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Guglielmo Peirce

LE CRONACHE MILITARI DEL REGNO DI NAPOLI E L’EVOLUZIONE TECNICO-TATTICA


DELLA GUERRA VERSO IL DECLINO DELL’EGEMONIA SPAGNOLA (1668 - 1707).

Le cronache militari del Regno di Napoli e l’evoluzione tecnico-tattica


ella guerra verso il declino dell’egemonia spagnola (1668-1707).
di Guglielmo Peirce.
Prima stesura depositata alla S.I.A.E.-SEZIONE OLAF con
il n. di repertorio 9912821 e con decorrenza 14.5.2008.

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Alla memoria di mia madre, donna
d’ogni virtù ornata e d’ogni lode
degna.

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Prefazione.
Questa cronologia militare commentata, ricavata principalmente dalle raccolte di avvisi a
stampa e di giornali privati manoscritti del Regno di Napoli, anche se purtroppo lacunosa come
inevitabilmente finiscono per essere tutte le cronologie di tempi lontani, si propone di fornire al
lettore una sufficiente contezza sia dell’organizzazione e dei contributi militari del Regno di
Napoli nell’ultimo periodo del dominio spagnolo sia dell’importante evoluzione tecnico-tattica
che si ebbe allora nell’arte della guerra, evoluzione i cui precisi termini e tempi non abbiamo in
verità mai trovato da alcuno adeguatamente indagati; e quand’anche tali argomenti marziali
risultassero come al solito emarginati dall’ortodossia storiografica ufficiale, pur tuttavia questa
nostra fatica dovrebbe perlomeno esser riconosciuta sufficiente a mostrare nel suo insieme un
nuovo, inedito e interessante affresco della Napoli di quei tempi; quello cioè che si può ricavare
appunto mettendo insieme, come tessere di un mosaico, gli aspetti militari e gli avvenimenti
bellici della sua storia, illuminati però necessariamente da un’adeguata competenza in materia.
A coloro poi che talvolta ci chiedono che senso ha profondere tanto impegno e tanta parte della
propria vita in una ricerca storica di questo tipo, a quelli che negano importanza al
conseguimento del più comune dei fini storici in generale, cioè alla storiografia, e quindi non
apprezzano questi studi, ai tanti che insomma affermano che nella vita bisogna guardare avanti
e non indietro, a tutti costoro non risponderò facendomi scudo, come tanti, di Cicerone che, tra
le tante virtù che attribuiva alla conoscenza della storia nel suo De oratore (lb. II [IX]), la diceva
anche magistra vitae, perché allora effettivamente mi si dovrebbe spiegare come è possibile
che dopo millenni di lezioni di storia si sia arrivati, per esempio, ai sommi orrori della seconda
guerra mondiale; l’osservazione che invece mi sento di fare a favore della storia è molto meno
pretenziosa e cioè che l’uomo si guarda così spesso addietro per un motivo molto semplice,
perché è in sua facoltà farlo; al contrario, se guarda avanti, non può vedere quasi nulla, non
avendoci difatti il Creatore dotato di capacità divinatorie. Si aggiunga che siamo fermamente
convinti che ognuno si debba dedicare a ciò in cui meglio riesce e che per esempio mai noi
riusciremmo a generare prodotti della fantasia, parti cioè di un qualche valore letterario o anche
solo economico; lasciamo quindi ai tanti altri il compito di bombardare senza sosta il debole
intelletto del genere umano con miriadi di ingannevoli, fuorvianti e talvolta allucinate favole. È
comunque innegabile che due dei nostri più struggenti sentimenti, il rimpianto e il rimorso, sono
certamente bastevoli a dimostrare quanti valori possano essere racchiusi nel passato e come è
talvolta naturale in noi la pulsione a cercare di rintracciarli nella speranza o nell’illusione di

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riuscire magari un po’ a recuperarli; mentre possiamo quindi certo definire didascalica la storia
come esercizio d’indagine, come nostra intima ricerca del passato, non altrettanto possiamo
purtroppo dire della storiografia, cioè della pretesa che dalla sua lettura o anche dal suo
semplice studio esteriore se ne possano trarre profondi insegnamenti.
Presupponendo che il nostro lettore abbia certo già una sufficiente conoscenza del contesto
storico-geografico in cui si svolsero gli avvenimenti che narriamo, ci siamo astenuti dal
premettere una scolastica e ritrita introduzione in tal senso; ci siamo pertanto solo limitati a
iniziare col descrivere per sommi capi la struttura militare che la Spagna aveva dato o
autorizzato al Regno di Napoli, perché anche questo è uno di quegli argomenti storici che si
credono ben conosciuti e invece lo sono molto poco.
L’opera si sarebbe certamente potuta di molto arricchire con ulteriori e più costanti ricerche,
specie approfittando maggiormente dei fondi diplomatici dell’Archivio di Stato di Venezia e di
quello Vaticano, il che ci avrebbe senza alcun dubbio permesso di mitigare molto più
decisamente certa propagandistica ipocrisia – talvolta anche mendacità - di regime che sempre
si riscontra negli avvisi ufficiali di ogni tempo, ma il crudele e veloce sfiorire della vita non ce ne
concede più l’opportunità. Il lettore noterà inoltre che le numerosissime citazioni inserite sono
purtroppo prive della menzione dei numeri delle pagine o dei fogli delle opere richiamate, un
corredo questo che gli sarebbe stato come sempre certamente molto utile, ma che
sfortunatamente, quando ci si addentra in campi di ricerca vastissimi e sostanzialmente
inesplorati, non sempre si ha tempo di preparare, a meno di non rassegnarsi a un notevole
rallentamento della ricerca stessa e quindi a un numero inferiore di risultati. A tal proposito
precisiamo che, per facilitare la comprensione del lettore, abbiamo voluto esercitare una
particolare cura nel rendergli più leggibili le citazioni, razionalizzandone, più che
modernizzandone, la punteggiatura e le congiunzioni quando lo abbiamo ritenuto conveniente, e
che, da qualsiasi lingua, antica o moderna, esse siano ricavate, le traduzioni sono sempre e
solamente nostre e inoltre del tutto letterali; perché noi abbiamo sempre trovato vero e
incontrovertibile quel famoso paragone del filologo secentesco francese Gilles Ménage che
vuole le traduzioni esser proprio come le donne, cioè o belle ma infedeli o brutte ma fedeli. A
causa del tempo che ci è mancato il lettore non troverà purtroppo nemmeno un indice dei nomi,
altro strumento certamente utile a chi sia interessato a ricerche particolari; ma cercheremo di
aggiungerne uno nel prossimo futuro e comunque gli ricordiamo che, giacché questa è
un’edizione elettronica, i nomi sono facilmente rintracciabili con le apposite funzioni di ricerca di
cui ogni programma di scrittura informatica è dotato.

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Per alleggerire la narrazione e agevolarne la lettura, avremmo certo potuto evitare di cadenzarla
anche con una datazione settimanale, ma riteniamo questo uno strumento utile a indurre nel
lettore una maggiore compenetrazione in avvenimenti che, come sempre succede a quelli ormai
molto lontani nel tempo, finiscono per sembrare sempre più fiabeschi che realmente accaduti e,
soprattutto appunto se mancanti della loro cronologia, per essere purtroppo recepiti dagli
studenti perlopiù avulsi dal loro contesto e processo storico. Sicuramente alcune delle
tantissime date da noi menzionate possono esser errate e ciò a causa del modo discontinuo e
lacunoso con cui - e negli avvisi e soprattutto nei giornali manoscritti - si usava riportare la
datazione, un elemento allora ancora ritenuto dalla storiografia poco significativo; posso
comunque assicurare il lettore che l’errore, quando c’è, può facilmente riguardare il giorno in cui
avvenne un certo fatto, ma raramente la settimana, rarissimamente il mese e mai l’anno.
Ringrazio innanzitutto il mio carissimo amico ing. Giancarlo Boeri, insuperabile ricercatore, per il
gran numero di appunti, tratti da archivi nazionali e stranieri, da lui nel tempo messi a mia
disposizione, materiale senza il quale questo mio studio sarebbe certamente risultato molto più
lacunoso, e ciò nell’ambito di una reciproca collaborazione ormai trentennale; ringrazio inoltre,
come sempre, il personale archivistico e bibliotecario napoletano tutto per il tanto, immancabile
e cordialissimo aiuto sempre prestatomi nel corso di decenni di ricerca.

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Introduzione (Prima parte).

Riteniamo necessario premettere che molti studiosi, talvolta anche noti storici, sbagliano di
molto e di grosso quando, riferendosi al reame di Napoli del periodo 1504 - 1707, lo chiamano
‘vice-regno’, perché, a prescindere dalla considerazione che tra le forme di regime che in ogni
tempo gli stati e le nazioni si sono date quella di ‘vice-regno’ non è mai esistita, è chiaro che
quello di Napoli era un regno a tutti gli effetti, cioè uno dei vari regni e stati appartenenti alla
corona di Spagna, e, poiché questa non poteva essere presente fisicamente in tutti, ne
conferiva il vice-regnato e il capitanato o capitania generale, ossia il potere di governo reale
subordinato, a viceré e governatori da lei nominati; si trattava quindi di regni governati da viceré,
cioè da personaggi con personali poteri di vice-regnato, e non ‘viceregni’ quelli in cui,
unitamente appunto ad alcuni stati feudali d’altro genere, si dividevano le Spagne; insomma
proprio per la stessa ragione per cui lo Stato o Ducato di Milano, anche se di proprietà feudale
della suddetta corona, non era per questo degradabile a ‘vice-stato’ o a‘vice-ducato’. Quello di
Napoli era anzi considerato, per quanto riguarda l’Italia, il ‘Regno’ per antonomasia e infatti vi
era comunemente chiamato semplicemente il Regno, in considerazione che, pur essendoci
anche quelli di Sicilia e di Sardegna, esso era di gran lunga il più grande, popolato e importante
dei tre. Il viceré di Napoli, immancabilmente uno spagnolo se non solo interino, era di solito
stato in precedenza al governo di stati o di regni meno grandi e impegnativi; ad esempio,
Francisco de Benavides de Avila y Corella conte di San Estévan fu nel 1675 nominato viceré di
Sardegna, nel 1678 di Sicilia e nel 1688 di Napoli. Perché il lettore possa farsi un’idea della
differenza d’importanza che comportavano i vice-regnati dei detti regni, diremo che il duca di S.
Germano, viceré del regno di Sardegna, i cui emolumenti erano per ordine del re, come del
resto anche tante spese dello Stato di Milano, a carico dell’erario di Napoli, prendeva nel 1668
ducati 550 il mese, mentre esattamente due anni più tardi Pedro de Aragón duca di Segarbe e
Cardona, viceré di quello di Napoli, tra stipendio da viceré e capitano generale del regno,
aggiusto di costa (‘indennità di sopraspesa’) e stipendio di capitano di una compagnia di uomini
d’arme, ne percepirà più di 3.191 (A.S.N. Tes. An. Fs. 354.) La stessa carriera facevano
generalmente i capitani generali del mare, passando da una squadra di galere meno importante
a una più importante, e talvolta anche quelli dell’artiglieria. Il viceré, cui spettava il titolo di
Eccellenza, unico nel regno a goderne, era dunque del re pure luogotenente perché il sovrano
era anche capitano generale dei suoi eserciti, era inoltre capitano generale del Regno di Napoli
e infine anche capitano della sua compagnia di lancieri a cavallo della guardia vicereale; egli,

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detto per sommi capi, era assistito da un consiglio detto il Collaterale per le faccende che
riguardavano l’amministrazione finanziaria e giudiziaria e da un Consiglio di Stato e Guerra, i cui
consiglieri si chiamavano reggenti di cappa corta, per gli affari esteri e militari.
Tutti i ministeri del regno finivano per avere necessariamente qualche competenza che
sconfinava nel ramo militare, ma ci soffermeremo solamente sull’amministrazione della
giustizia, perché questa aveva spesso bisogno, come del resto talvolta ancora oggi nell’Italia
meridionale, di essere coadiuvata dall’esercito; non accenneremo però né alle sanzioni civili né
alle procedure in generale e ciò sia perché argomenti troppo vasti e discostantisi dal nostro
assunto sia perché non avremmo nemmeno sufficiente titolo né preparazione per affrontarli; ci
limitiamo qui a osservare che erano quelli tempi in cui la parola pena continuava ad avere i soli
antichi significati d’espiazione e d’ammenda e non si era quindi ancora preteso di farle
assumere anche quello attuale di ‘rieducazione’, senso ipocritissimo, del tutto contraddittorio
con i primi e pertanto impossibile, perché si condanna per privare e non per conferire, per
prendere e non per dare.
Erano inoltre tempi in cui si processava non per accertare una colpevolezza, come si fa
attualmente, ma per dare all’imputato la possibilità di dimostrare la sua innocenza e, in
mancanza di questa, per determinare la giusta pena da infliggergli; in questa maniera si
otteneva anche la sua totale collaborazione nella ricerca e nel riconoscimento dei veri colpevoli,
perché egli, nel tentativo di evitarsi un’ingiusta condanna, esplicitava tutto quanto
eventualmente sapesse a carico di altri; invece oggi l’imputato innocente non dice ciò che può
capitargli di venir a sapere perché, dovendo essere l’accusa a dimostrare la sua colpevolezza,
per difendersi al meglio non ha bisogno di accusare nessun’altro, rischiando così magari anche
pericolose inimicizie, anzi, gli è addirittura concesso il ‘diritto’ di non parlare e ciò in totale
spregio dei diritti della comunità civile di cui fa parte. Inoltre allora l’avvocato difensore non si
prefiggeva, come fa oggi, il compito di dimostrare a ogni costo, magari persino contro la verità
già a sua conoscenza, l’innocenza di un suo colpevole assistito, perché anche a lui si
richiedeva, come del resto a tutti, di collaborare con la giustizia, cioè semplicemente vigilando
che all’imputato non si comminasse un’ingiusta pena, cioè una punizione eccessiva rispetto a
quanto nel processo era emerso a suo carico; insomma si richiedeva all’avvocato di essere
innanzitutto anche lui un difensore della giustizia e poi, in via subordinata, un patrocinatore del
suo cliente, tant’è vero che a Napoli, quando c’era da nominare un nuovo giudice del sommo
tribunale criminale, detto la Vicaria - perché i giudici agivano come vicari del viceré, si sceglieva
molto spesso tra i più stimati avvocati del tempo, in quanto non si trattava di passare da un

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fronte all’altro, cioè dal prescindere dalla verità all’accertamento della stessa, dalla difesa
dell’individuo a quella della comunità, come in tal caso invece avverrebbe oggi, almeno qui in
Italia. Certo vigeva allora una presunzione di colpevolezza di fatto; ma che dire dell’ipocritissima
e contraddittoria ‘presunzione d’innocenza’ che si vorrebbe far credere in vigore oggi? Infatti, se
a priori si presume l’imputato innocente (l. praesumo, ‘assumo prima, premetto’), allora perché
si costringe il ritenuto innocente a sostenere un processo o addirittura una carcerazione
preventiva? Non sarebbe meglio dichiarare illeggittima qualsiasi presunzione, qualsiasi
prevenzione di giudizio? Certo è che, eventi bellici a parte, nei secoli di cui qui parliamo i delitti
che, sia in ambienti urbani sia agresti, restavano impuniti erano tanto pochi da conservarsene
generale memoria; oggi invece, malgrado i tanti strumenti d’indagine di cui si dispone, sembra
che siano divenuti una sconcertante maggioranza, tanto da esser dimenticati velocemente uno
dopo l’altro.
Governata da un ministro detto Gran Giustiziere e da una corte suprema, il Sacro Regio
Consiglio, la giustizia era nel regno amministrata principalmente dal tribunale detto Gran Corte
della Vicaria, il quale si divideva in Vicaria Civile e Vicaria Criminale e aveva questo nome
perché il suo proreggente, il quale disponeva di una sua guardia personale di mercenari
svizzeri, alabardieri detti in tedesco Trabandten, esercitava teoricamente questo ruolo non in
prima persona, ma solo come ‘vicario’ del viceré. Dal predetto tribunale dipendevano i capitani
di giustizia, detti anche capitani di strada, oggi diremmo ‘commissari di polizia’, i quali erano a
Napoli 16 nel 1670, da 15 a 18 al tempo del viceré di Los Vélez, solo 12 invece nel 1702, e
ognuno dei quali aveva una paranza (‘fila di fronte, squadra, schiera, rivista militare’, da ‘stare al
paro’, cioè stare o avanzare spalla a spalla; it. ‘apparenza’) composta di un caporale e dieci
guardie, dette queste anche fanti, soldati, guidati o birri (dal latino volgare birrus, ’rozzo abito
senza cappuccio’; mentre con cappuccio dicevasi cucullus); questi poliziotti avevano il rango di
soldati e infatti erano armati d’archibugio - nel passato lo erano stati invece di schidione, ossia
di un lungo spiedo - e comandati da un undicesimo uomo, detto caporale come nell’esercito; da
una registrazione di esiti di Cassa militare del 1670 risulta che il capitano di giustizia Carlo
Vassallo prendeva un soldo di dieci ducati mensili, il suo caporale di sei e ognuno dei suoi dieci
soldati di tre (ib.)
C’era poi, secondo per importanza, un tribunale delegato da quello della Vicaria Criminale e detto
Regio Tribunale (del Commissario) di Campagna, il quale aveva sede a S. Antimo e la cui
giurisdizione copriva la provincia di Terra di Lavoro, ampia pianura tra Capua, Minturno e Napoli
anticamente detta in lt. Campus leborinus, perché evidentemente pullulante di conigli (gra.

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λεβηρíς, ‘coniglio selvatico’), territorio particolarmente importante perché limitrofo alla capitale e,
allora come oggi, infestato da briganti; procedeva soprattutto contro i seguenti delitti: grassazioni
di strada pubblica, porto illegale d’armi, sequestri di persona, incendi dolosi di pagliai, allora molto
frequenti nelle inimicizie campestri, e pirateria marittima. Questo commissario di campagna
generale, il quale all’inizio del Settecento prenderà, nella persona di Gregorio Mercado, il nuovo
più pomposo titolo di soprintendente generale della campagna, era un giudice togato e il più delle
volte un nobile titolato, godeva delle preminenze di giudice di Vicaria ed era coadiuvato da un
secretario e mastro d’atti (‘cancelliere’), da due scrivani, di cui uno ordinario, da una sua polizia
giudiziaria chiamata squadra o compagnia del Tribunale di Campagna, la quale era costituita da
sette a dieci soldati, due ligatori (lt. lictores; ‘aguzzini’) ed era comandata da un capo di squadra o
caporale. Perché avesse così pochi armati nonostante l’alto tasso di criminalità di quei territori si
spiega con la possibilità di utilizzare le risorse poliziesche della vicina Capitale.
In ognuna delle altre più lontane province la giustizia ordinaria era invece amministrata da una
Regia Udienza Provinciale costituita da quattro auditori togati supportati da un caporale di
campagna, detto comunemente barricello o bar(i)gello, e dalla sua squadra di circa 40 soldati di
campagna, di cui una metà a cavallo. In tempi di particolare virulenza del brigantaggio si
formavano anche temporanee squadre di campagna soprannumerarie o straordinarie costituite
da un numero di fanti che poteva andare generalmente da un minimo di una ventina a un
massimo anche di una novantina, come per esempio si legge in un ordine reale del 21 maggio
1679 e un altro del 1682, e infatti spesso erano comunemente e impropriamente chiamate
anche compagnie. Sebbene il predetto commissario di campagna avesse il titolo di generale, le
udienze provinciali non dipendevano da lui e anzi gli era proibito di andare a esercitare le sue
funzioni in altre province; pertanto, quando in queste si determinava qualche necessità di
giustizia particolare, vi si inviava da Napoli un giudice della Vicaria. C’erano poi a Napoli il
Tribunale del Gran Almirante per l’amministrazione della giustizia marittima civile e uno militare
detto Regia Audizione Generale dell’Esercito, a cui era soggetta anche l’armata di mare e di cui
diremo nel corso di questa trattazione.
Al tempo oggetto di questo nostro studio, ossia alla fine del dominio spagnolo, il Regno di
Napoli aveva una popolazione di circa due milioni e mezzo d’abitanti e la città di Napoli, che un
secolo prima aveva contato 200mila abitanti, ora ne aveva invece circa 350mila, cioè si era
all’incirca ritornati al numero di abitanti anteriore alla terribile peste del 1656, la quale aveva
fatto in tutto il regno ben 600mila vittime; questa popolazione cittadina era in quei secoli
considerata immensa perché pochissime erano le città europee che potevano vantarne di così

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numerose. Eppure, tanto per dirne una, si fornivano ogni anno alla Spagna all’estero migliaia di
nuovi soldati, cifre quindi molto consistenti rispetto al totale della popolazione e che non
potevano non incidere negativamente sulla demografia del regno. La ragione della gran
prolificità dei napoletani era attribuita dai commentatori del tempo all’abbondanza del cibo, sia
terrestre sia marino, dovuta alla feracità dei luoghi, alla minor necessità di legna da ardere, vista
la clemenza del clima, e al relativamente poco consumo di vino, data la bontà e purezza
dell’acqua potabile; infatti alla grande produzione, anche spontanea, di verdura, frutta e pesce si
aggiungeva la disponibilità, altrettanto grande, del grano e dell’olio d’oliva pugliesi, in gran parte
riservati appunto alla capitale per evitare che una loro penuria provocasse pericolose
sommosse dei suoi turbolenti abitanti; per lo stesso motivo il prezzo del pane era calmierato e
tenuto costantemente fisso, anche in tempi di carestia, a 4 grana per ogni 22 once (quindi gr.
596,64, se calcoliamo l’oncia gr. 27,12), essendo una libbra di pane divisibile in 24 once (quindi
gr. 650,88), a ciò aggiungendosi che per legge ognuno poteva farsi il pane privatamente; questo
prezzo del pane è un parametro da ricordare perché da esso possiamo ricavare con buona
approssimazione il costo della vita e il valore di soldi, stipendi, rendite e insomma di una
qualsiasi somma del tempo.
C’era poi un gran fenomeno di urbanesimo specie nobiliare, non tanto per la gran vita sociale
che naturalmente si faceva nella capitale, ma soprattutto perché chi risiedeva ufficialmente a
Napoli o sposava una napoletana godeva di sostanziosi benefici fiscali; coloro poi che a Napoli
nascevano, i cosiddetti orti (dal lat. orior, nasco), ne godevano ancora di più, tanto da non aver
nulla da invidiare ai cives dell’antica Roma. La benevolenza fiscale verso i napoletani era però,
come vedremo, di molto vanificata dai pressocché annuali donativi al re che gli spagnoli
pretendevano dal regno. La straordinaria presenza di famiglie regnicole di nobile rango a Napoli
era una delle caratteristiche della città più notate dai visitatori stranieri, per esempio da Jacques
de Villamont, cavaliere gerosolimitano e cortigiano del re di Francia, il quale la visitò nel 1588 e
la definiva la più ‘gentile’, ossia la più abitata da nobili, di tutte le città d’Italia (Naples eft edifiée
fur le bord dela mer Mediterranée, portant le furnom de gentille fur toutes celles d'Italie), perché
tutte le principali famiglie nobili del regno vi avevano un palazzo:

… Ma ciò che la rende molto più gradevole è la residenza ordinaria dei principi, duchi, marchesi,
conti, baroni e signori del regno, sia della Pugla, Calabria, Abbruzzo, Basilicata che delle altre
province che da esso dipendono, i quali vi hanno quasi tutti i loro palazzi (Jacques de Villamont,
Les voyages. Arras, 1606).

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Anche se poi, per contraddizione, vedeva una plebe priva di qualsiasi senso civico e molto poco
rispettosa del suo prossimo, una mancanza di rispetto che si manifestava soprattutto in
occasione dell’allora famoso carnevale di Napoli:

… ma torniamo alle nostre mascherate, i piaceri che vi riceviamo sono a volte però temperati
dal fastidio per l’insolenza di chi getta le uova sode sul naso dei passanti e altre cose altrettanto
biricchine e sconvenienti; i damerini però e i più educati riempiono le loro uova d’acque
profumate e le fanno colorare di varie pitture, ma favoriscono solo coloro a cui dedicano il loro
servizio o coloro che amano (ib.).

La capitale era inoltre principale meta di un fiorente commercio interno e nel regno si produceva
di tutto in abbondanza, quindi frumenti, legumi, frutti d’ogni tipo, carni vaccine, ovine e suine,
latticini, vini, miele, spezie, legnami, lane, sete, canapa, cotoni, minerali d’ogni genere, salnitro,
corallo ecc. Per esempio, rinomati e fiorentissimi centri di produzione di panni di lana erano Pie’
di Monte d’Alife nel Casertano e Cerreto Sannita, le cui pannine di prima sorte (‘di prima
qualità’) potevano quasi reggere il confronto con l’importato pregiatissimo panno d’Inghilterra.
Quando i suddetti visoños (bisogni), cioè le nuove reclute spagnole, sbarcavano a Napoli,
apparivano sempre molto male in arnese e quindi, per difendere l’onore nazionale, i loro
camerati veterani colà già di guarnigione avevano incarico di accoglierli, assisterli
immediatamente e di renderli presentabili ai napoletani; quando poi quelli si trovavano le prime
volte in libera uscita per le strade della città, alla vista delle botteghe di Napoli risplendenti di
merci sfarzose d’ogni genere, a ogni passo sgranavano gli occhi pieni di meraviglia, come
racconta nelle sue Mémoirs un testimone oculare, il militare, cortigiano e diplomatico francese
Pierre de Bourdeilles visconte di Branthôme, il quale alla fine del Cinquecento soggiornò a
Napoli lungamente :

… cosicché io stesso ne ho veduti arrivare a Napoli tanti, meschini, magri, malvestiti, con delle
scarpe di corda, e sbarcare così dalle galere, e i soldati veterani li prendevano in carico, in
consegna, li civilizzavano, prestando loro propri vestiti, (e lo facevano) così bene che dopo poco
tempo non li avreste più riconosciuti. Ne ho visti una volta arrivare a Napoli di così ‘bisogni’, così
nuovi, così sempliciotti, che se andavano a spasso per la città e la osservavano in ogni aspetto
con grande ammirazione e tuttavia da sciocchi ; nondimeno, affinché nessuno si dispiaccia,
(devo dire che) avevano ragione perché non ne avevano mai visto di simili nei loro paesi ; e,
bighellonando, gettavano sguardi nelle botteghe e dappertutto esclamando : ‘guarda qua,
guarda là !’ E, quando (succedeva che) i soldati veterani li sorprendevano al mio cospetto in tali
bighellonaggi e li rimproveravano, dopo quelli non osavano più farsi vedere ; tanto erano
interessati a renderli ben educati e a impedire che dovessero poi vergognarsi. Quale interesse
affettuoso !

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L’abbondanza dell’offerta di merci implicava che prezzi e costo della vita fossero in Italia più
bassi che nei regni di Spagna e questo era un buon motivo che rendeva il trasferimento in italia
molto desiderato dai soldati spagnoli; per questo Gioan Andrea d’Oria, soprintendente generale
dell’armata di mare spagnola, scrivendo al suo re Filippo II nel 1584, consigliava ricorrenti
scambi di galere tra la Spagna e i possedimenti italiani:

… Mi sembra che sarebbe molto opportuno che Vostra Maestà le mandasse perché intendo
darne alcune di quelle di Spagna, le quali (però) non c’è alcun dubbio che costeranno a Vostra
maestà più delle altre perché nelle coste di questi regni (di Spagna) tutto suole costare più caro
che in Italia (paréceme que seria muy acertado que V. M. les mandase que entiendo dar
algunas de las de España, las cuales no hay duda que costarán mas á V. M. que las otras
porque en las costas destos reinos todo suele valer mas caro que en Italia. In Colección de
documentos inéditos para la historia de España etc. Tomo II, p. 180-181. Madrid, 1843).

La facilità con cui ci si poteva dunque procurare da mangiare aveva educato quel popolo allo
scarso interesse per il lavoro - in napoletano non a caso detto fatica – e la possibilità climatica
di vivere all’aperto per la maggior parte dell’anno aveva impedito la formazione di una più
organizzata attività produttiva al coperto che superasse il semplice artigianato, ossia di
un’industria e di una diffusa mentalità industriale come quelle che invece, per opposti motivi, si
erano formate e radicate nell’Alta Italia, specie nel Milanese, un difetto questo che purtroppo si
può costatare ancora oggi; di conseguenza il lavoro a Napoli mancava, come si legge in una
relazione del 1697 scritta dal sabaudo Giovanni Operti, un inviato straordinario alla corte di
Napoli al quale dobbiamo gran parte di queste ultime considerazioni:

… Da quest’immensità di popolo ne proviene per secondo che, non potendo tutti viver di reddito
né tutti di giusta industria o per l’eccessivo numero degli operarii o per la mancanza delle opere,
molti si trovano poi astretti a rivolgere il loro studio alle frodi e male arti, nelle quali hanno
qualche particolar attitudine, e con ansia perniciosa pensano di tanto meglio riuscire quanto che
col favor della moltitudine si lusingano di stare occulti e di poter più lungamente e impunemente
durare…

Una generale propensione, dunque, alla delinquenza che si andava ad aggiungere a quella
altrettanto nota e perniciosa ricordata da Livio nel suo Libro VIII, 22 a proposito della
popolazione, allora ancora di lingua greca, che abitava l’antica Neapolis (gente lingua magis
strenua quam factis).
In realtà tutte le forme d’artigianato di qualità erano a Napoli presenti e lo erano anche la
metallurgia bellica e la meccanica delle armi da fuoco; molto importante era poi l’attività delle
costruzioni navali e abbondantissima la produzione di corsieri, ossia di cavalli da guerra grandi e
potenti, con la presenza in tutto il regno di numerosissime razze (‘allevamenti’), di cui prima era
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la Real Razza di Puglia, appunto di proprietà reale, ma molto ammirata era anche quella del
principe di Bisignano di casa Sanseverino, grossi corsieri che raggiungevano alla spalla i sette
palmi napoletani d’altezza, cioè circa m. 1,70, e non a caso lo stemma del regno raffigurava
appunto un cavallo bianco; i cavalli del regno si usavano quindi soprattutto per la cavalleria
pesante, per il traino di carrozze e d’artiglieria, insomma per tutti quegli usi in cui a quegli
animali era richiesta più forza che destrezza; se ne facevano poi importanti regali, come per
esempio la sceltissima muta da otto che alla fine del gennaio 1690 il già ricordato viceré conte
di San Estévan inviò a Roma in omaggio al cardinale Ottoboni, nipote del pontefice. Il primato
italiano del Regno nella produzione e nell’allevamento dei cavalli era indiscusso, come si legge
per esempio nel trattato di venazione e veterinaria del bresciano Eugenio Raimondi, pubblicato
nel 1621:

.. I paesi dove nascono questi buoni cavalli sono Epiro, Tessaglia, Tartaria, Agragante,
Taburno, Pirene, Numidia e il Regno di Napoli, dove se ne fa grandissima professione, e nella
Persia.

Le guerre di Napoli di metà Seicento provocarono però un immediato e generale guasto e


declino di gran parte degli allevamenti equini del Regno, per cui da allora in poi i cavalli che si
produssero, non essendo generalmente più dell’alta qualità precedente, furono sempre meno
apprezzati e richiesti per uso di guerra e sempre più considerati dei robusti cavalli da tiro; ciò
nonostante alla fine del Seicento in lingua tedesca, mentre il cavallo destriero (‘addestrato’),
cioè ammaestrato, era appunto detto semplicemente das abgerichte Pferdt, e quello esercitato
da giostra das Schuelgerechte Pferdt, il corsiero, ossia il cavallo da guerra, ancora si diceva der
Neapolitaner (Nomenclatura italico-germanica etc., p. 21. Salisburgo, 1685). Lo Stato della
Chiesa, non dotato di suffcienti allevamenti ad uso di guerra, continuerà comunque a
comprarne nel Regno anche alla fine del Seicento:

(Roma, sabato 6 novembre 1694:) Ha fatto Sua santità comprare nel Regno di Napoli 300
cavalli, onde, con gli altri 100 fatti passare a Bologna, il Pontefice vi haverà 400 buone
corazze... (Avisi italiani ordinarii e straordinarii dell’anno 1694. Vienna, 1695).

Cavalli da guerra per cavalleria pesante, quindi, e che soldati fossero queste corazze poi
diremo. Oltre a questa dei corsieri, erano produzioni ed esportazioni d’eccellenza del Regno di
Napoli anche le artiglierie, specie le colubrine, le galere, i remi di galera e infine il salnitro
‘crudo’, cioè non raffinato, le polveri piriche, le bombe e le granate, sia quelle piccole da lancio
manuale sia quelle grosse reali che si lanciavano invece con le bocche da fuoco.

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Molto fiorente era anche la fabbricazione di carrozze e calessi, veicoli che infatti intasavano le
strade della capitale, non amando i napoletani camminare, neanche per brevi tratti, a ciò portati,
come scrivevano i cronachisti, sia da una naturale pigrizia sia dal desiderio di ostentazione;
infatti le persone benestanti, incluse le prostitute d’alto bordo, usavano non solo muoversi per la
città in carrozza, ma anche farsi seguire da un secondo veicolo che portava i loro lacchè,
usandosi a Napoli chiamare con questo improprio nome le guardie del corpo e gli armigeri
privati. Sterminata era a tal proposito la categoria dei famigli, brulicando le case signorili, oltre
che di detti lacchè, anche di camerieri, sguatteri, cuochi, giardinieri, facchini, stallieri, cocchieri,
segettari (‘portantini’), volanti (‘cursori di carrozza a piedi’), galuppi (‘cursori a cavallo’) e altri
ancora, cioè una folla di domestici che, accoppiata alla suddetta abitudine all’ostentazione,
consumava inevitabilmente qualsiasi fortuna familiare. Generalizzata e tradizionale era poi la
propensione delle donne di condizione plebea alla prostituzione e degli uomini al suo
sfruttamento, comodità che era infatti sempre la prima offerta dalla città ai conquistatori
stranieri, i quali anche per questo, specie i francesi, e non solo per l’abbondanza del vino e del
cibo, qui specie i tedeschi, erano attratti dal mito di Napoli; città zeppa di vizio, ma allo stesso
tempo tra le prime al mondo per quanto riguardava apparati esteriori del culto religioso e
superstiziosa credulità.
Numerosissimo era anche, per tornare alla giustizia, il personale giudiziario, nella sola Napoli
contandosi più di 3mila persone tra avvocati, giudici, cancellieri, portieri, armati e simili,
dovendosi ciò all’esser i napoletani anche particolarmente litigiosi e portati - tutti quelli di una
qualche condizione - a chieder subito consiglio al loro avvocato per qualsiasi minuzia; poco
amavano invece i partenopei il mestiere delle armi, essendo naturalmente mal disposti verso
qualsiasi forma d’ordine, subordinazione e ubbidienza, allora come oggi irriguardosi del
prossimo se non quando dal formale rispetto calcolavano poter venir loro un utile.
Ricorderemo infine, a proposito della naturale inclinazione al crimine osservata dall’Operti, una
divertente, ma molto amara barzelletta che si affermò nell’Italia del Seicento, che si può leggere
in La piazza universale del Garzoni e che fu riproposta dal Croce (Vite di soldati spagnoli a
Napoli). Premesso dunque che la Spagna, non essendo molto popolata, non disponeva di un
numero di soldati sufficiente a presidiare tutto il suo vastissimo impero e quindi era costretta
talvolta ad arruolare anche uomini fisicamente imperfetti, narrasi che, giunto a Napoli un
coscritto spagnolo che aveva la disgrazia di una vistosa gobba sul petto - così quella che
spesso si vede nell’iconografia tradizionale della maschera di Pulcinella, costui dunque era
uscito di casa per una prima passeggiata in città; lo videro alcuni giovani sfaccendati napoletani,

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i quali non ressero alla tentazione di canzonarlo per quel suo difetto, anche se evidentemente,
trattandosi di un soldato spagnolo, vollero farlo in maniera più garbata del loro solito, e infatti
uno di quegli infingardi così motteggiò il soldato: Signor spagnuolo, la valigia si porta di dietro,
ma voi la portate invece davanti? E quello, con sussiego tutto iberico, prontamente rispose:
Così si usa in paese di ladri. Parole queste con cui il sagace soldato voleva dire che in tal modo
una valigia si poteva sorvegliare e difendere meglio dai tanti malviventi che infestavano le
strade di Napoli e del regno in generale e dei quali non pochi, per esempio, si aggiravano la
notte per la città per rapinare chi si attardava a tornare a casa oppure, trasportando una scala di
legno sulle spalle, per poter così, allora come oggi, introdursi nelle case dalle finestre e
svaligiarle mentre i malcapitati casigliani dormivano, non ostanti i reiterati bandi che questo
trasporto di scale vietavano severamente e che punivano con la pena di morte le rapine e i furti,
anche minimi, che fossero stati commessi di notte. Un problema sociale a Napoli, quello dei
numerosi scassinatori, nato nella notte dei tempi; già infatti il vescovo Saba Malaspina, in quella
sua storia testimoniante i suoi stessi tempi (1250-1285), narrava che Carlo I d’Angiò, vinto e
decapitato il suo ultimo competitore ghibellino, cioè lo sventurato giovinetto sedicenne
Corradino di Svevia, volle regalare alla città e al regno la liberazione dalla miriade di
scassinatori notturni di case e grassatori di strada da cui allora erano particolarmente infestati
(et non solum confringere ostiorum repagula nocturno tempore molirentur, sed tectorum ad
interiora domus aditum intentarent), facendone in quel solo primo anno catturare e impiccare
più di duecento (Historia, L. IV, cap. XVII, in Giuseppe Del Re, Cronisti e scrittori sincroni
napoletani etc. Vol II. Napoli, 1868). Scardinare porte e bucare deboli pareti era allora – come
del resto ancora oggi - cosa semplice per quelli che gli antichi romani avevano chiamato
vecticulares, cioè quegli scassinatori che all’uso della scala preferivano quello dell’irresistibile
‘piede di porco’ (vecticula, ‘piccola leva’).
Una città quindi sempre intenta a demolire sé stessa e, come il conte Ugolino, a divorare i suoi
stessi figli; una miopissima e asociale popolazione incapace di costruire alcunché di grande o di
molto importante senza un’imposizione o perlomeno una promozione forestiera e che d’altra
parte dal contatto con lo straniero ha sempre cercato non di trar frutto, ma solo un immediato,
effimero profitto, comportamento questo controproducente, autolesionista e, come notava il
suddetto Operti, causa anch’esso, unitamente alla predetta naturale abbondanza, della quasi
totale mancanza di un commercio estero:

… non potendo le medesime nazioni (estere) volentieri contrattare in paesi dove le merci siano
soggette alla frode o gli uomini siano in opinione di fraudolenti.
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Anche peggiore era la nomea dei regnicoli all’esterno di Napoli, considerandosi, ancora nel
Settecento, la città circondata da popolazioni ‘selvatiche’, come diceva Antonio Genovesi, per il
quale era dunque inutile mettersi a leggere libri di viaggi tra lontani popoli selvaggi; bastava
uscire appena da Napoli in ogni direzione. In effetti, ancora nel Seicento, cronachisti come
Andrea Rubino si riferivano a posillipini e capresi come a ‘gente feroce’, cioè delinquenziale e
pericolosa e gli spagnoli dovevano talvolta inviare compagnie di fanteria a Capri per sedare i
disordini. Ancora nella prima metà dell’Ottocento si dicevano i calabresi gente abitante in
capanne di fango e nel Cinquecento, per quanto riguarda lo sviluppo civile a nord della capitale,
il già più volte citato de Villamont, quando aveva lasciato Napoli, così scriveva nel corso delle
sue tappe di viaggio verso Roma:

…viaggio, durante il quale siamo trattati malissimo nel bere, nel mangiare e nel dormire, senza
che sia possibile avere lenzuola bianche; ma, oltre a questo, i letti sono più sporchi che in un
ospedale, non avendo altro che un materasso gettato su quattro o cinque assi di legno (cit.)

Anche quando erano portati all’estero a combattere i regnicoli erano accompagnati da una
pessima nomea, come si può evincere, per esempio, da una relazione della battaglia d’Asti del
1615, vinta dai franco-piemontesi di Carlo Emanuele I di Savoia sugli ispano-napoletani del
governatore di Milano, Juan de Mendoza marchese de la Hinoyosa, relazione scritta da un
anonimo di parte savoiarda e che si conserva tra i manoscritti della Biblioteca dei Gerolamini di
Napoli:

… In quella battaglia furono ammazzati da (’circa’) 800 napoletani, furbi e mariuoli, che la
furbizia è nata in quelle terre….

In effetti il comportamento delle reclute regnicole nei confronti delle popolazioni con cui
venivano a contatto non era certo uno dei migliori e a questo proposito torna alla mente la
relazione scritta dalla Savoia nel 1589 dal residente veneziano presso la corte sabauda
Francesco Vendramin, nella quale si descriveva la rovina e la desolazione in cui versava allora
quella regione, martoriata da recenti carestie e pestilenze che avevano fatto ben 130.000
vittime e non solo:

… E finalmente, per compimento di tutti i mali, è sopraggiunta la guerra presente, oltre al


passaggio di tante genti eretiche (‘franco-svizzere’) che l’hanno attraversata più volte e
particolarmente di quei soldati napoletani di Sua Maestà Cattolica che passarono in Fiandra due
anni (‘or’) sono, i quali fecero maggior danno a que’ popoli in passando (‘nel passare’) che se
fossero stati in paesi di loro proprii nemici…

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Questa pessima reputazione, diffusa in Europa in ogni tempo e per ogni dove, era tale purtroppo
da nascondere completamente alcuni innegabili pregi del popolo napoletano, quali soprattutto il
fervido e incessante giudizio critico verso la legge e l’autorità, la grande coesione all’interno delle
famiglie e la generale, anche se interessata, disponibilità a collaborare, se non con la società nel
suo complesso, certamente però con il prossimo in generale.
C’erano poi molte istituzioni a favore del benessere popolare e cioè sei ospedali gratuiti, un
ospizio per i poveri, diversi conservatori (‘orfanotrofi’), dove si dava agli orfani un’identità sociale e
s’insegnava loro un mestiere, un ospedale per i neonati abbandonati, otto banchi pubblici che non
solo custodivano il denaro privato gratuitamente, ma prestavano su pegno a chi avesse bisogno di
denaro senza alcun interesse sino alla somma di 12 ducati per pegno; molto diffusa e lodata era
inoltre la pia pratica dell’elemosina, tant’è vero che, allora come oggi, le strade brulicavano di
mendicanti, di cui non pochi erano stranieri che venivano a Napoli da altri paesi anche lontani, per
esempio dalla Francia, perché era risaputo all’estero che a Napoli l’accattonaggio era molto
redditizio, potendosi impunemente esercitare anche con molestia e tracotanza, e i cronisti del
tempo lamentavano a volte l'impossibilità di camminare liberamente per le vie cittadine senza
dover sopportare di esser disturbati continuamente da tanti pitocchi. Come se non bastassero i
mendichi, la città era anche infestata da falsi questuanti e taglieggiatori, da vagabondi e lazzaroni,
da lacchè attaccabrighe e da smargiassi (oggi guappi; it. bravi; sp. valientes), da ladri e spadaccini
rapinatori. Eppure si trattava allora d'una città potenzialmente ricca d'ogni possibilità di lavoro sia
artigianale che operaio e nella quale non c'era commercio, manifattura o arte meccanica che non
fosse esercitata; pertanto l’argomento della mancanza di lavoro non è credibile e, d’altra parte,
l’Operti apertamente contraddice questa sua tesi laddove parla di una naturale attitudine al delitto
che affliggeva i napoletani, attitudine che però in verità, a leggere per esempio anche gli
osservatori stranieri in Sicilia, interessava quasi tutto il Meridione d’Italia e non solo la Terra di
Lavoro.
Bisogna infatti anche dire che l’abbondanza di malviventi e malintenzionati non era un problema
che affliggeva solo il Regno di Napoli, perché altrimenti bisognerebbe spiegare per qual morivo la
giustizia veneziana si era sempre distinta per il più alto numero di condanne a mutilazioni che si
eseguissero in Italia e quella dello Stato della Chiesa per il più alto numero di pene capitali, tant’è
vero che molti nel Lazio, in Umbria o nelle Marche, vedendosi perseguiti dalla legge, magari anche
a torto perché con la sola colpa di essere parenti di delinquenti, passavano il confine con il Regno
di Napoli preferendo ridursi tra le montagne dell’Abruzzo a vivere di volgari grassazioni e rapine,

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scambiando archibugiate con i birri regnicoli e i fanti spagnoli, piuttosto che farsi sicuramente
afforcare nel loro paese.
Da parte sua il popolo napoletano e regnicolo in genere non amava né gli spagnoli, a causa
dell’asprezza e dell’arroganza con cui abitualmente quelli gli si rivolgevano, né i francesi a ragione
sia della continua propaganda fatta dagli spagnoli occupanti contro i transalpini sia, gelosamente,
della licenza ed eccessiva confidenza con cui questi trattavano le donne, anche quelle che
incontravano per la prima volta; leggiamo ancora il de Villamont:

… E questo ci ha dato l’opportunità di chiedere a un gentiluomo napoletano a quale delle due


nazioni, spagnola o francese, preferirebbe obbedire, il quale senza alcuna esitazione ci ha
risposto che lo spagnolo era troppo superbo ed avaro, che non ha mai portato nulla al regno e
anzi gli ha tolto tutto, ma che al contrario il francese non vi ha portato via niente e anzi vi ha speso
tutto; tuttavia i francesi avevvano l’abitudine di baciare pubblicamente le loro donne. Avendomi
lasciato perplesso con questa risposta, mi chiarì che non avrebbe desiderato nessuna delle due
nazioni, non essendoci nulla in tutt’Italia di più odioso di baciare le donne in pubblico; ecco perché
la legge è tale che, se un uomo in Italia bacia una donna maritata pubblicamente, viene messo a
morte senza perdono, e se quella è invece puttana, egli è obbligato a sposarla, purché lei sia
d’accordo…” (ib.)

Insomma, siamo qui a fine Cinquecento, ma i motivi anti-francesi che tre secoli avevano portato ai
famosi Vespri siciliani ancora sussistevano! Il de Villamont comunque, da buon francese, si
vendicava ripescando la solita accusa che si sentiva nella Francia cinquecentesca e che voleva gli
uomimi italiani essere generalmente degli effeminati:

… restando sempre molto meravigliato di vedere gli uomini baciarsi l’un l’altro in più luoghi d’Italia
e soprattutto a Venezia, dove questo è molto comune; non volendo dire per questo che i loro
baciarsi siano disonesti, ma di primo acchito il francese e il tedesco li troveranno strani,
detestando quest’abitudine, la quale fa loro supporre non so che cosa di male che non si possa
onestamente nominare (ib).

Detto per inciso, la predetta antica abitudine è ricordata a Venezia dall’uso ancor oggi comune di
salutarsi, anche tra uomini, con un ‘Ciao, amore!’; ma la verità era che la superiore raffinatezza
del nostro Rinascimento era in Europa, per astiosa calunnia, appunto tacciata di effeminatezza.
Nonostante quanto appena detto, il popolo napoletano si era sempre diviso in filo-asburgici e filo-
angioini, essendo quelle le due casate dominanti più importanti con cui nella loro storia avevano
dovuto ricorrentemente fare i conti. Si può poi dire che, poiché nelle pubbliche manifestazioni
dovevano sopportare molto frequentemente le violente e pericolose piattonate d’alabarda che gli
alabardieri svizzeri di lingua tedesca della guardia del viceré dispensavano senza risparmio alla
folla, perché in tal maniera si aprisse o si allontanasse, i napoletani non amavano nemmeno gli
alemanni (‘austriaci’) o todeschi in generale.
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Introduzione (Seconda parte).

Le forze militari che difendevano questo vasto regno erano volutamente alquanto esigue,
perché gli spagnoli non avrebbero mai dotato nessun loro possedimento, specie il Regno di
Napoli, essendo considerati da loro i suoi abitanti, specie dopo le rivolte del 1547 e del 1647,
gente infida e facile alle ribellioni, di un esercito nazionale tanto forte da essere in grado un
giorno di rivolgersi contro di loro; perciò la difesa degli stati e dei regni a loro soggetti non era
mai affidata a ben addestrate forze autoctone, bensì a pochi presidiari spagnoli, destinati inoltre
in verità, come i castelli, più a tenere a freno le popolazioni locali che a opporsi a un eventuale
invasore, e soprattutto a estemporanei e improvvisati soccorsi dall’estero da organizzarsi volta
per volta all’occorrenza e da trasportarsi velocemente dove necessario con le varie squadre di
galere di cui la Spagna disponeva nel Mediterraneo occidentale, in attesa magari di altre, più
corpose, da far poi arrivare più lentamente con l’armata dei grandi vascelli oceanici. A ciò si
aggiunga che il Regno di Napoli era lontano dai confini francesi e quindi, a differenza della
Catalogna, della Fiandra e della stessa Milano, non era come quelle tormentato da frequenti,
sanguinose e dispendiose guerre che si combattessero sul suo stesso territorio; esso al tempo
del dominio spagnolo era dunque sostanzialmente presidiato da un unico – anche se numeroso
- reggimento di fanteria di grande esperienza di quella nazione, il quale era detto tercio fijo de
infanteria española o anche terzo antico degli spagnuoli, essendo infatti uno dei più vecchi
dell’esercito spagnolo; nel corso dei due secoli della sua esistenza esso fu formato da un
numero di fanti che variò nel tempo dai 2mila ai 5mila e di compagnie che andò dalle 20 alle 48,
ogni compagnia essendo formata da un numero di soldati che andò comunque, in conformità
all’evoluzione tecnico-tattica della guerra, gradualmente decrescendo dai 300 delle origini ai 100
della seconda metà del Seicento, come conferma anche la già citata relazione del residente
sabaudo a Napoli Giovanni Operti scritta nel 1697; dovevano essere rigidamente spagnoli, ma il
personale non proprio combattente poteva essere anche regnicolo e infatti, per esempio, nel
1682 il tamburo maggiore di questo tercio si chiamava Giacomo di Natale. Questo corpo aveva,
come del rest-o anche avevano tutti gli altri spagnoli civili e militari residenti a Napoli, un proprio
ospedale chiamato Ospedale di S. Giacomo, il santo protettore della nazione spagnola, e, in
caso di carcerazioni, gli spagnoli avevano diritto a essere rinchiusi in un carcere anch'esso tutto
loro e cioè il Carcere di S. Giacomo, carcere di solito guardato da sei dei loro fanti; inoltre un
giudice militare particolare, detto auditore del terzo, anch’egli regolarmente di nazionalità
spagnola – per esempio nel 1682 si chiamava Pedro Mesones - amministrava la giustizia a

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questi fanti in una casa per cui la cassa militare pagava regolare pigione. Già a partire dallo
stesso Cinquecento dell’origine di questo nome tercio sono state date molteplici interpretazioni,
tutte fantasiose, irrazionali e prive di riscontri storici; mi basti ricordare quelle del tutto illogiche
lasciataci nel suo Discurso da Sancho de Londoño (1515?-1569), pur militare di lunga e
prestigiosa carriera, e nei suoi Anales dallo storico Jerónimo Zurita y Castro (1512-1580),
ambedue personaggi assolutamente coevi del tempo in cui quel nome nacque, e quell’altra,
meschinissima, presentata nei suoi Discorsi militari del 1615 dal melfitano Marc’Antonio
dell’Orgio, nonostante questi avesse servito tanti anni nelle guerre di Fiandra e fosse anch’egli
un ufficiale molto sperimentato. Ciò va a ulteriore dimostrazione che militari esperti e altolocati
possono certo lasciarci interessantissimi libri di memorie, ma lo scrivere trattati di storia e
filologia delle guerre è attività del tutto diversa e che generalmente non li riguarda; insomma,
per fare un esempio che ci sembra calzante, non perché ci ha lasciato una sua bella
autobiografia e due trattati di scultura e oreficeria dobbiamo pensare che Benvenuto Cellini
sarebbe stato per questo anche in grado di scrivere una ricerca storica come le Vite del Vasari.
Anche José Almirante, autore del noto Diccionario militar pubblicato nel 1869, riconosceva
l’improponibiltà delle soluzioni offerte dai suddetti Londo ño e Zurita e considerava cosa
veramente inspiegabile che per secoli nessuno fosse riuscito a trovare l’origine di quel nome:

… E’ certamente singolare l’incertezza dell’origine di questa voce, nata in un epoca già moderna
e alla quale sono, per dir così, vincolate legittime e imperiture glorie di un secolo e mezzo. Noi ci
siamo sforzati invano alla ricerca di una spiegazione che fosse, anche se non del tutto
soddisfacente, perlomeno ammissibile… Se dopo quasi quattrocento anni ignoriamo la ragione
che fece dare ai corpi allora creati la denominazione di ‘tercios’, allo stesso modo ignoriamo
quella che c’è stata al presente per darla anche ai corpi della Guardia Civil recentemente
stabiliti; il che prova che la ragione giustificativa dell’adozione della voce ‘tercio’ fu e continua ad
essere un mistero…

Eppure, perché l’unità di fanteria spagnola o di fanteria italiana post-rinascimentale si


chiamasse tercio è in realtà prestissimo detto. Ai tempi di Carlo V (1520-1556) le fanterie
tedesche e svizzere erano divise in reggimenti di 4 o 5mila uomini l’uno, mentre quelle spagnole
e italiane erano ripartite in bande o colonnelli di 4mila fanti comandati da capi di colonnello,
presto detti semplicemente essi stessi colonnelli. Nel 1537 la Spagna volle istituire formalmente
presidi militari fissi e permanenti nei suoi possedimenti italiani e cioè nei regni di Napoli, di
Sicilia e nel ducato di Milano; divise allora anche amministrativamente in tre parti pressoché
uguali (tre ‘terzi’ appunto) la fanteria portata in Italia originariamente dal Gran Capitano Gonzalo
Fernández de Córdoba e che, di fatto così già strategicamente suddivisa, stava in guardia di

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quegli stati e ne confermò quindi – ora ufficialmente - uno in ciascuno d’essi, ottenendosi così il
tercio de Nápoles, il tercio de Sicilia e il tercio de Lombardia, corpi che infatti ancora nel secolo
seguente saranno detti ‘tercios viejos de Italia’. La cosa è spiegata in due parole
dall’ambasciatore veneto Girolamo Ramusio nella sua relazione di Napoli del 1597:

La fanteria spagnuola si chiama ‘bisogni’ perché sono inesperti; si dice anco ‘il terzo’, perché è
tripartita in Sicilia, Napoli e Milano (Albéri, Tomo XV, p. 344).

Pur essendo semanticamente corretta l’interpretazione che questo diplomatico da del termine
bisogni, essa è storicamente inesatta, trattandosi di un significato che era stato attribuito a quel
nome più tardi di quello etimologico italiano; esso era stato infatti originariamente inteso come i
‘bisogni’ o ‘necessità’ d’uomini che i colonnelli della fanteria di presidio in Italia andavano
autonomamente manifestando alla corte di Madrid o che risultavano ai commissari militari in
occasione delle periodiche riviste.
È al contrario appunto storicamente molto ben tornante e risolutiva la spiegazione del nome
terzi, anch’esso, come quello di ‘bisogni’, nato in Italia, e infatti lo stesso Albéri la fece sua
immediatamente:

La Spagna aveva in Italia la sua forza militare divisa in tre grandi compartimenti, il Milanese, il
Regno di Napoli e la Sicilia, ognuno de’ quali per ciò stesso si chiamava ‘il Terzo’; e dicevansi ‘il
terzo di Milano’, ‘il terzo del Regno’ e ‘il terzo di Sicilia’ (Albéri, Serie II, Vol. V, pag. 358).

Fu quindi il nucleo originario della fanteria di Gonzalo Fernández de Cordoba a dar origine
prima al presidio di fanteria di Napoli, poi a quello di Sicilia e infine a quello di Milano, processo
che terminò nel 1534, e infatti questo nome tercio non si trova nei documenti anteriori al 1535,
anno in cui appunto anche la Lombardia divenne ufficialmente e per ultima un dominio
spagnolo; dunque effettivamente, come affermò - qui giustamente - il Londoño, i terzi nacquero
in Italia, anche se poi la loro nuova originale struttura di comando e di conseguenza anche il
loro ormai già comune nome di tercios furono estesi a tutti i corpi di fanteria della monarchia
spagnola nel mondo: …

I primi terzi che furono creati furono quelli di Lombardia, Napoli e Sicilia nel 1534; e nel 1536, in
esecuzione di un'ordinanza concernente l'organizzazione dei terzi dipartimentali, ai tre citati si
aggiunse il terzo di Malaga. La suddetta ordinanza, la quale è molto interessante poiché ci
permette di apprezzare con tutta esattezza detta organizzazione, indica ad ogni terzo un Mastro
di Campo, un sergente maggiore, un furiere maggiore, un munizioniere, un tamburo maggiore e
trecento soldati per compagnia, dovendo essere il Capitano di ciascuno di queste, un suddito
spagnolo di qualità e merito. La compagnia era composta da un capitano, un paggio, un alfiere,
un sergente, un furiere, un tamburino, un piffero, un cappellano, dieci caporali e trecento soldati
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tra archibugieri e picchieri. Tale era l'organizzazione per gli anni in cui furono creati, cioè
quando bruciavano le guerre tra l'Imperatore-Re e Francesco I in Italia... (Francisco Rabado,
Sitio de Amberes. 1584-1585. Etc. Pp. 192-103. Madrid, 1891.)

Blaise de Vigenére (L’art militaire), il quale scriveva negli stessi anni del Ramusio, conosceva
anch’egli la vera ragione di quel nome ma con un’accettabile variazione, cioè vedeva i tre terzi
della prima fanteria imperialista spagnola differenziati non in Sicilia, Napoli e Milano bensì in
Africa, Napoli con la Sicilia e Milano; poi cadde però sull’etimologia di ‘colonnello’ (dal l.
coronelis; infatti, ancor’oggi in sp. è coronel), ma non fu certo l’unico.
Questo nuovo nome di tercios sarà in uso sino alla fine del Seicento, quando, volendo imporre
Filippo V all’esercito spagnolo il più moderno modello organizzativo francese, si prenderà quello
di reggimenti. Il tercio italiano si distinse dunque ai suoi esordi per non esser più comandato da
un colonnello, come lo erano ancora le bande della fanteria spagnola che combattevano o
presidiavano altrove in Europa e come continueranno a essere invece i trozos di cavalleria
anche in Italia, bensì dal maestre de campo, ufficiale maggiore già importantissimo, ma
subordinato al colonnello comandante; i colonnelli-comandanti di fanteria erano stati infatti in
Italia presto così sostituiti perché avevano assunto troppo potere e arbitrio nella gestione
economica e nella conduzione delle loro bande, soprattutto perché nominavano i loro ufficiali
subordinati senza prima richiederne caso per caso la dovuta autorizzazione alla Corte di Madrid
e perché gestivano la cassa della banda con sfacciato peculato mantenendo un numero di
soldati di molto inferiore al dichiarato e di conseguenza truccando le riviste che venivano a
passare ai loro corpi i commissari e i pagatori dell’esercito.
Curiosamente in Francia i predetti titoli erano invece usati in maniera inversa, essendosi infatti i
comandanti dei reggimenti di cavalleria - eccezion fatta per quelli di mercenari stranieri
(cravates, ‘croati’), per quelli equipaggiati alla straniera (ussari) e per quelli di dragoni - sempre
chiamati mestres-de-camp, nome che si pronunziava mestr; ‘ma(e)stro’, quindi da non
confondersi nemmeno fonicamente con maître, ‘padrone’, cioè il semplice soldato di cavalleria’,
il quale si chiamava così e non soldat, come il fante, in quanto era padrone di servitori. Per
quanto riguardava invece la fanteria, verso il 1534 Francesco I aveva conferito la dignità di
colonel d’infanterie al premier capitaine d’ogni legione, ma nel 1568, sotto Carlo IX, il nome del
comandante di reggimento fu cambiato in mestre-de-camp, cioè in quello che già si usava nella
cavalleria; infine nel 1661, cogliendo l’occasione della morte di Bernard de Nogaret de la
Vallette duca d’Épernon, il quale era il colonel générale des bandes françaises (‘colonnello
generale della fanteria francese), il re Luigi XIV abolì detto titolo e volle inoltre che i comandanti
dei reggimenti di fanteria tornassero a chiamarsi colonels e lieutenans-colonels (Richelet e de
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la Chesnaye des Bois). Perché Luigi XIV dovette dunque aspettare il momento adatto per dare
il via al detto mutamento, si spiega con la circostanza che, contrariamente a quanto si possa
oggi pensare, nemmeno lui era monarca tanto assoluto da poter fare politicamente tutto quello
che gli piacesse; una volta concessa una gran carica militare o civile a un personaggio
d’importanza, questi l’avrebbe di regola mantenuta appunto sino alla morte, a meno che non
l’avesse dovuta lasciare per assumerne una superiore, come fu per esempio il caso di Roger de
Bussy-Rabutin conte di Bussy (1618-1693), il quale mantenne il titolo di mestre-de-camp-
général de la cavalerie légére per ben 12 anni e lo lasciò solo perché promosso colonnello
generale della stessa cavalleria, divenendo per questo automaticamente anche luogotenente
generale dell’esercito e dunque militarmente secondo solo allo stesso re.
Abbandonato dagli stati italiani d’influenza spagnola il nome di banda di fanteria per passare a
quello di tercio, gli altri – e prima tra tutti la repubblica di Venezia, per ‘modernizzarsi’ in
qualche modo anch’essi, adottarono invece quello germanico di reggimento. Nel secolo successivo
il declino del tercio trascinerà con sé, gradatamente e malinconicamente, quello dell’intera potenza
militare spagnola, crepuscolo che d’altronde si renderà visibile già dalla Guerra dei
Trent’anni per motivazioni che così spiegava il Montecuccoli e che ricordano talune di quelle
che tanto tempo prima avevano portato alla fine dell’antica Roma:

Fu la Spagna formidabile al mondo co’ suoi eserciti e per essi la di lei grandezza nell’auge, ma,
come in progresso di tempo la stima delle armi e le ricompense declinarono e i premii al merito
de’ soldati istituiti in favore di professioni straniere degenerarono, così a mano a mano di tanta
monarchia sfiorar videsi la grandezza, solo col rimetter l’arme in credito riacquistabile.

La suddetta fanteria spagnola di Napoli, il cui soldo era pagato dalla cassa militare del regno e
non dalla Spagna, era impiegata come guarnigione delle piazzeforti e dei maggiori castelli e
piazzeforti sia del regno propriamente detto (Napoli, Capua, Gaeta, Baia, Brindisi, Manfredonia,
Pescara, l’Aquila ecc.) sia dei Presidi di Toscana, ossia sostanzialmente i luoghi fortificati
d’Orbitello (oggi ‘Orbetello’), Talamone, Port’Ercole e Porto Longone, i quali, non ostante la
lontananza dai confini del regno, appartenevano alla Corona di Spagna sin dal 1557, essendo
stati in precedenza invece della repubblica di Siena, e, poiché situati a metà del Mar Tirreno,
era considerati strategicamente molto importanti ai fini del controllo delle rotte marittime, anche
se in realtà tale importanza si rivelò più volte essere sopravvalutata. Le compagnie di questo
terzo formavano inoltre il nerbo delle spedizioni militari che s’inviavano di tanto in tanto a
combattere le bande di fuorusciti e fuorgiudicati (‘banditi, esiliati’; l. exterminati) che infestavano
gli Abruzzi e fungevano regolarmente da fanteria di marina a bordo delle galere del regno; le

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loro capitanie non potevano esser date, tranne eccezioni da autorizzarsi, a ufficiali italiani, come
proibiva - e probabilmente anche ribadiva - una vecchia istruzione reale del 14 giugno 1626:

… Carta: que no se den compañias de infanteria españolas a italianos, pero que, si pareziere
justo dispensar con algunos, sele consulte (B.N.NA. Ms. XI.A.21).

Le frontiere settentrionali del regno erano difese in Abruzzo da compagnie del suddetto terzo
fisso degli spagnuoli, le quali si alternavano al presidio del castello dell’Aquila e degli altri luoghi
fortificati di quella provincia, e nel territorio di Fondi da compagnie di dragoni. Nel 1683 un
secondo terzo fisso, chiamato terzo nuovo per distinguerlo dal primo, fu formato per dare un
impiego a fanterie italiane e iberiche imbarcate su una flotta spagnola che allora sostò diversi
mesi nel porto di Baia per necessari raddobbi, ma questo corpo, frutto d’un impossibile
connubio di nazionalità, ebbe brevissima vita.
Le milizie del regno più antiche erano però altre e cioè 20 compagnie di cavalleria, poi
aumentate a 22, arruolate con criteri ancora strettamente feudali, le quali avevano in origine
fatto parte dell’esercito di Gonzalo Fernández de Córdoba, ma ora, per loro statuto, potevano
essere adunate e impiegate solo per la difesa del regno e non si poteva inviarle a combattere
all’estero; si trattava di 16 compagnie di hombres de armas - i quali sin dal 1631 non erano più
lancieri, bensì cavalli corazze (‘corazzieri’), ognuna di 60 uomini più ufficiali, inoltre di tre di
archibugieri a cavallo e di una di (e)stradioti o crovatti (‘croati’), ossia di lancieri leggeri balcanici.
L’armamento dei suddetti cavalli corazze del tempo che stiamo trattando è ben descritto dal
Montecuccoli:

I reggimenti di cavalleria sono oggidì armati di mezze corazze, cioè di petto, di schiena e di
morione (‘borgognotta’; nap. murrione) con più lame di ferro insieme commesse da dietro e da’
lati, acciocché difendano il collo e le orecchie, e di manopole che coprano la mano sino al
gomito. Il petto deve essere a prova del moschetto e le altre pezze (‘pezzi’) a prova della pistola
e della sciabla. Portano per offesa pistole e spade lunghe e ferme che feriscono di punta e di
taglio e la prima fila può anche aver moschettoni.

In effetti questi corazzieri non portavano dunque più una vera e propria mezza corazza, ossia un
intero corsaletto di ferro pesante, come avevano fatto sino a un recente passato, ma solo un
petto e schiena. Altrove lo stesso suddetto generale spiegherà meglio che la mezza corazza, se
anche solo a botta di pistola, come del resto avrebbe sempre dovuto perlomeno essere,
rendeva inutili gli archi che ancora allora usavano largamente in battaglia i turchi e che la celata
di questi soldati doveva essere un caschetto con lunghe code posteriori per la protezione del
collo, con orecchione per quella delle orecchie e con un ferro dinanzi al naso per la difesa di

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questo; inoltre chiederà manopole senza le dita di ferro, perché accessori che davano più
impaccio che protezione. Per quanto riguarda il moschettone di cui dice il Montecuccoli, esso
era un’arma a pietra focaia e grilletto che da qualche tempo aveva sostituito quella detta
carabina, anch’essa arma corta ma con accensione a ruota, come poi meglio spiegheremo, con
una gittata (fr. portée) inferiore di un terzo a quella del moschetto allora usato dalla fanteria, a
meno che non si trattasse della più potente versione a canna rigata, detta questa
impropriamente ancora carabina e detti carabinieri i soldati che ne erano dotati. In sostanza le
armi difensive ancora in uso dovevano, come quelle ormai da tempo dismesse, essere sempre
a prova di quelle offensive che generalmente più si potevano trovare di fronte; quindi, il
corazziere, petto e borgognotta a prova di moschetto e schiena a prova di pistola; l’ufficiale
maggiore e generale, petto a prova di moschetto, ma schiena leggerissima, non a prova di
nulla, perché erano quelli tempi in cui gli ufficiali generali – se non quelli maggiori - non avevano
ancora preso la salutistica abitudine di starsene nelle retrovie a studiare le carte del campo di
battaglia ed era quindi impensabile che un ufficiale potesse in combattimento arretrare la sua
posizione – per non dire fuggire - o comunque mettersi in una posizione tale da mostrare la
schiena al nemico. Non a caso le perdite di ufficiali nelle battaglie era altissima e c’erano state
in Europa a volte delle guerre che avevano quasi estinta la nobiltà di una nazione e in tal senso
l’esempio senza dubbio più evidente erano state le guerre civili di Francia della seconda metà
del Cinquecento.
Perché alla fine del Cinquecento il re Enrico IV di Francia aveva introdotto questi cavalli corazze
e quale era la loro tattica? Nel Medioevo, non esistendo ancora la fanteria di linea, bensì solo
quella ausiliaria, compito della cavalleria era stato quello di opporsi ad altra cavalleria; ma, col
Rinascimento, nacquero le battaglie di fanteria, ossia formazioni compatte di picchieri che, ben
organizzate e disposte sul campo, osavano opporsi alla cavalleria medievale e questa, per aver
ragione di loro, doveva romperne tale compattezza; infatti, una volta rotti i loro battaglioni, i fanti
non erano più in grado di opporre un valido contrasto agli armatissimi ed esperti huomini d’arme
a cavallo. Questi, con una tattica inventata dalla cavalleria francese e poi adottata in tutta
Europa e cioè in piccoli gruppi di 20/25 in riga (fr. haies; it. squadroncelli), si lanciavano dunque
a capofitto con la lancia in resta nelle formazioni di fanteria nemica, caricandole e fendendole
con le punte delle loro lance sino a uscirne dalla parte di dietro o anche dai fianchi e lasciandole
così disfatte; dopodiché i disordinati fanti nemici diventavano facile preda sia delle cavallerie
leggere (lancieri leggeri, archibugieri a cavallo, croato-stratioti ecc.) sia delle fanterie leggere.
Ma, per attuare questa tattica occorreva ricca nobiltà a cavallo, cioè gente molto ben armata,

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montata, equipaggiata, esercitata e soprattutto fedele e coraggiosa, la quale purtroppo a ogni
guerra diminuiva vistosamente, sia perché dalle suddette cariche molti non uscivano vivi sia
perché erano sempre più numerose le famiglie nobili che, economicamente rovinate dalle
distruzioni portate appunto dalle continue guerre, non erano più in grado di far fronte all’onere
delle costosissime monture e cavalcature dei loro giovani rampolli mandati a combattere.
Durante le sanguinose guerre di Francia della seconda metà del Cinquecento, trovandocisi
dunque ormai a corto di giovani nobili votati alla morte, si provò a risolvere il problema
volgarizzando gli huomini d’arme, cioè trasformandoli in cavalli leggieri, nella fattispecie in
lancieri armati d’armature più grezze e sottili, quindi molto meno costose, e soprattutto montati
su cavalcature molto più piccole e comuni dei grossi e proibitivi corsieri da sfondamento che
usavano gli huomini d’arme; si poté pertanto adibire a questo ruolo molta gente squattrinata non
nobile, anzi d’umile origine, quindi priva di quegli ideali di fedeltà e di eroismo che
caratterizzavano la nobiltà francese, e il risultato fu di conseguenza pessimo, dedicandosi
perlopiù tali genti maggiormente a derubare e a vessare le popolazioni delle campagne, amiche
o nemiche che fossero, che a combattere in campo il nemico.
Dopo decenni di tale fallimentare esperienza, si arrivò a Enrico IV, grande condottiero e
intenditore di arte della guerra, il quale immaginò (o forse l’idea fu di qualche suo generale) di
rompere la fanteria nemica in altra maniera e cioè non più fendendola con le lance, bensì
schiacciandola, come sotto rulli compressori, con corpi sodi di cavalleria fatti di centinaia di
corazzieri armati di pistola, i quali anch’essi non necessariamente dovevano essere nobili,
avevano bisogno di un armamento molto meno sofisticato e di cavalcature modeste. A
differenza della precedente, questa innovazione ebbe un gran successo tattico, nascendo
dunque così l’arma dei corazzieri, e fu presto imitata in tutta Europa, anche in Inghilterra, dove
prenderanno poi anche il nome di ironsides. In affetti non si trattava di una tattica del tutto
nuova, in quanto già introdotta nel Quattrocento dalla cavalleria borgognona e presto adottata
anche da quella spagnola; solo che allora questi grossi squadroni erano stati formati da lancieri
pesanti, non da pistolieri a cavallo come adesso, e quindi con un effetto tarpato in partenza dal
momento che solo la prima o le prime due file riuscivano a fare un uso proprio della lancia,
mentre le altre posteriori, poiché ostacolate dai compagni davanti, non avevano per quella lunga
e pesante arma sufficiente spazio operativo e dovevano quindi subito ricorrere alle armi corte;
per questo motivo questa tattica era stata poi abbandonata a favore di quella, già descritta, dei
piccoli squadroncelli.

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Con l’introduzione dei cavalli corazze gli impegni militari feudali della nobiltà del regno,
cambiarono alquanto, ma non cessarono per nulla, continuandosi infatti a concedere a titolati il
capitanato delle loro compagnie e conservando i baroni (‘feudatari’) l’obbligo teorico di brandire
le armi e servire, quando a ciò chiamati, a difesa del regno con le loro persone e con qualche
uomo a cavallo in numero variabile, cioè dipendente dall’estimo del loro feudo, ma in realtà
quest’obbligo era ormai per consuetudine soddisfatto col pagamento di un balzello di guerra
straordinario.
Nel Cinquecento c’era stata a Napoli pure una compagnia di balestrieri a cavallo, medievali
antesignani degli scoppietteri e degli archibugieri a cavallo, questi ultimi poi detti dragoni, ma, a
seguito dei rapporti negativi che allora giungevano a Madrid e che questo corpo descrivevano
come del tutto obsoleto, disutile e inoltre così carente in armi e cavalli che non lo si passava mai
in rivista, con ordine reale dell’8 agosto 1575 se ne era decretata l’abolizione e la riforma dei
suoi 31 soldati, trattenendosi in servizio il solo capitano (que el capitán de vallestreros se podrà
excusar consumiendo esta compañia por no ser necessaria).
Per quanto riguarda i corpi di guardia reale, bisogna distinguere quelli di semplice (avan)guardia
vicereale da quelli di guardia del corpo, questi così detti perché facevano la guardia solo al
corpo dei sovrani, non avendo la loro superiore anima bisogno d’essere guardata, ma al
massimo solo ben assistita da consiglieri spirituali. Il viceré di Napoli disponeva dunque per
avanguardia vicereale di una compagnia di lancieri pesanti borgognoni (‘valloni), la quale nel
1690 fu abolita e sostituta da due di cavalli corazze, ognuna di circa 100 soldati più ufficiali,
dove di conseguenza in tal maniera una poteva fungere da (avan)guardia e una da
(retro)guardia; a queste però negli ultimi anni ne furono preferite due di dragoni, mentre alla fine
del Cinquecento aveva avuto per avanguardia anche degli archibugieri a cavallo. I suddetti
lancieri erano tali due volte, perché, oltre a esser armati di lancia, tutti quelli che in altre
compagnie sarebbero stati soldati semplici lì avevano invece l’antico grado di lance spezzate,
ossia in teoria di aiutanti del capitano, ma in pratica si trattava di vice-caporali.
Con le funzioni ufficiali di guardia del corpo o di costilleros, come si sarebbe potuto dirli in
castigliano, aveva il viceré una compagnia di 100 gentiluomini o cavalieri montati su bellissimi
cavalli, i quali erano metà spagnoli e metà italiani (nel 1681 però, come vedremo, ridotti a 50), in
parte pagati direttamente dal re di Spagna, e si chiamavano familiari di palazzo o continui, nome
quest’ultimo che derivava appunto dalla continuità del loro servizio, cioè sia che si fosse in
tempo di guerra sia di pace senza alcuna interruzione, prerogativa però d’altri tempi, medievale,
perché ora tutti i corpi di palazzo servivano in continuità; ma, a prescindere dal loro numero

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effettivo, sempre di molto inferiore a quello ufficiale, questo loro servizio di guardia era più
onorario che altro e infatti li troviamo menzionati solo nei libri-paga, praticamente mai nei
giornali o negli avvisi ufficiali del regno laddove si descrivono cavalcate o altre manifestazioni
pubbliche. Nel 1674 i continui a carico del re erano venti e prendevano 200 ducati l’anno
cadauno. L’effettiva custodia della persona del viceré era invece affidata a una compagnia di 72
fanti alabardieri mercenari (una volta un centinaio) detta guardia alemanna, ma non si trattava
d’austriaci o di tedeschi, come il nome farebbe pensare, bensì di svizzeri di lingua tedesca,
presenza questa comune a molte corti europee, perché l’alabarda era arma considerata molto
adatta alle mischie di guerra e quindi anche a respingere le calche popolari; detta compagnia
era sempre comandata da un nobile capitano italiano o spagnolo, spesso da un parente dello
stesso viceré, e spagnolo era perlopiù anche il suo luogotenente; il soldo complessivo pagato a
questa compagnia, ufficiali inclusi, per il mese di giugno 1670 fu di ducati 327 e grana 8 (A.S.N.
Tes. An. Fs. 354), mentre il totale per il periodo dicembre 1681 – giugno 1682 (dunque mesi 7)
saranno ducati 2.474. 3. 15, il che significa che, a distanza di 12 anni, il soldo di base non era
cambiato (ib. ma fs. 352).
Oltre alle milizie ordinarie il regno disponeva sin dal 1563, cioè da quando l’aveva dapprima
costituita il viceré Parafan de Ribera duca del Alcalá, marchese di Tarifa, governatore maggiore
dell’Andalusia (1559-1571) e poi, nel 1580, riordinata il viceré Juan de Zuñiga principe di Pietra
Perzia (1579-1582), di una milizia territoriale di fanteria detta il Battaglione, la quale, esistendo
in realtà con diversi nomi in tutti i maggiori stati e regni italiani (sargentie in Sicilia, bande,
cernide e milizie forensi o paesane nell’Italia settentrionale, il Battaglione anche a Malta, ecc.),
era stata formata sul modello di una simile istituita in Spagna solo qualche anno prima
principalmente per difendere i territori costieri dalle incursioni dei turco-barbareschi; non si
trattava di un arruolamento, bensì di un'elezione e ogni sette anni si eleggevano appunto a tal
incarico cinque fanti ogni 100 fuochi, ossia uno ogni cento famiglie, essendo il fuoco o nucleo
familiare valutato mediamente di cinque persone. Il numero delle compagnie da formare,
ognuna delle quali, in osservanza alle norme tattiche di quei tempi, doveva essere costituita da
300 fanti, cioè 200 archibugieri e 100 picchieri, non era stato originalmente prescritto, ma nel
1615, anno in cui questa milizia fu riordinata dal viceré Pedro Fernando de Castro conte di
Lemos (1610-1616), esso era già fissato in 74; nel 1687 il viceré Gaspar de Haro marchese del
Carpio le aumentò a 112, riducendone però la forza a 230 uomini ciascuna e ciò non in
osservanza di più moderne formulazioni tattiche, come si potrebbe pensare, bensì per ridurne la
dispersione in territori troppo ampi, il che ne aveva sino allora reso difficile il governo; quindi da

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allora in poi ogni compagnia avrebbe dovuto contare solo 20 moschettieri, 50 picchieri (10 di cui
armati anche difensivamente di corsaletto) e 180 archibugieri. Il nome derivava dalle periodiche
adunate, perlopiù mensili, alle quali i miliziani si obbligavano a partecipare per esercitarsi
insieme alle armi e alle manovre e che si dicevano appunto andare a far battaglione, essendo
quella la manovra d’esercitazione principale.
Allo stesso suddetto scopo difensivo dei territori costieri c’era poi anche una cavalleria leggera
appunto territoriale, nota vulgo come (cavalleria del)la Sacchetta (‘cavalleria dal tascapane’), la
quale era stata fondata dal viceré Antonio Perrenot cardinale di Granvelle (1571-1575) e
stabilita dapprima in 1.200 uomini nelle sole province di Terra d’Otranto e Terra di Bari,
eleggendosi un cavalleggero ogni 100 fuochi; poi presto, nel 1577, il viceré Yñigo Lopez de
Mendoza Hurtado marchese di Mondejar (1575-1579) la portò a 3mila uomini, forza che fu poi
confermata, ma variata nel numero delle compagnie, nel 1614 dal suddetto conte di Lemos,
suddividendosi quindi in compagnie di 50 o di 100 uomini allora in maggior parte lancieri leggeri
e in minore archibugieri. Il nome era dovuto al tascapane a tracolla di cui erano equipaggiati
quei soldati in mancanza di salmerie che li seguissero.
In seguito alla guerra per la ribellione di Messina (1674-1678), temendosi un possibile contagio
di quell’episodio sul continente, per non mettere troppe armi in mano alla popolazione la
descrizione di miliziani del Battaglione fu nel 1678 diminuita per quella volta di ben cinque volte
e così per ogni 100 fuochi si descrisse un solo fante. Verso il 1680 il Battaglione contava circa
17mila fanti e la Sacchetta circa 3.500 cavalleggeri, suddivisi questi in compagnie da 50 uomini
armati ora, come si diceva, di carabina, ma in effetti anche in questo caso doveva già trattarsi
del moschettone, arma anche questa corta ma con accensione da pietra (cioè a focile) e non
più da ruota, la quale non aveva però in Italia ancora assunto quel nuovo nome ma vi era
chiamata carabina da focile a grillo; nel 1692 questi miliziani erano invece rispettivamente circa
20mila e 4mila; alla fine del Seicento i fanti erano 22mila divisi in 120 compagnie.
Questi miliziani erano teoricamente obbligati a periodiche riviste, ma in realtà erano chiamati a
raccolta ed eventualmente anche in servizio effettivo solo in caso di necessità; essi non
godevano di soldo fisso, bensì d'importanti indennità ed esenzioni fiscali elargite dalle loro
stesse Università (comuni); quando però erano chiamati a prestare un servizio attivo ricevevano
una piccola paga solo per quel numero di giorni in cui si chiedeva loro di servire I loro statuti ne
proibivano l’impiego fuori del Regno, ma questa proibizione restò spesso lettera morta,
facendosene infatti talvolta, in caso di necessità, oggetto di leve forzose. Erano tempi in cui da
un servizio militare prestato all’estero molto difficilmente un semplice soldato riusciva a tornare

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e quindi bisognava condurre in catene i coscritti fino agli alloggi di raccolta portuali, dai quali
sarebbero poi stati imbarcati per i teatri di guerra oltremare. Questa riluttanza a darsi al mestiere
delle armi era però comune a tutte le milizie territoriali italiane; ecco, per esempio, quanto si
legge negli Annali veneti del Malipiero all’anno 1499, però nella nostra trad. dal veneziano:

(29 settembre): Andrea Zantani ha descritto 15.000 homeni in Friuli e gli ha deputati di 4 in 4
giorni, a 5.0000 per volta, alla guardia del paese, massimamente delle terre (‘abitati’). Quando
(però) i turchi sono comparsi, quelli che erano deputati non hanno voluto andare a fare le loro
guardie, dcendo di voler guardare (invece) le loro case (D. Malipiero, Annali veneti dall’anno
1457 al 1500. Parte prima, p. 182).

In ogni provincia del Regno c'era un sargente maggiore preposto alle predette milizie territoriali;
egli provvedeva alla loro convocazione a scadenze fisse per passarle in rassegna e farle
esercitare nel maneggio delle armi e nelle manovre ed evoluzioni sul campo. Il rinnovo
dell'elezione di questi miliziani avvenne poi ogni otto anni e quindi per un tal periodo erano
obbligati a tenersi a disposizione.
I predetti due nomi con cui erano popolarmente conosciute queste milizie, le quali saranno
abolite da Carlo di Borbone nel 1743, nascevano dall’esser nella prima metà del Cinquecento la
fanteria di un esercito generalmente disposta in campo in un'unica grossa formazione a
imitazione di quella svizzera, allora quasi sempre vincente, cioè appunto in un solo grande
battaglione, e all’esser i miliziani di quella cavalleria dotati di una sacca da sella per i loro effetti
personali detta appunto sacchetta.
Poiché sia il Battaglione sia la Sacchetta erano, come abbiamo detto, per statuto ambedue
corpi che, proprio come i suddetti uomini d’arme, si dovevano adunare e impiegare solo per la
difesa nazionale e non si poteva quindi inviarli a combattere in altri potentati, gli abitanti del
regno erano inoltre chiamati regolarmente alle armi per la formazione di tercios di fanteria e
compagnie di cavalleria ordinarie e regolari da mandarsi in paesi stranieri, perlopiù nell’Italia
Settentrionale, in Catalogna, in Fiandra e talvolta anche in America, a combattere le guerre che
la Spagna conduceva ricorrentemente contro le altre grandi potenze europee; inoltre bisogna
tener presente che di fanterie napoletane fisse erano guarnite sia le galere dei particolari
(‘privati’) genovesi dei d’Oria duchi di Tursi sia l’armata di mare spagnola del Mar Oceano sia,
periodicamente, anche la Catalogna. Bisogna chiarire che non era affatto facile arruolare nel
Regno di Napoli, perché i suoi abitanti, naturalmente restii all’ordine e alla disciplina, non
amavano il servizio militare, al contrario di svizzeri e tedeschi che lo consideravano invece un
mestiere come un altro e il mercenariato un’ottima opportunità di guadagno; non a caso i cimeli
e i ricordi della Napoli militare sono sempre stati rarissimi e sconosciuti ai più. Pertanto, per
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quanto riguarda la fanteria, si ricorreva regolarmente all'arruolamento forzato di vagabondi e
mendicanti e di miliziani del Battaglione, a quello di pena alternativa per condannati a lunghe
reclusioni, a quello che, come vedremo, prometteva in cambio una buona somma di denaro e
infine a quello di veri e propri ragazzi, per cui con una recente cedola reale si era dovuto
ribadire che era vietato assoldare minori di quattordici anni. I coscritti di cavalleria erano invece
giuoco forza persone più civili e qualificate, se non addirittura nobili, o di già acquisita
esperienza militare.
I comandi dei nuovi corpi erano sempre affidati agli stessi ufficiali maggiori regnicoli a cui era
stato conferito l’incarico di arruolarli e mai a spagnoli.
Un tercio di napolitani, cioè di regnicoli, era sin dal Cinquecento imbarcato in permanenza
sull’armata oceanica spagnola e da fanteria di marina napoletana era pure tradizionalmente
guarnita la squadra dei particolari genovesi dei d’Oria, prima principi di Melfi e in seguito, già da
Carlo, secondogenito del principe Gian Andrea d’Oria (1539-1606), duchi di Tursi, feudo della
Basilicata che gli spagnoli dicevano Tursis. Questi corpi napoletani all’estero ricevevano le
nuove reclute di rimpiazzo e spesso anche il soldo e i rifornimenti dal Regno di Napoli,
considerato dalla Spagna il più ricco dei suoi possedimenti e quindi continuamente molto
spremuto da quella Corona a titolo di contribuzioni di guerra e altre imposizioni e in aggiunta alle
rimesse, ufficialmente spontanee, che esso faceva ai sovrani a titolo di puro regalo; secondo un
anonimo relatore che scriveva per Carlo VI d’Austria, solo queste ultime ammontavano a ben
118 milioni di ducati per quanto riguardava unicamente il periodo che andava dal regno di
Filippo II a quello di Filippo IV.
Oltre alle predette cavallerie ordinarie e territoriali, si arruolavano ogni tanto compagnie di
cavalleria straordinaria, le quali perlopiù s’inviavano all’estero perché andassero a servire nei
vari teatri di guerra; invece dal 1675, troviamo infatti compagnie di cavalli corazze di stanza in
permanenza a Napoli col nome di cavalleria di nuova leva; inoltre dal 1701, essendo l’Austria
divenuta inopinatamente una pericolosa nemica, numerosi terzi spagnoli, detti perlopiù
provinciali perché andavano a servire nelle province della corona, e alcuni reggimenti francesi
cominciarono a esser inviati nel Regno di Napoli per aumentarne le difese e opporsi
all’incombente invasione; ma questa è storia che leggeremo nelle stesse Cronache che
seguono.
L’artiglieria del regno permanente era in effetti solo quella di cui erano dotati i castelli, le
fortezze e le torri, poiché del traino d’artiglieria da campagna solo lo stato maggiore era sempre
in servizio, ma, per quanto concerne tutto il resto, esso non era permanente e si formava volta

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per volta solo in caso di contingenti necessità di guerra, appaltandosene il lavoro direttamente a
una moltitudine di carrettieri, a evitare ruberie di buoi, cavalli e foraggi e un uso privato di
animali pubblici; il solo approntamento di quello che si rese necessario nel 1675 a causa delle
turbolenze di Messina costò alla cassa militare ben 72.820 ducati (A.S.N. Tes. Ant. Fs. 135 I).
L’artiglieria da campagna era finalmente diventata efficace e importante come quella d’assedio
sin dalla guerra dei Trent’anni, quando era stata risolutiva in certi fatti d’arme, per esempio nella
grande battaglia di Nördlingen del 1634, dove la forte fanteria stataria svedese, perso l’appoggio
delle sue ali di cavalleria pesante, presto sconfitte e scacciate dal campo, era rimasta facile e
indifeso bersaglio appunto dell’artiglieria nemica, restandone del tutto disfatta. Gli artiglieri e i
loro allievi, anche se dispersi nei vari castelli e luoghi fortificati del regno, erano però
istituzionalmente riuniti in una compagnia, la quale aveva una regola simile a quella delle
compagnie cavalleresche e una scuola in cui i predetti allievi erano istruiti ed esercitati. In effetti
non c’era da parte della Spagna una sufficiente attenzione a questa importantissima arma e lo
dimostra un reale ordine dell’11 gennaio del 1685, il quale, essendo stati formati a Napoli degli
impieghi soprannumerari d’artiglieria e precisamente un gentiluomo, due aiutanti, un capitano
dei petardi e due artiglieri semplici, ne imponeva la cessazione immediata perché i preesistenti
reali ordini proibivano la creazione di tali stipendi; detto ordine reale fu ribadito da un altro simile
nel 1695 ed erano quelli appunto tempi in cui le leggi si dovevano di tanto in tanto confermare
perché tendevano a perder la loro forza con l’andar del tempo. La fonderia dell’artiglieria era
situata in Castel Nuovo di fronte all’arsenale e produceva ottime bocche da fuoco, spesso
anche innovative, anche se non in quantità pari a quella prodotta per esempio dalla fonderia di
Genova, la quale si era invece specializzata in una produzione di tipo commerciale, ossia
abbondante ma di qualità molto inferiore, spesso ottenuta con il riciclo di residuati di guerra
importati all’estero, specie dalla Francia, quali bombe (‘palle di ferro o di bronzo cave e piene di
polveri piriche’) crepate e altre ferramenta residuali. La Real Polveriera, ossia la fabbrica delle
polveri da sparo, di cui molto si avvaleva la Spagna per le sue necessità belliche, era sita per
sicurezza lontano dalla città di Napoli e cioè in località Torre dell’Annunziata.
Le fortificazioni consistevano in quasi una trentina tra castelli, cittadelle, fortezze e piazze
fortificate situate lungo tutte le frontiere, terrestri o marine che fossero; c’era poi una collana di
centinaia di torri d’avvistamento costiere poste generalmente in posizione elevata su capi e
promontori e si trattava insomma di quel sistema di difesa confinaria allora comune a tutti i
maggiori stati marittimi europei inclusa l’Inghilterra. La difesa del confine terrestre settentrionale
del regno era affidata soprattutto al presidio della piazzaforte e castello di Gaeta a ovest e al

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castello dell’Aquila e ad altre fortificazioni abruzzesi minori a est. La città di Napoli era difesa da
quattro castelli regi, i quali però, proprio perché effettivamente tali, ossia delle fortificazioni di
sola pietra, di tipo quindi ancora medievale, servivano, come del resto anche quello dell’Aquila
in Abruzzo, più a tenere a freno la popolazione che a preoccupare gli invasori stranieri; si
trattava del castello di S. Eramo (poi S. Ermo), di quello dell’Ovo, di quello Nuovo e del Torrione
del Carmine. Il primo, costruito al tempo dell’imperatore Carlo V su un’originaria fortificazione
normanna detta Belforte e in seguito ampliata da Carlo II d'Angiò, prese, come del resto lo
stesso monte, il nome di Castello di Sant'Erasmo (sincope di Sant’Erasimo) da una vicina e
antica chiesetta dedicata al detto santo, il quale fu vescovo di Formia e protettore della gente di
mare, mentre in realtà gli spagnoli che lo avevano costruito l’avevano battezzato S. Telmo,
perché dedicato al loro beato Pedro Gonzalez Telmo, sincope (‘contrazione’) quest’ultima di vari
antroponimi germanici come Cuntelmo, Lantelmo, Rotelmo, Plitelmo ed altri, il quale beato era
protettore dei marittimi di ponente, ossia oceanici. In seguito, i napoletani, considerando quella
lettera ‘T’ costitutiva non del nome ma della qualifica di ‘Santo’, presero erroneamente a
chiamarlo col nome con cui oggi è conosciuto e cioè ‘S. Elmo’. Differente il caso del Forte S.
Elmo a La Valletta, Malta; quello sì che si riferisce al detto Sant’Erasmo di Formia e infatti i
maltesi lo chiamano Forti Sant Iermu. Questo castello è l’unico della città ad avere, anche se
privo di terrapieni (spalti, cioè ‘spalati’ di terra), una forma alla moderna, cioè stellare a sei
angoli, essendo stata la sua maggior parte orientale ricavata tagliando lo stesso monte, ma la
sua artiglieria era balisticamente poco efficace poiché, situato molto in alto rispetto al corpo
della città, doveva necessariamente tirare di ficco, vale e a dire dall’alto in basso, il che
significava che i suoi colpi andavano a conficcarsi in un solo bersaglio e non potevano quindi
‘spazzare’ gli insediamenti del nemico come facevano invece i colpi sparati a livello o di punto in
bianco, cioè orizzontalmente al suolo.
Il secondo, proteso nel mare, era stato fondato dai normanni sulle rovine di un insediamento
romano detto palazzo di Lucullo e aveva preso il nome di Isola e Castello di San Salvatore da
una cappella dedicata al detto santo posta all'interno del castello stesso, ma in seguito,
rinnovato e fortificato dal viceré Juan de Zúñiga Avellaneda y Bazán conte de Miranda (1586-
1595) al tempo del re Filippo II, il quale tra l’altro vi fece fare un ponte per unirlo alla terraferma,
prevalse il nome popolare di Castel dell'Ovo, dapprima per la sua forma ovoidale, come
confermava anche il Sarnelli e come abbiamo già spiegato in Wikipedia, spiegazione che per
brevità qui non ripetiamo, e poi perché molto coinvolto da una delle leggende virgiliane,
leggende però chiaramente ad arte inventate da gente che aveva tempo da perdere, perché

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tutte sorsero come dal nulla tanto più tardi nel Medioevo. La curiosità fu che gli spagnoli che nel
1503 conquistarono Napoli, a causa della molto simile pronuncia, fraintesero quel nome e per
due secoli poi sia in Spagna sia in Fiandra continuarono a chiamarlo Castillo del Lobo (‘Castello
del Lupo’). Essendo il più lontano dal corpo della città, in esso, più che in quello di S. Eramo,
non solo si carceravano i nobili, i quali spesso potevano essere o diventare pericolosi congiurati,
ma si conservavano anche le riserve di polveri. Il terzo, detto Nuovo perché il suo primo nucleo
era stato costruito dai normanni al posto di un preesistente convento quando tutti gli altri castelli
di Napoli erano già esistenti, era stato poi in seguito potenziato prima da Carlo I d’Angiò, poi da
Alfonso I d’Aragona, infine trasformato in fortezza con baluardi, fossati e contromine dal viceré
Pedro de Toledo marchese di Villafranca al tempo dell’imperatore Carlo V d’Asburgo; in esso si
trovava la Regia Monizione, ossia i magazzini d’armi, vestiari e altri generi militari per l’esercito
nati dalla vecchia armeria medievale. Trovandosi questo castello sito sulla riva del mare e molto
vicino al palazzo reale, uno dei più belli d’Europa, a cui lo univa uno stretto ponte levatoio, esso
serviva ora soprattutto da immediato rifugio per la Corte in caso di bisogno; ma il viceré e la sua
famiglia disponevano anche di una scala segreta che dagli appartamenti reali portava al
sottostante arsenale e che potevano quindi utilizzare per andare a imbarcarsi segretamente in
caso di fuga o comunque di un necessario incognito.
Il Regio Torrione del Carmine, posto anch’esso sulla marina, ma più a sud, era stato in origine
per l’appunto solo un grosso torrione incorporato nelle mura difensive costiere della città,
destinato a tenere a freno la turbolenta popolazione del Mercato, ma, poiché al tempo di Filippo
IV, in occasione della rivoluzione di Masaniello, si era dimostrato del tutto insufficiente allo
scopo, anzi i rivoltosi se ne erano subito impadroniti con pochissimo sforzo, subito dopo il viceré
Yñigo Valez y Tassis conte di Oñate (1648-1653) l’aveva tanto potenziato da dargli la
consistenza e l’aspetto di un vero e proprio castello e infatti anch’esso alzava stendardo come
gli altri (Pompeo Sarnelli, Guida de’ forestieri etc. Cit. P. 38. Napoli 1685). C’era poi all’estremità
del molo portuale, ossia all’imboccatura della darsena, la Torre di S. Vincenzo, la quale, pur
essendo guardata da un suo torriero, amministrativamente faceva parte del complesso
fortificato di Castel Nuovo e quindi dipendeva da quella castellania; si trattava in effetti di un
piccolo fortilizio il cui nucleo originario, cioè la torre, sembra risalisse al tempo di Carlo I d’Anjou
ed era tradizione, come già ricordato, che in essa i buoni padri di famiglia facessero incarcerare
i figli disobbedienti. Infine, all’estremità dell’argine portuale o molo grande, fatto costruire questo
nel 1302 da Carlo II (1285-1309), figlio del precedente Carlo, e poi molto ampliato dal re Alfonso
I d’Aragona (1442-1458) c’era la lanterna o faro del porto e un altro fortino, detto questo di S.

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Gennaro, il quale era munito d’artiglierie. Una volta era stato una fortificazione militare anche il
Castello di Capuana, antica dimora dei re di Napoli, ma poi dal 1537, cioè dal tempo del viceré
Pedro de Toledo marchese di Villafranca, sede dei regi tribunali di Napoli non militari, cioè quelli
del Sacro Consiglio, della Regia Camera della Sommaria, della Regia Zecca di Pesi e Misure e
della Gran Corte della Vicaria, tribunale civile e penale, e, poiché anche il sistema difensivo
murario che nel 1528 aveva retto all’assedio di francesi di Odet de Foix visconte di Lautrec, era
ormai da quella parte semiscomparso, la città era ora sì difesa dalla parte del mare, ma
praticamente indifesa verso la grande pianura e solo un esercito posto in campagna avrebbe
potuto colà opporsi a un invasore.
I presidiari di castelli e fortezze dovevano essere, per motivi di fedeltà e quindi di sicurezza,
esclusivamente spagnoli naturali e infatti con una vecchia carta reale del 24 giugno 1585 si
elogiava il viceré del tempo per aver licenziato da tali presidi gli jenízeros (‘giannizzeri’), cioè i
regnicoli figli di padre spagnolo e di madre italiana (… essendo egli nato in Napoli figlio di
spagnuolo e li chiamano giannizzeri… Fuidoro, 1672), perché il loro impiego nei castelli era
contrario alle ordinanze in vigore; spagnoli dovevano essere anche i torrieri o caporali delle torri,
anzi il sistema delle torri d’avvistamento, tanto generalizzato ed esteso nel Cinquecento dagli
spagnoli per la sua utilissima e insostituibile funzione, aveva, nel suo aspetto d’istituzione,
anche proprio il fine dichiarato di dare una casa e un reddito vitalizio a quei soldati spagnoli del
Regno di Napoli, i quali, ormai vecchi e sposati, fossero divenuti disutili al servizio operativo,
come già si legge in una carta del 27 gennaio 1575, con cui la Real Corte di Madrid contestava
al viceré del tempo che la maggioranza di dette torri risultasse allora esser stata invece affidata
a italiani e ordinava quindi di porvi rimedio. Questi spagnoli presidiari fissi si potevano valutare
in circa 1.500 o anche più a seconda dei periodi storici e non erano da non confondersi quindi
con i fanti delle compagnie del tercio che pure s’inviavano a rotazione a presidiare detti castelli
e fortezze nelle province più minacciate dal nemico o dai banditi, tant’è vero che le compagnie
di fanteria spagnola che restavano a presidiare Napoli raramente superarono il numero di
quattro.
Sarebbe stato improprio comunque appesantire questo nostro lavoro anche con lunghe
dissertazioni sulle fortificazioni del regno, potendosi il lettore interessato avvalere dei grossi
lavori del Mauro () e del Russo (), ambedue di facile reperimento nelle biblioteche napoletane; ci
limitiamo qui pertanto a ricordare i tre principali concetti che ispiravano l’arte della fortificazione
al tempo in esame, concetti che il più delle volte dagli studiosi di oggi restano poco o nulla
compresi, perché le fortificazioni che il tempo ci ha lasciato sono solo quelle lapidee, cioè di tipo

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ancora arcaico-antico-medievale, mentre quelle dette, a partire dal tempo della Controriforma,
alla moderna, le quali erano fatte di grandi terrapieni spessi perlomeno 8 o 9 metri e alti non
meno di 5,50/6 metri, inoltre rigorosamente incamiciati di muratura perché si mantenessero il
più a lungo possibile in forma (ma in mancanza d’una adeguata cava di pietra nelle vicinanze si
poteva incamiciarli di lotte di prato o di fascine), si sono naturalmente disfatte e deformate in
breve tempo per la loro stessa natura terragna, a differenza appunto dei più antichi castelli
medievali, molti dei quali sono tuttora sufficientemente integri, anche se talvolta molto cambiati
da trasformazioni successive; possiamo dunque oggi vedere queste fortificazioni alla moderna
negli antichi disegni e progetti, scoprirne qua e là qualche vestigia nel terreno e ravvisarne il
tracciato nelle fotografie aeree. Una seconda loro principale caratteristica, ossia le opere
distaccate esterne al fossato d’acqua, cioè quelle che gli antichi romani chiamarono procastria e
più tardi procestria, e intendiamo dire rivellini, mezzelune, corone e strade coperte, sono ancor
più presto sparite non solo perché cancellate dal tempo, ma anche perché abbattute dai posteri,
i quali le hanno a torto considerate inutili ingombri, architettonicamente e storicamente poco
interessanti; eppure queste difese distaccate esterne erano di gran lunga le più importanti,
essendo infatti quelle che avevano il compito di mantenere gli assedianti più tempo possibile
lontani dalla controscarpa - luogo dove eminenze e concavità potevano favorirne l’insediamento
vicino, la costruzione di trincee e l’istallazione di batterie - e di sostenerne quindi in sostanza i
primi urti, ruolo questo che il semplice fossato pieno d’acqua non era certo più in grado di
sostenere; senza di esse qualsiasi cinta difensiva, anche la più robusta, avrebbe prima o poi
ceduto alle batterie e agli assalti degli assedianti.
Dunque, espressi i primi due concetti ispiratori delle fortificazioni della seconda metà del
Seicento, cioè le opere esterne e l’uso, allora comunque ormai già inveterato, del terrapieno
incamiciato, molto più flessibile, assorbente e resistente al colpo di cannone rispetto a quanto
fosse stato il semplice muro lapideo medievale, dal quale oltretutto schizzavano correntemente
schegge pericolosissime per l’incolumità degli stessi assediati, il terzo e ultimo era che misure e
distanze andavano commisurate alla gittata efficace del moschetto di fanteria in uso nella
seconda metà del Seicento, ossia sui 120 passi geometrici (circa 210 metri), in quanto,
raggiunta questa distanza, il proiettile cominciava a perdere forza sino a estinguersene del tutto
il tiro verso le 150-160 passi; poiché è notorio che la fortificazione non è altro che una difesa
dalle armi offensive nemiche e una protezione per quelle amiche, essa deve necessariamente
bevolversi di pari passo con l’evoluzione di tali armi. Commisurare la costruzione delle
fortificazioni alla gittata del cannone era pressoché impossibile, sia perché questa era arma

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dalla potenza molto varia sia perché anche di più saltuario, complicato e costoso uso della
moschetteria; infatti negli assedi e trinceramenti era il fuoco di moschetteria a essere pressoché
continuo. Inoltre la moschetteria era, nella difesa d’una piazza, molto più importante
dell’artiglieria, come ben spiegava Annibale Porroni:

… e, se bene sembra a’ poco pratici essere il cannone cosa sì formidabile tanto per difendere
quanto per espugnare, sappi però che, quando il nemico si è di già accostato alle mura della
fortezza, a poco o a nulla quello serve a’ difensori, ma bensì per danneggiare l’avversario di
lontano, massime quando ancora si trova fuori del tiro del moschetto… (Trattato universale
militare moderno ecc. L. III, p. 162. Venezia, 1676.)

Partendo dai suddetti tre pacifici concetti principali, poi ogni ingegniero o architetto aveva sue
personali convinzioni per quanto riguardava le forme e le lunghezze, ma soprattutto le
angolazioni di fianchi e cortine, per cui c’era chi ancora considerava accettabili le certo ormai
vecchie concezioni del romano Pietro Sardi o addirittura quelle ancora più vecchie del
bolognese Francesco de’ Marchi, chi invece considerava ormai all’avanguardia quelle del
francese Vauban, chi preferiva le realizzazioni del preclaro olandese Coehoorn ecc. Le opere
messe in atto invece dagli assedianti consistevano principalmente in batterie gabbionate di
cannoni per aprire brecce, trincee e approcci, cavalieri o bastioni alzati di fronte alle mura
nemiche, eredi questi delle antiche torri d’assedio, mine e fornelli, e altro; ma anche questo
argomento risparmieremo al nostro lettore, limitandoci ad aggiungere solo una significativa
citazione dal trattatello, conservatoci dal Ruscelli (), scritto da Giovan Tomaso da Venezia, uno
degli ingegneri militari più esperti ed eccellenti della prima metà del Cinquecento, il quale, prima
di ritirarsi, a causa dell’età ormai inoltrata, a servire solo la sua straordinaria Venezia, era stato
al servizio dell’imperatore Carlo V:

... Ritrovandomi sin dalla mia puerizia più dedito all’essercizio dell’armi che ad altro studio,
lasciato il padre e la patria, mi sono trasferito in diversi luoghi d’Europa, dove intendeva che
s’unissero due esserciti per far imprese, né a’ miei dì è stato niun notabil fatto d’arme o assedio
che non mi vi sia ritrovato, tanto in Italia come in Francia, Inghilterra, Scozia, Fiandra ed altri
luoghi d’Alemagna... e questa disciplina non s’impara né in Bologna né in Padua né in Perugia
né sopra i libri, ma sibene dove si combatte... e per essempio vedi la città di Fiorenza, ordinata
e ridotta al suo fine da Antonio San Gallo, famosissimo architetto, e mirate quanti difetti patisce;
e quella di Piacenza, ordinata dal Genga e dal capitano Alessandro da Terni, stà assai meglio...

Le forze di mare napoletane erano basate essenzialmente sulla squadra o stuolo di galere, le
quali erano state nel Cinquecento alcune decine, ma ora erano, alla fine del Seicento, solo otto
poiché, come del resto era avvenuto nelle marinerie di tutte le altre potenze marittime
mediterranee, le galere erano andate gradatamente riducendosi di numero sia per la concorrenza
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vincente dei grandi vascelli a prevalente vela quadra, ora molto più usati in guerra a causa
dell’ormai adeguata e sufficiente manovrabilità nautica da essi raggiunta nel corso del Seicento,
sia perché si trattava adesso di galere più capienti, quindi più equipaggiate, attrezzate e potenti
delle vecchie galere ordinarie sottili del Cinquecento.
L’arsenale, adiacente al palazzo reale e protetto dai cannoni del sovrastante Castel Nuovo, era
grande e comodo, potendocisi sia costruire contemporaneamente molte navi e galere sia
conservare tutti i materiali e le armi necessarie a un armamento marittimo e infatti per questo
conteneva anche una sua Regia Monizione; inoltre in esso trovavano sia temporaneo
alloggiamento sia scuola di primo addestramento i soldati di nuova leva destinati a essere
imbarcati e inviati oltremare ai vari fronti di guerra. Il Regno di Napoli era noto anche per
l’eccellenza dei suoi remolari, ossia degli operai specializzati nella fabbricazione di remi da
galera, e il centro di più antica tradizione in tal senso era Cetraro in Calabria, abbondando infatti
la vicina Sila, oltre che di pini adattissimi alle alberature navali, anche di vaste faggete, ma si
andavano a caricare remi anche alla foce del fiume Tusciano, oggi località Spineta (Battipaglia);
la Spagna si avvaleva moltissimo di questa produzione per rifornirne i suoi arsenali e pertanto
ordinava ricorrentemente al viceré di Napoli la spedizione di migliaia di aste di remo a
Barcellona.
Gli alti vertici militari di terra e di mare erano innanzitutto quattro cariche più onorifiche e
politiche che operative e le cui competenze sfumavano pertanto le une in quelle dell’altro; si
trattava del capitano generale del Regno, ossia lo stesso viceré, del gran contestabile,
luogotenente del re in guerra, del governatore dell’armi, il quale nel 1702 percepiva uno
stipendio di mille scudi il mese e del grande almirante, capo di tutto il ramo marittimo militare e
civile, arsenale incluso. Invece il vero capo operativo dell’esercito, sia della fanteria sia della
cavalleria, quello cioè che ne aveva vera competenza tecnica, era il mastro di campo generale,
detto in fr. maréschal de camp, affiancato da due tenenti generali fissi e da uno
soprannumerario, inoltre da due aiutanti di tenente generale fissi e da uno soprannumerario.
Dal 1677 anche nell’esercito del Regno di Napoli fu introdotta la figura del sargente generale di
battaglia (talvolta detto sargente maggiore di battaglia o anche solo generale di battaglia),
destinata a sostituire quella predetta di tenente di mastro di campo generale e a prendersi gli
aiutanti di questo; si trattava di una carica istituita negli eserciti della Spagna a sostanziale
imitazione del major général de l’armée, carica di raccordo tra il comando generale e i vari corpi
dell’esercito, recentemente introdotto in quello francese da Luigi XIV. C’erano poi il capitano
generale della cavalleria, la quale sino al 1685 ebbe anche un luogotenente generale, il

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capitano generale dell’artiglieria (in Francia grand-maistre de l’artillerie), il quale era coadiuvato
da un tenente generale alcuni ufficiali subalterni detti gentiluomini dell’artiglieria, l’ingegniero
delle fortificazioni e il suo aiutante, un cappellano maggiore del Regno, gli uffici militari della
Scrivania di Razione, quindi della Contaduria (‘computisteria’), Pagatoria e Veditoria
(‘provveditoria’) Generale, i quali si occupavano dell’amministrazione e della contabilità
dell’esercito, cioè dei razionamenti, degli acquisti, delle riviste, delle ispezioni commissariali e
delle paghe, essendoci un pagatore della fanteria, uno della cavalleria, uno delle monizioni, uno
delle galere e uno dei castelli; c’erano ancora il personale della Regia Monizione di Castel
Nuovo, il monizioniero d’Aversa, tradizionale quartiere della cavalleria, e quello della piazzaforte
di Capua, l’auditore generale dell’esercito con il personale della sua audienza cioè del suo
tribunale militare, già più sopra menzionato, il quale dipendeva dal gran contestabile, e infine il
capitano generale della squadra di galere, assistito questo da un tenente generale, comandante
in seconda detto in spagnolo quatralbo, perché la sua galera si riconosceva da un piccolo
vessillo appunto di forma quadra e di color bianco e non perché comandasse quattro galere
(‘quattro alberi’), come poi erroneamente si è creduto, tanto più che la galera non aveva un solo
albero, bensì due. Lo stato maggiore delle galere comprendeva anche, tra gli altri, un algozino
reale e un cappellano maggiore

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Cronache 1668-1707.

