronirsene, ma,
decimati dall’archibugiate, dovettero arrendersi; i due capi della rivolta, un diciottenne moresco di
Andaraje di Granada di nome Alonzo e un rinnegato greco dell’isola di Chio, subito legati a un ferro
di galera piantato sulla spiaggia, furono prima bersagliati con le frecce e poi, ancora vivi, bruciati,
mentre gli altri cristiani rivoltosi subivano la pena della bastonatura. Di diversi altri episodi
d’ammutinamento e fuga di schiavi cristiani a Messina o a Malta, avvenuti nel periodo 1562-1628,
si trova notizia sia nell’Archivo General de Simancas sia nella Biblioteca Nazionale di Madrid
(Maurice Aymard, Chiourmes et galères dans la seconde moitié du XVIe siecle in «Il Mediterraneo
nella seconda metà del '500 alla luce di Lepanto». Firenze, 1974).
Le ciurme più pericolose erano dunque quelle costituite in gran parte di schiavi, persone che
avevano sempre una speranza di libera vita nel loro paese natio e quindi sempre tentavano di
fuggire, mentre i forzati sapevano che per loro non ci sarebbe mai stata tranquilla e duratura libertà
né in terra cristiana né tra gli ottomani.
Prima di lasciare l'argomento dei remiganti di galera vogliamo parlare del loro reclutamento. Come
ci si poteva procurare delle buone ciurme? É ancora il Pantera che ce lo spiega:

... si come [...] con i grossi salarij, coni donativi, con le promesse e con gli altri mezi si persuadono
gli huomini a servire in galea per soldati e per marinari e ne i bisogni si farebbono venir dalle
remotissime parti del mondo dove si volesse, quando fossero sicuri del buon guadagno, così
reputo impresa molto difficile persuader gli huomini liberi a maneggiare un remo ed esporsi alla
servitù d'una catena e alle battiture e a gl’innumerabili incommodi della galea, a i quali, se la
necessità o la sciocchezza di molti vagabondi e per altro mancipii vilissimi e abiettissimi de i vitij
non gli conducesse a termini di vender se medesimi, si può credere che non si trovarebbe mai
huomo alcuno che spontaneamente volesse sottomettersi ad una vita così infelice e piena di tanti
miserabili ed horribili accidenti. Per questo non si può mettere insieme una buona ciurma senza
molta industria ed è necessario valersi d'alcuni modi non usati ne gli altri negozij e perciò giudicati
violenti e forse riprensibili da quelli che, presupponendo i pericoli universali minori di quello che
sono, hanno il gusto delicato. (Cit. P. 136.)

E che la vita del remigante di galera fosse molto dura e precaria ce lo conferma il già citato Frezza,
il quale nel 1623 scriverà che, sia pure in tempo di pace, nella squadra di galere di Napoli moriva
ogn’anno più del 10% dei galeotti (Cit.); vedremo poi che vita fosse quella in tempo di guerra.
Che cosa doveva dunque fare il principe per avere sempre un numero sufficiente di remieri, cosa
difficile per tutti quelli cristiani e solo un po' meno per quello ottomano? Innanzi tutto bisognava
istruire tutti i giudici della giustizia criminale di sbrigare senza indugio le loro cause e di
409

condannare al remo per un periodo proporzionato alla colpa riconosciuta, invece che ad altre pene
detentive, corporali o pecuniarie:

... condannando quelli che meritano pena capitale a perpetua catena, la quale, se bene è
agguagliata alla morte, è però minor della morte. (Ib. P. 137.)

A tal proposito così scriveva di Napoli il residente veneto Girolamo Ramusio nel 1597, quindi
durante il viceregnato d’Enriquez de Guzman conte d’Olivares (1595-1599):

... Per supplir al molto bisogno di ciurme, la Vicaria (la corte criminale di Napoli) è facilissima a
condannar in galea e così per cosa minima, anco di due ducati, come per caso importante, e così
un meccanico come altro di onesta condizione, perché è cosa certa che altrimenti non si poteriano
ciurmar più di trenta galee. (E. Albéri. Cit. Appendice, p. 347.)

Ma non tutte le condanne al remo sarebbero poi riuscite abbastanza utili alla squadra di galere:

... Tra gli sforzati quelli che son condannati per poco tempo non sogliono riuscir molto bene, ma
quelli che sono condannati per lungo tempo o a vita riescono molto buoni tanto al remo quanto ad
ogn’altro servizio e perciò deveno esser accarezzati e ben trattati specialmente nel principio del
servizio, perché, passato il primo anno, cominciando ad assuefarsi alle fatiche e a i disagi della
galea, durano poi assai. (P. Pantera. Cit. P. 130.)

Nella sua relazione del 1559 sui domini della Spagna il residente veneziano Michele Soriano,
laddove sosteneva che il regno di Napoli era in grado di mantenere molte più galere di quelle che
allora aveva, così spiegava questa sua opinione:

… Perché non mancano nel regno legnami e altre cose necessarie per li corpi di galere, né
mancano armi né soldati né capitani né marinari ed, in quanto a uomini da remo, serviriano tanti
ladroni che sono in quel regno e, non bastando questi, si potria valere in ogni bisogno delli schiavi
dei particolari, che sono infiniti; e di vettovaglie non è in altra parte del mondo maggior copia che in
Sicilia, Puglia e Abruzzo… (E. Albéri. Cit. S. I, v. III, p. 351.)

Tutti coloro che, o perché nobili o perché inabili alla voga, fossero stati condannati a pene
pecuniarie, avrebbero dovuto o comprare schiavi da inviare in galera al loro posto o avrebbero
dovuto mantenere un certo numero di buonevoglie in servizio, numero maggiore o minore a
seconda della qualità del condannato o della gravità del suo reato. Inoltre, se necessario, il
principe doveva chiedere condannati agli stati suoi vicini che gli fossero amici o alleati e che non
avessero loro proprie esigenze marittime; doveva mandare rigorosi bandi in tutte le sue terre
contro i vagabondi, i quali nel termine di pochi giorni avrebbero dovuto uscire dal suo stato sotto
410

pena della galera, e subito dopo fare arrestare i trasgressori di detti bandi che mai mancavano,
trattandosi cioè di gente disutile così definibile:

... che non habbia arte o, havendola, non l'eserciti o non serva o faccia professione di coltellatore o
- come si chiama in Napoli - di 'smargiasso', che è una specie d'huomini oziosi, giocatori,
bestemmiatori ed insolenti che, portando indegnamente la spada per molestare ed ingiuriar con
minaccie e con brutti modi le persone quiete, sono causa della ruina delle case; senza farne
processo né perder tempo, gli facciano pigliare e mettere alla catena, onde non solamente il
Principe haverà buoni galeotti, ma farà insieme notabil beneficio al suo Stato, purgandolo da sì
fatte immondizie di gente che è sentina de i vizij e vive di tradimenti, non facendo altro che seminar
discordie e tener vive e fare immortali le inimicizie e tramare assassinamenti e sedizioni, essendo
all'incontro vile, infame e del tutto inetta a qual si voglia virtuosa operazione. Simili a questi sono i
guidoni, i furbi, i poltroni e affatto perduti cercanti che, fingendo d'esser infermi o stroppiati o
gentilhuomini caduti in povertà o pazzi o spiritati o soldati venuti dalla guerra o per altro degni di
compassione, vanno per le città chiedendo l'elemosina e consumando all'incontro il tempo nelle
hosterie, ne i giochi e nei rubbamenti [...] Contra questi più tosto mostri che huomini eserciti il buon
Principe l'auttorità sua, anco per beneficio della republica, facendoli carcerare e visitar da i medici
e da gli huomini prattici de' maneggi del mare, e mandi in galea come vagabondi tutti quelli che
saranno atti al remo, almeno mentre durarà l'impresa che trattarà. (P. Pantera. Cit. P. 138.)

Questo discorso del Pantera ben si adeguava soprattutto all'Italia centro-meridionale, zeppa di
briganti e criminali d'ogni risma, e cioè ai regni di Napoli e Sicilia e allo stato della Chiesa, anche
se in effetti dal banditismo non era esente a quei tempi alcuna regione d’Italia; la stessa città di
Napoli, pur essendo allora la maggiore capitale d'Italia e una delle prime d'Europa, era, come
narrano le cronache di quei tempi e specie del Seicento, infestata e tormentata oltre che dai
predetti smargiassi (sp. guapos), anche da lacché e altri facinorosi, da lazzaroni e vagabondi, da
ladri e borseggiatori, da taglieggiatori e mendichi; questi ultimi trovavano in quella metropoli
terreno e mentalità tanto fertili alla loro attività che i cronisti del tempo lamentavano a volte
l'impossibilità di camminare liberamente per le vie cittadine senza esser disturbati continuamente
da tali pitocchi, i quali spesso erano - allora come oggi - addirittura forestieri trasferitisi a Napoli
proprio perché attratti dalla notoria facilità con cui in tale città si poteva esercitare impunemente
l'accattonaggio; eppure si trattava allora d'una città ricca d'ogni possibilità di lavoro sia artigianale
che operaio e nella quale non c'era commercio, manifattura o arte meccanica che non venisse
esercitata. Ma naturalmente l’abbondanza di pitocchi e malintenzionati non era un problema che
affliggeva solo il regno di Napoli ma, così allora come oggi, tutte le grandi città, come si legge nella
versione francese di un’anonima relazione veneziana del 1569 alla quale poi torneremo:

… le ricche ed opulente città, le famose e fiorenti … sono praticate ed infarcite di un’infinita


moltitudine d’individui, alcuni vagabondi, persone di sacco e corda, senz’arte, senza mestiere,
senza professione alcuna, i quali facilmente, a causa della loro povertà, indigenza, fame cattiva
consigliera od altra coercizione o malvagia persuasione si lasciano cadere in un labirinto di mali,
411

altre più potenti (intendiamo tra i malvagi), furiosi, sediziosi, catilinarii, persone da temere più che
non sia il veleno né la peste, dal momento che in verità esse stesse sono la peste ed il veleno
delle loro città, nate a solo detrimento e per la sola distruzione del genere umano. (Historie
merveilleuse et espouvantable d’un accident de feu survenu dans l’arcenal de Venise le 13 de
septembre 1569 etc. Lione, 1569. B.N.P.)

Premesso che per persone di sacco e corda s’intendevano in quei secoli appunto i vagabondi, i
quali usavano infatti portare tutte le loro cose a spalla in un sacco o affastellate con la corda
(persone di sacco e corda, come si suol dire. Da Gregorio Leti, L’Inquisizione processata, opera
storica e curiosa. P. 265. Colonia, 1681), diremo per esempio che già alla fine di quel secolo era
ben nota a Parigi la Cour des miracles, cioè il cortile d’un grande edificio sito fuori della porta di
Montmartre e adibito ad albergo per i tanti mendicanti di quella grande città, i quali, dopo aver tutto
il giorno elemosinato in città, specie nei dintorni della Corte reale, impietosendo i passanti con
pretese zoppie, gibbosi, storpiature, sciancature, mutilazioni, malformazioni, cecità, idropisie e altre
malattie, se ne tornavano a questo loro ricovero, ognuno portando il cibo elemosinato – perché
questo si dava loro generalmente e non danaro, trattandosi molto spesso di pezzi di carne di
seconda scelta che affidavano all’oste di quel pubblico albergo perché ne preparasse loro una
zuppa, e, in attesa che quella fosse pronta, come per un’improvvisa sequela, per l’appunto, di
miracoli, mettevano da parte le loro grucce e riprendevano la loro sanità fisica, mettendosi a
ballare in detto cortile tutti insieme ogni sorta di ballo, ma soprattutto sfrenate sarabande.
Nel 1571, come abbiamo già ricordato, sollecitato dalla Corte di Spagna a fare tutti gli sforzi
possibili per potenziare l’armata che la lega cattolica stava approntando contro l’impero ottomano,
il vicerè di Napoli cardinale di Granvelle aveva ordinato che si catturassero e mandassero alle
galere tutti i vagabondi e disutili che si riuscisse a trovare nel regno, aveva sollecitato tutti i tribunali
del regno a commutare le condanne penali o a composizioni monetarie a quattro mesi di voga
forzata e a inviare in galera anche i condannati al remo che si fossero appellati contro tale
sentenza; aveva anche invitato con appositi bandi i contumaci e i fuoriusciti che non fossero
colpevoli di troppo gravi reati a venire a servire in galera in cambio d’indulto (sp. buenasboyas de
carcel), ma con risultati quasi nulli, sia perché tutti i latitanti, vivendo alla macchia, prima o poi si
erano dovuti inevitabilmente rendere colpevoli di reati non indultabili, sia perché nessuno aveva
fiducia nei bandi reali e tutti temevano che, una volta entrati in una galera, non ne sarebbero mai
più usciti se non morti. La situazione comunque presto cambiò e infatti, come si legge in un altro
dispaccio del Bonrizzo, questo del 29 dicembre di quello stesso 1571, gli aspiranti remiganti ora si
presentavano giornalmente, sia perché per la prima volta si era visto finalmente a Napoli
congedare per l’inverno i buonavoglia della campagna precedente sia per la speranza del
promesso bottino.
412

I provinciali condannati al remo - generalmente vagabondi, mendichi e grassatori - erano trasferiti


alla città portuale dove avevano la loro base le galere in gruppi più o meno numerosi, incatenati a
una stessa lunga catena e con interminabili marce che con la grande fatica che implicavano
costituivano un buon elemento di valutazione per capire se un condannato avrebbe poi anche
sopportato quella della voga; di queste traduzioni ci ha lasciato una breve immagine il Cervantes
Saavedra:

... don Chisciotte alzò gli occhi e vide che per la via che faceva veniva una dozzina d'uomini a
piedi, infilati per il collo in una gran catena di ferro come i grani del rosario e tutti con le manette; li
accompagnavano due cavalleggieri e due pedoni, i primi con schioppetti a ruota ed i secondi con
brandistocchi e spade, e, non appena Sancho Panza li vide, disse: 'Questa è una catena di
galeotti, gente forzata del re che va alle galere... (M. de Cervantes Saavedra. Cit.)

Erano infatti tali condannati considerati gente del re, ossia di proprietà del sovrano, e questa era
l'unica garanzia che avevano di non essere lasciati trascuratamente morire dagli aguzzini in quanto
questi avrebbero poi dovuto risponderne appunto alla regia corte. Uno dei predetti galeotti avvistati
da don Chisciotte, uno del quale evidentemente più si temeva la fuga, era avvinto più strettamente
degli altri:

... Camminava incatenato in maniera diversa dagli altri, perché portava al piede una catena tanto
lunga che se l'avvolgeva per tutto il corpo e due gogne al collo, una nella catena e l'altra era di
quelle che chiamano 'guardamico' o 'piedamico', dalla quale discendevano due ferri che arrivavano
alla cintura e nei quali si attaccavano due manette dove portava le mani, chiuse con un grosso
lucchetto, di modo che né poteva portare le mani alla bocca né poteva abbassare la testa verso le
mani... (Ib.)

Non staremo a raccontare il risaputo ingenuo comportamento tenuto da don Chisciotte in


occasione del predetto incontro e diremo invece che c'era comunque in Spagna per un poveraccio
anche qualche piccolo vantaggio a essere condannato al remo, come si legge in una relazione sul
carcere di Siviglia della fine del Cinquecento:

... Coloro che sono stati condannati alle galere considerano un usbergo e un onore l'esser così
condannati e a voce alta si pubblica che 'tizio è schiavo di Sua Maestà', dal che gli vengono strane
presunzioni come se fosse una dignità, perché subito viene ritenuto un mascalzone e un rubadiritti
chi non gli da da mangiare o di quello che ha, e subito è di rancio e di buffet e deve aver razione
d’olio e di biancheria e delle altre comodità [... ‘Essendo ormai insomma’) un uomo che non ha
nulla a che vedere con la giustizia perché è galeotto di Sua Maestà. (Christóbal de Chaves,
Relacion de la cárcel de Sevilla. In Aureliano Fern ández-Guerra y Orbe, Noticia de un precioso
códice de la Biblioteca Colombina etc. P. 53. Madrid, 1864.
413

Era dunque il condannato alla voga forzata proprietà del sovrano e infatti, una volta che un
capitano di galera l'aveva fatto mettere alla catena del banco, non poteva più toglierlo di lì senza
una particolare licenza del capitano generale che comandava la sua squadra e ciò doveva
avvenire anche se si fosse trattato d'un forzato che avesse finito di scontare la sua pena, d’uno
schiavo promosso mozzo di camera o riscattato dalla sua nazione o anche d'un buonavoglia che
non intendesse rinnovare il suo ingaggio. Un breve manoscritto datato 17 marzo 1576 e da noi qui
già citato che si conserva alla Biblt. Marciana di Venezia al n. CVI Classe VI e che fu dato alle
stampe per interessamento d’A.V. Vecchi narra, in verità con povera invenzione e qualità letteraria,
le vicissitudini d’un condannato al remo toscano dal 1565 al 1575, periodo cruciale per le galere
del ducato soprattutto perché include l’esperienza di Lepanto. Dalla chiara facilità d’attingere dai
giornali di bordo che l’anonimo autore dimostra sembra chiaro che dietro lo pseudonimo d’Aurelio
Scetti, musico fiorentino si nascondeva in realtà un ufficiale di galera. Dunque il protagonista narra
perché e come viene condannato, come viene associato al carcere fiorentino detto delle Stinelle e
poi come il 23 luglio del 1565 viene trasferito a Pisa:

…una mattina fu cavato fuora e condotto in Pisa in una torre spaventosa e tremebonda in la quale
era(no) menati tuti (coloro) che da i lor principi e signori eron terminati ala galera per i lor falli…
(Cit.)

Viene lasciato in questa spaventosa torre fino al 13 novembre, quando viene portato via mare al
porto di Livorno:

…e una mattina, a guisa di cane, al lascio (‘laccio’) legato per il collo fu condotto a Livorno sopra la
galera detta ‘la Firenze’ ed ivi da tutti i capitani delle galere fu giucato a dadi come qual si fusse
cosa di gran valimento ed, essendo tocco al capitano della ‘Pisana’, fu menato sopra la detta
galera… (Ib.)

Oltre che la commutazione delle condanne alla galera e le retate di questi miserabili mercanti di
povertà il Pantera consigliava di trattenere i forzati al remo anche quando fosse finito il tempo della
loro pena, almeno finché non fosse conclusa l'impresa di guerra intrapresa, e ciò per non
indebolire le galere quando più c'era bisogno di remiganti esperti; già comunque era invalso il
costume di non liberare i forzati nel periodo in cui le galere navigavano, ossia dal 15 marzo sino a
quando si andava a svernare, e questo anche se avevano ormai scontato l'intera condanna; si
poteva magari mitigare quest'ultimo periodo di galera dando a questi disgraziati assoggettati a
violenta servitù, come la definisce il Pantera, la razione giornaliera che si dava alle buonevoglie.
Non bisognava poi graziare i forzati a ogni pie' sospinto, come usava fare il Pontefice, perché
questa pratica risultava molto dannosa per le galere in quanto le privava degli elementi veterani,
414

cioè di gente esperta che avrebbe dovuto invece restare a servire al remo tutto il tempo della sua
condanna in modo da insegnare la voga ai condannati nuovi e inesperti incatenati al loro stesso
banco; anzi bisognava cercare con parole amorevoli di convincere i forzati, avvicinandosi la
scadenza della loro condanna, a restare a servire al remo, ma stavolta appunto con trattamento di
buonavoglia. Nelle galere pontificie invece, come ben sapeva il Pantera che n’aveva comandato
una, la Santa Lucia, molti condannati non arrivavano a servire più di tre o quattro anni - alcuni
anche molto meno - per la facilità con cui riuscivano a ottenere la grazia, istituto che nello Stato
Ecclesiastico faceva dunque contraddittoria concorrenza a quello della pena di morte, anche
questo infatti di frequentissima d'applicazione. Insomma dagli stessi condannati andava
innanzitutto machiavellicamente salvaguardato il servizio del sovrano o della repubblica:

... il quale, essendo publico, comparandosi col privato, deve esser anteposto dalli sforzati al
proprio commodo... (P. Pantera. Cit. P. 139.)

Altro metodo, questo molto spicciativo, per far remiganti, ma che era stato in uso però più nel
Medioevo, era quello di fermare in mare le barche dei pescatori, specie se di altra nazionalità,
catturarne gli occupanti, specie se si trattava di pescatori di corallo, uomini questi sempre forti e
resistenti, e metterli al remo della propria galera. Molto usato soprattutto nell'impero ottomano era
poi quello di comandare alle comunità od università, come allora si diceva nel regno di Napoli, che
fornissero ognuna un certo numero d’uomini da remo volontari, i quali sarebbero stati remunerati
con razione e con soldo, e in caso mancato adempimento che pagassero una pesante pena
pecuniaria da destinare a un fondo da utilizzarsi per trovare galeotti per altra via; questo sistema
era però nelle province soggette alla corona di Spagna estremamente improbabile, non esistendo
in quei paesi una tradizione di buonevoglie così generalizzata come invece nei territori balcanici
appartenenti alla repubblica di Venezia. Infatti nel 1573 così scriveva il residente veneto a Madrid
Leonardo Donato:

... Di galeotti di buona voglia la esperienza ha dimostrato che, quantunque la Spagna sia
amplissima di marine, non di meno non ci è gente che di propria volontà voglia concorrere alla
paga del remo. (E. Albéri. Cit. S. I, v. VI, p. 396.)

Ciò confermava nel 1584 il residente Matteo Zanne, sempre a proposito delle squadre di galere di
Filippo II:

... Quest'armata sottile Sua Maestà la può accrescer difficilmente, perché non usa di armar a ruolo
come si fa in Levante e come usa la Republica (di Venezia), e l'introdurlo sarebbe con gran fatica.
(Ib. S. I, v. 5, p. 352.) )
415

Lo stesso concetto è ribadito nel 1598 da un altro residente veneto, Agostino Nani:

... L'armata sottile è di ottanta galere ordinarie e difficile è che si accresca per mancamento di
arsenali e di galeotti, perché di schiavi ne hanno pochi e poco modo di far genti di buona voglia,
perché il rolo non è in uso e saria difficilissimo introdurlo. (Ib. S.I, v. V, p. 488.)

Bisogna però dire che un concreto vantaggio a non usare le buonevoglie c'era e cioè quello
economico; infatti costoro, tranne che nei mesi invernali in cui le galere erano disarmate, dovevano
esser pagati e quindi la gestione delle galere ponentine, le quali utilizzavano per lo più forzati e
schiavi, gente cioè che non aveva diritto a soldo, ma solo a razione, costava, come già allegato dal
da Canal, sensibilmente di meno di quella delle veneziane. Più semplice era trovare remiganti di
buona voglia nel regno di Napoli, dove essi nel 1597 costituivano in media ben la metà d'ogni
ciurma, come scriveva il già citato Ramusio:

... In arsenale (a Napoli) ora si ritrovano tredici galee che si poteriano varar di breve [...] Vi è
difficoltà in ciurmarle; gli schiavi e condannati sono per la metà, nel resto si supplisce con buone
voglie che servono dalla metà d'aprile sino alla metà di novembre per due scudi il mese con il vitto,
come hanno i marinari. (Ib. Appendice, p 347.)

L'introduzione d'un vero e proprio rollo (‘ruolo, arruolamento’) di galeotti di buonavoglia,


comportando un prelievo fiscale, sarebbe risultato una ennesima sventura per i sudditi del re di
Spagna, specie per gl’italiani, come nel 1573 spiegava il residente veneziano a Madrid Leonardo
Donato al suo doge:

... Hanno pochissimi uomini di buona voglia, così perché il costume dell'armar di Sua Maestà
(Filippo II) è tutto di sforzati e di schiavi, come perché l'introduzione dell'armar a rotolo (‘ruolo’), nel
modo che usa la Signoria Vostra, m'è stato detto che non saria quivi tollerabile, essendo le
ordinarie gravezze di tante sorte e così eccessive alla povera gente che chi volesse aggiunger
quest'altra angaria potria, con il troppo tirare, romper la corda. (Ib. S. I, v. VI, p. 416.))

Abbiamo già detto della voga volontaria come della principale usata a Venezia e ciò a motivo
dell'ampia disponibilità di buonevoglie dalmatine e greche che aveva quella signoria; infatti nel
Medioevo si era in quella repubblica molto usato fare come si faceva a Ponente e cioè che i
sopraccomiti (tlt. supracomiti) di galea mettessero banco in piazza dove accettavano le richieste di
arruolamento:
(26 gennaio 1416): … Ma il resto di detta banda si raccolga nel modo che di solito si faceva
dapprima, quando la comunità si armava, cioè che si debba piantar bandiera del si esponevano
nella strada le bandiere del ballivo e del capitano e raccogliere quanti più uomini volontariamente
sia possibile… (Residuum vero dicte zurme debeat solidari eo modo, quo solebat fieri primo, ad
416

tempus quo comunitas armabat, videlicet quod debeat poni banderia baiuli et capitanei in platea et
solidare voluntarie quamplures homines fieri poterit (H. Noiret, cit. P. 148)
(1463): … Questa relazion ha fatto deliberar che Orsato Zustinian, Capitan e Procurator eletto, per
avanti Capitan Generale, mella banco la mallina seguente con 4 sopracomili, Nicolò Longo,
Francesco da Molin e do altri (D. Malipiero, cit. Parte Prima, p. 22)

Oltre a prendere il soldo, le ciurme di buonevoglie veneziane, per essere invogliate a partecipare
anche ai combattimenti, prendevano parte alla spartizione dei bottini:

(1472): … El General (Pietro Mocenigo) […] se ha ridutto verso la Turchia dalla banda de Scio e
ha messo la zente in terra e ha fatto gran preda e ha menà via molti presoni, i quali è stà venduti e
'l tratto (‘ricavato’) fo diviso tra le ciurme (ib.)

Dopo di che il capitano generale Mocenigo prese, saccheggiò e incendiò la città di Smirne:

… Fo trovado in questo luogo, tra le altre notabele antichità, la sepoltura d'Homero e la so statua in
bellissima forma (ib.)

Talvolta la Serenissima doveva perrò prendere provvedimenti d'emergenza; per esempio, a causa
della sopraddetta grande mortalità del 1570, si dovette ricorrere a straordinarie misure per
ricostituire le ciurme e il predetto senatore Zanne, allora generale dell'armata, abbandonata Zara il
12 giugno, trasferì la sua armata a Lesina, poi alle Bocche di Cáttaro, indi a Corfù e infine nel porto
di Suda in Candia, dove arrivò il 23 luglio e dove raccoglierà poi altre galere sino a un totale finale
di 140, la metà delle quali erano però quelle provenienti da Zara dove erano state molto debilitate
dalla predetta terribile epidemia, essendovi morti e ancora continuando a morirvi tantissimi forzati e
soldati, tra cui il conte Geronimo Martinengo, destinato a presidiare Cipro con 2mila uomini, e
quindi non ancora in grado di portare aiuto all’isola di Cipro, nonostante un buon, ma insufficiente
numero di remieri ricevuti dai rettori di Zante e Cefalonia; lo Zanne mandò i provveditori generali
Marco Quirini, soprannominato Stenta, e Antonio da Canal a capo di due squadre di galere scelte
a far delle terrazzanie, come diceva la gente di galera siciliana, cioè a far schiavi i terrazzani
(‘cittadini, paesani’) nelle vicine isole soggette all'impero ottomano; il Quirini tornò a Candia con
trecento schiavi e il da Canal con duecento, tutti presi nell'arcipelago ottomano, uomini con la
quale fu rinforzata l'esausta armata veneziana; l’operazione fu però infamata dalle gravi violenze a
cui i soldati del Quirini si lasciarono andare a danno dei cristiani abitanti l’isola d’Andro, alienando
quindi a Venezia l’animo delle popolazioni greche di quelle isole. Questo sistema delle razzie
d’uomini, che alcuni oggi credono usato in grande stile dai soli turco-barbareschi in danno dei
cristiani, fu invece usato bilateralmente e soprattutto dalla signoria di Toscana, il quale in tal modo
si provvedeva di tanti schiavi per le sue non molte galere da poterne armare tranquillamente, se
avesse voluto, anche diverse altre; la superiore preparazione ed efficienza delle galere toscane
417

era ben nota e riconosciuta da tutti e, per farsene un’idea anche oggi, basta leggere il manoscritto
CVI/VI della Biblioteca Marciana di Venezia; questo, intitolato Tutte le vittoriose imprese delle
galere del Serenissimo Granduca di Toscana fatte nei viaggi dall'anno 1565 al 1575, è una
narrazione cronologica delle puntuali e proficue imprese di corso che sistematicamente ogni anno
quelle galere compivano ai danni dei turco-barbareschi soprattutto nell'arcipelago greco, imprese
seconde per efficacia solo a quelle delle galere di Malta, le quali erano quattro nel periodo attorno
al biennio 1575/6, e, nonostante la povera forma letteraria e lo pseudonimo con cui l'anonimo
autore ha tentato di camuffarla, si capisce chiaramente che è tratta dai giornali di bordo di quelle
stesse galere, essendo quindi in tal senso un documento cinquecentesco più unico che raro;
l’operetta, visto che s’intitola al ‘Granduca’ e non al ‘duca’ di Toscana, è certamente successiva al
1576, perché, come si sa, l’elevazione a granducato fu concessa dal Papa a Firenze appunto in
quell’anno. Ma già nei secoli precedenti si era riconosciuto un certo primato di quelle galere, cioè
quando erano state biremi pisane, come leggiamo nelle Annali senensi di Nerio di Donato, cioè
laddove ricordano il ritorno dalla Francia in Italia del Papato nella persona di Urbano V nell’anno
1367:

Papa Urbano V gionse in Porto Pisano a dì primo di settembre sull’ora del Vespero ed avea in sua
compagnia […] cinque galee de’ viniziani e cinque galee di Napoli e tre galee de’ pisani e 4 de’
genovesi; e quelle de’ pisani erano di maggior virtù imperoché ine (‘vi’) camminò più volte e
(quindi) fenne la pruova (in LT. A. Muratori, Rerum italicarum scriptores etc. T. 15. Milano, 1729.)

La gestione dello Zanne, uomo timoroso perché molto più esperto di mercatura che di cose di
guerra, fu presto a Venezia molto criticata sia per non aver egli saputo porre un rimedio alla
terribile pestilenza che gli aveva semi-distrutto l’armata sia per alcuni soprusi d’arruolamento
forzato di cui fu accusato sia e soprattutto per non aver poi portato aiuto a Cipro dopo la caduta di
Nicosia, avvenuta il 9 settembre 1570, allegando di non esser per quell’anno più tempo di farlo; il
13 dicembre dello stesso 1570 il senato di Venezia lo sostituì eleggendo al suo posto il
provveditore Sebastiano Venerio e dando incarico a questi d’inviarlo a Venezia in stato d’arresto
perché, tenuto in stato di detenzione nel palazzo ducale, vi fosse messo sotto processo,
procedimento che sarà ancora in corso il 14 ottobre 1572, giorno in cui lo Zanne morirà di qualche
sua non specificata infermità all’età di 76 anni. Furono inquisiti anche altri due alti ufficiali e cioè
Iacopo Celsi e Sforza Pallavicino, e inoltre, inviati dal senato 3 sindici, ossia tre inquisitori, vennero
individuati e puniti con il carcere o l’allontanamento per i loro venali soprusi anche il sopramassaro
Antonio di Negri, ossia lo scrivano di razione o provveditore dell’armata, e parecchi sovraccòmiti,
quantunque si trattasse per lo più di nobili appartenenti alle stesse famiglie dei senatori, e ciò si
fece anche nella speranza di trattenere al servizio veneziano gli scoraggiati soldati forestieri che si
418

erano su quell’armata tanto volentieri imbarcati. Venezia non era dolce con i suoi generali incapaci
o pavidi e ne avevano saputo qualcosa non solo, com’è noto, il Carmagnola nel 1432, ma anche
Niccolò da Canal, destituito e arrestato nel 1470 perché, essendo al comando dell’armata inviata al
soccorso di Negroponto assaltata dai turchi, l’aveva tenuta pressocché inattiva e fu quindi ritenuto
responsabile della caduta dell’isola avvenuta in quello stesso anno.
A chi volesse saper di più della vicenda dello Zanne non possiamo comunque che consigliare la
lettura dell’ottimo studio fattone dal Tucci:

… La posizione dello Zanne si fece ancora più difficile nell’aprile del 1571, quando arrivarono a
Venezia gli scafi di alcune galere messe in disarmo: lo stato di sporcizia in cui si trovavano e le
esalazioni che emanavano avvalorarono la convinzione che la peste, causa prima del disfacimento
della flotta, fosse stata in gran parte provocata da malgoverno e negligenza dei capi… a Venezia
s’era diffusa la convinzione che la peste, che nella forma di ‘mal de mazzucho et petecchie’ –
come precisa Pompeo Colonna – aveva mietuto tante vittime a bordo delle galere (più di ventimila
persone, come si diceva), aveva trovato facile esca nella denutrizione degli uomini: chi avrebbe
dovuto fornire i viveri s’era invece appropriato del denaro… (Tucci, Ugo, Il processo a Girolamo
Zanne, mancato difensore di Cipro in «Il Mediterraneo nella seconda metà del ’500 alla luce di
Lepanto», Firenze, 1974.)

Protagonisti e testimoni dettero però svariate opinioni sulle ragioni per cui scoppio tale pestilenza,
ma la verità in simili casi era sempre la stessa e cioè la grande sporcizia nell’incredibile
assembramento in cui tanti uomini erano tenuti per tanto tempo.
Nel successivo 1571 Venezia tentò un altro sistema per rinfoltire gli ancora scarsi ranghi delle sue
ciurme; offrì ai banditi (‘esiliati’) dalla repubblica la completa remissione patto che ognuno
mantenesse a sue spese un numero di remieri stranieri proporzionato ai reati da lui commessi e
alla sua condanna; si trattava ovviamente di condannati di superiore condizione sociale e quindi
benestanti perché il bando era una pena privilegiata che non s’infliggeva ai poveracci. Il danaro
raccolto in tal modo fu tanto che nel 1572 i veneziani ebbero dalla Boemia - con licenza della corte
di Vienna - ben 4.500 uomini da remo regolarmente assoldati, affare che era stato trattato per i
veneziani dal capitano istriano Paolo Persio, il quale era stato all'uopo inviato in Boemia perché
molto stimato da quella nazione. Insomma Venezia e Genova era due ricche città i cui cittadini
erano quasi tutti dediti a commerci piccoli e grandi e, pur avendo popolazioni per quei tempi molto
consistenti – Venezia, per esempio, verso il 1585 sfiorava i duecentomila abitanti (Girolamo. Bardi,
Delle cose notabili della Città di Venetia libri II. P. 142. Venezia, 1601), pochi erano di
conseguenza i carcerati da ristrettezze economiche e soprattutto nessun cittadino aveva bisogno
di mettersi a fare la buonavoglia. La città era già allora quasi estesa come oggi, avendo circa 400
ponti contro i 436 odierni e le gondole pubbliche per servizio pubblico e privato erano circa 8mila.
419

Usava pure il senato veneziano concedere ai suoi patrizi la prerogativa d'armare galee e di
formarne le ciurme con i contadini delle loro terre feudali, ma era questo un metodo nel quale non
si poteva insistere molto per non rischiare di rendere deserte le campagne. Invece negli stati di
Ponente, cioè del Tirreno, poiché le buonevoglie che s’arruolavano spontaneamente erano
piuttosto rare e certo insufficienti al fabbisogno di quelle squadre di galere, limitandosi a un certo
tradizionale numero di spagnoli e a qualche napoletano, per procurarsene s’usavano spesso in
quei paesi l’inganno e la forza; come nel caso del giovane messinese di cui nel secolo successivo
racconterà Giovan Battista Romano nella sua storia della ribellione di Messina, giovane il quale,
trovandosi nel 1668 casualmente a Palermo ed essendo colà stato ingannevolmente invitato a
pranzare a bordo d’una galera di quel regno, lo si era poi trattenuto con la forza a bordo,
intimandogli di servire per un periodo al remo da buonavoglia, con il pretesto che aveva
consumato risorse reali e che, non disponendo di denaro, doveva ripagarle con il suo servizio; e
ciò nonostante non avesse nemmeno ancora i 18 anni minimi allora di legge perché si potesse
vogare in galera. Tre anni dopo, trovandosi quella galera in porto a Messina, i parenti del giovane
cercarono di ottenerne la liberazione e, rifiutandosi il capitano di quel vascello di accogliere quel
loro reclamo, la controversia giunse presto a coinvolgere le autorità cittadine, inserendosi in quelle
più vaste, annose e generali che le opponevano all’amministrazione spagnola e che presto
porteranno quella città alla famosa e sanguinosa guerra di ribellione.
Il metodo ingannevole più originale e diffuso era comunque certamente quello del gioco pubblico
dei dadi che si usava sulle coste tirreniche. Un funzionario della Corte sedeva in pianta stabile a un
tavolino posto in una baracca costruita in un luogo portuale e offriva un prestito, pare per lo più 20
scudi, ai vagabondi, ai mendichi, ai disperati d'ogni genere perché giocassero con lui; se avessero
perso, avrebbero saldato il loro debito servendo in galera come buonevoglie sino al rimborso
totale. Così molti vendevano la propria libertà per fame o per sregolatezza e si trattava tristemente
spesso di giovanissimi appena al di sopra dei necessari 17 anni d'età (18 nel secolo successivo), i
quali o non avevano mai avuto famiglia o da quella erano stati precocemente abbandonati o
avevano già qualche conto in sospeso con la giustizia; questi si lasciavano dunque convincere a
tentare la fortuna, giocando così non solo il proprio avvenire ma per lo più anche la propria vita,
poiché dal remo della galera raramente si tornava, contro un giocatore scaltro e consumato quale
doveva certamente essere l'uomo che la Corte aveva eletto funzionario di questo drammatico
gioco:

... Potrà anco il Principe aprire un gioco publico in tutte le città del suo dominio e particolarmente di
marina, come si usa in Napoli, in Genova, in Sicilia e altrove, mandando huomini destri e di buona
maniera che semplicemente e senza intelligenza o fomento di fraude alcuna prestino denari a chi
420

vorrà giocare e, perdendoli, gli sconti servendo in galea per buonavoglia; a che molti sviati e vani
giovani si lasciano indur facilmente per la commodità del denaro, sperando vincere e restituirlo,
dove che all'incontro, riuscendo il contrario, sono sforzati a lasciarsi metter la catena al piede e
starci vogando sin che escano di debito. (P. Pantera. Cit. P. 140.)

Non sappiamo dove il Pantera abbia visto svolgersi il predetto gioco pubblico nel modo da lui
descritto, perché diversamente e concordemente viene invece spiegato dai residenti veneti nelle
loro relazioni; cioè in realtà le regole di tal gioco erano ancora più demoniache di come le voleva il
bonario capitano pontificio, perché ambedue i giocatori sfidavano la drammatica sorte, come, a
proposito dell'uso di Napoli, scriveva il già citato Ramusio nel 1597:

... Quando gli spagnuoli vogliono galeotti, costumano tener al molo una bandiera reale e una
tavola ove si danno dieci ducati a chi li vuole, con obbligo che l'uno giuochi a' dadi con l'altro il
denaro del Re; quello che perde resta con i ferri ai piedi e l'altro restituisce il danaro del Re e si
parte col guadagnato. (E. Albéri. Cit. Appendice, p. 347.)

Considerando che un buonavoglia delle galere napoletane percepiva, come abbiamo visto, un
soldo di 2 ducati il mese, è facile capire che i 10 ducati perduti difficilmente potevano essere
restituiti per intero a compimento d’una sola stagione quadrimestrale di navigazione; nemmeno da
un buonavoglia che fosse particolarmente economo o disposto a eseguire fatiche straordinarie,
perché infatti dai 2 scudi di soldo era defalcato il prezzo dei generi di munizione che gli erano
forniti in servizio e inoltre perché un uomo normale non poteva vivere della sua sola razione
alimentare di munizione, molto poco variata e scarsamente nutritiva, ed era pertanto costretto a
spendere del suo per integrarla con alimenti diversi da comprare alla taverna di bordo, abitudine
che serviva anche a rendere quella vita terribile un po' più sopportabile col cibo e col vino. Dunque
i giocatori perdenti sarebbero in massima parte rimasti alla catena molto più a lungo del tempo
ufficiale prima di riuscire a estinguere il loro debito, ove pure fossero scampati alla guerra, al mare,
alle malattie e alla crudeltà e disonestà degli ufficiali che le pensavano tutte pur di trattenerli in
servizio il più a lungo possibile.
Simile a quella del succitato Ramusio è la descrizione del gioco pubblico che ci ha lasciato il
residente veneziano a Palermo Placido Ragazzoni nel 1574, quindi ben 23 anni prima di quello:

... Per alcuni ministri a ciò deputati si mette banco in diversi luoghi publici con danari, carte e dadi.
Quivi concorrono diversi sviati e vagabondi, che non mancano, quali toccano danari ed i loro nomi
si scrivono e se gli sborsa 12 scudi per ciascuno, che sono tre paghe (bimestrali di buonavoglia).
Subito l'uno gioca i suoi con l'altro; quello che perde è immediatamente posto alla catena dove, per
i 12 scudi che ha avuto, è obbligato servire per sei mesi per rispetto del vitto e del vestito che si
diffalca; e quello che ha vinto restituisce i 12 presi e se ne va per i fatti suoi con i guadagnati; onde
si può dire che l'uomo giuoca sé medesimo alla galera; e questo è modo ordinarissimo. E, quando
421

con questo i ministri non han potuto trovare numero che basti per supplire al bisogno, pigliano
espediente di comporre i banditi e di accordare i carcerati per debiti civili con i creditori, mettendo
quelli al remo. (A. Albéri. Cit. S. II, v.V, p. 478.)

Un accenno al predetto gioco era stato fatto anche dal Bonrizzo in un suo dispaccio del 25
dicembre 1571 con il quale, tra l’altro, dava notizia di quanto si stava facendo a Napoli per
rafforzare la squadra di galere:

… Ieri sono stati inviati ordini efficacissimi ai baroni e ai ministri regi di mandare a Napoli tutti i
delinquenti di pena capitale per farne altrettanti remieri; né a Napoli mancano vagabondi, i quali nel
giocare pongono come posta il futuro ingaggio su d’una galea. (N. Nicolini, cit.)

Un ulteriore strumento era quello d'imporre a coloro che avessero schiavi atti al remo di prestarli
alla Corte per tutta la durata dell'impresa di guerra e il loro servizio sarebbe stato ricompensato
con il vitto e il soldo che si dava alle buonevoglie.
Un secolo prima vediamo una diversa consuetudine, quedta veneziana, alla quale, in una sua
lettera del 6 ottobre 1496 al Senato di Venezia, accenna Bernardo di Ambrosii, segretario di
Marchionne Trevisan, capitano generale delle 16 galee veneziane e delle 4 napoletane alla fonda
a S. Maria della Fortuna (‘Gajola di Capoposillipo’), a 4 miglia marine da Napoli, perché Venezia
era allora alleata degli aragonesi di Napoli nella guerra di predominio che opponeva questi agli
angioini di Gaeta; poiché a dette galere mancavano remiganti e i veneto-aragonesi bloccavano
Gaeta e ne stavano organizzando l’assedio, per brevità si deliberò di assoldarli direttamente in
quel territorio e di inviarli poi alla detta armata via terra:

… e fu posto banco su la piaza a l’armamento (‘fu messo in piazza un banco di reclutamente’) e


non fu trovato se non 22 homeni che volesse dar li soi piezi (‘mallevadori’), come è usanza, i qualli
fono mandati via (all’armata’) subito (M. Sanudo, Diarii. T. I, col. 345).

Dunque si dava un sostanzioso anticipo sulla paga che poi si sarebbe ricevuta, ma il percettore
doveva presentare la malleveria di una persona conosciuta che garantisse per lui nel caso poi
disertasse.

(Venezia, 17 giugno 1499): È stato deliberato di armare immediatamente (‘da mattina’) 4 galee
sotilli e che (quindi) subito gli si metta banco… (D. Malipiero, cit. Parte prima, p. 166.)

Ci furono quell’anno problemi a equipaggiare le 11 galee grosse di cui abbiamo appena detto,
perché, coloro che si erano andati a iscrivere al banco come galeotti, vennero poi a sapere che
avrebbero ricevuto solo 8 lire al mese e non 13 come i galeotti delle normali galee sottili e quindi
minacciavano di non farsi più vedere; ma la Serenissima, un po’ con le buone e un po’ con le
422

cattive, cioè con argomenti che per brevità non stiamo qui a precisare, riuscì a vincere queste
resistenze e quindi a equipaggiare quei vascelli:

(17 giugno):… e per interzarle del tutto, son stati presi 10 uomini da ogni traghetto e messi 100
uomini per galia per soldati; e questi sono stati presi dalle scuole dei battuti, a 250 per una… (Ib.
P. 167.)
(15 settembre): … sono stati comandati 500 galeotti per interzare le galee grosse…(Ib. P. 180.)

Spieghiamo: anche se si trattava di galee grosse, non disponevano di più di tre uomini per banco e
questo dimostra che, oltre a essere un po’ più piccole della galeazze tirreniche, perlomeno allora
erano meno equipaggiate; d’altra parte, come già sappiamo, si usavano i remi solo per manovre
portuali, perché in caso di bonaccia, quando in pace, si quei vascelli fermavano aspettando un
vento favorevole e, quando in guerra, si provvedeva invece a rimorchiarli. Per completare il
numero d’uomini necessario si arruolarono (a forza) addetti ai traghetti di Venezia e cioè dapprima
10 per ogni traghetto, ma poi si aumenterà a 30; inoltre, per completare l’arruolamento anche dei
100 fanti di marina previsti di guarnizione di ogni galea grossa, si presero 250 uomini da ognuna di
quelle grandi confraternite pseudo-religiose veneziane dette scuole dei battuti (ib.)
Nel predetto 1499 proseguivano i provvedimenti di guerra cautelativi che Venezia prendeva contro
la minaccia dell’armata di mare turca:

… El General (Antonio Grimani) […] ha mandato in Candia ad armar 20 navi che sono in quel
porto […] e ha fatto scaricare le galee del traffico per poterle adoperare; e ha ordinato che siano
fatte le spese (‘pagato il dovuto’) a certi Mori che erano su le dette galee; e ha intrattenulo a
Modone sette navi e le fa scaricare e armare (ib. P. 168).

Dette galee grosse, poiché erano da usarsi in guerra, furono alquanto modificate:

… Le galee del traffico e di Barbaria che sono in armata hanno fatto alcuni bastioni a mezza galea
con i corridori alti quanlo sono le garide (‘rembate’) del castello (di prua) e sono benissimo armate
(ib. P. 172)..

Insomma avevano incastellato a difesa anche il centro della loro coperta. Qui si fa distinzione tra
quelle commerciali (del traffico) e quelle invece di Barbaria, ossia le galee grosse che portavano i
pellegrini in Terra Santa. Le armate veneziane del tempo erano costutuite dunque da tre tipi di
vascelli e cioè galee sottili, in maggioranza, galee grosse e navi grosse, mentre quelle ottomane
da quattro, ossia galee sottili, fuste, navi grandi e piccole e parandarie; quest’ultime erano sempre
423

in gran numero nell’armata perché, come sappiamo, gli esrciti turchi erano costituiti per la maggior
parte da cavalleria e quindi i cavalli da trasportare via mare erano moltissimi.
Non vogliamo comunque chiudere l'argomento degli arruolamenti di marina senza parlare anche
del modo di coscrivere i galeotti che si usava nell'impero ottomano, il quale, come Venezia, si
serviva molto di buonevoglie dell'arcipelago greco, molto ben pagate e accarezzate dalla Gran
Porta, la quale ne riconosceva evidentemente anch'essa il gran valore; però Costantinopoli usava
in massima parte una quarta categoria di remiganti e cioè quella innumerevole della leva di mare
forzosa che s’imponeva in maniera tributaria a tutti i vastissimi territori a essa soggetti. Si trattava
di salariati come le buonevoglie, ma di salariati obbligati a vogare, i quali avrebbero fatto volentieri
a meno di lasciare i loro villaggi per andare incontro a tante fatiche, privazioni e pericoli e di cui
infatti la massima parte non v'avrebbe fatto mai più ritorno. Una delle prime relazioni del
Cinquecento riportate dall'Albéri, quella del bailo Marco Minio redatta nel 1522, menziona
l'abbondanza d’uomini e di mezzi di cui allora disponeva il Gran Turco per ricostituire ogni anno la
sua armata di mare:

... Ed ogni volta che Sua Eccellenzia (il sultano) voglia far armata, con poca sua spesa quella fa
metter in ordine, perché tutto il paese è obligato a darli per ogni dieci uomini (abitanti maschi) un
uomo pagato per mesi quattro, da esser posto sopra detta armata; le stoppe e altre simil cose che
vanno nel 'concier' (‘risarcimento’) di quella, tutte 'etiam' li sono mandate per angarie e similmente
il biscotto per detta armata, il quale è in grandissima quantità. (E. Albéri. Cit. S. III, v. III, p. 74.)

La predetta abbondanza di pane sarà confermata nel 1558 dal bailo Antonio Barbarigo:

... Quando (il sultano) arma, fornisce comodamente la sua armata di pane per averne grande
abondanza, oltre quello che portano seco al suo (‘loro’) partire le galee. Fa fare li biscotti a Modon,
a Lepanto, alla Prévesa e alla Vallona ancora. (Ib. p. 152.)

Questa grande disponibilità di grano - e quindi anche di biscotto - si manterrà per tutto il
Cinquecento e su d’essa si esprimerà infatti ancora nel 1592 anche il bailo Lorenzo Bernardo (Ib.
S. III, v. II.).
Nel 1557 il residente veneziano a Costantinopoli Antonio Erizzo, a proposito dei remiganti usati dai
turchi, si dilunga sugli schiavi cristiani che anche erano adibiti alla voga; si trattava di proprietà
dello stesso sultano, provenienti dalle prede di guerra che facevano i suoi capitani di terra e di
mare, oppure di proprietà dei raïs di galera o d’altri personaggi che li tenevano proprio per
quest'effetto per ricavarne il compenso previsto. La cosa è confermata anche dal Vecellio:
424

… Da i ministri del Turco vengono fatti molti schiavi nelle prese delle città e di quelli si servono in
varij essercitij. Il viver loro è pane e acqua… ed , ogni volta che il Gran Signore arma, li padroni li
mettono al remo sopra le galere. (Cit. P. 382r.)

Tutti gli altri remieri erano salariati direttamente e la loro paga era quantificata dall'Erizzo ai suoi
tempi in aspri mensili 200, equivalenti a 4 ducati veneziani, ma questo per i primi quattro mesi di
servizio perché, se poi il periodo stagionale di voga si prolungava, si corrispondevano ogni mese
solo aspri 150:

... E per questo effetto il Signor (‘il sultano’) pone l' 'avarìs', il quale, se ben è angaria personale
posta per cavar uomini da remo dal paese, non di meno, perché pare che questi non siano tanto
atti alla galea, è scossa (‘riscossa’) la maggior parte in danari... (E. Albéri. Cit. S. III, v. III, p. 129.)

Il non esser atti al remo, non si riferisce qui ai veri e propri turchi, i quali erano buoni vogatori,
bensì alla maggior parte degli altri popoli mediorientali soggetti a Costantinopoli, spiega l’Erizzo al
suo doge, popoli quindi ai quali invece d’uomini si richiedeva danaro per pagare, tra l'altro, un buon
soldo ai suddetti mercenari greci:
... Delli quali ne sono gran parte dell'isola di Candia, sudditi di Vostra Serenità, e li chiamano
'marioli', 'sì come io so avergli scritto molto particolarmente altre fiate; ed è materia di estrema
importanza che ha bisogno di gagliarda provvisione. (Ib.)

Era dunque dannosissimo che tanti sudditi della Serenissima servissero sulle galere nemiche
perché vi ricevevano un trattamento molto migliore, come ci informerà l'anno seguente il bailo
Antonio Barbarigo:

... Arma (il sultano) ogni anno in Costantinopoli circa trenta galee libere (cioè di buonevoglie) e tutti
sono cristiani, che altro non fanno che star lì per andar in galea, per esser benissimo trattati e
pagati, e questi sono greci la maggior parte, candiotti, zantiotti, cefaloniotti e corfiotti, sudditi nostri,
quali loro li chiamano 'marioli'. (Ib. S. III, v. III, p. 152.)

Più tardi, nel 1576, il bailo Marc'Antonio Tiepolo attribuirà invece, come vedremo, la scelta fatta da
questi remieri greci a una loro condizione di necessità trattandosi di gente bandita dai
possedimenti di Venezia, gente che, a dire del bailo Daniele Barbarigo nel 1564, ai suoi tempi
abbondava:

... di uomini di remo ( i turchi) ne possono trovar con denari quanti vogliono in Costantinopoli,
Andrinopoli (sic) e Bursa e sono ancor ben forniti di capi da comando, tra li quali sono
duecentosettantacinque 'rais' [...] Li denari per pagar gli uomini da remo li cavano dal paese di
quelli che sono obligati a dar uomini per tal effetto. (Ib. S. III, v. II, pp. 34-35)
425

Sulla leva di mare forzosa in uso in quell'impero più e meglio si dilungherà nel 1573 il bailo
Costantino Garzoni:

... D'uomini da remo ne hanno infiniti, se bene pare che di essi vi sia qualche difficoltà nell'armare
e questo nasce perché, avendo il Turco (‘il sultano’) il suo stato pochissimo abitato rispetto alla
molta grandezza di esso, è astretto, volendo far grossa armata, pigliar la gente da remo sino nei
confini del suo imperio, come sarebbe a Bassora che è due mesi di cammino lontana da
Costantinopoli; il che è causa, per le fatiche che patiscono gli uomini in così lungo viaggio e per le
diverse mutazioni d'aria, di molte infermità e d'assai mortalità in quella gente, della quale il Gran
Signore (‘il sultano’) verrebbe poi ad avere molto mancamento se non si supplisse comandando
gente per cinquecento galere, mentre se n'ha bisogno per trecento; il che sempre è facile al Gran
Signore, avendo molti sudditi e mirabile obedienza da essi. Vera cosa è che, continuando il Turco
a far così grossa armata per l'avvenire come ha fatto per molti anni passati, il suo stato è per
disertarsi da sé stesso in breve; ma o non conoscono ancora questo danno notabile, essendo 'sì
grande lo stato che possiedono, o, se pur lo conoscono, forse non si curano di rimediarvi, essendo
la gente turchesca solita riguardare al benefizio e util presente e non al futuro. (Ib. cit. S. III, v. I, p.
421.)

Lo stesso Garzoni modera però, poco più avanti nella stessa relazione, questa sua catastrofica
previsione:

... seguitando il Gran Signore a fare così grande armata come ha fatto questi ultimi anni è forza
che diserti del tutto il suo stato di gente, morendone infinita ogni anno; se bene è altresì vero che,
essendo grandissimo il suo imperio, vi bisognariano tanti anni di guerra continua per distruggersi
affatto, che saria più facil cosa che in questo tempo l'imprese sue lo ampliassero in modo che,
innanzi che si vedesse la distruzione del suo imperio, succedesse quella de' cristiani. (Ib.. S. III, v.
I, p. 433.)

Il Garzoni si dilunga poi sulle modalità della leva di vogatori fatta dai turchi e spiega che, in
quell'anno in cui si era deciso di far uscire l'armata, si spedivano - di solito il primo gennaio - ordini
a tutte le province di quel vastissimo impero, sia a quelle maomettane sia a quelle cristiane,
affinché si levassero remieri secondo la quantità delle galere che s’intendeva approntare e la
maggior parte di questi era comunque richiesta all'Anatolia, riuscendo gli abitanti di questa
provincia tra i migliori remiganti dell'impero. Di solito le province dovevano fornire un uomo ogni 10
case e alcune volte eccezionalmente ogni 5, secondo il bisogno, come fu per esempio l'anno
seguente alla rotta di Lepanto, dove così tanta ciurma si era persa nel disastro generale. Volendosi
poi dare a qualche provincia una maggior gravezza, si chiedeva alle stesse di mandare non
uomini, bensì mille aspri in luogo d’ognuno di loro - corrispondendo allora 50 aspri, la moneta
turca, a un ducato di Venezia - e tali danari si spendevano poi per l'esigenze dell'armata. Coloro
che erano obbligati ad andare a servire come remieri potevano esserne esentati se facevano un
donativo a chi accettasse d'andare in vece loro, in genere dai 1.300 ai 1.500 aspri a seconda della
426

difficoltà che s’incontravano nel reperire il sostituto, avendo anche l'obbligo di consegnare costui
vivo ai reclutatori per le galere e di dare al sultano - ossia all'erario imperiale - 150 aspri in
rimborso del biscotto che il remiero succedaneo avrebbe mangiato in galera dalla partenza da
Costantinopoli sino all'uscire dai Dardanelli, cioè per le prime 200 miglia; da questo secondo punto
egli avrebbe cominciato a mangiare il biscotto di conto reale e a percepire la paga, ossia 4 aspri il
giorno al vogatore maomettano e 3 a quello cristiano, più 2 libre di biscotto il giorno e null'altro che
il remigante non dovesse pagarsi di tasca sua; ciò continuava sino al ritorno nei Dardanelli, dove,
prima d'entrare, tutti erano pagati senza difficoltà dei loro avanzi, ossia dei saldi loro dovuti.
C'erano poi nell'armata di mare ottomana galere appartenenti a particolari, ossia a raís che
armavano per proprio conto ed erano ingaggiati dal sultano con tutte le loro galere fornite di
completo equipaggio ed equipaggiamento, il che però, come vedremo, avveniva anche a ponente,
e c'erano ancora galere di sforzati, gente presa dalla strada, ma sia le prime che le seconde
costituivano una netta minoranza rispetto alla quasi totalità delle galere che era invece armata di
conto reale e le cui ciurme erano formate dai predetti due tipi di stipendiati (lt. stipendiarii):

... Si armano inoltre da diversi circa quaranta galere fornite di uomini tutti pagati dai loro padroni
con mille trecento aspri per uno e queste sono le migliori, anzi le sole buone di tutta l'armata
turchesca; altre venti galere si armano di persone vagabonde. (Ib. P. 424.)

Gli stessi concetti espressi dal Garzoni vengono più concisamente ripetuti in un’anonima relazione
veneziana del 1575 a proposito delle forze di terra e di mare del sultano Amurat III:

... Il modo che si tiene in armare le galere è che, come è deliberato di far armata - che per
l'ordinario è avanti il primo di gennajo - si spediscono comandamenti per levare galeotti quanti ne
fà bisogno e la maggior parte è quasi sempre di Natolia, usandosi di liberar quelli vassalli che sono
andati un anno dall'andar l'altro, e la contribuzione si fà o sopra le teste o sopra le case, come è
diversa l'usanza delli luoghi, contribuendo per ogni galeotto a ragione di aspri mille; ma, oltre li
comandamenti per far venire li predetti galeotti, se ne spediscono per tutto l'imperio o parte,
avvegnaché secondo che si vuol fare l'impresa grande così si fa la gravezza.
Li aspri si mettono nel 'caznà' (‘erario’) e li galeotti si dispensano alli 'rais' per mettere nelle galere,
essendo in libertà di essi 'rais', se non gli piace qualunque di essi galeotti, metterne un altro in suo
luogo a suo beneplacito e a tutti si dà subito mille aspri per uno e poi il soldo, se sono cristiani
aspri tre il giorno e se sono turchi quattro, e libre due di biscotto il giorno e nessun’altra cosa.
Si armano ancora circa quaranta galere di schiavi (cristiani), che si può dir esser le sole buone, e
altre venti di genti vagabonde. (Ib. S. III, v. II, p. 315.)

Le migliori predette 40 galee erano però, a quanto scriverà il bailo Marc'Antonio Tiepolo l'anno
successivo, scarsamente affidabili in combattimento:

... Ora di tante galee pochissime si tengono armate se non ha il Gran Signore l'animo a qualche
impresa, bastando solo venti galee che si tengono distribuite per le guardie di Scio, di Metelino, di
Negroponto, di Rodi, di Cipro e d'Alessandria; le quali galee, per esser tenute di continuo armate,
427

sono con altre venti - che si armano pur di schiavi - le migliori di tutta l'armata, che in tutto saranno
quaranta, benché queste ancora divengano in occasione del combattere poco buone, tenendo in
sé stesse il nemico, che è lo schiavo cristiano, il quale in quel tempo procura (di) non perder
l'occasione, come s’intende esser occorso nel giorno della vittoria delli Curzolari (‘Lepanto’), nel
qual molti schiavi sferratisi, nelle proprie galee ferivano e ammazzavano i turchi. Eccettuate
adunque queste galee delle guardie, restano tutte l'altre nell'arsenale aspettando il bisogno o la
volontà del Gran Signore. (Ib. S. III, v: II, p. 150.)

Sulla poca affidabilità delle ciurme di schiavi e cristiani e su difficoltà dovute alla corruzione dei
funzionari reali si era espresso già nel 1571, anno appunto della grande sconfitta subita dai turchi
a Lepanto, il bailo Jacopo Ragazzoni:

... Di gente di remo non sono le galee turchesche per l'ordinario fornite benissimo e sono in gran
parte armate di cristiani loro sudditi, de' quali non possono intieramente fidarsi, né è da lasciar di
dire in questo proposito che, se bene il Signor Turco ha paese grandissimo e potrebbe però
(‘perciò’) aver gente da remo per molto maggior numero di galee, stenta però assai ad armare
queste che al presente si trova, perciocché i descritti (‘coscritti’) facilmente si liberano con denari
che danno alli ministri del Gran Signore. (Ib. S. III, v. II, p. 101.)

Da notarsi qui il termine descritti, molto più proprio e significativo del più tardo ‘coscritti’, perché
infatti le reclute (gr. νεηλάται, νέωροι, νεώραι), oltre a essere elencate nei ruoli per nome, vi erano
anche appunto descritti nei loro tratti e segni caratteristici (colore del pelo, cicatrici ecc.) Sulla
celerità dell'armamento delle galere ottomane così si esprimeva nel 1558 il bailo a Costantinopoli
Antonio Barbarigo:

... Molte volte tutti li sangiacchi (‘governatori’) de' suoi paesi mandano tutte le sue ciurme ad un
tatto con un capitano e una bandiera, talché in pochi giorni tutta l'armata è all'ordine; e l'anno
passato, che armarono 120 galere, io vidi in un giorno ispedirne 90 ed il restante 'fra otto o dieci
giorni. (Ib. S. III, v. II, p. 153.)

Per quanto riguarda poi gli aspetti finanziari della predetta leva il Barbarigo dava notizie diverse da
quelle comunque parecchio più tarde del Garzoni e infatti così scriveva:

... Quando questo Signor (turco) arma, arma con suo gran vantaggio, perciocché è obligato ogni
villaggio dare quella quantità di uomini secondo la sua compartita e quell'uomo a chi tocca, se non
vuol andare in galera, manda al 'casnà' del Signor 3.000 aspri; e di questo, ogni fiata che arma,
paga il Signor tutta la sua armata e n’avanza venti e 30.000 ducati per volta perché, se per detta
armata fanno di bisogno 20.000 uomini, ne fa comandar 40.000 e di quelli che non vengono in
tanto numero paga l'armata e avanza. (Ib. S. III, v. III, p. 152.)

Le complete motivazioni finanziarie che spingevano il sultano a far uscire l'armata pressocché ogni
anno erano così spiegate dal vicebailo Andrea Dandulo nelle sua relazione letta nel 1562 al suo
doge:
428

... Quest'armata - o parte o tutta - com'esce dallo stretto apporta al Gran Signore utile e non mai
danno alcuno, perché di gran lunga è molto maggior somma di denari quella ch'egli trae de' suoi
regni per armarla - ch'è una ordinaria e solita gravezza ch'egli suol riscuotere per tal cagione - che
quella ch'egli spende in essa armata. Né voglio lasciar di dire a Vostra Serenità un secondo
beneficio che riceve questo Gran Signore nel mandar fuora detta sua armata; e questo è che non
solo con questo mezzo si esercitano tutti gli uomini che in essa si ritrovano, facendosi sempre più
arditi e più pronti nel combattere, ma non ritornano mai nello stretto se non ricchi di molte prede
che fanno di continuo a danno de' cristiani.
Da questi due gran beneficij che ne riceve il Gran Signore, oltre la riputazione ch'egli conserva con
questo mezzo e augumenta sempre nel mare, io traggo questa conclusione, che rare volte
saranno quelle che egli ogni anno non abbia a mandar fuora, per beneficio e grandezza del suo
imperio, la sua armata; se però per qualche grave accidente, come alle volte occorrer suole, non
restasse di mandarla. (Ib. P. 165.)

Quando però l'armata da costituirsi non doveva essere particolarmente grande, non c'era
nemmeno bisogno di far venire remiganti anche dalle province lontane, come nello stesso 1562
spiega al suo doge un altro relatore e cioè Marc'Antonio Donini, segretario a Costantinopoli:
... Né meno gli (‘al sultano’) bisognerà troppo faticarsi a far venire gente da remo della Grecia e
della Natolia, quando però si facesse armata da ottanta galere in giù, imperocché, oltre che si
ritrovano in Costantinopoli tanti schiavi - e del serenissimo Signor e d'altri - che possono vogare
quaranta galere; se ne possono armare anche più di 15 altre, quasi tutte di sudditi della Serenità
Vostra che sono chiamati 'marioli', delli quali, se bene ne partiron molti per causa della proibizione
del vino, pare però che una buona parte d'essi se ne sia ritornata,'sì per non poter star nella loro
patria come anche per essersi ricordati della grossa paga che gli vien fatta. Di maniera che,
armandosi a questo modo intorno a sessanta galee, non vi è poi difficoltà di ritrovar in
Costantinopoli ciurme per il bisogno di altre trenta e più, essendo stati veduti molti turchi già due
anni serrar del tutto le loro botteghe per andare in galea. Di modo che, quando il serenissimo
Signore si risolvesse di armare un numero di cento galee, prometto (‘assicuro’) a Vostra Serenità
che, usandosi ogni poco di estraordinaria diligenza, non gli accaderebbe far venir altre genti di
fuora per questo effetto, 'sì come si soleva fare l'altra volta che fui in Costantinopoli; e tanto meno
ora, quanto che molti, che quando andarono al Zerbi (battaglia di Gerba del 1560) non avevano un
paro di camicie che fossero sue, al presente, al presente si ritrovano padroni di 15, 20 e 25 schiavi
guadagnati, oltra danari e robe, in quella impresa. (Ib. P. 193.)

Il Donini conclude pertanto che i turchi, a quanto pare molto meglio pagati quando vogavano di
quanto lo si fosse sulle galere cristiane, per la speranza d’un tale guadagno sarebbero stati più che
pronti ad andare in galea alla prima qualsivoglia impresa che il sultano avesse voluto intraprendere
per mare, per lo meno fino a che i cristiani non fossero riusciti a dar loro una buona lezione:

... Il che mi dubito che si farà con molta difficoltà per la continua esercitazione a patire che fanno
quelle genti, le quali per il vero stimano al presente assai poco li cristiani e hanno ragione, poiché
si ritrovano di gran lunga superiori d'un sol volere e senz'alcun bisogno, contra quel che soleva
essere negli anni passati. (Ib.)

Per gran fortuna nostra il Donini fu cattivo profeta e nove anni dopo i turchi perderanno a Lepanto
tutta questa loro sicumera. Sulla cattura e l'utilizzo dei cristiani ridotti in schiavitù, cattura che
429

avveniva non solo in occasione delle uscite dell'armata ottomana, ma anche continuamente a
opera delle fuste e dei bergantini corsari dei leventi, come i turchi chiamavano impropriamente i
barbareschi (ma dall’it. ‘Levante’, ossia ‘levantini’), è interessante leggere ulteriormente la stessa
suddetta relazione del Donini:

... Sono oramai accresciuti in tanto numero li legni de' 'leventi' che, se fossero uniti, come forse
saranno un giorno per far qualche segnalata impresa, a volerli combatter di certezza vi
bisognerebbe una grossa armata. Questi hanno per l'ordinario buonissimi vascelli e presti, perché
ogni tratto li spalmano di nuovo per poter facilmente raggiungere chi fugge e salvarsi quando gli
vien data la caccia. Hanno al remo buonissimi uomini e per la maggior parte sudditi di Vostra
Serenità, delli quali, se ne pigliano alcuno che a ciò non sia atto, lo vendono o barattano più presto
nella Natolia che in altre parti... (Ib.)

Ciò perché, vendendoli in altri luoghi, n’avrebbero ricavato un prezzo molto inferiore, in quanto il
compratore poteva temere che lo schiavo, restando vicino a domini della repubblica di Venezia,
facilmente se ne sarebbe fuggito, oppure sarebbe stato liberato dai residenti veneziani, sempre
molto presenti sulle rive del Mediterraneo; invece, venduti e portati all'interno dell'Anatolia, a
giornate di marcia dalla costa, i poveri disgraziati potevano perdere ogni speranza di potersi un
giorno liberare e quindi si vendevano in quella regione a un prezzo molto superiore.
Benché con gli accordi di pace del 2 ottobre 1540, stipulati tra Venezia e Costantinopoli dopo
l'ultimo conflitto, i turchi si fossero impegnati a non permettere, favorire o agevolare le attività
anticristiane dei leventi, questi facevano in effetti tutto quello che volevano negli stessi porti
dell'impero ottomano, dove a loro piacimento si facevano fabbricare vascelli, si provvedevano di
vettovaglie, vendevano pubblicamente le loro prede e i cristiani che catturavano e tutto ciò sotto gli
occhi dei ministri e dei funzionari turchi, i quali - e per gli accordi suddetti e perché spesso e
volentieri i leventi dannificavano anche le popolazioni rivierasche dello stesso impero ottomano -
avrebbero dovuto invece perseguitarli; ciò nondimeno i leventi che erano accettati al servizio del
Gran Turco con regolare provvisione e salvo-condotta, quando dovevano venire a Costantinopoli
per qualche negozio di stato, usavano lasciar prima i loro schiavi sudditi di Venezia a Metelino o in
qualche altro luogo, per timore che questi venissero fatti liberare dai baili di Venezia:

... e, se pur ve ne conducono alcuno, dicono o provano per testimonij musulmani che li hanno
comprati o che hanno loro prestati danari con obligazione ch'essi li abbiano a servire per qualche
numero di anni nella fusta o galeotta loro, facendo appresso ch'essi medesimi schiavi confessino
l'istesso per forza di bastonate; di modo che li detti leventi offeriscono poi essi schiavi per la
quantità del danaro ch'hanno detto aver esborsato come di sopra e a questo modo non v'è rimedio
di poter liberare alcuno di loro [...] e così si vanno miseramente disabitando li luoghi della Serenità
Vostra, con malissima sodisfazione delli parenti di questi suoi infelicissimi sudditi. (Ib.)
430

I baili veneziani non erano infatti autorizzati a disporre di danaro pubblico per ricomprare gli schiavi
che fossero risultati sudditi della repubblica, ma regolarmente comprati o ingaggiati dal loro
padrone; evidentemente il reato di ricettazione, almeno per quanto riguarda gli schiavi, non era
allora riconosciuto.
Il Donini riferiva anche che, a partire dal novembre del precedente 1561, si era cominciato a
ripristinare vecchie fuste e a costruirne di nuove per poi venderle ai leventi nello stesso arsenale di
Costantinopoli e si salvava la forma dei capitoli di pace stipulati con Venezia vendendo questi
vascelli ai raïs di galera, i quali poi le rivendevano privatamente ai leventi e questi ultimi
dichiaravano di voler portare le fuste in Barbaria, in modo che i baili veneziani non potessero trovar
ufficialmente nulla da obiettare:

... Di che essendomi più volte doluto col magnifico bassà e col magnifico beglierbei del mare,
dicendo che, partendo questi di qui con li legni nudi, li forniscono di gente nelli luoghi della Signoria
Vostra contra li eccelsi capitoli della pace, li quali in questa parte sono malissimo fatti, peggio intesi
e pochissimo osservati dalli ministri del serenissimo Gran Signore. (Ib.)

In effetti, anche se le suddette clausole di pace sembravano garantire i possedimenti veneziani


dall'essere dannificati dai leventi, poiché i turchi pretendevano che i danni apportati al naviglio (sp.
barcos) e alle marine dovessero esser testimoniati anche da maomettani, non trovandosi poi mai
di tali testimoni, mai si riusciva a ottenere le riparazioni e i risarcimenti previsti dal trattato. I danni
patiti da Venezia in tal maniera erano talmente grandi da far affermare al Donini che con solo la
metà della rendita dei beni che in tal modo si perdevano in un anno si sarebbe potuto tenere ben
armate 25 galee dedicate unicamente alla guardia delle marine; perché un numero minore di tali
vascelli non sarebbe stato sufficiente:

... che d'altra maniera non farebbe se non mettere le sue galee in manifestissimo pericolo d'esser
prese, essendo le galeotte e fuste d'essi leventi fornite di buonissima gente, usata a patire ogni
sorta di fatica e di disagio e che, quando gli occorre menar le mani con le galee della Serenità
Vostra, lo fa così gagliardamente che è una maraviglia. (Ib.)

La gran combattività e capacità di resistenza bellica dei corsari barbareschi è ricordata anche in
una relazione della già da noi menzionata battaglia tra questi e i veneziani che si terrà nel canale
di Scio il tre maggio del 1657:

… che più ostinato cimento non si è veduto in altre battaglie. Ben era da credersi tale la costanza
in barbareschi, Delli quali ne sono gran parte dell'isola di Candia, sono della più fiera e indomita
natura che fra’ turchi si possi ritrovare… (Vittoria dell'armata veneta nel Canale di Scio contro i
turchi nel 1657, ai tre di maggio. Venezia, 1882. B.N.N. Misc. 111 (43.)
431

Ancora nel 1659 il luogotenente generale del mare francese Paul, redigendo un rapporto sui
corsari barbareschi, affermerà con insistenza che gli equipaggi delle navi mandate a combatterli
avrebbero dovuto essere preferibilmente composti di marinai ‘ponentini’, ossia della costa atlantica
della Francia, perché quelli provenzali, pur essendo ottimi uomini di mare, erano letteralmente
terrorizzati dalla sola fama di quei terribili scorridori del mare. Ma perché questi corsari di Barbaria
- e anche quelli turchi - combattevano così fino all'ultimo sangue specialmente quando erano
affrontati dalle galere di Venezia? Perché i veneziani avevano da tempo, per imposizione appunto
papale, rinunziato allo schiavismo, pur tanto praticato nel passato, essendo infatti ora, come
sappiamo, la quasi totalità delle loro ciurme costituita da buonevoglie; dunque non cercavano
schiavi per le loro galee, contrariamente a quanto si voleva invece intensamente nell'impero
ottomano, e di conseguenza, per una di quelle singolari intrinseche contraddizioni che hanno
sempre afflitto il cattolicesimo, non facevano prigionieri, obbligando i leventi a tale accanimento
combattivo come ultima occasione di salvarsi la vita:

... non trattandosi solo della libertà loro, ma della vita propria, sapendo certissimo che, quando
sono presi dalle Sue galee, non sono altrimenti fatti schiavi, ma fatti morire, contra quel che fanno
le galee di altri principi; e perciò combattono sino che possono star in piedi e per il più delle volte si
salvano col fuggire o col dare in terra, che, se fosser sicuri della lor vita, non succederebbe forse
così. (E. Albéri. Cit. S. III, v. III, p. 196.)

Dare in terra (fr. echoüer), cioè il gettare il proprio legno sulla costa del proprio paese o di un
paese amico, per cercar scampo nella fuga a terra, era il più solito e obbligato modo che la gente
di mare avesse per scampare a vascelli nemici troppo più forti e sfuggire alla cattura o peggio alla
morte, rimettendoci così la sola imbarcazione; ecco perché un buon generale o capitano di mare
doveva cercare di far allontanare il nemico dalla sua propria costa prima d’indurlo ad accettare il
combattimento, ma anche il capitano nemico doveva cercare di non avvicinarsi alla sua o a quella
di paesi suoi amici, a evitare che i propri uomini, invece di scegliere di combattere sino all’ultimo
sangue, in quella via d’uscita troppo confidassero. Già nel nono secolo l’imperatore bizantino
Leone VI – o chi per lui – sconsigliava al generale di mare di combattere nei pressi delle coste del
suo stesso paese:

… non combatter presso il tuo paese proprio, in cui sperano i soldati quel ch’è in proverbio
‘Salvarsi nel mostrar sol della lancia’ (‘fuggire subito senza combattere’), ma più tosto presso al
paese nemico, perché i nemici, nella lor terra, antepongano la fuga alla battaglia… Percioché son
pochi – o che tu risguardi a’ romani (‘bizantini’) o a’ barbari – che antepongano la morte onorata
alla fuga disonesta e vergognosa. (Cit.)
432

Bisanzio dunque, almeno per quanto riguarda il valor militare, non si poteva certo dire simile
all’antica Roma!
Nel 1624 il generale veneziano Antonio Pisani, trovandosi al comando di una squadra formata da 8
galere e da due galeazze, avvistate a Itaca quattro fuste corsare di S. Maura (Levkás) che
avevano cominciato a saccheggiare quell’isola nei pressi di Itaca, le attaccò e costrinse i loro
equipaggi, ormai sbarcati, a cercare scampo nella fuga a terra; a bordo delle fuste erano però
rimasti 10 turchi che furono catturati e presto decapitati senza pietà.
Nel 1634 il grosso galeone a tre ponti del corsaro tripolino Amet Raïs fu assalito nel canale
dell’Isola di Negroponto dalla squadra delle galere toscane comandata da Ludovico da
Verrazzano; i barbareschi, dopo aspro e sanguinosissimo combattimento, si rifugiarono sotto
coperta, dove, nonostante fossero oppressi dai fuochi artificiati lanciati dal nemico, resistevano
timorosi d’essere tutti uccisi dai vincitori anche se si fossero arresi; solo quando si resero conto di
non esser stati vinti da veneziani, bensì da toscani, s’arresero. In quella campagna,
particolarmente fortunata per i toscani, essi catturarono anche la galera Capitana di Chio,
soprannominata - chissà perché -Vinagro, vi liberarono 200 rematori cristiani e li sostituirono con i
120 turchi catturativi.
Quando proprio ogni difesa era ormai inutile, molto spesso i corsari maomettani si facevano saltare
in aria dando fuoco alla loro santabarbara, per tentare così di trascinare perlomeno con loro
all’altro mondo anche buon numero di nemici infedeli, perversa pratica questa tuttora purtroppo
ancora praticata dai fanatici mussulmani e che, come ben si sa, si è tanto intensificata ai nostri
giorni a causa del terrificante potere distruttivo raggiunto dai moderni esplosivi; anche se non
intendiamo certo dire con questo che alla Serenissima si debba addebitare anche ciò che avviene
oggi. Per esempio nel 1662 il Corsaro napoletano Carini, il quale operava con patente di Malta e
perlopiù coadiuvato da vascelli comandati da cavalieri gerosolimitani, attaccò nelle acque di Zante
tre vascelli turchi, uno dei quali fu catturato, uno si fece saltare in aria per non subire la stessa
sorte e il terzo riuscì a fuggire; nel giugno del 1669 la caravana d’Alessandria fu attaccata nelle
acque di Rodi da 13 galere corsare maltesi e d’altra nazionalità e i cristiani ne catturarono una
sultana, mentre un’altra, anch’essa per non esser presa, si faceva esplodere.
A prescindere comunque dalla pragmatica spietatezza dei veneziani, nata soprattutto dalla
secolare pratica con la sanguinarietà dei loro nemici mussulmani, i barbareschi erano in ogni caso
molto combattivi di natura, soprattutto perché la loro religione, ieri come oggi, insegnava valori
ultraterreni molto più attraenti di quelli cristiani e quindi quasi a desiderare la morte, specie se
poteva arrecar danno agl’infedeli; nel settembre del 1509 sei galere napoletane intercettarono
nelle acque di Ponza sei fuste barbaresche e, postesi all’inseguimento, le costrinsero ad accettare
433

il combattimento, ma mal gliene incolse, perché, nonostante il grande vantaggio di forze, ebbero la
peggio e solo tre delle loro galere si salvarono.
Nel 1495 i veneziani, come racconta il Sanudo, affrontarono nelle acque di Modone e con forze
molto superiori una fusta corsara turca montata da 95 uomini, i quali, bersagliando i cristiani di
frecce, combatterono tanto tenacemente da restar vivi solo in 25; i vincitori non si lasciarono però
commuovere da tanto coraggio e il loro comandante, il quale in quell’occasione era lo stesso
capitano generale Antonio Grimani, dimostrò ancora una volta la consueta mancanza di pietà dei
lagunari:

… El qual ordinò fusse(ro) ligati le man et li piedi et butati in mar per anegarli, et cussì fo fatto;
unde el capetanio loro, quando era ligato, se la rideva, et li fo dimandato da quelli sapeva la lengua
la cagione dil suo rider; rispose: ‘io ne ho anegati tanti christiani con le mie man che l’è raxon
(‘ragione’) sia anegato ancora mi da christiani. Et cussì fonno butati in mar… (La spedizione di
Carlo VIII etc. Cit. PP. 307-308.)

Ma quella del raís turco era sicuramente solo stizza e non verità, perché i prigionieri che i turco-
barbareschi facevano erano da loro considerata merce preziosa, schiavi da vendere negli appositi
mercati d’Algeri, di Costantinopoli, del Cairo e d’altri luoghi di Barbaria e dell’impero ottomano e
quindi, eccezion fatta per vecchi, storpi e malati, sicuramente non li sprecavano gettandoli in mare.
Certo ci furono sanguinose eccezioni, come fu quella del 1499, anno in cui i turchi del sultano
Bayazid II, i quali stavano con un’armata di mare aggredendo i possedimenti veneziani in Grecia,
inviarono un corpo di cavalleria di seimila uomini in Friuli, regione che i veneziani, non
aspettandosi una tale azione, avevano allora lasciata priva di difese, e colà i turchi depredarono e
distrussero a loro piacimento, facendo un numero grandissimo di prigionieri tra i civili friulani (vn. e
sl. furlan, cioè boreani, ‘gente del nord’); poi, sulla via del ritorno, accorgendosi di non poter
procedere abbastanza speditamente con tale massa di cattivi al seguito, ne trucidarono
crudelmente la maggior parte continuando a portarsene dietro solo i più validi e pregevoli
(Guicciardini, Storia d’Italia).
La spicciativa prassi veneziana di uccidere subito i leventi e i corsari turchi non appena catturati in
combattimento fu uno dei più pretestuosi motivi tra quelli che Mehmed, il Gran Vizir del sultano
Selim II, espresse al bailo veneziano a Costantinopoli per giustificare le pretensioni turche su
Cipro; ma anche i pirati della Dalmazia subivano la stessa sorte e ciò soprattutto sin alla fine del
secondo terzo del Cinquecento, cioè sino a che le triste attività di costoro erano state rivolte, oltre
che contro il naviglio mercantile turco, anche contro quello di Venezia. Christoforo da Canal che,
come abbiamo visto, propugnava di convertire le galere della Serenissima dall'uso di ciurme
volontarie a quello di forzati e schiavi, da lui a ragione ritenute molto più efficienti, chiedeva di
434

conseguenza anche che, come si faceva a ponente, s’incominciasse a far schiavi i pirati
adibendoli così alla voga, invece d'ammazzarli, e che i giudici veneziani iniziassero a condannare
al remo i criminali – perché anche i lavori forzati non erano da gran tempo più ammessi dalla
legislazione veneziana, ispirata da un grande rispetto della libertà personale, abbandonando in
cambio la barbara tradizionale pratica, unica in Italia anche se ben presente altrove in Europa, per
esempio in Austria, di punirli con l'amputazione di parti del corpo, in modo da ottenersi
gradualmente la predetta trasformazione:

... oltre che ciò farebbe senza fallo gran parte de' nostri rettori più pronti e più solleciti nelle
spedizioni de' rei, la qual cosa, 'sì come ella procede dalla pietà che hanno di privar quei meschini
d'alcuno de' loro membri, così la prontezza nascerebbe dal doverlo senza offesa condennare alla
catena; dal che seguirebbe, senza pregiudizio della giustizia e con utilità del publico, contentezza
grandissima de' prigioni.
Non sarebbe egli ancora meglio e più utile nostro di fare schiavi i cimeriotti e gli uscocchi che
prendono così spesso de' nostri piccioli legni e in cotal numero valersi di loro e non è l'uccidergli,
come facciamo subito presi, senz'alcun giovamento di noi? Certo sì [...] affermo che del dominio di
questa Republica si potrebbe agevolmente ogni anno almeno armare due galee, onde [...] in breve
tempo, così facendo, verremmo a esser padroni d'una numerosa armata. (C. da Canalt. Cit. Pp.
172-173.)

D’uscocchi e cimeriotti poi diremo. Al concetto del depauperamento umano dell'impero turco già
espresso dal Garzoni torna un altro residente veneziano, Girolamo Lippomano, nella sua relazione
su Napoli del 1575, ma egli sembra dare al problema maggior concretezza:

... (I turchi) hanno molta difficoltà e mancamenti d'uomini da comando e da remo e d'altre cose; e
si sa certo da persone pratiche del paese de' turchi che, armando essi un altr'anno o due come
hanno fatto l'anno passato, al sicuro, per la gran penuria e mancamento d'uomini, rovinariano e
debilitariano li loro luoghi e che in somma son più quelle cose che spaventano che quelle che
posson nuocere (ai cristiani)... (E. Albéri. Cit. S. II, v. II, p. 299.)

Lo stesso predetto argomento è portato anche dal bailo Marc'Antonio Tiepolo nel 1576 e lo fa
a proposito degli elementi di debolezza dell'armata di mare turca sui quali Venezia poteva fare
sicuro affidamento:

... Ma quello su cui si può fidare è il mancamento di uomini da remo, i quali, si come ho già detto,
per le continue estorsioni che patiscono in diversi modi gli uomini delle ville (‘villaggi’), son già
ridotti all'estremo, 'sì che in molti luoghi non vi sono più ville, onde il paese è incolto, e quelle che vi
sono anco vuote, 'sì che non vengono tolti ora gli huomini che soprabondano al coltivar i terreni,
ma anche quelli appunto che bisognano per quel lavoro mancano.
Solevano anco abondare gli schiavi e del Gran Signore e di private persone, ma ora questi non
bastano per più di venti galee. Soleano esser anco li mariuoli – in tal modo chiamandosi quei
candiotti che, banditi di Candia, s’intertenevano in Pera su le taverne - 'sì numerosi che bastavano
almeno per trenta galee, ma ora questi ancora mancano quasi del tutto, di maniera che, se vuol
435

mandar l'armata il Gran Signore, è necessario caricare le ville molto più che non era solito a farsi,
non solo perché armi (ora) più grossamente, ma per la strettezza de' mariuoli e de' schiavi.
É ben vero che va distribuendo il peso in maniera che tutto l'impero si risenta ugualmente,
mandando li comandamenti d'anni in anno non nelli luoghi dell'anno addietro, ma negli altri non
tocchi, 'sì che nel termine de' quattro anni tutto l'imperio abbia sentita questa gravezza; la quale è
grandissima perché, come già dissi, non mandando uomini, sono obligati a mandare venti scudi
per ciascuno, onde vengono ad impoverire in un medesimo tempo e d'uomini e di denari perché
pochissimi ne tornano vivi, quelli massimamente che son chiamati sino dall'estreme parti de'
confini di Persia e del Mar Rosso, molti de' quali, camminando più di due mesi, nel patimento di
tanto viaggio muoiono in quello; molti muoiono subito in arrivando e molti ancora nelle galee e il
resto quasi tutto quando ritornano alle loro case, onde veramente può dirsi che il levare quegli
uomini sia appunto il levarli per sempre dalle loro ville; per lo qual inconveniente si udiva in mio
tempo molti a' confini abbandonare le proprie case e fuggire dentro al paese di Persia. (Ib. S. III, v.
II, Pp. 146-147.)

Sul nome di mariuoli diremo tra breve a luogo più opportuno; c'è invece ora da immaginare quanto
terribile fosse la tragedia della voga forzata ottomana, molto peggiore di quella - già penosissima -
in uso negli stati cristiani; tragedia che si andava anche ad aggiungere a quella della schiavitù in
cui erano ridotti i tanti esseri umani catturati nella continua guerra di corso che le due religioni si
combattevano nel Mediterraneo, a quella dei fanciulli cristiani dei Balcani che erano sottratti alle
loro famiglie e portati a Costantinopoli perché divenissero giannizzeri (dal tr. jenni-cierì, ‘nuovi
soldati’), a quella degli schiavi fatti dai tartari nell'Europa centrale, e senza contare infine le
sanguinosissime guerre che continuamente gli stati europei si combattevano; storia quindi
soprattutto d’orrori quella dell'umanità! Il Tiepolo aggiunge poi altre considerazioni che fanno capire
in quale disprezzo i turchi - ma anche i veneziani - oltre tutto tenessero quelle centinaia di migliaia
di poveri giovani mediorientali che rapivano alle loro case per farli poi morire di stenti:

... Manda (il sultano) i comandamenti per lo più innanzi gennaro per far venire li galeotti, né si fà
differenza da turchi a cristiani, sendo le ville indifferentemente obligate a questa gravezza, ma par
non di meno così fatta provvisione farsi più volentieri nell'Asia perché, sendo l'Europa più piena di
cristiani, dai quali soli e non da' turchi cava sempre i putti per li serragli, i quali sono il seminario
della milizia [...] viene serbata l'Asia, come piena de' turchi, per la gravezza de' galeotti, gente certo
inutilissima ad altro che al remo, benché a questo ancora poco atta; però (‘perciò’), quando vien
detto 'zacali', che così si dicono i galeotti di quella parte dell'Asia, vien detto persona vilissima.
Si conducono adunque questi galeotti e, per ciascuno di quelli che non vengono, vi sono li venti
scudi che io dissi, ma, perché molti sono li morti in viaggio e più è il denaro che si riscuote che non
è il numero de' galeotti, avviene che il Gran Signore con questo sempre mette denaro in 'caznà', il
quale anco si fa maggiore perché, nel medesimo tempo che comanda gli uomini in Asia, nel
medesimo ancora comanda li venti scudi per un numero di galeotti in Europa, sicché avanza questi
con gli altri già detti.
Ai galeotti turchi deputa quattro aspri, ma al cristiano tre il giorno, e due libre di pane senza altro,
col quale (sostentamento) hanno a passare la vita, o basti o non basti. (Ib. Pp. 148-149).
436

Sul termine zacali però il Tiepolo sbagliava; esso infatti sarà meglio spiegato da Matteo Zanne
nella sua relazione del 1594, intendendosi infatti con esso i greci del continente e non i remiganti
provenienti dai paesi interni del Medioriente, i quali invece i turchi chiamavano kürekci; infine,
sempre a proposito delle varie categorie di gente da remo (lt. gens a remis) di cui poteva disporre
Costantinopoli, è anche interessante leggere la relazione del bailo Paolo Contarini che è del 1583
e con la quale ci sarà meglio chiarito come le migliori galere turche fossero quelle ciurmate con
schiavi cristiani e greci mercenari, mentre di quelle con ciurme di remiganti mediorientali ci fosse
poco da fidarsi:

... Ha il Capitano (il generale Uluch-Alì) al suo servizio molti rinnegati italiani, a' quali ha dato il
carico di capitani di galea, di sangiacchi, di beglierebei, come era Assan Bassà in Algeri (dico era,
perché non posso se non pronosticar male, essendo tanto perseguitato dal Capitano), li quali
hanno molti schiavi e assan Bassà solo ne tratteneva sin 2.000, gli altri 300 e 400 per uno; tanto
che computati li schiavi del Signor, quelli del Capitano del Mare (il predetto Uluch-Alì) e de' suoi
rinnegati, averanno sempre sin 10.000 schiavi sufficienti per vogar il remo, che alli bisogni
montariano tutti sopra l'armata; e si può dire che le galee armate di questi schiavi e de' marioli,
cioè de' greci che vanno a servir col donativo che gli dà il comune (le buonevoglie), siano il nervo
dell'armata turchesca, perché quelle armate di zaccali e ciurme levate da terraferma restano presto
inabili al viaggio, infermandosi gli uomini e morendo in breve tempo per non esser atti né assuefatti
al mare la maggior parte di essi. (Ib. S. III, v. III, P. 223.)

Verso la fine del secolo decimo-sesto la sovrabbondanza d’uomini da remo di cui i turchi avevano
sempre disposto grazie alla vastità del loro impero, incominciava dunque a diventare un ricordo del
passato e ciò a causa soprattutto della grande e mortifera pestilenza che aveva colpito quei paesi
nel 1585 e della guerra contro i persiani, conflitto iniziato nel 1577 e durato ben 13 anni, nel quale
fino al 1586 gli ottomani avevano già perso seicentomila uomini, avendovi quindi impegnato quasi
tutte le loro risorse umane e arrivando pertanto persino a sguarnire le loro difese verso l'Europa
cristiana, come si legge nella relazione del bailo Maffeo Venerio del 1586:

... e anche l'Ucchialì, dovendo questo settembre passato passare in Mar Nero con ventidue galere,
levò per armarle ogni sorte di gente inutile per età e per complessione e molti greci ancora furono
tolti con violenza. (Ib. S. III, v. II, P. 297.)

Altre cause della sopraggiunta carenza di remiganti erano il predetto depauperamento d’uomini
dovuto alle intense leve remiere e alle connesse angarie fiscali avutesi nel corso del Cinquecento
e la pessima maniera in cui gli stessi erano trattati; infatti sulla differenza tra il buon trattamento
riservato alle sue buonevoglie da Venezia e quello invece pessimo con cui la Gran Porta trattava le
sue buonevoglie e soprattutto i suoi remiganti semi-forzati si dilungava il bailo Giovanni Moro nella
sua relazione su quell'impero del 1590:
437

... Ma d'uomini da remo, ch'è una delle parti più importanti e più essenziali che si ricerca per
potersi valere di armata potente e numerosa, il bisogno è maggiore, benché non n’assegnino più
di 150 per galea in ragione di tre per banco. Onde si può certamente affermare che questi non
corrispondano alle gran comodità che i turchi hanno di ogni altra cosa, perché, oltre che il contado
resta, come ho detto, abbandonato in molti luoghi dagli abitanti per le continue estorsioni dalle
quali sono oppressi, i miseri che servono sopra le galee sono così mal trattati che quei pochi che
hanno ventura di sopravviver al servizio corrono pericolo di morire mentre, afflitti per tanti
patimenti, si mettono senza alcuna comodità in viaggio - molte volte lungo - per tornar alle loro
case; 'sì che, quando sono si può dir in porto, fanno spesse volte miseramente naufragio della vita.
Che se i contadini della Serenità Vostra, benissimo trattati sopra le sue galee, patiscono assai con
perdita di molti di essi solamente per non esser avvezzi al mare, si può chiaramente congetturar
ciò che possa succedere a quelli che sono gravemente oppressi da ogni sorte di calamità. I
contadini della Serenità Vostra stanno - si può dir - tutti vicinissimi a questa Città (di Venezia), ma
quei miseri galeotti, chiamati da parti lontane, sono costretti a camminar alcune volte più di due
mesi avanti che arrivino a Costantinopoli. Questi sono ajutati dalle proprie ville, che oltre qualche
particolar donativo gli assegnano un tanto il mese appresso l'ordinaria provvision di questa
Serenissima Republica, con che possono onestamente trattenersi; ma quelli, se bene a loro nome
si raccoglie dai vilaggi certa quantità di danaro, come dirò poi, ne godono però la minor parte e
intanto partono da casa con quel che possono senza l'aiuto degli altri. Questi sono ben trattati dalli
clarissimi sopraccòmiti o governatori (‘comandanti di galea veneziani’) che siano, i quali, conforme
alla loro nobiltà e alla loro educazione, hanno davanti agli occhi, oltre il timor di Dio, il proprio onore
che li eccita ad aver cura di essi e ben trattarli; ma in quei 'rais', che sono, come ho detto, i capi
delle galee (turco-barbaresche), non si scuopre alcun termine di religione né di bontà civile, non
considerando altro che il loro utile privato; e per(ci)ò non si vergognano a levar anco dalla bocca di
quella misera gente parte di ciò che lor viene assegnato dal Gran Signore per sostentamento della
vita.
Oltra di questo, costumando i turchi per l'ordinario disarmare (di uomini) l'inverno le loro galee,
hanno sempre (‘ogni anno’) bisogni di nuovi galeotti per armarle, con che si vien maggiormente a
disertare il paese di tal sorta di uomini; i quali, perché siano a tempo in Costantinopoli, essendo,
come ho detto, molti di essi chiamati da parti lontane, costuma il Signor Turco di fare scrivere il
mese di dicembre e di gennajo quel numero di comandamenti che fa bisogno destinati in diverse
parti, con carico a chi ne ha la cura di raccogliere in un medesimo tempo - da quei villaggi ove
prendono gli uomini - tanta somma di danaro che basti per dare ad ognuno di essi 1.000 o 2.000
aspri secondo la possibilità del luogo; i quali danari, quando si arma, sono consegnati al 'rais' della
galea, cui non mancano pretesti per tenerne una buona parte per suo uso, come fa ancora (anche)
del biscotto, dando ad ognuno per il resto del suo viver, se son turchi, aspri quattro il giorno, ma,
se son christiani, tre solamente.
A beneficio del Gran Signore doveria poi andar - quando non si rubasse dal Capitano del Mare o
da altri ministri, come succede per l'ordinario - tutto quel danaro che avanza o perché gli uomini
siano mancati o perché fatti inabili, come spesse volte occorre, per essere diventata quasi
ordinaria questa gravezza che i turchi chiamano 'avarìs', la quale, per avanzar il danaro se ben
non si arma, si riscuote però in contanti con sommo interesse de' popoli e de' villaggi, che in
Costantinopoli e in ogni altro luogo è obligo a pagarla e l'inverno passato in particolare fu riscossa
con gran rigore per somministrar le paghe ai soldati. Quando si arma poi, si mettono in luogo di
molti di questi galeotti - e particolarmente di quelli d'Asia che sono più tristi degli altri - (altri)tanti
schiavi con benefizio ai loro padroni degli aspri che se gli dà per testa. (Ib. S.III, v. II, Pp.352-353.)

Anche gli ottimi remiganti mercenari greci ora mancavano perché il problema dei banditi candioti, i
quali tanto giovamento portavano all'armata turca, sembrava esser stato nel frattempo finalmente
438

risolto dalla Serenissima non obbligando più quelli semplicemente a espatriare, bensì
condannandoli al confino:

... Soleva il Signor Turco servirsi per il passato di un’altra qualità d'uomini attissimi a questo
servizio, per il più greci sudditi della Sublimità Vostra, banditi di Candia e di altri luoghi, che,
vivendo oziosamente sopra le taverne in Costantinopoli, soleano tutti indifferentemente - quando
veniva l'occasione - esser messi al remo e li chiamavano marioli. Con questi si sono armate altre
volte venti e più galee che facevano sempre buona riuscita, ma adesso sono privi in gran parte di
questa commodità per le provvisioni fatte con molta prudenza da questo Serenissimo Dominio,
non potendosi al presente bandire alcuno dall'isola di Candia che non gli sia riservato qualche
luogo dove possa viver sotto l'ombra sua; e però (‘perciò’), privi di questa commodità, sono
necessitati maggiormente a gravare il contado. (Ib. S. III, v. III, pp.353-354.)

Il bailo Lorenzo Bernardo, confermando con la sua relazione letta ai senatori di Venezia nel 1592
questa ormai evidentemente stabile carenza di remiganti maraiuoli, aggiunge quella degli schiavi
cristiani, generalmente pur'essi buoni vogatori, mentre non sembra concordare col Moro in materia
di minor reperibilità anche delle ciurme di terraferma, ossia maomettane:

... Di galeotti per armar le loro galee si solevano (i) turchi servir di tre qualità d'uomini: schiavi,
maraiuoli e uomini del paese. Li schiavi sono ora talmente diminuiti ed ogni giorno vanno
mancando per morte, per fuga, per riscatto e per rinnegar la nostra santissima fede che, dove
prima ne solevano esser in mano del Gran Signore, del Capitano del Mare (Uluch-Alì) e delli 'beì',
cioè capi del mare, otto o diecimila, ora son certificato che non ve ne sono appena tre in
quattromila, che non armariano venti galee.
La guerra di Persia, che ha durato tredici anni, non ha acquistati schiavi alla Porta (‘la Corte
ottomana’), perché per la loro religione non possono li turchi far schiavi né persiani né armeni né
ebrei. Le galere poi della Serenità Vostra, con molta loro lode e reputazione a Costantinopoli,
hanno dissipate e tagliate a pezzi tutte le fuste che in gran copia solevano stanziare a Durazzo e
alla Valona, in maniera che ora tanti sudditi di Vostra Serenità si preservano da' turchi, che prima
da quelle fuste solevano essere fatti schiavi; e Nostro Signore Iddio, che ha particolarmente la
protezione di questo Stato (di Venezia), ha operato 'sì che la superbia turchesca si sia acquietata,
'ché dalle galee della Serenissima Republica tutte le fuste di levantini che sono ritrovate nel Golfo
(‘nel Mar Adriatico’) giustamente possono esser tagliate a pezzi come publici ladri; il che non solo
più volte mi è stato approvato per buono dal maggior 'Bascià' (‘dal Gran Visir o primo ministro’), ma
li medesimi levantini chiaramente confessano che questa è la pena che aspettano quelli che vanno
per rubare nel 'Golfo dell'Oro', che così da loro è chiamato questo nostro Golfo per le molte
ricchezze che ritrovano in quello. E, se piacesse a Dio che una sol volta le galee della Serenissima
Republica potessero tagliare a pezzi due o tre galeotte di levantini (sic; leventi) di Barbaria, che
vengono qui dentro alle volte a rubare, come è successo quest'anno, certa cosa è che ciò li
spaventaria di maniera che, senza altri comandamenti della 'Porta', mai più molestariano questo
Golfo. Onde, Eccellentissimi Signori, per questa via è meglio procurar di non perdere li nostri
sudditi e la nostra roba che, da poi presi e depredati, procurar con comandamenti di ricuperarla.
Poiché li comandamenti da questi ladri (i leventi) poco sono stimati né fanno conto degli ordini del
Gran Signore e ciò dicono liberamente li magnifici 'Bascià' e il Capitano del Mare. Però (‘perciò’),
poiché piace a Dio farne questa grazia, che il rimedio a questi mali sia in mano nostra, proviamo
con la buona guardia delle nostre galee di farli per questa via astener dall'entrare in esso e
liberiamo non medesimi da tanto danno e indegnità.
439

É vero che in Barbaria - e principalmente in Algeri - s’intende ritrovarsi otto sino in diecimila schiavi
christiani, ma di questi ogni giorno molti si riscattano, molti sono venduti a particolari che li
applicano ad altro essercizio che al vogare. É vero che di questi sono armate le trenta galere e
galeotte, caicchi e fregate che stanno alla guardia e vanno in corso per le coste della Barbaria, ma,
oltre di queste, poche galee poteria armar questo Gran Signore di essi schiavi in occasione di far
armata generale.
Solevano trattenersi gran numero di maraiuoli di ogni nazione, ma la maggior parte candiotti, sopra
le taverne in Costantinopoli e in Pera quando il Gran Signore solea spesso far armata, ma,
essendo stato ciò intermesso per tanti anni, tutti hanno preso altro partito, onde l'anno passato con
ogni esperienza fatta non poterono armar una sola galea di gente di questa qualità. (Ib. Pp. 336-
338.)

Si dica dunque oggi dagli storici quel che si vuole, ma il complesso d'inferiorità marittima in cui
Lepanto fece improvvisamente piombare Costantinopoli fu vero e reale ed è innegabile che da
quella fondamentale battaglia in poi il tono della minaccia turca sul mare sarà e resterà poi sempre
molto smorzato rispetto ai cent’anni precedenti; sebbene il kapudan pasha ‘Alì Mazzamamma’
verso la metà del Seicento si darà molto da fare per rinnovare l’armata ottomana, facendo cioè
venire in Turchia molte maestranze europee, specie inglesi, a costruirvi vascelli d’alto bordo, nel
diciassettesimo secolo Venezia, pur soccombendo per terra contro gli sterminati eserciti ottomani e
perdendo Candia in una lunga serie di aggressioni iniziate nel maggio del1645 e terminate solo
nel 1669, cionondimeno per mare, combattendo spesso anche da sola, avrà in sostanza la meglio,
come per esempio a Santorino (Thira) nel luglio del 1651, quando il capitano generale Alvise
Mocenigo, alla testa di 24 galere e 6 galeazze, essendo generale di queste ultime Francesco
Morosini, sconfiggerà l’armata del suddetto kapudan pasha, consistente in 60 galere e 6 maone,
restando preda dei veneziani quattro o cinque vascelli nemici inclusa l’ammiraglia di
Costantinopoli, un vascello da ben 80 bocche da fuoco, mentre altri 5 saranno incendiati; il
‘Mazzamamma’ riuscirà a fuggire, ma vi resterà morto Mehemet Pasha, un generale inviato a
comandare l’assedio di Eraclea allora in corso. Come pure ai Dardanelli nel giugno del 1656,
quando l’armata veneziana, appoggiata da quella pontificia e da quella maltese comandata dal
napoletano Gregorio Caraffa, conseguirà una grande vittoria su quella ottomana di Sinan Pasha, e
inoltre come nel 1668 a S. Pelagio, dove, dopo ben cinque ore di combattimento, i veneziani
prenderanno ai turchi cinque galere e libereranno ben 1.100 rematori cristiani. La lega cattolica
inoltre prenderà ripetutamente le principali piazze ottomane in Morea, per esempio la fortezza di S.
Maura nell’agosto del 1684, presa da veneziani, toscani, pontifici e maltesi, i quali il mese
successivo conquisteranno anche la stessa fortezza di Prévesa con un assedio che la costringerà
a capitolare; poi nell’agosto del 1685, durante la seconda campagna cristiana di Morea, cadranno
nelle mani della Lega prenderanno anche Castenuovo e, dopo 47 giorni d’assedio, Corone;
nell’estate del 1686 cadranno anche Navarino, Modone, Napoli di Romania, alla fine di settembre
440

dell’anno successivo sarà la volta di Castel Nuovo di Cattaro, nel giugno del 1690 di Malvasia,
ultima fortezza turca della Morea, e nel settembre del 1694 dell’isola di Chio; infine nel 1696 i
veneto-pontifici sconfiggeranno ad Andros l’armata marittima ottomana allora comandata dal turco
Hadji Hussein detto ‘Hassan Mezzomorto’, così soprannominato dai cristiani perché si diceva che
fosse sopravvissuto a un lungo coma traumatico – ma più probabilmente ciò avvenne, come nel
caso già ricordato di ‘Alì Mazzamamma’, per traslazione da similitudine con il suo vero nome. Tutto
ciò ci serve a dimostrare come dopo Lepanto la Lega cristiana, anche se non più dotata
dell’apporto asburgico, saprà, almeno per mare, contrastare con successo lo strapotere ottomano.
Chiaramente la minaccia marittima turca, anche se non più con il successo del secolo precedente,
continuerà e infatti le forze marittime del Gran Turco non solo saranno sempre determinanti nel
suddetto progressivo acquisto di Candia, ma minacceranno anche Messina, e nel febbraio del
1695, ancora sotto il comando del predetto ‘Hassan Mezzomorto’, scampato con la fuga dalla
sconfitta di Andros, batteranno sonoramente l’armata veneziana di Antonio Zeno, dopo averla già
combattuta l’anno precedente nelle acque di Smirne unitamente alla squadra pontificia d’Anton
Domenico Bussi e alla maltese del conte Sigismondo di Thurn, e riprenderanno definitivamente
Chio alla Serenissima, tanto che lo Zeno verrà processato e l’anno successivo sarà sostituito da
Alessandro da Molin; infine nel 1715 i veneziani riperderanno ancora la Morea e questa volta
anch’essa per sempre. Anche i corsari barbareschi diventeranno nel Seicento un po’ meno temibili
e, come abbiamo già ricordato, il 3 maggio del 1657 una squadra veneziana guidata da Lazzaro
Mocenigo sconfiggerà nel canale di Chio quell’algerina comandata dall’olandese rinnegato
Mehemet Rais, il quale vi resterà ucciso e dei suoi 15 vascelli solo 6 riusciranno a fuggire.
Insomma, se non ci fosse stata Lepanto, quel potentissimo impero sarebbe sicuramente riuscito a
superare le sue maggiori difficoltà d’allora e cioè quelle che riguardavano il reclutamento remiero;
ma leggiamo ancora il Bernardo:

Di gente di terra ferma, come noi soliamo dire, il Gran Signore poteria armare quante galee gli
piacesse per la grandezza del suo imperio, ma in fatti sono genti assai inferiori di bontà, manco
atte e peggio trattate delle nostre. Ogn’anno, nel mese di novembre, è solita quella Maestà mandar
fuora un suo comandamento per il qual sono obligati tutti li sudditi provvedere quel numero di
galeotti che comanda il Gran Signore; e viene caricata questa gravezza in ragione di un galeotto
sopra ogni quindici o venti case e più e manco, come ricerca il maggiore o minor numero de'
galeotti che comanda Sua Maestà; e, quando il galeotto a cui tocca non voglia andare a servire, è
obligato a pagar un tanto; il qual pagamento, quando non si ha intenzione di mandar fuora armata,
entra in borsa del Gran Signore, il quale, avendo introdotta questa gravezza per ordinaria, ogni
anno ne cava zecchini trecentomila, oltra più d'altrettanto denaro che viene maneggiato con questa
occasione di assolver quello e condannar quell'altro dalli ministri che vanno fuora e dalli 'cadì'
(‘giudici’) ai quali è commessa questa esecuzione. (Ib. S. III, v. II, p. 338-339.)
441

Maraiuoli eccettuati, in generale i turchi preferivano servirsi il meno possibile delle buonevoglie
cristiane provenienti dai loro possedimenti europei e preferivano intascarne il corrispettivo fiscale,
come spiegava il bailo Matteo Zanne nel 1594 laddove scriveva dei paesi cristiani soggetti a
Costantinopoli:

... Il re ne trae poi beneficio particolare nel 'carazo' (principale imposta turca) di un tanto per testa,
poi nell' 'avarìs' de' galeotti che è fatta gravezza ordinaria convertita quasi sempre in danari,
perché non si fidano de' christiani se non sono alla catena; con tutto ciò in occasione d'armate
grosse si valgono al remo di christiani in libertà - il che avviene però di rado - e questo mostra che
non è empietà levare al nemico in tempo di guerra i sudditi christiani perché si viene a privarlo di
molte commodità. (Ib. S. III, v. III, Pp. 387-388.)

Anche il diradarsi dell'uso delle buonevoglie cristiane dimostra il declino dell'iniziativa bellica
marittima turca; però lo Zanne, a differenza di qualche suo predecessore che abbiamo già letto,
afferma nella predetta relazione che, se c'era qualcosa di cui l'armata ottomana continuava a
disporre in abbondanza, ciò era proprio la gente da remo, vista la vastità di quell'impero. Infatti
ancora al suo tempo si continuava a esigere il servizio d’un remigante ogni 20 case o fuochi che
dir si voglia e, in caso di maggior necessità, ogni 10, avvenendo sempre questo in persona o in
quel corrispettivo di danaro detto, come sappiamo, avarìs, termine che trovò un suo corrispettivo
nell'italiano avaria o avania usato infatti nel senso d’angaria. Un censimento delle case soggette ad
avarìs, il quale si rese necessario appunto in quegli anni per rimediare a molti disordini che
avevano preso piede in quella materia, dette 478.000 fuochi in Anatolia e 358.000 in Grecia, il che
rendeva quindi, riscotendosi però tutta quest'imposta in danari, 70 milioni d’aspri, corrispondenti a
350.000 zecchini veneziani, essendo ora, per difetto, uno zecchino equivalente a 200 aspri, uno
scudo veneziano a 100 aspri, una lira veneziana a 12 aspri e un soldo veneziano 0,6 aspri. Per
quanto riguarda poi i paesi dell'impero più lontani dei due predetti, questa gravezza era ora sempre
pecuniaria e ciò sia perché i turchi avevano ormai capito che il trasferimento a piedi dei galeotti da
quelle lontane regioni ne lasciavano in vita ben pochi e sia perché i popoli mediorientali erano
risultati generalmente inadeguati alla fatica del remo.
Restava sempre causa di perdita di molta ciurma l'uso turco di licenziare i remiganti sopravvissuti
alla fine d’ogni stagione estiva, perché questi, per non ripetere l'amara esperienza, non si facevano
poi più ritrovare e bisognava arruolare quindi ogni anno sempre molti novizi in più di quanto
sarebbe stato necessario; d'altra parte l'arruolamento di maraiuoli si era molto ridotto per i suddetti
provvedimenti presi dal senato veneziano, circostanza che lo Zanne qui conferma:

... L'armar che si soleva de' marioli non è dimesso affatto, ma non se ne ha numero considerabile e
il disarmare ogni anno è consumo e perdita di molta gente, ma risparmio di armezzi (‘armeggi’). Il
442

Capitano (Generale) vorrebbe introdurre di decimar (‘prender uno ogni 10’) li 'peremezini' turchi,
che sono li barcajuoli di Costantinopoli, per mescolarli con le ciurme greche di terraferma che
dicono 'zacali' e noi 'falileli'. (Ib. P. 402.)

L'alternarsi nelle relazioni delle due dizioni maraiuoli e mariuoli può significare che la prima
significa non altro che ‘gente di mare’, mentre la seconda sarebbe contaminazione con l'omonimo
termine proto-italiano - e oggi napoletano - che significa 'ladri'; in effetti la tradizionale propensione
al furto marittimo degli isolani greci sarà ben viva ancora nel Settecento, quando i marinai francesi
definiranno l'arcipelago greco forêt de larrons; per quanto riguarda poi il nome veneziano falilelo (o
falila, come in Vecellio), a Genova acquisito come balila e poi corr. in balilla, ci viene dal greco
φαλῶν ἴλᾱ (‘ciurma dei pelati’), cioè dai tempi della dominazione bizantina delle Venezie, per
portar infatti i remiganti di galera volontari, ossia i buonavoglia, il capo del tutto rasato eccetto i
mustacchi, come già sappiamo.
Anche molto diminuiti erano, come pure sappiamo, gli schiavi cristiani e le ciurme costituite da quei
disgraziati incatenati erano sempre le migliori, cioè quelle da cui a nerbate si ottenevano tutte le
prestazioni che si volevano:

... Il medesimo (mancamento) avviene degli schiavi, che è (sono) il fondamento delle ciurme,
essendo quelli del re atti a servire al remo ridotti al numero di 4.500 e non più, perché non si fanno
schiavi se non christiani, né tutti i christiani s’impiegano nell'armata, come (per esempio) gli
ungheri, i rossi (‘ucraino-cosacchi’) e simili, che non sono nati a questo; onde gli schiavi sono pochi
rispetto al numero che soleva, non essendosi fatte prede generali in terra da molto tempo, ma
solamente di vascelli particolari; e la Barbaria sola ne somministra all'armata, avendone copia,
massime di francesi presi sotto pretesto che seguissero la parte di Navarra; questi sono oltre il
bisogno di trenta galeotte di corso che può armare e altrettante fregate...
Li tartari del Caffa (‘Crimea’) provvedono anch'essi Costantinopoli di gran numero di schiavi che
rubano in Polonia, in Moscovia e in Rossia (‘Ucraina’), però questi non valgono per armata, ma
solamente per le case private, che, tanto d'uomini quanto di donne, non si servono di gente
pagata, ma di schiavi, che riescono cari (‘graditi’) a maraviglia...
Le galee delle guardie ordinarie, che sono circa trenta ripartite a diverse custodie, sono armate di
schiavi, la maggior parte di particolari, e queste nell'armata tengono il primo luogo dopo le
barbaresche. (Ib. Pp. 403-404.)

Talvolta a livello diplomatico si concordava uno scambio tra schiavi maomettani e cristiani, ma,
a giudicare da un altro passo della predetta relazione, sembrerebbe che gli ottomani fossero più
interessati a recuperare i loro sudditi di quanto lo fossero i veneziani a riprendersi i loro; ecco infatti
che cosa scriveva questo bailo trattando del rinnegato messinese Filippo Cicala, allora capitano
generale dell'armata di mare turca:

... Il Cicala si è tolto (‘prefisso’) in certo modo per impresa di voler negoziare con Vostra Serenità il
concambio (‘lo scambio’) generale degli schiavi, al che io credo che Essa (‘Ella’) non vorrà
443

attendere, perché, quando la trattazione andasse innanzi, esso pretendaria che la Serenità Vostra
gli mantenesse la parola, se bene egli in conto alcuno non la compirà, oltre che per altri rispetti è
da considerar se convenisse farlo; onde, per ostare a questa istanza, saria bene che non stessero
schiavi turchi sulle galee della guardia di Candia per la facilità che hanno di far sapere di loro a
Costantinopoli mediante la frequenza de' caramussali (mercantili turchi), ma che si riducessero
sulle galee che navigano in Dalmazia. (Ib. P. 429.)

Per chiudere finalmente l’argomento dei remieri di galera, vogliamo citare un passo di Samuel
Sharp, viaggiatore inglese del Settecento che fu a Napoli nell'anno 1765, perché si tratta d'acute
osservazioni applicabili perfettamente anche alla realtà dei secoli precedenti; pare dunque che,
tutto sommato, la vita dei galeotti che svernavano nella darsena napoletana non fosse poi così
male:

... duemila galeotti sono sui vascelli nella darsena. Costoro, incatenati come li si vede, a due a
due, lasciano supporre che debbano molto soffrire, buttati lì sul ponte, ma vi assicuro che la loro
condizione è preferibile a quella di molti poveri che si sdraiano stanchi nella strada. I galeotti
ricevono una certa quantità di pane dal Re, qualche volta anche un vestito, e sono sino ad un certo
punto esenti dal lavoro, ciò che soprattutto rende la vita di un povero napoletano addirittura felice.
si occupano principalmente, a bordo dei vascelli, del loro benessere e, quasi potrei dire, a
procurarsi delle comodità. Se il galeotto è un sarto od un calzolaio od uno che abbia fatto in libertà
qualche altro mestiere, costui si guadagna sempre qualche soldo e ne serba pur sempre un
mucchietto per fornirsi di qualcosa che specialmente desideri. Come ho già detto, è il governo che
pensa a provvederli del necessario e talora anche del superfluo.
Le navi sono poco distanti dalla mia casa. Mi diverto talvolta a meditare sulla vita e il costume di
questa gente. I napoletani non sono in verità un popolo allegro e spensierato, ma i galeotti non
sembrano null'affatto più malinconici degli altri; un uomo che li abbia studiati quanto me non
direbbe mai più, quando volesse fare un pietoso paragone: 'è infelice come un condannato alle
galere'. Ho notato persino, a bordo d'uno di quei vascelli, un suonatore che li divertiva con musica
vocale e strumentale; supposi lì per lì che fosse uno di loro stessi, ma poi seppi invece ch'era un
povero diavolo ch'essi pagavano quando si sentivano disposti a stare allegri; e penso ancora che
questo sciagurato dove trattar da buoni padroni quelli che noi chiamiamo mascalzoni. Ora, se un
popolo così flemmatico e serio come l'italiano trova tanto da divertirsi a bordo di un vascello di
galeotti, che diamine mai farebbero gli allegri francesi sopra vascelli somiglianti a Marsiglia? In un
modo o nell'altro ecco certamente della gente più gaia e felice de' nostri concittadini? Ma, dico, non
potrebbero invece adoperar questi cialtroni a migliorare le malagevoli strade di questo regno con
grande onore e grande profitto della nazione e con poca spesa? Ahimè, ve l'ho già detto: qui il
governo è pessimo... (Samuel Sharp, Letters from Italy etc. Pp. 128 e segg. Londra, 1767.)
444

Capitolo VI.

LA GENTE DI CAPO.

Poiché nell'antico gergo marittimo, la prua dei vascelli, specie della galera, si chiamava capo (sp.
cabo; fr. cap. 239), trovandosi infatti nella stessa posizione della testa d'un animale, di
conseguenza per gente di capo - gente de cabo in spagnolo - s’intendeva la marinaresca (gr.
ναυτιϰόν), cioè l'insieme dei marinai e delle maestranze di bordo, la quale infatti alloggiava a prua,
luogo dove in parte anche lavorava, e si distingueva quindi dalla gente di poppa, ossia dagli
ufficiali maggiori della galera, i quali invece vivevano quasi tutti a poppa; tale locuzione ha quindi
molta relazione con quelle ‘capo di corda’, ‘capo di fune’, ‘capo di spago’, dove il termine ‘capo’ sta
appunto per ‘pezzo apicale’ del rotolo, non avendo quindi nulla a che fare con il termine capo quale
sincope tachigrafica di canapo né con quello di cavo, sincope questa del veneziano canevo. La
suddetta distinzione era importante in quanto le due comunità di bordo non dovevano affatto
confondersi, concetto che per esempio l’Aubin, a proposito dei grandi velieri, ancora esprimerà
così traducendo la sua fonte olandese:

È (proprio) della gravità degli ufficiali generali e anche dei capitani il tenersi dietro l’albero di
maestra; sarebbe uno sminuirsi il tenersi (invece) davanti l’albero e tra l’equipaggio. (Cit.)

Ecco un esempio veneziano di come la prua fosse chiamata capo; si tratta di una relazione inviata
a Venezia il 30 dicembre 1528 dal provveditore veneziano dell’isola di Zante, Giovan Francesco
Badoero, in cui, tra l’altro, si spiegava che in quel porto si sentiva la necessità di un molo regolare,
cioè più alto e più lungo di quello allora molto limitato che c’era, e ciò sia per per permettere
l’attracco di un numero maggiore di galee sottili sia perché anche le galeee grosse di mercato che
andavano in Levante potessero fermarsi a Zante a mettere scala a terra, cosa ora molto scomoda
e problematica perché si trattava di vascelli alti di capo, cioè appunto di prua:

… tegno etiam che le galie grosse nel andar in Levante facilmente potria metter schala in terra,
perché in capo de le galie sono piè(di) N.º 10 (e) 1/2 e piu’ (C.N. Sathas, Cit. P. 257).

In effetti nei grandi vascelli tondi il padrone - capitano nel caso di vascello armato - pur esercitando
il comando supremo, attendeva anche alla supervisione della manovra dell’albero di maestra e di
quello di mezzana, lasciando soprattutto al nostromo la cura del trinchetto, del bompresso e
dell’uso d’ancore e gomene, e ciò per evidenti motivi di una conveniente spartizione dei compiti.
Per ciò che concerne le galere invece egli, detto allora patrone, ne era stato il comandante (gr.
445

τριήραρχος, τριηράρχης) nel Medioevo-Rinascimento, ma ciò però per le sole triremi, infatti il
comandante delle normali biremi, il còmito (lt. rector), anche se era aiutato dal vice-còmito, non
avrebbe potuto controllare da solo un vascello tanto più grande e numeroso d’uomini; ora invece,
dalla fine del Rinascimento, nei vascelli armati in generale e quindi soprattutto nelle galere, il
padrone era stato ridotto a comandante in seconda, essendo subentrato nel comando in prima il
capitano militare.
A quanto detto faceva eccezione l’evoluzione storica delle galere catalane, grosse triremi che,
come anche quelle bizantine, erano quelle che materialmente più avevano conservato delle
pesanti triere dell’antica Roma; a norma infatti della già citata ordinanza del re Pedro IV di Aragona
e Catalogna promulgata nel 1354, si affidava ora la responsabilità della loro navigazione
direttamente al còmito, mentre al padrone (lem/ctm. patró) era lasciato il comando dei soli aspetti
militari e delle azioni di guerra. Se però si accorgeva che il còmito stava commettendo qualche
errore, poteva e doveva riprenderlo. In effetti questa sostanziale autonomia del còmito nel
comando della navigazione non era una novità, anzi, come poi meglio vedremo, era addirittura
quanto gli restava dal comando totale della galera che aveva avuto in precedenza, cioè fino
appunto a quel Basso Medioevo, quando si era considerato che troppi erano così i compiti che gli
erano stati assegnati e che bisognava liberarlo dalla parte militare e politica della conduzione del
vascello; da parte sua il padrone, fino ad allora solo responsabile amministrativo, acquisiva dunque
a bordo il massimo potere, salvo poi, come vedremo, a dover tornare dopo qualche secolo, cioè
nel tardo Rinascimento, alle sole sue antiche mansioni amministrative e a lasciare il comando in
capo a un nuova presenza di bordo e cioè al capitano militare (in vn. sovraccomito), personaggio
in genere di nobili origini. Nella marineria remiera aragono-catalana questo cambiamento si
istituzionalizzò con la già più volte ricordata ordinanza del 1354:

… sia ordinato che ciascuna galea che s’armerà nella signoria del Signor Re debba avere un
patrone alla testa dei balestrieri, cosicché la poppa sia meglio guardata in caso di combattimento e
che sia più temuta [sia ordonat, que tota galéa que s'armará en la Senyoria del Senyor Rey haia
haver un patró si terç de (‘hi tambè dos’) companyons, per ço que la popa sia mils guardada en
cas de batalla, è que sia mils temut. Cit. P. 94].

Premesso che i companyons del patrone non dovevano effettivamente essere più di due scudieri
balestrieri, come spiega un’altra ordinanza aragono-catalana contemporanea:

… deve portare a sue spese due scudieri abili e idonei, ognuno con balestra, crocco (da balestra)
e corazza guarnita, e duecento verrettoni, di cui cento da prova e 100 di magazzino [deu metre à
sa messió dos escuders abtes è suficients ab sengles ballestes è crochs è cuyraces fornides è cc
viratons, c de prova è c de matzém… (ib, P. 97.)]
446

Riteniamo qui utile spiegare in dettaglio quest’ultima interessantissima citazione, in cui infatti
vediamo che i predetti scudieri, a differenza di quelli di terra, dovevano essere armati di balestra,
perché infatti a bordo di un vascello, perlopiù angusto come erano appunto le galee, non si poteva
in combattimento far praticamente nulla al di là di lanciare verruti e verrettoni verso il nemico in
attesa di riuscire ad abbordarlo. Le balestre erano di tipo più antico e quindi da tendere
faticosamente a crocco e non invece agevolmente a martinetto, come vedremo nel secolo
successivo; dei dardi da lanciare con quelle, cioè dei verrettoni, almeno cento dovevano essere da
prova, ossia particolarmente forti e perforanti, in modo da poter eventualmente forrare anche le
corazze a prova appunto di balestra, ossia quelle fatte di doppio strato di ferro, magari acciarato,
mentre gli altri cento potevano essere normali verrettoni di munizione, cioè di ordinaria fornitura da
magazzino militare.
Cercheremo comunque di spiegare più chiaramente tutta la suddetta complessa evoluzione più
avanti in uno schema riassuntivo.
Che cosa doveva dunque principalmente fare il padrone una volta preso possesso di una galera?
Premesso che il suo posto di combattimento era alla poppa della galera a meno che eventi
imprevedibili non lo richiamassero altrove, doveva innanzitutto passare in rivista i balestrieri della
guarnizione militare di bordo, controllando che disponessero di buone balestre, buone corde di
balestra, buoni verrettoni e altre buone armi bianche; questo perché, anche se le armi da fuoco era
già nate, non si erano ancora adottate quelle per il singolo fante e cioè spingarde e scoppietti. In
battaglia doveva indicare loro porsi e raccomandar loro di non sprecare dardi tirandone invano;
inoltre doveva indicare al còmito e al timoniero il luogo del vascello nemico in cui andare a urtarlo
(cit. P. 79). A maggior chiarimento, faremo comunque poi seguire uno schema esemplificativo di
queste trasformazioni.
Già nella prima metà del Cinquecento la predetta etimologia si era però in Italia dimenticata e si
pensava che gente di capo significasse gente di comando, errore introdotto dagli spagnoli che
avevano cominciato a chiamar gente de cabo anche quella di poppa, ma dell'illogicità di tale
corruzione - e infatti i marinai non comandavano, ma erano comandati - si rendeva già conto a
quel tempo lo stesso da Canal:

... Questi da naviganti sono detti huomini da comando e da noi altri con più polito vocabulo
marinari chiamati, né giudico cosa di molta importanza che più d'una che si altra nazione si
prendano, percioché ho conosciuto per longa prova che così de' nostri viniziani come de' greci, de'
schiavoni, de' corsi e de' genovesi molti a tal offizio riescano eccellenti, che habbiano maggior
contezza e più piena esperienza dell'arte marinaresca... (Cit. P. 117.)
447

In Francia invece il significato marittimo di capo era rimasto ben chiaro e lo sarà ancora per molto
tempo, come si può vedere dal vocabolario di anonimo del 1681:

Cap, C’est une pointe de terre ou rocher avancé en mer, l’epron ou devant d’un vaisseau se
nomme aussi ‘cap’. (Termes desquels on use sur mer dans le parler avec les pièces et parties d’un
vaisseau et des manoeuvres etc. Le Havre (de Grace), 1681.)

La predetta errata denominazione prenderà sempre più piede, tanto che nei ruoli degli equipaggi di
galera che si rinvengono sovente tra i documenti marittimi del Seicento gli ufficiali veramente di
comando non sono più detti gente di poppa, ma vengono accomunati ai semplici marinai (sp.
marineros rasos) appunto sotto la voce gente di capo. In questo capitolo parleremo dunque della
sola gente di prua, quindi dei marinai e di quelle maestranze impiegate sulla galera sotto il nome di
bassi ufficiali.
L'aguzzino (dall'ispano-moresco alguacil, attraverso il proto-italiano algozino), era un personaggio
che i veneziani chiamavano invece con un eufemismo compagno di stendardo, come c’informa il
Sereno, epiteto forse nato da consuetudine d’eleggere a quel carico un compagno, ossia uno dei
marinai di guardia ai remiganti, della galera Capitana o Reale, l’unica che portava infatti stendardo
(fr. vaisseaux pavillon, pavillons), ossia il vessillo con i colori dello stato o regno a cui la squadra o
l’armata apparteneva, eccezion fatta agli stendardi coniati per imprese particolari, come per
esempio quello conferito all’armata della Santa Lega di Lepanto; egli era l'ufficiale a cui toccava la
responsabilità della custodia della ciurma ed era in ciò aiutato da due mozzi fissi. Doveva
soprattutto sorvegliare i galeotti affinché non fuggissero né da bordo né quando erano mandati a
lavorare a terra sotto scorta armata; doveva pertanto ogni sera rivedere catene e maniglie dei
remiganti per far eventualmente sostituire quelle che non fossero più affidabili e doveva poi
mettere le controcatene ai condannati a vita e a tutti gli altri dei quali si sospettassero propositi di
fuga; doveva accertarsi che fossero ben compartite le guardie notturne dei marinai e che al suono
dell'Ave Maria, cioè all'imbrunire, venissero accesi sotto la tenda gli ampioni e le lanterne di
coperta affinché la ciurma restasse visibile tutta la notte; almeno due volte il mese doveva far la
cerca, ossia ispezionare diligentemente tutta la roba della ciurma per vedere se qualcuno vi
nascondesse lime o altri strumenti atti a liberarsi segretamente dalle catene per poi fuggire. Il da
Canal scriveva che, nella marineria veneziana, l'aguzzino, accettando il suo posto, prometteva per
pubblica scrittura e dava garanzia di risarcire con 25 scudi la repubblica per ogni vogatore
incatenato che fosse fuggito; una simile ammenda era anche prevista in tutte le squadre di galere
ponentine. Secondo poi Jean-Jacques Bouchard, il già citato viaggiatore, sulle galere francesi del
1630, quando cioè ne era generale il pari di Francia Pierre de Gondy, duca di Rets e conte di
Joigny (1626-1635), uno dei due mozzi dell'aguzzino aveva il titolo di sotto-aguzzino e doveva
448

ispezionare i ferri dei forzati tre volte per notte; ma come potevano allora dormire quei disgraziati?
Il secondo mozzo aveva invece il compito di ferrarli e sferrarli.
L'insieme delle catene conficcato in un singolo banco per incatenarvi i galeotti si chiamava branco
(vn. branca); a queste catene si univano i ceppi messi ai piedi dei galeotti e che, nonostante la loro
collocazione, erano detti maniglie (vn. gambetti; sp. calcetas; lt. cupi, compedes, pedicae, vincula,
custodes pedum, nervi, corrigiae, boiae; gr. ξυλοπέδαι, ποδοϰάϰ(ϰ)αι, ποδοφῠλᾰϰαί poi
ποδοφύλαϰαι); catena e maniglia erano trattenuti insieme da un altro ferro detto perno e da un
cuneo di ferro detto chiavetta (fr. goupille; ol. spie, speil), il quale si conficcava a forza battendolo
sopra un’incudine con un martello detto mazzetta; tale chiavetta si poteva poi togliere con uno
scalpello detto buttafuori e sempre però con l'ausilio dell'incudine e della mazzetta. Il lavoro di
ferrare e sferrare i galeotti era materialmente eseguito, come già accennato, non tanto
dall'aguzzino quanto dai suoi due predetti mozzi. A Venezia per branca s’intendeva non solo il
predetto insieme di catene d'ogni banco, ma per estensione anche l'insieme dei galeotti d'uno
stesso banco, incatenati quindi da una stessa branca di catene, e per numero di branche d'una
galera si voleva quindi dire il numero dei banchi per ciascun lato; infatti nell'anonima relazione, da
noi già ricordata, del viaggio compiuto a Costantinopoli dall'ambasciatore veneziano Jacopo
Soranzo nel 1581, in occasione cioè delle feste indette per la circoncisione del giovanetto
Mehmed, figlio del sultano Amurat III, così si legge:

... Per portare dunque Sua Signoria Illustrissima, insieme con la compagnia e famiglia (‘servitù’)
sua alla volta di Costantinopoli, furono comandate dalla Serenissima Signoria di Venezia due
galere di ventotto branche di ciurma buonissima e quaranta soldati per ciascheduna, che furono
quella del clarissimo Giovanni Pesaro, dove montò la persona dell'illustrissimo signor
ambasciatore con parte de' sopradetti gentiluomini, e quella del clarissimo Lorenzo Priuli, dove
ebbero luogo gli altri, dividendosi poi con egual porzione la famiglia e robe. (E. Albéri. Cit. S. III, v.
II, p. 212.)

Doveva poi l'aguzzino occuparsi di far radere spesso la ciurma sia per igiene, in quanto quei poveri
sventurati erano tormentati anche dai parassiti, sia per estetica sia per contrassegno, come
abbiamo già visto a proposito delle diverse categorie di remieri; doveva sorvegliarla maggiormente
quando s’adibiva a caricare provviste sulla galera, doveva andare a guidare personalmente il
branco, ossia il gruppo dei galeotti che erano mandati a lavorare a terra, li accoppiava a due a due
con una catena ai piedi; questi branchi, condotti appunto dall'aguzzino e tenuti sotto buona scorta
di compagni armati, erano portati ad attendere a vari servizi di rifornimento della galera, quali far
l‘acquata (fr. faire aiguade), vale a dire la provvista d'acqua, far raccolta di legna e brusca per il
calafataggio e il carenamento, operazioni queste alle quali poi torneremo, ma solo per quanto
riguarda le implicazioni concernenti la guerra; a chi comunque volesse saperne in dettaglio,
449

consigliamo la lettura della da noi già più volte citata Breve instruzione appartenente al capitano de
vasselli quadri del capitano toscano di lungo corso Alessandro Falconi, Pp. 9-12. Firenze, 1612. I
suddetti branchi di galeotti si mandavano però a terra ad eseguire anche altri lavori pesanti, per
esempio la costruzione d'opere pubbliche e la spalatura della terra che faceva da bersaglio degli
scolari della locale scuola d'artiglieria, oppure a caricare o scaricare altri vascelli in porto, cosa
molto comune nei porti in cui svernavano le galere e dove i remiganti facevano quindi le veci di
facchini (da ‘sacco’, quindi in realtà sacchini; lt. sarcinatores) o bastagi portuali [gn. camalli; fr.
tanqueurs, gaba(r)riers; ol. tsjuuwers] e persino a eseguire lavori alle residenze private di nobili e
personaggi, i quali facevano poi per questo adeguati regali ai capitani e agli altri ufficiali delle
galere. Poiché le merci erano generalmente caricate appunto da lavoratori portuali, ma scaricate
perlopiù dagli stessi marinai o remiganti, era molto importante che tutti gli addetti a questo gravoso
compito collaborassero con lo stesso impegno e pertanto, nella marineria francese, quando tra
compagni non si era a tal proposito soddisfatti gli uni degli altri, si fermava temporaneamente il
lavoro e si dava luogo a una specie di processo detto de l’action de guindage, ossia ‘sul tema del
lavoro di sollevamento’. Quando poi ci si trovava in porto o alla fonda su costa amica bisognava,
come abbiamo già detto, mandare a lavorare a terra gli schiavi, perché i forzati avrebbero
chiaramente tentato di fuggire e di tornare ai loro paesi natii; il contrario bisognava fare quando si
sbarcavano branchi per approvvigionarsi in terra nemica o in isole deserte, cioè si evitava di
mandarvi gli schiavi perché anch'essi nemici, quindi pronti ad approfittare dell’occasione per
tentare la fuga, e si dovevano mandare quindi invece in tal caso a lavorarvi i forzati, non però quelli
condannati a vita e disposti a correre pertanto qualsiasi rischio fuggendo anche in paese ostile, e
inoltre le buonevoglie o al limite anche marinai e soldati.
Nel 1579 alcune galere turco-barbaresche sbarcarono circa 300 uomini nei pressi d’Ostia per far
provvista d'acqua e contro di loro fu subito inviata una spedizione militare pontificia comandata da
Paolo Giordano Orsino, la quale, benché contasse ben 500 uomini e comprendesse una banda di
cavalli e fanti mercenari tedeschi, non riuscì a scacciare i corsari; questi infatti si difesero
benissimo, coperti anche da un nutritissimo fuoco d'archibugeria che proveniva dalle loro galere, e
non tornarono a bordo se non quando ebbero finito d'approvvigionarsi d'acqua.
L'aguzzino era una delle sole quattro persone di bordo autorizzate a fustigare (it. rizzar a banco;
sp. arrizar) la ciurma, essendo le altre tre il capitano, il còmito e il sotto-còmito; raramente egli era
uomo onesto e pietoso:

... Sia rigoroso e lontano da ogni interesse, che suole esser causa della fuga di molti di loro (‘dei
galeotti’) e delli strazij che fanno gli scelerati aguzini di quelli che sono in concetto di haver denari,
battendoli e facendoli lavorar più de gli altri, con aggravarli di contracatene senza causa e
travagliarli con altri modi crudeli per cavarne alcuna cosa. (P. Pantera. Cit. P. 124.)
450

Anche all'aguzzino toccava far imprigionare i colpevoli di qualche delitto e, occorrendo, far
eseguire le sentenze criminali; doveva inoltre ispezionare spesso i barili dell'acqua potabile per
controllare che non si guastasse, il che avveniva facilmente, come tra l’altro racconta il Brasca del
suo viaggio marino verso la Terrasanta:

… E fu proprio nel tempo ch’el mare ne acolse in bonaza, senza vento alcuno, e con tanto calore
che non si poteva stare, per modo che l’aqua devenete marza, puzolenta e con li vermi dentro,
talmente ch’el ne convenete fare la panata di quela aqua (‘usarla per panificare’, invece di berla) e
similmente l’aqua cocta (‘l’acqua calda per cucinare’). Pensati como doveamo stare, che certo fu
miraculo e non rasone che ne campò (‘che ne scampammo’). (A. LT. Momigliano Lepschy. Cit.)

Sorvegliava inoltre l’aguzzino che non si prendesse più d'un barile d'acqua per banco alla volta o,
dove l'acqua era invece tenuta nelle botti, non più d'una botte per tutti alla volta, assegnandone ai
remiganti maggiore o minore razione giornaliera a seconda della lunghezza della navigazione che
si dovesse fare quel giorno. Quando d'acqua ce n’era poca, non se ne permetteva l'uso a bordo se
non per bere e per gli ammalati, tanto più che la scorta di questo tanto prezioso elemento era
molto importante anche ai fini bellici, essendosi talvolta dovuto rinunziare a una buon’occasione di
dar battaglia per mancanza d’acqua da bere; fondamentale era poi una grossa provvista d’acqua
per chi praticava la guerra di corso, perché un vascello corsaro correva i maggiori pericoli d’essere
catturato proprio quando era costretto a toccare terra in paesi ostili oppure nelle isole disabitate, in
quanto nelle cale di queste ultime usavano mettersi in agguato squadriglie nemiche:

… il terreno deve esser il maggior inemico che habbi il corsale… (P. Pantera. Cit.)

Gli ufficiali potevano farsi refrigerare brocche d’acqua potabile con il metodo di far ruotare le stesse
immerse in una soluzione d’acqua e salnitro, sistema spiegato a stampa per la prima volta nel
1550 dal medico spagnolo Blas Villafranca (Methodus refrigerandi ex vocato salenitro vinum,
aquamque ac potus quodvis aliud genus etc. Roma, 1550), e ciò perché naturalmente,
navigandosi d’estate, non sempre la galera era investita da venti freschi ai quali poter esporre
dette brocche, né c’era ovviamente a bordo la possibilità di refrigerarla con altri sistemi usati a
terra e cioè coprendola di neve o immagazzinandola in profondi pozzi; secondo il mineralogista
Giacinto Gimma questo metodo era stato trovato proprio da semplici galeotti, i quali però sembra
che lo usassero generalmente in maniera troppo semplificata e impropria, perlomeno a giudicare
dalle sue parole:

… Il rinfrescare col salnitro inventato da’ marinari delle galere, privi di pozzi, di neve e di aria fresca
in tempo di calma, non è lodato, perché apporta sete continua, fa febbri aride, infiamma il polmone,
toglie l’appetito e cagiona molti mali; e teme il Santorello che la cattiva qualità del salnitro non si
451

comunichi colla bevanda… (Giacinto Gimma, Della storia naturale delle gemme, delle pietre e di
tutti i minerali etc. Tomo II, p. 450. Napoli, 1730.)

Per la cronaca, il Santorello citato era il nolano Antonio Santorelli, primo lettore (‘ordinario di
cattedra’) di medicina e filosofia (‘scienze naturali’) nella scola (’università degli studi’) di Napoli e
poi protomedico del Regno (1583-1653). Che il metodo fosse secolare, quindi molto probabilmente
davvero inventato dalla pratica marittima, e inoltre non per tutti, ma riservato a bordo ai soli
personaggi di qualità (di paraggio, come allora si diceva), è dimostrato da una delle registrazioni
d’archivio fiandresi del Cinquecento citate dal Finot e si tratta dell’ordine di fornire salnitro alla nave
dell’imperatore Carlo V, il quale appena il mese successivo abdicato a favore del fratello
Ferdinando I:

(4 agosto 1556:) … - idem, au porteur dudit mandement 400 livres de salpėtre pour le mettre
dans le navire de l’Empereur pour «rafreschir ses buivraiges (‘beuvrage, breuvage’)» (Jules
Finot, Inventaire sommaire des Archives Départementales antérieures a 1790 etc. Tomo VIII. Lille,
1895.)

Per tutti i suddetti servizi l'aguzzino aveva sotto di sé i marinai che di volta in volta si trovavano di
guardia, oltre ai due predetti mozzi fissi, dei quali uno era tra l'altro addetto a picchiare la ciurma
per suo conto con un cordino che era detto scandaglio, forse perché lasciava profondi segni nella
pelle; invece il pezzo di corda che nella marineria da guerra oceanica il prevosto adoperava allo
stesso scopo si diceva in fr. dague e in ol. dag(ge). Il posto dell’aguzzino era al di sopra del banco
che era detto dello scandolaro, perché si trovava all'incirca in corrispondenza di quel locale, e dove
conservava tutti i suoi ferri, catene e maniglie; da quella posizione l'aguzzino aveva sott'occhio
tutta la ciurma. Gli strumenti per far lavorare a terra i galeotti, ossia zappe, pale, picconi e accette,
erano invece tenuti nella compagna, camera che, in quanto principalmente adibita a dispensa, era
ben sorvegliata. In combattimento doveva stare nella camera di poppa e nello scandolaro per
esser pronto a tappare eventuali falle che il nemico procurasse alla galera e per esser pronto a
questo doveva tenere a disposizione molti sacchi e cappotti per un intervento provvisorio che
durasse sino alla fine della battaglia. Premesso che tutti gli emolumenti corrisposti nelle squadre di
galere ponentine che da ora in avanti riporteremo sono, se in scudi pontifici, tratti dal Pantera, il
quale, come sappiamo, scriveva nei primi anni del Seicento, e, se in ducati napoletani, da registri
d’archivio del 1594 citati dal Mantelli (R. Mantelli. Cit.), diremo appunto che l’algozino prendeva 3
scudi il mese sulle galere pontificie - ducati 34 e grana 44 l‘anno su quelle napoletane - e due
razioni il giorno (lt. duplicarii); nelle galere di Francia dormiva nello scandolaro, dove pertanto
sorvegliava anche le armi di bordo che in tale camera erano tenute.
452

I timonieri della galera erano otto marinai ai quali si affidava il maneggio del timone o governaglio;
essi obbedivano ai comandi del piloto o del consigliero, e poi del capitano e del còmito, i più
consueti dei quali erano Alla via! (‘Tieni dritto!’), Leva mano! (corrispondente al Poggia! della
navigazione a vela) e Pesa mano! (equivalente invece all'Orza!). Il timoniero non poteva regolarsi
sulla bussola perché questa era posta lontano da lui e quindi doveva continuamente ricevere i
comandi di guida dal piloto, dal consigliero o comunque da chi era posto alla bussola, strumento
che, specie di notte, doveva esser guardato continuamente; per tale motivo il da Canal scriveva
che sarebbe stato meglio sistemare di fronte al timoniero un piccolo bossolo da navigare, in modo
da renderlo più autonomo (il che ancora non ho veduto in alcuna galea); ma evidentemente ai suoi
tempi era proprio quest'autonomia decisionale nella rotta da scegliere che non si voleva dare al
semplice timoniero. Si capisce dunque perché potevano, specie navigando di conserva di notte,
incidenti come quello che avvenne nel 1420, mentre guidava l’armata che il re Alfonso V
d’Aragona, detto il Magnanimo, inviava in Sardegna a reprimere i suoi ribelli; durante la
navigazione a vela notturna tra Maiorca e l’isola la Reale (‘Capitana Reale’) fu investita
violentemente da poppa dalla galera di Juan de Eslaba che la seguiva troppo dappresso e rischio
d’affondarsi, mentre la maggior parte della sua dormiente ciurma, sbandando molto il vascello, finì
in mare e chissà quanti remieri ne perirono, dal momento che si trattava di gente che, pur
lavorando per mare, in gran maggioranza non sapeva nuotare (Zurita, Anales, LT. XIII, c. IV).
A poppa bisognava sempre tenere una zanca, ossia un timone di riserva semplificato, nel caso che
quell'ordinario venisse a mancare a causa d'un temporale, d'un sinistro o d'una cannonata. Poiché
non tutti i predetti otto marinai erano impiegati al timone allo stesso tempo, bensì a turni, il còmito li
utilizzava anche per altri servizi di bordo, quali spalmare di sego l'opera viva dalla chiglia alla linea
di galleggiamento, incatramare gli alberi e le antenne, ormeggiare la galera, maneggiare le vele e
inoltre per tutti i servizi di poppa sia della galera sia della persona del capitano; insomma quelli che
non erano al timone dovevano far in tutto il servizio da marinai, specie in caso di tempesta, e da
soldati quando si combatteva; in quest'ultimo caso si davano pertanto loro le armi e il loro posto di
combattimento era alla poppa in generale, anche se, poiché erano appunto adibiti anche ai normali
servizi da marinaio, erano inclusi nel numero della gente de cabo e non in quello della gente di
poppa. I marinai in guerra, uomini che all’occorrenza dovevano anche loro prenderre le armi e
combattere, erano chiamati dagli antichi greci statìdi (στατίδες), cioè all’incirca ‘uomini in riserva’.
Sulle galere francesi quattro di loro erano chiamati propriamente timonieri e gli altri quattro invece
capi di guardia, in quanto, necessitando il loro compito d'intensa attenzione, gli otto si alternavano
al timone in quattro guardie o quarti giornalieri e cambiavano in concomitanza del cambio dei
quattro marinai detti parte e mezza (lt. sescuplicarii) di cui ora anche diremo. Quelli che in
453

navigazione stavano di guardia al timone dovevano ovviamente stare nel luogo detto timoniera,
ossia nell'arco terminale dell'altezza della poppa detto appunto rota della poppa, dove sedevano
su una bancaccia come quella su cui dormiva il capitano e che era posta proprio dietro alla stessa
timoniera; gli altri si trattenevano parte all'oste e parte sulla corsia per far i servizi di vela.
Prendevano 3 scudi pontifici mensili – da 26,40 a 27,65 ducati napoletani l’anno - e due razioni
giornaliere per uno come l'aguzzino.
I quattro marinai detti parte e mez(z)a (lt. sescuplicarii) erano così chiamati perché prendevano
una razione e mezza di viveri il giorno, oltre a 2 scudi pontifici e mezzo di stipendio mensile - 30
ducati napoletani annui; essi corrispondevano ai gabbieri [lt. velarii; ol. vit-kijker (del maestro),
neus-kijker (del trinchetto)] dei vascelli tondi e pertanto dovevano essere giovani, agili, forti e
coraggiosi; infatti a essi toccava salire sopra il calcese maestro per far la scoperta e la guardia
diurna, la quale iniziava all'alba ed era divisa in quattro turni, e da quella posizione potevano
scorgere a circa 20 miglia di distanza, soprattutto la mattina e la sera, cioè quando i raggi del sole
non abbagliavano la vista. Anche di notte facevano la guardia, ma a prua sulle rembate, e inoltre
dovevano esser pronti a ogni altro servizio di galera che il còmito o gli altri ufficiali loro
comandassero; infine, come ai timonieri, anche ai parte e mezza si davano armi perché potessero
partecipare al combattimento, ma si trattava di balestre, spade e rotelle, almeno sino al tempo di
Lepanto, perché evidentemente si pensava che i marinai, dovendo esser impiegati alle manovre
anche durante la battaglia, non avrebbero avuto modo d’usare armi dal caricamento complesso
come gli archibugi. Il loro posto era dunque di giorno sul calcese di maestra, se addetti alla
guardia, di notte sulle rembate e, quando si combatteva, alla prua in generale o alle balestriere, a
seconda di come era lor comandato.
Il termine proeri s’era usato nel Medioevo sia sulle navi mercantili che sui vascelli armati per
definire la bassa forza di bordo in generale, la ‘gente di prua’ insomma, la quale, come abbiamo
già detto, era così chiamata perché a prua alloggiava e perché operava perlopiù sulla metà
anteriore del vascello, cioè soprattutto alla velatura e alle ancore, in contrapposizione alla ‘gente di
poppa’, ossia agli ufficiali; ora invece erano così chiamati in particolare da quattro a sei marinai di
galera giovanissimi ai quali toccavano i servizi di prua e particolarmente quelli del trinchetto;
dovevano pertanto esser molto agili per poter salire e in un certo modo volar per le sarte, per gli
albori e per le antenne (P. Pantera. Cit. P. 124) e a tal proposito ecco un brano del già ricordato
Itinerario di Gabriele Capodilista, in cui si descrive un saggio di funambolismo dato a bordo della
galeazza Loredana da quei giovani marinai per festeggiare l’arrivo del vento favorevole al loro
corso:
454

… E perché fino a quella hora non avevano may habuto vento alguno in poppe, ogniuno se allegrò
e iubilava e non solamente li peregrini, ma etiam li marinari, i quali, per leticia facendo uno solazo,
si posero alquanti giovani aptissimi de la persona insieme e, ponendosi uno di loro al principio de
una corda, la quale sosteneva l’arbore di la galea che è appellata per li marinari ‘gomena’,
montarono altri per la dicta corda, ponendosi i piedi su le spale uno a l’altro, tanto che tochavano la
gabia ed ogniuno stava dretto in piedi su le spale al compagno e, stati aliquanto nel modo predicto,
quello el quale era primo a sostenere el carico si rimose e tuti li alteri venivano giù ad uno ad uno
per modo che niuno caschò né posse male el piede. Il che a tuti li videnti parse una meraveglia; ed
oltra questo ascendevano e descendevano e per le corde e per la vella cum tanta cellerità e
destreza che non solo a homeni o a simie o a maimoni, ma a occelli saria bastato; e molte cosse
altre haverian fatte s’el dicto vento fosse perseverato, ma, essendo cessato fra doe hore e
levatose lo vento contrario, gli bisognò attendere al governo di galea… (A. LT. Momigliano
Lepschy. Cit.)

Dovevano i proeri essere anche addestrati a raccogliere (sp. acurullar o acorollar, da corral,
‘recinto’) il trinchetto velocemente, legandolo con i giunchi sopra la sua antenna; dovevano esser
buoni nuotatori (cioè gente da guazzo, come dicevano i veneziani), perché, quando si andava a
ormeggiare (gr. ὀρμίζειν) in luogo sospetto o in paese dichiaratamente ostile, non c'era tempo di
calar a mare lo schifo, la cui conduzione in quei casi pure era loro incombenza, per portare a terra
il capo di posta o provese, ossia il cavo d'attracco, ma ve lo dovevano portare più velocemente a
nuoto appunto i proeri, trainandolo con una sagola; erano poi adibiti a vari servizi minuti, come per
esempio tagliare giunchi e stuoie per farne frettazzi da pulire la galera e ricavare filastica da vecchi
canapi per farne moscelli, stroppi e stoppacci (sp. estoperoles). Dipendevano questi ragazzi dal
sotto-còmito e il loro posto era quindi alla prua, cioè al piede del trinchetto, sul tamburetto davanti
alle rembate e sullo sperone; in combattimento dovevano probabilmente anche loro essere armati
di balestre come gli altri marinai. Prendevano uno scudo pontificio e mezzo di soldo mensile,
mentre a Napoli lo stesso stipendio dei predetti compagni, e una razione il giorno.
Il principale compito dei 16 compagni (lm. compagnones) o marinai di guardia era quello
d’assistere l’aguzzino nella sorveglianza della ciurma, il che avveniva soprattutto in porto perché
ovviamente in alto mare i galeotti non potevano fuggire, ma solo ammutinarsi, cosa però molto più
difficile e rara. Li sorvegliavano quindi di notte in galera e di giorno li scortavano a terra, quando i
branchi vi erano condotti a lavorare (da qui il loro nome di compagni nel senso di
‘accompagnatori’) e bisognava pertanto che fossero uomini attenti, coraggiosi e tali da infondere
timore, in modo che i condannati e gli schiavi, portati magari in un luogo solitario a faticare, non
pensassero a rivoltarsi e li ammazzassero per fuggire:

... come avenne a quelli della galea Santa Lucia, prima che dalla Santità di Nostro Signore (il
Papa) ne fosse dato il governo a me, della quale alquanti branchi di schiavi e di quei galeotti che si
chiamano buonevoglie, essendo stati condotti a far legna in un bosco e accorgendosi che i lor
guardiani erano huomini vili, si sollevorono improvisamente contra di loro e, ammazzato l'aguzino
455

con tutti quelli che non si poterono salvar fuggendo con le accette e con i zapponi che tenevano in
mano per far legna, si sferrorono e rimisero in libertà tanto gli schiavi quanto le buonevoglie. (P.
Pantera. Cit.)

Abbiamo già spiegato che, nonostante fossero volontari, quando si vogava le buonevoglie
ponentine erano per forza di cose incatenati al banco come gli altri remieri e quindi anche la
permanenza a bordo della galera poteva diventare insopportabile anche per loro. Naturalmente, in
caso di galere volontarie, i compagni necessari potevano essere di minor numero.
In caso di combattimento anche i compagni erano - almeno sino al tempo di Lepanto - armati
prima di balestre e in seguito di archibugi come gli altri marinai, come si legge nel summenzionato
Governo di galere, ed erano poi posti alle balestriere come soldati perché dessero il loro contributo
bellico; in navigazione il loro posto era però normalmente alla prora, dove servivano al trinchetto,
ma ovviamente dovevano condividere anche le manovre di maestra e gli altri servizi di bordo. La
notte, quando non si navigava ed essi erano di guardia alla ciurma, erano in corsia, dove si
alternavano alle guardie o vigilie; nelle squadre di galere della corona di Spagna e in quelle di
Genova queste erano quattro: prima, seconda, terza e diana e quest'ultima era la più faticosa
perché durava sino allo spuntar del giorno; comunque ogni guardia durava più o meno ore a
seconda dell'uso nazionale e a bordo dei grandi velieri il suo cambio era annunciato dalla campana
di bordo, strumento che anche serviva per chiamare l’equipaggio alla preghiera o ai pasti:

... E perché per l'hore giudicano i pilotti nostri il viaggio che fà il vascello e altro modo non hanno
da conoscere l'hore salvo il rologgio d'arena, che loro chiamano 'ampolletta' (‘clessidra’), e le
pallottole (‘pallottoliere’) con che il numero dell'ampollette segnano, quali i maliziosissimi ed empij
marinari, per presto uscire di guardia, ordinariamente rubbano e falsificano voltandole e
calcolandole prima che la rena finisca di trascorrere; (mentre) altri, vinti dal sonno, doppo
trascorsa, insieme seco dormire la lasciano, pendendo sopra le loro spalle la perdita o salvazione
d'una armata... (B. Crescenzio. Cit. LT. III, p. 350.)

Dal trascorrere della rena nella clessidra è ovviamente derivato in italiano l'uso di questo stesso
verbo per indicare il passare del tempo in generale; gli orologi meccanici (fr. montres) si useranno
a bordo solo all’incirca dalla metà del Seicento.
Sulle galere fiorentine le guardie o vigilie erano tre di quattro ore ognuna e su quelle veneziane,
spiega il da Canal, erano sei, cioè tre notturne e tre diurne, in quanto, poiché i buonavoglia non
erano, come sappiamo, incatenati, bisognava ben sorvegliarli anche di giorno perché non
fuggissero; ma si trattava di guardie sicuramente meno rigide, visto che i lagunari usavano tenere
in galera solo otto compagni e i ponentini - allora - più di 12, come ora vedremo. Sulle galere di
ponente, se la guardia notturna doveva essere fatta in navigazione, generalmente dei quattro
compagni destinati a ogni guardia uno si poneva a reggere il timone invece d’un timoniero, uno a
456

coadiuvare il piloto nella rotta da tenere, uno di vedetta sull'albero e uno scorreva la corsia avanti e
indietro (C. da Canalt. Cit.). Nella marineria inglese e in quella reale di Francia si usavano guardie
di quattr’ore ciascuna, iniziando ordinariamente quelle notturne - ovviamente le più importanti - la
prima alle 20, la seconda a mezzanotte e la terza alle 4, mentre la marineria mercantile francese le
poteva usare di tre, di tre e mezza o anch’essa di quattr’ore, finendo però nel Seicento per
generalizzarsi quelle di tre; i turchi usavano guardie di cinque ore. Poiché la terminologia marittima
francese faceva precisamente corrispondere al mediterraneo garde l’oceanico quart, si può
pensare molto probabile che il primo di questi termini, germanico, sia null’altro che una derivazione
dal secondo, il quale derivava invece più direttamente dal dominante latino dell’antichità.
Anche diversi erano i modi di calcolare l’inizio e il finire del giorno civile che usavano i vari popoli; i
naviganti ponentini li facevano andare da mezzanotte a mezzanotte, ma nel Seicento i francesi
adotteranno il modo degli astronomi, i quali li calcolavano invece da mezzogiorno a mezzogiorno.
Gl’italiani meridionali e orientali li consideravano da occaso a occaso, per cui l’ultima ora, la
ventiquattresima, detta ora dell’Ave Maria, era appunto quella che includeva il tramonto, quindi al
nostro mezzogiorno erano per loro le diciassette; ma poiché naturalmente la durata del giorno
varia costantemente durante l’anno, in teoria si faceva partire l’ora prima venti minuti dopo il
tramonto e quindi per esempio, in tempo d’Equinozio, la nostra ora una era per loro le ore sette e
mezza; in pratica la determinazione dell’ora era alquanto soggettiva e molto poco precisa. I
norimberghesi al contrario computavano le 24 ore da aurora ad aurora, cioè come avevano fatto gli
antichi babilonesi, e lo stesso si faceva ad Algeri, dove il mezzogiorno era l’ora sesta, iniziandosi
quindi colà il computo delle ore col sorger del sole, il che coincide con l’ora canonica della Chiesa
e ci ricorda le origini semitiche di questa. I naviganti olandesi avevano un modo tutto particolare di
calcolare le ore; essi infatti dividevano il giorno in otto frazioni di tre ore ciascuna nel modo che
segue:

Da mezzanotte alle tre: noorder zon.


Dalle tre alle sei: noord-ooster zon.
Sei-nove: ooster zon.
Nove-dodici: suid-ooster zon.
Mezzodì-quindici: suider zon.
Quindici-diciotto: suid-wester zon.
Diciotto-ventuno: wester zon.
Ventuno-mezzanotte: noord-wester zon.

I compagni della squadra pontificia, alla quale tanto spesso si riferiva il Pantera, essendo egli
d’una di quelle galere il capitano, percepivano 2 scudi ecclesiastici mensili – 18 ducati napoletani
l’anno - e una razione giornaliera.
457

Il nome compagni era d’origine veneziana e infatti sulle galere ponentine, ancora alla metà del
Cinquecento, questi marinai di guardia erano ora chiamati invece nocchieri, come si legge infatti
nel trattato del da Canal, mentre abbiamo già visto che ancora un terzo significato questo nome di
nocchieri aveva avuto nel Trecento aragono-catalano:

... quelli huomini che noi 'compagni' e i ponentini 'nocchieri' sogliono addimandare, nel numero de'
quali parmi che per noi (veneziani) si pecchi molto, perché nostro costume è di non ricever
(‘riceverne’) più che otto e questi ai molti bisogni della galea non bastano; onde io direi che in ciò
seguitassimo l'usanza de' ponentini e de' turchi, i quali, come in qualche parte più cauti e più
avveduti di noi, non ne tengono meno di 12 e molte volte insino a 16 ne prendono. (Cit. P. 117-
118.)

Invece furono poi, come abbiamo già visto, i ponentini a imitare i veneziani e a ridurre il numero dei
parte e mezza ad 8, ma comunque alla epoca del da Canal, tra parte e mezza, compagni, timonieri
e quattro proeri abbiamo dunque dai 30 ai 35 marinai sulle galere di ponente, il che corrisponde
abbastanza al numero di 29 dato invece per le galere turche alla fine dello stesso secolo, galere
che evidentemente non avevano invece imitato quelle veneziane, come si legge nella relazione
presentata dal bailo Giovanni Moro nel 1590, anche se le proporzioni delle predette qualifiche
differiscono alquanto:

... Per servizio di ogni galea (turca) sono nominatamente descritti (‘elencati in ruolo’) alcuni officiali
trattenuti per l'ordinario (‘in permanenza’), cioè còmito con aspri sette il giorno di paga, patron con
6, sotto còmito con 5, come hanno anco gli altri sino al numero di nove, che sono compagni, tutti
tolti dall'ordine degli 'asapi' (‘marinaresca di galera’) o de' bombardieri, valendosi per maestranze
degli schiavi della professione. Quando si arma poi il 'rais' ha cura di trovar venti marinari, per
ognuno de' quali ha dal Gran Signor aspri 1.000 di donativo, oltra gli aspri quattro il giorno e il
biscotto, come hanno i galeotti; ma per rubar anco in questo, come fanno nel resto, ne hanno (di
marinai) sempre molti di meno. (E. Albéri. Cit. S. III, v. III, p. 354.)

I 20 predetti marinai sono confermati dalla relazione del Bailo Lorenzo Bernardo, letta due anni più
tardi di quella precedente del Moro, ma il Bernardo aggiunge interessanti osservazioni sugli aspetti
finanziari dello armamento d’uomini destinato a ogni galera turca e sul relativo peculato commesso
dai rais:

... Sopra ogni galea, oltre li sopradetti officiali, il 'rais' fa montare venti altri marinari sopra le galee
sottili e venticinque sopra una bastarda con donativo di ducati dieci (ciascuno) al montar in galea e
aspri tre al dì, onze venti di biscotto per testa il giorno, che dà il Gran Signore, e medesimamente
vengono ordinariamente pagati al 'rais' centoquarantuno uomo per galea per il vogare con il
medesimo donativo di ducati dieci all'entrar in galea, aspri tre al dì di paga al turco e due al
christiano, con le onze venti di biscotto per testa.
458

Il 'rais', cioè sopracòmito, ha di sua regalia la decima di tutti li donativi dei ducati dieci per testa,
che importa buona somma; avanza poi le paste e biscotto di molti marinari e galeotti che sempre
mancano e in molte altre maniere avanza e ruba al suo Signore...
Se la galea è armata per una guardia e che abbia da star fuora secondo la volontà del Gran
Signore, ogni anno dà esso il donativo alle ciurme e marinarezza; ma, se è armata per andar a
qualche fazione e tornare dopo tre, quattro o sei mesi, se ben fosse poi stata fuora molto più non si
ripete...
Li soldati poi che montano sopra le galee de' turchi sono o giannizzeri o 'spaì' pagati
ordinariamente dal Gran Signore e di questi ne mette ora più ed ora manco si come ricerca
l'occasione. (Ib. S. III, v. II, p. 344.)

Della differenza tra galea sottile a galea bastarda abbiamo detto; considerando poi che, come ci
tramandano gli stessi baili veneziani, i turchi non usavano impiegare più di tre vogatori per banco, i
predetti 141 adibiti a ogni galera significano che questi vascelli erano da 24 banchi per lato; infatti,
detratto un banco sostituito dal solito fogone, i rimanenti 47 - a tre uomini ciascuno - danno proprio
il totale di 141. C'è anche da notare che la razione di biscotto di 20 once corrispondeva quindi - se
si considera l'oncia veneziana - a circa 580 grammi.
Usare per maestranze di bordo - personaggi di cui presto parleremo - gli schiavi della professione
significa che per i necessari mestieri di bordo (cuochi, carpentieri, ferrari, calafati ecc.) erano
utilizzati dai turchi schiavi cristiani già esperti di quelle arti; anzi nel Seicento troveremo vascelli
tondi turchi armati da guerra e con guarnizioni di soldati ottomani, ma equipaggiati con
marinaresca formata totalmente di schiavi cristiani.
Un brutto vizio dei capitani generali di mare della famiglia d'Oria e dei capitani di galera genovesi in
genere era quello di tener a bordo di solito - per la tipica e ben nota ‘parsimonia’ di quella
nobilissima nazione - pochi scapoli, ossia marinai, non più di 10 o 15, numero sufficiente alla
manovra ordinaria, ma non a quella di combattimento; la prima memoria di tale avarizia che si
ritrova nelle antiche cronache e quella della battaglia avvenuta la domenica 30 maggio 1379 nelle
acque di Gaeta tra 10 galere genovesi e 14 veneziane. Oltre al maggior numero di vascelli i
veneziani avevano a bordo anche maggior numero di soldati e vinsero:

… le galee de’ viniziani per forza d’arme, però che avevano per ogni galea quaranta combattitori
con lance dapposta (‘da posta’, ‘da postazione’), chi dice fussino inghilesi e chi dice fussono
brettoni, ruppono l’armata de’ genovesi… (Cronaca pisana di Ranieri sardo. IN A.S.I. Tomo VI,
parte II. Firenze, 1845.)

Ancora questo fu il motivo per cui nel 1535, mentre Carlo V prendeva al Barbarossa La Goletta (4
luglio) e Tunisi (2 agosto), città questa che nel 1270 era stata già conquistata dai cristiani, ma
allora guidati da un altro Carlo e cioè da quello che poi sarà il I d’Angiò, e ne infeudava il
precedente signore di quel paese Muley-Hassan, il signore d’Algeri riuscì a sfuggirgli:
459

... e fuggono le occasioni di ritrovarsi nelle fazioni (‘combattimenti’) e dalla perdita delle occasioni
sono nati tanti danni e tante vergogne, come nella Corte (di Madrid) publicamente si disse; tra le
quali viene ricordata la vergogna al tempo che l'Imperadore (Carlo V) pigliò Tunisi, che riuscì a
Barbarossa di fuggire, il quale con quattordici galee osò affrontarne ventisei del Principe d'Oria,
che era andato alla bocca del porto perché egli non potesse uscire, ma le sue galee non vollero
combattere per non avere scappoli; e da cinque in sei anni in qua diversi accidenti (si) sono
incontrati di questa sorte. (E. Albéri. Cit. S. I, v. III, p. 288.)

Proprio per finanziare la predetta impresa di Tunisi e le altre contro gl’infedeli che sarebbero
venute, il papa Paolo III aveva concesso a quella corona la decima su tutti i benefici ecclesiastici di
Spagna, ricca concessione detta la Crociata; per poter quindi ottenere quella così importante
rendita, la Spagna dovette ricostituire le sue ormai trascurate squadre fino a riportarle a quel
potenziale di 100 galere imposto dalla relativa bolla papale e, nel maggio del 1535 infatti
l’imperatore, forte del predetto grosso contributo finanziario, fece ammassare nel porto di Cagliari
una grande armata di 91 galere, un numero di fuste e bergantini e 202 velieri più altri vascelli di
mercanti e venturieri, per un totale di 361 vele; in questo numero erano incluse 150 vele che
portavano 10mila soldati e che erano state raccolte a Málaga, tra le quali c’erano 80 navi grosse,
inclusa una maggiore di ben 6 gabbie che chiamavano la Capitana, ma che sarebbe poi servita
come nave-ospedale dell’armata; inoltre 24 velieri portoghesi, di cui 2 galeoni grossi e il resto
caravelle. Tra le galere ce ne erano nove genovesi, le quali erano però state armate a spese dello
Stato della Chiesa e di cui il pontefice aveva fatto capitano Paolo Giustiniani e generale delle
fanterie Virginio Ursini; in tutto Carlo V portò a quella guerra, secondo il Buonfiglio Costanzo,
32.700 uomini - numero che però ci sembra un po’ eccessivo – e cioè 12mila fanti spagnoli di
nuova leva sotto il comando del conte di Tendilla, 5mila fanti spagnoli veterani provenienti
dall’Italia, 6mila fanti italiani, 7mila fanti tedeschi, infine 700 uomini d’arme e 2mila celate spagnole,
essendo i primi cavalleria pesante e le seconde leggera. Arrivata il 17 giugno sulle coste della
Barbaria, quest’armata prese dapprima Ustica, poi l’imperatore, sostanzialmente non del tutto
esperto di cose di guerra tranne forse per quanto riguardava l’artiglieria, avendo ritardato troppo a
iniziare a battere La Goletta con i cannoni d’assedio, ne subì parecchie rovinose sortite che
stavano mettendo a mal partito il suo esercito; ma poi si rifece tanto terribilmente da costringere lo
stesso corsaro Barbarossa a fuggire da quella fortezza, come racconta il de’ Marchi che ne
raccolse testimonianze dirette:

… l’horrenda e gran batteria che fece la maestà dell’imperatore Carlo V alla Goletta, che con più di
130 pezzi la batteva per mare e per terra e fu tale che la terra tremava e l’acqua del mare
s’intorbidava e gli huomini che erano dentro s’assordivano per il gran strepito che faceva
l’artegliaria, del che fugirno parte de essi turchi e morri (‘mori’) che entro vi erano; del che furono
460

(‘essendo’) ripresi da Barbarossa, dicendo(g)li che per viltà erano fuggiti, (g)li risposero certi
capitani dicendo(g)li:
‘Ancora (‘anche’) tu sei fuggito e prima che te habbi (‘ti sia’) sentito urtare le mura addosso né
sentirti (‘o ti sia sentito’) tremare la terra sotto, come se fusse stato il terramotto; non pareva
batteria, ma pareva Volcano e Mongibello, quando mai più fa romore e getta li grandissimi lampi di
fuoco e povvere in aria così spessegiava(n) le poderose palle dell’artegliarie del gran Carlo
d’Austria, tuo e nostro nemico mortale’.
Queste parole sentì (‘io sentii’) refferire a molti e massime a schiavi cristiani che parlavano la
lingua turchesca e d’alcuni mori. (Francesco de’ Marchi, Architettura militare. Roma, 1810.)

Presa poi quella fortezza il 14 luglio, il 21 successivo i cristiani entrarono in Tunisi abbandonata dal
Barbarossa e qui, nel sacco della città, furono ammazzati, riporta il Buonfiglio Costanzo, circa
10mila dei suoi abitanti la maggior parte dalle spade tedesche (Cit. P. 442.); nota era da sempre la
crudeltà delle soldatesche germaniche e infatti spesso, quando un esercito multinazionale
imperiale voleva convincere i suoi nemici assediati alla resa, li minacciava di mandare all’assalto i
tedeschi i quali, come tutti ben sapevano, non usavano fare prigionieri; nel frattempo Andrea d’Oria
prendeva Bona dal mare e la metteva a sacco. Alla fine, Carlo V, lasciato Bernardino de Mendoza
a capo dei presidi spagnoli posti sia alla Goletta sia a Bona, ripartì con l’armata e arrivò in Sicilia
nel mese d’agosto.
Ma tornando ora all’avarizia del principe d’Oria, il Badoero non ritiene qui opportuno menzionare
l'episodio più grave, cioè quello avvenuto il 27 settembre 1538 alla famosa battaglia della Prévesa,
nella quale Andrea d'Oria ebbe un comportamento molto simile a quello tenuto tre anni prima a
Tunisi, ma tanto più scandaloso da sembrare addirittura vile o proditorio, cioè un modo di fare del
quale gli storici non si sono mai saputi dare una convincente spiegazione, arzigogolando
inutilmente per secoli sui più improbabili e fantasiosi machiavellismi che avrebbero in
quell'occasione guidato i passi del principe genovese. Il fatto sarà però ricordato e con gravi
accuse dal bailo veneziano Antonio Barbarigo nella sua relazione sull'impero ottomano letta in
senato nel 1558:

... al tempo della Prévesa, quando Andrea d'Oria, capitano generale dell'armata di Carlo Quinto
imperatore e della nostra e di quella del Pontefice, cercò di farci danno mettendo l'armata nostra
con tradimento in mano di essi turchi, lo che causò che la Repubblica nostra, vedendosi esser
aggabbata, cercò di far la pace con turchi con tanto nostro danno, dandoli tanti danari e lasciando
liberamente nelle mani loro la città di Napoli (di Romania, nel Peloponneso) e l'isola e città di
Malvasia, oltre tante isole che per causa di tal guerra si persero nell'Arcipelago... (E. Albéri. Cit. S.
III, v. III, p.159-160.)

E il Buonfiglio Costanzo, narrando quell’episodio, dette il seguente giudizio:


461

… Non è dubbio che in questa giornata il principe non avesse perduta gran riputazione dell’antico
valore e a questa volta fu, come Cicerone disse di Pompejo, ‘nessun capitanio’… e i veneziani
entrarono in sospizione grande che quella ritirata del Doria non fosse stata senza qualche gran
trama… (Cit. P. II, lt. III, p. 85.)

Quest’autore spiegava il comportamento rinunciatario del d’Oria con la diffidenza in lui nata nei
confronti dei veneziani, quando questi s’erano rifiutati di prendere a bordo delle loro galere gli
archibugieri spagnoli offerti dal genovese per sopperire alla loro carenza d’armati e gli avevano
così fatto credere di non voler veramente combattere; ma si tratta d’una spiegazione poco
credibile, viste le gravi perdite che Venezia subirà in quello scontro subito affrontando
coraggiosamente e quasi da sola il nemico. In sostanza era avvenuto che il d’Oria, allora capitano
generale della lega cristiana anti-ottomana stipulata l’8 febbraio precedente tra Carlo V,
Ferdinando suo fratello, Venezia e lo stato della Chiesa, pur disponendo di un’armata formata da
134 galere, 60 grosse navi, un grande galeone veneziano, vascello-ammiraglio dei vascelli tondi
della Serenissima comandato da Alessandro Bondumier, più altre vele minori per un totale di circa
300, 30mila fanti e 2mila cavalli, ossia superiore a quella del Barbarossa e di Torgud, la quale
consisteva in 87 galere, 30 galeotte e 50 tra fuste e bergantini, nel settembre, incontratosi col
nemico tra la Prévesa e S. Maura, dopo aver più volte sfidato il Barbarossa a battaglia, s’era poi
platealmente sottratto allo scontro, perdendovi così, oltre alla faccia, anche alcuni vascelli, e
inoltre, sempre platealmente, aveva omesso di portare soccorso all’armata veneziana di Vincenzo
Capello, la quale era stata duramente impegnata dal nemico, specie al galeone predetto, il quale,
pur assalito da forze soverchiantissime e colpito in ogni sua parte, si difese tanto eroicamente da
danneggiare seriamente diverse galere turche e da riuscire, anche se molto mal ridotto, a tornare a
Venezia; il Guazzo nella sua Cronica, laddove descrive questa battaglia (descrizione che
raccomandiamo a chi ne volesse ben conoscere lo svolgimento), riporta anche un accurato e
interessantissimo elenco dei danni ricevuti in tale occasione da questo vascello. A dire del Guazzo
- anche se di ciò non si trovano in verità conferme in nessun’altra fonte - la natura vendicò però i
veneziani, perché, ottenuta quella vittoria e mentre faceva rotta verso la Valona, l’armata del
Barbarossa fu sorpresa da una terribile burrasca nella quale perse ben una settantina di vascelli e i
superstiti ne restarono molto danneggiati (cit.) La fortezza di S. Maura sarà poi rasa al suolo e
saccheggiata nel giugno del 1625 dalla squadra di Malta comandata da Pontalier Tallamey; i
cavalieri giovanniti, utilizzando 4 fregate, la sorprenderanno infatti con uno sbarco notturno e ne
trarranno 178 schiavi, molti dei quali ricchi mercanti e corsari. Il suddetto rinunciatario
comportamento del d’Oria si ripeterà l’anno seguente 1539 in occasione del suo mancato soccorso
a Castel Nuovo di Cáttaro in Dalmazia (tr. Nova), fortezza che era stata da poco presa ai turchi dal
capitano generale veneziano Vincenzo Capello ed era ora guardata da 3mila spagnoli colà inviati
462

in punizione dalla Lombardia, perché vi si erano resi colpevoli d’ammutinamento, per ordine del
marchese del Vasto; comandava quella guarnigione il valente governatore Sarmiento, il quale era
il capo naturale di quei soldati in quanto sino allora appunto era stato mastro di campo della
fanteria spagnola nel ducato di Milano; il castello fu attaccato dall’armata del Barbarossa e cadde
senza che Andrea d’Oria, il quale si trovava ancora in zona con le sue forze, facesse nulla per
soccorrerlo; il Sarmiento cadde con tanti dei suoi nel tentativo di difendere la breccia aperta dalla
batteria dei turchi e si racconta che il Barbarossa ne chiedesse la testa da inviare a Costantinopoli,
secondo un crudele uso dei generali ottomani per dimostrare al loro signore l’ottenuta vittoria, ma
tanto ingente e confuso era l’ammasso di soldati morti su quella breccia che non fu possibile
trovare il corpo del valoroso spagnolo. Questo strano modo di comportarsi del d’Oria (ancore qu’il
eust eu ces deux fois deux des belles armées qu’il avoit jamais euës, de Bourdeilles) andava
anche questa volta certamente da individuarsi nella suddetta e inconfessabile taccagneria
nazionale e inoltre nella volontà di voler risparmiare le proprie galere, le quali erano da tutti gli
armatori particolari genovesi considerate solo un buon investimento e una sostanziosa fonte di
reddito; ecco la conseguenza di non portare un sufficiente numero di marinai e quindi di unirsi alle
crociate contro i turchi più per apparenza che per sentita partecipazione. Eppure erano passati
solo sette anni da quando, mandato da Carlo V a tentare Algeri, s’era comportato in quell’impresa
addirittura temerariamente, restandone infatti duramente sconfitto dal Barbarossa, il quale in tal
occasione gli uccise 1.400 uomini e gliene ridusse in schiavitù altri 600, non solo, ma poi si mise a
perseguitare il d’Oria per mare e ne pagarono le spese le coste italiane e provenzali che in tal
occasione vennero devastate da quel corsaro; ed erano trascorsi solo cinque anni da quando
aveva portato dalla lontana Genova un coraggioso e utile soccorso all’allora imperiale Corone, città
vicina a quella di Modone e che, presa con Patrasso dallo stesso d’Oria in nome dell’imperatore
l’anno precedente, cioè nell’autunno del 1532, approfittando della circostanza che l’armata turca
era già a svernare a Negroponto e l’esercito di terra del sultano Sulaiman s’era ormai ritirato dal
suo primo tentativo di prendere Vienna, era ora assediata da 90 galere del sultano Sulaiman; il
generale genovese aveva forzato il blocco nemico con sole 26 galere e due grandi navi da carico
piene di rifornimento per gli assediati e così era riuscito a ritardare d’un anno la perdita di questa
sua così recente conquista, la quale infatti sarebbe poi ricaduta nelle mani di Sulaiman solo nel
seguente 1534; ma quando aveva compiuto queste bell’imprese egli era ancora da poco passato
con le sue 12 galere dalla parte di Carlo V, avendo infatti ricevuto da questo la nomina a suo
capitano generale del mare il 12 settembre 1528 in rimpiazzo di Pedro Navarro, contratto che gli
avrebbe garantito, oltre a vantaggi e privilegi per la sua Genova, un compenso di 6mila ducati
annui a galera e, alquanto più tardi, il titolo feudale di principe di Melfi nel regno di Napoli; quindi il
463

famoso capitano di condotta genovese aveva in quel tempo evidentemente ritenuto di non poter
già cominciare a risparmiarsi! Infatti nel 1532 il residente veneziano Niccolò Tiepolo, di ritorno dalla
Spagna, così leggerà nella sua relazione a proposito delle spese militari che Carlo V doveva
sostenere:

… Paga infine delle medesime entrate le quindici galere d’Andrea d’Oria, dandogli… ducati seimila
per galera… finché se gli provvederà d’uno stato promessogli nel regno di Napoli. (E. Albéri. Cit. S.
I, v. I, p. 44.)

Il compensare dei loro servigi i nobili genovesi con feudi meridionali era una comoda soluzione
adottata dalla Corona di Spagna e ne ebbero infatti, oltre ai d’Oria, i Grimaldi, i Cattaneo e i Grillo,
tre cognomi che infatti non a caso ancora oggi si trovano tra quelli della buona borghesia
napoletana.
L’unico a difendere il principe di Melfi fu Pierre de Bourdeilles, il quale nelle sue memorie così
scrisse:

…Tutte le volte che ha mancato di combattere e di mostrare il suo valore, il d’Oria ha sempre ben
fatto, nonostante qualche piccolo leggero errore che si può costatare nelle storie di quei tempi…
Non c’è dubbio che, se quel valente capitano non avesse avuto di fronte Barbarossa e Dragut,
avrebbe fatto delle cose stupefacenti. (Cit. )

Insomma è come dire che le cose non andarono così per suo demerito, ma per il grande merito
degli avversari che sfortunatamente si trovò a dover combattere; e questo è un giudizio che può in
parte corrispondere alla verità. C’era allora in Francia un’improbabile e forse artificiosa diceria che
voleva il Barbarossa essere un francese rinnegato:

… Se è vero che era stato francese, come ho detto altrove, (allora) ha fatto onore all’aggettivo
‘francese’ e, se non lo è stato, è da lodarsi di dovunque egli fosse, poiché spaventò non solo i
cristiani, ma (anche) gli arabi e i mori, avendo fatta la guerra agli uni e agli altri per mare e per terra
e avendoli resi tributari… (Ib.)

Al dannosissimo vizio del risparmio a ogni costo che si coltivava sulle galere genovesi accenna
anche il Badoero laddove dice che al suo tempo, ma come del resto anche in seguito, la maggior
parte della marinaresca delle squadre di galere degli stati soggetti alla Corona di Spagna era
costituita da genovesi:

... Quasi tutta la marinarezza di tutte le galere è di genovesi, uomini diligenti e intendenti, che,
come è noto, in cento miglia di riviera altro mestiere non fa quella gente che navigare, e sopra le
464

loro particolari (‘private’) galere tengono ordinariamente pochissimo numero di scapoli... (E. Albéri.
Cit. S. I, v. III, p. 286.)

E infatti, riferendosi poi alla sola squadra di Spagna, aveva infatti già detto:

... Quasi tutti li marinari sono genovesi, siciliani e napoletani, perché li spagnuoli, da' biscaglini e
quelli d'Asturia in fuora, non s’intendono di marinarezza. (Ib. P. 261)

Qui il Badoero dava conto delle squadre di galere a disposizione di Filippo II, ma la marinaresca
genovese e italiana in genere era molto richiesta e utilizzata anche per equipaggiare (ctm/sp.
tripular, dal l. tribus, “popolo, gente”) vascelli tondi e latini, cioè velieri grandi e piccoli, mediterranei
od oceanici che fossero, e ciò anche per una questione di numeri, nel senso che la scarsa
popolazione della Spagna era drammaticamente insufficiente a far fronte a tutti gli impegni civili e
militari che la Corona andava assumendo nel Vecchio e nel Nuovo Mondo. Una quarantina d’anni
più tardi i marinai genovesi saranno ancora in numero molto prevalente sulle galere di Spagna e lo
scriverà Gioan Andrea d’Oria, soprintendente generale dell’armata di mare spagnola, in una sua
risposta al re di Spagna Filippo II inviata da Aranjuez e datata 12 maggio 1594:

In altri tempi le galere di Spagna non solo venivano in Italia, ma vi restavano anni interi: sarebbe
meglio che, almeno a due a due, una buona banda di esse fosse là nello stesso tempo in cui
un’altra uguale di quelle d'Italia si trattenesse su queste coste, perché là fornirebbero molte cose
che sono migliori e più economiche che qui e la gente s’impraticherebbe dei porti e delle coste di
là, cosa che ritengo necessaria. Perché, anche se i marinai che portano sono per la maggior parte
genovesi, stare sempre qui fa loro dimenticare ciò che sapevano e inoltre, così facendo,
verrebbero a prestare servizio in queste galere più volentieri di quanto non facciano ora. Concordo
poi con Vostra Maestà su quanto sia importante fare uomini di mare perché non ce ne sono e sono
necessari… (Solian las galeras de España en otros tiempos no solamente venir á Italia, pero estar
allá años enteros: convendria que á lo menos de dos en dos fuesen allá una buena banda dellas
en tiempo que otra igual de las de Italia estuviese en estas costas porque se proveerian allá de
muchas cosas que hay mejores y mas baratas que acá, y la gente se haria plática de los puertos y
costas de allá, cosa que tengo por necesaria. Porque aunque los marineros que traen son la
mayor parte ginoveses, el estar siempre por acá les hace olvidar lo que sabian, y con hacerse esto
, de mejor gana vendrian á servir en eslas galeras de lo que agora hacen. Acuerdo á V. M. cuanto
importa hacer hombres en la mar por que no los hay y son menester. In Colección de documentos
inéditos para la historia de España etc. Tomo II, pp. 172-173. Cit.)

Insomma, sulle galere di Spagna i marinai erano per la maggior parte genovesi, così come si
potevano trovare del resto molti genovesi, in questo caso rinnegati, anche nelle marinarezze di
quelle turco-barbaresche; quindi, se si parla di Mediterraneo, si può senza dubbio affermare che il
primato della competenza nella navigazione era ben condiviso tra genovesi e veneziani; inoltre a
Genova i competenti di galere erano infiniti:
465

… A Genova ci sono così tanti che prenderebbero galere in assiento che, anche se l’armata di
Vostra Maestà fosse in maggior numero, credo che le prenderebbero tutte [En Génova hay tantos
que tomarian galeras por asiento que aunque la armada de V. M. fuese de mayor número, creo
que las tomarian todas (Ib. P. 181)].

Ma, tornando ora al Badoero e all'insoddisfazione della Corte proprio nei confronti dei generali e
capitani di condotta di galere genovesi al suo servizio, il diplomatico veneziano aggiungeva:

... Ed ho sentito a' principali Signori arditamente dire che Sua Maestà (Filippo II) dovrebbe
tramutare il governo delle galee da' genovesi in quello di suoi vassalli, perché a questi può ella
comandare e tagliar loro la testa ed (inoltre) quelli minacciano sempre che, se lei non (li) vuole,
serviranno la Francia; dal quale essempio si può vedere che la virtù disunita ha poca forza. (Ib. P.
288.)

Un altro comportamento ambiguo dei d’Oria fu quello che tennero più tardi nella guerra di Cipro e
soprattutto a Lepanto, quando cioè Giovann’Andrea, il quale prima della battaglia si era sempre
implicitamente dimostrato non incline a cercarla, anzi sempre pronto al disfattismo –
comportamento già tenuto nel 1570 e, come si legge nell’opera di Guido Alberto Quarti (La
battaglia di Lepanto nei canti popolari dell'epoca, Milano, 1930), denunziato dal generale
veneziano Girolamo Zanne in alcune sue lettere al suo senato e da Marc’Antonio Colonna in una
sua relazione a Filippo II, poi durante la battaglia si dimostrò chiaramente non disposto a rischiare
le sue proprie 11 galere, preoccupazione probabilmente condivisa anche dagli altri condotti di
galera privati genovesi che lo seguivano, e ciò nonostante Filippo II gli pagasse ben 10mila scudi
annui per il servizio militare d’ognuna d’esse, come risulta da un documento originale del 23
ottobre 1570 anche questo ricordato dal Quarti; il d’Oria comunque ricambiava lo Zanne d’egual
moneta denunziando in una sua che le galee veneziane mancavano di circa un terzo della
necessaria ciurma e che, per quanto riguarda gli scapoli e i soldati, nessuna superava gli 80
uomini, carenza vera alla quale poi Giovanni d’Austria dovrà porre rimedio, convincendo il Venerio
ad accettare di prendere a bordo almeno tremila fanti ponentini, ripetendo pertanto una trattativa
già avvenuta tra Andrea d’Oria e i veneziani tanti anni prima alla Prévesa, così come pure
dovranno accettarne le predette galere venturiere di Savoia e della repubblica di Genova,
anch’esse arrivate a Messina mancanti d’un numero sufficiente d’armati; ma resta certo che poi a
Lepanto Gioan Andrea d’Oria, invece di gettare nella mischia il corno destro da lui comandato,
come avrebbe dovuto, e andare così in supporto della battaglia e del corno sinistro già tanto
duramente ingaggiati dal nemico, spaventato forse dal vedere giungere addosso alle sue 54 galere
le 93 galere e galeotte d’Uluch-Alì, le farà discostare sensibilmente dal luogo dello scontro, dando
così al predetto generale del corno sinistro turco l’agio non solo di catturare la galera Capitana di
466

Malta, la S.Giovanni, assalita da ben sette nemiche, portandone a Costantinopoli lo stendardo in


trofeo, maltrattarne molte altre sia della destra cristiana sia della battaglia, ma anche di fuggirsene
con cinque o sei delle sue migliori galere, alle quali poi, approfittando appunto di quel varco offerto
loro dal d’Oria, se ne aggiungeranno molte altre dello stesso corno ormai sbandate così portando il
totale delle galere e galeotte turche salvatesi a Modone e a Lepanto a una quarantina, ma di
queste, come pare, una sola di fanale delle 40 che aveva l’armata turca, cioè quella dello stesso
Uluch-Alì, e una decina tanto malridotte da essere irrecuperabili; altrimenti il successo della Lega a
Lepanto sarebbe stato veramente totale, perché alla Sublime Porta non sarebbe rimasto nemmeno
quel capacissimo corsaro che era il rinnegato calabrese. Il d’Oria sarà per questo suo
comportamento molto criticato già dagli altri generali cristiani partecipanti alla battaglia, come
riferiva il Diedo:

… Qui molti molte cose hanno detto intorno alle operazioni dell’illustrissimo d’Oria: alcuni ch’egli ha
mancato all’ufficio suo e che per non essere conosciuto ha nascosto la sfera celeste, la quale
portava per gran fanò tra’ due piccioli, e che l’essere andato tanto lontano dalla battaglia è stato
cagione che molte delle nostre galee hanno ricevuto grave danno e che ha (‘avrebbe’) potuto
spingersi innanzi e affrontarsi con Ulucchi Ali, né però ha voluto farlo perché ha avuto animo di
salvarsi quando avesse veduto perdere i nostri ed hanno insomma lasciato intendersi che il detto
signor Gioan Andrea si era portato non altrimenti che se avesse avuto intendimento con Ulucchi
Alì, il quale, avendo lo istesso pensiero di salvarsi, quando i suoi avessero perduto, come s’è
veduto che ha fatto, è stato a vedere in qual parte piegasse la vittoria non men che si abbia fatto
esso illustrissimo d’Oria. Altri poscia favellano in contrario, dicono che il signor Gioan Andrea ha
sodisfatto ad ogni officio suo e che per altro non ha rimosso la sfera che per serbarla, essendo
quella dono fattogli dalla moglie… e di giudicio essendosi allargato in mare per fuggir di essere
intorniato da loro (‘dai nemici’), com’egli sospettava che far volessero, come quelli che con lor
legni, per essere in maggior numero, teneano più largo spazio di mare che i nostri; perciò che,
quando avesse altrimenti fatto, assai maggior percossa venivano a ricever le predette nostre
galee… (Carlo Téoli. Cit. Pp. 34-35.)

Certo è che in guerra un saggio e prudente comportamento non può mai dar adito a tanti dubbi e
critiche da finire per sembrare vigliaccheria o addirittura collusione col nemico; probabilmente
quindi i genovesi, come al solito, sfuggirono lo scontro frontale non sentendosi sufficientemente
equipaggiati per la battaglia e ciò nonostante fossero stati, come tutti in quell’armata, sottoposti
alla supervisione d’un comando generale; infatti lo stesso Girolamo Diedo, a proposito della fuga
d’Uluch-Alì a Modone, dove poi si disse falsamente che vi fosse arrivato gravemente ferito, così
poi commentava:

… il che forse non avrebbe fatto se il signor Gioan Andrea attendeva a seguitarlo, come non fece
per non aver seco, per quanto dicono, quel numero di perfette galee che si richiedevano in questo
caso. (Ib. P. 37.)
467

Anche Bartholomeo Sereno è comunque implicitamente molto critico a proposito del


comportamento di Gioan Andrea d’Oria, laddove dice che le uniche 15 galere che i cristiani
persero a Lepanto per colpa di chi non volle combattere si eran perdute (Cit. P. 217); tra queste si
sa della Capitana di Malta, d’una di Genova, d’una del Papa, d’una di Sicilia, d’una savoiarda dei
cavalieri di S. Spirito e di due veneziane, cioè la Bua, una delle quattro che si erano armate a
Corfù, la quale venne rimorchiata dai turchi a Lepanto, mentre la galera Soranza, anch’essa
veneziana, era andata bruciata nel corso della battaglia.
Un’aperta accusa di vigliaccheria a un d’Oria era stata quella portata secoli prima dal Muntaner a
Gasparo d’Oria alla battaglia contro gli aragono-catalani dell’ammiraglio Francisco Carròs
avvenuta nel 1325 nella rada di Cagliari e alla quale abbiamo già accennato:

… e don Gasparo d’Oria, da uomo coraggioso, proprio quando la battaglia (sulla sua galera) era
più accesa, pensò bene di fuggirsene con una barca che teneva legata alla poppa e si rifugiò su
una galera che gli stava dietro e che era di un suo fratello. (Cit.)

Un’osservazione poi che troviamo nella Cronaca del re Alfonso XI di Castiglia, già citata, ci fa
capire quanto fossero considerati interessati al denaro i genovesi anche nel Medioevo. Il predetto
re infatti, sconfitto il 5 aprile 1340 pesantemente per mare da preponderanti forze del sultano del
Marocco Abu l-Hasan, chiese, nel nome della Cristianità, un aiuto in galere al Portogallo, al regno
d’Aragona e anche al Comune di Genova, essendo questi ultimi uomini che erano molto intendenti
della guerra di mare e che avevano molte galere; si offrì però anche di remunerarli molto bene:

… perché i genovesi hanno sempre avuto il costume di aiutare chi desse loro denaro e al di là di
questo non ha mai contato né cristianità né alcun altro valore… (Cap. CCXV, f. CIX verso)

Genova gli inviò 15 galere sotto il comando dell’ammiraglio Egidio Boccanegra, fratello del doge
Simone, venendogli a costare ogni galera genovese, oltre a tutto il biscotto che sarebbe stato
necessario, 800 fiorini d’oro mensili e, quella dell’ammiraglio, 1.500. Due anni dopo, all’assedio e
blocco navale di Algeciras, città del sultanato moresco di Granada, Alfonso dovrà ancora mettere
in conto l’avarizia degli alleati genovesi, stavolta nel preoccuparsi di ciò che i mori avrebbero
potuto architettare per far entrare nel porto della predetta città galere cariche di rifornimenti di
soccorso:

… E, anche se ora i mori non s’azzardavano a entrare e a portarvi dette galere, avrebbero potuto
dar gran quantità di doppie (‘monete d’oro’) ad alcuni di quei genovesi che stavano di guardia
perché li lasciassero passare e mettere in città le galere cariche di viveri…. (ib. F. 181 verso).
468

Su quest’argomento della propensione genovese a evitare in mare gli scontri d’armata c’è da fare
comunque un’ulteriore osservazione e cioè che probabilmente l’aver preferito per tutto il Medioevo
le galere biremi, per la loro maggior maneggevolezza e velocità, alle più lente e pesanti triremi,
aveva abituato quei consumati navigatori –come anche i pisani - a doverosamente sfuggire la
battaglia con armate decisamente superiori, perché fatte in tutto o quasi di triremi, com’erano
quelle catalane e castigliane, e questa tendenza continuò, come dire, ‘d’abbrivo’ anche nel
Cinquecento sebbene anche le armate genovesi fossero ormai in quel secolo formate di triremi.
In realtà erano gli stessi catalani ad ammettere la leggittimità di sottrarsi alla battaglia quando il
nemioco avesse forze indiscutibilmente superiori; ecco per esempio la più volte citata ordinanza
aragono-catalana del 1354:

… E’ pertanto cosa certa che due galee che vadano di conserva debbano sottrarsi a tre che le
incalzino […] E ugualmente sia da intendersi di tre galee contro quattro e di quattro contro cinque e
di cinque contro sette {Car certa cosa es, que dues Galées que vaien en conserva, deuen escapar
à tres quels encalçen [...] E axi mateix sia entés de tres Galés à quatre, è de quatre à sinch, è de
sinch à set. Cit. P. 91}

Interessante qui notare che, arrivatisi a disporre di cinque galee, non bastava più che il nemico ne
disponesse di una sola di più per sottrarsi legittimamente alla battaglia, ma occorreva che ne
avesse almeno due di più; e questo era logico, altrimenti anche grosse armate si sarebbero magari
potute correttamente non affrontare a causa di una sola galea di differenza. Naturalmente questa
regola aveva le sue eccezioni, per esempio se una delle due galee in fuga fosse rimasta indietro e
pertanto fosse stata impegnata dal nemico, l’altra non poteva esimersi dal voltarsi e correre a
portarle aiuto, salvo pesanti pene a carico del capitano o del còmito che non l’avessero fatto.
Ma, per tornare ora a dire delle attitudini alla navigazione dei popoli del tempo, quali erano i
migliori marinai levantini? Ce lo tramanda il militare veronese Giovan Matteo Cigogna:

... Nell'essercizio navale e maneggio di mare adunque i greci, per l'antico uso e assiduo navigare
[...], non hanno paragone, percioché sono pazienti a tolerare fame, sete, fatiche e altri incommodi
e sono gente sagace, accorta, ingeniosa e presta; ma tra gli altri i ciprioti, i candioti e i corfioti sono
eccellentissimi; quei dal Zante e altre isole e terre circonvicine al mare lodevolmente riescono... (Il
primo libro del trattato militare di Giouan Mattheo Cigogna Veronese etc. P. 66r. Venezia, 1567.)

Notevoli erano però anche gli schiavoni o dalmati:

... schiavoni, la natura de' quali è d'essere più atta a i remi e ad ogni altro laborioso servizio di nave
e galere, non solo a fatiche del mare, ma anco di terra, percioché sono di fortissima natura e
buona complessione; ma non bisogna che a loro manchi la vettovaglia. (Ib. P. 66v.)
469

E qui il Cigogna fa i nomi dei migliori e più noti navigatori levantini del suo tempo, cioè della metà
del Cinquecento; tra i greci, il defunto Manoli da Paris, il meraviglioso Vatica' di Cipro, della cui
esperienza egli ebbe esperienza diretta, e infine Giorgi Selvaggio; tra i veneziani Paolo Terribile e
aloigi Finardi, tra i dalmati Michele e Pietro da Lesina, Antonio Versaio e Giovanni dalla Vrama
(Questi tutti per padroni di navi e còmiti sono eccellentissimi, tanto che la Schiavonia tutta
illustrano. (Ib.)
Premesso che, per Schiavonia, i veneziani intendevano i territori aldiquà del Danubio e invece i
bizantini quelli aldilà (Suida, cit. T. III, p. 333), il predetto autore concede inoltre che si trovassero
buoni naviganti e marinai anche in paesi non soggetti alla Signoria di Venezia:

... Da Ragusi e Sio si cavano ancora ottimi naviganti, come per isperienza si vede. Gl’inglesi sono
buoni, i portughesi migliori e quelli di Marsiglia ottimi e rari... (Ib.)

A proposito della gente di mare inglese, il Vecellio, descrivendone l’abbigliamento, molto anche la
elogia:

… Questi marinari sono molto valorosi e arrischiati in ogni sorte di fortuna (‘tempesta di mare’) e
navigano di continuo per gran vento contrario che essi habbiano… (Cit. P. 282r.)

Nel 1551 li elogiava anche il già citato Daniel Barbaro:

… gl’inglesi, per la moltitudine de’ porti e dell’isole, hanno una grandissima copia di navi e di
marinari e nel mare vagliono assai; possono fare ne’ bisogni da (‘circa’) cinquecento navi, delle
quali cento e più sono coperte, e molte per uso della guerra continuamente sono servate in diversi
luoghi… (E. Albèri. Cit. S. I, v. II, p. 253.)

Ed ecco un altro residente veneziano, questo restato anonimo, ma del tempo della regina Mary
(1553-1558), il quale considerava le virtù marittime principali in quei popoli:

… Ma ciò che loro è più proprio è d’attendere alle cose di mare, nelle quali fanno molto profitto e
n’escono meglio e più valorosi che in terra; il che, siccome è conosciuto da loro così vi pongono
ancora le maggiori forze che habbiano, con le quali accompagnando anco l’ingegno e l’ardire,
fanno mirabili prodezze secondo l’occasione, stimando poco la morte in tutti i casi. (Ib. P. 388.)

Giovanni Michiel, altro residente veneziano in Inghilterra (1557), non riportava però esser più al
suo tempo molto efficienti, come lo erano invece stati nel passato, i vascelli conservati dagli inglesi
solo per gli impegni bellici:
470

… hora non se ne trovano in essere a fatica quaranta, che - o sia per negligenza o per necessità
per avanzar la spesa - parte sono stati venduti parte sono affatto innavigabili; però questi pochi
che restano, con quelli delli particolari sudditi delli quali il Re si serve in ogni occasione come
proprij, pagandoli come fa, (e), quando il bisogno stringe, anco delli forastieri, non solamente
suppliscono alla difesa, ma sariano in un bisogno considerabili per l’offesa, perché è nome che se
ne ritrovino sparsi in diversi porti dell’isola – tra grandi e piccioli – e di tutte sorte, atti però a servire
e andare contra il nemico, un numero così grande che, se si unissero insieme, siccome potriano in
tempo di bisogno ad un comandamento del Re, facilmente si potria arrivare anco ad una quantità
straordinaria di molte centinara – e meglio di dugento, come dicono gl’inglesi… (Ib. P. 297.)

Inoltre i marinai inglesi erano poco pretenziosi, come farà capire più tardi - per sentito dire da altri -
il già ricordato Agostino Nani (1598):

… Dice che la regina (Elisabetta) potria mettere in mare (immediatamente) circa 150 vascelli, che
nell’espedizione dell’armata la regina sta presente alla rassegna de’ soldati e marinari, a’ quali dà
(solo) un vestito e uno scudo per ciascuno e il resto si paga nel ritorno col ritratto delle prede. (Ib.
S. I, v. V, 491.)

Alla fine del secolo il Crescenzio definirà i portoghesi principi della navigazione e ciò alla luce delle
loro grandi imprese transoceaniche; per quanto riguarda poi i francesi, bisogna aggiungere che,
oltre ai marsigliesi, apprezzati marinai dovevano già allora essere i bretoni, anche se ne troviamo
conferma solo a partire dal Settecento:

... Bretagne [...] en général le peuple de ce pays est bon marin, de sorte que cette province fournit
plus de matelots que toutes les autres de la France. Durant le siége de la Rochelle le Roi tira d'un
seul bourg quatorze cens matelots. (Alexandre de Savérien. Cit. P. 49.)

Si potevano poi, anche per il Cigogna, considerare ancora validi marinai, oltre ai veneziani, anche
altri italiani come genovesi e siciliani, ma era innegabile che, da quando erano state scoperte le
Americhe, si era determinata una sostanziale inferiorità delle attitudini marittime degli italiani in
genere a causa della pochissima pratica che avevano avuto occasione di fare con l'oceano. Infine
qualche parola del predetto veronese sugli ottomani:

... I turchi sono accortissimi e astuti sopra il mare; navigano con brutti vasselli mal forniti
d'artiglierie, ma combattono alla disperata; stanno nel mare - con le sue genti e ciurme - nettissimi
e mondi più che altri che i mari solchino. (G. M. Cigogna. Cit. P. 66v.)

Possiamo quindi immaginare quanto potessero disprezzare i greci dell’arcipelago per la loro nota
sporcizia, causa principale delle terribili pestilenze che, come abbiamo già detto, erano peculiarità
delle armate veneziane; queste doti dei turchi non bastavano però a bilanciare la loro fama di
pessimi marinai e ciò perché, come giustamente osservava nel 1534 il bailo veneziano a
471

Costantinopoli Daniello de' Ludovisi, la buona disciplina e perizia nelle cose marittime nasce dalla
gran pratica del commercio marittimo e non dai saltuari episodi bellici:

... Ma i turchi non sono mercatanti ...] e se dalla Natolia, ovvero altri luoghi del Signor Turco,
escono fuste di corsari, quali in tal modo acquistano qualche perizia delle cose marittime, niente di
meno sono genti disordinate e confuse che, dal rubar oziosamente in poi, non poteria un principe
sopra esse far molto fondamento...
In quanto poi appartiene all'armar le galee, oltre li galeotti non hanno si può dire, alcun marinaro od
altri periti di milizia da mare e così dico di capi come di uffiziali inferiori. (E. Albéri. Cit. S. III, v. I, p.
18.)

Lo scarso interesse che infatti i turchi avevano sempre sino allora dimostrato nelle cose di mare
aveva fatto sì che anche il loro valor militare si sviluppasse e dimostrasse principalmente nella
guerra terrestre; questo disinteresse comportava, tra l'altro, l'affidare il comando delle loro armate
generalmente a noti corsari e non a generali di carriera, come invece facevano i cristiani, i cui
generali di mare, pur praticando anche la guerra di corso, non erano certo da considerarsi alla
stregua dei corsari barbareschi, e a tali deleghe dette inizio lo stesso sultano Sulaiman nel maggio
del 1533, quando pose la sua armata di mare sotto il comando del re di Algeri, cioè il famoso
corsaro Barbarossa, il quale tanto lo aveva voluto per poter fare l’impresa di Tunisi. Il corsaro, per
ottenere questo, aveva dovuto recarsi a chiederlo di persona a Costantinipoli; partì da Algeri il 17
agosto del 1533 con 18 vascelli tra cui 7 galere (la sua ‘capitana’ era una bastarda) e per il resto
fuste e galeotte, flottiglia che era posta sotto il comando del suo capitano generale Hay ed-din,
detto Cacciadiavoli (sp. Cacha Diablo), e del luogotenente di questi, cioè del già ricordato Khadim-
Hassan-Aga, detto dai cristiani Azanagà; durante il viaggio incontrò un’altra flottiglia di corsari
dell’isola di Gerba ((Los Gelves) di 15 vascelli, tra i quali una galea veneziana catturata, e ne
convinse il capitano ad unirsi a lui. Insieme aggredirono varie località marittime italiane e la prima fu
Rio Marina all’isola d’Elba, dove catturarono circa trecento persone, trattandosi per la maggior
parte di donne e bambini e di uomini solo 15, perché tutti gli altri erano riusciti a fuggire senza
preoccuparsi di restare magari a difendere le loro famiglie, come a quei tempi crudeli purtroppo
spesso nelle località marine s’usava. I corsari, prima di andarsene, bruciarono l’intero paese e la
sua chiesa. Incontrarono poi 12 navi genovesi che andavano a sud caricare frumento, le
combatterono e vinsero, catturandone 6, le quali, portate all’Elba, furono depredate e bruciate;
durante il combattimento il Barbarossa, il quale voleva impadronirsi della galea veneziana catturata
dall’altro corsaro, ne fece uccidere il capitano con un colpo di scoppietto sparato da una delle sue
fuste e poi ne affidò il comando a uno dei suoi adalid (‘luogotenenti’). Comandò poi che ci si
fermasse a far acqua all’isola di Ponza; senonché un gruppo di pescatori, vedendoli arrivare, corse
a rifugiarsi in una torre costiera molto forte e da lì cominciò a bersagliare, con molto successo, i
472

vascelli nemci appunto con un passavolante di cui la torre era dotata; una palla attraversò da prua
a poppa tutta la galera bastarda di comando, passando tra lo stesso Barbarossa e un suo garzone
rinnegato addetto alla sua persona e provocando ai due un terribile spavento che durò loro per tutto
quel giorno (de lo cual quedaron tan espantados que no se les quitó el miedo en todo aquel dia. In
Colección de documentos inéditos para la historia de España etc. e segg. Tomo II. P. 383. Cit.); );
non sembra dunque che il famoso corsaro Barbarossa fosse un uomo particolamente coraggioso.
Dopodiché 33 vascelli corsari, a ciò convinti da quel solo passavolante, rinunziarono a far acqua a
Ponza e andarono a farla a Ventotene (‘Benteta’), isola però piccola e quindi scomoda da far
prendere acqua a una così numerosa squadra; scorserro poi la vicina piccola isola di Santo
Stefano, la quale allora si chiamava Isola di Madreventre, probabilmente perché rotonda come il
ventre di una donna gravida, e poi tornarono a Ventotene, dove però nel corso della norre seguente
i 15 vascelli dei corsari di Gerba si eclissarono e con loro anche uno dei vascelli dello stesso
Barbarossa, la cui ira fu però lenita dalla circostanza che con lui era rimasta la galea veneziana, in
quanto ormai governata da uomini suoi.Si spostarono ancora a sud e, passati nei pressi dell’isola di
Càmara (‘Levanzo’), si fermarono a far acqua a quella di Favignana, dove, per non essere scoperti
da Trapani, si ancorarono sulla costa occidentale nei pressi di una fortificazione abbandonata e
l’acqua da quel luogo era molto lontana, per cui fecero la loro acquata con molto disagio. Questo è
un altro particolare del racconto che dimostra quanto lo scorrere il Mediterraneo non fosse poi per i
corsari barbareschi quella passeggiata che oggi si crede. Giunse poi il Barbarossa all’isola
Pantanalea (oggi ‘Pantelleria’), dal gra. παντανάλιος e παντανήλιος), cioè isola ‘senza sole, buia,
tetra’, che tale dové apparire a chi così la battezzo, e la razziò di tutto il suo bestiame e, in un
grande banchetto generale organizzato a terra, lo fece arrostire per dare carne fresca da mangiare
ai suoi uomini. Prima di arrivare a Negroponto i vascelli del Barbarossa incontrarono un gruppo di
fuste di corsari turchi minori e, come era prassi delle flottiglie dei maggiori corsari barbareschi di
quei tempi, alcun di quei vascelli furono presi per passare i loro equipaggi a riempire i vuoti dei
propri e poi, non essendo, così disarmati, d’alcuna utilità al barbarossa, furono bruciati a evitare
che cadessero magari in preda a nemici cristiani. Un’altra fusta di corsari subirà poi la stessa sorte
nella località costiera di Corìo nel’isola di Negroponto.
Giunto a Costantinopoli l’11 novembre, l’anno successivo 1534 il Barbarossa vi convinse il Sultano
a dargli un’intera armata, ricevendone infatti ben 103 e nominandovi suoi aiutanti d'armata solo
uomini a lui fedeli, in modo da porla tutta in suo personale arbitrio. Su questa armata, che poi il
corsaro, tornato a Corone, ridurrà di venti vascelli per poter così armar meglio gli altri, quando non
l’aveva ancora ricevuta a Costantinopoli il predetto bailo veneziano de' Ludovisi aveva fatto cattive
previsioni:
473

… L'armata sua sarà mal armata, senza soldati della Porta (‘ottomani’), con pochi marinari e li suoi
(‘i barbareschi’) eziandio, per quanto s’intende, non molto valenti. (Ib. P. 20.)

Invece il Barbarossa con essa, ridotta infine a 83 vascelli, tra cui 7 erano galeoni e fuste e per il
resto galere, dopo aver evitato Messina, perché guardata da 500 spagnoli e da 300 siciliani, e
dopo aver compiuto alcune devastazioni al Faro e sulla costa calabrese di fronte, s’impadronì di
Tlemcen, città situata ventuno leghe a occidente d’Orano e soggetta a una signoria africana sua
nemica, e poi prese anche Tunisi; ma bisogna dire che non sarà quella una salda impresa tant'è
vero che appena l'anno successivo gli algerini ne saranno scacciati da Carlo V e dovranno ritirarsi
a Bona; vero è che lo stesso Kheir Eddine si rifarà nel 1536, quando cioè, dopo aver evitato la
squadra guidata da Andrea d’Oria e da un certo altro condotto genovese ricordato in
quell’occasione semplicemente come il signor Adamo, rientrerà ad Algeri e, approntata una
squadra, la porterà a prendere e devastare Porto Mahon a Minorca, città dalla quale porterà ben
800 abitanti schiavi ad Algeri. Sempre secondo il de' Ludovisi, Sulaiman e Ibrahim Pasha, suo
sadri-azem o vezir-azem, ossia primo ministro, fatte delle tardive considerazioni, quasi si pentirono
poi d’aver affidato tutta la loro armata di mare al Barbarossa:

... Sono il Gran Signore e Ibrahim entrati in qualche pensiero che non sia stato ben fatto il tanto
fidarsi di Barbarossa, non rimanendo altra armata a Costantinopoli salvo che tristissimi legni da
potersene poco valere [...] Quelle veramente che si truovano nell'arsenale sono trentanove corpi di
galee grosse malissimo condizionate e si può dire 'alla matta' (‘prive di opere morte’), senza
barche e alcun altro armeggio di qualunque sorte, e venti 'fra legni sottili e bastarde
medesimamente di mala condizione. (Ib. 19-20.)

Ecco di nuovo la suddetta distinzione tra galee sottili, bastarde e grosse, ma fatta ora in epoca
molto precedente a quella che abbiamo letto nella relazione del de’ Ludovisi, il che significa che a
Costantinopoli le galere bastarde si costruivano già allora; aggiunge poi il de' Ludovisi qualche
parola sul carattere del Barbarossa (Medelin c. 1476 - Costantinopoli 6.8.1548), nuovo kapudan
pasha, vale a dire capitano generale dell'armata marittima, succeduto in questo incarico al
sangiacco di Gallipoli:

... Il detto Barbarossa […], essendomi io con lui ritrovato, mi è parso molto altiero e superbo. É di
età di cinquanta e più anni. Ha con sé un fratello del re di Tunisi (Al-Rascid), che tiene per
servirsene in alcuna occasione a voltar quel regno, e ha ancora Cacciadiavoli, corsaro turco. (Ib.
P. 20.)
474

Le suddette considerazioni del de' Ludovisi verranno sostanzialmente confermate nel 1554 dal
bailo Domenico Trevisano, laddove afferma che il sultano, pur trovandosi gran disponibilità di
materiali e galeotti, non era mai stato in grado sino allora di far uscire in mare grosse armate:

... e ciò per la non grande abondanzia di persone pratiche del mare. E dico con mio dolore che, se
non fossero li greci e sudditi della Serenità Vostra che vanno di propria volontà al servizio del
Turco nelle galee per scapoli e galeotti, non si trovariano nelle armate di quella maestà, si come si
trovano in quelle della Serenità Vostra, galee bene o almeno mediocremente condotte [...] Ma
costoro, tatti dall'utile della paga straordinaria che toccano in contanti di aspri settecento e alcuni
novecento e anco della paga ordinaria, essendo in tutto essa paga ordinaria maggior di quella che
Vostra Serenità dà alli suoi galeotti, lasciano le proprie case e vanno in Costantinopoli per tal
servizio; e il medesimo anco fanno molti che vanno per marinari con gli navigli, abbandonando poi
li loro padroni, e molti anco che sono banditi, non potendo stare in casa, provvedono per tal mezzo
a lo loro vivere. (Ib. P. 147.)

E a questo punto il Trevisano da al suo doge dei suggerimenti sul modo d’evitare che i marittimi
della Serenissima, approfittando degli scali a Costantinopoli, abbandonassero le loro navi per
passare al molto più remunerativo servizio turco:

... per le navi che vanno al viaggio di Costantinopoli, direi anco che fosse bene che a questo
viaggio non potesse andare sopra alcuna nave né naviglio alcuno garzone di meno di sedici anni,
perché vanno con molto pericolo di farsi turchi, si come è intervenuto in mio tempo ad alcuni che
sono stati disviati e fatti turchi... (Ib. P. 148.)

E pure si doveva cercare d’evitare - cosa che solo verso la fine del secolo sarà, come abbiamo
visto, decisa dalla repubblica - la pena del bando, allora molto comune specie per i rei giudicati in
contumacia:

... perché, senza dubio alcuno, la pena del bando è la certa e principal causa che molti non
solamente vanno ad abitare in Costantinopoli, ma vanno alli servizij del Turco, con danno delle
cose di Vostra Serenità... (Ib.)

Ma nei commenti del Trevisano s’intravedono già i segni della necessità di cambiamento di
valutazione della qualità della marinaresca turca e infatti pochi anni dopo, cioè nel 1560, il bailo
Marino Cavalli leggerà in senato che le galere turche erano ormai diventate buoni e temibili
vascelli:

... Il Turco può mettere insieme centocinquanta galee, per quel che ho veduto io, e sono assai
migliori che non solevano, perché ha uomini essercitati con l'armar che fa così spesso e perché li
corpi delle galee son fatti di miglior sesto che prima, pigliando la forma delle galee ponentine che
han preso. (Ib.)
475

E, non ostante fossero per lo più tenute d'inverno esposte all'intemperie e non al chiuso dei volti,
come allora si chiamavano i capannoni a volta (lt. testudines, camerae, loca camerata, ‘tetti a
volta’) degli arsenali, le galere turche erano molto manutenzionate, tanto da durare molto di più di
quanto duravano quelle cristiane:

... Le galee durano diciotto o venti anni al Gran Signore e le tengono per lo più in acqua allo
scoperto, che è cosa miserabile. Questo procede da ciò che ogni sovracòmito (‘comandante,
capitano’), che loro chiamano 'reis', ha per consegnata la sua galea ed ha carico di disarmare, di
governar li remi e di tutto quello che accade vicino al corpo della galea nell'arsenale, il che tutto fà
assettare alli galeotti prima che partano (‘siano congedati’); e, durando tanto il suo essere
sopracòmito quanto la galea, è forzato avergli estrema diligenza, tenendola in piedi e navigabile
più che può, perché ad averne una nuova gli costaria più di ottocento ducati di donativi
(‘bustarelle’) a diversi. (Ib. 292.)

Il Cavalli ci da anche la composizione - purtroppo compendiata - dello equipaggio d’una galera


sottile turca in questo periodo, il quale è quello in cui s’incominciava a rinunziare alla voga a remo
sensile per passare a quella a remo di scaloccio:

... Gli uomini delle galee sono il sopracòmito, detto 'reis', il còmito, sottocòmito, parone e quattro
altri uomini da aspri quaranta al dì, ma tutti senza biscotto; poi venticinque inferiori per la
navigazione e il veleggiare, che toccano aspri quattro al dì, il pane e aspri settecento per una fiata
(cioè come ingaggio). Vi sono ancora centoquarantotto uomini di remo con il pane e aspri
ottocento per una fiata e, quando bisogna, altri scapoli che vivono alle taverne (cioè comprandosi il
vitto alla taverna di bordo) e sono christiani, candiotti per il più, delli quali, se vi fosse buon ordine -
e di ottimi arcieri ancora - Vostra Serenità si poteria benissimo servire levandoli ai turchi e facendo
abondanza a sé, 'sì che non le bisognaria pagar gli schiavoni con otto paghe avanti tratto
(‘anticipatamente’). Vi sono due soli bombardieri e quaranta giannizzeri, ovvero sessanta 'spaì', ma
vagliono più li quaranta che li sessanta. (Ib. 293.)

Perché allora avevamo 148 vogatori e alla fine del secolo, come abbiamo già appreso dalla
relazione del Bernardo, n’avremo solo 141? Doveva quindi trattarsi di galere da 25 banchi per lato
- detratto il solito sostituito dal fogone - e con tre vogatori per remo, il che darebbe un totale di 147;
evidentemente era ammesso un remiero di riserva per ogni galera. Alla differenza di valore tra
soldati giannizzeri e soldati spaì torneremo a suo luogo; certo è che nel giudizio degli esperti
militari cristiani del tempo gli unici soldati ottomani di valore erano appunto i giannizzeri e i
rinnegati, praticamente quelli nati cristiani nei territori una volta costituenti l’impero bizantino.
Innegabile e notoria era comunque l’ottima disciplina militare dei turchi, la quale si poteva
costatare quindi anche nella milizia marittima:
476

... Li turchi non giuocano né bestemmiano né s’imbriacano in galea. Hanno alquanti buoni marinari
e dietro quelli vanno gli altri e questi bastano. Hanno dieci overo quindici capi bravi, come Curtogli,
Caramustafà, Deliafer, Carabrucchi, ma de' corsari non si fidano molto e si servono d'essi come li
medici di cose velenose, cioè in poca quantità, e accompagnati con tutto il resto dell'armata. (Ib.
pp. 294-295.)

Sul grande servizio che però i vascelli barbareschi rendevano all'armata ottomana così
s’esprimeva il bailo Antonio Barbarigo nel 1558:

... Con questa armata sempre si accompagnano quaranta e cinquanta fuste di corsari, le quali
precedono sempre per cinquanta o sessanta miglia detta armata e le servono per un’antiguardia,
perché queste stanno in continuo moto, vanno e vengono e sempre portano avviso dell'inimico e
vanno depredando tutte le isole e luoghi di marina e quanti navilij li capitano nelle mani, dalli
uomini de' quali intendono quello che fà il nemico e subito né danno all'armata avviso; talché si
può dire che questa sorte di legni sia la salute propria di tutta l'armata, oltre che da questi ne
cavano non picciola utilità rispetto alla parte de' bottini che danno al Capitano di detta armata. (Ib.
S. III, v. III, p. 153.)

Nel 1562 il già citato Marc'Antonio Donini confermava una raggiunta efficienza dell'armata di mare
ottomana, dovuta però soprattutto al personale cristiano che le costruiva le galere e che su d’esse
navigava:

... Può armare il serenissimo Gran Signore intorno a 170 buonissime galee per il viaggio lungo e
sino a 200 per viaggio corto, oltra li 'leventi', che sono anch'essi in molto numero. Li corpi (‘scafi
non corredati’) delle galee che da certo tempo in qua sono state fatte nell'arsenale di
Costantinopoli (quello di Pera) da maestri christiani, delli quali parecchi ne sono sudditi di Vostra
Serenità e di altri luoghi di quelle parti, pure cristiani, 'che i turchi non sanno far cosa alcuna di
queste che sia buona, prometto (‘assicuro’) a Vostra Serenità che sono (così) belli, così buoni, così
bene intesi e così presti al remo, alla vela e al timone ch'è una maraviglia; oltre che portano
buonissimi alberi, antenne, sarte, remi e ferri, il che non faceano gli anni passati, più presto per
negligenza di chi n’aveva la cura che per mancamento di materia, della quale n'hanno ora maggior
copia che prima, se bene in diverse parti, tanto che, per ogni poco che un albero o un’antenna si
sia risentita, la mutano subito che si avvedono del bisogno e specialmente quando hanno da uscir
fuora. (Ib. Pp. 191-192.)

Dopo aver elogiato il valore dei summenzionati rais, il Donini insiste però sul determinante apporto
della marinaresca cristiana alla marineria da guerra ottomana, specie di quei greci dell'Arcipelago
sudditi di Venezia:

... Possono parimente esser chiamati pratici e bene intelligenti gli uomini da comando, delli quali
molti ne sono sudditi di Vostra Serenità, che, essendo stati discepoli nelle galee di Lei di
buonissimi e valentissimi uomini di questa professione, si ritrovano ora maestri d'altri in quelle
parti; alcuni delli quali si sono fatti turchi per diversi accidenti che gli sono occorsi e alcuni altri
servono in quell'arsenal sendo christiani, parte per esser banditi dall'isole di Vostra Serenità e
parte per il grosso pagamento che gli vien dato; il qual è anche cagione che i turchi non hanno ora
477

quella fatica che avevano già alcuni anni per ritrovar molta gente da comando, imperocché un
fratello delli sopra detti chiama l'altro e così li parenti e gli amici; e li chiamati vi vengono
prontamente, senza aspettar troppe repliche, o cacciati dalla fame o per guadagnare in quattro
mesi quel tanto che fanno in un intero anno nelle galee di Vostra Serenità. (Ib. 192.)

Una dettagliata consistenza delle forze di mare ottomane di questo periodo si ritrova nella
relazione letta in Senato nel 1564 dal bailo Daniele Barbarigo, il quale, dichiarandosi tuttavia poco
intendente delle cose di stato turche, si astiene dal commentarne la qualità:

... Ha poi Sua Maestà (‘il sultano’) per le cose di mare in Barberia legni armati settantasette, oltra
dieci che sono in golfo (‘nell'Adriatico’) e in altri luoghi, che vanno rubando (‘in corso’); delli quali
settantasette ne sono in Tripoli galee tredici e galeotte otto, in Algeri e Bona cinquantasei.
Nell'arsenale di Costantinopoli [...] si trovano in terra galee novantadue e in acqua settantuna e
quattro galeotte e dieci maone. Ne sono poi fuora in Alessandria galee sei, a Rodi dieci, a Metelino
due, a Negroponto una [...] e, come fanno grande armata, lasciano alla guardia dell'Arcipelago
venti galee, le più triste. (Ib. S. III, v. II, p. 34.)

Il bailo Jacopo Ragazzoni ci da invece la predetta consistenza al 1571, ossia agli albori della
battaglia di Lepanto, consistenza dalla quale già si evince la grande importanza che aveva in
quell'armata lo stuolo di galere del rinnegato calabrese Uluch-Alì e dei capi-corsari suoi compagni,
non a caso l'unico che riuscirà a salvarsi da quella catastrofe bellica:

... In quanto poi alle forze di mare, si trova al presente il Signor Turco il numero di duecentodue
galee armate, computate 'fra esse quindici in venti galeotte. Oltre le quali vi è Occhiali corsaro con
venti 'fra galee e galeotte e molti altri corsari, de' quali non si può ben sapere il particolare; i quali
corsari tutti sono obligati di servir sempre in occasione che il Gran Signore armi. A Costantinopoli
restorno al partir mio quindici sole galee in arsenale, per il più innavigabili. (Ib. P. 100.)

Doveva dunque il Ragazzoni aver abbandonato la capitale ottomana dopo la partenza dell’armata
per la guerra, partenza che, come era tradizionale in Turchia anche per gli eserciti di terra,
avveniva sempre il 25 aprile, allora giorno della festa di S. Giorgio, essendo questo l’unico santo
che la religione di quel popolo riconoscesse; il de Bourdeilles scriveva che l’unica volta che
Sulaiman aveva anticipato tale data era stato quando aveva mandato la sua armata contro Malta.
Per quanto riguarda i corsari barbareschi, il capitolato della lega cattolica del 1571 concordava con
i dati del Ragazzoni attribuendo ad Algeri una disponibilità di 30 galere o poco più. Ricordiamo che
il grosso delle galere turche si trovava in quel tempo all'assedio di Famagosta nell'isola di Cipro,
assedio che, come tutti sanno, si concluse con la completa conquista turca dell'isola e con quel
demoniaco, indescrivibile e imperdonabile martirio del governatore veneziano Bragadino, martirio
che superò di gran lunga in ferocia quello fatto già subire nel 1529 dal Barbarossa a Martín de
Vargas, eroico comandante dei 200 spagnoli (secondo altri solo 150) che difendevano il Peñon (‘la
478

Rupe’, in sp.) del porto d’Algeri, forte preso il 6 maggio di quell’anno, dopo 15 giorni di batteria e 21
d’assedio complessivi, appunto da Kheir-ed-Din, il quale disponeva di 1.200 uomini imbarcati su 12
galeotte da 18 banchi e 2 da 22, più naviglio minore; poiché il supplizio del Bragadino è tristemente
noto, riportiamo qui di seguito, come narrato dal de Haedo, quello subito appunto dal Vargas,
ormai prigioniero, verso la fine dell’agosto seguente, dopo che per ironia della sorte, nonostante i
maltrattamenti e i consueti tre piccoli pani quotidiani con cui erano unicamente alimentati dai
barbareschi gli schiavi cristiani, era riuscito a guarire dalla grave ferita riportata nell’assalto finale:

… Dei turchi s’impadronirono allora di Vargas, lo distesero al suolo e uno di loro si sedette sulla
sua testa, un altro sulle sue gambe secondo l’uso; poi con delle grosse corde di canapa gli
somministrarono dei colpi così forti e così numerosi che la fatica li prese e altri dovettero dar loro il
cambio; gli frantumarono così inumanamente le ossa e le viscere da ucciderlo sul posto. Martin de
Vargas, per quanto si poteva giudicare, doveva avere una cinquantina d’anni, egli era di media
statura, la sua barba nera presentava qualche pelo bianco, la sua carnagione era piuttosto bianca
che bruna… Appena che fu spirato, Barbarossa, il quale aveva assistito a tutto il supplizio, fece
togliere il cadavere e i turchi lo portarono nel cortile per poi gettarlo a mare… (D. de Haedo. Cit.)

L’inumazione dei morti cristiani sarà infatti consentita ad Algeri solo a partire dalla reggenza del già
ricordato Hassan Pachà, figlio di Kheir-ed-Din Barbarossa, il quale acconsentirà alla fondazione di
poverissimi cimiteri per cristiani fuori dalle porte di Bab-el-Ued e di Bab-Azun sulla riva del mare.
Tornato el Peñon finalmente in mano degli algerini, il Barbarossa lo fece unire alla terra ferma con
la costruzione d’un molo fatto con i rottami ricavati dalla demolizione del forte spagnolo, molo che
più tardi Salah Raïs (1551-1556) riparerà e ingrandirà utilizzando materiali tratti dalle rovine
archeologiche dell’antica città romana di Rusgunium; ma, tornando ora allo strazio del Bragadino,
aggiungeremo ora qualcosa a quanto comunemente se ne sa e cioè che il montenegrino vizir Lala
Mustafà conquistatore di Cipro, il quale era proprio colui che aveva ordinato di far tale scempio del
disgraziato governatore veneziano, trovandosi in seguito a parlare con ambasciatori cristiani, si
scuserà più volte pubblicamente di quell’atroce episodio, adducendo che, se aveva violata la fede
data ai difensori di Famagosta e aveva poi usato infinite crudeltà contro i governatori e i soldati di
quell'eroica piazza, lo aveva fatto perché tale era stata la volontà del sultano Selim II. Ancora nel
1573, come testimonia il bailo Costantino Garzoni, la pelle del povero Bragadino era tenuta in
aperta e lugubre mostra nell'arsenale di Peràia; forse proprio in quell’anno, a seguito della pace
sottoscritta nel marzo con i turchi, i veneziani avranno ottenuto che venisse sottratta a
quell’impietosa e insolente esposizione e venisse a loro consegnata, perché infatti si troverà poi
sepolta in un’urna di marmo nella chiesa dei SS. Giovanni e Paolo di Venezia. Una lettera del
Bragadino, da lui inviata il 1° marzo 1561 da Costantinopoli, dove probabilmente si trovava in
missione, al senato veneziano e ad altri principali principi cristiani, fu pubblicata a stampa a Lione
479

in quello stesso anno; con essa egli voleva mettere in luce che la Gran Porta stava attraversando
un momento politico molto preoccupante, essendo quell’impero allora minacciato da tutti i lati da
nemici potenti e agguerriti; tale missiva è interessante perché testimonia del carattere del
Bragadino, certamente ottimo e valoroso soldato, ma osservatore politico poco acuto e alquanto
fantasioso (Marco Bragadino, Lettre envoyée de Constantinople à la tresillustre seigneurie de
Venise et à plusieurs autres seigneurs et princes chrestiens etc. Lione, 1561. B.N.P.)
In disaccordo con i relatori suoi predecessori, il succitato bailo Ragazzoni non credeva in un’ormai
raggiunta efficienza delle galere turche e il suo giudizio sostanzialmente negativo, espresso poco
prima della battaglia di Lepanto, sembra presagire la grande disfatta marittima dell'impero
ottomano:

... Di sartiami vanno (quelle galere) non molto ben provviste, non perché manchi lor modo di
averne a bastanza, ma perciocché non hanno ancora fondato ordine sopra questa milizia di mare;
il che quando facessero, ponendo nelle cose di mare quel pensiero e quella diligenza che pongono
nelle cose da terra, sarebbe da temere che non accrescessero anco in questa parte grandemente
le forze loro, non mancando loro la commodità delle cose necessarie per fabricar maggior quantità
di galee e fornirle, potendo con la forza del denaro supplire a quelle cose, nelle quali avessero
qualche difficoltà. (E. Albéri. Cit. S. III, v. II, pp. 100-101.)

Non racconteremo né la battaglia di Lepanto né alcun’altra di quei tempi in genere in quanto scopo
di questo nostro lavoro è rievocare mezzi, regole e modi della guerra nautica mediterranea e non
certo narrarne stucchevolmente i singoli episodi; infatti il nostro vuole essere un lavoro di filologia
militare e non di storia militare. A chi comunque volesse saperne il più possibile basterà leggere le
diverse note, chiare ed esaurienti relazioni coeve, come quella a stampa di Giovan Pietro Contarini
(Venezia, 1572), il quale raccolse testimonianze dirette da capitani, semplici soldati e schiavi
cristiani remiganti che furono in quell’immensa battaglia e poi elenca i nomi dei capitani d’ogni
singola galera o fusta o galeazza che vi partecipò, cristiana o maomettana che fosse, elenco che
fa pure Girolamo Catena e che, anche se quest’ultimo autore è di solito molto impreciso nel
riportare i numeri, è comunque molto utile da confrontare a quello del Contarini per completare
quest’ultimo dove necessario; inoltre quelle di Girolamo Diedo (Corfù 1571), d’Emilio Maria
Manolesso (Padova 1582), d’Alvise Soranzo (1571), di Ferrante Caracciolo (Firenze 1581), ma
soprattutto quella di Bartholomeo Sereno, il quale, trovandosi al seguito del generale delle fanterie
ecclesiastiche Onorato Gaetani, partecipò da venturiero alla battaglia - come del resto anche alle
campagne degli anni successivi, imbarcato (gra. ἐπινήιος) sulla galera toscano-pontificia Grifona
comandata da Alessandro Negrone e nello schieramento di battaglia si trovò quindi separato dalla
Reale di Giovanni d’Austria solamente da due altre galere:
480

… E tanto più minutamente e bene saranno i fatti seguenti descritti quanto per la lor descrizione
non ho havuto bisogno della relazione di alcuno, poi che il tutto con l’intervento e presenza mia
essendo passato, non ho lasciato cosa alcuna ad essi appartenente che diligentemente non
habbia notato. (B. Sereno. Cit. P. 75.)

Il Sereno, il quale poi nel 1576 si farà monaco cassinense, ebbe molte informazioni di prima mano
anche per quanto riguarda l’armata ottomana e infatti così scriveva in un suo altro manoscritto
autografo:

… Né paia strano a chi legge che de’ fatti e consigli (‘propositi’) de’ turchi habbia potuto
minutamente scrivere il vero, poi che da Mahemette Bei, sangiacco di Negroponto, vecchio e
prudente consigliero, e dal secretario generale della stessa armata nemica, che nelle nostre mani
sono stati lungamente prigioni, ho di tutto havuto pieno ragguaglio. (Ib. Prologo, p. XLT.)

Persa dunque a Lepanto dal sultano Selim II la maggior parte delle sue galere, egli tentò pertanto
di ridotarsi d’una consistente armata di mare nel più breve tempo possibile e il conseguente
affrettarsi dei lavori negli arsenali di Costantinopoli, del Mar Maggiore e dell'Ellesponto sarà molto
più tardi ancora portato per esempio dal Pantera:

... Et a i tempi nostri si è veduto Selim Gran Turco, dopo' la rotta havuta nel golfo di Lepanto l'anno
1571, in cinque mesi d'inverno fabricar tante galee che l'anno seguente mandò contra i christiani
(e) sotto il governo d'Uluzzalì (‘Uluch-Alì’) una più numerosa armata che quella dell'anno
antecedente, havendo messo in acqua centotrentadue galee e dodici maone. (P. Pantera. Cit. P.
60.)

Ciò nonostante si può dire che la rotta di Lepanto riportò la marina da guerra turca all'inefficienza
che aveva patito nella prima metà del secolo e ne da testimonianza il bailo Marc'Antonio Barbaro
nel 1573; egli scriveva che nell'arsenale turco esistevano ora circa 286 galere e 14 maone, oltre a
molte palandre, ossia palandarie, quindi passacavalli, un numero enorme che il sultano avrebbe,
se avesse voluto, accrescere ancora di molto per la grande abbondanza dei legnami da
costruzione navale (gr. νήïα; ὓλη) che gli venivano dalle coste del Mar Maggiore (‘Mar Nero’):

... E si è veduto che, quando gli fu data la gran rotta (a Lepanto), in sei mesi rifabricò cento venti
galee, oltre quelle che si trovavano in essere, cosa che, essendo preveduta e scritta da me, fu
giudicata piuttosto impossibile che creduta anco da poi che dette nuove galee furono armate. Ma,
così come non possono mancare a' turchi corpi di galee, così di marinari, officiali, bombardieri e
simil gente di professione da mare n'hanno mancamento grande, poiché la rotta che dette loro
Vostra Serenità (veramente non solo lui) privò quasi affatto quell'impero della milizia marittima, la
quale non si può così facilmente rimettere come quella di terra, essendo che quella ha bisogno di
più tempo e maggiore esperienza e che generalmente i turchi a questo essercizio sono mal atti [...]
Onde poco si deve stimare il numero delle loro galee, potendo essere cagione più di confusione
che di benefizio, massimamente ora che, per la grazia del Signore Iddio, non solo è levata a' turchi
481

quella superba impressione che christiani non ardirebbero affrontarli, ma che per lo contrario gli
animi loro sono talmente oppressi dal timore che non ardiscono affrontarsi con i nostri,
confessando essi medesimi che le loro galee sono in tutte le parti inferiori alla bontà delle nostre,
così di gente più atta al combattere come dell'artiglieria, galeotti e di tutte le altre cose pertinenti
alla navigazione. E veramente è così e noi non ardiremmo mandar sino (‘persino’) in Istria quelli
vascelli così mal condizionati ch'essi mandano in parti le più lontane e alle maggiori fazioni. (S. III,
v. I, p. 306-307.)

… Nell'armate hanno una sorte di gente che chiamano asappi, de' quali ne pongono al numero di
venti per galea , e servono per peoti, timonieri, maestranza, patroni e comiti e questi per il più sono
intrattenuti da continova paga; oltre de questi per huomini di spada pongono quanti giannizzeri e
spahì che gli pare secondo le occorrenze. Gli anni passti, oltre queste, genti fecero venir fino dagli
estremi confini di Perſia una nazione chiamata chiurdi (‘curdi’), delli quali si fervirono all'armata per
huomini di spada, ma si come questi sono stimati ferocissimi in terra così non riescono in mare. De
gl'huomini da remo ne hanno mancamento, con tutto che il loro imperio sia così grande e i loro
commandamenti esseguiti con grandissima diligenza e severità, non havendo rispetto ad alcuno
de' suoi sudditi per queste così grandi e continue armate,di che tutto il suo paese estremamenre si
lamenta, poiché pochi di quelli che vanno a seruire ritornano alle loro case, essendo quella gente
mal atta al mare, molto maltrattata, e la maggior parte si muore; e quel che più importa è che,
convenendo, ogni volta che armano, far provisione d'huomini, le loro galee sono armate di gente
nuoua, inesperta e poco atta a patire il mare, d'onde procedono le malattie che li distruggono. È
anco questa gente abietta e vile per essere tenuta in gran servitù. Però (perciò) di pochissima
considerazione possono essere le galee armate di questa gente, onde poco anche si deve stimare
il numero di esse, massime hora che, per la grazia di Dio, non solo è levata a’ turchi quella
superba impressione che i christiani non ardirebbono attaccarli, ma il contrario, gl'animi loro
oppressi dal timore che non ardissono affrontarsi con li nostri, confessando essi medesimi che, se
loro galee sono in tutte le parti inferiori alla bontà delle nostre così (‘come’) di gente più atta a
combattere, come di artigliaria ed altre cose pertinenti alla nauigazione - e veramente non
ardiremmo mandare infino in Instria (antico nome dell’Istria) quelli vascelli mal condizionati ch'essi
(invece) mandano a tutte le più lontane e maggiori fattioni, talmente che in tutta l'armata, benche
numerosa, non vi sono cinquanta buone galee atte a far fattione, le quali, essendo in gran parte
armate de gli schiavi proprij de’ rais e capitani, tenendoli per fondamento delle loro ricchezze, non
gli vogliono perciò arrisigare (‘arrischiare’); l'altro (motivo) è che essi si ritirano tanto più dal
combattere quanto che conoscono il pericolo grande che soprastà per il timore che hanno delle
sollevazioni de i loro proprij schiavi (Tesoro politico ecc. Cit. T. I, pp. 565-567).

Secondo il Barbaro non c'erano allora in tutta l'armata turca nemmeno 10 galere atte a combattere
e, d'altra parte, essendo le galere turche in gran parte equipaggiate con gli schiavi degli stessi rais,
cioè appartenenti agli stessi capitani di galera, questi non avevano ora alcuna intenzione di
rischiare in battaglia tal loro capitale umano, capitale redditizio in quanto il sultano ben pagava ai
raís il servizio di voga prestato dai loro schiavi, e inoltre temevano che in guerra questi schiavi, per
paura d’affondare con i loro vascelli come era accaduto a migliaia di loro appunto a Lepanto, si
sollevassero contro di loro; dunque la potenza marittima ottomana era ormai inesistente:

... Concluder dunque si può esser le forze loro marittime, benché in apparenza grandissime, niente
di meno molto deboli; la qual cosa si può comprobare non solo per le cose ora dette e per la
propria loro confessione, ma con l'esperienza ancora che si è veduta ed osservata tante volte che
482

non hanno i turchi vinto mai in mare dove sia stata loro mostrata la fronte, così nelle generali
fazioni come in altre occasioni minori. (Ib. P. 107.)

Quest'ultima affermazione dimostra la grande confidenza che si era presa, a proposito del pericolo
turco, a Venezia dopo Lepanto, quando invece solo poco prima della metà del secolo Christoforo
da Canal, nonostante tutto quello che i baili veneziani del suo tempo andavano scrivendo nelle loro
relazioni da Costantinopoli, aveva presentato nella sua Milizia marittima le forze di mare turco-
barbaresche come più che temibili e quasi sempre in guerra prevalenti su quelle veneziane. Il da
Canal però si riferiva unicamente al suo tempo, perché in precedenza Venezia aveva più volte
sonoramente sconfitto sul mare il Gran Turco; si possono ricordare per esempio le grandi vittorie
dell’eroico provveditore d’armata trecentesco Piero Zeno, la prima avvenuta nel 1334, quando
cioè, essendo questi al comando d’un’armata veneto-franco-malto-cipriota, sconfisse sonoramente
nel golfo di Smirne quella turca di 200 vascelli leggeri, distruggendone o catturandone 50,
uccidendo 5mila turchi e potendo così dopo effettuare uno sbarco in Anatolia; l’anno successivo lo
stesso Zeno, al comando di 100 galee veneziane, vinse di nuovo i turchi nei mari dell’arcipelago,
ne distrusse la nuova armata e sbarcò di nuovo in Asia Minore; nel 1343, ancora, con pontifici,
ciprioti e cavalieri rodiani, sconfigge in mare per la terza volta i turchi, sbarca, conquista Smirne e
s’inoltra nella terra ferma, ma, soverchiato da forze nemiche, è sconfitto e ucciso in combattimento.
Ancora, non sapeva il da Canal dell’altra bella vittoria ottenuta sull’armata della Gran Porta nel Mar
di Marmara nel giugno del 1416 da Piero Loredan, evento nel quale i turchi persero numerose
galee e numerosissime fuste, trovandovi la morte moltissimi rinnegati cristiani che equipaggiavano
i vascelli ottomani, e furono costretti a trattare la pace con Venezia. Ma, tornando alla paura dei
cristiani che dopo Lepanto prese i turchi, i quali invece ancora prima dell’inizio di quella battaglia li
avevano come al solito dileggiati e disprezzati chiamandoli galline bagnate, ossia polli che
scappavano solo a spruzzargli dell’acqua, questa è dimostrata dai fatti navali che seguirono quella
capitale battaglia, fatti che il Cervantes Saavedra, il quale a Lepanto era stato e vi aveva anche
perso l’uso della mano sinistra colpita da un’archibugiata nemica, nel suo Don Chisciotte fa in
parte narrare a un capitano spagnolo di fanteria fatto prigioniero da Uluch-Alì a Lepanto e messo
da questo rinnegato al remo della sua stessa galera Capitana:

... Mi trovavo il secondo anno, che fu il 1572, a Navarino, alla voga nella ‘Capitana’ di tre fanali.
Allora mi accorsi dell'occasione che colà si perse di prendere in quel porto tutta l'armata turchesca,
perché tutti i 'leventi' e giannizzeri che in essa erano imbarcati erano certi di dover esser attaccati
dentro il medesimo porto e tenevano apparecchiati i loro abiti e 'passamache', che sono le loro
scarpe, per fuggirsene subito a terra senza aspettare di essere combattuti: tanta era la paura che
ora loro faceva la nostra armata. Però il Cielo volle diversamente [...] In affetti Uccialì si rifugiò a
Modone, che è un’isola contigua a Navarino, e, mettendo la gente a terra, fortificò la bocca del
483

porto e se ne stette tranquillo finché il Signor Don Giovanni (d'Austria) se n’andò. (M. de Cervantes
Saavedra. Cit.)

Il predetto giudizio sprezzante delle forze di mare turche post-lepantiane espresso dal Barbaro nel
1573 si può però moderare con quello letto in senato dal già citato Costantino Garzoni nello stesso
anno:

... Di forze marittime il Turco non è meno potente che di terrestri, con tutto che abbia avuto in esse
maggior rotta che tutti gli altri imperatori suoi predecessori [...] Ha posto il Turco questi ultimi anni
così buon ordine a questa sua milizia di mare che in poco tempo ha dato notabile augumento a
queste sue forze [...] Hanno ancora qualche mancanza di gente da comando, il che non mi pare
strano, avendone persa tanta nella giornata navale di Lepanto, ma di questo ancora si rifaranno in
breve tempo avendo loro tanto numero di vascelli (‘mercantili’) che navigano ordinariamente nel
Mar Maggiore e nel Mediterraneo. D'artiglieria, se bene non ve ne sia in molta abondanza, non ne
hanno però alcun mancamento e dopo la rotta della loro armata si sono serviti, per rifarne della
nuova, di un numero di campane che tengono in alcuni magazzini a Trebisonda conservate per
tale effetto. (E. Albéri. Cit. S. III, v. I, pp. 419-421.)

Il Garzoni conferma sostanzialmente la consistenza delle forze di mare turche descritta nello
stesso anno dal Barbaro ed enumera 285 galere, 12 maone, 12 fuste e circa 40 palandre, queste
ultime passa-cavalli adibite al trasporto di legname e altri servizi per l'arsenale di Costantinopoli,
dove, come già detto, non si lavorava tutto l'anno come in quello di Venezia, ma solo nei tre o
quattro mesi precedenti all'uscita dell'armata e ciò nonostante vi si approntavano moltissime
galere:

... tanta è la facilità che hanno costoro di fabricarne; il che può esser da ognuno facilmente creduto
considerando che, dopo una così gran perdita d'armata, ne hanno fatto una nuova di
dugentocinquanta galee in meno di sei mesi, con tutto che allora non ve ne fossero più di sessanta
fornite nell'arsenale. (Ib. P. 423.)

Si esigeva talvolta in quell’arsenale, come scriveva il Sanudo che avvenne nel 1474, che per
abbreviare i tempi, turni d’operai lavorassero a lume di torza anche di notte. La maggior parte dei
vascelli così costruiti era però, come sappiamo, tenuta a svernare in acqua perché i volti a
disposizione non erano sufficienti a contenerne un così gran numero. Morto il crudele Selim II nel
dicembre del 1574, gli successe il figlio Amurat III, il quale già l'anno seguente, superata ormai la
fase d'emergenza post-lepantiana, si preoccupò che il suo impero fosse in grado di ripresentare in
mare un’armata grande e potente, attirando negli arsenali le migliori maestranze dei suoi
possedimenti con l'offerta d’ottimi stipendi e con doni, affidandone la rapida realizzazione ai suoi
principali intendenti delle cose di mare e soprattutto a Mehmed Bassà e a Uluch-Alì; infatti nel
1576 il bailo Marc'Antonio Tiepolo già attribuiva al sultano una certa sufficienza di marinaresca:
484

... né meno gli mancano gli uomini di comando, perché, quantunque ognuno non sia eccellente, è
non di meno bastante a navigare con gli altri; ed è stata così fatta la sua fortuna che, tutto che
abbiano navigato lontani paesi e corso grandissimo spazio di mare, come fu alla Goletta, correndo
anco più d'una mala fortuna, pochi sono stati li legni persi e pochissimo il disconcio patito. (Ib. S.
III, v. II, p. 146.)

Però, nonostante gli sforzi e l'impegno profusi soprattutto da Uluch-Alì, la potenza militare
marittima turca non tornerà mai più ai livelli pre-lepantiani e lo confermerà la relazione del bailo
Paolo Contarini, letta in senato nel 1583:

... Oltra questa milizia di cavalleria e di fanteria ha Sua Maestà (‘il sultano’) quella di mare, la qual
al presente, per il valore e molta esperienza di Ucchialì suo Capitano, è benissimo regolata; e
certo, quando fusse mancato questo soggetto, in questi quattro anni che quell'impero è stato
occupato nella guerra di Persia e non ha mandato fuora armata d'importanza, le cose da mare
sariano andate a male e in molta confusione, perché, se ben nell'arsenale vi erano 180 galee,
erano però molte di esse innavigabili e le altre così mal condizionate che avevano bisogno di molto
tempo e di molto lavoro per essere racconciate; e l'arsenale era così mal fornito di legnami,
palamenti, sartiami, vele e finalmente di ogni altra cosa che non si averebbe potuto disegnar di
cavar numero rilevante di galee se non in progresso di molto tempo. (Ib. S. III, v. III, pp. 220-221.)

Certo la continua vigilanza e le continue insistenze d’Uluch-Alì, il quale aveva più volte fatto
intendere al sultano il cattivo stato in cui si trovava l'arsenale e aveva molte volte condotto il gran
visir a visitare quel cantiere perché si rendesse conto di persona delle sue grandi necessità,
avevano fatto sì che venissero fabbricati 100 corpi di galera sulle marine del Mar Maggiore e del
golfo di Nicomedia, perché queste si trovavano più vicine ai boschi da cui provenivano i necessari
legnami:

... e queste galee sono state da lui tanto sollecitate che finora ne sono state condotte in
Costantinopoli ottanta fornite di albero, antenna, palamento e sartiami, che non vi manca altro che
artiglieria, munizioni e uomini. (Ib. P. 221.)

Frattanto nell'arsenale di Costantinopoli erano state costruite altre 25 galere e si erano provveduti i
legnami necessari al ripristino di quelle esistenti che si trovavano in uno stato atto alla navigazione.
L'obiettivo d’Uluch-Alì era, al tempo di questa relazione del Contarini, di poter disporre, se fosse
stato necessario, di circa 200 galere ben in ordine di là a tre soli mesi e tutto lasciava prevedere,
considerata la grande diligenza, esperienza e ascendenza dell'uomo, che ci sarebbe riuscito. La
debolezza dell'armata di mare turca post-lepantiana non era dunque da ricercarsi nelle capacità
cantieristiche dell'impero, rimaste molto notevoli, ma nella mancanza di marinaresca e di
bombardieri, gente cioè in gran parte perduta in quella disastrosa battaglia e in seguito mai più
ritrovata in numero sufficiente:
485

... Hanno i turchi quantità e commodità di legnami e d'ogni altra cosa per fabricar galee e ne
possono far quante vogliono in breve tempo, né questo si deve mai metter in dubio, essendosene
massime veduta l'esperienza l'anno dopo la rotta della loro armata, che in sei mesi hanno potuto
fabricar e armar tante galee. Il mancamento è d'uomini da comando, e di bombardieri, perché
dell'una e dell'altra sorte ne hanno pochi che siano sufficienti. (Ib. P. 223.)

La relazione del bailo Gian Francesco Morosini, la quale è di due anni successiva alla predetta del
Contarini, testimonia l'ottimo lavoro compiuto nel frattempo da Uluch-Alì:

... Le forze marittime con le quali il Gran Turco difende il suo impero sono tali che non ci è nel
mondo altro principe che ne mantenga maggiori di lui, perché ha nel suo arsenale un grandissimo
numero di galee e ne può molto facilmente far d'avvantaggio quando vuole, perché ha abondanza
di legnami, di ferramenti, di maestranze, di pegola, di sevi e di ogni altra cosa necessaria per
questo effetto.
É vero che al presente non si ritrovano in pronto tutti quelli armezzi che sariano necessarij per
armar i corpi delle galee che sono in essere - e molto meno quelle che di nuovo il Gran Signore ha
ordinato che si facciano - ed ha mancanza di cotonine di che fanno le vele e d'altre cose, ma è
così grande la sua possanza che con prontezza e facilità, quando gliene venga voglia, potrà far
provvisione di tutto quello che gli manca, come ha già dato principio a provvedere...
De galeotti, quando il gran Signore vuole dal paese uomini e non denari, n’avrà sempre
abondantemente per far ogni grossa armata, si come, anco avendo tanta gente pagata [...] potrà
sempre mettervi sopra quel numero di soldati che vorrà; li quali anco vi sogliono andare molto più
volentieri che non vanno per terra così per la commodità, come anco per la manco spesa. (Ib. Pp.
261-262.)

Gli schiavi e i mercenari cristiani costituivano però sempre il nerbo dell'armata, data la poca
predisposizione degli ottomani alla precisione e alle arti meccaniche in genere, doti che nella
marineria erano molto importanti:

... É ben vero che la fortezza dell'armata turchesca consiste in trenta ovvero quaranta galee, che
sono armate di schiavi christiani, e tutto il resto è simile e forse peggiore delle galee che si armano
qui di contadini e tutte insieme confessano li medesimi turchi che non sono così buone come
quelle de' christiani. (Ib. P. 262.)

Il Morosini a questo punto esorta retoricamente i principi cristiani a investire del danaro per
riscattare tutti quegli schiavi cristiani che si potesse, in modo da privare l'armata turca di buona
parte dei suoi uomini migliori e renderla così molto meno pericolosa, oltre che liberare così tanti
infelici, gente per lo più d’ottimo livello professionale:

... e questo saria procurando con destro modo di ricuperare tutti gli schiavi christiani che si
possono con denari, perché questi sono li marangoni (‘carpentieri’), li calafati, li compagni, li còmiti,
li padroni e anco li galeotti che fanno buone le loro galee... (Ib.)
486

Ma anche allora come oggi il danaro era evidentemente più importante della lungimiranza e, d'altra
parte, i principi cristiani, ormai rassicurati dal successo di Lepanto, non temevano più tanto i turchi
per mare quanto continuavano a temerli per terra, eccezion fatta per Venezia, il cui compito
strategico principale continuava a essere il contenimento marittimo e sud-occidentale
dell'espansionismo ottomano, in ciò avvalendosi a mare della sua grande armata di galere e a
terra della sua poderosa cintura di ben presidiate fortezze, mentre il tradizionale contenimento
nord-occidentale era fornito da Vienna. Uno dei maggiori punti di forza della marineria remiera
turca era il servizio continuo prestato da tutte le categorie di marittimi, eccettuandone i soli remieri:

... Tutta la gente necessaria per armare, dalli galeotti in fuora, è tutta ordinariamente pagata, così
uscendo come non uscendo armata, e di continuo sono trattenuti con soldo ordinario 500 'reis',
che noi (veneziani) chiamiamo sopracòmiti, e numero grande di 'assap', che servono per
marinaresca, di maniera che con poca spesa più dell'ordinario manda fuora quel Signore la sua
armata; anzi molte volte con guadagno, perché, sempre che vuole armare qualche quantità di
galee, pone una gravezza che dimandano 'avarìs', la quale non solamente supplisce al pagamento
che si dà alle galee, ma n’avanza ancora di continuo una buona parte. Queste genti pagate sono
le muraglie, le fortezze, li terrapieni, li baluardi e le cortine che difendono e assicurano li grandi e
immensi stati posseduti dal Gran Turco e tengono in continuo sospetto tutti gli altri principi del
mondo, poiché, senza toccar tamburo (di reclutamento) né far altro moto, sono sempre pronti
d'andare dove bisogna. (Ib. Pp. 262-263.)

In quest'ultima affermazione il Morosini si riferisce ovviamente anche alle milizie permanenti di


terra e si tratta d'una giusta osservazione in quanto i turchi, non eccellendo nell'architettura militare
e non apprezzando la strategia delle fortezze, disponevano solo di pochissime fortificazioni e per lo
più tolte in guerra ai cristiani.
La carenza di marinaresca sulle galere del sultano sarà confermata anche nel 1590 dal bailo
Giovanni Moro, il quale, in un’ampia disamina delle forze di mare turche, riporta pure l'insufficienza
dell'artiglieria e conclude per un’ormai sostanziale inferiorità di quella pur vastissima armata:

... Potria (il sultano) forse desiderar quantità di uomini da comando, massime buoni ed esperti, che
non ne ha tanti che suppliscano al bisogno; e l'istesso si può dire d'ufficiali, bombardieri, marinari e
altri tali [...] Queste galee adunque, se bene armate di nuovo e con tre uomini per banco, da quelle
de' capi e de' corsari in fuora che ne hanno quattro e alcune anco cinque e quelle del Capitan
(Generale) sino a 7, non possono far buona riuscita e perciò l'armata del Turco, benché sia
numerosa, ha sempre poche galee di considerazione, che rare volte passano il numero di
sessanta, e sono quelle armate di schiavi; appreso alle quali si può mettere anco quelle de' corsari
obligate di accompagnar e stare all'obedienzia del Capitan del Mar, di cui, oltre le fuste, ne sono al
presente in Barbaria poco più di venti; e, se bene le chiamino galeotte, sono però da 23 e da 24
banchi, grandi quasi come galee. Il resto dell'armata serve per fare numero e per combattere
venendo l'occasione, ma non poteria, bisognando, raggiunger il nemico né scampar da esso.
L'armata dunque del Signor Turco merita di essere stimata più per la quantità che per la sua
qualità e in effetto quelle galee non sono provviste - al par di quelle della Serenità Vostra - né di
numero e perfezione di artiglierie né di bontà di galeotti né manco delle altre cose che spettano
487

alla navigazione; e quelle poche ancora che, come ho detto, si possono chiamare il nucleo
dell'armata turchesca e in cui principalmente confidano hanno ancora esse questa imperfezione,
che essendo armate di schiavi, che è uno de' più certi capitali che abbia il Turco, i suoi padroni
vanno sempre circospetti ne' pericoli per non avventurarsi; anzi quant'è maggiore tanto meno si
vogliono arrischiare, sicuri che gli schiavi, per desiderio della libertà e di vendicarsi delle ingiurie
che ricevono continuamente da chi li comanda, sempre che se gli appresentasse l'occasione e che
lo potessero fare, si scoprirebbero suoi aperti e crudeli nemici. (Ib. Pp. 351-355.)

Del perché le galere barbaresche venissero passate per galeotte abbiamo già detto; sebbene
questi vascelli tenevano il primo luogo nell'armata ottomana in riconoscimento del loro
espertissimo apporto, pure ripetiamo che i turchi non si fidavano molto dei loro tributari mori in
generale, come scriveva nel 1594 il bailo Matteo Zanne:

... Sotto nome di turchi si comprendono li mori di Barberia e di tutto l'Egitto, che, se bene sono
mussulmani come gli altri, non di meno i turchi li hanno per inclinati a sollevazione e ribellione e
per infedeli; e però (‘perciò’) li tengono soggetti quasi come se fossero schiavi, né li ammettono ad
altri officij né carichi che di giustizia e nel paese proprio. (Ib. P. 390.)

Ciò nondimeno il sultano aveva ormai - alla fine del secolo - ben poco potere sulle galere
barbaresche, come spiega lo Zanne a proposito della sovrabbondanza di schiavi di cui disponeva
la Barbaria:

... Questi (schiavi) sono oltre il bisogno di trenta galeotte da corso che (la Barbaria) può armare e
altrettante fregate, (le quali,) e per remo e per combattere sono gli migliori vascelli e li più temuti
dell'armata turchesca e de' quali i christiani hanno da fare maggior caso; ma né il Re né il Capitano
dell'armata se ne possono dire padroni, essendo che li giannizzeri di Barberia hanno fermato tanto
il piede in ogni cosa che dipende da quelle marine che ormai il Signor non ne dispone se non in
quanto a loro piace; e li bassà oggidì non sono mandati (in Barbaria) per comandare, ma per
rubare e per poter donare estraordinariamente al Re e alla Porta. (Ib. P. 403.)

Mentre ottima era la marinaresca barbaresca, anzi sulle fuste di quei corsari ogni marinaio era
anche soldato e quindi doppiamente apprezzabile, non altrettanto si poteva dire di quella
ottomana:

... Per la marinarezza il Re trattiene (‘stipendia in permanenza’) con poca paga un buon numero di
persone che dicono 'asapi' e, quando questi non bastino o piuttosto non valgano, ne posson
prender dalli caramussali, che sono (però) navaruoli e non galeotti; onde si verificherebbe la mia
proposta (‘opinione’), che le galee sarebbono - oggi come oggi - per far numero piuttosto che per
fazione. (Ib. Pp. 402-403.)

Il netto peggioramento dell’armata di mare turca avvenuto nell’ultimo quarto del Cinquecento era
certamente da attribuirsi al disastroso esito di Lepanto e non al successivo comportamento in mare
dell’armate cristiane; infatti il de Bourdeilles, il quale scriveva le sue memorie nello stesso periodo
488

della relazione del Zanne, esalta quella grandiosa vittoria come episodio a favore del valore
marittimo cristiano, il quale però, al suo tempo, restava purtroppo ancora unico e inimitato:

Ce sont des batailles celles-là bien renduës et debattuës, non pas celles où nous ne rendons de
combat pour un double et où la pluspart s’enfuyent, comme nous en avons veu de nostre
temps… (P. de Bourdeilles. Cit.)

Che Lepanto abbia irrevocabilmente fermato l’espansionismo marittimo dell’impero ottomano


sarebbe cosa ben chiara e indiscussa per gli storici, se solo essi si fossero messi a studiare gli
eventi bellici che avvennero nel Mediterraneo nel secolo successivo; avrebbero infatti visto che i
cristiani, specie Venezia con il supporto della squadra dello Stato Pontificio e talvolta di quella di
Malta, prevarranno sonoramente in quasi ognuna delle battaglie che li vedranno opposti per mare
ai turchi; a iniziare dai non rilevantissimi, ma ripetuti successi di Ottavio d’Aragona Tagliavia,
capitano generale della squadra di Sicilia. Questo valoroso ufficiale infatti il 17 agosto 1612,
essendo al comando di otto galere di Sicilia, si scontrò in Levante con 10 turche e ne catturò ben
sette; poi, verso la fine dell’agosto del 1613, ancora con le predette otto galere, combatte nelle
acque dell’isola di Chio con altre 10 turche capitanate da un Sinan Pasha ( da non confondersi con
il contemporaneo e molto più altolocato pashà Vizir o secondo pashà Cicala), il quale morì qualche
giorno dopo per le ferite riportatevi, e prese ben sette galere al nemico; inoltre nel luglio del 1616,
essendo alla testa stavolta di 10 vascelli siciliani – sembra fossero otto galere e due galeoni,
prevalse su 12 galere o galeotte del corsaro algerino Hassan Agà; ancora nel 1617, sempre alla
testa della squadra di Sicilia, s’imbatte in 12 galere turche e ne catturò di nuovo sette, ottenendo in
seguito ancora altri successi, anche se minori.
A bordo d'ogni galera c'era poi un barbiero, ossia un basso chirurgo o pratico di chirurgia che dir si
voglia, il quale, oltre a quello continuo, ma minore, di mantenere ben rasa la ciurma, perché tra i
peli si andavano ad annidare i pidocchi, aveva anche l'importante compito di curare gli ammalati e i
feriti; doveva quindi essere ben esercitato nell'arte della comune chirurgia e saper non solo
medicare le ferite, ma anche trattare rotture e slogamenti d'ossa, estirpare tumori superficiali,
curare ascessi, piaghe, catarri e le altre malattie conosciute; egli prendeva comunque ordini e
istruzioni dal medico fisico della squadra, personaggio unico che era imbarcato sulla galera di
comando e del quale anche parleremo. Il trattamento delle ferite di guerra era allora, come si può
ben immaginare, del tutto rozzo, insufficiente e antigienico e quindi molto spesso finiva per
risultare mortale anche solo una ferita ricevuta in un arto, anzi in un piede, come successe a
Lepanto a due valorosi esponenti della famiglia Orsini e cioè a Orazio di Bomarzo, morto in seguito
a due ferite avute alla coscia, e a Virginio di Vicovaro, deceduto invece per un colpo ricevuto al
braccio; le cure allora più praticate erano il salasso, ottenuto sia col taglio di vena sia a mezzo di
489

coppe, ossia ventose, le energiche purghe col sale inglese, i bagni nel vin caldo nel caso di
malattie da raffreddamento, i bagni di mare in caso d'infezioni cutanee o di dissenteria,
l’assunzione ripetuta di neve sciolta in caso di febbri molto alte, infine la somministrazione di
medicamenti quali fomenti, unzioni, polveri e anche sciroppi a base d’oli di rosa, d'altea, di viola, di
camomilla, ecc.; ma spesso tali terapie, invece di curare, affrettavano gli esiti funesti delle malattie,
come pare sia avvenuto al già ricordato ex-viceré di Sicilia Marc’Antonio Colonna, il quale nel
1584, trovandosi a Medina Coeli in Spagna, colà si ammalò e morì prematuramente, secondo
alcuni avvelenato:

… si sentì gravemente oppresso dal male, indi, curato da i medici forse con soverchia violenza di
purghe e nel cavar sangue, in sette giorni spirò a mezza notte nel primo d’agosto, non avendo ben
finiti quarantanove anni dell’età sua… (V. Auria. Cit. P.63.)

Bevendosi allora acque non depurate e mangiandosi molti cibi conservati in maniera tutt’altro che
sterile, molto importante era ovviamente il disporre di vermifughi:

…per che il detto mal di vermi per la varietà dell’acque suol (far) succedere infermità gravi, come in
molti lochi e parti si à visto, che per detta mutazione di acque nel porto di Suda nell’isola di Candia
morsero vintimilla persone per la mutacion dell’acque. (An. In Ugo Tucci. Cit.)

La terribile pestilenza a cui si riferisce il succitato anonimo autore è quella, già ricordata, che nel
1570 falcidiò l’armata veneziana che si era appena raccolta alla massa nei porti istriani e che poi,
nonostante fosse così malridotta, si trasferì a Candia col poi non riuscito disegno di salvare l’isola
di Cipro dall’aggressione turca; il che farebbe datare la stesura del trattatello in questione a tempo
successivo all’anno predetto, anche se sicuramente successivo di poco dal momento che gli
armamenti leggeri che in esso si prendono in considerazione sono ancora quelli della fine del
Rinascimento. Tornando ora al nostro barbiero, diremo che egli cercava comunque principalmente
di migliorare il vitto dei suoi degenti, anche se nei limiti delle poco varie provviste di bordo,
considerandosi, in un’epoca di comunemente scarsa nutrizione, questa accortezza già
un’importante cura essa stessa, e quindi, se disponibili a bordo, somministrava uova, pollame,
crastato (‘castrato’, castrone), (a)mendole (‘mandorle’), cotognate e zuccaro, alimenti allora rari e
costosi e che si tenevano a bordo proprio per i malati e i feriti unitamente ad altri meno pregiati
quali prugne secche, passola e miele. In Francia l’uovo era addirittura considerato le meilleur
morceaux qui se peût manger e si mangiava insaporito da un pizzico di sale (d’Amorny). Quando
aveva molto lavoro bisognava mantenergli un aiutante detto barbierotto, il quale era scelto tra gli
schiavi o i buonavoglia; non certo tra i forzati che, in quanto delinquenti, erano persone inaffidabili
per un compito tanto delicato e inoltre erano pronti alla fuga in ogni occasione. Il posto del barbiero
490

era nella camera della prua, locale dove egli anche teneva in un cassone i suoi strumenti e
attrezzi, i suoi medicamenti e una provvista di pezze e sfilacci per le medicazioni; quando si
combatteva, si sistemava nella camera di poppa dove medicava i feriti. Prendeva 4 scudi pontifici il
mese - ducati napoletani 34,44 l’anno - e due razioni il giorno; trattandosi quindi d’un salariato, le
sue prestazioni erano gratuite per i malati e i feriti, tranne però in alcuni casi e, a questo proposito,
ci sembra utile citare il Cap. XV del già citato codice marittimo di Carlo XI di Svezia, il quale, anche
se molto più tardo del tempo da noi considerato, ben riflette gli immutati doveri e diritti di questo
ufficiale sanitario (sv. barberare):

Il barbiero impiegato a bordo d’un vascello sarà tenuto di tagliare i capelli, di fare la barba e di
curare tutte le ferite e malattie di ciascun uomo dell’equipaggio, senz’altra ricompensa che il suo
stipendio. Se egli avrà accettato qualcosa da qualcuno, dovrà rendergliela interamente…; ma, se il
malato è colpito da un male contagioso o se è stato ferito fuori del servizio del vascello, gli pagherà
un equo onorario convenuto amichevolmente o regolato da tre ufficiali del vascello, i quali non
avranno più interesse per l’uno che per l’altro. (Pardessus. Cit.)

Insomma, era gratuita la cura dei mali procurati dal lavoro di servizio, ma non di quelli dovuti alla
vita privata o anche alla vulnerabilità naturale del corpo, quali per esempio le pestilenze. D’altra
parte gli sarebbero stati pagati, come spese del vascello, i medicamenti da lui portati a bordo e
consumati.
Le maestranze di bordo erano cinque e cioè il mastro d'ascia (maestro d'asse in proto-italiano) o
marangone, vale a dire il carpentiero [ol. (scheeps)-timmerman o anche bouw-meester e bÿl], il
quale era nella squadra di Sicilia anche detto maestro fabro, in quanto doveva in effetti saper
riparare anche le ferramenta, e poi il calafato, il remolaro (vn. remero), il barilaro o bottaio (fr.
tonnelier; ol. kuiper) e infine il cuciniero. I primi quattro dovevano esser pronti a prestare la loro
opera anche durante il combattimento, cioè preparati a tappare subito e provvisoriamente con
sacchi e cappotti le falle procurate dal nemico con l’artiglieria o con un investimento, per poi - a
fine battaglia - sostituire tali mezzi d’emergenza con assi di pino coperti di stoppa e catrame che i
francesi chiamavano palardeaux, o meglio con placche di piombo, di ferro o di rame [fr.
palardeaux, pelardeaux; tampons; ol. (mosch-) lappen, (houte-)(smeer-)(yser-)(kooper-)proppen,
sluit-stukken] guarnite di stoppa e altri materiali come pece navale o resina; per tale motivo nel
corso della battaglia, provvedendo spesso a tale bisogna nella camera di poppa l’aguzzino, come
abbiamo più sopra detto, il mastro d’ascia e il barilaro si potevano porre nel pagliolo e nella
compagna, locali dove avrebbero avuto pure il compito di passare vettovaglie ai soldati fermi ai
loro posti di combattimento in attesa di scontrarsi col nemico, mentre in tal caso avrebbero potuto
esercitare quest’incarico di tura-falle nella grande camerata di mezzo e di prua il calafato e un
consigliero o, in mancanza di questo, una persona di fiducia, i quali due personaggi avrebbero
491

dovuto quindi pure passare in alto ai combattenti polvere, palle e corda-miccia, mentre magari i
mozzi vi avrebbero potuto svolgere il compito di mandare in alto agli artiglieri sacchetti da carica di
polvere pieni e ai soldati fiaschi di polvere d’archibugi di rispetto, ricevendo da sopra quelli ormai
vuoti da riempire, uso quest’ultimo importantissimo in combattimento e non solo per il tempo che si
fa risparmiare al soldato combattente, ma soprattutto perché gli si evita il grande pericolo
rappresentato dai barili di polvere; infatti, come si raccontava esser purtroppo avvenuto a parecchi
nel corso della battaglia di Lepanto, i soldati allora usavano tenere accanto a loro nei morioni o nei
cappelli la polvere presa dai barili, per cui spesso accadeva che la stessa, accesa da qualche
favilla, bruciava loro le mani e la faccia lasciandoli inabili a continuare a combattere; era altrettanto
importante e necessario tener pronto anche un certo numero d’archibugi e di moschetti di rispetto
da passare ai soldati combattenti, perché un’arma da fuoco carica, se surriscaldata dal continuo
uso, sparava da sola attorno a sé e così spesso succedeva che si ammazzavano
involontariamente i propri commilitoni. Tutti questi bassi ufficiali posti giù nelle camere dovevano
essere armati, perché, succedendo che qualche soldato per la paura tentasse d’abbandonare il
suo posto di combattimento per rifugiarsi dabbasso, dovevano intimargli di risalire subito sopra a
combattere, accompagnando tale intimazione con delle piccole ferite d’arma da taglio in modo da
essere più convincenti; se poi questo non fosse bastato, allora dovevano uccidere il fuggitivo
senz’alcuna pietà sotto pena della loro stessa vita, perché, levata alle genti e soldati di galera la
speranza di fuggire, è forza che loro combattino. (P. Pantera. Cit.)
Cura giornaliera e costante del calafato, specie ovviamente in occasione di carenamento, doveva
comunque essere la sorveglianza dello stato d'impermeabilità del fasciame esterno, specie nella
zona del tagliamare, la più esposta alle collisioni, controllandovi ogni giuntura delle tavole e ogni
comento (fr. couture) per sostituirvi prontamente i chiodi normalmente corrosi dalla ruggine in
quanto non più fatti di bronzo come usavasi nell’antichità, inoltre i cavicchi mancanti, la stoppa o il
muschio neri, ossia incatramati, che fossero andati perduti o semplicemente per riconficcarvi quelli
che si fossero allentati, usando suoi particolari strumenti simili a scalpelli, per ripristinarvi poi la
pece e, per quanto riguarda la coperta, qualche volta, in mancanza di tempo sufficiente per
ripristinare una larga zona di calafataggio perso, doveva perlomeno coprirla attaccandovi su una
tela incatramata; doveva inoltre a volte calafatare provvisoriamente anche i mantelletti dei sabordi
o troniere, se c’era rischio che l’acqua di mare vi potesse entrare - cosa che per esempio
frequentemente succederà a quei bassi e veloci velieri biponti dalla stazza d’otto o novecento
tonelli, dai 16 ai 25 cannoni, i quali dal secolo successivo prenderanno anch’essi il nome di fregate
o fregate leggiere - e tenere d'occhio ogni trave e ogni asse della struttura interna dello scafo per
segnalare sollecitamente al mastro d’ascia gli eventuali lavori di ripristino che si potessero
492

eseguire a bordo senza necessità di dover aspettare il prossimo scalo; a lui era infine affidato il
mantenere funzionanti le trombe per aggottare di cui ogni vascello era dotato. Quando si vedeva
acqua marina traboccare dalla sentina e non si riusciva dall’interno a capire dove fosse la falla, si
poteva, dopo aver fermato il vascello, o far immergere palombari perché andassero a controllare il
fasciame dall’esterno o, nel caso di grandi vascelli oceanici, distendere in mare una vela di
coltellaccio lungo la fiancata sospetta del vascello (fr. larder la bonnette), tenendovela però il più
aderente possibile e spostandola lungo detto fianco, e così si vedeva in qual punto il leggero
tessuto fremeva a causa del risucchio provocato dalla forza dell’acqua ch’entrava nella falla; il
sistema per far affondare nell’acqua la vela è sì spiegato dal Guillet, ma non con sufficiente
chiarezza (Georges Guillet, Les arts de l’homme d’epée ou le dictionnaire du gentilhomme etc.
Parigi, 1681.)
Il remolaro, oltre a costruire e rassettare remi, doveva controllare di quando in quando tutti quelli
posti in opera sulla galera per vedere se erano ben bilanciati sopra i posticci, magari aggiungendo
o togliendo loro del piombo di contrappeso, e accomodandoli in maniera che potessero esser
maneggiati agevolmente; egli aveva un aiutante detto remolarotto, il quale era scelto tra i proeri o
tra i compagni, e sulle galere Capitan(i)e, le quali erano parecchio più ricche d'uomini, c'erano a
volte anche un aiutante del calafato detto calafatino (fr. calfatin; ol. breeuwers-maat o breeuwers-
knegt) e uno del barilaro detto invece bottarino; ovviamente in alcune galere anche il mastro
d’ascia poteva avere un garzone o aiutante. Il barilaro, oltre ad aver cura di tutti i barili di bordo e
delle botti e botticelle [fr. boutes, bouteilles, bidons, gonnes, tonnes, tonneaux, fûts, fûtailles,
caques, barils, bar(r)illets, bar(r)iques, muides; ol. tonnen, fustagie, vaaten, vat-werk] della stiva,
doveva provvedere la galera di buglioli, ossia di giare, vasi, mastelli, bigonce, tinozze, secchie di
doghe o mezze botti che dir si voglia [fr. bailles, baillottes, baquets, seilleaux, liéges, corb(e)illons,
frisons, pots; ol. baalien, tobben, leggers, (broodt-)korfen, flap-kannen, flip-kannen, pullen, flabben,
kitten], per il trasporto dell’acqua o del vino da distribuire all’equipaggio, per spalmare (vn.
impalmizar) il sego e per aggottare; il suo principale compito era quello di controllare che nessuno
dei tanti barili destinati alla provvista d’acqua perdesse, perché il disporre a bordo di più o meno
acqua potabile era differenza d’importanza troppo vitale. Prima dell’adozione dei barili, avvenuta
negli ultimi secoli del Medioevo, la provvista d’acqua, come del resto quella d’olio e di vino, s’era
portata in anfore di terracotta come nell’antichità, potendo le grandi botti trovar posto solo sui
vascelli tondi più grandi; per esempio nella sezione decima d’un notissimo testo di diritto medievale
islandese detto Grágás, sezione dedicata alla materia marittima (Um Scipa-Mepferp), s’impone ai
padroni di vascelli mercantili di portare a bordo una quantità d’acqua non minore d’un anfora ogni
sei uomini (Pardessus). Il cuciniero, la cui dimora era, come abbiamo già detto, la predetta
493

compagna, doveva preparar da mangiare alla gente di poppa e alla ciurma, che la gente di capo e
quella di spada doveva provvedere a sé stessa.
In navigazione il posto dei predetti maestri era alla prora di giorno e sopra le rembate di notte,
perché dovevano fare ognuno un quarto di guardia in compagnia d’un parte e mezza; anche a essi
si distribuivano armi in occasione di combattimenti, perché servissero da soldati quando non
fossero invece occupati nei loro precipui uffici. Ognuno di loro prendeva 4 scudi pontifici il mese e
2 razioni di viveri il giorno. I 4 mastri d’una galera Capitana si chiamavano capimastri e avevano in
più il compito di far provvedere le altre galere della squadra di tutto quanto fosse necessario alle
loro arti; godevano quindi di maggior soldo e di maggior numero di razioni dei mastri delle galere
ordinarie.
Dei due bombardieri (fr. canonniers; sp. artilleros; ol. bus-schieters) della galera, uno dei quali
aveva spesso il titolo di capo-mastro dell'artiglieria (fr. maître-canonnier; ol. konstaapel], e dei loro
uno o due aiutanti (fr. valets; ol. handt-langers) diremo solo quanto li differenziava dagli artiglieri di
terra, perché l'argomento dell'artiglieria proto-moderna è talmente vasto da richiedere un libro a
parte. Come primo concetto generale bisogna dire che il maneggio delle bocche da fuoco differiva
sul mare da quello terrestre soprattutto a causa dell'instabilità sia del loro proprio sito sia dei loro
bersagli galleggianti; ne conseguiva che il bombardiero di mare doveva necessariamente essere
molto più bravo di quello di terra, perché doveva accordare la punteria del suo pezzo alla posizione
del timone e alla velocità del proprio vascello, ai movimenti di rullio e di beccheggio, alle onde in
arrivo e alla rotta (fr. anche cinclage o sillage) e velocità del vascello nemico da colpire; doveva poi
saper ben legare con gomene i pezzi di prua, cannone di corsia escluso, affinché non rinculassero
e andassero così a fracassare le retrostanti strutture della galera e magari a ferirne o ammazzarne
gli uomini, né nelle tempeste si spostassero pericolosamente da soli da un luogo all'altro del
tamburetto e, nel caso dei vascelli tondi, doveva saper fare allo stesso scopo ai cannoni le ritenute
di gomene, affinché il loro rinculo fosse controllato; doveva saper ben riconoscere la direzione del
vento, in modo da sparare sempre sopravvento e da non farsi così venire addosso il fuoco e il
fumo del suo stesso pezzo. Doveva, in combattimento, saper ricaricare velocemente i pezzi,
perché il massimo che una battaglia marittima del tempo potesse durare erano tre o quattro ore e
in così poco tempo con un pezzo grosso si potevano fare allora pochi tiri; non doveva scaricare sul
nemico tutte le bocche di prua a disposizione contemporaneamente, perché, mentre era
impegnato a ricaricarle, il nemico poteva all’improvviso avvicinarsi all’attacco e bisognava avere
dunque sempre qualche bocca carica disponibile da sparargli contro; era dunque importante che il
capo-mastro d'artiglieria avesse molta considerazione nella scelta delle persone a cui affidare il
cannone di corsia della galera o qualsiasi grosso pezzo del veliero, ma era altrettanto importante
494

che predisponesse sacchetti di polvere in buon numero per ogni singolo pezzo e che non si
lasciasse andare a caricarli invece con grosse cucchiarate, come si usava a terra, e ciò non solo
per necessità di sveltezza, ma anche per motivi di sicurezza, perché tenere in coperta durante la
battaglia - o anche quando solo si sparava a gazzarre, cioè a salve (vn. piezaria), nei porti, per
festeggiare o salutare (da cui il detto ‘far gazzarra’, per dire far baccano) - dei barili di polvere
aperti era ovviamente cosa più pericolosa della stessa artiglieria del nemico e infatti si potevano
ricordare diversi gravi incidenti avvenuti in tal modo; il sacchetto da carica s’introduceva nella
canna del pezzo prima della palla, si spingeva giù con un calcatore e poi, per farne uscire la
polvere, si forava con uno stilo d’acciaio introdotto nel buco del fogone.
Doveva inoltre il bombardiero di mare aver miglior cognizione dei fuochi artificiati da guerra di
quanto ne dovesse avere quello di terra, in quanto tali fuochi, ormai in disuso sulla terra ferma,
ancora invece si usavano con un discreto successo nella guerra di mare, specie le pignatte di
fuoco (fr. pots-à-feu; ol. vuur-potten, smook-en-stink-potten) e le cosiddette trombe di galera o di
fuoco, dette anche soffioni, insomma le trombe o sifoni di fuoco prima solo incendiario, in seguito
anche ‘armato’, che, di misura maggiore se fissi sulla prua di dromoni e galee oppure più piccoli e
portatili, cioè legati alla cima di mezze-picche, si erano usati in battaglia, soprattutto nel precedente
Medioevo prima che fosse inventata la polvere pirica, per appiccare il fuoco al vascello avversario
e per contrastare il nemico che venisse all’arrembaggio; di questi sifoni si legge infatti nella
Chronographia di Teofane Isauro, scritta all’inizio del nono secolo, già laddove si narra della prima
offensiva navale mussulmana contro Costantinopoli iniziata nel 674, quando cioè l’imperatore
Costantino IV dota i suoi vascelli da guerra (triere, monere e dromoni), oltre che dei sifoni di prua,
anche di un nuovo tipo di mistura ignigena presentata a Costantinopoli da un certo Gallinico o
Galenico o Gallieno, un pirotecnico o alchimista o architetto di Eliopoli di Siria per tal motivo
assunto dal predetto imperatore. Si trattava di un ‘fuoco liquido’ che sarà chiamato in seguito fuoco
greco (ma nel senso di ‘fuoco bizantino’) e che, acceso nell’aria, era in grado poi di bruciare anche
in acqua e che quindi, attaccato alla superficie immersa del vascello nemico da esperti nuotatori e
sommozzatori, lo incendiava appunto a partire dalla carena; probabilmente era, come già detto,
un’innovativa mistura formata, oltre che da tradizionali sostanze come colofonia, bitume, solfo,
resine e trementina, soprattutto di calce viva. I mussulmani, dopo aver così perduto molti vascelli a
causa di questa nuova e a loro sconosciuta arma, furono alla fine costretti a fuggire e a rinunziare
alla presa della città, mentre i bizantini non osavano inseguirli per timore che tale inestinguibile
fuoco s’attaccasse anche ai loro stessi vascelli; perlomeno così narrano quelle antiche cronache,
le quali anche aggiungono che in episodi successivi sarebbe stato ai greci in mare sufficiente
mostrare ai vascelli saraceni che si stavano preparando all’uso d’uso di quel fuoco per farli fuggire;
495

anzi narrano che anche nel secondo assedio turco di Costantinopoli, cioè quello avvenuto a
cavallo tra il 717 e il 718, il ‘fuoco liquido’ dei bizantini ebbe un effetto risolutivo.
Dunque il fuoco greco si disse così non perché, come potrebbero pensare alcuni, nelle sue misture
fosse quasi sempre presente la pece greca, sostanza che, essendo molto più sigillante della
comune pece navale, era usata con gran vantaggio nella preparazione di ordigni incendiari da
usarsi in presenza di pioggia o di umidità in generale, ma perché storicamente usata la prima volta
dai bizantini; che fosse poi davvero inestinguibile, cioè che bruciasse anche sott'acqua e che anzi
talvolta l'acqua lo alimentasse invece di spegnerlo doveva esser vero solo parzialmente,
trattandosi in realtà di preparati più dimostrativi che pratici, e infatti, dopo quel primo e forse unico
uso, la storia ne perderà traccia. Restarono comunque in uso comune i ‘fuochi liquidi’ in generale
e in una quantità di formule e di misture, di cui alcune in verità ancora dette inestinguibili, che gli
esperti d'artiglieria del Cinquecento prescrissero nei loro libri; infatti il Sereno menziona tali fuochi a
proposito della battaglia di Lepanto, conflitto al quale, come sappiamo, lui stesso partecipò; si
aggiunga che già dal Medio Evo si era cominciato a potenziarli con la polvere pirica e il loro uso è
quindi così proseguito fino agli albori dell’Età Contemporanea.
Teofane poi racconta che l’anno 709 anche l’imperatore Giustiniano II ordinò di armar di sifoni i
dromoni e le galee biremi (probabilmente queste genovesi mercenarie) da inviare contro due
grandi flotte di vascelli carichi di grano (ϰατίναῐ σιτοφόροι), una saracena e una egiziana, di cui a
Bisanzio si era saputo esser state allestite dai maomettani, essendoci stato evidentemente in
Africa il tempo del raccolto (σίφωνας πυρσοφόρους ϰατασϰευάσας, εἰς δρομώνας τε χαὶ διήρεις
τούτους ἐμβαλών,); e inoltre, all’anno 805, cioè laddove narra della presa bulgara della città
bizantina di Mesembria (oggi Nesebar) situata sulla costa del Mar Nero, ancora Teofane scriveva
che i bulgari vi trovarono, tra l’altro, 36 dei suddetti sifoni navali e una provvista di mistura di ‘fuoco
liquido’ da emettere con essi sui vascelli nemici:

… laddove trovarono anche 36 sifoni di bronzo e non poco fuoco liquido da emettere con quelli (ἐν
οἷς ϰαὶ σίφωνας χαλϰοῡς εὗρον λς', χαὶ τοῡ διʹ αὐτῶν ἐϰπεμπομένου ὐγροῡ πυρὸς οὐϰ ὀλίγον).
(Teofane. Cit.)

Di detti sifoni si legge anche nella già ricordata Тάϰτιϰα bizantina del IX° sec., dove appunto
l’imperatore Leone VI, come meglio spieghiamo nel nostro lavoro sulle origini dell’artiglieria,
consigliava di dotarne individualmente di piccoli alcuni soldati scudati che dovessero contrastare
l’arrembaggio nemico. Nell’antichità, non utilizzandosi ancora le qualità propulsive del sanitro, le
miscele incendiarie accese si erano lanciate sui vascelli nemici o a mezzo di ordigni elastici come
gli onagri oppure conficcate nella punta di grossi dardi da balista oppure in quelle delle semplici
frecce da arco. Paisistrato, navarco dell’armata di mare rodiana ai tempi della conquista romana
496

della Grecia, cioè alla metà del secondo secolo a.C., usava un sistema più semplice, anche se più
instabile, il quale permetteva un getto di maggior quantità di materiale ardente, come racconta il
Suida; faceva conficcare nelle due ancore ai lati della prua due lunghe pertiche in maniera che
sporgessero molto in avanti sul mare; le estremità di queste reggevano una catena che sosteneva
al centro un padellone pieno di materiale indendiario acceso; si andava a urtare il vascello nemico
e gli si faceva sopra rovesciare il contenuto di quel recipiente, probabilmente strattonando questo
dall’alto con una corda (Cit. LT. III, p. 247). Doveva trattarsi comunque di un sistema il cui
successo doveva dipendere anche da una buona dose di fortuna e inoltre doveva essere anche
molto pericoloso per lo stesso vascello che lo utilizzava, infatti non risulta che qualcun altro abbia
poi imitato l’audace generale rodiense.
Ma, tornando ora ai compiti e alle competenze del nostro bombardiero nautico post-rinascimentale,
egli doveva conoscere molto bene i fuochi a salve, perché in mare molto si usavano per salutare o
festeggiare; doveva principalmente usare particolare attenzione a non incendiare il proprio legno
quando usava fuochi artificiati; doveva stare attento che qualche scintilla non desse fuoco alle
polveri già portate generalmente in coperta in sacchi di cuoio crudo o in barili, essendo però i primi,
da questo punto di vista, molto più sicuri e ignifughi, e in sostanza la sicura conservazione della
polvere, specie durante la battaglia, doveva essere la sua principale preoccupazione, perché in
nessun altro luogo come a bordo l'incendiarsi delle polveri significava inevitabilmente la perdita
della vita, quindi qualsiasi prudenza si usasse a tal fine non era mai abbastanza; doveva pertanto
guardarsi continuamente, più che dai nemici, dagli stessi suoi commilitoni archibugieri, i quali, nella
foga del combattere, con i loro micci accesi e con le faville uscenti dalle loro canne mettevano a
ogni momento le polveri dell'artiglieria a rischio d'incendiarsi ed esplodere. Doveva star attento che
nessuno proditoriamente gli inchiodasse i pezzi ed essere sempre affabile e disponibile con tutti a
bordo, ciò al fine di non crearsi dei nemici che al momento opportuno non avrebbero trovato
alcuna difficoltà a vendicarsi di lui procurando a bordo qualche disastro con le pericolose materie
di cui egli si circondava, oppure mettendolo a rischio di qualche grave incidente durante il
maneggio dei pezzi, il che, come racconterà il Bulifon, accadde per esempio in occasione del
viaggio in Italia del nuovo re di Spagna Filippo V; infatti il giorno 17 aprile 1702, lunedì dell'Angelo,
il re sbarcò a Napoli e, durante le solite salve sparate dalle galere napoletane per accoglierlo, su
una d’esse successe il seguente incidente:

... trovandosi il cannone infocato per il suddetto sparo, se pose fuoco (in) uno di cannoni mentre lo
stavano carricanno, del che ne perirno cinque... (Antoine Bulifon, Cronicamerone (1670-1706).
S.N.S.P. Man. XXII.A.10 e B.N.NA. XXI.A.72)
497

Ed ecco un altro episodio dello stesso genere, narrato anche questo dal Bulifon e riferentesi anche
in questo caso al predetto viaggio in Italia di Filippo V. La domenica 11 giugno 1702 arrivò dunque
a Finale Ligure il predetto re, il quale proveniva da Napoli accompagnato da una grande squadra di
galere; fu colà accolto da moltissima gente e, tra gli altri, da alcuni diplomatici genovesi inviati a tal
scopo da quella repubblica a bordo d’alcune sue galere, le quali festeggiarono l'arrivo con salve
d'artiglieria:

... E accadde che, mentre ricaricavasi un cannone già riscaldato dal foco precedente, il
cannoniere, fatto in pezzi, fu portato in aria e ne venne di ciò incolpato l'agiutante, ché (‘perché’)
mantenne il dito sopra il fogone per levare l'aria. (Ib.)

Il Bulifon vuol qui dire che, avendo l'aiutante del bombardiero premeditatamente otturato il fogone
dopo lo sparo, non era potuta circolare aria rinfrescante all'interno della canna e quindi, quando
subito dopo il bombardiero aveva voluto ricaricare il cannone introducendovi un’altra carica di
polvere, questa, trovata l'anima tuttora surriscaldata dal tiro precedente, aveva preso
immediatamente fuoco uccidendo così lo stesso bombardiero, il quale, per forza di cose, stava
ancora davanti alla bocca del pezzo; ma forse l'aiutante era qui stato accusato ingiustamente,
perché questi incidenti, i quali, se la bocca da fuoco crepava, potevano anche mandar a fondo una
galera, accadevano di solito per semplice trascuratezza dei bombardieri, i quali non pulivano e
rinfrescavano con sufficiente frequenza la canna dei loro pezzi con le lanate [fr. è(s)couvillons;
essuieux], come si sarebbe invece dovuto. In realtà in quest’altra nefasta occasione i morti furono
tre e i feriti due.
Ma Filippo V era evidentemente un sovrano che portava una terribile scalogna ai poveri
bombardieri e un terzo incidente di tal genere doveva purtroppo accadere anche in occasione del
suo ritorno dall’Italia; 12 galere francesi lo stavano infatti riportando in Spagna, quando, nel
passare davanti ad Antibes, furono avvistate dal cavaliere Claude Fourbin de Janson che allora in
quel porto per caso si trovava a bordo d’un suo vascello, essendo egli comandante della squadra
navale francese che in quegli anni incrociava nell’Adriatico e nello Ionio con il duplice compito di
far fallire eventuali tentativi di sbarco austriaci sulle marine orientali del regno di Napoli e
d'intercettare i legni che, risalendo l'Adriatico, portassero ai porti austriaci di Trieste, Pola, Fiume,
Segna ecc. rifornimenti, specie granari, destinati all'esercito cesareo; nel salutare dunque
doverosamente il sovrano un cannone del predetto vascello scoppiò e uccise parecchi uomini
dell’equipaggio, restandovi leggermente ferito lo stesso Fourbin.
D’un incidente simile capitato a una galera del re di Napoli Alfonso d’Aragona verso l’ottobre del
1494 racconta anche il Sanudo; si trovava allora l’armata di quel sovrano a Gaeta, timorosa di
498

fronteggiare quella dell’invasore Carlo VIII di Francia, quando all’improvviso scoppiò un violento
temporale e due galere aragonesi andarono a fondo:

… et in quel dì ‘etiam’ per disgrazia se impizzò (‘s’accese’) fuogo in la polvere di bombarda di una
altra galia et quella brusò con zerca 40 homeni tra quelli erano in ferri e sotto coverta; il resto si
butò a l’acqua et scapolono (‘salvarono’) la vita. Et la furia dil fuogo durò zerca mezza hora. Fu
cosa miserabil et di gran compassione et gran (nefasto) augurio al povero re Alphonso. Et (infatti)
in breve zorni ditta armada disarmò. (Marino Sanudo, La spedizione di Carlo VIII in Italia. In
Archivio Veneto. Anno secondo. P. 120. Venezia, 1872.)

Doveva il bombardiero chiedere al suo capitano licenza di recarsi a terra ogni tanto, approfittando
delle soste dell'armata, per preparare su qualche spiaggia le sue misture incendiarie o esplosive
per farne fuochi artificiati, il che fatto a bordo sarebbe risultato scomodo e soprattutto
pericolosissimo per l'intero vascello, in quanto il più di tali misture si preparava a caldo in grossi
pentoloni perché queste lavorazioni implicavano quasi sempre la liquefazione sul fuoco di
sostanze molto incendiarie. Il capo-mastro poi, nel caso si fosse dovuta sbarcare l'artiglieria per
utilizzarla in un assedio o in qualsiasi altr'azione di guerra, la comandava anche a terra ed erano
sotto la sua responsabilità non solo lo sbarco e poi il reimbarco dei pezzi, nelle quali operazioni
non era difficile che qualcuno dei più pesanti finisse in mare e che si dovesse pertanto recuperare
con gran fatica, molta perdita di tempo e dishonore e vergogna per lui stesso, ma anche il loro
incavalcamento sugli affusti a terra e il successivo scavalcamento per riportarli a bordo.
Il posto dei bombardieri era alla prua sotto le rembate, cioè in quel luogo che abbiamo detto
tamburetto, dove essi durante il combattimento erano generalmente riparati da cortine di legno o
da stramazzi, protezione di cui invece non godevano quando dovevano caricare i pezzi, perché in
quel caso dovevano avanzarsi sulla palmetta dove erano completamente esposti al tiro del
nemico. Ognuno di loro doveva, insieme a un aiutante, aver cura di due pezzi e ciò tanto sulle
galere quanto su ogni altro vascello da guerra; ogni bombardiero si alternava nelle guardie con
l'altro e con i due aiutanti, sia perché i loro pericolosi materiali andavano continuamente sorvegliati
di giorno e di notte, sia perché, in zona di guerra, bisognava tenere e guardare uno stoppino
sempre acceso in modo da poter dar subito fuoco ai pezzi caricati in caso di un’improvvisa
necessità. Un bombardiero papalino prendeva 4 scudi pontifici mensili - ducati napoletani 34,44
annuali - e due razioni giornaliere, mentre gli aiutanti-bombardiero erano pagati quanto i marinai
detti parte e mezza. Sulle galere di Francia il capo-mastro dell'artiglieria, colà detto majordome,
sembra dormisse nella compagna.
Alcune attività di bordo s’affidavano ai remiganti o in aggiunta alla loro voga o in sostituzione
d’essa; dalla ciurma si traevano infatti i trombetti, ordinariamente 8, ai quali si assegnava
l'esecuzione delle salve e dei segnali militari, quando necessari; a costoro si dava, oltre alla
499

razione giornaliera ordinaria, anche mezza razione da buonavoglia come incentivazione a


imparare a suonare più volentieri:

... E perché un buon concerto di trombetti honora la galea e apporta a chi vi sta gran ricreazione e
alleviamento d'animo, se saranno schiavi o buonevoglie che se ne dilettino, si doveranno
accarezzare e avantaggiare in alcuna cosa e particolarmente non permettere che vadano a
travagliare in terra se non per necessità. (P. Pantera. Cit. P. 134.)

Della ciurma faceva parte anche il portunato, ossia un galeotto della categoria degli schiavi che
doveva avere cura completa dello schifo (gra. πορθμεύς; lt. lintrarius) e cioè condurlo, tenerlo
pulito e ben conservato e procurare che venisse riparato quando necessario; egli prendeva una
razione migliore di quella che toccava agli altri schiavi e cioè quella d’un buonavoglia.
Su quelle galere dove si faceva taverna, ossia dove si vendevano cibo e vino a chiunque potesse
pagare, il tavernaro o i tavernari erano anch'essi uomini della ciurma. L'utilità delle taverne era
grande perché loro tramite entravano nella galera molti generi alimentari che altrimenti a bordo non
si sarebbero mai visti; inoltre, anche se il tavernaro era l'unico galeotto a guadagnarci
direttamente, gli altri remiganti, aiutandolo in tanti servizi e trasporti di merci, ne ricevevano
vantaggi e ricompense; erano poi le taverne molto utili agli eventuali passeggeri poveri della
galera, perché, mentre quelli di riguardo partecipavano alla tavola del capitano, questi potevano
comprarsi alla taverna le loro vivande al minuto:

... Però ('perciò’ le taverne) sono necessarie, ma non si deve permettere che gli ufficiali ci
habbiano capitali ne parte alcuna, perciò che non sol privano le povere ciurme di quel guadagno,
ma con l'auttorità dell'officio fanno molte estorsioni e illicite alterazioni, di maniera che la robba si
paga il doppio e asciugando le borse de i compratori e dell'istessa ciurma, che è sforzata - sin che
ha denari - a passar per le lor mani e non può avanzar cosa alcuna; (così) la riducono a tanta
miseria che nelle sue necessità, che sono molte e grandi specialmente quando travaglia
navigando, non può ricevere un minimo ristoro. (Ib.)

Nella marineria francese oceanica era stata consuetudine che i capitani, anche quelli dei vascelli
reali da guerra, facessero a bordo essi stessi commercio di taverna, vendendo all’equipaggio
soprattutto vino, acquavite e in seguito anche tabacco; ma nel Seicento questa pratica sarà vietata
dal re per non potersi più ammettere che gli stessi capitani agevolassero e istigassero in tal modo i
marinai a consumare il loro soldo e i loro effetti personali per l’acquisto di generi viziosi. Nelle
galee catalane medievali poteva vendere vino qualsiasi marinaio ma a patto che non ne
guadagnasse più di cinque soldi alla libbra, pena il sequestro del vino o del guadagno
(Ordenanzas de las armadas navales de la Corona de Aragon etc. Cit. Pp. 87-88)-
Dalla ciurma si traevano anche i mozzi di bordo [fr. mousses, gourmettes, pages, garçons (de
bord), valets; ol. (scheeps-)jongen, swabbers, mussen], ossia i servitori delle camere e degli
500

ufficiali, primi dei quali erano quelli di poppa e si trattava d’uno o due schiavi più giovani degli altri,
dell'età di 11 o 12 anni, i quali servivano il capitano (ol. kajuit-wagters) e vestivano in maniera
diversa da quella tradizionalmente in rosso e in blu usata per la ciurma; essi infatti vestivano
generalmente solo di blu ed è da tale uso che probabilmente nascerà quella tradizione
internazionale di vestire di turchino la gente di poppa, cioè gli ufficiali delle marinerie da guerra; nel
Settecento si userà sui vascelli da guerra francesi chiamare Bleu, Oficier bleu, Lieutenant od
Enseigne bleu un ufficiale facente funzioni d'ufficiale maggiore. Il capitano o il generale doveva
però far attenzione che questi mozzi di poppa non udissero nulla dei suoi piani operativi, perché
non li riferissero in qualche maniera ai nemici loro correligionari; pertanto, se uno di questi schiavi
si dimostrava troppo curioso e faceva troppe domande, si usava distoglierlo subito da un tale
comportamento con qualche mano di bastonate (B.Crescenzio. Cit. P.484). Che i mozzi fossero
tradizionalmente alquanto maltrattati, evidentemente al fine di farne marinai ben asserviti alla
gente di poppa, ce lo dice anche l’Aubin:

…se essi mancano in qualche cosa vengono ben castigati e sono così poco risparmiati che una
volta, ma egualmente ancor’adesso, alcuni praticano di castigarli una volta la settimana anche se
non l’hanno meritato. (Cit.)

Per essere trattati così i mozzi oceanici – quelli cioè a cui vuole riferirsi l’Aubin traducendo la sua
fonte olandese, figuriamoci che cosa dovessero soffrire quei poveri ragazzi a bordo delle spietate
galere! Altri mozzi di bordo erano quello dello scandolaro, un forzato addetto alla custodia delle
armi e delle cose personali del capitano e dei passeggeri di riguardo; lo scrivanello, altro forzato
che nelle galere di comando serviva il patrone, ossia il razioniero, e doveva quindi saper scrivere e
far di conto per annotare tutte le entrate e gli esiti dei generi di munizione e delle genti di bordo,
compilando per gli scapoli e soldati le cartelle o polizze delle razioni consegnate, e per registrare e
consegnare ai mercanti destinatari tutte le mercanzie che pagavano nolo, riproducendo sul registro
di ciascuna il merco (‘marchio’) e gli altri contrassegni, ossia quelli che oggi, nelle polizze di carico
marittime, vengono definiti 'marche e numeri' della singola partita di merce; lo scalco o mozzo della
compagna (fr. dépencier, dépensier, maître-valet; ol. bottelier), chiamato dai turchi ‘compagno’ e al
quale toccava l'aver cura di tutte le vettovaglie che entravano nella galera e il distribuire a tutti gli
uomini di bordo le loro razioni di vino, aceto, olio e companatico, che quelle di biscotto o panatica
erano dispensate dal mozzo del pagliolo, detto pertanto pagliolero, oppure dallo scrivanello
predetto; pure un forzato era il mozzo della camera di mezzo, il quale doveva aver cura delle cose
del còmito, dei basso ufficiali, dei marinai e dei passeggeri non di riguardo e doveva inoltre dar
fuori e rimettere abbasso le vele e insomma custodire tutte le cose che si tenevano in detta
camera; allo stesso modo il mozzo della camera della prora aveva cura della roba del sotto-còmito,
501

degli altri marinai ed era quindi custode (gra. ναύφαρϰτος, ναυφύλαξ) di gomene e sartiami per
ormeggiare la galera, di buglioli, coffe, moscelli, sagore, trinelle, vale a dire di tutte le corde
leggere, le quali a lui toccava fabbricare quando mancassero, e di tutte le altre cose di bastimento,
di nolo (gra. ναῦλον, πορθμίον) o di munizione o personali che in detta camera di prua erano
conservate; il barbierotto, il quale, come abbiamo già detto, era il mozzo del barbiero di bordo e si
trattava di solito d’un buonavoglia o d’uno schiavo, in modo che si potesse mandarlo a terra a
procurarsi le cose che servivano agli ammalati; a costoro egli aveva il compito di fare e di dar da
mangiare, di somministrar i medicamenti prescritti dal barbiero e di servirli, come un infermiere in
piena regola, in tutto ciò di cui avessero bisogno; aveva infine il compito di servire la persona del
barbiero e d’aver cura delle sue cose private. I mozzi avevano lo stesso trattamento dei remiganti;
quelli poppa ricevevano però spesso il vestito due volte l'anno e non una sola come gli altri galeotti
e ciò evidentemente per mantenere più alto il livello di decenza del quartiero di poppa; essi, perché
potessero adempiere le loro funzioni, si lasciavano circolare per la galera con la sola maniglia alla
caviglia, oppure, se si trattava di funzioni da svolgersi non troppo lontano dal loro banco, si
tenevano incatenati con un ramale (‘diramazione’) di catena più lungo, come succede al
protagonista del Guzmán de Alfarache quando gli viene affidata la cura degli effetti personali d’un
gentiluomo di poppa (M. de Cervantes Saavedra. Cit.).
Della ciurma facevano infine parte i cuochi che cucinavano per il capitano, per gli ufficiali e per i
marinai e, quando la galera era in sosta, anche per la ciurma stessa; il loro posto era ai banchi che
stavano ai due lati del fogone e ciò significa che la loro attività di cucina era complementare e non
sostitutiva di quella della voga.
Nelle galere barbaresche il còmito era chiamato bach-rais; il capo-cannoniere, bach-tobji; il
patrone, khogia; il barbiero, bach-gerrah; la gente di capo, baharia; la gente di poppa, sotta-rais; la
gente di spada, yoldach; c’era poi un rais-etterik, ossia un ‘capitano delle prese’, il quale aveva il
compito d’andare a guidare in porto i vascelli catturati.
502

Capitolo VII.

LA GENTE DI POPPA.

Erano così detti gli ufficiali maggiori di marina perché alloggiavano appunto a poppa e inoltre a
poppa si trattenevano la maggior parte del tempo. Nella marineria veneziana il comandante di
galera era detto sovrac(c)omito (poi sopraccòmito), titolo che già troviamo in una deliberazione del
Senato veneziano del 1385, e, quando tale grado non aveva ancora ricevuto, si diceva
governatore di galera, cioè gli si dava lo stesso titolo non militare che aveva il comandante di galea
grossa commerciale, ma più tardi in qualche caso fu detto anche direttore; era poi detto τριηράρχες
il comandante di una triera bizantina, avendo però il titolo di ἃρχων (‘capitano generale’) quello
della ναυαρχίς, ossia del vascello pretorio o di comando; inoltre era detto raïs quello dei vascelli
remieri turco-barbareschi e capitano (tlt. capitaneus) in tutte le altre marinerie, con l’aggiunta che,
per quanto riguarda quella delle galere condotte (‘noleggiate’) private genovesi, il proprietario di sei
o sette galere, pur venendo chiamato anch'egli capitano, aveva titolo di capo de' provvisionati, per
tali intendendosi dei capitani di condotta pagati da tempo immemorabile sempre dallo stesso
principe conduttore, come se fossero appunto dei provvisionati, qual era soprattutto il caso delle
galere dei particolari (‘privati’) genovesi condotte dalla Corona di Spagna sin dai tempi di Andrea
d’Oria. Il suddetto nome veneziano di sovracòmito venne a sostituire quello precedente di patrone
o padrone (tlt. patronus); questo, il quale sopravvisse invece ancora per qualche secolo nelle altre
marinerie remiere da guerra, si era in precedenza a sua volta, ma nelle sole triremi, sovrapposto al
precedente còmito che si legge sia nel Consolato del Mare sia nel già ricordato Capitolare dei
Patroni e dei Provveditori all’Arsenale di Venezia, evincendosi chiaramente da questi documenti
che sino alla prima metà del Trecento la galera leggiera medievale era stato comandata appunto
dal còmito, coadiuvato costui da un sotto-còmito, mentre in seguito si uniformerà a quella allora
detta galea grossa, ossia la trireme, il cui còmito era sovrastato dal patrone. Il conferimento di
questo titolo di patrone - o padrone o patrono - come comandante in prima era stata nel Medioevo
prerogativa della marineria mercantile, galee grosse e galeazze da mercanzia incluse, già
dapprima e vi resterà fino all'inizio dell'Ottocento, sopravvivendo nei vascelli remieri da guerra solo
nei sottili minori quali le fregate.
Nei primi secoli del Basso Medioevo dunque il predetto patronus era mancato sui vascelli, sia su
quelli mercantili sia sulle galere, e il comandante era stato dovunque il comitus; e che costui allora
lo fosse lo leggiamo per esempio nella Cronaca pisana del Marangone, all’anno 1172:
503

… Anno Domini MCLXXII, indictione V, pisani tres galeas armaverunt, quorum capitanei et gomites
Gallus Taliapagani et Iacobus quondam Rambotti Cerini et Alberigus PasceMosca fuerunt… (Cit.
P. 67.)

Ma, poiché con la maggior diffusione delle galee grosse o triremi, il còmito non riusciva più a
occuparsi di tutto, lo si assoggettò a un padrone, il qual divenne così il comandante della galera,
mentre il comandante di un gruppo di più galere (magari anche solo di due) aveva titolo di
capitano:

… La galea una e una galeotta di Pisa e (‘di cui era’) capitano Andrea Gambacorta e padrone della
galea Simone di ser Lapo da San Casciano e della galeotta padrone Piero Tosi (Cronaca pisana di
Ranieri Sardo, all’anno 1376).
.
Ma anche ciò si rivelò poi insufficiente, specie in tempo di guerra, e quindi spesso il padrone era
affiancato da un armiregius (anche armiragius, sincope del lt. armiger regius, ‘scudiero reale’), cioè
da un ufficiale che comandava la guarnizione militare della galera, equivalente quindi al
governatore dell’armi di un corpo di cavalleria pesante o a quello di una città (gr. πολέμαρχος),
personaggio questo che si incominciò a dire nel Medioevo armirajo (poi armiraglio) e poi, dal
Cinquecento, capitano a guerra. I veneziani chiamavano armiragi i capitani di cavalleria turchi:

… Temeres, armirajo di 1.000 lanze, era entrato per forza in castello lì a Cajaro per farsi soldan…
(M. Sanudo, Diarii. Anno 1496. T. I, col. 331.)
… tra de armiragii de 1.000 lanze ed altri armiragii ed homeni de conto (ib. Anno 1497. Col. 639.)

La presenza di un comandante militare, in aggiunta a quello marittimo, divenne poi di prammatica


sulla galera triremi, però col nuovo nome di capitaneus, e a lui fu assoggettato lo stesso padrone,
limitandosi la responsabilità di quest’ultimo alla sola parte amministrativa del comando; ciò
vediamo per esempio a Venezia a partire circa dalla metà del Quattrocento. Quindi il comandante
di più galere non si chiamerà più capitano, ma prenderà altri nomi, per esempio nel Tirreno
d’influenza spagnola quello di cuatralbo, carico militare di cui abbiamo detto. Lasciato dunque al
capitano il comando militare del singolo vascello armato da guerra, il titolo d‘armiraglio avrà
grandissima fortuna perché sarà attribuito all’ufficiale generale più elevato nella marineria militare,
cioè diventerà pari a quello che già era a Venezia il capitano zeneral da mar, comandante
supremo di tutta l’armata di mare di uno Stato o di un Regno, titolo superiore quindi a quello di
semplice capitano generale, in quanto quest’ultimo era solo il comandante di squadra [lt.
praefectus classis; tlt capitaneus classis; gr. στολάρχης, στόλου ἀρχηγὸς, ϰόμης τοῡ στόλου o
μέγας δρουγγάριος, in seguito (ϰαθολιϰὸς) ναυάρχης]; ma riprenderemo questo alquanto
complesso discorso più avanti.
504

Nelle galere il titolo di padrone di galera ancora esisteva nel tempo che soprattutto ci occupa, ma
sminuito perché, in occasione dell’attribuzione al comandante di quello di capitano, era passato,
come presto vedremo, al comandante in seconda, ossia all’ufficiale contabile che sino ad allora
s’era invece chiamato scrivano; probabilmente l’affidare un ruolo più importante e meglio retribuito
allo scrivano di bordo era stato dovuto anche alla difficoltà di reperire dei contabili che
accettassero di darsi alla così pericolosa e disagiata vita di mare per un misero stipendio; e, che
fosse difficile trovarne, è testimoniato sin dall’antichità da quanto ne scriveva Festo:

Lo scrivano navale, cioè quello che lavorava a bordo di una nave, tra gli scrivani era quello che
godeva della minor considerazione, a causa anche dei pericoli a cui il suo ministero andava
soggetto (Navalis scriba, qui in nave apparebat, inter aliud genus scribarum minimæ dignitatis
habebatur, quod periculis quoque ejus ministerium esset objectum. Sesto Pompeo Festo, De la
signification des mots etc. P. 287. Parigi, 1846).

Per comprendere quale fu il tempo dei predetti cambiamenti bisogna considerare che, nel suo
trattato scritto verso il 1540, il già più volte citato da Canal ancora usava talvolta il detto titolo di
patrone riferendosi al sovracòmito. Forse Venezia volle adeguarsi, senza però scimmiottarle, alle
altre marinerie mediterranee che stavano proprio in quello stesso tempo adottando un nuovo
nome, quello appunto di capitano, per il comandante sia dei loro vascelli sottili da guerra sia dei
loro vascelli tondi armati a guerra, cioè per quelle che già nel Quattrocento erano state le navi
armate, per esempio le cocche armate da Venezia nel 1417.
Il nome di patrone al comandante in prima resterà quindi nel Mediterraneo alla marineria
mercantile e ai soli vascelli remieri da guerra mediani (fuste e bergantini) e piccoli (fregate,
fregatine, caicchi ecc.) - così come anche sembri proprio che nell’antichità romana i comandanti di
liburna si chiamassero navarchi; ma in quella Bisanzio alto-medievale essi si dicevano ναυάρχοι o
anche ναύχληροι, ma eccezion fatta per i τριήραρχοι o τριηράρϰαι (l. trierarchi), cioè per i prefetti o
comandanti di triera, e per i δρομώναρχοι (‘dromonarchi’), ossia quelli dei dromoni] - e ciò restò per
moltissimo tempo, ossia sino a Ottocento inoltrato, ma poi sarà anche in quest’ultima adottato il
titolo di ‘capitano’, il quale farà la sua apparizione anche sui mercantili oceanici, dove però non
sostituirà, ma solo s’alternerà a quello tradizionale di ‘maestro’ (maître, master, maestre). C’è
infine da aggiungere che in documenti del Trecento il patrone dei vascelli mercantili si trova talvolta
chiamato armatore e in effetti poteva anche esserlo, ma sul significato più restrittivo di quest’ultimo
termine più avanti diremo.
Nel Cinquecento il patrone, cioè il comandante sia della trireme ponentina, la quale era ora
diventata la galera sottile ordinaria, sia della bireme, cioè la ex-ordinaria ora declassata a galeotta,
presero entrambi il nome di capitaneo, titolo che nel precedente Medioevo era pur esistito ma,
505

come sinonimo di rettore, ossia col significato di comandante di un distaccamento di vascelli,


galere o navi, poche o parecchie che fossero, mentre la galera levantina era, se veneziana,
comandata da un sovracòmito e quella turco-barbaresca da un rais. Pertanto dal sedicesimo al
diciottesimo secolo: primo: capitano; secondo: còmito; terzo: sotto-còmito, mentre il patrone era
confinato al ruolo di addetto amministrativo e di comandante luogotenente quando il capitano era
assente. Il comandante di un distaccamento di galere ponentine, francesi escluse, si diceva invece
ora, come abbiamo già spiegato, cuatralbo; naturalmente anche i francesi avevano comunque un
carico equivalente chiamato, come sembra, in lt. corporalis, ossia ‘capo di squadra’; a qaunto si
evince da un ordine di Carlo I d’Angié del 15 maryo 1274 con cui comandava al suo vicario di
Sicilia di predisporre vascelli per contrastare le attività corsare dei genovesi e di altri; si doveva
cioè di armare 6 galee e 8 galeoni dai quali formare due squadriglie composte ciascuna di 3 galee
e 2 galeoni, una comandata da Guglielmo Cornuto e destinata alla guardia dei mari siciliani di
levante, cioè tra Siracusa a Malta, e l’altra da Guglielmo di Sant’Onorato per i mari invece di
ponente, ossia da Palermo e Trapani a Pantallaria. Del compito da affidare ai rimanenti 4 galeoni l
’ordine non dice, ma probabilmente erano da mantenere di riserva (G. Del Giudice, cit. P. 17).
Ma, per tornare ai comandanti dei singoli vascelli, ci rendiamo comunque certamente conto che
questo discorso dell’evoluzione dei loro nomi dal Mille alla fine della marineria remiera può riuscire
piuttosto complicato; cercheremo ora pertanto di riassumere quanto detto per quella ponentina,
cioè tirrenica, in maniera schematica:

Fino alla fine del Medioevo.

fuste e monoremo
còmito
vice-còmito

galere, galee grosse, galeazze


patrone
còmito
vice-còmito

teride da guerra
còmito
vice-còmito o nocchiero

Cinquecento e Seicento.

galeotte, bergantini, fuste


còmito
vice-còmito
506

galere triremi e galeazze


capitano
còmito
vice-còmito

Per quanto riguarda invece i mari di Levante dopo la fine dell’impero bizantino, a Venezia il
comandante di galera, il quale doveva essere un nobile, fu chiamato sovraccòmito sin dal
Medioevo (e.g. Andrea Dandulo, Chronicon, agli anni 1298-1299), il che dimostra che il còmito gli
preesisteva; la galea grossa commerciale veneziana era comandata invece da un governatore,
ma, se la si armava per usarla in guerra, allora o la si metteva sotto il comando di un sovraccomito
oppure, se il suo governatore era riconosciuto esperto anche di guerra nautica, ci si limitava a
lasciarlo al suo posto dandogli però il titolo e lo stipendio di sovraccomito. Tra i turco-barbareschi il
comandante di un vascello remiero, piccolo o grande che fossse, era detto invece raïs o reïs (dal
lt. rex, ‘reggitore’) e quindi portava questo stesso titolo anche il comandante di un legno remiero
mussulmano inferiore, galeotta o fusta o bergantino che fosse. Nel Medioevo generalmente i
patroni di galere biremi erano dei semplici pratici di navigazione (sp. mareantes), mentre quelli
delle triremi, considerate galere di rango reale, cioè adatte a ospitare anche lo stesso sovrano,
erano di conseguenza personaggi di qualità. Per quanto riguarda la marineria mercantile,
chiariamo che patrone era titolo mediterraneo e maestro atlantico.
Durante la navigazione il capitano di galera si tratteneva presso la sua già menzionata bancazza,
ossia, per sineddoche, nella camera di poppa, seduto sulla sedia che colà aveva, ma talvolta
usciva allo stentarolo per osservare come andassero le cose nel suo vascello, oppure, quando ci
fosse necessità di far rancare la ciurma per uscire da un porto alla ricerca di vento favorevole,
doppiare un capo con vento o correnti ostili o per dar la caccia in bonaccia a un vascello nemico,
andava su e giù per la corsia; se si navigava di notte egli se ne stava seduto su una sedia al
predetto stentarolo oppure assiso sul bandile, ossia panchina di banda, della banda destra della
poppa, percorrendo però ogni tanto la corsia per controllare la voga o le vele e consultando spesso
la bussola, mentre durante il combattimento se ne stava allo stendardo, ossia all’incirca allo stesso
ultimo luogo, perché da esso si poteva tener sotto controllo tutta la galera. Doveva evitare il più
possibile di scendere a terra durante il viaggio, perché quella era l’occasione che spesso la ciurma
aspettava per ammutinarsi, come era spesso successo specie ai raïs turchi; ma se proprio lo
doveva fare, allora doveva prima ben raccomandare la sua galera al patrone e al còmito, essendo
quello, come abbiamo già detto, il suo secondo e questo il suo capo operativo. Percepiva, nella
squadra dello Stato Ecclesiastico, 10 scudi mensili, mentre 120 ducati annui in quella di Napoli, più
la paga mensile di 2 piazze morte (diremo nel prosieguo di che si trattava) a indennizzo delle sue
spese di rappresentanza e infine 4 razioni di vettovaglie (avantaggiate di qualità) il giorno perché
507

potesse così esser liberale e ospitale alla sua tavola; infatti egli poteva avere qualche invitato fisso
alla sua tavola, in genere passeggeri di riguardo o militari volontarï, ma, nel caso questi non
avessero saputo ben attenersi alle norme dell’etichetta conviviale, non avrebbe esitato a mandarli
a mangiare con la bassa forza (fr. envoyer à la gamelle). Non era certo un compito facile il suo e il
Pantera, egli stesso comandante di galera, ne sintetizzava i motivi in queste poche seguenti
parole:

... per le spesse e repentine mutazioni de i tempi, per la rapacità de i ministri, per la poca
discrezione de i marinari, per l'insolenza de i soldati e per l'angustia de i luochi... (Cit. Proemio.)

Doveva ora essere e buon marinaio e buon comandante, perché da lui dipendevano tutti gli uomini
della galera, eccezion fatta di quelli della guarnizione militare, cioè della fanteria di marina
presente a bordo, la quale, specie se in buon numero, aveva a bordo un suo proprio comandante
militare. Se in combattimento il capitano era gravemente ferito o ucciso, cosa probabile visto che in
tale occasione stava spesso nella scoperta corsia, i suoi servi o confidenti dovevano cercare di
tener la cosa nascosta a bordo, ma non portandolo sotto coperta, perché abbandonare il campo di
battaglia sarebbe stata per lui cosa disonorevole, bensì coprendolo subito con una schiavina
affinché non si vedesse:

…questo di far occultar il capitano la sua morte non è per altro se non che non ci è cosa che
avilisca più i soldati che veder il loro capitano o mal ferito o amazzato. (Ib.)

Per il motivo opposto neanche i nemici dovevano accorgersene. A proposito delle buone qualità
marinaresche che ora anche gli si richiedevano bisogna dire che, nonostante l'innegabile primato
di Venezia nella marineria remiera e la bontà di galere e galeazze che si costruivano in Italia, per
quanto riguarda quella velica, gl’italiani non erano considerati tra i migliori navigatori del mondo,
come oggi erroneamente e sciovinisticamente si crede, ma ci si limitava a ritenere i genovesi i
migliori del Mediterraneo; e lo stesso già più volte citato Crescenzio a riconoscerlo onestamente,
seppure con quelli accenti fortemente nazionalistici tipici del suo tempo:

... Iddio ci è testimonio, marinari mediterranei, che altro non è il desiderio nostro che manifestare la
verità al mondo in cosa 'sì pericolosa come è la navigazione e bramare che la nazione italiana,
anima e quinta essenzia di tutte l'altre, scacci da sé il manifesto torto che a sé stessa procaccia;
poscia che, eccedendo ella tutte l'altre nazioni in tutte l'altre arti liberarli, mechaniche e miste, in
questo solo resta ella a tutte l'altre inferiore. (Cit. P. 409.)
508

Quest'inferiorità era in parte dovuta a motivi oggettivi e cioè all'essere gl’italiani abituati a navigare
per lo più nel tranquillo Mediterraneo e ben poco si spingevano ad affrontare il tempestoso oceano,
dove la navigazione era resa estremamente pericolosa dai forti venti e dalla violenza dei flutti e
dove pertanto rendeva un marinaio veramente esperto del mare e del governo d'un vascello.
L'Aubin, nel suo Dictionnaire, alla voce Levantins così scriveva:

... Nei porti oceanici si dice 'equipaggio levantino' quello arruolato nei porti mediterranei. I levantini
passano per cattivi artiglieri e per essere poco adatti alla fatica; d'altronde essi sono molto agili nel
correre sui pennoni. (Cit.)

Si riferiva in generale a tutte le nazionalità mediterranee, ma qui in particolare ai marittimi francesi


tirrenici in contrapposizione a quelli oceanici. Che poi i genovesi, per quanto riguarda la
navigazione mediterranea, fossero molto apprezzati è dimostrato dalla circostanza che i marinai
delle galere spagnole, come già sappiamo, erano per la maggior parte liguri.
Un capitano doveva innanzi tutto mantenere a bordo il rispetto della religione e della decenza;
pertanto prima del viaggio doveva confessarsi, comunicarsi e pretendere che lo facessero tutti gli
uomini di bordo. Doveva di conseguenza severamente punire a bordo la bestemmia, la
masturbazione e la pederastia [vizij e delitti enormi e abominevoli]. Particolarmente grave era
considerato il bestemmiare ed era punito in maniera severissima su tutte le squadre di galere sia
cristiane che maomettane; ciò avveniva non solo perché si viveva in tempi di guerre tra le religioni
e quindi all'idea dell'offesa della fede si accompagnava inconsciamente quella del sangue che
tanto correntemente per essa si versava, ma anche perché grande era la superstizione pagana dei
marittimi, i quali subito immaginavano il loro vascello affondarsi nei flutti tempestosi o consumarsi
tra le fiamme come conseguenza della provocata ira del Signore. Doveva quindi il capitano
ponentino emettere bando che la bestemmia fosse punita, per esempio, la prima volta con 10
bastonate, la seconda con 100 e la terza che la sentenza fosse demandata al capitano generale
perché questi decidesse una più grave pena, deferimento al quale d’altra parte egli era tenuto a
ricorrere in ogni caso di delitto di particolare gravità o d’ostinata reiterazione della colpa:

... Proibisca la bestemmia efficacemente ed ogn’altro vizio e sopra tutti quell'enorme che tanto
dispiace a Dio e tanto puzza. (P. Pantera. Cit.)

Insomma ai disgraziati galeotti era proibito anche il triste sollievo dell’onanismo, sia perché
peccato da confessarsi sia per il fetore che in coperta lo sperma rancido avrebbe emanato, specie
quando si viveva sotto la tenda, aggiungendosi poi a quello fisso del sudore e della sporcizia
prodotta dagli stessi remiganti.
509

A proposito della bestemmia è molto interessante leggere il primo articolo dell'ordinanza per la
disciplina marittima che fu promulgata nel 1420 dall'allora capitano generale del mare di Venezia
Pietro Mocenigo:

... Primo: chi biastemarà Dio over la sua Madre e Santi e Sante, si el sarà huomo da remo sia
frustado da poppe a prua, si el sarà huomo da poppa debia pagar soldi cento. Sia tegnudo ciascun
sopracòmito mandar ad essecuzion la detta pena, dagano notizia a messer lo Capitano di quelli
contra fecesse. (Cit.)

Più avanti descriveremo questa comunissima pena del dover correre da poppa a prua sotto le
frustate dei compagni. Doveva dunque il capitano anche prevenire la sodomia, impedendo che a
bordo anche solo se ne parlasse, secondo l’antico principio che il prevenire procura meno dolore
del reprimere (lem/ctm. los devant anants darts menys nafren, ‘i dardi anteriori feriscono di meno’);
a tal fine non doveva permettere che s’imbarcassero giovani sbarbati né proeri troppo giovani,
ordinando inoltre che questi, anche nell’interesse del servizio, dormissero in coperta e non di sotto
nelle camere. Un episodio di severa repressione della pederastia è riportato in un frammento di
un’anonima cronaca napoletana della fine del Seicento:

(Aprile 1671:) …Trovandosi un certo schiavo della galera di S. Teresa havere forzosamente
commesso vizio nefando con un figliuolo di 12 anni dentro uno schifo dietro la torre di S. Vincenzo
e trovato in flagrante dalla guardia de’ spagnoli che vigilava nella garitta ivi vicina, fu carcerato. (Il)
quale, dopo haver confessato il tutto ai giudici competenti, fu condannato a morte, ma l’Avvocato
de’ Poveri di dette galere andò così dal duca di Ferrandina generale come dal signor Viceré
rappresentandogli che non poteva haver luogo la condanna di morte, stante che la confessione di
detto schiavo non conteneva havere emesso il seme intra vaso… (Raccolta di varie croniche, diarij
ed altri opuscoli etc. Napoli, 1781-1782. B.N.N.)

Nel frattempo il predetto reo, poiché maomettano, si era fatto cristiano per cercare d’evitare così la
pena capitale, ma nonostante questo espediente e nonostante il parere contrario dell’Avvocato dei
Poveri (‘patrocinante gratuito’) delle Regie Galere, il quale, ricoprendo a quanto pare anche la ben
più importante carica d’auditore delle stesse galere, non voleva evidentemente che la squadra
perdesse un buon vogatore, la massima condanna non fu purtroppo evitata:

…per il che ad un’hora di notte della medesima giornata di martedì fu eseguita la giustizia sopra un
palco nel largo della Tarcia, dove, doppo esser stato strangolato (‘garrotato’) detto schiavo, fu
abbruciato come sodomita. (Ib.)

Ogni capitano generale poteva aggiungere agli ordini di repressione più comuni degli altri
particolari a sua scelta e poteva diminuire o aggravare le pene previste come meglio riteneva e ciò
secondo le colpe, la qualità dei trasgressori e la convenienza dei tempi, avendo come uniche
510

remore la sua personale prudenza, l'utile del suo principe e la cristiana moderazione. Al di là delle
predette proibizioni, il capitano doveva fare in modo che la sua ciurma fosse però trattata quanto
meglio era possibile, perché spesso in battaglia questa poteva, se voleva collaborare, essere di
grande aiuto:

... la ciurma non sia deufradata delle sue razioni e provisioni né battuta senza legitima causa,
come occorre molto spesso per l'avarizia de i cattivi officiali che, dove sperano guadagno, usano
grandissima crudeltà, sforzando i meschini galeotti a saziar con denari la loro ingordigia. (C. da
Canal. Cit.)

In parole povere: ‘o mi paghi o sono botte’. A proposito di danari, bisognava che il capitano
permettesse ai suoi galeotti di guadagnarsene un po', perché anche la loro vita, senza un minimo
di disponibilità economica, sarebbe stata insopportabile, e già sappiamo quali piccoli lavori
artigianali fossero loro concessi quando erano inattivi in porto e ciò si faceva anche per sottrarli al
pericoloso ozio:

… Però (‘perciò’) commandarà al còmito che gli faccia lavorare l'inverno, mentre si starà in ozio ne
i porti, acciò che guadagnino alcuna cosa e possano supplire a lor bisogni [...] ed, occorrendo che
si ammalino, veda che siano curati e aiutati secondo i bisogni. (Ib.)

Che le buonevoglie veneziane potessero, durante i periodi di sosta nei porti, scendere a terra e
cercarsi dei lavoretti occasionali per integrare il loro magro salario era tradizionalmente permesso;
per esempio si offrivano come bastasi, cioè facchini. Ciò accadeva per esempio nel 1496 a
Napoli, nel cui porto si trovavano galee veneziane e vascelli di altre nazioni uniti in una coalizione
anti-francese; gli ufficiali della Serenissima erano molto preoccupati per la città era in preda a una
pestilenza e temevano che i loro remiganti, i quali tutti i giorni scendevano a terra a guadagnarsi
del danaro, tornassero la sera a bordo contagiati:

… A dì 9 novembrio vene lettere di Napoli: [om.] La peste deva gran fastidio e che Castelnovo era
zà infetato e la regina era fugita fuori. 2 barze de’ spagniuli erano amorbate e li galioti di la nostra
armada andavano in le case amorbate per bastasar a guadagno (‘per sfacchinar a pagamento’),
‘adeo’ erano in gran pericolo. E li lochi circomvicini erano tutti pestilenti… (M. Sanudo, Diarii. T. I,
col. 376.)

Nelle galere pellegrine di Venezia i remiganti, non essendo in esse problemi di sicurezza militare
ostanti, scendevano a terra a vendere i loro manufatti praticamente in ogni porto abitato.
Il capitano aveva la facoltà d’esentare qualsiasi uomo di bordo dal servizio, se si trattava di
persona che lo meritasse particolarmente o anche se fosse stata cosa conveniente alla stessa
galera, ma doveva evitare il più possibile d’elargire simili esenzioni, le quali non infrequentemente
511

erano causa di sollevamenti e tumulti a bordo vuoi per l'invidia vuoi per l'ingiustizia insita in ogni
privilegio; comunque generalmente il capitano non s’immischiava nei casi personali della ciurma,
dovendola per forza di cose considerare un semplice anche se importantissimo strumento di
navigazione e non altro; infatti il predetto Guzmán di Mateo Alemán, posto al remo d'una galera
spagnola comincia a rendersi presto conto che non il capitano, ma il còmito è il vero padrone suo e
di tutti gli altri disgraziati remieri:

... Che, quantunque sia vero che lo è di tutti il capitano in quanto signore e capo, giammai suole
per la sua autorità intrigarsi con la ciurma; sono persone principali e di qualità, non s’interessano di
minuzie né sanno chi siamo... (Cit.)

I veneziani richiedevano che i nuovi sopraccomiti non fossero semplicemenrte dei giovani nobili
ma che avessero maturato una certa esperienza e infatti un decreto senatorio del 30 maggio 1402
prescrivevva che quelli eletti a Creta non avessero meno di trent’anni. A un capitano di galera che
navigasse nei mari di ponente era sufficiente conoscere l'italiano per farsi intendere dovunque, sia
nel Tirreno sia lungo le coste atlantiche dell'Europa centro-meridionale; infatti tale lingua era non
solo ben intesa negli scali di Provenza e della Spagna, ma anche in quelli di Fiandra e d'Inghilterra
e ciò grazie soprattutto ai regolari traffici che Venezia per tanto tempo aveva esercitato con quei
due lontani paesi a mezzo di grosse galeazze mercantili, le quali, appunto per questo, erano state
dette galeazze di Fiandra. Se però andava a navigare nei mari di levante allora italiano e latino non
gli bastavano più e bisognava che conoscesse lo schiavo (‘slavo’), il greco e il turco, perché, se
anche sulle coste dalmate l'italiano andava ancora bene, meno l'intendevano in Grecia e quasi per
nulla nell'Arcipelago, specie dalle parti della Turchia. Se poi apprendere tutte e tre le suddette
lingue non gli era possibile, allora poteva tralasciare il turco, perché in effetti gran parte delle genti
soggette alla Gran Porta ottomana erano slave o greche e inoltre la maggioranza degli stessi turchi
ben intendeva le altre due lingue. In realtà i capitani di galera veneziani e ponentini, invece di
dedicarsi allo studio delle lingue, preferivano servirsi nei mari di levante dei trucimani, ossia
d'interpreti, anche se presso i veneziani ciò era molto raro in quanto le loro ciurme erano costituite
appunto da greci e dalmatini.
I predetti trucimani (termine probabilmente derivato dalla contaminazione latino-germanica tra
traducere e mann), volgarmente detti dragomanni (ltm. drugomani), erano in genere cristiani che
risiedevano a Costantinopoli, dove esercitavano appunto il delicatissimo mestiere d'interprete; si
ricorda per esempio quello personale del sultano Amurat III, un lucchese rinnegato chiamato dai
turchi Orimbei e che era stato in precedenza dragomanno della Signoria di Venezia. Sulla ovvia
importanza di questi trucimanni nei negozi internazionali, specie in quelli che Venezia trattava con
512

Costantinopoli ai fini commerciali, ma anche a quello di contenere l'espansionismo turco in Europa,


si dilunga il bailo Lorenzo Bernardo (1592); ma, non essendo argomento direttamente pertinente al
nostro principale assunto, non ne parleremo più oltre e solo diremo che poteva essere una lucrosa
attività, come si evince da quell’adagio tedesco del tempo che diceva: Der beste Dollmetscher
(‘interprete’) ist Gold und Geld, rammentante quelli italiani, validi ancor’oggi, La legge è oscura ma
l’oro la chiarisce e La legge è l’oscura luna e l’oro il sole che la illumina . Da queste ultime
considerazioni si deduce comunque che quella tanto chiacchierata ‘lingua franca’, quel gergo
marinaro e mercantile cioè che si parlava in tutto il Mare Nostrum e nel Mar Nero, specie ad Algeri,
per potersi intendere, ossia quell'esperanto ante-litteram del mare fatto di parole storpiate tratte
dalle principali lingue latine, soprattutto dall’italiano e dallo spagnolo, dove ogni verbo s’impiegava
per lo più solo al modo infinito, non aveva allora alcun carattere d’ufficialità ed era lasciata alla
povera gente sia del mare che delle coste; quale fosse l'origine di questa lingua franca - e cioè in
effetti la condizione di schiavitù di tanti cristiani e la continua, nutrita presenza di tanti cristiani
rinnegati tra i turco-barbareschi - si evince da quanto ne dice il Cervantes Saavedra nel suo Don
Quijote, laddove fa raccontare a un capitano di fanteria della sua passata cattività ad Algeri,
finzione in cui l'autore nasconde la sua propria passata esperienza di prigioniero dei barbareschi;
infatti, il 26 settembre del 1575, mentre tornava ferito in Spagna da Napoli con suo fratello Rodrigo
sulla galera spagnola El Sol, questo vascello, dopo un’ostinata difesa, fu catturato e portato ad
Algeri da tre galeotte algerine comandate dal corsaro Mami Arnaute (‘Mami l’Albanese’), famoso
rinnegato albanese; ad Algeri, dopo uno sfortunato tentativo di fuga nel 1577, visse in cattività nel
bagno sino al 1580, quando cioè riuscì a riscattarsi tramite i padri trinitari per la grossa somma di
500 ducati d’oro – o di 100 scudi d’oro, come dice il de Haedo, una perdita economica comunque
dalla quale lo scrittore non riuscirà più a risollevarsi; dunque così egli a un certo punto fa dire al
suo personaggio:

... mi si rivolse in una lingua che si usa tra schiavi e mori in tutta la Barbaria e anche a
Costantinopoli, la quale non è moresca né castigliana né di alcun’altra nazione, bensì un miscuglio
di tutte le lingue, con cui tutti ci capiamo; dico dunque che in questo tipo di linguaggio mi domandò
che cosa cercavo in quel suo giardino e a chi appartenevo. (M. de Cervantes Saavedra. Cit.)

Nella sua Historia de Argel il de Haedo così scriveva a proposito di questa lingua franca:

… La terza lingua in uso ad Algeri è la ‘lingua franca’, così chiamata dai mussulmani non perché
parlandola essi credano d’esprimersi nella lingua d’una qualunque nazione cristiana, ma perché a
mezzo d’un gergo in uso tra loro essi s’intendono con i cristiani, essendo la ‘lingua franca’ un
miscuglio di diversi vocaboli spagnoli od italiani per la maggior parte. Gli si è poi introdotta qualche
parola portoghese dopo che, da Tetuan e da Fez, era stato portato ad Algeri un grandissimo
513

numero di gente di quella nazione, fatta prigioniera nella battaglia che perse il re di Portogallo don
Sebastián ( Alcazarquivir, 4 agosto 1578). Aggiungete alla confusione e alla mescolanza di tutte
quelle parole la cattiva pronuncia di quei mussulmani, i quali non sanno coniugare i modi e i tempi
dei verbi come i cristiani a cui tali vocaboli appartengono. Questa ‘lingua franca’ non è che un
gergo o piuttosto un linguaggio da negro da poco portato e arrivato in Spagna dal suo paese;
nondimeno questo gergo è d’un uso così generale che s’impiega per tutti gli affari e tutte le
relazioni tra turchi, mori e cristiani e (queste) sono tanto numerose che non c’è turco o moro,
anche tra le donne e i fanciulli, che non parli correntemente tale linguaggio e non s’intenda con i
cristiani. Ci sono pure tanti mussulmani che sono stati prigionieri in Spagna, in Italia od in Francia.
D’altra parte c’è un’infinita moltitudine di rinnegati di quei paesi e una grande quantità di giudei che
vi sono stati, i quali parlano molto bene lo spagnolo, il francese e l’italiano. C’è anche (da dire) che
tutti i figli di rinnegati e di rinnegate, i quali, avendo appreso la lingua nazionale dei loro padri e
madri, la parlano così bene come se fossero nati in Spagna od in Italia. (D. de Haedo. Cit.)

Un rais, ossia un capitano di galera turco, era molto più responsabilizzato del suo collega cristiano
in quanto, sia pure a spese dell'erario reale, doveva costruirsi da sé la sua galera, come ci spiega il
bailo Costantino Garzoni (1573):

... e questi (‘i rais’) vanno loro medesimi a' boschi per far tagliare i legnami e ivi fabrica ognuno il
suo legno con manco spesa e maggior prestezza, il quale è conservato da loro finché è navigabile;
il che certo a me pare esser buon costume, poiché, dovendo ognuno avere cura del suo, lo
fabbricano, governano e conservano come cosa propria. É ben vero che, essendo l'arsenale di
Pera piccolo rispetto alla molta quantità de' vascelli che hanno, sono astretti a tenerne la maggior
parte in acqua e allo scoperto tutta l'invernata, il che causa che i legni invecchiano molto più
presto; ma, come la natura ha fatto poco industriosa questa gente per conservare i loro vascelli,
così gli ha dato ancora molta abondanza di legnami per farne de' nuovi, perciò che nel Mar
Maggiore e nel golfo di Nicomedia vi è un numero grandissimo di bellissimi boschi [...] Hanno
molta abondanza di canapi, se bene non così buoni come li nostri, né hanno difficoltà di pegola,
avendone nello stato loro molte miniere. (E. Albéri. Cit. S. III, v. I, p. 420.)

Abbiamo lasciato in sospeso la spiegazione del significato di piazze morte; esse erano le pensioni
militari di povertà che si davano a figli o vedove di militari deceduti in servizio. Queste plazas
muertas differivano dunque dagli entretenimientos, per esser questi degli stipendi che si davano a
ufficiali viventi, ma non in servizio, perché si mantenessero però reperibili e a disposizione per
straordinarie necessità belliche.
Inoltre ogni raís si doveva scegliere da sé i suoi ufficiali, i quali, come abbiamo già detto, restavano
a disposizione e pagati dal sultano per tutto l'anno; ecco a tal proposito una relazione del 1575
sulle forze di terra e di mare del sultano Amurat III preparata da un anonimo residente veneziano,
ma che in realtà è quasi interamente scopiazzata dalla precedente del Garzoni:

... Ogni volta che si fabrica una galea di nuovo gli si deputa il suo 'rais', qual dura sino che la galea
è buona da navigare, e sono i 'rais' in numero di più di trecento con soldo di aspri otto sino a
quaranta il giorno per uno, secondo la qualità, e tutti sono tenuti a eleggersi il còmito, il parone e
514

altri due uomini pagati dal Gran Signore sino ad aspri sette il giorno per uno; il che si fa per aver gli
uomini da comando sempre preparati, ma, come non armano, servono persone di poca qualità ed
essi tirano le entrate e, quando bisogna armare, patiscono, perché è penuria grande di uomini da
comando, e tutti gli uomini sono pagati, così se armano come se non armano. (Ib. S. III, v. II, pp.
314-315.)

Solo un decennio prima i raïs erano stati molti di meno, come si leggeva nella relazione del 1562
letta in senato dal bailo Andrea Dandulo:

... Tiene questo Signore cento e cinquanta 'reis', che sono qui tra noi sopracòmiti, in Costantinopoli
e cinquanta in Gallipoli pagati di continuo delli denari del 'casnà' ad aspri otto il giorno per uno per
il meno e per il più aspri quaranta sin cinquanta, ma di questo però maggior stipendio ve ne sono
dieci solamente. Hanno ciascuno di questi 'reis' sei uomini per uno, principali officiali di galea, tutti
secondo le qualità e meriti lor - però di continuo medesimamente - salariati; e tutti questi, 'sì
sopracòmiti come officiali, paratissimi sono sempre a montar ad ogni cenno e semplice
comandamento del Signor sopra l'armata. (Ib. S. III, v. III, p. 165.)

Secondo la relazione presentata nello stesso predetto 1562 dal segretario a Costantinopoli
Marc'Antonio Donini, i raïs erano invece 50 di più:

... Delli 'reis' di queste galee, delli quali con questo titolo ne sono pagati intorno a 250, se ne
ritrovano molti che, per aver armato si può dire ogn’anno da molto tempo in qua, si possono riputar
valentissimi uomini e atti, non voglio dir solo a guidar bene le loro galee, ma ancora tutta l'armata
del Serenissimo Signore. (Ib. P. 192.)

Questo numero di 250 aumenterà ancora e a 275 nella relazione del bailo Daniele Barbarigo, la
quale è del 1564. Benché dunque molto responsabilizzati, dopo Lepanto i baili veneziani
incominciano baldanzosamente a riconoscerne, oltre che i pregi, anche i difetti, come si può
vedere nella relazione di Marc'Antonio Tiepolo (1576):

... Il modo veramente che (il sultano) tiene nell'armare è questo, che, tenendo pagati 300 'rais',
cioè tanti quante sono le galee, perché allora deputa il 'reis', cioè il capitano per la galea, quando è
per fabricarla di nuovo, al qual 'rais' provvede di otto sino a quaranta aspri il giorno, vuole il Gran
Signore che questi 'rais' abbiano cura della propria galea, acciò che tanto sappiano essi avere a
durare la paga quanto sia per durare la loro galea; provvisione in vero buonissima, se fusse
osservata, ma, perché il favore e i donativi possono molto, onde spera sempre ognuno cambiar
galea e averla migliore, benché la già deputata si perda o si guasti, riesce la provvisione con poco
frutto; però (‘perciò’) si veggono questi essere fra i più inutili gl’inutilissimi uomini del Gran Signore,
ad altro non attendendo - quando loro tocca di navigare - che a pensare come, col mancare al
misero galeotto, possan essi far maggior il guadagno, lo che è anche una delle cause per le quali
avviene la spessa morte de' galeotti.
Al 'rais' sono pagati ancora quattro uomini sino a ragione di sette aspri per uno il giorno e sono il
còmito, il paron e due altri compagni, i quali non sono né anco i migliori fra tutti perché vuole il 'rais'
avanzare anco per questa via, sendo il soldo pagato a ciascuno sia o non sia bisogno di armare.
(Ib. S. III, v. II, pp. 147-148.)
515

Sempre nell'ottica d’un ormai consolidata disistima dell'armata turca dopo Lepanto il bailo Paolo
Contarini nel 1583 scriveva che, per mare e per terra, i mercenari cristiani erano, ora più che mai, i
soldati più apprezzati dai turchi e non a caso lo stesso capitano generale di quell'armata era uno di
quelli, cioè ancora quell'Uluch-Alì, rinnegato calabrese, che dalla condizione di povero pescatore o
marinaio, poi schiavo remigante dei turchi, poi corsaro barbaresco era assorto a una delle più alte
cariche che a quel tempo ci fossero al mondo:

... Tien Sua Maestà (‘il sultano’) del continuo provvisionati duecento còmiti e buona quantità di
bombardieri, li quali stanno aspettando occasione di andar a servir sopra l'armata, con speranza di
arricchirsi e ascender a maggior grado; e il Capitano (Uluch-Alì), che conosce quanto siano in
questo più atti gl’italiani degli altri, procura di metter questi innanzi e gli accarezza quanto può. (Ib.
S. III, v. III, p. 223.)

Ai tempi della relazione del bailo Giovanni Moro e cioè nel 1590 i raís erano aumentati al numero
di 360 e la loro paga iniziale era d’8 aspri, mentre gli azap, i jopeg (bombardieri), gli armaioli e i
circa 600 calafagi (‘guardiani’) dell'arsenale di Peràia ne prendevano inizialmente quattro; ma
questi emolumenti aumentavano poi per tutti con l'anzianità e il merito di servizio e c'erano infatti
raís che percepivano più di 100 aspri il giorno, cioè più di 2 ducati veneziani. Il Moro da un giudizio
negativo dei raís del suo tempo, a conferma di come fossero ormai definitivamente in degrado e
decadenza le qualità morali degli uomini di comando turchi dopo quella ormai lontana, ma fatale
battaglia, perché sempre le guerre perdute provocano negli uomini un graduale abbandono dei
valori nazionali e civili e un affermarsi invece dell'egoismo materialista e della corruzione:

... A' 'raís', nella loro prima istituzione, che fu di pochi, si consegnava un corpo di galea per uno
con tutti suoi prestamenti, come si fa tuttavia in tanti magazzini a parte nell'arsenale (periodo
oscuro), e la paga veniva data solamente per quel tempo che la loro galea si manteneva in stato di
potersi adoperare, il che li metteva in necessità d'averne buona cura per non restar privi di quel
trattamento; ma al presente, che tutte le cose sono in disordine e che non viene osservato il rigor
di prima, sono interamente satisfatti (pagati per tutto l'anno), se ben non solamente molti di essi si
trovano senza galee, o sian disfatte per vecchiezza o andate a male per altro accidente ovvero
perché, adesso che sono ridotti in 'sì gran numero, non gliene sia stata mai consegnata alcuna per
non se ne trovar tante in essere; ma quelli ancora che l'hanno avuta vanno per negligenza rare
volte a vederla, se non gli viene comandato che si preparino per armarla. Perché, essendo uomini
per lo ordinario di vil condizione e in conseguenza poco zelanti del proprio onore e indegni d'esser
paragonati con li sopracòmiti della Serenità Vostra, nobili d'animo e di costumi, attendono
solamente a riscuoter le loro paghe e a rubar quanto più possono in ogni servizio in cui siano
impiegati, senza aver alcun riguardo al pulimento delle galee, che, malissimo tenute da essi, per
poco tempo si conservano bene... (Ib. pp. 348-349.)
516

Quest'insufficienza qualitativa dei raïs e degli uomini di comando in genere, pur sempre nel
contesto della grande temibilità numerica dell'armata turca, è di nuovo messa in risalto dal bailo
Lorenzo Bernardo (1592), la cui relazione letta al doge e ai senatori di Venezia si distingue per la
profondità della sua disamina:

... Le forze di mare di quel Gran Signore sono considerabilissime per sé appresso tutti li principi del
mondo, ma molto più alla Serenità Vostra, lo Stato della quale non può ricevere offesa notabile se
non da esse, onde a queste sempre devesi aver l'occhio e queste devono essere dall'Eccellenze
Vostre perfettamente intese e maturamente considerate; però (‘perciò’) in esse mi dilaterò
(‘dilungherò’) un poco più, sapendo dover dir cosa che sarà non meno di benefizio che di
satisfazione di questo Eccellentissimo Senato.
Trattiene il Gran Signore con soldo ordinario quattrocentosessanta 'rais', che sono sopracòmiti,
delli quali appena centocinquanta sariano atti a poter sostenere il servizio e averiano qualche
cognizione delle cose da mare; il resto sono tutti artefici, putti e vecchi, li quali o per favore o per
pietà hanno avuta quella provvisione. Trattiene quattromila e più 'asappi', che sono offiziali di
galea, delli quali due terzi sono poco atti a quel servizio. Questa milizia è malissimo pagata ed
ordinariamente va creditrice di tre in quattro mesi di provvisione, perché, quando non ha bisogno di
essa, il Gran Signore poco sicura di darle alcuna satisfazione. É più tosto diminuita in numero per
questa causa e diminuisce anco in esperienza e valore, perché, essendo già passati quattordici
anni che non è uscita armata reale di Costantinopoli, li vecchi sono andati mancando, né se ne ha
potuto allevar de' nuovi se non quelli pochi che, nell'andar in corso, hanno in questo tempo potuto
acquistare qualche esperienza nelle cose da mare [...]
Li sopracòmiti, che sono quattrocento(sessanta), hanno di paga sino ad un zecchino - secondo li
loro meriti - il giorno e questo in vita loro, né, quando occorre armare, hanno altro stipendio,
donativo o imprestito dal Gran Signore, ma armano solo con il loro stipendio ordinario. Oltre questi
quattrocentosessanta ne sono altri dugento trattenuti ancor loro con paga dal Gran Signore, li quali
in occasione d'armata montano sopra le galee e succedono in luogo di quelli che per diversi
accidenti vanno mancando.
Li quattrocentosessanta ordinarij hanno ciascuno una squadra di nove 'asappi', li quali sono
obligati andar a servir in galea il capo della sua squadra, e questi nove sono il còmito con aspri
cinque sino a otto di paga, il paron, che loro chiamano 'odà-bascì', e il sottocòmito; li altri sei sono
offiziali diversi di galea con paga da quattro sino ad otto aspri il dì di provvisione. Di questi nove
'asappi' obligati a montare con il sopracòmito sopra una galea ordinariamente non ne vanno più di
quattro o cinque soli; il resto o sono escusati per esser come paghe morte di fantolini in cuna, di
vecchi impotenti o di uomini inabili per altra causa a navigare; ma, se ve ne fosse alcuno atto per
andar al servizio e recusasse andare, o dona la sua paga al 'rais' sino che sta fuora di servizio o il
'rais' lo fa cassare e fa dar quella paga ad un altro. (Ib. pp. 334-336; 342-343.)

NeIl’esercito ottomano (tc. leschièr) il predetto termine odà-bascì aveva il significato di ‘capitano di
compagnia (odà)’. Il bailo Matteo Zanne confermerà i predetti aspetti negativi nel 1594:

... Di 500 'rais' poi trattenuti (‘pagati in permanenza’) pel comando non ne sono cento pratici del
governo d'una galea, perché questi officij vengono dati - come gli altri - per danari al più offerente e
non al migliore; e però (‘perciò’) l'arsenale passa con tutto quel disordine che (non) si possa
desiderar maggiore per servizio (‘a vantaggio’) della Christianità. (Ib. P. 403.)
517

Aiutante del capitano e commensale fisso della sua tavola era il giovane nobile di poppa o
gentil'huomo, ma a volte, come avveniva per esempio sulle galere pontificie, potevano esserci
anche due nobili di poppa, di cui però uno solo faceva da luogotenente del capitano quando questi
era assente:

... però haverebbono anco ad esser veramente nobili di stirpe come sono di nome, pungendo gli
stimoli dell'honore gli huomini nati di chiaro sangue più che i plebei. (P. Pantera. Cit. P. 116.)

L’opportunità d’affidare i comandi di mare ancora ai nobili, come si era fatto nel Rinascimento, era
stata già affermata anche nel Governo di galere:

…Dunque, essendo hoggi questo offizio de’ marinari tanto importante e consistendo tutte (le) forze
de’ Principi quasi nella potenza del mare, doveria questo offizio de’ marinari essere nelle mani de’
nobili e non di gente bassa come hoggi dì si tiene. (Discorso circa il modo et maniera ha da tenere
un Capitano etc. Cit.)

L’opinione qui espressa dai predetti autori e cioè che, se si voleva onestà spirituale e senso di
responsabilità nei comandi militari, bisognava affidarli ai nobili, trovava sicuro e riconosciuto
riscontro nella realtà di quei tempi e quindi non ci sarebbe nulla di più errato se volessimo oggi
puntualmente metterci a contestarla. Per loro antico istituto i veneziani usavano assegnare due
nobili di poppa d’ancor tenera età, cioè di non più di 12 o 13 anni, e quindi non combattenti, a
ognuna delle loro galere sottili, due anche a ogni veliero grosso, armato o non armato a guerra che
fosse, e quattro a ogni galeazza; all'incirca lo stesso facevano i genovesi. Questi ragazzi erano
eletti dal capitano del vascello, il quale offriva quindi loro di partecipare a un impareggiabile
seminario di guerra e di mare, dal quale non potevano che uscire futuri buoni capitani.
Durante il combattimento il capitano assegnava ai nobili di poppa un luoghi dove potessero
mostrare maggiormente il loro valore e per lo più uno lo poneva sulle rembate, affinché
comandasse e guidasse la gente di prua nella battaglia; a un nobile di poppa si soleva poi affidare
la soprintendenza dell'artiglieria di bordo. Il gentiluomo prendeva una doppia razione alimentare (lt.
duplicarii), avantaggiata di qualità come quelle che toccavano al capitano. Mateo Alemán, laddove
il suo Guzmán è forzato di galera, descriveva anche la venuta a bordo d’un simile gentiluomo:

... Capitò in quel tempo che venisse a professare nella galera un cavaliere dello stesso cognome
del capitano di quella e si trattavano anche da parenti. Era ricco, si trattava bene e portava una
grossa catena (d'oro) al collo, come usavano i soldati, come quella che un tempo anch'io portavo.
Prendeva i suoi pasti a poppa, possedeva un lucidissimo servizio d'argento e servitori ben vestiti; e
al secondo giorno dal suo imbarco gli mancarono dalla catena diciotto ciondoli, i quali senza
dubbio valevano cinquanta scudi... (Cit.)
518

Questo gentiluomo dormiva su una panca del locale che l'Alemán chiama scandolaretto di poppa e
che potrebbe essere in effetti nient'altro che lo scandolaro, mentre il forzato Guzmán, al quale in
seguito al predetto furto erano state affidate la custodia e la cura degli effetti personali del
gentiluomo medesimo, dormiva a tal uopo nella dispensina, ossia, nella compagna. Guzmán
faceva di tutto per farsi ben considerare dal suo nuovo padrone nella speranza di poter forse un
giorno - così comportandosi - recuperare la libertà perduta:

... Quando saliva a bordo, lo andavo a ricevere alla scala; gli davo la mano quando entrava nello
schifo; gli facevo stuzzicadenti da tavola di grandissima originalità, tanto che ne mandava anche a
terra come regali; gli tenevo l'argenteria e le altre tazze da bibita tanto lucide e pulite che era un
piacere vederle, il vino e l'acqua freschi, la lana degli strapuntini ammorbidita, l'alloggio pulito in tal
modo che non vi era né vi si poteva trovare una sola pulce né alcun altro animaluccio, perché in
quello che mi avanzava del giorno mi occupavo solamente di andare a caccia di quelli, tappando
anche i buchetti da dove sospettavo che si potessero originare, non solo perché fosse esente da
essi, ma anche dal loro cattivo odore. (Ib.)

Il cappellano di bordo (fr. aumônier) poteva essere un normale presbitero, oppure un frate
predicatore o minore, dell’ordine degli eremiti o dei carmelitani o d’altri ancora; egli alloggiava
nella camera di prua, ma l'Alemán nel predetto Guzmán lo fa dormire nello scandolaro insieme ai
servi del nobile di poppa e in effetti della gente di poppa o di comando che dir si voglia faceva
parte, in quanto segretamente collaborava col capitano ai fini di tener con le sue parole buona la
marinaresca e contribuire così a scongiurare le sedizioni e gli ammutinamenti; in effetti, come si
sa, era quello un tempo in cui signorie e clero erano alleate nel governo dei popoli. Durante il
combattimento si metteva, come il barbiero, nella camera di poppa e colà ascoltava le confessioni
dei moribondi e dava loro l'estrema unzione. Il suo principale compito a bordo era tuttavia quello
d'esortare alla preghiera mattina e sera, alla santificazione delle feste, ai digiuni, ai canti religiosi e
alla partecipazione alle messe e ai sacramenti, tutto ciò secondo il nutritissimo calendario
ecclesiastico del tempo; egli pertanto esortava i remiganti alla confessione, gli schiavi maomettani
alla conversione alla fede cattolica; in navigazione teneva messa a bordo, nel modo però che
s’usava in mare e cioè senza l’oblazione di sacrificio, ma quando si toccava terra, sbarcava e lo
faceva sulla costa di fronte alla galera ormeggiata; ogni sabato sera percorreva la corsia tenendo
in alto il ritratto della Madonna e tutti cantavano la salveregina accompagnati dai musicanti di
bordo, se ve n’erano, oppure dai soli trombetti. Prendeva 4 scudi pontifici il mese - ducati
napoletani 26,40 l’anno - e 2 razioni giornaliere.
Il patrone o scrivano di razione o razioniero (lt. scalcus; petentarius; gr. εὒθυνος, ἐπιστολεύς; fr.
majordome; vn. massaro; masser), presente già anche nelle galeotte dell’inizio del Trecento, era
519

appunto il contabile o scrivano della galera e si trattava del secondo ufficiale di bordo dopo il
capitano, essendo infatti il suo nome residuale di quello medioevale socto-patrono, in quanto,
come abbiamo già spiegato, pa(d)rono o patrono si era chiamato nel Medio Evo il capitano della
galera e ancora così si chiamava quello dei vascelli mercantili; il suo principale compito era il
provvedere, ricevere, custodire e dispensare, secondo le necessità o in razioni, le vettovaglie e gli
altri generi di munizione sia per servizio della gente di bordo che dello stesso vascello, provviste
tutte che gli erano affidate dal provveditore dell'armata o della squadra, poiché in effetti a lui si
consegnava lo stesso scafo con tutti i suoi corredi e armamenti. Da questa sua qualifica di
razioniero, ossia di ‘dispensatore di razioni’, deriva il moderno termine 'ragioniere', il quale non ha
quindi etimologicamente nulla a che fare con 'ragione', errore al quale però inducevano già allora i
non ancora colti francesi, quando, invece di ration (ol. eet-maat, rantsoen), scrivevano spesso
anche raison. Egli doveva anche registrare e custodire quelle poche mercanzie pregiate (sete
soprattutto) che i mercanti imbarcavano spesso sulle galere, approfittando dei loro veloci viaggi nel
Mediterraneo, e pertanto era necessario che s’intendesse anche di pesi e misure e che fosse un
buon abbachista; a ogni mercante egli doveva rilasciare un certificato d’imbarco contenente la
poliza di carico, ossia la ‘lista’ delle merci da lui imbarcate, del prezzo del relativo nolo (gr. ναῦλον,
πορθμίον), del luogo d'imbarco e di quello di sbarco; infine di tutto ciò che a bordo eventualmente
mancasse doveva far richiesta al provveditore della sua squadra, al quale pure doveva rendere
conto di tutto quanto fosse caricato a bordo, quindi delle entrate e delle uscite di tutto il materiale di
munizione, lavorando pertanto in stretto e continuo contatto con il pennese o magazziniere.
Doveva registrare accuratamente anche gli effetti personali di coloro che decedevano a bordo, per
poi consegnarli, appena possibile, a chi, in qualità di erede, ne avesse diritto, facendosi sempre di
tutto rilasciare nota di consegna firmata dagli interessati. La sua figura andò però dopo il
Rinascimento perdendo d’importanza e infatti il suo posto in navigazione, il quale era stato
principalmente a poppa con il capitano, in seguito sarà limitato al solo pagliolo, cioè al luogo dove
lavorava e dormiva; riceveva 5 scudi pontifici il mese - ducati napoletani 69 l’anno - e due razioni di
vettovaglie il giorno. Sulle galere Capitane il patrone aveva spesso l'aiuto del già ricordato mozzo
detto scrivanello e ambedue in battaglia non partecipavano al combattimento poiché erano
impegnatissimi a tirar fuori dai depositi le armi e le munizioni da distribuire ai combattenti; ma,
laddove si trattava d’un militare di carriera e non d’un semplice abbachista, allora, quando si
vogava, il capitano lo voleva in corsia ad aiutare còmito e sotto-còmito a spronare i remieri.
A proposito dell’espressione poliza di carico c’è da segnalare che a Venezia si usava di preferenza
quella di lista di carico; lista in veneziano era termine che significava appunto ‘elenco’ in ogni
senso, anche in quello di ‘registro’, e lo ricordano infatti ancora oggi due brevi vie della città e cioè
520

quella detta Lista di Spagna perché vi era una volta ubicato il palazzo dell’ambasciatore spagnolo,
custode tra l’altro della lista, ossia del registro, di tutti i sudditi spagnoli residenti a Venezia; inoltre
la via detta Lista vecia dei bari, insomma il palazzo giudiziario in cui una volta si era tenuto il
registro dei truffatori, importantissimo casellario giudiziale dove ogni uomo d’affari veneziano
poteva andare a controllare se un altro commerciante era persona affidabile o no.
Importantissimo, faticosissimo e irrequietissimo ufficio era quello del còmito, corrispondente per
eccesso al nocchiero (questo più tardi detto nostromo) dei vascelli tondi, anche se, come abbiamo
già detto, documenti medievali sia veneziani che catalani ci dicono che questo ufficiale fu, sino a
tutto il Trecento, ancora più oberato, in quanto unico comandante della galera, e solo da quel
secolo fu sottoposto a un padrone, il quale prenderà poi, come sappiamo, il nome di sovracòmito a
Venezia e di ‘capitano’ altrove. Bisogna però ricordare, come del resto già più volte fatto, che sino
a quel tempo le galere medievali erano state più spesso delle biremi, come già detto, quindi meno
impegnative da governarsi delle triremi; ciò almeno parlandosi delle italiane tirreniche, perché
invece principalmente triremi, cioè più simili alle antiche triere romane, erano state anche nel
Medioevo le catalane e le adriatiche, ossia le bizantine e le veneziane. Egli comandava, sia in
navigazione sia in porto sia in combattimento, tutti i servizi di bordo e guida della galera, dove
ogn'huomo riposa sotto la sua diligenza. (P. Pantera. Cit. P. 118.) Tra i suoi compiti più difficili è
quello di stimolare la ciurma a lavorare di remo con il massimo impegno:

... ordinariamente, perché si ecciti all'opra, è necessario adoprar non meno il bastone che'l
fischietto. Però (‘perciò’), usando il rigore, sarà più obedito e i servizij si faranno meglio e con
maggior prestezza per il timor delle busse, dalle quali nasce l'obedienza, che è la principal causa
del buon governo d'una galea. (Ib.)

Il suo bastone era detto a bordo cerchio (gr. ϰίρϰος; sp. arco de pipa), in quanto probabilmente
non era altro che il legame circolare di legno elastico usato per tenere insieme le doghe dei barili;
doveva però usarlo con discrezione:

... perché il còmito che attende imprudentemente ad esacerbar col bastone e a mal trattar la sua
ciurma senza ragione - come ho veduto a far io da molti huomini indiscreti - l'avvilisce e mette in
tanta disperazione che si abandona affatto e più tosto si lascia ammazzare che moversi,
desiderando alcuni di quei meschini di liberarsi dalli stratij e da gli acerbissimi flagelli che sentono
con la morte. (Ib.)

Il castigo corporale non doveva eccedere in crudeltà e comunque, quand'anche dovesse essere di
necessità durissimo, bisognava che fosse anche sempre dettato da oggettivi motivi di servizio e
mai da fini privati del còmito, quali guadagno o vendetta o altra biasimevole passione; anzi:
521

... Fuori del servizio publico mostrisi il còmito affatto amorevole alla ciurma, aiutandola e
accarezzandola senza (però) domesticarsi seco, e le sia protettore e come padre, riducendosi alla
memoria che è finalmente carne humana e che si trova nel colmo delle miserie. (Ib.)

Questo richiamo a evitare trattamenti crudeli era già un addolcimento rispetto alla mentalità più
spietata che si era avuta nel Medioevo, come si evince per esempio leggendo la già ricordata
ordinanza catalana del 1354 laddove ancora si ritiene necessario proibire al còmito di colpire la
sua ciurma con armi più pericolose del semplice bastone:

… che nessun còmito colpisca di lancia o di dardo alcun uomo della sua galea, perché è molto
meglio colpire di correggia o di bastone o di verga, così non si storpia la gente né si spezzano le
armi. E, se lo fa, che ripaghi le armi il doppio (que negun cómit no fira ab lança ne ab dart null hom
de la sua galéa, car melor ferir es ab una correia ò ab bastó ò ab verga è no destroueix hom la
gent ne afolla hom les armes. E si ho fá, que pach les armes en doble. Cit. p. 83).

Insomma, l’integrità delle armi sembra avesse allora più importanza di quella dei disgraziati
remiganti! Altro importantissimo compito del còmito era mettere in stiva la galera, cioè
accomodarne la roba pesante presente nelle camere, specie nella camera di mezzo, nella maniera
migliore perché navigasse con il giusto assetto, cioè senza che piegasse più da un lato che
dall’altro o che fosse troppo appruata o troppo appoppata, posizioni difettose che ne avrebbero
non solo rallentato il corso, specie la voga, facendo inutilmente ammazzare di fatica la ciurma, ma
anche messo a rischio di rovesciarsi in caso di colpi di mare; e poi aveva un’infinità d'altri compiti,
come comandare le manovre delle vele e della voga, far sempre nettare e frettare tutta la galera,
farla spalmare, cioè cospargerne di sego l’opera viva dalla chiglia alla linea d’acqua, farla
ormeggiare, alberare e disalberare (sp. adrizar y acorullar); doveva inoltre far sarpare i ferri
(‘salpare le ancore’), accomodar le sartie o soghe, le vele, le tende, le gomene e le ancore; doveva
far fare il carro, ghindare (‘sollevare’) e ammainare le antenne, servire le vele, mandar l'uomo alla
penna – vedremo poi il significato di ciò, sistemare il palamento al suo posto e i banchi per la
ciurma; doveva far calar remi, (‘vogare’; gr. & gr. πτεροῦν), siare, palpare, affornellare
(‘affrenellare’), acconigliare o tessere i remi, far fare la tenda, cannonarla, sciamprarla e abbatterla,
far asciugare vele, tende e sartiami quando fossero bagnati, tener pulita la ciurma, sorvegliare che
i galeotti non si vendessero o impegnassero i vestiti, dei quali doveva quindi spesso far la
rassegna; doveva spronare i remiganti, quando non si navigava, a far qualche lavoro per
guadagnarsi qualche soldo e potersi così mantenere; doveva far salutare con trombe, clarini e
tamburi al loro passaggio galee, navi principali, personaggi, luoghi fortificati o di devozione, vascelli
522

di pellegrini, specie le galee veneziane che portavano questi in Terrasanta, tranne di venerdì che,
essendo giorno rattristato dal ricordo della morte di Cristo, si salutava con la voce.
Dato il suo particolare impegno nella guida della navigazione, al còmito poteva capitare di
trascurarne altri minori, per esempio quello di mantenere il controllo anche di quanto avveniva
sotto coperta; la già più volte ricordata ordinanza catalana del 1354 sanzionava tale tascuratezza:

… che tutti i còmiti siano tenuti per giuramento, il quale presti nell’entrare nel suo ufficio, a entrare
nel sotto-ponte della sua galea almeno ogni settimana per controllarla e riassettarla; e, se questo
non fa, che perda il salario che ammonterà tutta la (sua) settimana, il quale sia riassegnato e cioè
due parti al patrone e la terza parte al viceammiraglio (que tot Cómit sia tengut per sagrament, lo
qual faça com entrará en son ofici, que cascuna setmana almenys deie entrar desota en la sua
Galéa per regonexer è estreyar aquella: è si açó no fa, que perda lo salari que muntará tota la
setmana, lo qual sia guanyat, ço es, les dues parts al Patró, è la terça part al Visalmirayll. Cit. P.
92).

Questo far guadagnare gli ufficiali generali sulle manchevolezze dei loro subordinati
evidentemente si riprometteva di ottenere un maggior coinvolgimento di quelli nella buona tenuta
di una galea, ma paradossalmente un ufficiale disonesto avrebbe potuto anche cercare
occultamente d’incentivarle per trarne poi un guadagno.
Doveva ancora il còmito far attenzione che, viaggiandosi di conserva (fr. de conserve, de flotte), le
galere non si urtassero e si spezzassero reciprocamente i remi, né doveva cedere alla tentazione
dell’arregate (vn. ragattade), vale a dire di quelle stolte contese di velocità che nascevano a volte
tra i còmiti di due o più diverse galere, quando cioè ognuno di loro cercava di far raccogliere le
gavette agli altri, come si diceva scherzosamente, ossia di distanziarli per dimostrare la bontà della
propria galera. Era infatti soprattutto durante questo regattare (da regata, ‘competizione remiera’)
che si rischiava, oltre che di sfiancare le ciurme, anche d’entrare in collisione con le altre galere;
per lo più gli ordini generali delle squadre tirreniche prevedevano che il còmito responsabile d’aver
rotto il timone, lo sperone o i remi a un’altra galera pagasse il danno di tasca sua. Doveva inoltre il
còmito esser pratico nel taglio delle vele, tende e tendali che avrebbe poi fatto cucire dalla sua
ciurma; a lui pure toccava provvedere che la galera fosse ben provvista di sartiami, buoni alberi e
antenne; soprattutto doveva star attento ai segnali che avrebbe mostrato la galera Capitana della
sua squadra e osservare quelli che altri facessero da terra o da mare di giorno e di notte.
Perché poi le voci del còmito, ossia gli ordini che dava col suo fischietto o zufolo d'argento, fossero
ben intesi da tutti, bisognava, soprattutto nelle burrasche, eliminare la principale causa di rumore e
cioè il parlare della ciurma; allora il còmito comandava il silenzio con il comando Fuori rumore! e,
se quest'ordine non aveva il dovuto effetto, egli passava al più brusco e imperativo Legar lingua!,
che era però, dice il Pantera, elocuzione assai volgare; se infine si voleva che i galeotti stessero
523

sicuramente zitti, magari nel passare di notte e di nascosto sotto il naso del nemico, allora il còmito
comandava loro di prendere in bocca i loro berrettini e di stringerli tra i denti, in modo da non poter
proferire verbo. Alla ciurma del resto molto conveniva eseguire gli ordini del còmito a evitarne le
sicure percosse:vestiario

... essendo che questa misera gente si governa solamente hoggidì con le leggi di Draconi,
pagando il preterir di un sol fiato co'l vivo sangue. (B. Crescenzio. Cit. P. 141.)

La sostanziale crudeltà della professione di còmito è ben evidenziata dalle parole del già citato
passeggero parigino Jean-Jacques Bouchard (1630):

... Il còmito va su e giù per la corsia, guardando con attenzione se qualcuno manchi o finga di
vogare, e allora lo raddrizza con il suo 'cerchio' o con il suo 'cordino' e non batte solamente quello
che manca, ma anche gli altri quattro del medesimo banco; ce ne sono talvolta di così ostinati da
lasciarsi scorticare tutto il dorso piuttosto di vogare. Quando si è a qualche scontro d'importanza,
egli non si serve solamente del bastone, ma anche della spada [...] Là si vede tutta la miseria,
l'oscenità, la sporcizia, il fetore e l'infermità umana [...] Non c'è giorno che non ne muoia
qualcuno... (J. de la Gravière. Cit.)

Una descrizione di fustigazione della ciurma si legge nel predetto Guzmán, laddove il protagonista
denunzia al còmito un furto di danaro ai suoi danni commesso di notte da qualche altro remigante;
il còmito, per scoprire il colpevole, ordina immediatamente il solito e crudele metodo d'indagine:

... comandò di mettere in esecuzione due banchi davanti a sei di dietro, per cui, essendo venuto il
mozzo dell'aguzzino con lo 'scandaglio', dettero a ciascuno spietatamente cinquanta colpi che gli
fecero gonfiare alti lividi, lasciandovi le pelli attaccate. Si domandava ad ognuno di dire tanto quello
che sapevano per aver visto quanto ciò che avevano inteso dire e, dopo averli ben fustigati, li
lavavano con sale e aceto forte, sfregando loro le ferite, lasciandoli tanto contorti e inarcati da non
sembrare più nemmeno esseri umani. Quando c'era stato il furto, per caso un forzato zingaro non
dormiva e, quando arrivò il suo turno d'essere frustato, disse che quella notte passata aveva
sentito un suo compagno alzarsi e abbassarsi sul banco mio, però non ne sapeva il motivo;
quando quel forzato sentì che parlavano di lui e lo accusavano, si alzò in piedi e disse che gli si
era impigliato il ramale di catena in quelli dell'altro banco e che si era trovato il piede della maniglia
contorto e si era alzato per sbrogliarla, ma, poiché la ragione era debole e non tale da poter esser
ammessa come giustificazione e specialmente da chi tanto bene li conosce, subito lo frustarono e
gli diedero molti colpi, più che agli altri. E fu tanta la collera che prese il còmito verso il mozzo
dell'aguzzino, perché non colpiva con l'impegno che egli voleva, che comandò se ne dessero
subito altrettanti a lui, oltre ai molti altri che gli dette di sua mano col suo 'cerchio di pipa'; e con
quella stessa ira ritornò subito a far frustare un’altra volta il delinquente, al quale non erano bastate
le frustate già sopportate; ma, quando si vide fustigare un’altra volta, pensò che il còmito lo
avrebbe ucciso a frustate finché non confessasse la verità e credé (quindi) opportuno di
spiattellarla... (M. Alemán. Cit.)
524

Il colpevole, sebbene cerchi di discolparsi affermando d’essere stato istigato, viene punito con
molte altre frustate e il danaro rubato è restituito a Guzmán, il quale, quando era salito a bordo,
aveva tenuto, come già sappiamo, il suo gruzzoletto ben nascosto in petto finché gli era stato
possibile; questa narrazione non è affatto romanzesca, infatti, quando un remigante denunziava il
furto d’un suo oggetto o semplicemente di non trovarlo più, tale era lo sbrigativo e crudele metodo
d’indagine usato in tutte le squadre di galere. In seguito però Guzmán, nominato guardaroba
particolare del gentiluomo di poppa, invece di potersi a lungo considerare fortunato d’un tale
notevole miglioramento di condizione che in galera, secondo un antico proverbio, si diceva saltare
dal banco alla poppa, forse vittima d’una vendetta dei remiganti frustati, viene egli stesso accusato
- seppure ingiustamente - d’un furto ai danni del suo nuovo padrone:

... Una sera che il mio padrone veniva da terra, lo andai a ricevere, come sempre, alla scaletta; gli
detti la mano, salì sopra, gli tolsi la cappa, la spada e il cappello; gli detti il suo abito e il berretto di
damasco verde che tenevo sempre apparecchiati; portai il resto sotto coperta, riponendo ogni cosa
al suo luogo. Quella stessa notte, senza che si sapesse perché, chi e in che modo, dal momento
che, se non fu opera del demonio, mai potei capire come fu, (avvenne) che, cadendo il cappello da
dove lo avevo appeso, lo trovai senza il cordoncino, il quale era guarnito di alcune pezze d'oro; si
era dissolto nell'aria [...] Quando si furon fatte molte diligenze e si fu visto che con nessuna di esse
era riapparso il cordoncino, il capitano comandò al mozzo dell'aguzzino di darmi tante sferzate sino
a farmi confessare il furto. Mi frustarono subito... (Ib.)

Ma Guzmán, nonostante il tormento e il sangue che le crudeli frustate gli facevano versare, non
poteva dire ciò che non sapeva; poi il gentiluomo di poppa, vedendolo molto vicino a spirare,
chiese la sospensione del supplizio:

... Mi fregarono tutta la schiena con sale e aceto forte, il che fu un altro secondo maggior dolore. Il
capitano avrebbe voluto che mi avessero dato altrettanti colpi sulla pancia, dicendo: 'Mal conosce
Vostra Signoria questi ladroni, che sono come volpi; fingono di star morendo e, quando li si toglie
da qui, corrono come dei puledri e per un solo reale si lascerebbero togliere la pelle. Pertanto deve
credere questo cane che per lui si tratta di dare il cordoncino o la vita.' Comandò (comunque) di
portarmi da lì alla mia dispensina, dove mi fecero per ore mille mortificazioni, (dicendomi) che lo
consegnassi oppure che mi mettessi l'animo in pace, perché dovevo morire di frustate e non avrei
(quindi) potuto godermelo...
Passati alcuni giorni da questa contesa, tornarono fuori di nuovo ad ingiungermi di restituire il
cordoncino e, poiché non lo facevo, mi tirarono dalla dispensina molto debilitato e malato. Mi
portarono su, dove mi tennero a lungo legato e appeso in aria per i polsi; fu un tormento terribile e
credei di morirvi, perché mi si afflisse il cuore in tal maniera che appena lo sentivo battere nel
corpo e mi mancava il respiro; mi misero giù, ma non per darmi sollievo, bensì per riportarmi alla
corsia; mi frustarono, come deliberato dal capitano, sul davanti e lo fecero con tal crudeltà come se
fosse per qualche gravissimo delitto. Comandarono di frustarmi a morte, ma, dubitando poi il
capitano che ci mancasse poco a perderci la vita e che mi avrebbe dovuto pagare al re se fossi
così perito, prese partito che era meglio che si perdesse il cordoncino piuttosto che perderlo e
pagarmi. comandò che mi togliessero di là e mi portassero alla coniglia e colà mi medicassero...
(Ib.)
525

Subirà ancora Guzmán continui maltrattamenti e frequenti fustigazione con ogni più futile pretesto,
finché non riuscirà a dimostrare la sua innocenza.
Mentre nella milizia di terra i comandi si davano con pifferi (sp. gaitillas), trombe e tamburi, sul
mare si usavano non più i portiscoli dell’antichità e del Medioevo di cui abbiam già detto, bensì i
fraschetti, ossia i fischietti o zufoli d'argento, i quali non erano quelli minuscoli che si usano oggi in
marina, bensì dei veri e propri flauti panici o traversi che dir si voglia; questi strumenti s’usavano
per comandare sia i servizi di bordo sia le azioni di guerra, come per esempio lo star giù con la
testa protetti dalle pavesate, il far retromarcia, l'inseguire un vascello fuggitivo, il ritirarsi ecc. Il
còmito portava il suo zufolo (dall’etrusco subolo) appeso al collo, per averlo sempre a disposizione,
e la musicalità del suo fischiettare è più volte ricordata dal Crescenzio:

... E pur che noi dal diverso canto de gli uccelli potressimo manifestar i diversi versi di quel
fischietto, conforme a gli ufficij che far si debbono, nondimeno diremo solamente a che effetti egli
si adoperi, lasciando a' novelli rimieri questo unico avvertimento, cioè che abbadino sempre a
quello che il compagno pratico esercita. (Cit. P. 141.)

Quando il capitano si rivolgeva al còmito o al sotto-còmito lo faceva chiamandoli Nostr'homo!, così


come anche si faceva col nocchiero dei velieri, e tale apostrofe col tempo è divenuto, come si sa,
una qualifica. Il posto del còmito era in corsia verso poppa, tranne quando si entrava nei porti o si
prendeva posto all'ormeggio perché allora egli si poneva sulle rembate per comandare
personalmente la manovra d'attracco; anche quando c’era pericolo d’incappare in secche o in
scogli faceva alzare le rembate e vi stazionava sopra per sorvegliare personalmente e un po’ più
dall’alto che la galera non incorresse in tali pericolosissimi ostacoli. In combattimento percorreva
avanti e indietro la corsia per spronare la voga. Prendeva uno stipendio di 5 scudi pontifici mensili -
ducati napoletani 60 l’anno - e 3 razioni giornaliere e dormiva nella camera di mezzo; secondo il
già più volte citato Bouchard, il còmito delle galere francesi prendeva ai suoi tempi 9 scudi mensili,
ma si tratta di moneta francese e di salario quindi abbastanza più tardo di quelli qui riportati.
Nell’ordinanza catalana del 1354 che abbiamo già più volte citata si afferma che il còmito – anche
per il maggior potere che a quei tempi a bordo aveva – doveva esser persona, oltre che di provata
competenza, anche di specchiata rettitudine e infatti troviamo una clausola che ritroveremo poi nel
secolo successivo inclusa anche nello statuto dell’ordine equestre dell’Ermellino, istituito dagli
aragonesi di Napoli, e cioè che non si sarebbe data questa carica di còmito a chi o ne avesse fatto
domanda o per il quale altri evessero a tal fine impetrato; una splendida regola che, se
generalmente applicata oggi ai nostri tempi, specie nella scelta dei politici, renderebbe certamente
questo mondo molto più onesto e pulito:
526

… per questa ragione si da ordine che nessun uomo che lo chieda possa esser còmito né tampoco
possa esserlo nessuno per il quale lo si chieda (per aquesta rahó sia ordinació, que null hom qui
prech per ell, que sia cómit, ne encara que nengú quiu prech nou puxe esser. Cit. P. 140).

Per invogliare poi gente migliore ad accettare il malpagato ruolo di còmito, la stessa ordinanza
disponeva che ne si aumentasse il salario di dieci lire catalane:

… E per questo siano aggiunte 10 libbre al salario di ciascun còmito, oltre a quello che oggi
prendono, al fine che siano trovate persone migliori e più idonee (E per ço sien anadides x lliures à
cascun cómit à lur salari, oltra aquell que vuy prenen, per tal que melors persones è pus sufficients
hi sien atrobades. Ib.)

Inoltre in mare al còmito toccava la quarta parte di tutto quanto spettava alla ciurma in caso di
preda, anche se di tale quarto egli doveva a sua volta il quarto al patrone della galera, nel caso
però che questi fosse presente a bordo. Ib.
Tornando però ora al tempo che principalmente è oggetto di questo nostro studio, diremo del
sotto-còmito (gr. πρωράτης) o pennese, il quale aveva anche i compiti da magazziniere che aveva
quello che nella marineria mercantile abbiamo detto nocchiero del trinchetto; egli doveva
ovviamente avere all'incirca le stesse qualità del còmito, poiché a lui toccava saper eseguire
perfettamente alla prua gli ordini del còmito medesimo e particolarmente quelli che riguardavano il
trinchetto, dovendo stare sempre ben attento a rispondere al fischietto del còmito con il suo per
assicurarlo d’aver inteso; suo compito era anche quello di tener in ordine la ghiava (gavone) di
prua e di scendere nello schifo di bordo per andare a gettare qualche ferro, ossia ancorotto,
quando la galera si trovava ormeggiata e si preannunciava qualche tempesta, ferro che poi egli
sarebbe andato a salpare non appena gli elementi si fossero calmati. Era dunque il sotto-còmito a
comandare la manovra de trinchetto ai marinai di prua e per questo doveva sempre tenere buona
scorta di giunchi; però, quando una particolare situazione richiedeva la presenza del còmito a
prua, egli doveva prontamente spostarsi verso poppa per andare a sostituirlo. A lui inoltre toccava
di far fare i cuscini di cuoio (gra. ὐπαγϰώνια; grb. ὐπειρέσια) per i banchi dei remiganti e doveva
pertanto disporre anche d’una buona provvista di canna trita per imbottirli; doveva inoltre prendere
le banche, vale a dire i tavoloni che si conservavano a bordo per farne ponteggi per spalmare;
doveva far fare la savorna, cioè far cambiare la zavorra, raccogliere, imbarcare e sistemare quella
nuova, di ciottoli, di ghiaietta, di pietre o, in mancanza di questi, al limite anche di arena che fosse,
sul fondo di cala della galera, ai due lati della carena o primo o colomba (gr. ἐπιστείριον,
ἐπιστήριον, τρόπις, στεῖρα, στεῖρη; grb. στείρα; sp. paloma), cioè della chiglia, per dare così
stabilità al vascello, essendo anche queste fatiche alle quali erano adibiti i remieri, mentre sui
527

vascelli tondi toccavano ai marinai; doveva poi imbarcare le munizioni, le vettovaglie, i remi, i
timoni, l'artiglieria, quant'altro spettava al servizio della galera e infine le merci che pagavano nolo
marittimo, per esempio la seta siciliana che le galere ponentine, specie quelle toscane e pontificie,
andavano regolarmente a imbarcare a Messina, tradizionale emporio (fr. étape; ol. staapel)
marittimo di tale mercanzia, e nel secolo successivo talvolta anche a Palermo; fu proprio a causa
di questa seta che nel 1530 (secondo altri nel 1531) due galere napoletane, di cui una comandata
dallo spagnolo Luis de Sevilla, mentre tornavano appunto da Messina, furono catturate da una
squadra barbaresca guidata dal Barbarossa nelle acque di Capo Palinudi (lem/ctm. Cap de
Pelanuda), toponimo questo già anticamente corrotto in ‘Palinuro’ dalla dizione dialettale locale
Palinnuri, come meglio spieghiamo in altra nostra opera. Il de Sevilla, portato con gli altri prigionieri
ad Algeri, si renderà poco dopo protagonista d’una sollevazione di schiavi cristiani di cui poi diremo
e finirà crocifisso e arso vivo. Durante la navigazione notturna il sotto-còmito doveva essere
particolarmente vigilante nella guardia di prua, sia per evitare alla galera collisioni con le altre della
sua squadra sia per scoprire prontamente la terra o altri vascelli sul mare.
A proposito del predetto termine carena bisogna dire che nella prima metà del Seicento esso
perderà quel ridotto significato di ‘chiglia’ a cui abbiamo già accennato e sarà di nuovo esteso a
tutta la parte immersa (fr. coulée) dell’opera viva, come del resto era stato nel Rinascimento;
pertanto la locuzione dar carena [fr. mettre en caren(n)e ou en cran ou à la care(n)ne; vn. esser a
charena; ct. donar lats] significheranno sbandare il vascello su un fianco sino alla chiglia per
raddobbare tutta tale parte, come del resto con il verbo carenare s’intende ancora oggi, anche se i
vascelli sono ora così grandi che non si può più sbandarli così tanto e quindi la loro carena si
raddobba a secco nei bacini di carenaggio; quando lo sbandamento laterale si otteneva non
appesantendo particolarmente il vascello da un lato, bensì utilizzando di fianco la forza di un vento
fresco, allora i francesi questo dicevano mettre un vaisseau en panne. Bisogna però dire che in
alcuni porti oceanici dell’Europa particolarmente soggetti a maree tale lavoro di raddobbo,
calafataggio e spalmatura della carena era anche reso possibile proprio dal ritirarsi completo delle
acque, quando cioè si poteva portare il vascello a poggiarsi a secco su invasature di legno
predisposte all’uopo sul fondo del mare e in Francia tali lavori si dicevano appunto oeuvre de
marée.
Come il còmito anche il sotto-còmito picchiava la ciurma, ma non lo faceva come lui, cioè con un
flagello di corregge di cuoio (lt. flagellum, flagrum, scutica, sudiculum; gr. ἰμάσθλη, μάστιξ, σϰῦτος,
σκυτίς; grb. ῥαικάνη) bensì con una frusta di fune grossa come un dito e detta cordino (fr. gourdin;
sp. anguila de cabo, cioè ‘anguilla di prua’); la varietà di nomi del flagello nautico presente nella
lingua greca dimostra l’mportanza che quello strumento di dolore ha rappresentato per tanti secoli
528

nella storia dell’umanità prima che si cominciasse finalmente ad abolirlo, il che successe quando
Napoleone Bonaparte proibì la navigazione remiera sforzata prima in Francia e poi a Venezia. In
navigazione il suo posto era nella parte anteriore della corsia, ossia dall'albero di maestra alla
prua, ma, una volta che si era entrati in porto o si era preso il posto dell'ormeggio, si doveva ritirare
presso il còmito nel quartiero di poppa, a dimostrazione che in effetti, anche se dormiva nella
camera di prua, faceva anch’egli parte della gente di poppa e in effetti questo dormire con la bassa
forza serviva per raccoglierne gli umori, compito quindi importante per la prevenzione delle
sedizioni; in combattimento stava anch’egli in corsia come il còmito e c’è qui da credere che in tale
tragica occasione la moria d’ufficiali da comando doveva essere notevole, visto che tutti i principali
doveva stare in corsia, cioè dovevano trattenersi nel luogo più aperto ed esposto ai colpi del
nemico; prendeva 3 scudi pontifici di soldo mensili - ducati napoletani 34,44 annuali - e 2 razioni.
Nelle galeazze e galee grosse e talvolta anche nelle galere più grandi, per esempio nella Capitana
della squadra pontificia, v'era un altro còmito che comandava la mezzania; questi prendeva la
voce da quello di poppa, detto in tal caso sovracòmito, e la ripeteva col fischietto al sotto-còmito
che comandava la prua; gli spagnoli chiamavano questo còmito aggiuntivo còmitre de la
medianina e i francesi comes de migenie (sic).
Passando ora al piloto (lt. portitor, gr. πορθμής, πορθμεύς), detto a volte anche pedotto (vn.
pedota, mc. peotta, fr. maître o anche nocher; gr. ϰυβερνήτης), questo era forse il più importante
ufficiale di qualsiasi gran vascello e quindi anche della galera, tanto che, diceva il Pantera, a pena
si può navigar sicuramente senza di lui. (Cit. P. 120.) Egli doveva aver completa conoscenza di
pregi e difetti del vascello in cui veniva a lavorare e quindi, una volta imbarcatovisi per la prima
volta, doveva ispezionarlo per verificarne lo stato in rapporto alla sua stiva, cioè all’assetto di
galleggiamento, alla sua tenuta stagna, alla robustezza della sua struttura e della sua alberatura,
all’incidenza che le sue opere morte potevano avere sulla sua stabilità specie in caso di vento di
fianco, alla disponibilità di buoni scalmi in caso ci si dovesse aiutare con i remi, alla funzionalità del
timone e alla disponibilità di parti di ricambio in caso di rotture, allo stato della bussola e alla sua
illuminazione notturna, controllando se fosse magari da registrarsi, utilizzando la calamita da
accomodarle che si usava a questo scopo, se corresse il rischio di essere influenzata dalla
presenza di materiali calamitosi o ferrosi o da odor di aglio, perché allora si credeva che anche
questo potesse distorcerne le indicazioni, ecc. Per quanto riguarda le qualità nautiche di quel
vascello, se ne sarebbe reso poi meglio conto in corso d’opera. Doveva, come e meglio del
capitano, saper calcolare la rotta con l'ausilio dell'ampolletta o oriuolo a polvere, ossia dell'orologio
a sabbia sottile o meglio a polvere di guscio d’uovo disseccato al fuoco, ben pestata e setacciata,
che oggi chiamiamo clessidra [fr. empoulette, ampoulette, hor(o)loge, poudrier, sable, moudre; ol.
529

glas, (sandt-)looper; vn. ora] e che allora a bordo si usava generalmente da mezz'ora, ma talvolta
anche da un’ora; delle molle o pallottelle, le quali erano delle palline infilate in uno spago come
nella corona del rosario e che si lasciavano cader giù una alla volta a ogni girata dell'ampolletta per
tener così il conto delle ore trascorse; infine del compasso e della carta nautica (fr. compasser ou
pointer la carte). Doveva pertanto essere buon conoscitore delle carte nautiche per poter
distinguere quelle giuste dalle sbagliate o addirittura false, le quali non erano infrequenti in quei
tempi di scarsa conoscenza geografica; ma, in mancanza di buone carte, doveva saper fare il
punto, vale a dire calcolare la posizione del vascello e metterlo nella giusta rotta dalla semplice
osservazione del bossolo, ossia della bussola, e di particolari conosciuti della costa vicina; doveva
quindi anche saper accorgersi se l'aguglia, cioè l'ago della bussola, non segnava precisamente la
tramontana per qualche suo difetto e ciò faceva carteggiando, ossia confrontandola con le buone
carte nautiche, con la stella polare e con una seconda bussola (contra-aguglia) che a questo
scopo bisognava sempre avere a bordo. In genere nei viaggi di lungo corso i piloti, anche se per
comodità computavano la longitudine a cominciare dal porto da cui partivano, dovevano
egualmente saper calcolare quanto una buona bussola grecheggiava – grigolizava, come dicevano
allora i marinai, - o maestreggiava, a seconda che ci si trovasse a levante oppure a ponente del
meridiano che passava attraverso le isole Terziere, oggi Azzorre, il quale era allora
geograficamente considerato dagli spagnoli e dai portoghesi ufficialmente il primo, come è
attualmente quello di Greenwich, con il pretesto che in sua corrispondenza l'ago della bussola
indicava perfettamente il polo senza declinare né da un lato né dall’altro; esso, a differenza d’oggi,
si riteneva allora passare idealmente per la punta dell'isola S. Michele e per il mezzo dell'isola S.
Maria, ma molti altri, specie i francesi, volevano che passasse sull’isola del Corvo, sebbene più
tardi gli stessi transalpini vollero spostarlo alla zona occidentale dell’isola del Ferro alle Canarie.
Gli olandesi ponevano il primo meridiano invece in corrispondenza del Picco di Tenerife, allora
creduto la più alta montagna del mondo. In effetti le Azzorre non erano l’unico luogo del mondo in
cui l’ago indicasse correttamente il nord e ogni nazione eleggeva il suo primo meridiano in base a
considerazioni politiche e della necessità d’affermare le sue conquiste nel Nuovo Mondo. Un punto
invece in cui l’ago della bussola si discostava dal nord moltissimo era subito dopo il Madagascar,
dove variava di 18 gradi verso nord-ovest, e un altro era nei pressi dell’isola del Re Diego, oggi
Diego Garcia, dove la deviazione a nord-ovest arrivava a ben 22 gradi.
La bussola era tenuta, unitamente alla predetta clessidra e a un lume, in un armaretto (‘vetrinetta’)
detto giesiola o anche chiesuola (vn. chiesetta; fr. gesole, habitacle; ol. nagt-huis, kompas-huis;
huisje), situato davanti alla postazione del timoniero e illuminato appunto all'interno di notte da una
o più lampade accese, in maniera che queste non potevano essere spente dal vento e che la
530

bussola stessa si potesse consultare senza che la si dovesse cavar fuori dalla giesiola; tale
armadietto era fatto di tavole unite da caviglie di legno e non di ferro, in modo che l’ago calamitato
della bussola non fosse eventualmente turbato dalla presenza di questo metallo, ed era suddiviso
generalmente in tre nicchie, ognuna destinata a contenere uno dei tre strumenti predetti. A questo
particolare delle nicchie si dovevano dunque i nomi che si davano a detto armadietto, in quanto
appunto somigliante al ciborio dell’altare ecclesiastico. L’Aubin scriveva che ai suoi tempi i cinesi
usavano ancora la bussola originaria, cioè facevano galleggiare l’ago magnetico su un pezzo di
sughero, e ciò secondo alcuni dimostrava che l’avevano inventata loro, mentre verso il 1260 Marco
Polo, reduce appunto dal suo famoso viaggio, l’avrebbe fatta conoscere in Europa; ma ciò è
smentito dalle descrizioni e dai ricordi del viaggiatore veneziano perché nel suo Milione non fa
menzione alcuna. La questione di chi si sia servito per primo di detto ago magnetico - del resto già
ben conosciuto ai tempi della Roma imperiale (lt. acus magnetica) - per indirizzare la prua del
vascello resta dunque tuttora non risolta, il che può solo significare che il suo uso marittimo è più
antico di quanto si pensi. E se anche detta applicazione non è stata inventata dagli amalfitani,
certo l’approfondita conoscenza dell'eologia che essi avevano avrà contribuito non poco al nascere
di quella diceria; infatti così scriveva il Crescenzio a proposito del sostanziale miglioramento che gli
amalfitani seppero più tardi dare all’uso della rosa dei venti:

... Ultimamente in Amalfi [...] hanno collocato tra questi otto venti principali altri otto detti da loro
'mezi venti', i quali pigliano ciascun di loro il nome da' nomi de' due venti a chi egli è in mezo, come
'Sciroccolevante', Mezogiorno Scirocco, Mezogiorno Libeccio, Ponente Libeccio, [etc.] Tra questi
sedici hanno locato altri sedici, che loro chiamano 'quarti de' venti' con i suoi nomi... (Cit. Pp. 157-
158.)

Per quanto riguarda l’etimologia del nome, il sostenere, come fanno quasi tutti, che è da
ravvisarsi nel greco antico πυξίς-íδος attraverso un preteso vlt. buxĬda, è davvero molto poco
‘etimologico’, perché allora bisognerebbe che ci spiegassero la misteriosa scomparsa della d.
Invece, basterebbe accorgersi che la prima versione del nome era bossola (‘scatola di bosso’,
cioè di legno duro, indeformabile), vedi per esempio Giovan Battista Belici (Nuova inventione etc.
1598).
La bussola si usava comunque soprattutto nella navigazione mediterranea e bisognava quindi
che il buon piloto fosse anche hauturier, come diranno più tardi i francesi, che cioè sapesse usare
anche gli strumenti per la navigazione oceanica o d’altura per ricavarne la latitudine, vale a dire la
balestriglia, detta anche bàculo astronomico, radio greco, bastone di Giacobbe, bastone
astronomico, raggio astronomico, balestra, croce geometrica, verga d'oro e radiometro [fr. anche
arbalê(s)t(r)e, arbalê(s)trille, fléche; ol. graad(t)-boog], e soprattutto il meno antico astrolabio, i
531

quali gli avrebbero permesso di conoscere non solo l'altezza (altura, da cui in seguito si dirà
appunto ‘navigazione d’altura) della tramontana, bensì quella del polo, del sole, degli altri astri,
onde ricavarne la distanza tra due luoghi. Premesso che il radio greco fu più tardi usato con delle
variazioni che gli fecero prendere il nome di radio latino, diremo che l’astrolabio, strumento con il
quale si poteva rilevare anche la latitudine in cui si faceva l’osservazione, era stato perfezionato
nel secolo precedente da un famoso matematico boemo di nome Martino e dagli altrettanto
celebri Roderico e Giuseppe, matematici e medici del re Giovanni II di Portogallo detto il Perfetto
(1455-1495), il quale stimolò le esplorazioni marittime. Questi strumenti a disposizione del piloto,
cioè carte, balestriglie e astrolabi, della cui eventuale fabbricazione doveva pure avere
cognizione, erano però spesso ausilii più che imprecisi; gli astrolabi per esempio, scriveva il
Crescenzio, erano molte volte simili a quello che disse l'Imperator Carlo V per molti rologij
presentatigl’in Alemagna, cioè che tra tanti vorebbe veder due che sonassero sempre le hore a
un medesimo tempo. (Cit. P. 456) Non ostante quest'osservazione del grande sovrano, famosa
era allora la buona qualità dell'orologeria tedesca, dalla quale gli svizzeri poi copiarono la loro
superando gli stessi maestri; ma anche i francesi cominciavano già allora a farsi notare per i loro
superbi orologi da tavolo ed ecco quello che l’ambasciatore di Francia portò in regalo al sultano di
Costantinopoli Ahmei nel 1619, in occasione dei già detti grandi festeggiamenti:

… Il regalo dell’ambasciatore di Francia fu d’un orologio avente trenta campane d’argento - e


sonava in musica a quattro parti - con cinquanta pezze di scarlatto… (In Les cérémonies,
magnificence, triomphe etc. Cit.)

Uno dei più importanti errori di valutazione della rotta fu quello dei piloti del principe Gioan Andrea
d’Oria nel 1601, errore che probabilmente salvò Algeri dalla conquista cristiana. Radunò dunque in
quell'anno il d'Oria, come abbiamo già detto, un’armata nel porto di Messina con la maggior parte
delle squadre di galere tirreniche al fine di portarsi contro Algeri, ma facendo in modo da far
credere invece ai turchi che l'impresa fosse disegnata contro il Levante, visto che Messina - scelta
ad arte - era molto lontana dal vero obiettivo. La trasferì poi in tutta segretezza e senza che i turchi
lo sospettassero a Maiorca, da dove, fatto pubblicare un giubileo che il Papa concedeva a tutti i
partecipanti a quell'impresa e fatti benedire solennemente i suoi vascelli, poi salpò verso la
Barbaria, calcolando i suoi navigatori che si sarebbero dovuti trovare su Algeri al terzo giorno di
viaggio prima dell'aurora; sennonché, avendo i piloti regolata la rotta senza tener conto della
corrente del mare, al nascere del terzo giorno, invece di vedere Algeri, si trovarono più di 40 miglia
spostati a ponente e questa inavvertenza dei piloti fu causa che l'impresa non avesse poi l'effetto
sperato. Doveva pertanto il piloto far ricorrentemente rapporto al suo capitano per quanto riguarda
la posizione del vascello e la supposta distanza dagli altri luoghi.
532

Sull'uso dell'astrolabio nella navigazione oceanica già all'inizio del Cinquecento è importante
testimonianza la relazione del secretario (‘console, residente’) veneziano a Lisbona Vincenzo
Quirini letta in senato nel 1506. Armava dunque il re del Portogallo ogni anno da 12 a 14 navi,
dette car(r)acas in portoghese e la cui stazza variava dalle 250 alle 1.000 botti, e, dopo averle fatte
ben rivestire della già menzionata gala, tra la fine di marzo e l'inizio d'aprile le spediva da Lisbona
in oriente, in un viaggio che le avrebbe portate a circumnavigare l'Africa, ad attraversare l'Oceano
Indiano e ad arrivare in India verso la fine di settembre. Questi vascelli erano caricati di mercanzie
e cioè di rame, cinabro, argento vivo, piombo, corallo, argento in massa e danaro contante da
scambiare con spezierie indiane, specie col pepe; otto o nove d’essi sarebbero tornati indietro e gli
sarebbero invece rimasti a scorrere le coste dell'india e ad andare in viaggi esplorativi più a est
sino alla penisola di Malacca, dove arrivavano a far scalo all'odierna Singapore; ma leggiamo il
Quirini:

... In questo cammino così grande, così lungo, che può esser da Lisbona sino in India 10.500
miglia, navigano sempre i portoghesi con la carta e con la bussola e adoperano la calamita [...]
Adoperano ancora i portoghesi, oltra la carta e la bussola, lo astrolabio, per il qual conoscono
l'altura del sole e per esso, quando il sole è in mezzodì, vedono quanti gradi sono lontani dalla
linea equinoziale; per il qual vedere conoscono quanto sono propinqui e quanto remoti da' luoghi
dove si hanno da guardare e dove hanno da prender porto; e con questa marinarezza
(‘attrezzatura marinara’) di carta, di bussola e di astrolabio navigano da Lisbona sino in India... (E.
Albéri. Cit. Appendice. P. 8.)

I lusitani trovavano pochi equipaggi disposti ad affrontare questo viaggio lunghissimo e pericoloso,
sempre infatti funestato da tanti sinistri e malattie:

... che da 114 navi che sono andate al detto viaggio dal 1497 sino al 1506 solamente 55 sono
ritornate e 19 sono certo perdute, quasi tutte cariche di spezie, e di quaranta fin’ora non si sa cosa
alcuna. (Ib. P. 19.)

Sia la balestriglia che l'astrolabio, a causa della grande imprecisione della prima e della difettosità
del secondo, andarono poi del tutto in disuso nel corso del Settecento, quando cioè poterono
essere sostituiti con strumenti molto più affidabili, quali il quadrante inglese e l'ottante. Doveva
dunque il piloto essere anche buon conoscitore della geografia, della meteorologia astrale,
dell'astronomia, delle correnti e, soprattutto nel caso di quelli oceanici, delle maree e dei monsoni;
doveva quindi disporre di un buon portolano (fr. routier; ol. roetier) per aver conoscenza della
conformazione delle coste con le loro cale, ossia con i loro ridotti o seni non sicuri da tutti i venti,
con i loro scogli (lt. scopuli; gra. πρόβολοι, χοιράδες, σπιλάδες, σϰόπελοι; grb. σϰοπέλοι), formiche
(‘scogli affioranti’), secche, promontori, isole, monti, città, terre, torri, flussi e riflussi del mare, ecc.
533

Dei porti doveva conoscere capacità, profondità, ripari, traversie, tirannie e quali luoghi fossero
buon sorgitori (vn. sorzadori), cioè in quali si potesse sorgere (‘dar fondo all'ancora’), come e.g. era
notoriamente l’isola di Scio, e quali di questi sorgitori fossero anche buoni tenitori o ferratori, ossia
avessero fondo abbastanza tenace da non far arare (fr. chasser, arer) l'ancora, come per esempio
era considerata l'isola di Ventotiene (‘Ventotene’), chiamata nell’antichità greca e latina
Πανδαταερíα e Πανδατερíα (‘colei che distribuisce tutto’), forse per la presenza di un tempietto
dedicato a una perduta e così chiamata divinità locale, nome che fu poi trasformato in Bentitiene
(‘isola dai fondali buoni tenitori’) o Bentitieni e anche Eutitieni, quest’ultimo in una singolare
contaminazione tra greco e italiano, e, a proposito di nomi di isole corrotti dal tempo, ricorderemo
anche il caso dell’isola di Cavallo nell’arcipelago della Maddalena, che ancora nel Seicento
manteneva il suo nome completo Coda di cavallo, cioè lo stesso dell’altrettanto nota località
costiera nord-orientale della Sardegna, ed è molto difficile che si tratti di un’omonimia casuale;
evidentemente quei mari erano una volta pescosi di quel pesce che si chiama in greco ἲππoυρος
(‘fatto a coda di cavallo’), nella terminologia scientifica ‘corifene ippuro’, e in volgare italiano
appunto Coda di cavallo. Si tratta di un pesce che si distingue per i suoi colori sgargianti e che,
essendo ben noto nel Mar Tirreno, vi assume una molteplicità di nomi:

… Sulla costa di Genova ‘dorade rondamino’; ‘lampugo’ in Ispagna; ‘dolphin’ in Inghilterra; ‘dorado’
in parecchie altre contrade dell'Europa (Le opere di Buffon, nuovamente ordinate ed arricchite ecc.
Vol. XXVII, nota a p. 589. Venezia, 1820).

Doveva pertanto il piloto saper usare anche la fune (gr. ἰμονιά) per scandagliare (gra. βολίζeiv),
ossia una corda detta già allora dai francesi ligne e alla cui estremità era legato appunto lo
scandaglio (gra. βολίς), che era un peso di piombo a forma di pera o di chiglia, ma comunque
piramidale, di circa 18 libre e alto ¼ di braccio, poneva un dito di sego fresco in maniera da
ricoprire tutta la base della predetta piccola piramide e a questo sego restavano attaccati sabbia e
pietrisco del fondo, elementi che egli esaminava per ricavarne appunto la natura del fondale e per
capire se era adatto a trattenere l'ancora. Il fondo miglior tenitore era considerato quello fangoso e
nero (fr. fonde vasard, fonde vasart; ol. modder-grondt), mentre quello arenoso faceva arare
l'ancora in caso di vento; cattivo e pericoloso per l'ancora erano anche i fondi cretosi o conchigliosi
e peggiori di tutti erano poi quello roccioso e quello pietroso, detto spreo dai marinai del tempo.
Un buon piloto doveva anche sapere dove si poteva far acqua e legna o anche un buon bottino,
dove si poteva sbarcare la gente e dove invece uno sbarco sarebbe stato sicuramente impedito
dal nemico; doveva essere buon meteorologo e sapere in quali mesi dell'anno la navigazione fosse
più pericolosa o più incerta o più sicura, quali costellazioni - secondo le credenze del tempo - si
accompagnassero generalmente a burrasche e sommovimenti del mare, sotto quali venti
534

nascessero ogni giorno sole e luna e i loro effetti per poter riconoscere così eventuali segni di
cambiamento del tempo; doveva ancora esser pratico di numero aureo, d’epatta e di calendario in
genere per saper trovare feste mobili e noviluni; doveva conoscere qualche regola per sapere dal
sole l'ora del giorno e dalla luna quella della notte, soprattutto per stabilire gli orari più opportuni
per le partenze; doveva infine anche sempre consultarsi con il còmito e il consigliero a proposito
della rotta da tenere, specie in caso di fortunali. Il suo posto era di giorno nell'una o nell'altra spalla
della galera, a seconda della direzione della vela, e di notte alla chiesuola della bussola, dove
sorvegliava anche che né i timonieri né alcun altro di guardia mangiasse la sua sabbia, come
dicevano i francesi, cioè girasse la clessidra prima del tempo per accorciare fraudolentemente il
suo turno; se però si navigava in paraggi resi pericolosi dalla presenza di scogli affioranti e di
secche, allora s’alzavano le rembate e, come abbiamo già detto del còmito, anche il piloto vi
montava su per sorvegliare personalmente il cammino della galera.
… Deve havere buoni vestiti e capotto perché li a (‘gli ha’) stare giorno e notte vigilante a ogni
tempo di freddo, pioggia e quello che Dio per la stagione manda (A. Falconi, cit. P. 6).

Restava il responsabile di una buona navigazione anche quando se ne andava a dormire:

… e avanti si metta a dormire (deve) fare sempre di lassare offiziale talmente pratico che sappi
procurare che si seguiti il buon camino già da lui dato e, svegliandosi, farse dare del tutto relazione
di quanto camino, per che vento e ogni altra cosa che fussi passato da che li lassò tal cura fino
al(l’)ora si svegli… (ib.)

In combattimento il piloto stava sempre a guardia del timone insieme al timoniero e al consigliero,
essendo pertanto tutti e tre armati con armi difensive e offensive; aveva 3 razioni il giorno e 5 scudi
pontifici mensili, ma a volte anche di più conforme il valore della persona e le circostanze.
Quanto fossero rari a quel tempo i buoni piloti mediterranei lo dimostrano le seguenti parole del più
volte citato Crescenzio:

... habbiamo noi visto, per non conoscere le correnti, investire i scogli e incagliare in seccagne da
due anni in quà (scrive nel 1595) più di otto volte galee ed hora finalmente due del gran Duca (di
Toscana) essere preda di corsari su le secche de' Gerbi... (Cit. P. 318.)

Già tempo prima il predetto granduca aveva perso la sua galera Capitana perché questa era
capitata all'isola di Montecristo in una zona di secche e scogli detti le Formiche di Montecristo, i
quali scogli erano pericolosissimi perché di quelli che vegliano e non vegliano, ossia erano posti a
fior d'acqua e quindi di difficile avvistamento. Altra secca scogliosa di questo tipo e molto
pericolosa era quella di nord-est a Ponza, sulla quale nel 1590 incapparono quattro galere della
squadra di Napoli, di cui 2, la Speranza e la Fama furono perse e le altre due ne restarono
gravemente danneggiate.
535

Ovviamente i vascelli mercantili, quando dovevano far scalo in luoghi noti e trafficati, potevano
servirsi di un piloto portuale, cioè della zona costiera dove si andava a navigare, soprattutto
quando queste zone si raggiungevano dopo lunga navigazione:

... Così fanno gl’inglesi e i fiaminghi quando passano per il mare Mediterraneo, servendosi quasi
sempre de i piloti forastieri, benché siano essi buoni marinari ed habbiano fatto altre volte il
medesimo viaggio. (P. Pantera. Cit. P. 301.)

Il vascello che voleva entrare in porto si fermava prima di addentrarsi nella rada e, allora come
oggi, issava una bandiera particolare con la quale chiedeva un piloto o almeno una barca che lo
rimorchiasse all’ormeggio; il piloto costiero si diceva in fr. lamaneur, lo(c)man, lod(e)man in ol.
loods(-man), loods-luiden, lochman, in td. Lodman, Lantsman, Lentsman, Lentsager; Leitsager, in
sv. ledsagare, tutti nomi derivanti quindi da land (‘terra, terriero’), da lock (‘chiusa, cataratta’) e da
leit (‘guida, direzione’). Secondo i codici di diritto mercantile marittimo medievali, i quali resteranno
poi nella sostanza in vigore nell’Atlantico anche in epoca proto-moderna, non appena egli,
debitamente informato del pescaggio del vascello dal patrone e dal piloto, prendeva la guida del
medesimo, diventava responsabile della sua integrità e, se questo per sua colpa subiva danni o si
perdeva, egli ne rispondeva con il suo patrimonio personale o, non possedendo mezzi adeguati, a
volte anche con la vita; chiunque a bordo, patrone, ufficiale, marinaio o mercante, poteva infatti in
tal caso tagliargli la testa senza subirne poi pena e l’unico accortezza che bisognava usare prima
di ricorrere a tale drastica punizione era appunto accertare che non avesse beni sufficienti a
ripagare i danni procurati; ecco a tal proposito l’articolo 25 del codice di diritto commerciale
marittimo redatto nell’isola d’Oléron agli inizi del dicembre 1266:

Un lodeman prend une neef à mener… et, s’il y a d’eux qui la prennent sur leur testes à conduire
et amener et s’ils la perdent et la perillent, si le mestre ou ascun des mariners ou ascun des
marchantz soit qui leur coupent les testes, ils ne sont pas tenuz à poyer d’amendement ; mais
toutefois l’on doit bien sçavoir avant l’occire s’il a par quoi amender… (J. M. Pardessus. Cit.)

Questa norma, anche se in maniera molto più elaborata e riferentesi ora al piloto in generale, è
riprodotta all’articolo CCV del più tardo codice marittimo medievale mediterraneo detto Consolato
del Mare, da noi già citato, il che, unitamente ad altri rilievi di simiglianza dei due codici, fa capire
come l’autore o gli autori di questo avessero senza dubbio conoscenza di quello oceanico
preesistente.
Che un piloto costiero corresse dei gravi rischi personali nel suo lavoro e che quindi non sempre si
dimostrasse responsabile s’evince chiaramente da un vecchio e amaro proverbio francese
ricordato dall’Aubin:
536

Il n’y a point de pilote côtier en tems de brume. (Cit. P. 617.)

Quando comunque non si trovavano piloti costieri disponibili, ci si poteva servire dei pescatori del
posto, di gente cioè senza dubbio pratica di fondali e di scogliere sommerse.
Più impegnativo era ovviamente il compito d’un piloto d’un vascello oceanico, a causa delle più
profonde conoscenze geografiche e meteorologiche che doveva necessariamente avere, e in molti
vascelli, quali le barzotte queste frequenti già nel Quattrocento, i pinchi, i buches, i flibots e le più
tarde merluzziere di Terranova, specie se si trattava di quei tanti pescherecci, appunto oceanici,
che andavano alla pesca delle aringhe, toccava praticamente lui a comandare la pesca, perché
era lui che ordinava dove gettare le reti e quando ritirarle.
A bordo della galera c'erano poi un consigliero (tlt. prothontinus; vn. homo del consiglio), ossia un
uomo d’età matura, consumato negli esercizi del mare, ex-comandante di vascello, al quale sia il
capitano sia il piloto dovevano rivolgersi per averne consiglio nelle questioni più importanti della
navigazione, specie in caso di tempesta, e della guerra, ma in effetti il suo incarico si confondeva
con quello del piloto. Un consigliero aveva però anche due compiti minori e ciò perché non lo si
tenesse troppo tempo inutilizzato; egli doveva infatti aver cura di consultare e conservare i
principali strumenti di navigazione, cioè le carte, la bussola e le ampollette, incarico che ben si
addiceva alla meticolosità d'una persona anziana ed esperta; doveva inoltre controllare la taverna,
ossia il già menzionato servizio di spaccio che si stabiliva sulla galera, toccando a lui e l'acquisto di
tutti i generi alimentari a essa destinati e far 'sì che le vettovaglie fossero vendute alla gente di
bordo a prezzi ragionevoli e con giusti pesi e misure. Durante la navigazione sia diurna che
notturna il posto del consigliero era all'una o all'altra spalla della galera; in combattimento era al
timone con il piloto e il timoniero; prendeva 4 scudi pontifici e due razioni. Sulle galere di comando,
specie sulle Capitan(i)e, i consiglieri erano più d'uno, cioè di solito da 2 a 4. Aggiungeremo che nel
Medoevo il suddetto titolo di prothontinus poteva anche avere delle connotazioni più importanti di
quella di semplice consigliere di galea; esisteva infatti pure il prothontinus portuale, l’autorità cioè
dalla quale dipendeva la gestione del porto. Il giurista campagnese Giovanni Antonio de Nigris
(1502-1570), nel commento da lui fatto agli statuti sulla navigazione del Regno di Sicilia e di Napoli
dei tempi del re Carlo I d’Angiò (1266-1285), a proposito del prothontinus così spiega:

… E ‘protontini’, cioè dottor protontino, il quale chiamano, con altro nome, ‘consigliero’ nella galea,
volgarmente ‘lo consiglieri’. Altrove il protontino è il dottor giudice che sa di cause marittime e i
veneti hanno in molti luoghi protontini che decidono le cause marittime… (Et ‘prothontini’, seu
prothontinus doctor, quem vocant alio nome consiliarium in galea, vulgariter ‘lo consiglieri’. Alibi
est prothontinus doctor iudex, qui cognoscit de causis maritimis et veneti in multis locis tenent
prothontinos, qui decidunt causas maritimas… In Ius Regni Neapolitani, ex constitutionibus,
capitulis, ritibus, pragmaticis, neapolitanorum privilegijs etc. P. 385. Napoli, 1608.)
537

In una successiva addizione a questo commento l’autore ci fa sapere che lo stesso nome
prothontinus era stato nel passato usato a significare sia una guardia del corpo armata del principe
sia lo stesso comandante di nave e soprattutto quello di galea (hodie vocatur capitaneus, seu
patronus galeæ.); insomma si trattava di una qualifica molto versatile (Commentarii in capitula
regni neapoletani etc. Venezia, 1594). Da osservare ancora in questo brano i due nomi terminanti
in ‘i’, sebbene intesi al singolare (prothontini e consiglieri), il che lascia capire che lo statuto i
questione era stato in origine formulato a Palermo e non a Napoli.
L'elencazione d’ufficiali e tipi di marinai che abbiamo appena fatto è tratta per lo più dal Pantera e
dal Crescenzio, ma corrisponde sostanzialmente anche ai documenti d’archivio e a quanto
scriveva nel 1597 il residente veneziano Girolamo Ramusio a proposito delle galere napoletane:

... Ogni galea è di ventisei banchi, dei quali vogano solo ventiquattro, ed ha ognuna
centosessantaquattro galeotti; vi sono quattordici officiali, dodici marinari, sedici compagni e due
mozzi. (E. Albéri. Cit. Appendice. P. 347.)

A giudizio d’un altro residente veneziano e cioè di Michele Soriano, il quale scriveva della Spagna
nel 1559, i migliori ufficiali di galera erano al suo tempo proprio quelli delle squadre di quella tanto
prestigiosa corona; ma trovava quel sovrano difficoltà a reperire remieri a sufficienza:

... onde, se bene Sua Maestà ha sessanta galere in numero, non se ne può poi valere di più di
quarantacinque o cinquanta, che sono poi le meglio governate, le meglio armate e meglio
comandate che siano al mondo; tanto importa l’aver avuto per capitano il principe d’Oria, la
disciplina del quale ha fatti tanti valent’huomini, fra li quali, dopo il principe (stesso), per età e
auttorità il primo è il signor Antonio d’Oria, stimato grandemente per l’esperienza che ha data di sé
in molte guerre in mare e in terra…(e poi c’è) Giovanni Andrea, nipote del principe, quale è di uno
spirito vivo e di più pratica per l’età sua che molti vecchi capitani… (Ib. S. I, v. III, p. 368.)

Questo giudizio così categoricamente favorevole non sarà ripetuto più da nessuno, ma verso la
metà del secolo doveva essere veramente così e quella bontà d'ufficiali si doveva certamente
all'ottima scuola fatta dall'ormai novantatreenne principe Andrea d'Oria, sotto la cui disciplina e il
cui insegnamento si erano infatti formati tanti valenti capitani di mare e, oltre ai sunnominati della
sua stessa famiglia, anche tanti altri tra cui spiccano Juan de Mendoza capitano della squadra di
Spagna e figlio del più famoso Bernardino, Berlinghiero Requesens capitano di quella di Sicilia e
Sanchez de Loria capitano di quella di Napoli. D’altra parte lo stesso principe Andrea veniva da
una secolare scuola familiare e infatti alla fine del tredicesimo secolo un Corrado d’Oria era stato
ammiraglio e capitano generale delle galere di Sicilia e verso il 1299 ne aveva guidato 25 in una
battaglia contro i francesi.
538

Christoforo da Canal faceva, a proposito dei compiti d’ufficiali e marinai, alcuni distinguo tra galere
a sensile veneziane, ponentine e turche, ma trattandosi la sua d'epoca d'un cinquantennio
precedente a quella alla quale è dedicato il nostro presente studio e apparendo che tali compiti
erano allora un po' diversi e anche meno rigidi (specie nelle galee veneziane) di quelli da noi già
descritti e che riguardavano sostanzialmente le galere ponentine della fine del Cinquecento,
preferiamo non affrontare l’argomento per non rischiare di confondere il nostro lettore; ma, tanto
per citare solo qualche principale differenza, diremo che appunto all'epoca del da Canal nelle
galee della Serenissima mancava il ruolo di sotto-còmito e inoltre alla morte del còmito, mentre
sulle galere ponentine e turche era automaticamente promosso a quel grado il sotto-còmito, su
quelle veneziane il nuovo còmito era scelto dal padrone (il comandante d'allora) tra i marinai detti
compagni e ciò spesso provocava tra gli altri compagni invidia e quindi discordia e odio verso il
loro comandante. Per quanto concerne poi i due bombardieri, questi nelle galere genovesi e turche
avevano ambedue il titolo di capo-bombardiero e i loro due aiutanti di sottocapo-bombardiero.
Abbiamo sin qui descritto l'equipaggio d'una galera sottile ordinaria, mentre più o meno numeroso
di questo era naturalmente quello d'una galea grossa veneziana, d'una galera bastardella, d'una
galeotta o d'un brigantino; una galeazza ponentina (‘tirrenica’) aveva all'incirca il doppio d’uomini
della galera, ciurma inclusa, ma poi nel corso del Seicento arriverà a 1.000/1.200 uomini, tanto da
poter essere considerata una vera e propria fortezza di legno navigante; i nobili veneziani eletti al
comando delle galee grosse dovevano prestar giuramento – a costo della loro testa – di non
rifiutare il combattimento nemmeno con 25 galere nemiche. Nel 1570, avendo la Porta Ottomana
dichiarata la guerra a Venezia, il senato della Serenissima stabilì, tra gli altri provvedimenti bellici,
che ogni galea grossa mercantile portasse a bordo 20 bombardieri e 100 soldati comandati da un
capitanio, tra cui ¾ armati d’archibugi ed ¼ di picche e alabarde (Hale), ma ovviamente quelle che
parteciparono poi al combattimento di Lepanto avevano una guarnizione da battaglia di gran lunga
superiore.
Diremo ora delle razioni (fr. rations, ossia di quelle porzioni di cibo che si distribuivano di
munizione, cioè a cura del sovrano, agli equipaggi dei vascelli tondi e a scapoli e soldati delle
galere e il cui costo era però detratto dal loro salario. La razione consisteva di tre elementi, ossia
della panatica, consistente allora in pane biscotto, del vino e del companatico. Il biscotto,
tradizionalmente tondo e piatto perché doveva essere della stessa forma della gavetta in cui era
destinato a essere consumato, era fatto di pane nero (sp. pan bazo), essendo quello di pane
bianco (sp. pan regalado) riservato alla gente di poppa e ai malati; esso si chiamava così, come
abbiamo già detto, in quanto si disseccava con una doppia cottura, ma per i viaggi di lungo corso
come quelli oceanici si doveva cuocerlo quattro volte perché si conservasse per il tempo
539

necessario, anche se ciò non impediva che talvolta si trovasse egualmente infestato dagl’insetti.
Per quanto concerne la sua qualità, esso doveva essere di farina di frumento priva di crusca e di
pasta ben lievitata; inoltre, a evitare che andasse a male, era importante che fosse conservato a
bordo ben secco e quindi il biscotto ottimale avrebbe dovuto in teoria esser stato fatto sei mesi
prima dell’imbarco; nel caso invece che arrivasse a bordo non ancora abbastanza secco,
bisognava tenerlo un po’ esposto all’aria prima di conservarlo; d’altro canto bisognava anche far
attenzione a come fosse confezionato e conservato, a evitare che diventasse mazzamurro, ossia
che si riducesse tutto in briciole; il Pantera lo raccomandava così:

... il biscotto, che sia asciutto, fatto di buon grano, bene stagionato e ben conservato, vedendosi
per esperienza che'l biscotto mal cotto, humido e fracido sazia e non nutrisce, anzi leva le forze,
infetta e in poco tempo rende inutile la ciurma. (P. Pantera. Cit. P. 145.)

Gli antichi romani, i quali avevano evidentemente avuto le stesse preoccupazioni, chiamavano il
pane insufficientemente cotto panis rubidus, ‘pane bruno’ (Sesto Pompeo Festo, cit. P. 353). Il vino
poteva esser lagrima, cioè bianco (ma conosciuto come vino di Francia nell’Europa settentrionale),
oppure greco, cioè rosso, e questo secondo era a volte chiamato anche latino, mentre nei paesi
nordici era detto vino di Spagna o vino delle Canarie; sulle galere della squadra di Napoli il vino
era generalmente lagrima, in quanto in quella città la produzione e il consumo di vino riguardavano
in massima parte quello bianco, a tal punto che la circostanza che a Napoli tutto il vino fosse
lagrima era in Italia comune e antico proverbio; ma ciò non riguardava tutto il regno naturalmente,
per esempio nel Basso Medioevo già la vicina isola d’Ischia, a dire del già citato Saba Malaspina,
vescovo che visse nella seconda metà del Duecento, eccelleva nella produzione di vino greco (…
Isclam, quae est potissime vino graeco faecunda... Cit. LT. X, cap. XV.) Bisognava che il capitano
sorvegliasse che il patrone non lo annacquasse, come spesso faceva:

…che spesse volte vien in galea il vino assai bono e diventa subito tristissimo… (Ib.)

Lo scappolo aveva ogni giorno due libre di biscotto e di vino una pinta [che è misura napolitana
(Ib.)], corrispondente questa a circa una foglietta e mezza di Roma. Mentre il biscotto, i cereali e i
legumi in genere servivano per la razione di pagliuolo, il vino era razione di dispensa, ma
quest'ultima non si limitava a tale bevanda perché comprendeva anche il companatico e infatti allo
scappolo, per lo meno sulle galere pontificie, pure spettava ogni giorno una libra di carne fresca,
se prevista e disponibile, altrimenti mezza libra di carne affumicata (carne di vacca di fummo) o di
lardo salato, detto questo tosino, od oppure mezza libra di formaggio salato di Corsica o di
Sardegna o anche mezza libra di salume di sarde, ossia di sarde salate e stipate in barili. La
carne, fresca o salata che fosse, si dava - sempre sulle galere pontificie - la domenica, il martedì e
540

il giovedì; il formaggio il lunedì e il mercoledì; le sardine il venerdì e il sabato; nei giorni delle vigilie
e della Quaresima si dava a volte la tonnina, ossia il salume di tonno. Si distribuiva poi anche
l'aceto per condire le sardine ed eventualmente l'insalata per la gente di poppa, ma esso in
mancanza di vino anche si beveva normalmente sciolto nell'acqua; si riteneva allora che vino e
aceto dessero forza e che l'acqua semplice facesse male allo stomaco perché lo raffreddava e
infatti si cercava di non far mancare mai l'aceto nemmeno ai galeotti. Aceto mescolato ad acqua o
acqua semplice era la bevanda (prt. canada) destinata agli equipaggi dei velieri olandesi che
facessero lungo viaggio, mentre a quelli che si limitavano a navigare nel Mare del Nord e nel
Baltico si dava birra; gli equipaggi dei velieri francesi avevano invece una bevanda composta in
parti uguali d’acqua e di vino, ossia quella che oggi a Trieste chiamano Spritz. Altro alimento che
era normalmente consumato era il sale, ma in effetti, con tanto cibo conservato sotto sale che per
forza di cose si era costretti a mangiare a bordo, l'uso che se ne faceva non era tanto personale da
tavola quanto appunto generale per la preparazione delle salamoie; più usato per le razioni
personali era invece l'olio d'oliva.
Alla gente ordinaria si dava una razione a testa il giorno, ma, come abbiamo già detto, a ufficiali,
timonieri, avvantaggiati e maestranze se ne davano di più; chi avesse voluto più cibo del razionato
poteva comprarselo alla taverna di bordo, rimborsandone il costo alla fine del mese con detrazione
dal salario, ma ciò era permesso solo quando a bordo ci fosse una riserva di vettovaglie sufficiente
per tutti e in ogni caso queste distribuzioni supplementari si dovevano prudentemente limitare
quando il consumo era ingente per la gran quantità della gente imbarcata (gr. οἰ ἐπιβάται; grb.
πληρόματα) dall'armata o quando si doveva fare un lungo viaggio.
Mentre di biscotto, l'alimento principale, ogni galera ponentina riceveva provvista solo per qualche
mese, i turchi si dimostravano a questo proposito molto più preveggenti, come faceva notare il
bailo veneziano a Costantinopoli Marc'Antonio Tiepolo, il quale, nella sua relazione conclusiva del
1576 così leggeva al suo senato:

… Sogliono empire le galee di pane per più di quattro mesi fuggendo il disordine del mancamento,
il quale apporteria loro danno inevitabile, massime nel viaggio di tanto mare come quando vanno
contra i luoghi del re di Spagna. (E. Albéri. Cit. S. III, v. II, p. 150.)

Quest'abitudine a fornire alle galere un quantitativo di biscotto sufficiente a tutta la stagione


operativa sarà confermata nel 1590 dal bailo Giovanni Moro:

... Del biscotto vien consegnato al 'rais' per il bisogno di sei mesi, costume degno di essere imitato,
poiché per mancamento di pane non possono correr pericolo di mala ventura, se bene avessero
per qualche accidente a trattenersi lungamente in viaggio. (Ib. S. III, v. II, P. 354.)
541

Per riassumere comunque i tipi di vivande che si potevano trovare a bordo d’una galera ci sembra
utile citare ancora il nostro Pantera:

... Le vettovaglie che si devono provvedere per servizio dell'armata sono biscotto, pane, farina,
vino, oglio, aceto, salumi, cioè sardine, tarantello (tonnina, ‘tonno salato’), carne salata, lardo,
formaggio, riso, fava e molti altri legumi, oltra il sale e l'acqua. Si deve anco fornir di carne fresca,
ma, perché non si può imbarcare tanto bestiame vivo che basti al bisogno, si conducono i
macellari appaltati accioché, secondo i bisogni e i luochi, ne possano provedere. Si deve
similmente far provisione di pollami, di zibibo, d'uva passa, di specierie, di medicamenti, di
medicine e d'ova per gli ammalati e feriti... (Cit. P. 93.)

Probabilmente il tonno salato si chiamava così nello Stato della Chiesa perché proveniente da
tonnare tarantine; c'è poi da notare l'uso di riservare i cibi più freschi e leggeri e i più dolci agli
ammalati, il che significa che anche allora ci si rendeva ben conto che quelli conservati erano
meno salutari. La mangiatoia per il poco bestiame, detta in sp. cebadera, si faceva con una
coperta di canapaccio con quattro corde annodate alle quattro punte e con le quali la stessa si
sospendeva a prominenze della galera. La carne di cavallo non si mangiava se non in mancanza
delle altre, come avvenne all'esercito di Carlo V sbarcato in Barbaria per la sfortunata impresa
d'Algeri del 1541, quando cioè i soldati furono costretti a mangiarne, essendosi perdute in mare le
vettovaglie poco prima dello sbarco nella cala di Matifou; si riteneva comunque il lardo molto più
adatto alla gente di mare della carne perché si conservava meglio e perché era certo di più facile
digestione della dura carne conservata e infatti, quando nell’oceano ci si metteva in viaggio per
andare più a sud del Tropico, si faceva soprattutto provvista di lardo, acquavite e vino delle
Canarie, perché erano gli alimenti che meglio si conservavano nei climi molto caldi, mentre il vino
di Francia, il bue e il baccalà vi si corrompevano facilmente.
Ogni scappolo ritirava le sue razioni con delle polizette, ossia dei piccoli elenchi, le quali erano
normalmente chiamate a bordo cartoline oppure tessere di carta e sulle quali si segnava giorno per
giorno che cosa egli avesse ricevuto, così alla fine d'ogni settimana o d'ogni mese si potevano
chiudere i conti; chi avesse avuto di più del preordinato avrebbe pagato in danaro la differenza con
detrazione dal salario e chi invece avesse avuto qualcosa di meno l'avrebbe ricevuto ora appunto
in sede di conguaglio. Queste erano dunque le razioni degli scapoli e soldati, mentre di quelle degli
huomini di catena, ossia dei forzati, degli schiavi e delle buonevoglie, abbiamo già detto in un
capitolo precedente.
542

Capitolo VIII.

LA GENTE DI SPADA.

Come abbiamo già premesso quando abbiamo parlato degli artiglieri di galera, non possiamo
allargare il nostro discorso agli eserciti post-rinascimentali nel loro complesso, perché ci
allontaneremmo dal tema nautico che ci siamo ora proposti, ma il lettore che ne fosse interessato
troverà facilmente un’altra nostra opera che è invece dedicata a tale argomento; ci limiteremo qui
pertanto a mettere solo in rilievo gli impieghi marittimi delle fanterie del tempo e tratteremo quindi
ora della gente di spada o guarnizione di galera (gra. ἐπιβάται), ossia di quella che più tardi si
sarebbe chiamata fanteria di marina. Questa guarnizione poteva essere d’entità molto varia a
seconda dell’esigenze dell'impresa di guerra o di corso programmata; in tempo di pace poteva
essere minima oppure poteva essere occasionalmente anche troppo numerosa, specie nel caso di
quei frequentissimi viaggi mediterranei che le galere compivano proprio per trasportare da una
provincia all'altra della fanteria o della cavalleria smontata, vale a dire priva di cavalli, visto che in
galera per tali animali non c’era posto. Va bene che i cronisti del Medioevo tendevano a esagerare
di molto il numero delle forze nemiche della fazione per cui parteggiavano, ma quando leggiamo
che Pietro III d’Aragona il 6 novembre 1284 inviò da Messina una squadra perché, attraversato lo
stretto, s’impadronisse della roccaforte di Catona, circoscrizione del comune di Reggio allora
invece sobborgo della città, vediamo che si trattava di 15 galee che trasportavano, oltre ai loro
equipaggi, 5mila fanti da sbarco almogavari, montanari catalani a cui abbiamo già accennato, e
quindi in pratica circa 333 di essi a galea (Bartolomeo di Castronuovo, cit. LT. I, cap. LVI).
Generalmente in crociera ordinaria e in tempo di pace, quando cioè gli unici combattimenti possibili
erano quelli che potevano avvenire incontrando vascelli dei corsari barbareschi, si tenevano a
bordo una cinquantina di fanti, ossia all'incirca uno per ogni banco; nel caso invece di guerra di
squadra o d'armata reale, come allora si diceva, sulla galera potevano esserci più di 150 soldati o
anche un’intera compagnia di fanteria e nella seconda metà del Cinquecento una tale compagnia
poteva contare - almeno per quanto riguarda le fanterie della corona di Spagna – dai 200 ai 300
uomini; ciò perché in effetti in tal'occasione più soldati c’erano a bordo e meglio era, ma non tanti
però da impedire le manovre e gli altri servizi di bordo. Non bisogna dimenticare infatti che la fase
cruciale del combattimento tra galere era quella del prolungamento, ossia dell'affiancarsi al
vascello nemico per poi andare all'arrembaggio combattendo all'arma bianca, e quindi chi aveva a
bordo più combattenti quasi sempre aveva la meglio; in ogni caso 150/200 soldati erano
considerati a ponente un numero bastevole ad affrontare una battaglia d'armata, mentre a levante,
543

ossia a Venezia e in Turchia, se ne consideravano sufficienti 100, visto che in caso di necessità si
potevano armare i remiganti, i quali, come sappiamo, erano in gran parte buonevoglie o perlomeno
dei salariati. A Lepanto, come racconta Giovan Pietro Contarini nella su contemporanea Historia,
ogni galera cristiana sottile ordinaria aveva 200 uomini da spada, mentre quelle di comando ne
avevano da 300 a 400, a seconda del loro grado (cit.) Il succitato Governo di galere vuole sulla
galera sottile 208 scappoli, includendo però in questa dizione tutti i non remiganti, quindi anche gli
ufficiali e i 150 soldati, e, nel caso di battaglia reale, così riassume la superiorità ottenibile da una
galera cristiana, in quanto a equipaggio, a paragone d’una turca:

Galera cristiana Galera turca

Remieri (mozzi inclusi)… 240 150


Scappoli (qui marinai e soldati)… 300 200

Dunque c’era a quell’epoca un notevole vantaggio delle galere cristiane; ma a che cosa era esso
principalmente dovuto e come si raggiungevano i predetti numeri? Sebbene i turchi avessero
potuto rendersi conto della maggior praticità della nuova voga alla galochia sin dalla battaglia delle
Gerbe, avvenuta come sappiamo nel 1560, la grande maggioranza delle loro galere, come ci
conferma il detto Governo di galere, continuò ad andare armata a tre remi e uomini per banco fin
forse a quella di Lepanto, come si era usato fino alla fine del Rinascimento anche da quelle
cristiane, le quali però ormai da tempo adoperavano il nuovo sistema e portavano quattro vogatori
a ogni remo di scaloccio; anzi, nel caso di battaglia reale, i banchi s’inquintavano, ossia a ogni
remo si aggiungeva un quinto uomo, cosa resa evidentemente possibile dall’essere ormai quelle
cristiane galere tutte quartierate, ossia, come già sappiamo, più larghe delle sottili tradizionali;
questa maggior dimensione implicava però l’opportunità di portare nell’evenienza predetta anche
una ventina di marinai di più dell’ordinario e anche più artiglieria.
Nel caso di guerra di corso o d’una breve e rapida impresa non bisognava aggravare con troppa
gente la galera e 100 soldati o poco più per ogni galera d'ordinaria grandezza era il numero giusto
da distribuirsi, insieme con i marinai, tra balestriere, rembate, poppa, schifo e spalle; da un numero
variabile tra gli 80 e i 100 soldati era infatti in tal caso ordinariamente guarnita ogni triremi sottile
veneziana nel 1525, come sappiamo da Gasparo Contarini (Ib.) Per quanto riguarda i vascelli tondi
o a vela quadra che dir si voglia, andavano anche bene i predetti numeri d’armati, se si andava in
guerra regolare; ma, se si andava in corso, allora, non essendoci problemi di sovraccarico come
nelle galere, bisognava portare molti più uomini, anche il doppio, proprio perché nella guerra di
corso si mirava ad andare soprattutto all’arrembaggio; insomma, andando in corso, il numero degli
uomini armati delle galere si conteneva e quello dei vascelli tondi invece si aumentava di molto.
544

Anche in caso di semplice trasporto di milizie, un vascello tondo poteva ovviamente caricare molti
più uomini d’una galera, potendo infatti una sola nave o galeone grande trasportare anche più di
mille soldati.
Se dunque a bordo era presente un’intera compagnia, questa dipendeva da un suo capitano (fr.
capitaine d’armes) e non da quello della galera, ma in alcune squadre, quando non si partiva per
un’impresa che comportasse lo sbarco di fanteria per azioni di guerra a terra, ma semplicemente si
andava in corso sui mari, si preferiva affidare al comando del capitano del vascello anche i soldati,
in modo da evitare gl’inevitabili dissensi e conflitti di comando che nascevano a bordo tra il
capitano di mare e quello di terra; il che anche si praticava quando a bordo non c'era un’intera
compagnia di fanteria con il suo capitano, bensì solo qualche squadra guidata magari da un
sergente.
I fanti che s’impiegavano nelle guarnizioni marittime delle galere o degli altri vascelli da guerra del
re di Spagna erano, come del resto quelli che servivano a terra, di due tipi principali; il primo era
quello dei fantaccini regolari spagnoli appartenenti ai terzi fissi, ossia ai reggimenti di presidio nelle
varie province mediterranee soggette a quella corona, ed erano queste compagnie tutte ben
esercitate nell'armi ed erano imbarcate ogni anno sulle galere a turno, in modo che tutte potessero
amarinarsi, come dicevano i veneziani, ossia assuefarsi al mare; il secondo tipo era quello dei
soldati permanenti a bordo, cioè quelli che erano chiamati vantaggiati o trattenuti, i quali erano
militari di carriera, uomini scelti o comunque migliori dei soldati ordinari:

... Gli avantaggiati sono persone assai stimate per prove di valore fatte nelle guerre di terra e di
mare o per carichi e gradi havuti nella milizia; si sogliono riconoscer da gli altri con avantaggio di
soldo, di razioni e di poste nelle galee ed, occorrendo che s'habbia a combattere, si sogliono
collocar dove è il maggior pericolo. (Ib. P. 164.)

Per trattenuti s’intendevano invece ufficiali che, pur privi d’incarico, dovevano restare a
disposizione permanente e pertanto ricevevano uno stipendio fisso tutto l'anno, a differenza quindi
dei cosiddetti venturieri, i quali servivano invece all’occasione, senza incarico né stipendio;
chiaramente un soldato poteva quindi essere allo stesso tempo un vantaggiato e un trattenuto.
Infine, in occasione d'imprese importanti, s’imbarcavano volontariamente i suddetti venturieri,
combattenti che abbiamo già più volte nominati e quindi è tempo che se ne dica qualcosa di più
compiuto; essi erano persone di conto, gentiluomini cadetti (sp. guzmanes), mestieranti della
milizia, insomma uomini di buona condizione sociale che, pur senza godere di un incarico
stipendiato, si erano dati a proprie spese alla vita militare allo scopo di cercare di mettersi così in
luce, di farsi notare dagli ufficiali generali e d’ottenere da loro un grado d'ufficiale di ruolo
nell'esercito e quindi quella definitiva sistemazione economica che non avevano potuto ricevere
545

dalle loro famiglie, raggiungendo così con la ventura quel benessere economico che non avevano
ereditato di fortuna.
La squadra delle galere condotte genovesi, guidata tradizionalmente dalla famiglia d’Oria, usava
guarnizioni di terzi italiani e non spagnoli, ciò perché Genova era una repubblica alleata della
Spagna, ma non suddita di quella corona come era invece, per esempio, il ducato di Milano;
talvolta su dette galere s’imbarcavano non fanti ordinari ma territoriali nazionali, cioè di quelli che si
raccoglievano tra i paesani in un battaglione nell’Italia meridionale, in bande o cernite in quella
centro-settentrionale e in sargentie in Sicilia, come per esempio quelli appartenenti alla milizia
territoriale del regno di Napoli detta appunto del Battaglione, a patto però che fossero
sufficientemente esercitati nell'armi. Inadatto alle imprese di mare era invece considerato il
mercenariato germanico, cioè i soldati tedeschi, austriaci e svizzeri di lingua tedesca, i quali
usavano tradizionalmente combattere non solo per i loro principi ma anche per quelli stranieri
purché ben pagati (gra. λατρεύειν; prlt. latrocinari):

... (le) valorose nazioni delli svizzeri e de gli alemani, i quali, per le vittorie ottenute in terra, sono
da i Principi molto stimati e temuti, ma, non havendo fatto ancora alcuna impresa segnalata in
mare, anzi essendo riusciti quasi inutili, dispendiosi e di grande ingombro nelle armate dove sono
stati condotti, in questa milizia navale non hanno nome né credito alcuno... (Ib. P. 162.)

Per un soldato servire in galera era molto più disagevole che farlo a terra e ciò sia per la
ristrettezza dello spazio in cui bisognava convivere gomito a gomito con diverse altre centinaia di
persone e dove era impresa ardua persino trovarsi un posticino delle balestriere nel quale
stendersi a dormire all'aperto, sia per il puzzo del sudore emanato dai remieri, la scarsa igiene e il
più facile e rapidissimo propagarsi delle malattie infettive, sia per il continuo rollare o beccheggiare
dell'instabile galera che provocava nei più il mal di mare (le vertigini, come allora si diceva):

... il fastidioso moto de i vascelli, il qual turba lo stomaco, muove il vomito e toglie l'appetito del
cibo, che i non abituati s’indeboliscono e, quasi come morti e derelitti da i sensi, rimangono storditi
e inetti a qual si voglia operazione e finalmente sono sforzati a lasciare il mare (Ib. P. 154.)

E si ricordava il caso della nave veneziana carica d'armi, vettovaglie e soldati che era stata
mandata in Levante nel 1571 per soccorrere l'isola di Cipro e che si perse solamente a causa del
non essere avvezzi i soldati alle turbolenze del mare; essi preferirono sbarcare in territorio dei
turchi ed essere da questi catturati e fatti schiavi piuttosto che continuare ad affrontare il continuo
mal tempo di quei giorni. In effetti anche le brevi traversate mediterranee potevano risultare allora
tanto lente e disagevoli da provocare la morte, come si legge nel dispaccio che il predetto Bonrizzo
scrisse da Napoli al suo senato il 26 maggio dello stesso suddetto anno:
546

… Dalla Spagna è giunto l’ultimo trasporto di soldati che s’attendeva. Si dice che in tutto siano
tremila; ma per istrada ne sono morti molti… (N. Nicolini. Cit. )

E ancora riferiva, tra l’altro, su questi bisoños (‘reclute spagnole’) il 4 luglio seguente:

… Per altro, quelli giunti qui ultimamente sono così ammalati che si parla persino di lasciarli a
Napoli per non infettare l’armata… (Ib.)

Trascriviamo ora, tradotto in italiano, un significativo brano delle già citate memorie del militare
francese Barras de la Penne, brano in cui il disagio e la durezza del navigare in galera sono
descritti vividamente e realisticamente e che si può senza dubbio applicare anche all'epoca più
antica di cui stiamo soprattutto trattando, anche se c'è da tener però conto che le galere dell’inizio
del Settecento erano parecchio più larghe di quelle sottili ordinarie del Cinquecento, avevano circa
il doppio dei remiganti e quindi anche la loro marinaresca e soldatesca era più numerosa:

... Coloro che salgono per la prima volta su una galera sono sorpresi di vedervi tanta gente; c'è in
effetti in Europa un’infinità di villaggi che non riuniscono assolutamente un così gran numero di
abitanti. Ma ciò che causa ancor più meraviglia è di trovarvi tanti uomini raccolti in un così piccolo
spazio; è vero che per la maggior parte non hanno nemmeno la libertà di stendersi a dormire per
tutta la loro lunghezza; si mettono sette uomini in ciascun banco, vale a dire in uno spazio di circa
quattro piedi di larghezza per dieci di lunghezza; si vedono ugualmente a prua trenta marinai che
non hanno per tutt'alloggio altro che il piano delle rembate (due rettangoli di dieci piedi di
lunghezza per otto di larghezza); da poppa a prua non si scorgono che teste. Il capitano e gli
ufficiali non sono quasi per nulla meglio alloggiati; essi hanno per tutto rifugio la poppa, la quale si
sarebbe tentati, viste le sue dimensioni, di comparare alla botte di Diogene.
Allorché lo spietato mare di Libia (‘il Tirreno’) sorprende le galere di rincontro alle spiagge romane
(laziali), quando l'impetuoso aquilone le viene ad investire al largo o quando il golfo di Lione le
abbandona a l'umido vento di Siria, tutto si accorda a fare della galera moderna un inferno. Le
lugubri lamentazioni dell'equipaggio, le grida spaventevoli dei marinai, le urla orribili della ciurma, i
gemiti del corbame mescolati al rumore delle catene e ai ruggiti della tempesta fanno nascere nei
cuori più intrepidi un sentimento di terrore. La pioggia, la grandine, i lampi, accompagnamento
abituale di quelle violente procelle, l'onda che copre il ponte con i suoi spruzzi si aggiungono a
l'orrore della situazione. Sebbene non si sia generalmente per nulla molto devoti in galera, voi
vedete allora della gente pregare Dio, dell'altra votarsi a tutti i santi; alcuni inoltre, a dispetto
dell'agitazione del vascello, si sforzano di fare dei pellegrinaggi intorno al bordo (sulle balestriere) e
sulla corsia dei pellegrinaggi; coloro farebbero molto meglio a non dimenticarsi di Dio e dei suoi
santi appena il pericolo è passato.
La stessa bonaccia ha i suoi inconvenienti; i cattivi odori sono allora così forti che non ce ne si può
liberare, nonostante il tabacco del quale ci si è obbligati a riempire il naso dalla mattina alla sera.
Ci sono sempre in galera certe piccole bestie che sono il supplizio dei suoi abitanti; le mosche
esercitano il loro impero di giorno, le cimici di notte, le pulci e i pidocchi di notte e di giorno; per
quante precauzioni si prendano, non si saprà riuscire a liberarsene; quei feroci parassiti non
rispettano nemmeno i cardinali, gli ambasciatori o le teste coronate. (Cit.)
547

Nel Cinquecento, quando l'uso del tabacco e del suo intenso odore come anti-fetore ancora non si
erano diffusi, gli ufficiali usavano annusare fazzoletti profumati nel tentativo di non sentire il
suddetto terribile puzzo, al quale oltretutto s’aggiungeva a tratti anche quello, ancora peggiore,
dell’acqua marina putrida e della sporcizia che si raccoglieva nella sentina. Perlomeno il fetore di
sentina era un buon segno per la gente di mare molto favorevolmente accolto dalla gente di mare,
perché la sua presenza significava che il fasciame era ben calafatato a sufficiente tenuta stagna e
che il vascello non faceva acqua in maniera significativa da nessuna parte; ciò perché era molto
difficile che prima dell’invenzione dei mastici sintetici, avvenuta solo nel Novecento, un vascello di
legno potesse essere perfettamente a tenuta stagna e infatti nel codice di diritto marittimo della
città di Bergen del 1274 al cap. II si legge:

La nave che non è necessario aggottare più di tre volte in ventiquattr’ore sarà considerata in stato
di navigare; i marinai potranno nondimeno accontentarsi d’una meno ben turata. Se il padrone
(‘comandante’) organizza d’aggottare la nave durante la notte all’insaputa dell’equipaggio, ciò sarà
considerato una frode di pregiudizio a coloro che devono imbarcarsi sulla nave e il padrone dovrà
risarcire i danni che essi di conseguenza ne ricevessero nelle loro persone o nei loro beni; poiché
chiunque ha commesso una frode ne deve pagare il fio… (J. M. Pardessus. Cit.)

Questa norma si troverà poi ripetuta nel cap. II dell’ordinamento marittimo medievale islandese del
1281 che si trova nel codice Jons-Bog (ib.)
Ancora più difficile era per il fante servire in galera durante il combattimento, quando risultava
arduo persino il tenersi in piedi nei rollanti vascelli, mentre spaventosi fuochi di guerra volavano tra
la propria galera e quella del nemico:

… Al qual travaglio si aggiunge l'horrore delle cose che vede continuamente con gli occhi proprij, di
morti crudelissime e della strage che fa delle membra humane hora il ferro ed hora il fuoco, che
non è così spaventoso nelle battaglie terrestri, vedendosi in un istesso tempo quello sbranato,
questo abbrusciato, l'uno affogato e l'altro trafitto d'un archibugio o fatto in miserabili pezzi
dall'artigliaria, oltra lo spavento che apporta lo spettacolo d'un vascello che sia inghiottito dal mare
con tutte le genti che vi sono sopra senza poter ricevere un minimo aiuto, e il vedere i compagni
semivivi e semiarsi andar infelicemente al fondo e'l mare, mutato colore, divenir rosso di sangue
humano e coprirsi d'arme e di spoglie e di frammenti di vascelli rotti e, per la moltitudine di quelli
che ardono e dei corpi che si abbrusciano, quasi trasformato in fuoco e pieno di morti e di morienti,
che con gemiti e con voci compassionevoli muovono a lacrime gl'istessi inimici. (P. Pantera. Cit.
Pp. 154-155.)

Il terribile spettacolo sopra descritto dal Pantera coincide appunto con quanto si dice della battaglia
di Lepanto, avvenuta la domenica 7 ottobre 1571, festa di S. Giustina, nella contemporanea
descrizione di M. Francesco Sansovino:
548

… Si erano serrate insieme tre galee a quattro, quattro a sei e sei ad una ‘sì delle inimiche come
delle cristiane, tutti combattendo crudelissimamente per non lasciar l’uno la vita all’altro, e già
erano saliti su molte galee di questa e quella parte turchi e cristiani, combattendo insieme ristretti
alla battaglia dell’arme curte, dalla quale pochi restarono in vita, e infinita era la mortalità che
usciva da i spadoni, scimitarre, mazze di ferro, cortelle, manarini, spade, freccie, archibugi e fuoghi
artificiali, oltra quelli che per diversi accidenti spenti (‘fermati dalle ferite’), ritirandosi e da loro
gettandosi, si affogavano in mare, qual già era spesso e rosso di sangue… (Historia universale
dell’origine et imperio de’ turchi etc. P. 483. Venezia, 1582.)

E, cessata finalmente la battaglia, il mare così appariva:

… Spaventoso ed horribile spettacolo era il vedere tutto il mare sanguinoso che sospingeva infiniti
corpi morti e compassionevole a risguardar molti, appresi a diverse sorti di legni, andar per il mare,
molti mal vivi cristiani e turchi mescolati dimandar nell’acque nuotando aiuto e abbracciati ad un
istesso legno cercar di salvarsi. Da ogni parte gridi, da tutte le bande compassionevoli voci si
sentivano e quanto più l’aere si oscurava tanto maggiore e più horrendo spettacolo pareva…
(Giovan Pietro Contarini P.53v.)

La scena è anche descritta da Ferrante Caracciolo conte di Biccari nei suoi Commentarii:

… Hora il mare era pieno d’huomini morti, di tavole, di vesti d’alcuni turchi che fuggivano a nuoto,
d’altri che affogavano, di molti fracassi di vascelli e per le molte occisioni in gran parte vermiglio; si
vedevano vascelli che ardevano ed altri che andavano a fondo, la costa di quelli scogli piena di
turchi che fuggivano, a’ quali le nostre galee vicine tiravano cannonate a gran furia, tanti legni de’
nimici arenati… (I commentarii delle guerre fatte co’ turchi da don Giovanni d’Austria etc. Pp. 42-
43. Firenze, 1581.)

Più interessante è certo la descrizione della stesso spettacolo lasciataci da Bartholomeo Sereno,
perché egli, come sappiamo, alla battaglia partecipò in una posizione molto centrale:
… E, per tornare a dire degli spessissimi ardenti mongibelli (‘vascelli incendiati’) che qua e là per lo
mare seminati si vedevano, era fra essi ogni cosa (‘ogni luogo’) piena di giubbe, di turbanti, di
carcassi, di freccie, di archi, di tamburri, di gnacchere, di remi, di tavole, di casse, di valigie e sopra
d’ogni altra cosa di corpi umani, i quali, non avendo ancora finito di morire, andavano a nuoto
gittando l’anima insieme col sangue che dalle mortali ferite spandevano, non movendo, con tutta la
miseria loro, pur un poco di compassione ne’ cuori de’ nostri soldati, da’ quali, in cambio di pietate
e di aiuto, colpi di archibugiate e di zagagliate, mentre ad essi si offerivano, ricevevano. (Cit. Pp.
210-211.)

Finiamo con la descrizione raccoltane invece da Girolamo Catena:

… La battaglia durò vicino a quattro hore, ma in meno si scorse la vittoria, la qual fu tanto horribile
e sanguinosa che pareva il mare un Mongibello, tinto tutto e colorato di sangue, pieno di corpi
morti ondeggianti, di vascelli disfatti, di fuochi appiccati a remi e a questa e a quell’altra cosa.
L’aria compressa di fumo, mista di solfo e ripercossa da gridi e lamentevoli voci di color che o di
ferro o di fuoco o d’acqua o feriti dall’artiglierie perivano; finalmente spettacolo di gran miseria.
(Vita del gloriosissimo Papa Pio Quinto, P. 147. Roma, 1586.)
549

La notte seguente alla battaglia il mare davanti al ridosso di Petela, dove le galere dei cristiani si
erano raccolte e riparate, fu scosso da una burrasca e, giunto il mattino, ecco che cosa apparve ai
loro equipaggi:

… Il mare, già sazio della ingorda voragine sua, a sommo gli umani corpi de’ morti aveva
cominciato a gittare e quelli dal vento, che tuttavia verso la terra ferma gli sospingeva, erano
insieme talmente ristretti che non bastava la vista a mirar tanto lontano che chiaramente l’acqua
del mare scoprisse, poi che, per quanto altrove si raggirasse, niuna altra cosa che ignudi capi
d’uomini morti poteva vedere; e non mancò di poi chi dicesse che dal vento che quella notte
gagliardissimo avea soffiato gran quantità sino in Candia ne fossero stati sospinti. Stavasi ogni
uomo stùpido (‘attonito’) riguardando e parendo di avere la precedente giornata sognato, mentre il
numero tanto grande de’ morti si contemplava, impossibile ancora agli stessi uccisori pareva che
dalle mani cristiane tanta strage uscire fosse potuto. Attendevano i marinari e gli sforzati tutti a
pescare con gli uncini quelli ch’erano vestiti e a spogliarli; continuamente si trovavano pendere da’
colli de’ morti borse con buoni danari, giubbe, turbanti, tappeti di cuoio, cassette piene di molte
curiosità e altre cose infinite, che tutte a galla di poco in poco tra i densi corpi apparivano. (Ib. Pp.
215-216.)

I nemici uccisi furono infatti stimati in circa 30mila, mentre i cristiani ebbero circa ottomila tra morti
e feriti; i personaggi più importanti che vi persero la vita furono il provveditore generale veneziano
Agostino Barbarigo, ucciso da un colpo di freccia in un occhio, lo spagnolo Bernardino de
Cardines, colpito da una palla di smeriglio, i fratelli Orazio e Virginio Orsini, 14 capitani di galera e
una sessantina di cavalieri di Malta; una relazione francese della fine di quello stesso anno dava
periti nella battaglia, oltre al Barbarigo, i seguenti principali personaggi cristiani:
Benoist Laurens.
Andrea Barbarigo.
Giovanni Corsaro.
Lando (sic).
Marino Contarini.
Lattanzio Malipiero.
Hieronimo Contarini con tre suoi cugini.
François Bion.
Antonio Pasqualigo.
Thodero Balbi.
Jean Baptiste Benoist.
Jacques de Mezo.
Antonio Mallogani, candiotto.
Alessandro Littico Daffrani.
Tristano Vesanti.

La grandiosità della battaglia di Lepanto stupì gli stessi partecipanti e quindi tra questi anche il
succitato Sereno, il quale infatti nei suoi Commentarij così la ricorderà:
550

Niun giorno fu mai tanto tremendo né tanto ricordevole e glorioso, dopo che Iddio operò in terra
l’umana salute, quanto il settimo d’ottobre dell’anno 1571, la memoria del quale, mentre la penna
tengo per descriverlo, fa che per l’orrore mi si drizzino i capelli sul capo, che mi tremi la mano e
che in effetto ora io conosca il timore che, con l’armi e col cuore trattando il gran fatto, non seppi
allora conoscere… (Cit. P. 183.)

Tutti si resero subito conto d’aver partecipato a qualcosa di molto importante, anche se in effetti
non storicamente del tutto nuovo, se ci si vuol ricordare della grande vittoria che una lega
marittima cristiana ottenne contro l’armata turca nel golfo di Smirne nel 1334, seguita poi 10 anni
più tardi dal sacco di questa stessa città, sacco che i veneziani ripeteranno poi nel 1472; i più,
specie i furbi e i profittatori, cercarono subito di ricavarne onori e vantaggi e pertanto mostravano il
più possibile le ferite ricevutevi o si sforzavano di far credere d’averne ricevute; è sempre il Sereno
che racconta:

… Furono dopo questo gran fatto tanto desiderate e mendicate le ferite da quelli che ricevute non
ne avevano che, come quelle che del valor loro dovessero fare testimonio, pareva che ognuno
volentieri quelle de’ suoi compagni per gran prezzo si avrebbe comprate; e quelli che alcuna, ancor
che minima, se ne trovavano, non solo medicarle non volevano, ma facevano anzi ogni giorno
quanto potevano per che o lungamente aperte si mantenessero o almeno i segni con cicatrici
maggiori che possibil fosse vi rimanessero… (Ib. Pp. 213-214.)

E continua poi questo testimone di Lepanto narrando qualche buffo caso di combattenti
cristiani comportatisi in quella battaglia abbastanza vigliaccamente, pensando cioè solamente a
salvarsi la pelle, e che diversi mesi dopo a Roma continuavano a ostentare medicazioni di finte
ferite; d’altri, uomini di comando, che andavano pagando letterati che scrivessero inventate gesta
da loro compiute in quell’occasione e infine d’altri ancora che andavano acquistando vessilli e
vestiti tolti ai vinti turchi per poi farne mostra a tutti come di propri trofei (Ib.).
La peggio toccava ovviamente ai galeotti incatenati ai remi gomito a gomito; questi non avevano
alcuna possibilità di schivare i colpi del nemico né di salvarsi a nuoto se la galera affondava o
s’incendiava e il Croce, laddove narra la vita del soldato spagnolo Miguel de Castro, imbarcato dal
1605 al 1606 su una galera napoletana, essendo quindi viceré allora Juan A. Pimentel de Errera
conte di Benavente (1603-1610), si sofferma infatti sulla terribile condizione in cui piombavano i
remiganti durante una battaglia:

... Era piena di orrori quella vita di corseggi che il de Castro fece per oltre un anno. narra che in
uno di quei combattimenti era tanta la quantità di pece, piombo e pietre grosse pesantissime che
veniva scagliata sulle galee, che la misera ciurma (della galera nemica), decimata da quella
pioggia feroce, composta com'era di schiavi, gridava agli spagnuoli: 'Misericordia, cristiani, 'ché
siamo cristiani come voi! (B. Croce. Cit.)
551

Se anche si scampava al combattimento e ai disagi e malattie epidemiche che l’avevano


preceduta, ciò non vuol dire che si fosse ormai in salvo, perché restava ancora da tornare a casa e
non era quasi mai cosa facile, come successe ai soldati di galera italiani, in maggior parte
napoletani e milanesi, i quali nel 1572, avendo servito per la corona di Spagna nell’Arcipelago sulle
galere della lega cattolica e contro l’armata turca d’Uluch-Alì, imbarcati ora a Corfù su vascelli
tondi, dovevano a mezzo di questi esser riportati in Italia:

… Nel qual tempo le navi che portavano in Italia gl’italiani del Re patirono fortuna maggiore (di
quelle toccate invece alle loro galere) e, correndo quale ad una banda e quale ad un’altra, per
molti giorni si tenner perdute; ma i soldati, per li molti disagi che vi patirono, la maggior parte
morirono, il resto, molto malconci, mendicando se ne tornarono con brutto spettacolo della mal
ordinata milizia de’ tempi nostri (B. Sereno. Cit. P. 327.)

Con queste ultime parole il Sereno s’unisce a quanto costantemente lamentato da tutti i trattatisti
militari del tempo e cioè con il leit motiv del decadimento dei buoni usi e costumi militari della loro
epoca rispetto alla bontà di quelli degli antichi, specie dei romani; egli era infatti uomo di cultura e
non ammetteva certi eccessi della guerra, come quando, nel corso dell’occupazione e
devastazione di Tunisi dell’ottobre del 1573, fatto al quale egli partecipò, costatò che i soldati
cristiani aveva pressoché distrutto la biblioteca della città:

… Ma più che in tutti i luoghi gran danno vidi io nella moschea, nella quale arrivando, da poi che i
primi soldati che andavano a pigliar (ne) il possesso v’erano stati, trovai una libreria molto copiosa
scritta a mano in arabico né vi trovai libro alcuno che non ne fossero molti quinterni stracciati. (Ib.
P.343.)

Il soldo, pressoché invariato per secoli, che la corona di Spagna pagava ai soldati imbarcati era - e
questo valeva per tutti le nazioni al suo servizio - lo stesso che si corrispondeva per il servizio di
terra e dunque i maggiori disagi e pericoli del servizio di mare non erano considerati; anzi nel
passato i fanti di marina erano stati pagati di meno di quelli di terra e lo vediamo per esempio nel
soldo mensile concordato dalla compagnia catalana di fra’ Ruggero de Flor che nel 1303 si formò
nella Sicilia aragonese e s’imbarcò a Messina per andare a combattere al servizio dell’imperatore
bizantino Andronico II Paleologo (1282-1328), il quale aveva a tal uopo nominato detto Ruggero
nuovo megaduca dell’impero; il fante avrebbe preso un’oncia siciliana mentre il balestriero di bordo
solo venti tarini, ossia, essendo l’oncia siciliana fatta di trenta tarini, un terzo di meno, e, per una
miglior comprensione delle proporzioni, aggiungeremo che il cavaliere con cavallo armato, cioè
protetto da barda d’acciaio, avrebbe in quell’occasione ricevuto quattr’oncie, quello con cavallo
afforrato, cioè coperto solo dalla forra (itm. fodra; fr. caparaçon), ossia dalla trapunta imbottita
protettiva sottostante la suddetta barda, tre oncie; il còmito, vale a dire il comandante della galera
552

medievale biremi, quattr’oncie, il nocchiero, cioè il ‘secondo’ di galera, un’oncia, il proero, ossia il
marinaio velista di prua, venticinque tarini (Muntaner). Immaginiamo che questo si volesse con il
pretesto che a bordo il soldato in fondo evitava molte fatiche, soprattutto quella di dover marciare
per giornate intere anche nelle intemperie, di dover talvolta aiutare a spingere avanti l'artiglieria su
terreni accidentati o su passi di montagna, anche se non dovevano più, come invece gli antichi
soldati romani, anche costruirsi e scavarsi l'alloggiamento di campagna, valli, trincee e ponti, se
non molto raramente quando mancassero i guastatori, perché, come abbiamo già detto, i fanti, dal
Rinascimento in poi, si rifiutavano di lavorare di zappa e di pala, ritenendola cosa disonorevole per
un soldato, e protestavano d’esser pagati solo per combattere. Per gli stessi motivi di preteso
disonore sulle galere i soldati si rifiutavano di vogare quando mancassero remieri; nel 1686 i
soldati toscani di guarnizione sulle galere del Granducato, comandati di servire al remo per una
sopravvenuta necessità straordinaria, si ammutineranno. Nel 1309 poi la suddetta compagnia
catalana sarà assoldata dal conte di Brienna, erede del ducato d’Atene, a 4 oncie mensili per
cavallo armato, 2 sole per quello afforrato e una per fante (ib.)
Quando a bordo era presente il capitano di terra, quello di mare doveva dividere con lui la poppa,
cioè sia la camera sia la copertina che la sovrastava, perché quello era il posto d’ambedue, ma
questo di giorno, perché - per quanto concerne il dormire la notte - il capitano di fanteria, pur
potendo accomodarsi in galera dove più gli piaceva, doveva però lasciar libero al capitano di mare
perlomeno il luogo della bancazza, del quale abbiamo già detto, mentre, quando si combatteva,
detto capitano di terra doveva stare ovviamente dove più ci fosse bisogno di lui, ma per lo più
stava in corsia con il capitano di mare, al quale era a bordo comunque subordinato; doveva perciò
in tal delicatissima occasione cercare di stare a prua quando il capitano di galera stava a poppa e
viceversa in modo da tenere sotto controllo tutto il vascello. Per quanto riguarda il suo bagaglio e il
suo armamento, il mozzo di camera del capitano di mare, per ordine di questi, doveva
conservarglieli in maniera accessibile e custodirli. Quest'aver determinato con precisione anche i
posti della galera in cui gli stessi due capitani dovevano trattenersi dimostra quanto osservare un
ordine preciso in queste cose fosse importante in un ambiente tanto angusto e tanto affollato.
Quando, o per esigenze di guerra o di semplice trasporto, s’imbarcavano soldati che non facevano
già parte della guarnizione militare della galera, bisognava che il comandante di mare, affiancato
da quello di terra - se presente - e da alcuni dei suoi ufficiali, si trattenesse sulla poppa all’aperto a
sorvegliare l’operazione finché i nuovi arrivati non avessero sistemato a bordo sé stessi e le loro
cose in maniera da non imbarazzare le manovre della navigazione e intralciare la circolazione
stessa nella galera:
553

…atteso che nell’imbarcare al spesso sogliono intarvenire rumori per il repartimento delli detti
soldati, perché ogn’uno di loro vorrebbe il meglio loco e cossì (anche) nel ripostar delle loro robbe
che imbarazzarebbono la poppa et tutto il resto della galea… (C. da Canalt. Cit.)

L'alfiero (dal lt. aquilifer) aveva a bordo il principale e in sostanza unico compito di assumere la
luogotenenza del suo capitano quando questi fosse temporaneamente assente; ciò perché non
c'era spazio per maneggiare la bandiera della compagnia di guarnizione, il qual vessillo era
pertanto tenuto riposto, fuorché ovviamente quando si combatteva e quando si passava in rivista
(ol. Monsteren; sp. hacer alarde, hacer reseña, hacer muestra) la squadra o si entrava in porto,
perché in tali occasioni esso s’inalberava a poppa sulla estremità della freccia, ossia sullo
stentarolo, a meno che, trattandosi della galera Capitana, questo non fosse già occupato dallo
stendardo che, come sappiamo, solo questa portava. Il posto dell'alfiero era nello schifo, dove
chiaramente doveva anche adattarsi a dormire, e, quando il suo capitano si assentava, alla poppa
per sostituirlo; in battaglia doveva stare al luogo dello stendardo, ossia alla suddetta freccia di
poppa, dove doveva tenere la sua insegna inalberata e spiegata. L’alfiero prendeva tre razioni
giornaliere, 12 scudi pontifici mensili più il corrispettivo d'una piazza, ossia d'un ruolo, per il
mantenimento d’un abanderado o porta-insegna, cioè d’un soldato semplice al quale egli affidava
la bandiera quando non ci si trovava in una delle predette situazioni, nelle quali egli doveva invece
guardarla personalmente.
Il sergente della compagnia doveva obbedire anche al capitano del vascello per tutto quanto
riguardava il governo marittimo e aveva il suo posto alla spalla della galera, in modo da poter
subito ricevere gli ordini dai due capitani, oltre che dall'alfiero naturalmente, ma in combattimento
andava dove il bisogno lo richiamasse; per il resto aveva ben poco da fare, visto che a bordo non
si marciava né si costruivano alloggiamenti né si facevano manovre d'esercitazione né si doveva
dare parola d'ordine né si doveva andare in ronda né schierare la gente in battaglia né occuparsi di
tante altre incombenze come nel servizio di terra. Quando però si udiva l'ordine L'arme in coperta!,
quando cioè c'era da combattere, egli doveva distribuire ai soldati le armi conservate nello
scandolaro, doveva farli andare ai loro posti di combattimento e tenerli in cervello, cioè all'erta, con
i micci accesi, ma coperti, secondo la prudente prassi della milizia marittima sempre timorosa
dell'accidentale propagarsi d’incendi a bordo; poi si andava a porre allo schifo, che quella era la
sua base di combattimento. Doveva inoltre ordinare le guardie notturne e diurne che si solevano
fare nelle galere secondo le circostanze e che erano rivolte non solo a scoprire il nemico esterno,
ma anche a reprimere i tentativi di sommossa o di fuga dei remiganti; anche il capitano della
fanteria, così come l'aguzzino, doveva infatti farsi pubblico debitore di 25 scudi per ogni fuga di
vogatore e inoltre il soldato posto a guardia del luogo della galera dal quale fosse fuggito un
554

remiero sarebbe stato condannato a sostituire al remo il fuggiasco e a vogare quindi incatenato per
tutto il resto del tempo a cui quello v'era stato condannato. I soldati di guardia erano ben distribuiti
dalla prua alla poppa della galera; ma quella degli ordini di guardia della fanteria è materia molto
complessa che tratteremo nel già promesso nostro futuro volume dedicato alla guerra terrestre. Il
sergente prendeva 3 razioni giornaliere e 6 scudi pontifici di soldo mensile; il suo nome deriva dal
ltm serviens-tis, essendo questo il ‘fante ordinario’ prima che si formassero le grandi fanterie, come
dimostra una pletora di documenti medievali francesi, titolo poi forse anche contaminato da
‘serragente’, essendo questo uno dei suoi compiti nel ben ordinare in campo una formazione di
fanteria.
C'erano solitamente su ogni galera almeno due caporali (sp. cabos de esquadra), ma, quando a
bordo vi fosse un’intera compagnia, erano in maggior numero, poiché ognuno di loro comandava
una squadra di 25 soldati e a volte anche di 30. Quando erano di guardia con le loro squadre, il
loro posto era alla spalla della galera oppure alle due balestriere più vicine alla poppa, perché da
quella posizione potevano meglio comunicare con tutti i soldati sparsi per il vascello, fuorché una
squadra dovesse far la guardia solo alla prora perché in tal caso il posto del suo caporale era
anch'esso alla prora. In combattimento, quando erano solo due, uno comandava i fanti di dritta (gr.
δεξιότοιχοι) e l'altro quelli di sinistra e, se invece erano tre, uno si poneva al luogo del fogone, uno
sulla rembata di destra e il terzo su quella di sinistra; se poi erano quattro o anche più, allora si
dividevano tra prora e mezzania e poi di nuovo tra dritta e sinistra. Il caporale prendeva due razioni
giornaliere e 4 scudi pontifici mensili.
Nell’antichità e nel successivo Alto Medioevo i soldati che servivano a bordo dei vascelli servivano,
come leggiamo nell’Onomastikon di Giulio Polluce (II sec. d.C.), armati come i fanti di terra e
quindi, arcieri a parte, con celata, corazza, schinieri, manopole di ferro, scudo, spada; in più
usavano un’asta falcata (gr. δορυδρέπανον), arma molto utile negli abbordaggi per colpire dall’alto
il nemico che se ne stesse acquattato dietro la murata, per tagliargli le manovre e anche per
mantenere il vascello nemico agganciato al proprio in modo che non tendesse ad allontanarsi
durante quell’azione. In seguito, cioè nel Basso Medioevo, i fanti di marina ordinari, detti i marittimi
in Toscana, divennero prima balestrieri, come chiaramente si vede nella già ricordata notissima
quattrocentesca Tavola Strozzi, poi alle balestre si aggiunsero gli schioppetti e quindi dalla metà
del Rinascimento cominciarono a subentrare gli archibugi, dividendosi pertanto alla fine i soldati
delle guarnizioni militari nautiche in archibugieri e moschettieri; i primi, più numerosi per motivi di
praticità ed economicità, erano armati dunque d’archibugio, cioè di quell'arme da fuoco portatile a
canna lunga che si era diffusa nelle fanterie europee a partire dall'inizio del Cinquecento,
sostituendosi così al più rozzo schioppetto, il quale, nato nell’ormai già lontano Duecento, aveva
555

però caratterizzato soprattutto il cinquantennio a cavallo tra Quattrocento e Cinquecento


affiancandosi alla balestra; era l'archibugio evoluzione appunto di detto schioppetto, dal quale
infatti principalmente differiva perché dotato della cosiddetta serpe o serpentina, cioè di quel
congegno che portava meccanicamente la corda-miccia accesa a contatto del polverino d'innesco
(ol. dun buskruit, polver) posto nel fogone, permettendo così al fante di sostenere l'arme con
ambedue le mani, cosa questa che invece con lo schioppetto non era stato possibile perché,
mancando tale congegno, bisognava tenere la miccia nella mano destra e con quella avvicinarla al
fogone.
L'archibugio pesava dalle 10 alle 12 libre, aveva una canna la cui lunghezza variava dai cinque ai
sei palmi e sparava palle di piombo di poco meno d'un’oncia e accompagnata da una carica di
polvere di poco inferiore al peso della palla medesima. Si raccomandava di costruirlo di calibro
uniforme per semplificare la preparazione dei proiettili e la valutazione della carica di polvere
necessaria; si voleva poi con la culatta ben rinforzata, con la serpentina dal ritorno automatico e
soprattutto con il calcio all'italiana, cioè dritto e perpendicolare alla spalla, mentre sconsigliato era
quello col calcio ricurvo, detto alla spagnuola, perché rendeva l'arme poco stabile sia nel mirare sia
nello sparare e si appoggiava male tanto alla spalla quanto al viso, pregiudicando così la dirittura
del tiro. L'archibugio si forniva guarnito d'un fiasco di cuoio crudo contenente la polvere, d'un
fiaschetto - anch'esso di cuoio - contenente il polverino d'innesco e d'un sacchetto per le palle, il
tutto si portava a bandoliera a mezzo di lacci di pelle o di corda; le palle di piombo si facevano a
bordo, colando il detto metallo in piccole tenaglie di ferro cave dette pallottiere (fr. moules à bales;
ol. kogel-vormen).
L'archibugiero oltre all'archibugio era armato di spada e pugnale e portava in testa un morrione o
celatone, unica arme difensiva che gli era concessa, ed era quest'ultimo una celata crestata e ben
allacciata sotto il collo, munita di giro a tesa e d’orecchiali. Egli usava la sua principale arme nel
seguente modo; teneva nella mano sinistra sia il calcio dell’archibugio sia un pezzo di corda-miccia
accesa ad ambedue l'estremità e di quest'ultima soleva tenere altri pezzi spenti e attorcigliati
attorno alla vita o ad armacollo; caricava la canna di polvere prendendo con la mano destra la
fiasca appesa alla bandoliera, poi, lasciata quella, prendeva una o due palle di piombo dalla
borsetta, la quale in genere ne conteneva 20 o 30, oppure le prendeva dalla propria bocca - tener
preparate quattro o cinque palle in bocca era una pratica diffusa in tutte le fanterie europee - e le
infilava nella canna spingendole con una bacchetta di legno. Se le palle erano di diametro un po'
troppo piccolo, come spesso accadeva, allora prima inzeppava con la bacchetta del pelo o dello
straccio o della carta nella canna e poi vi pressava la palla o le due palle, perché infatti spesso ne
sparava due insieme per tenerle così più ferme e compresse nella canna. La bacchetta aveva il
556

suo innesto nello stesso archibugio, ma l'archibugiero valente, dovendo sparare più volte e per far
più presto, una volta adoperatala, se la infilava dentro il vestito dietro la schiena, in modo da
poterla così riprendere in un attimo. Così caricata l'arme, se ne poneva il calcio quasi sotto il
braccio destro, metteva il polverino d'innesco nel fogone versandolo dal fiaschino che pure gli
pendeva sulla destra e, nel far questo, teneva il fogone stesso coperto a evitare che il polverino si
bagnasse, se pioveva, o prendesse fuoco prima del tempo a causa di qualche scintilla volante; poi
metteva una dell'estremità accese della corda-miccia nella serpentina, l'adattava al fogone e ci
soffiava su per togliervi la cenere che si andava formando e ravvivarne il fuoco; scopriva il fogone
tenendo l'altra estremità accesa della corda tra le dita della mano sinistra, mano con la quale
anche sosteneva la cassa di legno dell'arme; alzava l'archibugio, prendeva la mira con l'occhio
destro tenendo il sinistro chiuso, il piede sinistro avanti e la guancia destra poggiata sul calcio;
toccava il grilletto col dito anulare e sparava; dopo aver così tirato, toglieva la corda dalla
serpentina e, se non doveva risparare subito, l'arrotolava e se la riponeva in spalla senza
spegnerne però i capi. Doveva far molta attenzione quando, acceso il polverino, la carica tardava a
prender fuoco; infatti i soldati inesperti, non vedendo il colpo partire, si mettevano a osservare
l'arme girandosela e rigirandosela in mano e intanto lo sparo magari finalmente avveniva e
andava a colpire qualche suo povero commilitone!
La botta, ossia il colpo, d’archibugio era alquanto debole, tanto da succedere frequentemente che
il suo proiettile non riuscisse a penetrare nemmeno i vestiti di chi era preso di mira, come, a
proposito d’esecuzioni capitali di militari, si legge talvolta nelle cronache del Cinquecento e del
Seicento – e da ciò venne poi la consuetudine di fucilare i condannati in maniche di camicia. I frati
cappuccini che durante la battaglia di Lepanto e dal ponte delle galere papaline ostentavano
coraggiosamente ai nemici il crocefisso esponendosi del tutto pericolosamente alla loro vista, pur
talvolta colpiti da archibugiate, non ne restarono feriti e il merito fu della pesantezza e
dell’abbondanti pieghe dei sai di cui andavano vestiti:

… E di questi ho veduto io sopra la mia galea fra’ Marco da Viterbo, al quale ho levato di mia mano
la palla di dentro al cappuccio, che, nello entrar di essa, in diversi luoghi era forato, senza che il
buon padre offesa n’avesse sentito… (B. Sereno. Cit. P. 213.)

Il moschetto da braccio, arma molto più grossa, pesante e lunga, dell'archibugio, corredata da una
maggior quantità di munizioni e d'accessori, pertanto riservato a uomini più robusti e maturi, capaci
di sopportarne il grave peso ed esperti tiratori, era stato introdotto per la prima volta in Europa solo
nel 1567 e precisamente nelle fanterie spagnole portate in Fiandra dal duca d’Alba; ma sembra, a
quanto scriveva Roberto Mantelli (Cit.), che un suo uso più generalizzato si ebbe, almeno per
quanto riguarda il tercio fijo spagnolo di Napoli, solo nel 1576 durante il vice-regnato di Juan Lopez
557

de Mendoza Hurtado (1575-1579) ed è pertanto da presumersi che fosse ancora molto poco
presente a bordo delle galere che combatterono a Lepanto e infatti i commentatori coevi di quella
battaglia non ne fanno cenno; il suo peso si aggirava tra le 18 e le 20 libre e la sua canna era
lunga da sei a sette palmi; aveva una gran culatta rinforzata e, per il resto, calcio e serpentina
erano come quelli dell'archibugio; dato il suo gran peso e quindi l'impossibilità di sostenerlo alla
mira con le sole braccia, il moschetto si sparava dopo averne poggiato la porzione anteriore della
canna su una robusta forcina di ferro a forma di mezzaluna, la cui asta di legno era guarnita
all'altra estremità d’una piccola punta di ferro in modo che si potesse tener conficcata nel terreno;
gli altri attrezzi di fornimento erano gli stessi usati per l'archibugio, con l'unica differenza che le
palle erano leggermente più grandi, pesando infatti ognuna un po' più di un’oncia, e pertanto il
moschettiero ne portava di meno di quante ne portasse l'archibugiero; portava invece più polvere
perché, per sparare palle più pesanti, doveva usare ovviamente cariche più potenti, e quindi anche
la fiasca della polvere che portava era più grande di quella dell'archibugiero. Anche per la sua
arme ogni carica consisteva in una quantità di povere leggermente inferiore al peso della palla.
Dato il maggior impiccio che dava al soldato il corredo del moschetto rispetto a quello
dell'archibugio, già all'inizio del Seicento alcuni moschettieri portavano, invece della fiasca di
polvere, una serie di cariche di polvere già preparate e poste in astucci di latta che si tenevano
appesi alla bandoliera; vuotando uno di questi astucci nella bocca della canna si caricava il
moschetto più presto e più comodamente e inoltre si evitava il pericolo che si appiccasse
incidentalmente il fuoco alla fiasca di polvere. Nel Settecento poi, questi astucci di latta cederanno
il posto alle cartuccie, cioè ad astucci di cartapecora o carta grossa contenenti, oltre alla carica di
polvere, anche la palla e da infilarsi nella canna interamente; queste cartuccie verranno tenute non
più appese alla bandoliera, bensì chiuse in una borsa di cuoio duro detta patrona e poi più tardi
giberna; ma questa è un’altra storia.
Per dare un’idea della pesantezza del moschetto, diremo che per toglierselo di spalla alcuni
usavano sostenerlo da sotto il calcio con la stessa forcina; ma a fronte di questa gravezza c'era il
vantaggio che la sua palla arrivava a offendere a 300 o 400 passi, cioè a una distanza doppia di
quella che si poteva raggiungere con l'archibugio. Per il resto il maneggio del moschetto non era
dissimile da quello dell'altra arma e a bordo del vascello risultava altrettanto agevole perché non si
doveva portarlo a spalla in estenuanti marce o in altre occasioni faticose e inoltre era colà anche
superfluo l'uso della forcina o forchetta che dir si volesse, perché bastava infatti poggiare il
moschetto comodamente sull'impavesate rigide o, in mancanza di queste, sui semplici filari posti
lungo la fiancata. Anche il moschettiero portava spada, pugnale e morrione, anche se, per quanto
riguarda quest'ultimo, bisogna dire che si trattava d'un uso marittimo perché a terra il moschettiero,
558

per non aumentare il già grave peso che doveva portare, invece del morrione usava un vistoso
cappello piumato a larghe tese; ma a bordo, non dovendo marciare con la sua pesante arme,
poteva permettersi questo peso aggiuntivo per proteggersi il capo. Prendeva il moschettiero, come
a terra, maggior soldo dell'archibugiero e anche maggior razione.
I soldati semplici dovevano sistemarsi semplicemente nel seguente modo:

…il resto della compagnia per ordine alle balestriere secondo la quantità de’ soldati, che sono le
loro robbe e armi, come meglio loro potranno accomodarli. (C. da Canalt. Cit.)

Ci domandiamo come facessero i soldati a difendere le loro armi e i loro effetti personali dai flutti
che non dovevano certamente mancare d’affacciarsi appunto sulle balestriere della bassa galera
quando il mare fosse solo un po’ agitato.
In combattimento gli archibugieri si appostavano alle pavesate, generalmente nelle galere uno per
balestriera, e poi sulle rembate o sui castelli di poppa e prua nel caso dei vascelli tondi; i
moschettieri anch'essi tra i remi alle balestriere e sulle rembate o castelli, inoltre, nel caso delle
galere, alle spalle e nello schifo; gli armati d’arme in asta uno per balestriera, per poter così
rintuzzare i tentativi d’arrembaggio del nemico, e poi anch’essi sulle rembate, a poppa, e inoltre
allo schifo e al fogone pronti ad accorrere dove fosse più necessario; inoltre ogni due o tre banchi
si doveva tenere a disposizione dei predetti difensori posti alla banda una tromba di galera e una
picca di fuoco, anche queste per contrastare il nemico all’arrembaggio :

…Anco in ogni balestriera si tenerà una rotella, si bene siamo tardi e duri (‘esitanti e severi’) al dire
di queste rotelle; la causa è che (i) soldati con la comodità della rotella lasciano l’arcabugi per
riparo delle (‘dalle’) frezze e, se in questo il capitano si accorgerà di tal gesto, è obligato
amazzarlo. La rotella (infatti ad) altro non serve (che) per andar sopra il vascello inimico o vero (gli)
inimici venissero sopra il suo vascello… (Ib.)

L'arme da fuoco portatile più efficace era dunque il moschetto, perché colpiva più lontano, con
maggior passata, ossia con più forza penetrativa, e con proiettile più grosso che faceva quindi
maggior ferita; esso poteva far strage del nemico prima che quello venisse a investire, vale a dire a
urtare impetuosamente il nostro vascello per poi prolungarlo, ossia, come abbiamo già detto,
abbordarlo; era quindi nettamente preferibile all'arco con le frecce che ancora tanto usavano i
turchi, anche se lo stesso non si poteva invece senza dubbio dire se si paragonava detto arco al
debole archibugio, anzi il vantaggio era spesso del primo specie a motivo della grande velocità di
ricarica. Nel caso per esempio di quella non mai abbastanza lodata battaglia allora detta delle isole
Curzolari, più tardi invece conosciuta come ‘di Lepanto’, gli aza(p)pi, ossia la marinaresca
combattente ottomana armata d’arco, fecero tra i cristiani molta più strage di quanta ne riuscisse
559

invece a fare tra i turchi l’archibugeria cristiana e questo è commento di militari italiani che a quella
battaglia parteciparono; Lepanto, come abbiamo già detto, avvenne infatti troppo presto perché i
moschetti portatili, introdotti nelle fanterie della Spagna solo nel 1567, potessero avervi parte
importante. Sul grand’uso dell’arco fatto dai turchi a Lepanto, ecco come apparivano al Sereno le
galere cristiane dopo la battaglia:

… Non erano antenne, non erano sarte, non alberi, non insegne, non palmo di cosi alcuna nelle
galee che, dalla tempesta delle archibugiate trafitto, non si vedesse (anche) talmente di
spessissime freccie coperto che verisimilmente la pelle di un porco spinoso rappresentasse… (B.
Sereno. Cit. P. 213.)

Tra i vari vantaggi che l'arco ancora offriva rispetto all'archibugio c’era quello innegabile, nella
guerra terrestre, di poter tirare sul nemico ad arcata, cioè da dietro le spalle dei propri compagni,
mentre le armi da fuoco tiravano solo a livello e quindi potevano essere usate solo dalle prime file;
ma – e ciò riguardava ovviamente anche la guerra nautica - c'era anche il vantaggio, altrettanto
importante, di poter essere usato anche sotto la pioggia, perché l’acqua l’allentava sì, rendendone
quindi il tiro meno potente, ma non ne impediva l’uso, laddove invece le micce si spegnevano e i
polverini d'innesco si bagnavano, e infine c'era il maneggio tanto più semplice e il tiro tanto più
rapido, in quanto nel tempo necessario a caricare e sparare un solo colpo d’archibugio un arciero
esperto poteva tirare anche più di 30 frecce. Alcuni esperti militari cristiani infatti - anche se
inascoltati - raccomandavano un ritorno all'impiego dell'arco sulle galere ancora alla fine del
Cinquecento, non solo perché arma indifferente alla pioggia e dal semplicissimo caricamento, ma
anche perché utile nei tempi morti in cui gli armati d'armi da fuoco erano impegnati a ricaricare le
loro armi, stando bassi e nascosti dietro la pavesata; nessuno invece rimpiangeva certamente più
e nemmeno ricordava la balestra, arma dal faticoso e complesso caricamento, anche se questa
era stata nel Mediterraneo occidentale la principale arma dei fanti di galera fino a tutto il
Quattrocento – l’arco invece nell’Adriatico e nei mari di levante in genere; di balestra, come
abbiamo già visto, ancora s’armava la marinaresca ponentina negli anni Ottanta del Cinquecento.
La già da noi citata ordinanza di milizia marittima aragono-catalana promulgata il cinque gennaio
del 1354 dal re Pietro IV d'Aragona e III di Catalogna, detto Il Cerimonioso, disponeva l'armamento
che i balestrieri di galera dovevano portare e cioè corazza, gorgiera, cappello di ferro, spada,
coltello, due balestre, un crocco per caricarle - il quale essi portavano appeso alla cintura - e 100
verrettoni o passatori (sp. jaras), ossia dardi di balestra, detti in Italia anche quadrelli perché
spesso dal ferro apicale quadrangolare. Immaginiamo che a quest'armamento i balestrieri più
esperti o più facoltosi aggiungessero di tasca loro due maniche di maglia di ferro o di lattone (sp.
fojas), arma difensiva questa molto usata nel Medio Evo. Si badi bene però che il suddetto
560

armamento difensivo dei balestrieri di galera era piuttosto completo e complesso perché in
battaglia, su quegli angustissimi e affollatissimi vascelli, non c’era spazio per sottrarsi ai colpi del
nemico e quindi era molto più facile restarne attinti; se infatti si va a vedere l’armamento di terra
dei balestrieri, lo si troverà molto più leggero e la anche già ricordata ordinanza di Pietro I di
Castiglia, detto Il crudele, del 1359 voleva quel soldato armato di dos balletas buenas e,
difensivamente, solo di bacinetto e delle suddette fojas; l’unica agevolazione in più rispetto ai
balestrieri di marina era la concessione di un numero di cavalli d’utilità, come del resto anche
talvolta si faceva quando si trattava di semplici fanti. La pure già citata ordinanza promulgata dal
Mocenigo nel 1420 all'articolo 7° imponeva ai balestrieri di galera di tenere - in situazioni d'allerta -
le balestre in coperta sulle tavole dette appunto per questo balestriere e che già conosciamo, i
verrettoni sconfezionati al fianco e i crocchi alla cintura in pena de sagramento, vale a dire, in caso
di mancanze, sotto la grave pena prevista per la bestemmia, ma solo in pena de soldi in caso la
mancanza fosse stata limitata al solo non portare il crocco alla cintura di giorno e di notte
continuativamente (Cit.).
Apprezzati arcieri erano ancora sulle galee veneziane i greci, i quali, soprattutto quelli
dell'Arcipelago, non erano allora - come del resto i turchi - ancora ben atti all'uso delle armi da
fuoco [... a quei doi primi greci [...] concessi come proprio loro artificio il saettare. (Cit.)]. Tra questi
ottimi nell’uso dell’arco erano gli sfacchiotti, ossia gli abitanti della Sfacchia, provincia dell’isola di
Candia, e il Vecellio, nel descrivere il loro abbigliamento tradizionale, di loro infatti anche dice:

… I popoli di questo luogo, tanto di verno quanto di state, vanno vestiti di cuoio nero, del quale
fanno un vestimento in due falde, accomodate una dinanzi e l’altra di dietro, e l’allacciano sopra le
spalle e sotto le braccia con alcune stringhe fatte del medesimo cuoio, con le quali ancora si
affibbiano sopra i fianchi un paio di calze o più tosto stivali del medesimo cuoio, i quali portano
assai bene accomodati in gamba… Nel braccio sinistro portano un pezzo di cuoio che difende loro
il braccio dalla corda nel tirar che fanno l’arco… Usano di portare la scimitarra, il pugnale e le
frezze e sono uomini molto valorosi, dormendo vestiti e con più incomodità. (Ib. P. 406v.)

Che i veneziani si servissero abbondantemente di greci e dalmatini, oltre che come vogatori,
anche come soldati di galera è confermato dallo stesso Vecellio, laddove quest’autore anche di
questi descriveva l’abbigliamento usuale:

Soldati overo scappoli del dominio veneto nelle galee: Si ritrovano alcune sorte di soldati che son
usi al mare che è dello Stato veneziano, non (de)scritti ma liberi, che servono nelle occasioni le
galee di essi signori (veneziani). E questi sono per il più schiavoni o greci o simil nazione,
assuefatti di continuo in tale esercizio, uomini gagliardi, forti e di robusta natura… Usano alcune
spade larghe e pugnali. (Ib. P. 140v.)
561

E a proposito della Schiavonia (‘odierna Yugoslavia’) più avanti aggiunge:

… Produce questo paese huomini grandi e robusti, di bel sangue, ma nel praticare e nel parlare
ordinariamente aspri… Si cingono una scimitarra alla turchesca e assai portano una mazza
ferrata… Sono cattolici e divoti, armigeri e di gran fatica. (Ib. P. 411r.)

Ma il da Canal li descriveva invece, come vedremo, molto meno resistenti alla fatica dei più smilzi
e piccoli greci; lo stesso autore conferma poi il suddetto uso dell'arco sulle galee veneziane in altro
dei suoi passi:

… Piacemi ancora d'haver nella galea buon numero di certa quantità di saette, le quali sono
perfetto istromento della vittoria come primieramente ho provato, ed (aver) armatone pure il mio
arciero della gabbia. (Cit. P. 145.)

L'arco più apprezzato non era comunque quello piccolo greco, simile questo a quello famoso e
dalla grande forza di penetrazione che usavano i turchi, ma quello grande italiano detto ‘arco
friulano’ al quale abbiamo già accennato e che nel Cinquecento ancora si usava appunto nelle
campagne nord-orientali della repubblica di Venezia; di esso si è persa purtroppo in Italia
completamente non solo la tradizione, ma anche il ricordo, ben sopravvivendo invece adesso
quello del suo diretto erede inglese.
Spesso si era anche usato attaccare al ferro delle frecce un pezzetto di corda-miccia acceso, in
modo da tentare con quello d'appiccare il fuoco alle polveri che il nemico teneva sopra coperta per
le sue artiglierie; per quanto riguarda le punte delle frecce, era antica tradizione, come leggiamo
nel Lexicon del Suida (Cit. T. II, pp. 121-122) che il ferro più adatto a forgiarle fosse quello detto
nero perché di color violaceo o bluastro molto scuro, in quanto coperto di ossido ferroso o ossido
da fiamma. Le ferite provocate da questa qualità di ferro erano più dolorose, debilitanti e
pericolose, perché la punta della freccia, una volta estratta dalla ferita, vi lasciava inevitabilmente
tracce di quell’ossido, sostanza questa infatti carente di consolidamento.
A proposito della lentezza di fuoco degli archibugieri c'è da notare che le tre galere savoiarde che
parteciparono alla battaglia di Lepanto furono certamente in quell’epico avvenimento le uniche
capaci d'un veloce fuoco d'archibugeria in quanto i loro archibugieri - unici nel Mediterraneo -
usavano caricare la loro arme con delle vere e proprie cartucce ante-litteram; il che si legge nella
relazione sulla Savoia letta al suo doge dal residente veneziano Giovan Francesco Morosini nel
1570:

... Oltre alli marinari che mette Sua Eccellenza (il duca Emanuele Filiberto di Savoia) per ogni
galera, che sono sessanta (errore; sono troppi!), suole anco mettervi sino ad ottanta ovvero cento
562

soldati per combattere; e a questi fa portar due archibugi per uno con preparazione di cinquanta
cariche acconciate in modo - con la polvere e palla insieme ben legate in una carta - che, subito
scaricato l'archibugio, non ci è altro che fare per caricarlo di nuovo che metter in una sola volta
quella carta dentro la canna con prestezza incredibile; e ciò in tempo di bisogno fa fare da uno delli
forzati avezzato a questo per ogni banco, onde, mentre che il soldato attende a scaricar l'uno
archibugio, il forzato gli ha già caricato e preparato l'altro, di maniera che senza alcuna
intermissione di tempo vengono a piover l'archibugiate con molto danno dell'inimico e utile suo
(‘del duca’); cosa che io giudico utilissima in una armata e l'ho voluta particolarmente riferir alla
Serenità Vostra acciò ch'ella possa considerare se così fatto avvertimento potesse esser utile alle
sue armate. (E. Albéri. Cit. S. II, v.II, p. 134.)

Altre armi da fuoco portatili, le quali con ogni probabilità la gente di poppa usava perché molto utili
durante gli abbordaggi, erano i corti archibugi a ruota da cavalleria detti cherubini, volendo
ricordare i mitici tori alati di tal nome, come abbiamo già spiegato a proposito della guerra di terra,
termine che però nei secoli seguenti sarà corrotto in carabine, non avendo infatti nulla a che fare
con i vascelli russi detti càrabi, e indicherà dei corti fucili a pietra focaia, sempre da cavalleria, ma
comunque perdendo così il suo significato originario d’armi con accensione a ruota e mina
(‘minerale metallico’); inoltre gli archibugietti, armi lunghe un paio di piedi e anch’esse a ruota, detti
pure pistoni, soffioni, terzette e che infine saranno conosciute come 'pistole' (fr. pistolets; ol.
pistoolen, zink-roers).
Le armi inastate, sebbene utili a bordo quanto le spade e i pugnali, data l'angustia delle galere,
ingombravano molto e pertanto era meglio riservarle, quando l’abbordaggio si subiva, alla sola
difesa della poppa e d’eventuali traverse, cioè barricate; anzi si era usato una volta e ab antiquo
tenere all’aperto sulla poppa dei corvi, ossia delle rastrelliere d’armi inastate, attaccate alle
predette garite, considerandosi quest’ultima come principal corpo di guardia; ma ora ben pochi
capitani tenevano la poppa guarnita sia di questi attrezzi che di falconetti, preferendo infatti tenerla
il più sgombra possibile per non perdere la disponibilità dello spazio:

…ed hoggi li capitani per lor comodità, parendoli bene portare la poppa disbarazzata, tennino e
portano le arme di sua galea in mano e in poter de’ schiavi inemici (‘dei mozzi maomettani’), e
ancora l’arcabusci nelle camere de (basso) gittati, e questo è errore grande, che molte volte,
stando queste armi nelle mani di simili persone, si son trovati arcabusci inchiodati o parati con le
palle sotto e sopra la polvere intanto (‘tanto’) che al bisogno non serviriano… (C. da Canalt. Cit.)

Bisognava pertanto tanto intimorire preventivamente coloro a cui s’affidava la custodia delle armi
che non ardissero mettere in atto alcun espediente proditorio; ma tornando alle armi astate di
frassino, le più adatte e usate erano comunque quelle con le quali si colpiva principalmente di
punta come le corsesche, munite di ferro forgiato, limato, a tridente uncinante, ma soprattutto le
mezze picche (sp. jinetas), queste con ferro appiattito, a forma di larga foglia, tagliente di fianco e
appuntito, dette poi dal Seicento spuntoni (ol. braadt-spit), molto usate negli abbordaggi, specie dai
563

veneziani e dai cavalieri di Malta, le quali nel Cinquecento presero il posto dei brandistocchi, armi
inastate rinascimentali da ufficiale munite di ferro appunto a forma di stocco e discendenti
probabilmente dagli antichi pila dei romani. Poco usate a causa delle ristrettezze di bordo erano
invece, oltre alle picche intere, le partigiane (ol. anche spiesen, speers) e i partigianoni, con ferro a
forma di foglia d'edera e lungo 18/19 pollici, stimatissimi nel Cinquecento; gli spadoni a due mani e
le alabarde, queste con ferro sostanzialmente a forma d'ascia, e le picche falcate dette ronche o
falcioni (sp. cuchillas; fr. vouges); mentre le prime, cioè le picche, erano armi da usarsi solo in
campo aperto perché lunghe circa metri 4½ (13/14 piedi), le altre, pur essendo di normale
lunghezza, non si potevano ugualmente usare a bordo perché con esse si colpiva principalmente
di dritto e di rovescio, ossia di taglio, il che, nell'angusto spazio di bordo in cui tanti uomini erano
stipati, significava rischiare di ferire più i propri commilitoni che i nemici e lo stesso capitano
comandante in combattimento generalmente non usava la troppo lunga spada da gentiluomo
bensì un coltellaccio che i francesi chiamavano hassegaye; al massimo ci si potevano anche
servire di arpioni, ma non di quelli con la punta a uncino sporgente per arpionare i grossi pesci,
bensì di quelli col ferro fatto a forma di S - detti a Dieppe, per questa loro forma, ‘serpi’ - per
tagliare le manovre del nemico o le reti di cordame che lo stesso avesse magari steso a difesa
della sua coperta. I ferri di tutte queste armi erano solitamente fissati alle loro aste a mezzo di due
loro prolungamenti inferiori detti orecchie, i quali, a volte anche dentati, s’incastravano e
inchiodavano nel legno.
Il comandante di galera veneziano Alessandro Contarini, che il da Canal sceglie come suo esperto
interlocutore nella Milizia marittima, trattato steso infatti in forma di dialogo, spiegava d’aver voluto
eliminare dall'uso della sua galera, oltre ai corsaletti di cui tra breve diremo, anche la maggior parte
delle suddette armi in asta, soprattutto i pericolosi partigianoni, dei quali però consigliava di tener a
bordo un certo numero uncinati sotto i banchi delle buonevoglie, perché sarebbero invece stati
molto utili in caso si fossero dovuti fare sbarchi armati, soprattutto se adoperati da coloro che a
terra erano designati (cst. sobresalientes) a far cerchio attorno al capitano per proteggerlo. Egli era
però favorevole all'uso delle picche, le quali proprio per la loro lunghezza potevano ben far da
spalla agli archibugieri, quando questi, abbandonato l'archibugio, andavano all'arrembaggio armati
di spada e rotella (piccolo scudo rotondo) e in buona sostanza considerava come uniche armi
inastate utili alla guerra nautica appunto le picche e le mezze picche, armi che inoltre avevano il
vantaggio di non essere affatto pericolose per i propri commilitoni.
L'uso di qualche lunga lama da taglio si poteva comunque eccezionalmente anche permettere a
chi ne fosse particolarmente esperto e a tal proposito il Pantera ricorda uno dei tanti episodi della
battaglia di Lepanto:
564

... Potrà anco giovar nelle occasioni haver delli spadoni da due mani, essendo arma che,
trovandosi chi sappia bene adoperarla sopra i vascelli, potrà esser di molto giovamento nelle
battaglie per la strage che può far de gl’inimici, come fece nella battaglia de i Curzolari (‘Lepanto’)
il proveditore veneziano Antonio Canal, il qual, benché grave d'anni, calzatosi un paio di scarpe di
corda per potersi tener bene in piedi e messasi in dosso una giubba o vesticciola corta e tutta
trapuntata di cotone con un cappello simile in testa per difendersi dalle freccie, montò
animosamente su l'armata turchesca e, saltando da una galea nell'altra con un spadone in mano,
fece della persona sua meravigliose prove con notabil danno de gl'inimici e ricuperò una galea di
fanale (‘di comando’) che era già nelle lor mani. (Cit. P. 84.)

La spada di marina, che si poteva portare appesa a pendoni della cintura oppure a tracolla, era
piuttosto larga, ma non molto lunga, in quanto, come già detto, una lunga lama non si sarebbe
potuta maneggiare a bordo agevolmente; il pugnale si portava alla cintura e al lato destro, cioè al
lato opposto a quello della spada, e un tipo molto apprezzato era quello detto bulognese, del quale
non sapremmo però descrivere le caratteristiche.
Sempre per motivi di mancanza di spazio, si usavano armi difensive piccole, quali appunto i
predetti morrione e rotella e inoltre la targa o targhetta, la quale era un piccolo scudo
quadrangolare fatto, come del resto anche la rotella, di legno rivestito all'esterno di cuoio; questi
scudi, tra i quali molto apprezzata era la rotella detta ‘barcellonese’, avevano all'interno due o tre
guigge o imbracciature verticali di cuoio, di cui l'ultimo verso destra s’impugnava con la mano e
doveva pertanto esser stato fissato vicino all'orlo dello scudo, in modo che il soldato potesse
all'occorrenza, senza doversi pertanto togliere lo scudo, raccogliere da terra qualcosa che gli fosse
caduta. Poteva andar bene anche lo scudo vero e proprio, ma solo se piccolo, mentre non indicati
erano quindi i grossi e pesanti rondacci e brocchieri; per lo stesso motivo il soldato semplice, se a
bordo della galera avesse indossato un corsaletto o un petto a botta o addirittura un’armatura
completa da cavalleria, non avrebbe potuto in combattimento destreggiarsi, girarsi, saltare
agilmente e agevolmente nell'angusto spazio di bordo stipato d'uomini, perché ne sarebbe stato
tanto aggravato e impedito che avrebbe rischiato di perdere la vita solo per questo motivo:

... bisognando nelle mischie volar, si può dire, da un vascello nell'altro… (Ib. P. 166.)

Il vestiario dei soldati era in effetti quello nazionale civile dei loro tempi, ma per lo più con
l’aggiunta d’un solo indumento tipicamente militare, il colletto, il quale non era quella parte della
giacca o della camicia che oggi s’intende, cioè il ‘collo’ della giacca o della camicia, ma era una
larga casacca con le maniche, oppure un giubbone aderente senza maniche, fatta di pelle conciata
d’alce o di bufalo o d’altro quadrupede, la quale serviva, oltre che a proteggere dall’intemperie,
565

anche e soprattutto a difendere dai colpi d’arma da taglio e talvolta poteva anche fermare un colpo
d’archibugio. Il nome è sineddoche di corialetto, quasi a dire ‘corsaletto di corio’, mentre il moderno
termine ‘colletto’ lo è di ‘collaretto’.
I soldati vantaggiati, i trattenuti e i venturieri, dei quali tutti abbiamo già detto, erano liberi d'armarsi
come meglio credevano, a seconda delle loro inclinazioni, e quindi alcuni andavano armati
d'archibugio, altri d'arme in asta, di spada e rotella, di morrione o altra celata di lamina temprata, di
corsaletto o di petto a botta; quest'ultimo, costituito da un pettorale metallico e talvolta anche da
uno schienale, si chiamava così perché la lamina di cui il primo dei due predetti pezzi era fatto era
spessa al punto di resistere anche al colpo (botta) d'archibugio o di pistola. Non esistevano
armature che fossero a prova di moschetto e ciò non perché la metallurgia del tempo non fosse in
grado di realizzarle, ma perché sarebbero risultate così pesanti da non potersi assolutamente
sopportare e questo fu uno dei due principali motivi per cui venne introdotto il moschetto portatile,
essendo l'altro la lunga gittata che permetteva d'indebolire il fronte nemico prima dello scontro
generale. Il corsaletto era un’armatura ideata per il fante, essa era leggera e incompleta,
soprattutto perché all’ingiù proteggeva solo fino a metà coscia per permettere appunto al soldato di
marciare più agevolmente; era molto diffuso nelle fanterie europee e, dalla fine del Cinquecento,
anche nelle cavallerie, ma, mentre quello dei cavalli corazza o corazzieri era appunto a prova
d'archibugio, quello di fanteria era di metallo leggero, perché i fanti dovevano marciare con le
proprie gambe e quindi non avrebbero potuto sopportare un peso maggiore di quello che già li
gravava; esso era costituito dai seguenti pezzi e cioè morrione o altra celata, spallacci e goletta,
petto, schiena, mignoni, ossia mezzi bracciali, o a volte bracciali interi e manopole e infine
scarsellacci, ossia cosciali laminari.
Dovevano usare in mare l'armatura intera solamente gli ufficiali maggiori e generali, ossia i
comandanti:

... la vita de i quali è molto più preziosa per il beneficio che si cava dalla prudenza e dal consiglio
loro. (Ib. P. 167.)

Inoltre essi erano non solo il bersaglio più ambito dal nemico, ma anche quello più facile dal
momento che generalmente si muovevano e si riparavano di meno dei soldati semplici,
percorrendo molto spesso la corsia per animare i loro uomini alla battaglia; alla battaglia di
Lepanto, per esempio, Benedetto Soranzo, capitano della galea veneziana Cristo Resuscitato,
prima d’essere definitivamente ucciso si era preso ben tre frecce nel viso; Aluigi Cipico da Traú,
comandante della galea veneziana la Donna, anch’essa di Traú in Dalmazia, fu ferito di ben sette
566

gravi ferite, ma sopravvisse; bisognava però che, oltre agli ufficiali predetti, portassero in
combattimento l'armatura completa anche alcuni soldati da impiegare nella difesa della ritirata o
traversa di poppa e d’altri posti più delicati e importanti del vascello. L'armatura era per lo più di
metallo bianco, il petto a botta di metallo bruno e il corsaletto poteva essere fatto dell'uno o
dell'altro.
Sin quasi alla metà del Cinquecento la repubblica di Venezia aveva usato armare i suoi equipaggi
di mare di corsaletti, dei quali c'era sempre copiosa scorta nelle sue galere, ma in seguito, per
suggerimento d’esperti quale per esempio Alessandro Contarini, li aveva sostituiti con le corazze o
corazzine (dal lt. corium, cuoio, con l'accrescitivo italiano -azzo), arma difensiva questa intelligente
in quanto, pur proteggendo il busto del combattente, lo aggravava poco perché di cuoio, non lo
impacciava troppo perché ben assettata alla persona né gl’impediva le funzioni corporali, come
facevano invece molti corsaletti e petti a botta che si protendevano sin sugl'inguini non
permettendo così l'accosciarsi; inoltre ben resisteva alle armi offensive che per lo più usavano in
mare i turchi, cioè le frecce e le scimitarre, e difendeva alquanto anche le cosce e gl'inguini perché
dotata di faldette, ossia d’appendici mobili anch'esse di cuoio, due per corazzina. Nel più volte da
noi citato Governo di galere, laddove l’autore raccomanda di conservarne la dotazione di bordo in
un luogo ben asciutto a evitare che l’acqua marina la guasti, quest’arma difensiva è chiamata
semplicemente cotta, in quanto appunto fatta di cuoio conciato a mezzo di bollitura (lt. corium
elixum), nome italianissimo dunque quest’ultimo e da cui derivano sia l’inglese coat che il tedesco
kutte e non viceversa, come la nostra solita sciocca esterofilia etimologica vorrebbe farci credere;
bisognerebbe ricordare infatti che ancora nel Cinquecento, quando cioè le case, i castelli e gli
eserciti italiani erano ricchi di oggetti raffinati e Milano era già - e da tempo - capitale della moda
europea, gli inglesi ancora mangiavano con le nude mani e le donne francesi, anche le cortigiane,
ancora s’ungevano i capelli con grasso d’animali; basta leggere a tal proposito le interessantissime
relazioni degli ambasciatori veneziani del tempo. La cotta, come si sa, era in effetti una protezione
molto usata già nell'antichità, molto più comoda e maneggevole del corsaletto, specie quando
capitava di dover mantenere le armi in coperta per alcuni giorni, essendo allora molto più semplice
a ogni soldato o marinaio il conservarla, il maneggiarla e il vestirsene; era inoltre anche molto
meno pericolosa del corsaletto in quanto, trovandocisi a combattere contro un nemico che
abbondasse d'arcieri come erano i turchi, le frecce nemiche, rimbalzando appunto contro i duri e
lisci corsaletti, e andavano a ferire con forza quelli che il corsaletto o la corazzina non avevano; a
volte una sola freccia così rimbalzata riusciva a ferire anche due o tre uomini, di modo che in
pochissimo tempo più o meno tutti gli uomini di bordo privi d'armamento difensivo ne rimanevano
feriti. Era quindi preferibile un effetto deviante a uno rimbalzante e, proprio per esaltare il primo, il
567

corsaletto era ormai fatto con una tipica e prominente forma rotonda in corrispondenza del ventre
del soldato, garbo portato molto accentuato specie dai tedeschi, tant’è vero che il suo nome
volgare in tedesco (panzer) deriva dallo stesso etimo latino (pantex-icis) da cui viene il proto-
italiano panza (‘pancia’); i fanti che lo portavano sembravano dunque uomini molto panciuti e per
tal motivo gli spagnoli chiamavano i picchieri che combattevano privi di corsaletto picas secas
(‘picchieri magri’). Si sarebbe certo potuto ovviare ulteriormente ai predetti inconvenienti rivestendo
i corsaletti di pelli di lupo o d'orso, ma non lo si faceva perché in fondo allora non si era ancora
abbastanza sensibili alle esigenze della prevenzione. Infine il soldato stordito o ferito, una volta
caduto, molto difficilmente riusciva a rialzarsi se era inviluppato nel corsaletto e, se poi cadeva a
mare, specie con un corsaletto a botta d’archibugio, ossia molto pesante, sicuramente finiva con
l'affogarsi, mentre con la corazza poteva ancora muovere il corpo e soprattutto le braccia in
maniera da mantenersi a galla. Per tutti questi ottimi motivi le corazzine delle galee veneziane
furono poi adottate anche da quelle ponentine e infatti, per esempio, nel 1575 ogni galera
napoletana ne risultava fornita di 24 con 48 faldette; ma il loro uso non divenne mai tanto diffuso
come tra gli equipaggi veneziani, perché in combattimento sulle galere della Serenissima le si
facevano indossare non solo a soldati e marinai, bensì anche alle ciurme, le quali, come
sappiamo, erano colà composte in massima parte da buonevoglie, vale a dire da uomini che,
liberati dalla catena, all'occorrenza potevano anche combattere.
La corazzina marittima era un’arma difensiva che era stata già adoperata anche nel Basso
Medioevo, come si legge nel da noi più volte citato trattato attribuito all’imperatore bizantino Leone
VI, solo che allora s’era portata soprattutto dagli arcieri, ed era fatta in quei tempi o di cuoio, da cui
il nome, o di nervi di bue intrecciati e imbottiti di doppio feltro; era stata in seguito dotata sia d’una
grande falda di maglia di ferro, la quale però all’inizio del Cinquecento, per imitare gli spagnoli che
non la portavano, fu abbandonata, sia da maniche anch’esse di maglia, accessorio questo che
perse però più tardi; in effetti con l'introduzione del moschetto portatile l'uso di queste protezioni fu
abbandonato sia in terra che in mare, perché la violenza e la forza di penetrazione della palla di
moschetto era tale che la maglia metallica non solo non la fermava, ma anzi ne restava
frantumata, procurando così a chi la indossava ferite più gravi a causa dei frammenti di maglia che
si andavano a cacciare anch'essi nelle carni assieme al proiettile.
La corazzina, oltre a essere dunque arma ben distinta dal corsaletto di ferro militare, nemmeno era
da confondersi con il corsaletto civile, ossia con il corpetto di cuoio alla spagnola che porteranno
appunto i civili sin dall’inizio del Cinquecento e al quale dovremmo avere già accennato.
I soldati di terra ordinariamente, in aggiunta al pane e al vino che ricevevano in razioni di
munizione, dovevano comprarsi gli altri viveri dalle loro paghe e spesso univano i loro averi per
568

costituirsi delle scorte alimentari, come si legge nel trattato del da Canal a proposito dei presidi
militari veneziani:

... I soldati vivono a modo loro perciò che a quelli non si da se non il pane e la bevanda; il
rimanente del vivere sono tenuti a comprarsi eglino delle loro paghe, le quali sono due ducati d'oro
il mese per ciascuno d'essi, onde costumano di procurarne in comune tre o quattro insieme
comprando per uno e tal hora per due mesi quello che fa loro di bisogno. (C. da Canalt. Cit. P.
164.)