1668. In quest’anno, mentre Napoli era governata dal viceré spagnolo Pedro Antonio Ramón
Folch de Aragón duca di Segarbe e Cardona (1666-1671), il trattato di Lisbona, con cui la
Spagna riconosceva finalmente l'indipendenza del Portogallo e il suo impero coloniale, Ceuta in
primis, e la pace d’Aquisgrana che nel maggio poneva invece fine alla cosiddetta Guerra di
Devoluzione tra Spagna e Francia per il predominio sulla Fiandra, avevano procurato all'Europa
occidentale un altro di quei brevi periodi di non-belligeranza di cui ogni tanto riusciva a godere
non ostante la continua bellicosità della Francia, regno che il diarista napoletano Innocenzo
Fuidoro (pseudonimo di Vincenzo d'Onofrio) definiva una nazione così barbara e tiranna che
non sa stare un quarto d'ora in schietta amicizia col suo prossimo, accomunandola così con
l'impero ottomano, di cui la Francia stessa aveva sempre cercato l'alleanza, tacita o dichiarata
che fosse, per controbilanciare la potenza marittima mediterranea della Spagna con la
sterminata armata di mare del Gran Turco; forse il senso di colpa per aver in tal modo tanto
nociuto alla cristianità portò poi la Francia prima ai pesanti bombardamenti d’Algeri e d’altre città
costiere dell'Africa settentrionale negli anni 1683-1684 e in seguito a quella conquista
dell'Algeria iniziata nel 1830 e con cui si dava molto tardiva fine alla pirateria barbaresca che
per tanti secoli e fino allora aveva infestato e tanto dannificato le riviere cristiane del
Mediterraneo con innumerevoli lutti, dolori e distruzioni.
Napoli aveva sempre partecipato alle vicende belliche della Spagna con invio di uomini e di
mezzi ai vari teatri di guerra e a questa poco conosciuta realtà storica si riferisce, per esempio,
un rogito del 6 gennaio 1668 stipulato dal notaio napoletano Francesco Antonio Montagna e
conseguente a un partito (appalto) per la fornitura di 2500 vestiti di monizione, ossia abiti
militari, destinati all’infanteria italiana, cioè a quella reclutata tra i regnicoli che di quando in
quando era raccolta e inviata all'estero. Il partitario (appaltatore) era in quest’occasione tal
Antonio Fasanella, il quale, come si legge nel documento conservato alla Sezione Militare
dell'Archivio di Stato di Napoli, aveva già consegnato alla Regia Monizione 500 dei suddetti
vestiti nel precedente dicembre e s’impegnava ora di consegnare i residui 2.000 in quattro rate
da 500 ognuna, ultima di cui scadente alla fine del vegnente aprile.
Alle 19 del venerdì 24 febbraio lasciarono Napoli cinque galere che portavano nei Presidi di
Toscana circa mille fanti per mutarne e contemporaneamente raddoppiarne la guarnigione a
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causa delle minacce francesi; si trattava di 800 fanti spagnoli e 200 italiani di nuova leva, quelli
del terzo fisso e questi invece condannati a pene detentive a cui la condanna era stata
convertita a servire nell’esercito per le esigenze della guerra. Erano stati a tal scopo tolti dal
remo delle galere anche e soprattutto quei pochi spagnoli che, avendo commesso gravissimi
reati, vi erano stati condannati; si trattava di una pena che solo molto eccezionalmente
s’infliggeva a rei di nazionalità spagnola e, quando pure vi si arrivava, si liberavano poi dopo
poco tempo, come confermerà il Fuidoro con la sua seguente annotazione datata 8 giugno
1669:

… La mattina seguente fu mandato in galera lo spagnolo per ordine del viceré, dove per poco
tempo vi dimorarà, com’è costume.

Le suddette galere torneranno infatti a Napoli sabato 10 marzo con i 500 spagnoli che avevano
formato la vecchia guarnigione di quelle fortezze, per dove l’11 aprile ripartiranno portandovi
altri 800 fanti italiani di nuova leva. Poiché questi avvicendamenti di presidiari avvenivano
regolarmente e periodicamente in tutti i principali presidi del regno e delle piazze marittime di
Toscana che dal regno dipendevano ed erano pertanto avvenimenti ripetitivi, ci limiteremo d'ora
in avanti a riportare solo quelli che eccedeva l'ordinarietà delle cose.
Mercoledì 21 marzo tornava frattanto a Napoli dalla Spagna Luise Poderico, uno dei militari
napoletani che più si era distinto all’estero raggiungendo infatti l’altissimo grado di capitano
generale; invece tra i militari più importanti allora residenti nel regno si distingueva fra’ Titta
(Gioan Battista) Brancaccio (il fra’ stava, com’è noto, a significare cavaliere gerosolimitano o di
Malta), il quale era capitano generale dell’artiglieria e governatore generale dell’armi dei Presidi
di Toscana, mentre tenente generale dell’artiglieria era allora lo spagnolo Gabriel de Acuña.
Oltre a quella del Brancaccio, le altre principali cariche militari del regno erano in quel tempo
esercitate da Vincenzo Tuttavilla duca di Calabritto, il quale era allora mastro di campo generale
dell'esercito e dei presidi fermi, e da Gioannettino d’Oria, generale della squadra di galere di
Napoli.
Mercoledì 23 maggio, essendo arrivata nella rada di Napoli la squadra delle cinque galere
pontificie con il loro generale fra’ Vincenzo Rospigliosi, cavaliere di Malta e nipote del pontefice
Clemente Nono, la quale si stava recando al soccorso di Candia, assediata dagli ottomani, il
viceré de Aragón uscì a incontrarla con le sette galere di Napoli e, dopo averla fatta salutare
con lo sparo di tutti i cannoni, accolse il Rospigliosi nella sua Capitana e lo condusse a terra.
L’ospite si reimbarcherà poi sulla sua squadra per ripartire domenica 27 carico dei regali ricevuti

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e cioè di sei cavalli della razza (‘allevamento’) reale di Napoli, molti vitelli, canditi, botti di vino e
altri rinfreschi per le galere e infine una gran quantità di finissime biancherie regalategli dalla
viceregina. Lunedì 28 maggio si pubblicò anche a Napoli la pace conclusa tra Spagna e
Portogallo dopo ben 28 anni di sanguinosa guerra, a ciò spinta la prima dalla necessità di
potersi così opporre più validamente in Fiandra alle possenti forze francesi. A luglio giunse a
Napoli la notizia dell'assassinio del viceré di Sardegna, Manuel Mendoza marchese di
Camarassa, commesso da alcuni nobili cagliaritani ribelli; si trattava del quinto viceré ucciso in
Sardegna e perciò era nato a Napoli il proverbio che valevano di più gli asini sardegnoli che i
cavalli napoletani, con chiaro riferimento, oltre che agli animali domestici più tipici dei due regni,
anche alla circostanza che mai i napoletani erano riusciti a uccidere un loro viceré, anche se
spesso taluni dei nobili l'avevano potuto probabilmente desiderare. Per riprendere il controllo di
quell’isola nella notte del venerdì 3 agosto si spedirono a quella volta sei galere della squadra di
Napoli, mancando infatti la sola Capitana del detto d’Oria, lasciata a Napoli perché priva di
paghe, e quattro di quella di Sicilia, le quali portavano a bordo, oltre ai loro soliti equipaggi,
2.100 fanti, tra spagnoli, italiani e 800 alemanni; tutte queste galere non erano comandate dal
d’Oria, perché costui, probabilmente per motivi connessi alla detta mancanza di paghe, era in
questione col viceré e di conseguenza loro condottiero in questa spedizione era Fadrique de
Toledo y Ossorio marchese di Villafranca e duca di Ferrandina, capitano generale della squadra
di galere di Sicilia dal 5 giugno 1666 sino al 21 marzo 1670, quando diventerà generale di quelle
di Napoli, per poi assumere il 3 gennaio 1671 il governo pro interim del regno sino a tutto il
seguente febbraio in sostituzione del viceré de Aragón partito quel giorno per Roma, dove si
recava a far atto d’obbedienza al nuovo pontefice Clemente X; infine sarà per due anni viceré di
Sicilia (1674-1676). Dopo qualche giorno, però si vide questa spedizione tornare indietro
richiamata da un oscuro contrordine. Fu presto eletto nuovo viceré di Sardegna il napoletano
Francesco Tuttavilla duca di S. Germano, fratello del predetto Vincenzo, il quale aveva pertanto
lasciato poco prima il governo delle province spagnole di Navarra e di Guipuzcoa.
I detti 800 alemanni erano arrivati da poco a Napoli per essere impiegati nella difesa del regno
allora esposto agli insulti francesi; il Fuidoro paragonava la regolarità e abbondanza della paga
da loro pretesa e percepita alla scarsezza e solito ritardo del soldo che invece si pagava agli
spagnoli, vero nerbo delle difese del regno:

Le milizie spagnuole quasi con quel poco soccorso (‘parte di paga’) si mantengono ed è
miracolo che non sia successo abbottinamento (leggi ammotinamento) e saccheggiare la città; li

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alemanni, in numero di 800 arrivati a Napoli, ben pagati e alloggiati alli Studi (‘Università’) e a
Chiaia, guastano (‘costano’) 600 docati il giorno di paghe con il depiù delli letti.

Mercoledì 25 luglio fu inaugurata la nuova grande darsena voluta dal suddetto viceré de
Aragón, essendo la precedente molto esposta ai venti di scirocco e di levante; si trattava di una
profonda e larga escavazione fatta in riva al mare, accanto all’arsenale, capace di 14 galere e
corredata all’intorno da nuovi magazzini per tutti gli arredi necessari alle galere e da un
ospedale per forzati e schiavi di galera. L’inaugurazione avvenne facendovi il loro primo
ingresso le sette galere della squadra reale napoletana e due di quella di Sicilia che si
trovavano in visita a Napoli con il loro generale Federico de Toledo marchese di Villafranca e
duca di Ferrandina, il tutto con grande accompagnamento di salve dei cannoni e della
moschetteria e archibugeria della fanteria spagnola e mentre a detta cerimonia assisteva la
viceregina dall’alto del pallonetto (‘belvedere’, sp. mirador) di palazzo. Il Sarnelli non molti anni
dopo così descvriveva quell’opera:

… Tarcena, che nell'anno 1668 fù fatta dal Sig. Viceré D. Pietro d'Aragona con fare scavar quel
luogo al pari del fondo del mare, acciocchè fosse, com'è riuscito, sicuro ricovero alle Galee.
All'intorno di queſta tarcena stanno i magazzini di tutti gli arredi concernenti a' bisogni delle
Galee, come anche uno spedale per gli galeotti infermi.
Accanto alla detta tarcena è l'arsenale, dove si fabbricano le galee e gli altri armamenti
marittimi, e vi si ammaestrano nella militar disciplina i novelli soldati che di questo Regno si
mandano ove bisogna per servigio di S.M. Cattolica. Queſto luogo è itato molto abellito dal
presente Sig. Viceré D. Gásparo de Aro e vi ha fatto molte habitationi per soldati. A rincontro vi
sono le fonderie de' canoni, delle palle e di altri militari strumenti.
Al lido del mare dirimpetto all'arsenale ed alla tarcena, vi è il fortino della torre detta di S.
Vincenzo, edificata (com'è opinione) dal Rè Carlo (I° d’Angjou, 1266-1285); perciocchè in quel
luogo era l'antico molo per sicurtà delle navi. Leggefi nelle storie napoletane che questo fortino,
in tempo di mutazione di dominio di queſto Regno, si mantenne solo per lo spazio di tre mesi. In
questa torre sogliono i padri di famiglia metter prigioni i loro disubbidienti figliuoli.
(Pompeo Sarnelli, Cit. Pp. 39-40.)

Con il nuovo suddetto ospedale si aboliva la vecchia e sdrucita pulmonara, ossia la ‘galera
ospedale’, che si trovava da sempre al molo di Napoli e nella quale forzati e schiavi malati molto
pativano e la si sostituiva con un vero e proprio nosocomio sito in effetti addirittura nel
complesso del palazzo reale, avendo fatto ristrutturare infatti a tal scopo dei locali che si
trovavano dalla parte del mare sotto il predetto corridoio panoramico detto pallonetto e che fu a
sua volta trasformato in nuova Scrivania di Razione, questa prima d’allora situata in un vecchio
edificio che si trovava fuori del recinto dell’arsenale; quest’ultimo, proprio per far posto a detta
nuova grande darsena, ai nuovi magazzini e a un alloggiamento per i soldati di nuova leva

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destinati a esser mandati oltremare, era stata diminuito di diverse arcate, ma senza nulla
perdere della sua grande potenzialità costruttiva.
Sabato 4 agosto, giorno di S. Domenico, si pubblicò anche a Napoli la predetta pace tra Spagna
e Francia stipulata nel maggio precedente ad Aquisgrana e ci furono per questo cerimonie
pubbliche e una bella e grande sfilata delle corporazioni cittadine, il tutto accompagnato da
salve di tutte le artiglierie dei castelli.
In quel periodo Candia, tenuta dai veneziani, sosteneva con difficoltà veementi assalti dei turchi
e Napoli, Malta, la Sicilia e lo Stato della Chiesa, avevano già inviato colà dei soccorsi nel
giugno dell'anno precedente; ora, mercoledì 12 settembre, era spedita per ordine reale una
grossa partita di munizioni da guerra ai veneziani di Candia per mezzo di una gran nave inglese
appositamente venuta a Napoli per caricarla. Nello stesso settembre furono intanto licenziate le
suddette fanterie alemanne che, come abbiamo detto, erano giunte solo mesi prima, cioè
quando la guerra contro la Francia era ancora in corso, perché ovviamente ora non più
occorrevano:

Si sono cominciati a partire l'alemani e quelli che sono remasti per partirse ancora, non avendo
le paghe ritenute da’ loro colonnelli e pagate dalla regia corte, vanno pezzendo per Napoli.

Perché ora i colonnelli degli alemanni trattenessero le paghe dei loro soldati non sappiamo,
né era loro costume giacché i mercenari tedeschi e svizzeri erano, come abbiamo appena
accennato, proprio quelli che più si facevano economicamente rispettare, essendo considerati
da questo punto di vista insaziabili e, se non pagati puntualmente, facili allo sbandarsi e alle
rivolte; comunque, per loro fortuna o sfortuna, queste soldatesche mercenarie - si trattava di
600/650 uomini residui per il trasporto marittimo di cui da Pescara a Trieste, con relative razioni
alimentari, si fece partito sabato 22 settembre, come risulta da un atto notarile originale -
saranno presto assoldate dai veneziani per la guerra di Candia, isola di cui era allora
governatore generale dell'armi un vecchio napoletano, cioè fra’ Vincenzo della Marra, il quale
era stato prima capitano generale della cavalleria dell’esercito spagnolo di Pedro de Aragón
marchese di Povar e poi mastro di campo generale dell'esercito veneziano, ossia comandante
di tutta la fanteria della Serenissima; egli, dunque tra i più distinti e importanti ufficiali generali
napoletani del tempo, morirà purtroppo nel corso di questa sfortunata difesa di Candia.

1669. Da un avviso di Milano, nel quale si cita una corrispondenza da Roma del 30 gennaio
1669, risulta che, evidentemente tra la fine dell’anno 1668 e l'inizio di questo, fanterie
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napoletane di nuova leva erano giunte da Napoli a Barcellona, dove se ne doveva formare un
terzo, ossia,come abbiamogià spiegato, un’unità di fanteria simile al reggimento, da inviarsi a
servire nei Paesi Bassi e il nobile napoletano Titta (Gioan Battista) Pignatelli si era recato alla
Corte di Madrid per ottenerne la patente di maestro di campo, titolo equivalente a quello di
colonnello nella cavalleria. Un altro avviso, anch'esso milanese, riportando lettere da Napoli del
17 aprile di questo stesso 1669, c’informa che da quel porto erano in partenza sia le galere
napoletane sia quelle delle altre squadre tirreniche della monarchia spagnola per andare a
portare aiuto all'armata veneta impegnata nella difficile difesa di Candia, isola che purtroppo
nell’ottobre di questo stesso 1669 cadrà in potere dei turchi, non ostante la strenua resistenza
dei marcolini (‘veneziani’) comandati da Francesco Morosini e aiutati pure dalla Francia, la quale
si apprestava anch'essa a inviare un’armata, ossia una flotta da guerra, in soccorso di
quell'importante isola; nella timorosa attesa del passaggio di tale armata, nel maggio il viceré di
Napoli fece rinforzare i presidi costieri del regno perché, anche se tra Spagna e Francia si era,
come sappiamo, ristabilita la pace, sempre possibili occasionali atti d’ostilità. Mercoledì 22 dello
stesso maggio partirono ancora per la Sardegna tre galere napoletane che portavano 550 fanti
spagnoli e italiani per rinforzare l’ancora non ben radicato governo del duca di S. Germano,
nuovo viceré di quella turbolenta isola, mentre vi convergevano anche spedizioni militari
provenienti da Spagna, Milano e Sicilia; per esempio il viceré di quest’ultima, il duca di
Alburquerque, vi inviò con le galere 300 soldati spagnoli del presidio di Palermo; le tre predette
galere faranno ritorno l’8 giugno. Tra le milizie provenienti dalla Spagna c'era anche il terzo
napoletano del mastro di campo Marzio Origlia duca d'Arigliano, il quale ne aveva assunti il
grado e il comando in Portogallo sin dalla fine del 1659; il suo terzo aveva infatti valorosamente
combattuto in quella guerra e poi, dopo la campagna in Sardegna, sarà trasferito nei Paesi
Bassi unitamente ad altri due terzi italiani; colà parteciperà alla sfortunata difesa di Maastricht
nel 1673 e infatti fu tra i reparti che uscirono da quella città dopo la sua capitolazione. Dallo
stato degli ufficiali morti in quell'assedio abbiamo ricavato un elenco di 12 compagnie che
facevano parte del predetto terzo dell'Origlia o che probabilmente lo costituivano per intero e tra
loro c'è da notare una novità assoluta per le fanterie della Spagna e cioè un’intera compagnia di
granatieri, specialità esistente solo da pochi anni e che fino allora era stata impiegata nei terzi
solamente distribuita in ragione d’alcuni granatieri per ogni compagnia. Ecco dunque l'elenco
delle predette compagnie con i nomi di dieci dei loro capitani comandanti:

01. Compagnia del mastro di campo.


02. Vincenzo Sicola.
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03. Velori.
05. Lubuan.
06. Velasco.
07. Duro
08. Bracie (sic).
09. Romaunio (forse ‘Romano’).
10. Dortasupi (sic).
11. Caponegro.
12. Compagnia dei granatieri.

Le perdite del terzo durante la difesa di Maastricht erano state notevoli, essendosi infatti ridotto
il suo piede, ossia la sua forza, a soli 175 uomini; pertanto nel luglio dello stesso anno l'Origlia
poi ricevette 530 fanti italiani giunti dalla Spagna a rinfoltire i suoi scarsi ranghi ridotti ormai a
soli 175 uomini. In seguito i francesi smisero d’attaccare l'Olanda e cominciarono invece ad
assalire la Fiandra spagnola, dove fu quindi trasferito l'Origlia con il suo terzo, prima a presidiare
Namur e poi Carlemont, questa più coinvolta nelle operazioni di guerra. L'Origlia fu poi
promosso sargente generale di battaglia e all'inizio del 1677 parteciperà al fallito tentativo di
soccorrere S. Omer assediata dai Francesi. La pace di Nimega del 1678 durò solo pochi anni e
infatti nel 1682 l'Origlia si troverà a comandare la difesa di Lussemburgo insieme col principe
Chimay, governatore di quella piazza. A cominciare dal 21 dicembre di quell'anno i francesi
lanciarono su quella disgraziata città ottomila bombe da mortaio, le quali appena vi lasciarono in
piedi una decina di case malferme. I lussemburghesi si arresero onorevolmente il 6 giugno del
1683, ma nella primavera dell’anno seguente il re di Francia, volle approfittare ancora della
potenza dei suoi nuovi mortai e, dichiaratosi mal soddisfatto del comportamento di Genova, le
inviò contro un’armata di vascelli, legni da fuoco o brulotti, galere e palandre da bombe e
carcasse a scaricarvi, nei giorni di Pentecoste, un diluvio di fuoco. In aiuto del capoluogo ligure
accorse il governatore di Milano, Juan Henriquez de Cabrera conte di Melgar, con soldatesche
spagnole, napoletane e lombarde e l'Origlia fu richiamato dalla Fiandra col nuovo incarico di
governatore dell'armi regie in Genova, ma, quando vi giunse, la questione era ormai risolta e le
ostilità terminate. Questo terribile bombardamento di Genova lasciò una gran paura delle
bombe francesi, timore che per molti anni a venire trasparirà spesso nella stesura degli Avvisi,
specie di quelli editi nell’Alta Italia.
A proposito delle suddette galeotte o palandre da bombe, ci sembra opportuno spiegare meglio
che cosa fossero. Sembra che fu Maurizio d’Orange-Nassau (1567-1625) a servirsi per primo di
una di queste batterie naviganti per bombardare e incendiare Le Havre verso la fine delle guerre
di Fiandra e l’inizio di quella dei Trent’Anni; certo è che bombe incendiarie di nuovo tipo e molto

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efficaci furono usate dai francesi nell’assediare Fuenterrabía nel 16371. Più tardi, verso il
1680, un ufficiale francese, Bernard Renaud d’Eliçagaray, visto il grande sviluppo che
l’artiglieria con tiro ad arcata aveva avuto in Francia, le ripropose rivedute e corrette come gli
strumenti più utili a dare finalmente una sonora lezione alla città d’Algeri, covo di dannosissimi
ladroni di mare, idea che fu accolta da Luigi XIV; se ne costruirono all’inizio cinque esemplari, e
si trattava di vascelli tondi medio-piccoli, molto forti di legno, a fondo piatto, armati a livello della
coperta con due mortari posti su pedane girevoli, una a pruavia e una a poppavia dell’albero
maestro, le quali erano sostenute da robuste strutture di legno fissate su un bassissimo falso
ponte costruito sul fondo di cala della galeotta. La Francia fu così per prima in grado di
effettuare intensissimi e rovinosi bombardamenti marittimi, oltre a quelli, anche spesso decisivi,
che già con simili mortari metteva in atto nelle guerre di terra; si veda per esempio quello
terribile di Bruxelles che avverrà nel 1695. A queste micidiali batterie di mortai naviganti, capaci
di lanciare le loro bombe a un chilometro e mezzo di distanza, fu dato in Italia il nome di
palandre a bombe, il quale proveniva storicamente da una contaminazione tra palandarie, nome
basso-medievale con cui erano chiamati dai cristiani i turchi passacavalli, cioè dei vascelli
ottomani attrezzati e adibiti al trasporto di tali animali, ma che, come si legge nelle cronache
della discesa in Italia di Carlo VIII di Francia scritte dal Sanudo a proposito dell’armata di mare
preparata dagli ottomani nel 1495, erano anche utilizzati come postazioni galleggianti di grosse
bombarbe che in guerra all’occorrenza portavano a poppa, e l’alto-medievale chelandre o
salandre, specie di galeotte bizantine appunto a due ordini di remi per lato e con equipaggio
complessivo di circa 150 uomini, attrezzate a lanciare il fuoco greco contro i vascelli e le
istallazioni costiere del nemico per mezzo di macchine di bordo ruotanti atte a sollevare e
catapultare gravi pesi e dette γέρανοι in greco e grues in latino, le quali quindi in un certo senso
potevano essere ricordate da queste moderne batterie galleggianti. In Francia invece furono
conosciute come galiotes à mortiers, galiotes à bombes (ol. spring-schip, bombardeerd-galjoot),
nome dunque che nulla aveva a che fare con le galeotte remiere mediterranee, bensì con quelle
oceaniche olandesi, le quali erano invece dei velieri a prevalente vela quadra; bisogna infatti
spiegare che gli olandesi avevano dato - chissà perché - questo nome di galeotte a dei loro
vascelli tondi di media grandezza e di tutto rispetto, generalmente lunghi dagli 85 ai 90 piedi
francesi, con cui essi raggiungeranno anche le Indie, nonché a vari altri tipi di vascelli più
piccoli, alcuni di una forma che stava tra quella dei predetti e quella delle pinasse (dal fr.
espinace; lt.md. spinachium), altri di basso bordo che serviranno da yachts, ossia da ’avvisi’, e
altri ancora da pesca; questi vascelli saranno caratterizzati, oltre che dall’alberatura en fourche,

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soprattutto dall’aver la loro maggiore larghezza in corrispondenza della sommità della prua.
Dette nuove galeotte da bombe francesi furono inaugurate nel terribile bombardamento d’Algeri
dell’agosto del 1682, azione eseguita da un’armata comandata dall’ammiraglio Abraham du
Quesne e composta di 11 vascelli (‘velieri’), cinque galere, cinque galeotte lancia-bombe
capitanate dal suddetto Monsieur Renaud, tre brulotti, alcuni velieri a flauto (fr. flûtes) e diverse
tartane, armata che, pur provocando alla città corsara grandissime rovine e 700 morti, non poté
però portare a termine il suo compito perché, assalita da una burrasca, dovette lasciare la rada
d’Algeri prima del previsto; ma il bombardamento del giugno-agosto dell’anno seguente,
eseguito con sette delle predette galeotte, riuscirà comunque ancora più devastante per la città
corsara, anche se nel corso di questo il du Quesne, essendosi rifiutato, per motivi non ben
chiari, di adoperare due muovi mortai che lanciavano grossissime bombe, sarà sostituito nel
comando da Anne-Hilarion de Costentin de Tourville. Ulteriormente aumentate a 10, questi
micidiali vascelli francesi saranno poi adoperati anche nel famigerato e terribile bombardamento
di Genova del maggio 1684, durante il quale essi, ora comandati dal cavaliere di Malta des
Gouttes, ancoratisi davanti alla torre della lanterna e ai borghi nei pressi del Bisagno,
lanceranno in 12 giorni sulla disgraziata città ben 13.300 bombe; qui di nuovo il du Quesne,
appoggiato dal suo subordinato duca di Vivonne, contesterà gli ordini e sarà sostituito dal de
Tourville; i genovesi si arrenderanno e pagheranno una forte indennità, ma anche i francesi
avranno subito forti perdite e i loro tanti commercianti residenti a Genova saranno rovinati.
Nell’estate dell’anno successivo toccherà a Tripoli, bombardata da un’armata di 16 galere, 15
vascelli e cinque palandre uscita dai porti della Provenza e costretta ad accordi di pace con
l’immediato pagamento di un tributo e il rilascio di 180 schiavi cristiani, incluso un nobile inglese,
i quali saranno portati a Tolone; infine nell’agosto del 1688, la Francia, anche se alla fine
rinuncerà, come poi meglio diremo, a mettere in campo la machine infernal preparata a Tolone
proprio per quella nuova campagna contro Algeri, come abbiamo già detto, userà però ancora
le sue lancia-bombe e nel terribile bombardamento che ne seguirà saranno lanciate sulla città
corsara, di cui era allora dey il rinnegato corso Hadji Hussein, detto dai cristiani Hassan
Mezzomorto, ben diecimila bombe, cioè tutta la scorta a disposizione della squadra francese.
Non sappiamo se queste galeotte fossero sotto il comando di un apposito ufficiale generale o
sotto quello del capitano generale delle galere, allora Louis de Rochechouart, duca di
Mortemar. La Francia otterrà quindi da quest’innovazione grossi risultati e ulteriore prestigio
militare, restandone molto impensierita la stessa Costantinopoli, ma presto se ne doteranno
anche le altre potenze marittime; infatti anche i veneziani presto s’attrezzarono in tal senso e

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fecero un uso importante di queste palandre lancia-bombe e lancia-carcasse nelle loro
campagne navali di Morea del triennio1686-1688; infine, durante le ultime guerre combattute da
Luigi XIV, gli inglesi usarono queste galeotte da bombe nei bombardamenti di Saint Malo del
1693 e di Dunkerque dell’agosto 1695 e in questi ultimi detti vascelli erano armati, come poi
meglio vedremo, con cannoni-mortari di recente concezione detti in francesi obus (‘obici’).
Tornando ora all’Origlia, diremo che fu poi nominato capitano generale dell'artiglieria del Regno
di Napoli, incarico che sino a quel tempo era stato in pratica condiviso dal già ricordato e ormai
defunto fra’ Gian Battista Brancaccio, morto infatti il 19 febbraio 1686, e da Diego de Quirosa,
generale dei castelli del regno, e rivide così finalmente la sua patria dopo ben quarant'anni
d’assenza, esercitandovi però contemporaneamente per un anno anche la funzione di mastro di
campo generale pro interim, finché questa, nel seguente 1687, fu conferita a Fernando
Gonzales de Valdés, capitano generale dell’artiglieria del ducato o Stato di Milano, con lo
stipendio che avevano preso i suoi predecessori più un soprassoldo di 200 ducati mensili; il
Valdés tornerà poi a Milano alla fine del 1694, quando cioè sarà nominato castellano della
fortezza di Milano, allora detta ancora tradizionalmente Castello, mentre a Napoli gli subentrerà
il genovese Giuseppe d’Oria. Nel 1688 sarà anche vicario generale dei Presidi di Toscana, dove
si temeva un attacco dell'armata francese con quel suo enorme potenziale distruttivo costituito
dalle galeotte bombardiere e da un tipo di proiettile composto detto carcasso – ma più spesso
corrotto in carcassa, del quale poi ancora diremo, usato dai transalpini con buon profitto;
fortunatamente l'attacco non ci fu. Lo Stato dei Presidi di Toscana era in pratica quell’insieme di
quattro fortificazioni (Orbitello, Talamone, Port’Ercole e Piombino) di cui solo l’ultima, una piazza
fortificata, non apparteneva al Regno di Napoli, bensì al principe di Piombino, e che in teoria
doveva fargli da antemurale di difesa, mentre in pratica riuscì a tal fine quasi sempre pressoché
inutile. Le guarnigioni di queste fortificazioni si mutavano una volta l’anno, colà portate dalle
galere, ma talvolta, quando la situazione internazionale destava delle preoccupazioni, vi si
mandavano dei rinforzi straordinari; accenneremo quindi a questi avvicendamenti solo quando
presenteranno caratteri o significati particolari.
Lasciando ora le vicende di Marzio Origlia, ritorniamo alla fine del 1669, quando cioè il più gran
problema che travagliava il Regno di Napoli era senza dubbio la presenza di più di mille banditi
attivi nell'Abruzzo e a cui non si riusciva a trovare un definitivo rimedio. Il brigantaggio
abruzzese era infatti difficilissimo da estirparsi sia per l'asperità di quella provincia, sia perché
era aizzato e sostenuto da agenti francesi e veneti, sia perché quei masnadieri erano fuorusciti
che avevano le loro basi nel confinante stato pontificio dove, anche se messi alle strette dai

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soldati del regno, potevano sempre trovare rifugio e protezione, anche se non dichiaratamente;
si diceva inoltre a Napoli che i caporali di campagna abruzzesi, ossia gli ufficiali della polizia
giudiziaria provinciale, fossero conniventi con i banditi e con loro spartissero i proventi delle
rapine e delle razzie:

(Luglio 1670) Li banditi per ogni provincia fanno quello che vogliono e spartono con li caporali di
campagna e alcuno delli presidi spagnuoli (Fuidoro).

Lo stesso diarista sei mesi dopo estenderà il concetto anche alla capitale del regno, facendo
però ora nome e cognome:

(Gennaio 1671) Veramente, si sentono per la città assai ladroni, ma, perché tengono tutti
soggezione di contribuire a capitan Carlo Vassallo, capo di birri assassini e fur(fan)ti, quando
uno di costoro non ha più di che contribuirgli, allora lo fa perire…

È questo della corrotta connivenza dei tutori dell’ordine del tempo un argomento sul
quale il Fuidoro spesso torna nel corso delle sue cronache. Bisognerà attendere il governo
dell'intelligente e risoluto viceré Gaspar de Haro marchese del Carpio per poter finalmente
vedere il tristo fenomeno del brigantaggio debellato, anche se solo per qualche tempo, nella
maggior parte del regno.
Frattanto in questo stesso 1669 il napoletano Francesco Arboreo di Gattinara dei conti di
Sartirana, marchese di S. Martino, era stato nominato governatore della piazza di Tarragona
dopo esser stato prima capitano di fanteria, poi capitano di cavalleria, mastro di campo di
fanteria sia napoletana che lombarda, generale dell'artiglieria nell'esercito d'Estremadura e
contemporaneamente governatore di Èvora, generale dell'artiglieria nell'esercito di Galizia; sarà
in seguito, proseguendo nella sua non comune carriera, mastro di campo generale del
principato di Catalogna e poi di Sicilia; sarà ancora vivente nel 1693.
Un avviso di Milano, riportando una corrispondenza da Genova del 1° gennaio successivo,
informerà poi che negli ultimi giorni di quest'anno era approdata in quel porto una grossa barca
carica di fanteria spagnola; la stessa aveva poi proseguito per Napoli, dove avrebbe dovuto
sbarcare detta fanteria destinata al rinforzo delle guarnigioni dei castelli di quel regno.

1670. Caduta Candia dunque in potere dei turchi, così come Malta e la Sicilia rinforzavano le
loro difese costiere potendo essere i prossimi obiettivi degli ottomani, anche nel Regno di Napoli
ci si cautelava e nel gennaio del 1670 s’inviarono alcune compagnie di fanteria e cavalleria alle
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marine d'Otranto per rinforzarne i presidi contro possibili incursioni dei corsari turco-barbareschi.
All'inizio di marzo poi, poiché i suddetti corsari effettivamente comparivano in buon numero
lungo i litorali del regno, il viceré ordinò che sia i fanti del Battaglione sia i cavalleggeri della
Sacchetta si tenessero pronti a qualsiasi improvviso ordine di portarsi laddove ci fosse pericolo
che i corsari tentassero di sbarcare; qualche giorno dopo ordinò anche che si assoldassero
genti a piedi e a cavallo nella stessa città di Napoli e nei suoi sobborghi per rinforzare le
guarnigioni delle piazze e dei luoghi più importanti delle marine di levante del regno. In quel
mentre lunedì 10 marzo avevano lasciato Napoli quattro galere con 400 fanti spagnoli destinati
al potenziamento dei presidi della Sardegna poiché ci si aspettava che avvenissero nuove
turbolenze in quell'isola.

Venerdì 14 di marzo detto, ore 24, alle gradelle (‘gradini’) di San Giovanni Maggiore fu
ammazzato un figliolo d’anni dodici, gridando ‘marioli, marioli!’. Li furono rubbati certi pochi
carlini e, al griddo che fece, fu ucciso con una pugnalata che gli passò il core; si dice
pubblicamente che fussero stati soldati spagnuoli, quali non hanno più che grana otto il giorno a
testa e una razione di pane e si arrabiano (Fuidoro).

Fu questo del viceré de Aragón, odiosissimo ai soldati, un periodo in cui la cassa militare
napoletana versava in notevoli ristrettezze e, non essendo pagato il soldo per mesi e mesi, i
soldati spagnoli si davano, come del resto tutti gli altri in Europa, alla diserzione, al crimine o nel
migliore dei casi provocavano disordini; soprattutto lo facevano quelli che riuscivano a trovarsi
fuori quartiere di notte per motivi di servizio o per licenza.
Attorno al 20 marzo, accompagnato da cinque galere di Sicilia, tra le quali la Capitana e la
Padrona, arrivò a Napoli il già ricordato Fadrique de Toledo y Ossorio marchese di Villafranca e
duca di Ferrandina, il quale veniva a prendere possesso della sua nuova carica di capitano
generale dello stuolo di galere di Napoli.
Secondo una corrispondenza da Napoli del 22 aprile riportata da un avviso di Milano altri rinforzi
per i presidi di Puglia stavano ora per partire dalla capitale e cioè si stava allestendo una galera
per condurvi alcune compagnie di fanteria spagnola, mentre tre altre compagnie di cavalleria
napoletana sotto il comando di Luigi Poderico pure stavano per incamminarsi per quella stessa
provincia.
40 soldati spagnoli fuggirono da Napoli verso luglio e si rifugiarono nello Stato della Chiesa;
dove furono poi indultati per intercessione del marchese de Astorga, allora ambasciatore di
Spagna a Roma, ma futuro viceré di Napoli, e se la cavarono così con la sola condanna a
servire nello Stato di Milano. I tentativi di diserzione dei fanti del tercio però si susseguivano:
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A 10 settembre sono stati condotti in galera 13 soldati spagnuoli per aver macchinata la fuga e
non li giovò il dire che fuggivano perché non potevano essere pagati e che si morivano di fame
(Bulifon).

Altri 28 di loro, i quali in seguito invece riuscirono a disertare, furono ripresi nell'aprile del 1671
dalle squadre dei soldati di campagna di cui abbiamo già detto e, quando furono riportati a
Napoli sabato 3 maggio, alcuni loro commilitoni cercarono di liberarli azzuffandosi con i birri che
li conducevano, ma senza riuscirci.
Lunedì 24 novembre di questo 1670 tre galere napoletane sarebbero dovute partire per portare
la soldatesca destinata a dare il cambio al presidio di Porto Longone, ma non poterono farlo
perché la maggior parte dei marinai, a cui si dovevano ben 22 paghe arretrate, erano per questo
motivo fuggiti; la partenza avverrà poi sabato 29 dopo che i fuggitivi saranno stati convinti a
tornare con il pagamento di quattro delle suddette paghe.

(Giovedì 4 dicembre): Il doppo pranzo di detto giorno, festa di S. Barbara, la compagnia de’
soldati di detta santa del Castello Nuovo, chiamati bombardieri, andorno conforme il solito in
ordinanza per la Città, facendo diverse salve.

Nel predetto avviso c'è da notare l’epiteto Città, il quale era attribuito alla sola capitale così
come alla sola antica Roma quello di Urbs, mentre tutti gli altri abitati del regno erano chiamati
terre e, se protetti da terrazzi, ossia da cinte terrapienate, terrazzani i loro abitanti; non a caso
infatti gli unici a godere pienamente di tutte le prerogative di cittadino, specie quelle fiscali,
erano gli abitanti di Napoli, il cui numero si valutava allora tra i seicento e i settecentomila,
numero enorme per una città di quei tempi. C'è poi da spiegare che la compagnia dei
bombardieri (‘artiglieri’) di Napoli era unica del regno e doveva pertanto comprendere tutti gli
artiglieri sparsi nei vari castelli e presidi del reame, dipendendo essa direttamente dal generale
dell'artiglieria, allora ancora fra’ Titta Brancaccio; una simile compagnia esisteva in tutti i regni e
gli stati soggetti alla corona di Spagna. Questa carica di generale dell’artiglieria comportava non
solo il comando di tutti gli artiglieri del regno sparsi nei vari presidi, ma anche del treno
d'artiglieria (dalla pronuncia francese di train), il quale sarà già presente nel 1673 e che nel
1674 includerà artiglieri sia ordinari sia straordinari. Dipendeva inoltre da questo generale la
Regia Scuola degli Artiglieri e il 28 febbraio del 1675 il viceré marchese de Astorga avrebbe
dovuto promulgare una prammatica per intimare ai capitani di giustizia della città di Napoli e ai

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loro caporali e birri di smetterla d'incarcerare gli scolari di detta scuola per porto d'armi, perché
ciò era loro concesso per privilegio militare.

1671. Nel gennaio di quest'anno cominciarono ad arrivare in più riprese a Napoli dalle marine di
Puglia, da Bitonto e da Lecce tutte le compagnie di cavalleria ordinaria che in quei luoghi erano
acquartierate, pronte a intervenire contro tentativi di sbarco dei turchi, compresa quella di lance
della guardia del viceré che aveva invece accompagnato il de Aragón ai confini con lo Stato
Ecclesiastico, perché dovevano sottoporsi alla riforma che si era resa necessaria; riforma
poteva significare soppressione di compagnie dai ranghi ormai troppo scarsi con
incorporamento dei soldati residui nelle altre compagnie per rinfoltirne, oppure poteva voler dire
soppressione di terzi o compagnie non più necessarie perché esauritasi la campagna di guerra
per cui tali corpi erano stati costituiti; infine - e molto probabilmente questo era il caso suddetto,
si trattava di diminuire i ranghi di compagnie eccezionalmente aumentati per affrontare possibili
eventi bellici e quindi di riportarli al consueto piede del tempo di pace e ciò perché il numero
delle compagnie di cavalleria ordinaria del regno era istituzionalmente fisso. A proposito di
questo termine piede usato sin dal Rinascimento nel senso di consistenza, forza, numero di
effettivi, esso derivava dallo schierare in campo gli uomini a distanze diverse a seconda se in
pace (più larghi) o se in guerra (più serrati), distanze che si calcolavano appunto in piedi;
evidentemente i sargenti avevano tacche diverse sull’asta della loro alabarda, asta che, per
esempio nella fanteria francese, doveva essere di 6 piedi e mezzo (Exercice etc. del 2 marzo
1703) e con cui misuravano le distanze da tenersi tra uomo e uomo, a indicare la lunghezza del
piede da usarsi in tempo di pace e quella, un po’ più breve, del piede da usarsi in tempo di
guerra, cioè per gli schieramenti più serrati.

(Inizio di febbraio:) Il doppo pranzo di detto giorno fu portata la testa del capo bandito lo
Schiavo, così detto per esser veramente schiavo nero, fatta li giorni passati dalla gente di Corte
nelle campagne di Salerno.

La religione cristiana non consentiva che si riducessero in schiavitù se non gli infedeli e quindi
gli schiavi che si potevano trovare nell'Europa centro-occidentale erano esclusivamente di
religione saracena (oggi detta ‘mussulmana’) o animista, spesso dunque anche africani; questi
schiavi, se non erano adibiti alla voga nelle galere, potevano servire a terra privati cittadini come
domestici e in tal caso dovevano vestire totalmente di bianco in maniera che, se avessero
tentato la fuga, quest'insolito abbigliamento li avrebbe resi subito riconoscibili; viene pertanto da
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pensare che la maschera di Pulcinella, tradizionalmente rappresentata con il viso coperto da
una gran maschera nera e con un abito bianco di taglio alquanto mediorientale, potrebbe
essere appunto nata da uno schiavo africano veramente esistito.
Nel primo pomeriggio del sabato 7 febbraio fu mandata a servire nelle regie galere una catena
di 12 criminali inquisiti per diversi misfatti e condannati appunto al remo dal Tribunale di
Campagna, il quale poi li aveva inviati a Napoli perché fossero eseguite le rispettive sentenze.
La condanna alla galera era all’incirca frequente secondo la necessità di nuovi galeotti che la
squadra di galere del regno poteva avere in un dato periodo; quando tale necessità si
presentava, allora i giudici usavano convertire a quella pena moltissime condanne a morte o a
lunghe pene detentive. Giovedì 19 dello stesso febbraio la compagnia di lance della guardia
lasciò nuovamente Napoli per andare ai confini del regno a ricevere il viceré che tornava da
Roma e che rientrò infatti a Napoli mercoledì 25 con pomposa cavalcata pubblica alla cui testa
erano tutte le compagnie di cavalleria presenti nella capitale. Nei giorni precedenti a questo
rientro si erano notati frattanto nel porto di Napoli diversi vascelli inglesi, i quali ne attendevano
altri per andare poi tutti insieme in corso contro i legni barbareschi che infestavano
ininterrottamente il Mediterraneo e danneggiavano evidentemente anche i traffici marittimi
inglesi con il Levante.
Domenica 8 marzo giunse notizia che nei pressi di Nola c'era stato uno scontro armato tra le
cosiddette genti di corte, ossia la polizia giudiziaria provinciale, più conosciuti come soldati di
campagna, di cui poi diremo, e 20 briganti capeggiati dal capo-brigante conosciuto come
Abbate Cesare (al secolo Cesare Riccardo o Riccardi), un chierico figlio di un notaro di Cimitile
(sincope tachigrafica di Cimiteriale), il quale si era dato al brigantaggio nel 1669 con il fratello
maggiore Felice per aver ucciso, per motivi d’onore, Alessandro Mastrillo duca di S. Paolo; delle
sue imprese molto ancora si sentirà a Napoli parlare.
In questi giorni, d'ordine reale, si spalmavano, cioè si carenavano, tutte le galere della squadra
del regno e si provvedevano di tutte le cose necessarie, affinché fossero poi pronte a intervenire
dovunque l'armata turco-barbaresca avesse portato la sua minaccia in quei mari meridionali,
come anche si doveva fare in Sicilia alle galere di quella squadra, di cui era allora capitano
generale Francisco Diego Bazan Y Benavides marchese di Bayona, essendolo costui stato dal
15 agosto 1670 sino al 9 aprile 1674, quando passò a comandare la squadra di galere di
Spagna. Lunedì 9 marzo giunsero in porto a Napoli tre grossi vascelli dell'armata reale spagnola
dell’ammiraglio Papacino, tra cui la Almiranta e la Capitana di detta armata, i quali erano venuti
principalmente per trasferirsi poi Baia a darsi carena, ossia per il carenamento, e a bordo di cui

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c'erano, oltre ad alquanti soldati spagnoli, anche qualche centinaio di soldati sardi imbarcati
appunto in quell’isola; come spesso allora facevano i vascelli militari, portavano anche delle
mercanzie e in questo caso si trattava di prodotti della Sardegna.
Dare carena a un vascello e spalmarlo significava riparare il calafataggio della parte immersa
dello scafo con stoppa incatramata e bitume poi ripristinare lo strato di sego protettivo; allora
infatti si usava spalmarla appunto di sego caldo, il quale, una volta rappresosi all'aria, ma
soprattutto avrebbe reso; in più avrebbe offerto anche un po’ di protezione contro l'aggressione
della teredine e l'attecchire delle alghe.
Prima di varare un vascello ben calafatato con stoppa incatramata e pegola o di rimetterne
in mare uno dal calafataggio ripristinato, non si usava, come oggi, ricoprirne la parte immersa
del vivo ('opera viva’) con pitture antivegetative, ma si procedeva alla sua spalmatura, operazione
in uso da tempo immemorabile e che consisteva appunto nel distendere e poi ben lisciare uno
strato di sego (fr. anche oint; ol. smeer, roet, reussel) a caldo su tutta la parte dello scafo
destinata ad immergersi, timone incluso, cioè dalla carena o primo sino alla metà d’un altro legno
detto contovale di mezzana sito alla linea di galleggiamento; il risultato era che il vascello, una
volta asciugatosi e induritosi – ma non troppo - il sego, divenuta in tal modo la sua cala (‘carena’)
levigata e scivolosa, avanzava poi nel mare più facilmente e a una velocità maggiore, perché
opponeva così minor resistenza all'acqua marina, la quale scorreva più dolcemente lungo i suoi
fianchi e sotto il suo fondo; gli inglesi, per aumentare quest’effetto mescolavano il sego con
sapone, ma probabilmente in tal maniera lo strato di spalmatura durava di meno. Era comune
opinione degli uomini di mare che un vascello ben spalmato di recente guadagnasse il dieci per
cento di velocità in più d'un altro che non lo fosse e si diceva che le galeotte dei corsari
barbareschi fossero velocissime proprio perché erano spalmate di continuo; d’altro canto il sego
non poteva preservare né abbastanza né a lungo il legno immerso dall'inevitabile attaccarsi delle
brume.
La spalmatura di sego liquefatto s’usava però per i soli viaggi di breve corso quali erano per
esempio quelli mediterranei; in quelli di lungo corso diretti verso ovest (oceanici) e verso sud
(tropicali), specie se da farsi nei caldi mari equatoriali, s’adoperavano altri metodi per contrastare
l'opera distruttiva della teredine marina ed il primo era quello di sostituire il semplice sego con
una mistura antivegetativa composta di sego, olio di balena, zolfo, resina o pegola e vetro pesto,
detta in fr. cou(r)roi, couroy, courée o courret (ol. pap), mistura che permetteva d’estendere la
durata del carenamento a caldo che si faceva ai vascelli oceanici anche a tre anni, il che
significava ovviamente un bel risparmio. Questo preparato seicentesco non era in effetti altro che

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un derivato di una più vecchia mistura che i lusitani avevano imparato a usare nel Rinascimento
per rinforzare e proteggere le superfici esterne ed emerse dei loro vascelli diretti alle Indie
Orientali, cioè di quelli che facevano i viaggi più deterioranti; ricoprivano infatti le opere esterne
dello scafo con un preparato di consistenza bituminosa, detta gala gala o gale gale o galegala,
appresa, come si diceva, dai cinesi, i quali l’usavano appunto per preservare il fasciame dei loro
vascelli dagl’insulti atmosferici e marini. Tale mistura, applicata in uno strato spesso un’oncia sia
sul vivo che sul morto del vascello, faceva sul legname fortissima presa e ne rendeva la
superficie talmente dura e resistente da ricevere spesso poco danno anche dai colpi dei deboli
cannoni petrieri dell’artiglieria navale rinascimentale; per ottenerla si pestavano in mortai con
grossi pestoni del gesso, acqua calda, olio di pesce, chiare d'uova o altra colla equivalente, ma
scelta tra le più economiche, infine zucchero di palma, quest'ultimo abbondantissimo a Lisbona;
nel pestare si aggiungeva continuamente stoppa di canape trita o tagliata minuta finché il tutto
fosse ben incorporato.
Naturalmente, col progressivo aumento di potenza dell’artiglieria navale in atto già dalla
metà del Cinquecento, la gloriosa gala gala non sarà più in grado di respingere nessun colpo di
cannone; questa funzione sarà comunque ora talvolta assunta dall’adozione del contrabbordo o
raddoppio del fasciame esterno del vascello da guerra, cioè di quello che i francesi chiamavano
soufflage o doublage, il che significava in sostanza aggiungere un secondo strato di tavole sul
primo del vivo, specie su quello della zona oggi detta ‘bagnasciuga’, mantenendo però tra i due
una sottile intercapedine piena di misture antivegetative, per uno spessore aggiuntivo
complessivo che poteva andare dai tre agli otto pollici, ma il cui scopo principale non era
comunque né quello di proteggere il primo fasciame dalla teredine né tanto meno di difenderlo
da qualche colpo d’artiglieria, bensì di dare stabilità ad un vascello che rollasse e si tormentasse
troppo sotto la velatura, cioè, un vascello geloso, come ancora si diceva, uno che non si riusciva
a metter bene in stiva perché difettoso di costruzione nello scafo o nell’alberatura e si poteva
riconoscere facilmente anche quando stava alla fonda, in quanto appunto molto probabilmente
sarebbe stato in giolito (fr. en jolly, en travail, en tourment, in cargue, à la bande), cioè, pur
stando all'ancora, si sarebbe pressoché coricato ora da un fianco ed ora dall'altro per effetto
delle traversie portuali.
Il contrabbordo [ol. (ver)dubbeling, voering] fu introdotto dagli olandesi, i quali cominciarono
a raddoppiare il fasciame inchiodandovi sopra uno strato d’assi di quercia o d'abete bianco o
rosso, strato spesso un pollice e mezzo, e ponendo tra questo fasciame aggiuntivo e quello
presistente misture di materie anti-bruma, specie la predetta courée, la quale, contenendo spesso

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in questo caso tra i suoi principali elementi anche pelo di bovino (fr. ploc), prendeva per
sineddoche anche appunto il nome di ploc e di conseguenza la sua applicazione quello di
plo(c)quer; ma poteva a volte detta courée contenere anche del rame, metallo del
quale evidentemente si conosceva la velenosità, mentre alcuni, ritenendola anch’essa sgradita
alla teredine, invece di tale mistura usavano solo della semplice carta grigia, ossia della grossa
carta grezza; anche la chiglia talvolta si raddoppiava spalmandola prima del suddetto ploc e
poi applicandovi sopra un asse di quercia o faggio detto in francese fausse-quille.
Prima del 1690 poi, sempre gli olandesi, costatato che i risultati che si ottenevano con questo
contrabbordo, il quale certo pure serviva ad isolare l’interno dall’eccessivo calore del sole, non
ripagavano però del notevole rallentamento procurato al corso ed alla manovrabilità dei vascelli
così appesantiti, presero a rivestire il fasciame del vivo di sottili strati di ferro e soprattutto di
piombo, metodo questo già usato dai romani nell'antichità, come provò il ritrovamento di quelle
famose navi di Traiano nel lago di Nemi poi barbaramente incendiate dai soldati tedeschi durante
la Seconda Guerra Mondiale; e queste lamine, dapprima semplicemente gettate ed in seguito - con
nuova e più utile invenzione - laminate, s’inchiodavano così strettamente da non lasciare alcun
spazio tra una testa di chiodo e l'altra; ma pure con questo secondo metodo non ottennero risultati
utili, probabilmente anche questa volta a causa dal peso eccessivo che così gravava sul
vascello. Spagnoli e portoghesi frattanto, ispirandosi anche loro all'efficacia della vecchia
gala-gala, provavano a rivestire il vivo di più strati di miscugli a base di calce, sostanza che,
se si era dimostrata efficace contro la teredine, aveva però il difetto di bruciare il fasciame; i
portoghesi provarono anche a carbonizzare con il fuoco l'esterno del fasciame, in modo da opporre
alla teredine uno strato di carbone spesso un dito, ma questo metodo, oltre che dimostrarsi
d'effetto incerto, risultò anche molto pericoloso perché praticandolo si rischiava di mandare a
fuoco l'intero vascello.
Nel Settecento si cominciò poi a rivestire il fasciame di sottili lamine di rame inchiodate con
chiodi dello stesso metallo; queste lamine si posero dapprima combacianti e poi, dalla metà del
secolo, ad orlo sovrapposto e quest'ultimo metodo si dimostrò infinitamente superiore a tutti
gli altri precedenti, non solo perché in grado di preservare completamente il fasciame dalla teredine,
ma anche perché in tal maniera a questo nemmeno potevano aderire alghe e oloturie e ciò sia per
la politezza del rame sia per la velenosità del verderame che si andava formando; inoltre
quest'ultimo tipo di contrabbordo era quello che appesantiva e quindi ritardava di meno il
vascello, garantendogli così maggiore governabilità; infine, quando si voleva togliere questo rame
per carenare il vascello, se ne perdeva ben poco. L'efficacia del rame nella lotta alle formazioni

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zoo-vegetali sul fasciame immerso dei vascelli fu poi universalmente riconosciuta, tanto che,
quando nell’Ottocento si cominciò a fare le navi non più di legno, ma di ferro, superandosi
così il problema più grave, ossia quello della teredine, non essendo possibile, specie per motivi
di corrosione elettrolitica, inchiodarvi sopra le sottili lamine di rame, s’ideò il sistema che tutt'oggi
si adopera e cioè pitture 'antivegetative' a base di composti del rame, da applicarsi però su altre
isolanti dette 'anticorrosive'.
La sera dello stesso lunedì 9 marzo si dette sepoltura, nella chiesa di S. Domenico, al genovese
Gioannettino d’Oria, il quale era stato un tempo generale delle galere di Napoli ed era morto il
giorno precedente dopo lunga malattia.
In questi giorni il viceré aveva inviato tre compagnie di cavalli comandati dal tenente generale
della cavalleria ordinaria del regno fra’ Virgilio Vaglio nelle terre dei feudatari di Conversano e di
Nola per ristabilire l'ordine pubblico che costoro avevano infranto brandendo le armi l'un contro
l'altro; si diceva che sarebbero poi state inviate colà altre compagnie, mentre i due contendenti
erano stati convocati a Napoli dal viceré a render ragione del loro grave comportamento. Fu in
seguito notizia che le predette tre compagnie, evidentemente ricompostasi quella lite, erano
state divertite verso le marine di Puglia perché si temevano tentativi di sbarco dei turchi; le
medesime furono poi acquartierate a Bari, Lecce e Lucera. Si seppe anche che presso Cimitile
c'era stato un lungo scontro a fuoco tra la gente di corte e i briganti del già nominato Abbate
Cesare; in effetti in questo periodo si vedevano arrivare a Napoli parecchie teste di briganti
uccisi dalle squadre di campagna e nello stesso predetto lunedì 9 marzo vi fu condotta anche
quella del capo-brigante d'Amore, ucciso nelle campagne d'Abruzzo. Tra il 20 e il 27 marzo
furono inviate altre soldatesche in Puglia, provincia ora più che mai minacciata dalle incursioni
ottomane, e si trattò di due compagnie di fanteria e di cinque di cavalleria, tra le quali ultime era
quella detta dei croati, ossia composta di soldati reclutati negli insediamenti croato-macedono-
albanesi del regno. Partì per la Puglia anche il generale dell'artiglieria fra’ Gioan Battista
Brancaccio, ma tutti i preparativi di difesa di quella provincia dipendevano dal generale Luise
Poderico, nominato infatti comandante in capo di tutti i presidi costieri pugliesi.
Giovedì 9 aprile, ben provviste d'ogni cosa a Napoli, ne lasciarono il porto per la loro isola
le tre galere di Sardegna, tra le quali spiccava la nuova galera Capitana di quella piccola squadra,
la quale era stata appena varata nell'arsenale partenopeo; era questo un cantiere di
grand'esperienza nella costruzione di questo tipo di vascelli sottili, le galere appunto, e di barche,
ossia di piccole e medie imbarcazioni a vela latina, mentre raramente vi si erano costruite nella
sua storia galeazze o galere grosse di tipo veneziano e appena sufficiente vi era stata la pratica

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fatta nella costruzione di quei grandi vascelli che una volta si erano chiamati tondi, legni dallo scafo
largo e rotondeggiante e dalla prevalente velatura quadra, i quali si erano suddivisi nel
passato principalmente in navi, galeoni e bertoni e ora invece generalmente in navi e vascelli da
guerra. Verso la metà del Seicento il galeone era infatti già divenuto un tipo di vascello obsoleto,
usandone in seguito ancora solo i turchi col nome di sultane, unici vascelli tondi che si potevano
vedere a Costantinopoli, notandosene in quel porto 5 o 6 nel 1631 (de St. Catherine), vascelli molto
grandi, usati pure dagli algerini, ma mal costruiti, per nulla adatti a combattere e usati solo per
trasportare legname da costruzione da colà in Egitto e per ritornarne con mercanzie di ogni tipo; nel
1694, alla duplice battaglia navale che avverrà nelle acque di Scio, i veneziani conteranno ben venti
sultane nell’armata nemica. Gli ottomani saranno anche gli ultimi a dismettere le loro galeazze
chiamate maone; ma il nome di galeone resterà, usato però solo dagli spagnoli e in maniera
generica, a indicare cioè tutti i grandi mercantili da tre o quattro ponti che s’inviavano
nelle Indie Occidentali; anzi gli spagnoli, appunto perché ormai persasi la tipologia distintiva dei veri
galeoni, giungeranno presto a chiamare così tutti quei vascelli – grandi o piccoli, mercantili o da
guerra che fossero – che ogni anno s’inviavano a Cartagena e Portobello, ossia nei porti di
quello che allora era il grande Perù, vascelli che, se impiegati in viaggi diversi da quello,
perdevano però questo improprio nome; allo stesso modo essi chiameranno galeonistas i
mercanti che commerciavano con le Indie Orientali e inoltre riservavano il nome di flota o flotilla
solo al convoglio navale che invece inviavano più a nord, a Nueva Vera Cruz, porto della Nuova
Spagna.
Si profittò di questa spedizione per inviare rinforzi di fanteria in quell'isola e cioè 250 soldati
italiani, cioè napoletani, di nuova leva, tra cui ben 100 condannati dalla Vicaria criminale. In
questo periodo continuava frattanto l'offensiva dei briganti in varie province del regno e fu
notizia che una banda di quelli aveva saccheggiato Rocchetta in Abruzzo; altri avevano predato
barche siciliane e calabresi nelle marine di Camerota al Cilento. Giunse poi dalla Fiandra Juan
de Toledo, fratello del conte d’Oropeso, il quale era venuto a esercitare la sua nuova carica di
mastro di campo del terzo fisso degli spagnoli che presidiava il Regno di Napoli fin dai tempi
della conquista spagnola; probabilmente si trattava di un capitano di cavalleria, perché era da
tale grado che di solito si tornava alla fanteria con la promozione a mastro di campo. Sabato 25
aprile furono condannati a servire al remo delle regie galere napoletane 12 soldati spagnoli che
avevano disertato ed erano poi stati ripresi; altri che avevano capeggiato questa defezione si
trovavano ancora in prigione nell’attesa di ricevere peggior castigo. Il diarista che riporta questa
diserzione in massa non ce ne spiega la causa, ma in genere i soldati spagnoli, sempre

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disciplinati, ubbidienti, pazienti e tolleranti d'ogni sacrificio, qualità quest'ultima che soprattutto
ne faceva la miglior fanteria del mondo, arrivavano a questa estrema forma di ribellione
collettiva solo se portati alla disperazione dall'intollerabile miseria in cui cadevano quando per
molti mesi si ritardava il pagamento del loro soldo; il che talvolta accadeva. Alla fine d'aprile
giunse una confortante notizia dall'eterno fronte aperto contro il brigantaggio; la squadra dei
soldati dell’Udienza (‘tribunale’) Provinciale di Montefuscoli, dopo aver sostenuto un lungo e
duro scontro con i briganti, era riuscita a carcerare i due compagni più confidenti dell'Abbate
Cesare e di un terzo aveva guadagnato la testa, la quale, insieme con i suddetti due carcerati,
sarebbe presto stata portata a Napoli.
Un episodio di severa repressione della pederastia è riportato in un’anonima cronaca
Napoletana:

(Aprile 1671:) …Trovandosi un certo schiavo della galera di S. Teresa avere forzosamente
commesso vizio nefando con un figliuolo di 12 anni dentro uno schifo dietro la torre di S.
Vincenzo e trovato in flagrante dalla guardia de’ spagnoli che vigilava nella garitta ivi vicina, fu
carcerato. (Il) quale, dopo aver confessato il tutto ai giudici competenti, fu condannato a
morte, ma l’Avvocato de’ Poveri di dette galere andò così dal duca di Ferrandina generale come
dal signor Viceré rappresentandogli che non poteva aver luogo la condanna di morte, stante
che la confessione di detto schiavo non conteneva avere emesso il seme intra vaso…

Nel frattempo il predetto reo, poiché maomettano, si era fatto cristiano per cercare d’evitare
così la pena capitale, ma malgrado questo espediente e malgrado il parere contrario dell’Avvocato
dei Poveri (ossia d’ufficio) delle Regie Galere, il quale, ricoprendo a quanto pare anche la ben
più importante carica d’auditore delle stesse galere, non voleva evidentemente che la squadra
perdesse un buon vogatore, la massima condanna non fu purtroppo evitata:

… per il che ad un’ora di notte della medesima giornata di martedì fu eseguita la giustizia sopra un
palco nel largo della Tarcia, dove, doppo esser stato strangolato (‘garrotato’) detto schiavo, fu
abbruciato come sodomita.

Nel primo pomeriggio di domenica 3 maggio alcuni guidati o guidatici, ossia ex-briganti che
erano stati accordati (‘indultati’) a condizione che si arruolassero nella sbirraria (‘sbirraglia’) o
nelle squadre di campagna, i quali insieme con alcuni birri ordinari transitavano nei quartieri
spagnoli della città con l'incarico di portare certi soldati spagnoli disertori nelle carceri di S.
Giacomo, carceri appunto riservate ai militari iberici, sebbene si fossero forse scelti quel giorno
e quell’ora per dar meno nell’occhio, furono affrontati da altri soldati spagnoli che volevano
liberare i loro commilitoni arrestati e, non ostante la resistenza opposta, guidati e birri furono
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costretti ad abbandonare i loro prigionieri dopo che ben tre di loro erano stati uccisi dagli
assalitori. Questi guidati, sebbene spesso molto più efficaci dei normali birri nelle loro operazioni
di polizia, contribuivano naturalmente non poco, con il loro stile da briganti, a quel discredito
delle forze dell'ordine durato secoli soprattutto nel meridione.
Furono in seguito inviati ancora altri rinforzi ai presidi costieri pugliesi, sempre per tema
di uno sbarco turco, e si trattava stavolta di due compagnie di fanteria spagnola, una destinata a
Viesti e l'altra a Monte S. Angelo, località quest'ultima ben nota per esser considerati i suoi alberi
tra i migliori d'Europa per ricavarne legname da costruzioni navali. Era infatti venuto avviso che
da Gallipoli erano state avvistate diverse caravelle turchesche, chiamando così infatti i cristiani,
da sempre e impropriamente, i caramusali turco-barbareschi, vascelli a prevalente vela quadra,
dalle stesse preziose funzioni che erano state una volta delle caravelle rinascimentali e che, anche
se, come quelle, poco adatte alle grandi battaglie di linea, erano però ora nel Seicento molto usati
per la guerra di corso dai turco-barbareschi, specie dagli algerini, anzi addirittura costruiti
appositamente in sostituzione dei vascelli remieri del secolo precedente con un conseguente
accresciuto danno per i cristiani; questi vascelli portavano sotto l'unica coperta da mille a 1.500
salme di carico; inoltre, quando erano armati a guerra, presentavano 18 o più bocche da fuoco e
erano montati da cinquanta a sessanta uomini. Per contrastare dunque più efficacemente le
incursioni di quei corsari, de Aragón inviò subito gli ordini necessari al governatore regio di quella
città circa la guardia dei litorali vicini e il munizionamento della locale fortezza.
Sabato 16 maggio il viceré si recò a visitare le carceri della Vicaria criminale e, con il pretesto di
salvar loro la vita, a un buon numero di carcerati commutò la pena di morte parte in servizio di
guerra in paesi lontani, parte in servizio di presidio chiuso, ossia in lavori forzati in presidi militari
lontani da Napoli, e parte in servizio di galera a tempo, cioè non a vita. Inoltre la mattina del
lunedì 1° giugno maggio arrivò a Napoli una catena di 38 delinquenti condannati al remo per
diversi misfatti ed erano inviati dalla regia udienza di Montefuscoli; costoro furono
immediatamente messi a servire sulle galere napoletane.
Era in questo periodo mastro di campo del terzo napoletano dell'armata reale oceanica della
Spagna, cioè dell'unità di fanteria partenopea che da tempo quasi immemorabile faceva da
fanteria di marina a bordo di quei grossi vascelli a vela quadra che avevano la funzione di
proteggere gli interessi della Spagna tra le due lontane rive dell'Oceano Atlantico, il marchese di
S. Crispino di casa Simonetti de Leon, casata originaria di Taranto.
Il Giannone scriveva che nel giugno di quest'anno i turchi effettivamente approdarono nella
provincia di Bari e rapirono 150 contadini facendoli loro schiavi, ma forse egli si confonde con

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un avvenimento successivo di cui poi diremo. Nello stesso giugno furono poi arruolati facchini
regnicoli su tre navi sarde che si trovavano in secco a Baia da circa tre mesi per i lavori di
carenamento, cioè di spalmatura, come abbiamo detto che allora si usava dire; gli operai
specializzati in questo lavoro, oggi chiamati carenanti o picchettini, si dicevano invece allora
appunto spalmatori e in caso di grossi lavori affluivano da tutte le marine del regno
generalmente a Baia, cantiere di carenamento per eccellenza. Avvistatesi altre vele turchesche
al largo d’Otranto, giovedì 11 giugno altre due compagnie di fanteria spagnola furono spedite a
quella volta, mentre alcuni giorni prima già vi erano state inviate le compagnie di cavalli dei
capitani Tomaso Guindazzo e Mattia Galiano, la prima per Lecce e la seconda per le marine
pugliesi; ma quella del Guindazzo fu poi trasferita a Corigliano, luogo soggetto a frequenti
scorrerie turco-barbaresche, per ordine del preside (‘prefetto’) di quella provincia Marc'Antonio
di Gennaro, personaggio quest'ultimo che presto ritroveremo in sfortunate circostanze.
Avvisiamo ora il lettore che, anche se stavolta abbiamo riportato i nomi di due semplici capitani
di compagnia, in seguito lo rifaremo solo in occasioni particolari e ciò per non appesantire
ulteriormente la pletora di nomi di mastri di campo, di ufficiali maggiori e generali che si riscontra
necessariamente in questa nostra esposizione.
In questi giorni fecero ritorno a Napoli due galere della squadra del regno, le quali, nel passare
presso l'isola di Ponza, avevano predato un’imbarcazione corsara con 18 turchi e un cristiano
rinnegato; tornò poi pure a Napoli una feluca partenopea che aveva portato a Malta Cesare
Pignatelli, esponente di una delle principali famiglie napoletane, e ciò fu in luglio e portò la
notizia che, in un sanguinoso scontro tra sei galere maltesi e tre grossi vascelli algerini avvenuto
nel luogo detto le saline di Candia, era morto tra gli altri il cavaliere gerosolimitano napoletano
fra’ Olimpio Antinori e vi era rimasto ferito il fratello del marchese di Cardito di casa Girondi,
anch'egli napoletano. Arrivarono anche nel porto della capitale sette grossi vascelli spagnoli da
guerra, venuti per andare in corso nel Mediterraneo meridionale e impedire così ai turchi ogni
sbarco che volessero tentare sulle marine cristiane; trovandosi però tali vascelli scarsi di gente,
si andavano assoldando nel Napoletano in fretta e furia uomini per guarnirli, cioè per
equipaggiarli. In precedenza erano stati indultati per servire in guerra 12 compagni dell'Abbate
Cesare Riccardo, il noto capo-brigante già menzionato e che ancora più volte menzioneremo,
ed erano stati trattenuti (‘rinchiusi’) negli alloggiamenti dell'arsenale di Napoli nell’attesa del
prossimo imbarco di gente; nulla di più facile quindi che siano stati poi imbarcati sui predetti
vascelli spagnoli, i quali ripartirono comunque abbastanza presto mentre restavano ancora in
sosta i tre che erano arrivati il 9 marzo per far carenamento.

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La mattina del sabato 27 giugno fu data la mostra, cioè si passò in rivista, tutta la fanteria
spagnola acquartierata a Napoli e in seguito, martedì 7 luglio, il viceré marchese di Villafranca
inviò al mastro di campo del terzo fisso spagnolo un gran regalo, vale a dire un bellissimo tiro a
sei; insomma fu come gli avesse oggi donato un’automobile Ferrari; nel frattempo mercoledì 1°
luglio si era fatta la rivista e data la paga alle soldatesche e marinaresca imbarcate sui tre
vascelli spagnoli ancora a Napoli, i quali, nella notte dl successivo giovedì, salparono per
tornarsene a Cadice. Sabato 4 luglio si venne a sapere che nei giorni precedenti corsari turchi
avevano predato tre barche cariche di grano e olio nei mari di Puglia; facendosi poi il timore di
sbarchi turchi sulle coste orientali del regno, non ostanti i provvedimenti presi, sempre più
fondato, si ordinò di marciare su Lecce e Otranto alle milizie del Battaglione e della Sacchetta
delle province di Capitanata, Contado di Molise, Terra di Bari, Lecce e delle due Calabrie;
arrivati a quelle destinazioni, i capitani di quelle compagnie vi avrebbero trovato ulteriori ordini e
si ordinò pure a tutti i presidi, oggi diremmo ‘prefetti’, di quelle province e ai governatori delle
fortezze di quelle marine di rifornire le predette milizie d’ogni sorta di munizioni da guerra e da
bocca (viveri) per un completo presidio e per un lungo tempo e d’opporre la più decisa
resistenza a ogni sbarco che i turchi volessero tentare su quelle coste.
Verso la fine della prima decade del mese di luglio tre galere papaline fecero sosta nel Golfo di
Napoli, due a Pozzuoli con il loro comandante di squadra, il commendator (grado
gerosolimitano) fra’ Bolognetti, e una invece venne a ormeggiarsi proprio a Napoli; domenica 12
ne arrivò una quarta, la S. Catarina, comandata dal cavalier Malaspina, il quale manifestò subito
la sua insoddisfazione per esser stato accolto dai forti di Napoli con lo sparo di un solo colpo di
cannone; quanto fossero allora considerate importanti le formalità di saluto marittimo e come
facilmente potessero diventar causa di controversie diplomatiche e qualche volta addirittura di
fatti bellici è cosa nota. La sera del lunedì 13 luglio Federico de Toledo marchese di Villafranca
e duca di Ferrandina, generale delle galere del regno, Beltrán de Guevara conte del Vasto e
altri titolati partirono con la galera Capitana e tre altre della squadra di Napoli per la corte di
Madrid, da cui il duca era stato convocato. Fu poi notizia che le galere di Malta, uscite in corso
verso la Calabria, avevano incontrato dieci caravelle turchesche e, essendo di forze inferiori a
quelle del nemico, si erano ritirate sotto la protezione dei cannoni della Roccella, dove allora si
trattenevano nell’attesa di poter o combattere o proseguire il loro viaggio. In quel tempo si
spalmavano le galere del regno per mandarle così in traccia delle caravelle dei corsari turchi
che avevano nei giorni precedenti predate due tartane regnicole.

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Sabato 8 agosto arrivò a Napoli una catena di 20 delinquenti condannati al remo dal Tribunale
di Campagna e furono subito mandati a servire sulle galere della squadra; furono invece
indultati per servire in guerra e rinchiusi pertanto nell'arsenale due capi-briganti, corrispondenti
dell'Abbate Cesare, insieme coni loro compagni ed erano chiamati per soprannome uno
Scatantrone e l'altro Cornacchia; alla fine dello stesso mese d’agosto furono poi condotti a
Napoli due briganti vivi e la testa del loro capo, i quali erano stati presi dal caporale di
campagna Michele di Crescenzo e dai suoi soldati nelle campagne di Marzano.
Venerdì 21 agosto si cominciò a far leva di reclute per servizio dei suddetti tre vascelli spagnoli,
a cui si era già fornita una gran quantità di polvere pirica e di miccio; il mese successivo, fornitisi
anche i necessari viveri, vi vennero infatti imbarcati 400 nuovi soldati, i quali nel frattempo,
perché non fuggissero, erano stati come il solito tenuti rinchiusi negli alloggiamenti reclusori
dell’arsenale, e nella notte del sabato 12 settembre questi vascelli, a cui nel frattempo se neera
aggiunto un quarto, salperanno per Cadice dove si sarebbero uniti al resto dell'armata di
Spagna in partenza per le Indie Occidentali. I napoletani erano infatti, come si sa, spesso portati
dalla Spagna a presidiare e a combattere anche nel Nuovo Mondo.
La mattina del giovedì 27 agosto morì Enrico Pons de León, cavaliere di S. Giacomo, tenente
della compagnia di lance della guardia e cameriero maggiore del viceré. Mercoledì 2 settembre
fu data di nuovo la mostra alla fanteria spagnola e lunedì 7 settembre fu, come ogni anno,
festeggiata con cappella reale nella Real Chiesa del Carmine Maggiore e salva d’artiglieria
altrettanto reale sparata da tutti i castelli e dalle galere, fu commemorata la tanto importante
vittoria riportata a Nördlingen nel 1634 dagli imperiali cattolici comandati da Ferdinando
d’Austria (1609-1641), figlio cadetto di Filippo III e detto il Cardinale Infante, sugli svedesi
comandati da Bernardo di Sassonia-Weimar, subentrato al defunto re Gustavo-Adolfo nel
comando dell’esercito svedese, il quale in quella battaglia, in cui tanto si distinsero i terzi
napoletani, finì pressoché distrutto; nel pomeriggio del giorno seguente, festa della Natività della
Madonna, il viceré si recò, com’era tradizione, alla funzione che si teneva nella chiesa dei padri
Canonici Lateranensi detta della Madonna di Pie’ di Grotta, sita alla fine del borgo di Chiaia, con
un pomposo corteggio che passava lungo una bella parata militare di fanteria spagnola e di
cavalleria schierate lungo la riva e, dall’altro lato, presso una lunga ala di popolo festante; il
viceré passava con le sue più belle e ricche carrozze, seguito dalla sua compagnia di lance
della guardia e da un lungo corteggio di carrozze nobiliari; le soldatesche sparavano due salve
di saluto sia all’andata di tale corteo sia al suo ritorno e la festa terminava a tarda sera con una
salva reale delle artiglierie dei castelli. È di questo 1671 un documento manoscritto che si

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conserva nel fascicolo 404 del fondo Scrivania di Razione dell’Archivio Militare di Napoli e che
registra i pagamenti delle competenze spettanti al predetto viceré de Aragón:

All’ecc.mo don Pietr’Antonio d’Aragona, duca di Segarbe e di Cardona, viceré, luocotenente e


capitan generale per Sua Maestà in questo regno per suo soldo a raggione di ρ (scudi) 24.000
castigliani per anno a’ raggione di reali 11 per docato e a’ grana 11¼ per ogni reale, moneta di
questo regno (ossia ducati di Napoli 2.475 il mese).
Alla detta Eccellenza per il suo aggiusto di costa (‘sopraspesa’) a’ raggione di ρ (scudi) 6.000
castigliani l’anno valutati ut supra (sono ducati di Napoli 618, reali 3 e grana 15 il mese).
Alla detta Eccellenza per suo soldo come capitano di una compagnia d’huomini d’arme del
Regno a’ raggione di ρ (ducati) 1.180 l’anno (cioè 98.1.13 il mese).
Alla detta Eccellenza per li ρ (scudi) 3.600 de 11 reali di platta (‘argento’) castigliani l’anno che
ordinò Sua maestà, pagandoseli in questo regno durante il suo governo per li ρ (scudi) 4.000 di
moneta di Valencia che li cessorno in quel Regno, valutati detti ρ 3.600 a’ reali 11 per docato e
a’ grana 11¼ per reale moneta di questo Regno…
Gasti secreti: A D. Diego Ortiz de Ocampo, Secretario di Sua Maestà e di Stato e Guerra di Sua
Eccellenza per tanti che, d’ordine di detta Eccellenza, ha speso in cose secrete del Real
Servizio, de’ quali non ha da dare conto in nessun tempo (sono ducati 56.992.4.13 in soli cinque
mesi!)

Abbiamo aggiunto i suddetti gasti secreti (‘spese segrete’) perché in realtà si trattava di denaro
della cassa militare a cui attingeva senza dover renderne conto a nessuno, in teoria per spese
di stato, il che in effetti ingigantiva i suoi emolumenti personali ufficiali e gli permetteva anche di
essere munifico con quelle persone che gli servivano; insomma, se si pensa che 12 mesi di
soldo di tutta la sua guardia alemanna, cioè dei 72 alabardieri svizzeri, ammontavano a ducati
3.956 reali 2 e grana 10, è chiaro che un viceré guadagnava un sacco di soldi e in quei pochi
anni di vice-regnato a Napoli poteva accumulare una bella fortuna!
Ancora 24mila + 6.000 scudi castigliani e 1.180 ducati napoletani prenderà nel 1682 anche il
viceré marchese di Los Vélez, mentre, per gasti secreti fatti per suo conto dal suo Segretario di
Stato e Guerra nel primo semestre di detto anno, gli saranno rimborsati ducati 47.303. 3. 0
(A.S.N. Tes. Ant. Fs. 352).
A ottobre Antonio de Silva lasciò la carica di commissario di campagna, ossia di primo
magistrato del Tribunale di Campagna, per riprendere, ma pro interim, quella d’auditore
generale dell'esercito e, nello stesso mese, arrivarono e ripartirono due vascelli da guerra
inglesi dopo essersi riforniti di vettovaglie e altro. 40 delinquenti trasmessi in catena a Napoli dal
Tribunale di Campagna, perché condannati al remo, furono venerdì 30 ottobre inviate a servire
sulle regie galere napoletane e nella stessa giornata fecero ritorno nel porto della capitale le
galere di Napoli che avevano condotto in Spagna Federico de Toledo marchese di Villafranca e
duca di Ferrandina; queste galere erano guidate da Beltrán de Guevara conte del Vasto, il
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quale era stato nel frattempo nominato governatore generale della squadra di Napoli perché
vacante ne era al momento il posto di capitano generale; giungerà però all’inizio dell’anno
seguente dalla corte di Madrid una notizia chiarificatrice e cioè che il detto duca di Ferrandina
era stato fatto sì nuovo viceré del Messico, però con la ritenzione del generalato delle galere di
Napoli, e per tanto al marchese di Pescara sarebbe stato presto conferito pro interim il
governatorato delle medesime.
Che il numero dei forzati di galera disponibili fosse eccezionalmente ora eccedente le necessità
è dimostrato dalla ben rara circostanza che lunedì 9 novembre il viceré ordinò che si liberassero
50 remiganti che avevano finito – chissà da quanto tempo – di scontare la loro pena e altri 50
fece svincolare lunedì seguente; si usava che questi poveri disgraziati fossero portati in
processione religiosa nella chiesa di S. Paolo dei padri teatini e là dentro, dopo che avessero
reso grazie al Signore e a S. Gaetano, protettore dei forzati, fossero finalmente liberati dalle
catene e lasciati liberi di tornare alle loro case e paesi.
A novembre s’intese che il caporale di campagna Michele Merolla, il quale era di stanza con la
sua squadra alla Costa, aveva sostenuto con i suoi uno scontro a fuoco con naturali di
Piedimonte per certe non meglio specificate questioni che con quelli erano sorte e vi erano stati
dei morti. In questo stesso novembre Francesco Navarretta (‘Francisco Navarrete’), auditore del
terzo spagnolo, prese possesso anche del carico (incarico) di giudice civile di Vicaria ora
conferitagli; frattanto il viceré aveva richiamato a Napoli tutte le milizie che aveva inviato alle
marine del regno perché era giunto ormai l'inverno, stagione che non permetteva più ai turchi
d’organizzare sbarchi importanti.
All'inizio di dicembre il nuovo commissario di campagna Francesco Moles sostituì tutti gli ufficiali
e caporali delle sue compagnie che erano stati nominati dai suoi antecessori; evidentemente si
sentiva la necessità di una buona scattivazione di quelle forze dell'ordine; il viceré invece conferì
il governo della città di Taranto al sargente maggiore Simonetto Russo in sostituzione di
Pompeo Cabanilla, il quale passava a quello di Monopoli.
Venerdì 4, festa di S. Barbara protettrice di tutti castelli di Napoli, si riunirono come ogni anno i
bombardieri di quelli e nel primo pomeriggio andarono in tradizionale ordinanza militare per la
città, mentre i loro cannoni facevano diverse salve in onore di quella santa. Fu poi a Napoli una
notizia che sarà il primo sintomo di una situazione che si aggraverà presto tanto da provocare
addirittura una guerra ai confini meridionali del regno:

... stante la scarsezza e gran penuria de’ grani (conforme viene scritto) che corre nella città di
Messina, si è publicato aver li messinesi arrestato e pigliato 19mila tomola di grano che erano a
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questa volta, nel passare che faceva per il Faro, facendo anche il simile con l'orgio e altre
vettovaglie che di là passano.

Venerdì 18 arrivarono a Napoli da Roma 20 carriaggi che portavano i bagagli personali del
nuovo viceré del regno, Antonio Pedro Álvarez Ossorio Gomez d’Ávila y Toledo marchese di
Veleda, Astorga e S. Román, il quale, come tanti altri viceré di Napoli, era stato promosso a
questa altissima carica passandovi da quella d’ambasciatore di Spagna presso la Santa Sede,
assunta questa nel 1667; il suo predecessore de Aragón aveva già da qualche tempo
cominciato a spedir via i suoi effetti personali e infatti il precedente 3 dicembre aveva lasciato il
porto di Napoli una grossa tartana sulla quale egli aveva fatto imbarcare ben 800 casse di
mobilio, due lussuosissime carrozze e dieci cavalli, insomma aveva lasciato l’appartamento
reale quasi del tutto privo d’arredi. È vero che era consuetudine che si comportassero così tutti i
viceré quando lasciavano il loro vice-regnato, a Napoli o altrove che l’avessero esercitato,
essendone questo, se non il solo, il principale motivo per cui in detto appartamento non c’è oggi
forse più nulla dei secoli del vice regnato; ma certo quella del de Aragón fu notata e ricordata
come una delle maggiori depredazioni che il predetto palazzo abbia subito nella sua storia e
non a caso egli sarà poi accusato di aver frodato anche le rendite regie. Il Fuidoro così scriverà
di lui nel suo diario all’inizio dell’anno seguente:

… stava molto malinconico e intenerito, tanto è profondo il dolore che ha di lasciare queste
Indie napolitane, che si vorrebbe anco portare in Spagna questo terreno, tanta è l’avidità de’
danari e di regnare.

Al de Aragón, il quale era, come pochi sanno, anche un appassionato d’ingegneria militare e
proprio in questo 1671, suo ultimo anno di permanenza a Napoli, aveva fatto pubblicare il suo
trattato Geometría militar, Napoli doveva però la costruzione, oltre che della nuova darsena e
della nuova sede della Scrivania di Razione, di cui abbiamo già detto, anche di molte altre
importanti opere pubbliche, quali i bagni di Pozzuoli, l’armeria reale e il granaio del Castel
Nuovo, il grande ampliamento del preesistente piccolo alloggiamento militare di Pizzo Falcone,
iniziato nel 1667 e terminato nel 1670, dove saranno da ora in poi acquartierati tutti i fanti del
terzo fisso degli spagnuoli, i quali in precedenza avevano invece tradizionalmente e in
maggioranza sempre trovato alloggio in case private, specie nel quartiere sito a monte di via
Toledo e detto appunto ancora oggi i quartieri spagnuoli, apportando così agli sfortunati cittadini
infinito fastidio, quando non anche ladronecci e angarie d’ogni genere; infatti non a caso il nome
spagnolo con cui tali militari erano chiamati, cioè guapos, dal germanico Wape, arma,
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significando quindi semplicemente uomini armati, si traduceva in napoletano con smargiassi,
questi più tardi detti infatti guappi e oggi camorristi - vedi anche il settecentesco vapos, a
Palermo, con il significato di bravi od occasionali guardie del corpo. Un’occasionalità dunque
simile, se anche quindi più rintracciabile, di quella che fa risalire il romanesco bullo agli sp. bulla
(‘calca, ressa, sedizione’) e bullón (‘coltellaccio’).
Fu questa delle caserme un’innovazione che si sarebbe invece dovuto adottare sin dal secolo
precedente ai fini del buon ordine sia militare sia civile, ma che forse ebbe anche i suoi aspetti
negativi in considerazione che, in un certo modo, isolò la guarnigione spagnola da quel tessuto
sociale cittadino a cui essa si era invece fino allora sufficientemente amalgamata. Così infatti
nel 1667 aveva scritto il Rubino di questi nuovi alloggiamenti:

D. Pietro Antonio de Aragona, viceré inclinatissimo e tutto dedito alle fabriche e massimamente
alle grandiose, non contento d’aver dato principio dall’anno passato a una famosa tarcina
(‘darsena’) per dar porto sicuro alla città di Napoli, che ne stava mal provista, (om.) fece cingere
in quest’anno di forti mura il luogo del presidio di Pizzo Falcone, prima non ben munito, con
innalzarvi dentro bellissimi edifici per l’abitazione della milizia spagnola, che dispersa si vedeva
in varie parti della città con disturbo de’ cittadini, riunendola tutta in quel luogo, che, reso con
bella architettura in forma di cittadella, e capace di 4.000 e più fanti, fa mostra di una grandiosa
fortezza.

La compagnia di lancieri pesanti borgognoni (‘valloni’) della guardia del viceré, più tardi
sostituita da due compagnie di cavalli corazze, aveva invece i suoi quartieri al borgo di Chiaia
nel grande palazzo di Federico de Toledo marchese di Villafranca e duca di Ferrandina, per il
cui affitto la cassa militare pagava nel 1682 la notevole pigione di 30 ducati mensili; per
l’alloggio della guardia alemanna si pagava invece la pigione di tre appartamenti, evidentemente
grandi abbastanza, siti nel frontespizio del giardino del conte di Mola nella strada di Toledo.
Probabilmente la realizzazione più meritoria del de Aragón fu però l’albergo dei poveri, istituito
nel 1667, come anche racconta il Rubino, e che circa un secolo dopo sarà ripreso e ampliato da
Carlo III di Borbone:

Poi che, avendo visto questo ottimo principe ripiena la città di Napoli di una moltitudine troppo
grande di mendici, non solo molesti a’ cittadini per le loro soverchie importunità nell’andar
d’intorno cercando l’elemosina, ma anco vagabondi e oziosi, ripieni di vizi e alieni dal santo
timor di Dio per la lor vita licenziosa, acciò si togliesse via dalla città gente ‘sì poltronesca e
molesta, dedita solo a cumular denari e vivere in libertà, in pregiudizio de’ veri poveri bisognosi,
(om.) stabilì d’instituire un ospizio (om.) intitolandolo l’Ospizio de SS. Pietro e Gennaro, (e)
ordinò col seguente banno che fra il termine di otto giorni ivi si racchiudessero tutti i mendici che
si ritrovavano per la città (om.) quale termine elasso, tutti quelli che si ritroveranno mendicando
per la città incorrano ‘ipso tunc’ nella pena di sfratto dal Regno…
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Napoli dunque allora come oggi, con la differenza però che non ci sono più gli spagnoli a
mettervi ordine.

1672. L'anno 1672 si apriva con la nomina ad auditore generale dell'esercito conferita al giudice
Diego Galiano, incarico lasciato da Antonio de Silva perché divenuto questi nuovo consigliere
del Collaterale, ossia del supremo consiglio che assisteva il viceré. Martedì 5 gennaio il viceré
fece dare la solita mostra generale a tutta la fanteria spagnola della città e, con sicuro gran
giubilo della marinaresca delle galere, le liberò (fece mettere in pagamento’) ben otto paghe
arretrate; frattanto stavano per partite per Manfredonia quattro compagnie di fanti spagnoli
destinati a guarnire quattro navi granarie colà caricate per Napoli, in considerazione che i
corsari turco-barbareschi ne avevano catturate alcune l’anno precedente. L’11 gennaio furono
inviati a servire nelle regie galere napoletane altri 12 condannati al remo per diversi delitti, i quali
erano stati in precedenza trasmessi alla Gran Corte della Vicaria criminale dal Tribunale di
Campagna. Il 16 s’incamminarono per Manfredonia quattro compagnie di fanti spagnoli
destinate a imbarcarsi sulle navi frumentarie che in quel porto stavano caricando grano per la
Sicilia, la quale, a causa di scarsità di raccolti e di speculazione, pativa da alcuni mesi una gran
carestia, come anche la Sardegna, e chiedeva rifornimenti di cereali, oltre che al Regno di
Napoli, alla Fiandra, a Livorno e ai mercanti marsigliesi; queste soldatesche servivano a evitare
che altre navi pugliesi, nell'attraversare il Canale di Sicilia, allora detto Canale di Reggio,
fossero predate dai messinesi con barche armate (ne avevano persino assoldato una ragusea
per questo fine), cosa che ora infatti sistematicamente avveniva, spinti ormai quelli dalla fame.
Inoltre alla torre del Faro, cioè nel punto più stretto del canale, avevano costruito un fortino
armato di cannoni per intimare alle navi granarie di passaggio di fermarsi. Si trattava, come
abbiamo già ricordato, dei prodromi della rivolta e della sanguinosa guerra di Messina che,
originata infatti dalle difficoltà d’approvvigionamento di derrate che affliggevano quella città,
sarebbe poi scoppiata in tutta la sua gravità qualche anno più tardi; da questo momento
andranno dunque moltiplicandosi le notizie della pirateria esercitata dai siciliani sulle navi
granarie che, inviate a Napoli dai partitari di grano dolce e di grano forte della Capitanata,
passavano per i loro mari. Strana sorte allora quella della Sicilia, la quale era stata nel secolo
precedente il granaio dell’Europa meridionale; infatti nel 1573 il diplomatico veneziano Leonardo
Donato, riferendo in una sua relazione inviata al senato della Serenissima, tra l’altro, della gran
produzione di grano che in Sicilia si otteneva (… la singolare abondanza de’ grani che per

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benefizio de’ suoi vicini e lontani produce), diceva che ne usufruivano Venezia, Genova, la
Savoia, la Goletta, Malta, i regni di Catalogna e Valenza e si nutriva di biscotti (‘gallette’) siciliani
tutta l’armata di mare della corona di Spagna (… di modo che quello che si cava è veramente
quantità inestimabile, Albéri, Le relaz.) Comunque mettere le mani sul grano portato dalle navi
onerarie che venivano dalla Puglia quando queste s’immettevano nello Stretto di Messina, era
sempre stata impresa sin troppo facile e prima dei messinesi l’avevano nel passato, in tempi di
carestia, spesso compiuta i maltesi, i quali però più onestamente si limitavano allora a
intercettare, sequestrare e dirottare i cargoes a Malta, obbligando poi i loro padroni a vendere
colà le derrate che portavano, come successe per esempio nel 1636 e nel 1648.
Ora, afflitti gli stessi siciliani dalla mancanza di quella fondamentale derrata, erano
costretti a piatirne all’estero o addirittura a impadronirsene con facili e vili atti di pirateria ai danni
sia del proprio regno sia di altri appartenenti alla stessa corona! Il prossimo viceré di Napoli, il
marchese de Astorga, si adopererà personalmente perché i senatori di Messina si
convincessero a disarmare le loro predette barche piratiche promettendo personalmente il
rifornimento granario della città, ma ciò non ostante la penuria di grano e pane in Messina
continuò.
Nello stesso mese di gennaio Pompeo Almirante, auditore delle regie galere di Napoli, fu
nominato dal viceré nuovo auditore e capo di rota di Lecce e questa è una nomina che sapeva
tanto di una deposizione. Il 2 febbraio lasciò Napoli la solita compagnia di lance della guardia,
allora comandata, ma solo per le esigenze operative, da un certo capitano Spes, mentre alfiere
col soldo di 197 ducati l’anno ne era in questo periodo lo spagnolo Cristóbal de Zuñiga, per
recarsi alla frontiera con lo Stato Ecclesiastico ad aspettarvi il predetto nuovo viceré di Napoli, il
marchese de Astorga, il quale si prevedeva che avrebbe lasciato Roma il giorno 4. Si seppe in
questo inizio mese che una squadra dei soldati di campagna aveva sostenuto uno scontro a
fuoco d’alcune ore con la banda del capo-brigante Abbate Cesare nei pressi d’Arienzo, scontro
in cui alla fine la gente di corte aveva prevalso e aveva fatto prigionieri tre briganti portandoli a
S. Antimo, ossia alla sede del Tribunale di Campagna; uno di loro era stato lasciato, ben
custodito, in quelle carceri, mentre gli altri due erano stati trasferiti a Napoli su di un carro e
portati in Vicaria. In questi giorni era poi tornato a Napoli il figlio del nobile Antonio Miradoys, il
quale era stato sequestrato dall'Abbate Cesare e per il cui ricatto (riscatto) il padre aveva
pagato ben 18 mila ducati; antica industria dunque quella dei sequestri di persona nel meridione
d'Italia!

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L’11 febbraio il viceré uscente Pedro de Aragón si recò in carrozza a incontrare il nuovo viceré a
Capo di Chino, località collinare sovrastante la capitale, e ci andò accompagnato da una
compagnia di cavalli corazze, dalla guardia dei suoi tedeschi, ossia degli alabardieri alemanni,
da 26 carrozze, da due trombetti e da una compagnia di fanteria spagnola. I due entrarono poi
in Napoli dalla Porta di Capuana, entrata tradizionale dei regnanti, dove furono salutati dalle
salve dell'artiglieria dei castelli, prime quelle di S. Eramo, e poi, giunti che furono nel largo di
Palazzo, dalla moschetteria di alcune compagnie del terzo di fanteria spagnola colà
squadronate. La mattina del giorno 25 Pedro de Aragón e la duchessa di Feria sua moglie
lasciarono finalmente Napoli, imbarcandosi poi a Pozzuoli da dove, diretti in Spagna, furono
accompagnati da quattro galere napoletane.
Il giorno 29 furono portate in Napoli due teste di briganti compagni dell'Abbate Cesare, i quali
erano stati uccisi dalla gente di corte nelle campagne tra Lapio e Montemiletto; un altro
delinquente fu fatto impiccare, con insolita procedura, nel casale d'Arzano dal commissario di
campagna Francesco Moles.

Il ricatto fatto nelli mesi passati dall'Abbate Cesare nel casale della Barra, con prendersi Diego
Gallo, fu dall'istesso in questi giorni rilassato e mandato graziosamente in sua casa senza
sborso di denaro.

Il predetto episodio avvenuto a Barra, casale che è oggi un quartiere della città di Napoli,
dimostra quanto vicino alla capitale agisse impunemente il famigerato Abbate Cesare; ma in
questo periodo i briganti imperversavano anche nel Cilento e infatti dopo il 10 marzo si seppe
che l'auditore Migliore, il quale stava andando via mare verso la provincia di Cosenza, essendo
stato colà trasferito, era stato catturato con tutta la sua roba da una flottiglia di feluche di
briganti che si dirigevano verso Palinuro:

Di più corse voce che un’altra squadra de’ banditi fosse andata, sotto nome di Corte, dentro il
castello di Camerota e preso il figlio di Carlo Mazzella, cognato del marchese di quel luogo, il
quale trovatosi in quel punto in un altro quarto della casa, dopo essersi rinserrato bene cominciò
a tirare archibuggiate di maniera tale che ammazzò due banditi, ma non per questo fu rilasciata
la preda del povero cognato.

Anche i presidiari di Toscana non avevano ricevuto le loro paghe per un lungo periodo:

(Marzo 1672:) Il signor viceré ha fatto rimessa di ventimila ducati pigliati a cambio per far pagare
i soldati de’ Presidi di Toscana, quali devono avere 14 mesate e son mantenuti solamente con
un pane di monizione…(Fuidoro).
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Giovedì 31 marzo fu pubblicato bando contro i numerosissimi mendicanti che infestavano la
città; quelli forestieri, i quali venivano a Napoli attratti dalla grande propensione alla carità dei
napoletani, propensione che esiste ancora oggi, dovevano uscire dal regno, i regnicoli
dovevano tornare ai loro paesi e gli inabili dovevano essere ospitati nell’ospizio dei Ss. Pietro e
Gennaro, istituzione caritativa di Napoli fatta proprio per loro.
Si intese poi ancora che l'Abbate Cesare Riccardo era entrato nel villaggio di Ielsi alla testa di
60 masnadieri e l'aveva saccheggiato e poi incendiato, del che avuta notizia, il preside di Lucera
aveva spedito contro di loro l'auditore Gallo con molta gente di corte. Giungevano infatti a
Napoli frequenti avvisi e dicerie sulle imprese dell’Abbate Cesare, un fra’ Diavolo del Seicento, il
quale era considerato altrettanto imprendibile, e il 2 aprile fu emesso bando che poneva 3mila
ducati di taglia su questo capo-brigante morto o vivo (e non vivo o morto come più pietosamente
preferiremmo dire oggi). L’8 aprile furono frattanto mandati a servire nelle regie galere altri 20
inquisiti di vari delitti, condannati al remo dal Tribunale di Campagna, e pertanto condotti a
Napoli; il 12, Martedì Santo, arrivò invece la testa di un brigante fatta dalla gente di Corte nelle
campagne d’Arzano; il giorno seguente furono condotti nella capitale quattro briganti vivi presi
nel Cilento e questi facevano parte della banda di Cent'anni, altro famigerato capo-brigante il cui
cognome augurale si ritrova ancor oggi nel Napoletano. Iniziatosi frattanto mercoledì 13 aprile
ad arruolare fanti in tutto il regno per formarne nuovi tercios per l’estero richiesti da Madrid, il 17,
giorno di Pasqua, furono portate a Napoli quattro teste di briganti uccisi dai soldati di campagna
di S. Angelo a Fasanella. Infine, partiti il 30 da Napoli 140 soldati spagnoli e una cinquantina di
birri, pratichi della campagna, contro la banda del Riccardo, a un bivacco nacque tra i due
gruppi un alterco presto seguito da uno scontro sanguinoso e ne restarono uccisi otto spagnoli
e dieci poliziotti; probabilmente quest'episodio trovava la sua origine in un’altra rissa tra soldati
spagnoli e birri che era avvenuta a Napoli nel marzo precedente, ma questa senza vittime.
Fu di quei giorni anche la nomina a suoi vicari generali - con autorità di alter ego - che il viceré
conferì a quattro notabili per intensificare questa vera e propria guerra contro il brigantaggio e a
loro affidò le 12 province del regno perché le liberassero dai briganti. Al consigliere Diego Soria
marchese di Crispano furono affidate ben sei province e cioè Terra di lavoro, Principato Citra,
Principato Ultra, Contado di Molise, Basilicata e Capitanata, e fu dotato di 80 uomini tra soldati
di campagna e guidati, tra cui un trombetta, un mastro d'atti e alcuni scrivani; gli altri tre vicari
generali ebbero in giurisdizione due province ciascuno delle sei restanti. Il marchese di

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Crispano si mise in campagna con la sua gente già lunedì dopo Pasqua - il 18 aprile, in
persecuzione dei briganti e specie del capo-brigante Abbate Cesare Riccardo.
Un primo risultato fu l'uccisione del capo-brigante detto Caporale Severo, la cui testa fu, come il
solito, inviata a Napoli a inequivocabile testimonianza della sua morte; ma poi la situazione
dell'ordine pubblico nelle campagne delle province circostanti la capitale divenne sempre più
preoccupante e confusa e il viceré, oltre alla grande attività impressa alle squadre dei soldati di
campagna e a quelle dei soldati delle Udienze Provinciali, fu costretto a incominciare a ricorrere
anche alla solidissima fanteria spagnola e incominciò con lo spedire 120 di quei fanti ben armati
al bosco della Cerra (‘Acerra’), località in cui erano avvenuti episodi delinquenziali
particolarmente gravi; altri 6O spagnoli inviò poi il viceré a Marigliano, ma tra i birri, specie se
briganti accordati, e i fanti spagnoli non correva generalmente, come sappiamo, molto buon
sangue:

... a Marigliano dove, avendo anche il Viceré inviato altri 60 spagnuoli, all'arrivo di questi,
venendo urtato casualmente un guidato da un spagnuolo, passarono tra loro alcune sconcie
parole; ma, dalle parole accesisi maggiormente a sdegno, furo all'armi e con l'armi si attaccò tal
briga tra la squadra di tutti i guidati e li soldati spagnuoli che ne restorno morti e feriti dall'una e
l'altra parte da 18 persone.

Si infittiscono in questa primavera del 1672 le cronache del brigantaggio:

... fu condotto carcerato in Napoli un certo giovane che serviva per cappottiero (‘guardarobiero’)
al capo bandito Abbate Cesare Riccardo e sui compagni e fu preso in vicinanza di Marcianisi da
uno alguizzino (‘carceriere’) di detta terra.

Le notizie delle imprese dell'Abbate Cesare si alternano a quelle sul Cent'anni, il quale, come
abbiamo detto, era un altro famoso capo-banda del tempo; si diceva ora che questi, braccato,
avrebbe allora deciso di cambiar vita e che pertanto avesse ammazzato quattro briganti di
Camerota che prima erano stati suoi compagni e in seguito, per alcuni disgusti intervenuti tra
loro, si erano da lui separati; si diceva inoltre che egli, presentando questa strage come un
servizio reso alla giustizia, avesse tentato di guidarsi, ossia d’arruolarsi tra gli ex-briganti
accordati che, appunto sotto il già detto nome di guidati, erano affiancati ai soldati di campagna
o delle Udienze nella persecuzione dei criminali alla macchia; ma il sopraintendente di
campagna non l'aveva voluto ammettere nelle sue squadre, giudicando evidentemente che non
ci fosse da fidarsi del suo pentimento, e allora il Cent'anni, per guadagnarsi tale indulto,
sembrava si fosse risolto di liberare l'auditore Migliore, il quale si trovava tuttora in sua mano
73
sequestrato nell’attesa che fosse pagato un sostanzioso riscatto, sperando dunque in tal modo
di riuscire a ottenere un aggiustamento con la Corte, cioè con la giustizia reale; ma quanto ci
fosse di vero in tutte queste voci non sappiamo, anche se in effetti il 9 giugno seguente arrivò
veramente a Napoli l'auditore Migliore liberato dal Cent'anni senza veruno ricatto. Il 16 maggio
avvenne poi nella capitale un curioso episodio, il quale dimostra a qual punto si fosse aggravato
il fenomeno del brigantaggio e quanta paura se ne avesse ormai nella stessa città di Napoli:

Lunedì 16 detto, il doppo pranzo, furono appiccati nel Mercato tre banditi compagni del capo
bandito Cent'anni e, mentre già si era giustiziato il primo, occorse che, entrando in quel punto a
caso in Napoli una squadra di soldati di campagna per la porta del Carmine che era là fuora, si
levò voce fra il numeroso popolo spettatore di quella giustizia (esecuzione) che l'Abate Cesare
con 100 compagni era venuto a prendersi i condennati; alla qual voce, posta in bisbiglio la
gente, subito si pose in fuga e, con la fuga scapulandosi anche una carrozza, maggiormente
scompigliò il popolo; per il che, andando sossopra tutto il Mercato, i spagnuoli del Torrione
serrarono i rastelli e si posero in difesa e la gente, per ridursi in salvo, perdé chi la cappa e chi il
cappello e poco mancò che gl'altri due giustiziandi non fuggissero, mentre le guardie ancora si
erano quasi tutte date in fuga; ma, vistosi alla fine esser stata vana la voce, quietatosi il tutto, si
eseguì la giustizia con gl'altri due condennati, restandovi nel scompiglio morti due fanciulli e
molti malconci per la cascata che fecero.

Questo episodio dimostra quanto poco rassicurante fosse l'aspetto dei soldati di campagna e
quanto simile fosse il loro abbigliamento a quello degli stessi briganti che perseguivano!
Dopo il 20 di questo stesso mese di maggio arrivarono a Napoli tre catene di delinquenti, inviati
stavolta dalle Udienze Provinciali di Lecce, Trani e Cosenza e condannati alle galere, a cui
furono subito condotti. Nella notte del 30 maggio due delle galere lasciarono i loro ormeggi per
portare nei Presidi di Toscana la solita muta dei presidiari, ma stavolta, poiché si temevano atti
ostili da parte dell'armata marittima di Francia, con un rinforzo di tre compagnie per un totale di
500 fanti spagnoli; stava dunque iniziando quella guerra d'Olanda che terminerà solo sei anni
più tardi. Queste galere scortavano tre tartane cariche di remi da galera destinate alla squadra
di Spagna e infatti queste dovevano poi proseguire per la penisola iberica; tutto il convoglio era
comandato dall’attivissimo generale dell'artiglieria del regno fra’ Titta Brancaccio, il quale si
recava a ispezionare quelle piazze della cui difesa era responsabile. La sera del giovedì 2
giugno giunse da Barcellona un vascello carico di fanteria spagnola, la quale, d’ordine del
viceré, fu subito visitata da sanitari e provvista di tutto il necessario.
Altre due catene di 50 condannati al remo dal Tribunale di Campagna giunsero nella capitale il
18 giugno, poi il giorno 23 vennero 30 inquisiti inviati dal sopraintendente generale della
campagna Diego Soria e infine ancora 38 condannati trasmessi alle galere arrivarono la mattina

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del 25; un mese dunque, questo di giugno, rivelatosi molto proficuo al rinfoltimento dei ranghi
delle ciurme; infine la sera del 27 partirono dalla darsena di Napoli due galere che andavano in
Calabria, dove un’imbarcazione mussulmana era andata a traverso in quelle marine, cioè aveva
dato in terra accidentalmente, e il suo equipaggio era stato fatto schiavo e tenuto a disposizione
di dette galere.

Fu avviso in Napoli che una squadra dei marchetti fusse entrata dentro il Larino (paese presso
Campobasso) e ivi presosi per ricatto il signor don Francesco Carrafa, figlio del già don
Diomede e della signora donna Cornelia Muscettola, pretendendone 4.000 docati di ricatto.

In qualche contrada del regno, per esempio nel territorio di Vallo della Lucania, i briganti erano
chiamati infatti marchetti, ma da dove provenisse questo nome e se esso fosse da ricollegarsi al
nome di qualche antico capo-banda non sappiamo. Più tardi si disse però che il sequestrato era
stato rilasciato dietro pagamento di soli mille ducati.
Alla fine di giugno arrivarono dalla Calabria due tartane cariche di soldati di nuova leva, i quali
furono subito sbarcati e rinchiusi nell’arsenale. Nella prima decade di luglio si seppe che Carlo
Raimone, una volta famoso capo-brigante e ora guidato, essendo giunto a Tavernanova, non
lontano da Napoli, con 40 compagni, era uscito alla testa di costoro da quella terra in caccia
dell'Abbate Cesare, ma poi, a causa di divergenze con la gente di corte era stato incarcerato da
un caporale di questa, il quale, non contento gli aveva anche fatto la testa e il macabro trofeo
era stato portato al commissario di campagna.
All’inizio di luglio il viceré, la sua corte e gli ottimati della città si mettono d’accordo per una
prima uscita in pubblico vestiti della sciamberga o giamberga (Fuidoro, Bulifon), ossia da una
nuova foggia di vestiario militare che allora si stava diffondendo negli eserciti di tutta Europa e
che in Francia era diventato di gran moda anche per uso civile, perché ritenuta più pratica ed
elegante di tutte quelle fogge nazionali sino allora tradizionalmente usate. Essa era detta anche
vestir alla franzesa, proprio perché appunto introdotta a Napoli dai francesi, e anche vestir di
campagna, perché appunto ora preferita nelle campagne militari, e si basava principalmente
sull’uso della marsina, indumento d’origine germanica e detto infatti in Francia, ancora nel 1681,
brandenbourg; i francesi avevano cominciato a usarlo per difendere la cavalleria dal freddo
invernale, ma per gli aspetti militari di questa moda francese detta anche vestir di campagna,
nel senso però di ‘campagna militare’ e infatti era un vestiario da soldato adottato negli eserciti
già da quasi quarant'anni, rimandiamo ad altra nostra opera già pubblicata (Boeri-Peirce); qui
diremo solamente che si trattava sostanzialmente del giustoacorpo o marzino (sincope di

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marzialino), poi marzina, marsina, indumento d’origine tedesca, lungo fino al ginocchio, da
indossarsi sulla camisciola (a Napoli giamberghino), anch’essa di panno, che caratterizzerà, sia
per il vestiario militare sia per quello civile, i primi tre quarti del Settecento e che era detto a
Napoli veste d’aggiustacore o volgarmente giamberga dal nome del maresciallo di Francia
conte di Schomberg che, come abbiamo già detto, lo fece adottare dall’esercito portoghese da
lui comandato.
Il viceré aveva scelto un giorno in cui dall’amenissima costa di Posillipo si poteva assistere a
un’arregata (‘regata’) simile a quella che si teneva tradizionalmente a Venezia e che però a nel
Regno di Napoli si teneva con le feluche napoletane (dal lt. fulica, ‘folaga’), velocissime
imbarcazioni velico-remiere tra le più piccole del Mediterraneo, le quali erano presentate alla
competizione dai vari quartieri costieri della città:

Domenica doppo pranzo 3 detto (luglio) il signor viceré si trasferì in gondola a pigliar fresco in
Posilipo con il seguito di alcuni titolati, li quali tutti, assieme con Sua Eccellenza, si viddero
vestiti di una nuova foggia, detta ‘alla sciamberga’, cioè un calzone, una marsina e croatta al
collo, che rendevan vaga vista, e con tale occasione si vidde in mare la corsa di quantità di
feluche tra loro disfidate, cioè quelle di Porto Salvo, quelle di S. Lucia e quelle della Conciaria,
di cui rimasero vincitrici le prime, con ottenere in premio un pallio di cinque canne di tela d’oro e
50 docati in danari, e a vederle concorse molta nobiltà, dame e popolo. (de Blasis).

Il palio (dal lt. pallium, ‘mantello’), detto anche bravio, era una pezza di ricco tessuto da farsi
un’elegante sopravveste, genere che solo i ricchi potevano in quei secoli permettersi, e la si
dava comunemente in premio appunto ai vincitori delle gare di bravezza, concetto che
racchiudeva in sé sia quello di coraggio sia quello di destrezza. Nello stesso luglio il marchese
de Astorga cominciò subito addirittura a pretendere che i suoi cortigiani e tutta la nobiltà che
voleva frequentare la sua corte si vestissero secondo i dettami della nuova moda, la quale
all’inizio fu però solo una contaminazione tra quella preesistente spagnola e la nuova francese:

… ma non si poteva comparire avanti a Sua Eccellenza se non si vestiva con sciamberga e con
guarnire la gola di una corvatta bianca, per parte di collare (om.) Questo modo di vestire alla
francese, tirato alla spagnuola, è stato coltivato in Napoli, come scrissimo in questi notamenti,
dal signor marchese de Astorga ed è quasi simile all’uso moderno di Francia dalli calzoni in poi,
che sono alla spagnuola, e le scarpe. (Fuidoro).

Invece poi lo stesso viceré introdusse anche la scarpa con chiusura a fibbia che caratterizzerà il
secolo seguente:

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… anzi, con nuova invenzione non vista ancora, portava una fibietta con ligatura dell’orecchine
delle scarpe, nella qual erano bellissimi diamanti… (ib.)

Lo stesso Fuidoro riportava un gustoso sonetto del poeta marinista napoletano Antonio
Muscettola (1628-1679) a proposito di questa nuova moda che, a causa delle pretese del
viceré, era divenuta a Napoli un’urgenza generale:

Giorno sacro a sciamberghe, i lumi tuoi


Non osino offuscar nubi insolenti
Né del Tirren l’immaculati argenti
Turbo di vento impetuoso annoi.

A pena Febo da’ balconi Eoi


Porge agli egri mortali i rai lucenti
Che si veggono errar, lieti e frementi
I sciambergati, i sciambergandi eroi.

Chi minaccia il sartor gli ultimi danni


Chi vuol che il tracollaro si sommerga
Chi va, chi vien, chi si misura i panni.

Resti la torre a sospirar Rimberga


Che a noi pesati et odiosi affanni
Val più di cento piazze una sciamberga (ib.)

Gli spagnoli avevano cominciato a usare il predetto indumento nel 1669, facendolo indossare a
un tercio della guardia, che da quello prese infatti addirittura il nome, come riportava Giovanni
Battista Pallavicino, residente genovese a Madrid dal 1668 al 1676:

(1669:) Fu considerato e proposto dal signor marchese di Aytona, magiorduomo maggiore della
regina e della gionta di governo, che, per rendersi Sua maestà stimata ed essequiti più
prontamente i suoi ordini, fosse necessario formarsi un regimento di tremila huomini delle
migliori genti ed officiali della Spagna con titulo di guardia reale, che poi pigliò il sopranome di
‘Chiamberga’ perché i soldati e capi, che avevano militato contro il Portogallo, vestivano tutti alla
forma che vestiva l’essercito de’ portoghesi che fu comandato da monsieur di Schomberg…

Nel detto tercio si arruolò il fior fiore dei militari spagnoli e lo stesso marchese di Aytona ne fu
fatto maestro di campo, essendone ancora il comandante otto anni dopo; ne leggiamo qualcosa
di più a p. 300 del grande Diccionario de la lengua castellana (T. II) pubblicato a Madrid
dall’Accademia Reale Spagnola a partire dal 1726:

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Fu chiamato così anche un reggimento formatosi a Madrid nella minorità del re don Carlos II per
la sua guardia, governando allora i regni la regina madre donna Mariana d'Austria, di cui, nella
sua prima formazione, fu colonnello il re e poi il marchese di Aitona e ultimamente don
Fernando Miguel de Tejada. Si riscontrarono inconvenienti perché perdurasse, per cui fu inviato
in Catalogna senza altra esenzione o distinzione che quelle di qualunque altro Tercio ordinario,
dove fu alla fine riformato. Nella sua prima istituzione entrarono come capitani molti Grandi di
Spagna e altri ufficiali di carriera e di reputazione. Aveva il suo quartier generale a Madrid in
Calle de la Paloma e gli ufficiali, quando entravano di guardia nel palazzo, indossavano una
piccola cappa del tipo che indossano i ‘re d'armi’ nelle loro funzioni pubbliche. Gli fu dato questo
nome perché gli ufficiali e i soldati indossavano casacche alla giamberga.

Fu proprio l’adozione di questa marsina, sostanzialmente uguale per tutti gli eserciti europei,
avvenuta gradatamente nel continente dagli anni Sessanta del secolo in sostituzione dei vari,
molto diversi e spesso meno pratici vestiari nazionali tradizionali, che fece nascere la necessità
anche di colori uniformi per potersi così continuare a distinguere in battaglia non solo una
nazione dall’altra, ma anche, nella stessa nazione, un corpo militare dagli altri, non essendo
infatti più sufficiente affidarsi al solo servirsi delle bande (fr. écharpes), cioè le fasce distintive
dai diversi colori dinastici, perlopiù di seta, che si erano sino allora universalmente indossate o a
tracolla o in vita sul vestiario militare appunto per meglio distinguere in guerra una nazione o
fazione dall’altra, un metodo che però nei secoli era stato dai benpensanti sempre criticato
perché si prestava facilmente a inganni e a far attribuire ad altri i propri crimini di guerra.
Nacque dunque così in Europa l’uniforme militare, potendosi infatti considerare quella che
spesso nei secoli precedenti avessero portato singole compagnie di guardia reale solo una
livrea, non dissimile da quella della servitù di palazzo, e non un’uniforme nazionale; il processo
non fu comunque per nulla breve lungo e infatti, a leggere la seguente corrispondenza da
Venezia, ancora nel 1693 un corpo indossante vestiti tutti dello stesso colore era da notarsi:

11 aprile 1693. Sono arrivati a questo Lido 500 dragoni levati dal conte Monincausa, vestiti tutti
a una divisa…

Questa nuova moda francese sarà però proibita ai messinesi nel 1678, cioè subito dopo la
repressione della famosa ribellione alla Spagna in cui la città aveva chiamato la Francia in suo
soccorso:

… che non possino più i messinesi vestir alla francese con le giamberghe e pilucche, cioè
capelli lunghi posticci… (Vincenzo Auria. Diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX ecc.
Vol. 5, p. 159. Palermo 1870.)

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Le due fogge, quella alla spagnuola e quella alla franzesa, convissero comunque a lungo nel
vestiario civile, specie in quello professionale e cerimoniale; infatti nella sua lettera sulla già
ricordata cavalcata pubblica del 29 maggio 1702 in onore del cardinale Carlo Barberini il Bulifon
accennerà, oltre alle due compagnie di cavalli corazze della guardia del viceré con uniformi
gialle guarnite di velluto dello stesso colore e di larghi e copiosi pizzilli (‘trine, merletti’) d’argento,
anche ai 12 capitani di giustizia a cavallo vestiti di nero alla spagnuola e a 81 cavalieri
napoletani, i quali incedevano invece vestiti alla franzesa.
Sabato 9 luglio una galeotta dei corsari turco-barbareschi approdò a S. Vito e Nola di Bari e il
suo equipaggio si mise a scorrere la campagna facendovi 15 schiavi. La mattina del martedì 19
giunsero nel porto di Napoli 14 vascelli grossi da guerra olandesi provenienti da Smirne e venuti
a rifugiarsi a Napoli per timore dei franco-inglesi che avevano mosso grand’armata ed eserciti
contro l'Olanda, la quale godeva però dell'appoggio degli austro-spagnoli; questi vascelli
ripartirono il giorno 30 diretti alle loro basi, dopo che si era ormai saputo con certezza di una
tregua d'armi stipulata con gli inglesi. Seguì l'ingresso in Napoli d’altri briganti in ceppi, portati
questi dal tenente di campagna di Salerno, mentre giungeva voce che il solito Abbate Cesare
Riccardo si fosse unito, presso Taranto, alla banda del Caporale Centomiladiavoli, anche
quest’antesignano del più famoso capo-brigante fra’ Diavolo, se non altro per il curioso
soprannome; ma sull'Abbate Cesare se ne contavano tante e tante se ne dissero anche sulla
sua morte, avvenuta nell'agosto di questo 1672 nei pressi, come sembra, di Matera, senza però
che mai si giungesse a una versione ufficiale dei fatti realmente accaduti in quell’occasione,
perlomeno a livello d’informazione popolare. Alcuni riportarono infatti quella morte in un modo,
altri in un altro e tale incertezza depone per qualche occulto tradimento; l'unica cosa sicura fu la
sua testa, arrivata a Napoli il 13 agosto, portata sulla punta di un palo e accompagnata da tre
trombetti e 60 soldati di campagna, tutti a cavallo; procedeva in questo macabro corteo anche
un fido compagno dell'Abbate Cesare ligato a una bestiola, il quale era invece stato preso vivo
dalla stessa gente di corte. Dopo che il corteo ebbe fatto il giro della città mostrando a tutti i suoi
trofei, la testa fu posta in una gabbia di ferro e così esposta, appesa a un torrione fuori la porta
di Capuana, e il brigante vivo, certo Pietro de Petrillo, fu incarcerato in Castel Nuovo perchè,
sottoposto alla tortura, confessasse i nomi dei fautori della sua banda. Non era infatti un mistero
che vari stati stranieri avevano interesse a far sorgere e a mantenere dei torbidi nel regno nel
tentativo di destabilizzarlo o perlomeno di indebolirne la reattività militare e quindi i sostenitori e i
finanziatori delle più grosse e agguerrite bande di fuorusciti e briganti andavano cercati in
Francia, potenza da sempre interessata a indebolire quella spagnola e a impadronirsi del Regno

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di Napoli in base ad antiche pretensioni angioine, a Venezia, repubblica oligarchica che temeva
di perdere la sua influenza e il controllo dei traffici marittimi che si svolgevano in quello che
allora si chiamava ancora non Mare Adriatico, bensì Golfo di Venezia, e infine nello stesso Stato
della Chiesa, dove i banditi e i briganti del regno, specie quelli abruzzesi, trovavano rifugio e
protezione, avvalendosene il Pontefice come cuscinetto tra sé e la potenza spagnola nel
meridione d'Italia. La fine dell'Abbate Cesare, anche se questi era stato il più pericolo e famoso
brigante del suo secolo, non significò comunque certo la fine del brigantaggio, fenomeno ormai
troppo endemico nel regno e sulle cui cause non ci cimentiamo perché il discorso ci porterebbe
fuori del tema militare di questa nostra modesta trattazione; ci basti dire che sbagliavano i pur
quasi sempre acuti ambasciatori veneti quando, leggendo al senato della Serenissima le loro
relazioni sul Regno di Napoli, asserivano che il brigantaggio meridionale era dovuto agli
eccessivi gravami fiscali imposti dall'amministrazione spagnola, gravami che riducevano i
contadini in miseria e alla disperazione, spingendoli così a lasciare i loro campi e a darsi alla
macchia; che avrebbero dovuto allora dire o fare i laboriosi lombardi oppressi anch'essi dalle
stesse gabelle e angherie spagnole e per lo stesso secolare tempo e in più terribilmente
dannificati dagli eserciti stranieri che continuamente passavano, alloggiavano, campeggiavano
e si combattevano nel loro stato? La verità e che la delinquenza è una tendenza etnica come
tante altre, insopprimibile nel Meridione d’Italia e puntualmente riaffiorante, specie quando le
condizioni socioeconomiche di un popolo sono prodotto dell'ingiustizia.
Venerdì 12 agosto Pedro de Toledo, mastro di campo del tercio spagnolo, dette al Collaterale
giuramento di fedeltà per la nomina reale a membro del Consiglio di Guerra. Lunedì 15 agosto
una squadra di soldati di campagna della provincia di Salerno portò a Napoli la testa del capo-
banda conosciuto come Spinatorta, ucciso in quelle stesse campagne, e domenica 21 fu
portata quella di un ignoto capo-brigante di S. Germano, ucciso anch'egli nelle campagne del
suo paese; non ostanti però questi frequenti successi delle forze dell'ordine i briganti non
perdevano la loro audacia, tanto da assalire un giorno anche il procaccio di Sora scortato da
ben sei soldati. Lunedì 29 fu inoltre portata a Napoli anche la testa del famigerato capo-bandito
Cent'anni, fatta nelle campagne di Pisciotta, e con la sua anche quelle di un suo fratello e di un
suo nipote insieme con un brigante giovanissimo catturato vivo; giovedì 1° settembre arrivò poi
la testa di un compagno di quello che era stato il capo-brigante Mussotorto, ucciso nelle
campagne di Salerno dalla solita gente di corte, mentre un’altra quelle squadre portava due
briganti vivi.

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Il brigantaggio del tempo, sebbene molto diverso da quello d’oggi perché sostanzialmente
rurale, non lasciava per questo però indenni i centri abitati e in certo modo anche la stessa città
di Napoli, dove infatti nello stesso predetto giovedì, in seguito a un omicidio importante
avvenutovi due giorni prima, furono arrestati tutti gli abbati che si riuscirono a trovare in città e
furono più di cento. Erano costoro persone che prendevano l'abito da chierici e al più arrivavano
ad assumere i primi ordini, ma non per vera vocazione religiosa bensì solo per poter godere
delle tante immunità e prerogative ecclesiastiche, mentre in effetti spesso sotto quell'abito
portavano armi e commettevano scelleratezze e delitti. Otto di questi furono infatti trovati con
armi addosso e, essendo inquisiti anche per altri reati, furono arrestati e mandati nel castello di
Baia; gli altri, trovati non inquisiti, furono lasciati liberi. Il Fuidoro, a proposito dei tanti delitti che
si commettevano, così in questo mese di settembre scriveva nel suo diario:

Gran cosa è in questa città che si ammazzano più uomini che bestie, il che nel vero è cosa di
gran meraviglia né accade così facilmente negli altri paesi.

Martedì 6 settembre furono inoltre incarcerati alcuni birri (poliziotti urbani, come già sappiamo), i
quali, in compagnia d’altri come loro e spacciandosi per gente di Corte (soldati di campagna),
avevano la notte precedente rapinato gruppi di devoti che andavano in pellegrinaggio alla
Madonna di Monte Vergine; assalitili infatti nei pressi della seconda fontana di Poggio Reale, li
avevano spogliati di tutto e lasciati solamente in camicia; il giorno dopo fu, come il solito fatta
salva reale da tutte le fortezze per commemorare la grande vittoria di Nördlingen del 1634 e l’8,
in occasione della festa della Natività della Madonna, ci furono le solite sfilata a parata al borgo
di Chiaia. In questi giorni era frattanto giunta voce a Napoli che, morto il famigerato Abbate
Cesare, suo fratello Felice Antonio Riccardo, mal visto dal resto della banda, era uscito dal
regno con i due compagni più fidi e con loro si era incamminato verso Venezia; ciò a riprova di
quanto fosse diffusa la convinzione che i banditi e i briganti del regno erano istigati e appoggiati
anche da quella repubblica. Fatta la solita mostra della fanteria spagnola lunedì 12, il 15
s’intese delle imprese di un nuovo capo-brigante, Nicola Rosato della Pia, il quale rapinava tra
Ariano e Avellino, e ci fu anche avviso in quello stesso giorno che il commissario di campagna
aveva fatto impiccare un compagno del capo-brigante Diluvio nella terra di Lauro nell'Avellinese.
Tornarono a Napoli domenica 18 settembre le quattro galere napoletane che avevano portato in
Spagna l'ex-viceré Pedro de Aragón; esse erano rimaste diversi giorni nel porto di Civitavecchia
trattenute da venti contrari e raccontarono che avevano avuto problemi di saluti marittimi nel
porto di Livorno; il 26 il già nominato Diego Soria fece impiccare a Mugnano un bandito

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chiamato Pezzilluccio, compagno del defunto Cesare Riccardo, il quale era stato preso a
Marigliano mentre se ne andava travestito sperando di non esser così riconosciuto; si seppe
ancora che a Somma il commissario di campagna Francesco Moles aveva invece fatto
impiccare due compagni del capo-brigante Domenico Aniello Scala, il quale si era unito alla
banda del fratello dell'Abbate Cesare e anche a quella del capo-brigante Diluvio, formando così
un gruppo numeroso di 43 briganti; il 16 ottobre entrerà poi in Napoli la testa di un compagno
del predetto capo-brigante Scala, ucciso nelle campagne vicine a Napoli dalla predetta gente di
corte.
In quel mentre arrivò a Napoli un ordine reale del 20 settembre con cui si proibiva per i soldati
napoletani la pena del disterro, cioè della relegazione in un presidio del regno molto lontano
dalla propria terra, senza che ciò fosse dovuto a una precisa condanna giudiziaria (benché
fusse col pretesto d’officio o dignità). Domenica 2 ottobre si commemorò la vittoria marittima di
Lepanto, avvenuta domenica 7 ottobre 1571, festa di S. Giustina, con salve della fanteria
spagnola squadronatasi in città e delle artiglierie dei castelli. Il 18 ottobre l'auditore generale
dell'esercito condannò alle galere cinque soldati di cavalleria e tre marinari, tutti disertori, i quali,
mentre fuggivano per mare, erano stati presi nelle acque di Terracina intendendo essi sbarcare
nello Stato Ecclesiastico; e le ciurme delle galere dovevano essere in questo periodo ben folte
se il giorno 28, festa dei SS. Apostoli Simone e Giuda, furono liberati dalle catene che li teneva
avvinti ai loro banchi ben 50 forzati che avevano ormai scontato la loro pena; essi andarono in
processione con tutte le loro catene, com'era tradizione, alla chiesa di S. Paolo a render grazie
però a un altro santo, cioè a S. Gaetano, e dopo una breve orazione furono scatenati e mandati
liberi alle loro case. Questo 1672, povero di cronache militari propriamente dette giacché anno
di sostanziale pace per il regno, continua però a esser ricco delle imprese dei cosiddetti soldati
di Corte, ossia di quella polizia giudiziaria provinciale divisa in squadre comandate da caporali e
sparse per l'intero Regno di Napoli che stiamo infatti così spesso nominando.
Nel primo pomeriggio del 3 novembre fu portata nella capitale la testa del capo-brigante Diluvio,
vecchio compagno del defunto Abbate Cesare Riccardo, il quale si era poi messo per proprio
conto; in uno scontro con la gente di corte nelle campagne di Eboli anche lui però aveva perso
la vita e la testa, secondo la feroce ma necessaria procedura di un tempo in cui ovviamente non
esisteva la documentazione fotografica e quella anagrafica era limitata ai registri parrocchiali.
Spesso, allora come oggi, si creavano tra i briganti e i possidenti di terre lontane dai maggiori
centri amministrativi connivenze che i secondi, taglieggiati dai primi, erano costretti ad
assumere con questi, allora come oggi, per mantenere buoni rapporti; nella sera del predetto

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giorno 3 fu per esempio e d'ordine del viceré carcerato a Napoli in castello Horazio de Luca,
persona molto facoltosa che aveva appunto dato ricetto ad alcuni briganti nelle sue proprietà.
Martedì 16 novembre s’imbarcarono per la Sardegna su un vascello a nolo 400 fanti di nuova
leva divisi in due compagnie e tenuti sino allora nell’arsenale, dove ne restavano così ancora
ben 1.200 che ci si preparava a spedire invece a Barcellona mettendo a partito il loro passaggio
marittimo. Nel primo pomeriggio dello stesso 16 furono inviati alle galere nove inquisiti di molti e
diversi delitti perché condannativi dal solito Tribunale di Campagna; una catena di 18 altri
delinquenti, pure condannati al remo da quel tribunale, giunse a Napoli la mattina del 28 e
anche costoro furono subito portati a servire nelle regie galere napoletane, la cui Padrona, ossia
la vice-Capitana della squadra, era il precedente giorno 24 partita per Genova dove andava a
prendere un nipote del viceré che veniva a Napoli a prender possesso della sua nuova carica di
tenente della compagnia delle lance della guardia; in effetti poi, il mese successivo, il viceré
conferirà a questo suo nipote anche la nomina a governatore di Pozzuoli, onde incrementare
evidentemente le entrate del congiunto.

Sono state mandate in Sardegna 2 compagnie d'italiani di quelli condannati a servire che da
lungo tempo erano dentro l'arsenale e si è fatto bene a levar questa gente facinorosa da Napoli.

Anche quest'ultimo avvenimento è della fine del mese di novembre; tempo in cui il viceré
assegnò anche diverse nuove cariche pubbliche; per esempio fece Gasparo Valenzuola,
tenente della sua guardia, governatore della città d’Aversa, e mise al suo posto un suo nipote.

Domenica 4 detto (dicembre), festività della gloriosa vergine e martire Santa Barbara, la
compagnia dei bombardieri e aiutanti di tutte le castelli di Napoli adorno per la Città in ordinanza
facendo varie salve, con visitare anco la chiesa della Santissima Annunciata dove si conserva la
testa di detta Santa.

Erano tempi quelli in cui a Napoli - come del resto in tutta l’Europa cattolica - le reliquie dei
santi, specie le estremità anatomiche e le ampolle di sangue, abbondavano; basti ricordare
soprattutto la testa di S. Gennaro, reliquia questa che in detta città una volta pure si conservava
e unicamente alla presenza di quella il sangue del santo si scioglieva (ribolliva, come allora si
diceva), mentre oggi pare che basti esporlo al suo busto d’argento o nemmeno a quello, e
inoltre una gamba intiera dell'apostolo S. Andrea che si conservava a S. Chiara e poi, in
concorrenza con il suddetto, si scioglieva nel Regno anche il sangue di altri santi, per esempio
quello di S. Giovanni Battista, il quale, custodito dalle monache benedettine, si conservava nella

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chiesa di S. Gregorio Armeno e si scioglieva il giorno 29 agosto d’ogni anno con ogni maggior
ricca pompa e sacra magnificenza, tant’è vero che era tradizione che vi assistesse la
viceregina; inoltre, a Minori presso Amalfi, si scioglieva il sangue di S. Pantaleone, patrono di
quell’amena cittadina, e, se ben ricordiamo, ciò ancora avveniva alcune decine d’anni fa.
Il giorno 6 il generale dell'artiglieria fra’ Titta Brancaccio fece ritorno a Napoli dalla visita fatta
alle fortezze dei Presidi di Toscana.

Lunedì 12 detto fu avviso come, essendosi vicino Montesarchio incontrati alcuni soldati di
campagna della squadra del consigliero don Diego Soria con una truppa di guidati sotto la
condotta del caporale Michele de Crescenzo, erano venuti tra loro alle mani e ne erano rimasti
undici morti di questi secondi.

Per il suddetto potente Soria verso la metà di dicembre arrivò dalla Spagna la nomina a straticò
(‘capitano a guerra’) della città di Messina. L’omosessualità non era perdonata, specie nei
ristretti ambiti delle galere, e di conseguenza le conversioni degli schiavi mussulmani al
cristianesimo non sempre erano spontanee:

Martedì 20 detto (dicembre), essendo stati condennati a esserno appiccati su di una galera
della squadra di Napoli due schiavi di quella per aver commesso vizio nefando, fu eseguita la
sentenza solo con un di essi, il quale si era volentieri fatto cristiano; e l’altro, mostrandosi
renitente di venire alla Santa Fede, essendosi venuto all’atto di bruggiarlo vivo, intimorito
dall’orrenda morte, disse volersi far cristiano, per il che, doppo averlo, quanto fu possibile,
catechizzato, giovedì seguente 22 detto fu su la medesima galera doppo il battesimo appiccato.

Il 7 giugno si era combattuta una grande battaglia navale a Solebay nel Suffolk, cioè sulla costa
orientale della Gran Bretagna; la flotta olandese comandata dal viceammiraglio Michiel Adriaen
de Ruyter, governatore della flotta armata degli Stati Generali d’Olanda aveva sorpreso in quella
località quelle alleate di Gran Bretagna e di Francia, rispettivamente comandate da Edward
Montagu duca di York e dal viceammiraglio conte Jean d’Êtrées, le quali si preparavano a
un’azione congiunta contro l’Olanda; la battaglia era finita senza vincitori né vinti, ma gli
olandesi avevano così ottenuto di scongiurare la suddetta grave minaccia. A terra frattanto,
nell’ambito di operazioni di guerra contro gli stessi franco-inglesi, il principe d'Orange s’era
messo in marcia verso Liegi con un esercito di 23/24mila uomini, la cui la cavalleria spagnola
era comandata dal napoletano Michele Cajafa. Apertosi infine nel corso di questo 1672 un
conflitto tra la confederazione polacco-lituana e l’impero ottomano di Mehemet IV, il 27 agosto
era caduta in mano turca la fortezza di Kamianets-Podilskyi in Ucraina e poi, in seguito ad altri
eventi bellici negativi, la detta confederazione era stata obbligata alla pace di Buczacz (18
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ottobre), con cui cedeva a Maometto IV vaste estensioni di territorio ucraino e accondiscendeva
al pagamento di un tributo; era questa una delle poche guerre europee a cui non partecipavano
soldatesche napoletane.

1673. All'inizio di quest'anno si seppe dell’arresto di parecchi nobili, senza penetrarsene però la
causa; probabilmente si erano accertate altre complicità nella recente congiura del principe di
Macchia (‘Macchiagodena’). La sera del venerdì 13 gennaio giunse dalla Spagna un vascello
che portava una compagnia di fanteria di quella nazione, destinata alla recluta del terzo fisso, e
nei primi giorni del mese successivo ne giungerà una seconda genovese che porterà altri 100 di
quei soldati. In quel mentre la Spagna aveva chiesto al Regno di Napoli un’altra leva per la
nuova guerra che le mire imperialistiche della Francia avevano acceso con l'aggressione, oltre
che del principato di Catalogna, ora anche dell'Olanda; bisognava dunque preparare 6mila
uomini e 12mila cantara (misura di peso divisibile in 100 rotoli) di polvere pirica e di corda-
miccia per mandarli dove si ordinerà con le galere. Questa nuova guerra non sarà però
pubblicata a Napoli ufficialmente prima del 13 dicembre 1673, secondo una prassi che voleva il
riconoscimento formale dei conflitti solo quando questi erano già completamente in atto.
Lunedì 30 gennaio morì a Napoli il famoso Loise Poderico, il quale aveva raggiunto i
massimi vertici della carriera militare, essendo stato più volte capitano generale; ai suoi solenni
funerali parteciparono tutti i principali ufficiali vestiti a lutto, quattro compagnie di cavalleria, tra
cui quella della guardia del viceré, e cinque di fanteria spagnola, insomma un piccolo esercito.
Si era nel frattempo già raccolto in regno un nuovo terzo di 1.200 coscritti sotto il
comando del mastro di campo Titta (Gioan Battista) Pignatelli, evidentemente appena tornato in
patria a questo scopo, e si sarebbe dovuto mandarlo in Catalogna su tre legni che a tal scopo
erano in porto a Napoli sin dal 17 gennaio e che erano già stati caricati di tutte le necessarie
munizioni; non ostante che i soldati fossero stati poi imbarcati sabato 4 febbraio, questi legni
non riuscivano però a salpare e così commentava, lo stesso giorno, il nunzio apostolico di
Napoli:

(Napoli, 4 febbraio:) Più per mancanza di denaro che di vento stanno immobili li vascelli che
devono transportare in Catalogna il 3° di don Titta Pignatello…

I suddetti vascelli salperanno finalmente per Barcellona solo il 10 successivo, dopo però che
alla spedizione si sarà dovuto aggiungere un quarto vascello perché si potesse imbarcare tutti
gli uomini e tutti i materiali previsti. Crediamo opportuno a questo punto chiarire che,
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comparendo frequentemente nelle nostre cronache la parola vascello, con essa ancora a quei
tempi si voleva spesso indicare a Napoli qualsiasi tipo d'imbarcazione e non solo una grossa
nave da guerra, come invece all’estero si stava già incominciando a fare.
Il mastro di campo Gioan Battista Pignatelli perderà presto la vita in Catalogna nella battaglia
del fiume Ter vinta sui francesi dal napoletano Francesco Tuttavilla duca di S. Germano, il quale
era l’anno precedente tornato in Spagna dalla Sardegna come viceré di Catalogna; fu colpito
infatti a una coscia da una cannonata e, sebbene l'arto gli fosse segato dai chirurghi, non
sopravvisse. A quell'epoca le ferite degli arti riuscivano molto spesso mortali in considerazione
che, usandosi risolvere la frantumazione delle ossa con la semplice amputazione, spesso il
ferito moriva per dissanguamento o per infezione post-operatoria o per complicazioni cardiache
dovute all'eccessiva sofferenza. Era in quel tempo in Catalogna un altro terzo napoletano
guidato da un Pignatelli, cioè quello di Domenico (altrove Diego), figlio del duca di Bellosguardo,
il quale sarà però, come vedremo, molto più fortunato del congiunto raggiungendo alte cariche;
inoltre a un napoletano, il duca di Monteleone, era stato affidato in quell'esercito il mastrato di
un terzo spagnolo, onore rarissimo e riservato solo a quegli italiani o valloni che, avendo
ricevuto dal sovrano il titolo di grandi di Spagna, erano equiparati agli spagnoli a tutti gli effetti di
carriera e nel conferimento d’onori e privilegi.
Attorno al 20 febbraio il viceré riunì il Consiglio di Guerra ponendo all’ordine del giorno la
necessità di potenziare l’armamento e le guarnigioni dei Presidi di Toscana a causa della
minaccia portata in quei mari da vascelli francesi e inglesi col pretesto di traffici commerciali e si
pensava di affidarne il comando al capitano generale dell’artiglieria Gioan Battista Brancaccio;
si decise una leva straordinaria di 600 fanti da inviare appunto in quei presidi, ma la cosa andò
per le lunghe a causa della ricorrente penuria di denaro, dovuta, come si mormorava, solo
all’avarizia del viceré, il quale era persino in arretrato di quattro mesi con il pagamento della sua
famiglia, ossia dei suoi servitori, e pertanto questi si erano quasi ammutinati; più volte in seguito
si leggerà, nei dispacci del nunzio apostolico, del comportamento quasi rapinoso di questo
viceré e del suo sistematico non pagare i debiti. Nella notte del martedì 28 febbraio morì il
luogotenente di mastro di campo generale Letizia; sarà sostituito dal viceré, come da suo
viglietto del sabato l’11 marzo, con Domenico Durante, scelto tra i molti pretendenti di
quell’impiego.
A quanto si legge in una vasta storia di Brescia, sarebbe di questo 1673 una grossa fornitura
d'armi da fuoco e da taglio che Napoli ricevette dalla detta città da sempre all'avanguardia in
Italia per la gran quantità d'armi d'ogni genere che riusciva a produrre e a fornire a tutti i

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potentati italiani e spesso anche all'estero. Avrebbe dunque in tal occasione Napoli, pur
essendo essa stessa produttrice di armi, acquistato da Brescia ben 11mila moschetti, 12mila
archibugi, mille carabine, duemila pistole, 8mila picche e 300 partigiane; ma in verità questa
data del 1673 sarebbe da verificarsi, in considerazione che una simile ingente fornitura sarebbe
molto più giustificata se di qualche anno più tarda, cioè se coincidente con la guerra di Messina,
episodio in cui Napoli si trovò a dover provvedere completamente alle necessità di un intero
esercito asburgico.
Pur continuando a chiedere leve di regnicoli la Spagna non tralasciava però per questo di
pensare anche alla difesa dei suoi possedimenti italiani. Nella seconda metà di febbraio
giungeva infatti a Napoli dalla penisola iberica un convoglio di tartane che portava più di mille
soldati spagnoli, i quali, appena arrivati, furono rivestiti e lasciati poi di presidio nella Capitale,
permettendosi così, mentre lunedì 25 marzo giungeva anche una tartana dalla Sardegna che
portava 120 coscritti in quell’isola arruolati, a otto compagnie di loro commilitoni già in Napoli di
partire il 29 marzo per andare a rinforzare di uomini e munizioni i Presidi di Toscana, portati da
tre vascelli e due tartane a noleggio, in cui pure erano stati imbarcati alcuni regnicoli condannati
a servire in guerra; ciò perché il timore d’ostilità francesi nel Tirreno era sempre presente e
giustificato. Uno di questi vascelli però, distaccatosi alquanto dagli altri durante la navigazione,
fu assalito e catturato in corrispondenza delle marine laziali da tre caravelle turchesche, cioè da
quei caramusali barbareschi di cui abbiamo già detto; vi perirono ben 200 soldati e 60 marinai e
a Napoli si criticò poi aspramente l'inspiegabile circostanza che gli altri vascelli non fossero
intervenuti in soccorso di quello aggredito. Forse i barbareschi avevano agito troppo
rapidamente, disponendo di legni più veloci, e infatti avevano attaccato un convoglio non
formato di galere come il solito; ma caso aveva voluto che, come aveva scritto il Fuidoro il mese
precedente, delle sette galere di Napoli allora ben tre non erano più in grado di navigare in
considerazione che sderinate, ossia piegate all’indietro come se avessero le reni spezzate,
evidentemente a causa di fasciame marcito facevano acqua nei locali di poppa, e le altre
quattro dovevano essere già impegnate in altre missioni; d’altra parte allora già si pensava che
vascelli d’alto bordo e ben armati fossero in grado di difendersi da soli. A bordo del vascello
perduto c'erano anche numerose famiglie dei soldati spagnoli e tutti coloro che furono fatti
prigionieri dai corsari poterono però in seguito esser riscattati con il pagamento di denaro
secondo l'uso del tempo; d’altro canto anche i turco-barbareschi persero in quella battaglia una
di dette loro caravelle, la quale, abbandonata dall’equipaggio perché evidentemente troppo
danneggiata dalle cannonate, andò ad arenarsi sul litorale laziale; dentro la stessa fu trovato

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quasi tutto, tranne però i barili di polvere, evidentemente gettati in mare prima della battaglia per
timore che una cannonata li colpisse e facesse saltare tutti in aria.
Alla fine della prima settimana d’aprile si riunì a palazzo il consiglio di guerra per discutere delle
preoccupanti notizie che aveva ricevuto il residente veneziano a Napoli e che dicevano la
formazione di una massa di soldatesche turche alla Vallona, pronte a imbarcarsi sull’armata di
mare ottomana. Certo, dopo la caduta di Candia, antico baluardo della cristianità, i turchi e i
mori loro vassalli scorazzavano ormai con ritrovata tracotanza nel Mediterraneo. In quei giorni
lasciava Napoli per i Presidi di Toscana il suddetto generale dell’artiglieria Gioan Battista
Brancaccio, per cui il nunzio apostolico annotava amaramente che, in seguito a questa
partenza, si poteva dire che l’unico capitano italiano di qualche pregio che restasse a Napoli era
Marc’Antonio di Gennaro. Altra preoccupante notizia di quei giorni fu che la galera S. Giuseppe
aveva rischiato di naufragare.
Sabato 29 aprile entrò in città una compagnia di nuova leva arruolata in qualche provincia del
regno e poi, mentre lettere da Tursi e Gravina portavano notizia che i banditi lucani avevano
saccheggiato il paese di Cirigliano, con altre missive del 14 maggio da Lucera martedì 16 si
seppe che il 13 erano sbarcati i turchi e, messe in ordine ben 14 loro bandiere (‘compagnie di
fanteria’), avevano attaccato S. Nicandro, distante dal mare circa dieci miglia, e che sembrava
che la stessero saccheggiando, per cui il preside di quella provincia si era mosso con un nerbo
di gente per andare ad affrontare il nemico; subito allora il viceré fece partire per quella terra il
soccorso già deciso nel suddetto ultimo consiglio di guerra e cioè 600 fanti spagnoli seguiti
giovedì 1° giugno da tre compagnie di cavalli comandate dal loro tenente generale - poi anche
commissario generale – il veneziano fra’ Virginio Valle e, a questo proposito, il già nominato
diarista napoletano Fuidoro osservava malignamente - o meglio realisticamente - che questi
soldati, i quali faranno ritorno a Napoli col Valle nella seconda metà di novembre, avrebbero di
sicuro fatto in quella zona più danno di quanto fossero riusciti a farvi gli stessi turchi, riferendosi
chiaramente al peso del loro alloggiamento e del loro sostentamento che sarebbe gravato su
quelle Università (comunità) e alle razzie a cui i soldati si davano di solito impunemente nelle
campagne. A proposito del tenente generale Valle, diremo che egli mantenne il predetto suo
alto grado per lungo tempo, poiché già l’occupava nel 1670 e ancora l’occuperà nel 1680. In
seguito il viceré mandò ordine alle compagnie di fanteria spagnola che si trovavano in Abruzzo
di calare alle marine per contrastare eventuali tentativi di sbarco nemici anche su quella coste,
mentre, avvistate due barche di corsari turche dalle coste della Calabria, domenica 4 giugno
quattro galere napoletane lasciarono Napoli per unirsi a quelle di Sicilia e di Malta in una

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spedizione che ripulisse i mare meridionali dai corsari turco-barbareschi; all’inizio del mese
seguente cattureranno infatti una prima galeotta corsara con un equipaggio di 27 greci e due
turchi, i quali erano sbarcati presso Catanzaro in caccia di abitanti da fare schiavi. In seguito, si
ordinerà a dette galere di restare a incrociare in quei mari anche per tutto il mese d’agosto.
Verso il 22-23 giugno il viceré scese nell’arsenale per vedere la nuova galera Capitana che vi si
stava fabbricando e per porre il primo chiodo alla costruzione di un’altra, da lui battezzata S.
Antonio, sollecitando nel frattempo le maestranze perché i due nuovi legni fossero varati nella
seguente primavera; occorrevano infatti non meno di dieci mesi per costruire una galera, specie
una Capitana, essendo questa generalmente bastarda, cioè più larga e pesante delle galere
sottili ordinarie, e con la poppa molto decorata da sculture e dorature. Giovedì 6 luglio fu data la
solita mostra generale dalla fanteria spagnola di Napoli.
Nel diario del Fuidoro, tra gli avvenimenti del luglio, così si legge:

Sono entrate (a Napoli) qualche numero di gente assentate (‘reclutate’) alla guerra e radunate a
forza per le provincie da mercanti capitani di tal negozio; chi si è arrollato per disperazione, chi a
forza e chi per provar pane e sono d’ogni età.

La tragedia della guerra s’innestava dunque in una realtà di disperazione sociale e da essa
trovava anche alimento, perché il mandare a combattere i tanti poveri disgraziati o sfaccendati
del regno era allora considerato un bene per una società che in tal modo si liberava di tantissimi
malintenzionati e uomini disutili, e molto si applaudivano a Napoli i viceré che più a ciò si
dedicavano.
In questo luglio il suddetto Fuidoro anche lamentava l’eccesso del lusso e delle spese fatte dai
napoletani per adeguarsi alle sempre nuove mode e novità che venivano dalla Francia, e quindi,
giamberghe, giamberghini, cravatte, camiciole e calzette di seta, scarpe con alti calcagnini,
lunghe parrucche, dette allora perucche o anche cavigliere posticcie, ecc.:

… Gli spagnuoli anco non ci rimediano perché ci vonno tenere così debilitati per la loro
sicurezza.

Tra il 14 e il 15 luglio giunsero a Nisida dieci galere francesi, mettendo pertanto tutti in allarme,
ma si limitarono a comprare cibo e altre mercanzie e poi ripartirono, comportandosi in sostanza
così correttamente da far smettere per qualche tempo ai napoletani di dir male dei francesi.
Lunedì 17 luglio un soldato della compagnia di cavalleggeri croati si suicidò con la sua pistola, si
disse perché maltrattato dal suo capitano, il quale era chiamato a Napoli Vincenzo ed era
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succeduto a Lucas, conosciuto questi a Napoli come Lucacchio e ricordato come un bravo
soldato; ma, in un suo dispaccio alla Corte Vaticana, il nunzio apostolico riferisce questo
episodio in modo del tutto differente, soprattutto perché considera il detto Lucacchio ancora in
servizio:

Avendo Lucachi, capitano d’una compagnia di croati a cavallo, ferito il suo cornetta (‘alfiere’), è
stato posto (agli arresti) in castello…

Alla fine di luglio erano disponibili mille nuovi fanti italiani (‘regnicoli’), pronti, ben addestrati e in
attesa di essere inviati in Fiandra. Il 4 settembre partirono per Longone e per poi scorrere il
mare le quattro uniche galere di Napoli che erano allora, come abbiamo detto, in condizione di
navigare; il 16 novembre prese possesso della sua carica il nuovo generale delle galere di
Napoli, cioè a Giovan Battista Ludovisio principe di Venosa e di Piombino, marchese di
Populonia, signore di Scarlino e delle isole d’Elba, Montecristo e Fiocco, marchese della
Colonna, conte di Conza ecc. con una cerimonia in cui, come il solito, si videro dette galere
coperte di fiamme e bandiere.
L’avara gestione della cosa pubblica fatta dal marchese de Astorga si poteva costatare anche in
questa fine di luglio e così infatti si legge tra i dispacci del nunzio apostolico:

(Napoli, 5 agosto:) La soldatesca qui è così mal pagata che molti della medesima vanno
elemosinando, onde stà tutta irritata col signor viceré…

Verso il 10 di agosto giunsero in porto due tartane cariche di fanteria spagnola di nuova leva,
mentre lunedì 14 tornarono le quattro galere napoletane dalla loro missione nei mari
meridionali, avendo fatto preda d’una fusta dei turchi e d’una galeotta di greci e, poiché questi
ultimi erano sudditi della Repubblica di Venezia, si cominciò a discutere se si trattasse o no di
buona preda e se bisognasse restituirla a quello stato; inoltre presso Ponza due galere del
granduca di Toscana avevano la settimana precedente catturato due galeotte, un bergantino e
una barca dei corsari turco-barbareschi ed erano poi andate in caccia di due galere bisertine.
Giungevano in quei giorni notizie di diversi sbarchi dei turco-barbareschi sulle marine del regno
e la più grave era quella che deponeva per una scarsa vigilanza delle coste; sbarcati di notte i
turchi da cinque galeotte presso Gallipoli, avevano trovato torrieri e cavallari addormentati e
quindi s’erano senza alcun contrasto inoltrati nell’interno e avevano fatto schiavi 70 abitanti, tra
uomini e donne, e ucciso cinque bambini lattanti; una settimana dopo si seppe ancora che,

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sbarcati nella provincia d’Otranto altri corsari da cinque fuste di S. Maura in Grecia, avevano
catturato 80 persone e ucciso altre quattro che avevano tentato di difendersi.
Finalmente sabato 19 agosto la soldatesca acquartierata nella capitale fu passata in rivista
generale e pagata, specie 1.200 fanti regnicoli di nuova leva che si trovavano nell’arsenale; tra
di loro c’erano 80 banditi accordati e circa 220 condannati la cui pena era stata commutata
nell’obbligo di servizio militare all’estero. Sabato seguente, proveniente da Genova, fece ritorno
a Napoli la galera S. Giuseppe, cioè quella che nella prima parte dell’anno aveva rischiato il
naufragio; poi giunsero tre galere pontificie con il loro generale commendator fra’ Bolognetti,
mentre nella notte tra il 4 e il 5 settembre quattro delle napoletane salpavano per andare a
incrociare lungo le spiagge laziali, un tratto di costa sempre particolarmente infestato dai corsari
nemici.
Giovedì 14 settembre due compagnie di fanti spagnoli lasciarono Napoli marciando verso
l’Aversano; esse avevano la missione di punire gli abitanti dei feudi di Gianserio Sanfelice
marchese di Frignano, i quali si erano ribellati all’autorità regia. Mercoledì 11 ottobre il viceré
fece cavaliere dell’abito (‘ordine’) di Calatrava il capitano della sua guardia alemanna José
Manriquez e poi, verso il 20, il corriero ordinario di Spagna portava la notizia della nomina di
Giovan Battista Ludovisio principe di Piombino al generalato delle galere di Napoli; il nuovo
generale, giunto a Napoli, lunedì 20 novembre fece passare in rassegna tutta la gente di galera.
Martedì 12 dicembre arrivò una tartana che portava a Napoli altri soldati spagnoli di nuova leva;
in quel tempo, a causa delle nuove ostilità contro la Francia, fu proclamato bando di
allontanamento dal regno di tutti i francesi che vi risiedevano.
In quel mentre in Europa era continuata la guerra franco-anglo-olandese e Luigi XIV aveva nel
giugno preso con assedio l’importante città di Maastricht, possedimento che sarà poi restituito
alle Province Unite d’Olanda con la pace di Nimega del 1678. Inoltre, nello stesso giugno
c’erano anche state tre importanti battaglie navali presso le coste olandesi; Inghilterra e Francia
non avevano infatti rinunziato ai loro piani di invasione dell’Olanda e le loro flotte, comandate
dal Rupert, principe palatino del Reno, e dal già ricordato d’Êtrées, si erano dapprima scontrate
con quella olandese del viceammiraglio generale Michiel de Ruyter, coadiuvato dai
viceammiragli Cornelis Tromp e Adriaen Banckert, nelle acque di Schooneveld due volte, cioè il
7 e il 14 giugno, senza che nessuno riuscisse a prevalere, come era successo l’anno
precedente; ma poi nel terzo e definitivo scontro di Texel, avvenuto il 21 agosto, gli olandesi
erano risultati vincitori e l’invasione era stata di nuovo sventata. In seguito a queste belle
imprese di difesa del loro stato compiute dagli olandesi, gli inglesi si convinsero a trattative di

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pace, la quale sarà firmata il 9 febbraio seguente a Westminster, mentre la guerra contro la
Francia continuerà fino al 1677; nel frattempo c’era stato però anche l’assedio di Bonn, durato
dal 3 al 12 novembre, dove la guarnigione francese e dell’Elettore di Colonia, assediata da un
esercito ispano-impero-olandese tra i cui comandanti c’era anche l’italiano Raimondo
Montecuccoli, era stata costretta ad arrendersi.
Era poi in questo 1673 ripresa la guerra della confederazione polacco-lituana contro l’impero
ottomano e l’11 novembre a Chocim il capitano generale polacco Jan III Sobiewski aveva
sconfitto i pasha Hussain, Süleyman e Kaplan, vittoria che gli varrà l’ascesa al trono di Polonia.
Alla detta battaglia le artiglierie polacche erano affidate al noto balistico Kazimierz
Siemienowicz, autore di un trattato d’artiglieria tradotto in tutte le principali lingue europee e in
cui il Siemienowicz, in questo secondo solo all’imperiale Conrad Haas (1509-1576), aveva
teorizzato l’uso militare della forza reattiva della polvere da sparo, cioè aveva progettato dei
razzi non più solo pirotecnici, bensì portatori di cariche esplosive; poiché a Chocim alla battaglia
campale si affiancò anche l’assedio della locale fortezza turca, è credibile che, come dicono, ne
abbia fatto uso o primo uso in quella occasione; i razzi erano infatti armi con tiro ad arcata
assimilabile a quello dei mortari, quindi adatti a un uso ossidionale.

1674. Cinque galere napoletane che, salpate da Napoli sabato 30 dicembre precedente per
portare ai Presidi di Toscana dieci compagnie spagnole, di cui sette in muta e tre di rinforzo di
quei presidi, raccontarono al loro ritorno che avevano dato la caccia a due tartane corsare
francesi in cui s’erano imbattute; il 20 febbraio lasceranno poi la capitale altre cinque compagnie
di fanti spagnoli, probabilmente di quelle che erano da poco tornate dai suddetti Presidi, ma
queste andavano in Abruzzo a combattere il brigantaggio che affliggeva quella provincia. In quel
mentre, verso la metà di gennaio, essendo stato rinnovato un vecchio ordine di Filippo IV che
ordinava, ora a proposito dell’esercito di Catalogna, che sempre si desse, per quanto riguardava
gli avanzamenti di carriera, la precedenza agli ufficiali spagnoli rispetto a quelli di altre
nazionalità, anche quando fossero di umile origine, adesso come allora c’era stata una protesta
degli ufficiali italiani, i quali s’erano doluti di ciò con il viceré; molti s’erano spinti sino a dare per
tal motivo le dimissioni e, privi del loro stipendio, per poter vivere avevano chiesto l’aiuto della
Città di Napoli. Mentre si pensava di istituire magari una nuova tassa a loro favore, il viceré
promise d’interessarsi della questione e, poiché in seguito le cronache non più accenneranno a
dette proteste, c’è da pensare che i nobili ufficiali regnicoli fossero stati in qualche modo
acquetati.

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All’inizio di febbraio s’allestivano due galere destinate a salpare per Genova, dove si recavano a
fornirsi di nuovi arsili o fusti o gusci, cioè a cambiarsi gli scafi evidentemente ormai vecchi e
sdruciti; perché, invece di andare a comprare dai genovesi, non si costruissero due scafi nuovi
nell’arsenale di Napoli è presto detto; era uso del tempo che, quando la sostituzione si
dimostrava urgente e non c’era quindi tempo di aspettare nuove costruzioni, regni e stati
marittimi si andassero a rifornire all’estero, laddove cioè avevano notizia che ci fossero appunto
degli arsili disponibili. Mercoledì 7 marzo s’imbarcarono su tre grossi vascelli d'alto bordo, due
dei quali erano arrivati a Napoli già la sera del giovedì 18 gennaio, e si trattava di uno
maiorchino, uno veneziano e uno inglese, i quali, a tal scopo noleggiati, dovevano portare in
Catalogna i 1.200 soldati regnicoli di nuova leva che erano stati arruolati in osservanza
dell'ordine reale dell'anno precedente e che, rinchiusi nell’arsenale come abbiamo già detto,
erano stati posti sotto la guida del sargente maggiore di battaglia Antonio Guindazzo, appena
tornato in patria per una licenza di sei mesi dopo aver servito all’estero per ben 30 anni, in
Catalogna, Spagna e Fiandra; a causa di venti contrari la partenza avvenne però solo il 19
seguente e ci si può facilmente immaginare in quale disagio, affollamento e ristrettezze quei
poveri soldati fossero stati costretti a vivere a bordo in quei 12 giorni! Certo le galere, anche se
molto più anguste e scomode, erano, per i trasporti militari, molto più vantaggiose, perché non
avevano bisogno di aspettare venti favorevoli per mettersi in viaggio. Le suddette soldatesche
arrivarono in Spagna il mese successivo, segnalandosi però da colà l'arrivo di soli 1.100
napoletani, mentre il Guindazzo riceverà le nomine di capitano generale dell’artiglieria di
Catalogna e di governatore di Tarragona.
Sabato 7 aprile fu varata la galera Capitana la cui costruzione era iniziata più di dieci mesi prima
ed era presente il capitano generale della squadra principe di Piombino.
La mattina di domenica 10 giugno approdò a Nisida la squadra delle galere di Sicilia col viceré
di Sicilia principe di Ligny, il quale passava al vice-regnato di Milano, mentre il suo posto era
stato affidato pro interim al già menzionato marchese di Bayona, allora generale di quelle
galere. Il 12 altri 500 soldati regnicoli di nuova leva, portati da cinque galere, salparono per la
Catalogna per il recupero della piazza di Perpignano allora in mano dei francesi; era in quel
tempo, come abbiamo già ricordato, viceré e capitano generale del principato di Catalogna un
napoletano, Francesco Tuttavilla duca di S. Germano; egli, nato nel 1604, aveva iniziato la sua
carriera come alfiere nel terzo napoletano del mastro di campo Girolamo Maria Caracciolo
marchese di Torrecuso, morto il 17 agosto 1662 nelle guerre di Portogallo, è si trovò quindi a
militare sull'armata oceanica spagnola dell'ammiraglio Federico de Toledo quando questa

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riconquistò S. Salvador del Brasile; divenne poi capitano, tenente generale della cavalleria
napoletana, mastro di campo generale prima in Andalusia, durante le guerre del Portogallo, e
poi dell'esercito del Regno di Napoli. Riformato poi essendo venute a mancare nuove esigenze
belliche, ricominciò da capo, come allora usavano gli ufficiali riformati, da semplice fante armato
di picca, ma alla prima occasione fu fatto sargente maggiore, poi tenente di mastro di campo
generale, poi ancora mastro di campo di un terzo di napoletani e nel 1643 fu chiamato in
Catalogna come generale dell'artiglieria e in quel principato combatte durissima guerra. In
seguito fu inviato come governatore in Tarragona con il titolo militare di mastro di campo
generale, partecipò alla guerra di Portogallo come vicario generale di don Giovanni d'Austria,
divenne viceré di Navarra e poi di Sardegna quando, come abbiamo già detto, vi era stato
ucciso il suo predecessore marchese di Camarassa, e ridusse all'ordine quell'isola
governandola per cinque anni; infine, dopo la dichiarazione di guerra presentata dalla Francia,
fu nominato viceré di Catalogna e Rossiglione e contro i francesi guerreggiò appunto nel
Rossiglione, regione dove i transalpini del maresciallo tedesco Frédéric Armand Meynard conte
( poi duca) di Schomberg (1615-1690) conosceranno in questo stesso primo anno di guerra una
bruciante sconfitta.
Anche in seguito alle predette ultime spedizioni di milizie napoletane, negli anni 1674-1678
risulteranno al servizio della Spagna diversi terzi di fanteria napoletana, tra i quali quelli dei
mastri di campo Domenico Pignatelli, Gioan Battista Pignatelli, Restaino Cantelmo principe di
Pettorano e fratello del duca di Popoli, Gioan Battista Caracciolo dei duchi di Martina e Orazio
Coppola dei duchi di Canzano; quest’ultimo nel 1693 risulterà sargente generale di battaglia
nell'esercito di Catalogna, sarà poi governatore di Girona in Catalogna e infine, dal 1702,
generale dell’artiglieria del Regno di Napoli. Il predetto Cantelmo, il quale era stato capitano di
cavalleria sin dal 1675, due anni dopo già era mastro di campo di un terzo napoletano nella
guerra di Sicilia e, tornata Messina all'obbedienza regia, era tornato a Napoli e poi era appunto
stato inviato in Catalogna con il suo terzo e altre soldatesche. Sarà poi in Fiandra dove,
essendogli stato riformato il suo detto primo terzo perché evidentemente ormai troppo povero di
effettivi, avrà, all'inizio di settembre del 1686, 400 reclute napoletane da unire ai resti del
precedente per la formazione di un altro terzo di piede vecchio, cioè strutturato in una maniera
che ormai le ultime ordinanze spagnole stavano un po’ dappertutto modificando. Nel marzo del
1687 sarà promosso sargente generale di battaglia e, per i suoi particolari meriti, gli sarà
concessa la speciale prerogativa di conservare anche il comando del suo ultimo terzo, cosa
piuttosto rara per un ufficiale generale; tornato infine a Napoli, vi sarà generale dell'artiglieria e il

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19 marzo del 1702 arriverà per lui dalla Spagna anche la nomina a mastro di campo generale
dell'esercito del regno.
Tornando ora alle cronache dell'anno 1674, diremo che il viceré marchese de Astorga, conferito
a Francesco della Sala il comando del presidio di Orbitello, spedì in Abruzzo di nuovo cinque
compagnie di fanti spagnoli, molto probabilmente in muta di quelle che aveva inviato il 20
febbraio, mentre continue erano state in questo primo semestre dell’anno le notizie di banditi
uccisi e di altri portati a Napoli in catene; poi, passato Jose Manriquez, capitano della sua
guardia alemanna, al presidato di Chieti, mise al suo posto Antonio Moscoso Ossorio,
governatore d’Ischia, sostituito questo a sua volta da Francisco Miranda. Giovedì 12 luglio arrivò
da Palermo una feluca in cui il viceré di Sicilia informava quello di Napoli che dal giorno 7
precedente tutto il popolo della città di Messina si era ribellato e armato contro il malgoverno del
loro straticò Diego Soria marchese di Crispano; era questa la prima notizia di quella ribellione di
Messina che presto si trasformerà in una vera e propria ennesima e sanguinosa guerra, la quale
era destinata a protrarsi fino al 1678 grazie all'aiuto militare in agosto richiesto e subito
concesso dalla Francia, sempre pronta a sostenere i torbidi che nascevano nei possedimenti
spagnoli in Italia. Mentre immediatamente si richiamavano a Napoli le compagnie di fanti
spagnoli che guardavano le province d’Abruzzo e s’inviava ordine a quelle di Calabria di armarsi
e tenersi pronte per qualsiasi evenienza, mercoledì 18 salpò la prima spedizione militare per
Milazzo, dove si era stabilito di far piazza d'armi contro i rivoltosi; si trattava di 400 soldati
spagnoli suddivisi in quattro compagnie e di pochi altri soldati regnicoli sulle uniche due galere
che erano rimaste a Napoli ed erano state a tal scopo in fretta e furia spalmate (‘carenate’),
essendo le altre 5, come abbiamo visto, partite il mese precedente per la Catalogna, mentre
altre soldatesche passavano a Milazzo da Reggio e altre si attendevano dalla Sardegna; in
effetti, essendosi inviata in Catalogna anche la squadra siciliana, si riuscirà a raccoglierne una
di 13 galere e cioè due di Napoli, una di Sicilia, cinque genovesi del duca di Tursi e cinque di
Malta. Era allora governatore e capitano a guerra il marchese puteolano Simonetto Rosso, così
descritto in una lettera inviata da Messina il 5 agosto 1674 dal militare Gabriele Merelli, il quale
fu tra i difensori del castello di S. Salvatore:

… il sargiento maggiore governator di Reggiio, chiamato Simonetto Rosso, napolitano, uomo di


gran valore ed in mio tempo capitan d’infanteria nel mio terzo, che valorosamente s’avea portato
alla difesa di Pavia… (Diari della città di Palermo etc.)

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Mentre dopo qualche giorno arrivava al viceré di Napoli una lettera dei messinesi in cui
protestavano fedeltà al re e dichiaravano di aver preso l’armi solo contro il marchese di
Crispano, per aver questi violato i loro privilegi, si arruolavano in tutta fretta fanterie a Napoli e
nel resto del regno, accrescendole con molti delinquenti mandati a Napoli dalle Udienze
Provinciali e si armavano anche i baroni di Calabria Ultra per dare un personale contributo alla
guerra così vicina ai loro feudi. Martedì 24 luglio il nunzio apostolico così scriveva al suo
governo in Roma:

… ‘fra tanto si è mandato don Marc’Antonio di Gennaro a Reggio per far ivi piazza d’armi,
risoluzione stimata universalmente impropria, perché, in ragione dell’arcivescovo di Reggio
morto, fratello di don Marco Antonio, uomo vendicativo, il nome de’ Gennari è odiosissimo in
quelle parti, oltre cha, stando quel paese esausto, non ha bisogno d’un ministro rapace…

Infatti il di Gennaro, il quale era stato prima capitano in Fiandra, poi sargente maggiore in
Estremadura, mastro di campo in Catalogna fino al 1672, nella notte del sabato 21 era partito
con diverse feluche, con la nomina a preside delle due Calabrie e di governatore dell’armi della
piazza d’armi da stabilirsi a Reggio, con il compito di evitare che il contagio rivoluzionario si
estendesse al continente e con ordine di mettersi a disposizione del viceré pro interim di Sicilia
nonché capitano generale di quella squadra di galere Francisco Diego Bazan Y Benavides
marchese di Bayona, per il quale in effetti sin dal 9 aprile precedente decorreva la promozione
al generalato della squadra di Spagna, ma che evidentemente, in considerazione dei sempre
più gravi problemi politici e militari ora collegati al suo vice-regnato interinale, non era stato
ancora in Sicilia sostituito e non aveva potuto quindi tornarsene in Spagna. In quel mentre
proprio sabato 21 e il giorno seguente i messinesi avevano dai baluardi preso a cannonate il
castello del Ss. Salvatore, il quale era ancora in mano dei realisti sotto la castellania del mastro
di campo Francisco Darauzo Pimentel, e da questo i difensori avevano replicato colpo su colpo;
ma, pur assediando il castello, si preparavo essi stessi a sostenere un assedio e scavano
trincee e tagliate (‘contromine’) e, raccoltisi in ben 12mila, si spinsero sino a Spatafora, cioè fino
a sole sei miglia dal campo realista di Milazzo contro Messina, dove già si andavano
raccogliendo soldatesche; poi, chiuso il porto della città con una catena a evitare l’arrivo di
soccorsi al palazzo del governo, dove erasi rinchiuso il Soria, minarono in quattro punti detto
edificio e ne fecero saltare in aria tutta quella parte che comprendeva la cavallerizza; lo straticò,
vedendo tanti dei suoi soldati rimasti uccisi o feriti dall’esplosione, si arrese onorevolmente e
con patti e venerdì 3 agosto, in ordine militare, uscì con tutti suoi - soldati e merli (‘realisti’) - dal
palazzo e si ritirò nel castello, le cui opere murarie soprastanti il terrapieno erano state tutte
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demolite dalle cannonate dei rivoltosi. Ottenuto questo successo i malvizzi (i ‘tordi’, ossia i ribelli)
si dettero alla caccia degli avversari e appiccarono in più volte per un piede circa 160 merli, due
donne (oggi diremmo ‘due collaborazioniste’) e, con il taglio della testa dovuto ai nobili,
giustiziarono un cavaliere di casa Cappardi perché genero di Tomaso Cirino, uno dei capi del
partito filo-spagnolo. Arrivarono a Milazzo anche le galere dell’ordine di Malta con il loro
generale Spinola e con Francesco Carafa priore della Roccella, il quale portava 500 soldati
mantenuti a sue spese.
Alla fine di luglio si pubblicò un indulto per quei banditi che avessero accettato di andare a
servire da militari nella guerra di Messina, ma non ebbe alcun successo, come poi il 14 agosto
scriverà al suo governo il nunzio apostolico:

Non v’è stato pure un bandito che si sia valso dell’indulto, segno del poco timore che s’ha della
Corte…

Nei primi giorni di agosto il corriero ordinario di Spagna recò la triste notizia della morte di Gioan
Battista Pignatelli, mastro di campo del terzo italiano in Catalogna, morto dopo dieci giorni da
una cannonata che lo aveva colto in una gamba.
Il di Gennaro arrivò a Reggio la notte del 29 luglio; mentre subito, per ordine del viceré di
Napoli, inviava ai messinesi il suo tenente di mastro di campo generale Paulo Giarrone, latore di
una lettera del vicerè di Napoli che proponeva ai messinesi una nuova concordia con la
garanzia di un’indiscutibile giustizia reale, ma riportandone solo una risposta poco conciliante;
contemporaneamente e senza indugio il di Gennaro scrisse indispettito al detto viceré d’aver
trovato a Reggio solamente non più di 1.200 fanti e 250 cavalli, oltretutto male in ordine e
sprovvisti di viveri; malgrado fossero in arrivo 2mila ducati siciliani mandati all’uopo dal suddetto
marchese, egli preferì non aspettare e avvalersi del denaro portato dagli ufficiali pagatori di
Napoli arrivati il 9 agosto e pare che, non essendo questo sufficiente, aveva dovuto metter
mano alla sua borsa e anticipare 500 ducati per un urgente acquisto di grano e orzo. Gli arrivò
poi dal marchese di Bayona ordine di trasferirsi immediatamente a Milazzo ed egli vi arrivò nella
notte del 10 agosto con 500 uomini e con il grado di mastro di campo generale appena
conferitogli dal detto marchese, essendo stato sostituito nel comando pro interim a Reggio con il
preside di Catanzaro, il duca di Santo Vito, il quale sarà a sua volta rimpiazzato dal mastro di
campo marchese del Tufo, il quale arriverà a Reggio il 12 settembre, mentre altri 750 uomini
erano portati a Milazzo dalle cinque galere di Malta che si trovavano a Reggio per dare una
mano, ma che avevano fretta di tornare alla loro isola; egli aveva contemporaneamente inviato il
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suo sargente maggiore Paolo Mongino con altri 600 a occupare Taormina, come ordinato dal
detto marchese.
In quel mentre a Napoli non si avevano per nulla le idee chiare sul come affrontare la
situazione, giacché mancavano soldi e soldati per affrontarla; il Collaterale di guerra non
s’intendeva e la Giunta di Stato e Guerra del viceré non brillava per acutezza; a questo
proposito leggiamo ancora il suddetto nunzio:

(Napoli, 11 agosto:) … Il Collaterale di Cappa Lunga ha perse affatto le staffe, non sa quello
voglia, la materia è molto differente dalla sua professione che non è altra che di legge, perché,
avendo quasi tutti li reggenti avvocato, non se stende più avanti il loro valore; quelli che
intervengono alla Giustizia (‘Consiglio’) di Guerra sono il mastro di campo generale, il quale per
merito del fratello duca di S. Germano è a questo posto e, avendo lontano il fratello, non ha
vicino l’attività (‘non sa che fare’); il generale Brancaccio, (è) soldato vecchio e buono per
operare, ma (è anche) di quelli noti che nelle congregazioni si contentato di dire sempre ‘in
eodem’ (‘sono a favore’); il tenente generale della cavalleria cavaliere Valle, veneziano, che, per
aver già trattato la ribellione di Condé, ha questo posto, nel resto non vale molto; il maestro di
campo del terzo spagnolo è soldato, ma tanto mostruoso per la grossezza che è inutile
all’operare e poco atto al parlare, ecco tutto il Consiglio di Guerra.

A Milazzo era nel frattempo incominciato l’afflusso di numerose milizie inviate sia dai baroni di
Sicilia sia dalla piazza d’armi di Reggio, anche se non tante da giustificare la menzogna di
avervi già riunito un esercito di 15mila uomini, detta evidentemente per spaventare i messinesi,
mentre erano molto più credibili le notizie che dicevano a Reggio essersi in pochi giorni
ammassati circa 5mila soldati tra fanti e cavalli. Tenutasi giunta di guerra a Milazzo nella stessa
notte del 10, il di Gennaro cominciò subito ad anteporre diverse difficoltà all’apertura delle
ostilità contro i messinesi e a dire che era il viceré di Napoli che gli aveva ordinato di tentare
prima la strada della trattativa; prevalse comunque il parere di Orazio della Torre, uomo del
suddetto marchese di Bayona, il quale era invece per iniziare subito con le azioni di guerra, e
quindi si organizzò una spedizione per impadronirsi di luoghi alti presso Rametta detti li Colli, i
quali erano in mano dei ribelli, con 700 spagnoli e 300 fanti del Battaglione, essendo i primi
governati dal principe di Belvedere di casa Carafa, per questo evidentemente grande di
Spagna, e i secondi da Francesco d’Allegranza; stabilita nella detta Rametta, luogo a metà
strada tra Milazzo e Messina, una seconda piazza d’armi, le forze del di Gennaro ne uscirono e,
dopo un primo successo iniziale, furono però caricate così decisamente dai messinesi, circa
3mila fanti e 600 cavalli comandati dal cavaliere di Malta siciliano fra’ Tomaso Crisasi, i quali,
usciti all’improvviso da tre fortini e un vallone, fecero fuggire a rotta di collo tutti i realisti; ed ecco

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a tal proposito un brano di una lettera privata del di Gennaro inviata il 20 agosto a qualche suo
confidente da Rametta, dove egli si era poi ritirato:

… ma i nostri fuggirono tutti, anco li spagnuoli, senza restarne più che 4 o 5; si procurò farli
ritornare con buone parole e con rigori, ma non si poté conseguire niente, perché si buttavano
tutti a terra, e, ancorché si avanzò con altri 200 uomini di soccorso con la persona del col.
Bondibendi, ma né l’uno né l’altro volsero avanzarsi. Cosa molto miserabile l’aver da combattere
con gente come questa, senza valore, senza ubedienza né timore di Dio, già che rubbano le
case, le persone e le chiese (om.) Si fece la ritirata con ordine e con una perdita di 20 uomini tra
morti e feriti, tra’ quali uno solo di reputazione dell’abito (‘dell’ordine’) di S. Giovanni chiamato
Gioan Gicaliero, cavaliere abile, al quale tagliorno la testa gridando ‘viva Maria e il re di
Francia!’
Io mi detengo in questo campo aspettando gl’ordini del sig. marchese di Bayona e, se
una volta torno (‘se mi riesce di tornare’) a Melazzo, come spero, procurerò di (‘da’) questo di
ritirarmene in Reggio, risoluto a non perdere la vita e reputazione con questa gente
(ruba)galline, ladroni e disubbedienti, senza pane, senza denari, senza monizioni e senza
officiali, che necessitano di avere tolta (‘di essere oltretutto liberati da ‘) una giunta di toghe, che
parlano a sproposito (A.S.V. Nun. Nap.)

Che le forze affidategli fossero tutt’altro che buone e preparate, come qui denunciato dal di
Gennaro medesimo, era sicuramente vero, ma che un comandante in capo dimostrasse tanto
poco polso da non riuscire a mantenere in campo nemmeno l’ottima fanteria spagnola e inoltre
tanta mancanza di determinazione da pensare a squagliarsela quanto prima possibile era
certamente molto grave e pregiudizievole per il buon esito della guerra.
Sabato 18 agosto si era riunita a Napoli la predetta Giunta di Guerra, la quale aveva deliberato
la leva di 3mila nuovi fanti e 600 cavalli, riservandosi il viceré di pubblicarne a breve le nomine
degli ufficiali; la sera dello stesso 18 erano arrivate tre galere della Repubblica di Genova, le
quali ripartiranno poi solo la mattina del sabato 25 per Messina comandate dal loro commissario
generale Gioan Agostino Durazzo di conserva con altre due della stessa repubblica che già si
trovavano in darsena a Napoli e con una nave e due tartane che portavano 400 fanti di nuova
leva tenuti fino allora nell’alloggiamento-reclusorio dell'arsenale e prima di quel giorno non
ancora pronti per l’imbarco; questi velieri portavano inoltre bastimenti da vivere e da guerra,
bombe e artifici di fuoco per opprimere l'ostinazione delli messinesi, infine 2mila vestiti per i
soldati e 50mila scudi per il loro soldo. Il marchese de Astorga faceva nel frattempo pure
marciare alla piazza d'armi di Reggio buona parte delle altre milizie disponibili, mentre si aveva
notizia da Milazzo che erano colà giunti due vascelli provenienti da Finale e che portavano due
interi terzi di fanteria, cioè uno di milanesi e uno di borgognoni (‘valloni’), e poi che vi erano
anche arrivate le galere di Napoli, Sicilia e Sardegna; inoltre il nuovo governatore militare di

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Reggio era riuscito frattanto a introdurre in soccorso 300 briganti calabresi accordati nel
predetto castello del Salvatore in Messina, la cui guarnigione era dunque rimasta fedele e
resisteva all'assedio dei messinesi, e inoltre raccolse nella stessa Reggio 1.500 soldati del
Battaglione. Queste milizie territoriali si stavano, in effetti, riunendo non solo in Calabria, bensì
in tutto il regno, giacché, come abbiamo già detto, loro obbligo istituzionale principale era la
difesa dei confini e delle marine in caso d’aggressione da parte di qualsiasi nemico; ma non
davano buona prova di sé, a giudicare da quanto ne scriveva in quei giorni il suddetto nunzio
apostolico di Napoli a proposito delle grandi difficoltà di gestione della crisi che il viceré
marchese de Astorga stava incontrando:

…Per le faccende di Messina, ridotte a segno di diventare le guerre de’ Paesi Bassi in piccolo,
si tengono continui Collaterali (om.) La soldatesca del ‘Battaglione’ riesce peggiore di qual si sia
più perfida nazione, non perdonando né a robba né a onore né a cose sagre, in modo che si
puol temere la continuazione de’ disturbi (‘sedizioni’) dalla Giustizia di Dio, che viene ‘sì
empiamente irritata…

Questi giudizi sono più gravi di quello che sembrino perché, per essere proposti come membri
di quella milizia, bisognava essere persone di un certo reddito e d’una certa qualità e istruzione,
cioè appartenenti alla parte migliore della società provinciale, dovendone pertanto essere
teoricamente esclusi poveracci, mendicanti, vagabondi e malviventi; invece il comportamento di
tali miliziani era un altro chiaro segno che il determinarsi della ‘questione meridionale’ non si
può ascrivere a dure e crudeli dominazioni straniere bensì a endemie nazionali; d’altra parte,
per portare un esempio molto calzante, la Lombardia dovette sopportare negli stessi secoli e
per uno stesso tempo un’identica dominazione spagnola, avendo in più la disgrazia di dover
essere campo di battaglia e di passaggio di svariati eserciti stranieri pressoché continuamente,
circostanza che invece al Regno di Napoli, per la sua più felice posizione geografica, fu in quei
secoli risparmiata.
Certo bisogna dire anche che i miliziani del Battaglione erano dal governo spagnolo mandati
alla guerra di Messina abbastanza allo sbaraglio, come si può leggere in una relazione da
Milazzo del successivo 19 ottobre; in essa infatti, mentre si chiedeva un urgente invio di rinforzi,
perché le forze colà a disposizione erano insufficienti a qualsiasi azione e non potevano far altro
che restarsene chiuse in quel campo, si definivano detti miliziani gente del tutto inutile perché
del tutto disarmata e addirittura priva di vestiti:

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… porque de los Vatallones no ay que hacer (om.) porque estan esnudados, particularmente
los de la isla (di Sicilia)

Si faceva sì anche leva di nuovi fanti, ma - come abbiamo già ricordato - non per costituire nuovi
terzi, ma solo per reclutare, ossia per rinfoltire i ranghi di quelli già esistenti; si levavano però
nuove compagnie di cavalleria, arma questa molto più blasonata della fanteria e quindi meno
sensibile ai richiami rivoluzionari. Iniziava così una sanguinosa e difficile guerra che avrebbe
ulteriormente impoverito le già sfruttate risorse del Regno di Napoli:

... E tutte le spese della presente guerra contro de’ messinesi ribelli, contro i francesi in
Germania e in Fiandra e nello Stato di Catalugna in Perpignano la maggior parte esce da
questo impoverito Regno e perciò la soldatesca spagnuola vive col solo pane di monizione e
senza paghe da più mesi...

Ci si riferiva qui ovviamente ai soldati spagnoli rimasti di guarnigione a Napoli. Intanto la guerra
contro la Francia procedeva male in Fiandra, dove combattevano naturalmente anche reparti
napoletani; di una prima sconfitta subita il 16 giugno a Sinzheim dagli imperiali, comandati dal
duca Carlo di Lorena e dal generale Caprara, a opera dei francesi guidati dal visconte de
Turenne non sembra si sia parlato a Napoli e di una sostanziale seconda ottenuta l'11 agosto in
Belgio a Seneff, località tra Nivelles e Charleroi, dal principe di Condé sull’esercito ispano-
tedesco-olandese di Guglielmo III d’Orange si ebbe dal governo napoletano solo notizia distorta,
in considerazione che la si presentò invece come una disfatta dei francesi, i quali in realtà
ottenevano successi anche nella Franca Contea, sottraendola così all'influenza spagnola, e nel
Palatinato. Anche ignorata fu la terza vittoria francese, cioè quella ottenuta il 4 ottobre a
Entzheim presso Strasburgo dal de Turenne sui confederati condotti ora, oltre che dai predetti
Carlo di Lorena e generale Caprara, anche dal duca di Borneville, mentre ne era ufficialmente
capitano generale Guglielmo III d’Orange. Frattanto nel settembre, tra le numerose soldatesche
confederate che raggiunsero l'Olanda per difenderla dai francesi, c'era un tercio di fanteria
comandato dal napoletano Pietro d'Ávalos.
In Sicilia, frattanto il marchese di Bayona aveva ufficialmente pubblicato le nomine per lo stato
generale dell’esercito che si stava ammassava a Milazzo e del quale egli stesso era il capitano
generale; erano le seguenti:

Marc’Antonio di Gennaro, mastro di campo generale.


Roque Gomez de Mella e il commendator fra’ Martín Novariz, tenenti del suddetto.
Il principe di Belvedere di casa Carafa, governatore e comandante della fanteria.
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Diego Bracamonte, generale della cavalleria.
Juan Mugnoz e Gregorio Rosselli, alfieri e aiutanti di cavalleria.
Francesco Franchet, generale dell’artiglieria.
Pedro de Aguirre, commissario generale della cavalleria leggera.
Marc’Antonio Passaro e Francesco Lopez dele Cante, sergientos mayores napolitanos.
Pietro Vincenzo Anastasi e Ettore Infamai (sic), aiutanti dei suddetti.
Marchese di Geraci di casa Ventimiglia, generale della cavalleria di servizio militare, cioè delle
milizie territoriali a cavallo.

Sembra ci fosse poi un nobile cosentino in qualità di mastro di campo delle milizie territoriali
siciliane e calabresi. Appariva inoltre che il di Gennaro si fosse un po’ riabilitato accorrendo con
la sua cavalleria al soccorso di Rametta, città guardata da 300 fanti e che i messinesi avevano
tentato di sorprendere; ma le voci dicerie sul suo conto in Sicilia continuavano, come annotava
nel suo diario Vincenzo Auria:

Si divolgano per tutto dicerie, verificate da molti, de’ tradimenti del Gennaro maestro di campo a
Melazzo, che se l’intenda coi messinesi e però (‘perciò’) non aver operato cosa a favor del Re,
anzi portato le nostre genti a passi così difficili che furono a man salva trucidate dai rebelli; oltre
esser egli un vecchio che attendeva a ben mangiare e meglio vivere (Cit. P. 253).

Il 23 agosto arrivò a Reggio nuovamente la squadra di Malta, sulla quale furono imbarcate molte
munizioni da guerra e viveri per andare a cercare d’introdurli un po’ alla volta nell’assediato
Castello del Salvatore, il cui castellano, questo invece un valoroso portoghese, giurava che non
si sarebbe mai arreso, tanto più che detta fortificazione era difficilmente cannonabile da terra,
pressoché impossibile da offendersi con le mine e l’unico modo per prenderlo sarebbe stato
scalarne le mura con un diluvio di gente come facevano gli eserciti ossidionali ottomani.
Pubblicatosi frattanto a Milazzo un indulto per i rivoltosi, fu presentato ai messinesi dai
genovesi, i quali tentavano di mediare, e precisamente da un cavaliere di casa Grimaldi inviato
dal generale Spinola, ma la precondizione dei rivoltosi era sempre la stessa inaccettabile e cioè
che prima gli spagnoli ritirassero tutte le loro forze dal Messinese e che poi si cominciasse a
trattare; al contrario a Milazzo arrivavano rinforzi e cioè due vascelli carichi di fanteria e scortati
dalle galere di Genova e la squadra di Malta che portava i suddetti 500 uomini pagati dal priore
Carafa e tre altri corpi di fanteria, tutti imbarcatisi il 29 agosto a Reggio; il mese successivo
però, in seguito a contrasti di precedenza con le galere di Genova, il generale Spinola, generale
di quelle di Malta, ripartì con la tutta la sua squadra riportandola a Reggio. Nonostante i suddetti
rinforzi, la situazione del corpo di spedizione realista continuava però a non essere per nulla
rosea, come si legge in una missiva di quei giorni:

102
… (i messinesi) hanno fatte varie tagliate alla campagna (‘barricate verso l’interno’), sono ben
provveduti di tutto né se li è fin ora serrato il mare (‘bloccato il porto’), le fortezze, fuori che il
Salvatore, sono in loro mani; a Melazzo (invece) a pena sono 3mila uomini, mal provveduti e
poco in gambe, essendo l’aria cattiva (‘l’igiene insufficiente’) e li corpi poco avvezzi ai
patimenti… (A.S.V. Nun. Nap. 82)

Si aggiunga a ciò che i messinesi ricevevano segretamente viveri di contrabbando dalla stessa
Calabria e ciò nonostante fossero stati emessi bandi rigorosissimi contro questi traffici, infine
che nella stessa Messina s’esultava con suono delle campane e scariche a salve perché il re di
Francia aveva pubblicamente dichiarato loro il suo appoggio e che avrebbe mandato un’armata
a soccorrerli.
Sabato 8 settembre il viceré marchese de Astorga partecipò come il solito aIla processione
della Madonna di Piedigrotta, ma questa volta, a dimostrazione ch’erano tempi di guerra, si fece
accompagnare da due compagnie di cavalleria e da tutte le quattro di fanteria spagnola che
erano solitamente di presidio a Napoli. Mentre a Messina entrava il giorno 12 il marchese di
Santa Caterina di casa Gattola, inviato dal di Gennaro a portare a quel ribelle senato una lettera
responsiva del viceré di Napoli, e si nutrì poi qualche preoccupazione per lui perché a tutto il
giorno 17 non aveva fatto ancora ritorno, a Reggio nei giorni 12, 13 e 14 dello stesso settembre
arrivavano otto compagnie del Battaglione di Basilicata, a Napoli lo stesso predetto lunedì 14
settembre giunse un grosso vascello da guerra maiorchino che portava 700 fanti veterani
milanesi e tedeschi (bellissima gente) inviati dal governatore di Milano principe di Ligny perché
fossero impiegati nella guerra e infatti ripartirono per Milazzo mercoledì 19 seguente, avendo
preso a Napoli a bordo anche 400 spagnoli che erano stati sottratti ai Presidi di Toscana,
mentre partivano in quei giorni per la stessa destinazione molti altri legni carichi di provvisioni da
guerra e si preparava ancora un primo nucleo di convoglio di quattro tartane per mandarvi altre
genti e munizioni, tra cui due compagnie di cavalli (di queste che sono di presidio fin dal 1648 a
guastar danari in Napoli.) Dovendosi poi portare provvisioni anche ai Presidi di Toscana ed
essendo tartane e galere napoletane tutte impegnate per la guerra ai confini di casa, si
preparava anche la nave veneziana Sansone all’uopo noleggiata. Arrivarono a Napoli in quel
mentre anche lettere dal Messinese datate 12 settembre, nelle quali si raccontava che i regi
avevano tentato Lombardello un passo presso Scaletta Zanclea occupato dai rivoltosi, questi,
comandati dal già ricordato fra’ Tomaso Crisasi, avevano alzato bandiera bianca e, quando detti
regi avevano pertanto preso ad avvicinarsi fiduciosi allo scoperto, i messinesi avevano invece
proditoriamente sparato una salva di moschettate uccidendone circa 70, mentre in
103
quell’occasione i realisti si erano anche accorti che i siciliani che stavano dalla loro parte erano
altrettanto traditori poiché sparavano verso i ribelli senza palla; inoltre nei giorni 14 e 15
cinquanta feluche armate dei ribelli scorsero la costa di Catona presso Reggio, impegnando in
lunghi conflitti a fuoco le forze realiste che le guardavano; infine, essendosi arresi ai rivoltosi il
castello di Matagriffone prima e quello di Gonzaga poi, detto Castellaccio, al castellano di
questo era stata fornita una feluca perché potesse allontanarsi, mentre si facevano imbarcare
tutti i suoi uomini su una tartana, la quale nel porto del Faro era stata poi assalita e depredata
dal corsaro malvizzo Gioseppe Mandeo, detto il Tiranno, il quale fece decapitare tutti i merli che
trovò a bordo di quel legno, dei cui corpi poi otto fece appendere per un piede sulla stessa
tartana e gli altri gettare a mare.
Il di Gennaro continuava a scrivere ai suoi confidenti lettere scoraggiate e scoraggianti:

(Milazzo, 12 settembre:) È in tutti generalmente afflizione in questa guerra, perché le cose


vanno sempre di male in peggio per non esservi capitale né modo di pigliare risoluzione,
essendo la gente di ambidue i regni non più di 3mila e di tanta mala qualità che ieri da 50 cavalli
de’ messinesi furono messi in fuga 150 delli nostri e 200 fanti e questo successe alla parte
(‘dalle parti’) della Scaletta.
Non ci potemo impegnare a nessun posto, perché sapemo di certo che non si ha da far niente e
ne ha da succedere (‘che non c’è nulla che si può fare senza che ne consegua’) una disgrazia,
perdendosi l’onore e la vita. Tutti li castelli di Messina si sono persi, solo è rimasto il Salvatore, il
quale, attaccato da tante parti, non so come possa resistere; il Faro (‘il porto’) è sempre stato
aperto per che non s’è avuto con che serrarlo ed, ancorché si facci quanto si può per toglier a’
messinesi la comunicazione col paese vicino, non si è conseguito nissun utile, perché escono di
Messina 40 feluche ogni notte, se ne vanno alla Bagnara (Calabra) e la mattina se ne ritornano
cariche di tutto il bene di Dio, ed anco seguitano (‘inseguono’) le nostre. Non si hanno potuto
conseguire (‘ottenere’) in due regni sei bergantini, anzi, per mettere in ordine una galeotta, si
mandò a Palermo e, doppo un mese essendone tornata questa mattina, ancora non stanno
fatte le vele; sono cose che mi fanno perdere il giudizio.
Le galere di Malta e di Genova servono di sola prospettiva (‘fanno solo da bello sfondo’) e non
più; l’armata di Francia si sta aspettando, conforme i messinesi pubblicano, ed i nostri soccorsi
(sono invece solo) in profezia.
… L’espugnar Messina con armi per terra è una supposizione falsa e spropositata, stando
circondata di colli così forti per natura che si fanno impraticabili… (ib.)

È del 16 settembre una relazione ufficiale inviata dal di Gennaro al viceré de Bayona in cui gli
riassume tutto il suo operato sino allora e fa delle considerazioni sugli ulteriori preparativi di
guerra a suo avviso necessari:

… Quando al 10 agosto presi il comando (a Milazzo) trovai 54° spagnuoli, 400 uomini di
‘Battaglione’ che vennero con le galere con le quali io passai qua e 1.300 siciliani e questi senza
capitano, alfiere e sargento, senza apparecchi di provisioni, pochissime monizioni e senz’alcun
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capo (om.) trovai sino al n.° di 300 cavalli, inclusi in quelli la compagnia di borgognoni guardie di
Vostra Eccellenza, che se componeva d’80 uomini, 200 della condotta di don Augustino
Cavalaro e 48 assoldati dal principe d’Aragona.Tutta questa cavalleria, eccettuata la compagnia
de’ borgognoni, stava senza alcun capo, poiché gli mancavano capitano, tenente, alfiere e tutti
gl’altri officiali, tanto che si vidde Vostra Eccellenza obbligata di nominare alcuni capitani di
cavalli i quali elessero per officiali alcuni soldati de ‘ borgognoni, con che venne a scemarsi (di
soldati semplici) quel corpo… (ib.)

La relazione con il resoconto della giunta di guerra in cui si era deliberato di andare a
soccorrere i castelli di Gonzaga e Matagriffone e con la relazione del conseguente sfortunato
scontro de li Colli, dal di Gennaro ora descritto in maniera più formale e naturalmente senza più
lasciarsi andare alla suddetta privata disperazione, ma comunque sempre dipingendo una
situazione militare del tutto rovinosa:

… E come poteva Vostra Eccellenza operare dalla parte della Scaletta, mancandoli il mezzo
principale che è la gente di spirito (‘ardimento’) ed avendosi (invece) da combattere con gente
fortificate (‘d’esperienza’)? E, se si va nella pianura, non vi è cavalleria, poiché quella che
Vostra Eccellenza tiene è tanto vile che li giorni passati 450 di questi fuggirono da 50
dell’inimici, se pure erano tanti (om.)
Quel che si è mancato di fare in questa operazione è stato il non aver serrata la comunicazione
del Faro, che a Vostra Eccellenza è stato impossibile perché, se ha armato dieci felluche,
l’inimici ne hanno armate 30; li bergantini che si sono avuti a moneta Vostra Eccellenza non l’ha
potuti (ri)avere; le galere di Malta e di Genova che assistono a Vostra Eccellenza sono (solo) di
prospettiva, perché nessuna di queste vuole operare a qual si può (‘a qualsivoglia cosa si
possa’), scusandosi con li pretesti che dicono sappia Vostra Eccellenza, ed anche dicono d’aver
fatto assai di (‘già molto col’) trasportare la gente da una parte all’altra (om.)
Signore, ancorché io sia di parere incontrario a quelli che pensano d’espugnar Messina a forza
d’armi, (om.) ad ogni modo, quando Vostra Eccellenza abbia quei 4.000 fanti con effetto
(‘effettivamente’) e 600 cavalli de’ quali possa fidarsi - dico quattromila fanti per quelli che
potessero andarsi perdendo alla giornata, si potria (om.) e soprattutto è necessario, per
assicurare la riduzione di Messina, che concorrano tutte le galere di Sua Maestà con l’armata
reale (om.), ricadendo a Vostra Eccellenza di sollecitare al Signor Viceré di Napoli e (al)
Governatore di Milano che l’assistano con gente pagata, poiché di quelle di questo Regno (di
Sicilia) e del Battaglione di Napoli non se ne può fare capitale alcuno (ib.)

Il di Gennaro era dunque per prendere Messina per fame e non per assalti. Il 17 settembre
passò per Reggio un convoglio di 15 feluche scortate da una galeotta e da tre bergantini; erano
legni carichi di provvisioni da guerra e di viveri per il Castello del Salvatore, il quale ancora
resisteva proprio perché ben armato e provvisto; disponeva infatti di 30 cannoni grossi e
colubrine oltre a una quantità di pezzi minori, era difeso da 500 fanti spagnoli divisi in cinque
compagnie e dai predetti briganti calabresi ed disponeva nei suoi magazzini di munizioni e viveri
per un anno. Il giorno seguente questo convoglio catturò al Faro di Messina un petacchio
mainoto, cioè appartenente a gente di Maina in Grecia, e lo trovò carico di grano destinato alla
105
città di Messina. In quel mentre il viceré di Napoli teneva continue consulte del Collaterale per
discutere la crisi di Messina, mentre qualsiasi altro argomento era rimandato a tempi migliori; si
diceva che in uno di quei consessi si fosse deliberato di servirsi delle compagnie baronali
d’uomini d’armi, anche se, come sappiamo, i loro statuti non lo avrebbero consentito, e ciò
perché Messina era così vicina ai confini del regno da costituire per esso una concreta
minaccia; alla fine del mese giunsero a Napoli una polacca e una tartana genovese cariche di
180 soldati spagnoli con il loro capitano Gabriel de Alcázar ed altri ufficiali; tutti costoro erano
stati fatti prigionieri per mare dai tunisini ed erano stati riscattati con denaro portato a Tunisi da
un frate trinitario, ordine che da secoli esercitava appunto questo benemerito incarico a favore
di quegli schiavi cristiani di Barbaria per i quali parenti o istituzioni avessero raccolto la somma
richiesta dai barbareschi per liberarli; le cronache non ci dicono se costoro fossero stati poi
riportati in Spagna per il necessario riposo o se siano invece subito stati impiegati sul fronte di
Messina.
Gli spagnoli continuavano frattanto a far affluire da tutto il Tirreno in Sicilia soldatesche da
avviare alla piazza d’armi di Milazzo:

Martedì, 25 di settembre. La notte arrivarono nel molo di Palermo cinque tartane con mille
soldati partiti da Sardegna con il signor marchese di Villasor, secondo titolato di detta isola
(om.), per andar in Melazzo in soccorso del viceré contro Messina. Si fermarono li detti soldati
dentro la fortezza del molo di Palermo, mentre che, essendo trecento di essi quasi tutti nudi con
li piedi in terra (‘privi di calzature’) , se gli fanno li vestiti a spese del Real Patrimonio di questo
regno di Sicilia, con darli anco spade, archibuggi e moschetti; e poscia, posti in ordine di soldati,
s’invieranno a Melazzo a disposizione del viceré (V. Auria, cit. p.254).

Stavano gli assedianti organizzando d’introdurre soccorsi di soldatesche regolari nel castello del
S. Salvatore e forse sulla giusta strada per prendere la città ribelle per fame, quando il 29
settembre, accolta da acclamazioni, salve d’artiglieria e stendardi del re di Francia, arrivò a
Messina una squadra francese comprendente sei vascelli, un brulotto e tre tartane, comandata
dal commendator fra’ Pierre-Bruno de Valbelle-Monfuron (1636-1702) a bordo del St. Esprit e
dai cinque capitani d’Agly, de la Gravier, de la Fayette, de Angirone e Lery; apparsa in rada già
il 26, entrò in porto e sbarcò 2mila soldati (3mila secondo l’Auria), viveri e munizioni, il tutto
accolto dai messinesi con sollievo, allegrezza e manifestazioni di giubilo; si diceva però che i
francesi esigessero dai messinesi per tal aiuto una pesante contropartita, la quale alcuni
quantificavano in 200mila scudi, il che indiziava che la Francia, pur cercando ora di trarne
vantaggio, non aveva in realtà fomentato la rivolta Messinese; in realtà i messinesi offrivano al
re di Francia un tributo annuo di centomila scudi e al soccorso militare appena giunto il castello
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del S. Salvatore come quartiere, ma i transalpini risposero che offrivano quello che non
avevano; si passò comunque così dalla semplice rivolta a un vero e proprio confronto militare,
mentre convergevano su Messina tutti i velieri da guerra e inoltre tutte le squadre di galere di cui
la corona di Spagna disponeva nel Mediterraneo. Il castello di S. Salvatore, principale
fortificazione della città di Messina, si trovò così cannoneggiato, oltre che da terra dai ribelli,
anche dal mare dall’armata francese, mentre si continuava a rifornirlo a mezzo di convogli di
feluche e tartane inviate da Napoli e da Reggio, rifornimenti però che ora erano diventati molto
più difficili a causa della presenza in quei mari della suddetta armata nemica e presto anche di
quella spagnola; infatti per esempio una tartana nel seguente ottobre inviata con rifornimenti
destinati alle due galere napoletane che si trovavano a Milazzo era stata intercettata da amici
vascelli spagnoli, i quali avevano ritenuto di tenerne il carico per sé. Frattanto il vicerè di Sicilia,
arrivati i francesi nel teatro di guerra, dovette mettere in libertà le galere di Malta, non potendo
quell’ordine militare far alcunché che fosse di pregiudizio alla corona di Francia, e quelle di
Genova, essendo allora quella repubblica in pace con i transalpini.
Mentre a Milazzo arrivavano altre tartane di provvisioni da Reggio, sabato 6 ottobre il di
Gennaro inviava una seconda relazione al viceré di Bayona; in essa dava i suoi suggerimenti
sui preparativi da fare durante il prossimo inverno per affrontare ben preparati le operazioni di
guerra, ora più complesse perché contro messinesi e francesi, che si prospettavano per l’anno
seguente; egli per esempio chiedeva la preparazione di un treno d’artiglieria composto di 12
cannoni da batteria, otto minori e due trabucchi e inoltre di un buon numero di carriaggi per il
trasporto di viveri, munizioni e bagagli; inoltre egli, che per il momento aveva solo 2mila fanti e
alcune centinaia di cavalli (‘soldati montati’), diceva di aver bisogno di un esercito di 15mila fanti
e mille cavalli e, per quanto riguardava i primi, così scriveva:

… e li 13mila che mancano s’hanno da comporre di spagnuoli, alemanni e milanesi e non del
Battaglione, perché questa gente è di molta spesa e di nessun profitto… (ib.)

Consigliava ancora che l’armata di Spagna che era in arrivo fosse mantenuta nel teatro di
guerra per tutto novembre e che a dicembre fosse mandata a svernare non in Spagna, perché
troppo lontana, bensì a Napoli, cioè a Baia, come poi fu, mentre le soldatesche imbarcatevi
fossero in massima parte lasciate a terra in Sicilia per la guardia dei porti, in modo da non
gravare il Regno di Napoli anche di questa incombenza; terminava la sua lettera al di Bayona
con quel po’ di sincerità che la subordinazione militare spagnola del tempo, dalle caratteristiche
ancora feudali, solo gli concedeva:
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… e, se tutto questo non previene Vostra Eccellenza in questo inverno, in modo che alla fine di
marzo si trovi pronto, ci troveremo nell’istessi travagli che abbiamo esperimentato sin ora.
Sappia Vostra Eccellenza condonare il mio ardire (ib.).

Il lunedì 8 ottobre, fortemente cannoneggiato e ripetutamente assalito da francesi e


ribelli, sebbene ben provvisto e armato e difeso da più di 450 uomini, si arrese a Messina anche
il castello del Salvatore, resa a cui aveva certamente anche molto contribuito la morte
del coraggioso castellano portoghese, avvenuta il 4 precedente a seguito di una ferita al
capo provocatagli da una scheggia di sasso. I vincitori, per premiare la sua decisione di cedere
le armi, concessero alla guarnigione di uscire liberamente, mentre i francesi ponevano così
loro presidi nei castelli messinesi e iniziavano con i loro ingegneri a riparare le fortificazioni di
quello del Salvatore. Il giorno seguente, essendo partita il 15 settembre da Barcellona, giunse
al Faro di Messina l’armata reale spagnola del Mar Oceano, forte di 20 vascelli e capitanata dal
de la Cueva; recava a bordo 5mila fanti spagnoli divisi in 4 terzi, quello di Francisco Pereyra duca
di Beraguas, quello di Agostino Guzman Hernández marchese de la Algaba, quello maiorchino
del mastro di campo Mateo Dameto e quello napoletano di fanteria di marina che guarniva
l’armata oceanica spagnola, detto viejo del Mar Oceano, il cui mastro di campo era
Francesco Tuttavilla duca di S. Germano; completava il numero la fanteria di marina vallona di
5 vascelli dell’armata spagnola di Fiandra. Frattanto a Trapani giungevano anche 25 galere
delle squadre della corona di Spagna e si seppe inoltre che stava per giungere anche
un’armata olandese comandata dall’ammiraglio Cornelis Tromp e forte di 54 vascelli (secondo
altre voci di 40), dettagli che poi risulteranno però tutti inesatti. L’armata spagnola, trasportata
dalle correnti verso i vascelli francesi che si trovavano alla fonda a Messina, scambio cannonate
con quelli e con le fortezze della città per un paio d’ore e poi, flagellata dai forti venti di scirocco
che soffiavano allora su quel tratto di mare, non potè far altro che trasferirsi a Milazzo, dove giunse
il giorno 12.
Avuta il viceré marchese de Astorga notizia della caduta del castello con qualche ritardo, perché
le comunicazioni tra il vice-regnato di Sicilia e quello di Napoli erano diventate alquanto
discontinue, fece subito premunire la costa calabrese che fronteggia il Faro di Messina, a
evitare che sia la ribellione sia i francesi potessero sbarcare impunemente sul continente – già
si aveva notizia che i popoli calabresi si rifiutavano di pagare i dazi regi; inoltre concesse molte
patenti per l’arruolamento di nuovi corpi sia di fanteria sia di cavalleria. Domenica 14 ottobre,
approfittando del buon tempo finalmente arrivato, lasciava Napoli per Milazzo un altro convoglio,

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questo di ben 18 legni tra tartane e petacchi, il quale trasportava le suddette due compagnie di
cavalleria, le quali sembra che nel frattempo fossero però diventate tre, 450 fanti spagnoli divisi
in cinque compagnie e molte provvisioni ed attrezzature da guerra. Il 25 i messinesi, padroni
ormai del loro porto ed armati 15 legni, tra tartane e brulotti, con la scorta ora di quattro vascelli
francesi si portarono nuovamente alla Bagnara in Calabria, dove comprarono dai locali gran
quantitativi di viveri e legnami, evidentemente già preparati per loro, e, pagatoli puntualmente,
se ne tornarono poi a Messina indisturbati, anche perché, alla notizia del soccorso francese, le
galere della Repubblica di Genova e quelle maltesi erano state dai loro governi ritirate dal teatro
di guerra, non volendo questi stati mettersi in guerra con la Francia; arrivò in quel mentre anche
notizia a Napoli che i militari della guarnigione del castello del Salvatore, a cui era stato
permesso d’imbarcarsi purché abbandonassero il teatro di guerra, erano stati catturati per mare
dall’armata di Francia e, con l’accusa di non aver osservato i patti, accusa strana in quanto i
francesi non avevano partecipato alle trattative di resa, erano stati riportati a Messina e
condannati a lavori forzati come schiavi. Altra notizia poco simpatica fu che tre tartane che
portavano 300 soldati milanesi a Milazzo avevano dato la caccia a una di Civitavecchia carica di
grano inviato ai messinesi dall’ambasciatore di Francia a Roma; questa però si era rifugiata a
Palo (Ladispoli) sotto la protezione di quel castello, il cui castellano aveva infatti costretto le
inseguitrici ad allontanarsi sparando lor contro quattro cannonate; il viceré de Astorga aveva
subito reagito spedendo a sua volta tartane armate con soldati veterani a quella volta,
mandando nel contempo al governatore di Gaeta istruzioni di utilizzare vascelli eventualmente
presenti in quel porto per intercettare sia la detta tartana diretta con il grano per Messina sia
altre due che si aveva notizia l’ambasciatore francese stesse facendo caricare pro Messina a
Civitavecchia; una delle dette tartane armate prenderà presto una barca con sette francesi, i
quali recavano messaggi del loro per i messinesi, e la rimorchierà a Napoli la notte del martedì
30 ottobre.
La guerra si metteva male, soprattutto a causa della lentezza con cui gli spagnoli l’avevano
iniziata; ben 8 o 9mila messinesi, godendo dell’appoggio logistico del fortificato monastero di S.
Placido allora nelle loro mani, andarono ad assaltare Scaletta, dove gli spagnoli avevano posto
una loro seconda piazza d’arme sotto il comando di due mastri di campo, cioè del palermitano
Giuseppe Lanza duca di Camastra e del principe di Poggio Reale; furono respinti e anzi, mentre
si disperava di poter resistere visto lo svantaggio delle forze, il 29 novembre la stessa S. Placido
fu invece recuperata da un soccorso spagnolo sbarcato da vascelli e galere. Frattanto tartane
ed altri legni francesi, sebbene talvolta intercettati dalle galere di Malta, avevano cominciato ad

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andare in Barbaria a caricar grano per la città ribelle, mentre viveri ed altre provviste
continuavano ad arrivare nascostamente dalla vicina Calabria, e infatti Diego Soria marchese di
Crispano, mentre da Milazzo si recava a prender moglie a Reggio con due galere, s’era
imbattuto in cinque feluche reggine cariche di viveri e, sottoposti a tormenti quei marittimi, seppe
che si trattava di provviste per i messinesi ordinate da gentiluomini reggini che, travestiti da
marinai, si trovavano anch’essi a bordo di quelle, allora fece impiccare tutti seduta stante,
azione che trovò però molte critiche a Napoli per la sua crudeltà:

… risoluzione che qui è stata giudicata troppo rigorosa e non confacevole punto al tempo (ib.)

Il de Astorga infatti sempre temeva che la ribellione si estendesse alle Calabrie e, mentre
consumava intere giornate in inutili giunte di guerra e del Collaterale, cominciava a dichiarare
aperta insoddisfazione per come il di Gennaro conduceva la guerra, giudicandolo addirittura
meritevole di decapitazione, mentre si era sparsa la voce che il generale, incapace di controllare
la situazione, avesse abbandonato Milazzo e si fosse ritirato a Reggio, dove fosse stato anche
mal accolto; secondo altri, egli era invece tornato in Calabria perché il suddetto viceré lo aveva
palesemente privato della sua fiducia. Egli aveva però reagito alle critiche e inviata alla Corte di
Madrid una relazione in difesa del suo operato che colà aveva trovato completo credito; infatti
verso la metà di novembre gli arrivò a Napoli dalla Spagna la patente regia per la carica di
mastro di campo generale.
Il 13 novembre i messinesi assaltarono la Scaletta, sempre tenuta da un presidio regio, ma
furono respinti con più di 70 perdite tra morti e feriti; il 15 moriva a Napoli il sacerdote Andrea
Rubino, autore delle interessantissime sebbene non molto note cronache da noi più volte qui
citate; si trattava di ben 30 tomi manoscritti con gli avvenimenti napoletani dal 1647 sin a questo
stesso novembre 1674.
Mentre finalmente i vascelli regi prendevano un grosso legno messinese appena uscito dal suo
porto per andare in cerca di viveri e poi, nelle acque di Capo Spartivento, anche una tartana
francese carica di riso per Messina, il de Astorga mandava in corso un’altra tartana armata, la
quale, unitasi alle altre già in mare, ne predava una diretta anch’a Messina con un carico di
grano; continuavano poi a salpare da Napoli e Baia tartane che portavano viveri e munizioni per
l’esercito regio di Milazzo, il quale, ciò malgrado, si diceva che patisse per mancanza di viveri;
un convoglio di 16 di queste, giunto quasi al termine del suo viaggio, fu assalito da tre legni
armati messinesi e cioè da due galeotte e da un bergantino appena costruito in quell’arsenale,

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ma gli assalitori furono respinti: Ecco per esempio una lista di carico fatto a Baia nel detto
novembre su altre 12 tartane che si trattenevano colà in attesa del tempo favorevole per
salpare, e destinato però questo non all’esercito di Milazzo bensì all’armata spagnola:

260 botte di vino lacrima;


500 cantara di biscotto e anco biscotti bianchi;
64 canne di legne;
Da 200 cantara di tosino e salami, ove, galline, nassi (‘ananassi’), avendole (‘mandorle’) e
zuccari per quelli che possono cascare ammalati;
300 cantara di polvere;
miccio;
palle di moschetti e d'artigliarie e altri fornimenti di guerra (A.S.N. Sez.Mil.)