Ma i fanti di marina della Serenissima erano trattati, sempre ai tempi del succitato da Canal, in
modo differente:

… Ai balestrieri o soldati (di galea) che dir si vogliano gli usiamo dare il cibo diversamente, perciò
che la domenica e gli altri giorni ordinarii si dà loro carne e il venerdì e il sabato alcune poche
sarde e appresso per l'ordinario vino, cioè bevanda, pane e minestra. Il che, come sapete,
facciamo perché ai nostri soldati di galea non usiamo di dar paga maggiore d'un ducato e mezzo il
mese - che sono nove lire - per ciascuno, onde poi di più, essendo la paga piccola, vi aggiungemo
codeste spese [...]
Quanto al vivere de' soldati piacemi sopra modo l'hordine che noi habbiamo assai più di quello
delle altre armate, perciò che essi tutti insieme e ad un medesimo tempo mangiano, onde non
hanno cagione di impedir la galea come l'impedirebbono col starsi tutto il giorno hor questo hor
quello con diverse sorte di massarizie d'intorno al focolare e mangiando uno quando voglia gli
viene e l'altro quando può. Oltre che, giocando molte volte i denari delle loro paghe gli perdono
agevolmente in un giorno e poi manca loro il modo di potersi sovvenire insino al tempo delle altre
paghe. Per le ciurme della mia (ideale) galea nel vivere seguirassi il costume delle altre galee e
per li soldati quello delle nostre. (Ib. Pp. 165-166)

Bisogna subito chiarire che il da Canal chiama ancora balestrieri i soldati di galera perché ai suoi
tempi in marina la balestra, anche se affiancata dallo schioppetto, ancora s’usava e s’userà sino a
quando non sarà definitivamente soppiantata dall’archibugio a serpentino. Per esempio, tra le armi
per armare i vascelli dell’armata che Hernán Cortés stava preparando per una spedizìone di
conquista alla Especería, cioè alle isole Molucche, la quale poi avverrà nel 1529, troveremo, oltre a
23 scoppietti, 50 balestre, 500 rotoli di corda da balestra e 164 dozzine di saette passatori
impiumati a scopo direzionale e provvisti di apice per ferire (Colección de documentos inéditos etc.
T. II Cit. P. 405-406). Questo perché in marina c’erano sempre state forti remore a sostituire del
tutto le balestre con gli schioppetti per via del fondato timore che tante corde-micce accese
aumentassero di molto il rischio d’incendi a bordo; ma, una volta inventato il sistema d’accensione
a serpentino, invenzione che, come chiaramente dimostrano i documenti d’archivio senesi
pubblicati nell’Ottocento dall’Angelucci, avvenne a Lucca, il maneggio dei micci accesi divenne più
ordinato e controllabile e quindi la balestra fu del tutto abbandonata anche nella guerra nautica.
Infatti a quel tempo anche l’esercito spagnolo che nel 1543 il già nominato conte di Alcaudete
569

porterà in Barbaria, includendo anche le guarnizioni di marina, presenterà ancora tre specialità di
fanteria e cioè picchieri, archibugieri e appunto balestrieri.
A proposito poi del gioco bisogna dire che, mentre nel servizio di terra il gioco dei dadi e delle carte
era ammesso solamente nei corpi di guardia, perché esso era molto utile per mantenere svegli i
soldati di guardia la notte, nel servizio di galera il gioco era tollerato anche di giorno per ovviare
all'ozio imposto alle soldatesche dalla ristrettezza dello spazio disponibile, ristrettezza che non
permetteva ai militari qualsivoglia attività o esercizio d'addestramento; doveva però il capitano
della guarnigione militare - o in sua assenza quello della galera - fare attenzione che i soldati
giocando non bestemmiassero, non si giocassero i vestiti, le armi, né danari sulla parola e infine
che non nascessero tra di loro ingiurie e risse. L’ordinanza catalana del 1354 proibiva il gioco solo
se esercitato sotto coperta, in quanto, essendo un passatempo che poteva provocare disservizi e
disordini, andava praticato alla luce del sole (Cit. Pp. 93-94).
A ogni battagliola si ponevano ordinariamente due soldati, ma a volte anche tre se le circostanze lo
richiedevano, e si badava a mescolare sapientemente i veterani alle reclute, in modo che i primi
fossero d'esempio e d'incoraggiamento ai secondi. Il posto d'ogni soldato era assegnato dagli
ufficiali della guarnizione militare, ma, in caso di fortunale o di caccia (‘inseguimento’) a un vascello
nemico o ancora che si fosse oggetto di caccia, bisognava che i soldati si disponessero a bordo
come avrebbero comandato gli ufficiali di mare.
Se una squadra o un’armata non disponeva di soldati sufficienti a guarnire tutti i vascelli, allora era
conveniente sguarnire d'uomini i vascelletti minori o d'appoggio per rinforzarne invece le galere e
le galeotte, come per esempio fece il capitano generale del mare Müezzin-zâde Alì Pasha,
comandante dell'armata turca a quella tanto provvidenziale battaglia che fu Lepanto, e ciò sebbene
egli avesse sulle sue galere ben 14mila reclute, tra giannizzeri e spaì fatti venire dalla Morea, e gli
avesse mescolati appunto ai soldati più anziani; questo disarmare d'uomini dei vascelli per
armarne meglio degli altri si diceva far barca armata. Nella sua Chronica catalana il d’Esclot narra
che così fece Filippo III di Francia nel 1285:

… Quando il re di Francia venen a sapere che il re d’Aragona aveva solo quelle dieci galere e
nessun’altra, fece disarmare tutta la sua armata eccetto venticinque galere che armò di uomini
scelti e destri di tutte le altre; e le apparecchiò così tanto che recavano l’allestimento di quaranta…
(Cit.)

In occasione di battaglia reale, ossia di scontro generale tra due armate avversarie, a bordo d’una
galeazza si potevano sistemare fino a 500 moschettieri e diciamo solo moschettieri in quanto la
galeazza con le sue grosse artiglierie colpiva generalmente da lontano; in un galeone da 2mila
570

salme di carico si potevano invece disporre ai posti combattimento un 150 soldati, in uno da 4mila
una compagnia intera e nei più grossi 400 e più fanti.
Bisognava inoltre in battaglia tener nel vascello soldati di riserva da utilizzare per tentare di
ributtare indietro il nemico che fosse venuto all'arrembaggio e si ricordava a tal proposito uno dei
principali episodi della battaglia di Lepanto o dei Curzolari, come allora si diceva, mentre i turchi la
dicevano di Incirli Liman; i turchi della galera Reale ottomana abbordarono la Reale cristiana di
Giovanni d'Austria e furono vigorosamente contrastati da una compagnia di fanteria spagnola del
terzo di Sardegna che il loro comandante, il mastro di campo Lopez de Figueroa, aveva fatto
nascondere sotto i banchi dei remieri; questi soldati, balzati in piedi all'improvviso, sorpresero il
nemico talmente bene da ributtarlo sulla sua galera, da farlo indietreggiare sino alla poppa di
quella, facendone strage, uccidendo lo stesso suddetto capitano generale nemico, impadronendosi
quindi della galera di comando nemica e aprendo così la strada a quella tanto memorabile vittoria;
secondo la già citata relazione francese del 1571, la quale risulta necessariamente molto
imprecisa data la freschezza dell’evento, ad Alì Pasha (da non confondersi con il già ricordato
kapudan pasha Alì Mazzamamma morto nel 1661) fu tagliata la testa e lo stesso capitano generale
Juan de Austria la ostentava ad amici e nemici comme un trophée, tenendola infilzata sulla punta
d’una lunga picca, barbaro uso di guerra di quei tempi ancora tanto feroci.
Così come in occasione di battaglia più armati c'erano a bordo e meglio era, così anche nel caso di
semplice trasporto di soldatesche da un porto all'altro, anche se era norma imbarcarne non più di
150 per galera, in realtà, come afferma il Pantera, più ne riuscivano a entrare nella galera più
conveniente era e ciò nell'ottica tipica del tempo, la quale non riconosceva agli esseri umani né il
diritto all'igiene né un dignitoso spazio vitale. L'uso di stipare tanti uomini in così poco spazio fece
sì che la guerra di mare nel Mediterraneo della seconda metà del Cinquecento fosse una delle più
atroci e sanguinose che la storia ricordi; ciò perché all'uso ormai sistematico delle armi da fuoco e
dei fuochi artificiati bellici si accoppiava tragicamente quello di combattere ancora quasi totalmente
dalle anguste galere; immaginate infatti un sottile e instabile piccolo legno, basso di bordo e scarso
di vele, lungo non più d’un moderno yacht da diporto, sul quale si stipavano, come abbiamo anche
visto a proposito delle galee alto-medievali, circa 400 persone, di cui una metà incatenata allo
stesso ponte del vascelletto, straziate dalla mitraglia, fatte a pezzi dalle cannonate, soprattutto
trafitte dalle frecce a dalle pallottole, fratturate dalle pietrate, bruciate vive dai predetti fuochi
artificiati e dagl'incendi, infine ingoiate dai flutti insanguinati del mare e avrete solo una pallida idea
degli orrori in cui si consumavano quelle atroci battaglie. Certo tutto è nulla a confronto di quanto
avverrà tanto più tardi a Dresda, Hiroshima, Nagasaki ecc.
571

La guarnizione militare ordinaria - non di battaglia - delle galee turche è così sinteticamente
descritta, dopo l'artiglieria, dal bailo veneziano Domenico Trevisano nel 1554:

... Si danno anche venticinque archibusetti per cadauna galea e due casse di freccie e sono
mandati venticinque a trenta giannizzeri con il loro capo, li quali, come buoni soldati, sono per
combattere in tempo di bisogno; ma alle volte, siccome è occorso l'anno presente, il Capitano
dell'armata, non avendo potuto aver giannizzeri, ha ordine di levare dalle marine quel numero di
soldati che gli paresse. (E. Albéri. Cit. S. III, v. I, p. 140.)

Qualcosa di più scriverà a tal proposito il bailo Costantino Garzoni nel 1573:

... Dovendosi mandare giannizzeri sopra le galee, si dispensano a cinquanta per una sinché ve ne
sono e al resto si danno gli 'spaì' delle marine, che sono le più triste genti di Turchia. Si
dispensano anche sopra ogni galea venti 'azap', quali attendono al servizio delle galee secondo li
bisogni; sono questi 'azap' al numero di tremila, pagati con aspri quattro il giorno per uno, e
servono nell'arsenale e in ogni altro luogo per servizio dell'armata. (Ib. S. III, v. I, p. 425.)

Sappiamo che i giannizzeri erano l'unica vera fanteria dell'impero ottomano e inoltre costituivano il
nerbo della guardia imperiale, che gli spaì erano la cavalleria leggera che formava la gran massa
dell'esercito, salvo a servire quando necessario in galera e quindi ovviamente appiedati; degli azap
abbiamo già detto, trattandosi di marinaresca combattente armata, come del resto i detti spaì, per
lo più d'arco, arma, come abbiamo pure già spiegato, molto efficace negli scontri tra galere e
quindi molto temuta dai cristiani. Nella sua relazione del 1576 il bailo Marc'Antonio Tiepolo
accenna al ruolo ibrido di marinai-soldati che occupavano questi azap sulle galere ottomane:

... perché siano atte al combattere l'ordinario è di mettervi sopra cinquanta giannizzeri per ciascuna
galea, se tanti ne vogliono levare dalle città; che, se non vogliono, si mettono per supplimento gli
'spaì' delle marine, che sono li peggiori nella milizia degli altri, e basta loro la paga ordinaria con la
quale sono necessitati a servire senza altro augumento. Si mettono appresso a questi altri venti
uomini ancora, che si dicono 'asapi', con paga di sino cinque aspri il giorno, li quali servono in
luogo di marinari perché attendono principalmente al servizio della galea. Erano gli giannizzeri
usati ad aver per arma in galea la scimitarra ed (anch'essi) la freccia, ma ora, per l'esempio e per
l'esperienza già fatta (a Lepanto), avranno non freccia, ma archibugio, de' quali se ne fabbricano
ogni giorno numero grande. (Ib. S. III, v. II, p. 149.)

Già nella già citata relazione veneziana anonima sulle milizie turche del precedente 1575
l'armamento dei giannizzeri includeva l'archibugio:

... Le loro armi sono l'archibuso e la scimitarra, né hanno alcun’arme di difesa... (Ib. S. III, v. II, p.
313.)
572

Il bailo Lorenzo Bernardo dirà, sempre a proposito delle armi di questi giannizzeri, qualche parola
di più nel 1592:

... Vanno a piedi, servendosi di una grossa scuffia di feltro che ordinariamente portano in testa per
celata; hanno la loro vesta lunga, ma tirata suso alla cintura, e le loro proprie armi sono l'archibuso,
la scimitarra e alcuni il manarino. (Ib. S. III, v. II, p. 331.)

La scimitarra si chiamava in turco yatagan e in sp. escarcina, mentre per manarino (forse dal lt.
manuarius) s’intendeva una piccola accetta, come confermava negli stessi anni il Vecellio:

I giannizzeri sono per lo più cristiani i quali, da fanciulli presi da’ turchi, sono allevati e con carezze
sforzati ad osservar la legge maomettana. La maggior parte di questi portano la scimitarra e un
pugnale e una picciola accetta, che loro pende alla cintura; e usano ancora alcuni archibugi
lunghetti e questi adoperano molto bene. Gli altri poi usano mezze picche e, per potere dipoi
comparire più crudeli, si fanno crescere i mostacci sopra le labra, radendosi tutto il resto della
barba. Sono vestiti due volte l’anno di panno turchino e portano in capo, per privilegio, in vece di
celata un caparoce (sic) di feltro bianco, da essi chiamato zarcola, ornato in fronte di una ghirlanda
d’oro filato con un fodero d’argento dorato, montando in fronte verso la sommità, ricco di rubini,
turchine e d’altre pietre fine di molto prezzo; nella cima del quale tutti quelli c’hanno fatto qualche
segnalata impresa portano un gran pennacchione. (Cit. P. 313v.)

Secondo il de Haedo l’accetta era sì portata dai giannizzeri, ma solo dai cucinieri, e l’archibugio lo
portavano sempre in spalla. Una descrizione di questi giannizzeri, veri e propri pretoriani
dell’impero turco, si trova anche nella lettera da Aleppo del francese Jacques Gassot, il quale nel
1548 soggiornò alcuni mesi in Medio Oriente e tra l’altro, essendo al seguito dell’ambasciatore di
Francia in Levante signor d’Aramon, s’unì in Armenia al campo dell’esercito turco che si preparava
a invadere la Persia del Sofi e lo seguì per ben sette mesi:

… andammo a vedere il campo, il quale misurava circa 12 o 13 miglia di circonferenza e,


nonostante non fosse ancora del tutto assemblato, aveva padiglioni in numero di 70 od 80mila per
lo meno, poiché tutti i soldati generalmente dormono al coperto, non dovendo però alloggiare nei
villaggi né nelle case, il che è causa che essi s’accomodino molto berne in campagna. Si stima che
abbiano dai 4 ai 500mila uomini che combattono tutti a cavallo, salvo 10mila giannizzeri, i quali
sono tutti archibugieri e in guerra marciano sempre a piedi davanti al Gran Signore, il quale ogni
cinque anni – o più o meno, a seconda del bisogno che ha di gente – invia in tutti i suoi dominii
dove ci sono cristiani, come in Ungheria, Schiavonia, Bulgaria, Grecia, Armenia e altri paesi, certi
uomini deputati, i quali vanno di casa in casa e quelli che hanno due figli sono obbligati a darne
uno al Signore, scegliendoli e prendendoli maggiori di 12 o 15 anni, e ne fanno una gran massa;
poi li portano a Costantinopoli in un grande serraglio e li circoncidono tutti e li fanno turchi e fanno
loro apprendere il mestiere al quale si dimostrano più idonei e li chiamano ‘genuglan’, che vuole
dire ‘fanciulli rozzi e maleducati’. Il Signore da a tutti certa pensione e soldo di cui essi vivono e
l’aumenta a seconda dei loro progressi; poi, in capo a sei, sette, otto, dieci, dodici anni si fanno
giannizzeri quelli che esercitano il mestiere della guerra ed hanno al giorno sei, sette, otto, dieci o
dodici aspri (che sono come carlini) tanto in pace quanto in guerra. Non riconoscono né padre né
madre né parenti altri che il Gran Signore, perché li prendono molto giovani, e sono la più gran
573

forza che il detto Signore abbia in tutti i suoi dominii. Quando un Gran Signore muore, vale a dire il
re di tutta la Turchia, non gli succede il figlio primogenito, bensì quello che gode il favore dei
giannizzeri, i quali, per essere conosciuti dagli altri turchi, portano tutti in testa come una conchiglia
da damigella né più né meno, ma è fatta d’un certo drappo bianco da giannizzeri. Alcuni diventano
‘saphì’, che sono soldati a cavallo, e allora portano il turbante bianco; poi diventano ‘sciaù’, vale a
dire governatori di province, capitani e poi ‘bascià’, a seconda che facciano il loro dovere e che
siano persone intelligenti (qui lo stampatore ha evidentemente dimenticato il brano nel quale si
descrive l’armamento offensivo dei giannizzeri); tutti gli altri combattenti portano lance, archi e
frecce e uno scudo, senza contare la loro scimitarra e alcuni anche lo stocco; essi non portano
armi difensive in testa, poiché portano ordinariamente il detto turbante che li può forse difendere
da qualche colpo, persino d’archibugiata; per il resto portano qualche giacco di maglia e un
guardabraccio e alcuni certe armi a lor modo, le quali coprono solamente lo stomaco e le reni. (J.
Gassot, Le discours du voyage de Venice à Constantinople etc. Parigi, 1550.)

Per quanto riguarda invece l'uso degli spaì come guarnizioni militari di galera, già scriveva il bailo
Antonio Erizzo nel 1557:

... Di questi (spahì) che sono descritti (‘arruolati’) a cavallo si serve il Signor (‘il sultano’) nelli suoi
eserciti terrestri e se ne serve esso ancora senza li cavalli per scapoli sopra le sue armate... (E.
Albéri. Cit. S. III, v. III, p. 128.)

L'Erizzo sembra usare qui il termine scapoli nel senso di soldati di galera e non di ghemigì
(‘marinai’). L'armamento degli spaì è anche descritto dal già citato anonimo diplomatico veneziano
nel 1575:

... L'armi di tutti li sopra detti soldati (gli spaì) sono una lancia non molto grande, la scimitarra, lo
scudo, l'arco e le freccie e non portano altre arme di difesa che la celata. (Ib. S. III, v. II, p. 312.)

Ovviamente per servire in galera gli spaì abbandonavano, oltre al cavallo, anche la lancia, la quale
è appunto arma di cavalleria, anche se quella di questi soldati era quella piccola da cavalleggeri e
non il lancione greve e ingombrante degli uomini d'arme o cavalleria pesante. Per quanto riguarda
lo scudo, se si trattava d’arma collegata all'uso della lancia, evidentemente gli spaì
abbandonavano anche quello; se poi era abbastanza piccolo da poter esser anche accoppiato alla
scimitarra, allora è probabile che lo portassero anche in galera.
Il bailo Lorenzo Bernardo (1592) dà agli spaì un armamento che ricalca il precedente:

... Ha lo 'spaì' per sue armi famigliari la lancia, l'arco e la scimitarra e alcuni anco la mazza ferrata
o manarino. (Ib. S. III, v. II, p. 330.)

Dell'abbondanza d’armati ai sui tempi a disposizione delle galere turche così leggeva al suo senato
il già citato segretario veneziano Marc'Antonio Donini nel 1562:
574

... Di scapoli o provisionati, che i turchi chiamano 'asapi', non dirò altro a Vostra Serenità se non
che quanti ne vogliono tanti ne possono ritrovare per essa armata, sopra la quale, quando fa
bisogno, sono anche posti molti delli spaì e delli giannizzeri, 'sì che secondo le occasioni partono
le galee da Costantinopoli armate di modo che poco si curano dell'inimico loro. (Ib. S. III, v. III, p.
193.)

La predetta grande disponibilità d'armati sarà confermata dal bailo Jacopo Ragazzoni nel 1571,
anno della grande battaglia di Lepanto:

... Di uomini da spada ben risoluti sono le galee turchesche assai bene per l'ordinario fornite. (Ib.
S. III, v. II, p. 101.)

Su d’essa pure si soffermerà molto più tardi, e cioè nel 1590, il bailo Giovanni Moro:

... Per uomini da spada servono indifferentemente i giannizzeri e altri che sono trattenuti dal re sino
al numero di cinquanta almeno per galea e, quando vogliono far sforzo maggiore per qualche
importante bisogno, arrivano a ottanta ad anche a cento e tutti sono obligati andar col loro
ordinario trattenimento senza alcuna cosa d'avvantaggio. (Ib. S. III, v. III, p. 354.)

Come tanto tempo prima l'Erizzo anche il bailo Matteo Zanne sembrerà usare nel 1594 il termine
scap(p)oli a significare più soldati che marinaresca:

... Non usano (d'inverno) in galea scapoli se non sono per custodire gli schiavi e in tempo di estate
suppliscono molti 'spaì' dei 'timari' (‘feudi’) da marina destinati all'armata, quando la fazione
personale non sia convertita in danari, come avviene spesso, e dimandano questa gravezza 'bidel'
e in vece loro servono i giannizzeri della Porta, de' quali n’assegnano sino a cento per galea, né gli
danno soldo proprio per questo né manco panatica né altra commodità, ma gli 'spaì' servono per
l'obligo del 'timaro' e li giannizzeri per la paga ordinaria della Porta, onde avviene che le galee
turchesche, dove arrivano, trattano indifferentemente qual si voglia luogo per nemico, essendo che
smontano li soldati e si provvedono dei viveri dove li trovano; lo che è di gran risparmio al Principe,
ma di maggior detrimento ai popoli dove arriva l'armata e il capitano Cicala nel suo ultimo viaggio
ha avuto in due volte ottocento zecchini dall'isola di Scio per non si trattenere ivi con danno
degl’isolani, né era con più conserva di 14 o 15 galee; il che è stato con disgrazia de' soldati,
privandoli di quella commodità alla quale sono già avvezzi. (Ib. S. III, v. III, p. 404.)

Sempre in tema di galee turche è importante ricordare che, dopo la tremenda rotta subita a
Lepanto nel 1571, gli ottomani ne restarono così impressionati e convinti di una loro inferiorità
bellica sul mare che addirittura cercarono di passare dal loro tradizionale ed efficacissimo uso
dell'arco a quello dell'archibugio, arma che non era stata a loro mai molto congeniale e infatti sino
allora riservata quasi esclusivamente alla fanteria dei giannizzeri, i quali, come si sa, non erano
turchi bensì figli di cristiani. Di questa tentata conversione ci ha lasciato relazione il bailo
Costantino Garzoni nella sua già citata relazione del 1573:
575

... Di archibugi non ne hanno mancamento, avendo nella Valacchia e Moldavia assai miniere di
ferro, con che possono farne tanta quantità di quanta hanno bisogno, e in sei mesi che io sono
stato in Costantinopoli ne hanno fatti più di sessantamila lunghi e di gran palla come li barbareschi,
cosa veramente tremenda; ed hanno dato principio a farne in tanta quantità dopo la rotta
dell'armata che è uno stupore, essendo ben chiari del servigio degli archi e delle freccie. Vi sono
però pochi che siano atti in adoperare tali archibugi, poiché per il passato sempre si sono esercitati
negli archi; ma con il tempo e l'esercizio si faranno medesimamente pratici di tali istrumenti 'sì
come anco si fanno valenti nell'adoperare le artiglierie. Di polvere ne hanno infinità in Barberia...
(Ib. S. III, v. I, pp. 421-422.)

Quest'interesse per l'archibugio, unito al desiderio di potenziare l'artiglieria di galera per portarla al
livello offensivo di quella cristiana, è ancora testimoniato nel 1594 dal bailo Matteo Zanne:

... Questi soldati marittimi si addestrano più all'archibuso che non solevano e il Capitan Bassà (il
Cicala) vorrebbe migliorare le galee di artiglieria, ma spero a beneficio de' christiani che la
provisione passerà senza effetto, perché fra i turchi le novità non hanno facilmente luogo. (Ib. S.
III, v. III, p. 404.)

In effetti la sconfitta marittima dell'imperialismo ottomano da parte delle potenze occidentali fu


appunto dovuta principalmente alla superiore razionalità e quindi tecnologia che distingueva la
civiltà occidentale. Altra mancanza delle galere turche era quella dell'armi inastate e delle armi per
le buonevoglie, come leggeva al suo doge e al suo senato il bailo Lorenzo Bernardo nel 1592:

... Non usano turchi nelle loro galee portare arme di asta né arme per li galeotti, onde sia certa la
Serenità Vostra che, dalle galee in poi che di Barbaria vengono appostamente benissimo armate
per entrare in Golfo (cioè ‘nel Mar Adriatico’) le altre delle guardie (dell'Arcipelago) sono malissimo
all'ordine, non pensando ad altro li 'rais' che a rubare (‘derubare’) li poveri galeotti e il Gran Signore
per tutte quelle vie che si possono immaginare. (Ib. S. III, v. II, p. 344.)

Lo stesso Bernardo evidenziava poi la sostanziale superiorità bellica delle galee cristiane su quelle
maomettane, barbaresche escluse, superiorità di cui però sia i turchi sia i cristiani avevano preso
coscienza solo dopo la gran prova di Lepanto, battaglia di cui oggi, come abbiamo già detto, cerca
costantemente di sminuire l'importanza lo smisurato masochismo esterofilo della cultura italiana,
nato questo da una inconscia consapevolezza d’una inferiorità bellica, così come a quella d’una
superiorità militare si deve all’opposto il grande orgoglio nazionalistico di alcune nazioni:

... E, se vorremo discorrer con fondamento l'avantaggio che hanno le nostre galee sulle loro, senza
dubbio le galee christiane potranno combattere con le turchesche quando ben fossero quelle un
terzo più, perché prima sono superiori d'artiglieria e poi per la qualità de' galeotti, perché li nostri
sogliono combattere e li loro gli sono la più parte nemici e contrari di religione, onde alli loro schiavi
e galeotti christiani convengono metter le manette e noi alli nostri mettiamo le arme in mano e
combattono contra di quelli come gli altri (scapoli) e forse più valorosamente per esser tutti sicarij
(‘assassini prezzolati’) e gente di mal affare, li quali sperano con la vittoria (di aver in premio) la
576

libertà; e, se sono uomini del paese (buonevoglie), combattono per la vita e per la religione, di
modo che l'avantaggio nostro è grandissimo, e la vittoria segnalatissima che abbiamo avuto (a
Lepanto) lo ha fatto conoscere con gran vituperio della Casa Ottomana. Onde non è dubbio alcuno
che le nostre galee saranno sempre a egual partito (‘numero’) - e anco con qualche avantaggio
(dei turchi) - a quelle superiori, tanto più ora che l'ardire è dal canto nostro per la prova fatta e, dal
canto loro, per la esperienza avuta convien esser il timore. (Ib. S. III, v. II, pp. 344-345.)

Per quanto riguarda il valore in guerra delle soldatesche ottomane, eccezion fatta per i giannizzeri
e per qualche corpo di cavalleria della guardia del sultano, non sembra che, allo stesso modo degli
antichi galli che si opponevano Cesare, fossero in grado di reggere l’avversa fortuna; almeno il
Contarini nella sua Historia della guerra di Cipro così ne scriveva:

… Questa fu antica disciplina che già è penetrata in costume e natura de’ turchi, di adoperar nel
primo empito e assalto ogni ferità e gagliardia, ma, trovando incontro valoroso e forte, di avilirsi e
mettersi in fuga… (Cit. P. 52.)
577

Capitolo IX.

LA GENTE DI PASSAGGIO.

Allora per gente di passaggio non si intendeva, come potremmo pensare oggi, di persone dal
breve intrattenimento in un luogo, come si potrebbe dire per esempio dei clienti di un albergo, ma
si voleva significare passeggieri, cioè persone che, pagandolo o non pagandolo, approfittavano di
un passaggio marittimo da un porto a un altro, da una terra a un’altra. I greci chiamavano
περίνεωες (‘soprannavali’) tutti coloro che navigavano da soprannumerari, cioè senza avere a
bordo un impiego marittimo, e quindi si trattava dei passeggeri e qualche eventuale servo o
schiavo che a taluno di loro, in quanto personaggio di qualità, fosse stato concesso di portare con
sé in viaggio; ma anche eventuali marinai che fossero stati aggiunti all’ordinaria dotazione di
uomini che quel vascello fosse tenuto ad avere e questi si dicevano gli ἐπίναϰτοι. La scarsissima
sicurezza della navigazione di quei tempi rendeva i viaggi marittimi molto temuti da chi marinaio
non era e quindi erano intrapresi solo per necessità; lo dimostra per esempio un noto proverbio del
Cinquecento che diceva: A torto si lamenta del mare chi due volte ci vuol tornare. Tale era poi la
durezza della vita di galera che persino quella dei passeggeri paganti - e in minor misura anche
quella dei potenti non paganti - era sopportabile solo per brevissimo tempo; essi approfittavano dei
veloci tragitti di quei vascelli per i loro viaggi d'affari o professionali e non raramente potevano
anche superare la trentina per galera. Poteva trattarsi dunque di gente ricca e potente, come re,
viceré, governatori, ambasciatori, titolati, feudatari, nunzi pontifici e alti prelati in genere, funzionari
in missione, mercanti, ma anche di persone modeste quali venturieri, pellegrini, sacerdoti, monaci,
militari ecc. Essi vedevano per lo più le cose di bordo con l'occhio del civile, cioè della persona più
attenta e sensibile ai grandi disagi della vita di galera, disagi a cui i duri e fieri militari molto poco
accennavano nelle loro memorie e nei loro racconti, non ritenendo dignitoso ammettere le miserie
e le meschinità della loro vita, e che i marinai invece consideravano roba d’ordinaria
amministrazione.
Di questa esperienza da passeggero scriveva in dettaglio verso la metà del Cinquecento un
vescovo spagnolo, Antonio de Guevara, il quale anche compose dei brevi trattati di cortesia, tra cui
un Cortegiano di poco posteriore a quello del Castiglione. Costui doveva esser stato, agl’inizi della
sua carriera ecclesiastica, cappellano di galera, non solo perché partecipò all'impresa di Tunisi
sotto Carlo V, ma anche perché scriveva egli stesso d'essere molto esperto di quella vita marinara
per non esserci quasi porto, cala o golfo del Mediterraneo nel quale egli non fosse stato e non
avesse corso qualche pericolo.
578

La vida de galera dela Dios (solo) a quien la quiera. Questo proverbio spagnolo, già antico nel
Cinquecento, tanto usato dalla gente comune e da chi a quella vita era riuscito a sottrarsi, è il
leitmotiv dell'operetta del de Guevara dedicata appunto alla sua esperienza delle galere e ci fa
capire quanto essa fosse effettivamente temuta e deprecata, tanto che il predetto autore arriva
persino a svilire il ruolo delle galere:

... Parlando con verità e anche con libertà, la navigazione della galera è solo sicura quando
costeggia, ma quando s’ingolfa (‘prende il largo’) è molto pericolosa; dal che si può molto bene
dedurre che inventarono le galere più per rubare che non per navigare [...] Se io non m'inganno, il
fine per il quale si fa una galera è per difendere la propria terra ed offendere quella straniera e,
poiché la galera è tanto fastidiosa e tanto costosa, non penso che nessuno investirebbe in quella
le sue proprie sostanze se non pensasse di sostentarla con roba altrui... (A. de Guevara. Cit.)

Come si doveva preparare una persona che stesse per avere un passaggio di galera e che cosa si
doveva portare in viaggio? Innanzi tutto era bene che si confessasse e comunicasse da buon
cristiano:

... perché tanto in ventura porta il navigante la vita quanto colui che entra in una preordinata
battaglia. (Ib.)

Per lo stesso motivo gli conveniva far testamento, saldare i suoi debiti, dichiarare i suoi crediti,
riconciliarsi con i suoi nemici, mantenere le sue promesse e insomma liberarsi da ogni scrupolo di
coscienza. Allo stesso comportamento aveva già invitato il pellegrino di galera Santo Brasca nel
1480:

… Similiter ch’el se dispona remettere le iniurie, restituire lo altrui, vivere secundo lege (om)…
ch’el metta ordine a li facti suoi e facia testamento adciò che, quando Dio facesse altro di lui, li
eredi suoi non rimanghano imbratati… (A. LT.. Momigliano Lepschy. Cit.)

Doveva poi scegliere un vascello dallo scafo nuovo e dalla ciurma vecchia e già abituata al remare
e ciò per amor di prudenza; doveva far tutto il possibile perché si trattasse d’una galera rinomata e
fortunata, dove non fosse mai avvenuta alcuna notabile disgrazia, perché:

... non mi sembra sano consiglio che qualcuno si arrischi ad azzardare e avventurare la sua vita
dove sa che colà altri perse la vita e l'onore. (A. de Guevara. Cit.)

Ma questa era impresa non facile poiché, dice sempre il de Guevara, non c'era galera, per
Capitana o Patrona che anche fosse, tanto rifinita e fornita che non avesse qualche rimarchevole
difetto; cioè a una mancava parte dell'alberatura, un’altra era vecchia e lenta, un’altra non era
veliera o non era sottile, ossia non aveva buone qualità nautiche, un’altra non era ben armata,
un’altra ancora faceva molt'acqua o addirittura presentava vistose aperture nello scafo, un’altra
579

infine aveva patito continue disgrazie e quindi era da guardarsi con diffidenza. Chi voleva fare il
pellegrinaggio in Terrasanta non aveva invece problemi di scelta perché la traversata migliore si
faceva partendo da Venezia con le galee che quella repubblica ogni anno metteva a disposizione
dei pellegrini; tale era infatti il consiglio che Santo Brasca dava al fedele che volesse fare questo
viaggio:

… Puoi vada a Venezia perché là è el più commodo passagio che in (altra) cità del mondo ed
egli(no hanno)) ogni anno una galeazza deputata solamente a questo servizio; e, se ben trovasse
meglior mercato a entrare su nave, che per niente non habandona (‘abbandoni’) la galeazza, puoi
ch’el procura far l’accordio col patrono, el quale è solito prendere da 50 in 60 ducati e, sopra
questo, lui è obligato dare el nolo… (A. LT. Momigliano Lepschy. Cit.)

C’è subito da osservare che i consigli lasciati dal Brasca a chi volesse fare, come aveva fatto lui, il
pellegrinaggio in Terra Santa, furono sì poi, come si sa, copiati da altri viaggiatori, ma lo stesso
Brasca li aveva copiati da qualcun’altro che lo aveva preceduto e lo aveva addirittura fatto prima di
partire; lo dimostra la semplice incongruenza del dire a disposizione dei pellegrini a Venezia una
galeazza, mentre ai suoi tempi non era più così, perché il senato veneziano aveva da tempo
sostituito l’annuale galea grossa, certo più utile agli incrementati traffici mercantili del
Rinascimento, con due annuali galee sottili, a volte addirittura biremi, adattate al trasporto dei
pellegrini; infatti egli stesso descriverà nel suo diario poi il viaggio come fatto nella galea sottile
triremi di Agustino Contarini, la stessa cioè su cui viaggiava il monaco tedesco Felix Faber.
Il passaggio di galea, pur costando al pellegrino sensibilmente di più di quello in una semplice
nave oneraria, rendeva il viaggio più mirato e quindi più breve, anche perché un po’ meno soggetto
alle soste da bonaccia; era poi, aldilà dei grandissimi disagi, un viaggio piacevole e interessante,
perché si navigava cabotando e quindi permetteva al pellegrino di vedere e visitare tanti porti e
tante belle città del Mediterraneo e inoltre di poter spesso acquistare cibo fresco a terra (Nota 319
al Viaggio in Terra Santa di Santo Brasca).
Prima del giorno d'imbarco il passeggero doveva andare a far visita al capitano della galera per
dirgli le migliori parole di convenienza e per fargli anche qualche cortesia, come per esempio
invitarlo a convito, accompagnarlo a terra oppure inviargli qualche rinfresco in galera, intendendosi
per tale il pane fresco (lt. summanalia, ‘pagnotte rotonde’), la carne fresca, verdura, frutta,
dolciumi, sorbetti; si trattava infatti per lo più d’ufficiali che tenevano molto all'ossequio altrui, anche
se vano e lecchino:

... perché i capitani di galera, come bramano il vento, vanno con il vento, navigano con il vento,
vivono con il vento, anche se gli attacca qualcosa del vento... (A. de Guevara. Cit.)
580

Alcuni giorni prima d'imbarcarsi il passeggero faceva anche bene a purgarsi, usando uno qualsiasi
dei preparati che allora a tal fine si usavano e cioè miele rosato, rosa alessandrina, canna fistola
oppure con qualche pillola benedetta (medicamento questo di cui nulla sapremmo dire), perché in
tal maniera avrebbe potuto evitare di soffrire il mal di mare già dall'inizio del viaggio. Doveva poi
farsi fare qualche capo di vestiario particolarmente forte e foderato, più utile che bello, atto a
ripararlo dall'inclemenze atmosferiche e dall'acqua di mare quando si trattenesse a poppa o
andasse a terra con lo schifo di bordo o se ne stesse seduto in corsia o anche coricato nelle
balestriere, unico luogo in cui era generalmente autorizzato a comporsi il giaciglio per la notte,
perché questo doppio e robusto indumento gli sarebbe infatti servito appunto anche per detto
giaciglio:

... perché i vestiti in galera più devono essere per riparare dall'intemperie che non per onorare. (Ib.)

Oltre a ciò il suo guardaroba da galera avrebbe incluso pantofole di sughero, scarpe e stringhe
doppiate, ossia rinforzate, brache alla marinara, quindi larghe, berretti alla montanara e non meno
di tre o quattro camicie pulite:

... perché l'acqua di mare e l'incomodità della galera sono di tal misura che le deve insudiciare tutte
prima che se ne possa insaponare una. (Ib.)

Le persone più delicate di stomaco e più insofferenti dovevano poi provvedersi di qualche profumo,
come di bulzuino, storace, ambra, aloe o della mela hechiza (‘mela finta’):

... perché molte volte accade che esce dalla sentina della galera un fetore tanto forte che, a non
portarsi qualcosa in cui odorare, fa venir meno e spinge a vomitare. (Ib.)

Era evidente che in galera non si poteva pretendere di trovare delle raffinatezze e dell'eleganze
come magari si può oggigiorno a bordo delle navi da guerra, ma il nostro autore vuole egualmente
metterne in guardia il passeggero novizio:

... E' prerogativa della galera che tutti quelli che in essa s’imbarcano siano privi della
conversazione di dame, di cibi delicati, di vini odorosi, di profumi, di bevande gelate e d'altre
simiglianti delicatezze; tutte le quali cose hanno licenza di desiderarle, ma nessuna facoltà di
ottenerle. (Ib.)

Il passeggero oculato doveva portarsi a bordo uno strapuntino, ossia un materassino ripiegabile in
tre, d’un lenzuolo doppiato, cioè a doppio strato, d’una piccola coperta e di non più d'un cuscino:

... che nessuno pensi di portarsi in galera un letto grande e intero; sarebbe dare ad alcuni di che
burlarsi e ad altri di che ridere, perché di giorno non c'è dove conservarlo e tanto meno di notte
dove stenderlo. (Ib.)
581

Anche al passeggero toccava infatti dormire all'aperto in coperta come a quasi tutti gli uomini della
galera, ma nelle galee grosse o galeazze, le quali ovviamente disponevano di molto più spazio, e
inoltre nelle galee veneziane adibite e corredate appositamente al trasporto di pellegrini in
Terrasanta, si passava la notte sotto coperta, cioè in carena, dove appunto si sistemavano file di
cubicoli (sp. arcas), cioè spazi rettangolari affiancati dove farli dormire, e i pellegrini e gli altri
eventuali passeggeri scendevano dopo la terza preghiera, quella del tramonto; ed ecco a questo
proposito una raccomandazione di Santo Brasca a chi s’accingeva a tale viaggio:

In galea procura (‘procuri’) per tempo d’havere el suo logiamento a meza galea, precipue chi ha
tristo capo per le agitazione del mare (‘chi soffre il mal di mare’), e così presso a la porta
(boccaporta) de mezo per havere uno puocho de aere. (A. LT. Momigliano Lepschy. Cit.)

Era poi consigliabile, a meno che non si fosse illetterati, portarsi qualche libro interessante, magari
d’orazioni se si era ecclesiastici:

... perché dei tre esercizi che ci sono nel mare, cioè il giocare, il parlare e il leggere, il più
profittevole e meno dannoso è il leggere. (A. de Guervara. Cit.)

Per quanto riguarda il parlare, non c'era nulla che a bordo abbondasse più delle chiacchiere:

... poiché nella galera non c'è molto da fare né da negoziare, vedrà colà il passeggiero che per la
maggior parte del giorno e della notte si occupano a raccontar novelle, a dire cose vane, a
vanagloriare se stessi, ad elogiare i loro paesi e anche a raccontare fatti altrui. (Ib.)

L'importante, perché gli altri ci si dimostrassero ben disposti, era guardarsi dall'importunarli con
discorsi prolissi stupidi e menzogneri; quindi bisognava cercare di non essere nella conversazione
novellieri, sbraitoni, ostinati o intriganti:

... perché più pena dà in mare una conversazione intollerabile che non la mala vita della galera [...]
dal momento che la marea di quando in quando ci fa vomitare e uno sciocco pertinace ognora ci fa
esasperare. (Ib.)

Anche il gioco era dunque abituale passatempo a bordo e nessun tipo di gioco di carte, dadi o
pedine era sconosciuto alla gente di galera, giocandosi così la primiera d'Alemagna, le tavole di
Borgogna, l' alquerque inglese, il tocadillo vecchio, il parar ginovisco, il flusso catalano, la figurina
galiziana, il trionfo francese, la calabriata moresca, il ‘vince chi perde’ romano e il tre, due e asso
bolognese; dei quali giochi sappiamo solo che quello detto primiera era gioco di carte, così come
anche il parar o carteta, e che l'alquerque o tre in riga era quello che tutt'oggi si gioca sul disegno
d’un quadrato diviso in quarti con le diagonali tracciate e dove ogni giocatore dispone di tre pedine
che deve riuscire a mettere in fila per primo:
582

... e tutti questi giochi si giocano nascostamente con dadi falsi e con carte da gioco
contrassegnate. E [...] non abbia paura, colui che preparasse la carta o conficcasse il dado, che gli
comandi il capitano di restituire il denaro, perché, il giorno che nel mare si formasse una coscienza
e si facesse giustizia, da quel giorno non ci sarebbero più galere sull'acque. (Ib.)

Per quanto riguarda il cibo, di solito il passeggero di galera che fosse accorto e dai modi civili
usava portarsi a bordo una sua provvista d'alimenti, perché sia quelli di munizione della galera, i
quali comunque anche a lui toccavano in quanto aveva regolarmente pagato il passaggio, sia
quelli che poteva comprare dal dispensiere di bordo erano quasi sempre di cattiva qualità e mal
conservati, se non addirittura rancidi o guasti; infatti il biscotto che si dispensava era nero, duro,
presto infestato dai parassiti, tappezzato di ragnatele e rosicchiato dai topi e inoltre per lo più poco
o mal ammollato, perché, essendo fatto di cattiva farina, se non lo si toglieva presto dall'acqua
della gavetta nella quale era servito, lo si trovava rapidamente passato da uno stato d'eccessiva
durezza a quella d'un disgustoso disfacimento; e, se ad alcuno talvolta poteva apparire di buona
qualità perché bianco, . quest colore era invece dovuto all’essersi del tutto guastato. L'acqua da
bere disponibile era poi calda, pesante, torbida, a volte addirittura pantanosa:

... è vero che ai più delicati il capitano dà licenza che, giunto il momento di berla, con una mano si
chiudano le narici e con l'altra portino il vaso alla bocca. (Ib.)

Il vino che si poteva comprare a bordo era solitamente poco, caro, annacquato, torbido e, quando
non proprio guasto, tanto inacetito da poter si usare solo per condire le lattughe. E che dire della
carne secca? Si poteva trattare di fette di caprone, di quarti di pecora, di vacca salata, di bufalo
salato e pressato, di lardo salato rancido; ma qualsiasi tipo fosse era sempre poca e immangiabile,
perché servita scotta più che cucinata o bruciata più che arrostita, di maniera che, portata a
mensa, risultava schifosa da vedersi, stopposissima o durissima da masticarsi, intollerabilmente
salata, indigesta come le pietre e dannosa come il cioccolato (Ib.).
Non parliamo poi di cibi freschi o più raffinati, assolutamente introvabili a bordo della galera:

... É prerogativa della galera che tutti i passeggieri, vogavanti, remieri, marinari, scudieri,
ecclesiastici e anche cavalieri possano di buon grado asciolvere senza (bevanda di) ghiande,
mangiare senz'amarasche, merendare senza cotogne, cenare senza noci e far colazione senza
mandorle; e, se di questi e altri simiglianti rinfreschi loro venisse molto appetito e nascesse audace
desiderio, hanno tempo da vendere per sospirarli, mentre gli manca il modo di ottenerli. (Ib.)

Il passeggero di galera oculato si sarebbe dunque portato in viaggio una cassa di viveri per suo
uso personale e contenente molto biscotto bianco che si sarebbe fatto fare prima di partire, tosino
(‘lardo salato’), ottimo formaggio e un po' di cecina (‘carne vaccina seccata’); non avrebbe inoltre
dimenticato qualche grossa gallina viva, un otre o un barile o anche una botte intera d’ottimo vino
bianco e di quest'ultimo avrebbe soprattutto apprezzato l'utilità nelle frequenti occasioni in cui il mal
583

di mare lo avesse spinto al vomito, perché un goccio di buon vino gli avrebbe rimesso a posto lo
stomaco e il suo odore gli avrebbe attenuato quel sentirsi venir meno. Allo stesso scopo, ossia per
combattere il mal di mare, il vomito e la relativa inappetenza, un navigante particolarmente delicato
avrebbe fatto bene a provvedersi anche d’alimenti confortativi quali zibibbo, fichi, prugne,
mandorle, cedro confettato, datteri, confetti, zuccari (‘dolciumi’), confezioni (‘composte’) e altre
delicate conserve, ossia di cibi energetici e di lunga conservazione. Già nel secolo precedente, pur
trattandosi in quel caso di una più comoda galeazza da viaggio in Terrasanta e non di un’angusta
galera sottile, il già citato Gabriele Capodilista ricordava ai pellegrini passeggeri d’imbarcarsi con
una provvista di cibo personale:

… e, perché li homeni da ben che sono usi a viver delicatamente da novo manzar de li cibi che in
galea si costuma, cioè biscoto negro e duro, carnaze di castrone, vini grandi (‘forti’), despiacevoli e
roti (‘inaciditi’), gli persuado e ricordo portar cum loro bono biscoto e del caso, persuti e del vino
segondo el gusto suo e confezione de diverse sorte. (A. LT. Momigliano Lepschy. Cit.)

Una provvista del genere avrebbe conferito al passeggero un’autonomia alimentare, ma a patto
che si fosse portato in galera anche un servizio da tavola per usufruirne e cioè piatti e scodelle,
taglieri e salsiere, brocche, coppe o tazze per bere, utensili tutti questi che altrimenti avrebbe
dovuto procurarsi a bordo corrompendo il còmito o noleggiandoli da qualche remiero, perché sulla
galera raramente tali oggetti si vendevano e ancor meno si prestavano; inoltre, se anche li avesse
trovati a bordo, essi sarebbero stati sicuramente molto scadenti e grezzi, perché, come abbiamo
detto, sulla galera mancava ogni raffinatezza:

... É prerogativa della galera che nessuno ardisca di chiedervi tazza d'argento o di vetro di Venezia
né boccale di Cadahalso (sic) né giara di Barcellona né porcellana di Portogallo né chicchere
d'India né turacciolo di sughero... (A.de Guevara. Cit.)

In mancanza degli oggetti in questione, al massimo il capitano gli avrebbe dato volentieri licenza di
tagliarsi la carne su d’un asse di legno e di sorbirsi il brodo dalla stessa casseruola di bordo e che
gli si desse un po' d'acqua da bere in una di quelle scodelle di legno in cui i remiganti mangiavano
la loro minestra. L'acqua potabile si distribuiva a bordo a orari prestabiliti e, se qualche passeggero
ne voleva un po' fuori orario, magari per bagnarsi la bocca arsa, rinfrescarsi la faccia sudata o
lavarsi le mani, doveva chiederla al capitano o corrompere il còmito o comprarla da qualche
remiero o infine portarsela da terra:

... perché nella galera non c'è cosa più bramata e della quale ci sia meno abbondanza dell'acqua.
(Ib.)
584

Se poi il passeggero fosse riuscito a procurarsi a bordo una pentola sua, magari comprandola dal
suo legittimo proprietario o corrompendone il legittimo custode o comunque provvedendosene
d'una col tempo, avrebbe dovuto poi lui stesso lavarla, averne cura, attizzarne il fuoco, schiumarla
e anche guardarsela bene e per nessun motivo allontanarsene, perché altrimenti, non appena
avesse distolto lo sguardo da quel cibo, qualcun altro si sarebbe affrettato a mangiarlo e non gli
sarebbe rimasto altro che raccontare la beffa subita. Non gli era comunque assolutamente
concesso d'andare a prepararsi da mangiare quando n’avesse voglia, bensì solo quando gli fosse
riuscito di guadagnare il fogone di bordo, il quale, quando non si era in navigazione, era per lo più
sempre impegnato e circondato da casseruole, tegami, mortai di pietra e di metallo, padelle,
caldaie, spiedi e pentole da minestra, per cui, se non avesse fatto prima previdentemente amicizia
con il cuciniero, se ne sarebbe tornato indietro con un nulla di fatto. Se inoltre avesse voluto
mangiare con molto decoro, ossia con tovaglie pulite, grandi tovaglioli e salviette di tela
damascata, come allora civilmente si usava, doveva portarsi e ben guardarsi a bordo anche
queste cose, perché giammai avrebbe trovato nella galera mercanzia tanto igienica:

... e, se in ciò [...] fosse dimentico, potrà con buona coscienza, sebbene con molta vergogna,
pulirsi con la camicia e di quando in quando con la barba. (Ib.)

In porto, a meno che non si trattasse d’un approdo poco o per nulla abitato, il passeggero pagante
non aveva diritto ai pasti di galea e doveva scendere a terra a procurarsi da mangiare,
approfittando così dei mercati locali anche per rinnovare la sua provvista di cibi freschi; ma, nel
caso di passaggi in galere militari, le soste nei porti abitato erano in viaggio molto meno frequenti e
quindi ottenere del cibo fresco diventava molto più difficile. Per esempio, se al passeggero veniva il
desiderio di mangiare della carne fresca, sia essa di montone, di vacca o di capretto, doveva
comprala dai soldati della galera che erano andati a 'procurarsela' a terra, oppure avventurarsi egli
stesso ad andare a rubarla sulla marina, ma, anche se ciò avesse fatto, non se la sarebbe goduta
perché avrebbe dovuto far scuoiare l'animale catturato a qualcuno di bordo e, per antica
consuetudine di galera, lo scuoiatore aveva diritto alla pelle, alle frattaglie e anche a un quarto
della bestia; inoltre avrebbe avuto l'obbligo d'arrostire o cuocere la carne rimastagli per poi
mangiarla con i compagni, ossia con quei marinai di guardia di cui abbiamo già detto. Lo stesso
sarebbe successo se, sceso a terra, avesse comprato del pane bianco, fresco o stagionato che
fosse, perché anche questo non doveva mangiare da solo, bensì con i predetti compagni e non
gliene sarebbe rimasta una quantità maggiore di quella del pane benedetto (Ib.).
E non c'era nulla di suo, povero passeggero, che a bordo della galera si sarebbe salvato:
585

É prerogativa della galera che il pane, il formaggio, il vino, il tosino, la carne, il pesce fresco e i
legumi che vi terrai per tua provvista, devi darne al capitano, al còmito, al piloto, ai compagni e al
timoniero e, di quanto ti resterà, sta certo che di tanto devono provar i cani, strappar via i gatti,
rodere i ratti, approfittare i dispensieri e rubare i remieri; di modo che, se sarai un po' inesperto e
non molto avvertito, la provvista che facesti per un mese non arriverà a dieci giorni. (Ib.)

Sarebbe stato pertanto oculato se si fosse portato nella sua cassa di viveri conservati, oltre a
quanto già detto, anche una resta d'aglio e una di cipolla, una giara di vinagro, una boccetta
d'aceto e un cencio di sale; cibi rustici e aspri che non contribuivano a far venire il mal di mare né
erano molto desiderati dai ladri di bordo:

... ed, oltre a ciò, può poi essere che di minutaglia e acqua, sale e aceto faccia un tal condimento
che gli riesca di sapore migliore di (quello di) un cappone in altro tempo. (Ib.)

Quando tutto mancasse, si poteva sempre mangiare del pesce fresco, se si sapeva pescarlo;
quindi al passeggero buon pescatore era consigliabile portarsi a bordo anche una cordicella, ami,
esca, canne e, qualche volta che la galera fosse in bonaccia o alla fonda in qualche cala o protetta
dietro qualche rupe od ormeggiata a terra, avrebbe potuto così mettersi a usare questa semplice
attrezzatura per prendere qualche pesce:

... quindi prenderà ricreazione nel pescarli e gran sapore nel mangiarli, perché molto meglio sarà
per la sua anima - e anche per la sua borsa - andarsene a pescare pesci a prua che non starsene
a giocare danari a poppa. (Ib.)

Simili i consigli dati al passeggero dal pellegrino Santo Brasca nel 1480:

… ch’el porta seco una veste calida per portare a lo ritorno quando fa fredo. Similiter de le camise
assai per schivare li pedoni e quele altre immondizie più che se pò e così de le tovaglie da tavola e
da capo, lenzoli, intimelie (lt. subligaclum, ‘mutande’) e simiglia… ch’el facia fare uno gabano fine
interra per dormire a l’aere, compra (‘compri’) uno strapontino in luocho de lecto, una capsa
(‘cassa’) longa, dui barili, videlicet uno da aqua l’altro da vino, una zangola sive sechia coperta per
fare la necessità del corpo (‘un vaso da notte’). Praeterea se fornischa de bono caseo lombardo,
salsizi, lingue e altri salami d’ogni sorte; biscotti bianchi, qualche pani de zucharo e de più sorte
(de) confectione, ma non grande quantitate, perché se guastano presto; e sopra tuto del violeppo
(?) assai, perché l’è quelo che tene vivo l’homo in queli extremi caldi; e così del zenzebre
(‘zenzero’) siropato per aconzare el stomaco che fosse guasto per tropi vomiti, ma usarlo raro
perché è tropo caldo. Similiter de la cotignata senza specie (‘spezie’) e aromatici arosati e
gariofolati (‘con rosa e garofano’) e così qualchi boni lactuarij (‘funghi lattari’)… E, quando se
descende in terra, se fornischa de ove, pulli, pane, confectione e fructi… (A. LT. Momigliano
Lepschy. Cit.)

Per quanto riguarda il sunnominato caseo lombardo, esso, come si può ben immaginare, era il
medesimo, reputatissimo, che i francesi chiamavano ancora nel Seicento fromage de Milan broyée
e che a partire dal Settecento sarà invece più conosciuto come ‘formaggio di Parma’ o
‘parmigiano’; si trattava d’un condimento senza il quale era impensabile poter gustare gli altrettanto
586

famosi macarons, non essendo infatti allora particolarmente diffuso in Europa alcun altro modo
d’insaporire o condire la pasta asciutta di frumento all’italiana; allo stesso modo i vermicelli, ossia
la stessa pasta filata, si consumavano anch’essi in un'unica maniera e cioè in brodo. Il nome
comune maccaroni, in seguito corrotto in ‘maccheroni’, trova la sua origine in quello del venditore
di cibo cotto che nel Medioevo si chiamava maccaro; s’intendeva infatti per macco generalmente il
cibo cotto nell’acqua e in particolare quelli più comuni e a buon mercato, cioè la favata e la
farinata, quest’ultima pasta di cereali tagliata in falde dette appunto maccaroni. I venditori
ambulanti di cibi cotti sono stati comuni ancora nella prima metà del secolo scorso perché la
povera gente urbana, non disponendo di una cucina nelle loro piccole e disadorne abitazioni,
specie in quelle poste al piano terra, usava alimentarsi appunto in strada al banco del maccaro, più
tardi detto maccaronaro.
Al tempo dell'imbarco - come del resto anche allo sbarco - la locale dogana ispezionava
minuziosamente gli averi e i bagagli del passeggero, contandogli il danaro, aprendogli le casse,
scucendogli i fagotti e guardandogli nei vestiti; doveva infatti su ogni cosa pagare i prescritti diritti:

... e, se il passeggiero è un po' inesperto, non solo gli prenderanno il diritto, ma anche il monocolo.
E perché non sembri che parliamo a vanvera, giuro onoratamente che, per i diritti di un gatto che
portavo da Roma, mi presero (ben) mezzo reale a Barcellona. (A.xde Guevara. Cit.)

Qualsiasi cosa egli, specie se novizio dei passaggi di galera, si portasse a bordo della galera, si
trattasse d’una cassa di vettovaglie, d'un cestone d'armi, d'un barile di vino, d'un fagotto d'abiti e
biancheria, d'una scatola di scritture, di qualche brocca per acqua o d'un materassino da letto,
doveva subito farla vedere al capitano, farla registrare allo scrivano e affidarla alla sorveglianza del
còmito:

... perché nella galera, per scrupolo di coscienza, non lasciano dall'ago in su. (Ib.)

Una volta soddisfatti i diritti doganali, egli non aveva però certo finito di pagare, perché infatti
ancora gravano angarie su ogni bagaglio che chiedesse d'imbarcare:

... deve tener per sicuro che il capitano per consentirlo, i barcaruoli per portarlo, lo scrivano per
registrarlo, il còmito per guardarlo gli devono portar (via) alcuni danari e altri effetti; e in tal
occasione non si contentano di ciò che vorreste dar loro, ma vi devono togliere tutto quello che vi
desiderassero chiedere. Per quanto riguarda me, posso giurare che, nell'ultima navigazione che
facemmo con il gran Cesare (‘Carlo Vì), nei porti di Barcellona, Maiorca, Sardegna, la Goletta,
Cagliari, Palermo, Messina, Rijoles (‘Reggio’), Napoli, Gaeta, Civitavecchia, Genova, Nizza,
Tolone e Acque Morte (‘foce del Rodano’) ebbi più fastidi e spesi più danari in imbarcare e
sbarcare cavalli, bestie da soma, servi e bastimenti che in tutta la mia vita passata... (Ib.)
587

All'imbarco il passeggero doveva importunare il capitano, pregare il còmito, corrompere l'aguzzino


e accordarsi con qualche remiero perché gli permettessero d’avere a bordo condizioni di vita più
sopportabili, cioè perché, se anche non gli avessero dato accesso alla poppa o non lo avessero
ammesso in qualche camera sotto coperta, almeno gl’indicassero qualche balestriera dove poter
stare:

... perché, se in ciò è negligente e neghittoso, si tenga per detto e condannato che non troverà di
giorno dove sedersi e molto meno di notte dove coricarsi. (Ib.)

Doveva il passeggero accordarsi con il còmito perché lo lasciasse passeggiare per la corsia, con
qualche remiero perché lo pulisse e lavasse come un servitore, con il piloto perché lo ammettesse
alla pilotiera, con l'aguzzino per essere protetto, con il cuciniero perché gli permettesse
d'avvicinarsi al fogone e di servirsene per cuocersi i sui cibi personali, cosa che era invece pacifica
a bordo delle vaste galeazze, con gli spallieri per esser servito a poppa e con i proeri per esser
portato a terra con lo schifo; bastava infatti che solo qualcuno di costoro non lo favorisse perché la
vita nella galera divenisse per lui ancora più disagiata di quanto inevitabilmente già fosse. Se i
rapporti con il capitano d’una galera ordinaria da guerra erano, trattandosi d’una persona
dall’onore militare, piuttosto formali, più chiaramente dispendiosi erano invece quelli con il padrone
d’una galea per pellegrini, come avverte Santo Brasca:

… e metta le spese de patrono per niente, che questo è uno viagio da non tenete serrata la borsa.
(A. LT. Momigliano Lepschy. Cit.)

D'altro canto bisognava che stesse ben attento a chi si accomunasse, di chi si fidasse, con chi
parlasse e giocasse:

... perché quelli della galera sono tanto astuti e tanto scaltri che, se si accorgono che il
passeggiero è un po' sciocco, giocheranno come a 'tre contro uno' (con el tres al mohino). (A. de
Guevara. Cit.)

Quando egli vedeva alzare l'ancora, prendere i remi, riporre il battello al suo posto, scostarsi la
galera da terra, mutar la vela e alzarsi da bordo un gran gridio, allora doveva egli tacere e togliersi
da mezzo, evitando accuratamente di proferire verbo e d’andarsene in giro per la galera; lo stesso
doveva fare in navigazione durante le manovre e soprattutto in caso di mal tempo:

... perché i marinari, poiché sono dei disperati e anche superstiziosi, tengono per grandissimo
malaugurio se nel lottare contro la tempesta odono parlare o trovano in chi inciampare. (Ib.)

Doveva dunque far attenzione al lavoro dei marinai e al cambio della vela perché, quando si
veleggiava, tante volte cambiava il vento tante volte si cambiava la vela; inoltre quando il vento si
588

rinfrescava, vale a dire si rinforzava, la dovevano restringere e quando invece s’indeboliva la


dovevano allargare. Accorgendosi dunque che tali manovre si reiteravano il passeggero esperto
avrebbe alzato gli occhi all'antenna e si sarebbe mantenuto al più vicino cavo pensando con
preoccupazione a una probabile tempesta in arrivo:

... perché nel mare non c'è maggior segno di stare in grande pericolo di vita di quando i marinari
alzano e abbassano molte volte l'antenna. (Ib.)

Comunque, anche se il nostro passeggero non fosse stato così esperto di navigazione, si sarebbe
egualmente accorto del pericolo incombente vedendo le manovre che i marinai avrebbero presto
fatto seguire una dopo l'altra; infatti, quando cominciava a soffiare la tramontana o c'era mare
grosso o quarto di luna, come anche si diceva - da cui il detto ancor oggi usato ‘avere il quarto di
luna’, nel senso di essere arrabbiati o agitati - oppure correva vento di traversia o sopravveniva
qualche furiosa tempesta, immediatamente i marinai salpavano l'ancora, riponevano lo schifo,
toglievano il tendale di poppa, raccoglievano la tenda e ammainavano la vela:

... e allora guai a te, povero passeggiero, perché resterai alla mercé della pioggia! (Ib.)

Quando si passava golfo, ossia si navigava in alto mare, e quando arrivava una grande tempesta,
la vita di bordo mutava le sue regole; non si accendeva più il fuoco, non si preparava il desinare né
si chiamava a mensa e tutti i passeggeri dovevano andare di sotto, perché per manovrare e
soprattutto per lavorar di carrucola era necessario che la coperta fosse sgombra di gente inutile:

... Ed è verità che in quei momenti e frangenti più timore creano la confusione e le voci e lo strepito
e il gridio che i marinari si scambiano che non la furia e il furore degli elementi che se ne vanno per
il mare. (Ib.)

Nella semioscurità della camera di mezzo, tra cordami e velami ammucchiati, il meschino
passeggero che fosse buon cristiano e timoroso di Dio non poteva far altro che raccomandarsi a
qualche famoso santuario, pregare i santi a cui fosse più devoto, pentirsi dei suoi peccati e
riconciliarsi eventualmente con i suoi compagni di bordo:

... tutto ciò e anche molto di più si fa ad ogni passo in mare e più tardi - o giammai - a terra si
completa. (Ib.)

Doveva guardarsi dall'andarsene di giorno per la galera con i piedi scalzi o di dormirvi di notte con
la testa scoperta, perché la grande umidità del clima marino l'avrebbe fatto uscire dal suo viaggio
sicuramente affetto da catarro o insordito per l'otite; doveva sempre evitare di mangiare e bere
589

molto, perché il farlo sino a ruttare e vomitare era non solo disdicevole, ma in mare e in tempo di
tempesta anche molto pericoloso:

... E perché non sembri parlare esagerato, nella mia galera io vidi, attraversando il golfo di
Narbona con una fortissima tempesta, uno che era ubriaco e rimpinzato di cibo, il quale in due
conati di vomito gettò fuori quello che aveva mangiato e con il terzo vomitò l'anima. (Ib.)

Quando, vinto dal rollio o dal beccheggio, egli diveniva preda del mal di mare e cominciava a
venirgli la nausea e a sentirsi venir meno, a perdere la vista e a rivoltarsi lo stomaco, a vomitare e
desiderare di coricarsi su quel tavolato, nessuno a bordo lo compativa e tanto meno l'aiutava:

... non sperare che quelli che ti stanno guardando ti manterranno la testa, ma tutti, sbellicandosi
dalle risa, diranno che non è nulla, che il mare ti sta provando e ciò mentre tu sei disperato e
magari stai addirittura spirando. (Ib.)

Si poteva far qualcosa per evitare le più gravi conseguenze del mal di mare? Sì, secondo il nostro
autore:

... É consiglio salutare e sperimentato che, perché uno non soffra il mal di mare né vomiti in mare,
si ponga una carta di zafferano sul cuore e se ne stia quieto sopra una tavola nel fervore della
tempesta; perché, se ciò fa, può star sicuro che né gli si rivolterà lo stomaco né perderà i sensi.
(Ib.)

Il passeggero non poteva ignorare che non era concesso tenere una donna in una galera militare,
fosse anche stata sua moglie o sua figlia, e questa proibizione valeva per tutti gli uomini di bordo,
anche per lo stesso capitano; e, se per caso se ne scopriva a bordo qualcuna nascosta, chi l'aveva
occultata doveva rischiare e sopportare che molti approfittassero di lei, perché:

... la tale da tutti quelli della galera deve essere vista e conosciuta e anche da più dita servita. (Ib.)

Doveva poi il passeggero di galera, prima d'imbarcarsi, esser convinto di molte altre cose; cioè
che, per esempio, navigare era sempre e costantemente pericoloso sia per l'insidia dei flutti sia per
quella dei corsari turco-barbareschi:

... perché non c'è mare tanto sicuro nel quale non si aggiri alcun famoso corsaro o nel quale non si
levi alcun vento molto contrario. (Ib.)

Doveva sapere che a bordo della galera il passeggero, anche se di buona qualità, non era più
nessuno e doveva ciecamente obbedire a tutti gli ufficiali e marinai:

... e, se colà volesse approfittarsi e presumere di ciò che ha e di ciò che vale, il più povero dei
remieri gli dirà di sbarazzar subito la galera e di andarsene a comandare a casa sua. (Ib.)
590

Bisognava infatti esser colà umili e accorti nella conversazione, dissimulati nelle necessità e molto
tolleranti negli affronti:

... perché nelle galere è cosa molto più naturale sopportare le ingiurie che farle e tanto meno
vendicarle. (Ib.)

Pertanto, per molto cavalleresco, onorato, ricco e tronfio che il passeggero fosse, egli doveva
chiamare il capitano della galera ‘signore’, il patrone ‘parente’, il còmito ‘amico’, i proeri ‘fratelli’ e i
remieri ‘compagni’:

... e la causa di ciò è che, poiché il navigante è privo nella galera della sua libertà, ha colà bisogno
di tutti. (Ib.)

Lo stesso don Chisciotte, folle vendicatore degli umili, deve sopportare le gravi ingiurie fatte al suo
scudiero Sancho Panza in occasione della visita che i due fanno alla galera del conte d’Elda, come
realisticamente narra il Cervantes Saavedra in quel suo immortale capolavoro:

... non appena arrivarono alla marina, tutte le galere abbatterono la tenda e suonarono i clarinetti;
misero subito in acqua lo schifo coperto di ricchi tappeti e di cuscini di velluto cremisi e, nel
momento che don Chisciotte saliva per la scala destra (cioè dal lato nobile), tutta la ciurma lo
salutò com'è usanza quando un personaggio importante entra nella galera, dicendo 'Hu, hu, hu!'
tre volte. Gli dette la mano il generale, che con questo nome lo chiameremo, il quale era un
principale cavaliere valenziano; abbracciò don Chisciotte... (M. de Cervantes Saavedra. Cit.)

Dopo cortesissimi convenevoli verbali profusi da ambedue le parti la visita così prosegue:

... Entrarono tutti nella poppa, la quale stava molto ben addobbata, e si sedettero sulle bandine; il
còmito passò in corsia e dette con il fischietto segnale che la ciurma facesse 'fuorirobba' (‘si
spogliasse’), il che si fece in un istante. Sancho, quando vide tanta gente ignuda, restò sbigottito, e
più ancora quando vide far la tenda con tanta premura che gli sembrò che tutti i diavoli stavano
colà lavorando; però tutto ciò fu torte e dolci a confronto di ciò che ora dirò. Stava Sancho seduto
sul capomartino vicino allo spalliero di destra, il quale, già istruito su ciò che doveva fare, afferrò
Sancho e, sollevandolo sulle braccia, tutta la ciurma - postasi in piedi e all'erta - cominciò dalla
banda destra a passarselo e a farlo volteggiare sulle braccia di banco in banco con tanta sveltezza
che il povero Sancho perse la vista e senza dubbio pensò che gli stessi diavoli lo portavano; e non
la smise con lui sino a farlo tornare indietro per la banda sinistra e a posarlo nella poppa. Ne restò
il poveretto tutto pesto, ansante e trasudante, senza nemmeno capire che cosa gli fosse successo.
(Ib.)

Sulla malignità dei galeotti così anche si esprimerà Jean-Jacques Bouchard, il passeggero di
galera parigino da noi già più volte ricordato, il quale però per il suo elevato rango sociale
viaggiava tra la gente di poppa:

... Non si commetta mai l'errore di andare là dentro (cioè in corsia, a portata di mano dei remiganti)
se non con qualche ufficiale, poiché altrimenti i forzati vi faranno mille brutti scherzi; tra gli altri, vi
591

soffieranno sugli abiti con dei cornetti pieni di pidocchi [...] Il meno che possano fare è togliervi gli
speroni con il pretesto che la galera va abbastanza veloce da se stessa. (J. de la Gravière. Cit.)

A bordo della galera per il povero viaggiatore novizio non ci sarà panca dove coricarsi, banco dove
riposarsi, finestra alla quale appoggiarsi, tavola o sedia alla quale sedersi; gli si concederà
pertanto solamente:

... che in una ballestriera od a capocorsia od a contatto col fogone mangi per terra come un moro
od in ginocchio come una donna. (A. de Guevara. Cit.)

Nessun viaggiatore infatti, per onorato che fosse, poteva avere assegnato un luogo fisso dove
poter passeggiare né tampoco ritirarsi e neppure mettersi semplicemente a sedere tutte le volte
che lo volesse:

... e, se qualcuno desiderasse starsene di giorno un po' a poppa e dormire di notte in qualche
balestriera, se lo deve prima comprare dal capitano a forza di suppliche ed ottenerlo dal còmito
con buoni danari. (Ib.)

Una volta finalmente ottenuto di poter stare a poppa, guai però a orinarvi o sputarvi! Il capitano
l'avrebbe aspramente redarguito e gli spallieri gli avrebbero fatto pagare un reale di Spagna di
contravvenzione; c'era dunque da fare la seguente considerazione:

... pertanto, noi non sgridiamo i marinari anche se sputano nella nostra chiesa ed essi sgridano noi
se sputiamo sulla loro poppa. (Ib.)

In una galera militare il passeggero che avesse bisogno d’orinare o defecare doveva farlo fuori
bordo da una balestriera come un qualsiasi remigante, ma gli era anche concesso di recarsi a farlo
alla palmetta all'estrema prua, luogo che era infatti deputato a latrina per gli scapoli, sempre che il
passaggio sin là non gli fosse impedito dalla calca o dalle manovre di bordo:

... e ciò che non si può dire senza vergogna né tanto meno fare tanto pubblicamente devono
(invece) vederlo tutti, seduto sul 'necessario', come lo videro mangiare alla mensa. (Ib.)

Anche il monaco ulmese Felix Faber parla di questo necessario di prua per vuotare il ventre, ossia
per defecare, essendo praticamente un sedile a forame a disposizone degli scapoli e dei
passeggeri, davanti al quale i pellegrini facevano una spiacevole fila in attesa del proprio turno; se
si trattasse d’un forame aperto direttamente sul sottostante mare oppure su un recipiente di
raccolta non sappiamo. Non avevano quindi le galere per mancanza di spazio la comodità che
spesso presentavano i vascelli tondi, specie gli oceanici, e cioè quello che gli olandesi chiamavano
pis-bak, in sostanza un pezzo di ponte trincerato, pendente verso l’esterno del vascello e destinato
a ricevere le orine della gente di bordo e a farle così scivolare in mare, mentre, per defecare e per
592

lavare la propria biancheria, bisognava anche lì portarsi al di sotto dello sperone. Un metodo usato
per lavare la biancheria della bassa forza o dei soldati di bordo in comune era quello di legare in
sequenza (fr. mettre à la traine) i singoli indumenti a una corda che si calava in mare e si
trascinava nella scia del vascello finché i flutti non avessero fatto da lavandai naturali.
Non si poteva certo a bordo della galera dormire tra lenzuola d'Olanda e guanciali ricamati, su
materassi di piume, tappeti barbareschi o sotto coltroni reali e nemmeno in un semplice letto da
campo, bensì bisognava accontentarsi del nudo tavolato della coperta, salvo che si fosse stati
tanto previdenti da portarsi in viaggio uno strapuntino ripiegabile, ossia uno di quei materassini di
lana morbida e delicata che si adagiavano sui materassi più rozzi e sui pagliericci perché questi
non stessero a contatto col corpo; altrimenti:

... al massimo, se il passeggiero è delicato o sta malato, il patrone può permettergli di dormire su
un asse e d'usare per cuscino una rotella (‘piccolo scudo rotondo’). (Ib.)

Non doveva dunque, andando a coricarsi sotto le stelle nella balestriera assegnatagli, spogliarsi
dei suoi vestiti, specie del soprabito, perché questi, come abbiamo già detto, costituivano il più
delle volte il suo unico letto; non doveva quindi né togliersi le scarpe ne slacciarsi le brache né
sbottonarsi il giubbone o denudarsi del saio e nemmeno levarsi la cappa quando volesse alzarsi
per andare a orinare fuori bordo:

... perché il povero passeggiero non trova in tutta la galera altro miglior letto della roba che
s’indossa di sopra. (Ib.)

Gli era dunque appena concesso di sdraiarsi la sera sul nudo pavimento d’una balestriera per
passarvi la notte, proprio come toccava fare a un semplice soldato o marinaio di bordo, ma il posto
non gli era riservato in permanenza per cui, anche se gli capitava lo stesso luogo della sera prima,
gli poteva toccare di dover mettere la testa laddove la notte precedente aveva invece tenuto i piedi
o viceversa e ciò di sovente a stretto contatto con le parti posteriori d'un altro dormiente:

... e, se, per aver merendato castagne od aver cenato ravanelli, al compagno gliene scappa
qualcuno (già mi capite), devi far conto fratello che lo sognasti e non dire che lo udisti. (Ib.)

Confessiamo che delle castagne e dei ravanelli non sapevamo. Dormire sul nudo tavolato era
svantaggioso anche per un altro motivo e cioè che in quella posizione si dava il massimo agio ai
parassiti d'infestare ogni uomo di bordo; infatti la galera era invasa da pulci che saltavano sul
tavolato, da pidocchi che si riproducevano nelle commettiture e da cimici che si annidavano in ogni
fessura; fino a tutto il Rinascimento era anche infestata da bianchi, grassi e acquosi vermi che dai
pavimenti e dalla coperta si arrampicavano addosso agli uomini quando dormivano o su per le loro
593

gambe quando erano svegli; di questi schifosi animali, i quali probabilmente nascevano nelle
acque putride della sentina, molto parla il Faber nel suo diario e anche il da Canal nel suo trattato,
ma fortunatamente non più i trattatisti successivi.
In tali condizioni nessuno a bordo poteva evitare di diventare preda dei parassiti, nemmeno la
gente di poppa e i passeggeri più altolocati:

... e, se qualcuno si appellasse contro questa caratteristica presumendo d'essere molto pulito e
leggiadro, sin d'ora gli predico che, se si metterà la mano al collo e alla sacca, si troverà nel
giubbone più pidocchi che nella borsa danari. (Ib.)

Altri abituali abitatori della galera erano i ratti e i topi, i quali rubavano, specie ai novizi dei passaggi
di galera, piccoli panni, fazzoletti, cinture di seta, camicie, cuffie, guanti e tutto ciò nascondevano
per dormirci o partorirci sopra o anche per roderli quando non trovavano da mangiare:

... e non ti meravigli, fratello passeggiero, se qualche vota ti daranno qualche morso mentre dormi,
perché, passando da Tunisi in Sicilia, mi morsero una gamba e un’altra volta un’orecchia... (Ib.)

E nemmeno per questo si poteva andare a protestare! Se il viaggiatore aveva necessità di


scaldarsi dell'acqua e cavare il ranno per far bucato o insaponarsi una camicia, era meglio che non
lo tentasse nemmeno, se non voleva che a bordo ridessero di ciò e si burlassero di lui:

... ma, se portasse la camicia alquanto sudicia o molto sudata e non avesse con che cambiarla,
dovrà giuocoforza aver pazienza finché non scenda a terra a lavarla o potrà anche ammalarsi di
putridume. (Ib.)

Se poi qualche viaggiatore più delicato e igienista degli altri avesse proprio voluto insaponarsi
qualche fazzoletto o pannolino d'acconciatura o sudario da collo o tovagliolo personale da mensa o
anche qualche camicia, allora doveva farlo con acqua salmastra [fr. (eau) somache] e non con
quella dolce, troppo preziosa questa a bordo per sprecarla in simili raffinatezze:

... E, poiché l'acqua del mare fa prurito e causa fastidio alla pelle, può dargli il capitano il permesso
e il còmito lo spazio perché si strofini le spalle all'albero o si cerchi un remiero che lo gratti. (Ib.)

Tutti a bordo, còmito, patrone, piloto, marinai, consiglieri, proeri, timonieri, spallieri, vogavanti e
semplici remieri potevano vessare impunemente il povero passeggero chiedendogli, pigliandogli,
estorcendogli e anche rubandogli qualsiasi cosa, cioè pane, vino, tosino, carne fresca o
disseccata, formaggio, frutta, camicie, scarpe, berrette, sai, giubboni, cinture e cappe, per non
parlare poi della borsa, se non aveva l'accortezza di portarla sempre attaccata al braccio:

... che ciò che una volta colà si perde o si dimentica o si presta o si ruba giammai riapparirà e, se,
a forza di suppliche e non senza che gli sia dato del danaro, va il còmito a cercarlo ed è anche
594

vicino a trovarlo, sia certo quello che lo perdette che i ladroni che prima lo rubarono finiranno col
gettarlo in mare svergognatamente piuttosto che col restituirglielo coscienziosamente. (Ib.)

Quando il viaggiatore desiderava andare talvolta a terra per fare un po' di ricreazione, per fare
magari quattro salti con gli altri, per riempirsi una brocca d'acqua fresca, per cercare o comprare
qualche rinfresco, doveva chiederne licenza al capitano come se fosse un frate, doveva pregare il
còmito di far armare lo schifo di bordo per lui, doveva accarezzare i prodieri perché ve lo
tragittassero, doveva promettere loro qualcosa perché lo aspettassero per il ritorno e infine, al
momento dell'approdo, doveva dar danari a chi lo portava sulle spalle perché non si bagnasse.
Soprattutto doveva far attenzione a trovarsi a riva per il reimbarco quando dalla galera, decisasi la
partenza, suonavano la tromba alla raccolta oppure, in caso di porti grandi, un trombettiere era
inviato a terra e girava suonando per la città appunto per richiamare a bordo scapoli, passeggeri e
pellegrini, perché altrimenti avrebbero salpato lasciandolo a terra senz'alcuno scrupolo.
Quando la gente di galera andava a terra a far acquata, ossia a far provvista d'acqua potabile, o
alla fascinata, cioè a far fascine, o a tagliar legna, rubava o rapinava per consuetudine qualsiasi
animale commestibile in cui s’imbattesse e non risparmiava infatti vitello, vacca, montone, pecora,
capretto, porco, papera, gallina, pollastro o coniglio che le capitasse a tiro; poi se ne tornava in
galera dove ammazzava l'animale catturato con lo stesso senso di buon diritto che avrebbe avuto
se l'avesse regolarmente comprato in piazza. Ma spesso non si trattava solo di rubare qualche
animale, bensì di vere e proprie razzie alle quali di solito partecipavano anche i passeggeri
occasionali o per lo meno se ne trovavano coinvolti anche loro; i soldati, i marinai e i galeotti
dunque, capitando in qualche luogo fertile o abitato, n’abbattevano gli alberi, ne tagliavano i
boschi, scortecciavano gli alveari, vuotavano le colombaie, i pollai e i porcili, saccheggiavano le
case, depauperavano gli orti, approfittavano delle fanciulle, usurpavano le donne, rapivano i
fanciulli, predavano gli schiavi, vendemmiavano le vigne, arraffavano il tosino, il formaggio, il pane
e gli altri cibi conservati e infine agguantavano i vestiti di villani e civili:

... in maniera che in un anno rigido non fanno tanto danno il gelo e la grandine né la cavalletta
quanto ne fanno quelli della galera in solo mezza giornata. (Ib.)

Nemmeno dunque quando scendeva a terra c'era svago e sollievo per il povero viaggiatore:

... tanto che, a chi chiedesse che cosa è galera, gli potremmo rispondere che è un carcere per
scapestrati e un supplizio per passeggieri. (Ib.)

Nemmeno alla fine del suo viaggio finiva di subire i soprusi della gente di galera:

... É prerogativa della galera che tutto il pane, il vino, il lardo salato, la carne secca, il formaggio, la
manteca, l'uva passa, il biscotto, le mandorle, i boccali, le brocche, i piatti e le pentole che
595

avanzano a qualche passeggiero, il che portò per sua provvista, lo lasci tutto in galera quando da
essa sbarcherà e se n’andrà a terra, cioè prendono tutto ciò che gli avanza; ed (a pensare che), se
qualcosa a bordo gli fosse mancata, non gli avrebbero regalato nemmeno un chicco di zibibbo!
(Ib.)

E non era ancora finita! Infatti, giunto il tempo di sbarcare, al passeggero conveniva mostrar si
ulteriormente generoso e riconoscente; gli conveniva cioè ringraziare il capitano, abbracciare il
còmito, parlare al piloto, accomiatarsi dalla compagnia, ossia dai marinai compagni, convitare
all'ultimo pasto gli spallieri, dar qualcosa al timoniero e ricordarsi anche dei prodieri:

... perché, se ciò non fa, gli daranno tutti una baia molto crudele e non lo accoglieranno più in
quella galera. (Ib.)

Al pellegrino alla fine del viaggio, vale a dire al momento dello sbarco in Terrasanta, tutti
chiedevano invece sfacciatamente:

… E quivi se fano inante el còmito de la galea, el scrivano, lo paron giurato, l’homo de consiglio, lo
pedota, li trombeti, tamburini, proveri, balestrieri, guardiano de le porte e coqui con una taza per
ciascuno in mano e a tuti conviene donare qualche cosa. (Ib.)

Tutto ci si poteva dunque augurare in viaggio tranne che la convivenza di galera! E che cosa del
resto ci si poteva aspettare da un’accozzaglia di ladroni, traditori, rei sferzati e sfregiati, grassatori,
adulteri, omicidi, corsari, falsari, blasfemi, mentitori e falsi testimoni, che tale e non altra era la
gente di galera? Per antica consuetudine infatti, chiunque avesse conti in sospeso con la giustizia
per qualsiasi motivo, perché magari fosse debitore insolvente, spergiuro, ruffiano, rivoltoso, ladro,
brigante, accoltellatore o assassino, un volta entrato a servire in galera non poteva più essere
perseguitato dalla legge né potevano i birri metter piede a bordo per arrestarlo e nemmeno l'offeso
poteva andarvi ad accusarlo; se qualcuno avesse voluto tentarlo ugualmente mal gliene sarebbe
incolto, perché o l'avrebbero gettato al remo insieme ai galeotti o gli avrebbero dato un buon tratto
di corda:

... in maniera che nelle galere è dove si vanno i buoni a perdere e i cattivi a difendere. (Ib.)

Notevoli erano dunque le franchigie e le esenzioni di cui godevano tutti coloro che servivano in
galera, persino ne godevano i passeggeri per tutto il tempo che durava il loro viaggio. si era infatti
esenti dal pagare tasse, pedaggi, balzelli, tributi di S. Martino, imprestiti, quarte, decime e primizie
sia al sovrano che alla Chiesa e oltre a ciò, durante il tempo del loro servizio, gli uomini di galera
non potevano essere scomunicati dai vescovi né essere scacciati dalle chiese dai parroci e questo
anche se non fossero confessati né comunicati. A questo proposito il de Guevara, ricordando il suo
ufficio di cappellano di galera, così scriveva:
596

... É verità che alcune volte, burlandomi io con i remieri e i marinai nella galera, mi mettevo a
chieder loro le cedole delle confessioni e subito quelli mi mostravano un mazzo di carte da gioco,
dicendo che in quella santa confraternita non apprendevano a confessarsi, bensì a giocare e a
trafficare. (Ib.)

Nessuno infatti a bordo della galera - né gli ufficiali né i venturieri né i marinai né tanto meno i
condannati - si preoccupava di sentir messa nei giorni festivi o d’entrare in chiesa per lo meno una
volta all'anno:

... (tutto) ciò che quelli hanno di buon cristiano è che in una pericolosa tempesta si mettono a
pregare, cominciano a sospirare, prendono a piangere; la qual passata, si seggono molto pian
piano a mangiare, a parlare, a giocare, a pescare e anche a spergiurare, mentre si raccontano l'un
l'altro il pericolo in cui si videro e le promesse che fecero. (Ib.)

Il protagonista del Guzmán de Alfarache, incappato anch'egli in una tempesta di mare così infatti
racconta:

... che potrei qui di re di ciò che ho visto in tal tempo? Che cosa udirono le mie orecchie, che non
so se si potrebbe dire con la lingua od esser creduto dagli estranei? Quanti voti facevano! A che
varietà d'invocazioni si davano! Ciascuno al santo più oggetto di devozione al suo paese. E non
mancò a chi non uscisse altro dalla bocca se non sua madre (o) quali abusi e spropositi avessero
commesso, confessandosi gli uni con gli altri come se fossero i loro reciproci curati od avessero
l'autorità d'assolversi. Altri dicevano a Dio ad alta voce in che cosa lo avevano offeso e,
sembrando loro che fosse sordo, levavano il grido sino al cielo, credendo di sollevare con la forza
del fiato sin là le loro anime in quell'istante, parendo loro l'ultimo della loro vita. (M. de Cervantes
Saavedra. Cit.)

Mai dunque a bordo della galera, come avevano notato sia il de Guevara sia un secolo prima il
Faber, ambedue uomini di chiesa, si sospendeva di giocare, rubare, adulterare, bestemmiare,
lavorare, navigare, né di domenica né a Pasqua né in alcun altro giorno dedicato a un santo
principale:

... perché le feste e le pasque nella galera non solo non si osservano, ma nemmeno si sa quando
cadono. (A. de Guevara. Cit.)

Né si praticavano i digiuni prescritti, cioè quelli del Mercoledì delle Ceneri, della Settimana Santa,
delle Vigilie di Pasqua, dei quattro tempora dell'anno e nemmeno della Quaresima Maggiore:
... perché nella galera tutte le volte che digiunano non è per esser Vigilia o per star in Quaresima,
ma perché mancano loro le vettovaglie. (Ib.)

E nemmeno ci si vergognava di mangiare regolarmente la carne in Quaresima, nei predetti quattro


tempora, nelle Vigilie, di venerdì, di sabato e in tutti gli altri giorni in cui ciò era vietato dalla
religione cattolica:
597

... Quando io alcune volte li riprendevo e li ammonivo di non mangiarla mi rispondevano che,
poiché quelli di terra si potevano permettere di mangiare in qualsiasi giorno il pesce che veniva dal
mare, con la stessa libertà potevano loro stessi mangiare la carne che portavano da terra. (Ib.)

Non che l'autorità religiosa non fosse però riconosciuta, anzi, e infatti i frati d’alcuni ordini, cioè
quelli di S. Benito, S. Basilio, S. Agostino, S. Francesco, S. Domenico, S. Geronimo, dei Trinitari,
dei Mercenari (sic) e anche le suore carmelitane viaggiavano gratuitamente sulle galere; però, in
un ambiente in cui, come abbiamo visto, anche l'ottenere un sorriso doveva essere pagato, che
questi religiosi viaggiassero e mangiassero gratis non doveva certo esser cosa ben vista e
tollerata; si aggiunga che essi avevano anche il privilegio di poter girare liberamente per tutta la
galera e si capirà perché i còmiti spesso brontolavano contro di loro e solevano dire per scherzo
che era stata promulgata di recente una bolla in cui si ordinava che i religiosi che viaggiavano in
galera si spogliassero dei loro abiti, delle cocolle, delle corone, delle cinte e degli scapolari, che
smettessero di pregare, che lasciassero i loro breviari e che prendessero invece anche loro i remi!
Si capirà così anche l'episodio di superstiziosa intolleranza contro alcuni monaci Fatebenefratelli
che ci apprestiamo a narrare nel prossimo capitolo.
L'indifferenza verso la religione faceva d'altronde 'sì che a bordo della galera ognuno fosse libero
d'osservare, se lo voleva, la sua religione e la sua regola di vita e ciò probabilmente anche e
soprattutto per evitare d’esasperare quei remieri che erano schiavi maomettani. A bordo potevano
quindi pacificamente convivere cristiani e mussulmani, rinnegati e giudei, marrani e greci ortodossi,
eretici e monaci, indi e turchi, clerici e scudieri, cavalieri e bifolchi, canari (‘catari’?) e saraceni:

... in maniera che senza alcuno scrupolo si vedranno i venerdì fare i mori la 'zala' (Azalà’, il pregare
dei maomettani) e il sabato fare i giudei la 'baraha' (Barahà’, il pregare degli ebrei). (Ib.)

Altre e tristissime franchigie religiose spettavano infine alla gente di mare quando in mare moriva.
Non si aveva infatti, dice sempre il de Guevara (e in qualche caso per ovvietà, aggiungeremmo
noi), l'obbligo per il moribondo di prendere l'estrema unzione né i suoi familiari o compagni
dovevano pagare al sacrestano la nenia, al servo della confraternita il convocare i confratelli, ai
confratelli i diritti di trasporto della salma, al curato l'interramento, al fabbricatore la sepoltura, ai
frati la messa cantata, ai poveri il portare i ceri, ai facchini l'aprir la fossa e neppure alla comare il
cucire il lenzuolo mortuario:

... perché del triste e malcapitato che colà muore, non appena ha reso l'anima a Dio, subito
gettano ai pesci il corpo. (Ib.)

Ma questo valeva per i poveri remiganti, perché generalmente a bordo si aspettavano anche 12
ore per il funerale del defunto; in sostanza, se il decesso avveniva di notte, il funerale avveniva
598

dopo la preghiera del mattino, e se invece avveniva di giorno, dopo la preghiera della sera. Si
cuciva il cadavere nella sua coperta da letto, gli si legava ai piedi una grossa pietra, se c'era,
altrimenti una palla di cannone, e lo si gettava in mare accompagnato da uno o più colpi
d'artiglieria a seconda della qualità del defunto; il corpo dove essere gettato da tribordo (tlt.
dextribordus; fr. estribord, ol. stuur-boord, stier-boord) in quanto, se lo si fosse fatto da babordo (fr.
bord, ol. bakboord), per esser questo il lato da cui si buttavano le carogne degli animali, sarebbe
stato un disonore per la memoria del defunto. Se però si era prossimi alla terra, allora si preferiva
sbarcare e andare a interrare il cadavere nei pressi d’una cappelletta costiera o semplicemente su
qualche collinetta e in tal caso non era importante da quale lato lo si calava fuori bordo. Non era
questo però il caso dei personaggi d’importanza, specie a bordo delle galee veneziane; quando
infatti vi moriva un nobile ufficiale o passeggero, i medici dell’armata, oppure, in mancanza di
questi, il semplice barbiero di bordo, si facevano portare il corpo a terra in qualche chiesa o
cappella costiera non appena se ne vedeva una e, postolo su una tavola di legno o su una lastra di
marmo, lo si sventrava e impagliava come si fa oggi con il corpo dei grandi animali uccisi a caccia;
poi, dettasi colà anche la messa, lo si riportava a bordo e lo si seppelliva nella ghiaia o arena di
zavorra, in un punto però segreto, affinché nessuno potesse cercare di recargli oltraggio, in quanto
il tenere cadaveri a bordo era ritenuto dai superstiziosissimi marinai certa causa di tempeste e
disgrazie. Lo si teneva così anche per mesi, finché cioè la galera non fosse tornata a Venezia e il
corpo vi avesse potuto così ricevere un degno funerale. Nel Medioevo invece s’usava conservare
nel sale i corpi dei defunti che si voleva conservare per riportarli in patria; ciò fecero i genovesi per
quelli del loro generale Pietro d’Oria e di un suo nipote, uccisi da un colpo della più grossa
bombarda veneziana a Chioggia nel 1380, e i veneziani per quello del loro capitano generale
d’armata Vittorio Pisani, morto nello stesso predetto anno e nel corso di operazioni che
riguardavano la stessa guerra:

… ed ammazzarono il Doria generale de’ genovesi ed un suo nipote, i quali, con grandissimi pianti
e con dolore universale de’ genovesi furono portati in Chioza grande e salati per portare a Genova
(Daniello Chinazzo, Cronaca della guerra di Chioza etc. In LT.A. Muratori, Rerum italicarum
scriptores etc. C. 753, t. XV. Milano, 1727).
… E, salato il corpo del Pisani, fu mandato a Venezia ed alli 22 (agosto) fu sepolto nella chiesa di
S. Antonio con grandissimo honore… (Ib. C. 772.)
599

Capitolo X.

UFFICIALI MAGGIORI E GENERALI.

Quello che in latino si era chiamato praefectus classis, nel Medioevo si prese a chiamare capitano
generale del mare; egli era coadiuvato a terra dall’ammiraglio (grb. μέγας δρουγγάριος τοῦ
πλωΐμου), personaggio politicamente più potente di lui perché controllava anche la marineria civile
ed era sempre a diretto contatto col sovrano; questo non era un ufficiale generale combattente, ma
da lui dipendevano inoltre tutti i materiali, i corredi, gli equipaggiamenti, gli equipaggi e la giustizia
dell’armata di mare, insomma era molto di più di un provveditore generale, era un ‘ministro della
marina’; così ci spiega l’anonimo autore del De cerimoniis aulae byzantinae etc. vissuto al tempo
dell’imperatore bizantino Costantino VII Porfirogenito. Questo potente funzionario prese però col
tempo sempre più il ruolo riduttivo di luogotenente generale d’armata, mentre in Italia il suo
originale nome armiratus (Andrea Dandulo e Saba Malaspina) presto si corrompeva in admiratus
(Ugone Falcando, Giovanni Stella, Saba Malaspina, Bartolomeo di Neocastro, Marino Sanudo il
Vecchio), a(m)miratus e admiraldus (Lorenzo Monaci), admiragius e admiralius (Chronicon
estense), armiragius e armiregius (Giorgio Stella), quest’ultimo termine prestato al mare dalla
terminologia della guerra terrestre e infatti così era detto da più antico tempo il governatore
dell’armi o capitano a guerra delle piazzeforti e delle città o anche talvolta il castellano militare;
infine arrivandosi a un ingiustificato admirans -antis (nel già cit. Novus orbis regionum ac insularum
veteribis incognitarum etc. P. 99).
Frattanto, cioè nel quarto e quinto secolo d. C., le vittoriose armate di mare ispano-berbero-
vandale avevano imposto nel Mediterraneo il loro almirall, arabizzazione del suddetto lt. armiratus,
e questo nome finì, ma solo verso la fine del Medio Evo, per prevalere su ambedue i predetti
termini mediterranei, come sempre succede al linguaggio dei vincitori, stabilizzandosi infine in
ἀμηράλιος a Bisanzio e in almirante e visalmirante per quanto riguarda il castigliano, mentre
nell’area celto-oceanica, una volta dominata da Roma, contaminandosi con il suddetto participio
latino admiratus, si risolse in admirallus (infatti è tuttora admiral in inglese), cioè mantenne quella
lettera -d- che nel Mediterraneo invece aveva appunto perso. Nelle armate di galee veneziane del
Basso Medioevo il termine admirati, come abbiamo già accennato, contraddistinse fino al
Rinascimento due ufficiali dello stato maggiore che avevano il ruolo di luogotenenti generali, ma si
usava anche come luogotenente marittimo in generale ed infatti nel 1401 il luogotenente del
capitaneo di una galea grossa da mercato, ossia il, suo primo ufficiale, si chiamava appunto
600

almiral. Così si legge, per esempio, nei già citati Annales genuenses dedi fratelli Stella all’anno
1423, col. 1289:

… quoniam mos est apud januenses nostros, quum exercitus nostri navigia bellica attingunt
numero viginti quinque, creari et nominari praesidem et rectorem earum Admiratum, cum vexillo
sanctissimi protectoris nostri Georgii…

E all’anno 1431, col. 1.306:

… Die XIII Julii unanimi omnium assensu in Admiratum galearum XXV spectabilis Franciscus
Spinula quondam domini Octoboni electus est, vir quidem virtutis et periculis expertus, ut in eventu
rerum venetorum galeis se animose opponat. (Ib.)

Il termine almirall fu dunque usato originalmente in tutto il Mediterraneo, cioè dai veneziani, dai
genovesi, dagli iberici, specie dai catalani e, di conseguenza, anche dagli aragonesi, come si può
leggere più volte nei capitoli del Consolato del Mare (J. M. Pardessus. Cit.) e nelle Croniche del
d’Esclot e del Muntaner; in seguito, nel Rinascimento, sarà dovunque sostituito da quello di
capitano generale. Ciò però non significa che il titolo di capitaneus non fosse già anch’esso usato
nel Basso Medioevo, solo che allora significava comandante non di un’intera squadra o addirittura
di un’intera armata, bensì di un distaccamento costituito da due o più galere, anche commerciali,
cioè all’incirca quello che poi nel Rinascimento divenne, specie in Spagna, il cuatralbo, ma questo
solo per i vascelli militari:

… Alli 30 (agosto 1380) la Signoria (di Venezia) fece capitano di 3 galee Marco Faliero… (Daniello
Chinazzo, Cronaca della guerra di Chioza etc. In LT.A. Muratori, Rerum italicarum scriptores etc.
C. 772, t. XV. Milano, 1727.)

In seguito, nel Cinquecento, il titolo di capitano sarà dato anche al comandante di un singolo
vascello militare in sostituzione di quello di patrone, il quale resterà ai soli vascelli commerciali. In
Francia esisteva nel Medioevo un ammiraglio maggiore. Un capitano generale del mare, detto
governatore generale delle galere da pontifici e toscani e kapudan pasha dai turchi, aveva una sua
camera a poppa della galera Reale o Capitana; in caso di vascello tondo, poteva anche averne
due, delle quali una per dormivi e una maggiore per tenervi consiglio. Doveva comandare che
nessuno si trattenesse vicino al suo alloggio se non i marinai di servizio o coloro da lui a ciò
autorizzati e ciò perché ognuno a bordo cercava d’esservi, specie i venturieri che volevano
mettersi in evidenza ai suoi occhi, impacciando così i movimenti dello stesso generale sino a
metterne a rischio la stessa incolumità, facendolo talvolta inciampare o cadere nelle angustie e
dalle scalette del vascello; talvolta egli, come per esempio racconta il de Bourdeilles che amassero
601

fare il marchese del Vasto e Andrea d’Oria quando erano insieme a bordo, se n’andava a desinare
sulla rembata avec un beau tapis de Turquie, qui luy servit de chaire à la mode de galere (cit.).
Più tardi, eleggendosi generalmente al ruolo di ammiraglio un ufficiale generale esperto di guerra
nautica, in un numero sempre maggiore di stati europei l’ammiraglio finì per diventare lui il
comandante delle armate di mare, armate che non ebbero quindi da allora più bisogno di capitani
generali, lasciandosi il suo vecchio incarico a terra a un molto meno influente provveditore
generale. Era, quello del capitano generale (poi dunque dell’ammiraglio), il vascello di fanò o di
fanale, come si dirà poi dal Medioevo, per antonomasia, ossia un vascello di comando ( gr.
ϰατέργος ἐξουσιάτος), il quale, in quanto tale, portava a poppa un grande fanale o lanternone (ol.
lantaarn), la cui luce doveva servire di notte da guida a tutte le altre galere dell'armata, così come
di giorno la stessa funzione di punto di riferimento e d'adeguamento era assunta dal gonfalone e
dall'altre bandiere di segnalazione (ol. sein-vlaggen) usate appunto da una galera di comando per
farsi seguire ed emulare dalle altre; un altro vascello di comando che chiudesse di notte la
formazione con fanale acceso era talvolta usato perché i vascelli ordinari sapessero quando
stavano rischiando di restare troppo indietro; le galere ordinarie, ossia quelle che non esercitavano
comando sulle altre, dalla fine del Rinascimento portavano, in luogo di questo grande fanale, una
più piccola lanterna, espediente che in precedenza avevano usato solo in tempo di burrasca per
ridurre il rischio di derivare l’una contro l’altra quando si navigava di conserva, come si evince dalla
lettura del succitato Governo di galere; ma nel corso del Cinquecento, come vedremo in un altro
capitolo, gli ordinamenti di fanaleria medioevale verranno in buona parte cambiati dal principe
Andrea d'Oria.
Il vascello Reale si distingueva di giorno da una piccola bandiera quadrangolare posta sul calcese
di maestra, se a bordo era presente il sovrano, e su quello di trinchetto, se invece era presente il
generale; si distingueva inoltre dal predetto gonfalone o stendardo reale posto davanti alla poppa
e, quando in un’armata era presente questo vessillo, le galere Capitane delle varie squadre che
costituivano l'armata medesima erano obbligate ad abbattere il loro stendardo in segno di
subordinazione e deferenza e a innalzare in sua vece un gagliardetto quadrangolare sul calcese di
maestra, in modo da poter così sempre essere distinte dalle galere ordinarie della loro squadra e
ciò perché la forma quadra dava ai vessilli il significato del comando. Bandiere e stendardi di
comando si alzavano allo spuntar d'ogni giorno, mentre i trombettieri di bordo suonavano il motivo
detto appunto all'alborata.
Una galera ordinaria portava, come già sappiamo, oltre a stendardi e bandiere di comando a
poppa anche vessilli ornamentali minori posti longitudinalmente su alberi e alte manovre e a
maggior ragione ne portavano la galera o il galeone Reale, anzi n’erano più ricchi, ostentando così
602

un gran numero di fiamme, gagliardetti grandi e piccoli, pennoni e pennoncelli, recanti per lo più il
disegno delle armi reali, ossia dello stemma del sovrano, armi che, se il vascello imbarcava il
principe medesimo o comunque un capitano generale di sangue reale, potevano essere dipinte su
impavesate di tessuto di lana (fr. frise) o di tela o sul castello di prua o molto in grande sulle vele o
su tutta la poppa dall'estremità superiore del cassero giù sino alla superficie del mare; inoltre su
ricchissime tende e tendali, baldacchini e tappezzerie varie in velluti, sete e ori da usare soprattutto
sulla poppa e ciò specialmente in occasione d'ingressi trionfali nei porti o di un’armata che
salpasse contro gl'infedeli o in altre circostanze cerimoniali. Ciò era particolarmente consueto nel
Mediterraneo, dove i trionfi erano molto più ricchi e sontuosi che in qualsiasi altro mare, come
appunto all’inizio del Cinquecento ne scriveva Filippo von Ravenstein signore di Cléves,
governatore di Genova per il re Luigi XII di Francia, trattando della ricchezza di tali ornamenti, e
dove le lussuose tappezzerie delle galere Reali erano talmente grandi da pender giù dalla poppa e
dalle fiancate sino a sfiorare le acque del mare. In tali occasioni si cercava anche di far apparire in
abiti uniformi e puliti i remiganti, i quali, come già sappiamo, vestivano tradizionalmente di rosso e
di turchino, e, se poi il loro aspetto non era presentabile, allora le suddette belle impavesate
decorate con le armi reali avrebbero fatto in modo che per lo meno da terra non li si potesse
vedere. Per esempio i pavesi usati a bordo dei vascelli borgognoni del Quattrocento erano dipinti
appunto con le armi del duca di Borgogna e cioè di bianco e blu con la croce rossa di S. Andrea e
fusils d’oro e d’altri colori, come risulta dai documenti d’archivio pubblicati nell’Ottocento dal Finot.
Un capitano generale comandava l'armata e gli arsenali anche nella stagione del disarmo, cioè
d'inverno, amministrava la giustizia di tutta la gente di mare, concedeva egli solo patenti e
salvacondotti marittimi, godeva di numerosi diritti e privilegi, tra i quali il più importante era l'
ammiragliato, vale a dire il decimo di tutte le prede fatte da vascelli del suo principe, sempre però
che lo stesso generale le avesse prima dichiarate di buona presa, ossia sicuramente nemiche o
recanti merci di contrabbando al nemico, perché altrimenti si sarebbero dovute restituire ai legittimi
proprietari. Tali diritti e privilegi variavano considerevolmente a seconda dei paesi, ma erano
particolarmente rilevanti quelli che godevano i capitani generali del Mediterraneo.
Dall'ammiraglio del mare del re di Spagna, titolo che diventerà sempre più oceanico e sempre
meno mediterraneo, il quale, ricoperto per esempio all’inizio del Seicento da Filiberto di Savoia,
dipendevano i capitani generali delle varie squadre e armate di quella corona ed erano l'armata del
Mar Oceano, fatta di galeoni e altri vascelli tondi e il cui principal compito era la protezione delle
flotte mercantili spagnole provenienti dalle Indie d'oriente e d'occidente, e le cinque squadre di
galere nel Mediterraneo. Tali capitani godevano anch'essi d'importanti privilegi e, tra gli altri, quello
603

d’aver diritto a una guardia personale a spese della Corte, come i 12 alabardieri che toccavano al
capitano generale dello stuolo o squadra di Napoli.
Un capitano generale, certamente di nobile famiglia come lo erano anche gli ufficiali generali di
terra, più di questi doveva essere pronto ai disagi e alle privazioni quasi quanto gli uomini che
comandava, perché il mare trattava tutti allo stesso modo e per di più in galera, dove bisognava,
tra le altre scomodità, assuefarsi al dormir male, a i cattivi odori, come scriveva il Pantera (Cit. P.
98), alla scarsa igiene, al mal di mare, all'esiguità dello spazio vitale, alla forzata promiscuità e alla
mancanza d’acqua e cibi freschi, oltre ai pericoli di mare e di guerra. Doveva innnanzi tutto essere
sempre presente, cosa che raramente accadeva, come lamentava Gioan Andrea d’Oria,
soprintendente generale dell’armata di mare di Spagna, scrivendo al re Filippo II:

Una delle cose che ha ridotto le galere di Vostra Maestà nelle condizioni in cui si trovano è stata la
lunga assenza che tutti i loro generali hanno fatto; e, poiché per questa causa principalmente
l’armata di V. M. si trova tanto disordinata che non oso rappresentarlo, uno dei rimedi principali per
riordinarla e conservarla sarà dunque che V.M. comandi che d’ora in avanti tutti i capitani generali
di galere siano presenti e navighino in esse (Colección de documentos inéditos para la historia de
España etc. Pg. 178. Tomo II. Cit.)

Queste prolungate assenze erano per esempio causa che i viceré dei regni soggetti alla Corona di
Spagna si ingerissero indebitamente nella gestione delle squadre di galere spadroneggiandovi a
loro piacimento (Ib. P. 182). Un’altra condizione molto negativa che travagliava allora le galere di
Spagna era l’abituale gran ritardo del denaro destinato alle paghe e alle loro spese generali, ma
trattandosi di aspetti finanziari della materia militare, aspetti nei quali oltretutto bisognerebbe molto
dilungarsi, tralasciamo di trattarli. Un buon generale di mare doveva esercitarsi nelle guerre
terrestri per lo meno sino ai 35 anni e solo dopo passare a quelle di mare, insegnamento questo
che si poteva leggere anche negli antichi testi greci e romani; così aveva fatto Andrea d'Oria,
venuto anzi a comandare sul mare quando aveva ormai superato i 45 anni e così fecero suo nipote
Filippino e l'altro suo parente Antoniotto d'Oria, ambedue ottimi capitani generali; da ciò risultava
che gli armiragli e gli ufficiali generali cristiani in generale fossero più portati alla guerra navale
d'ordinanza, mentre quelli turco-barbareschi si esercitavano per lo più sul mare sin da ragazzi e
quindi erano più versati nella guerra di corso; così era stato infatti per il Barbarossa, il quale sin da
piccolo aveva navigato con suo fratello maggiore Baba Arouj, audace corsaro anche questo e del
quale presto diremo. Facevano eccezione nella cristianità i generali di mare veneziani, i quali,
similmente a quelli barbareschi che andavano in corso sin da fanciulli, spesso erano esercitati nel
mare sin da giovanissimi come nobili di poppa e si ricorda a tal proposito il già menzionato
veneziano Girolamo da Canal detto il Canaletto, proprio come il più tardo preclaro pittore, il quale
divenne sovraccòmito a soli 20 anni, perché il padre Cristoforo se lo era portato sulla sua galera
604

come nobile di poppa sin dalla sua tenera età di quattro anni e pertanto soleva dire
scherzosamente del figlio che ‘lo aveva allattato col biscotto’. E che ritenesse ciò cosa molto utile
al comando marittimo egli lo sostenne anche nel suo da noi già citato trattato con la seguente
affermazione:

... (per) formare un capitano marittimo, dico che colui che dalli anni teneri haverà lungamente
patito caldo e freddo nelle galee armate sarà molto atto a governare e condurre un’armata
vittoriosa per i mari. (Cit. P. 183.)

Il da Canal era uomo non solo di esperienza ma anche di tradizioni belliche marittime familiari; un
suo antenato, Leonardo da Canal, si era infatti molto distinto sia nella famosa ‘Guerra di Chioggia’,
combattuta tra Venezia e Genova neglianni 1378-1381, sia anche in seguito. Invece, secondo
Francesco Maria della Rovere il Vecchio (1490-1538), primo duca d'Urbino, questo era proprio il
principale motivo per cui le armi marittime della Serenissima avevano avuto sino ai suoi tempi così
tante volte la peggio contro quelle ottomane, cioè la mancanza d’una vera esperienza militare dei
suoi capitani, esperienza che si poteva allora, secondo lui, acquisire solamente nel servizio di terra
e della quale non avevano bisogno i generali turco-barbareschi sia perché l’andare in corso
insegnava cose molto più utili alla guerra di mare di quanto facesse la normale milizia marittima sia
perché d'altra parte, dato il modo disordinato di combattere dei turchi, di buona ordinanza nei loro
eserciti di terra nulla avrebbero potuto apprendere (Discorsi militari etc. Ferrara, 1583). In realtà
che un corsaro famoso diventasse capitano generale accadeva non di rado e si potevano ricordare
a questo proposito il sanguinario calabrese Giovanni Stirione, fatto appunto capitano generale dai
bizantini nel 1198 e mandato con un’armata di trenta vascelli, il cui nerbo era però costituito da
galee mercenarie pisane, a combattere il corsaro genovese Ugo Caffaro, il quale l’anno
precedente si era messo a razziare le isole dell’Egeo con quattro galee tra biremi e triremi e poi,
dopo i successi iniziali, anche con altri vascelli; lo Stirione alla fine lo sorprese, lo vinse e lo fece
uccidere, come leggiamo nel Storie di Niketas Koniatos, laddove questi scriveva del tempo
dell’imperatore bizantino Alessio Comneno (lt. II).
I veneziani dunque, più che buoni generali di mare, con i loro sistemi allevavano solo dei buoni
navigatori; e che così fosse lo dimostra la considerazione che, nonostante la ricca Venezia fosse in
grado di mettere in mare in un sol colpo armate anche d’un centinaio di galere, non riuscì mai,
dopo il Medioevo, a dare da sola un colpo decisivo alla potenza marittima ottomana e dovette farlo
poi a Lepanto con l'aiuto determinante dei ponentini. In effetti, buoni navigatori e ottimi mercanti,
acuti osservatori e consumati politici, i veneziani non risultarono quasi mai eccellenti combattenti
campali, probabilmente perché la Serenissima, avendo scelto - così come aveva del resto fatto
anche la Francia - di affidare la sua difesa a una cintura d'inespugnabili fortezze e non avendo
605

inoltre mire espansionistiche in Italia, poco sempre aveva curato l’esercizio e la combattività della
sua fanteria, in ciò differendo invece dai transalpini in quanto la corona di Francia era sempre stata
sin troppo espansionistica; in mare riuscivano a tener abbastanza a freno gli appetiti imperialistici
degli ottomani rendendoli consapevoli del mutuo vantaggio di trafficare e negoziare con loro e con
la continua minaccia del ricorso alla costituzione della lega cristiana contro di loro, minaccia che
Lepanto dimostrò poi esser molto concreta. Forse il segreto del millenario impero di Venezia fu
proprio questo suo anti-eroismo oligarchico, come giustamente scriveva il Levi:

... Venezia non ebbe mai grandi ardimenti, quegli ardimenti, ripeto, che si possono avere da un
principe solo e che possono indurre a grandezza somma od a rovina [...] La oligarchia veneziana
odiava i vittoriosi, temeva che un patrizio trionfante cesarizzasse, distraeva (quindi) i migliori dalle
armi e chiamava straniere soldatesche, stranieri istruttori, stranieri comandanti [...] Venezia fu
sempre così, duole il cuore a dirlo ad un veneziano, odiò sempre gli animosi... (Cesare A. Levi.
Cit.)

Forse li odiava, ma è certo che, quando i suoi generali di mare mostravano inettitudine o troppo
poco ardimento, li esautorava e, in caso di procurati danni alla repubblica, anche li processava e
condannava senza pietà, come in qualche caso vedremo. In realtà la storia ci racconta che nelle
grandi battaglie marittime e nelle strenue difese di fortezze assediate i veneziani dimostrarono
spesso più del semplice ardimento, dimostrarono cioè sempre grande abnegazione e coraggio e
tanti episodi - come per esempio Lepanto, Famagosta, il caso del galeone del Bondumier di cui
abbiamo già detto - lo attestano inequivocabilmente; comunque è chiaro che la loro principale
inclinazione mercantile inquinava notevolmente la reputazione bellica che si aveva di loro e, tanto
per fare un esempio molto importante, i loro vascelli mercantili non si difendevano quasi mai in
maniera dignitosa quando erano assaliti dai corsari perché i mercanti, per mantenere le loro merci
a prezzi competitivi, assoldavano generalmente per pochi soldi equipaggi fatti di gente di infima
qualità e di fanciulli ancora inesperti del mare, come ben spiegava Franciscus Savary de Breves
nella sua relazione diplomatica (Relation des voyages etc. Parigi, 1630.). Per tal motivo, quando si
vedevano assaliti, spesso sparavano subito bordate di cannonate contro gli assalitori sperando di
metter loro paura e di farli desistere; ma, se quelli ciò nonostante proseguivano l’assalto, subito
s’arrendevano cercando così di salvare il salvabile (ib.)
Questo non significa che gli ufficiali generali di mare veneziani non avessero una buona
reputazione; per esempio nel 1496 il capitano generale Marchionne Trivisan, a seguito di una
richiesta in tal senso inviata al suo Senato dall’allora alleato re Ferrante d’Aragona, fu incaricato di
andare a Napoli a rimettere a posto la dissestata e malconcia squadra di galere di quel regno (M.
Sanudo, Diarii. T. I, col. 215), cosa che fece.
606

Ma, per restare in tema di mitezza politica dei veneziani, racconta il Sereno nei suoi Commentarij
che nell’estate del 1571 quelli che nell’armata della Lega cristiana erano contrari a venire a
battaglia con i turchi solo per difendere gl’interessi di Venezia, sapendo quanto questa fosse
sempre pronta a trattare poi paci poco onorevoli, facevano le seguenti osservazioni:

… Che i veneziani, per natura nemici di combattere, avvezzi molto nei perigli d’altri di starsi in pace
a vedere, ora per necessità, mutando natura, ne’ lor proprij perigli stimolavano gli altri alla
battaglia, poi che, ridotti in estrema miseria, si veggono rovinati: che, conoscendo essi quello che
loro importi l’aver guerra col Turco, saranno sempre per antiporre la pace, quantunque disonorata,
quantunque di condizioni intollerabili, a quanta riputazione, a quanto comodo la guerra possa dare
alla Lega, se ben ora dalla necessità costretti, persuadano i primi di combattere… (B. Sereno. Cit.
P. 144.)

Premesso che i veneziani, anche se poco inclini alla guerra, quando poi ci si ritrovavano si
comportavano generalmente con coraggio e granxde spirito di sacrificio personale, cosa che
invece non si poteva sempre dire dei genovesi, i loro suddetti detrattori avvaloravano senza volerlo
queste loro non riconosciute doti belliche quando aggiungevano che i lagunari spingevano alla
guerra inconcepibilmente, cioè pur essendo consapevoli che la Lega poteva avere sino a un terzo
di meno delle galere che invece poteva mettere in campo il Sultano di Costantinopoli e che le navi
di cui i cristiani disponevano non potevano certo sostituire in battaglia le galere, visto che i loro
movimenti dipendevano solo dall’avere il vento a favore e nel passato questa loro troppo frequente
inutilità in combattimento si era dimostrata più volte; sapevano che le loro proprie galere si erano
presentate alla Lega guarnite di pochissimi soldati e che, a differenza dell’armata turca, la quale
aveva combattenti ben motivati ed esercitati al mare, i fanti sia spagnoli che italiani dell’armata
erano per la maggior parte bisoños, ossia reclute inesperte, e che quelli tedeschi pure imbarcati
erano, come ben si sapeva, poco adatti alla guerra di mare perché dotati di poca archibugeria e
inoltre perché molto sofferenti di mal di mare:

… I tedeschi, freddi, pigri e del tutto inutili al mare, i quali, non come soldati con numero (di nemici)
pari atti a combattere, ma come pecore da lasciarsi senza contrasto scannare, non daranno altro
che impaccio… (B. Sereno. Cit. P. 145.)

Nei Diarii di Marin Sanudo leggiamo di un tentativo fatto dal cosiddetto Re de’ Romani, cioè
l’imperatore Massimiliano d’Asburgo, di imbarcare anche soldatesche austriache sulle navi
genovesi da lui nel 1496 noleggiate in Liguria in funzione anti-angioina:

… Il re messe suso molti alemani, li quali però, ogni poco di marizada, se intorbavano (Cit. T. I,
col. 362).
607

I soldati teutonici erano anche molto difficili da controllare a causa dei loro due principali vizi
nazionali, cioè la crapula e l’avarizia; infatti così il 31 luglio del 1571 scriveva da Napoli al suo
senato il già più volte citato Bonrizzo a proposito dei due colonnelli di fanteria tedesca, cioè quelli
d’Albrich von Loden e di Sigismondo Gonzaga per un totale di più di seimila uomini, che
s’attendevano in quella città per farli poi proseguire per Messina, porto dove si stava raccogliendo
la grande armata che avrebbe poi vinto a Lepanto, a bordo di 13 galere napoletane che già
stavano caricando viveri e munizioni:

… Su esse saranno imbarcati i fanti tedeschi non appena giungeranno dalla Spezia, così perché
siano pronti alla partenza come anche per evitare che, scendendo a terra e mangiando e bevendo
a crepapelle, s’ammalino… (N. Nicolini. Cit.)

Quindi quanto solo dalla disperazione e non dalla ragione dovevano esser spinti i veneziani a
cercare quell’anno la battaglia! Però fortunatamente per tutta la cristianità d’allora e d’oggi questo
partito dei disfattisti non l’ebbe vinta e si arrivò così a quella provvidenziale e luminosissima vittoria
che fu Lepanto. Una pace rinunziataria sarà però effettivamente presto conclusa col Gran Turco
dai veneziani, pace con cui essi infatti, non solo s’impegnavano a pagare ai turchi pesanti danni di
guerra, ma anche riconoscevano tutti gli acquisti bellici da loro fatti mentre rinunziavano a quelli
propri; ma essi si giustificarono poi con argomenti di real politik e, come esempio di questa,
ricordavano la tregua conclusa con i turchi nel gennaio del recente 1568 dall’imperatore
Massimiliano, certamente tanto più potente di Venezia, il quale, nonostante i turchi avessero
sottratto al suo imperio tanti territori, aveva anche lui finito per firmare un armistizio che non era
altro che una presa d’atto delle gravi perdite subite:

… Fu questa pace in Costantinopoli conchiusa del mese di marzo l’anno del 1573, le cui
condizioni, non dalla ragione, ma dalla fortuna dispari accordate, furono tanto a’ veneziani
dannose che per più di due mesi da poi, vergognandosene, non le vollero publicare; anzi, quando
nel lor consiglio de’ Pregati furono lette perché col consenso di quello fossero stabilite, tante
contradizioni trovarono che, essendo i voti pari, per una sola balla ottennero d’essere accettate. (B.
Sereno. Cit. P. 331.)

Addirittura in questo trattato i turchi s’impegnavano a difendere Venezia e i suoi interessi da


principi cristiani che, scandalizzati da quest’accordo, avessero eventualmente deciso di molestarla!
Ma, si sa, quello di Venezia era un animo principalmente mercantile e quindi le bastava che le si
permettesse di trafficare liberamente in Levante, cosa che i turchi volentieri le concessero, visto
che era anche nei loro interessi. A un certo punto comunque Venezia dovette pur avvisare della
pace da lei conclusa i suoi collegati, i quali, del tutto ignari di ciò, erano intenti ad approntare una
nuova armata da opporre ai turchi anche in quel terzo anno:
608

… Attendeva il Papa con molto fervore all’espedizioni della guerra, quando dall’ambasciadore di
Venezia gli fu dato questa nuova, dalla quale come percosso, da somma collera agitato, disse
all’ambasciadore che se gli levasse d’avanti e che quella republica scomunicava e, pieno di
rancore, comandò subito che le galee del Gran Duca (di Toscana) e i soldati si licenziassero; e,
chiedendogli Marc’Antonio (Colonna) licenza, senza replica gliela diede. Don Giovanni, inteso il
successo, abbatté lo stendardo della Lega nel molo di Napoli, dove prima l’haveva inalberato… (Ib.
P. 333.)

Era il 20 aprile 1573. Probabilmente il real bastardo ne fu invece contento, visto che nelle delizie di
Napoli altro fuoco che quel della guerra l’animo giovanile di don Giovanni havea scaldato… (Ib. Pp.
328-329), ma dovrà di lì a pochi mesi dedicarsi all’impresa di Tunisi e quindi rinunziare ugualmente
al fascino conturbatore delle belle sirene partenopee, cioè a quella stessa consumata e calcolata
malia che nel passato aveva sempre infiacchito gli eserciti che avevano conquistato Napoli, tanto
da far dire a Carlo VIII, com’è noto, che i napoletani, invece di far la guerra con le armi, la facevano
con le loro femmine! Non si trattava comunque di quella pura e semplice disponibilità sessuale
offerta, per esempio, dalle donne dell’isola di Milo, le quali in tutti i tempi, è noto, non sono state
mai avare dei loro favori, scriveva il Digby; l’inglese, come il re di Francia da Napoli, aveva dovuto
portar via i suoi uomini da quell’isola:

… il luogo infatti offriva tali occasioni di dissolutezza che avevo per esperienza provato quanto
fosse difficile tenervi a freno gli uomini… (Sir Kenelm Digby. Cit.)

Invece, per quanto riguarda la bellezza pura del volto, erano famose - allora come anche oggi - le
donne persiane; ecco infatti che cosa si dice nella già citata relazione veneto-francese del 1620
che elenca le autorità, i diplomatici e gli ospiti stranieri che il 24 novembre 1619 assistevano ai
festeggiamenti per la circoncisione del giovanetto Amurat, figlio del sultano Ahmei:

… plusieurs gentilhommes (persiani)… ils menoyent avec eux plusieurs filles et femmes qui
estoient richement vestuë et supernaturellement belle… Les persiennes emportent le pris d’estre
les plus belles du Levant ; aussi le grand Alexandre ne voulut point voir les filles de Cirous roy de
Perse, de peur d’en estre espris pour leur trop grand beauté. (In Les cérémonies, magnificence,
triomphe etc. Cit.)

A Lepanto, tra le tante deficienze che manifestò l'armata ottomana, venne fuori anche quella di
comando dei generali di mare turchi che avevano da qualche tempo sostituito quelli barbareschi,
come già nel 1560, di ritorno da Costantinopoli, aveva spiegato il bailo Marino Cavalli:

... Il generale (dell'armata di mare) poi si cava quasi sempre dalli schiavi usciti dal serraglio proprio
del Gran Signore, che sono amorevolissimi, fedelissimi ed obbedientissimi; e, se bene non sieno
mai stati in mare né sappiano quel che siano le galee, non si resta però di dar loro il generalato,
quando però si conoscano fedeli, prudenti e non sbaragliosi (‘temerari’) come Barbarossa e
Dragut, i quali con il lor troppo ardire hanno perso molte galee e fatto dormire molte fiate
inquietamente il Gran Signore. (E. Albéri. Cit. S. III, v. I, P. 295)
609

Il capitano generale del mare non sempre era a bordo della sua armata, bensì solo quando
l'impresa da tentare era degna di lui e ciò valeva anche per quello dell'armata ottomana, come ci
spiega il bailo Costantino Garzoni (1573):

... Ha il Capitano di mare carico del governo di tutta l'armata - non dell'imprese che si hanno da
fare, poiché questo si aspetta al Bascià-visir (‘primo ministro’), se bene è messa sempre in
considerazione l'opinion sua - e ordinariamente si suol mandare sopra l'armata quando si ha da
fare alcuna impresa importante. Riceve il Capitano del mare, al partire di Costantinopoli, il
comandamento del Gran Signore in una carta rinchiusa, la quale egli non apre se prima non ha
passato con l'armata i Dardanelli. Questo costume è introdotto acciò che più quiete e più segrete
passino le imprese che si hanno a fare. (b. S. III, v. I, p. 425.)

Nel 1562 il più volte già citato segretario Marc'Antonio Donini descriveva il carattere di Rostan
Pasha detto Pialì, genero del futuro sultano Selim II e beglierbeg del mare, ossia capitano
generale del mare dell'impero ottomano, il quale verso il 1556 aveva sostituito in questo carico
Sinan Pasha e ogni anno, affiancato dal solito Torgud, il quale comandava la sua avanguardia,
aveva poi portato fuori l’armata devastando gli abitati dell’Italia meridionale fino al canale di
Piombino, attacchi tra i quali si ricordano quelli a Sorrento e alla solita disgraziata Reggio:

... Sua Signoria (Pialì Pasha), se bene sempre che è uscita fuora con l'armata è ritornata vittoriosa
e specialmente della impresa del Zerbi (battaglia dell'isola delle Gerbe, 1560), dove però fu in
manifestissimo pericolo di perdere tutta essa armata, non di meno deve più presto essere
chiamata fortunatissima che di molto valore, non avendosi sin’ora potuto accommodar più che
tanto alle cose del mare né aver quella pratica e intelligenza che si richiederebbe ad un capitan
generale per essere molto timida. Ha però buonissimi consiglieri che gli levano il peso di molte
cose spettanti al carico suo; mangia dell'oppio per ritrovarsi alle volte libera da ogni pensiero e
travaglio e specialmente del mare. É di nazione unghero e di anni 37 incirca, di natura piacevole e
umana e di mediocre intelletto. (Ib. S. III, v. III, pp. 188-189.)

Il già citato Quarti riporta che Pialì infante era stato trovato nudo e abbandonato in un fossato dai
cani del sultano Sulaiman in Ungheria, quando l’invase la prima volta, quindi dal 1521 in poi. La
scarsa considerazione che gli osservatori veneziani avevano di questo kapudan pasha è ribadita
nella relazione del bailo Jacopo Ragazzoni, la quale è del 1571 e di pochissimo antecedente allo
scontro dei Curzolari:

... Pialì, terzo bascià, è di nazione ongaro, d'età di anni quarantacinque, persona né di molto valore
né di molta prudenza. (G. A. Quarti. Cit.)

In effetti, dalle Gerbe in poi, Pialì cominciò a perdere anche la sua fortuna bellica, perché, inviato
con Mustafà Pasha, generale delle forze di terra, nel maggio del 1565 da Sulaiman alla conquista
di Malta, isola donata ai cavalieri di S. Giovanni di Gerusalemme nel 1530, essendo allora semi-
deserta, insieme con la città di Tripoli, fallì l'impresa, come già una volta era fallita ai turchi nel
610

1551, quando cioè il kapudan pasha Sinan, coadiuvato da Torgud, aveva assalito l’isola con 90
galere, 50 tra fuste e galeotte barbaresche, due maone e un galeone forniti dai figli del
Barbarossa, 10mila soldati tra cui 3.500 giannizzeri e 60 pezzi d’assedio; e ciò sebbene il sultano
gli avesse ora messo a disposizione una ben più formidabile armata, costituita cioè da 142 galere,
tra cui 10 della Guardia di Rodi capitanate da Alì Pertev e due di quella di Metelino, 30 galeotte,
otto maone, quattro caramussali, dei quali uno però presto affondò nelle acque di Napoli di
Romania portando con sé 700 giannizzeri e 6mila barili di polvere, e inoltre 11 navi grosse e gran
numero di naviglio remiero minore, quali bergantini, fuste, fregate e battelli, artiglierie d’assedio, tra
cui uno smisurato basilisco, e quasi 80mila uomini, tra cui 39mila combattenti; questi ultimi erano
la somma di 7mila sipahì timarioti, ossia cavalleggeri provinciali, condotti dal sangiacco della
Natolia, 1.500 da quello della Morea, 500 da quello di Caramania, 500 da quello di Metelino e
inoltre di 5.500 giannizzeri, 20mila servi della gleba mediorientali e 4mila alcanzì, ossia
avventurieri. Nel marzo precedente il quarto marchese di Villafranca Garcia de Toledo, allora
viceré di Sicilia e inoltre capitano generale dell’armata spagnola del Mediterraneo (1565 -1568),
nomine che aveva entrambi ricevuto da Filippo II già nel 1564, era partito da Messina con 36
galere di Sicilia, Napoli, Firenze e Spagna, sulle quali aveva fatto caricare ben 3.600 salme di
frumento fresco, quindi 100 a galera, per andare a imbarcare sulla riviera ligure fanteria spagnola e
portarla a rafforzare Malta e la Goletta di Tunisi, entrambe minacciate dall’incombente uscita in
campagna della suddetta armata turca, e tali galere, giunte poi a Malta il 9 aprile, sbarcarono
rifornimenti e un numero imprecisato di fanti sulla marina di quell'isola detta Le Pietrenere e
successivamente, durante la Settimana Santa, altre provvisioni e quattro compagnie dei predetti
spagnoli alla Goletta; infatti il 18 maggio successivo si presentò a Malta la predetta armata di Pialì
e Mustafà, la quale ricevette presto il rinforzo d’Uluch-Alì, il quale portava sei galere e 900 soldati
turchi della guardia d’Alessandria, e di Torgud, governatore di Tripoli e Gerba e beglerbegi
d’Acarnania, il quale guidava allora invece 12 o 13 galere, 3 maone e un buon numero di soldati
turchi di quella città; quest’ultimo, appena arrivato, disse che non si meravigliava che da tanto
tempo ancora non si fosse preso il forte di S. Hermo, visto che la batteria con cui lo si stava
battendo era stata posta tanto erroneamente lontana dalle mura, e quindi, mentre dirigeva di
persona l’accostamento di tale batteria, fu colpito alla testa da una scheggia di pietra provocata da
una palla dell’artiglieria nemica e morì; il de Bourdeilles s’era sentito fare il racconto di questa
morte proprio dal gran maestro Jean de la Vallette:

… ainsi que j’ay oüy dire à monsieur le Grand Maistre, qui fut tres-aise de sa mort et à qui j’ay veu
louër beaucoup ce Dragut…(P. de Bourdeilles. Cit.)
611

Il forte predetto, principale baluardo di quei coraggiosi e valorosissimi cavalieri, sarà poi espugnato
dagli ottomani il 24 giugno, festa della natività di S. Giovanni Battista:
… Li turchi con barbara e natural fierezza (‘ferocia’) usarono ogni strazio e crudeltà con quanti
ritrovarono vivi in S. Ermo, strappandoli i cuori e sbranandoli; così parimente presero trenta
cavallieri con le teste troncate, sparati (sic; spirati?) in croce con le viscere pendenti e con le
sopravesti ligati ad ordine (‘in serie’) in una lunga trave, li buttarono in mare, li quali, portati dalla
corrente dell’acque dentro il porto interiore (‘la darsena’), furono sepelliti con molte lacrime. Per
questa inescogitata crudeltà comandò il Gran Maestro a’ governatori delle fortezze che non
facessero niun prigione, ma che, avendoli prima ricavato alcuna cosa di bocca, li scannassero,
facendo in quell’istante fare l’istessa morte a quanti turchi si ritrovorno presi… (Gioseppe
Buonfiglio Costanzo. Cit. Parte II. P. 191.)

Intanto, sotto il comando del predetto Garcia de Toledo e con la massima lentezza, si preparava a
Messina un’armata di soccorso; il de Toledo, mentre attendeva colà che si completasse la massa
delle galere, si preparava anche facendo costruire barconi da batteria e reti di corda da stendere
sulle galere, in modo da formarvi come dei ponti aerei che sostenessero altri soldati, a imitazione
quindi dei bertoni di ponente, inoltre inviava ogni tanto qualche squadriglia di soccorso a Malta;
infatti dapprima inviò Juan Francisco de Cardona con quattro galere e 700 soldati, tra cui il mastro
di campo Melquior de Robles con 200 spagnoli del suo terzo fisso di Sicilia ed 80 cavalieri
giovanniti, galere che, dopo aver penato per qualche tempo a causa del maltempo che le spingeva
lontano da Malta, alla fine raggiunsero l’isola e sbarcarono il loro soccorso in località Pietra Negra,
detta dai maltesi la Melecha, soccorso che marciò occultamente di notte sino a riuscire il 29 giugno
a entrare sano e salvo nel borgo assediato:

… solamente sul far del giorno fu preso il comendator don Gieronimo di Gravina cattanese, per
non haver potuto marchiare in fila con gli altri per la molta pancia e per la vecchiaja e per non
volersi disarmare la corazzina (‘togliere la pesante corazzina’) qual molto ricca e bella havea in
dosso. (Ib. P. 192.)

Un secondo soccorso tentato più tardi dalle quattro galere del de Cardona che portavano altri 600
fanti spagnoli, pochi italiani e molte munizioni e vettovaglie fallirà il suo intento, non riuscendo a
sbarcare gli aiuti trasportati per le molte guardie ora predisposte dai turchi, mentre un sostanzioso
rinforzo arrivava invece ai turchi per l’arrivo del beglerbegi d’Algeri Hassan Pasha, figlio del
Barbarossa, alla testa di sette galee grosse, molte galeotte e bergantini e duemila turchi, in
maggior parte rinnegati; un terzo soccorso anche fallirà e si tratterà delle due galere maltesi che
erano a Messina, le quali portavano molti di quei cavalieri giovanniti e soldati ed erano
accompagnate da due fregate, una delle quali, guidata dal conosciuto piloto detto padron Orlando,
fu catturata dai turchi. Frattanto Garcia de Toledo, invece d’affrettare la partenza della sua armata,
612

procedendo con la consueta flemma (Ib. P. 561), se ne stava in Messina dedito a infiniti
preparativi:

… Quivi don Garzia stupiva il Mondo (‘tutti’) per gli apparati grandi, fabbricando barche e
intessendo reti e togliendo da’ padroni tutti li schiavi ch’erano in Sicilia, fuor che da Messina, atti a
remare e così parimente tutti li carcerati, li quali, come gente incavezzata al disagio e alle fortune
di mare, s’ammalò e morì (‘s’ammalarono e morirono’) poi nelle carceri con mirabile spettacolo. (Ib.
P. 194.)

Finalmente il 7 settembre – però con un notevole ritardo che qualcuno infatti in seguito
stigmatizzerà – il de Toledo sbarcherà a Malta con tutta la sua armata, forte di 63 galere,
provocando così inopinatamente la fuga tutta l’armata turca e liberando l’isola da un assedio di tre
mesi e 17 giorni, il quale però, a dire la verità, non sembrava comunque destinato al successo.
Un altro simile insuccesso ebbe Pialì poco più tardi, quando Sulaiman, pochi mesi prima di morire,
decesso avvenuto nel settembre del 1566 all’età di 76 anni, forse per fargli ritentare l’impresa di
Malta fallitagli l’anno precedente, gli affidò un’altra armata, questa di160 galere e una moltitudine di
galeotte, palandarie, fuste, schirazzi, caramusalini e altro naviglio per un totale di 350 vele, armata
che però finirà per andare a dannificare la costa pugliese e a occupare l’isola di Scio, feudo della
famiglia genovese Giustiniani sin dal 1346, ossia si ridurrà a obiettivi molto più modesti e ciò è
dimostrato anche dalla presenza, nell’ottobre, di Uluch-Alì con 5 galere nelle acque delle Bocche di
Bonifacio, dove, affrontato da quattro galere toscane capitanate da Jacopo d’Appiano, perde due
delle sue, perde un gran numero di combattenti e di remieri cristiani liberati ed è costretto a
salvarsi con la fuga. Probabilmente a distogliere i turchi da Malta era stato questa volta risolutivo,
più che l’ostile presenza in mare di Garcia de Toledo con 80 galere, le nuove fortificazioni di Malta
costruite nel frattempo in gran parte a spese della Chiesa, il rifornimento di vettovaglie e il rinforzo
cautelativo di 10mila fanti comandanti dal marchese di Pescara (lt. Pischeria) che v’erano stati
portati alla fine del precedente giugno da 50 delle suddette galere cristiane capitanate da Gioan
Andrea d’Oria; il marchese si trattenne nell’isola finché non fu passata la stagione che poteva far
temere dell’armata nemica. Si rifarà Pialì però alla guerra di Cipro, ossia nel triennio 1570-1573,
quando, sempre in qualità di capitano generale di mare unitamente all’altro kapudan pasha Alì, lo
sconfitto di Lepanto, e sotto il comando generale di Mustafà, il quale esercitava in quel periodo
anche quello particolare dell’esercito di terra insieme a Pertev Pasha, parteciperà alla crudele e
sanguinosa conquista di quell’isola, sottraendola così per sempre al dominio veneziano.
Del tutto diversi saranno i giudizi che si daranno del già ricordato Uluch-Alì, al quale dopo Lepanto
era stata data la nomina a capitano generale e il compito di ricostruire velocemente sia l'armata di
mare ottomana sia il suo perduto prestigio; in una sua relazione al suo senato del 1573 il messo
613

veneziano Costantino Garzoni descriveva dettagliatamente l'ostilità e la maleducazione con cui


questo rinnegato calabrese d'umilissima origine aveva accolto un’importante e folta ambasceria
della Serenissima inviata quell'anno a Costantinopoli a trattare la pace e, volendo spiegare quella
rustichezza, narrava in breve la storia d’Uluch-Alì e così lo descriveva:

... L'Ucchialì, che significa 'Alì rinnegato', è di nazione italiana e di provincia calabrese, di sangue
bassissimo. Fu preso sopra quelle rive da Dragut e tenuto sulla sua galea assai tempo al remo.
Costui, essendo venuto a parole con un altro schiavo christiano e avendo da esso ricevuto uno
schiaffo, si risolse per disperazione a farsi turco e, facendo intendere questo animo suo al suo
padrone, procurò di essere accettato; ma, per essere egli infermo e quasi inutile, furono lasciati
passare alcuni giorni senza ritagliarlo (‘circonciderlo’); pur finalmente, dopo lunghe preghiere e
molti protesti, lo ammesse nella sua setta, non liberandolo però dal remo. Dopo lunga servitù fu
fatto 'reis' e, con alcune occasioni che gli si appresentarono, venne in qualche stima appresso Pialì
Bascià, col favore del quale è giunto tanto innanzi negli onori che ora tiene il generalato del mare,
grado non meno onorato che importante.
É costui d'età di cinquantacinque anni, di statura mediocre e assai proporzionata e disposta, di
pelo negro con la barba assai folta, non molto lunga e alquanto canuta, di carnagione bruna e di
faccia veramente virile. Ha una ferita sopra una mano, datagli una volta a Scio dai proprij schiavi
che gli menarono via la sua galera; è di complessione collerica e malinconica, molto intendente
delle cose marittime, essendo stata sempre quella la sua professione.
É molto amato dal Gran Signore (Selim II) [...] e bisogna ben dire che è veramente degno di esser
tenuto caro dal suo principe, poiché egli è quello che ha rimesso in piede la milizia di mare dopo la
rotta della sua armata (a Lepanto) ed ogni giorno attende con tutti li suoi assiduamente
all'arsenale, dove ha posto buoni ordini con prestezza e risparmio e merita nome di indefesso nel
servizio del suo principe. L'Ucchialì è fatto ricchissimo per il governo avuto in Algeri, ma assai più
ricco (ora) alla sua armata, dove ha commodo di rubare a' nemici e alli suoi proprij; ha costui
maggior numero di schiavi christiani di tutti li Bascià e del Gran Signore medesimo e si dicono
ascendere a milleottocento. (E. Albéri. Cit. S. III, v. I, pp. 383-384.)

Tre anni più tardi, ossia le 1576, il bailo Marc'Antonio Tiepolo aggiungeva di lui:

... La cura di questa armata (turca) è tutta commessa al Capitano di mare, il quale al presente è
Uluccialì di nazione calabrese, schiavo e tenuto al remo qualche anno, che poi, rinegando, è
asceso a tanta stima di savia e di ardita persona che non ha alcuno il Gran Signore cui più creda in
questa materia che a lui, avendogli accresciuta la reputazione la fazione della Goletta e di Tunisi
(23 agosto 1574), nella quale confessa ognuno lui aver sbaragliata (‘messa a repentaglio’) non
solo la vita, ma sparso molto danaro (proprio), perché con quello più vivamente sottentrasse la
gente a tutti i pericoli; e l'istesso Sinan, che, come Bascià, fu capo all'impresa, non ha rispetto
(‘ritegno’) di preporlo a sé stesso. (Ib. S. III, v. II, pp. 150-151.)

Il Tiepolo continua facendo i conti in tasca al fortunato rinnegato calabrese:

... La provisione di costui è cinquecento aspri, che sono dieci scudi il giorno, con 'timaro' (‘rendita
feudale’) di più d'altrettanto. Appresso a questo, ha in governo Pera, Gallipoli e sei sangiaccati, che
sono Rodi, Metelino, Scio, Lepanto, Negroponto e Prévesa, da' quai luoghi cava non piccola utilità,
toccando a lui mandare i 'subascì' e gli altri officiali per governarli, che è tutto quello che in tempo
614

del non uscire l'armata può avere di beneficio dal Gran Signore, benché vi si possa pur aggiunger
anco qualche altra cosa per qualche (suo) schiavo che può impiegare al lavoro nell'arsenale,
pagato un tanto il giorno che torna in borsa a lui, che è però (‘perciò’) qualche cosa.
Ma questo è niente rispetto a quell'utile che riceve armando (l'armata di mare) il Gran Signore,
perché, se egli arma, è (Uluch-Alì) padrone di tanto imperio quanto tiene il Gran Signore nel mare
e si sottrae dall'ubidire e inchinare i Bascià della Porta. Se arma, (Uluch-Alì) impiega duemila e
cinquecento schiavi, che sono suoi, nelle galee, per i quali si esborsano a lui venti scudi per
ciascuno che, nel far armata, si esborsano a' galeotti (salariati), onde, uscendo l'armata, oltre
l'avanzo solito a fare nel biscotto e nel pagamento degli aspri per giorno, dando loro (ai galeotti’
solo) quel tanto che più gli piace, viene ad imborsare ottantamila scudi in quel tempo, oltra quel
che guadagna risparmiando la spesa che gli converria fare non impiegandoli al remo, non potendo
tenergli (‘tenerli’) tutti al lavoro nell'arsenale, che non è poco.
Finalmente, se arma il Gran Signore, non torna l'Uluccialì mai senza bottino, sicché in tutti i modi il
suo interesse è 'sì grande che non può se non consigliare, quando vien dimandato, che pur si
armino molte galee e che si assaltino christiani. (Ib. Pp. 151-152.)

Ma tutto ciò non basta al parvenu calabrese e molto ambizioso e allo stesso tempo pericoloso per
la Spagna è il suo recondito progetto politico:

... E, perché non pare a lui poter guadagnar molto, guerreggiando il Gran Signore con la Serenità
Vostra, non inclina alla guerra contro di Lei, ma si bene contra il re di Spagna e in quella parte
dove egli stima poter fare meglio li fatti suoi, che è contra Orano, luogo del re Filippo (II di Spagna)
nella parte dell'Affrica in Barbaria di rincontro alla Spagna; perché, pensando di presto pigliare quel
luogo, giudicaria poter poi correr a voglia sua tutto il paese dell'Affrica, che, sendone - come
speraria - fatto universale e solo capo, si faria grandissimo comandando e reggendo quasi
assoluto tiranno di quei paesi; e, per inanimar (a quella impresa) il Gran Signore, facilita
grandemente il fabricar altre galee in quei luoghi, onde, non bisognando far venire l'armata da
parte così lontana come al presente, fa tremare la Spagna e forse anco potria ridurla al termine
che si trovava, già qualche tempo, gran parte in mano de' mori. (Ib. P. 152.)

Nel 1583 un’altra relazione, quella del bailo Paolo Contarini, aggiungerà nuovi particolari della
personalità del parvenu calabrese:

... É questo capitano del mare d'età di più di settanta anni, di natura fortissima e robusta,
disordinatissimo e specialmente nelle cose veneree e per questa causa, d'amico e figliuolo che
teneva Assan Bassà, per occasione di un giovane, gli è diventato inimico ed è stato quello che gli
ha procurato la rovina sua... (Ib. S. III, v. III, p. 224.)

L'età data dal Contarini non concorda per nulla con quella precedentemente indicata con più
precisione dal Garzoni, ma è più probabile che fosse più vicina alla verità quella data da
quest’ultimo in quanto, come vedremo, sappiamo con certezza da una già citata relazione franco-
veneziana del 1619 che Uluch-Alì era, anche se ormai quasi centenario, in quell’anno ancora vivo;
nonostante la sua sopravvenuta ostilità nei confronti di Hassan Pascìa, dovuta quindi a motivi di
gelosia pederastica, quest'ultimo, rinnegato veneziano che con il grande favore del suo padrone
615

Uluch-Alì era diventato a trent’anni signore d'Algeri, e da non confondersi con i suoi omonimi già
ricordati, gli subentrerà, come presto vedremo, nel generalato del mare. Il Contarini così continua:

... Ma per la sua professione è da Sua Maestà molto amato, parendole non aver nel suo imperio
persona che sia nelle cose da mare più intelligente di lui; però (‘perciò’) gli ha fatto per il passato e
fa tuttavia di grandissimi favori... (Ib.)

In realtà Uluch-Alì aveva realmente delle grandi doti:

... essendo uomo diligentissimo nel suo carico quanto più si possa immaginare e per la sua
liberalità amato universalmente da tutta la sua gente e all'incontro temuto per la sua severità,
perché non entra mai dove si lavora che non doni largamente a' schiavi, né manco resta di castigar
con ogni severità chi non fa il debito suo... (Ib. Pp. 221-222.)

Anche le sue ricchezze, come la sua fama, risultano grandemente aumentate nel corso di
quest'ultimo decennio:

... Ha cinquemila schiavi; ottocento sono marangoni (‘falegnami’) e altrettanti calafati, tutti
eccellentissimi, li quali hanno, quando lavorano nell'arsenale, 12 aspri per uno di utilità il giorno e
fuora otto. Altri che hanno altra sorte di arte han d'utile almeno quattro aspri, ma quelli che non
hanno esercizio sono da lui impiegati nelle fabriche del Signore, delli 'bassà', e di altri grandi,
procurando il capitano con questo mezzo gratificarsi gli animi e farseli favorevoli e, per questo utile
che cava da questi suoi schiavi, con difficoltà gli dà libertà; pur quand'è astretto a liberar alcuno, se
è marangon o calafato, non lo fa con meno di 300 zecchini (di riscatto) e li altri 200; e alli capi-
mastri che servono fuor di catena dà la libertà con condizione di servir per quel tempo che li par da
limitarli (‘assegnargli’), onde li poveretti, mossi da questa speranza, servono con maggior
prontezza, credendo poi esser liberati del tutto. Finito il tempo limitatoli, che per il più non li è
(nemmeno) osservato, si trovano astretti per l'utile presente a pigliar moglie e fermarsi nel paese,
non pensando di ritornar più alle case loro, e di questi, essendo lasciati viver christianamente, si è
fatto un grossissimo casale non molto lontano dall'abitazione del Capitano; il qual casale, per esser
esso Capitano calabrese, si chiama Calabria Nuova e in questo è il fior della maestranza
dell'arsenale e da questa li turchi imparano a fabricar le galee grosse e sottili e l'arte della
marinarezza; e ardisco dire con verità che li turchi non hanno saputo mai la vera arte del navigar
con galee se non dopo che Ucchialì è entrato a quel governo; e, siccome prima tutti li vascelli
avevano qualche difetto, così ora, per la sua diligenza e per li uomini d'importanza che intrattiene,
son lavorati assai bene e quasi tanto come si fa nell'arsenal di Vostra Serenità. (Ib. P. 222.)

Le grandi capacità d’Uluch-Alì si dovevano però inquadrare in un sistema di ladrocinio


generalizzato che il rinnegato calabrese non aveva però inventato, ma che aveva trovato già
radicato nell'arsenale di Peràia; leggiamo infatti ora che cosa scriveva e leggeva a tal proposito al
suo doge e ai suoi senatori il bailo Gian Francesco Morosini nel 1585:

... Prima la Serenità Vostra e le Signorie Vostre Eccellentissime hanno inteso che nella milizia e
gente pagata spende quel Signore (‘il sultano’) ogn’anno intorno a cinque milioni e mezzo di oro;
oltre la qual spesa vi è il trattenimento d'un arsenale, dove si mantiene un numero grande di
616

vascelli, che ben può sapere la Serenità Vostra quanto importi - considerando da quello che Lei
spende nel Suo, dove le cose passano con miglior ordine e miglior governo - quello che possa
spender il Turco nel suo, dove tutto vien maneggiato da schiavi e da ladri.
E, se bene si suol dire che a lui non costa un corpo di galea più che 1.000 ducati, posso io non di
meno affermare alla Serenità Vostra che in un solo caico fatto a tempo mio per servizio del Gran
Signore si è speso intorno a 100.000 ducati, non perché tanto si spendesse in effetto, ma perché
tutti rubano, si come ancor si fa nell'arsenale; che, principiando dal Capitano del Mare (allora
ancora Uluch-Alì) sino all'ultimo officiale, non è alcuno che del legname e ferramenta del Gran
Signore non fabbrichino per loro medesimi navi e vascelli da mercanzie e bene spesso anco le
case dove abitano.
Il Capitano (suddetto), quando li suoi schiavi non hanno camicie, piglia delle cotonine che
preparate stanno per far vele e di quelle li veste; e per le sue fabriche, delle quali ogni giorno ne va
facendo, non compra mai né legname né ferramenta, perché piglia il tutto dall'arsenale. Quando
sta in Costantinopoli, introduce almeno 500 delli suoi schiavi a lavorar nell'arsenale e li fa pagare
per maestri, se bene da 200 in poi, tutti gli altri sanno assai poco di quel mestiere; e questi tutti,
essendo christiani e per conseguenza nemici de' turchi, fanno quel peggio che possono a
distruzione della roba del Gran Signore; e non è maraviglia, perché, se ben il Capitano cava da
Sua Maestà (‘il sultano’) da cinque a dieci aspri il giorno per testa della maestranza, non di meno
egli non dà poi alli schiavi che due pani il giorno per uno, convertendo tutto il resto in sè stesso;
onde, convenendo a que' miseri industriarsi per vivere e vestirsi, non hanno altro modo da
mantenersi che il rubare e il medesimo Capitano lo comporta (‘sopporta’) o mostra di non lo
vedere, perché sa che d'altra maniera non si potriano sostenere. Dal che si può facilmente
comprendere quanto sia grande e importante questa spesa, poiché, oltre alli schiavi del Capitano,
n’entrano anco degli altri (e molti greci), che tutti, uno a gara dell'altro, attendono a rubare. (Ib. Pp.
275-276.)

Ma nemmeno Uluch-Alì riuscirà, nonostante la sua competenza e la sua scaltrezza, a far regredire
quel complesso d'inferiorità marittima che, nato con Lepanto, paralizzava ormai il secolare
imperialismo espansivo ottomano nel Mediterraneo. Del carattere di questo calabrese, il quale fu
senza dubbio il più capace capitano generale di mare italiano che sia mai esistito, superiore per
intelligenza e valore allo stesso Andrea d'Oria, anche se, poiché rinnegò e servì l'Islam, è rimasto
pressoché oscurato dalla storiografia cristiana, al punto che nemmeno il suo sicuro nome italiano
ci è stato tramandato, del suo carattere dunque possiamo leggere qualche altro ragguaglio nella
predetta relazione del Morosini:

... Quest'uomo dicono che sia vicino alli ottanta anni, ma è ancora tanto prosperoso e gagliardo
che fa maravigliare ognuno; è di nazione calabrese, nato vilissimamente in un luogo detto 'li
Castelli' (oggi ‘Le Castella’, Crotone); non sa né leggere né scrivere e fu fatto assai giovanetto
schiavo, di maniera che tutto quello che sa lo ha imparato vogando il remo, lo che egli non si
vergogna punto a confessare; è uomo di natura crudelissimo e inumano, specialmente quando
entra in collera, che allora ha più sembianze di mostro che d'una creatura umana, perché si lascia
trasportare a stravagantissime iniquità, né v'è alcuno, per grande che sia, che ardisca di parlar
seco in quel procinto.
Per lunga esperienza che ha delle cose da mare, essendo di schiavo - camminando per gli altri
gradi della marinaresca - riuscito finalmente Capitano di mare di così gran Signore, benché
ottenesse quel grado in tempo che, per essersi fuggito dall'armata il giorno della felice vittoria (di
617

Lepanto), si credeva che il Gran Signore gli dovesse far tagliar la testa, e per essere nelle fatiche
indefesso e per essere liberalissimo, viene assai stimato nella sua professione... (Ib. P. 296.)

In effetti se Uluch-Alì a Lepanto fosse solo fuggito oppure se fosse stato lui il comandante di tutta
la tanto gravemente sconfitta armata invece del peritovi Alì, probabilmente la testa Selim II gliela
avrebbe fatta certamente tagliare; ma egli, prima di sottrarsi all'ormai impari scontro, si era in
quella battaglia palesemente battuto con gran valore, tanto da vincere la galera Capitana della
squadra di Malta, dove erano rimasti vivi solo tre di quegl’impavidi cavalieri e alla quale portò
tardivo aiuto la galera Capitana di Gioan Andrea d’Oria; come racconta il Cervantes Saavedra, il
rinnegato calabrese, appena tornato a Costantinopoli il 19 dicembre, ostentò lo stendardo preso
alla Capitana di Malta come prova del suo valore, inoltre egli tornava riportando 32 galere
superstiti, il che molto rallegrò il Sultano, il quale temeva d’averle perse quasi tutte e che quindi
Costantinopoli fosse rimasta del tutto indifesa dal mare e in pericolo di subire il sacco dei cristiani;
infine era l’unico uomo molto competente della guerra di mare a livello di comando che fosse
rimasto alla Porta Ottomana, quindi fu subito blandito da Selim, il quale, appena era stato
informato della terribile sconfitta, ossia non prima del 20/23 ottobre, gli aveva mandato l’ordine di
raccogliere immediatamente tutti i vascelli rimasti e di formare con essi una linea di guardia tra la
Grecia e Scio, assegnandogli il nuovo glorioso nome di Kiliç Alì Pasha, ossia ‘la spada (dell’Islam)’.
Le cronache raccontano che, immediatamente dopo esser stato ricevuto dal Sultano, il calabrese
si recò all’arsenale di Peràia per dare le prime disposizioni necessarie a una veloce ricostituzione
dell’armata perduta:

… Quivi arrivato Uccialì, che con trenta galere salve dal gran fatto navale si era fuggito, non solo
(Selim II) benignamente e con carezze l’accolse, ma contra il costume della corte turchesca, che,
per minori cagioni di quelle di Uccialì, suol far morir coloro che con tristi successi delle cose trattate
ritornano, lo ingrandì supremamente di dignità, creandolo di tutte le forze sue marittime generale.
Con la diligenza di lui, nel breve spazio di quella sola invernata nei porti di quel mare di
Costantinopoli, benché di materia verde e di poca durata (cioè di legno troppo giovane),
centotrenta galere mirabilmente fabbricar fece, le quali, de’ marinari delle navi e d’ogni altro
vascello armate, di soldati collettizi per forza ragunati ('radunati’) e del mare inesperti fece riempire;
alle quali aggiungendo le trenta dalla rotta fuggite e molte de’ privati corsari, più di dugento galere
alla primavera (del seguente 1572) in ordine ritrovassi. Con quest’armata il nuovo generale Uccialì
partitosi e nella costa del Peloponneso venuto non tanto con animo di guerreggiare, dal che la
qualità de’ suoi mal armati vascelli lo sconfortava, quanto per resistere, in quanto avesse potuto,
agli sforzi dell’armata cristiana, in quei porti, che ivi sono molto frequenti e comodi, si tratteneva.
(B. Sereno. Cit. P. 270.)

Oltre a questa saggia decisione d’affidare la difesa marittima dell’intero impero al rinnegato
calabrese, il sultano sembra però che altro non avesse saputo fare che proibire ai suoi sudditi di
mostrare mestizia per la grande sconfitta subita e ordinare che ogni sangiacco di terra marittima
618

allestisse una nuova galera. Ma la competenza d’Uluch-Alì, il suo valore e la sua fedeltà non
sarebbero stati meriti sufficienti per una Corte – qual era la Porta ottomana - in cui imperavano
ingordigia e corruzione:

... con tutto ciò, se non procurasse di servire il Gran Signore non solo per Capitano, ma anco si
può dire per bastaso (‘facchino’), poiché egli non parte (‘non si diparte’) mai dalle fabbriche che si
fanno (nell'arsenale) per Sua Maestà e va lui in persona a raccogliere con li suoi schiavi la neve
per serbarla per la state (cioè la neve per fare sorbetti e bevande fredde); e, (se) non presentasse
abondantissimamente non solo il Gran Signore, ma ancora le sultane e tutti li bassà, saria di già
privo del suo carico; né con tutto ciò si può tener molto sicuro, perché al mio partire si ritrovava in
qualche pericolo. (E, Albéri. Cit. S. III, v. III, p. 296.)

Questo era l’altro motivo, oltre a quello dell’ingordigia dei grandi bottini che si ricavavano dalla
guerra di corso, per cui un decennio prima egli aveva sognato di conquistarsi in Barbaria un regno
tutto suo, e cioè perché alla Corte del sultano, anche se si era raggiunto un altissimo grado, non si
poteva vivere mai tranquilli e sicuri di non perderlo prima o poi. Se si legge la relazione del
Contarini, preparata solo due anni prima di questa del Morosini, si potrà solo trarre la conclusione
che in quest'ultimo biennio la stella del rinnegato calabrese cominciava chiaramente a declinare. Il
Morosini accentuava l'interesse che Uluch-Alì aveva a spingere il sultano a far armata, cioè a far
uscire la sua armata di mare contro i possedimenti veneziani e cristiani in generale, perché egli,
come abbiamo già detto, godeva di molti ricavi di guerra e inoltre i suoi schiavi personali che
cedeva all'impiego di galera a mille aspri ciascuno erano ora aumentati a circa tremila; ciò non
ostante, egli non perdeva occasione per protestare al Morosini i suoi sensi d’amicizia verso la
Serenissima e gli assicurava di non aver mai fatto egli personalmente alcun danno né al naviglio
né ai territori di quella repubblica:

... Con me s'è dimostrato veramente molto cortese perché, oltre all'avermi liberamente donato (la
liberazione di) un povero viniziano di questo arsenale ch'era suo schiavo, il miglior calafato e il
miglior uomo da remo che fosse nella sua propria galera e avermi anco aiutato assai in ricuperar li
trenta schiavi del Gran Signore ch'io inviai qui (a Venezia) in cambio delli 29 turchi liberati delle
(‘dalle’) galere di Malta, mi fece anco un altro favore... (Ib. P. 297.)

Nonostante tutta questa gentilezza, il Morosini non consigliava al suo senato d’illudersi di poter
guadagnare davvero l'amicizia d’Uluch-Alì:

... Né credo che si debba punto confidar di lui, se ben per il mio debil parere giudico che sia molto
utile dissimulare e procurar di tenerlo in officio quanto più si possa, perché in mano sua sarà
sempre il trattar bene o male li sudditi e vassalli di questo Serenissimo Dominio che navigano nel
paese turchesco e di travagliar anco facilmente li suoi baili in Costantinopoli; oltre che, per dir il
vero, dagli esempi passati si può anche credere che ognuno, sia chi si voglia, che sia fatto (dopo di
lui) Capitano del mare dal Signor Turco sarà ancor più nemico di questa Serenissima Republica di
619

quello che sia esso Ucialì, poiché li privati interessi militeranno sempre in ognuno che abbia quel
carico. (Ib. P. 298.)

La grande crudeltà del calabrese è confermata dal de Haedo, il quale infatti nel suo dialogo
Captividad, laddove ricorda il piacere che Caligola provava nel vedere infliggere la tortura,
racconta il seguente episodio:

(Sosa:) … Mi hanno raccontato la stessa cosa di quell’impuro rinnegato, di quel calabrese tignoso
che era Occialì, il quale fu capitano generale di mare del gran turco e che questa canaglia tiene
per un uomo unico e il più straordinario del mondo. Poiché egli aveva con altri preso un cavaliere
italiano del nostro ordine (di Malta), quando tre nostre galere di Malta si persero in Sicilia presso
Licata nel 1569 e poiché gli succedeva più volte, altri dicono tutti i giorni, d’ubriacarsi, egli, essendo
in tale stato, gridava ad alta voce: ‘Che si prenda quel cane di San Giovanni e che gli si diano
immediatamente duecento colpi di bastone!’ Si prendeva (quindi) il malcapitato per i piedi e per le
mani, lo si stendeva tutto nudo e bocconi sulla corsia e, se Occialì aveva ordinato duecento colpi,
gliene si davano trecento o più, mentre il generale guardava dalla poppa ridendo gioiosamente dei
gridi gettati dal disgraziato cavaliere.
(Antonio:) Conosco molto bene quel cavaliere, il quale si chiama Lanfredo Duccio (?), a proposito
del quale ho più volte sentito raccontare a Malta ciò che voi avete appena detto… (D. de Haedo.
Cit.)

Ce l’aveva Uluch-Alì soprattutto con i cavalieri di Malta perché erano quelli che più efficacemente
ostacolavano la sua attività corsara; ma come spiegare questa sua ferocia?:

… Tutti questi tormenti, questi colpi di bastone, questi colpi di sferza, questi cattivi trattamenti di cui
soffrivano i cristiani imbarcati nelle galere (turco-barbaresche), chi li causa, da chi vengono, se non
da quei rinnegati che, per dimostrare d’essere dei buoni turchi – mentre in realtà, (essendo) tanto
poco turchi quanto cristiani, il loro solo scopo è di darsi senza alcun freno ai piaceri della carne, si
vantano di martirizzare i loro antichi correligionari e di superare, in quello e in ogni genere di
crudeltà, tutti i mori e tutti i turchi? (Ib.)

In effetti la nota disponibilità alla lussuria delle donne turche d’allora e la correntezza delle pratiche
pederastiche in quell’impero, erano, unitamente alla possibilità d’arricchirsi indipendentemente
dalla nascita e dal ceto sociale, uno dei maggiori motivi della presenza di tanti cristiani al servizio
della Sublime Porta e per la maggior parte essi chiedevano di diventare maomettani, in modo da
migliorare sostanzialmente la loro qualità di vita; ciò era ancor vero nel 1619, come scriveva
l’autore della già ricordata relazione veneto-francese da Costantinopoli:

... Ma ohimè! Ciò che trovai più strano e che più affligge la mia anima è che tutti i giorni si vedono
questi miserabili greci correre a truppe a farsi maomettizzare, sia per avere certi soldi che il Gran
Signore dona sia per non esser maltrattati dai turchi; il che accadde ad un’infinità di fannulloni ed
essendoci una tale calca che non si trovavano abbastanza maestri per circonciderli; e in tutte le
cerimonie in cui ci si trovi al cospetto del Gran Signore si mettono in fila con i loro berretti sotto i
piedi e, l’uno dopo l’altro, un papasso fa alzar loro il dito indice della mano destra, gridando ad alta
620

voce ‘La Halla ay lala ve Mahomet rasour aila!’ e qualche altra parola che si fa loro dire, poi li si
conduce dentro delle tende fatte appositamente dove li si va a circoncidere; e con grande scandalo
dei cristiani ce ne furono (in quell’occasione) più di ottocento. (In Les cérémonies, magnificence,
triomphe etc. Cit.)

La sfrenatezza e la viziosità erano anche ad Algeri tra i principali motivi per cui, come scriveva il de
Haedo, vi si erano adattati a vivere tanti cristiani, i quali, pur non avendo abiurato, avevano del
tutto abbandonato i riti e i sacramenti della loro religione e s’incontravano soprattutto nelle taverne
della città:

… individui che si dicono cristiani, ma che hanno obliato a tal punto il nome e la cosa che non si
riuniscono in quei luoghi che per giocare a carte e a dadi, per ubriacarsi… essi hanno talmente
preso i vizi dei mori che s’infischiano della messa e della confessione e, se non fosse per il loro
costume e la loro pettinatura, non li si prenderebbe certo per dei cristiani… Tali miserabili hanno il
cuore talmente indurito che si rallegrano dei successi e della fortuna dei turchi e si fanno beffe
degli sventurati che vengono ad aumentare il loro proprio numero. Manaca loro così poco per
essere mori che accetterebbero come una grazia speciale di rinnegare la loro religione, se i loro
padroni glielo permettessero; molti l’importunano proprio a tal effetto, ma quelli da cui dipendono,
per non esentarli dal remo, rifiutano. Altri, che sono riscattati, non vogliono lasciare Algeri e
ritornare in paesi cristiani, dove essi non potrebbero, come qui, dedicarsi a tutti i loro vizi senza
timore né castigo; ce ne sono persino di quelli che vendono le loro lettere d’affrancamento per bere
e giocare. (D. de Haedo. Cit.)

Uno dei vizi maomettani che talvolta convincevano un europeo a scegliere di vivere da rinnegato
ad Algeri o a Costantinopoli era senza dubbio la pederastia, non solo in quei paesi non perseguita
con la pena di morte, come in quelli cristiani, ma addirittura pratica comunemente ammessa ed
esercitata. Il de Haedo anche racconta come nel 1577 a bordo della galera di Hassan Pachà, il
quale, accompagnato da sette vascelli algerini, si stava recando appunto ad Algeri a prendere le
sue funzioni di governatore di quel ricco regno, forti gelosie pederastiche provocarono il fallimento
e la conseguente repressione sanguinosa d’un complotto di rinnegati che si stava ordendo ai suoi
danni e il risultato fu che tre dei sette congiurati furono giustiziati; due di essi, il candiota Yussef e il
tiparato Regeppé (sic), appesi per un solo braccio all’antenna della galera, furono saettati e
archibugiati a morte, mentre il terzo, il candiota Mussa, fu squartato secondo l’uso di marina e cioè
nella seguente maniera; il condannato venne adagiato e legato su uno dei banchi d’uno schifo di
galera e poi a ciascuno dei suoi polsi e delle sue caviglie, pertanto sporgenti dal bordo della
piccola imbarcazione, venne attaccato un cavo tirato dalla poppa d’una galera; le quattro galere
così impegnate, iniziando una voga divergente verso i quattro punti cardinali, lo squartarono;
furono risparmiati, oltre al delatore candiota Iaban o Yuan (‘Giovanni’), gli altri tre rinnegati
cospiratori e cioè il veneziano Michel Angeni, lo schiavone Danesi Nali Ferravès (sic), scrivano
621

particolare d’Hassan, e il trapanese Francesco Lombardi, barbiero-cerusico d’una galeotta


recentemente catturata dai corsari turco-barbareschi nelle acque siciliane (Ib.)
Ma che cosa successe d’Uluch Alì dopo il 1585, anno della predetta relazione del Morosini e
anche l’ultimo in cui troviamo sue notizie operative? Si crede comunemente che sia morto nel
1587, quindi all’età di circa 80 anni, se dobbiamo credere al Morosini, oppure solo tra i 67 e i 69,
se dobbiamo invece dar fede alla relazione del succitato Garzoni, nella quale, iniziata nel 1573, si
dice che il calabrese aveva a quel tempo 55 anni; ebbene ambedue i baili veneziani si
sbagliavano, evidentemente tratti in inganno da un aspetto molto precocemente invecchiato offerto
dal rinnegato, il quale in realtà era molto più giovane di quanto la sua pelle, forse tanto aggrinzata
dal sole e dalla salsedine, potesse far credere. In realtà Uluch-Alì doveva esser nato solo un po’
prima del 1540 e quindi alla battaglia di Lepanto, anche se già tanto noto e stimato, doveva esser
ancora un giovane capitano; ciò perché incredibilmente il 24 novembre 1619 egli, come del resto
anche il gran Vizir Scipione Cicala di cui diremo, faceva parte delle maggiori autorità di governo
che a Costantinopoli, sedute su un palco loro riservato, assistevano, come abbiamo già ricordato,
ai festeggiamenti per la circoncisione del giovanetto Amurat, figlio del sultano Ahme i:

… et au bout dudit corps du lougis estoit dressé une autre longue galerie à trois estages separez
par petites chambrettes et lougis, au premier desquels et le plus haut estoit Sidrin premier bachat
avec les autre trois et Ochiali Bacha, grand capitaine et admiral de Turquie, qui a esté autrefois
pauvre pescheur de Calabre, et Sinan Bachat grand visir et conseiller d’estat, ensemble les
beiglerbeinqs et sangiacheiqs de grade en grade selon leurs estat etc. (In Les cérémonies,
magnificence, triomphe etc. Cit.)

A questo punto doveva il calabrese veramente aver superato gli ottant’anni e, anche se
formalmente conservava il titolo di capitano generale del mare, doveva in effetti esser stato messo
fuori gioco da molto tempo, probabilmente dalla fine degli anni Ottanta del secolo precedente a
causa di qualche sopraggiunta inabilità fisica; infatti, se fosse stato invece estromesso per sua
colpa o errore, non l’avremmo certo trovato ancora in possesso del suo prestigioso titolo e sul
palco delle autorità! In effetti nemmeno nei potentati cristiani s’usava privare i vecchi generali dei
loro carichi, ma ci si limitava a sostituirli nell’operatività con altre persone in lunghi, a volte
lunghissimi interim. Uluch Alì non sarà però il solo rinnegato cristiano ad assurgere al prestigioso
titolo di kapudan pasha del Gran Turco; infatti nel biennio 1714-1715 troveremo l’armata turca
comandata da Jannus Koggià, un nobile francese, al secolo il marchese Langallene.
A titolo d’esempio di come la guerra di corso barbaresca, a partire dal 1502, ossia dal grande
inserimento in essa di moreschi e marrani spagnoli bramosi di vendetta, fosse, se si eccettua
qualche raís turco, totalmente guidata da rinnegati europei, mentre i mori o barbareschi veri e
622

propri non v’avevano quasi mai ruoli di comando, riportiamo il dettaglio che il de Haedo da di
qualche squadriglia algerina, a cominciare da quella che il 15 maggio 1577 salpò da Costantinopoli
per portare ad Algeri, come nuovo governatore, il rinnegato veneziano Hassan Pachà:

… Sette vascelli accompagnavano il nuovo re. Anzitutto una galera che Uluch-Alì, suo padrone, gli
aveva donato, apriva la marcia; era un vascello dal nome di ‘San Giovanni’ che egli aveva preso
all’Ordine di Malta ed era montato dal nuovo re. La seconda, della quale era capitano o ‘rais’
Mustafa da Giglio, rinnegato originario dell’isola di questo nome, la quale si trova di fronte a
Piombino nel mare di Toscana, presso l’isola d’Elba; Mustafa era il capo di questa squadra poiché
era un marinaio sperimentato. La terza galera era comandata dal rinnegato Mahame il Turco, il
quale (tedesco, a dispetto del soprannome) era stato tamburo d’una compagnia al tempo della
campagna intrapresa contro Mostaganem dal conte don Martin de Alcaudete; questo tamburo
s’era fatto mussulmano durante la sua prigionia. Sulla quarta galera c’era Yussef Borrasquilla,
rinnegato genovese, un nemico crudele dei cristiani. Il quinto vascello era una galeotta di ventidue
banchi di vogatori, di cui il patrone e ’rais’ era Mami, un rinnegato veneziano appartenente a Kar-
Hassan. Il sesto vascello era ancora una galeotta dallo stesso numero di banchi della precedente;
era comandata da Dali Mami, rinnegato greco maritato ad Algeri, dove veniva in qualità
d’ammiraglio del reame e capo dei corsari. La settima era una galera d’Uluch-Alì, la quale aveva
ventiquattro banchi; il ‘rais’ era Sain da Milazzo, rinnegato siciliano. Tutti questi rinnegati avevano il
titolo di capitano di fanale, il che è un grand’onore presso i turchi. (D. de Haedo. Cit.)

Qualche mese dopo, precisamente il 19 settembre, nove galeotte lasciarono Algeri per andare a
far corso e razzie nel Mar Tirreno e nelle sue marine; erano comandati questi vascelli da Morat,
celebre rinnegato albanese, mentre gli altri raïs della spedizione erano Morat, al secolo Loys
Cravier, rinnegato francese appartenente al precedente, Morat Maltrapillo (‘Malvestito’, in sp.),
rinnegato originario di Murcia e definito pertanto dal de Haedo ‘gran traditore’, non essendo infatti
frequenti i rinnegati di nazionalità spagnola; un altro Morat, ma questo giovane rinnegato greco,
Caur Alì, figlio d’un rinnegato greco, Hassan, un genovese di cui poi diremo, e infine tre turchi,
Cadi, Amat Hoja e Sari (Ib.); insomma i veri e propri nord-africani, quelli cioè che allora si
chiamavano ‘i mori’, pur riuscendo ottimi corsari, non brillavano per capacità di comando.
Il 25 marzo 1579 salparono da Algeri per lo stesso motivo otto galeotte comandate dal
summenzionato Mami Arnaute e si trattava, oltre a quella del comandante in capo, d’una di 24
banchi – praticamente una galera mascherata da galeotta – comandata dal già menzionato Morat
Raïs il Francese, al secolo Loys Cravier, cinque da 22 banchi, delle quali erano raïs i rinnegati
greci Dauardi e Dali Mami, il turco Moussa Safi, il rinnegato veneziano Gancio, già ricordato, e
Mami, il suddetto rinnegato veneziano di Kar-Hassan, infine una galeotta di 20 banchi capitanata
dal rinnegato napoletano Yussef. Il predetto Morat raís ebbe una lunga carriera marittima,
risultando ancora attivo nel 1612, e probabilmente coincideva con quel Morat Tur Raïs che nel
1607, al comando di sei galere turchesche, imperversava nelle acque di Cagliari, come racconta
623

Henry du Lisdam (cit.); ma non solo sul mare s’offrivano ad Algeri possibilità di carriera per i
cristiani a cui si fosse concesso di rinnegare; infatti per esempio nel 1559 era in quella città
maestro dell’artiglieria uno spagnolo di nome Morat, capo della Casbah il calabrese Mami e capo-
guardiano degli schiavi del re il greco Caur-Alì (‘Il cristiano Alì’), il quale poi diventerà rinomato
capitano di galere e sarà fatto prigioniero a Lepanto, mentre nel 1577 sarà alcalde (‘governatore’)
della stessa città il rinnegato greco Hassan, e ciò a dimostrazione che, senza questi tantissimi
europei, Algeri non sarebbe probabilmente mai arrivata a rappresentare una tale e così secolare
iattura per la cristianità. Nel secolo successivo il religioso francese Dan confermerà questa realtà:

… Quanto ai corsari di Barbaria è cosa certa che i rinnegati hanno portato la loro potenza al punto
in cui si vede ancor’oggi e si può ben dire che senza il loro aiuto l’infami e sventurate repubbliche
d’Algeri, Tunisi, Salé e Tripoli non potrebbero né sussistere nella loro dominazione contro i mori e i
popoli del paese né mantenersi nelle loro piraterie, poiché i loro migliori uomini da guerra e da
marina, come la più parte dei loro corsari, sono rinnegati e partigiani del maomettismo. (Père Dan,
Histoire de Barbarie et des corsaires, des Royaumes et des villes d’Alger, de Tunis, de Salé et de
Tripoly. Parigi, 1649.)

Salé, dopo l’espulsione dei moriscos anche dall’Andalusia avvenuta tra il 1609 e il 1611, molti dei
quali appunto in quella città corsara marocchina andarono a stabilirsi, diventerà una vera e propria
una repubblica corsara e i suoi rais, come per esempio Murad Raïs e Chaban Rais, infesteranno le
coste atlantiche dell’Europa, anche quelle anglo-irlandesi, a partire dagli anni Venti del Seicento,
anche se, forse sul loro esempio, pure i corsari algerini prenderanno l’abitudine di spingersi in
quelle acque oceaniche; in effetti, poiché i corsari barbareschi agivano più come pirati che come
corsari, in quanto non si mettevano in mare con patente del loro sovrano per combattere la
nazione dichiaratasi nemica in quella guerra particolare, bensì colpivano indifferentemente tutte le
nazioni che avessero il solo torto d’essere cristiane, si può dire che le popolazioni europee
rivierasche dell’Oceano Atlantico vedevano ora nei saleani dei pirati molto più pericolosi di quelli
cristiani roccellesi, anch’essi tradizionalmente dediti alle depredazioni marittime, anche se questi
ultimi, data la posizione geografica molto più settentrionale della loro base, ossia del porto de La
Rochelle, si spingevano anche nel Mare del Nord; immune dalla pirateria sembra fosse ormai
invece il Mar Baltico, il quale tuttavia nel Medioevo ne era stato infestato, chiamandosi allora in
tedesco i pirati Vitallighen (sec. XII) e Vetalienbrodere (secc. XIV-XV), come si legge negli statuti di
diritto marittimo anseatico e danese di quei lontani tempi (J. M. Pardessus. Cit.).
Terminiamo però ora l'esame della personalità d’Uluch-Alì citando qualche rara voce a lui più
favorevole e prima quella del Cervantes Saavedra, il quale nel suo Don Quijote così fa parlare un
ex-prigioniero del terribile rinnegato calabrese:
624

... Uchalì, il quale chiamavano 'Uchalì Fartax', che in lingua turca vuol dire 'il rinnegato tignoso',
perché lo era e tra i turchi si costuma mettersi il nome da qualche difetto che tengano o da qualche
virtù che in essi sia; e ciò accade perché non c'è tra di loro se non quattro cognomi di lignaggio, i
quali discendono dalla Casa Ottomana, e gli altri, come ho detto, prendono il nome e il cognome
ora dai difetti del corpo ora dalle virtù dell'animo. E questo tignoso vogò il remo, essendo schiavo
del Gran Signore quattordici anni e, quando n’aveva più di trentaquattro d'età, rinnegò, indispettito
perché, stando al remo, un turco gli dette un ceffone, e, per potersi vendicare, abbandonò la sua
fede; e fu tanto il suo valore che, senza ascendere per i turpi mezzi e cammini per i quali
ascendono gli altri servitori del Gran Turco, diventò re di Algeri e poi capitano generale del mare,
che è il terzo carico (per importanza) che c'è in quel dominio. Era calabrese di nascita e
moralmente fu uomo dabbene e trattava con molta umanità i suoi schiavi, di cui arrivò a tenerne
tremila, i quali, dopo la sua morte, furono ripartiti, come egli lasciò col suo testamento, tra il Gran
Signore - che è anche figlio erede di quanti muoiono e condivide con gli altri figli che lascia il
defunto - e i suoi rinnegati... (M. de Cervantes Saavedra. Cit.)

In effetti, prima di diventare beglerbegi d’Algeri nel settembre del 1568, Uluch-Alì era stato
governatore di Tlemcen e, dopo la morte di Torgud avvenuta nel 1565, era passato a governare
Tripoli, città questa che era allora chiamata anche Tripoli d’Affrica per distinguerla da Tripoli di
Soria (‘Siria’), e, inoltre, città di Mahometto d’Affrica. Secondo la narrazione d’altri, Uluch-Alì,
povero pescatore nato nel 1520, fu catturato e messo al remo dai corsari barbareschi del
Barbarossa a 16 anni. Anche non male ne parla il de Haedo, laddove narra un sanguinosissimo,
ma fallito ammutinamento di schiavi cristiani avvenuto il 4 febbraio del 1577 a bordo della galeotta
Volena da 22 banchi di Kar-Hassan, corsaro d’Algeri, ma originario della Carabrunia in Anatolia,
terra a circa 60 miglia dall’isola di Chio; scendeva dunque questo corsaro il fiume di Tetuán in
Marocco di conserva con un’altra galeotta di 19 banchi di sua proprietà e comandata da quel raís
Mami, rinnegato veneziano al quale abbiamo già accennato, quando, trovandosi in corsia, venne
avvicinato e ucciso con un colpo d’accetta al petto da uno schiavo veneziano ventiseienne di nome
Giannetto, un falegname galerista, al qual segnale i remiganti cristiani, armati delle armi proprie e
improprie più disparate, si sollevarono contro i turchi; questi, ridottisi a poppa e a prua e pur
bravamente resistendo, stavano per soccombere, quando ricevettero il soccorso dell’altra galeotta
ed ebbero quindi per questo alla fine facilmente ragione della sommossa, i cinque promotori della
quale furono nei giorni seguenti giustiziati in vari modi; si cominciò il giorno dopo dal suddetto
Giannetto:

… Gli si tagliarono le orecchie e il naso, lo si attaccò poi per i piedi all’estremità di un’antenna e lo
si crivello di colpi di freccia; gliene si scoccarono talmente che egli, traversatone da parte a parte,
finì per assomigliare ad un riccio. Non era ancora morto che si mollò all’improvviso l’antenna e
Giannetto fu immerso nell’acqua, sotto la quale fu lasciato un buon quarto d’ora. Tutti lo credevano
annegato e morto, ma, nel sollevare l’antenna, i turchi videro, cosa incredibile, che era ancora vivo,
ma rigettava molt’acqua dalla bocca; fu lasciato allora ancora appeso circa mezz’ora e rese
l’anima al Signore… (D. de Haedo. Cit.)
625

Poi i corsari fecero sbarcare il diciottenne genovese Giuliano, il quale era un dispensiere, lo
spogliarono a busto nudo, gli legarono le mani dietro la schiena, lo seppellirono fino alla vita, lo
fecero bersaglio d’un grandissimo numero di frecce e il suo corpo, come quello del predetto
Giannetto, fu poi gettato nel fiume. Tornata la galeotta ad Algeri nella notte di domenica 11
febbraio, il giorno seguente Mami andò dal governatore Rabadan Pachà, rinnegato sardo, (1574-
1577) a chiedere l’autorizzazione a continuare la punizione dei principali colpevoli e, ottenutala,
fece prendere il venticinquenne siciliano Andrea, nativo di Sciacca, e, fattigli legare i piedi con una
corda attaccata al pettorale d’un cavallo, lo fece così trascinare per tutta la città; quando il giovane
fu sul punto di spirare, lo fece trascinare fuori della porta Bab-el-Ued, dove stava piantato un piolo
più alto della muraglia e alla cui base c’era un grosso gancio con la punta aguzza volta all’insù; su
quella punta fu, dall’alto della muraglia, gettato il giovane, il quale ne ebbe il fianco destro
trapassato e in breve tempo morì; dopo un giorno di tale esposizione il suo corpo fu gettato a
mare. Nello stesso giorno fuori della predetta porta, precisamente nel luogo in cui si faceva il
mercato del legno, fu portato anche il ventiduenne calabrese Marcello, nativo di Mancia (sic), e,
piantato a terra un palo, vi fu legato, mani e vita, il poveretto e così fu lapidato a morte dalla folla;
ammonticchiatovi poi del legname attorno, il suo corpo fu bruciato e, ciò che ne restò, gettato in
mare. Lo stesso lunedì 12 il quinto condannato, un remolaro genovese trentaquattrenne di nome
Marco, il quale aveva moglie in Sicilia, appeso per i piedi al trinchetto d’una saettia francese che
era in riparazione nel porto d’Algeri, vi fu lasciato così fino alla sera del giorno seguente, martedì
13 febbraio, quando fu finito a pietrate; il suo corpo fu poi gettato in mare. Non contento di ciò e
non avendo evidentemente avuto da Rabadan Pachà il consenso ad altre esecuzioni, perché gli
schiavi remiganti in fin dei conti servivano e in tal casi d’ammutinamento le esecuzioni dovevano
esser limitate a quelle più esemplari, 20 giorni dopo il crudele Mami partì per Costantinopoli con la
sua galeotta e altri sei vascelli algerini per andare a prendere il rinnegato veneziano Hassan
Pachà, il quale, così scortato, doveva venire ad Algeri come nuovo governatore, e, arrivatovi,
come dice il de Haedo, dopo ben trentotto giorni di traversata, chiese aiuto alla moglie e ai figli di
Kar-Hassan che in quella città abitavano perché potesse aver udienza da Uluch-Alì; ottenutala,
chiese al potente calabrese l’autorizzazione a giustiziare altri dei cristiani colpevoli che aveva
ancora a bordo della sua galeotta, per poter così maggiormente vendicare la morte di Kar-Hassan,
e qui il de Haedo ci presenta un Uluch-Alì addirittura saggio e giusto, quindi del tutto differente da
quello descritto dalle suddette altre fonti:

… Ma Uluch-Alì era un uomo esperto e prudente nelle cose di guerra e per tutto ciò che a quelle
attiene, così gli rifiutò decisamente il permesso e aggiunse che la vendetta che Mami raís aveva
tratto a Tetuan e Algeri era già grande e, mostrando loro il suo braccio destro storpiato, disse:
626

‘Guardate questo braccio che poco tempo fa alcuni cristiani rivoltosi sul mio vascello hanno
mutilato. Ho avuto il corpo coperto di ferite, mi volevano uccidere per acquistare la loro libertà.
M’hanno storpiato e altri si sono salvati su due delle mie galeotte dopo aver ucciso molti dei turchi.
Ebbene! Non sono per nulla stupito da tutto ciò, perché tutti gli schiavi, tutti i prigionieri sono inclini
a cercare con tutti i mezzi immaginabili d’affrancarsi dalla prigionia e non è nell’usanze di guerra il
punirli per tal motivo. Kar-Hassan non è il solo che ha avuto una tal sorte; rinunciate dunque alla
speranza di far perire altri poveri cristiani. (Ib.)

In effetti, questo ‘poveri cristiani’ finale ci fa capire quanto poco probabile è che Uluch-Alì abbia
potuto veramente pronunziare il predetto discorso; certo egli, pur crudele e sanguinario al pari
degli altri corsari turco-barbareschi, era però effettivamente troppo esperto e intelligente per
consentire uno spreco di remiganti quale quello che l’evidentemente molto meno accorto Mami gli
era venuto a proporre. L’episodio d’ammutinamento in cui Uluch-Alì qui dice d’esser rimasto
storpiato sembrerebbe diverso e più tardo di quello dell’agosto 1562 che abbiamo già menzionato
e di cui tra poco meglio diremo. E, poiché si è più sopra nominato Sinan, genero di Selim II e Gran
Vizir di Amurat III, c'è qualche lineamento del suo carattere lasciatoci dall'ambasciatore veneziano
Jacopo Soranzo, il quale lo conobbe nel 1581 in occasione d’un suo viaggio a Costantinopoli:

... Ma ritornando a Sinan, il quale oltre alle suddette imprese, espugnò la Goletta ancora, dico che
costui è di nazione albanese, di una certa villa lontana due giornate da Scutari d'Albania, di età di
35 anni, di persona piuttosto grande che altrimenti, d'aspetto feroce e senza punto di dolcezza; è
d'animo terribile, superbo, vano e pieno di pensieri vasti e smisurati, e, quanto, alla milizia, gli si
conviene più il nome di soldato temerario e impetuoso che di valoroso e prudente. (E. Albéri. Cit.
S. III, v. II, p. 241.)

Il 23 l’agosto 1574 una grande armata turca arrivata il 13 luglio precedente e comandata dal
predetto Sinan Pasha e dal capitano generale del mare Uluch-Alì, forte di 230 galere, 60 tra
galeotte e fuste, altrettante tra navi e maone e altro naviglio minore, recante 12mila giannizzeri e
altrettanti spahì più altra gente da spada e grandissimo numero di guastatori, appoggiata inoltre da
un esercito di terra costituito da turchi, mori e cavalli arabi di Barbaria, aveva ripreso ai cristiani
Biserta, Tunisi e la sua principale fortificazione detta la Goletta, luoghi che Giovanni d'Austria
aveva riconquistato alla Spagna solo nel precedente ottobre; le prime due erano infatti già state
conquistate una volta da Uluch-Alì nel 1569. La guarnigione italo-spagnola di 8mila fanti lasciata in
quel territorio dal ‘real bastardo’ era nel frattempo diminuita a circa 5mila a causa di morti,
mancamenti e defezioni e l’albanese e il calabrese, dati i potenti mezzi che avevano, non dovettero
in verità faticare molto per impadronirsi nuovamente di quelle piazze; prima a cadere fu la Goletta
(23 agosto), la cui guarnigione era comandata da Juan Puerto Carero; costui, persona di qualità
ma inesperto di guerra, era un governatore tanto poco stimato che, come ricorda il de Bourdeilles
nelle sue Mémoires, il suo nome era dileggiosamente mutato dai soldati in Juan Puerco Carnero
627

(cioè ‘Giovanni Porco Montone’); egli, pur disponendo ormai di una guarnigione di soli meno di
mille soldati nuovi spagnoli, i quali avevano da poco sostituito gli anziani che avevano l’anno
precedente conquistato la fortezza, aveva in precedenza rifiutato 800 fanti italiani mandatigli con
altre provvisioni dal viceré di Napoli sotto il comando di Tiberio Brancaccio, ufficiale napoletano di
provato valore da noi già ricordato, e l’aveva fatto col dire che si trattava di gente inutile e che si
sarebbe azzuffata con la sua spagnola alla prima occasione. Fu preso poi il forte di Tunisi (13
settembre) capitanato da Gabrio Serbelloni e Pagano d’Oria, e infine cadde il piccolo forte detto
dello Stagno costruito per volontà di Gioan Andrea d’Oria, in cui 50 soldati comandati da Juan
Salazar resistettero eroicamente e infatti furono gli unici che ebbero salva la vita unitamente al
Puero Carero, al Serbelloni e al Salazar, tutti e tre fatti prigionieri, mentre il d’Oria restò ucciso in
un tentativo di fuga; ma non staremo, secondo il nostro necessario costume, a narrare i
combattimenti che portarono alle predette perdite e a chi vorrà saperne di più basterà andare a
leggere a tal proposito la relazione del residente veneziano a Palermo Placido Ragazzoni (1574) o
altre narrazioni fattene dagli storici coevi; diremo solo ancora che nel frattempo, ma con ritardo,
Juan de Austria aveva raccolto a Palermo un’armata di soccorso di 124 galere, in cui erano le
squadre di Napoli e Sicilia, 4 galere del Papa, 4 di Malta, 13 della signoria di Genova, 21 di
Giovann’Andrea d’Oria e altre particolari, con un totale di 12mila fanti, di cui 6.500 spagnoli, 1.500
italiani e per il resto venturieri; ma, avuta notizia della caduta della Goletta e tenuto consiglio di
guerra, decise che non aveva forze sufficienti ad affrontare il nemico e, avendo saputo
successivamente pure della perdita di Tunisi, desistette definitivamente e sciolse l’armata. A
seguito della grave perdita della Goletta apparve prontamente a Roma una pasquinata che si
leggeva più o meno così:
Il Cardinal con la braghetta, Don Giovanni con la racchetta, han perduto la Goletta.

Alludendosi qui al vizio della lussuria notoriamente coltivato dal cadinale de Granvelle, allora
ancora viceré di Napoli, e al gioco che usava praticare don Giovanni, cioè quello della pallacorda,
oggi meglio conosciuto con il suo nome inglese tennis (dal lt. tenus, ‘corda tesa’), una volta uno dei
preferiti dagli antichi soldati romani e ora molto amato e praticato dal più famoso bastardo di
Spagna. Dunque, dopo quelle d’Algeri e di Tripoli, nasceva ora anche la carica di bey di Tunisi,
ossia la reggenza ottomana di quella città, la quale sino ad allora era stata gestita dai turchi come
loro semplice governatorato, e al re di Spagna restavano quindi sul suolo africano Orano,
presidiata in questo periodo da 1200 uomini, Mazalkibir, il Peñon e Melilla, possedimenti ai quali,
con la conquista del Portogallo del 1580, s’aggiunsero Ceuta, Tangeri, Arzilla e Mazagan.
628

Questo ormai continuo alternarsi di conquiste e perdite delle piazze marittime nord-africane
contribuirà a far diffondere sempre di più tra gli strateghi cristiani la convinzione che, per risolvere il
grave e secolare problema dei corsari nord-africani, le città di quella costa andavano non più
conquistate e fortificate, strategia questa che si era dimostrata fallimentare sia per i gravosissimi
costi che implicava sia perché prima o poi si arrivava alla necessità di doverle abbandonare alle
armate turche, ma si sarebbero dovute prendere e sistematicamente distruggere e ciò fino a tutto
lo stretto di Gibilterra. In effetti inizia ora un lungo periodo di rovesci militari dei cristiani in Barbaria;
nel 1575 l’armata che Giovanni d’Austria raccoglie non ottiene alcun sostanziale successo; il 4
agosto del 1578, come già ricordato, il re Sebastiano di Portogallo, per difendere i suoi
possedimenti marocchini attaccati dai mori e cioè Ceuta, Tangeri, Arzilla (‘Asilah’) e Mazagan,
muore alla battaglia d’Alcazarquivir, presso Tangeri; nel 1601 Gioan Andrea d’Oria, per non aver
potuto riunire in tempo utile tutta l’armata necessaria, fallisce l’impresa d’Algeri e infine, nella notte
del 30 luglio 1609 una flotta spagnola al comando di Luis Fajardo de Córdoba attaccò con i brulotti
il porto de La Goletta, bruciandovi più di 20 vascelli tunisini, il meglio cioè della moderna flotta di
cui, avvalendosi della consulenza sia marinara che pirobalistica dei pirati inglesi che colà
risiedevano, s’era da poco dotato quel potentato barbaresco così come del resto in quel tempo
facevano anche gli algerini utilizzando invece l’esperienza del pirata olandese Danser, del quale
più avanti diremo. Questa conversione alla navigazione veliera permetterà presto ai corsari
barbareschi di agire molto più facilmente anche nell’atlantico, andando a dannificare non solo i
mari e le coste inglesi, irlandesi e islandesi, ma persino quelli americani, tant’è vero che da allora
anche potenze del tutto atlantiche quali l’Inghilterra e l’Olanda incominciarono a intensificare i loro
attacchi marittimi ai potentati barbareschi. Il Fajardo, comandante dell’armata spagnola del Mare
Oceano, non riuscì allora a riconquistare La Goletta alla Spagna, ma si rifarà presto contro due
importanti basi pirati marocchine dell’Atlantico, cioè prima, nel 1609, prendendo Larache e poi
nell’agosto del 1614 distruggendo Mamora, covo di attivissimi pirati inglesi; in questa seconda
occasione si era presentato davanti al porto pirata al comando di ben 99 vascelli, il cui nucleo era
costituito dall’armata spagnola dell’oceano, da 5 galere di Spagna capitanate dal duca di
Ferrandina e da 3 galere portoghesi del conte di Elda.
Nella sua relazione del 1590 il bailo Giovanni Moro delineerà la figura-tipo del capitano generale
ottomano del Cinquecento nelle sue principali prerogative:

... Il capo della milizia marittima non si contentano i turchi chiamarlo Generale dell'armata,
seguendo l'uso degli altri governi, ma, seguendo anco in questo la loro arroganza, lo dimandano
Capitan del mare, come se fosse assoluto signore di tutto il mare. (Ib. S. III, v. III, pp. 355-356.)
629

Strano biasimo questo fatto da un veneziano, visto che proprio Venezia chiamava il suo capitano
generale marittimo capitan general da mar! Ma andiamo avanti:

… Questo è grado onorato e molto stimato perché è quasi il primo appresso i bassà della Porta,
precedendolo solamente i due beglierbei della Grecia e della Natolia. Vien trattenuto dal Signore
con provisione corrispondente all'autorità, che importa circa 40.000 zecchini all'anno, a cui si
aggiunge i continui donativi de' particolari, l'utile che cava dalli schiavi (suoi) impiegati in diversi
luoghi e, quando occorre, anche nell'arsenale, oltra quello che ruba dalle spese che
ordinariamente si fanno in esso; con che ha larga commodità, mentre si trattiene in Costantinopoli,
di poter non solo mantener la casa con gran splendore, ma accumulare ancora gran quantità di
danari.
Quando poi esce l'armata ha suprema autorità, prestandogli indifferentemente obedienza tutti i
capi di qual siasi galea. Quando non tiene attualmente alcun governo, gode questa sola
preminenza d'esser chiamato 'bei'; ma, quando è in officio e quanto l'armata è più grande, tant'ha
più modo di rubar largamente; ed, oltre che risparmia - quel che importa assai - le spese della casa
e degli schiavi, ha l'utile degli aspri e altro che se gli dà per testa, come s'è detto.
Ha medesimamente quel che gli tocca de' bottini, compartiti da lui come gli pare, e i presenti che
largamente gli son fatti in ogni luogo dove vada; e di più resta libero da quell'ossequio
accompagnato da molti donativi che, mentre sta in Costantinopoli, è lui costretto di prestar a' bassà
e agli altri grandi. E però (‘perciò’) attende sempre il capitano del mare a procurar di persuadere
che sia bene il mandar fuora l'armata. (Ib. P. 356.)

Interessante ci sembra seguire la carriera del già ricordato veneziano rinnegato Hassan Pasha,
detto Il vanitoso, capitano generale del mare ottomano che nel 1577 successe nella reggenza
d’Algeri ai califfi che dall’aprile 1571 governarono quella città per conto d’Uluch-Alì, da quando cioè
questi era stato chiamato a Costantinopoli a partecipare ai preparativi per quella campagna di
mare che si concluderà rovinosamente a Lepanto; in effetti dopo la partenza di questo Algeri fu
governata prima da Arab Amat (1571-1574), un moro nato ad Alessandria d’Egitto, il quale, già
reggente d’Algeri dal 1561 al 1562, partecipò alla detta battaglia e alla difesa di Tunisi del 1573 e
poi da Rabadan Pachà, il quale era stato fino all’ottobre del 1573 Caid (‘governatore’) di Tunisi,
cioè appunto fino a quando questa città era stata conquistata da Juan de Austria. Nel suo dialogo
Captividad il de Haedo così dice di lui, a quel tempo appunto reggente d’Algeri:

(Sosa:) … E questo Hassan il Veneziano, il quale giunse così in alto e che si comporta così poco
da re, ditemi, non è egli il figlio d’un vaccaro, non era egli un vile mozzo a bordo d’un legno
raguseo che fu catturato da Dragut e fu donato ad un rinnegato, dal quale Occialì ereditò in qualità
di padrone?.. (D. de Haedo. Cit.)

Nella predetta relazione del Moro così si delinea il progresso della sua fortuna:

... mi pare che, appresso alle cose dette, sia a proposito considerar ancora la natura e li particolari
andamenti del presente Capitano Assan Bassà, ch'è nato in questa Città (di Venezia) in povera
fortuna; il qual, mentre - mandato da' suoi per guadagnarsi il vivere in età di circa 16 anni - serviva
630

da scrivanello sopra la nave 'Fabriana', fu fatto schiavo da Dorgut raís del 1563 e quella cattività,
che allora lo dové far restar tutto dolente, vedendosi privo della libertà che solo era quanto bene
aveva, gli causò poi, per la buona fortuna che l'ha sempre accompagnato, prosperità negli onori di
quel governo.
Fu nel principio della sua schiavitù donato ad Ucchiali (‘Uluch-Alì’), uno dei corsari principali e di
maggior stima di quel tempo, il qual, restando ben contento della prontezza del suo spirito e della
sua vivacità, lo fece far turco e, valendosi volentieri dell'opera sua, lo lasciò poco dopo con somma
autorità suo luogotenente in Tripoli, dove era Vicerè; e, quando Ucchiali fu fatto Capitano del mare,
lo elesse prima per suo maestro di casa e poi lo fece 'agà' dell'arsenale, che vuol dir suo
luogotenente nell'arsenale, con che ha avuto commodità d'accrescere in reputazione e di
grandemente arricchirsi e col mezzo de' suoi danari esser poi fatto Vicerè (in realtà solo reggente)
di Algeri.
Ma, per certi dispareri nati fra essi, fu richiamato dal Gran Signore e corse pericolo di perder la
vita, 'sì come perdette un gran capitale che aveva in Costantinopoli per più di zecchini 100.000.
Seguita poi la riconciliazione, tornò al medesimo governo d'Algeri, dove, essendosi mostrato in
ogni occasione corsaro vigilantissimo e sempre fortunato, si acquistò tanta reputazione per molti
importantissimi danni fatti ai christiani che Ucchiali soleva dire che non conosceva alcuno pel
servizio del Gran Signore più atto di Assan Bassà a ben esercitare, dopo esso, il capitanato del
mare; ma, avendolo Sua Maestà conferito dopo la morte di Ucchiali ad Ibraim Bassà suo genero,
destinò Assan Vicerè di Tunisi con maggior autorità dell'ordinario, come allora scrissi.
Non restando poi il Gran Signore contento del governo d'Ibraim nell'arsenale, richiamò Assan
pochi mesi dopo la sua partita (per Tunisi) e lo costituì suo Capitano del mare con partecipazione e
consenso degli altri bassà, senza che Ibraim ne sapesse parola... (E. Albéri. Cit. Pp. 356-357.)

In effetti Hassan Pasha era stato al governo d’Algeri una prima volta dal 1577 al 1580, periodo in
cui fece guerra accanita agli spagnoli, essendo poi destituito per impopolarità e sostituito dal
predetto e già una volta reggente Rabadan Pachà, e poi ancora dal 1583 al 1587, ancora
ricevendo il califfato di quella ricca città da Uluch-Alì, nominalmente ultimo beglerbegi d’Algeri.
Durante questo suo secondo mandato la guerra di corso contro i cristiani fu intensificata e il
numero degli schiavi ad Algeri, il quale, a dire del de Haedo, già nel 1579 superava i 25mila,
aumentò ancora considerevolmente, ma leggiamo ora il ritratto che il Moro fa di questo veneziano
rinnegato, arrivato alla più alta gerarchia della milizia ottomana sia per suoi meriti che per sua
fortuna:

... Assan Bassà è di statura mezzana, scarno di vita (‘corporatura’) e di colore olivastro, accordo e
sollecito nelle sue azioni, d'ingegno vivace, animoso di cuore e pronto di mano, virtù le quali da
esso per la sua prava natura sono sempre male usate. É poi non pure (‘non solo’) collerico e
superbo, ma vendicativo e grandemente crudele e lascerei di dire che fosse avaro e bugiardo,
essendo ciò proprio de' turchi, quando tali difetti in lui non eccedessero l'ordinario. Mostra d'essere
di poca complessione (‘salute’), con tutto questo (‘ciò nonostante’) non vive molto regolato,
confidandosi forse in due fontanelle (‘cauteri, fistole’) che ha già (da) qualche anno, ma per
l'abitudine del suo corpo (‘per i suoi stravizi’) non par che prometta gran lunghezza di vita.
Tratta i suoi schiavi con ogni termine di rigore, né vuol dar ad essi riscatto se non a prezzi altissimi
ed eccessivi; usa di farli battere per ogni lieve occasione severissimamente, stimando poco far
dare ad uno mille e più bastonate, sicché alcuno per l'acerbità delle percosse è restato morto, e, se
colui a cui comanda il servizio (‘la bastonatura’) non si adopra gagliardamente, esso (medesimo),
631

portato dal furore, prende il bastone in mano e batte l'uno e l'altro senza alcuna pietà. Quando è
d'animo turbato (‘nervoso’), come spesso occorre, essendo impazientissimo di natura, guai a chi
de' suoi lo commuove (‘innervosisce’) punto, perché incrudelisce contro d'esso sfogando (così) la
rabbia concetta per altro. (Ib. P. 358.)

La straordinaria avarizia dei turchi e dei levantini in genere è anche ricordata nella succitata
relazione veneto-francese da Costantinopoli del 1620, laddove si racconta del giovane principe
Amurat che, secondo una consuetudine del resto anche napoletana, lanciava manciate di monete
d’oro alla folla:

… che è una vera maniera d’accattivarsi il cuore di tali genti, le quali sono le più avare del mondo.
(In Les cérémonies, magnificence, triomphe etc. Op. cit)

Ma, tornando ora alla ferocia del predetto rinnegato veneziano, essa è confermata dal cavaliere
gerosolimitano de Haedo, prigioniero anch’egli ad Algeri al tempo del primo governo di Hassan e
per la precisione a partire dal 19 aprile del 1577, laddove questo memorialista trae dai suoi
appunti, accuratamente datati, i tanti episodi di particolare crudeltà dei quali era stato testimone o
di cui altri gli avevano reso testimonianza durante gli anni della sua Captividad; il 30 aprile 1578
Hassan fece bastonare a morte in sua presenza lo spagnolo trentacinquenne Cuellar, perché
questi durante la notte precedente aveva tentato di portar via dal porto una galeotta con la quale
egli e altri circa 30 schiavi spagnoli avevano progettato di fuggire:

… ordinò che gli si dessero molti colpi di bastone senza precisarne il numero. Gliene si dettero
tanti che i ‘kauk’ (‘servitori reali’), esecutori del tiranno, si stancarono, mentre il re non cessava di
gridare: ‘Colpite, colpite quel cane, uccidetelo, uccidetelo!’ I ‘kauk’ fracassarono le ossa e le
viscere del disgraziato e lo lasciarono per morto. Due cristiani vennero poi per sotterrarlo, ma,
vedendo che era ancora in vita, lo portarono al bagno del re, dove rese l’anima al Creatore due o
tre giorni dopo, il 2 maggio… (D. de Haedo.Cit.)

Il 16 settembre dello stesso anno Hassan uccise di sua propria mano a bastonate certo Gian
Francesco, un bel giovane napoletano, di cui forse non era riuscito a carpire gli intimi favori; il
successivo 12 dicembre ammazzò, anche a bastonate, nel suo palazzo il maiorchino Pierre Soler,
colpevole di aver tentato la fuga a Orano, allora possedimento degli spagnoli, fuga che non era
impresa facilissima, visto che si trattava di percorrere via terra 60 leghe d’allora; dopo altri quattro
giorni fece dare 800 colpi di bastone al maiorchino Alfonso e poi lo fece appendere per i piedi,
provocandone infine la morte dopo sei ore di tale supplizio, perché aveva nascosto nel suo
giardino altri tre suoi schiavi cristiani intenzionati a fuggire; il 13 gennaio 1579 uccise, sempre a
bastonate, un catalano di nome Peroto, catturato su una fregata presso le coste del suo paese e
colpevole di non informarlo a sufficienza sui movimenti della squadra spagnola; il 24 dicembre fece
632

uccidere a bastonate davanti a lui e nelle sue stanze Juan il Biscaglino, il quale avevano
riacciuffato mentre fuggiva verso Orano; il 29 marzo 1580 i suoi giannizzeri pestarono di colpi il
veneziano Luigi, il quale ne morirà poi il 16 aprile seguente; il 22 aprile perì allo stesso modo in
sua presenza il gentiluomo siciliano Vincenzo Lachitea, intendente dei grani; per aver anch’egli
tentato la fuga a Orano il 29 maggio 1580 fece pestare di santa ragione il giovane montanaro
spagnolo di nome Lorenzo, il quale poi ne morì due giorni dopo; il de Haedo aggiunge che volendo
avrebbe potuto trarre dai suoi appunti di prigionia ancora molti altri nomi di cristiani uccisi o
storpiati a bastonate da Hassan e dai suoi uomini nei soli tre anni da cui si trovava anch’egli
schiavo ad Algeri. Oltre che di bastonature e fustigazioni, Hassan si dilettava anche di taglio di
naso e orecchie ed ecco cosa infatti aveva annotato a questo proposito il de Haedo nel solo
triennio 1577-1580: il 15 settembre 1577 ad Algeri aveva fatto tagliare in sua presenza le orecchie
a due ‘napoletani’, ossia a due italiani meridionali, di nome mastro Angelo e mastro Giovanni
Angelo, perché erano stati sentiti proporsi di fuggire, e poi, a meno che il de Haedo non abbia fatto
nei suoi appunti un po’ di confusione, le stesso giorno dell’anno successivo, fattili legare allo
stesso palo, comandò fossero bruciati vivi per lo stesso motivo, ma, fortunatamente per i due
disgraziati e sebbene già bruciacchiati dal fuoco e quasi morti, furono sottratti alle fiamme da due
raís che, dovendo partire in corso quella stessa notte, avevano paura che, spargendosi la voce di
tale crudeltà, se fossero stati a loro volta presi dai cristiani, avrebbero potuto per vendetta essere
sottoposti allo stesso supplizio; subito dopo i due raís si presentarono ad Hassan per chiedere la
grazia per i due napoletani, ma il rinnegato veneziano, adirato per questa loro iniziativa, fece
tagliare le orecchie a tutti e due. Il 26 ottobre seguente fece nella sua camera di poppa subire lo
stesso trattamento e per lo stesso motivo allo spagnolo malagheno Diego de Rojas e, non
contento, gli fece attaccare le orecchie tagliate alla fronte e lo fece camminare oltraggiosamente
così per la città; l’8 febbraio 1578 a un sardo di nome Martino, anche perché aveva espresso il
desiderio di fuggire; il 10 seguente al calabrese Costantino, il 13 al milanese Giovanni, il 13 marzo
al siciliano Francesco, il 16 giugno al piemontese Gerolamo; il 2 ottobre al calabrese Giuseppe,
tutti per il medesimo motivo e cioè perché avevano tentato di fuggirsene a Orano; il 3 febbraio
1579 fece tagliare naso e orecchie a un giovane maiorchino di nome Miguel, perché sorpreso a
prepararsi una barca nel giardino del suo padrone, l’11 marzo dello stesso 1579 allo spagnolo
mancego Fernández per lo stesso identico e il 3 agosto, nella sua camera di poppa e in sua
presenza, a tre altri schiavi, al biscaglino Sebastián, al mazarese Cola e al ventitreenne genovese
Giovanni; questi ultimi, colpevoli d’essersi con gli altri cristiani ammutinati e impadroniti a Bougie il
23 giugno d’una galera che egli aveva mandato a Bona a caricare frumento e burro, fece poi il 30
dello stesso agosto appendere per i piedi a testa in giù all’antenna della sua galera, infine
633

perdonando i primi due, mentre, per quanto riguarda il genovese, ne prolungò di molto le
sofferenze facendolo inoltre bersagliare di frecce e infine uccidere a colpi d’archibugio. Il 12
gennaio 1580 fece strangolare il giovane francese Simon perché aveva nascosto in un giardino
due cristiani che si preparavano così a fuggire; l’11 febbraio seguente fece tagliare naso e
orecchie a due giovani maiorchini di nome Juan e Pablo, accusati d’aver nascosto nel giardino del
loro padrone altri cristiani intenzionati a fuggirsene per terra a Orano; tre giorni dopo gli portarono
ancora sei schiavi cristiani, dei quali il de Haedo non riuscì a conoscere i nomi, presi mentre
fuggivano appunto via terra e due di questi, i quali non gli appartenevano, fece bastonare di santa
ragione, mentre agli altri quattro, suoi schiavi maiorchini, fece tagliare le orecchie. Il giudizio finale
che il de Haedo da del rinnegato veneziano divenuto ‘re’ d’Algeri è sprezzante:

… Non fa meraviglia che un simile tiranno, più crudele di tutti gli altri che hanno regnato ad Algeri,
agisca sempre così e, come tutti sono d’accordo nel dire, sembri non apprezzare nient’altro che
mostrare il suo odio per la religione cristiana. Ha un bell’essere re, è d’una così bassa e così vile
estrazione che non si è vergognato in questi ultimi giorni di strangolare con le sue mani e nel suo
proprio appartamento uno dei suoi negri, un mussulmano, senza arrossire davanti a tutti quelli che
erano presenti e che si stupivano che un re si facesse carnefice d’un suo negro. (Ib.)

Quest’ultimo disgustoso episodio era avvenuto il 1° luglio 1579. Il passo seguente fa capire perché
Uluch-Alì aveva mirato ad acquisire potere in Barbaria piuttosto che restare a Costantinopoli:

… É di spirito altiero e inquieto, ma, per mostrarsi di animo regolato e senza ambizione, mi disse -
quando arrivò a Costantinopoli eletto Capitano del mar - che non voleva negar d'averlo avuto caro
per la riputazione che ne riceveva, ma che non l'aveva procurato (lui) poiché l'essere Vicerè di
Tunisi con autorità sopra tutti i vascelli armati in Africa gli apportava commodo e utile maggiore,
oltre che era signor obedito e servito prontamente da ognuno, dove in Costantinopoli aveva molti
superiori, a' quali bisognava che portasse gran rispetto accommodandoli (‘offrendo loro il servizio’)
de' suoi schiavi e altro secondo l'occasione; e che, 'sì come esso non aveva procurato quel carico,
così stimava che le orazioni de' christiani per liberarsi dalle sue mani avessero mosso il Signore
Dio a metter in animo al Gran Signore di fare elezione di lui, onde non gli fosse più permesso di
navigar come corsaro, affermando che la persona sua e la sua presenza muoveano tutti i 'leventi'
(‘corsari barbareschi’) ad unirsi con esso e a seguitarlo, con che aveva tanta commodità di far
grandissimo danno a' christiani; lo che non saria successo per l'avvenire, perché quelli, non
avendo (più) capo di autorità, sariano andati separati e quasi dispersi.
Discorre accommodatamente e con prontezza di spirito trova facilmente nuove invenzioni per
aggravar maggiormente la Christianità, della qual si mostra acerrimo persecutore, e, se gli altri
capitani, mossi dal loro utile, hanno del continuo procurato l'uscita dell'armata, questo avidamente
la brama, eccitato in oltre dalla vivacità della sua naturale ambizione della gloria che lo stimola di
continuo, sperando massime di potere un giorno, come esso medesimo mi ha detto più d'una
volta, impadronirsi di Fez (‘regno del Marocco’) [...] É però (‘perciò’) tanto appassionato
nell'interesse che, per poco che si tratti del suo, non conosce amicizia né altro che possa con lui...
(Ib.)
634

Infatti il de Haedo nel già citato dialogo descrive le grandi ricchezze, così procurate dalla guerra di
corso, che si potevano allora vedere ad Algeri e delle quali un quinto, sia in schiavi sia in merci e
valori, erano dovute al beglerbegi o comunque al governatore, il quale avrebbe dovuto poi
tributarne parte al sultano di Costantinopoli:

(Sosa:) … Ed è cosi, come voi vedete con i vostri occhi, che tutte le case, magazzini e botteghe di
questo paese di ladroni si riempiono d’oro, d’argento, di perle, di corallo, d’ambra, di droghe, di
zucchero, di ferro, d’acciaio, di rame, di stagno, di piombo, d’allume, di solfo, di cera di Spagna, di
‘tincal’, di brasile, di tinture, di perline, di drappi, di lana, di tessuti, di tela grossa e fine, di cotone,
di vetro, di cristallo, di frumento, di vino, d’olio, di sale, di fior di sale, senza contare d’altre
mercanzie in quantità innumerevole, il che ha fatto e fa di questa città la più ricca di tutte quelle del
Levante e di Ponente, tanto che i turchi dicono a ragione che essa costituisce le loro Indie e il loro
Perù. (Ib.)

L’interlocutore di Sosa, dichiarandosi perfettamente d’accordo con lui, riporta a conferma quanto
ha udito dire da alcuni turchi giunti su due galere ad Algeri solo qualche giorno prima:

(Antonio:) … essi affermavano che in tutta la Turchia, in Rumelia, in Anatolia e in Siria si parla
d’Algeri nella stessa maniera che in Castiglia e in Portogallo si parla delle Indie. E non è solo
questa gente grossolana, la quale in Turchia è sempre rimasta miserabile e non fa altro che
guardare le vacche e le capre, che ha questa opinione d’Algeri; i grandi e i rinnegati, i quali sono
‘Pasha’ ed ordinariamente occupano i posti elevati e i governi più considerevoli, non bramano
maggiormente, non mettono più in alto le loro ambizioni che d’arrivare, ricorrendo a tutte le loro
protezioni e distribuendo delle somme considerevoli ai membri del consiglio supremo del ‘Gran
Turco’, ad ottenere il governo d’Algeri, anche se questo non resta, com’è ordinariamente il caso,
che tre anni nelle stesse mani…
… Quale dei principi che hanno regnato qui, dopo aver quasi ogni anno inviato degli enormi regali,
consistenti soprattutto in contanti monetati d’oro e d’argento, i quali si caricano sulle galeotte in
grandi casse e bauli pieni, e destinati al ‘Gran Turco’, ai principali ‘Pasha’ del consiglio supremo,
ecc., dopo i suoi tre anni di governo, non si è ritirato a Costantinopoli conducendo con sé quattro o
cinque galere e galeotte completamente cariche d’oro e d’argento? (Ib.)

E poi, anche se non dovessero arrivare più ricchezze dalle Indie:

… quali più grandi ricchezze di tutte queste migliaia d’anime, tutti questi prigionieri cristiani che
vogano continuamente, incessantemente queste galere, questi brigantini e queste fregate,
prigionieri che si vendono in tutta la Barbaria e la Turchia e il cui prezzo di vendita od il riscatto
costituisce un tesoro enorme! (Ib.)

Antonio continua facendo il caso concreto appunto del predetto veneziano Hassan:

… Per (quanto riguarda) il rinnegato veneziano Hassan, il quale regna qui in questo momento, noi
tutti sappiamo con quanti competitori egli cozzi a Costantinopoli, quali enormi somme egli versi
nelle mani del gran Pasha Méhémet e alla sultana moglie del Pasha Pialì e sorella del Gran Turco
635

Mourad, allora regnante, e quanta pena ebbe il suo padrone Otchali (‘Uluch-Ali’), il grande
ammiraglio, persino con l’aiuto d’altri importanti Pasha suoi amici, ad ottenere che venisse
nominato a quel posto. (Ib.)

Eppure altri incarichi importanti in altri luoghi dell’impero gli erano stati proposti per il veneziano
suo protetto, ma nessun’altro era così ambito come il triennio di governatorato ad Algeri:

… Hassan fu nominato non solamente grazie alla protezione d’Uluch-Alì, che era molto influente
presso il sultano, ma anche perché aveva donato forti somme di danaro a tutti i pachà del
Supremo Consiglio del Gran Turco, quali Mahamet Pachà, schiavone, Siman Pachà, greco,
Hassan Pachà, bosniaco, Pialì Pachà, ungherese, poiché il reame d’Algeri è uno dei più importanti
che il Turco possiede e dal quale i governatori ricavano i più grandi vantaggi e il maggior profitto,
sia a causa del corso praticato da un gran numero di corsari che per le risorse prodotte dalle
popolazioni della Barbaria, le quali vengono ‘disossate’ (‘spolpate’). (Ib.)

Anche se ora uno degli uomini più potenti di Costantinopoli, Hassan doveva - come del resto i suoi
predecessori - essere anche capace d’accorta diplomazia, se voleva restare nelle grazie del
sultano:

... Ha sempre conservato sollecitamente e con molta accortezza l'amicizia del 'Capiagà' (‘gran
ciambellano’), il quale, per esser la prima persona d'ordinario servizio ch'abbia il Gran Signore e
però (‘perciò’) sta del continuo presso di lui, è un de' tre che ha libertà di parlargli. Ha potuto
favorirlo assai e l'ha anco fatto sempre come (essendo) della medesima patria del Capitano,
benché il 'Capiagà' sia nato (‘figlio’) [...] d'un chiogiotto di povera fortuna, preso col padre,
ritornando di [...] dove aveva servito per cavalier al clarissimo […] e donato come figliuolo di
gentiluomo a Sultan Selim, che - fattolo turco - lo ritenne in serraglio e poi fu aggrandito dal
presente Gran Signore (Amurat III, dal 1574). E forse per questo solo più che per altro (Hassan)
non fu lasciato cader l'anno passato - 'sì come fermamente si credeva - per l'alterazione che Sua
Maestà aveva preso contro d'esso pe' grandissimi danni fatti a quel tempo dalle galee di Malta
nell'Arcipelago. (Ib.)

Tratteggia brevemente la figura di Hassan il Cervantes Saavedra, dando la parola nel suo Don
Quijote a un cristiano ex-prigioniero dello stesso rinnegato veneziano, quando però quest'ultimo
era ancora al suo primo governo d'Algeri:

... e mi riferisco ad un rinnegato veneziano che, essendo mozzo di una nave, lo catturò Uccialì e si
prese tanta cura di lui che fu uno dei suoi giovanotti più beneficati e divenne il più crudele
rinnegato che giammai si è visto. Si chiamava Hassan Agà e arrivò ad essere molto ricco e ad
essere re d'Algeri... (M. de Cervantes Saavedra. Cit.)

Ricorda poi il predetto ex-prigioniero la sua esperienza di cattività ad Algeri, in uno dei bagni di
quella grande città-mercato di schiavi, dove era tenuto recluso insieme a tanti altri poveri
disgraziati presi prigionieri sulle coste o sui vascelli cristiani catturati da quei corsari:
636

... E per quanto la fame e la nudità potessero tormentarci a volte, anzi quasi sempre, nessuna
cosa ci angustiava tanto come udire e vedere ad ogni pie' sospinto le giammai viste né udite
crudeltà che il mio padrone (Hassan) usava con i cristiani. Ogni giorno ne impiccava uno, impalava
questo, mozzava le orecchie a quello e ciò per così futili motivi - e a volte anche senza - che i
turchi sapevano che lo faceva solo per farlo e per esser per sua natura omicida di tutto il genere
umano... (Ib.)

Della particolare crudeltà d’Hassan scrisse anche il suddetto de Haedo:

… Hassan il Veneziano era brutalissimo e supremamente detestato a causa della sua eccessiva
crudeltà non solo dai prigionieri cristiani che ogni giorno vedevano qualcuno dei loro compagni
perire sotto i suoi colpi, ma anche dai rinnegati e dai turchi che egli maltrattava e strapazzava
senza sosta, come Uluch-Alì, il loro padrone (faceva del resto) a tutti. Infine egli aveva inoltre un
carattere così malvagio, così perverso che tutti lo sfuggivano e tutti tremavano davanti a lui. (D. de
Haedo. Cit.)

La malvagità, l'ingordigia, la fallacia dei cristiani rinnegati che sin da giovanissimi capitavano al
servizio dei turchi - o in un serraglio o a bordo d’una galera o in un cantiere di lavoro - e quindi
erano dalle umiliazioni e dalle percosse educati trova ulteriore conferma nelle relazioni che trattano
del capitano generale Sinan (terzo di questo nome dopo l’ebreo e l’albanese, dei quali abbiamo
detto e ancora diremo), al secolo Scipione Cicala, figlio di quel Filippo Cicala, famoso corsaro
messinese, che fu preso prigioniero appunto con questo figlio, allora diciottenne, nei pressi delle
Lipari nel 1561 e che poi passò al servizio ottomano convertendosi al maomettismo. Leggiamo a
tal proposito il bailo Matteo Zanne (1594):

... Il Cicala, Capitano del mare, siede in divano come Bassà Visir nel primo luogo dopo Ferat e se
lo è guadagnato con una continua servitù prestata sino dall'ora che uscì di serraglio; e in Persia gli
sono successe diverse fortunatissime imprese, nelle quali ha mostrato più ardire e più valore della
persona - accompagnato con inganni e stratagemmi - che giudizio e prudenza per un supremo
commando; ed è andato crescendo in reputazione mediante l'appoggio della sultana sua suocera
(fu figliuola di Rusten Bassà, della quale ha avuto per mogli due figliuole l'una dopo l'altra); né gli
osta mangiar l'oppio, detto 'afion', come fanno la maggior parte de' turchi per rallegrarsi, e anco il
bere vino proibitogli dalla legge (islamica), se ben lo fa cautamente e con molta circospezione.
É ricco a maraviglia e per natura avarissimo, tutto dedito ad accumulare e la sua sordidezza non
ha paragone, come anco la falsità della lingua sempre menzognera e volta a fraude e ad inganni; e
si può dire con verità che tra tutti i ministri del Re non fu mai alcuno più odiato di lui, anco dalli
medesimi turchi, né saprei dire che alla Porta egli avesse altro amico che il 'capiagà', la prima
persona di dentro appresso il Re, con il quale solo - come italiano - egli s’intende bene e col mezzo
suo si mantiene nel capitanato, stimato da lui al pari della vita. Ma un mezzo più potente ancora
usa esso Capitano, che è di scritturar (‘corrispondere’) col Re in tutte le materie tanto alla libera
che trapassa in licenza e, sotto pretesto di severità e di fare il suo servizio, gli discopre i difetti
d'altri e si mette lui innanzi; e la copia de' nemici ch'egli ha è causa che tutti i rubbamenti ch'esso
commette non li faccia per sé, ma per il Re, al quale dà conto delle sue operazioni così
minutamente che non vi è che opporre, e all'incontro inventa sempre nuovi modi da portar danari a
637

Sua Maestà né cura che siano illeciti, sapendo che gli sono indifferentemente accetti; il che lo
mantiene contra l'opinione di tutti in quell'ufficio di capitano del mare, nel quale non è molto
riputato perché non ha cognizione della professione e non la esercita per li suoi veri termini, ma ha
ben questa condizione dell'ardire temerario, 'che dice che combatterebbe in mare e in terra con
ogni disavvantaggio. Ed ho scritto molte volte ch'esso non cura di grande armata, ma buona, ed è
uomo da usare artifizij e stratagemmi sotto specie di finta amicizia e adoperare intelligenze, spie e
segrete corrispondenze e prometter molto e poi non attendere cosa alcuna... (E. Albéri. Cit. S. III,
v. III, pp. 424-425)

Nell’agosto del 1562 alcuni rinnegati italiani imbarcati sulla galera d’Uluch-Alì, come abbiamo più
sopra già accennato, s’ammutinarono e s’impadronirono del vascello, costringendo lo stesso
calabrese, ferito ora nuovamente dopo esserlo stato due anni prima anche alle Gerbe, a salvarsi a
nuoto sulla terra vicina; la galera fu portata dai 160 rivoltosi cristiani a Messina, fu comprata dal
‘visconte’ Filippo Cicala, capitano di una condotta di più galere siciliane, e da Luis Osorio, mastro
di campo della fanteria spagnola di Sicilia, e poi tolta a costoro dall’allora vicerè di quel regno duca
di Medina Coeli per esigenze di corte; il Cicala e l’Osorio, l’uno su una delle sue galere e l’altro
sulla sua galeotta, salparono per la Spagna per querelarsi dal re di questo torto subito, ma,
passando accanto alle Égadi, furono assaliti da una grossa galeotta e da due fuste turche che si
nascondevano in Maret(t)imo e dei cui tre raïs uno si chiamava Alì e un altro Zaban, non
riportando il de Haedo il nome del terzo; le due fuste, presa la galeotta dell’Osorio e fatti prigionieri,
tra gli altri, quest’ultimo e il genovese Nicolino, suo capitano, corsero in aiuto della loro galeotta
che combatteva con la galera del Cicala e così anche questa, anche perché in effetti in
quell’occasione i suoi uomini dimostrarono ben poco coraggio, fu presa. Il Cicala fu fatto
prigioniero insieme al figlio giovanetto Scipione e ambedue, dopo aver passato qualche periodo a
Tripoli con gli altri prigionieri, furono da Torgud inviati al sultano Sulaiman, ma, mentre il padre,
tenuto in una località sul Mar Maggiore detta le Sette Torri, presto vi morirà, il figlio, fattosi
maomettano ed educato dai turchi, ascenderà, attraverso i gradi di aghà dei giannizzeri e di
capitano della guardia del sultano, a quello altissimo di pasha con il ruolo prima di capitano
generale di terra e poi di mare dell’impero ottomano; l’Osorio sarà invece riscattato e il predetto
Nicolini, essendo stato riconosciuto come un cristiano che anni prima era stato a Tripoli rinnegato,
raís di galeotta e poi se n’era fuggito e ritornato alla sua precedente religione, sarà il 12 aprile di
quell’anno legato a un picchetto, lapidato e poi incenerito. Pur se nato a Messina da famiglia
messinese, Filippo Cicala allegava d’esser d'origine genovese e, mentre inclinava abbastanza per
Spagna, nazione che aveva sempre beneficato la sua famiglia e ancora allora - nel 1590 - quella
monarchia corrispondeva una pensione di 500 scudi l'anno al fratello minore Carlo e una di mille al
fratello maggiore Filippo che viveva a Messina, professava aperta inimicizia alla Repubblica di
Venezia, perché con questa la sua famiglia aveva nel passato avuto dei seri screzi; lo Zanne
638

quindi cercava nella sua predetta relazione di consigliare al suo senato il giusto comportamento da
tenersi con il Cicala:

… Se io lo conoscessi semplicemente di natura avara e interessata come quella degli altri turchi,
diria senza dubbio che con il donargli in grosso e col gratificarlo, come Vostra Serenità usa col
primo Visir, mettesse conto cercar di guadagnar questo soggetto; ma, perché in lui la malignità
avanza tutte le altre sue ree condizioni, son certo che né anco questo bastaria (se ben potria pur
servire a qualche cosa), essendo per sua natura ingrato [...] Però (‘perciò’) sarà sicuro consiglio
che li ministri (‘baili e ambasciatori’) della Serenità Vostra non manchino, secondo l'ordinario, di
trattenersi con esso Cicala dissimulatamente, procurando di non gli dar mala sodisfazione, anzi
(di) compiacerlo nelle sue frequenti dimande di veste, confetture e altro; né in mio tempo è mai
passata settimana ch'egli non abbia ricercato da me qualche cosa e io mi son valso della libertà
datami dalla Serenità Vostra, nel principio del (mio) bailaggio, di donargli in più volte pel valor di
500 zecchini; e, quando egli si fosse astenuto dal dimandare, n’avrei fatto cattivo giudizio. Mi
costava ben l'amicizia di un inglese eunuco, il più favorito giovane che fosse appresso di lui, che
morì ultimamente, e io ricorsi subito all'amicizia di un altro eunuco pur suo favorito... (Ib. P. 426.)

Lo Zanne, a proposito poi d’un possibile successore del Cicala, menziona tra i più probabili, oltre
ad Alil e a Ibrahim, ambedue generi del sultano, il calabrese rinnegato Giaffer (Jafar Pacha, forse il
più intendente), del quale poi di più diremo, e soprattutto il già nominato rinnegato Mami Arnaute
(‘Mami l’Albanese’), un subordinato del Cicala, il quale era stato la seconda autorità ad Algeri al
tempo della reggenza del veneziano Hassan e nel 1582 aveva pure preso un effimero potere in
quella vituperata città capeggiando una rivolta contro il suddetto Caid Ramdan, appena nominato
dalla Sublime Porta governatore per la seconda volta e con l’ordine perentorio di far cessare il
corso algerino contro gli alleati francesi, costringendolo a fuggire dalla città:

... Arnaute Memi, corsaro famoso e già vecchio, che fu chiamato di Barberia a Costantinopoli a
servire di capitano di una (galera di) guardia e quasi di luogotenente e di guida al Cicala, non si
fidando la Porta del suo commando. Costui come corsaro fu arrisicatissimo ed ora - (da) capitano -
non si conforma in questo col Cicala, di navigare con poche forze e arrischiarle; ma per
conclusione è facil cosa far giudizio in chi possa cadere il capitanato, conoscendosi la natura del
Re, che non patirà mai di conferirlo ad altri che al più offerente, compresi anco li generi. (Ib. P.
428.)

Lo Zanne vuol qui dire che la tradizionale abitudine turca di vendere le cariche pubbliche era ora
accentuata dalla particolare avidità del presente Sultano Amurat III e anche il Cicala aveva dovuto
comprare il suo capitanato:

... Il Cicala, che lo pagò 200.000 zecchini e ne cava forse 40.000 all'anno come Capitano del mare
e 'beglierbei' dell'isole di Arcipelago e delle marine, vorria prima venir sul suo (‘rifarsi del suo’) con
qualche guadagno, professando bensì di dare al Re tutto quello che ne cava estraordinariamente,
e mette in considerazione a Sua Maestà che questo utile estraordinario verria mangiato da ogni
639

altro che avesse il suo luogo e che però (‘perciò’) gli mette conto non dar orecchie a chi gli dice
che non conviene che un ministro come lui abbia due carichi, di Bassà Visir e di capitano (del
mare), e che, quando pure la Maestà Sua volesse levargli l'uno, sia quello di Visir; ma soggiunge
che li servizij e meriti suoi lo fanno capace di ambidue. Con che e con li presenti e favori della
Sultana sua suocera - e molto più con la sua accortezza - ha portato e porta tuttavia il tempo
innanzi (‘dura tuttora’).
L'ambasciator di Francia, suo diffidente e aperto nemico - oltre il rispetto publico - per alcuni suoi
particolari, ha tenuto mano con gli agenti di Giaffer calabrese, che ultimamente era bassà di Tripoli
di Soria (‘Siria’), in trovar gioje (‘regali’) per farlo dimettere ed entrar esso Giaffer, ma la somma
non è stata considerabile a sufficienza... (Ib.)

E d'altra parte, anche se a tal scopo si fosse raccolta una somma bastevole, sarebbe stato
necessario accertarsi anche d’altre cose, vista la delicatezza dell'operazione anti-Cicala:

... ma bisognaria assicurarsi che la spesa fosse impiegata in soggetto confidente e non spagnuolo
(‘filo-spagnolo’), come è riputato questo (Giaffer), e che in alcun tempo non si risapesse; condizioni
che non si trovano in Turchia, dove non si sa celar per troppo tempo qual si voglia gran segreto e
dove i benefizij per l'ordinario a gran fatica sono riconosciuti per più di un giorno solo, tanto è
perfida la natura de' rinnegati, massime italiani, tra i quali si conta questo Giaffer, col quale, nel
tempo ch'egli è stato alla Porta di ritorno di Bassà di Tripoli, ho trattato materie dispiacevoli di
ricuperazione di schiavi, onde non ho potuto introdurre seco confidenza, come l'ho avuta con gli
altri soggetti grandi da mare che sono capitati in mio tempo a Costantinopoli. (Ib. P. 429.)

Ma tutte queste sagge considerazioni dello Zanne diventeranno prestissimo obsolete, perché
l’anno successivo Amurat III morirà lasciando il suo impero al figlio Mehmet II, il quale incomincerà
la sua sovranità col fare uccidere i suoi 19 fratelli e 10 favorite del padre; ma questa è altra storia.
In effetti il predetto giudizio tanto negativo sul Cicala dato dallo stesso Zanne confermava e
rafforzava quello dato due anni prima (1592) dal bailo Lorenzo Bernardo, le cui considerazioni al
riguardo pure vogliamo ora riportare per completezza:

... Sinan, detto il Cicala, secondo Bascià della Porta e Capo del mare, è di nazione messinese, ma
oriundo genovese, di età di quarantotto in cinquanta anni; fu preso con il padre, che era famoso
corsaro, già trentadue anni (or sono, cioè nel 1561) e poteva aver allora sedici in diciassette anni.
Fu posto in serraglio al servizio di Sultan Solimano e continuò in esso sino che uscì 'Agà'
(‘generale’) dei giannizzeri; ha avuto per moglie una figliuola della figlia unica ed erede delle
grandissime ricchezze di Rusten Bascià, di sangue reale, e, morta la prima, tolse la seconda
sorella, la qual ora vive, e ha avuti figliuoli dall'una e dall'altra. É opinione che abbia ricchezze
grandissime acquistate in Persia, di dove ha riportato nome di molto valore, talché era stimato uno
de' principali capitani che avesse quella Maestà, ma, con la presenza sua, ha perso molto di
reputazione, essendo riuscito a tutti un ciarlatore vano e generalmente da ognuno stimato uomo
leggiero; ond'è comune opinione che lui non possa lungamente durar Capitano del mare, ma che
fra poco tempo debba esser tolto e dato quel carico ad altri, fra li quali si nomina per principali
Giufer Bascià, calabrese, uomo savio, amico de' christiani e della professione di mare, e Meemet
Bascià, albanese; ma finalmente sarà dato il carico a chi offerirà più denari al Gran Signore.
Quest'uomo si stima molto per la nobiltà del suo sangue, di che se ne gloria spesso ed ha piacere
esser laudato. Mostra nel suo parlare desiderio di gloria e di farsi nominare nella Christianità e par
che anco a questo fine abbia procurato questo capitanato e avanti aspirava ad imprese più tosto
640

contro il Re Catholico che contro altri principi della Christianità; ma, nel principio di questo suo
carico, si ha resi così mal affetti tutti quelli della professione di mare che ognuno si fa lecito parlar
contro la persona sua senza alcun rispetto, solo perché è avaro e misero e manca di quella parte
che fa amare e stimare, che è la liberalità; ma la suocera, che è ricchissima e amata dal Gran
Signore, lo sostenta in facoltà e gli dà molta riputazione.
Mostra buon animo e d'esser ben affetto verso questa Serenissima Republica (di Venezia), ma
senza dubbio maggiormente ama ed è ben affetto verso la sua borsa, con la quale si dominerà
l'animo di questo soggetto sempre che occorrerà. (Ib.S. III, v. II, pp. 355-356.)

L’Auria narra un episodio di pietà filiale che questo feroce rinnegato avrebbe dimostrato nel 1598,
ma sino a che punto tale avvenimento, da lui tratto dal Bonfiglio e da altri, sia realmente accaduto
non siamo in grado di dire; il 18 settembre di quell’anno il Cicala aveva dunque riportato al sua
armata nel Canale di Messina a minacciare sia questa città sia la già devastata Reggio, dopo aver
già costretto a misure straordinarie di difesa i cavalieri di Malta, e la cosa accadeva durante il
generalato delle galere siciliane del già nominato Pedro de Gamboa y Leyva e il viceregnato in
Sicilia di Bernardino de Cardines duca di Macheda (1598-1601), il quale molto promosse la guerra
di corso contro i turco-barbareschi e ne ricavò consistenti bottini:

… Mentre si stava in così fatti sospetti, il Cicala mandò al Vicerè in Messina uno schiavo cristiano,
che poi lo fece franco, doman(dan)dogli in grazia che gl’inviasse Lucrezia sua madre per solo
vederla ed onorarla, onde subito prometteva partirsi da quei mari senza molestia del dominio del
Re di Spagna. E in tal guisa passarono gli strepiti di quella noiosa ‘cicala’, perché l’asprezza delle
sue minaccie si raddolcirono con l’amor naturale della sola vista della di lui amata madre. Onde il
medesimo Cicala, per più facilitare il suo desiderio, mandava al nostro Vicerè di Sicilia un suo figlio
per ostaggio e gli mandò a dir di più che gli anni a dietro, avendo richiesto la stessa bramata vista
al Conte d’Olivares Vicerè suo predecessore ed essendogli stata negata, mosso il Cicala quasi da
giusto sdegno, si spinse a danneggiar la Calabria (1593-1594). Quindi il vicerè Duca di Macheda,
fatto più accorto da quell’esempio, gli rispose amorevolmente e, ritenuto l’ostaggio sudetto del
Cicala, gli mandò da Messina sua madre con due fratelli sopra una galera, onde il Cicala ricevé la
madre con due fratelli con sua grandissima contentezza, giunta a somma tenerezza di lagrime, e,
dando a tutti non pochi presenti di gran valore, li rimandò in Messina con la stessa galera; e nel
seguente giorno si partì verso Africa e, tentando sorprender l’isola del Gozzo, vicina di Malta,
ritrovandovi buona resistenza, se ne passò a riveder le fortezze africane. (V. Auria. Cit. P. 71.)

Ma, allontanandoci ora da quelli ottomani in particolare, torniamo a discorrere dei capitani generali
di mare in generale e diciamo che per forza di cose un generale doveva essere buon conoscitore
della guerra nautica, della navigazione - anche se con l'aiuto d’ottimi consiglieri - e inoltre di vizi,
virtù e superstizioni degli uomini di mare; a quest'ultimo proposito il Crescenzio racconta un
episodio molto indicativo della superstizione che permeava la religiosità delle marinaresche del
suo tempo. Avendo dunque nel 1587 il papa Sisto V fatta fabbricare la sua galera Capitana in
Roma e dovendolasi trasferire via fiume a ostia e poi a Civitavecchia, i marinai, per evitare una
maggior fatica, la zavorrarono con marmi presi facilmente di notte in una vecchia chiesa
sconsacrata e rovinata di Ripa Grande, nella quale in tempi passati i barcaioli del Tevere avevano
641

usato sentir messa; la galera, trasferita regolarmente a Civitavecchia e colà armata, partì poi in
viaggio inaugurale e con buon vento alla volta di Napoli insieme alle altre galere della squadra
pontificia. Arrivati però questi vascelli appena a Capo Linaro, incontrarono grosse difficoltà di
navigazione a causa d'improvvisi venti contrari e furono pertanto costretti a tornare in porto.
Qualcuno a bordo della Capitana cominciò a dire che il tempo contrario era certamente dovuto alla
presenza a bordo di quei sacri marmi profanati e usati come vile zavorra e allora, venute queste
parole all'orecchio del capitano generale pontificio, in quella squadra nel secolo seguente più
spesso rimpiazzato da un governatore generale, il quale era allora il patrizio genovese Orazio
Lercaro, questi, giunta la notte, fece segretamente sbarcare i marmi e li fece portare e depositare
nella chiesa della Madonna in Civitavecchia. La mattina seguente il vento fu finalmente davvero
propizio e la galera Capitana poté riprendere il suo viaggio verso Napoli senza incontrare ulteriori
difficoltà. Arrivata però la squadra a Procida, sosta consueta delle galere che passavano per il
golfo di Napoli, accadde un altro strano evento meteorologico e cioè, mentre il generale Lercaro e i
suoi capitani erano a terra a pranzo con il vicerè di Napoli conte di Miranda, cadde a mezzogiorno
e a cielo sereno (fr. temps fin) un fulmine sulla galera S. Lucia, uscì da questa da sotto una
rembata e montò sul calcese della galera Capitana e su quello della Patrona spezzandoli con gran
rovina, mentre la S. Lucia n’era rimasta meravigliosamente illesa e, anche se il Crescenzio non ce
lo dice, c'è da ritenere che questa fortunata incolumità sia stata dai marinai della Capitana
sicuramente attribuita all'avvenuto ravvedimento dell'equipaggio riguardo alla faccenda dei marmi
sacri. In realtà erano quelli tempi in cui nel Napoletano - e non solo ovviamente - piovevano dal
cielo frequentemente fulmini così violenti da rompere i cornicioni dei palazzi e da uccidere talvolta
persone e animali anche nelle strade della stessa Napoli, il che non è insolito leggere nelle
cronache dell'epoca. Un altro fulmine cadde nell’autunno del 1570 sull’albero della galera Capitana
della squadra pontificia, allora comandata dal generale Marc’Antonio Colonna, mentre questa
navigava di conserva con altre all’altezza delle Bocche di Càttaro, salvandosi fortunatamente la
sua gente parte in terra e parte, incluso il Colonna, a bordo della galea veneziana del sovraccòmito
Francesco Tron, la quale però poco dopo fu dalla tempesta mandata a fracassarsi sulla spiaggia; il
Colonna e gli altri furono però tutti soccorsi dai ragusei, i quali si rifiutarono di consegnargli ai turchi
che li reclamavano, anzi li aiutarono a rimettere in sesto le loro malconce galere. Andando infine
indietro nel tempo sino all’ottobre del 1464, vediamo distrutta da un fulmine a ciel sereno una
galea grossa carica di rifornimenti destinati alle soldatesche veneziane allora stanziate in Morea:

… mandando la Signoria una galea carica di farine, di biscotti (‘gallette’) e di polve da bombarda,
per mandare nella detta Morea, venne la saetta senza mutazione di tempo e trasse nella detta
galera propriamente nella polve da bombarda e abbruciò ogni cosa colla galera… (Cristoforo da
642

Soldo, Memorie delle guerre contra la signoria di Venezia etc. In LT. A. Muratori, Rerum italicarum
scriptores etc. C. 901, t. 21. Milano, 1732).

Quanto la superstizione condizionasse il comportamento della gente di mare è ancor più


dimostrato da quest'altro episodio pure capitato alla squadra dello Stato Ecclesiastico e
testimoniato dal Crescenzio:

... Partendo un altro viaggio da Gaeta per Napoli, si avviò innanti a vela la galea 'S. Lucia' con
vento fresco in filo di ruota (‘con vento deciso in poppa’) ed, essendo circa due miglia lontana dal
porto, si fermò totalmente, pur che (‘anche se’) la vela era gonfia che pareva uno scoglio e,
facendo il còmito guardare se vi era qualche corda o rete in mare che havesse preso il timone, non
trovando nulla, fece calar remo e arrancare la ciurma a furia di buone bastonate; ma ne però la
galea si muoveva di quel luogo e l'altre galere, che erano passate innanti, essendo più d'un quarto
d'hora che questa galea si era fermata, ammainorono per aspettarla. All'hora un frate catelano,
che era alla catena (di voga), disse al cavalliero fra' Spoletino Virginio, capitan di quella, che
facesse levar dalla poppa dello schiffo tre religiosi di quei che chiamano 'Fatti ben fratelli', che
stavano dicendo la corona, e che subito la galea caminarebbe; ed, havendo fatto levare il capitano,
non fu dubbio che la galea cominciò a correre come una saetta, per il che tutti corsero a voler
gettare quei tre poveretti in mare, dicendo essere scommunicati; ma, soccorrendo lo stesso frate
che era alla catena con dire essere questa un’astutia diabolica per far mettere in quel pericolo
quelli religiosi, fece che si contentorno di fargli subito sbarcare. (B. Crescenzio. Cit. Pp. 397-398.)

Un episodio finito invece tragicamente e che fu anch’esso interpretato in maniera superstiziosa fu


quello che avvenne nel 1572; il marchese di Santa Cruz, generale dello stuolo di Napoli, stava
viaggiando da Corfù a Messina con otto delle sue galere per andare alla massa dell’armata che
anche quell’anno la Lega cattolica stava raccogliendo nel porto siciliano; all’improvviso si accese il
fuoco alle polveri d’una delle galere, la quale in breve tempo finì bruciata e nel suo rogo perì anche
un’intera compagnia di fanti spagnoli che portava a bordo; subito, forse per non dover ammettere
la grave imperizia certamente responsabile dell’incidente, sulle altre galere si favorì la voce che la
cosa era successa per motivi soprannaturali e cioè perché quei soldati a Corfù avevano devastato
e saccheggiato una chiesa di rito greco. Andando poi indietro nel tempo e cioè al già menzionato
diario del viaggio in Terrasanta di Gabriele Capodilista, avvenuto nel 1458, c’è l’episodio del
martedì 30 maggio di quell’anno, in cui la galea grossa veneziana che portava i pellegrini,
trovandosi al largo delle coste albanesi, viene assalita da una tempesta di mare tanto forte da
metterla a rischio d’affondare:

… Di che lo patrone molto si meravigliava vedendo tal fortuna, la qual al dir suo haveria bastato di
genaro, e, non vedendo altro rimedio, lo patron fece scriver molti nomi de sancti in breve e poterli
in una beretta e disse ad alguni peregrini, tra li quali furono miser Antonio e miser Gabrielle, che
ogniuno cavasse uno de dicti breve e facesse voto a quel sancto ch’el trovarla scripto suso che,
come fosse in terra ferma, gli fariano dire una messa a suo honor e riverenza e getaseno li brevi in
643

mare e cossì fu fato. E, come a Dio piaque, la sera comenzò la pioza, el vento, el mare
abonazarse, di che ogniuno ringrazia Dio… (A. LT. Momigliano Lepschy. Cit.)

Nel 1480 poi, durante il viaggio di ritorno da Terrasanta della galea veneziana sulla quale si
trovava imbarcato anche Santo Brasca, questi racconta dell’uso che si fece d’uno dei chiodi che a
Gerusalemme erano venduti ai pellegrini facendoli credere quelli originali usati per inchiodare
Gesù Cristo sulla croce:

… e nel dicto colpho Sancta Helena, tornando de Ierusalem con li chiodi con li quali fu ficto su la
croce el nostro redemptore e ritrovandossi lì con grandissima fortuna, dubitando de perire, (si) butò
uno chiodo ne l’aqua e subito el mare se abonazò e diventò tranquillo… (Ib.)

Ma si cadde nell’inconveniente opposto:

… In questo colpho nui eziandio stessemo in bonaza senza vento circa 16 giorni avante che
potessemo mettere scala col più extremo caldo del mondo; unde ch’el patrono, vedendo questa,
domandò tuti li peregrini e si fece portare tuta quela aqua del fiume Iordano che havevano e la
gettò in mare, perché se dice che tanto che l’aqua del Iordano sta in galea ch’el mare sempre sta
in bonaza; e così fece fare la crida (‘il bando’) che né galeoti né altri giocassero a carte né a dadi.
Puoi (‘Poi’), levandosi lo vento ostro, gionsemo a Rhodi a dì 9 setembris. (Ib.)

La cosa notevole è che dunque non solo i profani del mare e i marinai ignoranti credevano a questi
rimedi superstiziosi, ma anche lo stesso nobile comandante della galea! Proseguendo in questa
navigazione di ritorno la predetta galea continua però a essere martoriata dal maltempo:

… A dì 8 de octobre venessemo a Corfù e puoi, partendosi da Corfù, ne sopragionse la fortuna in


mare col vento tanto terribilissimo che la prora stava tuta quanta sotto aqua e da le bande similiter
veneva l’aqua grossa ogni momento, che intrava per le porte (boccaporte) sotto coperta, in modo
che li peregrini iacevano tuti per morti, con tanti vomiti e anxietate che l’uno non poteva dare
secorso a l’altro… (Ib.)

La galea è costretta a procedere quasi a secho (lem/ctm. a arbre sech), ossia senza vele tranne
quella di trinchetto, per evitare che la violenza del vento le spezzi l’alberatura, e ancora una volta il
patrono si vede costretto a ricorrere alla fede religiosa:

… Vedendo questo, lo patrono fece che tuti inscieme votassemo de fare uno peregrino a Sancta
Maria de Casoppo (‘Casopoli’, presso Corfù) e così, facta la ricolta de li dinari, cum primum
giungessimo in terra fu mandato via dicto peregrino… (Ib.)

Il Brasca prosegue a narrare descrivendoci il fenomeno dei fuochi di Sant’Elmo:

… La nocte sequente, perseverando pur dicta fortuna in magiore asperità, apparse


miraculosamente uno dopiero acceso in su la popa, el quale gli stete per spacio de hore quatro e
poi disparve. E questo se dice per ogniuno che l’era la vergene Maria che discende lì a dare ad
644

intendere a queli de la galea che non debiano dubitare di quela fortuna. L’altra nocte, etiam
crescendo dicta fortuna, apparse quel medesmo doppiero con dui altri accesi, videlicet dui in su la
popa e uno altro in su la gabia; e dicevasi per queli marinari che erano l’uno la vergene Maria,
l’altro San Nicolò, l’altro Santo Elmo. Il che parse a tuti li peregrini e galeoti videnti grandissimo
miraculo, licet che molte altre volte sia apparso el medesmo. Ed è magiore el miraculo che mai
appareno questi doppieri accesi se non quando è grandissima perturbazione de mare. (Ib.)

Credeva la gente di galera che, quando il predetto fuoco di Sant'Elmo (ol. vroe-vuur) appariva sulle
pale dei remi, questo fosse presagio di morte, come d’altra parte credevano i marinai che
preannunziasse buon tempo quando si attaccava ad alberi, pennoni, vele o manovre e cattivo
tempo quando invece volteggiava nell’aria; ma la superstizione concernente questo fenomeno
atmosferico era tanta e tanto antica che neppure i generali e le persone colte n’erano immuni e
facevano quindi i debiti scongiuri, come racconta sempre il Crescenzio:

... Ma perché ci maravigliamo noi de' marinari, genti totalmente ignoranti nelle cose di Dio, se il
signor Don Pietro di Toleto (‘Toledo’), generale delle galere di Napoli, e il signor Commendator
Pucci, general di quelle di Nostro Signore (‘il Papa’) hanno permesso questo ottobre del '95
(‘1595’) a Capo Spartivento salutar questa ria luce, che nel calcese ci apparse in mezo una gran
fortuna (‘fortunale’), tre volte a son di trombette; e a Napoli nello stesso mese e temporale, un’altra
volta che ella ci apparse, si lasciò dal detto signor Commendator salutare questo emulo del Cielo?
(B. Crescenzio. Cit. P. 408.)

Del motivo per cui il fuoco di S. Elmo fosse così chiamato, specie da castigliani e italiani, si
possono dare due diverse spiegazioni. Delle tre dizioni che si trovano, cioè S. Elmo, S. Ermo e S.
Telmo, le prime due non sembrano esser altro che corruzioni di S. Er.mo, sincope tachigrafica di
S. Erasmo di Formia, protettore della gente di mare, del quale oltretutto si diceva che avesse
continuato a pregare senza scomporsi anche quando un fulmine era venuto a schiantarsi al suolo
proprio a fianco a lui, e quindi riteniamo molto accettabile la spiegazione data dal de Savérien e
cioè che, credendo i navigatori che quello strano fuoco fosse il modo di manifestarsi d’uno
stregone malvagio, cercavano di colpirlo con bastoni e invocavano contro di lui il predetto S.
Erasmo, ma anche altri santi; infatti sull'oceano quel fenomeno era pure chiamato fuoco di S.
Nicola, di S. Chiara, di S. Elena ecc., oltre che - in francese - flammeroles, furol(l)es o flambars. I
marinai dell’oceano lo consideravano di cattivo augurio se singolo, ma, se apparivano due di tali
fuochi insieme, detti Castore e Polluce, allora li consideravano di buon augurio e li salutavano
festosamente con i fischietti di comando. La terza dizione invece è comune agli spagnoli e ai
portoghesi, perché vuol ricordare non l’italiano S. Erasmo, ma il beato spagnolo Pedro Gonzales
Telmo, anch’egli protettore dei marinai, ma di quelli di ponente in quanto egli, nato a Palencia,
predicò e insegnò soprattutto in Galizia e lungo le coste atlantiche della penisola iberica; infatti
Antonio de Ubilla y Medina marchese di Ribas, segretario di stato e degli affari universali di Filippo
645

V di Spagna, seguendo questo sovrano in visita a Napoli nel 1702, chiamerà sempre Castel S.
Eramo Castel S. Telmo (Andrea Perrucci, Distinto diario dell’oprato della Maestà cattolica di Filippo
V […] dalla sua partenza da Barcellona, sua dimora e partenza da questa città etc. Napoli, 1702.).
Altro fenomeno atmosferico che gli uomini di mare molto temevano, ma questa volta a ragione,
erano le trombe, sia quelle violentissime d’acqua chiara sia quelle nere [ol. hoos(e), onweers-
hoofdt], le quali con quel loro far ribollire il mare pure li terrorizzavano; mentre nell’oceano i marinai
protestanti si limitavano a stringere le vele finché la tromba non fosse passata, quelli cattolici si
mettevano per tradizione a recitare il vangelo di S. Giovanni, nella convinzione che questo servisse
a dissipare la tromba, e quelli del Mediterraneo, per quanto concerne le trombe nere,
superstiziosamente credevano che per farle cessare bisognava conficcare nell’albero di maestra
un coltello dal manico nero. I naviganti dell’oceano credevano inoltre che, se mentre si caricava la
provvista di viveri a bordo il vascello sbandava a destra, la navigazione sarebbe stata lunga e
faticosa; se invece sbandava a sinistra, il viaggio sarebbe stato felice. Innumerevoli erano poi le
credenze meteorologiche legate al comportamento degli uccelli, degl’insetti e dei pesci; tipica
quella relativa al mostrarsi dei delfini:

…E quella sera aparse una gran quantitade de delphini, i quali, come dicono i marinari, sono
ambasiatori di qualche fortuna di mare (A. LT. Momigliano Lepschy. Cit.)

Un capitano generale doveva esser eloquente per poter partecipare con autorità a consigli e
consulti e per poter esortare i suoi a ben fare nella imminenza d'una battaglia:

... Ho detto che al Capitano è mestiero di esser eloquente, ma non lo voglio loquace come sono
per la maggior parte coloro che sono timidi (‘timorosi’) e di poco animo; il garrire è degli uccelli e
non de' leoni. Similmente abondano di parole le femine, i fanciulli e i vecchi, ne' quali naturalmente
è debole il vigor dell'animo. (C. da Canal. Cit.)