Spieghiamo che per vino lacrima s’intendeva in quei secoli semplicemente il vino bianco, il
quale costituiva in effetti tutta la produzione vinicola del Regno di Napoli, invece quello rosso si
chiamava vino greco; per tosino s’intendeva il lardo salato, mentre il biscotto non era altro che
la galletta dura cotta al forno appunto due volte, ma talvolta anche tre, e che, conservata in botti
come quasi tutti i cibi conservati del tempo, sostituiva il pane fresco nell'alimentazione militare,
soprattutto marittima; nassi sta probabilmente per ananassi, cioè un altro alimento dolce tra
quelli destinati ad arricchire l'alimentazione dei malati; ma lasciamo per ora questo discorso sui
generi alimentari militari. Le suddette 12 tartane salparono il 25 novembre scortate da quattro
grosse altre armate in corso e guarnite di soldati spagnoli, le quali sarebbero poi rimaste in quei
mari siciliani per intercettare i soccorsi inviati ai messinesi, mentre qualche giorno prima, per
fermare il viaggio da Civitavecchia di alcune tartane da carico francesi dirette a Messina,
avevano preso il largo altre due tartane e cinque feluche armate; in genere queste ultime,
essendo imbarcazioni troppo piccole e leggere per portare le pesanti bocche da fuoco di
bronzo, erano armate con una semplice petriera di ferro (fr. berche) a prora, ma anche ben
equipaggiate con cinque soldati spagnoli armati di moschetto e cortella (‘daga’) per ciascuna;
inoltre per accentuarne la grande velocità, avevano la carena spalmata sì del solito sevo, ma
con particolare accuratezza. In quei giorni comunque la Corte di Napoli concluse con Andrea
Bragati ed altri noti mercanti un vantaggioso partito con il quale essi assicuravano il rifornimento
di viveri a tutto l’esercito di Milazzo sino alla prossima primavera per soli 300mila ducati, mentre
altri ne avevano richiesti 500mila.
Promulgatasi in quel mentre un’amnistia a favore dei briganti che intendevano arruolarsi per
andare a servire nella guerra di Sicilia, a novembre 150 briganti dei 300 che erano stati indultati
in Abruzzo entrarono in Napoli per esser poi imbarcati per Messina, ma si rifiutarono

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d’alloggiare nell'arsenale, deposito sospetto perché da quello si partiva in genere per le
campagne in paesi lontani da cui quasi mai si tornava o forse anche per timore di finire ai remi
delle galere che proprio alla darsena dell'arsenale regolarmente attraccavano. Questi briganti
accordati si comportavano poi in guerra generalmente con valore, specie gli abruzzesi,
montanari bellicosi come gli scozzesi, con cui si formavano fanterie considerate le migliori del
regno, seguite al secondo posto da quelle calabresi. Il giovedì 29 novembre l’armata spagnola
di Melchor de la Cueva, salpata da S. Giovanni di Calabria forte di 5 vascelli spagnoli e di due
galere napoletane, soccorse con successo il casale di Scaletta di nuovo assalito dal nemico e i
messinesi, dopo molti assalti e nuovi tentativi di impadronirsi di quel borgo fortificato,
cannoneggiati dalla squadra nemica e minacciati alle spalle da 400 fanti da quella sbarcati,
furono costretti a ritirarsi definitivamente con notevoli perdite, mentre gli assediati, usciti in
sortita, s’impadronivano dell’abbandonato forte di S. Placido, mettendolo a sacco, privandolo
delle artiglierie e dandogli infine fuoco; essendo detto forte una postazione importante per
Messina, perché con la Scaletta controllava i passi dai quali alla città arrivava il frumento della
piana di Catania, i ribelli tentaono subito di riprenderselo, ma alla fine dovettero di nuovo cedere
e rinunziarvi; inoltre s’ebbe notizia a Napoli che tre borghi preso Milazzo, i quali s’erano uniti al
partito messinese, s’erano arresi per fame all’assedio dei regi. Ritenendosi ormai inutile
trattenere ancora in servizio le milizie del Battaglione e della Sacchetta, le quali s’erano
dimostrate così poco marziali, si era data loro licenza di tornarsene ai loro luoghi di provenienza
con un pagamento finale di cinque o sei ducati a testa, per cui ne restavano ora, tra Reggio e
Milazzo, solo non più di 700.
Frattanto i messinesi assediati, si erano visti costretti a ridursi la loro razione alimentare
giornaliera pro-capite a solo mezzo pane, cioè a once 4 e mezza, erano pertanto tormentati
dalla fame, gli spagnoli colsero qualche altro successo, respingendo i messinesi che di nuovo
tentavano la Scaletta, Si attendevano frattanto da parte imperiale 4mila tedeschi da inviare al
campo trincerato di Milazzo, perché a Napoli, pur esigendosi le imposte di guerra dai baroni del
regno, non si pensava affatto a costituire nuovi terzi di regnicoli da inviare a quella guerra e ciò
perché questi avrebbero dovuto combattere una ribellione che, data l'estrema vicinanza ai
confini del regno, avrebbe potuto facilmente contagiarli con grave pregiudizio per ambedue i
possedimenti spagnoli di Napoli e di Sicilia.
Il 3 dicembre arrivarono a Messina due tartane da carico francesi che portavano provviste
alimentari, seguite a giorni da altre due e da altre ancora cariche di grano verso al metà del

112
mese, e questi soccorsi risollevarono alquanto il morale dei cittadini, ormai allo stremo proprio
per la gran penuria di viveri.
Tra la notte del mercoledì 12 dicembre e il giorno seguente giunsero a Palermo 24 galere dalla
Spagna via Sardegna e si trattava di cinque di Napoli, cinque di Sicilia, sette dei particolari
genovesi del duca di Tursi, due di Sardegna e cinque di Spagna, le quali, comandate dal
marchese di Santa Croce, erano state trattenute dal maltempo in Sardegna per ben 40 giorni,
durante i quali c’era stata a bordo un’epidemia con gran mortalità; esse giungevano di conserva
con otto vascelli da guerra olandesi e recavano alla Sicilia il suo nuovo viceré, cioè Fadrique de
Toledo y Ossorio marchese di Villafranca e duca di Ferrandina, il quale passava a questo più
prestigioso incarico da quello di capitano generale della squadra di galere di Napoli mentre il de
Bayona andava a comandare quella di Spagna, senza che ciò significasse per lui una diminutio
essendo infatti stato un vicerè di Sicilia solo interino. Il marchese di Villafranca non volle però
trattenersi a Palermo preferendo invece proseguire subito per Milazzo, mentre raggiungevano in
quei giorni l’isola anche il napoletano Andrea d’Ávalos principe di Montesarchio, il quale sin dal
precedente 26 agosto era il nuovo generale della squadra delle galere siciliane, e Fernando
Ravanal, mastro di campo generale al posto del di Gennaro, il quale ne era così finalmente
esonerato; comunque, non ostante ora che gli spagnoli disponessero ora di 24 galere e di un
numero di vascelli salito prima a 29 e poi a 32, misteriosamente non attaccarono i soli sei
francesi in porto a Messina e per questo il de la Cueva, come il de Gennaro, sarà presto molto
criticato; ripresero però l’iniziativa terrestre e assalirono dapprima la torre del Faro il 26
dicembre, sbarcando colà fanterie da 16 (o 18) delle suddette galere e, una volta ripresala ai
ribelli, vi costruirono immediatamente un forte munito d’artiglierie, affinché, in unisono con
quello calabrese di Scilla, impedisse a Messina di ricevere soccorsi di derrate dal mare; misero
a sacco tutta quella costa, devastandone e incendiandone e i palazzi e le più povere abitazioni,
giungendo con la cavalleria sino alla spiaggia di S. Agata e, avendo i difensori della Lanterna
esposta inopinatamente la bandiera regia, occuparono anche quella postazione senza
combattere; poi presero il forte della Grotta e si resero così padroni della marina, mentre, dopo
la caduta di S. Placido, folle di genti che venivano da sud avevano cominciato a rifugiarsi in
Messina per timore degli spagnoli, aggravandone così la penuria alimentare. Si dettero agli
spagnoli tutti i casali viciniori e poi furon conquistati con la forza delle armi anche i tre di S.
Stefano, cioè gli ultimi che erano rimasti ai messinesi.
Giungerà poco dopo dalla Spagna a Milazzo anche il già ricordato Antonio Guindazzo con 1.500
soldati di cavalleria maiorchini veterani, per i quali si prese a inviare in più riprese i necessari

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cavalli dal Regno di Napoli, e con l’incarico di capitano generale della cavalleria dell'esercito che
si andava raccogliendo in quella piazza d’armi (dove gionto, numerò pochi soldati nella raccolta
di molta gente non avvezza alle fatighe di Marte né costante alla penuria dell'oro). Questa
costatazione del Guindazzo, riportata dal Filamondo, sembrava dar ragione al predetto di
Gennaro, il quale, come vedremo, dovrà poi discolparsi del cattivo andamento della prima fase
di questa guerra. A Napoli frattanto si nominavano due nuovi mastri di campo e cioè il duca di
Martina di casa Caracciolo e quello di Canzano di casa Coppola, inoltre fu fatto commissario
generale della cavalleria Giulio Sersale dei principi di Castelfranco.

1675. Giovedì 3 gennaio alle ore 20, ossia alle 16 di oggi, giunse in porto a Messina una
seconda squadra navale francese e questa volta con un soccorso sensibilmente più consistente
di quello che aveva in precedenza portato alla città quella del de Valbelle e che ancora colà si
trovava; si trattava stavolta di una ventina di vele sotto il comando del luogotenente generale
François-Auguste de Valavoire marchese di Voulx (1614-1694) e cioè di otto o nove vascelli da
guerra con 4mila uomini da sbarco, sette tra tartane e polacche, cariche di grano per un totale
di ben 50mila tomola, tre tartane cariche d’altri generi e due brulotti:

... E con questo sfacciato tradimento al re di Spagna si perdé l’acquisto di Messina, che la
domenica seguente aveva stabilito l’ultima resa, forzata dalla fame. Così fu data a’ francesi dagli
stessi spagnuoli Messina, che fra poco era per darsi, contra sua voglia, al suo legittimo re e
signore (V. Auria, cit. P. 274).

L’armata spagnola che stava lì in rada a bloccare la città, temendo forse di aver di fronte solo
un’avanguardia dell’armata nemica, nulla fece per ostacolare i francesi, se si eccettuano quattro
cannonate prive d’effetto sparate da una sua galera e il viceré d’Astorga incolpò di questa
inerzia non tanto il marchese del Viso, generale delle 11 galere di Spagna allora presenti in quel
teatro di guerra, quanto Melchor della Cueva, perché invece di tenere il mare, come le dette
galere, se ne stava con i suoi 23 galeoni all’ancora alla fossa di S. Giovanni; invece sembrava
che il viceré di Sicilia, il marchese di Villafranca, se la fosse presa con ambedue i generali,
minacciando di togliere loro il comando e di conferirlo al napoletano principe di Montesarchio,
allora capitano generale della squadra di Sicilia, il quale, era stato infatti il solo a opporsi in
qualche maniera ai francesi con due delle sue galere, catturando uno di quei magaseni (‘legni
da carico’), cioè una grossa polacca con 17 uomini d’equipaggio e con un carico di mille salme
di frumento, salumi ed altro. Il giorno seguente all’arrivo dei francesi gli spagnoli abbandonarono
il posto della Lanterna, dopo avervi però lasciato dei barili di polvere accesi che lo fecero
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saltare; dopodiché tentarono di far entrare nel porto di Messina due brulotti camuffati da velieri
francesi per appiccare il fuoco all’armata nemica ormai colà ben ormeggiata, ma ne furono
impediti dalla catena di ferro che, allacciata a grossi legni di sostegno, impediva l’accesso ed
ebbero l’unico risultato di perdere i due legni.
A proposito dei già più volte nominati brulotti o vascelli di fuoco, come allora si diceva, si trattava
di legni di media portata del tipo dei flauti, i quali, pieni zeppi di materie incendiare, erano
condotti a collidere con importanti vascelli nemici per appiccarvi il fuoco; nell’ultimo ventennio
del secolo si evolsero in forme più evolute dette in francese machines infernaux, vascelli
sovraccarichi di materie esplosive da condursi a urtare le fortificazioni costiere delle città
nemiche, ma non tanto per abbattere queste, quanto per trasmettere fuoco e distruzione agli
abitati retrostanti. Sembra che l’idea fosse stata presa da vascelli di quel tipo progettati e
costruiti dall’architetto e ingegnere militare mantovano Federico Giambelli (detto da olandesi e
inglesi Genibelli o anche Gianibelli) all’assedio di Anversa del 1585 e che si erano allora rivelati
molto efficaci, avvenimenti questi narrati da Famiano Strada nella sua nota storia della guerre di
Fiandra del Cinquecento, ma descrittio molto meglio e con dovizia di particolari dal de Hondt
che di quell’assedio fu testimone diretto (). Certo è che questa rinata costosissima arma non
ebbe più il successo della sua progenitrice, a cominciare da quella che i francesi avevano
preparato a Tolone contro Algeri nel 1688, il cui nucleo era costituto da una grossissima
bomba contenente ben 8mila libbre di polvere e posta sul fondo di un vacello, un flauto di nome
le Chameau; costata all’erario reale ben 80mila lire di Francia, questa machine infernal non fu
usata né in quella spedizione né mai più, finché, restata inutilizzata a Tolone per qualche tempo
solo come un’inutile curiosità, non essendo poi stata trovata altra occasione adatta al suo uso,
si decise in ultimo di demolirla. Alcuni anni più tardi furono invece usate le due preparate dagli
inglesi contro Saint-Malo e Dunkerque, ma , come poi meglio vedremo, con un deludentissimo
risultato; tali tentativi non saranno poi più ripetuti, perlomeno da parte della Francia, perché, a
parte alcune mal risolte difficoltà d’innesco che tali grosse macchine presentavano, gli esperti
balistici di quello stato si erano ormai resi conto che la potenza esplosiva che poteva venire da
un vascello galleggiante risultava sempre di molto inferiore a quelle adoperate sulla terra ferma
perché l’acqua le cedeva molto più arrendevolmente smorzandone quindi l’effetto; alla fine del
secolo infatti solo gli inglesi duravano ancora a crederci.
Martedì 8 gennaio il Fuidoro appuntava l’arrivo a Napoli di 50 tedeschi a cavallo armati di
terzette, quindi si trattava di un’intera compagnia, presumibilmente di corazzieri, la quale, in
considerazione che, insolitamente montata, era giunta via terra; da dove venissero questi

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soldati e chi li avesse inviati, non sappiamo, ma era questo un periodo di convulsi preparativi e
movimenti militari in cui non tutto è ben definibile e riconducibile; arrivarono poi a Napoli via
Civitavecchia due galere napoletane che erano in viaggio per Milazzo per portarvi soldatesche
spagnole e durante la navigazione molti si erano ammalati di qualche morbo contagioso; la
squadra di galere del regno mancava da Napoli dal giugno dell’anno precedente, quando cioè
era partita per la Spagna e poi da lì si era trasferita a Milazzo per la guerra scoppiata in Sicilia.
Sabato 19 arrivò notizia da Milazzo che dai vascelli francesi arrivati ultimamente a Messina
erano poi sbarcati 4mila soldati veterani e mille ufficiali militari e civili, ai quali i messinesi
avevano assegnato come quartieri e ceduto in presidio tutte le quattro fortezze della città,
mentre da Gaeta segnalavano l’avvistamento di altre 30 vele francesi; Luigi XIV aveva dunque
evidentemente deciso d’investire nella ribellione messinese forze veramente impegnative.
Crebbe subito l’ardire dei messinesi, i quali, accompagnati dai francesi, scacciarono gli spagnoli
da molti dei posti fortificati più vicini tra quelli avevano negli ultimi tempi occupato,
segnatamente dal Faro e dal relativo casale da quelli fortificato, inoltre da Lombardello, S.
Calogero, la Mella e S. Andrea, e si preparavano a ritentare anche la Scaletta, dove s’era
andato a ritirare il generale Bracamonte, rinchiudendosi il di Gennaro invece nel forte di S.
Placido. Le galere della Corona di Spagna continuavano a intercettare tartane francesi cariche
di viveri per Messina, ma né le loro squadre né l’armata dei vascelli, tutte in effetti poco
provviste e preparate per azioni di guerra, riuscivano a ostacolare i soccorsi maggiori e, come
se ciò non bastasse, uno dei suddetti vascelli, la Gagliarda di Fiandra, s’era andato a fracassare
sulla costa del Faro.

(Napoli, 22 gennaio:) È arrivato da Melazzo un offiziale che racconta il poco ordine con che si
camina in quell’esercito, non distinguendosi a pena il soldato dal capitano (A.S.V. Nun. Nap.)

Ci furono poi nuovi sbarchi fatti dagli spagnoli sulla costa meridionale del Messinese che ne
risultò ulteriormente devastata e a seguito dei quali i posti fortificati dei casali di S. Stefano e del
Faro caddero di nuovo nelle loro mani, mentre mancarono quello del convento dei Cappuccini.
A Napoli aumentò poi ulteriormente l’apprensione quando si videro passare nelle acque di Capri
28 vele francesi che facevano rotta verso Messina – con ogni probabilità il resto dell’armata di
Francia allora comandata da Louis-Victor de Rochechouart de Mortemart, duca di Vivonne e
principe di Tonnaycharente (1636-1688), nominato viceré di Messina da Luigi XIV, luogotenente
generale dello stesso re per l’armata di mare di levante, cioè del Mediterraneo, e anche
generalissimo della squadra di galere di Francia, la quale aveva la sua base a Marsiglia - e si
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cominciò pertanto a parlare d’armare il baronaggio per la guardia delle marine del regno; nei
primi giorni di febbraio Vi arrivò Diego Soria marchese di Crispano, il cui malgoverno a Messina
era considerato la vera causa della ribellione e quindi di tutti i mali che ne erano derivati.
Intanto la Francia, giacché il conflitto diventava sempre più importante, inviava in quelle acque
una terza flotta sotto il comando del già ricordato duca di Vivonne e si trattava di 20 vascelli da
guerra - cioè nove da guerra, otto da carico e tre brulotti - che portavano quattro battaglioni di
fanteria (Picardie, Piedmont, Curssal e Louvigny), 600 soldati a cavallo e 300 della guardia
reale; i legni da guerra erano i seguenti:

Sceptre, cap. de Saintmema, montato dal detto duca.


Avant-garde, cap. Duquesne, luogotenente generale con bandiera d’almirante.
Aimable, cap. Barra.
Fidèle, cap. Cougoline.
Parfait, cap. Melchiore de Thomas signore di Chasteauneuf.
Heureux, cap. Bretesche.
Arrière-garde, cap. Raymond de Cruent d’Humieres marchese di Previlly, capo di squadra.
S. Michelle, cap. Forbin.
Apollon, cap. Septenne.

Questa flotta, arrivata nelle acque tra Lipari e la Sicilia, il lunedì 11 febbraio fu colà affrontata da
quella spagnola e ne ebbe la meglio, restandovi però feriti diversi ufficiali d’importanza incluso lo
stesso duca di Vivonne; gli spagnoli infatti, minacciati anche dall’imminente arrivo dei legni che
si trovavano già a Messina, ora sei da guerra e quattro brulotti, si ritirano sulle coste calabresi
dopo aver dovuto però lasciare un vascello da 40 cannoni, il Nuestra Señora del Pueblo, nelle
mani del nemico. Giunta poi a Messina, così liberata dall’assedio navale, il giorno seguente,
portò alla città un altro buon soccorso di vettovaglie. Presto messinesi e francesi assediarono
Scilla e la Torre del Faro, le quali erano state occupate o rioccupate dai regi, e la seconda
cadde quasi senza resistenza.
Frattanto 16 vascelli spagnoli bisognosi di lavori di raddobbo, specie quattro usciti che erano
usciti molto maltrattati dallo scontro suddetto, due addirittura semi-affondati, si portarono con il
loro ammiraglio Melchor de la Cueva a Napoli, dove arrivarono la sera di sabato 16 febbraio e in
seguito a Baia, essendo infatti quest’ultimo il porto del regno più attrezzato di cantieri navali. I
soldati e i marinai di questi vascelli, laceri e impagati da molto tempo, si ritennero in diritto di
darsi perciò alla busca, cioè alla razzia militare ai danni delle masserie dell'agro puteolano, dove
infatti rubavano i prodotti della terra e gli animali e dove violentavano le donne sodomizzandole,
probabilmente per ridurre così il rischio di contagio di mal napolitain o forse anche per esser

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dalla giustizia militare questo reato meno perseguito dello stupro vaginale. Diversi di loro furono
però affrontati e uccisi dai paesani, gente che, come la maggior parte dei contadini del tempo,
era tutt'altro che mite; per esempio nelle cronache napoletane si definiscono talvolta sia i
posillipini sia i capresi genti dai costumi feroci, ossia violenti e bellicosi.
Era giunta quest’armata a Baia non solo recando i suddetti molti feriti, ma anche colpita da
un’epidemia molto contagiosa, probabilmente tifoidea, e infatti ne restarono affetti molti dei
servienti (‘infermieri’) e due medici degli ospedali napoletani in cui soldati e marinari erano poi
stati ricoverati, ossia gli italiani agli Incurabili e all'Annunziata, gli spagnoli al loro ospedale di S.
Giacomo e a quello delle galere alla darsena. A tal proposito osservava sempre il Fuidoro:

... e le infermità sono cagionate alli soldati dall'aver bevuto acque putride e corrotte a Melazzo e
dall'immondizie di chi è stato con biancheria sporcata per più mesi addosso; e li soldati novelli,
detti bisogni, sono stati più maltrattati, avendo non solo bisogno delle camise, ma anco di vestiti
e quelli cenci così ammorbati anco debilitano la salute col cattivo odore e l'esserno stati tre o
quattro mesi su le galere per partire da Spagna a Melazzo. Infatti, la Dio grazia e delli gloriosi
San Gennaro e santi protettori di Napoli, ogni giorno escono sani quelli che entrorno nelli
spedali e, con l'essere stati polizzati e nettati, bruggiati li cenci e fatti bagni di vino tepido con
erbe odorose, si vanno recuperando le pristine forze e salute; li feriti non può negarsi che ne sia
pericolato alcuno e altri che ne restano storpiati.

Fortunatamente infatti di 500 ricoverati ne morirono in detti ospedali solo una cinquantina ed era
questo per quei tempi un ottimo risultato. Il de la Cueva fece istanza al viceré perché i fondi per
il raddobbo e il carenamento dei suoi vascelli stanziati dall’erario del regno fossero amministrati
direttamente da lui, ma non gli fu concesso; quando però poi, nella prima decade di marzo, il de
Astorga gli chiederà mille uomini della sua armata perché li s’inviassero a Regio, invece di
tenerli lì a Baia a oziare e fare danni alla popolazione, egli si rifiuterà, asserendo che si trattava
d’uomini di mare e non di terra e che comunque senza un ordine reale in tal senso non poteva
privarsene.
In seguito i francesi, vedendo il campo di Milazzo poco presidiato perché la maggior parte degli
imperiali era fuori all’assedio di Messina, tentarono d’assaltarlo sia da terra che da mare, ma i
vascelli non poterono avvicinarsi abbastanza a causa del vento contrario e il tentativo fallì.
Essendosi inoltre allontanata anche l’armata di mare spagnola, i vascelli francesi avevano ora
campo libero nelle acque calabresi e pertanto andavano sulle coste di Castiglione e di Fiume
Freddo a rifornirsi di viveri e di bestiame, generi che comunque pagavano ai locali
puntualmente; inoltre s’impadronivano delle tartane cariche d’olio pugliese che, dirette a Napoli,
risalivano lo Stretto di Messina, mentre altre loro tartane granarie giungevano impunemente alla

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città ribelle. Al contrario la piazza d’armi di Reggio era a secco di provviste perché l’allora suo
comandante marchese del Tufo aveva dovuto cedere all’armata di mare tutte quelle che aveva;
nella prima decade di marzo il detto marchese sarà nominato governatore dell’armi di una delle
province del regno ed al comando di Reggio verrà un altro vecchio soldato, cioè il generale
dell’artiglieria Titta Caracciolo Pisquizj duca di Martina.
Anche lo Stato di Milano cominciava a contribuire allo sforzo bellico contro i franco-messinesi e
in cambio però una cedola reale del 16 febbraio aveva imposto al viceré di Napoli d’assistere,
d’ora in poi, il principe di Ligny, governatore di quello stato, non solo con la ormai istituzionale
rimessa di 10mila scudi il mese, il quale era da spendersi ufficialmente per il pane di monizione,
ossia per il sostentamento delle milizie di stanza in Lombardia, ma anche con il corrispettivo
delle pensioni, cioè degli stipendi che si dovevano ai corpi svizzeri e grigioni al servizio
milanese; ciò perché la cooperazione economico-politico-militare tra i vari possedimenti della
monarchia di Spagna era sempre molto pronta ed efficace e Napoli sostenne, per tutto il
periodo del dominio spagnolo sul Milanese, gran parte delle spese di guerra cui quell'antico
ducato doveva far fronte continuamente, essendo il suo territorio antemurale degli altri
possedimenti spagnoli in Italia. Mentre la Sicilia feudale armava circa 4mila cavalli contro
Messina e verso il 22 febbraio si seppe a Napoli la triste nuova che un vascello che portava
fanterie milanesi per Milazzo risultava disperso in mare, il 5 marzo giunsero a Napoli due altri
vascelli con 600 soldati alemanni provenienti dalla Lombardia e si trattava del corpo di fanteria
del colonnello conte Fabio Visconti, corpo detto a Milano impropriamente tercio viejo, in
considerazione che le fanterie europee, eccezion fatta di quelle spagnole, napoletane, milanesi
e valloni, non si ripartivano in terzi, bensì nei più antichi e tradizionali reggimenti. Questi
alemanni - intendendosi per tali tutti gli europei di lingua tedesca e quind’anche gran parte degli
svizzeri, ben riforniti di viveri a Napoli, proseguirono il 10 successivo per il campo di Milazzo
sulle galere del duca di Tursi. All'inizio dello stesso marzo arrivarono a Gaeta altri due vascelli
con 700 soldati esperti pure provenienti dal Milanese e destinati a Milazzo, mentre dei già
menzionati promessi 4mila alemanni imperiali, ossia sostanzialmente austriaci, 2.500 – come
informava l’ambasciatore di Spagna a Venezia - erano attesi per il 20 marzo a Trieste, dove
sarebbero stati imbarcati per i porti adriatici del regno, per proseguire poi via terra per Napoli e
infine ancora via mare per Milazzo; per la leva dei residui 1.500 s’aspettava che il viceré di
Napoli spedisse i 12mila ducati ancora necessari (A.S.V. Nunz. Nap.) Forse erano per questi
ultimi i 4mila vestiti di panno di Piedimonte d'Alife per cui si fece partito nella prima metà
dell'anno; in effetti, i sarti militari napoletani, abituati da secoli a fornire gli abiti per la guardia

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degli alabardieri svizzeri del viceré, erano perfettamente in grado di fabbricare vestiario di foggia
alemanna. S’inviarono pure da Milano il reggimento alemanno del colonnello conte de Buquoy e
otto compagnie di cavalleria smontata, ossia priva di cavalli, ma, se queste soldatesche fecero
tappa a Napoli o se il predetto reggimento è da identificarsi nei 700 soldati sperimentati più
sopra nominati non sappiamo, perché a questo punto gli arrivi di soldatesche per la guerra di
Messina diventano convulsi e sia i diaristi sia gli avvisi ufficiali non riescono più a segnalarli tutti.
Venerdì 15 marzo le soldatesche dell'armata di Spagna che si trovava a Baia e il cui
risarcimento procedeva molto lentamente fecero mostra (rassegna) a Pozzuoli divise in due
terzi, uno di spagnoli e uno d'italiani; probabilmente si trattava proprio dei due famosi terzi di
fanteria di marina che da antica data guarnivano (equipaggiavano) le armate navali spagnole,
specie quella oceanica. Ci furono in quell'occasione le solite discussioni tra le due nazioni per
chi dovesse avere il diritto d'avanguardia, ossia di precedenza dei reparti da passare in rivista, e
il Fuidoro scrive che l'unica avanguardia che gli spagnoli erano sempre pronti a lasciare in
guerra agli italiani era quando c'era da andare all'assalto di fortificazioni nemiche, mentre erano
altrettanto pronti a pretenderla per sé quando c'era più da saccheggiare che pericolo. In effetti i
soldati italiani erano, negli eserciti multinazionali del tempo, considerati ipocritamente i più bravi
nel dare gli assalti, ma in realtà, essendo questo tipo di combattimento generalmente
sanguinosissimo per gli assalitori, i quali dovevano infatti arrampicarsi sulle rovine della breccia,
sotto il fuoco disperato dei difensori, gli spagnoli preferivano sacrificarvi gli italiani, considerati
poco efficaci in tutte le altre fazioni di guerra e usati così come carne da macello. Questo
episodio di Pozzuoli fa capire comunque quanto il diritto d'avanguardia fosse considerato
importante dai soldati del tempo; infatti in quella circostanza non c'era né da combattere né da
saccheggiare, bensì solo da star fermi in parata per esser passati in rivista. Non era una
questione d’onore, ma di opportunità di carriera, perché chi aveva diritto alla precedenza - in
parata, ordinanza o battaglia che fosse - l’avrebbe poi goduta anche nella progressione delle
nomine. Il Collaterale, in seguito a tali animate discussioni e memore evidentemente delle
proteste in materia avvenute all’inizio dell’anno precedente, si riunì per deliberare in materia:

(Napoli, 19 marzo:) E’ stato sempre indeciso il punto della precedenza fra i soldati spagnuoli ed
italiani, per il che molte volte furono nate gravi discordie, come l’anno passato succedé in
Catalogna, onde fu li giorni della scorsa settimana discorso e risoluto in Collaterale a favore
degli spagnuoli; il che ha causato gran commozione fra questi officiali italiani, che mostrano di
non voler cedere, se bene per evitare qualche disordine si dice che possa dal signor viceré
pigliarsi qualche mezzo termine (ib.)

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Gli scontri nel territorio di Scaletta e S. Placido continuavano con alterna fortuna, ma la
sostanza era che i messinesi continuavano ad assediare la prima, il cui presidio era comandato
dal suddetto generale della cavalleria Guindazzo:

(Napoli, 16 marzo:) Scrive don Antonio Guindazzo dalla Scaletta che, avendo respinti doi volte
da quel posto li messinesi, ma che ancora questi non avessero levato l’assedio, onde dentro si
penuriava molto di viveri e d’altre cose necessarie per fare lunga resistenza, non avendo il
generale né meno un matarazzo per dormire (ib.)

Qualche giorno dopo si seppe che il suddetto Guindazzo, forse proprio perché costretto a
dormire per terra, s’era ammalato di una grave febbre e quindi, per farsi meglio curare, aveva
lasciato la Scaletta e s’era fatto portare in un posto più tranquillo; il simile aveva fatto il
colonnello conte Fabio Visconti, il quale si trovava ora a Reggio anch’egli ammalato. Il
Guindazzo però, dopo alcuni giorni di detta violenta febbre, morirà e, prima sostituito pro interim
da certo generale Giannini, solo all’inizio del seguente novembre arriverà per Diego Bracamonte
la nomina ufficiale a generale della cavalleria di Sicilia. Giungeva invece ora dalla Spagna,
come del resto da tempo già si ventilava, la patente di governatore generale dell’armata di mare
al solito, vecchio, esperto e fedelissimo napoletano Andrea d’Ávalos principe di Montesarchio e
la destituzione dai relativi incarichi di comando marittimo sia per il marchese del Viso sia per il
de la Cueva; giunse anche l’ordine reale d’incarcerare il secondo e altri ufficiali dell’armata
ancora in risasrcimento a Baia. Il della Cueva fu dunque rinchiuso nella fortezza di Gaeta,
portatovi da una galera napoletana e accompagnatovi dal capitano della guardia del viceré, il
suo intendente generale invece nel castello di Baia. Frattanto incarcerati nel castello di Palermo
furono il marchese del Vivo e suo figlio, quello di Bayona ex-viceré interino di Sicilia, in attesa di
essere trasferiti a Napoli, dove poi saranno rinchiusi nel castello dell’Ovo.

... Di più venne ancora avviso che don Melchior della Cova (sic), primo traditore del re,
dimorante in Napoli con li vascelli del re, ebbe pure intimato dal viceré l’ordine di Sua Maestà;
onde fu preso per dover andar carcerato nel castello di Milano. Onde fu privato (dell’incarico) di
generale delli vascelli ed in suo luogo fu fatto il signor prencipe di Monte Sarcio, generale delle
galere di Sicilia, che si trova in Palermo; giustizia veramente degnissima a tanti delitti atrocissimi
contro il servizio del re, tradito così manifestamente dalli suoi prioprii ministri spagnoli (V. Auria,
cit. p. 290).

Altri mutamenti d’incarichi di quei giorni furono il presidato e comando generale della provincia
di Cosenza a Camillo di Dura, vecchio e meritevolissimo soldato, e il passaggio del preside di
Montefuscoli al presidato di Catanzaro.
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Come se l’ostile presenza dell’armata di mare francese non bastasse, le squadre di galere
napoletana e siciliana dovettero anche subire in quei giorni funeste sciagure; la Padrona di Sicilia
e la S.Teresa (la S. Chiara, secondo l’Auria) di Napoli, mentre, provenienti da Milazzo,
viaggiavano verso Napoli, furono assalite da una tempesta; la prima s’ando a fracassare sulla
costa di Policastro con perdita della maggior parte della la gente imbarcata, essendosene
salvate solo una settantina di persone; la seconda s’areno invece sulla spiaggia di Palinuro (di
Paestum, secondo l’Auria), ma questa volta tutti si erano salvati, anzi i remieri forzati avevano
approfittato delle circostanze per fuggire su imbarcazioni rubate, ma erano poi stati quasi tutti
ripresi da armigeri dei feudatari di quei territori costieri e cioè del principe della Scalea e del
marchese di Torrecuso di casa Caracciolo. Inoltre, due galeotte napoletane impegnate a
contrastare i rifornimenti marittimi francesi a Messina, dopo essersi scontrate nella rada di
Reggio con alcuni vascelli dei transalpini usciti dal detto porto siciliano e averli respinti con l’aiuto
delle artiglierie della fortezza reggina, erano naufragate in una violenta burrasca levatasi in
quelle acque. Quest’ultima triste notizia sarà recata a Napoli la sera di venerdì 29 marzo dalle
due galere napoletane Padrona e S. Antonio arrivate da Palermo con una traversata da primato
di sole 30 ore.
Mercoledì 27 marzo uscì dal Torrione del Carmine, cioè da uno dei quattro castelli di Napoli,
una di quelle consuete ronde del tercio degli spagnoli, le quali erano costituite generalmente da
6/8 fanti e si aggiravano nei quartieri di Napoli come farebbero oggi le pattuglie dei carabinieri;
questa, arrivata nei pressi dei quartieri militari di Porta Capoana, si azzuffò con soldati di
cavalleria napoletana, di questi di nuova leva, scalzoni vestiti e bestiali, scrive il Fuidoro, e si finì
con due morti; secondo il nunzio apostolico invece i soldati spagnoli non erano di ronda, bensì
dell’armata in sosta a Baia, ed i morti erano stati tre – due spagnoli ed uno regnicolo, essendosi
però registrati anche parecchi feriti. La suddetta cavalleria di nuova leva era detta anche
cavalleria estraordinaria, per distinguerla dalle 20 compagnie ordinarie tradizionali ed è questa
la prima volta che compare nelle cronache napoletane.
Pronte nel porto un altro convoglio di tartane a noleggio da inviare a Reggio, domenica 30
marzo vi furono imbarcate cinque compagnie di cavalleria, delle quali due della predetta nuova
leva e due delle vecchie, e la sera del giovedì seguente, nonostante il tempo cattivo che per il
momento non ne permetteva la partenza, un terzo di 500 fanti di nuova leva comandato dal
mastro di campo Andrea Coppola duca di Canzano e finalmente costituito per un conflitto che si
dimostrava sempre più grave; insieme con questi uomini s’imbarcarono pure 200 fanti del
Battaglione originari di Capua e d’Aversa ed entrati nella capitale il 27 marzo precedente e

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infine altre due compagnie di cavalli, di cui una di nuova leva sotto il comando di un fratello del
predetto duca (forse Gaetano o forse Nicolò Coppola) e l'altra del capitano Tomaso Guindazzo,
congiunto del suddetto generale della cavalleria. Migliorato il tempo, dopo qualche giorno tutte
queste milizie partirono portate da un totale di 14 tartane, due delle quali trasportavano
attrezzature da guerra, ma, a quanto aveva scritto al suo governo qualche giorno prima il nunzio
apostolico, non andavano in guerra con molto entusiasmo:

(Napoli, 19 marzo:) Si sono noleggiate dalla Corte sette tartane nelle quali devono imbarcarsi
doi compagnie di cavalli delle vecchie, che passano a Reggio, e, non avendo potuto fare il
viaggio per terra come desideravano, lo fanno di mala voglia per mare a causa del pericolo che
possono correre abattendosi con legni inimici (ib.).

A proposito del suddetto Andrea Coppola accenneremo ora alla sua carriera militare e
cominceremo dai primi anni '60, quando cioè egli combatteva in Portogallo col grado di mastro
di campo di fanteria napoletana e fu infatti a capo di diversi terzi di questa nazione e partecipò
alle più importanti battaglie di quella guerra (Evora, Estremox, Villa Viciosa); per i meriti acquisiti
in quelle guerre godette poi di una mercede reale di 300 ducati l’anno (A.S.N. Tes. An. Anno
1670, fs. 354); fu poi mastro di campo nella guerra di Messina e in Sicilia ottenne la nomina a
sargente generale di battaglia; fu poi governatore di Catania, vicario generale della costa
meridionale di quel regno e conquisto più tardi, con una sorpresa, la mole di Tauromina (oggi
‘Taormina’), tenuta dai francesi, i quali poi l'assediarono ostinatamente nel tentativo di
recuperarla, ma il Coppola la difese con successo e alla fine recuperò anche Augusta, presa nel
corso di quella guerra dalla flotta francese. Comandò una condotta navale napoletana che
sbarcò soldatesche in Galizia e, convocato dal re a Madrid, fu promosso dapprima membro del
supremo consiglio di guerra di Spagna, in seguito mastro di campo generale e governatore
generale dell'armi delle province di Guipuzcoa e Navarra, dove difese Fuenterabia dal vano
assedio francese e governò quelle terre per ben otto anni; infine, nel 1693 sarà viceré e
capitano generale d'Orano e Tremisen in Africa.
Nella notte di domenica 7 aprile giunse a Napoli un vascello genovese che portava 700 soldati
milanesi (del ‘Battaglione’ di quello Stato...tutta gente di valore e di fresca), i quali furono poi
trasbordati su due altri legni e inviati contro Messina, e c’è subito qui da notare il positivo
giudizio che accompagnava queste milizie territoriali lombarde, a differenza di quanto purtroppo
abbiamo più volte visto a proposito di quelle regnicole. L’8 partì per Reggio il suo nuovo
governatore dell’armi e cioè il capitano generale dell’artiglieria e membro del Real Consiglio di
Guerra fra’ Titta Brancaccio, personaggio di grande spicco nell'organizzazione militare
123
napoletana; egli manterrà questo governatorato fino al luglio del 1676, mentre nella carica di
capitano generale dell'artiglieria, la quale comportava in quel periodo un soldo mensile di 300
scudi castigliani, era stato sostituito pro interim da Giovann’Antonio Simonetta Pons de León
marchese di S. Crispiero, il quale era però vulgo conosciuto come Santa Cristina - da dove
nascesse questo nomignolo non sappiamo; costui era stato prima capitano della compagnia di
lance di Francesco Tuttavilla duca di S. Germano e poi il 29 luglio 1664 era stato nominato dal
re mastro di campo del terzo vecchio dei napoletani dell’armata reale del Mar Oceano, incarico
onoratissimo, in sostituzione di Fabrizio de’ Rossi, il quale era divenuto sargente generale di
battaglia. Si seppe poi esser arrivati nel frattempo a Milazzo 550 soldati alemanni che vi erano
da tempo attesi.
Sabato 13 aprile vascelli francesi, non si sa da dove provenienti, cannoneggiarono le forticazioni
di Alicata, ma, trovata forte resistenza, se ne allontanarono; lo stesso avverrà nei giorni seguenti
al castello di Capo Passero e a quello di Jaci, il che significando che si trattava di vascelli
francesi in rotta verso Messina. Il giorno seguente fecero il loro ingresso in Napoli le milizie del
Battaglione di Terra di Lavoro e Principato e furono alloggiate nell'arsenale sotto la personale
sorveglianza del commissario di campagna:

…quale procede con tutto rigore e dispietato senza misericordia; s’inserrano nell'arsenale per
imbarcarsi e si vedono appresso di questi ch'entrano accompagnati dalle mogli, dalli figli e dalle
madri e con gran dispendio e favore, vendendosi le loro robbe per poternosi riscattare e fare lo
scambio chi ha questa comodità, e vi sono apposta alcuni farinelli che tengono una sorte di
gente disperata a spese loro per venderle in quest’occasione per scambio e ne traggono
guadagno a spese di chi ha bisogno; e con maraviglia di quelle persone che dicono che si potria
pigliare a forza quella sorte di gente ch'è dissutile, come si suol fare, essendoci in ogni tempo
vagabondi in ogni città che non hanno arte alcuna e viziosi discutili.

Questi miliziani del Battaglione e della Sacchetta, come abbiamo già detto, avevano il compito
di difendere il regno, ma in cambio godevano d’alcuni privilegi, tra cui quello, solo sulla carta, di
non poter essere obbligati a servire all'estero.
Domenica 21 a li Quartieri (oggi ‘Quartieri spagnoli’) ci fu una rissa tra soldati spagnoli e soldati
di campagna e poiché, i primi avevano snudato le spade i secondi spararono e uccisero tre
spagnoli; gli uccisori fuggirono e dei loro compagni furono carcerati, ma poi, riconosciutasi la
responsabilità degli spagnoli, saranno scarcerati. La sera di venerdì 26 giunsero a Ischia quattro
galere della squadra di Sicilia che portavano il principe di Montesarchio, novello governatore
generale dell’armata di mare, e i marchesi del Viso e di Bayona; il principe venne a Napoli la
sera seguente e dichiarò di non potersi considerare ancora nel suddetto suo nuovo incarico
124
perché lo aveva sì saputo per lettera, ma in effetti non ne aveva ricevuto ancora patente
ufficiale; questa infatti arriverà a Napoli solo alla fine della prima settimana di maggio.
Nei suddetti giorni s’imbarcarono per Reggio altri 160 cavalli e 500 soldati del Battaglione di
Terra di Lavoro, mentre s’inviava una partita della predetta cavalleria di nuova leva verso le
marine del Capo d'Otranto, dove si temevano attacchi degli ottomani, i quali erano alleati di Sua
Maestà Cristianissima il re di Francia contro Sua Maestà Cattolica il re delle Spagne; inoltre un
rinforzo di due compagnie di fanti spagnoli, per un totale di 300 uomini, e di munizioni partì su
una galera napoletana per il presidio di Longone la sera del 29 aprile. In quel mentre altri 800
soldati alemanni, i quali erano sbarcati a Pescara provenienti da Trieste, erano arrivati a Napoli
via terra la sera di domenica 28 e martedì 31 furono spediti a Reggio su un convoglio di 22
tartane che portava anche tre compagnie di cavalli di nuova leva guidate dal loro commissario
generale Giulio Sersale dei principi di Castelfranco, altri 600 soldati del Battaglione di Terra di
Lavoro e una gran quantità di munizioni e attrezzature da guerra. Erano partiti questi alemanni
sudditi dell’imperatore, privi del conte loro colonnello, il quale, ammalatosi a Capua e rimasto
infermo nella capitale, vi morirà lunedì 13 maggio; giunti a destinazione felicemente, nonostante
il costante maltempo che avevano incontrato in viaggio, fu dai reggini molto ammirata la loro
disciplina e la loro abilità nell'eseguire gli esercizi militari, abilità che condividevano con i
francesi, mentre non altrettanto si poteva dire di spagnoli e italiani, a causa del carattere
individualistico e del comportamento indipendente che questi avevano, carattere e
comportamento che quindi si riflettevano anche nelle manovre e figurazioni di parata. Si seppe
poi che i detti alemanni si erano lamentati d’esser stati ingannati, perché arruolati con la
prospettiva di dover servire di presidio a Napoli e non di andare a combattere la guerra di
Messina.
È probabilmente con quest’ultima spedizione che partì per il fronte di Messina anche la nuova
compagnia di cavalli corazze montati, ossia già provvisti di cavalcature, del capitano Restaino
Cantelmo, il quale nel 1677 ne lascerà però il comando al capitano Nicola Pignatelli perché
promosso nel frattempo sul campo mastro di campo di un terzo di fanteria napoletana; il
Cantelmo inizia così una delle più prestigiose carriere che siano mai toccate a ufficiali
napoletani. Una registrazione della dotazione d'armi della predetta compagnia ci permette di
sapere come andavano effettivamente armati questi cavalli corazze. Essi dunque portavano
spada (sciabola, se francesi), una coppia di pistole d'arcione – lunghe generalmente circa 14
pollici - e carabina non rigata (ma si trattava in effetti del nuovo moschettone, come abbiamo già
spiegato) - infatti in altri stati italiani, per esempio in quello della Chiesa, chiamavano questi

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soldati carabine, mentre il loro armamento difensivo consisteva in guanti e stivali di cuoio e la
cosiddetta corazza, la quale trova il suo nome dall'esser stata in origine, cioè nel Cinquecento,
fatta di durissimo cuoio e ora invece era formata dai seguenti pezzi di metallo pesante nero:

borgognotta (ossia una celata con tesa latero-posteriore);


spallacci;
petto;
mignoni (cioè mezzi bracciali);
scarselloni (vale a dire copri-fianchi e cosce).

Quando, nell'ultimo quarto del Cinquecento e durante le guerre di Francia, Enrico di Navarra
aveva inventato la suddetta specialità dei cavalli corazze, detti in Francia prima pistoliers e più
tardi cuirassiers, questi andavano armati, in considerazione che ad armi da fuoco, della sola
coppia di pistole d'arcione ad acciarino ruotante e mina (‘pietra focaia’; fr. pierre de mine; sp.
pedernal), chiamate in Italia terzette, perché lunghe circa un terzo dell'archibugio, ma poi nella
seconda metà del Seicento, essendosi le armi a ruota confermate nel corso della Guerra dei
Trent’anni (1618-1648) di troppo imbarazzante caricamento e quindi, sebbene la loro
accensione fosse meno soggetta a far cilecca sia di quella del moschetto sia di quella del fucile,
circa il 1660 si cominciò a sostituire le suddette pistole da ruota con pistole da grillo e focile
(‘selce focaia’; fr. pierre à fusil), inoltre all’armamento di questi soldati fu aggiunta una carabina
non rigata, o meglio, come abbiamo appena ricordato, un moschettone, cioè un corto fucile di
tre piedi di lunghezza - e infatti carabine, invece di cavalli corazze, erano ora spesso, specie in
Italia settentrionale, questi soldati alla spagnola chiamati, come aveva fatto per esempio
l’anonimo cronista del de Blasiis, quando scrisse della visita a Napoli del principe romano
Savelli, arrivato a Napoli sabato 9 aprile 1672, e come farà più tardi pure il nunzio apostolico di
Napoli in una sua corrispondenza del 24 aprile 1685; ma si trattava di un nome che non doveva
assimilarli ai più antichi carabins francesi, perché questi erano stati tutt’altra cosa in quanto,
sebbene dotati di armi difensive, non facevano parte della cavalleria da battaglia e le loro
tattiche di combattimento imitavano quelle ausiliarie dei raitri tedeschi.
A proposito del predetto termine focile, bisogna chiarire che con esso s’indicava la pietra focaia
e non l’accialino (‘acciarino’), come invece si crede comunemente oggi; in materia poi di armi da
fuoco di questo periodo, è proprio di quest’anno una grossa importazione d’armi da Brescia, la
più importante produttrice d'armi in Italia e una delle prime in Europa, che si ritrova registrata nel
fondo Reali ordini dell’Archivio di Stato di Napoli:

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9.000 moschetti di calibro con suoi fiaschi, fiaschigli e forchiglie.
9.000 archibugi di calibro con suoi fiaschi e fiaschigli.
1.000 cherubini (detti anche carubini e carobini, sp. caravinas) con cascie e focili a grillo alla
spagnuola.
1.400 para di pistole con cascie e focili a grillo alla spagnuola.
6.000 picche di faggio con loro ferri di Brescia alla spagnuola.

Le prime due sono armi di fanteria con accensione a miccio, ma era già in corso in Europa la
loro sostituzione con il cosiddetto moschetto leggiero, cioè con un’arma, anch’essa a miccio, ma
leggera quasi quanto l’obsoleto e debole archibugio e potente quasi quanto il vecchio e pesante
moschetto di Biscaglia; si trattava di un’arma sufficientemente leggera, perlomeno quello ora
portato dalla fanteria in campagna, perché, si potesse usare anche senza la forchetta
d’appoggio; il Marzioli voleva che i fanti abbandonassero la forchetta, non solo perché ora la
loro suddetta arma era più leggera, ma anche perché l’uso di tale strumento ritardava
ovviamente l’esecuzione dello sparo. Per quanto riguarda il vecchio moschetto di Biscaglia, se
ne poteva naturalmente continuarne l’uso nei presidi, cioè dove non si doveva trasportare in
lunghe marce e si poteva appoggiare a parapetti invece che alle forchiglie, ma è innegabile che
rispetto al leggero, presentasse ormai troppi inconvenienti; esso, oltre al suo eccessivo peso in
generale e in conseguenza alla necessità della forchetta d’appoggio, aveva anche lo svantaggio
di una cassa troppo piccola, la quale, non bilanciando il peso della canna, rendeva al soldato,
una volta che si era posta l’arma in spalla, la marcia più faticosa e inoltre, quando combatteva,
dopo soli tre o quattro tiri gli aveva già maltrattato la spalla e la guancia. Il nuovo leggero, anche
se magari spesso di calibro un po’ inferiore, aveva invece appunto una cassa molto più grande
e stabile e chiunque lo poteva adoperare senza necessità d’un appoggio su alcuna forchiglia o
parapetto; il ferro di Biscaglia restava comunque quello di miglior qualità per la fusione delle
canne. La Spagna sarà, come poi vedremo, l’ultima grande potenza europea ad abbandonare
l’accensione a miccio e serpentino, congegno inventato a Lucca nella prima metà del
Cinquecento, per adottare finalmente quella a grilletto e fucile; infatti ancora nel 1705 i fanti
spagnoli di presidio in Sicilia risulteranno armati del suddetto pesante moschetto di Biscaglia,
come con meraviglia scriverà nella sua relazione d’allora l’inviato di Filippo V in quell’isola
monsieur de Bedusar [S.H.A.T. Vincennes, A1-1867 (324]. In effetti anche dal suddetto de la
Chesnaye sappiamo che quest’arma a miccio e serpentino era talvolta usata nella difesa delle
piazze ancora ai suoi tempi, ossia alla metà del Settecento (ib.).
Pesi e misure delle suddette armi bresciane ci sono date da una classificazione anch’essa
bresciana del 1667, da cui però per semplicità non riporteremo le misure originali in once e piedi

127
bresciani, ma ne daremo direttamente l'equivalente approssimativo in grammi e centimetri
calcolato tenendo conto delle varie interpretazioni che si danno oggi di quelle due misure;
diremo solo che il moschetto tirava palle di piombo da circa un’oncia napoletana (gr. 27,12) -
misura questa equivalente a un dodicesimo di libbra in Italia e a un sedicesimo invece in
Spagna, Fiandra, Alemagna e in altri paesi europei - con una carica di polvere di monizione (fr.
poudre de magasin) di poco più di mezza oncia, mentre la palla della terzetta o pistola pesava
circa un lotto, cioè mezza oncia:

CANNA PESO (gr.)- LUNGHEZZA (cm.)- CALIBRO (gr.)

moschetto da 759 a 976 da 110 a 142 da 34 a 54


archibugio 651 a 759 95 a 110 20 a 34
carabina 434 a 542 63 a 80 18 a 54
terzetta 217 a 380 30 a 55 16 a 27.

La terza e la quarta sono invece armi di cavalleria; la carabina è qui chiamata ancora con
questo ormai improprio nome, perché, come si vede, si tratta ormai di un arma non più ad
accensione da ruota bensì da focile e grillo, ma prenderà presto infatti anche in Italia il nuovo
nome di moschettone; esso era, come abbiamo già detto, lungo solo 3 piedi, quindi
sensibilmente più corto dell’arma di fanteria, in considerazione che in cavalleria le armi da fuoco
lunghe erano di scomodo maneggio; si usava quindi anch’esso a spalla e guancia, richiedeva
una carica di circa un’oncia di polvere e aveva una gittata di circa un terzo inferiore a quella
dell’arma di fanteria. La distinzione tra armi corte e armi lunghe era anche importante da un
punto di vista legale, perché ai civili era proibito il porto delle prime, in quanto agevolmente
occultabili aldisotto di vesti o cappelli e quindi adattissime a commettere proditori omicidi; da
questo pericolo nacquero la convenienza e l’uso di scoprirsi il capo nell’incontrarsi e si sa che,
per esempio, davanti al re di Spagna solo i grandi di Spagna erano autorizzati a non scoprirselo;
lo stesso dicasi dei pari d’Inghilterra. È singolare come questo nome di moschettone sia stato in
seguito per metonimia attribuito a quel tipo di gancio metallico a molla che si adopera oggi per
vari usi, ma che, d’invenzione militare, allora reggeva appunto il moschettone di cavalleria. Il
nome carabina era nato nel Rinascimento nella forma cherubino (cioè il toro alato della
mitologia mesopotamica) e infatti in calabrese si dice ancor oggi carubina; distingueva un arma
di cavalleria ad accensione a ruota più lunga della pistola, ma, come abiamo già detto,
comunque anch’essa compresa tra le armi corte), arma che dopo la Guerra dei Trent’anni sarà

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esclusa dall’armamento militare, restando così solo nell’uso venatorio, mentre ancora adoperate
saranno quelle corte da ruota, dette pistole, specie dalle cavallerie tedesche:

La cavalleria tedesca ha per armi la sciabola, la carabina e le pistole a ruota, con una sciabola
attaccata a l’arcione della sella; alcuni dei loro cavalieri sono armati di corazze e di celate sul
capo… (de Gaya)

In Francia le guardie reali furono l’ultimo corpo a cavallo a usare la carabina da ruota; infatti
solo nel terzo quarto di questo secolo diciassettesimo sarà loro sostituita con il moschettone da
pietra e, spiegava il de Gaya nel suo Traité del 1678, mentre ciò avveniva, negli altri eserciti
europei continuavano invece a servirsene:

Ci si serviva una volta di armi a ruota, di archibugi a miccio, di chiocchi (‘choques’) e di carabine
che si tendevano con la chiave. Gli stranieri se ne servono ancora nei loro eserciti….
Ai nostri giorni il Re ha fatto portare in ogni compagnia delle sue guardie otto carabine rigate, in
cui la piastra d’accensione (‘platine’) è simile a quelle dei fucili, moschettoni e pistole…

Come abbiamo già accennato, il nome carabina non andrà però perduto perché passerà a un
tipo più potente di moschettone e cioè a quello a canna rigata, a polvere più fina e palla forzata,
del quale s’armavano solo un paio di soldati bersaglieri in ogni compagnia di cavalleggeri, cioè
quelli più esperti e abili nel tiro, perché di essi ci si serviva nelle scaramucce iniziali d’una
battaglia o in altre occasioni e necessità particolari; era dunque questa un’arma più spessa di
metallo, più potente e precisa, con la bacchetta non di legno, bensì di ferro perché non si
spezzasse. Maggiore era il vento, ossia la differenza tra il calibro della palla rispetto a quello
della canna, e minore era la precisione di tiro e quindi, ad aumentare l’esattezza del tiro di
queste armi, da cui molta precisione appunto ci si attendeva, senza dover necessariamente
spingere giù per la canna rigata palle di misura troppo giusta e quindi col pericolo che vi
restassero incastrate, si usava talvolta, specie negli eserciti imperiali, rivestirle di pelle di
montone, così, pur lasciando poco vento, per la loro morbidezza esteriore non s’incastravano;
questo steso stratagemma usavano i turchi per ridurre il vento anche delle palle dell’artiglieria.
Questa carabina non va dunque confusa né con la più antica arma di cavalleria dallo stesso
nome, ma appunto con accensione ad acciarino ruotante e mina, usata proprio sino a questi
anni che stiamo descrivendo, né tanto meno con quella dallo stesso improprio nome che allora
adoperavano turchi e arabi, trattandosi di un moschetto più lungo e potente dell’usuale, ma non
a canna rigata, e dal quale poi derivò nel Nuovo Mondo la longue carabine di cui si talvolta si
legge nella letteratura sulle guerre americane del Settecento e il cui vero originario nome era il
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francese fusil boucanniere, in quanto arma precipua di quei grassatori delle Antille francesi,
arma questa che poi fu apprezzata e usata anche dalla marineria francese unitamente a
moschettoni con proiettili ‘burrellati’ (fr. à bourrelet), cioè provvisti di anelli di rame esterni
stoppanti e stabilizzanti, e a grosse pistole dallo stesso calibro dei moschettoni guarnite di
‘zanne’ laterali per potersele infilare nella cintura in occasione di abbordaggi’(fr. pistolets de
ceinture à crochet).
La terzetta o pistola era di lunghezza e calibro variabile; le più comuni erano lunghe circa un
piede e mezzo incluso il teniere e avevano una gittata di circa 40 passi o più o meno a seconda
della qualità della polvere.
Ma, per tornare ora al moschetto leggiero, diremo che la sua gittata media era, come già detto,
di circa 120 passi geometrici o veneziani, misura allora autorevole in tutta l’Italia, oppure si
poteva dire di circa 120 tese di Francia, essendo questa una misura molto vicina alla
precedente; ma, con canna rinforzata (sostanzialmente più spessa), di conseguenza,
aumentando un po’ la sua carica di polvere ordinaria, poteva raggiungere i 140 o 150 passi, e,
poiché detto passo geometrico corrispondeva a m. 1,735 di oggi, oscillava quindi tra i 210 e i
260 metri, il che allora era molto, se si pensa che invece, per colpire un nemico coll’archibugio,
bisognava praticamente essergli tanto vicino da poterlo guardare negli occhi, e, per quanto
riguarda la pistola, addirittura era necessario quasi appoggiargliela addosso. In ogni caso, per
fare sicuramente un buon tiro, bisognava cercare di sparare a bersagli posti a metà o al
massimo ai due terzi della gittata possibile, perché farlo a quella intera era solo una
combinazione fortunata.
In Francia il moschetto di Biscaglia aveva preso il nome di mousquet de Vaubonnez,
evidentemente dalla zona in cui si era iniziato a produrlo; ma più tardi, nel 1678, il de Gaya
diceva che il moschetto di fanteria allora in uso in Francia era un’arma dalla canna di 3 piedi e 8
pollici e dal fusto di 4 piedi e 8 pollici con palla dal calibro di 8 linee e mezza di diametro e dalla
carica di mezz’oncia e un grosso di polvere di magazzino, cioè di normale polvere fornita
all’esercito di munizione; insomma anche in quel regno si era adottato ormai un moschetto più
leggero e agevole da portarsi e maneggiarsi. Si potevano sparare con quest’arma anche palle
ramate – il che non significa affatto ‘ricoperte di rame’, come alcuni pensano, bensì due palle
unite da un piccolo ramo (‘barretta’) di ferro; ma naturalmente in questo caso bisognava tener
conto del peso doppio del proiettile e quindi aumentare, per quanto possibile, la carica di
polvere e comunque aspettarsi un tiro più corto. Invece allora la fanteria spagnola ancora
adoperava il vecchio, pesante moschetto di Biscaglia:

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La fanteria ha per armi la spada, la cui guardia è straordinariamente larga e profonda e della
quale ci si potrebbe servire come di una tazza; la bandoliera, che non è delle più larghe, il
moschetto, pesante il doppio del nostro e d’un altro calibro, che essi non potrebbero usare
senza posarlo su una forcina, e la picca, più lunga e grossa delle nostre….

Nel 1684 il moschetto regolamentare in dotazione alla fanteria francese doveva esser lungo di
canna 3 piedi e 6 pollici di Francia e in totale di 4 piedi e 8 pollici, mentre doveva avere un
diametro di bocca di 8 linee, la palla di 7 linee (calibro) e uno spessore di metallo che andava
dalle quattro linee alla culatta a una linea alla bocca; il focone doveva essere a otto linee
dall’estremità posteriore della culatta. Qualche tempo dopo la lunghezza della canna fu
aumentata a 3 e 8 e quella totale a 5 piedi; la palla pesava ora un ventesimo di libbra; la gittata
restava comunque di 120-150 tese. Pezzi e congegni di cui era fatto un moschetto erano, oltre
alla canna, i seguenti: la piastra o placca di ferro quadrangolare trattenuta al lato destro della
cassa o fusto a mezzo di tre viti e di un rivetto o cavicchio e a cui erano attaccati il bacinetto del
polverino d’innesco, questo, formato di quattro pezzi di ferro e posto in corrispondenza del
focone, e, un po’ più avanti, il serpentino porta-miccio; il serpentino, attaccato alla suddetta
piastra a mezzo di una vite, aveva l’estremità anteriore tagliata in due lamine tra le quali si
poneva l’estremità del miccio e poi le si stringeva a mezzo di una vite perché lo trattenessero; la
chiave, un ferro a forma di S molto allungata, posto sul dorso della cassa e la cui estremità
anteriore era collegata alla estremità inferiore del serpentino, detta grilletto, in maniera che,
stringendo con la mano destra la chiave in modo da avvicinarla alla cassa, si agiva su
serpentino facendone così discendere l’estremità col miccio all’indietro sul polverino del
bacinetto. La cassa, fatta possibilmente di legno di noce, ritenuto il migliore per quest’uso,
aveva il calcio lungo, largo e piatto, perché, destinato a rinculare sul petto del soldato, gli
facesse il meno male possibile; la bacchetta per caricare doveva invece essere di legno di
quercia ed era tenuta sotto la canna da tre anelli porta-bacchetta di ferro; il miccio infine, per
esser sicuramente buono doveva esser di corda molto stretta e secca, perché quella fatta di
fresco aveva sempre un certo contenuto di umidità (Manesson Mallet).
Naturalmente, fatta la suddetta necessaria classificazione delle armi da fuoco d’ordinanza, non
faremo parole del loro maneggio, perché esuleremmo troppo dal nostro tema, ma, a chi
interessasse, consigliamo d’aspettare la pubblicazione del nostro prossimo studio, quello cioè
che riguarderà l’arte della guerra nel secolo precedente, non essendo detto maneggio nel
Seicento sostanzialmente cambiato.

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Tornando ora alle cronache militari napoletane, diremo che tra la fine d’aprile del 1675 e l’inizio
del mese successivo, spinto da un prospero vento di scirocco, arrivò a Messina dalla Morea un
convoglio greco che portava alla coraggiosa città provviste alimentari e si trattava di 15 tartane e
5 altri legni da carico; all’inizio dello stesso maggio giunse invece finalmente a Napoli dalla
Spagna del denaro da spendersi per il risarcimento dei vascelli che erano ancora in sosta a
Baia, lavori che, affidati ora al principe di Montesarchio, si stavano di molto sveltendo Si stavano
inoltre allestendo tre galere dello stuolo del Regno perché sarebbero presto dovute passare in
Catalogna sotto il comando del principe di Piombino; quello di Messina non era infatti allora
l’unico fronte bellico che la corona spagnola affrontare. Nel mentre la cavalleria territoriale detta
della Sacchetta era concentrata e dislocata in Calabria e nella stessa Sicilia in appoggio
all'esercito operante sotto Messina e contro eventuali sbarchi francesi sul continente ed inoltre
si provvedevano castelli e fortezze del regno di viveri e munizioni come si doveva in tempo di
guerra. Martedì 7 maggio arrivarono a Napoli circa 400 tra dalmatini e schiavoni regolarmente
arruolati, i quali erano anch’essi sbarcati nei giorni precedenti a Pescara, e dovevano
proseguire per il teatro di guerra siciliano; tra essi si contavano circa 30 predicanti
(probabilmente monaci greco-ortodossi) inviati alla guerra però questi come carcerati con
commutazione di pena. Verso la metà di questo mese di maggio si videro arrivare inoltre a più
riprese altri miliziani del Battaglione, gente finalmente atta alla guerra (uomini scielti ed atti
all’armi) e dopo pochi furono imbarcati su parecchie tartane noleggiate.

(Napoli, 18 maggio:) In Aversa e Capua sono arrivati altri 500 alemanni ed altri mille in Venafro,
dove si fanno qualche poco riavere prima di farli venire qui, avendoli maltrattati il viaggio (A.S.V.
Nun. Nap. 83)

Era quest’ultima notizia un po’ vecchia, perché due giorni dopo 800 di questi alemanni
provenienti dai porti adriatici già entravano in Napoli; molti di loro si erano effettivamente
ammalati in viaggio a causa della piovosità della stagione e furono pertanto subito ricoverati
negli ospedali cittadini, dove erano generalmente curati con bagni nel vino caldo a cui erano
aggiunte erbe medicinali e spezie; questo trattamento empirico ed efficace guariva molti dalle
malattie da raffreddamento meno gravi ed era sicuramente graditissimo da quegli uomini
tradizionalmente tanto attratti dal vino italiano.
Lo stesso lunedì 20, pure ammalato e in più molto amareggiato da pesanti critiche alla sua
conduzione della guerra, rientrava nella capitale Marc'Antonio di Gennaro, sollevato già nel
precedente gennaio dal suo incarico di mastro di campo generale contro i messinesi; lo si era

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infatti accusato d'incapacità, visti i risultati sinora molto negativi, e col pretesto della sua tarda
età gli si era ordinato di tornare in patria. I siciliani addirittura lo avevano accusato di tradimento:

... Fra questi (traditori) fu il primo traditore Marco Antonio Gennaro, napolitano, mandato dal
viceré di Napoli per maestro di campo, che faceva in tal maniera azzuffar le genti nostre con
avantaggio de’ messinesi onde i soldati del nostro re erano miseramente uccisi. Onde questo
ribello, (non) anco molti giorni innanzi, fu fatto venire in Milazzo senza mettersi più a tal ufficio; e
finalmente ora è stato riformato e licenziato, mentre è venuto un altro da Spagna in suo luogo.
(V. Auria, cit. P. 274).

Ma era evidente che nei suoi confronti a Palermo s’esagerava, tant’è vero che l’Auria vedeva il
tradimento anche nell’agire di uno spagnolo, cioè del capitano generale della cavalleria Diego
Bracamonte, e dichiarava sostituito anche lui, mentre poi vedremo il detto generale continuare
ad animare anche lui le cronache di quella guerra:

... Il simile fu ancora d’un altro traditore del nostro re, che fu generale della cavalleria nostra,
chiamato D... Bragamonte, uomo che per interesse proprio posponeva quello del re, onde è
stato levato e in sua vece posto un altro, pure venuto da Spagna, con mille soldati imbarcati
nella città di Barcellona (ib.)

Il di Gennaro inviò in sua difesa un lungo memoriale alla regina protestando di aver fatto tutto il
possibile e cioè quanto segue:

… aver tenuto in Sicilia il comando di pochi fanti spagnuoli, non più che cinquecentocinquanta,
e una compagnia di guardia del Viceré d'ottanta cavalli borgognoni (‘valloni’) (a quattrocento del
Battaglione, mille trecento siciliani, ducentoventi cavalli del paese dar nome di soldati esser onta
della milizia), a’ quali si riducevano tutte le truppe che empivano le lettere de’ ministri a Sua
Maestà, seminudi, mezzo disarmati, necessitosi anco del pane. Con questo esercito esser stato
destinato al riacquisto di una piazza cinta di validissima muraglia, coronata di baloardi, ogn'un
d'essi non inferiore a un castello, da popolo altiero, da briosa nobiltà habitata e difesa (Raffaele
Maria, Filamondo, Il Genio bellicoso di Napoli. Memorie istoriche d’alcuni capitani celebri
napolitani etc. Parte II, p. 482. Napoli, 1694).

Egli rimostrava ancora d’aver dovuto condurre un assedio non facile senza soldati, ingegnieri,
viveri, comandanti e in sovrappiù erano poi sbarcati in aiuto dei rivoltosi francesi; ma la sua
accorata difesa a poco gli servì e, angustiatissimo dalle critiche e dalle accuse che gli erano
state portate, ne morì poco tempo dopo, cioè il 6 agosto di quello stesso anno; era stato
dapprima sostituito pro interim dal mastro di campo generale Vincenzo Tuttavilla duca di
Calabritto, ma già ora definitivamente da Fernando Garcia Ravanal, uno spagnolo che era
prima stato mastro di campo del terzo detto (de la Mar) de Nápoles, ossia di uno dei terzi fissi
133
spagnoli di stanza in Lombardia, così tradizionalmente chiamato non perché fosse costituito da
regnicoli, ma perché tanto tempo prima, quando era arrivato a Milano, non proveniva
direttamente dalla Spagna, bensì dal basso Tirreno; costoro, sebbene disponessero ora di
soldati esperti sbarcati dalla sopraggiunta armata spagnola e in seguito anche di salde fanterie
alemanne, non riuscirono però a far molto meglio del di Gennaro, in considerazione che ormai
si avevano di fronte anche i francesi.
Mercoledì 29 maggio entrarono in città altri 500 alemanni, i quali poi, assieme ad altra fanteria e
a cavalleria saranno, come vedremo, presto imbarcati per il teatro di guerra. In quei giorni
intanto lettere inviate dalla Francia da informatori del principe di Lignì avvisavano della
possibilità che i francesi stessero programmando di sbarcare in Calabria e allora il de Astorga
intimò ai baroni di recarsi subito nei loro feudi ad organizzare misure di difesa, ma molti di quelli
non volevano partire, troppo abituati alla loro bella vita nella capitale, ai loro ricchi palazzi, i quali
spesso finivano per dare il nome a interi quartieri di Napoli, come per esempio il palazzo del
duca di Forcella e quello del marchese del Vasto. In questo periodo, già tanto difficile per il
regno a causa della guerra che si combatteva alle porte di casa, aveva ripreso nuovo vigore il
brigantaggio alimentato dagli agenti stranieri, specie francesi, e si ebbe ora notizia del
saccheggio di Balvano commesso da 1.300 banditi e briganti d'Abruzzo, Basilicata e Terra di
Lavoro, mentre il primo anno di guerra contro Messina si avviava a costare 1.800.000 ducati di
spese militari e non si erano ancora nemmeno pagati i soldati; le difficili condizioni economiche
del regno, dovute in massima parte all'intensificarsi della pressione fiscale, costringevano
frattanto molti plebei senza mezzi né lavoro ad arruolarsi volontariamente nell'armata spagnola
in sosta a Baia.
Il sabato 1° giugno tenne mostra la fanteria spagnola allora nelle disponibilità del viceré di
Napoli e risultarono 48 compagnie per un totale di 4.204 soldati, laddove, se i tempi fossero
stati ordinari e non con una guerra così vicina, il terzo fisso degli spagnoli di Napoli, come da un
vecchissimo ordine reale del 20 settembre 1636, avrebbe dovuto contare solo 24 compagnie di
100 uomini l'una e, andando ancora più indietro, come da risoluzione del Consiglio d’Italia
madrileno del 17 marzo 1625, solo 20 da 100 fanti invece delle precedenti 26 da 100; ma ora,
poiché si temeva che la ribellione dei messinesi, appoggiata ora dalla Francia, potesse
contagiare anche il Regno di Napoli, con successivo ordine reale del 1° ottobre di questo stesso
1675 il re ne avrebbe addirittura ordinato l’aumento a 6mila piazze (posti) e avrebbe inoltre
incaricato il viceré di non permettere assolutamente, né in questo né in altri corpi, la presenza
di piazze supposte o inutili, ossia di quelle non effettivamente operative, dette generalmente

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piazze morte, che si concedevano e pagavano a veterani, cioè a persone non più in servizio
perché troppo anziane, a vedove di deceduti, a invalidi, ecc. – c’è da notare che a quel tempo il
termine veterani aveva, perlomeno tra le nazioni suddite della Spagna, ancora il senso che
aveva preso nella tarda romanità e cioè quello di soldati licenziati dal servizio perché troppo
anziani. Al detto proposito un ordine reale del precedente 12 maggio aveva confermato il
reclutamento di otto soldati di soli 14 anni nella compagnia del terzo fisso spagnolo che era
comandata dal capitano Antonio Fernandez e ciò in deroga alle disposizioni che proibivano di
levare soldati d’età inferiore ai 17 anni, stante la contingente grande necessità di soldati
spagnoli che c’era ora nel Regno di Napoli a causa della grave ribellione di Messina, deroga
che fu presto ripetuta per un altro ragazzo, questo di anni 15.
Il giovedì 23 maggio s’era visto passare al largo di Catania un numeroso convoglio francese
proveniente da sud, il quale fu colà conteggiato in 78 vele, ed infatti poi, dalla fine del mese al 4
giugno, entrò in porto a Messina; si trattava un grosso soccorso di più di novanta velieri perlopiù
mercantili, tra tartane e polacche, mentre il gruppo propriamente bellico comprendeva intorno a
13 vascelli, 22 galere e 2 galeotte; portava tra l’altro buon numero di cavalleria. Da notare che le
galere non erano altre rispetto a quelle già arrivate a Messina in precedenza, bensì le stesse, in
quanto la Francia non ne aveva appunto più di un paio di dozzine nel Mediterraneo. Alla metà
del detto mese erano frattanto arrivati a Napoli altri 200 alemanni, i quali, bisognosi di riposo,
furono tenuti a Napoli tranquilli per un paio di settimane, ma poi, all’inizio di luglio, ebbero ordine
d’imbarcarsi per la Sicilia. S’erano avute in questi giorni notizie di un tentativo francese di
sorprendere Milazzo, ma senza che se ne sapessero i particolari perché il marchese di
Villafranca non si preoccupava assolutamente d’inviare relazioni al viceré di Napoli, ma solo
direttamente alla corte di Madrid, e ciò quindi senza alcun riguardo dell’importantissimo ruolo
svolto dal Regno di Napoli in quella guerra; comunque si seppe poi con sicurezza che i francesi,
fallita Milazzo, da loro attaccata per terra e per mare, s’erano comunque temporaneamente resi
padroni della sua piana, specie dello strategico casale di Ivizo e del castello di Spatafora, e poi
avevano tentato di sbarcare presso Reggio, ma erano stati respinti dalla resistenza opposta
dalle forze del mastro di campo Andrea Coppola duca di Canzano, sebbene queste avessero
avute molte perdite perché battute sulla costa dai cannoni navali nemici caricati a palle di
moschetto. Poi il nemico tentò con quattro vascelli di sbarcare anche presso Barletta, ma ne fu
anche qui respinto dal duca d’Andria accorsovi con 300 suoi vassalli; allora detti vascelli,
catturato un cargo granario veneziano ed uno raguseo carico di fave, incendiatone un altro
maltese perché si era difeso a oltranza, si ritirarono verso Messina lasciando le popolazioni

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costiere impaurite e con l’armi in pugno. Arrivò a Messina un quinto soccorso francese di 35
vele.
Detto sabato 1° giugno, poiché s’erano avvistate altre vele francesi nelle acque di Capri,
s’inviarono bombardieri di rinforzo a Gaeta e nelle isole. Mentre entravano in Napoli molti banditi
pugliesi accordatisi con la Corte tramite i feudatari locali, come per esempio il principe della
Torella, per andare a servire in guerra in cambio dell’amnistia, il 4 giugno lasciò il porto di Napoli
un convoglio scortato da tre vascelli maiorchini d'alto bordo noleggiati appunto per le esigenze
marittime di quella guerra e appena arrivati da Palermo proprio per scortare detto convoglio, il
quale era formato da due petacchi e 12 tartane con destinazione Reggio e Milazzo; questi legni
portavano circa 2.000 uomini, tra cui 1.200 alemanni e così ne restavano a Napoli ricoverati
negli ospedali cittadini solo 200 ancora ammalati; gli altri erano milizie del Battaglione del Vallo
di Novi costituite in terzo dal summenzionato Titta Caracciolo Pisquizj duca di Martina, il quale
ne aveva ricevuto la patente di mastro di campo, e si trattava di milizie che poi furono unite ad
altre inviate a Reggio via terra; v'era infine una compagnia di nuova leva di 100 cavalleggeri
balcanici, i cosiddetti (e)stradioti o croati, comandata e spesata dal capitano Andrea Cicinello
dei principi di Cursi, la quale arrivò a Solanto nel Palermitano tra l’ultimo giorno di maggio e il
primo di giugno. Due tartane trasportavano attrezzature e munizioni da guerra e la consistenza
di questo convoglio, riportata dal Fuidoro in maniera piuttosto confusa, è però confermata da
altre fonti, per esempio dall’Auria. Questa soldatesca fu sbarcata a Palermo, da dove poi la
fanteria sarà tragittata a Milazzo con le galere, mentre domenica 16 giugno il Cicinello vi
avrebbe condotto la sua cavalleria via terra perché 15 galere francesi allora bloccavano Milazzo
dal mare; mancavano però i detti alemanni, i quali erano invece stati sbarcati a Tropea da dove
avrebbero dovuto proseguire evidentemente a piedi il loro viaggio per Reggio, ma, colà giunti,
non essendo stati ancora rispettati gli accordi di soldo presi con loro all’atto dell’arruolamento, si
erano insubordinati.
Dal mercoledì 12 al giovedì 20 giugno si sviluppò un’offensiva franco-messinese contro vari
posti fortificati spagnoli, il cui maggior risultato fu, alla fine, la presa di S. Lucia, postazione
spagnola lontana solo due miglia da Milazzo; non riuscirono però poi i franco-messinesi a
avanzare oltre e preferirono quindi allontanarsi un po’ per provare a prendere Spadafora nella
terra di Monforte, qusta a circa 10 miglia da Milazzo, ma anche là senza successo; infine sei
galere francesi e tre barche da quelle rimorchiate tentarono uno sbarco nella marina di Milazzo,
ma furono anch’essa respinte dal cannoneggiamento delle due galere della squadra dei
particolari genovesi, cioè la S. Maria e la S. Francesco di Paola, che guardavano quella costa.

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Gli arrivi di soldati alemanni a Napoli erano in quel mentre continuati e il 3 luglio partirono
all'alba cinque galere napoletane e una siciliana che, sotto il comando di Beltrán de Guevara
conte del Vasto portavano a Palermo circa mille soldati tra spagnoli, italiani e alemanni; questi
ultimi rifiutarono d'imbarcarsi prima di essere pagati e ciò secondo il loro costume mercenario di
ricevere sempre alcuni mesi di paga anticipata, obbligando così il viceré a cedere e ad
accontentarli. Sennonché, arrivate che furono a Palinuro, queste sei galere furono respinte
indietro da un forte scirocco contrario sino a Nisida, dove furono costretta a sostare per qualche
giorno prima di riprendere il viaggio; arriveranno poi comunque a Palermo felicemente. Molto
malcontento per la mancanza del soldo, questo invece ormai molto posticipato, regnava invece
sulla flotta spagnola a Baia e un giorno che il de Astorga passava davanti a uno di quei vascelli,
probabilmente questo in porto a Napoli, i marinai lo insultarono e gli gridavano:

Vuestra Excelencia pague nosotros, moremos de hambre, no tenemos dinero.

Lo stesso diarista scriveva che questi uomini (che hanno abiti addosso così schifi e sporchi),
quando scendevano a terra, attaccavano briga, rubavano e rapinavano, altri svergognavano alla
francese le femine in Pozzuoli e Fuorigrotta. Abbiamo già cercato di capire i motivi per cui
preferivano questo tipo di violenza carnale; i puteolani comunque si vendicavano terribilmente e
pare che riuscissero ad ammazzarne addirittura 250! Pur se il lavoro di carena (‘carenamento’)
dei 16 vascelli e dei due brulotti che costituivano questa flotta, costato 32mila ducati, sembra sia
stato pagato da Madrid, e non da Napoli come farebbe pensare un lungo documento di forniture
militari di cui poi diremo a proposito del 1678, la permanenza a Baia di quest’armata era già
costata all'erario napoletano 600mila ducati e ne sarebbero serviti altri 184mila per pagarne i
marinai e i soldati del suo terzo di fanteria di marina spagnola comandato dal mastro di campo
Antonio de Guzman; del terzo d'italiani di questa stessa squadra invece non più si parla, forse
perché in quel mentre inviato alla guerra di Messina.
Il 4 luglio entrò nel porto di Messina un altro soccorso francese fatto di 8 vascelli da guerra che
portavano mille soldati da sbarcare e da 7 tartane da carico, mentre il mercoledì 10 ne arrivava
a Palermo uno per i regi fatto di 5 galere napoletane e una di Sicilia, le quali portavano, oltre a
600 alemanni per Milazzo, soldati spagnoli e marinai da guarnirne le galere di Spagna allora
all’ancora in quel porto e appunto carenti d’uomini; proseguirono poi per la detta piazza d’armi il
giorno successivo.

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(Napoli, 6 luglio:) Per impedire che gli spagnuoli dell’armata, che sono in Pozzuoli, non venghino
in Napoli la notte a rubare, fu resoluto dal Collaterale di tenere una compagnia de’ soldati a Pie’
di Grotta, come si è pratticato. Ieri sera però, verso un’ora di notte (‘cioè verso le 21 di oggi’),
riuniti li suddetti dell’armata fino al n° di 400, s’incaminarono verso questa città e, riconosciuti
dalla detta compagnia, dissero di voler essere a parlare al signor Viceré, acciò che li facesse
pagare, altrimenti sarebbero morti di fame. Li trattenne il capitano di detta compagnia con le
buone e, presasi l’incombenza di venire in nome loro a parlare a Sua Eccellenza, lo fece e,
fattosi il suddetto sapere in tutto al maestro di campo generale Tuttavilla ed al principe di
Montesarchio, questi mandariono colà alcuni officiali, che, avendo promesso loro farli pagare in
tutt’oggi, li fecero ritirare ne’ loro quartieri (A.S.V. Nun. Nap.)

Domenica 14 luglio arrivò a Napoli Gabriel de Cevallos, castellano della fortezza di Castellazzo
a Messina, il quale era stato trattenuto prigioniero in quella città sino al 7 precedente e poi
liberato dal Vivonne; raccontò che i francesi disponevano di 4mila fanti e 350 cavalli, di cui 600
erano cavalieri - per due terzi giovanniti, quindi milizie scelte, che da essi erano presidiati tutti i
15 posti fortificati della città, porte incluse, non fidandosi dei messinesi e mutandone la guardia
ogni sei ore; anzi, sempre per mancanza di fiducia, essi avevano licenziato tre terzi dei ribelli e
cioè il de Aberna, il Crisolfi, fatto di milizie cittadine, e quello del barone di Miccichè. I predetti
posti fortificati, dotati complessivamente di più di 200 bocche da fuoco, erano i seguenti:

Porta Reale.
Landria.
Matagrifone.
Torre Vittoria, da poco terminata.
Castellazzo.
Gonzaga.
Forte di don Pietro Faraon.
S. Verite.
Don Blasco.
S. Giorgio.
Castello del Salvatore.
Forte di S. Carlo.
Palazzo.
Forte Seleni.
Bastioncello alla Marina.

Il de Cevallos riferiva ancora che le riserve di viveri erano tenute sulle navi francesi in porto e
che erano scaricate solo quando necessario, dovendole però la città pagare ai transalpini
puntualmente se ne voleva poi ricevere delle altre, che il pane era di cattiva qualità, che
mancavano carne e legna e che il giorno 6 era arrivato un ennesimo soccorso francese, questo
di ben 30 vele, tra cui cinque vascelli da guerra; in totale, quando lui era andato via, i francesi
disponevano a Messina di 26 vascelli da guerra, dieci brulotti e 24 galere, queste però mal
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armate e con pochissima ciurma. Sennonché poco dopo fu diffusa un’altra relazione del de
Cevallos, questa propagandisticamente molto meno scoraggiante e nella quale si diceva infatti
che il detto sabato 6 s’era tenuta a Messina mostra generale delle milizie presenti e che non si
trattata di più di 3mila uomini in tutto, genti di cattiva qualità perché in parte reclute senza
esperienza e in parte arruolati forzosamente, e che dei 350 cavalli solo 150 erano ancora
montati, perché, avendo i francesi lasciati gli animali a pascolare liberamente nella campagna, i
paesani li avevano rubati per andarseli a vendere nell’entroterra. Dopo il loro ritiro dal tentativo
di Milazzo, i francesi tenevano ora la maggior parte delle loro soldatesche a Ibizo; molte donne
del Milazzese erano già state da loro violentate e quelle messinesi non potevano uscire da
casa, essendo purtroppo la mancanza di rispetto per il sesso debole, come si sa, uno storico
difetto bellico francese, alquanto bilanciato comunque dall’opposta ottima consuetudine di
pagare puntualmente tutti i viveri e tutte le provviste che i loro eserciti compravano o
confiscavano per necessità alle popolazioni, amiche o nemiche, in cui in guerra s’imbattevano:

(Napoli, 20 luglio:) … Si trovano ogni giorno morti 5 o 6 ed alle volte 10 o 15 francesi per
causa d’onore e li hanno ridotti che non possono le donne uscir di casa, perché pubblicamente
le maltrattano, e non sono molti giorni che ad una donna ‘passarono mostra’ 18 francesi e ad
un’altra due la tenevan ferma ed il terzo usava con essa (A.S.V. Nun. Nap. 84)

Quale fosse il confine tra propaganda e verità nella detta relazione del de Cevallos non
sappiamo. Come se non bastasse nelle acque di Napoli l’ostile presenza di galere francesi, le
quali predavano allora barche nei pressi di Ponza, martedì 16 luglio galere bisertine predarono
due tartane in quelli di Gaeta. Alle prime galere di Francia seguì dopo il 20 presto un’intera
armata, fatta di 40 vascelli, 8 brulotti e 24 galere e venuta per bruciare la flotta spagnola in
sosta a Napoli per i raddobbi, priva d’erquipaggi e quindi pressoché incustodita; incominciò a
trattenersi tra Ischia e Procida e a catturare imbarcazioni, poi si avvicinò all’isoletta di Nisida,
cioè al promontorio di Posillipo, e poi anche a S. Lucia, da dove le furono sparati alcuni colpi di
cannone, mettendo in subbuglio e allarme tutta la città e tutto il golfo, mentre il principe di
Montesarchio, suoi ufficiali e soldatesche s’imbarcavano sui vascelli spagnoli ancora a Baia per
esser pronti a prender eventualmente il mare e di notte si faceva guardare da cavalleria la
spiaggia di Chiaia, mandandosi inoltre domenica 28 alcune compagnie d’alemanni a Castell’a
Mare a bordo di barconi. I vascelli spagnoli furono messi in salvo trainandoli con feluche e
barche nel molo e questo fu armato di cannoni; quindi, verso il 30 luglio i francesi, non avendo
trovato modo di avvicinarli, rinunziarono all’impresa e cominciarono ad allontanarsi e a spostarsi
nel golfo di Salerno, catturando via via una quindicina di tartane cariche di frumento, sale, sete
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e varie altre mercanzie, e infine si misero in rotta di ritorno verso Messina dove arrivarono il 1°
agosto. I detti alemanni furono riportati perciò a Napoli, ma, scambiati dapprima per il nemico,
provocarono alquanta confusione.
Giungevano di quando in quando a Napoli notizie di episodi di guerra terrestre e marittima nel
Canale di Sicilia; a partire da sabato 20 luglio era arrivato a Messina un ennesimo convoglio
francese con rifornimenti e ne aveva scaricato per sei giorni di seguito; si era trattato di 24 tra
tartane e polacche e di 8 vascelli da guerra tra cui alcuni molto grossi:

... che parevano montagne volanti sull’onde, Alpi strapiantati dall’arte nel mare, mobili
meraviglie, castelli torreggianti di Nettuno per la di loro bellezza (Romano Colonna).

Le galere di Napoli e di Sicilia presero uno di questi legni francesi, una fragatina, e lo
rimorchiarono nel porto di Reggio, ma l’armata di Francia vi spinse un brulotto che incendiò il
legno catturato assieme a un’altra tartana perché non restassero nelle mani del nemico. Le
fragate o fregate erano ora dei velieri che nulla avevano a che fare con i vascelletti remieri
d’egual nome usati nel Mediterraneo sino a un cinquantennio prima; nel corso del Seicento
infatti gl’inglesi erano stati i primi a riciclare quel nome di fregata e stavolta per un veliero
oceanico da guerra ordinariamente a due soli ponti, lungo, basso sull’acqua (fr. ras à l’eau),
leggero di legname e alla vela, povero d’opere morte e ciò sempre per aumentarne la
leggerezza, armato con un numero di pezzi che poteva andare dai 36 ai 50, trattandosi forse
d’una evoluzione dei cinquecenteschi bertoni di cui abbiamo già detto; l’unica parte della fregata
che si faceva sensibilmente più pesante, per esempio di quella d’un flauto o pinco, veliero
commerciale all’incirca della stessa stazza, era la prua, per cui un tale vascello tendeva a ricadere
di più sul naso (ol. neus, bek), come dicevano i francesi, ossia sulla punta dello sperone. Ci
sarà anche una versione più ‘leggera’ e molto più nota e fortunata di questa moderna fregata,
ossia un buon veliero (fr. fin de voile, leger à la voile) a un solo ponte, molto usata per il corso,
armata con un numero di cannoni che andava dai 16 ai 28, pertanto confondibile più con il piccolo
fly-boat che con il flauto, per esempio la francese Le Chasseur, la quale nel 1657 avrà 180
uomini d’equipaggio e 28 pezzi, di cui 18 in ghisa, nuova lega per le artiglierie di cui poi diremo;
infine, ci sarà anche un piccolo legno detto in francese frégate ou patache d’avis (ol.
advijs-jacht, advijs-fregat), il quale sarà utilizzato come avvisatore o come postale militare,
mentre una qualsiasi nave da guerra che allora porterà un numero di pezzi d'artiglieria superiore
al predetto di 50 si dirà, invece di fregata, un vascello, monopolizzando così un nome che
in precedenza, come sappiamo, era sempre stato comune a qualsiasi legno, grande o piccolo, a
140
vela o a remi che fosse. Nacque allora così la differenza di grado tra ‘capitano di vascello’ e
‘capitano di fregata’. Una traslazione oceanica simile a quella del nome fregata subiranno poi
anche quelli, altrettanto mediterranei, di corvetta e di brigantino (ingl. brick).
Sei galere di Napoli trasportarono mille alemanni da Milazzo a Scaletta, ma dovettero poi
andare a rifugiarsi nel porto di Augusta per sfuggire alla caccia dei vascelli francesi; le galere
francesi frattanto si stavano spalmando nel porto di Messina, mentre a Reggio avveniva una
baruffa tra soldati italiani e spagnoli. Scontri erano avvenuti a terra al casale di S. Stefano con
prevalenza dei franco-messinesi.
Il 15 agosto il de Vivonne con 26 vascelli da guerra, 24 galere e 8 brulotti uscì di nuovo da
Messina e comparve ad Augusta, richiamatovi da una congiura anti-spagnola dei suoi abitanti, e
il sabato 17 sbarcò e, a causa della quasi inesistente resistenza, in una sola giornata se ne
impadronì, imbarcandone poi su tartane grossi carichi di grano e di vino che furono subito inviati
a Messina; di questa perdita - grave perché quello era il porto-granaio della Sicilia, portò notizia
a Napoli il 24 del detto mese una feluca proveniente da Milazzo. Nel tentativo di riprendersi
Augusta, gli spagnoli inviarono verso quella città sia della fanteria sia 12 compagnie di cavalli
con il loro commissario generale Antonio Olea e comandante in capo di questa spedizione era
Lazaro de Aguirre, mastro di campo del terzo di Sicilia e generale dell'artiglieria di quel regno, il
quale morirà il 16 novembre successivo a Leontino (oggi ‘Lentini’) in seguito a una ferita
ricevuta nei combattimenti nel frattempo intervenuti per il controllo di Scaletta; un Miguel de
Aguirre, congiunto e forse figlio di Lazaro, risulterà dal 1685 alfiere della compagnia di lance del
viceré di Napoli, ma la conduzione della guerra, anche senza il de Gennaro, era ora di nuovo
oggetto di molte critiche, perché, pur contando ora l’esercito di Sicilia 13mila fanti e 1.200
cavalli, non compiendo alcuna azione di rilievo non si riusciva a capire se era sufficiente o
insufficiente. Si diceva che il marchese di Villafranca non era soldato, che il Ravanal non
godeva di apprezzamento da parte dei suoi ufficiali, che il nuovo generale della cavalleria, il
settentrionale Giannini, essendo italiano, non trovava abbastanza subordinazione tra i soldati
spagnoli e si vociferava che si stesse per dare anche prematuro cambio al marchese de
Astorga. Il castellano spagnolo della fortezza della torre d’Avola d’Augusta fu frattanto arrestato,
portato a Milazzo e giovedì 5 settembre ivi decapitato per tradimento, non avendo resistito
all’armata francese che si era impadronita della città.
Nello stesso periodo arrivarono da Ragusa di Dalmazia 400 marinai per l'armata spagnola che
spalmava a Baia; quella piccola repubblica infatti, pur essendo del tutto autonoma, era anche
un protettorato della corona di Spagna, alla quale era affidata la sua difesa; per esempio nel

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1678 il viceré di Napoli marchese di Los Vélez, avutone richiesta dagli stessi ragusei, concederà
loro, con l’avallo di Madrid, una missione di esperti militari comprendente un tenente di mastro
di campo generale, dieci capitani riformati, un ingegniero, alcuni bombardieri e altri ufficiali, tutti
a stipendio regio, impegnandosi inoltre a fornir loro al più presto anche un armamento di 500
moschetti, 500 archibugi, 100 cantara di polvere, 100 di palle e 50 di miccio. Per tutto il regno si
proseguivano nel mentre quelle leve di regnicoli a cui all'inizio della sollevazione di Messina si
era cercato, come si è detto, di rinunziare il più possibile per evitare contagi rivoluzionari; ma
ormai gli uomini servivano in abbondanza perché si era arrivati a una vera e propria guerra. Da
Reggio si segnalava infatti l'arrivo di una flotta francese di ben 86 vele e ciò dimostrava quanto
tenesse la Francia a tenere il maggior numero possibile di forze imperiali impegnate contro
Messina, a evitare così che intervenissero negli altri teatri di guerra europei. Era intanto uscita
dalla città ribelle l'armata di Francia e nello stesso luglio fu già in vista di Napoli; il viceré fece
allora in tutta fretta munire d'artiglierie e fanterie il baluardo di S. Lucia, quello presso il ponte
della Maddalena, la costa di Posillipo e fece imbarcare soldatesche sui vascelli che si trovavano
nel porto, ma le galere francesi, tentato solo un accostamento a Torre del Greco e a Resina, si
ritirarono accompagnate da qualche colpo di cannone sparato contro di loro dai castelli del
golfo. In seguito a questo episodio Francesco Piccolomini d’Aragona principe di Valle raccolse a
Torre dell'Annunziata più di mille paesani di Bosco (oggi Boscotrecase) e d’Ottaiano (oggi
Ottaviano), i quali, atti alle armi e sotto il suo comando, avrebbero dovuto difendere quelle
marine da nuovi tentativi d'approccio del nemico. S’inviarono inoltre a Procida 80 fanti spagnoli
con quattro cannoni e munizioni e a Castellammare e Sorrento 500 alemanni a guardia di quella
costiera. Triste era comunque allora la situazione del regno:

... e fra tanto l'armata francese domina il mare di Messina e li banditi il regno e li turchi le marine
di Puglia dove fanno continue prede.

La sera di giovedì 29 agosto lasciarono Napoli due galere di Spagna e una del duca di Tursi
che portavano via i marchesi di Viso e di Bayona giunti, anche con le galere, da Palermo da
circa un paio di settimane, e per Palermo e Milazzo 3 galere e 16 grosse tartane cariche di
fanterie italiane ed alemanne per circa 1.500 uomini, inoltre di munizioni, attrezzi, viveri e una
somma di denaro per le esigenze belliche, mentre si veniva a sapere che mille fanti e 300
cavalli sotto il comando del già nominato generale Giannini e di quello dell’artiglieria di Sicilia
erano usciti dalla predetta Milazzo per andare a tentare di riprendere Augusta ai francesi, i quali
vi ci stavano fortificando con un presidio di 1.500 fanti e 300 cavalli e più di 100 pezzi
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d’artigliera, e che intere compagnie d’alemanni stavano in Sicilia passando al nemico, per cui
dai 4.500 venuti da Trieste erano ormai ridotti a soli 2mila; come se ciò non bastasse, gli italiani
di guarnigione da Reggio fuggivano in tal numero che il governatore dell’armi fra’ Titta
Brancaccio si era visti costretto a rinchiudere i rimanenti. Frattanto finalmente, nello stesso
agosto, s’erano inviati alla flotta spagnola a Baia 18 razionali (ragionieri) della Regia Camera
della Sommaria, incaricandoli di pagare a soldati e marinai otto mesi di paga arretrata, con una
spesa complessiva di 134mila ducati; gli uomini pagati spesero tutto immediatamente in generi
di prima necessità e cominciarono col comprarsi le mutande di camise e calzonetti. Le suddette
tre galere arrivarono a Palermo due giorni dopo, cioè il sabato 31 agosto, e poi proseguirono
per Milazzo dove portavano 400 dei 6mila fanti alemanni condotti dal loro colonnello generale
conte Maximilian Laurentius Storemberg da Trieste a Napoli via Pescara e che erano arrivati
molto stracchi a causa del lungo marciare.
Tra il lunedì 9 e il martedi 10 settembre dal vice-regnato di Sardegna arrivò a Napoli il suo nuovo
viceré Fernando Joaquín Fajardo de Requesens y Zuñiga, marchese di Los Vélez, Molina e
Martorel, il quale veniva a sostituire il marchese de Astorga:

... levando da quell’officio il marchese d’Astorga, per averlo male amministrato con reclamore
del popolo e, precisamente, rubando gran somme di denari col prestesto d’occasione delle
spese per li soccorsi della Sicilia.E questo è il quarto signore spagnuolo traditore di Sua
Maestà, essendo il primo d. Melchiore della Cova, generale de’ vascelli di Spagna, che per
denari non fece il debito contro i messinesi, lasciando entrare in Messina il soccorso di Francia;
il secondo il marchese del Viso ed il terzo il marchese di Baiona suo figlio; tutti tinti della pece
del ladroneccio (V. Auria, cit. P. 318).

Tra il 21 e il 23 del predetto settembre ci furono sanguinose scaramucce nei pressi di Melilli e a
S. Placido. Il 28 l’armata di Spagna lasciava finalmente Napoli per tornare nei mari di Sicilia
sotto il comando d’Andrea d’Ávalos principe di Montesarchio, già capitano generale dello stuolo
di galere regie di Sicilia sin dal 26 agosto 1674 e lo sarà sino al 16 luglio 1683; era ormai
completamente risarcita e provvista, a spese dei napoletani, di tutto quanto il necessario, dopo
una permanenza di ben sei mesi trascorsa tra Baia e Napoli, ma i soldi spesi dall’erario di
Napoli erano evidentemente bastati solo per metterla in condizione di raggiungere il teatro di
guerra, perché già il 9 dicembre seguente il viceré di Sicilia Fadrique de Toledo y Ossorio
marchese di Villafranca e duca di Ferrandina (1674-1676) avrebbe scritto da Milazzo a quello di
Napoli per sollecitargli la rimessa dei 12mila ducati il mese e dei rifornimenti per il
sostentamento della detta armata che Napoli doveva, per ordine regio, accollarsi (Giuliano, Vol.
I, p. 336).
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Alla fine della prima decade d’ottobre due feluche venute da Milazzo portarono la cattiva notizia
che i francesi di Augusta appoggiati da altri appositamente sbarcati avevano con un’improvvisa
sortita respinto gli spagnoli accampati all’esterno di quella piazza, ma che in seguito giunse
anche quella più confortante che l’assedio era ripreso. Il 5 novembre una violenta burrasca nello
Stretto di Messina investì la detta appena risarcita flotta spagnola e la squadra di galere che,
per ordine del Villafranca e nonostante il Montesarchio avesse dichiarato la sua contrarietà viste
le avverse condizioni climatiche, operavano contro la città ribelle cercando di intercettare gli aiuti
che adesso le giungevano da sud. Finirono spiaggiati cinque vascelli da guerra, potendosene
salvare però equipaggi, materiali e armamento, tranne che per uno che fu poi sommerso dalle
onde e il cui equipaggio perì tragicamente. Le navi perdute furono le seguenti:

L’ammiraglia di Fiandra Jesús y Maria – 40 cannoni - 300 uomini – cap. Santo Lopez.
La caposquadra di Spagna San Francisco – 44 cannoni - 400 uomini - cap. Juan Roque de
Castilla.
La vice-ammiraglia di Spagna Nuestra Señora de... - 40 cannoni - 300 uomini - cap. Nicolò di
Gregorio.
La Concepción de Barcellona – 45 cannoni - 300 uomini - cap. Diego Brocetti.
La San José – 40 cannoni - 300 uomini - cap. il mastro di campo Andrea Madrigale.

Il prevalere di italiani al comando di questi vascelli fa presumere che anche gli equipaggi
fossero in gran parte formati da gente di mare italiana. Inoltre si erano persi due vasselli
artificiali di fuoco, ossia due brulotti, un pitacchio e una pollacca. Il giorno seguente, calmatosi il
forte vento di libeccio, la galera Capitana di Spagna tentò di disincagliare la suddetta
ammiraglia di Fiandra a forza di voga, ma dovette desistere per l’uscita delle navi francesi che
volevano andare a incendiare i vascelli spagnoli spiaggiatisi. Seguì un combattimento tra un
vascello spagnolo e uno francese.

... Ed il Monte Sarcio restò solo nel canale di Malta con il vascello più grande e veramente
magnifico detto ‘la Capitana’; e fu incontrato da sei vascelli nemici di Francia, i quali l’avrebbono
abbordato se avessero avuto tutti il mare calmato... (V. Auria, cit. P. 324.)

Si salvarono in tutto, oltre alle galere, 10 vascelli spagnoli, anche se danneggiati dalla tempesta.
Il vicerè tentò ipocritamente di addossare la causa del disastro allo stesso Montesarchio e a
Ferdinando Moncada duca di S. Giovanni, nobile palermitano che allora comandava le galere di
Sicilia, i quali invece, essendosi prima apertamente ambedue dichiarati contrari a uscire in mare
con quel tempo minaccioso, l’avevano poi fatto solo per ubbidienza:

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... Il tutto avvenne per l’invidia che tengono tutti gli spagnuoli di veder comandata l’armata de’
vascelli da un italiano, per la quale, non curando di perdere il tutto, vollero anco far perdere
quelli, se ben pochi, vascelli per veder tolto il comando di mano all’italiano... (ib.)

La domenica 17 novembre ci fu un altro avvenimento avverso per la marineria regia e cioè un


fulmine cadde nel porto di Milazzo sulla prua della galera Capitana della piccola squadra di
Sardegna (detta da’ Siciliani ‘la Milizia’. Romano Colonna) e appiccò il fuoco alla polvere pirica
colà depositata per il cannone di corsia, abbattendone l’albero maestro e scatenando un furioso
incendio che in breve ne provocò l’affondamento con la morte di circa 400 uomini,
salvandosene solo una ventina che avevano dalla poppa potuto gettarsi in mare. Un’altra saetta
colpì invece una delle galere di Genova causando la morte di nove persone.
Sabato 30 novembre arrivò a Napoli da Milazzo una delle galere del duca di Tursi, la quale si
stava dirigendo a Genova dove andava a mutar scafo, essendo evidentemente il suo ormai non
più in grado di navigare. Altre armate anti-francesi convergevano intanto su Messina e si aveva
infatti notizia che don Giovanni d'Austria stava per lasciare Barcellona con 30 vascelli, mentre lo
stesso predetto 30 novembre arrivarono a Napoli anche dieci velieri dell'armata d'Olanda del de
Ruyter che si era disunita a causa del maltempo incontrato e si trattava di sei vascelli e quattro
brulotti, i quali, aggiuntosi nel frattempo un undicesimo, salperanno il 20 successivo per
Palermo, porto in cui giungeranno in nove il giorno seguente accolti dal giubilo della
popolazione accorsa al molo, mentre altri 22 o 23 vascelli, inclusa l’ammiraglia Eendracht del de
Ruyter, erano già arrivati a Milazzo il predetto giorno 20.

(Lunedì, 9 dicembre:) Questo giorno sudetto furno inviate 2 feluche da Sua Eccellenza con
30mila docati contanti al campo di Riggio e a Melazzo per pagar li soldati. Si deve considerare li
patimenti delle nostre soldatesche e quanti denari si sono accumullati da questo Regno per
questa guerra e aver arricchito li capi, e li poveri soldati solamente con un miserabile pane di
monizione e malamente fatto.

Non sappiamo come fosse fatto a quel tempo il pane di monizione a Napoli; in Francia, per
esempio, un buon prodotto per i soldati era considerato, a norma di regolamenti, quello fatto di
due terzi di frumento e un terzo di segala e al soldato ogni due giorni ne toccavano tre libbre
(quindi gr. 1.952,64, se continuiamo a calcolare l’oncia gr. 27,12). Anche in Catalogna le cose
non andavano troppo bene per i soldati napoletani, sia perché i francesi del suddetto
maresciallo conte di Schomberg, entrato nel giugno in quel principato, aveva conquistato Girona
difesa dal reggimento delle guardie del corpo italiane del re di Spagna, sia perché essi non

145
avevano mai avuto buoni rapporti con quelli spagnoli e ora le cose erano andate anche
peggiorando:

Insorte nel 1675 le solite contese tra le nazioni spagnuola e italiana, l'una per non riconoscere
uguale, l'altra malamente soffrendo(la) superiore, rinonciarono le cariche tutti i cavalieri
napolitani, ciò senza uscir da’ termini dell'obedienza, come protestativo di non consentire al
pregiudicio loro si permette (Filamondo, cit. p. 484).

Questo storico non ci narra però com'e quando questa forma di protesta fu poi ritirata.
Frattanto la guerra nell’Europa centro-occidentale era proseguita con alterna fortuna, sebbene
la propaganda spagnola parlasse, come sempre, di sconfitta generale dei francesi (V. Auria);
infatti dapprima il 5 gennaio il visconte de Turenne aveva sconfitto presso Colmar (‘Turckheim’)
il principe elettore di Brandenburgo Federico Gugliemo, poi il 27 luglio, alla battaglia di
Salzbach, aveva di nuovo sconfitto gli imperiali, ma ne era rimasto ucciso, e allora il conte
Montecuccoli, capitano generale dell'esercito imperiale, per cercare di trar profitto da tale morte,
aveva subito attaccato il 1° agosto ad Altenheim l'esercito francese ora comandato dal conte de
Lorge e dal marchese de Vaubrun, ma era stato sconfitto e, restato ucciso in tal battaglia il de
Vaubrun, i francesi ripassavano il Reno sotto la guida del de Lorge, a cui per tale successo
otterrà poi il bastone di maresciallo di Francia; ma successivamente, l’11 agosto, un altro
maresciallo di Francia, il de Créquy, era stato battuto a Konzer Brücke presso Trier (‘Treviri’) dal
duca Carlo di Lorena, da quello di Brunswick-Lüneburg e da altri principi tedeschi collegati
contro la Francia. Anche gli svedesi, alleati della Francia e comandati in tal occasione da
Woldemar von Wrangel, nel tentativo di invadere il Brandenburgo dai loro possedimenti in
Pomerania, sebbene sensibilmente superiori di numero, erano stati severamente sconfitti il 28
giugno a Fehrbellin dal maresciallo di campo Georg von Derrflinger, il quale comandava
l’esercito di quello stesso Federico Guglielmo I, grande elettore del Brandenburgo, che non era
invece riuscito a superare i francesi del de Turenne. Si era frattanto pure riaccesa la guerra dei
polacco-lituani contro l’espansionismo dell’impero ottomano e il 24 agosto e in una battaglia che
si era svolta presso la città di Lwów (oggi Lviv) Jan III Sobiewski aveva sconfitto l’esercito turco
di Ibrahim Shyshman, successo poi seguito tra il settembre e l’ottobre dall’eroica resistenza
della cittadella della città di Trembowla, durata sino al risolutivo soccorso portatole dal
Sobiewski.
Militava in questo periodo in Fiandra un colonnello di cavalleria di casa Carafa; il suo
reggimento nel novembre prese quartiere d'inverno a Gand insieme con altri reparti di

146
quell'esercito; un altro reggimento Carafa serviva inoltre nell'esercito del Sacro Romano Impero
e tra il febbraio e il marzo dell'anno successivo sarà trasferito in Pomerania.

Sabbato, 28 di decembre. Si partirono dal molo di Paermo li detti nove vascelli olandesi per
andar a Melazzo ad ordine del viceré, il quale, per on veder in Palermo il prencipe di Monte
Sarcio con tanti vascelli, per invidia gli levò tal onore. Di più esso viceré si pigliò molti migliaia di
scudi che venivano da Napoli per sostento dell’armata di Spagna comandata dal detto principe
di Monte Sarcio, onde esso era impossibilitato a (‘da’) non poter fare le spese ordinarie per li
vascelli. Ed anco il viceré diede ordine al Tribunale del Patrimonio in Palermo che né meno
dassero il dovuto biscotto per detti vascelli; onde il Monte Sarcio stava quasi ristretto (‘quasi
racchiuso, immobilizzato’) nel molo di Palermo senza poter operare cosa di profitto.... (V. Auria,
p. 328.)

1676. Il 2 gennaio gli spagnoli di un tercio di Biscaglia, posti sotto il comando di Melchion de
Borja, ex-castellano del castello di Matagrifone, sbarcarono dalle galere e sorpresero la
guarnigione franco-messinese del Casale del Gibiso, sito a 9 miglia da Messina e a 2 miglia dal
Mar Tirreno, e se ne impadronirono. La guerra s’inaspriva sempre di più e, mentre il marchese
di Villafranca, approfittando dell’arrivo dell’alleata armata olandese del vice-ammiraglio de
Ruyter, usciva in campagna con 5 o 6mila uomini, una nuova battaglia navale fu combattuta tra
Lipari e Stromboli l’8 gennaio di questo 1676; giunta il 5 gennaio nelle acque di Stromboli
un'armata francese comandata dal già ricordato tenente-generale Duquesne e forte di 26
vascelli d’alto bordo, cioè 21 da guerra e cinque brulotti, più due polacche e una tartana, mentre
era in rotta d’avvicinamento a Messina, fu affrontata presso Alicudi da quella ispano-olandese
dell’ammiraglio Michiel Adriaenszoon de Ruyter e del vice-ammiraglio Jan den Haen, la quale
veniva da quelle di Panarea e contava 24 vascelli olandesi, lo spagnolo da 50 cannoni Nuestra
Señora del Rosario del cap. Mateo de Laya y Cabez e nove galere, di cui tre di Napoli, cinque
dei particolari di Genova, ossia del duca di Tursi, e la Patrona di Sicilia, poste tutte sotto il
comando di Beltran de Guevara, luogotenente generale della squadra di Napoli. Lo scontro
avvenne alla fine un po’ più a ovest, cioè nelle acque di Filicudi; i legni da guerra francese erano
i seguenti:

Le Sans Pareil del capodisquadra de Gabaret.


Le Conquérant del cap. Beaulieu.
Le Magnifique del cap. de la Gravier.
L’Apollon del cap. de Forbin.
L’Aquilon del cap. Villeneuf Fourier.
Le Vaillant del cap. Septèmes.
Le Saint-Esprit dello stesso Duquesne.
Le Pompeux del commendator fra’ de Valbelle.
147
Le Sceptre del de Tourville.
Le Resplendissant del cap. de Gous.
L’Aimable del cap. de la Barre.
La Sirène del cavalier de Béthune.
Le Sage del marchese de Langeron.
Le Téméraire del cavalier de Lhéry.
Le Saint-Michelle del marchese di Previlly.
Le Prudent del cavalier La Fayette.
L’Assuré del cap. de Villette-Mursay.
Le Parfait del cap. de Chasteauneuf.
Le Favouri del cap. Frenoy.
Le Triton del cap. de Villeneuf.
Le Bien-chargé del cap. de Vilene.