Nelle questioni e scelte di maggior peso sempre convocare la consulta maggiore della sua
squadra o armata, cioè doveva chiamare a consulto gli ufficiali più anziani ed esperti perché
esprimessero il loro parere e lo consigliassero.
Materia in cui il generale o il semplice capitano d’un vascello doveva essere ferratissimo, a evitar
grandi guai al suo sovrano, era quella delle precedenze nel cerimoniale dei saluti che si usavano in
mare, saluti che, fino a tutto il Quattrocento, erano avvenuti semplicemente con un ammaina-vele
fatto dall’inferiore in segno di omaggio al superiore; ecco un episodio narrato da Domenico
Malipiero avvenuto nel 1480 durante l’assedio turco di Rodi (trad. dal veneziano):
646

Antonio Surian, patrone di una galea grossa di Siria (cioè di una galea commerciale che faceva la
linea Venezia-Siria), referisce che, navigando nel mese di Maggio, passato per il canale di Rodi,
scoprì l'armata turchesca; e, non potendo schivarla, gli fu comandato da due galee sottili che gli
andarono attorno, che calasse le vele, e obbedì; e, montando su una d'esse, fu condotto dal
capitanio, il qual gli domandò quel che andava facendo; e gli rispose che andava al suo viaggio
(cioè al viaggio di Siria)… (Annali veneti etc. Parte prima, pp. 129-130.)

Essendo allora Venezia e Costantinopoli in pace ed essendo le loro forze militari non ancora tanto
impari come purtroppo diventeranno poi via via sempre di più nel secolo successivo, il capitano
turco professò al Surian il suo massimo rispetto per la Serenissima e lo trattò con massima
gentilezza, facendogli, prima di lasciarlo poi proseguire nel suo viaggio verso la Siria, addirittura
visitare orgogliosamente il campo del grande esercito turco allora all’assedio di Rodi e la potente
artiglieria di cui disponeva. Tra l’altro a proposito dei saluti marittimi, gli aveva detto anche quanto
segue, non si sa però fino a che punto veritiero:

… che sono capitate in quel canale 3 navi di Siria (anch’esse veneziane) e, per non aver voluto
calare le vele, le ha fatto ritenere e ha scritto a Costantinopoli e aspetta ordini di quello che ne
deve fare; ma, che se fossero state d’altri, avrebbe messo a morte tutti quelli che vi erano sopra…
(Ib.).

Non andò invece altrettanto bene diciassette anni dopo alla galea grossa del Zafo del patrone
Alvise Zorzi, cioè a una – da noi più sopra già due volte ricordata - che faceva il viaggio di Giaffa in
Palestina portando soprattutto pellegrini, perché questa il 23 giugno appunto 1497, giunta nello
stretto greco tra Cerigo e Capo Malio, allora detta in quei tempi diciottesima, cioè verso l’una del
pomeriggio, s’imbatterono in nove vele turche e cioè 2 galee, 1 barza, 1 schirazzo e 5 fuste e
avrebbero dovuto ammainare le vele perché il saluto toccava in quel caso a loro e non alla
squadra ottomana; ma, non essendo ben sicuri se si trattasse di turchi o di corsari, chiesero chi
fosse il capitano di quella formazione e, non ricevendo risposta, non ammainarono le vele, perché
non intendevano abbassarle a chi magari non dovevano. I turchi, mancando quel doveroso
ossequio e pensando che non si trattasse quindi di veri veneziani, ma di nemici francesi nemica, li
assalirono e la battaglia durò 4 ore e mezza con morti e feriti; uscendone la galea grossa, la quale
oltretutto era per fatalità pochissimo armata, non vinta ma molto mal ridotta. Solo allora però fu
finalmente chiarito l’equivoco e i turchi, accontentandosi di alcuni regali, permisero ai veneziani di
proseguire il loro viaggio (ib. Pp. 154-158).
Insomma la questione della precedenza del saluto in mare poteva risultare molto pericolosa.
Nel Cinquecento invece, ben affermatasi ormai l’artiglieria navale, i saluti avvenivano soprattutto a
mezzo di salve di cannone alle quali il salutato rispondeva con un minor numero di salve, ma nel
secolo successivo altre forme furono sempre più usate o introdotte, includendo il mettersi
647

sottovento (fr. à vau-le vent, au dessous du vent) del vascello preminente presentandogli la poppa
( dal cui uso nacquero osceni ma significativi modi di dire ancor’oggi comuni), l’ammainare la
bandiera totalmente o a mezz’asta oppure semplicemente - come via mediana tra queste due
pratiche - il raccoglierla mandando un uomo ad abbracciarla strettamente, pratica questa che sarà
introdotta tra le nazioni nordiche, o anche il farla scorrere piegata lungo il suo bastone (fr. mettre le
pavillon en berne); il serrare (fr. ferler, saquer, serrer) qualche vela e specialmente quella di
trinchetto o quella di gabbia di maestra, quando non si avevano cannoni o non si portava
stendardo; le salve d’archibugeria, il gridare degli ‘evviva’, l’ancorarsi sotto lo stendardo del
vascello più importante e il mandargli a bordo qualche ufficiale. Lo stendardo reale non doveva
però giammai abbassato per salutare chiunque lo pretendesse; piuttosto bisognava morire.
Doveva il comandante sapere soprattutto se, incrociando un vascello di un’altra nazione o
passando sotto una fortezza costiera straniera, era suo dovere salutare per primo o se invece
toccava a lui ricevere per primo il saluto e quindi dover unicamente a quello rispondere; la materia
era molto complicata e dava adito a frequenti incidenti diplomatici, i quali, se non presto ricomposti,
potevano degenerare fin’anche a diventare un valido pretesto per dichiarare una guerra. Il principio
che ispirava tale cerimoniale era che di regola l'inferiore doveva salutare per primo il superiore con
le sue salve di cannone e aveva diritto a ottenere una salva di risposta, il che era alquanto
semplice se ci s’incontrava tra vascelli o tra vascelli e fortezze della stessa nazione; per esempio il
vascello mercantile doveva salutare per primo quello da guerra, quello sottovento quello che gli
fosse sopravvento, di regola poi una squadra di galere che entrasse in un porto principale doveva
salutare per prima con le sue salve e le fortezze del luogo avrebbero risposto con altre salve, a
meno che nella squadra non fosse presente la galera Reale (gr. μία τριήρης, ἡ βασιλιϰὴ ναυαρχίς.
Nicefono Gregoras, Historiae bizantinae. LT. XXXVI, 8), ossia la Capitana del principe –
chiamandosi Reale anche la galera assegnata al doge di Venezia - e quindi di tutte le squadre a lui
soggette, perché in tal caso sarebbero state le fortezze del porto a salutare per prime; ma in
qualsiasi porto comunque si entrasse, anche privo di fortezze, se la galera di comando della
squadra ch'entrava non era né la Reale né una Capitana di quelle importanti, di quelle cioè che
portavano lo stendardo alla spalla, la consuetudine corrente voleva che la squadra salutasse
sempre per prima; la salva che si usava arrivando nel porto di Napoli e quella che si riceveva in
risposta dai castelli e dalle fortezze di quella città era tradizionalmente particolare e diversa da
quelle in uso negli altri porti e quindi bisognava sapere anche questo. Secondo le ordinanze di
Spagna, quando suoi vascelli da guerra non di comando s’incontravano nello stesso porto, il primo
arrivato assumeva le funzioni e le preminenze di vascello ammiraglio e il secondo di vice-
ammiraglio. Anche i vascelli commerciali avevano le loro regole e, per esempio, all’isola di
648

Terranova il primo peschereccio arrivato era considerato ‘ammiraglio della pesca’ e quindi dava
agli altri i suoi ordini, assegnava loro il luogo di pesca e componeva le loro eventuali divergenze.
La materia diventava comunque molto più complessa e pericolosa quando si trattava d’incontri tra
vascelli o di saluti tra vascelli e fortezze di due diverse nazioni che non fossero in guerra tra loro,
perché le regole consuetudinarie erano opinabili e non tutti seguivano le stesse, tranne che
nessuno accettava l’ammiragliato d’un vascello di un’altra nazione a meno che ciò non fosse
dovuto a precedenti accordi di alleanza o lega di guerra; generalmente il vascello d’una repubblica
salutava per primo quello d’un regno che fosse però di rango non inferiore al suo, quello da guerra
che fosse presso le coste del suo stato doveva invece ricevere il saluto da un qualsiasi vascello
straniero che sopraggiungesse; Venezia, per la sua antichità, aveva preminenza tra tutte le altre
repubbliche e gli stessi vascelli olandesi salutavano per primi quelli veneziani, i quali, come quelli
di tutte le repubbliche, erano ossequiati per primi da quelli di sovrani di qualità inferiore a quella di
re; una squadra priva della Reale entrava in un porto straniero non principale, ma nel quale fosse
una fortezza, allora salutava prima la squadra, se di principe inferiore a quello a cui apparteneva la
fortezza medesima, o invece prima la fortezza se la squadra era di principe maggiore e la
medesima regola si usava, sia in porto sia in navigazione, quando ci s’incontrava per mare con
un’altra squadra di galere, cioè, sostanzialmente, la squadra di sovrano inferiore salutava per
prima quella di sovrano superiore; ma non sempre un principe accettava di ritenersi inferiore a un
altro e quindi le questioni di precedenza erano materia complicata e delicatissima, potendo portare
a gravi incidenti diplomatici e addirittura a rotture di tregue, spesso molto faticosamente raggiunte,
il che il buon capitano generale di mare doveva quindi saper evitare senza ledere la reputazione
del suo principe, cioè salvando sempre la faccia e magari anche evitando un incontro con chi gli
potesse dare occasione d'inconvenienti:

... I sinistri accidenti che occorrono spesso, per la gelosia (‘sospetto’) che hanno i Principi delle
cose loro intorno a questo, ci danno occasione di parlar così; desiderando noi che i capi della
nostra armata stiano attenti e cauti nel maneggio di questo negozio, come in cosa che alcune volte
stringe tanto che bisogna aventurarvi la vita, come habbiamo detto, quanto si farebbe nella
battaglia istessa. (P. Pantera. Cit. P. 234.)

I vascelli che portavano pellegrini in Terrasanta erano salutati per primi dalle galee veneziane, le
quali infatti, incontrandoli, abbassavano per consuetudine la vela e l’albero in segno di riverenza.
Sembra che prima del 1537 i vascelli veneziani si facessero salutare per primi da quelli turchi, ma
in quell’anno il Barbarossa, kapudan pasha di Sulaiman il Magnifico ed ex-beglerbegi d’Algeri,
mentre da questa città si recava a Costantinopoli con 18 tra vascelli sottili grandi e piccoli e
incontrandosi per mare con 14 galee veneziane che venivano da Sàssino (‘Sàseno’) sotto la guida
649

di Girolamo da Canal, rifiutò d’ammainare il suo stendardo davanti a quello di quest’ufficiale


generale della Serenissima; i veneziani allora, come abbiamo già più sopra ricordato, lo
attaccarono affondandogli due galere e questo episodio sembra esser quello che dette inizio a
quella sanguinosa guerra contro Venezia, oltre che contro l’Impero, che venne a interrompere una
pace stipulata dalla Serenissima con Costantinopoli nel lontano marzo del 1503, conflitto che avrà
come suoi episodi più rilevanti l’assedio di Corfù del 1537, per i veneziani fortunatamente non
riuscito, l’anno seguente la famosa battaglia della Prévesa e infine la pace del 2 ottobre 1540,
trattato col quale i veneziani cederanno alla Gran Porta tutto quanto restava dei loro possedimenti
in Morea e che sarà rotto solo nel 1570 con la guerra di Cipro. Questi incidenti erano, anche se per
lo più non così tragici, frequentissimi e, per avere un’idea di quanto fosse difficile il comporli e
controversa la materia, basta leggere quello che nel 1652 avvenne nel porto di Genova, dove,
presenti le squadre di Spagna, Sardegna, del principe d'Avella (di casa d'Oria?) e della repubblica
di Genova, anche era giunta la galera Reale di Spagna, la quale innalzò stendardo a poppa,
obbligando così le Capitanie di quelle squadre ad abbattere il loro e a innalzare al suo posto un
gagliardetto al calcese, com'era d'uso. Ciò però non fece la Capitana delle galere publiche di
Genova, ossia di quelle appartenenti alla stessa repubblica e non ai soliti privati guidati dai d'Oria,
essendo Genova alleata, ma non suddita della corona di Spagna, e obbligò così le altre Capitane
presenti a salutarla per prime subito dopo aver salutata la Reale. La Capitana di Genova rispose
con quattro tiri di cannone... e qui nacque una lunga e complicata controversia di precedenza che
sarebbe ora fuori di luogo raccontare; basti dire che gli ambasciatori e i diplomatici di Genova e di
Spagna ne restarono duramente e lungamente impegnati prima di riuscire a dirimerla.
Nella sua già citata missiva del 12 maggio 1594 al re di Spagna Filippo II, Gioan Andrea d’Oria,
soprintendente generale dell’armata di mare di Spagna, chiedeva, tra l’altro, istruzioni al sovrano
perché si dirimesse una di queste delicate questioni:

Tra le galere di Genova e quelle del Gran Duca Duque (di Toscana) c’è competizione
(‘competencia’) sulla precedenza. Conviene che Sua maestà comandi a chi concederà la miglior
posizione… (‘el mejor luego’) (Colección de documentos inéditos para la historia de España etc.
Pg. 173. Tomo II. Cit.)

… Nelle terre del Granduca di Toscana intendono che i capitani generali delle galee di Vostra
Maestà siano i primi a salutare i luoghi e i castelli che attraversano, e talvolta, se non l'hanno fatto,
inconvenienti di non poco conto sono avvenute: capisco che è conveniente che il servizio reale di
Vostra Maestà mandi a dichiarare ciò che si deve fare riguardo a questo, poiché non è giusto che
un generale di galee di Vostra Maestà saluti un castigliano del Granduca (Ib. P. 182-183).

Questa materia delle precedenze nel ricevere i saluti resterà complicata e pericolosa per molto
tempo a venire e infatti così scriverà più tardi il Guillet::
650

I pirati e gl’interessi di bandiera sono le due grandi fonti di malintesi tra i principi vicini. (Cit.)

E l’Aubin aggiungerà:

I Re ordinariamente vietano ai legnii che portano i loro vessilli d’abbassarli davanti a chicchessia o
di salutare per primi; ecco perché in mare si evitano, per quanto è possibile, i vascelli che
appartengono a teste coronate. (Cit.)

Infatti la già citata famosa ordinanza marittima francese del 1689 così perentoriamente disponeva:

Le navi del Re portanti stendardo e incontranti quelle di altri Re portanti stendardi equivalenti ai
loro si faranno salutare per primi in qualsiasi mare o costa in cui si faccia l’incontro; il che si
praticherà anche negl’incontri tra vascello e vascello, al che gli stranieri saranno costretti con la
forza se vi faranno difficoltà. (Cit.)

Immaginiamo quindi come si preferisse all’epoca, a meno che non si fosse disposti a far scoppiare
una guerra, evitare (fr. parer) l’incontro con i vascelli da guerra francesi! Altra regola della predetta
ordinanza gravida di possibili conseguenze negative era poi la seguente:

Aucun navire de guerre ne saluëra une place marittime qu’il ne soit assuré que le salut lui sera
rendu. (Ib.)

Chi, ritenendo di dover essere salutato per primo, non si vedeva invece salutato, avvisava
dapprima il manchevole con un apposito segnale e poi, se ancora non si vedeva ossequiato, gli
sparava una vera cannonata, perché a questo punto poteva a buon diritto ritenere che si trattasse
di vascello ostile; un caso esemplare fu quello riportato da un avviso di Genova del 17 maggio
1687 e che qui descriviamo per sommi capi. Il precedente sabato 9 era giunta a Genova una
galera siciliana che portava il giovane marchese di Solera, figlio del vicerè di Sicilia Francisco de
Benavides, Avila y Corellas conte di S. Stefano, marchese di las Navas conte di Cocentayna y del
Rio, marchese di Solera (1678-1687), il quale sbarcò e partì poi per Milano; questa galera,
compiuta la sua missione, presto salpò per tornarsene in Sicilia; ma:

... Passando nel ritorno in poca distanza dalla fortezza di Savona e trascurando di salutarla, fu
detta galera avisata col mezo d'una fumata, della quale facendo poco conto, fu in appresso avertita
mediante un tiro di cannone con la palla (quindi non a salve) che la colpì nelle vele, onde
(finalmente) salutò e fu risalutata... (Avvisi di Napoli. Cit.)

Il governatore della predetta fortezza era allora Lanfranco Grimaldi, esponente quindi d’una delle
più nobili famiglie genovesi; egli fu poi costretto a recarsi a Genova per discolparsi davanti al suo
senato e ciò su richiesta della Corte di Madrid, dove era evidentemente e puntualmente arrivata la
protesta del vicerè di Sicilia per quell'insolente cannonata.
651

A volte, per non sbagliare, era meglio esagerare con le cannonate e nel 1566 così evidentemente
fece il principe Grimaldi signore di Monaco, quando passò davanti al suo porto nientedimeno che il
duca d’Alba, imbarcatosi a Cartagine nova (oggi in sincope ‘Cartagena’) sulla Capitana di Napoli,
diretto a Genova e scortato dalle nove galere toscane, da quelle dei privati genovesi e da diverse
altre napoletane, le quali tutte avevano frattanto imbarcato fanteria spagnola da portare in Liguria:

… e col tempo non troppo in suo favore andava a camino di Genova e, nel passar che fecie da
Monaco, li fu fatto dal Signor di detto luogo una tal salva di sparar d’artiglierie che tutte homo si
fecie (‘tutti gli uomini si fecero’) grandissima maraviglia che un signor tale (‘di così piccolo dominio’)
avesse il gran numero di cannoni e ‘sì bene ordinati, come in quel si conobbe che esso havea, e
durò insino che l’eccelenza del Duca era passato lontano più di dieci milia (‘miglia’), che ancor si
sentiva il rumor del trarre (‘tirare, sparare’)… (Ib.)

Ma, arrivatisi a Genova, furono le galere del duca a salutare per prime la grande e nobilissima città
repubblicana:

… e al arrivo che feci a Peggi, vicino sette miglia a Genova, il venne a riscontrar tutte le galere di
Genova, cioè della Signoria (‘della repubblica’), e di particolari, e al solito salutato, se n’andava
seguendo il suo camino insino a S. Pietro Arena, ove, andandosi approssimando, cominciò in
prima la sua ‘Capitana’ e poi l’altre a sparar tutte le loro artiglierie e in un istante solo la terra e le
navi ed ogni vascello che era nel porto vennor facendo tal sparar di artiglieria che il ciel parea
tremasse insieme con la terra e le acque ed, insino che si fu sbarcato il duca, sempre si andò
continuando di sparare e in termine delle 22 ore si sbarcò tutta la fantaria, ma pur fuor di Genova,
chi al Finale e chi a San Lauro e chi in un luogo e chi in l’altro… (Ib.)

Gli olandesi, i quali erano come i veneziani molto più interessati ai loro commerci che ai puntigli di
principio, affrontavano questa complessa materia delle precedenze nei saluti in maniera solo
consuetudinaria, molto pacata e tranquilla; tra i loro vascelli non sorgevano mai contrasti e inoltre
quando s’incontravano con vascelli d’altri stati evitavano le maniere conflittuali:

…Tutte queste cose si osservano per un antico costume di buone maniere (bienséance), senza
che ci sia alcun ordine o regolamento su tale materia.
…Le navi da guerra delle Province Unite non portano più tanto gli stendardi al fine d’evitare tutte le
differenze. (Étienne de Cleirac. Cit.)

Altra caratteristica degli olandesi e di altre nazioni nordiche era che essi usavano salutare con
colpi di cannone di numero sempre dispari, cioè 3, 5 o 7.
Per generale convenzione però, tutte le suddette regole dei saluti cessavano quando si passava la
linea equinoziale o equatoriale; allora vigeva solo la legge del più forte, al quale era riconosciuto il
sopravvento e qualsiasi bottino era da quel punto considerato di buona presa. Questo perché
652

allontanarsi tanto dalle proprie basi significava per qualsiasi vascello porsi in una situazione di
potenziale gran pericolo e valeva quindi il ‘si salvi chi può’.
Quando una squadra di galere o di vascelli tondi era in navigazione, ogni mattina e ogni sera tutti i
vascelli dovevano salutare la loro galera Capitana o il loro galeone Reale secondo delle formalità
che variavano ovviamente da nazione a nazione. Al saluto serale, il capitano accostava la sua
galera a quella Capitana e il suo còmito, scavalcando i due bastingaggi di battagliole, andava a
chiedere al generale il nome, ossia la parola d'ordine da usare per quella notte, e la rotta da
mantenere; poi si lasciava il posto a un’altra galera. Nel caso non ci si potesse accostare alla
Capitana perché impediti dalla burrasca, era consuetudine che valesse per un’altra notte il nome
ricevuto la sera precedente. C'era anche da osservare il rispetto ufficiale della religione e, quando
una galera o una squadra di galere, navigando a terra a terra, ossia a piccolo cabotaggio, passava
davanti a un tempio dedicato alla Madonna, lo salutava col suono delle trombe e con tre grida
della ciurma oppure con l’inno Ave maris stella, come nel caso della chiesa di Santa Maria delle
Grazie nell’isola di Lésina; se però si era di venerdì, si omettevano le trombe, poiché era quello
giorno considerato infausto e l'esultanza di quegli strumenti sarebbe risultata sconveniente. Alcuni
templi particolarmente famosi e importanti, quale per esempio quello della Trinità di Gaeta, si
salutavano anche con l'artiglieria. Assoluto disprezzo c'era invece - ma era costume del tempo-
verso tutte le religioni non cattoliche, soprattutto nei riguardi di quella ebraica, un antisemitismo
religioso ufficiale vigente allora nello Stato della Chiesa e in tutti i regni e gli stati cattolici e la cui
origine e storia generale esula da questa nostra trattazione. Le galere di Spagna, Napoli e Sicilia
sequestravano di prassi le navi veneziane, se queste portavano merci di mercanti ebrei, le
conducevano nei loro porti e tali merci si confiscavano. Così oltre al danno del sequestro Venezia
pativa in tali casi anche quello della confisca, perché gli assicuratori veneziani erano tenuti a
rimborsare i danni ai mercanti ebrei, come si legge nella relazione del residente veneziano a
Napoli Girolamo Lippomano, redatta nel 1575:

... perché in Venezia vi sono le compagnie degli assicuratori, le quali, quando queste robe fossero
ritenute, sariano obligate, secondo l'uso della piazza de' mercanti di tutte le terre del mondo, di
reintegrare gli ebrei padroni delle dette robe, subentrando li cristiani assicuratori al danno che altri
pensasse aver fatto agli ebrei. (E. Albéri. Cit. S. II, v. II, p. 304.)

Questo e altri ragionamenti si trovò a dover fare a Napoli il Lippomano al generale Giovanni
d'Austria, presentandogli le lagnanze del suo senato per l'episodio della nave veneziana Croce,
appunto sequestrata perché vettore di merci ebraiche:
653

... e quanto sia cosa brutta che, sotto specie di amicizia e sotto il vessillo della Maestà Catholica
(Filippo II) e di Sua Altezza (Giovanni d’Austria), si depredino fraudolentemente navi d'amici, come
avevano particolarmente fatto li capitani delle due galere di don Arma (‘Armando?’) di Toledo e di
don Alfonso di Bazan menando la nave Croce captiva nel porto di Napoli, non dovendosi allegare
che siano illecite quelle mercanzie di ebrei e d'altri che, per disposizioni di legge del Pontefice,
sono lecitissime, come appariva per la fede (‘attestazione scritta’) di Sua Santità che io aveva
allora. (Ib. P. 303.)

Il Lippomano aveva cercato inoltre di convincere Giovanni d’Austria ricordandogli vari lontani
episodi similari in cui suo padre Carlo V si era mostrato particolarmente benigno e liberale verso il
traffico mercantile marittimo; ma l’antisemitismo era troppo radicato nella civiltà occidentale perché
le parole del Lippomano possano aver avuto qualche effetto; i giudei del regno di Napoli, dopo
quelli spagnoli espulsi nel 1492 e prima di quelli portoghesi scacciati nel 1495, erano stati
anch’essi in quegli anni del secolo precedente rapinati dei loro beni ed esiliati più volte; il Sanudo
narra a tal proposito un significativo episodio del 1494, il quale, al di là delle nostre moderne
ipocrisie, fa senza dubbio capire il vero motivo per cui essi prima o poi s’attiravano l’odio dei popoli
dovunque s’insediassero, motivo che non era dunque più quello originario e cioè d’esser stati un
popolo deicida:

… In questo tempo a Liesena (‘Lesina’), ch’è una isola di Dalmazia, per lettere di Alessandro
Barbo conte se intese (a Venezia) come erano capitati alcuni navilii de’ marani et zudei et altri
puiesi (‘pugliesi’), i quali venivano di Puia (‘Puglia’) per alozar in ditta isola, che erano forsi fameie
(‘famiglie’) 43, con haver assa’ di panni et altre supelectile, et però (‘perciò’) ditto conte domandava
licenzia, si a la Signoria li piaceva fusseno lassati habitar; et per el Senato fu decreto che ditti
potessero starvi et li fusse dato recapito (‘alloggio’) a ciò fusse fatto boni li luogi (‘luoghi’) di San
Marco ‘licet’ in Liesena non vi era prima zudei, ‘tamen’ che non imprestassero a usura. Et cussì fu
rescritto al ditto conte. (Marino Sanudo, La spedizione di Carlo VIII in Italia. Estratto dall’Archivio
Veneto – Serie I. P. 213. Venezia, 1883.)

La stessa autorizzazione con la stessa risposta ebbe anche il governatore veneziano di Corfù,
mentre altri, anch’essi provenienti dal Regno di Napoli, arrivarono fino a Santa Maura, allora
possedimento ottomano, e furono anch’essi accolti; gli ebrei residenti nello Stato della Chiesa,
specie ad Ancona, si trasferirono invece a soprattutto a Valona, come ci fa sapere il Rosaccio
(Giuseppe Rosaccio, Viaggio da Venetia a Costantinopoli etc. P. 27. Venezia, 1598.
Ma la persecuzione degli ebrei continuerà ancora per secoli a opera della Santa Inquisizione e, per
sfuggire a quella portoghese, particolarmente feroce, ancora emigreranno negli anni attorno al
1684. Nel 1641 la squadra maltese del fiorentino Bernardino Vecchietti, il quale ne aveva ricevuto
il comando nel precedente dicembre, durante l‘usuale annuale scorreria in Levante, catturati alcuni
mercantili turchi, prese prigionieri anche 34 mercanti ebrei che vi trovò a bordo e costoro furono
poi rimessi in libertà solo dopo il pagamento d’un congruo riscatto.
654

Durante la prima metà del Basso Medioevo nella marineria da guerra catalana il capitano generale
doveva in combattimento trattenersi in piedi al terzo della sua galera, cioè vicino allo stendardo, il
quale sventolava appunto all’inizio poppiero della corsia centrale, e ciò evidentemente per
attestare una sua partecipazione personale alle azioni in corso; ma durante la vittoriosa guerra
contro i genovesi per il possesso della Sardegna Bernardo de Cabrera y Foix, capitano generale
del re Pedro IV d’Aragona e futuro conte di Modica, lamentò che quella posizione impediva al
capitano generale di avere un’adeguata supervisione dell’intera battaglia e pertanto, nella sua
ordinanza per la guerra marittima del 5 gennaio 1354, il predetto monarca promulgo che da allora
in poi durante la battaglia egli si trattenesse invece a poppa, luogo più elevato, dal quale poteva
quindi avere appunto una visione più generale dello svolgimento delle azioni in corso; anche a
poppa comunque il suo seguito doveva circondarlo reggendo in verticale alti pavesi che lo
proteggessero dall’inevitabile bersagliamento nemico (Ordenanzas de las armadas navales de la
Corona de Aragon etc. Cit. P. 1), mentre parte della sua guardia doveva però restare ai piedi dello
stendardo con pavesi per continuare a difenderlo dal nemico. Ai fianchi del capitano generale
dovevano poi trattenersi due consiglieri, dei quali uno doveva trasmettere i suoi ordini al timoniero
e l’altro ai vascelli e vascelletti che dovevano stazionare alla poppa di quella galera per riceverne
appunto dgli ordini da andare subito a trasmettere ai viceammiragli comandanti ali e retroguardia
dell’armata. Solo nel caso che il nemico venisse all’abbordaggio, egli doveva tornare
immediatamente allo stendardo per difenderlo a costo della sua vita; e, per rafforzare tutte queste
difese, alla galera ammiraglia si dovevano fornire 20 grandi pavesi in più di quelli che solitamente
si davano alle altre.
Il luogotenente del capitano generale prendeva per lo più posto sulla stessa galera Reale del suo
predetto superiore e in effetti era lui a comandare, con il titolo di capitano, quel principale vascello,
oltre a comandare la marinaresca dell'armata in generale, e a volte lo doveva fare anche in
combattimento; doveva pertanto essere anche più esperto di mare del suo generale. Allo stesso
modo il luogotenente d’un capitano generale di squadra prendeva posto sulla stessa galera
Capitana, oppure sulla galera Patrona se di quest'ultima era già capitano, e questo secondo modo
si usava in alcune nazioni. In mancanza d’un luogotenente generale i capitani di galera dovevano
ubbidienza a quelli tra loro che portassero fanale, ossia che avessero un grado generale e quindi
galera munita a poppa di fanale di comando. Godendo anch’egli di un più che cospicuo stipendio,
come il capitano generale anche il luogotenente doveva pagarsi da sé sia il suo armamento
personale sia i salari dei famigli che lo accompagnavano.
Personaggio importantissimo dell'armata era il provveditore (gr. έπιμελητής), chiamato in alcune
squadre scrivano di razione, ma, come abbiamo già detto, sopramassaro in veneziano - essendo
655

invece, come vedremo, a Venezia quello di provveditore un titolo d’ufficiale generale - e


seniscalcus in latino medioevale; costui era per l’intera armata o squadra ciò che il patrone era per
la singola galera e aveva pertanto due compiti principali, cioè rifornire l'armata di tutte le provvisioni
(cst. bastimentos) necessarie all'impresa prefissata e tener libri contabili di tutti i materiali e di tutti
gli uomini di bordo, quindi contabilizzare tutti gli acquisti e i consumi, tutti gl'introiti e gli esiti del
danaro che il sovrano destinava all'armata e che lui solo amministrava. Doveva dunque essere un
ottimo contabile, sapere dove trovare le migliori merci e ai migliori prezzi, registrare tutti gl'imbarchi
e gli sbarchi di tutte le provvisioni, soprattutto di quelle merci che pagavano nolo e doveva essere
sempre in grado di documentare come e perché tali provvisioni erano state consumate; doveva
tenere i ruoli e registrare gli arruolamenti, i soldi, le licenze, le morti, le riforme (‘congedi’), le
consegne di tutti gli uomini d’ogni categoria che fosse presente sull'armata di mare.
Un provveditore disonesto poteva, volendo, arricchirsi indebitamente comprando merci di cattiva
qualità o addirittura avariate in cambio di ricche regalie fattegli dai fornitori, falsificando i prezzi, i
pesi e le misure che si adoperavano nel distribuire le provvisioni ai vari vascelli, alterando tutte le
vettovaglie alterabili - per esempio annacquando il vino e l'olio, dispensando insufficienti razioni di
carne e formaggi, vestendo la ciurma con vestiario insufficiente e di cattiva qualità e non
rinnovandole gli abiti a tempo debito, vendendo a suo personale profitto materiali vecchi che
avrebbero potuto invece essere ancora utili all'armata, defraudando altresì il suo sovrano con la
registrazione di falsi ruoli di soldati, galeotti e marinai, ruoli che alle volte non sono la metà di quelli
che vi sono scritti e fatti pagare. (P. pantera. Cit. P. 106.) Poteva insomma far vivere gli uomini
nelle privazioni e tenere l'armata nel bisogno d’ogni necessaria provvisione, procurando quindi al
suo capitano generale esiti bellici disastrosi, come si disse era avvenuto nel 1570 all'armata
veneziana appunto per colpa della disonestà e avarizia dei ministri preposti alle provvisioni, i quali
furono accusati d’aver comprato e distribuito vettovaglie guaste, facendo così nascere tra gli
uomini tante malattie e scoppiare tante epidemie e tanti disordini che, come già sappiamo, quasi
tutta l'armata, la quale era alla fonda nei porti istriani in attesa di far impresa contro gli ottomani, ne
restò disfatta senza combattere e vi morirono più di 35mila uomini con notevolissimo danno di
quella repubblica e distruzione del fiore della milizia italiana che su quell'armata era salita con
spirito di crociata. Fino a che punto la disonestà fu causa di quella pestilenza non sappiamo; certo
è che, come s’apprende sia dall’Historia di Giovan Pietro Contarini sia da quella del Sereno, nello
stesso 1570 anche l’armata turca aveva patito per una virulenta pestilenza.
La marineria bellica veneziana non era comunque nuova a simili disastri e infatti già nel 1474,
quando, essendo l’armata in sosta sulla costa albanese in corrispondenza di Scutari, allora
assediata dai turchi, ed essendo scoppiatavi un’epidemia, vi si era ammalato e morto anche il suo
656

capitano generale Triadano Gritti (1394-1474); inoltre nel 1527 era scoppiata una virulenta
pestilenza sulle 16 galere della Serenissima che si trovarono in quell'anno a Livorno in attesa
d’unirsi a quelle d’Andrea d'Oria per andare a prendere la Sardegna agl'imperiali; i loro
comandanti, cioè il provveditore Gioan Andrea Moro e Giovanni Contarini, quest’ultimo detto
Cacciadiavoli per il suo ardire, soprannome che, come abbiamo già visto, sarà presto anche d’un
famoso corsaro turco compagno del Barbarossa, dovettero pertanto rinunciare all'impresa e
obbligare quindi alla rinuncia anche il d'Oria, il quale era allora al suo ultimo anno di servizio per la
Francia, servizio che aveva offerto a Francesco I nel giugno del 1522, ossia subito dopo il sacco di
Genova compiuto il 30 maggio di quell’anno dagl’imperiali, ma che doveva essere effettivamente
iniziato non prima dell’anno seguente, perché fu appunto nel 1523 che il precedente capitano
generale delle galere francesi, Bertrand d’Ornesan, signore d’Astarac, barone di Saint Blancard e
marchese dell’Isole d’Oro, il quale era stato eletto a questo carico nel 1521, tornando dall’inutile
soccorso portato all’isola di Rodi, si scontrò davanti a Tolone con l’armata di mare di Carlo V e la
sconfisse. Verso la fine del Cinquecento il provveditore delle galere siciliane Paolo Giustiniani fu
inquisito con tortura e poi privato del suo ufficio perché si era scoperto che forniva alle galere cibi
guasti, razioni manchevoli perché pesate con bilance truccate e vestiti troppo corti in quanto
misurati con false misure. Era dunque opportuno che il sovrano conferisse quest'incarico di
provveditore a persona benestante e in grado di dare idonea garanzia di buon amministrazione. Il
provveditore poteva prendere alloggio sul vascello dell'armata che più gli piaceva.
Il titolo di provveditore d'armata era, come già accennato, nell'armata di mare veneziana molto più
importante di quello esistente nelle squadre ponentine e di cui abbiamo appena parlato; i
provveditori della Serenissima erano due e si trattava d’ufficiali combattenti di grado intermedio tra
quelli di commissario di stato e di governatore d'armata, venendo gerarchicamente appunto subito
dopo il capitano generale da mar, come questo disponendo infatti anch'essi di galere di fanò (‘di
fanale’), ossia di comando:

(1474): … Se trova addesso in armada 4 fanò (‘4 comandanti’), ma ghe è grandissima union,
perchè Piero Mocenigo, el qual per decreto del Senato podeva solo operar ogni cosa, antiponendo
'l benefizio pubblico a ogni altro so respetto, fa tutte le deliberazion co 'l consegio del successor e
dei proveditori… (D. Malipiero, cit. Parte prima, p. 94.)

Premesso che il ‘successore’ dell’ammalatosi capitano generale Piero Mocenigo di cui si parla era
il già ricordato Triadano Gritti e i due provveditori d’armata erano delle famiglie Bembo e Malipiero,
questi ultimi potevano quindi esser incaricati dal capitano generale d’assumere la sua
luogotenenza nel caso di sua temporanea assenza e quindi di prendere il comando dell'armata,
assumendo quindi in battaglia il comando del corpo centrale, detto appunto battaglia, mentre il
657

corno destro o vanguardia era comandato dal capitano del golfo e quello sinistro o retroguardia
magari dal governatore dei condannati, altro ufficiale di fanò; ma, accompagnando invece in
battaglia il detto capitano generale un provveditore e un commissario, come avverrà per esempio
alla battaglia di Scio del tre maggio 1657, il primo comandava il corno destro o avanguardia –
quindi il più onorevole – e il secondo quello sinistro o retroguardia. Lo schieramento di battaglia
che 1499 il capitano generale da mar veneziano Antonio Grimani aveva ordinato si formasse nel
caso di scontro con l’armata ottomana prevedeva anche una formazione di soccorso:

La battaglia centrale guidata dal suddetto Grimani e formata da un numero di galee che variava a
seconda delle diponibilità del momento.
Il corno destro di 15 galee affidato al provveditore d’armata Niccolò da Ca’ da Pesaro.
Il corno sinistro di 17 galee comandato dal provveditore d’armata Simone Guoro.
Il soccorso di 11 galee capeggiato dal provveditore d’armata Domenico Malipiero.

“Tutte le galee con l'ordine soprascritto vadino tanto lontane l'una dall'altra che non si investano
insieme né rompano i remi, ma più unite che sia possibile, e non si habbino a muover dall'ordine
suo sotto pena a i sopraccomiti di privazione della sopraccomitaria.” (D. Malipiero, cit. Parte prima,
p. 174.)

Anche buon contabile doveva essere - per forza di cose - un altro importante personaggio
dell'armata, il contatore e pagatore; questi pagava i fornitori e, seduto alla banca, ossia davanti a
una semplice panca che faceva da scrivania, anche il soldo a marinai e soldati conformemente ai
mandati fatti dal predetto provveditore e firmati dal generale; doveva pertanto avere pure piena
cognizione delle monete e dei cambi per poter ben girare il danaro da un luogo all'altro senza
danno di conversione per il suo sovrano, anzi possibilmente con vantaggio. Anch'egli doveva
opportunamente dare buona cauzione della sua amministrazione, perché un cattivo pagatore, il
quale ritardasse indebitamente e con vani pretesti i pagamenti per ottenerne così regali e favori, o
che pagasse con cattiva moneta, tosata o rappezzata o con oro scarso di peso o di scadente titolo,
forzando i creditori e gli assoldati a prenderne egualmente con minacciosa arroganza, faceva in tal
modo perdere reputazione al suo principe e poteva procurare il nascere non solo di lamentele,
bensì addirittura d’ammutinamenti:

... vor(r)essimo che questo tale fusse facoltoso e ricco di denari, acciò non defraudasse nella
moneta dando una per l'altra ne' pagamenti con tutti gl’illiciti vantaggi possibili, oltre altri intollerabili
inganni che ne' pagamenti commettono, in che continuamente cascano per non vi esser (nella
squadra pontificia) Riveditor come prima, che a gl’insulti suoi sopra stia e gli rivegga, non potendo
per alcuni particolari questi abusi pervenir all'orecchie del Generale, il quale senza dubio vi
provederia. (B. Crescenzio. Cit. P. 91.)
658

Quanto sarcasmo del Crescenzio in quest'ultima affermazione! Evidentemente il capitano generale


papalino d'allora teneva bordone al pagatore. Così come il provveditore, anche il pagatore poteva
alloggiare sul vascello che preferisse.
Il (ri)veditore (sp. veedor) era dunque un altr'ufficiale molto necessario all'armata o alla squadra di
mare; suo compito era rivedere e controllare le azioni e i conti degli altri ministri dell'armata, in
modo da scoprirne eventuali estorsioni, frodi o furti, e doveva pertanto essere persona integerrima
e autorevole, oltre che intendente dei maneggi marittimi; doveva quindi controllare le provvisioni di
munizione, la roba comprata dai singoli vascelli, le razioni, i ruoli degli uomini e i loro stipendi, ma
poiché avarizia e cupidigia del denaro potevano infettare lo stesso riveditore [essendo talmente
corrotto il secolo che molti principalissimi officiali attendono più ad ammassar denari che a ben
servire al lor Signore... P. Pantera. Cit. P. 109], bisognava che i sovrani mandassero ogni tanto
all'improvviso ispezioni all'armata condotte da uomini nobili e gravi per scoprire eventuali angarie,
commerci e tirannie dei ministri a essa preposti, come utilmente avevano fatto i veneziani nel
1570, quando, dopo essersi, come abbiamo già detto, pressoché annichilita la loro armata a causa
della corruzione dei provveditori, le avevano inviato tre inquisitori all'uopo nominati dal senato, i
quali avevano scoperto le frodi e le scelleratezze perpetrate dai ministri dell’armata e li avevano
fatto subito severamente castigare dalla magistratura di Venezia. Questo, unitamente alla lega
stipulata il 25 maggio successivo con Spagna e Stato Ecclesiastico, fu certo uno dei motivi
determinanti per cui, nonostante tale imponente disastro, la partecipazione veneziana all'impresa
di Lepanto riuscì invece tanto accurata, efficiente e importante.
Come i ministri precedenti anche il riveditore alloggiava su un vascello di sua scelta; a terra
alloggiava invece il munizioniero e cioè negli stessi magazzini adibiti alla conservazione dei generi
di munizione, non potendosi quindi considerare come un vero e proprio componente dell'armata.
Compito di quest'ultimo era conservare e aver cura di tutte le cose depositate in detta armeria e
destinate all'armata o alla squadra, registrando accuratamente l'esistenza, gl'introiti e gli esiti di
tutte le provvisioni, corredi e armi affidategli in custodia; era opportuno perciò che anch'egli desse
buona cauzione perché eseguisse il suo lavoro fedelmente e coscienziosamente.
Tutti i predetti incarichi amministrativo-contabili erano stati in precedenza, ossia nel Basso
Medioevo, concentrati in un unico personaggio detto semplicemente scrivano reale o d’armata, il
quale nelle squadre e armate aragono-catalane, le più forti e agguerrite nel Tirreno di quei tempi,
era anche un combattente e infatti si contava nel numero dei balestrieri imbarcati nella galea
Almiranta, cioè dell’almirante se costui era presente, o in quella Capitana, vale a dire del capitano
generale, essendo però obbligato, a differenza dei normali balestrieri, a provvedersi a sue spese
di corazza, cappellina di ferro, balestra con relativo crocco di caricamento e di almeno duecento
659

quadrelli o verrettoni da prova, ossia tanto robusti da poter perforare anche spesse corazze
nemiche che fossero appunto a prova di dardi.
La gente di galera aveva un suo proprio tribunale militare che si chiamava Udienza delle galere e
lo stesso incarico di quello dell'esercito di terra aveva l'auditore della squadra di mare, ossia il
giudice militare, il quale s’imbarcava con il suo cancelliero anch'egli su uno qualsiasi dei vascelli a
sua scelta; quello della squadra di Napoli era nel 1594 imbarcato sulla galera Capitana e percepiva
330 ducati napoletani annui di stipendio (R. Mantelli. Cit.) Quando le squadre a disposizione della
Corona di Spagna si riunivano a formare armata, allora si eleggeva un auditore generale. Le pene
capitali - o anche semplicemente corporali, se inflitte per ammutinamento, fellonia o lesa maestà –
s’eseguivano al cospetto dell'intera squadra, i cui vascelli si ponevano pertanto in circolo attorno
alla galera prescelta per l'esecuzione e che solitamente era quella che nella squadra stessa
occupava l'ultimo posto di precedenza, cioè la galera del capitano più nuovo nel grado. Le pene
corporali erano diffusissime ed erano generalmente eseguite a mezzo di vergate, bastonate,
frustate o anche mutilazioni; quelle capitali si eseguivano con l'impiccagione dei condannati
ignobili, con la decapitazione di quelli nobili e, per quanto riguarda i soldati, con l'archibugiazione
nel Seicento e poi si passerà alla fucilazione nel Settecento. Come meglio spiegheremo nel nostro
prossimi libro sugli eserciti post-rinascimentali, nel Cinquecento ancora si poteva infliggere la pena
di morte ai semplici soldati col metodo del passar per le picche, la cui corrispondente non capitale
era, sempre nella milizia di terra, il passar per le verghe o per le bacchette (lt. fustes), prassi
penale che pure in quell’occasione descriveremo e che nella marineria trovava il suo equivalente
nello sp. pasar cruxía (lt. fustuarium) o nel fr. courir la bouline; consisteva quest’ultima nel far
schierare in coperta – lungo la corsia nel caso di galere e galeazze - parte dell'equipaggio – cioè
tutti gli altri galeotti o tutti gli altri marinai oppure i soldati, a seconda della categoria alla quale il reo
appartenesse, in due ali contrapposte e in direzione poppa-prua, dove ogni uomo era armato di
garzetta, ossia d’una corta corda o bolina terminante in un anello detto occhio di garza e da usarsi
come parte contundente. Si faceva passare il condannato, vestito solo di mutandine, con le mani
legate dietro la schiena e tirato con una corda, due o tre volte, in andata e ritorno, tra le due siepi
di picchiatori, ognuno dei quali doveva colpirlo una volta a ogni passaggio. Per questo motivo oggi
usiamo ancora il detto passare per le armi nel senso di fucilare. Gli olandesi, i cui usi a volte
descriviamo perché, come abbiamo già detto, i loro vascelli già frequentavano il Mediterraneo,
praticavano ordinariamente la predetta punizione in una maniera diversa e cioè il colpevole si
legava di schiena ai piedi dell’albero di maestra e il provoost (it. parone o agozzino, fr. prévôt) gli
dava un numero di colpi con un capo di corda; talvolta ogni uomo del quarto di guardia partecipava
dando un suo colpo al condannato e ciò si diceva in olandese laarsen oppure bridsen. Il
660

condannato poteva esser pure fustigato stando semplicemente legato a faccia in giù a un
cannone o a un grosso remo.
Il Suida scrive che nell’antica Grecia si usava punire i disertori nautici [λ(ε)ιπόνεωες, λ(ε)ιποναῦται]
con la mutilazione delle mani, ma non spiega se di una o di ambedue. Nel Medioevo era stata
molto in voga la pena della mutilazione di un piede, pena applicabile non solo ai marinai ma anche
ai protontini (‘razionieri di bordo’) e agli stessi cómiti, per punire specie inoperosità, negligenze e
assenze dal proprio posto di lavoro:

In predictos prothontinos et comitos nec non marenarios et personas alias galearum, quae super
predictas negligentiam, fraudem, desidiam vel contumaciam commiserunt, pena mutilationis pedis
iuxta nostrae voluntatis arbitrium infìgenda (G. Del Giudice, cit. Diploma del 23 Luglio 1274. P. 21).

In epoca successiva a quella principalmente oggetto di questo nostro studio sui grandi vascelli
oceanici verrà usato come tavolo di punizione l'argano di bordo [fr. cabestan, vîrev(e)au(t), vindas,
guindas, guindeau; ol. (braadt-)spil, windas, kaapstaander], cioè proprio come a terra si usavano
allo stesso scopo le grandi ruote dei carri, e nella marineria francese aller o envoyer au cabestan
avrebbe significato, specie per i mozzi, esservi legati sopra per ricevere colpi di corda dal predetto
prevosto, 12 se ci si era resi colpevoli d’aver ferito un proprio compagno con un corpo
contundente; oppure, nel caso d’un soldato che avesse abbandonato il suo quarto di guardia
senza aspettare d'esserne rilevato, costui si legava su una barra dell'argano con due palle di
cannone ai piedi, in una posizione che non sappiamo immaginare, ma che certamente doveva
procurargli sofferenza, e vi si lasciava per due ore intere, ripetendosi il tutto il giorno seguente. Gli
olandesi usavano dare invece simili punizioni non al cabestano, bensì ai piedi dell’albero di
maestra, ma in ogni caso, trattandosi d’un grande vascello, era sempre il prevosto l’addetto a
eseguirle materialmente:

Le mot de Prévôt est pris ici pour celui qui punit; c’est d’ordinaire le plus méchant des matelots. (N.
Aubin. Cit. P. 643.)

È interessante ricordare, a proposito di tal materia, l’art. CXX del Consolato del Mar, il quale
dettava il comportamento che il marinaio medievale doveva tenere nei confronti del suo
comandante che lo insolentisse o tentasse di colpirlo:

Ancora, il marinaio è tenuto a sopportare il suo comandante, quando gli dicesse villanie, e, se gli
correrà addosso, il marinaio dovrà fuggire sino a prua e dovrà mettersi di fianco alla catena; e, se il
comandante passerà da quel lato, egli dovrà fuggire dall’altro e, se il comandante lo incalzerà
661

(anche) dall’altra parte, il marinaio potrà difendersi, portando testimoni che il comandante l’ha
incalzato; perché il comandante non deve passare la catena (J. M. Pardessus. Cit.)

Il predetto comportamento ricorda molto quello a cui era tenuto il soldato di terra nei confronti del
suo capitano; c’è però una differenza e cioè che, mentre il soldato a terra aveva tutto lo spazio
necessario per fuggire e quindi non era ammesso che si difendesse in nessun caso, qui a bordo lo
spazio era limitato, il marinaio poteva fuggire solo per pochi metri e poi, giuocoforza, se il
comandante insisteva, non accontentandosi del senso ossequioso di quel fuggirlo, doveva essere
in qualche modo autorizzato a difendersi dalla sua violenza (ib.)
La bastonatura o fustigazione che s’infliggeva agli schiavi cristiani voganti a bordo dei legni
maomettani, soprattutto di quelli barbareschi, era particolarmente crudele, violenta e pericolosa per
la vita del condannato, in quanto molto spesso o lo lasciava irrimediabilmente storpiato per il resto
della sua vita o ne provocava addirittura la morte, ed era pari solo alle sevizie che tali schiavi
dovevano sopportare a terra nei bagni penali d’Algeri e delle altre città nord-africane. Il vedere
come quei mori e i rinnegati che con loro scorrevano pericolosamente il mare e le coste delle
nazioni cristiane proprio per far bottino anche di schiavi da vendere al mercato, al Souk nel caso
d’Algeri, o da incatenare al remo, poi invece tanto ne disprezzassero e tenessero in pochissimo
conto e cura la vita da provocarne tutti i giorni la morte a causa dei continui maltrattamenti e delle
feroci torture, era motivo di grandissimo stupore nei paesi cristiani, dove gli schiavi maomettani
erano invece considerati un’utile proprietà, un valore da preservare e dove, pur venendo anch’essi
crudelmente picchiati e talvolta mutilati, perlomeno lo si faceva per motivi punitivi razionalmente
spiegabili. Tale comportamento aveva tre cause, la prima era la fondamentale irrazionalità della
cultura islamica, riflettentesi per esempio nella scarsa attitudine di quei popoli alle arti meccaniche,
la seconda l’astioso carattere dei popoli mori e la terza l’evidentemente facilità con cui quei corsari
potevano impadronirsi di interi carichi di schiavi scorrendo pressocché impunemente i mari e le
coste delle nazioni cristiane. Il de Haedo, le cui veridiche narrazioni sono facilmente mondabili da
certi commenti invece esagerati, così descriveva la suddetta punizione, la più facilmente e
giornalmente inflitta agli schiavi cristiani dai barbareschi su tutti i loro vascelli e a terra in tutti i loro
bagni e luoghi di lavoro forzato:

(Antonio:) … Un improvviso trasporto di collera, un semplice capriccio è sufficiente e allora,


picchiando senza regola né misura, instancabilmente, essi non ne hanno abbastanza se non
quando hanno lasciato i prigionieri sdraiati al suolo, pestati come (si fa con) il sale, e pressocché
morti. E, per nulla tralasciare, con che cosa li si picchia? Voi dovreste averlo visto, è con dei grossi
e solidi bastoni nodosi. Come si prendono? Essi afferrano il bastone a due mani e lo scaricano con
tutte le loro forze sulla loro vittima. Su quali parti del corpo? Essi non le sconquassano solamente
le spalle, ma le rompono (anche) le ossa. Allo stesso modo in cui s’ammorbidisce lo sparto, così
essi la rivoltano da tutti i lati, la picchiano ugualmente sui punti più delicati quali il ventre e lo
662

stomaco. In questo modo, le pestano il fegato e le viscere, la conceranno come dei cuoi o delle
pelli di tamburo e la lasceranno tutta gonfia; poi la picchieranno da dietro, sulle natiche, sui garretti,
sui polpacci. Poi, perché nessuna parte sfugga alla tortura, trattano alla stessa maniera la pianta
dei piedi, dopo averli legato con una corda fissata ad un palo, dalla sommità del quale s’issa il
povero cristiano con la testa in giù; alla fine, per concludere, altri gli mettono le palme delle mani
su un asse e scaricano dei furiosi colpi di nervo di bue sulle mani giunte del malcapitato e
quest’ultimo supplizio, il quale lede i nervi, è spaventoso. Quando infine abbandonano la loro
vittima, quella è così pestata, così gonfia, ha il tronco e gli arti così malridotti che non può muoversi
né cambiar posto; sono rari quelli che non muoiono subito e quelli che sopravvivono durano
ancora qualche ora o qualche giorno [...]
(Sosa:) Certi m’hanno raccontato che è d’uso, specie in Turchia, quando s’arresta un cristiano che
è fuggito dalla casa del suo padrone… oltre ai colpi di bastone che riceve, lo si appendeva per le
gambe con la testa in basso e con un coltello ben affilato gli s’intaccava le piante dei piedi e poi su
tali ferite si spargeva del sale fino, il quale, penetrando nella carne e nei nervi in tal modo messi
allo scoperto, causava un dolore così vivo che nessun altro gli è uguale né comparabile.
(Antonio:) Non so che cosa avviene laggiù, ma ho visto impiegare questa tortura ad Algeri e non
una sola volta, ma molto sovente.
(Sosa:) E tuttavia, con tutto questo, essi non sono soddisfatti ancora […] poiché, voi non l’ignorate,
pochi sono quelli che, dopo aver sopportato tali torture, non hanno avuto le orecchie od il naso
tagliato.
(Antonio:) E che c’è che ugualmente si pratichi di più ordinario qui ad Algeri? Lo fanno a guisa di
passatempo per ridere, per divertirsi! Dal re Hassan, questo rinnegato veneziano, sino all’ultimo
turco, chi è colui che non si è segnalato contro i cristiani per orrori di tal genere? Date uno sguardo
in queste strade, in questi bagni, in queste case, in queste galere, in queste galeotte od in questi
brigantini, dappertutto s’incontrano cristiani che portano il marchio di queste bestie feroci e ai quali
si sono tagliate le orecchie od il naso. Altra cosa è pertanto vedere tali abomini o sentirli solamente
raccontare… È ciò che vedo ogni giorno e ad ogni istante quando passo in queste strade, quando
entro in questi bagni, quando visito le galeotte od assisto alle messe che riuniscono i cristiani,
poiché sempre m’imbatto in cristiani dalle orecchie mozzate o senza naso o senza braccia o senza
gambe o senz’occhi ed (inoltre) storpiati dai nemici di Cristo e della Santa Fede! (D. de Haedo.
Cit.)

A proposito delle predette mutilazioni, conviene riportare ora per intero dal de Haedo un episodio
del 1574 dal quale si possono molti particolari delle razzie commesse a danno delle popolazioni
rivierasche cristiane dai corsari d’Algeri:

… Tra i corsari di quest’ultima città si trovava un rinnegato chiamato Asanico (‘il piccolo Hassan’),
greco d’origine, il quale si distingueva dagli altri per la sua crudeltà. In effetti, il suo piacere, il suo
passatempo era quello di far tagliare le orecchie e il naso ai poveri cristiani ed egli ne aveva un
gran numero sulla sua galeotta che si riconoscevano per tale mutilazione. Questo inumano corsaro
partì in corso un giorno d’Algeri di conserva con cinque o sei (altre) galeotte di corsari, s’era
all’inizio del mese di giugno del 1574; fecero rotta verso ponente. Pochi giorni dopo arrivarono
vicino all’isola e città di Cadice, la quale si trova appresso allo stretto di Gibilterra; appresero che
ad una mezza lega da Cadice c’era un villaggio chiamato San Sebastián, dove si trovava un
gruppo di cristiani che lavorava al possedimento del duca Medina Simonia. I turchi (‘barbareschi’)
sbarcarono allora in numero di più di 300 per impadronirsi di quegli uomini; Asanico era tra gli
sbarcati. I turchi condussero così bene l’azione che presero più di 200 cristiani, i quali, senza alcun
sospetto, senza guardiani, erano stesi addormentati sulla spiaggia; i prigionieri furono condotti
sulle imbarcazioni, ma in quel momento il ‘corregidor’ e gli abitanti del sobborgo di Cadice furono
663

informati dell’arrivo delle galeotte e dello sbarco dei turchi, poiché si racconta che un rinnegato,
originario di quella città, era fuggito al momento dello sbarco e aveva dato l’allarme. Mentre il
popolo correva alle armi, alcune genti di guerra erano partiti in tutta fretta per combattere i turchi;
l’incontrarono al momento in cui quelli si reimbarcavano sui loro vascelli e si davano da fare per
imbarcare i cristiani. Quelli di Cadice li caricarono violentemente in maniera che i turchi dovettero
abbandonare la maggior parte dei prigionieri, ma una volta imbarcatisi, s’accorsero che, sia perché
la marea era bassa sia a causa del peso di quelli che erano imbarcati, le sei galeotte non potevano
prendere il largo. I turchi allora, mentre alcuni di loro scaramucciavano con i cristiani, spinsero le
imbarcazioni a forza di spalle; cinque delle sei galeotte riuscirono ad allontanarsi dalla riva perché
erano più piccole, ma un certo numero di turchi restarono sulla spiaggia, sia che fossero stati
catturati sia maltrattati o feriti. La galeotta d’Asanico non poté fare altrettanto perché era più
grande, avendo a ciascun lato 21 banchi di rematori; inoltre quelli che la montavano erano ben più
numerosi e il suo carico era aumentato perché un gran numero di turchi, i quali non erano potuti
montare sulle altre galeotte, vi si erano rifugiati; ella era anche sovraccaricata da un gran numero
di cristiani che si battevano con accanimento mentre altri trattenevano il vascello con le loro stesse
mani. Asanico e i suoi si videro in una situazione disperata; alcuni si gettarono in acqua e
guadagnarono a nuoto gli altri vascelli, altri si cacciarono sotto i banchi per evitare i colpi
d’archibugio dei cristiani. La galeotta si arrese infine con Asanico e quelli che la montavano.
Grande fu la gioia degli abitanti di Cadice quando videro che la galeotta era presa poiché
liberarono almeno cento cristiani che vi remavano; d’altra parte si rammaricarono che le altre
cinque galeotte avevano potuto prendere la fuga, benché si fossero tirati su di esse numerosi colpi
di cannone con un pezzo d’artiglieria che era stato portato su una carretta da Cadice e fatte
numerose scariche d’archibugi. Frattanto i turchi, vedendo che la galeotta d’Asanico era presa,
non s’attardarono più e presero la rotta d’Algeri.
I cristiani misero la galeotta al riparo e partirono tutti gioiosi per Cadice conducendo in processione
gli schiavi liberati e i turchi prigionieri; si fece loro festa. Poco dopo i cristiani i cristiani che avevano
crudelmente sofferto sulla galeotta d’Asanico portarono lagnanza al ‘corregidor’ e ai giudici del
paese, supplicandoli di punire il rinnegato che li aveva crudelmente mutilati perché la sua morte
servisse d’esempio ai corsari crudeli e barbari; alcuni mostrarono le loro orecchie tagliate, altri il
loro naso, altri le loro dita storpiate oppure le cicatrici che avevano sul viso, sugli occhi, sulle loro
membra e che erano state provocate dai colpi furiosi che erano stati loro dati e che erano penetrati
nelle loro carni. Essendo stata esaminata la lagnanza dalla giustizia, Asanico fu, dopo qualche
giorno di detenzione, condannato ad avere la testa tagliata e sospesa ad una delle porte della
città…. (Ib.)

Tornando ora alle punizioni corporali in uso nella marineria oceanica, diremo che il già citato
codice di diritto mercantile atlantico medievale ammetteva che il capitano d’una nave da carico, per
affermare la sua autorità, potesse colpire un suo marinaio che se lo fosse meritato; ma poteva farlo
una sola volta e usando esclusivamente la nuda mano, di palma o di pugno che fosse, perché il
marinaio, il quale a questo primo colpo così dato non doveva sottrarsi, aveva invece il diritto di
difendersi da un eventuale secondo o anche da un primo dato da mano armata; ecco infatti quanto
si legge al proposito nel dodicesimo articolo del codice d’Oléron:

… Et si le mestre fiere un de ses compaignons de la neef, il li doit attendre la premiere colée,


comme de poing ou de palme; et, s’il li fiert plus, il se poet defendre; et, si le mariner fiert le mestre
premier, il doit perdre cent sous ou le poing, au choix du mariner… (J. M. Pardessus. Cit. T.I)
664

E qui ci sono due cose molto interessanti da notare; innanzitutto la differenza con il
comportamento concesso a terra al soldato, il quale, come sappiamo, poteva sottarsi anche a un
primo colpo del suo ufficiale dandosi alla fuga, perché per questa disponeva di quello spazio
sufficiente che invece, a causa delle ristrette misure di bordo della nave, al marinaio non era dato;
poi il grandissimo valore attribuito in quei secoli al danaro, per cui il marinaio medievale reo di aver
colpito per primo il suo capitano, poteva scegliere, come sua punizione, tra il pagare una grande
multa di 100 soldi da detrarsi dal suo salario, o l’evitare questo pagamento col farsi tagliare la
colpevole mano. Noi oggi invece, pur di salvarci l’uso d’una mano, saremmo disposti a pagare a un
chirurgo qualsiasi somma!
Anche consueta e molto antica era la pena di sbarcare il marinaio incorreggibile, abbandonandolo
in una terra disabitata, infida o nemica; a questo proposito il già citato statuto danese di Schleswig
(c. 1150) al cap. LX sanzionava che, chi avesse rubato a bordo, doveva esser abbandonato su
un’isola deserta con cibo per tre giorni e munito di acciarino e esca per accendersi il fuoco,
sanzione che verrà poi ripetuta con il cap. LXXIII dello statuto di Elensburg del 1284 (Pardessus).
Un supplizio particolare era quello detto dare la cala (fr. cale, caller, estrapade marine; ol. het
loopen) ed era punizione riservata a ladri, blasfemi e fomentatori; consisteva nel far seder il
condannato a cavalcioni d’un bastone orizzontale attaccato a una corda, la quale il malcapitato
impugnava strettamente la corda per non cadere e che si faceva passare per una puleggia
sospesa a una dell'estremità d'un pennone; lo s’issava bruscamente in alto sino al pennone e
infine si mollava la corda facendolo così precipitare in mare da quell'altezza, di solito dopo avergli
legato ai piedi una palla di cannone per rendere la caduta più veloce e violenta; questa punizione
poteva essere ripetuta fino a cinque volte a seconda della gravità del reato commesso. Questa era
la cala ordinaria, ma c'era pure la cala secca, dove la corda non era volutamente tanto lunga da
arrivare sino al mare e quindi il contraccolpo che si subiva alla fine della caduta, a cinque o sei
piedi dall’acqua, non era attutito dal tuffo; anzi, a seconda della durezza della sentenza emessa
dal comandante del vascello o dall'auditore dell’armata, anche in questo caso si attaccavano a
volte una o due palle di cannone ai piedi del disgraziato, in modo da aumentare la violenza del
contraccolpo e quindi il dolore per lo strappo alle braccia con cui si reggeva; anche questo
supplizio poteva esser ripetuto diverse volte. Più disumana di tutte era però la gran cala (ol. kielen;
o kiel-halen), la quale si usava a bordo dei grandi vascelli olandesi e consisteva nel dare un
seguito al tuffo in mare predetto; praticamente si legava il condannato alla metà d’una corda tanto
lunga da passare sotto la chiglia del vascello, poi si abbassava il pennone di maestra, alla cui
estremità si legava un capo della corda e si faceva sedere il condannato, oppure invece del
pennone si usava semplicemente il bastingaggio del vascello; frattanto, scelti i marinai più forti,
665

questi, posti al bastingaggio opposto, tenevano saldamente l’altro capo della corda; all’ordine dato
dal quartiermastro (ol. Losse! oppure Haat vallen! Fr. Cale!), il colpevole, al quale era pure stato
legato addosso o ai piedi qualcosa di pesante, era gettato in acqua, mentre i predetti marinai
ritiravano la corda con tutta la velocità possibile in modo da far passare rapidamente il malcapitato
sotto la chiglia e poi farlo emergere dal lato opposto. Questa pena, la quale poteva essere ripetuta
più volte a seconda della gravità del reato commesso, era, oltre che molto dura da sopportarsi,
anche molto pericolosa per il condannato, perché bastava una minima mancanza di diligenza o
destrezza da parte dei marinai che lo tiravano - oppure qualsiasi altro piccolo inconveniente -
perché egli emergesse col collo, una gamba, un braccio o delle costole rotte; era infatti considerata
al rango delle pene capitali. Si usava questo tipo di condanne anche in modo collettivo, per
esempio per punire una buona parte dell’equipaggio e, a leggere il regolamento disciplinare della
marina da guerra olandese (N. Aubin. Cit.), il quale era chiamato Artykel-brief, – cala e gran cala
sarebbero stati da infliggersi per una gran quantità d’infrazioni e quindi a ogni pie’ sospinto; eppure
questa severità sembra inspiegabile comme les hollandois sont naturellement pleins de bonté et
de compassion, scriveva l’Aubin (Ib. P. 260).
La punizione della cala (fr. cale, estrapade marine) poteva inoltre essere moralmente aggravata
con l'eseguirsi all'estremità di babordo del pennone invece che a quella di tribordo e ciò perché in
tal modo si negava al condannato anche la dignità della destra, ossia del lato che in tutte le
situazioni della vita civile e militare era considerato quello più adatto alle persone degne di rispetto.
Questi castighi erano inoltre eseguiti pubblicamente, avvertendosi solitamente con un colpo di
cannone gli altri vascelli della flotta o dell'armata, perché ne fossero spettatori. Il supplizio della
cala ordinaria era in uso già nel Basso Medioevo, come si legge all’art. CXXV del Consolato del
Mar, a proposito dei marinai mercantili che cercassero di rendersi irriconoscibili come tali durante
la stagione navigatoria:

Ancora, il marinaio non si deve spogliare se non è nel porto di svernamento e, se lo fa, ogni fiata
deve essere calato in mare tre volte dalla vetta del morgonale; e, oltre le tre fiate, deve perdere il
salario e la roba che ha nella nave (J. M. Pardessus. Cit.).

Quale estremo di pennone fosse il ‘morgonale’ non siamo purtroppo in grado di dire e, per quanto
concerne invece il costume da marinaio in uso a quei tempi, pensiamo che una certa idea ne
possa dare quello mostrato dal Vecellio, anche se trattasi di autore molto più tardo ovviamente
(Vecellio). Anche l’art. CCVI del predetto Consolato, il quale riguarda le sentinelle mercantili che
fossero trovate addormentate, prevede, tra le altre, la pena della cala ordinaria; se la cosa
succedeva in viaggio, il colpevole era privato del vino per tutta la giornata, se all’ormeggio in paese
666

amico, del vino e del companatico, se in paese nemico, la stessa pena, aggravata da quanto
segue:

… e inoltre deve essere frustato tuto nudo per tutta la nave oppure deve essere immerso in mare
tre volte dalla vetta del morgonale (a scelta del comandante e del nostromo)… e, se è di poppa,
deve perdere il vino e tutto il companatico di tutto quel giorno e gli deve essere gettato un secchio
d’acqua dalla testa ai piedi… (ib.)

Se la suddetta mancanza era reiterata, dopo la terza volta, s’arrivava a una pena che in quegli
avari tempi era giudicata molto più severa delle precedenti e cioè il colpevole perdeva il suo salario
per tutto il viaggio e, se lo aveva per caso già percepito, doveva o restituirlo o sottostare alla cala e
ciò a scelta di tutto l’equipaggio (ct. cominal) riunito per l’occasione (ib.) Le pene pecuniarie erano
infatti sempre state in generale più tipiche della marineria mercantile che di quella militare e ciò già
nel Medioevo; singolari erano state per esempio quelle previste dal cap. XII dello statuto svedese
di Biärkoö o Birca del 1254, pene che s’infliggevano a quei marittimi che, quando il vascello era in
porto, gettassero fuori di bordo un compagno, sia in mare sia sulla banchina, strano passatempo o
scherzo in verità ed evidentemente allora tipico delle marinerie scandinave, tant’è vero che, oltre a
trovarlo sanzionato anche al cap. III di un altro statuto medievale svedese, cioè di quello detto
Skipmǻla-Balker della città di Lagh (sic), variando l’entità dell’ammenda a seconda del tipo
d’ormeggio a cui si trovava il vascello e delle ferite eventualmente riportare dal malcapitato, se ne
trattava diffusamente pure negli statuti marittimi danesi; ecco per esempio il cap. XXXIII dello
statuto di Hadersleben del 1292:

Lorchè un marinaio ne ha gettato un altro al di fuori del bordo, se quest’ultimo non da prova
d’alcun danno ricevuto, l’autore di questa violenza pagherà a colui che ha gettato un’ammenda di
dodici marchi e altrettanti al giudice. Se l’uomo gettato annega, i suoi più prossimi parenti
procederanno legalmente in città; saranno intesi i testimoni e si procederà come negli altri casi di
omicidio. Se l’uomo gettato non muore e l’accusato afferma di averlo gettato accidentalmente e
non maliziosamente, sarà giustificato dal suo giuramento (Ib.)

Ma, tornando ora ai vascelli militari, principal oggetto di questo nostro studio, diremo che per delitti
particolarmente infamanti, quali la fellonia o la lesa maestà, si usava talvolta una pena di morte
molto raccapricciante e che abbiamo più sopra già descritto, vale a dire il già ricordato
squartamento a mezzo di galere; esso consisteva dunque nel legare il giustiziando sul banco d’uno
schifo di galera e di legare inoltre i suoi polsi e le sue caviglie ognuno alla poppa d’una galera
diversa, poi, con uno squillo di tromba, si ordinava alle quattro galere di divergere a forza di remi e
così il condannato ne restava squartato. Si trattava d’una pena più vista e frequente di quanto si
possa oggi pensare e corrispondeva in effetti allo squartamento che si eseguiva a terra a mezzo di
667

quattro cavalli; nel 1690 sarà così giustiziato dai veneziani un loro disertore catturato alla presa di
Malvasia, mentre altri nove saranno impiccati alle antenne delle galere; tale pena sarà ancora
applicata nella squadra di galere di Napoli nel 1701, come ci racconta il diarista fra' Angelo di
Costanzo da Napoli, un predicatore cappuccino:

... Quest'anno 1701, a primo di giugno, partirono da questa darsena (di Napoli) le nostre galere
con quelle del duca di Tursi, colla voce che andavano a Marsiglia per unirsi a quelle di Francia e di
là portarsi in Spagna per accorrere a' bisogni che da quelle parti si supponevano. Ma queste
arrivate a Genova, essendosi trattenute per lo mal tempo molti giorni a Gaeta, nel porto della
Spezia si scoprì una congiura de' forzati ed era di dar la morte al Generale Signor Conte di Lemos
ed (a) capitani e soldati; per la quale ne furono molti di essi forzati squartati, appiccati alle antenne
e altri marcati col R. e C., dicendo (‘significando’) 'Regia Corte’, condannati a perpetua galera; poi
il medesimo Generale, prima di ritornare in Napoli, fé l'indulto agli altri. (Cit.)

L'essere marcati a fuoco, credo in fronte, con le lettere R. e C. significava per i forzati portare per
sempre un marchio d'infamia che avrebbe condizionato tutta la loro vita; inoltre si vedevano
commutare a vita la loro condanna a tempo in galera. C’è, per inciso, anche da notare in
quest’ultima citazione un accenno alla nota difficoltà delle pericolose traversie meridionali –
libeccio, ostro e scirocco - che tendevano a gettare sulla costa i vascelli che passavano lungo
quella che si diceva allora la spiaggia romana, ossia il litorale laziale, obbligando quindi le galere
napoletane a lunghi periodi di sosta a Gaeta, a volte anche d’una quarantina di giorni, in attesa di
condizioni di tempo favorevoli e; né si poteva evitare detta difficoltà navigando tranquillamente più
al largo, magari con un’eventuale e utile sosta a Ponza, la quale era non solo un vasto e capiente
porto naturale ma anche un approdo ricco d’acqua dolce e di legname, perché, come se quanto
suddetto non bastasse, quel braccio di mare era molto tormentato anche dai corsari turco-
barbareschi e d’altre nazioni che sostavano impunemente appunto a Ponza, isola del tutto priva di
fortificazioni difensive, e di notte venivano a porsi in agguato nelle cale del Monte Circ(hi)ello
(‘promontorio del Circeo’) e da una simile predazione marittima si salvò fortunosamente un giorno
il famoso architetto militare Francesco de’ Marchi, il quale ricorda l’episodio nel vol. III della sua
opera maggiore (Cit.). Pertanto l’ordine militare di S. Lazzaro aveva compito istituzionale di tenere
quel mare quanto più possibile purgato da detta calamità, compito in cui era affiancato dalle galere
del regno di Napoli per antico obbligo assunto con lo Stato delle Chiesa dalla corona di Spagna,
ma anche dalle precedenti dinastie che regnarono su Napoli:

(Anno 1395:) Gasparro Cossa (poi ‘Coscia’) de Napole armò due galere e ne hebbe due altre e se
ne andaje al soldo de Papa Bonifacio, perché a quelli tempi li saraceni dannificavano assaje
maremme de Roma (An. Diaria neapolitana etc. In LT. A. Muratori, Rerum italicarum scriptores etc.
C. 1.065, t. 21. Milano, 1732.)
668

Purtroppo, nonostante questo impegno multinazionale, la costa laziale continuò a essere


travagliata dai corsari anche nel secolo successivo, anche da quelli francesi e catalani, i quali anzi
intensificheranno la loro presenza a partire dalla guerra per la successione di Mantova (1630-
1631) e dal contemporaneo instaurarsi d’una preponderanza francese in Piemonte.
La suddetta pena della marcatura a fuoco era stata nel Medioevo inflitta anche ai marinai dei
vascelli mercantili che, trovandosi la loro nave e le merci che essa trasportava in manifesto
pericolo, invece di adoprarsi a porle in salvo, l’avessero abbandonate fuggendosene a terra; infatti,
secondo l’art. XII d’un ordinamento della Lega Anseatica del 1418, se denunziato dal suo padrone
per questo delitto e riconosciuto a terra in una città della Lega o in una dove fosse riconosciuta la
giurisdizione d’una rappresentanza della Lega, doveva essere imprigionato per due mesi a pane e
acqua e, se recidivo, per tre mesi e in più gli si sarebbe praticata la marcatura a fuoco all’orecchio
perché fosse di monito agli altri marittimi. L’art. XI dell’ordinamento anseatico del 1447 ricalcava
sostanzialmente il precedente, però ne aggravava la pena perché non considerava quella prevista
per un primo reato (J. M. Pardessus. Cit.) Quale marchio dovesse poi essere impresso al reo i
predetti regolamenti del diritto marittimo anseatico non lo dicono, ma lo esplica invece chiaramente
un altro del 1591 all’art. XLIV:

Se un uomo di poppa od officiale (‘Boessman oder Officirer’) che ha ricevuto il terzo della sua paga
abbandona la nave, sarà marcato di un rampone sulle guance per servir d’esempio agli altri (ib.)

La suddetta pena di marcatura sarà poi pedissequamente confermata dall’ordinamento del 1614
all’art. XXV. a terra doveva essere recluso per tre mesi a pane e acqua e inoltre restituire a detto
suo comandante il danaro sino a quel momento ricevuto (ib.) Anche questa pena sarà ripresa con
un aggravamento dal regolamento del 1591 – art. XLI, secondo il quale infatti , se un marinaio o un
ufficiale procurava danno alla nave a seguito d’un suo allontanarsi non autorizzato, doveva
risarcirlo di tasca sua e, se non ne era in grado di farlo, doveva essere recluso a pane e acqua per
un anno e un giorno; se poi, a causa di questo suo comportamento, la nave periva o qualcuno di
bordo moriva, allora era condannato alla pena capitale (ib.)
La pena capitale era inflitta abbastanza frequentemente, specie ai rei d'avere, per rissa o contesa
con altri, messo mano alle armi contro qualche compagno o commilitone nei pressi dello stendardo
generale o anche semplicemente alla sua vista e d’aver fatto violenza o semplicemente insultato
un funzionario della regia corte; violenze e insulti ai compagni di bordo erano comunque puniti in
proporzione al grado della lesa subordinazione ed alla qualità dell’offeso.
669

Mateo Alemán conclude il suo Guzmán con la punizione d'un complotto di galeotti, i quali,
capeggiati da due di loro tra cui uno di nome Soto, progettavano d'impadronirsi della loro galera
spagnola:

... Condannarono Soto e un suo compagno, i quali erano stati i capi della ribellione, ad essere
squartati da quattro galere. Ne impiccarono cinque e molti altri trovati colpevoli furono lasciati al
remo per tutta la vita, essendo prima frustati pubblicamente al cospetto dell'armata posta in circolo.
Tagliarono le narici e le orecchie a molti mori, affinché fossero riconosciuti (come pregiudicati per
sedizione)... (Ib.)

Nel 1575 Serafino Razzi, un viaggiatore italiano che si trovava allora a Napoli, narra tra l'altro il
seguente episodio:

... E questa sera, prima che noi partissimo dal porto, fu impiccato e bruciato uno schiavo de 'la
Stella', galera spagnuola, per sodomia. Lo condussero in una gondola dei Battuti Confortatori
(confraternita religiosa) a mostra (di tutti) intorno alle galere che erano in porto, co' la tromba
sonante innanzi. E da poi, cavato fuora dal molo, sopra la marina, ove erano concorse inumerabili
altre barchette e gondole per vedere cotale giustizia, fu dal boia strozzato al palo (‘garrotato’) che
stava nel mezzo di certa barcaccia vecchia, in cui dalla gondola l'haveano trasportato, e da poi si
diede fuoco alla stipa e legna di cui era detta antica barcaccia piena e, salvandosi i ministri in altro
legno, abruciò detta barca arida in mezo all'acque marine col giustiziato. E mi fu narrato come
pochi dì prima erano stati abruciati due altri suoi compagni nell'istesso peccato. (In Viaggi in
Abruzzo. P. 141. L’aquila, 1968.)

Ed ecco un altro episodio, questo narrato dal diarista Domenico Confuorto:

... A 27 (giugno 1693), sabato, fu appiccato in galera ad una antenna un forzato chiamato
Bernardo Ferraro, che ivi stava condennato a vita da alcuni mesi sono per causa di delitto di
sodomia; e fu appiccato per avere ammazzato ter giorni sono dentro la medesima galera un suo
figliastro, da lui mandato a chiamare, per vendicarsi di esso e della madre sua moglie, che
l'aveano fatto l'impostura del delitto per cui era stato condennato in galera. Costui fu tanto ostinato
che, sapendo di certo non poter scampare, volle in ogni conto sfogarsi, dicendo, mentre percoteva
col coltello al figliastro: 'Tu ucciso e io impiccato'. Ed occorse che, essendo, come si suol fare in
galera, attaccato col chiappo (‘cappio’) al collo all'antenna che stava calata e i piedi ad uno di quei
banchi, in tirar con violenza (all'insù) la detta antenna, si divise la testa dal busto, in un momento
restando sospeso e decollato, sgorgando dal tronco busto un fiume di sangue che spruzzo li
'Bianchi' (altra confraternita religiosa) che stavano ivi per aiutarlo a ben morire. (Domenico
Confuorto, Giornali di Napoli (1679-1699). Vollt. due. Napoli, 1930. S.N.S.P. e B.N.Na. Sez. Nap.)

Dunque si legava il condannato per il collo all'antenna dell'albero e per i piedi a un banco dei
remiggi, poi i galeotti prendevano la gomena che sollevava l'antenna e la tiravano su bruscamente,
in modo che il giustiziando ne restava strozzato; ma stavolta avevano tirato con troppa forza e la
testa del disgraziato n’era rimasta completamente spiccata dal busto!
670

Ecco un’annotazione del diarista Antoine Bulifon, il quale era un francese stabilmente residente a
Napoli e, quando ne divenne re Filippo V, francese come lui, ebbe evidentemente tali appoggi da
prendere l’appalto degli Avvisi ufficiali del regno:

... Il cinque (agosto 1692) nella darsena furono condotti sopra uno 'schifo' di galera tre schiavi che
avevano tentato la fuga. Furono frustati e poi riposti nella galera. Li tagliarono una orecchia per
ciascheduno per segnale; castigo solito darsi per tale tentativo. (A. Bulifon. Cit.)

Ogni armata che comprendesse un buon numero di galere aveva un aguzzino reale o aguzzino
generale, il quale era un personaggio principale di grande autorità, poiché comandava gli aguzzini
reali o aguzzini maggiori delle singole squadre che l'armata componevano e ognuno di questi a
sua volta comandava tutti gli aguzzini minori della sua squadra. L'aguzzino generale portava un
bastone di comando (fr. baston ou bâton de justice; ol. roer-stok, provoost-stok) come simbolo del
suo grado, il quale corrispondeva grosso modo a quello del prevosto generale dell'esercito di terra,
vale a dire a lui era affidata l'incombenza della polizia militare e giudiziaria. Prendeva un grosso
stipendio (96 ducati napoletani annui sulla Capitana di Napoli nel 1594), il quale era poi di molto
aumentato da emolumenti e regalie che la sua posizione permetteva d'accettare (R. Mantelli. Cit.)
Nelle squadre o armate aragono-catalane del Basso Medioevo l’alguacil d’armata era stato
obbligato a provvedersi di armatura e armamento da balestriero, così come abbiamo già detto
dello scrivano reale o d’armata.
Nel comandare tutti i servizi di bordo il còmito d’ogni galera doveva sempre seguire l'esempio di
quello della galera Capitana, detto il Reale e, nella squadra pontificia il Pontificale, perché per
esempio, se questo alzava una certa vela, le altre galere dovevano alzarla anche loro; quando
faceva scala (oggi 'faceva scalo’), ossia metteva la scala a terra, la galera Capitana solo allora e
non prima i còmiti delle altre galere della squadra o dell'armata potevano loro volta metter la scala
a terra nei luoghi loro assegnati; e, se la galera Capitana ritirava la scala, allo stesso modo subito
dovevano farlo anche le altre, né potevano più per alcuna ragione rimetterla; non potevano, per
altri esempi, mandare a far acqua o legna, stendere la tenda, far vela se non l'aveva già fatto la
galera Capitana o se, nel caso di mettere lo schifo a mare, il capitano generale non aveva,
segnalando, a ciò autorizzato, come quando si doveva mandare il patrone o il còmito a bordo della
galera di comando perché vi andasse a ricevere ordini. Il còmito reale, detto a Venezia e in tutte
quelle repubbliche e stati che non avevano forma di reame generalmente còmito generale, a volte
sostituiva l’aguzzino reale nel mantenimento dell’ordine in una squadra o armata, come avvenne
nel porto albanese delle Gomenizze (‘Valona’) nell’armata della Lega che nel 1571 si era colà
raccolta nel suo viaggio che la porterà poi a combattere a Lepanto; infatti a bordo della galea
671

veneziana Il Cristo risuscitato, armata a Kania nell’isola di Creta e comandata dal nobile candiota
Andreas Calergi, nacque una rissa con morti e feriti tra i marinai e la guarnizione di fanti italiani
inviatavi da Giovanni d’Austria e comandata dal turbolento capitano Muzio Alticozi (o Curzio
Anticozio) da Cortona, facente parte del reggimento del colonnello Paolo Sforza; fu inviato a
sedarla dal generale Sebastiano Venerio appunto il suo ammiraglio, il quale si presentò
accompagnato da quattro compagni di stendardo, cioè, come abbiamo già detto, quattro aguzzini
di galee veneziane; l’Alticozi, persona faziosa e scandalosa a dire dello storico di Venezia
Giovanni Niccolò Dogliosi, resistette con le armi persino allo stesso Venerio, poi intervenuto, e
quindi, finalmente ferito d’archibugiata e preso, fu sommariamente impiccato dal generale
veneziano con alcuni dei suoi, provocando alla fine una così grave divergenza tra Giovanni
d’Austria e il Venerio che tra galere asburgiche e veneziane si giunse quasi a uno scontro che,
come racconta il Sereno, pare si evitò alla fine per un intervento di mediazione politica messo in
atto dal generale papalino Marc’Antonio Colonna.
Nelle armate cristiane, sempre multinazionali, le risse erano frequenti e a volte gli ufficiali generali
molto penavano a ricomporle, come tra il giugno e il luglio dello stesso 1571 aveva dovuto fare a
Napoli il predetto Marc’Antonio Colonna per mettere pace tra le genti italiane delle sue galere
toscano-pontificie e la fanteria spagnola di stanza in quella capitale; i soldati ecclesiastici infatti,
per vendicarsi d’oltraggi e ferimenti ricevuti dagli spagnoli, erano sbarcati ed si erano avvicinati in
atteggiamento minaccioso al palazzo reale del vicerè cardinale di Granvelle. Trasferitesi poi le
predette galere a Messina, dove arrivarono il 20 luglio e dove dovevano attendere le altre squadre
cristiane con le quali costituire la grande armata che poi combatterà a Lepanto, i soldati spagnoli
che presidiavano quella città vollero procurare ai loro commilitoni di Napoli quella soddisfazione
che secondo loro non avevano ricevuto dalla composizione della rissa predetta e quindi
nottetempo assalirono, ferirono e derubarono delle cappe e delle spade, onta militare questa per
chi la subiva, alcuni dei soldati delle dette galere i quali, per stare più comodi di quanto
permettessero l’angustissime galere, si erano tutti sparsi a dormire all’aperto nei dintorni del porto;
anche in questo caso il Colonna dovette intervenire e qui però poté essere molto più severo con i
fanti spagnoli, dal momento che, sebbene qualcuno di quelli fosse già stato castigato la mattina
dopo dagli stessi soldati italiani, fece, come narra il Sereno (cit.), catturare, impiccare o incatenare
al remo di galera alcuni dei colpevoli di quelle aggressioni, immaginiamo alienandosi certamente in
tal modo le simpatie dello spagnolo vicerè di Sicilia. Subito dopo Marc’Antonio sedò, con le sue già
dette evidenti capacità di tatto politico, un terzo tumulto e cioè l’ammutinamento di tre compagnie
di fanteria veneziana del colonnellato di Pompeo Giustizi da Città di Castello e con ciò veniamo a
sapere che sulle galere toscano-pontificie c’era di guarnizione, oltre ai predetti 1.600 fanti arruolati
672

negli stessi domini ecclesiastici, anche questo reggimento evidentemente inviato dalla Serenissima
in supporto e completamento dei preparativi militari dello Stato della Chiesa; le tre compagnie, due
delle quali erano comandate da certo cavalier Sorrentino e la terza dal capitano Ascanio da Civita
Vecchia, irritate dal non esser stata loro ancora mantenuta la promessa di ricevere a Messina il
pagamento a Messina di tre mesi di paga arretrata, si erano andate a rinchiudere in una chiesa
con tutte le loro bandiere, minacciando d’abbandonare la spedizione. Presto anche a Genova la
formazione di questa poi tanto benemerita armata provocherà dei tumulti, per fortuna molto meno
gravi, e cioè tra la popolazione della città e i soldati spagnoli imbarcati sulle galere di Spagna che
colà sostavano nel loro viaggio verso Messina.
A Napoli nel giugno di quello stesso 1571 c’era poi stato un altro episodio difficile che aveva
coinvolto gente di galera straniera. Era accaduto che, trovandosi in sosta a Napoli tre galere di
Malta con il loro generale, allora il veneziano Giustiniani priore di Messina, i cavalieri gerosolimitani
su quelle imbarcati, evidentemente soggetti particolarmente turbolenti, s’erano dapprima quasi
ammutinati contro il predetto generale perché avevano saputo che a Venezia un loro confratello,
macchiatosi di gravi delitti, era stato impiccato con la croce dell’ordine ancora sul petto; poi, poiché
alcuni birri napoletani avevano arrestato un fuoruscito del regno non appena questi, imbarcato su
una di quelle galere, era sceso a terra, gridando l’arrestato ‘Malta! Malta! per chiedere aiuto, i
cavalieri lo avevano prontamente liberato, ma nel far questo avevano ucciso uno dei birri, feritine
altri e provocato così un grave incidente diplomatico. Il cardinale di Granvelle, infuriato, fece
puntare contro le tre galere le artiglierie dei castelli e minacciò di farle colare a picco, se non gli
avessero immediatamente consegnato sia il fuoruscito sia l’uccisore del birro, il primo dei quali
s’era comunque subito reso irreperibile; l’incidente fu composto però nei giorni successivi, anche
perché il fuggitivo, il quale nel frattempo aveva commesso un omicidio, era stato catturato. Infine,
sempre a Napoli, ma ora verso la fine d’agosto di quel fatidico 1571, ci fu un sanguinoso scontro
tra popolani e soldati spagnoli destinati all’imbarco per Messina; ecco l’episodio, purtroppo nel
solito volgare italiano modernizzato del Nicolini:

Una baruffa tra alcuni ‘bisogni’ spagnoli e popolani napoletani per poco non ha suscitata una
sollevazione, giacché altri soldati spagnoli, sopraggiunti sul luogo della rissa, vedendo uccisi uno o
due dei loro compagni, hanno tirato colpi all’impazzata, senza aver riguardo né a sesso né ad età;
ragion per cui molti cittadini sono corsi alle armi per massacrare gli spagnuoli, che frattanto s’erano
ritirati in isquadra presso Castel Nuovo. Non poco hanno dovuto faticare baroni e ministri regi per
placare gli animi inferociti; il cardinal di Granvella ha fatto imbarcare subito gli spagnoli… (Cit.)

Ogni squadra aveva poi un capo-bombardiero, dal quale dipendevano tutti i bombardieri delle
singole galere della squadra e che era imbarcato sulla galera Capitana e percepiva un salario
personalizzato, ossia a seconda della sua sufficienza, ma in ogni caso ovviamente superiore a
673

quello d’un bombardiero semplice; chiamato capitano dell’artiglieria, quello della Capitana di Napoli
percepiva nel 1594 ducati napoletani 96 l’anno (R. Mantelli. Cit.) C'era ancora in ogni squadra un
armarolo, il quale aveva il compito di riparare le armi che con l'uso si fossero guastate e, quando
non si era in navigazione, bensì in porto a svernare, era invece suo incarico quello di tenere le
armi di tutti ben pulite e conservate nell'armeria della squadra. In navigazione il suo luogo era alla
prua della galera Capitana; nel periodo in esame prendeva nella squadra pontificia 6 scudi pontifici
il mese e due razioni di viveri il giorno. si usava pure tenere imbarcato in ogni squadra un
macellaro, il quale non doveva essere però uno qualsiasi, perché doveva non solo macellare la
carne, ma anche saper riconoscere i buoni animali da carne e teoricamente anche sapere in quali
paesi rivieraschi se ne potessero trovare. Costui alloggiava su un qualsiasi vascello, ma
ovviamente le bestie da macello erano distribuite tra tutti i vascelli per motivi di spazio e - nelle
galere - erano tenute a prua sotto le rembate, cioè proprio dietro le artiglierie.
In ogni squadra c'erano inoltre un medico fisico [dal gr. ὀ φῠσῐϰός, ‘il (medico) naturale’] e uno
speziale, i quali alloggiavano generalmente sul vascello di comando, ma durante il combattimento
il loro posto era sotto coperta, dove assistevano e medicavano i feriti, e naturalmente in tale
occasione gli altri vascelli della squadra non potevano immediatamente servirsi della loro opera e
dovevano accontentarsi dei loro barbieri, dei quali abbiamo già detto. Questo medico, il quale nel
1594 prendeva sulla Capitana di Napoli ben 240 ducati napoletani annui, stipendio quindi doppio di
quello d’un capitano di galera, doveva esercitare particolare controllo sulla spezieria dell'armata, a
evitare che lo speziale vi conservasse medicinali guasti o che li adulterasse con acqua o altro per
mancanza degli opportuni ingredienti (R. Mantelli. Cit.) Oltre allo stipendio, il medico prendeva di
solito compensi dai suoi pazienti, perché in effetti il suo soldo, anche se molto consistente, era
considerato dovuto solo per il suo stare a disposizione dell’armata e non anche per le singole
prestazioni; ciò valeva anche per i medici militari di terra.
Erano considerati medicinali quei cibi e quegli alimenti che, come abbiamo già accennato, per loro
costo o rarità esulavano dalla semplice dieta ordinaria di bordo, come per esempio le uova, la
carne di pollo – o anche di quaglia e allodola, volatili allora molto comuni e poco dispendiosi - e
soprattutto lo zucchero, sostanza che si conservava a bordo in casse ed era riservato unicamente
ai malati e ai feriti. Allo zucchero la medicina del tempo attribuiva importanti qualità terapeutiche e
si arrivava a pensare che il miele fosse un suo povero surrogato, un surrogato con il quale lo
speziale, usandolo invece dello zucchero, alterasse fraudolentemente pozioni e sciroppi! Bisogna
considerare che questa era ancora un’epoca in cui la medicina raramente arrivava a comprendere
le vere cause anche dei più semplici effetti patologici; era un tempo in cui per esempio, mentre per
opinion comune si era convinti, come abbiamo già detto, che bisognasse bere solo vino perché
674

l'acqua raffreddava lo stomaco, d'altra parte si ammetteva che il vino potesse essere a volte
dannoso, ma in maniera malintesa, come si legge nella relazione sulla Savoia presentata dal
residente veneziano Andrea Boldù nel 1561 a proposito della buona salute del duca Emmanuel
Filiberto:

... se non che patisce di catarro per li vini di Spagna che beve ordinariamente, che sono gravissimi
e forti assai... (E. Albéri. Cit. S. II, v. I, p. 421.)

I vini greci (cioè ‘rossi’) di Spagna, appunto molto densi e forti, erano tra i più apprezzati in Europa.
La gente di mare, oltre che di malattie epidemiche, parassitiche, veneree e meteorologiche
generali a quel tempo, quali il tifo petecchiale, il vaiolo, la tigna, la scabbia, la sifilide e le bronco-
pleuro-polmoniti, definite allora per lo più idropisia polmonare, era allora generalmente vittima
preferenziale di malattie da carenze alimentari, quali lo scorbuto (fr. anche mal de terre; ol. scheur-
buik), il quale talvolta portava a morte interi equipaggi, la diarrea, detta allora anche flusso e la
dissenteria, chiamata pure flusso di sangue, e la stitichezza; molto comuni erano anche le
invalidità da incidenti sul lavoro, quali le ernie inguinali e i cattivi esiti di fratture ossee; si moriva poi
comunemente di difterite edematosa, di dolori di fianco, ossia di appendicite, dei disturbi tipici
dell’anzianità, soprattutto della goccia, cioè d’infarto o ictus, della pietra, ossia di calcoli renali, e
della ritenzione d’urina, vale a dire d’iperplasia prostatica. Lo scorbuto incominciava a manifestarsi
con un gonfiore delle gengive, le quali in seguito si ulceravano, con alito pestilenziale e poi con la
comparsa di pustole su tutto il corpo accompagnate da un languore sempre più simile alla morte,
la quale infine sopraggiungeva; la gente di mare sapeva che l’unico modo per guarire da questa
malattia era il prendere terra (fr. anche terrir) e mangiare frutta e verdura fresca, specie limoni e
arance, ma credeva anche che ci si potesse salvare stropicciandosi addosso sangue di testuggine
marina. Da tale malattia carestosa furono severamente colpiti nel febbraio del 1660 gli equipaggi
dell’armata olandese del de Ruyter, mentre svernavano a Copenhagen, e ne morirono in breve
tempo ben 500 uomini, ammalandosene tra gli altri lo stesso famoso ammiraglio, il quale, fatta di
ciò dolorosa esperienza, in seguito non si fece più trovare impreparato e, per esempio, nell’ottobre
del 1664, prima che la sua squadra lasciasse il porto di Cadice, dove aveva soggiornato per
qualche tempo, vi fece acquistare migliaia di limone e ne fece distribuire 25 a testa a ogni membro
degli equipaggi.
La dissenteria, a causa delle acque infettate da feci animali che talvolta i soldati bevevano e dai
cibi avariati che spesso mangiavano, era una malattia comunissima e spesso mortale negli eserciti
e sulle armate del tempo; essa per esempio, nella sua virulenta e allora incurabile forma maltese,
decimò l’esercito turco che nel 1565 assediava quell’isola. Nel gennaio del 1628 l’equipaggio del
675

Digby fu colpito da una prima malattia epidemica, i cui sintomi il corsaro così descriveva nel suo
diario:

… Il 3 (febbraio) il vento continuò come il giorno precedente e di ora in ora i miei uomini
peggioravano per la malattia contagiosa che li colpiva alla testa, allo stomaco e alle reni con dolori
fortissimi, rendeva infetta tutta la massa del sangue e provocava un terribile vomito; eppure non
morivano subito, ma languivano tra gli spasimi più atroci e un’estrema debolezza. Il 4 avemmo
bonaccia e il numero dei malati raggiunse la sessantina e tutti gli altri erano così accasciati che
non avevo braccia per combattere e a stento per manovrare le vele… (K. Digby. Cit.)

Decise pertanto il Digby d’andare a far sosta ad Algeri per farvi sbarcare e curare i suoi malati; più
tardi un’altra virulenta epidemia scoppierà però a bordo del suo vascello, malattia che, dalla
descrizione che egli ci ha lasciato, deponeva per un’infezione cerebrale:

… Avvenne che in brevissimo tempo quasi tutti ne furono contagiati, a causa del gran numero
d’uomini chiusi in un piccolo spazio. Sebbene ognuno tentasse di evitare i malati, tanto che costoro
morivano in grande abbondanza senza alcun aiuto, pure l’infezione era così radicata nel vascello
che non potevano sfuggirne… Così accadeva spesso che i corpi giacessero per molti giorni nelle
cabine o nell’amache, poiché nessuno osava andarli ad esaminare e tanto meno a gettare i fetidi
cadaveri fuori di bordo, sinché l’insopportabile puzzo non li facesse scoprire… Quello che però
soprattutto moveva a compassione era la follia furiosa della maggior parte di coloro che erano
prossimi alla fine, perché la malattia toccava loro il cervello ed, essendo essi in gran numero, non
c’erano abbastanza uomini che potessero trattenerli dal gettarsi in mare o dallo strisciar fuori dai
boccaporti; tale era il bruciore provocato dalla malattia che essi desideravano ogni refrigerio e la
fantasia sconvolta faceva loro credere che il mare fosse una vasta e piacevole prateria… (Ib.)

Del predetto contagio era stata un secolo e mezzo prima pure vittima la galea veneziana di
Augustino Contarino che portava Santo Brasca in pellegrinaggio in Terrasanta, il che avvenne
durante la sosta che quel vascello fece a Cipro, isola allora notoria per il suo mal aere:

… Tornati a galea trovai molti de li peregrini morti e questo per lo pessimo aere che, como ho
dicto, regna in quela insula e lo resto de li peregrini tuti quanti amalati e la magior parte de febre
frenetica, che seria bastato se fossero stati atosichati. De quali amalati uno ci fu nomine
Sigismondo, cavaliere alamano, el quale, facto insensato per la furia del male, si dete tre ferite
mortale d’uno coltello con le proprie mane e morit(t)e; un altro, nomine misere Philippo, pur
cavaliere alamano, vuolse far el medesimo, ma fogli legato le mane, e morit(t)e così ligato e
amendui fuorno gittati in mare con l’officio solemne como si farebbe in terra; un altro, officiale di la
galea, se volse gettare in mare, ma fu retenuto; io anchora non foi più exempto de li altri, che,
avante uscisse de quela insula, me acolse una febre continua e terribilissima, la quale me duroe
sei giorni con tanta asperità quanto dire se possa… (A. LT. Momigliano Lepschy. Cit.)

Di semplice diarrea s’ammalavano poi facilmente quei soldati che, occupati orti e frutteti del
nemico, s’abbandonavano a insolite scorpacciate di frutta spesso anche alquanto acerba; a simili
innocenti abusi addirittura talvolta taluni attribuivano la causa dello scoppio di terribili pestilenze
676

sull’armate marittime, come successe nel caso di quella che desolò nel 1570 l’armata veneziana
(Tucci. Cit.). Quanto alla sifilide, essa si diffuse in Europa negli ultimi anni del Quattrocento e in
Italia se ne prese consapevolezza nel 1494, in coincidenza cioè con la discesa di Carlo VIII in
Italia, per cui gli italiani lo credettero un male portato dai francesi e questi un male contratto in
Italia, specie a Napoli; ma in verità in tempi precedenti anche del vaiolo si era voluta la capitale
partenopea primo focolaio europeo ed era infatti opinione consolidata che questa malattia vi fosse
stata portata dalle Indie Orientali e da lì poi propagatasi universalmente; acquisì così Napoli,
specie a opera dei francesi, una sfortunatissima qualifica di luogo pericolosamente infettante, la
quale contribuirà senza dubbio moltissimo all’affermarsi di quella pessima fama che il popolo
napoletano si stava purtroppo guadagnando in Europa a causa delle devastazioni compiute dalle
sue decine di migliaia di reclute marcianti nel continente al seguito delle bandiere spagnole. Ecco
quanto scrisse della sifilide il Sanudo nei suoi Diarii a proposito degli avvenimenti del 1496 nel
regno di Napoli:

… Nota che, per influssi celesti, da anni 2 in qua, cioè dapoi la venuta de’ francesi in Italia, si ha
scoperto una nova egritudine in li corpi umani dicto ‘mal franzoso’, lo qual mal ‘sì in Italia come in
Grecia, Spagna e quasi per tutto il mondo è dilatado [om.] El qual mal, ‘licet’ molti dicono sia
venuto da’ francesi, tamen lhoro ‘etiam’ l’hanno da anni 2 in qua avuto e lo chiamano ‘mal
italiano’… (M. Sanudo. Cit. T. I, col. 233-234.)

Nei porti dove ordinariamente svernavano le squadre di galere poteva esserci il cosiddetto bagno,
ossia il luogo dove si tenevano recluse le ciurme invece di tenerle a vivere sulla coperta delle
galere anche d’inverno, uso quest’ultimo che era per altro molto più diffuso e tradizionale, e nel
bagno anche si curavano e si lavavano i galeotti infermi, da cui appunto questo nome di bagno e
poi – molto più tardi – anche quello di bagno penale. Il nome fu comunque usato dapprima dai
turchi, come si legge nel Quijote, laddove il Cervantes Saavedra fa narrare la sua propria
esperienza di prigioniero a un capitano di fanteria che era stato schiavo di Hasán Bassà, quando
questi era reggente d’Algeri:

…Così trascorrevo la vita, chiuso in una prigione o casa che i turchi chiamano ‘bagno’, dove
rinchiudono gli schiavi cristiani, tanto quelli di proprietà del re quanto quelli di alcuni privati, e poi
quelli che chiamano ‘dell’arsenale’, che è come dire ‘schiavi del Comune’, i quali servono la città
nelle opere pubbliche che questa fa e in altri lavori, e a questi ultimi schiavi riesce molto difficoltoso
il riottenere la libertà, perché, poiché sono della comunità e non hanno un padrone particolare, non
c’è con chi trattare il loro riscatto, quantunque ne dispongano. A questi bagni, come ho detto, son
soliti portare i loro schiavi alcuni privati del popolo, principalmente quando sono da riscatto, perché
colà li tengono riposati e sicuri finché non arrivi il loro riscatto. Anche gli schiavi del re che sono da
riscatto non escono a lavorare con il resto della ciurma, se non quando il loro riscatto tarda; che
allora, per far ‘sì che scrivano per quello con più ardore, li fanno lavorare e andare a far legna con
gli altri, il che è lavoro tutt’altro che agevole.
677

Io dunque ero uno di quelli da riscatto, perché, come si seppe che ero capitano, nonostante
dichiarassi le mie poche possibilità e mancanza di patrimonio, non ne ricavai nulla perché non mi
mettessero nel numero dei cavalieri e della gente da riscatto. Mi misero una catena, più per segno
che ero da riscatto che per sicurezza, e così passavo la vita in quel bagno con molti altri cavalieri e
gente di qualità segnata e tenuta da riscatto… (M. Cervantes Saavedra. Cit.)

Ben sapevano i barbareschi che un cristiano di buona condizione sociale, anche se non aveva del
suo, poteva facilmente avere parenti benestanti che, commossi dalla sua prigionia, fossero alla
fine convinti a pagarne il riscatto; pertanto cercavano, con le buone o con le cattive, di far
confessare a tutti i loro schiavi d’essere persone benestanti, se non addirittura parenti di noti
personaggi o delle personalità essi stessi, e ciò anche molto spesso nel caso di poveri pellegrini,
solo perché erano magari stati catturati discretamente calzati o vestiti d’una mediocre casacca o
d’un mantello nero. All’inizio dunque, per ottenere tale confessione, li blandivano e davano loro da
mangiare qualcosa di buono, cioè del pane bianco, olive, cafaz (‘brodo vegetale’), cuscus (‘vivanda
a base di carne’), cheurba (‘brodo di carne piccante’), pilau (‘minestra di riso’);
contemporaneamente però, fossero o non fossero ancora risultati tali, l’incatenavano e
l’inceppavano per far in ogni caso credere agli altri che possedevano schiavi cristiani che, essendo
cavalieri o prelati importanti, valevano appunto un grosso riscatto; cominciavano poi presto a
nutrirli, com’era loro avarissimo uso, solo con due pani di crusca al giorno e a trattarli sempre
peggio, in modo da portarli alla disperazione e indurli a scrivere a loro eventuali parenti benestanti
per chiedere il danaro per il loro sempre esosissimo riscatto; infine, non ottenendo il risultato
sperato e stanchi di perdere inutilmente anche solo i due predetti pani giornalieri, avendo
comunque ottenuta per i loro schiavi la fama di personaggi da riscatto, l’inviavano magari in dono a
qualche pasha a Costantinopoli ad a qualche signore di province lontane a cui dovevano qualcosa,
allegando d’inviare loro un parente di principe o d’un importante prelato o comunque uno schiavo
che valesse un grosso riscatto. Così si comportò, racconta il de Haedo, Hassan il Veneziano
reggente d’Algeri, il quale il 21 luglio del 1578 inviò a Costantinopoli al suo signore Uluch-Alì, allora
capitano generale del mare dell’impero ottomano, tre poveri soldati cristiani, un greco, uno
spagnolo e un italiano, catturati il 15 aprile precedente sulle due galere di Sicilia di cui poi diremo;
ma il rinnegato calabrese era certo molto più furbo di quello veneziano e rinviò indietro i tre schiavi
con due galeotte che giunsero ad Algeri il 1° novembre successivo, latrici anche d’una lettera per
Hassan con cui Uluch-Alì lo metteva in notevole imbarazzo perché gli ordinava di trattare lui stesso
il riscatto di tali ‘importanti’ personaggi e d’inviargliene il ricavo; e furono costoro già tanto più
fortunati d’altri, i quali invece, non sperandosi in un loro sostanzioso riscatto, da Costantinopoli
erano inviati in quella località sul Mar Nero già più sopra ricordata, detta Le Sette Torri, e là relegati
vivevano il resto dei loro disgraziati giorni, incatenati, affamati, tra la sporcizia e i pidocchi,
678

dimenticati da tutti; ma, se poi l’esoso riscatto non arrivava, allora anche ad Algeri il disgraziato
schiavo cristiano sarebbe finito in malo modo:

… alla fine di lunghi e dolorosi anni di fatica e di prigionia, durante i quali egli è stato vittima di
molte crudeltà, la salute del prigioniero è rovinata, le sue carni si sono strutte, le sue ossa si sono
sfarinate, i suoi denti sono caduti, le sue gambe sono state putrefatte dai ferri, infine egli non è più
buono a nulla… (D. de Haedo. Cit.)

A questo punto lo schiavo, non essendo più in grado di sopportare i pesanti lavori forzati di terra e
non valendo più nemmeno quel po’ di cattivo pane con cui lo si sostentava o finiva ucciso a
bastonate in qualche eccesso d’ira od era mandato a terminare i suoi pochi residui giorni al remo
di qualche galeotta corsara.
In mancanza del bagno si usava tenere ferme in darsena una o due galere fisse, vecchie e
malandate, chiamate volgarmente pulmonare, le quali servivano da navi-ospedale per tenervi e
curarvi i galeotti infermi:

… (La pulmonara) si chiama così perché è già dimessa e poco atta alla navigazione, come si
chiamano ‘pulmoni’ gl’huomini poco industriosi e non disposti alla fatica. (P. Pantera, Vocabolario
nautico. In cit.)

In realtà, allora come oggi, ci si poteva ravvisare un significato più maligno e cioè intendendosi per
tale una galera per pulmoni, ossia per individui scansafatiche che si davano malati per non
lavorare. Queste pulmonare dovevano esser però vascelli ben calafatati e impermeabili all’acqua
(gr. στεγανά πλοῖα, στερεά πλοῖα) e all’intemperie per la salvaguardia degl’infermi e dovevano
essere servite da persone che non solo curassero i galeotti, ma anche ne impedissero la fuga;
quella della squadra di Toscana era tenuta ormeggiata nell’Arno. Sulla necessità di questi bagni e
pulmonare insisteva il Pantera:

… Questo dico sapendo per esperienza che molti galeotti ammalati muoiono per disagio, perché,
dove non è bagno né alcuna galea pulmonara, è necessario che si fermino nella galea dove
servono, nella quale patiscono assai per non haver luoco da potersi riposare fuorché al banco o
posta ordinaria del lor remigio dove sono incatenati, il quale, per esser angusto e per i continui
tumulti e strepiti e servizij della galea e per la poca pietà che ordinariamente si trova ne i
compagni, corrono un perpetuo pericolo di morire, onde resulta molto danno alla galea per la
perdita che si fa de gl’huomini da remo e in particolare di quelli che sono già esercitati e assuefatti
e prattici ne gl’altri servizij della galea. (Cit P. 111.)

Il viceré di Napoli Pedro Antonio d’Aragona (1666-1671), nell’ambito dei grandiosi lavori
d’ampliamento della darsena napoletana da lui voluti e compiuti, abolì la vecchia e sdrucita
pulmonara che si trovava al molo di Napoli e nella quale forzati e schiavi malati molto pativano e la
sostituì con un vero e proprio ospedale sito addirittura nel palazzo reale, ristrutturando a tal scopo
679

locali che si trovavano dalla parte del mare sotto il corridoio panoramico detto pallonetto
(‘belvedere’).
Gli stipendi e le razioni di cui godevano i predetti ufficiali generali e di piana maggiore d’armata o di
squadra variavano abbastanza perché dipendevano dalla volontà di quel particolare sovrano o di
quel particolare capitano generale ed per esempio il capitano generale della squadra di Napoli
prendeva nel 1594 - e ciò già da molto tempo - ducati napoletani 5.760 annui e il Reale 144; c’era
però qualche uso abbastanza comune, come per esempio le quattro razioni del predetto medico e
del còmito reale e d’altra parte si doveva per forza di cose adottare nelle squadre di galere
cristiane una certa uniformità di retribuzioni perché tutte, Francia esclusa, partecipavano insieme
alle stesse leghe anti-maomettane e la marinaresca avrebbe certamente disertato alcune d’esse
per cercar impiego solo in quelle che avessero offerto emolumenti più generosi; infatti già
accadeva che la gente di galera mercenaria greca, per guadagnare molto di più, preferisse
impiegarsi sulle galere turche invece che su quelle cristiane. Altri soldi, oltre a quelli già detti, erano
poi sulla Capitana maggiori che sulle altre galere della squadra e per esempio il barbiero di quella
di Napoli percepiva nel 1594 ducati napoletani 48, il padrone 144, il sotto-còmito 60, ecc. (R.
Mantelli. Cit.)
Per concludere questo vasto argomento delle genti di galera, diremo che nei suoi Ricordi, scritti
verso la metà del Cinquecento, l’ufficiale generale anconitano Francesco Ferretti Senior, uomo di
vastissima esperienza militare che combattè le sue ultime guerre al servizio dello Stato della
Chiesa, così comparava il valore delle genti di mare, finendo col dare la sua preferenza ai liguri.

… Se, ricercandomi delle genti di mare della Europa, me dimandarete di veneziani, vi risponderò
essere perfetti, valenti marinari ‘si in navi come in galeazze grosse e galee sottili; anzi vi voglio dire
che, di tutti gli navili che vanno in su'l mare salato, gli veneziani sono quelli che manco pericolano
e questo per essere gli loro legni buoni, saviamente governati e ben provisti di armamenti come
sarte, gómmone, ancora, vele ed altre simil cose, e massimamente quelli che sono armati dalla
Signoria .
Se dimandarete di catelani, vi dirò che sono bonissimi e valenti marinari ‘sì in nave come in galee
sottili e massimamente nelle sforzate, nelli quali sono stati grandi huomini, come fu Bonetto e
Villamarino il vecchio, il qual già passò in Leuante con venti galee sforzate tutte sue.
Se mi dimandarete di biscaini, vi dirò che in su le loro barche sono buoni marinari e ben difendono
la loro robba; portughesi parimente in su le loro caravelle sono valenti marinari e ben difendono il
suo.
Se mi dimandarete di genovesi, vi risponderò che secondo il mio giudizio sono li primi huomini che
solchino l'acque salſe. Il genovese benissimo intende la marinaria, è savio, accorto e avveduto
marinaro, è huomo robusto, forte, gagliardo, sobrio, parco ‘sì come quello che par nato alle
fatiche, ai travagli, alli disagi, alli pericoli del mare. Il genovese ben difende il suo, conduce ben
qualsivoglia naviglio, o che sia carracca o nave grossa, barcia, galeone, galeazza, galea sottile, di
buona voglia, o sforzata, o fusta, o bergantino o palischermo o leuto ed insomma il genovese
governa bene qual si voglia legno; di sorte che io desiderarei assai che gli navigli fossero
patroneggiati, governati, e condutti da genovesi, intendendo però genovesi non solamente quei
680

che sono nel corpo della città di Genova, ma delle riviere di Levante e di Ponente verso Savona,
Finale, Sanremo insino alla Provenza.
Se mi dimandarete delle ciurme delle galee, vi dirò ch'io laudo le schiavone e quelle delle riviere .
Se mi dimandarete delli scappoli o assappi di galea, laudo il greco, per essere marinaro e molto
espedito con sua spada e targa in montare, e saltare in sui navigli che si combattono. (Francesco
Ferretti Senior, Diporti notturni. Dialloghi familliari ecc. Ancona, 1580 - Dialoghi notturni del
capitano Francesco Ferretti, dove si ragiona di ordinanze etc. Ancona, 1604 – Ricordi overo
ammaestramenti etc. Pp. 211 verso – 212 recto. Venezia, 1613).
681

Capitolo XI.

SQUADRE DEL MAR TIRRENO.

Le squadre e armate di galere adriatiche e ioniche, cioè le veneziane e le turche, erano costituite
da numeri di vascelli molto variabili perché derivanti dalle necessità del momento e cioè in genere
le prime si adattavano anno per anno alla minaccia portata dalle seconde; per esempio nella
primavera del 1488, tempo in cui la Serenissima era in pace con Costantinopoli, l’armata
veneziana era composta di 30 galee sottili, 15 navi grosse da trasporto e 30 grippi corfioti, essendo
questi ultimi i piccoli velieri di origine peschereccia di cui abbiamo detto e ai quali si affidavano i
compiti che nel Tirreno avevano invece i piccoli vascelli remieri detti fragate, fragatine, fragatoni o
bergantini, a seconda della loro grandezza (D. Malipiero, cit. Parte prima, p. 138), anche se questi
non erano di origine squisitamente peschereccia come invece erano quelli. In effetti in quei tempi
di pace per eventuali impreviste esigenze belliche Venezia usava avere sempre in armi una
quarantina di galee e alcune navi da trasporto (ib. P. 144). Gli stuoli o squadre di galere degli stati
marittimi tirrenici erano invece generalmente costituite da numeri fissi istituiti e quimdi variabili solo
a distanza di lunghi periodi storici. Mentre il termine stuolo era usato a similitudine di quello degli
uccelli in volo, quello di squadra era dovuto all’esser l'usuale formazione di navigazione delle
galere appunto generalmente mantenuta nella forma di una squadra geometrica, con l'angolo retto
in avanti e occupato dalla galera di comando e i due regoli laterali formati dalle altre galere (…
Navigò don Giovanni per Messina a squadra…); infatti la galera di comando doveva in
navigazione sempre precedere tutte le altre, tranne ovviamente quelle che fossero state mandate
dal generale in avanscoperta, e ciò serviva a un duplice scopo; quello di essere un continuo punto
di riferimento da tutte le altre, in maniera da evitare che qualcuna non ne ricevesse gli ordini o si
disperdesse, e quello di costituire un continuo esempio di presenza e di coraggio per tutti gli
uomini della squadra. Questo tipo di formazione, il più usato, si era detto nel Medioevo ‘a scala’ o
anche ‘a cuneo’, in quanto la sua forma ricordava appunto anche quella di una scala triangolare
(… E com fo davant Napols, ell ordona de metres en cuns de batalla, escala feyta de les galees…
Muntaner, all’anno 1284); spesso si legavano le galere lateralmente l’una all’altra perché quelle del
nemico non potessero inframettersi tra di loro facilmente così subito scompaginandole (… E
l’almirall… feu afranellar una galea ab altra, es mes en cuns de batalla; e lo princep feu altre tal…
Ib.); a volte si legavano così alla foce d’un fiume perché quelle del nemico non potessero entrarvi o
uscirne e, per maggior sicurezza, oltre a legarle, tra l’una e l’altra si poneva anche un battello con
682

uomini armati, magari anche affondando alla foce del corso d’acqua dei vascelli che ne
impedissero appunto l’accesso o l’uscita più sicuramente.
In ogni squadra c’erano un paio di galere, molto ben armate ed equipaggiate, incaricate della
guardia ((gr. προφυλαϰίδες τριήρεις) da esercitarsi attorno alla squadra stessa o all’armata quando
questa era ferma in un porto che non fosse quello di base o comunque se ne stesse alla fonda in
acque costiere; in navigazione dovevano seguire dappresso la galera Capitana, pronte a
difenderla e a prenderne gli ordini; il loro ruolo non era quindi da confondersi con quello delle
fregate di avvistamento ed esplorazione di cui poi diremo e delle quali alcune pure dovevano
trattenersi in combattimento alla poppa della Capitana per fare da porta-ordini ai vari corpi
dell’armata.
Nelle squadre di Spagna e di Francia - e di tutti reami indipendenti in genere - la galera Capitana
aveva titolo di Reale, perché il re poteva talvolta decidere di partecipare in persona all’impresa di
guerra, così divenendone automaticamente lui stesso il comandante supremo, ossia il capitano
generale, e Padrona reale era chiamata la seconda galera della squadra.
Nel suo già citato Discorso del 1623 il Frezza ci informa che a quel tempo il numero di galere di cui
disponevano le squadre ponentine era il seguente:

Regno di Napoli : 30.


Spagna: 25.
Regno di Sicilia: 15.
Repubblica di Genova: 8 pubbliche o ausiliarie (‘alleate’) e 14 mercenarie capitanate dal duca di
Tursi.
Granducato di Toscana: 6.
Stato Ecclesiastico: 5.
Malta: 5.

Non bisogna meravigliarsi della suddetta qualifica di mercenarie data alle galere del Tursi, in
quanto lo erano effettivamente, avendo i genovesi sempre tradizionalmente offerto intere squadre
di galere per mercede, specie alla Francia, e ciò risulta già dal 1224; a tal proposito pochi sanno
che squadre di galere genovesi al soldo francese devastarono più volte coste, porti, città costiere e
mari dell’Inghilterra e dei fiamminghi da allora sino a tutta la guerra dei Cent’anni nel Quattrocento,
come avvenne nel 1346, quando i guelfi Grimaldi, oppressi dai genovesi ghibellini, si posero al
soldo francese contro gli inglesi e, raccolte a Marsiglia 34 galere, si posero con quelle in
navigazione verso il canale della Manica; nessuno dei loro vascelli tornò però più a rivedere i mari
del Genuense, ossia della Liguria. Talvolta, anche se raramente, in genere quando l’Inghilterra era
in pace con la Francia, squadre genovesi furono invece al servizio inglese, come per esempio nel
1337 e nel 1372, e gli stessi albionici ebbero talvolta ammiragli dal cognome genovese; molto più
683

spesso poi al soldo degli inglesi, imbarcati sulle loro navi da guerra, anche se queste erano
generalmente zeppe d’efficacissimi arcieri, o incorporati nelle loro guarnigioni in Francia, furono i
famosi e richiestissimi balestrieri genovesi.
Per tornare al Frezza, dobbiamo chiarire che egli non annovera tra le suddette anche la squadra
della Francia perché all'occorrenza quella nazione, scandalosamente sempre alleata del Gran
Turco per una machiavellica real Politik, non sarebbe scesa in campo contro l'armata ottomana.
Tutte le predette galere, anche se messe insieme, non avrebbero nemmeno raggiunto il numero di
quelle che poteva mettere in mare la sola Venezia e non erano quindi molte; ciò non ostante esse
avrebbero potuto portare in battaglia marittima sino a 24mila fanti, il che era a quel tempo ancora
la consistenza d'un intero esercito di terra. In passato però tal numero era stato talvolta maggiore,
perché per esempio la squadra di Sicilia aveva raggiunto le 22 galere e alla fine degli anni Settanta
del secolo precedente Napoli n’aveva avuto 40, anzi nel 1574 arrivò ad armarne 50.
Secondo il residente veneziano Girolamo Lippomano (1575) il regno di Napoli, risparmiando in altri
settori meno utili alla sua difesa, avrebbe potuto al suo tempo tener armate anche 100 galere e,
operando allo stesso modo, la Sicilia 15, la Spagna 60 e Sardegna, Maiorca e Minorca 12 fra tutte.
In tal maniera, unendo a queste le galere dell'allora principe d'Oria, le quali erano 27, e quelle dei
potentati alleati della Spagna, e cioè di Savoia, Toscana, Genova e Roma per un totale di 25 (ma
dimentica quelle di Malta), e aggiungendo infine quelle molto numerose di Venezia, si sarebbero
agevolmente superati i 300 vascelli da guerra, numero con cui si sarebbe ben contrappesata e
anche superata la potenza marittima che i turchi, nonostante Lepanto, ancora avevano e ciò con
gran beneficio e sicurezza di tutti i mari e di tutte le marine cristiane del Mediterraneo. Venezia era
interessatissima a questo discorso perché gran parte della sua autorevolezza presso la Gran Porta
era proprio fondata sulla paura che - specie ora dopo Lepanto - i turchi avevano d’assalire i
possedimenti della Serenissima, essendone distolti appunto dal pensiero che si sarebbero poi
potuti trovare di fronte un’altra volta, uniti in lega contro di loro, tutti i principi cristiani, Francia
esclusa; quindi maggiore fosse stata la potenza marittima di questi principi tanto più forte e temuta
sarebbe stata la voce di Venezia a Costantinopoli. Anche queste nuove circostanze dimostrano
quanto fosse stata fondamentalmente importante quella epocale battaglia.
La Spagna non era però sensibile agli inviti e alle sollecitazioni che Venezia le presentava in tal
senso per tre ordini di motivi; il primo era che essa aveva un altro nemico ben più pericoloso, cioè
la Francia, e, indebolendo le sue difese territoriali per poter così rafforzare sostanziosamente la
sua squadra di galere, senza dover così risentire d’un aggravio insostenibile della sua spesa
militare complessiva, avrebbe certamente invogliato i francesi a tentare qualche impresa terrestre
contro i suoi possedimenti; il secondo era che le sopraccennate vere ragioni di Venezia non le
684

erano certo ignote; il terzo infine era una certa miopia strategica tipica di un’epoca in cui ancora
non si dava alla potenza marittima tutta l'importanza che solo più tardi, con l'esempio inglese, le
sarebbe stata riconosciuta. Questi motivi erano però diversi da quelli che in un recente passato
avevano egualmente trattenuto Carlo V dall'accrescere molto la sua armata di mare; infatti allora i
turchi non disponevano di forze marittime tanto numerose e inoltre Andrea d'Oria, principe di Melfi,
il quale dal 1531 era capitano generale di mare di quell’imperatore, osteggiava un tale
potenziamento perché sapeva che, se l'armata marittima fosse diventata molto più grande, il suo
comando generale gli sarebbe stato certamente tolto per esser affidato invece a un figlio o a un
nipote di Carlo V.
In un’anonima relazione redatta verso il 1680 per il vicerè di Napoli Fernando Fajardo marchese di
los Vélez (1675-1683) e nella quale si dettagliavano tutte le spese militari che si sostenevano per il
mantenimento di quel regno si consideravano allora armate e operative solo otto galere e cioè,
oltre alla Capitana e alla Padrona, delle quali quasi mai i documenti riportano gli effettivi nomi, la S.
Gennaro, la S. Antonio, la S. Gioacchino, la S. Fernando, la S. Teresa e la S. Francesco d'Assisi;
di tutte viene ivi anche dettagliato l'equipaggio (Stato del Regno di Napoli e spese occorrenti per il
suo mantenimento .S.N.S.P. Ms. XXVII.A.17). Nel 1688 le galere armate di Napoli saranno 9,
mentre solo quattro nel 1740 a dimostrazione della progressiva perdita di ruolo bellico sia a
vantaggio dei velieri, la cui manovrabilità e potenza di fuoco era ormai ottimale, sia delle palandre
bombardiere, queste dai napoletani chiamate galeotte da bombe alla francese. Infine con le
conquiste napoleoniche, portatrici degl’ideali umanitari della rivoluzione francese, la navigazione
bellica a remi scomparirà in tutt'Europa, ultima quella veneziana, restando quindi prerogativa dei
soli turco-barbareschi.
Dalle predette relazioni, da altre pure di residenti veneziani e da ulteriori fonti abbiamo tratto i
seguenti dati sulla consistenza delle varie squadre tirreniche; abbiamo però tralasciato Monaco,
signoria dei tradizionalmente guelfi Grimaldi, i quali se n’erano impossessati nel lontano 1296 e
che avevano per lo più due galere condotte (‘noleggiate’) dalla corona di Spagna, e le ‘autonome’
isole Baleari, che, come abbiamo più sopra già detto, pure ne possedevano qualcuna adibita alla
loro guardia anti-barbaresca; chiariamo che i trattini non significano mancanza di galere, bensì
nostra mancanza di dati:

Anno Napoli-Sardegna-Spagna-condotte-Sicilia- Genova- Chiesa-Savoia-Toscana-Francia-Malta.

1284 30
1482 35
1487 40
1494 - - - - - - - - - 32 -
1495 42
685

1532 2 - 12 17 6 - 12 - 5 - 5
1536 - - - - - - - - 30
1538 - - - - - - - - 20
1546 6
1551 - - 18
1555 - - - - - - - - 5
1557 5 - 14 42 4 (le prime)
1558 - - - - - - - - - 40
1559 4 - 12 42 4 - - 4
1561 - - - - 10 - - 4
1562 6 - - - - - - - - 8
1563 17 - 16 - - - - - - 8
1564 - - - - - - - - 10
1565 - - - - - - - - 10
1567 12 - - 12 12 - - - 9
1568 13 - - - - - - - 8
1569 - - - - - - - - 10 12
1570 20 - 26 24 10 - - 3 9
1571 30 - - - 10 - - - 12
1572 36 - - - 15 - - - - 8
1573 48 - 45 - 22 3
1574 50 - - - 22
1575 40 - 30 27 22 4 5 - 8
1576 40 - 40 28 22 - - - 10
1578 - - - - - - - - - - 5
1579 40 - 30
1580 36
1581 29 - 37 20 15 5
1583 - - - - - - - 3
1584 24 - 37 8 13 10 - - 4
1585 28
1587 - - - - - - 5 - 4
1589 - - - - - - 6 3 4
1595 - - - - - - 8
1597 30 - 20 16 15 6
1602 - - - - 8 - - - - - 5
1605 26
1611 - - - - 8 - - - 8
1613 - - - - 8 - - - 8
1619 - - - - - - - - 6
1623 30 - 25 14 15 8 5 - 6
1624 - - 21 - 10 - - - 6 (2 grosse e
4 sottili)
1634 - - - - - - - - 6
1639 - - - - - - - - ? grosse e 4
sottili)
1640 14 - - - - - - - 9 (3 grosse e
6 sottili)
1644 - - - - - - - - - - 5
1647 - - - - 5 - - - 3
1651 - - - - 6
686

1660 - - - - - - 4 - 3 - 7
1668 7 - - - - - 5
1669 7
1671 7 3
1673 7 - - - - - - - - - 5
1674 - - - - - - - - - - 5
1675 7 - - - 5 - - - -
1678 7 - - - - - - - 4
1679 6
1680 8 - - - 6
1683 8
1684 - - - - - 6
1685 - - - 10 - - - - 4 - 8
1686 - - - 7 - - 5 - 4 - 8
1687 - - - 7 - - - - - - 8
1688 9 - - 7 - - - - - - 8
1689 - - - 7 - - - - - - 8
1690 - - - - - - - - - - 8
1692 - - - - 5
1695 8 - - - - - - - - - 8
1696 8 - 24 7 6 3 - - 3 25
1697 - - - 7
1700 - - - 7
1701 - - - 7
1705 - - - - 5
1713 15 3 7 - 5 - - - 3
1740 4
Anno Napoli-Sardegna-Spagna-condotte-Sicilia-Genova- Chiesa- Savoia-Toscana-Francia-Malta.

Genova, in caso di necessità, oltre alle sue galere repubblicane ne amava altre (4 nel 1684) dette
di libertà, perché armate di ciurme di buonavoglia. Come si legge nel dispaccio inviato in data 28
luglio al suo senato da Hieronimo Lippomano, ambasciatore veneziano straordinario presso
Giovanni d’Austria, delle 40 galere approntate dal regno di Napoli per la campagna di Barbaria del
1575, 10 erano però inutilizzabili perché prive di remiganti (E. Albéri. Cit.). Per quanto riguarda le
galere dette condotte, per esse s’intendeva, come abbiamo già ricordato, galere di proprietà di
capitani particolari, ossia di privati noleggiatori mercenari per lo più genovesi, i quali le armavano
d’uomini di loro scelta e si tenevano poi a disposizione del principe (conduttore) che le aveva
noleggiato; per esempio delle 17 del 1532 15 erano d’Andrea d’Oria e due del principe Grimaldi di
Monaco, queste ultime pagate dal regno di Sicilia seimila ducati l’anno l’una, mentre le 42 del 1557
a disposizione di Carlo V erano le seguenti:

Andrea d’Oria: 20.


Antonio d’Oria: 7.
Religione (‘ordine’) di S. Giacomo: 4.
Garcia de Toledo: 2.
687

Sanchez de Loria: 1.
Pagate dal regno di Sicilia: 4.
Carlo d’Aragona marchese di Terranova: 2.
Berlinghieri Requesens: 2.

Sanchez de Loria era in quel 1557 anche capitano generale della squadra di Napoli, allora ancora
tradizionalmente costituita da sole cinque galere (eccezion fatta per il periodo attorno al 1532 in cui
erano state invece ridotte a due sole), sebbene fosse strategicamente appoggiata dalle due di
Garcia de Toledo e dalle sette d’Antonio d’Oria.
Nel 1563, come si legge nella relazione di Napoli che il residente veneziano Paolo Tiepolo
presentò in quell’anno, delle 17 galere a disposizione del regno di Napoli in realtà solo sette erano
napoletane, mentre le altre 10 si pagavano ai genovesi e cioè sei erano d’Antonio d’Oria, due di
Bandinello Sauli e due di Stefano de’ Mari; similmente delle 16 a disposizione del regno di Sicilia
due erano di Carlo d’Aragona ora duca di Terranova, due del messinese Filippo Cicala e due del
Grimaldi signore di Monaco, mentre solo 10 erano effettivamente del regno, quattro delle quali
dette antiche del regno perché tradizionali, mentre le altre sei erano state aggiunte solo l’anno
precedente.
Le 42 condotte facenti invece parte delle 67 di cui disponeva in totale l’imperatore nel 1559 erano
così suddivise:

Andrea d’Oria, principe di Melfi: 20.


Antonio d’Oria: 6.
Filippo Cicala, messinese: 6.
Grimaldi, principe di Monaco: 2.
Carlo d’Aragona marchese
di Terranova: 2.
Stefano de’ Mari, genovese: 6.

Queste ultime sei erano state fino a qualche tempo prima d’un capitano di galere della famiglia
napoletana Pappacoda. Filippo Cicala, come già sappiamo, sarà catturato dai turchi due anni dopo
e passerà al servizio ottomano. Le galere dei particolari genovesi che nel 1571 fecero parte
dell’armata della Lega che combatté a Lepanto e che il 24 agosto di quell’anno si presentarono
alla massa (‘concentramento’) di Messina furono le seguenti:

- 4 di Giovan Ambrogio di Negrone (o Negroni);


- 2 di Niccolò d’Oria;
- 2 di Stefano de’ Mari, cavaliere dell’ordine di Calatrava;
- 2 di Giorgio Grimaldi;
- 2 di David Imperiale.
688

Le predette non vanno confuse con le altre 12 genovesi che alla stessa massa porterà dopo
qualche giorno Gioan Andrea d’Oria, delle quali 11 erano di sua proprietà, ma al soldo della corona
di Spagna, e una, a quelle aggregata, era invece dei cavalieri di Malta. Nel biennio 1580-1581
delle galere attribuite al regno di Napoli in effetti quattro non erano proprie di quel regno, ma si
pagavano a particolari genovesi e cioè 2 a Stefano de’ Mari e 2 a Bandinello Sauli; nel 1581
inoltre, delle 20 galere condotte, 12 erano di proprietà di Giovan Andrea d’Oria e 3 di Agostino
Spinola, mentre in realtà le 5 rimanenti, anche se a carico di Marcello d’Oria, non erano condotte
perché di proprietà dello stesso Filippo II.
Il d’Oria, come spiegherà il già citato Matteo Zanne nel 1584, pur essendo il soprintendente
generale di tutta l’armata del re di Spagna, vedendo però insoddisfatto il suo desiderio di
diventarne il capitano generale come lo era stato suo zio Andrea e timoroso di dover un giorno
avventurare le sue galere sotto il comando d’altri, presto ne venderà 10 allo stesso sovrano,
restandosene a Genova con due sole; il servizio di queste, essendo le sue migliori e cioè di fanò e
più che inquartate, gli verrà pagato ben 19.000 scudi annui per ognuna (Ib.); questa tattica fu
efficace perché, come invece spiegherà il pure già ricordato Vincenzo Gradenigo solo due anni più
tardi dello Zanne, sarà molto presto fatto capitano generale, mentre tutti s’aspettavano che tale
nomina andasse al marchese di Santa Cruz per la sua grande vittoria del 1582 alle Terzeire; ma,
con soddisfazione di tutti, costui fu invece contemporaneamente fatto generale dell’Oceano, titolo
che poi, alla sua morte, sarà conferito al fratello Alonso de Bazán. Possiamo ancora dire, sulla
base di quanto affermerà nel 1597 il già citato Girolamo Ramusio, che delle 28 galere napoletane
del 1585, solo la Capitana e la Patrona erano gestite direttamente ‘dalla Corte’, ossia dal re,
mentre le altre 26, seppure di proprietà della corona, erano state tutte date in gestione ad armatori
particolari, ossia privati, al soldo di 7.800 ducati annui a galera; era quest’ultimo infatti il terzo
modo in cui un sovrano poteva disporre di galere armate e equipaggiate, mentre il loro capitano
generale prendeva allora un appannaggio annuo di 5.760 ducati (Ib.).
Nel succitato manoscritto della Biblt. Marciana l’anonimo autore ci ha lasciato delle informazioni
interessanti sulla squadra toscana del periodo lepantiano ed ecco le 9 galere che la componevano
e i loro rispettivi capitani nel novembre del 1565:

Galera. Capitano.

Capitana Generale Iacomo Aragona d’Appiano, signore di Piombino.


Luogotenente generale Alfonso, fratello del precedente.
Còmito Reale Patron Pier Tiragallo.
Patrona Cav. Rucellai, dell’ordine di Malta.
La Pace Alessandro Negrini.
La Toscana Giorgio Siciliano.
689

La Pisana Antonio Morello.


La Vittoria Ciminoro.
La Colonna Luciano Spagnolo.
La Grifona Carlo Cellini.
La (Negra di) Firenze Cav. Troiano, abate di Palermo.

Nel 1572 le squadre ponentine si presentarono al nuovo raduno della Lega ben potenziate, perché
naturalmente si voleva approfittare del successo dell’anno precedente per dare il colpo di grazia
alla Gran Porta; per esempio il duca Cosimo I, oltre alla galera nuova, la San Giovanni, che aveva
in via di completamento a Pisa e che era destinata a sostituire la Firenze, persa a Lepanto, aveva
aggiunto alla sua due galeazze, due galeotte e due galeoni, uno grande e uno piccolo; inoltre tanti
giovani e meno giovani, entusiasmati dal grande successo dell’anno precedente e sperando di
potersi ora arricchire o mettere in mostra a spese dei turchi, vi si erano volontariamente imbarcati
con il loro migliore abbigliamento e così sarcasticamente ne descriveva il Sereno l’inutile eleganza
al loro arrivo a Messina:

… Quivi il marchese di Santa Croce con trentasei galere di Napoli sopraggiunse, le quali, oltre la
stiva (‘il carico’) che portavano de’ soldati spagnoli del terzo di don Pedro Padilla, tanto gran
numero di venturieri di diverse nazioni (e) nobilissimi conduceva, che de’ più nobili napoletani soli
ve ne furono sino a settanta. Tanto può il desiderio della gloria in quella deliziosa città, che, non
essendovi stato l’anno passato, dai pochi in fuora che v’ebbero carico, quasi nessuno che si
curasse d’accompagnar don Giovanni, benché fratello del Re loro, in tanta dignità costituito, ora,
havendo veduto la vittoria, che mai non havriano sperata, tutti a gara pareva che più al nuovo
trionfo che al combattere si fossero apparecchiati, tanto di oro, di livree e di gale vennero adorni…
(B. Sereno. Cit. P. 269.)

Sembra che i venturieri imbarcatisi in quest’armata del 1572 fossero anche più di mille, per la
maggior parte francesi e napoletani, ossia del regno di Napoli e Giovanni d’Austria ne farà poi
generale il duca d’Atri di casa Acquaviva. In effetti il Santa Cruz dopo Lepanto aveva sempre
chiesto di più e cioè che le galere napoletane fossero portate a 40 - mentre dalla Spagna si
sperava che Napoli n’approntasse addirittura 50 - e che a lui stesso fosse concesso d’armarne a
sue spese altre quattro; ottenne poi quest’ultima concessione dal re, anche se dovette lottare
contro l’opposizione del vicerè cardinale di Granvelle, il quale giustamente temeva che in tal caso i
migliori ufficiali, marinai e buonevoglie sarebbero andati sulle galere del generale, mentre quelle
del re avrebbero avuto solo lo scarto. Alla fine, per non scontentare troppo il re, il marchese gli
vendette le sue proprio allora armate quattro galere, certamente un buon affare programmato sin
dal primo momento; il Santa Cruz presto sarà fatto capitano generale della squadra di Spagna.
Questa volta, come riferisce al suo Doge il già citato Placido Ragazzoni (1574), l’armata non lasciò
690

però Messina tutta insieme; cominciarono infatti a partire per il Levante il 7 luglio 13 galere
papaline, 22 di Giovanni d’Austria con 2mila fanti spagnoli e le 25 che Venezia aveva mandato a
quella massa; Giovanni lascerà il porto solo il 3 agosto successivo, accompagnato da 28 galere,
18 navi grosse e 12 vascelli piccoli da rimurchio. La grande impresa dell’autunno passato però
non si ripeterà per la grande prudenza che saprà mettere in campo il rinnegato calabrese Uluch-Alì
in qualità di nuovo capitano generale di mare ottomano:

… Ritornata poi Sua Altezza di Levante, senza haver fatta cosa alcuna, di dove le convenne
partirsi per mancamento di pane, come si disse, e succeduta poi la pace di Vostra Signoria col
Turco (marzo 1573), onde veniva a cessare al sig. don Giovanni l’occasione di andar in Levante,
volse il pensiero e le deliberazioni all’impresa di Tunisi… (E. Albéri, S. I, v. VI, p. 471.)

Giovanni, come riferirà Placido Ragazzoni (1574), arrivò a Palermo con l’armata allestita contro
Tunisi il 6 settembre 1573 e, non partecipando stavolta alla Lega Venezia a causa della pace da
questa sottoscritta colla Gran Porta nel marzo precedente, si trattava di sole 108 galere, 40 navi,
12 barconi (grossi vascelli latini) e 15mila fanti, cioè da 6 a 7mila italiani, 6mila spagnoli e 2mila
tedeschi; dopo alcuni giorni di sosta in quella rada l’armata si trasferì a Trapani e di lì alla Goletta.
Non abbiamo ovviamente intenzione di appesantire ulteriormente questa trattazione anche con la
descrizione della presa di Tunisi; diremo solo che Giovanni d’Austria vi fece iniziare la costruzione
d’un nuovo forte e, per questo e per quello della Goletta, vi lasciò di guarnigione ben 8mila soldati
sotto il comando generale di Gabrio Serbelloni, capitano generale dell’artiglieria di Filippo II,
definito dallo stesso Giovanni in una sua lettera del 18 ottobre successivo persona di prudenza e
d’esperienza, e cioè 4mila fanti italiani capitanati da Pagano d’Oria e 4mila fanti spagnoli
comandati da Andrea Salazar, castellano di Palermo; licenziò poi le galere della squadra di Napoli,
lasciò ancora 300 fanti spagnoli di presidio a Biserta e, a causa della cattiva stagione ormai
inoltrata, se ne tornò a Palermo, dove giunse il 2 novembre; di lì poi passerà a Napoli, a Vigevano
nel Milanese, dove resterà sino al luglio seguente, e infine a Genova per imbarcarsi di nuovo
sull’armata reale.
Un altro caso in cui una spedizione marittima vide una particolare partecipazione, fors’anche
eccessiva, fu quella di Barbaria che lasciò il porto di Cartagena all’alba del lunedì 10 gennaio1543,
spedizione voluta dal giovane imperatore Carlo V e affidata al già ricordato conte di Alcaudete; vi
s’era imbarcato infatti a Cartagena un così grande numero di venturieri:

… che in brevissimo tempo si riempirono le navi che stavano in porto e tanto che né noi potevamo
camminare in esse né i marinai far il loro lavoro; e faccio fede, da testimone di vista, che tra quelle
venne una nave che portava novemila moggi di grano e 1.200 soldati; cosa degna di memoria, che
si gettavano in acqua per imbarcarsi e litigavano per salire sulle navi, gli uni sugli altri, e, mentre
691

vedemmo che altre volte in armate pagate non si potette metterle in acqua attrezzate (per
mancanza d’uomini), in questa, senza paga, vedemmo il contrario. (Francisco de la Cueva. Cit.)

La scena si ripeté prima della partenza:

… e qui fu tanta la fretta d’imbarcarsi che faceva meraviglia, perché, come dico da testimone di
vista, poiché in tre parti del mare non si potevano avvalere, s’affogavano gli uni sugli altri, il che era
nel molo, nella pescheria e nei magazzini… (Ib.)

La differenza stava di solito nella maggiore o minore notorietà che si riusciva a dare all’impresa.
Il già citato Niccolò Tiepolo (1532) così leggeva al suo doge a proposito delle forze di mare di
Carlo V:

... Ha la Maestà Sua tanta copia di navi e di genti buonissime per esse in tutta la Spagna e
specialmente in Biscaglia che di queste può fare quanto numero vuole, ma di galee non ha così il
modo, che n’ha poche e gente non molto atta al governo di tai legni. Pure al presente si ritrova Sua
Maestà con quelle che furono ultimamente fabbricate in Barcellona, fusti di galee numero ventidue,
senza quelle di Genova, Napoli e Sicilia con le quali [...] averia, ogni volta che volesse, al servizio
suo ben armate quaranta galee. (E. Albéri. Cit. S. I, v. I, p. 49.)

In seguito Carlo V portò la potenziale consistenza della sua armata a 100 galere, ma questo
numero si ridusse a 34 negli anni 1560-1562 a seguito di quattro gravi avvenimenti succedutisi in
quegli anni e nei quali Filippo II perse ben 64 galere, cioè la rotta delle Gerbe avvenuta nel 1560,
la perdita l’anno successivo d’un totale di sette galere e una galeotta di Sicilia comandate da
Guimerans de S. Juan, sconfitte e catturate nei pressi di Lipari da 11 galere barbaresche di Dragut
(‘Torgud’), poi nel 1561 la perdita della galera del Cicala e l’anno seguente quella della galeotta
dell’Osorio, episodi ai quali ritorneremo, ma soprattutto, anche nel 1562, il grande naufragio che
provocò l’affondamento della maggior parte delle 32 galere della squadra di Spagna, la quale,
sotto il comando di Juan de Mendoza e proveniente dall'Italia carica di soldatesche, tra cui la parte
migliore del tercio antiguo di Napoli, a causa di un’improvvisa e violentissima tempesta naufragò
nella baia d’Herradura, tra Motril e Vélez Málaga, dove aveva cercato riparo, con la perdita di 20-
25 galere (22 secondo il Pantera), di cui 16 erano tutte quelle in quell’anno al servizio del regno di
Napoli, e diverse migliaia di vite umane, tra cui duemila soldati e lo stesso de Mendoza. Le
suddette 34 galere superstiti non erano nemmeno in buon ordine, il che si doveva alla solita
negligenza di quella Corte, come si legge nel già citato Paolo Tiepolo (1563):

... quelle che sono proprie del Re, per negligenza e avarizia de' ministri, non si sono mai vedute in
ordine delle cose necessarie, mancando principalmente del conveniente numero di artiglierie, di
marinari e di soldati; e (così anche) le altre che sono di particolari, perché essi procurano più il
692

beneficio proprio che quello del Principe [...] E queste e quelle sono per la maggior parte armate di
schiavi (maomettani) nemici del padrone e desiderosi della libertà. (Ib. S. I, v. V, p. 45.)

Nell’agosto del 1564, essendo tornati i mori a infestare Orano dopo averla tentata nell’anno
precedente, Filippo II mandò sulle coste della Barbaria - e con molta pubblicità – don Garcia de
Toledo a capo d’una potente armata di 93 galere, un centinaio d’altri navigli e il gigantesco e
potentissimo galeone portoghese S. Bastiano, vicenda alla quale abbiamo già accennato; si
trattava di 15 galere di Spagna comandate dal capitano generale Garcia de Toledo, 5 di Malta
sotto il generalato di fra’ Vincenzo Gonzaga priore di Barletta, 8 portoghesi sotto Francisco
Barreto, 6 papaline, 10 toscane al comando di Jacopo d’Appiano, 3 savoiarde agli ordini di Andrea
Provana, 11 di Napoli capitanate da Sancho de Leyva, 11 di Sicilia, 12 genovesi guidate da
Giannandrea d’Oria, il quale in verità ne aveva ereditate 20 dallo zio principe Andrea, ma Filippo II
ne aveva voluto al suo servizio solo 12, e altre di armatori particolari, quali Marcantonio Colonna,
Marco Centurione e Giorgio Grimaldi; quindi un’armata di tutto rispetto, sulla quale erano imbarcati
10 o 12mila fanti e che però non fece altro che impadronirsi d’un piccolo luogo fortificato, il Peñon
de Vélez de la Gomera, rupe altissima detta anche Sasso di Vélez, perché situato presso la città di
quel nome sulla costa africana verso lo stretto di Gibilterra, luogo forte già tenuto dalla Spagna dal
1508, da quando cioè una delle spedizioni di Pedro Navarro, quella andata al soccorso d’Arzila,
possedimento portoghese, se n’era impadronita, sino al 27 maggio 1529, giorno in cui il
Barbarossa, dopo 21 d’assedio, l’aveva preso e poi fatto distruggere, e nido tra i principali dei
corsari barbareschi, i quali da quella base soprattutto partivano per infestare le coste spagnole e
per aggredire le flotte che venivano dalle Indie con ricchi carichi, ma che comunque non era certo
obiettivo che meritasse un tale dispiegamento di forze e che oltre tutto si rivelò poi anche poco
difeso. Era generale dell’artiglieria di quella spedizione lo stesso Gioan Andrea d’Oria, mastro di
campo generale Chiappino Vitelli, generale degli spagnoli Sancho de Leyva, figlio d’Antonio
principe d’Ascoli, duca di Terra Nova, marchese d’Atella e primate delle Canarie, il quale Sancho
era prima stato mastro di campo del tercio fijo spagnolo di Napoli e poi capitano generale delle
galere dello stesso regno, mentre dopo Lepanto lo sarà di quelle di Spagna; inoltre era colonnello
degl’italiani Luigi Osorio, il quale morirà in quell’impresa, ucciso da una moschettata, per essersi
troppo imprudentemente esposto nell’andare a riconoscere le fortificazioni nemiche; comandavano
i cavalieri di Malta due sergenti maggiori, e cioè il fiorentino fra’ Alessandro Ridolfi e l’aragonese
commendator Monserrat, e inoltre il provenzale monsignor d’Oca di mare. Partita l’armata da
Barcellona e rifornitasi poi a Malaga, ai primi di settembre l’esercito sbarcò a 15 miglia dal Peñon
l’11 agosto e poi raggiunse per terra la fortezza; iniziatasi la batteria, al terzo giorno di quella i
difensori abbandonarono il luogo e quindi il de Toledo, fatto riparare e rifornire quel castello, vi
693

lasciò un presidio spagnolo di 1.500 uomini e poi ripartì per la Spagna. I critici di quella tanto
ostentata spedizione dissero poi che per quell'impresa sarebbero state sufficienti non più di 30
galere e che il re Filippo II aveva messo su tutta quell'armata solo per giustificare il godimento della
suddetta Crociata ecclesiastica.
Nel 1570, anno che precedette quello della grande impresa di Lepanto, il cattivo stato delle galere
della corona di Spagna fu ribadito da un altro residente veneziano, Sigismondo Cavalli:

... dirò ora della milizia [...] La marittima consiste o in proprie galee del Re ovvero in condotte al
suo servizio. Proprie sono quelle di Napoli, Sicilia e Spagna [...] le condotte sono quelle del d'Oria
e d'altri particolari (‘privati’). Nelle proprie il Re spende più e sono le peggiori; e ciò avviene perché
non vi usa quella cura e diligenza in avvantaggiarla e custodirle che usano i particolari e perché
non ha uomini prattici di tale mestiero. Gli vengono a costar le proprie più di 6.700 scudi l'una, oltre
il capitale che si consuma e sta in pericolo, e a' particolari non dà più di 6.000 scudi all'anno per
galea. E, se bene i ministri di Sua Maestà conoscano il disordine, non curano però di sminuir le
proprie per accrescer il numero delle condotte e ciò per fuggire un altro inconveniente da loro
stimato assai più importante, il quale è che, nelle fazioni e nel combattere, quelle de' particolari
vanno più riservate e stanno volentieri addietro per non poner il loro capitale in pericolo; che, se le
galee sono del Re, cessa il rispetto e la paura; però (‘perciò’) vogliono veder di rimediarvi con
miglior ordini e aver persone di più esperienza nel servizio. (Ib. S. I, v. V, p. 171.)

I suddetti particolari risulteranno pagati 6.000 scudi annui a galera ancora nel 1581. Nel predetto
1570 Filippo II disponeva di 56 galere proprie, cioè 26 di Spagna, 20 di Napoli e 10 di Sicilia, di 24
condotte e cioè 10 di Gioan Andrea d’Oria, quattro dei Lomellini, quattro dei Centurioni, due dei
Mari, due dei Sauli e due dei Grimaldi, tutte famiglie di capitani marittimi per lo più genovesi. Stava
inoltre per concludere un contratto per ottenere anche le tre galere di Savoia in luogo di quello
precedente con le 10 di Firenze e, aggiungendo a questo totale di 83 galere le tre dell'alleata
repubblica di Genova e quelle della protetta Malta, arrivava, se non proprio alle 100 prescritte dai
suoi accordi con lo stato della Chiesa, a circa 90, il che era un buon numero. Erano comunque
sempre meno sia di quelle che poteva armare in breve tempo Venezia sia delle 150 che quell'anno
avevano messo in navigazione i turchi; questi anche al tempo di Carlo V, il quale, come abbiamo
detto, aveva disposto di circa 60 galere, con le loro 100 d’allora erano stati superiori alla Spagna e
questa cronica inferiorità numerica fu il motivo per cui, per affrontare gli ottomani in battaglia reale,
ossia in battaglia tra intere armate, fu alle potenze marittime cristiane di Ponente sempre
necessario unire le loro forze quella di Levante, ossia con quelle di Venezia; da tali leghe era,
come già sappiamo, sempre assente la Francia, unico potentato cristiano scandalosamente alleato
dei turchi, le cui galere quindi non parteciparono né all'impresa di Lepanto né a nessun’altra contro
la Gran Porta, anche se in effetti, per quanto riguarda la prima, essa aveva il consistente alibi di
non aver potuto aderire alla Lega cristiana perché sconvolta dall’interne guerre di religione e inoltre
694

bisogna anche dire che a Lepanto combatterono da semplici venturieri (sp. ventureros rasos)
numerosi francesi, diversi dei quali erano per esempio imbarcati nella galera Generale di
Marc’Antonio Colonna e alcuni erano cavalieri sangiovanniti, ossia di Malta. Gli unici militari
francesi che potevano liberamente combattere per la loro fede contro i maomettani erano appunto i
tanti cavalieri di Malta che servivano sulle galere di quell' ordine religioso; ma i transalpini fornivano
alla squadra di Malta anche regolarmente forzati da adibire al remo, uomini cioè di cui quei
cavalieri spesso non disponevano a sufficienza (M. Aymard. Cit.) La Francia, alla quale oltre tutto
erano da addebitarsi gli innumerevoli lutti e le grandi devastazioni portate sulle coste tirreniche
dell’Europa dall’armata del Barbarossa nel biennio 1543-1544, si riabiliterà però pienamente agli
occhi della cristianità nel diciannovesimo secolo, quando, impadronitasi delle coste algerine, porrà
finalmente fine alle secolari scorrerie dei corsari barbareschi che tante rovine e tanti lutti e dolori
avevano apportato alle popolazioni rivierasche d'Europa e alla navigazione mediterranea, per
esempio ai pescatori trapanesi, dei quali già a metà del Cinquecento si diceva fossero, a causa
della vicinanza di Trapani alla costa africana, giornalmente preda dei vascelli remieri barbareschi
che scorrevano quel mare a caccia di beni e di cristiani da far schiavi, o come anche agli abitanti
d’Augusta, località che, a causa di questa stessa infausta prossimità, più volte fu dannificata dai
barbareschi e, come se ciò non bastasse, anche dall’armata turca, specie nel luglio del 1551,
quando questa, provenendo dalla Prévesa sotto il comando di Sinan Pasha e di Torgud e dopo
essere stata ancorata alla Fossa di S. Giovanni, oggi Villa S. Giovanni, per intimare, come
racconta il de Bourdeilles, al capitano a guerra di Messina Alonzo Pimentel di rendere Tripoli al
sultano, e averne ricevuto il rifiuto (d’altra parte il Pimentel non avrebbe nemmeno avuto tale
autorità), invase e saccheggiò appunto Augusta e, dopo due giorni d’assalti, ne prese anche il
castello, dirigendosi alla fine, come abbiamo già detto, verso la sua prima sfortunata impresa di
Malta, isola davanti alla quale si presenterà minacciosa il 18 luglio; la predetta città siciliana sarà
poi di nuovo attaccata dai turco-barbareschi nei due anni seguenti e nel 1560 e tutto ciò senza che
nemmeno il potentissimo Carlo V fosse mai riuscito a debellare quei corsari, nonostante le sue
cinture di torri costiere e le sue spedizioni in Barbaria; ecco come il Sereno descriveva la paura dei
corsari barbareschi che nel Cinquecento agitava le popolazioni rivierasche della Spagna, corsari le
cui squadriglie partivano continuamente dai porti d’Algeri, Tunisi e Tripoli, città di cui esse
costituivano la principale industria:

… Dalle quali le lor marine da continui corteggiamenti tormentate, agl’incendij, alle rapine, alle
uccisioni soggette, patiscono ogni giorno che le persone e le robe lor sieno predate, le navigazioni
a’ marinari quasi fatte impossibili, i commerci tra la Spagna e l’Italia impediti… (B. Sereno. Cit. P.
106.)
695

Inoltre c’era anche il più che giustificato timore che il nemico ottomano si decidesse prima o poi a
far impresa contro la mal difesa Spagna utilizzando a tal scopo proprio quelle comode basi
africane. In effetti già dalla seconda metà del Seicento la Francia aveva iniziato a inviare
anch’essa consistenti spedizioni marittime contro i potentati barbareschi; per esempio, dopo le già
ricordate azioni contro Algeri del biennio 1662-1663, nel luglio del 1664 la flotta del duca di
Beaufort, appoggiata dalla squadra di galere di Francia e da quella di Malta, sbarcherà un corpo di
spedizione contro Djidjelli e la prenderà alla fine di quello stesso mese, anche se poi i francesi la
riperderanno già alla fine dell’ottobre seguente, obbligando quindi il Beaufort a compire l’anno
seguente una seconda azione punitiva contro quel nido di corsari, affondandone 5 vascelli che si
trovavano allora in quel porto; eppure non troverete oggi più nemmeno uno storico disposto a
riconoscere ai francesi questo grande merito d’aver finalmente liberato il Mediterraneo dai corsari
barbareschi, così come non più si tien conto di quanto, venendo a combattere in Italia, aiutarono
poi gl’italiani a liberarsi dalla dominazione austriaca e infine a stento ancora si ricorda che, anche
se a prezzo di tanto sangue, esportò generosamente in Europa gl’ideali della sua grande
Rivoluzione.
Tornando ora alla relazione del Cavalli del 1570, diremo che quel residente riferiva che in
quell'anno Filippo II pure disponeva di 40 nuovi corpi di galere, i quali avrebbe in parte potuto
armare in proprio e in parte concedere, completi d'armeggi e artiglierie, a particolari, ossia ad
armatori privati con appannaggio reale, specie ai comandanti di mare genovesi, i quali erano
tradizionalmente dediti al mercenariato; quest'ultima, come abbiamo già detto, era una forma
usata, specie dalla corte di Spagna, come intermedia tra il gestire direttamente proprie galere e
l'ingaggiare con appannaggio (condurre) quelle di proprietà di privati capitani o condotti. Per
esempio c'erano allora privati armatori catalani che facevano pressanti istanze per essere
autorizzati ad armare 15 di quei fusti o gusci di galere che dir si voglia, cioè a dotarli d’equipaggi,
remiganti, munizioni e provvisioni per poi con esse esercitare la guerra di corso e frequentemente
anche la vera e propria pirateria, attività queste appunto tradizionali nella marineria catalana; infatti
il re era restio a dar loro tale licenza perché i catalani avevano in passato più volte dimostrato di
predare molto volentieri non solo i vascelli maomettani, ma anche quelli cristiani; bisogna infatti
capire che i vascelli corsari, non avendo in mare la comodità di navi-appoggio da trasporto come
invece avevano quelli militari, erano costretti a portare a bordo anche un significativo carico di
viveri e di ricambi (gr. αυτόφορτοι νῆες) e, poiché, per necessità di agilità e velocità, non erano
nemmeno grossi, erano spesso obbligati a predare chicchessia semplicemente per procurarsi dei
viveri.
696

In realtà la pirateria era un esercizio al quale si dedicavano, magari saltuariamente, le marinerie di


tutti gli stati marittimi di quei secoli; per esempio in una sua lettera del 29 gennaio 1967 il re di
Napoli Ferrante d’Aragona riferisce appunto della piratesca cattura di una nave barcellonese carica
di grano fatta da una genovese (F. Trinchera, cit. Vol. I, p. 25).
Chiariamo che il termine armatore (dal gr. ἂρμενον, ‘arredo nautico’) poteva significare allora
anche 'corsaro' se ci si riferiva a privati che appunto ‘armassero’, cioè dotassero di arredo e armi,
un vascello reale o pubblico per poter esercitare la lucrosa guerra di corso, mentre per l’esercente
o impresario di un vascello mercantile ancora s’usava il termine lt. exercitor. Per esempio armatori
o corsari si potevano definire quegli esercenti marittimi sudditi della Corona d’Aragona i cui
contratti d’armamento di galee, con ordinanza del 26 febbraio 1356, Pedro IV re d’Aragona e conte
di Barcellona regolava soprattutto ai fini della guerra che allora si combatteva contro i genovesi. Il
re forniva dunque galee addobbate, apparecchiate, allestite, spalmate per la navigazione e anche
armate di tutto punto; inoltre anticipava per tutto l’equipaggio, patrone compreso, un mese di
salario e panatica per un massimo di 4 mesi (tanto al più poteva durare una campagna di corso),
mentre l’armatore s’impegnava a portare a bordo il detto equipaggio al completo secondo i canoni
numerici disposti da altre ordinanze, uomini sui quali gli si concedeva inoltre completa giurisdizione
civile e criminale dal giorno dell’arruolamento fino a quello del disarmo. In quel caso storico a detti
armatori erano concesse azioni de bona guerra, cioè di guerra ortodossa e corretta, contro
genovesi, milanesi e mori, esclusi però quelli del re di Granada, con il quale evidentemente c’era
allora qualche accordo. S’impegnava inoltre l’armatore a restituire la galea, riparata e messa a
secco a sue spese, con inventario di tutti gli accessori entro detti 4 mesi o al massimo entro 5,
andando a disarmare nello stesso porto in cui il vascelllo era stato ricevuto; d’atra parte era il re
che si assumeva il rischio del danno di guerra, cioè della perdita dei corredi e della stessa galea.
Egli inoltre avrebbe conferito al Re la parte di valore del bottino pattuita, detratte però le spese
sostenute e aumentata invece del costo delle paghe e della panatica in quella campagna ricevute;
del bottino che gli restava poteva fare a terra asta pubblica senza dover pagare diritto fiscale
alcuno (Ordenanzas etc. Cit. P. 134 e segg.)
Se un patrone pattuiva di mettersi in corso non con una galea di proprietà reale o comunque
pubblica ma con un suo personale veliero (lim/ctm. nau; cst. nao), poteva farlo a patto che il
vascello fosse di una portata di almeno mille salme e che imbarcasse perlomeno 120 persone
combattenti, ferma la proibizione di portare mercanzie di alcun tipo. La campagna di corso poteva,
in questo caso, durare fino a 8 mesi (Ib.)
Ma perché chiamarli armatori se in effetti riceveva in affidamento dal sovrano vascelli già dotati di
tutte gli armamenti necessari appunto a una guerra di corso? Perché si trattava di un termine che
697

non voleva significare armanti, perché in tal caso si sarebbe detto in lt. armantes e non armatores,
essendo infatti questo un neologismo tardo-latino dal significato di custos armorum, cioè di
custode gli armamenti:

… Eleggiamo di deputare alla custodia delle nostre armi un solo uomo, idoeneo e fedele, il quale
per convenienza dell’ufficio sia chiamato ‘armatore’; il quale custodisca e preservi diligentemente
per mantenerle pulitamente e decorosamente. Controlli anche frequentemente, quando di
riparazione o di rinnovo avessero bisogno, perché subito corregga il difetto o lo faccia correggere
da artigiani (Ordinamus ad armorum noftrorum cuſtodiam unum deputari virum, idoneum & fidelem,
qui Armator ab officii convenientia nuncupetur: qui & arma noftra diligenter cuſtodiat, caveatque
quod ea munde teneat & honeſte; videat etiam frequenter, an reparatione vel renovatione
indigeant, ut confestim defectum corrigat; vel faciat ab artificibus emendari… Daniel van
Papenbroeck, […] leges palatinas ex veteri aragonicae domus disciplina in aureo annorum ccclx
codice descriptas a Jacobo II rege Majoricarum iconibusque et observationibus illustratas […] P.
XXXV. Anversa, 1669.

L’armatore poteva andar in corso anche con velieri invece che con vascelli remieri, sia che questi
fossero piccoli lembi o grandi galee, ma dalla predetta ordinanza non appare che il re fornisse
eventualmente anche i primi e ciò è comprensibile perché, come del resto ogni altro dominio
marittimo, quella Corona disponeva in permanenza solo di galee mentre di velieri armati per la
guerra solo in particolari occasioni.
Il predetto nome di armatore (lt. exercitor, naviger, navicularius; gr. ναύϰληρος; ναυϰράτωρ,
ναυϰρατής; fr. armateur, capre, bourgeois; td. Borgere; ol. kaaper, reeder, kruisser, commissie-
vaarder, bewrakters) si dava comunque sia a colui che aveva ottenuto dal principe la patente di
corso (sp. ordenanza de corso; fr. commission; ol. commissie, bestellinge) e aveva a sue spese
arredato e armato un vascello per esercitare tale attività sia al comandante del vascello stesso.
Anche coloro che esercitavano questa professione si riunivano talvolta in corporazioni –
compagnie, come allora si diceva – con autorizzazione del sovrano o della repubblica, perché si
trattava d’una attività considerata di pubblica utilità; infatti con un continuo esercizio del corso si
proteggevano efficacemente le rotte marittime da pirati e nemici. In Francia molto dediti alla guerra
di corso oceanica erano tradizionalmente soprattutto i duncherchesi, maloini e roccellesi e la
formazione d’una siffatta compagnia nel regno di Napoli sarà richiesta dalla corona di Spagna al
viceré con lettera del 3 aprile 1666, lettera seguita da formale cedola d’autorizzazione del 3
ottobre, documenti poi ambedue così richiamati in un altro dispaccio reale del 15 novembre
dell’anno successivo:

Haviendo Su Magestad con su real despacho de abril passado deste año mandado a Su
Excelencia (‘il viceré di Napoli’) que se procure introducir en este Reyno una compañia de
armatore y corsistas para assegurar el trato y comercio y deseando Su Magestad por el mayor
beneficio público assi por lo que mira a la custodia de las marinas y seguridad de los navegantes
698

como por el tráfago con inmission de bienes forasteros en esta Ciudad y Reyno (di Napoli) que
aya personas que armen los leños que les pareciere para hir en corso, ha resuelto etc. (Reali
dispacci. A.S.N.)

Tanti erano però i veri e propri pirati che usurpavano i detti titoli d’armatore e di corsaro per
guadagnarsi un’immeritata legittimazione e rispettabilità che nel Settecento il termine corsaro –
anche con la sua variazione corsale – prenderà invece a significare ‘pirata’; dalla fine del Seicento
poi quello d’armatore a sua volta comincerà a perdere il suo senso bellico per prendere a
significare invece il mercante o comunque l’esercente che - in toto o pro rata - noleggiava,
equipaggiava e munizionava un vascello a scopo non di guerra, bensì di commercio.
L’armatore poteva andare in corso e condurre da sé il vascello che aveva armato o poteva dunque
affidarlo al governo d’un comandante di sua fiducia, il quale poteva ricevere dall’armatore stesso
una paga e prender parte al bottino oppure aver diritto al solo bottino (fr. capre à la part) e ciò a
seconda della carta stipulata tra le parti (fr. charte-partie, abbr. di la charte de les parties).
Nel corso della seconda metà del Seicento nacque nella parte francese dell’isola di San Domingo il
termine boucanniers a indicare una corporazione di scellerati in numero variabile dai 500 ai mille a
seconda dei tempi - che esercitavano la grassazione boschiva e la pirateria costiera, specie ai
danni del naviglio mercantile spagnolo, dovendo al governatore francese il 10% del valore di tutte
le loro prede; si trattava di marittimi disertori oppure di vagabondi arrestati in Francia e inviati a
servire forzatamente tre anni nelle piantagioni dominicane, dopodiché avevano l’unica strada di
noleggiare o comprare a credito un fusil boucanniere (lunga arma da fuoco a gran gittata) e di
aderire a quelle criminali consorterie; poiché scorrevano i mari costieri dell’America Centrale con 7
o 8 piccoli velieri mercantili armati a corso, agili e veloci, dagli 8 ai 24 cannoni, cioè con fly-boats
(ing. anche fleet-boat; fr. flibot; ol. vlie-boot, fluijt-boots, fluyt-boot; it. flibotto o lilibotto) oppure
anche con fregate leggere, presero anche il più conosciuto nome di flibustiers, corrotto poi in
filibustiers e fribustiers (ing. filibusters, freebooters; ol. vry-buiters, vrijbuiters); nonostante si
trattasse di gente ignorante e molto codarda (de Pointis), in seguito, raccolti, organizzati e guidati
in funzione anti-spagnola da corsari patentati da altre potenze europee, le quali avevano appunto
molto interesse a ostacolare l’espansionismo americano della Spagna, compiranno talvolta
incredibili e clamorose imprese.
Nel 1573, come riferiva il residente veneziano Leonardo Donato, benché il 7 marzo Venezia
avesse fatto la pace con Costantinopoli e provocato così la conseguente dissoluzione della Lega
cristiana, la Spagna, la quale voleva ciò nondimeno continuare lo sforzo bellico per dare un buon
colpo anche ai regni barbareschi, tanto dannosi per le sue coste e i suoi traffici, aveva continuato
ad aumentare il numero delle sue galere e la squadra iberica adesso, essendo stati varati e armati
699

alcuni di quegli scafi di galera che giacevano conservati nell'arsenale di Barcellona, contava 44 o
45 vascelli con ciurme costituite per una metà di schiavi e per l'altra di forzati; di questi ultimi le
prigioni di Spagna fornivano un numero medio di quasi 2mila all'anno, mentre pochi erano, come
già sappiamo, i buonavoglia, tratti per lo più dalle marine dell'Andalusia. La buona disponibilità di
remiganti che c'era in quegli anni permetteva dunque di tenere le galere spagnole costantemente
assai bene interzate, vale a dire sempre debitamente armate di tre uomini per remo.
Avvenuta di recente la grande vittoria marittima di Lepanto, una vittoria importante perché si può
dire che i cristiani non ne avevano avuto sui turchi di altre rilevanti sin da quella di Gallipoli ottenuta
dai veneziani nel lontano 29 maggio 1416, il tono delle relazioni sui possedimenti di Filippo II non
poteva, almeno per quanto riguarda l'armata di mare, non essere diventato molto meno critico di
quanto non fosse sempre stato in passato e infatti lo stesso Donato così ancora scriveva nello
stesso predetto anno in un altro resoconto, dedicato però questo al regno di Napoli:

... Le galee pagate e armate di questo Regno erano l'anno passato 1572 al numero di 36, tutte
sufficientemente buone e alcune principali eccellentissime... (E. Albéri. Cit. S. I, v. VI, p. 416.)

Però i re aragonesi di Napoli n’avevano armato nel Quattrocento di più e con le sole forze del
regno; perché dunque ora Napoli n’aveva di meno? A prescindere dalla pur importante
considerazione che nel Medioevo, come già sappiamo, le galere erano state più spesso delle
biremi, quindi più piccole e meno costose, la colpa era, scriveva sempre il Donato, del malgoverno
spagnolo che pretendeva che detto regno guarnisse d’uomini e cose le galere spagnole invece
d’armarne di più delle sue:

... anzi, con tutta questa incuria, le galee di Spagna sono per la maggior parte guernite con quello
che è loro somministrato da questo Regno (di Napoli); e di uomini per remo, essendo il Regno
grande e pieno di tante marine e di tanti ladri, molte più galee potria armare... (Ib. P. 417.)

Nel 1576 il già citato Lorenzo Priuli, riferiva che alle galere di Spagna non sarebbero mai potuti
venir meno i remieri:
... Né possono in alcun caso mancarle uomini da remo, perché non le mancherà mai una copia
grande di schiavi moreschi, bianchi e negri, che sono in Spagna e di negri che in grandissima
quantità si conducono ogni anno d'Africa. (Ib. S. I, v. V, p. 247.)

Andando più indietro nel tempo, cioè al 1480, troviamo la guida al viaggio in Terrasanta scritta dal
pellegrino Santo Brasca e nella quale c’è appunto un accenno alle razzie di negri gentili, ossia di
religione primitiva, non maomettana, fatte dagli arabi nell’Africa centrale:
700

… E nel Caero (‘Cairo’) si vendano homini e femine como bestie, li quali tengono su la piaza nudi,
che è cosa stranea a vedere. (A. LT. Momigliano Lepschy. Cit.)

Ma già nel 1404 troviamo una galeotta aragonese carica di schiavi africani; dunque la tratta o
pratica (‘commercio’) degli schiavi negri di Guinea non fu inventata dai colonizzatori delle
Americhe, ma esisteva indipendentemente da quelle sin dall’antichità e continuò nel Medioevo; nel
Cinquecento serviva, oltre che a procurare remiganti alle galere, specie a quelle iberiche, anche
se, come sappiamo, i negri non erano ritenuti buoni galeotti, anche a rifornire già di mano d’opera
a buon mercato le Indie Occidentali, specie il Brasile, e l’impero ottomano.
Nella sua relazione su l'impero ottomano dello stesso 1576 il bailo Jacopo Soranzo, a proposito
d’un certo disprezzo che i turchi ostentavano nei riguardi del valore bellico che gli spagnoli
avevano sino allora dimostrato sul mare, sembra appoggiare questa opinione negativa e sminuire
anch'egli il ruolo che gl’iberici ebbero nello scontro di Lepanto:

... Sanno anco benissimo alla 'Porta' (‘la Corte di Costantinopoli’) che il giorno della battaglia
navale (dei Curzolari) mancarono assai spagnuoli e vedono che con gran viltà si hanno lasciato tor
dalle mani tante fortezze, cioè Tunis, la Goletta, le Gerbe e quasi Malta; e queste imprese sono
state fatte dai turchi solo con cinquanta galee; e dicono che l'armata spagnuola mai ha avuto ardire
di venire a fronte. (E. Albéri. Cit. S. III, v. II, p. 203.)

Queste parole sono certo ingenerose e menzognere nei riguardi dei soldati spagnoli, nerbo
sempre di tutte le armate e di tutti gli eserciti della corona di Spagna; se c'era infatti una nazione
delle cui capacità belliche i turchi avevano veramente scarsissima considerazione erano proprio i
veneziani, come per esempio chiaramente si afferma nella relazione che il bailo Jacopo Ragazzoni
lesse al suo doge nel 1571, poco prima di Lepanto:

... Confessano i turchi e l'istesso Meemet Bascià che la Serenità Vostra può fare armata numerosa
e ben fornita di tutte le cose necessarie e stimano che questo Serenissimo Dominio (di Venezia)
abbia tesoro grandissimo, come quello ove le facoltà de' particolari siano poste in simili occorrenze
al servizio publico; ma, perciocché credono che gli uomini siano poco esperti nella guerra e di poco
animo nel combattere, poco ci stimano. (Ib. P. 101.)

Questo giudizio, cioè l'essere i veneziani più portati ai commerci che alla guerra, era stata
ammessa già dal veneziano Cristoforo da Canal nella sua Milizia marittima, opera scritta verso il
1545 e da noi già molto citata, laddove egli lamentava che nei combattimenti marittimi avutisi con i
maomettani i cristiani avevano avuto quasi sempre la peggio; ma per cristiani si devono qui
intendere i soli veneziani, in quanto le altre potenze occidentali non avevano ancora mai sostenuto
scontri marittimi d'importanza con gli ottomani. In effetti fino ai tempi del da Canal, Venezia nella
guerra nautica non aveva mai brillato; per esempio, in quel periodo infausto in cui l’armata della
701

Serenissima era stata comandata dal debole e incapace Antonio Grimani, il quale, oggetto di
critiche perché già aveva inspiegabilmente perso due buone occasioni di attaccare in posizione di
superiorità l’armata nemica e cioè una volta all’imboccatura dal golfo di Lepanto e un’altra mentre
questa usciva dalla baia di Portolongo presso Modone e l’isola Sapienza, il Grimani dunque il 12
agosto del 1499, disponendo ora invece di sole 54 galere, 28 navi e 16 galeazze da carico, aveva
attaccato disordinatamente a Navarino Daud Pasha, capitano generale di mare del sultano
Bayazid II, il quale aveva ben 260 vascelli tra remieri e velieri, grandi e piccoli, restandone
ovviamente e sonoramente sconfitto; quattro giorni dopo raccolse di nuovo le sue forze nella rada
di Zante, ricevendovi il rinforzo delle galere di Rodi e di un’armata francese di 22 vascelli, tra
remieri e velieri, inviata da Luigi XII di Francia al comando dal gran priore d’Auvergne, e cominciò
ad affrontare inutillmente i turchi in altre 3 disordinate e perse battaglie e cioè il 20, il 22 e il 25
agosto; infine, la sua armata, abbandonata dai francesi, perché questi ne avevano costatato
appunto il disordine, la mancanza di subordinazione dei capitani e in sostanza il poco affidamento
combattivo, sconvolta e disordinata anche da una sopraggiunta tempesta, dovette di nuovo
riparare a Zante, mentre i turchi, appoggiati in questo anche dal loro esercito di terra, andavano a
impadronirsi facilmente di Lepanto, i cui difensero vennero a patti con loro il 29 agosto:

… I francesi, scoperto tanto disordene, non vollero investir neanch'essi e, vedendo che non c’era
obbedienza, dicevano che la nostra armata era bella, ma che non avevamo speranza alcuna di far
bene. Se havessimo maggior armata, seria maggior confusion. Tutto procede da poco amor verso
la
cristianità e verso la patria; da poco cuore, da poco ordine e da poca reputazione. […] Tutti gli
uomini dabbene di questa armata, che pur ce ne sono molti, piangono e chiamano traditore il
Capitano, che
non ha avulo animo di far il debito suo. Francesi sono partidi e hanno abbandonato l'impresa (D.
Malipiero, cit. Parte prima, p. 179.)…
Quando il Re de Francia (Luigi XII) intese il successo (‘gli accadimenti’) dell'armata, disse a
Antonio Loredan ambasciatore: «Voi veneziani sete prudenti, abondate de richezze; ma avete
poco animo nell' imprese; havete troppo timor della morte. Noi prendiamo a far la guerra con
animo di vincere o di morire» (Ib. P. 183)…
(28 novembre:) … Dapoi la perdita di Lepanto, il re de Francia non mostra far quella stima della
Signoria (di Venezia) che egli faceva prima (ib. P. 189).

Il sessantacinquenne Antonio Grimani, riconosciuto colpevole di tali disastri per scarsa capacità e
competenza, fu poi, il 15 settembre successivo, sostituito nel comando con il provveditore di
Cremona Marchionne Trivisan, il che dimostra di quale carenza di uomini di comando bellico
soffrisse Venezia; fu inoltre lungamente processato a Venezia e alla fine condannato a esilio
perpetuo ad Óssero nell’isola di Cherso, mentre nel 1503 Venezia firmava la pace con il sultano
Bayezid II e, pur di riottenere la tranquillità dei suoi traffici, gli restituiva Santa Maura di Leucade
702

appena conquistata nel corso di quella stessa campagna del 1502. In effetti, la propensione di
Venezia ad accettare condizioni poco onorevoli nei trattati che andava nel tempo stipulando con al
Porta Ottomana, pur di preservare quel primato dei traffici mercantili di levante che l’avevano resa
ricca, non contribuiva certo a coltivarle rispetto presso quella corte e per esempio, nel suo giornale
di viaggio in Terrasanta del 1480 e con riferimento al rinunciatario trattato del 26 gennaio 1479, il
pellegrino Santo Brasca così scriveva:

… Ritrovandosi su la sera vicini al dicto scolio de Saxina, levassi lo sirocho e apparsero due vele
de’ turchi uscite da la ditta Valona, per la qual cosa tuti stessimo con qualche timore e non senza
cagione, e maxime perché in la pace fatta per el Turcho con veneziani parmi che alcuno non se
intenda securo s’el non è del paese loro (cioè della repubblica di Venezia) e apresso hanno
capitolato insieme che, ogni hora che li navilij de’ veniziani sono richiesti de calare le vele per
parte del bassaa sive capitaneo de l’armata del Turcho, elli siano obligati calare, ch’è una mala
cosa per forestieri che intrano in loro navilij… (A. LT. Momigliano Lepschy. Cit.)

In effetti allora il patrone di una galea veneziana addetta al passaggio in Terrasanta doveva
rispettare una clausola del suo capitolato di patente che l’obbligava a portare a bordo un
armamento sufficiente a un certo numero di scapoli (80 tra marinai e soldati nell’ultimo quarto del
Quattrocento) affinché potesse così eventualmente difendere e il suo vascello e i pellegrini
dall’assalto dei pirati o degl’infedeli; ma ciò non significa che queste galee fossero armate a guerra
né che tanto meno avessero anche loro quella micidiale artiglieria di prua che soprattutto rendeva
temibili le galere nei combattimenti marittimi.
Sul rispetto sostanzialmente numerico che i turchi portavano a Venezia già si era espresso nel
1560 il bailo Marino Cavalli nella sua relazione sull'impero ottomano:

... e, se stimano tutti li christiani, stimano anco assai la Serenità Vostra, la quale essi sanno che
sola può commodamente armare cento galere sottili, venti grosse e trenta o quaranta grossissime
navi, che appena tanto può fare (nel Mediterraneo) tutto il resto della Christianità; e, se (anche)
mostrano ciò non curare, fanno come quelli che vanno a caccia di leoni, come dicono essi turchi,
che gridando vorriano far paura a quelli, ma loro (stessi) non sono senza... (E. Albéri. Cit. S. III, v.
I, p. 285.)

Tornando ora alla suddetta relazione del Soranzo, è molto interessante quanto egli diceva a
proposito della perdita di sicumera e coraggio bellico da cui sembravano ormai irreversibilmente
afflitti i turchi, a ulteriore dimostrazione che la battaglia di Lepanto fu effettivamente una delle
principali pietre miliari poste dalla storia del mondo, perché pose un irreversibile ‘altolà’
all'espansione marittima dell'islamismo verso occidente, così come anche sarà quella di Vienna del
1683 per quanto riguarda l'espansionismo ottomano terrestre:
703

... La Serenità Vostra è in molta considerazione appresso a' turchi e di questo ritrovo che due sono
lo cause. La prima perché, appena i turchi hanno mosso guerra a questa republica (guerra di
Cipro), subito si sono mossi tutti li Principi ad ajutarla, il che non è mai avvenuto né al Re di
Spagna né all'Imperatore (del Sacro Romano Impero); onde vedono che, avendo guerra con lei,
sono necessitati averla con tutto il Christianesimo e che difficilissimamente possono resistere a
tutti. L'altra è che la gran rotta che ha avuto la loro armata dalla nostra il giorno della giornata
(battaglia di Lepanto), la qual rotta per dire il vero gli è molto a cuore. (Ib. S. III, v. II, pp. 203-204.)

Nel 1581 un altro residente veneziano, Francesco Morosini, definisce le 37 galere di Spagna le
peggio tenute di tutte le altre nella disponibilità di Filippo II, mentre le 12 della condotta di Gioan
Andrea d’Oria si possono riputar delle migliori galee del mondo (Ib. S. I, v. V, p. 318). Qualche
anno dopo e cioè nel 1584 il residente Matteo Zanne scriveva che le 37 galere di Spagna erano
tenute sempre mal armate, onde difficilmente il re si poteva servire di tutte in un medesimo tempo.
La migliore squadra era quella delle 10 galere di Genova seguita dalle otto dei particolari della
stessa città e dalle 13 di Sicilia; la squadra di Napoli infine conta in quell'anno 24 galere:

... se ben il Regno ne paga quaranta, ma Sua Maestà si val in altro di quel denaro, e questa
squadra (di Napoli) le costa 8.000 scudi per galea. (Ib. S. I, v. V, p. 352.)

La più grande azione bellica autonoma intrapresa durante l’intero viceregnato spagnolo dalla sola
squadra di Napoli fu senza dubbio la sanguinosa e crudele distruzione di Durazzo mentre era
vicerè il già ricordato conte di Benavente, episodio così ricordato dal Pantera:

... e il Marchese di Santa Croce, Generale delle galee di Napoli, l'anno 1606 surprese con esse
Durazzo, il quale era un sicuro ricettacolo di corsari, che continuamente infestavano le riviere della
Puglia, della Calabria e della Sicilia e l'abbrusciò insieme col castello; e con l'istesse galee andò
all'impresa dell'Aracce in Barbaria e l'anno passato surprese l'isola di Cherchen con gran
dimostrazione del suo valore, sforzandosi d'imitar continuamente le gloriose attioni del Marchese
suo padre, che è stato uno de i più coraggiosi e più prudenti capitani maritimi che habbiano
acquistato grido degno di memoria, come fanno fede le segnalate vittorie da lui ottenute molte
volte de i suoi inimici. (Cit. P. 54.)

Il marchese di Santa Cruz ricordato dal Pantera era ovviamente il figlio di quell’Àlvaro Bazán che
aveva partecipato alla battaglia di Lepanto, che poi fu fatto capitano generale delle galere di
Spagna, in seguito capitano generale del Mar Oceano e che era morto nel 1588. L'azione contro
Durazzo seguiva di pochi anni quella che nell’ottobre del 1601 avevano intrapreso le cinque galere
di Malta, essendo allora gran maestro l’intraprendente Luigi de Vignacourt, contro Castel Nuovo di
Morea, quando avevano cioè sbarcato quattrocento tra cavalieri e soldati e sorpreso con successo
quest’altro nido di corsari, e ricordava infine quella avvenuta proprio un secolo prima, cioè nel
1501, anno in cui un altro generale veneziano, Benedetto Pesaro, aveva sorpreso con otto galere
704

scelte la base turca della Prévesa, azione che decise dopo aver saputo che gli ottomani, allora
sotto Bayazid II, avevano colà costruito e varato molte galere nuove e che le tenevano poco
guardate. Il Pesaro si portò via 11 nuovi vascelli, bruciò quelli vecchi che si trovavano nel porto
usando gli stessi materiali preparati dai turchi per quella loro nuova squadra e ne fece anche in
parte bottino. Il marchese di Santa Cruz, come afferma il Pantera, aveva dato inizio a un periodo di
maggior attivismo offensivo delle galere napoletane e infatti, dopo l'impresa di Durazzo, passò due
anni - il 1608 e il seguente - a preparare l'impresa di Barbaria detta dell'Aracce, dal nome del luogo
preso di mira, azione il cui risultato non ci è stato dato di reperire nelle nostre ricerche, mentre
ebbe sicuro successo la predetta sorpresa dell'isola di Cherchen, situata di fronte all'attuale Sfax di
Tunisia, la quale avvenne poi nel 1611.
All'inizio del Seicento la squadra di galere di Spagna non doveva essere molto attiva se il
Cervantes Saavedra nel suo Don Quijote fa dire al personaggio di Ginès de Pasamonte, un picaro
scrittore condannato al remo, d'esser contento d’andar di nuovo in galera perché così avrebbe
avuto tutto l'agio di terminare la sua autobiografia:

... e non mi pesa molto di andarvi, perché colà avrò modo di finire il mio libro, che mi restano molte
cose da dire e nelle galere di Spagna c'è più tempo libero di quello che mi sarebbe necessario...
(M. de Cervantes Saavedra. Cit.)

Passando ora a dire della Francia, l'altra grande potenza mediterraneo- oceanica, bisogna
innanzitutto osservare che, a dispetto del deprecato uso oceanico delle galere, essa, oltre a una
squadra mediterranea la cui esistenza risulta chiaramente già dalle cronache delle battaglie
marittime angioino-aragonesi che si svolsero nel tredicesimo secolo (vedi e.g. Saba Malaspina),
ma come squadra però allora considerata non francese in generale ma provenzale solamente
(galeae Provincialium), ebbe anche per minor tempo una seconda squadra di galere nell'Atlantico,
vascelli che già nel Trecento erano correntemente costruiti nell’arsenale di Rouen, e, se i suoi
detrattori di parte spagnola potevano permettersi d’affermare che le galere francesi non
eccellevano e molto poco agivano, era perché straordinariamente le migliori imprese della
navigazione e della guerra remiera condotta dai transalpini avvenivano proprio a ponente di quel
regno. Attingendo dallo Jal, ma senza spingerci indietro sino a riportare le sue citazioni d’esempi
medioevali francesi, d’altra parte attesi visto che i vichinghi usavano vogare correntemente
nell’oceano e che nelle storie di Froissart si legge che Carlo V detto il Saggio (1338-1380) aveva
armato 35 galere, ricorderemo, per quanto riguarda l’età moderna, l’editto d’Amboise promulgato
da Carlo IX di Francia il 6 aprile 1562 e nel quale, tra l’altro, quel re eleggeva il suo luogotenente-
generale delle galere estans tant en la mer du levant que du ponant; nella seconda metà del
Cinquecento la Francia arrivò ad avere fino a una quarantina di galere nel Mediterraneo e fino a
705

una ventina sulle coste oceaniche, anche se, come sembra, queste ultime saranno poi in gran
parte dismesse nel secolo successivo, essendosi evidentemente e finalmente dimostrate anche ai
francesi molto meno adatte, vantaggiose e sicure per la navigazione oceanica di quanto si erano
rivelati i vascelli tondi, specie quelli d’alto bordo; infatti l’ultima notizia che abbiamo della presenza
di queste galere francesi oceaniche e quella di 4 di tali vascelli sulle coste della Gironda nel 1622
contro gli ugonotti, la cui ribellione stava però per estinguersi proprio in quell’anno con il trattato di
Montpellier. Verranno però reintrodotte nel 1689, quando a Bordeaux se ne armarono 15 costruite
a Rochefort, le quali poi, all’inizio dell’anno successivo, ricevettero da Marsiglia gli interi equipaggi,
ossia capitani, ufficiali e ciurme, e ciò perché la gente di mare di ponente non aveva più
esperienza di navigazione remiera; nel giugno dello stesso 1690 queste galere saranno inviate a
Brest a unirsi all’armata di 60 vascelli e 21 brulotti del de Tourville e poi di lì navigheranno sino a
Rouen, coniandosi in Francia per l'occasione una medaglia, e altre sei ciurme furono inviate per
loro a Brest da Marsiglia nei primi giorni del 1696. Se queste galere oceaniche, sei delle quali
risulteranno ancora in servizio il 1° gennaio 1698, erano del tutto uguali a quelle mediterranee,
oppure costruite con qualche sostanziale differenza per renderle più adatte alla navigazione
oceanica, non sappiamo; certo è che in Italia, alle prime notizie che s’ebbero di questa seconda
generazione di galere oceaniche francesi, ci fu una certa incredulità e si dubitò che, anche se le si
chiamava galere, in effetti si trattasse di galeazze, ossia di vascelli non di basso bordo.
A proposito dei vichinghi, bisogna precisare che la navigazione scandinava era principalmente
remiera ancora nel 1274, come dimostra il capitolo XXIII dell’ordinamento di diritto marittimo che in
quell’anno fu emanato a Bergen, capitolo ripetuto poi dal XXIV del codice islandese Jons-Bog, da
noi più sopra già ricordato, in quanto, come si sa, l’Islanda non fu in origine altro che una colonia
norvegese; dobbiamo però qui avvertire il lettore che noi rendiamo in italiano le traduzioni in
francese fatte del Pardessus, traduzioni che, specie nel caso di quelle da lingue scandinave
medievali, sono a volte un po’ troppo disinvolte:

… Tali sono le funzioni che, in conformità alle leggi delle città marittime, dovranno essere
esercitate in ogni vascello di grandezza legale, considerandosi come tale il vascello che ha due
traverse (di ponte) in ciascuna fila di banchi di rematori e che è munito di tutto ciò che è necessario
a ricevere un carico. (J. M. Pardessus. Cit.)

Anche i codici medievali islandesi citati dal Pardessus ci attestano esser allora la navigazione
nordica principalmente remiera; ecco il cap. I° di un ordinamento non datato:

Colui che prende i remi o i cordami d’un altro vascello, ma che poi li restituisce, sarà punito con
un’ammenda; se poi egli se n’appropria, sarà colpevole di furto e pagherà il doppio… (ib.)

Ecco poi il cap. XIX del predetto codice Jons-Bog:


706

… Nessuno dovrà dirigere il suo vascello a remi, non più che a vela, contro un altro per procurargli
del danno; ché colui che dirige così il suo vascello a remi incorre nelle stesse sanzioni. (ib.)

Alla navigazione remiera accennava pure il già citato statuto svedese di Biärköö o Birca del 1254 e
precisamente al cap. XIX; ma, per tornare ora alla marineria remiera francese, diremo che nel
1598 il residente veneziano Pietro Duodo, nella sua relazione sulla Francia, scriveva che, dopo gli
ultimi convulsi avvenimenti bellici che avevano tanto sconvolto quel grande regno, galere
praticamente non ce n’erano più, anche si stava programmando di costruirne di nuove; in
compenso avevano allora i francesi in mare forse 80 vascelli a vela di corso contro la Spagna, i
quali erano equipaggiati con nativi della Normandia, della Bretagna, della Guiana e della
Guascogna, terre che davano i natali a moltissimi valorosi ed esperti marinai, uomini cioè dal pié
marin, come dicevano i francesi:

... e questi, quando si partono da casa, com'anco fanno gl’inglesi, sono soliti di giurar sempre e
darsi la fede fra di loro di far tutto il male possibile agli spagnuoli e, se essi venissero in potere de'
nemici, più presto che lasciarsi far prigioni, dar fuoco al vascello e abbrusciarsi; in tanta rabbia è
convertito l'odio naturale che era tra queste due nazioni. (E. Albéri. Cit. Appendice. P. 109.)

Il già ricordato Barras de la Penne, contro le argomentazioni di coloro che al suo tempo
sostenevano l'inutilità per la Francia d’avere una squadra di galere, elencava le principali imprese
belliche delle moderne galere francesi, le quali per esempio nel 1513, passate nell’oceano sotto
guida del già ricordato Prégent de Bidoux, difesero validamente le coste della Bretagna attaccata
dagl'inglesi, affondando a questi ben otto vascelli da guerra e perdendo il de Bidoux un orecchio in
uno di tali combattimenti; il 15 agosto 1545, comandate ora dal già più sopra menzionato loro
capitano generale barone della Garde, attaccarono la flotta inglese e affondarono il Mary Rose,
vascello che portava il vice-ammiraglio d'Inghilterra.
Con lettera reale del 1° giugno 1547 ottenne il comando delle galere di Francia Leone Strozzi,
priore di Capua e nipote del papa Leone X, nato nel 1515 e fratello minore del più famoso
maresciallo Piero, il quale succedeva così al predetto barone della Garde, del quale era stato
d’altra parte prima fatto luogotenente con nomina del 31 maggio 1543; egli, nell'agosto del 1548, a
capo di una dozzina di galere provenienti dal Mediterraneo, passò lo stretto di Gibilterra e,
sfidando non solo l’oceano, ma anche il Mare del Nord, arrivò in Scozia, dove il 30 luglio prese il
castello della città di St. Andrews e dove vendicò il recente omicidio del cardinale di quella città
impiccandone gli assassini; poi a Leith imbarcò Mary Stuart, regina di quel regno e allora bambina
di soli sei anni, la quale Enrico VIII pretendeva sposasse suo figlio Eduardo, e la sbarcò a Brest
perché andasse a Parigi a fidanzarsi invece col Delfino di Francia, riuscendo così a sfuggire
707

all’armata inglese che lo attendeva tra Dover e Calais; un’impresa notevole che sarà poi, come
abbiamo già visto, in parte imitata dal capitano generale François de Lorraine una dozzina d’anni
più tardi. Nel successivo 1549, durante la guerra che Enrico II conduceva contro gl’inglesi per
obbligarli a lasciare Boulogne, è ancora Leone Strozzi a guidare l’armata francese alla vittoria
contro i vascelli inglesi, vittoria ottenuta soprattutto dalle sue allora 12 galere, perché si combatté
in bonaccia, quindi in condizioni atmosferiche molto favorevoli ai vascelli remieri.
Verso la fine del maggio 1573 furono proprio galere francesi a respingere l'armata inglese
dell'ammiraglio Montgomery che veniva a portar soccorso agli ugonotti della Rochelle; esse erano
ora capitanate nuovamente d’Antoine Escalin, il quale, riabilitato il 13 febbraio 1551 dopo tre anni
di prigione, ne aveva poi riavuto il carico abbandonato dallo Strozzi il 16 settembre di quello stesso
anno, poiché questi, osteggiato dal potente connestabile de Montmorency, il quale parteggiava per
il certamente meno valoroso Escalin, aveva deciso, come già fatto da Andrea d’Oria, di lasciare il
servizio per la Francia e di andarsene con due sue galere a servire il Gran Maestro di Malta,
decisione che annunciò poi al fratello Piero con una lettera del 18 dicembre successivo, missiva
riportata per intero in italiano dal de Bourdeilles, al quale fu mostrata in casa Strozzi; pure
sfortunato sarà il tentativo britannico di portare aiuto alla piazzaforte protestante nel 1622, perché il
10 aprile di quell'anno nella rada dell'isola del Re al di sopra di S. Martin 70 vascelli inglesi saranno
affrontati e sconfitti da 65 vascelli e 10 galere realiste francesi fatte venire l’anno precedente da
Marsiglia sotto il comando del duca di Guise, il quale era imbarcato sulla galera Reale del generale
delle galere Philippe Emmanuel de Gondy, conte di Joigny e marchese delle Isole d’Oro, barone di
Villepreux e signore di Dampierre (15.4.1598-1625); gl’inglesi vi perderanno 10 vascelli e circa
2mila uomini, i francesi invece nessun vascello, ma avranno 400 tra morti e feriti; poi, il 26 ottobre
di quello stesso 1622, il di Guise vincerà anche sui roccellesi ponendo così definitivamente fine
alla ribellione protestante in Francia. Gli ugonotti avevano allora una strana piccola triremi di soli
14 banchi per lato e il cui cannone corsiero si chiamava le Chasse-Biron. Insomma, come
dimostrano tutte queste predette imprese delle galere francesi, si potevano usare i vascelli remieri
con successo anche nell’oceano, quando ovviamente questo non fosse in tempesta.
Il 1° settembre 1638, nel corso della guerra franco-spagnola, si scontreranno davanti a Genova
galere asburgiche allora alla fonda nella rada di Vado e quelle galere francesi dell’allora capitano
generale François de Vignerod, marchese di Pont-de-Courlay in Poitou, nipote del cardinale de
Richelieu, il quale fu in quella carica dal 15 marzo 1635 all’inizio di gennaio 1643, quando sarà
sostituito dall’appena quindicenne figlio Armand Jean; lo scontro si risolverà sostanzialmente a
favore dei transalpini, perché, come narra sempre Barras de la Penne, la Capitana di Francia
s’impadronirà di quella spagnola dopo due ore di combattimento all'arma bianca, la Patrona di
708

Francia espugnerà quella di Sicilia, la Cardinale prenderà la Patrona di Spagna, la Richelieu


catturerà la S. Francesco, quella del commendatore monsieur de Vincheguerre avrà ragione della
Bassiana e l'Aiguebonne della S. Maria; resteranno invece in potere degli asburgici la Valbelle, la
Servienne e la Maréchale, ma comunque il de Vignerod rientrerà da vincitore a Marsiglia il
seguente 23 ottobre. Le galere del de Vignero andranno poi a minacciare Napoli nel 1640, quindi
al tempo in cui questo regno era governato dal vicerè Ramiro de Guzman duca di Medina de las
Torres (1637-1644)e infine tra gli anni 1641-1642 altre rimarchevoli imprese compiranno nei mari
della Catalogna.
Tornando ora però indietro al 1535, cioè alla relazione di Francia del residente veneziano Marino
Giustiniano, questi riferiva avere allora quel regno 30 galere, di cui 26 all'ordine e le altre quattro
da potersi armare velocemente; ne era allora capitano generale il già ricordato Antoine della
Rochefoucault. Si trattava di galere sforzate, vale a dire, come sappiamo, con ciurme costituite
principalmente da forzati, ... ma non hanno reputazione di essere molto buone..., scriveva il
diplomatico della Serenissima; eppure solo pochi anni più tardi Cristoforo da Canal avrebbe
espresso d’esse un giudizio del tutto opposto, definendole molto buone e di molta stima nel mare
(cit. P. 170), forse a seguito del summenzionato affondamento della Mary Rose.
In seguito alla suddetta bella impresa in Scozia Leone Strozzi fu incaricato, come si legge nella
relazione di Francia del residente veneziano Matteo Dandulo del 1548, di costruire a Nantes in
Bretagna un grande arsenale capace d’ospitare 50 galere, le quali erano però da fabbricarsi in
quello di Marsiglia in parti da assemblare, parti che sarebbero poi state trasferite a Nantes per via
fluviale sulla Loira unitamente alle necessarie ciurme. Non sappiamo se questo progetto non fu poi
realizzato o se deluse nei suoi risultati, perché nella più tarda relazione d’un ennesimo residente
veneziano, Giacomo Soranzo, il quale scriveva nel 1558, così si legge:

... Nell'Oceano non si serve Sua Maestà (Enrico II) di galee, essendosi veduto per esperienza che
non riescono per il grande impeto dell'acqua, ma si bene di navi, delle quali ha modo di averne
grandissimo numero da' particolari (‘privati’), le quali però non eccedono per portata trecento botti,
e similmente in Normandia, Brettagna e Guascogna vi è un gran numero di uomini di comando e di
tutte le altre cose che sono necessarie per fare armata. (Ib. S.I, v. II, p. 419.)

Nel Mediterraneo la Francia aveva invece in quell'anno una squadra di 40 galere, ciurmate sia di
condannati che di schiavi, delle quali era capitano generale il già menzionato François de Lorraine;
si trattava però per la maggior parte di galere di proprietà di particolari, per i cui scapoli il re pagava
l'equivalente di 400 scudi il mese con obbligo per loro di retribuire 60 (tra marinai e soldati) per
galera oltre a tutte le altre spese; solo in caso che le galere uscissero in azione di corso o di guerra
Sua Maestà pagava in più e per la sola durata dell'azione stessa il soldo di 40 di quei 60 uomini.
709

Questa squadra però presto decadde, a causa della molto maggior importanza che i francesi,
come abbiamo già detto, davano alla navigazione oceanica, e infatti nel 1562, cioè solo quattro
anni dopo la relazione del Soranzo, il residente veneziano Michele Soriano così leggeva in senato
a proposito della milizia francese:

... Di quella di mare non si può dir gran cose perché il non avere gran numero di legni né d'armeggi
né d'uomini di remo né di comando non ha lasciato mai mettere insieme tante forze che
bastassero a fare impresa segnalata per offesa d'altri; e però è stato introdotto dal tempo del Re
Francesco (I) in qua il valersi dell'armata del Turco in guerra. É vero che per difender il Regno non
è mai stato bisogno di aiuti forestieri, perché nel mar Oceano s'ha potuto avere in un colpo (solo)
sino a 200 legni di vela che si chiamano 'navi', se bene il maggiore non passa 300 botti di portata,
e nel mare di Provenza s'ha armato sino a quaranta galee, che al presente sono ridotte in otto; le
quali galee hanno servito alcune volte ancora nel mare Oceano, ma più per passar gente in Scozia
e per mettere gelosia a qualche altro principe che per altro effetto. (Ib. S.I, v. IV, pp. 115-116.)

Alla luce dell'imprese compiute dalle galere di Francia alle quali abbiamo sopra accennato il
giudizio del Soranzo risulta però troppo severo, forse dettato dal dispetto veneziano per la
scandalosa alleanza marittima tra la christianissima monarchia francese e la maomettana Turchia
sancita nel 1536 in un regolare trattato firmato da Francesco I e da Sulaiman il Magnifico, alleanza
antiasburgica che sarà poi rinnovata nel 1569 e che durerà purtroppo sino alla fine del secolo; ma
lasciamo trascorrere altri 10 anni e arriviamo alla relazione del residente veneziano Alvise
Contarini, la quale è appunto del 1572:

... Nel mar Oceano, che in Francia si chiama 'marina di ponente', ha il Re (Enrico III) 17 vascelli, i
quali sono come barche (cioè a vela latina), le maggiori della portata di 1500 botti, le minori di 400,
ma nessuna di esse al presente è armata per non n’aver bisogno da quella parte, essendo già
molti anni in pace con Inghilterra. Ma, quando fosse in guerra, averia il Re modo, oltra questi 17
navilij, d'armarne quanti gli piacesse, perché in tutta quella costa di mare dai confini di Spagna sino
a Calés (‘Calais’), che è lunga più di 700 miglia, è una infinità grandissima di vascelli di commercio
e di marinari valenti per que' mari e per natura inimici degl’inglesi, massime i brettoni e i normandi.
Nel mar Mediterraneo, cioè quel di Marsiglia, che in Francia si chiama 'marina di levante', ha il
Re 18 corpi di galea sottile, otto de' quali sono armati, sei ancora ne' mari di là, ma hanno da
passar di qua, gli altri sono a Marsiglia; numero, come vede la Serenità Vostra, pochissimo ad un
tanto Regno... (Ib. S. I, v. IV, pp.235-236.)

Infatti, se avesse disposto d’una grande squadra di galere nel Mediterraneo, la Francia, quasi
costantemente in guerra con la Spagna, avrebbe potuto impedire a quest'ultima i collegamenti
marittimi con i suoi possedimenti italiani e provocare così la fine del predominio spagnolo in Italia;
ma la scelta da essa fatta in questo campo era del tutto evidente e notoria:

... Ma la causa perché non abbiano atteso il tempo passato ad armarsi per mare credo che sia
assai chiara e che sia perché i francesi han reputata come propria l'armata turchesca e, quando
710

han disegnato qualche impresa contro gli spagnuoli, hanno mandato a Costantinopoli a far uscir
l'armata. (Ib. P. 236.)

L'uscita in mare dell'armata turca metteva in subbuglio tutte le marine delle province soggette alla
corona di Spagna sia in Italia sia in Barbaria sia nella stessa penisola iberica e ciò sin dall’11
agosto 1480, quando gli uomini scesi da 100 vascelli ottomani di Maometto II presero d’assalto
Otranto, città di 22mila abitanti, di cui ben 12mila furono uccisi in quella funesta occasione; in
effetti questo primo grande assalto a ponente era stato voluto per punire il re Ferrando
(‘Ferdinando I’) d’Aragona d’aver mandato soccorsi ai cavalieri di Rodi, i quali, anche in virtù di tali
aiuti, consistenti in tre grossissime navi cariche d’uomini, artiglierie e munizioni, riuscirono in
quell’occasione, sebbene in soli seicento, a respingere ancora una volta l’assalto della sterminata
armata turca. Otranto verrà però ripresa dagli aragonesi nel settembre dell’anno seguente. Tali
uscite in mare di conseguenza obbligavano la predetta corona a frazionare le sue forze nel
tentativo di difendere tutto e tutti, così come avvenne verso la fine d’aprile del 1543, quando
l'armata turca comandata da Kheir Eddine, ossia dal famoso Barbarossa, e consistente in 70
galere (secondo altri 110), 40 galeotte e fuste, 4 maone e un centinaio di velieri con 14.000 uomini
combattenti tra soldati e marinai, lasciò il porto di Modone e venne a gettare l’ancora davanti a
Reggio Calabria, recando a bordo il già ricordato capitano Poulin de la Garde, il quale, inviato
ambasciatore a Costantinopoli, aveva avuto dal suo sovrano il compito di guidare i turchi sino a
Marsiglia per poi spingerli all’attacco di Nizza e che per questi suoi buoni servigi l’anno successivo
riceverà la nomina a capitano generale delle galere di Francia; i turchi, scriveva il de la Gravière,
scesi a terra a far provvista d’acqua, entrarono nella città abbandonata dai suoi abitanti, i quali
avevano portato con sé ogni cosa da bottino, e l’incendiarono; il castello di Reggio era difeso da
una sessantina d’uomini comandati dal nobile Diego Gaetano e questi fece l’errore di comandare
ai suoi di tirare qualche cannonata sugl’incendiari, uccidendo così tre turchi e un rinnegato; il
Barbarossa, irritato, reagì facendo battere dalla sua artiglieria il castello e costringendolo così alla
resa dopo tre giorni. Secondo un’altra versione il Barbarossa, non ancora sbarcato, aveva chiesto
al Gaetano, non castellano, bensì governatore di Reggio, il versamento d’un forte riscatto per
evitare la presa e il sacco della città; ma il coraggioso napoletano, per tutta risposta, li fece sparar
contro un colpo di cannone che gli uccise tra marinai e allora egli fece sbarcare 12mila uomini che
misero a sacco Reggio, l’incendiarono e poi ne presero anche il castello. Già nell’ormai lontano
1511 il Barbarossa aveva partecipato con la sua squadriglia all’armata di 60 vascelli turco-
barbareschi che alla fine d’agosto di quell’anno avevano preso, devastato, saccheggiato e
incendiato la stessa Reggio tanto duramente che l’allora vicerè del regno di Napoli Raimundo de
711

Cardona y Córdova, il quale aveva inviato in troppo tardivo e quindi inutile soccorso della città il
marchese di Bitonto al comando di 20 galere e 4 tartane, le accordò due anni d’esenzione fiscale.
Navigando poi lungo le terrorizzate coste italiane, il Barbarossa, devastò quelle del Regno di
Napoli, ma poi, tenuto a freno dal Poulin, non saccheggiò più alcuna località in quanto dal Lazio in
su non c’erano altri possedimenti spagnoli e anzi, incredibilmente, i turchi cominciarono a pagare
regolarmente alle popolazioni rivierasche tutte le provviste che da quelle dovevano comprare; il 25
luglio, giorno di S. Giacomo, arrivò quest’armata a Marsiglia, dove il Barbarossa fu accolto con tutti
gli onori dal duca de Enguien, ma Francesco I, timoroso adesso di servirsene veramente contro
dei cristiani come lui e sospettoso dei progressi bellici che in quel tempo Sulaiman stava facendo
in Ungheria, la mantenne inattiva per diverse settimane, finché poi, costretto a impiegarla in
qualche maniera, la spinse all’assedio di Nizza, unica piazza marittima del ducato di ),
rinforzandola con la sua stessa armata, comandata questa dal predetto de Enguien e consistente
in 22 galere proprie, 4 del conte Virginio d’Anguillara e 18 navi equipaggiate dal Poulin e sulle quali
erano stati imbarcati 7mila soldati provenzali, guasconi e fiorentini; i franco-turchi sbarcarono a
Villafranca e investirono Nizza con l’appoggio d’un cannoneggiamento dal mare e la città, dopo 12
giorni d’assedio e tre assalti, s’arrese, ma restando però la strenua resistenza del castello
comandato dal castellano Paolo Simeoni e ciò nonostante la batteria turca comprendesse
basilischi e colubrine, cioè i pezzi d’artiglieria più potenti del tempo; nel frattempo, dopo aver fatto
schiavi 300 civili nizzardi, si misero a devastare il Nizzardo, il Monegasco e il Sanremese, facendo
schiavi moltissimi abitanti di quelle zone, specie donne e bambini. In seguito, preparato
dagl’ispano-italiani un soccorso sotto la guida d’Alfonso de Ávalos marchese del Vasto e del duca
di Savoia, Andrea d’Oria venne dalla Spagna con le sua galere a imbarcarlo ad Albenga per poi
portarlo a Villafranca; di conseguenza i turchi si ritirarono dall’assedio e il Barbarossa, portò la sua
armata a svernare a Tolone, con tutto l’immaginabile disagio e peso economico e tutte le
conseguenti vessazioni che quella popolazione dovette di conseguenza sopportare – si leggano a
tal fine le cronache francesi del tempo - e crediamo che a questo punto Francesco I doveva essere
certamente ormai molto pentito di averla invitata a venire in Francia; da Tolone, non volendo
evidentemente tornare a casa senza prede sufficienti a giustificare il viaggio della sua grande
armata, il Barbarossa spingeva squadre di galere sotto il comando dei suoi luogotenenti Saleh ( o
Salah o Salih) Raïs e Hassan-Ghelesi a infestare le coste della Catalogna e, senza gran risultati,
anche quelle sarde, poi in primavera riprese il mare e devastò di nuovo il territorio sanremese,
mancando però la presa del suo capoluogo per la seconda volta; si pose in seguito a Vado Ligure,
dove pretese da Genova un forte riscatto per non assalire la Liguria e, invitato da Andrea d’Oria a
scendere a terra per incontrarlo, lo fece e s’accordò con lui per il riscatto con 3mila scudi d’oro
712

(secondo altri con 3.500 ducati) del suo fido Torgud, prigioniero dei d’Oria sin dal 1540, avendo
intanto già ottenuto il riscatto di 400 maomettani che erano al remo delle galere francesi e facendo
in tutto ciò orecchie da mercante agli inviti a tornarsene a Costantinopoli che gli arrivavano da
Francesco I, il quale a ciò ora lo spingeva sia perché aveva le casse vuote per aver dovuto
mantenere così a lungo l’armata di quello scomodo alleato e per i viveri e per gli stipendi sia
perché le nuove relazioni instauratesi tra il Barbarossa e Andrea d’Oria in seguito al predetto
riscatto non gli piacevano per niente, temendo che tra i due si fosse stretto un occulto accordo di
reciproca non-belligeranza, e a questo proposito il de Bourdeilles ricorda il vecchio proverbio dei
remiganti di galera spagnoli: De corsario a corsario no ay que ganar que los barriles de agua, nel
senso che a bordo dei vascelli corsari, a meno che non avessero appena fatto delle prede, non si
potevano certo trovare ricchezze tali da rendere conveniente il cercare d’impadronirsene, ed è
quindi da notare che Andrea d’Oria era evidentemente considerato dalla gente di galera né più né
meno che un corsaro egli stesso. Finalmente, rimpinzata di danaro, di approvvigionamenti e di
regali dai francesi, a fine maggio 1544 l’armata turca riprende la via del ritorno accompagnata da
Leone Strozzi e dalla sua squadra di galere, perché questo autorevole generale francese avrebbe
dovuto spiegare al Divano di Costantinopoli i motivi per cui una così grande armata se ne tornava
con un così scarso risultato bellico; ma questa via del ritorno risultò per le popolazioni rivierasche
italiane molto più dolorosa di quella dell’andata, perché il Barbarossa intendeva cercare di rifarsi
almeno in parte dei predetti magri guadagni, e non si capisce perché Carlo V, il quale aveva avuto
un intero inverno per poter allestire una grande armata, non abbia, arrivata la primavera, disputato
il Tirreno al Barbarossa, limitandosi Giannettino d’Oria con 30 galere a controllarlo a distanza.
L’armata turca dunque devastò, depredò e incendiò le coste italiane man mano che si spostava
verso sud e ne fecero le spese di nuovo il Sanremese – dove però fu di nuovo respinto dal
capoluogo – e poi l’Elba, Castiglione, Telamone, Montiano, il Giglio, Port’Ercole, essendo stato
però respinto anche a Orbetello e a Civitavecchia; in seguito, intendendo prendere Pozzuoli, fece
sbarcare e porre la sua artiglieria d’assedio sotto il comando di Salek, uno dei suoi uomini più
intendenti e valenti, ma il vicerè Pedro de Toledo corse in soccorso dei puteolani con mille uomini
e lo respinse, ed ecco quello che scriveva a tal proposito, nel suo rozzo italiano, il diarista
Tommaso di Catania:

A dì 25 jugno venne Barbarusso in Pezulo et combattio con boni pezi de cannoni et la mattina nge
andò il Vicerè D. Pietro de Toledo tutto armato con tutti li baruni gentiluomini et continui (‘guardie
del corpo’), dove lo fero retirar in dietro, che se non veniva detto soccorso se perdeva Pezulo,
dove ‘nge morsero da circa 30 cavalli (‘cavalieri’) tutti de importantia, che foro 1500 tra tutti, et li
vascielli (nemici) alla ritornata sachejaro et abrusciaro Procita et pigliaro tutti li casali de Isca
713

(‘Ischia’). (Chroniche antiquissime dall’anno 986 fino al 1552. In Raccolta di varie croniche, diarj,
ed altri opuscoli etc. P. 45. T. I. Napoli, 1780.)

Ciò fatto, il grande corsaro, devastate appunto Ischia e Procida, avendo tralasciato Salerno a
causa d’un forte vento sfavorevole, distrusse Policastro, prese Lipari traendone schiavi più di
settemila abitanti e lasciandola così a lungo quasi deserta (et les vestiges en paroissent encor, car
c’est une tres-pauvre isle et une miserabile habitation, scriveva il de Bourdeilles, essendo ormai
tanto malridotta da essere la plus chetive isle, pour estre la moins habitable de toute la mer
Mediterranée (cit.) e poi, laddove lo stesso memorialista ricorda il triste episodio dei soldati
spagnoli ammutinatisi che il vicerè di Sicilia Ferdinando Gonzaga mandò di guarnigione in isole
semi-deserte, perché vi morissero di fame, in aggiunta la dice l’isle de Lypary, que je pense n’avoir
(jamais) veu si miserabile habitation; car il n’ycroist que des capriers. Il Barbarossa continuò poi
le sue devastazioni assediando la città di Patti e mettendola a ferro e fuoco, depredando,
dannificando e incendiando gli abitati della costa di Milazzo e anche alcuni a essa interni e infine,
nel passare lo stretto di Messina, attaccando e incendiando nuovamente Reggio Calabria, ancora
debolmente difesa, Catona, Fiumara, Calanna e poi Cariati, Gallipoli e altri disgraziati luoghi, i quali
anch’essi, come narra realisticamente il de la Gravière:

…remplirent les galères turques d’une si grande quantité de captifs, d’une telle abondance de
butin, que les vaisseaux succombaient, pour ainsi dire, sous la charge… Les prisonniers, entassés
sur ces étroits navires, mouraient en foule de faim, de soif ou de misère… (J. De la Gravière. Cit.)

Ma ne restarono talmente tanti che il Barbarossa, anche detratti quelli che toccarono ai suoi
numerosi ufficiali e rais, poté rifornire di giovani schiavi tutta Costantinopoli; il tutto guadagnò con
la perdita d’una sola galera, la quale era finita di traverso a terra a Gallipoli. Tornò dunque alla fine
il Barbarossa a Costantinopoli con 7.000 cristiani prigionieri, cioè poco più d’un terzo del totale di
quelli presi durante l’intera la lunga campagna d’Italia, essendo stati tutti gli altri buttati in mare
cadaveri. Fu questa spedizione del Barbarossa una delle più grandi vergogne della Cristianità, sia
per Francesco I, uno dei peggiori re che la Francia abbia mai avuto, che l’aveva provocata sia per
Carlo V che non la contrastò.
Feroci furono pure le incursioni del 1555, quando l’armata turca, riattraversato lo stretto di
Messina, scorse i mari di Calabria e saccheggiò la città di Paola; quelle del biennio 1593-1594, ma
specie nel secondo di questi anni, cioè quando l'armata ottomana, oltre a colpire di nuovo Lipari,
saccheggiò le coste pugliesi e calabresi, tra cui la stessa Reggio Calabria, la quale poi fu pure
crudelmente incendiata, e i suoi casali; i danni totali provocati in quelle scorrerie furono l’anno
seguente valutati a ben un milione e mezzo di ducati d’oro. Una lettera-relazione scritta il 12
714

maggio1587 da Cotrone da un certo Carlo Pandone a Bernardino Sanseverino principe di


Bisognano, pubblicata poi a Milano e in seguito a Lione in francese, ci narra dell’incursione fatta in
tale città il 3 maggio di quello stesso anno da una flottiglia di 12 fuste turco-barbaresche; il predetto
giorno, in occasione d’una ricorrenza religiosa, la popolazione s’era raccolta in una chiesa a due
tiri d’archibugio dalla costa, ossia a un quarto di lega, quando, informate da qualche rinnegato
traditore, s’avvicinarono 12 fuste turchesche, tutte da 16 banchi; messi a terra molti armati, in
maggioranza arcieri, i corsari cominciarono ad attaccare questa povera gente disarmata,
uccidendone e ferendone molti e catturandone un’ottantina, tra cui più di 20 dame incluse le sei più
notabili della città; poi saccheggiarono la chiesa stessa di tutta l’argenteria e, reimbarcatosi, fecero
rotta verso Reggio. Fortunatamente la mattina seguente le 12 fuste s’imbatterono in una
squadriglia composta di 4 galere di Malta e 2 del genovese Bandinello Sauli; i corsari s’erano
preparati a combattere, ma, ridottasi la distanza e accortisi di aver a che fare con forze non solo
superiori, ma anche contraddistinte dalla bianca croce dell’ordine gerosolimitano, quindi
agguerritissime, si misero in fuga; però, maltrattate dalla grossa artiglieria di prua delle galere, una
fu così affondata dalla Patrona genovese, due furono catturate dalla Capitana di Malta, altre due
da quella del Sauli e le rimanenti s’arresero alle altre quattro galere dei cristiani, senza che questi
avessero subito una sola perdita. Prese le fuste a rimorchio, la mattina del 6 le galere cristiane si
presentarono davanti al porto di Cotrone, con grandi salve d’artiglieria alle quali rispondeva quella
del castello; la popolazione si riversò sulle calate del porto e, vedendo le fuste trainate con la
poppa d’avanti, come s’usava già nel Medioevo (d’Esclot, Cronica) quando si trainavano vascelli
nemici, subito comprese l’avvenuto, perché, appunto sin da tempi lontani, il mostrare
pubblicamente le armi, i vessilli o i vascelli del nemico o d’un traditore invertiti o capovolti era un
modo d’attribuirgli grande disonore, così come invece strascinare per terra le proprie armi o
bandiere era segno di pubblico lutto. I cristiani liberati furono dunque accolti con grande gioia e si
fece subito una processione religiosa sino alla cattedrale della città, essendo dei cittadini catturati
solo due caduti durante la battaglia; furono anche liberati circa 120 remieri cristiani schiavi; furono
uccisi 22 turco-barbareschi e i prigionieri furono 566; della parte migliore del bottino facevano
parte, oltre alle armi, duemila pezzi d’oro turchi di quelli detti dai cristiani sultanini. I 12 raís delle
fuste furono dal generale di Malta inviati in omaggio al vicerè di Napoli e tutti gli altri furono messi
alla catena, dopo però che s’erano somministrati buoni tratti (vn. scossi) di corda a diversi di loro
per sapere se altri vascelli corsari tenevano allora il mare; tra le notizie date dai torturati ci fu che
Mami Arnaute stava allestendo otto galeotte a Susa di Barbaria (Tunisia) per venire anch’egli a
infestare quei mari; tra i prigionieri furono poi scoperti cinque rinnegati cristiani, cioè due calabresi
e tre genovesi, i quali avevano fatto da boutefeux, ossia da promotori, alla spedizione delle fuste
715

contro Cotrone, e, poiché nessuno d’essi volle redimersi tornando alla fede cristiana, furono
bruciati vivi al centro della piazza principale di Cotrone avec le contentement de tout le peuple. La
comunità di Cotrone si sdebitò con i maltesi, regalando al loro generale una catena d’oro del valore
di 800 scudi e alcuni bellissimi tappeti, inoltre munizioni da guerra e danaro per più di mille scudi
per gratificarne i soldati; la lettera dimenticare di riportare che cosa ebbero invece in regalo
Bandinello Sauli e i suoi genovesi (Copie d’une lettre envoyée de Coutron en Calabre etc. Lione,
1587. B.N.P.).
Queste incursioni, le quali nel secolo successivo andranno scemando, anche se ne ricordano
particolarmente alcune, come per esempio la presa di Manfredonia nel 1622 e l’attacco a Cotrone
del 1638, costringevano la Spagna a dividere le sue forze per presidiare tutti i suoi possedimenti
mediterranei e la Francia poteva così approfittarne per sferrare il suo colpo dove più le piacesse.
Ora però, tornando al predetto 1572, l'armata turca era allora diventata psicologicamente
debolissima, a causa della terribile rotta patita a Lepanto l'anno precedente e chissà quando se ne
sarebbe ripresa; perciò il re di Francia Enrico III aveva ordinato la costruzione di ben 100 corpi di
galera, deliberazione di cui però già allora sembrava molto dubbia la possibile realizzazione sia per
la scarsezza di danaro di cui allora soffriva il regio erario francese sia per la mancanza di sufficienti
uomini di comando, ossia, come sappiamo, di semplici marinai, per così tante galere, uomini che
avrebbe infatti dovuto fornire la sola Marsiglia:

... e, se bene in Francia fan conto valersi di qua (nel Mediterraneo) de' marinari dell'altro mare,
niente di manco, essendo quel mare molto differente da questo e la maniera del navigar del tutto
diversa, 'sì che quasi tutti que' marinari (dell'Atlantico) non solamente non han comandato
(‘manovrato’), ma né anco a pena han mai vedute galee sottili, si può con ragione giudicare che
non riusciranno o almeno non così presto. (E. Albéri. Cit. S. I, v. IV, pp. 236-237.)

Inoltre, dovendosi costruire parte di queste galere sulle stesse marine di ponente, come si
sarebbero poi fatte passare nel Mediterraneo così equipaggiate di marinai inesperti, anche se per
esempio di quelli ottimi per l’oceano che nascevano nelle isole di Ré e d’Oléron, i quali in aggiunta
avrebbero dovuto costeggiare Spagna e Portogallo, cioè regni allora tutt'altro che amici? Non
sarebbero mancati invece materiali, viveri, armamenti e remiganti:

... galeotti non mancariano, essendo il Regno tutto popolato e facendosi morir per giustizia tanti
uomini che il quarto di essi bastariano a tener armato un buon numero di galee. (Ib. P. 237.)

Ai condannati comuni si aggiunsero presto gli ugonotti presi prigionieri nella sanguinosa guerra
civile; per esempio nel 1577 il generale de Lansac, presine 600 sulle navi inglesi da lui sconfitte
nella battaglia marittima combattuta davanti a Bruges, li fece incatenare seduta stante ai banchi
716

delle galere, delle quali era ancora generale l’Escalin, eccezion fatta per i personaggi di qualità, i
quali fece invece decapitare. Ambizioso o non ambizioso che fosse, questo gran progetto di
costruzione di galere non poté poi esser realizzato da un regno che stava per esser sempre più
travolto dall'odio di religione e infatti, come abbiamo già detto, alla fine del secolo la squadra di
galere francesi, anche se ufficialmente si continuava a eleggerne i capitani generali, in sostanza
non esisteva più. Fu poi ricostituita, ma molto saltuariamente adoperata, e infatti nel 1630 così si
esprimerà a tal proposito Jean- Jacques Bouchard:

... Le galere non servono ad altro che a consumare danaro. Saranno cinque o sei anni che non si
muovono dal porto; i corsari d'Africa vengono ad inseguire i vascelli sino alle nostre rade senza
che esse si muovano. La maggiore utilità che esse apportino è che servono, come un inferno, a
tormentare i malvagi. (J. de la Gravière. Cit.)

In seguito la Francia continuerà a non dedicare sufficiente cura alle sue galere e infatti nel 1713
ecco che cosa scriverà il pure già citato Barras de la Penne:

... Da più di dieci anni a questa parte si sono lasciate talmente deperire le nostre galere che non
c'è più un solo scafo che non abbia bisogno di un grandissimo raddobbo; le ciurme non sono per
nulla in miglior stato... (Ib.)
Non a caso questa nazione sarà anche la prima potenza che - con un editto del 1748 - sopprimerà
la sua squadra di galere, poiché i grandi progressi fatti dai velieri sia in tema di manovrabilità velica
sia d’idrodinamica li avrà resi ormai autonomi e superiori alle galere sia in guerra che in pace e
ultimo generale della squadra francese sarà il cavaliere d'Orléans, gran priore di Francia, morto nel
1746; le altre nazioni mediterranee invece continueranno sino alla fine del Settecento a servirsi di
questi millenari vascelli nella lotta ai corsari turco-barbareschi e i soldati di Napoleone, quando
prenderanno Venezia, vi troveranno ancora in costruzione non solo galere, ma anche galeazze
mercantili. In effetti, anche se ormai la navigazione da guerra velica era diventata adulta e
permetteva d’usare molto agevolmente grandi batterie d'artiglieria, la galera continuava a offrire
molti dei suoi vantaggi, quali il potersi avvicinare molto alla costa sui bassi fondali, il navigare tra gli
scogli, essendo quindi ancora molto usata sia come guarda-coste per contrastare i corsari nemici
sia per effettuare e difendere gli sbarchi della fanteria; inoltre, in caso di bonaccia, il poter navigare
velocemente, abbordare i velieri nemici e rimorchiare quelli amici; infine, approfittando della propria
bassezza di bordo, il poter sparare a pelo d'acqua contro i velieri senza mai doversi però per
questo presentare davanti alle batterie del nemico.
Nel 1566 il residente veneziano Lorenzo Priuli, tornato da Firenze, riferiva al suo senato, tra l'altro,
delle forze di mare del duca Cosimo I (1537-21.4.1574), figlio di quel famoso soldato che era stato
Giovanni de' Medici, detto dalle Bande Nere:
717

... quanto alle forze di mare, stima molto il duca questa milizia, parendogli - come dice spesso -
che un principe non possa chiamarsi grande se non è potente in mare... (E. Albéri. Cit. Pp. 62-63.)

Cosimo, primo duca di Firenze dopo i disordini della precedente corrotta e ingiusta repubblica, si
era dunque trovato a dover ridotare la Toscana d'una forza militare marittima per fronteggiare
soprattutto i corsari algerini che stazionavano nelle isolette dirimpetto a Pisa e a Livorno proprio
per impedire a vascelli armati toscani d'uscire a compromettere la loro lucrosa attività predatrice
esercitata contro l'intenso traffico mercantile che da levante e da ponente affluiva all'Elba e
soprattutto a Livorno, porto, già allora come oggi, attrezzatissimo per i raddobbi navali. Per tal
motivo e con l'aiuto determinante di Carlo V ottenne il possesso dell'isola d'Elba, togliendolo così
ad Jacopo VI Aragona d’Appiano signore di Piombino, il quale però ne restava legittimo
proprietario e conservava il diritto d'accedervi, il governo dei suoi abitati aperti, cioè non fortificati, e
le relative rendite; il duca Cosimo aveva comunque fatto Jacopo VI suo generale di mare a titolo, in
un certo senso, di ricompensa. In verità l’Aragona non era stato in grado di difendere quell'isola
dalle scorrerie dei corsari d'Algeri che l'avevano rovinata e avrebbe pertanto potuto un giorno
cadere addirittura nelle mani dei turchi, il che, per la sua posizione strategica, sarebbe stato di
grave nocumento a tutta l'Italia; un monito di questo pericolo c'era già stato nel 1544, quando,
come abbiamo già ricordato, il kapudan pasha ottomano Barbarossa, chiamato nel Tirreno dai
francesi in guerra con Carlo V, aveva occupato l'isola e l'aveva resa addirittura deserta. L'Elba
aveva quindi tutto da guadagnare nel passare sotto la custodia di Firenze e questo era stato il
principale motivo che aveva convinto l'imperatore a favorirne Cosimo:

... Questa isola è in sito così bello ed ha un porto così sicuro e capace di ogni grande armata che,
se avesse una quantità opportuna di galee, saria principe di questi mari e i genovesi stariano molto
male, se il Principe (il duca Cosimo) che ne è ora padrone, fosse altrettanto potente in mare come
è loro inimico.
Possiede il Duca in quest'isola una piccola terra di un miglio e mezzo di circuito, la quale dal suo
nome si domanda Cosmopoli, se bene anco dal nome del porto vicino al quale è stata fondata si
domandi Portoferrajo; è questa ridotto d'ogni sorta di gente ed è come una sentina di sbanditi e di
uomini di male affare, per guardia della quale vi sono in cima di un monte due castelli fortissimi -
La Stella e il Falcone - con molti pezzi di artiglieria e cento fanti. (Ib. S. II, v. II, p. 63.)

Aveva inoltre Cosimo de' Medici ripristinato e rinnovato il vecchio arsenale medioevale di Pisa e
l'aveva ben provvisto di legnami, pegole, canapi e di quant'altro necessario alla fabbricazione e
alla riparazione delle galere e il Priuli scriveva che in quell'arsenale si lavorava continuamente, che
vi stavano allora fabbricando due galere sottili e che la maggior parte dei mastri (lt. navicularii,
compactores, navificos; gr. νάυπηγοὶ, τέϰτονες; νεουργοὶ, νεουργείς, νεώτεροι, νεωποιοὶ,
718

τριηροποιοὶ) proveniva da quello di Venezia. Attribuiva a quel ducato il Priuli nove galere naviganti
e inoltre il duca gli aveva dichiarato che aveva in programma la costruzione di quattro galee grosse
simili a quelle veneziane e che una di queste era già in via di completamento. Per quanto riguarda
poi la consistenza degli equipaggi, delle guarnizioni militari e dell'artiglierie Cosimo copiava in tutto
le galee veneziane:

... Arma le sue galee di schiavi o di condannati; d'uomini del paese si serve rare volte e già due
anni ne mandò 800 all'impresa del Pignone (agosto 1564) sopra le sue galee, de' quali ne morì la
maggior parte. Si serve di marinari forastieri e così di uomini di comando, come siciliani, greci e
altri, tra i quali ve n'è moltitudine di questo dominio (‘della repubblica di Venezia’).... (Ib. P. 64.)

Sappiamo da altra fonte che il motivo della morte di tanti toscani in un’impresa che in effetti era
stata tra le più agevoli e meno impegnative che si fossero condotte contro i barbareschi erano
state le malattie, ma sulla inidoneità alla voga dei toscani si dilungherà qualche altro residente
veneziano, come presto vedremo. Il problema della formazione di gente di poppa, della quale
Cosimo aveva trovato gran carenza al suo insediarsi, era stato da lui affrontato con l'istituzione
della compagnia cavalleresca di S. Stefano, ordine che aveva ottenuto regola e privilegi dal papa
Pio IV e del quale Cosimo era ovviamente Gran Maestro, così come lo sarà suo figlio Francesco I
(1574-19.10.1587), conferendone i più alti gradi ai suoi maggiori ministri. Tale ordine al tempo del
Priuli contava un numero crescente di 180 cavalieri e costoro, generalmente di nobile famiglia,
potevano ammogliarsi e ottenere fino a 200 scudi di pensione gravanti sui beni della Chiesa, ma
non potevano ottenere la commenda dell'ordine stesso, ossia la sua conferma, se non dopo aver
servito almeno tre anni continui sulle galere a combattere i corsari turco-barbareschi, come
tradizionalmente già facevano da secoli i cavalieri della religione di Rodi, ora detti di Malta perché,
come già detto, scacciati da Rodi dai turchi nel 1522 dopo esser riusciti a ben respingere tutti i loro
precedenti tentativi, i più importanti dei quali erano stati quelli del 1444, del 1480 e del 1503, erano
rimasti senza patria sino al 24 marzo 1530, giorno in cui Carlo V aveva loro ceduto Tripoli, Malta e
due gusci o fusti di galera ed essi sbarcheranno infatti in quest’isola il 26 ottobre successivo;
Tripoli era stata, come abbiamo già detto, conquistata alla Spagna da Pedro Navarro nel 1510 e
subì poi alterne vicende perché, tolta ai predetti cavalieri da Torgud nel 1549, fu ripresa dagli
spagnoli e dai cavalieri di Malta l’anno successivo allo stesso Torgud, cioè da un’armata di 53
vascelli remieri comandata da Andrea d’Oria e, in qualità generale dell’esercito, dal vicerè di Sicilia
Juan de Vega (1547-1557), comprendente, oltre le squadre del d’Oria, di Spagna, di Napoli e di
Sicilia, ossia quelle in potestà di Carlo V, anche le galere di Malta, tre del papa Giulio III
comandate da fra’ Carlo Sforza e tre del duca di Toscana Cosimo de’ Medici capitanate dall’allora
venticinquenne Giordano Orsini; coadiuvavano il d’Oria e il de Vega Luis Perez de Vargas,
719

governatore della Goletta, nominato generale dell’artiglieria dell’armata con l’assistenza di


Lodovico Ferramolino, apprezzato ingegnere militare italiano, e Garcia de Toledo, allora generale
della squadra di Napoli. Quest’armata conquistò prima Susa, Monastir e altri luoghi con la perdita
però di due galere e poi il 28 giugno sbarcò i suoi soldati nei pressi di Tripoli e iniziò un assedio
che risultò a lungo inefficace, tanto da far nascere malumori e discordie tra le varie nazionalità
degli assedianti; a tal proposito il de la Gravière cita una lettera indirizzata in quei giorni al
Pontefice da Carlo Sforza e ritrovata negli archivi romani dal padre Guglielmotti:

… Il governo è qui nelle mani di persone giovani e senz’esperienza. Il principe d’Oria non esce mai
dalla sua galera; egli passa le sue giornate a giocare a carte. Il più insignificante spagnolo si crede
in diritto d’impiegare gli italiani nei più vili bisogni; sono gli italiani che scavano la trincea, sono
ancora essi che trainano l’artiglieria, che vanno a tagliare la legna nel bosco per fare i gabbioni…
(J. De la Gravière. Cit.)
Vizio di famiglia quello del giuoco! Infatti il desiderio di giocare prendeva spesso e volentieri anche
Gioan Andrea d’Oria, come ricorda il de Bourdeilles:

…Et sur ce ledit sieur André demanda des cartes et de dez pour jouer, car je l’ay veu qu’il estoit un
tres-grand joueur… (Cit.)

Nel frattempo Torgud, approfittando dell’assenza della squadra d’Andrea d’Oria, devastava il golfo
di Genova e il 6 luglio razziava Rapallo, mentre il suo luogotenente Uluch-Alì assaliva Villafranca
sorprendendovi il principe Emanuele Filiberto; ma poi, non ritenendo il sultano Sulaiman allora
conveniente mandare la sua armata a difendere Tripoli, fu costretto a tornare in Barbaria e sbarcò
il 22 luglio a cinque miglia dalla città oppugnata con 3.700 mori, 800 turchi e 60 cavalli, ma il suo
intervento non bastò a evitare la presa di Tripoli, nel cui assedio frattanto morivano d’archibugiate il
de Vargas e il Ferramolino, il primo colpito al petto e il secondo alla fronte; a un certo punto però
Garcia de Toledo, costatata l’insufficienza della batteria di terra cristiana, l’integrò con una di mare,
fatta unendo tra loro due sue galere disarmate, la Brava e la Califfa, con una robusta piattaforma
che sosteneva quattro cannoni e questa batteria entrò efficacemente in azione l’8 settembre,
aprendo la strada all’assalto definito dato il 10 seguente da spagnoli, italiani e cavalieri
gerosolimitani. Garcia si rivelò ancora una volta uomo di valore, sebbene, scriveva il de
Bourdeilles, non lo desse per nulla a vedere :

… encor qu’il fust long et lent, ce disoit-on, et de fort petite complexion, maladif et tormenté des
gouttes, si est-ce pourtant qu’il a biensecouru la Chrestienté. (Ib.)

Da questa riconquista di Tripoli i cristiani, oltre all’aver liberato tanti cristiani colà tenuti in schiavitù
o prigionia, ne ricavarono quasi 10mila schiavi barbareschi, tra donne, bambini e mercanti, ossia
720

tutti coloro che o per vendita o per riscatto potevano rendere danaro, gente che fu portata quasi
tutta in Sicilia, parecchi a Napoli e pochi a Roma:

… Tra l’accennate spoglie de’ turchi che seco portò il Vega vi fu una gran porta di ferro levata dalla
soggiogata città d’Africa e la fe’ mettere nell’anno 1556 in Palermo, alla porta della città detta de’
Greci, che si vede ancor’hoggi, per la quale egli entrò con gran pompa di fastoso trionfo, e sopra di
essa nel muro vi sta la memoria scolpita in marmo, dove si veggono le armi di sua famiglia, cioè
tre torri… una sopra l’altra, la prima grande, la seconda minore e la terza minima. (V. Auria. Cit. P.
42.)

Che gran parte degli schiavi barbareschi che i cristiani razziavano sulle coste africane finissero in
Sicilia era vecchia consuetudine iniziata, forse, dal grande capitano generale di mare siculo-
aragonese Ruggiero di Loria, il quale negli anni Ottanta e Novanta del Duecento depredò e
devastò più volte le coste magrebine, scaricando poi migliaia e migliaia di migliaia schiavi in
Spagna e in Sicilia, al punto, noi crediamo, di influenzare addirittura la successiva configurazione
etnica di quest’isola. Purtroppo dal 14 al 16 agosto 1551 Tripoli, con la resa di Gaspard de Villiers,
governatore dei cavalieri di S. Giovanni in quella città, fu riconquistata definitivamente dall’armata
turca comandata da Sinan, armata che dopo l’infruttuoso assedio di Malta volle così rifarsi
prendendo quella città, non paga d’aver all’inizio di questa sua campagna già preso e
saccheggiato Augusta; Sinan era allora coadiuvato dal già ricordato Couradin Pasha e inoltre dal
solito Torgud, infatti nella sua armata sventolava anche la bandiera di quest’ultimo, la quale,
scriveva il de la Gravière, era bianca e rossa con una mezzaluna blu al centro; con Sinan era
anche Uluch-Alì e si dava inizio così alla lunga reggenza ottomana di quella città, la quale
s’andava ad aggiungere a quella già preesistente di Algeri e precedeva. I cristiani rimisero
comunque momentaneamente piede a Tripoli nel 1602, quando i cavalieri di Malta dell’allora gran
maestro Luigi de Vignacourt la sorpresero e incendiarono; il Vignacourt aveva preparato l’azione
per il maggio di quell’anno, ma ne fu impedito dalla requisizione delle sue cinque galere fatta da
Filippo III di Spagna, il quale ne aveva bisogno per trasportare fanterie da Napoli a Genova, e i
vascelli furono di ritorno solo alla fine del mese di luglio; il 4 agosto dunque ripartirono per
l’impresa, accompagnate da alcune fregate che agevolassero lo sbarco; il 6 mattina catturarono
due fuste corsare nelle acque di Lampedusa, prendendo così prigionieri 58 turco-barbareschi, e il
13 notte, arrivati a Tripoli, sbarcarono sotto il fuoco nemico 700 uomini, tra cui 240 cavalieri
gerosolimitani, sotto il comando del commendatore Matha; subito vennero messi due petardi alle
porte della città, uno a quella posta verso il mare e uno a quella verso terra, e furono appoggiate le
scale alle mura, nonostante la pioggia d’archibugiate e di frecce lanciate dagli ottocento difensori;
abbattute le porte con i petardi e conquistate le cortine, i cristiani entrarono e, dopo 4 ore di
721

combattimento e il macello di circa 300 difensori, la città era presa; poco dopo fu anche preso il
castello del governatore, costruzione detta dai cristiani Alcasova e che faceva da cittadella; più di
duemila abitanti si misero in salvo fuggendo da una falsa porta e così ne furono presi prigionieri
solo 386; saccheggiata e incendiata la città , la spedizione si ritirò nonostante il gran numero di
cavalleria e fanteria venuta dall’interno in soccorso della città e fu di ritorno a Malta il 16 agosto,
avendo perso 4 cavalieri, 25 soldati e riportando inoltre circa 90 feriti.
Ma tornando a Cosimo de’ Medici, diremo che recentemente aveva ottenuto un piccolo successo
diplomatico, perché aveva convinto il duca di Ferrara, Alfonso II d'Este, a mandare a lui e non più
alla Serenissima i condannati alla galera di quello stato; Venezia comunque continuava a ricevere
quelli del ducato d'Urbino, stato che, come quello di Ferrara, non aveva galere proprie. Il duca
aveva verso il re di Spagna obbligo feudale di servirlo con tutte le sue galere in ogni impresa per
sette mesi all'anno, ossia per il periodo aprile-ottobre che era appunto quello in cui tali vascelli
potevano navigare, e in cambio il re pagava il mantenimento della metà di quella squadra a 6mila
ducati all'anno per galera, cioè corrispondeva allora al duca 27mila ducati corrispondenti alla spesa
di quattro galere e mezza; ciò nonostante al Priuli fu dato di scoprire in Cosimo una certa
insensibilità politica nei confronti di Venezia e anche una potenziale infedeltà verso la Spagna,
specie nella seguente occasione:

... Anzi il Principe (ossia il duca), ragionando un dì meco e domandandomi se io credevo che
venisse fuora armata turchesca e rispondendo io che si ragionava di gran preparamenti, mi disse
che faria per li suoi stati (‘possedimenti feudali’) che l'armata venisse fuora, perché i corsari
(barbareschi) andavano con l'armata e non infestavano (così) i suoi mari né le sue riviere. (E.
Albéri. Cit. S. II, v. II, pp. 83-84.)

Era notorio che ad affrontare l'armata ottomana sarebbero state Venezia a levante e la Spagna a
ponente e quindi le predette parole di Cosimo non potevano se non impressionare negativamente
il Priuli. Il duca aveva anche un ottimo galeone, decantato dal de Bourdeilles nelle sue Mémoires:

… Inoltre egli aveva un galeone dei più belli e dei meglio armati che io abbia mai visto, il quale egli
inviava tutti gli anni in Levante senza timore d’alcun altro galeone che lo potesse attaccare e da cui
esso non fosse in grado di ben difendersi e di sottrarsi, dal momento che aveva più di duecento
pezzi d’artiglieria. L’ho visto paragonabile a quello di Malta, il quale anche m’è apparso certamente
molto bello, grande e molto ben equipaggiato. (Cit.)

Il residente veneziano Andrea Gussoni (1576) riferiva al suo doge d’un notevole calo d'attività
dell'arsenale di Pisa al suo tempo, mentre proprio il 26 gennaio di quell’anno il ducato di Toscana
era stato elevato, con grande invidia di quello di Savoia, a granducato con nuova investitura
pontificia:
722

... Ora in questo arsenale si lavora poco e piuttosto in rassettare che rifabbricare di nuovo. Oltra di
quell'arsenale ve n'è un altro nell'Elba ove (il granduca Francesco I) tiene tre galeazze e gli uomini
che lavorano in esso sono la maggior parte dello Stato della Serenità Vostra, sia banditi o sia
allettati dal prezzo (‘salario’). (E. Albéri. Cit. T. II, p. 367.)

Aveva Firenze a quel tempo 12 galere, di cui 8 armate, 2 disarmate e 2 ormai pressocché
inservibili; aveva inoltre 5 galeazze, di cui 3 armate e 2 quasi in ordine, e alcune d’esse avevano
fatto parte avevano fatto parte dell'armata della Lega cristiana negli anni precedenti. Il Gussoni non
aveva mai visto questi grossi vascelli toscani e riferiva, quindi per sentito dire, che non erano
paragonabili a quelli veneziani né per grandezza né per forze e né per altro; giudizio questo che
però confligge con quanto già sappiamo e cioè che le galeazze ponentine erano di regola alquanto
più grandi delle galee grosse di Venezia. Aveva il granduca Francesco anche qualche galeone:

... Ha due galeoni, l'uno grande e capace di molta gente e di molta artiglieria, l'altro piccolo e molto
ben conosciuto dalla Serenità Vostra, e questi [...] navigano ora per mercanzie e per utilità del
Principe (‘del granduca’). (Ib.)

Anche Francesco I, come già suo padre Cosimo, non si serviva di buonevoglie autoctone:

... Arma le galee, quanto ad uomini di remo, di schiavi e condannati, non volendosi servire di
ciurme di libertà, non volendo far danno al suo stato, delle quali mandò già il Principe suo padre
ottocento uomini in Affrica con l'armata cesarea all'impresa del Pignone e ne morirono la maggior
parte, come d'ordinario succede degli uomini nuovi, de' quali quando volesse (comunque) servirsi
poteria armare buon numero di galee. Per uomini (liberi) di remo si serve di forastieri, cioè di corsi,
di greci e tra questi di molti sudditi della Serenità Vostra; e tiene nelle galee quella medesima
quantità di scapoli - o poco più - che hanno quelle della Serenità Vostra, ma minor numero di
artiglieria. (Ib. Pp. 367-368.)

Anche se Pisa lavorava in quel tempo poco, Livorno, come abbiamo già detto, era invece già allora
rinomata per esser uno degli scali più attrezzati al raddobbo dei vascelli:

... Fa fare i suoi biscotti in Livorno, ove ha forni per lavorarne intorno a quaranta migliaia il giorno;
in questo luogo tiene anco buona quantità di gomene, sartie, ancore ed ogni altra sorte di armeggi
per accommodarne le navi, affinché tanto più volentieri capitino in quel porto. (Ib. P. 368.)

Molto moderno appare dunque oggi il modo di pensare del granduca Francesco e cioè il
comprendere l'importanza degl'investimenti nelle attrezzature portuali ai fini d’una crescita
dell'entrate dello stato; egli era inoltre particolarmente orgoglioso d’una delle sue galere:
723

... Predica il Granduca molte cose di una sua galea chiamata 'La Nera' e di questa mi ha narrato
molte prove, così d'aver preso corsari velocissimi di Algieri in breve tempo e con molto vantaggio
come d'aver vinto in corso la galea Capitana di Napoli e in fine la tiene per una delle migliori galee
del mondo. (Ib.)

Nonostante quest'orgoglio Francesco, come abbiamo già detto a proposito dell'arsenale di Pisa,
non si curava molto della sua milizia marittima e forse a questo disinteresse si doveva l'aver egli
ceduto alla religione di S. Stefano quattro delle sue galere per 600mila ducati. Il Gussoni infatti
così ancora scriveva:

... Non attende questo Principe a questa milizia marittima quanto (faceva) il padre, anzi, come
quello procurava di accrescerla così pare che questo si contenti di esser in essa altrettanto
fortunato quanto il padre fu poco avventurato; che, come quello perdé molti vascelli così per
fortuna di mare come per forza d'arme alle Gerbe e altrove, all'incontro mi ha detto Sua Altezza
non solo non aver mai per qualsivoglia caso perduto alcuno de' suoi, ma né anco essere mal
capitati quelli degli altri sopra i quali aveva avuto alcuna cosa sua; dal che nasce che molti suoi
sudditi, quando mandano alcun vascello in viaggio, lo vanno a supplicare che gli dia o poco o
molto del suo capitale, prendendo per buono augurio la felice fortuna del loro Principe. (Ib. P. 369.)

Era infatti riuscito Francesco a cancellare e ribaltare quell'aura di sfortuna che aveva
accompagnato il padre Cosimo, le cui principali iniziative marittime avevano spesso avuto esito
disastroso.
Nel 1588 il residente veneziano Tommaso Contarini dava, di ritorno da Firenze, relazione anche
delle forze di mare del Granducato di Toscana. L'arsenale principale era sempre quello di Pisa con
i suoi 5 volti e in esso si fabbricavano galere; c'era poi un altro arsenale all'isola d'Elba, dove si
tenevano galeazze e galeoni e infine a Livorno un luogo protetto da una fortezza, dove però si
potevano tenere sicuri dai venti non più di quattro navigli. Le maestranze dell'arsenale di Pisa
erano sufficienti e provenienti da vari paesi, vale a dire da Napoli, Sicilia, dalla stessa Toscana e
dall'arsenale di Venezia. Erano disponibili 10 corpi di galera, ma ordinariamente se n’armavano
allora solo 4; vi erano poi due galeazze, le quali non avevano però fatto una riuscita molto buona e
due galeoni utilizzati come mercantili e per la guerra di corso. Non avrebbe potuto il granducato
armare un numero maggiore di galere per diversi rispetti, tra cui la mancanza di ciurma:

... perché gli schiavi e condannati non bastano e i proprij (abitanti) del paese non sono atti a
questo servizio, come si vide quando se ne fece l'esperienza, che tutti si ammalavano e gran parte
morirono; ma, quanto al restante, le galee son ben armate e ben munizionate; usano però manco
numero d'artiglierie che le nostre. (Ib. Appendice. Pp. 268-269.)

Buona era la marinaresca di cui disponeva allora il granduca Ferdinando I de' Medici (1587-
7.2.1609), appena succeduto al fratello Francesco I morto l'anno precedente; si trattava, oltre che
724

di toscani, di siciliani, di corsi e anche di molti greci, perché il padre di Ferdinando e Francesco,
Cosimo I, aveva al suo tempo dato incarico a un calogero, ossia a un monaco greco, di percorrere
la Grecia persuadendo con promesse i buoni marinai a trasferirsi nell'isola d'Elba al soldo del
granduca. Così si formò in quell'isola una piccola, ma nutrita colonia di greci, ai quali Cosimo fece
colà edificare anche una chiesa di rito greco, e sotto guida di costoro si esercitarono e
impratichirono molti pisani, i quali divennero in tal modo buoni marinai. E a pensare che Pisa, ai
non lontani tempi della repubblica, era stata essa stessa maestra di marineria! Tanto poté l'odio
campanilizio che aveva permeato il dominio fiorentino su di lei, dominio che in poco più d'un solo
secolo aveva sostanzialmente estinto la sua un tempo famosa perizia marinara. Da una
precedente relazione del 1561 letta al senato veneziano da Vincenzo Fedeli, il quale tornava allora
da un’ambasceria alla corte di Cosimo I, possiamo sapere qualcosa in più del predetto arruolatore
greco calogero, titolo questo che fino al secolo scorso si è sempre dato in Italia ai monaci greci
della regola di S. Basilio e tale era infatti costui, di nome Dionisio Paleologo; egli, dotato di danaro
contante, percorreva Cipro e gli altri paesi del Levante dove erano insediamenti di monaci di quella
regola, i quali lo potessero pertanto aiutare in quel reclutamento, dando premi e decantando i
comodi di vita che i consenzienti avrebbero trovato in Toscana, parlando d’elargizioni di terre e di
case e d’esenzioni fiscali. Reclutava questo greco anche nei territori levantini soggetti al dominio
veneziano e, a quanto scriveva il Fedeli, anche nella stessa Venezia:

... ed è cosa certa che da Venezia [...] se ne sono partiti alcuni con la moglie con licenza d'andar
alla Madonna di Loreto e a dirittura se ne sono venuti a Pisa e montati sopra le galee di questo
Principe, chi per còmiti, chi per aguzzini, chi per bombardieri; ma delli nomi loro non ho potuto
saper cosa alcuna [...] Ho anco inteso due giorni fa essere entrati in questa Città (di Firenze) un
buon numero di bresciani e veronesi guidati da un Agostino Canale bresciano [...] Ho anco inteso
che il 'calogero' è ritornato e aspetta il signor Duca ed ha condotto seco ventisette uomini tra
marinari e maestranze e alcuni maestri che fanno barili per fornir le galee; li quali, per non esservi
(in Toscana) di quelli che li sapessaro fare, si mandavano a comprare a Genova e per la Riviera
con incommodo e spesa grande. (Ib. S. II, v. I, p. 389-390.)

Pare che la maggior parte di questi assoldati forestieri venissero, come prima destinazione e dopo
aver ricevuto all'arrivo un’ulteriore elargizione di danaro, inviati a Massa nella maremma di Siena;
ma terminiamo ora d’attingere alla precedente relazione di Tommaso Contarini. Per quanto
riguarda i militari di galera, istituito da Cosimo I l'ordine di S. Stefano di cui abbiamo già detto, il
figlio Francesco I aveva poi disposto di pagare un numero di soldati fissi tratti dalle bande, cioè
dalle milizie territoriali, da adibire in permanenza alla guarnigione delle galere; ma i risultati, per
motivi attitudinali, non furono buoni:
725

... Sopra cadauna galea non mettono più che quindici cavalieri di Santo Stefano; al restante, sino
al numero di settanta, suppliscono con i soldati delle bande, i quali sul mare non riescono e però
(‘perciò’) queste galee da combattere non sono molto ben sicure. (Ib. Appendice. P. 269.)

L'inadattabilità al remo dei toscani e l'impianto di greci all'Elba vengono confermati dalla relazione
redatta nel seguente 1589 dal residente Francesco Contarini:

... Tiene quel Principe (il granduca Ferdinando I) armate quattro galee e maggior numero ancora
ne metterebbe insieme [...] quando non avesse molta strettezza d'uomini da remo, conoscendosi
per esperienza che que' del paese non possono far alcun proffitto di momento [...]
Procurò (Cosimo I) di più col mezzo dell'imperator Carlo V d'impadronirsi dell'isola d'Elba de'
signori di Piombino, dove condusse ad abitar alcuni greci per seminarvi de' marinari, che poi han
fatto mirabil frutto, venendo anco ad acquistar un porto capacissimo di ogni armata, molto a lui
necessario in quanto che quello di Livorno non riceve più di quattro vascelli. (Ib. S. II. , v. V, pp.
437-438.)

La qualità bellica delle galere toscane andava progressivamente migliorando, tant’è vero che il de
Bourdeilles le diceva le più temute dai corsari turco-barbareschi dopo quelle maltesi e poi all'inizio
del Seicento il Pantera, come abbiamo visto, le considerava le migliori del Tirreno e infatti così
ancora scriveva di quelle del suo tempo:

... Giacomo Anghirami [...] con le galee del Gran Duca di Toscana, delle quali è ammiraglio, in
pochissimo tempo ha fatto diverse surprese (‘assalti inattesi’) di molti luochi e in particolare della
Prévesa, di Castel Rugio, di Bona, di Gigeri e d'altri luoghi, oltra che, andando in corso, ha preso
con le medesime galee un gran numero di vascelli turcheschi... (P. Pantera. Cit. P. 54.)

Addirittura nel 1608 il granduca Ferdinando tenterà l'impresa di Cipro, inviando la sua piccola
squadra alla liberazione di Famagosta dai turchi, tentativo che però non riuscirà per il venir meno
degli alleati cristiani. Un orgoglioso encomio delle imprese di queste galere toscane si legge in una
lettera che il diplomatico pratese Giovan Francesco Buonamici scrisse nel 1629 al suo amico
fiorentino Galileo Galilei:

A' giorni nostri sentiamo risonare dall'un polo all'altro il nome de' serenissimi gran duchi di Toscana
col mezzo di una piccola squadra di galere, che sanno non solo raffrenare l'ingordigia de' corsali e
aprire il passo e commercio libero e sicuro a tutte le nazioni che al celeberrimo emporio di Livorno
concorrono; ma ardiscono ora in Asia, ora in Affrica assalire, vincere e depredare fortissime città e
potentissimi regni, onde più gloria e reputazione partoriscono a Loro Altezze queste galere in un
sol viaggio, che non potriano fare tutte le loro forze terrestri, benché oggi riguardevoli e formidabili,
in longo tempo. Cipri, Scio, Negroponto, imprese che ancora fanno tremare quei barbari, e tante
altre a bastanza lo testificano; ma più di tutti lo conobbe la Francia, che grata per la conservazione
di Marsilia, e paurosa insieme per la catena che al piede gli teneva con l'occupazione dell'Isole
dette ‘Poucègue et If’ (oggi ‘Arcipelago delle Frioul’), fece grande stima non solo della potenza de'
gran duchi, ma procurò guadagnare con ogni diligenza l'amicizia loro.
726

Similmente una piccola squadra di galere rende oggi famosa e celebre la Religione di Malta in ogni
parte del mondo […] Quelle di Malta attendono solo a nettare il mare da Corsari e a far guerra a'
nemici della fede cristiana (Archivio storico italiano. Quarta serie. T. XVI-1885. P. 9 e 14. Firenze,
1885).

Bisogna poi ricordare che, ancora all’inizio del Cinquecento, il regno di Napoli disponeva, tra le
altre, anche di ottime galere amalfitane e nel 1505 alcune di queste, mentre incrociavano in
guardia delle coste calabresi, intercettarono la flottiglia corsara del terribile Kheir ed-din detto
Barbarossa e la respinsero, obbligandola così a ritirarsi da quei mari. Della combattività marittima
degli amalfitani già parlavano cronache medievali, vedi p.e. quella catalana del Muntaner all’anno
1286, laddove ricorda la spedizione marittima catalana di venti galere con la quale in quell’anno
don Berenguer de Sarria, ammiraglio del re di Sicilia, il quale era allora Giacomo d’Aragona (1285-
1291), scorse e devastò le coste tirreniche dell’Italia meridonale:

… e batté tutta la Calabria e giunse al capo di Pelanuda (‘Palinudi’; poi ‘Palinuro’, dalla pronunzia
locale Palinuri) e dal capo di Pelanuda egli si mise in (alto) mare e fece la via della costa di Amalfi
(lem/ctm. Malfa; lt. Amalfa-æ, Amalfia e Malfi-is; da qui il cognome La Malfa) e quella costa era
popolata dalla peggiore gente e dai maggiori corsari che siano al mondo, specialmente in luogo
che ha nome Passata (‘Positano’)… e, prima che spuntasse l’alba, prese terra ed ebbe tutta la
gente a terra presso la città di S. Andrea di Malfa e scorse tutta la montagna. Cosicché, nei quattro
giorni che vi stette, devastò e incendiò Maiori, Minori, Ravello (lem/ctm. Revel), Pasitano e tutto
quanto c’era nella montagna; e vi stava con bandiera alzata e andava bruciando e devastando
tutto ciò che trovava e sorprese nei loro letti i malvagi passatari (‘positanesi’), cosicché tutti fecero
la stessa fine, e vi bruciò galere e legni che tenevano tirati a secco cosicché non ne lasciò alcuno
né lì né in alcun altro luogo della costa… (Muntaner. Cit.)

In effetti il re Giacomo – e il Muntaner lo dice - volle punire gli amalfitani per esser scesi in mare
contro di lui nelle recenti guerre che egli aveva sostenuto contro i francesi per il possesso del
regno di Sicilia; ma gli amalfitani erano in quei secoli considerati degli odiosi pirati non solo dai
catalani ma da tutti e, se quella volta la loro città si salvò, non altrettanto fortunata era invece stata
nel secolo precedente, cioè il 9 agosto 1136, quando era stata presa, saccheggiata e combusta da
un’armata pisana. D’altra parte, che la repubblica d’Almalfi fosse alquanto sui generis è dimostrato
dalla circostanza che, a differenza delle altre tre, non disponeva di linee commerciali di galeazze o
galee grosse di mercanzia, unico strumento in quei secoli conosciuto e correntemente adoperato
nell’esercizio dei grandi traffici marittimi internazionali. I catalani si spostarono poi a ripetere le
stesse devastazioni a Sorrento; non potettero però ripetere la cosa anche a Castello a Mare di
Stabia per l’arrivo colà di un soccorso di cavalleria da Napoli, ma proseguirono razziando e
bruciando il naviglio presente nello stesso porto di Napoli ed, essendo in guerra anche con la
Chiesa, portarono le loro devastazioni sino alle foci del Garigliano. Molto interessante notare come
venga qui fuori la vera origine del nome dell’attuale borgo di Positano; in sostanza dall'originario
727

Passata, come lo leggiamo dunque nell'antico catalano, cioè 'borgo del passo', in quanto
raggiungibile allora da terra solo attraverso il passo di Montepertuso, si arriva all'odierno 'Positano'
attraverso la forma intermedia Pasitano ( An. Ricerche filosofico-istoriche sull’antico stato
dell’estremo ramo degli Appennini che termina dirimpetto l’isola di Capri. In Raccolta di varie
croniche, diarij ed altri opuscoli etc. T. V, p. 3. Napoli, 1782.), dizione questa corretta ancora nel
Settecento e che tuttora sopravvive nella lingua spagnola. Più tardi, nel corso dello stesso 1286,
una seconda spedizione marittima catalana, stavolta capitanata dallo stesso Giacomo II ripeté le
suddette devastazioni nel salernitano e nell’amalfitano, poi, entrato nel porto di Napoli senza trovar
alcuna resistenza per tre giorni fece razzia di vascelli da carico, navi e taride; infine prese Ischia e
pose assedio a Gaeta sottoponendola a un’intensa e continua pioggia di grosse pietre (gr.
χερμάδια; gr. χερμαδία) scagliate da quattro trabucchi che aveva fatto colà drizzare. Nel 1302 il
nuovo ammiraglio di Sicilia Roger de Lauria, a causa di una recrudescenza della pirateria
positanese contro i traffici marittimi messinesi, stava per organizzare una grande spedizione
marittima contro Positano e Amalfi, località offensibili solo dal mare in quanto irragiungibili da
cavalleria, ma sopravvenne la pace di Caltabellotta (31 agosto) e tutte le ostilità tra angioini e
aragonesi si fermarono (Bartolomeo di Neocastro, cit. Capp. CXXIII-CXXIV).
Dalle relazioni sullo Stato Ecclesiastico dei residenti veneziani Giovanni Gritti (1589) e Paolo
Paruta (1595) sappiamo che è solo durante il pontificato di Sisto V (1585-1590) che il Papato si
doterà d’una forza di mare autonoma e cioè di sei galere (e non 10, come erroneamente affermava
lo stesso Gritti), utilizzando corpi di galera donatigli da Spagna, Genova e Granducato di Toscana;
in precedenza infatti quello Stato, in occasione di dover partecipare a leghe cristiane contro
gl'infedeli, si era per lo più avvalso di galere armate da Venezia per suo conto e a sue spese.
Queste galere pontificie, oltre a dover difendere le coste del loro stato dai corsari algerini che
infestavano tutto il Tirreno, erano dedite esse stesse a corseggiare nel Levante i mari dei turchi e
ciò facevano spesso di conserva con le galere maltesi e toscane. All'inizio, non essendo il porto di
Civitavecchia ancora sufficientemente attrezzato a riceverle, queste galere non furono ben tenute
(Gritti, 1589):

... Patiscono molto questi vascelli per non aver Sua Beatitudine porto sicuro e capace da poterli
commodamente ricevere. (E. Albéri. Cit. S. II, v. IV, p. 339.)

Così poi riferiva il Paruta (1595) di queste sei galere:

... Di queste però cinque sole si tengono per ordinario armate e una serve quasi per ospitale a
Civitavecchia; né in altro luogo dello Stato della Chiesa vi è arsenale di alcuna sorte per tenervi
728

galee; si fanno solo di tempo in tempo secondo il bisogno [...] hanno centosettanta uomini di remo
per galea, ma la Capitana ne ha trecento, essendo tutta insestata, e questi sono per lo più
condannati e una parte anco schiavi. (Ib. V. X, p. 405.)

La Capitana insestata, vale a dire a ben sei uomini per banco per un totale di 300, doveva quindi
avere sì 25 banchi per lato come le normali galere sottili, ma doveva anche essere quartierata,
quindi tanto più larga da permettersi banchi più lunghi; per quanto riguarda invece il numero di 170
remieri per galera sottile ordinaria, questo significa che, non essendovi certo sulle galere posto per
remiganti tenuti oziosamente di riserva, su queste normali galere interzate, ossia, come sappiamo,
a tre uomini per banco, erano tenuti inquartati i banchi dalla poppa all’albero, il che molto
comunemente s’usava. Maurice Aymard (Cit.) riporta a tal proposito un interessante documento
del 6 aprile1584 conservato nell’Archivo General de Simancas, in cui Marc’Antonio Colonna,
trovandosi al suo ultimo anno di viceregnato in Sicilia, mandava a Madrid una relazione sullo stato
delle galere di quel regno, stato dal quale risulta quanto segue:

La Capitana di 29 banchi, a 5 vogatori per banco, più 10 per servizio delle camere, tot. 300.
La Patrona di 26 banchi, a 5 vogatori dalla poppa all’albero e, per il resto dei remiggi di prua,
a 4, più 10 camerieri, tot. 250.
Due galere di fanale, ossia all’occorrenza di comando, di 26 banchi a 4 vogatori per banco,
più 8 camerieri, tot. 216 ciascuna.
Le altre (nove?) di 26 banchi a 3 vogatori per banco più 8 camerieri, tot. 164 ciascuna.

C’è da notare che viene qui generalmente calcolato come operativo anche il banco del fogone, il
quale, come sappiamo, per lo più non era invece adoperato per la voga.
Mentre per queste galere il Pontefice disponeva di 500 fanti di marina, trovava invece difficoltà a
reperire la necessaria marinaresca. Si tenevano questi vascelli armati anche d'inverno, ma solo di
remieri e marinai e quindi non di soldati; n’era generale al tempo del Paruta un fiorentino, il
commendator Pucci, il quale era reputato buon soldato e buon marinaio, ed è singolare trovare
ancora oggi nei porti italiani questa famiglia Pucci, adesso noti provveditori navali, così come del
resto ancora esercitano l'armamento marittimo i Grimaldi:

... Inclinava il presente Pontefice (Clemente VIII) alla cassazione di questa spesa, ma gli viene
posto innanzi la utilità, anzi necessità di tener queste galee armate per i molti danni che fanno in
que' mari e in quelle marine le galeotte barbaresche. (Paolo Paruta, Opere politiche. P. 506.
Firenze, 1852.)

Molto interessato alla marineria da guerra era il duca Emmanuel Filiberto di Savoia, il che si legge
nella relazione del residente veneziano Andrea Boldù, lette in senato il 12 dicembre del 1561:
729

... Sopra modo si compiace di galee e cose di mare anco più che di quelle di terra, onde si vede
ch'egli sta più volentieri a Nizza che altrove ed ha posto maggior ordine alle sue galee che alle
fortezze, ordinanze (‘fanterie’) e cavallerie [...] e mi ha mostrato molto affettuosamente desiderare
di venire a Venezia specialmente per vedere l'arsenale...
Le galee poi cha ha Sua Eccellenza (il duca) e tiene ordinariamente a Villafranca sono quattro,
delle quali due sono totalmente sue, una è di Girolamo Spinola genovese, figlio di messer
Bernardo, avendola avuta da Sua Eccellenza a buon conto del credito che ha detto suo padre
coll'illustrissimo Signor Duca; l'altra è in parte del signor Cesare da Napoli e del capitano Moretto
da Nizza. Ha Sua Eccellenza grande opinione di ridur queste galee sino al numero di dieci... (E:
Albéri. Cit. S. II, v. I, pp.423-424.)

Suscita la nostra curiosità nell'apprendere che il capitano di condotta napoletano Cesare Maggi,
detto Cesare da Napoli, abile combattente delle guerre di Piemonte della prima metà del
Cinquecento, aveva poi investito i suoi proventi di guerra in una galera savoiarda, il che significa
che era molto probabilmente rimasto a vivere in Piemonte anche dopo la pace di Castel Cambrese
(3 agosto 1559); ma, tornando al duca Emanuele Filiberto, bisogna dire che la sua predetta
ambizione marittima, nata forse dall'impressione che solo l'anno precedente aveva suscitato in lui
una devastante incursione compiuta al promontorio di Saint-Sospir (‘Villafranca’) da una
squadriglia di corsari algerini guidati dal famoso Uluch-Alì, il quale vi aveva fatto numerosi
prigionieri, per il cui riscatto il duca aveva poi dovuto pagare ben 12mila scudi, e forse anche dal
ricordo della già ricordata devastazione del Nizzardo commessa tanto tempo prima - nel 1543 –
dall’armata ottomana di Kheir Eddine detto il Barbarossa, non era destinata a realizzarsi per
difficoltà di carattere finanziario; anzi nel prosieguo del secolo il numero delle galere savoiarde
armate scenderà a tre, anche se si tratterà di vascelli dalle sempre migliori qualità belliche, e tre
erano infatti quelle armate nel 1570, come in quell'anno riferiva il residente veneziano Giovan
Francesco Morosini, anche se ce n’erano poi in più una disarmata nel porto di Villafranca e una
nuova quasi approntata. ll Morosini, come abbiamo già accennato, descriveva dettagliatamente la
superiorità di queste galere ordinarie rispetto alle altre tirreniche, sia per l'uso del remo di
scaloccio, ancora nuovo per quei tempi, sia per il miglior trattamento delle ciurme sia per la
superiore tattica delle loro guarnigioni militari; ma di tali primati più ci dilunghiamo in altri capitoli.
La relazione redatta nel 1573 dal residente veneziano Girolamo Lippomano ci fa comprendere
quanto duro fosse stato l'impegno delle galere savoiarde alla battaglia di Lepanto:

... Concesse (il duca di Savoia) le tre galee che avea l'anno della giornata (1571) le quali,
comandate da Monsignor di Leiny, fecero onoratissimo servizio, se bene con tal loro danno che
l'anno seguente convennero starsene come disarmate nel porto di Villafranca, astringendo Sua
Altezza (il duca medesimo) a negarle al Re di Spagna, che a domandargliele fu il primo, poi alla
Serenità Vostra e dopo anco al Pontefice; e io che l'ho vedute e prima e dopo (della battaglia) sono
buon testimonio che erano inabili al navigare; anzi anche il terzo anno Monsignor di Leiny mi
730

diceva che ancora sentiva il danno della giornata e mi giurò, presente il Duca, che quella battaglia
era costata a loro 20mila scudi. (Ib. S. II, v. II, p. 221.)

In un’altra versione di questa relazione troviamo espressi i predetti concetti in maniera anche più
amara:

… Ha (il duca di Savoia) tre galere che, prima che fi trouassero alla giornata del 1571.sotto lo
stendardo di Voftra Serenità, si potevano chiamare delle buone che fossero su'l mare; nella qual
giornata (oltre che ne fu tagliata una tutta a pezzi, senza che si salvasse pur'un soldato o galeotto)
l'altre patirono tanto ch'erano, quando le viddi quattro mesi dopo ritornate, così mal in essere che
mi parevano non essere quelle che andarono, perché a fatiga puotero menarsi da Savona a Nizza,
passaggio di meno di cento miglia, e per gionta gli entrò poi così fatta malattia nella ciurma che
quanti ne rimettevano tanti ne morivano e pochissimi restorno vivi di quelli schiaui he dopo la
battaglia le donò il general Veniero; ma la terza volta che sono ritornate in quelle parti l'ho vedute
benissimo ad ordine, massime due d’esse che sono assignate alla Religione (di S. Lazzaro) con
quaranta cavaglieri che navigano – e navigheranno – sopra ogni una di esse. Di tutte queste n'è
capitano monsignor di Leyni, caualiere da me nominato di sopra… (Romanci, Fabrizio, La seconda
parte del Thesoro Politico ecc. Ff. 251 recto e verso. Torona, 1602.)

Questi esiti rovinosi però depongono per un comportamento in battaglia certamente eroico. Queste
tre galere di Savoia - che tante restarono nel trentennio 1571-1601 - erano, come ci informa una
relazione del residente veneziano Costantino Molin, ciurmate di schiavi turco-barbareschi e di
condannati al remo; due d’esse erano assegnate all'ordine militare dei Santi Maurizio e Lazaro,
religione che però stava per essere oscurata da quella dell'Annunziata. Si trattava di galere
stipendiate dalla corona di Spagna con un’imposizione apposita di 18mila scudi che gravava per
intero sul regno di Sicilia; alla fine degli anni Ottanta di quel secolo stavano però per essere
vendute alla repubblica di Genova per intervenute difficoltà finanziarie, ma tale alienazione fu
vietata dal re Filippo II, il quale impose che i tre vascelli venissero posti sotto lo stendardo di Gioan
Andrea d'Oria, il quale era capitano generale della sola squadra di condotte genovesi e non di tutta
l’armata di mare del re di Spagna, come abbiamo già evidenziato. Più tardi saranno però riaffidate
al duca di Savoia, come si legge nella relazione letta nel 1601 dal residente veneziano Simon
Contarini:

... Tiene il Signor Duca (Carlo Emanuele I) nel porto di Villafranca tre galee, (però) piuttosto in
opinione che in effetto, poiché una, buona da poco altro che da fuoco, serve d'arsenale; un’altra,
affaticata molto, malamente potrà servire per un viaggio appena; la terza, fabbricata ultimamente,
mancava di molti requisiti ancora per adoperarsi. É vero però che la meno cattiva è stata rinforzata
ultimamente per dover servire anch'essa nella presente armata di Spagna. Solevano queste galee
obbedire al Principe d'Oria vogando sotto il suo stendardo, ma, per la diffidenza nata già tra il
Signor Duca e lui, si è risoluto di levarle da quella schiera e nell'ultimo viaggio che fece Don Carlo
in Spagna non volle Sua Altezza (il duca) che vi andasse la sua... (Ib. S. II, v. V, P. 1601.)
731

I cattivi rapporti tra Carlo Emanuele I e il d'Oria e Genova in generale erano nati proprio dalla
cattiva gestione di queste galere savoiarde esercitata dal capitano genovese, sia per l'asprezza di
comando a cui le aveva sottoposte sia perché, non avendone avuta poi negli ultimi tempi che una
sola sotto il suo stendardo, la trascurava e ostacolava notevolmente; ma gli episodi che soprattutto
esacerbarono l'animo del duca contro il principe riguardarono la mancata osservanza della
riverenza di mare, materia che, come spieghiamo in un altro capitolo, era allora importantissima,
perché ogni omaggio formale significava riconoscimento di diritti ancora feudali:

... Condusse poi al colmo i disgusti in Sua Altezza l'azione fatta dal d'Oria con disprezzo del Signor
Duca e della fortezza di Nizza, passando e ripassando per di là con l'armata tutta nel condurre in
Spagna la Regina e l'Infante in Italia, senza non solo onorarla come si suole le fortezze di mare,
ma né anco far cenno di minima risposta a forse 200 tiri (a salve) d'artiglieria sparati con
nobilissimo invito da quel castello e dalla città. (Ib. P. 286.)

In realtà, se si tien conto della maggior velocità delle galere savoiarde a quel tempo, primato
dovuto all'aver esse già adottato il remo di scaloccio, e del miglior trattamento riservato alle loro
ciurme rispetto agli usi tenuti sulle galere del d'Oria e ponentine in genere, circostanze tutte di cui
abbiamo già detto in un altro capitolo, si comprende facilmente come possa esser nata nei
genovesi un’astiosa invidia verso queste galere di Savoia e quindi anche i conseguenti suddetti
dissapori; abbiamo già spiegato infatti quanto contasse allora tra la gente di poppa la vanagloria
del primeggiare nelle arregate e quanto tra i remiganti il poter ricevere una migliore o peggiore
razione o il poter godere d’una maggiore libertà d’esercitare qualche piccolo commercio.
732

Capitolo XII.

ARSENALI DEL MEDITERRANEO.

Le prime versioni in volgare del nome ‘arsenale’ che possiamo trovare sono arzenà (Dante
Alighieri, La Divina Commedia, Inf., cant. 21) e arsenà (… qui locus ubi dictum conservatur
navigium, arsena vulgariter appellatur. Marin Sanudo, Diarii. lt. II, par. IV). Il nome deriva dal tlt.
arsenatus, molto comune nei documenti e nelle cronache medievali, il quale significava ‘luogo
dotato di arsena’; e quest’ultimo a sua volta veniva da armamentorum sinus, vale a dire ‘insenatura
delle attrezzature nautiche’; da esso derivarono poi sia il vn. arsile (accor. di arsinilis), nome che si
dava a Venezia agli scafi di galea grossa usati per il trasporto di materiali o di cavalli da guerra’,
sia anche l’arabo Dar-Es-Senah, cioè l’arsenale d’Algeri, essendo infatti molta terminologia nautica
araba di origine latina e non viceversa, come per esterofilia erroneamente si crede. Infine, il
termine prese poi, come si sa, a significare per sineddoche anche armeria in generale.
Quanto suddetto è a proposito dell’arsenale veneziano, il quale era nel Mediterraneo l’arsenale per
antonomasia sia per dimensioni sia per organizzazione sia per capacità di produzione; infatti lo
stesso Dante vi accenna nel Canto 21* del suo Inferno, cioè dove la punizione dei barattieri, ossia
dei cuncussionari:

Quale nell'arsenà de veneziani
Bolle l'inverno la tenace pece
A rimpalmar li legni lor non sani
Che navicar non ponno; e 'n quella vece
Chi fa suo legno nuovo, e chi ristoppa
Le coste a quel che più viaggi fece:
Chi ribatte da proda, e chi da poppa:
Altri fa remi, ed altri volge sarte:
Chi terzeruolo ed artimon rintoppa;

(Dante Alighieri, La divina Commedia ecc. T. II. Canto XXI, vv. 7-15. Napoli, 1829.)

Per quanto riguardava i mari di Ponente, cioè il Tirreno, troviamo prevalere lo stesso termine ma
probabilmente inclusivo dell’art. determ. neutro plurale greco τὰ, quindi ci fa pensare a una sua
versione originale significante qualcosa come ‘i vascelli sollevati’ (e.g. τὰ ἀρόμενα πλοῑα); abbiamo
quindi Il tarsianatus-us, ma anche tarsienatus e tarsenatus. (Bartolomeo di Neocastro, cit. Capp.
XXXVIII, LXXVI; G. del Giudice, cit. P.8; e molti altri; infatti il lc. terzanaia, ‘tettoie, volti’):

… Statuimus Tarsionatum galearum 20 vel 30 facere ex altera parte portus inter monasterium S,
Victoris et Salinas…
733

… nam completo Tarsenatu neapolitano, quem confidimus in magna parte per praesentem
hyemem ultimam manum ponere… (Literae Roberti Regis Jerosolimitani et Siciliae massiliensibus,
in Charles de Fresne Du Cange, Glossarium mediae et infimae latinitatis etc. T. VI, p. 511. Parigi,
1846.)

Dunque anche in questo caso non c’è affatto bsogno di andare a scomodare l’arabo per trovare
l’etimo del termine, il quale deriva dunque, come detto, dal gra. ἅρσις (‘elevazione’) e quiindi dal
verbo αῒρω (sollevo’). La corr. tlt. adarsenalis è addirittura moderna e la troviamo infatti non prima
del Crescenzio; essa sembra collegato al cst/ctl. (a)taraçanas, ‘tettoie, volti’, originatosi questo
probabilmente dal verbo lt. adaresco, ‘dissecco, tiro a secco’; ma potrebbe anche semplicemente
derivare dalla locuzione lt. ad arsena, ‘andare all’arsenale’, da cui appunto il moderno darsena.
Sinonimo di arsenale era mandracchio, usato questo termine specie nei porti dello Jonio; inoltre un
arsenale poteva essere chiamato con nome particolare di quel luogo e per esempio chiamavano
quello di Corinto léchaion (λέχαιον; ‘il bacino’) e quello di Megara Nissaia (gr. Νισσαία), perché
quella città si chiamava anche Nisos (gr. Νίσος). Quello di Corinto doveva essere molto importante
in quanto città particolarmente ricca; infatti un antico proverbio greco diceva ‘navigare a Corinto
non è da tutti’ (Οὐ παντὸς ἀνδρός ἐς Κόρινθον ἒστ' ὀ πλοῦς·), in quanto appunto città dispendiosa,
specie perché vi era molto diffuso un costoso meretricio
Era dunque la adarsena o darsena o la zona militare di un porto, cioè era un molo chiuso,
generalmente quadrangolare, riservato all'attracco e al disarmo invernale delle galere; questo molo
era contiguo all'opificio in cui costruivano, risarcivano e da cui si varavano navi, barche e appnto le
stesse galere. A partire dall'Ottocento sarà poi adottato anche in Italia l'improprio vecchio uso
francese di chiamare arsenal anche fabbriche militari avulse da quella marittima dove si
costruivano galere e velieri e cioè la fondizione dell’artiglieria - con o senza polveriera - e l'armeria
reale (lat. armamentarium) o munizione delle armi (vedi per esempio il Manesson Mallet). Oltre che
da cantiere e da rimessa per galere un arsenale serviva anche come deposito coperto di galeazze,
vascelli questi che, tranne che a Venezia, erano nel Cinquecento armati e messi in servizio ormai
più raramente che nel secolo precedente e pertanto, se si tenevano all'aperto, il loro fasciame
risultava d’inverno inevitabilmente deteriorato dall'intemperie e dal freddo e d’estate spaccato dal
caldo sole; se poi d’inverno erano invece tenuti ormeggiati, il fasciame ne risultava poi
irreparabilmente infradiciato dal mare o roso dalla bruma; pertanto, come norma generale, nella
stagione invernale galere e galeazze andavano conservate al coperto nei loro volti e d’estate si
tenevano invece in acqua ormeggiate, mentre si potevano tenere a secco all’aperto solo per il
tempo necessario a lavori di carenamento.
L'(a)darsena era dunque un porto nel porto, costruito dove le acque portuali erano più tranquille e
più riparate da traversie e da restie; in essa in primavera si risarcivano e si rispalmavano - oggi
734

diremmo ‘si carenavano’ - le galere per tornare ad armarle, si dava carena anche ad altri vascelli di
poco pescaggio - perché bassi erano i suoi fondali - e si abbordavano a moli e scale le barche e le
altre piccole imbarcazioni incaricate del carico e dello scarico dei materiali; la sua imboccatura era
chiusa da travi o più spesso, come abbiamo già detto, da catene, in modo che nessuna
imbarcazione priva d’autorizzazione potesse entrarvi; dalla parte di terra questo cantiere militare
era cinto da mura e la porta che dava nella città era tenuta chiusa da robusti catenacci; insomma si
trattava d'un serraglio fortificato che poteva essere utile anche ad altri scopi militari, come a
rinchiudervi dentro i coscritti a forza e i condannati al remo in attesa che venissero imbarcati, il che
era per esempio la norma a Napoli. In questo modo erano pure fatte le adarsene di Genova,
Ligorno (oggi Livorno), Civitavecchia e altre.
Il fondale dell'adarsena, già poco fondo di per sé, specie durante l'inverno tendeva a innalzarsi
ancora di più a causa dell'immondizie e dei rifiuti che i galeotti scaricavano in mare dalle loro
galere e pertanto ogni tanto bisogna ripulirlo per mantenerlo navigabile; questo lavoro poco
invidiabile era fatto dagli stessi schiavi delle galere guidati dai loro aguzzini. Alla fine del
Cinquecento a Genova si usava una barcaccia a vela quadra e con il fondo piatto, del tipo cioè
allora detto catasta (gr. βᾶρις, βάριος, βαρῖς, βαρειᾶ ναῦς, da βάρος, 'carico' e βᾰρύς; ‘pesante’; fr.
gabarre), garbo questo che le impediva di rischiare di affondare per il peso del fango che le si
andava accumulando dentro; da bordo di questa imbarcazione gli schiavi, con un lavoro molto
lento e faticoso, cavavano il fango dal fondo a mezzo di lunghe zappe e lo scaricavano all’interno
sino a riempirne la barcaccia e andare poi a vuotarla al largo, un risultato finale questo che si
otteneva allentando le catene che tenevano chiuso il fondo a botola dell’imbarcazione. Quando le
zappe incappavano in qualche grossa pietra o comunque in qualcosa di pesante, questi uomini
entravano in acqua o sott'acqua e la tiravano fuori con le mani; si trattava insomma d’una fatica
gravosissima, lentissima e dispendiosa. In modo non molto diverso dal suiddetto si puliva il fondale
dell'adarsena di Corfù, dove l’arsenale era detto in it. il Mandraccio, termine in uso per esempio
anche per quelli di Ancona, di Grado, per quello più antico di Venezia e probabilmente anche per
quello di Candia, ma colà invece delle zappe si usavano certe grosse cucchiare di ferro inastate e
contrappesate al manico, le quali si scaricavano non nell'imbarcazione dei lavoranti, ma in piccole
barche da navi che fossero disponibili e che le andavano sotto per ricevere quel fango e andarlo a
scaricare fuori dal porto in alto mare; questo mandraccio o mandracchio di Corfù era allora uno dei
più moderni, per esser stato rifabbricato nuovo appena nel 1595 d'ordine dell'allora Provveditore
delle galee veneziane Bembo e ricordiamo a tal proposito che nel Cinquecento Corfù era questa,
come del resto anche Cipro e Candia, una delle principali basi delle galee veneziane. Un sistema
molto più moderno e simile a quelli in uso tutt'oggi si adoperava già allora a Livorno, sistema
735

realizzato di recente da un ingegner Giovanni de' Medici, il quale lo aveva visto usare in Fiandra e
lo aveva imitato; si trattava d'une imbarcazione cavafango a fondo apribile, attraverso il quale si
cavava sul fondale dell'adarsena due grosse tenaglie draganti simili alle attuali, il tutto azionato da
una macchina di brodo azionata a mano; le tenaglie erano girate, aperte e svuotate poi su un’altra
imbarcazione che veniva ad affiancarsi alla draga e che era anch'essa particolare perché aveva
anch'essa il fondo apribile, in maniera che, arrivata in alto mare, questo fondo era aperto con un
sistema di leva e catena e il fango accumulatovi cascava a mare senza fatica. A Venezia c'era un
sistema che somigliava a questa di Livorno, ma per difetto, non essendo infatti altrettanto pratico.
Un arsenale doveva essere ben custodito da guardie di soldati perché, essendo pieno di materie
fortemente combustibili, come legnami, pece, stoppa, canapa, tele e polveri piriche, era cosa molto
possibile che - o per accidente o per dolo o complotto - vi si attaccasse inarrestabilmente il fuoco;
ciò successe la notte del 13 settembre 1569 proprio all'arsenale di Venezia, quando, come se non
bastasse una gran carestia che aveva quello stesso anno colpito gran parte dell’Italia, specie lo
Stato di Venezia e quello della Chiesa, non si trovava in giro da mangiare, come racconta Giovan
Pietro Contarini, altro che pan di miglio, scoppiato dunque un incendio nei magazzini dove si
custodivano le polveri, questi saltarono in aria e in pochissimo tempo bruciò orribilmente non solo
gran parte dell'arsenale medesimo e dei tanti materiali che vi erano stati accumulati nel tempo, ma
ne rimasero anche seriamente danneggiate molti edifici della città, anche alcuni alquanto lontani
dall’arsenale, avvertendosi il terribile boato sino a Verona; e per fortuna pochissimo tempo prima
una gran parte della polvere d'artiglieria che si trovava in quell'arsenale era stata trasferita a Corfù,
altrimenti quell'immane disastro, già visibile da grande distanza, sarebbe risultato ancora più
catastrofico; inoltre, a quanto ne narra il diarista Francesco Molin citato dal Levi, il fuoco, pur
facendo grandissime rovine, risparmiò le tante galere custodite nei volti, danneggiandone in tutto
solo due o tre - mentre secondo il Manolesso n’andarono bruciate quattro - e questa fu nonostante
tutto una fortuna che permise a Venezia di mettere in mare appena nel seguente 1570 una
potentissima armata di 140 galere, anche se ciò avveniva proprio mentre una terza catastrofe la
colpiva e cioè la terribile epidemia che scoppiò sul grosso stuolo di galere che si trovava già
concentrato nei porti istriani al comando del capitano generale Girolamo Zanne e di cui abbiamo
più sopra già detto. Questa immediata capacità di recupero era certo espressione della grande
potenza economica e organizzativa della Serenissima, come giustamente commenta il suddetto
Giovan Pietro Contarini nella sua Historia:

… E veramente allora veneziani mostrarono il poter loro esser grande e potente, essendo il tempo
di una carestia così memorabile e uno incendio notabile fatto nel suo arsenale; e con tutto ciò
haver fatto così potente armata bene ad ordine di tutto quello che si poteva desiderare, facendo
736

(inoltre) nell’arsenale poner in cantiero altre galee 50, galee grosse 4 e fuste 12, non mancandosi
di racconciare altri legni guasti dall’incendio… (Contarini, Giovan Pietro, Historia delle cose
successe dal principio della guerra mossa da Selim ottomano a' venetiani fino al dì della gran
giornata vittoriosa contra turchi etc. P. 9r. Venezia, 1572 e 1645.)

Ma leggiamo ora anche quanto, nella già ricordata versione francese di un’anonima relazione,
nello stesso 1569 si riferiva della predetta, appena avvenuta catastrofe:

… Ciò accadde la notte tra il martedì 13 di settembre ultimo passato e il mercoledì seguente,
giorno dell’equinozio autunnale, quando, quasi a mezzanotte, quando ciascuno è più dedito al
riposo e preso dal sonno, si dette fuoco alle polveri del detto arsenale, dove ne furono bruciati ben
sessanta migliari in tre torri e magazzini in cui stavano conservate tali munizioni. Le torri, per la
grande forza del fuoco e dell’esplosione, orribilmente tonante e spaventevole, saltarono in aria
spezzandosi in diecimila pezzi, smantellando e danneggiando tutto ciò che questi colpivano; dal
che la muraglia dell’arsenale, forte e spessa, crollò in tre luoghi, tredici volti, in cui si tengono al
coperto le galere, (furono) abbattuti e quindici di dette galere rotte e fracassate; un monastero di
religiosi chiamato ‘la Celestra’ devastato e demolito insieme ad un buon numero di case
all’intorno; la chiesa di San Francesco della Vigna molto danneggiata; quelle di Santa Giustina e di
San Giovanni e di San Paolo ne risentirono; persino ( che è cosa spaventosissima) con lo
scotimento di quasi tutte le case della città e il danno e la frattura di tutte le vetrate, specie a
Murano. Le persone uscivano dalle loro case e palazzi tutte in camicia, fuggendo qua e là e non
sapendo da qual lato andare a pararsi, tanto erano smarrite, spaventate e stupite, temendo di
vedersi seppellire nei loro domicilii e che i loro proprii letti loro facessero da tombe… (Historie
merveilleuse et espouvantable etc. Cit.)

Fortunatamente non c’era un vento che potesse far propagare il fuoco alla città e non vi furono più
di 14 o 15 morti, ma la perdita materiale fu stimata a ben tre milioni d’oro in moneta locale (ib.)
Dunque il danno arrecato all’armata veneziana sembra esser stato più consistente di quanto poi
ufficialmente riportato; fu sparso poi il sospetto che l’incendio fosse stato appiccato da sicari dei
nemici della repubblica e si sospettò in particolare del sultano Selim II, il quale a quella funesta
notizia aveva pubblicamente esultato, in quanto vedeva così ora più facile la realizzazione del suo
progetto di togliere a Venezia l'isola di Cipro; ma comunque questo ipotetico autore del disastro,
nonostante la gran ricompensa promessa a chi l’avesse svelato, non fu mai scoperto, né si volle
mai prendere ufficialmente in considerazione l’eventualità d’un involontario incidente dovuto a
semplice sbadataggine e ciò perché ciò avrebbe sminuito la fama dell’efficienza dell’arsenale e
quindi della potenza di Venezia.
Un tentativo doloso, però dal solo parziale successo, di incendiare un arsenale fu quello che nel
1472 avevano tentato gli stessi veneziani ai danni dell’arsenale turco di Gallipoli e Domenico
Malipiero così lo racconta nel suo veneziano rinascimentale, lingua che però noi qui abbiamo
ritenuto opportuno di ‘italianizzare’ per una miglior comprensione del testo:
737

… Un Siciliano, giovine virtuoso e di gran cuore, è andato (a Modone, base dell’armata di mare
veneziana) a trovar il generale (Piero) Mocenigo e si è offerto di bruciare l'arsenal e l'armata del
Turco. Al generale ghe parve che la cosa potesse riuscire e l'abbracciò e lo fece rifornire di tutto
quel che bisognava; gli armó un gripo, gli dette 6 uomini che lui (stesso) si era eletti; gli dette
polvere, solfo, ragia e altra materia da fuoco. E caricate tutte queste cose nel grippo, con gran
copia de naranze (‘arance’), montò sù, e andò ai Dardaneli; fece i suoi saluti (alla guarnigione) e
andò verso Costantinopoli; e giunse in Gallipoli il 20 di febbraio, la notte del Sabato. E smontò in
terra con 5 uomini, i quali portavano in spalla un sacco per uno, e giunse al serraglio dell'artelarie
(‘artiglierie’), onde era la munizione delle galee; rompé le porte, aperse le serrature con tenaglie e
con trivelle e entrò con i suoi compagni in 15 magazzini senza che fossero sentiti. Aprì le finestre
per dar esito al fuoco e mise per ogni magazzino un canale di ferro a forma di grondaia e lo riempì
di polvere di bombarda; e alla testa di detto canale mise un saco della medesima polvere vicino
alle sartie, alle vele e alle artelarie; dette più volte fuogo e, poiché la polvere si era fatta umida
durante il viaggio, non si accese. In un magazzino di mezzo, dove erano i filati del sartiame, gran
quantità di pece e de sego, si accese grandissima fiamma e molti concorsero per estinguerla. Il
siciliano era ancora col fuoco in mano e, con l’intento di appiccare fuoco alle galee, finché i turchi
attendevano a estinguere quello dei magazzini. Andò nel suo grippo, ma la cosa non gli riuscì
perchè il fuoco gli cascò in un sacco di polvere e si bruciarono la vela, l' albero e l'antenna. E per il
fuoco che si vedeva da lontano, dubitò d'esser scoperto e dette in terra sulla Turcbia e affondò il
grippo… (Cit. Parte prima, pp. 84-85).

Il siciliano, il quale si chiamava Antonello, e i suoi compagni furono poi catturati dai turchi e
giustiziati (ib.); l’incendio così procurato non si potè estinguere e durò dieci gioni. Un arsenale
dunque, specie se situato al di fuori dell'abitato, andava circondato da un recinto fortificato,
presidiato da soldati e munito d'artiglierie difensive come se fosse una fortezza e doveva pertanto
essere recintato anche dalla parte del mare, cioè con moli che lasciassero un solo varco e questo
ostruibile con una catena o, in caso di necessità bellica, affondandovi degli alti vascelli carichi di
pesanti massi e che arrivassero a fior d’acqua;

(18 giugno 1389): … Una galea inviata a Candia per i lavori del porto ha sofferto gravi avarie. Si da
ordine di venderla o di metterla sott’acqua per utilità del porto. (Une galère envoyée à Candie pour
les travaux du port a souffert de graves avaries. On donne ordre de la vendre ou de la mettre sous
l'eau pour l'utilité du port. In Hippolyte Noiret, Cit. P. 28).

Ma c’erano alcuni arsenali, come per esempio quello turco di Peràia di Costantinopoli, che erano
invece dalla parte del mare non protetti e quindi ognuno che vi passasse davanti con
un’imbarcazione vi poteva vedere quello che voleva senza che vi si potesse così mantenere un
certo segreto militare; anzi, a quanto scriveva il già citato bailo Marco Minio, l'interno di
quest'arsenale era visibile da tutti i lati:

... Ma questo arsenal non è serrato - se non (in) parte - di muro, e il resto di legname, per modo
che facilmente si può vedere tutto quello che si opera dentro. (E. Albéri. Cit. S. III, v. III, p. 74.)
738

Le suddette catene si spezzavano andandole a urtare con grossi vascelli e così fecero per
esempio i veneziani nel 1203 all’assedio crociato di Costantinopoli, usando allo scopo una loro
grossa nave che si chiamava Aquila e che andò a infrangere una catena tesa dai difensori tra i
luoghi chiamati Mangani e Galatas (Andrea Dandulo, Chronicon. LT. X, c. III, p. XXIX). A proposito
poi dell’affondare vascelli, c’era in genere nei pressi di ogni porto d’importanza un luogo deputato
all’affondamento volontario di relitti ormai inservibili, perché magari dal legno ormai marcito, e in
nessun altro luogo ciò era concesso pena il pagamento di onerose sanzioni; sembrano ricordare
questa circostanza antichi toponimi costieri che sembrano derivare dal verbo lt. mergo (‘immergo’),
quali per esempio Mergellina (vulgo ‘Mergoglino’) a Napoli e Mergaria (oggi ’Marghera’) a Venezia,
anche se, nel caso di Napoli, il riferimento sembra da farsi all’azione dell’uccello marino detto
cormorano o smergo e non a quella dell’uomo.
Abbiamo detto che le migliori navi e soprattutto i migliori galeoni del Mediterraneo erano quelli che
si costruivano a Ragusa di Dalmazia, le migliori galee, galee grosse e galeazze si fabbricavano
invece a Napoli, Genova e soprattutto Venezia, città questa che aveva il miglior arsenale del
Mediterraneo e, secondo molti, del mondo intero, primato che manterrà sino alla conquista
napoleonica, e teneva sempre armata la più grande squadra di galere dopo quella ottomana, come
scriveva con ammirazione il Pantera a proposito appunto della costruzione dei vascelli:

... Il che è stato sempre con incredibil diligenza esequito dalla Republica di Venezia, che
veramente in questo non solo agguaglia, ma avanza tutti quelli che mantengono armate nel Mar
Mediterraneo, tenendo in Venezia un arsenale che, oltra la bellezza della fabrica e dell'ordine delle
officine, è copiosamente fornito tanto di galee e d'altri vascelli novi quanto d'ogni altro apparecchio
necessario alla fabrica et provision di un’armata; onde è veduto e lodato con stupor di ogn’uno e
mostrato a i Principi come cosa meravigliosa, anco per l'abondanza della materia e perché
mantiene un numero grande di operarij pagati continuamente. Però (‘perciò’) vediamo che quella
Republica in diverse occasioni, tanto per suo interesse quanto anco per sovvenir gli amici ne i
bisogni, in pochissimo tempo ha messo armate grossissime in mare e particolarmente a' nostri
tempi l'anno 1570 e 1571 e quelli che seguirono, mentre durò la guerra col Gran Turco, perché per
la sua parte mise in mare maggior numero di galee de i collegati e più dell'obligo che haveva, oltra
le galeazze ed oltra molte altre che mantenne armate nel mare Adriatico; e prestò anco a Papa Pio
Quinto dodici galee che si trovorono l'anno 1571 nella battaglia navale all'isole de i Curzolari
(Lepanto). (P. Pantera. Cit. P. 61.)

Già nel 1460 Venezia aveva stupito per le sue grandi potenzialità di costruzione navale:

… Fra questo tempo il Turco (‘il sultano turco’) si mise in ordine e si mise in campo con centomila
persone per terra e per mare con trecento vele ed era presso a Negroponto a sette giornate; e la
Signoria di Venezia, avendo gran dubitazione che il detto Turco non volesse andare a campo a
Negroponto, subito fece gran provvigioni e fra l’altre mise nell’arsenale quanti marangoni (si)
potevano avere, per modo che ogni tre giorni facevano una galera… (Cristoforo da Soldo,
739

Memorie delle guerre contra la signoria di Venezia etc. In LT. A. Muratori, Rerum italicarum
scriptores etc. C. 892, t. 21. Milano, 1732).

Da notare che l’autore scriveva spesso galera e non galea alla veneziana, il che sembra
dimostrare che non era veneto, tanto più che Solda si trova, come si sa, in Alto Adige. Molta cura
aveva dunque Venezia del suo arsenale, ampliato più volte nel corso del tempo, e infatti, mentre
per esempio l'arsenale di Napoli era diretto da un solo ministro detto il Maggiordomo dell'Arsenale,
insomma ancora come quelli dell’antichità, in cui c’era un solo ‘direttore’ detto in gr. νεαρός e
νεηλάτης, quello di Venezia era soprinteso da un magistrato composto da tre nobili cittadini (i
paroni), i quali risiedevano nello stesso arsenale; questo, così come lo descriveva nel 1525
Gasparo Contarini, comprendeva tre grandi seni circondati dai volti o volte, ossia da quelli che oggi
chiameremmo capannoni, nei quali si tenevano al coperto le galere e altri vascelli, protetti così
dall'intemperie. Uno dei tre seni era di recente fabbricazione e non tutti i suoi relativi volti erano in
quell'anno già finiti. I volti, cosiddetti perché avevano i soffitti di muratura a volta e protetti da tetti di
travamenti e tegole, potevano contenere ognuno una o due galere a seconda della loro larghezza
e, dice sempre il Contarini, non ce n’era uno che fosse vuoto; in essi le galere si fabbricavano, si
risarcivano, si conservavano e preservavano così dal deterioramento per molti anni. L'ingresso ai
tre seni era unico e avveniva attraverso un canaletto e per il resto l'arsenale era come una
fortezza, circondato com'era da mura e torri e guardato di notte da scolte armate. All'interno, oltre
ai volti, a una fondizione d'artiglieria e una fabbrica di polvere pirica, c'erano botteghe di maestri
artigiani (frm. feures, da cui l’odierno ‘feriale’) d'ogni tipo e magazzini (prlt. casteria) e depositi pieni
d’ogni necessario materiale, d'attrezzature, corredi d'ogni sorta e armi, tettoie [fr. hangar(d)s] sotto
le quali si conservavano al coperto i materiali grossi, come il legname da costruzione e gli affusti
incatramati per i cannoni, per cui, non appena il senato decideva di mettere in mare un’armata,
nell'arsenale si trovava ogni cosa già pronta per farlo:

... di maniera che in quello arsenale non si può desiderar cosa veruna che appartenga al mestier
marinaresco. (Gasparo Contarini, La Republica, e i magistrati di Vinegia etc. P. LVIIv.)

L’arsenale di Venezia, governato da tre patrizi chiamati provveditori, ma che in precedenza, cioè
nel Medioevo, avevano avuto il più semplice titolo di patrones, come quello dei comandanti dei
vascelli, era autonomo anche per quanto riguarda l’approvvigionamento di biscotto e ciò già nella
seconda metà del Quattrocento:

(1473): Quest'anno è stà preso de far 32 forni nei magazeni presso il Canal, i qual forni farano
biscoto per cento galie e più; et è stà speso in quell'opera 8,000 ducati (D. Malipiero, cit. Parte
prima, p. 87).
740

Il Levi ha rinvenuto che nel periodo post-lepantiano che va dal 1573 al 1591, cioè in 18 anni, i
veneziani vararono ben 198 galere sottili, due grosse, 26 fuste e 24 fregate e che, ciò nonostante,
ritenevano questa produzione poca cosa in confronto a quanto invece usavano varare prima; ciò
tanto per dare un’idea della gran funzionalità del loro arsenale, secondo per numero di vari solo a
quello ottomano di Peràia, il quale però superava grandemente in qualità produttiva. Ecco una
sintetica descrizione del predetto arsenale fatta in una relazione italiana del 1574, ma nella sua
traduzione francese, a proposito della visita che vi fece in quell’anno l’allora ventiquattrenne Enrico
III re di Francia, il quale era in viaggio di trasferimento dal trono polacco a quello, ben più
prestigioso, di Parigi:

… dove egli si meravigliò grandemente di vedere un luogo così grande, di circa mezza gran lega di
circuito, cinto all’intorno di alte muraglie e molteplici torri, con un ‘sì gran numero di galere sottili e
grosse, ‘sì gran quantità di sartiami, tante sale piene d’armi da armare in una sola ora trentamila
persone, tanti magazzini pieni d’artiglieria e tanti altri luoghi pieni di munizioni e altre cose
necessarie ad armare una grossa armata e un grande campo, disposte in un bellissimo ordine; e in
somma il governo di milleduecento valenti uomini stipendiati vita natural durante, al bisogno
sufficienti a fare una galera al giorno, tutti di coraggio e buona volontà, sempre fedeli al loro
Principe e pronti a servirlo. (Rocco Beneditti, Discours des triomphes et resiovissances faicts par
la Serenissime Seigneurie de Venise à l’entrée heureuse de Henry de Valois etc. Lione, 1574.)

L'arsenale di Venezia aveva, tra le altre positive particolarità, anche quella d’alcuni volti-bacini, volti
cioè dove le galere potevano restare in acqua pur essendo al coperto; ma ecco una descrizione
dell' insuperabile arsenale veneziano che ci ha lasciato il già citato Gasparo Contarini e bisogna
tener anche presente che si tratta delle condizioni in cui esso era già nel 1525, cioè in un tempo
ancora più medioevale che moderno:

... Nella guerra maritima, come dianzi dicemmo, armiamo le galee nostre in alcuni luoghi dove gli
huomini per poco premio vanno alla guerra per vogatori; e per combattere prendiamo di quelli che
per terra combattono, i quali avvenga che seco portino l'armi di che hanno bisogno, nondimeno,
perché quelle che si usano nelle guerre navali sono alquanto diformi da quelle che si usano in
terra, perciò la Republica nostra ne sta sempre copiosamente proveduta [...] habbiamo ne la
nostra Città uno luogo particulare, il quale noi chiamiamo l'arsenale, dove le galere e altri navili con
tutto l'altro apparato da guerra si fabricano. É questo luogo cinto di mura intorno, ne vi si entra se
non per una sola porta e per il canale che mette dentro e manda fuora i navilij; è anchora si ampio
e magnifico che a gli entranti apparisce nel primo aspetto come un’altra città [...]
In questo arsenale sono distinte le munizioni l'una dall'altra e dove si fabrica una cosa e dove
un’altra. I luoghi dove si fabricano i navili son certi spazij - noi li chiamiamo ‘volti’ - coperti con tetti
che piovono l'acqua da destra e da sinistra (cioè sono spioventi); sono tanto larghi e lunghi quanto
richiede la grandezza di quel navile che vi si fabrica o che vi si conserva. Sono distinti questi spazij
in più ordini, de quali in alcuno ne sono più e in alcuno meno secondo la lunghezza del luogo dove
sono edificati. [...] (‘Ma occorrerebbe molto tempo’) per veder tutti i navili che al coperto si
conservano o di novo si fabricano, come sono le galere, le fuste, i bregantini, le galee grosse, le
741

quali servono alle mercanzie che si portano e recano di Baruti, di Alessandria, di Barbaria e di
Fiandra, ben che hoggi il viaggio di Fiandra non è molto frequentato, due bucentori, che è una
specie di navili la qual noi usiamo in certe nostre solennità e nell'andar ad incontrar i Principi e
Signori che vengono nella nostra Città. Questi navili non però tutti sono in ordine, ma chi si
fornisce, chi si restaura; ma, quando il bisogno strignesse, sarebbe in breve tempo ogni cosa in
ordine, percioché non occorreria far altra provisione che multiplicare il numero de' lavoranti.
Sonvi, oltra questo, in luoghi separati le munizioni dell'arteglierie, dell'arme da difendere e da
offendere, de' timoni, dell'ancore, de' canapi, delle vele, de gli alberi. Sonvi ancora i luoghi dove si
lavorano le piastre per le corazze, dove si fanno i chiodi e altri ferramenti per la fabrica de' navili.
Nella munizione dell'artiglierie trovai gran copia d'artigliaria minuta e grossa, come sono
moschette, falconetti, cannoni, mezzi, quarti, colubrine, sacri e simili, e del continuo si gettava (‘si
fondeva’) assai della nuova, convertendo in questo la materia molto vecchia che all'uso presente
della guerra non è più accommodata (che peccato!), si come erano molti pezzi grossi che io vidi di
quella sorte che si commette (cioè bocche da fuoco del secolo precedente, fatte di pezzi che si
connettono insieme), si come usavano gli antichi nostri. Eravi ancora un numero grandissimo di
artiglieria curta di ferro (‘petrieri’) che si usava in su navili.
Nella munizione delle arme noi habbiamo da armare diecimila huomini ordinariamente e più, se più
fusse bisogno. L'armi da difendere sono celatoni, petti e corazze in tal modo che per l'uso di terra
ferma non sarebbeno utili; le armi da offendere sono schioppi, de quali ne vidi un numero grande,
tutti co’ i loro tinieri (‘casse di legno’) e bottacci (‘fiaschi per la polvere’), ronche, partigiane, spiedi,
spate da due mani, balestre, archi alla turchesca, ogni cosa con grande ordine e apparato
disposta. Io sarei troppo lungo se volessi narrarvi ogni particularità minutamente... (Della repvblica
et magistrati di Venetia libri cinque etc Pp. 347-349)

Il Vecellio disegna e descriveva tra gli altri anche l’abito consueto usato dai capo-mastri
dell’arsenale di Venezia:
… capi delle maestranze, che in Venezia si chiamano ‘proti’, quasi che sieno i primi d’ingegno e di
valore fra gli altri della loro professione… Questi usano di portar a canto una spada corta con
fornimenti d’argento e sono molto fedeli al principe (doge) e servono (anche) per guardia della
Città: (C. Vecellio. Cit. P. 100v.)

In effetti i proti erano negli arsenali qualcosa in più di semplici capi di maestranze, in quanto erano
in quei secoli gli unici esperti di costruzioni navali, mentre per architetti s’intendevano coloro che
erano esperti di scienza delle costruzioni civili e militari e per ingegnieri gli esperti in arti
meccaniche (da ingegno, ‘macchina’, specie l’idrovora per prosciugare le paludi e i bacini d’acqua
in genere).
Andando ancora più indietro nel tempo e cioè al 1480, inizio dell’era moderna, meravigliata appare
anche la brevissima descrizione dell’arsenale di Venezia lasciataci dal pellegrino Santo Brasca:

… Apresso andai a vedere l’arsenata, ove stano tute le munizione e artagliarie de la Signoria,
videlicet d’ogni generazione, navilij e infiniti, cinque sale grandissime piene de arme, due sale
piene de vele ove stano sempre gran numero de done che cusano le vele. In questa arsenata
s’extima che ogni anno, tra li lavorerij e robe, se spenda meglio de ducentomiglia ducati.
Similmente vidi l’arsenata nova, in la quale, quando sia fornita (‘finita’), starano cento galee grosse.
(A. LT. Momigliano Lepschy. Cit.)
742

A quei tempi la Serenissima si serviva comunque anche di altri cantieri situati nei suoi
possedimenti oltremare, soprattutto a Creta; per esempio, nel 1498, avendosi notizia che i turchi
stavano per mettere in mare una nuova armata, i veneziani decisero di costruire 20 nuove galee:

… e perciò è stato deciso di armare 20 nuove galee; 6 in Candia (porto principale di Creta), 2 alla
Canea (cioè nel porto cretese di Suda), 1 a Rethimo (altro porto cretese intermedio tra i due
precedenti), 2 a Corfù, 4 in Dalmazia e 6 in questa terra (Venezia)… (D. Malipiero, cit. P. 159.)

Il 15 gennaio dell’anno seguente, persistendo la minaccia turca, si decise per la costruzione di altre
30 galee:

… 10 in Candia, dove se manda i danari e i corpi, 10 in golfo a destra et a senestra e 10 in questa


Terra… (Ib. P. 162.)

Dunque a Candia, oltre il denaro necessario, si inviano anche corpi, cioè arsili, ovverossia scafi di
galere (lt. corpora galearum) grosse non più o non ancora corredati e armati per la navigazione
commerciale, cioè che per le loro dimensioni erano atti a far da trasporti di mmateriali bellici e di
cavalli:

(Venezia, 13 marzo 1496:) Questa mattina è zonto tre arsili con 360 Stradiothi (D. Malipiero, Annali
veneti etc. Cit. P 433).

La famosa discesa in Italia di Carlo VIII aveva fatto prendere alla Signoria di Venezia l’abitudine di
arruolare mercenari greci, soprattutto stradioti (‘cavalleria leggera’) ma talvolta anche fanti,
chiamati questi a Venezia zagadari.
Si facevano inoltre costruire altri arsili ‘alla destra e alla sinistra del golfo’ di Venezia, cioè in Puglia
e in Dalmazia, ma il Malipiero non specifica con precisione in quali porti; bisogna però considerare
che allora i veneziani nusavano considerare Puglia anche il Molise e spesso persino l’Abruzzo.
Circa un secolo dopo il già da noi citato fiorentino Girolamo Bardi così scriverà:

… L'arsenale per la prima cosa si può chiamare vn picciol mondo, conciosia che circonda quasi tre
miglia con le muraglie; ha dentro tanti artefici di cose che è iinpossibile a comprendere con la
mente, se non si veggono con gl'occhi. Vi so bene io dir questo, ch'il Marchese del Vasto, general
dell'imperatore Carlo Quinto in Italia, essendovi entrato dentro una mattina, vi stette fino alla sera e
uscendone disse che harebbe più tosto voluto l'arsenale in suo dominio che quattro città d'Italia
(Cit. Pp. 53-54).

Ai suoi tempi, aggiungeva, cioè nell’ultimo quarto del Cinquecento, Vi lavoravano d’ordinario 1.550
uomini regolarmente salariati e Vi si mantenevano anche i vecchi diventati incaoaci di lavorare. Un
743

anno di particolare attività dell’arsenale di Venezia fu il 1602 perché vi si stavano preparando


contemporaneamente ben 109 galere e 8 galeazze nuove, sforzo produttivo veramente imponente,
ma non nuovo a Venezia essendosi per esempio già verificato nel 1474 durante il dogato di Piero
Mocenigo, e che solo il sultano di Costantinopoli si sarebbe anche potuto permettere, anche se
certamente con un risultato di qualità molto inferiore; la già menzionata relazione di quella
straordinaria attività che fu presentata al doge fa sapere anche a noi quale fosse allora il numero
dei lavoratori impiegati nell’arsenale:

… Ed, acciocché la Serenità Vostra sap(p)ia anco quello che dalla sua maestranza si può
promettere, le dicemo che una settimana per l’altra vengono pagati dalla Casa sua dell’Arsenale
mille e cinquecento tra marangoni, calaffai, remeri, alboranti e tagieri (sic; taglieri?), non compresi i
bastasi, del qual numero può esser sicuramente bat(t)uto di tara (‘defalcato’) il terzo; nel qual terzo
si comprendono vecchi, stroppiati, ciechi e putti, da qualli poco anzi nessun servizio ella ne può
ricevere per l’impossibilità loro, li quali pure dalla benigna sua mano sono sov(v)enuti del soldo
ordinario, avendo loro in servizio suo consumato le loro vite. Dalli putti poco servizio ella riceve, ma
pur ne può sperare, poiché si vanno assuefacendo al lavoro e con il tempo potranno prestargli
qualche servizio. (Relazione del Provveditore sopra le cento galee etc. Cit.)
La grandezza ed efficienza del suo arsenale erano il principale motivo per cui Venezia poteva
disporre d’una armata di mare superiore a quella che poteva mettere insieme lo stesso
potentissimo re di Spagna, così come superava in fortezze confinarie la stessa Francia; era invece
la Serenissima debole per quanto riguarda la guerra campale e questa debolezza le impedirà poi
di opporsi adeguatamente all’invasione napoleonica.
La corona di Spagna disponeva di tre principali arsenali o mandracchi, cioè uno a Barcellona, uno
a Napoli e uno a Messina, oltre a quello dell'alleata Genova; ma si lavorava di galere anche a
Taranto, mentre a Palermo se ne inizierà la costruzione di uno per galere degno di questo nome
solo nel 1620, cioè sotto il vice regnato di Francesco di Castro duca di Taurisano e conte di Castro
(1616-1622), opera a cui forse questi si era convinto dopo la visita fatta a Palermo dal già ricordato
principe Emanuele Filiberto di Savoia gran priore gerosolimitano di Castiglia, generalissimo del
mare per il re di Spagna e, come sappiamo, prossimo nuovo vicerè di Sicilia; costui, arrivato a
Palermo il 12 luglio 1619 alla testa di 27 galere tra spagnole e toscane, vi si trattenne alcuni giorni
prima di trasferirsi a Messina, dove si stava costituendo una massa d’armata, unendosi infatti colà
alle sue le galere siciliane, napoletane, ecclesiastiche, genovesi, maltesi e le toscane del già
ricordato Montauto per un totale di ben 76, allo scopo di andare poi a tentare l’impresa di Susa in
Tunisia, in ciò coadiuvato dal suo luogotenente generale Carlo d’Oria duca di Tursi; infatti, sbarcati
proprio presso quella città, i cristiani furono però sconfitti e si dovettero reimbarcare. Questo nuovo
arsenale palermitano sarà terminato nel 1630 durante il viceregnato di Francisco Fernández de la
Cueva duca d’Alburquerque (1627-1632), come sarà ricordato da una lapide di marmo posta su
744

uno degli archi di questa costruzione, che l’Auria definisce via via ‘maestosa’, ‘ammirabile’ e
‘sontuosa’ (V. Auria, op. Cit. Pp. 310 e segg.).
Alla fine del Cinquecento il più recente, moderno e razionale a disposizione della corona di Spagna
era dunque ancora quello di Messina, il quale era ben funzionante già nel tredicesimo secolo
(Bartolomeo di Neocastro, cit. Capp. LXXVI, CX e altri); a tal proposito il predetto autore
descriveva l’attività che vi si svolgeva in occasione di un grande e sollecito lavoro di rammendo
della squadra di galere messinesi ordinato nel 1286 dall’ammiraglio Roger de Lauria, lavoro che
non s’arrestava nemmeno di notte:

… e (poiché) già la sopraggiungente notte avvolge le maestranze, si trasportano ai lavori in corso


grandi luminarie; là si sega l’abete, là si fiacca il pino col (mazzuolo di) ferro, là si rinforza, là si
ggiunge del leccio che rinforzi le coste delle carene, qui si addirizzano i remi, qui si scioglie le cere
(di sego) con deboli fuochi, qui si comprimono in strisce le stoppe di lino, qui comincia a incerare
gli scafi, qui si preparano i letti (di varo) dei vascelli, né v’era luogo che vacasse di necessari lavori.
Là si pongono le mense e vassoi, là i riposi della notte sono subordinati agli umani lavori […]
questi portavano tavole sulla testa, quelli sulle spalle, quelli travi in gran letizia… (ib. Cap. CX.)

La ricostruzione ex-novo del predetto arsenale di Messina era stata iniziata tra la fine del 1565 e
l’inizio dell’anno successivo dal già più volte nominato vicerè Garcia de Toledo e poi proseguita dai
suoi successori, cioè dal presidente del regno il palermitano Carlo d’Aragona e Tagliavia principe
di Castel Vetrano, duca di Terranova e marchese d’Avola (1567-1568), dal vicerè Francesco
Fernando de Avalos de Aquino marchese di Pescara (1568-1571), di nuovo dal predetto
presidente Carlo d’Aragona (1571-1577) e dal marchese di Briatico, il quale fu strategós di
Messina e anch’egli presidente del regno, e fu reso così, cosa che prima non era, atto anche alla
costruzione di galeazze e galeoni come quello di Napoli. Questo nuovo arsenale era un alto
edificio rettangolare con il lato maggiore rivolto verso il mare e diviso in tetti a volta individuali
sostenuti da pilastri; ogni tetto copriva un locale longitudinale distinto dagli altri e nel quale si
costruiva o si raddobbava una galera, in modo che ogni vascello in lavorazione avesse la sua
zona, separata da quella degli altri, anche se non chiusa da mura, e in modo che i materiali
occorrenti non si confondessero con quelli per le altre costruzioni; c'erano tre volti centrali più ampi
in cui si costruivano le galeazze e fuori dall'edificio, ai suoi due fianchi, c'erano due colonnati dove
lavoravano i remolari e gli alberari; all'esterno di questi c'erano ancora due piazze per la
costruzione dei galeoni, i quali, essendo troppo alti, si costruivano e si raddobbavano all'aperto; dai
volti i nuovi vascelli terminati sbucavano direttamente sull'antistante spiaggia dell'adarsena [‘bacino
interno’; ol. dok(kie), kom] e là si varavano, non esistendo nel Mediterraneo ancora i bacini di
carenaggio (fr. formes, bassins), risorsa che invece già nel Seicento vedremo comune nei porti
inglesi e presente anche a Rochefort in Francia. L’arsenale era circondato da mura fortificate
745

costituite da cortine e da baluardi, proprio come quelle d’una fortezza, e munite quindi anche di
garitte per le sentinelle e d’una porta che dava nella città di Messina; l’accesso dal mare si
chiudeva, come in genere a tutti gli arsenali, con una catena tenuta a fior d’acqua. Il giudizio che il
già citato Federico Badoero (1557) aveva però al suo tempo dato delle maestranze siciliane era
stato negativo:

… Di galere (siciliane) non si è Sua Maestà sin qui servita di più di dodici, ma (l’isola) ne potria fare
sino a venti, havendo pegola, sevo, biscotto, marinarezza, ciurme e commodità di legnami dalla
Calabria e anco di maestri, i quali però sono poco intendenti e tutti pigri. (E. Albéri. Cit. S. I, v. III, p.
269.)

Sulla complessiva inferiorità di questi arsenali ponentini rispetto a quello di Venezia così si
esprimeva il residente veneziano Matteo Zanne nel 1584:

... In Spagna vi è un solo arsenale, quello di Barcellona, dove non si fabricano più galee di quelle
che bastano per il consumo della squadra di Spagna; e una galea servirà sin dieci anni. Son galee
molto pesanti e lavorate grossamente, ma costano un terzo meno di quelle che si fabricano
altrove. In Genova vi è poco arsenale e così in Sicilia, ma in Napoli dicono esservi buon
apparecchio; ed è verissimo che il re e i suoi ministri stimano un tesoro l'apparecchio d'armata così
grande e ben ordinata che ha la nostra Republica nell'arsenale e che a loro non basteria un’età a
metterla insieme, non tanto per il valore quanto per le difficoltà che si rappresentano a loro in tutte
le cose. (Ib. S. I, v. V, P. 352-353.)

Se una galera poteva dunque durare una decina d’anni, 40 o anche 50 ne durava invece un
vascello tondo.
Sull'insufficienze dell'arsenaletto di Barcellona così già aveva anche letto nel 1573 un altro
residente veneziano di ritorno dalla Spagna, Leonardo Donato:

... Sono fabricate tutte queste galee di legname di Spagna nell'arsenaletto di Barcellona, ma sono
poi somministrate e servite della maggior parte de' lor guernimenti dagli (altri) Stati d'Italia. Questo
arsenaletto, il quale è assai mal provveduto non avendo né artiglieria né sartiami fatti né deposito
di legnami, consiste di ventiquattro volti di breccia benissimo fabricati e posti in quattro classi, una
dietro l'altra, sotto i quali si fabricano le galee, ed è necessario, quando varar si voglia la quarta di
esse posta nell'ultima classe de' vôlti, che le tre prime poste dinanzi le abbian dato luogo. (Ib. S. I,
v. VI, p. 395.)

Che l'arsenale partenopeo, ricostruito e ingrandito nei primi anni Ottanta sotto Filippo II e il vicerè
Pedro Giron duca d’Osuna (1582-1586), fosse più importante di quello di Barcellona è confermato
dal residente veneziano Girolamo Ramusio, di ritorno da Napoli nel 1597:
746

... L'arsenale è di circuito d'un miglio con diciasette vôlti; quindici di questi capiscono ognuno tre
galee. Il capo dell'arsenale ha titolo di maggiordomo. Oltra di questo vi sono quattro capi mastri;
uno è il castellano (di Castel Nuovo)... (Ib. Appendice. P. 346.)

Alla predetta ricostruzione aveva dato un importante contributo un maggiordomo veneziano, tanto
intraprendente quanto anonimo, il quale era stato assunto nel 1580 dal vicerè principe di Pietra
Perzia, già ricordato, in seguito a un ordine reale che in quello stesso anno aveva dato Filippo II, il
quale evidentemente già allora divisava l'impresa d'Inghilterra; l'ordine era di costruire sei
galeazze, di cui due a Barcellona e quattro a Napoli, ma delle due spagnole nulla sappiamo. Di
questo suddito della Serenissima aveva con molta sufficienza scritto un altro residente veneziano,
Alvise Lando, nello stesso 1580:

... Si lavora di galee in Napoli e a Taranto, dove ne furono due anni sono condotte cinque fabricate
in dieci anni in quell'arsenale; il quale adesso, con l'occasione delle galee acquistate nella vittoria
del '71 (Lepanto), da un certo viniziano bandito che ha presentato un modello e che ha il carico
principale di esso con scudi venti il mese, si va allargando, serrandosi in esso tutta quella spiaggia
che comincia dall'ultimo torrione del Castel Nuovo verso la torre di S. Vincenzo, estendendosi
verso S. Lucia sin dove arriverà appunto esso arsenale; nel quale si veggono adesso 18 arsilacci
vecchi, i quali sono in istato di potersene sperar molto poco 'sì per essere allo scoperto ed esposti
alle pioggie e al regurgitamento del mare, come per esser alcuni di essi fatti transito (‘albergo’) alle
genti che servono alla fabrica de' volti dell'arsenale. Vi si fabrica da questo viniziano adesso una
galeazza, la quale sarà inferiore alle nostre, essendosi egli provato già di farne una della
medesima grandezza, che non gli riuscì. (Ib. S. II, v. V, Pp. 466-467.)

C’è qui da notare il termine arsili, nome veneziano che a Napoli non s’usava, preferendosi nel
Tirreno dire generalmente fusti per significare corpi di vascelli non corredati e disarmati, condizione
quest’ultima che allora significava soprattutto l’esser privi di remiganti, ma che, come abbiamo già
accennato, gli stessi veneziani davano generalmente solo ai nudi corpi disarmati di galea grossa
dei quali in gran numero correntemente si servivano come trasporti di soldati (gr. ὀπλιταγωγά
πλοῖα) e cavalli militari (gr. ἰππαγωγά πλοῖα), da mandare per esempio in Morea, a Napoli di
Romania, per imbarcarvi stratiótes, ossia mercenari greci, ottimi soldati in ogni tempo, e sbarcarli
all’isola di Lio (‘Lido’), da dove poi si facevano generalmente proseguire per il Friuli a proteggere i
confini della Serenissima dalle incursioni turche:

Arsilii sono galie che sono state a’ viazi, zoè quelle nove tornate il decembrio passato. Et a dì 6
april (1496) 6 arsilli fo’ mandati a cargar dicti stratioti… (M. Sanudo, Diarii. T. I, col. 30)

In questo zorno, a dì 11 (gennaio 1497), nel Consejo di Pregadi fo preso [om.] de condur 2.000
stratioti e mandar arsilii per i ditti in Levante e fono electi li patroni de dicti arsilii in collegio e còmiti
(ib. Col. 465).
...
747

Partì in questi giorni li arsilii, in tutto n.° 4 di Sora Porto, andati a tuor stratioti in Levante [om.] E li
duo primi arsili fo ordinato andasse a Taranto a levar alcuni cavalli dovea esser comprati per la
Signoria nostra in Reame e condurli de qui e uno a levar li cavali dil conte Zorzi Zernovich (che)
erano a Zara per numero 100 e tragetarli propinquo a Ravenna dove esso conte si ritrovava; poi
dovesseno andar a levar ditti stratioti (ib. Col. 534).

Qui si tratta di patroni e non si sovraccòmiti perché di scafi di galee grosse commerciali e non di
galee militari. Oppure si mandavano in Puglia a caricare corsieri, cioè cavalli da guerra, animali di
cui il regno di Napoli era tradizionale e famoso produttore, come ricorda il Sanudo laddove
descriveva il far terra bruciata di re Ferrandino d’Aragona prima d’abbandonare Napoli all’invasore
francese; egli infatti fece bruciare la sua prestigiosa cavallerizza dopo aver regalato a suoi fedeli
molti dei suoi cavalli:

… i qual corsieri di bellezza et bontà erano li primi de Italia et non si poteva dir altro che le raze di
corsieri di Napoli… (M. Sanudo, La spedizione di Carlo VIII etc. Cit. P. 229.)

Ma non si limitò alla cavallerizza:

… unde ditto Ferandino fece brusar el suo arsenal, dove erano molte galie non compide, et tutto
andò a foco et fiamma, che fo una terribilità a veder et gran compassione, et cussì altre galie et
arbatoze et una barza (che) erano in acqua; et fe’ brusar, di quattro nave grosse erano nel molo, le
tre, et era di botte 2.000 l’una… (ib.)

Risparmiò solo la nave ‘la Cappella’, anch’essa di 2.000 botti, per potersene servire; ma,
ritornando al 1580, diremo ancora che alla fabbrica delle galeazze napoletane furono destinati i
volti ubicati all'estremità destra dell'arsenale, cioè quelli verso il borgo di Chiaia, come riferisce il
Crescenzio. Com'era l'arsenale di Napoli prima che vi arrivasse il predetto manager veneziano?
Leggiamo a tal proposito anche dalla relazione sulla Spagna e i suoi domini che il residente
veneziano Leonardo Donato presentò e lesse al suo doge nel 1573:

... L'arsenale di Napoli fu veduto da me - alcuni anni sono - molto tenue, disconcertato, dismunito
di tutte le cose e, per dir il vero, indegno di così gran Città e nobil sito; il qual sito e la qual città,
dopo questo della Signoria Vostra non è inferiore a qualsivoglia altro d'Italia. (E. Albéri. Cit. S. I, v.
VI, p. 417.)
A questo proposito è comunque utile leggere soprattutto il de Capmany, laddove riporta, tradotta in
castigliano, la messa del primo chiodo alle chiglie di due nuove galere impostate nell’arsenale di
Barcellona il venerdì 21 dicembre 1423 (Ordenanzas etc. Cit. Ora pp. 24 e 25) e, per la cronaca,
delle dette due nuove galere, le quali erano state battezzate una Santa Maria e l’altra Santa Cruz,
fu poi benedetto il varo la domenica 13 agosto dell’anno seguente (ib.); ma, per tornare a Napoli,
748

quanto, per il suddetto sostanziale ampliamento dell'arsenale di Napoli, nel quale nel 1582,
secondo il residente veneziano, lavoravano alla sola cantieristica 400 persone, sia stato
determinante il nuovo maggiordomo veneziano e quanto invece lo siano stati i più recenti ordini
reali che imponevano a quel cantiere la costruzione di quattro galeazze simili alle veneziane,
vascelli che d’altra parte a Napoli sino al secolo precedente si erano correntemente costruiti, come
dimostrano le cronache del regno d’Alfonso d’Aragona; probabilmente le due circostanze agirono
di conserva. Nel 1594 il personale fisso dell’arsenale comprendeva 20 persone, tra cui le più in
evidenza sono le seguenti (R. Mantelli. Cit.):

Maggiordomo
Aiutante del predetto
Scrivano di razione
Munizioniero
Due portieri
Algozino
Guardiano dei legnami
Cappellano
Tre capi-mastri di galere e galeazze .

Anche se di un secolo più tardo, ecco un interessante Avviso di Napoli che da notizia della messa
in opera del primo chiodo alla costruzione di due nuove galere avvenuta a Napoli il 21 maggio
1696:

… Havendo Sua Eccellenza (il vicerè Luis de la Cerda duca di Medina Coeli, 1695-1702) ordinata
la fabbrica di due nuove galere, l’una delle quali per Capitana di questa squadra, ieri in questo
regio arsenale, coll’intervento dell’illustre monsignor di Vidania, cappellano maggiore del Regno, si
fece la funzione di benedire due aurati chiodi e Sua Eccellenza li pose, com’è costume, a suo
luogo. (Avvisi di Napoli. B:N:N:)

Se per imparare a costruire le galeazze l’arsenale di Napoli aveva assoldato un esperto veneziano,
per quanto riguarda invece i galeoni, campo in cui neppure aveva esperienza, s’era affidato a uno
raguseo, come racconta il Crescenzio a proposito delle difficoltà che maestranze poco esercitate
potevano incontrare nel varo dei grandi vascelli:

... anzi habbiamo noi visto a Napoli, quando si varò il primo galeone di quei che Pietro Veglia,
capitan raguseo, ha fatto per ordine di Sua Maestà Catholica, adoprar ogni gran fatica per vararlo
e all'ultimo bisognò colcarlo (‘coricarlo’) per metterlo in mare; ma in vero si vidde poco ingegno in
quel fatto, perché i lavori degli argani erano mal locati e non lavoravano tutti a un tempo. (B.
Crescenzio. Cit. P. 88.)
749

Non abbiamo infatti rinvenuto notizia della costruzione di galeoni nell’arsenale di Napoli prima di
questi anni della fine del Cinquecento e non sappiamo pertanto se, oltre a essere di bandiera
napoletana, era stato a Napoli anche costruito quello comandato dal marchese di Santa Cruz che
nel 1579 fu mandato in Spagna dall’allora vicerè di Napoli marchese de Mondejar insieme a 11
altri vascelli che portavano provvisioni di guerra per la programmata invasione del Portogallo,
spedizione che poi, sempre in quell’anno, fu seguita da altre maggiori. A proposito di questi
convogli napoletani del 1579 dobbiamo precisare che esiste nella Sezione Militare dell’Archivio di
Stato di Napoli un corposo e prezioso dossier del tempo, purtroppo, come tanti altri, non
inventariato e quindi non saprei se ora più rintracciabile, il quale contiene gli elenchi dei vascelli via
via inviati, le merci e le armi imbarcate e le relazioni autografe del capitano Miguel de Aguilar, il
quale fu il supervisore di tutte queste spedizioni; che, per quanto riguarda armamenti, corredi e
provvisioni da bocca e da guerra, come allora si diceva, le imprese militari della corona di Spagna
dipendessero sempre dalle produzioni dei suoi possedimenti italiani è cosa risaputa e, per
esempio, così s’esprimeva il già più volte citato Leonardo Donato (1573):

… Ma non debbo già pretermettere in questo luogo di dire che Sua Maestà (Filippo II), da
(‘eccetto’) alcune poche artiglierie in poi – e queste anche lavorate fuora del regno, non ha in tutta
la Spagna alcun deposito publico d’armi e d’altre munizioni da guerra […] Nella guerra co’ mori
(1569-1570) non si trovarono armi da dare in mano alle genti che lor dovevano far resistenza, non
corsaletti, non morioni, non archibugi né altre cose necessarie, e bisognò aspettar d’Italia con
difficoltà e lunghezza (di tempo) questo presidio, con grande ammirazione (‘meraviglia’) di chi
osservava allora que’ mancamenti… e il medesimo mancamento ancora e nelle cose che
appartengono all’armamento delle galee. Il che io non so attribuire ad altro che a negligenza e a
quella soret di mal considerata confidenza nella grandezza delle forze proprie e nel poter sempre
esser a tempo che spessissime volte inganna i principi e quelli che li consigliano. (E. Albéri. Cit. S.
I, v. VI, pp. 399-400.)

La verità stava forse nella congenità inidoneità degli spagnoli alle arti meccaniche e alle industrie
in genere, un popolo all’opposto molto portato alla guerra e alla navigazione, attività in cui riusciva
magnificamente per le sue grandi doti di disciplina e sopportazione dei disagi.
Tanta era la buona fama dell'arsenale di Venezia che, quando il re di Polonia e granduca di
Lituania Sigismondo Augusto (1520-1572) volle procurarsi molti buono mastri per la costruzione
dell'armata che poi schierò contro il re di Danimarca, spedì a Venezia e in altri principali porti
italiani il suo gentiluomo di corte italiano Antonio degli Angeli perché ingaggiasse il maggior
numero possibile d’eccellenti maestranze italiane, offrendo a tutti lauti stipendi e premi d'ingaggio,
e infatti in breve tempo ebbe tutti i maestri di vascelli che gli occorrevano.
Nella prima metà del Cinquecento apprezzatissime furono le galere costruite a Venezia
dall'ingegnier Vittorio Fausto, come ne scriveva Cristoforo da Canal:
750

... Io non posso per avventura recarvi miglior essempio innanzi che le galee di esso Fausto, perché
sono così ben fabricate che vengono con certa mirabil proporzione a poco a poco mancando e
restringendosi sino a terminare leggiadramente, di maniera che subbito all'occhio di chi le mira
dimostrano la loro velocità e pare che fuggano e che all'hora da sé medesime siano per correre
sulle onde, e questa sorte di galere noi 'tagliate' chiamiamo. (Cit.)

Napoletani e genovesi facevano le galere allo stesso modo, cioè alte di poppa e di prua, e le
uniche differenze si notavano nell'opera viva, dove alcuni maestri preferivano farle reggenti, altri
gelose, come abbiamo già spiegato; i veneziani invece preferivano un garbo più basso sia di prora
che di poppa e questo era generalmente considerato il migliore dagli esperti del tempo.
Quante maestranze s’ingaggiavano per la costruzione d'una galera o d’una galeazza? Secondo
quanto leggeva lo Jal nel codice quattrocentesco della Magliabechiana intitolo Fabrica di galere,
per costruirne una grossa del sexto de Fiandra, cioè una probabilmente di bordo più alto di quelle
dette invece del sexto de Romania, perché queste non dovevano affrontare l’Oceano, ne
occorrevano moltissime:

... Et vole maistri segadori 500 a far el bisogno de la dita galea.


Et vole maistri 1.000, cioè marangoni.
Et vole chalefai 1.300 per forar et chalear et pegolar.
Et vole pegola libre 3.000.
Et vole stopa libre 3.000… (A. Jalt. Cit.)

Forse a taluno potrà sembrare esagerato che si dovessero impiegare ben 2.800 persone per
costruire una sola galera, per grossa che fosse, ma noi la Fabrica di galere non abbiamo purtroppo
avuto l’opportunità di leggerla e lo Jal così inquadra la predetta citazione; era comunque, allora
come oggi, una questione di tempi, nel senso che, se per esempio si voleva mettere in mare una
nuova galera in soli due mesi invece che nei circa sei ordinari, bisognava per forza affollare il
cantiere di moltissime maestranze. Il tener di continuo molte maestranze pagate nell'arsenale era
per l’appunto il principale vantaggio di quello di Venezia, mentre il difetto contrario caratterizzava
pregiudizievolmente quello turco di Peràia; ciò almeno nel 1534, come allora riferiva al suo doge il
bailo veneziano Daniello de' Ludovisi:

... Il male poi è prima in quanto appartiene al fabricare i legni, che non hanno maestri o molto
pochi, essendone nell'arsenale solamente ventiquattro fra marangoni, calafati e altri; fra (i) quali
persone di conto sono Reteppo, che è turco, il fratello di Giovan Bappa, che va con le galee della
Celsitudine Vostra, e messer Gioan Francesco Giustiniano, del quale parlerò di poi; e, quando
vogliono far lavorare assai, mandano a pigliar maestri a Scio e in diversi altri luoghi. Ma
nessun’altra cosa è di tanto benefizio in un arsenale quanto il tenere di continuo gli uomini pagati,
come tiene la Serenità Vostra. (E. Albéri. Cit. S. III,v. I, p. 17-18.)
751

Il predetto Marco Minio riportava nel 1522 che l'enorme arsenale di Peràia aveva ben 114 volti,
dato che sarà poi sostanzialmente confermato da Bernardo Navagero nel 1553 (113 volte), da
Domenico Trevisano nel 1554 e da Daniele Barbarigo nel 1564:

... Nell'arsenale di Costantinopoli vi sono volti di pietra per galee centotredici e tredici magazzini
per legnami d'ogni sorta. Vi è poi un altro magazzino ove tengono li sartiami e altre munizioni per
le galee. (Ib. S. III, v. II, p. 34.)

L’unica voce leggermente discordante dalle predette è quella del già citato viaggiatore francese
Jacques Gassot, il quale infatti contò nell’arsenale di Peràia un numero inferiore di volti, 92, e
inoltre restò colpito dal gran numero di maestranze cristiane che vi lavoravano:

… c’è un gran numero di persone che vi lavorano tutti i giorni… e ci sono francesi, veneziani,
genovesi, spagnoli, siciliani, ungheresi, austriaci e di tutti i luoghi del mondo, i quali si sono
procacciati o per la presa di città e paesi che hanno soggiogato o sul mare dalle galere, fuste, navi
e vascelli che giornalmente essi prendono. (Cit.)

Nonostante queste dimensioni, il suddetto Navagero riferiva che al suo tempo tale arsenale aveva
un solo architetto navale da dare il sesto, ossia che sapesse dare il garbo o forma a tutte le nuove
galere, e dal quale dipendevano gli altri maestri salariati, i quali erano però solo tre o quattro; si
trattava d’un greco di Rodi, certo Michele Benetto detto Mandolo da Rodi e ritenuto un ottimo
maestro. Insomma, mentre nell'arsenale di Venezia si lavorava tutto l'anno, in quello principale dei
turchi si usavano quasi esclusivamente maestranze stagionali in occasione di doversi preparare
l'armata di quell'anno. Nella sua relazione del 1560 però il bailo Marino Cavalli darà sull'arsenale di
Peràia un giudizio del tutto contrario, ascrivendo a pregio ciò che i suoi predecessori avevano
invece considerato difetto e viceversa:

... Hanno (i turchi) pure boschi assai, ma, o per mal governo o perché non vi siano uomini a
bastanza buoni a questo nell'arsenale, non vi si trovano mai sufficienti munizioni di legnami e quel
che è di questo è ancora delle pegole, delle vele e degli alberi. Di tutto il resto son serviti dalle
maestranze con assai più vantaggio di Vostra Serenità, perché, quando vogliono alcuna cosa,
presto mettono maestri nuovi, così marangoni come calafati delle loro isole che lavorano a navilij
privati, e (li) fanno lavorare da un’ora avanti dì sino ad un’ora di notte e, finito il bisogno, li cassano
e stanno sull'ordinario di centocinquanta persone in circa; e li nostri, anche quando non bisognano,
lavorano tutti e, quando bisogna, non essendo le galere in essere, vogliono guadagnare un ducato
al dì, lavorando sopra di sé (forse ‘oltre l’orario ordinario’), e li lavori sono pessimi e la spesa
grandissima. (E. Albéri, Cit. S. III, v. I, pp. 291-292.)
752

E' questa per la verità l'unica volta che abbiamo letto di 'pessimi lavori' nell'arsenale di Venezia!
Dalle relazioni diplomatiche del 1573 redatte da Marc'Antonio Barbaro, Andrea Badoero e
Costantino Garzoni risultavano ai turchi quattro arsenali e cioè quello di Peràia, situato sulla
sponda asiatica di Costantinopoli e che aveva 133 volti (o volte), quello di Gallipoli con 20 volti,
quello di Suez con 25 e quello di Bassora con 15. Essi usavano chiudere ogni volta dalla parte di
terra con un magazzino nel quale si conservavano tutti i corredi necessari alla galera che vi era
custodita; a Peràia c'erano però allora 10 volte completamente serrate e in cui si tenevano i
legnami, i ferramenti e tutti gli altri materiali necessari ai lavori di raddobbo o di costruzione.
Nell'arsenale di Suez si conservava la squadra del Mar Rosso, solitamente di 25 galere, e in quello
di Bassora la squadra del Golfo Persico, la quale intendeva contro la navigazione portoghese;
mentre gli arsenali di Peràia e di Gallipoli dipendevano dal kapudan pasha, degli altri due avevano
carico i pasha del Cairo e di Bassora. I dati predetti sono sostanzialmente confermati da
un’anonima relazione veneziana sulle forze di terra e di mare del sultano Amurat III scritta nel
1575:

... In quanto all'armata marittima, si trova il Gran Turco in essere trecento galee e legni minori, li
quali si tengono nell'arsenale di Pera, nel quale sono centoquarantacinque volte, e in venti di esse
volte, che sono serrate, si tengono li legnami, remi, ferramenti e altre cose necessarie per lavorare;
e quelle galee che non si possono tenere nelle volte si tengono in mare allo scoperto. Ha appresso
venti maone e circa cinquanta palandrie...
Il Capitan di Mare ha il governo dell'arsenale di Pera e di Gallipoli, di sei sangiaccati, cioè di
Metelino, Rodi, Scio, Lepanto, Negroponto e Prévesa. In Gallipoli è un altro arsenale di venti volte;
al Suez è un altro arsenale per tener le galere per il Mar Rosso, le quali solevano esse
venticinque, ma, perché sono la maggior parte rovinate, si sono mandati legnami per farne delle
altre. Vicino vi è il quarto arsenale, nel quale sono ventuno galere per servirsi nel Mar Rosso
contro Portoghesi. (Ib. S. III, v. II, p. 314.)

I quali portoghesi da parte loro, per difendere la loro navigazione mercantile in quei mari, avevano
una squadra di galere nell’Oceano indiano con base a Macao, squadra ancora esistente nel 1686.
L'ultimo capoverso è molto impreciso, trattandosi, come già sappiamo, dell'arsenale di Bassora nel
Golfo Persico.
L’arsenale di Gallipoli, la cui costruzione era stata iniziata verso il 1520, anno in cui moriva il
sultano Selim I, il quale aveva regnato solo otto anni, e il 30 settembre saliva al trono il figlio
Sulaiman II, aveva nel 1522 otto volti e altri in costruzione, come leggeva in quell'anno al suo
senato il bailo Marco Minio; inoltre, a quanto riferiva nel 1526 il bailo Pietro Bragadino, i turchi
costruivano agevolmente galere anche a Nicomedia e le trasferivano poi a Costantinopoli per
corredarle e infatti nel 1557 degli arsenali del Gran Turco così scriveva il bailo Antonio Erizzo:
753

... Ha il modo questo Signor di fabricar gran numero di galee e nell'arsenale di Costantinopoli e a
Gallipoli e nel golfo di Nicomedia, se bene par che abbia comandato ultimamente che non siano
fabricate galee in altro loco che nell'arsenale di Costantinopoli. Li volti dell'arsenale di
Costantinopoli sono al numero di 123; bevono tutti essi volti sopra il canale, il che li fa grandissima
commodità di tirar in terra e gittar all'acqua le sue galee e perché vi è ancora fondo sufficientissimo
ed è tutto porto sicurissimo. (Ib. S. III, v. III, p. 129.)

E nel seguente 1558 tanto aggiungeva Antonio Barbarigo:

... Ha (il Gran Turco) un arsenale non molto grande, ma più commodo che bello, essendo a
marina, di 120 volti da galera e per ogni volto vi può anco stare ogni altra sorte di navilio, il quale
commodamente può esser messo in mare essendo, come ho detto, li volti a marina tutti. In questo
suo arsenale vi lavorano ordinariamente 200 persone e sono la maggior parte christiani, ma
lavorano con alcune mannare e ascie 'sì piccole che pochissimo lavoro fanno il giorno; che, se
lavorassero con queste mannare e ascie grandi e altri ferri, come fanno li nostri qui, fariano tanto
lavoro che saria gran cosa a dire; ma piaccia a Dio che non conoscano questo beneficio per minor
male de' christiani! (Ib. Pp.151-152.)

Quando il fabbisogno di mano d'opera aumentava, perché si dovevano abbreviare i tempi di


preparazione dell'armata, si mandavano a prendere altre maestranze sulle coste del Mar Maggiore
(‘Mar Nero’) e della Grecia e si era anche molto facilitati dalla grandissima abbondanza dei boschi
dai quali trarre legnami adatti sia a costruire corpi di galere sia a farne alberi e remi, dei canapi per
farne corde, gomone (‘gomene’) e altri sartiami minori, delle tele per farne tende e vele, delle
miniere di metalli per farne armi, del salnitro, solfo e carbone per farne polvere pirica:

... Insomma si può commodamente ponere in acqua 130 galee e, se ha bisogno di qualche galea
da esser fatta di nuovo, fa tagliare li legnami e allora (‘immediatamente’) li mette in opera; non (li)
fanno governare né sasonare (‘stagionare’, da cui l’in. to season) come facciamo noi, ma così
verdi come sono condotti dal bosco li lavorano e mettono in opera, e molte volte nell'istesso bosco
ove tagliano li legnami construiscono le galee; dal che procede che universalmente tutte le loro
galee ne sono (‘ne riescono’) gravi e non durano più d'un anno o poco più e, quando vengono a
disarmare, è una pietà vederle derelitte e rovinate; e, se ne mandano fuora 100, non ne restano
venti buone per l'anno venturo. (Ib. P. 152.)

Secondo la relazione letta nel 1562 dal vice-bailo Andrea Dandulo ogni volto dell'arsenale di
Peràia conteneva due galere:

... Quanto all'armata, (il Gran Turco) ha nel suo arsenale cento e venti volti, ciascuno de' quali è
capace di due galee, e sono quasi tutti pieni parte di compite e parte d'imperfette, per quanto ho
potuto con diligenza vedere; senza (eccezion fatta di) trenta in quaranta legni quali di continuo
tengonsi in acqua perché non possono capire al coperto in terra; e questa armata è oltre le (in più
ci sono le galere delle) guardie ordinarie di Rodi e di Alessandria. (Ib. P. 164.)

Sull'abbondanza delle fonti d'approvvigionamento dei materiali da costruzione a disposizione dei


turchi così si esprimeva anche il bailo Daniele Barbarigo nel 1564:
754

... Hanno modo di fornirsi - e presto - di ferramenta, pegola, vele, sartiami, gomone, ancore e
artiglierie nel loro paese, anzi dentro lo stretto e nel Mar Maggiore; remi n'hanno in ordine per
galee centoventi e quanto altro è sopradetto, oltra le venti galee che fanno far del legname che fu
tagliato dal Signor Aliportuc nel Mar Maggiore e le quali fabricano nel luogo istesso [...] Hanno
legname tagliato nel Mar Maggiore e in Grecia per altre dieci galee e ne fanno tagliar dell'altro per
farlo condur in arsenale per fabricarne altre trenta... (Ib. S. III, v, II, pp. 34-35.)

Il bailo Marc'Antonio Tiepolo nel 1576 minimizzerà l'importanza della cantieristica turca e ciò è
psicologicamente comprensibile se si tien conto dell'ormai ben radicato effetto Lepanto:

... Ha il Signor Turco in diversi paesi alcuni luoghi con nome d'arsenale, ma ognuno è di poco
valore, perché quello di Gallipoli non ha luogo per più che per venti galee. Ha la Suez, sopra il Mar
Rosso, un altro arsenale; un altro a Bassora sopra il Seno Persico per navigar nell'oceano e
guerreggiare contra de' portoghesi; ma tutti sono di minima importanza. Solo è stimabile quello che
è in Pera all'incontro di Costantinopoli, perché è grande e perché è commodo non solo al fabricar
le galee, ma al poter mandar l'armata in quella parte de' christiani che più al Gran Signore piace...
(Ib. P. 145.)

Il Tiepolo però, pur svalutando la realtà di quegli arsenali, non ne nascondeva però la grande
potenzialità ai senatori e al doge di Venezia:

... Non stia in dubbio la Serenità Vostra e le Signorie Vostre Eccellentissime se può il Gran Signore
fabricar maggior numero di galee, perché ho già detto non mancar ne' suoi paesi - e nel Mar
Maggiore massimamente, dove molte volte ha fatto fabricar galee - legnami quanti vuole, né ferro
in grandissima copia, il quale, per via della Valacchia per il più, vien condotto a Costantinopoli di
tempo in tempo. Rame per fabricare artiglieria ha similmente in grande abbondanza e
d'Alessandria i canapi per far gli armezzi, come ancora per via di Marsiglia in Francia telami per far
le vele; onde può esser certa la Serenità Vostra che, come non manca al Gran Signore denaro e
tutte quelle altre cose che sono all'uso del fabricar qualunque vascello, 'sì che può averne in
quanta copia gli bisognasse o volesse, così sia certa mancargli per queste (galere) non uomini per
fabricarle, che questi ancora abbondano tanto che basti, (n)é di schiavi che intendono questo
lavoro e di quelli delle sue isole e d'altri luoghi delle marine, i quali con un sol cenno corrono
all'arsenale... (Ib. Pp. 145-146. )

Nello stesso 1576 l'ambasciatore Jacopo Soranzo così aggiungeva a proposito della voglia di
rivincita dei turchi:

... Ha il Signor Turco due suoi confidenti che gli stanno continuamente accanto, de' quali si serve in
saper tutto quello che si faccia nel suo stato e particolarmente come viene amministrata la
giustizia; uno de' quali gli ricorda continuamente che non si deve sopportare in modo alcuno
l'essere stati rotti in battaglia navale da' christiani e sempre lo esorta alla vendetta di quella
ingiuria. (Ib. P. 198.)

Bisognava tener però conto d’una circostanza che in quegli anni non si era ancora delineata
chiaramente e cioè che dopo la rotta di Lepanto (1571), affidatosi il generalato del mare al
rinnegato calabrese Uluch-Alì, uomo esperto, infaticabile e scrupoloso, costui stava portando
755

l'arsenale di Peràia a vivere una stagione d’alta produttività, sul che ci siamo già a sufficienza
diffusi in un precedente capitolo e quindi, a proposito dell'attivismo di quest'uomo, ci limiteremo a
citare ancora brevemente il Tiepolo:

... Comanda adunque il Gran Signore ai 'rais', quando vuole armare, che siano nell'arsenale a
sollecitare l'acconciamento o la fabrica di nuova galea, entrandovi e standovi tutti i giorni il capitano
del mare Uluccialì, il quale, diligentissimo e severissimo, col bastone fa volare ognuno al suo
uffizio, sicché supera spesse volte con questo difficoltà quasi insuperabili. (Ib. P. 148.)

D'altra parte quanto fosse importante l'arsenale di Peràia per la potenza marittima turca,
nonostante quel che ne pensava il Tiepolo, è chiaro da quanto a tal proposito scriveva
l'ambasciatore Jacopo Soranzo nella sua predetta relazione dello stesso 1576:

... Passando alle (forze) marittime, per non parlar confusamente di questa milizia tanto importante,
racconterò prima il suo principio, ossia il fonte d'onde procede, che altro non è che l'arsenale. In
questo ha il Gran Signore dugento galee sottili del tutto fornite (‘corredate’) e all'ordine e venti
maone compite. Vi è poi di legname tagliato tanto che basta a fornire altre cinquanta galee sottili e
altre venti maone.
Ha conveniente numero di ogni sorte di maestranze che lavorano in detto arsenale, tra le quali vi
sono molti christiani rinnegati, valenti nella loro arte. É poi onestamente fornito d'armi e d'ogni sorte
di monizioni d'artiglierie per tante prese sui christiani e per tanti metalli che del continuo da' luoghi
christiani vengono portati in Turchia. Ha per il servizio di dette galere uomini in abbondanza, i
quali, se ben non sono compitamente buoni al servizio del comandare, sono almeno atti a servire
mediocremente.
Aggrandiscono anco assai la sua armata le galee, galeotte e fuste de' corsari, tutti i quali hanno
per obligo di seguitar l'armata del Gran Signore, e questi per l'ordinario sono buoni legni,
benissimo armati con uomini assegnati e valorosi; pertanto il numero delle sue armate è sempre
grande. (Ib. Pp. 197-198.)
A proposito dell'importanza della componente barbaresca dell'armata ottomana già si era espresso
nel 1557 il bailo veneziano Antonio Erizzo:

... Il Signor (sultano), oltra questo numero di galee, si serve anco di buona quantità di galee,
galeotte e fuste delli leventi, le quali sono per il vero le migliori che vadano con le sue armate,
essendo tutte piene d'uomini che sono maestri della professione. (Ib. . III, v. III, pp. 129-130.)

Tale professionalità, fornita a bassissimo costo dalla moltitudine di schiavi cristiani che
incessantemente si sbarcavano ad Algeri e negli altri porti barbareschi, è vividamente descritta dal
de Haedo impiegata ad Algeri nei lavori portuali e d’arsenale:

… In questa folla, gli uni scaricano a forza di braccia o sulle loro spalle, le pesanti travi e gli assoni
che essi hanno tagliato tra le montagne di Cherchell o di Gegari (‘Djidjelli’), più lontano dei
segantini di lungo lavorano da mattina a sera, degli artigiani d’ogni tipo, dei carpentieri piallano e
levigano i legni; altrove se ne vedranno di più abili costruire ogni sorta d’imbarcazione, mettere
tutto il loro zelo a lavorare per altri, ad alberare dei vascelli e a prepararne il corredo; dei calafati
che non cessano di raddobbare e d’incatramare i navigli; dei fabbri che producono ferramenta, dei
756

fabbricanti di rame lavorano ininterrottamente; poi ci sono dei bottai, dei velai, altri ancora che
scolpiscono le poppe delle galere e delle galeotte, alano le galere a terra, le mettono in acqua, le
attrezzano, fondono la pece e la resina, caricano i battelli, imbarcano munizioni, puliscono i navigli,
li spazzano, li strofinano, li ormeggiano fortemente con delle grosse gomene, collocano i pennoni,
dispongono i cordami e le antenne, poiché a tutti questi lavori sono esclusivamente adibiti i
prigionieri cristiani. Più lontano ce ne sono altri che fabbricano senza sosta spade e schioppetti,
palle da frombola, archi e frecce, che polverizzano i materiali per la fabbricazione della polvere,
che torcono il cotone per fare delle micce da fuoco, che fondono della grossa artiglieria di bronzo e
di ferro, che fabbricano palle di ferro forgiato e di piombo, tutti quanti senza prendersi mai un
momento di riposo… Poiché, se ad Algeri venissero a mancare artigiani cristiani, non ci sarebbero
più né galere né galeotte né corsari né ladroni che solcassero il mare… (D. de Haedo. Cit.)

Negli anni Sessanta del secolo gli algerini chiamavano tutti gli schiavi cristiani Martín in ricordo di
uno di loro particolarmente importante e cioè di Martín de Córdova y de Velasco, conte di
Alcaudete e governatore militare d’Orano, generale a capo di felici campagne in Barbaria, ma
infine sconfitto e ucciso dai turco-barbareschi a Mostaganem nel 1558, mentre un ventennio più
tardi, come narra il de Haedo, li chiameranno Juan. Circa 10 anni più tardi della predetta relazione
del Soranzo le maestranze cristiane rinnegate di Peràia di cui egli riferiva e di cui già quasi un
secolo prima aveva scritto il Sanudo, laddove accennava a 700 marangoni e calafati forestieri
chiamati nel 1494 dal Gran Turco a preparare la sua armata, erano divenute ormai un grosso
problema per Venezia; si trattava infatti soprattutto di fuorusciti candioti, i quali, banditi dalle
autorità veneziane di Candia per reati commessi, si andavano a stabilire, come abbiamo già
ricordato, a Costantinopoli, dove guadagnavano un ottimo salario impiegandosi nell'arsenale di
Peràia. Il danno era dunque doppio in quanto, oltre a portare al servizio dei turchi la loro razionale
capacità di lavoro meccanico, questi fuorusciti informavano il nemico delle notevoli carenze delle
tanto temute fortezze veneziane di Candia; il che poteva certamente invogliare il Divano a rompere
il trattato di pace e tentare d'assalire quell'isola e in generale i possedimenti veneziani nell'Egeo;
su questo problema si diffonde il bailo Gian Francesco Morosini nella sua relazione del 1585:
... Riceve anco la Serenità Vostra danno notabile con permettere che di Candia vada a
Costantinopoli, senza alcun ordine o regola, tanta gente come va e specialmente di banditi, li quali,
come mal sodisfatti, desiderano o procurano sempre il male di quell'isola; onde saria molto a
proposito ritrovarsi qualche rimedio. Perché, se bene sono state con singolar prudenza fatte
diverse provvisioni dall'eccellentissimo procurator Foscarini, che molto ben conosceva l'importanza
di questo fatto, e specialmente che alli banditi di quel regno (di Candia) fosse riservato sempre un
luogo (nella stessa isola) dove potessero abitare, a fine che non vadano a vivere nel paese de'
turchi, tuttavia pare che, per zelo della giustizia, venga questo luogo alle volte talmente ristretto
che, non potendo il bandito - essendo forse (‘nel caso’) povero - trovar modo in quello da
sostentarsi e guadagnar il vivere, gli conviene, per non morir dalla fame, uscir dal paese. E di
questi ne sono tanti a Costantinopoli che loro soli, si può dire, fanno una gran parte della
maestranza dell'arsenale del Turco; e quello che è anco peggio, questi vanno disseminando le
imperfezioni delle fortezze, la debolezza del presidio e la strettezza delle munizioni e de' viveri;
dicono anco che i popoli (di Candia) sono molto desiderosi di mutar governo, perché non sono
meno tiranneggiati di quello che fossero li cipriotti, affermando che pochi grandi e ricchi sono quelli
757

che tengono soffocati i popoli, i quali per questo rispetto sono ridotti quasi tutti in disperazione. (E.
Albéri. Cit. S. III, v. III, pp. 315-316.)

Che gli ottomani avessero in quel periodo gran bisogno di uomini sia da lavoro sia da guerra è
confermato anche da altri ragguagli, per esempio da questo della fine del 1585:

Ha il Turco in quefta guerra di Persia perduto seicentomila persone oltre quelle che l'anno passato
ono morte di peste in Constantinopoli; ha perdute le genti da consiglio & da comando […] per che,
dovendo l'Ucchialy, quefto Settembre passato, passar'in Mar Negro con ventidue galere, levò per
armarle ogni sorte di gente inutili per età, per complessione e molti greci ancora furono tolti con
violenza… (Discorso dello stato presente del Turco ecc. In Tesoro politico etc. Cit. T. I, pp. 97-98.)

L'anno seguente 1586 una relazione letta in senato da Maffeo Venerio delinea quella che ha tutta
l’apparenza di essere una crisi dell'arsenale di Peràia, crisi dovuta indubbiamente appunto al
periodo denso di difficoltà che Costantinopoli andava allora attraversando a causa del succitato
notevole dissanguamento umano e finanziario che era sino ad allora costata la lunga, difficile e
poco lusinghiera guerra che sin dal 1577 i turchi stavano conducendo contro la Persia:

... Perché, sapendo noi che l'arsenale di Costantinopoli è tutto sfornito di galee e non vi essendo là
il legname da poterne fabricare, non si ha da dubitare che in Costantinopoli proprio si potesse fare
armata e massimamente in un subito. Quelle galee poi che si potessero fare a Trebisonda, ove il
'Turco' può facilmente avere del legname, avrebbono due grandi opposizioni; l'una che li vascelli
fatti di legname allora tagliato dalli boschi escono (‘riescono’) innavigabili e l'altra che in quelle
marine il 'Turco' non le potrebbe armare, non potendo dall'Asia cavar uomini da remo se non
qualcuno verso Ponente nelle parti di Natolia; ma tutto lo sforzo de' galeotti o è di schiavi di
Costantinopoli o di Barberia o de' villani di Europa. (S. III, v. II, pp. 300-301.)

Un ragguaglio sulle forze turche di quel periodo è tra le relazioni raccolte da tal Fabrizio Romanci e
pubblicate in tre tomi e in diversi luoghi attorno al 1600, nello stesso si conferma la difficoltà di
trovare remiganti a sufficienza che incontrava la Gran Porta:

… non potendo (gli ottomani) dell'Asia cauare huomini da Remo, se non qualch'uno verso Ponente
nelle parti di Natolia; ma tutto lo sforzo de’ galeotti o sono de’ schiavi di Costantinopoli & di
Barbaria o de’ villani di Europa (Accademia Italiana di Colonia, Thesoro politico, cioè relationi,
Inftruttioni, trattati, discorsi varij di ambasciatori etc. P. 102. Colonia, 1598.)

Insomma, le tanto potenti forze di mare ottomane in realtà erano perlopiù spinte da remieri
cristiani, pur se schiavi, e condotte, come già sappiamo, da uomini, sia di comando che di capo,
anch’essi cristiani, pur se rinnegati.
La summenzionata missione di Uluch-Ali nel Mar Nero, compiuta nel settembre del 1585, è l’ultima
sua impresa della quale ci sia rimasta notizia; è comunque effettivamente in quegli anni che egli si
ritirò dalla scena della storia. Gli successe nell’operatività bellica un altro rinnegato italiano e cioè il
758

veneziano Hassan Pasha, il quale, vuoi anche per la sua precaria salute che di lì a qualche anno
lo porterà alla morte, non seppe essere all'altezza del suo predecessore e l'arsenale di Peràia
continuò così a essere afflitto da vecchie e nuove carenze, come si legge nella relazione del bailo
Giovanni Moro, la quale, come già sappiamo, è del 1590:

... Si come avanza il Signor Turco nell'ordinario apparecchio delle milizie terrestri li altri principi,
così li supera ancora nelle provvisioni necessarie per le marittime; pel bisogno delle quali v'è un
arsenale fabricato per mezzo Costantinopoli sul porto, appresso il luogo di Pera (nome pre-turco di
Galatà), tutto aperto dalla parte del mare e, da quella di terra, circondato di piccole e deboli
muraglie; e, se bene poco si lavora in esso per l'ordinario, la spesa però è molto considerabile,
trattenendovisi un gran numero d'uomini di diversi ordini, poi che, oltre i padroni di galea, chiamati
'rais', che ascendono al numero di 360, vi sono più di 3.000 'asapi', che servono sopra le galee per
uffiziali e per altro, e poi circa 4.000 bombardieri e quasi altri tanti armaruoli e intorno a 600 che
dimandano 'calafagi', che, per l'etimologia del vocabolo, pare che da principio siano stati istituiti per
calafatare le galee, ma, adesso che non servono a questo, si può quasi dire che siano come
giannizzeri dell'arsenale, facendo in esso la guardia e godendo altre preminenze con la licenza del
vivere come i giannizzeri del Gran Signore, dal quale tutti questi sono eletti ed ordinariamente
trattenuti [...]
Appresso questi si ritrovano - con paga molto maggiore - una gran quantità di ministri necessarij
per la gran moltiplicità de' carichi in tanta macchina quanta è quell'arsenale, oltra molti che,
prestando qualche piccolo servizio sono intrattenuti in esso più per darli modo di vivere che per
bisogno che si abbia dell'opera loro, come prova la Serenità Vostra nel suo proprio arsenale; ma
per la grande avarizia del Re, che non vuole somministrar il danaro necessario, oltra che si
ritardano alcuna volta le paghe di questi, che però (‘perciò’) mormorano assai e si mostrano più
insolenti con tutti, è quell'arsenale - con la grazia del Signore Dio e per commodo di questo
Serenissimo Dominio (di Venezia) - grandemente sprovvisto di molte cose necessarie... (Ib. S. III,
v. III, pp. 347-348.)

I rais, come si è già detto in altro capitolo citando lo stesso Moro, pensavano in quegli anni solo a
prender la loro paga e a darsi al peculato a più non posso, così trascurando i vascelli loro affidati:

... senza aver alcun riguardo al pulimento delle galee, che, malissimo tenute da essi, per poco
tempo si conservano bene; se pur meritano questo nome né anche quando sono fatte di nuovo,
essendo per il più fabricate da maestri poco atti e che si servono di legname verde come più
pronto e che è più facile da mettersi in opera, per la poca cura di chi ne ha la soprintendenza, che
sono i medesimi 'rais' a cui sono assegnate le galee che si fabricano; i quali, quando occorre, sono
mandati a quest'effetto in molte parti del Mar Maggiore dov'è grande abondanza d'ogni sorta di
legname e quei 'cadì' pagano a spese del Re tutti gli operarij e le maestranze, che sono condotte
da luogo a luogo secondo l'occasione e il bisogno. Del resto consegnano al 'rais' certa quantità
limitata di ferramenta, pece, canape, sartiame e altro, il quale (rais), volendo convertire in proprio
uso la maggior quantità che può, attende a far il suo profitto senza aver alcun pensiero al servizio
del Gran Signore, bastandogli di condurre in Costantinopoli la galea, qual ella si sia.
A ciò si aggiunge che, trovandosi nell'arsenale soli 136 volti, capaci quasi tutti d'una sola galea, il
sopra più sta di necessità o allo scoperto in terra, dove se ne possono accommodar circa
quaranta, ovvero in mare, consumate tutte dalla pioggia e dall'aria e queste ancora dall'acqua.
Si fabricano delle galee anche nell'arsenale, ma poche per la difficoltà di condurre il legname, che
per il più si fa venir da diversi luoghi del Mare Maggiore nella quantità che ricerca il bisogno [...]
759

Ma quello che più importa e che merita essere grandemente stimato (è che) possono - come ho
detto - quando più vogliono, somministrando, il danaro necessario, fabricar queste galee come
ogni altra sorte di vascelli, perciocché si come hanno pronto il legname e la maestranza così non
manca loro alcuna altra cosa, venendo per via del Mare Maggiore ferro in abondanza,
principalmente dalla Valacchia, rame da Trebisonda e da altri luoghi per qualsivoglia numero di
artiglierie, canapi per armeggi d'ogni sorte da diversi luoghi oltre quei di Alessandria, di dove vien
ancora gran quantità di canovacci per tende e altro; tele per far vele dalla Natolia, senza quelle di
altra sorte che sono portate da Marsiglia o che si fanno nel proprio paese... (Ib. Pp. 349-351.)

Il Moro dice dunque i volti di Peràia capaci di contenere una sola galera ciascuno, mentre, come si
ricorderà, 28 anni prima il Dandulo li aveva detti capaci di due galere; poiché le galere ordinarie
turche, pur passando nel frattempo alla voga di scaloccio, non erano certo diventate
sostanzialmente più lunghe, possiamo solo pensare o che il Dandulo si fosse sbagliato o che
questa riduzione di capacità sia stata forse dovuta alla realizzazione nei volti dei magazzini
descritti nelle predette relazioni del 1573.
Anche il Moro ribadisce l'importanza delle maestranze cristiane perché a Peràia si mantenesse
d’un minimo d'efficienza:

... e, quando (i turchi) vogliono usar qualche maggior diligenza, fanno venir a suo piacere i maestri
non pur da tutti i luoghi vicini, ma anco da diverse isole dell'Arcipelago per aiutar le maestranze
proprie dell'arsenale, che tutti si può quasi dire che siano schiavi christiani, travagliando in esso
pochi greci del paese e non ordinariamente, ma secondo la occasione, con aspri dieci il giorno di
pagamento, che sono appunto soldi sedici de' nostri, supplendo per l'ordinario bisogno gli schiavi
della professione, che, da pochi in fuora del Re che servono senza alcuna recognizione
(‘ricompensa’), apportano a' suoi padroni l'istesso beneficio d'aspri dieci il giorno. E si come questi,
molto stimati per la loro gran arte, con gran difficoltà sono messi in libertà, come accade anche alli
schiavi che sono marinari periti, de' quali i turchi hanno alle volte bisogno per guidar le armate,
così agli altri è levata quella facilità che i miseri avevano per il passato di riscattarsi, tenendosi più
a conto adesso che sono scemati assai di numero; perché di 15.000 e più che solevano essere in
Costantinopoli e sopra le galee delle guardie, adesso, per quanto ho potuto penetrare per diverse
vie con qualche fondamento, non arrivano a 3.000, de' quali 500 sono del Re, più di 1.000 del
Capitan del Mare, il resto de' bassà o d'altri particolari (‘privati’); 'sì come, de' 20.000 e più che
solevano essere in Barberia, forse che adesso non arrivano alla metà. (Ib. P. 350.)

Morto anche Hassan Pasha, dopo qualche tempo dal suo decesso fu nominato capitano generale
del mare un terzo rinnegato italiano e cioè il predetto Cicala, il quale fu dunque a capo dell'armata
di mare ottomana proprio in quel periodo di fine secolo in cui quella si avviava a una irreversibile
decadenza. Della cantieristica militare turca in quegli anni così scriveva e leggeva ai senatori in
Pregadi il bailo Lorenzo Bernardo nel 1592:

... La maestranza per la fabrica delle galee consiste in Costantinopoli ordinariamente nelli schiavi
del Gran Signore e del Capitano del Mare, quali solevano esser maestranze di due e tremila
almeno, ma ora non sono altri che quelli del Gran Signore al numero di cinquecento al più, perché
760

il Capitano del Mare non ne ha. Nelli estraordinarij bisogni sono poi chiamati li greci di
Costantinopoli e quelli dell'Arcipelago, fra li quali vi concorrono molti candiotti con nostra
grandissima indegnità; è certo che è necessario che quelli illustrissimi signori di Candia facciano
qualche gagliarda provvisione e che diasi qualche auttorità al bailo, che - con qualche promessa di
trattenimento - faccia ritornare nell'isola quelli marangoni che si trattengono in Costantinopoli. (Ib.
S. III, v. II, Pp. 335-336.)

Sul problema delle maestranze greche native delle isole soggette alla repubblica di Venezia e che,
ciò nonostante, accettavano numerose e volentieri d’andare a lavorare nell'arsenale di Peràia ci
siamo già diffusi più indietro; ma leggiamo ancora il Bernardo:

... Ordinariamente nell'arsenale non si sogliono fabricar galee, salvo qualche galea bastarda per li
Bascià o per il Capitano del Mare; ma le galee così sottili come grosse, che i turchi chiamano
'maone', ordinariamente si sogliono fabricare in diversi luoghi 'sì del Mar Negro come nel golfo di
Nicomedia, dove i turchi si servono delle proprie maestranze di quei paesi, che mai mancano;
onde, come le maestranze degli schiavi ogni giorno vanno grandemente mancando, come dal
tempo del mio bailaggio in qua ritrovo esser grandemente mancate, così quelle maestranze di
marina si può tener per certo che all'incontro si vadano augumentando... (Ib. P. 336.)

La circostanza che gli schiavi cristiani che lavoravano a Peràia si erano ultimamente tanto ridotti di
numero e che, per sopperire a tale carenza, si doveva provvedere a ingaggiare più maestranze
locali negli altri arsenali dimostra che l'armata di mare ottomana non era più tanto attiva nel
dannificare le marine cristiane del Mediterraneo e quindi non faceva più tanti schiavi, limitandosi
forse ora Costantinopoli a comprarne nei mercati d’Algeri e di Barbaria in genere.

... Di corpi di galee e galeazze e altri vascelli da mare si può con verità dire che quella Maestà ne
possieda maggior apparato di alcun altro principe del mondo; (n)e in questo particolare, da una
volta all'altra che sono stato a quella Porta (‘Corte’), ho veduto grande alterazione.
Nell'arsenale di Costantinopoli si trova il Gran Signore sotto li volti, a una per volto, galee
centodiciannove sottili e due maone e in acqua quaranta in cinquanta sottili più o meno, si come
vanno e vengono, ma di queste al sicuro si può batter (‘dichiarare’) il terzo per innavigabili e
marcie, talché resteriano in arsenale un cento e dieci galee sottili buone da navigare. Vi sono poi le
galee delle guardie al numero di ventidue e quelle di Barbaria che si possono contar per trenta,
talché in tutto il Gran Signore potria al presente metter insieme da (‘circa’) centosessantaquattro
galee sottili.
Si trovano nell'arsenale di Costantinopoli (‘Gallipoli’?) dodici volti con dodici galee sottili, delle quali
- per l'informazione che io ho - due sole sono buone e le altre tutte innavigabili. Nel Mar Nero ha il
Gran Signore tredici luoghi per fabricar le galee, parte in Asia e parte in Europa, nelli quali fu
comandato già (da) un anno che si fabricasse (‘fabbricassero’) centosessanta 'fra galee e maone.
Nell'Arcipelago anche sono due luoghi principali nelli quali sono state ordinate venti galee e nel
Golfo di Venezia (‘Mar Adriatico’) dieci. Talché in tutto potria metter insieme al presente il Gran
Signore galee sottili centosessantaquattro e altre dieci o quindici al più che sono in buon stato
delle comandate; talché in tutto sariano centottanta ed otto ovver dieci maone.
Restano circa centosettanta galee sottili a finirsi, delle quali parte sono cominciate e parte appena
hanno segnati li luoghi dove si devono fabricare; per il qual ordine fu fatto l'anno passato tanto
strepito, furono espediti centocinquanta 'rais' deputati 'chiaussi' (‘messi’) che si credeva certo che
761

si dovessero fabricar tutte in un anno, ma per il mancamento de' denari questi disegni ed ordini
non hanno potuto avere essecuzione.
Palandarie, cioè passa-cavalli, galioni e caramussi di particolari persone ne ha quell'impero tanta
quantità che ben spesso nel porto di Costantinopoli ne ho io contato dugento e trecento, senza
quelli di tali legni che ordinariamente vanno e vengono in quella Città. Li galioni possono esser 12,
vascelli bellissimi per ogni fazione, e sono quasi tutti di sultani, di Bascià e delli grandi di quella
Porta, li quali per la loro autorità li mantengono provvisti d'armezzi, di legnami e di ferramenti a
spese dell'arsenale del Gran Signore, il quale non è dubbio che nelle sue galee e nel suo arsenale
venga rubato più che principe altro del mondo; onde, se alle volte le Signorie Loro intendono tanta
e tanta roba che entra in esso arsenale, Le faccino sempre conto che la metà venga per diverse
vie rubata e appena l'altra metà vada in servizio del Gran Signore.
Se i turchi fabricano sempre gran numero di galee, sappiasi però anco certo che il consumo loro è
grandissimo perché le tengono l'inverno e l'estate alla pioggia e al sole e in acqua, non avendo
volti che per centoventi di esse, e però (‘perciò’) molte ne vanno a fondo od in altro modo vanno a
male. La fabrica anco di esse è di pessima qualità perché turchi non osservano ordine di luna nel
tagliar li legnami, ma in ogni tempo li tagliano, mettendo in opera il legname verde, e dove vanno
due chiodi ne mettono uno; né assestano bene le parti e non vi mettono quella quantità di pegola
che si ricerca, talché poco da poi che le hanno condotte dal Mar nero a Costantinopoli vanno a
fondo. In maniera che io non credo che il Gran Signore con tutti questi strepiti, se non fa usar
maggior diligenza e non mette mano a' denari del suo 'caznà' (‘tesoro reale’), possa metter insieme
più di dugento galee, con tutto che l'apparato si sia divulgato maggiore.
É vero e non si può negare che la potenza loro al fabricare galee non sia grandissima e la facilità
maggiore, poiché solo basta che il Turco si lasci intendere di voler far fabricare e spendere che
subito centocinquanta e più 'rais' corrono a pregare di aver loro il carico di fabricarle. Se gli danno
quattrocento scudi per uno per la spesa della maestranza, un comando per aver venti uomini da
quelle ville circonvicine, un comando perché taglino e conducano a' luoghi li legnami, stoppa,
chiodi, pegola che è limitata per una galea e che li può bastare e un proto (‘architetto’) per
fabricarla. Parte il 'rais', fa tagliar il legname che non solo gli faccia una galea, ma anche un
caramusso; esenta dieci uomini delli venti a ducati venti per uno e fa far la fazione di venti alli soli
dieci che gli sono restati; fa far la galea con ogni celerità, non curando sia bene o mal fatta, per
avanzar delli quattrocento scudi quanto più può; risparmia la metà della stoppa, chiodi e pegola e
conduce la galea a casa sua, carica di legname da opera e da bruciare, talché ha fatta la galea
con suo molto avantaggio e utilità. Ma questa galea, subito che sente il sole, si apre e va a fondo
alle rive dell'arsenale, onde è necessario far altrettanta spesa per riedificarla, e però (‘perciò’) ho
detto con verità che per diverse vie la metà delle robe dell'arsenale vengono rubate.
Ma non solo ha facilità quel Gran Signore a fabricar li corpi delle galee, ma maggior ancora in
fornirle de' suoi corredi e cose necessarie per armarli, poiché, se in un giorno solo espedirà
'ciaussi' (‘messi reali’) nelli luoghi che io nominerò, in un istesso tempo averà la provisione fatta di
ogni cosa nel suo arsenale:

da Alessandria, polvere.
Da Samacò, ferramenta d'ogni sorte.
Da Sanson in Scizia, canapi e gomme.
Da Metelino e Vallona, pegola e catrame.
Da Valacchia e Bogdania, sevi.
Dalle Smirne, fustagni.
Da Morea, tele e stoppa.
Dal Golfo di Nicomedia, remi.
Da Chitro e Smitri, alberi.
E finalmente dal Volo in Morea avrà la provisione pronta de' biscotti per ogni impresa da mare.
762

Ecco come in un dì può essere in ordine di tutte le cose necessarie quell'arsenale, onde non
dobbiamo dormire né mai fidarci, perché la potenza nemica è grande e facile da ridursi all'atto. E
sia sicura Vostra Serenità che, se al Gran Signore non fossero tanto rubate le provisioni che di
tempo in tempo da lui vengono fatte per quell'arsenale, basteriano per armar cinquecento galee,
dove che al presente non vi sono arredi che ne potessero armare a pena cinquanta. (Ib. Pp. 339-
342.)

Della generale decadenza soprattutto qualitativa della cantieristica militare turca tratta anche il
bailo Matteo Zanne nella sua relazione del 1594:

... Le forze da mare del Signor Turco, ancorché non siano di gran lunga tante quanto quelle da
terra, non di meno corrisponderiano in gran parte alla loro grandezza quando Dio permettesse che
fossero rette drittamente e con buon giudizio come quelle della Serenità Vostra e d'altri principi;
pur tali come sono, difficilmente possono essere bilanciate dalle forze marittime di un solo principe,
anche il maggiore della Christianità, onde per opporsegli è necessaria la collegazione. E la
esperienza della guerra passata ha mostrato che si possono battere le forze marittime de' turchi,
ma non estinguerle, per la facilità che hanno di rimettere l'armata, essendo grandissima la loro
prontezza in fabricar galee; perché in Costantinopoli fanno propriamente le bastarde di fanò
(‘galere di comando’) e nell'Arcipelago hanno diversi squeri, come anco dentro li castelli a Gallipoli
e alle Camare, ma molti nel Mar nero situati a' piedi de' boschi con gran commodità di legnami e
d'altre cose necessarie, fuorché di ferramente, delle quali si provvedono a Costantinopoli.
Ogni 'rais' è destinato ad assistere alla fabrica di quella galea che, armando, gli ha da esse
designata, e li proti e parte delle maestranze sono mandate da Costantinopoli e altre sono del
paese dove fabricano gran copia di caramussali, tutti commessi con pironi di legno in difetto di
ferramenta, e, sempre che il danaro corra, non mancano maestranze.
Ma la invenzione che ritrovò Sinan (il Cicala, v.s.), ora Generale, e assan Bassà, già Capitano del
Mare, di fare una quantità di corpi di galee a spese delli ministri di giustizia e di governo di tutto
l'imperio da un canto fu sottilissima e dall'altro fu pregiudiciale non alli ministri, ma alli popoli sopra
li quali cade la gravezza, se ben contra l'intenzione di chi l'ordinò: ed è essa tanto maggiore quanto
che ciascuna galea, come fabricata di danari comuni, costa per quattro rispetto alli rubbamenti;
ma, non essendo il danaro pronto, vi mettono lunghezza di tempo, onde la fattura che doveva
essere fatta in un anno non sarà manco finita in cinque, forse perché sono mancati li autori, cioè
Sinan già dimesso e Assan morto. (Ib. S. III, v. III, pp. 399-400.)

Lo Zanne entra ora nel merito delle grandi pecche qualitative della cantieristica militare turca del
suo tempo:

... Tutte le galee turchesche sono grandiose e di bel sesto (‘forma’), ma migliori a vele che a remi,
per altro fragili e poco durabili, perché non hanno il necessario di ferramenta e vi si adopera il
legname mal stagionato e tagliato fuora di tempo, onde si può dargli nome di belle galee, ma non
buone né durabili, e quelle del Mar nero particolarmente pera che vadano in generale alla mazza
(‘demolizione’, allora fatta a colpi di mazza ferrata) prima che abbiano navigato, forse per esser
fabricate di danari ingiustamente tolti alla misera gente, onde è permission di Dio che le galee
rovinino presto; e, se saranno armate con la medesima provisione, sarà da sperare ancora
maggior detrimento.
A tener in acconcio li volti dell'arsenale, che sono circa 125, coperti semplicemente di legnami e
tegoli, con un piccolo magazzino per uno da riporvi gli apprestamenti di ciascuna galea, non si
763

mette cura, onde non ve ne è alcuno che non faccia acqua e che le goccie (di pioggia) non
mandino a perdere molte navi; e per questo ne furono ultimamente disfatte quaranta in una volta e
la maggior parte non avevano navigato. Ora sotto li volti vi possono essere ottanta galee e forse
cento in acqua e, quando tutte fossero provviste di armezzi, che ora non lo sono per la metà, si
potrebbono armar per un bisogno e per far numero, ma molte patirebbono a passar un golfo, altre
a tirar l'artiglieria e alcune riuscirebbero anco innavigabili; onde, il primo anno che i turchi vorranno
far grossa armata, sarà difettosa tanto per i corpi quanto per l'armamento.
A queste 180 galee che si trovano nell'arsenale di Costantinopoli se n’aggiungeranno cinquanta
che si aspettavano dal Mar Nero e altre cinquanta furono ordinate, ma senza prescrizione di
tempo, quando si mandarono alla mazza le quaranta sopra dette; 12 ne sono in Gallipoli, dieci alle
Camare e alquante altre alli squeri dell'Arcipelago, onde non mancheriano corpi quando fossero
governati né mancheriano remi, alberi, antenne né altro legname e così pegola, catrame e cose
tali quando non fossero rubate e mal menate; ma hanno carestia di ferramenta e di armezzi,
massime di gomene e sartiami di canepa, usandosi comunemente di erba dalli vascelli turcheschi.
Né manco abbondano di vele, se ben in fine provvedono a tutto da' proprij stati, che sono tanti e
così grandi che quello che manca in uno è supplito copiosamente dagli altri, dandosi da per tutto
buoni ordini con comandamenti regij portati da 'ciaùsi' (‘messi’), i quali sono eseguiti in quanto il
danaro sia pronto, lo che avviene di rado. (Ib. Pp. 400-401.)

I predetti ciaùsi o meglio chiaùsi erano messaggeri (lt. portitores) a cavallo militarizzati della Corte
di Costantinopoli e probabilmente da questo nome è derivato quello italiano di chiusso, usato in
proto-italiano per 'zagaglia’, arma questa infatti tipica della cavalleria ottomana; ma proseguiamo
nella lettura dello Zanne:

... Sopra tutto, dico, mancano di armezzi, il bisogno de' quali è tanto maggiore quanto più, per
esservene carestia, vengono insidiati; né d'altro abbonda l'arsenale che di palamenti (‘remi’) e il
Capitano generale, ad imitazione delle galee christiane, ha ordinato che le pale alla galozza siano
più larghe che non solevano, lo che risulta a pregiudizio delle ciurme, le quali durano tanto maggior
fatica.
Degli apprestamenti più necessarij è dunque l'arsenale vuoto, oltre il rispetto suddetto, per essersi
introdotto da non molti anni che li 'bassà', le sultane e tutte le persone di condizione si diano ad un
trattenimento riputato onorevole, quello cioè di avere ciascuno qualche vascello grosso che navighi
sotto il suo nome in Alessandria e altrove; perché questi, nel fabricarli, si valgono delle maestranze
e salariati dell'arsenale, che gli sono piuttosto permessi che concessi, e nell'armarli usano della
roba del Re e della medesima li mantengono; perché li turchi usano tra pari - non che con superiori
- portarsi grandissimo rispetto, di modo che li ministri principali dell'arsenale più tosto offeriscono
così fatte commodità di quel che aspettare che gli siano ricercate e, sotto questo pretesto, si
approfittano quanto vogliono. E il Capitano Cicala, che conosce il disordine, non ardisce mettervi
mano, essendovi interessata tutta la Porta, e il Re lo sa e lo comporta, essendogli mostrato che gli
torna di riputazione e di commodità aver una ventina di galeoni - oltre le occasioni di guerra - di
portata di 1.500 botti, che per l'ordinario navigano in Alessandria e assicurano i pellegrini della
Mecca da' corsari christiani e di là riportano vettovaglie, come zuccari e risi, de' quali in serraglio e
fuora vi è grandissimo consumo. Ora, sin che non si rimuova questa introduzione, io spero
(‘credo’) che l'arsenale di Costantinopoli non potrà mai ammassar armezzi di gran lunga
corrispondenti a' corpi di galee e però (‘perciò’), se bene il Re volesse tra danari a sufficienza fuora
dal 'casnà', a fatica potrà cavar estraordinariamente di arsenale - in una volta il primo anno
d'armata - più di cento galee senza grande sforzo; dico rispetto a questi armezzi e apprestamenti...
(Ib. Pp. 401-402.)
764

Lo Zanne prosegue poi affermando che il Sultano non trovava invece difficoltà a fornire le sue
galere di ciurme, data la vastità del suo impero, ma questo è argomento che abbiamo già trattato.
Quali erano i legni mediterranei più adatti alle costruzioni navali? Secondo l'unanime giudizio di
tutti, in primo luogo c’era quello che si tagliava sul monte Santo Angelo di Puglia, in secondo quello
dell'Appennino in generale. Per la costruzione dell'opera viva erano molto adatti la farnia e l'ischio,
per essere legni leggeri e resistenti all'acqua, ma migliori ancora erano il rovere o quercia, legno
forte che nell'acqua più d'ogni altro si conservava e che era particolarmente usato a Venezia, e
inoltre il platano, il quale sott'acqua diventava sempre più duro e omogeneo, e di quest'ultimo
legno i turchi usavano costruire i loro passa-cavalli e caramuzzali; insuperabile era poi il cedro,
legno adattissimo per le costruzioni navali perché incorruttibile e pressoché immortale, sempre
indenne dalla bruma è (…Comme il est amer et, que les vers aiment les choses douces, ils ne
l’ataquent pas. In An. Dictionnaire militaire portatif etc. T. I, p. 379. Parigi, 1758.) Per la costruzione
dell'opere morte e dei tavolati (gra. σανίδωματα; grb. σανιδώματα) del ponte di coperta e di quello
interno posto sulla sentina andavano invece bene legnami meno pregiati, quali l'olmo, l'abete
rosso, usato questo molto a Venezia, e inoltre il faggio, il pino e il pioppo, perché, essendo leggeri,
non tanto aggravavano il corpo del vascello, il quale, restando così meno appesantito, si
manovrava certamente meglio. Si facevano infine d'abete o di pino gli alberi e le antenne, di faggio
i remi, di noce la poppa, le pulegge e i mazzapreti, questi ultimi cosiddetti proprio perché, essendo
di bosso, cioè di legno duro e pesante, non infrequentemente avevano, cadendo, accoppato
inesperti cappellani di bordo che si trattenevano in coperta! A quest’ultimo proposito è indicativo
l’incidente capitato nel 1480 sul ponte della galea grossa di Augustino Contarino, la quale portava
una novantina di pellegrini in Terrasanta, tra i quali due vescovi e Santo Brasca:

… prosequendo al nostro camino circa 24 hore, fecemo scala a Corzula, cità de la Schiavonia, la
quale è ab opposito del paese de’ ragusei; e quivi, calando la vela grande, li marinari lassorno
transcorrere le sartie e l’anthena caschoe con tanta celerità e impeto che le dicte sartie gettavano
fuocho e amazoe uno de li balestreri che insieme con li altri coglieva la vela; unde siano cauti tuti
queli che fano dicto, quando se calano o se voltano le vele e se gittano le anchore, de redurse in
popa o in altro luocho securo, adciò non gl’intervengha lo simile. (A. LT. Momigliano Lepschy. Cit.)

Sì perché non so se abbiamo già detto che le galee grosse da mercato veneziane viaggiavano con
una guarnizione di balestrieri a loro difesa; fino al 1397 tra costoro i patroni ne avevano potuto
nominare tre giovani nobili, ai quali il Senato di Venezia offriva così un’opportunità di salario
quando non ci fosse per loro disponibilità di altri incarichi, e prendevano lo stesso soldo degli altri.
Con decreto del 14 giugno di quell’anno, furono aumentati a quattro, mentre una nota della
765

Momigliano Lepschy al testo qui citato c’informa che invece, con altro decreto del 1414, si stabiliva
che in ogni galea non militare dovessero esserci 20 balestrieri, di cui solo due nobili; non ci spiega
però questa autrice se tale deliberazione riguardasse solo le galee grosse commerciali (vn. galie al
trafego o galie dil trafego) o anche quelle – biremi, triremi o grosse - adibite al trasporto dei
pellegrini. Che interesse avessero i patroni di quei vascelli a richiedere detti balestrieri nobili non
sappiamo; forse questi ‘compravano’ dai patroni quel loro ingaggio.
L’impiego di balestriere a bordo della galea grossa commerciale era molto ambito dai giovani
veneziani privi di sufficienti sostanze perché si trattava in pratica, come oggi diremmo, di un
‘impiego fisso’, cioè di un beneficio ordinariamente irrevocabile; per fare un esempio, nel 1477,
essendo tra gli altri morto all’assedio di Croia In Albania un Francesco Contarini, evidentemente
ufficiale generale, la Serenissima si preoccupò dell’avvenire dei suoi familiari ed ecco il relativo
brano che abbiamo tradotto dal bel veneziano rinascimentale di Domenico Malipiero:

Il 19 di settembre è stato deciso di dare alla moglie e i figlioli di Francesco Contarini, morto sotto
Croia, 150 ducati all'anno dai denari (della tassa) sul sale; alle figlie, se vorranno maritarsi, 1.000
ducati; se vorranno monacarsi, 300 per una; ai figlioli una balestreria per uno a quel viaggio che
loro piacerà [A' 19 de Settembrio è stà preso de dar a la moglie e a' fioli de Francesco Contarini,
morlo sotto Croia, 150 ducati all'anno dei danari del sal; a le fie, se le vorà maridarse, 1,000 ducati;
se le vorà munegar, 300 per una; e a fioli una balestraria per un, a quel viazo che ghe piaserà
(Annali veneti etc. Cit. Parte prima, p. 116)].

I figli avrebbero quindi potuto anche scegliersi il ‘viaggio’, cioè la linea di navigazione tra quelle
tradizionali che percorrevano le galee commerciali veneziane.
Ma, tornando all’incidente avvenuto a bordo della suddetta galera Contarina, esso si ripeterà
purtroppo molto presto nel corso di quello stesso viaggio e, per ironia della sorte, ci rimetterà la
vita lo stesso còmito, l’uomo cioè che sarebbe dovuto essere il più esperto e prudente della galera:

… Al Baffo, pur in Cipro, si sorgete per tagliare ligne per la cusina e per cogliere savorna per la
sintina, videlicet pietre e sabione. E, volendo calare la vella, intervenete uno medesimo caso che
fece a Corzula, videlicet che li proveri e altri officiali de la galea lassorno stracorre le sarte e
l’anthena cascoe con tanta furia che amazone el nostro còmito de la galea, el quale aveva fama
d’esser così bon marinaro quanto se trovasse e così per la morte sua patissemo disconzi assai
(‘sopportammo assai disagi’). (Ib.)

Nulla di più facile che quest’ultimo incidente fosse stato dai proeri magari programmato ad arte,
per liberarsi d’un còmito troppo severo e pretenzioso!
Un legno da non prendere assolutamente in considerazione per nessuna opera né nautica né di
alcun altro genere era quello di fico; infatti in greco c’era il detto συϰίνη ναῦς (‘nave di legno di
fico’) per dire che una cosa era del tutto inutile. In ogni caso il legname da costruzioni navali
766

doveva essere ben stagionato, perché quello verde, ossia ancora fresco e umido, marciva in fretta
sott'acqua, si sdruciva e si disconnetteva tra tavola e tavola, per cui i vascelli fatti di tal legno -
come abbiamo già visto nel caso delle galere turche - facevano sempre acqua ed erano quindi
pericolosi specie nelle burrasche. Questo errore d'usare legname troppo fresco, il quale oltre tutto
rendeva i vascelli pesanti e lentissimi, fu fatto nel 1572 dal sultano Selim II, quando fece ricostruire
l'armata perduta l'anno prima a Lepanto; infatti, comandati di riformare in gran fretta una numerosa
armata di mare e timorosi di discutere gli ordini del loro sovrano, i maestri turchi usarono legname
verde dell'Anatolia, unico allora disponibile in grandi quantità, e il risultato fu che quelle galere si
dimostrarono presto troppo gravi, pigri e poco manovriere in battaglia e, aggiungendosi a questo
difetto anche la necessità di dover ricostituirne gli equipaggi e le guarnizioni militari con genti
collettizie e inesperte, come scrisse il Sereno (cit. P. 321), il loro nuovo, ma espertissimo e astuto
generale Uluch-Alì si vide costretto a rifiutare più volte la battaglia che l'armata cristiana gli veniva
offrendo e facendo perdere all'impero ottomano forse l'ultima occasione storica di perpetuare il suo
vecchio predominio sul Mediterraneo orientale.
Dunque il legno cattivo presto cominciava a distorcersi (fr. se tourmenter), a tarlarsi, a infradiciarsi
e a rompersi:

... come s'è veduto nelle galee S. Giorgio e S. Barbara, compre (‘comprate’) dalla Santità di Sisto
Quinto da' maestri che l'hanno fabricate, che in meno di cinque anni non son state più buone. Per il
contrario le galee di S. Francesco e S. Lucia, che egli hebbe dalla Signoria di Genova, fatte da
quei Signori con gran diligenza, son per durar gran tempo; si come la Pisana e Felice fatte a Pisa
per ordine del Serenissimo Gran Duca. (B. Crescenzio. Cit. P. 6.)

Il Crescenzio non dice dove erano state costruite le due galere mal riuscite, perché evidentemente
non gli conveniva provocare dei malumori e farsi dei nemici; a proposito delle galere pontificie
aggiunge poi quanto segue:

... Percioché delle galee sottili di Nostra Signoria (il Papa) la Felice, che ora serve per 'Patrona',
comporta più vela che non fa la Santa Lucia, essendo l'una più salda in mare e più reggente di
proda e l'altra troppo gelosa e che facilmente pende alle bande e poco peso in proda la soffonda.
(Ib.Pp. 45-46.)

I veneziani, avendo grandi esigenze di alberi e legname per il loro famoso arsenale, proteggevano
moltissimo i loro boschi, ma anche gli stati italiani non marittimi lo facevano perché si trattava di
materiali importantissimi in ogni tipo di costruzione; per esempio, in un’istruzione milanese data al
capitaneo (‘responsabile’) del parco ((lo stesso che varco, ‘ingresso a luogo recintato’, quindi per
sin. ‘recinto’) di Pavia in data 1 giugno 1473, con la quale si preannunciava un taglio di alberi per
767

una necessità di legname, si raccomandava di sorvegliare che non si tagliasse più dello stretto
necessario:

… bisognaranno alcuni ligni da opera, quali siamo contenti lassi tuore nelli boschi de quello nostro
parco […] havendo advertentia ad farli tuore ove daranno manco danno et ad lassarne tuore
quanto bisognarà et non più… (Carlo Morbio, Codice visconteo-sforzesco etc. P. 416. Milano,
1846.)

In una successiva del 5 gennaio 1475 si scrive al potestà di Galiate (oggi ‘Galliate’) per avvisarlo
che gli si stanno mandando due squadre di balestrieri a cavallo e che le stesse devono essere
alloggiate in casa dei villani che hanno osato tagliare alberi del bosco ducale e ciò evidentemente
a titolo di severa punizione; poche cose erano infatti allora temute dalle popolazioni come il dover
provvedere all’alloggio e al sostentamento di soldatesche anche per brevi periodi:

Potestati Galiate.-

Mandamo lì Covello, capo de' squadra de' nostri balestrieri da cavallo, cum squadre doe
balestrieri, quali volemo tu lozi in casa de quelli villani, che hanno tagliato el bosco, che che tu say,
facendoli fare le spexe da essi villani, et a loro et alli cavalli, donec te scriveremo altro in contrario.
Dat. Mediolani, die 5 Ianuarij MCCCCLXXV. Gabr. (ib. P. 433.)

Per quanto riguarda le ferramenta usate per tenere insieme il legname, il ferro più apprezzato e
quindi più costoso in Olanda, paese il più rinomato per le costruzioni navali, era quello detto di
Orgron, ma non sappiamo quale località s’intendesse con questo nome; al secondo posto in
qualità erano considerati in Europa quelli di Danzica e Spagna, sebbene quest’ultimo fosse troppo
dolce e debole perché lo si potesse adoperare da solo in certi lavori, come per esempio la
fabbricazione delle ancore, dove infatti se n’usava di solito solo un po’ in lega con una
maggioranza di ferro meno pregiato; in terzo luogo era apprezzato il ferro di Liegi, quello svedese
di Göteborg e infine quello che si traeva a Stoccolma. Il ferro svedese era considerato il migliore
per farne chiodame e i chiodi fatti in Olanda con ferro svedese erano i più apprezzati, specie per
fissarne il fasciame di contrabbordo, di cui tra breve diremo, venendo al secondo posto quelli fatti
in grande quantità a Liegi; generalmente nella fabbricazione dei chiodi un quinto del peso del ferro
grezzo andava perduto. Ovviamente più piccolo era il bastimento da costruire, più incideva il costo
delle ferramenta; l’Olanda era comunque il paese che n’usava di meno, preferendo in molti casi i
cavicchi di legno. Nell’antichità c’era stato in Europa qualche genere di piccolo naviglio fatto di assi
non inchiodati ma legati ed annodati con funi di lino e sparto, per esempio quelli chiamati serilla,
tipici dell’Istria e della Liburnia (Sesto Pompeo Festo, cit. P. 509).
Molto importante era ovviamente anche la qualità della pegola o pece navale (fr. bray; brai,
zopissa, rase, poix navale; ol. pik, pek, teer) che si usava per calafatare; si trattava d’una
768

composizione di gomma o di resina e d’altre materie viscose, insomma d’una materia grassa, dura,
secca, la quale, se arrivava nerastra, perché mescolata alla fuliggine della combustione del legno
di pino da cui era stata tratta, non si definiva vera e propria pece navale, bensì solo semplice pece
e aveva in definitiva un aspetto molto simile a quello della colle d’Angleterre, collante allora molto
apprezzato. I calafati facevano fondere i pani di questa pegola in apposite pentole di ferro (fr. pots-
à-brai; ol. pek-potten) fino a render tal materia cremosa e l’applicavano poi sugli strati di stoppa o
di muschio con cui riempivano i comenti delle tavole di legno; tale applicazione avveniva a mezzo
di lanate di pelli pecorine come quelle dell’artiglieria oppure di grossi pennelli fatti d’agglomerati di
stoppa (fr. penes), di lana, di pelo di maiale o di simili materiali [fr. guispons, pènes; ol. (smeer-
)quasten; smeer-quasjen, dr(e)umen, dromen] e inastati su appositi bastoni (fr. bâtons à vadel,
manches de guipon). Quando ci si trovava in cantiere o comunque quando il vascello era in secco,
si riscaldavano i comenti riempiti di nuova stoppa prima di coprirli di pegola e ciò i calafati facevano
usando fastelli di rami d’abete accesi e immanicati con bastoni di legno (fr. donner le feu à un
bâtiment; chaufer un vaisseau).
La resina (fr. rase; ol. hars, hersch, harpuis), di cui la predetta pece navale era quindi un derivato,
si traeva dal pino - molto apprezzato a tal fine quello che ricopriva i monti della Sila cosentina, dal
quale anche si cavava una trementina di qualità superiore - e inoltre dall’abete, dal larice, dal
cipresso, dal terebinto o d’ancora altri alberi e si vendeva generalmente non cruda, ma secca (fr.
poix résine), cioè cotta in grossissimi pani pesanti dalle 120 alle 180 libre; quella migliore e più
costosa aveva una consistenza cerosa e consistente, era di grana fina e trasparente, odorosa, di
color giallo-chiaro tendente al bianco e appunto dal suo colore si giudicava la sua bontà; essa
doveva inoltre presentarsi non bruciata dalla originaria lavorazione né mescolata a sporcizia o ad
acqua e non doveva contenere feccia (fr. rache; ol. dros); particolarmente apprezzate nei cantieri
oceanici erano quelle di Stoccolma e della Moscovia, le quali giungevano in particolari botti molto
strette, ma quella considerata la migliore di tutte per la sua particolare bontà era la resina francese
detta di Weybourg, la quale nel Seicento i cantieri olandesi soprattutto preferiranno e useranno,
importandola marcata con una W coronata e racchiusa in barili di quercia; molto usate, ma più
correnti, erano poi le resine di Danzica e di Bayonne.
Cotta con solfo, la resina - come del resto pure la predetta pece navale - diventava non solo più
bianca, ma soprattutto più atta a resistere all’azione dei parassiti del legno, anche se ovviamente
tale presenza doveva rendere il vascello molto più incendiabile; cotta, specie se con del nero-
fumo, la resina diventava una nera vernice catramosa [fr. go(u)(l)dron, gaudron, goudran, huitran,
tare; ol. teer], la quale serviva, oltre che per calafatare, appunto anche per rivestirne e tingerne
(gra. πιττόειν, πισσόειν; grb. πιττεῖν, πισσεῖν; fr. noircir; ol. schilderen) il fasciame esterno dell’opera
769

morta, ossia dalla linea di galleggiamento in su, e poi gli alberi, le verghe e i cordami di bordo [fr.
manoeuvre(s)], in modo da proteggerli dall’acqua, dal vento e dall’ardore del sole che li avrebbero
troppo seccati, spaccati o imputriditi; in mancanza di resina si usava nero-fumo mescolato al
semplice olio o al grasso (fr. oint; ol. smeer, reusel) che si adoperava per ungere le pulegge e le
ruote dei cannoni. Il nero-fumo (ol. swartsel) si otteneva bruciando la resina per la pece in ambienti
chiusi e tappezzati di pelli di montone e poi tutto quello che si era prodotto e andato depositandosi
all’intorno si raccoglieva spazzandolo via o scuotendolo appunto dalle pelli. Insomma, nel
Medioevo si diceva della galea corpus nuigrum, perché tale era. Il solfo si otteneva dalle isole
Lipari e dalla Sicilia, ma il migliore, a dire dell’Aubin, veniva da un’isoletta italiana che egli chiama
Molo e che non sapremmo pertanto individuare.
Non bisognava applicare strati di tale catrame (gr. πίττα, πίσσα) troppo spessi, specie sul fasciame
interno [fr. serrage, serres, vaigres] dello scafo, perché essi ostacolavano l’evaporazione
dell’umidità che si poteva accumulare nel legno e quindi provocarne l’imputridimento; bisognava
anche fare attenzione a non usarne in luoghi dove si potessero introdurre dei colpi di mare che lo
stemperassero e dove si conservassero alimenti, specie le aringhe, perché questi n’avrebbero
preso irrimediabilmente lo spiacevolissimo sapore. Il vecchio catrame andava raschiato via almeno
una volta l’anno, generalmente in primavera; poi subito bisognava passarne del nuovo caldo,
altrimenti il legno così scoperto presto si anneriva, specie se ci pioveva sopra. Insomma a quei
tempi i vascelli di stazza medio-grande, di qualsiasi tipo essi fossero, apparivano alla vista perlopiù
nerastri, mentre la parte superiore di quella immersa (oggi diremmo ‘il bagnasciuga’), spalmata di
sego, fuorusciva dall’acqua d’opposto color biancastro, colore che però non caratterizzava le
superfici inferiori, quelle cioè costantemente immerse, e ciò probabilmente avveniva o perché il
sego nell’acqua non lo acquistava o perché lo perdeva molto presto; infatti uno stratagemma che
un legno corsaro appena spalmato, poteva tentare per sfuggire al nemico era quello di sbandare il
più possibile su una costa scogliosa, in modo che, dalla parte del mare, il fondo emerso, scuro e
luccicante a causa appunto del sego ancora fresco, potesse sembrare da lontano, a un nemico di
forze troppo superiori o anche a ingenui mercantili da assalire, null’altro che uno scoglio emerso.
Le piccole imbarcazioni non s’incatramavano come quelle più grandi (Suida, cit. LT. III, pag. 120),
perché la manutenzione del loro fasciame era, date le proporzioni, molto meno impegnativa e si
poteva quindi fare con materiali e sostanze non insudicianti. Nel 1480, il monaco tedesco
pellegrino Felix Faber descriveva la galea veneziana che lo portava in Terra Santa appunto
completamente tinta di catrame nero protettivo in ogni sua minima parte, cordami esclusi, tant’è
vero che consigliava ai futuri pellegrini di non sedersi al sole in coperta da nessuna parte se non
volevano restare con i loro abiti rovinati appunto dal grasso e nero catrame. Che il fasciame
770

dell’opera morta si preservasse con rivestimenti impermeabili dalle intemperie e dalla salsedine
era ovvio e ciò quindi valeva per qualsiasi vascello e non solo per le galere:

… ditto mio barzoto [om.] se atrovava esser mal condizionato e judicho non solamente le stope è
marze, ma talmente reduto che il suo legname mallamente teniva pittura, sicome per so armirajo e
officiali mei mi è stà riferito… (M. Sanudo, Diarii. T. I, col.768.)

Nella prima metà del Cinquecento si comincia a parlare nei trattati del color rosso; infatti il da
Canal nel suo trattato, pur consigliando che tutto - alberi, antenne e palamento inclusi - venisse
tinto di color perso (vn. rovano), ossia d'un color ruggine, ma tant'oscuro da tendere al nero, vale a
dire di quel colore che noi oggi chiameremmo 'testa di moro', e ciò per evitare che i vascelli, tinti
magari di colori brillanti, potessero essere scorti da lontano, fa un’eccezione per la galera
Capitana:

… la qual, per aver imperio sopra tutte le altre, ragionevolmente si tinge di un vermiglio come color
pieno di maestà e più apparente. (C. da Canalt. Cit. P. 93.)

In realtà non era affatto un colore nuovo per le galee; l’11 maggio 1270 Carlo I d’Angiò re di
Napoli, a proposito della piccola armata di 25 vascelli che allora si doveva preparare nei porti di
Puglia per i motivi già ricordati, ordinava che vi si includesse una galea francese – già da noi più
sopra menzionata - che si trovava allora a Brindisi, essendovi giuntavi tempo prima dai porti della
Provenza, e che si distingueva facilmente da quelle del Regno in quanto unica di color rosso; essa;
in occasione di quel suo nuovo armamento, non dovendo evidentemente assumere in quell’armata
un ruolo di comando, doveva tra l’altro esser privata di quel colore [… et inter illa (vassella) galeam
unam illam videlicet quae in Brundusio armabitur sub eisdem armis et insignis nostris faciens
derubrari. G. Del Giudice, cit. Pp. 7-8]. Che questa galea fosse poi effettivamente ‘derossizzata’ lo
dimostra una lettera successiva del 16 settembre in cui il re la definisce unam videlicet quae erat
rubea (ib. P. 10).
Infatti anche nel Medioevo il rosso si era usato, ma solo per le galee Reali e Capitane e soprattutto
per la loro poppa, la quale, corrispondendo al quartiero di comando e al luogo in cui si ostentava lo
stendardo, con tal colore si adornava oltre che con decorazioni dorate. Nella Historia di Saba
Malaspina, narrandosi del re Carlo I d’Angiò, il quale nel 1282 salì a bordo di una galea a Catona,
dove egli aveva raccolto un’armata di mare contro Messina, così si dice:

… egli stesso per ultimo, avvalendosi di un banco, salì sulla poppa della galea, rosseggiante di
carminio e scarlatto e velata da una rubicante superba tela scarlatta (cit. LT. IX, cap. II).
771

Il rosso poi s’userà sempre di più, come si può capire - nonostante talvolta restauri di ben dubbia
fedeltà all’originale - da molti quadri appunto del Seicento e del Settecento, i quali mostrano che si
prese a dipingere tutta la parte emersa delle galere di rosso, evidentemente per renderle più belle
e festose; si trattava certo d’una pittura a base d'ocra rossa, forse da identificarsi con quella
sostanza detta magra, la quale si forniva a peso e ricorre frequentemente negl'inventari dei
materiali di bordo delle galere del tempo. Secondo il de la Gravière, nel diciassettesimo secolo le
galere di Malta - allora sette - erano tinte di rosso, mentre la loro Capitana lo era di nero; insomma
l'esatto contrario di quanto, come abbiamo appena visto, prescriveva l'espertissimo da Canal; ma
abbiamo già detto che il de la Gravière è autore da prendersi con molto senso critico. Sicuro è che
le dette galere gerosolimitane avevano le vele tinte di rosso con grandi croci bianche, cioè con i
colori dell’ordine.
Andando più indietro nel tempo, cioè all’antichità, troviamo qualche raro affresco policromo in cui
sono rappresentate triremi imperiali romane dipinte appunto di rosso; la storia ci tramanda poi che,
ancora prima di Roma, anche gli antichi sami coloravano di rosso i loro vascelli da guerra. Suida,
nel suo più volte da noi già citato Lexicon, ci informa inoltre che si usava (almeno in Grecia)
attintare di cinabro o di minio (gr. μίλτος, βάμμα) le ‘guance’ della prua, cioè le parti ricurve di scafo
che fiancheggiavano il tagliamare, e chiamavano i vascelli che avevano questa caratteristica delle
prue rosse (ρεβαμμέναι πρώραι) appunto μιλτοπάρῃοι νῆες (‘navi dalle rosse guance’), così come li
dicevano invece ϰυανέμβολοι (‘dagli azzurri rostri’), quando avevavo lo sperone dipinto del color
del mare:

(Vascelli) dai rostri azzurri:’. (Si chiamano così) quelli che hanno i rostri tinti d’azzurro; così come
‘dalle guance rosse’ quelli con i tagliamare (‘masconi, guance’) colorati di rosso. Infatti l’acqua
dello stesso (mare) è azzurra (Κυανέμβολοι. αἰ τοὐς ἐμβόλους ἒχουσαι ϰυανώβεβαμμένουςʹ ώς
μιλτοπάρηοι, αἰ μεμιλτωμέναι η αι τέμνεσαι τ θάλαοσαν. ϰυανοῦν γάρ το ζαύτης ύδωρ. Cit. T. II, p.
387).

Troviamo infine nel già più volte citato Lexicon di Esichio φοινικικὰ πλοῖα (‘vascelli rossi’), a
dimostrazione di come quella col rosso fosse una colorazione effettivamente in uso nell’antichità. I
colori tradizionali non avevano mai un’origine casuale; l’azzuro dello sperone serviva da lontano a
farlo confondere con il mare e quindi a far sì che ill nemico che si stava avvicinando capisse il più
tardi possibile di aver a che fare con un pericoloso vascello da guerra; all’opposto il rosso era
considerato un colore aggressivo e quindi una prua di tal colore sarebbe da vicino dovuta risultare
più intimorente per un nemico che se la vedesse venire addosso velocemente. In effetti il colore
rosso era generalmente considerato bello e adatto alla guerra, perché su di esso ben poco si
notavano le colature e le macchie del sangue che in combattimento poteva venir giù dalla coperta
772

con un effetto sempre tanto demoralizzare sui combattenti. Quanto il rosso fosse comunque
apprezzato anche nell'abbigliamento dei soldati, ufficialmente perché vivace e onorevole, ma in
realtà utilissimo perché, anche in questo caso, nascondendo il sangue e quindi le ferite, evitava
che in combattimento i soldati si scoraggiassero vedendo palesemente il danno subito dai loro
commilitoni colpiti, si ritrova non difficilmente nei discorsi dei trattatisti d'arte militare del tempo.
Le vele da galera del tempo che stiamo esaminando - e in alcuni paesi anche le vele piccole degli
altri tipi di vascelli - erano fatte, come abbiamo già ricordato, di lunghe bande [it. ferze o ferzi; fr.
cuëilles, lez, aunes; ol. kleed(t)en] di cotonina, la quale era una tela d’invenzione italiana e
costituita da un ordito di cotone e da una trama di canapa, ed erano guarnite di canovaccia
(‘canapaccio’; fr: canevas, canefas; ol. kanefas, zeil-doek)), mentre nel Quattrocento - come risulta
dalla già citata Fabrica di galee - si erano usate di fustagno, anch'esso guarnito di canovaccia. I
turchi usavano vele di cotone anche per i vascelli tondi, ma in tutte le altre marinerie europee le
grandi vele dei vascelli quadri erano invece fatte di tela forte o canovaccia, di cui la più apprezzata
era in Europa quella d’Olanda, seguita in qualità da quella di Francia, e si vendeva la prima in
grossi rotoli e la seconda in balle; c’era poi la tela di Fiandra, più leggera, usata per le vele minori e
paragonabile quindi alla predetta cotonina italiana. Un secolo dopo l’Aubin elencherà in ordine
decrescente di qualità le tele da vela:

Toile de noiale 1 (ol. Hollandsche kanefas).


2 (ol. Fransche kanefas).
3 (ol. karrel op karrel).
4 (ol. karrel-doek).
5 (ol. klaaver-doek).
Toile de mélie 1 (ol. eevert-doek).
2 (ol. graauw doek).
3 (ol. ligt doek, vlaamsche linnen).

La noiale 1, la migliore di tutte, era dunque quella d’Olanda; la noiale 2 era la più forte che si
facesse in Francia, soprattutto nel territorio d’Olonne, il quale riforniva i porti di Rochefort e della
Rochelle; l’ultima, la mélie 3, era la predetta tela di Fiandra per le vele minori e si vendeva ad
aune. Le noiales dovevano esser fatte di cuore di canapa, di filo ben lisciviato, dovevano essere
ben battute, rinforzate, unite, consistenti, senza gomma e con bordi ben fatti.
Per quanto riguarda la canapa da farne cordami e guarnizioni di vele, quella italiana era in Europa
considerata la migliore, soprattutto quella d’Ascoli Piceno, quella di Napoli e quella detta ‘del
Bolognese’; seguiva in qualità quella della regione di Riga e poi da quella russa, mentre altri luoghi
di produzione di buona canapa erano - sempre sul Baltico - Koenigsberg e Narva; in Olanda
usavano quella nazionale, canapa forte e indeformabile, ma piuttosto sporca e difficile da
773

mondarsi. La canapa di buona qualità doveva avere tre principali qualità e cioè doveva essere
lunga, ben innervata e oleosa; l’ultima si otteneva alternando le coltivazioni con quelle di fava,
legume grasso, con l’uso abbondante di letame grasso e soprattutto di colombina, cioè di sterco di
piccione.
I cordami potevano essere lasciati bianchi o essere incatramati, procedimento questo che si
perfezionava a mezzo d’apposite stufe, forni e caldaie di cui erano normalmente dotate le corderie
degli arsenali; per provare la qualità d’un cordame lo si lasciava quattro o cinque giorni in acqua
salata e, se il filo che lo costituiva era di buona qualità, esso usciva da questa prova più forte e
duraturo di prima, ma, se si trattava invece di filo cattivo, allora esso si rompeva al primo sforzo. La
stoppa incatramata per calafatare (fr. anche garrer; ol. breeuwen) si ricavava usualmente da
vecchi cordami incatramati; tali cordami si disfacevano, si battevano e si bollivano, facendoli poi
seccare al sole o in qualche forno; infine si filavano molto sciolti e si conservavano in pezzi dello
spessore d’un braccio. La stoppa bianca era invece quella nuova che residuava dalla
frantumazione e dalla pettinatura della canapa. Invece della stoppa per calafatare si poteva usare
del muschio, il migliore essendo quello che nasceva sul cedro, ed era anzi più duraturo della
stoppa perché impiegava molto più tempo a marcire; ma era più adatto a riempire dei piccoli guasti
delle tavole, mentre per quanto concerne i comenti la stoppa restava la più adatta perché si filava
di lungo; se poi si dovevano tappare dei guasti o spacchi delle tavole più grossi, allora andava
benissimo la grossa carta grigia, ossia grezza, perché questa, una volta bagnata, si gonfiava e
tratteneva molto bene la pece. Era anche molto buona una specie di muschio che cresceva
nell’acqua in Olanda e soprattutto in Brabante.
Prima di varare un vascello ben calafatato con stoppa incatramata e pece, si procedeva alla
spalmatura della parte dell'opera viva destinata all’immersione, operazione questa che consisteva
appunto nel distendere e poi ben lisciare uno strato di sego (fr. anche oint; ol. smeer, roet, reussel)
a caldo su tutta la parte dello scafo destinata a immergersi, timone incluso, cioè dalla carena o
primo sino alla metà d’un altro legno detto contovale di mezzana e che doveva logicamente
trovarsi alla linea di galleggiamento; ciò si faceva da tempo immemorabile perché il vascello
scorresse e sdrucciolasse meglio nel mare, scivolando così dolcemente l'acqua lungo i suoi fianchi
e sotto il fondo; gli inglesi, per aumentare quest’effetto mescolavano il sego con sapone, ma
probabilmente in tal maniera lo strato spalmato si consumava più presto. Nel Medioevo invece del
bianco sego, usato solo a partire dal Rinascimento per sopraggiunta mancanza di alternative
naturali, si era infatti preferito rivestire la carena - e anche quella zona intermedia oggi detta
‘bagnasciuga’ - di bitume minerale (gr. & gr. ἂσφαλτον), comodo appunto per la quantità in cui era
stato fino ad allora reperibile, mentre la pece vegetale, anch’essa sufficientemente densa ma
774

ottenibile in quantità molto più modeste, andava bene per usi più accurati ma meno estesi, cioè per
il calafataggio; infine il catrame vegetale, essendo una sostanza sufficientemente liquida, si
adoperava per incatramare la stoppa e per pitturarne a pennello il legno delle opere morte, alberi
compresi, per preservarlo così dalle intemperie; in definitiva nel Medioevo, i vascelli, specie quelli
mercantili, quanto mantenuti ben manutenzionati, apparivano generalmente completamente neri.
Ecco per esempio quanto si legge nel lt. XI, p. 10 dell’Alexiadis di Anna Comnena a proposito di un
episodio bellico avvenuto attorno all’anno 1098 e cioè del salpare dei comandanti marittimi
bizantini con l’armata a loro affidata dall’imperatore bizantino Alessio I Comneno in vista del
preoccupante arrivo nelle acque di Levante di una grande armata pisana che veniva chiamata in
supporto dall’esercito crociato che da qualche anno operava in Medioriente:

… Usciti quindi dalla capitale con l’armata imperiale nel corso del mese di aprile, le navi
raggiunsero Samo approdandovi e scesero a terra dove le rinforzarono spalmandole di bitume in
abbondanza (Εξελθόντες οὗν τῆς μεγαλοπόλεως μηνὸς παριππεύοντος Άπριλλίου μετὰ τοῦ
'Ρωμαϊϰοῡ στόλον τὴν Σάμον ϰατέλαβον ϰαὶ τὰ πλοῖα τῇ χέρσῳ προσορμίσαντες ἐξῆλθον πρὸς τὴν
ἢπειρον ἐπὶ τῷ διὰ τῆς ἀσφάλτου ἐπὶ πλέον ἀσφαλισαμένους ϰατοχυρῶσαι αὑτά… In Corpus
scriptorum etc. Cit.)

L’idea di spalmare l’opera viva con grasso animale, non avendosi più disponibilità di bitume,
sembra sia stata portata da Marco Polo al suo ritorno a Venezia nel 1295, quando cioè aveva
narrato, tra le tante altre cose, delle molte caratteristiche che differenziavano dalle europee le navi
che si usavano nei mari che confluivano nello stretto di Hormuz e che per l’appunto si spalmavano
di grasso di pesce liquefatto:

… alle qual navi non si pone pece per difesa della putrefazione, ma s’ungono con olio fatto di
grasso di pesci e calcasi la stoppa (Il milione di Messer Marco Polo viniziano etc. T. II, p. 56.
Firenze, 1827.

Dice calcasi la stoppa perché questa si conficcava nei comenti pressandola con attrezzi molto
semplici detti ferri di calafato. Per spalmare il bitume o il sego sull’ ‘opera viva’, così come del resto
anche per passare il catrame su quella ‘morta’ o emersa, s’usavano piccoli ammassi di canapa o di
cotone o d’altro materiale simile attaccati alla cima di bastoni e inzuppati di quelle grasse sostanze;
i francesi chiamavano tali attrezzi pênes.
Era comune opinione degli uomini di mare che un vascello ben spalmato di recente guadagnasse il
10% di velocità in più d'un altro che non lo fosse:
775

... essendo che il sevo sfugge il corpo del vascello tra l'una e l'altra acqua, si come in una
superficie piana, unta di quello, sdrucciola il corpo che, con la sua grevezza premendo il sevo, non
può fermarsi. (B. Crescenzio. Cit. P. 115.)

Il da Canal, nel suo già più volte citato trattato, così si esprime a proposito dell'importanza della
spalmatura ai fini della velocità:

... Hora vengo alla spalmatura, la quale in quanto alla velocità della galera, una seconda stiva si
può dire. (Cit. P. 90.)

Si diceva che le galeotte dei leventi, ossia, come già sappiamo, dei corsari barbareschi, fossero
velocissime proprio perché erano spalmate di continuo; d’altro canto il sego non poteva preservare
il legno immerso dall'inevitabile attaccarsi delle brume e a questo proposito è strano osservare
che, mentre oggidì si attribuisce all’acque marine stagnanti la maggior causa della formazione
d’erbe marine filamentose, teredini, oloturie, conchiglie (fr. cravans, sapinettes; ol. schelpen,
schulpen) e 'denti di cane' sulla parte immersa dell’opera viva delle navi, il da Canal, parlando -
come sembra - della teredine, dice quanto segue:

... senza che'l tener fermo molto a lungo qual si voglia navilio dove l'acque con tanta violenza
corrono è un procacciare che in breve andare si guasti e consumi, conciosiacosaché, dovunque le
acque hanno veloce corso, in quelle si nutrisce infinito numero di biscie, da noi dette 'bisaruoli', che
in un momento rodono il fondo d'ogni buono e forte legno. (Ib. Pp. 218-219.)

Queste parole del da Canal, unitamente ad altre osservazioni d'altri trattatisti cinquecenteschi,
smentiscono quanto sarà poi affermato dal de Savérien nel Settecento e cioè che la teredine
marina sia stata portata nel Mediterraneo, dove non era presente, dai vascelli oceanici e che non
sia stata conosciuta prima del 1638 nel Madagascar, a quanto ne sembrava scrivere appunto per
primo il viaggiatore francese François Cauche nel suo Voyages de Madagascar, ecc., libro che fu
pubblicato a Parigi nel 1661. Ecco come l’Aubin descriverà più tardi questo tarlo del mare:

…Si generano abbastanza ordinariamente dei bachi nelle navi e tali bachi sono un po’ più grossi di
quelli da seta, molto teneri e lucidi d’umidità; essi hanno la testa dura e molto nera e, poiché
rodono incessantemente, forano le tavole e le membra d’un vascello. (Cit.)

Ma che la teredine fosse consciuta nel Mediterraneo già nell’antichità lo dimostra anche il Lexicon
di Esichio, dove troviamo τερρητόν (πλοῖον), cioè τερηδών ναῦς, quindi ‘nave corrosa dalla
teredine’. A partire dal Seicento, mentre si continuerà a usare il solo sego liquefatto per i viaggi di
breve corso, in quelli di lungo corso diretti verso ovest e verso sud, specie se da farsi nei caldi mari
equatoriali, saranno adoperati via via diversi metodi per contrastare l'opera distruttiva della
776

teredine marina e il primo sarà quello di sostituire il semplice sego con una mistura antivegetativa
composta di sego, olio di balena, zolfo, resina o pegola e vetro pesto, detta in fr. cou(r)roi, couroy,
courée o courret (ol. pap), mistura che permetteva d’estendere la durata del carenamento a caldo
che si faceva ai vascelli oceanici anche a tre anni, il che significava ovviamente un bel risparmio.

Gl'inglesi sparmano i loro vasselli per fino a raso (‘pelo’) d'acqua con pece greca, solfo e sevo
bollito bene, quale mistura inpedisce la generazione di molta herba che nasce sotto i vasselli e le
difende alquanto dalle brume e, stando netti, senza dubio caminano assai meglio (A. Falconi, cit.
P. 11. Firenze, 1612).

Inoltre, contemporaneamente al suddetto, vi saranno altri metodi basati per lo più sul contrabbordo
[fr. doublage; ol. (ver)dubbeling, voering], ossia sul rinforzo del fasciame dell'opera viva, specie del
‘bagnasciuga’, la quale forse fu chiamata viva proprio perché in essa si andavano ad annidare
organismi viventi. Dapprima gli olandesi cominciarono a raddoppiare il fasciame, inchiodandovi
sopra uno strato d’assi di quercia o d'abete bianco o rosso, strato spesso un pollice e mezzo, e
ponendo tra questo fasciame aggiuntivo e quello preesistente misture di materie anti-bruma,
specie la predetta courée, la quale, contenendo spesso in questo caso tra i suoi principali elementi
anche pelo di bovino (fr. ploc), prendeva per sineddoche anche appunto il nome di ploc e di
conseguenza la sua applicazione quello di plo(c)quer; ma poteva a volte detta courée contenere
anche del rame, metallo del quale evidentemente si conosceva la velenosità, mentre alcuni,
ritenendola evidentemente anch’essa sgradita alla teredine, invece di tale mistura usavano solo
della semplice carta grigia, ossia della grossa carta grezza; anche la chiglia talvolta si raddoppiava
spalmandola prima del suddetto ploc e poi applicandovi sopra un asse di quercia o faggio detto in
francese fausse-quille.
Sempre gli olandesi poi, costatato che il risultato che si otteneva con questo contrabbordo, il quale,
sebbene pure servisse a isolare l’interno dall’eccessivo calore del sole, non ripagava certo del
notevole rallentamento procurato al corso e alla manovrabilità dei vascelli così appesantiti, presero
a rivestire il fasciame del vivo di sottili strati di ferro e soprattutto di piombo, metodo questo già
usato nel Medioevo e precedentemente anche nell'antichità, come provò il ritrovamento delle navi
di Traiano nel lago di Nemi, navi poi ignorantemente incendiate dai soldati tedeschi in ritirata nel
1944, e queste lamine, dapprima semplicemente gettate e in seguito - con nuova e più utile
invenzione - laminate, s’inchiodavano così strettamente da non lasciare alcun spazio tra una testa
di chiodo e l'altra; ma l’uso dell’impiombatura era un sistema che in epoca moderna era stato già
riportato in auge da altri prima di loro:
777

Volendo impiombarlo, si come li ragusei, genovesi e biscaini usano (ai) vasselli di mercanzia per
diffenderli da dette brume e per mantenere meglio le stoppe de’ comenti, se bene la quantita de
nichi (‘teredini’), barbe (‘alghe’) e ostiche (‘denti di cane’) che nascono sotto il vassello per la
longhezza del tempo non laſsiano caminare, atteso che.dette impiombature seruono molto
tempo… (A. Falconi, cit. P. 11.)

Ma anche con questo secondo metodo non ottennero risultati utili, probabilmente anche questa
volta a causa dal peso eccessivo che così gravava sul vascello. Spagnoli e portoghesi frattanto,
ispirati dall'efficacia della sperimentata gala gala sull'opere morte, provavano a rivestire quella viva
di strati di miscugli a base di calce, sostanza che, se si dimostrava efficace contro la teredine,
aveva però il difetto di bruciare il fasciame; i portoghesi provarono anche a carbonizzare con il
fuoco l'esterno del fasciame, in modo da opporre alla teredine uno strato di carbone spesso un
dito, ma questo metodo, oltre che dimostrarsi d'effetto incerto, risultò anche molto pericoloso
perché praticandolo si rischiava di mandare a fuoco l'intero vascello. Nel Settecento si cominciò
poi a rivestire il fasciame di sottili lamine di rame inchiodate con chiodi dello stesso metallo; queste
lamine furono poste prima combacianti e poi, dalla metà del secolo, a orlo sovrapposto e
quest'ultimo metodo si dimostrò infinitamente superiore a tutti gli altri precedenti, non solo perché
preservava completamente il fasciame dalla teredine, ma anche perché in tal maniera questo
nemmeno si sporcava d’alghe, oloturie e 'denti di cane' e ciò sia per la politezza del rame sia per la
velenosità del verderame che si andava formando; inoltre quest'ultimo tipo di contrabbordo era
quello che appesantiva e quindi ritardava di meno il vascello, garantendogli così maggiore
governabilità; infine, quando si voleva togliere questo rame per carenare il vascello, se ne perdeva
ben poco.
L'efficacia del rame nella lotta alle formazioni zoo-vegetali sul fasciame immerso dei vascelli fu poi
universalmente riconosciuta, tanto che, quando nello Ottocento si cominciò a fare le navi non più di
legno, ma di ferro, superandosi così il problema più grave, ossia quello della teredine, e non fu
quindi più possibile, anche per motivi di corrosione elettrolitica, inchiodarvi sopra le sottili lamine di
rame, s’idearono quelle pitture 'antivegetative' a base di composti del rame che, applicate su altre
isolanti dette 'anticorrosive', tutt'oggi si adoperano.
All'importantissimo lavoro dello spalmare (fr. espalmer, dorer, florer, donner les fleurs ou le suif; ol.
smeeren, breeuwen, suiveren) il còmito della galera doveva dedicare particolare attenzione e
sorveglianza, soprattutto quando si spalmava a fuoco vivo, il che significava consumare col fuoco
di brusca e di frasche il vecchio strato di sego del vascello per ripristinarlo così ex-novo, soprattutto
togliendone le difformità protuberanti quali rotoloni e moccoli, le quali avrebbero procurato il
distacco del nuovo strato di sego. Questa operazione serviva anche a bruscare e riscaldare le
sottostanti tavole, in modo che il nuovo sego vi si sarebbe potuto distendere più facilmente. Il sego
778

in pani si struggeva in un calderone e si prendeva poi da buglioli o secchi con lanate come quelle
già dette per l’artiglieria e per il calafataggio e con le quali se ne spalmavano più mani sullo scafo,
dalla carena alla linea di galleggiamento. Per brusca si usava stoppia, ginestra, tacchie di pino
bruciate su fogoni di ferro o altre simili sostanze vegetali. Uno strato di sego che non fosse venuto
piano e liscio non avrebbe procurato alla galera l'atteso aumento di velocità e per tal motivo un
vascello appena spalmato non si poteva lasciare esposto al sole, perché il sego fresco si sarebbe
di nuovo squagliato e sarebbe colato giù; bisognava inoltre far attenzione che tale strato di sego
fresco non venisse danneggiato perché toccato, mosso, strisciato o raschiato dal contatto con altri
vascelli o comunque dalla negligenza d’operai (ct. manestrals) e marinai.
Questo era dunque lo spalmare a fuoco vivo, che non si poteva eseguire dappertutto ma
preferibilmente in un arsenale (lt. arsena, cioè appunto ‘arsature, bruciature’); ma, dovendosi
spalmare dopo solo poco tempo dalla volta precedente, non c'era bisogno di fare un lavoro così
radicale e si faceva quindi un trattamento più semplice, detto questo voltar il sevo e che consisteva
nel lasciare in opera il vecchio strato di sego e nell'adoperare il fuoco di brusca semplicemente per
scaldarlo, intenerirlo e rivoltarlo sulla superficie di tavole con le lanate, in modo che offrisse presa
sicura al nuovo strato di sego che gli si andava poi ad applicare sopra a finire. Non si poteva voltar
il sevo più d'una volta e più tardi d'un mese dalla precedente spalmatura fatta a fuoco vivo e
pertanto, se si doveva spalmare una terza volta, oppure anche una seconda volta, ma a maggior
tempo del dovuto dalla prima, bisognava ripetere allora la spalmatura a fuoco vivo; infatti, se si
fosse tentato di voltar il sevo più volte di seguito, esso, ormai vecchio, sarebbe solo caduto a
pezzi. La spalmatura detta voltar il sevo poteva durare anch'essa circa un mese e quindi in
sostanza nella buona stagione, la quale era poi per le galere l'unica operativa, un vascello sottile
andava spalmato teoricamente una volta il mese, se si voleva che mantenesse sempre costanti le
sue massime capacità nautiche; un vascello tondo da guerra invece si spalmava anche una volta
ogni tre anni e negli anni in cui ciò non succedeva gli si dava quella che i francesi chiamavano
demie-caréne, ossia il lavoro si faceva solo alle quattro tavole che costituivano le fiancate del
fasciame immerso, senza arrivare sino alla chiglia. I vascelli mercantili si spalmavano – per forza di
cose – solo quando si poteva approfittare d’una certa sosta o quando i fianchi del suo fasciame
immerso erano talmente ricoperti di muschio, alghe, filamenti vegetali e crostacei da aver perso
buona parte della sua velocità. Se non si aveva o il sego per applicarne un nuovo strato oppure il
tempo per fare un tal lavoro, allora ci si limitava a scaldare la superficie del vecchio con acqua
calda, in modo da riattivarne alquanto e per un po’ l’efficacia.
Per quanto riguarda i vascelli sottili, nella prima metà del Cinquecento si era evidentemente
considerata sufficiente una minor frequenza della spalmatura, se si legge a tal proposito Cristoforo
779

da Canal; egli infatti scriveva che la spalmatura a vivo s’effettuava di solito una volta l'anno, cioè
quasi sempre alla fine di marzo, quando cioè era consuetudine che i vascelli riprendessero a
navigare dopo il disarmi invernale, e si applicavano in tale operazione a una singola galera dalle
1.100 alle 1.200 libre di sego puro. Questa spalmatura a vivo durava sino ad agosto, quando con
l'uso d’ulteriori 300 o 400 libre di sego si effettuava la voltatura, come si diceva in veneziano, e ciò
bastava sino alla fine della stagione; in questa seconda fase la galera era così protetta, tra vecchio
e nuovo strato, da mille o poco più libre di sego solamente, in quanto del primo strato una buona
parte era andata ovviamente consumata dalle brume e dalle abrasioni. In più però si costumava
voltare il sego tre o quattro volte l'anno a quattro o cinque maggeri (‘tavole di fasciame’) per volta,
usandosi ogni volta 200 libre di sego nuovo, e dal modo in cui il da Canal si esprime sembrerebbe
che al suo tempo quest'uso fosse non solo veneziano, ma comune alle altre squadre di galere del
Mediterraneo. Si usavano generalmente il sego di bue e quello di castrato, ma il primo era migliore
perché più grasso, più nero - quindi più mimetico di notte - e più resistente in ogni sorta d’acque
che non fosse invece quello di castrato, il quale nelle acque fredde se ne cadeva immediatamente
senza ritegno alcuno (C. da Canalt. Cit. P. 91). In effetti bisognava evitare di far sostare i navigli in
acque molto fredde qualunque fosse il tipo di sego usato, perché la bassa temperatura lo induriva
tanto da spaccarlo e a pezzo a pezzo in breve tempo se ne cadeva tutto; anzi, se il mare d'inverno
addirittura ghiacciava, se ne cadeva dietro al sego anche la pece del calafataggio, anch'essa
indurita dall'intenso freddo, e non sappiamo quindi che tipo di trattamento antivegetativo si usasse
in quei tempi nei Mari del Nord. Il problema si presentava comunque talvolta anche nel
Mediterraneo:

... la nostra città di Cáttaro (nella bassa Dalmazia), ove il mare è in tal maniera freddo che non è
huomo che nella più calda estate per mezzo hora solamente vi possa tener dentro un piede; quivi
non si tosto pervengono le galee che [...] elle perdono in gran parte le loro spalmature, onde deve
l'accordo capitano procurare a tutta sua forza di non condurre l'armata in così fatti mari. (C. da
Canalt. Cit. P. 223.)

Perché non si prendesse in considerazione anche il sego di maiale non sappiamo; forse perché
troppo caro o forse perché meno consistente di quelli bovini e ovini. I veneziani adoperavano
comunque sego bianchissimo e ne spalmavano anche il tagliamare, mentre ponentini e turchi lo
usavano nerissimo e non sul tagliamare, in modo da non aumentare il rischio d'essere avvistati dal
nemico di notte a causa della bianchezza del sego e di giorno a causa del suo luccicore; l'uso
veneziano era dunque, a dire del da Canal, peggiore e che lo fosse è dimostrato dalla circostanza
che ancora nel settecento i corsari useranno spalmare i loro vascelli d’una mistura di sego e nero-
fumo (fr. suif-noir; ol. swart smeer) onde non essere avvistati da lontano a causa del riflesso della
luce del sole o della luna su una recente spalmatura (Ib.).
780

Al sego da spalmare era consigliabile e d'uso frequente mescolare in buona quantità sapone
negro, perché in tal modo lo strato applicato sul fasciame immerso vi aderiva più tenacemente e
diventava più liscio; a limitare poi drasticamente la quantità di vegetazione marina che soleva
nascere e appigliarsi allo strato di sego, il da Canal consigliava di bagnare prima il predetto sapone
con calda orina d'huomo, perché l'acidità di quel liquido organico rodeva e consumava la radice
dell’erbe, anzi egli prescriveva che - per un miglior risultato - ogni 10 giorni e con una spugna
inzuppata del detto sapone all'orina calda si fregassero e ungessero i primi due o tre maggeri sotto
la linea di galleggiamento tutt'intorno alla galera; e d’orina umana a bordo d’un vascello tanto
sovraffollato come la galera se ne produceva ovviamente in grande abbondanza.
Per spalmare un vascello già galleggiante - e comunque per lavorare in generale al suo fasciame
immerso - bisognava innanzitutto, se non ci si trovava in darsena, scegliere un luogo adatto, per
esempio una cala protetta e poco visibile dal nemico, perché questi altrimenti avrebbe subito
approfittato di quella situazione per assalire, e nel Mediterraneo c'erano posti più adatti dove
abitualmente i vascelli sottili si fermavano per fare tale lavoro, posti [fr. carenages, cran(age)s] che
non a caso lo ricordano nel loro nome - vedi l'isola di Palmarola (da Spalmarola) nelle Ponziane e
nel Mar Ligure l’isola Pálmaria (Spálmaria) - o lo ricordavano nella toponomastica veneziana,
come per esempio l’isola di Palmosa (Spalmosa, oggi ‘Patmos’) nell’Egeo, le Isole Spalmadori
presso Negroponto, da ravvisarsi probabilmente con le Spòradi Settentrionali, lo Scoglio dei
Spalmadori situato tra Chio e Lesbo nell'Egeo e inoltre quel tratto costiero dell’isola S. Pietro
(Cagliari) che si chiamava Gli spalmatoi. Stessa origine ha sicuramente anche il nome di Las
Palmas nelle isole Canarie. Che Palmarola fosse un’isola adatta a fermarsi per spalmare si legge
per esempio nella relazione di Andrés Igarcía, un prigioniero spagnolo del corsaro Barbarossa, che
costui scrisse nel 1534 dopo essersi fortunosamente liberato:

… Así llegamos á la Palmerola ques una isla junto a la de Ponza donde recorrimos el sebo de los
navíos con agua caliente (In Colección de documentos inéditos para la historia de España etc.
Tomo II. Cit. P. 381).

Ma perché sempre a isole dare questo nome? Perché erano soprattutto i corsari che le definivano
così. Lo ‘spalmare’ la carena era infatti un momento di debolezza del vascello, in quanto tenuto
sbandato su un fianco, e quindi di incapacità difensiva; il lavoro andava dunque fatto in un’isoletta
non principale, dove potesse avvenire senza esser visti dalla nemica terra ferma. Per concludere
questa nostra digressione, diremo dunque che molte località costiere del Mediterraneo portano
nomi che ricordano la navigazione remiera, basti pensare, oltre alle suddette, a Cala Galera
presso il monte Argentario, a Cala Galera e a Cala Brigantina in Sardegna, a Plage de la galère
presso Cap Blanc in Costa Azzurra, agli Scogli della galera (Roseto Capo Spulico in Calabria), agli
781

scogli Le galere dell’Arcipelago Ponziano; ma perché dare questo nome a dei grossi scogli?
Perché dietro di esse si nascondevano i vascelli remieri corsari all’agguato di quelli commerciali
che passavano. Troviamo poi, sia in Adriatico sia nel Tirreno, varie isolette di nome Gajola o
Galiola e a questo proposito dobbiamo dire che molto sì è fantasticato, specie dai digiuni di
geografia, su questo nome, soprattutto in relazione all’isoletta situata nelle adiacenze della costa di
Posillipo a Napoli; in realtà esso, più che esser dovuto ad antichi nascondigli di vascelli corsari, in
quanto, a differenza degli scogli precedenti, qui si tratta di scogliere piatte e basse, non è
nemmeno da considerarsi un nome proprio bensì un comune nome geografico medievale,
significando ‘isoletta piatta a mo’ di una piccola galia’, intendendosi infatti per galiola (sincope di
galaiola, dal biz. γαλαία, ‘galera’) la galadella o galadello, più tardi fusta, vascello remiero armato di
bassissimo bordo e piccole dimensioni di cui abbiamo già detto e che appunto differiva dalle più
grandi galee per la sua piattezza, non presentando sul ponte incastellature o soprelevazioni di
sorta né a prua né a poppa; evidentemente il suddetto alto isolotto di Posillipo presenta o
presentava, tra l'altro, una più bassa, piatta e pericolosa formazione a fior d'acqua il cui nome
Galiola col tempo si estese a tutta la grande formazione tufacea. E questo stesso nome di Galiola
porta infatti l’isolotto piatto situato di fronte all’isola di Unie sulla costa del Quarnero, isolotto con
faro sul quale la notte del 30 luglio 1916 andò a schiantarsi il sommergibile ‘Giacinto Pullino’,
incidente che, come si sa, costerà la cattura e poi la vita al tenente di vascello Nazario Sauro;
questo malefico isolotto già si chiamava La Galiola il 29 novembre 1379, quando cioè, spinta da
una tempesta, ci si andò a schiantare su una galea della squadra veneziana allora comandata da
Carlo Zeno:

... Ed è da sapere che esso Zeno veniva con XV galere, ma una se gli ruppe sopra uno scoglio
detto ‘la Galiola'; ma però gli huomini e lo havere si salvarono sopra le altre... (Daniello Chinazzo,
Cronaca della guerra di Chioza etc. In LT.A. Muratori, Rerum italicarum scriptores etc. C. 744, t.
XV. Milano, 1727.)

Più avanti il Chinazzo aggiunge che sì molti si salvarono, ma molti anche annegarono,
sicuramente dei vogatori incatenati ai remi, e poi la detta galea, resasi irrecuperabile, fu bruciata
sul posto (ib. C. 752). Si sarebbe probabilmente chiamata così anche l’isola del Πλαταμών
('Platamone', oggi Chiatamone) situata di fronte alla riviera di S. Lucia a Napoli, se, già dai tempi
classici, non se ne fosse nascosta artificialmente la piattezza con secolari costruzioni; non è quindi
necessario ipotizzare che il nome ‘Gajola’ possa, nel caso di Posillipo, derivare dalla più tarda
circostanza della galeotta che nel Quattrocento gli aragonesi tenevano in quella zona - forse
proprio in quella nascosta cala - per la guardia costiera dai pirati, mentre una seconda galeotta
era tenuta all’estremità sud della costiera metropolitana. Il predetto toponimo ricorre comunque
782

anche in ambiente non marino (vedi Gajola nel Cuneese e Gajole nel Senese), ma in quel caso si
origina dal diminutivo del latino cavea (‘recinto per animali’), da cui quindi anche il nome della
notissima cittadina Cav(e)a dei Tirreni.
Per tornare ora alla spalmatura delle galere, si accostava dunque il vascello a un altro più basso o
al massimo della stessa altezza e la ciurma di questo ne tirava a sé pian piano l'alberatura a
mezzo d'ambedue le cime di quel tipo di cavo detto prodano (blt. prodisium), il quale si faceva
passare in due taglie da quattro pulegge l'una, la prima posta nello stroppo dell'albero di maestra
della galera da spalmare e l'altra nella corsia della galera che la caricava, un po' come si faceva
col ritorno quando s’issava l'antenna dell'albero di maestra; il tal maniera l'albero del primo
vascello si andava a poggiare sull'antenna del secondo e così lo si metteva alla banda, ossia lo si
faceva sbandare sul secondo in maniera che dall'altro lato emergesse sin'anche la sua carena o
primo, ossia quel lungo legno fondamentale che nei vascelli tondi si chiamava invece colomba o
achiglia - quest'ultimo più tardi accorciato in ‘chiglia’ - e lo si manteneva legato con canapi in tal
posizione finché gli si desse carena [fr. car(è)ner, donner la caréne, mettre en caréne ou en cran;
ol. kielen, kiel-haalen], cioè finché durasse il lavoro di spalmatura - dopo però eventuale
raddobbo, ossia riparazione del fasciame esterno a mezzo d’assi, placche di piombo, stoppa,
resina, pegola e di tutto ciò che potesse servire a tappare le falle, e anche ripristino del
calafataggio - e dovesse quindi restar messo in carena su quel lato; poi lo si faceva sbandare
sull'altro fianco, tirandolo allo stesso modo su d’una terza galera postale appunto al lato opposto, e
si lavorava così all'altro fianco dell'opera viva; d’altra parte, se ci si trovava in darsena, la si faceva
invece sbandare su un apposito pontone alberato [fr. ponton, pont flottant, bac, traversier; np.
puntone; ol. ponton, (onder-)legger, platte schuit, bak], se disponibile, ossia su un vasto tavolato le
cui estremità poggiavano su due imbarcazioni. Questo modo di procedere si diceva in gergo
marinaro caricare le galere (fr. abattre en quille). Quando mancavano altri vascelli da usare per
l'appoggio, allora si usava far sbandare la galera su una non alta banchina fatta di grossi tronchi
orizzontali legati insieme, come si vede chiaramente nel famoso Incontro di Orsola ed Ereo del
Carpaccio (c. 1495), o su una scogliera o una gettata che fosse a ciò adatta e, se nemmeno
questo fosse possibile e si volesse far sbandare il vascello senz’alcun appoggio, la cosa diventava
realizzabile solo in un luogo costiero oceanico con fondo molle e soprattutto soggetto a deflusso e
riflusso di marea (fr. flux de la mer et ebe, flot, jussant), dove cioè il legno, mentre se ne procurava
lo sbandamento passandone tutto il peso del carico e dei cannoni da un solo lato, andava per il
deflusso naturalmente a poggiarsi sbandato sul fondo e poi si attendeva una seconda marea per
ripetere l’operazione dall’altro lato, essendo questo il motivo per cui in francese i lavori di
carenamento si dicevano, come abbiamo già detto, pure oeuvre de marée; in tal caso bisognava
783

però per lo meno costruire sulla sommità del fianco del vascello da inclinare un’impalcatura
calafatata (fr. bâtardeau, platbord) che impedisse all’acqua di salire in coperta. Far sbandare un
vascello senz’alcun appoggio e anche senza maree era anche possibile, ma molto rischioso e si
poteva solo fare per quel tanto che bastasse a far pulire ai marinai almeno la fascia della linea di
galleggiamento, generalmente la zona delle imbarcazioni che, come si sa, si sporca
maggiormente; in quest’ultimo caso si diceva spesso spalmare a quattro tavole, cioè lavorare solo
alle prime quattro tavole dalla coperta in giù. Si poteva far navigare le galere sbandate su un fianco
in un fiume o canale che avesse fondali troppo bassi per navigarvi con la chiglia normalmente
all’ingiù e ciò perché lo scafo pescasse quel tanto di meno che bastasse a procedere; così fece il
capitano generale del mare veneziano Niccolò da Canal nel giugno del 1469, quando alla testa di
un’armata di 40 galee, percorse il canale navigabile che portava da Andrinopoli (‘Hadrianopolis’) e
Enos, per saccheggiare quest’ultima:

… In prima messer Niccolò da Canal del mese di giugno passato, con l’armata della Signoria (di
Venezia) della quale egli era capitano, si partì da Negroponto (‘Eubea’) con 40 galere e andò alla
città di Curnia (‘Enos’), appresso ad Andrinopoli 15 miglia per un canale, mettendo le galere per
schina (‘schiena, fianco’) per la pochezza dell’acqua, e prese detta città piena d’infinite ricchezze,
nella quale era gran tesoro del Turco (‘Sultano’) e alcune delle sue donne; la qaul città, dapoi che
l’ebbe assaccomannata (‘saccheggiata’), abbrugiò e distrusse (Guernerio Bernio, Chronicon
eugubinum etc. C. 1.018; in LT. A. Muratori, Rerum italicarum scriptores etc. Milano, 1732).

Come lavoravano i remiganti addetti alla spalmatura, oppure, nel caso dei vascelli tondi, gli operai
o i marinai spalmatori? Essi usavano un pontonetto (fr. rat), ossia una piccola zattera fatta con le
tavole delle balestriere, con i pavesi e con vario tavolame di bordo legato su barili impermeabili
perché ben calafatati o su tronconi d’albero; questo galleggiante, usato prima dai calafati, era
rimorchiato sotto bordo da una fregatina, cioè da una piccola barca a remi, e si muoveva poi
autonomamente, visto che gli spalmatori si traevano avanti e indietro lungo il fianco della galera da
spalmare a mezzo di due lunghe sagore attaccate alle due estremità del pontone e rette da due
prodieri, uno posto a poppa e uno a prua della galera medesima; insomma un sistema questo del
pontone tutt'oggi ancora usato dai carenanti nei bacini di carenaggio del porto di Napoli e d’altri
porti mediterranei per frettare ossia spazzolare, raschiare, lavare e scopar via - corso di lamiere
dopo corso di lamiere - le alghe, le brume e gli altri viventi marini attaccatisi ai fianchi dell'opera
viva specie durante le lunghe soste nei porti e ciò man mano che il livello dell'acqua del bacino
decresce e la nave va ad adagiarsi sulle taccate, o anche per pitturare il bagnasciuga (in. boot-
topping), ossia quell'ampia fascia laterale dell’opera viva che include la linea di galleggiamento e
che si diceva allora in fr. ribord e in ol. vit-waatering, mentre si chiamava in fr. vibord e in ol. (hout-
)voorscheen quella sovrastante costantemente emersa, la quale raggiungeva il ponte superiore o
784

coperta e noi oggi diciamo fuoribordo (in. top-sides); infine sopra questo vibord c’era il
bastingaggio o parapetto del ponte di coperta che si chiamava in fr. platbord e in ol. dolbord,
rogbord, bosbank o anche rosbank e faceva parte dell’opere morte (ol. doodt-werke, huising);
quest’ultima struttura, pur non dovendo essere tanto elevata da impedire ad archibugieri e
moschettieri di spararvi comodamente da sopra, si faceva parecchio più alta a prua quando il
vascello non aveva colà castello e ciò per impedire che i colpi di mare invadessero la coperta,
mentre si usava invece tutta molto bassa nei vascelli a tre ponti sia perché i flutti raggiungevano la
coperta molto più difficilmente, essendo essi sensibilmente più alti, sia perché più alto era un
vascello e meno lo si poteva appesantire in coperta per non mettere a rischio la sua stabilità
laterale; ma la gente di mare francese dell’oceano usava generalmente ed erroneamente intendere
per platbord tutto il vibord, così come altri intendevano invece per quest’ultimo la sola cinta di
sostegno (fr. lisse) della coperta.
C'era dunque un primo passaggio del suddetto pontone o, non trovandosi il vascello in un porto
attrezzato, ma in una semplice cala appartata, della fregatina stessa o anche del semplice schifo di
bordo durante il quale gli spalmatori pulivano la fiancata della galera o del veliero con attrezzi
inastati, quali raschietti, spazzole dure e scope di saggina [fr. gor(r)ets; ol. schrobbers, varkens),
così asportandone il muschio, il conchigliame, i filamenti erbosi verdi o marroni (fr. filandres; ol.
groente, lang-halsen) che si erano più o meno potuti formare specie sulle fiancate a seconda dei
mari che il vascello aveva frequentato e della lunghezza degli scali che aveva fatto; poi, a fasciame
asciutto, bisognava raschiar via anche la vecchia pegola dai comenti (fr. purger), usandosi ai
suddetti scopi ferri immanicati a forma di zappetta tagliente (fr. racles, gratoirs; ol. schraapers,
schrab-ijsers); poi si bruscava a fuoco per meglio scoprire i punti che avevano bisogno d’essere
racconciati, perché il fuoco ben puliva le superfici del legno e consumava la vecchia stoppa non
più trattenuta dalle commessure onde far posto così alla nuova che ripristinasse l’impermeabilità
del fasciame. Quest’uso della brusca accesa era però pericoloso se fatto a bordo in navigazione e
ben se ne accorgerà il corsaro inglese Digby, non nuovo del resto, come già sappiamo, a queste
disattenzioni a rischio d’incendio durante la sua lunga scorreria nel Mediterraneo:

… Mi accorsi anche dell’inconveniente di accendere le brusche in coperta per incatramare la nave;


infatti non una delle mie navi sfuggì al fuoco durante quest’operazione e sarebbero certo andate
distrutte se non avessi usato molta diligenza e preso precauzioni ‘sì da correre ai ripari in caso
d’incendi. (K. Digby. Cit.)

Quindi il calafato e i suoi aiutanti racconciavano, turavano e impeciavano non solo tutti i conventi
[‘co(m)menti’] delle squadre (‘tavole’), ma anche le inchiodature e naturalmente le crepe e le falle,
grandi o piccole che ora, a legno pulito, si rivelassero, usando chiodi, stopparoli (‘chiodi a testa
785

larga e corto piede’), cavicchi e anche pezzi di tavola dove necessario, ma soprattutto stoppa, la
quale andava ben ficcata e calcata nelle fessure con scalpelli e mazzette, in modo che l'acqua non
vi potesse poi entrare; le commessure così stoppate andavano infine ben ricoperte di pegola.
Finito il raddobbo, la fregatina riforniva i pontonieri di sego, ancora di brusche e degli altri materiali
occorrenti alla spalmatura della parte dell'opera viva destinata a reimmergersi, operazione che solo
adesso poteva aver luogo, mentre il còmito, imbarcatosi sulla stessa predetta barchetta o su un
altro schifo, andava attorno al pontone per dirigere il lavoro. A proposito dei barili calafatati vuoti
sui quali il pontone si reggeva, bisogna dire che averne alcuni sempre pronti a bordo dei vascelli
era una cautela apprezzata perché, in casi disgraziati, potevano servire da salvagente ai quali in
un naufragio in mare aggrapparsi; anzi, legandone due strettamente insieme, ci si poteva far
sedere nel mezzo una donna o un bambino per tenerlo fuori dalla gelida acqua.
Quando la pulizia dell’opera viva avveniva con vascello tirato a secco, ovviamente per la parte alta
del fasciame in luogo del pontone si usavano gli stessi ponteggi pensili o bilanciole [fr. è(s)chafaut,
echafaudage, triangle; ol. stelling(-hout), stelladie, stellagie] che usavano i calafati e si usava
effettuare la pulizia dell’opera viva con lo stesso sistema che abbiamo visto adoperare nello
spalmare a fuoco vivo in cantiere, cioè si riscaldava il fasciame con della brusca accesa [fr. (bois
de) chaufage; ol. tak-bossen; brandt-hout] in modo che tutta la sporcizia accumulatavi dal mare si
bruciasse o si ammollasse, venendo poi via molto più facilmente e radicalmente e permettendo
così al calafato di scoprire tutti i punti bisognosi di riparazione. Mel Medioevo, cioè quando le galee
erano generalmente delle biremi, quindi più piccole e leggere, tirarle a secco era naturalmente una
pratica più frequente e lo si faceva non solo per lavori di carenamento, ma anche per esempio
quando si era portato un esercito a operazioni belliche costiere e bisognava quindi aspettare che
quelle terminassero; all’assedio di Tiro del 1124 il doge Domenico Michiel (1117-1130 c.) ordinò
che a ognuna delle galee veneziane, allora tenute in secco, fosse tolta una tavola del fondo, onde
dimostrare ai sospettosi alleati che i veneziani non avevano alcuna intenzione di sottrarsi ai pericoli
di quella guerra magari, rimettendo improvvisamente in mare quei vascelli e abbandonando così
l’assedio ( Andrea Dandulo, Chronicon. LT. IX, c. XII, p. XI).
Per varare i vascelli si preparava sull’arenile davanti a loro, dal volto al mare, un letto di vasi di
legno o palanche o taccate [gr. φάλαγγες; lt. palangae; ol. staapels(-blokken), staapelingen,
stokken; fiam. Dompblokken; lt.prov. escharfulchrum, dal lt. jacere, ‘varare’ e fulcrum, ‘letto di
taccate’)] sulle quali dovevano scorrere; in fr. queste si dicevano t(a)ins, ma soprattutto chantiers,
da cui le locuzioni mettre o tenir un vaisseau en chantier e ôster un vaisseau du chantier, termine
questo che poi si è esteso per sineddoche a tutto il luogo destinato al raddobbo. Una galea
normale si varava con un’azione combinata di palanchi o curli e di prodani alati, di schiavi che
786

spingevano ai fianchi e di trazione esercitata, tramite una sola gumenetta, da un’altra galea che
arrancava a mare. Per le galee più grandi e pesanti, quali erano per esempio quelle Reali o
Capitane, il sistema suddetto non era però sufficiente e si varavano quindi queste, anch'esse però
abbastanza agevolmente, con la trazione esercitata a mezzo d'argani (gr. ὀλϰοὶ), cioè con il
sistema che si usava per varare tutti i grandi vascelli come galee grosse, galeazze, navi, galeoni
ecc. e al quale abbiamo già accennato a proposito dei galeoni costruiti a Napoli.
Come si festeggiava allora l’avvenuto varo d’un nuovo vascello? Anche se d’un secolo
antecedente, possiamo per tale argomento solo ricorrere alla descrizione che il Sanudo fa del varo
d’una grande barza (‘nave’) dalla portata di 1.800 botti, avvenuto a Venezia nel 1495, e dalla quale
possiamo comprendere da dove nacque l’uso odierno di rompere sul nuovo scafo una bottiglia di
spumante:

… In questo varar è da saper si suol far certe cerimonie: prima far dir una messa dentro, poi,
mentre la si vara, li vien tratto da galioti assaissime inghistere (‘caraffe di coccio’) di late (‘latte’) et
vino dentro; significa latte bonaza (‘bonaccia’) et vino vittuarie… et pareva un castello in acqua…
(M. Sanudo. La spedizione di Carlo VIII in Italia etc. Cit. P. 333.)

Una volta varato un vascello, bisognava stabilizzarlo appesantendolo con della zavorra [lt. saburra;
gr. ἒρμα; fr. bal(l)ast, lest, suburre, saorre, quintillage, quintel(l)age; ol. ballast; sp. lestre], in genere
ghiaia, ciottoli, arena o piombo, si poneva sul fondo di cala (gr. ϰοιλώμα) del vascello tra un
madiero e l'altro e serviva a sostenere il vascello stesso e a mantenerlo appunto dritto, non
lasciandolo così pendere da nessuna parte, e quanto fosse importante questa operazione per la
stabilità e buona navigazione del vascello era cosa nota da sempre; il già più volte citato Niceforo
Gregoras infatti così scriveva:

… il che comunemente per quelli che per mare usano andare costituisce sostegno e
importantissimo fondamento della navigazione (ὄπερ εἲωθε τοῖς ἐπὶ θάλαττανʹ ἀεὶ ναυστολοῡσιν
ἒρεισμα γίνεσθαί τε ϰαὶ εῗναι τοῡ πλοῡ ϰαὶ θεμέλιος ϰράτιστος. In Historiae byzantinae. LT. XVII,
par. 6).

I sistemi usati erano molto differenti, a seconda delle consuetudini di Ponente, di Levante, dei
turchi e del parere del singolo còmito o del singolo capitano di galera; alcuni solevano mettere
molta ghiaia alla rinfusa (fr. en grenier) sul fondo della galera, sino a un certo punto del fondo
stesso; altri mettevano invece ghiaia o pietre in scuffie o panieri depositati sul fondo; altri ancora
ponevano su quasi tutto il fondo e con giusto ordine molte lastre di pietra viva oppure vi andavano
poggiando tra le corbe - qua e là, secondo il loro parere - sacchetti di canovaccio pieni di sabbia e
lunghi quanto la distanza tra l'una e l'altra corba; altri ancora usavano porre tra i baccalari e sotto
787

le balestriere, quanto e come a loro sembrava che meglio fosse, pesanti pezzi dritti e doppi di
legna da ardere, lunghi due o tre quarte, ossia due o tre quarti di braccio, e detti dai veneziani
morelli, evidentemente perché di legno scuro, da non confondersi però con il morelo, una fibra
canapacea molto robusta con la quale si facevano per esempio le corde delle balestre; infine molti
andavano collocando qua e là per la galera palle d'artiglieria (da cui l’oceanico ballast e il suo
derivato lest) o svariate altre cose pesanti, alla ricerca del giusto carico e del giusto equilibrio,
essenziali perché si ottenesse una galera veloce e che si potevano incominciare a controllare dai
traversetti (vn. cèntene), vale a dire da quel cinto di legno largo circa quattro dita che cingeva da
poppa a prua il vivo di tutta la galera sino all'acqua e che corrispondeva al moderno 'bagnasciuga'.
Questi traversetti non dovevano risultare interamente immersi, perché in tal caso significava che il
carico di stiva era stato eccessivo e che, se non fosse stato ridotto, la galera avrebbe strascinato
per mare buona parte dei suoi corredi d'opera morta, rallentando così notevolmente il suo corso;
insomma il còmito doveva avere a tal riguardo un occhio particolarmente esperto, poiché si
regolava appunto guardando la linea d'immersione e l'apparente equilibrio della galera e non certo
andando a pesare la quantità di zavorra che metteva a bordo. La sabbia, la terra e il sale erano
pericolose zavorre da evitarsi perché materiali che presto avrebbero finito per otturare le pompe di
sentina rendendole così inservibili e infatti il nome [gr. Ψάμμος; lt. saburra (da sabulum, ‘sabbia’)] è
dovuto alla circostanza che nell’antichità dette pompe non ancora s’usavano e quindi la sabbia era
stata molto usata; d’altra parte usare pezzi di cannone crepati o semplicemente grossi massi come
nell’antichità (infatti in gra. ἒρμα significa sia masso sia zavorra) rendeva difficile lo smuoverli e
quindi lo stivaggio e quindi la miglior zavorra era quella fatta di ciottoli lisci e puliti, la zavorra
vecchia doveva essere cambiata ogni paio d’anni, oppure poteva ovviamente essere riusata dopo
esser stata però opportunamente lavata dalla sporcizia di sentina (fr. (eau) somache, saumache;
ol. brak(-waater), siltig-waater). Anche all’ora come oggi era proibito scaricare la zavorra nei porti e
nei loro canali d’accesso e bisognava farlo nei luoghi a ciò deputati; l’art. XXXIX dell’ordinamento
anseatico del 1591 prevedeva pene per gli equipaggi contravventori.
Un’importantissima operazione da compiersi ricorrentemente durante la navigazione, ma
specialmente prima della partenza, alla quale abbiamo già più volte accennato e che era di
competenza del còmito della galera (o del nostromo nel caso d'un vascello tondo), consisteva nel
mettere in stiva (fr. plomber) il vascello, ossia nell'equilibrarlo, il che era essenziale per una buona
e sicura navigazione; si trattava appunto di stivare, ossia assettare e accomodare, tutti i materiali e
le provviste tenute sottocoperta, in massima parte nella camera di mezzo, in modo che il peso di
tutto questo carico risultasse egualmente compartito e che il vascello si mantenesse in perfetto
equilibrio, senza perciò piegare più da un lato che dall'altro e senza approdare né appoppare, cioè
788

senza pendere più in giù da prua o più in giù da poppa, perché questo l’avrebbe resa più leggera e
n’avrebbe facilitato il corso. Pur potendocisi allora certamente servire di livelle poste nella camera
di mezzo e in quella di poppa o anche solo della semplice osservazione di contenitori d’acqua, in
effetti non sappiamo se già allora, dopo la prima buona prova fatta, si usasse tracciare scale di
piedi sul fasciame delle ruote di poppa e di prua come nei documenti si legge che si farà più tardi
nel Seicento, questo di trovare l'esatta stiva del vascello era per il còmito della galera un compito
molto difficile e che necessitava di molta ponderatezza ed esperienza, in quanto molto dipendeva
dal modo in cui erano costruiti i vascelli, poiché alcuni volevano più carico alla poppa, altri alla
mezzania, altri ancora alla prua; non essendoci quindi alcuna regola esatta per trovar la giusta
stiva, la si cercava sostanzialmente a caso:

... così la maggior difficoltà che habbiano i còmiti è il trovar la vera stiva e molti còmiti, che per altro
sono stati sufficientissimi, per non saperla trovare sono stati vergognosamente cassati e licenziati.
(P. Pantera. Cit. P. 76.)

Il pellegrino tedesco Felix Faber descriveva nel suo già ricordato diario di viaggio una messa in
stiva nella quale suo malgrado si era trovato coinvolto nella galea veneziana che nel 1480 lo stava
portando in Terra Santa e ne metteva in risalto la confusione e l’inesperienza con cui il còmito
l’aveva condotta e quindi resa sostanzialmente solo una perdita di tempo (cit.) Quando si metteva
in stiva la galera, era comunque doveroso per il capitano esser presente, perché in tal occasione
ufficiali e marinai cercavano di sistemare nascostamente a bordo merci di loro proprietà che
avrebbero poi rivenduto con guadagno nei paesi di destinazione; per cui nascondevano roba sotto
i sacchi di biscotto, sotto i rotoli di gomene e sotto le vele, sotto o dentro i contenitori di viveri e di
polvere da sparo dopo averli privati del loro importantissimo contenuto, dentro la canna del
cannone di corsia, al quale poi tappavano la bocca con pezzi di vecchi barili perché non v’entrasse
eventualmente dell’acqua piovana o di mare a rovinare la loro mercanzia; questa era di varia
natura a seconda dei porti di destinazione della galera, come si legge per esempio degli equipaggi
delle galere di Sicilia:

…e, quando vi è viaggio per Genova, sogliono per insino li barili dell’acqua impire di formento
(‘frumento’) e, per Napoli, caso (‘cacio’) e de’ zuccari (‘dolciumi’)… (Discorso circa il modo et
maniera ha da tenere un Capitano in governare bene la sua galera etc. S.N.S.P. Ms. XXII.C.7.)

Dunque è evidente che già allora a Napoli tanto si apprezzavano i dolciumi siciliani e, per quanto
riguarda il frumento, la Sicilia era nel Cinquecento uno dei principali produttori europei, anche se
nel secolo successivo diverse carestie l’obbligheranno poi a importarne ella stessa e spesso in
789

maniera del tutto insufficiente, tanto da provocare diverse sommosse popolari, le quali
culmineranno poi nella lunga e sanguinosa guerra di Messina; infatti in tempi di carestia i mercantili
frumentari (gr. σιτηγά πλοῖα oppure σιταγωγά πλοῖα) che portavano il grano dalla Puglia, secondo
dei grandi granai italiani, erano spesso intercettati e sequestrati nelle acque siciliane dalle galere
maltesi, le quali obbligavano i comandanti di tali vascelli a vendere le loro derrate a Malta, cosa
che succederà per esempio nel 1636 e nel 1648. Leonardo Donato (1573), riferendo a proposito
della gran produzione di grano che la Sicilia faceva (la singolare abondanza de’ grani che per
benefizio de’ suoi vicini e lontani produce), diceva che ne usufruivano Venezia, Genova, la Savoia,
la Goletta, Malta, i regni di Catalogna e Valenza e si nutriva di biscotti siciliani tutta l’armata di
mare della corona di Spagna [di modo che quello che si cava è veramente quantità inestimabile (E.
Albéri. Cit. S. I, v. VI, p. 421)]. In verità la Spagna avrebbe potuto ricavare grano anche dal suo
possedimento di Orano in Algeria, la cui regione ne produceva molto e i genovesi infatti da quella
ne importavano regolarmente. Un’altra buona produttrice di grano era l’isola di Creta, ma non in
quantità pari a quella che produceva la Puglia e nemmeno di pari qualità, perché con la farina
pugliese si faceva un pane migliore; infine buon produttore di biade in generale era anche il
principato di Capua.
Anche al loro ritorno in Sicilia le galere di quel regno sbarcavano roba indebitamente caricata:

…pues la desorden es grande y casi continua, que nunca las galeras salen de Siçilia que no lleven
muchas cosas de contrabbando aun de trigo que hordenariamente los marineros cargan su parte y
parece que le sea permitido para llevarlo a Genua a sus casas, que (altrimenti) hay pena de la
vida allende de otras que estan puestas en este caso, y de la misma manera nunca las galera
llegan a Siçilia que no traygan de Nápoles y de otras partes semejantes ropas, las quales como
cosas de galeras las descargan sin dar notiçia alguna a los duaneros ni pagar algun derecho…
(M. Gambacorta, Discurso etc. Cit.)

I principali responsabili di questi traffici erano poi arcinoti:

…e, si bene il capitano mette delle guardie, questo non serve (a) nulla nelle cose sopra dette, che
nessuno in galera si mette a dispiacere (gli) officiali di detta galera, cioè il patrone, còmito e altri…
(Discorso circa il modo et maniera ha da tenere un Capitano etc. Cit. S.N.S.P. Ms. XXII.C.7.)

Il capitano doveva dunque, oltre a esser presente alla messa in stiva in carena, cioè in quella che
poi si dirà camera di mezzo, cercare d’avere dei confidenti che gli facessero da delatori e inoltre
prima della partenza scendere nella fragatina e farsi portare tutt’attorno alla galera principalmente
per costatare di persona se la stessa apparisse sovraccarica o non ben equilibrata, ma anche
perché in tal modo avrebbe potuto, scoprendo magari mercanzia tenuta nascostamente appesa
alle reggiole, ordinare di toglierla. Ma non erano solo gli ufficiali delle singole galere a darsi a tali
790

indebiti traffici e infatti nella più volte citata relazione del Badoero, laddove questo residente tratta
delle singole qualità dei generali di mare del re di Spagna, così si legge:

... e tutti poi insieme si dilettano della mercanzia, talché, quando passano d'un regno all'altro, ne
portano tante mercanzie che paiono galere di mercanti. (E. Albéri. Cit. S. I, v. III, p. 288)

Un grave episodio dovuto al predetto abuso fu quello che avvenne nel 1578, cioè durante il
viceregnato di Marc’Antonio Colonna, a due galere di Sicilia, cioè la Capitana, detta di Palermo, e
la S. Angelo, le quali erano comandate dal capitano Gasparo Ventimiglia; queste stavano portando
dalla Sicilia a Napoli il sunnominato Carlo d’Aragona duca di Terranova e il conte di Camerata ed
erano quasi arrivate, quando il 15 aprile di quell’anno (il 23, secondo il de Haedo), giunte nei pressi
dell’isola di Capri, furono affrontate da otto galeotte turco-barbaresche e non poterono né
difendersi a dovere né fuggire tanto erano imbarazzate e appesantite di mercanzie; furono quindi
prese dal nemico e a stento riuscirono, sbarcando precipitosamente, a sottrarsi alla cattura i due
predetti titolati e parte degli equipaggi, mentre i 384 remiganti restavano preda del nemico. Il
Ventimiglia, incolpato di quanto successo e processato, si difendeva dicendo d’aver imbarcato
mercanzie per ordini superiori e che, d’altra parte il sovraccarico non era stato poi tale da doversi
ascrivere a esso la disgrazia; certo è che, dopo esser stato tenuto in stato di carcerazione per
alcuni anni, il suo processo non fu mai fatto giungere a condanna. Portate ad Algeri le due predette
galere catturate, la S. Angelo, come abbiamo già ricordato, diventerà quella personale di Hassan
Pachà, il rinnegato veneziano allora governatore di quel regno.
Il residente Matteo Zanne nel 1584 parlerà ancora di tale abuso, dicendo che i capitani particolari -
quindi si riferiva certamente soprattutto ai genovesi, i quali erano quelli che più usavano dare ad
uso (in condotta) le loro private galere - non facevano certo i mercenari al servizio del re solo per
guadagnarne il relativo soldo, ma soprattutto per il trasporto delle mercanzie e dei passeggieri e
per i contrabbandi e utili così fatti poco leciti. (Ib. S. I, v. V, p. 352.) Ecco perché poi tanto spesso,
portando a bordo più merci che uomini di spada, cercavano d'evitare il combattimento,
costringendo ancor oggi gli storici a dotte dissertazioni sulle machiavelliche ragioni per le quali
Andrea d'Oria avrebbe scelto di non combattere il Barbarossa per mare né durante la campagna di
Tunisi del 1535 né alla Prévesa nel 1538! Ma le conseguenze dannose dovute a tali traffici erano
parecchie e per esempio, perdendosi tempo nei porti nell’attesa di ricevere e caricare tali indebite
mercanzie e dovendosi poi cercare di recuperare tale indugio, spesso succedeva che non si
partiva quando il tempo era propizio, ma dopo quando era cambiato e non più favorevole e quindi
non solo si metteva in pericolo di naufragio la galera, ma si rischiava magari anche di perdere
l’occasione dell’impresa a cui si andava; a volte poi, per far posto a tali mercanzie, non si
caricavano i dovuti quantitativi di provviste e si doveva quindi comprarne poi in viaggio a prezzi
791

spesso superiori, senza contare che il più delle volte gli ufficiali di galera, i quali di solito
rispondevano della loro gestione amministrativa al solo generale, non chiedendo questi se non
molto raramente di controllarla, commettevano ulteriori frodi e disordini falsificandone i conti,
computando finti acquisti, vendendo indebitamente a loro vantaggio necessari generi di munizione
oppure generi non più utili, ma in ogni caso senza contabilizzarne il ricavato e dandoli per
consumati; inoltre c’erano mercanzie, come per esempio le balle di lino, molto incendiabili e quindi
pericolosissime per un vascello che avesse frequenti occasioni di combattere; infine, come si
accenna in una delle suddette citazioni, poiché si trattava di merci imbarcate di nascosto oppure
passate per generi di servizio della galera, sia nel loro imbarco in un regno sia nel loro sbarco in un
altro, il re di Spagna perdeva i dazi (lt. nabulla, da navis) che su quelle merci sarebbero stati
dovuti, perché ne erano appunto esenti solo le provvisioni di galera e gli effetti personali dei
passeggeri.
Anche in mancanza di regole certe, nel mettere in stiva un vascello bisognava attenersi ai seguenti
due principi generali dettati dall'esperienza; primo, sistemare le cose più pesanti di sotto e le più
leggere di sopra, lasciando la coperta il più sgravata possibile; secondo (e questo valeva anche
per la zavorra), concentrare il peso al centro del vascello, scemandolo man mano verso prua e
verso poppa, in maniera che, per esempio, se al centro era di 100, a prua e a poppa diventava di
10; insomma, quanto più aggravato era il fondo del vascello tanto migliore n’era la stiva e quanto
più scariche di roba e d’uomini erano la coperta, la poppa e la prua tanto meglio si navigava.
Questi principi erano da rispettarsi semplicemente soprattutto nelle galere, le quali erano vascelli,
come già sappiamo, sottili e di scarsissimo pescaggio, quindi particolarmente instabili e pericolosi;
negli altri vascelli invece il nostromo doveva tener conto anche delle notevoli varietà e differenze di
struttura, soprattutto di come il vascello fosse quartierato e adattarvi il carico conformemente.
Anche sulla quantità della zavorra da usare non c’erano regole certe, se non quella che più piatto
era il fondo e più zavorra era necessaria, perché un fondo arrotondato e dalla chiglia ben
pronunciata sosteneva già alquanto il vascello di per sé stesso; nel già pluricitato Governo di
galere si prescrivono comunque, per una galera sottile ordinaria, 60 pani di piombo da 80 rotola
l’uno.
Bisognava stare attenti a non lasciare nella sentina della galera una quantità d'acqua che,
spostandosi da una parte all'altra, le facesse perdere la predetta stiva o equilibrio:

... perché io ho osservato che'l levar un peso di cento o centocinquanta libre da un luoco e il far
passar doi o tre huomini da una parte della galera ad un’altra l'hanno drizzata senza altro aiuto,
benché prima pendesse manifestamente da una banda, e l'hanno messa in miglior stiva. (P.
Pantera. Cit. P. 77.)
792

Infatti talvolta, per correggere la stiva, bastava travasare con le manichette di cuoio parte della
provvista d’acqua potabile e di vino in botti situate nel lato opposto del vascello; ma da che cosa,
oltre che dalla predetta linea di galleggiamento, si poteva capire se al vascello era stata data
buona stiva? Da più segni, ma soprattutto dalla poppa, la quale durante la navigazione stava
ferma e stabile senza scuotersi né piegarsi più da una parte che dall'altra, come se il vascello non
si movesse; si capiva inoltre dall'orologio dei timonieri a poppa o dalle lucerne o da altri oggetti
simili che potevano star appesi a mo' di pendolo nelle camere e negli altri luoghi del vascello; se
infatti questi oggetti stavano fermi come se fossero a terra, allora la stiva era ottima. Si poteva
infine ancora comprendere - in caso d’un vascello remiero - dall'inizio della voga, cioè dalla
circostanza che dopo le prime palate la galera o la galeazza abbrevava facilmente, ossia subito si
avviava, e la ciurma non trovava gran difficoltà nel maneggiare il remo, soprattutto nel cadere sul
banco.
Una volta messo un vascello in buon assetto di navigazione, navigandosi di conserva con altre
galee, il còmito doveva far sempre attenzione che la sua non andasse magari a urtare qualcuna
delle altre con conseguente rottura di remi, assetti di voga e magari anche costati di fiancata,
incidenti che ovviamente quanti più erano i vascelli di una squadra o di un’armata tanto più
potevano avvenire e ciò sia per mancanza di visibilità nottura sia per il maltempo sia per errori di
valutazione nel tentativo di non allontanarsi dalle altre galee sia magari per il desiderio di
avvicinarsi di più a quella del capitano generale oppure di arrivare primi al luogo in cui si doveva
andare ad ancorarsi per guadagnarsi così un posto più vicino alla costa, oppure semplicemente
perché di notte chi doveva star di guardia o sentinella si era addormentato. In tali casi, essendo
riconosciuta la colpa del còmito, gli si addebitava il costo delle riparazioni di tutti i danni che si
erano così procurati; a meno che però la responsabilità non fossse da attribuirsi a errore del
timoniero, perché in questo caso era a questi che bisognava addebitare tutti i danni. Di solito però
un semplice timoniero non guadagnava abbastanza da poter risarcire danni tanto elevati, per cui lo
si puniva altre maniere; per esempio nelle armate catalane del Trecento lo si umiliava crudelmente
sia perché rifuggisse da altri errori sia per ammonimento degli altri:

… e, se non può pagarlo né ha con che farlo, per mezza giornata si terrà in piedi su una botte, a
terra davanti alla poppa della galea che avrà danneggiato, in camicia, scalzo, con un timone nelle
mani come se stesse governando, per cui tutti capiscano che ha fatto un errore nel governare e si
stia più attento (è si pagar nou pot, ne ha de qué; segue mig dia en terra en una bota alt, davant la
popa de la Galéa que ferida haurá, en gonella, descalç, ab un govern en les mans axi com si
servaba, per tal que tots veien que ell ha feta errada en lo servar, è que s'y guarden mils. In
Ordenanzas de las armadas navales etc. Cit. P. 90.)
793

Interessante questo brano anche perché ribadisce che le galee e gli altri vascelli da guerra
attraccavano alla banchina portuale da poppa e non di fianco, come invece immancabilmente si
rappresenta nella moderna cinematografia con ambizioni storiche, ciò perché i moli di quei tempi
erano pochi, anzi a volte unici, e anche brevi e bisognava lasciar posto anche all’attracco degli altri
vascelli; era infatti ai fianchi della poppa che si trovavano le scalette fisse laterali a disposizione del
personale di comando che appunto a poppa dimorava. Il verbo ‘approdare’ era dunque
inappropriato per i vascelli da guerra, mentre era corretto per quelli commerciali, i quali infatti
attraccavano di prua, non potendosi scaricare né di fianco, per il motivo appena detto, né di poppa,
per non impedire le attività di comando; ma, tornando alla suddetta punizione riservata al
timoniero, non si trattava in questo caso di crudeltà fisica perché ovviamente un altro timoniero non
si poteva trovare a un qualsiasi angolo di strada. A evitare comunque il più possibile tali incidenti,
in questo stesso capitolo si invitava a corrispondere al personale di galera buoni salari in modo da
attrarre al servizio persone ben preparate e non individui di poca arte ed esperienza.
794

Capitolo XIII.

LE FORNITURE E GLI ARMAMENTI LEGGERI.

Un corpo di vascello nuovo o tenuto in disarmo, perché potesse essere messo in navigazione,
doveva essere completato e corredato di tutti i necessari bastimenti, cioè di tutti quegli accessori e
materiali di bordo che non facevano parte del semplice scafo (da cui poi, per sineddoche,
‘bastimento’ nel senso di vascello); si trattava quindi di munirlo d’alberi, antenne, timoni, remi,
canotti, scialuppe, argani, capre, ferri, vele, tende e tendali, incerate, sartiami, gomene, capi, barili,
canevacci, arbasci, cotonine, spago e aghi per cucire le vele, catene, vesti e schiavine per la
ciurma, sego in pani, stoppa, catrame e pece per calafatare, catrame per pitturare, cuoiami per i
banchi e per chiudere gli sportelli in tempo di burrasca, pelli morbide ovine per le pulizie di bordo,
cioè quelle che gli antichi romani chiamavano mollestrae, legnami, chioderia, attrezzi da
maestranza, armi e munizioni da guerra, lampioni (cst. linternas) a candele di cera (cst. velas de
sebo) da usarsi nei fortunali, fanali (cst. faroles), ecc. Non era però compito del capitano generale
di mare occuparsi delle provvisioni da bocca o da guerra né delle altre necessità della gente di
guerra imbarcata sui suoi vascelli e destinata a operazioni di sbarco in terraferma, eccezion fatta
per l'imbarco e lo sbarco della stessa, perché tali incombenze erano a carico del generale che
detta gente comandava; capitava però non infrequentemente che il capitano di mare e quello di
terra d’una spedizione militare marittima fossero la stessa persona, come nel caso del duca di
Medinacoeli all'impresa delle Gerbe, in quello del principe Andrea d'Oria alla sorpresa d'Algeri e in
molti altri.
Oltre ai nove pezzi d'artiglieria e i loro corredi di cui più avanti diremo diffusamente, a bordo dei
vascelli si usavano disparate armi offensive e difensive, molte delle quali abbiamo già menzionato.
Le trombe di fuoco, le quali erano dette in mare trombe di galera e, nell’Alto Medioevo, sifoni di
fuoco, erano, come abbiamo già detto, dei tubi lancia-fiamme e lancia proiettili che s’indirizzavano
sul vascello nemico per appiccarvi il fuoco e per falcidiarne i difensori appena preso contatto col
bordo nemico. Si dividevano in trombe armate e disarmate; le prime, oltre a emettere corti getti di
fuoco, sparavano contemporaneamente mitraglia minuta, anch’essa a corta distanza, e quindi
erano utili negli abbordaggi o per difendersi dagli arrembaggi; le seconde erano solo incendiarie e,
chiamate dagli spagnoli botafuegos, erano usate anche nella guerra di terra, per esempio per
difendere le brecce dagli assalti del nemico. Anche per uccidere e appiccare il fuoco si lanciavano
poi, sia dalle coffe sia andando all’arrembaggio, palle di fuoco artificiato, le quali si gettavano a
mano o a mezzo di frombole, pignatte di creta - e più tardi, quando il vetro sarà diventato un
795

materiale meno prezioso, anche bottiglie di vetro - piene di sostanze esplosive o incendiarie e
granate, queste meglio se oblunghe, in maniera da poter passare attraverso i carabottini (dal fr.
caillebotis) del vascello nemico; si usavano inoltre archibugi e moschetti da braccio con i loro
accessori, archibugi e moschetti da posta, ossia da cavalletto [vn. braga da pirone, perit(t)olo], i
quali, in occasione di combattimento, nelle galere s’aggiungevano soprattutto sulle pavesate,
dardi, spade, pugnali, almeno due spadoni da due mani per galera e inoltre una buona quantità di
armi inastate, anche se, come abbiamo già spiegato per quanto riguarda queste ultime, non tutti i
generali e i comandanti di galea erano del parere di farne negli abbordaggi un largo uso, essendo
nel loro maneggio, soprattutto di quelle falcate e bipennate (lt. falx o hafta falcata, securis, bipennis
o fecuris anceps; gr. δρεπάνη o δορυδρέπανον, πέλεϰυς ἐτερόστομος, πέλεϰυς ἀμφίστομος),
pericolose per gli stessi propri compagni; ma, anche se molte di queste erano diventate nella
guerra di terra ormai del tutto obsolete, in quella di mare erano innegabilmente ancora utilissime -
come del resto anche le trombe e picche di fuoco - a respingere o a facilitare gli arrembaggi, e si
trattava appunto di picche, mezze picche, spuntoni o brandistocchi, alabarde, partesane,
corsesche, spiedi, forconi, ronconi, ecc. Queste armi si tenevano non solo per soldati e marinai,
ma, come abbiamo già spiegato, eventualmente anche per parte della ciurma. Bisognava disporre
inoltre, per quanto concerne le armi difensive, di una buona scorta di morioni, petti a botta
d'archibugio, giubboni di piastra (cioè di pelle ma includenti una piastra di ferro pettorale),
corazzine, rotelle, targhe; infine, ovviamente di polvere e palle d'artiglieria, polvere e palle per
moschetti e archibugi con piombo e calibri per farne; infine i materiali pirici per fabbricare i predetti
fuochi artificiati e quelli da festa.
Dell'altro materiale di bordo d’una galera prescritto dal Pantera elenchiamo ora quei soli corredi
che più possono suscitare l'interesse del nostro lettore:

Due timoni, uno per uso ordinario e l'altro di rispetto.


Uno schifo con la sua catena, 8 remi e un ferro (‘ancora’) per ancorarlo.
51 remi di galera per uso ordinario e 20 di rispetto.
Due arganelli e due taglie per sarpare (‘tirare su’) i ferri.
Quattro ferri di rispetto del peso d’8 o 9 cantaria l'uno, tra i quali c'era quello detto il
Guardiano (‘ancora di salvataggio’. Gr. ἂγϰυρα ἰερὰ, lt. sacra ancora), cioè una terza ancora di
servizio che in caso di burrasca si poneva a prua del vascello per linea retta.
Uno scandaglio lungo 100 passi e pesante 10 libre.
Pasteche, ossia bozzelli, mazzapreti, ossia girelle, e pulegge per l'alberatura.
52 branche di catene, una per banco, con i loro fornimenti, perni e maniglie per
incatenare i galeotti.
Un numero di manette di ferro sufficiente per tutti gli schiavi (‘remiganti prigionieri mussulmani’)
che fossero a bordo.
Un piede di porco e due incudini con tagliaferri, buttafuori e mazzette per ferrare e sferrare la
ciurma.
796

250 barili per acqua, 6 botti e 16 quartaroli (‘quarti di barile’) per il vino, una botte per
l'aceto, 6 barili (o altri vasi) per l'olio, sacchi per il biscotto.
Buglioli per il vino, per l'acqua, per aggottare e per spalmare.
Una manichetta di corame (fr. manche à eau ) per riempire le botti di vino.
26 cuoi o pelli di vacca per coprire i banchi.
Ampioni (‘lampioni’) grandi e piccoli normali e ampioni a candele di cera per i fortunali.
Una chiesola (‘armadietto’) con le sue lampade per la bussola.
Quattro bussole, due grandi e due piccole, e una carta da navigare.
Due ampollette (‘clessidre’) con le sue molle (‘corona di grani’).
Due bilance e una statera grossa.
Due torce da accendere mentre si recita il Salve Regina.
Una cassetta per l'elemosina (per il cappellano).
Un crocefisso o altra sacra immagine per confortare i moribondi.
Un ramarolo, ossia pentola di rame, per fare l'acqua cotta (‘l'acqua calda’) per gli ammalati.
Un forno di ferro o di rame.
100 piatti di stagno per la gente di poppa e per gli altri ufficiali.
Quattro candelieri o lucerne.
Due bacili per lavarsi le mani.
Bicchieri d'argento o di vetro a piacere del capitano.
12 tovaglie, 80 salviette e 24 asciugatoi per la gente di poppa.
20 tovaglie grosse, 100 salviette simili e 20 asciugatoi per gli ufficiali.
Due sedie di cuoi, sei scabelli o scagni di cuoi, due buffetti ossia pouf, un tappeto, quattro
strapunti, il tutto per la poppa.
Doi tavole con le lor battagliole (‘sostegni’) per la credenza del capitano. tre tavole simili per gli
officiali, còmito, padrone e sottocòmito. (Ib. Pp. 171 e segg.)

Per vestiario della ciurma era necessario che ogni galeotto disponesse d'un cappotto d'albagio,
d'una camisciola, ossia giubbetto, di panno o d'albagio, di due camicie e di due paia di calzoni di
tela, d'un berrettino rosso e d'un paio di calzettoni d'albagio per l'inverno; in più, calzette e scarpe
per quelli che si conducevano a lavorare a terra; inoltre ognuno d'essi doveva disporre d'un ago
grosso per cucire vele, tende e altri simili tessuti forti e uno piccolo per cucirsi i vestiti; erano infine
necessari almeno 20 rasoi per rasare la ciurma.
Passando ai tendami, diremo che occorrevano per ogni galera sottile 350 canne di tessuto per la
tenda di canovaccio e 330 per quella d'albagio; inoltre canne 40 per il tendale di poppa di cotonina
e canne 48 per quello d'albagio; canne 40 per due parasoli, ossia, come già sappiamo, tendaletti -
anch’essi di cotonina - per la poppa, canne 25 di panno alto per costruire, sempre a poppa, una
cameretta di panno con le sue porte; ancora:

... Per due porte d'arbascio (‘d'albagio’) che vadano dalla poppa alla prora e due per le spalle della
poppa e due per la prora, canne 120. (Ib.)

Occorrevano infine 270 canne di canevaccio per foderare le predette porte e il tendale d'albagio e
per guarnire la tenda d'albagio.
797

Per quanto concerne poi le vele, un bastardo voleva canne 900 di cotonina di Calabria - oppure di
Marsiglia o di Genova, pezze 27 di canevaccio per guarnirlo e libre 40 di spago per cucirlo; sempre
di cotonina occorrevano poi canne 600 per una borda, 400 per un marabutto, 300 per un trevo,
250 per una mezana e 300 per un trinchetto, considerando però che alcune galere usavano
portare quadra anche questa vela, e il canevaccio e lo spago in proporzione. Per le galere
bastarde i predetti quantitativi di cotonina e di relativi materiali di rifinitura andavano aumentati.
Un preventivo di forniture (gr.πλόιμα, πλώιμα; grb. πλουστιϰά) per galera che si ritrova all'Archivio
di Napoli e che è datato 1643, quindi sotto il viceregnato di Ramiro de Guzman duca di Medina de
las Torres (1637-1644), conferma, anche se di parecchio più tardo, la qualità dei predetti generi
tessili, sia per quanto riguarda il vestiario dei remieri, sia per vele e tendami; tralasciamo stavolta i
quantitativi (Fondo delle galere. Sez. Milt. A. S. N.):

Panno torchino
Panno rosso
Erbascio (albagio) de Leone (‘Lioni’ nell'Avellinese)
Erbascio de Gefuni (‘Giffoni’ nel Salernitano)
Cannavetti bianchi
Barrettini (‘berrettini’) fini
Barrettini ordinari.
Scarpe e calzette
Cottonina de Marseglia
Cottonina de la Costa (antico nome di Arienzo nel Casertano; oggi solo di una sua frazione.)
Cannavacci
Schiavine

Seguono poi al predetto preventivo effettive consegne di tessuti alla Regia Munizione dell'arsenale
di Napoli, la quale era situata non nell'arsenale vero e proprio, bensì nel retrostante Castel Nuovo;
si tratta di consegne effettuate dal 20 aprile alla fine di luglio del suddetto 1643 e da esse si
ricavano le seguenti interessanti informazioni (Ib.):

- i berrettini fini sembrano destinati ai galeotti delle sole galere Capitana e Patrona;
- le scarpe per i galeotti che si conducevano a lavorare a terra sono di pelle di vacchetta e le
relative calzette de Tavancola (‘Teverola’ nel Casertano o ‘Tavernola’ nell'Avellinese?) sono
turchine;
- il panno rosso è quello di Piedimonte d'Alife nel Casertano, mentre quello turchino è di Sirignano
nell'Avellinese; il primo è fornito in quantità all'incirca quadrupla del secondo;
- la cotonina di Genova sembra esser la stessa che viene anche chiamata de la Costa e quindi
potrebbe trattarsi di Costarainera presso Imperia;
- i cannovetti sono di Piedimonte;
- i cannovacci sono del tipo carmignola e sono forniti in balle;
- l'arbascio di Gefuni è suddiviso in due qualità, ordinario ed extraordinario;
- l’arbascio de Leone è detto de retaglia per cappotti.
798

Tra gli altri materiali di bordo notiamo canape per cordame, barili di pece, catrame, stoppa, barili di
sego per due spalmature, cuoi grezzi [fr. cuirs verds; ol. (vasche beest-)vellen; vuur-kleeden;
huiden] per coprire gli sportelli in occasione di fortunali o per tema che lasciassero entrare scintille
di fuoco, legnami di garbo, ossia pieghevoli, quadre e tavole di pioppo e d'abete per poter riparare
la galera ove necessario, chiavaggione, ossia chioderia, e ferramenti d'ottone e di bronzo, perché
quelli di ferro, tranne i rari stagnati (ma dalla metà del Settecento si comincerà a zincare i chiodi,
ossia a galvanizzarli), si sarebbero arrugginiti velocemente.
799

Capitolo XIV.

L’ARTIGLIERA NAUTICA.

Nella guerra nautica l'importanza dell'artiglieria era, dalla seconda metà del 500, ormai ancora più
indiscussa che nella guerra terrestre:

... E, perché l'artigliaria è il propugnacolo dell'armata e la più efficace arma che si possa adoprare
nelle fattioni di guerra ...] ammazzando le schiere intiere d'huomini in un colpo e fracassando gli
arbori, i remi e le galee istesse... (P. Pantera. Cit. P. 389.)

Non possiamo inserire nello svolgimento di questa nostra già corposa trattazione anche la
descrizione dettagliata della tecnica dell’artiglieria del Cinquecento, perché materia molto e
complessa e per la quale rimandiamo il lettore ad altro nostro testo a essa dedicato, come del
resto abbiamo già detto che faremo per gli eserciti del tempo in generale; diremo pertanto ora solo
dei tipi, dell'uso, della disposizione e degli accessori delle bocche da fuoco adoperate in marina,
specie di quelle da galera. Bisogna innanzi tutto osservare che i vascelli andavano sì ben armati
d'artiglieria, ma non tanto da aggravarli troppo e renderli lenti e poco atti alla navigazione e
pertanto nei primi secoli, cioè quando i vascelli da guerra erano ancora piccoli e leggeri, si
preferiva armarli di artiglierie di ferro piuttosto che di bronzo; infatti la qualità delle bocche da fuoco
d’un vascello si giudicava innanzi tutto dalla materia di cui la maggioranza dei pezzi di bordo era
fatta, cioè se di bronzo o di ferro colato, perché quelli di ferro, anche se meno costosi e meno
frangibili, erano molto meno potenti, in quanto si riscaldavano con l'uso molto più in fretta, inoltre si
arrugginivano immancabilmente per l'azione della salsedine e delle intemperie marine e infine, se
collocati in prossimità della chiesuola della bussola, falsavano alquanto il funzionamento dell’ago
magnetico. Per armare i vascelli della già ricordata spedizione navale del 1529 condotta da
Hernán Cortés alle Isole Molucche perfino i falconetti si comprarono di ferro (veinte é tres tiros
falconetes de hierro, que han en los dichos navíos. In Colección de documentos inéditos etc. T. II
Cit. P. 405-407); ma si erano imbarcati però anche i seguenti tre grossi tiri, cioè bocche da fuoco,
di bronzo:

- un tiro grande de bronzo chiamato Santiago con quaranta quattro palle di ferro e uno stivatore e
un nettatore e due bulloni e un tassello, (costò) millesettecento pesos.
- Item un altro tiro de bronzo chiamato Juan Ponce con cinquanta palle di ferro e due bulloni e un
tassello e il suo stivatore e il suo nettatore tutto accomodato, costò (mille)quattrocento pesos.
- Item costó un altro tiro di bronzo chiamato San Francisco con cinquanta palle di ferro e due
bulloni e un tassello e stivatore e nettatore tutto molto ben accomodato, costò millecinquecento
pesoso (ib.)
800

Stivatore e nettatore sappiamo già cosa sono, mentre, per quanto riguarda i due perni e il tassello,
possiamo immaginare che forse servissero a tappare il focone quando la cassa non era in uso o
forse a fissare l’arma ad uno zoccolo di legno.
Si aggiungano in fornitura 3 barili di polvere per un totale di 5 quintali di libbra, una quantità certo
troppo limitata per tante bocche da fuoco e che quindi non doveva essere stata l’unica provvista di
polvere per quell’impresa.
Nel Seicento verranno introdotte dagli svedesi e dai francesi artiglierie navali di ghisa, materiale
più duro del bronzo e molto più resistente al surriscaldamento; per esempio vedremo nel 1657,
oltre alla già ricordata fregata francese Le Chasseur, La Reine, vascello anch’esso francese, ma
costruito in Svezia, il quale sarà equipaggiato con 237 uomini e armato con 30 cannoni di ghisa e 2
di ferro. Nelle galere dunque il pezzo più importante era quello detto di corsia o corsiero, in quanto
appunto situato a prua in corrispondenza dell'estremità anteriore della corsia, e si trattava
ordinariamente d’un cannone che lanciava palle di ferro da 35 a 50 libre ciascuna. Alcuni capitani
di galera preferivano usare come pezzo di corsia invece una colubrina da 30 libre di palla di ferro,
visto che questo pezzo tirava più lontano del cannone da 50 ed era di questo anche più leggero,
appesantendo così di meno la prua della galera e facendola pertanto navigare meglio; ma questi
avevano torto, perché, anche se un pezzo d'artiglieria era fatto per tirare molto lontano, in mare era
estremamente difficile colpire da grande distanza un bersaglio mobile qual era un vascello nemico
e per lo più da una piattaforma anch'essa mobile qual era il proprio vascello:

... che, di molti pezzi che si scaricano da lontano, uno a pena e per sorte colpisce. (Ib. P. 86.)

Inoltre un proiettile da 50 faceva certamente più conquasso nel vascello nemico di quanto ne
potesse provocare uno da 30, anche se più violento e perforante, ed era questo il concetto per cui
sino a tutto il Cinquecento - e a volte anche oltre - nella guerra nautica si erano usate come
proiettili anche grosse palle di pietra tirate da pezzi di concezione quattrocentesca, dalla canna
molto larga e corta e detti appunto cannoni petrieri; queste palle infatti erano sì dotate di scarsa
forza di penetrazione, per essere - anche se di maggior dimensioni di quelle di ferro - di minor
peso e di natura frangibile, ma proprio per queste loro caratteristiche erano adattissime a
sconquassare bersagli 'morbidi' come la parte emersa dei vascelli di legno (fr. coups en bois) e gli
assembramenti umani che su d’essi si trovavano. La forza perforante era infatti nella guerra
nautica molto efficace solamente sotto la linea di galleggiamento del vascello nemico (fr. coups à
l’eau), al fine di procurargli una falla che lo facesse colare a picco (dal fr. pic-à-pic) in breve tempo;
con un solo colpo fortunato del pezzo di corsia si poteva infatti mandare a fondo una galera
801

nemica. E se era vero che con la colubrina da 30 la prua risultava più leggera e la galera più
veloce, era anche vero che un capitano marittimo doveva vincere il nemico e non gare di velocità;
si poteva comunque rimediare al maggior peso del cannone da 50 facendogli la cassa quanto più
corta era possibile e anche facendo il tamburetto, ossia lo spazio davanti all'albero di prua,
cortissimo, in modo che, tirato il cannone più indietro, vicino al medesimo albero, il quartiero della
prua rimanesse meno aggravato, il che non si poteva ottenere colla colubrina (fr. coulevrine; ol.
slang) per essere questo pezzo sensibilmente più lungo. Infine il cannone da 50 era, a causa
appunto della maggior larghezza di canna rispetto alla colubrina, molto più capace di proiettili
doppi, come le palle incatenate (fr. boulets à chaîne; anges; ol. ketting-kogels), ossia due palle o
mezze palle unite da una catena lunga non più di tre o quattro piedi, come le palle (in)ramate più
conosciute come angioli (fr. boulets à branche ou à deux têtes, ol. bouts-kogels, staf-kogels,
draadt-kogels, knuppels ecc.), cioè palle o mezze palle unite da una barra di ferro lunga 5 o 6
pollici, proiettili – sia le une che le altre - molto usati in mare per spezzare al nemico alberi e
manovre; oppure scuffie, scartocci, sacchetti (ol. schroot-sakken), lanterne o tonnelletti, i quali
erano involucri pieni di pallottole di piombo, scaglie di selce o di ferro e pezzi di catene, proiettili
insomma con i quali si faceva ancora più danno agli equipaggi nemici e ai loro vascelli insieme.
Molto efficaci come proiettili erano le branche di catene, costituite da 4,5 o sei fila ciascuna, a
seconda della grossezza delle catene; si usavano generalmente quelle per incatenare i galeotti al
loro banco, delle quali abbiamo già detto, e le loro fila ripiegate si legavano insieme con una
piccola fune prima d’introdurle nel potente cannone di corsia; uscendo questo proiettile dalla canna
del pezzo, la funicella subito si spezzava, la catena quindi si apriva orizzontalmente e, arrivando
così sull'obiettivo, ne spezzava gli alberi, anche quelli dei maggiori navigli, facendoli cadere in
coperta con conseguente strage del nemico, oppure fracassava quant'altro incontrasse e uccideva
molte persone in un sol colpo. Poco usate erano invece a bordo le palle infuocate (fr. boulets
rouges; ol. gloeijende kogels), proiettili incendiari senza dubbio efficaci, ma che riuscivano
ovviamente troppo pericolosi - sia da preparare che da sparare - per lo stesso vascello che li
sparava.
L’uso sempre più frequente nella guerra nautica dei suddetti proiettili doppi o a due teste, più
pesanti quindi di quelli semplici, farà ’sì che un secolo dopo le artiglierie di bronzo dei grandi velieri
da guerra saranno presto fatte di metallo più spesso e pesante di quello fuso per le artiglierie di
terra e ciò perché il principio fondamentale dell’artiglieria era che proiettile più pesante voleva
maggior carica di polvere e maggior carica di polvere canna e culatta più robuste; insomma allora
troveremo le artiglierie navali fatte anch’esse - così come le loro casse - alla navaresca, ossia
apposta per la guerra nautica, e non solo perché saranno più doppie di metallo, ma anche perché
802

saranno più corte di canna; sparandosi infatti le bordate abbastanza da vicino, si rinunzierà
volentieri alla quindi non necessaria lunga portata dei pezzi, qualità per la quale la lunghezza della
canna era invece essenziale, e si preferirà invece il poterli caricare e servire più facilmente e
inoltre l’evitare l’occupazione di troppo spazio nel rinculo.
Nelle galere ponentine post-rinascimentali a ogni fianco del pezzo di corsia, cioè sotto le rembate,
si portava di solito un sagro e, all'esterno di questo, una moiana, pezzi questi ambedue
generalmente da otto o nove libre di palla di ferro - ma potevano arrivare sino a 12 - e di lunga
portata, utili quindi a traccheggiare e scaramucciare il nemico, cioè a molestarlo e danneggiarlo da
lontano per tenerlo discosto. Le moiane si ponevano all'esterno verso i bordi perché, essendo di
canna molto più corta dei sagri, erano più facili da caricare e il bombardiero per farlo non aveva
infatti bisogno di scendere sulla palmetta, dalla quale, a causa della sua strettezza, si servivano
bene solo i tre pezzi centrali. Appresso a ognuna di queste due moiane si poneva un cannone
petriero da 15 o più libre di palla di pietra, il quale però ora non si usava solo per tirare grosse palle
di pietra, uso dal quale aveva tratto il suo nome, ma, essendo di canna larga, si caricava bene,
come abbiamo già detto, anche e soprattutto con palle di fuochi artificiati incendiari o palle
inramate e poi con mitraglia fatta di scaglie di ferro di diverse lunghezze (fr. chevilles de fer; ol.
schiet-bouten), le quali erano molto adatte, oltre che a uccidere gli uomini, anche a tagliar le
manovre, di dadi di ferro e palle di piombo d'archibugio e di moschetto, di sassi vivi e scaglie di
selce, di ramali (‘fascetti’) di catene, di vecchi chiodi e teste di chiodi, di altra vecchia ferraglia
minuta o frammentata (ol. los scherp, kardoes-scherp, kardoes-schroot), la quale mitraglia si
sparava racchiusa nei suddetti tipi d'involucro; quest'ultimo pezzo però, essendo corto e di gran
bocca come tutti i petrieri, tirava poco lontano e si soleva pertanto spararlo all'incontro con il
vascello nemico, affinché facesse colpo sicuro, fracassandolo con la palla di pietra, ma più
soventemente facendo strage del suo equipaggio con la predetta mitraglia.
Questi suddetti nove pezzi erano dunque l'artiglieria del giogo di prua; ma più indietro, verso le
posticcie e sempre uno per banda, si poneva una petriera (ol. basse), pezzo che poteva essere di
ferro o di bronzo, o uno smeriglio, ambedue piccole bocche da fuoco da braga (in vn.
impropriamente da coda), ossia da un più complesso caricamento a retrocarica che non staremo
però adesso a spiegare, ma comunque dal maneggio più agevole proprio perché la retrocarica non
necessitava d’una ritirata del pezzo e quindi di molto spazio libero retrostante. Questi piccoli pezzi,
i quali avevano ambedue un calibro che andava dalle sei alle 12 once, ma il primo di palla di pietra
e il secondo di piombo, si caricavano spesso, oltre che con piccoli scartocci di mitraglia, anche con
piccole palle ramate, ossia due o tre palle infilate in una barretta di ferro, od incatenate che dir si
voglia, perché il loro colpo fosse più certo, e ciò si faceva nel seguente modo; quando si stava per
803

investire la galera nemica, si dava contemporaneamente fuoco ai due pezzi caricati ognuno con
palla ladina, ossia leggermente più piccola di quanto il pezzo stesso normalmente portasse, e
incatenata a quella dell'altro, vale a dire con le due palle unite da una lunga e sottile catena stesa
liberamente davanti alla prua della galera, in modo che questa andasse a tagliare i cordami e a
stracciare le vele che incontrasse. Il metodo più comune di sparare palle incatenate era però
quello di porre nel maggior cannone due mezze palle - o due palle più piccole - unite da una
catena e le quali, una volta sparate, si allargavano tendendo così la loro catena; questa, se
coglieva un albero o un’altra struttura, l'abbatteva con grande rovina; questo più semplice modo
d’usare le palle incatenate si era cominciato a usare molto negli episodi navali delle guerre di
Fiandra che afflissero la seconda metà del Cinquecento. Lo smeriglio aveva anche nome più
antico in moschetto da braga e nel Settecento avrà sulle galere francesi un pezzo corrispondente,
il quale si chiamerà escarpine, pezzo questo a croc (crochet), ossia a forcella fissa posta sul
parapetto del bordo, come del resto potevano essere anche i due predetti, e che, come lo
smeriglio, sarà molto usato per sparare piccole palle ramate.
Infine ad ambedue le spalle della poppa le galere portavano un altro smeriglio o un piccolo petriero
o al limite anche un falconetto (fr. fauconneau, éspoir; ol. valkenet), pezzo dalle tre alle quattro
libre di palla di ferro, ma non altro perché altrimenti la poppa ne sarebbe risultata troppo aggravata.
Il Sereno racconta che a Lepanto Giovanni d’Austria dalla sua Reale ordinò a tutta l’armata di
prepararsi al combattimento un picciol sagro da poppa sparando, quindi un pezzo di calibro anche
superiore a quello del predetto falconetto; ma, si sa, che la Reale era la galera dalle dimensioni
maggiori.
In questo modo andavano dunque armate le galere ponentine, anche se si poteva ritrovare
ovviamente qualche differenza tra squadra e squadra; per esempio le galere siciliane portavano
spesso due sagri per parte ai fianchi del cannone di corsia e poi - sempre a prua, ma più arretrati -
8 smerigli, inoltre un mortaretto (‘piccolo petriero da braga’) per fianco alla mezzania e due altri
mortaletti più piccoli alla poppa, sempre uno per lato; per le galere maltesi della metà del Seicento
il de la Gravière riporta il seguente armamento: un cannone di corsia da 48 fiancheggiato da
quattro pezzi da otto e ben 14 petriere; ma si tratta di un’ elencazione un po' vaga, anche se
realistica, visto che anche i veneziani usavano armare le loro galere con un’artiglieria più
numerosa:

... Ma i veneziani, che sono diligentissimi osservatori de gli avantaggi di questa professione [...]
sogliono armar le lor galee con molto maggior numero di pezzi. (Ib. P. 88.)
804

Infatti, oltre all'artiglieria sopradescritta, i lagunari usavano talvolta garidare le loro galere sino
all’albero, cioè alzare un prolungamento all’indietro delle rembate, detto le forcade, proprio per
porvi sopra alcuni falconetti a cavaliere, ossia in posizione più elevata dei pezzi del nemico; inoltre
solevano portare alcune petriere da mascolo, ossia le predette che prima abbiamo definito da
braga, al fogone e anche al lato opposto in corrispondenza della boccaporta del pagliolo e ancora
un piccolo petriero e uno smeriglio o falconetto a ogni lato della poppa. Questo modo d’armare le
galere, detto appunto alla veneziana, era molto più vantaggioso di quello usato dai ponentini;
infatti, pur appesantendo al quanto la galera, non la ingombrava tanto da impacciarne i servizi di
coperta e ci si poteva così difendere anche dai fianchi e dalla poppa, cosa che non era possibile
alle galere ponentine, le quali, come abbiamo visto, portavano quasi tutta la loro artiglieria
concentrata a prua; il Pantera quindi in teoria consigliava senz'altro l'armamento alla veneziana per
tutte le galere. Ecco l’ armamento ordinario d’una galea veneziana, come descritto con molta
chiarezza dal veneziano Giovan Battista Colombina, capitano dei bombardieri di Trevigi, in una
sua operetta del 1608:

…se gli mette per ordinario 13 pezzi di artigliaria; il primo e principale è un cannon da 50 overo
una colubrina da 30, un falcon da 6, tre falconetti da 3, doi petriere da 14 e sei petriere da 12…
Il cannon da 50 overo la colubrina da 30 va posta in corsia di là dall’albero. Il falcon da sei va posto
a prora sopra le forcate al mezo e dalle parti del detto falcon si mette un falconetto da tre di qua e
di là; poi sotto le sbarre a prora si mette una petriera da 14 per banda e anco due da 12 per banda;
a poppa si mette due petrier da 12, cioè una per banda. Al fogon si mette un falconetto da tre su’l
perittolo (‘cavalletto’), il quale si move e gira d’ogni parte, e questi sono in tutto 13 pezzi ordinarij a
mettersi su la galea… (Giovan Battista Colombina, Origine, eccellenza e necessità dell'arte
militare, etc. Trevigi, 1608,
Venezia, 1641.)

Ma volendo se ne potevano aggiungere eventualmente altri ai suoi due fianchi e infatti Giovan
Pietro Contarini, laddove descriveva i preparativi delle galee cristiane per la battaglia di Lepanto,
parla di un’aggiunta di archibugi da posta sopra le pavesade e canoladi da puppa carichi, non
sapendo noi se per questi secondi intendesse smerigli, petriere o altro, ma in ogni caso deve
trattarsi di pezzi tra i più piccoli, mentre l’anonimo ufficiale autore del summenzionato Governo di
galere consiglia di portare in battaglia reale, oltre a quattro mortaletti alle spalle, cioè uno per ogni
lato d’ogni scaletta, per offendere chi venisse ad aggredire da dietro, addirittura sulla poppa ben
quattro dei suddetti falconetti girevoli e ciò in quanto, non essendoci bisogno di velocità come nella
guerra di corso, non bisognava temere il conseguente appesantimento della galera; inoltre i pezzi
di poppa girevoli, proprio perché si potevano puntare anche all’interno del vascello, potevano esser
utili anche in caso d’ammutinamento della ciurma, come diverse volte era successo e specie a
bordo di galere turche dove ciurme di schiavi cristiani avevano tentato di liberarsi.
805

In seguito l’artiglieria di galea veneziana fu ulteriormente incrementata e infatti già la


summenzionata relazione sui lavori in corso nell’arsenale di Venezia del 1602 tra l’altro così
precisava [Relazione del Provveditore sopra le cento galee letta nell'eccellentissimo Senato a' dì
23 marzo 1602. Venezia, 1868. B.N.N. Misc.103 (8.]

… Quanto all’artellaria, tutte cento galee sono all’ordine secondo l’uso vecchio, ma dovendosi
armar alla moderna, mancheranno:
Centocinquanta periere da sei con suoi mascoli.
Trecento e dieci periere da tre con suoi mascoli.