La battaglia, non fu decisamente vinta da nessuno dei due contendenti, ma a quanto possiamo
leggere nella relazione di un anonimo partecipante di parte spagnola riportata dall’Auria, risultò
in definitiva sfavorevole ai francesi, non solo per le perdite che vi subirono ma anche perché
dopo se ne disimpegnarono con una ritirata che ebbe più l’aspetto di una fuga:

… l’olandesi gittorno due vascelli di Francia da guerra grossissimi in fondo et abbrugiorno di


cannonate due burlotti di fuoco. Di quella d’Olanda restò una fragata sottile di guerra di 50 pezzi
maltrattata assai… Et il giorno seguente, de’ 9 ad ore 16 se n’andò detta fragata a fondo…

Ma l’equipaggio della detta fragata fu comunque quasi tutto salvato dalla galera che la stava
rimorchiando a Palermo, cioè di un totale di 290 uomini ne morirono solo 10; in realtà
dell’armata olandese era stato messo fuori combattimento anche il vascello vice-ammiraglio
Essen, semi-affondato, ed era morto il cap. Werscheer, da poco nominato dal de Ruyter
contrammiraglio del trozo (‘distaccamento’) di 9 vascelli spagnoli di Andrés de Ávalos principe di
Montesarchio, il quale era quello stesso giorno 8 uscito da Palermo per unirsi al de Ruyter, ma
lo aveva raggiunto solo il giorno seguente alla battaglia, circostanza questa che in seguito,
sommata e alla totale infingardaggine mostrata poi dagli spagnoli alla seconda battaglia navale,
quella di Catania, e alla trascuratezza dei palermitani costatatasi al terzo combattimento, quello
cioè che poi appunto avverrà davanti alla loro città, susciterà l’ira degli olandesi, i quali pertanto,
del tutto disgustati dal comportamento vile e profittatore dei loro alleati, abbandoneranno poi il
teatro di guerra. Anche i 13 vascelli francesi che erano usciti da Messina non riuscirono a
raggiungere a tempo il luogo della battaglia, ma certo nessuno si sarebbe mai sognato di
dubitare della combattività dei transalpini! Comunque, tutti i vascelli olandesi restarono molto
maltrattati dal combattimento e con perdite umane sicuramente considerevoli, mentre i
transalpini asserirono poi di aver perso sì tre vascelli, ma che si era trattato in realtà di tre
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brulotti, e in totale solo circa duecento uomini tra cui il cap. de Peaulieu. In verità, oltre che
numericamente, i vascelli francesi si erano dimostrati decisamente superiori anche per
armamento, soprattutto perché armati di grossi cannoni da 45 a fronte di quelli generalmente da
sole 18 libbre degli olandesi. I legni francesi retrocessero poi verso Ustica, seguiti a distanza
dagli olandesi, e non poterono così portare subito altri soccorsi ai messinesi, i quali frattanto
vedevano i loro nemici ottenere un sicuro successo a terra perché il Villafranca stava
riconquistando uno dopo l’altro i casali di Messina. Nei giorni immediatamente successivi a
quello della battaglia ambedue le armate furono rinforzate, quella di Francia dai vascelli
francesi usciti da Messina, portandosi così al numero complessivo tra 40 e 42, e quella
d’Olanda dai suddetti vascelli del Montesarchio, arrivando pertanto anch’essi a 41, oltre alle 14
galere, ma, essendo stati i suoi vascelli appunto già molto maltrattati e quelli del principe, ancor
meno dei suoi, all’altezza di offrire il fianco al nemico, il de Ruyter non volle prendere in
considerazione l’idea di affrontare nuovamente i francesi. Approfittando poi del maestrale
favorevole, l’armata di Francia entrerà a Messina dopo il 20 di gennaio e sbarcherà il suo carico,
ma poi salperà per tornare in Francia.
Dopo la suddetta battaglia navale, il de Ruyter, disgustato dal comportamento dilatorio dei suoi
alleati, dichiarò terminato il tempo che gli era stato concesso dagli Stati d’Olanda, e all’inizio di
febbraio portò la sua armata a ritirarsi a Napoli, mentre a Messina giungeva impunemente
un’altra armata francese di 36 vascelli con gente da sbarco; colà però lo raggiunsero ordini
perentori del principe d’Oranges che gli imponevano di raggiungere subito nuovamente il teatro
di guerra e di restarvi sino alla fine del conflitto, pertanto egli si riporterà in Sicilia e il 23 febbraio
la sua armata, la quale includeva allora 17 vascelli da guerra più 12 piccole fragatine, si
presentò davanti a molo di Palermo e fece sosta in quel porto per circa un mese.

... Succede intanto in Palermo qualche poco inconveniente con gli olandesi, de’ più bassi
(‘volgari’) però, nato dal soverchio vino che bevono. Onde, come ubriachi, sono vilipesi e
scherniti dal popolo, come anco feriti, perché, così insensati (‘annebbiati’), cercano con le
donne usar violenza per lascivo appetito. Sono per se stessi uomini barbari di natura ed, oltre
essere eretici calvinisti, nulla curano anco della propria vita. Mangiano i nostri arangi per cose di
gran gusto, essendone privi ne’ loro paesi e di molte altre cose che non hanno (V. Auria, cit.
Vol. VI, p. 10).

In quel mentre domenica 19 gennaio il de los Vélez aveva inviato al marchese di Villafranca ben
100mila ducati, dei quali 80mila da pagarsi appunto gli olandesi. Il 30 gennaio fu catturato nel
Napoletano il brigante Felice Riccardo, fratello del già giustiziato Cesare, il quale era infatti
ritornato nel regno e scorreva la campagna alla testa di un gruppo di fuorusciti, tra i quali due
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religiosi, fra’ Pietro Saccomanno e Domenico Mignone (Bulifon); offrì 15mila ducati per essere
liberato, ma invano:

Mercoledì 11 di marzo 1676 fu mandato sopra un carro ad arrotarsi nel Mercato notar Felice
Riccardo e la sua testa portarsi a Cimitile sua patria e il suo corpo in quarti posto per quelle
strade da lui rotte e insanguinate di sangue umano per omicidi, ricatti e procacci svaligiati
(Fuidoro).

Mentre a Napoli si davano patenti per nuove leve di coscritti, all’inizio di marzo arrivò notizia di
altri disordini avvenuti a Reggio tra militari italiani e spagnoli; diversi capitani, cioè Gerolamo
Caracciolo, Orazio Coppola, fra’ Giuseppe Grondi, fra’ Fabrizio Marulli e Giovanni della Croce,
avevano buttato giù la porta della casa del tenente di mastro di campo generale spagnolo
Tomaso Cabanilla e lo avevano bastonato e ferito, andandosi poi a rifugiare nel convento di S.
Domenico per evitare l’arresto.
All’inizio di marzo s’incendiarono a Napoli gli uffici della Scrivania di Razione, siti, come
sappiamo, da circa otto anni nello stesso palazzo reale, cioè nello spazio prima utilizzato come
pallonetto, ossia come corridoio belvedere sul mare, e andarono così distrutte, tra l'altro, tutte le
carte relative alle leve e alla contabilità militare dei tempi precedenti, il che spiega abbastanza
l'estrema scarsità della documentazione rimastaci per quanto riguarda gli anni sin qui esaminati.
Mentre continuavano ad arrivare a Napoli dalla Sicilia richieste di uomini e denaro, pur costando
già a Napoli il solo soldo dell’esercito in Sicilia 30mila ducati il mese, gli spagnoli avevano
ripreso a devastare la costa del Messinese e quella d’Augusta e la domenica 29 marzo 3mila
regi che, usciti da Milazzo sotto il comando di Gaspar de Borja, avevano occupato un posto dei
messinesi al convento detto dei cappuccini vecchi sito sul colle dell’Agliastra, ma che non
avevano potuto trincerarvisi perché sconsideratamente mancanti della attrezzatura da scavo,
furono assaliti e sbaragliati da messinesi e francesi sbarcati dai vascelli, lasciando sul campo
più di 400 (200 secondo l’Auria) dei loro migliori uomini, tra cui il conte di Buquoy, un vallone
che era colonnello di un reggimento alemanno di 1.300 fanti, e molti capitani, oltre i feriti. Come
nel caso dello scontro de li Colli dell’anno precedente, anche i soldati di nazione spagnola erano
fuggiti al sopraggiungere del nemico, il che dimostra come la tradizionale solidità della fanteria
spagnola fosse ormai un ricordo del passato. Il cadavere del Buquoy fu molto vilipeso dai
messinesi, i quali gli tagliarono la testa e, conficcata in una punta di lancia, la portarono al duca
di Vivonne; questi, disgustato da tanta barbarie, ordinò che quei poveri resti fossero
onorevolmente seppelliti. Del detto reggimento alemanno il viceré de Toledo fece allora
colonnello il capitano di cavalleria napoletano Andrea Cicinelli, nomina subito criticata perché si
150
trattava di un giovane che aveva avuto esperienza solo di quella guerra e non conosceva né il
modo di combattere né tanto meno la lingua degli alemanni; ciò aumentò la già preesistente
insoddisfazione di quella nazione per il gran ritardo nelle paghe e i patimenti, per cui gli ufficiali
migliori si licenziarono e a Napoli, oltre ai servitori del colonnello e di altri ufficiali morti in quello
scontro, ne arrivarono lamentandosi alcuni che erano di ritorno al loro paese, incluso un
tenente-colonnello, probabilmente quello che si era visto scavalcare dal giovane Cicinelli;
quest'ultimo sarà poi governatore di Siracusa, sargente generale di battaglia nei Paesi Bassi e
morirà tra il 1693 e il 1694.
Dopo detto grave insuccesso, gli spagnoli continuarono a fare terra bruciata attorno alla città e
ai loro alleati francesi, i quali si stimava allora che fossero, tra Messina, Augusta e i loro vascelli,
i quali erano allora 33, circa 4mila e altrettanti i messinesi alle armi, comandati anche questi da
capi transalpini, mentre gli spagnoli avrebbero dovuto essere circa 6mila, di cui 4mila in
campagna.
Il giorno di Pasqua il viceré marchese de Astorga, accompagnato dalla compagnia di lance
della sua avanguardia e da quattro compagnie di cavalleria di nuova leva, si recò alla festa di S.
Maria a Pugliano, altra tradizione religiosa del Napoletano.
La notte di sabato 18 aprile fecero inoltre vela per Milazzo sette galere che portavano
in quella piazza soldatesche spagnole (le galere navigavano a vela come tutti i normali legni
a velatura latina e usavano i remi solo in caso di bonaccia e in azioni di guerra); esse però
avrebbero fatto prima sosta a Gaeta per imbarcare il loro generale Giovan Battista Ludovisio
principe di Venosa e di Piombino; sulle stesse s’imbarcò il capitano generale di vascelli Diego
de Ybarra, il quale però dopo solo qualche giorno perderà la vita nell’importante
combattimento navale di cui ora diremo.
Martedì 21 aprile il de Ruyter infatti, essendo, come già abbiamo detto, a capo delle armate
congiunte d’Olanda e di Spagna provenienti da Saragozza, venne a battaglia contro quella di
Francia circa 4 miglia al largo di Jaci (oggi ‘Aci Trezza’); egli disponeva di 29 vascelli da guerra,
5 da fuoco e 9 da carico, tra spagnoli e olandesi, più 8 galere; l’armata francese, uscita dal
porto di Messina, si componeva invece di 30 vascelli da guerra, tra i quali tutti quelli che
avevano partecipato alla precedente battaglia di Stromboli tranne il Favouri, il Triton e il Bien-
chargé, probabilmente perché troppo danneggiati in quell’episodio, e inoltre s’aggiungono i
seguenti 12 sino a raggiungere ora un totale di 30:

Le Lys, capodisquadra Almiras.


L’Hippocampe, cap. Saint- Albine.
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Le Fidèle, cap. Cogolin.
Le Heureux, cap. de la Bretesche.
Le Vermandois, cap. Tambonou.
Le Trident, cap. Beaufontaine.
Le Fortuné, cap. il marchese d’Enfreville.
Le Mignon, cap. de Relingue.
Le Barbu, cap. dell’Isle.
L’Agréable, cap. d’Ailli.
Le Brusque, cap. de la Motte.
Le Fier, cap. Chabert.

L’Aquilone era ora comandato dal cap. Montreuil. In più i francesi avevano 8 brulotti e due
tartane da carico; due relazioni spagnole riportate dall’Auria riferivano invece una di 27 l’altra di
33 vascelli da guerra, più 6 di fuoco, 2 brigantini e 5 tartane. Lo stesso Auria scrisse che però,
dei vascelli spagnoli, solo quattro combatterono, mentre gli altri si mantennero ben al largo dalla
battaglia, provocando così poi la rabbia degli olandesi. Lo scontro fu duro e sanguinoso, senza
che se ne potesse vedere alla fine un vero vincitore, e l’ammiraglio olandese, salito su un luogo
alto della poppa per guardare più lontano, fu colà raggiunto a un piede da una scheggia di
cannonata che gli asportò due dita e lo fece anche precipitare in basso in un portello allora
sfortunatamente aperto, il che gli procurò la frattura dell’altra gamba; portato poi dalla sua
armata a terra a Siracusa e sopraggiuntagli un’infezione traumatica, vi morì il giovedì 30
seguente:

... E così finì la sua vita un personaggio di tanto gran valore e per tante esperienze celebrato,
onde per noi si è fatta una gran perdita e maggiormente perché tutti gli olandesi, per aver visto
che quasi tutti i vascelli di Spagna non vollero combattere (mentre, se ciò avessero fatto,
avrebbono affatto sconquassata l’armata di Francia), restarono inviperiti contro gli spagnuoli; dal
che ne seguirono gli disordini e disgusti gravissimi tra gli uni e gli altri...
Con tutto ciò non è da tralasciare la lode che si deve agli olandesi, i quali, benché soli e di
numero inferiori a’ francesi e senza aver soldatesca, col solo cannone fecero gravissimi danni ai
vascelli nemici... I capi de’ vascelli e galere di Spagna eran (invece) caduti nella (mala)
riputazione per mancanza di valore e copia d’interesse (V. Auria, cit. Vol. VI, p. 30).

Gli ispano-olandesi persero, oltre al de Ruyter, quattro capitani e circa altri 260 uomini tra
marinai e soldati, dovendo poi la loro flotta, anche questa volta molto maltrattata, andare a
ripararsi nel porto di Siracusa; in seguito, il mese successivo, l’armata olandese si presentò a
Palermo per i più importanti lavori di risarcimento, soprattutto per la sostituzione di sette e più
alberi che le erano stati troncati in battaglia:

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... Sicché bisognarono con gran fatica mettere in terra gli alberi guasti e poscia rimettere i novi
che in buona quantità si trovarono nel molo, mandati dalla gran vigilanza e providenza del
signor marchese de los Veles viceré di Napoli (ib.)

Invece l’armata francese, anch’essa molto danneggiata, si era andata a riunire ad Augusta e in
seguito tornò a Messina a risarcirsi anch’essa. Da parte francese morirono in quella battaglia il
capodisquadra Almiras, i capitani Tambonou, Gous e Cogolin e circa 200 uomini in totale tra i
quali anche molti messinesi.
Il de Ruyter fu sostituito dal già ricordato Den Haens:

Per la morte di Ruiter, generale dell’armata d’Olanda, restò in suo luogo Jan Den Haens, nobile
olandese. Mi fu dato il detto nome e cognome da un medico della stessa armata olandese, di
sua propria mano (ib.)

Verso il 25/26 aprile i franco-messinesi tentarono un’importante sortita da Messina per


difendere il territorio del casale di Calispera, allora devastato dal nemico, ma, attaccati
vigorosamente dalla cavalleria del generale Diego Bracamonte, la quale si dimostrava così
ulteriormente il nerbo di quell’esercito di Sicilia, poi dal reggimento alemanno del già
menzionato colonnello napoletano Cicinelli e infine anche dal tercio de l’armada e da quello di
Lisbona, dovettero ritirarsi con circa 150 tra morti e feriti e lasciando in potere del nemico più di
30 prigionieri, tra i quali il bandito siciliano Cico di Pietro. Il predetto giovedì 30 aprile giunsero
da Genova quattro vascelli con circa 2mila fanti milanesi e alemanni comandati dal mastro di
campo Francesco Maria Pallavicino; ripartirono per Milazzo il martedì successivo e, colà giunti,
se ne ammalarono ben 500. Il campo di Milazzo già da quando costituito s’era infatti subito
guadagnata una nomea di località insalubre, probabilmente perché l’igiene delle acque potabili
e delle latrine non vi era curata abbastanza, ma può anche darsi che i detti fanti vi fossero
arrivati già contagiati a causa della grande promiscuità in cui a quei tempi ancora si viaggiava.
Nel maggio banditi calabresi accordati dalla corte di Napoli e che erano invece entrati in
Messina passando così al nemico furono inviati dai francesi a scorrere le campagne di
Catanzaro per obbligare gli spagnoli a impegnare colà proprie forze, cosa che infatti avvenne e
si dovette infatti da Napoli inviare soldatesche per scacciare (nap. cazziare) da Maratea 150
briganti che se ne erano impadroniti. Il mercoledì 20 maggio giunsero a Messina 22 galere di
Francia, 2 galeotte, molte tartane e un veliero grosso, destinate le prime a scacciare il nemico
dai dintorni della città, essendo infatti le galere i vascelli più adatti a sbarchi di fanteria in
ragione del loro limitato pescaggio, e una lettera del 27 maggio scritta dal catanese Giuseppe

153
Patti, allora dimorante in Messina e di parte messinese, ci ha lasciato questa approssimativa
consistenza complessiva della presenza francese nella città ribelle: 20 galere, 150 velieri tra
bellici e da carico, mille soldati montati e 15mila fanti. Se questi dati fossero esatti non
sappiamo; cert’è che il giorno seguente, cioè il 28, un’armata francese di 29 vascelli da guerra,
di 9 brulotti e 23 galere, lasciò il porto di Messina sotto il comando generale del marchese di
Vivonne e, accompagnata da 30 tartane da carico, andò ad affrontare quella nemica allora sorta
nel porto di Palermo e contante questa 27 vascelli da guerra, tra cui il napoletano Sant’Antonio
e tre inservibili perché ancora disalberati dalla precedente battaglia; inoltre 4 brulotti e 19 galere.
Elenchiamo ora i vascelli francesi non risultanti partecipi delle due suddette precedenti battaglie:

Le Joyeux, cap. Bellisle Errard.


Le Grand, cap. Beaulieu.
L’Éclatant, cap. Coetlogon.
Le Joli, cap. Orlinghel.
Le Préfet, cap. Duquesne junior.
Le Constant, cap. marchese di Villette Mursay.

Avevano poi cambiato comando Le Lys, ora affidato al caposquadra Gabaret, il Vermandois,
ora capitanato dal marchese la Porte, e Le Sans Pareil, ora comandato dal Chasteauneuf. I
nove brulotti erano i seguenti:

Notre-Dame de Humières, cap. Honorat.


L’Hameçon, cap. Verguin.
Le Dangereux, cap. Rivau.
L’Ardent, cap. Dupré.
Le Legornais, cap. Serpault.
L’Orage, cap. Scion.
L’Impudent, cap. Chaboisseau.
L’Inquiet, cap. Fourteau.
Le Notre-Dame de Bon-Voyage, cap. Toucas.

Le 23 galere erano comandate dal capodisquadra marchese de la Brofardiere e dal suo


secondo de la Manse; ecco i loro nomi e capitani:

La Royal, capodisquadra marchese de la Brofardiere.


La Patronne Royal, luogotenente-capodisquadra de la Manse.
Le Dauphin, cap. Villeneuf.
La Perle, cap. Dopede.

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La Notre-Dame, cap. Betomas.
La Forte, cap. Pretevil.
La Victoire, cap. Samson.
La Regine, cap. Mont-Olive.
La Valeur, cap. Viviers.
La France, cap. de la Motte.
La Fortune, cap. de la Reinarde
La Sirène, cap. Forville.
La Brave, cap. Mirabeau.
La Grande, cap. Maubusquet.
La Belle, cap. conte di Bueyl.
La Favorite, cap. Dospenes.
La Fidèle, cap. Espanet.
L'Heureux, cap. Forêt.
L’Hardi, cap. Santuran.
La Floeur de Lys, cap. Mandes.
La Superbe, cap.Ranselo.
L’Amazone, cap. Rochecouert.
La Galante,.cap. Piencourt.

Il lunedì 1° giugno due galere napoletane con il comandante di quella squadra, cioè il
principe di Piombino, imbarcarono a Palermo 250 soldati spagnoli e li portarono al
castello di Solanto, dal quale poi quelli marciarono per andare a rinforzare la guarnigione di
quello di Termine (oggi ‘Termini Imerese’):

... E per certo non fu senza valore, come non senza rischio, l’aver passato quelle due galee di
Napoli in quel luogo, dove erano le galee di Francia; onde subito da Solanto tornarono in Palermo
(ib.)

Infatti proprio il giorno precedente l’armata del de Tourville era arrivata in vista di Palermo; apparsa
ai palermitani in un numero di 42 vascelli, di cui 35 grossi da guerra, e 24 galere, circa alle 10
mezza, ora odierna, del giorno seguente martedì 2 giugno cominciò cira le 15 (ossia verso le 11 d
oggi) a far fuoco su quella nemica del vice-ammiraglio olandese Jan de Haen e del’ammiragli
generale spagnolo Diego de Ybarra, la quale, anche se non si era fatta del tutto sorprendere, si er
però appena in tempo dispiegata davanti alla città, incentrata su Porta Felice, in un mal pensato
ordine di battaglia, cioè in un’unica lunga fila di fronte o cordone protettivo con una galera ogni du
vascelli, il quale non poteva ricevere supporto dai baluardi della città perché questi erano tenu
sconsideratamente privi di artiglierie, mentre con quella diposizione dava impaccio alle artiglierie
del palazzo reale impedendo a quegli artiglieri di mirare al nemico; i francesi l’attaccarono con
brulotti e con lance che andavano a inchiodare al fasciame dei vascelli nemici ordigni incendiari
detti camicie infocate; non ostante che dalla città si portasse aiuto all’armata con lo sparo
155
dell’artiglieria delle sue fortezze, il fuoco così appiccatovi ebbe ragione dell’armata ispano-olandese
e il primo dei molti vascelli che finirono incendiati fu proprio il Nuestra Señora del Pilar, cioè la
capitana reale o Gran Real o Real Vieja del de Ibarra, così grande da esser definita dall’Auria un
mobile cittadella, la quale esplose e vi perì così,
lanciato in mare, lo stesso de Ybarra, il quale era già stato gravemente ferito da una cannonata che
gli aveva asportato una gamba (secondo l’Auria invece, colpito due volte alle gambe, affogò poi in
una feluca che lo stava portando a terra e che affondò a causa del sovraccarico di naufraghi).
Gli spagnoli accusarono la perdita anche di altri quattro vascelli della loro flotta oceanica e cioè il
San Felipe di Spagna, il San Salvador di Fiandra, il Sant’Antonio di Napoli e il Santa Ana; si
persero anche due galere, cioè la San Salvador, patrona della squadra di Spagna, e la napoletana
San Giuseppe, e infine una piccola fragata. Furono affondati inoltre tre vascelli e un brulotto
olandesi, i primi essendo il Groenwijfie, nome che gli spagnoli interpretavano come la
Pastora, il Vrijheid (‘Concordia’) e quello il cui nome gli spagnoli traducevano el Govierno, ma
preferivano chiamare la Montaña de Piedra; perì nella battaglia lo stesso vice-ammiraglio olandese
den Haen, il quale, come sappiamo, aveva sostituito nel comando il già defunto de Ruyter e a cui
una cannonata asportò la parte posteriore del capo. Da parte hispano—olandese morirono in
totale circa 1.200 uomini, tra i quali molti ufficiali generali e maggiori, tra cui i più elevati in grado
(los muertos de cuenta) furono, oltre al suddetto capitano generale Diego de Ibarra,
l’ammiraglio generale Francisco Pereyra Freire, l’ammiraglio Juan Vazquez Villaroel, il
tenente di mastro di campo generale Pedro Zevallos, il mastro di campo Francisco de Zuñiga e
suo fratello Juan, il tenente di mastro di campo Antonio Serrano, il provveditore generale Antonio
de Araujo, il segretario della capitaneria generale Juan de Revolledo, il capitano
dell’artiglieria Jerónimo de la Torre, il piloto maggiore della Santiago Giuseppe Cavarca, il
governatore della S. Felipe cap. Francisco de Luna, il maggiordomo dell’artiglieria Paris
Salsedo, il sergento maggiore italiano del terzo spagnolo del regno di Napoli Andrea di Bari,
diversi capitani di mare e di terra e inoltre 62 venturieri. A chi volesse comunque leggere
una descrizione in italiano della battaglia, la quale durò circa quattr’ore, consigliamo quella del
d’Auria, da integrare però con le relazioni francesi; noi ci limiteremo qui a ripeterne la descrizione
da lui data della sfortunata ammiraglia spagnola, cioè della grandiosa Nuestra Señora del Pilar:

... Finì gli ultimi giorni del suo imperio del mare quella vasta nave della Reale di Spagna, ch’era
una cittadella nuotante nel mare, magnifica per la grandezza e capacità, superba e ricca
per la manifattura e spesa straordinaria, inespugnabile per la grossezza e struttura de’ legnami,
coi quali sprezzava, a guisa di saldissime muraglie, i numerosi colpi de’ nemici, mentre ella sola
bastava ad abbatter un’armata al tiro de’ suoi cannoni, che, tutti di bronzo e grossissimi, ne avea
156
ben cento e...; ed anco era piena d’una scelta e poderosa milizia di mille e... soldati,
oltre la considerabile quantità de’ marinari e altri capi di guerra e d’artigliaria che governavano così
gran navilio.
Finì la sua gloria a forza di incendio (che per altro non poteva terminarla) negli scogli di
Castell’a mare, dove si salvò a nuoto buona parte delle genti, restando l’altra fatta preda del
fuoco; e quivi, divorata dall’accesse fiamme de’ suoi proprii legni, tra il fetore della pece e i
globi densissimi del fumo, venendo finalmente il foco ad appiccarsi nella camera della polvere,
che chiamano Santa Barbara, diede uno scoppio così terribile che cagionò un gran terremoto ne’
vicini edificii.
E, disparando i gran cannoni, colpendo nelle case vicine del borgo di S. Lucia, alcune palle
infocate di quelli accesero la polvere che stava riposta nel casamento di... Cordova a fronte del
luogo detto ‘San Bastianello’ e in alcun eparti ruppe e conquassò quasi tutto. E gli stessi
pezzi dell’artigliarie di essa, pur dall’interno fuoco accesi, colpirono altri luoghi vicini del borgo e
della città, non senza timore del popolo, non avvezzo in tali spaventi... (ib.)

La battaglia terminò verso le 15 e mezza circa, ora odierna. I francesi non ebbero perdite di
rilievo, ecceziona fatta di sei vascelli di fuoco, i quali però, prima di affondare tra le fiamme,
avevano ben fatto il loro dovere; il giorno seguente i loro vascelli andarono a ritirarsi all’isola di
Lustrica (oggi ‘Ustica’) e vi si trattennero due o tre giorni per i primi interventi di risarcimento; pio
partirono per Tolone, facendo sosta a Livorno, e le sole galere fecero invece ritorno a Messina.
L’Auria scrisse però che, a giudicare dai tanti cadaveri dei loro che furono poi trovati spiaggiati
nei dintorni di Messina, avevano perso molta gente:

... Ed alcuni cadaveri di nobili francesi, benché col peso di grosse palle legate alle braccia ed a’
piedi per dover andar a fondo e non esser conosciuti, con tutto ciò dal mare con l’agitazione de’
venti furono gettati alla spiaggia; e tra questi alcune femine di bello e gentil volto... (ib.)

Frattanto alla fine di maggio il principe di Valle aveva lasciato Napoli per andare a combattere
per la casa d’Austria nell’est europeo; vi farà ritorno non prima di due anni dopo. Venerdì 19
giugno arrivò a Napoli da Reggio notizia che i duchi di Martina e di Canzano, per una questione
di precedenza, si erano sfidati a duello davanti ai loro terzi squadronati in campagna, tanto che
anche i rispettivi soldati avevano cominciato ad azzuffarsi con qualche morto e ferito; era però
giunto tempestivamente a dividerli il generale Brancaccio e i due mastri di campo erano stati
puniti con qualche giorno di sequestro, cioè di arresto. Andrea Coppola duca di Canzano dopo
alcuni mesi, promosso sargente generale di battaglia, lascerà il comando del suo terzo e
arriverà da Napoli a sostituirlo Marino Carafa, fratello del duca di Matalona (poi ‘Maddaloni’), il
quale sarà però comandato per Milazzo solo nel giugno dell’anno seguente. Lunedì 22 salpò da
Palermo per Milazzo una galera genovese arrivata a Napoli la settimana precedente; portava a

157
quell’esercito di Sicilia il suo nuovo mastro di campo generale, cioè il già menzionato Francesco
Arboreo di Gattinara dei conti di Sartirana, marchese di S. Martino, appena arrivato in Sicilia:

Venne in Palermo il conte di Sartirana, milanese, maestro di campo generale, per dover
passare a Melazzo al comando di tutto il nostro esercito. È uomo poco men d’anni sessanta; e
subito si sposò con la moglie che fu del già maestro di campo del terzo degli spagnuoli, pure
signora di Milano, de’ conti di Gattinata. Così, prima d’andar ne’ campi di Marte, si legò in quei
di Venere, (cosa) non ben conveniente a’ tempi di guerra. Venne pure con lui il (nuovo) maestro
di campo ordinario del terzo degli spagnuoli in questo regno (di Sicilia) (ib.).

Sposò dunque una sua parente... ma qui l’Auria sbagliava perché l’Arboreo, nonostante il suo
titolo, era napoletano, non milanese.

Tra gli ultimi (giorni) di questo mese di giugno alcune galere di Francia portarono nella città
d’Augusta circa trecento soldati che chiamano ‘dragoni’.... (ib.)

E lo stesso Auria, più avanti:

Dicono che l’abbate Castelli, messinese, ribello del nostro Re (om.), abbia voltato a favor del
nostro re e fatto congiura d’uccidere quattrocento soldati a cavallo, chiamati ‘dragoni’, sotto lo
stendardo del re di Francia in Messina; e, scoperto questo disegno, sia stato carcerato e nella
stessa carcere fatto morir segretamente dal duca di Bivonè (‘Vivonne’).

Parleremo poi di questi dragoni, in occasione cioè del primo arrivo di questo nuovo nome anche
nel regno di Napoli. Presero dunque detti dragoni francesi, avvicinandosi a Messina, il castello
costiero della Bruca, il quale era stato abbandonato dagli spagnoli perché ritenuto non
importante, e altri francesi occuparono un altro luogo costiero, questo detto l’Agnone, nel
Catanese e cominciarono a fortificarlo. Venerdì 3 luglio arrivò poi una feluca da Milazzo con la
notizia che i franco-messinesi avevano assalito di nuovo la terra della Scaletta – uno dei quattro
luoghi forti degli spagnoli più incombenti su Messina, essendo gli altri il casale del Gibiso,
Taormina e ovviamente Milazzo - ma ne erano stati di nuovo respinti con la perdita , come si
diceva, di più di 300 uomini e invece di pochissimi spagnoli; si seppe pure che una feluca inviata
a Palermo da negozianti napoletani con un carico di pezze di scarlattina era stata predata dai
francesi. Alcuni giorni dopo arrivò a Messina un’armata francese di 30 vascelli, le solite 24
galere, 15 brulotti, 10 tra galeotte e brigantini, 10 feluche armate da 16 remi e 15 tartane
cariche di fanteria.

158
Il 10 luglio il marchese di Villafranca intimò al suddetto nuovo mastro di campo del terzo fisso di
Sicilia, un cavaliere di casa Angul (sic), di lasciare il regno di Sicilia entro 24 ore; questi era
arrivato dalla Spagna solo da qualche giorno e si era subito reso inviso al viceré per aver parlato
apertamente contro di lui. Partecipata con una lettera questa sua decisione al viceré di Napoli,
questi commentò privatamente che chi bisognava sostituire era il marchese stesso, il quale
aveva dimostrato un’avversione particolare per i migliori comandanti che la Spagna aveva
inviato alla guerra di Sicilia, avendo già fatto incarcerare nella fortezza di Termini un cavaliere di
Malta aragonese per gli stessi motivi, e che con questo suo modo di fare avrebbe finito per
provocare la perdita di quel regno. Nella settimana tra il 12 e il 19 luglio due galeotte corsare
turche sbarcarono uomini nei pressi di Capo d’Otranto per catturare abitanti da fare schiavi, ma
furono fortunatamente respinti con l’uccisione di cinque o sei nemici. Sabato 18 arrivò dalla
Spagna al già menzionato marchese di Santa Cristina la nomina a generale dell’artiglieria e a
nuovo governatore dell’armi delle Calabrie in sostituzione del Brancaccio ed egli dunque
dichiarò che si sarebbe presto incamminato per Reggio per andarVi a prendere possesso della
sua nuova carica; il giorno seguente furono fatti imbarcare su alcuni legni già da qualche tempo
in attesa nel porto di Napoli 250 soldati del nuovo mastro di campo Titta di Palma e sarebbero
partiti il giorno seguente alla volta di Milazzo accompagnati da una scorta di galeotte e feluche;
arrivarono a Palermo il 26 luglio e si trattava invece, a quanto ne scrisse l’Auria, non di 250
bensì di 700 soldati su tre vascelli ben armati e di due tartane cariche di polvere, palle e miccio.
Domenica 2 agosto seguì l’arrivo di altri due velieri carichi di polvere e palle per i vascelli di
Spagna e le galere di Napoli che si trovavano a Palermo:

... Con che si vede ogni giorno la mirabile operazione dl detto viceré di Napoli, con la quale
provede con denari, vettovaglie e munizioni le gale e vascelli di Spagna (ib.)

Giovedì 6 agosto l’armata d’Olanda lasciò Palermo; il 10 il senato di Palermo, nell’ambito dei
nuovi piani di difesa della città, scrisse al viceré di Napoli de los Vélez per far richiesta di
casse e ruote d’artiglieria, generi di cui la produzione era in Sicilia molto carente; il 16 e poi
ancora nella prima decade del mese successivo giunsero a Messina rinforzi navali francesi
della cui consistenza non si parla però nelle cronache del tempo. Sabato 26 settembre lasciò
Palermo con tre galere del duca di Tursi il deposto viceré duca di Ferrandina e marchese di
Villafranca e il 28 arrivò a Napoli, essendo stato sostituito nel governo di Sicilia da Aniello de
Guzman marchese di Castel Roderigo; giunse poi la notizia che i francesi, ricevuti dalla
Francia dei rinforzi, erano all’offensiva nel Messinese e nel Siracusano con circa 8mila fanti e
159
600 cavalli; approfittando infatti anche della conquistata supremazia sul mare, soldatesche
sbarcate da 25 galere francesi avevano il 7 ottobre preso Melilli, forte che gli ispano-alemanni
occupavano per impedire la eventuale progressione dei franco-messinesi verso Siracusa, e
che poi, non avendo forze sufficienti per mantenerlo, i transalpini smantellarono e
abbandonarono; presero ancora il 19 ottobre Tauromina (oggi ‘Taormina’), sito fortificatissimo
che dava adito a Catania e il cui comandante, Carlo Ventimiglia conte di Prades, s’era forse
proditoriamente subito arreso, e poi Scaletta dopo averla assediata strettamente; ambedue le
suddette città, avendo opposto resistenza al nemico, furono anche crudelmente
saccheggiate; sconfissero inoltre migliaia di spagnoli nella battaglia di Mola e assalirono
Carlentini, dovendo correre alla difesa di quest’importante luogo lo stesso suddetto nuovo
viceré. Gli scontri s’intensificavano e in uno tra la cavalleria del generale Bracamonte e i
transalpini che si ritiravano da Melilli restarono uccisi diverse centinaia di questi e gravemente
ferito il generale della cavalleria francese marchese di Villedieu, mentre a Taormina era
rimasto ferito e catturato il già ricordato giovane colonnello Andrea Cicinelli; verso la metà del
mese una galeotta di Milazzo catturò una feluca che recava in Francia una richiesta di rinforzi
inviata dal duca di Vivonne.
Verso il 25 ottobre salparono da Napoli due tartane cariche di provviste per le galere che si
trovavano a Palermo, mentre altre attendevano in porto quattro compagnie di cavalleria che
anche si dovevano inviare in Sicilia su richiesta del marchese di Castel Roderigo; non essendo
ancora questi altri legni in ordine di viaggio, i soldati delle dette compagnie ciondolavano per
Napoli già da qualche tempo. Nello stesso ottobre gli spagnoli dichiararono piazza d'armi
Catania, mentre operava contro i franco-messinesi anche il terzo napoletano di Titta Caracciolo
Pisquizj duca di Martina, corpo alla cui recente costituzione abbiamo già accennato; ma
s’incominciò poi a sentire che la guarnigione della Scaletta non poteva più reggersi per
mancanza di munizioni e che aveva perso un pozzo importante guardato dal terzo di Milano ed
infatti la sera di domenica 15 arriverà a Napoli la pessima notizia che la piazza aveva capitolato
il 7 novembre, rendendosi poi il 10 e andandosi infine, come da accordi, la guarnigione a ridurre
a Reggio portatavi da legni francesi, avvenimento che aveva fatto subito pendere di nuovo dalla
parte dei francesi le fortune della guerra e provocato tumulti e risvegliato malumori anti-spagnoli
in tutte le principali città siciliane, dove già la repressione politica sanguinosa del viceré, la quale
aveva colpito anche i nobili, stava contribuendo non poco ad aumentare le fila del partito filo-
francese.

160
Non ostante la gravità della guerra che si combatteva alle frontiere meridionali del regno, ai
napoletani si richiedeva anche di non dimenticare il loro impegno universale al servizio della
corona di Spagna e pertanto nel marzo precedente si erano approntati 500 fanti regnicoli di
nuova leva, i quali, d'ordine di Sua Maestà, il mastro di campo Cecco Caracciolo marchese di
Grottola aveva levato e doveva condurre in Spagna per reclutare i terzi napoletani che colà
militavano. Notevoli sono dunque per quest'anno le tracce di leve che ci sono pervenute
attraverso i rogiti concernenti partiti del vestiario militare; abbiamo infatti mille vestiti di fanteria
appaltati al partitario Gregorio Fontana, 1.500 a Domenico Testa e 4.000 a Donato Maffeo, tutti
di panno peluzzo di Piedimonte strafino, ossia di una delle migliori qualità di tessuto di lana che
il Regno di Napoli fosse in grado di produrre.

(Napoli, 3 novembre:) Maltrattati a causa di donne dalli soldati spagnuoli li giorni passati due
soldati corsi di quelli che fin’ora si sono qui arrollati, questi s’unirono in truppa e in due volte
ammazzarono circa 18 spagnuoli e, benché questi ministri abbiano mandati in galera due di essi
corsi, li più colpevoli, pure puol temersi che il rumore si rinovi, massime per l’inconveniente di
lasciar abitare li suddetti corsi nelli quartieri de’ spagnuoli a Pizzofalcone (A.S.V. – Nun. Nap.
86).

Gli altri corsi furono subito strettamente consegnati a Pizzo Falcone, quartieri ai quali il
Collaterale fece a tal uopo porre delle guardie, e si pensava di completarne al più presto la leva
per inviarli a Reggio e così liberarne la città.
Lunedì 16 novembre furono poi finalmente imbarcate le suddette quattro compagnie di
cavalleria richieste dal viceré di Sicilia e otto di fanteria, quattro italiane e quattro spagnole,
queste da sbarcarsi a Tropea, dove si temevano attacchi del nemico; le nove tartane avrebbero
dovuto salpare il giorno seguente, ma detta partenza fu rimandata perché si erano appena
avvistate 12 vele francesi, tra cui quelle di galere, alle Bocche di Capri, ma poi si dirà che il
rinvio avveniva solo per i soliti motivi e cioè per il maltempo; in seguito, la sera di lunedì 23, le
predette soldatesche furono tutte sbarcate perché a bordo consumavano provviste e perché i
cavalli vi morivano. Finalmente la sera del 29 novembre le dette tartane, reimbarcati i soldati,
poterono finalmente partire scortate da sei galere; queste però, arrivatisi alle Bocche di Capri, a
causa del forte vento contrario che arrivò a spezzare lo sperone d’una di esse, dovettero
tornarsene indietro lasciando le tartane a proseguire da sole; sulla precarietà nautica delle pur
veloci galere torneremo più avanti. Incontrata una vera e propria burrasca, cinque delle nove
suddette tartane arrivarono ugualmente a Reggio, ma le altre, disperse dal vento nello stesso
golfo di Napoli, dovettero far ritorno in porto e queste portavano i già menzionati e indisciplinati

161
soldati corsi, i quali, appena scesi a terra, evidentemente terrorizzati dai pericoli corsi nel fallito
tentativo di traversata, fuggirono da tutte le parti, mancandone così più di 100 in breve tempo,
né si sapeva da che parte s’erano incamminati; ad evitare altre fughe, furono ripartiti come
guarnizione di marina sulle dette galere le quali erano in attesa del ritorno del buon tempo per
riprendere il viaggio per Palermo, dove si recavano per scortare poi da lì a Finale Ligure un
convoglio di sette od otto tartane dell’armata di Spagna che vi andava a imbarcare 3mila soldati
milanesi destinati in Sicilia, e inoltre si stavano provvedendo del necessario quelle del duca di
Tursi che dovevano portare a Genova il marchese di Villafranca. Il detto convoglio lascerà il
molo di Palermo per Finale il giovedì 17 dicembre.
Martedì 8 dicembre giunse notizia dell’arrivo a Messina d’un imponente rinforzo francese con
sbarco di ben 4mila fanti e 400 cavalli, mentre Milazzo era ormai bloccata avendo i franco-
messinesi ormai in loro mano tutti i posti e casali d’intorno ed essendo anche padroni del mare;
a questo punto dunque la Francia aveva saputo far tornare le sorti della guerra a suo favore e il
nunzio apostolico in data 22 dicembre così scriverà al suo segretario di stato a Roma:

... Importando molto che Vostra Eminenza sappia il vero stato delle cose de spagnuoli in queste
parti, ho cercato attentamente di rinvenirle; per quello che tocca il governo politico, è debole,
perché in due regni (Napoli e Sicilia) non vi sono viceré sufficienti a reggere la carica che
sostentano; il (ramo) militare è in peggior stato, non essendovi veruna immaginabile forma e
direzione, perché non è in armata capitano veruno di rispetto. L’armata di mare è totalmente
disordinata; le galere della squadra di Genova, che stavano un poco all’ordine, ora sono anche
queste in stato tale che non possono navigare; il maggior sostentamento (disponibile) per la
futura campagna è di (soli) scudi 300mila… (ib.)

Negli ultimi giorni dell’anno arrivarono a Napoli 100 soldati di nuova leva arruolati nel territorio di
Capua e furono rinchiusi nell’arsenale dove, com’era d’uso, sarebbero stati istruiti agli esercizi
militari.
Nel corso di questo 1676 l’imperatore Leopoldo I d’Austria, costretto a inviare un poderoso
esercito al Reno per fronteggiare l’espansionismo francese, era stato costretto a distogliere
forze dalla repressione della ormai annosa ribellione ungherese condotta dal suo gen. friulano
Strassoldo; frattanto nell’Europa settentrionale, nell’ambito della guerra nordica di Scania
iniziata nel 1674, il 1° giugno gli alleati dano-olandesi comandati dall’ammiraglio generale
olandese Cornelis Tromp avevano ottenuto nel Mar Baltico, nelle acque tra le isole di Bornholm
ed Öland, una grande vittoria navale sulle pari forze svedesi dell’ammiraglio Lorentz Creutz,
battaglia nella quale erano affondati cinque vascelli svedesi, tra i quali il Kronan, uno dei più
grandi del suo tempo. Gli svedesi si erano però presto rifatti a terra e infatti il ventunenne re
162
Carlo XI e il suo maresciallo di campo Simon Grundel-Helmfelt avevano dapprima sconfitto il 17
agosto a Fyllebro presso Halmstad l’esercito danese comandato dal generale mercenario
scozzese Jackob Duncan e poi di nuovo il 4 dicembre a Lund presso Malmö, pur con molte
perdite di uomini e bandiere in una sanguinosissima battaglia, quello capitanato dallo stesso
trentenne re di Danimarca Cristiano V e dal generale Carl von Arensdorff. In quel tempo, negli
ultimi mesi dell’anno, il re e condottiero polacco Jan III Sobiewski aveva ottenuto altri importanti
successi militari contro i turchi costringendoli così alla pace di Zurawno.

1677. Mercoledì 20 gennaio i suddetti soldati corsi salparono finalmente per Reggio portati da
tre galere. A metà del mese successivo arrivò al viceré la ferale notizia che le otto tartane che
portavano le summenzionate soldatesche milanesi da Finale a Palermo erano incappate in una
burrasca nelle acque di Porto Longone e due erano naufragate con perdita di circa 400 uomini;
e, come se questo non bastasse, alcuni uomini di comando delle stesse, salvatisi su un piccolo
battello di salvataggio, erano poi rimasti preda di una saettia di corsari mori, per cui il viceré, per
negoziarne il riscatto, spedì immediatamente, la notte di lunedì 15 febbraio, un corriero a
Livorno, evidentemente perché detti corsari usavano poi fermarsi ad accettar riscatti sulle coste
degli stessi mari in cui avevano appena compiuto delle razzie. Altre due delle dette tartane,
molto danneggiate dalla burrasca, si dovettero fermare a Porto Longone e quindi a Palermo ne
videro poi arrivare solo quattro.
Alla fine della prima settimana di marzo seppesi dalla Spagna che si sarebbe presto
inviato in Sicilia il tercio della guardia reale detto della ciamberga, nome questo dovuto
evidentemente all’esser quello il primo tercio spagnolo ad andar vestito di quel nuovo indumento
marziale, il quale avrà poi tanto successo da caratterizzare sia il vestiario militare sia quello
civile per circa un secolo e mezzo. Negli stessi giorni, pressato dalle continue istanze in tal
senso dal marchese di Castel Roderigo, il viceré marchese de Astorga ordinò che si
assentassero, cioè si arruolassero, nuovamente le milizie del Battaglione e della Sacchetta in
tutto il regno per trarne al più presto un nuovo corpo da inviare in Sicilia, mentre già alla metà
del mese nell’arsenale di Napoli si ammassavano soldatesche di nuova leva e provvisioni
belliche. Domenica 14 marzo arrivò un corriero con dispacci di Sicilia che riferivano l’arrivo di
altri vascelli francesi a Messina e di scontri presso Milazzo e Taormina, nei quali i francesi
avevano ancora avuto la meglio.
Per alleggerire il fronte siciliano, i francesi cercarono d’aprirne un altro assaltando
Piombino, me ne furono respinti e forse fu per il concretizzarsi di queste minacce che nel mese

163
d’aprile di questo 1677 si levavano soldati anche nei Presidi di Toscana; più tardi in Sicilia i
transalpini, sorpreso nottetempo dal nemico, persero il borgo e castello della Motta, perdita che
presto provocò la ritirata francese dalla stessa Tauromina, da quel castello sovrastata.
Il martedì 13 aprile si trovava a Napoli il conte milanese Barbò, il quale aveva sino allora militato
a Milazzo, ma era ora stato nominato nuovo generale dell’artiglieria e governatore dell’armi di
Reggio in luogo del San Crispiero. Il venerdì santo 16 aprile, all’età di soli 35 anni, morì il nuovo
viceré di Sicilia marchese di Castel Roderigo dopo tre soli giorni d’indisposizione e a causa, si
diceva, delle conseguenze d’una vecchia ferita interna ricevuta in Catalogna; arriverà a Palermo
in sostituzione pro interim il luogotenente provvisorio di viceré Ludovico Fernandez Porto
Carrero, cardinale di Toledo, liberando così dalla gravezza della vice-reggenza la consorte del
Castel Roderigo, cioè Leonora de Moura y Guzman; il cardinale sarà poi nominato luogotenente
generale dell’armata del re in Sicila nel novembre successivo.
È del 22 aprile una cedola reale indirizzata al viceré di los Vélez, dove il re Carlo II,
richiamandosi alla recente abolizione nell’esercito di Fiandra della figura di luogotenente di
mastro di campo generale, in considerazione che questa andava sostituita dalla nuova figura di
sargente generale di battaglia recentemente introdotta, come già sappiamo, in tutti gli eserciti
della Spagna come coadiutrice di varie figure generali e cioè sia di quella del mastro di campo
generale sia di quella del generalissimo (capitano generale) sia di quella del governatore
dell’armi, concedeva che, per quanto riguardava gli altri eserciti, la carica di luogotenente di
mastro di campo generale potesse per ora restare e coesistere con quella di sargente generale
di battaglia; però, dove a costui venissero dai predetti generali superiori affidati incarichi
meritevoli di aiutanti, gli si dessero quelli del tenente di mastro di campo generale. La predetta
specificazione attributiva di battaglia non era del tutto nuova, infatti per esempio, come si legge
nelle già citate memorie del de Bourdeilles, nella fanteria francese quello che ora si chiamava
sergent major s’era nel precedente Cinquecento chiamato appunto sergent de bataille.
Il 23 venerdì aprile lasciò Palermo una galera spagnola che, per maggior sicurezza del regno,
trasferiva in ceppi a Napoli 9 nobili siciliani sospetti di tradimento e sino ad allora detenuti nel
Castell’a mare di Palermo; nella notte tra il 26 e il 27 salparono invece da Napoli per la Sicilia
cinque galere del duca di Tursi che portavano soldatesche e una somma di denaro per le
esigenze di guerra. In un'altra missiva del 1° maggio indirizzata al suo governo, il nunzio
apostolico a Napoli esprimeva un altro sconfortante giudizio dello stato della guerra:

Ho cercato destramente di sapere lo stato della Sicilia in questo principio di campagna e trovo
che le cose de’ spagnuoli vanno di male in peggio; poca gente mal comandata e peggio pagata
164
e però (‘perciò’) più d’aggravio che sollievo a’ siciliani. Le diffidenze della nobiltà cresciute a
gran segno dopo la carcerazione d’otto nobili palermitani condotti in questi castelli ed in gran
parte senza fondamento… Melazzo ha fortificazioni grandi e malfatte che non si puol sperare
molta difesa in caso d’attacco. Palermo è poco forte, Siracusa potrebbe resistere. Se alli
francesi arrivano li decantati soccorsi, l’isola è in grande pericolo… (ib.)

In effetti proprio in quei giorni erano arrivati a Messina altri vascelli francesi, tra i quali il
pregevolissimo Grand Louis, accolti da tre giorni di festeggiamenti, e sbarcarono 2mila fanti
svizzeri al soldo francese e molte provvisioni, mentre si diceva di dispute tra i comandanti
spagnoli e che il generale Bracamonte si fingeva indisposto a Catania. Il giovedì 13 maggio
arrivò a Palermo con tre galere il nuovo viceré cardinal Porto Carrero, il quale si era imbarcato a
Gaeta; intanto, continuando gli scontri di terra ora con alterna fortuna, i messinesi s’erano messi
a scorrere le coste calabre con piccoli legni sottili, vale dire remieri, e avevano predato delle
feluche, per cui sabato 22 maggio partì per Reggio il suddetto conte Barbò, nuovo governatore
dell’armi di quella città, al quale era stata fornita una dotazione di galeotte e feluche con la quale
guardare quelle coste da simili scorrerie, e il giorno seguente salparono due galere che
portavano rinforzi e provvisioni agli ora certo più trascurati presidi di Toscana. Nel Regno di
Napoli frattanto si sollecitava l’adunata del Battaglione, si continuavano le nuove leve e si
allestivano legni per trasportarle in Sicilia; certo è che il lunedì 31 maggio arrivarono a Palermo
da Napoli 5 tartane cariche non solo di palle, miccio e polvere per l’artiglieria ma anche di
chiodi, tavole e altro legno per il raddobbo dei vascelli spagnoli, per il quale portavano inoltre 40
maestri calafati:

... Onde nel molo (i vascelli spagnoli) cominciarono a scaricare tutta l’artiglieria in terra ed altre
robbe e si voltarono a costato (‘di fianco’), riconsando (‘risarcendo’) quel che bisognava (V.
Auria, cit. Vol. VI, p. 104).

Come sempre in Sicilia, Messina a parte, le maestranze di cantiere e le produzioni meccaniche


in generale scarseggiavano. Nei primi giorni di giugno arrivò invece a Messina e Augusta la
nuova armata di Francia e si trattava di 28 vascelli da guerra e poi alcuni brulotti e poi molte
polacche e tartare cariche di uomini, cavalli, vettovaglie e materiali per un totale di un centinaio
di vele; non c’erano stavolta nuove galere perché quelle a disposizione della Francia nel
Mediterraneo si trovavano già tutte nel teatro di guerra e cioè 12 nella darsena di Messina e 10
in quella di Civitavecchia.
Il venerdì 18 giugno arrivarono a Palermo da Napoli quattro siciliani che si trovavano colà
incarcereti nella Vicaria per reati non pubblicati e furono inviati al confino per ordine della giunta
165
dei ministri; si trattava del dottor Giovanni Montalto, del dottor Giuseppe Gisino, di Giuseppe
Cicala e di un quarto di cognome d’Agate. Più tardi, la domenica 27, arrivarono a Palermo
invece soccorsi per la causa di Spagna e cioè sette grossi vascelli da guerra - quattro olandesi
e tre spagnoli, dai quali sbarcarono 1.300 soldati spagnoli con vari comandanti e tra questi i più
cospicui erano il duca di Borneville, il quale veniva a prendere il comando in capo dell’esercito
regio come mastro di campo generale e che poi, contrariamente a quanto suddetto dal nunzio,
pare trovasse le maggiori piazze militari del regno di Sicilia in buono stato di difesa, il marchese
di Villafiel, al quale si conferiva invece il generalato dell’armata di mare e il nuovo mastro di
campo del tercio spagnolo di Sicilia. Quanti fossero ora in totale i vascelli da guerra che si
trovavano nel porto di Palermo non sappiamo, anche perché i vascelli olandesi, aumentati poi a
cinque, se ne andarono presto in corso nelle acque siciliane; mentre le galere erano, scriveva
l’Auria, 17, tra cui alcune di Spagna, altre di Napoli, Sicilia, Genova e due di Sardegna.
Frattanto nello stesso giugno a Messina i francesi, sbarcate anche tutte le genti di marina dai
vascelli, avevano passato di nuovo in rivista le loro forze e risultarono allora circa 9mila fanti e
600 cavalli, ma sembrava che aspettassero ancora rinforzi portati da otto loro galere che si
trovavano allora a Civitavecchia, probabilmente le stesse che poi arriveranno effettivamente a
Messina il giorno 13 luglio successivo. All’inizio di luglio, tanto per ricordare al regno che nel
Mediterraneo c’erano ancora anche i soliti nemici di sempre, cioè i mussulmani, vele corsare
turco-barbaresche fecero alcuni schiavi in località Saline d’Otranto; inoltre, lettere del 5 luglio da
Reggio riferivano che, sbarcati presso Cariati e nelle terre di Carucoli e Strongoli in Calabria
circa 300 franco-messinesi, avevano predato gran quantità di bestiame e, sequestrati due
personaggi facoltosi di quei luoghi, se ne erano tornati a Messina; infine, giungerà notizia che il
procaccio di Bari era stato aggredito e svaligiato dai banditi pugliesi.
Lunedì 12, dettero mostra le soldatesche che si erano approntate per Reggio e si trattava dei
700 fanti del nuovo terzo del mastro di campo Restaino Cantelmo, i quali, come era d’uso,
appena rassegnati si facevano subito imbarcare ad evitare che poi ne fuggissero ancora,
risultando così mancanti dai ruoli; salparono la notte seguente, ma dovettero subito andare a
mettersi sotto la protezione dei cannoni di Capri per evitare vele francesi che erano state
avvistate verso Ischia; si trattava di 36 velieri, tra armati e da carico, e 21 delle solite 25 galere
che aveva nel Mediterraneo la Francia che arriveranno poi a Messina verso la metà di questo
luglio. La stessa predetta notte del 12 salparono pure le galere di Napoli per recare provvisioni
ai Presidi di Toscana, ma avrebbero proseguito il viaggio fino a Genova per portarvi Melchor de
la Cueva, il quale tornava a Madrid; torneranno a Napoli sabato 31 luglio, avendo compiuto la

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traversata da Genova in soli tre giorni per sfuggire all’inseguimento d’alcuni vascelli francesi. In
quei giorni erano anche partite per Palermo quattro tartane che, oltre a munizioni e materiali
bellici, portavano duecento soldati di cavalleria da montarsi però con cavalli siciliani; arriveranno
a destinazione il 16 luglio. Martedì 27 luglio entravano frattanto in Napoli due compagnie di
schiavoni (‘dalmatini’) arrolati da un notabile raguseo e prendevano alloggio in attesa d’essere
anch’esse imbarcate per la Sicilia. Il 29 tornavano invece a Palermo i suddetti cinque vascelli
olandesi che erano andati in corso; avevano sostato alcuni giorni a Trapani, dove però non
avevano avuto pratica perché avevano catturato turchi e preso robe e merci da qualche loro
veliero mercantile in Barbaria; non si poteva certo rischiare di entrare in guerra anche con la
Turchia, perlopiù tradizionalmente alleata della Francia! Per lo stesso motivo a Palermo fu
permesso a uno solo di essi di ormeggiarsi al molo perché a rischio di affondare e quindi
bisognoso di essere urgentemente racconciato; ma non fu concesso a nessuno dell’equipaggio
di scendere a terra.
All’inizio d’agosto arrivarono notizie più confortanti e cioè che a Palermo erano felicemente
arrivate, oltre alle suddette quattro tartane da Napoli, altre da Finale con soldatesche lombarde;
che nelle acque di Trapani siciliani i suddetti vascelli corsari olandesi avevano preso cinque
tartane francesi e affondatene altre due; che bande di villani avevano fatto razzie nel
Taorminese, uccidendo e catturandone molti francesi di quei presidi, e infine che da Messina
fuggivano molti disertori francesi, essendone arrivati a Palermo in una settimana più di 70.
Nell'agosto salparono da Napoli sei galere e nove tartane sotto il comando di Nicola Pignatelli
(giovine spiritoso e di grande aspetto) per portare rinforzi all'armata di Spagna impegnata contro
Messina. In quest'anno tornò a Napoli dalla Catalogna il mastro di campo Antonio di Gaeta
marchese di Montepagano, figlio di quel Cesare che era stato anch'egli mastro di campo; era
latore d’ordine reale che gli si dovesse dare un terzo napoletano di nuova costituzione e infatti,
assoldati mille fanti, li portò con le galere a Finale e poi a militare nel Milanese; fu in seguito
governatore dell'importante piazza di Sabbioneta nella stessa Lombardia e nel 1681, essendo
stato riformato il suo terzo, s’imbarcò a Genova e tornò in patria con la ritenzione del soldo di
mastro di campo e con ordine reale che gli si formasse un altro terzo; invece, evidentemente su
sua stessa richiesta, ciò non avvenne e ottenne invece ben più importanti incarichi e infatti fu
prima preside della provincia di Montefuscoli e poi di quella dell’Aquila.
Nella seconda metà di agosto si riferiva da Reggio che, in occasione di un’altra mostra data dal
corpo di spedizione francese a Messina, si trovarono presenti in quel porto 34 legni da guerra
transalpini, di cui 16 galere; ma pochi giorni dopo, sempre da Reggio, veniva invece notizia che

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l’armata francese era uscita in mare forte di 19 galere, una galeotta, una polacca, 20 vascelli da
guerra e sette brulotti e molte tartane cariche d’attrezzi d’assedio, temendosi che, essendo
allora padrona di quelle acque, volesse tentare Reggio o Catania; invece poi il giorno 22 i soli
suddetti 21 vascelli remieri, accompagnati da due feluche lunghe, si presentarono davanti
Milazzo e sbarcarono su quelle marine soldatesche, le quali però, subito affrontate da quelle
nemiche uscite dalla piazza d’armi, furono presto costrette a reimbarcarsi con perdite, mentre le
stesse galere, bersagliate dalle artiglierie del castello e dei baluardi, dovettero allontanarsi con
la Reale e un’altra molto danneggiate.
Alla fine d’agosto fecero vela per la Sicilia galere e tartane, le quali, oltre alle solite provvisioni,
portavano sette compagnie di soldatesca e tra queste le suddette due di schiavoni; ma, a causa
delle sfavorevoli condizioni atmosferiche, dovettero andare a ripararsi prima a Nisida e poi,
come sembrava, a Massa in attesa che le stesse migliorassero; fortunatamente dopo meno di
dieci giorni arrivò da Palermo notizia che lunedì 30 agosto il detto convoglio era colà arrivato:

Vennero in Palermo cinque galere della squadra di Napoli con quattro tartane piene di
bastimenti e munizioni. Portarono duecentocinquanta soldati albanesi non mai visti in Sicilia,
vestiti tutti di rosso, molto bene addobbati, con berrette rosse lunghe, riversate (‘rivoltate’), sotto
il comando de’ loro capitani ed alfieri, che portano le loro ginette e venabli (‘partigiane e
venabuli’) come gli altri (V. Auria, vol. VI, p. 125).

Nel settembre, usciti da Messina anche per terra, i francesi in numero di 5mila fanti e mille
cavalli erano avanzati il giorno 10 sino a Mascali, da loro saccheggiata e da dove minacciavano
Catania, mentre con forze pressoché pari il duca di Borneville li fronteggiava, trovandosi nelle
vicinanze d’Ariaci; seguirà poi uno scontro in località Belvedere, in cui i francesi avranno la
meglio e poi si porranno all’assedio di Calatabiano, mentre negli stessi giorni in soccorso di
Catania partivano da Palermo 22 galere, ognuna con 50 fanti e qualche pezzo d’artiglieria da
sbarcare.
In quel mentre a Messina si soffriva per penuria di viveri e pertanto i messinesi, armati molti
piccoli legni remieri sottili detti barche lunghe, imbarcazioni velico-remiere adriatiche simili alle
fragate, introdotte dai corsari uscocchi, poi usate dagli albanesi e ora anche da barbareschi ed,
evidentemente, siciliani, e simili anche a quelle di egual nome che usavano nell’Atlantico
francesi e inglesi, scorrevano le coste della Calabria razziandone molto bestiame e biade e
predando feluche e altre imbarcazioni da carico che da Pizzo e da Pavola si recavano a Napoli;
legni francesi avevano inoltre fermato sette fregate di Malta che si recavano alla fiera di Salerno
e ne avevano obbligate cinque a seguirle a Messina e a vendere colà i loro carichi.
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Frattanto giovedì 16 settembre la galera Padrona di Napoli era salpata per riportare a Palermo il
capitano generale dello stuolo di Sicilia e cioè il marchese di Bayona, riconfermato dal re il quel
ruolo, uomo troppo potente, oltre che spagnolo, perché potesse esser stato così facilmente
eliminato; quando arriverà nella capitale siciliana vi provocherà qualche tumulto, perché inviso
alla nobiltà, la quale ben ricordava come egli avesse fomentato il popolo contro di lei, e le cose
poi per lui diventeranno così sfavorevoli che all’inizio di novembre, portato da una galera di
Spagna, se ne tornerà a Napoli, dove arriverà giovedì 11 novembre con il generale della
cavalleria Diego Bracamonte, passato questi nel frattempo da Catania a Palermo, asserendo
ambedue di esser stati richiamati alla corte di Madrid; la galera, corso il rischio di essere
catturata da 12 vascelli francesi che le avranno dato la caccia, sarà salutata all’arrivo con salva
di cannoni particolare dai castelli di Napoli perché nel frattempo il marchese era diventato
grande di Spagna, titolo da lui ereditato con il marchesato di Santa Croce. I siciliani, popolo
giudicato tradizionalmente molto fazioso, ma anche fiero e sempre insofferente dei dominatori,
dimostravano spesso ostilità a chi giungeva a governarli ed in quel periodo anche i catanesi
tumultuavano contro Andrea Coppola duca di Canzano, ora evidentemente governatore militare
di quella città, in seguito ad alcuni suoi dissapori con influenti nobili catanesi. Nello stesso
settembre furono inoltre spedite da Napoli truppe di cavalleria anche in Catalogna, truppe che si
erano cominciate a formare, come sembra, già dall'inizio dell'anno, in considerazione che uno
dei loro capitani, Domenico Dentice, ne aveva avuto patente dal viceré di los Vélez il 5 febbraio.
Alla fine di detto mese uscirono da Palermo 23 galere, tre bergantini e una galeazza,
quest’ultimo un tipo di mercantile velico-remiero, anche se non sottile come la galera, che
sopravvivrà, perlomeno a Venezia, sino alla fine del secolo successivo, e, dopo esser stati
respinti indietro nel porto dal maltempo per ben tre volte, riuscirono finalmente ad andare a
sbarcare a Milazzo 3mila soldati; torneranno poi a Palermo molto maltrattati dalle burrasche,
come altrettanto maltrattati furono i 12 vascelli del Villafiel pure usciti da quel porto e riparati poi
a Milazzo. Verso il 10 ottobre salparono da Napoli due altri legni, probabilmente anche in questo
caso delle tartane, i quali portavano Palermo circa 200 fanti, munizioni ed attrezzature per le
suddette galere.
Incominciavano a giungere frequenti notizie di diserzioni di massa dall’esercito francese in
Sicilia dovute, si diceva, sia ai patimenti di guerra sia all’avversione che i messinesi avevano
cominciato a manifestare verso di loro e il 9 ottobre arrivarono a Reggio su tre tartane circa 300
di tali disertori fuggiti da Augusta; in osservanza la vecchia regola di guerra che prescrive ponti
d’oro al nemico che fugge, costoro, trasferiti a Napoli, vi riceverono passaporto, un po’ di denaro

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ed un passaggio marittimo sino a Civitavecchia; ne arriveranno poi anche a Milazzo e altri 65
ancora a Napoli domenica 31 ottobre, portati questi da due tartane provenienti da Palermo, e
anche a questi sarà dato passaporto, denaro e li si metterà in cammino verso Roma. Le
cronache e la corrispondenza del tempo rimastaci non dicono però se si trattava effettivamente
di soldati di nazionalità francese oppure di mercenari di altre nazionalità, ad esempio gli svizzeri
al servizio di Francia. Notizie di tali diserzioni continueranno ad arrivare anche nei mesi
successivi; ma anche a Napoli intanto si moltiplicavano i tentativi di fuga dei soldati, soprattutto
di coloro che si ritenevano destinati al teatro di guerra o che non erano pagati da molti mesi; fu
quella delle diserzioni una costante della realtà militare del regno perdurante fino all'Ottocento e
che, unitamente alla tipica incuria delle memorie e delle vestigia marziali, la quale dura invece
ancor oggi, sempre dimostrò l'insofferenza dei meridionali nei confronti della vita militare, vita
fatta di disciplina,grandi privazioni, rischio e anche di un pizzico di patriottismo, tutti elementi
assolutamente estranei al carattere e alla sensibilità del meridionale e ciò non ostante che si
tentasse sempre, nei giudizi anche stranieri, di far passare invece almeno la nobiltà napoletana
come particolarmente guerriera; ma si trattava invece della solita spietata logica feudale,
aggravata in questo caso dalla sostanziale avarizia napoletana, che voleva i figli cadetti
abbandonati alla ventura, cioè al servizio militare volontario, senza soldo e solo con un minimo
appannaggio familiare appena sufficiente per non morire di fame. I giovani venturieri erano così
obbligati ad accettare immediatamente di esporsi a grossi rischi nelle azioni di guerra, sia per
procurarsi quote di bottino, a cui invece avevano diritto come i soldati ordinari, sia per mettersi il
più possibile in mostra come valorosi e ottenere così un arruolamento normale, per lo più
inizialmente come alfieri di fanteria e ciò perché l'alfiere, dovendo trascinare all'assalto della
breccia la sua compagnia, rischiava moltissimo la sua vita e si preferiva perdere in quel ruolo
dei giovani inesperti.
Le leve di questo 1677 sono confermate da atti notarili che abbiamo rintracciato e che
riguardano le forniture di vestiario militare; si tratta di un partito di mille vestiti fatto con il
partitario Gregorio Fontana, di uno di 4.000 e un altro di 800, questi all'alemanna, stipulati con
Domenico Testa e infine, con Biase Califano, di 1.700 abiti così suddivisi: 700 per le compagnie
fisse di guarnigione nei Presidi di Toscana, 500 per la fanteria e cavalleria spagnole che si
trovavano a Reggio e 500 con calzoni all'alemanna per il reggimento di tal nazione che serviva
in Sicilia.
Il 14 ottobre arrivò a Messina un altro rinforzo di 22 vascelli francesi, dai quali furono sbarcati
soldati, ma non in gran numero, mentre alla fine del mese arrivavano a Napoli cento soldati

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spagnoli dalla Sardegna, destinati con altri e con munizioni a essere anch’essi inoltrati a
Palermo.
Gli ultimi episodi rilevanti di guerra di questo 1677 iniziarono l’8 dicembre con la presa francese
del forte del Puntale presso Gibiso, a poche miglia da Milazzo, il che avvenne con le seguenti
singolari circostanze; il Borneville aveva appena fatto costruire tale fortificazione per contrastare
le scorrerie franco-messinesi nella piana di Milazzo e l’aveva guarnito di 300 uomini, quando il
colonnello che li comandava ricevette una cortese lettera del duca di Vivonne, con la quale il
generale francese lo pregava di voler compiacersi di radere al suolo il forte ad evitargli l’onere di
doverlo fare lui e con suo maggior danno; il colonnello inviò la lettera al Borneville e questi
subito gli inviò 900 fanti di rinforzo, i quali però non arrivarono in tempo perché, quando
arrivarono, trovarono che i francesi avevano effettivamente subito raso al suolo il forte
prendendone prigioniero l’intero presidio. Gli rispose il Borneville sorprendendo la guarnigione
francese del forte Castello della Mola e occupando così quel posto fortificato, molto importante
perché sovrastava la vicinissima Taormina e da esso si prese quindi a battere quella città allora
in mano francese.
Continuavano in quel mentre i calabresi a commerciare tranquillamente con il nemico e infatti
verso la metà di dicembre tre tartane francesi, postesi alla Fossa di S. Giovanni, aspettarono
che scendessero dalla montagna alcune greggi di pecore e con l’accordo di quei pastori ne
imbarcarono più di 1.500 e se le portarono a Messina. Taormina sosteneva l’assedio portatole
dal duca di Borneville e quello di Canzano e il capitano generale francese, duca di Vivonne,
uscito da Messina con 3mila uomini per portarle aiuto, era dovuto tornare indietro perché
raggiunto di notizie di tumulti popolari scoppiati in sua assenza, essendogli solo riuscito
d’introdurre i primi 400 uomini di soccorso nella città assediata; poco dopo le galere francesi
uscite da Messina ne porteranno altri 1.100, mentre gli spagnoli portavano la guarnigione del
detto Castello delle Mole a 500 miliziani siciliani, in sostituzione delle soldatesche del duca di
Canzano, trasferite queste parte in altri due posti fortificati presi poco lontano e parte a Catania.
Alla fine dell’anno il governatore dell’armi di Reggio, il conte Barbò, inviò al suddetto richiedente
duca dieci feluche e due bergantini carichi di provvisioni di guerra, mentre i franco-messinesi
predavano legni oleari e granari napoletani che transitavano nel Canale diretti a Napoli.
I francesi avevano frattanto, il 3 marzo di questo 1677, sconfitto gli olandesi in una sanguinosa
battaglia navale avvenuta nelle acque dell’isola Tobago nell’America centrale, respingendo così
le pretese dei Paesi Bassi sulle Antille francesi. Il 17 marzo la città di Valenciennes nell’Hainaut
era arresa all’assedio francese iniziato nel novembre dell’anno precedente; i transalpini, sotto il

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comando di Filippo d’Orléans, del duca d’Humières e del maresciallo di Lussemburgo, avevano
poi preso Cambray, l’11 aprile seguente avevano sconfitto gli ispano-olandesi di Guglielmo III
d’Orange a Cassel, località a sud di Dunkerque, preso infine Saint Omer e avevano inoltre
ottenuto dei successi anche sul fronte catalano. Proseguendo nel frattempo in Europa anche la
guerra nordica di Scania, iI 1° giugno c’era stata a Fehmarn, a nord del golfo di Lubecca,
un’importante battaglia navale nella quale l’armata danese dell’ammiraglio Niels Juel,
numericamente superiore, aveva pesantemente sconfitto quella svedese dell’ammiraglio Erik
Carlsson Sjöblad. Anche in questo caso, gli svedesi di Carlo XI, militarmente inferiori in mare, si
erano presto rifatti il 14 luglio prevalendo sui danesi di Cristiano V per terra a Landskrona e
resistendo con successo all’assedio danese di Malmö, mentre nei loro tentativi di invadere il
Brandenburgo subivano due sconfitte, a Stettino e a Rügen.

1678. Mentre il viceré di Napoli era ancora pressato da richieste di sovvenzioni finanziarie che
gli venivano da Palermo e pertanto concludeva grossi partiti di fornitura di denaro con mercanti
cambisti napoletani – il primo di 200mila scudi con Carlo Arici da rimettersi in Sicilia in quattro
mesi e poi altri per ulteriori 555mila da fornirsi in un anno, i tanti fuorusciti e banditi abruzzesi
che trovavano rifugio nello Stato della Chiesa, aizzati dalla Francia, avevano intensificato il loro
infestare i confini del regno; il viceré, probabilmente per meglio affrontare questa nuova
emergenza, inviò nuovo preside dell’Aquila il duca di Monte Calvi di casa Pignatelli. I primi avvisi
dalla Spagna di questo nuovo anno portarono la notizia che quella corte, preoccupata forse
dell’infezione messinese, aveva ordinato la riforma di gran parte degli ufficiali maggiori italiani
che militavano in Catalogna, Stato di Milano e nella stessa Sicilia, dove non rimaneva dunque
che Marino Carafa, e si pensava a Napoli che tale repulisti avrebbe presto colpito anche il
Regno di Napoli. La mattina di giovedì 13 giunsero da Palermo in 30 ore di traversata sei galere
della squadra di Napoli, della quale era ora governatore generale Nicola Pignatelli, e dovevano
restarvi in attesa di Vincenzo Gonzaga, nuovo viceré interino di Sicilia, per portarlo a Palermo;
ma del Gonzaga non ci sarà poi bisogno. Giunse poi lettera da Reggio che narrava di disordini
avvenuti tra mainoti e spagnoli, essendo in quell’esercito anche un terzo di quei combattivi
mercenari peloponnesiaci, i quali erano stati bistrattati da un capitano spagnolo e per questo
motivo avevano assalito e ferito una ventina di spagnoli in un corpo di guardia, e pertanto si
temeva che detto terzo, per evitare il probabile castigo, potesse potuto passare al nemico; altro
disordine avvenne in Palermo, dove due soldati sardi di guarnigione nelle galere avevano
ucciso un giovane del luogo e sua moglie, e la popolazione quasi insorse per ottenerne la giusta

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punizione. Altre notizie che poi giunsero dal teatro di guerra furono che il generale Barbò aveva
fatto decapitare due capi-banditi calabresi e marinari loro complici che rubavano greggi e li
trasportavano a Messina. Nel frattempo continuavano le scorrerie di legni messinesi sulle coste
calabresi alla ricerca di interi greggi e mandrie da predare e gli scorridori s’addentravano sino a
cinque o sei miglia all’interno pressoché indisturbati, in quanto le soldatesche che guardavano
quelle marine erano del tutto insufficienti, e questo spadroneggiare aveva convinto gli spagnoli a
migliorare le difese della piazza di Reggio, il che avveniva con molto dispiacere dei cittadini, i
quali vedevano le loro case e i loro bei giardini di gelsi e altre frutta diroccati per far posto alle
nuove fortificazioni; inoltre quattro vascelli da noleggio inglesi che portavano grano dalla Puglia
a Napoli erano stati predati dai francesi e sembrava che questo apporto di viveri avesse
alquanto risollevato l’affamata Messina.
Venerdì 28 gennaio arrivò a Napoli un vascello genovese carico di fanteria lombarda e quanto
prima la si sarebbe inoltrata in Sicilia insieme ad altre soldatesche di nuova leva che si stavano
addestrando nell’arsenale. Il giorno seguente entrò in Messina un ennesimo soccorso
transalpino di otto legni carichi di grano e altre provvisioni per le galere colà stazionanti e di
quattro vascelli da guerra, i quali portavano il maresciallo François III d'Aubusson, visconte-duca
de La Feuillade (1631-1691), venuto a sostituire nel vice-regnato e nel comando generale il duca
di Vivonne, questi in partenza per la Francia; il d'Aubusson, unito un corpo di fanteria e
cavalleria, uscì da Messina con l’intenzione di andare ad assediare il Castello della Mola, dal
quale la città di Taormina era battuta di bombe e cannonate e che però già ora si trovava
anch’esso in una situazione difficile perché a sua volta sotto la batteria di quattro cannoni
francesi. Ma, avvisati di questo disegno, il Borneville si mosse da Milazzo e l’Aldao, comandante
militare di Catania, da quella piazza per andare ambedue a incontrare il nemico; la zuffa,
dapprima molto sanguinosa da ambedue le parti, volse poi a favore degli spagnoli e i francesi
dovettero ritirarsi con la perdita di circa 400 soldati (600 secondo l’Auria) in maggior parte
svizzeri.
Frattanto il generale Barbò tentava per la terza volta di appiccare il fuoco all’armata di Francia in
porto a Messina e le inviò contro un barcone di fuoco, ossia un tipo d’imbarcazione carica di
materiali incendiari e con una mina nel mezzo che si diceva avessero inventato gli olandesi al
tempo dell’assedio di Ostenda (1601-1604), ma, l’artificiere che lo governava non seppe
aspettare il momento giusto per dargli fuoco e la mina saltò anzitempo semplicemente
mandando a picco il barcone e perdendosi così mesi di lavoro.

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Lunedì 14 febbraio entrarono in porto a Napoli due dei cinque vascelli da corso olandesi che
scorrevano il medio Tirreno e rimorchiavano due tartane francesi che avevano predato; queste
erano montate da una cinquantina di francesi e da alcuni schiavi turchi, ma portavano poco
carico. Il giorno dopo partirono per le acque di Ischia due galere di Napoli alla ricerca d’una
tartana corsara francese che si diceva stesse predando in quelle acque; torneranno infatti il
martedì seguente trainando detto legno corsaro, il quale nel mentre aveva a sua volta catturato
una tartana vinaria sorrentina, recuperata dalle galere, mentre l’equipaggio francese era fuggito
su due feluche e s’era poi dileguato sull’isola di Ponza. Nel febbraio di quest'anno si decise di
costituire in compagnie i fanti napoletani di nuova leva che, in carico al sargente maggiore,
Miguel Angel Poyo, si trovavano rinchiuse nell'arsenale, in modo che potessero venir subito
impiegate nella guerra di Messina; infatti il nuovo viceré di Sicilia, Vincenzo Gonzaga dei duchi
di Guastalla, principe del Sacro Romano Impero, il quale, accompagnato sin dai confini del
regno da una compagnia di cavalleria inviatagli dal marchese di Los Vélez, era entrato nella
capitale la sera di martedì 22 febbraio, partì martedì primo marzo per Palermo servito da cinque
galere con una somma di denaro e da due tartane cariche di materiali da guerra, sulle quali,
oltre dalla solita soldatesca di galera, s’erano imbarcati anche 500 fanti regnicoli di nuova leva
che s’inviavano in Sicilia, mentre ulteriori soccorsi di uomini e materiali erano in preparazione a
Napoli. Accompagnavano inoltre il nuovo viceré di Napoli il marchese di Terrazena, nipote di
quello di Napoli, e Marino Carafa; arrivarono queste galere a Palermo il giovedì successivo,
accolte dal cardinal Porto Carrero che attendeva appunto l’arrivo del suo successore e che poi,
anche lui accompagnato dal suddetto Carafa, sarebbe stato portato a Napoli dalle stesse
galere. Questi rinforzi però non servirono perché, a partire già dall’inizio del mese successivo, i
francesi, guadagnatasi, come al solito, con la loro asprezza e soprattutto con la loro tradizionale
mancanza di rispetto delle donne dei popoli assoggettati, l’avversione dei messinesi, disperando
ormai di poter vincere la guerra in Sicilia, cominciarono ad abbandonare Scaletta, Taormina,
Augusta e la stessa Messina, dopo averne asportato tutte le artiglierie di bronzo che poterono e
altre robe. Il mercoledì 16 marzo e il giorno seguente la loro armata lasciò il porto di Messina
dopo averne imbarcato tutti i francesi, militari e civili, artigiani e negozianti per un totale di circa
7mila uomini, inoltre tutte le famiglie messinesi più in vista e compromesse con la ribellione e
tutte le robe di queste che si potevano portare, trattandosi insomma di circa 600 famiglie per un
totale di circa quattromila individui, i quali, avendone supplicato il detto generale, fuggivano
atterriti dalla paura della vendetta dei vincitori. Il primo a rispondere alla richiesta di perdono
della città fu il generale Barbò, il quale, accolti i suoi ambasciatori subito inviati, vi si recò con

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pochi armati e tornò a Reggio il 20 dopo aver consegnato la piazza al Borneville, entrato nel
frattempo in città con 3mila soldati; costui, assunto il governo militare della città, ripartì in quei
castelli circa 800 soldati spagnoli e il terzo di Marino Carafa; arrivò infine a Messina anche
Vincenzo Gonzaga con sei galere e vi fu presto pubblicato un bando di clemenza reale che
garantiva la vita e i beni di tutti e dava alle famiglie fuggite un anno di tempo per tornare senza
subire sanzioni.
Alla fine del mese si seppe che, prima di abbandonare Augusta, i francesi l’avevano
saccheggiata, avevano fatto saltare i due forti e il castello, dopo averne però asportato i cannoni
di bronzo e fatto crepare quelli di ferro. Alcuni legni francesi in navigazione nel Tirreno non
avevano potuto sapere dell’improvviso esito della guerra e quindi, scopertesi appunto le vele di
alcune tartane nemiche presso Ponza, venerdì 25 marzo due galere lasciarono la darsena di
Napoli, andarono a catturarne una carica di vino e il giorno seguente tornarono rimorchiandola;
frattanto verso la metà di marzo due tartane di corso trapanesi ne avevano prese tre di Francia
con 50 uomini. 40mila scudi e alte cose di valore; un’ignara galera francese entrò poi in porto a
Messina e vi fu arrestata; alcuni corsari olandesi catturarono tre vascelli francesi con 150
soldati a bordo, ai quali fu data però libertà e passaporto per Roma; infine il 2 aprile altri tre
vascelli corsari flessinghesi, ossia di Vlissingen in Zelandia, entrarono a Reggio trainando altri
due vascelli francesi, tra cui un petacchio, i quali dalla Sicilia tornavano in Provenza carichi di
molte cose, tra cui 20 cannoni, una sessantina di cavalli e molti quadri e suppellettili del
bagaglio personale del maresciallo de la Follade.
Giovedì 4 aprile fu varata in darsena una nuova galera che durante la guerra si stava facendo
costruire come nuova Capitana dello stuolo di Sicilia; si fece poi una rivista sia alle genti
rinchiuse nelle carceri sia nell’arsenale e, lasciati liberi molti destinati alla guerra perché risultati
poco abili, si mantenne solo quella che poteva esser adatta alla costituzione di nuovi terzi da
inviare in Catalogna; infatti venerdì 29 aprile su 5 galere spalmate per l’occasione,
probabilmente quelle del duca di Tursi, fu imbarcato per Finale un nuovo terzo affidato a un
mastro di campo di casa Caracciolo, probabilmente Cecco Caracciolo marchese di Grottola, più,
come sembra, alcune altre compagnie sciolte, ma la partenza non avvenne prima della
domenica notte seguente. Sabato 14 maggio partivano per Finale le sette galere della squadra
di Napoli che stavano allora a Baia e, incontratesi con una caravella turca (così chiamavano i
piccoli velieri corsari turco-barbareschi), la quale aveva predato una tartana che portava cose
del cardinal Porto Carrero, la catturarono ricuperando così anche detta caravella; torneranno a
Napoli martedì 7 giugno.

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Giunsero dalla Spagna ordini di riforma della maggior parte degli ufficiali delle milizie italiane
dell’esercito di Sicilia e pertanto i residui dei terzi milanesi del Pallavicino, che si trovava a
Catania, e del Barbò, che stava invece a Milazzo, furono incorporati rispettivamente a quello
milanese dell’Arese e a quello napoletano di Marino Carafa, dovendo questi due presto passare
a servire in Catalogna; si preparavano pertanto a Palermo sette legni per tale passaggio e del
denaro occorrente per questo era in arrivo da Napoli. I suddetti ufficiali riformati, dovendo
ritornarsene in Lombardia, cominciavano a comparire a Napoli e tra questi il tenente di mastro di
campo generale Bossi, il quale non voleva tornarsene e pretendeva un nuovo impiego nel
Regno di Napoli; il viceré marchese di Los Vélez lo accontentò inviandolo a servire con soldo
regio nella repubblica di Ragusa.
Nel giugno le galere maltesi, mentre erano dirette a Taranto per caricarvi biscotto, cioè galletta,
catturarono una fusta turco-barbaresca (imbarcazione velico-remiera afro-levantina a banchi
monoremi come il bergantino, ma, a differenza di questo, sempre priva di coperta; ambedue
ormai in declino) con un equipaggio di circa 100 uomini e si posero in traccia degli altri 19 legni
corsari che i prigionieri, ovviamente tormentati, avevano confessato esser loro conserve; in
effetti dopo alcuni giorni giunse ancora notizia che avevano preso anche una galeotta turca. I
turchi tentarono però presto di vendicarsi e la notte di sabato 2 luglio da alcune loro galeotte
sbarcarono in Terra d’Otranto 400 uomini, i quali si diressero verso Fasano di Brindisi,
commenda (‘feudo’) dell’ordine di Malta distante dal mare più di sei miglia, ma gli abitanti
preavvisati, li accolsero ad archibugiate, uccidendone una decina e ferendone un’altra trentina; i
corsari si ritirarono riuscendo a prendere solo alcuni schiavi sulla via del ritorno. Conosciutosi il
fatto a Malta, le galere maltesi si misero alla caccia di dette galeotte.
Nonostante la fine della guerra in Sicilia, nella settimana dal 19 al 26 del predetto giugno
arrivarono a Napoli da diverse province del regno molti soldati di nuova leva e furono chiusi
nell’arsenale, perché occorrevano soldatesche per la Catalogna; infatti, a dispetto del buon
esito ottenutosi sui fronti siciliani, la guerra in Europa volgeva però altrove generalmente a
favore della Francia e ciò sia in Catalogna, dove, nella battaglia di Spouille (sic), il duca di
Noailles aveva sconfitto l'esercito spagnolo comandato dal conte de Monterey, viceré di quel
principato, sia in Fiandra, dove il duca Filippo d'Orléans, fratello di Luigi XIV, aveva avuto
ragione dell'esercito del principe d'Orange a Cappel (sic) nella battaglia avvenuta domenica
delle Palme; invece con alterna fortuna combatteva per mare e per terra la Svezia, alleata della
Francia, contro Brandenburgo, Olanda e Danimarca.

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Nello stesso giugno il generale Barbò inviò al viceré una richiesta di licenza perché voleva
recarsi ai rinomati bagni terapeutici di Ischia; il de los Vélez gliela concesse e nominò pro
interim al suo posto il suddetto duca di Canzano, ma quando questi si presentò al Barbò, si vide
rifiutare il comando. Sospetti e gelosie tra i comandanti avevano infatti afflitto non poco
l’esercito di Sicilia durante la guerra di Messina. Venerdì 1° luglio arrivarono a Pozzuoli le allora
quattro galere del granduca di Toscana, le quali, com’era loro secolare abitudine, si recavano
d’estate in corso in Levante, andando così a portare la loro concorrenza a quelle di Malta.
Domenica 10 luglio le sette galere della squadra di Napoli fecero vela per la Sicilia e molti
cavalieri, tra cui il duca di Mataloni (‘Maddaloni’), ne approfittarono per andare a visitare
Messina ora che la guerra era terminata; queste galere torneranno mercoledì 27 luglio portando
la maggior parte delle soldatesche di Reggio e di Sicilia, le cui compagnie, finita la guerra, erano
state immediatamente riformate, e si trattava di ben 4mila fanti, quindi è immaginabile in quali
condizioni di sovraffollamento avessero i poveri soldati dovuto viaggiare:

Mercordì mattina tornarono qui le 7 galere di questa squadra, dalle quali sbarcarono circa 4.000
fanti levati da Reggio, e vennero così stretti, per essere le galere mal capaci di tanta gente, che,
aggiuntasi l’angustia del caldo, ne caddero per il viaggio molti in mare, ma soli 3 ne perirono…

Arrivò con dette galere anche il Barbò con altri ufficiali; il giorno seguente arrivarono poi su
alcune tartane compagnie di cavalli provenienti da Palermo, Milazzo e Reggio, le quali furono
rassegnate e, toltine subito le peggiori cavalcature, s’incominciarono a rimettere in ordine per
poi inoltrarle a Barcellona insieme alla parte ordinaria della suddetta fanteria, cioè eccettuando
quella territoriale del Battaglione, e si trattava dei due terzi di italiani dei già menzionati mastri di
campo Restaino Cantelmo e Orazio Coppola per un totale di circa mille uomini, più 200 altri
fanti italiani sciolti, mentre 200 fanti spagnoli sarebbero stati trattenuti a Napoli come reclute del
terzo fisso; ma altre soldatesche s’aspettavano dalla Sicilia e dalla Calabria, dove il 5 agosto
furono riformate altre 23 compagnie, e domenica 7 arrivò da Milazzo anche il mastro di campo
Marino Carafa, fratello del duca di Mataloni. Per questa prevista nuova condotta in Catalogna
s’andava stanziando il danaro necessario a pagarla e s’andavano allestendo tartane e altri legni
nel porto di Napoli. Tutti questi soldati dettero mostra a metà agosto e il sabato 20 furono
imbarcati, restando i legni in attesa di venti favorevoli alla navigazione.
In quel mentre anche il marchese di Villafiel, comandante dei 12 vascelli da guerra spagnoli che
stavano ancora in Sicilia, aveva avuto ordine d’imbarcare tutti i suoi uomini e di salpare per
Barcellona e allora egli aveva chiesto al viceré di Napoli provvisioni che gli necessitavano; il de

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los Vélez gliele inviò subito insieme a 300 marinari di cui quell’armata pure mancava. Mercoledì
24 agosto su sei galere dello stuolo di Napoli, anch’esse in partenza per la Spagna, furono
imbarcati i soldati della guarnizione e solo quelli, perché per il resto erano già stracariche dei
bagagli dei bagagli dei marchesi di Santa Croce e di Bayona e inoltre di circa 100 colli del
viceré, a tal punto che il luogotenente generale Pignatelli andò dal marchese di los Vélez a
protestare per tanto soverchio carico; queste galere, con le quali andava in Spagna anche il
suddetto generale milanese Barbò incaricato di riferire a quella Corte deliberazioni della Giunta
di Guerra di Napoli, a causa delle condizioni atmosferiche non propizie non poterono far vela
però se non la notte del sabato seguente e, rinnovandosi purtroppo in mare detti venti contrari,
dovettero far sosta a Procida per tutta la domenica; esse torneranno a Napoli solo dopo circa
sei mesi e cioè la mattina di mercoledì 22 febbraio 1679 e mostreranno i segni evidenti di una
sinistra odissea:

(Napoli, 28 febbraio 1679:) Mercordì mattina arrivarono qui le 6 galere di questa squadra che
hanno molto patito, essendovi morte circa 700 persone da 6 mesi in qua per li gravi incommodi
sofferti nel viaggio (A.S.V. Nun. Nap. 92).

Dopo qualche giorno furono salparono da Napoli anche cinque galere di Spagna sulle quali
s’era imbarcato un terzo italiano comandato dal mastro di campo Antonio di Gaeta marchese di
Montepagano; sembrava dovessero, prima di proseguire per la Catalogna, far scalo in Sicilia a
imbarcare anche quello di Marino Carafa, anch’egli infatti imbarcato.
All’inizio di settembre si mandarono soldati a guardare le marine del regno dalle incursioni dei
corsari turchi, i quali, sbarcati in forze a Poggio Marino nel Contado di Molise, vi avevano fatto
numerosi schiavi. Mercoledì 7 si fecero passare dai quartieri degli Studi a quelli dell’arsenale i
due summenzionati terzi di fanteria italiana, cioè quello di Restaino Cantelmo e quello di Orazio
Coppola, e venerdì 9 volle il viceré vederli squadronati nel cortile dell’arsenale medesimo, dove
fecero alla sua presenza diversi esercizi militari; subito dopo furono fatti imbarcare assieme ad
alcune compagnie di cavalli su una quindicina tra vascelli, petacchi e tartane, i quali la sera di
martedì 13 fecero vela e portavano a bordo anche alcuni ufficiali della Scrivania di Razione,
perché, assieme all’altro del marchese di Montepagano partito con le galere di Spagna,
sarebbero stati mantenuti dal Regno di Napoli; evidentemente la Corona durante la recente
guerra di Messina ci aveva preso gusto a vedere Napoli sborsare tanti denari per spese di
guerra! Dopo alcuni giorni arrivò in ritardo da Reggio una compagnia di cavalli che sarebbe
stata anch’essa inviata in Spagna se fosse giunta in tempo, ma il suo capitano s’era ammalato

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e infatti morì in pochi giorni; il viceré ne concesse il capitanato a un suo dipendente spagnolo e,
assieme a tre altre di fanteria, fu rimandata per ordine reale a Reggio, piazza che nel frattempo
era rimasta alquanto sguarnita di guarnigione, essendo nuovi torbidi in Messina non impossibili.
Questo convoglio arriverà nel porto di Barcellona il 4 ottobre, segnalandosi pertanto da colà
l'arrivo di 1.700 fanti e di soli 400 soldati di cavalleria, invece dei predetti 600; forse i 200
mancanti saranno stati sbarcati altrove o forse qualche numero non sarà esattamente riportato
dai relativi avvisi. Si era giunti in quel mentre alla pace di Nimega (agosto-settembre), la quale
poneva fine a quell’ennesimo sanguinoso conflitto europeo.
Del 19 settembre è un documento che ci tramanda la rivista effettuata in quello stesso giorno
alla compagnia di cavalli corazze del capitano Gioseppe Maioli e non sappiamo se fosse una
delle venti compagnie ordinarie del regno o se si trattasse di un corpo formatosi in occasione
della guerra di Messina. In effetti ogni compagnia di questa specialità avrebbe dovuto contare
60 soldati e sei ufficiali, ma in realtà, come risulta dai rapporti di varie riviste effettuate appunto
negli anni vicini ai tre quarti del secolo, il numero dei soldati variava dai 35 ai 74 e quello dei
cavalli disponibili dai 34 ai 64. La relazione della mostra data dalla compagnia del Maioli ci dice
inoltre quanto fossero allora incompleti l'armamento e l'equipaggiamento di questi soldati - forse
a causa della guerra sostenuta, di cui infatti il commissario di turno così scriveva:

... se han presentados armados de medias corazas con sus borgoñotes sin ninguna pistola.

15 di loro erano inoltre privi di stivali e di spade e infine i cavalli non avevano il prescritto
fornimento. L'arma da fuoco principale di questi hombres de armas, come, con antico nome,
erano ancora chiamati ufficialmente i cavalli corazze, era però a quest'epoca, come abbiamo
già detto, la carabina, in considerazione che la coppia di pistole d'arcione usata in epoca
precedente non era più sufficiente al mutato uso tattico di questa cavalleria, a cui non si
richiedeva più solamente di caricare il nemico bersagliandolo con le pistole a distanza
ravvicinatissima, ma anche di usare il caracollo, cioè di sparare per file alternate da una certa
distanza.
All’inizio di ottobre, avendo il summenzionato milanese Bossi rinunziato alla sua carica di
tenente di mastro di campo generale a Ragusa per dissapori con il suo diretto superiore, il
Tuttavilla, egli fu riformato e fu inviato a prendere il suo posto a Ragusa Simonetto Rossi, la cui
famiglia era come si sa null’altro che un ramo dei Caracciolo (i Caraccioli Rossi, come una volta
si diceva). Nella seconda metà del predetto mese arrivò a Palermo da Napoli una grossa

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tartana carica di legnami, zappe, pale, ferramenti d’ogni specie, bombe, granate e simili,
materiali che furono riposti nei magazzini detti ‘di Terranova’.
La notte tra giovedì 17 e venerdì 18 novembre moriva praticamente di vecchiaia Vincenzo
Tuttavilla duca di Calabritto, tenente generale della cavalleria e mastro di campo generale
dell'esercito del regno, e fu seppellito con tutti gli onori delle armi alla presenza di quattro
compagnie di cavalleria e quattro di fanteria; ne prendeva il posto pro interim il generale
dell'artiglieria fra’ Titta Brancaccio, secondo incarico che, anche se in luogotenenza dopo il
viceré, lo faceva praticamente comandante di tutto l'esercito, e che egli manterrà fino alla morte,
cioè sino al 19 febbraio del 1686.
Alla fine di novembre cominciarono a comparire a Napoli molti soldati di cavalleria del Milanese
che, essendo stata colà riformata la loro arma perché terminate le esigenze di guerra, venivano
in regno con la speranza di esser presi a riempire i vuoti determinatesi nelle compagnie di
cavalleria ordinarie, le quali s’era parecchio svuotate per la numerosa gente che si era dovuta
inviare in Catalogna, avendo infatti un regio ordine prescritto, per favorirli, che nella cavalleria
regnicola non s’arruolassero d’ora in poi se non soldati milanesi e borgognoni; bisognava però
munirli di tutto, a partire dai vestiti, e impratichirli negli esercizi militari alla maniera che s’usava
tradizionalmente nel Regno di Napoli, il quale aveva storicamente grandi tradizioni equestri.
Verso il 10 dicembre giunse notizia che il vice-regnato del de los Vélez era stato prorogato; non
sarebbe stata infatti certo buona politica cambiare così presto uno dei vincitori della guerra.
Negli ultimi giorni dell’anno giunsero dalla Sardegna due tartane che sbarcarono due
compagnie di fanti spagnoli per rinforzo del presidio del regno; nei medesimi giorni, avanzando
la cavalleria alcune paghe, il viceré gliene fece dare due.
In questo 1678 sono nominati nei documenti anche i terzi di fanteria napoletana dei mastri di
campo Nicola Recco e Caracciolo, quest'ultimo serviva nel Milanese; nel luglio fu poi ordinato al
mastro di campo Filippo Rossi (ramo dei Caracciolo) di levare un terzo di fanteria napoletana,
probabilmente con i reduci della guerra di Messina, da impiegarsi al regio servizio chissà dove e
nel settembre si ordinò che il terzo di fanteria alemanno-napoletana (strano connubio,
evidentemente i napoletani convivevano più facilmente con i tedeschi che con gli altezzosi
spagnoli!) levato dal mastro di campo-colonnello Joachim Fatrique de Visenfeld y Megolin,
nobile ispano-alemanno e cavaliere di Malta, il quale, nelle intenzioni originali doveva essere
una raccolta dei suddetti reduci da organizzarsi sul piede di sole cinque compagnie di 100
uomini ciascuna, si declassasse a semplici compagnie di fanteria italiana; ciò significava che

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alla fine ci si era resi conto che troppo poche erano le compagnie per costituirle in terzo e troppo
pochi, evidentemente, i loro soldati alemanni rispetto al numero dei napoletani.
A comprova dei preparativi militari che, non ostante che la guerra d'Olanda fosse ormai in fine,
caratterizzarono questo anno, restano rogiti e conti relativi a tre partiti del vestiario fatti con il
partitario Domenico Testa, ossia uno di 2.000 vestiti per fanti regnicoli di nuova leva che si
sarebbero dovuti inviare in Catalogna e in Sicilia e altri due per un totale di 3.500 abiti, di cui
1.500 per fanti del terzo fisso spagnolo, fatti di panno fino di Pedimonte (d’Alife) a ducati 8,4
ciascuno, e 2.000 per soldati napoletani, confezionati questi con panno di Cerreto, tessuto più
economico del precedente, venendo a costare ognuno di questi altri vestiti ducati 7,3.
Nel corso del primo semestre di quest’anno, dopo due anni di guerra per la casa d’Austria, era
frattanto tornato a Napoli il giovane Francesco Piccolomini d’Aragona principe di Valle, ma
nell’agosto Sua Maestà Cesarea lo richiamò conferendogli una compagnia di corazze del
reggimento Alleviel, compagnia con cui combatterà per breve tempo contro francesi e poi,
sopraggiunta la predetta pace di Nimega, in Boemia contro i turchi; nel gennaio del 1682 il
principe diventerà poi sargente maggiore del reggimento di corazze cesaree Caprara.
Molto interessante è anche un lungo documento manoscritto in questo periodo e intitolato Conti
della Regia Monizione del Regio Arsenale (S.N.S.P. Ms. XXVII.A.17), regia monizione questa
per l’armamento marittimo e da non confondersi quindi con quella sita nel vicino Castel Nuovo e
destinata invece all’esercito, in cui si elenca tutto ciò che, con inizio dal 26 aprile, si era fornito
durante il corso della suddetta guerra di Messina, a mercantili, squadre e flotte partecipanti a
quel conflitto e che pertanto erano state inviate nei mari di Sicilia o erano state in riparazione nei
cantieri di Baia; oltre a cibi, vini, tessuti, vestiti militari (suddivisi questi in alemani e spagnuoli),
bocche da fuoco e materiali vari per l’artiglieria, per la navigazione e per i lavori eseguiti nei
predetti cantieri, c’è infatti anche tutto il necessario per l’armamento personale, anche se,
purtroppo, senza l’indicazione dei corpi a cui ogni genere era destinato; ma cercheremo di
capirlo ugualmente.
Troviamo prima elencate le armi bianche inastate, cioè ciussi, picche e partesane, armi alte
all’incirca due metri allora ancora molto usate. I ciussi erano delle semplici punte di ferro
inastate di un paio di metri di lunghezza, quindi quelle che sino al Cinquecento, sia pure con
variazioni di forma del ferro apicale, si erano detti anche verruti, brandistocchi, spiedi, scheltri,
gi(an)nette, mezze picche e più tardi, nella misura di poco più di due metri e mezzo, si
chiameranno invece spuntoni e diventeranno l’insegna distintiva degli ufficiali maggiori; erano
armi ancora utili alla difesa delle trincee, degli approcci, delle brecce, delle batterie ecc. Le

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picche, punte di ferro generalmente a forma di foglia d’albicocco con asta di legno leggero,
quindi di frassino, faggio od olmo, e lunga ora in tutto poco più di quattro metri e mezzo, mentre
una volta aveva anche raggiunto i cinque, erano armi che si usavano sin dal primo
Rinascimento come principali della fanteria e servivano principalmente a sopperire
all’insufficiente contrasto offerto dalle prime armi da fuoco alle cariche di cavalleria, ma erano
anch’esse molto utili alla difesa di batterie, brecce, rivellini, ridotti e altri ripari; il loro uso era
andato nel Seicento gradatamente diminuendo in modo inversamente proporzionale
all’aumento, anch’esso graduale, della potenza delle armi da fuoco. Le partesane, nome
francese però più noto in Italia con la corruzione partigiane, erano sostanzialmente delle ronche
bifronti di 2 metri d’altezza o poco meno ed erano portate dagli ufficiali come arma distintiva e
talvolta, ma raramente, dai corpi di guardia, per cui si preferiva invece l’alabarda. Quest’ultima,
della stessa altezza della partesana, pur essendo ancora ritenuta molto utile e usata nell’assalto
e nella difesa delle brecce, non appare tra le suddette forniture di guerra e quest’assenza
conferma che il suo uso era – ma ormai da gran tempo – relegato appunto soprattutto al
servizio di guardia del corpo e di palazzo e, come abbiamo già detto, a distinguere i sargenti.
Le armi da fuoco elencate ci permettono di capire l’evoluzione tecnica raggiunta dall’esercito
ispano-napoletano che combatteva la guerra di Messina; mentre tutte le armi elencate, sia
quelle bianche sia quelle appunto da fuoco sono registrate ciascuna in numero di alcune
centinaia, raggiungendo solo le picche quello di 821 dato il gran numero di picchieri che a quel
tempo ancora aveva la fanteria, moschetto e archibugio sono le uniche a raggiungere le migliaia
di unità e precisamente il primo 4.414 e il secondo 5.157, a dimostrazione che le fanterie
ispano-napoletane ancora usavano come armi da fuoco principali, le due usate nel secolo
precedente e cioè archibugio a miccio e moschetto a miccio (sp. mosquete de cuerda); questi
erano forniti con loro adherimenti (‘accessori’), i quali erano il fiasco contenente la polvere, il
fiaschiglio, cioè la fiaschetta più piccola contenete il polverino da innesco e la forchiglia o
forchetta, ossia la forcina inastata d’appoggio se si trattava di moschetto; l’unica differenza
rispetto al Cinquecento è che il numero di moschetti forniti, rispetto a quello degli archibugi, è
molto elevato, a comprova che essi, mentre quelli cinquecenteschi erano pesantissimi e quindi
ne potevano andare armati solo i fanti più robusti, ora, anche se ancora bisognosi della predetta
forchiglia, dovevano essere alquanto più leggeri. Ci sono poi 238 moschetti alemani e infatti alla
guerra di Messina parteciperà, come presto vedremo, anche un contingente di fanti imperiali;
questi, per cui non è menzionato il suddetto complemento di accessori, dovrebbero essere quei
moschetti leggieri, non sappiamo se privi di forchiglia, a cui abbiamo già accennato; seguono 98

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moschetti a grillo, ossia a pietra focaia (‘fucili’), 200 pistole da cavalleria pure a grillo con loro
fondi (‘foderi da sella’; sp. tapafundas), 110 senza fondi e 443 carubini, ossia i corti fucili a
canna rigata e carica forzata per la cavalleria di cui abbiamo già detto.
Per quanto riguarda le armi difensive, nel predetto documento si nota un quantitativo non
elevato di marzine di vacca da cavalleria e i materiali per confezionarle, cioè vacchetta di
Smirne, bambace filata e cannavaccio nuovo. Queste ‘marsine’ di vacchetta erano dei
giustaccorpi ossia dei farsetti lunghi sino a coprire e proteggere, avendo quattro grandi falde,
anche il ginocchio del cavaliere come facevano anche le nuove marsine di panno di cui poi
diremo; aldifuori del Regno di Napoli si chiamavano co(l)letti [sp. coletos; fr. col(l)ets de bufle],
non perché fossero particolarmente protettivi del collo, ma dal vecchio termine spagnolo
coletón, dal significato di ‘canevaccio’ o ’cannavaccio’, un materiale che, come abbiamo appena
visto, era tra quelli adoperati nella manifattura di questi indumenti. Si chiamavano però anche
bufali (fr. bufles), perché fatti preferibilmente di pelle di bufalo, ma, in mancanza di quello, si
facevano di cervo o anche appunto di vacca. Dapprima non ebbero maniche, in seguito le
ebbero, ma, per renderle più confortevoli, si prese infine a farle di una pelle più morbida, cioè di
daino o di alce. Erano considerati vere e proprie armi difensive e pertanto spesso se ne
spogliavano i nemici vinti; infatti erano foderati con un doppio strato protettivo di cannavaccio
(‘tela di canapa’) - o d’altra tela robusta - imbottito di bambace (‘bambagia’) e difendevano
pertanto abbastanza bene non solo appunto da fendenti e stoccate, ma anche molto spesso dai
proiettili delle deboli pistole del tempo e dei deboli archibugi. Ci sono poi 215 armi per
arcabugieri a cavallo (con)sistentino ognuna in petto, spalla e borgognotta, ma qui la
registrazione è sbagliata perché queste armi non sono da archibugieri a cavallo, i quali non ne
portavano, bensì da cavalli corazze, e qui c’è da notare un netto restringimento rispetto al
passato, quando cioè questi soldati avevano portato anche scarselloni, mignoni, cioè mezzi
bracciali, e manopola sinistra e prima ancora, ossia alla loro origine, la quale risale alla fine del
Cinquecento, anche il guarda reni e i cosciali; insomma si avviavano a diventare i moderni
corazzieri armati solo, ma al massimo, di petto, schiena ed elmo di acciaio.
Seguono poi, tra molto altro, 1.100 granate di ferro colato carriche e1.040 spine di legname per
tirarle, un totale di 5.482 vestiti tra spagnoli, italiani e alemanni, 13 cappotti di panno di Cerrito
inforati di friso russo e tanti altri generi che fanno di questo documento, come del resto di altri
molto simili - e anche più affascinanti perché del Cinquecento - che, purtroppo spesso non
inventariati e quindi a gran rischio di perdita, si potevano trovare ai miei tempi nella sezione
militare dell’Archivio di Stato di Napoli e spero tanto che lo si possa ancora.

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Il 1° luglio si era combattuta frattanto un’altra importante battaglia navale nella baia di Køge
presso Copenhagen, dove l’ammiraglio danese Niels Juel aveva di nuovo pesantemente
sconfitto gli svedesi, pregiudicando così definitivamente la loro possibilità di trasportare
soldatesche in Germania, dove del resto erano anche stati di nuovo fermati dai brandeburghesi
a Stralsund.
Il 14 e il 15 agosto si era in quel mentre combattuta l’ultima battaglia della guerra franco-
olandese a Saint-Denis; il maresciallo di Lussemburgo e Guglielmo d’Orange, non ostante che il
10 precedente fosse stata firmata a Nimega la pace con le Province Unite d’Olanda, si erano
affrontati ugualmente in una già predisposta e sanguinosa battaglia, la quale era stata inutile
anche perché, pur contandosi perdite molto maggiori dalla parte degli ispano-olandesi, nessuno
dei due era riuscito a prevalere. Il trattato di pace con la Spagna era seguito il 17 settembre.

1679. Firmata la pace anche dal Sacro Romano Impero (5 febbraio) la Francia si trovò nella
necessità di smobilitare il suo grande esercito di guerra e quindi, dopo una serie di ordini di
riforma in tal senso, fu promulgata poi un’ordinanza (28 febbraio) che dettava il numero ridotto
che dovevano assumere le forze militari del tempo di pace; ne venne dunque fuori il piede che
segue e che noi ora, anche se non poteva naturalmente avere alcuna influenza
sull’organizzazione militare del Regno di Napoli, qui riportiamo per il suo valore temporale. Si
trattava, per quanto riguarda la fanteria, di suddividerla ora in 36 battaglioni di 15 compagnie
ognuno, eccezion fatta di quelle di granatieri il cui numero poteva variare, e ogni compagnia
doveva esser adesso composta da un capitano, un luogotenente, due sergenti, tre caporali,
cinque lance spezzate, venti moschettieri, quattro fucilieri, dieci picchieri e un tamburo (quella di
un colonnello o di un tenente-colonnello avrebbe mantenuto però anche l’alfiere); infine quelle
dei granatieri erano da formarsi ognuna con un capitano, un luogotenente, due sergenti, un solo
caporale, due lance spezzate, 29 granatieri e un tamburo. Questa volta però, a differenza di
altre smobilitazioni del passato, si volle mantenere in servizio un maggior numero di ufficiali per
non perderne l’acquisita professionalità e quelli in soprannumero furono detti ufficiali incorporati.
Il soldo del capitano di fanteria era abbastanza composito a causa del cumulo di alcuni
soprassoldi e gratifiche dipendenti dal sempre variabile numero di uomini che, a prescindere da
quanto prescritto nella detta ordinanza, poteva poi dimostrare di avere effettivamente; infatti gli
era ora tassativamente proibito di far vestire i suoi valletti con gli stessi abiti dei suoi soldati (art.
VII della detta ordinanza) perché in tal modo, in caso per esempio di un’improvvisa visita degli
ispettori, avrebbero potuto servirgli da passavolanti, come talvolta si era costatato, e quindi farli

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passare per delle reclute per percepirne così fraudolentemente il soldo; a parte dunque i suoi
emolumenti, diremo, per indicare il rapporto d’importanza tra i vari ruoli, che il luogotenente
percepiva un soldo mensile di 30 lire franche, il sergente di 15, il caporale di 10 e 10 soldi, la
lancia spezzata di 9, il picchiere di 8 e 5 soldi e infine il moschettiere, il fuciliere e il tamburo di 7
e 10 soldi. Le compagnie di granatieri potevano anche avere un numero d’uomini superiore al
predetto, ma comunque non superiore a 40, e il luogotenente vi percepiva 40 lire, il sergente, 16
e 10 soldi, il caporale 11 e 15 soldi, la lancia spezzata 10 e il semplice granatiere e il tamburo 8
e 5 soldi.
Le compagnie colonnelle e tenenti-colonnelle sarebbero state costituite da 100 uomini ciascuna,
ma ognuna suddivisa in tre insegne o sotto-compagnie, di cui la prima di 40 uomini sotto un
capitano in capo e altre due aggiuntive di 30 uomini ciascuna e ciascuna sotto un capitano
incorporato operativamente subordinato a quello in capo; il luogotenente di un capitano in capo
percepiva 30 lire mensili di soldo (quello di un capitano incorporato 24), l’alfiere (che solo queste
compagnie avevano) di 22 e 10 soldi, il sergente 15, il sergente riformato 11 e 5 soldi, il
caporale 10 e 10 soldi, ognuna delle due lance spezzate 9, ognuno dei 10 picchieri 8 e 5 soldi,
ognuno dei 20 moschettieri, dei quattro fucilieri e il tamburo 7 e 10 soldi. Un capitano
incorporato aveva solo 5 picchieri e solo 15 moschettieri e, a eccezione del suo luogotenente, il
quale prendeva solo 24 lire, tutti gli altri componenti della sua compagnia godevano degli soldi
che si percepivano in quella del capitano in capo. Dei soli suddetti 36 battaglioni dovevano
dunque esser ora costituiti i reggimenti che non erano stati riformati. Lo stato maggiore di un
reggimento, il quale poteva includere uno o più battaglioni, comprendeva un colonnello, il quale
percepiva 250 lire di soldo, un tenente-colonnello, 230, un maggiore, ossia il primo dei capitani
in capo, 75, un aiutante-maggiore, 50, un maresciallo d’alloggio (fr. maréchal de logis), 30, un
cappellano e un chirurgo, 15 ciascuno; il prevosto, nei reggimenti in cui c’era, prendeva 40 lire, il
suo luogotenente 20, il cancelliere di giustizia 12 e 10 soldi, infine ciascuno degli altri 5 suoi
uomini, tra aguzzini (archers) e boia, 7 e 10 soldi.
Per quanto riguardava il reggimento di cavalleria, esso in tempo di guerra era regolarmente
comandato da un mestre de camp, il cui ‘secondo’ era il maggiore, cioè il primo o più anziano
capitano di compagnia. I reggimenti di dragoni erano invece comandati da un colonnello, ma, se
si trattava di un reggimento della guardia, il cui colonnello era formalmente un membro della
famiglia reale, il comando operativo era allora del colonel-lieutenant, così come era del
capitaine-lieutenant quello di una compagnia di gendarmi della guardia che fosse anch’essa
nominalmente comandata da un personaggio di sangue reale; secondo in comando era in

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questo caso il sou-lieutenant. Ora, venuta la pace, il numero di compagnie di cui doveva ora
esser formato ciascun preesistente reggimento restava da definirsi caso per caso con appositi
ordini successivi, fermo restando però che, dovendosene ridurre di molto il numero, per non
togliere l’impiego ai loro ufficiali, specie ai loro mestres de camp comandanti, ognuna avrebbe
dovuto contare ora non più i soliti 50 maîtres (‘padroni’, in quanto forniti di servitori) comandati
da un semplice capitano, come era stato in tempo di guerra, bensì 104, cioè prendendo in
pratica tutte il piede delle compagnie sciolte della Maison Royal, e ognuna sarebbe stata
adesso comandata da un mestre de camp o capitano in capo (180 lire) e da tre mestres de
camp o capitani incorporati (120 lire ognuno), ciascuno dei quali avrebbe avuto un suo
luogotenente (90 lire quello del primo, 60 quelli dei secondi), un suo maresciallo d’alloggio (45
lire quello del primo, 30 quelli dei secondi) e il carico quindi di 26 maîtres o soldati. Un
brigadiere, ossia un caporale di cavalleria, prendeva 12 lire e ciascun maître, soldato semplice,
tromba o timballiere che fosse, 10 lire e 10 soldi, inoltre ciascun brigadiere o maître semplice
avrebbe anche goduto di una razione giornaliera di foraggio comprendete 15 libbre di fieno, 5 di
paglia e un mezzo staio di avena a 24 staia il septier, misura di Parigi.
I reggimenti mercenari stranieri croati e quelli equipaggiati alla straniera, come erano gli ussari,
erano, al contrario degi altri, comandati da un colonnello; così pure quelli di dragoni, i quali
erano però considerati fanteria montata. Le compagnie di questi ultimi, il cui numero, anch’esso
da ridursi molto, era pure in questo caso da definirsi, doveva esser ognuna formata da 144
uomini e comandata da un capitano in capo e tre incorporati, ognuno dei quattro con un suo
luogotenente e un suo maresciallo d’alloggio, come nella cavalleria, e con il carico quindi di 36
dragoni ciascuno (cioè due brigadieri, 33 soldati semplici e un tamburo). I soldi erano 90 lire
franche al capitano in capo, 60 a ognuno di quelli incorporati, 55 e 27 al luogotenente e al
maresciallo d’alloggio del primo, 45 e 25 a quelli dei secondi. Il maggiore del reggimento di
dragoni prendeva 90 lire come il capitano in capo di compagnia e, per quanto riguarda il resto
dello stato maggiore, si dava un forfait di 150 lire mensili a reggimento, ma 300 ai reggimenti
della Maison Royal. Brigadieri, tamburi e soldati ricevevano le stesse razioni di foraggio
suddette per la cavalleria, ma in più, anche a titolo di sostentamento del cavallo, 10 lire e 10
soldi mensili il brigadiere, 9 il soldato e il tamburo; il perché di questo di più di cui invece la
cavalleria, come abbiamo visto, non godeva, non è precisato nell’ordinanza, ma riteniamo che
fosse un riconoscimento del maggior bisogno di acquistare foraggio dai contadini nelle
campagne che i soldati dragoni potevano avere rispetto ai maîtres di cavalleria perché quelli, in

186
quanto fanteria montata, dovevano allontanarsi logisticamente spesso dal reggimento per
andare a occupare posti oppure per andare in avanscoperta o a fare scorrerie.
Alle compagnie personali dei 4 principali ufficiali generali che comandavano dragoni e
cavalleggeri (colonnello generale e mastro di campo generale dei dragoni, colonnello generale,
mastro di campo generale e commissario generale della cavalleria leggera) era concessa la
cornetta (in seguito detta invece stendardo), ossia l’insegna della compagnia di cavalleria
ordinaria, e l’ufficiale a cui era affidata prendeva 67 lire e 10 soldi, a eccezione però di quello
del colonnello generale dei dragoni che ne percepiva solo 45. Sempre allo scopo di non
perderne la professionalità, il re poteva infine decidere di inserire nei reggimenti di cavalleria
anche ufficiali maggiori riformati (capitani, luogotenenti e cornette), i quali vi avrebbero
mantenuto il loro rango, pronti a subentrare nei posti corrispondenti che via via nelle compagnie
si rendevano vacanti.
Una dozzina d’anni più tardi troveremo un reggimento di fanteria francese contare in tempo di
guerra da 20 a 23 compagnie e uno di cavalleria ordinaria da 6 a 9, ognuna di queste ancora di
50 maîtres. Le considerazioni più interessanti che, a nostro avviso, quest’ordinanza ci
suggerisce sono due e cioè la già pianificata e quantificata presenza di fanti armati della nuova
arma detta ‘fucile’ e una distinzione dei comandanti generali che lascia presupporre che ancora
esistesse in Francia in questi anni una cavalleria pesante, cioè provvista anche di armi
difensive, mentre circa una dozzina d’anni dopo troveremo un solo reggimento di corazzieri.
La notte di mercoledì 22 febbraio, cioè lo stesso giorno in cui erano, come abbiamo già detto,
ritornate le sei galere di Napoli molto malridotte dopo sei mesi d’assenza, arrivarono dalla Sicilia
due galere di quello stuolo che portavano il loro generale principe di Montesarchio e giunse
anche un corriero dalla Spagna con la notizia della pubblicazione della pace; si risarcivano
frattanto da cima a fondo nell’arsenale le suddette galere di Napoli e se ne costruivano anche
due nuove per farle passare presto ancora in Spagna come da ordine reale già pervenuto, di
conseguenza nell’aprile, quando giungerà notizia che legni corsari turchi infestavano i mari, non
ci sarà ancora alcuna galera pronta da poter inviare a contrastarli. Un altro ordine reale, questo
del 26 febbraio 1679, ordinava che i continui pagati direttamente dal re dovessero essere in
tutto preferiti - ossia godere di preminenza come allora si diceva - a quelli pagati dal viceré.
Nel maggio morì il principe di Cursi di casa Cicinelli senza aver potuto rivedere il suo
secondogenito colonnello Andrea, tuttora prigioniero in Francia. Alla fine d’agosto arrivarono di
passaggio a Procida le galere di Malta con il loro generale italiano di casa Spinelli; a settembre
si registravano invece mutamenti di diplomatici, passando a Parigi l’ambasciatore che era a

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Torino, cioè il duca di Giovinazzo, e il figlio del principe di Cellamare, capitano della guardia, si
mandava inviato in Baviera. Ciò nonostante, era naturalmente poco il peso diplomatico del
regno, giacché la Spagna lo manteneva quasi tutto per sé. Anche nel settembre, mentre si
sentiva dire che erano da concedere le patenti per la leva di due nuovi terzi da inviare in
Lombardia, si provvedeva a riempire di polveri e d’altre provvisioni di guerra i magazzini militari,
ormai quasi vuoti a causa dell’occorrenze della recente guerra di Messina.
A metà ottobre giunse la ferale notizia della morte di don Giovanni d’Austria, uno dei maggiori
protagonisti della più recente storia di Napoli; alla fine di novembre giunsero ancora le galere di
Malta e il generale di quelle di Napoli, allora ancora Giovan Battista Ludovisio principe di
Piombino, si recò a bordo delle stesse in visita ufficiale.
Frattanto in questo 1679 nel corso delle guerre nordiche gli svedesi avevano visto le loro
ambizioni sul Brandenburgo tramontare definitivamente con le ripetute sconfitte subite dal loro
maresciallo di campo Horn a Tilsit, Splitter e Heydekrug a opera del grande elettore Federico
Guglielmo.

1680. Durante il governo del predetto viceré Fernando Faxando marchese di los Vélez fu
continuata la guerra al brigantaggio d'Abruzzo e si munì ancora una volta il golfo di Napoli con
opportune difese e artiglierie per timore di un attacco francese dal mare. Nell’ultima decade di
febbraio ci fu una vera e propria battaglia ad Acquaviva d’Isernia tra 60 soldati di campagna e
oltre 100 banditi; violenze brigantesche continueranno poi nei mesi seguenti in ogni parte del
regno, essendo questo evidentemente un effetto della riforma improvvisa di tanti uomini sino
allora impiegati nell’esercito. Nel febbraio si festeggiò a Napoli il matrimonio del re Carlo II
d’Austria con Maria Luisa di Borbone, figlia del duca d’Orléans, fratello del re di Francia; verso
la metà del mese il corriero ordinario di Spagna portò l’ordine di leva per tre nuovi terzi di
fanteria italiana da inviare nello Stato di Milano (credendosi che debbano esser compiti molto
sollecitamente per la moltitudine di gente oziosa di cui si è riempita questa città. A.S.V. Nun.
Nap. 92.)
Il nunzio apostolico si riferiva qui appunto alla quantità di militari, riformati e rimasti privi
d’impiego a causa dell’improvvisa fine della guerra di Messina, che s’era riversata sulla capitale
in cerca di nuovi fonti di sostentamento. Al contrario c’era penuria di soldati spagnoli e le
compagnie del tercio fijo risultavano complete solo sulla carta, come dimostra un perentorio
ordine reale che pervenne a Napoli alla fine di marzo:

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(Napoli 2 aprile:) E’ venuto ordine preciso di Spagna che le compagnie di fanteria spagnuola
contino di 112 soldati effettivi l’una, altrimenti che si riformino, procurando questi capitani
spagnuoli di riempire le loro compagnie con ogni sollecitudine (ib.)

L’aumento della forza di questi corpi di circa il 10% era evidentemente effetto dei recenti fatti
bellici siciliani, ma non durerà molto tempo e infatti presto ritroveremo dette compagnie sul
piede di 100 uomini ciascuna.
Mercoledì 24 aprile il duca di Tursi, non essendo evidentemente più necessaria la sua presenza
in regno, si licenziò dal viceré e s’imbarcò su una galera che l’aspettava a Nisida. Nello stesso
mese, in osservanza di ordini reali, si allestiva la squadra di galere e si tenevano sedute del
Collaterale alla ricerca di denaro che si doveva inviare a Milano e di altro che serviva per una
nuova leva di soldati; nell’ambito di questi preparativi, all’inizio di maggio si distribuirono le
nuove patenti di leva e arrivarono a Napoli 50 banditi accordati perché fossero inviati a servire in
presidi chiusi. Lunedì 6 fu varata una galera costruita per lo stuolo di Sicilia ed equipaggiata di
ciurma rinforzata formata con condannati trasmessi dai tribunali del regno; ciò non perché
l’arsenale di Messina, uno dei migliori del Mediterraneo, non fosse ora di nuovo in grado di
costruirsi da sé le galere, bensì per sfruttare ulteriormente le risorse finanziarie dei napoletani,
allora come oggi incapaci non solo di difendere, ma persino di individuare i propri interessi.
Pervenne in questo maggio la nuova della morte del Gran Maestro dell'ordine di S. Giovanni
Gerosolimitano, vulgo di Malta, e dell’elezione in suo luogo di un napoletano, cioè di fra’
Gregorio Carafa dei principi della Roccella, fratello del cardinale Carafa; egli era stato sino
allora il secondo priore della Roccella, essendone il primo suo zio Francesco ed essendo un
priorato dell'ordine di Malta una giurisdizione di carattere feudale. Egli aveva cominciato a
militare come capitano di cavalleria e questo rappresentava un privilegio perché normalmente
un nobile iniziava prima come alfiere e poi come capitano di fanteria, passando in seguito a
essere capitano di cavalleria, ritornando poi alla fanteria prima come mastro di campo e poi
come sargente maggiore; a questo punto le strade si diversificavano, potendosi diventare
colonnello di cavalleria o direttamente ufficiale generale. Divenne poi mastro di campo di un
terzo di fanteria napoletana, passò alla marina e fu vittorioso generale della squadra di galere
maltesi nella guerra contro i turchi; era stato infine anche soprintendente alle fortificazioni
dell'isola di Malta. Erano quasi tre secoli che un napoletano non era innalzato alla prestigiosa
carica di gran maestro dell'ordine e cioè da quando lo era stato fra’ Riccardo Caracciolo priore
di Capua, morto il 18 maggio del 1395, anche se in effetti quel magistero fu poi retto dalla
luogotenenza di un altro napoletano, fra’ Bartolomeo Carafa priore di Roma e di Ungheria, fino

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al 25 aprile del 1405, giorno in cui anche costui morì e fu seppellito sull'Aventino nella stessa
chiesa del Priorato di Roma dove era stato sepolto anche il Caracciolo.
Con inizio dall'elezione di Gregorio Carafa, ossia da questo 1680, si cominciò, come scrive il
Filamondo, ad apporre numerose iscrizioni e quadri celebrativi di tanto avvenimento nella
chiesa napoletana dell'ordine, detta di S. Giovanni a Mare, sita a pochi metri da piazza Mercato.
Si ricordano soprattutto quattro grandi quadri raffiguranti la leva di un terzo di fanteria
napoletana fatta da Gregorio in soccorso di Malta oppressa dai turchi, lo squadronamento di
questo terzo davanti al palazzo del gran maestro a Malta, la battaglia dei Dardanelli e il ritorno
della squadra vittoriosa nel porto de La Valletta; che fine avranno fatto questi quattro
interessantissimi quadri? Morirà Gregorio Carafa il 21 luglio del 1690 dopo aver nominato suo
luogotenente suo cugino il priore fra’ Carlo Carafa, gran siniscalco del Regno di Napoli e zio del
duca di Bruzzano.
Il 1° giugno si formerà una nuova compagnia di cavalli corazze e cioè quella del tenente e
commissario generale della cavalleria fra’ Virginio Valle; lo stato maggiore di tale compagnia, la
quale contava molti soldati milanesi, fiamminghi e tedeschi e pochi regnicoli, comprendeva, oltre
al Valle, suo capitano, un tenente, un alfiere, un trombetta, un armarolo e un maniscalco. Negli
stessi primi giorni di giugno si acceleravano intanto le leve sia per un terzo di fanti regnicoli da
porre sotto il comando di Carlo Andrea Caracciolo marchese di Torrecuso, terzo che poi, come
vedremo, non sarà pronto prima della metà dell'anno successivo, sia per quello già esistente del
Caracciolo che militava nel Milanese e al quale abbiamo già accennato; per il primo si fecero
dieci capitani, cioè cinque giovani cavalieri e cinque soldati veterani, e alcuni di questi già
avevano formato la loro prima piana. Si sparse voce che il suddetto marchese, avendo in 20
giorni perduto i due figli maschi, sembra per un’epidemia di difterite, avrebbe, afflittissimo da
questa disgrazia, rinunciato al suo incarico per restare a fianco alla moglie e cercare di avere un
nuovo erede, ma poi tale voce fu smentita; comunque poco dopo, per motivi non divulgati, si
deciderà che queste nuove milizie, sebbene ormai pronte per esser inviate in Lombardia, per
questa stagione sarebbero rimaste in regno e quindi ripartite nei quartieri di S. Maria di Capua,
Pozzuoli e Capua. Due capitani del terzo del marchese di Torrecuso di nome Mormile e Pessali,
di cui uno era cavaliere, essendo venuti alle mani, furono riformati e, per non essere anche
arrestati, s’andarono rifugiare in chiesa, cioè dove la forza pubblica non aveva accesso; forse fu
in seguito a quest’episodio che anche gli altri capitani cavalieri furono riformati e sostituiti da altri
di carriera, pensandosi evidentemente che una lunga inattività e vita di presidio sino alla
campagna dell’anno seguente non si confaceva a giovani così nobili e bizzarri. Comparendo nei

190
pressi di Napoli una squadra di sette vascelli francesi, si ordinò, malgrado la pace, di rinforzare
di artiglierie posti e castelli della città, tra cui specialmente il forte di S. Lucia e il molo, e
s’inviarono compagnie di spagnoli a guardare diverse marine del regno; si temevano anche
sbarchi di corsari turcheschi e pertanto s’inviarono istruzioni ai presidi di Lecce e Trani perché
predisponessero le opportune difese, la nobiltà atta alle armi e le milizie del Battaglione
soprattutto. Ma si era ora in pace con la Francia e quei vascelli chiedevano pratica perché
avevano bisogno di approvvigionamenti; il viceré concesse allora che attraccassero non a
Napoli ma a Baia e ai soli ufficiali di scendere a terra; così ne scriveva allora in una sua lettera il
nunzio apostolico:

(Napoli, 23 luglio:) …Gli ufficiali e soldati delli vascelli, che ora sono accresciuti di tre altri da
guerra, vengono continuamente in città e comprano commestibili in copia… (ib.)

La conseguenza, dovuta però anche a una concomitante moria di bovini, era che a Napoli
cresceva in quei giorni rapidamente il prezzo della carne. La squadra francese poi si sposterà a
Palermo e, da quanto ne scriverà l’Auria nel suo diario, sapremo altri interessanti particolari
sulla precedente sosta a Napoli; si trattava di 4 vascelli grossi, tra cui uno che fungeva da
Almiranta e uno da Capitana, cioè da vascello comandante in seconda, di tre piccoli, di cui uno
sembrava non un vascello armato da guerra bensì di fuoco, ossia un brulotto, di due barche di
vettovaglie, vale a dire due tartane o polacche da carico, di due bergantini da 24 remi, cioè da
12 remi mono-voga per fianco, e di due feluche, cioè imbarcazioni remiere più piccole da 12/16
remi. Oltre a marinai e artiglieri questi vascelli portavano a bordo anche soldatesca da fucileria e
da sbarco e quindi facevano ancor più preoccupare:

… Pochi giorni prima furono a vista di Napoli, dove da quel signor viceré li fu concesso che
sbarcassero solamente i capitani o comandanti di essi vascelli, ma non già i soldati, per non
succeder qualche disordine… E con tutto ciò il viceré mandò alcuni regali e rinfreschi a’
comandanti di detti vascelli. Ma essi non corrisposero a tante cortesie, poiché non salutarono
con le loro artigliarie gli stendardi del Re nostro signore, inalzati ne’ regii castelli di Napoli, e
negarono questo dovuto ossequio e riverenza al nostro meritassimo Re Catholico… e ciò contro
ogni costume di buona creanza, che il forastiero, arrivato in città d’altri, ha obligo di salutar
l’insegne di quel signore dove perviene.
Venuti adunque a vista di Palermo li sudetti sette vascelli francesi, usarono anco questo mal
termine di non voler salutare lo stendardo reale inalberato al nostro Castell’a mare né meno
quello delle nostre galere di Sicilia che stavano dentro nel molo… (V. Auria, cit. Vol. VI, p. 176.)

I palermitani, dunque, considerato l’atteggiamento di grande superbia e presunzione mostrata


dai francesi – e, ciò nonostante, costoro solo qualche anno prima avessero colà perso la guerra
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di Messina, dovettero giuocoforza regolarsi proprio come il viceré di Napoli e concedere a quei
vascelli una pratica molto limitata.
Sabato 7 settembre, giorno della commemorazione della vittoria di Nördlingen, approfittando di
un’uscita pubblica del viceré dovuta a quell’occasione, molti ufficiali e soldati di cavalleria gli si
fecero incontro sollecitandogli il pagamento del loro soldo arretrato da parecchi mesi, ma tutto
ciò che ottennero fu che il di los Vélez, imbarazzato e indispettito, ne fece poco dopo arrestare
una trentina e sospendere per qualche tempo l’impiego di tutte le compagnie di cavalleria della
capitale, prendendosela specialmente con il tenente generale di quell’arma, il veneziano fra’
Virginio Valle, per non aver egli saputo prevenire tale inammissibile forma di protesta; è vero
che, all'atto dell'arruolamento, il re s’impegnava a pagare immancabilmente il suo soldato, ma
quest'impegno non stabiliva in che data l'avrebbe fatto e quella del pagamento mensile era solo
una consuetudine e non una clausola contrattuale; pertanto i soldati non avevano alcun titolo o
diritto d’avanzare tali lamentele. A quel tempo, non essendo ancora nati né il criticismo
idealistico di Kant né la sua conseguente nuova concezione del dovere, era per fedeltà che gli
uomini servivano il re e con l’amore reale che ne erano ricambiati; erano insomma ancora le
emozioni e i sentimenti a determinare i rapporti umani. In realtà il ritardo del pagamento del
soldo era disordine frequentissimo negli eserciti della corona di Spagna e provocò in quei secoli
memorabili ammutinamenti di soldatesche spagnole in Fiandra e in Sicilia; bisogna inoltre
considerare che in questo periodo la cassa militare napoletana era oppressa da continue
contribuzioni di guerra che s’inviavano a Milano o in Spagna o altrove, oltre che dai soliti
gravosi pesi fissi, di cui i più pesanti erano il mantenimento dei costosi presidi delle piazzeforti di
Casale, allora in mano spagnola, e di Sabbioneta in Italia settentrionale e il soldo che, come
abbiamo già detto, toccava al viceré in considerazione che tale, in considerazione che capitano
generale del Regno e in considerazione che capitano della compagnia di lance della sua
guardia, in tutto ora 41.305 ducati, importo totale comprensivo dei soliti 1.180 ducati per il detto
capitanato delle lance e solo di circa mille ducati inferiore a quello che abbiamo più sopra visto
doversi al viceré de Aragón; poteva inoltre anche lui prelevare arbitrariamente denaro dalla
cassa militare e, fino a un totale annuo di 90.000 ducati, di tali prelevamenti, detti, come
sappiamo, gasti secreti, non doveva render conto assolutamente a nessun funzionario del
regno. Si aggiungano infine i saltuari, ma non rari donativi che le comunità del regno erano non
infrequentemente gentilmente invitate e costrette a fargli, il che è valutabile in un 7 od 8% del
valore dei grandi donativi che i napoletani erano pure correntemente costretti a fare al loro re -

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tutto ciò in aggiunta alle ordinarie esazioni fiscali - e si capirà che i viceré di Napoli disponevano
di più che cospicue risorse finanziarie in massima parte a discapito dei pagamenti militari.
Diremo ancora che, oltre al mantenimento delle predette piazzeforti, nello Stato di Milano il
Regno di Napoli pagava da sempre il totale sostentamento del corpo di cavalleria napoletana
che colà aveva tradizionalmente stanza, per non parlare della rimessa mensile a Milano che
andava sotto la voce pane di monizione, e ciò perché, fungendo quel ducato da antemurale del
Regno di Napoli, era giusto che quest'ultimo sostenesse gran parte del peso economico di
quell'esercito sempre così esposto e spesso così impegnato. Gran dispendio al regno anche
apportava il mantenimento delle fortezze dei Presidi di Toscana, senza che quegli importanti ma
piccoli possedimenti rendessero in cambio ovviamente nulla di consistente dal punto vista
fiscale e a tal proposito un reale ordine del 24 aprile 1689 imponeva moderazione a quei Presidi
per quanto riguardava la voce spesa per medicamenti, in considerazione del troppo denaro che
la Cassa Militare napoletana si trovava a dover pagare a questo titolo specie allo speziale di
Longone; infatti nel fondo Tesoreria Antica dell’A.S.N. si ritrovano, per gli anni precedenti a
questo, frequenti registrazioni di esiti di Cassa Militare per rimborsi a detto farmacista.
Comunque, ci fu poi da parte del viceré un perdono e reintegro generale delle compagnie di
cavalleria che erano state temporaneamente riformate, tranne che per un centinaio di soldati il
cui licenziamento fu confermato, approfittandosi così probabilmente di quell’episodio
increscevole per liberare i ranghi da un po’ di gente già in precedenza considerata inutile.
Alla fine di questo 1680, dovendosi inviare consistenti forze a Neufchâteau in Fiandra per
meglio sostenere i diritti spagnoli sulla regione, vi si mandarono tutti i reparti italiani presenti in
Fiandra:

... e si è anco preso quest'espediente per tenerli lontani da’ terzi spagnuoli, per le differenze
(vertenze) che vertono tra le due nazioni.

Non si erano evidentemente dimenticati i terribili eventi degli anni 1661 e 1664, durante la
guerra contro il Portogallo, quando le zuffe tra italiani e alemanni da un lato e i loro alleati
spagnoli dall'altro si dicevano avessero fatto nell'esercito imperiale ben un migliaio di morti!
Tra i documenti di cassa militare relativi a questo 1680 c’è inoltre da notare il conto per la
fornitura di 2mila vestiti di panno di Cerreto, di cui 1.880 all'italiana e 120 alla spagnuola,
presentato dal partitario Donato Maffeo.

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1681. È di questi anni seguenti a quelli della guerra di Messina una relazione fatta al viceré di
Los Vélez e intitolata Stato del Regno di Napoli e spese occorrenti per il suo mantenimento
(S.N.S.P. Ms. XXVII.A.17), da cui si può agevolmente enucleare tutta l'organizzazione militare
del regno; ne elencheremo ora i principali lineamenti. Nerbo dell'esercito e principale presidio
del regno era il terzo fisso di fanteria spagnola, costituito in quel tempo da 3.500 soldati più
ufficiali suddivisi in 35 compagnie e ciò sebbene, come abbiamo già detto, un ordine reale del
20 settembre 1636 neavesse stabilito il piede in sole 24 compagnie di 100 uomini l'una; per
trovare una precedente diversa prescrizione bisognerebbe invece risalire al real ordine del 5
maggio 1609, il quale invece voleva 20 compagnie di 200 fanti ciascuna. In realtà i viceré, a
dispetto degli ordini reali, aumentavano o diminuivano la forza di questo corpo secondo le
esigenze e le circostanze dei tempi, tenendo anche conto delle possibilità contingenti d’ottenere
rimpiazzi (visoños) dalla Spagna per sostituire i soldati morti, quelli che avessero eventualmente
disertato, quelli che, per vecchiaia o invalidità, fossero stati passati ai presidi dei castelli (non
esisteva infatti allora la pensione se non per particolari meriti) e infine quelli che erano promossi
ufficiali.
Gli ufficiali di compagnia si dividevano in alti (capitano, alfiere) e bassi (sargente, piffero, due
tamburi, portabandiera; ferraro, ossia fabbro, barbiero o barbaro, ossia pratico di chirurgia, e
infine il capitano eleggeva un capo di squadra, detto anche all'italiana caporale, ogni 25 soldati;
la prima piana, ossia lo stato maggiore del terzo, era invece costituito da mastro di campo,
sargente maggiore, due aiutanti ordinari e tre aiutanti soprannumerari del sargente maggiore,
tamburo maggiore, chirurgo e ben 12 cappellani. Una volta questo stato maggiore includeva
anche un medico fisico, ma in considerazione della disponibilità dell’ospedale di S. Giacomo,
tale impiego era stato poi considerato superfluo e abolito. Perché si usasse questo nome di
prima piana è facile da spiegarsi; esso deriva dallo spagnolo primera plana che significa prima
pagina e infatti, quando un commissario militare stendeva il rapporto della rivista da lui passata
a un terzo o reggimento, iniziava con l'elencare i componenti dello stato maggiore appunto nella
prima pagina della sua relazione.
La cavalleria tradizionale del regno, arruolata ancora in modo feudale, era costituita da 21
compagnie, di cui una era quella della guardia del viceré, armata ancora all'antica, cioè di lance
e armatura tipo corsaletto, ossia quasi completa. Si componeva quest’ultima di 100 soldati più
ufficiali ed era divisa, anche qui all'antica, in squadre di 25 soldati ognuna delle quali era
comandata da un capo-truppa incluso nei 25 e risiedeva a Napoli sei mesi ogni anno,
acquartierata in un palazzo del borgo di Chiaia sin da un reale ordine del 18 luglio 1653, mentre

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in precedenza aveva alloggiato nel palazzo del marchese di Villa Franca, edificio che non
sapremmo però dire dove fosse; per quanto riguarda poi il resto dell’anno, se si escludono
maggio e giugno in cui i suoi cavalli - come del resto quelli di tutte le altre compagnie - erano
tradizionalmente portati al verde, cioè a pascolare nei prati per evitare la spesa del foraggio
almeno in quei due mesi, in realtà non ci è capitato di leggere in quale luogo trascorressero i
quattro mesi residui, cioè da luglio a ottobre.
C'è da notare - per fare una chiosa - che il detto essere al verde nasce proprio dalla circostanza
che, nei due mesi in cui i loro cavalli erano tenuti al pascolo, i soldati non percepivano la
sostanziosa indennità di foraggio che permetteva loro di vivere un po’ più agiatamente.
C'erano poi 15 compagnie di huomini d'arme, cioè di cavalli corazze armati nella maniera che
già sappiamo, le quali contavano ognuna 60 soldati più ufficiali; questi ultimi erano, per ogni
compagnia, capitano, tenente, alfiere, contatore -ossia pagatore, trombetto, ferraro - cioè
maniscalco - e armiero; la predetta compagnia di lance si distingueva per avere non uno, ma
due trombetti. C'erano poi quattro compagnie di fanti moschettieri a cavallo, detti ancora
all'antica cavalli leggieri, armati di leggiero, detto però - anche questo con termine antico -
ancora archibugio, compagnie costituite dallo stesso predetto numero di soldati e ufficiali che
avevano i cavalli corazze. Al tempo della relazione che stiamo considerando i capitani delle
suddette 20 compagnie erano i seguenti:

Lance:

Lo stesso viceré.

Cavalli corazze:

Il contestabile Colonna, il quale oltre a essere capitano di una compagnia, era anche e
soprattutto generale comandante di tutte le 15 compagnie di huomini d'arme.
Il principe di Palestrina.
Il principe di Caserta.
Il principe d’Avellino.
Il duca di Calabritto.
Il duca di Martina.
Il duca di Sora.
Il duca di Sessa.
Il duca di Bovino.
Il duca di Popoli.
Il duca di Laurenzana.
Il marchese de los Balbases.
Il marchese del Vasto.
Il conte de Ybañoz.
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Il conte della Cerra.

Moschettieri a cavallo:
Il principe di Montesarchio.
Il duca d'Andria, la cui compagnia poteva anche servire, all'occorrenza, da cavalli corazze.
Il marchese di Torrecuso.
Il marchese di S. Agata.

Comandante generale delle suddette quattro compagnie di cavalli leggieri era il duca di
Mont'Alto, il quale era però anche generale d’altre nove compagnie di questo tipo, compagnie
straordinarie o di nuova leva che abbiamo già trovato nelle cronache del 1675, le quali, allora
formate per le nuove emergenze causate dall’incipiente guerra di Messina, dopo la fine di
questa saranno diminuite prima a sette e più tardi a cinque; si trattava ora di circa 500 soldati in
tutto più gli stessi ufficiali sopra indicati, i quali alloggiavano, come le lance della guardia, in un
palazzo del borgo di Chiaia. Nel governo di queste nove compagnie il duca di Mont'Alto era
coadiuvato da una prima piana comprendente un tenente generale, due aiutanti e un ferraro
maggiore.
Per quanto riguarda la suddetta cavalleria tradizionale, c'è da aggiungere ancora alle precedenti
una compagnia di cavalli leggieri detta una volta nel Cinquecento degli estradioti, degli espressi
o talvolta dei crovatti (‘croati’), ora vulgo invece degli stratigoti o straticoti o della straticota o
anche dei soldati di tracolla, evidentemente perché, combattendo anche a piedi, usavano
portare la spada appunto sostenuta da una tracolla, come facevano i fanti. Questi uomini si
arruolavano tra le popolazioni profughe macedoni di lingua greca, ma in certa misura anche
albanesi e croate, venute a stabilirsi nel Regno di Napoli dai tempi dello Skanderbeg, a causa
delle persecuzioni turche, e qui vulgo dette, proprio per questa loro propensione al mestiere
delle armi, stratigoti – vedi per esempio il paese S. Agata dei Goti (dim. di stratigoti) nel
Beneventano. Tale compagnia era ora comandata dal principe di Schinzano, ma non serviva in
pianta stabile ed era pagata solo se e quando richiamata in servizio; un ordine reale l'aveva
recentemente ridotta da 300 a 125 soldati più ufficiali. Questa cavalleria leggera balcanica, i cui
soldati combattevano appunto a piedi o montati come gli archibugieri a cavallo o dragoni e
come questi serviva principalmente alle scorrerie in territorio ostile, a occupare posti e passi, a
riconoscere e molestare i quartieri, gli schieramenti e le ritirate del nemico e a inseguirlo quando
era in fuga, era molto apprezzata in tutt'Europa e se ne servivano molti regni e stati, soprattutto
la Signoria di Venezia per ovvi motivi politico-geografici, tanto che, anche in un momento storico
in cui la cavalleria leggera era caduta in disgrazia nell’esercito imperiale ed era stata pressoché
bandita dai campi di battaglia dal Wallenstein per averle egli attribuita gran parte della colpa
196
della grave sconfitta che il 16 novembre 1632 patì a Lützen per opera dell’esercito svedese, ciò
non ostante che questo stesso generale continuava a servirsi sia dei crovatti sia degli ungheri
(‘ussari ungheresi’’), insostituibili sia nella formazione di partite di corritori (‘scorridori’) da inviare
dietro le linee nemiche sia nel ruolo d’inseguitori del nemico in fuga dal campo di battaglia;
queste partite (fr. partis; sp. tropas, ‘truppe’; dal l. turba; gra. τύρβη), nome che ha conservato
un senso militare nell’inglese parties, erano formate in genere da una quindicina di soldati
montati o, ma meno frequentemente, da una ventina di fanti, e s’inviavano nel paese ostile
perché, vivendo di saccheggi , scoprissero movimenti militari e fortificazioni e prendessero
lingua del nemico, ossia facessero dei prigionieri da costringere a parlare. In Francia gli ufficiali
comandanti queste partite si chiamavano partisans, da cui il nostro partigiani - non quindi da
‘parte’ nel senso di fazione politica, come oggi si crede, e dovevano essere uomini molto esperti
di questo genere di lavoro; all’inizio del Settecento il miglior partisan francese era ritenuto un
certo monsieur de la Croix, il cui figlio, chevalier de la Croix, comandante di due compagnie
franche, sarà poi anch’egli ritenuto un ottimo partigiano (de la Chesnaye des Bois); in realtà
però l’originaria parola greca non era per nulla lusinghiera, come leggiamo in Suida
[Βαρδίσαινος: ὀ τὰς γυναῖϰας βιαζόμενος (Βardisaino: colui che viola le donne). Suida, Lexicon,
graece et latine. Tomo I, p. 416. Halle e Brunswick, 1705].
La guardia del viceré, oltre alla predetta compagnia di lance, comprendeva, come abbiamo già
accennato, una compagnia di fanti alabardieri detta guardia alemanna e che era costituita da 72
svizzeri di lingua tedesca comandati da un gentiluomo italiano e vestiti in una foggia detta
appunto all'alemanna; gli ufficiali di tale compagnia erano capitano, tenente, preposto (seu
profosso), tre caporali, cappellano, tamburo, piffero, apposentatore maggiore (seu maresciallo
d'alloggio). Questi alabardieri alloggiavano in varie case non lontane dalla reggia e ogni volta
che arrivava a Napoli un nuovo viceré avevano diritto a un nuovo vestiario, godendone anche
altri personaggi che a detta compagnia erano amministrativamente aggregati e cioè il Re
dell'Armi (seu araldo reale), i sei trombetti di corte, l'orologiaio di corte e il portiero dei continui o
familiari di palazzo, detto anche Quintino, personaggio dalle ignote incombenze collegate
evidentemente alla presenza dei continui; erano questi ultimi, a cui abbiamo più sopra già
accennato, 100 gentiluomini che, come abbiamo già ricordato, fungevano da guardie del corpo
del viceré e che dovevano il loro nome dal dover essergli continuamente al fianco, anche se
non sappiamo con quale turno si alternassero in questo compito; costoro, i quali una volta erano
andati armati di balestra, saranno però presto, cioè con real ordine del 4 novembre 1681, ridotti
a 50. Il capo di detti continui era chiamato Il Guidone, in considerazione che portava appunto lo

197
stendardo del viceré quando questi assumeva il suo ruolo bellico di capitano generale
dell'esercito del regno.
Ogni anno, come abbiamo già detto, si arruolava poi fanteria ordinaria regnicola, la quale era
però unicamente destinata a essere mandata a servire all'estero o a integrare le guarnigioni
spagnole dei Presidi di Toscana. A proposito di queste leve di fanti regnicoli così si legge nella
suddetta relazione:

La leva di fantaria Napolitana, o sia italiana, si regola da’ signori viceré secondo li bisogni che
tengono d'essa e conforme l'ordini che se li danno da Sua Maestà, (il) che siegue quando più e
quando meno: però sempre se va levantando in esta città e per il regno e li soldati levantati e
che si vanno levantando si soccorreno a un carlino per ciascuno il giorno e si tengono dentro
del regio arsenale; e, quando bisogna mandarli dove ricerca il bisogno della real corona, se ne
formano le compagnie e terzi e il medesimo pie’ come d'infanteria spagnuola, però senza li
gratis né le vantagge...

Per inciso, un carlino era un quinto del ducato di Napoli e valeva 20 grana, essendo questi ultimi
quindi i centesimi del ducato; insomma equivaleva a quella moneta che più tardi in Italia sarà
chiamata il ventino. Era una moneta molto corrente e usata e con essa si misurava
generalmente la vita economica giornaliera della gente comune, ma nei conti ufficiali, come
frazioni di ducato, si usavano quasi sempre invece i reali, essendo un reale un decimo del
ducato così come anche dello scudo di Spagna o ducato castigliano; quest’ultimo però valeva
circa il 10% di più del ducato di Napoli e infatti nel 1671 si cambiava a 11 reali di Napoli e non a
10 e il reale castigliano valeva grana di Napoli 11¼. Questa struttura monetaria decimale era
stata introdotta circa un secolo prima per decadizzare compiutamente quella preesistente
medievale aragonese, la quale era stata usata anche nel regno di Sicilia e consisteva in once
da 30 tarí e ogni tarí 20 grana, cioè era in parte dodecadica e in parte decadica; ma allora, cioè
nel Cinquecento, era stata più complessa, perché evidentemente con più tipi di moneta a
disposizione, e cioè la seguente:

1 scudo = 10 carlini.
1 patacca = 5 carlini
1 carlino = 40 quattrini.
1 zecchino = 10 quattrini.
1 tornese = 3 quattrini.
1 cavallo = mezzo quattrino.
1 scudo di Spagna o di Francia = 13 carlini.
1 denaro o obolo di Francia = 1 quattrino.

198
Lo stato maggiore della fanteria del regno comprendeva un mastro di campo generale, figura
questa che era per importanza subito dopo il capitano generale, cioè dopo il viceré, il quale
ereditava questo titolo dal Gran Capitano Gonzalo Fernández de Cordoba, e quindi in effetti,
oltre a comandare la fanteria italiana, comandava tutto l'esercito eccezion fatta per il terzo fisso
degli spagnoli che non poteva prendere ordini da un italiano che non fosse perlomeno grande di
Spagna; comprendeva inoltre tre tenenti di mastro di campo generale, di cui uno
soprannumerario e tra i quali alla fine del 1681 uno risultava essere lo spagnolo Pedro de
Acuña, e quattro aiutanti di detti tenenti, di cui due soprannumerari. Generalmente si faceva in
modo che i predetti alti ufficiali fossero per metà italiani e per il resto spagnoli.
Molto interessante è la complessa pianta del treno dell'artiglieria, il cui generale era allora fra’
Titta Brancaccio, ma godeva dello stesso titolo, anche se senza comando, un altro Brancaccio
anch'egli cavaliere di Malta e cioè Gioseppe, il cui grado di parentela con il precedente non
conosciamo; godeva poi soldo un terzo generale, ma questo ad honorem. Seguono poi due
tenenti generali, un capitano dei cavalli, un capitano della scuola d'artiglieria, due gentiluomini,
un capomastro di casse e ruote (ossia un marangone d'affusti), due armaroli, due aiutanti
d'armarolo, un capitano dei petardi e trabucchi seu mortari, un mastro della scuola d'artiglieria,
11 artiglieri e una compagnia di 150 scolari d'artiglieria, i quali ultimi non godevano soldo, ma
subentravano ai predetti artiglieri non appena le piazze (ossia i posti) di costoro si andassero
liberando e allora si trasferivano dove il regio servizio richiedesse. Aggregati al treno d'artiglieria
c'erano poi un tenente di mastro di campo generale - in modo che il mastro di campo generale
potesse esercitare su tale treno un certo controllo - e infine, per mercé concessa dal re, un
aiutante del mastro di campo del Castel Nuovo con il soldo di tre scudi il mese; era quest'ultimo
evidentemente uno dei tanti ufficiali a cui era concesso nell'anzianità un vitalizio sotto forma di
soldo regolare a carico di un corpo dell'esercito o di un presidio e, d'altra parte, tramite costui
anche il mastro di campo che comandava il predetto castello, il quale includeva la Regia
Monizione e la fonderia dell'artiglieria, poteva in tal modo avere un suo osservatore nel treno
dell'artiglieria. Ai due fonditori della Regia Fondizione dell'Artiglieria si fornivano gratis
solamente il metallo - con un’ammissione del 12% di sfrido - e le vecchie antenne di galera che
essi usavano come fusi per le forme dei cannoni, restando a loro carico tutti gli altri materiali
occorrenti alla fondizione, come creta, legna, carboni, cimatura, manifattura degli stigli, ecc.; alla
fondizione si appaiava la fabbrica di casse e ruote per artiglieria, cioè degli affusti.
La cavalleria territoriale detta della Sacchetta era ora formata da 3.500 carabinieri (in realtà
moschettonieri) a cavallo suddivisi in varie compagnie, i cui ufficiali erano per ognuna capitano,

199
tenente, alfiere e trombetta; la fanteria territoriale detta del Battaglione contava invece ora
17.000 fanti armati all'antica d’archibugi, moschetti e picche ed erano suddivisi in compagnie i
cui ufficiali erano, per ognuna d'esse, capitano, alfiere, sargente e altri minori.
La squadra di mare consisteva in quel tempo in otto galere sulle quali, oltre alla marinaresca e
ai remiganti, erano imbarcate tradizionalmente compagnie del terzo fisso spagnolo in funzione
di fanteria di marina; le dette galere portavano i seguenti nomi:

Capitana.
Patrona (‘vice-capitana’).
S. Gennaro.
S. Antonio.
S. Gioacchino.
S. Fernando.
S. Teresa.
S. Francesco d'Assisi.

Per quanto riguarda le caratteristiche tecniche, l'armamento e l'equipaggio di queste galere,


cercheremo più avanti, se ne avremo il tempo, di farne cenno, ma si tratta di materia che
difficilmente si può compendiare in poche righe.
C'era ancora il personale dell'arsenale, della Regia Monizione in Castel Nuovo e della Regia
Generale Audienza dell'Esercito. Quest’ultima era il tribunale della giustizia militare, a cui erano
soggetti tutti i militari del regno, soldati o ufficiali, di terra o di mare che fossero; era presieduta
dall’Auditore Generale, anch’egli giudice togato, il quale per antica consuetudine teneva le
udienze a casa sua. Facevano unica eccezione i militari del terzo fisso degli spagnuoli, i quali,
per antico privilegio, avevano un loro particolare auditore, pur facendo costui parte della stessa
suddetta Regia Generale Audienza, e avevano inoltre, gli spagnoli residenti nel regno, anche un
carcere e un ospedale a loro riservati e detti ambedue di S. Giacomo, sebbene nel secolo
precedente i soldati spagnoli malati fossero potuti andare a curarsi anche nell’ospedale detto
della Vittoria, dove esercitavano medici salariati dallo stesso tercio. Anche della predetta
audienza facevano parte un avocato e un procuratore de’ poveri, istituzione benefica questa per
la difesa di ufficio dei poveri soldati che non potevano permettersene una a pagamento e che
esisterà a Napoli sin quasi ai nostri giorni, a spese ora del Ministero della Difesa, ma estesa
anche ai poveri civili con il nuovo nome di avvocato dell’Albergo dei poveri; c’erano ancora un
secretario, un chirurgo maggiore, il quale doveva fare evidentemente anche da medico legale, e
poi ancora un carceriero, due algozini (‘questurini’) e infine un capitano di campagna (profosso

200
maggiore) del predetto auditore del terzo con i suoi otto soldati, insomma la polizia militare del
tempo.
Le forze militari del regno terminavano con i presidiari di castelli e fortezze e con i torrieri, a cui
ultimi si affiancavano nella sorveglianza costiera le sopra guardie delle marine, generalmente da
una a quattro uomini armati e montati per ogni provincia. C'erano infine i capitani d'artiglieria
provinciali e, nelle città più importanti, il capitano a guerra, ossia l’autorità militare del luogo.
A febbraio un terzo di fanteria napoletana si trovava a Finale sotto un mastro di campo di casa
Caracciolo e non poteva trattarsi che dei 608 soldati che aveva levato ultimamente in regno,
anche in questo caso con il contributo reale di cinque ducati a uomo, il mastro di campo Gioan
Battista Caracciolo per reclutare il suo terzo, allora l’unico napoletano che serviva nell'esercito di
Milano, in considerazione che quello che stava invece contemporaneamente levando il suo
suddetto congiunto marchese di Torrecuso non era ancora compiuto; ricevé il Caracciolo anche
un abbuono corrispondente al valore di 44 vestiti di monizione di una partita di 52 che aveva
ricevuto e il prezzo d’ogni vestito da fante risultò essere ducati 6. 1. -. Da una dettagliata
relazione sull'esercito dell'Alta Italia datata 3 settembre 1681 risulta che il suddetto terzo era
allora costituito da 15 compagnie per un totale complessivo di 1.427 uomini tra soldati, ufficiali
minori, ufficiali di prima piana, ossia maggiori, e ufficiali riformati aggregati al terzo. Si usava
allora infatti accollare alla cassa di un reggimento o d'altro corpo il peso degli emolumenti - o
almeno del pane di monizione - che si concedevano a ufficiali riformati, anche se provenienti da
altri corpi, e ciò finché questi non fossero impiegati nuovamente in servizio effettivo.
Corrieri giunti alla fine di marzo portarono la notizia che il napoletano Tomaso Brunetti era stato
fatto mastro di campo generale dello Stato di Milano; il 22 aprile si seppe invece che il viceré
aveva ordinato al capitano di fanteria spagnola Andrea de Verdeguez di portarsi con la sua
compagnia di 130 uomini a Vieste per vigilare su quelle marine e allo stesso scopo, ossia a
causa dell’allora concreta minaccia di sbarchi dei corsari turco-barbareschi, altre compagnie sia
di fanteria spagnola sia di cavalleria furono poi inviate sulle coste pugliesi nel maggio. Frattanto
nello stesso aprile era stato nel Milanese riformato il terzo napoletano del già nominato
marchese di Montepagano, il quale l'aveva là condotto tempo addietro direttamente dal regno.
Il mercoledì 3 giugno arrivarono in rada 7 vascelli francesi che inviarono una lancia a terra a
chiedere pratica, ma poiché la risposta tartava, per rivalsa s’ingolfarono, cioè presero il largo e
catturarono due tartane napoletane, una di Gaeta carica di legnami, proveniente da
Castellammare e diretta a Palermo, il cui equipaggio si salvò a terra, e un’altra della Costa, cioè
della costiera amalfitana, catturata questa invece con tutta la sua gente:

201
… All’arrivo del signor viceré, essendo stato ragguagliato del successo, ha fatto carcerare il
deputato della Sanità perché non accelerò la prattica alla sudetta lancia; e pare che abbia fatto
intendere alli francesi che, quando non restituiscano le nostre tartane, Sua Eccellenza ne farà
sequestrare altre due di lor nazione che sono in questo porto o piglierà altre resoluzioni (V.
Auria, cit. Vol. VI, p. 183).

Il predetto nuovo terzo del marchese di Torrecuso, il quale era alloggiato a S. Maria di Capua
(oggi S. Maria Capua Vetere), fu trasferito a Napoli alla fine di giugno e poi lunedì 7 luglio fu
vestito a nuovo, l’8 fu armato, sabato 12 squadronato nel borgo di Chiaia e passato in rassegna
al cospetto del viceré:

Detto terzo è ‘sì numeroso di 2.000 huomini, tutta bella gente, bene all’ordine e assai atta
all’armi, per essere stata in continuo essercizio militare.

Anche il nunzio apostolico di Napoli, in suo dispaccio a Roma del primo luglio, aveva definito
questi soldati di nuova leva gente assai buona. In effetti il Caracciolo aveva arruolato solo 1.186
soldati, leva per cui aveva anche ricevuto, come da capitolazione, il contributo di uso della
Cassa Militare, cioè cinque ducati a coscritto, come si leggerà in una registrazione di cassa
militare dell'anno seguente (A.S.N. Tes. Ant. Fs. 352); il resto dei fanti dovevano quindi essere
quelli raccolti invece dal sargente maggiore dell'arsenale Diego San Martín, il quale infatti, oltre
a ricevere capitolazione per il reclutamento di otto compagnie di cavalli corazze dismontati da
inviare nello Stato di Milano, anche in questo caso a cinque ducati l’uno, aveva ricevuto patente
dal viceré di levare pure mille fanti, ma non perché se ne servisse per formarne un suo un
nuovo corpo autonomo (ib.) Il partito del vestiario per questo tercio, cioè di 2mila vestiti
all'italiana, era stato stipulato il 22 aprile di questo 1681 con il partitario Domenico Testa.
Passato dunque in rivista, il terzo del Torrecuso fu nello stesso giorno immediatamente
imbarcato su quattro vascelli genovesi arrivati nel corso del mese precedente, uno di cui si
chiamava Arca di Noè, e un petacchio, con l'accompagnamento di due tartane, una carica di
provvisioni e l’altra dei cavalli del Torrecuso, infine la sera di martedì 15 luglio partì verso la
Catalogna. I predetti vascelli giungeranno a Barcellona dopo 19 giorni di viaggio e con la perdita
di soli cinque uomini, il che costituiva un vero optimum di sopravvivenza per i trasporti marittimi
militari di quei tempi.
A proposito dell’arroganza degli alabardieri svizzeri della guardia del viceré di cui abbiamo detto
nella nostra introduzione, ecco un episodio del settembre (o forse del dicembre) di questo 1681
riportato dal Confuorto nei suoi Giornali:
202
A’ 17 detto (‘settembre’), mercordì, è stato ucciso al ponte della Maddalena con archibugiata un
tedesco della guardia di Sua Eccellenza da uno sbirro o soldato della paranza (‘squadra,
schiera’), per causa che il tedesco, volendo entrare certa farina senza pagare la gabella e li
sbirri facendoli forza che tornasse indietro a pagarla, il tedesco non solo non volse ciò fare, ma
con imperio diede con l’asta dell’alabarda una bastonata a uno di quei sbirri, del che un altro
(g)li tirò un’archibuggiata e l’ammazzò; dal qual omicidio tutti quei della paranza fuggirono via.

Qui s’intende la squadra dei birri della farina, ossia quelli preposti alla dogana dove si doveva
appunto pagare il dazio per l’introduzione di detta derrata. Un avviso da Genova del 10 ottobre
segnalava l’arrivo a Finale di una nave napoletana carica di provvisioni da guerra destinate allo
Stato di Milano. A seguito di un perentorio ordine reale del 4 novembre si dimezzarono le piazze
dei continui e pertanto si ridussero a 50, di cui dieci sarebbero stati pagati dal viceré e 40
direttamente dal re, potendo così il sovrano esercitare loro tramite un controllo diretto e continuo
sulla stessa vita privata del viceré. Questo ridimensionamento era stato ordinato più volte nel
passato dalla Corte di Madrid, ma tale disposizione non era mai stata osservata da quella di
Napoli, la quale evidentemente intascava da sempre i lauti stipendi delle tante piazze di quella
compagnia esistenti solo sulla carta; per esempio l’ordine in questione era stato dato già il 31
ottobre 1619 e poi più volte ribadito in data 9 maggio 1628, 7 aprile e 13 giugno 1629, 21
agosto 1637, ma sempre disatteso. Ora finalmente Napoli ubbidiva, ma le ruberie, pur
ridimensionate, sembra proprio che continuassero; certo è che l’anno seguente dagli esiti di
cassa militare apparirà che in realtà allora si pagava lo stipendio a soli 25 continui - a ducati 186
l’anno ciascuno, dieci dei quali però sempre a carico del viceré (A.S.N. Tes. Ant. Fs. 352).
Verso la metà di novembre morì un capitano di cavalli corazze e alla capitania della sua
compagnia fu promosso un capitano di fanteria; negli stessi giorni tornò dalla sua visita ispettiva
ai Presidi di Toscana il generale dell’artiglieria Giovann’Antonio Simonetta Pons de León
marchese di S. Crispiero, detto il Santa Cristina, pur essendo a Orbitello un assistente
dell’artiglieria fisso con uno stipendio di 138 scudi castigliani al mese (A.S.N. Tes. Ant. Fs. 352).
Per quanto riguarda i napoletani impegnati in Fiandra in questo periodo, c’è da ricordare che
con patente dell'8 dicembre di questo stesso 1681 il governatore Alessandro Farnese, principe
di Parma, nominò il napoletano Francesco di Gennaro, figlio di un fratello del già nominato
Marc'Antonio, mastro di campo del terzo italiano di Fabio Buonamico, essendo questi infatti
stato frattanto promosso governatore della città di Ruhrmunde. In seguito, divenuto governatore
dei Paesi Bassi il marchese di Grana, Francesco di Gennaro sarà da costui mal visto e alla fine
riformato; egli si recherà pertanto a Madrid per esporre le sue rimostranze e il re gli ripristinerà il

203
soldo di mastro di campo nell'attesa che tale incarico vacasse in un terzo italiano per poterglielo
così effettivamente assegnare di nuovo; e forse fu in questi frangenti che i di Gennaro furono
accontentati anche con il titolo di conti di Nicotera. Nel frattempo (siamo ora nel 1684) egli si
unirà al suo ex-mastro di campo Domenico Pignatelli dei duchi di Bellosguardo, marchese di S.
Vincenzo, e resterà in quel principato per più di sei anni; farà poi ritorno a Napoli nell'attesa di
essere impiegato di nuovo in azioni di guerra.
Le leve a carico del Regno di Napoli in questo periodo furono però, a quanto sembra, più
numerose di quelle sinora descritte; ci sono infatti altre registrazioni di cassa militare del 1682
che testimoniano di una leva di soldati nazionali, ossia italiani, ma non napoletani, che fu
affidata al mastro di campo napoletano Vincenziello Gentile, il quale arruolò infatti 612 fanti in
Corsica, in Sardegna e a Piombino; ci fu infine un contributo di capitolazione pagato allo
spagnolo Pedro de Cardenas per una leva di due compagnie di cavalli corazze fatta dal suo
defunto genero colonnello Manuel de Castro. Non bisogna infatti dimenticare che in quest'anno
la Francia aveva ripreso le ostilità occupando Casale e Strasburgo e dando inizio all'assedio di
Lussemburgo.

1682. All'inizio di gennaio si sparse la voce che c'era ordine reale per una nuova leva di fanteria
napoletana, eventualmente anche impiegando a tal scopo i miliziani del Battaglione fino a un
massimo del 5% della sua forza totale, e giovedì 12 febbraio si dette difatti ufficialmente il via a
tale reclutamento, mentre nello stesso giorno passava a miglior vita il mastro di campo del terzo
fisso spagnolo. Martedì 3 marzo si trovava di passaggio a Napoli il conte di Louvigny,
governatore dell'armi di Messina, il quale era diretto a Milano dove andava ad assumere il ben
più prestigioso incarico di mastro di campo generale di quello stato, impiego che evidentemente
il sunnominato Brunetti aveva ricevuto solo pro interim.
Nello stesso predetto marzo il sargente maggiore Diego San Martín fu di nuovo incaricato dal
viceré marchese di los Vélez d'interessarsi dell'arruolamento; si trattava adesso di levare nel
regno, a spese dei baroni, otto compagnie di cavalleria non montata, di cui cinque di 63 soldati
e tre di 62, più 48 ufficiali tra bassi e alti; il viceré ne nomino i primi sei capitani, cioè cinque
regnicoli parenti stretti di titolati di prima sfera, qualifica di origine militare che significava ‘di
prima schiera’ (dall’antico gr. σπεῖρα, ‘coorte’) e uno spagnolo, già attorno al 20 marzo. Queste
compagnie saranno l'anno successivo spedite con molta urgenza nello Stato di Milano; nel
conto del vestiario di queste truppe alla data 13 luglio 1683 infatti si scriverà:

204
... qualli vestite a 9 di febraio di questo anno Sua Eccellenza (il viceré) per la freta che ebbe da
imbarcare la cavalleria smontata ordinò al detto partitario dovesse adirittura consegnare li detti
vestiti alli capitani.

La prassi difatti voleva che i vestiti per i soldati fossero consegnati alla Regia Monizione in
Castel Nuovo, dove erano confrontati al modello colà esistente da esperti della corporazione dei
cocitori; solo quando costoro avevano emesso una fede (attestazione) in cui si dichiaravano i
detti abiti esser di tipo e qualità conformi alla mostra (modello), allora si poteva esitarli dalla
monizione e distribuirli alle soldatesche. Questa cavalleria era smontata, ossia era spedita via
mare priva di cavalcature e ciò perché nelle galere non c'era posto per i cavalli e in ogni caso
pochi erano i legni allora disponibili che si potevano adibire a tale trasporto; i soldati sarebbero
stati montati in Lombardia e con ogni probabilità a spese della cassa militare napoletana. Nello
Stato di Milano da tempo ormai remoto esisteva, come abbiamo già detto, un trozo fisso di
cavalleria napoletana, il quale per esempio alla muestra del 20 gennaio 1686 risulterà contare
35 ufficiali e 337 soldati e, a quella del 20 marzo 1690, 25 e 330, numero quest’ultimo poi
sostanzialmente confermato nella rivista dell’ottobre dello stesso anno e che salirà invece a 475
in totale al 28 novembre 1693 e ancora a 494 su nove compagnie con la muestra del 13 ottobre
1694. Il 30 aprile 1691 otto compagnie delle dieci che formavano il trozo saranno di stanza a
Candia Lomellina (A.G.S. Papeles de Estado Milán).
Contravvenendo per una volta alla nostra regola di non fare, per brevità, anche i nomi degli
ufficiali di compagnia, ci piace invece ora ricordare gli otto capitani delle suddette compagnie di
cavalleria, così come si rinvengono nel detto conto del loro vestiario, e si tratta in massima
parte, come si può vedere, d'ottimi cognomi napoletani:

Gioseppe Buscamarino.
Geronimo Pimentel.
Diego Valcarcel y Molina.
Gioan Battista (Titta) Brancaccio.
Antero de’ Medici.
Ciarletta Caracciolo.
Giacomo Filomarino.
Antonio Pappacoda dei principi di Trigiano (oggi ‘Triggiano’).

Nel Milanese il Caracciolo e il Brancaccio faranno una non veloce carriera; il primo diventerà,
come vedremo, mastro di campo e il secondo colonnello, nomina che gli sarà conferita da
Filippo V nel novembre del 1702 con soldo da pagarsi però nella città di Napoli; il Pappacoda,
come presto vedremo, diventerà anch’egli mastro di campo, ma morirà d’infermità appena nel
205
1993. Queste otto compagnie, passate in rassegna nel Milanese nel giugno del 1684, avranno
gli stessi capitani originari, salvo quella d'Antero de’ Medici che sarà invece allora capitanata da
Diego Velasquez; le stesse comunque non saranno però sorprendentemente provviste di
cavalcature se non circa due anni dopo e saranno quindi a lungo utilizzate appiedate; così infatti
fa capire un avviso bolognese che riporta una corrispondenza da Milano del 10 gennaio 1685:

Milano. (om.) resta risoluto di montare quelle milizie che già due anni furono qui da Napoli, che
saranno circa 800 uomini...

Prevedendosi di mandare nel prossimo futuro numerose soldatesche di nuova leva in


Lombardia, fu fatto ad aprile partito (‘appalto’) per la fornitura di ulteriori 4mila vestiti militari; il
viceré aveva inoltre già fatto altro partito per l’invio a Milano di 170mila ducati da impiegarsi per
spese militari e si diceva ne avesse poi fatto anche un terzo per altri 30mila da pagarsi colà ogni
mese per le esigenze correnti; se dunque Milano, a causa della sua posizione geografica, era
quella che sosteneva l’urto materiale e gli aspetti più tragici dei conflitti europei a cui la Spagna
partecipava, per quanto riguarda il carico finanziario degli stessi Napoli non le era certo da
meno. Sembra poi che in questo periodo siano state reclutate anche cinque compagnie di
corazze montate per un totale di 26 ufficiali, 405 soldati e 376 cavalli, cifre che risultano da un
non chiaro documento d'archivio, ma bisogna dire che in effetti il numero di soldati riportato
risulta eccessivo per sole cinque compagnie; una di queste sarebbe stata formata da Juan
Cruzit y Varcarzel. Dovrebbe trattarsi di altre compagnie di quella cavalleria detta di nuova leva
di cui abbiamo già detto e in tal caso dovevano essercene state sino a questo momento solo
due, perché da un ordine reale del 1° ottobre di quest’anno apparranno essere sette in totale e
con uno stato maggiore capeggiato da un tenente generale.
Verso la fine di aprile fu varata a Napoli la nuova galera destinata per Patrona, ossia per vice-
Capitana della squadra del regno; un interessante documento della cassa militare (A.S.N. Tes.
An. Fs. 143 I) ci fa poi sapere di una consegna d'armi fatta il 15 maggio alla Regia Monizione, in
osservanza di un contratto stipulato con lo stesso viceré dal fornitore Geronimo Angelini circa
un anno e mezzo prima, cioè il 7 dicembre 1680; ecco quanto fu fornito in quell'occasione e i
relativi prezzi:

260 para di pistole a ducati 5 il paro.


360 carabine a ducati 4 l'una.
600 moschetti guarniti a ducati 3 l'uno.
230 archibugi guarniti a ducati 2 l'uno.
206
Si trattava d’armi da inviare a Milano in previsione di una prossima guerra e c'è qui da notare,
oltre al gran tempo trascorso tra ordine e consegna, l'uso che ancora si faceva nel Regno di
Napoli e in quello di Sicilia di moschetti, archibugi e carabine tradizionali, mentre nel resto
d'Europa si usava, già da tempo, il moschetto leggiero di cui abbiamo più sopra detto e, da
poco, il moschettone da focile e grillo invece della carabina da ruota; aggiungeremo infine che
per moschetti e archibugi guarniti s’intende corredati di fiasco per la polvere, di fiaschino per il
polverino d'innesco e talvolta anche di borsetta per le palle.
Nel maggio il di Los Vélez si recò in viaggio in Puglia, evidentemente a scopo di animare le
difese predisposte in quelle coste contro non improbabili altri attacchi turcheschi ed era
accompagnato dal capitano della sua guardia, cioè dal principe di Cellamare di casa del
Giudice, dall’auditore generale dell’esercito e da altri alti ufficiali militari. La mattina di lunedì
primo giugno furono passati in rivista e subito rinchiusi nell'arsenale 450 fanti di nuova leva che
erano stati raccolti nei modi consueti; nella notte tra lunedì 27 e martedì 28 luglio costoro furono
imbarcati insieme con 400 spagnoli su le otto galere napoletane e su tre del duca di Tursi; gli
spagnoli erano, come sembra, destinati di guarnigione alle stesse otto galere napoletane.
Questo convoglio avrebbe dapprima sostato ai Presidi di Toscana, poi avrebbe, come si diceva,
portato i predetti fanti regnicoli a Finale perché di là fossero infine avviati all'esercito di
Lombardia, esercito di cui si era in tal mentre tenuta una mostra generale a Milano il 6 giugno e,
dalla relazione della stessa, risulta allora esservi impiegato il terzo napoletano del mastro di
campo Gioan Battista Caracciolo, terzo che disponeva di 15 compagnie, di cui due di
guarnigione a Finale Ligure, per un totale di 1.300/1.380 uomini tra ufficiali e soldati.
Nel settembre si seppe che il mese precedente un’armata francese comandata dall’ammiraglio
du Quesne aveva pesantemente bombardato Algeri con un nuovo tipo di galeotte armato di
mortari da bombe, come abbiamo già più sopra ricordato, e quella sino allora impunitissima città
pirata si era salvata da una completa distruzione solo perché una sopraggiunta burrasca aveva
costretto il du Quesne a ritirarsi; ma i francesi si ripeteranno nell’estate dell’anno successivo
provocando alla città barbaresca distruzioni ancora più grandi.
Era in quel tempo capitano generale della cavalleria dello Stato di Milano un napoletano,
Gioseppe Dazza, a cui, nella sua qualità di generale, spettava anche il capitanato di una
compagnia e la sua, non costituita da napoletani, contava sette ufficiali e 153 soldati tutti
montati; il Dazza resterà capitano generale per lungo tempo e cioè sino al 1694, sebbene già
dal 1693 sarà definito con nuovo titolo generale della cavalleria leggiera, specialità questa per la

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quale è necessario dare qualche chiarimento perché, come tutte le parole, definizioni e concetti
che nel corso dei secoli hanno perso il loro significato originario, è causa d’infinite discussioni
interpretative, anche se non è questo il luogo per trattare dell'evoluzione precedente della
cavalleria europea, processo che dal Quattrocento al Settecento fu difatti piuttosto complesso.
Basti sapere che l’uso dell’aggettivo leggiero in cavalleria nacque in riferimento al tipo di
armamento difensivo; quindi in ogni epoca si definì cavalleria leggiera quella che portava
armamento difensivo appunto molto più leggero di quello usato dalla cavalleria detta ‘pesante’,
in quanto difesa invece da spesse armature a prova d’arma da fuoco, o che addirittura non ne
portava affatto e ciò indipendentemente e dal tipo d'armi offensive in sua dotazione e dai suoi
ruoli operativi; erano dunque cavalleria leggiera tutte le cavallerie europee a eccezione dei
lancieri detti huomini d’arme e dei pistolieri detti prima raitri, poi cavalli corazze e infine
corazzieri. Questo semplice concetto si incominciò a perdere verso la fine del Seicento, quando
cioè un’altra innovazione francese si affermò in tutt’Europa, anche se con una minor influenza
nella parte soggetta a Vienna; i transalpini infatti avevano, già dal quinquennio 1665-1670,
sostituito pressocché tutta la loro cavalleria da battaglia, fatta anche da loro di corazzieri, con
cavalleggeri privi di qualsiasi armamento difensivo metallico, armamento ormai privo d’utilità,
non dividendosi dunque più le loro truppe montate ordinarie (quindi guardia reale a parte) in
corazzieri e dragoni bensì in cavalleggeri e dragoni e ciò finché Napoleone non farà tornare in
auge i detti corazzieri. Infatti il comandante della cavalleria si chiamava ora colonel general de
la cavalerie legere, il suo secondo mestre-de-camp general e il suo terzo commissaire general
de la cavalerie legere.
Il nuovo cavalleggero - francese prima, ma poi generalmente europeo - vestiva in guerra il colet
de bufle di cui abbiamo già ampiamente detto:

Il n’y a pas un cavalier dans les trouppes de France qui n’ait un habillement de bufle, depuis
que l’on s’est deffait de ceux de fer; et c’est de-là qu’est venue le nom de ‘chevaux legers’… (de
Gaya)

In realtà il nome non era affatto nuovo, come sappiamo. L’abbigliamento difensivo restava però
usato dagli ufficiali maggiori e generali. Su questo indumento si portarono dapprima una tracolla
(fr. baudrier) porta-spada e, a bandoliera, un porta-moschettone e porta-giberna, anch’esse di
pelle di bufalo, ma poi, non ostante che questi cuoiami avessero anche una funzione difensiva
del petto, la prima fu abbandonata per il più pratico cinturone di bufalo - il che in Francia fu
ordinato nel 1684 (Manesson Mallet); a questo si appendeva sulla sinistra la spada o sciabola e

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sulla destra la giberna contenente sia le cartucce per il moschettone sia quelle per le pistole. Si
trattava di rotolini di carta reale (‘carta forte’) dello stesso calibro dell’arma a cui erano destinate
e contenenti sia la dose di polvere sia in cima la palla; il soldato ne rompeva la base inferiore
con i denti e ne faceva scorrere il contenuto – quindi prima la polvere e poi la palla - nella canna
dell’arma, utilizzando infine anche la carta come stoppaccio. Infine, a titolo sia difensivo che
sanitario, il cavalleggero aveva alti stivali con speroni e ginocchiere. L’armamento offensivo
consisteva invece appunto principalmente in un moschettone, arma a fucile, anche questo
termine francese con senso diminutivo ( e non accrescitivo!) di mousquet, in considerazione che
era arma un po’ più corta di quella di fanteria; infatti mentre il moschetto, messo in piedi,
arrivava all’ascella del soldato, il moschettone gli arrivava appena sotto il cuore e bisogna anche
tener conto del fatto che generalmente i soldati di cavalleria leggera erano scelti tra i più piccoli,
perché non dovevano gravare troppo sugli animali, i quali non erano più i grossi corsieri che
avevano usato i vecchi lancieri pesanti; inoltre il cavalleggero aveva un paio di pistole da fonda
a pietra, cioè anch’essi da focile come il predetto moschettone, anticipando in questo la fanteria
che utilizzava ancora l’accensione a miccio, e una spada o sciabola, ma presto si opterà per la
seconda perché il contrasto ‘di punta’ alla cavalleria nemica, lo scontro fisico insomma, non era
compito dei cavalleggeri, bensì allora ancora dei corazzieri.
In ogni compagnia di cavalleggeri c’erano un paio di carabinieri, ossia di soldati più esperti, più
abili bersaglieri e di conseguenza meglio pagati, i quali, come abbiamo già detto, invece del
semplice moschettone avevano quello più potente a canna rigata e a caricamento pressato,
cioè pressandovi dentro la carica con un bacchetta di ferro, che quella normale di legno si
sarebbe in questa operazione facilmente spezzata; già normalmente si faceva un gran consumo
di bacchette di legno per l’uso delle armi a canna liscia, specie durante gli assedi, e quindi in
ogni piazza o esercito bisognava averne sempre un grosso numero di riserva. Ogni reggimento
era musicalmente guidato da un timballiere e ogni compagnia da trombettiere; in ogni
compagnia c’era un alfiere portatore di stendardo, cioè un vessillo quadrato da circa un piede e
mezzo di lato - quindi molto più piccolo della bandiera di fanteria - e che era perlopiù ricamato
delle armi personali del mestre de camp comandante il reggimento.
Non staremo però a descrivere anche l’equipaggiamento, l’armamento e i vessilli dei corpi
montati de la Maison Royal perché peculiari di quella nazione; comunque, al lettore che fosse
anche a ciò interessato consigliamo la lettura del trattato coevo di Louis de Gaya.
Un ordine reale del 1° ottobre ordinava l’estinzione della compagnia di lance della guardia del
viceré, trattandosi di soldati dall’armamento e dalla tattica ormai obsoleti, ma non estingueva

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l’imposta di 13.295 ducati annui che costava il suo mantenimento e che era a carico delle
università (‘comunita’) di Terra di Lavoro, pertanto detto importo sarebbe stato da ora in poi
introitato dalla Cassa Militare senza una specifica destinazione; ma tutto ciò non sarà eseguito
prima di circa otto anni dopo, cioè nel 1690, per i motivi che a suo tempo spiegheremo. In
effetti, dagli esiti di cassa militare di quest’anno sappiamo detta compagnia doveva essere
molto costosa perché in essa prendevano soldo senza obbligazione d’assistere al stendarde,
cioè senza obbligo di presenza, parecchi ufficiali aggiuntivi, 15 nel 1682 (A.S.N. Tes. Ant. Fs.
352).
Lo stesso ordine inoltre riduceva alla metà la fornitura di utensili alla cavalleria. Alla fine
d'ottobre il viceré dette a Cecco Caracciolo marchese di Grottola patente di mastro di campo di
un terzo di nuova leva che si stava completando e che, si diceva, sarebbe anch'esso stato
spedito a Milano. Di passaggio per Napoli e pure destinate in Lombardia, lunedì 9 novembre
ripartirono su 14 tartane facenti rotta per Procida le soldatesche del reggimento alemanno che
era rimasto in Sicilia sin dal tempo della guerra di Messina e che ora s’inviavano nello Stato di
Milano; nello stesso novembre si terminò la leva d’un nuovo terzo regnicolo, del quale era stato
fatto mastro di campo il già più volte menzionato Cecco Caracciolo marchese della Grottola, e di
otto compagnie di cavalleria smontata, tutta gente destinata anch’essa a essere inviata in
Lombardia; sembra che i primi 500 fanti del terzo del predetto marchese siano stati poi spediti
su un vascello inglese noleggiato allo scopo tra la fine di gennaio e l'inizio di febbraio dell'anno
seguente.
Martedì primo dicembre, in occasione della mostra che la cavalleria di guarnigione a Napoli
dava appunto ogni primo giorno del mese, si sentiva che si sarebbero riformati due dei capitani
delle sue compagnie e cioè Pietro Bondia ed Emanuele de Agira.

1683. Nell'ultima decade del gennaio il viceré pretese dai comandanti militari della guarnigione
di Napoli il ruolo aggiornato dei loro soldati effettivi, cioè depurato dalle cosiddette piazze morte,
ossia dalle pensioni date ad anziani non più abili o anche a vedove o figli di militari morti in
servizio. Nel marzo si andavano assoldando nuovamente fanterie regnicole e questa volta per
ripristinare le guarnizioni (‘guarnigioni’) delle galere del duca di Tursi e dei vascelli dell'armata
reale oceanica, fanterie di marina tradizionalmente napoletane, e inoltre per rinfoltire i ranghi del
terzo di Marino Carafa che operava in Catalogna; a tal scopo si facevano le mostre delle
compagnie del Battaglione, da cui evidentemente si aveva intenzione d’attingere per completare
la leva in questione. Nel maggio si rifornivano le galere napoletane di tutto il necessario

210
nell'eventualità di una spedizione in aiuto dei genovesi, i quali temevano a ragione un
improvviso attacco francese.
Nel corso di questo 1683 il viceré marchese di los Vélez lasciò Napoli e ne prese il posto
Gaspar de Haro y Guzman marchese del Carpio, il quale veniva da Roma dove sin dal 1677 era
stato ambasciatore di Spagna. Tra il maggio e il luglio partirono a più riprese per l'Abruzzo sei
compagnie di fanti spagnoli e parecchie squadre di campagna, in considerazione che quella
provincia risultava infestata da un migliaio di fuorusciti e briganti. Il maggior problema era
rappresentato soprattutto dalle due grandi bande dei famigerati capi-banditi Gioan Battista
Colaranieri e Santuccio di Froscia; questi banditi, forti dei tanti nascondigli che quella montuosa
regione offriva, protetti da personaggi potenti, erano tanti piccioli tiranni delle provincie e
costituivano una democrazia di gente perduta, una republica di scelerati (Filamondo). Questo
giudizio, in cui al nome di tiranni vengono curiosamente accomunate quelle di democrazia e di
repubblica, ci fa nascere il sospetto che questi banditi abruzzesi fossero perlopiù effettivamente
tali e non comuni briganti, ma forse anche gente animata da una qualche convinzione politica
antispagnola.
All'inizio di giugno s’incominciò a sentire di un ammutinamento a Port'Ercole:

8 giugno. Furno d'ordine di Sua Eccellenza (il viceré) fatte armare tre di queste galere sin da
mercordì della scorsa settimana con tre compagnie nuove di soldati tutti vestiti di color turchino,
nell’(abito medesimo cioè) de’ soldati di Nostra Santità (il Papa), e ben armati pigliarono la notte
seguente il viaggio verso Porto Ercole per rimettere in quella piazza il presidio a causa che quei
soldati, doppo aver maltrattati - anche con morte d’alcuni - quelli offiziali, abbandonarono la
piazza (A.S.V. Nun. Nap. 95).

E’ questo dispaccio nunziale la prima corrispondenza a noi nota in cui si comunichi che in
questo 1683 la fanteria napoletana era stata per la prima volta mente vestita di blu, così come
già lo erano i fanti pontifici, mentre fino allora detta fanteria era andata vestita d’abiti di color
grezzo o comunque di colori non uniformi. Avvisiamo inoltre il lettore che d'ora in avanti non
preciseremo più che, quando si parla di Sua Eccellenza, s’intende esclusivamente il viceré,
perché tale titolo onorifico era a Napoli - ma lo stesso avveniva a Milano - dovuto solamente a
lui e a nessun altro, così come Sua Santità è titolo ecclesiastico riservato unicamente al Papa;
quando infatti si voleva onorare un notabile diverso dal viceré, si usava il titolo di Sua Signoria,
eccezion fatta ovviamente per i cardinali (Sua Eminenza), per il re (Sua Maestà), per il doge di
Venezia (Sua Serenità) e per i principi e duchi, ossia per i personaggi di sangue reale, (Sua
Altezza).

211
Alla fine di giugno giunsero promozioni dalla corte di Madrid e si trattava della conferma della
carica di generale della milizia della Vecchia Castiglia al principe di Piombino, protettorato
questo del Regno di Napoli, e di conseguenza quella di generale della squadra di galere di
Napoli allo spagnolo Nicolás de Córdoba marchese de la Gransa.
All'inizio del mese seguente poi il viceré conferì al marchese Vitelli, ad usanza della Regina di
Svezia, un doppio comando e cioè sia quello della nuova galeazza fatta fare da Sua Eccellenza,
allestita di tutte le cose che gli bisognano e adornata di intagli indorati con le sue bandiere sia
quello della compagnia di fanteria che detto nuovo vascello guarniva; insomma cominciava,
appunto sull’esempio svedese, a configurarsi la marineria da guerra moderna, nella quale non
più c’era la distinzione tra comando del vascello e comando della sua guarnigione di fanteria di
marina, distinzione che aveva sempre provocato contrasti di comando. Che a Napoli si
costruissero ancora delle galeazze, dopo le famose quattro fatte un secolo prima per l'Invincible
Armada che aveva inutilmente tentato l'invasione dell'Inghilterra, non risulta né dalle altre
testimonianze né dai documenti d'archivio che ci è stato dato da consultare e, d'altra parte, non
ci risultano altri avvisi o dispacci in cui si accenni all'uso operativo di tale vascello, la cui
tipologia era in effetti a quest'epoca ancora apprezzata e adoperata solo dalla signoria di
Venezia.
Dichiarata dalla Spagna guerra alla Francia per opporsi alla sua politica annessionistica, nel
settembre giunsero a Napoli le galere e i velieri destinati a formare un’armata da tener pronta
per difendere Genova dalla temuta aggressione francese; si misero insieme dunque 27 galere e
22 velieri provenienti dalla Spagna e dalle altre province mediterranee soggette a quella corona
e le prime a giungere giovedì 2 furono cinque galere di Spagna e una di Genova che portavano
il predetto marchese de la Gransa, seguite dopo sei giorni da un’armata spagnola consistente in
16 velieri da guerra e tre brulotti da fuoco. Quest’armata salpò da Napoli una prima volta il 23
settembre, ma vi ritornò verso il 20 ottobre senza aver avuto modo d'incontrare il nemico; il
viceré ne fece sbarcare 600 fanti spagnoli, i quali dovevano servire alla formazione di un
secondo terzo fisso - questo però di milizie spagnole e napoletane insieme - di cui un ordine
reale imponeva la costituzione e che però avrà brevissima vita, cosa che non ci meraviglia dato
l'utopistico connubio sul quale doveva fondarsi. In quei giorni partirono insieme per la Spagna il
vecchio principe di Montesarchio, il quale, fedelissimo della corona, andava ad assumere
un’ennesima nuova carica, e il mastro di campo del terzo antico degli spagnoli probabilmente
per reclutare questo suo prestigioso corpo di fanteria.

212
Le leve di regnicoli che furono fatte per la predetta spedizione non sono riportate dai cronisti del
tempo con sufficiente chiarezza, né contribuisce a farvi piena luce uno strumento del notaio
Paolo Colacino rogato appunto in questo 1683 e che concerne un partito fiscale per il
reperimento di fondi destinati allo Stato di Milano e ai Presidi di Toscana; in particolare vi si
parla di denaro destinato al temporaneo mantenimento di gente di leva che si stava imbarcando
a Napoli per il Milanese e alla rimonta di cavalleria smontata che pure si stava per imbarcare. In
quest'anno furono comunque due i più importanti partiti del vestiario militare e cioè uno per mille
soldati italiani e 4mila spagnoli del terzo antico, come anche era chiamato il terzo fisso di
Napoli, e un altro di 1.170 vestiti per reclute regnicole che si trovavano consegnate nell'arsenale
di Napoli. Frattanto, nell'ultima decade d'ottobre avevano lasciato Napoli via mare per la Spagna
il mastro di campo del terzo fisso, il quale si diceva vi andasse a far leva di fanti per completare
il suddetto secondo terzo fisso o terzo nuovo, e Andrea d’Ávalos principe di Montesarchio, il
quale si diceva andava a ricevervi una nuova carica, essendo la sua di capitano generale delle
galere di Sicilia passata dal 18 luglio a Beltrán de Guevara duca di Nájera, il quale lo manterrà
sino a tutto il 1689, per poi passare l’anno dopo a comandare quella più prestigiosa di Napoli e
più tardi, cioè nel 1697, quella, sommamente ambita, di Spagna.
Sabato 6 novembre, per festeggiare il compleanno del re, si mostrarono in pubblico corpi militari
con le nuove livree da pochissimo prescritte con un’ordinanza che non c'è giunta e che era
intesa a uniformare i colori del nuovo vestiario militare europeo che anche la Spagna stava
adottando, cioè la marzina (nap. giamberga) e i calzoni attillati al ginocchio. Gli abiti, sino allora
confezionati in varie fogge nazionali, erano sempre stati per lo più forniti ai soldati in quel
tradizionale colore bruno grezzo detto amusco in spagnolo e musco o anche meschuglio in
italiano; invece si videro quel giorno, squadronati nel largo del Mercato davanti alla chiesa del
Carmine, la cavalleria vestita di color violaceo, il terzo antico degli spagnoli di rosso con risvolti
gialli e, un terzo italiano di nuova formazione costituito da 500 fanti vestiti di turchino e quello
nuovo italo-spagnolo sbarcato dall'armata, dove gli spagnoli vestivano di rosso con risvolti verdi
e gli italiani di turchino con risvolti rossi, mentre la guardia degli alabardieri alemanni comparve
ora vestita prevalentemente di giallo e non più di cremisi, come era stato fino allora. Pertanto,
poiché ormai, con l’affermarsi della detta marsina sia nel vestire militare sia in quello civile,
poteva generarsi confusione tra i due stati, una prammatica del 29 ottobre precedente proibiva
ai civili di sesso maschile di vestire nei predetti colori rosso e turchino; ma per maggiori dettagli
sull'argomento vedasi il nostro saggio Origine delle uniformi nel Regno di Napoli, Roma, 1992.

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Lunedì 15 novembre l'armata spagnola, non occorrendo evidentemente più il concentramento
navale che era stato raccolto a Napoli, salpò per la Spagna salutata dal viceré in persona, il
quale, evidentemente per sostituirvi i 600 uomini che le aveva sottratto, vi aveva in precedenza
fatto imbarcare i suddetti 500 fanti regnicoli in uniforme turchina, avendo costoro però come
destinazione ultima i presidi iberici, specie quelli della Catalogna; tra questi erano 150 briganti
abruzzesi i quali erano stati accordati a tal fine.
Sabato 4 dicembre, festa di S. Barbara, la compagnia dei bombardieri festeggiò a Napoli questa
sua patrona nei modi a lei tradizionali.
Il brigantaggio abruzzese era un’idra sempre rinascente e infatti a dicembre un’intera
compagnia spagnola fu in quella provincia trucidata dal capitano sino all'ultimo fantaccino. Il
viceré fu quindi costretto a ricorrere a mezzi e misure eccezionali e fece così subito partire da
Napoli, tra venerdì 24 e sabato 25, giorno di Natale, un terzo intiero di soldatesca spagnuola. Si
trattava evidentemente del terzo nuovo già privato dei suoi fanti italiani, in considerazione che le
compagnie di quello antico erano dislocate in luoghi molto diversi, anche nei Presidi di Toscana,
e non si potevano certo raccogliere tutte in breve tempo per mandarle in Abruzzo, lasciando
inoltre così tutto il resto del regno privo di questa fanteria spagnola che era il suo baluardo
difensivo più importante. Frattanto, nel precedente novembre, il viceré marchese del Carpio
aveva destinato governatore dell'armi in Abruzzo Gian Antonio Simonetta Pons de Leon
marchese di S. Crispiero; questi ottenne nella lotta al brigantaggio notevolissimi successi contro
tutte le bande che infestavano l'Abruzzo, per esempio contro quella del capo-brigante Gioan
Bernardino Durando, eliminò centinaia di malviventi e ne mandò 65 in catene a Napoli, dove
però non furono incarcerati nella Vicaria Criminale e poi giustiziati, ma furono rinchiusi
nell'arsenale, il che significava che si trattava di briganti accordati, ossia, come già sappiamo,
indultati a patto che accettassero di servire in guerra come ordinari soldati.
A un certo punto i banditi d'Abruzzo, incalzati senza sosta dalle milizie del S. Cristina, si
rinchiusero in Montorio, dove l'inflessibile marchese li cinse d'assedio, vinse la loro resistenza,
ne fece strage e inviò a Napoli un’altra catena di 60 di loro, i quali furono pure rinchiusi
nell'arsenale, evidentemente anch'essi accordati altrimenti ne avrebbe mandato senz'indugio
direttamente solo le teste; questi ultimi giunsero a Napoli sabato 15 maggio condotti dal giovane
Gioan Girolamo Acquaviva duca d'Atri, il quale, da non confondersi con i principi d’Acquaviva
(Salerno) della casata genovese dei de Mari, raccoglierà poi l'eredità del marchese di S.
Crispiero nella lotta al banditismo abruzzese. In quasi sette mesi di campagna il S. Cristina
uccise più di 350 banditi e ne accordò molti altri; gli sfuggirono invece i loro due principali capi, il

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Santuccio e il Colaranieri (o Colarainieri), i quali, assieme a molti loro compagni, andarono a
mettersi al servizio della Signoria di Venezia, segnalandosi poi grandemente nella conquista
della Morea e nell'assedio di Negroponto. Venezia, poiché da sempre sosteneva -
segretamente, ma non troppo - questi fuorusciti d'Abruzzo, era costretta a riceverli quando essi
andavano a chiederle asilo politico, a patto però che accettassero d’andarsene lontano a
combattere per lei; infatti non pochi abruzzesi militeranno in Dalmazia nell'esercito veneziano
ancora nel 1694. Questi sviluppi dimostrano chiaramente che non solo la Francia e lo Stato
Ecclesiastico erano i manutengoli del brigantaggio abruzzese che tanto e per tanto tempo
tormentò il Regno di Napoli e, se la Francia aveva i suoi ben noti motivi per comportarsi
ostilmente e se lo Stato Pontificio era da sempre stato filo-francese, diversi erano gli scopi che
Venezia perseguiva e cioè evitare di perdere peso politico e commerciale sull'Adriatico - mare
che i veneziani consideravano un Mare Nostrum e che difatti allora ancora si chiamava Golfo di
Venezia - tenendo il più possibile le forze della Spagna in Italia meridionale impegnate in altre
faccende.
Ottenuti i predetti buoni risultati, il viceré marchese del Carpio costituì e costruì negli Abruzzi
presidi e forti militari, tra cui il più importante era quello di Montorio al Vomano nel Teramese, la
cui costruzione inizierà nel 1686 e che era guardato da due compagnie di fanteria spagnola
mutate periodicamente; furono così finalmente liberate quelle province da una tirannia criminale
che era durata quasi settant'anni e che, dal momento che il banditismo abruzzese aveva reso
insicuri anche i tratturi, cioè le vie della transumanza pastorale proveniente dalla Puglia, con
continui furti di greggi e di proprietà di massari e pastori, aveva di conseguenza molto
danneggiato anche l'economia pugliese e le possibilità di gettito fiscale della Regia Dogana di
Puglia.

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Nell’Europa orientale frattanto, con la vittoria di Kahlenberg avvenuta il 12 settembre, i 46mila
imperiali di Carlo di Lorena, unitisi ai 24mila polacchi di Jan III Sobiewski avevano rotto
l’assedio che uno sterminato esercito del sultano turco Mehemet IV, sbarcato nei Balcani alla
fine del marzo precedente, era venuto a porre a Vienna sotto il comando del gran vizir Karà
Mustafà Oglì e, da questo momento sino al 1691, gli ottomani subiranno poi ben altre 15
sconfitte, tra cui quella di Barkam e la perdita di Setzin in Polonia, Strigonia (‘Esztergom’) e
Bielograd, arretrando lentamente e gradatamente verso i loro confini. Fu questa una grande
vittoria che ebbe per la cristianità ancora più valore di quella marittima di Lepanto avvenuta più
d’un secolo prima.
All’inizio di novembre la Francia aveva preso agli spagnoli le città fiamminghe di Kortrijk e
Diksmunde.

1684. Martedì 18 gennaio ebbero luogo le solite esercitazioni della cavalleria nel Campo di
Marte fuori Porta Capuana, esercitazioni a cui come sempre assisteva il viceré accompagnato
dalla sua compagnia di lance della guardia; in seguito un avviso di Bologna, riportandone un
altro da Roma del 29 gennaio, informò che il viceré di Napoli aveva dato le commissioni
(patenti) per la leva di due nuovi reggimenti di fanteria (‘terzi’) da mandare in Catalogna e ciò
perché si prevedeva che a breve - come in effetti succederà nel corso di questo stesso anno - si
sarebbe riaccesa la guerra contro la Francia, a cui la Spagna si sentì costretta a dichiarare
guerra perché la vedeva approfittare della pace per aumentare i suoi acquisti.
Nel marzo si dovettero spedire in Abruzzo, provincia confinaria dotata di siti difensivi molto forti,
ma infestata da banditi e briganti, altre compagnie poiché era giunta notizia che costoro
avevano ucciso 100 soldati e più di dieci ufficiali, tra i quali ben quattro capitani, in quella che
continuava quind’a presentarsi come una vera e propria piccola guerra.

(Napoli, 11 aprile:) Stanno allestiti e nuovamente vestiti da 400 e più soldati in questo arsenale,
che sopra le galere di Spagna che ancora stanno in questa darsena se ne farà l’imbarco per
portarli a’ Presidj di Toscana e in specie di quello di Porto Longone… (A.S.V. Nun. Nap. 96)

In effetti presto si farà una muta completa delle guarnigioni di quei presidi, come si faceva del
resto generalmente due volte all’anno, una di questi tempi e l’altra verso ottobre; anzi sembra
che poi s’imbarcarono ben 1.500 soldati, ma, come abbiamo appena detto, erano quelli tempi di
nuove minacciose nubi di guerra; infatti all'inizio di giugno si ricostituì a Napoli l'armata reale,
convenendovi le squadre di Spagna, Sicilia e del duca di Tursi, e ne ripartì nello stesso mese

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dirigendosi verso Genova, città che stavolta il 18 maggio, dopo aver respinto l’intimazione di
resa, era stata lo stesso giorno subito veramente attaccata dall'armata di mare francese, forte di
20 galere, 15 velieri da guerra, quattro galeotte da bombe e altri legni minori con un totale di 7
od 8mila uomini da sbarco; ma, sulla base di valutazioni a noi ignote (forse perché conscia della
propria inferiorità), anche questa flotta, come la precedente del 1683, fu dirottata verso la
Spagna dove sbarcò 1.100 soldati italiani ossia regnicoli, i quali erano così destinati a reclutare i
terzi napoletani che servivano in Catalogna; tra questi c'era quello del mastro di campo Cecco
Caracciolo marchese di Grottola, corpo che però nel corso di questo stesso 1684 sarà trasferito
dalla Catalogna al Milanese, dove nel giugno risultò contare otto compagnie più la piana
maggiore, e poi dalla Lombardia sarà inviato in soccorso di Genova bombardata ferocemente
dalle micidiali galeotte a bombe francesi, le quali erano, come abbiamo già spiegato, dei piccoli
vascelli attrezzati a batterie galleggianti e armati di grossi mortari che lanciavano in
continuazione bombe e carcasse esplosivo-incendiarie sul disgraziato capoluogo ligure. Questo
nuovo sviluppo della guerra d’assedio, cioè il bombardamento intensivo con i mortari dei civili,
tetro precursore di immani tragedie come quelle di Dresda, Hiroshima, Nagasaki e tante altre, fu
allora anche crudamente teorizzato dai francesi, come per esempio si legge nel trattato del
Manesson Mallet (p. 267, Tomo III):

... Questa maniera di fare la guerra è ottima per rendersi padroni di grandi città in poco tempo
(om.) poiché non ci sono abitanti, per quanto zelanti siano verso il loro principe, che non si
rivoltino e non massacrino la guarnigione per sottomettersi a colui che li attacca, vedendo le loro
case e i loro beni divorati dalle fiamme, le loro mogli e i loro figli schiacciati dalla caduta e dalla
distruzione delle bombe ed essi stessi ridotti alla mercé di tutte quelle funeste disgrazie.

Fermo restando che, contro Algeri e le altre città barbaresche, non c’era certo altro modo
efficace di agire per difendersi dalle pressoché millenarie e continue devastazioni portate dalla
loro intollerabile guerra di corso anti-cristiana, l’aver usato questi sistemi anche contro città a
pochi passi dai confini francesi, come Lussemburgo, Genova e Bruxelles, induce a pensare che
la grande rivoluzione che un secolo dopo cambierà la Francia con i suoi nuovi ideali umanitari si
sia presentata con grande ritardo. Del risolutivo intervento dei napoletani del marchese di
Grottola in soccorso di Genova si legge in un avviso bolognese riportante a sua volta una
corrispondenza da Genova del 27 maggio, cioè del tempo in cui questa città era sottoposta a
blocco marittimo dalla flotta francese:

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... tentarono i francesi di calar in terra per far acqua dalla parte di Bisagno, ma vi trovarono tanto
fuoco che non gli sortì il disegno. Fecero poi lo stesso a S. Pier d'Arena e invero avevano
messo in fuga alcune truppe genovesi che v'erano, ma, sopragiunto il terzo de’ napoletani,
scacciarono i francesi che già avevano piede a terra con morte di 60 di loro, fra’ quali monsù de
la Motte e diversi altri prigioni, e fra questi un cavaliere di Malta, non essendo de’ napoletani
morti che 17.

Infatti fortunatamente, tra italiani e spagnoli, si era riusciti a far entrare in città soccorsi per circa
3mila uomini; ma, non ostanti le suddette valorose azioni difensive dovrà poi Genova, dopo
nove giorni di micidiali e molto distruttivi bombardamenti, accettare una pace umiliante, mentre
la Francia otteneva anche più importanti successi bellici ai suoi confini nord-occidentali e i suoi
eserciti occupavano importanti città come Treviri e Lussemburgo. Si distinguevano frattanto in
questo stesso anno, per il loro valore nella difesa di Gerona in Catalogna assalita senza
successo dai francesi il 24 maggio, il già menzionato marchese Domenico Dentice, capitano di
cavalleria a cui era stato affidato però il comando di un intero squadrone, e gli altri napoletani
Antonio Mastrocuccio, aiutante reale, e Domenico Pignatelli dei duchi di Bellosguardo,
marchese di S. Vincenzo, il quale sarà il napoletano dalla più prestigiosa carriera all’estero di
tutti i tempi in considerazione che, già allora generale dell'artiglieria di Catalogna, sarà poi in
successione sargente generale di battaglia, mastro di campo generale della fanteria spagnola
(nomina concessagli in considerazione che figlio di madre spagnola), membro del Consiglio di
Guerra del re e governatore e capitano generale dell'Estremadura, viceré e capitano generale
prima di Navarra e infine di Galizia. Domenico Dentice parteciperà invece con il suo squadrone
alla sorpresa di Vascara e, nel 1685, sarà con la sua compagnia e con quella di un altro
capitano di cavalleria napoletano, fra’ Alvaro Minutillo, di guarnigione nella città di Calahorna; in
tal luogo chissà a quali prevaricazioni, angarie e sregolatezze ai danni alla cittadinanza si
daranno questi soldati di cavalleria napoletana, giacché a un certo punto ci sarà contro di loro
una sommossa generale dei cittadini, i quali, al grido di mueran todos los soldados!, per poco
non trucideranno il Dentice, il Minutillo e i loro uomini. Nel 1689 il Dentice e il Pignatelli
parteciperanno al riacquisto di Campredon, l'uno come comandante di uno squadrone di
cavalleria (sebbene avrà nel frattempo ricevuto la nomina a mastro di campo) e l'altro come
mastro di campo generale dell'esercito di Catalogna, come abbiamo già detto. L'anno dopo il
Dentice sarà a Napoli dove, in qualità di mastro di campo, otterrà un terzo di fanteria di nuova
leva di circa mille uomini, due delle cui compagnie saranno affidate al capitanato dei suoi fratelli
Nicolò e Gioseppe, questo di soli 15 anni, e con cui sarà spedito in Lombardia, subito
partecipando, il 18 agosto 1690, alla battaglia della Staffarda presso Saluzzo e poi a quella di

218
Pinerolo, ambedue vinte dai francesi su ispano-milanesi e savoiardi; nella seconda il suo terzo
perderà gran parte dei suoi effettivi tra cui il suo predetto giovanissimo fratello Gioseppe, ucciso
a soli 21 anni da un colpo di moschetto da posta; per quanto riguarda invece il fratello Nicolò, lo
troveremo ancora capitano di fanteria napoletana nel giugno del 1694. Nella detta battaglia di
Pinerolo morirono anche parecchi altri nobili napoletani, tra i quali il venturiero Francesco
Alarcón y Mendoza dei marchesi del Valle, a cui il re aveva già destinato il capitanato di una
compagnia di corazze, e tre altri capitani del terzo del Dentice, cioè Alfonso Capuano, figlio del
barone di Pollica, Pietro Sances de Luna, fratello del duca di S. Arpino, e Michele Carmignano.
Forse fu approfittando della suddetta venuta dell’armata di Spagna, la quale, per il gran numero
di galere, sostò probabilmente in massima parte a Baia, che il mastro di campo del nuovo terzo
fisso detto tercio de la mar del Reyno de Nápoles, Cristóbal Lemos de Moscoso y de
Montemayor conte di Las Torres, si mise colà ad arruolare reclute per questo suo sfortunato
corpo, per cui, come abbiamo già visto, già si reclutava anche in Spagna.
Nel giugno i francesi avevano preso Lussemburgo, successo importante che aveva costretto
Carlo II di Spagna e l’imperatore Leopoldo I furono a concordare con Luigi XIV una tregua
ventennale, la quale era stata firmata a Ratisbona il 15 agosto, e, per finire con l’anno 1684,
diremo che era allora generale delle galere di Malta il priore di Napoli fra’ Gioan Battista
Brancaccio - soggetto di grandi talenti (Filamondo), fratello di Gioseppe, generale dell’artiglieria
dello Stato di Milano, mentre nell'assedio di Buda in Ungheria moriva giovanissimo Andrea de’
Medici, cavaliere napoletano figlio del principe d'Ottajano, il quale serviva da venturiero pur
avendo in precedenza ottenuto a Milano la carica di capitano di cavalleria. Un’offensiva
imperiale in Ungheria, condotta dal maresciallo di campo Ernst Rüdiger von Starhemberg,
aveva nel giugno di quest’anno ripreso ai turchi Višegrad (tra il 16 e il 18), con battaglia campale
Vác ( ‘Waitzen’) il 27, ma solo per pochi mesi, Pest il 30 e poi li aveva ancora vinti a Honsbeck il
22 luglio, ma si era stata arrestata davanti alla forte resistenza della cittadella di Buda, città di
cui l’esercito cristiano era dunque riuscito a occupare solo la parte bassa, dovendosi infine
nell’ottobre ritirare dopo aver perduto circa 20mila uomini per varie contrarietà contingenti, non
ultima l’arrivo di un secondo forte soccorso ottomano. Buda sarà però ripresa ai turchi, i quali la
tenevano sin dal 1541, due anni più tardi. Contemporaneamente un altro esercito imperiale,
questo austro-croato e comandato dal maresciallo di campo Conte Jakob Leslie, prendeva il 24
luglio ai turchi Verowizza e poi Bresovizza e altri castelli e villaggi della Slovenia e della Croazia;
più a est cioè in Moldavia, Podolia, Ukraina e Bessarabia polacchi e cosacchi, anche se non
con grandi vittorie, riuscivano a contenere i turchi e i loro alleati tartari tenendo lontano

219
dall’Ungheria il grosso delle loro forze; infine in Dalmazia i morlacchi o cristiani di Croazia,
ribellatisi al dominio ottomano e spalleggiati da una spedizione militare veneziana, contribuivano
anch’essi al ripiegamento generale dei turchi dall’Europa danubiana. La stessa Venezia,
avendo infatti aderito con Impero e Polonia alla triplice Lega anti-ottomana, supportata dalle
squadre di galere di Roma, Firenze e Malta, presentò davanti all’isola di Santa Maura
(‘Lèucade’), nido di marinarecci ladroni (Bizozeri), un’armata di mare sotto il comando di un
Morosini e formata da 6 galeazze, 40 galere, 26 velieri, tra i quali uno toscano da guerra molto
grande dal nome di il Grande Alessandro, con 1.700 fanti da sbarco veneziani più quelli portati
dalle squadre ausiliarie; nella seconda metà di luglio sotto il comando del generale imperiale
Strassoldo si assediò la piazza, la quale dunque fu la prima marittima dei turchi a cadere;
seguirono la Prévesa il 29 dello stesso mese e poi altri successi marittimi minori.

1685. Un avviso di Bologna riportava da Napoli in data 27 gennaio che il viceré aveva ricevuto
nuove disposizioni militari dalla corte di Spagna e cioè doveva assoldare mille nuovi fanti
regnicoli e far fondere cento nuovi cannoni, i quali sarebbero presumibilmente serviti alla
grand'armata di cui tra breve parleremo, e gli si sollecitava inoltre, con ordine dell’11 gennaio, la
riforma della sua compagnia di lance della guardia. Il predetto avviso informava infine che il
viceré aveva fatto noleggiare due vascelli inglesi per imbarcarvi mille fanti, ma di ciò non
troviamo conferma nelle cronache napoletane, né si può trattare dei suddetti mille nuovi fanti
chiesti dalla Corte in considerazione che questi erano ancora da arruolare. Un altro avviso
bolognese riferiva una corrispondenza da Milano del 7 marzo in cui si diceva che era in corso la
rimonta della cavalleria napoletana di stanza in Lombardia, mentre, alla fine dello stesso marzo,
per motivi non divulgati faceva ritorno a Napoli da Genova una galera che riportava della
fanteria che vi era stata mandata. Uno strano reale ordine del 3 aprile aboliva la piazza, ossia il
ruolo, di tenente generale della cavalleria del Regno di Napoli, il che deve esser stato
sicuramente fatto per motivi puramente contingenti, essendo questo un ufficiale generale
presente in tutte le cavallerie europee e naturalmente utile a sostituire il capitano generale in
ogni caso d’assenza o impedimento di questo.
Dopo la metà di maggio approdarono a Baia cinque galere pontificie, una di cui si trasferì subito
al molo vecchio di Napoli e, domenica successiva, all'avviso che le quattro galere del granduca
di Toscana a cui si dovevano unire stavano passando al largo di Napoli, salparono per
accompagnarsi a quelle nel viaggio verso Messina, per poi deviare verso Levante, unirsi anche
a otto galere di Malta e tutte insieme andare a raggiungere l'armata veneta operante contro i

220
turchi, congiungimento finale che avverrà l'8 giugno. Giunsero poi un giovedì anche le galere
Capitana e Padrona di Sicilia che portavano il loro capitano generale Beltrán de Guevara e il
figlio del viceré di Sicilia conte de San Estéban; quest'ultimo, pure invitato a dormire a terra sia
dal viceré marchese del Carpio, il quale gli aveva a tal scopo fatto preparare un appartamento a
palazzo, sia dal marchese di Cogolludo, nuovo generale delle galere di Napoli, preferì
restarsene a bordo. Giunsero inoltre da Genova, porto che avevano lasciato nella notte di una
domenica dopo la metà di maggio, sette galere della Monarchia, ossia di diretta proprietà del re
di Spagna, e si trattava di due della squadra di Napoli, tre di quella di Sicilia e la Capitana e la
Padrona di quella di Sardegna; tutte queste sarebbero infine presto state seguite dalla squadra
del duca di Tursi - galere genovesi queste non di proprietà del re, ma da lui tradizionalmente
assoldate, squadra che per il momento era rimasta a Genova nell'attesa di una catenata o ligata
di condannati al remo proveniente da Milano, condannati quelli lombardi che tradizionalmente
erano a essa assegnati. Una volta che tutte queste squadre si fossero trovate unite nella baia di
Napoli, avrebbero dovuto tutte insieme intraprendere un’impresa comune, per il momento
segreta, al servizio della Corona.
Fu in quel mentre smentita la presa di una tartana di Gaeta fatta da due fuste barbaresche, le
quali le avevano dato sì per lungo tempo la caccia, ma quella era riuscita alla fine a salvarsi.
Dopo essersi trattenuto a Napoli per qualche tempo, partì di sabato per far ritorno alla sua
residenza Joseph de la Cueva, castellano del castello di Gallipoli, il quale aveva goduto nel suo
soggiorno nella capitale delle cortesie e dei favori del summenzionato marchese di Cogolludo.
Alla fine di maggio giunse notizia al viceré di come il mastro di campo Alonzo Torrejon y
Peñalosa, preside di Chieti, fosse finalmente riuscito a far cadere in trappola il capo-brigante
Nino di Pietr’Alta, il quale, rifugiatosi con alcuni compagni nello Stato Ecclesiastico, da colà
faceva numerose scorrerie nel regno. Nell'agguato orditogli dai soldati perirono lo stesso Nino e
un suo cognato, mentre uno dei suoi fidi era preso vivo; pertanto il marchese del Carpio inviò
subito ordine che fossero immediatamente pagati agli uccisori i 3.000 scudi della taglia posta
sul predetto Nino, il quale era l'ultimo dei capi-banditi abruzzesi ancora in libertà e quindi con la
sua morte quella tormentata provincia si poteva finalmente considerare sottratta al brigantaggio,
anche perché era stato preso e carcerato un corriero sbarcato sulla marina di S. Vito in
Abruzzo; costui recava molti pieghi di lettere inviate a vari privati dai due capi-banditi Colaranieri
e Santuccio, i quali, come dicemmo più sopra, erano riparati a Venezia. I notevoli risultati
effettivamente raggiunti dal marchese del Carpio nella repressione del brigantaggio sono così
ampollosamente ricordati dallo stesso avviso del 29 maggio che riporta le precedenti notizie:

221
... dal che si conosce che l'occulata vigilanza di quest'eccellentissimo signor Viceré sa scoprire
le più secrete trame de’ malvagi, accertandosi ciascuno che la secretezza con cui si
commettono i delitti non può, a tempo di Sua Eccellenza, sfuggire la meritata pena. Sì che in
due anni del suo felicissimo governo ha ridotto tutto il Regno a godere una quiete e tranquillità
inesplicabile, potendosi caminare per esso con l'oro in mano.