Il suddetto armamento d’inizio diciassettesimo secolo appare sostanzialmente confermato, ancora


nel 1640, dallo Zonta nel suo trattato sull’artiglieria; a prua non ci sono però più le forcade e quindi
tutti i pezzi di prua sono sotto le rembate, come nelle galere ponentine. Si tratta di un cannone da
50 non più sostituibile con una con una colubrina da 30, in quanto si era a questo punto
riconosciuto che nella guerra nautica non era né tanto facile né in fondo tanto importante
incominciare a colpire da più lontano; a ogni suo fianco - nell’ordine dall’interno all’esterno – un
falcone da 6, una petriera da 14, due da 12. Più indietro nel quartiere, cioè all’inizio della zona dei
remigi, un’altra petriera da 12. Un perit(t)olo da 3 (‘falconetto da incavallettare’) in corrispondenza
del fogone, quindi al solo fianco sinistro, 6 trombe di fuoco, da usare dove necessario, 50 pignatte
esplodenti, due sacchetti per il suddetto falconetto da 3, due per il cannone di corsia contenenti
ognuno una palla di ferro per falconetto da 1, una catena da sparare col detto cannone, una
manovella grande con braga per caricare a bordo le artiglierie, due mezze lunette (‘squadre’) per
metter a segno ‘(puntare, mirare’) i falconi da 6, 3 braghe di ferro bucate provviste di pirone
(‘forcina’) da incastrare attorno alla coda dei 2 predetti falconi da 6 e quello da 3 per incavallettarli
e poterli così girare a 360 gradi.
Le galeazze e le galee grosse, vascelli che, come sappiamo, erano molto più grossi e robusti delle
galere, portavano ovviamente molta più artiglieria, cioè circa 70 pezzi, il maggiore dei quali era
anche qui il cannone da corsia, un pezzo dalle 50 alle 80 libre di palla di ferro; la corsia d’una
galeazza non era infatti più larga di quella d’una galera e quindi anch'essa non poteva contenere
più d'un solo pezzo. Ai lati del predetto cannone, cioè a ogni fianco dell'estremità di prua della
corsia, c'erano due altri cannoni poco meno grossi del precedente e sempre a prua - sopra e sotto
la piazza del castello - circa altri 10 pezzi tra mezzi cannoni, mezze colubrine, moiane o sagri; altri
otto di questi pezzi si portavano a poppa, cioè alle spalle e sulla piazza; infine tra ogni banco e
l'altro, dalla poppa alla prora, c'era un petriero dalle 30 alle 50 libre di palla di pietra, pezzo questo
che, essendo corto, si poteva facilmente maneggiare in quei luoghi angusti. Tale armamento delle
galeazze è confermato dal Crescenzio, anche se laconicamente:
806

... Sogliono mettere nelle prode delle galeazze pezzi quattordici d'artiglieria diversa ed otto in
poppa e uno per bancata... (B. Crerscenzio. Cit. P. 513.)

Galeoni e navi si armavano diversamente a seconda della loro grandezza, della occasione a cui
erano destinati e dell'opinione dei loro capitani, dei quali alcuni tenevano artiglierie sia sopra che
sotto la tolda, altri invece, come per esempio quelli ragusei, preferivano armare solamente la tolda
e i castelli. Generalmente, se il galeone o la nave era destinata a portar mercanzie, soldati e
particolarmente cavalli, allora l'artiglieria si poneva tutta sopra i cassari, cioè i due castelli di poppa
e prua, e sopra la tolda; se invece il vascello era destinato unicamente alla guerra, allora si poneva
un ordine di pezzi anche sotto la tolda, anche se in effetti, stando al chiuso e in mancanza d'aria,
questi pezzi di corridoio [fr. co(u)radoux], ossia di frapponte, tormentavano molto di più degli altri la
struttura del vascello. Questo secondo modo era però ovviamente molto più efficace in
combattimento, specie contro vascelli bassi sull'acqua come le galere, poiché i tiri sparati dall'alto,
detti tiri di ficco, facevano poco danno, in quanto si fermavano nel punto che coglievano o ne
rimbalzavano via, uccidendo così al massimo un solo uomo, mentre il tiro a livello, detto perlopiù
tiro per il nivello dell’anima oppure di punto in bianco, come già accennato, perforava il vascello e
poteva quindi anche affondarlo, inoltre poteva uccidere più uomini posti sulla stessa traiettoria,
come era rimasto memorabile che aveva fatto il 28 aprile 1528 il cannone di corsia della galera del
capitano generale Filippino d'Oria alla battaglia di Capo d'Orso nel golfo di Salerno, località sita tra
gli abitati litorali d’Erchie e Maiori, quando con un suo colpo a zero gradi d'elevazione, presa
d'infilata la coperta della galera Capitana nemica comandata dal vicerè di Napoli fra’ Hugo de
Moncada (1527-1528), n’uccise più di 40 uomini tra ufficiali – tra cui lo stesso predetto vicerè, il
marchese del Vasto, Pedro de Cardona e Luis de Guzmán, soldati, marinai e remieri, botta
fortunata alla quale Filippino dovette senza dubbio principalmente la sua vittoria. La concomitanza
di due circostanze, cioè la grande efficacia di questo colpo del pezzo di corsia di Filippino e il nome
di basilisco con cui egli amava chiamare tale bocca da fuoco, fecero pensare all’erudito Carlo
d’Aquino che si trattasse effettivamente d’un pezzo di tal genere; ma era cosa impossibile perché
una leggera galera – ma in effetti nemmeno una nave – avrebbe potuto sopportare un simile
enorme peso tutto concentrato a prua. Ciò nondimeno, in considerazione del predetto nomignolo
attribuitole da Filippino, doveva sicuramente trattarsi d’una bocca da fuoco maggiore di quelle
solitamente utilizzate come pezzi di corsia; forse era un cannone bastardo o colubrinato, oppure
una colubrina di calibro sensibilmente superiore alle comuni 30 libre di palla; in ogni caso non un
doppio cannone, troppo pesante per un vascello del tempo, né tanto meno un basilisco, il quale
807

sarebbe stato non solo eccessivamente pesante, bensì anche troppo lungo e quindi privo di spazio
per rinculare.
La maggior utilità delle postazioni basse per l'artiglieria di bordo diventerà in seguito sempre più
ricercata, tanto che nel Settecento i pezzi più grossi dei grandi velieri, cioè quelli costituenti le due
grandi batterie di bordo, saranno posti di regola sul primo ponte (fr. franc-tillac), ossia su quello più
basso posto sul fondo di cala e quasi a fior d'acqua, in modo da poter così agguagliare la grande
efficacia dell'artiglieria delle galere, la quale, data la particolare bassezza di questi vascelli, si
trovavano situate, come sappiamo, quasi a pelo d'acqua; a volte però, specie nelle fregate, la
prima linea di fuoco sarà tanto bassa che bisognerà caricare i cannoni a sabordi chiusi, in modo da
lasciar all’onde meno occasioni d’entrarvi, e infatti nell’oceano si definiva un vascello ottimo da
combattere (ol. een wakker schip) quando aveva la predetta batteria principale alquanto alta
sull’acqua e i ponti in generale anch’essi non meno alti di cinque piedi l’uno, in modo da
permettere a cannonieri e serventi un più comodo maneggio dei loro pezzi.
L'artiglieria d’un galeone o d'una grossa nave armata nel periodo post-rinascimentale era dunque
generalmente la seguente: da 14 a 20 pezzi sulla tolda, cioè i più grossi, affinché posti lassù
tormentassero meno il vascello, e si trattava alla poppa due o quattro mezze colubrine da 12/18
libre o colubrine da 30 o cannoni da 50, posti alle bande del timone; due altri pezzi simili si
collocavano a ogni lato della mezzania della nave, dove, essendo quella la zona più larga del
vascello, tali pezzi grossi vi stavano ben proporzionati; poi, sempre per ogni lato, dalla mezzania
alla poppa almeno due cannoni petrieri e altri due dalla mezzania alla prua, pezzi questi di palla
grossa, ma, come sappiamo, corti di canna e pertanto adatti a questi siti dove il vascello era più
stretto; a ogni lato della prua infine uno o due pezzi dei tipi già detti per la poppa, oppure nessuno
se il vascello non era tanto grande. Sotto la tolda, ossia sulla seconda coperta, si dovevano
collocare almeno altri 12 pezzi, cioè per cominciare 2 per parte alla mezzania, trattandosi delle
predette mezze colubrine o di mezzi cannoni, questi di circa 30 libre di palla, sebbene alcuni
preferissero pezzi più piccoli quali sagri o moiane e ciò per evitare l'eccessivo intronamento e
tormento che, come abbiamo già detto, i pezzi grossi posti sotto coperta in genere provocavano al
vascello, ma, per evitare il più possibile questo dannoso effetto, era comunque necessario che i
pezzi dell’infrapponte fossero posti perfettamente in piano a diritta linea, come allora si diceva; poi,
dalla mezzania alla poppa, 2 petriere da braga e altre 2 dalla mezzania alla prua, sempre per ogni
lato.
La predetta artiglieria dei grandi velieri poteva però, se lo si riteneva necessario, essere
accresciuta; per esempio si potevano accomodare su ogni castello da sei a otto petriere da braga
oppure smerigli da una libra, mettendo quelli di poppa affrontati con quelli di prua, in modo che tutti
808

potessero un po' dall'alto spazzare con la mitraglia la propria tolda scacciandone così il nemico
che se ne fosse impadronito, cosa che molte volte era accaduta, allo stesso modo in cui dai fianchi
alti dei baluardi d'una fortezza di terra si poteva spazzare la propria cortina caduta nelle mani del
nemico. Vi erano stati poi galeoni e navi d'eccezionale grandezza che avevano portato una
sterminata artiglieria, quale per esempio il già più sopra menzionato galeone che misero in mare i
veneziani nel 1559, vascello dai circa trecento pezzi d’artiglieria - tra grandi e piccoli - e destinato a
esser guarnito da ben 500 soldati, ma sfortunatissimo, perché, come racconta nel suo Delle
Historie de’ suoi tempi, Venezia 1589, anche lo storico Natale Conti, appena varato fu rimorchiato
nel porto di Malamocco in località Due Castelli, dove fu lasciato pressoché incustodito; investito
colà da un’improvvisa tempesta, imbarcò molt’acqua dai sabordi non serrati a dovere e il peso di
quella provocò lo spostamento da un solo lato delle artiglierie, le quali evidentemente nemmeno
erano state debitamente legate, delle palle di quelle e dei barili di polvere, già pure portati a bordo
in grandissimo numero, e così inevitabilmente anche il repentino abboccamento, vale a dire
rovesciamento, e l'affondamento; vani i tentativi che furono in seguito fatti, anche dal famoso
ingegnere Bartolomeo del Campo, per far riemergere il vascello, sempre più preso dalla tenace
fanghiglia del fondale, e si riuscì più tardi solo a recuperare qualche gran cannone già incrostato di
conchigliame. Sfortunati i galeoni veneziani! Infatti nel 1621 un altro, detto questo galeone del
Balbi e famoso anch’esso per grandezza e armamento, verrà dolosamente incendiato. Per quanto
riguarda la vastità dell’armamento, soprattutto era stato esemplare il galeone portoghese San
Sebastiano, armato di ben 366 pezzi d'artiglieria:

... il galeone Santo Bastiano, armato di tanti pezzi d'artiglieria quanto ha giorni l'anno bissesto, e fu
quello che, mandato da Portogallo all'impresa del Pignone, ruppe la catena che vietava il passo a
gli altri vascelli mandati da Spagna; e perché un soldato castegliano, stupefatto di vederlo sparar
tanta artiglieria che pareva che tutto ardesse, dimandando a un soldato portoghese come si
chiamava quel suo galeone e quello rispondendo: Chiamasi Cagafuoco, gli restò quel nome sin
hoggidì che si riduce a memoria. (B. Crescenzio. Cit. P. 512.)

Le navi armate a guerra si armavano certamente d'artiglieria minuta, vale a dire di pezzi atti a
uccidere gli uomini più che a rompere le opere del nemico, ma anche si guarnivano con bocche da
fuoco di medio calibro, utili cioè a offendere il naviglio nemico molto lontano fine anche ad
affondarlo, e si trattava dunque di moiane, sagri, quarti-cannoni - questi dal calibro che andava
dalle 12 alle 16 libre di palla di ferro - e mezze colombrinette, pezzi che variavano invece dalle 12
alle 18. Nella parte mediana della nave, sia in prima coperta che sotto d’essa, si disponeva
l'artiglieria grossa, inclusi i cannoni petrieri.
Bisognava assicurarsi che ai pezzi grossi fosse assicurato abbastanza spazio per le loro ritirate,
ossia rinculate, a evitare che con questo movimento di retrocessione andassero a sfasciare il
809

vascello, e nei vascelli tondi, poiché in essi si disponeva di spazio a ciò sufficiente, a ogni grosso
pezzo si potevano applicare le ritenute o braghe [fr. bragues, bracques, dragues, (a)trapes,
drosses, trosses, trisses, palans; ol. broek(ing)en], vale a dire dei ritegni di grosse gomene spesso
impiombate, le quali, attraversandone la cassa, affievolivano la rinculata dello sparo e ciò in
aggiunta alle gomene che si tenevano pronte per assicurare il pezzo in caso di mareggiata o
fortunale, a evitare gravi incidenti come quello suddetto del galeone S. Sebastiano. Le casse da
marina, ossia alla navaresca, come allora si diceva, erano piccole e molto compatte, simili a quelle
dei mortari, dotate di quattro ruote piccolissime, prive di raggi, fatte d’un unico pezzo di tavolone
per lo più d’olmo, ben cerchiato di ferro e guarnito d'altre ferramenta dette lame o splanghe, ruote
cioè che dovevano servire solo alla ritirata del pezzo e non alla marcia; d’altra parte queste casse
erano, come abbiamo detto, quasi sempre imbragate e le loro predette ritenute, le quali servivano
anche per riportare il pezzo in avanti o per legarlo in maniera che non si muovesse, erano, per
quanto riguarda i pezzi di batteria, legate per i due capi a due anelli di ferro posti ai lati del sabordo
e questi legami, oltre a impedire che il pezzo potesse rinculare oltre la metà del ponte, essendo
infatti tale movimento, se non impedito, generalmente di 10/12 piedi, anche servivano ad
avvicinarlo o ad allontanarlo dal suo sabordo. Si facevano queste casse fatte generalmente di
legno d’olmo e di quercia e solo per pezzi dalle 10 libre in su di calibro, inclusi quelli in ferro da
marina, il cui calibro variava dalle 10 alle 20 libre di palla di ferro, e si usavano pertanto sui vascelli
grandi; in caso di mare molto grosso, quando cioè si temeva che i pezzi potessero spezzare le loro
ritenute, si usava anche a bordo dei grandi vascelli di fissare degli spessi pezzi di legno dietro le
casse, legni che i francesi chiamavano cabrions.
Nell'anguste galere non c’era spazio per far rinculare le bocche da fuoco e quindi si fissavano in
maniera che non potessero fare alcuna ritirata; i pezzi piccoli, i quali erano la quasi totalità in una
galera, s’incavalcavano su cavalletti fissi, ma girevoli, quelli medio-piccoli, come i sagri, si
legavano strettamente con ritenute di gomene, il che li rendeva però ovviamente più soggetti a
crepare e quindi più pericolosi per la gente di galera; invece al grosso pezzo di corsia, cioè a quel
pezzo - per lo più un cannone da 50 - che, come abbiamo detto, nelle galere sparava dritto davanti
alla prua, la ritirata certo non si poteva impedire e quindi, oltre a fargli la cassa priva di ruote per far
'sì che rinculasse il meno possibile e ciò perché nella corsia dietro questo pezzo c'era l'albero di
trinchetto e questo poteva risultarne danneggiato, gliela si faceva anche in maniera che non
presentasse all'esterno alcun minimo impaccio quali teste di chiodi, anelli o branche di ferro, bensì
fosse tutta liscia e uguale tanto di fianco quanto di sotto e ciò a causa della strettezza della corsia
che imponeva di risparmiare anche i millimetri d'ingombro; ma, poiché la rinculata di questo grosso
pezzo, data la sua potenza, avveniva egualmente e la coda della sua cassa, sebbene priva di
810

ruote, andava egualmente e velocemente a dare dei colpi terribili al piede del trinchetto, questo si
riparava comunque - o eventualmente si riparava il riparo di legno che poteva esservi stato fatto
davanti - con parabordi fatti di corone o natte di corda intrecciata o di pezzi di cavo oppure di
fastelli o fascine o anche di cime d’alberatura [fr. colliers, cordes de défence, déf(f)enses, boute-
(de)hors, fagots; ol. kraagen, kransen], oppure con uno o due stramazzetti fatti anch’essi di pezzi
di gomene ben legati insieme o anche - e ciò era più probabile nell’angusta galera, dove i predetti
parabordi potevano certamente mancare - con ammassi di vecchi strapuntini, stuoie, tende,
schiavine logore da galeotto o da marinaio oppure d'altri oggetti di tessuto malandato di tal sorta. I
suddetti colpi che prendeva il piede del trinchetto erano pericolosi per le fragili galere e, per fare un
esempio, alla grande battaglia tra hispano-francesi e anglolandesi che si combatté nelle acque di
Malaga due secoli dopo, cioè il 24 agosto 1704, i primi persero tre galere, tra cui la Capitana del
duca di Tursi di casa d’Oria che si era aperta per mezzo per l’impeto delle tante cannonate che
avea tirate. (Avvisi di Napoli, anno 1704). Eppure a quel tempo le galere, specie le Capitane, erano
ormai tutte grosse e quartierate!
Le chiavi di legno di queste casse dovevano essere particolarmente robuste, a evitare che la
ritirata del pezzo le spezzasse, visto che questo movimento non poteva essere facilitato dalla
presenza di ruote; inoltre la coda, soggetta pertanto spesso a urti per i motivi appena spiegati, era
rinforzata e protetta con piastre di ferro. Non avendo ruote, questo cannone di corsia era riportato
in batteria dopo il rinculo con un paranco a pastecche; per aumentarne o diminuirne l'elevazione, si
mettevano invece sotto la sua culatta - cosa che del resto si faceva anche con gli altri pezzi
provvisti di cassa - dei cugni sostentati dai gradini dello scalone posteriore della cassa stessa.
Addirittura si tenevano fermi nei loro luoghi i sagri che fiancheggiavano il predetto cannone
corsiero, impedendone del tutto la rinculata per mancanza di sufficiente spazio retrostante, e
questo era il motivo per cui, mentre il grosso cannone poteva teoricamente arrivare a essere
sparato anche cinque volte nel corso d’una battaglia – diciamo ‘teoricamente’, in quanto poi in
effetti in uno scontro così ravvicinato col nemico molto difficilmente si riusciva a trovare modo e
tempo di ricaricare il pezzo anche una sola seconda volta, i sagri invece in ogni caso si potevano
sparare non solo in pratica, ma anche in teoria una sola volta e ciò perché, non potendo essere
arretrati, per caricarli i bombardieri erano costretti a scendere sulla palmetta della galera e quindi,
una volta avvenuto l’investimento col nemico, trovandosi così scoperti e tanto vicini agl’imberciatori
nemici, sarebbero stati immediatamente uccisi. Questo era anche il motivo per cui, mentre dopo
ogni sparo il bombardiero oculato avrebbe dovuto per prudenza, prima di ricaricare, trovare tempo
e modo di rinfrescare il pezzo surriscaldato dallo sparo bagnandolo con acqua e aceto (e ciò tanto
811

all’esterno della canna quanto all’interno dell’anima), non c’era ovviamente bisogno che il capitano
raccomandasse d’usare tale avvedutezza anche con i sagri.
Alla fine del Seicento i pezzi di prua, essendo ormai di maggior potenza, si troveranno
generalmente ridotti a quattro, cioè due bastardi (‘grossi’) e due più piccoli, e dalla metà del
Settecento spesso anche a tre.
La mancanza di spazio a bordo, specie delle anguste galere, era un grosso problema per gli
artiglieri e pertanto, oltre all'uso delle suddette moiane, pezzi di bronzo a normale avancarica, ma
di canna più corta del normale, inventati proprio per poterli maneggiare a bordo più facilmente dei
lunghi e ingombranti sagri, al tempo in esame sui vascelli soprattutto remieri pure si usavano le già
più volte nominate petriere da braga, ossia delle bombardette di ferro a retrocarica dette pure
mortaletti o mortarelli, pezzi questi che si caricavano con mascoli o servitori (fr. boites de pierrer,
ol. kameren), ossia con culatte mobili che si riempivano di polvere calcata, poi tappate con
cocconi, ossia con tappi di legno tagliati a misura della bocca del mascolo, e quindi s’inserivano
nella braga del pezzo, ossia nell’apertura posteriore della loro culatta, apertura che era quadrata
invece che tonda, inzeppandoli con cunei di ferro, i quali andavano però inseriti molto
accuratamente, a evitare che, spinti dall'esplosione della polvere, saltassero violentemente
all'indietro andando a uccidere o storpiare i bombardieri, i marinai e soprattutto i disgraziati forzati, i
quali, essendo incatenati ai loro banchi, non si potevano scansare; ma del complicato caricamento
di questi pezzi meglio diremo nel nostro futuro libro sull'artiglieria di terra e ora solo aggiungiamo
che essi s’incominciavano a criticare proprio per la loro predetta pericolosità. Il già citato Tommaso
Contarini (1588) riportava a tal proposito il pensiero del granduca Ferdinando de' Medici,
succeduto da poco al fratello Francesco I:

... Parlando in questo proposito, mi disse il Granduca che aveva di quei pezzi che si caricano di
dietro e che si stimano opportuni per le galee (per il non poter rinculare), ma che non li usava
perché, potendosi facilmente sparar (‘sfogar’) da quella parte dalla quale si caricano, apportano
pericolo di far gran ruina nelle persone della galea; il che dico perché si è introdotto di usarli sopra
le nostre galee. (E. Albéri. Cit. Appendice. P. 270.)

In effetti veneziani, olandesi e francesi continuarono a servirsi di pezzi da braga a bordo dei loro
vascelli anche nel Seicento, ma, nel caso dei primi e dei secondi, non più delle predette
bombardette di ferro, ma solo degli smerigli di bronzo, però opportunamente irrobustiti e resi più
sicuri.
Per fare i predetti cocconi di legno il bombardiero marittimo doveva farsi provvedere di legnami di
salice o d'altro legno dolce e ne avrebbe così anche fatti di sughero a misura per turare con essi e
con sego [fr. ta(m)pons; ol. (houte-)(smeer-)(bus-)proppen] le bocche di tutti i pezzi grandi e
812

piccoli, a evitare che v'entrasse acqua o umidità; allo stesso scopo di difendere le bocche dei pezzi
dall'umidità marina, ma stavolta coprendole e non tappandole, e anche per costruire delle lanate
d'artiglieria, doveva poi provvedersi di pelli di castrone dalla lunga lana, ma in mancanza di dette
pelli le lanate si potevano anche fare di corda; preservava inoltre i pezzi dall'acqua e dall'umidità
anche tappandone i fogoni con sego misto a carbone. Doveva inoltre farsi dotare di sacchi di cuoio
crudo della capacità di mezzo barile per portarvi per il vascello la polvere pirica da usare, perché
posta in quelli molto meno questa risultava esposta al pericolo del fuoco di quanto lo fosse invece
nei barili di legno, i quali si tenevano pertanto solo nella stiva. Sempre poi per motivi di maggior
sicurezza, i pezzi di bordo ad avancarica, di qualsiasi tipo essi fossero, si potevano caricare non
con semplici cucchiarate di polvere sfusa, ma con pre-confezionati involucri tubolari detti scartozzi,
fatti su forme di legno con carta grigia grossa (ol. kardoes-pampier) oppure talvolta con carta-
pecora o tela e in qualche caso anche con legno o latta, riempiti della giusta quantità di polvere per
ogni singolo pezzo e inoltre di mitraglia fatta di piccole palle di piombo, di chiodi, di catene o di
ferraglia, chiusi con cuciture di filo di canapa (ma i danesi usavano invece quello di lana); insomma
si trattava di antesignani delle cartucce (fr. cartouches, gargouches, gargousses; ol. kardoesen).
Doveva poi il bombardiero farsi una provvista di sfilacci ricavati da vecchie gomene di canapa o di
fieno per farne bocconi, ossia stoppacci da carica [fr. è(s)toupins, valets, pelot(t)ons; ol. proppen],
e inoltre doveva tenere buona scorta degl'infiniti materiali per la composizione di fuochi artificiati da
guerra, quali trombe, ghirlande, pignatte, palle armate e inramate, antesignane queste delle più
moderne granate, e ancora di torce e stoppini artificiati, corda-miccia d'archibugio, aghi da sacco e
filo da cucire i suddetti scartozzi, spago, cordetta di canapa per legare i portelli aperti delle
cannoniere, corderia grossa per ritenere dal rinculo l'artiglieria ed eventualmente condurla a terra
in campagna, un accialino, una scatola impermeabile con dell'esca, pietra focale e solfaroli, ossia
solfanelli, scuri, accette, martelli e martelletti, manarette, raspe, lime d'acciaio, chiodi grossi e
piccoli, mantici piccoli da ferraro, tenaglie da punte normali, tenaglie di morso, cioè tenaglie
cavachiodi, seghe, trivelle; un trapano con le sue brocche (‘punte’) di acciaro fino, sgubie, vale a
dire sgorbie, ossia scalpelli a una o a due sgorbie, un’incudinetta; piastre di rame per fare le cazze
d'artiglieria e stacchette di ferro, lattone (‘banda stagnata’), e rame per inchiodarle; colla, tela,
fustagno vecchio e carta reale (‘carta grossa’) per fare gli scartozzi o sacchetti, cioè i già
menzionati cartuccioni di polvere per l'artiglieria, fatti a proporzione del calibro dei vari pezzi a cui
dovevano servire, e per fare i fuochi artificiati da guerra; catene e ferramenta varie, stoppa di lino,
bombace filato per fare gli stoppini artificiati, sego, corda per farne miccia, cera, candele di sego e
di cera, candelieri di legno, salnitro raffinato, pelli, aste, travi, assi di legno e altro legname per fare
cunei e attrezzi tipici del maneggio dell'artiglieria, anch’essi tutti proporzionati ai singoli pezzi, quali
813

stivadori o calcatori [fr. (re)fouloirs; ol. stampers; aansetters) per pressare la polvere nella canna
del pezzo; lanate o scovoli (fr. écouvillons, essuïeux; ol. wisschers, brandt-swabbers) per
rinfrescare e ripulire con acqua e aceto l'anima del pezzo surriscaldata dal continuo sparare;
buglioli per l’acqua in cui inzuppare i predetti; buttafuoco (fr. bute-feu), cavafieno o buoli o
saccatrapi (dallo sp. sacatrapos; fr. tire-foin, tire-bourre; ol. kratser, krasser, varken-staart) per tirar
fuori dalla canna i bocconi o foraggi di strame (fr. bouchons); lanzette di ferro per estrarre le palle;
cazze o cucchiare di foglio di rame [fr. cuillers, cu(e)illiéres, chargeoirs, coupelles, lanternes à
charter ou à poudre; ol. laadt-leepels, kruidt-leepels, laaders] per caricare la polvere o i cartocci (fr.
gargousses) e per estrarre questi ultimi, se inutilizzati, dalle bocche dei pezzi, attrezzi questi ultimi
facili a rompersi; assili e ruote d'affusto di riserva, stasatori (fr. degorgeoirs, touches) per liberare
fogoni intasati o per forare cartocci di polvere; forme per fare i raggi (oggi 'razzi’) per le
segnalazioni e i festeggiamenti, i quali erano detti anche rocchette (da cui l'in. rocket) perché, per
irrobustirli, si usava legarli strettamente tutt’attorno con corda sottile [fr. surlier, roster; ol.
(be)woelen, bewinden], venendo così a somigliare appunto a rocchetti di filato; altra carta reale per
fare fuochi d'artificio festivi come soffioni, girandole, palle e tronadori (‘tric-trac’); forbici da sarto,
una statera o pesa, per le pesate grosse e una per quelle minute, un bilancione di rame con i suoi
pesi per pesare la polvere, un cazzolo di ferro da colar piombo, viti d'acciaio per riparare i fogoni
guasti, brocche o punte d'acciaio molto ben temperate per inchiodare i pezzi d'artiglieria ai nemici;
un bronzino, ossia un mortaio di bronzo, con il suo pestello di ferro per pestarvi le colle e le materie
per fare i fuochi artificiali; treppiedi e caldaie, una livella, lapis rosso da segnare, una squadra
d'artiglieria (fr. équerre, équaire; ol. winkel-haak), una staggia, ossia regola lunga per livellare;
marchi o merchi o calibri [fr. vigotes; ol. (konstaapels-)mallen], cioè cerchielli o misure intagliate su
tavole di legno o su lastre di ferro in conformità alle bocche di tutti i pezzi d'artiglieria in dotazione
al vascello per selezionare le palle di munizione; forme di palle da moschetto e da altri pezzi sino
alle 12 libre (se si potrà); pallottiere per fare pallottole per armi portatili, corni per la polvere,
qualche buttafuori, uno squadro a piombino, uno o due compassi di ferro, granitoi e crivelli per
raffinare gomme e polveri, lanternoni (ts. lampioni) inastati e lanterne piccole:

... Per le cose minute suddette lui se ne deve fare un cassone ben grande e, per quelle cose più
grosse da tenerle e conservarle, lui deve addimandare al capitano della nave o della galera una
delle camere di proda, che colui non gliela può negare in maniera alcuna; e quivi potrà
accommodare il cassone sodetto con tutte l'altre cose e ancora dormire lui ed (i) suoi compagni.
(Luis Collado, Prattica manuale dell’artiglieria etc. p. 378. Milano, 1606.)

Per quanto riguarda la composizione dei fuochi artificiati da guerra, la materia è piuttosto specifica
è conviene rimandarla al già promesso nostro libro che tratterà dell'artiglieria del tempo nel suo
814

complesso, perché tutti gli autori del Cinquecento e della prima metà del Seicento che trattano
artiglieria si dilungano a descrivere tali misture, a volte molto complesse, della loro elaborata
preparazione e dei complicati involti, confezioni e recipienti destinati a contenerle e a portarle sul
nemico; diremo pertanto ora solo che il buon bombardiero doveva saper preparare misture
incendiarie, esplodenti, illuminanti o solo anche celebranti, misture di vario genere che in effetti
erano in uso sin dall'antichità, ma le cui formule, tramandate dagli alchimisti erano state poi nel
Basso Medio Evo molto potenziate con l'aggiunta prima di polvere grossa d'artiglieria e poi di
polvere più fina e potente, cioè di quella che si usava per gli schioppetti e poi per gli archibugi.
Questi fuochi furono parecchio usati nelle guerre marittime del Cinquecento, cioè laddove si
trattava d’appiccare il fuoco ai vascelli nemici e di far strage del nemico per aiutare così l'opera
dell'artiglieria, ma nel secolo successivo, con il diffondersi delle granate a mano e delle bombe
esplosive e con il continuo potenziamento della stessa artiglieria, saranno in gran parte dismessi,
perché pericolosi per le stesse persone che dovevano maneggiarli e usarli e a volte si finiva per
appiccare con essi il fuoco allo stesso proprio vascello.
Qui ci limiteremo a spiegare la preparazione delle pignatte e delle trombe di fuoco o soffioni, le
quali, dette infatti al tempo in esame anche trombe di galera perché ormai solo su quelle usate,
erano, come tutti i fuochi artificiati incendiari, un’arma considerata ora nel Cinquecento non più
utile se non appunto nella sola guerra nautica, mentre a terra si usavano ormai solo i fuochi
esplosivi. Erano queste trombe dei tubi lancia-fiamme, perché costituite infatti da un tubo di legno
tornito forte e duro, attaccato all'estremità d’una non lunga asta che faceva da manico e a volte
rivestito all'interno di foglio di rame o di latta; questo tubo si riempiva d’una mistura che, una volta
accesa, soffiava fuoco dalla bocca. Naturalmente la portata del getto di fuoco era molto limitata e
si doveva accenderle solo quando si stava a stretto contatto col nemico; erano quindi buone a
difendere o attaccare un luogo stretto, come un ponte, una porta o una strada, e si poteva con
queste anche dar fuoco ad alloggiamenti e attrezzature del nemico, ma soprattutto erano, come
abbiamo detto, utili nei combattimenti marittimi, dove i bersagli erano quasi totalmente di legno e
quindi facilmente incendiabili. Il Bosio così descriveva le trombe di fuoco del suo tempo e
precisamente di quello dell’assedio di Malta (maggio-settembre 1565):

Le trombe di fuoco erano certi legni fatti al torno, ritondi e concavi, di grossezza di poco più di due
palmi in giro e tre di lunghezza, i quali erano ben conficcati sopra la cima d’alcune aste, come
maniche di alabarde, ed erano piene d’una mistura simile a quelle delle pignatte, impastata con
olio di lino, in maniera tale che, dandole fuoco, per un gran pezzo sbruffavano e spargevano
furiose fiamme, larghe e lunghe alcuni passi, non altrimenti che fucine grandissime da potentissimi
manici stimolate. (Iacomo Bosio, Dell'istoria della sacra religione et illt.ma militia di San Giovanni
gierosolimitano etc. Parte III, p 562. 1602.)
815

Il suddetto e più tardo Collado, forse il miglior trattatista d'artiglieria del periodo che principalmente
stiamo esaminando, per la fabbricazione di questa tromba prescriveva d’usare un pezzo di
legname duro, forte e lungo 3 palmi e mezzo oppure meno d'un paio di braccia, a seconda
dell'unità di misura che si voleva usare; lo si doveva lavorare al tornio in maniera che restasse
grosso due once, lo si bucava da un lato per 3 palmi di lunghezza e per un’oncia di larghezza; si
bucava poi anche dall'altro lato, ma per una tal lunghezza che lasciasse tra i due buchi almeno 3
dita di legno, e questo secondo foro doveva esser largo solo quanto bastava a contenere un pezzo
d'asta di picca che facesse da manico; lo si circondava con tre sottili cerchi di ferro, uno alla bocca,
uno nel mezzo e uno alla culatta, e, per tutto il resto della sua superficie, di stretta e fitta sforzina di
canape molto ben imbitumata di quel miscuglio di cera e pece che gli antichi greci chiamavano
malta (μάλθη); lo s’inastava con un pezzo d'asta di picca lungo due braccia e mezza e lo si
riempiva dall'altro lato di mistura incendiaria ed ecco una prima ricetta:

Polvere d'artiglieria parti tre


Pece greca parte una
Solfo parte mezza.

Si pestava minutamente in un mortaio la suddetta polvere e poco il solfo e la pece greca;


s’incorporavano a mano le tre sostanze con olio di linosa e la mistura così ottenuta si provava
riempiendone un pezzo di canna e accendendola; se essa ardeva e sbruffava furiosamente senza
che la canna crepasse, allora era buona, ma, se la canna crepava, allora voleva dire che
bisognava aggiungere più solfo e più pece:

... e nota che tutta l'importanza di questi fuochi consiste in saper componere e temperare li
materiali e che [...] tutte le misture de' fuochi artificiali vogliono esser peste e setacciate
minutissimamente, eccetto quelle delle trombe, che debbono esser mezzo peste eccetto che la
polvere. (LT. Collado. Cit. P. 285.)

Con questa mistura si riempiva la canna della tromba, spingendovela e calcandovela dentro con
un pestone di legno anch'esso lavorato al tornio nella misura adatta; arrivati a quattro dita dalla
bocca, s’inseriva uno stoppino artificiato e si finiva poi di riempire; si copriva poi la bocca di tela
forte imbombata, cioè intinta, in una mistura di pece e cera liquida e tale copertura si legava
strettamente, facendo però ovviamente fuoriuscire da un buco il capo dello stoppino.
Ovviamente, invece che di legno, le suddette trombe di fuoco si potevano anche fare di lamina di
rame o di banda di ferro lombardo, ossia di banda stagnata; d'altra parte in un’ordinanza
veneziana del 1768, riportata dal Levi e in cui si da elenco dei materiali occorrenti all'armo d’una
galera sottile di quei tempi, tra l'altro si legge: Canevazza d'Alona usata per le trombe da guerra...;
816

il che, oltre a significare che nel Settecento quest'arma medioevale era evidentemente ritenuta
ancora utile a incendiare i vascelli nemici, poteva anche voler dire che i loro involucri si facevano
ora di leggero canapaccio d'Olona.
Ecco ora una seconda mistura per le trombe, la quale andava però bene anche per le pignatte;
innanzi tutto si preparava della vernice liquida fatta d’olio di linosa parti quattro e vernice in grana
parti due e poi ecco le necessarie dosi:

Di detta vernice liquida parti dieci


Solfo vivo parti quattro
Olio di sasso (‘petrolio’) parti due
Polvere fina d'archibugio parti quattro
Incenso parti una
Ulteriore vernice in grana parte una
Mastice parte una
Sale comune parte una
Sale armoniaco (‘sale ammoniaco, salmiaco’) parte una
Rasa pina (‘ragia di pino, trementina’) parte una
Canfora parte una (Ib.).

Il de Biringuccis all'inizio del Cinquecento descriveva la composizione di trombe che non solo
vomitavano fuoco, ma contemporaneamente anche sparavano pallottole esplosive o piccola
mitraglia come vetro pesto, limatura o scaglie tritate di ferro, segatura d'olmo secco, sale grosso
comune o arsenico cristallino, e aggiungeva:

... Io ne ho già fatto a similitudine d'una artigliaria, che le ho fatte tirar palle di pietra atte a' rompere
ogni grossa e buona porta di legname, e fui mirabilmente servito nello effetto a che io le feci
(Vannoccio Biringuccio, Pirotechnia. Li diece libri della pirotechnia etc. P. 159. Venezia, 1558.)

E anche di queste appena vantate egli dava la composizione; ma passando ora alle già
menzionate pignatte, diremo che queste erano dei contenitori di creta riempiti, fino al quindicesimo
secolo, di misture semplicemente incendiarie, poi nel Cinquecento di misture non solo esplosive,
perché a base di polvere d'artiglieria, ma a volte anche armate, vale a dire contenenti anche
mitraglia di quadretti o scaglie di ferro o di pallottole di piombo o d'altro ancora; si lanciavano a
mano sul ponte del vascello nemico una volta che lo si era abbordato e subito prima di saltare
all'arrembaggio. Il Bosio così le descriveva:

… Le pignatte di fuoco erano di terra a posta mal cotta, acciò fossero più facili a rompersi, di
grossezza tale che un huomo con (la) mano agevolmente tirar le poteva lontano venticinque e
trenta passi; ed erano piene di polvere di salnitro non raffinato, di sale armoniaco, di zolfo pesto
con canfora, con pece greca polverizzata e con vernice in grana; havendo la bocca stretta, ben
chiusa con tela o carta; legate in croce con quattro capi di corda d’archibuso coperta di zolfo prima
liquefatto e poi secco; i quali capi di corda, doppo’ che accesi s’erano, si lanciavano le pignatte e,
817

rompendosi (queste), quasi mai non mancavano di accendere il fuoco in quella mistura, che il tutto
abbruciava ed era difficilissima ad estinguersi. (I. Bosio. Cit. P. 561-562.)

Anche se al suo tempo saranno ormai anch'esse alquanto obsolete, così le prescriverà il Collado:

... Le pignatte si fanno in questa maniera, cioè pigliansi le pignatte di creta d'ogni qualità che siano,
o grosse o picciole solamente, basta che siano di materia frangibile, percioché l'invenzione di
rinchiudere le misture nelle pignatte per uso della guerra fu solamente per causa di maggior
prestezza ed evitar la spesa di haverle da coprire tutte di canevazzo. (LT. Collado. Cit. P. 280.)

Quest'uso, come del resto quello dei fuochi artificiati i genere, era molto antico e lo testimoniano lo
stemma e il conseguente cognome della nobilissima famiglia napoletana Pignatelli, stemma che
rappresenta appunto principalmente alcune pignatte a uso di guerra. Il Collado consigliava la
seguente mistura esplosiva per riempirle:

Polvere d'artiglieria una libra


Salnitro raffinato mezza libra
Solfo mezza libra
Sale armoniaco mezza libra
Canfora due once.

La polvere e il salnitro dovevano esser molto ben pestati e setacciati e similmente pesti dovevano
essere il sale ammoniaco e la canfora, ma questi due unitamente al solfo; tutte queste sostanze
andavano poi mescolate e impastate a mano con olio di sasso od olio di linosa e la pasta così
ottenuta si provava prima in una canna per costatarne l'efficacia e poi, se risultata potente, se ne
riempivano pignatte dunque di creta sottile e dalla bocca alquanto stretta, bocca che si chiudeva
con tela imbevuta di pece greca, cera e trementina liquefatta, e la tela poi si legava con filo di ferro
molto stretto; questa copertura si bucava due o tre volte per infilarvi dentro altrettanti stoppini
artificiali, dei quali si lasciava fuori un tratto di tre o quattro dita; infine ai piccoli manici della
pignatta si legava uno spago doppio e lungo un palmo e mezzo, per il quale l'arma si lanciava a
mano sul nemico dopo averne acceso i predetti stoppini (Ib.).
Una composizione più antica e interessante per le pignatte è quella del Biringuccio, il quale non
aveva però l'abitudine di fornire le dosi per le sue ricette. Si prendano dunque dei comuni
pignattelli e:

... questi si empiono di polvere grossa un puoco più di mezzi; e fra essa polvere mischiasi pece
greca pesta e di solfo pesto almanco il terzo. Dassigli dapoi sopra una coperta di grasso porcino
scolato, grosso un deto, incorporandovi dentro polvere acciò che la sia tenace, si che gittandola
non si spanda e acciò ch'ella habbi a fare il fuoco più lento, si ch'el duri per infino che arrivino alli
nemici.
818

... si apre poi un puoco da uno de' lati il grasso [...] e in quello mettesi un puoco di stoppino con un
puoco di buona polvere e attaccavisi il fuoco, tenendolo tanto in mano che si veda ch'el fuoco sia
ben acceso; e così pigliasi poi il tempo del tirarlo. (V. Biringuccio. Cit.)

Del genere delle trombe erano state le picche e i dardi di fuoco (fr. dards ou lances-à-feu; ol. vuur
schichten), armi più presto di quelle abbandonate e consistenti in mezze-picche e zagaglie o
giavellotti da lancio armati, oltre che dei loro soliti ferri apicali per ferire gli uomini e appiccarsi nel
legno, anche di fagotti di misture incendiarie incartocciate e strettamente rivestite e legate alle loro
aste con robuste sforzine; spesso le aste dei predetti dardi erano armate anche di piccoli uncini, in
maniera che si attaccassero alle vele e così l’incendiassero, ma per raggiungere quest’ultimo
scopo molto utile riusciva anche sparare da vicino con i cannoni sulla velatura nemica involtini di
vecchia tela bagnata d’acquavita e quindi incendiata dallo sparo. Il già citato Bosio così descriveva
anche le picche di fuoco:

… Le picche di fuoco erano veramente picche da guerra e da combattere, co’ ferri loro acuti in
punta, il qual ferro si lasciava fuora scoperto, libero e spedito, acciò che ferire potesse, e vicino a
quello si metteva un sacchetto poco men che due palmi lungo, pieno dell’istessa mistura delle
trombe, in maniera tale accommodato che, a poco a poco consumandosi e per un lungo pezzo
vive fiamme sbruffando non punto men furibonde, ma però alquanto minori di quelle delle trombe,
venivano finalmente a sparare due cannoli di ferro o vero d’ottone, carichi di polvere fina e di
pendigoni grossi di piombo, facendo l’istesso effetto di due archibusetti a ruota. (Cit. P.562.)

Tra Seicento e Settecento si useranno nella guerra nautica anche bottiglie incendiarie (fr. bosses),
le quali non sono quindi, come si crede, una più recente invenzione del russo Molotov, ma nel
secondo dei detti secoli già si vedranno poco e solo nel Mediterraneo.
Per quanto riguarda la portata delle descritte bocche da fuoco a zero gradi d'elevazione, qui
espressa in passi comuni o andanti veneziani a cm. 104,1 al passo, alla fine del Cinquecento era -
ma molto approssimativamente - la seguente:

Cannone da 50: passi 950.


Mezza colubrina da 22: passi 1.800.
Mezza colubrina da 12: passi 900.
Mezzo cannone petriero da 14: passi 350.
Sagro da 6/8: passi 800.
Smeriglio da 6/18 once: passi 300.

Abbiamo ora la disposizione dell'artiglierie di una galea sottile prescritta da Cristoforo da Canal, il
quale, anche se scriveva circa un quarantennio prima delle suddette forniture alle galeazze
napoletane, distingue in questa materia le galee veneziane non solo da quelle ponentine, ma
anche da quelle ottomane ed è quindi la sua una testimonianza di notevole interesse:
819

Galere ponentine.

A prua: un cannone da 50 fiancheggiato da due mezzi cannoni, uno per fianco, e ognuno di questi
fiancheggiato a sua volta all'esterno da due sagri un po' arretrati sul quartiero di prua.
Verso poppa: due sagri nella zona detta il giardino e corrispondente al quarto posteriore sinistro
della coperta della galera, in buona sostanza nella spalla sinistra- nome dovuto al mantenimento
colà di alcune piante medicinali che servivano al barbiero di bordo e che i remiganti che vi erano
assisi avevano il compito di curare; due moschetti da posta messi al quarto opposto detto il
quartiero e cioè ai due lati della scaletta.

... né quasi altre artigliarie in quelle si veggono.

Galee turche.

A prua: Un cannone da 50 fiancheggiato da due sagri, uno per lato; e questi a loro volta
fiancheggiati - ma un po' più indietro nel quartiero di prua - da due mortari.
A poppa: due falconetti, uno nel giardino e uno nel quartiero, inforcati su due parettoli, ossia
inforchettati su zoccoli di legno attaccati ai lati della corsia, alti 9/8 di braccio veneziano, grossi due
quarte (‘quarti del braccio’), rinforzati ai due lati da due vere (‘piastre’) di ferro, forati sopra al centro
perché in tale foro verato (‘laminato’) di ferro si conficcava la coda della forcina di ferro sostenente
il falconetto. Anche nel giardino e nel quartiero si tenevano alcune bombarde a palla di pietra
(‘cannoni petrieri’) e infine - ai lati della poppa - qualche moschetto da posta.
Galee veneziane.

A prua: Un cannone da 50 fiancheggiato da due sagri da 12, uno per fianco, e questi, verso
l’esterno, da 14 moschetti da posta, di cui (divisi però per lato) 6 posti sopra due traversette di
legno situate sotto le garitte di prua (‘rembate’), 2 posti sopra due parettoli che sono tra le sbarre e
8 ai fianchi della prua.
A poppa: 4 falconetti, uno per lato del giardino e uno per lato del quartiero; 2 moschetti da posta,
uno per lato alla scaletta.
Mezzania: Una bombardella di ferro a palle di pietra al barcariggio, ossia al luogo sulla destra
dove era tenuto lo schifo o copano, e un’altra al luogo opposto detto la poggia:

… la quale è quel luogo a canto del fogone dove non si voga e vi si tengono gli animali per il viver
della galea e dove i galeotti liberi (‘le buonevoglie’) vanno a vuotare il soverchio peso del corpo (C.
da Canalt. Cit. P. 85).

Abbiamo già detto che le galee veneziane, sottili o bastarde che fossero, erano sovraccaricate
d'artiglieria e perciò molte anche usavano portarne in corsia, per esempio un sagro nel mezzo
della galea, come scriveva il da Canal, oppure quattro smerigli su cavalletti, due a poppavia e due
a proravia della mezzania del vascello, come si dice invece nel già pluricitato Governo di galere,
consigliandosi senz’altro d’imitare quest’uso in battaglia reale, anzi d’aggiungerne in tale
evenienza altri quattro, pure girevoli, ma due nel luogo del fogone e due in quello dello schif(f)o;
inoltre d'ambo i lati un moschetto da posta per ogni balestriera (che è quella tavola dove il soldato
820

di continuo sta), fissato sopra la posticcia, il che poteva significare quindi anche addirittura una
cinquantina di tali armi in più:

… Né altre artigliarie portano le nostre galee e la maggior parte anco dei moschetti che esse
portano i nostri sopracòmiti gli ritrovano a spese loro, perché l'Arsenale non ne suol dar più di sei o
ver otto per galea. (Ib.)

Quanto appena affermato dal da Canal è confermato da una ricevuta (itm. apodixa; gra. ἀποδοχή)
firmata il cinque aprile 1556 dal sovraccòmito Zuane (‘Giovanni’) Balbi per le armi che egli ebbe in
consegna dallo Arsenale di Venezia perché n’armasse la sua galera; tale ricevuta, la quale si
conserva o si conservava nell'Archivio di Stato di Venezia tra i documenti del fondo Casa
dell'Arsenale, riporta quanto segue:

- Un cannone da 50 di palla e pesante libre 4.929 (ossia Kg. 2.353,5975, poiché la libra grossa
veneziana era pari a Kg. O,4775).
- Due aspidi da 12, rispettivamente di libre 1.143 e 1.O92.

Era l'aspide o aspido un pezzo equivalente al sagro di simile calibro, ma più corto e quindi dal
caricamento più maneggevole e adatto per gli stretti spazi di bordo; ma era anche alquanto
antiquato, perché di metallo più sottile, e quindi sarà presto sostituito dalle moiane, corte canne
come quelle ma da braga e più ricche di metallo, quindi più moderne, inventate ex-novo appunto
per sostituire gli aspidi.

- Sei falconetti da 3, pesanti libre 461, 312, 307, 307, 302 e 300.

Perché il primo dei predetti pezzi sia tanto più pesante degli altri cinque non capiamo; forse è
errore di stampa del libro che riporta la detta ricevuta.
- Sei moschetti da posta da 1, rispettivamente di libre 92, 83, 82, 81, 72 e 70.
- 20 archibugi (questi portatili) da mezz'oncia di palla.
- 40 lancie (‘mezze picche’) d'abete con i relativi ferri apicali.
- 20 schioppi.
- 50 archi da freccie.
- 150 corazzine.
- 150 celate.
- 50 spade.

Più tardi, nel 1620, il Rossetti descriverà l’artiglieria della galera sottile ordinaria veneziana
alquanto ridotta e mutata; in corsia a prua c’era sempre il predetto cannone da 50 oppure una
colubrina da 20, ma le altre bocche importanti non erano più a fianco di quello bensì sulle garide
(it. rembate), al centro della balestriera frontale, ed erano un falcone da 6 e, disponendone, anche
821

uno da 3 – per ogni banda o lato. Questo significa che dette garide dovevano essere state
appositamente molto rinforzate per sostenere tanto peso. Sotto le sbarre, cioè sotto i tavolati di
dette garide, a ogni lato del predetto cannone da 50 si ponevano due petriere da 14 e due da 12;
due altre da 12 si tenevano nel giardino, cioè, come abbiamo già spiegato, alla spalla sinistra e un
falconetto da 3 allo stante (‘pilastrino, colonnetta’) sito nei pressi del fogone. Inoltre, ancora a
quest’epoca, la galea veneziana era dotata di 12 trombe sputafuoco, cioè sei distribuite per ogni
fianco e di un minimo di 50 pignatte esplosive da lancio da usarsi non appena si fosse giunti a
contatto col bordo nemico.
All'epoca del da Canal la potenza delle polveri piriche adoperate era di molto inferiore a quelle che
saranno poi usate alla fine del secolo e quindi molto diverse erano anche le caratteristiche e i
rendimenti delle bocche da fuoco, in quanto pezzi di concezione ancora rinascimentale; nel
periodo invece che principalmente ci occupa in questo nostro lavoro l'artiglieria è già proto-
moderna e regolata in maniera ormai sufficientemente razionale; al fine di non confondere il nostro
lettore, tralasciamo pertanto di riportare i pesi generali e soprattutto le gittate dei pezzi del tempo
del da Canal, limitandoci a esprimere qui di seguito alcuni concetti d'artiglieria validi sia per il
Rinascimento che per l'Evo Moderno. Dobbiamo però prima spiegare, anche se molto
sommariamente, che nella prima metà del secolo la polvere d'artiglieria era stata generalmente
quella detta da quattro-asso-asso (dove asso significa semplicemente il numero uno), cioè era
stata composta di quattro parti di salnitro, una di carbone e una di solfo; tale polvere aveva
sostituito quella molto debole da tre-asso-asso che si era usata nel Medioevo; poi nella seconda
metà del Cinquecento, approfittandosi della capacità che avevano ora i fonditori di dare alla
generalità dei pezzi d'artiglieria un maggior spessore di bronzo e quindi una maggior resistenza a
crepare, cosa che nel Rinascimento si era riusciti a fare solo saltuariamente, si affermò la polvere
con cinque parti di salnitro, detta pertanto da cinque-asso-asso, la quale sino allora era stata usata
solo per le piccole armi da fuoco quali archibugi, moschetti e smerigli, perché questi, in
proporzione alle loro dimensioni, erano fatti di metallo molto più spesso e resistente di quello dei
pezzi maggiori; anzi, con il diffondersi poi dalla fine del Cinquecento dei pezzi cosiddetti rinforzati,
ossia di bocche da fuoco dagli spessori di metallo ancora maggiori, si comincerà a usare per
questi addirittura la sei-asso-asso, la quale aveva in precedenza sostituito la cinque-asso-asso
nell'uso delle armi portatili.
Quando un pezzo come lo smeriglio o il moschettone da posta o addirittura il falconetto era
inforcato su cavalletto, invece che incavalcato su cassa come i pezzi maggiori, risultava
ovviamente molto più pratico in quanto, come abbiamo già detto, si poteva così volgere da ogni
parte e verso ogni elevazione in un batter d'occhio; di conseguenza cene si poteva servire, per
822

esempio, per tirare sulle impavesate d'un vascello d'alto bordo o sulle mura d’una città dopo
esserci arrivati molto sotto con la galera, cosa che con qualunque altro pezzo che non fosse così
inforcato e che non fosse un mortaro non si poteva.
Le bombardelle di ferro erano, come sappiamo, a braga e si caricavano teoricamente con palla di
pietra, ma, come già sappiamo, l'uso più comune e utile dei petrieri era quello di sparare mitraglia,
specie di scaglie, soprattutto nel prolungarsi, ossia nell'affiancare la galera al vascello nemico per
poi venire all'arrembaggio, in modo da far prima strage dell'avversario e rovina delle sue
attrezzature. Il da Canal e, come vedremo, anche il Cataneo, autore a lui precedente,
raccomandavano queste bombardelle per le loro galere ideali e si tratta di pezzi che continueranno
a esser apprezzati anche nel Seicento, pur se in effetti il pezzo corto di ferro per uso navale era di
concezione quattrocentesca e infatti tanto largamente usato in quel secolo; nel 1525 Gasparo
Contarini, descrivendo il magnifico arsenale di Venezia, scriveva d’aver visto in quell'antica e
prestigiosa fabbrica molta artiglieria del secolo precedente, ormai desueta e destinata a essere
fusa per ricavarne così metallo utile alla fabbricazione di moderne bocche da fuoco, e tra questa
c'era un numero grandissimo di artiglieria curta di ferro che si usava in su' navili. (G. Contarini. Cit.
P. 227.)
Il da Canal era invece contrario all'uso di portare tanti moschetti che avevano le galee veneziane e
diceva che, per esempio, quelli dell'estrema prua erano pericolosi perché, urtando la prua della
nostra galera quella d'una galera nemica e gettandosi un paio di nemici sulla palmetta della nostra,
potevano essi in un subito girare i nostri moschetti inforcati verso il nostro stesso equipaggio e
farne strage, così impadronendosi facilmente dell'intera nostra galera; ciò era accaduto, come
racconta lo stesso da Canal, il 28 settembre 1538 alla galera pontificia del capitano Abate di
Bibiena, la quale, nel corso della battaglia che in quel giorno si combatteva di fronte alla Prévesa,
era stata assalita da fuste del Barbarossa. Il da Canal non era nemmeno favorevole all'uso dei
molti falconetti sulla posticcia della galera, sia perché si adoperavano solo quando ci si prolungava
al nemico, vale a dire quando ci si accostava di fianco alla galera nemica, sia perché dovevano
spararli i soldati delle balestriere, i quali non erano talvolta in ciò abbastanza pratichi e quindi
potevano riuscire più efficaci se armati invece di mezze picche; inoltre, andando la galera a vela
dell'asta, il peso di tanti moschetti la faceva piegare troppo sul mare da quella parte e ne rallentava
pertanto molto il corso.
Ma se volessimo andare ancora più indietro del da Canal, cioè all’inizio del Cinquecento, all’epoca
insomma del summenzionato de Biringuccis, che artiglieria troveremmo sulle galere di quel
tempo? A questo proposito abbiamo quanto pubblicato nel Settecento dal de Capmany a proposito
della galea Reale aragono-catalana San Juan Bautista y San Juan Evangelis, varata a Barcellona
823

il lunedì 15 maggio 1503; purtroppo questo autore non riporta letteralmente quanto ritrova negli
antichi documenti, ma, oltre a tradurre tutto in castigliano, riduce, riassume e, non essendo un
esperto di materia bellica, a nostro avviso anche talvolta travisa il significato di quanto legge.
Questo è quanto scritto dal de Capmany; cerchiamo ora di trarne utili osservazioni:

… Item una bombarda gruesa de hierro, toda de una pieza, que pesaba 43 quintales, con su cepo
y afuste. It. 12 bombardas servatanas, con sus cepos, horquillas, y calces. It. 12 pasavolantes con
sus cepos, horquillas y calces. It. 10 piedras para la bombarda gruesa. It. 66 pares de piedras para
dos servatanas y pasavolantes. It. 12 quintales y 2 arrobas de pólvora.

Una bombarda grossa di ferro dal peso di 43 quintali (ma si trattava di quintali di libbre e non di
chili), evidentemente principale se non unica bocca da fuoco di prua, per la quale il far notare che
era fusa in un sol pezzo, significa che eravamo ancora nel periodo di transizione dalle fusioni delle
grosse bocche da fuoco in più pezzi (da cui ancora oggi diciamo ‘pezzi d’artiglieria’) a quelle
invece monofusione. 10 sole pietre per questa bombarda grossa erano un numero giusto perché,
come pure abbiamo già spiegato a suo luogo, con un pezzo di prua non si potevano in battaglia far
molti tiri; al massimo un paio, ma in genere dopo il primo si andava allo scontro fisico. Le 12
cerbottane erano lunghe bocche da palla di ferro ed erano a retrocarica, cioè a carica a nezzo di
camera o di braga o mascolo, insomma avevano la culatta asportabile per comodità di ricarica;
spieghiamo questi tipi di caricamento nella nostra opera sull’artiglieria. I 12 passavolanti avevano
anch’essi delle lunghe canne, ma, a differenza delle cerbottane, erano delle monofusioni ad
avancarica che sparavano palle di piombo, anche se generalmente questi proiettili avevano un
anima di ferro per evitare che, non avendo qualla forza d’urto che dava la durezza del ferro, si
andassero soprattutto a spiaccicare sui bersagli, quindi colpendoli con minor violenza. I proiettili di
piombo furono però presto eliminati dall’artiglieria perché, essendo ovviamente più pesanti di quelli
di ferro, richiedevano una carica di polvere maggiore e pertanto non infrequentemente capitava
che allo sparo i passavolanti crepassero con gran pericolo dei circostanti bombardieri (Guglielmo
Peirce, L’artiglieria da diabolica arte a nuova scienza. P. 291. Napoli, 2010). Non sappiamo se
questa galea Reale fosse più grossa delle altre, ossia un galea bastarda, oppure addirittura una
galea grossa, ma comunque il gran numero sia delle cerbottane che dei passavolanti e soprattutto
la loro struttura di sostegno a forchiglia significavano che si trattava, specie le cerbottane, di
bocche soprattutto da fiancata, come abbiamo già visto a proposito delle canne a forchiglia quando
abbiamo parlato delle artiglierie delle galee veneziane, anche se molto probabilmente alcuni dei
passavolanti, canne di lunga gittata, erano istallati a prua lateralmente alla suddetta bombarda e
forse qualcuno anche a poppa.
824

Più complesso il discorso di commento che va fatto a proposito delle ‘66 paia di pietre’ fornite alla
galea per queste ultime 24 bocche. Infatti, abbiamo perplessità a pensare che si trattasse
effettivamente di proiettili anche perché, come abbiamo appena spiegato, si trattava di artiglierie
che ne sparavano di piombo o di ferro o di ambedue, ma non di pietra, e d’’altra parte erano
bocche troppo sottili perchè si potessero caricare a mitraglia di selci; possiamo quindi solo pensare
che si trattasse di pietre focaie per una precoce accensione a focile. Se poi si fosse trattato
davvero di prioiettili, la circostanza che si usassero sia per le cerbottane che per i passavolanti si
potrebbe spiegare solamente col pensarli totalmente di ferro e non di piombo o di piombo e ferro,
perché le cerbottane erano fatte di metallo troppo sottile per poter regger la grossa carica di
polvere necessaria a sparare il pesante piombo; dunque anche questo particolare ci dimostra che
eravamo in un periodo di transizione e cioè un tempo in cui si era già capito che i pericolosi
proiettili di piombo non andavano più usati, anche se non si era ancora invece arrivati al tempo in
cui i passavolanti, essendo ormai questi diventati dunque canne non più plombiere ma ferriere, fu
cambiato anche il nome ribattezzandoli colubrine. Ma che cosa significava che questi proiettli si
fornivano a pares (‘a paia’)? Qui possiamo solo rispondere con una supposizione e cioè che,
trattandosi di palle di ferro relativamente piccole, le fondessero in forme bipalla e che così, ancora
attaccate a due a due, si fornissero e che poi si provvedesse a staccarle prima di usarle; è infatti
impensabile che, data le loro piccole dimensioni, potesse trattarsi di palle a due a due incatenate o
inramate e, d’altra parte, se si era rinunziato a usare palle di piombo per i passavolanti perché
troppo pesanti e di conseguenza bisognose di una carica di polvere che a volte faceva crepare
quelle canne, è evidente che lo stesso pericolo si sarebbe corso inserendovi non una ma due
palle, ancorché di ferro.
Infine, per quanto riguarda la fornitura di polvere per artiglierie, bisogna ricordare che i 12 quintali
sono, anche in questo caso, sono di libbre e non di chili, tant’è vero che la frazione d’esi sono le
due arrobas, essendo l’arroba appunto un quarto di quintale di libbra e dunque un peso di 25
libbre. Delle altre forniture, sia di armi che d’altro, fatte a questa galea e ad altre catalane di questo
periodo diremo più avanti.
Ma, tornando ora all’artiglieria della fine del Rinascimento e precisamente a quella che si usava
allora sulle galere turche, diremo che nella relazione sull'impero ottomano che il bailo Domenico
Trevisano lesse in senato nel 1554 si legge una dotazione già più pratica e moderna di quella
descritta una dozzina d'anni prima dal da Canal:

... Si mettono sopra cadauna galea sette pezzi di artiglieria tra grandi e piccoli, cioè il pezzo grosso
in corsia, due ai fianchi - uno per banda - e quattro più piccoli alle sbarre di prua. (E. Albéri. Cit. S.
III, v. I, p. 140.)
825

Non si fa cioè qui accenno ai pezzi di poppa di cui aveva detto il da Canal, anche se bisogna tener
conto che quest'ultimo era un addetto ai lavori e il Trevisano era invece un civile. Qualche anno più
tardi e cioè nel 1560 un altro bailo veneziano, Marino Cavalli, parlerà, sempre a proposito
dell'artiglieria di galera turca, solo di tre pezzi all'estrema prua:

... Portano tre soli pezzi di artiglieria; uno in corsia di venticinque a trenta di palla, gli altri due - uno
per banda posti a prua - da dieci ovvero da quindici, ma lunghi assai, e non li sparano mai se non
d'appresso e con certezza di far gran danno; il che è benissimo fatto perché il tirar lontano,
massime in mare, non fa mai colpo e consuma la munizione, mentre d'appresso un tiro solo che
faccia botta dà la vittoria ad una galera e rovina un’altra. (Ib. S. III, v. I, pp.292-293.)

E che i turchi avessero optato per usare ormai solo queste tre bocche da fuoco sulle loro galere è
confermato anche dalla relazione del bailo Jacopo Ragazzoni, la quale, come già sappiamo, è del
1571:

... Non usano portar più di tre pezzi d'artiglieria per galea e molte anche ne sono che ne hanno un
pezzo solo. (Ib. S. III, v. II, p. 100.)

Ma dopo Lepanto, il detto esiguo numero di bocche da fuoco sarà aumentato, come testimonia il
bailo Paolo Contarini nel 1583, il quale infatti, dopo aver letto come, a seguito della falcidie subita
in quella capitale battaglia, l'armata di mare ottomana mancava molto sia di marinaresca sia
d’artiglieri, tanto aggiunge:

... Portano le loro galee cinque pezzi di artiglieria, mentre le christiane ne hanno dodici, ma quelli
pochi uomini che li maneggiano sono esperti. (Ib. S. III, v. III, p. 223.)

I predetti cinque pezzi sono confermati dal bailo Giovanni Moro nel 1590:

... Ma come le galee sono ben provviste di uomini da spada, così sono malissimo fornite di
artiglierie, non avendo ordinariamente, oltre il cannone di corsia, che quattro falconetti a prua. È
vero che li 'bei' (le galere dei bey) hanno qualche pezzo d'avvantaggio e il Capitan del Mare circa
venti in tutto; e, quando armarono le maone a similitudine delle galee grosse di questa
Serenissima Republica, misero due cannoni in corsia con altri trenta pezzi minori compartiti in
ognuna di esse... (Ib. P. 354.)

Tornerà invece a parlare di soli tre pezzi il bailo Lorenzo Bernardo nel 1592:

... Il modo col quale turchi armano le loro galee è questo: non mettono più che tre pezzi d'artiglieria
per galea a prua... (S. III, v. II, p. 342.)
826

Quanto all'efficienza dell'artiglieria marittima turca, essa era tutt'altro che eccellente e ciò sia per la
scarsezza di validi bombardieri sia perché la Top-Hané, cioè la grande fonderia di Gálata,
sobborgo di Costantinopoli, produceva molto, ma i pezzi che n’uscivano erano di qualità
nettamente inferiore a quelli prodotti nelle fonderie cristiane, se si eccettuano i periodi in cui, come
per esempio alla fine del Quattrocento, essa era stata diretta da mastri fonditori mercenari
provenienti dall'Italia e da altri paesi europei. Alcuni principi cristiani, specie i re di Francia, non
disdegnavano poi di vendere cannoni alla Gran Porta, sebbene questa fosse il nemico mortale
della cristianità, come nel 1595 testimonierà lo stesso Crescenzio, reduce con la sua galera da una
tranquilla crociera nelle acque dell'Arcipelago e della Grecia ottomana:

... E a gli occhi nostri si sono passate dalle navi christiane a' caramuzzali turcheschi i pezzi
d'artegliaria con tutte le sue monizioni... (B, Crescenzio. Cit. P. 480.)

Vogliamo ora riportare anche i precetti del novarese Hieronimo Cataneo (c. 1540-1584), autore
che, anche se le sue opere si trovano pubblicate tra il 1567 e il 1608, ci descriveva una artiglieria
marittima veneziana della prima metà del Cinquecento e che quindi si può senz'altro attribuire allo
stesso tempo del da Canal. Ecco i pezzi che egli prevedeva per i vari tipi di vascelli (Opera nuova
di fortificare, offendere et difendere etc. Brescia, 1564; Auuertimenti, et essamini intorno a quelle
cose, che richiedono a vn perfetto bombardiero etc.Venezia, 1582; Dell'arte militare libri cinque etc.
Brescia, 1608):

Galee sottili.

A proda: un cannone da 50, oppure una colubrina, in corsia; a ogni lato di questo grosso pezzo un
aspide da 12 e all'esterno due falconetti da 3.
Ai fianchi: un falconetto inforcato da tre e qualche moschetto per ogni lato; una bombarda di
ferro al fogone e una al barcarizzo.
A poppa: un falconetto inforcato da tre per ogni lato, appresso agli scaletti.
Sotto poppa (alle spalle?): quattro archibugi da posta per ogni lato, sulle loro forcadi di ferro, e
un falcone da 6.
In corsia: un falconetto da tre in forcade girevole.

Galee grosse di mercanzia.

A proda: Un cannone da 50 e a ogni fianco di questo una colubrina, due falconetti da 3, di cui
uno in forcade.
Sul paretolo: Un passavolante da 16 in forcade per ogni lato.

Era quest’ultimo un pezzo equivalente alla mezza colubrina, ma più potente e che diventerà ciò
nonostante presto obsoleto perché dimostratosi troppo costoso in rapporto alle sue pur ottime
827

prestazioni; inoltre non capiamo come un pezzo di tal calibro potesse essere montato in forcade,
ossia, come sappiamo, su un cavalletto girevole, e siamo pertanto portati a pensare che quel
calibro 16 sia erroneo.

Alla poza (a poppa? Alle spalle?): Un curtaldo petriero da 30 o un cannone da 20 per ogni banda.

Era cortaldo (fr. barces; berches) il nome d’un vecchio pezzo d’artiglieria rinascimentale molto
usato in marina in quanto di canna corta e quindi più comodo da servire; questo, ora obsoleto, era
- quando non petriero, bensì ferriero - simile al falcone e al falconetto, ma di maggior calibro, più
ricco di metallo (‘bronzo verde’) e molto più corto; ce n’erano stati anche di fusi in ferro invece che
in bronzo.

A poppavia, nel giardino: un falcone da 6.


Sotto poppa (?): un sagro da 12 nel suo letto.
Ai carnali (?): due aspidi da 12 per salutare a salve e per offendere.

Ma quando queste galeazze mercantili, di cui abbiamo già detto, fossero chiamate a partecipare a
un’armata, la predetta artiglieria si aumentava e il Cataneo consigliava in tale occasione di porre a
prua una periera (‘petriera’) di bronzo almeno da 100, per sfondare i navigli del nemico.
Per quanto riguarda i grandi velieri, il Cataneo raccomanda di porre i pezzi grossi a poppa, mentre
guarnisce i fianchi con pezzi da 20; ma ciò è, sulla base di quanto abbiamo appena spiegato,
contro ogni più tarda logica che vorrà invece ai fianchi le principali batterie del vascello e quindi vi
dovranno di necessità essere posti i pezzi più grossi, tant’è vero che si dirà poi nel Seicento che un
vascello poteva prestare il fianco (ol. zij-bieden) a uno nemico nel senso che si sentiva abbastanza
forte da mostrargli il fianco e quindi d’accettare di combatterlo. La verità è che al tempo del
Cataneo la moderna scienza dell’artiglieria non era ancora nata e quindi non c'è da stupirsi se a
tale autore mancava una visione razionale della materia; comunque, anche se le sue sono
concezioni rinascimentali, quindi vecchie d'un cinquantennio e più rispetto al periodo che
principalmente ci occupa, vogliamo egualmente riportare qui di seguito una sintesi della
disposizione dei vari pezzi da lui prescritta, perché resta pur sempre uno dei primi e pochi autori
dei suoi tempi che si dilunghi su questa materia; precisiamo però che, come per le predette galere,
alcuni dei luoghi dei velieri menzionati dal Cataneo sono poco o per nulla identificabili perché
chiamati con nomi rinascimentali ormai perduti; inoltre il suo discorso è qui anche parecchio
confuso:
828

Nave media, ossia barza armata.

Sottocoperta, a mezza nave: un periero (‘petriero’) da 100 libre per ogni lato.
Sopracoperta, sotto il cassaro: qualche cannone da 20 e qualche sagro da 12 e sulla tolda:
falconetti da tre o falconi da sei e qualche cannone da 20.
Alle balconate: moschetti da braga.
Sul baladore (‘In coperta’): moschetti da braga più che si potrà e
qualche falcone da 6.
Sopra il cassaro: falconetti da tre o almeno moschetti, accompagnati alle firsade (?) da due
sagri da 12, uno per lato, o per lo meno da due falconi da 6.
Gabbia grande: quattro moschetti almeno.
Gabbia piccola: due moschetti.
Accanto al timone: due perieri da 100, uno per lato e due altri per li fianchi.
A proda, sopra la camera delle sartie: due cannoni da 20, ovvero due mezze colubrine.
Anche se il numero dei pezzi prescritti non è sempre indicato, sembrerebbe questo suddetto
l'armamento d’una nave da circa 36 pezzi d'artiglieria, moschetti da braga esclusi; ma l'autore
aggiunge che, potendosi, si doveva sistemare anche più artiglieria della suddetta.

Nave grossa o galeone.

Sulla tolda: tre falconi da sei e due sagri da 12 per parte.


A proda: due cannoni da 50, ovvero due colubrine.
Al timone, in alto: due cannoni o colubrine da 50.
Al timone, in basso: due bombarde da riparo (‘fortificazione estemporanea’) per sparare
lanterne di scaglie.
Sotto tolda: quattro cannoni da 50 o da 40 per fianco e, più dietro a mezza nave, un petriero da
100per fianco.
Sotto seconda coperta: tre cannoni da 20 per fianco.
Ai fianchi, nelle camere alle sortite (?): due cannoni da 50, uno per lato.
A proda: due cannoni da 20.
Sotto al cassaro: due cannoni da 20 e una mezza colubrina per parte.
A ogni balconcino: un moschetto da braga
Sopra il cassaro: quattro o cinque falconetti da tre per parte.
Alle firsade (?): due sagri, uno per cantone.
Di sopravia: moschetti da braga più che si potrà.
Sul cassaro a poppa: moschetti da braga più che si potrà.
Poppe: quattro moschetti da braga ogni poppa.
Sul baladore (‘In coperta’), al primo solaro: due falconi da 6, uno per parte.
Sul baladore, a ogni balconcino: un moschetto da braga.
Al secondo solaro: come al primo, inclusi i balconcini.
Al terzo solaro: come al primo, inclusi i balconcini.
In gabbia del trinchetto, per proda: due moschetti da braga.
Sulla gabbia del trinchetto, per proda: due moschetti da braga.
Nella camera del patron, per poppa: quattro moschetti da braga, oppure due falconetti da 3.

Dunque un vascello questo da circa 60 pezzi, moschetti da braga esclusi. Ancora, tutti i pezzi
vorrebbono essere senza vida, affermazione questa che fa capire come il Cataneo scrivesse
questo suo trattato molto probabilmente nel primo quarto del Cinquecento, quando cioè ancora si
829

usavano talvolta bocche da fuoco quattrocentesche a vite, ossia fatte di più elementi di canna
avvitati l'uno all'altro, non essendo in quel secolo la fondizione dell'artiglieria sufficientemente
evoluta da poter fondere correntemente tutte le bocche in un solo pezzo. Raccomanda ancora
questo autore al bombardiero marittimo di tenere sempre a portata di mano due mascoli per ogni
moschetto da braga, in modo che se ne potesse caricare uno mentre si usava l'altro, polvere per
almeno 40/50 tiri per ogni pezzo e infine, prima della partenza del vascello, di far approntare dai
suoi scolari (‘allievi-bombardieri’) un buon numero di scartozzi di fustagno, cuciti con aghi da sacco
e spago sottile su cilindri di legno (fr. formes à gargousses; ol. kardoes-stokken), dei calibri
corrispondenti a tutti i pezzi grandi e medi dell'artiglieria di bordo perché in queste navi si carica
con scartozzi ogni sorte d'artiglieria, cominciando da una libra sino a 120. (Opera nuova di
fortificare etc. Cit. P. 80v.) Egli da inoltre parecchie ricette di misture incendiarie ed esplosive per
trombe, pignatte e palle cave di bronzo, ma, poiché sono basate su polvere d'artiglieria
rinascimentale e quindi superata, non riteniamo utile riportarne in aggiunta a quelle del Collado che
abbiamo più sopra riportato.
Hieronimo Cataneo così poi conclude il suo discorso sull'artiglieria marittima:

... Ma delle navi de' mercanti non ho ancora fatto menzione né eziandio dovrei farne, sapendosi da
tutti che sopra quelle il più si usano bombarde di ferro e altre cose, le quali non meno fanno
bisogno in su queste sorti di navi che nelli navigli armati. (Ib. P. 83; p. 19; pp. 16v, 17.)

Egli vuole insomma dire che l'armamento dei navigli mercantili era poco più che nominale.
Anche databile al primo Cinquecento è il trattato manoscritto di cui fu autore il già ricordato Filippo
von Ravenstein signore di Cléves, il quale, sulla base delle stesse concezioni espresse dal
predetto italiano, arma nel seguente modo la tolda della nave ‘Reale’ del suo sovrano; fra le due
pavesate (‘murate’) dell’infrapponte (fr. couradoux) a ogni lato quattro cannoni di bronzo o di ferro,
ferrieri o petrieri, ossia da palle di ferro o di pietra, e un altro a ogni lato del timone; sulla prima
coperta, tra l'albero di maestra e il castello di prua, a ciascun fianco due cannoni e una grossa
colubrina, pezzi che dovevano costituire l'artiglieria migliore; sul primo suolo del cassero o castello
di poppa, cioè dove si tirava il cabestano o argano maggiore, due grosse colubrine, una per banda
dell'albero di poppa, le quali tiravano però davanti perché troppo lunghe per esser poste
trasversalmente al cassero a tirare di fianco; inoltre due pezzi grossi a ciascuna banda del timone,
di cui uno per tirare di dietro e uno di fianco; al secondo suolo del cassero di poppa, sopra il
precedente, si poneva artiglieria più piccola con la quale tirare da tutti i quattro lati; sulla cima poi
del detto cassero o castello di poppa, cioè dove si ponevano i fanti per combattere, si poteva
installare una mezza dozzina di falconi, pezzi dalle cinque alle sette libre di palla di ferro e detti in
830

teoria anche mezzi sagri, in modo da tirare anche con questi da ogni lato. Passando alla prua, il
von Ravenstein voleva sul primo suolo cinque o sei falconi o altri pezzi leggeri e, più in alto,
archibugi da posta e serpentine, essendo i primi quelli che più propriamente si sarebbero dovuti
chiamare moschetti da posta o da mura o anche moschettoni a cavallo (in sostanza i moschetti da
palla di piombo da due a quattro once che abbiamo già visto), i quali erano, come sappiamo,
montati ‘a cavallo’ d’un cavalletto girevole a mezzo d’una forcella alla stessa maniera degli
smerigli, dai quali però si distinguevano per il minor calibro; le seconde, bocche da fuoco delle cui
caratteristiche non siamo purtroppo certi, dovevano però necessariamente - data la loro
collocazione - essere anch'esse piccoli pezzi da posta, vale a dire fissi come i precedenti, e non è
escluso che il loro fosse in realtà solo un nome più antico degli smerigli. Sul suolo superiore del
castello di prua, luogo dove anche combattevano i fanti, il von Ravenstein pone altri tre o quattro
archibugi da posta e un altro piccolo pezzo da braga, smeriglio o serpentina che si voglia dire;
infine egli prescriveva archibugi da posta di rispetto da mettere all'occasione dove il bisogno lo
richiedesse.
Molto interessante è allo stesso proposito l’art. LX d’un editto che Enrico III di Francia promulgò nel
1584 e che aveva per oggetto la giurisdizione del suo ammiragliato, articolo citato dallo Jal; in esso
si disponeva l’armamento a cui i vascelli mercantili francesi erano cautelativamente tenuti per poter
affrontare anche eventuali azioni di guerra, armamento che riassumiamo come segue:

Vascelli dai 30 ai 40 tonelli.

12 uomini e 2 mozzi.
2 doppi cortaldi (‘doubles barces’).
2 moiane.
6 mezze picche.
4 archibugi o balestre.

Dai 50 ai 60 tonelli.

18 uomini.
2 passavolanti.
4 cortaldi.
6 picche.
6 mezze picche.
4 archibugi o balestre.

Dai 70 ai 80 tonelli.

24 uomini.
2 passavolanti.
6 cortaldi.
12 picche.
831

6 mezze picche.
6 lance di fuoco.
6 archibugi o balestre.
Un ponte di corda.
Pavesate.

Dai 90 ai 100 tonelli.

36 uomini.
2 pezzi di gran calibro tiranti palle di pezzo bastardo (‘pesante’).
2 passavolanti.
8 cortaldi.
12 picche.
12 mezze picche.
12 lance di fuoco.
8 archibugi o balestre.
Ben pontato e pavesato.

Dai 110 ai 120 tonelli.

45 uomini.
2 cardinales o altri pezzi tiranti palle di pezzo bastardo.
4 passavolanti di nuovo calibro.
12 cortaldi.
24 picche.
12 mezze picche.
12 lance di fuoco.
2 faulces lances.
Dardi ferrati da coffa à suffisance.
12 archibugi o balestre.
Ben pontato e pavesato.

… Et tous les dessusdits navires soyent - pour guerre ou marchandise - fournis de poudres et
boulets necessaires pour l’exploict (‘il servizio’) de la dite artillerie. (A. Jalt. Cit.)

Per concludere l'argomento dell'artiglieria marittima, vogliamo dare al lettore una curiosità e cioè
alcune formule di fuoco liquido, ossia di quel fuoco bellico ottenuto da misture di catrami, bitumi,
peci, resine e olii e del quale abbiamo già detto. Il Collado insegna diverse misture di fuochi bellici,
misture alle quali si dava ai suoi tempi per lo più forma globulare e, proprio come le più tarde
granate, se ne facevano d’adatte a essere lanciate a mano oppure sparate col cannone; queste
palle incendiarie si dicevano composte, perché la composizione delle loro misture era più
complessa di quella sufficiente a preparare tanti altri tipi di fuoco:

... e di questa sorte di palle io te ne potria insegnare a farle in mille modi, perché la loro invenzione
è tanto commune e antica quanto è antica la milizia istessa e maggiormente nella Grecia, dove
furono tanto frequentati questi fuochi che quasi la maggior importanza delle loro imprese
consistevano in essi, li quali facevano ne i modo seguenti... (LT. Collado. Cit. P. 276r.)
832

Daremo qui alcune ricette per la preparazione di fuochi inestinguibili tratte però solo dal Collado,
dal Biringuccio e dal Ruscelli, perché quelle del primo ci sono sembrate le più coeve e adatte al
periodo che soprattutto ci occupa e quelle del secondo le più antiche e quindi curiose; abbiamo
tralasciato quindi altri autori del Cinquecento e del Seicento che hanno scritto di queste misture,
quali il della Valle, il Moretti, il Chincherni, il Cataneo, il Crescenzio e altri, perché non potevamo
appesantire ulteriormente questo già greve libro. Tornando al Collado, una prima ricetta, dice
questo autore, è molto buona a fare un’altra sorte di fuoco chiamato 'greco', inestinguibile e
potentissimo, e così prosegue:

... Questa sorte di fuoco si legge che accostumava di adoperare il Magno Alessandro ne gli assedij
delle innumerabili terre che da lui furono conquistate, abbruggiando con esso i ponti e porte e altre
machine e ingegni che si usavano a' quei tempi; alla qual composizione a' nostri tempi si aggiunge
la polvere, con la qual'essi diventano assai più potenti e terribili. (Ib. 83v.)

Ed eccone la ricetta:

Polvere d'artiglieria parte 1


Carbone di nocciuolo o di salice giovane 1
Salnitro 1
Solfo 1
Pece navale 1
Rasa pina (‘acqua ragia vegetale’) 1
Vernice in grana 1
Incenso 1
Canfora ½.

A seconda della loro natura, alcune delle predette sostanze si mettevano a liquefare in una caldaia
posta su un fuoco molto lento, fatto con carboni già bruciati due volte a evitare pericolose faville,
mentre altre si pestavano accuratamente, si setacciavano sottilmente e si aggiungevano nella
caldaia, ma con la massima cautela percioché questa sorte di fuoco è pericolosissimo; il tutto
s’impastava a puntino con parti uguali d'olio di sasso (‘petrolio’) od olio di linosa, di vernice liquida
eletta (‘di prima qualità’) e di trementina. La pasta così ottenutasi, una volta raffreddatasi,
s’appallottolava nella misura che si voleva e poi adoperata come mistura di base per proiettili da
lanciare a mano o col cannone; diciamo di base perché gl’involucri che le si preparavano erano in
genere arricchiti da altre misture secondarie a base di polvere d'artiglieria, salnitro, solfo e altro,
anzi talvolta a questa palla si faceva anche un nucleo centrale esplosivo di polvere fina
d'archibugio, perché in tal maniera, una volta raggiunto il bersaglio e consumatosi lo stoppino, si
sarebbe spezzata in tanti frammenti incendiari e avrebbe appiccato il fuoco, per esempio, in più
833

punti del vascello nemico. Si poteva pure mandar occultamente dei nuotatori a conficcare nel
fasciame del legno nemico dei triboli di ferro acuminati e avvolti da stoppa bituminosa accesa
oppure un attrezzo provvisto d’un puntone o d’una trivella di ferro [fr. vil(l)ebrequin, virebrequin,
perçoir, ta(r)rière, laceret; ol. zwijkie, frette, (spijkers-)boor, avegaar] e pieno della suddetta
mistura, perché, se anche l'equipaggio nemico avesse tentato di spegnerlo rovesciandovi dall'alto
mastelli d'acqua, essendo quello un tipo di fuoco inestinguibile, non ci sarebbe riuscito. Un altro
sistema simile, ma meno comodo e occultabile del precedente, era quello delle camicie di fuoco
(fr. chemises à feu o chemises soufrèes; ol. geswavelde hembden), ossia dei pezzi di vecchie
vele, le quali, imbevute in una mistura d’olio, petrolio, canfora e d’altre materie combustibili,
s’inchiodavano distese sul fasciame asciutto del vascello nemico da incendiare e poi si
accendevano a mezzo di micce.
Ecco un’altra ricetta del Collado per fare fuochi inestinguibili, che arderanno sotto acqua e faranno
altri maravigliosi effetti.:

Polvere d'artiglieria parti 5


Salnitro raffinato 3
Solfo 2
Rasa pina 1
Vernice in grana 1
Trementina ½.
Canfora ½
Vetro pesto ½
Sale comune ½
Olio di sasso ½
Acquavite di tre cotte ½.

Quest’acquavite cotta tre volte doveva essere davvero fortissima!


Il procedimento di preparazione era lo stesso seguito per la mistura precedente; in più, una volta
che tutte le prescritte sostanze erano state incorporate a caldo nella caldaia, alla mistura si
mescolava ancora della stoppa per indurirla. Le palle si facevano anche qui con un nucleo
esplosivo di polvere fina e in più con uno strato superficiale fatto d'altre misture a base di polvere
d'artiglieria, strato che si accendeva ovviamente a mezzo d'uno stoppino prima di lanciare la palla,
ma che a sua volta avrebbe poi dato fuoco alla mistura principale più sicuramente d'un incerto
stoppino:

... e questa sorte di palle sono efficacissime in qualunque fattione (‘azione di guerra’), perché elle
ardono con incredibil furia ed è 'sì terribile la sua potenzia che causano gran timore a chi le guarda
e arderanno ogni cosa dove tocca questa materia; resistono alla neve e all'acqua e, come il fuoco
arriva alla polvere fina, si rompe in molti pezzi quella palla e, se alcuni di quelli nel tempo di un
834

assalto si attacca a una gamba o a una armatura di un soldato, mai si distacca sin che non sia
consumata tutta la materia... (Ib. Ib. P. 278.)

Terza prescrizione di fuoco greco tratta dal Collado è la seguente; con essa si faranno palle che
arderanno sotto acqua e sotto la neve e sono atte ad abbruggiare qualunque materia del mondo
che sia combustibile. (Ib. 279):

Salnitro raffinato parti 9


Solfo 3
Pece greca chiara 6
Canfora 3
Mastice 1
Vernice in grana 3
Incenso 2
Polvere grossa d'artiglieria 3.

Dopo aver liquefatto, pestato e setacciato come al solito e con l'unica avvertenza di pestare la
canfora insieme al solfo, perché la canfora pestata da sola si perde diventando una pasta non più
utile, s’impastava la mistura così ottenuta con olio di sasso o di linosa, oppure con vernice liquida,
e poi la si provava; se fosse venuta troppo furiosa, la si moderava aggiungendo solfo e pece
greca; se troppo lenta, la si potenziava con altra polvere d'artiglieria:

... e questo sarà un fuoco potentissimo e, adoperato in un assalto, farà effetto maraviglioso e
arderà sotto dell'acqua e con nessuna cosa del mondo si ammorza, se non coprendolo di terra. (Ib.
P. 280.)

Ecco una quarta e ultima mistura inestinguibile del Collado, atta a bruciare vascelli, ponti e altre
costruzioni di legno:

Polvere d'artiglieria parte 1


Salnitro non raffinato 1
Solfo ½
Pece greca ½
Sale armoniaco (‘sale ammoniaco’) ½.

Dopo il solito pestare, setacciare e liquefare, si aggiungeva nella caldaia mezz'oncia di canfora per
ogni libra di mistura, canfora anche qui in precedenza pestata insieme al solfo; si aggiungeva poi
olio petrolio (lo stesso che olio di sasso) od olio di linosa, con il quale s’impastava accuratamente
tutto il preparato. si empiva poi - per prova - di mistura una canna e le si dava fuoco a un’estremità
e, anche in questo caso, se ne risultava un fuoco troppo furioso o troppo lento, la si correggeva
esattamente nello stesso modo più sopra indicato. Di quest'ultima mistura si potevano empire le
835

predette trombe o soffioni, le pignatte, le palle da tirare o da sparare oppure con sacchette di
fustagno se ne costruivano proiettili d'altra forma, detti salsiccie, circoli, grilande (‘ghirlande’), ma
con poco di concettualmente diverso. Una più antica ricetta di fuoco greco è questa che segue,
riportata dal Biringuccio, il quale scriveva d’aver tratto la maggior parte delle sue ricette incendiarie
da un’antica operetta manoscritta anonima che gli era capitata tra mano; alcune parole di
quest'autore ci fanno però capire che egli riporta le ricette delle misture senza averle
personalmente sperimentate:

... operetta, qual già molto tempo mi pervenne alle mani, la qual fu antichissimamente scritta in
carta pecora, ove le lettere erano tanto caduche che con difficoltà si leggevano; alla qual, per la
maestà dell'antiqua scrittura, fui e son sforzato d'haverla in reverenzia e dargli fede. (V.
Biringuccio. Cit. P. 164v.)

A prescindere da quanto afferma questo metallurgo e mineralogista senese, la mistura per il fuoco
greco che egli prende dal predetto manoscritto e che sarebbe dovuta risalire addirittura all'antichità
romana, poiché non include polvere da sparo, è sicuramente molto antica; si tratta però anche in
questo caso d'una ricetta senza dosi:

... dicesi che Marco Gracco lo fece per abbrusciar l'armata navale de' Romani [...] bruscia ancho
questo fuoco infin nell'acqua; onde per farlo ci insegna Marco Gracco che si pigli canfora, oglio di
solfo vivo, oglio di trementina, oglio laterino, oglio di giunipero, oglio di sasso, oglio di lino,
alchitrean, colofonia sottilmente pista, oglio di torli d'ova, pece navale, cera zagora, grasso d'anitra
scolato, salnitro e il doppio di tutta la composizione d'acqua vite e l'ottava parte di tutta la dosa
d'arsinico e tartaro e alquanto di sal armoniaco; e tutte le predette cose si mettano in una boccia
ben turata e mettansi poi al caldo in putrefattione sotto il lutame (‘letame o luto’) per il spazio di dua
mesi; e tutte le predette cose si mettan dapoi in una storta e con fuoco lento si distillino, che d'esse
cose fra sette o otto hore di fuoco n’escirà un liquor sottilissimo, nel qual mettevisi poi tanto di
bovina secca in forno, pesta e stacciata e fatta sottilissima, la qual gli daga corpo simile a un
sapone o più liquido. (Ib. P. 146r.)

Se ben fatta la suddetta mistura si sarebbe dovuta accendere anche con i raggi del sole. ecco
un’altra ricetta del Biringuccio, la quale deve essere d'origine molto antica come la precedente, ma
ora già potenziata con polvere d'artiglieria:

... Fassi ancho una composizione liquida in un caldaro, nella qual mettesi grasso porcino, oglio
petrolio, oglio di solfo, solfo vivo, salnitro due volte raffinato, acqua vite, pece greca, trementina e
alquanta di polver grossa; e liquefatta la pece, il solfo e il salnitro, aggiontovi il grasso, la
tremantina e l'oglio e la polvere sopra il fuoco, l'incorporarete benissimo, rimanendola in un
pignatto o altro vaso [...] è materia incensiva e può facilmente il fuoco penetrargli, che è anco
potente a mantenirvelo... (Ib. P. 335v-336r.)
836

A tali si faceva una copertura a base di polvere d'artiglieria acciò più facilmente prendessero fuoco,
come abbiamo già spiegato, poi si accendevano e si gettavano sul nemico a mezzo mazza-
frombole o di semplici frombole o con metodi similari, in quanto al tempo del Biringuccio non era
assolutamente ancora pensabile di poter sparare simili pericolosi e difficili proiettili con le bocche
da fuoco; però di tale mistura si potevano anche fare pallottole col riempirne delle borsette di lino
apposta preparate e che poi si circondavano strettamente di corda per irrobustirle, come si faceva
con i rocchetti (‘razzi’), e infine se ne caricavano, insieme a misture espulsive, le trombe di galera,
di cui abbiamo detto, oppure cerbottane di ferro.
Una mistura incendiaria, questa, la quale si sarebbe accesa al semplice contatto con l'acqua e che
risalirebbe al tempo d’Alessandro Magno, è descritta da Girolamo Ruscelli († 1566), altro trattatista
del Cinquecento, il quale dunque da la seguente prescrizione:

... A far un fuoco col quale Alessandro brucciò il paese d'Agamenor: Pigliate balsamo over olio
benedetto libra 1, olio di lino libre 3, olio rosso d'ova libra 1, calcina viva libre 8; ben trita la calcina
con le predette cose, e si faccia una composizione e poi mettete questa materia dove vorrete
overo ungete con essa quel che vi piace, che, alla prima pioggia che verrà, si accenderà e arderà
sino alle pietre (Girolamo Ruscelli, Precetti della militia moderna, tanto per mare quanto per terra
etc. P. 7v. Venezia, 1572.).
Chiudiamo quest'interessante, ma non agile argomento con una ultima ricetta di mistura
incendiaria inestinguibile anch'essa del Ruscelli:

... A far fuoco che non si smorza se non come intenderete: pigliate solfo vivo parte 1, orpimento
parte 1, calafonia parti 2, pece navale parte 1, vernice in grani parte 1, termentina parte 1, rasia di
botte parti 2, del tasso parte 1, incenso parte meza, olio di lino parte meza, olio petrolio un terzo;
dipoi pestate bene tutte queste cose insieme e mettetile in un vaso di rame a bollir un pochetto e
piglierete della stoppa con bambace e fate sciugar detta materia e fatene palle e sappiate, come
voi l'accendete, non si può smorzare se non con aceto o urina. (Ib.)

Altri materiali con i quali sembrava si potessero estinguere i fuochi greci erano la sabbia e il cuoio
crudo. Addirittura il Crescenzio, nel trattare i fuochi artificiati per uso di guerra nautica, descriveva
un suo progetto di mine subacquee, il che dimostra - come nel caso dell'innesco a orologeria di cui
abbiamo più indietro detto - quanto siano secolari certi ritrovati tecnici che a noi sembrano invece
d'invenzione certamente molto recente.
837

Capitolo XV.

LA PARTECIPAZIONE NAPOLETANA ALL’INVENCIBLE ARMADA.

Alla sezione militare dell'Archivio di Stato di Napoli è conservato un emozionante fascicolo


d’estremo interesse storico; si tratta delle forniture effettuate a Napoli, dal marzo all'agosto del
1582, a due delle quattro galeazze napoletane che nel 1588 avrebbero fatto parte della famosa
Invencible Armada messa insieme dalla Spagna e della sua sfortunatissima impresa contro
l'Inghilterra. Queste due galeazze, costruite nell'arsenale di Napoli, vi erano state appena varate e
sarebbero presto partite per il loro primo viaggio in Spagna tra settembre e ottobre dello stesso
1582; in onore dell'allora vicerè di Napoli principe di Pietra Perzia, già menzionato, a una delle
predette prime due costruite a Napoli fu dato il nome di la Zúñiga e il rango di Capitana; l'altra,
battezzata invece la Napolitana in onore della Città, ebbe il rango di Patrona (fr. Maistresse), ossia
di galera luogotenente della precedente. Verso la metà del 1587, nel loro ultimo viaggio in Spagna,
a esse si sarebbero unite le altre due nel frattempo costruite nel suddetto arsenale partenopeo e si
trattava de la Girona, nome questo in onore del sunnominato vicerè duca d’Osuna, il quale aveva
governato Napoli dopo il de Zúñiga e proprio a partire da quel 1582, e della San Lorenzo;
quest'ultima sarebbe poi stata, nell' ambito dell'Invencible Armada, la Capitana delle quattro,
relegando così la Zúñiga al rango subordinato di Patrona. Come già ricordato, fu la S. Lorenzo
purtroppo anche la prima galeazza perduta da quell'armata durante i primi scontri che avvennero
con gl’inglesi nel Canale della Manica.
Dall'elenco dei fornimenti, ossia dei materiali forniti per armarle, abbiamo tratto tutto quanto servire
di conferma e di completamento a quanto già detto più sopra in materia di corredi per le galere
sottili, così come le voleva il Pantera. Il fascicolo comprende ricevute originali di materiali rilasciate
al Regio Munizioniero delle artiglierie Giuseppe di Palmiero dall'ufficiale della regia Scrivania di
Razione a ciò deputato e cioè da Antonio Maria Sanguinetto, come risulta appunto dalla firma
apposta in calce alle ricevute stesse; i materiali vengono però presi in consegna direttamente dai
patroni delle due galeazze e cioè da Pietro de Occioga de Duo per la Zúñiga e da Giorge (Jorge?)
Bremeo per la Napolitana.
Il 28 aprile il Sanguinetto da ricevuta per 419 canne e due palmi di tela bianca di Roano, ossia di
quella tela francese che s’importava da Marsiglia e che era larga circa quattro palmi, per farne 20
vessilli per le due galeazze e cioè quattro famule (‘fiamme’) per le quattro antenne degli alberi di
maestra e di mezzana; sei gagliardetti per i calcesi dei tre alberi, ossia maestro, mezzana e
trinchetto; sei totani, cioè labari, per detti alberi; tre confaloni e uno stendardo quadro grande, tutti
838

e quattro per la poppa della sola galeazza Capitana. Questa tela viene presto affidata a Gioan
Andrea dello Lieto e compagni, mastri banderari; a essi vengono pure consegnate 24 canne di tela
cruda veneziana per fabbricare le guaine a tutti i suddetti vessilli e canne 496 di frangetta di filo
rosso, bianco e giallo - per un peso complessivo di libre 86 e mezza - al fine di guarnirne i 20
vessilli. In breve tempo e in due volte i mastri banderari forniscono quanto richiesto; labari, fiamme
e gagliardetti sono tutti pintati con le arme reali e altre pinture e figure, guarnite con sue frangie de
filo de più colori, rosso, bianco e giallo, con le vayne de tela cruda de Venezia. I confaloni
consegnati sono però due e non tre come sopra scritto; inoltre alle figure certamente dipinte sia su
questi sia sullo stendardo quadro non si fa menzione. La fornitura consegnata dai mastri banderari
include anche - a peso - lacci di filo bianco, rosso e giallo con diversi cordoni e fiocchi per
attaccare le fiamme alle antenne e i labari alle aste di calcese degli alberi.
Il 28 aprile il Sanguinetto riceve - per la sola Zúñiga - 44 cantaria e 9 rotoli di vecchie catene di
ferro da forzati, cioè 54 branche a sei fili per branca, essendo ogni filo lungo 10 palmi; a tal
proposito non dimentichiamo che le galeazze a voga di scaloccio, pur avendo molti più rematori
delle galere, avevano all'incirca lo stesso numero di banchi e quindi anche di remi. Le dette catene
sono da racconciare e da adattare ai banchi del nuovo vascello. Riceve inoltre tutto il resto del
materiale occorrente a ferrare e sferrare la chiusma, vale a dire la ciurma, e si tratta di maniglie di
ferro nuovo con loro perni e chiavette; ancunie, ossia incudini, di ferro acciaiato nuovo con relative
mazzette, buttafuori e tagliaferri; tre calzete de ferro usate e reconciate utsupra, longa l'una palmi
30 per li mori dele camere. I mozzi di bordo, di solito giovanissimi schiavi maomettani, dovendo
esser liberi di camminare e quindi portavano alle caviglie ferri differenti.
Altro materiale fornito per i vogatori è il seguente e bisogna tener conto che i quantitativi indicati
non sono necessariamente quelli sufficienti:

24 rasoi nuovi per radere;


200 gavette di legno di faggio tornito per il pasto;
48 strapuntini pieni di lana caprina per i banchi;
54 cuoi di vacca nera, dai 10 agli 11 palmi l'uno, per la voga (si stendevano sugli strapuntini
per proteggerli);
50 schiavine (‘spesse coperte’) rosse (o rase?) per difendere dal freddo il sonno dei galeotti;
4 orinali, i quali i remiganti si passavano di mano in mano e poi vuotavano fuori bordo;
103 piastre di piombo per contrappesare i remi.

Ecco ancora altri materiali, tratti dagli sterminati ricevuti da la Zúñiga:

10 lampioni guarniti d’osso e legname per far luce in corsia (in modo che i marinai di guardia di
notte potessero controllare il sonno delle ciurma);
12 lampe (‘lampade’) di vetro;
Anchore cinque a due mazze con suoi ceppi per un peso complessivo di cantaria 29 e rotula
839

(‘rotoli’) 94;
Un campanello di metallo, ossia di bronzo, per suonare l'Ave Maria;
Un paio di piccole bilance d'ottone con suoi laci de seta verde e rubbi de ferro per pesare le
medicine;
Vintidoi lenzola vecchi e tre mezi sparvieri (‘padiglioni o baldacchini da letto’) de tela bianca
vecchi per stracciare e fare sfilaccie e medicare ferite...
Tovaglie da tavola, da mano, de tela per faccia con sue francie...;
24 salvietti di Fiandra.
Canne sissantadue di cotonina vecchia con sue benne di canavaccio per inforrare il cielo della
poppa...

Si trattava evidentemente d’un lavoro di tappezzeria riservato al soffitto della camera del capitano.

Venticinque bolse de baqueta (‘borse di vacchetta’; sp. zurrones) negra de tre palmi scarsa l'una
longa, con
una cordella al bocaglio per la polvera...

Di questi sacchetti di cuoio crudo, usati per tener in maggior sicurezza la polvere d'artiglieria in
coperta, abbiamo già detto.

Un cantaro e sissanta rotula de Mag...(‘magra’?) per tengere e pengere li remi ad altre cosse
dela galiaza...

Probabilmente qui s’intende pittura magra rossa, ossia rosso non all'olio; di tal colore, a giudicare
dai quadri del tempo, si tingevano infatti i remi.

Dudici coijri pelosi, sei castrati e sei vachini levantini, per li portielli e per li scalmi de li remi...

Pezzi di queste pellicce servivano dunque, come sembra, per fare da cuscinetto tra scalmo e remo
e inoltre per rendere impermeabili all'acqua del mare i portelli dell’artiglieria.

Sei pelli pecorine per fare lanate per la pece...


Quindici pomi de legname per le aste dele bandere...
Una tromba (‘manichetta di cuoio’) guarnita per sgotar, de legname de ulmo de palmi vinte
longa...
Tre goti (‘gotti’) de sola de coyro cositi e guarniti per detta tromba, de respetto...
... cotonina de Genova...
... cotonina de Napoli...
... spago de regno ( cioè prodotto nel regno di Napoli) per cosire tenne (‘tende’) e di rispetto...
Vinti libre de candele de sivo per abrusciar in poppa (cioè da usarsi nella camera di poppa)...
Vinte intorcie de cera bianca per il fanale de peso lib. cento e nove...
Un caldaro grande con suo coverchio per la chiusma...
Un caldaro per soldati...
840

Un caldaro per officiali senza coverchio...


Quatro maneche de ferro per li quatro caldari de peso vintidue libre...
... piati de stagno...
35 serrature diferenti con sue chiave, ciò è a lichetto (‘lucchetto’), a mappa e a catenaccio e a
croce per le porte, cascie e casciuni e stipi de detta galeaza...
... pezi sissantaquatro de imagini de cristallo pintate de palmo uno e un quarto longa l'una e
larga un (‘in’) circa, quali ha da guastare e levar le piture e acomodarli per li finestrali del fanale
dela galiaza Capitana...

Interessante questo dover sverniciare ben 64 cristalli dipinti per poterli poi usare come cristalli di
fanale! Ecco ora un semplice corredo da farmacia:

Tre gotti de stagno de Fiandra per medecine con suoi coverchi...


Quattro gotti de stagno utsupra senza coverchio...
Un colaturo utsupra pertusato per colar medecine...
Una scieropera utsupra con lo pizo...
Dui imbutilli de lamera de fierro stagnato...

C'è ancora del rame lavorato per la cupola del fanale della predetta galeazza Capitana e inoltre
spago, cera, pece greca, ferro, sartie e altri numerosi materiali che non riteniamo però utile qui
anche elencare.
Ecco ora alcuni dei generi ricevuti da Jorge Bremeo, patrone della galeazza Patrona, chiamata,
come sappiamo, la Napolitana:

Anchore cinque de ferro a due marra l'una per dar fondo, tre grandi e due mezane, de peso
cantaria vintinove e rotula novantaquatro...
37 serrature de ferro limate con loro chiave (e) guarnite per li casciuni e ponte (sic; ‘porte’)
de camere, parte a mappe e parte a lichetto...
Diece lampioni guarniti de osso e legname con sue lucerne de lamera de stagno per far la
lume in corseija...
Sei lampionetti guarniti de osso e lamere de ferro stagnato con sue lucerne utsupra...
Dui fanali de tempesta guarniti utsupra...
Duicento gavette di legname torniate per mangiare la chiusma... .
Vintiquatro rasole per radere la chiusma...
Due siringhe per amalati, una grande e una piccola...
Inoltre attrezzi per mescolare, pesare e pestare medicine.

Quarantaotto strapontini de canavaccio pieni de lana caprina, longho l'uno palmi undici in circa
e largo palt. uno e mezo, per li banchi de la voca...
Dui tovaglie di detta tela (di Fiandra) longa palmi cinque e larga palmi dui e mezo per
asciugamani...
Vintiquattro salvietti de tela utsupra de palmi tre in quatro l'uno...
Dui tovagli de tela bianca guarnite con frangie de filo bianco intorno per la faccia...
Dui tapeti alexandrini [...] per la poppa...
Quindici pome de legname de chiuppo (‘pioppo’) torniati e pintate per le aste dele fiame e
841

bandere...
Quatro para de ventose de vitro con sue veste de paglia per li enfermi...
Quatro orinali de vitro con loro veste utsupra...
Vintiquatro lenzola vecchie di tela bianca per (far) peze e far sfilacci per medicar li feriti...
Ducento schiavine rase (o ‘rosse’?) per coprir la chiusma...
Canne cinquecentootantasei e meza de canavaccio trino de Genova per far una tenda...
Un caldaro grande de rame con suo coverchio per la chiusma...
Un caldaro per li offiziali con coverchio...
Tre pignate di detta rame, dui con coverchi e una senza, per il capitano e amalati...
Un caldaro per li amalati con suo coverchio...
Una cocoma grande per cocere aqua...
Un caldaro per li soldati con sua manecha de ferro...
Un caldaro per li amalati utsupra...
Quattro cazzole [...] per cucina...
Quattro cochiare...
Quattro maneche de ferro per li quattro caldari, ciò è dela chiusma e dela pece e deli offiziali...
Otto piati de stagno de Fiandra per la tavola de poppa...
18 piati mezane utsupra...
48 piati piccoli utsupra...
6 scotelle con le orecchielle utsupra...
Due tase (‘tazze’) per vevere (‘bere’) utsupra...
Una salera...
Tre bichieri con loro coverchio per medecine (di stagno di Fiandra)...
Quatro vichieri (‘bicchieri’) senza coverchio per sciaroppi (di stagno di Fiandra)...
Uno colaturo perciato (‘bucato’?) per colar medecine...
Una sciaropera per temperar sciaroppi...

Descriveremo ora l'artiglieria delle due suddette galeazze napoletane e noteremo che essa è
parecchio meno numerosa di quella più sopra prescritta per questo tipo di vascelli; ciò starebbe
forse a dimostrare quanto aveva riportato il residente veneziano Alvise Lando nel 1580 a proposito
della incipiente costruzione di queste galeazze e cioè che, dopo essersi senza successo tentato di
costruirle più grandi, si sarebbe poi deciso di farle più piccole.

Galeazza Capitana la Zúñiga.


Artiglieria di bronzo:

6 cannoni:

Cannone da 50 libre di palla, lungo 12 palmi, nominato S. Felippo, distinto da tre scudi sotto li
mognoni (‘sotto gli orecchioni’), di cui uno con l'armi reali, uno con quelle del Comendator Maggior
di Castiglia, cioè della massima autorità dei cavalieri di Malta nella Castiglia, e il terzo con l'armi di
Carrillo de Quesada. Inoltre accanto al fogone questo pezzo presentava un cartiglio, ossia un
fregio per iscrizione che si leggeva così: Carrillo de Quesada, General del Artilleria; anche inciso
sulla culatta era il peso del pezzo e cioè cantaria di Napoli 34 e rotola 88.
Altro cannone identico al precedente, ma nominato S.to Jacomo e pesante cantaria 36 e rotula 5.
Altro identico, ma da 25 libre di palla, nominato S.to Agustino e segnato con un crè (dal fr. creux,
incisione nel metallo) che riporta il peso di cantaria 24 e rotola 68.
Altro identico al precedente, ma nominato S.to Thomase e pesante cantaria 24 e rotula 4.
842

Altro identico, ma da 35 libre di palla, nominato S.to Antonio e segnato cantaria 29 e rotola 22.
Altro identico al precedente, ma nominato San Francisco e pesante cantaria 28 e rotola 64.

2 mezze colombrine (nome più antico e che sarà poi corrotto in ‘colubrine):

- Una lunga 11 palmi, contraddistinta da una corona reale e, posto sotto detta corona, un cartiglio
con la
scritta Philippus Rex; sotto gli orecchioni o mognoni due crè, di cui uno diceva Donefrances
(sic) de Alva, General e l'altro cantaria 25 e rotola 65 de Spagna. Questo pezzo è guarnito di
cassa o letto, di ruote chiodate e asse, il tutto di legname.
- Altra identica, ma segnata de peso de Spagna cantaria 24 e rotula 46.

8 mezzi cannoni petrieri:

Uno lungo palmi 7, contraddistinto da uno scudo con le armi di Sua Maestà e un crè al fogone che
dava il peso di cantaria 6 e rotula 40; pezzo guarnito d’affusto completo come le suddette mezze
colubrine.
Altro uguale al precedente.
Altro de bronzo tonno alemano, lavorato a fogliaggi, lungo palmi 8 e mezzo, con uno scudo sopra li
triglioni (altro termine per orecchioni) mostrante le armi imperiali; crè che dava il peso di cantaria
14 e rotula 30; guarnito d’affusto utsupra.
Altro con le armi imperiali, lungo palmi sette e con peso scritto di cantaria 6 e rotula 60, guarnito
d'affusto.
Altro utsupra, ma pesante cantaria 6.
Altro utsupra, ma alemano, lungo palmi 9, senza indicazione del peso.
Altro con uno scudo con le armi di Sua Maestà, lungo palmi sette e con peso segnato di cantaria 6
e rotula 30, guarnito utsupra.
Altro utsupra, di peso cantaria 6 e rotula 5.

6 sagri:

Uno di sei libre di palla, lungo palmi 10, con due scudi, di cui uno raffigurante le armi di Sua
Maestà e l'altro quelle del marchese di Mondesciar (‘Mondejar’), e con un cartiglio sul fogone che
diceva: OPUS X.STOFARI GIORDANI, con peso scritto di cantaria 8 e rotula 89, guarnito d'affusto
utsupra.
4 altri utsupra, ma con i seguenti pesi: cantaria 8 e rotula 46
otto 27
otto 64
otto 52.
Altro utsupra, ma pesante cantaria 8 e rotula 35, con letere al fogone che dicono OPUS SANTILI
ET E. GIUS FILIJ ANTONIO DE SANTIS DE NAP. ANNO D.NI 1578, con peso scritto di cantaria 8
e rotula 35.

20 smerigli:

Uno lungo palmi 5 ½, con le armi reali sul fogone e sopra la cornice dela camera del mascolo Crè
de abbaco de rotoli 97, guarnito con sua codeta e forchetta de ferro.
Altro utsupra, lungo palmi 6, con indicazione del peso di cantaria 1 e rotula 93, guarnito utsupra.
3 altri utsupra, ma delle seguenti misure:
uno lungo palmi 5, pesante rotoli 95.
“ “ “ 5 “ “ 97.
843

“ “ “ 6 “ cantaria 1 e rotula 57.

Altro utsupra, lungo palmi 7, con uno scudo sopra li triglioni, pesante cantaria 3 e rotula 7.
Altro utsupra, di palmi 6½, con uno scuto in bianco (cioè privo di raffigurazioni), signato sopra la
colata (‘culatta’) cantaria dui e rotula 84.
Altro utsupra, di palmi 6, con scudo raffigurante le armi di Sua Maestà, con letere sopra la camera
del mascolo, che mostrano cantaria due e rotula 3.
Altro utsupra, signato cantaria uno e rotula 60.
Altro utsupra, d’una libra di palla e pesante cantaria 1 e rotula 80.
Altro utsupra, di palmi 5, con le medesime arme utsupra, segnato cantaria 1 e rotula 3.
3 altri come il precedente, ma dei seguenti pesi:
cantaria 2 e rotula 5.
“ 1 “ 47.
“ 0 “ 96.
6 altri genovesi, di palmi 5, senza segno e senza peso, guarnite con lo scuto con le arme de Sua
Maestà.

Si fornivano i 22 affusti per i suddetti cannoni, mezze colubrine, mezzi cannoni petrieri e sagri,
includendosi nel numero quelli già notati nelle singole descrizioni dei pezzi:

Cascie vintidue ferrate per detti pezi de artiglieria utsupra con loro rotte (‘ruote’) e assi de
legnamo chiavate con chiodi per guarnimento utsupra....

I 20 smerigli, essendo, come sappiamo, piccoli pezzi a braga, non avevano casse, ma erano dotati
di forchette di ferro fisse che si piantavano su cavalletti di legno girevoli (fr. chandeliers), potendosi
quindi così puntarli a destra e a sinistra, ma anche in basso e in alto come si voleva, e questi si
ponevano generalmente sulle murate:

Cavalleti vinte de legname de ulmo con una croce de ferro posta in ogniun cavalleto, dove vano
a posare le forchette de' detti vinti smerigli...

Anche per i detti 20 smerigli si consegnavano poi 40 mascoli di bronzo, tra grandi, mezzani e
piccoli, a misura cioè degli stessi pezzi a cui erano destinati, considerandosene cioè due per
smeriglio:

... e sono di quelli ha consignato Cola Parascandalo e Andrea de Alessio.

Il peso totale di questi masculi sembra essere cantaria 3 e rotula 90. Vengono ancora fornite 44
cochiare di rame con le quali s’infilava la polvere nella bocca dei normali pezzi ad avancarica; si
tratta di cucchiare dalle misure diverse per caricare artiglierie infatti diferenti, cioè due cucchiare
per ognuno dei suddetti pezzi, smerigli ovviamente esclusi perché da braga. Queste cucchiare
erano guarnite d’un maschetto, ossia del modulo di legno attorno al quale s’inchiodava la parte
posteriore della lamina di rame di cui la cucchiara era fatta, e di un’asta di fao (‘faggio’) che si
844

conficcava nel buco centrale all'uopo praticato nel predetto modulo; ogni cucchiara era dunque
fatta della misura adatta al pezzo d'artiglieria al quale doveva servire, mentre le relative aste erano
state semplicemente divise in tre misure e cioè ce n’erano da 12, da 15 e da 18 palmi di
lunghezza. V'erano poi 44 refilaturi de legname con loro aste e deve trattarsi dei normali calcatoi, i
quali dovevano però essere anch'essi ognuno di misura adatta al pezzo a cui doveva servire.
V'erano ancora 22 lanate de legname de chiuppo torniati, anch'esse ovviamente a misura, con le
quali si rinfrescava e si puliva l'anima dei pezzi, e infine 25 (quindi tre in più) saccatrapi con relative
aste, strumenti da ravvisarsi senz'altro nei cavafieno, ossia in quelle spirali di ferro inastate che
servivano a estrarre lo stoppaglio di fieno o stracci dalla canna del pezzo, quando si voleva
scaricarlo senza sparare.
Passiamo ora alle palle d'artiglieria fornite a la Zúñiga insieme a quanto predetto:

Palle di ferro:

200 da 50 libre, peso totale cantaria 34 e rotula 40.


200 35 22 80.
200 30 21.
400 25 32 40.
400 12 17 4.
1.200 6 23 19.

Palle di pietra:

Quatrocentosissantadue palle de pietra viva del monte de Gaijeta de diversi colibri (‘calibri’).

Queste palle erano ovviamente per i predetti otto mezzi cannoni petrieri, a dimostrazione che
questo tipo di proiettili ancora si usava; mentre per gli smerigli si sarebbero fuse a bordo pallottole
di piombo adoperando le apposite forme.
Altri materiali d'artiglieria forniti a la Zúñiga erano i seguenti:

Polvere sottile per artiglieria e archibusci, cantaria 80 posti in barrili 216, netto di tara.
Miccio (‘corda-miccia’), cantaria 20.
75 cugni (‘cunei’) di legname per assestare l'artiglieria sulle sue casse, di palmi da due a tre
l'uno.
7 paia di ruote d'artiglieria de respetto di legno d'olmo con sue code de rendene (‘code di
rondine’) de legname poste con chiodi per le cascie de artiglieria.
Una scaletta di legname d'olmo per incavalcare e discavalcare l'artiglieria.

La scaletta o taglia era una piccola capra molto usata appunto per issare le pesanti bocche da
fuoco e posarli sulle loro casse, oppure da quelle levarli; per imbarcare o sbarcare le artiglierie si
usavano invece grosse pulegge attaccate all’alberatura.
845

12 assi di legno d'olmo grandi e piccoli lavorati per respetto de artiglieria.

Erano questi assi multi-uso e potevano cioè servire, oltre che per riparare le casse, anche per
costruire o aggiustare una piccola piattaforma da batteria.

E più cantaria tre de sartia farcita per far boccaglio al artiglieria.

Questi boccagli erano non altro che gli stoppagli che s’infilavano nelle canne dei pezzi dopo la
polvere e si calcavano con il calcatoio per rendere le stesse cariche di polvere più compatte e
quindi più potenti.

Sartia rotula quatro per movere le cascie e artigliaria de un loco ad un altro.


Manuele (‘manovelle’) di legname di frassino e d’olmo, dai 10 ai 12 palmi ognuna, lavorate per
movere artiglieria.
Pelli lanate pecorine per far lanate d'artiglieria.
Sivo (‘sego’) per ungere gli assi e le ruote d'artiglieria.
Chiodi lunghi quattro dita per chiavare (‘inchiodare’) le aste in refilatori, lanate e cucchiare.
2.500 centrelle (ossia chiodi quadri, corti, a testa larga, d'ottone o di rame) per chiavare le
cucchiare e le lanate ai maschetti di legname.
Ferro filato per attaccare i refilatori.
Spado (‘spago’?) per attaccare lanate.
50 pezzi di legname di chiappo (‘pioppo’) per farne cocconi (‘tappi’) ai mascoli dei pezzi da braga.
Sei forme d'ottone guarnite di manici di ferro per fare palle di piombo per smerigli di diversi calibri.
Un martinetto di ferro alto tre palmi con sua cascia de legname ferrata e guarnita con sua chiave
de ferro per incavalcare e discavalcare l'artiglieria.
Ferramenta per servizio dell'artiglieria:
45 anelli
43 chiavette
43 rotanghi (?)
43 perni
18 a code de rendene (‘code di rondine’) per brache.
...
44 arsiceli (?)
46 cugni
12 mazette.

Declarando che le sopradette sartie, poleggie, artigleria e altre arme [...] bandere e altre diverse
robbe e munizioni, como sopra particolarmente sta declarato, sono state consignate dal detto
Gioseppe de Palmiero, Regio Munizioniero, a detto patron Pietro de Occioga de Duo per
armamento e guarnimento dela predetta galeazza Capitana 'la Zúñiga'.
In Napoli dala Regia Scrivania de Razione a' 10 de agosto 1582.
(firmato:) Antonio Maria Sanguinetto. (A.S.N. – Sez. Milt. N.i.)
846

Nello stesso suddetto incartamento seguono i materiali d'artiglieria consegnati dallo stesso regio
munizioniero sopramenzionato a Giorge Bremeo, patrone della seconda galeazza, cioè quella
Patrona chiamata la Napolitana, ma, poiché si tratta di forniture che ricalcano quelle della galeazza
precedente, ci limiteremo a trarne solo gli elementi che da quelle le differenziano. La Napolitana
dunque riceve otto cannoni, due mezze colubrine, sette mezzi cannoni petrieri, sette sagri e 20
smerigli, tutti pezzi di bronzo e guarniti delle relative casse e cavalletti di legname.
I due primi cannoni, ambedue di 55 libre di palla, portano gli stemmi del re di Spagna e del
marchese di Mondejar e sono anch'essi opera del fonditore Cristofaro Giordano. Il terzo, chiamato
S. Andrea, e il quarto, ambedue da 25 libre, portano ognuno tre stemmi, di cui uno del re, uno del
suddetto commendatore maggiore di Castiglia e l'ultimo dell'anche già menzionato Carrillo de
Quesada, capitano generale dell'artiglieria del regno di Napoli. Il quinto è un normale cannone da
35 libre, lungo palmi 12 e decorato con le armi di Sua Maestà il re di Spagna; seguono due
cannoni turcheschi, ossia di fondizione ottomana, il primo lungo 11 palmi e privo di qualsiasi
segnale o iscrizione, il secondo invece di nove palmi, di libre 35 di palla e con letere turchesche ala
colata (‘culatta’) senza altro signale né peso. L'ottavo è un cannone alemano, cioè di fondizione
austro-tedesca, di nove palmi e di 30 libre, con alcune letere alemane vicino alla gioia (‘cornice’
posta sopra li traglioni (vale a dire i suddetti mignoni od orecchioni), insieme a quattro scudi, di cui
uno diviso in quattro quarti, uno di fior de ligi (‘fiordalisi’) e due con tre leoni ciascuno; inoltre:

... e sotto li cuglioni (altro termine per orecchioni) un scuto con la corona riale e un aquila con dui
leoni che teneno detto scuto con il tusone (‘Toson d'Oro’) pendente del monte...

La prima mezza colombrina, anch'essa turchesca, è lunga 10 palmi, di 22 libre di palla, priva
d'iscrizioni se non per il crè del peso e cioè cantaria 16 e rotula 0, peso de Sicilia. La seconda
mezza colubrina, questa di 12½ palmi e di 12 libre di palla, ha sotto li triglioni una corona reale con
iscrizione che si legge PHILIPPUS REX e, alla cornice della culatta, altro crè che invece si legge:
DON FRANCES DE ALBA GENERALE, con signale in conto castigliano gs xxiiij°.1.13.
Il primo mezzo cannone petriero, lungo palmi 7, di libre 14 di palla, porta anch'esso il seguente
abbaco castegliano gs x iij°.1.45 peso de Spagna. Il secondo, lungo e di calibro come il
precedente, si presenta con uno scuto in bianco con una corona di sopra, con crè de abbaco
cantaria 12 rotula 92 de Genova. Gli altri cinque mezzi cannoni petrieri hanno lo stesso colibre dei
due precedenti, ossia 14 libre, e non presentano nulla di diverso se n’eccettua uno che porta le
arme de casa de Toledo.
Dei sette sagri due sono d’8 libre di palla, quattro di 6 e portano un cartiglio che dice: OPUS
SANTILLI DE SANTIS DE NAPOLI; l'ultimo è OPUS CHRISTOFARI GIORDANI DE NAPOLI.
847

Dei 20 smerigli, pezzi, come sappiamo, a braga e a cavalletto, sette sono lunghi 8 palmi, di 8 once
di palla di piombo, senz'alcuna iscrizione né indicazione di peso, ma ognuno con sua codeta e
forchetta de ferro, con suo cavalleto de legname, con una croce de ferro chiavata a detto cavalleto
dove pasa la codetta; tre sono anche di 8 once, ma lunghi circa 5 palmi solamente e pesanti, due
d'essi, rotoli 98 e il terzo cantaria 1 e rotula 1; otto sono invece di 1½ libra di palla, lunghi da 6½ a
sette palmi, pesanti da cantaria 1 e rotula 35 ad 1 e 97, alcuni con lo stemma di Sua Maestà tra li
triglioni; un altro è di 6 once di calibro e pesa 95 rotula e l'ultimo di questi 20 smerigli è di 1 libra di
palla e pesa cantaria 1 e rotula 33.
Per quanto riguarda le palle di ferro, questa galeazza riceve, oltre a quelle dei calibri forniti all'altra,
anche palle di libre 22, 8 ed 1; riceve pure palle di piombo, cioè 650 de una libra l'una con sue dadi
di ferro dintro, de peso (complessivo) cantaria quatro e rotula vinte ed 800 de onze sei l'una con
suoi dadi utsupra, de peso cantaria uno e rotula novantatre.
Perché questi proiettili di piombo contenessero dadi di ferro non sappiamo; possiamo però
immaginare che ciò si facesse per alleggerirli e di conseguenza per poter risparmiare polvere nello
spararli.
Tra i molti generi consegnati a la Napolitana riteniamo più interessanti i seguenti:

Vinte cantaria de miccio cotto per archibusci...


Vintiquatro cantaria e sissantasette rotoli de piombo in pane de respetto...
Tre curdi (‘curli’) de legname, ciò è dui de lucina (‘cucina’?) e uno de olmo pertusato per detta
artiglieria...
Perni de ferro novo quarantaotto con loro anella, code de rendena (‘rondine’) e chiavette per
imbracare la artigleria...
Arsicoli (?) de ferro utsupra quarantaotto per li assi de detta artigleria...
Cugni quaranta de detto ferro per detta artigleria...
Mazette dudici de ferro utsupra acciarato per detta artigleria...
Vinticinque bolse (‘borse’) de coyro nigro de vaca con suoi lazi de coyrame de palmi tre l'una
scarse e larga un palmo e mezo con fundo de medesimo coyrame per la polvera...
Vintisette mazole de legname de olmo con sue maniche per servizio del artigleria...
Vintiquatro tappi de chiuppo e abeto torniati e lavorati per le boche del artigleria...
Cento pallottiere de ferro per far palle de archibusci...

Le suddette pallottiere ci introducono alla fornitura d’armi portatili per i soldati della guarnizione di
bordo di questa galeazza:

Ducento spate sarravale (‘spade di Saravalle’) guarnite del tutto...

Serravalle e Cividale del Friuli erano, come abbiamo già ricordato, località famose per la bontà
delle spade che producevano.
848

Centoquaranta rotelle (‘scudi rotondi’) nove de legname pintate con le arme de Sua Maestà e
guarnite...
Duecento coraze de fostanio nigro de lamera de stagno de aciaro con tutti suoi recapiti per
armare...

Si tratta dunque di corazzine ricoperte di fustagno nero, ma non fatte più di cuoio come erano state
nel Medioevo bensì di lamierina di stagno acciarato, e fornite di tutti i necessari attacchi per
indossarla.

Cento archibusci de ferro novi con sue cascie guarniti...


Cento para de fiaschi con suoi fiaschigli coverti de coyro nigro liscio con suoi lacci e fiochi
(‘fiocchi’) de capisciola (‘Caprigliola’?) de diversi colori...
Cento morrioni guarniti e puliti (‘politi’)...
Cento piche de fraso (‘picche di frassino’) con suoi ferri...

La galeazza Capitana, la Zúñiga, aveva anch'essa ovviamente ricevuto una partita d'armi portatili,
ma, poiché dai documenti risulta inferiore e meno dettagliata, abbiamo preferito riportare questa
suddetta de la Napolitana. Diremo infine che, come da certificazione rilasciata dal summenzionato
Sanguinetto in data 21 marzo 1582, 24 delle casse d'artiglieria destinate alle due predette
galeazze furono consegnate a un mastro falegname (li quali haverà da acortare e acomodare per
servizio del artigleria dele dui regie galiaze); si trattava evidentemente d'affusti d’artiglieria terrestre
da adattare all'uso marittimo, ossia da rendere alla navaresca, come allora si diceva.
Ma, a prescindere dalla partecipazione delle suddette quattro galeazze, quale era la consistenza
delle forze di mare che nel 1588 costituvano la famosa e sfortunata Invencible armada? Eccola,
secondo una anonima relazione di poco precedente alla disfatta:

Dell’apparato di guerra per quest'anno, 1588.


Ha Sua Maestà (Filippo II) in ordine per guerreggiare contra la regina d'Inghilterra e ribelli di
Fiandra
350 vele pro armata con novemila marinari in questo modo:

- Quattro galeazze di Napoli,


- vinticinque navilij grossi di Siviglia,
- vinticinque di Biscaglia e Guipúzcoa,
- trenta urche d'Alemagna,
- cinquanta navilij piccioli di Catalogna, Valenza ed altre città,
- cinquanta della costa di Spagna, cioè cialuppe e barche,
- cento zavarre (‘zavorre, chiatte?) del Rio di Portogallo, delle quattro città della costa del mare
d'Austria, Biscaglia e Guipúzcoa,
- vinti galere di Spagna, quattordici di Napoli e fedici diSicilia.
(Tesoro politico ecc. Cit. T. I, p. 215).
849

Le soldatesche imbarcatevi erano le seguenti:

Infanteria e cavalleria.
Tra spagnoli, Italiani ed Alemanni può havere presso di sessantamila persone in questo
modo:

- Vinticinquemila spagnuoli, computandovi li cinquemila che ha cauati delli terzi d’Italia e li seimila
della Caneria (‘Canarie’), dell'Indie e presidij di Portogallo; il resto si è levato di Spagna,
- dodicimila italiani con dieci maestri di campo,
- vinticinquemila alemanni,
- mille e duicento cavalli leggieri spagnuoli, duicento altri della costa e duicento della frontiera, che
in tutto fanno mille e seicento.
… Di più per il servizio dell'artigliaria (si) sono levati quattromila e duicento huomini, delli quali
quattrocento sono guastatori…

Ecco ora l’elenco delle vettovaglie caricate sull’armata:

VITTOVAGLIE.

BISCOTTO.
Andalucia ha contribuito dodici mila quintali di biscotto.
Malaga e suo contado vintisettemila e cinquecento quintali.
Cartagena e Murcia cinquemila quintali.
Sicilia cinquantamila quintali.
Burgos e campo cinquantaseimila quintali.
Napoli e l'isole quindicimila quintali.
Possono essere in tutto centosessantasettemila e cinquecento quintali.

Le predette forniture confermano che a quel tempo la Sicilia era ancora la regione d’Italia
principale produttrice di frumento.

CARNE SALATA.
Siviglia ed Estremadura hanno contribuito quattromila quintali .
La Galitia seimila quintali
Asturia ed altre parti mille quintali, che in tutto sono undicimila.

CARNE DI PORCO.
Siviglia ed Estremadura hanno contribuito cinquemila quintali.
Ronda duemila quintali.
Galitia duemila quintali.
Biscaglia duemila quintali, chę in tutto sono undicimila.

PESCE DI DONDINA (‘DI TONNINA’).


Algarve ha contribuiti ottomila barili.
Almandrana (‘Almada’) del Duca undicimila barili.
Cadis (‘Cadice’) quattromila barili, che in tutto sono vintitre mila barili.
850

Si tratta di tonno salato.

FORMAGGIO.
Maiorica ha contribuito duemila quintali.
Siviglia ed Estremadura mille.
Portogallo vinticinque mila quintali che in tutto sono vintiotto mila.
RISO.
Genova e Valenza quattordicimila quintali.

Ovviamente si trattava di riso imbarcato a Genova ma di produzione lombarda e piemontese.

OGLIO ET ACETO.
Andalucia e Napoli hanno contribuito vintremila (‘ventitremila’) pesi:ogni peso vale vinticinquelibre
ed ogni libra sedeci onze.

FAVE ET PISELLI.
Cartagena n'ha contribuito quindicimila aneghe (‘fanéghe’).
Napoli e Sicilia undicimila aneghe, che in tutto sono vintiseimila.

La fanéga era l’antico staio spagnolo ed era divisibile in 12 celemines e questi in 4 quartillos).

VINO.
Malega, Marovella (‘Marbella’) e Cerefe (‘Jerez’) e loro giurisdittioni hanno contribuito tredicimila
botte.
Napoli seimila botte.
Siviglia e sua giurisdittione settemila botte, che in tutto sono vintiseimila.

Altre prouigioni di biade, ferri, panni di lino ed altre cose necessarie, delle quali ha fornito
l'Andalucia,
Napoli e Biscaglia.

Insomma, il Regno di Napoli non contribuì a quella sfortunata impresa solo con vascelli, ma anche
con grosse forniture di provvigioni.
851

Capitolo XVI.

LA GUERRA.

Come abbiamo già detto, la navigazione con le galere e i vascelli sottili in genere era destinata in
massima parte al Mediterraneo, perché questi, essendo di bordo molto basso e di poco pescaggio,
non potevano reggere i flutti impetuosi dell'oceano; infatti sia nell'Atlantico sia negli altri oceani e
mari aperti le armate erano costituite quasi esclusivamente di navi e galeoni, vascelli insomma
d'alto bordo e ben reggenti, perché non restassero sommersi dalle alte e forti onde che
percorrevano quei mari, mossi da venti e maree che il Mediterraneo non conosceva; inoltre questi
vascelli tondi, avendo le vele quadre, si governavano con molto meno problemi e pericoli e infine
più erano alti di bordo e meno ovviamente temevano gli abbordaggi. Questo non significa però che
la navigazione militare a remi non fosse per nulla praticata negli altri mari e infatti, oltre alla già da
noi ricordata e bella impresa fatta sulle coste scozzesi dalle galere di Leone Strozzi nel 1548 e a
prescindere dalla occasionale inclusione di galere avvenuta sia nell’Invencible Armada sia in quella
più tarda del 1597, inclusioni comunque vanificate dai terribili fortunali che dissolsero ambedue
quelle sfortunate armate, le galere asburgiche e filo-asburgiche si spingevano correntemente al di
là delle Colonne d’Ercole per accogliere e difendere i ricchi convogli spagnoli che dalle Americhe
giungevano in Spagna; nel già citato manoscritto della Biblt. Marciana si descrivono le tappe della
campagna di corso che le galere toscane fecero nel 1567 sulle coste mediterranee del Marocco e
poi del loro proseguimento oltre Gibilterra sino al Capo San Vicente, luogo dove si unirono a quelle
di Spagna e di Napoli, le quali erano appunto in attesa della flotta che stava arrivando dalle Indie
occidentali, per difenderla dai corsari inglesi che infestavano quelle coste :

… per dubbio non fusse la caravana occupata over noiata dai corsali di quei paesi chiamati
‘bertoni’, invero homeni molto terribili sopra l’acque e gran ladroni per quei mari. (Tutte le vittoriose
imprese delle galere del Serenissimo Granduca di Toscana fatte nei viaggi dall’anno 1565 al 1575.
Biblt. Marc. di Venezia. Ms. VI. CVI., B.N.N. Sez. Nap. Per. 2001.)

I corsali bertoni, cioè i vascelli corsari inglesi, erano molto temuti in tutti i mari, Mediterraneo
compreso, già nel Cinquecento, perché portati da gente di grande abilità navigatoria e sprezzante
del pericolo come tradizionalmente i britannici in generale; si veda per esempio quanto se ne dice
in questa esortazione politica di anonimo scritta nel 1598 subito dopo la morte del re Filippo II di
Spagna e dedicata al nuovo re Filippo III:
… di questi tali vasselli se ne veggono ne’ mari della Grecia alcuni ogn'anno e sono così arditi e
così securi che non temono incontro di sorte alcuna e sono ess itemuti da tutti, né le galere se gli
accostano né altri vasselli armati, in somma sono stimati invincibili e pare che neanco possa loro
852

contro il mare o'l vento, onde, se ne comparisse qualche buon numero, metterebbono tutto a fuoco
e fiamma senza trovare resistenza… (Del tesoro politico la terza e quarta parte ecc. P. 181.
Tournon, 1612.)

Per cui serebbe utile assoldarne, nel caso il nuovo suddetto monarca decidesse di portar la guerra
agli ottomani, ma con certe cautele:

... Ma in una simil facenda una cosa s'haveria da avvertire diligentemente, che nella spedizione di
tali
vasselli bertoni si ponessero ordini buoni, che portassero rispetto a’ christiani e a gli amici, perché
quella gente è in credito di non havere punto di risguardo ad altro che alla preda, però (‘perciò’)
saria necessario mettervi un capo d'autorità e far bene imprimere ne gl'animi che non si dovesse
haver fine solo di preda, ma d indebolire il nimico… (ib. P. 182.)

Gli inglesi avevano imparato la marineria dagli anseatici:

… cominciarono li medesimi inglesi à destrarsi più alla matinarezza, nella quale sono poi riusciuti
superiori à gli hanseatici, e a tutte l'altre nazioni del mondo, tanto per la qualità de' vasselli, quanto
per l'esperienza deʼ marinari e per l'ardire de' capitani, onde hauemo sentiti nominare in questi
ultimi tempi il Drago (‘Francis Drake’), famosissimo archipirata, e Riccardo Campoverde (‘Richard
Grenville’) suo nipote, a' quali hà bastato l'animo di scorrere e depredare più d'una volta l'Indie
Orientali e Occidentali e di circondare anco il mondo, come con una cintura si cinge un huomo (ib.
P. 237).

La Spagna si servì abbondantemente delle sue galere anche nella guerra di conquista del
Portogallo, ossia nel triennio 1580-1582, come ricorda l’anonima discettazione spagnola da noi più
sopra già citata:

… galere, le quali nell’impresa di Portogallo pare che habbino, se non levata, scemata almeno
quella superstiziosa credenza nostra che i legni delle marine di qua non siano buoni in alcun
tempo da navigare l’oceano, come se l’estate non fosse bonaccia in quel mare e se la bonaccia
fosse abortiva di legni; onde non è dubbio che le nostre galere possono sicuramente arrischiarsi in
quel mare i tre mesi dell’estate… (Cit.)

Si trovava nell’oceano un equivalente della fregata mediterranea nella corvetta (dal lt. corbita,
‘provvista di gabbia’), detta anche barca lunga o doppia scialuppa o ancora postiglione,
un’imbarcazione a due alberi e priva di coperta, di forma più bassa e allungata delle barche
ordinarie, la quale andava a vele e a remi; si trattava in sostanza d’una discendente del drakar
medioevale scandinavo ed era molto frequente a Dunkerque e a Calais, essendo inoltre
anch’essa, come la fregata, molto usata al seguito dell’armate come vascelletto scopritore e
avvisatore. Inoltre durante le guerre che combatterono contro la Spagna le Province Unite olandesi
usarono dei piccoli vascelli sottili non pontati simili a bergantini, ma con la prua alta sull’acqua, un
piccolo tendale tondo a poppa, un solo albero molto arretrato, prua e poppa armate con due piccoli
853

pezzi di campagna; erano questi vascelli remieri che avevano un solo vogatore per banco, ma
potevano contenere sino a 100 uomini. Infine, come abbiamo già ricordato, nel Cinquecento la
stessa Inghilterra, anche se potenza solo oceanica, fece qualche uso di alcune galere - ce n’era
una, probabilmente mercenaria, in appoggio all’esercito di Enrico VIII che combatté contro gli
scozzesi a Pinkie Cleugh (Musselburgh) nel 1548 - e di altre poliremi simili alle predette olandesi e
che erano chiamate nel Mediterraneo ramberghe (fr. ramberges, alterazione dell’ing. rowing-
barges); d’altra parte questi vascelletti sottili a remi inglesi dovevano essere una tradizione, a
leggere quanto già ne scriveva Procopio da Cesarea nel sesto secolo a proposito dell’armata di
mare preparata dai britanni contro i continentali varni, sembra nel 542. Si sarebbe trattato di 400
imbarcazioni portanti centomila uomini, numeri ambedue poco credibili, specie il secondo; si
sarebbe trattato di gente tutta remigante, oltre che combattente, perché gli inglesi di allora non
ancora conoscevano la navigazione a vela, avendo evidentemente i conquistatori romani, a titolo
precauzionale, evitato accuratamente di insegnare alle popolazioni isolane sia quella sia l’uso del
cavallo:

... In tutta quell’armata non c’erano marinai, ma erano tutti remiganti, non maneggiando infatti mai
vele alcuno di quegli isolani, ma navigando sempre solo da remieri (περίνεως δὲ οὐϰ ἦν ἐν τούτῳ
τῷ στόλῳ, ἀλλὰ αὐτερέται πάντες. οὐδὲ ἰστία τούτοις δὴ τοῖς νησιώταις τονχάνει ὀντα,
ἀλλ'ἐρέσσοντες ἀεὶ ναυτίλλονται μόνον. In De bello gothico, lt. IV, 20).).

Negli annali della città di Salem nella Nuova Inghilterra alla data del 18 agosto 1697 si legge:

La galera di Salem cattura un vascello francese sui Banchi. (Joseph B. Felt, Annals of Salem.
Volume II. Salem, 1849.)

Che quella colonia americana, anche se s’affacciava sull’oceano, avesse ritenuto utile dotarsi
d’una galera per difendersi dalle minacce marittime portate da francesi e spagnoli è comprensibile;
ma poi alla data del 4 ottobre dello stesso anno è scritto:

La galera di Salem, capitano William Pickering, è arrivata da Plymouth, Inghilterra. (ib.)

Ora che a una galera, anche se della fine del Seicento, si facessero affrontare traversate
transoceaniche ci sembra sinceramente incredibile; riteniamo dunque che si potesse in effetti
trattare d’una rowing-barge, dal bordo quindi più elevato rispetto a quello così tanto basso d’una
galera ortodossa. Poi, alla data dell’11 maggio 1704, leggiamo ancora:

Sewall portò a Salem una galea - capitano Thomas Larrimore - a bordo della quale egli aveva
catturato sette pirati e un po’ del loro oro all’isola di Shoals. Giorno 12, altri due di questi pirati,
catturati a Gloucester, sono condotti nelle carceri di Salem. Giorno 13, Sewall porta i pirati a
Boston sotto buona guardia. Giorno 30, il cap. John Quelch e cinque del suo equipaggio sono
854

impiccati; circa 13 dell’equipaggio di questa nave restano sotto sentenza di morte, mentre parecchi
altri di loro sono stati prosciolti. (ib.)

12 febbraio 1705:

La nave Essex Galley viene spinta a terra alle Barbados da un corsaro francese ed è perduta. (ib.)

29 dicembre 1702:

Benjamin Pickman è comandante della nave Province Galley… (ib.)

La navigazione da guerra remiera fu però nel Cinquecento prerogativa non solo del Mediterraneo,
ma anche del Mare Arabico, scontrandosi in quelle acque frequentemente squadre portoghesi e
ottomane, e molto interessante è a questo proposito il diario d’un còmito di galeazza mercantile
veneziana che, catturato nel 1537 dai turchi, fu con molti dei suoi compagni trasferito a Suez e
imbarcato sulla squadra di galere che Costantinopoli manteneva nel Mar Rosso per contrastare i
traffici tra i portoghesi e le loro colonie indiane. Il detto diario fu incluso, a partire da p. 296, in una
raccolta di viaggi marittimi pubblicata a Venezia nel 1550 a cura, come sembra, di Giovan Battista
Ramusio e ne riporteremo ora il contenuto per sommi capi. Nel marzo del 1537 Costantinopoli
dichiarò guerra a Venezia e tutti i vascelli mercantili veneziani in quel momento in sosta nei porti
ottomani furono di conseguenza sequestrati e i loro equipaggi arruolati a forza nella marineria
turca; ciò capitò anche ad alcune galee di mercato o galee di viaggio (lt. galiae a mercato’) - ossia
galee grosse mercantili - che, sotto il capitanato d’Antonio Barbarigo, si trovavano allo scalo d’
Alessandria d’Egitto; gli equipaggi furono trattenuti sino al 7 settembre qualche tempo in quella
città, finché, scelta di quelli la gente atta al servizio marittimo e cioè bombardieri, remieri,
marangoni, calafati, marinai, còmiti e armiraglio, fu mandata a Suez a partecipare alla
preparazione di un’armata di galere per l’India:

… Il Sues è un luogo deserto, che non vi nasce herba di sorte alcuna, ed è ove Dio sommerse
Pharaone; e quivi fu fatta l’armata per l’india e tutto il legname, ferramenta, sartiame, munizione
furon condotte di Satalia e Constantinopoli per mare fino in Alessandria e poi, caricate nelle zerme
(‘germe’), le condussero su per il fiume Nilo, fino al Cairo; quivi, prese delle vettovaglie e arteglarie,
fu posto il tutto sopra cammelli che le condussero fino al detto Sues… Questo luogo del Sues è nel
principio del Mar Rosso ed è un poco di riduttori muro marcio da passa trenta, fatto in quadro, ove
stanno di continuo da venti turchi per guardia di quello. E fecero detta armata di legni settantasei,
fra grandi e piccoli, cioè maone sei bastarde, dicisette galee sottili, 27 fuste nove, galeoni due, navi
quattro e altre sorti di navilij fino al numero de 76. (G. Battista Ramusio, Delle navigationi et viaggi
etc. V. I. P. 274v.)

Fallita ai cristiani prigionieri una fuga in massa il 9 marzo 1538, l’armata fu raggiunta poi il 15
giugno successivo anche dal suo generale, l’eunuco Suleyman Pasha, il quale, dopo essersi
855

riposato otto giorni, fece dare a ciascuno dei cristiani una paga, consistente in 5 ducati d’oro e 10
maidini, ossia monete con l’effige del Mahdi (‘profeta’), pari in tutto a 215 maidini:

… e parte degli huomini delle nostre galee grosse furno posti sopra l’armata, cioè sopra una delle
bastarde settanta e sopra un’altra delle dette bastarde altrettanti, sopra il ‘chacaia’ (‘caico’)
quindeci, sopra la galea de ‘Chielierchi Basí’ (probabilmente ‘Kilirgj Pasha’) diciotto… il restante
veramente di detti uomini furno posti sopra li due galeoni, ove erano cariche (di) polvere, salnitrij,
solferi, balotte, farine, biscotti e il tutto per il bisogno dell’armata; e ancora il Bassà fece caricar li
suoi danari sopra le galee, i quali erano coperti di cuoi di bue (‘a prova di fuoco’) e tela incerata
(‘impermeabile’) e furno cassette quarantadue… (Ib.)

Il giorno 27 giugno l’armata partì per l’India e, circumnavigata la penisola arabica, arrivò a Diu,
colonia portoghese sulla costa occidentale dell’India, dove il locale castello era tenuto da una
guarnigione di 700 portoghesi ed era guardato da sei galere più alcune fuste; ma colà i turchi
trovarono appoggio in un altro rinnegato italiano che, come poi farà Uluch-Alì, aveva fatto gran
fortuna in Levante:

… A di detto venne uno chiamato il Cosa Zaffer (‘Kosa Jaffer’), il qual è da Otranto, ma renegato e
fatto turco ed era patron di una galea quando il Signor Turco (‘il sultano’) mandò l’altra armata, la
qual si ruppe (perché colta da una tempesta) e si perse e il sopradetto Cosa Zaffer andò a star con
il re del Diu, il quale si chiama re di Cambia e questo per nominarsi così il paese, e al predetto
Cosa Zaffer il re gli haveva donato alcune terre e fatto capitano di tutto il suo regno e lui praticava
con portoghesi ed haveasi fatto loro amico; ma quando lui intese che l’armata del Signor Turco
veniva, fece venire con bel modo gente assai del paese e tolse la terra di man de’ portoghesi e gli
assediò nel castello… il bassà (il predetto Suleyman Pasha) gli fece honore… (Ib. P. 276v.)

Bella forma di traditore abituale questo pugliese! I turchi sbarcarono artiglierie e, preso una specie
di torrione (e detto castello si chiamava Gogole) difeso da 100 portoghesi, dei quali gli 80 residui
s’arresero e furono incatenati ai remi dai turchi, incominciarono poi a battere e assediare il castello
principale di Diu, ma i cinquecento portoghesi che lo difendevano si difendevano come lioni
arrabiati; Suleyman Pasha intanto si dimostrava tutt’altro che un generale coraggioso:

A dì XV (‘15 ottobre 1538’) il bassà smontò dalla maona e andò sopra la bastarda e fece metter
tutti li christiani in ferri e mandò a tuor una vela bianca di un’altra galea, perché la sua era divisata;
e questo fece perché si aspettava l’armata di portoghesi e non voleva che si sapesse in qual lui
fosse e, dubitando anchora dell’artegliaria (‘e temendo anche l’artiglieria nemica’), fece far a poppa
una gran curcuma (‘un riparo’) di gomene e d’ogni sorte di cavi, assai bastante per sicurtà di una
artegliaria quando l’armata fosse venuta, perché era spauroso e senza animo. (Ib. P. 277v.)

Come se ciò non bastasse, il 2 novembre, saputosi che si stava avvicinando un’armata
portoghese, l’eroico Suleyman Pasha ordino che si rinunziasse all’assedio e ci si reimbarcasse a
rotta di collo, abbandonando le artiglierie grosse a terra e così l’intera l’impresa d’India. Come tutti i
vigliacchi, Suleyman era anche tutt’altro che generoso e condannava a morte immediata per un
856

nonnulla; il 19 settembre precedente aveva fatto impiccare il capitano d’una delle sue galere
bastarde, la quale era arrivata a Diu solo quel giorno e molto danneggiata, perché, rimasta indietro
durante l’avvicinamento alle coste indiane, aveva poi sbagliato rotta (havea mal spielegato) e,
raggiunto un altro porto, i nativi le avevano colà ammazzato parecchi uomini; il 17 ottobre aveva
fatto tagliar la testa a uno dei prigionieri veneziani, semplicemente perché costui aveva detto: La
mia Signoria (‘Venezia’) non è morta. Tornata quindi l’armata ottomana sulle coste d’Arabia, dove i
turchi si vantarono d’aver fatto imprese grandi, quasi avessero tolto ai portoghesi tutti i loro
possedimenti indiani, Suleyman commise ancora un altro omicidio gratuito:

A dì VJ (6 dicembre 1538?), essendo il bassà in Aden con tutta l’armata, la mattina fece chiamare
a sé un turco ch’era stato christiano, ma rinegato, homo di gran conto ed era patron d’una galea, e,
senza dir altro, gli fece tagliar la testa. Si mormorava da tutti che’l bassà, dubitando che costui non
l’accusasse della dappochaggine e viltà sua, se lo volse levar davanti, poiché questo rinegato fu
altre volte al soldo del re d’Aden… (Ib. P- 278v.)

Arrivatisi poi al regno di Zibit, ossia della Mecca, Suleyman Pasha ne fece decapitare il re,
nonostante questi avesse regalato a tutti i turchi dell’armata venuti in sua presenza vesti di seta e
uno schiavetto negro per il loro piacere; allora si presentò al pasha l’intera guardia reale del re:

… onde li vennero da 200 negri abissini, li quali erano soldati del re; questi sono huomini valenti,
terribili, che non stiman la vita e corrono poco manco di uno cavallo e vanno tutti nudi, ma
cuoprono con uno facciolo le lor vergogne, e portano un gran bastone di corniolo ferrato e alcuni
zanettine (‘ginettine, giavellotti’) da tranne a modo di dardi e alcuni una spada corta un palmo
manco di quelle che usano i christiani e universalmente tutti hanno alla cintura un pugnale storto
alla moresca. (Ib.P. 279r. e 279v.)

Suleyman con una scusa li convinse a tornare disarmati e li fece uccidere tutti e poi, ancora non
sazio di sangue e bisognoso di nascondere al sultano il suo insuccesso, ne fece un’altra delle sue:

A dì X (10 febbraio 1539) il bassà smontò in terra e fece cavar tutti li portoghesi di catena e menarli
ligati in terra e feceli acconciare in schiera e a tutti li fece tagliar la testa e furno centoquarantasei,
tra quali erano alcuni indiani fatti cristiani; e le teste de’ principali e delli più belli furno scorticate e
salate e impite di paglia; alli altri furno tagliati li nasi e le orecchie per mandare al gran Signore (‘al
sultano’). A dì XIIJ si partì il chacaia in conserva di un’altra galea e andò al Zidem e di lì alla Mecca
e poi andò alla volta di Costantinopoli con le nuove del viaggio dell’India e con presenti e con le
teste, nasi ed orecchie per mostrarle ai Signore, acciò che si vedesse che haveano fatto faccende
assai. (Ib. P. 276v.)

Tornata l’armata a Suez nel giugno successivo, per i cristiani prigionieri iniziò un duro lavoro:

A dì IJ (‘2’) di luglio si cominciò a tirar la prima galea in terra e fu la bastarda del bassà e poi le
altre, ‘sì come giungevano, si diguarnivano e tiravano in terra e li christiani erano li bastaggi
(‘facchini’) e quelli che voltavano gli argani, spianavano e diguarnivano; e in conclusione tutte le
fatiche erano sue, insino a dì XVJ, che in quel giorno venne l’emin (‘pagatore’?) e dette le paghe a
857

tutti li marinari e non solo alli turchi, ma etiam alli christiani; e la paga era di maidici centottanta per
ciascuno… il restante dell’armata giunse al Sues e tutta fu tirata in terra per man delli christiani,
quali stentorno girono e notte. A dì XXVI detto si dette fine al tira le galee in terra e le gomene e
sartiami, ferri, palance, artegliaria minuta e altri rispetti furno portati in castello. (Ib. P. 280v.)

In seguito i prigionieri furono riportati al Cairo e non ne conosciamo le ulteriori traversie perché il
giornale di viaggio del còmito termina appunto con tale ritorno:

A dì XXVIIJ di novembre li christiani delle galee di Alessandria si partirno dal Sues e adorno al
Cairo e a dì primo dicembre furno posti in quella casa dove erano stati per avanti e li davano mezo
maidino il giorno per ciascuno, che sono duo soldi veneziani; di modo che si passavano con grandi
affanni e fatiche; però che ogni volta che accadeva far nette cisterne, spianar monti, acconciar
giardini e lavorar fabbriche e altro, tutto il carico era de’ christiani… (Ib. P. 495r.)

Secondo Francesco Vendramino (1595), la Spagna guardava con galere anche le coste dei suoi
possedimenti delle Indie Occidentali, ma in verità non abbiamo trovato conferme a
quest’affermazione. La navigazione da guerra remiera si usava intensamente anche nel Baltico,
dove anzi questo tipo di vascelli si estinguerà anche più tardi che nel Mediterraneo; si trattava
infatti d’un mare anch’esso sufficientemente riparato dai venti e dai flutti più forti e in esso russi e
svedesi si affrontarono con due grandi squadre di galere nella grande battaglia di Hankoniemi del
1714 e in altri scontri della grande guerra nordica. Infine, non sappiamo dire fino a che epoca si
useranno i lancioni, specie di galere cinesi più quartierate di quelle mediterranee, le quali avevano
otto ranghi di remo per lato e sei uomini a rango, vascelli che nel diciassettesimo secolo erano
usati in quei lontani mari specialmente dai corsari, e inoltre i karakor o korkor o anche korkurre del
Borneo, ma tutto ciò esulerebbe dal nostro tema. C’è infine da ricordare, secondo quanto si legge
nella relazione approntata nel 1559 da Leonardo Mocenigo, residente veneziano presso
Ferdinando I, un tipo di bergantino fluviale, detto nassada, che si costruiva nell’arsenale di Vienna,
e di cui questo sovrano affermava allora poter far scendere nel Danubio un’armata di ben
quattrocento esemplari; si trattava di vascelli remieri da 28 uomini da remo ciascuno - tutti
ungheresi, schiavoni e italiani - più un padrone, un timoniero, un proviero e un bombardiero ed
erano appunto di forma simile a quella dei bergantini, ma un po’ più bassa; quest’armata, la quale
includeva anche qualche fusta e qualche bergantino vero e proprio, era tenuta a Komárom e a
Giavarino (‘Raab’), mentre i tanti piccoli pezzi d’artiglieria con cui s’armavano erano conservati nel
predetto arsenale (Cit.).
Fino alla metà del Seicento le armate mediterranee furono dunque costituite principalmente da
galere, i vascelli da guerra per eccellenza, mentre navi e vascelli tondi - o quadri che dir si voglia -
servivano solo da batterie galleggianti (sapendo che con le navi si può difendere e non assalire,
scriveva infatti il Sereno) e per il trasporto di soldati, cavalli, artiglieria, munizioni, armi, vettovaglie
858

e macchine da guerra; nella seconda metà di quel secolo, entrando ormai correntemente
dall’Atlantico nel Mediterraneo flotte armate, oltre che spagnole, anche olandesi, inglesi e francesi
a combattersi tra di loro, i grandi velieri divennero presto il nerbo dell'azioni di guerra anche in
questo mare e i compiti delle galere e degli altri vascelli sottili furono gradatamente ristretti alla
guardia costiera per il loro basso pescaggio e alla scorta dei vascelli tondi, i quali, restando fermi in
bonaccia, avevano bisogno di poter essere difesi da altri vascelli sempre in movimento (quando
non talvolta anche rimorchiati per brevi tratti), cioè appunto dalle galere, le quali restavano poi
anche come sempre utilizzate per il rapido trasporto di soldatesche, personaggi e diplomatici,
mercanzie preziose e non molto ingombranti, come per esempio le sete che le galere pontificie
andavano a caricare alla fiera di Messina e scaricavano a Livorno, perché di là venissero inoltrate
a Lucca, importante centro di commercio e lavorazione di quel tipo di tessuto; a Livorno poi le
galere papaline si rifornivano di remi. Insomma le galere continuarono a essere impiegate in
qualsiasi impresa e servizio dove fosse necessaria molta celerità e una navigazione non
completamente dipendente dalla direzione e forza del vento; oppure per avanguardia di un’armata,
per andar a riconoscere, ossia a valutare, il nemico o delle coste o per occupare di sorpresa un
porto o una fortezza costiera nemica e ciò grazie alla loro leggerezza e agilità. Esse potevano
infatti costeggiare e prendere porto dove volevano al fine di procurarsi rifornimenti, di torre lingua
o di prendere lingua del nemico, come allora si diceva e come abbiamo già accennato, cioè di
catturare qualcuno del paese ostile e, anche usando la tortura, farlo parlare della consistenza e sui
movimenti dei vascelli avversari, infine d' assumere in paese amico informazioni generali sulla
natura delle coste e sulla loro disponibilità d'acqua, viveri e legname; tutti compiti questi che non
potevano essere ben svolti dai vascelli tondi, i quali, per il loro profondo pescaggio, erano costretti
il più delle volte a dar di fondo al largo della costa.
I vascelli piccoli da remo, come fregate, castaldelle, filuche, gondole, schifi, copani ecc., poiché
potevano ancora più facilmente avvicinarsi ai lidi, servivano per sbarcare velocemente
un’avanguardia di soldati da squadronare immediatamente sulla spiaggia nemica per coprire così
e difendere lo sbarco del resto dell'esercito, per il quale - come del resto anche per quello
dell’artiglierie - si potevano anche costruire appositamente con tavole sottili dei barconi larghi e
piatti, come fece Juan de Austria nel 1573 per sbarcare le sue fanterie sulla spiaggia della Goletta,
dove però uno dei quali barconi, sorpreso lo sbarco da un’improvvisa burrasca, affondò facendo
purtroppo affogare i più di 70 fanti tedeschi che trasportava. Barche, leuti, tartane, saettie e gli altri
vascelli a vela latina erano molto utili per portare vettovaglie, munizioni, legname, ferramenta,
calce e altri materiali da costruzione eventualmente necessari a un esercito che volesse fortificarsi
su qualche posizione o a un’armata marittima lontana dalle sue basi.
859

Un combattimento tra galere assomigliava abbastanza a una battaglia di terra, perché le galere,
benché anguste, erano capaci di portare molti combattenti, i quali si disponevano in ogni parte
delle opere morte, vale a dire alle rembate, contro-rembate, balestriere, corsia, posticci,
barcarizzo, gallerie, tamburetto, palmetta, ecc. Inoltre, per la loro bassezza, le galere offrivano ben
poco bersaglio all'artiglierie nemiche e infine permettevano agli uomini di saltare facilmente
dall'una all'altra con conseguente facilità d’arrembaggio e di soccorso. Insomma, tra galere si
poteva combattere quasi da fronte a fronte come in campo aperto. Un combattimento tra navi e
galeoni e tra questi e le galere ricordava invece la batteria e l'assalto delle fortezze di terra, perché
si trattava di vascelli d'alto bordo; ma molto dipendeva anche dalla stazza di detti vascelli e ciò
quindi non valeva quando le galere erano quelle grosse da mercanzia e i galeoni erano piccoli da
corso, come per esempio nello scontro che avvenne nella prima metà dell’agosto 1497 nei mari di
Calabria e che leggiamo nei Diarii del Sanudo. Avvenne che un marano veneziano, cioè una nave
a doppio timone laterale nello stile antico, appartenente al patrizio Andrea Loredano e carico di
rame e altre mercanzie, fu assalito e catturato da 3 fuste e due galeoni corsari francesi, ma,
sopraggiunte due delle quattro galee grosse veneziane da mercanzia allora assegnate alla rotta di
Alessandria [quelle per Baruti (‘Beirut’) erano quell’anno tre] e capitanate da Bernardo Zigogna
(oggi ‘Cicogna’), i vascelletti corsari furono costretti a rilasciare la loro preda e a fuggire (T. I, col.
722).
La funzione delle galeazze ponentine e dell’equivalenti galee grosse veneziane era quella di
baluardi delle armate di mare, perché, essendo molto lente e pesanti e stracariche d'artiglierie e di
soldati, si ponevano appunto davanti all'armata in luoghi dove il loro volume di fuoco facesse da
sbarramento protettivo e offensivo allo stesso tempo; questa tattica, usata in grande stile a
Lepanto, fu probabilmente la scelta che più contribuì alla vittoria dell'armata cristiana. In mancanza
di galeazze si usavano alla stessa maniera navi grosse armate e galeoni, pratica che poi
s’intensificherà nel Seicento, approfittandosi del grande sviluppo delle qualità veliche e nautiche
raggiunto dai velieri in quel secolo, e ne fu un esempio la battaglia che avvenne nel novembre del
1665 al largo di Creta tra tre soli velieri corsari di Malta e ben 24 galere turche di Mehemet Ogli
Pasha e 10 altre di Durach Bey provenienti da Smirne; all’inizio il fuoco dei maltesi fu inefficace
perché troppo alto sulle basse galere e dopo ben nove ore di combattimento lo scontro finì senza
vincitori né vinti, ma con molti danni e molte vittime d’ambo le parti.
Galeotte, fuste e ancor di più i bergantini, a causa delle loro ridotte dimensioni, del minor numero
di combattenti e della poca artiglieria che, specie le seconde e i terzi, potevano di conseguenza
portare, non erano vascelli atti, come le galere, a investire il nemico, cioè a urtarlo per poi
arrembarlo, nel fronte della battaglia né a sostenerne a loro volta l'impeto; questi vascelli minori
860

erano dunque impiegati nella guerra di corso, negli scontri occasionali, nell'andare avanti
agilmente e velocemente a scoprire e riconoscere il nemico, tanto più che, potendosi nascondere
nelle piccole insenature costiere, evitavano facilmente di farsi scoprire dall'avversario; solo i turchi
usavano le galeotte come vascelli di linea indifferentemente dalle galere, perché, come sempre i
popoli poco provvisti di tecnologia, in guerra confidavano soprattutto nel superiore numero di
combattenti, anche se magari armati d’arco invece che d’armi da fuoco. Le fuste erano state
molto usate anche da Venezia fino a Rinascimento incluso:

(1499): … È stato deliberato di armare 8 fuste de 20 banchi l'una per guardia del golfo contro le
fuste del Turco uscite dalla Valona e da Scutari; ed è stato deliberato di fare un capitanio del golfo
ed è rimasto (votato) per scrutinio Agustino Malipiero fu Alvise, il quale fu capitanio a Baruto
(‘Beirut’), e gli si dà 1 galea e 4 di queste fuste (D. Malipiero, cit. Parte prima, p. 169).

Le filuche e gli altri vascelli più piccoli, viaggiando di conserva con galere, procedevano a
rimorchio di queste ed erano svincolate quando servissero a mandare ambasciate, missive e ordini
o a portare qualche persona da un vascello all'altro dell'armata [e alcune volte nelle avversità
hanno messi in sicuro e salvati i lor capitani (P. Pantera. Cit.)]. In caso di programmati sbarchi di
soldatesche, navi e galere però anche rimorchiavano o trasportavano zatte(re), dette allora rade o
anche fodri, barche, barcacce e battelli fluviali e lagunari dal fondo piatto, come per esempio i plati
(poi detti peate, peatone) e i burchi veneziani, adatti quindi ad accostarsi a terra portando il
maggior numero di soldati possibile e magari anche con un piccolo pezzo d'artiglieria a prua. Un
esempio di simili sbarchi, il quale per il luogo scelto anticipa quello di Normandia del 1944, è
ricordato dal Pantera:

... Con barche simili l'anno 1558 un’armata di settanta navi fiaminghe e inglesi mise gente in terra
in un luoco chiamato 'La Conquista' nella costa di Bretagna, dove, essendovi corsi gli habitatori per
prohibir lo sbarco, i fiaminghi, gettati in mare quindici gran battelli di fondo piatto condotti per
quest'effetto - ciascuno de' quali portava gran quantità di persone - sbarcorono in poco tempo circa
sei o sette millia persone, scacciorono i terrazzani e abbrusciorono il luoco. (P. Pantera. Cit. P. 53.)

I detti sandoni servivano anche per formarne ponti fluviali, mentre i fodri s’usavano soprtattutto
nelle darsene per rifornire di materiali e provviste i vascelli che vi si ritrovassero alla fonda. I C’è da
spiegare il termine terrazzani, il quale significava ‘abitanti’ di un luogo, specie di un luogo protetto
da terrazzi, ossia da cinte terrapienate. I vascelli sottili o da remo che dir si voglia, dai più grandi ai
più piccoli, erano inoltre tutti utili per la guardia costiera:

... Con una grossa squadra di galee guarda la Republica di Venezia continuamente le riviere
dell'Istria, della Dalmazia e di tutto il Mar Adriatico e con altre squadre assicura le isole del suo
dominio. Altrotanto fa il Re di Spagna intorno all'isole di Sicilia, di Sardegna e di Maiorica e alle
riviere del Regno di Napoli e di Spagna; e il Gran Turco mantiene una perpetua guardia di galee
861

per l'isole di Rodi, di Metelino, di Cipro, dell'Arcipelago e delle riviere che possiede nel Mar
Mediterraneo. (Ib. P. 55.)

Oltre alla guerra ortodossa, ovviamente e fortunatamente saltuaria, se ne praticava allora un’altra
che era praticamente continua e senza tregua e cioè la guerra di corso; questa nel Cinquecento si
esercitava nel Mediterraneo quasi esclusivamente a mezzo di galere, galeotte, fuste e bergantini,
ossia con vascelli sottili, mentre nel secolo successivo troveremo sempre più spesso anche
vascelli tondi e latini armati a corso, per esempio galeoni, navi, bertoni, polacche, petacchi,
marsiliane e tartane, vascelli questi ultimi che talvolta, specie quelli barbareschi, se non troppo alti
di bordo, erano provvisti anche di remi all’uso di corso, cioè da usare, smontate e tolte le pavesate,
per muoversi alla meglio in caso di mancanza di vento; il corso era un’attività bellica infatti in cui
servivano velocità, agilità e manovrabilità massima. Nel 1641, al tempo cioè della supplenza nel
governo di Sicilia esercitata dal magistrato Pietro Corsetto e da Raimundo de Cardona y Córdova,
castellano di Castell’a Mare di Palermo e commendator gerosolimitano di Visus Baleris (‘Íviza
Balearis’?) e d’Almos, le galere siciliane, il cui comando sarà in quel periodo anch’esso affidato a
governatori supplenti, dovranno uscire in campagna contro una squadriglia di tartane da corso
francesi che dannificavano i mari siciliani e ne prenderanno una facendo 34 prigionieri; ma poi gli
stessi corsari turco-barbareschi s’adatteranno anche all’uso di vascelli non remieri e spesso, a
tutta la prima metà del Seicento, useranno anche i bertoni e i galeoni, essendo infatti un galeone
da 26 pezzi quello con cui nel 1624 il corsaro di Smirne Diam Mamet desolerà le coste della
Sardegna, anche se, come abbiamo già detto, la versione turca di tal tipo di vascello era detta in
effetti sultana e non galeone; un galeone a tre ponti di 2.500 salme, 28 pezzi di ferro e 2 di bronzo,
3 petrieri e guarnito di moltissimi arcieri sarà quello del corsaro tripolino Amet raís che, come
abbiamo già accennato, nel 1634 e nel canale dell’isola di Negroponto sarà molto
sanguinosamente affrontato e catturato dalla squadra delle galere toscane comandata da Ludovico
da Verrazzano; un galeone di 36 pezzi e anche di 2.000-2.500 salme quello che invece nel 1640
un nuovo Kara Hogia, questo un corsaro bisertino comandante di una squadra di potenti velieri,
userà come sua Capitana; nel 1687 una squadra francese comandata dal de Tourville sbaraglierà
presso Ceuta quella algerina guidata da un vascello ammiraglio da 40 cannoni; nel 1698 la
Capitana di Tunisi sarà una sultana da 66 pezzi e un grande vascello da 56 cannoni, 40 petrieri e
600 uomini sarà invece la Capitana della squadra che il pasha di Tripoli, Alì Antulla, metterà in
mare nel 1708 per andare a scorrere le coste della Calabria e sarà poi armato di 40 cannoni e 200
uomini il vascello algerino La Mezzaluna nel 1713; insomma già dagli anni Venti del Seicento
anche grandi sultane (‘galeoni turchi’) da più di 50 pezzi, fregate da 22, caramussali, sciabecchi,
polacche e altri velieri corsari d’Algeri, di Tunisi e di Tripoli scorreranno regolarmente il
862

Mediterraneo, talvolta anche in flotte di decine di vascelli, sostituendo o affiancando i tradizionali


vascelli remieri; e, anche se perlopiù questi vascelli barbareschi erano armati di pezzi in gran
maggioranza di ferro e non di bronzo, il loro potenziale di fuoco era reso temibile dall’essere i loro
artiglieri molto spesso non magrebini né turchi, bensì inglesi e fiamminghi arruolati con grosse
paghe.
Questa guerra di corso era esercitata con singoli vascelli comandati da capitani corsari che
avevano pertanto ricevuto dal loro sovrano un’apposita autorizzazione, detta patente di corso, e
che potevano condurre le loro azioni belliche come meglio credevano, senza che fossero soggetti
a ordini superiori. La guerra di corso per lo più consisteva nella devastazione, nel saccheggio delle
coste nemiche, nella cattura d’infedeli rivieraschi da destinare alla schiavitù o da mettere a riscatto,
ma soprattutto consisteva nella cattura di naviglio nemico, mercantile o da guerra che fosse, e
spesso anche di naviglio amico quando i corsari fossero solo un po' più spregiudicati, quel tanto
cioè da valicare quel tenue confine che separava la guerra di corso dalla vera e propria pirateria,
cioè da quella che più tardi si dirà schiumare il mare (fr. écumer le mer; pirater, faire toutes voiles
blanches ; ol. opschuimen, zee-rooven, zee-shuimen, zee-stroopen, speelen alle zeilen blank),
ossia raccoglierne il ‘ricco grasso’, come si faceva del brodo di carne, di qualunque origine e
nazionalità fosse, e da cui infatti l’it. grassatori. Facevano eccezione le galee veneziane destinate
da quella repubblice alla guerra di corso, perché lo scopo era sorvegliare e di fendere in mare i
traffici mercantili veneziani, soprattutto quelli che avvenivano a mezzo delle lucrose galee da
mercato; i capitanei – perché, se armate per il corso, i comandanti delle galee veneziane non
avevano il titolo di sopraccomito bensì direttamente quello militare di capitaneo – dovevano stare
in mare raccogliento sempre informazioni della posizione delle loro galee grosse da mercato in
modo da poter portarsi nella loro zona specie in tempi di minacce nautiche portate dai corsari
nemici.
Incessante e intensissima era la guerra di corso praticata dai barbareschi - in effetti l’unica loro
industria e perlopiù generalmente guidata da rinnegati europei - e ne fu testimone il de Haedo, il
quale appunto nel 1578, trovandosi schiavo ad Algeri, così scriveva, in forma di dialogo, della
continua e pressocché indisturbata attività dei corsari algerini:

… Li si potrebbe dire dei cacciatori che inseguono le lepri per passatempo: qui essi prendono un
legno carico d’oro e d’argento proveniente dalle Indie, là un altro giungente dalla Fiandra, poi
ancora un altro in arrivo dall’Inghilterra, a quelli subito seguendone (altri) dal Portogallo o da
Venezia o dalla Sicilia o da Napoli o da Livorno o da Genova, tutti latori di ricchi e copiosi carichi.
Talvolta prendono per guide dei rinnegati, dei quali ce n’è tanti ad Algeri, provenienti da tutte le
nazioni cristiane, a tal punto che uno potrebbe dire che quasi tutti questi corsari sono dei rinnegati,
tutti ben conoscendo le terre e le marine cristiane; poi partono a lor piacimento, a metà del giorno
o secondo il loro capriccio, fanno uno sbarco, s’avanzano nell’interno fino a dieci, dodici, quindici
863

leghe e anche più, piombano sui poveri cristiani sorpresi, depredano le popolazioni, fanno
numerosi prigionieri, rapiscono una quantità d’infanti ancora alla mammella e portano con sé un
bottino ricco e vario. Così riforniti, si ritirano tranquilli e allegri per caricarne i loro vascelli. C’è
persino un numero di questi rinnegati che si trascinano legati dietro i loro padri, i loro fratelli od i
loro congiunti, i quali essi vendono o fanno turchi o mori, tutto ciò senza che alcuno faccia loro
resistenza o dica loro una parola. È così, voi lo sapete, che sono state rovinate e devastate la
Sardegna, la Corsica, la Sicilia, la Calabria, le marine di Napoli, di Roma e di Genova, Maiorca,
Minorca, Ibiza, tutte le marine di Spagna; queste ultime specialmente a causa dei mori che le
abitano e che, più mori di quegli stessi della Barbaria, li accolgono, li accarezzano e l’informano di
tutto ciò che essi vogliono o devono sapere.
È così che, venti o trenta giorni - a volte un po’ di più - dopo che sono partiti da casa loro con le
mani vuote e il ventre vacuo, tornano sazi e ricchi su dei vascelli riempiti fino al fondo di cala
d’oggetti di gran valore, avendo acquisito in un’ora e senza fatica il godimento di tutto ciò che il
lavoratore indiano e peruviano riporta dalle viscere della terra e dalle miniere di metalli preziosi con
tanta pena e preoccupazione e anche di ciò che cupidi mercanti, con grande e manifesto pericolo
della loro vita, sono stati a cercare a tante migliaia di leghe, sia alle Indie sia a ponente o a levante,
al prezzo di sudori e fatiche senza numero. (D. de Haedo. Cit.)

L’intensità della guerra di corso barbaresca condizionava così tanto la navigazione mercantile nel
Mediterraneo da rendervi l’uso dei vascelli tondi non conveniente d’estate non solo per le lunghe e
dannosissime ‘calme’ in cui un veliero poteva facilmente incappare, ma anche appunto perché in
tale stagione il mare era infestato dalle galeotte barbaresche; poi però, nel secolo successivo,
come abbiamo già detto, anche i barbareschi adibiranno al corso anche i galeoni, i caramusali, le
barche e altri velieri, per cui il commercio marittimo mediterraneo diventerà molto problematico
anche d’inverno; ma questa è un’altra storia.
I grandi vascelli remieri da corso barbareschi, a differenza di quelli turchi, si servivano per la voga
pressocché esclusivamente di schiavi cristiani, i quali erano trattati in maniera incomparabilmente
più disumana di quella usata per gli schiavi maomettani che vogavano sui vascelli cristiani e
dovevano riconoscerlo persino i francesi, alleati dei turchi; infatti, lo scandaloso connubio tra
Francia e impero ottomano era tanto più biasimevole quanto più chiaro era il suo carattere di
strumentalità antiasburgica, di ragion di stato perseguita anche se con gravissimo detrimento del
cattolicesimo e dei popoli che lo professavano e gli stessi sudditi francesi dovevano accettare tale
real politik dei loro sovrani a denti stretti e turandosi il naso, com’è dimostrato dalle considerazioni
che fa il de Bourdeilles a proposito dei maltrattamenti che egli aveva talvolta veduto infliggere sulle
galere agli schiavi maomettani:

… Ma, dirà qualcuno, come ho sentito dire una volta da un còmito di galera spagnolo ad un
gentiluomo che aveva compassione d’un povero schiavo ch’egli picchiava di santa ragione, come
(se fosse stato) un cavallo sdraiato per terra, senza che quello osasse muoversi; e,
rappresentandogli quella crudeltà, l’altro gli rispose così: ‘Se voi foste stato schiavo dei turchi come
me, voi (non) ne avreste pietà, perché essi trattano noi cento volte più crudelmente che noi loro’; il
che è vero e il peggio è che, quando essi tengono noi, noi altri francesi, ci fanno lo stesso che agli
altri cristiani, non avendo alcun riguardo né considerazione alle belle franchigie che ricevono in
864

Francia, come ho visto io, e anche ultimamente vedemmo arrivare alla Corte del nostro ultimo Re
all’incirca sessanta turchi e mori, i quali erano scappati dalle galere di Genova e s’erano salvati in
Francia; il Re li vide e fece loro donare del danaro per il loro trasferimento e imbarco a Marsiglia.
Quelli stessi dissero che, ben sapendo del privilegio di libertà e della franchigia della Francia,
avevano fatto ciò che avevano potuto per prendervi terra e provavano una gioia estrema d’esservi
e adoravano noi, noi altri francesi, fino a chiamarci fratelli: E Dio lo sa, se essi avessero tenuto noi
in loro potere, ci avrebbero trattato come gli altri… (P. de Bourdeilles. Cit.)

Il perché la vita da schiavo di galera fosse dunque tanto peggiore sulle galere turco-barbaresche
che su quelle cristiane era da ricercarsi nella irrazionalità di fondo della cultura islamica e nella
barbarica crudeltà delle civiltà semitiche; ma soprattutto era peggiore, come abbiamo già detto,
quella che si conduceva sui vascelli da remo barbareschi e la ragione ce la spiega il già più volte
citato de Haedo, schiavo ad Algeri:

… Ci si rende in effetti subito conto che i cristiani impiegati al remo nei vascelli dei turchi e dei mori
si vengono a trovare in una situazione diversa da quella di coloro che sono sulle galere cristiane,
poiché l’unica e continua occupazione di questi barbari è d’esercitare il brigantaggio su tutte le
coste degli stati e reami cristiani… mentre le galere cristiane danno gran scandalo nei porti, perché
quelli che le montano vi stanno a preparare i loro pasti a loro gusto, a digerirli a loro agio, vi
passano i giorni e le notti a banchettare, a giocare ai dadi e alle carte, questi corsari battono a lor
piacimento tutti i mari di levante e di ponente, senza aver nulla da temere e come se ne fossero i
padroni incontestati […] Essi si dedicano senza tregua al corso, in inverno come d’estate, senza
tener conto di cattivo tempo o di tempesta, poiché non ci mettono più d’un giorno o due per
raggiungere quelle isole, dove sono sicuri e così tranquilli come a casa loro e nei porti di Barbaria
od ad Algeri; non appena sopraggiunge una bonaccia e la tempesta non li travaglia più si mettono
subito ad incrociare liberamente da una parte e dall’altra per cercare e attendere le barche e le
navi cristiane, che essi prendono alla sprovvista o che affondano con l’aiuto delle loro artiglierie,
senza mai riposarsi né di giorno né di notte, sia che il vento sia favorevole sia che sia contrario,
sempre navigando a remi e senza mai alzare le vele per evitare d’essere visti da lontano,
‘tagliando’, com’essi dicono, ‘il vento nelle braccia dei cristiani’ e inoltre, navigando ordinariamente,
come pure esige l’arte del corso, a tutta forza, col ‘vento in piedi’ e contro le correnti marine. Ci si
può ben immaginare dunque… le fatiche, le angosce, le sudate dei miserabili prigionieri, i quali,
sempre e incessantemente, senza alcun riposo, nemmeno il più breve, devono tirare il remo e
sopportare il peso d’un travaglio senza tregua
… i porti (nord-africani) sono colmi di galere, di galeotte, di brigantini pieni di prigionieri incatenati
che, d’inverno come d’estate, di notte come di giorno, senza tregua né riposo, devono remare,
mezzi morti di fame e di sete, con le spalle fesse per i colpi di sferza e dove il sangue tinge i
banchi e arrossa le corsie…
(D. de Haedo. Cit.)

Anche l’alimentazione che il povero schiavo cristiano riceveva dai corsari mori era pessima e
insufficiente:

… Come mazzamurro, voi lo sapete, gli si da appena un po’ di mazzamurro ridotto in polvere o
due o tre bocconi di biscotto puzzolente e quasi marcio; in rare circostanze e a titolo di regalo gli si
aggiunge un po’ d’acqua acidulata, la quale da a quel biscotto senza sapore un’apparenza di
sapore, ed ecco tutto il nutrimento dello sventurato e disperato remiero. Come bevanda, è dato a
865

ciascuno di prendere l’acqua che può allorché il vascello ne fa da qualche parte, in tutta fretta e
premura per evitare d’essere segnalati; se ciò non si fa, un cristiano può crepare di sete senza
trovare alcuno che gli dia o gli faccia dare un sorso d’acqua. Come se ciò non bastasse, succede
molte volte che questi ladroni, nella loro insaziabile bramosia di rapine sempre ripetute, trascurano
di fare dell’acqua e compatiscono tanto poco la sorte dei miserabili cristiani che di quelli alcuni
svengono, altri muoiono di sete, altri ancora si riducono a bere la stessa acqua del mare, così
come successe (giugno 1579) sul vascello di Mami Corso: trentadue remieri cristiani, prigionieri da
poco, vi morirono di sete e alcuni schiavi del mio padrone (che erano stati) imbarcati su quel legno
mi giurarono che per più di otto giorni essi non avevano bevuto altra acqua che quella del mare...
(Ib.)

E come se tanto non bastasse, c’erano pure le busse continue:

… Quanto ai trattamenti, essi ricevono delle terribili botte, ripetuti ogni giorno, a mezzo di bastoni
duri e nodosi d’olivo o di grossi scudisci di nervo di bue e di forti corde di canapa, i quali sono
maneggiati a due mani e scagliati a ripetizione, non solamente da uno solo, ma dal ‘reis’ come
anche da tutti i turchi o rinnegati che sono nella galera o galeotta; tutti si fanno boia e carnefici, tutti
balzano in corsia, alcuni a dritta, gli altri a manca, scaricando colpi spaventosi sui nudi cristiani,
ciascuno sforzandosi di mostrarsi più crudele del suo vicino, sferzando loro le spalle, ferendoli alla
testa, rompendo loro i denti, strappando loro gli occhi, in breve, non lasciando alcuna parte del
corpo che non sia martirizzata, nera, contusa, coperta d’atroci lividure; i banchi grondano del
sangue cristiano che fanno sgorgare i bastoni e gli scudisci che s’abbattono da tutte le parti, ogni
sentimento di pietà è messo da parte e le sventurate vittime si ritrovano storpiate di braccia o di
gambe. E tale furia è ordinariamente così diffusa tra tutti quelli che persino quei (remieri che sono)
vili mozzi mori e rinnegati si levano dai loro banchi per distribuire anche dei colpi di pugno, di piede
e di frusta, degli schiaffi a quei disgraziati cristiani vicini a rendere l’anima e che remano con tutta
la loro forza. Tanto non basta ancora, se ne vedono anche molti che si precipitano su quei
miserabili e che, animati da una furia selvaggia, strappano loro le orecchie a colpi di denti e
troncano loro le narici, il che è uno spettacolo quotidiano […] non s’intende altro che il rumore dei
colpi proveniente dall’una o dall’altra specie di tormento, che le parole infernali urlate dai
persecutori: cani, bestie, cornuti, canaglie, nemici di Dio, sia maledetto il tuo Cristo, maledette
siano la tua legge e la tua fede, maledetto sia il Dio che tu adori e nel quale tu credi […] in breve,
uno spettacolo più terrificante e più orribile di qualsiasi altro. (Ib.)

Ogni minimo pretesto era buono per mettersi a picchiare selvaggiamente i remieri cristiani; ogni
comando di lavoro era accompagnato da violente busse e anche le occasioni d’allegrezza erano
spesso fonte di tali violenze:

(Antonio:) […] Quando essi fanno una ‘cofra’ o banchetto od ancora quando sono pieni di gioia a
causa d’una presa che hanno fatto, s’ubriacano di vino e d’’arrequin’ (‘acquavite’) e poi
all’improvviso fanno abbassare gli abiti a tutta la ciurma e la maggior parte di loro s’arma di
bastoni, di scudisci, di stroppi, mettendosi a colpire a destra e a manca, non fermandosi se non
quando hanno massacrato di colpi tutti quei disgraziati e si sono macchiate le mani e le vesti del
sangue cristiano che sgorga dalle loro spalle come da altrettante fontane; restano allora soddisfatti
e trionfanti, mentre gli scoppi di risa dei loro compagni salutano i gridi, i gemiti e l’esclamazioni di
dolore dei cristiani.
(Sosa:) […] Perciò non mi stupisce per nulla che i poveri cristiani impiegati nella navigazione,
trovando tanti e tanto crudeli boia avidi del loro sangue e bramosi di maltrattarli senza pietà,
muoiono in così gran numero sotto i colpi, per la fame e per i supplizi e che tutti quei vascelli, ogni
866

volta che sono in mare, forniscono ai pesci un così copioso nutrimento per i cadaveri che loro si
gettano.
(Antonio:) Non può essere altrimenti e non si può esprimere quale pietà si provi nel vedere tra quei
cristiani spossati di fatica e di tortura, gli uni cadere morti sui loro remi, altri sui loro banchi, altri
ancora tra i banchi. Se ne vedono che, ridotti alla disperazione, s’appiccano attaccando al banco
una corda che si passano al collo prima di gettarsi in mare; ciò è quello che fecero recentemente
(settembre 1578) un napoletano nel tornare da ponente sulla galera di Mami Reis e uno spagnolo
imbarcato sulla galera del rinnegato genovese Giafar Reis ritornando ultimamente dal corso di
Levante in compagnia d’altri legni. E quelli che restano in vita, in quale stato li si ritrova? Basta che
gettiate un colpo d’occhio su quegli schiavi del vostro padrone che sono rientrati recentemente
(all’inizio di novembre 1578) e che voi avrete (certamente) visto da questo cortile; guardate quei
corpi e quei visi, così scarni, tanto deformi da essere irriconoscibili, così ridotti dappertutto da non
restar loro che le ossa e la pelle, ad un punto tale che, nonostante siano vivi, se ne può fare lo
studio anatomico e scoprire tutte le loro ossa, nervi, vene, arterie e cartilagini. (Ib.)

Sosa conferma che quando questi schiavi, dopo l’arrivo, sono andati a salutarlo, egli non ha potuto
riconoscere diversi di loro, tanto i loro visi erano ora deformati, e allora si era fatto fare il racconto
delle loro sofferenze; ecco i due episodi più impressionanti. Partiti d’Algeri per andare in corso
verso la Sicilia e la Calabria la galera si fermo dopo qualche giorno a Biserta per il carenamento;
colà il raís visitò minuziosamente tutto il corredo, remi inclusi, per non aver poi cattive sorprese
durante la navigazione; arrivati poi a Kélibia, di fronte a Trapani, dove si voleva dar fondo, mentre i
cristiani remavano vigorosamente un remo si spezzò a metà in corrispondenza d’un nodo del
legno. A tal vista i turco-barbareschi e i rinnegati si misero a gridare ‘Tradimento, tradimento!’ e
tutti loro si misero a sostenere che a Biserta i remieri cristiani s’erano messi d’accordo con il
remolaro perché, dando a ogni remo nascostamente un colpo di scalpello, facesse ‘sì che, quando
si fosse stati oggetto di caccia da parte di qualche galera cristiana, facendosi necessariamente
forza sui remi questi si fossero spezzati, così lasciandoli in balia del nemico. Pertanto, senza
nemmeno perder tempo a verificare se questa loro tesi fosse vera, afferrarono il povero remolaro,
un bravo spagnolo originario di Puerto Santa Maria e schiavo del rais, e, per strappargli la
confessione di tale immaginario complotto, lo fecero distendere bocconi sulla corsia con mani e
piedi fermati e gli dettero trecento colpi sul dorso e sulle gambe e poi, facendolo girare supino,
altrettanti sul petto e sul ventre, tanto da farlo diventare completamente nero di lividi e da lasciarlo
tutto contuso e come morto, nonostante il povero disgraziato urlasse con il dolore la sua
innocenza; s’apprestavano i carnefici a far subire lo stesso trattamento ai suoi compagni di banco,
i più sospettati, quando un turco, esaminando il remo spezzatosi e vedendo che s’era rotto in
corrispondenza d’un nodo, senza d’altra parte presentare alcun segno di scalpello o d’altro
strumento, lo fece notare ai suoi compagni e così quel martirio ebbe fine. Un altro simile episodio
era poi avvenuto dopo un mese e mezzo di corsa sui mari dell’Italia meridionale; il loro vascello,
carico di prigionieri e di ricchi bottini d’ogni sorta, era giunto a Panarea, quando un remigante
867

cristiano, al quale il turco che aveva posto sulla balestriera accanto al suo banco aveva affidato
alcuni suoi effetti di vestiario perché li guardasse, uso questo molto comune nei vascelli remieri
turco-barbareschi, s’accorse che gli era sparita una scarpa del turco; allora, per paura d’essere
fustigato, fece passare quella residua di mano in mano tra i banchi perché gli altri vogatori
l’aiutassero a trovare quella smarrita; ma un rinnegato, notando questo passa-mano, lo riferì al raís
e così tutti a bordo cominciarono a dire che i cristiani si stavano passando un segnale
d’ammutinamento e allora, sordi alle spiegazioni che i poveri remiganti cercavano di dare,
afferrarono il primo che aveva passato la scarpa e, spogliatolo completamente, gli appesero alle
caviglie una pesante pietra, gli legarono i polsi dietro la schiena e, agganciandolo appunto a
questo legaccio, lo issarono nell’aria a mezzo d’una puleggia fissata all’antenna; poi gli dettero
tanti e tanto terribili strappi di corda da dislocargli i muscoli e le ossa degli arti e del tronco e da
lasciarlo come morto, tutto per fargli confessare i nomi dei suoi complici nel progettato
ammutinamento e nonostante il malcapitato non avesse fatto altro che negare disperatamente tale
complotto; poi, non avendo egli confessato, fecero spogliare tutti gli altri cristiani che avevano ai
remi, gli fecero distendere sulla corsia da prua sino a poppa e li tempestarono tutti di bastonate e
sferzate fino a quando gli stessi carnefici non rimasero senza fiato. In effetti bastavano pretesti
insignificanti per scatenare la brutale violenza dei corsari barbareschi:

… per maltrattare i malcapitati impiegati come ciurma, per farli cadere sotto il bastone e lo
scudiscio, è sufficiente che uno di loro parli a bassa voce ad un suo camerata, rida con lui, lo
guardi fissamente e ciò anche di più la notte, nell’angusto spazio che separa i banchi d’un piccolo
vascello, quando non si possono allungare né i piedi né le mani; che, se c’è uno che appena
muove un braccio od una gamba, che tocca un barilotto od una gamella od una scarpa, subito i
sorveglianti gli sono addosso e, come se l’imputassero di qualche misfatto, lo colpiscono a tutta
forza a colpi di bastone e di scudiscio abbattendolo immediatamente. (Ib.)

In tal maniera Arab Amat, il già menzionato governatore d’Algeri, nel giugno del 1562 uccise di sua
mano uno schiavo spagnolo e uno ibizano, ambedue giovani di circa 25 anni, i quali, fuggendo da
Algeri verso Orano, erano stati ripresi verso Cherchell e riportati indietro dai soliti cavalieri mori che
controllavano i vasti territori della Barbaria; così racconta la sua crudeltà il de Haedo:

… comandò che si facessero sdraiare i prigionieri a terra, li abbatté di sua mano e, non avendo
alcuna vergogna di trasformarsi in un vile carnefice egli stesso, li percosse subito con una mezza
picca della quale andava sempre armato; essendosi spezzata tale arma, continuò a percuotere sul
ventre con un grosso bastone talmente lo spagnolo che finì per ucciderlo. Morto quello, applicò lo
stesso trattamento all’ibizano e gli lese talmente il ventre, il fegato e gli intestini che lo si credé
morto e lo si sollevò per interrarlo come l’altro; questo visse ancora due giorni, alla fine dei quali
spirò… (Ib.)
868

In una simile maniera, cioè con una tale bastonatura da frantumare tutte le loro ossa, all’inizio del
1574, ossia durante il suo secondo governatorato ad Algeri, Arab Amat fece uccidere 10 schiavi di
una quarantina che erano fuggiti impossessandosi d’un brigantino nel porto d’Algeri ed erano stati
poi ripresi, perché, avendo incontrato un forte maestrale contrario, erano stati costretti ad andare a
rompersi in terra nei pressi di Porto delle Galline, oggi Mers-el-Hagege, località costiera posta a
circa 40 miglia d’allora a est d’Algeri; quelli che erano considerati i due capi della rivolta e cioè un
calzolaio italiano e un altro schiavo furono invece uccisi lasciandoli morire appesi alle mura della
città dalla parte della marina (Ib.). Infine Henry de Lisdam racconta che, durante la sua schiavitù in
Barbaria, Mustafa Pasha, un oscuro siciliano rinnegato nativo di Trapani allora governatore di
Tunisi, avendo egli rifiutato di farsi mussulmano, gli aveva fatto somministrare ben 400 bastonate,
lasciandolo più morto che vivo (H. du Lisdam. Cit.).
Come se tanto non bastasse, praticatissimo dai corsari turco-barbareschi era, molto più che a
Venezia, anche il taglio punitivo del naso e delle orecchie:

(Sosa:) […] Ciò che questi barbari stimano di più è il possedere schiavi cristiani mutilati e segnati
da loro stessi. Se scendono a terra è per ubriacarsi ed, una volta ubriachi, per gettarsi sui (loro
schiavi) cristiani e tagliar loro il naso e le orecchie; vadano essi per mare od in corso, non ne torna
un legno in cui non ci siano uno o due schiavi (in più) così mutilati.
(Antonio:) Perché non parlate dei barbari (ulteriori) trattamenti che essi infliggono in seguito a quelli
che hanno ridotto in tale stato? Perché, non contenti di imbruttirli in tal maniera, gli fanno anche,
sotto minaccia di morte, mangiare quelle orecchie appena tagliate e tutte gocciolanti di sangue; poi
li forzano ad inghiottire una tazza di vino, tutti divertiti e compiaciuti del loro atto […]
Praticano ancora un’altra crudeltà, soprattutto quando le galere cristiane danno loro la caccia o
quando loro, a loro volta, la danno ai (vascelli) cristiani. Se gli schiavi sono stremati e privi di forze
durante una caccia – e i corsari vi si dedicano con il più grande ardore, talvolta per la durata d’un
giorno intero, senza mangiare né bere, né rallentare la corsa del loro vascello – se i remieri cadono
spossati sui loro banchi, si gettano subito su di loro armati di cangiarri e di coltellacci, troncano a
questi le braccia, quelli tagliano in due e ad altri troncano d’un sol colpo la testa… (Ib.)

In effetti, un atto di magnanimità come quello che Giovanni d’Austria volle compiere nel primo
semestre del 1579, cioè concedere la libertà a 12 turchi che remavano sulla sua galera, episodio
sarebbe stato impensabile a bordo d’un vascello maomettano; e a pensare che appena il 31
agosto seguente due dei predetti turchi così beneficati, trovandosi ad Algeri, vollero avere il
crudele piacere di essere loro a finire ad archibugiate il suppliziato genovese Giovanni, come
racconta il de Haedo (cit.).
La ferrea e feroce disciplina che vigeva a bordo delle galere ottomane faceva sì che sia la fatica
umana sia le ottime doti veliche sopperissero alle scarse qualità remiere; per esempio nel 1470 il
sovraccòmito veneziano Geronimo Longo così osservava:
869

... Vogano benissimo, ma (solo) con voga spessa (‘arrancata’), (perché) non sono ‘sì bone da remi
come sono le nostre, ma le vele e tutte l’altre cose son più bone che le nostre; penso che habbino
più homeni sopra che non havemo noi, perché facevano vela della mezana (‘ perché usavano
anche un albero di mezzana’) e tutta la galia vogava (‘navigava’) senza impazo de remo alguno (D.
Malipiero, cit., p. 52).

Poiché questa nostra trattazione non si estende alla guerra di corso barbaresca che si svolse
nell’Oceano Atlantico, che pure fu secolare e molto importante per la storia della navigazione, qui
non nomineremo i tanti raís e generali di mare marocchini, moriscos e più tardi anche inglesi e
olandesi rinnegati che in quel vasto mare operavano partendo dalle loro basi di Tetuan, Larache,
Safi, la Mamora e Salé, specie a danno del Portogallo, ma ci limiteremo a ricordare quelli più noti
dei tantissimi turco-barbareschi o, anche qui, rinnegati europei che, soprattutto nei secoli XVI e
XVII, esercitarono la guerra di corso contro i cristiani nel Mediterraneo e li elencheremo qui di
seguito senz'ordine cronologico. Tra i più conosciuti erano ovviamente quelli che divennero
beglerbegi o comunque governatori d’Algeri o addirittura kapudan pasha, ossia capitani generali
marittimi dell’impero ottomano, come per esempio Baba Arouj, nato a Mitilene nel 1474 e detto dai
cristiani Barbarossa, soprannome che sarà poi dato anche al più famoso fratello Kheir Eddine,
come anche Braccio d’acciaio per la protesi d’argento che portava in sostituzione del braccio perso
in guerra, secondo alcuni, nel 1512 mentre cioè tentava appunto con Kheir Eddine di togliere
Bougie agli spagnoli, secondo altri nel 1514, quando, con la sua galera, quella del fratello e quella
d’un terzo corsaro, prese un vascello detto il galeone di Napoli; i due fratelli, i quali avevano fatto
una gran fortuna col trasporto a pagamento in Barbaria di moreschi e giudei scacciati dalla Spagna
a partire dal 1492, presa ai genovesi Djidjelli, dove posero la loro nuova base, tentarono ancora
inutilmente Bougie, poi nel 1515 Baba Arouj, partito dalla stessa Djidjelli, prese Cherchell, città
costiera di più di mille case, posta a 20 leghe o a 60 miglia d’allora a ponente d’Algeri e abitata,
oltre che da numerosi schiavi cristiani, in gran parte appunto da moriscos (‘tagarin’ o ‘modejar’, ad
Algeri) e marranos, ossia da quei mori e giudei di Granada, Valencia, Aragona e poi, nel secolo
seguente, anche dell’Andalusia, che in centinaia di migliaia o erano deportati dagli spagnoli in
Marocco o emigravano nei potentati della Barbaria in generale per sfuggire alle persecuzioni
cattoliche e che erano, a dire del de Haedo, i peggiori e più crudeli nemici dei cristiani, specie degli
spagnoli che soprattutto odiavano per i noti motivi, e pertanto queste emigrazioni provocarono un
intensificarsi della pirateria barbaresca e delle offensive marittime turche, specie contro le coste
spagnole, marine che questi fuorusciti ben conoscevano e dove avevano lasciato tanti loro parenti;
memorabile fu per esempio l’assedio e poi il sacco di Barcellona avvenuto il 25 giugno 1526 a
opera di 36 galere turco-algerine comandate da Sinan Céfut, detto le Borgne, il quale poi seppe
agevolmente sfuggire alla tardiva caccia datagli dalle galere di Andrea D’Oria, e anche da
870

ricordare sono i 40 vascelli algerini di Alì Oulouj (‘Uluch-Alì’, in turco) che arrivarono nel porto di
Almería il mercoledì santo del 1570 e vi sbarcarono armi per i moriscos rivoltosi di Granada,
ritirandosi poi solo quando non ci fu più speranza che la rivolta riuscisse. Cherchell era un porto
abbastanza comodo, il quale era usato come prima o ultima sosta per i corsari algerini che
andavano in corso a ponente o ne tornavano, e Baba Arouj la tolse così all’allora famoso corsaro
Kar(a)-Hassan, al quale fece tagliare la testa, da non confondersi questo con quello dello stesso
nome, già menzionato, ucciso in un ammutinamento del 1577; questa città sarà nel 1531
inutilmente tentata da Andrea d’Oria al comando della sua squadra, allora di 20 vascelli, e sarà
probabilmente stata questa la prima azione del genovese a favore di Carlo V, poiché proprio in
quell’anno egli aveva iniziato a servirlo. Nel corso del seguente 1516, con l’appoggio del sultano
ottomano Selim I, Baba Arouj, come abbiamo già ricordato, si fece re d’Algeri, facendo uccidere in
un bagno lo sceicco Selim ed-Teumi, signore di Motigiar e d’Algeri, sottraendo così quest’ultima
all’influenza spagnola e cominciando quindi a farne quello che sarebbe diventato il più potente
covo di corsari barbareschi; agli spagnoli restò solo l’isolotto detto el Peñon, situato a soli trecento
passi dalla città; questo, in mano spagnola d’antica data e fortificato da Pedro Navarro nel 1510,
divenne una vera e propria spina nel fianco del regno d’Algeri, perché, ostacolando l’ingresso e
l’uscita dal porto, arrestava così di fatto le attività dei corsari e il predetto Selim ed-Teumi fu di
conseguenza costretto a concludere una lunga tregua con la Spagna e a pagarle un tributo; ora,
nel suddetto 1516, El Peñon resistette bravamente a 20 giorni di batteria d’assedio, convincendosi
Baba Arouj a desistere dall’impadronirsene; in seguito i due fratelli presero Ténès e, dopo un solo
giorno d’assedio, anche Tlemcen, regno vassallo della Spagna e governato dallo sceicco Bû
Hamû, allora, dopo quello di Tunisi, il più florido della Barbaria, ma poi nel 1518, nel difendere la
stessa Tlemcen vanamente dall’assedio degli spagnoli d’Orano comandati da Martín de Argote,
Baba Arouj venne ucciso, secondo alcuni in combattimento da un colpo di lancia che gli trapassò il
cuore, secondo altri proditoriamente, cioè solo dopo che, avendogli l’Argote promesso salva la vita,
s’era arreso al nemico; certo è che la sua testa venne poi esposta dai vincitori a Orano e il regno di
Tlemcen fu restituito a Bû Hamû.
Già abbiamo detto del famosissimo fratello di Baba Arouj, cioè di Kheir Eddine, detto dai cristiani
Ariadeno Barbarossa e nativo di Mitilene, il quale subentrò al congiunto nel dominio d’Algeri,
prendendo in tale occasione questo secondo nome dal significato di Il bene della religione, e,
dimostrando pragmatismo politico, si sottomise al sultano di Costantinopoli, il quale aveva appena
conquistato la Siria e l’Egitto sconfiggendo i mamelucchi, poi acquisì Collo nel 1521, il reame di
Bona e Costantina l’anno seguente, poi Tlemcen e infine, nel 1534, il reame di Tunisi e la Goletta.
Checché se ne tenti di dire oggi, anche questo famosissimo corsaro barbaresco, fu, come del resto
871

tutti gli altri, crudelissimo e il de Haedo ci racconta infatti del martirio che fece subire a un militare
spagnolo suo schiavo e appartenente all’importante famiglia dei Soto Mayor, i cui esponenti si
trovano più volte menzionati nelle storie, perché lo accusava di complottare con altri la fuga:

… e, non contento di fargli dare da due turchi duecento terribili colpi di bastone a due mani sulle
spalle, gliene fece dare duecento altri sul ventre e duecento sulla pianta dei piedi. Il malcapitato
Soto Mayor era tutto spezzato, aveva la pelle gonfia e le viscere lacerate. ‘Barbarossa’ comandò
poi che gli si applicasse il supplizio del fuoco per fargli confessare quello che sapeva della
faccenda. I turchi gli spalmarono le piante dei piedi di burro e le esposero al fuoco per lunghe
ore… (Ib.)

Ma non riuscirono a estorcergli niente perché il poveretto nulla sapeva; con le gambe ridotte
sostanzialmente a dei moncherini bruciati e dopo nove giorni di terribili ulteriori sofferenze, il 16
aprile 1532 il pover uomo morì:

… Soto Mayor aveva circa quarantacinque anni; egli era di pelo rosso, d’alta statura ed esile. (Ib.)

Grande avversario d’Andrea d’Oria fu, come il Barbarossa, pure il turco Torgud detto ‘Il
carpentiero’, chiamato dai cristiani Dorgut, Drogut, ma soprattutto Dragut, per accomunarlo nel
male ai fantastici draghi; egli, nato da genitori poveri nel piccolo villaggio di Charabalaç in Anatolia,
fu dato come paggio a un corsaro suo compatriota di nome Arays, ma presto piacque al
Barbarossa, il quale lo volle per sé per soddisfare la sua pederastia, costume sessuale questo
molto comune tra gli ottomani e i mediorientali in genere; poi Kheir Eddine, contento dei servigi
ricevuti dal giovane e apprezzandone le qualità, lo ricompensò facendolo raïs d’una fusta corsara e
in seguito dotandolo di più vascelli, con i quali Torgud, scontratosi nel 1538 nell’Adriatico con
alcune galee veneziane comandate dal signor Pascalico, vinse lo scontro catturando alcuni dei
vascelli nemici, mentre il Pascalico con i rimanenti trovò rifugio a Corfù; ritiratosi alle Gerbe con le
sue prede, Torgud si rese conto che non aveva i mezzi di governare più vascelli grandi come le
galere e pertanto conservò solo quella che poi, come abbiamo già detto, Giannettino d’Oria gli
toglierà, mentre fece disfare le altre e dal legname e dalle ferramenta così ricavate fece costruire,
ricavando forse da quest’attività il suddetto soprannome, cinque più agili e gestibili galeotte, delle
quali la meglio riuscita donò al Barbarossa e le altre tenne per sé, ed, essendosi uniti a lui altri
corsari, si rimise a corseggiare ora con una squadriglia di 11 vascelli, tra cui due erano le ex-galee
veneziane; dopo la sconfitta subita nelle acque della Corsica, la conseguente sua prigionia e la
liberazione, avvenimenti di cui abbiamo già detto, fu governatore di Tripoli dal 1551, cioè dalla
riconquista turca di questa città, sino alla sua morte avvenuta all’assedio di Malta del 1565,
ambedue grandi avversari d’Andrea d'Oria, inoltre del tante volte già nominato Uluch-Alì e del pure
già menzionato rinnegato veneziano Hassan; c’é poi da ricordare Hassan Pasha, il già menzionato
872

rinnegato sardo e uomo fidato del Barbarossa, che costui nominò suo reggente d’Algeri dal maggio
1533, cioè da quando dovette, come abbiamo già detto, trasferirsi a Costantinopoli, e da non
confondersi quindi con il figlio di quest’ultimo, Hassan Pasha Ben Kheir Eddine, il quale, già
regnando di fatto su Algeri dal 1543, dalla morte cioè di Hassan Pasha, morto infine anche suo
padre, il Barbarossa, all’inizio del luglio 1548, riceverà da Costantinopoli il titolo di secondo
beglerbegi d’Algeri; questo Hassan Pasha, tre volte al potere in Algeri con la predetta carica di
beglerbegi (1544-1551; 1557-ottobre 1561; settembre 1562-1567), da non confondersi nemmeno
con l’omonimo e più tardo rinnegato veneziano di cui abbiamo già detto, nel 1558, approfittando
della terribile sconfitta subita dagli spagnoli il 26 agosto di quell’anno a Mostaganem, prenderà agli
spagnoli Bougie e poi, con l’aiuto di 40 galere turche, tenterà vanamente la fortissima Orano, città i
cui abitanti saranno però subito dopo decimati dalla peste; nel 1563, essendo ora signore anche di
Tlemcen, si metterà di nuovo in campagna contro gli spagnoli d’Orano e di Mers-el-Kébir, uscendo
d’Algeri con un esercito di fanteria e cavalleria che contava 15.000 tra turchi e rinnegati, 21.000 tra
mori, arabi e kabili, un po’ d’artiglieria da campagna, 40 vascelli remieri, due vascelli francesi, una
caravella genovese e una catalana, imbarcazioni queste quattro ultime che per loro sfortuna si
erano trovate allora all’ormeggio ad Algeri ed erano state sequestrate per questa guerra; iniziato
l’assedio di Mers-el-Kébir il 3 aprile, questa piazza, ben difesa da Alonso de Córdoba conte di
Alcaudete e marchese di Cortés, figlio del sopramenzionato Martín, resistette 2 mesi e mezzo fino
all’arrivo del risolutivo soccorso portato da Giovann’Andrea d’Oria con otto galere ben guarnite di
fanti del tercio antiguo di Napoli e con le quali veniva anche Francisco de Córdoba, fratello di
Alonso, costringendo Hassan a ritirarsi, bruciando i suoi vascelli per non lasciarli cadere nelle mani
del nemico e a tornarsene via terra ad Algeri, dove arrivò il 24 giugno, addolorato perché durante
l’assedio un colpo d’artiglieria aveva ucciso il già ricordato raís rinnegato napoletano Mami, al
quale egli era molto affezionato; nel 1565 andrà poi a rinforzare l’armata turca che allora assediava
Malta alla testa d’una forte squadra turco-barbaresca e nel 1567 sarà, come nel 1533 era avvenuto
al Barbarossa, chiamato a Costantinopoli come kapudan pasha pur restandogli ufficialmente la
carica di beglerbegi d’Algeri. Ancora l’alessandrino Salah Rais, detto Testa di fuoco, corsaro
attivissimo, il quale nel 1543, come abbiamo già detto, devastò le coste della Catalogna e nel 1552
quelle di Maiorca, nel 1555 riprese Bougie agli spagnoli, essendo ora terzo beglerbegi d’Algeri col
titolo di Salah Pachà (1551-1556), fu poi sconfitto da un veneziano e cioè da Pandolfo Contarini e
infine morì di peste a 70 anni; il rinnegato germanico ubriacone Mohamed, un ex-tamburino d’una
compagnia spagnola facente parte della disgraziata spedizione del conte Martín de Alcaudete,
catturato quindi dai barbareschi il 6 agosto 1558 e subito fattosi maomettano, il quale il 4 agosto
1577 fece bruciare vivo il napoletano Vincenzo, perché questo schiavo, essendo malato, aveva
873

rotto i suoi ferri ed era fuggito dalla sua galera, e poi tre giorni dopo tentò di far subire la stessa
sorte al malaghegno N. Morales, perché aveva appreso che costui si proponeva di fuggire, ma
riuscì solo a farlo quasi morire soffocato dal fumo e a tagliargli personalmente un orecchio, perché
alcuni turchi glielo tolsero in tempo dalle mani; il turco Mehmed Kurtog-Alì (‘Curtogoli’ o ‘Kurdogli’
per i cristiani), consumato raïs di galera e quarto beglerbegi d’Algeri (1556-1557), il quale per
prendere effettivo possesso di questo suo titolo dovette prima eliminare un temibile e determinato
oppositore e cioè Hassan il Corso, appunto un corso nato nel 1518, il quale era stato rapito dai
corsari algerini all’età di cinque anni, fatto maomettano, poi azam-oglan, ossia giovane educato e
addestrato da giannizzero, a Costantinopoli e divenuto Agà (‘generale’) dell’esercito d’Algeri, in
buona sostanza dei giannizzeri che presidiavano quella città; fattolo arrestare per tradimento,
Kurtog-Alì lo fece uccidere tenendolo ad agonizzare per tre giorni impalato in grossi ganci di ferro,
ma perirà anch’egli solo l’anno seguente assassinato durante un altro ammutinamento dei
giannizzeri e sarà sostituito dal già ricordato Hassan Pachà; ma navigavano al comando d'intere
flottiglie pure Kara-Hogia (o ‘Kara-Kazi’), famoso e astuto corsaro che morì a Lepanto, il
temutissimo ebreo Ciffut-Sinan da Smirne, detto il Giudeo (da non confondersi con il più tardo
Sinan l’albanese di cui abbiamo già detto), il quale, talvolta a capo anche di 22 vascelli, fu con Hay
ed-din uno dei due principali luogotenenti del Barbarossa - da questi amatissimo - che difendevano
la Goletta nel 1535 e che anzi, alla morte di Kheir Eddine, fu nominato dal sultano Sulaiman
kapudan pasha del Mar Rosso e, più tardi, del Mediterraneo; il già nominato Hassan-Ghelesi, Deli-
Usuf, che aveva la sua base in Barbaria e conduceva delle fuste, Gianva-Alì, corsaro dell'Anatolia;
Alì Ahmed, rinnegato genovese e capitano di leventi a Lepanto, battaglia in cui egli pure trovò la
morte; Guli Basà, Deli-Sefer e Kara-Peri, altri corsari di Barbaria, dei quali il secondo fu catturato
con due sue galere nei pressi dell'isola di Samo dal predetto Girolamo da Canal, uno dei migliori
generali marittimi che abbia mai avuto Venezia, e il terzo morì a Lepanto; Simon Danser, olandese
di Dordrecht, il quale, pur senza convertirsi alla religione maomettana, farà guerra di corso per
Algeri durante quasi un ventennio a partire dal 1606 e ne rammodernerà l’armata di mare nel
senso di far dare ormai anche agli algerini prevalenza ai velieri rispetto ai tradizionali vascelli
remieri; Morat Rais, patrone della galera Reale a Lepanto, battaglia in cui anch’egli trovò la morte;
un rinnegato sardo omonimo del precedente, il quale si chiamava in realtà Sebastiano Paolo e che
nel 1562 o 1563, preso dagli spagnoli a Puerto Santa dopo varie peripezie che il de Haedo
racconta, fu giustiziato con la garrotta; un terzo omonimo, ma soprannominato Maltrapillo, del
quale abbiamo già detto, e un quarto, rinnegato albanese, pure già nominato; Mustafà Bifi, che nel
1562 fu preso nell'Adriatico dal veneziano Cristoforo da Canal, degnissimo omonimo e
discendente del precedente, nostra primaria fonte, il che avvenne dopo un furioso combattimento
874

al largo dell'isola di Sàseno, scontro nel quale Mustafà, il quale aveva sino allora terrorizzato e
dannificato le coste italiane e dalmate, vide quattro delle sue cinque galere catturare dal da Canal,
allora arrivato a provveditore generale d'armata, il quale però, gravemente ferito da due frecce,
morirà a Corfù dopo pochi giorni e precisamente il 18 giugno di quell'anno. Le acque di Sàseno
portavano evidente sfortuna ai turchi e infatti, oltre alla sconfitta del 1537 già menzionata, si
ricordava anche quella del 1481 subita dagli aragonesi. Hamal-Alì, detto in Italia Camallì,
famosissimo corsaro turco, alla fine del Quattrocento, accompagnandosi talvolta a un altro corsaro
suo compatriota, detto in Italia Richi o Erichi, alla testa d’una squadriglia da corso, la quale si
componeva d’una mezza dozzina di vascelli tra barze o schirazzi, grippi e fuste e sulla quale
militava anche il giovane Barbarossa, dannificava moltissimo le marine e la navigazione dei
cristiani e, nonostante costantemente ricercato dai vascelli soprattutto veneziani, era sempre
riuscito a sfuggire alla cattura, sebbene, come raccontano il Malipiero e il Sanudo, nel marzo del
1495, Hieronimo Contarini, detto Grillo, il quale in precedenza era stato capitano delle galee
grosse di Barbaria, coadiuvato dai suoi fratelli patroni Sebastiano e Marc’Antonio Contarini, era
stato molto vicino a prenderlo, cioè quando, scovatolo finalmente a Tripoli, lo aveva attaccato con
le sue galere prendendogli alcune barze, ma lui, buttatosi in acqua e salito a bordo d’una fusta di
quei corsari, se n’era così fuggito; in premio di questo parziale successo il Contarini fu eletto
capitano del golfo, ossia della piccola squadra di galere, fuste e barzotti veneziani che presidiava
l’Adriatico e faceva la guardia specie alle coste dalmate e albanesi, e che, per esempio, intorno al
1458 era stata costantemente di 15 vascelli, mentre il fratello Sebastiano divenne, come abbiamo
già visto, capitano di le galie dil trafego, ossia di tre galee grosse mercantili, e Marc’Antonio, il
minore, fu fatto sovraccòmito, mentre era a quel tempo capitaneo generale delle navi armate
Andrea Loredan, navi, che quantunque armate, erano però a Venezia singolarmente comandate
non da un capitaneo bensì da un patrone. Camallì ne combinava talmente tante che lo stesso
Gran Turco di Costantinopoli, a causa delle ricorrenti lamentele dei veneziani, era costretto talvolta
a fingere di perseguirlo, come racconta il Sanudo tra gli avvenimenti dell’anno 1495:

… Ancora per lettere da Corfù, drizzate (‘indirizzate’) a esso capetanio (generale Antonio Grimani)
et di Costantinopoli, se intese Camallì corsaro havea preso a li Dardanelli una caravella de Candia
con 150 botte de vin et havea amazato homeni 18 et el signor Turco havea comesso el sanzaco
de Garipoli (aveva ordinato che il sangiacco di Gallipoli) lo seguitasse con tutte le fuste poteva, per
prender ditto corsaro, et cussì esso sanzaco lo seguitava… (M. Sanudo, La spedizione di Carlo
VIII etc. Cit. P. 498.)

Interessante è la sconfortata relazione del suddetto insuccesso che Hieronimo Contarini inviò da
Modone al suo diretto superiore, il provveditore d’armata, il 21 marzo 1495. Egli era al comando di
tre galee sottili di cui una di nome Spalatina, perché evidentemente costruita a Spalato, e l’altra
875

Sebenzana, perché evidentemente costruita nell’arcipelago Sebenzano o di Sebenico; non


sappiamo come si chiamasse la terza, cioè quella di comando. Non riuscì nell’intento di
combattere e prendere Camallì perché gli altri due sopraccomiti che navigavano di conserva con
lui, sebbene fossero, come già detto più sopra, due suoi fratelli, si erano praticamente si rifiutarono
di farlo perché pensavano che il nemico fosse troppo grosso da affrontare con le sole loro tre
galee; degno di nota è qui veder usare la locuzione troppo grosso e non troppo forte, perché
questo è aggettivo qualitativo – e i veneziani non intendevano attribuire buone qualità al nemico,
mentre grosso è solo quantitativo. Il corsaro si trovava quella sera all’isola Schiatti nei pressi di
Negroponto e le sue forze erano due grosse fuste, 2 bergantini, uno schirazzo e un barzotto
(‘barcotto’) da carico da 200 botti che aveva cattvurato, quindi nient’affatto eccessive per tre galee
ben armate, anzi. Il Contarini, avuta questa notizia, volle affrettarsi per raggiungere il nemico prima
che si allontanasse da quell’ancoraggio, ma il sopraccomito della galea Sebenzana ammainò la
vela e si fermò, mettendo a mare la scialuppa, e costringendo così anche le altre due galee a
fermarsi:

… Parve al soracomito Sebenzano di ammainare e gittar lo schifo in aqua per mandar a levar dui
che erano in terra e, come disse, l'ammattavano (D. Malipiero, cit. Parte prima, pp. 148-151).

Insomma, disse che doveva mandare a terra a prendere due uomini che gli stavano facendo
segnali luminosi col fuoco (dallo sp. amatar, ‘spegnere, oscurare’, a sua volta da mato, ‘spento,
oscuro’, cioè coprire un fuoco o uno specchio ad intermittenza) e poi disse che quei due l’avevano
avvisato che i corsari avevano nel frattempo lasciato Schiatti. Il Contarini si mise lo stesso a
navigare per raggiungerlo e gli altri due lo seguirono sì, ma sgranati a distanza, cioè di malavoglia,
e quando poi effettivamente raggiunsero il corsaro, per non restar solo contro di lui dovette tornar
indietro verso le sue due conserve e, raggiunta la Sebenzana, si lamentò con loro per questo
modo di fare, ma il còmito di quella rispose che il corsaro era troppo grosso per investirlo
(‘attaccarlo’). Il Contarini comandò che lo seguissero e minacciò che, altrimenti, li avrebbe fatto
punire al ritorno:

… e mi fu risposto in modo non conveniente all'autorità concessami da Vostre Eccellentie (ib.).

Raggiunto di nuovo il corsaro con l’altra galea, la Spalatina, iniziò il combattimento, ma la sua vela
artimone si intricò nei remi di prua e si squarciò e allora comandò alla predetta Spalatina di
tallonare il corsaro che si era messo di nuovo a fuggire, mentre lui faceva riparare il danno; ma
quella non l’ubbidì e l’occasione si perse definitivamente. Il Contarini chiudeva la sua relazione
affermando che, se gli altri due sopraccomiti avessero collaborato, egli, approfittando anche
876

dell’ottima bombarda che aveva a bordo, avrebbe avuto certamente ragione del nemico e,
nonostante si trattasse, come detto, di due suoi fratelli, chiedeva dunque che si procedesse alle
opportune punizioni. Non sappiamo però se furono poi presi effettivamente i richiesti provvedimenti
disciplinari.
Hamal-Alì, come perlopiù capitava ai corsari turcheschi o moreschi che particolarmente si
distinguevano per audacia e risultati, divenne capitano generale di mare del sultano di
Costantinopoli e nel 1498 comandava una squadra ottomana di 25 vele:

… ha messo in terra a Nixia (è sbarcato a Naxos) e ha preso alcuni, tra i quali c’è stato un prete
(greco-ortodosso), il quale, dopo che l'ha torturato, l'ha fatto morir. La Signoria (di Venezia) ha
ordinato che Andrea Loredan, capitanio di tre barze armate, vada a trovar il provveditore
(d’armata’) e che insieme vadano a trovar esso Camali (ib. Parte prima p. 160).

Ricorderemo ancora – anche se un po’ lontano dal periodo storico che ci occupa – ‘Mohamed di
Barbaria’, un fiammingo rinnegato che, oltre a ottenere il grado di colonnello di giannizzeri presso
la Porta ottomana, comanderà la squadra di navi barbaresche vittoriosamente affrontata dai
veneziani nel canale di Scio il 3 maggio del 1657, battaglia in cui lo stesso Mohamed (‘Mehemet’ in
turco) troverà la morte. Vi fu poi il molto temuto Hassan-Celebin, detto il Moro d'Alessandria, il cui
nome pare venisse storpiato in Hassan Cappellino dalla gente di mare veneziana; costui finì nel
1533, quando, tornando dalla guerra di Modone, si trovava a condurre 11 galere sottili ordinarie e
due bastarde e trasportava 800 giannizzeri ad Alessandria, sennonché nelle acque di Candia volle
assalire due galeazze di mercanzia della Serenissima, ma queste furono però provvidenzialmente
soccorse dal veneziano Girolamo da Canal detto il Canaletto, il quale conduceva 15 galere; la
battaglia, già da noi ricordata, durò tutta la notte tra il 29 e il 30 novembre di quell'anno e i
veneziani vinsero, affondando sei galere avversarie e catturandone 5, uccidendo 1.700 nemici e
perdendo solo 200 dei loro uomini, infine catturando lo stesso Moro d'Alessandria, il quale era
d'altra parte stato ferito a morte. Comandanti di galere di fanò erano poi molti collaboratori di
Torgud, quali Gazi-Mustafà, Hassan-Keleh, Mehmed Rais, Sanjak-dar Rais, Deli-Jafar, oltre ai già
sunnominati Uluch-Alì e Kara-Kazi. Andando più indietro nel tempo, troviamo poi Kara-Dromis, un
rinnegato greco che nel 1503 comandava ben 26 fuste e una galeotta.
Tra gli altri famosi corsari turco-barbareschi o comunque cristiani rinnegati che combatterono per
Algeri o anche talvolta direttamente per Costantinopoli ricordiamo fra Filippo, un siciliano che
disponeva di tre ben armate galere con cui scorreva e dannificava l'arcipelago greco e anche
l’Adriatico e che fu catturato dal predetto Girolamo da Canal nel golfo di Corone; il già ricordato
Hay ed-din, detto Cacciadiavoli, ebreo turco nativo di Smirne, secondo altri invece cristiano
rinnegato nativo della Liguria o dell’Etiopia, ma comunque corsaro d’Algeri alle dipendenze di
877

Barbarossa, il quale, resosi famoso soprattutto per la sopradescritta vittoria riportata nel 1529 sul
de Portando, fu poi alla difesa della Goletta insieme al predetto Ciffut Sinan e, a dire del Giovo,
morì all’assedio di Castel Nuovo del 1539; Hassan Corso, rinnegato al servizio di Hassan Pasha
figlio del Barbarossa, da non confondersi quindi con l’Hassan il Corso ucciso nel 1556 e di cui
abbiamo già detto, il quale, ricorda il de Haedo, il 20 ottobre 1579 uccise a bastonate di sua mano
il suo schiavo greco Gregori colpevole d’aver dormito fuori casa due notti di seguito; Dali lo Zoppo,
rinnegato greco, attivo intorno al 1567; Danardi, altro rinnegato greco, subordinato di Mami
Arnaute, il quale, trovandosi al comando d’una galeotta e con questa arrivato il 10 maggio 1579 a
Caprera, isola deserta nei pressi di Maiorca, vi fece sbarcare un napoletano di cognome Santoro,
perché non remava a sua convenienza, e, fatto accendere un gran falò, ve lo fece buttare dentro
legato mani e piedi, essendo questa la pena di cui solitamente i barbareschi minacciavano gli
schiavi che si dichiaravano incapaci di lavorare perché malati e la dicevano miracolosa in quanto
faceva subito sta bene qualsiasi infermo!
Piri Rais, comandante di galera corsaro che fu poi posto dal sultano al comando delle galere di
guardia ad Alessandria e al quale si attribuisce il possesso d’una bella serie di carte marittime
giunta sino a noi; il còmito rinnegato genovese detto il Pezzuin; Kara-Celebin, che combatte a
Lepanto; il rinnegato corfiotto soprannominato il Baffo, il quale, catturato dai veneziani a Corfù nel
1571, qualche tempo prima di Lepanto, e interrogato poi alla presenza di Bartholomeo Sereno,
dette informazioni sulla consistenza dell’armata ottomana; il famosissimo turco Amurat Raïs –
detto anche Murat raís, il quale a cavallo dell’anno 1600 faceva grandissimi danni alle marine e
alla navigazione cristiana e impronterà poi la guerra di corso turco-barbaresca nel Mediterraneo
per la maggior parte del Seicento, in quanto la eserciterà per ben sessant’anni e all'età d’ottanta
ancora scorrerà il mare dopo aver guadagnato tantissimo credito e grandissima stima sia a
Costantinopoli sia in Barbaria; il valorosissimo Karagj-Alì, detto dai cristiani Caragiali o Cara Geli,
luogotenente d’Uluch-Alì morto poi a Lepanto, il quale nel 1568, mentre con la sua galeotta di 22
banchi e altre quattro saccheggiava le coste corse e quelle sarde, fu attaccato a Capo Corso da
sei galere di Toscana comandate da Alfonso d’Appiano e, nonostante l’inferiorità dei suoi mezzi,
tenne bravamente testa alle assalitrici in un lungo e sanguinosissimo combattimento dal quale alla
fine, dopo aver inflitto grosse perdite al nemico, poté anche disimpegnarsi con la perdita di due
sole delle sue galeotte che erano state catturate dai toscani, tra cui quella del suo luogotenente, il
rinnegato Mamì; per questa vittoria di Pirro il d’Appiano, rimastovi anch’esso ferito, sarà da alcuni
accusato d’incapacità, ma egli, ben scaricando sui suoi sottoposti la responsabilità del fatto,
riuscirà a mantenere il comando della squadra. A proposito del predetto Mamì, non sappiamo se si
trattava del corso, del napoletano o del veneziano che sotto questo nome scorrevano in quei tempi
878

il Mediterraneo con la bandiera d’Algeri; infatti il rinnegato napoletano di tal nome, il quale attorno
al 1550 corseggiava con due galeotte barbaresche di sua proprietà, aveva affidato il comando
della seconda a un rinnegato greco, suo ex-schiavo, che, una volta liberato, aveva preso, com’era
uso tra quei corsari, il nome stesso del suo padrone; ancora un altro Mami – Mami Rais,
temutissimo corsaro di Monastir e luogotenente di Torgud. Il già nominato rinnegato calabrese
Giaffer (‘Jafar Pachà’), anch’egli collaboratore di Torgud e uno dei più esperti uomini di mare di cui
disporranno i turchi alla fine del Cinquecento, il quale all’inizio di giugno del 1565 fu distaccato con
sei galeotte dall’armata turca che assediava Malta perché prendesse lingua dei preparativi di
soccorso dell’armata cristiana e, pur se impiegato in questo compito, tra giugno e luglio trovò
anche il tempo di assalire con tre delle dette galeotte, una da 22 banchi e due da 17, e una fregata
la riviere ligure di Ponente e quella Toscana e di fermarsi prima a Portovenere ad accettar i riscatti
dei civili catturati e poi, per lo stesso motivo, alla spiaggia di Viareggio, avendo colà predato anche
un centinaio di abitanti di Massarosa; era questo un modo comune di fare dei corsari barbareschi, i
quali in tal maniera realizzavano subito il valore della loro preda, senza doversi così sobbarcare
l’onore di portala sin in Barbaria, per poi dover aspettare l’esito di trattative che a tale distanza
prendevano immancabilmente la durata di svariati anni; alla stessa maniera si comportavano i
corsari uscocchi quando catturavano turchi possidenti, alzando la loro bandiera di riscatto
nell’isola di Sabbioncello o in altre marine di proprietà della repubblica di Ragusa. Questo Giaffer
non è da confondersi con il rinnegato ungherese suo omonimo che governerà Algeri dal 1580 al
1582, succedendo pertanto in quell’ambita carica al rinnegato veneziano Hassan Pacha, e con un
terzo Giafer, rinnegato veneziano, il quale nel primo quarto del Seicento sarà a Tunisi uomo di
Osta Murat, rinnegato ligure di cui tra breve anche diremo. Ricordiamo ancora il già menzionato
Kar-Hassan, l’albanese Mehmed e (Kara-)Mamut, valoroso nipote del Barbarossa e genero di
Torgud, inoltre Salek, uno dei migliori corsari del predetto Barbarossa, il quale era stato anche
governatore della Goletta; il già ricordato Mami Arnaute, corsaro famoso definito dal de Haedo il
più feroce, il più crudele dei corsari, il quale, come abbiamo gia accennato, fu reso famoso
soprattutto dall’aver preso prigioniero il Cervantes Saavedra nel 1575; Mami era a quel tempo il
numero due al Algeri dopo il reggente Hassan il Veneziano:

Dopo il re, colui che ha più orgoglio e pretensioni è il rinnegato albanese Mami Arnaute, capo dei
corsari e della squadra d’Algeri, e il più grande nemico del nome di Nostro Signore Gesù Cristo.
Chi nel suo palazzo e sui suoi vascelli ha più di lui cristiani senz’orecchie e senza naso…? (D. de
Haedo. Cit.)

Il de Haedo ricorda lo stesso Mami Arnaute conservare come trofei nasi e orecchie da lui fatti
tagliare ai suoi schiavi cristiani, tra cui quelli degli spagnoli Francisco Darga e Juan Sanchez;
879

ricorda poi che durante la sua schiavitù ad Algeri Mami aveva il 30 maggio 1578 fatto subire il
predetto supplizio a due siciliani perché non avevano più la forza di remare, nell’ottobre
successivo, mentre sosteneva la caccia che gli dava Juan Francisco de Cardona nelle acque di
Sardegna, a uno spagnolo di nome Pedro e a un maltese di nome Giovanni, mentre faceva
tagliare addirittura la testa allo spagnolo Benito, perché non riuscivano a remare forte come voleva
lui; tra il 19 e il 26 aprile del 1577 lo stesso Mami, accortosi che gli mancava uno di due vilissimi
vasi di terracotta che si era portato da Costantinopoli per suo uso personale, vasi, dice il de
Haedo, che i barbareschi chiamavano bardaque, aveva fatto strangolare un povero schiavo
spagnolo che quel vaso non aveva mai né visto né tanto meno toccato; il 29 marzo 1579,
trovandosi a Cherchel alla testa di otto vascelli con i quali andava a corseggiare verso ponente,
fracassò la testa allo schiavone Francesco di Lustrigan e poi lo fece gettare in mare non ancora
morto, perché costui non remava quanto egli voleva, e lo fece usando una mazza di ferro di cui si
serviva abitualmente per picchiare gli schiavi cristiani, mazza che chiamava per spirito bosayan
(‘museruola’), nel senso forse che faceva subito star zitto chi la provava:

La manovra del remo sulle galeotte di questi crudeli corsari è, senza esagerazione, il più penoso
lavoro del mondo e il numero di quelli che sono periti sotto i colpi, la sete, la fame o che vi sono
caduti inanimati sui loro remi è enorme. Coloro che se ne sottraggono non sono più degli uomini
viventi; essi sembrano uscire da sepolcri tanto sono scarni e smunti, se hanno sopportato tali
sofferenze sui vascelli dei corsari, e ne sopportano ben altre su quelli del capitano Mami Arnaute,
perché, secondo le sue stesse parole, egli non condanna i suoi prigionieri al remo, ma alla morte.
(Ib.)
Aveva infatti Mami il 20 giugno del predetto 1579 personalmente partecipato alla bastonatura a
morte di tre suoi schiavi, il francese Jean Gascon e gli italiani Filippo e Pietro, il primo siciliano e il
secondo cosentino, tutti e tre tra i 30 e i 40 anni, colpevoli di essersi nascosti il 25 marzo
precedente per la paura d’essere imbarcati sulla sua galera, la quale quello stesso giorno era stata
di partenza:

… Fece loro legare le mani e i piedi, fece distendere al suolo Jean Gascon con la faccia verso
terra; un rinnegato s’assise sulla testa della vittima, un altro sulle spalle, un terzo sulle gambe,
com’è d’uso, e due altri gli applicarono una così grande quantità di colpi di bastone a due mani
sulle spalle, il ventre, il torace, le braccia, le cosce e le gambe che il poveretto ne restò pressocché
morto, le membra sfatte e nell’impossibilità di muoversi […] comandò ai rinnegati, stanchi, di
allontanarsi e di fa posto a degli altri. Questi scaricarono i loro colpi sul povero innocente con dei
bastoni nuovi, a due mani. Il corpo del malcapitato, già contuso, tumefatto, coperto d’enfiagioni,
s’aprì ai primi colpi, il sangue zampillò da tutte le sue ferite e si sparse per tutto il cortile… (Ib.)

Poi toccò agli altri due:

… s’inflisse loro la stessa crudeltà, furono tempestati di colpi di bastone, dati loro dai rinnegati che
si succedevano, finché le loro membra furono fracassate: spalle, ventre, braccia, cosce e gambe.
880

Erano gonfi come degli otri o dei tamburi; il sangue colava talmente che il cortile n’era pieno e
rassomigliava ad una macelleria, ad un mattatoio […] Colava un tale fiotto di sangue da quei corpi
martoriati dai colpi, senza che quella bestia feroce ne fosse sazia, che qualcuno che colà si
trovava m’ha giurato che un largo rivolo di sangue colava nel cortile e fino ad allora (il 10 agosto
seguente) non si era ancora riusciti a farne sparire le tracce nonostante tutti i lavaggi che eran stati
fatti con abbondante acqua. (Ib.)

Gascon sopravvisse al martirio sette giorni, il siciliano sei e il calabrese morì invece l’indomani. Il
16 dicembre dello stesso 1579, a Bona dove si trovava a svernare, Mami aveva ucciso con un
colpo di mazza ferrata sulla testa Pedro de Cardona, amico del de Haedo, perché questi non
aveva dato due colpi di remo nella giusta cadenza. Il 7 maggio 1580 aveva fatto tagliare le
orecchie persino a un suo rinnegato, albanese come lui, e in seguito a un ragazzo d’Ibiza, schiavo
del suo patrone, perché aveva tagliato un ramo d’albero nel giardino d’un moro che se n’era
venuto a lamentare! Il 20 ottobre seguente, trovandosi nelle acque calabresi a dare la caccia a un
legno cristiano, aveva personalmente tagliato la testa a un giovane cristiano suo schiavo che era
caduto svenuto sul suo banco a causa dell’intensa fatica; questo giovane era chiamato
comunemente Napoli, perché era un napoletano.
Sono anche ricordati il rinnegato fiammingo Mourad, il rinnegato greco dallo stesso nome, il quale,
narra il de Haedo, nel luglio 1578 fece tagliare naso e orecchie al siciliano Cristoforo, perché questi
non aveva tirato l’ancora a tempo, il già nominato Morad o Morat Ra ïs Maltrapillo, rinnegato
iberico, definito dallo stesso de Haedo anche ‘il pidocchioso spagnolo’; nel giugno 1578 il raís turco
Aisa fece subire la stessa pena al romano Antonio perché, mentre tutti s’imbarcavano, aveva
urtato con il suo remo quello d’un altro rematore; Sinan detto L’orbo, forse da ravvisarsi nel
suddetto ebreo Ciffut Sinan, il dieppese Jafar Rais, Ferhat Agha, eunuco rinnegato favorito di
Hamed Pacha, re d’Algeri dalla fine del 1561 al settembre1562; Hassan detto Il calafato, forse
quell’alcaide Hassan, rinnegato greco, ricordato dal de Haedo, il quale il 30 ottobre 1577 strangolò
con le sue mani il suo schiavo navarrese Juan, perché costui aveva nascosto in una grotta del suo
giardino 15 cristiani che attendevano una barca maiorchina con la quale fuggire; Cadi Rais, un
turco ubriacone che fu governatore di Biserta e che il de Haedo ricorda aver nel giugno 1577 fatto
tagliare le orecchie a un greco che aveva tentato di fuggire e, per lo stesso motivo, nell’agosto
seguente a un aragonese di nome Francisco, il 18 marzo 1580 al valenziano Pedro, il 20 febbraio
1579 ad altri tre suoi schiavi e cioè il greco Alexis, il francese Péron e il napoletano Michele,
mentre nel giugno del 1578, dandogli la caccia le galere toscane, aveva fatto tagliare la testa al
maiorchino Pedro perché non remava con il vigore che lui voleva e il 15 ottobre dello stesso anno
aveva personalmente ucciso a bastonate un vecchio siciliano di nome Giovanni; il già nominato
Rabadan Pachà, reggente d’Algeri, il quale il 26 dicembre del 1574 aveva concesso che
s’uccidesse per disseccamento, supplizio che presto descriveremo, e con pretestuosissimi motivi
881

un commerciante greco di Cadice, certo Nicoláos, e poi nel 1577, poco prima d’essere sostituito
dal veneziano rinnegato Hassan, aveva fatto trascinare, legato alla coda di un cavallo, il siciliano
Andrea di Sciacca, lasciando tutte le strade così percorse macchiate del sangue del poveretto,
aveva fatto infilzare vivo sui famosi ganci murali d’Algeri un compagno del predetto Andrea, il
calabrese Antonio della Mantia, e n’aveva fatto lapidare un terzo compagno, dopo averlo fatto
appendere per i piedi all’antenna della galeotta di cui i predetti avevano tentato d’impadronirsi per
fuggire. Il 18 maggio dello stesso 1577 fu la volta del frate valenziano Miguel de Aranda dell’ordine
di Montesa:

… Tutt’Algeri era a rumore, la notizia (della prossima esecuzione) circolava in tutti i quartieri e una
moltitudine di mori di tutte le classi, d’arabi, di kabili, ‘de Azuagos’ (sic), soprattutto di fanciulli in
gran numero accorrevano emettendo grida di gioia. Tale folla s’ingrossò talmente che non si
poteva più circolare e i mori non potevano tutti arrivare fino al povero martire. Gli uni gli tiravano la
barba altri gli strappavano i capelli, altri gli davano dei pugni sul viso, altri dei calci, degli spintoni.
Infine tutti quelli che potevano avvicinarlo lo colpivano con bastoni, scarpe, tessuti che
trascinavano per le strade e più le ferite che gli facevano era gravi e più grande era la loro
soddisfazione. (Ib.)

Il condannato, portato alla marina della città, venne incatenato e legato al ceppo di un’ancora di
galera piantata per terra per il ferro e verticalmente, come comunemente s’usava per ricavare
rapidamente un patibolo; gli fu bruciata completamente la faccia con una grossa fascina accesa e
poi la folla lo lapidò a morte, tirandogli una tale quantità di pietre da lasciarlo quasi seppellito, e
infine il suo corpo fu arso così ancora legato:

… La parte superiore del corpo del sant’uomo era stato consumato dalle fiamme, il resto essendo
protetto dalla massa di pietre che lo seppelliva sino alla cintura. Poiché il fuoco ancora durava, al
cader della notte i mori portarono degli attizzatoi, scostarono le pietre e gettarono sul braciere
ancora una gran quantità di legno e, per saziare la loro rabbia, si misero di nuovo a gettarvi delle
pietre con accanimento. Un moro di Spagna portò, pur se con notevole fatica, un gran pezzo d’una
ruota di mulino e con gran urla lo gettò con forza sulle ceneri e le ossa in fiamme. (Ib.)

Il Morat raís albanese più sopra menzionato, trovandosi il 24 gennaio 1578 al comando di sei
galeotte algerine che stavano carenando a Porto Farina, località a metà strada tra Biserta e La
Goletta e di cui nel secolo successivo il sunnominato Osta Morat farà un vero porto, fece lapidare
a morte per omicidio e proposito di ammutinamento il ventiquattrenne rinnegato genovese di nome
N. Gallo, remigante sulla galeotta d’un altro Morat Rais, questo rinnegato greco, dopo averlo fatto
legare a una roccia della costa; un complice coetaneo del predetto e cioè un altro remigante
genovese, ma questo schiavo e non rinnegato, il quale ciò nonostante aveva acquisito il nome
turco-barbaresco di Morat, probabilmente perché sperava di farsi un giorno anche lui maomettano,
il giorno 27 seguente fu giustiziato a Susa a mezzo di saettamento, ossia, insabbiato sulla
882

spiaggia fino alla vita, fu bersagliato con gli archi e fu colpito da un tale numero di frecce da
rassomigliare poi a un porcospino.
Il 7 luglio 1578 gli algerini uccisero a bastonate il frate siciliano Ludovico Grasso e poi anche il
francescano siciliano Lattanzio di Polizzi; il 30 novembre 1579 il calabrese Simone per essersi un
giorno sottratto ai lavoro forzati. Il già ricordato rinnegato genovese Borrasquilla, anch’egli raïs di
galera famoso per la sua crudeltà, il quale, ricorda sempre il de Haedo, ammazzò il 15 settembre
1579 due suoi schiavi cristiani, colpevoli d’essersi nascosti per paura che li facesse imbarcare con
lui per Costantinopoli, e l’8 febbraio dell’anno seguente fece tagliare le orecchie al suo schiavo
italiano Stefano per essersi anch’egli nascosto mentre si dirigevano verso la predetta città; Agib-
Alì, un raís turco che il 28 maggio del 1578, cacciato nelle acque tra la Corsica e la Sardegna
dalle galere di Napoli comandate dal loro generale Juan Francisco de Cardona, tagliò con il suo
yatagan immediatamente la testa al suo schiavo maltese Guglielmo, vinto dalla fatica e
pressocché morto sul suo remo, e poi la inchiodò sullo stentarolo gridando agli altri schiavi di non
lasciare il remo se non volevano fare la stessa fine, mentre nel luglio successivo faceva tagliare
naso e orecchie al napoletano Federico, perché anche questi non riusciva a remare quanto lui
voleva; il raís Hassan, rinnegato genovese detto Hassan il Marabutto, il quale invece nel maggio
del 1579 strappò con i suoi propri denti le orecchie allo spagnolo Cristóbal, non più capace di
remare per la fatica, e poi, mentre subiva la caccia delle galere siciliane, tagliò un braccio al
calabrese Rodolfo, il quale, stremato da 24 ore continue di voga forzata, era crollato sul suo remo,
e con quel braccio troncato prese a picchiare gli altri schiavi remieri finché non si fu sottratto a
quella caccia; questa stessa ultima atroce cosa fece a un suo spalliero anche Mehmed Bey, nipote
del Barbarossa, mentre, come abbiamo già narrato, cercava di sfuggire alla caccia in cui invece
trovò la morte. Il predetto Hassan nell’agosto dello stesso 1579 strappò ancora a morsi le orecchie
al francese Dominique, perché questi, litigando con un altro remigante schiavo, gli aveva dato dei
pugni, e poi, nel novembre successivo, a un altro napoletano di nome Federico, perché il suo ramo
s’era accidentalmente spezzato; forse questo bestiale corsaro è lo stesso Hassan Pasha che
troveremo governatore di Tripoli nel maggio 1601, cioè quando della sua galera, come racconta
l’Aymard, s’impadronirono nelle acque di Gerba 140 schiavi cristiani ammutinatisi, i quali poi la
portarono in Sicilia (M. Aymard. Cit.)
Il de Haedo, il quale annotò molti delitti contro gli schiavi cristiani commessi dai principali corsari
d’Algeri nel triennio che egli prigioniero in quella città, precisa che ovviamente, sebbene sembrino
tanti, erano solo un esempio degli innumerevoli altri commessi prima e dopo quegli anni e anche in
altri luoghi della Barbaria:
883

… Questi assassini sono stati commessi da quando giungemmo qui ad Algeri, ma a Tetuan, a
Bugia, a Biserta, a Tunisi, a Susa e a Tripoli, tutte località situate in Barbaria, ce ne sono stati tanti
altri di cui non ho intenzione d’occuparmi, poiché sto parlando solo di ciò che è successo in questo
paese qua. (D. de Haedo. Cit.)

Molteplici erano poi, sia in Barbaria sia nell’impero ottomano, gli atroci modi in cui la pena capitale
a carico dei cristiani era ufficialmente eseguita; i supplizi che si praticavano più frequentemente e
che il de Haedo descriveva nei suoi giornali delle atrocità algerine erano la mutilazione degli arti, il
saettamento, l’archibugiazione, il rogo - supplizio questo d’altra parte correntemente praticato in
quei tempi anche dall’Inquisizione spagnola - e poi il disseccamento, cioè il circondare il
condannato d’un fuoco vicinissimo, in modo non da bruciarlo, ma da disseccarlo con il forte calore
così prodotto; la lapidazione, alla quale spesso era sottoposto il condannato disseccato o saettato,
anche se già morto; l’annegamento, che s’otteneva gettando a mare il condannato con le mani e i
piedi avvinti e con una grossa pietra legata al collo, il seppellimento da vivo, l’impalamento, il quale
consisteva nell’infilzare il condannato con un palo aguzzo, come con uno spiedo, che gli entrava
dall’ano e s’apriva la strada nel suo corpo, sino a che la punta gli usciva dal collo, e lo si lasciava
così ad agonizzare; oppure lo si legava seminudo alla coda d’un cavallo e lo si strascinava per ore
per le strade pavimentate d’una città, finché, con le ossa lussate e le carni straziate, non fosse
morto dissanguato; o anche gli si rompevano tutte le ossa del corpo a colpi di mazza di ferro e poi
lo si gettava su un cumulo di rifiuti in modo che servisse da pasto ai cani e agli uccelli da preda e,
racconta il de Haedo, nel novembre 1576 a Costantinopoli in tal maniera fece Uluch-Alì giustiziare
lo schiavo N. Roalés, un soldato spagnolo di circa venticinquenne fatto prigioniero alla Goletta, per
aver ucciso il suo padrone turco, esasperato dalle continue crudeltà a cui questi lo sottoponeva; o
ancora lo si adagiava in una fossa superficiale e lo si copriva di terra e poi lo si uccideva a
picconate o lo s’interrava fino alla vita e lo si faceva così bersaglio di frecce o di pietre fino a
ucciderlo, come, narra sempre il de Haedo, all’inizio del 1565 ad Algeri, su ordine di Hassan
Pachà, i barbareschi ammazzarono per tentata fuga un giovane rinnegato genovese, da loro
ribattezzato Morat:

… Arrivati infine alla plaga sabbiosa che s’estende fuori dalla porta Bab-el-Ued, verso ponente,
molto vicino al cimitero dove s’inumano i cristiani, si misero a scavare un fosso nella sabbia e
v’interrarono il cavaliere di Cristo (cioè il martire) fino alla vita, poi dieci o dodici cavalieri turchi
cominciarono a scoccargli delle frecce con la più grande crudeltà. Ne ricevette tante da sembrare
un novello San Sebastiano e da colargli il sangue in abbondanza dal torace e da tutto il corpo
benedetto. Due dei colpi di freccia furono in particolare più terribili degli altri, l’uno l’aveva colpito in
piena bocca, gli aveva rotto i denti e gli si era conficcato nella gola, l’altro gli si era affondato in un
occhio dal quale colava un fiotto di sangue. Questo colpo fu così terribile che il martire di Dio ne
restò esanime. Allora i turchi e i mori… s’armarono di pietre e lo lapidarono rabbiosamente, di
sorta che, non solamente egli spirò dopo qualche lancio di pietre, ma le sue membra ne restarono
884

rotte, la testa fracassata ed egli quasi completamente coperto dalla quantità di pietre che gli si
gettò… (Ib.)

Un altro modo di giustiziare era erigere un patibolo costituito da tre pali in forca caudina, collegare i
due pali verticali, alti circa 26 palmi, con un quarto orizzontale a 10 o 12 palmi più in basso della
traversa superiore, fissare uno o due grossi ganci alla traversa inferiore in maniera che tenessero
le loro punte acuminate all’insù, fissare una puleggia a quella superiore e trainarvi con una corda il
condannato, per poi farlo bruscamente piombare sulle punte dei ganci, ai quali andava a infilzarsi
in uno o due punti del corpo, e là lasciarlo ad agonizzare anche per diversi giorni; ad Algeri c’erano
alcuni famigerati ganci così fissati all’esterno delle mura della città e che erano utilizzati all’incirca
allo stesso modo; ecco il racconto fatto nel 1589 dal Villamont dell’esecuzione del sangiacco
(’governatore’) di Famagosta, di cui lo stesso viaggiatore francese fu testimone, per aver angariato
quella popolazione e aver costretto il bachà di Cipro ad inviarvi un corpo di giannizzeri per
reprimere i conseguenti disordini:

..il povero sangiacco preso e fatto prigioniero, il suo processo si è svolto in ventiquattr'ore ed è
stato condannato ald essere agganciato. È questo tipo di morte molto strano e si fa in questo
modo, si piantano nel terreno tre lunghi bastoni poco distanti l'uno dall'altro e uniti in alto con altri
bastoni, su tutti i quali sono delle lunghe punte di ferro molto affilate, e nel mezzo a questi tre legni
ce n'è un altro alzato molto più in alto, a guisa di quello per i tratti di corda, per sollevare il
delinquente e per poi farlo cadere su una di queste punte di ferro; il che è stato fatto a questo
sangiacco e la sventura tanto lo colpì che egli ne restò trafitto solo ad una spalla, per cui rimase
ancora in vita per tre giorni, languendo miseramente. L'ordinanza è tale in tutta la Turchia che un
corpo destinato a questo supplizio resta fino alla morte nel luogo dove la triste sorte lo ha
attaccato, senza che sia consentito ad alcuno di usare della carità nei suoi confronti, se non vuole
incorrere nelle stesse pene di colui per il quale avrà avuto compassione (J. De Villamont, Libro III.
Cit.).

Questo era l’agganciamento, ma poi c’era l’impalamento, ancora più crudele del supplizio
precedente:

... Ce ne sono molti altri impalati o infilzati per l’ano con un palo di legno a mo’ di cappone e nel
modo che segue. Il criminale condannato a morte porta sulle spalle la sua forca, che è un palo di
legno lungo da otto a nove piedi e spesso a un'estremità quanto la testa del femore di un uomo e
molto appuntito all'altro, e questo disgraziato lo porta al luogo dove dovrà morire, dove, essendovi
arrivato, lo si scarica del suo fardello, poi lo si dispone disteso con la pancia e la faccia a terra e,
tenendogli le braccia, le gambe e la testa in modo che non possa muoversi, gli si infila il palo di
legno attraverso l’ano, poi con un grosso maglio o mazza, si batte l'altra estremità del palo finché
non si vede la punta uscire o attraverso la testa o attraverso la spalla o attraverso lo stomaco o
attraverso un altro punto del corpo. E, avendolo così sistemato, piantano questo legno in terra, e
lasciano lì il ‘paziente’ infilzato in questo palo fino alla morte, la quale egli, languendo
miseramente, attenderà per circa tre o quattro giorni, senza alcuna speranza di pietà, senza aiuto
di alcuno, perché, se qualcuno osasse avvicinarsi a lui per dargli da bere o procurargli qualche
885

altro sollievo, subito avrebbe dovuto fargli compagnia nello stesso supplizio. La causa per cui
spesso restano vivi per lungo tempo, dopo essere stati così infilzati, è che il legno non offende le
parti vitali del corpo: così (invece) non avvenendo, il disgraziato muore incontanente. Trovo questa
morte estremamente crudele: perché infilzare un uomo per l’ano con un legno appuntito e che poi
a poco a poco cresce di grandezza e che basta piantare a terra per sostenere il paziente, io trovo
che si tratta dell'estremo di estremi dolori. Questo tipo di supplizio è dato a persone che non hanno
alcuna accusa particolare, ma solo perché sono magari mori abitanti nel paese o cristiani che
contravvengono alle ordinanze del sultano (ib.).

Ma, in quanto a supplizi efferati, i turchi non si facevano mancare nulla:

… C’è un altro tipo di morte molto dolorosa, della quale anche fanno uso molto sovente, cioè
quelli a cui strappano le unghie dei piedi e delle mani e poi gli fanno scuoiare, la testa per prima,
così come fecero infatti al signor Dandolo gentiluomo veneziano (non era un Dandolo ma
Marcantonio Bragadino nel 1571, n.d.a.) contravvenendo nondimeno alla promessa che gli
avevano fatto, (della cui pelle) essi fanno trofeo d'onore quando è contro un cristiano. Hanno
anche come supplizio il fuoco, al quale condannano i rinnegati che tornano al cristianesimo e i
cristiani che entrano nel tempio di Salomone e in altre moschee d’importanza o che sono colti
mentre godono godere d’una turca. Esistono diversi altri tipi di tormenti, come conficcare aghi nelle
unghie delle mani e dei piedi, che è quello che si da ai traditori, e lo strangolamento, il quale viene
(però) affidato alla camera (di giustizia), per i bachà e ad altre persone di qualità condannate a
morte (ib.).

Questi supplizi erano frequentemente combinati, per esempio saettando o lapidando un


condannato seminterrato sino alla vita, come abbiamo già spiegato, o tenuto appeso per un solo
piede o per un solo braccio oppure facendo seguire il rogo o l’inganciamento alle mutilazioni. Il de
Haedo, descrivendo tali atrocità, così aggiungeva:

… Oltre a queste straordinarie crudeltà, quelli impiegano ancor’altri numerosi supplizi che sarebbe
troppo lungo descrivere. Non esiste un palmo del territorio d’Algerie di tutto il litorale che non
testimoni di queste macellerie; tutto è pieno d’ossami e di ceneri d’innumerevoli cristiani, tutto il
paese è bagnato e arrossato del loro sangue… Non c’è per loro soddisfazione comparabile a
quella che provano o giorno più piacevole o festa od allegria più grande di quella d’abbandonarsi a
questi atti di barbarie. Quando tali occasioni si presentano, sospendono ogni lavoro, cosa che non
fanno né per il venerdì né per la loro Pasqua o per le loro feste; corrono per le strade come dei
folli, si radunano, spassandosela un mondo, nelle piazze, nei cortili, dappertutto, sia nelle case sia
sulle terrazze. Le stesse donne vi si mescolano: esse alzano la voce emettendo clamori e rivoltano
il cielo con le loro grida. Infine il chiasso, il tumulto, la confusione delle genti sono tali che la città
sembra tremare e che da queste prigioni noi stessi l’intendiamo distintamente. (Ib.)

Quando s’era deciso di martirizzare un cristiano, specie se si trattava di bruciarlo vivo, si sceglieva
di preferenza un prete, perché tra gli schiavi erano particolarmente odiati appunto i sacerdoti, dai
barbareschi detti papaz, accusati dai maomettani degli orrori dell’Inquisizione; se il proprietario
dello schiavo giudicato più rispondente al progettato supplizio non voleva offrirlo gratuitamente per
la ‘festa’, così definita perché in genere tali barbari martiri avvenivano di venerdì, giorno
886

corrispondente alla domenica dei cristiani e al sabato dei giudei, allora si percorrevano le strade
col prigioniero legato e con vassoi d’argento a raccogliere offerte per trabaldarlo (‘riscattarlo’) e per
le spese della legna, degli altri materiali e del servizio occorrenti alla preparazione della pira:

… In questa circostanza, i ricchi come i poveri sono generalmente generosi e liberali, altrettanto
che essi si mostrano avari, rapaci e parsimoniosi in tutti gli altri casi, come abbiamo già detto.
Allora, in effetti, si riterrà il più fortunato e il più santo colui che avrà partecipato per la parte più
consistente a tale opera così buona e così meritoria. (Ib.)

Ecco come la cosa, descritta al de Haedo da testimoni oculari, era avvenuta nel caso dello
spagnolo Juan Molina, un cittadino d’Almeria bruciato vivo ad Algeri nel 1568:

… Condussero la loro vittima davanti alle porte delle moschee alle ore della preghiera o ‘sala’ e
per le strade e i luoghi frequentati della città, chiedendo l’elemosina e dicendo: Dateci di che
riscattare questo cane di cristiano, poiché vogliamo bruciarlo vivo… (Ib.)

E spiegavano alla gente i motivi che s’erano inventati per farlo ritenere meritevole di tanta atrocità;
la cosa durò diversi giorni finché non fu raccolta la somma necessaria:
… Che dirò degli affronti, dell’ingiurie, degl’insulti dei mori, dei pizzicamenti, dei ceffoni, pugni,
pedate, spintoni che gli dettero? I vili monelli per di più gli strappavano la barba e i capelli
emettendo grida di gioia. (Ib.)

L’esecuzione, avvenuta ad Algeri il 27 dicembre 1531, dei già ricordati sette capitani di galera
spagnoli catturati nel 1529, incluso Juan de Portundo, dell’altro pur già menzionato capitano di
galera Luis de Sevilla, catturato invece nello stesso suddetto 1531, d’un mastro-ferraro spagnolo di
nome Francisco, d’un altro, pure spagnolo, chiamato però Marroquino, e di altri sette cristiani, tutti
scoperti ad Algeri mentre si preparavano a fuggire, è così descritta dal de Haedo, il quale allora
ancora si trovava anch’egli schiavo in quella città:

… Il 27 dicembre, festa del glorioso San Giovanni Apostolo… Barbarossa ordinò che si facessero
uscire dal bagno i diciassette cristiani e che li si conducesse a morte. Era appena stato dato
l’ordine che un gran numero di quei turchi e di quei rinnegati armati si portò immediatamente al
bagno e, chiamando tutti quelli che erano stati condannati a morire, cominciarono ad insultarli,
come usano, dando loro del cani, del cani traditori che volevano sollevarsi contro il paese… Ogni
cristiano, con le mai legate dietro la schiena, fu posto tra due turchi. Fu verso le otto del mattino
(secondo vengono contate in Spagna) che essi li condussero laggiù, fuori dalla porta Bab-el-Ued,
la quale guarda ad occidente, ed, appena furono arrivati, i turchi, snudate le loro scimitarre, fecero
a pezzi i diciassette cristiani incatenati e docili come degli agnelli. Spaccarono loro il cranio,
tagliarono loro le braccia e i garretti, tagliuzzando loro completamente il corpo…
Juan de Portundo era un giovane uomo di circa venticinque anni, a cui la barba cominciava a
crescere; era piacevole, aveva i capelli rossi, la carnagione bianca, lo sguardo vivace, (era) di
statura media e ben proporzionato. Il capitano Luis de Sevilla poteva avere quarantacinque anni,
(era) di bella taglia, egli cominciava appena ad incanutire, (ma) la sua barba era nera. Il mastro-
ferraro Francisco doveva avere trent’anni, era (però) incurvato, la sua barba era nera. (Ib.)
887

Barbarossa ordinò che i loro corpi fossero abbandonati sui letamai, perché vi venissero poi divorati
dai cani e dagli uccelli rapaci, ma colui che li aveva traditi, lo spagnolo rinnegato Francisco de
Almanza, ebbe in seguito sorte di poco migliore, perché cercando anch’egli di fuggire nel giugno
dell’anno seguente insieme a un maiorchino di nome Gabriel, mentre cercavano di raggiungere via
terra Orano, furono presi dai mori dell’interno e ricondotti ad Algeri; il Barbarossa fece punire
Gabriel con duecento colpi di bastone e, quanto al traditore Francisco, lo fece gettare a mare nei
pressi del Peñon con una pesante pietra attaccata al collo. Negli ultimi giorni di marzo del 1535,
cioè circa quattro mesi prima che Carlo V conquistasse la Goletta e Tunisi, lo stesso Barbarossa
fece uccidere di strascino a coda di cavallo e poi abbandonare sul letame, a disposizione dei denti
dei cani randagi, un gentiluomo italiano di nome Luigi Pazienza, catturato in Barbaria mentre si
recava come ambasciatore di Carlo V dallo spodestato re di Tunisi Hassan, rifugiatosi a Karuan, e
fece impalare la sua guida, un maltese che conosceva bene quel paese e la lingua barbaresca:

... Luigi Pazienza poteva avere cinquant’anni, cominciava ad incanutire, era alto, ben fatto e
proporzionato, (ma) assai pingue, era di carnagione bianca e aveva i capelli neri. (Ib.)