Dopo il 20 dello stesso maggio era anche giunta a tal proposito a Napoli una delegazione di
pastori pugliesi da Foggia, i quali portavano al viceré vari doni in natura e 3.000 scudi per
dimostrargli concretamente la loro gratitudine per aver finalmente reso sicuri e liberi dal
brigantaggio i loro tratturi:

Giunsero sin dalla passata (settimana) alcuni pastori da Foggia con un sontuoso ma piacevole
equipaggio, spediti da tutti i pecorai della Puglia con un regalo per Sua Eccellenza (om.) Espose
l'ambasciata uno de’ più arditi con tanta grazia e con un parlare pugliese così ridicolo ch'apportò
sommo piacere a tutta la Corte ch'era presente, rendendo infinite grazie a Sua Eccellenza da
parte di tutto il senato pastorale, perché dal tempo che governa il Regno non si trovano più né
ladri né banditi che molestino le lor mandre di pecore; onde Sua Eccellenza, per segno di
gratitudine, li fa trattenere in Palazzo, facendo dipingere tutta l'ambasciaria e rittraere
gl'ambasciatori con i loro abiti e pelliccie alla pecoraia.

Il pugliese era dunque già allora un dialetto divertente e d’altra parte anche il napoletano lo era
stato, cioè prima che diventasse col tempo sempre più duro e sguaiato e questo perché nel
Cinquecento fu gradualmente soppiantato dall’italiano nel parlare formale e quindi sempre più
confinato alla parlata privata del popolo basso; infatti Camillo Porzio, nella sua famosa relazione
del Regno di Napoli scritta tra il 1577 e il 1579, diceva che ancora quando lui era piccolo al
napoletano, a quei tempi ancora unica lingua parlata a Napoli, si ricorreva nei teatri italiani per
far ridere il pubblico. Chissà poi che fine la sorte avrà riservato all’interessantissimo quadro di
cui si parla nell’avviso suddetto! Sicuramente, alla morte del marchese del Carpio, la sua
famiglia se lo sarà portato in Spagna con tutto il resto dell'arredamento personale tenuto in
Palazzo, come allora tradizionalmente usavano i viceré spagnoli quando se ne andavano da
Napoli, lasciando così ogni pochi anni il palazzo reale quasi del tutto depredato di quadri, mobili
e soprammobili.
Nei primi giorni di giugno 14 galere, tra napoletane, sicule e sarde, salparono da Napoli
accompagnate da una galeotta comandata dal capitano Mezzaluna e da tre barchi luonghi che
si trovavano allora nel porto della capitale e si diressero verso Porto Longone, dove avrebbero
trovato a aspettarli i dispacci del viceré con le istruzioni riguardanti la loro ancora segreta
missione e dove pure un mese prima avevano avuto ordine di dirigersi da Genova, dove allora
222
si trovavano, le galere di Spagna; furono presto seguite da due grosse tartane cariche di
provvisioni da bocca e da guerra, come allora si diceva, per quattro mesi e per servizio della
stessa squadra. Frattanto si allestivano altre quattro delle galere rimaste a Napoli, destinate
anch'esse a seguire le prime, e si proseguiva la leva di genti del regno, arrivando ogni giorno
gruppi di coscritti nell'arsenale; era anche venuto a Napoli il marchese di Torrecuso proprio per
reclutare uomini per il suo terzo che operava in Fiandra. Erano poi seguite gravi baruffe tra
soldati spagnoli e regnicoli:

(Napoli, 5 giugno:) Per essere in questi giorni accadute baruffe tra soldati spagnuoli e italiani,
anco con morti e feriti d'ambe le parti, Sua Eccellenza ha castigati severissimamente gli autori
principali acciò per l'avenire non succedano simili rumori, volendo si mantenghi tra queste due
nazioni una perfetta pace e amicizia.

Una corrispondenza da Milano informava che lunedì 4 giugno il governatore di quello Stato si
era recato in diligenza postale a Lodi a assistere alla mostra della cavalleria di Napoli che in
quella città si teneva e nella stessa serata aveva fatto ritorno a Milano; non dovette trattarsi di
una presenza indolore se leggiamo poi anche l'avviso che segue:

(Milano, 13 giugno:) ... Per aver il signor conte Governatore trovato due compagnie de’ dragoni
mancanti di qualche soldato ha Sua Eccellenza relegati i capitani in due castelli...

Ricordiamo che il trozo fisso di cavalleria napoletana in Lombardia costituiva un apporto


importante a quell'esercito; per trozos s’intendevano allora ‘corpi di cavalleria’ (ing. bodies of
horse; td. Geschwader), cioè raggruppamenti organici di un numero molto variabile di
compagnie di cavalleria, quando negli eserciti spagnoli ancora non si era preso a imitare l’uso
francese di unirne invece un numero fisso regolamentare in reggimenti, evoluzione che però era
ora sul punto d’avvenire; infatti non erano comandati da un colonnello, bensì da un commissario
generale, il quale aveva comunque anch’egli una regolare plana mayor. Dal trozo (it. ‘tronco’)
dipendevano frequentemente dei raggruppamenti di compagnie distaccate dette, per coerenza
di similitudine, ramos; per esempio nel 1678 la cavalleria napoletana di stanza nel Milanese
contava un trozo di cinque compagnie e un ramo distaccato di due compagnie.
Verso il 10 giugno il viceré fece pubblicare una prammatica che, se ripetuta ai nostri giorni,
risolverebbe per parecchio tempo il problema dell'endemica delinquenza meridionale:

(Napoli, 12 giugno:) Avendo conosciuto quest'eccellentissimo signor Vice-Ré, per lunga


esperienza, che la maggior parte ode delitti enormi ch'alla giornata si commettono provenga
223
dalla moltitudine di persone oziose e vagabonde che si trovano in questa Città e Regno senza
arte né officio, per ovviare gl'inconvenienti che possono succedere, ha in questi giorni con
pubica prammatica e bando ordinato che simile gente, si è forestiera, debbia fra il termine di tre
giorni partire da detta Città e Regno sotto pena di cinque anni di galera; si è regnicola o
Napolitana, che non tenga robbe né officio né esercizio da poter mantenersi, che soggiaccia
all'istessa pena, solo che fra 15 giorni debbia sfrattare dal Regno e fra tre da questa Città (om.)
e a quelli che denunziaranno simili persone vagabonde se gli promettono due scudi di
beveraggio per ogne uno delli denunziati.

Nel pomeriggio di domenica 17, giorno in cui si festeggiava allora la Ss. Trinità, quattro schiavi
maomettani delle galere di Napoli, catechizzati pubblicamente dal padre gesuita Domenico
Geronimo, furono battezzati nella parrocchia del Castel Nuovo; convertirsi era, sia per i
maomettani al remo delle galere cristiane sia per i cristiani al remo di quelle turco-barbaresche,
l’unico modo per sottrarsi a quella durissima e penosa schiavitù. Verso la metà dello stesso
giugno furono poi inviate milizie alle isole Tremiti in considerazione che da diversi anni non si
mutava il presidio spagnolo della locale fortezza e in quel mentre si faceva leva di soldati per
reclutare il terzo napoletano del marchese di Torrecuso a tal scopo venuto a Napoli dalla
Fiandra, dove quel corpo ora si trovava. In quegli stessi giorni furono portati a Napoli in ceppi il
famoso capo-brigante Domenico Basile da Cerreto e alcuni suoi compagni; questi l'anno
precedente, per sfuggire all’efficace repressione messa in atto dal marchese del Carpio, si
erano rifugiati nello Stato della Chiesa e poi avevano quest'anno provato a ritornare
segretamente nel regno pensando di esser stati ormai dimenticati, ma erano stati presi e il
giorno 18 furono arrotati a morte in punizione dei loro delitti.
In quel mentre si era effettivamente formata a Porto Longone una grande squadra di galere,
unendosi in quel porto quelle di Spagna, Napoli, Sicilia, Sardegna e duca di Tursi, cioè tutte
quelle di cui disponeva la monarchia spagnola. Quella del duca di Tursi, detta anche dei
particolari genovesi, ossia dei privati genovesi, come abbiamo già detto, in considerazione che
la Repubblica di Genova ne aveva solo tre che per questo motivo erano dette galere pubbliche
o anche governative, era al servizio spagnolo sin dai tempi di Carlo V, cioè da quando suo
capitano generale era Andrea d’Oria (1466-1560), il famoso uomo di mare, il quale, era al
servizio della corona di Francia, ma, per insanabili dissapori intervenuti, era poi passato con
tutte le sue galere al campo opposto; questo voltafaccia del d’Oria cambiò il corso della storia
d'Italia e di conseguenza d'Europa, perché poi la secolare fedeltà dei d’Oria e di questa loro
squadra alla parte imperiale fu uno dei principali punti di forza del dominio spagnolo in Italia,
perché queste galere genovesi assicuravano rapidi e continui collegamenti marittimi tra la
penisola iberica e quella italiana, oltre a guardare il medio e l'alto Tirreno dalle scorrerie dei
224
barbareschi; se il d’Oria fosse rimasto fedele alla Francia le cose sarebbero senza dubbio
andate in maniera diversa, ma poiché i se, come si sa, non sono d’alcuna utilità alla storia,
torniamo alla grande squadra che si era raccolta a Porto Longone. Dopo circa una settimana
dalla loro partenza le predette 14 galere fecero ritorno a Napoli accompagnate dalle dieci che
formavano la squadra del duca di Tursi, senza che, procedendo verso ponente, avessero
incontrato legni nemici, e la loro missione sembrava esser ora invece quella di dover far rotta
verso levante per tenere i mari liberi dai corsari barbareschi; in effetti la loro missione originaria
restò segreta e tutto ciò che poi si poté vedere fu che l'8 agosto seguente tutte queste galere
salparono per la Sicilia dove presto avverranno dei preoccupanti torbidi a seguito della ribellione
d’alcuni nobili.
Si effettuavano frattanto reclutamenti di fanti con un certo successo e le nuove reclute erano,
come il solito, concentrate nell'arsenale di Napoli; comunque, non ostante la nuova leva chiesta
dalla Spagna all'inizio dell'anno e i predetti grandi preparativi marittimi, troviamo per questo
1685 una sola fornitura di vestiario riguardante 488 vestiti consegnati alla Regia Monizione non
più tardi dell'aprile.
Giovedì 5 luglio, in occasione della festa del Corpus Domini, fanteria spagnola, italiana e
cavalleria si squadronarono nel largo del castello e fecero tre salve di moschetto, a cui
corrisposero quelle dei cannoni delle fortezze e delle galere; in tale occasione il viceré fece fare
alla sua fameglia (‘servitù’) sfoggio di una nuova, ricca e bella livrea. Negli stessi giorni arrivò a
Napoli una catena di 16 condannati al remo e, nella seconda, una di 28, questi inviati dal
commissario generale di campagna (tutti giovani robusti, proporzionati alla professione
ch'intraprendono), e erano tutti per rinforzo delle galere napoletane che ne avevano in quel
periodo grande necessità; infatti tre birri, riconosciuti colpevoli di furto con raggiro, furono dopo
qualche giorno anch'essi condannati a otto anni di galera.
Dall'armata veneta che operava contro i turchi giunse a Napoli di sabato sera il capitano Van
Axel aiutante maggiore del generale Deghenfeld, comandante di quell'esercito in Levante;
aveva viaggiato 13 giorni dopo esser sbarcato a Otranto e si trattenne però nella capitale
pochissimo tempo perché, latore di dispacci al senato di Venezia, ripartì subito verso Roma con
le poste, non senza però aver dato al viceré un esauriente aggiornamento su quelle operazioni
belliche. Martedì 17 luglio il viceré, molti rappresentanti della nobiltà e i generali delle squadre
delle galere che, come abbiamo detto, si trovavano raccolte a Napoli, assistettero al varo di una
galera nuova, mentre a breve se ne sarebbero varate altre tre che si stavano ultimando in gran
fretta.

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(Napoli, 24 luglio:) Considerando Sua Eccellenza l'abbuso introdotto da alcuni comandanti di
queste milizie, quali prohibivano a’ soldati di poter comprare robbe da mangiare se non nelle
taverne ch'essi tenevano ne' presidij con gran pregiudizio de’ poveri soldati, ha in questi giorni
con pubblico bando a suon di tamburro ordinato che ciascuno possa comprare ove più li piace e
a’ revenditori di poter entrare ne’ presidij a vendere ogni sorte di comestibili, togliendo le taverne
ed osterie introdotte dalli sudetti per loro lucro, ma con danno e detrimento del soldato;
ordinando anco che nessun soldato possa essercitare arte mecanica né servire da creati
(servitori) a’ loro capitani.

Bisogna qui precisare che allora per taverne s’intendevano allora gli spacci militari e non
le osterie, cioè non luoghi dove, pagando, ci si potesse sedere a mangiare cibi cotti; c'erano
quindi taverne anche a bordo delle galere e degli altri vascelli da guerra. Nella marineria
francese oceanica era consuetudine che i capitani, anche quelli dei vascelli reali da guerra,
facessero a bordo essi stessi commercio di taverna, vendendo all’equipaggio soprattutto vino,
acquavite ed in seguito anche tabacco; ma nel Seicento questa pratica sarà vietata dal re per non
potersi più ammettere che gli stessi capitani agevolassero ed istigassero in tal modo i marinai
a consumare il loro soldo ed i loro effetti personali per l’acquisto di generi viziosi. Nella seconda
metà del Seicento cominciò a diffondersi anche a Napoli il consumo di vegetali americani
quali pomodoro, cioccolato e tabacco, ma il primo fu per qualche tempo considerato, per i suoi
piccoli graziosi frutti rossi, solo come una pianta ornamentale da coltivarsi su balconi e
terrazze; il secondo, già conosciuto nel secolo precedente, era stato sempre creduto dai più nocivo,
più tardi da qualche medico consigliato sciolto nel brodo per potersi avvalere così della sua unica
virtù di riscaldare lo stomaco e solo ora appunto si vedevano a Napoli aprire le prime cioccolaterie.
Del terzo, sebbene diffuso in Europa con un corredo di pubblicità commerciale che lo aveva
presentato come una pianta ricca di virtù medicinali, si scoprì invece molto presto la natura
chiaramente dannosa; ciononostante mai se ne ostacolò l’uso tra marinai e soldati perché
i medici avevano anche costatato che calmava gli animi, deprimeva lo scontento e in una parola
rendeva il servizio militare più tollerabile, tant’è vero che non fu proibito nemmeno agli stessi
soldati turchi, di solito soggetti a un buon numero di divieti.
La mattina di lunedì 23 luglio si tenne la mostra, ossia la rivista come già sappiamo, di tutte le
milizie della capitale e in tale occasione, in conformità a ordine reale già vecchio del precedente
11 gennaio, fu riformato il terzo spagnolo detto del Mare o nuovo, costituito, come sappiamo,
solo un paio d'anni prima, e i suoi scarsi effettivi, consistenti in sole tre compagnie, furono
aggregati al terzo vecchio degli spagnoli, eccezion fatta del suo mastro di campo conte di Las
Torres e dei tre capitani che restarono invece riformati; il motivo di questa cassazione fu che,
226
data appunto la scarsità dei suoi ranghi, lo stato maggiore di questo corpo aveva un costo
eccessivo [non ad altro oggetto che per iscusare il guasto (‘spesa’) della Prima Piana]. Il giorno
seguente arrivarono a Napoli 22 schiavi che avevano fatto parte dell'equipaggio di una fusta
barbaresca, la quale, approdata nei pressi di Manfredonia per far razzia di cristiani, era rimasta
essa stessa preda dei paesani; furono subito incatenati ai banchi delle galere napoletane.
All'inizio d’agosto, avvicinandosi l'apertura della famosa fiera annuale delle sete a Messina e a
evitare il contrabbando di quei tessuti dalla Calabria, il viceré spedì verso quella volta due barchi
longhi ben armati perché scorressero quelle acque e impedissero i disordini soliti pratticarsi da
coloro che concorrono alla fiera; domenica 5 furono catturate dalla galera napoletana S. Rosa
due tartane francesi che stavano caricando grano a Castellammare di Stabia e, condotte a
Napoli con l'accusa di contrabbando, benché il padrone di una di esse protestasse d’avere una
regolare concessione per quel carico; il che, se accertato, ne avrebbe prodotto il rilascio. La
mattina del giorno seguente, avvicinandosi l'ora della partenza dal porto di Napoli delle squadre
di galere da tempo raccoltevisi, le milizie spagnole che dovevano imbarcarvisi di guarnigione
furono formate in squadrone e passate in rivista, comparendo tutte vestite d’abiti nuovi e per la
prima volta di color rosso, davanti al palazzo reale dove restarono finché il viceré non si fu
affacciato al balcone cerimoniale per vederle; poi tornarono al loro presidio e più tardi
s’imbarcarono insieme con soldatesche italiane e di nuovo al cospetto del viceré:

… il quale, perché un capitano italiano, nel passar la mostra prima dell'imbarco, non portava la
sua compagnia compita, oltre l'esser molto mal vestita, lo riformò e diede la compagnia
all'alfiere con dichiarare alfiere il sargente e il capo squadra più antico sargente (Napoli, 14
agosto 1685).

Quale vergogna e umiliazione deve aver provato quel misero capitano, il quale, probabilmente
perché povero, non aveva avuto la possibilità di rimetterci o anticipare del suo per presentare in
buon ordine la sua forse da tanto agognata compagnia!

A un’ora di notte sarparono l'ancore le sudette galere in numero di 22 senza essersi potuto
penetrare a qual parte abbino drizzato il viaggio; mentre Sua Eccellenza non communica a
nessuno le sue intenzioni e quest'è la causa che tutte le sue intraprese sortiscano il bramato
fine, già che la secretezza nell'operare nelle materie di stato è quella che guida gl'affari politici
alla desiata meta.

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Anche quest'ultimo avviso è del giorno 14 agosto, ma la partenza di cui si parla era avvenuta,
come abbiamo già anticipato, il giorno 8 precedente; c'è da notare la nuova sviolinata del
cronista al viceré marchese del Carpio.
Domenica 19 dello stesso mese fu recata a Napoli dalla provincia di Salerno la testa del capo-
brigante conosciuto con il nomignolo de il Zelluso di Montuoro, forse perché tignoso o
comunque alopecico; costui aveva infestato la campagna per molti anni e poi nel 1684, messo
alle strette dalla gente di corte, si era allontanato dal regno, ma, tornatovi presto, era subito
caduto in trappola. Per ordine del viceré la sua testa fu esposta nell'arsenale, andando così ad
aggiungersi alle altre di criminali già in quel luogo in mostra per esempio e per terrore di tutti i
malfattori.
Martedì 28 ritornarono a Napoli da Palermo le numerose galere che venti giorni prima erano
partite per la Sicilia senza però che si parlasse a Napoli dell'esito della loro missione, mentre si
aveva notizia che i veneziani e i cavalieri di Malta avevano preso per assalto ai turchi Corone in
Morea dopo 48 giorni d’assedio e avevano anche sconfitto in campagna l’esercito nemico
venuto al soccorso di quell’importante piazza; si seppe inoltre che i francesi, usciti alla fine di
giugno dai porti di Provenza con un’armata di 16 galere, 15 vascelli e cinque palandre a bombe,
avevano il mese successivo sottoposta Tripoli a un così pesante bombardamento con le loro
palandre da costringerla ad accordi di pace con l’immediato pagamento di un tributo e il rilascio
di 180 schiavi cristiani, incluso un nobile inglese, i quali furono portati a Tolone; si ebbe in quel
mentre pure nuova da Milano che alla metà dello stesso agosto era stato colà licenziato un altro
terzo e cioè quello di fanteria napoletana di Cecco Caracciolo marchese di Grottola a cui
abbiamo già accennato, mentre il mese successivo appariranno in quell'esercito di Lombardia le
prime quattro compagnie di un nuovo terzo di napoletani e si tratta ora di quello del mastro di
campo Marc'Antonio Colonna; alla fine del mese si seppe poi anche della grande vittoria
conseguita sui turchi a Strigonia dalle armi cesaree, ossia dall'esercito del Sacro Romano
Impero, notizia che, unita ad altre dello stesso tenore immediatamente seguenti, produssero a
Napoli tre giorni di festeggiamenti ufficiali.
All'inizio di settembre le galere tornate dalla Sicilia ripartirono in numero di 21, ben provviste di
viveri e di munizioni, anche questa volta per una missione che il marchese del Carpio aveva
mantenuta segreta secondo il suo solito costume, mentre dopo qualche giorno, di venerdì,
approdavano a Nisida le quattro galere del granduca di Toscana che erano di ritorno
dall'arcipelago greco, insieme con due della Repubblica di Genova a cui si erano unite a
Messina, dove queste ultime si erano trovate per caricare sete. Avuta notizia di quest'arrivo il

228
viceré mandò subito il tenente di mastro di campo generale Antonio de Maldia a dare il
benvenuto al comandante toscano e probabilmente anche a indagare il motivo di quel
prematuro ritorno, giacché la campagna anti-ottomana non era ancora terminata e infatti le
galere pontificie erano rimaste in quei mari. Ripartite da Nisida, le galere di Toscana si unirono
nel viaggio verso Ponente con le predette della corona di Spagna che si erano dovute trattenere
alcuni giorni a Gaeta non avendo ancora potuto oltrepassare la costa laziale a causa del
maltempo, inconveniente questo del tutto consueto e che rendeva detta costiera
particolarmente temuta dai naviganti diretti nell'Alto Tirreno. Le squadre di galere della
monarchia raggiunsero poi di nuovo Porto Longone dove difatti le suddette di Spagna
risulteranno essere in sosta il 23 settembre e dove infine riceveranno l'ordine d’andare a
svernare ognuna nel proprio arsenale, tranne quella dei particolari del duca di Tursi, le quali, pur
essendo genovesi, svernavano nel porto di Gaeta e ciò probabilmente per motivi, oltre che
strategici, anche fiscali, ossia per poter addossare all’erario del Regno di Napoli quanto più si
poteva del costo del loro raddobbo e del loro equipaggiamento; si aveva del resto avviso certo
che anche quelle di Francia si erano ritirate nella loro Marsiglia e che le loro genti erano state
licenziate. Verso il 20 ottobre partiranno comunque da Napoli due grosse tartane cariche di
provviste per le squadre allora ancora ferme a S. Stefano e a Longone e che poi, prima di
ritirarsi a svernare, si trasferiranno tutte a Genova, porto dove risulteranno in sosta ancora all'11
di novembre.
Frattanto venerdì 7 settembre si era commemorata, come il solito, la ricorrenza della grande
vittoria di Nördlingen e il giorno seguente si erano svolti i tradizionali corteo e parata al borgo di
Chiaia per la festa della Madonna di Piedigrotta.

(Napoli, 18 settembre:) Essendo in questi giorni vacata una compagnia di fanteria spagnuola
per la morte del capitano, Sua Eccellenza l'ha conferita a don Nicolás de Zarate, nipote di
questo signor secretario di stato e guerra don Diego Ortiz de Zarate, e sabbato a sera ne prese
il possesso con entrar la prima guardia nel reggio palazzo e riuscì la funzione assai decorosa
per il numeroso accompagnamento de’ capitani e altri officiali spagnuoli che l'assisterono, alli
quali furono dispensati copiosi rinfreschi di canditi, zuccari e ciccolate.

Quest’avviso sembra esser però abbastanza tardivo perché, confrontandolo con la notizia dello
stesso avvenimento già data dal nunzio apostolico, risulterebbe che la cosa era avvenuta
sabato 8 e non sabato 15. Pure a settembre giunsero a Napoli altri rimpiazzi per il terzo fisso:

(Napoli, 25 settembre:) Sono gionte qui due compagnie spagnuole di nuova leva assai belle non
meno per il numero che per la qualità della gente.
229
Questo arrivo di fanterie spagnole è confermato da un avviso di Bologna riportante una
corrispondenza da Napoli del 6 ottobre e nel quale, dettagliandosi che i nuovi fanti erano giunti
a bordo di vascelli inglesi - vascelli che era allora abbastanza agevole trovare da noleggiare
anche nel Mediterraneo - ed erano destinati sia alle compagnie del terzo fisso sia ai vari presidi
del regno, se ne dava però un numero spropositato e cioè ben 2.300, evidente errore di stampa
trattandosi di sole due compagnie e di soli due vascelli; d'altra parte non sembra probabile che il
terzo fisso avesse proprio allora bisogno di tantissimi rimpiazzi, giacché solo pochi mesi prima
aveva assorbito la riforma del terzo nuovo.
Nell'ultima decade di settembre il marchese del Carpio spedì la galera S. Rosa carica d’attrezzi
militari destinati a provvista del castello di Baia; approdarono invece a Napoli i due barchi longhi
che erano stati a scorrere i mari di Calabria. All'inizio d’ottobre arrivarono a Nisida le galere
pontificie di ritorno dal Levante, dovendo proseguire poi il viaggio verso il loro porto di
Civitavecchia, dove andavano a svernare data la stagione ormai avanzata e che non più
permetteva la navigazione di quei leggeri e instabili vascelli, e si stavano frattanto ritirando nei
loro porti anche le squadre della monarchia di Spagna. Il marchese del Carpio inviò in
quell'isoletta l'aiutante di tenente generale Agostino Requero perché complimentasse
(salutasse), secondo l'uso, il comandante di quella squadra e gli portasse in dono gran quantità
di rinfreschi; ma, poiché si sentiva esser aumentata la peste in Levante e quei vascelli erano
arrivati carichi di bottino e di schiavi che avrebbero venduto a poco prezzo se fosse stato
concessa loro la libertà di farlo, fece subito anche pubblicare bando che nessuno potesse
comprare roba né schiavi dalle dette galere sotto pene severissime e, se poi qualcuno avesse
già comprato da loro qualche schiavo, avrebbe subito dovuto farlo rinchiudere nel Lazzaretto
per la debita quarantena.
Sabato 13 ottobre giunse nuova di un’importante vittoria ottenuta dalle armi imperiali in
Ungheria e il giorno dopo tale successo fu festeggiato in città nei modi di uso. Un altro avviso
bolognese - questo riguardante una corrispondenza da Milano, riferendosi alla riforma di buona
parte dell'esercito di Lombardia, ci evidenzia come le soldatesche napoletane che vi facevano
parte fossero considerate straniere a tutti gli effetti e ciò anche se invece ufficialmente si
sarebbero dovute ritenere tali solo quelle tedesche o borgognone:

(Milano, 24 ottobre:) Lunedì si diede poi la mostra come si accennò e seguì poi la riforma di 20
compagnie di fanteria italiana e due di cavalleria straniera Napolitana con un sargente maggiore

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e sua prima piana. Si sono smontati 500 cavalli (soldati a cavallo) tra dragoni e della cavalleria
straniera napolitana, quali si manderanno in Catalogna.

I predetti 500 soldati smontati furono infatti inviati, via Voghera e Serravalle, a imbarcarsi a
Genova, dove saranno passati in rivista il 12 novembre successivo. Probabilmente era tra le
predette compagnie di cavalleria riformate o inviate smontate in Catalogna anche quella del
capitano Ciarletta Caracciolo, il quale risultava in tal incarico ancora nell'agosto precedente;
troveremo però negli anni a venire il Caracciolo di nuovo nel Milanese, ma stavolta con la
patente di mastro di campo.
Oltre che esser considerati stranieri, come abbiamo appena detto, i meridionali erano anche
tenuti alla larga perché, sebbene alleati, erano ritenuti pericolosi come i nemici francesi; ecco
infatti che cosa si diceva in un altro avviso della gazzetta di Bologna:

(Genova, 27 ottobre:) Martedì arrivò qui il marchese di Cocogliudo, generale delle galere di
Napoli, col resto di quella squadra e con quelle di Sicilia e di Sardegna, onde si tengono chiuse
diverse porte (della città) come quando vi sono quelle di Francia, con assistenza de’ cavalieri
(genovesi) alle aperte.

Alla fine d’ottobre era già quasi finito a Montorio in Abruzzo il nuovo castello fatto costruire da
quest'attento viceré e chiamato S. Carlo in onore del re, castello che, possente e dotato della
migliore artiglieria e di tutto quant'altro occorrente, avrebbe avuto la funzione di scoraggiare la
ricostituzione in quel territorio di quel nido di banditi che vi aveva attecchito nel passato e che le
forze del marchese del Carpio avevano da poco tempo decisamente distrutto; ne era stato
nominato castellano l'aiutante di tenente generale Geronimo Lavagna, il quale si preparava
appunto a recarcisi alla testa di due compagnie di fanteria spagnola destinate di presidio al
detto castello, compagnie che verranno in seguito mutate periodicamente com'era normale per
tutti i presidi del regno. Questa fortificazione andava così ad affiancarsi all'altra, pure terminata,
posta a guardia degli Abruzzi e cioè alla rocca di Roseto di S. Giorgio di Castellana, fortezza
questa già ritenuta inespugnabile e il cui nucleo originario era stato donato alla corona dal duca
d'Atri suo proprietario.
Domenica 4 novembre, giorno di S. Carlo, si festeggiò a Napoli l'onomastico del re e il 6
successivo anche il compleanno:

… Questa mattina, giorno natalizio di Sua Maestà Cattolica, è comparsa tutta la milizia
spagnuola vestita nuovamente con vestiti di color incarnato (rosso), fodrati di color giallo, che
formavano una (non) men dilettevole che piacevole vista. Anco tutte le compagnie de’ cavalli
hanno avuti i lor vestiti nuovi, differenziandosi l'un dal'altra nel color diverso della fodra del
231
vestito, quali erano tutti di color pavonazzo. La guardia tedesca (gli alabardieri svizzeri)
ch'assiste a Sua Eccellenza parimente è comparsa molto vaga con vestiti a proporzione (foggia)
dell'usanza di quella nazione; ma sopra tutto è stata ricca e bella la livrea ch'ha spiegata
(dispiegata) tutta la famiglia bassa (servitù) di Sua Eccellenza, che non è poco numerosa, ch'ha
ben dimostrato la splendidezza e generosità dell'animo suo, che non risparmia a spesa purché
coloro che servono l'Eccellenza Sua compariscano ben vestiti.

Ancora all'inizio di novembre giunse a Napoli una catena di 16 condannati al remo inviata
dall'udienza di Montefuscoli e giungeva molto a proposito in considerazione che entro pochi
giorni si sarebbe varata una nuova galera nelle acque dell'arsenale. Con nuova da Milano del
24 ottobre si seppe poi a Napoli che 10mila moggi di grano prodotti nei due regni di Napoli e di
Sicilia stavano per essere sbarcati a Savio di Goro per rifornire quello stato; serviva in quel
tempo nel Milanese, in qualità di capitano di cavalleria alemanna, il napoletano Gioseppe
Giudici, figlio del duca di Giovenazzo, il che dimostrerebbe che erano solo gli spagnoli a voler
essere comandati solo da ufficiali della loro stessa nazionalità, eccezion fatta, come abbiamo
già osservato, per i Grandi di Spagna, i quali, anche se non spagnoli, a questi erano a tutti gli
effetti equiparati. Fu anche notizia da Genova, datata 24 ottobre, che il precedente martedì era
arrivata in quella città la squadra di galere di Napoli con il suo generale delle galere di Napoli
marchese di Cogolludo, il quale conduceva in quell'occasione anche le squadre di Sicilia e di
Sardegna, e risultava ancora in sosta in quel porto il 7 del mese seguente. Martedì 13 si
festeggiò un’altra vittoria dei cesarei in Ungheria, la cui notizia era arrivata al viceré portata la
sera precedente da un corriero espresso:

(Napoli, 20 novembre:) SI è poi saputo che la nuova della presa di Cassovia fu portata a Sua
Maestà Cesarea dal sargente maggiore del generale Caprara, il prencipe don Francesco
(Piccolomini) d'Aragona figlio del signor conte di Celano.

Verso la metà dello stesso novembre erano ormai quasi pronte le altre tre galere nuove che si
stavano costruendo nell'arsenale di Napoli e, non trovandosi in regno ciurma sufficiente per
esse, il viceré aveva già da tempo inviato denaro a Vienna perché se ne comprassero schiavi
mussulmani [... e già sono capitati qui sin dalla passata (settimana) 65 d'essi, tutta bella gente
proporzionata al ministerio cui vengono destinati... (Napoli, 20 novembre)]; e, mentre si
aspettava l'arrivo d’altri di questi remiganti, giunsero anche, inviati dal Tribunale di Campagna,
31 condannati al remo, primi di numerosi delinquenti che dovevano presto esser spediti nella
capitale dalle Udienze Provinciali del regno.

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Alla fine di questo novembre due donne accusate di stregoneria e arrestate, furono condotte
[con numeroso seguito di ragazzi e guidoni (‘guidati’)] alla Gran Corte della Vicaria per essere
esaminate con la tortura e giudicate; furono presto condannate a sette anni di galea donnesca,
luogo detentivo chiamato la Penitenza e che non sappiamo dire se si trattasse effettivamente di
un vascello remiero adibito a carcere, tenuto a secco in porto e non atto alla navigazione
oppure di un vero e proprio carcere femminile; e furono anche fortunate, perché ricordiamo a
questo proposito che l’ultimo rogo di una strega di cui si desse notizia nelle cronache di Napoli
era avvenuto appena nel 1701 a Palermo. Di un’altra di queste condanne alla galea donnesca
gli avvisi di Napoli diranno nell’ottobre del 1700.
Nel primo pomeriggio di sabato 1° dicembre, richiamate dal viceré e provenienti da Genova,
tornarono a Napoli le 22 della squadra di Spagna, le quali quindi non si erano affatto andate a
ritirare nelle loro basi invernali come si era detto; la versione ufficiale di questi loro ultimi viaggi
era che avevano scorso i mari di Ponente senza aver mai incontrato alcun legno nemico, ma
ora c'era davvero ordine che andassero a ritirarsi nei loro rispettivi porti. A bordo della squadra
del duca di Tursi si sarebbe dovuto trovare lo stesso duca, ma ciò non era avvenuto in
considerazione che questo capitano generale aveva appena ottenuto dal re licenza di stare ben
cinque anni senza navigare, in modo da poter così pensare a maritarsi e ad assicurare con un
erede la successione alla sua casata che rischiava di estinguersi, essendone egli infatti l'ultimo
rampollo.
La sera di lunedì 3, vigilia di S. Barbara protettrice degli artiglieri, furono bruciate davanti al
palazzo reale, probabilmente a spese della stessa compagnia dei bombardieri, due macchine di
fuochi artificiati (che riuscirono molto dilettevoli); si trattava di costruzioni in legno, allora di
prammatica in ogni festa o ricorrenza, simili agli odierni gigli di Nola o a quelli che pure tuttora
s’usano in Toscana, o anche, se muniti di ruote, agli odierni carri allegorici. La mattina del
giorno seguente approdò a Napoli una feluca a bordo di cui ritornava da Genova Beltrán de
Guevara, generale delle galere di Sicilia, il quale non si era potuto imbarcare sulla sua squadra,
quando questa aveva lasciato quella città, a causa di una grave infermità che l'aveva ridotto
quasi in fin di vita; ora, essendo del tutto guarito, nel primo pomeriggio di venerdì 7 dicembre
salpò con le sue galere che l'avevano atteso a Napoli e fece rotta per Palermo con vento
favorevole; sulle stesse galere di Sicilia si era imbarcato il duca di S. Giovanni di casa
Ventimiglia e nel frattempo si preparavano a rimpatriare anche quelle di Sardegna.
La mattina di lunedì 10 lasciò Napoli, ma via terra, anche l'aiutante di mastro di campo generale
Geronimo Lavagna, il quale si recava in Abruzzo a prendere possesso, come si è già detto, del

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suo nuovo incarico di castellano (governatore) della nuova fortezza di Montorio e conduceva
con sé circa 100 muli carichi d'attrezzi militari destinati ad approvvigionare quella roccaforte.
Sempre nell'ambito del programmato rafforzamento di quei confini abruzzesi per ostacolare i
tentativi di rientro in regno che i fuorusciti rifugiatisi nello Stato Ecclesiastico facevano di
continuo, al mattino di venerdì 21 dicembre, alla testa della sua numerosa compagnia di fanteria
spagnola, partiva il capitano Sancho Ordoñes e la portava a servire di presidio alla città di
Teramo; la mattina seguente partiva anche l'alfiere riformato Pedro del Valle con altri 30 fanti
spagnoli, destinati costoro alla custodia del nuovo forte di Roseto; il seguente martedì 25, pure
per presidiare Teramo, s’incamminò la compagnia del capitano Juan Ximenez de Escudero e
infine nei giorni successivi si avviarono per l'Abruzzo altri 50 muli carichi d'attrezzi militari per
servizio delle predette fortezze, mentre giungeva invece a Napoli il mastro di campo Alonzo
Torrejon y Peñalos, il quale lasciava il suo incarico di preside di Chieti e era ad assumere quello
più prestigioso di castellano del Castel dell'Ovo. Quasi a voler rimarcare il ruolo da lui avuto nel
recente sterminio dei banditi abruzzesi, il detto Torrejon si portava dietro tre banditi che aveva
catturato via facendo verso Napoli, avendoli incontrati e riconosciuti per tali sebbene fossero
travestiti da pecorai.
Nel corso dello stesso dicembre era frattanto tornato a Napoli Marino Carafa, fratello di Marzio,
duca di Maddaloni, dopo aver servito molti anni in Catalogna come mastro di campo di un terzo
di fanteria napoletana e avendo infine ottenuto la nomina a sargente generale di battaglia; nel
suo terzo aveva tra gli altri militato un fratello del già ricordato Francesco Piccolomini d'Aragona
principe di Valle. In questo periodo morì combattendo nell'esercito cesareo contro i turchi il
capitano di cavalleria Bonaventura Bologna dei duchi di Palma Campania, il quale aveva
mostrato il suo valore nelle battaglie di Treviri, Filisburgo (sic), Vienna, Strigonza (sic) e altre
ancora; finì affogato in un fiume durante un’azione di guerra.
Antonio Carafa, signore di Forlì del Sannio e conte del Sacro Romano Impero, era invece in
questo stesso anno nominato tenente maresciallo di campo nell'esercito cesareo, nel quale
serviva da circa vent'anni combattendo quella guerra senza fine contro l'impero ottomano,
impero che, per nostra fortuna, trovò alla sua espansione in Europa due insormontabili ostacoli
e cioè la corte di Vienna e il senato veneziano; infatti era stato inviato giovanetto in Austria nel
1665 e colà era stato prima gentiluomo di camera dell'imperatore, poi capitano di cavalleria,
sargente maggiore, tenente colonnello, colonnello di un reggimento di corazze, il quale da allora
in poi e per lungo tempo si chiamerà sempre reggimento Carafa, e poi generale di battaglia; nel
1686 comanderà un corpo di ben 22 reggimenti col grado di tenente maresciallo generale della

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cavalleria e nel novembre del 1688 sarà promosso maresciallo di campo (generale maresciallo)
in quel potente esercito cesareo che in detto anno conterà ben 100 battaglioni di fanteria e 44
squadroni di cavalleria; sarà poi commissario generale di tutti gli eserciti cesarei e infine
governatore dell'Ungheria sino alla fine del 1687, quando, dovendosi incoronare re di Ungheria
Gioseppe d’Austria, primogenito dell'imperatore Leopoldo I, fu rimosso da quell'altissimo
incarico ormai superfluo. In questo1685 gli imperiali del duca di Lorena avevano conseguito in
Ungheria altri importanti successi contro gli ottomani sconfiggendoli a il 17 agosto a Nesmil e
poi prendendo loro il 19 la grande piazza di Nayaysel dopo cinque settimane d’assedio;
successivamente avevano più volte sconfitto anche i ribelli ungheresi, culminando con la presa
di Cassovia (‘Košice’) in Slovacchia il 25 ottobre. Più a sud nei Balcani i croato-imperiali del
maresciallo Leslie e del conte Francesco Erdeody ebbero anch’essi più volte la meglio sui
turchi, soprattutto ad agosto con la vittoria e sacco di Eszék, con il sacco di Dubizza e quello di
Vranograd, avvenuto quest’ultimo il 19 ottobre; invece a est, polacchi lituani e cosacchi avevano
avuto quest’anno la peggio. Sempre in questo 1685 si distingueva all'estero per il suo valor
militare ancora un altro napoletano e cioè Andrea Miroballo, colonnello di un reggimento di
ultramarini della Signoria di Venezia, distinguendosi con tale corpo prima a Candia e poi nella
conquista della Morea, conquista che i veneziani, imbarcate fanterie tedesche e con il
sostanzioso aiuto dei loro alleati maltesi, toscani, pontifici e mainoti, compirono tra il 1685 e il
1687 prendendo o riprendendo ai turchi – anche se in alcuni casi solo temporaneamente - nel
primo dei detti anni via via nell'ordine le piazze di Corone (10 agosto), Zarnatta (11 settembre),
Kalamata (14 settembre) con altri luoghi fortificati in quella regione; e poi nei due anni seguenti
Navarino Nuovo, Modone, Napoli di Romania (oggi Nàuplia), Castel Novo, Lepanto, Portrano
(sic) e i Dardanelli, sconfiggendo inoltre in quei giorni i turchi anche in una battaglia navale
combattuta presso l’isola di Scio, luogo che sino ad allora aveva portato fortuna ai veneziani in
considerazione che vi avevano già vinto gli ottomani nel 1431 e nel 1657. Eppure la campagna
di questo 1685 era iniziata male per i veneziani, essendo stato nell’aprile sconfitto dai turchi il
loro generale Valieri mentre tentava di prendere Signo in Croazia, rifacendosi però più tardi i
lagunari a Duare.
Per aiutare i veneziani così impegnati militarmente contro i turchi a salvaguardia non solo dei
loro vitali interessi in Levante, ma anche di quelli dell'intera cristianità saranno raccolte milizie in
Lombardia e nel Regno di Napoli; tra le soldatesche inviate a Venezia da Milano alla fine del
1685 c'era un terzo di fanteria lombarda formato dal mastro di campo napoletano Annibale
Moles dei duchi di Parete di Caserta, il quale era stato prima soldato intrattenuto - ossia

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stipendiato, ma fuori ruolo - sulle galere di Napoli, poi aveva partecipato alla guerra contro
Messina e infine era stato trasferito a Milano dove, prima di esser promosso mastro di campo
era stato, secondo una normale prassi di carriera, capitano di cavalleria.

1686. Circa alle 6 della sera di venerdì 18 gennaio morì, alla bella età di 86 anni, il capitano
generale dell'artiglieria del regno e cavaliere gerosolimitano Titta (Gioan Battista) Brancaccio,
uomo stimatissimo per la sua esperienza e virtù militari; il suo corpo fu imbalsamato e i suoi
funerali ebbero luogo lunedì 21 secondo la consueta coreografia riservata alle esequie degli
ufficiali generali, cioè, tra l'altro, con squadronamenti di fanti armati di moschetti e archibugi
tenuti alla rovescia, di picche strascinate per terra, con tamburi scordati e coperti con panni di
scoruccio (‘da lutto’), con gli ufficiali vestiti di nero e con la cavalleria che, allo stesso modo,
teneva le carabine alla rovescia e suonava le trombette munite di sordelline. Fu seppellito la
sera di quello stesso 21 gennaio nel sepolcro di famiglia sito nella chiesa di S. Domenico
Maggiore; tra le altre disposizioni testamentarie si distingueva il lascito di 6mila scudi che questo
generale aveva fatto ai monaci Pii Operari della chiesa di S. Nicola alla Carità.
La mattina di lunedì 28 gennaio 800 fanti regnicoli di nuova leva e 150 briganti accordati, i quali
erano come il solito tenuti rinchiusi nell’arsenale in attesa d’imbarco, salirono su quattro legni
che da Napoli avrebbero dovuto portarli a Cartagena in Spagna e poi da là, secondo quanto si
diceva, sarebbero stati inoltrati in Fiandra per reclutare i terzi napoletani che in quella provincia
servivano. Salparono la mattina seguente, ma a causa dello scirocco contrario, furono costretti
a tornare in porto; ripartirono poi definitivamente mercoledì 2 febbraio verso le ore 22 della
notte, spirando ora una tramontana favorevole alla rotta verso la Spagna. Nella prima decade di
febbraio approdò al porto di Napoli dalla Spagna una nave che portava 180 spagnoli bisoños,
cioè reclute come già sappiamo, per il terzo fisso del Regno di Napoli; i nuovi arrivati (tutta bella
gente) dettero mostra nell’arsenale alla presenza del viceré sceso dal palazzo ad accoglierli.
Nel corso di detto febbraio si provvedeva alla leva di fanterie regnicole per Venezia, anzi era la
stessa Venezia ad avere patente d’arruolare direttamente nel Regno di Napoli e si parlava
pertanto non della formazione di un terzo, bensì di un reggimento, perché così si chiamavano,
ovviamente, i corpi in cui si suddivideva non solo la fanteria veneziana, ma tutte quelle
dell’Europa non soggetta alla Spagna:

(Napoli, 19 febbraio 1686:) Il Viceré da permesso perché la Republica di Venezia possa levare
2.000 uomini per la guerra contro il Turco. Se ne concedono subito 1.000, che si stanno

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levando insieme con quelli per recluta delle compagnie italiane all'arsenale che devono andare
in Catalogna.

Il colonnello Vespasiano Giovene fu incaricato dalla signoria di Venezia d’arruolare questi


soldati, i quali furono vestiti ed equipaggiati a Napoli prima di partire.
Una mostra generale fatta dall'esercito e dai castelli di Milano nello stesso febbraio ci informa
dei corpi napoletani che allora servivano in quell'esercito e si tratta dei seguenti:

- Terzo del mastro di campo Marc'Antonio Colonna (196 ufficiali e 966 soldati).
- Una compagnia sciolta di fanteria comandata da Gioan Battista Caracciolo
(10 ufficiali e 48 soldati).
- Sei compagnie di cavalleria (35 ufficiali e 337 soldati).

In effetti poi, a seguito di una relazione sulla consistenza dell'esercito che Antonio Lopez de
Ayala Velasco y Cardeñas conte di Fuensalida, allora governatore di Milano, invierà in data 21
maggio 1686 in Spagna al Consiglio d'Italia, questo proporrà al re, tra l'altro, di mantenere il
terzo dei napoletani sul piede di 1.500 uomini, aggregandovi le compagnie sciolte di fanti
regnicoli che esistessero già nel Milanese o che vi arrivassero nel prossimo futuro, e la
cavalleria partenopea su quello di cinque compagnie.
Verso la metà del mese lasciarono invece Napoli le galere del duca di Tursi per recarsi,
secondo il solito, a svernare a Gaeta. Stava avendo frattanto un prospero effetto la leva di
fanteria regnicola concessa ai veneziani, come si leggeva in un avviso del 26 febbraio,
essendosi già arruolati circa 300 uomini nella sola capitale; per evitare le spese di
mantenimento di questi nuovi fanti, essi furono subito mandati a Venezia a bordo d'alcune
tartane, non trovandosi disponibili al momento legni più grossi, e lo stesso si contava di fare con
gli altri che si stavano raccogliendo.
Furono, sempre in febbraio, portati a Napoli dall'Abruzzo un bandito vivo e la testa di un altro
ucciso dai soldati di campagna di quella provincia; il prigioniero fu rinchiuso nel carcere della
Vicaria Criminale e la testa, posta in una gabbia di ferro, com'era uso, fu esposta nell'arsenale,
forse ad ammonimento dei briganti accordati che si andavano di tanto in tanto arruolando e
rinchiudendo là dentro con gli altri coscritti nell’attesa d'espatrio. Le cose, secondo quanto si era
raccontato, erano andate nella seguente maniera: un fuoruscito di nome Antonio Capriotto e un
altro bandito erano insieme ritornati in Abruzzo dallo Stato della Chiesa dove si erano in
precedenza rifugiati, nell'illusione che le forze dell'ordine li avessero ormai dimenticati; invece
un caporale di campagna, avvisato che i due si trovavano nelle loro stesse case, in quelle li

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aveva sorpresi nottetempo e il Capriotto, gettandosi dalla finestra per scappare, era stato
raggiunto e ucciso da più archibugiate, quindi decapitato perché con la sua testa se ne potesse
dimostrare poi a Napoli l'incontrovertibile morte.
Venerdì 8 marzo giunse dall'Inghilterra a Napoli per la via delle poste, ossia con una carrozza
postale - tramite questo più comune per chi voleva viaggiare in quei tempi via terra - Sigismondo
de Rho barone di Villarmin, nominato dal re tenente generale della cavalleria del regno su
petizione del sovrano di Gran Bretagna, al cui servizio egli aveva molti anni militato; il barone
prese ufficialmente possesso della sua nuova carica solo tre settimane dopo:

Sua Eccellenza lo regalò di un bastone da comando stimato assai non meno per la singolar
manifattura che per il valore.

Questi bastoni di comando per gli ufficiali generali erano perlopiù d’argento indorato e adorno di
coralli e talvolta anche di vere e proprie gemme. La sera di venerdì 29 marzo, per uno dei soliti
cambi annuali di guarnigione dei Presidi di Toscana a cui, come abbiamo già detto, riteniamo
utile accennare solo di tanto in tanto, partì da Napoli a quella volta un convoglio di 11 galere -
sette di Napoli e quattro del duca di Tursi - sul quale erano imbarcati ben 2.100 soldati a quella
muta destinati, cioè 14 compagnie di fanti spagnoli e cinque d'italiani, all'imbarco di cui aveva
assistito lo stesso viceré; queste galere fecero ritorno a Napoli giovedì 11 aprile portando da
quelle piazze tutta la tramutata guarnigione (tutta bella gente, a cui si stanno facendo li nuovi
vestiti.) Tra le dette cinque compagnie di fanteria italiana c'era quella del capitano Domenico
Dentice, nobile ufficiale che, come vedremo, farà carriera e anni dopo passerà infatti alla guida
di un reggimento di cavalleria col relativo grado di colonnello. Tra queste milizie spagnole e
napoletane inviate in Toscana non si stabilì però una convivenza serena, perché infatti nel
giugno successivo si verificheranno a Porto Longone feroci scontri tra le due nazionalità con
numerosi morti, tanto da costringere il viceré a inviarvi urgentemente alcune galere con il
compito di riportarvi l'ordine. Una delle suddette galere del duca di Tursi avrebbe poi proseguito
per Genova per portarvi il reggente della Gran Corte della Vicaria Marc’Antonio de Risi, il quale
era in viaggio per Madrid dove andava ad assumere il suo nuovo incarico di rappresentante del
Regno di Napoli nel prestigiosissimo Real Consiglio d’Italia.
Giunse un ordine reale del 3 aprile con cui il sovrano comandava di inviare oltremare i soldati di
nuova leva che si trovavano rinchiusi negli alloggi dell’arsenale al fine di reclutare i terzi
napoletani che servivano in Lombardia, catalogna e Fiandra. Venerdì 19 aprile il viceré scese
dal suo palazzo nel sottostante arsenale per porre il primo chiodo alle due nuove galere - una
238
Capitana e l'altra ordinaria - alla cui costruzione, per cui in genere occorrevano non meno di una
decina di mesi, si doveva ora procedere con gran fretta. Nello stesso aprile tre delle galere del
duca di Tursi che avevano partecipato alla muta delle guarnigioni di Toscana partirono per
Gaeta, dove portavano due compagnie spagnole e due italiane per rinforzo di
quell'importantissima fortezza.
La sera di venerdì 26 aprile arrivò l’alcance (‘corriero’) dalla Spagna, il quale questa volta
portava la nomina a generale dell'artiglieria del regno per il generale di battaglia Marzio Origlia
duca d’Arigliano; questi aveva ricoperto in precedenza con molto onore la carica di sargente
maggiore di battaglia in Fiandra e ora si trovava nello Stato di Milano alla testa di un terzo di
fanteria italiana. In questi giorni 11 remiganti erano fuggiti da una delle galere ormeggiate a
Napoli; essi, pervenuti alla spiaggia di Pozzuoli e trovata colà una barca con due marinai, se ne
impadronirono e, posti i due malcapitati sotto coperta, s’ingolfarono, cioè fecero rotta verso il
largo; incontrati però da una tartana, evidentemente da una di quelle armate in corso che
aiutavano la squadra di galere a difendere le acque del regno da pirati e corsari nemici, furono
da questa abbordati e, nello scontro che ne seguì, tre galeotti restarono uccisi e gli altri feriti e
ricondotti a Napoli, dove era già in corso il processo che avrebbe sentenziato il loro castigo. Si
era poi saputo dall'Abruzzo che il capo-brigante fuoruscito Nicola Stellato, nativo di S. Maria di
Capua, il quale si trovava riparato nello Stato Ecclesiastico, avendo riattraversato il confine con
numerosi accoliti e con l'intento di svaligiare il procaccia di Sora, era stato subito inseguito dalle
forze guidate dall'energico preside dell'Aquila Antonio Minutillo e, raggiunto sul monte di
Ceratola nell'Aquilano, lui, il suo vice e un altro brigante erano stati uccisi e decapitati, quattro
altri briganti erano stati gravemente feriti, uno preso vivo e incolume e gli altri dispersi; era stato
inoltre liberato un ricatto, ossia un uomo che detti briganti avevano sequestrato poco prima con
l'intenzione di chiederne appunto il riscatto; le tre teste e il prigioniero incolume arriveranno poi
a Napoli la mattina di venerdì 3 maggio. Martedì 30 aprile partirono per la Calabria due galere
con il compito di sbarcare soldatesche spagnole che avrebbero dovuto catturare il barone di
Montebello, reo di gravissimi delitti. Egli infatti, invaghitosi della sorella del marchese di
Pentidattilo, l'aveva chiesta in moglie e, essendogli stata negata, aveva con uomini armati
aggredito la famiglia del marchese in casa loro, sterminandola barbaramente, uccidendo anche
dei bambini, portandosi via degli ostaggi e infine rifugiandosi in un bosco alla testa di 150
albanesi del suo feudo. Il viceré aveva ordinato a tutti i presidi e ufficiali militari di quella
provincia d’arrestarlo, ma, considerate le forze di cui il barone disponeva, aveva dovuto appunto
inviare nella zona un contingente militare.

239
Avuta poi il viceré notizia, dopo qualche tempo, che il predetto barone di Montebello si era già
due volte cimentato con le forze che aveva colà inviato, forze che erano sotto la guida del
marchese Garofano, preside di Catanzaro, spediva immediatamente a quella volta altre quattro
galere con cinque compagnie di fanteria spagnola, mentre la mattina del 4 maggio facevano
ritorno a Napoli le prime due che aveva in precedenza mandato a Pentidattilo e così si seppe
che la strage commessa dal folle barone era consistita nell'uccisione di sette persone e cioè del
marchese, della madre, di una sorella, di un fratello e di due gentiluomini di casa e in più di un
servo del consigliero Pedro Cortez che colà accidentalmente si trovava. Era il marchese del
Carpio deciso a combattere la criminalità in qualunque classe sociale si annidasse e infatti, oltre
alla suddetta azione contro il barone di Montebello, le cronache di questo bimestre di aprile-
maggio riportano gli arresti domiciliari inflitti al principe di S. Nicandro e la carcerazione di tutti i
suoi servitori in seguito al ritrovamento di un cadavere di donna in casa sua, inoltre l’arresto e la
tortura del duca d’Ardore di casa Marzano per vari misfatti da lui commessi, l’arresto del duca
dell’Acconia di casa Piccolomini per aver fatto uccidere una vedova; infine il trasferimento di
quest’ultimo, del marchese di Brienza di casa Caracciolo - entrambi detenuti nel castel dell’Ovo
- e del governatore di questo, anch’egli posto in stato di arresto, al castello di S. Eramo, dove
non avrebbero potuto godere dell’eccesso di libertà sino allora loro concesso appunto da detto
troppo compiacente governatore.
Venerdì 3 maggio era frattanto approdata a Baia la squadra delle galere pontificie in viaggio
verso il Levante, dove andava a unirsi all'armata veneziana che vi operava contro i turchi; molti
degli ufficiali che comandavano quei legni scesero a terra e furono a Napoli per godere, ben che
di passaggio, le delizie di questa Capitale. Queste galere riprenderanno il loro viaggio la
settimana successiva.
All’inizio dello stesso maggio era in quel mentre passato a miglior vita il già più sopra ricordato
fra’ Virginio Valle, tenente generale e in precedenza commissario generale della cavalleria,
morto a 76 anni dopo aver esercitato per ben 22 anni la carica di priore di Sant’Eufemia
nell’ordine gerosolimitano di S. Giovanni, vulgo di Malta. Tornarono poi dalla Calabria le quattro
galere mandate ultimamente contro il barone di Montebello e portarono notizia che la vicenda si
era conclusa con la fuga dal regno del barone, travestito da pecoraro e accompagnato da due
suoi accoliti; diversi altri suoi seguaci erano stati presi e portati a Reggio, dove due erano in
seguito stati strascinati per la città e poi arrotati, tre impiccati e altri carcerati nell’attesa d'essere
anch'essi giustiziati; raccontarono inoltre che due accoliti del barone avevano opposto molta
resistenza, fortificandosi in una piccola casa non lontana da Reggio e colà avevano impegnato

240
con gli archibugi i soldati che li assediavano, uccidendone alcuni e colpendo addirittura il
cappello del governatore di Reggio senza però procurargli nessuna ferita; poi, dopo questo
lungo contrasto, vista l'inutilità della loro difesa, si erano arresi alle genti di corte, non senza
aver chiesto però prima misericordia, ed erano stati consegnati al predetto marchese Garofano.
Il viceré fece subito pubblicare un bando che poneva una taglia di 6mila ducati sul barone di
Montebello, da pagarsi a chi lo ponesse vivo o morto in potere della corte e inoltre si concedeva
indulto generale, eccezion fatta per il crimine di lesa maestà, a tutti coloro che avessero
assistito o cooperato a detta cattura. All'inizio del mese successivo arriveranno da Reggio
notizie che daranno il barone non più fuoruscito dal regno, bensì protagonista di un nuovo
scontro a fuoco con i soldati di campagna, scontro accidentale da cui egli sarebbe riuscito
ancora una volta a fuggire benché stavolta ferito; in seguito, né negli avvisi pubblici né nei diari
privati si parlerà mai più del folle barone di Montebello, se non per segnalarne la morte.
Nello stesso maggio, intanto, un altro capo-brigante era stato catturato e si trattava di Marco
Stellato, fratello del già decapitato Nicola; costui, segnalato tra le montagne della baronia di
Formicola in compagnia d'alcuni altri briganti, tra cui quello conosciuto come L'Abate Marco,
nativo d'Orta d'Atella, casale di Capua allora detto Orta delle Carti (sic). I soldati inviati a quella
volta dal viceré avevano preso vivo lo Stellato, decapitato uno dei suoi compagni, seriamente
feritone un terzo e inseguivano ancora i rimanenti.
Nella prima decade di giugno giunse a Napoli il già nominato mastro di campo Marzio Origlia, il
quale veniva ad assumere la sua nuova carica di capitano generale dell’artiglieria del Regno di
Napoli; arrivarono anche circa 30 schiavi turchi, tra uomini e donne, i quali erano stati catturati
sulle marine d'Otranto. Con una lettera al padre, il conte di Celano, il sargente maggiore
Francesco Piccolomini d'Aragona principe di Valle lo informava che il 13 giugno era stato
nominato colonnello di un reggimento cesareo e che c’era anche una nomina a capitano di
fanteria per suo fratello Enea, questo già in viaggio per Vienna; Francesco si trovava allora
all'assedio imperiale della fortezza di Buda, la cui cittadella era rimasta, come abbiamo detto, in
mano turca dopo il vano assedio del 1684, e, durante l'assalto generale del 27 luglio di questo
1686, per imitare il principe Eugenio che, per esser più spedito, si era tolta la giamberga, ossia
la marsina, volle Francesco togliersi fatalmente la corazza e una palla lo uccise. Il 9 settembre
morirà anche Michele d'Aste barone d'Acerno in seguito alle molte ferite riportate nell'assalto
finale del giorno 2 precedente, assalto in cui egli si era comportato eroicamente, come si legge
in un certificato di servizio postumo citato dal Filamondo:

241
... Questo bravo giovine avea avuto l'honore (om.) di montare il primo su la breccia con cent'
uomini armati di corazza e piantare il primo lo stendardo della Croce su le mura di Buda (Cit. P.
525).

Michele d'Aste, il quale era stato nominato luogotenente colonnello del reggimento del
marchese di Grana l'anno precedente, sarà sepolto nella cattedrale di Buda, nella quale infatti si
potrà poi leggere il suo epitaffio.
Tornando ora alle nostre cronache, diremo che alla fine di giugno di questo 1686 giunsero a
Napoli dalle province due catene di condannati al remo, una di 14 e l'altra di 28 forzati. Alla fine
della prima settimana di luglio lasciarono Napoli per Genova tre galere del duca di Tursi che
andavano a ricevere la catena dei condannati al remo provenienti dallo Stato di Milano e quindi
a provvedersi di remieri; evidentemente, pur se questa squadra era tradizionalmente guarnita di
fanterie originarie del Regno di Napoli, non le era però concesso dal re di usare remiganti di
quella stessa nazione e le erano pertanto a tal fine assegnati i forzati del Milanese. Altre catene
di condannati al remo arrivarono a Napoli nel luglio e cioè venerdì 12 una di 16 inviata
dall'udienza di Matera e, circa una settimana più tardi, una di 30 mandata dal tribunale del
commissario generale di campagna; tutti i condannati della prima di queste due catene e cinque
della seconda furono però, per ordine del viceré, rinchiusi nelle carceri della Gran Corte della
Vicaria perché le loro cause venissero di nuovo esaminate; il perché di questo provvedimento
non è riportato, ma c'è da credere o che si volesse condannarli a periodi di voga più lunghi
oppure a convertire le loro pene al servizio militare.
Seppesi che il generale delle galere di Malta, il quale, come abbiamo già detto, era allora il
priore dell'ordine a Napoli e cioè Gioan Battista Brancaccio, aveva inviato in dono alla
congregazione dei nobili di Sorrento uno stendardo turco da lui preso sotto la fortezza di Corone
l'anno precedente, affinché fosse conservato nella locale chiesa di S. Bacolo, dove si venerava
il corpo di questo santo patrono, il quale, anch'egli di casa Brancaccio, era stato vescovo di
Sorrento.
Verso la fine di luglio arrivarono a Napoli dalla loro base di Gaeta quattro galere del duca di
Tursi che il viceré aveva richiesto; queste, assieme a sei galere napoletane, salparono dopo
dopo settimane alla ricerca - come si disse - dei corsari barbareschi che recentemente avevano
attaccato le marine pugliesi e calabresi prendendone schiavi diversi abitanti; invece all'inizio
della terza decade d'agosto quelle genovesi erano già di ritorno in compagnia delle rimanenti tre
della loro squadra, la cui galera Capitana recava a bordo lo stesso duca d’Oria, per ripartire poi
per Genova, sembra il 28 agosto, portando ora a bordo il marchese di Cogolludo, generale,

242
come sappiamo, di quelle del Regno di Napoli, il quale si recava nel capoluogo ligure - dove
arriverà la sera di lunedì 2 settembre - per poi proseguire via terra per Milano e infine per la
Corte di Madrid dove era stato convocato; in seguito, come si leggerà in un avviso genovese del
15 settembre, gli equipaggi di queste galere dei particolari genovesi verranno alle mani con
quelli delle galere della repubblica restandone alcuni uomini feriti; ritorneranno ancora a Napoli
nei primi giorni d'ottobre, mentre le sei suddette napoletane non riappariranno nella rada della
capitale prima della mattina di lunedì 16 settembre; queste effettivamente avevano dapprima
pattugliato le coste della Calabria fino al Capo delle Colonne (oggi Capo Colonna), cosiddetto
perché sormontato da antiche rovine, e poi erano arrivate a Malta in una non ben precisata
missione di supporto al Gran Maestro di quell'ordine militare.
Dopo il 15 agosto arrivò a Napoli il conte di Sanfrè di casa Isnardi, inviato del principe di Baviera
alla corte pontificia per portare al Papa sollecitamente la notizia ufficiale dei primi importanti
risultati ottenuti dall’esercito imperiale impegnato nella riconquista di Buda, spinto dal desiderio
di vedere questa capitale, ed era questo un consueto prolungamento che coloro che si
recavano a Roma spesso decidevano, tale essendo la fama delle bellezze partenopee. Napoli
era allora infatti ricca non solo di suggestivi paesaggi e di venusta architettura, ma era anche
città ricca d'odorosi giardini, specie nel borgo di Chiaia. Nel pomeriggio di lunedì 19 il marchese
del Carpio, desideroso di mostrare all'ospite straniero la potenza militare del regno, organizzò
nel detto borgo di Chiaia una grande parata del tipo di quella che tradizionalmente colà si
teneva l’8 settembre in occasione della festa della Madonna di Piedigrotta. Si vide così tutta la
soldatesca spagnola squadronata in quattro battaglioni e spalleggiata dalla cavalleria; furono
schierati anche i riformati e i presidiari per far sembrare quelle forze il più numerose possibile,
mentre nel mare antistante quella lunga spiaggia si disponevano sia le galere della squadra di
Napoli sia quelle del duca di Tursi, tutte piacevolmente ornate di fiamme e stendardi. Il viceré vi
si recò in carrozza, seguito dalla sua compagnia di lance condotta dal loro alfiere Miguel de
Aguirre, da un nutrito corteggio d'altre carrozze e, nel tornare, fu salutato da salve di
moschetteria e dalle artiglierie delle galere. Purtroppo la manifestazione fu funestata da un
grave incidente; una galera, forse per la cattiva stiva, ossia disposizione dei pesi a bordo, datale
dal suo Comito, forse a causa di un’improvvisa ondata laterale, certamente perché equipaggiata
per l'occasione da gente inesperta, si rovesciò improvvisamente su un fianco e si capovolse,
provocando così l'affogamento di tutti i disgraziati galeotti incatenati ai loro banchi.

243
Un avviso di Fiandra riportava l'arrivo in quella provincia di 400 fanti napoletani, probabilmente
un residuo dei 950 che, come abbiamo visto, avevano lasciato Napoli il 2 febbraio di questo
1686:

(Bruxelles, 5 settembre:) ... Li 400 fanti italiani levati a Napoli per reclutar li regimenti (‘terzi’) di
quella nazione sono arrivati a Malines, dove il mastro di campo Cantelmo è andato per ordine di
Sua Eccellenza (il governatore di Fiandra) per ripartirli ne’ quartieri di rinfresco.

Nello stesso settembre, celebratesi le solite ricorrenze di Nördlingen e della Natività della
Madonna, furono festeggiati a Napoli anche due importanti successi militari ottenuti nella guerra
contro i turchi e cioè la definitiva presa di Buda, avvenuta il 2 settembre dopo lungo assedio da
parte degli imperiali del duca Carlo V di Lorena - la città era stata in mano turca sin dal lontano
1541, e, verso la fine del mese, quella di Napoli di Romania, città costiera del Peloponneso, la
cui resa era stata accordata il 29 agosto precedente dall'armata cristiana formata dalle squadre
unite di Venezia, Malta, Roma e Firenze, presa che si andava ad aggiungere a quelle già
ottenute in quel teatro di guerra l'anno precedente e che quindi costituiva un’ulteriore conferma
del declino della secolare potenza ottomana. La predetta città greca era stata dall’armata
cristiana bombardata sino a ridurla quasi in cenere, essendosi evidentemente i veneziani già
sufficientemente adeguati ai nuovi canoni della guerra marittima da poco introdotti dai francesi;
d’altra parte era questo un periodo in cui, proprio per i grandi e innovativi risultati dimostrati dai
transalpini in materia di esplosivi e di tecniche di bombardamento, tutti cercavano in Europa di
mettersi al passo; ecco a tal proposito un divertente avviso di questo stesso anno:

(Genova, 12 ottobre:) Un tal Mulet ingegniero fiamengo offerisce di far fuochi da palla e da
bomba che uccideranno tutte le persone vicine al crepamento e dimanda 125 pezze il mese. Se
gli è risposto che qui non vi è alcuno che voglia esporsi a tali prove.

In realtà provare le artiglierie era sempre un operazione pericolosa in considerazione che la


prova si faceva con la carica di polvere massima che un pezzo si riteneva potesse sopportare e
ciò per testarne la resistenza del metallo e quindi la sicurezza; gli incidenti di prova erano infatti
tutt’altro che rari, come per esempio quello, avvenuto molti anni prima, che ricordava il
Montecuccoli, il quale molto amava far fondere e provare alla sua presenza bocche da fuoco
dalle caratteristiche innovative propostegli da altri esperti della materia o da lui stesso
immaginate:

244
Il 24 luglio 1670 feci prova di due mortaj fatti di nuovo, che gettavano 200 libbre di pietra
cadauno. Il primo tirò via la pietra, di peso libbre 185, a 900 passi; il secondo a 1.145 passi. Indi
si gettò una granata pesante libbre 245, la quale, appunto nell’uscir fuori della bocca del
mortajo, crepò in pezzi e l’uno d’essi colse nel capo, accanto a me, il mio segretario italiano
Giuseppe Minucci e lo ferì a morte. Successe questo per disavventura, che la granata, non
assai bene nel mortajo situata, si volse e il cannello (‘spoletta’) nell’uscir si ruppe, onde prima
del tempo prese fuoco e scoppiò.

Dopo quella di Napoli di Romania l’ammiraglio veneziano aveva proposto a quelli suoi alleati
una nuova impresa, ma quelli, scusandosi con il pretesto che la stagione era ormai troppo
avanzata per l’uso delle galere, si dichiarandosi costretti a rimpatriare e così l’armata si disfece;
in effetti ciò avveniva ricorrentemente nelle leghe marittime promosse da Venezia, perché le
potenze ponentine, pur correndo in suo aiuto essendo a ciò spinte e incitate soprattutto dal
Pontefice, pensando di andare ad agire in mari e territori che facevano parte dell’area
d’influenza della Serenissima e quindi soprattutto nel suo interesse più che nel proprio,
cercavano sempre di sganciarsi da quelle guerre quanto prima era possibile. Infatti la mattina di
lunedì 12 settembre approdavano a Baia le galere toscane di ritorno dalla campagna di guerra
in Levante, mentre quelle pontificie passavano al largo senza fermarsi e dirette alla loro base di
Civitavecchia.
Giunse poi notizia che il napoletano Nicola Pignatelli duca di Monte Leone era stato nominato
dal re viceré di Sardegna, mentre anche giungeva nuova d'altre vittorie imperiali nella guerra
contro i turchi, i quali dopo Buda avevano perso in Ungheria via via Siklós, Darda, Kaposvár e
un’importante battaglia il 20 ottobre a Segedino, la cui guarnigione s’era pertanto arresa dopo
due giorni. Nei Balcani morlacchi, croati e veneziani avevano nel frattempo molto logorato gli
insediamenti schiavoni dei turchi e preso i primi soprattutto Clivano e Maidan, i secondi la città
croata di Cinque Chiese e i terzi, sconfitti i turchi a Budua, la difficile piazza montana di Sign o
Segna; attivi erano stati a est anche i cosacco-polacchi, forti della lega firmata con gli zar di
Mosca il 4 maggio.
La sera di venerdì 8 novembre la galera napoletana Tre Re partì alla volta di Reggio Calabria,
dove si recava a prendere in consegna un buon numero di condannati al remo, ma, non
riuscendo a passare le bocche di Capri a causa del vento contrario, la sera seguente se ne
ritornò in porto a Napoli, da dove poi le riuscirà di ripartire con vento favorevole solo sabato
successivo; in quei giorni erano salpate anche le galere dei particolari genovesi, ossia del duca
di Tursi, che andavano a svernare a Gaeta e un’altra che portava reclute regnicole assoldate
dai veneziani per la guerra di Morea. Da un rogito del 26 novembre siamo poi informati che si
erano in quel mese inviati a Barcellona, con una nave inglese noleggiata per l'occasione, 460
245
soldati regnicoli con otto capitani - ossia divisi in otto compagnie - e polvere pirica. Per quanto
riguarda invece le forniture di vestiario, si reperisce per quest'anno un solo partito ed era per la
fornitura di 800 vestiti violetti, cioè del colore che si usava per le fanterie italiane.
Fattesi frattanto dal viceré le nuove nomine ai presidati provinciali, toccò quello di Matera al
mastro di campo Simonetto Rossi; arrivò poi, nell'ultima decade di novembre, nuova
dell'importante vittoria cesarea ottenuta in Ungheria tra Seghedino e Cinquechiese. Morto
giovedì 28 novembre il mastro di campo Antonio Valenguela, capitano a guerra della città di
Gaeta, il viceré lo sostituì pro interim con il mastro di campo Luis de Monroy. La mattina di
sabato 30 giunsero parecchie intere famiglie di dalmati mussulmani fatte schiave dai cristiani
sotto le piazze conquistate dai veneziani e dai loro alleati in questa guerra di Morea e si diceva
che sarebbero stati facilmente venduti a privati essendo tutti giovani sani.
Quando una delle compagnie di soldatesca spagnola era conferita a un nuovo capitano, era
consuetudine che il novello comandante offrisse agli ufficiali del presidio suoi connazionali un
ricevimento in occasione della sua prima entrata di guardia al palazzo reale alla testa della sua
compagnia; ogni mattina alle dieci una nuova partita di fanti spagnoli veniva infatti a dare il
cambio a quella già di guardia e, in attesa che questa uscisse con bandiera e musica alla testa,
dopo alcune evoluzioni si squadronava in bella vista nella grande piazza davanti al palazzo
assistita da una compagnia di cavalleria. Un tale evento ebbe luogo sabato 7 dicembre e si
trattava del capitano Carlos Condé (sic), familiare del marchese di Cogolludo; gli ufficiali
spagnoli, intervenuti per la maggior parte, formarono essi stessi nel largo di Palazzo un bello
squadrone e si videro offrire prima un copioso rinfresco di dolciumi e poi ancora, la sera, una
lauta cena, il tutto a spese del malcapitato nuovo capitano!
Alla fine dell'anno lettere di Spagna portarono la notizia che il re aveva nominato il detto
marchese di Cogolludo ambasciatore a Roma, incarico che questi manterrà sino al 1692, e
passato il generalato delle galere di Napoli al marchese di Camarasa.

1687. Alla fine di gennaio la galera napoletana S. Antonio portò a Palermo Diego de Benavides
marchese di Solera, figlio del viceré di Sicilia, e fece ritorno dopo una ventina di giorni. Venerdì
31 tutta la fanteria spagnola e la cavalleria di Napoli, squadronate al borgo di Chiaia, salutarono
con salve di moschetteria Francesco II d'Este duca di Modena e Reggio, il quale si trovava in
visita a Napoli e quel giorno, servito da più tiri a sei del viceré, passava da quella strada costiera
per recarsi a vedere la famosa grotta di Pozzuoli, mentre nei giorni precedenti, imbarcatosi sulla
galera Capitana di Napoli e accompagnato da sette altre galere, era stato portato in gita per le

246
amene riviere del golfo fino a sera; questo principe lascerà Napoli martedì 4 febbraio, essendo
diretto a Roma via Terracina, porto a cui fu portato con il bergantino personale del viceré, non
avendo egli complimentosamente accettato una scorta di galere; ma il viceré ne invio due alla
volta di Gaeta perché preavvisassero del suo arrivo le cinque del duca di Tursi che colà
stazionavano e le incaricassero di scortare Francesco II da Gaeta all’imboccatura del Tevere,
dove avrebbe poi risalito il fiume sino a Roma con il detto bergantino. Il viceré di Napoli
disponeva infatti di una sua gondola e di un suo bergantino, i quali erano nel 1682 serviti da 18
marinari, i quali in realtà dovevano essere quasi tutti semplici remiganti, in considerazione che si
trattava di due vascelletti remieri; per i tre mesi da luglio a settembre di detto anno si pagherà a
costoro un soldo totale di ducati 405, poiché essi ne prendevano infatti 7. 2.10 mensili ciascuno
(A.S.N. Tes. Ant. Fs. 352). All’inizio di marzo il viceré offrirà ancora due galere e questa volta al
cardinale Carafa che si recava a Roma e lo portarono infatti a Nettuno, da dove il prelato
proseguì poi il viaggio per terra; tornate poi queste galere verso la metà del mese, ne salparono
altre due alla volta dell’isola di Ponza e del Canale di Piombino per guardare quelle acque dai
corsari barbareschi che in quella stagione usavano infestarle. Verso la metà dello stesso marzo
cominciarono a partire per l'Austria giovani gentiluomini napoletani che andavano a militare in
Ungheria sotto le bandiere cesaree; i primi a lasciare Napoli furono Cesare Mormile, il quale
parecchi anni dopo morirà in Transilvania combattendo contro i turchi, e Francesco Montoja -
costui sarà colà poi fatto capitano di cavalleria - e li seguirono mercoledì 19 Carlo di Sangro dei
marchesi di S. Lucido, Paolo Carafa dei duchi di Bruzzano e Nicola Caracciolo dei duchi di S.
Vito:

... Essendosi per tal effetto inviati anticipatamente superbissimi cavalli di maneggio e sabbato
ebbero l'audienza di congedo da quest'eccellentissimo signor Vice-Ré, che benignamente
l'accolse, lodando una risoluzione così generosa, essercitando gl'atti della solita sua generosità
vuole accompagnarli con sue lettere di raccomandazione a Sua Maestà Cesarea e
all'ambasciatore per Sua Maestà Cattolica in Vienna...

Il de Sangro e il Carafa saranno assegnati al reggimento cesareo di cavalli corazze Carafa,


dove presto otterranno ambedue la capitania di una compagnia e il secondo ne sarà poi anche
il sargente maggiore.
Alla fine della terza settimana di marzo salparono da Napoli due galere con il compito
d'incrociare di conserva con quattro galere del duca di Tursi nelle acque di Ponza e del canale
di Piombino per ripulirle dai legni barbareschi che in quella stagione erano soliti infestarle;
torneranno sabato 12 aprile. Alla fine dello stesso marzo giunse a Napoli un militare che nella
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guerra di Morea aveva già servito l'anno precedente e si trattava del summenzionato Annibale
Moles, mastro di campo del terzo di Milano, il quale, fatto di recente duca di Parete, veniva a
prendere possesso di questo suo nuovo feudo; egli in seguito, perché riconosciuto austriacante,
sarà fuoruscito e consigliere di Carlo d’Austria. Dopo circa una settimana giunse poi notizia che
il mastro di campo Melquior Dominguez, governatore della fortezza del Carmine vulgo detta
torrione, era stato nominato castellano e capitano a guerra della città di Gaeta. Nel corso poi
dello stesso aprile altre lettere di Spagna informavano che era partito dalla corte di Madrid alla
volta di Napoli il marchese di Camarasa nominato generale della squadra di galere napoletane,
come abbiamo già detto; informavano inoltre che il duca di Monteleone aveva anch'egli lasciato
quella corte per andare però ad assumere il ben più importante vice-regnato di Sardegna,
mentre al principe di Cariati di casa Spinelli, grande di Spagna, era stato affidato quello
d'Aragona; ancora, il mastro di campo Restaino Cantelmo, il quale militava con il suo terzo in
Fiandra, era stato promosso sargente generale di battaglia, ma senza perdere il comando del
suo detto corpo di fanteria. A proposito di quest'ultima promozione, bisogna chiarire che già
allora nell'esercito spagnolo di Fiandra, secondo un uso che stava diventando comune in
Europa, gli ufficiali generali - specie i sargenti - prendevano talvolta l'appellativo di battaglia,
intendendosi con quest'ultimo termine lo squadrone centrale della fanteria di un esercito in
marcia o in combattimento e quindi quello più importante, ossia il nerbo dell'esercito. Infine,
arrivò il titolo di duca, oltre che per Ignazio Provenzale, reggente della Vicaria, anche per il
mastro di campo generale Marzio Origlia e per il capitano di cavalleria Geronimo Caracciolo,
mentre a Miguel de Aguirre, alfiere della compagnia di lance del viceré, era data la libertà di
scegliere in quale dei tre ordini cavallereschi spagnoli volesse essere ammesso.
Venerdì 18 aprile dall'arsenale della capitale fu varata la nuova galera Padrona della squadra di
Napoli:

(Napoli, 23 aprile:) Sabato della caduta (settimana) fu data all'acque la nuova galera padrona di
questa squadra, che è riuscito uno delli più belli scafi che siano stati fabbricati in questo
arsenale per l'intagli della poppa tutta dorata e per il numero di banchi, portandone 27 per
ciascuna banda e fra breve se ne daranno due altre, lavorandosi a tutta fretta, premendo
all'inesplicabile vigilanza di quest'eccellentissimo signor Viceré l'accrescere il numero della
squadra

La seconda delle predette tre nuove galere sarà varata sabato 24 maggio, mentre si lavorava
alacremente anche alla terza. A questo potenziamento della marina da guerra napoletana si
riferirà anche un avviso del detto maggio:

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(Napoli 6 maggio:) ... Parimente è capitata una catena di condannati al remo mandata dal sig.
preside della provincia di Montefuscoli marchese di Montepagano, don Cesare di Gaeta, la più
numerosa che sia venuta sine ora; erano tutti vestiti di color verde e bravi giovani, proporzionati
al ministero che devono esercitare...

Riteniamo necessario dire a questo punto qualcosa di queste galere, perché costantemente
presenti in queste cronache; certo non tratteremo di come funzionavano, di come erano equipaggiate
e armate né di come combattevano, complessi argomenti dei quali multi multa dicunt e sui
quali già ci dilunghiamo, spero esaurientemente, in un’altra nostra opera di futura pubblicazione; a
chi poi volesse comunque sapere molto di più sulla struttura di tali vascelli al tempo in esame
consigliamo certamente il Dassié, il quale ne da un’immagine completa, immagine che noi qui
potremmo solamente assurdamente limitarci a ricopiare. Diremo pertanto ora solo dell’evoluzione
che questi antichi e complessi strumenti di guerra ebbero tra la fine del Cinquecento e quella del
Seicento, materia anche più interessante perché d’essa nulli ulla sciunt. Questa evoluzione, già
in nuce alla fine del Rinascimento, aveva avuto un’accelerazione subito dopo Lepanto, battaglia
che aveva dimostrato quanto fosse importante disporre di vascelli tecnicamente più evoluti oltre
che meglio armati, anche se magari in numero minore, piuttosto che presentarne in battaglia
in numero superiore a quello del nemico ma più deboli, come in quell’occasione avevano invece
fatto gli ottomani, e porterà pertanto queste galere, forse meno veloci ma più potenti, dette
bastarde (cioè ‘più robuste dell’ordinario’) o bastardelle o anche (in)quartierate, adesso in
qualche caso anche a sei remiganti per banco perché da tempo ormai a remo di scaloccio,
a sostituire progressivamente quelle ordinarie sottili e a diventare così esse stesse ordinarie,
anche se appunto usate in numero molto minore di quanto si faceva in passato; le ultime squadre
a rinunziare del tutto alle predette sottili saranno quelle turco-barbaresche e, tra le cristiane,
quella pontificia, la quale approfittava molto di fusti di galere regalatele da altri stati italiani
e, naturalmente, anche se talvolta erano stati costruiti per l’occasione, di solito quelli nati da
un progetto tecnico più all’avanguardia e costoso non si regalavano.
Ora dunque le galere ordinarie o comuni ricordavano per le dimensioni molto di più quelle -
pure cinquecentesche, ma molto più rare - che, essendo appunto fatte più (in)quartierate a poppa
(ven. alla barchesca), cioè più larghe, capaci e reggenti, e perlopiù anche un po’ più lunghe – e ciò
non tanto per poter portare a bordo più artiglieria (perché quella più grossa e importante si portava
in ogni caso totalmente solo a prua), ma soprattutto per poter portare tanta più gente da rendere
vincenti in battaglia gli scontri diretti e gli abbordaggi, si erano usate appunto in quel precedente
secolo generalmente come galere di comando, ossia come Reali, Capitane e Padrone; queste
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galeresi distinguevano soprattutto per avere l'estrema poppa divisa in due (come doi spichi d'aglio,
Pantera, L’armata navale), ossia proprio come due mammelle, e infatti il termine ‘poppe’ sarà
per questo presto esteso anche a quel fondamentale attributo del corpo femminile. Invece le
suddette galere ordinarie d’una volta, cioè quelle sottili, andate del tutto in disuso all’inizio
del Seicento soprattutto per poter far meglio posto al nuovo sistema di voga a scaloccio (cioè a
remo unico per banco) che già alla metà del Cinquecento aveva cominciato a sostituire quello
antico di voga a sensile (cioè a più remi), avevano avuto la poppa unita e stretta (ven. tagliata o
in taglio), erano state inoltre un po’ più strette anche a prua e più pianelle, cioè di poco
pescaggio; esse, così stringate, erano state però più veloci ed erano andate meglio a remi, mentre
le bastardelle o quartierate andavano meglio a vela e inoltre, data la loro maggior capienza,
potevano portare più combattenti e artiglierie minori; per il resto i due tipi erano del tutto simili.
Prendendo come esempio la grande ordinanza di marina francese del 3 settembre 1691,
questa prescriveva ora galere ordinarie bâtarde (quindi lunghe 151 piedi di Francia da estrema
poppa a estrema prua (de capion à capion), cioè sperone escluso, e cioè circa 46 metri, larghe
al centro circa m. 5,50, scalmiere (posticci o posticcie) escluse, mentre con queste (d’un apostis
à l’autre) quasi otto metri, e la cala o vivo o carena (oggi opera viva) dello scafo, ossia la parte
soggetta ad immersione e che terminava alla coperta, era alta al centro solo poco più di m.
2,10, perché, se fosse stato invece più alta, logicamente non si sarebbe potuto vogare ed ecco
perché le galere, come del resto tutti i vascelli remieri escluse le alte galeazze, erano così
soggette a finire sott’acqua in caso di maltempo e non potevano navigare se non nella buona
stagione; infine i remi erano lunghi quasi m. 11,30. Queste misure, sostanzialmente comuni a
tutte le galere mediterranee di quel periodo perché tutte dovevano essere particolarmente
costruite a misura d’uomo, cioè di voga, significavano che le galere ordinarie di ora, poppe
quartierate a parte, pur essendo larghe al centro ancora quanto le galere sottili ponentine post-
lepantine (non però delle sottili veneziane, un po’ più strette di circa trenta centimetri), erano
però ormai più lunghe di circa m. 3 e mezzo. Perché una larghezza mantenuta sostanzialmente
uguale e una lunghezza invece diventata superiore? La ragione era semplice: ora le galere
comuni avevano, come appunto quelle di comando di una volta, un paio di ordini di coppie di
banchi remieri (remiggi) in più e cioè 27 (ma talvolta anche di più) invece dei tradizionali 25
(generalmente da 24 a 26), ma, pur essendo chiaro che, così allungandole, bisognava anche
allargarle in proporzione per non renderle strutturalmente difettose o addirittura pericolose, si
tendeva ugualmente a lasciarle alquanto strette; infatti, più una galera era larga e più riusciva
pesante, lenta e pigra nelle manovre e bisognava pertanto, per evitarle questo,

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necessariamente aumentare il numero dei vogatori adibiti al remo di scaloccio; era dunque
appunto tutta una questione di proporzioni e, se entro i 26 ordini di banchi cinque remieri per
remo erano sufficienti, al limite anche entro i 27, con 28 bisognava assolutamente aggiungere il
sesto uomo e con 30 magari anche il settimo, se c’era luogo per lui, quindi anche i banchi
dovevano essere più lunghi e, di conseguenza, tutta la galera adeguatamente più larga.
Come si sa, nel Cinquecento si era provato a costruire, a Venezia e altrove, diversi dispendiosi
prototipi di galere molto più grandi, anche a sette remieri per banco, ma si erano sempre tutti
rivelati deludentemente troppo lenti rispetto alle maggiori forze umane che richiedevano; questo
era il motivo per cui alla fine di quel secolo, per aumentare il numero dei rematori senza dover
necessariamente allargare e appesantire troppo la galera, si era inventato e adottato il remo di
scaloccio, sistema che prendeva sul banco lateralmente parecchio minor spazio e quindi
permetteva che vi sedessero un paio di remiganti in più.
Di un minimo di sette remieri a remo si servivano invece senza alcun problema le alte e larghe
galere grosse e galeazze, le quali però erano in realtà dei grandi velieri che ricorrevano alla
voga solo per facilitare e sveltire le manovre d’ormeggio e d’ancoraggio, tant’è vero che, in caso
di bonaccia, avevano essi stessi bisogno d’essere rimorchiati dalle galere; poiché però gli unici
a usare ancora questi pesanti legni anche come vascelli da guerra erano i veneziani e quindi nel
Mediterraneo occidentale raramente ora più se ne vedevano, non ne diremo altro.
Ancora in uso erano i vascelli remieri da guerra inferiori alla galera, cioè le galeotte, bialbero e
bireme, dai 16 ai 24 banchi per lato, e i bergantini (ora detti anche bregantini), monoalbero e
monoremo, dagli 8 ai 16 remi per lato; i remiganti dei secondi erano volontari anche
combattenti, pronti cioè a lasciare il remo e prendere invece il fucile che tenevano riposto sotto il
loro stesso banco, così come anche lo erano tuttora le fuste turco-barbaresche e le barche
lunghe usate nell’Adriatico e nei mari siciliani principalmente per la pirateria.
Poiché le galere del Regno di Napoli erano spesso in missioni lontane oppure occupate nel
trasporto di milizie di presidio, per una maggior difesa delle acque e delle coste del regno da
corsari e pirati stranieri, e le galeotte restavano comunque vascelli poco diffusi, si usava ora
correntemente dare patenti di corso a privati, i quali armavano a guerra le loro barche, ossia i
piccoli veloci mercantili a vela latina adibiti perlopiù ai traffici di cabotaggio, ma anch’esse
spesso al trasporto di milizie, essendo tra questi le veloci tartane i più diffusi nei mari del regno;
nel Cinquecento la barca non aveva avuto questo significato di genere, ma era stato un solo
preciso tipo d'imbarcazione a vele latine. Erano queste tartane originarie di Marsiglia e pertanto
erano dette a Genova marsigliane, da non confondersi però con i più grandi vascelli tondi

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adriatici detti a Venezia marsiliane o marciliane, mercantili che andavano dalle 1.500 a più di
3mila salme di carico, essendo la salma generale di Sicilia una misura di capacità uguale al
rubbio romano e corrispondente a 275 litri odierni; avevano solo due alberi, cioè maestro e
trinchetto, sui quali portavano tre vele; a volte ne usavano anche più di tre, ma allora si trattava
di vele piccole e sistemate in modo da navigare benissimo con ogni vento e quasi con ogni
tempo; a differenza dell’altre barche grandi, usavano però anche una vela quadra di fortuna,
ossia di burrasca, detta in italiano trevo come quella delle galere; in caso di necessità potevano,
come le polacche, andare a remi e probabilmente, anche come quelle, con il sistema delle
barche spagnole; queste ultime erano vascelli stretti ed ottimi velieri e tra le molte peculiarità
che presentavano avevano appunto quella di poter andare anche normalmente a remi - 14 o
più, perché, proprio a questo scopo, si poteva ad esse asportare tutta la parte alta del fasciame
rendendole così imbarcazioni di basso bordo. Ancora come le polacche, queste tartane, molto
usate nell’Italia meridionale anche per formarne convogli granari e oleari, erano quindi talvolta
armate a guerra con un minimo di quattro pezzi grossi ed una quarantina di combattenti, numeri
questi che però potevano infatti anche essere alquanto superiori a seconda della loro
grandezza; erano usate, oltre che per il corso, anche per la difesa costiera; comunque, questi
legni molto spesso, anche quando esercitavano il corso, non abbandonavano le loro attività
mercantili, anzi le alimentavano in gran parte proprio con la vendita dei bottini acquisiti. A
proposito poi delle suddette marsiliane adriatiche, molto adoperate dai veneziani come navi da
gran carico specie per la traversata da Venezia all’isola di Zante, in questa seconda metà del
Seicento erano talvolta dai maltesi anch’esse, equipaggiate con circa 25 uomini, usate per
andare in corso in Levante.
I vascelli adibiti al corso, anche se generalmente piccoli, erano però armati sino ai denti e
sovraffollati d’uomini per poter così più facilmente soverchiare qualsiasi legno nemico; nel 1628,
ad esempio, il famoso corsaro inglese sir Kenelm Digby, il quale si trovava dall’anno precedente
a corseggiare nel Mediterraneo, annotò nel suo diario di bordo d’aver incontrato una saettia da
guerra di Malta che, pur stazzando solo cento tonnellate da duemila libbre, era armata con 11
bocche da fuoco ed equipaggiata con ben 120 uomini! Nell’estate del 1697 le galere maltesi
catturarono una tartana corsara tripolina, che, armata di ben 80 uomini, otto pezzi di cannone e
20 petriere, prima di farsi prendere aveva provocato notevoli perdite ai maltesi, specie col lancio
di fiaschi e pignatte di fuoco artificiato, un tipo d’arma allora ancora in uso nella guerra
marittima.
Con sua lettera al viceré del 3 aprile 1666, poi seguita da formale cedola d’autorizzazione

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del 3 ottobre, documenti poi entrambi richiamati con dispaccio reale del 15 novembre 1667,
il re aveva chiesto la formazione di una compagnia d’armamenti privati (per poter corsegiare
contro l’inimici di sua Real Corona e assicurare la navigazione), intendendosi ancora allora dare
anche a simili congregazioni di pubblica utilità il carattere di compagnia militar-cavalleresca con
una regola da osservare, e questa è dunque appunto l’origine di questo nome militare di compagnie
che ancora oggi conservano le società di navigazione. Il termine armatore (fr. armateur, capre;
ol. kaaper, reeder, kruisser, commissie-vaarder e bewrakters) era infatti allora non altro che
sinonimo di 'corsaro' e si dava a privati che appunto ‘armassero’, cioè dotassero di armi, un
vascello reale o pubblico per poter esercitare la lucrosa guerra di corso, mentre per l’esercente
di un mercantile nel linguaggio legale ancora s’usava il lt. exercitor. Con detto nome di
armatore s’intendeva sia colui che aveva ottenuto dal principe la patente di corso (sp. ordenanza de
corso; fr. commission; ol. commissie, bestellinge) e aveva a sue spese armato un vascello sia
talvolta il comandante del vascello stesso; infatti l’armatore poteva scegliere se condurre il suo
legno in corso da sé oppure se affidarlo al governo d’un comandante di sua fiducia, il quale
poteva ricevere da lui una paga e prender parte al bottino oppure aver diritto al solo bottino (fr. capre
à la part) e ciò a seconda della carta stipulata tra le parti (fr. charte-partie, abbr. di la charte
de les parties).
L’attività d’armamento per il corso era molto diffusa sia nel Mediterraneo sia nell’oceano
Atlantico; in Francia, per esempio, molto dediti alla guerra di corso oceanica erano tradizionalmente
duncherchesi, maloini e roccellesi; tanti erano però i veri e propri pirati che usurpavano i
detti titoli d’armatore e di corsaro per guadagnarsi un’immeritata legittimazione e rispettabilità che
nel Settecento il termine corsaro – anche con la sua variazione corsale – prenderà a significare
appunto ‘pirata’, così lasciando il suo significato originario solo a quello d’armatore, il quale a sua
volta dalla fine del Seicento comincerà a perdere il suo senso bellico per prendere a significare
invece il mercante che - in toto o pro rata - noleggiava, equipaggiava e munizionava un vascello
a scopo non di guerra, bensì di commercio.
Nel corso della seconda metà del Seicento nacque nella parte francese dell’isola di San
Domingo il termine boucanniers a indicare una corporazione di scellerati in numero variabile dai
500 ai mille a seconda dei tempi - che esercitavano la grassazione boschiva e la pirateria
costiera, specie ai danni del naviglio mercantile spagnolo, dovendo al governatore francese il
10% del valore di tutte le loro prede; si trattava di marittimi disertori oppure di vagabondi
arrestati in Francia e inviati a servire forzatamente tre anni nelle piantagioni dominicane,
dopodiché avevano l’unica strada di noleggiare o comprare a credito un fusil boucanniere (lunga

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arma da fuoco a gran gittata) e di aderire a quelle criminali consorterie; poiché scorrevano i mari
costieri dell’America Centrale con 7 o 8 piccoli velieri agili e veloci, dagli 8 ai 24 cannoni, cioè
con fly-boats (ing. anche fleet-boat; fr. flibot; ol. vlie-boot, fluijt-boots, fluyt-boot; it. flibotto o
lilibotto) o anche con fregate leggere, presero anche il più conosciuto nome di flibustiers,
corrotto poi in filibustiers e fribustiers (ing. filibusters, freebooters; ol. vry-buiters, vrijbuiters);
malgrado si trattasse di gente ignorante e codarda (de Pointis), raccolti, organizzati e guidati in
funzione anti-spagnola da corsari patentati da altre potenze europee, le quali avevano appunto
molto interesse a ostacolare l’espansionismo americano della Spagna, compiranno più tardi
imprese talvolta incredibili e clamorose, approfittando perlopiù del vantaggio della sorpresa.
Ma torniamo ora alle nostre cronache. Nell’ultima decade d'aprile avvenne una muta delle
guarnigioni dello Stato dei Presidi di Toscana un po’ più importante del solito; infatti partivano
insieme per quelle piazze quattro galere di Napoli e quattro del duca di Tursi, le quali, oltre a 15
compagnie spagnole e tre italiane, portavano a bordo anche il sunnominato mastro di campo
generale Marzio Origlia, il quale si recava a visitare quelle fortezze essendogli stato frattanto
anche conferito il vicariato generale (‘governatorato’) di detto Stato. Dalle lettere di Spagna
dell'ultima decade di maggio si seppe poi che due vascelli dell'armata reale spagnola avevano
lasciato Cadice sotto il comando del già ricordato ammiraglio Papacino ed erano dirette in Italia,
dove portavano Juan Francisco Paceco duca di Uzeda, nuovo viceré di Sicilia e poi dal 1699
ambasciatore di Spagna a Roma, il marchese di Camarasa, nuovo generale delle galere
napoletane, e Andrea d’Ávalos principe di Montesarchio, il quale rimpatriava definitivamente
perché, a causa della sua tarda età, era ormai stato dispensato dal servizio attivo; infatti detti
due vascelli entreranno nella darsena di Napoli alla fine di giugno per esser sottoposti a lavori di
carenamento. In quel mentre si erano fermate a Castell'a Mare di Stabia le galere toscane, le
quali erano dirette in Levante per partecipare alle nuove operazioni di guerra contro l'impero
ottomano, e il loro generale commendator fra’ Guidi, accompagnato da altri cavalieri e ufficiali di
quella squadra, si era portato a Napoli per complimentare (ossequiare) il viceré; poi ripartiranno
facendo rotta verso Messina.
A Milano, tenutasi il 9 maggio una rassegna generale dell'esercito, vi risultarono in servizio, per
quanto riguardava i corpi napoletani, il terzo del mastro di campo Marc'Antonio Colonna (144
ufficiali ed 877 soldati) e cinque compagnie di cavalleria (32 ufficiali e 322 soldati).
All'inizio di giugno morì a Napoli, dopo quattro giorni di malattia, il sargente maggiore riformato
Alfonso di Leone, militare molto distintosi e molto pratico della milizia. Nella prima decade del
mese il viceré, passando nei pressi delle carceri di S. Giacomo, le quali erano riservate agli

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spagnoli, ordinò all'auditore generale dell'esercito di rivedere le cause di quei carcerati e di
ridurne le pene, in modo che la maggior parte di quelli neottenne la libertà e si trattava
ovviamente di una generosità programmata ed esercitata solo a beneficio degli spagnoli; d'altra
parte, se la Spagna era riuscita a conquistare gran parte del mondo con quei pochi soldati che
dalle sue semi-spopolate regioni si riuscivano a trarre, vuol dire che quegli uomini erano
militarmente troppo validi e preziosi perché ci si potesse permettere ancora lo spreco di tenerli
inattivi in carcere.
Sempre all'inizio di giugno, avutasi notizia che tre caravelle turchesche erano state avvistate al
largo di Capri, il viceré fece allestire in fretta otto galere di Napoli e sette del duca di Tursi e la
sera di lunedì 9 giugno le fece partire in traccia di detti legni corsari; si trattava però di misure
inadeguate e infatti nello stesso giugno i turchi devastarono le coste pugliesi facendovi
numerosi schiavi, ma questa fu una delle loro ultime grandi razzie nel meridione d'Italia, anche
se in realtà continuarono a infestare i mari del regno anche nel secolo successivo e fino al
1830, quando i francesi, con opera molto meritoria, posero fine a questa secolare iattura
occupando la parte costiera dell'Algeria. Martedì 10 giugno fu arrestato a Napoli un soldato
italiano perché sorpreso a borseggiare; il disgraziato fu condannato alla frusta e a ben dieci anni
di voga nelle patrie galere. Venerdì 13 fecero ritorno le 15 galere che avevano scorso i mari di
Ponente alla ricerca dei tre predetti legni barbareschi e portavano a bordo il duca di Tursi,
trasbordatovi da una galera di Genova che le aveva raggiunte in navigazione; questi 15 legni
ripartirono la sera di lunedì 16 facendo rotta verso Gaeta, dove conducevano ora il marchese di
Cogolludo e la sua consorte; faranno ancora ritorno a Napoli venerdì 20, mentre erano salpate
per scorrere i mari di Levante, infestati dai turco-barbareschi, le restanti sei galere della squadra
del Regno di Napoli. Frattanto, la mattina di giovedì 19 giugno erano arrivati i due suddetti
vascelli spagnoli da guerra dell'ammiraglio Papacino, i quali, come abbiamo detto, riportavano in
patria il vecchio principe di Montesarchio Andrea d’Ávalos e inoltre venivano a far carenamento.
Con le lettere di Spagna giunse infine la nomina a governatore della fortezza del Carmine per il
sargente maggiore Rodrigo Correa, il quale trovavasi allora alla corte di Madrid.
Nell'agosto, nella zona centrale di Napoli detta i quartieri spagnuoli, ci fu un’ennesima rissa tra
soldati spagnoli e regnicoli con il risultato di parecchi morti da una parte e dall'altra e con tanto
rancore non sopito che la cosa si ripeté di nuovo il mese successivo a Pozzuoli, (essendo
queste due nazioni esasperate per molte buglie (risse) e uccisioni successe fra di loro in
Napoli).

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Poiché nello stesso agosto i mori avevano posto l'assedio alla guarnigione spagnola di Melilla in
Africa, vi fu mandato in soccorso il terzo fisso napoletano dell'armata oceanica, il quale si
trovava allora acquartierato a Granata sotto il comando del mastro di campo Antonio Domenico
di Dura; i napoletani arrivarono a Melilla il primo settembre 1687 e il di Dura assunse anche il
comando della città poiché di recente ne era morto il governatore. Tutti gli assalti nemici furono
respinti, tanto da convincere i mori, in seguito sconfitti dal di Dura anche a Orano, a lasciare il
campo. Intanto Luigi XIV di Francia, continuando nella sua odiosa politica dei colpi di mano, la
quale gli procurava l’ostilità di tutta l'Europa, faceva occupare dal suo esercito altre importanti
città tedesche, tra cui Heidelberg.
Sabato 13 settembre un soldato spagnolo uccise per ignoti motivi un ex-soldato napoletano e,
che si trattasse di un militare congedato, era dimostrato dalla circostanza che la vittima ancora
vestiva la sua uniforme turchina, colore che, detto a volte anche violetto oppure paonazzo,
distingueva appunto le fanterie regnicole da quelle spagnole del terzo fisso di Napoli che invece
vestivano di rosso. Domenica 28 settembre fra’ Tomaso Caracciolo, cavaliere gerosolimitano,
entrò di guardia per la prima volta con la compagnia di cavalleria che gli era stata conferita per
la rinunzia del fratello Girolamo; vedremo poi questo nuovo giovane capitano arrivare alla carica
di mastro di campo. Nel novembre giunse nuova che si sarebbe presto tolto il governatorato di
Ungheria al napoletano Carafa, perché di quel paese si stava per incoronare re il primogenito
dell'imperatore Leopoldo I e nello stesso mese morì improvvisamente il viceré marchese del
Carpio, l'implacabile estirpatore del brigantaggio, e i suoi funerali, avvenuti mercoledì 19
novembre, ripeterono, anche se con molto maggior fasto, le scene militari che si erano viste
l'anno precedente in occasione di quelli di fra’ Titta Brancaccio, con le bandiere prostrate per
terra, con le banderuole delle lance della guardia nere in segno di lutto, con lo stendardo detto il
Guidone, insegna di capitano generale del Regno, anch'esso con il fondo nero, con un pezzo
d'artiglieria che sfilava tirato da quattro mule coperte da gualdrappe altrettanto nere, con le armi
da fuoco che sparavano meste salve. Venerdì 21 giunse da Roma il contestabile (dal lt.
cohonestabilis) Colonna in qualità di reggente del regno e nominò suo Segretario di Stato e
Guerra pro interim Gioseppe di Ripalda; si susseguirono poi nel dicembre altre nomine, tra cui
quella, nepotistica per antonomasia, del principe di Sonnino, appunto nipote del Colonna, a
tenente della compagnia di lance e quella di Gregorio Buratti ad alfiere della medesima
compagnia. Alla metà dello stesso dicembre arrivarono inoltre lettere di Spagna con il
conferimento della nomina a mastro di campo generale del regno a Fernando Gonzales de
Valdés, generale dell'artiglieria dello Stato di Milano, a cui abbiamo già accennato, mentre

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sabato 20 giungeva a Napoli anche il marchese di Camarasa, nuovo generale delle galere
napoletane.
Per quanto riguarda le leve militari di quest'anno, si trova notizia di due partiti di vestiti violetti e
cioè uno di 500 del 26 marzo stipulato con il partitario Aniello Pecoraro e un altro di 250.
A metà agosto si erano cominciate a ricevere con gran giubilo gli avvisi delle vittorie veneziane
in Morea e Dalmazia, dove la Serenissima, rintuzzato un vano assedio turco alla piazza di
Segna (‘Sign’), con due armate di mare, una comandata dal generale Francesco Morosini e una
dal generale Cornaro, prenderà via via Patrasso (qui dopo aver vinto una battaglia campale),
tutto il golfo di Lepanto con i suoi due Dardanelli (Castel Rio e Melicrea), la stessa piazza di
Lepanto, Castel Tornese, Corinto, Misitra, infine Atene e Castel Nuovo con buona parte
dell’Erzegovina. Il Morosini aveva potuto servirsi di fanterie imbarcate corfiotte, cafaloniotte e
soprattutto tedesche brunswickesi, ma non delle squadre ausiliare di Toscana, Roma e Malta
perché queste, timorose di contagiarsi della pestilenza che a Napoli di Romania aveva infettato
l’armata morosiniana, avevano preferito portare il loro ausilio a quella del Cornaro che operava
più a nord in Dalmazia e che era inoltre supportata a terra da formazioni combattenti morlacche,
ossia dei cristiani dalmati, alle quali frattanto riusciva di prendere la città di Mostar e il suo
territorio.
In quest’anno, il 12 agosto, i turchi di Süleyman Pasha erano stati frattanto pesantemente
sconfitti dagli imperiali di Carlo V di Lorena, Eugenio di Savoia e Luigi del Baden e Massimiliano
II Emanuele Elettore di Baviera – ma soprattutto da quest’ultimo - al monte Harsány presso
Mohács, detta allora ‘battaglia della Dárda o del fiume Drava’, nell’Ungheria meridionale; ne
conseguirà un notevole arretramento ottomano e il ritorno all’impero della Transilvania e inoltre,
con l’ausilio croato e la presa ai turchi dell’importante piazza di Eszék, anche della Schiavonia
(‘Slavonia’ o Croazia orientale). Turchi e tartari erano però nel frattempo riusciti a riguadagnare
alcune posizioni perse negli anni precedenti in Polonia, non riuscendo inoltre all’esercito
moscovita del generale Galitzin di ottenere alcun risultato anti-ottomano né in Ukraina né in
Crimea.

1688. Domenica 4 gennaio di questo nuovo anno si fecero entrare in Napoli tutte le fanterie
regnicole che avevano quartiere a Pozzuoli e a Gaeta e le si rinchiusero nell'arsenale nell’attesa
di poterle imbarcare per lo Stato di Milano; ai soldati destinati all'estero si cercava 2ovviamente
di nascondere sino all'ultimo la loro destinazione, specie in tempo di guerra, ma, quando essi si
vedevano alloggiati e rinchiusi nei quartieri dell'arsenale, alloggi che, pur essendo stati molto

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aumentati proprio dal marchese del Carpio, il quale aveva pure abbellito l’arsenale nel suo
complesso, ciò nondimeno continuavano ad assomigliare molto di più a un carcere che a un
alloggiamento militare, era allora lor chiaro che li aspettava una traversata di mare sulle anguste
galere e poi, se non guerra, presidi in terre lontane, da cui molto improbabilmente sarebbero
tornati a rivedere il loro paese. Le cronache del tempo non ci dicono quanti fossero i soldati
rinchiusi nell'arsenale in detta occasione, ma c'è un rogito del 13 ottobre che si riferisce a un
partito di 250 vestiti per fanteria italiana fatto ultimamente col partitario Nicola di Martino;
quando poi queste fanterie partirono effettivamente per quel terminale marittimo dello Stato di
Milano che era Finale in Liguria non sappiamo.
Verso la fine di gennaio, in sostituzione del defunto marchese del Carpio, verrà ad assumere
l'incarico di nuovo viceré del Regno di Napoli Francisco de Benavides de Avila y Corella conte
di San Estévan, il quale ne aveva ricevuto la nomina a Madrid il 20 dicembre precedente, e
infatti già venerdì 23 della cavalleria aveva lasciato la capitale per andarlo a ricevere al confine
con lo Stato della Chiesa e poi scortarlo a Napoli. Tra i primi provvedimenti del de Benavides vi
furono lo spostamento del sunnominato Gioseppe di Ripalda al molto più modesto incarico del
governo della città di Taranto, la concessione a Marzio Origlia della leva di 100 uomini da
mandare a Milano a formarvi una compagnia da porre sotto il comando di suo figlio e la nomina
di Francisco Fernández Ladron de Guevara, già destinato a capo di ruota della provincia di Bari,
ad auditore generale dei Presidi di Toscana.
I duelli tra militari erano proibiti dalle regie prammatiche, ma ogni tanto ugualmente si
verificavano:

(Napoli, 17 febbraio:) Essendo corsa disfida tra un capitano d'infanteria con un alfiero nipote del
maestro di campo del terzo, vi restò morto con doi stoccate il sudetto capitano don José Lopez
Serrano (A.S.V. Nun. Nap.103).