Nello stesso periodo, a quanto scriveva invece il vescovo di Nocera Paolo Giovio (1483-1552),
Kheir-ed-Din fece anche uccidere il genovese Luigi Procenda, da lui catturato nei pressi di
Mahammet (oggi Amamet), perché non gli aveva confessato la verità sui preparativi di guerra
dell’imperatore. Il de Haedo, il quale riporta la predetta descrizione del Pazienza, fu, come
sappiamo, lungamente prigioniero ad Algeri, ma in epoca molto più tarda, e pertanto doveva
essere non solo conoscitore della lingua barbaresca, ma anche certamente autorizzato a
consultare giornali o documenti di quella città. Anche nel secolo successivo le terribili crudeltà
esercitate contro i cristiani continuarono e lo attestava il frate trinitario francese Lucien Heraut, il
quale nel 1643 riscattò e riportò in Francia 50 dei più di duemila francesi che erano tenuti schiavi
ad Algeri, valutandosi allora a più di 30mila il numero dei cristiani tenuti in cattività in quel regno
barbaresco; ma si trattava in effetti di 50 soggetti provvisti quasi tutti di buon cognome, quindi
sicuramente di gente che era stata in grado di pagarsi da sé il proprio riscatto. L’Hearut indirizzava
dunque una supplica stampata all’allora regina reggente Anna d’Asburgo perché s’intervenisse
anche per altri prigionieri e minuziosamente descriveva tutti i martirii che altrimenti li attendevano,
iniziandone l’elenco con gli abusi sessuali secondo e contro natura a cui erano sottoposti i più
giovani:

…e quelli che resistono alle loro bestiali passioni sono scorticati e straziati a colpi di bastone,
appendendoli per i piedi, tutti nudi, ad un palco, strappando loro le unghie dalle dita, bruciando loro
la pianta dei piedi con delle torce ardenti, di tal maniera che molto soventemente essi muoiono in
tali tormenti. Ad altri più anziani fanno portare delle catene di più di cento libbre di peso, le quali
888

essi trascinano miserabilmente dovunque siano costretti ad andare e tale pesante fardello è
d’ordinario per i ricchi dai quali s’aspettano un buon riscatto, ed oltre tutto ciò, se si viene a
mancare al minino suono di fischietto od al minimo segnale che facciano perché così s’eseguano i
loro comandi, veniamo per l’ordinario bastonati sulla pianta dei piedi, il che è una pena intollerabile
e così grande che ci sono molto sovente di quelli che ne muoiono; e, quando hanno condannato
una persona a seicento colpi di bastone , se quella viene a morirne prima che tal numero sia stato
raggiunto, non smettono per nulla di continuare a dare quelli che mancano sul corpo del morto!
Gli impalamenti sono ordinari e le crocifissioni si praticano ancora tra questi maledetti barbari e nel
seguente modo: attaccano il povero paziente su una specie di scala e a quella gli inchiodano i due
piedi e le due mani, poi sollevano e appoggiano la detta scala contro una muraglia in qualche
luogo pubblico od alle porte ed entrate delle città per la più grande vergogna del nome cristiano e
rimangono così a volte anche tre o quattro giorni a languire senza che sia consentito ad alcuno di
dar loro un sollievo. Altri sono scorticati tutti da vivi e una quantità bruciati a fuoco lento,
specialmente quelli che bestemmiano o disprezzano il loro falso profeta Manometto; e alla minima
scusa e senza altra forma di processo vengono trascinati a tal crudele supplizio e colà attaccati
con una catena tutti nudi ad un palo e viene disposto tutt’attorno a loro un fuoco lento circolare di
circa 25 piedi di diametro, al fine di farli arrostire a piacimento e allo stesso tempo di servir loro da
passatempo; altri vengono agganciati a delle punte di ferro poste alle torri od alle porte delle città,
dove molto di sovente languiscono per lunghissimo tempo.
Noi vediamo sovente nostri compatrioti morire di fame dentro quattro mura od in certi buchi che
fanno a terra, dove li mettono vivi, e periscono così miserabilmente. Recentemente s’è praticato un
nuovo genere di tormento ai danni d’un giovane dell’Arcivescovado di Rouen per costringerlo ad
abbandonare Dio e la nostra santa Religione; egli fu dunque tenuto incatenato ad un cavallo in
campagna per il tempo di 25 giorni alla mercé del freddo e del caldo e d’una quantità di altri disagi,
i quali non potendo più sopportare, venne meno alla nostra santa legge… essi credono di
guadagnarsi indulgenze e rendere dei grandi sacrifici a Manometto quando tormentano e
affliggono qualche cristiano. (Ib.)

I prigionieri dall’apparenza più delicata, reputati per questo evidentemente ben abituati e
quindi più ricchi, erano trattati più duramente degli altri per costringerli così a pagare un esagerato
riscatto per se stessi o per qualche loro parente che fosse anch’egli prigioniero; al rogo si
condannavano infine anche coloro che avessero abiurato la religione maomettana. Ma non
bisogna credere che i cristiani non avessero - e soprattutto non avessero avuto nel passato - in
questo campo le loro colpe; nel Medioevo nelle guerre che avvenivano tra le potenze cristiane sia
di ponente che di levante (lt. tam citra quam ultra mare; sp. así de aquende como de allende del
mar), specie in quelle marittime, di solito più feroci di quelle terrestri, era prassi comune mutilare i
prigionieri del naso, delle orecchie, della mano destra o d’accecarli, se non era gente in grado di
pagarsi un congruo riscatto; questo perché la religione cristiana vietava di uccidere i prigionieri di
guerra della stessa fede e allora appunto, quando erano troppo poveri perché se ne potesse
ottenere un buon riscatto, si rimandavano al loro paese dopo averli accecati in massa perché non
potessero prendere più le armi contro i vincitori e ciò si faceva particolarmente ai balestrieri
genovesi catturati, perché costoro erano tradizionalmente mercenari e prima o poi ce li si sarebbe
certamente ritrovati di fronte su un campo di battaglia. I prigionieri maomettani invece, se non da
riscatto, s’impiccavano comunemente e questo era però sempre meglio dell’impalamento o del
889

rogo con cui i turco-barbareschi sopprimevano quelli cristiani; altro motivo poi, questo d’onore, per
cui non si sarebbero dovuti uccidere i prigionieri era quando s’arrendevano, ma i veneziani, poiché
non avevano interesse a far molti schiavi maomettani dal momento che le loro galere era spinte
quasi esclusivamente da buonavoglia, pur d’eliminare però i pirati dalmatini e i corsari turco-
barbareschi che infestavano l’Adriatico e l’arcipelago greco, quando questi s’arrendevano, li
assolvevano sì per l’azione di pirateria o di corso durante la quale erano stati sorpresi, ma
l’impiccavano per quelle commesse in tempi precedenti, e, se proprio fossero stati nuovi a quel
tipo di crimine, allora li facevano schiavi dopo averli però ben torturati, perché così in futuro, se
anche fossero riusciti a fuggire, avrebbero avuto timore di tornare a far guerra a Venezia; del resto,
ancora sino alla fine del Medioevo, i soldati veneziani erano stati per consuetudine premiati con un
ducato d’argento per ogni testa di turco consegnata.
Per quanto riguarda il supplizio dell’affissione alla croce (prlt. gabalum), non bisogna credere che
sia stata una truce invenzione degli antichi romani, i quali invece l’appresero a loro spese da popoli
barbari, come leggiamo in una citazione del già ricordato Marco Terenzio Varrone, anche questa
fatta da Nonio Marcello:

… (siamo peggiori) noi barbari che affiggiamo romani innocenti alla croce o voi non barbari che
assolvete i rei? (nos barbari, quod innocentes ín gabalum suffigimus Romanos, vos non barbari,
qui noxios absolvitis ? Cit. P. 166.)

In effetti i romani avevano qualcosa di simile, uno strumento di legno detto numella, al quale si
legavano i condannati alla tortura o alla percussione con le verghe, essendovi trattenuti con piedi,
mani e collo inceppati; la differenza era che, mentre a questa generalmente si sopravviveva,
perché usata solo ai fini di torura, l’affissione alla croce era in una condanna a morte, in quanto vi
si lasciava così il reo crucifisso finché non fosse morto; i ceppi per i piedi si chiamavano pedicae,
quelli per le mani manicae e quello per il collo boja (gr. ϰλοιός, ‘collare’), quest’ultimo un nome
forse collegato a un suo uso anche strangolante, come infatti poi vedremo nella garrota spagnola;
ciò perché s’usava in Italia, in mancanza di esecutori di giustizia (lt. lictores; sp. verdugos, dal lt.
virga), di far eseguire le condanne a morte al carnefice (lt. carnufex, carnifex) cioè a colui che
fosse addetto a uccidere con la scure e a macellare i buoi divenuti troppo vecchi per lavorare e i
tori per procreare, e ‘carnefice’ si diceva appunto vulgo ‘boja’ [dal gr. (ϰρέα) βόεια, ‘carni bovine’],
prendendosi dunque a chiamare boia anche l’esecutore di giustizia (Sebastián de Covarrubias
Orozco, Tesoro de la lengua castellana o española etc. P. 144. Madrid, 1611; Real Academia
Española, Diccionario de la lengua castellana etc. T.I. P. 665. Madrid, 1726).
Tornando ora all’argomento della notorietà dei corsari barbareschi, aggiungeremo che il rinnegato
calabrese Arzan, che nel settembre del 1616, trovandosi al comando d’una squadra di ben 12
890

vascelli sottili, fu ucciso in battaglia da galere maltesi e napoletane, il rinnegato olandese de


Veenboer (vulgo Soliman Rais), comandante di una squadra barbaresca che scorreva il
Mediterraneo prima del 1620 e della quale facevano parte altri due raïs suoi compatrioti e cioè
Meinart Dircksen e Jan Janssoon (Murad Rais; Morat, in turco) di Haarlem; quest’ultimo si
emancipò poi dal de Veenboer e si fece un nome sia ad Algeri sia soprattutto a Salé, repubblica
corsara marocchina della quale fu uno dei fondatori; di lui, temutissimo scorridore delle coste
atlantiche, si ricorda principalmente il famoso sacco di Baltimore in Irlanda, avvenuto nel 1631. C’è
ancora da rammentare il già menzionato rinnegato ligure Osta Murat, figlio d’un marmoraro di
Levanto di nome Francesco di Rio, e che non è improbabile si chiamasse Costantino di Rio; costui
dal 1615 al 1637 fu generale della squadra di Tunisi, la quale aveva allora base a Biserta, non
avendo infatti Tunisi ancora un porto degno di questo nome, e poi dall’inizio del 1638 al giugno
1640, mese in cui morì, fu addirittura reggente della stessa Tunisi; insomma fu un Ulugh Alì in
piccolo, ma il primo evento del quale egli sia ricordato partecipe fu la sonora sconfitta ricevuta da
lui e dalla sua squadra di Biserta nella primavera del 1624 da parte di 10 galere siciliane
comandate dal marchese di Santa Cruz e da quattro di Malta guidate dal napoletano Niccolò della
Marna; tra i corsari fatti prigionieri dai cristiani in quello scontro dopo sei ore d’intenso
combattimento, vi fu Alì Raïs (al secolo l’inglese Sampson Denball di Dartmouth), comandante di
tre velieri, il quale aveva tentato inutilmente di far saltare la sua santabarbara per non farsi
catturare; costui, condannato al remo, morirà l’anno successivo. Osta Morat, scampato alla
disfatta, si rifece subito qualche mese dopo con il sacco di Perasto, colonia veneziana posta in
fondo alle Bocche di Cattaro, e la cattura di 450 dei suoi abitanti, azione che condusse alla testa di
sette galeotte tunisine e insieme a sei algerine di Alì Mehemi, e poi il 26 giugno 1625 al largo di
Siracusa sconfisse le cinque galere di Malta, delle quali due restarono prese. Il predetto inglese
Sampson Denball aveva cominciato le sue attività corsare navigando nella squadriglia barbaresca
comandata dal suo connazionale John Ward, di cui poi diremo, e con costui in seguito lavorerà
all’ammodernamento della squadra tunisina, divenendo infine vice-capitano generale dei bertoni o
galeoni di Youssuf Bey (o Youssef Dey), il governatore turco di Tunisi subentrato nel 1610
all’assassinato Kara Osman, questo forse a sua volta successore diretto del già ricordato Mustafa
Pasha, oscuro rinnegato trapanese, il quale, come racconta il de Lisdam (cit.), nel 1607 era
nientedimeno che roy appunto di Tunisi, carica però dalla quale fu sollevato nell’aprile di quello
stesso anno, quando appunto, richiamato a Costantinopoli, lasciò quella città due galere di Biserta;
il Denball partecipò con 6 velieri tunisini alla battaglia che nel marzo del 1621 avvenne al largo di
Malta tra corsari turco-barbareschi e cristiani; da una parte c’erano dunque i predetti velieri di Alì
Rais, 12 galere del corsaro turco Alì Rostan, 4 galeotte e 3 tartane di Mohammed Escabrig, altro
891

corsaro turco, tutti disposti a mezza luna com’era loro costume; di fronte avevano una formazione
uscita da La Valletta così disposta: al centro un galeone e una nave fiamminga, a destra 6 galere
toscane, a sinistra due di Sicilia, 2 di Carlo d’Oria e 3 maltesi. La battaglia fu sanguinosissima per
ambedue i contendenti, ma turco-barbareschi ebbero le perdite maggiori, restando catturati un
vascello del Denball, una galeotta e due tartane dell’Escabrig, uccisi più di 300 turco-barbareschi
ed 84 cristiani; due anni più tardi il predetto Carlo d’Oria inflisse ulteriori perdite al naviglio nemico
entrando con le sue galere nel porto di Tunisi, mentre il Denball morirà prigione nel 1625, come
abbiamo appena detto. Frattanto nel settembre del predetto 1624 11 galere napoletane comandate
da Diego Pimentel e da Alessandro da Filicaia, incontratesi a Porto Ferraio con la squadra toscana
di Giulio Barbolani da Montauto, la quale comprendeva due galee grosse e quattro sottili,
invitarono questo generale a unirsi a loro per andare a combattere il corsaro Hasan Agà, il quale,
al comando d’una flottiglia di quattro velieri grandi e due petacchi, infestava allora le acque sarde.
Ai primi d’ottobre i vascelli nemici furono avvistati all’isola di S. Pietro, colà fermatisi a causa della
bonaccia, e dopo 10 ore di sanguinosissimo combattimento un veliero fu affondato, altri due e i
due petacchi furono catturati, salvandosi con la fuga il solo veliero ammiraglio sul quale era
imbarcato Hasan Agà e dal quale in precedenza s’era dovuta disimpegnare la Capitana di Napoli
con il troncare a colpi d’ascia il suo sperone rimasto incastrato nel fianco di quel legno nemico; vi
restarono inoltre uccisi o annegati 400 turco-barbareschi, 200 furono catturati con il raís in
seconda, e 60 cristiani furono liberati; i cristiani vi persero 60 uomini incluso lo stesso Pimentel,
presto colpito da un’archibugiata al petto, ed ebbero 200 feriti. Il predetto Barbolani si aquisterà poi
molta fama nel giugno del 1627, quando, trovandosi alla testa della sua predetta squadra di 6
galere, forzerà i Dardanelli e sotto Capo Giannizzero catturerà l’intera caravana d’Alessandria, in
quell’occasione sfortunatamente formata da 22 vascelli tutti privi di gente armata.
Ci saranno poi anche il veneziano rinnegato Alì Celebi Piccinino, genero del suddetto Osta Morat e
comandante della squadra d’Algeri, il quale nel 1638 devasterà le coste calabresi e quelle pugliesi;
i più tardi Hadjj-Mehmed e il già nominato rinnegato corso Hadji Hussein detto Hassan
Mezzomorto, il quale fu dey d’Algeri e poi comandante generale dell’armata turca; Hadji Amin,
corsaro algerino detto Bruciacristiani, il quale imperverserà nel periodo 1644-1655; poi ancora
Sulaiman Rais, del quale abbiamo ricordato la morte in combattimento, Arabagi, Cacchi detto Il
diavolo, Dali-Mami, gl’inglesi Éduard e Uvert, il marocchino raís Candil, il quale scorrerà il
Mediterraneo soprattutto nel 1694, e infine, nell’Ottocento, Hamidou. Per quanto riguarda infine i
corsari di parte cristiana, stranamente nessuno di quelli del Cinquecento, pur numerosissimi com’è
ovvio, nessuno d’essi ha raggiunto notorietà storica; nel Seicento invece si distingueranno il già
ricordato napoletano Carini, il quale cadrà nel 1663 combattendo contro i barbareschi nel canale
892

d’Otranto, e il maltese Onorato, il quale dette poi origine a una genia di armatori sviluppatasi
soprattutto nel Napoletano.
Le squadriglie corsare turco-barbaresche che, come abbiamo visto, potevano essere costituite di
galere, galeotte, fuste e bergantini, a volte, se si ritenevano superiori di forze o se non potevano
sottrarsi allo scontro, affrontavano anche vere e proprie squadre di galere cristiane e allora
avvenivano delle battaglie in piena regola, le quali però non erano ovviamente tra gli obiettivi della
guerra di corso; questa era d'altra parte anche abbastanza esercitata anche dai cristiani ai danni
dei maomettani, soprattutto da galere maltesi e toscane nelle acque dell'Egeo, tant'è vero che, in
occasione della sua visita a Costantinopoli nel 1581, l'ambasciatore veneto Jacopo Soranzo si vide
fare delle decise rimostranze da Sinan Pasha, primo Vizir del sultano Amurat III, in ordine al ricetto
e rinfrescamento che le galere di corso spagnole, maltesi e toscane trovavano nei porti dell'Egeo
soggetti ai veneziani dopo aver fatto le loro prede ai danni dei sudditi dell'impero ottomano. Le
galere italiane ponentine che andavano al corso di Levante passavano per lo stretto di Messina, si
fermavano a Malta a far grossa provvista d’acqua, poi costeggiavano l’Africa e percorrevano 300
miglia marine del tempo per raggiungere Capo Misurata sulla costa libica, passavano davanti al
Golfo della Sirte e raggiungevano Capo Rizzato, distante circa 400 miglia dal precedente e che
quindi oggi sarebbe da individuarsi nella zona di Tolemaide, poi percorrevano ancora circa 100
miglia sino al Capo di Buon Andrea, quindi probabilmente Ras Llál, e di qui con altre 120 miglia
raggiungevano il Capo delli Salini, capo che crediamo pertanto da ravvisarsi in Ras el Tin:

…nel discorso di detta isola (cioè nel trascorrere dalla detta Malta), non avendo fatto caccia – lo
che è impossibile per esservi pratica (‘traffici mercantili’) di gran vascelli (turco-barbareschi),
avendo mancamento d’acqua, potrà lanzarse (‘far rotta’) alla volta dell’isola di Candia… (Discorso
circa il modo et maniera ha da tenere un Capitano etc. Cit.)

A 190 miglia marine verso nord la galera avrebbe trovato la piccola isola di Gozo, posta a 20 miglia
a sud di Candia, e, approdandovi di notte per non farsi scorgere da quella maggiore isola, la sua
gente avrebbe potuto riposarcisi qualche giorno, non essendo infatti i vascelli di guardia veneziani
né quelli turchi soliti incrociare in quei paraggi:

…ed, essendo in detto isolotto con guardie (ossia con vedette proprie ben poste sulla riva), sarrà
impossibile che ogni giorno non scoprino deli vascelli quari (‘quadri’) e anco di mercanzie che
vengono de Alessandria e della costa del Cairo, dove sogliono esser delle maggior mercanzie
(che) sono al mondo, come spezierie, drappi di seta e, se per sorte son di ritorno, portano il danaro
contanti per far compra, perché (di) tutti li vascelli di ponente per quel canale è il lor viaggio… (Ib.)

E si trattava di navi, caramussali, germe, vascelli cioè che, avendo venduto le loro merci d’oriente
nei paesi di ponente, tornavano con almeno 50mila scudi ciascuno per andare a ricaricarne sulla
costa egiziana, senza contare quanto avrebbe reso la gente di recatto, cioè i mercanti turchi e
893

giudei che avrebbe trovato a bordo di quelli e avrebbe poi messo a riscatto; infatti gli ebrei erano
da sempre considerati in Europa, oltre che nemici della fede cristiana come i turchi, anche esseri
spregevoli, affamatori dei popoli per via dell’usura che, come abbiamo già ricordato, esercitavano
come loro principale attività (La perfidia dei turchi e degli ebrei…, scriveva il Digby nel suo giornale
di bordo) e quindi le loro persone e i loro beni erano sempre presi dai ponentini, specie dai
cavalieri di Malta che più scorrevano i mari del Levante, come bottino di guerra e come sequestro
di merci di contrabbando e ciò dovunque fossero stati trovati, anche, come spesso succedeva, a
bordo di mercantili veneziani, perché la Serenissima era con i giudei molto più tollerante e non ne
ostacolava i traffici, forse per il motivo che, potendo essi vivere e lavorare tranquillamente
nell’impero ottomano, se li trovava spesso come controparte commerciale a Costantinopoli; queste
ottime relazioni dei giudei con la Porta Ottomana continueranno anche nel futuro e infatti nel
Settecento una delle principali attività dei 12mila ebrei residenti a Livorno - su una popolazione
complessiva di 40mila persone (G. Guarnieri. Cit.) - sarà quella di mediatori del riscatto degli
schiavi, tanto cristiani quanto maomettani; ancora oggi i mercanti ebrei sono in Turchia molto attivi.
L’unica difficoltà che i predetti vascelli islamici presentavano era che usavano vendere cara la pelle
in ogni occasione:

…advertendo (che), per minimo (che) sia il vascello, tutti combatteno e sogliono usar delle
stratagemme… (Ib.)

In caso però il capitano di galera corsaro si fosse trovato di fronte a una resistenza troppo
rischiosa, allora non avrebbe dovuto far altro che allargarsi dalla preda, caricare il suo grosso
cannone di corsia non più a catene e scaglie, bensì a palla e con un ben aggiustato tiro a fior
d’acqua metterla a fondo, accontentandosi così della predetta gente da riscatto, la quale avrebbe
ovviamente subito salvato dal naufragio. Se poi sino a questo momento il capitano fosse stato
tanto sfortunato da non far alcun guadagno (‘preda’) - ma si trattava in effetti d’una molto
sfortunata eventualità - lo che (è) impossibile, allora doveva lasciare le zone ‘facili’ e cominciare ad
avventurarsi (per esser il viaggio di molto pericolo), doveva cioè andare a circumnavigare il Capo
di Salamone, situato evidentemente all’estremità sud-occidentale dell’isola di Candia,
circumnavigare l’estremità occidentale della grande isola, passare poi alla sua costa settentrionale
e di lì poteva eventualmente, se voleva, proseguire per tutto il mare del Levante.
Detto del corso di Levante, diremo ora di quello di Barbaria o di Ponente. Mentre per il primo si
faceva il necessario apparato nella città di Messina, nel secondo si usava come base di partenza
Palermo e la partenza da questo porto doveva avvenire alle ore due della notte, in modo da
trovarsi alla diana, cioè all’alba, al Capo di S.Vito, dove bisognava però fare attenzione perché
molto spesso vi sostavano vascelli corsari nemici; dopo essersi trattenuti tutto il giorno al detto
894

capo, bisognava ripartire di nuovo per Trapani, ma ancora alle due di notte per non esser visti dalle
Égadi, isole in cui sempre si trovavano vascelli nemici; poi si lasciava il porto di Trapani e,
dapprima attraverso il canale dell’isola di Favognana o Favigliana (oggi Favignana), si andava in
rotta diretta d’80 miglia a Capo Bon di Barbaria, località oggi in Tunisia. Disponendosi d’una decina
di galere, si poteva andar a saccheggiare Monastir, città di circa 500 fuochi, ossia famiglie, il che
significava che quell’abitato disponeva di circa 1200 uomini potenziali combattenti, senza contare
la guarnigione turca; oppure, avendo 20 galere, Susa, porto per dodici galee per ogni tempo, lo
definisce il Crescenzio, e con popolazione doppia della precedente, ma con muraglie deboli;
bisognava in ambedue i casi arrivarci di notte e sbarcare un miglio a ponente dell’abitato, per
evitare le secche che proteggevano quei porti, e in tal maniera ci si sarebbe trovati alla diana con
la gente armata sbarcata con gli schifi e un’imboscata preparata agli abitanti che tentassero di
salvarsi nel retroterra; inoltre si trattava di luoghi ricchi di pozzi d’acqua potabile. Nel corseggiare
sulle coste di Barbaria si seguivano ovviamente anche altri percorsi e si andava per esempio a
ovest sino a Gibilterra, come abbiamo detto fecero le galere toscane nel 1567, ma quello sopra
descritto era considerato il più produttivo, evidentemente anche per i vascelli nemici che si
potevano colà catturare; se s’incontravano vascelli grossi erano per lo più d’Algeri, se si trattava
invece di brigantini molto probabilmente venivano da Susa e Monastir, città occupate da Torgud
intorno al 1549.
Questa guerra di corso, specie quella condotta nel levante, diventerà però sempre più pericolosa
per i cristiani; infatti già nel 1559 il Soriano così scriveva nella sua già più volte citata relazione sui
domini di Spagna:

… E perché non si può corseggiare la riviera di Barberia come già si soleva per la gran guardia
che viene fatta da’ turchi e la gran difficoltà di poter trovare uomini da remo, però (‘perciò’) spesse
volte occorre che le galere sono zoppe né possono uscire alle imprese, onde, se bene Sua Maestà
ha sessanta galere in numero, non se ne può poi valere di più di quarantacinque o cinquanta…
(E. Albéri. Cit. S. I, v. III, p. 368.)

Questa difficoltà diventerà sempre maggiore e infatti in una anonima relazione sullo stato del regno
di Sicilia dell’inizio del Seicento si raccomandava, a causa d’alcune sventure così capitate, di dare
licenze di corso con molta parsimonia e solo a vascelli muy buenos y armados de muy buena
gente, eccezion fatta per quelli mandati a prender lingua e per i bergantini trapanesi, vascelletti
come sappiamo, ma questi particolarmente esperti ed esercitati nel contrasto ai corsari
barbareschi che infestavano le Ègadi, e ai quali quindi si dava talvolta licenza d’arrivare sino in
Barbaria [Ristretto delle forze interne con le quali il Regno di Sicilia si può da per sé difendere in
tempo di guerra (1611-1616). S.N.S.P., Ms. XXII.C.7]. Tra i corsari cristiani più audaci e temuti dai
barbareschi il de Haedo ricorda il castigliano Juan Cañete, il quale scorreva le coste nord-africane
895

al comando d’un bergantino di 14 banchi per lato di sua proprietà; si diceva che le madri algerine,
per far star buoni i bambini, minacciassero loro l’arrivo di Cañete, così come a Napoli si poteva
minacciarli invece di quello di un mammone (da itm. maimone, ossia ‘scimmione’); egli, il quale
aveva base a Maiorca, nella notte tra il 26 e il 27 maggio del 1550 fu catturato da due galeotte del
rinnegato napoletano Mami raís mentre tentava di penetrare nel porto d’Algeri per incendiare la
squadra algerina colà ormeggiata; egli, sebbene Carlo V avesse offerto una grossa somma per il
suo riscatto, resterà ad Algeri, schiavo del re Hassan Pachà, fino all’inizio del 1560, quando,
essendo stato in precedenza accusato di essere tra gli organizzatori d’un progetto di rivolta degli
schiavi cristiani in quella città, allora circa 16mila, la metà dei quali soldati spagnoli fatti prigionieri
nella battaglia di Mostaganem l’anno precedente, sarà crudelmente decapitato dal già menzionato
Caur Alì:

… Cañete era uomo di circa sessant’anni, di media statura, molto bruno, la sua barba era bianca,
era poco carnoso, ma robusto. (D. de Haedo. Cit.).

Un altro corsaro spagnolo, Francisco de Soto, fu catturato con il suo brigantino nelle acque di
Capo Ténès, a circa 60 miglia d’allora a ponente d’Algeri, all’inizio del dicembre 1562 ed, essendo
re allora di nuovo il suddetto Hassan Pachà, fu portato fuori della porta di Bab-el-Ued, interrato
colà fino alla vita e con le mani legate dietro la schiena, ucciso per lapidazione e poi bruciato:

… Francisco de Soto aveva circa 40 anni, aveva la barba nera, era ben conformato, snello,
bell’uomo e si distingueva per le sue maniere e per la sua bella presenza. (Ib.)

Nell’estate del 1563 ancora un corsaro cristiano, il maiorchino Jayme Pujol, fu preso con il suo
brigantino dai barbareschi nelle acque di Maiorca e, portato ad Algeri, fu poi utilizzato come
mastro-velaio; ma, nel marzo dell’anno seguente fu poi ucciso per disseccamento insieme al
catalano Garao, un frate dell’ordine di N.S. del Carmelo di circa sessant’anni, il quale era stato
trovato con altri due religiosi a bordo d’una galera spagnola catturata dai barbareschi mentre
navigava da Barcellona a Maiorca, episodio del quale non abbiamo reperito altre notizie.
Quest’atroce esecuzione, autorizzata anch’essa dal predetto Hassan Pachà, è così narrata dal de
Haedo:

… I rinnegati comandarono subito che si trasportasse una grande quantità di legno secco alla
marina… Essi ordinarono che all’estremità del molo e presso la torre dove si trova la lanterna si
conficcassero in due grandi fossi due ferri di galera, cioè due ancore, con i fusti verso l’alto, come
due colonne, alle quali si dovevano legare i martiri… Allorché furono tutti e due legati al loro
patibolo, li si contornò di legno e di sterpi in maniera che fossero raggiunti dal fuoco, ma non
immediatamente bruciati, e che perissero così a fuoco lento. Infatti, dacché il fuoco fu acceso, le
fiamme circondarono i disgraziati e li disseccarono senza consumarli… Non contenti, i crudeli
rinnegati portavano delle brocche d’acqua e aspergevano dalla testa ai piedi i martiri disseccati dal
896

fuoco. Quell’acqua, lungi dal rinfrescarli, aumentava il loro tormento, perché subito i carnefici
attizzavano nuovamente il fuoco… (Ib.)

A differenza del Garao, il quale pertanto morì più presto e fu poi incenerito, il Pujol era stato legato
a una brevissima corda che gli permetteva di girare attorno al suo patibolo nel vano tentativo di
sottrarsi alle fiamme, in modo cioè da divertire la feroce folla di baldis, ossia di cittadini d’Algeri,
che, come al solito, assisteva a quell’orrore ingiuriando i condannati e sbellicandosi dalle risa. Fu
poi finito a pietrate e anche lui incenerito:

… Il benedetto Jayme Pujol doveva avere 55 anni; egli era piccolo, robusto senz’essere obeso,
pressoché canuto e ben proporzionato di corpo. (Ib.)

Anche corsaro – e molto temuto dai barbareschi – era Juan Gascón, il quale, al comando di due
bergantini, all’inizio d’ottobre del 1567 entrò nottetempo nel porto d’Algeri per andare a metter
fuoco ai numerosi vascelli corsari che colà si trovavano all’ormeggio; ma fu scoperto dalle guardie
e l’impresa non riuscì, anzi il bergantino su cui si trovava fu catturato ed egli fu condannato a
essere ‘agganciato’ con il tallone sinistro alla traversa alta d’un patibolo e a restarvi così appeso
finché morte non sopravvenisse, supplizio che sopportò però solo per circa un’ora perché ne fu
salvato per interessamento d’alcuni corsari algerini; poi, un paio di giorni dopo, fu riportato al
patibolo e stavolta giustiziato per ‘agganciamento’, nella consuetudinaria maniera che abbiamo più
sopra già descritto, cioè, fatto precipitare su un grosso gancio, questo gli attraversò il ventre ed egli
ne morì poco dopo; il suo cadavere fu poi lasciato in quella posizione per parecchi giorni fino a
restarne disfatto e consunto dalle intemperie e dagli uccelli da preda:

… Al momento della sua morte Juan Gascón poteva avere circa trentott’anni, era d’alta statura e
ben proporzionato, la sua carnagione era più bianca che bruna, portava una barba completa, nera
e folta; era di ragionevole pinguedine. (Ib.)

Il 22 ottobre dell’anno seguente, essendo ora e solo da circa un mese governatore d’Algeri Uluch-
Alì, fu per ordine di questi ucciso alla stessa predetta maniera un giovane rinnegato italiano di circa
22 anni, del quale il de Haedo dice di non esser riuscito a sapere il nome; fatto piombare sul
gancio a mezzogiorno, il disgraziato ne ebbe il torace completamente attraversato e agonizzò così
infilzato fino alle quattro del pomeriggio (Ib.).
Era, come abbiamo già detto, comunque la guerra di corso - ma sarebbe in questo caso meglio
dire la pirateria - prerogativa, più che di europei e turchi, soprattutto delle popolazioni rivierasche
dell’Africa mediterranea, cioè di quelli che una volta con termine generico si dicevano i mori e oggi
‘i magrebini’; i cui corsari infestavano in gran numero e intensamente i mari e le marine non solo
mediterranee, ma anche atlantiche degli stati europei. Il de Haedo, scrivendo sotto forma di
897

dialogo nel 1578 durante la sua Cautividad algerina, affermava che l’economia delle popolazioni
barbaresche era talmente solo basata sulle scorrerie marittime che, se fosse dovuta mancare loro
quest’unica attività per soli due mesi, sarebbero certamente in maggior parte morti di fame e
faceva l’esempio del 10 aprile dell’anno precedente, quando cioè gli algerini, catturata la galera
maltese S. Paolo, probabilmente una galea grossa a giudicare da quanto e quanti portava a bordo,
portarono benessere a tutta Algeri, avendovi trovato, oltre a un copioso carico, anche 1.600 ducati
in moneta e 290 passeggeri, evidentemente pellegrini, da vendere come schiavi o da mettere a
riscatto, tra i quali lo stesso de Haedo, il quale appunto in quell’occasione era stato catturato; però
poi, imbaldanziti da quel successo, il 22 maggio successivo fecero partire in corso verso ovest una
squadra di 12 galere e altri vascelli minori sotto il comando di Mami Arnaute, il rinnegato albanese
di cui abbiamo già detto, portando così per tre mesi la loro minaccia alle isole e alle coste
spagnole, ma tornando ad Algeri il 14 agosto non portando altro che un povero pastore catturato a
Ibiza:

(Sosa:) … e i corsari, tutti vergognosi e mogi, per un insuccesso che non aveva precedenti,
morivano quasi tutti di fame ad Algeri, particolarmente i ‘reis’, i marinai e i soldati imbarcati, per cui
dovettero quasi subito ripartire (il 19 settembre) alla ricerca di rapine che loro permettessero di
vivere. Voi lo sapete, tutti i ‘reis’ non dovettero forse indebitarsi e ricorrere disperati agli usurai?
(Antonio:) Posso certamente attestare che il mio padrone Morad Reis, il pidocchioso spagnolo, e
altri dei suoi amici fecero altrettanto. Non si può (certo) dire né a me né a chiunque conosca
questo paese che tutti gli abitanti d’Algeri e una gran parte dei mori, possano, senza dedicarsi alla
rapina e al furto, nutrirsi o vivere due (soli) mesi, dal momento che non hanno alcun altro modo di
procurarsi di che mangiare. (Ib.)
Per il de Haedo, come facesse una città così ricca a rischiare subito la carestia in mancanza anche
di una sola stagione di guerra di corso era fenomeno inspiegabile (chissà come fa il diavolo a
toglier loro in un’ora ciò che guadagnano o rubano nel corso d’un anno!) e così ricorda la grande
penuria di cibo del 1579:

Durante il mese d’Agosto 1579 il pane mancò talmente, così come tutti gli altri viveri, nella città
d’Algeri e nel suo territorio che gli abitanti morivano di fame e noi ne vedevamo cadere d’inedia da
trenta a quaranta al giorno e anche di più… A tal carestia generale s’aggiunse la notizia che il re
d’Algeri (il rinnegato veneziano Hassan Pasha) e i turchi erano in grand’ambascia perché s’era
appreso che si stava formando una grande squadra riunendo vascelli in tutti i porti della Spagna:
Gibilterra, Siviglia, Porto di Santa Maria e Cadice. In ogni parte si facevano approvvigionamenti e
un gran numero di galere e di soldati stavano arrivando dall’Italia… (Ib.)

La ragione di quanto meravigliava il de Haedo era che, mentre Venezia, la quale, pur vivendo
come Algeri dei suoi proventi marittimi (ma con la gran differenza che si trattava di traffici
mercantili e non di rapine!), accumulava ricchezza ben reinvestendo la maggior parte di detti
proventi, la città barbaresca non reinvestiva nulla dei beni che i suoi vascelli le procuravano, ma
898

solo li consumava e sperperava e quindi, esaurite le sue scorte, per piccole o grandi che fossero
state, poteva arrivare a rischiare anche la fame.
Per ricordare ora solo qualche devastazione più importante compiuta dai turco-barbareschi, diremo
che nel 1553 l’armata di Sinan e Torgud, partita da Gallipoli all’inizio di maggio, aggredì e devastò
le marine di Puglia, specie Vieste, ciò facendo sempre anche nell'interesse della Francia, perché in
tal maniera costringeva la Spagna a divertire parte del suo impegno militare e finanziario anti-
francese alla salvaguardia dei suoi possedimenti italiani e africani e non a caso tra le sue 150 vele
c’erano anche quelle di 20 galere francesi, essendone allora capitano generale il più volte
nominato Antoin Escalin; e a pensare che Torgud stesso, corsaro tanto esiziale per la cristianità,
era stato all'inizio della sua sanguinosa carriera in potere di Giannettino d'Oria, figlio del cugino
d’Andrea Tommaso e da questo zio adottato, padre inoltre di quel Gioan Andrea che, nato a
Genova nel 1539 e anch’esso adottato dal principe di Melfi nel 1547, sarà tra i vincitori di Lepanto.
Infatti nella primavera del 1540 Torgud, dopo aver già di così buon tempo devastato l’isola di
Capraia e fatto ottimo bottino, compresa una grossa carraca genovese detta la nave dei Ferrari,
probabilmente perché apparteneva a quella famiglia, si trovava con 11 vascelli nella baia di
Girolata in Corsica, impegnato a spartirsi il bottino con i suoi compagni; poiché Andrea d’Oria si
trovava allora in Sicilia, era al comando della squadra dei particolari genovesi Giannettino, il quale
inviò contro i barbareschi il suo luogotenente Giorgio d’Oria con sei galere e una fregata, ma
Torgud credé di trovarsi di fronte le meno temibili galere d’Antonio d’Oria e, lasciando due dei suoi
vascelli a guardia del ricco bottino, uscì in mare con i nove altri, tra cui le galere ex-veneziane
Bibiena e Moceniga, prese ai lagunari due anni prima in occasione della battaglia della Prévesa,
ma giunse in aiuto di Giorgio lo stesso Giannettino con altre galere e Dragut allora fugge davanti al
numero superiore del nemico; in seguito, vedendo però che Giannettino gli dava la caccia con soli
nove vascelli, numero cioè pari a quello dei suoi, si voltò e gli dette battaglia, ma mal gliene incolse
perché, anche se non sappiamo come, fu sonoramente sconfitto e i suoi vascelli tutti presi,
riuscendo a sfuggire solo una fusta e la galera di Mami Rais, il noto corsaro di Monastir al quale
abbiamo più sopra già accennato e che era stato schiavo – poi riscattato – d’Antonio d’Oria; più
tardi il conte d’Anguillara, le cui galere s’erano ultimamente poste agli ordini di Giannettino, prese
anche i due vascelli che erano stati lasciati a guardia del bottino, contando alla fine i barbareschi
grandissime perdite e poche invece i cristiani; il 22 giugno Giannettino rientrava trionfalmente nel
porto di Genova. Torgud, messo alla catena e fustigato come tutti gli altri schiavi, offrì 15mila
ducati per il suo riscatto, ma la sua offerta non fu allora accettata; fra’ Parisot, futuro gran maestro
di Malta, raccontò al de Bourdeilles d’averlo visto incatenato al remo e aver scambiato con lui
anche qualche parola; dopo tre anni di prigionia, fu invece accettato il riscatto non eccezionale
899

offerto dal Barbarossa, la cui grande armata, come abbiamo già ricordato, era allora troppo vicina
a Genova perché gli si potesse opporre un rifiuto, e così la liberazione di Torgud causerà altri
innumerevoli lutti e rovine ai poveri naviganti e rivieraschi cristiani; infatti già nel 1545 costui, al
comando di 15 vascelli tra galere o galeotte e fuste, devasterà la riviera ligure di Ponente,
specialmente il 5 luglio Capraia e l’8 Monterosso e Cornilia, e, avendone catturato tanti abitanti, si
ormeggiò poi nel Golfo della Spezia ad alzare la bandiera bianca del riscatto e a ricevere la
miriade di barche dei civili che venivano da quei martoriati paesi a trattare con lui il rilascio dei
prigionieri. Tornando però ora al 1553, diremo che, dopo aver dannificato la Puglia, i franco-turco-
barbareschi passarono a infestare la bassa Calabria e la Sicilia meridionale, sbarcando a Catania,
a Pozzallo, prendendo il castello di Licata difeso da 30 soldati spagnoli, e venendo però poi
sconfitti a terra in un’imboscata organizzata dal capitano a guerra di Modica Guillermo de Belvis;
dopo essersi affacciati nel golfo di Napoli, saccheggiarono e incendiarono l’Elba e, direttisi in
seguito verso la Corsica, allora possedimento genovese, sbarcarono 3mila uomini al comando del
marchese de Termes e presero Bastia senza incontrare alcuna resistenza; si diressero su Calvi,
ma questa città, difesa da tre compagnie di fanti spagnoli che colà si trovavano solo
incidentalmente, poiché si stavano trasferendo da Barcellona a Napoli, resistette alle fanterie
franco-turche, mentre s’arrendeva dopo solo qualche giorno d’assedio Antonio de Caneto,
governatore del castello di Bonifacio, benché questo maniero fosse considerato imprendibile;
infine, vista la stagione avanzata, i turchi se ne tornarono a Costantinopoli lasciando la Corsica in
potere dei francesi, continuando infatti a resistere per la repubblica di Genova la sola Calvi. L’anno
seguente la Spagna corse in soccorso dei genovesi con numerose truppe portate in Corsica sia
dalle galere di quella corona sia da quelle d’Andrea d’Oria, mentre i francesi erano aiutati dal
fuoruscito corso Sampiero da Bastélica, il quale aveva molto seguito nell’isola, e di nuovo
dall’armata turca di Sinan e Torgud tornata dalla sua base di Prévesa a infestare il Tirreno, specie
la Puglia e la Corsica, sbarcando 3mila turchi addirittura a oppugnare Calvi con una regolare
batteria d’assedio; la città però resisterà ancora, anche se gli ottomani se ne torneranno a
Costantinopoli paghi di 7mila schiavi cristiani e di ricchissime prede. La Corsica tornerà presto in
potere di Genova, ma il conflitto, in parte coincidente con quello di Siena (1552-1555), si comporrà
anch’esso ufficialmente solo il 3 agosto 1559 con la pace di Castel Cambrese; il Sampiero, riparato
in Francia, tornò in seguito nell’isola, ma solo per porsi presto di nuovo in contrasto con Genova; la
causa fu stavolta un palazzo fortificato che egli si faceva costruire, opera che i genovesi
gl’ingiungevano non solo di non proseguire, ma anche di demolire per quanto aveva già eretto; il
Sampiero, pur volendo obbedire, chiedeva un risarcimento delle spese sostenute, ma i genovesi
non erano ovviamente per nulla disposti a tirar fuori del danaro e quindi nel giugno del 1564 il
900

corso, valoroso e astuto combattente, sollevò nuovamente l’isola contro l’egemonia dei liguri,
guidando questa rivolta - con il tacito aiuto della Francia e di Costantinopoli, con alterne vicende e
molto sangue - sino alla sua morte, avvenuta nel gennaio del 1567; la resistenza contro Genova
sarà continuata dal figlio Alfonso ancora per breve tempo e infine nell’aprile del susseguente 1568
l’isola ricadrà interamente in potere dei genovesi. Tornando però a dire dell’offensiva franco-turca
del 1553, c’è ancora da ricordare che lo Strozzi, il quale era stato richiamato al suo servizio dal re
di Francia in occasione della guerra di Siena (1552-1555), ebbe incarico di dare inizio alla
costruzione della fortezza di Port’Ercole nello Stato dei Presidi di Toscana e poi nel 1554 portò tre
galere a sbarcare uomini nel territorio di Piombino; messosi alla testa di questo contingente per
andare a riconoscere di persona il luogo forte di Scarlino, un paesano armato d’archibugio e
appostato tra i giunchi gli sparò ferendolo gravemente al fianco; riportato a bordo della sua galera,
morì dopo qualche giorno a Castiglione della Pescáia. La sfortuna dello Strozzi, iniziata quindi nel
precedente 1551 con la già ricordata mancata sorpresa di Barcellona, continuata l’anno seguente
quando, alla testa di quattro galere maltesi e due toscane, aveva fallito in Algeria un’altra sorpresa
contro un luogo chiamato Zara e posto a 12 miglia dalla costa, ebbe il suo tragico compimento a
causa d’un terzo insuccesso in tale tipo d’azioni; eppure proprio la sorpresa di St. Andrews in
Scozia era stata la grande impresa con cui la sua fama era iniziata! Ma, tornando alla bellicosità
marittima dei turchi, quali erano i veri interessi del ‘Divano’ nelle imprese devastatrici dei suoi
corsari? Ce lo spiega il già citato bailo a Costantinopoli Domenico Trevisano nella sua relazione
del 1554:

... (il sultano) dà commodità alli suoi, mandando essa armata alle marine della misera Italia, non
solo di arricchirsi con la preda di robe e anime, la qual fanno facilmente in molti luoghi, e di farsi
prattichi della navigazione di questi mari, ma anco d'aver più facile l'accrescimento delli
mussulmani, ritrovandosi sempre molti delli poveri schiavi (cristiani) che si fanno turchi, non
potendo tollerar le bastonate e la fame né star costanti alle minaccie della morte, oltre il numero
grande de' fanciulli che sono rubati, li quali senza dubbio alcuno sono fatti turchi. (E. Albéri. Cit. S.
III, v. I, p. 143.)

Che non si riuscisse a fronteggiare questo flagello era, secondo il Crescenzio, solo un problema di
mancanza di volontà e di collaborazione tra i principi cristiani:

... Chi non considera si egli è gran vergogna - parendo a' governatori dell'armate non esser
impresa degna de' loro prencipi - pensar che otto o dieci vascelli barbareschi, che sotto la guida di
Amurato raís e arnauteo Mami si armano di canaglia moresca, scorrano tutto l'anno i christiani lidi
e ardiscano a mezogiorno entrar le bocche di Napoli, anzi venirgli sotto alle fortezze della città ed
quelle di Orbitello e ivi sicuramente sbarcare e metter gente in terra, depredando gli huomini e
rimorchiando i vascelli carichi di merci e vettovaglie, da che tanto detrimento alle provincie resulta.
E che più vogliamo? Non hanno questi scalzi prese galee del Re Cattholico (di Spagna), del
Granduca (di Toscana), di Malta e del Papa, appendendo per più scorno sopra le porte d'Algieri,
901

ove poi noi gli vedessimo, (i medaglioni di legno rappresentanti) l'arme e i Santi da che esse i nomi
pigliavano? (B. Crescenzio. Cit. P. 474.)

L'audacia e la furbizia dei corsari barbareschi o sarracini, come allora erano chiamati soprattutto
nel regno di Napoli, erano grandissime. Il predetto Amurat raís si era reso per esempio famoso per
uno stratagemma con il quale era sfuggito alle galere del granduca di Toscana; queste avevano
scoperto e seguito le sue galere nel porto di Marsiglia, dove erano al sicuro per via della nota e
scandalosa alleanza tra Francia e Turchia ai danni della Spagna e dei suoi alleati, e colà le
assediavano. Amurat ogni giorno usciva dal porto con le sue galere, disponendole in ordine di
combattimento, e, quando i toscani si affrettavano a fare lo stesso, si ritirava nuovamente nel porto
amico; tante volte lo fece che un giorno i cristiani, sicuri che stesse facendo la solita finzione, non
si posero in battaglia e così Amurat subito scappò in alto mare con tutte le sue veloci galere e non
fu più raggiunto.
La colpa degli stati cristiani, premessa quella capitale della Francia che, oltre a non partecipare
mai alle leghe marittime anti-ottomane, aveva addirittura aperto alle armate di Costantinopoli il
Tirreno settentrionale, stava soprattutto nell'aver all'inizio sottovalutato il problema, permettendo
così che il naviglio corsaro dei turco-barbareschi diventasse sempre più forte e audace:
… Però (‘perciò’) già che il poco conto che al principio di questo s'è fatto è stato causa che i
bergantini diventassero galeotte e le galeotte galee e l'urche di mercanzie galeoni d'armate e l'uni
(e) gli altri potentissimi squadroni navali. (Ib. Pp. 476-477.)

Ancora viva era l'impressione di recenti terribili scorrerie sulle coste del regno di Napoli, scorrerie
che procuravano al Gran Turco una grande quantità di schiavi cristiani da adibire in buona parte al
remo delle sue galere, il che potenziava notevolmente la sua armata:

... Di ciò fa manifesta fede lo squadrone di galee che il Cicalla condusse in Calabria, armate de'
christiani depredati ne' lidi d'Italia, Francia e Spagna, oltre più d'altri trentamilla che vi sono in
Algieri, Tripoli e Biserta, che, per non se gli poter opponere l'armata catholica, bisognò dargli tutto il
tempo che essi hanno voluto da potersene retirare a salvamento in Turchia, rimorchiandosi un
galeone dell'armata di Sua Maestà (il re di Spagna) con altre due navi che venivano a Napoli
cariche di grano. (Ib.P. 475.)

Ma evidentemente la Corte di Madrid considerava il grano per Napoli molto meno importante
dell'oro per la Spagna:

... Ed hora vediamo gli altri galeoni compagni di questo (suddetto) che hoggi, se il tempo permette,
giorno della sacratissima Ascensione del Signore dell'anno 1595, partono di (‘da’) questa città di
Napoli alla volta di Lisbona, ove si fà la massa dell'armata che va (ad) aspettare la flota dell'India
per assicurarla d'un altra grossissima che la Regina (d'Inghilterra), invaghita dell'argento del Perù e
(delle) gioie dell'India, ha messo in ordine al suo favorito Drago (‘Francis Drake’). (Ib.)
902

Per inciso, i suddetti galeoni destinati a Lisbona erano 12 e ragusei; essi, narrano le cronache
napoletane, dovettero tornare indietro nel porto perché respinti dal vento contrario, per ripartire poi
definitivamente nella notte del 14 maggio, giorno di Pentecoste. Era il 1594 e il siciliano rinnegato
Cicala, ora generale di mare dell'impero ottomano, con un’armata di 160 vascelli aveva preso e
bruciato persino Reggio Calabria senza che fosse stato nemmeno possibile opporglisi
onorevolmente; era allora viceré di Sicilia Enriquez de Guzman conte d’Olivares (1592-1595) ed
ecco come riassume il fatto l’Auria:

… Arrivò l’armata numerosa de’ turchi al Capo delle Colonne a 24 d’agosto dell’anno 1594 e poi
alla Fossa di S. Giovanni, mettendo a foco i luoghi fruttiferi di Calabria, onde comparve a vista di
Messina a 2 di settembre. Passò tosto al soccorso di Messina il marchese di Geraci don Giovanni
Ventimiglia in quel tempo straticò (‘capitano a guerra’, ossia governatore militare), per aversi
trovato in Palermo, il quale provide la città di grano, d’armi, d’artigliarie e altre dovute munizioni…
sino a serrar il porto della città con la catena, per levar la commodità d’entrar le galere nemiche
con la furia del vento. Fece entrar nella città le compagnie de’ soldati di Tauromina e i cavalli della
milizia di Patti, di Savoca, Randazzo e Castroreale compartendoli in diversi luoghi.
Fu veduta l’armata degl’infedeli a vista di Messina nel Capo dell’Armi a 2 di settembre, onde si
sonò più volte la campana del duomo fortemente all’armi. Cominciarono i turchi a dar fuoco alle
contrade della Fossa di San Giovanni, indi, accostati a 3 di settembre alla città di Reggio, ch’era
stata abbandonata da’ suoi cittadini, diede ordine il Cicala a bruciarla e, tanto s’incrudelirono i
barbari, che diedero fuoco a i corpi morti cavandoli dalle sepolture e particolarmente quello
dell’arcivescovo. Indi l’armata si avvicinò verso Messina per metter genti in terra, ma, conosciuto
esser tutti i luoghi ben guardati da i nostri, si ritirò di nuovo ad incendiar il resto delle campagne di
Reggio e, di nuovo approssimandosi a Messina, una galea turchesca presso Messina fu
bersagliata dal cannone del Castello Reale del Salvatore e anco da’ baloardi della città; onde
proseguirono i turchi a dar fuoco a molti casali vicino Reggio e poi si partirono… (V. Auria. Cit. Pp.
66-67.)

L’anno seguente i cristiani però si vendicarono; infatti fatta a Messina la massa delle galere di
Napoli, Sicilia, Genova, Malta e Toscana, vennero scelte 40 galere, le quali, mandate in Levante,
presero e misero a sacco la ricca Patrasso, città che era stata già presa dal principe Andrea d’Oria
63 anni prima; era comandante di mare di questa spedizione il generale delle galere di Sicilia
Pedro de Gamboa y Leyva e di terra quello della squadra di Napoli Pedro de Toledo.
Nel Seicento poi la principale minaccia alle coste tirreniche dei possedimenti della Spagna passerà
gradatamente dall’armata turca a quella francese e le galere dei transalpini turberanno infatti
sempre di più i sonni dei viceré e dei governatori spagnoli; ma questa è altra storia.
Ma, se il Mediterraneo piangeva, l'Atlantico, scorso dagli abili corsari inglesi, tra cui il famoso
Drake, detto appunto il Drago in Italia, certo non rideva:

... Né l'altro mare si potrà rider del nostro, poscia che un corsaro inglese ogn’anno assalta e fa
prese nell'armate dell'Indie, e sono questi e quelli con le continue prede 'sì ingagliarditi che hora
armano grossissime armate, a che la potenza di Spagna non basta a resistere. (Ib. Pp. 474-475.)
903

Nel 1589 il residente veneziano nella Savoia, Francesco Vendramin, nella sua relazione al suo
senato, così accennava all'accanimento anti-spagnolo di Drake, il quale solo l'anno precedente
aveva avuto una gran parte nella distruzione dell'Invincibile Armata:

... il quale, nutrito in odio immortale contro gli spagnuoli, si adoperò per tutta la vita contro di loro.
(E. Albéri. Cit. S. II, v. V, p. 143.)

La consistenza della suddetta grande armata con la quale la Spagna di Filippo II tentò per la prima
volta d’invadere l’Inghilterra è riportata dallo Strada; questi la trasse da una nota spedita dalla
stessa armata ad Alessandro Farnese un po’ prima che i combattimenti iniziassero:
… È composta tutta l’armata di centotrentacinque navili grossi; parte sono galee, over galeazze, e
parte vascelli tondi d’ordinaria grandezza, over galeoni; e di questi (ultimi) quattro ne sono
vastissimi. Gli altri vascelli minori sono quaranta, la maggior parte da carica o da tragetto, e
servono come per aggiunta de’ grossi. In questi vanno cinque terzi (‘reggimenti di fanteria’)
spagnoli sotto i lor maestri di campo (‘colonnelli’) Diego Pimentel, Agostino Mexia, Alfonso Luzoño,
Nicolás da Isla e Francisco de Toledo e contengono diciottomilaottocentocinquantasette soldati.
Son aggiunti i nocchieri e i marinari in numero di settemilaquattrocentoquarantanove. In oltre vi
sono dugentoventi baroni e titolati spagnoli. I venturieri son trecentocinquantaquattro con
secentoventiquattro persone di lor servigio. Finalmente tra i sacerdoti religiosi e tra gli altri, deputati
o alla cura degl’infermi o alla esecuzione della giustizia e a varij somiglianti bisogni, vi son altri
secentosessantanove. In tutto le persone che navigano nell’armata son ventottomila
dugentonovantatré. (Famiano Strada. Cit. P. 609. Roma, 1648.)

La predetta armata portava tra l’altro viveri per sei mesi e armi di fanteria per armare gl’isolani
britannici che avessero eventualmente voluto schierarsi dalla parte degl’invasori; c’è poi da dire
che uno dei suoi quattro grandissimi galeoni era quello famoso detto di Portogallo e che l’armata
inglese che le si opponeva era di quasi 100 vascelli.
L'intraprendenza dei predetti corsari inglesi non si limitava però al solo oceano, ma si spingeva
sino al Mediterraneo orientale:

... Ne là solamente sono vascelli inglesi che vanno depredando, però (perché) in questo mare
danno opera al medesimo quelli che entrano per lo stretto di Gibilterra, de' quali non sono tre mesi
che (ne) habbiamo lasciato quattro nell'Arcipelago. (B. Crescenzio. Cit. P. 475.)

A partire dal Seicento, vascelli inglesi da traffico (‘commercio’), da corso e da guerra si vedranno
sempre più frequentemente in tutto il Mediterraneo e i primi corsari albionici che vi si resero famosi
e che, oltretutto vi agirono negli stessi anni, furono, in ordine di tempo, William Pierce, il quale
incrociò in quel mare all’inizio del 1603 al comando della nave Elizabeth equipaggiata di 70 uomini
di Plymouth e nelle acque di Creta catturò la veneziana Veniera, la quale proveniva da Alessandria
con un carico ricchissimo e un passeggero d’eccezione, cioè il console veneziano uscente di
Alessandria Zuane da Mosto (Clive M. Senior); il legno veneziano fu ribattezzato Fox dai pirati e
904

portato a Plymouth; poco dopo, nel marzo dello stesso 1603, anno in cui i veneziani persero molto
naviglio a causa dei pirati inglesi, i quali trovavano comodi appoggi e rifornimenti nei porti turchi
della Morea e in quelli barbareschi, Thomas Tompkins, al comando della Margaret and John con
equipaggio di Southampton, attaccò nelle acque di Cipro un’altra grossa nave veneziana, la
Balbina negra diretta ad Alessandria, anch’essa con ricco carico, e, dopo una furiosa battaglia, in
cui la veneziana ebbe parecchi morti incluso il comandante, se ne impadronì (ib.); Christopher
Oloard di Dartmouth, in quegli anni impiccato con due altri inglesi a Zante dal governatore
veneziano Maffio Michelt.
Forse il più noto dei pirati inglesi che agirono nel Mediterraneo fu John Ward, il quale imperversò in
quel mare negli anni 1604-1606 al comando del Gift, ex-vascello da guerra francese da lui
catturato nell’Atlantico, il quale era un veliero di 200 tonelli, armato di 32 bocche da fuoco ed
equipaggiato da un centinaio di uomini, e nel dicembre quel primo anno catturò il cargo veneziano
La Santa Maria e poco dopo, il giorno di Natale, uno olandese; nel novembre 1605 un cargo
messinese al largo di Cipro, poi uno francese, nell’aprile del 1606 uno fiammingo, e in quest’anno
trovò base e protezione a Tunisi, specie da parte del già ricordato Kara Osman, potentissimo capo
dei giannizzeri sin dal 1594, il quale gli ricomprava le merci predate a patto di deciderne lui stesso
il prezzo. Il 1° novembre 1606 Ward catturò il veliero inglese John Baptist nelle acque di Corone,
poi, il 28 gennaio 2007, il galeone veneziano Rubi, il quale tornava da Alessandria con un ricco
carico, e subito dopo il veneziano Carminati, questo di ritorno dalla Grecia, e trainò queste due
ricche prede a Tunisi; armato poi lo stesso Rubi, con questo e con un altro veliero prese nelle
acque di Cipro un grosso galeone veneziano, il Raniera e Soderina, sovraccarico di merci costose,
poi ancora un altro veliero veneziano; fatto in seguito del galeone veneziano la sua nave
ammiraglia, la fortuna del Ward cominciò a finire ed egli ebbe vari rovesci, tra cui l’affondamento
del galeone medesimo, la perita dei due vascelli del suo comandante fiammingo Jan Casten,
battuto e ucciso dalle galee veneziane il 21 marzo 1608 al largo di Modone; visse a Tunisi ricco e
rispettato sicuramente ancora sino al 1618, ma per le vicissitudini sue e di tutta la colonia pirata
inglese di Tunisi, nella quale si distinsero anche William Graves e Toby Glanville, conviene leggere
non me, ma il suddetto Senior, dal quale traggo la maggior parte di queste informazioni (ib.). Come
raís algerini agirono invece nel secondo e terzo lustro del Seicento Francis Verney e Ambrose
Sayer, ma a questi non toccarono in sorte le fortune dei loro conterranei di Tunisi.
Altri famosi comandanti inglesi che agirono nel Mediterraneo, ma si trattava di corsari
regolarmente patentati e non di volgari pirati, furono il già più volte ricordato Kenelm Digby e
William Rainsborough; quest’ultimo nell’agosto del 1628, essendo al comando del Sampson,
vascello da 32 pezzi a lunga gittata, di cui infatti 6 colubrine e per il resto mezze colubrine, si
905

scontrò con 4 galere maltesi, combattimento che risultò molto dannoso per ambedue le parti e si
concluse senza vincitori né vinti; nel marzo del 1630 il Rainsborough si trovava invece
nell’Atlantico al comando d’una flottiglia con la quale bloccava il porto della cosiddetta repubblica
pirata di Salè in Marocco e, dopo cinque mesi di tal blocco, la costringeva quindi alla resa e a
liberare dalla schiavitù 340 inglesi. I pirati di Salè infestavano le coste atlantiche dell’Europa dalla
Spagna all’Inghilterra e infatti proprio l’anno seguente al predetto blocco compirono un’azione che
resterà famosa; infatti nel giugno del 1631 due vascelli corsari algerini imperversavano nel Canale
della Manica sotto il comando di Murad (tr. Morat) Rais, al secolo il famoso rinnegato olandese Jan
Jansson, il quale aveva come sue principali basi Salè e Algeri, anzi della predetta repubblica pirata
era stato uno dei fondatori. Raggiunta la costa meridionale dell'Irlanda, catturarono due
pescherecci di Dungarvan e uno dei due comandanti di questi, il cattolico John Hackett, distolse
Murad raís dall’assalire sia la sua città natale Dungarvan sia Kinsale, questa perché guardata da
una nave da guerra inglese, e lo convinse ad aggredire invece Baltimore, cittadina più a occidente
di Cork e abitata da inglesi protestanti; il 20 giugno quindi gli algerini, guidati da Hackett,
sbarcarono, incendiarono molte case di Baltimore e catturarono 89 tra donne e bambini e 20
uomini; tutti costoro furono portati schiavi ad Algeri ai primi di agosto unitamente ad altri irlandesi,
inglesi, francesi e portoghesi catturati in altre azioni per un totale di 154. John Hackett, lasciato
libero sulla costa irlandese in compenso dei suoi servigi, sarà poi giudicato e giustiziato dagli
inglesi per il suo tradimento. Nel 1637 il Rainsborough bloccherà nuovamente Salè e l’obbligherà a
rilasciare 339 inglesi colà allora tenuti schiavi e a un trattato commerciale che aveva soprattutto lo
scopo di far cessare le azioni antibritanniche di quei corsari. Ma i pirati di Salem e Algeri addirittura
traversavano l’oceano e infestavano le Bahamas, infatti nel 1639 presero prigionieri coloni della
Nuova Inghilterra che si recavano all’isola di Providence in quell’arcipelago e costoro furono poi
liberati dietro pagamento di un riscatto; non a caso la parte più orientale delle Bahamas si chiama
ancor oggi ‘Isole dei Turchi’. Più tardi i corsari inglesi s’impadroniranno di Tangeri in Marocco,
facendone una loro base, e la lasceranno a quel sultano solo nel 1684.
Ma, tornando a parlare delle attività marittime degli inglesi contro il Portogallo nel secolo
precedente, diremo che questo regno sino al 1581, cioè finché era stato anche sostanzialmente
indipendente dalla Spagna, aveva saputo ben tenere a bada i corsari inglesi, le cui navi erano
state inoltre allora più numerose di quelle di cui disporrà poi Drake ai suoi inizi; la Corte di Lisbona
permetteva infatti ai cittadini di Viana, città marittima a nord d’Oporto, d’armare i loro vascelli a
proprie spese contro tali predoni e di combatterli senza quartiere, col risultato che questi ne
restarono tanto debellati che i pochi rimasti rinunciarono alla guerra di corso; però, quando il
Portogallo perse la sua libertà, i corsari inglesi, anche perché guidati ora dall’audacissimo Francis
906

Drake, ripresero la loro attività con sempre maggior vigore, non più ostacolati dalla consumata
esperienza e maestria navigatoria dei lusitani, sino ad arrivare a quella grande azione del 1587,
quando cioè Drake sorprese la squadra spagnola a Cadice e la danneggiò gravemente; dall’anno
seguente poi, dopo la sconfitta dell'Invencible Armada, la cui impresa sarà voluta dalla Spagna
proprio perché Cadice era stata la goccia che aveva fatto traboccare un vaso già colmo, gli inglesi,
già superiori in mare sia per abilità marinaresca sia per numero di vascelli pubblici e privati e di
marinai, prenderanno addirittura un totale sopravvento e predominio sull'Oceano Atlantico, come
per esempio testimonia un altro attacco inglese a Cadice avvenuto nel giugno del 1596, il quale,
guidato ora non più dal Drake, morto nel gennaio dello stesso anno, bensì dall’ammiraglio Howard
e dal conte di Essex, risulterà peggiore di quello suddetto, perché la flotta spagnola, sorpresa di
nuovo all’ancora in quel porto, ne resterà stavolta completamente distrutta e la stessa città sarà
devastata e messa a sacco, sebbene non ne restasse poi occupata dagli inglesi perché si trattava
solo di un’azione corsara; e nel 1597, proprio come era avvenuto nel 1588, la grande armata
approntata e spinta da Filippo II verso l’Inghilterra sotto il comando generale dell’adelantado, ossia
del governatore maggiore di Castiglia, per vendicare anche la nuova onta di Cadice, sorpresa da
una terribile tempesta, parte perirà tra le onde con perdita di ben 35mila persone e parte a stento e
maltrattata riuscirà a riparare nei porti di Spagna; ma sarà l’ultimo grande scacco subito da questo
re, il quale infatti morirà il 13 settembre del 1598, succedendogli il figlio ventenne Filippo III, il quale
nel 1603, morta il 3 aprile di quell’anno la regina Elisabetta, concluse finalmente la pace con
l’Inghilterra.
Il Mare Adriatico, detto sino alla fine della Serenissima, come sappiamo, Golfo di Venezia e dai
francesi anche Golfe Adriatique, oltre che dai corsari barbareschi, era infestato anche dai pirati
dalmatini, i più noti e attivi dei quali, eredi di quelli croati di Almissa (oggi Omis) che nella seconda
metà del Duecento venivano ad annidarsi anche nelle isole Tremiti e che furono poi vinti dai
veneziani, erano ora gli uscocchi o segnani, ossia quelli abitanti il territorio della già ricordata città
di Segna nella Dalmazia settentrionale, territorio soggetto non a Venezia, bensì all'arciduca
d'Austria, e dove nel Medioevo anche i tergestini (oggi ‘triestini’), i mulgensi (oggi ‘muggesani’) e gli
iadertini o iaderensi (oggi ‘zaratini’) si dedicavano soprattutto alla pirateria; inoltre gli uscocchi del
territorio del fiume Narenta nella Dalmazia meridionale e, combattendo contro questi ultimi, aveva
perso la vita addirittura un doge di Venezia e cioè Pietro Candiano I nell'anno 886. Anche molto
attivi erano stati i pirati cimerioti, ossia i nativi della Chimera, regione dell'Albania meridionale, i
quali dannificavano sia i cristiani sia i turchi, così come usarono fare gli uscocchi fino a un certo
periodo; nel 1533 questi albanesi riuscirono a far prigioniero il capitano del golfo Francesco
Dandulo, sorprendendo le sue galere al largo di Sàseno, ma più tardi il provveditore d'armata
907

veneziano Girolamo da Canal al comando di 17 galere devasterà irrimediabilmente quella regione,


inducendo in poco tempo quei pirati a molto più miti consigli. In verità, come si sa, l’Adriatico era
infestato dalla pirateria anche nell’antichità e i romani impiegarono secoli ad averne un’accettabile
ragione; i razziatori dalmati avevano sempre tradizionalmente usato veloci vascelli remieri
monoremo, cioè sia miuoparoni (gr. μυοπάρωνες), legni bi-scafo antenati delle bilancine e degli
odierni ‘catamarani’ dei quali abbiamo già parlato, sia barche longhe e nel Medioevo anche i piccoli
lembi. Ma chi erano veramente gli uscocchi di Segna? Ce lo dice Minucio Minuci:

Gli uscochi sono gente dalmatica dallo stato d’un principe, o per delitti commessi o per impazienza
del giogo tirannico fuggiti a i dominij di principe vicino e questo si dimostra dall’istessa voce
‘scoco’, che in latino si direbbe transfuga… (Minucio Minuci, Historia degli uscochi etc. P. 5.
Venezia, 1676.)

Si cominciò a parlare d’uscocchi all’inizio del Cinquecento, cioè quando molti balcanici
cominciarono a sottrarsi alla sopraggiunta tirannia turca e a ritirarsi in luoghi forti dai quali
esercitare la guerra di corso contro gl’invasori. Il primo di questi luoghi fu Clissa, posto nei pressi di
Spalato e tenuto da Pietro Crusic, feudatario della corona d’Ungheria, ma, dopo un anno
d’assedio, nel 1537 i turchi l’espugnarono e uccisero il Crusic; allora gli uscocchi sfuggiti
all’assedio si rifugiarono più a nord, a Segna, località costiera di fronte all’isola di Veglia e facente
allora parte del grande dominio dei conti Frangipani, la quale poi, sebbene pretesa dai turchi come
pertinenza del regno d’Ungheria, l’imperatore Ferdinando incorporò al suo impero, ben
accogliendovi gli uscocchi e intrattenendoli ai suoi stipendi proprio in funzione anti-ottomana:

… perché, essendo essi huomini feroci e usi non solo a caminare, ma anco a correre con piedi
saldi per boschi e per balze, pensò mediante l’opera loro tener lontani i turchi… (Ib. P. 7.)

E per i primi tre anni questi transfughi si dettero infatti a danneggiare i turchi con audaci e
improvvisi attacchi specie notturni, movendosi su un tipo velocissimo di barca lunga da loro stessi
introdotto, la quale portava di solito una trentina d’uomini, quindi di remi, ma ne arriveranno a
usare anche alcune da 50; poi, a partire dal 1540, cominciarono a ladroneggiare e rapinare anche i
cristiani con il pretesto di volersi impadronire solo dei beni e delle merci giudee e turche dai
vascelli mercantili cristiane trasportate, risparmiando d’attaccare solo i popoli dalmatini perché
davano loro ricetto e appoggio. Facevano più volte l’anno uscite generali, di cui tradizionalmente
una a Pasqua e una a Natale, uscite alle quali partecipavano tutti gli atti alle armi, anche quelli
delle terre vicine a Segna, per un totale che variava dai 400 ai 600 uomini, e con un numero
massimo di 15 o 20 barche, il quale però tra il 1614 e il 1615 arriverà anche a 25. Costantinopoli
protestava con Venezia, alla quale, in base al trattato di pace del 2 ottobre 1540, toccava tenere
908

mondo da corsari e pirati, come suo antico dominio, tutto il Golfo di Venezia, ossia tutto l’Adriatico
fino allo stretto tra Otranto e La Valona, e minacciava di fare da sé inviando una sua armata in quel
mare, il che avrebbe significato un’estensione dell’impero marittimo ottomano rovinosissima per
tutta l’Europa; Venezia, paventando sommamente questo e vedendo che anche i suoi traffici
cominciavano a esser danneggiati da quegli audacissimi corsari, combatteva gli uscocchi per mare
e quanti ne catturava tanti n’impiccava senza pietà; ma, non potendo intervenire su Segna per
terra perché feudo imperiale, chiedeva con insistenza all’imperatore di mettere quei criminali
sudditi dell’arciducato d’Austria in condizione di non nuocere e in ciò impetrava l’appoggio del
Papa per l’influenza che questo certamente aveva sulla cattolica Vienna, dalla quale però,
conoscendosi che in fondo Venezia aveva più timore dell’espansione turca in Istria e Dalmazia che
degli uscocchi, sempre si rispondeva pretestuosamente che, tutto sommato, i segnani erano buoni
cristiani ed erano di gran utilità nel contenimento della potenza ottomana; eppure una volta era la
Corte di Vienna a lamentarsi con Venezia della pirateria adriatica, la quale infatti esisteva anche
prima degli uscocchi di Clissa e di Segna, come dimostra una lettera diplomatica del 3 settembre
1504 citata dal Minuci e indirizzata al doge d’allora, Leonardo Loredano, missiva in cui un ministro
dell’imperatore Massimiliano lamentava che la barca d’un suddito imperiale, mentre si recava
proprio a Segna, quindi in acque veneziane, era stata assalita da una barca armata de’ violatori del
mare (Minucio Minuci, Supplimento dell’Historia degli Uscochi etc. P. 31. Venezia - Paolo Sarpi,
Opere varie. T. II. P. 249. Helmstat, 1740.).
Nonostante il contrasto veneziano, gli uscocchi però, invece di diminuire, aumentavano perché a
Segna si trasferivano continuamente banditi, fuoriusciti e fuggitivi dalle galere sia dei domini
veneziani sia di quelli turchi:

… e questo avveniva così perché già in Segna cominciava a concorrere diversa sorte di gente di
mal affare che tutta passava poi sotto nome d’uscochi […] ne concorrevano tanti che non bastava
Segna a capirli, ma s’andavano anco spargendo per le vicine castella di Ottossaz, di Moschenizze,
di Bunizza, di Brigne e de alcun altri luoghi, da’ quali erano poi convocati quando s’aveva a far
qualche sortita per terra o per mare […] tutto questo numero non ascendeva però mai oltra li 500 a
600 huomini da fatti… (P. Sarpi. Cit. P. 222.)

Come siamo informati dal bailo a Costantinopoli Maffeo Venerio, la cui relazione è del 1586, questi
uscocchi segnani compivano scorrerie contro i turchi, oltre che per mare, soprattutto per terra,
infestando i vicini confini dell’impero ottomano, essendone quindi allora in campagna, scriveva
questo residente, ben 2mila sotto il comando del loro capitano Giorgio Nesich:

... E ciascuno di questi vale per quattro contro i turchi. (E. Albéri. Cit. S. III, v: II, p. 306.)
909

Ma sia il Minuci che il suo continuatore fra’ Paolo Sarpi attribuiscono questo numero di 2mila
all’intera popolazione di Segna e delle sue dipendenze, quindi comprendendovi donne, bambini e
anziani non più combattenti.
I veneziani cominciarono allora a perseguitarli con le stesse barche longhe armate che usavano
loro, arrivando ad armarne fino a 30, in quanto si trattava d’imbarcazioni molto adatte a inseguire
quei pirati negli stretti canali e sui bassi fondali della costa dalmatica, luoghi dove essi, quando
vedevano comparire in lontananza alberature di galee veneziane, andavano a nascondersi,
affondandovi immediatamente le loro barche col togliere un semplice tappo dal loro fondo, per poi
andarle a recuperare passato il pericolo; praticarono inoltre talvolta, non potendola assalire da
terra, anche il blocco navale di Segna, come fece per esempio nel 1578 con cinque galere il
provveditore del Golfo Luigi Balbi; infine fecero scortare da galere i loro più grossi vascelli
mercantili e protessero le merci turco-giudee facendole imbarcare solamente su una galea grossa,
a volte anche scortata, che faceva la linea Venezia-Spalato. Da parte sua l’arciduca d’Austria,
essendo l’imperatore pressato dalle lamentele di Venezia, alle quali s’erano ora aggiunte anche
quelle del re di Spagna, il quale vedeva le marine e i fiorenti traffici adriatici dal regno di Napoli a
Venezia danneggiati da quei ladroni, cominciò a non pagarli più come suoi stipendiati, anzi impose
loro delle gravezze, e allora i segnani, aumentando le loro difficoltà d’azione, diventarono ancora
più aggressivi e crudeli, desolando completamente il territorio di Zara e non rispettando più
nemmeno i popoli che in Dalmazia tenevano loro bordone. Questa repressione degli uscocchi
messa in atto da Venezia aveva però il difetto da lasciare sguarnito l’Adriatico meridionale e quindi
di lasciar maggior libertà d’azione ai corsari turco-barbareschi contro le marine e i traffici adriatici
del regno di Napoli e dello Stato Ecclesiastico, aumentando quindi le lamentele provenienti da tali
potentati; questi non avevano infatti squadre di galere in quel mare, perché Venezia,
considerandolo da sempre un mare suum, tanto da imporne geograficamente il nome di Golfo di
Venezia, da sempre s’era anche accollato l’onere di difenderlo. Ciò nonostante gli uscocchi
continuavano a esistere e ciò perché in realtà l’arciducato vedeva di buon occhio il gran danno che
facevano sia alla Sublime Porta sia alla repubblica di Venezia (anco per la mala inclinazione
naturale che portano i principi alle republiche. Minuci), alla stessa maniera in cui i cosacchi del
fiume Dnieper dannificavano gli stessi turchi e il re di Polonia, alle rimostranze di questi,
rispondeva che non era in suo potere fermarli; inoltre i funzionari arciducali, essendo corrotti,
ricevevano dagli uscocchi il loro buon tornaconto. Certo che la guerra quattordicennale (1592-
1606) che i turchi, sotto il comando del loro generale bosniaco Hassan Pasha, condussero
all’impero ebbe come formale pretesto proprio la questione di Segna, a dimostrazione che gli
uscocchi non contenevano affatto i turchi, anzi li richiamavano, e fu proprio approfittando di questa
910

guerra che Venezia poté dare ai segnani i colpi più duri, nominando generale in Dalmazia Almorò
Tiepolo, comandante esperimentato nella caccia ai corsari e da essi molto temuto, e affidandogli il
comando dell’operazioni contro gli uscocchi con carta bianca; costui impiegò un maggior numero
d’armati albanesi, particolarmente efficaci in questo tipo di guerriglia marittima:

… contro di loro si cominciavano ad impiegar in maggior quantità i soldati albanesi, che dalli stati
del Turco correvano alla speranza de’ stipendij anco in più numero di quello che si desiderava. È
questa gente attissima alla guerra per la robustezza del corpo e per continuo esercizio delle fatiche
e parca nel vivere e avida del guadagno, co’l quale si diletta di comparir ben fornita d’arme e di
vestimenti; questi nelle barche armate, come anco li crovati e li dalmatini nelle loro, facevano
offizio di remig(ant)i e di soldati insieme, compartendo il tempo in modo che sempre, quando una
parte vogava, l’altra riposava; la paga loro era de quattro ducati al mese, li capi ed officiali haveano
maggior avantaggio e tutti oltre lo stipendio haveano anco il pane, onde, aggiondendosi
(‘aggiungendosi’) di più qualche preda, avanzavano de’ buoni scudi… (Ib. P. 235.)

I veneziani quindi molto li accarezzavano:

… né è dubio che in ogni occasione potriano li signori veneziani cavar di là copia d’huomini feroci
(‘combattivi’), atti a milizia di mare e di terra anco se si havesse a guerreggiare contra il medesimo
Turco, ma haveranno sempre essi bisogno di esser retti da uomini della propria nazione e di molta
autorità presso di loro, perché, quando si trovano molti insieme, sono facili alle risse con altre genti
e a tumulti. Questi in Dalmazia obedivano a Paulo Ghini, nobile fra loro ed honorato per la molta
esperienza… (Ib. P. 157.)

C’era anche un altro motivo per cui questi albanesi riuscivano contro i segnani migliori dei
mercenari croati e cioè perché questi ultimi, parlando la stessa lingua di quei corsari ed essendo
loro vicini, ne avevano qualche rispetto di troppo e ne temevano le vendette:

… così gli albanesi, non havendo alcun rispetto tale, tosto che cominciorno ad insanguinarsi,
concepirono tant’odio contra gli scochi e gli scochi similmente contra di loro che una parte andava
cercando l’altra a morte, con continue stratageme e insidie e, quando si trovavano, si facevano
crudelissime uccisioni. (M. Minuci. Cit. P. 27.)

Morto il Tiepolo, nel periodo della guerra turco-imperiale si susseguirono nell’ordine al suo posto il
senatore Giovanni Bembo, il capitano del golfo Antonio Giustiniano, l’ex-governatore delle galee
dei condannati Nicolò Donato, il provveditore dell’armata Filippo Pasqualigo, il generale Giovan
Battista Contarini, il quale nel 1574 era capitano della guardia di Candia, il generale Giovanni
Giacomo Zanne, Marc’Antonio Venerio, Agostino da Canal, di nuovo Filippo Pasqualigo, ma,
nonostante i pur apprezzabili conseguimenti ottenuti, Venezia non riuscì a risolvere questo suo
grosso problema; eppure molti capi degli uscocchi furono presi e uccisi, tra questi i principali
furono - ma si tratta di cognomi che sia il Minuci sia il suo continuatore Padre Paolo hanno
evidentemente storpiato - Martino conte di Possidaria, Marco Marketic, voivoda di Ledenizze, un
castello nei pressi di Segna; il raguseo Giorgio Mastarda, più scelerato e facinoroso de gli altri;
911

quello conosciuto come ‘il Moretto’ e poi ‘il conte di Cetina’. Altri capi ricordati furono Giovanni
Vulatco, Pietro Rosantic, Iurissa o Purissa, Nico Radic, Milos Malotic, un certo Rosic, Giorgio
Milansic, il quale fu catturato e torturato per farlo parlare, Giovanni Libic, Giorgio e Paulo Danisic o
Dianisivic, i fratelli Nicolò e Vicenzo Craglianovic o Carglinovic, Andrea Ferletic, famoso capo e
molto scelerato.
La maggiore battaglia marittima tra i mercenari albanesi e gli uscocchi avvenne il giorno 8 maggio
del 1613 o più probabilmente del 1614 a S. Giorgio a Capo di Lesina, nel tratto di mare tra la costa
del Biokovo e appunto l’isola di Lesina; s’affrontarono colà 12 barche armate d’albanesi contro
altrettante d’uscocchi in un sanguinoso e lungo scontro in cui i pirati ebbero la peggio, perché due
loro barche furono catturate ed ebbero 60 morti, tra cui il loro suddetto capo Nicolò Craglianovic,
mentre gli albanesi se la cavarono con 8 morti e 19 feriti, tra cui il figlio di Giovanni Dobrakvic,
governatore di quella squadriglia. Qualche tempo dopo, in quello stesso1614, Vincenzo
Craglianovic vendicò però terribilmente la morte del fratello; successe infatti che una galea
veneziana, quella del sovraccòmito Cristoforo Venerio, lasciò la sua base istriana per andare a
raggiungere la squadra del suo generale nel basso Adriatico e fece sosta per la notte nel porto di
Mandre, situato nell’isola di Pago; la mattina seguente sei barche uscocche la sorpresero e se
n’impadronirono; n’uccisero a uno a uno tutti gli ufficiali e i soldati, in tutto 40 persone, facendoli
passare sulla scaletta di bordo e di là gettandone i corpi direttamente in mare, poi, mentre
portavano la galera verso Segna, tagliarono la testa a due passeggeri gentiluomini, avendo
evidentemente rinunciato a cercare d’ottenerne il riscatto, e depredarono di vesti e gioielli la moglie
d’uno dei due e le sue cameriere; arrivati poi nei pressi della Morlacca, scesero a terra e
decapitarono con un’accetta il Venerio, ne spogliarono e gettarono a mare il corpo e ne
conservarono invece la testa, la quale tennero in bella mostra a troneggiare sul convito che poi
colà fecero; infine rilasciarono i remiganti con l’intimazione però che non ardissero di ritornare negli
stati della repubblica e posero le artiglierie della galera a difesa delle mura di Segna; il Minuci non
dice che fine abbiano fatto invece fare alle suddette donne catturate (M. Minuci. Cit).
IL Vecellio, illustrando il vestiario tradizionale degli uscocchi, così ne riferisce:

… Questa è una nazione molto feroce, arrisicata e terribile, soggetta al principe Carlo d’Austria.
Habita in luoghi aspri e montuosi ed hanno per loro abitazione residente un luogo chiamato Segna.
Vivono continuamente di ratto o rapina […] Portano nel guerreggiare camicie di maglia fine […]
Maneggiano armi corte e massime la spada, per esser più atta alla guerra navale […] Sono così
lesti e agili nel correre che vanno così veloci, per quei monti inaccessibili, come le camozze… (C.
Vecellio. Cit. P. 420v.)

Il loro armamento, scriveva il suddetto teologo fra’ Paolo, monaco dell’ordine dei Servi, il quale,
come già detto, continuò la Historia del Minuci, non era da soldati, ma da ladroni:
912

… Nessuno di loro porta sorte alcuna di arme difensive, non morione o celata, non arme hastate, e
del rimanente portano un arcobugio a ruota ben picciolo, debole e leggiero, come bisogna a chi
confida più ne i piedi che nelle mani, e un manerino (‘piccola accetta’). Alcuni di loro hanno di più
un stiletto… (P. Sarpi. Cit. P. 56.)

Quella degli uscocchi era una delle questioni che più metteva in imbarazzo i diplomatici veneziani
accreditati alla Corte di Costantinopoli e infatti così si legge per esempio nella relazione letta al
doge nel 1585 dal bailo Gian Francesco Morosini, a proposito di come mantenere buoni rapporti
tra Venezia e la Porta ottomana:

... Quello che più di ogn’altra cosa pare a me che al presente possa turbare gli animi de' turchi è la
cosa degli uscocchi, alla quale quando non si pensi ritrovar altro rimedio, tengo per cosa certa
ch'abbia da partorire qualche mal effetto, o di tirar un’armata (turca) in Golfo (‘nell'Adriatico’) o
d'introdur una guardia di legni armati (turchi) a Narenta, perché i turchi né vogliono né possono a
modo alcuno restar capaci che la Serenità Vostra, quando volesse, non potesse impedire le loro
ruberie; anzi tengono per certo che li sudditi e ministri della Serenità Vostra gli diano (cioè ‘a questi
pirati’) aiuto e favore per poter far maggior danno. Di che se bene io credo che, quanto alli ministri
della Serenità Vostra, senza ragione si dogliano, così vorrei poter dire il medesimo de' sudditi, li
quali, per dire il vero, danno grande occasione a' turchi di lamentarsi; però (‘perciò’) sarà officio
degno della singolar prudenza della Serenità Vostra, in quanto tiene cara la pace con il Turco,
veder in ogni modo di provveder a questo disordine, perché, non lo facendo io temo grandemente
che ne segua qualche importantissimo inconveniente. (E. Albéri. Cit. S. III, v. III, p. 315.)

Tanto gravi erano infatti i danni che l'impero ottomano riceveva dall'attività degli uscocchi che
anche il bailo Lorenzo Bernardo nel 1592 vi ravvisava un costante pericolo al mantenimento della
pace stipulata nel marzo del 1573 e dell'equilibrio politico tra Venezia e Costantinopoli e ciò
maggiormente perché i veneziani si erano nel frattempo finalmente impegnati - con un capitolato
sottoscritto con i turchi - sia a vietare le marine e le acque di Candia ai corsari ponentini sia a
difendere dagli uscocchi i possedimenti e i navigli dei turchi nell'Adriatico, compito al quale la
Serenissima, nonostante il sincero impegno e la grande spesa, non riuscivano a far fronte in
maniera che fosse soddisfacente per la Porta Ottomana; quest'ultima quindi continuamente
chiedeva che Venezia permettesse lo stazionamento nell'Adriatico d'una squadra di galere turche
che si affiancassero alle sue nella repressione della pirateria e nell'allontanamento dei corsari
ponentini, ma questa era una condizione che Venezia non poteva assolutamente accettare perché
il suo imperio sull’Adriatico non doveva essere messo in discussione dagli ottomani, i cui vascelli,
una volta entrati in quel mare, avrebbero ovviamente compromesso il dominio veneziano su di
esso e quindi anche sull'Egeo occidentale e oltre tutto sicuramente non se ne sarebbero più
andati. D’altra parte, come scriveva il Sereno, la Porta ottomana nulla faceva per dar reale
soddisfazione ai veneziani, quando erano questi a lamentarsi a Costantinopoli dei danni loro
provocati dai corsari turchi. Così dunque leggeva il Bernardo al suo doge:
913

... La Serenità Vostra spende ogni anno un tesoro nella guardia contra gli uscocchi e nella guardia
di Candia contra ponentini, tutto a benefizio e sicurtà principalmente de' sudditi turcheschi; e se
questo non si stima (dal sultano), parendogli forse che sia fatto tutto ciò a benefizio anco de'
sudditi nostri, dovria pur stimare una utilità di cinquecento o seicentomila zecchini all'anno che gli
apportano li mercati e sudditi viniziani con li dazii delle loro mercanzie a tanti scali di quell'imperio;
e se l'utilità non può muover quel Signore, che è tanto grande e che aspira alla monarchia del
mondo, lo muova al meno la ambizione e il desiderio di dominare e consideri che, mentre che lui
starà in pace con questa Republica, sarà arbitro e padrone del mare con la sua armata, la qual
sempre è stata superiore alla spagnuola; ma, quando ha avuto guerra con questo Stato (di
Venezia) sa benissimo quello che sia seguito alla sua armata (a Lepanto) e quanto sia stata
inferiore a quella della christianità... (Ib. S. III, v. II, p. 397-398.)

Continuava poi il Bernardo spiegando ai senatori come la necessaria pace tra la Serenissima e un
nemico così aggressivo e così mancatore di parola poteva esser pretestuosamente rotta in un
qualsiasi momento e per un qualsiasi accidente e ne ricorda diversi di cui però nulla abbiamo
rintracciato:

... Le cause possono essere accidentali, come fu quella della galea di Ramadan Bascià, dalle quali
bisogna pregar Dio che ne guardi, perché tutte non passano di una maniera (cioè non tutti
gl’incidenti diplomatici finiscono bene come quello); possono esser anco cause ordinarie, come
sono li danni delle galee ponentine e degli uscocchi, delli quali li baili hanno continue ed ordinarie
querele a quella Porta.
Ma, laudato Dio, da un tempo in qua non molestano più la Serenità Vostra per causa delle galee
ponentine, perché sono ormai chiari (‘convinti’) che, si come è impossibile il poter proibir loro di far
acqua e legne nelle isole nostre, facendo queste cose anco nelle loro proprie, così la presa delle
galee di Malta e l'aver disarmata la galea ponentina e appiccato il capo di essa, ha in tutto
sincerato l'animo de' turchi in questa parte (‘a questo riguardo’) con grandissimo beneficio publico
(per noi veneziani) a quella Porta.
Ma non posso già negare che un giorno, se Dio non ci provvede, per causa degli uscocchi non si
abbia a sentir qualche travaglio, perché, illustrissimi Signori, (i) turchi si mettono in questo caso a
dir quel che son per dire io e spesse volte son stato alle strette con il magnifico Bascià (‘il primo
visir’), dicendomi esso: o voi siete obligati per la capitolazione a difender li nostri sudditi dagli
uscocchi o no; se sì, adunque difendeteci e, se ci vien fatto danno, siete in obligo voi di satisfarlo;
se non siete obligati, adunque lasciate che noi ci difendiamo con metter una banda di galee in
Golfo (‘nell’Adriatico’), le quali, o congiunte o separate dalle vostre, facciano la guardia e
suppliscano a quello che o mancate o non potete far voi, come l'effetto dimostra.
E, se noi (veneziani) ci scusiamo che non si può far d'avantaggio (di più) di quello che facciamo e
che ogni male procede dagli arciducali (‘dagli austriaci’) che danno ricetto a questi ladri in Segna,
rispondono subito: andiamo insieme a distrugger Segna. E, se noi ci escusiamo dicendo aver pace
con li arciducali, adunque - rispondono - noi soli andremo a distrugger Segna e voi ritiratevi con le
vostre galee, perché per questa via libereremo voi e noi da questo travaglio. Che si può risponder
a questo? Per(ci)ò, Signori Illustrissimi, io dubito (‘temo’) molto che questa sarà la causa
finalmente di mandar armata (turca) in Golfo, la qual potrà venir sin sopra questo lido (di Venezia),
e però (‘perciò’) sarà causa di metterne alle strette e intorbiderà questa pace, che noi dobbiamo
procurar con ogni spirito di conservare... (Ib. Pp. 400-401.)

Che Venezia si fosse nel frattempo decisa ad agire più decisamente contro i corsari ponentini che
andavano a far terraz(z)anie (‘razzie di schiavi’) nei possedimenti turchi dell’Arcipelago non
914

significa però che prima non lo facesse; infatti nella sua relazione del 1561 il residente veneziano a
Firenze Vincenzo Fedeli, a proposito della squadra di galere toscane, ricordava che recentemente
Cosimo I, oltre ad aver perduto due delle sue galere nelle acque della Corsica, prese dalle galeotte
algerine, le quali per poco non catturarono anche la Capitana della squadra, ne aveva anche avuto
un’altra sequestrata dalla guardia di galere che i veneziani mantenevano a Cipro e che poi, a puro
titolo di cortesia, gli era stata da questi restituita; inoltre che tale impegno fosse osservato anche in
precedenza è anche dimostrato dal già più volte citato Governo di galere, trattatello che, pur
essendo oltre che anonimo anche non datato, da diverse affermazioni che contiene riguardo ad
altri argomenti dovrebbe però, come abbiamo già detto, esser stato scritto nel periodo che segue
la battaglia delle Gerbe (1560) e precede quella di Lepanto (1571); infatti l’anonimo autore
consigliava di non andare in corso di Levante in primavera e non alla fine dell’estate o addirittura in
autunno, come molti spesso imprudentemente facevano, perché il maltempo spesso costringeva
queste galere corsare a prendere terra per salvarsi e a rischiare così di cadere o nelle mani dei
turchi o ancora più probabilmente in quelle dei veneziani, i quali allora dunque già guardavano
quelle isole per qualche altro precedente impegno preso con la Porta Ottomana:

… e non come hoggi dì si fa, che partino nel tempo dell’inverno che li sopraviene e poi per colpa
del tempo son costretti a lor dispetto (a) darsi in preda dove che le guardie de’ nemici dimorano e
inchiampare (‘inciampare’) anco nelli veneziani per volersi accostare nelle loro isole per fortuna (‘a
causa di fortunali’)…perché forzati sono toccare (‘prender terra’) nell’arcipelago e nelle dette isole
de’ veneziani, perché i veneziani guardano (il) loro mare e isole, il provveditore con sedeci galere,
il capitano del golfo con sei galeotte per detta difesa e vanno discorrendo (‘incrociando’) tanto
nell’estate come nell’inverno…per tutte quelle parti come Corfù, Cifalonia, il Zante, il Zirico
(‘Cerigo’, ossia Kithairon) e Candia vanno intorno delle guardie assai e molto in ordine… (Discorso
circa il modo et maniera ha da tenere un Capitano etc. Cit.)

Dunque i veneziani non avevano mai sottovalutato il grave pericolo che i corsari ponentini
rappresentavano per i loro buoni rapporti con Costantinopoli, ma non riuscirono a risolvere il
problema, e la stessa sanguinosissima guerra in cui persero Cipro (1570-1571) era stata, oltre ad
altre pretestuose ragioni date, principalmente motivata dai turchi con l’asilo che tali corsari, dopo
aver compiuto rapine e devastazioni ai danni dei vascelli e delle marine dell’impero ottomano,
trovavano regolarmente rifugio in quell’isola, sfuggendo così facilmente alla reazione nemica. La
stessa motivazione era stata data dai turchi al loro attacco a Malta del 1565 e cioè le continue
scorrerie dei ponentini, specie dei cavalieri giovanniti di Malta, tra cui famoso corsaro francese, il
quale si troverà poi a Lepanto, era il commendator de Rommegas, il quale conduceva con gran
successo due galere maltesi contro i possedimenti e il naviglio turco e barbaresco; la goccia che
fece traboccare il vaso fu un tentativo dei gerosolimitani, comunque non riuscito, di prendere il
castello ottomano di Malvagia (oggi Malvasia). Nel 1645 poi, avendo una galera maltese catturato
915

tra Rodi e Candia, in quello che, con nome oggi perduto, allora ancora si chiamava Mar Carpazio,
il galeone Reale di Costantinopoli carico di ricchezze e facendo così prigionieri un figlio e una
concubina del sultano che si trovavano in viaggio su quel vascello, si darà ai turchi pretesto di
nuova guerra e l’uscita dell’armata ottomana di Yussuf Pasha, consistente nel settembre di
quell’anno in 70/80 galere, 50 vascelli d’alto bordo, numerose saicá e caramussali e la cui rovinosa
violenza andrà a scaricarsi però non contro i cavalieri di S. Giovanni, bensì su Candia, quindi
contro i veneziani; i turchi cominceranno infatti quell’anno a occupare l’isola in un ormai
inarrestabile processo che la vedrà poi nel 1669 passare tutta in loro mani. Nel corso di questa
guerra l’armata ottomana manterrà all’inizio la suddetta consistenza e infatti nel 1654 uscirà in
campagna con 75 galere, 6 maone e 46 velieri, di cui 25 barbareschi; poi il numero delle galere,
secondo un processo in atto nel Seicento in tutte le marinerie europee, decrescerà ancora
sensibilmente e nel 1657 Topal Pasha porterà alla guerra 50mila uomini con 30 galere, 10 maone,
18 velieri e un gran numero di saicá e barconi.
Anche la questione degli uscocchi si aggraverà, tanto è vero che nel 1594 il bailo Matteo Zanne ne
faceva questione pregiudiziale perché i turchi potessero eventualmente ritirarsi dalla guerra contro
il Sacro Romano Impero che nel 1592 avevano ripreso invadendo l'Ungheria:
... Per la confusione nella quale sono caduti in questa guerra, (alleandosi a popoli cristiani quali
ungheresi, polacchi e moscoviti, i turchi) hanno perduto assai del loro valore (della loro forte
motivazione religiosa), massime che, se bene sono in quantità, combattono disarmati (d'armi
difensive, quali armature, corsaletti e corazze) contro gente armata; con tutto ciò non così
facilmente vorranno la pace o la tregua se non si leveranno li uscocchi da Segna o dagl'imperiali
(‘dagli austriaci’) non saranno rifatti (‘risarciti’) dei danni che continuamente ricevono. (E. Albéri. S.
III, v. III, p. 440.)

Costretti poi inevitabilmente a intensificare le loro azioni contro gli uscocchi e ad attaccarli anche
per terra onde distruggerne i principali covi, i veneziani finiranno per trovarsi nel 1615 in guerra
con gli arciducali, guerra che però vinceranno e infatti, col trattato di pace di Madrid del settembre
1617, otterranno finalmente la cessazione dell’appoggio austriaco alla pirateria segnana.
Per concludere il discorso sulla pirateria, diremo che i vascelli mercantili del tempo erano anche
minacciati da quella costiera, cioè da popolazioni litoranee di naufragatori e grassatori che
cercavano d’impadronirsi dei carichi commerciali in transito lungo le loro coste, a volte anche con
semplici estorsioni doganali; il du Lisdam (cit.) per esempio racconta d’una tartana marsigliese alla
quale nell’estate del 1607, mentre era in sosta a Oristano, furono a scopo di rapina assassinati con
somministrazione di veleno sia l’intero equipaggio sia i pochi passeggieri, lasciandone così il
carico del tutto incustodito.
Le galere e i vascelli sottili in genere erano dunque necessari e insostituibili per sorprendere una
località costiera del nemico e per fare la guardia alle proprie marine, in sostanza quando
916

bisognava agire sollecitamente anche in mancanza di vento favorevole, e in effetti la navigazione


costiera era la più indicata per le galere, le quali, potevano uscire in mare quasi esclusivamente
nel solo Mediterraneo e solo nella buona stagione, ossia da maggio a settembre, e dovevano, se
possibile, mantenersi in navigazione sotto la costa senza ingolfarsi, cioè senz'allargarsi troppo in
alto mare; naturalmente ciò non sempre era possibile, anzi le varie squadre di galere della corona
di Spagna, vale a dire quelle di Spagna, di Napoli, di Sicilia, di Sardegna, dei d'Oria, dell'alleata
Genova e infine di quelle amiche della signoria di Toscana e dello Stato della Chiesa, dovevano
continuamente far dritto camino, cioè rischiare l'attraversamento di lunghi bracci di mare [fr. faire
canal ou droit(t)e rout(t)e, aller ou courir ou faire sa rout(t)e en droiture, aller ou porter à rout(t)e,
tenir la mer ou le larg(u)e; ol. oversteeken] nel Tirreno, perdendo così di vista la terra e
trascorrendo qualche notte in navigazione, per trasportare milizie e grandi personaggi o per
portare soccorso da una provincia all'altra dei vari possedimenti di quella corona. I disastri marittimi
nel Mediterraneo erano dunque non infrequenti e a volte terribili, come quello catastrofico avvenuto
nel 1569, di cui abbiamo già detto, e come quello delle 10 galere della potente squadra che il
viceré di Napoli Manuel de Guzman conte di Monterey (1631-1637) invierà il 10 maggio del 1635
all'impresa di Provenza; queste, sette di Napoli, due di Sicilia e una di Genova, furono affondate da
un fortunale nei pressi di capo Corso con la totale perdita, oltre che delle ciurme e degli equipaggi,
anche di più di duemila soldati che vi erano imbarcati.
Un insieme di squadre costituiva un’armata e di questa prendeva il comando una galera detta
Reale, sulla quale s’imbarcava il capitano generale nominato dal sovrano; anche squadra o armata
si chiamava un insieme di vascelli tondi da guerra, ma di questa prendeva per lo più il comando un
personaggio che aveva per lo più titolo di ammiraglio (gr. ναύαρχος στόλου) avendo questo
nell’Oceano il significato di capitano generale, mentre, come abbiamo visto, nel Mediterraneo e
nelle squadre di galere in particolare tale epiteto era riservato al còmito reale.
La galera o il vascello tondo che aveva titolo di Reale portava lo stendardo reale, ossia ostentante
le armi reali, ed era prima nella navigazione e nella battaglia e da essa partivano gli ordini e la rotta
per tutte le Capitane dell'armata; essa doveva quindi essere il miglior vascello di tutti e il meglio
armato ed equipaggiato, perché durante il combattimento era l'obiettivo principale del nemico,
quello più bersagliato e tentato; si faceva infatti sempre ogni sforzo per cercare di colpire,
abbordare, arrembare e catturare la Reale o comunque la Capitana avversaria, evento che
certamente avrebbe molto scoraggiato tutta l'armata nemica. Solo alla Capitana d’un regno
indipendente si riconosceva il titolo di Reale, titolo che dunque per esempio toccava a quella del
capitano generale delle galere di Francia, la quale portava infatti stendardo reale – quadrangolare,
con le armi di Francia in campo rosso seminato di fiori di giglio d’oro – e non toccava alla Capitana
917

della signoria di Toscana né a quella di Napoli, mentre era riconosciuto a quella papalina alla quale
cedevano il passo le galere Reali di tutte le teste coronate cattoliche, essendo lo Stato della
Chiesa considerato dipendente solo da Dio. Ecco a tal proposito una delle raccomandazioni della
predetta anonima relazione sullo stato del regno di Sicilia:

... Quando las galeras del Papa no saludasen primero a los castillos, como lo acostumbran las
otras esquadras de potentados, hay orden de Su Magestad que no se proceda con ellas en el
modo que se suele hazer con las demas que acaen en esta falta por el respeto que es su voluntad
se tenga a la yglesia. (Ristretto delle forze interne etc. Cit.)

Anche le galere di Genova e di Firenze avevano preteso in passato di non salutare lo stendardo
del regno di Sicilia e d’altri domini del re di Spagna in alcune occasioni, volendo così sostenere la
non inferiorità dei loro potentati nella scala degli onori:
…pero haviendoles el Conde de Alva una vez hecho por esto salir del puerto (di Napoli?), se han
emendado… (Ib)

A insolenze estreme estremi rimedi! Era comunque riconosciuta la qualità di Reale anche alla
Capitana di Venezia, in quanto questa repubblica aveva posseduto i reami di Cipro e di Candia,
ma si trattava ovviamente d’uno stratagemma di convenienza politica in quanto non si poteva certo
pretendere che la Capitana d’una signoria forte e potente come quella cedesse sempre il passo
alle Reali d’altri stati. Infatti la Capitana di Genova, la quale rivendicò la stessa qualità per molto
tempo con il pretesto d’aver la sua repubblica posseduto il regno di Corsica, vide questa sua
rivendicazione sempre tanto contestata dalle Capitane di Toscana e di Malta, le quali non
accettavano di doverla pertanto salutare per prime in ogni situazione, e quindi, a evitare ulteriori
incidenti diplomatici, tra Seicento e Settecento i genovesi finirono per rinunciare definitivamente
alla pretesa di far ostentare alla loro Capitana uno stendardo reale. Anche le Capitane di Napoli,
Sicilia e Sardegna si fregiavano del titolo di Reale inutilmente, perché, essendo di reami feudatari
della corona di Spagna, non ricevevano nei saluti la predetta precedenza, anzi, a dire la verità,
nemmeno si sognavano di pretenderla.
Fino a Seicento inoltrato pochi furono i principi e le repubbliche mediterranee che mantennero
armati vascelli tondi, vale a dire a prevalente vela quadra, come già sappiamo, e anche i sovrani i
cui stati si affacciavano sull'Atlantico - persino il re di Spagna, il quale aveva tanti traffici con le
Americhe - spesso non n’avevano a sufficienza per le loro imprese d'oltremare; infatti il residente
veneziano Federico Badoero così leggeva nella sua relazione di Spagna del 1557:

... galeoni né barche armate né fuste non ha al presente Sua Maestà né li particolari (‘privati’). (E.
Albéri. Cit. S. I, v. III, p. 285.)
918

Cioè oltre alle galere Filippo II non aveva altro d'armato sul mare. Nel 1573 però, come spiegava
un altro residente della Serenissima, Leonardo Donato, la situazione era un po' migliorata:

... Di armata grossa, cioè di navi, non ha Sua Maestà in Spagna cosa alcuna di proprio, eccetto la
guardia per le Indie; ma de' particolari che navigano da Siviglia nelle Indie e dalla Biscaglia in altre
parti dell'oceano si potrebbe prevalersi di una conveniente squadra; ma tutte però queste navi
sono con molta poca artiglieria. (Ib. S. I, v. VI, p. 396.)

Nel 1584 poi il residente Matteo Zanne leggeva al suo senato che il re di Spagna continuava a non
disporre d’una sua armata di vascelli a vela quadra, ma eccezion fatta per una flottiglia di 28
biscagline che appunto i nativi di Biscaglia tenevano su quelle coste a difesa dai corsari (Cit.). Ciò
però non significava che all'occorrenza la Spagna non potesse raccogliere in breve tempo una sua
armata di navi e galeoni, tutt'altro, e ben si vedrà nella sfortunatissima occasione della Invincibile
Armata nel 1588; infatti in caso di guerra o d'altra urgente necessità si usava allora semplicemente
chiudere all'improvviso (fr. fermer) i porti e sequestrarvi i vascelli dei privati e i loro rispettivi
equipaggi da arruolare forzosamente, di qualsivoglia nazionalità amica o neutrale essi fossero, i
quali si trovassero in sosta o capitassero nei porti dei vari regni e stati dipendenti da quella corona
e possibilmente in quelli amici o dei confederati; quindi navi, orche e caravelle erano sempre
disponibili a centinaia, bastando solo attrezzarle e armarle per la guerra a spese della Real Corte
oppure adibirle al semplice trasporto di vettovaglie e munizioni al seguito dell'armata che si stava
raccogliendo. Per esempio, come abbiamo già più sopra accennato, nel 1359, nell’ambito della
guerra che l’opponeva al regno d’Aragona, sette galere del re Pedro I di Castiglia detto Il Crudele
presero nelle acque dell’arcipelago di Cabrera una grossa caracca veneziana di più coperte e la
portarono a Cartagena perché il detto re la aggregasse alla sua armata:

… in quanto i re, com’è loro costume, quando fanno armata, prendono a soldo i vascelli che
trovano, quantunque siano di amici; e perciò le sette galere del re presero quella caracca dei
veneziani sebbene fossero amici del re (Crónicas de los reyes de Castilla etc. Tomo I, p. 277.
Madrid, 1779).

In seguito, a partire dalla metà del Seicento, i più potenti sovrani, disponendo ormai di loro stabili
armate di vascelli da guerra, ordinarono tali sequestri generalmente solo per arruolare
forzatamente (fr. presser; ol. pressen, presten, perssen) i marinai giudicati idonei alla campagna
militare; ai padroni dei navigli si pagava comunque un regolare nolo per il loro forzato servizio, a
meno che i loro vascelli non fossero di nazionalità nemica, e in sostituzione del nolo si usava
anche stipendiarli perché servissero con i loro vascelli e i loro equipaggi nell'impresa di guerra che
si andava preparando. Ai vascelli così requisiti si toglievano subito i timoni e le vele affinché non
919

potessero tentare la fuga. La Corona di Spagna, quando ne aveva necessità, attingeva a man
bassa dalla vastissima flotta di navigli mercantili di Fiandra:

… non essendo quasi mai che nel solo porto di Amsterdam in Olanda non se ne vedano 300 e 400
e alle volte 600… (E. Albéri. Cit. S. I, v. IV, p.395.)

Questi embargos (fr.arrestes, fermetures des ports; ol. bestagen, beslaanen; ct. impediments de
senyoria) a scopi militari erano prassi legale e comunissima presso tutte le potenze marittime né i
mercanti, i proprietari e i padroni di navi potevano rifiutarsi di consegnare i loro vascelli perché
l'editto di sequestro che il principe emanava era del tutto incontrovertibile. Un embargo a danno
della sola Venezia fu, come annotava il cronachista leccese Antonello Coniger, quello che decretò
nel 1505 il sultano di Costantinopoli, ordinando di fermare nel porto d’Alessandria le galeazze e gli
altri mercantili veneziani che allora vi si trovassero, evidentemente per esercitare così una
pressione sulla Serenissima, ma quei vascelli riuscirono egualmente a fuggire.
I ragusei, mercenari del mare per eccellenza e nel tempo tributari di austro-ungheresi, aragonesi,
veneziani e turchi, davano di conseguenza e senza problemi a nolo i loro vascelli da trasporto sia
ai cristiani che ai maomettani, come avvenne nel 1574, quando il sultano Selim II, prossimo a
morire, fece trattenere le navi mercantili veneziane che si trovavano nei porti del Levante e prese a
nolo appunto le navi dei ragusei, perché trasportassero le provvisioni al seguito della sua armata
che si preparava alla riconquista della Goletta. Aveva lo stesso sultano fatto requisire due
mercantili veneziani nel 1571 per la guerra di Cipro; nel 1582 poi Filippo II fece trattenere nel porto
di Napoli tutti i mercantili che vi erano capitati per servirsene nelle operazioni previste per
contrastare le pretensioni d’Antonio priore d’Ocrat sul trono di Portogallo, pretensioni che furono
appoggiate concretamente, ma sfortunatamente da Caterina de’ Medici e infatti nella già
menzionata battaglia marittima avvenuta nel luglio di quell’anno presso le isole Terzeire l’armata
francese comandata da Filippo Strozzi, figlio del maresciallo Piero, la quale era andata a sostenere
le pretensioni di Antonio d’Ocrat al trono del Portogallo, sebbene forte di 60 vascelli, fu sconfitta e
fugata da i soli 26 spagnoli del marchese di Santa Cruz, il quale con una crudeltà, oggi diremmo
‘terroristica’, paragonabile solo a quella delle invasioni mongole in Medio Oriente nel Medioevo,
non contento d’aver preso il vascello capitano nemico e lo stesso Strozzi ferito mortalmente, lo
fece gettare in mare e fece anche in parte impiccare e in parte decapitare ben 800 soldati francesi
che si erano onorevolmente arresi; il de Bourdeilles, scrivendo poi nel 1590 delle grandi qualità di
capitano generale del Santa Cruz, non si dilunga infatti molto, così giustificandosi:

… Fu dunque il detto marchese che sconfisse il signor Strozzi presso le Terzere; ecco perché io
non mi dilungherò nei suoi elogi, anche se egli ne merita certo di più alti dei miei; ma mi farebbe
920

male dover dire tanto bene di colui che ha fatto morire il mio più grande amico e che ha fatto
morire e tagliare la testa a tanti buoni gentiluomini francesi, come egli appunto fece in quel viaggio.
(Cit. )

In effetti poi il Santa Cruz, nonostante quel grande successo, non restò nelle grazie del suo re,
perché lo si accusò di non aver ‘seguito’ la vittoria e di non aver occupato le Terzeire, le quali
erano ormai rimaste ben poco difese.
Una volta presi a nolo o a servizio questi vascelli mercantili sequestrati era compito e spesa del
principe sequestratore raddobbarli, armarli e fornirli di tutte quelle provvisioni che si convenivano
all'impresa che si andava ad affrontare e solo allora si poteva pretendere da un padrone sottoposto
a embargo che seguisse l'armata senza pregiudizio per il suo vascello.
La prima notizia della formazione d'una armata reale spagnola permanente di vascelli tondi si
legge nella relazione del residente veneziano in Spagna Francesco Vendramin, la quale è del
1595 (Cit.). Scopo di tale armata era la difesa dei traffici con le Indie Occidentali e la sua
costituzione era stata decisa in conseguenza del grandissimo danno che quelle flotte di galeoni e
navi provenienti dalle Americhe apportavano i corsari inglesi, tanto più imbaldanziti da quando
c'era stato il disastro dell'Invencible Armada; come abbiamo già ricordato, quello storico evento
aveva conferito infatti tanta maggior sicumera a quegli esperti e coraggiosi navigatori che nel 1593
così riferiva il già citato Tommaso Contarini:

… Per questa infelice riuscita delle cose tentate da’ spagnuoli, reso più audace e insolente,
l’inglese, con grosse armate proviste di tutte le cose necessarie e sopra tutto di esperimentati ed
eccellenti capitani, s’è fatto e fa tuttavia sentire per tutti i mari, sviando le navigazioni, spogliando i
mercanti, distruggendo i commerci e apportando infiniti incommodi alle flotte che dal Mondo nuovo
e dalle Indie orientali indirizzano il loro viaggio verso Lisbona, havendo in questi tre anni passati
fatto preda di ottocento vascelli. (E. Albéri. Cit. S. I, v. V, p. 412.)

In una sua già ricordata missiva del 1594 diretta al re di Spagna Filippo II il soprintendente
generale dell’armata di mare spagnola, il genovese Gioan Andrea d’Oria, rispondendo
evidentemente ad alcuni quesiti postigli dallo stesso re, per quanto riguarda il trasporto di oro dalle
Americhe, faceva sua una proposta che doveva essere anche di altri di quel tempo e cioè di
trtasportare l’oro non più nei pesanti, anche se ben armati, galeoni ma in vascelli più leggeri e
manovrabili di quelli inglesi che li aggredivano, in modo da sfuggire alla battaglia che quelli non
potevano sfuggire, con tanto rischio di restarne affondati e che quindi l’oro che trasportavano
finisse in fondo al mare (Colección de documentos inéditos para la historia de España etc. Pg.
171-172. Tomo II. Cit.)
Il Vendramin poi descriveva le coste portoghesi tanto infestate dai corsari inglesi da non credersi
(di maniera che la città di Lisbona, già famosa e abitatissima, è fatta povera e poco meno che
921

disabitata...); pertanto a difesa dei poveri lusitani vi tiene Sua Maestà una grossa armata, oltre alle
24 galee della guardia di Spagna. (Ib. P. 449). Per la difesa marittima dai corsari inglesi, Filippo II
di Spagna, oltre ad aver quindi dovuto impiegare le sue galere nell'Oceano, ambiente marino a loro
poco appropriato, come sappiamo, aveva recentemente anche assoldato galeoni dei ragusei, i
quali erano i mercenari del mare, come abbiamo già ricordato e come ci conferma il residente
veneziano Girolamo Ramusio nella sua relazione su Napoli del 1597 (... I napoletani non hanno
navi, ma si servono di quindici o venti di ragusei.) (Ib. Appendice. P. 347.)
Di tale armata difensiva costituita da Filippo II, si ravvisa il carattere ormai permanente in un’altra
relazione, quella del residente veneziano Agostino Nani che è del 1598:

... L'armata grossa è di dodici galeoni d'ordinario in Siviglia e altrettanti in Lisbona per assicurar la
flotta a spese della mercanzia. (Ib. S. I, v. V, p. 488.)

Insomma i mercanti dovevano però pagarne le spese. Quest'armata oceanica di galeoni da guerra,
mantenuta poi per tutto il Seicento, fu guarnita in permanenza da fanteria di marina non spagnola
e cioè da un intero tercio di fanteria napoletana, il quale sarà pertanto anche nel Settecento detto
tercio antiguo de la Armada del Mar Océano; quanto spesso essa si spingesse anche sulle coste
americane non sappiamo dire, non spingendosi il nostro studio agli avvenimenti del Nuovo Mondo,
ma è certo che si dovevano difendere i galeoni carichi d’argento e d’oro anche alla partenza da
quelle coste, specie da i famosi pirati bucanieri che infestavano i mari dell’America centrale;
costoro sembra proprio che fossero stati in origine una corporazione di operai europei delle isole
Antille che esercitavano il mestiere di affumicatori, originandosi quindi il loro nome dalle boucans,
costruzioni ingraticciate che essi riempivano di fumo per porvi poi a seccare in tal modo (fr.
boucaner) soprattutto la cassave, ossia la fecola di manioca da pane, ma poi anche carni, pesci e
altri alimenti da vendere ai vascelli che s’apprestavano ad attraversare l’oceano. Perché era
fanteria di marina napoletana a far da guarnizione sui vascelli oceanici della Spagna e invece
l’armata di galere spagnola che operava nel Mediterraneo si serviva a questo scopo
tradizionalmente di un tercio di fanteria spagnola? Il motivo è intuitivo e cioè per la conservazione
dei suoi regni e possedimenti europei quella Corona aveva bisogno di disporre prontamente di
soldati fedeli, disciplinati e di indubbio valore bellico, quali erano per unanime riconoscimento
quelli spagnoli, mentre per andare a servire verso terre lontane, dove molto difficilmente ci sarebbe
stato da sostenere battaglie terrestri frontali con altri eserciti europei, potevano andar bene anche i
napoletani. Il tercio spagnolo che serviva di guarnizione alle galere della squadra di Spagna aveva
nel corso del Cinquecento contato dai tremila fin talvolta quasi ai cinquemila uomini, dei quali
d’inverno tremila svernavano in Sardegna e degli altri, quando ce n’erano, non potendo quell’isola
offrire ricettività a un numero maggiore, si suddivideva generalmente il peso tra Sicilia, Napoli e
922

Milano; infatti in Spagna non sarebbero mai serviti e inoltre le popolazioni iberiche, quelle cioè
ovviamente privilegiate dalla Corona, ne avrebbero dovuto sopportare l’ingombrante e costosa
presenza.
Le armate delle leghe cristiane che si formavano periodicamente nel Cinquecento sulla tradizione
delle Crociate medioevali (e infatti ancora Crociate si chiamavano), ma ora con il nuovo scopo
d'andare a conquistare i porti mediterranei della Barbaria dai quali partivano le azioni dei corsari
barbareschi, soprattutto algerini, si raccoglievano generalmente a Messina, porto buono, ben
attrezzato e logisticamente molto vantaggioso. La prima condizione per cui un’impresa di tal
genere riuscisse era che si completasse la prevista massa dell'armata, ossia la sua raccolta.
Questo termine di massa, usato per indicare il luogo di raccolta (fr. rendré-vous; ol. wagt-plaats)
d'un esercito di terra od di un’armata di mare, è preso a prestito dalla pastorizia, indicandosi
appunto con massa il posto in cui si adunavano in Puglia i greggi da condurre in transumanza sino
ai pascoli d'Abruzzo. Una seconda condizione era che le squadre che a Messina confluivano dai
vari stati cristiani si raccogliessero in tempo utile perché, finita l'estate, non conveniva più andare
ad affrontare, oltre al nemico, anche le burrasche autunnali; però alcune volte un capitano
generale della Lega poteva strategicamente scegliere di sfidare il maltempo d'ottobre pur di non
trovarsi poi alle spalle l'armata turca proveniente da levante in soccorso dei suoi tributari
barbareschi; ciò perché appunto a ottobre quest'armata andava a disarmarsi a nei porti anatolici.
Quanto sofferta e pericolosa fosse questa scelta l'abbiamo già accennato a proposito dell'impresa
d’Algeri di Carlo V nel 1541 e di quella di Famagosta dei veneziani nel 1570. Dunque era su
questa difficoltà di raccogliere l'armata in tempo utile e su l'opposta tentazione di condurre la
guerra fuori stagione che si giocavano la maggior parte degli esiti dell'imprese di mare delle Leghe
cristiane del Cinquecento. Per non essersi riusciti a completare la massa a Messina fallì con
perdita di molti vascelli l'impresa portata contro la Barbaria nel 1559, impresa poi sfortunatamente
ritentata l’anno successivo con la disastrosa sconfitta subita all’isola delle Gerbe, come poi, per
simili e per altri motivi, non riuscirà quella già ricordata di Gioan Andrea d’Oria contro Algeri nel
1601.
Nel porto in cui si faceva la massa di un’armata bisognava sorvegliare di notte i vascelli alla fonda
e all'attracco destinati all'impresa con ronde di fregatine o schifi che girassero loro attorno per tener
lontani i nuotatori sospetti e le piccole imbarcazioni e per impedire che qualche spia lasciasse detti
vascelli per andare ad avvisare il nemico dei preparativi in atto. Nuotatori subacquei nemici
potevano infatti nottetempo venire ad attaccare il fuoco all'opera viva dei vascelli (cosa che si
faceva preferibilmente presso il timone o in corrispondenza della S. Barbara), accendendovi fuochi
artificiati, di quelli, detti greci o d'Alessandro, che erano inestinguibili e che talvolta ardevano anche
923

sott'acqua, come abbiamo già detto nel capitolo sulle forniture marittime, usandosi in tali casi come
micci delle manichette impermeabili piene delle stesse suddette sostanze. Una spia fu scoperta a
Napoli alla fine del 1571:

… È stato tenagliato per tutta la città e poi impiccato uno di Cattaro, spia turca. (N. Nicolini. Cit.)

Per chi non lo sapesse, tenagliato vuol dire che il condannato era stato portato in giro per la città
su un carro mentre un carnefice gli andava straziando le carni con tenaglie arroventate e una
simpatica variazione a questo supplizio poteva essere il lardellamento, ossia il sostituire le tenaglie
con continui versamenti di lardo fuso sulla pelle del giustiziando; si trattava comunque di supplizi
che, incredibile a dirsi, in realtà non eguagliavano in crudeltà né l’impalamento né lo scorticamento
né il rogo, tutti preferiti invece dai maomettani se si eccettuano i cavalieri di Rodi, i quali avevano
praticato correntemente il primo, come si legge nel diario del viaggio in Terrasanta di Gabriele
Capodilista, quando cioè i pellegrini giungono appunto in quell’isola:

… E nel dicto giorno (domenica 11 giugno 1458) hebbeno novelle che una galea della cruciata
(ossia ponentina) e una de Rhodi havevano prese tre fuste de turchi, le quale dovevano gionzere
fra pochi giorni e dovevano esser tagliati a pezi e fiti suxo palli (‘infitti su pali, impalati’), come è
usanza di fare quelli cavallieri rodiani, perché el simile e pezo (‘peggio’) turchi fanno loro… (A. LT.
Momigliano Lepschy. Cit.)

Tornando alle spie, diremo che sorte non molto più grata era poi capitata a un’altra che era stata
presa a Messina nel giugno del 1572, quando cioè nel suo porto Giovanni d’Austria aveva
nuovamente raccolto un’armata contro Costantinopoli nella speranza di ripetere la grande impresa
dell’anno precedente:

…in sul far della sera fu presa una spia e, disaminata, si trovò il suo fallo meritevole di esser, come
fu, per tutta Messina strascinata a coda di cavallo e di poi squartata… (N. Nicolini. Cit.)

Nella già citata relazione sullo stato del regno di Sicilia all’inizio del Seicento così l’anonimo autore
scriveva testualmente:
…Estando este Reyno tan cerca de infieles, conviene procurar tener particulares inteligencias y
avisos de su andamientos… al presente hay dos espias residentes en Constantinopla y demas de
esto se embiaron el año pasado otras tres para, en caso que viniese armada, se embarcasen con
ella… (Ristretto delle forze interne etc. Cit.)

Bisognava poi guardare i vascelli dal pericolo dell’incendio portato dai brulotti (gr. πυρφόρεῑς ηῆες;
fr. brulots, navires sorciers; ol. brenderen, brandt-schips), navi di piccolo tonnellaggio e cariche di
barili di polvere d’artiglieria e di grosse pietre, le quali, già in uso nel Trecento - ma allora cariche
solo di brusca e materie incendiarie, equipaggiate solo con pochi uomini che percepivano per
questo pericoloso lavoro una doppia paga (lt. duplicarii), erano spinte col vento a favore contro
924

l'armata nemica attraccata nel ristretto spazio del porto della massa e, accese le polveri al
momento opportuno, possibilmente dopo esser addirittura riusciti ad agganciarle ai vascelli nemici,
le facevano saltare attaccando così anche a questi un violento fuoco; perché le polveri dei brulotti
si accendessero al momento giusto, si usavano lunghi stoppini artificiati dalla sperimentata durata
e strisce di polvere (fr. fusées d’artifices ou de poudre à canon; ol. vuur-pijlen), oppure - e ciò già
allora, cioè già nella seconda metà del Cinquecento - ci si serviva di congegni d’acciarini a
orologeria, i quali erano tecnicamente possibili in quanto molti orologi a molle e ruote erano già in
quei tempi provvisti del meccanismo detto svegliarino.
Otto furono i brulotti inglesi che, veleggiando dall'Inghilterra, raggiunsero parte dell'Invencible
Armada che nel 1588 si trovava nel porto di Calais per invadere la Gran Bretagna; i vascelli
spagnoli li avevano avvistati in tempo, ma, non accorgendosi che si trattava di pericolosi brulotti,
invece di sfuggirli andarono a circondarli e ne restarono distrutti; anche questo preliminare
episodio di quella tragica impresa dimostra quanto fosse inetto e inesperto il generalato che il duca
di Medina-Sidonia esercitava su quell'enorme armata, la più grande che avesse mai solcato ogni
mare; infatti la vera fortuna degli inglesi era stata la repentina morte del marchese di Santa Cruz
avvenuta poco tempo prima a Lisbona, perché appunto al valoroso marchese doveva essere
affidato il comando anche di quella spedizione. Solo pochi anni prima, cioè nel 1585, tre brulotti
esplosivi di nuova concezione progettati dal mantovano Federico Giambelli (detto da olandesi e
inglesi anche Genibelli o Gianibelli), uno dei tanti eccellenti architetti ingeneri militari italiani di cui
molte corti europee si servivano, avevano distrutto un meraviglioso ponte galleggiante che
Alessandro Farnese, grandissimo capitano generale di terra, aveva fatto costruire sul fiume Escaut
per stringere maggiormente il suo assedio attorno ad Anversa durante le sanguinose guerre di
Fiandra (de Hondt e Strada); il Genibelli poi, caduta Anversa e divenuto nel frattempo famoso per
dette sue realizzazioni, passerà dal servizio olandese a quello britannico. Comunque, il primo uso
dei brulotti a polvere d'artiglieria di cui siamo riusciti a trovare notizia è quello avvenuto tra il 13 e il
19 settembre 1495 nel porto di Napoli, mentre questa città era difesa dagli aragonesi dall'assalto
dell'armata di mare angioina, come si legge nelle cronache di Marin Sanudo:

... et essendo in assedio li castelli e combattendo Pizafalcon e l'armata franzese esser sotto li
castelli, el re (Ferandino d'Aragona) parecchiò do nave e messe dentro di brusca e polvere di
bombarde per mandarle apizate a brusar ditta armata [...] Unde, messo le nave in hordine e
trovato homeni che li bastò l'animo de far questo, e a dì ditto fonno messe a vella con uno vento in
pope via ed, essendo mezo mio (‘miglio’) lontan di l'armata, quelli dentro li parse metter foco; e per
el gran vento el fuogo se impiò in le velle, in modo che le nave non poté far camin e se brusono
tutte avanti zonzesseno a ditta armata nemicha. Quelli le conducevano montò ne la barcha e
ritornò in la terra, havendo gran dolor di haver apizato el fuogo molto per tempo, 'sì che non fo fatto
nulla e perso la spesa. (Cit.)
925

Ovviamente l'uso dei brulotti è molto più antico di quello della polvere d'artiglieria e numerosi
sarebbero gli esempi della storia medioevale, quando cioè i brulotti si riempivano di fascine e
materie incendiarie, come oli, peci e bitumi, e si spingevano contro i vascelli nemici perché
v'appiccassero il fuoco; l’esempio più antico che troviamo è quello menzionato dallo storico
Teofane Isauro all’inizio del nono sec. nella sua Chronographia a proposito del fallito assedio
saraceno di Bisanzio dell’anno 709, cioè quando l’imperatore Giustiniano II comandò di far uscire
dei brulotti contro l’armata avversaria, incendiandone così un buon numero di navi nemiche che si
erano ammassate in angustie portuali:

… Il pio imperatore immediatamente fece uscire dalla darsena della citta delle navi ardenti contro
di quelle, le quali, col favore degli dei, presero facilmente fuoco (ὀ δὲ εὐσεβὴς βασιλεὺς
παραχρῆμα ἐμπύρους ναῡς ϰατ'αὐτῶν ἐϰπέμψας ἀπὸ τῆς ἀϰροπόλεως, θείᾀ συμμαχίᾀ
πυριαλώτους αὐτὰς ἐποίησεν·)

Troviamo una seconda menzione dell’uso dei brulotti fatto dai bizantini nell’opera di un altro
storico, Genesio, questo però vissuto nel decimo secolo, il quale nel libro II del suo Regum libri
narra un episodio delle guerre civili che si combatterono nell’Alto Medio Evo tra l’imperatore
Michele II l’Amoriano e i suoi ribelli Tommaso e Gregorio tra gli anni 821 e 823:

… Ma l’imperatore, prevenendo, inviò navi incendiarie, le quali, assalite le navi degli oppositori nel
detto luogo, parte le bruciarono parte le dispersero e parecchie invece catturarono con i loro
equipaggi e condussero all’imperatore (βασιλεὺς δὲ προφθάσας ἀποστέλλει πυρφόρους ναῦς, αἵ
δὴ ταϊς τῶν ὲναντίων ναυσὶ ϰατὰ τὸν εὶρημένον ἐπιθέμεναι χῶρον, ἃς μὲν ὸλοϰαυτοῦσιν αὐτῶν, ἄς
δὲ σϰεδαννύουσιν, τας πλείους δὲ τούτων αὐτῶν συλλαμβάνουσιν ὰνδράσιν αὺτοἵς ϰαὶ τῷ βασιλεἵ
προσάγουσιν.)

Un terzo brano storico, però di ben quattro secoli più tardo, che menziona i brulotti è quello che lo
Jal trae dalle cronache delle guerre di Sicilia raccolte nel tomo VIII del Muratori e che si riferisce a
un tentativo di bruciare un ponte fluviale fatto dai barbareschi nel lontano 1218:

… Venerunt pagani et saraceni et direxerunt quatuor jeremitas (‘imbarcazioni’) ardentes per


flumen, copertas pice et oleo cum stipula et lignis aridis et palea, comburentes ac si essent
campanae (‘covoni’?), et sulphure, et flamma videbatur tangere coelum et credebant ardere
pontem et intrare civitatem cum frumento at aliis necessariis… (A. Jalt. Cit.)

A bordo di questi vascelli incendiari si ponevano però ora, oltre alla povere d'artiglieria e alle
grosse pietre che, lanciate dall'esplosione, si tramutavano in devastanti proiettili, anche recipienti di
quelle complicate misture incendiarie, dette fuochi artificiati di guerra, di cui abbiamo già parlato e
che, accese e lanciate in aria dalle polveri, ricadevano anch'esse sui vascelli nemici attaccandovi il
fuoco. Per difendersi dai brulotti, come del resto anche dagli abbordaggi e dagli urti accidentali,
bisognava avere pronti in coperta dei buttafuori [fr. bout(e)-(de)hors, minots, défences, de(f)fenses;
926

ol. londt-stoken], i quali potevano essere o quei raffi inastati con i quali solitamente si evitava che
due vascelli all’ancora, spinti dalle onde, venissero a urtarsi oppure semplicemente delle lunghe
pertiche o pezzi d’albero lunghi da 15 a 20 piedi che si fissavano sporgenti fuori dal bordo perché
ostacolassero il contatto. Era però naturalmente meglio se si poteva evitare che essi arrivassero
così vicini ai propri vascelli e pertanto bisognava prima tentare di far andare loro incontro scialuppe
con marinai che andassero ad abbordarli per fermarli o deviarne il corso, come per esempio
faranno i francesi alla battaglia della Manica nel maggio 1692 per allontanare i brulotti della flotta
anglolandese nemica.
Quando l'armata di mare era pronta a lasciare gli ormeggi (tlt. palamaria solvere) e a partire per la
prefissata impresa di guerra, bisognava che il suo generale ordinasse che si togliessero le vele e i
timoni a tutti i vascelli mercantili presenti in quel porto, affinché, se tra quelli ci fosse
eventualmente stato qualche piccolo legno-spia del nemico, questo non si sarebbe potuto
nascostamente allontanare per andare ad avvisare i suoi dell'imminente partenza dell'armata:

... I cavalieri di S. Giovanni, chiamati hoggi di Malta, tengono il medesimo stile quando sono per
andare a fare alcuna impresa in Levante o in Barbaria o dove son chiamati all'occasione,
trattenendo, alquanti giorni prima che si partano e alquanti dapoi che si son partiti, tutti i vascelli o
grandi o piccioli o proprij o forastieri che si trovino ne i lor porti per non esser disturbati. (P.
Pantera. Cit. P. 313.)
Ma bisognava tener segreta la data d’ogni singola partenza di galera e quindi ogni capitano, anche
dovendo andare in semplice corso, era tenuto a non confidarla a nessuno dei suoi ufficiali prima di
metterla in atto. Arrivato però finalmente il tempo della partenza, il capitano generale dell'armata
ordinava che alla poppa della sua galera si ostentasse la bandiera della partenza, la quale
s’inalberava in genere al calcese dell'albero di maestra o sulla penna dell'antenna, come più
piaceva al capitano medesimo, ma sui vascelli tondi anche a poppa. Sui vascelli olandesi questo
vessillo era chiamato de blaauwe vlag perché appunto tradizionalmente usato da quella nazione di
color azzurro. Gli uomini dovevano imbarcarsi senza portar a bordo roba superflua che potesse
ingombrare o appesantire la galera e ciò pena gravi punizioni; solo ai passeggeri che fossero dei
personaggi d'autorità e dei venturieri d'alto lignaggio era concesso di portare casse o forzieri interi
d'effetti personali, senza però che anche costoro eccedessero pretendendo di volersi portare roba
d'ostentazione, di pompa o di soverchia comodità e ciò anche in considerazione che spesso,
durante una burrasca, si doveva, come già sappiamo, ricorrere al gettare in mare la roba meno
utile per alleggerire il vascello. Per lo stesso motivo il capitano di galera non doveva permettere
che s’imbarcassero dei servi al seguito, a meno che fossero quelli di signori di gran qualità e, per
quanto riguarda i gentiluomini venturieri, al massimo poteva accettare uno schiavo per ogni due di
loro; né doveva permettere che salissero a bordo meretrici e sbarbatelli equivoci, i quali, altre
927

all'ingombro, avrebbero presto provocato questioni e scandali tra gli uomini dell'equipaggio; allo
stesso modo non si sarebbero dovuti accettare né passeggeri né roba di nolo, soprattutto senza
averne ricevuto licenza dal generale volta per volta, ma in effetti si accettavano gli uni e l'altra per
la cupidigia di danaro dei capitani. In ogni caso il capitano di galera non doveva accettare troppi
passeggeri e, se anche glieli avesse mandati il suo generale, doveva rifiutarli ugualmente; e, se poi
il generale avesse insistito a comandarglielo, allora doveva recarsi da lui e protestare l’imbarazzo
che gli si stava così procurando, il danno che la sua galera ne avrebbe potuto ricevere, il pericolo a
cui la si esponeva e per il quale egli declinava ovviamente ogni responsabilità.
Le partenze di singole o di poche galere avvenivano per lo più segretamente di notte e ciò perché
era frequente che flottiglie di corsari turco-barbareschi si nascondessero nelle cale d’isole vicine
proprio per assalire all’improvviso i vascelli uscenti dal porto, come per esempio a Porto Paone di
Nisida o a Caleta de Fuste in Spagna; quando ciò avveniva ai danni d’imbarcazioni mercantili, si
poteva considerare la cosa una triste fatalità, ma, se erano così aggrediti dei vascelli militari, allora
non si poteva trattare di sfortuna, bensì certamente d’imperizia del comandante. Nel caso d’intere
armate non c’era ovviamente bisogno di temere simili limitati assalti e si poteva quindi partire
senz’altro di giorno, preoccupandocisi solo, come abbiamo già detto, di tener segreta la
destinazione perché il nemico non venisse a sapere qual era l’obiettivo della spedizione e non
potesse così approntare al meglio le sue difese; due ore prima della partenza il capitano generale
faceva quindi scaricare a salve un pezzo d'artiglieria della sua galera per richiamare a bordo
dell'armata coloro che, nonostante fosse ormai ostentata da tempo la predetta bandiera di
partenza, ancora si attardassero a terra e nel medesimo tempo e allo stesso scopo faceva suonare
il leva leva (‘partenza!’) con la tromba (sp. tocar a leva); consegnava personalmente ai capitani di
tutte le galere convenuti sulla sua - o glieli faceva pervenire - i suoi ordini disciplinari con le relative
pene previste, ordini e pene che erano più o meno simili in tutte le squadre e le armate di galere
cristiane e che si dovevano subito pubblicare, ossia affiggere, in ogni galera, affinché nessuno
potesse allegare d'ignorarli. Tralasciando certamente la maggior parte di tali ordini che trattavano
delle segnalazioni marittime, materia che, seppur interessante, appesantirebbe troppo il nostro
discorso, traiamo ora da essi solo quanto di singolare e inatteso potessero generalmente
presentare e cominceremo col dire che non più s’usavano alcuni modi antichi di segnalazione
diurna e cioè il riflettere la luce del sole con degli specchi e lo sventolare tele molto bianche, modi
che si consigliano per esempio nella già ricordata Ναυμαχία bizantina del sesto secolo.
Se si scoprivano per esempio vele da una galera in navigazione, l'informazione andava subito
passata alle altre della stessa armata col mettere di giorno una bandiera o un panno sul calcese e
di notte coll'uso di fanali o di lampi di polvere d'artiglieria, se da lontano, e con la semplice voce se
928

da vicino, non avendo noi trovato per questo periodo ancora traccia del megafono di ferro bianco,
[fr. porte-voix, trompe(tte)-parlante; ol. roeper, spreek-trompet] strumento che vedremo invece in
uso un secolo dopo e la cui invenzione sarà allora attribuita all’inglese Morlan; se le vele scoperte
fossero risultate nemiche, allora bisognava regalare 10 scudi di premio al primo uomo che le
avesse viste e segnalate. A Lepanto una fregata esploratrice cristiana avvisò l’armata di Giovanni
d’Austria dell’avvicinarsi di quella nemica semplicemente mettendosi alla sua vista da lontano e
passando alla banda, ossia mostrandole uno dei fianchi spalmati; la lucida bianchezza del sego
era infatti rivelatrice, specie quando rifletteva i raggi del sole.
Se la galera Reale - o anche la Capitana nel caso d’una sola squadra oppure la Magistrale nel
caso di Malta (gr. τριήρης βἂσιλιϰή) - spiegava sullo stentarolo o pilastrino di poppa una bandiera
quadra bianca, significava che bisognava fare un’elargizione straordinaria di pane alle ciurme, una
rossa voleva invece dire che bisognava darle del vino e ovviamente pane e vino insieme se ne
ostentavano insieme una bianca e una rossa. Se una galera qualsiasi mostrava invece allo
stentarolo una bandiera con una mano dipinta nel mezzo, ciò significava che aveva immediato
bisogno d'aiuto dalle altre più vicine, perché magari aveva perso l'albero, l'antenna o le vele o le
era capitato qualche altro accidente particolarmente grave; probabilmente da quest'antico segnale
è derivato il modo di dire dare una mano, per dire porgere aiuto. Se l'incidente avveniva di notte, la
galera bisognosa d'aiuto sparava un colpo di cannone o segnalava a mezzo del fanale o di
lanterne poste in luoghi convenzionali della sua attrezzatura (ol. blikken, blik-vuuren); lo stesso
faceva di giorno se era molto lontana dalle altre e, se era più vicina, ma sempre non abbastanza
da mostrare alle altre la predetta bandiera di soccorso, allora faceva una o due fumate bianche
con un fuoco che si accendeva sul capomartino. In caso di nebbia tanto fitta che i vascelli d’una
stessa flotta o squadra non potessero vedersi, quello che portava lo stendardo tirava, per esempio,
tre colpi di cannone ogni mezz’ora e gli altri confermavano la loro presenza rispondendo con
trombe o tamburi.
Se la Capitana mostrava sulla ruota di poppa una bandiera pendente, voleva dire che tutte le altre
dovevano seguirla sottovento in fila indiana, venendo per prima la galera Padrona e poi tutte le
altre secondo il loro diritto di precedenza per anzianità o preminenza. Ogni mattina all'aurora e
ogni sera al tramonto le galere dovevano salutare la loro Capitana con le trombe, se le avevano,
altrimenti alla voce, ossia con la voce delle ciurme, sempre però che il tempo lo permettesse e non
ci fosse pericolo d'essere così uditi e localizzati dal vicino nemico. Ogni sera bisognava anche che
ogni galera mandasse qualche ufficiale a bordo della Capitana, mettendo a mare lo schifo, a
prendere, come d'uso, la tessera od il nome, ossia la parola d'ordine valevole per le prossime 24
ore; se ciò non fosse stato una sera possibile per il maltempo o perché magari la Capitana
929

navigasse forte senza curarsi di dare il predetto nome, allora si usava ancora quello della sera
precedente oppure uno convenzionale ordinato prima della partenza. Bisognava poi che ogni
galera facesse generalmente quello che faceva la Capitana, senza però per questo prevenirla in
niente; per esempio nessuna poteva mandar l'uomo alla penna per vedetta, cosa che poi
spiegheremo, né mettere in mare lo schifo o una fregatina se ciò non era stato fatto prima dalla
Capitana, a meno che fosse per ovvia necessità o che sulla Capitana fosse stata esposta la
banderuola - bianca nel caso degli olandesi e dei francesi - che faceva da segnale di convocazione
a parlamento dei capitani delle galere (ol. pitsjaars-vlag), i quali vi sarebbero subito andati
portando con sé i loro piloti e i loro consiglieri più savi e autorevoli. Anche la vela da alzare si
segnalava dalla poppa della galera Capitana, si mostrava infatti una particolare bandiera perché
tutti alzassero il bastardo e la si teneva sulla sua asta (vn. staza) finché tutte l'avessero vista; la
stessa bandiera si mostrava due volte se si doveva innalzare la borda, tre volte per il marabotto e
quattro per il trevo. Bisogna infine considerare che già allora esisteva il far bandiera bianca al
nemico in segno di richiesta di sospensione d’ostilità – o, non avendone, sollevare un cappello
sulla punta d’una picca, ma, nel caso della guerra tra cristiani e maomettani, tal bandiera si
chiamava bandiera bianca di ricatto, in quanto il suo significato era stato in origine quello di
fermare il combattimento per procedere al ricatto (‘riscatto’, ‘scambio’) dei prigionieri; da qui poi il
modo di dire far bandiera di ricatto, nel senso appunto di ricattare, taglieggiare. Su questo
argomento è interessante anche leggere la novella El amante liberal del Cervantes, dove i
prigionieri cristiani dei barbareschi da mettere a riscatto non sembravano poi in verità esser trattati
tanto duramente quanto da sempre raccontavano le cronache e, come nel caso seguente, anche i
registri delle deliberazioni del Senato veneziano

(9 dicembre 1389) … Invio d’un ambasciatore a Tunisi per riscatatre i prigionieri che vi sono
trattati “come dei cani” (Envoi d'un ambassadeur à Tunis pour racheter les captifs qui y sont traités
“comme des chiens” (Hippolyte Noiret, Cit. P. 29).

La materia delle segnalazioni marittime era, allora come oggi, molto complessa ed è quindi
conveniente abbandonarla qui; aggiungeremo solo necessariamente che la galera Capitana
portava a poppa un grande fanale in mezzo a due lanterne minori dette sottofanali dai veneziani; la
galera Patrona - o qualsiasi altra che avesse comando sulle altre - portava il solo fanale in segno
di preminenza e precedenza sulle galere ordinarie, le quali invece portavano una semplice
lanterna di posizione; ma le galere di retroguardia, avendo ovviamente più necessità di farsi
scorgere davanti che da dietro, oltre alla lanterna predetta ne portavano un’altra detta ampione
(‘lampione’) e accesa nel calcese del trinchetto, affinché potessero appunto essere individuate di
notte da quelle che le precedevano. Questi usi per le galere di comando furono introdotti nella
930

prima metà del Cinquecento dal principe Andrea d'Oria nella sua squadra di particolari genovesi e
poi furono via via imitati dalle squadre di galere delle altre nazioni, Venezia inclusa, in quanto sino
allora le Capitane, anche quelle delle squadre medievali (vedi la già cit. ordinanza aragono-
catalana del 1354 a p. 89), avevano sempre portato il solo grande fanale, limitando l'uso dei due
lumi aggiuntivi, i quali si ponevano più indietro verso le spalle, solo ai casi di fortunale o di notti
particolarmente buie. Nel corso del Seicento questi ordinamenti verranno da qualche nazione
ulteriormente modificati e troveremo per esempio la Capitana della squadra di Francia, detta, come
sappiamo, la Reale, distinguersi per portare a poppa tre fanali in linea dritta, mentre le normali
Capitane ne porteranno anch'esse tre, ma in linea curva, e le Padrone due .Per quanto riguarda i
vascelli tondi da guerra francesi, un’ordinanza reale del 1670 disporrà inoltre alla poppa quattro
fanali per il vascello ammiraglio, tre invece i vascelli del vice-ammiraglio, del ‘contro-ammiraglio’
(cioè l’ammiraglio della retroguardia) e del capo di squadra e uno solamente tutti gli altri vascelli,
da guerra o da mercanzia che fossero; il che però differisce da quanto si legge nel vocabolario
marittimo d’anonimo del 1681 e cioè normalmente tre fanali per il vascello ammiraglio, due per il
vice-ammiraglio e uno per gli altri vascelli; inoltre l’ammiraglio portava all’albero di maestra, oltre
alla bandiera reale, il suo personale stendardo, mentre il vice-ammiraglio (lt. subpraefectus) e il
contro-ammiraglio lo portavano - ma sotto forma di gagliardetto o galante – il primo al trinchetto e
il secondo all’artimone.
Le galere di comando che portavano il grande fanale, dette per questo motivo galere di fanò
(dall’gr. φανός), potevano così di notte continuare a far da guida alle loro conserve, ossia alle altre
che navigavano con loro e che dovevano pertanto limitarsi a seguire le loro luci di poppa, luci che
d'altro canto, unitamente ad altre occasionali che ora vedremo, servivano anche a far segnalazioni
a porti e fortezze costiere. Per questa ragione nessun’altra galera o nave della squadra o
dell'armata doveva portare fanale o altra luce accesa che potesse confondersi con quelle di guida
delle galere di comando, salvo in casi di convenienza o necessità particolari; per lo stesso motivo
di notte tutti i vascelli dovevano star dietro alle loro Capitanie e queste a loro volta dietro alla loro
Reale, anche quei vascelli che durante il giorno avessero eventualmente preceduto la squadra o
l'armata in avanscoperta o per necessità di burrasca, di guerra o di caccia del nemico, essendo
questi i soli motivi per cui di giorno una galera ordinaria poteva passare e navigare avanti alla sua
Capitana. Nelle armate veneziane vigeva per esempio la regola che nessuna galera ardisse di
sopravanzare col suo sperone il fogone della galera Capitana. Bisognava anche star attenti a non
far vela sopra vento alla Capitana, cioè a non toglierle il vento, né ad accostarsi alla costa più di
quanto lo fosse già essa e in ogni caso bisognava portar gran rispetto sia a quella sia alle altre che
portassero fanale, vale a dire che fossero galere di comando.
931

Era anche usato amat(t)are, vale a dire segnalare dall’albero di maestra, in modo prescritto eventi
straordinari che avvenissero di notte, quali richieste di soccorso o necessità di manovre impreviste,
con una lanterna accesa sul calcese dell'albero oppure con tre lumi posti uno a prora, uno al
fogone e uno a poppa; oppure a prora, alla mezzania e a capomartino; ovvero con uno o due lumi
distanziati sull'antenna e, per quanto riguarda i vascelli tondi, sul sartiame, sulle gabbie, sul
bastone della bandiera ecc. Per esempio, quando nel 1533 il già ricordato Girolamo da Canal
(soprannominato anch’egli, come molto più tardi il famoso pittore di ugual cognome, il Canaletto)
combatté nei pressi dell'isola di Candia contro il corsaro detto il Moro d'Alessandria, poiché la
battaglia avvenne di notte, affinché le sue galere sembrassero al nemico in numero doppio di
quante invece in realtà erano, ordinò che portassero, oltre all’ordinaria lanterna (o sottofanale)
accesa a poppa, anche un’altra a prua (Marco Guazzo, Historie di tutte le cose degne di memoria
etc. Pp. 178 bis e segg. Venezia, 1545). Questi lumi o fuochi potevano, a seconda delle situazioni,
essere appunto del tutto palesi oppure coperti, ossia schermati dalla parte del nemico, se non si
voleva esser da quello scoperti.
A bordo i personaggi di riguardo potevano avere una lampada personale accesa per farsi luce, ma
si doveva trattare di lampade di sicurezza, cioè piene per metà d'acqua e con l'olio di sopra, e non
candele né altri tipi di lumi che potessero esser causa d'incendio. Quando c'era vento in poppa, lo
stesso fanale della galera doveva essere sostituito da una lanterna contenente tre o quattro
lampade a grossi micci, perché non potesse così spargere a bordo pericolose scintille di fuoco, pur
facendosi in tal modo egualmente gran luce; c'era poi il fanale di burrasca, cioè un lanternone
rinforzato e ramato che ogni galera doveva accendere in caso di fortunale notturno o d’altre
situazioni di scarsa visibilità perché in tal maniera non si perdessero di vista. Se portava la
fanaleria di comando anche la galera seconda in grado, fosse essa detta la Patrona o l'Almiranta,
insomma quella del luogotenente del capitano generale, allora la galera Capitana doveva portarne
a poppa due per distinguersi e farsi così seguire, mentre l'Almiranta restava magari di retroguardia
onde raccogliere da dietro in tal modo con il suo fanale tutta l'armata ed evitare che si disperdesse.
Quando si stava fermi a pernottare nei porti e nelle cale, s’accendevano sotto la tenda gli ampioni
e fanali di coperta che servivano appunto a sorvegliare la ciurma di notte, ovviamente tranne che si
volesse restare occultati al nemico.
In un’armata d'importanza c'era, a bordo della galera di comando del capitano generale lo
stendardo reale, il quale pochi giorni prima della partenza dal porto della massa, ossia di raccolta,
era benedetto dal più eminente prelato del luogo oppure da un messo pontificio e poi s’inalberava
solennemente con sparo a salva prima degli archibugi, poi dei moschetti, poi dei pezzi minori
d'artiglieria e infine di quelli maggiori di tutta l'armata:
932

... La qual salutazione o salva, come si chiama nelle galee, si sforzino i capitani di far che sia
quanto più potrà essere ordinata, pomposa, allegra ed honorevole per riputazione dell'armata e per
un certo buon augurio della festa che si suol fare dopò la vittoria. Per la medesima causa usi (il
generale) esquisita diligenza perché'l vascello reale sia guarnito e abbellito di stendardi vaghissimi
e di bandiere ben lavorate, acciò faccia da ogni parte graziosa mostra e riesca bene addobbata di
ricchi ornamenti [...] se vi s’imbarcasse il Principe o andasse a veder l'armata, che vi sia ricevuto
con ogni possibil giubilo e applauso delle voci della ciurma, de gl'instrumenti bellici e dell'artigliaria
e, quando uscirà del porto, che sia accompagnato con ogni termine d'honore e della riverenza che
deveno portare i vassalli al lor signore. Così fece il Principe d'Oria vecchio, quando il Principe
Filippo di Spagna s’imbarco nel porto di Rosas per venire in Italia del 1548, perciò che fece ornar
tutta l'armata di bandiere e di stendardi preziosissimi di varij colori con l'arme e imprese
dell'Imperatore e del Principe suo figliuolo, lavorate riccamente d'oro e d'argento, e fece scaricar
tanta artigliaria che non solamente levò col fumo la vista di ogn’altra cosa, ma con lo strepito
intronò i luochi circonvicini di maniera che parve che ruinassero. (P. Pantera Cit. P. 198-199.)

Interessante leggere, a questo proposito, anche quanto il de Capmany riporta, tradotto in


castigliano, della benedizione, avvenuta a Barcellona domenica 4 giugno 1424, degli stendardi che
furono assegnati alla squadra di 24 galere catalane approntate per l’impresa di Napoli e questi
vascelli furono poi passati in rivista il 17 dello stesso mese e infine partirono il 21 seguente
(Ordenanzas etc. Cit. Alle pp. 26 e 27); ma, per tornare alla predetta armata comandata da Andrea
d’Oria, essa comprendeva, oltre alle galere proprie del genovese, il quale soleva averne per lo più
22, anche quelle di Napoli e Sicilia e fu proprio l’assenza delle galere napoletane dal loro regno
che indusse Torgud ad assalire il golfo di Napoli, dove fece quindi facile razzia delle popolazioni di
Pozzuoli e di Castell’a Mare di Stabia e dove, come racconta il de la Gravière, ebbe poi
l’indisturbato ardire d’aprire a Procida, avendo inalberato la consueta bandiera bianca del riscatto,
una specie di mercato dei numerosissimi schiavi appena fatti, mettendoli così a disposizione dei
parenti che giungevano in quell’isola per riscattarli con danaro sonante. In quei giorni una galera
di Malta, ignara della presenza in quei mari dei vascelli barbareschi, veniva dalla Francia con circa
ventimila scudi che i cavalieri giovanniti di quella nazione, detrattili dalle loro rendite, si facevano
ogni anno così portare a Malta per il loro sostentamento; arrivata all’altezza del lago di Lucrino fu
assalita da forze soverchianti di Dragut, le quali fecero strage di quei cavalieri, nonostante la loro
eroica difesa, e così poi i barbareschi, finalmente paghi degli utili conseguiti, abbandonarono il
golfo e tornarono ai loro covi africani (J. De la Gravière. Cit.).
A proposito poi di bandiere e vessilli preparati per spedizioni navali, ecco quelle che Martín de
Córdova y de Velasco, conte de Alcaudete e signore di Montemayor, commissionò nel 1542 per
l’armata di Barbaria affidatagli da Carlo V, armata destinata a partire dai porti di Málaga e
Cartagena:
933

… Stando dunque l’illustrissimo Signore nella sua villa di Montemayor, inviò il suo cameriere
Garcia de Navarrete alla città di Córdova con tutto il necessario per prendere le sete per le sue
bandiere e stemmi di quelle, le quali furono in numero di quarantaquattro, molto belle, dai molti
colori, croci e fasce e in ciascuna d’esse uno stemma rosso con la Croce d’oro di Gerusalemme e
la divisa che portano i cavalieri di Santiago nel mezzo della Croce - e questo perché sua Signoria è
cavaliere del detto ordine - con una scritta d’oro intorno, la quale diceva: ‘Tu in ea et ego pro ea’…
(Durand de Villegaignon, Nicolas. Cit.)

Ed ecco lo stendardo generale del conte:

… Era di taffettà doppio, rosso, con molte scritte molto didascaliche e lettere d’oro ricamate, le
quali contenevano in sé grandi segreti e maraviglie, e nel mezzo di questo stendardo, poiché era
molto magnifico e grande, come conveniva per una tanto santa impresa e perché rappresentava la
persona reale, portava da una parte l’immagine della pura Concezione della Vergine Nostra
Signora, vestita d’azzurro, e dall’altra la Croce di Gerusalemme e davanti un guidone bianco di
damasco con la Croce di Gerusalemme in mezzo e la divisa di Santiago con molto oro ricamato.
(Ib.)

Oltre alla guardia contro le insidie che potevano venire dalla propria ciurma, a bordo della galera
bisognava ovviamente organizzare anche quella contro il nemico, il quale era perennemente
incombente, perché, anche quando non si era in guerra con nessuno, sempre il Mediterraneo era,
come abbiamo visto, infestato da corsari e da veri e propri pirati (fr. pirates, forbans, écumeurs de
mer; ol. zee-roovers, zee-stroopers, zee-schuimers). A questa seconda guardia erano adibiti i
timonieri e i marinai chiamati parte e mezza; i primi guardavano il timone e la poppa in genere sia
di giorno che di notte, facendo attenzione che nessun vascello si accostasse alla galera e che
questa non si urtasse con altre della propria squadra; i secondi avevano invece il compito di fare la
guardia diurna sulla gabbia o sul calcese, ossia sulla sommità dell'albero di maestra, per scoprire
così da lontano sia la terra sia gli altri vascelli. Nel 1528 furono appunto i guardiani del calcese
della galera di Filippino d'Oria a scoprire nel golfo di Salerno che il viceré di Napoli fra’ Hugo de
Moncada, comandante della squadra imperiale, per farla apparire maggiore di quanto in realtà
fosse, vi aveva mescolato diversi piccole imbarcazioni e Filippino, il quale già aveva risoluto di
fuggire la battaglia, temendo che il nemico gli fosse numericamente superiore d’un terzo, avvisato
invece di questo stratagemma del Moncada, l'affrontò e, soprattutto forse per quella fortunatissima
cannonata di cui abbiamo detto, lo vinse nella battaglia che si combatté nelle acque di Capo
d'Orso presso Maiori.
Nel giugno del 1480, cioè durante l’assedio turco di Rodi, un simile stratagemma fu adoperato da
Vittorio Soranzo, capitano generale dell’armata di mare veneziana, si trovava a Modone con 28
galee quando da un’armata turca gli fu chiesto il permesso di entrare nel Golfo, ossia nel Mar
Adriatico, permesso che non poteva esser negato per via degli patti che vigevano tra le due
potenze; i turchi quindi passarono con una sessantina di vele, tra 13 galee e altri vascelli, e il
934

Soranzo prese a seguirli per controllarne gli intenti, ma cercò di far loro credere di disporre di forze
maggiori (trad. dal veneziano):

… e il general, per far numero di vele, comandò al Reggimento di Corfù che facesse armar 30 gripi
grossi con 30 fin 40 uomini per uno con obbligo de servir per 2 mesi; e che, (una volta) armati,
andassero a trovarlo (Domenico Malipiero, Avvisi veneti etc. Cit. Parte prima, p.130-131).

L’armata turca in questione aveva relativamente poche galee perché non era stata preparata per
affrontare battaglie di mare bensì per andare ad aggredire niente di meno che Otranto:

… Fu messa a sacco la città di Otranto e furono tagliati a pezzi (‘uccisi all’arma bianca’) 12.000
uomeni. I turchi, avuta Otranto, tentarono Lecce e Taranto, ma Alfonso Duca de Calabria,
primogenito del Re Ferando di Napoli, andò a recuperar Otranto con 20.000 fanti e 60 galee, 6
navi e 16 caravelle di 300 fin 600 botti… (Ib.)

Non sappiamo se le predette caravelle fossero di costruzione napoletana, ma comunque esse non
erano, già a quel tempo, un tipo di vascello rimasto prerogativa dell’Oceano; a Venezia per
esempio nel 1449 se ne costruivano nell’ambito dei provvedimenti che in quell’anno si prendevano
per difendersi da eventuali attacchi dell’armata turca:

… È stato deliberato di armare qua in la Terra 20 caravelle da 200 fin 400 botti con 50 uomini per
una con paga di due mesi…(ib. P. 170).

Poi in effetti se ne armarono 24:

… Con la sollecitudine dei due esecutori (a ciò incaricati) sono partite 24 caravelle da 200 sin a
300 botti, con 50 uomini per una, ben armate (ib.)

Effettivamente i turchi dopo Otranto presero anche Lecce perchè si trattennero nell’italia
meridionale per parecchio tempo e quindi poterono fare scorrerie anche molto più a nod della
costa jonica; ma infine, sia per la predetta forte controffensiva portata dal duca di Calabria sia per
la notizia arrivata della morte del loro sultano Maometto II, deceduto il 3 maggio 1481 durante
l’impresa di Persia, abbandonarono Otranto e le altre conquiste fatte e se ne ripartirono dall’Italia
(ib.)
Come si poteva fingere da lontano d’avere più vascelli del reale, si poteva anche far credere
d’averne di meno per attirare il nemico a battaglia; ciò si otteneva disalberando parte delle galere e
attraccandone una disalberata a una alberata, in modo che, posti gli scafi di fianco rispetto al
nemico, da lontano si vedeva una sola alberatura per ogni coppia di vascelli e due galere
sembravano una sola; oppure si potevano spiegare sulla galera delle vele piccole o anche qualche
quadra, in modo che da lontano sembrassero non dei vascelli remieri da guerra, bensì delle
barche a vela o delle piccole saettie.
935

Ai marinai chiamati parte e mezza toccava anche la guardia notturna di prora, ma questa
s’esercitava dalle rembate e in ciò essi erano coadiuvati dalle maestranze di bordo, alle quali per
consuetudine pure toccava questo stesso compito. Lo scopo della guardia di prua era ancora
quello di scoprire da lontano e inoltre d’evitare gli urti con le altre galere.
Quando si voleva esser più prudenti e si voleva scoprire il nemico da maggior distanza, oltre alla
guardia del calcese, si doveva far l'huomo alla penna (vn. far cicogna), cioè si legava con un balzo
un giovane proero alla penna dell'antenna e si alzava detta penna il più possibile in verticale,
facendone praticamente un prolungamento dell’albero e facendola così diventare il punto più alto
di tutta la galera; i balzi erano cinture attaccate all'antenna e con le quali si sostenevano in aria i
marinai addetti alle manovre aeree, affinché non rischiassero di precipitare in coperta; per questo
motivo i proeri in veneziano si chiamavano anche pennesi. Poiché la penna non era certo luogo
comodo e sicuro, dovendo il marinaio starsene a cavalcioni dell'antenna, non si poteva tener un
uomo lassù se non per breve tempo e conveniva quindi mandare l'huomo alla penna una volta allo
spuntar del sole, per vedere se la notte avesse riservato delle sorprese, e la sera immediatamente
prima del tramonto, per vedere se ne stesse per riservare; fu proprio questa diligenza che nel 1571
permise all'armata della Lega cristiana di scoprire molto da lontano l'armata ottomana mentre
questa spuntava dal promontorio chiamato Capo Matapan e quindi i cristiani ebbero tutto il tempo
di prepararsi alla battaglia ordinando comodamente le loro squadre. L’uomo da mandare in
osservazione alla penna della galea - e in generale al pennone della nave - doveva essere, oltre
che molto agile, anche un coraggioso e questa qualità ne faceva un personaggio degno di
privilegiate remunerazioni e col tempo anche un uomo di comando; infatti, come abbiamo già visto,
il sotto-còmito prese appunto il nome di pennese (gra. τερθρηδών, da τέρθρον, ‘penna’).
Trovandosi la galera alla fonda in luogo sospetto e non protetto da alcuna fortezza amica,
conveniva integrare di giorno la guardia del calcese mettendo in terra dei timonieri o altri marinai;
questi si ponevano in postazioni elevate, per lo più su monti o colline vicine, e si dicevano velette -
termine più tardi corrotto in vedette - in quanto posti in alto come delle piccole vele di perucchetto
in capo agli alberi della nave. Essi dovevano da lassù segnalare al loro vascello la presenza e i
movimenti di vascelli lontani, trasmettendosi tra di loro tali avvistamenti con segnali di fumo di
giorno e di fuoco di notte, fino a farli appunto arrivare alla guardia del calcese, in modo che il
capitano ne fosse subito avvertito. Gli uomini destinati a fare questo tipo di segnalazioni di notte si
chiamavano in lt. excubitores e in gr. φρυϰτωροὶ; generalmente le fiaccole si mostravano immote
pe significare che si stavano avvicinando amici e invece si agitavano per dire di nemici.. Con una
simile guardia posta sui monti circostanti si salvò nel 1572 l'armata turca a Navarino, luogo già
propizio per gli ottomani dato che nel 1499 avevano in quelle acque sonoramente sconfitto la flotta
936

veneziana; il suo accorto generale Uluch-Alì fu infatti in tal maniera avvisato tempestivamente
dell'approssimarsi dell'armata della Lega cristiana, la quale era desiderosa di ripetere il gran
successo dell'anno precedente; poté quindi prevenirla uscendo immediatamente da quel porto,
ritirandosi sempre davanti al nemico e andandosi a rifugiare nel molto più sicuro porto di Modone,
dove armò le alture circostanti con artiglierie, le quali, aggiunte a quelle della locale fortezza,
convinsero i cristiani ad andarsene; evitò così uno scontro che, dopo la rovinosa esperienza di
quello della campagna precedente, assolutamente non voleva accettare, e ciò nonostante avesse
forze superiori a quelle della Lega, disponendo infatti, a quanto poterono numerare dai vascelli
cristiani, di 180 galere, 60 galeotte da 20 banchi e un numero di brigantini.
In caso di stesse alla fonda in luogo particolarmente sospetto, la guardia verso l'esterno doveva
essere intensificata e allora la notte si affidava la poppa della galera ai timonieri, le spalle ai soldati
di bordo, la prua alle maestranze, ai parte e mezza e ad altri soldati, mentre l'aguzzino e i marinai
di guardia potevano sorvegliare anch'essi dalla corsia, perché ovviamente in tali situazioni di
pericolo non si spiegava la tenda. Si mandavano inoltre buoni marinai ben armati sulle fregatine,
ossia sugli schifi di bordo, ai vicini capi e promontori, acciocché, avvistando luci sul mare, ne
dessero immediato avviso alla propria armata segnalando tale avvistamento a mezzo di lumi e
fuochi, i quali dovevano essere però tenuti sì scoperti verso la propria armata, ma coperti invece
dalla parte del nemico che si approssimava altrimenti l'avvistamento sarebbe risultato reciproco.
Bisognava poi tener in mare altri schiffi e barchette perché sorvegliassero le gomene delle ancore;
il nemico infatti poteva nottetempo venire a tagliarle segretamente per mandar a terra i nostri
vascelli e attaccarli mentre fossero stati così impossibilitati a manovrare per difendersi; tali piccole
imbarcazioni di guardia avrebbero dovuto anche rivoltare a mare eventuali fuochi incendiari
galleggianti che il nemico, approfittando di vento o corrente favorevole, avesse mandato verso i
nostri vascelli alla fonda per appiccarvi il fuoco.
L’ordinanza catalana del 1354, più volte qui citata, disponeva che comunque in ogni caso, stando
la squadra all’ormeggio in terra o alla fonda, doveva il còmito della galera Capitana mandare due
persone a terra perché vi restassero tutto il tempo della sosta e facessero da ‘guardia’ (ma qui più
nel senso di vedette e sentinelle), perché, essendo venuti poi eventualmente a conoscenza di
qualcosa di importante per la sicurezza della squadra, uno dei due tornasse immediatamente a
bordo a riferire lasciando l’altro di guardia (Cit. P. 93), oppure, non potendosi tornare, facessero
segnali al loro vascello.
A evitare che, approfittando dell'oscurità della notte, qualche spia salisse a bordo, alla gente di
guardia si distribuivano il nome, ossia la parola d'ordine, come già sappiamo, la quale si chiamava
così perché molto spesso si trattava di nomi di santi, ed eventuali contrassegni aggiuntivi, quali
937

voci contraffatte, fischi ecc., insomma allo stesso modo in cui si faceva nella guerra di terra. Non si
guardarono dalle spie alcuni capitani cristiani che nel 1572 si trovavano con i loro vascelli alla
fonda a Candia; essi infatti, ingannati dalla falsa promessa d’un grosso bottino fatta loro da un
turco travestito da sacerdote greco, si fecero condurre da questa spia sino a cadere in potere
dell'armata d’Uluch-Alì, dalla quale furono dunque presi e fatti schiavi.
Trovandosi poi l'armata alla fonda in un’isola di piccolo circuito, si dovevano adibire le due galere
di guardia di cui abbiamo già detto o comunque due vascelli qualsiasi, ma sottili, veloci e ben
armati, alla continua circumnavigazione dell'isola, uno in un senso e un altro in quello contrario, in
modo da riconoscere tutte le coste senza sosta. Importantissimo era per l'armata anche l'uso di
vascelli esploratori, vascelli che dovevano essere particolarmente agili, veloci e ben armati e che si
mandavano a prender lingua, ossia, come già sappiamo, a raccogliere informazioni e a spiare la
consistenza e le mosse dell'armata nemica; questi vascelli navigavano spesso anche di notte,
dipinti interamente di nero e a luci spente per non essere avvistati e in tali occasioni i còmiti non
usavano il fischietto per dare i comandi, ma lo facevano a bassa voce e con voce fischievole, ossia
fischiettando debolmente con la bocca; per lo stesso motivo a bordo di questi vascelli si tenevano i
micci accesi per le armi da fuoco nascosti in alcuni barili e non si permetteva di tenere nessuna
luce all'interno dello scafo in modo che potesse esser vista dall'esterno. Si poteva chiaramente
aver informazioni utili dalle popolazioni costiere (gr. παράλιοι, παραλιώται, παραλίται) e dalle
barche di pescatori, ma più produttivo era a questo fine catturare vascelli nemici di passaggio, i
quali nel loro viaggio avevano più facilmente potuto, se non vedere, sapere molte cose sui
movimenti della loro armata; pertanto, appena catturatone uno, bisognava separare tutti gli uomini
di bordo in maniera che non potessero parlare l’uno con l’altro e cominciare a interrogarli; ora, i
marinai che servivano a bordo dei vascelli turco-barbareschi erano in maggior parte greci, ma non
bisognava pertanto credere che, in quanto cristiani, avrebbero detto la verità e ciò perché, essendo
generalmente tutti cointeressati alle mercanzie che portavano a bordo, non potevano mettersi
contro i loro padroni, senza contare che i turchi poi gli avrebbero castigati, andando anche a
distruggere le loro case in Turchia o nelle isole del Peloponneso. Ricevendosi, come il più delle
volte avveniva, varietà di risposte da quest’interrogatori, si torturavano i turchi e i mori, specie gli
ufficiali in quanto più informati, mentre non c’era generalmente bisogno di farlo con i predetti greci
perché di solito questi, vedendosi di ciò minacciati, subito spiattellavano ogni cosa che sapevano;
pertanto, confrontate le varie confessioni così ottenute e ricavatane la verità, il capitano inviato a
prender lingua poteva tornare dal suo generale a riferire.
Le buone relazioni degli esploratori erano, per mare come per terra, della somma importanza per
la sicurezza dell'armata e per la preparazione dei piani di battaglia; la mancanza di queste fu una
938

delle ragioni determinanti della sconfitta dell'armata turca ai Curzolari (‘Lepanto’) nell'anno 1571,
perché fu mandato a riconoscere l'armata delle Lega che si avvicinava un gruppo di galere
comandate dal Caracosa, il quale, benché corsaro famoso e molto versato nelle cose marittime,
non vide il corno sinistro dell'armata cristiana che era comandato dal generale veneziano
Barbarigo, perché quello si trovava in quel momento dietro lo scoglio detto di Villamarino; egli
dunque, tornato indietro, riferì quindi erroneamente che le forze cristiane erano di molto inferiori a
quelle ottomane, anche se una certa moderata inferiorità in effetti c’era perché i cristiani, a leggere
il Contarini, combatterono con 203 galere e alcuni brigantini, appoggiati da 22 velieri, contro uno
schieramento turco di 209 galere, 37 galeotte e 20 fuste, appoggiato da una quarantina d’altre vele
che si trovavano in direzione del golfo di Corinto e diviso, come quello nemico, in quattro
formazioni, avendo infatti una battaglia di 96 tra galere e galeotte capitanate dallo stesso capitano
generale di terra Müezzin-zâde Alì Pasha e da Pertev Pasha, capitano generale di mare, un corno
destro di 55 comandato da Šuluk Mehmed, bey d’Alessandria e detto Sciroc(c)o dai cristiani, un
sinistro di 96 comandata da Uluch-Alì, il quale aveva portato 20 galere barbaresche, e finalmente
un soccorso di 30 tra galere, galeotte, ma soprattutto fuste, il quale, essendo ciurmato di
buonevoglie anche combattenti, pare fosse privo di soldati; sembra infatti che, fortunatamente per
quella della Lega, l’armata ottomana non raccogliesse quel giorno tutte le sue forze, avendo in
precedenza i turchi inviato in altri luoghi 57 tra galere e galeotte, sei maone, 30 passa-cavalli e due
navi recentemente prese ai veneziani (G.P.Contarini. Cit.); di conseguenza, sebbene i turchi
avessero ricevuto in precedenza diverse altre relazioni più veritiere e che pare li facessero
propendere più per evitare la battaglia che per accettarla, incoraggiati ora dalle più fresche e
autorevoli notizie portate dal Caracosa, si presentarono allo scontro e furono rovinosamente
sconfitti in una delle battaglie più determinanti per il corso della storia. Müezzin-zâde Alì Pasha era
coadiuvato nel comando, oltre che dal suddetto Pertev Pasha, poi rimasto come lui ucciso in quella
battaglia, anche da Mustafà Celebin, esdey del tesoro ossia tesoriero generale, Murat Trasil,
scrivano dell’arsenale, Giafer Celebin, bey della gabella, Giafer Agà, bey di Tripoli di Siria, Mamur,
generale dei giannizzeri, Mamut Saider, bey di Metelino, Previl Agà, bey di Napoli di Romania,
Šuluk Mehed, bey d’Alessandria, Uluch-Alì, beglerbegi d’Algeri, Caram Bey, figlio del predetto,
Carabine (o Caraban), bey di Suriasar, Mehmed, bey di Negroponto, Mohamed Ben Salah Raïs,
figlio del sunnominato Salah Raïs beglerbegi d’Algeri ed egli stesso reggente di quella città dal
1567 al 1568; Afis Clue Agà, bey di Gallipoli, Hassan, bey di Rodi, Hassan Pasha, figlio questo del
Barbarossa, Dardagan Bey, governatore dell’arsenale, Caidar Memi, bey di Scio, Kaya, bey di
Koca-ili, Kara Hozia, bey di Valona, dai corsari Karagj Alì, Alì Genovese, Kara Hozia, Monsulman
Alì, detto Caur o Giaur Alì e da noi già più volte nominato, e da altri; il de Bourdeilles riporta anche
939

altri nomi, ma tutti tanto storpiati da essere incomprensibili. I commentatori ottomani spiegarono la
sconfitta non con i meriti dei cristiani, bensì con i demeriti turchi:

… l’insolitamente prematura partenza dell’armata da Istanbul in primavera, la stanchezza degli


equipaggi risultante dal lungo periodo d’operazioni in mare, la diserzione dai vascelli dei sipahì
timarioti, l’inatteso attacco dell’armata cristiana quando gli ottomani credevano che la campagna
fosse ormai finita, il preciso ordine iniziale della Porta d’incontrare l’armata cristiana e l’insistenza
del kapudan pasha d’attenersi a questa direttiva, il suo non tener conto della tattica di battaglia
d’Uluch-Alì, il suo precipitarsi nelle linee nemiche mentre 40 o 50 dei suoi vascelli venivano spinti
verso terra e la diserzione di molte delle sue soldatesche. Ma tutti i cronisti finiscono col dire che si
tratto d’un disegno divino per mettere in guardia i credenti mussulmani dai loro peccati. (Halil
Inalcik, Lepanto in the ottoman documents in «Il Mediterraneo nella seconda metà del ’500 alla
luce di Lepanto», Firenze, 1974.)

In sostanza, se anche Müezzin-zâde Alì Pasha fosse scampato alla battaglia e fosse tornato a
Costantinopoli, certamente il sultano lo avrebbe accusato di colpevolezza e fatto decapitare.
Sull’altro fronte invece s’esaltarono i meriti dell’armata cristiana e per esempio il Pantera, il quale
dalle storie di Natal Conti trasse azioni e successi dell'armata della Lega cristiana dei primi anni '70
del Cinquecento, scriveva che tali fatti, contenendo molte variazioni della fortuna militare, erano
esemplari per comprendere come bisognava governare e condurre un’armata marittima; dava tra
l’altro molta importanza al buon uso che degli esploratori aveva saputo fare Giovanni d'Austria:

... soleva mandare ogni giorno vascelli benissimo armati sotto la scorta di valorosi e qualificati
personaggi a scoprir gli andamenti dell'armata turchesca, tra i quali il Commendator Gil de
Andrada, soldato prattico mandato hora con fregate ed hora con velocissime galee rinforzate, la
raguagliò sempre diligentemente. (Cit.)

Il de Andrada, noto anche per esser orbo di un occhio, riceverà poi il titolo di commendatore
dell’ordine di Malta e nel 1579 anche quello di generale delle galere di Sicilia, incarico questo che
però ricoprirà, non sappiamo perché, solo pochi mesi e anche condividendolo con il conte di
Villatorres.
Alcuni volevano che i vascelli esploratori fossero piccoli e sottili, quali erano le fregate e le filuche,
perché, in quanto piccoli, potevano scoprire senza essere scoperti; altri dicevano invece che i
vascelli piccoli erano anche deboli e potevano pertanto più facilmente essere catturati dal nemico e
diventare così giocoforza da spie delatori e ciò con grande pregiudizio dell'armata che li mandava,
preferendo dunque che si mandassero in missione esplorativa galee veloci e rinforzate di buoni
vogatori (sp. anche galeras escogidas), anche se queste in effetti raramente potevano, date le loro
dimensioni, scoprire senza essere scoperte a loro volta. Questa seconda pratica era
particolarmente usata dai veneziani e nel Tirreno si pensava che nessuno più di loro s’intendesse
di milizia marittima, mentre, come sappiamo, c'erano esperti veneziani che, a ragione,
940

apprezzavano moltissimo usi e caratteristiche delle galere ponentine; comunque anche nelle
armate veneziane c'era anche un certo numero di fregate che servivano ad andare a spiare le
mosse del nemico e i loro padroni (‘comandanti’) dovevano, dato il loro delicato incarico, essere
intendenti, sagaci, valorosi, ottimi nuotatori, conoscitori delle lingue principali del Mediterraneo,
onde poter facilmente prender lingua del nemico o dai navigli che incontrasse o dai rivieraschi; i
loro galeotti ottimali sarebbero poi dovuti essere non corpulenti e, nel caso delle fregate veneziane
in cui vogavano buonevoglie, anch'essi esperti nuotatori:

... Ed, essendo piccoli, asciutti e nervosi, sarebbono più atti a maneggiarsi (‘destreggiarsi’) in un
picciol legno e di men gravezza nell'andare alle dette fregate, durarebbono anche più alla fatica del
remo ed haverebbono somigliantemente gran lena in notar per lungo spazio. (C. da Canalt. Cit. P.
272.)

Bisognava dunque spiare senza sosta l'armata nemica con vascelli veloci e, trovandosi molto vicini
a essa, anche servendosi di nuotatori:

... di quei notatori di Samo che durano tutto un giorno a notare e star sopra l'acqua e più di due
hore sotto acqua, i quali, notando al buio della notte, si metteranno sotto il palamento e apposticci
delle galee dell'avversario a sentir quel che si tratta e la fama, murmurando, riporta di banco in
banco, come quando si passa la parola... (B. Crescenzio. Cit. P. 496.)

Dopo aver così orecchiato, i nuotatori avrebbero dovuto subito comunicare ciò che avevano
appreso al loro generale tramite le fregate amiche a cui si appoggiavano o anche tramite
segnalazioni convenute ad altre spie disseminate per mare ed eventualmente anche sulla costa.
Dell'abilità natatoria dei sami così ancora scriveva il Crescenzio:

... I greci che hoggi vi sono nell'isola di Samo - sono anchora di questi in Napoli di Romania
(‘Neapolis nel Peloponneso’) - sono 'sì dati all'essercizio del notare e andare sotto acqua che
tengono per commun proverbio tra loro che il giovane che non pesca qualche cosa gettata a posta
in mare, in cento passa di fondo, non merita darsegli moglie. (Ib. Pp. 496-497.)

In effetti degli esperti palombari (fr. mourgons, plongeurs, plongeons, urinateurs; ol. Duikers; sp.
palomeros), nome che viene da palomba ossia colomba - vecchio nome della chiglia, come
abbiamo già detto - erano molto necessari a bordo della galera, tipo di vascello che frequentava
soprattutto acque costiere e quindi poco profonde, per andare appunto a verificare eventuali danni
riportati dalla predetta palomba in caso d’urto su scogli sommersi o secche oppure per recuperare
oggetti che fossero accidentalmente caduti in mare. L’Aubin scriveva:

Les bons nageurs prennent plaisir à plonger souvent. (Cit.)


941

Il da Canal consigliava che i padroni delle fregate esploratrici portassero due gagliardetti o insegne
per ciascuno dei principali capitani di mare del Mediterraneo e dei loro principi stessi - uno da porsi
a prua e l'altra in cima all'albero, in modo da farsi credere d'altra nazione in caso di bisogno; anzi a
bordo di queste fregate avrebbero tutti dovuto avere la possibilità di cambiare anche foggia d'abito
per aumentare tale ingannevole effetto e soprattutto avrebbero dovuto poter fingersi turchi:

... che il padrone si vesta di una di quelle loro habbe o dulimani di carisca o d'altro panno e nella
cima dell'albore pona un gagliardetto di color celeste con tre lune nel campo e fesso in due parti
nella cima e un altro somigliante nella prora e che i galeotti si volgano intorno alla testa un panno
di lino, si come usano essi turchi, o tante berrette rosse o pavonazze, lunghe e rilevate con doi
picci che li cadino dinanzi e di dietro, usate in cotal guisa dalli asappi; leventi, che noi normalmente
gli addimandiamo. (C. da Canalt. Cit. P. 272.)

Ci siamo chiesti perché il da Canal facesse qui sinonimi i termini azap e leventi, mentre sappiamo
che i primi praticamente corrispondevano agli scapoli dei ponentini e i secondi erano non altri che i
corsari barbareschi, cioè quelli che soprattutto nell'Italia meridionale si dicevano sar(r)acini; forse i
mori, oltre che darsi alla loro piratesca guerra di corso, erano anche soliti servire come arcieri sulle
galee ottomane; e che gli azap fossero soprattutto arcieri è confermato anche dal Vecellio nella
didascalia che egli aggiunge all’illustrazione del loro abbigliamento:
… Fu sempre buona usanza de’ turchi assuefarsi quanto più è possibile al tirar dell’arco, la onde
armano le sue galere di assai azappi. Questi sono soldati che, servendo, hanno di provisione
cinque aspri il giorno…. Si accommodano la scimitarra e la faretra con alcuni legami che pendono
dal collo sino sopra il fianco e, come qui sopra si vede, portano l’arco ancora… (C. Vecellio. Cit. P.
383v.)

Gl’inglesi usavano mimetizzare questi vascelletti esploratori:

... La qual astuzia è anchora meravigliosamente usata dalla nazione inglese che queste fregate
pitte (‘dipinte’) le addimandano e, perché la bianchezza delle vele non li facciano di lontano ai
nemici manifesti, le tingono di colore più simile al mare e con la medesima cera con la quale
ongere le dette sogliono, ungono parimente le funi e gli albori e così usano vestire li huomini che
sopra vi mandano dell'istesso colore, acciò che agevolmente si possano occultare non solo di
notte, ma di giorno all'occhi de riguardanti. (C. da Canalt. Cit. P. 273.)

Si trattava quindi di dipingere queste imbarcazioni di un verde chiaro, come anco usavano talvolta i
corsari barbareschi e così faceva, scriveva il de Haedo, il corsaro moresco di Cherchell Alì Caha, il
quale negli anni immediatamente successivi a Lepanto, con un bergantino – o per meglio dire
appunto una fregata - di 12 banchi e con altri corsari infestava le coste soprattutto della Valencia,
da lui ben conosciute in quanto sua terra d’origine, riportandone ad Algeri schiavi cristiani da
vendere al famoso souk (‘mercato’) di quella città e a Cherchell moreschi in fuga dalla Spagna; egli
manteneva appunto il suo vascello tinto di verde e inoltre disponeva d’un gran numero di bandiere
e di fiamme per fingersi all’occorrenza d’altre nazionalità. Questo Alì Caha, catturato poi nel 1576
942

durante una delle sue azioni da galere spagnole, fu prima posto al remo e in seguito, appurati tutti i
suoi crimini e considerati troppo gravi, nelle prigioni del Sant’Uffizio di Valencia, dove, avendo
pervicacemente rifiutato di convertirsi, fu infine nel mese di novembre del predetto anno bruciato
sul rogo da quella Santa Inquisizione (D. de Haedo. Cit.).
Era inoltre consigliabile che queste fregate, se spinte da buonevoglie e non da galeotti incatenati,
avessero sul fondo un foro grande come una noce di cocco e otturato con un coccone (‘tappo’)
avvolto di stoppa, in modo da potersi all'occorrenza affondare lo scafo su d’un basso fondale e
così occultarlo temporaneamente al nemico, per poi vuotarlo dell'acqua e così recuperarlo non
appena passato il pericolo. Dovevano quindi i loro uomini essere buon sorinatori (‘sommozzatori’;
lt. urinatores; gra. ϰολυμβηταῖ), non solo per poter andare a spiare il nemico nuotando sott'acqua,
ma anche per andare a verificare guasti sotto il fondo dei vascelli della loro armata, per sarpare
un’ancora incagliata, per recuperare qualcosa che fosse caduta a mare su un fondale non troppo
profondo, ecc. Questi uomini usavano sin dall’antichità piccoli trucchi del mestiere per agevolare il
loro lavoro; per esempio, dovendo tuffarsi a cercare qualcosa in un fondale oscuro, lo facevano
con la bocca piena d’olio, olio che, arrivati sul fondo, rilasciavano in modo che spargesse un po’ di
chiarore riflesso dalla superiore luce del sole, e probabilmente questo derivava da un’esperienze
originarie fatte durante i tentativi di recupero di anfore d’olio affondate in naufragi; inoltre, ad
evitare che magari pesci mordaci annidati tra le rocce dei fondali, pesci in quei secoli ancora
numerosi, mordessero loro i piedi o le mani, prima di tuffarsi si tingevano di nero dette estremità
per renderle meno visibili; infine, allenati alle lunghe apnee, invece di tuffarsi dopo aver ben
riempito d’aria i polmoni, come si usa oggi, lo facevano dopo aver trattenuto il fiato, in quanto
pensavano che quell’aria presente nel corpo, invece di agevolarlo, avrebbe ritardato il loro
immergersi in profondità (Stanislao Bechi, Istoria dell’origine e progressi della nautica antica. P.
112. Firenze, 1785).
Due delle suddette fregate dovevano precedere d’un miglio la avanguardia, due dovevano
accompagnare la battaglia, ossia il nucleo centrale dell'armata, e due dovevano seguire a un
mezzo miglio la retroguardia, in modo da preannunciare il nemico e mantenere i collegamenti tra le
tre formazioni. Ognuna di queste fregate avrebbe dovuto essere armata d'un moschetto da posta
da due libre di calibro e mantenersi distante un tiro d'archibugio dalla sua conserva (‘compagna’),
in modo che, nel caso venisse assalita, potesse col rombo del moschetto avvisare l'altra, la quale
avrebbe così subito dato volta, vale a dire avrebbe invertito la rotta, e sarebbe corsa indietro ad
avvisare l'avanguardia, oppure avrebbe affrettato la voga per raggiungere la retroguardia a evitarle
così che il nemico le desse a coda, ossia l'assalisse da dietro. Ovviamente questi vascelli più
piccoli erano anche i più indicati per altre missioni particolari, come per esempio quella d’andare a
943

sbarcare qualcuno a terra per riconoscere luoghi, coste o fondali di province battute dal nemico; in
battaglia essi potevano solo scontrarsi con vascelletti della loro stessa stazza e quindi in tali
occasioni bisognava armare ogni fregata con un paio di smerigli e con una decina d’archibugieri e
farle stare alla poppa delle galere finché non individuassero un legnetto nemico adatto da andare a
combattere.
Nell'Oceano Atlantico il ruolo di vascelli esploratori era tenuto dalle caravelle propriamente dette,
chiamate pertanto in Portogallo anche messaggere, ma, come abbiamo già detto, non solo di
questi piccoli vascelli fu dotato Cristoforo Colombo per i suoi viaggi transoceanici; ricordiamo a
questo proposito che le caravelle, più anticamente, come sappiamo, dette cocche, non superavano
le 900 botti di portata e che i velieri a prevalente vela quadra dalla stazza più grande di quella si
chiamavano navi o barze; ricordiamo anche che al tempo di Colombo, cioè circa un secolo prima
di quello che stiamo principalmente trattando, ancora non si usavano i grandi galeoni, le grosse
caracche e le grosse naus dei portoghesi, perché la necessità di costruire grossi cargo nacque
infatti proprio a seguito dei viaggi di Colombo e di Vasco de Gama, i quali furono i primi
transoceanici compiuti da europei e i primi a far sentire la necessità di velieri che offrissero una
maggior resistenza alla forza dell'oceano aperto. Che poi il Colombo fosse italiano e ligure è
circostanza che è e sarà sempre messa in dubbio da qualche studioso o addirittura negata
decisamente da qualche intera nazione, quale per esempio la spagnola. Infatti, in casi del genere,
un documento storico, perché possa aver valore di prova ed essere giudicato incontrovertibile da
tutti, è necessario che ci sia stato scritto da persona coeva del personaggio in discussione e non
da un postero; ciò perché in tempi ancora strettamente coevi non possono esser già nati quegli
interessi nazionalistici che, forzando la storiografia, sempre riescono a intorbidire le acque e a
offuscare stabilmente la verità. Fortunatamente, nel caso di Cristoforo Colombo, oltre all’esplicite
testimonianze di due suoi concittadini contemporanei, e cioè i cronachisti Antonio Gallo e
Bartolomeo Senarega, c’è quella non solo coeva ma anche ’di prima mano’ che nel 1525 ci lasciò il
secretario (‘console, residente’) veneziano Gasparo Contarini nella sua già più volte da noi citata
relazione di Spagna e Nuova Spagna, lavoro che l’acuto e informatissimo diplomatico presentò al
suo senato appena ritornato dalla sua lunga missione alla corte di Carlo V, ambiente in cui aveva
conosciuto personalmente Diego Colombo, figlio del grande navigatore, e dove aveva con lui più
volte a lungo e approfonditamente conversato:

… La prima e principale (delle Indie Occidentali) è l’isola Spagnuola (‘Hispaniola’) […] nella quale
fa residenza l’Almirante e il Consiglio Regio; questo Almirante è figliuolo di Colombo genovese e
ha grandissime giurisdizioni concesse a suo padre, benché molte gli ne sono state usurpate e
continuamente gli se ne usurpano dell’altre; io l’ho lasciato alla Corte, dove era andato per
espedirsi (‘spiegarsi, lamentarsi’) […] mi afferma che fra l’isola Spagnuola (‘Hispaniola’) e la
944

Giamaica […] solevano essere, quando furono ritrovate da Colombo, un milione d’anime e più;
hora per li crudeli trattamenti de’ spagnuoli (specie perché li costringono a lavorare nelle miniere)
[…] sono mancati quasi tutti, talmente che hora nell’isola Spagnuola non sono 7mila anime e
comprano degli schiavi negri della Barbaria e li mandano lì alle miniere, delli quali molti, poco
avanti il partir mio di Corte, si erano congiunti con alcuni di quelli del paese ed erano fuggiti
insieme alla montagna. (E. Albéri. Cit. S.I, v. II, pp. 50-51.)

Ovviamente, se il padre non fosse stato genovese il figlio glielo avrebbe sicuramente precisato.
Che poi il Colombo non sia magari nato proprio a Genova, ma in una cittadina del circondario,
nulla toglie a quel suo esser definito genovese, perché allora così si chiamavano all’estero tutti gli
abitanti del territorio della Repubblica di Genova e non solo quelli della città capitale; allo stesso
modo nel resto d’Italia e del mondo si dicevano napoletani tutti gli abitanti del regno di Napoli e non
solo quelli della città partenopea, milanesi tutti gli abitanti della Lombardia e veneziani tutti quelli
del territorio della repubblica di Venezia.
Dell’antichità della tratta dei negri abbiamo già detto. Quando s’inseguiva qualche vascello nemico
che si era messo in fuga, si diceva dar la caccia (fr. anche hausser) e il vascello inseguito si diceva
che pigliava la caccia; naturalmente in tal azione bisognava far molta forza sui remi e bisognava
quindi aver prima rifocillato i galeotti:

... Ma (la galera) non si metta in caccia prima che la ciurma habbia mangiato, accioché possa
resistere alla fatica, non dovendosi in modo alcuno esporla digiuna a così gran travaglio, nel quale,
non havendo lena sufficiente, non durarebbe lungamente e forse correrebbe rischio d'alcun
notabile accidente. (P. Pantera. Cit. P. 319.)

In queste occasioni le frustate sulla schiena dei remiganti fioccavano numerose per convincere
così quei disgraziati a fare il massimo sforzo; e già erano fortunati rispetto ai loro predecessori del
Medioevo, i quali, oltre a esser fustigati, erano anche malignamente minacciati di accecamento, in
caso non avessero raggiunto il vascello fuggitivo o, nel caso opposto, se si fossero fatti
raggiungere da quello che dava loro la caccia; infatti la cecità non pregiudicava l’efficacia della
voga, anzi rendeva crudelissimamente un remiero molto più mansueto, controllabile e inoltre
incapace di tentare la fuga. Crudeltà e spietatezza erano state infatti anche maggiori in quei secoli,
sebbene tanto pervasi di fede religiosa. Durante la caccia era inoltre necessario tenere giù nelle
camere la maggior parte della gente e lasciare in coperta solo quella necessaria al servizio; ciò
doveva esser fatto imponendo a quelli che andavano a stare di sotto anche di mantenersi al centro
del vascello, in modo da migliorare la stiva della galera col loro peso, e comandando a quelli che
invece dovevano restare in coperta di star quieti, fermi, uniti e seduti a terra o sul suo banco, a
meno che non dovessero muoversi per le manovre; si pensava infatti che qualsiasi movimento che
avvenisse a bordo, anche il minimo, potesse rallentare il corso della galera:
945

… e si tenghi ordine nelle camere non tenere robbe appese, per che si à visto molte volte che, per
tener alcun sacchetto o lanterna appesa, il vascello perde gran parte del suo camino. (Ib.)

Si doveva inoltre nella predetta occasione alleggerire il vascello di tutto ciò che non fosse
necessario alla caccia, cioè bisognava arrivare a gettare a mare - senza farsene alcuno scrupolo -
anche l'artiglieria non essenziale e poi eventualmente persino quella necessaria, come se ci si
trovasse in una violenta burrasca, se ciò poteva servire a raggiungere sicuramente l'abbordaggio
del nemico. Così fece nel 1563 l’armata barbaresca che appoggiava dal mare l’esercito del Sheriff
(titolo del re del Marocco), il quale, spinto a ciò dal beglerbegi d’Algeri, allora Hassan Pasha, s’era
posto all’assedio d’Orano, città della Barbaria allora posseduta dalla Spagna; arrivato
all’improvviso di notte in quel porto il soccorso di 34 galere di Spagna, i mori e i loro vascelli si
misero in fuga abbandonando anche la loro artiglieria d’assedio per far più presto; le galere
spagnole presero tre grossi vascelli barbareschi, mentre gli altri, cacciatisi nelle secche, gettavano
in mare l’artiglieria per alleggerirsi e poter così sfuggire all’inseguimento, ma, infine raggiunti, ci fu
un sanguinoso scontro del quale gli spagnoli restarono vincitori, catturando ben 25 galeotte
algerine; la squadra spagnola poi, probabilmente per dare una lezione al predetto Sheriff, prese e
saccheggiò l’abitato di Vélez. Bisognava poi sorvegliare strettamente gli schiavi, soprattutto i mozzi
di bordo, i quali, come già sappiamo, solitamente si sceglievano tra gli schiavi; questi, essendo
liberi dalla catena, potevano segretamente andare a forare con le verine [‘trivelle, menarole’, fr.
(ville)brequins] lo scafo della galera in qualche parte remota delle camere sotto coperta e fare così
entrare l'acqua per rallentare la corsa del vascello, perché - se in caccia - non raggiungesse quello
suo correligionario, oppure - se sotto caccia - potesse esser raggiunto e lui stesso così liberato. Un
uso storico di questo trivellamento fu fatto dall’ammiraglio aragonese Pietro di Lauria, quando nel
giugno del 1284 sconfisse l’armata angioina a Capo Palinuro; inviò infatti dei nuotatori provvisti di
questi arnesi contro la Capitana di Carlo d’Angiò, detto Lo Zoppo, vascello che gli resisteva
accanitamente, la fece in tal modo affondare e prese prigioniero lo stesso principe ereditario Carlo.
I vascelli infine, quando davano o prendevano la caccia, dovevano fare ogni sforzo per restare uniti
il più possibile con le proprie conserve per potersi proteggere l'un l'altra.
Una delle più rimarchevoli cacce che avvennero nel Tirreno fu quella guidata nel 1598 dal
commendator Magalotto, il quale era luogotenente generale delle galere pontificie e con il quale
navigava allora il Pantera come capitano di galera. Il Magalotto, scoperti quattro vascelli turcheschi
(‘turco-barbareschi’) molto vicini alla costa di Monte Circello (oggi Monte Circeo), deliberò di
prenderli e si mise in caccia con due delle tre galere che allora si trovava, solo due perché
evidentemente i vascelli nemici erano più piccoli dei suoi, probabilmente delle fuste. Prese presto
due dei nemici vicino terra e un terzo dopo una caccia di 60 miglia, avendolo raggiunto presso
946

l'isola di Bentitiene (oggi Ventotene); il quarto fu costretto a dare in terra presso Sperlonga, dove fu
pertanto raggiunto e una parte dei suoi uomini, fuggita a terra, fu catturata dalla gente del posto.
Così furono liberati molti schiavi cristiani che erano galeotti di quei vascelli corsari e spesso ai
disgraziati così liberati era anche concesso, specie se in qualche maniera avevano contribuito alla
sconfitta dei loro aguzzini, di partecipare alla spartizione finale della preda.
Il Cervantes Saavedra racconta nel suo Don Quijote una caccia intrapresa da una galera spagnola
ai danni d’un bergantino barbaresco e ci lascia capire che, una volta raggiunto il vascelletto
nemico, la galera lo affianca e lo imprigiona lasciandogli cadere sulla coperta il proprio palamento,
il che doveva esser reso possibile dall'essere evidentemente il bordo del bergantino
sufficientemente più basso. A questa tecnica non accenna però alcun altro trattatista del tempo e il
de la Gravière, il quale invece la menziona, si rifà con ogni probabilità allo stesso racconto del
Cervantes Saavedra.
All'inizio d'agosto del 1572 Uluch-Alì, il quale, pur essendo alla testa della sua armata, non cercava
il contatto con quella della Lega nemica perché i turchi erano ancora sotto l'impressione della
sconfitta disastrosa dell'anno precedente, si trovò non volendo di fronte a quella, la quale l'aveva
abilmente raggiunto; egli fece dunque dapprima credere agli avversari che voleva accettar la
battaglia, poi traccheggiò sino a sera quando, fatta scaricare a salve tutta l'artiglieria delle sue
galere, coprì di fumo tutta la sua armata togliendosi così dalla vista dei nemici e n’approfittò per
fuggire cambiando improvvisamente rotta; prima però aveva lasciato sul posto un certo numero di
fregatine che portavano lumi accesi e questi da lontano sembravano fanali di galere; fece così
credere al nemico di non essersi allontanato e in conclusione i cristiani non videro più la sua
armata né riuscirono ad averne più notizie se non tre giorni dopo. Bisogna però dire che, per non
farsi raggiungere, Uluch-Alì era stato costretto a perdere la galera di Mehmed Rais, nipote del
Barbarossa, la quale, raggiunta durante la caccia da quella del marchese di Santa Cruz, dopo una
strenua resistenza e uno scontro sanguinoso era stata catturata; nel frattempo, approfittando della
concitazione del combattimento, uno schiavo cristiano aveva ucciso Mehmed, molto probabilmente
per vendicarsi di qualche torto da quello ricevuto. L'episodio è raccontato con qualche differenza,
ma anche con più dettagli dal Cervantes Saavedra nel suo Don Quijote ed è collocato nel ritorno
dell'armata cristiana di Giovanni d’Austria dall'insuccesso di Modone:

... In questo viaggio si prese la galera che si chiamava 'La Presa', della quale era capitano un figlio
di quel famoso corsaro Barbarossa. La prese la Capitana di Napoli, chiamata 'La Loba' (‘La Lupa',
in sp.), comandata da quel fulmine della guerra, dal padre dei soldati, da quel fortunato e mai vinto
capitano don Àlvaro de Bazán marchese di Santa Croce. e non voglio omettere di narrare quello
che avvenne nella presa del 'La Presa'. Era il figlio di Barbarossa tanto crudele e trattava tanto
male i suoi schiavi che i remiganti, non appena videro che la galera 'Loba' li cacciava e stava per
raggiungerli, lasciarono andare tutti insieme i remi e afferrarono il loro capitano, il quale stava sul
947

capomartino (sp. estanterol) gridando che vogassero più forte, e passandolo di banco in banco da
poppa a prua, gli davano tali morsi che, appena dopo aver passato l'albero già la sua anima era
passata all'inferno; tanta era, come ho detto, la crudeltà con cui li trattava e l'odio che quelli gli
portavano. (M. de Cervantes Saavedra. Cit.)

Ma riteniamo questa versione del Cervantes Saavedra piuttosto allegorica e la precedente


senz'altro più credibile. Andando ancora più indietro nel tempo, nel 1519 troviamo il capitano
generale principe Andrea d'Oria, il quale si trovava con sei galere preso l'isola di Pianosa e colà
scoprì una squadriglia di corsari barbareschi consistente in una galera, tre galeotte e cinque fuste;
egli finse allora di fuggire verso l'isola d'Elba e quelli si misero in caccia; giunto all'Elba, il d'Oria
con un largo giro pigliò volta, ossia invertì la rotta, mise così i corsari sottovento e, rivoltosi poi
contro di loro, l'investì; quelli, accorgendosi dello errore commesso, poggiarono, cioè misero la
prora sottovento, e fuggirono; il d'Oria però, trovandosi ora sopravvento (fr. à l’of) e quindi in gran
vantaggio, gl'inseguì, li raggiunse e, ammazzatine molti, catturò la galera, le galeotte e due delle
fuste, guadagnandosi con questa vittoria la fama di valente capitano di mare.
L'armata turca vendicò il predetto e altri episodi molto più tardi, cioè nel 1552, quando, chiamata
nel Mediterraneo occidentale da Enrico II di Francia in funzione anti-spagnola e forte di 103 galere,
quattro galeotte e due maone poste sotto il comando di Sinan Pachà e di Torgud, dopo aver
all’inizio di luglio di nuovo saccheggiato e incendiato Reggio Calabria e i dintorni di Messina e,
procurando così alla città di Napoli uno dei maggiori spaventi della sua storia, essersi poi trattenuta
12 giorni a Procida in vana attesa di quella francese, la quale, promessa dal suddetto re, doveva
esser guidata dallo Strozzi e dal principe di Salerno Ferdinando Sanseverino, transfuga in Francia,
s’era poi indirizzata più a nord a cercare un contatto con quella alleata e infine s’era fermata a
Ponza per spalmare. Il d'Oria, ormai gravido d'anni, con ben 39 galere e cioè 17 sue e d’altri
capitani di condotta genovesi tra cui Marco Centurione, 5 d’Antonio d’Oria, 11 di Spagna
capitanate da Juan de Mendoza, 5 di Napoli comandate dal loro generale Garcia de Toledo e
infine la Capitana di Monaco veniva al soccorso di Napoli, minacciata anche dall’armata francese,
la quale però, forse anche per l’entrata in campo del d’Oria, non riuscirà a unirsi a quella turca;
egli, lasciata Genova al mattino del 26 luglio e arrivato il mercoledì 4 agosto all’altezza di
Civitavecchia, incontrò due fregate corsare napoletane dalle quali fu avvisato della presenza
dell’armata turca e poi alla sera del giorno seguente, trovandosi a 25 miglia da Palmarola, fu
raggiunto da una sua fregata che aveva mandato due giorni prima avanti per haver lingua del
nemico e gli fu confermato dal comandante di questa, certo fra’ Marco, evidentemente un cavaliere
di Malta, che l’armata nemica di trovava a Ponza dove aveva completato la spalmatura. Il d’Oria
non volle - secondo alcune fonti - ascoltare i suoi capitani, i quali, dal momento che i turchi erano
descritti molto superiori di forze, lo sollecitavano a passare al largo di quell’isola per non farsi
948

scoprire e quindi successe che alle 4,30 della mattina di venerdì 6 agosto, trovandosi le 39 galere
cristiane tutte insieme a 5 miglia da Ponza, all’improvviso si trovarono addosso l’avanguardia di 12
galere dell’armata turca, la quale, informata sulla costa laziale dell’arrivo dei vascelli del d’Oria,
aveva loro teso un agguato e quindi come loro, navigava a luci spente; a quell’incontro la Capitana
turca, tirò un tiro di cannone e accese il fanale di comando per richiamare il resto dell’armata; le
galere cristiane si posero allora in fuga verso sud, ma la notte era sfortunatamente illuminata dal
chiaro di luna e quindi dopo un paio d’ore due di quelle di Napoli, cioè la Liona e la Santa Barbera,
furono raggiunte e catturate; la stessa sorte toccò sul far del giorno alla Marchesa del principe
Andrea, alla Speranza d’Antonio d’Oria e alla Santa Barbera di Spagna e infine più tardi, verso le
ore 15, i turchi presero ancora la Padrona e la Donzella del principe; ma, secondo il de Bourdeilles,
due di queste sette galere non furono prese bensì affondate. Sfuggite le altre alla caccia dei turchi,
la Capitana di Spagna informò il principe Andrea che verso le ore 6 si era beccata una cannonata
sotto la linea di galleggiamento, subito dopo il fogone, e pertanto chiedeva il permesso di far forza
di remi per arrivare in un porto amico il più presto possibile; ottenuto l’assenso del comandante in
capo, detta Capitana e le altre sette od otto migliori galere spagnole cominciarono a distanziare il
resto dello stuolo del d’Oria, il quale, non potendo più proseguire verso Napoli, andò a rifugiarsi
all’Elba. La relazione da cui sono stati tratti i particolari predetti, particolari che differiscono
alquanto da quelli riportati un po’ fantasiosamente dal de la Gravière, si trova tra le Carte
Strozziane dell’Archivio di Stato di Firenze ed, essendo appunto molto particolareggiata, deve
sicuramente esser stata stesa da qualcuno trovatosi in quella sfortunata circostanza; non riteniamo
perciò attendibile nemmeno la variazione narrata da alcuni storici, secondo cui il d’Oria fu avvisato
al largo d’Ostia che l’armata turca si trovava parte a Ponza e parte a Monte Circello (‘Circeo’) e
quindi, volendo passare imprudentemente tra le due posizioni nemiche, anche se in effetti lo
faceva di notte e a luci spente, fu scoperto dalle guardie del kapudan pasha Sinan e di Torgud,
preso in mezzo dai vascelli turco-barbareschi che si erano mossi sia dal monte e sia dall'isola e
costretto a combattere col predetto disastroso risultato di perdere ben sette galere, le quali erano
oltretutto cariche di genti di guerra, specie d’alemanni sotto il comando di Aliprando Mandruzzo,
giovane nipote del cardinale di Trento che in quella sconfitta troverà purtroppo la morte, e anche di
metalli preziosi destinati a batter moneta a Napoli per pagare appunto le soldatesche imperiali
inviate a difesa di quella città. Qui il comportamento d’Andrea d’Oria fu invece in sostanza molto
semplice e condivisibile; egli, pur disponendo d’una considerevole forza di 39 galere, fu assalito sì
solo da 12 nemiche, ma queste erano però, come sappiamo, l’avanguardia di un’armata di ben
109 vascelli, e non poteva quindi trattenersi a combatterle perché avrebbe dato moto a tutto il resto
949

dei vascelli nemici di piombargli addosso ed, essendo in tre contro uno, di fargli perdere non solo 9
vascelli, ma tutti i 39.
Torgud compirà poi un’impresa simile alla precedente nel luglio del 1561, quando catturerà sette
galere della squadra di Sicilia nel mare delle Lipari; si trattava di galere appena costruite, le quali,
partite da Messina la notte tra il 23 e il 24 giugno di quell’anno sotto il comando del nuovo capitano
generale commendator Guimerano e guarnite di soldati siciliani da poco reclutati, dopo essersi
trattenute alquanto a Milazzo, nei presi dell’Eolie s’incontrarono con Torgud, il quale conduceva in
corso 11 galere, tra cui due grosse bastarde a guisa di galeazze (G. Buonfiglio Costanzo. Cit. P.
546), e, offrendo evidentemente ben poca resistenza, si fecero tutte ignominiosamente catturare.
Tornando alla caccia, bisognava far attenzione a non intraprenderne una che potesse portare a
un’imboscata, come stava per avvenire nel 1579 al capitano generale della Chiesa Fabrizio
Colonna, il quale, catturata una galeotta algerina nel Tirreno, si vide poi venire incontro veloci
vascelli barbareschi che subito lo invitarono alla caccia allo scopo d’attirarlo in un luogo dove il
grosso della loro squadra li attendeva e dove, forti del numero, avrebbero sicuramente avuto la
meglio sulle poche galere cristiane, oltre tutto stanche per la caccia sostenuta; ma Fabrizio,
insospettitosi, interrogò i prigionieri fatti sulla galeotta su quanti erano effettivamente i vascelli
corsari usciti d'Algeri di conserva alla ricerca di mercantili cristiani da predare e, poiché quelli non
volevano dirgli la verità, tanto li fece battere che, essi, vinti dal dolore delle nerbate, rivelarono che
si trattava di 25 vascelli tra galeotte e fuste e che lo stavano attirando in un agguato; per il che
Fabrizio lasciò l'impresa. Chiamato intanto dal padre Marco duca di Tagliacozzo, Gran
Contestabile del Regno di Napoli e ora anche viceré di Sicilia (1577-1585) al generalato delle
galere siciliane, il 3 luglio dello stesso predetto 1579 Fabrizio Colonna assumerà tale nuovo
incarico, ma, morto poi appena il 22 febbraio seguente, con la successiva necessaria
approvazione reale sarà fatto immediatamente generale al suo posto il fratello Prospero,
colonnello di fanteria; quest’ultimo però, forse non tagliato per tale mestiere, rinunzierà il primo di
giugno successivo, trovando infine le galere di Sicilia il loro nuovo definitivo generale in Alonzo
Martinez de Leyva (1580-1587).
Un vascello corsaro che avesse voluto impadronirsi d’alcuni mercantili nemici che viaggiavano di
conserva e che potevano in parte sfuggirgli, si fingeva un mercantile egli stesso, si faceva cacciare
da quelli e si faceva raggiungere, per poi ritirare la gomena in gran fretta, girarsi improvvisamente
contro gl’inseguitori e tirare fuori le unghie; e per farsi raggiungere artatamente il miglior sistema
era gettare da poppa a mare una grossa gomena che, distendendosi nella scia [fr. sillage,
cinglage, singlage, seill(e)ure, eau, (h)oüa(i)che, ovaiche, ovage, hoüage; ol. sog] del vascello, ne
rallentasse segretamente il corso, il che a volte e in certe occasioni anche si faceva per rendere il
950

corso del vascello più diritto; oppure si trascinavano da poppa rotoli di canapo, tramagli, barili pieni
affondati o ancore galleggianti, ossia altri oggetti che si mantenessero invece affioranti.
L'armata - e si parlava d'armata quando c'era un concentramento d’almeno un centinaio di vascelli
da guerra, perché uno di vascelli mercantili si diceva invece flotta - si poneva in navigazione divisa
in tre schieramenti successivi, proprio come se fosse stato un esercito in marcia, e quindi c'era
un’avanguardia, una formazione intermedia detta tradizionalmente (corpo di) battaglia e una
retroguardia (fr. anche queüe; ol. agter-hoede) che, data la delicatezza e l'importanza di tale
posizione, doveva essere costituita da galere scelte tra le migliori e comandate dai più esperti
capitani. Le palandarie per il trasporto dei cavalli e gli altri vascelli a vela quadra che portavano le
vettovaglie e le altre provvisioni dell'armata erano tenuti coperti tra una formazione e l'altra, se tutta
l'armata andava a vela; se invece c'era bonaccia e si procedeva a remi, allora tali vascelli erano
trainati dalle galere a evitare di doverli lasciare in balia del nemico. Questa era l'ordinanza di
navigazione, mentre, per quanto riguarda lo schieramento in combattimento, si usavano
generalmente solo due forme e cioè quella detta della fronte distesa, ossia in linea retta, per i
navigli tondi e quella lunata, vale a dire a mezza luna o semicircolare, per i vascelli da remo;
questa seconda forma, molto usata dalle squadre di galere turche, offriva due importanti vantaggi
e cioè che con i due corni avanzati si poteva tentare di circondare il nemico e di conseguenza
vincere facilmente e inoltre che in tale spiegamento i vascelli da remo non si coprivano l'un l'altro e
non rischiavano di disordinarsi e confondersi insieme come invece poteva avvenire usandosi la
fronte distesa. Perché allora non si usava lo schieramento a mezzaluna anche per i vascelli da
guerra tondi, vale a dire per navi armate e galeoni? Il motivo era abbastanza semplice, ossia
perché, spirando uno stesso vento sul luogo della battaglia, i due corni non sarebbero stati ai
velieri di nessun giovamento, non potendo questi circondare il nemico, il che avrebbe implicato
girarsi all'indietro e mettersi così contro vento; se ci avessero tentato, non avrebbero infatti
ottenuto altro effetto che quello di disordinare e confondere il loro schieramento. L’ordinanza di
galere che però i turchi usarono a Lepanto non fu quella lunata o perlomeno il Diedo la descrive
diversa:

… Poi che i turchi ebbero tolte le vele dall’antenne, venivano con la loro armata, avendo l’una
galea accostata all’altra con la proda verso i nostri, quasi in ordinanza diritta, se non che nel
mezzo si spingevano alquanto in fuora in forma acuta e la testa del loro corno destro, che era dalla
parte della terra, se ne veniva molto piegata innanzi… (Carlo Téoli. Cit. P. 24.)

Quando il capitano generale voleva ordinare all'armata di porsi nello schieramento di battaglia da
lui scelto, schieramento le cui caratteristiche aveva già in precedenza spiegato e ordinato per
iscritto a tutti i capitani di galera e a tutti coloro che nell’armata avessero carichi di governo, lo
951

faceva spiegando una bandiera rossa sulla cima dell'albero di maestra della sua galera, ossia della
Reale; se l'armata era troppo grande perché tutti potessero vederla, allora ordinava di far cicogna
e sulla cima alta dell’antenna così posta in verticale, come abbiamo più sopra spiegato, ostentava
la predetta bandiera rossa; secondo la narrazione del Diedo a Lepanto Giovanni d’Austria dette il
segnale della battaglia esponendo in tal modo una bandiera verde e non rossa, ma ci sembra
strano visto che in quella stessa armata il color verde già serviva per distinguere i vascelli che
formavano l’antiguardia. Se però nemmeno questo poteva esser sufficiente a farla vedere da tutti,
allora dalla stessa galera Reale si sparavano anche uno o due colpi di cannone, ai quali tutti i
vascelli dovevano formare subito detto schieramento, inalberando tutti gli stendardi, bandiere,
fiamme e segnali acciocché ogni galera riconoscesse la sua Capitana, la sua squadra nella quale
disporsi e sapesse pertanto qual era il suo posto. A tal scopo in una grande armata a ogni corpo in
cui quella era stata divisa prima della partenza si attribuiva una bandiera (un gaillard, secondo il de
Bourdeilles) d'un certo colore, al quale tutti i vascelli di quel corpo dovevano subito conformarsi
alzandone una d'egual colore sulla cima dell'albero di maestra o sulla penna o sulle sartie o sul
trinchetto o comunque in luogo cospicuo, in modo da non potersi sbagliare nel porsi insieme e nel
restare in ordinanza; a Lepanto le 203 galere dell'armata della Lega portavano una banderuola
azzurra sul calcese nella battaglia, ossia nel corpo centrale, fatto questo - secondo i dati del
Contarini, i quali sono quelli da noi soprattutto utilizzati in quanto appaiono i più meticolosi - di 62
galere e due delle sei galee grosse veneziane e comandato dal capitano generale della Lega
Giovanni d’Austria sulla galera detta la Reale, dal suo luogotenente generale Marc’Antonio
Colonna, generale delle galere pontificie, dal generale veneziano Sebastiano Venerio, dal mastro
di campo generale Ascanio della Cornia, il quale era quindi il successore del milanese Giuseppe
Francesco Mandriano, conte di Mandriano e straticò (dall’gr. στρατηγός), quindi capitano a guerra)
di Messina, il quale aveva avuto lo stesso incarico nell’armata della Lega l’anno precedente, e dal
generale dell’artiglieria Gabrio Serbelloni; una verde sulla penna nell’antiguardia o corno destro,
formato di 58 galere e due altre delle galee grosse della Serenissima e guidato da Gioan Andrea
d’Oria, capitano generale della squadra dei particolari genovesi, gialla al oste sinistra (‘alla spalla
sinistra’, ma forse in verità a quella destra) nella retroguardia o corno sinistro, costituito da 53
galere e le due ultime galee grosse veneziane, tutte sotto il comando d’Agostino Barbarigo,
provveditore generale dell’armata veneziana, e bianca alla poppa nel soccorso cioè nel retrostante
corpo di riserva di 30 galere comandate da Àlvaro de Bazán marchese di Santa Cruz, allora
capitano generale della squadra di Napoli; in più i cristiani avevano pochi brigantinelli de non
troppo momento (A. Scetti. Cit.) e 22 navi appoggio non combattenti. Gli altri principali comandanti
e ufficiali dell’armata della Lega erano Francesco Duodo, capitano generale delle galee grosse
952

veneziane, Juan Francisco de Cardona, capitano generale della squadra di Sicilia (in seguito di
quella di Napoli), Antonio da Canal e Marco Quirini, provveditori dell’armata veneziana, Jorge
Manriquez, provveditore generale, con il suo segretario sig. Giovanni di Cotto, Pedro Velasco,
veditore maggiore dell’armata, Paolo Giordano Orsino, il commendatore Gil de Andrada, Luiz de
Requesens, commendator maggiore gerosolimitano di Castiglia, il commendator de Leiny,
capitano generale savoiardo, Alfonso d’Aragona d’Appiano, il quale si trovava con la Padrona
toscana nella squadra di riserva, Ettore Spinola, capitano generale delle galere pubbliche di
Genova, galere delle quali tanto tempo prima, nel 1513, quando cioè Luigi XII era signore di
Genova e di tutta la Liguria, era stato nominato comandante lo stesso Andrea d’Oria, e fra’ Pietro
Giustiniani, priore gerosolimitano di Messina.
Ogni galera doveva esporre, oltre ai consueti e prescritti vessilli, ogn’altro ornamento o
abbellimento di cui disponesse, a meno che si trattasse di qualcosa che poi potesse risultare
d'imbarazzo per le operazioni:

... non solamente perché l'armata ne comparisca più vaga ed habbia più honorevole aspetto, ma
ancora perché [...] l'inimico ne può ricever dispiacere, smacco e alcune volte spavento. (P.
Pantera. Cit. P. 356.)

Sempre a Lepanto poi, in osservanza delle norme di prevenzione della buona disciplina militare,
ognuno dei predetti corpi d’armata cristiani, soccorso escluso, era formato di galere d’ogni nazione
e volutamente mescolate, al fine d’evitare quelle confidenze tra equipaggi di galera che potevano
portare a organizzare qualche sedizione, ammutinamento o fuga dalla battaglia.
La galera Reale - o anche il galeone Reale - si poneva, fiancheggiato da altri vascelli potenti, al
centro della battaglia, sia perché era generalmente il vascello più forte dell'armata e faceva quindi
da fulcro dello schieramento sia perché da quella posizione centrale tutti potessero riceverne i
segnali; se però il fronte era molto esteso, come nel caso dell’armata cristiana a Lepanto, la quale
formava un fronte di circa cinque miglia di lunghezza, allora i segnali si dovevano per lo meno
inviare ai vascelli più grossi e rinforzati che comandavano i vari corpi, affinché questi li ripetessero
subito a tutti gli altri. Ogni galera doveva mantenersi lateralmente lontana dalle altre non più di tre
fusti di galera, distanza sufficiente a girarsi e a manovrare senza rischiare d'intricarsi (vn.
avvilupparsi) con i remi o con le sartie delle conserve (‘compagne’), impacciandosi così l'un l'altra;
tale distanza serviva anche a lasciar spazio all'eventuale passaggio d'una galera di soccorso che
venisse dalle retrovie e inoltre rendeva le artiglierie più efficaci, in quanto - come un vecchio
principio militare diceva - le armi da fuoco avevano bisogno d'un fronte esteso, perché più fossero
state tenute ristrette meno avrebbero offeso il nemico. Alcuni sostenevano però che una distanza
laterale di tre o quattro fusti di galera, buona per separare corpo d’armata da corpo d’armata, era
953

invece pericolosa da usarsi tra galera e galera dello stesso corpo perché permetteva sì di girarsi,
ma concedeva anche ai vascelli nemici d'intrufolarsi e d'investire i nostri vascelli di fianco,
rompendo così anche la stessa nostra formazione; sostenevano inoltre costoro che, così facendo,
in una grande armata il fronte risultava troppo esteso e le squadre non si potevano soccorrere a
tempo l'un l'altra; meglio dunque era tenere le galere d’uno stesso corpo solo a distanza di remi,
cioè che si potesse solo vogare senz'urtarsi e così infatti i cristiani preferirono disporsi a Lepanto.
Dovevano poi le galere essere ordinate in modo che ognuna, investendo il nemico, non si trovasse
a dover combattere con due delle avversarie, bensì con una sola galera nemica e ciò anche a
discapito della comune prassi di lasciare fuori e dietro lo schieramento alcuni vascelli, i quali
potessero soccorrere quelli che a un certo punto del combattimento dimostrassero d'averne
bisogno; il combattimento ortodosso era infatti quello in cui ogni vascello combatteva abbordato
contro un solo vascello nemico e il capitano generale prudente doveva perciò fuggire quella
battaglia in cui, essendo la sua armata decisamente inferiore di numero, tale condizione non si
sarebbe potuta verificare, a meno che però egli ritenesse d'avere forze qualitativamente superiori a
quelle dell'avversario. Poiché i difensori d’una galera abbordata s’affollavano sul lato abbordato per
respingere gli assalitori, il loro vascello sbandava da quel lato e spesso tanto da far alquanto
fuoruscire dall’acqua la poppa dall’altro lato, e quelli erano sia il punto sia il momento più adatti
perché altre galere nemiche ne approfittassero per investire violentemente con la loro prua e
danneggiare tanto gravemente la suddetta poppa del vascello abbordato da mandarlo a fondo; su
questa manovra già si dilungava la da noi più volte citata Тάϰτιϰα bizantina del IX° sec.
Oltre al numero dei navigli, un altro fattore estremamente determinante nelle battaglie marittime
era il favore di vento, perché avere questo significava per i velieri poter manovrare a proprio
piacimento contro il nemico, e nel 1582 il marchese di Santa Cruz, dovendo scontrarsi all'isole
Terzeire (oggi Azzorre) con l'armata di don Antonio di Portogallo, se ne stette tre giorni ad
aspettare il vento prospero e, avendolo finalmente ottenuto, solo allora attaccò il nemico e lo vinse;
nella stessa maniera si era comportato nel 1577 il capitano francese Lansac, quando, cambiato a
suo favore il vento che sino allora era stato invece favorevole agl'inglesi, attaccò questi e li
sconfisse catturando la maggior parte dei loro vascelli, ammiraglia inclusa. Il favore di vento dava
anche un altro vantaggio e cioè che il vento stesso portava in faccia al nemico il fuoco e il fumo
delle artiglierie d’ambedue le armate che si stavano combattendo e così, offuscandosi l'aria, quella
sottovento restava incapace sia di mirare i bersagli - che più non vedeva - sia d'eseguire
correttamente le manovre; il vento che ai Curzolari (‘Lepanto’) poco prima della battaglia mutò da
levante a ponente maestro, a favore quindi dell'armata della Lega, la quale appunto proveniva da
ponente, provocò ai turchi quest'inconveniente di portare il fumo contro di loro e di limitarne quindi
954

ulteriormente la vista, già infastidita dall'avere essi il sole di faccia, combattendosi infatti tale
battaglia per quattro/cinque ore pomeridiane. Ovviamente, oltre al vento e al sole, anche una
corrente marina a favore contribuiva a dare più forza al colpo da inferire all'armata nemica.
Una sola squadra di galere si disponeva in battaglia a scala e cioè parallele di fianco appunto
come gli scalini di una scala. Un’intera armata fronteggiava invece generalmente il nemico in
schieramento semi-circolare e suddiviso in quattro corpi; questi erano disposti, come le singole
squadre e le singole galere, con un certo intervallo tra l'uno e l'altro e - nel caso appunto d’interi
corpi - questa soluzione di continuità doveva esser di non più d'un miglio e di non meno di mille
passi, perché ognuno d'essi potesse avere un suo spazio per manovrare autonomamente dagli
altri corpi e cioè il corno destro, formato dall’avanguardia, il corno sinistro, costituito dalla
retroguardia, la battaglia posta al centro e il corpo detto il soccorso, il quale stava generalmente
dietro quello della battaglia, ma poteva anch’essere diviso in due squadre poste ognuna dietro uno
dei corni laterali, squadre che - dette ora sopraccorni - servivano anche ad aggirare a un certo
punto il nemico, senza che dovessero quindi farlo necessariamente i corni della prima linea, i quali
potevano così restare a sostenere l'urto dell'avversario. Le galere d’una stessa nazione in
un’armata multinazionale si mescolavano nei vari corpi con quelle delle altre, a evitare sedizioni e
accordi di fuga. Il posto della galera Reale era, come abbiamo già detto, al centro della battaglia e
quindi di tutto lo schieramento lunare; ai fianchi di questo vascello principale si dovevano mettere,
sia per sua guardia e difesa sia per aumentare la forza di questo nucleo centrale, le galere migliori
e meglio armate; infatti a Lepanto la Reale di Giovanni d’Austria aveva alla sua destra la Capitana
del Papa con Marc’Antonio Colonna, galera che si diceva la Generale e che aveva il ruolo di
Padrona dell’intera armata, e subito dopo quella di Savoia con il de Leiny e Francesco Maria della
Rovere duca d’Urbino, alla sua sinistra la Capitana di Venezia con Sebastiano Venerio e
immediatamente dopo quella di Genova con Alessandro Farnese duca di Parma; seguivano la
Reale, pronte a difenderne la poppa e a soccorrerla, le due principali galere di Spagna, cioè la
Capitana di Luiz de Requesens e la Padrona di Luiz de Acosta. Anche con le migliori galere, ossia
con vascelli tra i più grandi e meglio armati, si dovevano guarnire le due estremità sia della
battaglia – e infatti quella di Giovanni d’Austria aveva all’estrema destra la Capitana di Malta e la
galera papalina di Paolo Giordano Orsini e all’estrema sinistra quella del Lomellini - sia dei due
corni, affinché tutti e tre i corpi dello schieramento fossero non solo ben muniti da ogni lato, ma
nemmeno rischiassero d’allargarsi troppo e quindi di disperdersi; il fianco comunque che in ogni
corpo si doveva munire di più era quello posto sopravvento, affinché, come propugnacolo
difendesse e desse animo a quello meno forte che gli restava sottovento. Un altro principio da
osservare era che i corni andavano formati con galere veloci, perché dovevano sempre tentare
955

d’aggirare rapidamente il nemico o per lo meno di prenderlo di fianco, mentre le galere lente e
dalle qualità nautiche peggiori potevano stare nella battaglia, ossia nel corpo centrale, dove invece
non bisognava mai muoversi dalla propria posizione. Ognuno dei due corni doveva poi essere
comandato da una galera di fanò di persona di molta autorità e molto valore, così come capitani
molto pratici ed esperti dovevano essere posti alle due estremità d'ogni corpo e d'ognuna delle
squadre che formavano i quattro corpi dell'armata. In ognuna delle predette squadre si doveva
anche deputare un capo per ogni decina di galere, il quale avesse cura di farle mettere in
ordinanza, ai loro posti prefissati e in buon ordine; nel formare lo schieramento si dovevano inoltre
impiegare persone pratiche, le quali a bordo di velocissimi velieri andassero intorno all'armata
rivedendone ogni cosa, in modo da rimediare prontamente ai disordini e alle manchevolezze che
costatassero. Tutto questo complesso schieramento andava ovviamente discusso, deciso e
preparato prima del combattimento in lunghi consigli di guerra che si tenevano sulla galera Reale.
La squadra del soccorso, posta, come abbiamo detto, solitamente dietro alla battaglia, doveva
essere composta dalle galere più agili, veloci e manovriere e doveva essere comandata da un
capitano esperto e assennato, capace di discernere subito dove fosse più necessario portare
rapidamente il soccorso; alla battaglia dei Curzolari - oggi però nota come di Lepanto - questo
soccorso era comandato dal marchese di Santa Cruz, allora generale della squadra di Napoli.
Oltre a questo corpo di riserva, bisognava però che in ogni squadra si designassero due galere
ottime e ben armate da porsi a poppa della Capitana della squadra medesima e che fossero così
pronte a soccorrerla in caso essa si trovasse in difficoltà.
Il capitano generale era dunque al centro della battaglia con la sua galera Reale e, a differenza
dello squadrone del generale di terra, il quale era l'ultimo corpo a partecipare al combattimento, sul
mare il vascello Reale o Generale doveva essere tra i primi ad attaccare, perché era solitamente
grosso e potente, in grado cioè d'infliggere al nemico un duro colpo iniziale; così fecero infatti le
due galere ammiraglie nemiche a Lepanto, dove subito si scoprirono e si colpirono
vicendevolmente con le artiglierie e si abbordarono, dando così il via e l'esempio a tutte le altre.
I vascelli da remo medio-piccoli dell'armata, quali galeotte, fuste, bergantini, filuche e fragate, non
potendo stare alla fronte perché non in grado - a causa della loro ridotta mole - né d'urtare il
nemico con vantaggio né di sostenere l'urto delle sue galere, dovevano porsi al di fuori dello
schieramento, cioè dietro i corni, affinché non s’intrecciassero con i remi dei vascelli maggiori
creando così confusione e impaccio; una volta iniziato il combattimento, questi vascelli minori
dovevano però portare pronto soccorso ai maggiori che n’avessero bisogno e dovevano infestare
continuamente il nemico. Le armate ottomane della seconda metà del Quattrocento usavano
assegnare a ogni galera una fusta che la seguisse in permanenza e la sostenesse durante il
956

combattimento; ma nel secolo seguente si preferì appunto concentrare alle spalle i vascelli remieri
minori, molto probabilmente perché ci si era resi conto che il loro intromettersi poteva recare un
grosso e pericoloso impaccio alla tenuta dello schieramento delle stesse proprie galere. Prima che
si arrivasse al combattimento questi vascelli sottili minori potevano invece esser utilizzati come
vascelli esploratori o avvisatori veloci al posto delle fregate, quando si temesse che quest'ultime
potessero essere assalite da vascelli più grandi e quindi ben poco difendersi; oppure al posto delle
galere sui bassi fondali o in quelle strettoie della costa scogliosa in cui le galere non sarebbero
potute passare; al tempo della voga a sensile infatti, come ci spiega il da Canal, una galera sottile
completamente armata pescava quattro piedi (m. 1,39), mentre una fusta - anch'essa armata - solo
piedi 2½ (m. O,87). Dovevano quindi questi vascelli remieri minori addentrarsi nelle fiumare,
aggirare i capi, costeggiare le spiagge di paesi nemici, ecc., godendo in sostanza d’una certa
libertà di movimento:

... ma (stando) di continuo però dietro alle armate e mai non altrimente robbando e saccheggiando
a voglia loro e seguitando el costume che ne' campi terrestri tengono (purtroppo) le squadre di
venturieri. (C. da Canalt. Cit. P. 277.)

Questa era dunque lo schieramento lunato o a mezzaluna; ma, come abbiamo già ricordato,
trovandosi l'armata dotata anche di grossi vascelli tondi d'alto bordo, quali galeoni, navi o
galeazze, questi, poste le giunte alle vele maggiori e spiegate le vele di gabbia per aumentare la
loro potenza velica, si dovevano porre in linea retta non più di mezzo miglio avanti alla fronte dello
schieramento di galere e tanto distanti l'uno dall'altro da coprire tutto il fronte stesso, ammesso
però che fossero in numero a ciò sufficiente. Questi velieri, ben forniti di moschetteria e
d'artiglieria, dovevano presentare il fianco (fr. anche mettre le côté en-travers; ol. zybieden) al
nemico e, al segno dato dal generale e solo a quel punto, cominciavano la battaglia tirando
all'armata avversaria, soprattutto ai suoi corni, cercando di tenerla così lontana dalla propria
armata sottile, ossia dalle proprie galere, e di danneggiarla e indebolirla il più possibile prima del
vero e proprio contatto con essa, contatto nel quale avrebbero invece avuto la meglio i cannoni
delle galere per il vantaggio che questi avevano nel tirare orizzontalmente sul pelo dell'acqua, cioè
i più basso possibile, tiri che erano i più micidiali perché andavano a sfondare l'opera viva del
nemico. Questa supremazia delle galere nel contatto ravvicinato, specie in totale mancanza di
vento, è ricordata anche dal de Bourdeilles, laddove egli dichiara di essersi molto meravigliato del
poco sforzo ed effetto che fecero le 12 galere di Spagna, le quali, pur presenti al lungo assedio
d’Ostenda (1601-1604), non ne avevano mai impedito l’accesso ai vascelli di soccorso nemici,
ragion per cui gli spagnoli impiegarono tanto tempo a impadronirsene:
957

… non dico durante l’inverno, poiché allora esse potevano perdere la loro ragion d’essere e sapere
e forza; ma d’estate, durante le calme e le bonacce che sopraggiungono, quando non c’è galera
che non tenga agevolmente testa a sei o sette vascelli tondi, come ho visto io quando ero alla
Rochelle, dove vidi l’armata del conte di Montgomery, ammontante a cinquanta vascelli,
indietreggiare davanti a sei galere che le andavano a cannoneggiare da vicino per ordine del
nostro generale; al diavolo se le altre osavano muoversi! (P. de Bourdeilles. Cit.)

A questo gran ruolo svolto dalle galere francesi del generale Antoine Escalin nel corso dell’assedio
della Rochelle abbiamo già più sopra accennato; va bene che l’accesso a quel porto era reso
particolarmente difficile, non tanto dalla forte catena che lo chiudeva, quanto dal non trattarsi di un
havre d’entrée, cioè di un porto accessibile in qualsiasi momento, bensì di un havre de barre ou de
marée, ossia dall’accesso condizionato dall’alternarsi di bassa e alta marea. La suddetta tattica di
porre i grossi vascelli quadri alla fronte dell'armata fu adoperata per esempio, oltre che a Lepanto,
alla già menzionata battaglia delle isole Terzeire, dove il marchese di Santa Cruz così sfruttò infatti
le numerose e grosse artiglierie di grossi velieri di cui disponeva, quali il grandissimo galeone S.
Matteo, il galeone S. Martino e la grande nave del capitano Bovadilla. Ovviamente i vascelli tondi
si ponevano in questa linea avanzata solo quando il vento era favorevole o quando si era in
bonaccia, perché col vento contrario si sarebbe rischiato di vederli retrocede addosso alle proprie
galere retrostanti e così scompaginarle; bisogna infatti tener presente che, all'epoca di cui stiamo
parlando, la guerra era soprattutto guerra di stabili ordinanze e schieramenti così in terraferma
come sul mare e pertanto mantenere i propri ordini e file e rompere quelli del nemico era il primo
obiettivo che ci si proponeva nelle battaglia, il che valeva ancor di più per i grossi velieri pesanti e
poco manovrieri del tempo, i quali erano dunque fatti per un tipo di combattimento da fermo e
quasi terrestre.
Quanto abbiamo appena detto non significa però che il movimento non fosse ricercato, anzi,
proprio a causa della generale staticità, molto spesso delle squadre che riuscissero a cogliere il
nemico di fianco o addirittura alle spalle portavano in breve alla vittoria; infatti, avendosi il vento
fresco a favore, si usava pure porre i navigli a vela quadra in una linea lunga e traversa che
andasse decisamente e violentemente a investire la formazione delle galere nemiche, sparando a
quelle bordate dai loro fianchi irti di grosse artiglierie, e poi, poggiando od orzando sempre con
l'aiuto d’un vento tanto gagliardo da potersi reggere e girare, presentare al nemico l'altro fianco per
nuove micidiali bordate, le quali avrebbero anch'esse provocato nelle galere avversarie una
grandissima rovina; le galere avversarie si sarebbero infatti disordinate e scompigliate e, se il
vento a loro contrario fosse stato particolarmente forte, buona parte d’esse avrebbe corso
addirittura il pericolo d'essere travolta e affondata dall'urto di detti grandi velieri, sempre meno
potendo sostenere un simile scontro quanto più forte era detto vento contrario. In caso infine di
vento debole l’urto predetto sarebbe stato egualmente svantaggioso per le galere; per esempio a
958

bordo dei velieri si usava prolungare il pennone di bompresso, ossia attaccarlo sul suo albero non
orizzontalmente, bensì in alto verticalmente e ciò perché altrimenti la sporgenza laterale di tale
verga avrebbe impacciato l’abbordaggio del nemico; bene, in previsione d’un urto di prua
s’allentava l’albero così appesantito, provocandone quindi, a seguito di detto urto, il violento e
molto offensivo crollo sul più basso vascello nemico. Se, a schieramento già fatto, il vento
cambiava o cessava del tutto, bisognava trovare il tempo di togliere da mezzo i vascelli tondi
rimorchiandoli in un luogo non pericoloso per quelli sottili, vale a dire da dove questi non se li
vedessero a un certo punto venire addosso spinti da un nuovo vento e dove non fossero poi
facilmente raggiungibili dalle galere nemiche; in caso di bonaccia i vascelli quadri si ponevano però
soprattutto ai fianchi dell'armata sottile, venendone a costituire così i sopraccorni e fungendo da
baluardi dell'armata stessa, e in tal modo le nostre galere potevano essere offese dal nemico solo
per prua, perché, se i nemici avessero tentato d’aggirarle, si sarebbero trovati esposti alle grosse
artiglierie dei fianchi di detti velieri e le galere, come sappiamo, non disponevano d’artiglierie da
fiancata in grado di controbattere la lunga gittata di quei grossi calibri, anzi nemmeno il pezzo di
corsia, il più grosso della galera, poteva generalmente gareggiare con certe grossissime bocche
da fuoco che erano quasi sempre presenti sui vascelli d'alto bordo. Oppure, sempre in caso di
bonaccia, se le nostre galere erano inferiori di numero a quelle del nemico, si soleva anche
intramezzare i velieri alle galere, in modo che le difendessero come a terra forti e bastioni
difendevano un esercito; altrimenti i vascelli tondi se ne stavano in disparte, ma inviavano le loro
scialuppe cariche d’archibugieri dietro le poppe delle loro galere in attesa di ricevere ordini da
queste.
Questo forte propugnacolo di vascelli grossi fu il principale strumento della vittoria che la Lega
cristiana ottenne nel 1571 sui turchi a Lepanto; esso era in quel caso costituito da 6 galee grosse
veneziane poste in larga linea circa un miglio davanti alla fronte dello schieramento delle galere
cristiane; gli ottomani le sottovalutarono e le loro galere si buttarono egualmente all'attacco di
quelle cristiane, passando tra i sei detti grossi vascelli remieri, e molte di loro furono così dai
grossissimi cannoni di queste ultime talmente sconquassate e fracassate, tanto di fronte quanto
poi di fianco e di dietro, mentre i circa 500 archibugieri che ciascuno di quei mastodontici vascelli
pure portava a bordo aumentavano la strage degli equipaggi turchi, che, disordinate e indebolite
ormai le loro schiere, le galere ottomane furono circondate e battute con ardire e vantaggio dal
resto dell'armata cristiana sino ad restarne completamente sbaragliate. Le uniche galere turco-
barbaresche che riuscirono a sottrarsi alla strage furono, come si sa, a destra alcune del
governatore d’Alessandria Šuluk Mehmed, tra cui quella dell’esperto e già da noi ricordato corsaro
Karagj Alì, e a sinistra quelle d’Uluch-Alì, il rinnegato calabrese di cui pure abbiamo già a lungo
959

parlato; Siroco, ben conoscendo quegli scogli e quei fondali, non solo schivò le bordate delle galee
grosse veneziane, ma fece gran danno al corno sinistro cristiano formato sostanzialmente dalla
grande squadra di Venezia e governata in quella occasione da Agostino Barbarigo e da Marco
Quirini; costoro, avendo invece poca conoscenza di quei mari e di quelle secche, si lasciarono
circondare e disordinare dal nemico, restandovi ucciso il Barbarico, e le galere turco-barbaresche
passarono senza danno tra le secche e si salvarono; Šuluk Mehmed restò però preso e, a causa
delle mortali ferite riportate, alcuni giorni dopo la battaglia chiese e ottenne dal nemico d’essere
finito; preso fu pure il corsaro Karagj Alì, mentre Hassan Bey ed Hassan Pasha, figlio del
Barbarossa, si fecero uccidere combattendo valorosamente.
A Lepanto i cristiani misero in campo, oltre alle sei predette galee grosse veneziane e secondo i
dati del Contarini, 203 galere delle 207 partite da Messina, perché prima della battaglia, come
abbiamo già accennato, quattro galere furono disarmate per rinforzare d’uomini le altre; 84 di
queste 203 galere - tra spagnole, napoletane, siciliane, genovesi, savoiarde e maltesi - erano state
mandate da Filippo II, 13 - di cui 12 toscane - dal Papa, 106 da Venezia; c’erano poi alcune fuste e
brigantini, una settantina di fregate e infine 22 navi da trasporto della corona di Spagna e 2 di
Venezia sotto il generalato di Cesare de Avalos. I combattenti cristiani imbarcati, marinai e
buonevoglie escluse, erano, a voler riportare i numeri del de Bourdeilles, il quale però non si trovò
in quella battaglia, soprattutto in quanto a quel tempo era ormai già irrimediabilmente invalido,
12mila italiani, 8mila spagnoli, 3mila tedeschi e 3mila venturieri, tra cui Francesco Maria della
Rovere duca d’Urbino imbarcato sulla Capitana di Savoia e Alessandro Farnese duca di Parma su
quella di Genova; delle fanterie papaline era generale Onorato Gaetani, di quelle italiane tutte
Paolo giordano Ursino duca di Bracciano; di quelle veneziane, essendo rimasto a terra malato il
loro generale Sforza Pallavicino, erano comandanti i colonnelli Prospero Colonna, Gaspare
Toraldo e Pompeo Giustini da Castello; di quelle tedesche erano colonnelli il conte Alberico di
Lodrone e il conte Vinciguerra da Arco e di quelle italiane del re di Spagna, tra cui 500 miliziani del
battaglione di Calabria più altri di quello di Puglia, Sforza conte di Santafiore, coadiuvato dai
colonnelli Paolo suo fratello, Sigismondo Gonzaga e il conte di Sarno, essendo invece al comando
delle fanterie spagnole quattro mastri di campo e cioè Pedro de Padilla, comandante il terzo di
Napoli con mille dei suoi uomini, Diego Enriquez di quello di Sicilia con 500 dei suoi, Miguel de
Moncada di quello di Sardegna e Lopez de Figueroa d’altri 2mila fanti. Questa battaglia, la più
famosa che si sia mai combattuta per mare, avvenne in verità non nelle acque di Lepanto, come
nei secoli seguenti sempre più si credé, ma nel golfo di Patrasso, a ridosso cioè delle cinque
isolette dette Curzolari (anticamente Echinadi) e poste alla foce del fiume acarnano Aspropotamo
(anticamente Acheloo) e quindi di fronte all'isola d’Itaca; infatti a sui tempi, come abbiamo già
960

detto, era detta battaglia dei Curzolari e non di Lepanto. Questa rada [fr. parage; ol. (zee-)streek]
già aveva avuto in precedenza non poco nome perché era la stessa dove nel 1538, nell’ambito
della guerra poi culminata nella battaglia della Prèvesa, era avvenuto un altro importante episodio
bellico, questo però favorevole agli ottomani. Il famoso corsaro Barbarossa, stretto con i suoi
vascelli su quella costa dalla molto più numerosa armata d'una coalizione veneto-papalino-
imperiale, era riuscito a sottrarsi all'accerchiamento e a fuggire con tutta la sua squadra con uno
stratagemma che descriviamo in altro punto di questa trattazione. Secondo i veneziani erano stati
gl’imperiali a farselo sfuggire di mano e quindi lo scorno doveva essere tutto loro; sennonché nel
1571, durante la molto più famosa battaglia, fu indiscutibilmente proprio la squadra veneziana a
non sapersi opporre alla fuga di quell'unica porzione delle galere ottomane che riuscirà a salvarsi.
Per tornare alle sei galee grosse veneziane presenti a Lepanto, cominceremo col notare che già il
31 ottobre 1571 il Bonrizzo così scriveva da Napoli al suo senato:

… In questi giorni sono arrivati e ripartiti di qui tre cavalieri spagnuoli mandati da don Giovanni
rispettivamente all’Imperatore, al Re Cattolico e a Venezia. Sono stati concordi nel magnificare la
condotta dei nostri vascelli e nell’attribuire la decisione della vittoria al fuoco micidiale delle nostre
galee grosse… (N. Nicolini. Cit.)

Probabilmente, se anche non avessero avuto questi 6 vascelli, i cristiani a Lepanto avrebbero vinto
ugualmente, ma certo a prezzo di molto più sangue e perdita di moltissime galere; il ruolo decisivo
di quelle fu poi universalmente riconosciuto e lodato, come si legge per esempio in un’attestazione
autografa di Marc’Antonio Colonna riportata dal Quarti:

… Non potendo io mancar di quel che richiede la verità e il merito del clarissimo signor Francesco
Duodo, capitan generale delle galeazze, dico che nella giornata per la bontà di Dio ottenuta contra
l’armata turchesca dette galeazze furono al parer mio gran parte della vittoria, atteso che,
essendosi spinte avanti la nostra battaglia, oltre al dar terror e danno all’inimico con l’artigliaria da
prima tirata, causorno che detta armata venisse a rincontrare ripartita in più capi e disordinata al
combattere per non accostarsi a quelle. In fede di ciò… Marcantonio Colonna… (G. A. Quarti. Cit.)

Racconta il Sereno che, ringraziando i suoi capitani dell’impegno profuso nella battaglia, Giovanni
d’Austria volle farlo particolarmente al Duodo:

… Più particolari grazie rendeva a Francesco Duodo, delle magnifiche galeazze capitan generale,
le quali confessando essere state potissima cagione della felice vittoria, come quelle che prime
gl’inimici avevan disordinato, con una patente che gliene fece di onoratissimo tenore volle che al
mondo fosse manifesto… (B. Sereno. Cit. P. 212.)

Non bisogna pensare che la vittoria cristiana fosse arrivata insperata, anzi gli alleati se
l’aspettavano perché erano da loro ben conosciute diverse caratteristiche negative dell’armata
degli ottomani, le quali si andavano ad aggiungere a quelle allora invece meno note e considerate
961

che abbiamo già descritto e relative soprattutto all’inferiorità numerica e operativa dell’artiglieria di
prua delle loro galee e inoltre alla decisiva presenza delle sei galee grosse veneziane irte di
bocche da fuoco. Ecco per esempio quanto tra l’altro leggiamo in un incarico che il cardinale
Alessandro Farnese (1520-1589), vice-cancelliere dello Stato della Chiesa, nel 1571, qualche
tempo prima dell’epocale battaglia, aveva dato a un suo emissario inviato a Civitavecchia ad
attendervi il passaggio della squadra spagnola di don Giovanni d’Austria mandato a capitanare
l’armata della Lega cristiana:

… nè havemo pensiero che l'Altezza Sua non sia per havere la più segnalata vittoria che si habbia
mai havuta a memoria d'huomini di mare, atteso che l'armata christiana non solo è il più bello e
maggior numero de' legni grossi e fottili atti a battaglia che ci sia ancora visto, ma porta la più
nobile, per consequenza & miglior gente, di tutta l'Europa. Né ci ha da far stare sospetti il maggior
numero de' legni e gente barbara, perche questa va per commandamento e per forza alla
battaglia, oltre il non essere così ben armata né i Soldati loro atti a maneggiare schioppi ma solo
archi e scimitarre senza alcuna difensione. I nostri all'incontro con gl'archibugi fanno la loro fattione
e prima hanno sparate quattro botte che quelli una e con le pavesate si riparano, oltre li petti di
ferro. Le sei galeazze solamente che conduce Sua Altezza per antiguardia è opinione che
debbano mettere in disordine e confusione tutta l'armata turchesca (Del tesoro politico la parte
terza e quarta etc. Cit. Pp. 93-94).

Ed ecco poi nel Tomasoni:

… E parimente s'è venuto a quest’uso dell'archibugio, ne’ quali chi sarà più essercitato che l'inimico
e l'userà ‘sì che più da lungi comminciano ad offendere e perturbare (cosa che fanno hoggi li
spagnuoli con li suoi moschettoni e si può credere si farà un dì con li pezzi maggiori) haverà
sempre il migliore della battaglia, il che s'è visto per isperienza nella memoranda vittoria havuta gli
anni a dietro dell'armata turchescha, la quale non per altro s'ottenne che per esserci di gran lunga
superiori li christiani all'infedeli di numero e pratica; e, ‘sì come s'ottenne quella vittoria per il
vantaggio di numero ed uso d'archibugio e vantaggio delle pavesate, così si saria ottenuta per il
vantaggio degli ordini de i legni, se le galeazze, che del loro disordine furno causa, non havessero
dato tempo da riordinarsi col procedere loro, più lontano che non conveniva, dalla fronte e battaglia
de’ christiani (Luca Antonio Tomasoni da Terni, Discorso militare in La seconda parte del Thesoro
politico etc. Pp. 56 verso e 57 recto.Vicenza, 1602)

Dunque, oltre alla predetta inferiorità pirobolica, gli altri difetti che rendevano a Lèpanto le galee
ottomane inferiori a quelle della Lega cristiana erano il disporre di pochi archibugi, prediligendo gli
archi, incompatibili con pavesate difensive, l’esser inoltre quei pochi archibugieri molto lenti a
ricaricare nella sproporzione di 1 a 4, il non avere impavesate difensive né i loro combattenti
usavano i petti di ferro.
Bisogna precisare che sia il Colonna sia il Sereno, non essendo veneziani, bensì ponentini,
chiamavano impropriamente ‘galeazze’, cioè alla loro maniera, le galee grosse di Venezia. Che i
veneziani considerassero le loro galee grosse del trafego impiegabili anche in guerra e con
successo non era in realtà una nuova idea di quei tempi; infatti, per fare un esempio, ecco quanto
962

fecero quasi un secolo prima, cioè nel 1498, quando si ebbe notizia che i turchi stavano per
mandare una grossa armata alla conquista dell’isola di Rodi, allora storica sede dei cavalieri di S.
Giovanni:

… Ai 17 del detto marzo sono state messe (in navigazione) le galee di Levante, 4 per Barutho
(‘Beirut’) e 4 per Alessandria, sebbene (la cosa) sia in anticipo. Si soleva metterle da metà aprile a
metà maggio, ma, giungendo voce che il Turco sta facendo una grande armada contro Rhodi e
temendosi anche per l’isola di Cipro, sono state messe (in navigazione) adesso, affinché siano
dotate per tempo di ufficiali e che (quindi) possano andar in armata in caso de bisogno (B.
Malipiero, cit. Parte prima, p. 159).

Si fece all’incirca lo stesso l’anno successivo:

… Ai 4 d'aprile sono state messe 4 galee per Barutho e 4 per Alessandria, così per mandarle a i
loro (consueti) viaggi come per averle all’ordine in caso di bisogno, confermandosi da ogni banda
che il
Turco ha in essere 60 galee da far uscir fuora…(Ib. P.162).

C’era poi a quel tempo una nona galea grossa che faceva il viaggio di Aqua morta (oggi St. Tropez
in Costa Azzurra) e una decima che invece percorreva quello di Fiandra. Contro la minaccia turca
si misero quell’anno insieme 46 galee sottili e inoltre, in caso di bisogno, si poteva anche contare
sulle 10 grosse predette, anzi di più:

Ai 17 di Giugno è stato deliberato d'armare 11 galee da mercato, messe ai viaggi di Baruthi


(‘Beirut’), Alessandria e Fiandra per andare contro i turchi con titolo di sopraccomiti, con i salarii e
le utilità solite, e due ‘nobili da poppa’ per una…
Per avvisi da Scio si intende che il Turco manda la sua armata ai danni della Signoria (di Venezia);
per cui è stto dato ordine che le tre galee de Fiandra siano scaricate immediate e armate insieme
con
3 galee sottili e che vadano in armata con le otto che resta da armare…
È stato comandato a Zuane Moresini, duca in Candia, che sotto pena di 1.000 ducati e privazione
del Reggimento (‘governatorato’), parta subito con le galee grosse… (Ib. P. 164-167. Traduz. dal
veneziano.)
(28 novembre:) Il capitano generale (Marchionne Trivisan) ha ridotto l'armata in 32 galee sottili e
14
Grosse (Ib. P. 189).
(Febbraio 1500:) … Le galee grosse sono più stimate dai turchi che tutto il resto dell'armata della
Signoria (di Venezia) (Ib. P. 198).

Candia non era uno scalo finale delle galee grosse commerciali veneziane, ma solo uno
intermedio; evidentemente, a causa delle nuove precauzioni di guerra, era stato ordinato che si
fermassero là in attesa di possibili impieghi bellici. Lo stipendio di sopraccomito, titolo che dai
documenti d’archivio risulta avessero i comandanti delle galee sottili veneziane sin dal Trecento, si
dava dunque, come in questa citazione abbiamo visto, anche ai capitanei delle galee grosse da
mercato quando quei legni si armavano per uso bellico; per la precisione, lo stipendio era lo stesso
963

ma, per quanto riguarda il titolo, non si trattava in realtà di quello di sopraccomito bensì di quello di
governatore di galea grossa, come leggeremo poi in questa notizia del 15 settembre successivo:

È stato deliberato di fare 14 governatori de galee grosse, i quali abbiano salario di sopraccomiti…
(Ib. P. 180.)
Si erano fatti scrivere per governatori delle galee grosse uomini insufficienti, poveri e di poca
esperienza e fu (pertanto) deliberato che il Collegio elegesse di quelli che da 10 anni in qua sono
stati capitani di galee e navi; e furono eletti tutti uomini da conto e in 10 giorni montarono sulle
galee grosse e andarono via (ib.)

Nella loro ordinarietà commerciale le galee grosse veneziane erano comandate dunque non da un
sopraccomito bensì da un capitaneo, il quale si occupava però dei soli aspetti nautici del viaggio,
mentre un patrone l’affiancava per la gestione di quelli commerciali, quindi occupandosi sia del
carico di merci sia delle provviste di bordo. Era giunta però nel frattempo voce che l’obbiettivo degli
ottomani sarebbe però potuto anche essere non Rodi ma Corfù:

… del che i corfioti avertiti, offrirono a la Signoria di armare a loro spese 60 grippi, dando loro la
Signoria il pane e le artegliarie; e con questi 'secondi avvisi, è stato deliberato di accettare l'offerta
dei Corfioti… (ib.)

Sarebbe stato interessante qui sapere con quali minori canne d’artiglieria si armavano i grippi a
quell’epoca; ma, tornando all’uso bellico delle galee grosse, ancora nel 1499, nell’ambito dei
preparativi precauzionali che a Venezia si fecero nel timore di un attacco portato a Corfù o a
Napoli di Romana dall’armata turca, il capitanio generale da mar Antoni Grimani tra l’altro così
ordinò:

Ai 22 di luglio è uscita (dal Bosforo) l'armata del Turco di 300 vele e ai 24 veleggiava nel golfo di
Corone; e il capitanio generale fece partire il capitanio (delle navi armate Alvise) Marcello con 34
navi e 12 galee grosse e andarle contra in tre squadroni, con quattro galee sottili per galea grossa;
e il generale è restato con 34 galee sottili (ib. P.171).

Dunque in quel tempo già c’era un uso bellico tattico delle galee grosse, basato evidentemente
anche allora sull’uso delle artiglierie pesanti che detti vascelli potevano imbarcare ed usare. Il
successo che tre quarti di secolo dopo si ottenne con quelle usate a Lepanto, sulle quali, secondo
una relazione francese, pur costituendo esse la prima linea dei cristiani, restarono uccisi solo tre
uomini, fece sì che l'anno seguente la Lega cristiana si dotò a spese comuni di 40 navi grosse da
trasporto cariche di munizioni e provvisioni da guerra, le quali seguivano l'armata e, quando
appunto nel 1572 le galere di Venezia e quelle papaline offrirono battaglia a Uluch-Alì, furono
poste come propugnacoli davanti alle galere proprio alcune di queste navi irte di grossi cannoni;
ma Uluch-Alì, compresa la lezione dell'anno precedente, da prudente capitano rifiutò lo scontro e si
disimpegnò. Perché poi si volevano usare stavolta grosse navi e non più galee grosse?
964

Probabilmente ci si era resi conto che queste, quando armate a guerra, erano sì delle potentissime
fortezze galleggianti stracolme d’uomini e artiglieria, ma presentavano pure alcuni limiti importanti;
erano infatti dei vascelli lenti e impacciati e non dei vascelli manovrieri che potevano andare a
raggiungere abbastanza facilmente da soli la propria assegnata posizione, per poi variarla a
seconda del vento e delle mosse dell'avversario; infatti, essendo più alte di puntale e più larghe
delle galere, ma non tanto da poter essere considerati dei vascelli d'alto bordo, non facevano parte
né della categoria dei vascelli tondi né di quelli sottili, non offrendo quindi né le qualità nautiche dei
primi né i vantaggi dei secondi. Senza contare poi che le grandi navi erano noleggiabili con
embargo dappertutto, mentre le galee grosse e le galeazze esistenti erano poche e, al di fuori dei
veneziani, pochi ne erano ufficiali esperti.
Un altro esempio del buon utilizzo bellico dei vascelli quadri e della importanza delle loro grosse
artiglierie risale alla lega anti-francese tra Papa Giulio II e Venezia nel 1510 e alla conseguente
battaglia delle Fosse di Villamarino, località della riviera ligure di levante poco lontana da Genova;
si erano colà stanziate 17 galere della Serenissima e sei del Papa sotto il comando del già
ricordato veneziano Hieronimo Contarini, detto Grillo, e con l'intenzione di porre l'assedio marittimo
a Genova, città allora occupata dai francesi e che, per il suo sterile entroterra e la difficoltà delle
vie d’approvvigionamento terrestre, non avrebbe potuto sopportare un blocco marittimo più lungo
d'un mese. Il Contarini aveva davanti a sé uno scanno (vn. scagno), ossia una duna di rena nel
mare, la quale si diceva anche cavallo e che lo proteggeva dall'eventuale approccio di vascelli di
pescaggio maggiore di quello delle galere, cioè di vascelli detti allora - con terminologia ancora
medioevale – carrache e barze armate, ossia vascelli quadri grandi e medi. Per prevenirlo i
francesi uscirono dal porto di Genova con sei galere e altrettante carrache armate di grossi pezzi
da 100 libre di calibro, come allora si usava, e andarono a fronteggiare il Grillo; per superare
l'ostacolo della duna di sabbia, furono messe in acqua le sei barche delle carrache, ognuna armata
con un cannone da 30 libre, e queste, galleggiando sullo scanno, si misero a bersagliare le galere
del Contarini, forti della protezione delle loro proprie galere, le quali erano rimaste più indietro a
causa di quei bassi fondali ed erano a loro volta protette dalle carrache armate fermatesi
necessariamente ancora più indietro. Il Contarini vedeva il palamento delle sue galere spezzato
dai tiri dei pezzi da 30 delle barche, le quali egli invece non riusciva a colpire data la loro
piccolezza, né poteva a quelle avvicinarsi, aggirando lo scanno, perché sarebbe entrato così nel
campo di tiro dei pezzi da 100 delle carrache francesi, senza che potesse egli controbatterle con i
suo pezzi di corsia, i quali erano da 50 solamente né avrebbero potuto del resto esser maggiori. Le
barche francesi sparavano il loro pezzo, poi le carrache le tiravano indietro con una lunga fune,
affinché i loro cannoni potessero essere ricaricati in tutta tranquillità, e infine si spingevano di
965

nuovo sulla duna perché sparassero di nuovo. Così il Contarini, per evitare la rovina dei suoi, fu
costretto a rinunciare al suo proposito e ad abbandonare quei luoghi con non molto onore.
Nonostante il predetto e altri episodi, a causa della loro limitata manovrabilità, l'importanza dei
vascelli tondi in battaglia tardò ancora molto a essere apprezzata e per i primi tre quarti del
Cinquecento si continuò a considerarli utili a un’armata soprattutto in quanto rifornivano le galere di
provvisioni e di fanteria, potendosi solo nel 1572 individuare un primo teorizzatore del vantaggioso
loro uso frontale in battaglia in luogo delle galee grosse in Adriano Bragadino, allora capitano delle
navi veneziane, il quale appunto in un suo Discorso lo suggeriva al capitano generale dell’armata
veneta Jacopo Foscarini; per esempio nel 1538, quando si volle mettere insieme una lega anti-
ottomana tra Carlo V, il papa, re Ferdinando e il doge, il primo non disponeva d’un numero
sufficiente di galere per far fronte al suo impegno, il quale era per la metà di tutta l'impresa, e ben
suppliva però con le barze armate, anche qui intendendosi per queste vascelli tondi in generale;
ciò non di meno molti lo criticarono perché dicevano a ragione che in questo modo l'armata
cristiana sarebbe stata come divisa in due parti distinte e mal atte a unirsi per combattere; ma che
altro si sarebbe potuto fare, visto che anche negli anni seguenti la Lega cristiana si trovò a disporre
solo di 150 galere al massimo e 60 barze contro le 300 galere del sultano? Questa netta inferiorità
numerica di forze fu il principale motivo per cui allo scontro generale, avvenuto poi a Lepanto, si
arriverà così tardi.
Il primo significativo scontro tra vascelli tondi e vascelli sottili nel Mediterraneo si può dunque
considerare quello che avvenne nella seconda metà del secolo - la data precisa ci è ignota – al
quale partecipò l’ufficiale d’artiglieria di galera estense Eugenio Gentilini, il quale comunque era
nato nel 1529. Egli racconta che, trovandosi allora al servizio dei cavalieri di Malta da venturiero, si
trovava in mare con quelle galere e di conserva con le sette di Sicilia, inclusa la loro Capitana, e,
imbattutisi in cinque bertoni inglesi, vollero attaccar battaglia perché allora la regina d’Inghilterra
era in guerra con la Spagna e quest’ultima, come si sa, era una strenua difenditrice dell’ordine
gerosolimitano; quindi doveva trattarsi del periodo 1568-1571. Ben presto però dovettero ritirarsi
perché i bertoni, per nulla intimoriti dal numero, rispondevano colpo su colpo, anzi uccisero
alquanti uomini delle galere incluso un nipote del viceré di Sicilia, il quale per fatalità si trovava a
bordo in gita marittima. Una più combattuta battaglia avvenne poi nei pressi dello stretto di
Gibilterra il 24 aprile del 1590, quando cioè 12 galere comandate da Gioan Andrea d’Oria, quello
stesso capitano generale genovese che quasi vent’anni prima era stato tanto criticato per il suo
comportamento poco coraggioso a Lepanto, avevano colà attaccato 10 vascelli tondi inglesi che
tornavano dai loro traffici del Levante con l’impero ottomano, potenza con cui l’Inghilterra aveva
ottime relazioni, tant’è vero che nelle memorie della sua schiavitù in Barbaria il du Lisdam tra l’altro
966

ricorda che nel 1607 un vascello provenzale che gli stava dando un passaggio da Cagliari a
Livorno fu inseguito sino all’isola d’Elba da un gros vaisseau armé, moitié Turcs et Anglois (cit.);
ma quella del d’Oria non risultò esser stata una buona idea, perché per ben sei ore le sue galere
furono talmente maltrattate dalle bordate delle artiglierie inglesi da doversi alla fine ritirare e
lasciare gl’inglesi completamente vincitori. Questa sconfitta fu comunque nulla rispetto a quella
ben più grave che il 25 aprile del 1607 la marineria spagnola subirà da parte di quell’olandese nello
stesso stretto di Gibilterra; solo nello scontro dei primi di ottobre del 1624 la flotta spagnola di
Cadice comandata da Francisco de Ribera – 22 galeoni grossi e 3 petacchi – riuscirà a scontrarsi
in quelle acque con un convoglio olandese di 82 vascelli – in maggioranza fortunatamente
mercantili – senza restarne soccombente.
Nel disporre in linea retta di battaglia un’armata oceanica, vale a dire un’armata composta di soli
vascelli tondi, si osservava il principio opposto a quello in uso per le galere mediterranee; cioè con
i vascelli più grossi si costituiva il corpo dello schieramento stesso e avanti a questo si ponevano i
vascelli più piccoli, più agili e capaci d’aggirare, assaltare di fianco, cambiare improvvisamente
rotta o fuggire celermente, quali per esempio le urche. Proprio per difendere un fronte di galeoni e
grosse navi armate dall'assalto di questi vascelli più piccoli e agili conveniva mettere ai suoi corni
vascelli ancora più agili, quali erano per esempio tali le cosiddette caravelle d'armata, caravelle
cioè che i re del Portogallo usavano mandare ad aspettare la flotta proveniente dall'India perché la
difendessero dagli attacchi dei corsari inglesi e roccellesi ... et sono così agili nel voltare come se
si voltassero con i remi...(P. Pantera. Cit. P. 43.)
Compito di questi velieri minori era dunque il tentare di circondare la armata nemica, d'impedirle di
manovrare e infine eventualmente anche di sottrarsi velocemente finché i propri galeoni (bertoni,
nel caso degl’inglesi), vascelli nei quali nel Cinquecento consisteva il nerbo dell'armate oceaniche,
non fossero arrivati all'abbordaggio:

... non altrimenti usano i cacciatori di uccelli, che mandano gli smerigli (‘falchetti’) innanti a far
trattener e romper il volo all'uccello che fugge, sin che il falcone che ha da fare la presa arrivi con il
men veloce volo. (B. Crescenzio. Cit. P. 527.)

Come abbiamo già ricordato, nel Quattrocento, quando cioè la navigazione transatlantica ancora
non esisteva, grandi armate di 40/100 velieri costituite in prevalenza di ‘caravelle’, ossia di vascelli
tondi atlantici, erano allestite dai sovrani iberici e si aggiravano anche nel Mar Tirreno per
apportare soccorsi di soldatesche e di provvisioni militari agli aragonesi di Napoli e Sicilia, sempre
impegnati a fronteggiare le invasioni francesi; per esempio nel 1481 l’armata portoghese di vascelli
a vela quadra inviata al soccorso di Otranto, assalita dai turchi, si componeva di 19 caravelle e di
una nave. Nei primi mesi del 1495, Ferdinando il Cattolico, nell’ambito della guerra che l’opponeva
967

agli angioini per il possesso del regno di Napoli, mandò a Messina un’armata di ‘caravelle’, della
quale era capitano generale l’italiano conte di Trivento, e un legno che il primo marzo giunse dalla
Sicilia a Corfù riferì al capitano generale del mare veneziano, allora Antonio Grimani, il quale colà
aveva raccolto la sua armata perché vi fosse raddobbata, d’aver contato 54 ‘caravelle’, di cui
l’ammiraglia del Trivento di ben duemila botti e una dozzina dalle 400 botti in su, non trattandosi
quindi certamente, perlomeno per quanto riguarda quest’ultime, effettivamente di caravelle
propriamente dette, perché come sappiamo, queste non raggiungevano assolutamente portate
tanto elevate; questi velieri poi, congiuntisi a 20 galere del re di Napoli Ferrandino, andranno a
sbarcare in Calabria soldatesche, le quali prenderanno ai francesi molte terre (‘abitati’), e il 24
marzo successivo saranno raggiunti a Messina da un’altra armata spagnola comandata da
Gonzalo Hernández de Aguilar e composta di circa 40 caravelle o vero barze di Spagna, di cui 15
di 400/500 botti di portata e le altre di 200/400; più avanti il Sanudo, riferendosi ancora a detta
armata del re di Castiglia a Messina, scriverà più volte che trattavasi di barze et caravelle, cioè
vascelli a vela quadra e vascelli a vele latine con quadra di trinchetto. Ancora nel 1543, l’armata
che il predetto conte di Alcaudete portò in Barbaria era formata in prevalenza non da galere, ma da
22 vascelli quadri, tra i quali 10 grandi navi inclusa la Capitana , cioè una genovese
particolarmente bella (suntuosa), di cui era il padrone tal messer Francesco d’Aosta, e la Patrona,
ossia una biscaglina, e ciò era allora possibile in quanto si trattava in effetti semplicemente di
trasportare un esercito oltremare e ciò senza temere un incontro con l’armata turca, la quale a
quell’epoca non s’era fatta ancora tanto minacciosa. Nonostante il loro gran numero, questi velieri
non costituirono però mai nel Mediterraneo il nerbo di un’armata in battaglia, ruolo che era - e lo
sarà ancora per lungo tempo - riservato ai vascelli remieri, in quanto tanto più manovrabili e di
molto più rapido intervento di quanto fossero allora i velieri.
Unici vascelli da remo in grado di sostenere la forza dei flutti oceanici erano le galeazze, da usarsi
però in guerra sempre e solo come potenti batterie avanzate, e infatti, come sappiamo, esse
furono incluse nell'Invencible Armada che tentò invano di piegare l'Inghilterra, armata sconfitta, a
dire il vero, più dalla sfortuna del maltempo che dagl'inglesi, e sembra che fossero già presenti
anche nell'armata con cui la Spagna aveva conquistato le isole Azzorre nel 1582. Ma tornando ora
alle galere e alla nostra guerra mediterranea, diremo ancora che, in caso si accettasse battaglia
col mare agitato (il che era però da evitarsi sempre per molti rispetti), gli schieramenti non si
potevano ovviamente più mantenere e perciò in quel caso ogni galera era libera d'andare a
combattere contro una delle nemiche a sua scelta e come meglio credeva; certo, riuscendosi a
guadagnare il vento, bisognava far di tutto per diminuirne l'impeto, per esempio serrando la vela in
due parti sin quasi all'antenna, il che in veneziano si diceva ghindar l'angelo od issare l'angelo per
968

la forma che la vela stessa andava così ad assumere, oppure bordeggiando o anche rastellando
(vn. facendo scia) nell'acqua con una metà del palamento, mentre contemporaneamente si
continuava a vogare, ecc. In simili condizioni del mare non si doveva temere che il nemico avesse
più galere dei nostri, perché, una volta urtatesi due galere, era poi molto difficile che riuscissero a
restare unite; ma in sostanza era molto difficile far buona giornata con un simile mare e quindi per
combattere conveniva senz'altro aspettare il bel tempo. Inoltre prima d’ordinare alla sua armata di
porsi in ordine di battaglia, il buon capitano generale doveva scrutare il tempo e accertarsi che non
stesse per piovere; la pioggia avrebbe infatti, come abbiamo già spiegato, reso inservibili sia gli
archibugi sia i moschetti; inoltre, combattendosi contro i turchi, ciò avrebbe posto i cristiani in
condizioni d'inferiorità, perché anche nella guerra di mare quelli facevano grande ed esiziale uso
dell'arco e infatti a Lepanto, circostanza alla quale abbiamo anche già accennato, gli arcieri turchi
risultarono, nonostante la sconfitta generale, molto più efficaci degli archibugieri cristiani; e in
quella battaglia non pioveva nemmeno!
Le opere difensive d’un vascello potevano essere fisse, cioè i castelli di poppa e prua di cui
abbiamo già parlato, oppure mobili, quali le impavesate rigide o componibili con i pavesi e le
rembate delle galere, di cui pure abbiamo detto, o anche occasionali, come le baricate e le
traverse, opere queste ultime che si ponevano sulla prima coperta o tolda del vascello per opporre
resistenza ad avvenuti arrembaggi e si facevano generalmente con il sopra ricordato spigone
traversato all’ingresso della poppa dietro le spalle, poggiandone l’estremità sui bandili laterali, e
con trinchetti traversati e incrociati alla base dell’albero, poggiando infine su queste ringhiere
improvvisate strapuntini, schiavine e tende per riparo degli uomini retrostanti. La coperta della
poppa della galera andava inoltre o invece protetta ponendovi tutt’intorno strapuntini, cappotti e
schiavine, specie a difesa del timoniero; la poppa era la posizione che il capitano doveva
maggiormente difendere e tenere (“poi che quella è la sua fortezza, il suo castello ben custodito”) e
quindi, quando durante il combattimento si tratteneva in corsia, doveva lasciarla in custodia di
gente molto fidata. Sulle bande dei vascelli a vela quadra armati a guerra, dove si usavano per la
difesa della prima coperta pure le reti, anch'esse utilissime a ostacolare il nemico arrembante, si
comincerà presto a usare, per amor di leggerezza, impavesate fatte di panno o di tela (rossa nel
caso degl’inglesi, talvolta blu e alta all’incirca un’aune nel caso dei francesi), anche se talvolta
questo tessuto si poneva a doppio per poter così racchiudere un’imbottitura che fermasse i
proiettili d’armi leggere, perché, trattandosi di vascelli d’alto bordo, c'era ovviamente meno bisogno
d’una protezione aggiuntiva e tali ripari, sorretti da bastoni o sbarre di legno [fr. (es)pontilles] e
posti spesso anche attorno alle gabbie, servivano pertanto unicamente a nascondere gli uomini ai
tiratori nemici, anche per il motivo che la gente dei vascelli quadri, in mancanza di natte di cordami,
969

usava porsi dietro il bordo facendosi scudo con i suoi materassi appesi in verticale all'esterno o
all'interno del bordo stesso; ma si usava talvolta anche sulle galere attaccare all'esterno della
pavesata schiavine e pagliericci (ol. bult-sakken] perché assorbissero alquanto i colpi d'arma da
fuoco del nemico; mancando d’impavesate un vascello poteva usare allo stesso scopo delle
vecchie vele e in ogni caso tali protezioni aggiuntive andavano possibilmente intrise d'acqua per
cercare di rendere difficile all'avversario l'incendiarle. Bisognava infatti premunirsi perché a bordo
della galera nemica poteva esserci qualche uomo armato di lunghissima picca con fuoco
incendiario alla punta e con la quale appiccare le fiamme alle vele o a quant'altro fosse facilmente
incendiabile. In mancanza di bande di tessuto tenute appositamente per farne delle impavesate, si
usavano spesso a tal scopo le vele di coltellaccio. Il nome d'impavesate deriva, com’è noto,
dall'essersi usati, sino a Rinascimento incluso, nel Medioevo appunto in tal funzione i pavesi, ossia
i grandi scudi da difesa statica posti in filari serrati lungo i due bordi della coperta, e ciò appunto
fino a circa il 1550, quando furono dismessi del tutto; ma ciò non avvenne perché fu anche a quello
stesso tempo che i balestrieri, i quali erano stati sino allora mantenuti in affiancamento degli
archibugieri, furono da questi totalmente sostituiti. Infatti, i robusti scudi, i quali potevano fermare i
verrettoni delle balestre, avrebbero rappresentato un’utile difesa anche contro i proiettili di piombo,
in quanto questi, poiché sparati da schioppetti e archibugi e non ancora dai potenti moschetti
portatili, erano tirati troppo debolmente per perforarli sistematicamente, tanto che ancora nel
Seicento, quando si archibugiava un soldato condannato a morte, non era insolito trovare poi sul
suo corpo proiettili fermati dal suo normale vestiario di panno e questo è il motivo per cui presto si
prese l'abitudine d'archibugiare i condannati in camicia. I pavesi furono invece dismessi sia per
rendere le galere più leggere, preferendosi quindi magari fare delle impavesate utilizzando le tende
e i tendali piegati lungo le fiancate, sia perché si incominciavano a usare sulle fiancate piccole
artiglierie su forcina girevole e i proiettili di queste i pavesi certo non li potevano fermare.
A proposito delle suddette impavesate medievali, ecco la descrizione dell’arrivo a Barcellona di
trenta galere del reame d’Aragona che si legge all’anno 1285 nella Cronica del d’Esclot:

… Ed erano le galere meglio apparecchiate che ci fossero mai state, poiché le avresti trovate tutte
dipinte con le armi del re d’Aragona e di Sicilia e avevano così tanti scudi, ad ambedue i lati da
poppa a prua, che non ce ne sarebbero capiti altri; e tra due scudi c’era una balestra. Sui fianchi
delle galere c’erano anche bandiere e pennoni dalla poppa fino alla prua da tutte le parti; e bei
drappi di pressato (‘seta lustrata’) vermiglio e di seta che stavano stesi sui castelli a poppa delle
galere, il che quasi non si potrebbe descrivere, tanto splendidamente e tanto nobilemente erano
apparecchiati.(Cit.)

Si abbassavano poi a prua le rembate, se non già fatto in precedenza, le quali - specie nelle galee
veneziane - potevano essere impavesate come le fiancate della mezzania, e si facevano tre
970

traverse attraversanti la coperta della galera per ostacolare il nemico che fosse riuscito a mettere
piede a bordo, utilizzandosi a tal scopo balle di lana, se ce n’erano, perché era la miglior
protezione contro l'artiglieria sia che questa sparasse palle sia scaglie di mitraglia, e in mancanza
di queste balle le traverse si facevano di rotoli di sartiami o di grosse gomene, di cuoiami, di reti da
pescatore, di strapuntini, di materassi o stramazzi, di schiavine e cappotti bagnati per evitare che
prendessero subito fuoco, di vele, tende e simili anch'esse opportunamente bagnate con acqua di
mare; degli stessi materiali si facevano pure ripari laterali al tamburetto di prora per difendere gli
artiglieri dal fuoco nemico. Queste traverse (fr. bastions), irrobustite da un’ossatura di rami legati
insieme, andavano da un filare all'altro a prua, all'albero di maestra e alla mezzania in
corrispondenza dello schifo, insomma nei luoghi in cui davano meno fastidio ai banchi di voga;
l'ultima delle tre era quella che doveva opporre la maggior resistenza a un’eventuale invasione del
nemico proveniente da prua e infatti i due punti forti d’essa, lo schifo e il fogone, erano
generalmente guarniti di difensori sotto il comando dell'alfiere, uomini valorosi e risoluti a farsi
uccidere prima di permettere al nemico di raggiungere la retrostante bandiera e d'impossessarsi
della poppa, ossia del luogo di comando, perduto il quale si poteva considerare l'intera galera.
Sulle galeazze i predetti svariati materiali difensivi servivano pure a rinforzare le impavesate sino a
farne dei veri e propri parapetti, cosa resa possibile dal non dover essere le balestriere di quei
vascelli attraversate dai remi come quelle delle galere, le quali invece non potevano quindi esser
turate; infatti le balestriere delle galeazze erano pensili e situate al di sopra dei remi, come
abbiamo in precedenza spiegato, e bisognava solo stare attenti che, riempite dei detti materiali,
non s’incendiassero con il fuoco emesso dai propri sottostanti cannoni di bancata. Sui vascelli
quadri anche si alzavano reti di corda a difesa della coperta e su quelli meno manovrieri si
preparavano lungo le impavesate grossi sassi da gettare dall'alto del loro bordo sulle basse galere
che si facessero sotto all'attacco, ma quest'ultimo espediente non sempre sarebbe riuscito a causa
delle frecce e archibugiate che in tale occasione dalle galee erano copiosamente tirate verso i
difensori delle impavesate della nave assalita, specie se invogliati dall'essere il bordo di questa
non tanto alto e magari anche finestrato; meglio dunque era disporre sul ponte superiore di
qualche trabucco (antenato del mortaro) sempre carico e pronto a sparare ad arcata sulla galera
nemica che si facesse sotto bordo, ma per tali pezzi e per l’artiglieria di coperta in generale
bisognava spesso costruire apposite piattaforme, poiché per lo più le coperte non erano
perfettamente orizzontali, il che accadeva soprattutto nel caso dei flauti, il cui ponte superiore
saliva sensibilmente da prua a poppa.
A bordo della galera, nell'imminenza del combattimento, il capitano innanzitutto si confessava e
faceva sì che tutti a bordo lo facessero, poi, al comando Mettere le armi in coperta!, si
971

compartivano gli archibugi, le balestre, perché, come abbiamo spiegato, ancora l’usavano i
marinai, i moschetti da braccio, se già si usavano, le rotelle, le mezze picche, le alabarde e le altre
armi inastate alla poppa, in corsia, allo schifo, alla piazza d'arme, ossia davanti all'albero di
maestra, alla prora e alle balestriere, perché i soldati, i buonavoglia e i marinai se ne potessero
servire al bisogno; mezze picche e alabarde si ponevano per esempio nella ritirata preparata a
poppa e una per banco, affinché il più animoso e fidato remigante cristiano del banco, se ce n’era
uno, l'usasse per respingere il nemico maomettano che venisse all'arrembaggio. Le aste di tutte
queste armi si ungevano di sego dal ferro apicale sino alla metà, affinché i nemici non riuscissero
ad afferrarle e a strapparle di mano ai nostri soldati. Si distribuivano del pari nelle bancate le
trombe e gli altri fuochi artificiali (quantunque ora, come abbiamo già detto, in sostanziale disuso),
ma solo alle persone che sapessero maneggiarli, a causa del pericolo che rappresentavano per la
stessa propria galera, se posti in mani inesperte. Inoltre questi fuochi, tenuti pronti a poppa, a prua
e dovunque il nemico tentasse di venire all'arrembaggio, dovevano essere usati solo se il vento era
favorevole, perché con vento contrario invece di nuocere al nemico si sarebbe rischiato
d'appiccare il fuoco alla propria galera. I soldati muniti eventualmente d’obsolete pignatte di fuoco
artificiato ne dovevano portare una sola - meglio se in una sacchetta di fustagno a tracolla - e
dovevano accenderla al momento con lo stoppino d'archibugio; allo stesso modo si accendevano
le dette trombe di fuoco o trombe di galera.
Con i venturieri, cioè con i combattenti fuori organico e senza paga, i quali, come abbiamo già
detto, partecipavano alla guerra con la speranza del bottino o di segnalarsi per poi essere arruolati
come ufficiali, con gli intrattenuti, ossia con ufficiali (specialmente capitani di galera) che, come
pure abbiamo già spiegato, facevano parte d’una ‘riserva’ retribuita dalla quale attingere quando
necessario, con i gentiluomini di poppa e infine con qualche soldato avvantaggiato a bordo della
galera si costituiva il principale corpo del soccorso, pronto a intervenite dove fosse più necessario
durante il confronto con la galera avversaria, mentre ad alcuni agili e animosi marinai si affidava il
compito di saltare per primi sul vascello nemico; si stabiliva inoltre la piazza d'armi, come già
accennato, ai piedi dell'albero di maestra, in modo che il forte gruppo di combattenti là ammassato
potesse, da quella posizione centrale, soccorrere tutti i luoghi della galera che stessero per cedere
al nemico e anche eventualmente reprimere gli schiavi ai remi che, approfittando della distrazione
e della concitazione del combattimento, tentassero di liberarsi dalle catene per poter così andare a
schierarsi dalla parte del nemico. Secondo alcuni, invece d’un unico grosso corpo del soccorso in
posizione centrale, era più utile predisporne molteplici più piccoli, detti questi corpi del soccorso di
quartiero e comandati, oltre che costituiti, da venturieri o da militari intrattenuti, e cioè per esempio
uno alla poppa di 20 soldati e poi tre di 10, di cui uno alla prua, uno al fogone e uno allo schifo. Sia
972

i soldati dei corpi di soccorso sia i predetti marinai prescelti per il primo arrembaggio dovevano
essere armati di larghe spade e di rotelle e non dovevano indossare oltre alla rotella alcun’altra
arma difensiva, in modo da essere più agili nel saltare e nel soccorrere. Si mandavano sotto
coperta i non combattenti, cioè il cappellano che doveva assistere i moribondi, il barbiero che
doveva medicare i feriti e amputare gli arti, le maestranze che dovevano tappare le falle provocate
dall'artiglieria nemica, controllandosi che costoro tenessero effettivamente pronti i loro strumenti e
attrezzi per intervenire lestamente a riparare (lem/ctm. adobar) i danni riportati dallo scafo. In
diversi luoghi della coperta, ossia dove combattevano i soldati e gli altri uomini armati, si
spargevano sul pavimento sale e cenere – se disponibili – per evitare che gli uomini
sdrucciolassero combattendo e, per lo stesso motivo d’avere piede più saldo (fr. pied marin), si
ordinava a tutti, marinai e soldati, di togliersi le scarpe; ma al contrario, se invece si prevedeva di
dover essere abbordati perché il nemico era più forte, allora si poteva anche scegliere di rendere la
coperta ancora più scivolosa, spargendovi per esempio del sego o del burro, perché i nemici
appena venuti all’arrembaggio del vascello vi sdrucciolassero, in tal modo indebolendosi il loro
assalto. Si racconta che così avesse una volta fatto il de Ruyter quando era ancora semplice
capitano di vascello; essendosi rifugiatosi infatti nel porto dell’isola di Wight perché oppresso dai
corsari di Dunkerque, prima di riuscirne, fece cospargere di burro la coperta e le parti del vascello
più esterne e, quando quelli, che lo attendevano fuori, lo arrembarono, scivolarono sul ponte e gli
olandesi ne fecero strage; ma il de Ruyter a partire dal 1651, ossia da quando gli Stati Generali dei
Paesi Bassi gli affideranno per la prima volta il comando d’una squadra – 22 vascelli e 6 brulotti,
diventerà presto il più grande ammiraglio del Seicento e pertanto le sue imprese possono esser
state talvolta un po’ mitizzate.
Negli stessi suddetti luoghi di combattimento si distribuivano inoltre botti, mezze botti e altri
recipienti pieni d'acqua marina per poter subito estinguere i focolai d'incendio provocati dal nemico
che eventualmente attaccasse con fuochi artificiati e bisognava anche deputare uomini
(possibilmente comandati da un capo), i quali, provvisti di barili e altri va si, fossero pronti a portar
acqua per riempire le botti suddette; sotto il predetto medesimo capo si ponevano anche persone
che avevano il compito di rifornire d'acqua e d'altri materiali necessari l'artiglieria di bordo.
Bisognava poi deputare una persona prudente e fedele alla cura della polvere da sparo che per gli
archibugieri e i moschettieri si teneva pronta in coperta, generalmente in barili o più prudentemente
in sacchetti di cuoio crudo, essendo quest'ultimo, come abbiamo già detto, un materiale ignifugo
con il quale nel Quattrocento s’era usato ricoprire addirittura interi vascelli per preservarli da frecce
e altre armi da getto incendiarie; costui doveva essere coadiuvato da due o tre uomini attenti e
assennati, perché il pericolo che la polvere prendesse fuoco accidentalmente era grande:
973

... Hanno provato il pericolo del fuoco i veneziani l'anno 1569 con gran danno del loro arsenale,
dove si abbrusciò e ruinò una torre piena di questa polvere e con essa alquante galee con tanto
terror della città di Venezia e de i luochi circonvicini, ancorché lontani molte miglia, che gl'habitatori
più vicini all'incendio ricorsero per salvarsi alle barche e avvennero notabilissimi accidenti. (P.
Pantera. Cit. P. 375.)

Far saltare in aria un intero vascello era dunque cosa semplicissima e si ricordavano a tal
proposito alcuni episodi; primo quello avvenuto prima del 1557, quando era capitano generale
delle galere maltesi il già ricordato François de Lorraine, il quale un giorno, postosi con le sue
quattro galere all’ingresso del porto di Rodi, sfidò a battaglia le sei galere turche che vi sostavano
a guardia dell’isola; egli perse una galera, ma delle nemiche una catturò e due mise a fondo. Su
una di queste ultime erano a salire a bordo da prua alcuni cavalieri e, nonostante il loro esiguo
numero, erano arrivati fino all’albero; poi, avendo il nemico ricevuto un rinforzo dalla sua poppa, i
cavalieri furono costretti ad arretrare e abbandonare il vascello nemico, ma uno di loro, un
guascone, di cui il de Bourdeilles che narra il fatto dice di non ricordare il nome, raggiunto il fogone
e sottrattone un tizzone acceso, si precipitò di sotto nella camera delle munizioni e mise fuoco alle
polveri, facendo saltare in aria tutta la galera nemica e se stesso (P. de Bourdeilles. Cit.) Se
l’episodio accadde veramente è però improbabile che sia accaduto proprio come rammenta il de
Bourdeilles, perché una galera non sarebbe certo andata alla battaglia con il fogone da cucina
acceso, usandosi in tale occasione tener solo infiammati a bordo, oltre alle micce personali degli
archibugieri, uno o due ben guardati stoppini per dar fuoco alle artiglierie; eppure il farraginoso
memorialista francese dice di aver avuto questo racconto sia dallo stesso de Lorraine sia da altri
cavalieri che si trovarono con lui in quello scontro, di cui certo il ‘gran priore’ doveva ben ricordare i
particolari, visto che v’aveva ricevuto ben due serie ferite di freccia, che ben pochi dei suoi non ne
erano rimasti morti o feriti, che le sue galere ne erano uscite terribilmente malconce (“et quasi
ayant perdu forme de galeres”) e che infine un giorno a Genova lo stesso ormai vecchio Andrea
d’Oria se n’era complimentato con lui, presente il de Bourdeilles (Ib.).
Ma, al tempo del Pantera, s’era aggiunto nel ricordo qualche altro simile caso, come quello della
dama cipriota presa schiava dai turchi quando questi, negli anni 1570-1571, avevano conquistato
quell’isola; portata dunque prigioniera a bordo d’una galera nemica la gentildonna con virile
comportamento ne raggiunse le polveri e la fece saltare con tutto l’equipaggio, preferendo la morte
alla schiavitù in un harem ottomano; ed ecco ora un altro esempio di tali estremi atti, precursori di
quello di Pietro Micca:

... Di che si ha un compassionevole esempio nella distruttione della galea di Benedetto Soranzo il
giorno della battaglia navale de i Curzolari (‘Lepanto’). Essendo morto combattendo il coraggioso
974

Soranzo, la sua galea era già stata occupata dai turchi, quando lo scrivano di essa [...] con animo
heroico, ma non degno d'imitazione, mise il fuoco nella munizione della polvere... (P. Pantera. Cit.
P. 327.)

L'atto dello scrivano ebbe il massimo effetto, perché in tal modo lo scrivano uccise sé stesso, i suoi
compagni superstiti, i turchi già entrati a bordo e quelli che si apprestavano a entrarvi. Il Pantera
riporta questo episodio stigmatizzandolo; egli infatti, come del resto gli altri autori del tempo, non
ammette questo tipo d'eroismo e soprattutto perché, sulla base del pensiero di S. Agostino, lo vede
chiaramente contrario alla religione cristiana, senza contare che era contrario anche alla legge
civile del suo tempo, la quale voleva che l'uomo non fosse padrone del proprio corpo e quindi non
ammetteva il suicidio, anche in caso come quello descritto, nobilitato in effetti anche dall'intento
d’evitare l'ignominia delle catene della schiavitù:

... e a i tempi nostri sono puniti nella fama quelli che lo fanno, essendo appesi al patibolo della
giustizia terrena come huomini degni dell'ultimo supplicio (cioè della pena di morte). (Ib. P. 328.)

Bisognerebbe poi aggiungere che, facendo saltare una galera nemica, s’uccidevano certamente
anche chissà quanti poveri schiavi cristiani incatenati al remo! L'episodio predetto comunque
insegnava che, non appena ci si fosse impadroniti d’un vascello nemico, bisognava
immediatamente andare a mettere buona guardia alla sua polveriera, specie se si fosse trattato di
un vascello turco-barbaresco, perché da sempre i mussulmani vinti usavano praticare
correntemente questo ‘suicidio offensivo’ per cercare di fare un ultimo grave danno al nemico
vincitore; per questo motivo già nel Quattrocento i veneziani, vinti in mare vascelli turco-
barbareschi, preferivano affondarli a cannonate o incendiarli a distanza piuttosto che abbordarli per
farne bottino.
Prima dell'introduzione del moschetto portatile, cioè sino all'epoca di Lepanto, si era anche molto
usato d’armare d’uomini la coffa (in origine una semplice botte oppure un cestone di vinchi, ossia
vimini, per questo detto gabbia, ricordando infatti le gabbie per uccelli) che si portava alla cima
dell'albero di maestra dei vascelli tondi, munendola anche di tinozze ben coperte di pelli ignifughe
di montone in quanto tenute piene di materiali incendiari, esplosivi e offensivi in genere da gettare
sul vascello nemico abbordato, cioè palle armate e pignatte esplosive, dardi di fuoco, sassi, barre
di ferro e palle di piombo, triboli di ferro appuntiti oppure ruote di legno chiodate con stoppa o simili
materiali accesi e conficcati nei chiodi, pentole piene fuochi artificiali incendiari, di cenere ardente o
calce viva, d’acqua, d’olio o catrame bollenti, di pece liquida accesa, di piombo liquefatto, di molle
sapone per renderne la coperta scivolosa, al limite anche pignatte piene di serpenti o scorpioni
velenosi, come facevano gli egiziani, ecc., insomma gli stessi spiacevoli materiali che si buttavano
975

sulle basse galere nemiche dai castelli e dalle coperte dei vascelli d'alto bordo e a terra dalle mura
delle fortezze sugli assalitori; ma, mentre in precedenza gli uomini delle gabbie dei vascelli quadri
e dei gatti delle galere – in questi ultimi ce ne potevano stare due - erano stati abbastanza
difendibili dalle frecce e dalle deboli palle d'archibugio col semplice circondarli di strapuntini, tende,
cappotti e schiavine da forzato (tessuti tutti comunque da mantenersi inzuppati d’acqua per evitare
che potessero prendere incidentalmente fuoco dal maneggio dei predetti fuochi artificiali), adesso
sarebbero invece stati troppo esposti ai proiettili del potente moschetto e quindi un tal uso era
diventato molto meno frequente. Se proprio si voleva comunque usare tal espediente, bisognava
dunque ora proteggervi gli uomini attaccando all'esterno delle gabbie vecchi e grossi canapi
arrotolati e al loro interno dei materassi e questo era detto dai marinai far stramazzo alla gabbia;
era pure prudente coprire alla fine le gabbie di cuoi grezzi ignifughi a evitare appunto che
prendessero facilmente fuoco (pratica che nel Medioevo si faceva in maniera molto più estesa a
bordo, p.e. anche alle fiancate, e non limitatamente alle gabbie) e allo stesso scopo approntarvi
dentro, come del resto bisognava fare anche generalmente in coperta, qualche mastello d’acqua e
panni vecchi con i quali, inzuppatili in detta acqua, soffocare il fuoco; in effetti le gabbie erano di
solito coperte di pelli di montone grezze (ol. mars-vellen, schaapen-vachten) anche quando non si
andava in guerra, perché queste servivano anche a evitare che si guastassero i cordami e le vele
che vi dessero contro. Con le gabbie non bisognava però esagerare e si ricordava infatti ancora
quanto successo alla nave ammiraglia d’Alfonso d’Aragona alla battaglia di Ponza del 1435,
battaglia in cui questo re era stato sconfitto e preso prigioniero dai genovesi unitamente a tutti i
suoi principali signori e capitani; la nave dunque, squilibrata da una seconda gabbia di maestra
sconsideratamente aggiunta a metà dell’albero, gabbia molto più grossa e carica d’uomini di quella
ordinaria che stava più in alto, a un certo punto della battaglia sbandò molto e s’inclinò tanto da
provocare lo spostamento della zavorra sul fianco, di conseguenza non poté esser raddrizzata e si
dette così immediato agio a una nave nemica d’arrembarla e catturarla.
Uno degli ultimi episodi del Cinquecento in cui si armarono le gabbie fu la battaglia delle isole
Terzeire, che, come abbiamo già ricordato, si combatte nel 1582 tra le armate del marchese di
Santa Cruz e di don Antonio di Portogallo; il Santa Cruz fece armare le gabbie dei suoi grandi
vascelli, oltre che di materiali da getto, anche d’archibugieri e addirittura di piccoli pezzi d'artiglieria,
come usavano fare i portoghesi alle gabbie delle loro grandi caracche, dopo averle anche fatto
fortificare con trapunte e con canapi, e da quelle si racconta che abbia fatto gran danno ai nemici
portoghesi. Gli archibugi infatti, se erano troppo deboli per sparare con successo in alto verso le
gabbie, andavano invece bene per l'uso inverso, cioè per sparare dalle gabbie all'ingiù, in ciò
aiutati dunque dalla forza di gravita; i moschetti, armi più lunghe, pesanti e dal maneggio più
976

ingombrante non si sarebbero potuti usare agevolmente nelle strette gabbie. Si era anche visto
qualche volta in alcune navi da battaglia lo schifo issato sino alla metà dell'albero di maestra e là,
ben legato e coperto, servire da gabbia per il lancio dei predetti materiali sul vascello nemico
abbordato, il quale espediente era per esempio stato usato dalla vittoriosa armata marittima
veneziana che nel 1081 era andata in soccorso dei bizantini di Durazzo assediati da un’armata
navale di Roberto il Guiscardo; i veneziani avevano prima rinforzato le alberature a mo’ di torri di
legno e poi vi avevano innalzato sulla cima le scialuppe di bordo; gli uomini che vi salirono furono
forniti di pesanti ciocchi di legno ben armati, sporgendovi cioè dappertutto lunghi e acuminati
chiodi, da lanciare sulle affollate galere nemiche per ferirne anche in questo modo gli occupanti
(Anna Comnena, Alexiadis. LT. IV, 2).
L'albero delle galere, più piccolo e leggero di quelli dei vascelli tondi armati, non portava gabbie,
ma una volta per esso si era usata, ma poi dismessa, la già ricordata mezza-gabbia detta gatto nel
Mediterraneo di ponente e alla quale abbiamo già accennato. In effetti anche nel Seicento si
armeranno talvolta le coffe in previsione d’abbordaggi, piazzandovi dell’artiglieria minuta e delle
tinozze piene di granate o d’acqua per spegnervi eventuali incendi, e comunque sempre
munendole di bastingaggi perché non si potesse prendervi gli uomini di mira. Un vascello che si
volesse difendere dall'esiziale lancio di materiali grevi, quali barre di ferro, palle di piombo e pietre
da lancio manuale, dalle coffe del nemico bisognava che si presentasse alla battaglia con la
coperta e i castelli coperti da grosse corde tese da una banda all'altra sul capo dei combattenti,
corde che avrebbero ostacolato anche lo arrembaggio che fosse stato tentato dal nemico; a questo
proposito è interessante leggere come si avvicinavano alle difese costiere veneziane le galere
genovesi durante la guerra di Chioggia del 1379 nella descrizione fattane dal de Redusiis nel suo
Chronicon tarvisinum:

… amate e da ogni parte protette da graticci e ricoperte dappertutto di cuoi e provviste di molti altri
strumenti bellici soprattutto per emettere fuoco, avendo armati gli alberi delle stesse con gabbie
posticce (LT. A. Muratori, Rer. It. script. T. XIX, c. 773).

I graticci servivano a impedire al nemico l’abbordaggio e le gabbie posticce a porvi uomini che
da quell’altezza lo bersagliassero con proiettili e oggetti contundenti. Sempre in preparazione della
battaglia si alleggerivano i vascelli e si liberavano di tutti quegl'impedimenti che in battaglia
avrebbero potuto risultare d'intralcio alle manovre dei marinai o che limitavano lo spazio a
disposizione dei soldati; a bordo delle galere si toglievano dunque tende e tendali, si ammainavano
le vele e si raccoglievano in maniera che non impedissero le operazioni dei combattenti, si
ghindavano e legavano accuratamente le antenne agli alberi affinché, tagliando il nemico con palle
ramate gli amanti, ossia i doppi cavi avvinti che le sostentavano, non cadessero in coperta
977

ammazzando la gente e danneggiando la galera; bisognava anche mettere guardie alle vette,
ossia rinforzarle, a evitare che venissero anch'esse tagliate, il che era ovviamente molto
importante per lasciare al vascello la possibilità di servirsi dell'antenne dovendosi fuggire. Per
quanto riguarda la vela da tenere in combattimento, sarebbe stato consigliabile portare in
combattimento il bastardino o artimone antennato, ossia ghindato e legato all'antenna sino a sotto
il calcese dell'albero, per esser così pronti - nelle occorrenze della battaglia - a spiegarlo, vela che
d'altra parte a quell'altezza non correva molto pericolo d’essere incendiata dai fuochi nemici; ma
nessun capitano di galera si azzardava a far comparire la sua vela in battaglia, perché si sarebbe
subito attirato la calunnia di portar vela per vigliaccheria, vale a dire per esser pronto a scappare!
Bisognava poi, tra gli altri preparativi, raddoppiare le catene ai remiganti schiavi, ossia a quelli
maomettani, e metter loro anche le manette ai polsi, affinché non approfittassero del fervore del
conflitto per sferrarsi e mettere così la galera in estremo pericolo; il che successe a Lepanto a
bordo d’alcune galere del corno destro dell'armata turca, nelle quali gli schiavi cristiani, vedendo
detto loro corno maltrattato da quello sinistro della Lega, ne approfittarono per riuscire a liberarsi
sia delle doppie catene che delle manette che li avvincevano e, assaliti loro stessi i turchi, furono di
non poco aiuto al nemico:

... Però (‘perciò’) si hanno a custodir bene gli schiavi e credere che non pensino mai ad altro che a
ricuperar la libertà; e non è buona opinione che non si abbiano ad apprezzare né che, levandosi la
vita ad uno o a doi di loro, gli altri si tengano a freno, come pensano gl'huomini vani, perché se ne
sono veduti esempij totalmente contrarij. (P. Pantera. Cit. )

La ciurma ottimale da portare in battaglia era dunque quella in cui, oltre agli schiavi, ci fosse buon
numero di sforzati e, meglio ancora, di buonevoglie, a evitare la probabilità d'una sollevazione
generale dei galeotti. Ecco comunque come Giovan Pietro Contarini descrive l’imminenza della
battaglia sulle galere cristiane a Lepanto:

…e allora i nostri cristiani, allegri, cominciarono a nettar le coverte, levar le sbarre, spazzar le
puppe, distendendo l’arme ‘sì da offesa come da difesa sopra le corsie e altri luoghi bisognevoli e
tutti con l’armi pertinenti a loro si armarono, chi con archibugi, alabarde, mazze ferrate, picche,
spade e spadoni compartiti tutti tra le sbarre, balestriere, puppa, prova (‘prua’) e a meza galea con
buonissima ordinanza, essendovi per ogni galea uomini da spada duecento e nelle galee
‘Capitane’ e di fanò, secondo li gradi, dove trecento e dove quattrocento; ebbero dipoi i
bombardieri caricati tutti li pezzi di balle armate con catene, quadrelli, scaglie e ballini di piombo,
con l’apparecchio de’ fuochi arteficiati di pignatte, trombe e altri simili strumenti, il tutto con mirabil
ordine alli suoi luoghi e a carico di cui (‘di chi’) se gli appartengono, posero gli archibugi da posta
sopra le pavesade e canoladi (‘smerigli? petriere?’) da puppa carichi, furono sferrati nelle galee li
sciavi (‘schiavi’) cristiani condannati al remo e messi in libertà perpetua, inanimati a combattere per
Giesu Cristo, il qual gli aveva donato tanta grazia di uscir di servitù, e quelli tutti armati di
corazzine, spade e targhe si come gli altri indifferentemente. Le galee fra questo si ridussero alle
978

loro schiere e luoghi suoi con mirabile ordine e silenzio, furono di poi remurchiate le galeazze da
cui (‘da chi’) ne havea il carico a luoghi suoi stabiliti. (G. Pietro Contarini, Cit. Pp. 48-49.)

Per quanto poi riguarda la preparazione di tutti gli uomini, la pancia piena era la prima cosa da
osservarsi:

... Facciasi mangiar la gente dell'armata prima che si venga alla battaglia, perché il cibo
augumenta le forze e fa - oltra lo stimolo dell'honore - gl'huomini arditi e pronti alla fatica, la quale
ne i conflitti dove si corre ad un quasi certissimo rischio di perdere la vita è grandissima e massime
che alcune volte si sta un giorno intiero con l'arme indosso, con sudore, con sete e con affanno
non meno dell'animo che del corpo, né si può l'huomo ristorare con altro cibo né recrearsi pur con
un sorso d'acqua. (P. Pantera. Cit. P. 379.)

Oltre al cibo si distribuiva anche del vino perché ovviamente esso migliorava l’umore degli uomini e
dava loro coraggio.
Nell'imminenza del combattimento il capitano generale scendeva in una fragata e percorreva in
essa tutto lo schieramento delle sue galere, facendosi di vascello in vascello chiamare i capitani
[“che si facino à vedere”], perché spesso non si mostravano neppure, per poterli così esortare e
animare al combattimento. Tornato a bordo della sua Reale o Capitana il generale indossava le
sue armi e montava sullo stentarolo con la spada nella destra e la rotella al braccio sinistro,
tenendo in mano sotto tale rotella un crocefisso, mentre in ogni galera il capitano faceva la stessa
cosa:

…e nel detto stendarolo s’ingenocchiarà, farrà orazione con raccomandarse al signor Jesu Cristo e
gloriosisima Vergine Madre e il simile facino tutti l’altri pregando quella benedetta madre si degni
intercedere con lo suo glorioso figlio, li vogli concedere vittoria in quella battaglia per augumento
della Santa Sede Apostolica. Havendo fatta simile orazione, (deve) il capitano alzarse con impito e
con furia allegra uscir di sotto la rotella il Santo Crocifisso ed erborarlo con dimostrarlo a tutti di
galera con voce altiera e superba: ‘questo è il nostro Capitano, per questo hoggi si combatte,
costui è il donatore delle vittorie e alla fine promette e dà la Santa Gloria’, a questa maniera
animando tutti i soldati e genti di galera il capitano, ciascheduno risponderà non solamente una,
ma mille vite sarranno pronti perdere. (Ib.)

Dunque a loro volta i singoli capitani, gli altri ufficiali generali dell’armata e i cappellani di bordo
infiammavano all'impresa gli animi dei loro combattenti con orazioni e gli esortavano a combattere
per la fede cristiana e per l'onore di Dio prima che per il loro, come debitamente fecero i capi della
Lega cristiana a Lepanto:

... l'anno 1571 invitando, prima che combattessero, le lor genti a pregar Dio per la vittoria, come fu
fatto, havendo mostrato ogn’uno segni di penitenza e con parole di profonda humiltà dimandato
devotamente perdono a Dio de i suoi peccati inanzi allo stendardo della Lega, nel quale era
figurata l'imagine del santissimo Crocifisso, e pregatolo a voler aiutare i suoi campioni (‘difensori’)
nel prossimo conflitto, procurando intanto molti padri cappuccini, giesuiti e altri religiosi con i
crocifissi in mano di accendere gli animi dei combattenti ad espor volentieri la vita per la fede,
979

promettendo a quelli che fossero morti nella battaglia eterna vita in cielo e a quelli che fossero
restati vivi eterno merito in terra d'haver abbassato la superbia de gli empij inimici di Dio e liberati
di servitù tanti cristiani che erano nelle lor mani, offerendo, insieme con un amplissimo giubileo
conceduto dalla santità del Papa, la remissione di tutti i lor peccati. (Ib. Pp. 382-383.)

A bordo dunque, condotti dal cappellano o dal còmito, si recitava un’orazione comune (vn. laudo)
per chiedere a Dio di concedere ai cristiani la vittoria; nel 1495, come narra il Sanudo, sulla galera
Capitana della squadra veneziana che si preparava a investire dal mare (gr. ἐπιπλεῖν, ἐπιπλείειν) le
fortificazioni della ricca città di Monopoli, dichiaratasi di parte angioina, si recitò il laudo nella
seguente maniera:

… L’armiragio (vn. per ‘ammiraglio’) Antonio di Stefano fo quello el disse, stando in pie’ armato a
cao (‘capo’, cioè prua), el zeneral (Antonio Grimani) armato a meza galia et Marco Buza suo
canzelier (‘patrone’) insieme. Et fece el capetanio far uno comandamento, sotto pena di la forca
niun non se partisse di le sue poste, et volse el capetanio esser el primo che investisse con la sua
galia con la prova in terra… (M. Sanudo. La spedizione di Carlo VIII etc. Cit. P. 494.)

Premesso che l’armiragio era nella marineria da guerra veneziana il luogotenente del capitano
generale, i veneziani, accompagnandosi col loro grido di guerra Marco! Marco!, il quale
s’opponeva al Franza! Franza! degli assediati, presero d’assalto la città e se ne impadronirono
incrudelendo contro gli abitanti per la dura resistenza messa in atto, per cui alla fine dappertutto
apparivano i segni d’una carneficina:

… et in le case fo trovati assa’ morti et feriti, femene et puti. Uno di anni cinque fo ferito de uno
mandreto (‘mandritto’) in la fronte, un altro de anni sette era cazato (‘s’era cacciato’) sotto alcune
doge de boter (‘doghe da bottaro’) a la piaza et si teneva con una man stropati (‘chiusi’) li ochi; et,
andato ivi Francesco Brognolo cogitor (‘serragente’) dil capetanio, vedendolo tutto sanguinoso,
zercò si l’era morto et lui, sentendose tocar, disse: ah fratello, non mi amazar, ma dame un poco
de aqua; costui havia tutto el brazo sinistro mozo fin quasi al cubito (‘gomito’)… (Ib. P. 495.)

La spietatezza dei lagunari era considerato un dato di fatto, come si evince dal Commentarius di
Pietro Curneo a proposito dell’assedio veneziano di Ficarolo del 1482, dove i difensori si arresero
a patti alquanto proditori, e quindi furono ben trattati, anzi remunerati dai veneziani, in deroga al
loro usuale crudele modo di fare (contra eorum naturam. In LT. A. Muratori, Rerum italicarum
scriptores etc. C. 1.202, t. 21. Milano, 1732). Se tanto freddamente spietati erano in guerra i
civilissimi veneziani immaginiamo che cosa ci si potesse allora aspettare dagli altri! Il suddetto
stendardo della lega anti-turca che i potentati cristiani strinsero il 25 maggio 1571 e la cui armata
combatté poi a Lepanto è descritto da più fonti contemporanee nella maniera seguente:

Campo di seta damascata azzurra con ricami in oro e argento raffiguranti rami, fiori e nodi e un
crocefisso, ai cui piedi si vedeva al centro l’emblema dello Stato della Chiesa, a destra quello di
980

Spagna e a sinistra quello di Venezia, emblemi dai quali, a mezzo di catenelle, pendeva infine lo
stemma di Giovanni d’Austria.

Questo vessillo e il bastone di comando supremo furono consegnati il 14 agosto 1571 nella
basilica di S. Chiara di Napoli a Giovanni d’Austria dal viceré cardinale di Granvelle per conto di
Pio V. Il Sereno scriveva nei suoi Commentarij che miracolosamente esso, a differenza di tutti gli
altri vessilli ostentati dalle galere cristiane in quella battaglia, restò perfettamente integro, non
bucato né lacerato dalle pallottole e frecce turche e fu in seguito conservato nella cattedrale di
Toledo; descriveva poi anche lo stendardo concesso dal Papa per l’occasione alla sua propria
squadra di galere, descrizione ripresa più tardi anche dal Catena:

Campo di damasco rosso raffigurante al centro un crocefisso, ai cui lati si vedevano le immagini
dei ss. apostoli Pietro e Paolo e in alto il motto costantiniano In hoc signo vinces. (G. Catena. Cit.)

Infine, lo stendardo turco, venuto direttamente dalla Mecca, sarebbe invece stato, sempre a
quanto letto dal Quarti, bianco e ornato su ambedue i lati con versetti del Corano in oro (G. A.
Quarti. Cit.)
Fatto quanto suddetto, il capitano di galera, sempre spada alla mano, ordinava che una metà dei
combattenti andassero a trattenersi nelle camere sottostanti, perché al momento d’investire il
nemico tanta gente in coperta avrebbe non solo creato intralcio e confusione, ma sarebbe stato
anche comodo e facile bersaglio per la sicura scarica d’artiglieria e archibugeria nemica;
comandava inoltre al còmito di far arrancare la ciurma e far prendere alla sua galera il suo
prefissato posto nello schieramento, mentre si raccomandava agli uomini il silenzio, acciocché
s’intendessero gli ordini, e spesso si obbligavano i remiganti a ficcarsi in bocca i loro berrettini, per
soffocare così in combattimento le loro grida di spavento e i loro urli di dolore; poi, inalberata la
bandiera di combattimento – generalmente rossa (ol. bloed-vlag, roode-vlag, vegt-vaan), con un
tiro d'artiglieria sparato dalla Reale si dava il segnale della battaglia, al qual colpo i corni
dell'armata, se ben ordinati a combattere, dovevano rispondere ognuno con due tiri e a questo
punto i vascelli dovevano muoversi tutte insieme verso il nemico, mentre si suonavano le trombe
(‘tubae’), i claretti (‘clarinetti’), i pifferi e i flauti (‘tibiae’ e ‘fistole’), i tamburi, i timbri, le naccare o
timpani, più tardi detti ‘timballi’, dallo sp. atabales), ossia tutti gli altri strumenti musicali che si
usavano in guerra e di cui si disponeva, e si gridava all’arme, all’arme! per infiammare gli animi alla
battaglia:

…e a strepito delli sudetti suoni e gridi (deve il capitano) ordinare alli suoi bombardieri e soldati
stiano pronti con loro archibusci, cannoni, sagri, mortarelli, smerigli, pignate e trombe di fuoco, i
marinari e compagni loro con loro balestrieri (‘balestre’) e li forzati con loro arme in aste e picche, i
981

turchi e cattivi (‘prigionieri maomettani’) che nella galera si trovino con il remo nelle mani, vocando
(‘vogando’) sempre inanti… (P. Pantera. Cit.)

Questo modo d’incitarsi al combattimento era antico e si legge infatti pure nel Chronicon di Giorgio
Franzes a proposito del tanto infausto assedio turco di Costantinopoli del 1453, cioè laddove si
narra del già ricordato scontro nautico tra alcune navi onerarie genovesi e bizantine e galee
ottomane, avanzando appunto le prime verso il nemico con strepito di timpani e trombette cornee
(μετὰ τυμπάνων ϰαὶ ϰερατίνων σαλπίγγων ϰροτοῦντες. Cit. LT. III, par. III). É interessante a questo
proposito leggere l'art. 15 della già citata Ordinanza del doge Tommaso Mocenigo come doveva
avvenire l'inizio del combattimento tra galee veneziane e fusti (‘fuste’) nemici all'inizio del
Quattrocento:

... In quella fiada zascadun debia far armar tutta la soa zente fazando le soe pav(e)xade
(‘impavesate’) ordenade, chel se pos(s)a far l'honor de la nostra Signora (‘la Madonna’), 'sì che a
la prima trombeta (‘al primo squillo di tromba’) ognun sia armadi, alla segunda ognun sia bene in
ordene; a la terza trombeta de bataia, se queli fusti serà de inemixi, vada a ferir de buon anemo
arditamente. Ma ordena messer lo Capetanio che alcuna galia non pos(s)a né presuma andar a
investir (‘urtar il nemico’) sel non sarà sonada la terza trombeta, sotto pena de perder la testa. (A.
Jalt. Cit.)

Lo stesso concetto viene ribadito con interessanti particolari in un susseguente articolo della
stessa predetta ordinanza:

... comanda (il doge a) misier lo Capetanio che, sel fose descoverto più fusti e lui terminase
(‘determinasse’) andare a queli in quela fiada, el farà levar el so (‘suo’) stendardo d'oro cum la so
arma al fanò a pope [...] e faza dar arme in coverta ed ordene le sue pavexade a prova (‘anti-
proiettili’) segondo uxanzia e lo resto de pavixi (‘pavesi’) sia per imbrazar e andar per coverta e per
suso le pertegete (‘pertichette’) sia mes(s)o schiavine segondo l'usanxa (‘usanza’) e a la prima
trombeta zascadun se debia armar, a la segonda levar l'insegna di San Marco e rinfrescarsi
(‘rifocillarsi’) i corpi. A la terza, quando serà levado a meza galia el standardo quadro con la
insegna del nostro signor misier Jesu Christo, all'hora ognun vada arditamente - e, com'è buon
ordene, che una galia non impac(c)i l'altra - ad investir i dati navilij over fuste e non se desparta
dalla battaia (‘battaglia’) sine a l'ultima sconfit(t)a. (Ib.)

La suddetta ordinanza del doge Mocenigo è, a dire dello Jal che la riporta, del 1420, ma in essa si
nota come già allora le galee veneziane fossero armate, oltre che di balestrieri, anche d’alcuni
schioppettieri e di bombarde e spingarde a prua e alle bande, artiglierie che erano per esempio
utilizzate per difendere i vogatori che fossero stati mandati a terra in territorio nemico a far
l'acquata, ossia la provvista d'acqua; e a questo riguardo dovevano essere recentemente avvenuti
più tragici episodi, se la pena prevista dall'ordinanza per chi non avesse preso le necessarie
precauzioni per assicurare una tale difesa era una violenta morte, tipica della sanguinaria
legislazione criminale veneziana:
982

... Comanda de fato (‘intorno al predetto’) comandamento per (‘a’) misier lo Capetanio e l'Armeraio
(‘il governatore dell’armi o capitano a guerra di bordo’) che quelli ch'el desobedirà el debia
sbudelar... (Ib.)

Ma l’incitare alla battaglia navale con gli strumenti musicale era prassi già nei secoli precedenti,
come e.g. vediamo fu nel 1283 nelle acque portuali di Malta, quando cioè le galee catalane
dell’ammiraglio Ruggero di Lauria sconfissero quelle provenzali del re di Francia Filippo III detto
l’Ardito:

… e date le armi alle ciurme delle galee, invocato il nome della gloriosa Vergine Maria delle Scale,
l’8 giugno – XI indizione – con il suono delle trombe e di altri istrumenti che fanno il clangore di
guerra, entrate nel porto investono vigorosamente i nemici. (Bartolomeo di Neocastro, cit. Cap.
LXXVI.)

Ovviamente tutti i suddetti preparativi al combattimento si usavano a condizione che l’armata


nemica fosse stata avvistata sufficientemente in anticipo da dare il tempo di metterli in atto, ciò
specie per quanto riguarda quelli più strutturali quali la messa in opera di pavesate, rembate e
traverse.
Perché l'ordine di battaglia si mantenesse meglio i vascelli da remo avanzavano con quella voga
comoda e lenta detta larga o larga e tira, mentre quelli a vela più veloci dovevano ridurre la loro
velatura per non far restare indietro i più grevi, il che si poteva fare serrandole in alto (fr. rider)
oppure in basso (fr. carguer, mettre sur les cargues, bourser); non s’usava infatti più, come s’era
fatto nel Medioevo, legare tra loro le galere lateralmente in file di fronte in modo che, procedendo
contro il nemico, non perdessero la formazione e ciò perché, da quando erano state introdotte
anche a bordo le armi da fuoco, era diventato possibile spezzare le corde del nemico già a
distanza e quindi romperne la formazione. Molto importante per guadagnare subito un vantaggio
spesso risolutivo era la forza dell'urto iniziale che si portava al nemico, urto molto importante anche
dal punto di vista psicologico, perché a volte, ricevendolo, il nemico già si avviliva e si scompigliava
pericolosamente; per tal motivo la galera Reale o comunque ammiraglia doveva partecipare a
questo sforzo iniziale, così portando il contributo della sua usuale maggior potenza d'armamento e
di struttura.
In un combattimento marittimo l'obiettivo principale era la presa dei vascelli nemici con la cattura
dei loro equipaggi, i quali sarebbero poi stati ridotti in schiavitù perpetua se non cristiani, eccezion
fatta dei maggiori ufficiali e personaggi che sarebbero invece stati messi a riscatto; pertanto ogni
vascello cercava di venire all'abordo (‘abbordaggio’) d'un legno nemico per rimetterlo, cioè per
conquistarlo palmo a palmo, come allora si usava. Ovviamente un vascello che andava ad
abbordare non doveva prendere di mira un nemico più gordo (‘grosso’) di lui e con equipaggio più
983

numeroso del suo, perché in tal modo avrebbe quasi sicuramente perso la partita; soprattutto una
galera non doveva tentare di prolungare (‘abbordare’) una nave o un galeone, perché non le
sarebbe poi bastato riuscire, dopo magari un pericoloso e sanguinoso contrasto, a mettervi piede a
bordo, ma i suoi uomini avrebbero poi dovuto anche scavalcare i suoi ripari e conquistare i due
castelli di poppa e di prua oltre alla coperta; inoltre due vascelli tra loro abbordati non potevano più
valersi d'altra artiglieria che dei cannoni petrieri dei pezzi piccoli che portavano nelle opere morte,
ossia in coperta e sui castelli, e, avendone chiaramente in maggior numero i vascelli grossi, questi
erano anche per questo molto avvantaggiati sui più piccoli; comunque, se proprio una galera
voleva abbordare un vascello tondo, perché magari questo era non tanto grosso né pieno di gente,
doveva per lo meno scegliere di farlo perché magari esso presentava quella particolarità strutturale
che i francesi chiamavano (em)belle e gli olandesi Hals, cioè un tratto di coperta privo di pavesata
laterale per comodità di carico e d’imbarco, tratto dal quale era quindi più semplice salire a bordo
(fr. aborder en belle ou de bout au corps) e che si trovava suppergiù al primo terzo da prua del
vascello; in procinto d’un combattimento però di solito la belle si tappava con delle tavole di legno
(fr. fargues, fardes) o con natte o stuoie fatte di cordami intrecciati o anche di grossi cavi (fr.
gardes-corps; ol. servings, boevenet), spesse quindi almeno cinque o sei dita e sostenute da
puntelli [fr. (es)pontilles], coprendo poi il tutto con una bella pavesata di tessuto, generalmente
rosso o turchino, in quanto era normale che da quel luogo il nemico tentasse soprattutto di
penetrare; queste natte, poste in maniera da lasciare un sottile intervallo tra esse e la coperta per
permettere ad archibugieri e moschettieri di fare i loro tiri sdraiati sul ponte medesimo, potevano
comunque esser usate anche in altri luoghi sul normale bastingaggio per accrescere così la
copertura dei propri combattenti. Investendo, vale a dire urtando, invece con la propria galera
ordinaria una galera ordinaria nemica pressappoco della stessa altezza di bordo, si poteva più
facilmente arrembarla, ossia saltarle a bordo, e non si doveva perder poi tempo e uomini a
conquistare castelli, visto che nei vascelli sottili questi mancavano, ma si maneggiavano dunque le
armi in piano allo stesso livello del nemico. I grappini a mano o d’abbordaggio che dir si volesse
(ol. handt-dreggen, enter-dreggen), fatti a quattro braccia, come le predette ancore di galera, si
gettavano sul vascello nemico dall’alto delle proprie manovre o del proprio bompresso e si
agganciavano a qualche cordame o alla impavesata del nemico; gl’inglesi usavano cercare
d’agganciare con essi l’incastellatura posteriore o anteriore del nemico per subito saltarvi su ben
armati di corte sciabole, di corti moschetti e d’asce d’arme (ol. enter- bile), cioè asce a taglio da
una parte e a punta dall’altro.
Pendendo dunque generalmente negli arrembaggi la vittoria dalla parte del vascello che aveva
maggior numero d’uomini armati, i vascelli piccoli e leggeri dovevano limitarsi a molestare quelli
984

nemici più grandi con tiri d'artiglieria sparati a distanza; comunque nel caso d’abbordaggio tra
galere e grosse navi o galeoni tale regola poteva però talvolta essere smentita a favore della
galera, la quale disponeva di solito di numerosi soldati, tanti da poter agevolmente opprimere
anche i difensori d’un grande vascello quadro. Se c'era vento, la nave era avvantaggiata sulla
galera perché con la sua spinta poteva urtarla e affondarla passandole addirittura sopra e
immaginiamoci con quale strage dei poveri remiganti incatenati ai loro banchi! Se invece il vento
era nullo o insufficiente, allora la nave doveva cercare di tener lontana la galera con incessanti
colpi d'artiglieria, non solo perché non venisse a remi all'abbordaggio, ma anche perché in
bonaccia e a distanza ravvicinata l'artiglieria della galera, tirando radente all'acqua, era molto più
devastante di quella d'un vascello d'alto bordo, la quale era costretta a tirare alle galere invece di
ficco (fr. avec le canon plongeant), cioè dall'alto in basso. Questi vantaggi offerti dalla galera in
battaglia, insieme agli altri logistici di cui abbiamo già detto, spiegano perché la navigazione a remi
fu tanto tarda a morire nella guerra nautica; essa coesistette infatti con quella velica - ormai adulta
- sino a tutto il Settecento, anche se con compiti sempre più limitati.
Ricapitolando una tartana armata non doveva sfidare all'abbordaggio un galeone, né la stessa
cosa conveniva a una galera; ma d'altra parte in mancanza di vento il galeone e la nave grossa
dovevano cercare di tener opportunamente lontana la galera, considerate le micidiali capacità
offensive della bassa artiglieria di prua di quest'ultima.
Il punto in cui conveniva investire un vascello nemico era certamente quello in cui più ne potesse
restare offeso e quindi il fianco o mezzania (fr. gros), poiché questa era infatti la parte più bassa e
spesso, nel caso dei vascelli tondi, presentava addirittura la predetta belle dalla quale salirvi poi a
bordo più facilmente; il vascello investito restava colà più esposto alle artiglierie di prua e alle
archibugiate e più facilmente si poteva quindi sconcertarne l'equipaggio; nei vascelli da remo era
preferibile investire nella parte della mezzania più vicina alla poppa (fr. aborder de bout au corps),
perché, una volta montativi su da quella parte, si poteva conquistarne appunto la poppa e, caduta
questa, luogo di comando, era praticamente vicina la presa dell’intera galera nemica. Tutto ciò non
avveniva se s’investiva il vascello nemico alla sua prora (fr. si aborder de franc-étable), cioè
sperone contro sperone, perché, essendo quello un punto alto, si sarebbe difeso molto meglio, né
gli assalitori potevano dalla loro prua scoprire, ossia vedere, tutto il vascello da loro abbordato e
valutare quindi in ogni momento le mosse dei suoi difensori; inoltre il nemico poteva a prua
fortificarsi, essendoci di solito le traverse di cui abbiamo già parlato e poco lontano anche la piazza
d'armi ai piedi dell'albero di maestra, dalla quale i difensori della prua potevano ricevere soccorso;
dunque, anche se si riusciva a montarvi su, la prua nemica offriva certamente maggior resistenza
e con maggior difficoltà si poteva guadagnare poi tutto il vascello nemico partendo dal solo
985

acquisto della prora, cioè dalla sua estremità, dovendosi poi infatti combattere tutto il resto a palmo
a palmo. Alla più volte ricordata battaglia di Lepanto, scontro che certamente tanto contribuì a
tener lontana dall'Europa occidentale la minaccia asiatica, la galera Reale turca, abbordata alla
prua da quella della Lega, tre volte fu dai cristiani sanguinosamente guadagnata sino all'albero di
maestra e tre volte fu ricuperata dai turchi, sia perché essa aveva il doppio dei combattenti che
aveva quella cristiana sia per il soccorso che questi continuamente ebbero dalla loro poppa, dove
affluivano altri soldati ottomani provenienti da un’altra loro galera. Inoltre investire di prua era
pericoloso perché, a meno che non vigesse a bordo una rigorosa disciplina, tutti i combattenti
finivano per accorrere appunto a prua, dove cioè si doveva affrontare il nemico, lasciando così
tutto il resto della galera sguarnito e vulnerabilissimo da parte di un’altra galera nemica che si
accostasse per portare soccorso alla prima. C'è poi da aggiungere che quando una galera ne
investiva un’altra di fianco, non doveva temere la sua artiglieria, perché, come sappiamo, quella
più grossa era situata tutta a prua e da quella posizione non poteva nuocere; per lo stesso motivo
il vascello investitore poteva invece usare la sua con il massimo vantaggio. Una galera investita di
fianco era dunque costretta, se voleva ben difendersi, a tentare di girarsi verso l'assalitrice e, ciò
facendo, molto probabilmente a disordinare lo schieramento della sua squadra o stuolo, il che
poteva anche tradursi in una sconfitta generale.
Alla già menzionata battaglia di Capo d'Orso (1528), come riprende da Paolo Giovio il de
Bourdeilles, Filippino d'Oria conduceva, oltre alla sua Capitana, altre sette galere che, scriveva il
de Bourdeilles, si chiamavano Pellegrina, Donzella, Sirena, Fortuna, Mora, Signora e Nettuno
(quest’ultima montata dal capitano di condotta Lomellino), e avevano guarnizioni di fanti francesi
concessi dal de Lautrec, il quale, com’è noto, si trovava allora all’assedio di Napoli; il Moncada
invece, oltre alla galera Capitana, ne aveva sei altre - Gobba, Villamarina, Perpignana, Calabresa,
Oria e Sicama - e inoltre disponeva di quattro fuste, due brigantini e 14 barche da pesca (gr.
ἁλιάδα, ἐπακτρίδες, ἐπακτροϰέλετες; lt. horiae, questo dal gr. αῦρα, ‘brezza’). La squadra del d’Oria
era inoltre sotto costa, sottovento e contro sole, insomma svantaggiata al massimo; ma Filippino
non si perse d'animo e si allargò verso l'alto mare, ordinando a tre delle sue galere, cioè a quelle
del Lomellino, la Nettuno, la Mora e la Signora, le quali erano di retroguardia, d'allontanarsi
fingendo di dar volta, ossia di fuggire. Il nemico, forte del numero e del vento, investì le altre
cinque, trascurando le fuggitive, e avrebbe avuto facilmente partita vinta se quelle tre galere, ora in
vantaggio di vento e di sole, non si fossero a un certo punto rivoltate verso di lui e non fossero
andate a investire da dietro il fianco della Capitana nemica, già molto maltrattata da quella
fortunatissima cannonata di cui abbiamo più sopra detto, provocandone ora la caduta dell’albero
sui remiganti e la morte d’un giovane ufficiale generale, colpito dall’antenna precipitante, e cioè
986

Girolamo di Trani, il quale aveva preso il posto del padre nel comando dell’artiglieria napoletana,
mentre lo stesso vicerè di Napoli fra’ Hugo de Moncada, mentre combatteva con rondella e spada
alla mano, colpito al braccio destro da un’archibugiata e con la coscia sinistra troncata da una palla
di falconetto, cadde e morì dissanguato; anche feriti restarono il ventiseienne marchese del Vasto,
colpito al collo e alla testa dalle pignatte di fuoco e dalle pietre che il nemico lanciava dai gatti dei
loro alberi, e il gran connestabile del regno di Napoli Ascanio Colonna, ferito alla mano destra e a
un piede, il cui figlio Marc’Antonio sarà uno dei vincitori di Lepanto. A questo punto il d’Oria, con la
promessa della libertà, fece scatenare, armare e mandare all’arrembaggio anche gli schiavi
barbareschi e ciò costrinse il marchese e il Colonna ad arrendersi; i nord-africani fecero subito a
pezzi i cadaveri dei vinti, specie quello del Moncada, il quale aveva devastato le loro coste, mentre
anche gli altri vascelli ispano-napoletani s’arrendevano. Della squadra del Moncada erano state
colate a picco le galere Villamarina e Sicama, una fusta, un brigantino e diverse barche, degli 800
soldati da lui imbarcati ne restavano in vita solo un centinaio, in maggior parte feriti, e in tutto dalla
sua parte s’erano perduti circa 1.400 uomini, tra cui quattro capitani di fanteria e cioè Marin Daia
della coronelia (‘reggimento di fanteria’) di Navarra, Giovanni della coronelia di Biscaglia,
Zambrone e il suddetto Baredo; scriveva sempre il de Bourdeilles che la battaglia era stata così
sanguinosa che ai suoi tempi a Napoli ancora si raccontava come un capitano di fanteria spagnola
vi dovesse cambiare uno dopo l’altro ben sette alfieri, tutti uccisi con lo stendardo della compagnia
in mano; i genovesi v’avevano perso 500 uomini e due delle loro galere, la Sirena e la Fortuna,
erano state talmente fracassate dall’artiglieria nemica da risultare ormai inservibili, ma saranno
presto sostituite con due prese al nemico e cioè la stessa Capitana del Moncada e la Gobba.
Quest’ultima galera si chiamava così per esser il suo comandante un anziano genovese gobbo
della famiglia Giustiniani; egli fu gravemente ferito alla coscia, mentre a bordo del suo vascello,
perirono pure Cesare Fieramosca, preclaro ufficiale, il quale, colpito da una palla di smeriglio,
precipitò in mare, e Baredo, capitano spagnolo di fanteria ucciso da ben tre ferite mortali.
Restarono ai franco-genovesi molti prigionieri il più feriti, tra i quali i più nobili e quindi cospicui
furono, oltre ai predetti marchese del Vasto e Ascanio Colonna, Francesco Icardo, fratello di
Ludovico, noto castellano di Napoli, Filippo Cerveglione, Giovanni Gaetano, monsieur de Vaury,
uno dei borgognoni che avevano accompagnato in Italia Carlo V, Gogna, favorito del connestabile
di Borbone, Serone, cancelliere del consiglio senatorio di Napoli, Camillo Colonna e Annibale di
Gennaro, questi due ultimi molto amici del Moncada. Grandi erano stati gli insuccessi marittimi di
Hugo de Moncada e c’è infatti da ricordare, oltre a quello del 1518 contro Algeri che abbiamo già
menzionato e questo di Capo d’Orso, in cui perse addirittura la vita, anche quelli relativi al fallito
assedio a cui Carlo V sottopose la città di Marsiglia nel 1524, guerra in cui il Moncada fu fatto
987

prigioniero da Andrea d’Oria, allora al servizio di Francia, e poi, dopo aver trascorso qualche
tempo in cattività, per ordine di Francesco I fu liberato.
Questa sanguinosissima e molto poco ricordata battaglia, iniziata alle due del pomeriggio, era
durata sino a un’ora dopo l’imbrunire e la vittoria sarebbe potuta esser per Filippino anche
maggiore e meno faticosa se le tre galere ritornanti avessero anche loro usato le grosse artiglierie
di prua, avendo ora infatti anche questo vantaggio sul nemico, invece d'andare semplicemente a
investire i vascelli avversari come fecero, in quanto, pur urtandoli di prua, non poterono evitare
d'intricarsi alquanto con quelli, cosa che avrebbero potuto probabilmente evitare se gli avessero
prima maltrattati con l'artiglieria. L’andamento di questo combattimento dimostra quello che fu uno
dei principi fondamentali della guerra nautica velico-remiera, principio al quale abbiamo già
accennato, e cioè che il capitano d’un vascello doveva, prima d’iniziare il combattimento,
guadagnare il vento e ciò sia per l'impulso che nell’investire il nemico ne avrebbe ricevuto sia per
evitare il fumo dei cannoni, il quale sarebbe così andato a finire tutto sugli oppositori, sia infine
perché in tal modo, spirando vento di mare, facilmente i vascelli nemici sarebbero andati ad
arenarsi o incagliarsi (fr. investir) sugli scogli della costa; quest'ultimo pericolo era particolarmente
incombente soprattutto per le galee veneziane, le quali avevano, come sappiamo, ciurme non
incatenate:

... percioché avviene il più delle volte, subbito che la zuffa è attaccata, che i galeotti lassano e
abbandonano i remi e si travagliano in altro e il governo delle vele in tal tempo è parimente
lasciato; onde infinite volte, non si avvedendo i combattenti, sono in breve spazio i legni dal mare
gettati a terra. (P. Pantera. Cit.)

D’uno stratagemma come il suddetto, ossia dell’improvviso attacco di vascelli che avevano
dapprima finto il disimpegno, si erano già serviti i genovesi anche nel 1435 per battere la flotta di
Alfonso d’Aragona; si raccontava poi nel Cinquecento che anche l'armata dei crociati che nel
lontano dodicesimo secolo aveva sconfitto quella di Saladino aveva ottenuto tale vittoria per esser
riuscita a investire il nemico nel fianco e pare infine che il predetto espediente di fingere la fuga fu
pure tentato a Lepanto da 15 galere del corno sinistro dell'armata turca, galere che a un certo
punto si diressero pertanto verso il largo, ma uno dei capitani veneziani, il senatore Giacomo
Soranzo, per prevenire tale stratagemma, ordinò ai a piloti e proeri delle sue galere di sorvegliarle
strettamente e ad alcune delle migliori di tenere sempre la prua volta verso dette galere nemiche
per esser così pronte a disturbarle non appena quelle, invertita improvvisamente la rotta, si fossero
avvicinate all'armata cristiana; i turchi, vedendo queste misure, rinunziarono al loro intento e
tornarono al loro corno. In mancanza di vento bisognava cercare di guadagnare almeno il
988

vantaggio di sole, ossia porsi con il sole alle proprie spalle, in modo che sia l’astro stesso sia i
riflessi sulle proprie armature abbagliassero il nemico.
Abbiamo voluto, in deroga al nostro assunto, descrivere la battaglia di Capo d’Orso perché, pur
essendo oggi tanto poco nominata e conosciuta (come però del resto, se si eccettuano quelle di
Lepanto e d’Inghilterra, tutte quelle marittime del Cinquecento), fu invece importantissima, tanto da
determinare il futuro corso della storia europea. Infatti, il de Lautrec chiese a Filippino d’Oria tutti i
prigionieri da lui fatti in quell’occasione con la motivazione che erano stati catturati dai fanti
francesi che guarnivano le sue galere; ma il d’Oria, indispettito da tale ingiusta richiesta, glieli negò
tutti e preferì portarli a suo zio Andrea a Genova. Qui, scriveva il de Bourdeilles, peccarono
entrambi i capitani, il francese di prepotenza [‘’Ainsi que Monsieur de Lautrec estoit trop haut à la
main et qu’il vouloit imperier trop’’ (cit.)] e il genovese evidentemente d’avarizia, perché, avendo
fornito uno le fanterie e l’altro le galere, avrebbero dovuto poi dividersi di buon accordo tutto il
bottino, prigionieri compresi. Qui cominciò il disgusto d’Andrea d’Oria per l’arroganza francese,
quel disgusto che presto lo porterà a cambiar fronte e a portare i suoi servigi a Carlo V, decisione
che darà alla Spagna il controllo del Mar Tirreno a discapito della Francia e che purtroppo porterà
anche la reazione di quell’innaturale alleanza tra Parigi e Costantinopoli apportatrice di tanti lutti e
rovine ai popoli rivieraschi dell’Europa cristiana. Il de Bourdeilles, il quale, come abbiamo visto, fu
forse l’unico a giudicare di solito prudenti e ragionevoli i tanto discussi comportamenti d’Andrea
d’Oria, invece, da buon francese, considera proditorio il suo passare al nemico, anche se in verità
il genovese lo fece correttamente solo alla formale scadenza del contratto di condotta stipulato con
Francesco I e non prima; così infatti scriveva a tal proposito il cortigiano francese:

… mais, ayant remarqué que la fortune, envieuse des prosperitez du Roy, se declaroit pour
l’Empereur Charles V, il embrassa son party et retint les galeres de France, ainsi devenu perfide et
manquant à sa foy, sous preteste de quelque mécontentement imaginaire… et s’engagea tout-à-
fait avec l’Empereur aux mêmes conditions et avantages qu’il recevoit de la France… (Ib.)

L'uso dell'artiglieria in battaglia, come abbiamo già detto, non s’iniziava da lontano, perché era
estremamente difficile e fortunoso cogliere dei bersagli remoti e resi instabili dal più piccolo moto
ondoso; a distanza si sparava quindi solo per traccheggiare e molestare il nemico, né conveniva
farlo a media distanza, perché, avvicinandosi di prua, la galera nemica continuava a offrire poco
bersaglio e al massimo le si sarebbero potuti spezzare dei remi, il che non le avrebbe impedito,
data la breve distanza ancora da percorrere, di venire lo stesso a investire, anche se con minor
velocità, oppure le si sarebbe potuto far rovinare albero e antenna provocandole qualche morto,
ma anche ciò non l'avrebbe a quel punto fermata ne disordinata. Inoltre, sprecato così questo
primo colpo a media distanza, non ci sarebbe poi stato il tempo di ricaricare a regola d'arte e
989

riprendere la mira per tirarne un secondo a brevissima distanza, cioè il colpo più dovuto ed
efficace, essendosi nel frattempo i vascelli avversari ormai praticamente raggiunti e investiti ed
essendo ora i bombardieri o impediti dal proprio arrembaggio o assaliti da quello nemico; inoltre
bisogna considerare che, che a breve distanza, mentre era teoricamente possibile ricaricare il
cannone di corsia perché questo rinculava fino all'albero di trinchetto, lo stesso non si poteva fare
con i sagri, i quali, non avendo spazio per arretrare, erano tenuti fermi e si caricavano unicamente
dalla palmetta, sulla quale però i bombardieri non avrebbero a quel punto potuto più scendere
perché, trovandosi colà allo scoperto, vi sarebbero subito stati facile bersaglio del nemico.
Lo bordate d'artiglieria si scaricavano dunque solo da distanza molto ravvicinata, cioè appena un
istante prima dell'impatto col nemico, e questa norma era tanto più valida dovendosi colpire le
galere, i cui scafi erano molto bassi sull'acqua e i cui equipaggi, stipatissimi di ciurma, soldati e
marinai, ben si prestavano a essere colpiti da vicino con mitraglia di scaglie di ferro, di pezzi di
catene e di simili proiettili che vi avrebbero fatto sicura e orrenda strage, anche perché in quel
momento i nemici erano probabilmente tutti in piedi ai loro posti e quindi molto scoperti. Per tal
motivo, correndosi a dar quel colpo d'artiglieria subito prima d'investire il nemico, il capitano di
galera doveva ordinare che tutti gli scapoli e soldati non se ne stessero in piedi, bensì rannicchiati
sulle balestriere o distesi sulle reggiole (vn. bilancie), le quali, essendo quasi al livello del mare,
facevano 'sì che gli uomini colà distesi fossero quasi coperti dai flutti; in tal modo gli uomini non
offrivano bersaglio alla mitraglia e difficilmente ne potevano restare colpiti. Bisognava comunque
riuscire a sparare per primi perché tal colpo ravvicinato di prua, se preciso, risultava rovinoso per
la galera che lo riceveva, in quanto spesso anche succedeva che qualcuno dei suoi pezzi, colpito
magari a palla e non a mitraglia, ne restasse frantumato o spinto violentemente all'indietro dal
violento urto e indietro - intero o in pezzi - rovinasse, scorrendo un lato della galera verso poppa,
aumentando così la strage dei propri uomini, spezzando le rembate e facendo cader le sbarre o
traverse e altro ancora, il che inoltre apriva un largo varco agli assalitori, i quali subito
n’approfittavano per gettarsi tra i nemici. I turchi preferivano invece correre il rischio di dover
sopportare il primo colpo del nemico, per poi poter così sparare il loro il più da vicino possibile:

... Usano lasciare che l'inimico spari prima l'artiglieria e loro stanno bassi, poi vicini tirano la loro,
indi gli scappoli e uomini da remo (volontari) con archibugi e freccie danno un assalto terribile e,
vicini, con la spada fanno il resto [...] Non sparano (quindi) se non quando veramente è il bisogno.
(E. Albéri. Cit. S. III, v. I, p. 294.)

D'accordo con i turchi, ossia sull'importanza di scaricare la propria artiglieria sul nemico all'ultimo
istante prima dell'impatto, senza perciò preoccuparsi di riuscire a farlo prima del nemico, era il più
volte nominato Garcia de Toledo; egli, rispondendo a un preciso parere richiestogli in tal senso da
990

Giovanni d'Austria con sua lettera del 31 agosto 1571, scritta mentre questo allora, non ancora
famoso, si trovava da capitano generale a Messina, dove era giunto il 24 precedente, alla massa
della grande armata che colà stava allora raccogliendo e con la quale il 16 settembre sarebbe poi
appunto partito per andare a sconfiggere i turchi in quella tanto capitale battaglia che fu Lepanto,
dava il seguente reciso responso riportato dal de la Gravière:

... Non si può sparare due volte prima che le galere si abbordino; bisogna dunque fare - a mio
giudizio - ciò che raccomandano gli armaruoli, tirare il proprio archibugio così vicino al nemico che
il suo sangue vi salti al viso. Io ho sempre inteso dire - e da capitani che sapevano ciò che
dicevano - che il rumore degli speroni che si spezzano si deve confondere con quello dell'artigliaria
che si scarrica e non produrre - in certo modo - che un solo suono. Quando ci si propone di tirare
prima del nemico, ci sono cento pronti a scommettere che si tirerà da troppo lontano. Tal'è il mio
parere. (J. De la Gravière. Cit.)

Nello stesso momento dunque che s’investiva il vascello nemico si scaricavano contro di esso,
oltre all'artiglierie di prua, caricate non a palla, bensì a catene e scaglie, anche tutte le armi da
fuoco e da tratto (gr. ἂτραϰτος, ‘freccia’) portatili, quali - a seconda dell’epoche - archi, balestre,
schioppetti, archibugi, archibugetti, pistoni, pistole, cherubini (ossia, come già detto, i moschettoni
a ruota, nome presto corrotto in carabini e infine in 'carabine’), moschetti, moschettoni, fuochi
artificiati, pali di ferro e pietre, delle quali ultime bisognava approntare una sporta in ogni
balestriera. Aggiungeva poi il da Canal:

... vorrei anco che nell'istesso tempo egli (il capitano di galera) gridar facesse a' suoi 'Vittoria!'; che,
'sì come le più volte l'opinione di haver perduto è cagione che perdino, così il creder d'haver vinto
causa spesso la vittoria; o vero vorrei che si gridasse il nome del gonfalone e insieme
accompagnar col grido il suono delle trombette e piffari e così il battere de' tamburri... (C. da
Canalt.Cit. P. 248.)

Subito dopo l’investimento si continuava a far vogare con forza i remieri, perché la galera che
avrebbe vogato più forte avrebbe spinto la prua dell’altra di lato, sottraendosi così alla minaccia
delle bocche da fuoco nemiche e tenendo invece il fianco dell’oppositrice sotto tiro della propria
artiglieria; ma, a prescindere dalla possibilità che ancora si avesse di scaricare i propri pezzi,
questa posizione era anche vantaggiosa perché, come abbiamo già detto, permetteva
d’incominciare a saltare dall’alto della propria prua sul più basso fianco della nemica e, come
abbiamo appena visto, fu questo un vantaggio fondamentale per la vittoria di Filippino d’Oria a
Capo d’Orso; poi, per poter combattere e invadere meglio il vascello nemico, s’iniziava a
prolungare (ol. zy aan zy leggen, breedt leggen) il proprio vascello, cioè si cercava d'accostarlo per
la lunghezza del fianco al fianco dell’altro, mentre immediatamente si provvedeva ad agganciare
bordo con bordo la galera nemica (fr. aramber) con forti uncini di ferro detti arpagoni (poi arpioni) o
ganzi o rampini [lt. rampi(n)cones, rampiones unci, harpagones; sp. garfios, garabatos; gr.
991

ἀγϰῠλίδες], in modo che i due vascelli non potessero involontariamente separarsi durante
l'arrembaggio, e nel frattempo si potevano usare, oltre che le armi da sparo e le balestre, anche le
trombe di fuoco e le palle armate o granate a mano, armi queste ovviamente in grado di far gran
danno al nemico, ma che, come abbiamo già detto, era essenziale che fossero affidate a persone
molto pratiche e scrupolose e che il vento fosse a favore, perché altrimenti il vento contrario
avrebbe spinto il getto di fuoco e di fumo delle trombe indietro contro i propri commilitoni; anche
per questa ragione, oltre che per dare un colpo più violento al nemico e per poter governare meglio
di lui, conveniva dunque cercare sempre d'abbordare sopravvento. Per quanto riguarda il predetto
agganciamento, come leggiamo nel de Capmany, nel Medioevo, cioè prima che si diffondesse
l’uso delle artiglierie nautiche, i catalani usarono – sembra però senza particolare successo -
anche dei vascelli detti rampíns, perché muniti a prua di un ponte terminante in un grosso rampino
da abbattere sul legno nemico appunto per mantenerlo agganciato.
S’usava premiare l'uomo che avesse dato inizio a un arrembaggio saltando per primo sul vascello
avversario; nelle marinerie di ponente il premio s’aggirava attorno a un valore di 30 scudi, il
secondo l’avrebbe avuto di 20 e il terzo di 10 e ciò per consuetudine. Conquistato il legno nemico,
nessuno doveva scendervi sotto coperta; inoltre, chiunque avesse trovato a bordo di tal legno
gioie, danaro o altro di gran valore doveva - pena grave punizione - denunziarlo al suo generale e
da questi avrebbe ricevuto un corrispettivo di un decimo del valore complessivo di quanto trovato a
titolo di quota competente; nessuno poteva in ogni caso ardire d'aprire casse, bauli e forzieri o di
slegare balle e fagotti o altro bagaglio che si fosse rinvenuto a bordo del vascello nemico, sopra o
sotto coperta che fosse.
Non doveva comunque il capitano farsi tentare di consumare inutilmente i suoi uomini mandando
squadre su squadre al pericoloso arrembaggio, ma doveva tenerli tutti il più a lungo possibile ai
loro posti, intenti solo a sparare, e ciò perché, combattendosi augurabilmente contro galere
ottomane, bisognava essere consapevoli che i cristiani erano in tale azione molto avvantaggiati; i
turchi infatti, oltre a non usare come i cristiani né armi difensive né rembate e contra-rembate,
nemmeno, come abbiamo già detto, adoperavano le pavesate in quanto, essendo la loro principale
arma da tratto ancora l’arco, tali parapetti ne avrebbero ostacolato l’uso, e dunque erano
pressoché indifesi contro i proiettili e contro i getti di fuoco e la piccola mitraglia che scaturivano
dalle trombe, picche e pignatte artificiate e dalle predette palle armate. Comunque, strettamente
affiancate e uncinate che fossero ormai le due galere, sponda contro sponda, non era più possibile
continuare a usare le predette armi da sparo e da fuoco, sia perché non c'era più tempo di
ricaricarle sia perché, formatosi un affollamento dei combattenti in luogo ristretto, si rischiava
d'offendere con esse nemici e amici insieme; anche per un altro motivo non si dovevano ora più
992

usare assolutamente né le trombe di galera né le altre armi di fuoco artificiato e cioè perché il
fuoco appiccato al vascello nemico si sarebbe facilmente propagato a quello proprio. I soldati
montavano ora dunque sulla galera nemica armati di spade, rotelle, pugnali e, se lo spazio lo
permetteva e l'occasione lo richiedeva, anche d’armi inastate, per lo più solo mezze picche, perché
queste colpivano solo di punta, mentre già dalla metà del Cinquecento si erano sostanzialmente
dimesse quelle da taglio quali ronconi, partigianoni, alabarde e simili, in quanto, anche se molto
utili a tagliare le manovre del nemico, nelle mischie il loro maneggio era anch'esso pericoloso per i
propri commilitoni che combattevano dintorno; per lo stesso motivo si era anche dimesso l'uso
degli spadoni a due mani, molto apprezzati prima di Lepanto perché utilissimi se ben usati, ma a
maggior ragione pericolosi per i commilitoni quando ci si ritrovava in luoghi ristretti; era insomma il
medesimo motivo per cui tali armi erano ormai ricusate anche dalle fanterie di terra.
Durante l’arrembaggio i difensori cercavano di respingere gli assalitori con le loro armi inastate e
poi, una volta che questi erano riusciti a entrare sul loro vascello, mettevano anche loro mano a
spade e rotelle, mentre i soldati tenuti giù nelle camere erano fatti salire su in corsia per
soppiantare man mano quelli che, a seconda dei casi, stavano andando all’arrembaggio o a
questo resistevano; fatto questo, le camere sottostanti subito erano serrate, a impedire che i propri
combattenti andassero a nascondervisi per sottrarsi al combattimento, eccezion fatta per il gavone
di prua, perché lì dentro si ricoveravano i feriti, e la camera di mezzo, cioè il locale dove si poneva
lo scrivano, il quale durante la battaglia restava, come abbiamo già detto, giù per distribuire le
polveri ai combattenti.
Per non aver osservato le predette precauzioni relative ai fuochi artificiati nel 1555 era avvenuto un
grave incidente all'armata francese che combatteva contro quella fiamminga al largo di Dover nella
Manica; i francesi avevano uncinato 15 vascelli nemici, ma, difendendosi accanitamente e
valorosamente i fiamminghi, stanchi e già sconquassati dalle loro artiglierie, i transalpini tentarono
di liberarsi dagli agganci (fr. deborder) e così disimpegnarsi e, poiché il nemico non glielo
permetteva, diversi equipaggi francesi appiccarono il fuoco ai vascelli olandesi, perché questi,
presi dalla preoccupazione delle fiamme, li lasciassero sottrarsi alla battaglia; giunse però a questo
punto un forte vento contrario che, non avendo ancora avuto tutti i vascelli francesi il tempo di
sganciarsi, spinse il fuoco anche su di loro e vi restarono alla fine bruciati sei vascelli francesi e
altrettanti olandesi. Come narra il Giovio, l'imprudenza predetta era stata già commessa anche dai
veneziani nei pressi di Modone l'anno 1499; due vascelli veneziani n’attaccarono dunque colà uno
turco che trasportava mille soldati; perché non fuggisse, il legno nemico fu uncinato dai due
veneziani e, mentre così si combatteva, fu gettato fuoco sul vascello turco e questo s’incendiò a
poppa; il fuoco avanzò rapidamente e si attaccò anche ai due vascelli cristiani, i quali, non
993

potendosi rapidamente staccare da quello ottomano, bruciarono con esso miseramente. Fu questo
uno dei peggiori episodi d'incapacità e d'indisciplina tra i tanti che caratterizzarono l'infelice guerra
nautica che l'armata veneziana sostenne quell'anno contro i turchi soprattutto sotto Navarino e che
il 10 agosto dell’anno seguente portò alla perdita di Modone. Bisognava quindi sempre conservarsi
una possibilità di dar le poppe, ossia di ritirarsi o addirittura fuggire, soluzione questa a volte
necessaria e che il capitano prudente doveva saper adottare senza vergogna, e così saggiamente
fece Uluch-Alì alla battaglia di Lepanto:

... E Uluzzalì, fuggendo con quaranta galee (30, secondo il più attendibile Sereno) e con molte
galeotte, consolò molto Sultan Selim, grandemente afflitto per la rotta notabile della sua armata e
sollevò quei popoli, i quali, disperati e pieni di spavento, aspettavano l'ultimo esterminio da i
vincitori cristiani e fu causa ancora che si apparecchiassero nuove forze per l'anno seguente, con
le quali il medesimo Uluzzalì - e con l'ingegno più che con l'arme - sostentò la riputazione della
casa otomana facendo molte volte larga mostra della sua armata e quasi provocando i cristiani a
nuova battaglia, ancorché havesse altra intenzione; onde nacque ch'egli tornò in un certo modo
vittorioso a Costantinopoli senza haver sentito alcun notabile danno. (P. Pantera. Cit. P. 395.)

Secondo l’anonimo autore del manoscritto della Biblt. Marciana da noi già più volte citato,
personaggio che, a suo dire, avrebbe partecipato alla battaglia e infatti ne riporta particolari da
nessun altro ricordati, come per esempio la morte per suicidio d’ Müezzin-zâde Alì Pasha, Uluch-
Alì fuggi con sole 25 galere e non con 40 (Tutte le vittoriose imprese delle galere del Serenissimo
Granduca di Toscana etc. Cit.).
Ma, per tornare alla difficoltà di maneggio dei fuochi artificiati da guerra nei combattimenti nautici e
la loro pericolosità per chi li usava fece sì, come abbiamo già avuto occasione di dire, che questo
tipo d'armi cadesse quasi del tutto in disuso nella seconda metà del Cinquecento, ossia in
correlazione con il grande potenziamento delle armi da fuoco, il quale li rese quindi pressoché
inutili.
Un altro pericolo connesso all’andare all’arrembaggio era che, a causa d’improvvisi colpi di vento, i
vascelli assalenti si potevano trovare distaccati da quello assalito, lasciando quindi isolati e indifesi
quei loro uomini che vi fossero già saltati e facendo rischiare a quelli che vi stessero allora
saltando di cadere in mare e magari affogare; così avvenne per esempio nel 1255 davanti a
Barletta tra una nave filo-angioina e 4 galee di parte aragonese,come si racconta ne I diurnali
(1247-1268):di Matteo Spinelli:

… Lo dì di Santo Bartolomeo de Augusto 1255 io mi trovai a Barletta e se vedde una bella


battaglia, perché una nave de Ancona era venuta a caricare grano a Barletta e stava aspettando lo
viento; e vennero quattro galere a combatterla e erano due galere siciliane - ed una di esse era di
messer Simone di Vintemiglia - ed una era di Sorriento di messer Paulone lonnorso ed una di
Pozzuolo di Messer Herrico Spadainfaccia di Costanzo. Edattorniaro la nave e l'aveano redutta a
male partito, perché la galera pezzulana e la sorrentina l'aveano stretta tanto che ne erano sagliuti
994

undici e combattevano lo castiello de poppa e tuttavia ne saglieano dell'altri; quando se levao un


viento tanto forzato che destaccao la nave de mezzo le galere e restaro scornate con perdita de
chilli che nce erano sagliuti e de chilli che voleano saglire ne caddero a mare e non se ne salvaro
se non pochi che seppero natare.

In caso si ritrovasse scarsità di combattenti - cosa non insolita, come sappiamo, a bordo delle
galere degli avari genovesi - il capitano generale poteva ordinare d'armare d’armi in asta una delle
tre categorie di vogatori e cioè i forzati, promettendo loro la libertà se avessero combattuto
valorosamente; una tale proposta era in genere accettata dai condannati come una gran fortuna,
sia perché, restandosene invece incatenati ai loro posti anche durante l'abbordaggio, sarebbero
morti in gran numero senza potersi né difendere né sottrarre ai colpi e al fuoco del nemico sia
anche perché, contribuendo anche loro al raggiungimento della vittoria, avrebbero così scansato il
pericolo di veder perpetuarsi a vita la loro condanna al remo a bordo di galere del nemico, se
questo avesse prevalso. La decisione di far intervenire i forzati poteva anch’esser presa dal
capitano della galera durante il combattimento; lo scontro tra due vascelli da guerra abbordati,
specie se grossi, non era infatti cosa che dovesse durar poco ed era capitato a volte che un
combattimento del genere avvenuto tra due grosse navi o galeoni fosse durato sino a due giorni e
due notti, prima che si risolvesse a favore dell'uno o dell'altro dei contendenti; era necessario
pertanto affrontare la battaglia sempre con gente, oltre che sazia, anche ben riposata.
Uno dei più felici esempi d'utilizzo dei forzati come combattenti fu quello fatto nel 1568 in cinque
galere della signoria di Toscana che erano state attaccate e abbordate da sette tra galere e
galeotte turco-barbaresche; il signore di Piombino che le comandava si rese conto che i suoi,
nonostante si difendessero più che bene, non sarebbero riusciti a resistere per molto e pertanto,
con il parere favorevole di molti valorosi cavalieri che erano con lui, sferrò e armò i suoi forzati
promettendo loro la libertà; quei galeotti combatterono così valorosamente che non solo salvarono
le galere toscane, ormai quasi perdute, ma furono causa che si scompigliassero i vascelli
barbareschi e i cristiani addirittura facessero preda d'uno di loro. Alla stessa risoluzione si
pervenne anche nella giornata delle Gerbe, come implicitamente si dice nel Governo di galere, e in
quella di Lepanto, facendovi Giovanni d'Austria promessa di libertà a tutti i forzati delle galere della
Lega che avessero voluto combattere al fianco di soldati e marinai, e si disse che la cosa fosse
risultata di gran giovamento all’armata cristiana; dopo la grande battaglia molti forzati, non
fidandosi però completamente di tale promessa, non tornarono sulla loro galera, ma ripararono su
altre dove non erano conosciuti (Discorso circa il modo et maniera ha da tenere un Capitano etc.
Cit.).
Bisogna infine considerare che comunque già dall'inizio del Seicento, con il sostanziale
potenziamento delle bocche da fuoco da poco ottenutosi, all'arrembaggio si doveva arrivare
995

sempre più raramente, perché un vascello che fosse irrimediabilmente danneggiato dalla batteria
dell’artiglieria nemica, magari anche in procinto d'affondare, in genere si arrendeva prima; per tal
motivo un capitano prudente durante il combattimento teneva lo schifo in mare per poter così, oltre
che raccogliere qualche ferito che cadesse in acqua, anche e soprattutto accorrere con quello
laddove ci fosse immediato bisogno di turare provvisoriamente una falla appena aperta nel vivo
dall'artiglieria nemica, in attesa di poterla poi rombare, ossia riturare in maniera più ortodossa in un
cantiere, cambiando per intero la tavola danneggiata; ma si trattava di precauzione, come si può
ben immaginare, non sempre adattabile all’andamento e al fervore d'una battaglia.
Parleremo adesso d’un altro tipo di combattimento e cioè degli assedi marittimi, un esempio dei
quali si ebbe in occasione della più volte da noi nominata battaglia delle Gerbe, avvenuta
nell’estate del 1560, e quindi ne racconteremo per sommi capi qualcosa anche se, come abbiamo
già detto, non è nostro intento appesantire inutilmente questo nostro lavoro raccontando quegli
eventi della storia tanto importanti quanto però effimeri che sono le singole battaglie; cronache dei
fatti d’arme più rilevanti, coeve o poco posteriori, si possono oltre tutto reperire, come tutti sanno,
senza troppe ricerche. Aveva Filippo II re di Spagna nell’agosto del 1559 iniziato a raccogliere
un’armata nel porto di Messina, il quale a ciò sempre ben si prestava perché capace di dar asilo a
qualsiasi armata navale per numerosa che fosse, per tentare così l'impresa d'Africa, ossia di
Tripoli, per contrastare i gravi danni che Torgud, da quando aveva tolto tale città ai cavalieri di
Malta, cioè dal 15 agosto del 1551, e occupato anche l’isola delle Gerbe, arrecava da quei luoghi
navigazione e alle riviere cristiane; quest’armata, tra vascelli spagnoli, siciliani, napoletani, maltesi,
toscani, papalini, monegaschi e genovesi e secondo le poco precise relazioni del tempo, contava
53 galere, 11 galeotte, sette bergantini, 16 fuste, 12 grippi, 2 galeoni e 28 navi sotto il generalato di
Juan de la Cerda duca di Medina Coeli, allora vicerè di Sicilia, il quale aveva sostituito Juan de
Vega ed era coadiuvato da Alvaro de Sande, mastro di campo generale, Bernardo Aldana,
generale dell’artiglieria, Andrea d’Oria, generale delle galere del re, Flaminio dell’Anguillara di
quelle della Chiesa, Bernardino de Mendoza di quelle di Spagna, Sancho de Leyva di quelle di
Napoli, Berlinghiero Requesens di quelle di Sicilia, Nicolò Gentile delle toscane, il provenzale gran
commendator de Tejeira delle maltesi, Andrea Gonzaga, generale degli italiani e dei vascelli tondi;
gli uomini armati erano quasi 15mila tra spagnoli, italiani e alemanni. Questa massa, iniziata già
tardi, fu inoltre completata con molta lentezza e pronta solo nell’ottobre; cinque tentativi di partenza
furono impediti dai venti autunnali contrari ormai intervenuti e solo all’ultimo d’ottobre l’armata si
poté spostare a Siracusa; qui giunta fu di nuovo fermata dal maltempo ed molti soldati italiani
imbarcati s’ammalarono, dovendosi quindi ancora ritardare la definitiva partenza fino al primo
dicembre; però ancora i venti sfavorevoli costrinsero le navi, le quali non riuscivano a passare il
996

Capo Passaro, detto dagli antichi Capo Polidoro, a tornarsene a Siracusa e le galere invece a
sostare lungamente a Malta, dove il Medina Coeli ricevette in dono dal Gran Maestro lo stocco che
era stato di San Luigi e che colà si conservava, reliquia che, come vedremo, sarà però tutt’altro
che protettrice dell’impresa. Si consumava il tempo in Malta in attesa delle navi da Siracusa e,
quando queste arrivarono, aumentate d’altre tre mandate dal vicerè di Napoli Parafan de Rivera
duca d’Alcalà, dai due ai tremila soldati erano ormai morti a bordo per le febbri contagiose e la
violenta dissenteria intervenute nel frattempo e a queste morti s’aggiungevano le numerose e
inevitabili diserzioni dovute a una così lunga e inerte sosta; si dovette pertanto mandare ad
assoldare nuove fanterie in Sicilia e nel regno di Napoli, ma comunque non le si attese e il 10
febbraio, migliorato il tempo, si partì per la Barbaria con non più della metà dei soldati che si erano
avuti all’inizio l’anno precedente e, dopo aver toccato le isole di Lampedusa e Cherchen, cinque
giorni dopo si sbarcò all’isola delle Gerbe per far provvista d’acqua in un luogo a ciò consueto; qui i
tremila fanti sbarcati, mal utilizzati dal poco esperto e attento Medina Coeli, furono affrontati e rotti
con molti morti e feriti, anche di conto, da un numero quasi doppio di mori armati di lunghi
archibugi e di turchi a cavallo guidati da Torgud, il quale voleva loro impedire l‘acquata’, e lo stesso
Alvaro de Sande rimase gravemente ferito da un’archibugiata. Rimbarcatisi i cristiani, l’armata se
n’andò verso est e si trasferì in un inospitale paraggio di ’acque morte’, ossia di luogo di marea
particolarmente bassa, della Sirte Minore detto le Secche di Palo (chiamandosi infatti ancora sirti in
quei secoli le pericolose secche formate da sabbie in movimento sul fondo marino), dove un altro
virulento contagio febbrile ne uccise gli uomini a centinaia; lo stesso Gioan Andrea d’Oria
s’ammalò e dovette passare il comando delle galere genovesi al colonnello Quirico Spinola, il
quale però dopo solo qualche giorno era ucciso dall’epidemia; si decise pertanto infine il Medina
Coeli a tentare Tripoli senza aspettare le fanterie di rinforzo che attendeva da Malta, ma venti
contrari risospinsero l’armata all’isola delle Gerbe, e allora egli, essendo stata abbandonata l’isola
da Torgud, il quale s’era spostato a Tripoli, e non avendo ormai più forze sufficienti ad attaccare
quella città, la quale d’altra parte Torgud manteneva ben difesa di fortificazioni e presidio, pensò
d’occupare perlomeno quell’isola, dove poi mettersi ad attendere i rinforzi dalla Sicilia; infatti il 13
marzo la bandiera cristiana sventolava sull’isola e il Medina Coeli si mise a fortificarla, facendo
costruire all’ingegnere militare Antonio Conti una regolare fortezza in meno di due mesi, ricevendo
poi il giuramento al re Filippo dai mori che l’abitavano, impressionati da quelle opere; ma in
seguito, pur essendo stato da tempo avvisato che l’armata turca, alla sua molto superiore, si stava
avvicinando, si fece sorprendere da quella, la quale, sfortunatamente per i cristiani, non aveva
avuto la cattiva sorte di perdersi tutta in una tempesta di mare come era successo esattamente
cinquant’anni prima a quella che era allora uscita in mare sotto il comando del generale Jamal-Alì
997

per soccorrere Tripoli attaccata dagli spagnoli di Pedro Navarro. Quando l’armata ottomana,
capitanata da Pialì Pasha, da Mustafa, governatore di Metelino, da Torgud e da Uluch-Alì, arrivò
nelle acque dell’isola - era l’11 maggio - trovò dunque quella cristiana disorganizzata e divisa,
parte in fuga verso la Sicilia e parte in secco abbandonata dagli equipaggi e dalle guarnigioni, le
quali pensavano di difendersi nel forte dell’isola appena trasformato in fortezza, e così, oltre a 27
navi da trasporto e a una galeotta, furono prese ben 28 delle galere in fuga, tra cui due toscane e
quelle di Pio IV, la cui Capitana pare che fu raggiunta perché le si era rotta l’antenna di maestra,
ma questo legno del Papa Pio IV, racconta il de la Gravière, sarà riconquistato dai cristiani a
Lepanto e portato trionfalmente a Pio V. Furono così passati a fil di spada migliaia di cristiani,
specie gli spagnoli e gli alemanni, genti per le quali era più difficile ottenere un riscatto di quanto
fosse per gli italiani, i primi per quell’ostinato, naturale orgoglio che spesso impediva loro di
chiedere danaro ai loro parenti, specie se indigenti, e i secondi per la lontananza e la tradizionale
avarizia delle loro famiglie; a Flaminio Orsini, generale delle galere pontificie, fu tagliata la testa;
molti altri vascelli però riuscirono a fuggire e si sottrassero così alla cattura o alla morte, tra gli altri,
Gioan Andrea d’Oria, Gil de Andrada e il duca di Medina Coeli, mentre il figlio di questi fu fatto
prigioniero. Sette galere spagnole si rifiutarono di darsi a vergognosa fuga e si andarono a rifugiare
sotto il predetto forte, nel quale s’era rinchiuso Alvaro de Sande con 2.200 uomini tra spagnoli,
tedeschi e italiani; il generale spagnolo le fece ritirare in un luogo del porto più protetto dalle
artiglierie terrestri, le fece restringere insieme in modo che potessero difendersi a vicenda, le
trincerò tutt'intorno con bastionamenti di sarte tese e, perché non potessero esser colte di mira,
fece distendere grandi vele tra esse e il nemico; fece infine costruire in mare una travata d'alberi e
antenne di galera, legata e fortificata con catene, che usò come antemurale posto davanti ai suoi
vascelli, e infatti poi due assalti che i turchi condussero alle galere cristiane con piccoli brulotti per
attaccarvi il fuoco furono respinti proprio dalle scariche d'archibugieri e moschettieri che
guarnivano tale travata. I turchi alla fine di maggio iniziarono un ortodosso assedio con regolare
batteria, con lo scavare trincee e l‘elevare cavalieri, con l’impedire agli assediati l’accesso ai pozzi
d’acqua, tranne a uno. I cristiani, nonostante le coraggiose sortite contro ben 14mila turco-
barbareschi, sortite in cui facevano certi danni al nemico, tanto è vero che in una di quelle lo
stesso Torgud restò ferito a una coscia, pativano molto la sete, anche perché, pur trovandosi nel
pieno d’una caldissima estate, avevano a disposizione solo cibi salati e cioè principalmente cacio,
carne salata e tonnina; si racconta che tra i difensori c’era un certo siciliano di nome Sebastiano
che lambiccava l’acqua salata, riuscendo a produrne così 20 barili al giorno, comunque del tutto
insufficienti per tanti uomini, e poi, venuta a mancare la legna per questo lavoro, dovette smettere.
Tormentati dalla sete, molti d’ogni nazionalità cominciarono a fuggire nel campo nemico, chi
998

offerendosi a servitù volontaria e chi a ri(n)negare la fede di Christo, e in questa maniera il de


Sande perse più di 1.200 uomini; poi, dopo alterne vicende, i cristiani, persa anche una grotta
marina dalla quale traevano un’acqua poco salsa, quindi più facile da lambiccare, privi di legna per
quest’operazione, con i viveri alla fine, le difese del forte spianate e l’artiglieria in buona parte
crepata, imboccata o scavalcata, dopo 80 giorni d’assedio furono costretti alla dedizione. Il de
Sande s’era già arreso il 31 luglio mentre, vedendo tanti dei suoi disertare nel campo nemico,
tentava di fuggire in una barca; s’arrese a un rinnegato genovese, certo Conforti di Promusso, e fu
portato nella galera Reale turca, dove trovò già prigioni il de Leyva, il Requesens, Juan Francisco
de Cardona, futuro capitano generale delle galere di Sicilia e in seguito, cioè dal 1578, di quelle di
Napoli, e Gastón de la Cerda, figlio del Medina Coeli; quest’ultimo poco dopo morì, secondo alcuni
avvelenato dai turchi, i quali comunque non osservarono i patti della resa e, infatti entrati nel forte
dei cristiani, uccisero tutti quelli che si erano arresi, tranne alcuni che, riusciti a rifugiarsi nel
castello vecchio per scampare alla strage, furono poi fatti schiavi. Pialì tornò a Costantinopoli il 27
settembre portandovi i predetti illustri prigionieri; il de Sande fu lasciato poi circolare liberamente
nella metropoli ottomana sino all’anno successivo, quando, finitosi di pagarne il riscatto, poté
finalmente avere il permesso d’andarsene, il Requesens, trabaldato (‘riscattato’) anche lui e già
anziano, morirà nel 1562 d’una malattia contratta durante la prigionia; nel frattempo Pialì
approfittava della favorevole congiuntura per attaccare la Sicilia meridionale, così prendendo e
distruggendo la città d’Augusta.
Un’armata attaccata in un porto doveva, oltre a fortificarsi come sopra, frapporre tra sé e il nemico
galeoni o navi grosse, se ne disponeva, le quali fossero ben fornite di gente e artiglierie e
facessero da propugnacoli e trincee, tenendo così lontani i vascelli nemici dalla propria retrostante
armata sottile e debilitandoli con tiri continui; doveva inoltre sbarcare artiglierie per costituire delle
batterie a terra. L'avversario dal canto suo, se il suo attacco era così respinto e intendeva
tramutarlo in un assedio, doveva tra l'altro far affondare all'ingresso del porto dei grossi legni
carichi di pesanti massi, affinché non potessero entrarvi soccorsi agli assediati e doveva costruire
delle batterie galleggianti o utilizzare a tal scopo vascelli tondi ben muniti d'artiglierie oppure coppie
di galere affiancate per costruirvi sopra di traverso piattaforme o bastioni armati di colubrine e di
grossi cannoni d’assedio, come fece nel 1572 sotto Modone Giovanni d’Austria, approfittando della
presenza nella sua armata di patron Pier Tiragallo, còmito reale della squadra del granducato di
Toscana e noto esperto di batterie d’assedio, o anche di galere inframezzate con barconi
altrettanto armati di grosse bocche da fuoco.
Naturalmente le possibilità di resistere a un assedio marittimo dipendevano, oltre che
dall'eventuale ricezione di soccorsi via mare, anche e soprattutto da ciò che il retroterra poteva
999

offrire alla città costiera così assediata; molto patì infatti Genova l'assedio marittimo francese del
1577, giungendo quasi al punto di perdere la sua libertà, proprio perché, avendo un retroterra
sterile, la città dipendeva in massima parte dai rifornimenti marittimi, rifornimenti che l’armata
francese impediva totalmente, bloccando e catturando tutti i mercantili che vi si dirigevano e
scorrendo e infestando per lungo tratto la riviera ligure; quasi non fossero bastate le annuali
scorrerie che i corsari barbareschi compivano sulle coste liguri, come per esempio quella del luglio
1584 condotta da 30 vascelli algerini sotto il comando dello stesso reggente d’Algeri, il veneziano
rinnegato Hassan Pasha, di cui abbiamo già detto, scorreria che colpirà soprattutto la città di Sori;
questi vascelli corsari andranno poi a rintanarsi a Marsiglia sotto la protezione francese, come
spesso facevano, in attesa di tornare a colpire il Genovese al momento opportuno.
Il sistema della travata fu adoperato con successo dai cavalieri di Malta nel 1565, quando subirono
il famoso assedio ottomano; il Gran Maestro dell’ordine La Valette con grande meraviglia dei turchi
la fece costruire in una sola notte a protezione delle sue galere ormeggiate nel porto; i nemici
mandarono allora quattro nuotatori subacquei a tagliarla, ma questi furono affrontati e fermati in
acqua da nuotatori maltesi che si tenevano pronti e così i turchi non riuscirono più nel loro intento.
C'era poi il sistema - molto usato - di chiudere la imboccatura d’un porto con una o più grosse
catene tese a fior d'acqua (fr. bâcler le port) ed eventualmente, se tale imboccatura era vasta,
sostenute da piloni intermedi, ma questo stratagemma non era affatto sufficiente se non per
vascelli piccoli, perché una galera o una nave, spinta a forte velocità contro d’esse, le spezzava il
più delle volte e si ricorda - tra i molteplici esempi storici al riguardo - quello della galea veneziana
del sovraccòmito Santo Tron, la quale nel 1571, mentre era diretta a Dulcigno per una missione
affidatale, fu scoperta alle Bocche di Cattaro da 18 galere che, sotto il comando d’Uluch-Alì,
stavano scorrendo le coste della Dalmazia; iniziatosi l'inseguimento e arrivatisi a Ragusa dove il
Tron intendeva rifugiarsi, la galera cristiana trovò l'ingresso del porto chiuso da una catena, ma,
poiché si trovava quasi nelle mani del nemico, il sovraccòmito veneziano ordinò di remare (lt. in
remos procumbere) con la maggior forza possibile contro quell'ostacolo e così urtò e ruppe la
catena salvandosi nel porto; Uluch-Alì chiese ai ragusei di consegnargli quella galera con tutto il
suo equipaggio, ma i ragusei si rifiutarono, cosa di cui il rinnegato calabrese molto si lamenterà poi
a Durazzo. Eppure solo nel maggio precedente, nel corso delle trattative per la stipula della Lega
cattolica di quel 1571 contro Costantinopoli, il delegato veneziano, arrivatisi al capitolo che
riguardava la salvaguardia di Ragusa, l’antica Epidauro, voluta soprattutto dal Papa, aveva
espresso a tal proposito le riserve della Serenissima, asserendo che dei ragusei non ci si poteva
affatto fidare perché erano sempre e immancabilmente confidenti dei turchi, anzi in qualche sorta
erano addirittura vassalli del Gran Turco, in quanto, essendo molto bisognosi di mantenere con
1000

questo buoni rapporti per la salvaguardia dell’indipendenza della loro piccola repubblica, gli
pagavano un tributo annuo di 12mila ducati, ottenendone in cambio anche licenze e salvacondotti
per poter navigare liberamente senza essere aggrediti dai vascelli turco-barbareschi; affermava
quindi tale delegato che nulla bisognava che i ragusei sapessero degli accordi che i potentati
cristiani stavano prendendo ai danni della Gran Porta.
C’era la consuetudine che una galera o un galeone che avesse spezzata col tagliamare la catena
d’accesso a un porto nemico, se aveva il tempo e il modo di farlo, la ritirava a bordo e la portava
con sé, come trofeo da conservarsi ed esporsi poi in qualche cattedrale o chiesa cittadina dedicata
al santo che si voleva ringraziare della vittoria così conseguita. Nel 1287 i genovesi, spezzata la
catena che chiudeva Porto Pisano e incendiate fortificazioni e navi colà all’ormeggio, la avevano
portato via come trofeo ed era poi stata esposta a Genova nella chiesa di S. Lazzaro; sarà
restituita a Pisa solo nel 1860. Ovviamente, per impedire l’accesso a un porto, invece di catene si
potevano anche usare palizzate (fr. estacades) piantate nell’acqua o filari di battelli strettamente
legati insieme; si potevano anche utilizzare veri e propri vascelli uniti in maniera da formare, oltre
che una bastionata irta d’artiglierie, anche un vero e proprio comodo accampamento militare
marino e vi si poteva affondare del grosso materiale come massi, graticciate di ferro, imbarcazioni
grosse e robuste, magari dai fianchi ricoperti di lamine di ferro (gra. ϰατάφραϰταῐ νῆες; lt. naves
cataphractae), se vi era stato il tempo di prepararle. Troviamo quest’ultimo consiglio già dato nel
terzo secolo a.C. da Filone di Bisanzio [… vascelli tondi aventi gli scafi di ferro… (στρογγύλαι͵
σιδεροίς δὲ ϰόλποις ἐχύσας. In Βελοποιἲϰών λόγος, in Veterum mathematicorum opera etc. P. 94
Parigi, 1693)]. Così nel 1499 si prepararono per esempio i veneziani di Napoli di Romania (oggi
Ναύπλιο nel Peloponneso) nel timore che la potente armata di mare ottomana che, come nuove
giunte, stava per uscire dal Bosforo potesse soffermarsi ad attaccare anche quella località:

… Il generale (Antonio Grimani) ha dato ordine al provveditore (Simone) Guoro che, se l' armata
del Turco terrà la via di Napoli, guadagni tempo e vada ad affondare in porto alcuni scafi di galea
(D. Malipiero, cit. P. 170).

I veneziani, per ovviare il più possibile alla vulnerabilità delle catene portuali, cercavano di limitarne
la lunghezza ostruebdo le bocche dei porti soprattutto con delle purpurelle, cioè con delle basse
barriere frangiflutti che arrivavano a pelo d’acqua, accorgimenti dui era per esempio dotato il porto
della città di Zara:

… Oltre il sitto, che la rende inespugnabile, è nella bocca del porto una purpurella che traversa e
serra due terzi della bocca predetta e l'altro terzo d'esso canal che fa il porto verso la faccia del
castello è serato da una cattena, alla quale vi stanno di continuo e dìi e notte dei guardiani soldati
del castello per aprirla e serarla quanto bisogna, di modo che i navigli non ponno entrar in porto ne
uscir
1001

se non per quella parte della bocca che è serrata dalla cattena. La purpurella non è altro che un
amassamento di pietre vive con artificio buttate in aqua ed è alta fino al pillo d' aqua, larga circa sei
passa, lunga passa 225 in circa, di maniera che non è possibile che per sopra vi passino né galera
né altre sorti di barche. V'è poi la purpurella che circonda la città cominciando della parte di
tramontana fin in ostro, cioè dal castello fino al baluardo chiamato ‘cittadella’, che è uno spazioi
due terzi di miglio e della medesima larghezza. È vero, ch'ella è in più luoghi rovinata per le pietre
che vengono levate e rotte dagli uomini delle galere di generali, proveditori, capitani, sopracomiti
ed altri padroni di galea e dai rettori di Zara per cavar i datoli (‘datteri’) marini, che si nutriscono
dentro (‘che vi vivono dentro’), onde saria ben riconciarle e proveder bene che più non si
rovinassero, come abbiamo fatto noi. Più presso alla muraglia v'è un altra purpurella della
medesima sorte per riparamento della muraglia e delle fondamenta, le quali due ostano a tutte le
galee et altri legni da mare che si volessero appostarsi alle mura della città per batterle, di maniera
che da quella parte di mare rendono la fortezza inespugnabile (Simeon Ljubić, Commissiones et
relationes venetae. T. II, annorum 1525-1553. Pp. 193-194. Zagabria, 1877).

Questi frangiflutti, essendo formati da ammassi di pietre calcaree, erano tanto intensamenti
colonizzati dai prelibati datteri di mare, come si accenna nel brano, che quasi ne assumevano il
colore bruno rugginoso, da cui il loro nome veneziano di purpurelle. Mentre i cristiani, andando ad
assediare una piazza marittima, s’accontentavano di costituire le loro batterie con i cannoni di
corsia delle galere, pezzi sufficienti a tale scopo, i turchi, disponendo di molti schiavi e in ogni caso
d’infinita quantità di bastagi, guastatori e mano d’opera in genere a ottimo mercato, si portavano
invece dietro, specie nel tardo Rinascimento, enormi e pesantissime bocche da fuoco, armi che i
loro sultani molto amavano farsi fondere e possedere per dimostrare anche così la loro potenza e
intimorire maggiormente il nemico. Di tali smisurate artiglierie era per esempio dotato l’armata che
Sulaiman il Magnifico invio nel 1522 alla conquista di Rodi, un’armata turco-siro-egiziana che, tra
vascelli grandi e piccoli arriverà a contarne circa 400 e il cui fulcro era costituito da quella remiera
turca e cioè da 103 galere, 35 maone e inoltre galeotte, fuste e brigantini; si trattava cioè, per
quanto riguarda l’artiglieria grossa d’assedio, di gigantesche bombarde e di 12 enormi mortari a
palla di pietra, di basilischi e grossi cannoni a palla di metallo; c’era poi tanta artiglieria media,
specie passavolanti, ossia gli antenati delle colubrine, e sacri e falconi; infine spingarderia, ossia
artiglieria minuta, in grande quantità.
Altro interessante episodio d'assedio marittimo, anch'esso tratto dal Pantera come altri di quelli che
abbiamo già menzionato, fu quello che si svolse attorno agli anni 1553-1554 nel corso della lunga
lotta che nel Mediterraneo oppose Andrea d'Oria ai corsari barbareschi Barbarossa e Torgud e che
vide quest'ultimo sorpreso dal principe mentre faceva spalmare i suoi vascelli nel canale del luogo
detto dai francesi les Sequennes de Barbarie e dal quale non avrebbe potuto uscire senza cadere
nelle mani dei genovesi; ma l’astutissimo corsaro non si perse d’animo e fece subito costruire in
tutta fretta un fortino all’imboccatura del canale e lo munì di tre o quattro cannoni di corsia sbarcati
dalle sue galere, artiglierie con il cui continuo tiro impediva alle galere del d’Oria l’accesso al
1002

canale, poi ingaggiò 500 uomini del posto e, unitili ai suoi remiganti, marinai e soldati, in una sola
notte fece tirare a terra i suoi vascelli e, facendoli scorrere su dei rulli d’albero all’uopo preparati, li
fece trascinare per un lungo tratto sino a un altro canale vicino, dove li riarmò e, dopo aver ritirato
nascostamente gli uomini del forte, i quali non avevano mai smesso di combattere, fuggì; la
mattina seguente il principe s’accorse dell'inganno subito dall’astuto corsaro avvistando i suoi
vascelli già in alto mare, tentò quindi di raggiungerlo, ma Torgud era ormai tanto lontano che, non
contento di questa beffa, nei pressi dell’isola di Cherchen catturò, quasi sotto gli occhi del nemico,
la galera Padrona di Sicilia che stava andando a raggiungere il d’Oria con una provvista di viveri e
50 soldati, episodio che convincerà i corsari siciliani a essere d’allora in poi molto più guardinghi
nell’andare a fare la guerra di corso sulle coste della Barbaria, e infine s’eclissò definitivamente.
Quest’episodio divenne subito notissimo sulle rive del Mediterraneo, come testimonia il de
Bourdeilles:

… J’en ay oüy faire le conte à une infinité de mariniers et soldats, qui le disent encor par toutes les
costes… (Cit.)

Andrea d’Oria, per giustificare il suo smacco, sempre poi sosterrà che quello stratagemma di
Torgud era stata palesemente opera del diavolo, altrimenti avrebbe dovuto ritenere quel turco il più
grande capitano di mare mai esistito e non aveva altri elementi per doverlo credere tale :

… et comme André Doria s’estonna de cette escapade, si bien qu’il ne pouvoit croire que c’eust
esté un œuvre divin, mais du tout diabolique et infernal… Et il dit bien plus que, si le Diable ne s’en
fust point meslé ou quelque nompareil sorcier par adjurations et par imprecations, il tenoit Dragut
le plus grand capitaine de la mer et qu’il luy cedoit la gloire ; comme certe ce cas fut admirable…
(Ib.)

Anche Sulaiman il Magnifico aveva grandissima considerazione di Torgud :


… Sultan Solyman le tenant pour si grand capitaine qu’il commanda nommement à Rostan Bascha
(‘Pialì’) qu’il n’entreprist rien sans l’advis et conseil de Dragut (Ib.)
1003

Capitolo XVII.

DOPO LA VITTORIA.

Ottenutasi la vittoria, si ringraziava pubblicamente il Signore con funzioni religiose a bordo degli
stessi vascelli e poi si concedeva a soldati e marinai di saccheggiare i vascelli nemici di tutto ciò
che non fosse d'interesse militare, in sostanza quindi solo di ciò che potesse essere considerato
come effetti personali dei nemici:

... Dopò la vittoria che hebbe l'armata della Lega cristiana a i Curzolari (‘Lepanto’) nacque gran
discordia per la preda tra i soldati italiani e spagnoli, concorrendo avidamente questi e quelli al
bottino delle più belle e delle più ricche spoglie de i turchi con gran contrasto, sforzandosi gli
spagnoli di offuscare il merito de gl’italiani e cercando all'incontro gl’italiani di sostentarlo con tanta
alterazione di parole e d'ingiurie che furono per combattere insieme (‘tra di loro’). (P. Pantera. Cit.
P. 398.)

E si sarebbero effettivamente azzuffati se i generali non avessero subito fatto pubblicare


severissimi bandi contro coloro che fossero venuti alle armi per discordie di bottino; e così il gran
rumore si acquietò. Certo è che malumori devono essere stati notevoli anche tra i principali ufficiali
e personaggi italiani, almeno per questo depone un dispaccio da Napoli del da noi più volte già
citato Bonrizzo, cioè quello del 13 novembre successivo, con il quale il residente veneziano dava
scrupolosa notizia di tutti i numerosi alti ufficiali e nobili cavalieri protagonisti della fatidica battaglia
che, sulla via del ritorno verso i loro paesi in Italia, stavano passando per la capitale partenopea:

… Tutti sono così malcontenti di don Giovanni da non aver ritegno d’affermare apertamente che
per nulla al mondo tornerebbero l’anno venturo a prender servizio sotto di lui… (N. Nicolini. Cit.)

Evidentemente Giovanni d’Austria aveva finito per favorire gli spagnoli nella divisione del bottino,
come spesso succedeva in quegli eserciti multinazionali al servizio della Spagna.
Coloro che si erano distinti in combattimento erano premiati in pubblico con ricchi oggetti presi al
nemico e con il conferimento di perpetue commende. Ancora a proposito di Lepanto così scriveva
il Pantera:

... Gratissima si è mostrata la Republica di Venezia verso quelli che l'hanno servita e sono morti in
quella giornata e verso i lor descendenti, come suol fare per antico instituto verso quelli che si
adoprano in suo servizio e come fanno i Re di Spagna e particolarmente Filippo Terzo hoggi
regnante, il quale, caminando per i vestigij delli suoi generosi progenitori, remunera i suoi servitori
e figlioli e successori loro con premij e stipendij larghissimi e non solamente i suoi vassalli, ma
ancora gli stranieri. (Cit. Pp. 399-400.)
1004

Sembra di leggere nelle predette righe un implicito rimprovero allo Stato della Chiesa per il quale
questo forse veneziano capitano allora militava e che evidentemente non si dimostrava altrettanto
generoso con chi lo serviva!
La divisione del bottino di guerra che spettava ai principi collegati che avevano partecipato con le
loro squadre a una impresa comune, quale fu appunto quella di Lepanto, poteva essere oggetto di
patto preventivo o - in mancanza di questo - si faceva a proporzione della spesa che ognuno d'essi
aveva sostenuto per formare e mantenere l'armata. Ai principi spettavano dunque i vascelli
catturati, la loro artiglieria, gli schiavi e le provvisioni da guerra e da bocca che si erano rinvenute a
bordo di quelli; sempre nel caso di Lepanto, il bottino fu diviso come segue:

Al Papa, il quale sosteneva un sesto della spesa, toccarono 19 galere, due galeotte, 19 pezzi
d'artiglieria grossi, 3 petriere, 42 pezzi piccoli e 558 schiavi ;

alla repubblica di Venezia, che ne sosteneva due sesti, 39 galere e mezza, quattro galeotte e
mezza, 39 pezzi grossi e mezzo, 5 petriere e mezza, 86 pezzi piccoli e 1.223 schiavi;

al re di Spagna, sul quale gravavano tre sesti della spesa, 58 galere e mezza, 6 galeotte e
mezza, 58 pezzi grossi e mezzo, 8 petriere e mezza, 128 pezzi piccoli e 1.870 schiavi. (Ib.)

Ci furono inoltre una cinquantina di personaggi da riscatto (M. Aymard. Cit.) Come si vede, le circa
140 galere e galeotte prese in quella battaglia ai turchi, si erano poi ridotte nella spartizione a sole
114 in totale, essendo evidentemente il resto stato giudicato inutilizzabile, mentre tutte le altre
erano andate nel combattimento affondate, sfasciatesi sulla costa e quindi bruciate, tolte però una
cinquantina fuggite; infatti, oltre a quelle salvatisi con Uluch-Alì, circa 15 galere e 10 galeotte
riuscirono a rifugiarsi a Lepanto. Ufficiali generali e maggiori, capitani di galera inclusi, ebbero in
regalo degli schiavi. Secondo il Catena, gli schiavi fatti a Lepanto, ufficialmente circa 6mila, furono
molti di più di questi dichiarati e cioè circa 10mila, in somma per la maggior parte tenuti nascosti
dagli ufficiali che se n’erano appropriati. Altra cosa da notarsi nella predetta spartizione è che il
numero dei pezzi grossi d'artiglieria predati è pari a quello delle galere e quindi si tratta
evidentemente dei soli cannoni di corsia, dei quali ce n’era uno solo per galera, come sappiamo.
Gli stendardi conquistati restarono ai generali. Mentre generali e capitani e gentiluomini
dell’armata, sbarcati a Messina, erano da quella cittadinanza tanto acclamati e festeggiati, i
semplici soldati e marinai furono dai messinesi subito considerati solo dei pollastri da spolpare:

… Erano in Messina i soldati come se ognuno di essi fosse stato un sacco pien di zecchini d’oro
riguardati, per che quelli a’ quali era toccato più il buscare (‘far bottino’) che il combattere, essendo
genti basse, tanto poco use ad haver danari che non sapevano che farne, andavano tanto
1005

prodigamente spendendo che, come coloro a’ quali gli aspri (moneta corrente turca) d’argento
erano venuti in puzza, si sdegnavano di comprar cosa, ben che picciola fosse, con altra moneta
che con quelli zecchini, non replicando mai a prezzo che lor fosse domandato, di maniera che chi
non aveva in quel tempo zecchini malamente a’ suoi bisogni provvedeva… (B. Sereno. Cit. P.
226.)

Ma in effetti il danaro contante trovato a bordo delle galere turche era stato piuttosto poco:

… Eran poi quelli che havevan danari da far queste cose pochissimi, perché il guadagno
dell’armata, quanto alla grossa preda de’ danari, non era stato in più di tre galee, perciocché, da
quella de’ contatori (‘pagatori militari’) in poi, che portava le paghe, e la Capitana di Rodi e la Reale
del Bascià, non so che in altri vascelli si trovasse quantità d’oro né di argento, né in moneta né in
vaso; ben è vero che generalmente quasi ogni soldato basso, almeno nello spogliare i morti,
guadagnò qualche cosa, perché quasi tutti i turchi ne’ fondelli de’ lor turbanti havevano, come
reliquia sacra, qualche zecchino cucito, oltre che delle giubbe e delle spoglie andavano sempre
facendo qualche danaro. (Ib. Pp. 226-227.)

In seguito, testimonia sempre il Sereno, tali soldati non si videro ricompensati dai loro sovrani
come avrebbero meritato; per esempio i soldati papalini furono trattati nella maniera più avara
possibile, perché dapprima si era addirittura pensato, per far risparmiare le finanze pontificie, di
saldare i loro conti e di farli sbandare nella stessa Messina, ma poi, essendo divenuto ciò
inattuabile perché il loro commissariato pagatore Grimaldi era dovuto improrogabilmente partire
per Genova, godettero perlomeno della comodità d’essere trasportati a spese del loro stato sino a
Napoli:

… Dove, ritornato che fu il detto commissario, tanto minutamente fu fatto loro il conto che, come se
mai fazione (‘azione di guerra’) alcuna havessero fatto, non procurando per loro chi ne doveva
aver cura (vale a dire, non difendendo il loro generale, come avrebbe dovuto, i loro interessi), fu lor
fatto pagare (‘detratto dalla paga’) sino alle proprie munizioni, che col sangue loro dai nemici,
combattendo, si avevano guadagnate. Di modo che, non essendo lor (stato praticamente) donato
la paga – che, sebbene con nome di donativo, molto debitamente dopo le generali fazioni si deve –
e ritrovandosi la maggior parte di essi senza danari, licenziati che furono, non bastò loro vendere
le armi per vivere, ma, nel ritornare alle lor case scalzi e spogliati, di andar miseramente
mendicando furon costretti… (Ib.)

Al danno poi, come spesso succede, seguì la beffa:

… Aggiungevasi alla lor miseria ancora che, essendo in Napoli e in Roma prima di essi comparsi
quelli che più havevano procacciato il guadagno che combattuto e, havendo di molt’oro fatto
mostra pomposa, furon cagione che, quando essi meschini, che da buoni soldati onoratamente
havevano fatto il debito loro, così maltrattati vi giunsero, credendosi ognuno che solo i vigliacchi
ed (uomini) da poco guadagnar non havessero saputo, non solo non trovarono chi li aiutasse, ma
furono di più comunemente scherniti… (Ib. Pp. 227-228.)
1006

E il Sereno avrebbe potuto nominare molti dei suddetti vigliacchi profittatori e millantatori che a
Roma si spacciavano per eroi di Lepanto, così oscurando e danneggiando quelli che invece,
anche se tornati dalla guerra più poveri di come erano partiti, eroi lo erano stati veramente!
Quanto abbiamo testé detto riguardava la spartizione del bottino guadagnato in battaglia ordinata,
ma, se in navigazione si faceva qualche preda estemporanea, il relativo bottino si spartiva ad
arbitrio del capitano generale, il quale avrebbe dovuto distribuirlo secondo i meriti e le qualità delle
persone che avevano partecipato a quella particolare azione. Il duca di Medina Coeli, prese alle
Gerbe (1560) due navi nemiche, vi fece subito sostituire li stendardi con quello del re di Spagna,
v'aggiunse buona guardia affinché non venissero saccheggiati e fece di tale preda tre parti, delle
quali due dispensò ai capitani e ai militari più segnalati della sua armata e una fece invece
distribuire equamente tra i soldati.
Il già menzionato contratto di condotta del 1337 stipulato tra Aitone d’Oria e la corona di Francia
prevedeva per quest’ultima la metà delle prede fatte sia in mare che in terra, ma la totalità sia dei
beni immobili conquistati, cioè città, terre e castelli, sia dei diritti ereditari e dei prigionieri (J. De la
Gravière. Cit.).
Nel caso invece della guerra di corso, tutto il bottino di vascelli, artiglierie, munizioni e schiavi
andava al principe e al personaggio che aveva armato i vascelli corsari e li aveva mandato in corso
a sue spese, levatane però quella parte che si era promessa in ricompensa al proprietario dei
vascelli medesimi, il quale spesso era lo stesso principe. Al capitano che col suo vascello di corso
aveva da solo investito, abbordato e conquistato un vascello nemico toccava in particolare la gioia,
ossia uno schiavo, e anche un premio speciale si dava a coloro che erano stati i primi a montare
sul legno avversario. Ai còmiti e ai piloti toccavano le sartie, le vele e un’ancora; ai marinai e ai
soldati le robbe tagliate, cioè le vesti e le armi che si fossero trovate sopra coperta, qualcosa
insomma di simile al fr. pillage (ol. plonderagie) che si praticava sull’oceano e che significava che,
mentre al capitano andavano immediatamente tutti i viveri e tutte le armi minute del vascello
catturato, ogni singolo uomo poteva impadronirsi degli effetti personali del nemico da lui preso o
ucciso e, sino però a un certo limitato importo, anche del danaro che quello aveva addosso,
andando l’eccedenza invece a far parte della massa del butin. Sui vascelli di corso armati a terzo
biscaino, ossia non da un solo importante personaggio, bensì da una società di più persone, si
divideva la preda in proporzione alle quote d'armamento e all'ufficio che ognuno dei soci
eventualmente esercitasse sul vascello; prima pero se ne levava la quota detta l'ammiragliato, cioè
quella che si pagava al principe che aveva dato al capitano del vascello la licenza d'andare in
corso con il suo stendardo e la relativa patente. L'ammiragliato consisteva generalmente nel 10%
di tutto il valore del bottino fatto; il restante 90% si divideva in tre parti, di cui una toccava al
1007

vascello, un’altra andava di rimborso della spesa d'armamento e delle vettovaglie e la terza
toccava all'equipaggio e alla guarnigione militare, divisa quest'ultima secondo l'ufficio e il carico
che ciascuno ricopriva a bordo. Ma questi usi di distribuzione del bottino di mare variavano
ovviamente da stato a stato e da tempo in tempo e quelli da noi suddetti sono solo alcuni dei più
ricorrenti; infatti il già più volte da noi citato residente veneziano Girolamo Ramusio così descriveva
nel 1597 quelli allora in vigore nel regno di Napoli:

... Nel dividere la preda si tiene quest'ordine: se il vascello è di tre gabbie, è tutto del Re; se non è
tale, si stima il vascello e tutto il carico; se è presente il Generalissimo o suo luogotenente, si cava
la decima per suo conto; se sono lontani, se gli fa un presente detto 'la gioia', secondo la qualità
del bottino; il resto viene ripartito in cinque parti: tre al generale, una ai capitani di galea, la quinta
ai soldati e galeotti. Gli schiavi che si prendono sono del Re, il quale da in ricompensa a quelli che
li hanno presi trenta ducati per ogni schiavo e, per i 'rais', cento ducati l'uno. (E. Albéri. Cit.
Appendice.Pp. 347-348.)

Era antica tradizione veneziana invece che la preda venisse ripartita unitamente, ma secondo le
competenze di ciascuno, dal sovraccòmito, dal capitano di fanteria e da un galeotto o altra persona
in rappresentanza quest'ultimo delle buonevoglie, le quali, essendo uomini liberi, avevano
anch'esse diritto alla loro parte di bottino. É interessante poi leggere, a proposito degli antichi usi
veneziani di spartizione della preda, la predetta ordinanza del doge Mocenigo (1420):

... Se le galie de guarda over algune de le altre prenderà fusti o fuste, la roba de coperta sia soa,
eceto che scorieri (‘corsari’) de le dite fuste, i quali debino presentar a misier lo Capetano; se
veramente prendesi griparia (‘barche di servizio’) over altro naviglio, non tocando alcuna cosa, ma
quela deba aprexentar a misier lo Capetano azò el posa desponer de esa el consueto. (A. Jalt.
Cit.)

Gli ammiragli turchi usavano far man bassa del bottino e quindi rapidamente si arricchivano, vedi
per esempio Pialì Pasha (ungherese da Tolna, secondo l'Albéri), il quale, pur essendo uomo timido
e inesperto di mare, aveva molto approfittato della sua fortunosa vittoria all'isola delle Gerbe
(1560), come commentava il segretario veneziano Marc'Antonio Donini nella sua relazione
sull'impero ottomano redatta nel 1562:

... Si ritrova (Pialì Pasha) al presente più che 700 schiavi buoni per vogare in galea, parte
acquistati al Zerbi e parte in diversi altri luoghi dove prima ha avuto vittoria, oltra altri 600 in circa
che lo servono nelle altre cose che gli occorrono. Si tiene che sia molto ricco per antedetta cagione
e per aversi appropriate le paghe delle galee (cristiane) e delli soldati che furono ritrovati (‘che si
ritrovarono’) in quelle e nel forte del Zerbi, che, per quanto s'è ragionato da molti, importarono più
che 300.000 scudi, oltra li riscatti di molti signori capitani e soldati. (E. Albéri. Cit. S. III, v. III, p.
189.)
1008

Insomma in secoli di scarsissime disponibilità monetarie e finanziarie, il compensare direttamente


con beni materiali, anche se solo residuali, era pratica molto comune; per esempio nel 1273 il re di
Napoli Carlo I d’Angiò aveva ordinato che si assegnasse al suo ammiraglio Philippe de Toucy
(‘Philippus de Tucziaco’) quanto segue:

… tutte le vecchie imbarcazioni che fossero del tutto inutili alla navigazione né in alcun modo si
potessero riparare o ripristinare e gli armamenti delle predette imbarcazioni (che fossero anch’essi)
vecchi e del tutto inutili a qualsivoglia vascello […] tutte quelle cose si debbano mettere a
disposizione dell’ammiraglio come da consuetudine del nostro regno. {omnia vasa vetera, que
prorsus inutílía fuerínt ad navígandum nec modo quolíbet poterint reparani nec non аffici et
armamenta ípsorum vasorum vetera et prorsus inutilia vasis quíbuscumque […] secundum
consuetudinem Regni nostri ea omnia Ammiratí commodo debeant applícari. G. Del Giudice, cit. P.
14.}

Comprendiamo che, detto solo in tal maniera, non tutto risulterà molto chiaro al nostro lettore in
questa materia della spartizione dei bottini, materia che però, essendo solo accessoria a quella
prettamente bellica, principale oggetto di questo lavoro, preferiamo senz'altro abbandonare;
vorremmo solamente chiarire che, anche dalla presa di una galera nemica si poteva, aldilà degli
uomini da vendere come schiavi e di quelli di qualità da mettere a riscatto, ricavare ricchezze
materiali, anche se non erano più i tempi del Medioevo in cui a bordo di una galera si erano potuti
trovare gran quantità di metalli e tessuti preziosi:

… E gli uomini delle galere del re d’Aragona sbarcarono a terra e ciascuno portava con sé ciò che
aveva guadagnato: coppe d’oro e d’argento e taglieri e scodelle e bellissimo vasellame d’argento e
gualdrappe di seta e ricchissimi guarnimenti e bellissimi abiti di zendado impelliccciati di vaio e
tanto denaro e argento monetato che nessuno ne potè sapere l’ammontare (d’Esclot, Cronica,
all’anno 1282).

Ottenutasi dunque la vittoria in una regolare battaglia, si liberavano gli schiavi cristiani trovati sulle
galere maomettane - ben 12/15mila nel caso di Lepanto - e si facevano schiavi i maomettani
perché divenissero proprietà privata o servissero al remo sulle galere cristiane; se tra costoro
v'erano ufficiali o personaggi importanti, questi s’imprigionavano, ma si trattavano bene e li si
tenevano da parte perché un giorno sarebbero serviti come mediatori per chiedere al nemico la
cessione di fortezze, città o stati, oppure si sarebbero potuti liberare a riscatto o scambiare con
qualche personaggio cristiano in mano dei turco-barbareschi, così come si fece dopo la battaglia di
Lepanto, quando, tra gli altri fatti prigionieri dalla Lega, dall’allora duca di Paliano e Tagliacozzo
Marc’Antonio Colonna, generale delle 12 galere toscano-pontificie che avevano partecipato a
quella capitale battaglia e in seguito, come sappiamo, vicerè di Sicilia, furono portati a Roma uno
dei due figli di Müezzin-zâde Alì Pasha, generale dell'armata ottomana, ossia Sain Bey, essendo
1009

morto nel frattempo a Napoli l’altro, il diciottenne Melebu Bey, di dispiacere, come si disse, e
inoltre Mehmed Bey, sangiacco di Negroponto, Mohamed Ben Salah Rais, Monsulman Alì,
chiamato, come abbiamo già detto, detto Caur Alì, capitano di fanò, comandante di 12 galere e
membro del consiglio di guerra del defunto capitano generale Alì, il corsaro Karagj Alì e altri, i quali
tutti, sebbene costretti a presentarsi al Pontefice vestiti con la livrea del vincitore, furono da lui ben
trattati e furono scambiati in seguito con Gabrio Serbelloni, preso dai turchi nella guerra di Tunisi
del 1574, e altri segnalati nobili cristiani che erano da tempo schiavi dei turchi; ecco un brano d’un
dispaccio del Bonrizzo da Napoli datato 19 febbraio 1572:

… Tre giorni fa giunsero a Napoli i due figli del defunto Alì, capitano del mare, il sangiacco di
Negroponto e altri prigionieri turchi di riguardo che don Giovanni invia al Papa per mezzo di don
Rodrigo de Benavides, suo cameriero maggiore. Partiranno per Roma non appena saranno pronti
i loro vestiti, tutti di seta e coi colori di Sua Altezza. (N. Nicolini. Cit.)

Il crudele Caur Alì morirà durante la traversata di ritorno a Costantinopoli. Se però la libertà di
qualcuno di questi personaggi di qualità fosse stata giudicata molto pericolosa in quanto avrebbe
certamente rinvigorito il nemico, allora quello si sopprimeva per sicurezza dello stato e così fece
per esempio il capitano generale Lansac durante le guerre di religione che sconvolsero la Francia
nella seconda metà del Cinquecento (1562-1598), quando, vinti gli ugonotti in combattimento
navale, ne prese prigionieri circa 600, facendone incatenare al remo la maggior parte, mentre alle
persone di maggior importanza fece levar la vita nel timore che potessero suscitare nuove
ribellioni. Allo stesso modo, come abbiamo già detto, si comportò Àlvaro de Bazán marchese di
Santa Cruz, quando, sconfitta e presa l'armata di don Antonio di Portogallo alle Terzeire, fece
morire come corsari circa ottocento principali soldati francesi che vi trovò a bordo, perché questo
fosse di monito alla Francia. Si giustiziavano inoltre i ribelli, i felloni e i traditori che si fossero
trovati sui vascelli nemici. Tutto ciò, anche se molto crudele, rappresentava comunque un evidente
miglioramento rispetto agli usi che c‘erano stati nelle battaglie marittime del Medioevo, quando
cioè s’usava conservare la vita ai soli prigionieri di valore, quelli per intenderci dai quali si poteva
ricavare un buon prezzo di riscatto, e tutti gli altri, soldati, marinai o remieri che fossero, anche se
molto numerosi, si ammassavano legati o incatenati nel sottoponte di quelle delle galere nemiche
che, per esser state troppo maltrattate dalla battaglia, non era conveniente armare di propri uomini
o trainarsi dietro, e si mandavano a fondo senza alcuna pietà, sfondando i fianchi di quei vascelli.
Nelle Croniche catalane del d’Esclot e del Muntaner frequentemente si legge di episodi del genere.
Quando l'armata vincitrice tornava in un porto amico, secondo un uso comune già documentato nel
Duecento, i vascelli v'entravano in pompa magna e con gran solennità, ornati non solo dei propri
vessilli e delle proprie tappezzerie (fr. faire la parade), ma anche degli stendardi e delle bandiere
1010

tolte al nemico e che s’inalberavano però capovolti alle sartie, ma più spesso pendenti e strascinati
nel mare dalla poppa propria o degli stessi vascelli vinti, se catturati, come usavano anche i turchi
quando tornavano vincitori a Costantinopoli, in segno che i sovrani che rappresentavano erano
stati debellati e quindi di loro umiliazione, e nell’oceano si usava anche molto attaccare i vessilli dei
vascelli vinti al sartiame invece che alle poppe; entravano in porto inoltre rimorchiando i vascelli
presi al nemico, ma tenuti di poppa, nudi e privi d'ogni ornamento in segno, segni anche questi
dello sterminio dei loro precedenti padroni. Gli stessi soldati e marinai si ornavano poi delle più
ricche spoglie che avevano predato ai nemici. L'entrata si faceva in bell'ordinanza e in un tripudio
di stendardi, bandiere, fiamme e gagliardi su alberi, antenne, stentaroli e in genere su tutte le parti
alte del vascello, le quali i greco-bizantini chiamavano acrostolia (ἀϰροστόλια); c’era inoltre
l’accompagnamento del suono di tamburi, trombe, clarinetti, pifferi, ecc., di allegre e festose grida
di vittoria, di salve d'artiglieria e archibugiate, in modo da dare al popolo amico il più giocondo e
bello spettacolo possibile, mentre da terra si rispondeva con salve e, se l'entrata avveniva di sera,
con fuochi d'artificio e luminarie. Così avvenne quando l'armata di Giovanni d'Austria, vittoriosa a
Lepanto, arrivò nel porto di Messina, città in cui la notizia della vittoria era arrivata solo il 28 ottobre
precedente; cominciò ad arrivare la sera del 30 novembre lo stesso Giovanni accompagnato dalla
Capitana di Savoia e da 10 altre galere, mentre il resto dell’armata capitò a Messina a poco a
poco, rimorchiando i vascelli presi al nemico; l’arrivo è ricordato sommariamente dal diplomatico
veneziano Placido Ragazzoni, il quale allora si trovava in quella città (1574), ma la scena è
descritta più diffusamente dal Collado, laddove questi tratta delle varie specie di fuochi a salve e
artificiati in uso ai suoi tempi:

... Tutte le quali cose assai piacciono e dilettano a tutti, maggiormente quando la salva si fa di
notte, come fu quella che si fece nel porto della città di Messina su l'armata della Lega cristiana
dopò che l'anno 1571 fu rotta l'armata turchesca, essendo generale dell'armata il serenissimo
signor don Giovanni d'Austria, fratello del gran Filippo Re di Spagna, le quali allegrezze si crede
che siano state le più magnifiche e sontuose che mai al mondo si siano fatte in mare,
corrispondenti veramente a quella inaudita vittoria ottenuta dai christiani in quella impresa e al
grandissimo numero de' galeoni, carrache, urche, navi, scorciapini (lt. scorcium pini, ‘scorza,
corteccia di pino’, ‘piroga insomma’), galere, galeotte, fuste, bergantini e fregate che quivi si
ritrovarono quella estate. Li quali vasselli tutti non solamente pareva che si ardessero insieme, ma
che l'elemento del fuoco si fosse abbassato per convertire in fumo, fuoco e fiamma l'Universo,
perché erano tanti e 'sì terribili e innumerabili i tuoni della grossissima artiglieria dell'armata e la
corrispondenza dell'artiglieria de i castelli e della città di Messina con essa che le montagne
tremavano da per tutto intorno alla marina. Erano tante le differenze de' fuochi artificiali fabricati da
valent'huomini marinari e bombardieri che non si potea sotto il cielo vedere il più bel spettacolo o
udire il più maraviglioso di quello che quella notte fu sentito e veduto. (LT. Collado. Cit. Pp. 196-
197.)
1011

Nel trasferirsi da Corfù a Messina, essendosi ormai in autunno inoltrato, l’armata era però
incappata nel maltempo ed era successo che le galere nemiche rimorchiate con la poppa davanti,
come era regola, alleggerite di tutto e spinte dai flutti, erano andate a investire tante di quelle che
le rimorchiavano, danneggiandone seriamente le poppe e costringendo molti capitani cristiani a
trattenersi poi a lungo a Messina in attesa che si terminassero le riparazioni necessarie ai loro
vascelli. A proposito del predetto uso di portare le bandiere nemiche strascinate nell’acqua del
mare, bisogna ricordare che nel Quattrocento Santo Brasca scriveva incidentalmente d’un
trattamento simile riservato nella marineria veneziana alle bandiere nazionali, ma questo in segno
d’allegrezza (A. LT. Momigliano- Lepschy, Cit. ).
Fatta la solenne e gioiosa entrata, il generale sbarcava e, accompagnato da tutti i suoi principali
ufficiali, preceduto dagli stendardi conquistati al nemico, seguito dagli schiavi maomettani più nobili
incatenati a mo' d'antico trionfo, procedeva sino alla chiesa maggiore dove avrebbe pubblicamente
reso grazie al Signore per la vittoria guadagnata e dove gli avrebbe consacrato i vessilli
conquistati, vessilli che poi sarebbero rimasti esposti in permanenza in qualche cattedrale o chiesa
d’importanza. Infine si disarmavano i vascelli, pagandone e licenziandone le soldatesche; si
licenziava anche la marinaresca di quei vascelli che avessero finito di navigare e si trattenevano in
servizio solamente gli alti e basso ufficiali perché continuassero ad aver cura dei loro vascelli e i
marinai di guardia perché ancora sorvegliassero le ciurme; e delle ciurme che cosa succedeva?
Ecco cosa ne scriveva il Pantera, l'autore dal quale tanto abbiamo appreso:

... Alle ciurme si concederà largo riposo per ristoro delle fatiche fatte. Gl'infermi saranno curati
diligentemente; ai sani, oltra la buona provisione del vivere, si haveranno a dar panni atti a potergli
difender dal freddo, quasi implacabile inimico dei galeotti, perché, non potendosi muovere mentre
stanno de i porti, ne restano offesi più che da gli altri disagi e alcune volte tanto che quelli di loro
che non hanno potuto morir dalle archibugiate nelle battaglie né da' molti altri acerbissimi patimenti
sono morti di freddo. Questo av(v)enne alle ciurme dell'armata di Giovanni Soranzo nel Mar
Maggiore, il qual, havendo vinti e spogliati i genovesi della città di Teodosia, hoggi chiamata Cafà
(‘Caffa’), volse svernare in quelle parti, dove, essendo il paese espostissimo al settentrione,
perdette un gran numero di galeotti che non poterono resistere alla vehemenza del freddo, oltra
quelli che rimasero stroppiati delle mani e de i piedi che furono quasi tutti, talmente che le sue
galee restorono disarmate. (P. Pantera. Cit. P. 406.)

E ciò nonostante quei galeotti fossero, trattandosi di galee veneziane, delle buonevoglie, ossia
gente che, non essendo incatenata, poteva muoversi a bordo quasi a suo piacimento. L'episodio
predetto è delle guerre che Venezia combatté contro Genova nel secolo quattordicesimo; la città di
Caffa sarà poi tolta ai genovesi dall’armata turca il 6 giugno 1474.
Della vittoria di Lepanto Giovanni d'Austria mandò subito ragguaglio al papa, all'imperatore, al re di
Spagna e alla signoria di Venezia, inviando a quei potentati alcuni illustri personaggi che vi
1012

avevano partecipato. Lo avvenimento fu festeggiato in tutta la cristianità e la Signoria di Venezia,


per esempio, decretò che ogni anno in quel giorno, allora dedicato a S. Giustina il doge si recasse
in solenne processione alla chiesa della santa, obbligandosi di solennizzare gli anniversari e
facendo stampare monete commemorative con l'effige della stessa S. Giustina. A Roma Pio V,
accompagnato dal collegio dei cardinali e dal popolo, si recò a rendere grazie al Signore nella
basilica di S. Pietro, istituendo l'annuale processione del Rosario nelle chiese dei domenicani in
memoria di così fausto evento; poi fece celebrare a Marc’Antonio Colonna un trionfo tanto degno
d’un antico romano da essere giudicato eccessivo dai certamente un po’ invidiosi francesi, come
racconta il de Bourdeilles:

… J’estois à la Cour quand ces nouvelles vindrent, ma j’y en vis aucuns grands se mocquer de ce
‘sot triomphe’, qu’ils appelloient ainsi. (Cit.)

Ma si sa che i transalpini, non avendo la Francia partecipato alla lega di Lepanto per via della sua
ancora sostanziale intesa con Costantinopoli e ostilità alla Spagna, non avevano certo gioito né
alla notizia di Lepanto né dei relativi festeggiamenti.
1013

Capitolo XVIII.

GALEE CATALANE E PONTIFICE DEL BASSO MEDIOEVO E DEL RINASCIMENTO.

Adesso che sappiamo che cosa erano le galere e come combattevano, possiamo concludere
questo studio affrontando con cognizione di causa i documenti barcellonesi pubblicati o citati nel
Settecento dallo storico ed economista catalano Antonio de Capmany (1742-1813), soprattutto con
riferimento alle armate di mare aragono-catalane del Trecento.
Cominceremo pertanto con l’ordinanza promulgata dal re Pedro III nel 1354, da noi qui già più
volte citata, con la quale si dispone il seguente equipaggio per ogni singola triremi; ma è da
badarsi che ci si riferiva solo alle ordinarie triremi sottili e non a quelle, più ampie specie a poppa e
quindi atte a portare più gente che, come abbiamo già detto, erano dette basterde o bastardelle,
né tanto meno a quelle che, come pure si è già visto, erano chiamate grosse o di commercio o
anche galeazze:

Un patrone al comando politico e militare della galea con un seguito di due scudieri balestrieri a
suo completo carico economico e di un consigliero, il quale non era di sua scelta ma che era a
carico della sua mensa personale.
30 balestrieri, incluso lo scrivano di bordo.
Un còmito e un sotto-còmito al comando della navigazione. Il primo si occupava soprattutto della
voga e quindi dei remiganti, il secondo soprattutto della manovre di prua, cioè della vela e delle
ancore.
Un senescallo, più tardi detto algozino, cioè un questurino ed esecutore di giustizia.
8 nocchieri, ossia lo scrivano, i timonieri e gli artigiani (mastro d’ascia, calafato e remolaro).
8 proeri (‘prodieri’), cioè marinai per le manovre delle ancore, quindi di servizio a prua.
6 curuglieri (da corral, ‘recinto’), marinai che coadiuvavano il còmito nella conduzione della voga e
nella sorveglianza dei vogatori.
6 alieri (da alas, ‘vele’); pennesi, gabbieri, addetti alla manovra delle vel...
8 spallieri, marinai di servizio alle spalle della galea, cioè tra la poppa e l’inizio della zona dei
remigi. Questi erano soprattutto addetti alle necessità poppiere, come per esempio
all’uso del tendalino, e molto probabilmente anche alle esigenze di camera degli ufficiali di
comando; inoltre, poiché il deposito dei viveri era a poppa, è molto probabile che a questi
spallieri fosse affidato pure il servizio di cucina.
Un barbiero, ossia un pratico di medicina o comunque almeno di chirurgia, il quale era tenuto a
imbarcarsi fornito di tutti i suoi strumenti professionali.

Il còmito e il sotto-còmito dovevano imbarcare a loro spese, oltre che corazze guarnite e
armamento per loro stessi, un infant, cioè un mozzo, il quale servisse ambedue, mentre più tardi,
cioè a partire dal tardo Rinascimento, vedremo che tutti i mozzi di bordo saranno tratti dalla ciurma
dei remiganti, quindi a spese della galea e non più dei singoli individui.
1014

I nocchieri, i cui salari erano differenziati a seconda dei loro ruoli, dovevano dotarsi a loro spese di
una corazza guarnita, di un pavese, ossia di uno scudo da difesa statica, di balestra con crocco e
di 100 verrettoni; tra quelli della galea di comando generale cioè della Reale, dell’Ammiraglia o
della Capitana, c’erano alcuni consiglieri, uomini di grande esperienza di navigazione, e inoltre i
mastri artigiani vi tenevano ruolo di mestres mayores (‘maestri maggiori’).
I proeri dovevano provvedere per proprio conto a dotarsi di corazza guarnita, di pavese e di daga;
oppure, non disponendo di una daga (le buone lame acciarate erano care), di balestra con crocco
e di 100 verrettoni, il che significa che erano considerati conbattenti; invece gli alieri, curuglieri e
spallieri bastava che portassero a bordo una corazza guarnita e un pavese, quindi un armamento
unicamente difensivo.
I balestrieri dovevano essere 30 per galea sottile e 40 per galea grossa e ognuno doveva portarsi
a bordo una corazza guarnita e due balestre con i loro crocchi semplici più un crocco a due mani
per lanci più potenti; nel loro numero si conteggiavano, i due scudieri del patrone. Tra i balestrieri
della galea di comando predetta si conteggiavano lo scrivano reale o d’armata e un mastro
balestriero con i suoi attrezzi che provvedesse, per tutte le galee, alle riparazioni di quelle armi.
Come vedremo, questa complessa suddivisione dei ruoli, la quale ancora sicuramente risentiva di
quella delle antiche triere romane, i cui usi e le cui tradizioni sopravvissero appunto a Barcellona
(lt. Barcino-nis) più a lungo che nella stessa Italia, diventerà più tardi, probabilmente a partire dal
tardo Rinascimento, molto meno rigida e diversificata.
Aggiungendosi 156 remiganti, inclusi i due, che come vedremo, fungevano anche da palombari, a
bordo di una galea aragono-catalana del Trecento si trovavano dunque di norma 227 persone da
pagare, di cui 225, cioè patrone e consigliero esclusi, ricevevano ciascuno, oltre al rancio, una
razione giornaliera di 24 once catalane di biscotto nero (‘galletta’), cioè due libbre; i due predetti
esclusi avevano diritto invece a pane o anche biscotto ma bianco, insomma alla stessa panatica di
cui godevano gli ufficiali generali dell’armata. Anche il consigliero, di solito un marittimo di
consumata esperienza e di autorevolissimo parere, mangiava pane bianco perché, pur non
essendo una persona proposta dal patrone, consumava i suoi pasti a spese di querst’ultimo
sedendo alla sua tavola.
I due scudieri balestrieri che il patrone era autorizzato a portare e a tenere a bordo al suo seguito
personale, ma anche a sue completa spesa, furono presto aboliti con un’ordinanza del 1363
(Ordenanzas etc. Cit. P. 115), visto che si era costatato che in effetti i patroni, chiaramente per
evitarne la certo non trascurabile spesa, non se ne servivano.
Nella sua appendice all’opera suddetta Antonio de Capmany riporta, purtroppo solo in maniera
sunteggiata e parziale, gli inventari di corredi e armi fornite alle galee aragono-catalane tra la metà
1015

del Trecento e l’inizio del Quattrocento; dai documenti risulta dunque che le galee grosse, cioè
quelle dette anche galere di commercio o galeazze, erano provviste di due timoniere, due carte di
navigazione, di tre vele, cioè quella d’artimone, fatta di 40 paños (ferze), la lop de proa, ossia la
vela detta trinchetto, di 30 paños e la mezzana di 22; inoltre di soli 56 remi sensigli istallati (perché
i remi servivano solo per le manovre portuali e costiere o contro pericolosi venti contrari) e di 124
di ricambio, il che significa che avevano 23 banchi per lato, anche se purtroppo il Capmany non
riporta il numero e la tipologia degli uomini imbarcati su questo tipo di galee e quindi non possiamo
capire se si trattasse di remi mono-rematore o già di remi pluri-rematori; di 3 ancore pesanti 5
quintali ciascuna (500 libbre non chili) e due rezoni (anche ronzoni, ‘ancore a grappino’; da cui il
nome dell’ancoraggio romagnolo poi divenuto il porto di Riccione), ancora per fondali pietrosi ma
dallo stesso peso delle predette ancore. Poteva inalberare una larga bandiera reale (‘stendardo’),
di stamigna, due bandiere quadre reali, una bandiera reale larga o stendardo e due bandiere
quadre dell’ammiraglio o del capitano generale. Premesso che le armi da polvere, oggi diremmo
da fuoco, anche se già introdotte, non erano però ancora usate a quel tempo dalle marinerie
tirreniche, l’armamento riportato dal de Capmany è il seguente:

120 corazze guarnite complete di gorgiera (gorguerina) e celata di ferro (capacete).


500 lance manesche, cioè quelle leggere che si potevano maneggiare anche con una sola mano.
24 lance romagnole.
24 falci astate (guadañas).
1.000 dardi, ossia verruti, giavellotti da lancio
600 verrettoni.
4 rampini astati.
2 roncole astate.
6 fanali.
2 gogne di ferro (rompecuellos) con catena.

Molto interessante è qui notare che, prima che si diffondesse appunto l’uso della armi da polvere,
queste galee medievali europee ponentine usavano contro il nemico due tipi di proiettili e cioè uno
a media distanza, i verrettoni da balestra, e uno a distanza ravvicinata (in pratica prima degli
abbordaggi), trattandosi di quei dardi da lanciare a mano detti verruti e corrispondenti agli antichi
pili dei romani. Invece dalle galee turco-saracene si lanciavano solo frecce da arco in qualsiasi
occasione di guerra.
Alla galea grossa Ammiraglia o Capitana si fornivano a parte anche 20 pavesi grandi,
evidentemente per la difesa degli ufficiali generali durante le battaglie. Non si fornivano né catene
né ceppi per remieri a conferma che si trattava di lavoratori che vogavano volontariamente; anzi,
come tutti gli altri imbarcati, anche loro erano tenuti a presentarsi a bordo forniti di armi proprie.
1016

Le differenze di corredo e armamento della galea bastarda erano le misure delle tre vele suddette,
rispettivamente 35, 25 e 18 ferze, il peso di ancore e rezoni (4 quintali di libbra e non 5). Per
quanto riguarda le armi, le differenze erano che le corazze guarnire e complete di gorgiera e celata
erano solo 100, le lance leggere solo 400 e i verrettoni solo 500. Aveva inoltre gli stessi vessilli
della galea grossa, compresi eventualmente quelli ostentanti le armi dell’ammiraglio o del capitano
generale.
La galea sottile differiva anch’essa nell’ampiezza delle tre vele (30-22-16), nel peso di ancore e
rezoni (3 quintali di libbra ciascuno) e, per quanto riguarda le armi, lo corazze guarnite e complete
erano solo 80, le lance leggere solo 300, i dardi 800, i verrettoni 400, le partigiane 16, le falci 16, i
fanali 4. Inoltre portava una sola bandiera reale quadra (ib.)
Nel 1418 il re d’Aragona Alonzo V preparò un’armata di mare che poi l’anno seguente avrebbe
portato in Sardegna e in Corsica per consolidarvi i possessi aragonesi; si trattava di 20 galere, 10
galeotte, 14 grosse navi e un balanero, grande vascello fluviale detto belinzero o balonero in Italia
e del quale abbiamo già detto; il de Capmany riporta i nomi di solo 12 di detti vascelli e dei loro
comandanti, i quali - cosa molto interessante - ora in questo nuovo secolo non sono più patroni
bensì capitani, asserendo che, pur trattandosi di una spedizione di 33 vascelli remieri da guerra,
13 navi armate e 44 imbarcazioni da trasporto, nell’archivio di Barcellona non se ne trovano altri,
ed elenca i materiali di fornitura da questi ricevuti. Comincia con la galea chiamata dei cani, forse
perché il vessillo del suo comandante mostrava dei quadrupedi, leoni o pantere che fossero; il suo
patrone era il nobile Ramon Xammar (Jammar). Questa galea ricevette, tra l’altro, 180 remi rifiniti,
completi di lamina di ferro all’altezza dello scalmo e contrappesi di piombo all’estremità interna, 3
gomene di canapa dal peso di 530 libbre ciascuna, una vela maggiore di 40 ferze e una di
trinchetto di 36. Ed ecco l’armamento di fornitura reale, ove ora, a differenza delle galee del secolo
precedente di cui abbiamo appena detto, risultano anche armi da fuoco:

122 pavesi ‘di taglia reale’ e decorati con stemmi.


12 pavesi da barriera o posta con stemmi.

Il gran numero dei primi fa capire che dovevano servire alla formazione d’impavesate, cioè di
parapetti sulle fiancate, mentre i pochi secondi servivano evidentemente a difendere lo stato
maggiore della galea durante i combattimenti.

1.000 dardi, ossia verruti, giavellotti da lancio.


500 lance manesche
40 lance grandi, ossia partigiane.
30 chiussi, cioè zagaglie per scontri ravvicinati.
1017

12 falci astate (guadañas).


24 lance romagnole guarnite (guarnecitas).
120 corazze complete di gorgiera e celata.
7 cassoni di saetas de caravana, cioè quadrelli da balestra di tipo leggero da combattimento
molto ravvicinato, prive di alette stabilizzatrici particolari, in uso nelle spedizioni nautiche
(caravane) contro il naviglio turco e saraceno.
1 cassone di saette de un vigote (‘da un solo baffo’), ossia con una sola aletta finale stabilizzatrice.
3 cassoni di saette de dos vigotes (‘ da due baffi’), cioè con due alette stabilizzatrici laterali.
6 cassoni di saette de punta aguda, ossia di quelle più adatte ad appiccarsi nel legno del
fasciame nemico per portarvi del fuoco da appiccare.
2 verricelli (tornos) da balestra.
2 gruesas (24 dozzine) di triboli.

E, per quanto riguarda le armi da fuoco:

2 bombarde di ferro, una da 7 libbre di palla di pietra e l’altra da 11-


36 pietre da bombarda.
122 libbre di polvere da artiglieria.

Sono bombarde da prua, ovviamente, ma la relativa pochezza delle suddette scorte di palle e
polvere può significare che delle bocche da fuoco si faceva allora un uso ancora solo saltuario.
La galea Real aveva come patrone Bernardo Sirvent, ma era capitanata a guerra da un nobile
capitano che si chiamava Pedro de Esplúga, nome non catalano; si era fornita una vela chiamata
lop de proa o vela detta trinchetto di 36 ferze, di cui 7 bianche e le altre rosse.
Alla galea San Juan, capitanata da Gabriel Suñer, il fabbricante di pavesi barcellonese Jayme
Ferrer fornì 120 pavesi di taglia reale e 12 da barriera, mentre i maestri corazzieri Benito
Campderrós e Mateo Glasar la provvedevano di 120 corazze e 120 gorgiere del tipo di munizione,
cioè approvato dalla Corte.
Alla galea San Nicolas, capitanata da Bernardo de Centellas, si fornirono molte cose tra cui 50
remi rifiniti e provvisti di lamina di ferro, come già spiegato.
Alla galea chiamata el halcón (‘il falcone’), capitanata da Gilaberto de Cruilles (in realtà il già
nominato ‘de Crudiliis’, famiglia sarda), si davano, tra l’altro, 40 sacchi di biscotto, una vela da
albero di maestra di 32 ferze, 24 dozzine di triboli, 120 pavesi di taglia reale 25 corazze di
munizione, 2 bombarde di ferro dal calibro non specificato.
Alla galea La vittoria, insignita dello stemma del Principato di Catalogna e capitanata da Bedrnardo
de Vilaragut, si fornivano solo una vela detta mezzana di 19 ferze e di 28 canne e 6 palmi di tela
per rifare le due ultime ferze della vela maggiore che arrivavano alla penna (cst. pena), cioè
all’estremità sottile dell’antenna.
1018

Alla galea San Paolo recante le insegne della Deputazione Generale di Catalogna, cioè
dell’organo di governo che rispondeva alla Corona, e capitanata da Juan Martinez de Lana, si
dettero una scialuppa (esquife) fornita di tutto il necessario, inclusa una tela impermeabile (cst.
carroza) larga 16 palmi per difenderla dalle intemperie, e inoltre 19 canne e 4 palmi di canapaccio
e 4 ferze per la vela maggiore, fatte queste ultime di 52 canne e 4 palmi di tela.
Alla galea San Jorge, la quale batteva la bandiera della città di Valencia ed era capitanata da
Nicolás Joffre e da Juan de Valterra, i quali ricevevano armi di munizione e cioè 96 lance
manesche (vedi sopra), 25 lance larghe, ossia partigiane, e 5 dozzine di dardi.
Alla galea Santo Thomas, anch’essa con le insegne della città di Valencia, capitanata da Juan
Pardo e da Thomás Fabre, furono forniti diversi generi tra cui un’arroba (peso di 25 libbre) di
polvere da bombarda.
La galea San Vicente con le insegne della città di Valencia, capitanata da Pedro de Centellas e
Francisco de Belvís ebbe, tra l’altro, anch’essa un’arroba di polvere da bombarda e inoltre
25 remi rifiniti e laminati, 6 dozzine di dardi, 4 dozzine di lance manesche del genere di
munizione.
La galea San Juan recante le insegne dell’Ordine di Montesa armata dal gran maestro di detto
ordine e capitanata da Miguel de Pejó commendatore di Xivert, riceveva una penna d’antenna
solamente.
Il balanero (it. balonero, v.s.) chiamato el Moro, capitanato da Juan de Bardaxí (‘Bardají’), il quale
ebbe 275 soldi, costo del rifacimento di una verga di gabbia (sic). (Ib.)
Ecco poi, molto sintetizzato, un conto di pagamenti di materiali da guerra fatti fare nel 1419 ad
artefici barcellonesi per la suddetta spedizione:

Al ferraro Pedro Grau, ‘il quale fa ferri di freccia’ (que hace hierros de flechas), per 35 casse di
frecce, cioè, 15 casse di tipo caravana, 15 di tipo con punta acuta e le 3 rimanenti di tipo con
baffo…
Da notare qui che, non usandosi gli archi, come per il precedente saetas, anche per questo flechas
s’intendono i quadrelli o verrettoni da balestra.

Al verrutaro Pasqual Rovira per 54 casse di frecce di diverso tipo e cioè 30 da caravana, 10 di
punta acuta, 10 di baffo e 4 de aguada…

Flechas de aguada significa che i galeotti che si mandavano a terra a fare acquata, ossia provvista
d’acqua potabile, erano scortati da balestrieri e che questi portavano verrettoni di un tipo
differente, perché probabilmente semplificato, meno costoso perché evidentemente senza alette
1019

stabilizzatrici, delle quali, come abbiamo già spiegato, non avevano bisogno neppure quelle di
caravana, dovendo queste colpire da vicino in occasione di abbordaggi, e neanche quelle di punta
acuta, essendo destinate a un bersaglio non solo vicino ma anche grosso quali erano le fiancate
del vascello nemico.

A Juan Zaplana, maestro maggiore delle artiglierie di Barcellona, per le spese e la conduzione di
artiglierie, a mezzo della nave di Nicolao da Pisa, da Barcellona via Alghero a Sassari, dove si
intendeva porre appunto una postazione di bocche da fuoco…
Al verrutaro Francisco Jofre per 8 casse di frecce di varie sorte, cioè 4 di caravana, 3 di punta
acuta e una di baffo grande (de vigote bastardo)…

Per ‘frecce di baffo bastardo’ s’intendevano quelle con un sola grande aletta stabilizzatrice codale
invece delle due piccole laterali, come abbiamo già spiegato…

Al verrutaro Pedro Estaper per 19 casse di di frecce di varie sorte, cioè 6 di caravana, 6 di punta
aguzza e una di baffo (‘de vigote’)…
Al verrutaro Pedro Comelles per 19 casse di frece di varie sorte, cioè, 8 di caravana, 8 di punta
acuta, 2 di baffo e 1 di baffo bastardo…
Al verrutaro Pedro Noguers per 8 casse di frecce di varie forme, cioè, 2 di caravana, 4 di punta
acuta e 2 di acquata…
Al fabbricante di candele di cera Antonio Matheu per 4 casse di frecce di caravana…

Evidentemente, a causa della straordinaria grande richiesta, anche a un candelaro conveniva


adattarsi a costruire quadrelli da balestra; forse perché già abituati a fabbricare trazdizionalmente
quelle ‘di punta acuta’, cioè quelle provviste di materiale incendiario alla punta.
Termina questo elenco di pagamenti fatti ad artefici con quello di 605 soldi barcellonesi pagati il 20
agosto 1420 ad Alghero dal maestro fabbricante di bombarde catalano Pedro Font a Juan de Lira,
anche questo mastro barcellonese, ma fabbricante di polvere da bombarda. Poco dopo il Font
riceverà denaro di conto reale in rimborso dei seguenti acquisti fatti appunto a Barcellona:

16 quintali (di libbre) di rame di miniera nuova (‘de mena nueva’, ‘di qualità superiore’) per fare
bombarde.
5 quintali e 4 libbre di stagno.
23 libbre di filo di rame per unire le forme delle bombarde.
Filo ‘di peso di ferro’ per lo stesso scopo.
6 trapani di acciaio per trapanare il focone delle bombarde.
2 torni di ferro con guarnizione di legno e corde di budella.
1 pentola (‘cazo’) di ferro.
2 buttafuoco (‘brochas’) di ferro per sparare le bombarde.
3 tinozze per il rame.
1020

Un paio di mantici (‘fuelles’) grandi.


2 coxols (cojols) (?) per coxolar (cojolar) (?) forme di bombarda.

Bisognerebbe conoscere le procedure di fondizione delle bombarde trecentesche per capire il


significato di alcuni dei predetti vocaboli. Segiuono materiali per la fabbricazione della polvere da
sparo:

2 mortai grandi di rame del peso di 276 libbre.


2 sostegni (manos) di mortai dal peso di 26 libbre.
1 macina di pietra con la sua armatura di legno, nel quale si macina la polvere.
1 conca e 1 piastra di rame dal peso di 18 libbre.
3 setacci e 3 crivelli da passar polvere.
Alcune bilance da pesar polvere.
4 sacche di pelle (‘badanas’) grandi per custodirvi polvere.
3 balancines (?) e un secchio di metallo (‘vacía’).
Alcuni mantici piccioli.
1 cassa di legno per distendere la polvere e una caldaia di rame per depurare il sanitro.
1 quintale (di libbra) di polvere.
2 dozzine di pietre da bombarda piccole.

Ecco un ulteriore elenco di materiale da guerra:

200 pietre da bombarda di circa 5 quintali di peso ciascuna (?).

Anche se si tratta di quintali di libbra e non di chilo, un peso di circa 250 chilogrammi a pietra per
bombarde che a quel tempo non erano certo già di grosso calibro, ci sembra in verità eccessivo e
quindi riteniamo che sia stato mal riportato dal de Capmany.

156 picche di ferro con loro manici (‘aste di legno’), dal peso complessivo 1.202 di libbre, e 48
aste di riserva.

Dividendo il predetto peso per il numero di picche abbiamo un peso per picca di libbre 7,70, il che,
a differenza del peso precedente, appare realistico, im quanto non si trattava qui delle lunghe
picche di fanteria che a quel tempo non ancora erano entrate nell’uso.

100 sporte di sparto foderate di tela.


3 casse di saette di caravana, ciascuna con 500 saette.
3 casse di saette di punta acuta, ciascuna con 500 saette.
1 bombarda di bronzo, che tira una pietra di 5 quintali (?).
1021

Un peso esagerato per le ancora piccole bombarde del tempo; infatti ecco anche 2 sportoni di
sparto di corda di canapa intrecciata, para cargar y descargar piedras de bombarda xde igualpesdo
de las sobredichas. Sarebbe stato infatti impossibile trasportare pietre da 5 quintali di libbra in
ceste di sparto

20 cassoni di strali (‘estralles’), ciascuno con 500 strali.

Siamo infatti ancora ai primordi dell’artiglieria, quando cioè con le bocche da fuoco si sparavano
non solo pietre ma anche dardi.

25 cuoi di mantelletti, lunghi ciacuno 16 palmi e 6 di ampiezza, guarnite in più di 25 coxets (?)
incrociati, ciascuno di 4 barre.

I mantelletti, cioè i ripari di legno dietro i quali si ponevano balestrieri, arcieri e bombardieri, cioè
tutti coloro che dovevano lanciare proiettili da fermo, erano rivestiti davanti da larghi cuoi freschi
per evitare che nemici li incendiassero lanciandovi dardi infocati.

200 costers (?).


100 agells (?).
70 pistoni.
2 carri a 2 paia di ruote con loro 4 sale di ferro, per trasportare le due bombarde grosse di bronzo.
8 carrette a 2 ruote guarnite di cerchi di ferro.
44 perni di ferro per detti carri e carrette.

Il de Capmany troverà poi in archivio anche una fornitura fatta in quel 1419 al maestro maggiore
dell’artiglieria (non spiega se del regno o della suddetta armata) di vari materiali destinati a 20
galere, tra cui 20 fiamme (banderas partidas), 20 bandiere quadre con le armi reali e altre 20 con
quelle di Sicilia, tutte di stamigna, e inoltre un quantitativo di consimili vessilli, pari però alla loro
metà, e destinati invece a 10 galeotte (ib.)
Ecco poi anche alcune annotazioni di pagamenti fatti nel 1420 a vascelli da carico che impiegati
nell’ambito della predetta spedizione. A Simone Dorso, patrone di una tafureya di Messina (dal gr.
τό φορεῖον, ‘barella, portantina’; nome che non abbiamo più trovato altrove e che doveva in origine
essere quello di un vascello levantino corrispondente alla tarida ponentina) si dettero 220 soldi
barcellonesi per il nolo del detto vascello, il quale doveva trasportare cavalli, pietre da bombarda e
armi da Alghero alla Corsica. Il 10 settembre poi, essendo tornato ad Alghero, gli si dettero ancora
1022

soldi 792 per un altro nolo, questa volta per portare cavalli e gente d’armi dalla Sardegna alla
Sicilia.
Gli stessi identici suddetti pagamenti ebbero altri tre patroni di tafureye messinesi, Alessandro
Pino, Martino Spatafora e Biagio Mazza, per portare carichi molto simili negli stessi predetti viaggi
in Corsica e poi in Sicilia; per simili noli, cioè per il trasporto di cavalli, gente d’armi e pietre da
bombarda, aggiuntivi talvolta anche viveri, furono fatti pagamenti anche a due patroni di tafureye
catanesi, Giovannino Reale e Pietro Maiale, e a nove patroni di otto navi, cioè a Juan de Vallota,
Antonio Cucello, Juan Bastér, Nicolao di Pisa, Gabriel Esquius, Jayme Fábregas, Mateo Sarrovira
e a Bernardo Lleopart con il suo socio Bernardo Martí. L’unica differenza era che le navi, potendosi
permettere carichi maggiori, trasportavano spesso, oltre a cavalli, anche artiglierie da sbarcare.
Ancora nel predetto 1419 alle navi (‘vascelli tondi’) destinate a trasportare anche cavalli si fornì il
materiale per costruire staccionate, le quali dovevano certamente essere sotto coperta perché
altrimenti avrebbero troppo impacciato le manovre; si trattava di legno, chiavagione e perni di ferro
per delimitare e staccionare gli scomparti (estancias) della stalla dei cavalli, abbondante
canapaccio da stendere detrás de los caballos para que no se pelen las colas; evidentemente il
pelo delle code dei cavalli era considerato esteticamente molto importante e quindi da
salvaguardare. Si fornivano ancora molte pelli di giovane asino per pulire gli animali, botti per
l’acqua da porre loro davanti e quindi fornite nello stesso numero dei predetti scomparti e quindi
degli animali da portare. Infine, anche nello stesso munero di quelli, delle fasce, non sappiamo
però di quale materiale e per quale uso; forse servivano per fasciare loro gli occhi, in modo da
evitare che durante il viaggio vedessero cose che li potessero spaventare e quindi disordinare. Le
navi, in maggioranza catalane, erano le seguenti sette:

Patrone Juan Baster: 66 scomparti


“ Francisco Janer: 46 “
“ Pedro Doy: 120 “
“ Pedro Saragosa: 120 “
“ Jayme Fábregas: 70 “
“ Bartolomé de Pisa: 12 “
“ Gabriel Esquius: 70 “ .

C’erano poi 5 scale d’assalto preparate per la suddetta spedizione, le quali, fatte di legno di pino,
di olmo, di leccio e di cordami di canapa, si trasportavano in viaggio smontate in pezzi e, una volta
montate, si elevavano a mezzo di carrucole di bronzo e si trainavano su basi di tavolato munite
ognuna di 6 ruote di legno di pino, fino ad accostarne i sostegni anteriori alle mura nemiche. Si
trattava di grandi macchine di complessa fattura e infatti ognuna portava un suo nome, come se si
fosse trattato di grosse canne d’artiglieria:
1023

La Santa Catalina, alta 130 palmi, larga 24, di 83 gradini.


La Santa Clara, alta 108 palmi, larga 20, di 73 gradini.
La San Antonio, alta 126 palmi e larga 15, di 72 gradini.
La San Jorge, alta 136 palmi e larga 20, di 81 gradini.
La San Jayme, alta 103 palmi e larga 12, di 62 gradini.

C’è da aggiungere una scala piccola, detta de hurtar, cioè da scalata furtiva per depredare, 34
pezzi di scala per farne eventualmente delle altre; inoltre 40 mantelletti e anti-porta armati di punte
di ferro; 7 paia di rote per mantelletti e altri attrezzi e ricambi di legname.
Sempre leggemdo il de Capmany, torniamo ora alle forniture fatte alla già ricordata Reale San
Juan Bautista y San Juan Evangelis della squadra aragono-catalana di nove galee che nel 1506
era in partenza per l’impresa di Napoli, galea le cui bocche da fuoco abbiamo già descritto nel
capitolo sulle artiglierie nautiche e che, oltre a quelle, ricevette di munizione in quell’occasione
anche le seguente altre armi:

- 30 balestre di acero con loro ganci (‘gafas’, ctl. da garfas, ‘artigli’)-


- 8 balestre grosse da trapassare (‘de pasar’) con 5 martinetti e carrettini (carranquines).
- 8 cassoni di ‘frecce’, di cui tre con 62 dozzine di frecce da prova per le balestre da trapassare; 4
con 120 dozzine di frecce da prova per le balestre comuni e 1 con 25 dozzine di frecce di
munizione.
- 100 pavesi dipinti con lo stemma (‘divisa’) del re.
- 8 pavesi da barriera (‘de barrera’) con lo stesso stemma.
- 24 tavolette (‘taularinas’).
- 34 rotelle con lo stemma del re.
- 125 lance manesche (‘manesgas’)..
- 12 lance di ferro lunghe polite (‘fabudas’, gra. φαυθείς, ‘lucidato’, da φαύω, forma più antica di
φάω) per la prua.
- 4 partigiane fabudas per la poppa.
- 86 lance lunghe tra glavis (‘chiaverine’) e romagnolas (ambedue armi astate simili alla
partigiana).
- 6 fenditrici (rajauelas) .
- 12 dozzine di dardi garbuces (‘formosi, doppi’, da garbo, ‘forma’).
- 136 corazze.
- 100 celate, 12 delle quali polite (‘fabudas’) e le altre, più economicamente, lucidate con vernice.

Qui è’ necessario aggiungere qualche altra nostra spiegazione e cioè che le suddette 30 balestre
sono quelle piccole individuali da fante balestriere e quindi basta caricarle a mezzo di un gancio da
trazione manuale, mentre le 8 grosse da trapassare, cioè da trapassare il bersaglio per la loro
grande forza di penetrazione, sono quelle da posta (‘da postazione’) e, per caricare i loro grossi e
robusti archi è necessario trarne la corda non a mano bensì con un martinetto; queste inoltre
poggiano su un carrettino usato a mo’ di affusto. Le ‘frecce’, ossia i verrettoni o quadrelli per dette
balestre, possono essere o di munizione, ossia di ordinaria fornitura militare, oppure da prova,
1024

ossia con punta d’acciaio molto penetrativa, alla quale non resistono nemmeno le armature più
spesse, cioè quelle appunto ‘a prova’ di penetrazione. I 100 pavesi sono quelli normali da formarne
appunto impavesate, cioè parapetti difensivi sulle fiancate del vascello, mentre gli 8 da barriera
sono più grandi e servono per farne a poppa un circolo difensivo attorno al gran capitano - o
all’ammiraglio - e al suo seguito.Le 24 tavolette di legno non sapremmo dire per cosa potevano
servire, le rotelle sono gli scudi rotondi piccoli (quelli grandi si chiamavano rondacci). Le 125 lance
‘manesche’, cioè da usare con una sola mano, sono di conseguenza corte e leggere, mentre le 12
lunghe (delle semi-picche insomma) si usano pe gli scontri di prua, perché infatti combattere dalla
prua significa farlo a una distanza dal nemico maggiore di quella che si ha quando si combatte per
fianco. Le rajauelas (‘fenditrici’) appaiono essere un altro tipo di lama astata ma non sapremmo
descriverle; i dardi garbuces sono giavellotti che si lanciano a mano. Alla Reale si fornivano inoltre:

- 4 timoni, di cui due a ruota (de rueda) e due a semplice barra (de caña e non de caxa, come
invece erroneamente interpreta il de Capmany).
- Una bussola (cst. brujula, brujola; cat. bruijula).
- 5 ancore dal peso totale di 2.525 libbre, tra le quali una di riserva.
- 3 vele e cioè un’artimone, fatta di 47 ferze (paños), una bastarda di 37 e una mesana di 22.
- 150 remi con 170 scalmi.
- 8 bandiere quadre di lino dipinte con le armi reali. 4 stendardi di lino dipinti di verde e viola con
lo stemma del re. Una bandiera di lino con l’immagine di Sant’Jago e San Giorgio. Una bandiera di
lino, chiamata il tagliamare (el tajamar), con la croce di S. Giorgio. Una una bandiera grande di
seta, di raso carmesino (‘cremisi’), tutta dorata (sic) e con le armi reali. Altra simile di lino dipinto
con le armi reali.
- 122 catene per ferrare galeotti.
- 138 anelli di cavigliera
- 20 grilli (di ferro) con doppio anello e loro polsiere.

Dei 4 timoni ovviamente uno s’usava e gli altri si tenevano di riserva. Per quanto riguarda il nome
‘bussola’, gli italiani credono che venga dal gra. πυξίς, ‘pisside, vasello, scatola di legno di bosso’,
essendo infatti l’aguglia direzionale racchiusa in una scatoletta di legno, e gli spagnoli da parte loro
avvalorano questa tesi credendo che il loro brujula - o anche brujola - derivi appunto dall’italiano
‘bussola’ (Diccionario de la lengua castellana etc. Vol. I, p. 692. Madrid, 1726); ma in linguistica le
consonanti non s’inventano mai, tanto meno per vezzo fonetico, e quindi quella ‘r’ dello sp. brujula
deve venire da qualcosa di non italiano, visto che nel vocabolo italiano essa non c’è. Considerando
che la marineria mediterranea spagnola è soprattutto di origine catalana, andiamo a vedere come
si dice ‘bussola’ in questa lingua e troviamo bruixula, vocabolo che ha tutta l’aria di aver subito un
processo metateco e infatti in quella lingua troviamo anche burxa, dal significato di mestolo, ma
anche di ‘bacchetta, stilo appuntito o ago’ (aguja o pincho, si dice nel suddetto autorevolissimo
dizionario); di conseguenza burxar significa anche ‘pungere, ferire di punta’. Noi vediamo dunque
bruixula derivato da burxa (‘ago’) e l’italiano ‘bussola’ derivato o appunto dal cat. bruixula o dal
1025

cast. brujola, il che, se fosse confermato, metterebbe in discussione anche l’italianità


dell’invenzione della bussola, acclarato ormai, com’è noto, che un inventore di nome Flavio (da)
Gioia non è mai esistito.
Le tre vele non significano ovviamente che gli alberi fossero tre e infatti a quel tempo, come
abbiamo già spiegato, le galere, quelle grosse mercantili escluse, avevano ancora un solo albero
fisso, quello maestro, ed inoltre avevano un alberello mobile d’appoggio, detto ‘di mezzana’; quello
di trinchetto, comunque anch’esso mobile, ancora non c’era. La vela artimone e la bastarda si
usavano in alternativa sull’albero di maestra; la prima, più grande, con i venti più deboli per
intercettarne quindi il più possibile; il trinchetto, la più piccola, s’usava invece per prendere poco
vento, cioè quando questo era troppo forte e quindi pericoloso per l’alberatura.
Ai 150 remi, numero da galea trireme, e ai 170 scalmi il de Capmany aggiunge 20 hastillas, le quali
però con i remi non dovrebbero aver avuto nulla a che fare, a meno che con esse non si
intendessero i medesimi predetti 20 scalmi in più di rispetto, visto che gli scalmi non sono infatti né
più né meno che delle asticciole.
I vessilli in dotazione a questa galea Reale ci informano che lo stemma della Corona d’Aragona
era differente da quello della casata del Re; questo perché il primo era ovviamente soggetto ad
evoluzione politica, per esempio aveva dovuto sicuramente accogliere anche quello del principato
di Catalogna. La bandiera chiamata il Tagliamare trovava probabilmente una giustificazione del
suo nome ad una posizione prodiera.
I ceppi, in mancanza di immagini, non si possono descrivere; immaginiamo comunque, che se le
catene erano di numero un po’ inferiore a quello dei 150 remiganti vuol dire che alcuni di loro, per
esempio gli spallieri, non erano da incatenare; i 20 grilli da polso dovevano servire a controllare i
più cattivi, cioè per tenerli appunto ‘ai ferri’, come si diceva.
Tra le forniture fatte in generale alle nove galee comandate dalla Reale suddetta nella stessa
occasione il de Capmany, purtroppo un po’ alla rinfusa, elenca:

101 quintali di libbra di polvere.


9 bombarde grosse.
129 pietre da bombarda grossa.
982 pietre piccole.
746 corazze.
353 faldette (lasaynas).
952 celate e cervelliere.
38 martinetti di balestra.
34 balestre da passata.
292 balestre vecchie e 33 nuove.
12 mortaletti.
8 carrettini (carranquines).
1026

1 arco da passata.
1.505 dozzine di frecce comuni da passata
852 chiaverine, romagnole e fenditrici (rajauelas).
1.181 lance manesche.
4 lance lunghe.
1.416 dardi doppi (garbuces).
6 partigiane.
426 rotelle e targhe.
963 pavesi.
1.895 remi, tutti accorciati a Montseny; e in più ne vennero da Sicilia 1.160 non disgrossati.

Qui ritorna la perplessità sulle pietre piccole alle quali abbiamo già più sopra accennato, anche se,
essendo ora in maggior numero, si può anche pensare, dati i tempi molto precoci, più che a selci
da usare per improbabili spari a mitraglia, a pietre manuali da lanciare sul nemico dall’alto delle
coffe e delle quali infatti a bordo delle galee medievali doveva essere sempre abbondanza perché
di giavellotti e dardi da lancio non se ne poteva portare in gran numero sia per il costo sia per la
mancanza di spazio. Le faldette del corsaletto o dell’armatura si chiamavano lasaynas (dall’it.
lasagne) perché larghe e sottili come l’omonima pasta di farina. L’arco da passata è ovviamente un
arco da balestra e non un arco propriamente detto. Di che forma fosse la lama della rajauela non
sapremmo; ma bisogna dire che tutte queste armi in asta medievali (chiaverine, romagnole,
rajauelas, falconi, ronconi ecc.) diventeranno poco più tardi obsolete per aver lasciato il loro posto
alle alabarde.

Risulta nella giustificazione di una partita contabile che si consumarono 12 quintali di polvere per
provare l’artiglieria grossa di dette galee, cioè le nove bombarde grandi, due volte ciascuna, l’altra
che ricevette la città in permuta della bombarda ‘Fungosa’, la quale non si potè imbarcare in galea,
e per sparare 333 mortaletti e cerbottane nel benedire e varare dette nuove galee (ib. P. 31).

Il de Capmany cita poi altri interessanti documenti e cioè quelli che ricordano la costruzione delle
50 galee fatta a Barcellona per le imprese che nel 1528 l’imperatore Carlo V si propose di
compiere in Italia e in Tunisia; di queste solo 10 potettero essere costruite al coperto perché 10
erano i volti di quell’arsenale; ecco i nomi delle prime 20:

1. La Santa Trinidad.
2. San Francisco y Santa Clara.
3. Nuestra Señora de Loreto.
4. San Onofre y Santa Tecla.
5. San Jorge.
6. San Gerónimo.
7. Santa Paula.
8. Galera de Tortosa ‘San Luis’.
9. Nuestra Señora de Monserrate.
10. Santa Eulalia y San Telmo.
1027

11. San Martín.


12. Galera de Tortosa ‘Santa Tecla’.
13. San Antonio de Padua.
14. Galera de Tortosa ‘Santa Ana’.
15. Nuestra Señora de la Pietad.
16. La Asunción de la Virgen.
17. Galera de Tortosa ‘La Marieta’.
18. San Vicente.
19. La Conceptión.
20. Nuestra Señora del Puig de la Neu.

Non riporteremo qui anche i nomi dei capitani delle predette galere perché tutti di famiglie
spagnole o catalane e quindi di poco interesse per lo studio delll’antroponimia italiana; diremo solo
che la prima, la Santa Trinidad, varata nel 1529, era la Reale e infatti era comandata dal capitano
generale della squadra Rodrigo Portundo; si trattava di una trireme da 150 remi sensigli, come
presto vedemo. Il de Capmany non trova purtroppo le artiglierie fornite a questo vascello e la
circostanza che tra le armi vediamo ancora elencate 19 trombe di fuoco alla vecchia maniera non
significa che questa galea non avesse artiglierie; infatti, da altri documenti citati dal predetto autore
e che commenteremo di seguito, si evince chiaramente che a quel tempo le galee aragono-
catalane già avevano a prua sia il grosso cannone di corsia sia bocche minori; ma ecco gli altri
armamenti forniti:

- 114 pavesi dipinti di bianco, giallo e rosso, più 16 con le armi reali.
- 20 rotelle nere con due contorni d’oro, più 16 verdi.
- 12 balestriere di legno di pioppo guarnite (guarnecidas).
- 20 corsaletti bianchi, con loro bracciali sinistri, e 20 celate.
- 6 corazze guarnite, passate a vernice e imbottite.
- 60 lance manesche.
- 60 picche.
- 24 chiaverine e romagnole.
- 96 dardi.
- 240 saette.
- 24 zagaglie (‘gorguces’).
- 12 alabarde.
- 50 archibugi e 10 scoppietti.
- 1 quintale (di libbra) di polvere per detti archibugi.
- 115 libbre di piombo per farne pallottole per i detti archibugi.
- 24 quintali di polvere da artiglieria.
- 19 trombe di fuoco.
- 724 vasi (ollas) di argilla per farne fiaschi.
- 810 libbre di zolfo.
- 15 libbre di pece greca.
- 12 libbre di olio di lino.
1028

Qui c’è innanzitutto da notare le 12 balestriere che evidentemente il de Capmany pone in questo
elenco perché credeva che fossero armi, ma noi già sappiamo cosa fossero; quel guarnecidas è
interessante perché può probabilmente significare che erano rifinite con guarnizioni di ferro. Anche
i 724 vasi di argilla non erano da considerarsi tra le armi. I corsaletti sono bianchi, cioè politi, e
forniti del solo bracciale sinistro, cioè di quello a cui non si doveva rinunziare perché aveva una
funzione molto difensiva. A questa Reale si fornivano poi, tra l’altro:

- 2 timoni da ruota e 2 da barra.


- 3 bussole guarnite e 3 ampollette (‘clessidre’).
- Una vela maggiore d’artimone di 46 ferze, tra le quali 4 gialle e 3 rosse e con le armi reali dipinte
nel mezzo; una vela bastarda di 31 ferze, di cui 3 gialle e 2 rosse; una vela detta mezzana di 18
ferze, di cui 3 gialle e 3 rosse.
- Una ‘bandiera grande’ da poppa, ossia uno stendardo, con le armi del re, 12 bandiere quadre di
tela dipinta con le armi reali, 3 gagliardetti con lo stemma (divisa) del re, una ‘bandiera d’insegna’,
cioè quella che contraddistingueva il vascello di comando, per l’albero di maestra, una bandiera ‘di
tagliamare’, cioè per l’estrema prua, con la croce di S. Giorgio.
- Una tenda d’albagio di ferze nere e grigie e un’altra tutta verde; un tendale d’albagio di ferze nere
e bianche, un tendaletto di ‘tela genovese’ (‘cotonina’) di ferze bianche, rosse e gialle; tappezzerie
e parabande (‘impavesate’) di panno giallo, rosso e bianco. Un parasole (‘tendaletto’) e bonetta
(‘aggiunta’) di tela genovese degli stessi predetti tre colori.
- 4 ancore di 5 quintali (di libbra) cadauna e un rampino (rezon; it. rezone, ‘ancora a grappini’) di 6
quintali.
- 150 remi, 52 in servizio e gli altri di riserva.
- 150 coperte di lana.
- 48 gioghi di catene di 3 ramali e 7 grilli (‘ceppi per piedi’) doppi.
- 24 botti da 4 some e 150 barili per acqua.
- Un forno per cuocere il pane.
- Un mulino di pietra con due mole.

La tenda a fasce nere e grigie era sicuramente quella invernale, trattandosi di colori non atti a
impedire il passaggio del calore dei raggi solari, mentre il color verde per quella estiva era
evidentemente allora considerato utile a rifletterlo. Le pietre da mola si importavano perlopiù
dall’isola greca di Melos.
La circostanza che solo 52 dei 150 remi forniti erano da istallarsi immediatamente, mentre gli altri
erano da tenersi di riserva, non significa che la galera fosse spinta solo da 52 remi, ma significa
invece che, pur essendo la fornitura intesa anche per un eventuale cambio totale del remeggio, ne
era già stata consegnata una precedente fornitura e che al momento solo 52 erano quelli
mancanti; tutto ciò naturalmente sempre che il de Capmany non abbia mal interpretato i dati che
ne lesse negli antichi documenti. Comunque, che i remiganti fossero 150 è ben confermato poi
dalle 150 coperte di lana e dai 150 barilotti d’acqua forniti. In verità, se si consideraro i gioghi di
catene da tre ramali, questi non sono per 50 banchi ma per 48; il che però non significa
necessariamente che questo fosse il numero dei banchi, ma, a nostro avviso, si può invece per
1029

esempio intendere, come del resto abbiamo già detto, che i primi due banchi di poppa, cioè quelli
dove sedevano i più fidati remiganti spallieri, fossero mantenuti esenti da catene.
Nel 1530 sei galee costruite a Palamós furono trasferite a Barcellona sotto il comando di
Diego Mexía e messe nella disponibilità di Alvaro de Bazán, capitano generale delle galere
di Spagna; i loro nomi erano i seguenti:

- Santa Maria de Loreto y San Joseph.


- La Salutación, detta La popa verde.
- La Piñana.
- La Guimerana.
- San Onofre y Santa Tecla.
- Santa Eulalia y San Telmo

Tre anni più tardi, nell’ambito dei preparativi per la futura impresa di Tunisi, all’armata di
galere si fornisce il seguente materiale sia dall’arsenale di Barcellona sia dallo
smantellamento della galera Santa Catalina, il cui scafo si è aperto e quindi, in attesa delle
necessarie lunghe riparazioni da effettuarsi, è da considerarsi inservibile:

- 60 rotelle.
- 20 corsaletti.
- 50 dozzine di picche di faggio.
- 30 quintali di sartiame.
- 120 pavesi usati.
- 25 dozzine di gavette e vernicali.
- 2 dozzine di aste di picche di faggio per bandiere e un albero di mezzana.

La differenza tra gavette e vernicali consisteva forse soprattutto nel manico che le prime
probabilmente avevano per facilitarne il trasporto, manico che invece ai secondi, consumando i
remiganti il loro pasto incatenati ai loro banchi, doveva mancare. La gavetta era di legno duro, non
poroso, mentre tutte le altre stoviglie erano di stagno. Dalla predetta Santa Catalina in disarmo poi
si prendevano:
- Il cannone di prua.
- I due versi di prua, i versichi di poppa (sic) e due mezzi cannoni.
- La tenda di albagio.
- 130 remi.
- L’albero con le antenne.
- Le balestriere.
- L’impavesata.
- I due timoni di ruota.

Questi vocaboli versi e versichi, ad indicare piccole canne del primo genere d’artiglieria, cioè di
quello detto delle colubrine, non si ripetono in altri documenti del periodo e doveva dunque trattarsi
1030

di forme particolari dell’artiglieria catalana di allora; possiamo solo pensare che i primi, trovandosi
a prua, potevano forse essere come dei falconi posti ai fianchi del grosso cannone, mentre i
secondi, più piccoli e situati a poppa, cioè in un luogo dove il limitato spazio era riservato alla gente
di comando e ai timonieri, potevano forse anche essere piccoli pezzi da forcella girevole posti
sull’impavesata laterale. I 130 remi poi non significano che la galea in disarmo ne usasse solo
tanti, ma che, dei consueti 150 in uso nelle triremi, solo tanti ne risultavano ancora utilizzabili.
L’impavesata infine non era l’insieme dei pavesi ma il recinto di parapetto al quale essi si
appoggiavano. Infine, la ciurma, ossia l’insieme dei remiganti, della galea da riparare, sarebbe
stata distribuita nelle altre galee della squadra a seconda delle esigenze di ciascuna.
Dopo Antonio de Capmany sarà principalmente il religioso italiano Alberto Guglielmotti a
pubblicare storie e documenti relativi alla guerra con le galere condotta dalla marina pontificia a
partire già dall’Alto Medioevo. Ecco, proprio come trascritto dal Guglielmotti, l’inventario della
galera Capitana fatto il 16 aprile 1534 all’atto della sua consegna, assieme a quella di altre due e
di un brigantino, al capitano generale della squadra pontificia fra’ Bernardo Salviati, priore a Roma
dell’Ordine Gerosolimitano; ne commenteremo ora il materiale bellico e quello per la voga a
conferma e implemento di quanto già sappiamo:

LO INVENTARIO DI UNA GALÈA.

- Il corpo della galea fornita, con suoi banchi, pedagne, balestriere e battagliole.
- Item dodici catene di ferro per fornimento della sartia.
- Item due timoni forniti con loro aggiacci, aguglie e feminelle
- Item uno schifo con sua catena, e tre paja di remi.
- Item un fanale dorato.
- Item l'albero della galèa et antenna, fornito di sartia e taglie; e bronzi per imbronzare il calcese e
le taglie, come si usa.
- Item allre taglie, pasteche di schifo e da arborare et alcune di rispetto.
- Item remi pel fornimento di una galèa et di rispetto, in tutto centosellanta. (Da questo numro di
remi si evince che trattasi ovviamente di una trireme).
- Item piombo per impiombare il palamento et altre cose necessarie alla galèa, cantari nove e un
terzo.

Si tratta principalmente del piombo per controbilanciare il maggior peso di quella parte del remo
che fuoriesce dalla fiancata.

- Item catene pei forzati interziate, coi loro perni e chiavelte, quarantanove.

Le catene sono interziate, cioè ognuna ha tre ramali, perché tre sono i vogatori che al massimo
possono esser presenti su ogni banco.

- Item manette, perni, traverse per la munizione della galèa, quarantadue.


1031

Le manette sono quelle che, approssimandosi un combattimento, si aggiungono alle ordinarie


catene che avvincono i remiganti tenuti in condizione di schiavitù, perché non approfittino della
concitazione della battaglia per sferrarsi e ribellarsi.

- Item pali di ferro tre.

Sono pali da usare come leve nelle occorrenze.

- Item accette tredici per la provvisione della galèa.

Sono accette per andare a terra a far legna per il fogone.

- Item per la cucina della galèa, una caldaja grande, una mezzana, una terza ed otto calderotti
piccoli.
- Item padelle tre et spiedi quattro .
- Item due ronzoni (‘rezoni’) di ferro per sorgere.

Abbiamo già spiegato che i rezoni sono un tipo di ancora.

- Item barili da acqua centovantasei .


- Item vernicali (‘gavette’) centocinquanta .
- Item una manica di corame per empir la stipa.

Qui non c’entra nulla la ‘stipa’ nel senso di brusca o scopa, come erroneamente pensava il
Guglielmotti, trattandosi invece di stipa nel senso di ‘stiva’. La manichetta di cuoio serviva infatti,
come abbiamo già spiegato, per travasare acqua o vino da botti poste lungo una fiancata della
galera ad altre situate alla fiancata opposta, perché a volte era sufficiente far questo per ottenere
la stiva, ossia il riequlibrio, di quel leggero vascello.

- Item pavesi ducento.

Siamo nel 1534 ma ancora si usano i pavesi per farne delle impavesate laterali difensive.

- Item rotelle quaranta.


- Item botti per la stipa tredici.

Anche qui per stipa s’intende acqua e vino stivati e non brusca, anche perché per conservare
questa certo non c’era bisogno di tenere impegnate delle botti.
- Item archibusi co’ loro fornimenti cinquanta.
- Ilem celate trentatré.
- Item lancioni quindici.
- Ilem parligianoni dodici .
- Item alabarde trentatré.
- Item picche cento.
- Item spade quaranta.
1032

- Item l'albero e antenna del trinchetto fornito di sua sartia, come si usa.

L’albero di trinchetto, come sappiamo, era mobile, si montava solo all’occorrenza e si teneva
conservato per lungo nella corsia centrale della galera.

- IL VELAME.
- Un artimone guernito co’suoi mattaffioni e cordini.
- Un bastardo guernito, come sopra.
- Una borda guernita, come di sopra.
- La vela del trinchetto guernita, come si usa.
- Una vela di trevo.

- LE TENDE.
- Una tenda di albagio.
- Una tenda di canavaccio.
- Un tendale di albagio.
- Un tendale di cotonina.
- Due bussole da navigare.

- Quattro ampollette per la guardia .


- E più due caldaje grandi e due piccole, e quattro cucchiaj, che sono per cuocere la pece da
calafatare, e serviranno per le tre galèe.

SARTIAME.
- Cinque gomene.
- Due gomenette.
- Un prodàno, et una vetta di prodáno.
- Le vette da ghindare.
- Le oste della galera.
- Le orze a poppa e l'orza novella.
- Un pajo di amanti.
- Due scotte.
- Due palmare.
- Una grippia da collo.
- Una vetta da arborare.
- Una barbetta per lo schifo.
- Un provese.
- Una quarnaletta.
- Gli stroppi con che voga il palamento.

- L'ARTIGLIERIA .
- Un cannone serpentino per la prua della galèa col suo ceppo ferrato.
- Due mezzi cannoni serpentini per la prua, coi loro ceppi ferrati

Cannoni serpentini fu, come già sappiamo, il primo nome che si dette ai cannoni ferrieri, cioè a
quelli che sparavano palle di ferro, per distinguerli così dalle vecchie bombarde petrarie, ossia a
proiettili di pietra. Per ceppo ferrato s’intende l’affusto di sostegno di legno con le sue necessarie
guarnizioni di ferro.
1033

- Due quarti cannoni" per le bande coi loro ceppi ferrati.


- Due smerigli grandi per le bitte, et quattro piccoli per le bande. Et più le carcature per la predetta
artiglieria.

Mentre i due quarti cannoni erano posti a prua alle bande, cioè ai fianchi, della bocca da fuoco
principale, i due smerigli grandi, essendo per la zona delle bitte, erano più arretrati, cioè
lateralmente all’inizio del tavolato di prua; i quattro smerigli piccoli erano invece distribuiti sulle
bande, qui nel senso di fiancate, e istallati su forcelle girevoli.

- Lo inventario di sopra scritto è tutto della galea capitana e così delle altre due galèe, riservato il
fanale et le caldaje di pece.
- Et più il bucio (‘lo scafo’) del brigantino co'suoi banchi.
- Item albero et antenna guernito di sartia e taglie.
- Item remi trentadue.
- Item una vela guernila.
- Item un ferro (‘un’ancora’) per sorgere (‘dar fondo’).
- Item un cavetto e due provesi .

Si trattava in effetti di un brigantino classico, cioè di 16 banchi per lato e con un solo albero.

Fra Bernardo Salviati priore di Roma.


1034

FONTI.

A.S.N.Sez.Milt. Carte delle galere.


“ “ “ Assentisti.
“ “ “ Giunta Arsenale.
“ “ “ Espedienti di marina.
“ “ “ Excerpta.
Aa. vv. e ann.
Archivio veneto. Volumi vari.
Archivio Storico Italiano. Quarta Serie, Tomo III. Anno 1879. Firenze, 1879.
Archivio Storico per Le Province Napoletane etc. Anno XXII- Fascicolo I. Napoli, 1897.
Delle Navigationi et Viaggi, Venezia, 1550.
Relazione del Provveditore sopra le cento galee letta nell'eccellentissimo Senato a' dì 23
marzo 1602. Venezia, 1868. B.N.N. Misc.103 (8.
Relatione del viaggio delle Indie della Nuova Spagna che si chiama la Vera Nuova Croce. B.
Marc. Venezia, cod. MCCXXXIII.
Vittoria dell'armata veneta nel Canale di Scio contro i turchi nel 1657, ai tre di maggio. Venezia,
1882. B.N.N. Misc. 111 (43.
Discorso circa il modo et maniera ha da tenere un Capitano in governare bene la sua galera in tutti
viaggij et occasioni li potessero occorrere, cosi parimente de tutti officiali et ministri di essa (s.d.)
S.N.S.P. Ms. XXII.C.7.
Ius Regni Neapolitani, ex constitutionibus, capitulis, ritibus, pragmaticis, neapolitanorum privilegijs
etc. Napoli, 1608.
Ristretto delle forze interne con le quali il Regno di Sicilia si può da per sé difendere in tempo di
guerra (1611-1616). S.N.S.P., Ms. XXII.C.7.
Tutte le vittoriose imprese delle galere del Serenissimo Granduca di Toscana fatte nei viaggi
dall’anno 1565 al 1575. Biblt. Marc. di Venezia. Ms. VI. CVI., B.N.N. Sez. Nap. Per. 2001.
La Lega di Cambray e le spese di guerra di un comune della riviera benacense. B.N.N.Misc. 103
(14.
Relazione della vittoria veneta contro i turchi, 1649. B.N.N. 74.B.4 (17.
Relazione della vittoria delle galee di Sicilia, 1613, B.N.N. 316.G.3 (310.G.3).
Statuti penali per l'armata del mare e pe' reati commessi da' forzati e loro custodi. 1820. U.P.N.,
B.Borb. A.II.119.
Relazione della vittoria veneta sugli ottomani a Corfù, B.N.N., Sala 6a Misc.B.360 (16.
Relazione della presa di Famagosta, 1572, B.N.N., Fondo Doria I.315.
Navigatio Sancti Brandani., Milano, 1992.
Costruzione di galee genovesi durante il dogato di Leonardo Montaldo in «Miscellanea di studi
storici, ad Alessandro Luzio gli Archivi di Stato italiani», Firenze, 1933.
Les cérémonies, magnificence, triomphe et choses estranges et admirable faicte durant 40 jours
dans la grande et superbe ville de Constantinople etc. Chambery, 1620. B.N.P.
Le tresexcellent et somptueux triomphe faict en la ville de Venise en la publication de la Ligue ecc.
Lione, 1571. B.N.P.
Historie merveilleuse et espouvantable d’un accident de feu survenu dans l’arcenal de Venise le
13 de septembre 1569 etc. Lione, 1569. B.N.P.
Copie d’une lettere envoyée au gouverneur de la Rochelle par les capitaines des galleres de
France etc. Parigi, 1565. B.N.P.
Copie d’une lettre envoyée de Coutron en Calabre etc. Lione, 1587. B.N.P.
Le discours véritable de la prise de la ville de Mahomette par les chevalliers de Mallte avec le
nombre des turcs prisonniers. Parigi, 1602. B.N.P.
Lo Στρατηγιϰόν di Siriano, a cura di Domenico Carro, www.imperobizantino.it
1035

Termes desquels on use sur mer dans le parler avec les pièces et parties d’un vaisseau et des
manoeuvres etc. Le Havre (de Grace), 1681.
Raccolta di cronache meridionali inedite, B.N.N. Sez. Nap. II.B.2.
Relazioni di ambasciatori veneti del Cinquecento, B.B.N. Ms.X.G.16.
The Iliad of Homer etc. Boston, 1835.
Le nouveau Phalot de la Mer etc. Trad. dal fiammingo di Gerard Bardeloos. Amsterdam, 1635.
Chronica o comentaris del gloriosissim e invictissim rey en Jacme primer etc. Anno 1340.
Barcellona, 1873.
Chronicon estense etc. In LT. A. Muratori, Rerum italicarum scriptores etc. T. XV. Milano, 1729.
Cronaca pisana di Marangone. IN A.S.I. Tomo VI, parte II. Firenze, 1845.
Cronaca pisana di Ranieri sardo. IN A.S.I. Tomo VI, parte II. Firenze, 1845.
Crónica de fr. pere Marsili, dominico, in Historia de la conquista de Mallorca. Crónicas inéditas.
Palma, 1850.
Crónica del rey de Aragón D. Pedro IV el Ceremonioso etc. Barcellona, 1850.
Crónica del señor rey don Juan, segundo de este nombre, en Castilla y en León etc. Valenza,
1779.
Crónicas de los reyes de Castilla etc. Madrid, 1779.
Raccolta di varie croniche, diarij ed altri opuscoli etc. Napoli, 1781-1782.
Foedera, conventiones, literae et cujuscunque generis acta publica etc. Tomo VII. Londra, 1709.
Diaria neapolitana etc. In LT. A. Muratori, Rerum italicarum scriptores etc. T. 21. Milano, 1732.
Diario di Giovanni Portoveneri dall’anno 1494 all’anno 1502. A.S.I. Tomo VI. Parte II, sez. II.
Firenze, 1845.
Stato del Regno di Napoli e spese occorrenti per il suo mantenimento. S.N.S.P. Ms. XXVII.A.17.
Le opere di Buffon, nuovamente ordinate ed arricchite ecc. Venezia, 1820.
Novus orbis regionum ac insularum veteribis incognitarum etc. Basilea, 1532
Real Academia Española, Diccionario de la lengua castellana etc. T.I. Madrid, 1726.
Ordenanzas de las armadas navales de la Corona de Aragon etc. Madrid, 1787.
Colección de documentos inéditos para la historia de España etc. Madrid, 1843 e segg.
Accademia italiana di Colonia, Tesoro politico, cioè relationi, instruttioni, trattati, discorsi varij di
ambasciatori ecc. T. I. Colonia, 1598.
Del tesoro politico la terza e quarta parte ecc. Tournon, 1612.

Corpus scriptorum historiae byzantinae etc. Bonn, 1828-1897:


Costantino VII Porfirogenito, De ceremoniis aulae byzantinae
Leone Diacono, Historiae
Giovanni VI Cantacuzeno, Historiarum libri IV
Anna Comnena, Alexiadis
Leone VI, Тάϰτιϰα
Costantino VII Porfirogenito, De administrando imperio
Paolo Silenziario, Descriptio Sanctae Sophiae
Maurizio, Στρατηγιϰόν
Giorgio Cedreno, Historiarum compendium
Giovanni Lido. Dei magistrati dello stato romaico
Zosimo, Historiae novae
Teofane Isauro, Chronographia
Giovanni Kinnamo, Historia
Procopio da Cesarea, De bello vandalico
Procopio da Cesarea, De bello gothico
Menandro Protettore, Excerpta ex Historia
Giovanni Zonara, Epitomē historiarum
Genesio, Regum libri
1036

Teofilatto Simocatta, Historiarum libri


Teodosio Diacono, De expugnatione Cretae.
An. Chronicon Paschale
Michele Attaliota, Historiae
Niceforo Bryennio il Giovane, Historiae bizantinae libri XXXVII
Michele Psellos, Chronographia
Ioannes Scylitzes, Synopsis historiarum
Agazia Scolastico, Historiarum libri V
Niceforo Gregoras, Byzantinae historiae libri
Laonikos Kalkokondulos, De rebus turcicis
Niketas Koniatos, Historiae
Giorgio Pakymeres, De Michaele et Andronico Palaeologis libri X
Giorgio Franzes, Chronicon
Teofilatto Simocatta, Historiae.
Giovanni Cananos, De Constantinopoli anno 1422 oppugnata narratio.
Giovanni Malalas, Chronographia.

Affagart, Greffin, Relation de Terre Sainte, Parigi, 1902.


Albéri, Eugenio, Le relazioni degli ambasciatori veneti al Senato durante il secolo decimosesto,
Firenze, 1839-1865.
Alberico di Acqui, Hystoria hierosolymitanae expeditionis. In Patrologiae cursus cumpletus etc.
Parigi, 1854).
Alberti (de gli), Leon Battista, I dieci libri de l’architettura etc. Venezia, 1546.
Alcantarilla (de), Andrés, Instrumentos de navegar etc.
Alemán, Mateo, Guzmán de Alfarache, Madrid, 1926.
Alessi Palazzolo, Giorgia, Pene e ‘remieri’ a Napoli tra Cinque e Seicento. Un aspetto singolare
dell’illegalismo d’’ancien régime, B.N.N. Sez. Nap. Per. 2001.
Almirante, José, Bibliografia militar d'España, Madrid, 1876.
Angelucci, Angelo, Documenti inediti per la storia delle armi da fuoco italiane etc. Torino, 1869.
Aristotele, Μηχάνιϰα. Parigi, 1599.
Aubin, Nicolas, Dictionaire de marine, Amsterdam, 1702.
Auria, Vincenzo, Historia cronologica delli signori Vicerè di Sicilia (1409-1697), Palermo, 1697.
Àvila (de), Flores, Guerras de los españoles en Africa. 1542-3., Madrid, 1632.
Aymard, Maurice, Chiourmes et galères dans la seconde moitié du XVI e siecle in «Il Mediterraneo
nella seconda metà del '500 alla luce di Lepanto», Firenze, 1974.
Balbi, Francesco, Diario dell'assedio di Malta. 1565,
Bardi, Girolamo, fiorentino, Delle cose notabili della Città di Venetia libri II. Vinegia, 1601.
Bartoletti, Mario, Una città adriatica fra Medioevo e Rinascimento. Urbania, 1990.
Bayfio, Lazaro, De re navali, Basilea 1541. De re vestiaria, Basilea, 1541.
Becattini, Francesco, Istoria e descrizione in compendio della città e Regno di Algeri dalla sua
fondazione fino a’ nostri giorni, Napoli, 1783.
Bechi, Stanislao, Istoria dell’origine e progressi della nautica antica. Firenze, 1785.
Beer, Rudolph, Die galeree von Don Juan de Austria bei Lepanto etc.
Belgrano, Luigi Tommaso, Documenti inediti riguardanti le due crociate di San Ludovico IX re di
Francia etc. Genova, 1859.
Beneditti, Rocco, Discours des triomphes et resiovissances faicts par la Serenissime Seigneurie
de Venise à l’entrée heureuse de Henry de Valois etc. Lione, 1574.
Bernard, Charles, La conjonction des mers etc. Parigi, 1613.
Biagioni, Marco, Pirati nel Golfo e spezzini schiavi in terra islamica, La Spezia, 1999.
Biondo, Flavio, Opere. Basilea, 1559.
Biringuccio, Vannoccio, Pirotechnia. Li diece libri della pirotechnia etc. Venezia, 1558.
1037

Bizarus, Petrus, Cyprium bellum etc. Basilea, 1577.


Boerio, Giuseppe, Dizionario del dialetto veneziano. Venezia, 1829.
Borghesi, Vilma, Il Mediterraneo tra due rivoluzioni nautiche (secoli XIV-XVII), Firenze, 1976.
Boscolo, Alberto, Inviati barcellonesi a Napoli presso Alfonso il Magnanimo, Cagliari, 1953.
Bosio, Iacomo, Dell'istoria della sacra religione et illt.ma militia di San Giovanni gierosolimitano etc.
1602.
Bourdeilles (de), Pierre, visconte di Branthôme (1540-1614), Oeuvres etc. Parigi, 1823. Mémoires,
Leyde, 1666.
Bourne, William, Inventions or devises etc. Londra, 1578.
Bragadino, Marco, Lettre envoyée de Constantinople à la tresillustre seigneurie de Venise et à
plusieurs autres seigneurs et princes chrestiens etc. Lione, 1561. B.N.P.
Bulifon, Antoine, Cronicamerone (1670-1706). S.N.S.P. Man. XXII.A.10 e B.N.NA. XXI.A.72
Buonfiglio Costanzo, Giuseppe, Historia siciliana etc. Venezia, 1604. Seconda parte della
historia siciliana etc. Messina, 1739.
Calepio, Angelo, cipriota, Vera et fedelissima narrazione del successo della espugnatione et
defensione del regno di Cipro.
Camozio, Francesco, Isole famose, porti, fortezze e terre marittime etc. Venezia, 1571-2.
Campana, Cesare, aquilano, Delle historie del mondo etc. Pavia, 1602.
Canale (da), Christoforo, Della militia marittima. Roma, 1930.
Cano, Thomè, Arte para fabricar, fortificar y aparejar naos de guerra y merchante etc. Siviglia,
1611.
Capiluppi, C., Relazione [...] sulla flotta della Lega., 3.10.1571 .Biblt. Capiluppi di Mantova Cod.
105.
Capmany y de Montpalau (de), Antonio, Ordenanzas de las armadas navales de la Corona de
Aragon etc. Madrid, 1787 - Memorias historicas soibrte la marina, comercio y artes de la antigua
ciudad de Barcelona etc. Madrid, 1779.
Caracciolo, Ferrante, conte di Biccari, Commentarij alle guerre fatte da don Giovanni d'Austria
dopo che venne in Italia., Firenze, 1581.
Cataneo, Hieronimo, De gli avvertimenti et essamini intorno a quelle cose che richiedon a un
bombardiero. Venezia, 1582.
Catena, Girolamo, Vita del gloriosissimo Papa Pio Quinto, Roma, 1586.
Cauche, François, Relations etc. Parigi, 1651.
Centorio degli Hortensii, Ascanio, pseud. di Castaldo, Giovan Battista ( 1480-?), Quattro
discorsi di guerra. Venezia, 1557-9.
Cervantes Saavedra (de), Miguel, El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha, Madrid, 1989 –
El amante liberal in Novelas ilustradas con notas históricas. Tomo I. Madrid, 1843.
Chaves (de), Christóbal, Relacion de la cárcel de Sevilla. In Aureliano Fernández-Guerra y Orbe,
Noticia de un precioso códice de la Biblioteca Colombina etc. P. 53. Madrid, 1864.
Chinazzo (di), Daniele, Chronica de la guerra da' Veniciani a' Zenovesi., a cura di V. Lazzarini,
Venezia, 1958.
Ciasca, Raffaele, Istruzioni e relazioni degli ambasciatori genovesi, Roma, 1951.
Cleirac (de), Étienne, Us et coustumes de la mer etc. Bourdeaux, 1661.
Cléves von Ravenstein (de), Philippe , Guerre, B.N.N. Ms. I.G.22.
Coccio Sabellico, Marc’Antonio, Rerum venetarum ab Urbe condita in universum opus. LT. III, in
Degl’istorici delle cose veneziane etc. T. I, p. 67. Venezia, 1718.
Coignet, Michel, Instruction de l'art de naviguer etc. Anversa, 1581.
Collado, Luis, Prattica manuale dell’artiglieria etc. Milano, 1606.
Colombina, Giovan Battista, Origine, eccellenza e necessità dell'arte militare, etc. Trevigi, 1608,
Venezia, 1641.
Colòn, G. - Garcìa, A., Libre del consolat de mar (c.1370). Barcellona, 1981-1987.
1038

Confuorto, Domenico, Giornali di Napoli (1679-1699). Vollt. due. Napoli, 1930. S.N.S.P. e B.N.Na.
Sez. Nap.
Contarini, Gasparo, Della republica et magistrati di Venetia, Venezia, 1525.
Contarini, Giovan Battista, Relatione del Provveditore sopra le cento galee letta
nell'eccellentissimo Senato a' dì 23 marzo 1602., Venezia, 1868.
Contarini, Giovan Pietro, Historia delle cose successe dal principio della guerra mossa da Selim
ottomano a' venetiani fino al dì della gran giornata vittoriosa contra turchi, Venezia, 1572 e 1645.
Conti, Natale, Delle historie de' suoi tempi etc. Venezia, 1589.
Cortès, Martín, Compendio de la esphera y arte de navegar etc. Siviglia, 1551.
Costantino VII Porfirogenito, De cerimoniis aulae byzantinae etc. Vol. I. Bonn. 1829.
Costo, Tomaso, La vittoria della Lega etc. Napoli, 1582.
Covarrubias Orozco (de), Sebastián, Tesoro de la lengua castellana o española etc. Madrid, 1611.
Crescenzio, Bartholomeo, Della nautica mediterranea, Roma, 1607.
Croce, Benedetto, Scene della vita dei soldati spagnuoli a Napoli in «Studi di storia napoletana in
onore di Michelangelo Schipa», Napoli, 1926.
Cueva (de la), Francisco, Relacion dela guerra del Reino de Tremecen etc. Baeza 1543, in
«Guerras de los españoles en África», Madrid, 1881.
Curneo, Pietro, Commentarius de bello ferrariensi etc. In LT. A. Montanari, Rerum italicarum
scriptores etc. t. 21. Milano, 1732].
Dan (Père), Histoire de Barbarie et des corsaires, des Royaumes et des villes d’Alger, de Tunis, de
Salé et de Tripoly. Parigi, 1649.
Dandulo, Andrea (1306-1354), Chronicon in LT. A. Muratori, Rerum italicarum scriptores etc. T. 12.
Milano, 1728.
Del Giudice, Giuseppe, Diplomi inediti di re Carlo I d’Angiò riguardanti cose marittime etc. Napoli,
1871.
Della Rovere, Francesco Maria, Discorsi militari etc. Ferrara, 1583.
Del Re, Giuseppe, Cronisti e scrittori sincroni napoletani etc. Vol I e II. Napoli, 1845 -1868.
Di Blasi, Giovanni Evangelista, Storia cronologica de’ Viceré… di Sicilia etc. 1790.
Digby, Kenelm, Viaggio piratesco nel Mediterraneo (1627-9), A c. di V. Gabrieli. Milano, 1972.
Di Tucci, Rafaele, Costruzione di galee genovesi durante il dogato di Leonardo Montalto. Le
Monnier, 1933.
Doglioni, Giovan Nicolò, Origine del principio di Venetia et summario delle vite dei serenissimi
principi. Historia venetiana scritta brevemente da Gio. Nicolò Doglioni. Delle cose successe dalla
prima fondazione di Venetia sino all'anno di Christo 1597. Venezia, 1598.
Dufresne du Cange, Charles, Glossarium ad scriptores mediae et infimae latinitatis. T. II.
Basilea,1762
Durand de Villegaignon, Nicolas, Caroli Quinti expeditio in Africam ad Algieram etc. Parigi, 1542.
De bello melitensi ad Carolum Caesarem etc. Parigi, 1558.
Escalante (de), Bernardino, Navegacion de Oriente etc. 1577.
Esclot (de), Bernat, Crónica del rey en Pere e dels seus antecessors passats. In Chroniques
étrangères relatives aux expéditions françaises pendants le XIII° siècle etc. Parigi, 1860.
Esichio Alessandrino, Lexicon. Iena, 1867.
Falconi, Alessandro, Breve istruzione appartenente al capitano de' vasselli quadri etc. Firenze,
1612.
Falerò, Francisco, Tratado de la esfera ó arte del marear etc. Siviglia, 1535.
Fazelli, Tomaso, De rebus siculis etc. T. III. Catania, 1753.
Feijoó , Francisco, El sargento embarcado etc. Cadiz , 1629.
Felt, Joseph B., Annals of Salem. Volume II. Salem, 1849.
Feltz, Johann Heinrich, Excerpta controversiarum de lege Rhodia de jactu etc. Strasburgo, 1715.
Ferreira Reimàn, Gaspar, Derroteiro dà carreira dà India etc. 1610.
1039

Ferretti, Francesco Senior, anconitano, Diporti notturni. Dialloghi familliari ecc. Ancona, 1580 -
Dialoghi notturni del capitano Francesco Ferretti, dove si ragiona di ordinanze etc. Ancona, 1604 –
Ricordi overo ammaestramenti etc. Pp. 211 verso – 212 recto. Venezia, 1613
Fialarchi, Cosimo, pistoiese, Guerra et unione de' principi christiani contra turchi etc. Venezia,
1572.
Figuereido (de), Manuel, Hydrographia. Exame de pilotos etc. Lisbona, 1608.
Filippo Rinuccini (di), Alamanno, Viaggio al Santo Sepolcro etc. B.N.F Maglt. MS.XVIII.76.
Filone di Bisanzio, Βελοποιἲϰών λόγος, in Veterum mathematicorum opera etc. Parigi, 1693.
Finot, Jules, Inventaire sommaire des Archives Départementales antérieures a 1790 etc. Tomo
VIII. Lille, 1895.
Festo, Sesto Pompeio - Flacco, Marco Verrio, De verborum significatione libri XX. Amsterdam,
1700..
Forses Davanzati, Domenico, Dissertazione sulla seconda moglie del re Manfredi e su’ loro
figliuoli etc. Napoli, 1791.
Frezza, Fabio, Discorsi in torno a i rimedii d'alcuni mali etc. Napoli, 1623
Furttenbach, Joseph, Architectura navalis, Ulm, 1629.
Gallardo, Bartolomé José, Ensayo de una biblioteca española de libros raros y curiosos etc.
Madrid, 1863.
Gambacorta, Modesto, Discurso del Regente Gambacorta sobre el mantenimiento de las
galeras del Reyno de Siçilia à 13 de Junio 1603. S.N.S.P., Ms. XXII.C.7.
Garcia de Céspedes, Andrés, Regimiento de navegación que mando hazer el rei nuestro señor
etc. Madrid, 1606.
Garcia Fernandez, Pedro, Derrota, pilotage y anclaje de la mar etc.
Garcia Palacios, Diego, Instrucción náuticas etc. Città del Messico, 1583.
Garcie, Pierre (detto 'Ferrando'), Le grand routtier et pylllotage et encrage de la mer. Poitiers,
1521.
Garoni, Nicolò Cesare, Codice della Liguria, diplomatico, storico e giuridico ecc. Vol. I. Genova,
1870.
Garrucci, Raffaele, Classis Praetoriae misenensis piae vindicis gordianae philippianae monumenta
quae exstant etc. Napoli,1852.
Garzoni, Tomaso da Bagnacavallo, La Piazza Universale di tutte le professioni del mondo,
Venezia, 1665.
Gatti, Angelo Maria, capitano orvietese, Successi della guerra di Famagosta nell'isola di Cipro e
della presa di essa. Ms. Biblt. Chigiana di Roma, G.IV.102.
Giannotti, D., Libro della Republica de' Venitiani etc. 1542.
Gimma, Giacinto, Della storia naturale delle gemme, delle pietre e di tutti i minerali etc. Tomo II.
Napoli, 1730.
Giovanni Diacono, Chronicon Venetum omnium quae circumferuntur vetustissimum.
Giraldi, Lilio Gregorio, De re nautica libellus., Basilea, 1540.
Giraldi Cinzio, Giovan Battista, Gli ecatommiti ovvero 100 novelle etc. Monteregale, 1565; Venezia,
1566.
Giulio Polluce, Onomastikon grece et latine. Basilea, 1541 – Amsterdam, 1706.
Giustiniani, Andreolo, Relazione dell'attacco e difesa di Scio nel 1431, s.d. B.N.N. Misc.
Giustiniano, Bernardo, Historia dell’origine di Vinegia ecc. Venezia, 1545.
Graziani, A.M.ç De bello Cyprio etc. Roma, 1624.
Guarnieri, Gino, Livorno Medicea nel quadro delle sue attrezzature portuali e della funzione
economico-marittima. Livorno, 1970. I cavalieri degli ordini di Santo Stefano e Costantiniano.
Livorno, 1974.
Guazzo, Marco, Historie di tutte le cose degne di memoria etc. Venezia, 1545. Historie di Messer
Marco Guazzo […] qual hanno principio l’anno 1509 etc. Venezia, 1547.
Cronica etc. Venezia, 1553.
1040

Guevara (de), Antonio, Arte del marear y de los inventores della y los trabajos de la galeras con
muchos avisos para los que navegan con ellas. Valladolid, 1538 e Barcellona, 1613.
Guglielmotti, Alberto, La guerra dei pirati e la marina pontificia dal 1560 al1566. Firenze, 1876.
Guibours (de), Pierre, (Pere Anselme), Histoire généalogique et chronologique de la Maison
Royale de France, des grandes officiers de la Couronne et de la Maison du Roy etc. Parigi, 1712.
Guillet, Georges, Les arts de l’homme d’epée ou le dictionnaire du gentilhomme , Parigi, 1681.
Haedo (de), Diego, De la captivité à Alger par Fray Diego de Haëdo. Traduction de Moliner-Violle,
Alger, 1911. - Topografia y historia general de Argel etc. Valladolid, 1612.
Hale, John R., From peacetime establishment to fighting machine: The Venitian Army and the war
of Cyprus and Lepanto in «Il Mediterraneo nella seconda metà del ’500 alla luce di Lepanto»,
Firenze 1974.
Heraut, Lucien, Les larmes et clameurs des chrestiens, françois de nation, captifs en la ville
d’Alger en Barbarie etc. Parigi, 1643.
Hondt (de), Hendrick, Description et brève declaration des regles générales de la fortification, de
l’artillerie ecc.. L’Aia, 1625.
Hoste, Paul, L'art des armées navales ou traité des evolutions navales, Lione, 1696; Theorie de
la construction des vaisseaux, Lione, 1697.
Inalcik, Halil, Lepanto in the ottoman documents in «Il Mediterraneo nella seconda metà del
’500 alla luce di Lepanto», Firenze, 1974.
Jal, Auguste, Archéologie navale, in due tomi. Parigi, 1840.
Jurien de la Gravière, Jean Baptiste, Les derniers jours de la marine a rames., Parigi, 1885.
Les corsaires barbaresques et la marine de Soliman le Grand., Parigi, 1887. Doria et
Barberousse., Parigi, 1886. La guerre de Chypre et la battaille de Lepante., 1888. Les cavaliers de
Malte et la marine de Philippe II. Les marins du XVe et XVIe siécle., 1879.
Labaña, Juan Baptista, Regimiento nautico etc. Lisbona, 1595.
Lazzarini, Antonio, Fra terra e acqua. L’azienda risicola di una famiglia veneziana nel delta del Po.
Roma, 1990.
Lenci, M., Forzati lucchesi sulle galere genovesi (secc. XXI-XVIII) in «La storia dei genovesi», VI,
Genova, 1980.
Levi, Cesare Augusto, Navi da guerra costruite nello Arsenale di Venezia dal 1664 al 1896 con n°
22 disegni dai modelli di questo secolo, Venezia, 1896;
Levi, Cesare Augusto, Navi venete da codici, marmi e dipinti, Venezia, 1892.
Lenci, Marco, Lucca, il mare e i corsari barbareschi nel XVI secolo, Lucca, 1987.
Leone, Imperatore di Costantinopoli, Degli ordini e governo della guerra etc. Trad. di Alessandro
Andrea. Napoli, 1612.
Leon Pinelo (de), Antonio, Bibliotheca nautica etc. Madrid, 1629.
Lisdam (du), Henry, L’esclavage du brave chevalier François de Vintimille etc. Lione, 1608.
Ljubić, Simeon, Commissiones et relationes venetae. T. II, annorum 1525-1553. Zagabria, 1877.
Longo, Francesco, Successo della guerra fatta con Selin sultano imperator de' turchi et
giustificatione della pace con lui conclusa., in Archivio Storico Italiano, Appendice, Tomo IV,
Firenze, 1847 opp. 1851, XV, pp. 492-3.
Lusignano, Stefano, cipriota, Chorografia et breve historia universale dell'isola di Cipro. Bologna,
1573.
Malara (de), Juan, Description de la galera del Serenissimo don Juan de Austria. Siviglia, 1876.
Malipiero, Domenico, Annali veneti dal 1457 al 1500 ecc. Tomi due. Firenze, 1843.
Manesson Mallet, Allain, Les travaux de Mars ou l’art de la guerre etc. Tomi 3. Parigi, 1684.
Manolesso, Emilio Maria, Historia nova nella quale si contengono tutti i successi della guerra
turchesca del anno 1570 fino alla presente hora, Padova, 1572.
Mantelli, Roberto, Il pubblico impiego nell’economia del Regno di Napoli: retribuzioni, reclutamento
e ricambio sociale nell’epoca spagnola (secc. XVI – XVII), Napoli, 1986.
1041

Manuel, Pedro, Discurso para facilitar la navegación para los baxeles etc. 1665.
Manwayring, Henry, Seaman's dictionary (1644)., Londra, 1972
Manzi, Guglielmo, Viaggio di Lionardo di Nicolò Frescobaldi in Egitto e in Terra Santa etc. Roma,
1818 e Parma, 1845.
Marañón, Gregorio, La vida en las galeras en tempos de Felipe II, in Vida y Historia, Buenos Aires,
1947.
Marcello, Cornelio, De christianorum victoria ad Echinades etc. Napoli, 1582.
Marchi (de’), Francesco, Architettura militare. Roma, 1810.
Marco Polo, Il milione di Messer Marco Polo viniziano etc. Firenze, 1827.
Marulli, Giacomo – Livigni, Vincenzo, Guida pratica del dialetto napolitano ecc. Napoli, 1877
Medina (de), Pedro, L'arte del navegar etc. Venezia, 1555. Regimiento de navegación etc. Siviglia,
1552.
Meibomius, Marcus (1620/1630-1710/1711), De fabrica triremium liber. Amsterdam, 1671.
Mendoça (de), Bernardino (1540/1-1604), Teorica et prattica di guerra terrestre e maritima,
Venezia, 1596.
Minuci, Minucio – Padre M. Paolo, Historia degli Uscochi etc. Venezia, 1676.
Monacis (de), Lorenzo, Chronicon de rebus venetis etc. Venezia, 1758.
Momigliano Lepschy, Anna Laura (a cura di), Viaggio in Terrasanta di Santo Brasca (1480) con
l’Itinerario di Gabriele Capodilista (1458), Milano, 1966.
Morales (de), Baltazar, Dialogo de las guerras de Oran etc. Córdoba 1593, in «Guerras de los
españoles en África», Madrid, 1881.
Morbio, Carlo, Codice visconteo-sforzesco etc. Milano, 1846.
Morisoto, Claudio Bartholomeo, Orbis maritimi sive rerum in mari et littoribus gestarum generalis
historia, Digione, 1643.
Moresini, Alessandro, Tariffa del pagamento di tutti i dacii di Venetia ecc. Venezia, 1524.
Morosini, Andrea, Historia veneta ab anno 1521 usque ad annum 1615., Venezia, 1623.
Moscati, Ruggero, Relazioni degli ambasciatori veneti al senato, Milano, 1943.
Mosquera de Figueroa, Christobal, Comentario de disciplina militar en que se escribe la jornada de
los Azores etc. Madrid, 1596.
Muñoz, Andrés, Instruccion, y regimiento, para que los marineros sepan usar del Artilleria, con la
seguridad que conviene. 1627. Instruccion para el uso de la artilleria en mar. Lucerna, 1642.
Muntaner, Ramón, La spedizione dei catalani in Oriente., a c. di C. Giardini, Milano, 1958.
Crónica catalana etc. Barcellona, 1860.
Muratori, Ludovico Antonio, Rerum italicarum scriptores etc. Tomi 25. Milano, 1723-1751.
Fabio Mutinelli, Lessico veneto etc. Venezia, 1852.
Nicolay (de), N. Les quatre premiere livres des navigations et peregrinations orientales etc. 1568.
Naxera (de), Antonio, Navegacion speculativa y practica etc. Lisbona, 1628; Madrid, 1669.
Nicolini, Nicola, La città di Napoli nell'anno della battaglia di Lepanto, dai dispacci del residente
veneto Alvise Bonrizzo, in «Archivio Storico per le Province Napoletane», LIII (1928), B.N.N. Sez.
Nap. Per. 2001.
Nigris, Giovanni Antonio (de), Commentarii in capitula regni neapoletani etc. Venezia, 1594.
Noiret, Hippolyte, Documents inédites pour servir a l’histroire de la domination vénitienne en Crete
de 1380 a 1485 etc. Parigi, 1892
Nouveau commentaire sur l'Ordonnance de la Marine du mois d'Aout 1681, La Rochelle. B.N.N.
VII.7.24.
Nuñez de Villasan, Juan, Chrónica del muy esclarecido príncipe y rey don Alonso el Onzeno etc.
Toledo, 1595.
Nuñez, Pedro, De arte atque ratione navigandi etc. Coimbra 1546. Tratado em defensam da carta
de marear como regimento de altura etc. Lisbona, 1537. In Aristotelis problema machinicum de
motu navigii ex remis. Basilea, 1566.
Oliveira, Fernando, Arte de la guerra de la mar etc. 1535.
1042

Orozco (de), Agustin, Discurso historial de la presa que del puerto de la Maaamora etc. Madrid,
1615.
Pagnini, Jean, De' vasseli, s.lt. né d. (B.N.N., Sez. Milt. I.G.28)
Palacios (de), Diego Garcia, Instrucción náutica para el buen uso de las naos segum la altura de
Mexico. Mexico, 1587
Palazzi, Giovanni, De dominio maris etc.
Pantera, Pantero, L'armata navale, Roma, 1614.
Papenbroeck, Daniel van, […] leges palatinas ex veteri aragonicae domus disciplina in aureo
annorum ccclx codice descriptas a Jacobo II rege Majoricarum iconibusque et observationibus
illustratas […] Anversa, 1669.
Pardessus, J.M., Collection de lois maritimes antérieures au XVIIIe siècle. » Tomo primo, secondo
e terzo. Parigi, 1828-1834.
Paruta, Paolo, veneziano, Della historia vinetiana [...] nella quale in libri tre si contiene la guerra
contro Selino Ottomano., Venezia, 1605. Opere poltiche. Firenze, 1852.
Peckius (Peck), Peter, Ad rem nauticam etc. 1647.
Perez de Moia, Juan, De navegación etc. 1568.
Peça (de), Andrez, Hydrografia o arte de la navegación etc. Bilbao, 1585.
Peirce, Guglielmo, L’artiglieria da diabolica arte a nuova scienza. Napoli, 2010.
Piccolomini, A., Della sfera del mondo etc. 1559.
Pietro Martire d’Angheria, De rebus oceanicis et orbe novo decades tres etc. Basilea, 1533.
Pigafetta, Filippo, Trattato brieve dello schierare in ordinanza gli eserciti et dell’apparecchiamento
della guerra di Leone, per la gratia di Dio, Imperatore etc. Venezia, 1586.
Podocataro, A., Relazione de' successi di Famagosta etc. Venezia, 1876.
Porcel Casanate, Pedro, Reparo de los errores de la navegacion española etc. Saragozza, 1634.
Quarti, Guido Alberto, La battaglia di Lepanto nei canti popolari dell'epoca, Milano, 1930.
Razzi, Serafino, Viaggi, in Viaggi in Abruzzo. P. 141. L’aquila, 1968.
Redusiis (de), Andrea, Chronicon tarvisinum etc. In LT. A. Muratori, Rer. It. script. T. XIX. Milano,
1731.
Riccardo da S. Germano, Chronicon (1189-1243). In Cronisti e scrittori sincroni napoletani etc. Vol.
II. Napoli, 1868.
Rivera (de), Fadrique Erriquez, marchese di Tarifa, Este libro es de el viaje que hize a Ierusalem
etc. Siviglia, 1606.
Roger de Wendower, Chronicon anglicanum (varie edizioni).
Romanci, Fabrizio, La seconda parte del Thesoro Politico ecc. Torona, 1602.
Romano, Bartholomeo, Proteo militare etc. Napoli, 1595.
Rosaccio, Giuseppe, Viaggio da Venetia a Costantinopoli etc. Venezia, 1598.
Rossetti, Orlando, Corona de’ bombardieri ecc. Venezia, 1620.
Rotalier (chevalier de), Charles, Histoire d’Alger et de la piraterie des Turcs dans la Méditerranée,
a dater du seizième siècle… Parigi, 1841.
Ruscelli, Girolamo (?-1566), Precetti della militia moderna, tanto per mare quanto per terra, ne’
quali si contiene tutta l’arte del bombardiero. Venezia, 1568.
Ryves; Thomas, Historiae navalis mediae libri tres. Londra, 1640.
Sagri, Nicola, Ragionamenti sopra la varietà de i flussi et riflussi del mare Oceano occidentale.
Venezia, 1574.
Sansovino, M. Francesco, Venetia [...] descritta in XIV libri. Venezia, 1581. Delle cose notabili che
sono in Venetia etc. Venezia, 1562. Historia universale dell’origine et imperio de’ turchi etc.
Venezia, 1582.
Sanudo, Marino, Piero Mocenigo Doxe, 1474. La spedizione di Carlo VIII in Italia, Venezia, 1883. I
diarii (1496-1533), Venezia, 1879-1903.
1043

Sanudo, Marino il Vecchio, Operis Terrae Sanctae libri tres (1321-1323). Libro secondo, parte
quarta in Liber secretorum Fidelium Crucis super Terrae Sanctae Recuperatione et Conservatione
etc. P. 57. Hannover, 1611
Sarpi, Paolo, Dominio del Mar Adriatico etc.
Sathas, C:N. Documents inédits relatifs à l’histoire de la Grèce au Moyen Âge etc. Vol I e VI.
Parigi, 1880.
Savary de Breves, Franciscus, Relation des voyages etc. Parigi, 1630.
Savérien (de), Alexandre, Dictionnaire historique et pratique de Marine, Parigi, 1758.
Scalletari, Francesco, Condotta navale e vera relatione del viaggio da Carlistot a Malta dell’illt.mo
ed ecc.mo sig. Gioanni Gioseppe d’Herberstein, conte del S.R.I. etc. Graz,1688.
Scetti, Aurelio, Diario fino al 17 marzo 1576. Biblt. Marciana, Ms. CVI Classe VI. Venezia.
Scheffer, Johann, De militia navali etc. Upsala, 1654.
Schiappoli, Irma, Napoli aragonese: traffici e attività marinare, Napoli, 1972.
Schlosser, M., Tre secoli di criminali bavaresi sulle galee veneziane (secoli XVI-XVIII). Padova,
1984.
Segre, Arturo, La marina sabauda ai tempi di Emanuele Filiberto [...] dal 1560 al 1571. Torino,
1892.
Sereno, Bartholomeo, Commentarij della guerra di Cipro e della Lega dei principi cristiani contra il
Turco. Monte Cassino, 1845.
Sesto Pompeo Festo, De verborum significatione. Parte I, p. 90. Budapest, 1889 - De la
signification des mots etc. Parigi, 1846.
Simbula, Pinuccia F. Corsari e pirati nei mari di Sardegna. Cagliari, 1993.
Siria (de), Pedro, Arte de la verdadera navegacióñ etc. Valencia, 1602.
Smith, John, An accidence for young seamen. (1626). Edinburgo, 1910. A sea grammar. (1627).
Londra, 1968.
Soranzo, Alvise, Relatione [...] sulla battaglia di Lepanto dell'anno 1571., Venezia, 1852.
Staglieno, Marcello, Proverbi genovesi con i corrispondenti in latino etc. Genova, 1869
Stella, Giorgio & Giovanni, Annales genuenses (1298-1435) etc. In LT. A. Muratori, Rerum
italicarum scriptores etc. Vol. 17. Milano 1730).
Stracchia, Benvenuto, Tractatus de mercatura., 1556.
Strada, Famiano (1572-1649), Della guerra di Fiandra [...] volgarizzata da Paolo Segneri etc.
Roma, 1639-1648. De bello belgico. Londra, 1650.
Stratico, Simone, Bibliografia di marina nelle varie lingue dell'Europa, Milano, 1823.
Suida, Lexicon, graece et latine. Tomi 3. Halle e Brunswick, 1705.
Téoli Carlo, La battaglia di Lepanto descritta da Gerolamo Diedo e la dispersione della Invincibile
Armata di Filippo II illustrata da documenti sincroni, Milano, 1863.
Texeira Albernas, Juan, Carta de marear à las Indias Orientales etc. Lisbona, 1649.
Tomasin, Lorenzo, Schede di lessico marinaresco militare medievale, in Studi di lessicografia
italiana, XIX (2002), pp. 11-33.
Tomasoni, Luca Antonio, da Terni, Discorso militare in La seconda parte del Thesoro politico etc.
Pp. 56 verso e 57 recto.Vicenza, 1602.
Trinchera, Francesco, Codice aragonese o sia lettere regie, ordinamenti ecc. 3 voll. Napoli 1866.
Tucci, Ugo, Il processo a Girolamo Zanne, mancato difensore di Cipro in «Il Mediterraneo nella
seconda metà del ’500 alla luce di Lepanto», Firenze, 1974.
Ulloa (de), Alonso, Historia de D. Cristobal Colon, escrita por D. Fernando su hijo. Venezia, 1571 -
La historia dell’impresa di Tripoli di Barbaria, della presa del Pegnon di Velez della Gomera in
Africa et del successo della potentissima armata turchesca venuta sopra l’isola di Malta l’anno
1565. Venezia? 1566.
Vecellio, Cesare, Degli abiti antichi e moderni di diverse parti del mondo, Parigi, 1859 (Ed. anast.
di quella del 1590).
1044

Villafranca, Blas, Methodus refrigerandi ex vocato salenitro vinum, aquamque ac potus quodvis
aliud genus etc. Roma, 1550.
Villamont (de), Jacques, Les voyages. Libro III. Arras, 1606.
Visconti, Carlo E., Ordine dell’esercito ducale sforzesco 1472-1474. in Archivio Storico Lombardo
etc. Anno III. Milano 1876.
Volpicella, LT., Gli antichi ordinamenti della città di Trani., 1852.
Vooght, Nicolas Jans, Della nuova e grande illuminante face del mare, Amsterdam, 169...
Zamorano, Rodrigo, Arte de navegar etc. Siviglia, 1586, 1588 e 1591. Carta de marear etc.
Siviglia, 1579.
Zantfliet, Cornelius, Chronicon etc. In Veterum scriptorum et monumentorum etc. Tomo V. Parigi,
1729
Zonta, Camillo, Il capitan d’artiglieria etc. Venezia, 1640.
Zurita, Gerónymo, Los cinco libros primeros de la primera parte de los anales de la Corona de
Aragón etc. Saragozza, 1610.
Zurita, Gerónymo, Los cinco libros postreros de la primera parte de los anales de la Corona de
Aragón etc. Saragozza, 1668.
Zysberg, André y René Burlet, Gloria y miseria de las galeras, Madrid, 1989.
1045

INDICE.

Abbreviazioni. P. 2.
Prefazione. 3.
Cap. I : Vascelli tondi e vascelli latini. 10.
Cap. II: L’equipaggio. 74.
Cap. III: I viaggiatori. 94.
Cap. IV: I vascelli remieri. 100.
Cap. V: La gente di remo. 308.
Cap. VI: La gente di capo. 444.
Cap. VII: La gente di poppa. 502.
Cap. VIII: La gente di spada. 542.
Cap. IX: La gente di passaggio. 577.
ap. X: Ufficiali maggiori e ufficiali generali. 599.
Cap. XI: Squadre del Mar Tirreno. 681.
Cap. XII: Arsenali del Mediterraneo. 732.
Cap. XIII: Le forniture e gli armamenti leggeri. 794.
Cap. XIV: L’artiglieria nautica. 799.
Cap. XV: La partecipazione napoletana all’Invencible Armada. 837
Cap. XVI: La guerra. 851.
Cap. XVII: Dopo la vittoria. 1.003.
Cap. XVIII: Galee catalane e pontifice del Basso Medioevo e del
Rinascimento. 1.013.
Fonti. 1.034.
Indice. 1.045.

Potrebbero piacerti anche