Circa due settimane dopo l'episodio predetto tornarono a Napoli due galere del duca di Tursi
che avevano portato la muta della guarnigione di presidio a Reggio Calabria; le stesse,
unitamente ad altre cinque della stessa squadra arrivate martedì 24 da Gaeta, ripartirono il
seguente martedì 2 marzo per i Presidi di Toscana, dove portavano ben 11 compagnie di
fanteria e munizioni, mentre stava per mettersi alla vela per la stessa destinazione un legno
carico di munizioni e attrezzature militari; le compagnie predette viaggiavano sotto il comando di
un vecchissimo soldato, cioè di Camillo di Dura duca d'Erchie (Brindisi) che si recava nello Stato
dei Presidi col titolo di vicario generale; costui, il quale durante la guerra di Messina, cioè a

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partire dal marzo 1675, era stato governatore dell’armi della provincia di Lecce, in seguito era
stato fatto generale dell'artiglieria ad honorem con deliberazione reale del 15 dicembre 1681 e
con altre del 21 settembre 1684 aveva appunto visto elevare a ducato il suo feudo d’Erchie
nella provincia di Terra d'Otranto.
Di gran protezione da parte della corte napoletana godevano solitamente i birri perché, anche
se spesso si trattava di ex-delinquenti passati dalla parte della giustizia per evitare pesanti
condanne, erano comunque insostituibili nella difesa dell'ordine costituito e della società civile, e
ciò anche a discapito dei nobili, dei militari e di chiunque si permettesse d’offenderli o dileggiarli:

(Napoli, 16 marzo:) Essendo seguita differenza tra soldati di cavalleria e sei birri di campagna
nel passare che questi fecero avanti la guardia d'essi soldati nel quartiero di Chiaia, ha
comandato il signor Viceré che don Sigismondo Rho, tenente generale della cavalleria, debba
costituirsi in Castelnuovo (ib.)

In pratica il da Rhò, numero due della cavalleria del regno, era arrestato per le intemperanze dei
suoi soldati; infatti il carcere riservato ai nobili era appunto sito nel Castel Nuovo, oggi detto
Maschio Angioino.
Nella notte tra giovedì primo aprile e venerdì 2 morì il generale Francisco Velasquez mastro di
campo del tercio di Napoli, il quale era parente strettissimo del contestabile di Castiglia,
commissario generale della cavalleria di Catalogna, e la sua carica fu conferita pro interim al
sargente maggiore dello stesso terzo spagnolo. Qualche giorno dopo tale decesso morì pure,
dopo grave malattia, il marchese del Tufo, luogotenente del mastro di campo generale Marzio
Origlia e il suo posto fu preso da Eustachio Brancaccio, il quale pare fosse già aiutante di
mastro di campo generale, a ciò promosso con cedola reale dell’8 agosto 1679, mentre,
all'inizio dello stesso aprile, il marchese di Camarasa, nuovo generale delle galere napoletane,
aveva stabilito la sua residenza nella fortezza di Castel Nuovo. Verso la metà di maggio arrivò
da Milano il sunnominato Fernando Gonzales de Valdés, il quale doveva sostituire Marzio
Origlia nell’impiego di mastro di campo generale, carica che quest'ultimo, come del resto anche
il suo predecessore fra’ Titta Brancaccio, aveva esercitato solo pro interim; all'Origlia restavano
così le cariche di generale dell'artiglieria del regno e di vicario generale dei Presidi di Toscana.
Nella prima settimana di luglio approdarono nel Napoletano quattro galere del granduca di
Toscana che si diceva andassero in Levante a unirsi all'armata veneta che colà combatteva
contro i turchi; giunsero poi in porto a Napoli due galere della squadra di Sardegna. Si varò, al
cospetto del viceré, una nuova galera, mentre di lì a qualche giorno se ne sarebbe dovuta

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varare anche un’altra; comunque ecco la rivista passata il 18 dello stesso luglio alla squadra
delle otto galere del regno:

Galera Padrona
“ S. Gioacchino
“ S. Ferdinando
“ I tre re.
“ S. Antonio
“ S. Caterina
“ S. Rosa
“ S. Gennaro

C’erano poi due feluche per servizio dell’armata. Le categorie di uomini imbarcati, le quali si
differenziavano a seconda del ruolo e dei benefici di paga che implicavano, erano le seguenti:

Ufficiali
Intrattenuti
Avvantaggiati
Timonieri, marinari avvantaggiati e franchi
Marinari di guardia
Prodieri

Non potendo dilungarci sulle predette categorie di uomini di galera diremo solo che i marinari
avvantaggiati e franchi comprendevano anche i mastri di bordo, quali remolaro, bottaro, calafato
ecc.
Inoltre la rivista interessava anche uomini di terra della squadra e cioè ufficiali della scrivania di
razione e della veditoria, ossia ragionieri e ispettori. Risultano poi in questo Fondo d’archivio
Galere e per questo stesso 1688 dei pagamenti fatti a uomini dell’armada naval de Flandes;
forse legni napoletani facevano parte allora di quell’armata, certo comunque erano sempre
tante le voci di spesa che si pagavano all’estero con i soldi sottratti ai contribuenti del Regno di
Napoli!
Luis Espluga, castellano di Castel S. Eramo, ebbe la nomina a mastro di campo del terzo
spagnolo in sostituzione del defunto Velasquez e giunse inoltre notizia di due promozioni di due
napoletani avvenute nell'esercito imperiale di Ungheria, cioè Carlo de Sangro, fratello del
marchese di Santo Lucido, era divenuto capitano di una compagnia del reggimento di corazze
Piccolomini Senese e Francesco Mentia aveva invece ottenuto una cornetta (‘posto d’alfiere’)
nel reggimento del colonnello Gondola.

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(Napoli, 23 luglio:) Si condusse domenica il signor Viceré per mare alla deliziosissima riviera di
Posillipo col signor generale delle galere di Napoli e di Sardegna e (con il) mastro di campo
(‘generale’) Valdés con seguito di feluche (ib).

In quei giorni partirono in corso verso Levante contro i legni barbareschi le squadre di galere di
Napoli e del duca di Tursi, le quali si sarebbero però prima dovute unire allo stesso scopo con
quella di Sicilia; restarono a Napoli, a disposizione del viceré, solo due galere e cioè quella
napoletana dal nome di Santa Rosa e quella del duca di Tursi che si chiamava invece San
Francesco di Paola. Le due squadre fecero ritorno a Napoli all’inizio di settembre senza aver
avuto incontri con legni barbareschi.
Nell’agosto ancora una volta un’armata francese bombardò terribilmente Algeri, rovesciandole
sopra questa volta, prima d’andarsene, tutte le 10mila bombe di cui disponeva, In quel mentre
nell’Europa orientale continuava l’arretramento dei turchi, i quali nel corso di quest’anno, il 6
settembre, saranno infatti costretti a cedere Belgrado assediata da Massimiliano Emanuele di
Baviera e gli imperiali potranno così occupare la Serbia, la Bosnia e la Valacchia. Belgrado
però tornerà in mano turca nel 1690.
In quest'anno era generale delle galere dei cavalieri dell'ordine di S. Giovanni Gerosolimitano,
ossia di Malta, il napoletano fra’ Carlo Spinello (Spinelli; nel Seicento ancora spesso si
aggettivano i cognomi) dei duchi d’Acquara (Acquaro, presso Catanzaro). A novembre il viceré
nominò suo genero il marchese di Aytona tenente della sua compagnia di lance e il governatore
di Pescara Juan de Noriega, in considerazione che era persona pratica di cose militari, tenente
generale con incarico pro interim del governatorato d’Orbitello. Infatti il de Noriega partirà per
quella fortezza il mercoledì 24 novembre approfittando di una delle periodiche mute di
guarnigione inviate ai Presidi di Toscana, mute che avvenivano semestralmente, cioè all’incirca
verso aprile e verso ottobre d’ogni anno; si trattava di quattro delle sette galere della squadra
del duca di Tursi che trasportavano una spedizione di 300 fanti italiani con munizioni e
attrezzature militari e sulle quali si era pure imbarcato il generale dell'artiglieria Marzio Origlia,
recandosi questi ufficialmente a visitare quelle piazze con titolo aggiuntivo di vicario generale
dei Presidi di Toscana; in realtà nei mesi precedenti era stata scoperta una congiura filo-
francese capeggiata dallo stesso governatore d’Orbitello, un fiammingo, e da alcuni ufficiali di
quella piazza, tra cui il marchese Vitelli, valoroso capitano di fanteria; la Francia infatti aveva
dichiarato guerra anche alla Spagna ed era così iniziata quella guerra della lega d'Augusta che
terminerà solo nove anni più tardi. Carcerati i congiurati da Camillo di Dura duca d’Erchie,
vicario generale dei Presidi di Toscana, costui non poté però evitare di essere sostituito per

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scarsa vigilanza e fu nominato infatti al suo posto, come abbiamo appena detto, l'Origlia
spalleggiato dal de Noriega.
Nella prima settimana di dicembre giunse a Napoli una nuova compagnia di fanteria spagnola
comandata dal capitano Andrés Francisco Bardaji; nella terza settimana dello stesso dicembre
salpò dal porto della capitale un vascello genovese che portava a Finale Ligure un buon numero
di soldati regnicoli destinati invece a reclutare i corpi napoletani dell’esercito dell’Alta Italia;
infine verso Natale il viceré conferì a Cristóbal Urtado la carica di governatore e capitano a
guerra della piazza di Reggio Calabria.
Per quanto riguarda i riscontri di forniture di vestiario, c'è da dire che uno strumento del 13
ottobre ha per oggetto un partito di 300 vestiti per cavalleria e 200 per fanteria ambedue
italiane; ma i primi non sono sicuramente riferibili ai 300 uomini inviati in Toscana, perché quelle
fortezze non erano circondate da territori sufficientemente vasti per potervi impiegare soldati a
cavallo; d'altra parte al partitario Gregorio Fontana si dava tempo per la consegna sino al 20
dicembre e invece i 300 soldati in argomento erano, come detto, partiti già nel novembre.
In questo anno la Francia, già dimentica del trattato di Ratisbona, aveva dichiarata nuova guerra
all'Impero e all'Olanda, e nel settembre invaso e devastato nuovamente il Palatinato,
cominciando con l’assediare Philippsburg, la quale era poi caduta il 30 ottobre, e poi Mannheim,
capitolata l’11 novembre, e decine di altre città, specie le fortificate Mainz e Coblenza.
Guglielmo d’Orange, marito di Mary Stuart, chiamato dai protestanti contro il cattolico re
Giacomo II Stuart, era sbarcato in Inghilterra il 5 novembre a capo di una forza olandese e,
incontrando pochissima resistenza, il mese seguente aveva raggiunto Londra, dove era stato
acclamato re al posto dello Stuart, il quale era nel frattempo fuggito in Francia.
Frattanto il 17 gennaio si era arresa al generale imperiale Antonio Caraffa la principale piazza
dei ribelli ungheresi, Monkatz, poi il 19 maggio Alba Reale, importante fortezza dei turchi, i quali,
sotto la guida di Hassan Bassa di Buda, l’avevano conquistata nell’ormai lontano 29 agosto del
1602; in seguito, il 21 maggio, il Caraffa aveva presa anche Lippa in Transilvania. Anche nei
Balcani erano continuati i successi imperiali con la vittoria di Tervent in Schiavonia ad opera del
principe Luigi di Baden e l’abbandono turco di Novigrad in Istria. Il 6 settembre era caduta infine
Belgrado all’assedio portatole da Maximilian II Emanuel von Wittelsbach Elettore di Baviera, ma
a questo punto, dovendosi andare adesso a contenere al Reno la nuova invasione francese, la
controffensiva imperiale si esaurì; infatti la Gran Porta, impaurita dal rapido e pericoloso
avvicinarsi del nemico alla stessa Costantinopoli, aveva segretamente sollecitato e ottenuto
l’intervento da ovest dell’alleata Francia, certo ben contento Luigi XIV di poter aderire a tal

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richiesta, adesione che gli consentiva di approfittare del grosso impegno di Leopoldo I nel teatro
ungaro-balcanico in barba a tutti i sottoscritti trattati. Progressi ottomani erano stati anche in
quest’anno possibili solo nella Polonia orientale, dove sterminate orde di tartari, approfittando
dell’inazione di quel regno e dei suoi alleati moscoviti, avevano desolato terribilmente le regioni
della Volinia, praticamente spopolandola, e della Russia (oggi ‘Bielorussia’).
In Dalmazia i morlacchi d’Istria a nord e bosniaco-montenegrini a sud, sostenuti da un corpo di
spedizione veneziano comandato dal generale Girolamo Cornaro, avevano di molto logorato le
forze turche che presidiavano quelle regioni, sconfiggendole soprattutto i secondi nelle due
battaglie campali di Medun e Tenin; ma queste vittorie erano state contrappesate dagli
insuccessi in Morea, dove l’esercito veneziano era purtroppo comandato da un uomo che,
nonostante ciò che se ne racconta oggi, si era quell’anno dimostrato particolarmente privo
d’acume e digiuno di strategia, cioè dal già menzionato Francesco Morosini, il quale fu poi
anche doge di Venezia; deportata la popolazione di Mizithra (‘Mistras’), perché i suoi abitanti
rifornivano la guarnigione ottomana della vicina piazza di Malvasia, il Morosini aveva fatto lo
stesso anche con quella di Atene, città che poi, nonostante avesse un castello giudicato
imprendibile, aveva distrutto perché, nonostante la gran disponibilità di uomini e mezzi, del tutto
incapace di formulare e attuare un piano che l’avesse resa difendibile dalle incursioni dei turchi
di Tebe e di Negroponto; d’altra parte l’anno precedente, nel conquistarla, ne aveva già
semidistrutto il meraviglioso Partenone, fino ad allora conservatosi per miracolo strutturalmente
ancora intatto, e ciò perché i turchi che allora la difendevano vi avevano malauguratamente
istallato la loro polveriera. Nonostante il gran quantitativo di vascelli, di armi e provvisioni, di
fanterie mercenarie svizzere e soprattutto tedesche che Venezia gli aveva inviato di continuo
per approfittare del momento storico di difficoltà strategica del nemico ottomano, nonostante
l’apporto delle squadre alleate di Toscana, Roma e Malta, il Morosini, tentata egli poi l’impresa
di Negroponto, l’aveva miseramente fallita e il 20 ottobre si era dovuto da essa ritirare con
grandissime perdite. L’insuccesso era stato dovuto soprattutto a due suoi clamorosi errori
strategici e cioè a quello di aver perso gran tempo a inviare forze marittime nelle acque di
Candia, perché i giannizzeri e i tanti rinnegati cristiani che guarnivano quell’isola gli avevano
fatto ingannevolmente giunger voce di esser pronti a darsi a lui, visto che da gran tempo
Costantinopoli non li pagava, e a quello di non aver preventivamente bloccato le vie d’acceso ai
soccorsi turchi alla principale piazza di Negroponto, la quale aveva potuto così resistere
all’assedio nel migliore dei modi (Bizozeri). Al Morosini, a differenza di numerosi altri precedenti
condottieri veneziani che, dopo aver commesso in guerra gravi errori militari, erano stati

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severamente sanzionati dalla Serenissima, non fu poi ufficialmente addebitata alcuna
responsabilità della sconfitta, probabilmente perché e le fortune passate e soprattutto la recente
nomina a doge, cioè a massima autorità di quella signoria, l’avevano da tanto preservato.
Chiesta la pace dai turchi e intavolatesi trattative a Vienna verso la fine dell’anno, il sultano
Solimano, conosciuti i progressi militari che a ovest la Francia stava facendo contro l’Impero,
aveva poi deciso di farle fallire e così i preparativi di guerra erano ripresi.

1689. Il primo episodio di rilevanza militare a Napoli riportato per questo nuovo anno 1689 fu
l’arrivo di un real ordine datato 7 gennaio in cui si ordinava la riforma, ossia l’abolizione della
Real Cavallerizza della Maddalena, della Razza di Puglia e del ‘Castello di Lecce’, ossia del suo
presidio e della sua castellania; ci fu poi la partenza del marchese di Solera figlio del viceré,
avvenuta giovedì 10 febbraio, alla volta della Lombardia, dove già aveva inviato buona parte dei
suoi famigli e dove andava ad assumere il suo nuovo duplice incarico di mastro di campo del
terzo spagnolo di Lombardia e di governatore di Novara. All’incirca negli stessi giorni arrivava
invece a Napoli Alonzo de Salvedo, nuovo castellano di Castel S. Eramo, il quale, appena
giunto, si vide conferire dal viceré anche il prestigioso titolo di membro della Giunta di Guerra.
Nel marzo si celebrarono a Napoli l’esequie per la morte della regina Maria Luisa di Borbone,
avvenuta a Madrid il 12 febbraio precedente alle ore 14, ossia alle 10 d’oggi; alla fine della
seconda settimana dello stesso marzo partì per la Spagna il mastro di campo Antonio Saiger de
Cordoba con l'incarico d’arruolare un nuovo terzo di mille fanti, mentre per converso una decina
di giorni più tardi arrivavano a Napoli dalla Spagna il capitano napoletano di cavalleria
Domenico Dentice, il quale, evidentemente nominato mastro di campo, doveva levare un nuovo
terzo di napoletani con cui ritornare poi in Catalogna, e a Baia dalla loro base di Gaeta le sette
galere della squadra del duca di Tursi, le quali imbarcarono colà munizioni militari e ben 17
compagnie di fanteria spagnola da trasferire ai Presidi di Toscana, per dove salparono infatti il
successivo lunedì 4 aprile, in considerazione che nuove nubi di guerra provenienti dalla solita
aggressivissima Francia, a cui anche Dieta tedesca, Olanda e Inghilterra stavano per dichiarare
guerra uniti nella cosiddetta Grande Alleanza anti-francese, consigliavano un robusto
rafforzamento di quelle piazze; quest'ultimo viaggio deve essere avvenuto quindi in
insopportabili condizioni di sovraffollamento in considerazione che di norma una galera non
avrebbe dovuto trasportare più di cento o centocinquanta soldati, oltre ovviamente alla ciurma e
alla marinaresca, se non in battaglia, quando cioè i combattenti erano stipati all'inverosimile

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perché, non essendo tempi d’armi dal gran volume di fuoco, di più uomini si disponeva e meglio
era.
Passato per Napoli, nella prima decade d'aprile, il mastro di campo Pedro Meneses, castellano
della fortezza di Barletta, il quale si portava al ben più importante governo della piazza
d'Orbitello dove avrebbe pertanto liberato l'interinale de Nuriega, giovedì 12 maggio la squadra
del duca di Tursi partirà nuovamente per lo Stato dei Presidi per portarvi ancora soldatesche,
cannoni, molte provvisioni d'ogni sorta e inoltre di nuovo il vicario generale di quello Marzio
Origlia, il quale farà ancora ritorno a Napoli nella seconda settimana d’ottobre dopo aver fatto
eseguire lavori di potenziamento a quelle fortificazioni. Nello stesso maggio, per ordine del
viceré, il principe di Satriano di casa Ravaschiero, ex-reggente della Vicaria, fu carcerato nel
castel dell’Ovo per aver fatto bastonare dai suoi servi un semplice mastro fabbricatore, perché
questi gli aveva chiesto con insolenza del denaro dovutogli.
Pubblicata anche a Napoli, martedì 7 giugno, la nuova guerra contro la Francia, alla quale
anche gli inglesi avevano il 27 maggio dichiarato guerra, qualche giorno dopo fu conferito al
capitano Rodrigo Benavides il governo della piazza di Pescara, la quale era per ordine
d'importanza terza ai confini settentrionali del regno dopo quelle di Gaeta e di Capua.
Mercoledì 15 giugno ritornò a Napoli la predetta squadra del duca di Tursi recante a bordo lo
stesso duca suo generale; domenica 19 arrivava poi a Napoli da Alicante uno dei soliti vascelli
inglesi noleggiate per il trasporto di soldatesche nel Mediterraneo e sbarcava un buon numero
di soldati spagnoli e altrettanti ne aveva lasciati prima a Palermo. La sera di lunedì 27 una
squadra formata dalle otto galere napoletane e da sette dei particolari genovesi e comandata
dai rispettivi capitani generali, il marchese di Camarasa e il duca di Tursi, salpò per ordine reale
dalla darsena di Napoli con destinazione Finale, dove andava a imbarcare 2mila soldati che
dovevano calarvi dallo Stato di Milano per condurli a Barcellona a rinforzare l'esercito di
Catalogna; a queste s’aggregarono anche tre galere di Sicilia e legni latini ben armati - una
tartana, di due barconi e di 13 feluche - diretti ai Presidi di Toscana, dai quali però sarebbero
poi ritornati nel porto partenopeo; per altro ordine reale queste tre galere erano state poste
provvisoriamente di base a Napoli per combattere la recrudescenza del corseggiamento
barbaresco in assenza delle due predette squadre partite verso i teatri di guerra (ma chi
difendeva nel frattempo le coste siciliane?). Le tre galere lasciarono nuovamente Napoli in
caccia dei corsari domenica 31 luglio ed erano comandante dal loro governatore generale
Fernando de Moncada y Aragón duca di S. Giovanni, il quale il 10 aprile dell’anno seguente ne
sarebbe però diventato il loro ufficiale capitano generale, essendocisi anche imbarcato il

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marchese d'Aytona, genero del viceré, per motivi non riportati, ma poteva trattarsi della
semplice necessità che il giovane facesse esperienza della guerra di corso; salperanno ancora
da Napoli per Gaeta tra la fine di settembre e l’inizio d’ottobre con 350 fanti e attrezzi militari per
rinforzo di quella fortezza.
Nell'ultima decade di luglio era frattanto giunta notizia a Napoli di uno scontro con i barbareschi
avvenuto nelle acque di Lipari, dove, essendo stati avvistati una galeotta e un bergantino turco-
barbareschi, erano valorosamente usciti a contrastarli quattro piccoli legni armati liparoti; il
combattimento, benché provocasse molti morti da ambedue le parti, aveva visto alla fine
vincitori i cristiani, i quali si erano impadroniti della galeotta, spinta dai remi di 70 schiavi
cristiani; il bergantino invece, postosi in fuga, era stato costretto ad approdare alla spiaggia di
Pizzo Calabro, dove il governatore di quel luogo, avvisato di quell'arrivo e messi insieme molti
uomini armati a percorrere la costa, aveva fatti prigionieri 25 turchi che vi erano sbarcati. C'è qui
da chiarire che allora nel Regno di Napoli erano chiamati spesso turchi anche i mori o
barbareschi, i quali erano tributari del sultano di Costantinopoli, e quindi nella predetta
circostanza non si può capire se si trattasse di corsari effettivamente provenienti da
Costantinopoli oppure se si trattava d’algero-tunisini. Giunse all'inizio d’agosto anche notizia
dalla Sicilia che una tartana corsara trapanese armata dal napoletano Andrea d’Ávalos principe
di Montesarchio, mentre costeggiava la Barbaria, si era imbattuta in un legno francese carico di
3.500 tomoli di grano, munito di 12 pezzi di cannoni e montato da 75 uomini; l'aveva
combattuto, preso e condotto a Trapani; all’inizio del 1691 il detto principe, generale e corsaro,
risulterà disporre invece, appunto per la guerra di corso, di una saettia armata. Poiché poi si
seppe che anche i corsari albanesi di Dulcigno e d’altri luoghi costieri di quella regione si
preparavano a infestare le coste adriatiche del regno, nella prima decade d'agosto si
mandarono ordini ai presidi e ai governatori di quelle province perché facessero costantemente
percorrere da soldatesche le marine più esposte a tali temute incursioni.
All'inizio dell'ultima decade d'agosto giunse notizia che le tre squadre di galere di Napoli, di
Sicilia e del duca di Tursi erano arrivate a Barcellona il 23 luglio e che da quella città dovevano
poi passare a Rosas, dove si sarebbero unite all'armata di Spagna e con essa, sotto il comune
comando del tenente generale del mare principe di Piombino, andare a fare un’impresa contro
località costiere francesi; ma si trattava di notizie certo inesatte, se immediatamente dopo
ritroviamo le galere napoletane appena ritornate a Napoli e pronte a ripartire, come in effetti
fecero verso la fine dello stesso agosto, di nuovo con destinazione finale Catalogna, come
risulta - anche se in verità la sequenza degli arrivi e delle partenze delle galere di Napoli

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avvenute in questi mesi non è molto chiara - dai documenti di un partito del vestiario datato
primo agosto e avente per oggetto la fornitura urgente di 600 vestiti rossi alla fanteria spagnola
che guarniva (equipaggiava) le dette galere; non essendoci tempo sufficiente, questo partito fu
concesso al partitario Nicola di Martino senza né un regolare bando né una regolare asta.
Nello stesso mese d’agosto altre milizie furono cautelativamente condotte ai confini
settentrionali del regno, mentre si procedeva all'acquisto dei cavalli necessari alla rimonta di 500
soldati smontati da mandare a Milano. Una delle prime e principali azioni di quest'ennesima
guerra combattuta contro la Francia per il possesso - tra l'altro - del principato di Catalogna fu
l'attacco spagnolo a Campredon, avvenuto nell'agosto, a cui parteciparono i terzi italiani di
Ferrante Pignatelli e di Francesco Serra e inoltre truppe di cavalleria comandate da fra’ Alvaro
Minutillo y Quiñones; quest’ultimo aveva iniziato la sua carriera militare nel 1671, ottenendo
d’aggregarsi come venturiero al terzo fisso spagnolo di Lombardia.
Nei primi giorni d'ottobre le tre galere di Sicilia di base a Napoli portarono a Gaeta 350 fanti e
attrezzature militari per rinforzo di quella piazza, poi, verso la metà del mese, il viceré, non
credendo più necessaria la loro presenza, dette licenza al loro predetto governatore generale
duca di S. Giovanni di ricondurle a Palermo, porto dove arrivarono con qualche ritardo avendo
dovuto sopportare sei ore di leggera burrasca; nello stesso ottobre fece ritorno a Napoli dai
Presidi di Toscana il generale dell'artiglieria Marzio Origlia duca d’Arigliano, il quale, come
sappiamo, era stato in quelle piazze col titolo di vicario generale e aveva fatto perfezionare
quelle fortificazioni; verso la fine del mese giunse poi notizia che una tartana armata napoletana
munita dal viceré di una regolare patente di corso aveva predato un bergantino turco-
barbaresco e ne aveva fatti schiavi i 30 uomini dell’equipaggio conducendoli poi a Napoli.
Anche alla fine d’ottobre fu ucciso un pericoloso facinoroso ricercato, Nicola Vaccariello detto
Strazzullo, il quale si era da giorni rifugiato armato nella chiesa di S. Cosimo sita fuori porta
Nolana; sorpreso finalmente all’esterno della chiesa da tre soldati di giustizia camuffati da
fabbricatori, questi gli avevano sparato contro due pistolettate, le cui palle di piombo lo avevano
sì colpito, ma poi, dopo avergli solo bruciato le vesti, erano cadute a terra schiacciate
dall’impatto e senza averlo per nulla ferito, ciò a riprova dell’incerto effetto che ancora a quel
tempo avevano sia le pistole sia i vecchi archibugi; i soldati avevano dovuto dunque
delicatamente finirlo a martellate e stilettate, ma comunque, prima che anche procedessero a
mozzargli l’indegno capo, il disgraziato aveva avuto il tempo di farsi confessare dal parroco. Tra
fine ottobre e primo novembre giunse poi da Barcellona in sei giorni una barca che informò
come, partite da Cadice cariche di soldatesca le squadre di Sardegna e del duca di Tursi per

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andare a portare altro soccorso in Africa a Larache, assediata dai mori, quelle di Napoli e Sicilia
erano invece rimaste a Barcellona a spalmarsi, ossia a carenarsi.
Venerdì 4 novembre, festa di S. Carlo Borromeo, si festeggiò l’onomastico del re e domenica 6
anche il suo cumpleaños, tenendosi cappella reale nella Real Chiesa del Carmine Maggiore,
dove si era portato per l’occasione in carrozza anche il viceré accompagnato dalla sua
compagnia di lance e da quattro titolati di prima riga o di prima sfera, come allora si diceva con
riferimento ai posti di responsabilità e di pericolo che i nobili principali erano stati obbligati a
occupare nel passato nello schieramento di battaglia, vale a dire o nella prima fila del
battaglione o attorno al capitano generale e al suo guidone (‘stendardo’):

… per far spiccare con pompa più decorosa Sua Eccellenza giorno tanto segnalato, fece vestir
di nuovo, per la prima volta di color rosso, tutta la cavalleria e altresì la fanteria spagnuola e
così, quella come questa, schierate nella gran piazza del Mercato in forma di ben regolato
squadrone, faceano vaghissima mostra e alla scarica che essi fecero di tutte le loro armi
corrispose parimenti con Salva reale tutto’l cannone di queste castella… (S.G.B.1 Gazzette.
S.N.S.P)

È questa la seconda volta, dopo quella del 1683, che vediamo il compleanno del re Carlo II
festeggiato a Napoli con l’esibizione di nuove uniformi; la cavalleria in rosso a cui qui ci si
riferisce non è quella di vecchia formazione, la quale vestiva di pavonazzo (‘turchino’), ma è
quella detta di nuova leva e di cui abbiamo già detto. Sbagliava però qui il giornalista della
Gazzetta a far credere che il vestire di rosso fosse la prima volta anche per la fanteria spagnola
e ben sappiamo che infatti non era così; forse negli ultimi anni questa disposizione era stata a
Napoli via via sempre più disattesa e quindi ora, ribadita, poteva sembrare anche a un cronista
una novità, ma in verità non sappiamo se la cosa si può spiegare veramente così. In questi
giorni fu riconfermata a Cesare Caracciolo marchese di Barisciano la sua carica di reggente
della Vicaria, mandato che era biennale, ma che poteva anche essere confermato dal viceré per
un secondo biennio, e si seppe con soddisfazione che gli imperiali e i loro collegati avevano
espugnato la piazza di Bonn tenuta dai francesi.
All’inizio di dicembre, mentre bisognava andarsi a leggere un avviso milanese del 23 novembre
per sapere che un vascello napoletano armato in corso aveva catturato nelle acque del regno
una barca francese, la quale, carica di mercanzie, se ne stava tornando in Francia, tornarono a
Napoli il mastro di campo Francesco Serra dei duchi di Cassano dalla Catalogna, dove aveva
sinora militato contro i francesi, e da Madrid il mastro di campo Juan Gomez de Enterria y
Noriega, cavaliere dell’ordine di S. Giacomo, il quale a gennaio era stato inviato dal viceré in

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missione a quella Corte, con la carica di tenente generale e governatore del Real Castel Nuovo,
quindi come successore del mastro di campo Martín de Castrejón y Medrano, il quale era stato
appena nominato dal viceré preside della provincia di Salerno, essendo infatti colà morto in tale
incarico Onofrio Sersale, e il cui interim a Castel Nuovo stava allora sostenendo il capitano
Alberto de los Rios. Come poi vedremo, il de Castrejón y Medrano diventerà anche reggente
della Gran Corte della Vicaria e poi mastro di campo del terzo fisso degli spagnoli.
Fu in quei giorni nominato invece preside della provincia di Montefusco Pietro Moccia marchese
di Montemare e cavaliere dell’ordine d’Alcántara, mentre dai Presidi di Toscana giungeva
notizia della morte del governatore della piazza di Porto Ercole, cioè del tenente di mastro di
campo generale Antonio de Aldama; al posto di costui dopo circa una settimana fu nominato dal
viceré il sargente maggiore Lazaro Gallego, il quale già serviva nei Presidi di Toscana. Nella
terza settimana del mese tornò di nuovo a Napoli dalla Catalogna anche il mastro di campo
Domenico Dentice, il quale si era dovuto però trattenere a Roma perché indisposto; nella quarta
si seppe da Milano che l’8 precedente erano arrivate a Genova da Barcellona le due galere S.
Ferdinando e S. Antonio della squadra di Napoli, di cui era e sarà ancora per qualche mese
capitano generale il marchese di Camarassa, e tre di quella di Sicilia, di cui era allora invece
generale Beltrán de Guevara duca di Nájera, galere le quali avevano sbarcato 150 fanti
spagnoli di nuova leva imbarcati ad Alicante; dopo una decina di giorni pervenne al residente
spagnolo di Genova una staffetta da Milano con le istruzioni di chiedere a quella repubblica il
passo per detti fanti, i quali si dovevano mettere infatti in marcia via Voltri per lo Stato di Milano.
Dette galere, dopo aver sostato due giorni al molo di Genova, ripartirono per Porto Longone, da
dove poi, navigando di conserva sino all’isola di Ponza, avrebbero proseguito per i propri porti di
svernamento e le due napoletane arrivarono infatti a Napoli lunedì 26 dicembre.
In quel tempo il terzo napoletano fisso della flotta spagnola oceanica, allora comandato dal
mastro di campo Antonio Domenico di Dura, aveva lasciato Gibilterra insieme con un terzo di
spagnoli con destinazione Larache in Marocco, piazza, come sappiamo, strettamente assediata
dai mori, i quali scavavano approcci all’Europea sotto la guida di ingegneri militari francesi; non
ostante detto soccorso, dopo cinque furiosi assalti eroicamente contrastati dagli ispano-
napoletani Larache era stata costretta a cedere al nemico, il quale pure assediava Melilla. Il di
Dura e quanto restava dei suoi furono presi prigionieri e più tardi riscattati, secondo il venale
uso del tempo; il Filamondo scrive che egli ottenne dal re un marchesato, ma quale fosse non lo
dice.

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Negli ultimi giorni dell'anno fu proposta a Napoli la leva di una compagnia di corazze milanesi
oppure ultramontane (fiamminghe o tedesche) da portarsi appunto al servizio del regno; questo
reparto si sarebbe dovuto distinguere dalla cavalleria napoletana di vecchia formazione con
l'indossare un’uniforme rossa come quella con cui, come abbiamo appena detto, ora pure si
differenziavano le cinque compagnie di cavalleria napoletana di stanza nella capitale e dette di
nuova leva, un nome distintivo in origine accidentale, ma che ora era divenuto permanente. C'è
un partito del vestiario del 7 novembre - ma già annunciato da un documento del 9 ottobre -
che, oltre ad avere per oggetto 2mila vestiti rossi per la fanteria spagnola del regno e 300 altri,
pure rossi, per la predetta cavalleria di nuova leva, riguarda pure gli abiti nuovi da farsi per la
fanteria di stanza in Toscana e da questo documento possiamo ricavare con precisione quanti
erano i soldati e i bassi ufficiali che guarnivano quei presidi; il partitario Gregorio Fontana
doveva infatti fornire, oltre ai detti, ancora 1.680 vestiti rossi per fanti spagnoli e 780 turchini per
soldati italiani da spedire a quelle guarnigioni. I vestiti si facevano, come il solito, di due taglie e
quindi per ogni 100 ce ne dovevano essere 70 di taglia mezzana e 30 di taglia grande e ciò in
conformità alle due mostre (modelli) presenti nella Regia Monizione del Castel Nuovo; dovevano
essere di panno d'Inghilterra, ma, in mancanza di una quantità sufficiente di tal panno, la
differenza dei vestiti poteva essere fatta di panno di Piedemonte d'Alife, qualità meno pregiata
che avrebbe poi comportato al partitario una diminuzione pro rata del prezzo pattuito.
Generalmente gli abiti si fornivano completi di spada, ma in questo caso le spade non furono
richieste; i vestiti per la cavalleria erano parecchio più costosi perché comprendevano in più
generi tipici dei soldati montati e cioè la groppiera e i guarda pistole, anch'essi di panno (ma il
colore non è indicato) e infine il cappotto (mantello) da farsi di panno di Cerreto Sannita del
colore naturale e solito del cerrito, quindi non tinto, e foderato di tessuto di Cusano, località del
Beneventano, quest'ultimo un tipo di saia generalmente di colore bianco.
Che questo 1689 fosse anno caratterizzato da preparativi di guerra è anche confermato da altri
due partiti di vestiario militare per soldatesche italiane che in esso furono messi in gara e cioè
uno per 100 vestiti violetti (turchini) del 28 maggio e uno per 1.000 anche violetti del 3
settembre; infatti, anche se i primi 100 abiti possono anche essere per cavalleria italiana
ordinaria fissa, i secondi mille possono solo esser destinati a fanti di nuova leva, non essendoci
infatti in regno fanterie regnicole ordinarie fisse.
Diremo infine che nel corso di questo 1689 nell’Europa occidentale le forze unite dei potentati
tedeschi avevano condotto una grande controffensiva nel Palatinato riprendendo alla Francia
gran parte del terreno perduto l’anno precedente, non ostante che questa avesse fatto in modo

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da far trovare al nemico solo terra bruciata, distruggendo crudelmente col fuoco una ventina di
città e villaggi tedeschi, tra cui Heidelberg, Mannheim, Oppenheim and Worms, confermando
così quella svolta disumana della guerra intrapresa da Luigi XIV, sovrano certamente grande,
ma anche spietato e disumano, di cui abbiamo già detto; frattanto, nel corso degli altri fatti bellici
che avvenivano nell’Europa orientale, i turchi, pur prevalendo ancora su polacchi e lituani in
Volinia e riuscendo i loro alleati tartari a respingere un grosso esercito moscovita venuto a
invadere la Crimea, avevano subito nondimeno altre pesanti sconfitte nei Balcani, cedendo
dapprima agli imperiali la piazza di Zyghet (13 febbraio), subendo più tardi anche a Nissa (24
settembre), a Widin (17 ottobre), a Skopje, bella e ricca città che il luogotenente maresciallo
generale imperiale conte Enea Silvio Piccolomini, giudicandola indifendibile, aveva il 26 ottobre
distrutto col fuoco, e a Sofia e perdendo così anche la Macedonia e la Bulgaria, mentre i croati
avevano rintuzzato con molto successo i tentativi ottomani di riguadagnare terreno in quella
provincia. La vittoria imperiale a Nissa, conosciutasi a Napoli il 18 ottobre, vi fu festeggiata
quello stesso giorno; ma il giubilo sarà di breve durata perché già nella seconda metà del
seguente gennaio gli ottomani, anche se a prezzo d’ingentissime perdite, si rimpadroniranno
con una grande controffensiva di Belgrado e della stessa Bulgaria.
In Morea frattanto, consumatosi il fiore delle sue milizie nel vano assedio di Negroponto
dell’anno precedente, il Morosini aveva ora voluto tentare l’impresa di Malvasia, ma anche lì
aveva fallito, costretto a sciogliere l’assedio il 14 settembre si ritirò, mentre più a nord, per
mancanza di forze adeguate, nemmeno al generale Molino riusciva quella di Trebigne nella
Herzegovina; frattanto si riaffacciava nel teatro di guerra anche l’armata di mare ottomana.

1690. Una corrispondenza da Milano del 25 gennaio segnalava che il giorno 8 precedente,
dopo quattro giorni di viaggio, erano arrivate a Genova da Barcellona cinque galere di Napoli e
due dello stuolo del duca di Tursi, ossia la Capitana e la S. Francesco; le prime il giorno
seguente avevano ripreso il viaggio per andare, dopo la solita sosta a Civitavecchia, a svernare
nel proprio porto e infatti arriveranno a Napoli nei primi giorni di febbraio. Un’altra
corrispondenza, questa da Genova e datata lunedì 28 gennaio, ma pubblicata dagli Avvisi di
Foligno e gentilmente fornitaci con altre dall’ing. Giancarlo Boeri, segnalava l’arrivo in quel porto
e in quello stesso giorno di una barca che era in viaggio per Napoli dove stava portando 180
reclute spagnole assoldate a Valencia. Quest’ultima notizia trovava conferma in due avvisi da
Milano del 1° e dell’8 febbraio seguenti, ma secondo i quali si sarebbe trattato di reclute
provenienti non da Valencia, bensì da Alicante; la detta barca, dopo essersi trattenuta a Genova

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ben undici giorni in attesa o di condizioni atmosferiche favorevoli o di una buona scorta,
finalmente la notte del venerdì 8 salpò per Napoli scortata dalle suddette due galere del duca di
Tursi, le quali avevano lasciato a Genova il loro generale duca di Tursi, e i tre vascelli
arriveranno nel porto partenopeo verso il 13 febbraio; nel corso del viaggio, arrivatisi nelle
acque di La Spezia, le due galere genovesi predarono una nave francese carica di vino e d’altre
mercanzie.
Nei primi giorni di febbraio fecero ritorno a Napoli dall’Ungheria i due capitani del reggimento
imperiale dei cavalli corazze Carafa Paolo Carafa dei duchi di Bruzzano e Carlo di Sangro dei
marchesi di S. Lucido e, come sempre avveniva in tali casi, subito si premurarono di andare a
ossequiare il viceré, il quale in tal modo otteneva notizie di prima mano dai fronti di guerra.
Essendo avvenuta il 24 precedente a Vienna l’elezione del nuovo Re dei Romani, ossia del
nuovo imperatore in persona del re di Ugheria Gioseppe d’Austria, elezione seguita poi
dall’incoronazione anche dell’imperatrice, martedì 7 febbraio si festeggiarono tali eventi anche a
Napoli con una Cappella Reale nella solita Real Chiesa del Carmine alla presenza del viceré, di
tutti i ministri ed della nobiltà, con la formazione di uno squadrone di cavalleria e di fanteria
spagnola nell’antistante largo del Mercato e con salva di tutte le armi e dei cannoni di tutti i
castelli. Nel corso della settimana successiva il viceré graziò un condannato a morte per furto e
gli commutò la pena alla galera a vita, essendo tali commutazioni all’incirca frequenti secondo la
concomitante necessità di remieri che poteva avere la squadra del regno; lunedì 13 arrivò a
Napoli la tartana corsara la Fenice di Vico Equense, la quale ne rimorchiava un’altra francese
che aveva predato nelle acque di Otranto mentre questa, carica di grani e biscotti caricati ad
Ancona, veleggiava per Marsiglia. Si seppe inoltre in questi giorni che alla fine del mese
precedente a Milano un capitano napoletano, Pietro Sorbelloni, mentre nottetempo si dirigeva
verso casa, era stato ferito alla testa da due archibugiate e il già menzionato governatore conte
di Fuensalida aveva dato incarico al competente capitano di giustizia di istruirne il processo.
Informato che il principe Filippo Guglielmo di Neoburgo, fratello della regina di Spagna, stava
arrivando in incognito in regno da Roma, il viceré inviò subito ai confini il tenente generale della
cavalleria Sigismondo de Rho e alcuni maggiorenti perché lo accogliessero e inoltre fece
preparare cambi di tiri a sei cavalli per tutto il percorso che l’importante ospite avrebbe dovuto
fare sino a Napoli; poi, nel primo pomeriggio di sabato 18 febbraio, accompagnato dal mastro di
campo generale Fernando Gonzales de Valdés, si recò ad Aversa per aspettarvi il principe, il
quale, pur essendo di sangue reale, si sapeva amava farsi chiamare semplicemente ‘conte di
Withenthal’ e per cui, non conoscendo i suoi gusti, aveva fatto preparare due alloggi, cioè quello

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reale che egli stesso occupava – spettando questo innanzitutto ai membri della famiglia reale ed
essendo di conseguenza egli passato ad abitare provvisoriamente in un diverso appartamento
del palazzo reale – e un altro di carattere invece conventuale messo a disposizione dai padri
gesuiti nella loro Casa Professa; ma il principe, entrando a Napoli in serata, sebbene vi fosse
accolto da una salva reale fatta da tutte le artiglierie dei castelli e delle galere, vi arrivò nella
carrozza del marchese Mascambruno, residente imperiale a Napoli, e nella casa di costui andò
a sistemarsi, avendo pertanto declinato sia le carrozze offertegli dal viceré sia ambedue i
suddetti alloggi sia le quattro compagnie - due di cavalleria, una di fanteria spagnola e quella
degli alabardieri alemanni - inviategli dal viceré per la guardia della sua predetta abitazione,
volendo così accentuare il carattere privato di quel suo viaggio; la mattina seguente infine si
recò in visita a Corte, ma sempre in carrozza privata. Il viceré allora martedì 21 gli inviò in regalo
una tale copia di rinfreschi (‘cibi’) d’ogni genere che arrivò portata da 60 uomini.
In questi giorni fecero ritorno a Napoli da Roma il cavallerizzo maggiore del viceré Andrea de la
Rimpe, il tenente della sua guardia alemanna Antonio di Mata e il governatore di Taranto
Alonzo de Andrade; il primo era partito per Roma venerdì 20 gennaio per presentare al
cardinale Ottoboni, nipote del pontefice, un regalo del viceré, ossia una muta di otto splendidi
cavalli di regno; che cosa fossero andati a fare a Roma i suddetti altri due personaggi non
sappiamo.
Il 20 marzo fu rassegnato in Lombardia quell'esercito e dalla relazione di tale mostra che c'è
pervenuta risulta che erano allora colà presenti un terzo di fanteria napoletana, quello cioè del
mastro di campo Marc'Antonio Colonna, corpo che contava 15 compagnie per un totale di 169
ufficiali ed 874 soldati, e quattro compagnie di cavalleria, anch'esse napoletane, formate da 25
ufficiali e 330 soldati. Quest'ultime nel corso dell'anno diventeranno però otto, come risulta da
un piano dell'esercito di Milano preparato per la campagna estiva e che prevedeva dovessero
raggiungere il numero di dieci per complessivi mille uomini, ma non sappiamo se quest'intento
fu poi effettivamente raggiunto; dopo la campagna di guerra ne resteranno comunque superstiti
solo cinque, come vedremo.
Nell’ultima decade dello stesso marzo lettere dalla Spagna portarono a Napoli notizia di nuove
nomine, per cui generale delle galere di Napoli era stato fatto il suddetto Beltrán de Guevara
duca di Nájera e di quelle di Sicilia Ferdinando Moncada duca di S. Giovanni, il quale, già loro
governatore generale, come abbiamo più sopra detto, assumerà però ufficialmente questo
nuovo superiore comando solo con inizio dal seguente 10 aprile e lo manterrà sino alla fine di

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settembre del 1695, quando, con decorrenza 7 ottobre, sarà sostituito da Joseph Fernandez de
Velazco marchese di Jodar:

…y antes habia governado la esquadra diversas vezes como governador general por Sus
Magestad (V. Auria)…

Inoltre, il conte d'Altamira era stato nominato viceré di Sardegna e infine il duca di Sessa di
casa Córdoba viceré di Valenza, dove era infatti destinato. Verso il 25 aprile era pronto il terzo
di fanteria regnicola del mastro di campo Domenico Dentice, giunto apposta dalla Catalogna e
di cui abbiamo già detto; in quel mentre proseguiva la leva dell'altro, per il quale tuttavia il viceré
non aveva ancora nominato gli ufficiali maggiori. Mentre continuavano a giungere da Milano
corrieri che sollecitavano al viceré rimesse di denaro per la guerra e spedizioni di milizie e
mentre giungeva avviso che caravelle turchesche infestavano sempre di più le marine calabresi,
la mattina del 16 maggio ritornarono a Napoli cinque galere che, unitamente a tre del duca di
Tursi, si erano in precedenza mandate ai Presidi di Toscana per una delle solite mute di
guarnigione semestrali e per rinforzi, galere che, unitamente ad altre di cui si attendeva
l'imminente arrivo, sarebbero state appunto utilizzate per il trasporto di soldatesche a Finale
Ligure.
La sera di mercoledì 24 maggio dunque le suddette cinque galere di Napoli e quattro dei
particolari genovesi, di conserva con sette barche, probabilmente tartane, all'uopo noleggiate,
salparono dal porto della capitale dopo aver imbarcato quello stesso giorno 1.800 soldati per
Finale e successivo inoltro, come si disse, in Fiandra attraverso lo Stato di Milano; si trattava di
800 spagnoli e del già menzionato terzo di fanteria napoletana di nuova leva affidato al mastro
di campo Domenico Dentice. Questo terzo, prima di essere imbarcato, era stato squadronato e
rassegnato davanti al palazzo reale dove il viceré conte de San Estévan aveva potuto
ammirarne gli esercizi militari insolitamente eseguiti con una perizia degna di veterani, capacità
troverà poi conferma nel buon comportamento di questo corpo non in Fiandra, bensì alla
disfatta della sanguinosa battaglia della Badia della Staffarda presso Saluzzo, vinta dai francesi,
la quale avverrà il 18 agosto successivo, durando circa sei ore e mezza, cioè dalle 10 di mattina
a dopo le 4 del pomeriggio; infatti verso la metà di giugno il governatore della Lombardia, il
marchese de Leganés, avrebbe spedito il suo esercito in Piemonte in soccorso di Vittorio
Amedeo II duca di Savoia, il quale, con trattati stipulati il 3 e l’8 giugno precedente, aveva fatto
alleanza con Spagna e impero contro la Francia.

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Le predette galere, le quali, come abbiamo appena detto, viaggiavano ora, non essendo ancora
giunto a Napoli il loro nuovo suddetto generale Beltrán de Guevara duca di Nájera, sotto il
governatorato provvisorio del marchese di Aytona, genero del viceré; esse dovevano sostare
qualche tempo a Gaeta nell'attesa che colà venisse ad aggregarsi loro la squadra delle galere
di Sicilia per passare con più sicurezza i pericoli delle spiaggie romane, come si legge in
qualche cronaca, inducendoci quindi a pensare che le difficoltà che il cabotaggio della costa
laziale tradizionalmente presentava, più che esser causate da venti stabilmente contrari a chi
navigava verso nord-ovest, dovessero esser dovute alle scorrerie dei corsari barbareschi, i quali
in quel periodo infestavano particolarmente e soprattutto le coste calabresi, coste che inoltre
ora, a causa della nuova guerra in Europa, cominceranno a essere attaccate intensamente
anche dai corsari francesi. In realtà la suddetta sosta fu dovuta certamente a venti contrari
perché le galere siciliane lasciarono Gaeta prima di quelle provenienti da Napoli, giungendo
infatti in Liguria il 9 giugno; esse portavano 435 spagnoli del terzo di Sicilia, gente mal all’ordine
e la maggior parte ammalati, che si sono fatti condurre in questo Hospidale, come si legge in un
avviso genovese, mentre un altro confermava questo stato miserando e informava che erano
arrivati addirittura nudi, per cui si dovette subito provvedere perché fossero ricoperti. Il convoglio
da Napoli ripartì invece da Gaeta solo la notte dello stesso 9 giugno, fu avvistato da Genova il
giorno 13 seguente e il 14 e il 15 sbarcò a Ultri (‘Voltri’) la predetta fanteria spagnola e
napoletana, destinata a proseguire il viaggio via terra per lo Stato di Milano e questi uomini, al
contrario di quelli provenienti dalla Sicilia, sono da un avviso descritti tutti di buona qualità e ben
vestiti. Gli ispano-napoletani furono poi inoltrati a Pavia dove furono passati in rivista il 21
giugno unitamente a quelli arrivati dalla Sicilia e ad altri per un totale di circa 3mila uomini; tutti
costoro furono poi inviati in Piemonte verso la metà d’agosto. C’è da aggiungere che gli 800
spagnoli predetti provenienti da Napoli erano arrivati in Lombardia comandati da un sargente
maggiore, ma furono colà riuniti in un terzo e posti sotto il mastrato di Carlo Colonna, il quale ne
avrà però formale titolo solo con patente reale del 6 dicembre 1690; questo terzo sarà poi
riformato dal Leganés con suo ordine dell'8 febbraio del 1692.
La summenzionata battaglia della Staffarda, vinta dai francesi del Catinat, futuro maresciallo di
Francia, contro le forze della Lega d'Augusta composte in quest'occasione in massima parte
dall'esercito savoiardo e da quello italo-spagnolo dello Stato di Milano costò ai soli corpi
napoletani perdite per quasi 600 uomini e ricordò quanto fossero infausti i campi piemontesi ai
meridionali, i quali già nella battaglia d’Asti del 1615 vi avevano perso circa 800 soldati
combattendo contro francesi e piemontesi allora alleati. Alla Staffarda sembra si perse

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soprattutto per l'armamento migliore di cui erano dotati i francesi e cioè d’ottimi moschetti
leggieri dalla lunga gittata, mentre le fanterie ispano-italo-alemanne giunte dal Milanese in aiuto
del duca di Savoia avevano in gran parte un’arma tanto debole da esser chiamata ancora
archibugio; narra infatti il Filamondo che i francesi eccedevano nel numero dell'armi da fuoco,
che giungevano ben lontano, inferivano maggior danno a’ spagnuoli, de’ quali le picche erano
inutili, gli archibugi non faceano pieno colpo. Questo miope restare indietro nell’evoluzione della
tecnica bellica fu una delle principali cause della decadenza del predominio spagnolo in Europa.
Inoltre alla Staffarda successe che un reggimento piemontese, abbandonati gli ufficiali e le
bandiere, passò in gran parte al nemico dopo la prima scarica e quelli che restarono fecero la
seconda, o per malizia o per errore, sul terzo del Dentice e, come se questo non bastasse, la
fanteria milanese, mal condotta, si rovesciò addosso alla cavalleria del suo stesso Stato
scompaginandola; si comportarono invece ottimamente sia la fanteria spagnola sia la cavalleria
bavarese, la quale si fece sì distruggere, ma salò in tal modo il grosso dell’esercito.
Partecipavano alla battaglia anche un altro terzo napoletano, quello cioè del predetto
Marc'Antonio Colonna, il quale restò gravemente ferito, e Gioseppe Giudici figlio del duca di
Giovenazzo, anch’egli ferito, il quale aveva raggiunto l'alto incarico di commissario generale
della cavalleria napoletana dell'esercito dell'Alta Italia e aveva nel passato combattuto da
venturiero con i cesarei in Ungheria, restando già ferito nell'assalto a Belgrado; morirà
nell'agosto del 1692 combattendo alla presa d’Ambrum nel Delfinato e lasciando due fratelli a
combattere in Piemonte, Gioan Battista e Michele ambedue capitani di cavallera alemanna,
l'uno nel reggimento Carafa e l'altro nel Montecuccoli; anche questi ultimi avevano, come
Gioseppe, iniziato da venturieri in Ungheria e avevano poi partecipato con lui ai principali fatti
d'arme dell'Europa centro-orientale, quali quelli di Belgrado, Bonn, Magonza; Michele otterrà in
seguito il grado d’aiutante generale nell'esercito imperiale in Italia, mentre il padre, il duca
Domenico, sarà elevato all’altissima carica di viceré interinale del regno d’Aragona alla fine del
1693.
In quel tempo la Francia aveva ottenuto altri importanti successi per terra e per mare; il suo
esercito era nel giugno entrato in Catalogna, aveva occupato Liegi e poi, il primo luglio, sotto il
comando del maresciallo Francois-Henri de Montmorency duca di Lussemburgo aveva sconfitto
a Fleurus presso Namur le forze della Lega, cioè di Olanda, Spagna e Germania, capitanate dal
principe di Valdek; inoltre il 10 luglio il conte di Tourville, poi anch’egli nominato maresciallo di
Francia, aveva vinto inglesi e olandesi in un’importante battaglia navale a Capo Béveziers.

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Spesso in Lombardia i corpi provenienti dalla Spagna o da Napoli servivano a rimpiazzare quelli
che di costì erano inviati in Fiandra e ciò si faceva per dimezzare il viaggio delle condotte
militari, le quali, per i molti disagi che allora si pativano nei lunghi trasferimenti, arrivavano a
destinazione spesso decimate dalle malattie contagiose e dall'intemperie; in tal modo lo Stato di
Milano era usato come cerniera militare tra i possedimenti meridionali della Spagna e quelli
settentrionali e come una vera e propria stazione di cambio dei soldati affaticati dal viaggio.
Il 3 giugno si era frattanto firmato a Milano un trattato d'alleanza tra il conte di Brandizzo,
plenipotenziario del duca di Savoia Vittorio Amedeo II, e il conte de Fuensalida, governatore
della Lombardia, per conto del re di Spagna; ciò perché un potente esercito francese era
entrato in Piemonte minacciando l'indipendenza di quel ducato e con chiara intenzione
d’offendere lo Stato di Milano; quindi la Savoia e il Piemonte dovevano ora fungere da
antemurali del Milanese. L'alleanza fu estesa anche all'Impero, il quale aveva interesse a non
vedere insediarsi in Italia la potenza francese e che era da quella già minacciato sul fronte
renano, e quind’a tutti gli aderenti alla Lega d'Augusta, in particolare alle potenze marittime,
Olanda e Inghilterra, le quali, oltre a fornire sussidi economici, offrivano il supporto delle loro
potenti flotte contro la preponderanza dei francesi nel Mediterraneo, i quali nel frattempo
entravano pure in Catalogna. Da questo momento tutte le principali applicazioni del governo di
Napoli saranno dunque dedicate all'ammasso di genti e denaro da inviare allo Stato di Milano,
onde partecipare sostanziosamente allo sforzo comune per obbligare i francesi ad abbandonare
l'Italia. Nella prima decade di luglio s’inviarono via mare nel Genovese altri 120 coscritti, mentre
in tutte le province del regno si batteva cassa per arruolarne il maggior numero possibile e si
facevano continue rimesse di denaro a Milano. Poi lasciò Napoli sulla sua galera anche il
generale della squadra di Sardegna, il marchese di Alconzel, il quale evidentemente vi era
arrivato con lo stesso mezzo, ed era diretto a Cagliari, dove avrebbe imbarcato il duca di
Monteleone; costui infatti, terminato il suo governo di quell'isola e dovendo, come abbiamo
detto, lasciare il suo posto al conte de Altamira, era diretto in Spagna, forse per mettersi a
disposizione del re.
Arrivò un ordine reale del 22 giugno con cui si comandava di spedire 2mila aste da remo in
Catalogna nel più breve tempo possibile; In quel mentre con viglietto (breve ordine scritto) del
17 luglio di questo stesso anno il viceré aboliva finalmente la quasi bi-centenaria di lance della
sua guardia, riforma questa che la corte di Madrid aveva infatti spesso sollecitato quella di
Napoli a eseguire il relativo ordine reale vecchio ormai di quasi otto anni, giacché questo corpo
di cavalleria, oltre a essere da gran tempo tatticamente superato, costava moltissimo e i suoi

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stipendi erano a carico di quella corte e non del Regno di Napoli; il precedente viceré marchese
del Carpio aveva sempre opposto resistenza a tal reale ordine promulgato durante il suo
governo, in considerazione che non voleva perdere il cospicuo emolumento personale di 1.180
ducati annui che toccavano appunto al viceré di Napoli solo per la qualifica di capitano di questa
compagnia. Con tale soppressione la regia avrebbe risparmiato intorno ai 13.295 ducati annui,
che tanto costava l’intrattenimento di questa compagnia ai tempi del viceré di los Vélez, come
risulta dalla già citata relazione che gli fu fatta; la soppressione si risolveva poi in un danno
notevole anche per le reclute della compagnia, le quali, usandosi comprarvi l'arruolamento con
l'esborso di tre o quattrocento scudi, non avevano ancora avuto il tempo di recuperare il loro
denaro.
La compagnia di lance della guardia del viceré aveva sfilato ufficialmente in pubblico a Napoli
l'ultima volta domenica 21 maggio di questo 1690 e cioè in occasione della cavalcata reale
tenutasi per festeggiare le seconde nozze di Carlo II re delle Spagne, stavolta con Maria
Antonietta Palatina di Neoburgo e del Reno; si era vista con le sue obsolete armature complete
dalla testa alla vita (erano infatti già state abbandonati da gran tempo i pezzi che difendevano
gli arti inferiori), con i suoi variopinti pennacchi sugli elmetti e con quelle sue lance che, divenute
nel corso degli anni corte e sottili, cioè del tutto decorative, a nulla ormai potevano più servire in
guerra viva. Da essa furono però formate due nuove compagnie, un’italiana e una spagnola, di
50 uomini ciascuna armati da cavalli corazze in maniera tradizionale, cioè con borgognotte,
pesanti corsaletti, lame, pistole e carabine, compagnie che da allora costituirono la nuova
cavalleria della guardia del viceré, il quale ne era sempre ufficialmente il capitano, anche se con
soldo ridotto a mille ducati l'anno, ma che erano effettivamente comandate da due nobili
luogotenenti detti vulgo capitani e cioè Nicolò Coppola dei duchi di Canzano, eletto a
quell'incarico nel successivo gennaio 1691, e Andreas de la Rinze y Muñoz, per una spesa
totale salita ora a 16.342 ducati l'anno, come risulta da un’altra relazione al viceré posteriore a
questo 1690; la compagnia del de la Rinze risulterà poi, dalla venuta a Napoli nel 1696 del
viceré duca di Medinaceli, comandata prima pro interim da Partenio Petagna principe di
Trebisaccie e poi stabilmente da fra’ Ventura Sarracini. Il conservare un armamento difensivo a
queste corazze stava però divenendo disusato, come spiegava l’Alimari:

Le corazze sono soldati a cavallo armati, altre volte, di petto, schena, celata, pistolle e spada, la
funzione de’ quali era dar calore, sostenere, urtare, sbaragliare e combatter colla spada in
mano, ristretti e serrati in ordinanza, non uscendo dal passo militare. Hora di questa specie di
cavalleria resta a pena il nome, perché, accadendo (ormai) di rado le loro funzioni, non si
armano più da alcuni con le armi diffensive ma in luogo loro con la carabina, tal che in sostanza
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non sono hora altro differenti da carabini che nel nome, fattesi per altro le funzioni degl’uni e
degl’altri promiscue; anzi, si come per il passato le sole corazze portavano stendardo perché,
combattendo in corpo, era minor pericolo che fosse loro tolto da’ nemici, così al presente, che si
sono fatte communi le funzioni delle corazze e de’ carabini,anche questi pretendono di poter
inalberare stendardo; e già presso molte nazioni se n’è introdotto il costume. Se poi sia bene
l’abolir intieramente l’uso delle corazze sul pretesto che di raro accadino le loro funzioni e perciò
sia ben fatto il levar loro l’armi diffensive, io (om.) non saprei giamai approvarne l’abolizione.
Li carabini sono soldati a cavallo armati altre volte di petto e di celata, spada, pistolle e
carabina, la funzione de’ quali consiste in avanzarsi a scaramucciare contro il nemico, dargli la
carica, sfilando in righe l’un dietro l’altro, caracollando alla sinistra e ritirandosi alla destra per
riordinare il loro squadrone. Al presente, gettati come inutili il petto e la celata, combattono non
solo nel modo che facevano, ma, bisognando, combattono anche incorpo, sostengono, urtano e
fanno le medesime funzioni che facevano le corazze.

Per quanto concerne il vestiario di queste nuove corazze della guardia, c'è da notare una
registrazione d'introito nella Regia Monizione di Castel Nuovo datata 28 giugno e che riguarda
100 vestiti violetti (ossia turchini, come già sappiamo), ma non è chiaro se anche il vestiario
fatto per corpi di guardia fosse consegnato ai magazzini ordinari dell'esercito. Non sarà invece
riformata la compagnia di fanti alabardieri svizzeri di lingua tedesca, detta guardia alemanna,
come anche già sappiamo, compagnia presente in tutte le corti europee suddite della
monarchia spagnola, anzi questa sarà destinata a durare ancora molto a lungo; gli svizzeri
erano storicamente i maggiori esperti nel maneggio dell'alabarda, arma che, anche se da gran
tempo abbandonata in guerra, era tuttavia ancora ritenuta molto versatile e utile per il
contenimento dei disordini civili e infatti questi alabardieri a tal scopo erano talvolta chiamati e
impiegati anche indipendentemente dalla presenza del viceré; erano pertanto molto odiati dal
popolaccio napoletano. Li comandava il marchese Pompeo Azzolini, coadiuvato dal suo
suddetto luogotenente Antonio di Mata.
Dopo la battaglia della Staffarda il terzo di Domenico Dentice continuò la guerra sino alla ritirata
generale nel Milanese, dove poi il 21 marzo del 1691 il detto mastro di campo sarà riformato
insieme con altri mastri di campo per esser terminata quella campagna e per sollievo finanziario
di quello stato; ma egli parteciperà da volontario anche a quella successiva, la quale inizierà alla
fine del seguente maggio sotto la guida del nuovo governatore di Milano, Diego Felipe Dávila
Mesia y Guzmán marchese di Leganés, e sarà alla presa di Carmagnola; tornato a Napoli, sarà
infine governatore di varie province del regno.
Sono di questi anni sia un Compendio, anch’esso anonimo, della forma di governo del Regno
che si trova all’Archivio General de Simancas, Papeles de Estado, Nápoles sia una relazione
anonima, più tarda, sullo stato militare del regno fatta al viceré conte di San Estévan simile a

279
quella destinata al di los Vélez e sulla quale molto ci siamo prima dilungati; ci limiteremo
pertanto a esporre solo le principali differenze che ora si notano a circa due lustri di distanza.
Il Tercio fijo de los españoles contava adesso 43 compagnie di 50 uomini ognuna e questa
maggior frammentazione significa evidentemente che i luoghi da esso presidiati erano In quel
mentre aumentati di numero; due compagnie erano stanziate in permanenza nella fortezza di
Montorio in Abruzzo, territorio pullulante di briganti provenienti dal confinante Stato della
Chiesa, mentre a Napoli alcune compagnie alloggiavano in permanenza nel presidio di Pizzo
Falcone, il quale era quello centrale della capitale, altre nei castelli, quattro compagnie si
trovavano invece nel Torrione del Carmine, sito strategico per controllare il turbolento popolo
napoletano, e una nel Castel Nuovo; altre compagnie erano di guarnigione ai presidi di
Toscana, ad altri luoghi forti del regno e alle galere come fanteria di marina, ma in numero
variabile a seconda delle esigenze del momento. Il suo mastro di campo era il già ricordato Luis
Espluga, remunerato con 3.500 ducati all’anno, e il suo sargente maggiore Juan Antonio
Bermudez con 1.200 ducati.
Il viceré era ora ufficialmente capitano d’ambedue le suddette compagnie di corazze della
guardia, un'italiana e una spagnola, incarico per cui percepiva solo mille scudi l'anno, a fronte
dei 1.800 che invece i suoi predecessori avevano ricevuto in qualità di capitani della riformata
compagnia di lance. Egli era coadiuvato da un luogotenente, figura anche questa
essenzialmente onorifica, ma poi ognuna delle due predette compagnie aveva una sua concreta
prima piana che comprendeva un capitano operativo effettivo, un luogotenente effettivo, un
alfiero, un contadore, un trombetta, un ferriero e un armaro; i due capitani operativi effettivi
erano Nicolò Coppola, fratello del duca di Canzano, e Andrea de la Rimpe, cavaliere dell’ordine
di Santiago, il quale, come già sappiamo, era anche suo cavallerizzo maggiore .
Le compagnie della cavalleria ordinaria erano ora le seguenti:

Compagnie degli uomini d'arme, ossia dei cavalli corazze:

Marchese del Vasto.


Contestatibile Colonna.
Duca di Martina di casa Caracciolo Pisquizj.
Principe d'Avellino di casa Caracciolo.
Marchese del Vaglio e duca di Monteleone.
Conte di Conversano di Casa Acquaviva d’Aragona.
Duca di Calabritto e San Germano di casa Altavilla.
Marchese di San Giorgio.
Duca di Girifalco.
Ex-compagnia del marchese de los Balbases, Filippo Spinola d’Oria.
Ex-compagnia del duca di Laurenzana di casa Gaetano, ora di Francesco Caracciolo
280
dell'Amoroso.
Ex-compagnia del duca d'Andria di casa Carafa.
Ex-compagnia del principe di Palestrina di casa Barberini, ora del marchese di San Giuliano
Monforte.
Ex-compagnia del duca di Limatola.
Ex-compagnia del duca di Sessa di casa Córdoba.

Compagnie di cavalli leggieri, ossia di moschettieri a cavallo:

Conte della Cerra di casa Cardenas.


Marchese di Trivico (ora Trevigo) e Sant'Agata di casa Loffredo.
Principe d'Ottajano.
Ex-compagnia del marchese di Torrecuso di casa Caracciolo, ora di fra’ Emilio Acerba
d'Aragona principe di Cassano.
125 estradioti del principe di Schinzano di casa Enriquez.

Diverse compagnie mancavano dunque, al momento in cui fu fatta la relazione suddetta, del
capitano assegnatario; alcune altre erano state recentemente di altri nobili capitani e cioè del
duca di Popoli di casa Cantelmo, del duca di Sora di casa Buoncompagno, del principe di
Montesarchio Andrea d’Ávalos, del principe di Caserta di casa Gaetano, del conte di Bagni di
casa de Leyva e del principe di Piombino.
Era allora mastro di campo generale dell’esercito Fernando Gonzales de Valdés, generale della
cavalleria il duca di Mont’Alto e dell’artiglieria Marzio Origlia, quest’ultimo con 300 scudi mensili
di soldo. Per quanto riguarda il Battaglione a pie’ e la cavalleria della Sacchetta, il numero di
questi miliziani ammontava ora ufficialmente, come già anticipato nella nostra introduzione, a
circa 22mila fanti suddivisi in compagnie di 120 e circa 3mila cavalli partiti in 60 compagnie di
50, mentre l'imposizione di leva era rimasta quell'antica di cinque fanti e un cavallo ogni 100
fuochi. Troviamo poi nella relazione il seguente nuovo quadro degli ufficiali dell'artiglieria:

Generale.
Luogotenente del generale.
Capitano della scuola.
Assistente della fonderia.
Capo-mastro delle casse e ruote.
Scrivano.
Monizioniero.
Capitano in Crotone.
Capitano nei Presidi di Toscana.
Artigliero di detti Presidi.
Artigliero di Manfredonia.
Altri artiglieri.

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Ecco ora lo stato maggiore dei Presidi di Toscana:

Governatore e castellano di Port'Ercole.


Veditore (‘ispettore’).
Mastro-portulano.
Monizioniero.
Ingegniero.
Mastro di campo e governatore a guerra in Orbitello e Talamone.
Auditore generale.
Mastro d'Atti del predetto.
Due alguzzini, uno in Orbitello e l'altro in Port'Ercole.
Due chirurghi, uno in Port'Ercole e l'altro in Piombino.
Alcuni torrieri.

Tra tutte le guarnigioni dei castelli del regno, abbiamo scelto di riportare quella di Castel Nuovo,
guarnigione che, essendo quella della cittadella di Napoli, era ovviamente la più numerosa e
complessa:

Castellano.
Vice-castellano, seu tenente.
2 cappellani.
Diacono.
4 portieri.
10 bombardieri.
6 musici o siano instrumenti.
Auditore.
Medico.
Chirurgo.
Ingegniero seu architetto.
Monizioniero.
Sovrastante, quando si fabrica.
Armiero.
Mastro d'ascia.
Ferraro.
Orologiaro.
Barbiero.
Tamburro.
Pifano (piffero).
Carceriero.
Mastro di tener archibuggi.
2 scopatori.
3 caporali.
132 fanti.

282
Nella precedente relazione, quella al di los Vélez, il castellano, oltre a 120 fanti, aveva 17
alabardieri per sua guardia personale, alabardieri che invece in questa non sono più menzionati.
Dal Castel Nuovo dipendeva poi la Torre di San Vincenzo con sette od otto fanti e un caporale.
Oltre alle predette figure, nelle guarnizioni degli altri castelli del regno si ritrovano incarichi di
molinaro, fornaro, algozzino, trombetta, barcaruolo, a seconda che le dette guarnigioni si
facessero o no il pane da sé, avessero carceri importanti, passi d'acqua, ecc. Gli scopatori,
raramente presenti, erano per lo più degli schiavi mussulmani; evidentemente si considerava il
loro lavoro indecoroso per un militare cristiano, mentre oggi, come si sa, ai soldati si fanno
pulire persino le comuni latrine. Per quanto riguarda il numero complessivo degli uomini di
presidio nei vari castelli, diremo che una guarnigione un po’ meno consistente di quella di Castel
Nuovo aveva il Castello di Sant'Eramo, mentre tutti gli altri erano molto meno presidiati,
aggirandosi le loro guarnigioni tra i 30 e i 50 uomini, fino a diminuire alle sole cinque persone
che si trovavano nel castello dell'Amantea in Calabria; ma vogliamo comunque qui elencare
perlomeno le castellanie del regno in questa fine del secolo decimo settimo. Erano dunque
considerati, a quest'epoca, di presidio tutti i castelli del regno tranne quelli di Trani e Cosenza, i
quali erano ora umilmente ridotti a dimore degli ufficiali delle Regie Udienze, e tranne il castello
di Capuana a Napoli, dove nel 1539 il viceré Pedro de Toledo aveva trasferito i Regi Tribunali
del Sacro Consiglio, della Regia Camera della Sommaria, della Gran Corte della Vicaria e della
Regia Zecca di Pesi e Misure e dove tuttora risiedevano.
Le castellanie ufficiali della Capitale e del suo circondario erano le seguenti:

-Castello Nuovo e Torre di San Vincenzo.


-Castello di Sant'Eramo.
-Castello di San Salvatore, poi detto dell'Ovo.
-Castello di Baia, edificato da Alfonso II d'Aragona, poi ampliato in varie riprese.
-Castello d'Ischia, inespugnabile per sito e mole, fu costruito da Alfonso I d'Aragona.

In realtà quest’ultimo non si trova proprio sull’isola d’Ischia, ma su quell’erto isolotto adiacente
chiamato una volta Penischia, ossia dal lt. p(a)ene Ischia (‘quasi ischia, presso Ischia’’).
Gli altri castelli e piazzeforti del regno erano quelli di Capua, Gaeta, L'Aquila, Civitella del
Tronto, Pescara, Viesti, Manfredonia, Barletta, Bari, Bisceglie, Monopoli, San Germano, Nisida,
Nola, Castello grande di Brindisi, Castello dell'Isola di Brindisi detto Il Forte, San Cataldo
(presso Lecce), Lecce, Otranto, Gallipoli, Taranto, L'Amantea, Cotrone, Trani e Cosenza.
Tra i predetti, il presidio di quello di Lecce era in soppressione, come abbiamo già più sopra
ricordato, quelli di Bisceglie, San Germano, Nisida e Nola erano però ormai completamente
283
abbandonati e quelli di Trani e Cosenza, come abbiamo detto, non erano più considerati di
presidio militare, sebbene nel primo prestassero ancora servizio un artigliero e due portieri e del
secondo esistesse ufficialmente il ruolo di castellano. Le fortificazioni di Gaeta erano invece
state ampliate in una completa cittadella.
C'è però da notare che, da una prammatica di Filippo II datata 15 aprile 1558 in Bruxelles, si
evince che a quel tempo esistevano altre castellanie poi scomparse e cioè quelle d’Aversa,
Tropea, Reggio, Copertino, Taverna, Civita Reale in Abruzzo, Levano (Leverano?), Salerno,
Lucera e Torre del Tronto. C'era poi l'antico castello del Carmine in Napoli, di cui già nel
Cinquecento sopravviveva solo la parte del torrione principale ed era pertanto detto Torrione del
Carmine; questo era tradizionalmente presidiato da un governatore e da fanteria spagnola con il
compito di tenere sotto controllo la turbolenta zona del Mercato ed era stato elevato al rango di
fortezza reale dopo la nota rivoluzione del 1647. Ci sono ancora da ricordare i baluardi di S.
Lucia e delle Crocelle al Platamone (oggi Chiatamone) in Napoli, fortificati dal viceré marchese
del Carpio, lavori della cui spesa Madrid aveva chiesto al marchese relazione con real ordine
del 3 aprile1686; la fortezza di Montorio in Abruzzo, costruita ex-novo ancora dal suddetto del
Carpio per sottrarre quella zona al dominio dei banditi che ne avevano fatto un loro covo; il
presidio delle isole Tremiti, appartenenti ai canonici regolari di San Salvatore; infine i Presidi di
Toscana, i quali comprendevano, come abbiamo già accennato, le tre fortezze d’Orbitello, Porto
Ercole e Porto Longone e la piazza presidiata di Piombino, appartenente questa però al principe
di tal nome.
Il sistema difensivo del regno era completato da una cortina di 345 torri costiere, ognuna
presidiata da un caporale o torriero e da due artiglieri o soldati (uno solo, nella precedente
relazione al di los Vélez), cortina che era stata iniziata dal viceré Pedro de Toledo marchese di
Villafranca verso il 1537 e completata trent'anni più tardi dal viceré Parafan de Rivera duca del
Alcalá, il più fecondo dei viceré che abbia mai avuto Napoli per quanto riguarda le istituzioni
militari difensive, il quale nel 1566 istituì anche un’imposta per finanziare questa grande opera di
difesa. Le torri avevano soprattutto il compito di segnalare, con fumi o con fuochi o con lo sparo
di mascoli a salve (‘mortaretti’), la presenza d’armate o di legni corsari nemici ai naviganti e alle
comunità costiere, onde i primi potessero mettersi in salvo e le seconde approntare la difesa;
erano comunque anche armate di un piccolo pezzo d’artiglieria di bronzo – alcune più grandi e
più strategiche di due o anche di tre - del genere delle colubrine, quindi di lunga gittata, posti
sulla loro piccola piazza superiore; si trattava quindi generalmente di sacri, falconetti e smerigli,
questi ultimi diversi da tutti i precedenti per esser a retrocarica. Le torri erano poste in siti e a

284
reciproche distanze tali che, teoricamente, con segnalazioni a catena tra loro si sarebbe potuto
sapere a Napoli d’attacchi nemici da qualsiasi marina del regno in un massimo di 24 ore; ma
per rendere questo sistema più completo le marine, specie le meno abitate, erano pure
guardate, di notte e di giorno, da sopraguardie, mentre per le comunicazioni ci si serviva anche
dei cavallari, ossia di corrieri a cavallo che trasmettevano alle comunità e alle autorità le notizie
di avvistamenti d’imbarcazioni o di sbarchi nemici fatti dai caporali delle torri. Fino al
Quattrocento, come vediamo anche dalle torri che Venezia poneva a guardia delle coste del
Peloponneso e di Negroponto, allora suoi possedimenti, si era usato guarnirle in genere con soli
due uomini perché ancora non fornite di medie artiglierie, come saranno poi invece dal secolo
successivo, rendendo quindi necessaria la presenza anche di un bombardiero.
Nel Settecento l’abate cassinese Vito M. Amico e Statella così spiegherà la funzione delle torri
di Sicilia, a proposito dell’aumento e riordino fattine dal vicerè Marc’Antonio Colonna (1577-
1584):

… Istituì per tutta la costa marittima e nei luoghi opportuni torri dalle quali sentinelle notturne
ammonissero e rendessero cauti gli abitanti dei dintorni e anche per reprimere sforzi nemici ed
evitare incursioni. Dicono poi che le medesime sono state costruite in un ordine tale che,
accese di notte delle fiaccole, nel tempo di poche ore facilmente si apprendano i litorali siculi
contro cui i nemici si stessero muovendo (Vito Maria Amico e Statella, Auctuarium al De rebus
siculis di Tomaso Fazelli. T. III, p. 286. Catania, 1753).

Può sembrare strano che torri piccole e site in genere lontano dagli abitati possano aver avuto
anche un ruolo di ammonimento nei confronti delle popolazioni, ma è così in quanto bisogna
pensare che, come potevano comunicare velocemente l’approssimarsi del nemico allo stesso
modo potevano anche segnalare disordini e rivolte locali. Poiché, come abbiamo detto, le torri
erano a quest'epoca ben 345, ci asteniamo dall'elencarne i singoli nomi, anche se potrebbe
essere molto interessante per chi fosse appassionato di toponomastica storica.
Terminiamo questo stato militare del regno ricordando i governatori delle piazze, governatori
dell'armi e capitani a guerra che comandavano piazze e province, tra i quali era ovviamente
preminente quello della capitale, e il personale della Segreteria di Stato e Guerra,
comprendente, oltre al Segretario, una trentina di ufficiali; infine la squadra di galere, di cui
abbiamo già detto.
Tornando ora agli eventi napoletani del 1690, diremo che alla fine di luglio si ebbe avviso che
legni francesi continuavano a infestare le marine della Calabria; uno da Genova poi, datato 15
luglio, diceva esser arrivati colà mille fanti spagnoli, 500 da Napoli e altrettanti da Sicilia, questi

285
così mal vestiti da esser definiti addirittura ignudi, i primi in dieci compagnie e i secondi in
cinque sciolte; questi fanti erano guidati dai loro mastri di campo – quello di Napoli anche dal
loro sargente maggiore – e il governatore di Milano conte di Fuensalida, con un decisionismo
inconsueto per un governatore, decise di farne due nuovi terzi aggregando a ciascuno d’essi
due compagnie del terzo spagnolo del mastro di campo Jorge de Villalonga; elesse al mastrato
degli spagnoli provenienti da Napoli Manuel de Velasco, capitano di due compagnie di
cavalleria, e di quelli dalla Sicilia Manuel de Orosco, anch’egli capitano di cavalleria, essendo
prassi normale che nella carriera militare di Spagna fossero appunto i capitani di cavalleria a
esser promossi mastri di campo, ritornando quindi alla fanteria con cui quasi sempre si
cominciava; però al Consiglio d’Italia a Madrid si discuterà poi molto questo caso del
Fuensalida, il quale si era preso la libertà di nominare due nuovi mastri di campo senza tener
conto che si trattava di una prerogativa riservata al solo sovrano.
La sera di lunedì 28 agosto partirono per Milano le cinque compagnie di cavalli corazze dette di
nuova leva - 250 uomini in tutto - ed a cui abbiamo già accennato. Una di queste era
comandata da fra’ Tomaso Caracciolo e un’altra da un capitano di casa Spinelli; quest'ultima
era stata però organizzata da Sigismondo de Rho, tenente generale della cavalleria del regno.
Queste compagnie erano finalmente inviate in guerra viva dopo che quattro di esse erano state
mantenute per molti anni a Napoli semplicemente per decoro e accompagnamento del viceré,
come se facessero in sostanza parte della sua guardia; poiché non montavano cavalcature
adatte agli usi di guerra, furono spedite smontate e si dovettero precostituire a Milano i fondi
necessari per la loro rimonta, mentre le richieste di denaro del governatore di Milano
giungevano sempre più pressanti. Poiché queste cinque compagnie, come abbiamo già detto, a
differenza del resto della cavalleria ordinaria che vestiva di turchino, indossavano abiti rossi,
allora potrebbero esser stati destinati a loro 250 dei 300 vestiti appunto rossi che dai documenti
risultano esser stati consegnati alla Regia Monizione in Castel Nuovo in due riprese, cioè il 20
maggio e il 30 giugno. Insieme con queste compagnie s’imbarcarono 600 fanti, di cui 400 di
nuova leva e 200 spagnoli, e per il trasporto di tutti costoro furono adoperate le galere del duca
di Tursi, quelle di Sicilia, giunte a Napoli da Gaeta, e cinque della squadra del regno per un
totale di 14; al convoglio si aggiunse una tartana noleggiata per il trasporto dei cavalli degli
ufficiali delle predette 250 corazze. Giungevano frattanto continuamente corrieri spediti al viceré
dal governatore di Milano, il già ricordato conte di Fuensalida, per sollecitare le rimesse di
denaro e, per far fronte a queste richieste, il conte de San Esteván chiese ai banchi napoletani
100mila ducati e si preparò a imporre una nuova tassa ai baroni; si era all'inizio di settembre.

286
In uno stato militare dell'esercito di Milano dell'ottobre che si conserva all'Archivo General de
Simancas, Valladolid, e che, assieme a numerose altre informazioni, ci è stato fornito dall’ing.
Giancarlo Boeri, risultano presenti i seguenti corpi napoletani:

- Cinque compagnie di cavalleria per un totale di 354 uomini.


- Terzo del Colonna, su 16 compagnie per 680 fanti in tutto.
- Terzo del Dentice, anch'esso su 16 compagnie, ma per soli 441 uomini.

Abbiamo il dettaglio delle predette cinque compagnie di cavalleria nel quale si legge che il
comandante del trozo, ossia del corpo di cavalleria (non si trattava infatti di un reggimento), era
il commissario generale Gioseppe Giudice, il quale era anche capitano di una delle cinque
compagnie; ma delle altre quattro solo una era comandata da un napoletano e cioè dal capitano
Ciarletta Caracciolo, mentre le tre residue erano capitanate dagli spagnoli Joseph Ynriquez
Abarca, Jerónimo Pimentel e Antonio Vezconde. Il prospetto numerico di queste compagnie è il
seguente:

Capitano Ufficiali Soldati montati Soldati senza cavallo Infermi Totale


Giudice 5 52 10 - 67
Caracciolo 3 46 20 2 71
Abarca 2 48 19 3 72
Pimentel 3 64 6 2 75
Vezconde 2 47 6 5 60

Più nove ufficiali della piana maggiore. Riteniamo interessante riportare ogni tanto simili dettagli
numerici tratti dai documenti d'archivio perché il nostro lettore possa, in un certo senso, veder
materializzarsi i corpi militari che evochiamo e non considerarli solo fantasmi di un lontano
passato.

(Napoli, 14 novembre:) Il corrier di Spagna giunto venerdì scorso ha portato nuovi premurosi
ordini per accumulare abbondanti provvisioni e assoldare nuove genti per lo Stato di Milano,
dove si pretende d'aver forze più valide per la futura campagna (A.S.V. Nun. Nap. 107).

C'è qui da spiegare, a proposito di futura campagna, che siamo ancora in un tempo in cui le
operazioni di guerra erano generalmente sospese d'inverno a causa dell'inclemenza del tempo
e poi riprese a primavera inoltrata.

1691. In quest’anno Napoli, come ricorderà in una sua più tarda relazione del 1697 il residente
sabaudo Giovanni Operti, allora appena arrivatovi, fu travagliata da una pestilenza. Mercoledì
287
17 gennaio, festa di S. Antonio Abate, sfilarono in pubblico per la prima volta le due nuove
compagnie di corazze della guardia del viceré conte de San Estévan, una di cui era sotto il
comando di Nicola Coppola dei duchi di Canzano; il predetto viceré in quest'ultimo periodo
aveva consolidato le misure contro il brigantaggio abruzzese già prese dal suo predecessore
marchese del Carpio e si faceva elogiare anche per la puntualità con cui pagava il soldo e
faceva dispensare il pane di monizione ai soldati [a’ quali tutti (om.) ha renduto più agevole e
perciò più pronto il servigio], evitando così ai civili la maggior parte dei disordini e dei reati
commessi dai militari quando spinti dalla povertà; sotto il suo governo si effettuarono poi delle
leve di fanteria napoletana di cui non abbiamo rinvenuto notizie particolareggiate, se non i partiti
e le consegne di vestiario che seguono:

- 30 gennaio: consegna di 100 vestiti rossi.


- 5 marzo: partito di 100 vestiti rossi.
- 13 marzo: partito di 400 vestiti turchini.
- 17 maggio: consegna di 661 vestiti turchini e rossi.

A febbraio arrivò da Madrid un ordine reale del 28 gennaio il quale, stante la guerra in corso con
la Francia, imponeva di rimettere con urgenza a Milano tutta la polvere pirica e tutto il salnitro
per farla che si potesse e inoltre prescriveva che si tenesse conservata nei magazzini buona
scorta di salnitro, ma non di polvere, perché questa vi assorbiva umidità e quindi s’infiacchiva.
Anche a febbraio il viceré chiese a tutti i baroni del regno di fornire ciascuno al re o un uomo a
cavallo equipaggiato oppure 75 ducati, il che era un tipo d'imposizione fiscale tradizionale per
finanziare la cassa militare. Martedì 27 marzo lasciarono Napoli quattro galere napoletane e tre
del duca di Tursi, le quali portavano numerose milizie, gentiluomini venturieri, armamenti e
munizioni al soccorso di Nizza assediata dai francesi e, probabilmente, di questa spedizione
faceva parte il terzo napoletano di 600 fanti di cui il 9 maggio un avviso di Foligno segnalerà
l'arrivo a Milano; su questi vascelli erano anche imbarcati il già ricordato marchese di Solera ed
Emanuel de Moncada, fratello del marchese di Aytona, i quali andavano a militare in Piemonte
e in Lombardia con i rispettivi gradi di mastro di campo e di capitano di due compagnie di
cavalleria. A Napoli si stava nel frattempo ultimando la costruzione di un piccolo fortino sullo
scoglio antistante al Castel dell'Ovo, fortino che sarebbe poi stato armato con nove nuove
colubrine che si stavano fondendo allo scopo nella fondizione dell'arsenale; quest'opera
avrebbe arricchito le difese della capitale di una postazione avanzata sul mare da cui si sarebbe
potuto sparare ai vascelli nemici, specie alle nuove galeotte bombardiere francesi, anche a fior
d'acqua, cioè con tiri di particolare efficacia.
288
A mezzogiorno di giovedì 5 aprile nel largo del Castello, ossia nella grande piazza del Castel
Nuovo - oggi piazza Municipio, un soldato sardo e uno siciliano giannizzero, cioè figlio di padre
spagnolo, ma nato in Sicilia; i due, uno di 54 e l'altro di 43 anni, erano stati sottoposti a tortura
sino a confessarsi colpevoli d’aver ucciso un povero ragazzo di 14 anni, per solo fine di rubarli
un misero vestito e un pan(i)erello di robe da mangiare; evidentemente la predetta buona fama
che il San Estévan si era guadagnata in tema di puntualità nell'amministrazione militare non
doveva in realtà essere del tutto meritata! In quel mentre giunse un nuovo ordine reale, questo
del 22 marzo, che chiedeva nuovamente d’inviare a Milano tutto il salnitro e la polvere che si
potesse. Queste richieste furono evase, ma una carta reale del 22 novembre lamenterà la
fiacchezza e la pessima riuscita di queste polveri in guerra in considerazione che mancanti di
sufficiente salnitro.
Da una pianta dell'esercito di Lombardia del 30 aprile ricaviamo un trozo di otto compagnie di
cavalleria napoletana per un totale di 356 uomini, corpo che era di stanza a Candia Lomellina
nel Pavese; il terzo di fanteria napoletana di Marc'Antonio Colonna a Gazzolo nel Veronese, ma
ridotto a due sole compagnie per 100 fanti totali; infine, tra le soldatesche passate in Piemonte,
un altro terzo napoletano, quello del mastro di campo Antonio di Francia, costituito da ben 19
compagnie, ma per soli 582 uomini in tutto. Nella prima metà di questo anno risultava poi
servire in quell'esercito il mastro di campo napoletano Luigi Secchi d'Aragona, il quale però
allora militava con il semplice incarico di capitano di una compagnia sciolta di fanteria italiana,
aggettivo questo che nell'uso lombardo stava a significare originaria dell'Italia centro-
settentrionale, mentre per napoletani s’intendevano tutti i nativi del Regno di Napoli, quindi tutti i
meridionali, siciliani esclusi.
A maggio si riuscì a evitare un assedio francese a Porto Longone e, scongiurato questo
pericolo, il viceré propose ai titolati la formazione di un corpo fisso di fanteria regnicola di 6mila
uomini da porsi a guardia del regno per fronteggiare altri eventuali tentativi di sbarco del
nemico; questo corpo, il quale sarebbe stato il primo esempio di fanteria nazionale ordinaria e
fissa nel Regno di Napoli, si sarebbe costituito con compagnie di 200 fanti ognuna e comandate
da capitani scelti tra gli stessi titolati di prima sfera, mentre il viceré medesimo ne sarebbe stato
il comandante col grado di colonnello, Marzio Origlia il suo luogotenente e Restaino Cantelmo il
sargente maggiore. I nobili applaudirono per piaggeria il progetto, ma nessuno di loro credeva
che sarebbe stato effettivamente attuato, come difatti non fu, per le grosse spese che un simile
corpo fisso avrebbe comportato e anche perché il re aveva chiesto a Napoli un donativo per
finanziare l’aiuto militare che in quel periodo portava al duca di Savoia oppresso dall’armi di

289
Francia. In quel tempo già erano comunque evidentemente in corso delle altre grosse leve di
uomini e ciò perché un avviso di Foligno segnalerà l’arrivo a Genova, il 29 giugno, di 13 galere
di Napoli e Sicilia cariche di gente da sbarco per lo Stato di Milano; a Napoli però, per quanto
riguarda questo mese di giugno, troviamo conferma solo di una leva di 500 cavalli, i cui costi
furono praticamente a carico dei soliti tartassati baroni, ognuno dei quali infatti dovette pagare
per l'equipaggiamento di un soldato montato.
Salì in quest’estate al trono pontificio Innocenzo XII, il napoletano Antonio Pignatelli.
A riprova dell'intensità delle leve che la corona di Spagna imponeva al Regno di Napoli e delle
migliaia di uomini che ogni anno da tale regno si mandavano a combattere e a presidiare
all'estero, ecco una sincrona citazione del Filamondo:

Il numero della gente uscitane per le armate ed eserciti di Casa d'Austria sembra poco men che
incredibile (om.) ed è cosa da meritare l'altrui stupore come (non calcolando più innanzi che dal
governo del viceré conte di Pignoranda 1660 fino al presente) questo solo regno abbia dato agli
eserciti del Re suo signore quaranta e più reggimenti di fanteria, la maggior parte levati nella
Capitale, tanto più valorosi quanto volontari, non essendosi giamai dal clementissimo Monarca
di Spagna usata in ciò la forza con questi popoli Cit. Parte I, s.p.)

Premettendo che, come già sappiamo, non si trattava di reggimenti bensì di terzi e che è falso
che non si ricorresse alla coscrizione forzata, specie di vagabondi, mendicanti, nullatenenti ed
emarginati in genere (ma del resto la leva forzata, detta con eufemia ‘obbligatoria’, si è usata in
Italia sino a pochi anni fa!), c'è da domandarsi quanti di quei soldati poterono tornare a rivedere
la patria; pochissimi in verità e cioè qualche ufficiale generale o al massimo maggiore ogni tanto
per assoldare altri uomini e con loro ripartire oppure per vecchiaia dopo 30 o 40 anni di servizio
continuo all'estero o infine per quelle rarissime licenze che pur si concedevano. Per quanto
riguarda i soldati privati (semplici) e gli ufficiali bassi (inferiori), essi morirono quasi tutti lontano
dalla loro terra per la guerra, le malattie, il freddo e gli stenti dovuti alla scarsa nutrizione,
all'insufficiente vestiario e alle dure fatiche.
A proposito di quanto appena detto, aggiungeremo che si ebbe a Napoli notizia che il 30 luglio
era morto a Madrid il valoroso mastro di campo napoletano Carlo Andrea Caracciolo marchese
di Torrecuso, il quale aveva servito in Catalogna, in Fiandra e nella difesa d’Orano in Africa ed
era figlio di quel Girolamo Maria, anch'egli mastro di campo, che, come abbiamo detto, era
morto nel 1662 nelle guerre di Portogallo.
Venne ordine verso il 10 agosto a Beltrán de Guevara duca di Nájera, allora capitano generale
della squadra di galere di Napoli, di salpare con tutte le sue forze per la Spagna, mentre i

290
francesi facevano progressi in Catalogna, e si seppe poi, ancora nell'agosto, che erano calate
nel Milanese soldatesche imperiali alemanne sotto il comando del maresciallo conte Antonio
Carafa, altro napoletano, della cui prestigiosa carriera militare abbiamo già detto e che aveva
avuto incarico di difendere quell'antico ducato dai francesi che avevano già invaso il Piemonte
come controffensiva all'invasione del Delfinato in precedenza riuscita a Vittorio Emanuele II
duca di Savoia.
Nel settembre venne ordine da Madrid di riformare la segreteria di guerra riducendone gli
ufficiali a poco più di un quarto e si festeggiò la notizia di un’importante vittoria ottenuta sui
turchi il precedente 19 agosto dagl’imperiali del margravio di Baden-Baden Ludwig Wilhelm a
Slankamen in Serbia, dove i turchi avevano perso decine di migliaia di uomini, tra cui lo stesso
loro generale supremo, il gran visir Fazil Mustafà Köprülü, e centinaia di cannoni, subendovi i
cristiani solo un decimo delle loro perdite; la sconfitta era stata così importante che avrebbe
obbligato gli ottomani ad abbandonare l’Ungheria. Alla fine dello stesso mese fu riformato a
Milano un altro mastro di campo di casa Caracciolo, ma quale tra quelli che allora portavano il
più illustre cognome di Napoli non ci è stato dato d’appurare; probabilmente si trattava del
nuovo terzo arrivato nel maggio precedente e fatto confluire in quello preesistente di
Marc'Antonio Colonna; forse erano anche per questi soldati i vestiti per le reclute da Spagna e
da Napoli fatti preparare a Milano nel corso di questo 1691.
Sempre nel settembre si parlava dell’imminenza di nuove leve sia di fanteria sia di cavalleria ed
era in costruzione una nuova galera nell'arsenale di Napoli; frattanto nei porti calabro-pugliesi,
per soddisfare i bisogni militari e civili dello Stato di Milano, erano in preparazione convogli di
tartane granarie, essendo la Calabria ora anch’essa buona produttrice di frumento. Nell’ottobre
si festeggiò la guarigione della regina di Spagna, malata da qualche tempo; nella notte tra
lunedì 15 e martedì 16 dello stesso ottobre giunse al viceré un corriero espresso che gli portava
la fausta notizia della presa di Carmagnola nel Torinese, impresa in cui pare si fosse
particolarmente distinto il marchese di Solera figlio del viceré; frattanto una veloce feluca venuta
da Porto Longone portava avviso che le galere di Napoli, dopo qualche combattimento, si erano
impadronite di un legno francese carico di munizioni belliche.
Il mese d'ottobre trascorse a Napoli tra solerti accantonamenti di munizioni nell'arsenale e
continue esercitazioni dei bombardieri nel nuovo summenzionato fortino posto sotto il Castel
dell'Ovo; verso il 10 dicembre tornarono nella capitale Nicolò Pignatelli dei duchi di Bisaccia e
Vincenzo de Capoa dei marchesi d'Altavilla e principi della Riccia, i quali avevano ambedue
militato in Fiandra, il primo da colonnello di un reggimento alemanno e il secondo da capitano di

291
una compagnia di cavalleria. Per quanto riguarda la carriera del Pignatelli, diremo che nel 1676
egli a soli 18 anni era già capitano di cavalleria in Catalogna, poi era stato venturiero in Fiandra,
dove era andato al seguito del principe Alessandro Farnese governatore dei Paesi Bassi; in
seguito era passato in Ungheria dove Sua Maestà Cesarea lo aveva fatto capitano di una
compagnia del reggimento di cavalleria Piccolomini e così si era trovato in tutte le più importanti
battaglie combattute in quegli anni dagli austriaci contro i turchi in Transilvania e Ungheria. Fu
poi richiamato in Fiandra, dove, sebbene fosse cosa insolita per un italiano, gli fu conferito
appunto il colonnellato d’un reggimento di cavalleria alemanna, comandando il quale alla
battaglia di Landen del 29 luglio 1693, un fatto d’arme che fece più di 20mila morti, avendo
posto a guardia dello stendardo reggimentale, nella speranza forse di salvaguardarlo, il
diciassettenne fratello Antonio, questo ne resterà invece ucciso e lui, pur seriamente ferito, si
salverà; e presto riuscirà a salvarsi la vita, questa volta fortunosamente, una seconda volta,
come leggeremo in un aviso da Madrid del 18 marzo 1694:

Giunse li giorni passati a questa Corte il sig. don Nicolò Pignatelli, colonnello di un reggimento
di cavalleria ne’i Paesi Bassi, il quale doppo havere fatto naufraggio sulle coste di Francia, ha
fatto poi il viaggio per terra per quel Regno; e credesi che andarà a fare la campagna in
Cattalogna, come faranno in qualità di volontarii più altri uffiziali e personaggi di qualità.

Arrivò alla Corte partenopea un ordine reale datato 22 novembre nel quale si lamentava che il
carico di polvere pirica che a marzo da Napoli si era mandato in Catalogna era risultato di
cattiva qualità e pertanto ordinava che nella polveriera di Torre dell’Annunziata si prendessero
gli opportuni provvedimenti perché il guasto non si ripetesse:

… di essere arrivato in Barzellona il bergantino maiorchino con le 500 cantara di polvere e che
sia di mala qualità e fiacca e di nessun servizio per mancanza del salnitro… e che si rimedi il
danno che si esperimenta nella fabrica della polvere…

Di converso a questo cattivo lavoro, a Napoli si cercava di stare al passo con l’evoluzione delle
armi da fuoco:

(Napoli, 18 dicembre:) Nel fortino vicino al Castello dell'Ovo si continua la pruova de’ mortari di
nuova invenzione che gettano fuochi d'artificio per incendiare le navi inimiche che si
avvicinassero a queste spiaggie (A.S.V. Nun. Nap. 111)

Un avviso di Foligno del 26 dicembre comunicava che a Milano il napoletano Giuseppe Garofalo
Suarez era stato nominato dal governatore dello Stato capitano di una compagnia di cavalleria

292
napoletana; egli si era infatti impegnato ad arruolare uomini a sue spese (per essersi esibito di
fare 30 huomini a proprie spese con armi, vestito e cavalli) e già il 24 precedente aveva
cominciato a farne assentare (‘approvare’) alcuni dagli Uffici del Soldo di quella città. Alla fine di
gennaio dell’anno seguente la predetta nomina fu ufficializzata; ritroveremo alcuni anni più tardi
il Garofalo mastro di campo nel Regno.
In quest'ultima parte dell'anno il viceré conte de San Estévan, con un’efficace azione militare,
scacciò i francesi che avevano in precedenza occupato l'isola di Ponza e questo fu forse l'ultimo
successo difensivo del regno prima della caduta del dominio spagnolo. Intanto, nelle Fiandre
spagnole, i francesi comandati dal maresciallo di Lussemburgo, dopo aver già nel precedente
aprile occupato la città di Mons, avevano il 18 settembre pesantemente sconfitto gli alleati a
Lens, battaglia in cui 28 squadroni della Maison du Roi, ossia della guardia reale francese,
avevano avuto ragione di ben 75 squadroni nemici; inoltre il mese successivo avevano vinto
ancora a Susa in Piemonte, con gravi perdite dell’esercito del duca di Savoia.

1692. Sabato 12 gennaio moriva una delle nostre principali fonti, cioè l’abate Vincenzo
d’Onofrio, diarista che, chissà perché, scriveva sotto lo pseudonimo d’Innocenzo Fuidoro. Negli
ultimi giorni di febbraio arrivò a Napoli dalla Spagna una saettia che portava alcuni soldati e il
mastro di campo Gasparo della Torre, nominato governatore di Port’Ercole. Pochi giorni dopo
un avviso da Roma segnalava il passaggio per quella città di Titta Caracciolo, il quale proveniva
dalla Lombardia ed era diretto in patria dove doveva provvedersi di cavalli per le compagnie di
cavalleria alemanna che comandava appunto nel Milanese. Bisogna a tal punto ricordare che il
Regno di Napoli non a caso aveva com'emblema araldico un bianco cavallo; esso, come
abbiamo già accennato, era infatti da sempre uno dei principali produttori europei di quei cavalli
da guerra detti corsieri, ossia di quei grossi equini castrati che col loro abbondante peso
servivano agli uomini d'arme per sfondare le linee nemiche e di cui i più grossi e famosi erano in
ogni modo quelli originari della Frisia, oggi detti olandesi, perciò cavalli di Frisia furono più tardi
chiamati i famosi cavalletti ostruenti usati dalle fanterie contro cavalleria e auto-meccanizzati;
una delle razze regnicole che produceva corsieri particolarmente pregiati e imponenti era per
esempio quella dei principi di Bisignano di casa Sanseverino. L'altro tipo di cavalli bellici, cioè gli
snelli ginetti - usati questi dalla cavalleria leggera in tutte le sue forme - erano sì anche prodotti
dalle razze (allevamenti) del regno, ma non erano pregiati come quelli spagnoli o arabi.

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Alla fine di marzo arrivò dall’Ungheria il capitano di cavalleria Francesco Montoja, venuto in
patria per sistemare alcuni suoi interessi personali e per poi ritornare all’estero alla testa della
sua compagnia.

Il primo aprile alli Bagnoli, vicino il mare nella strada di Pozzuoli, presenti Sua Eccellenza e molti
ministri tanto di guerra che civili e gran numero di cavalieri e altri popoli, si fece(ro) diverse
prove d'artiglieria tanto de’ cannonieri livornesi, tedeschi e Napolitani, tirando le cannonate
contro del monte nel segno (bersaglio), quale da niuno fu colto, ma da Napolitani più delli altri si
sono accostati…

Si provò poi, in quel tradizionale poligono di tiro napoletano, un mortarello di nuova invenzione
che sparava bombe piccole, però alla distanza che si raggiungeva con i cannoni; si provarono
poi altre nuove armi, ma con deludenti risultati:

Appresso si spararono le due bombe di nova invenzione senza mortaro (‘mortaio’, om.) e la
prima volò circa 100 passi, contro il dire del mastro Gioseppe piemontese che prometteva circa
800 passi, e la seconda tirata arrivò circa 80 passi e, caduta che fu, restò un credo in terza
(restò in piedi per la durata di una preghiera), poi si alzò circa due uomini (si innalzò solo poco
più di tre metri) e si crepò con una botta come di scoppetta (cioè fece anche poco rumore).
Appresso tirò una granata con un mortaletto piccolo in mano attaccato a un talone (calcio) di
pistola e quella crepò per l'aria circa passi quaranta.

Perché tanti artificieri stranieri a Napoli? Perché i balistici napoletani non erano i più accreditati
e il San Estévan aveva fatto venire dall'estero parecchi esperti che facessero scuola; erano
insomma nell’ultima decade di marzo arrivati da Livorno quattro artiglieri (de quali qui ne
mancavano degli (e)sperti per l'artiglieria), dalla Germania due bombisti, ossia due esperti della
fabbricazione delle bombe, con il soldo di uno scudo il giorno per ciascuno, il che era stipendio
notevole, e dal Piemonte il mastro bombista Gioseppe e l'ingegnere militare piemontese Giulio
Cesare Berzetti, figlio del conte di Birons, questo a sei scudi il giorno, il quale si era fatto un
nome nella presa di Buda in Ungheria. Tedeschi e piemontesi erano stati raccomandati e inviati
a Napoli dal già più volte menzionato maresciallo di campo napoletano Antonio Carafa al
servizio cesareo; ma sia costoro sia i livornesi non sembrano aver tenuto fede alla loro fama,
anzi uno dei due bombisti tedeschi subì nello stesso aprile un grave incidente nella lavorazione
delle polveri, come se si fosse trattato di un qualsiasi principiante:

Il 17 al fortino vicino alla Vittoria, mentre ivi si facevano l'ingredienti per riempire le carcasse e
bombe dentro un calderone sopra del fuoco, accidentalmente si appiecciò il fuoco e ne
restarono offesi 6 uomini ivi presenti, principalmente il tedesco bombista...

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Chissà che qualcuno non avesse tentato di toglier di mezzo l'intruso straniero, venuto a sottrarre
un ricco stipendio agli artificieri napoletani! Tutti i suddetti esperti stranieri, l'ingegnere Berzetti, il
mastro Gioseppe e i due tedeschi, lasceranno comunque Napoli abbastanza presto, cioè
giovedì 22 maggio, per aver evidentemente terminato la loro breve missione-scuola e aver
quindi finito di profondere adeguatamente il loro sapere. Eppure in Francia operava in quegli
stessi anni un ottimo fonditore di mortari piemontese, certo Balard o Balardi, il quale aveva
lavorato con successo a Parigi, Besançon e Brisach. Frattanto la mattina di lunedì 7 aprile
erano arrivate le cinque galere dello stuolo di Sicilia e si diceva che dovessero unirsi alle
napoletane in una missione ancora ignota. Sempre nell'aprile, mentre era ormai terminata la
costruzione della summenzionata galera, nell'arsenale anche si stavano fabbricando fuochi
artificiati di guerra, si fondevano cannoni e colubrine; inoltre si rinforzavano le fortificazioni
costiere della capitale e dei suoi dintorni, munendole delle necessarie artiglierie, giunse da
Madrid ordine reale che s’inviassero al più presto in Spagna 2mila fanti di nuova leva:

...onde questo signor Viceré ha dato ordine che si prendano dalla Città tutti i dissutili e
vagabondi e si portino dentro l'arsenale; e già si è posto in essecuzione da’ capitani di strada
che ne hanno avuta l'incumbenza, poiché hanno cognizione di quelli che stanno per le loro
ottine (quartieri).

Non si riuscì comunque a raccogliere tanti uomini in breve tempo e martedì 22 dello stesso
aprile le galere del regno e le cinque di Sicilia lasciarono Napoli trasportando solo una parte
delle reclute richieste alla volta di Gaeta, poi dei Presidi di Toscana e infine della Catalogna:

... ove conducono mille soldati Napolitani, fra’ quali da ducento in circa de’ vagabondi presi per
la Città, non essendosi potuto prender altri per essernosi salvati altrove, per empire le
compagnie della medesima nazione che militano in quello Stato.

Come poteva dunque il Filamondo, contemporaneo e testimone di questi avvenimenti, scrivere


che a Napoli non si reclutava a forza? Solo a spedizione partita e cioè alla fine d'aprile giunsero
a Napoli alcune barche cariche di genti assoldate in Calabria, le quali furono, come il solito,
rinchiuse nell'arsenale perché non fuggissero e dove erano esercitate alle evoluzioni e al
maneggio delle armi di fanteria. Il viceré aveva inoltre chiesto ai baroni del regno di reclutare nei
loro stati (‘feudi’) e si poterono così in questo 1692 mandare anche a Milano cinque compagnie
di cavalli corazze di 60 uomini ognuna, coscritti che furono imbarcati non solo già vestiti e
armati, ma anche forniti dei mezzi finanziari necessari all'acquisto a destinazione delle loro
cavalcature, come risulta da un documento, e tant'è, giacché era tutto a spese dei soliti baroni!
295
Inoltre, il principe d’Avellino, il duca di Maddaloni e altri titolati reclutarono tra i loro vassalli
anche fanterie e si pensava di utilizzarle in parte a difesa dei luoghi strategici della città di
Napoli e del regno:

Nella città di Gaeta, stante la congiuntura delle guerre, quella città per ponersi in valida difesa in
caso d'insulti de’ nemici, si sono arrolati de’ paesani in uno terzo di meno di tremila uomini,
come dicono li avvisi stampati, non avendo tanti cittadini, sotto del mastro di campo don Camillo
Gattola e don Antonio d'Albiti sargente maggiore di battaglia, mostrando la loro fedeltà verso il
nostro Monarca.

Quest'arruolamento spontaneo a Gaeta era dovuto alla notizia che l'armata di Francia si era
posta minacciosamente in mare e si sarebbe potuta presentare contro le marine del regno.
A chi volesse sapere con precisione quanti e quali fossero i corpi napoletani che militavano in
quegli anni nell'esercito di Catalogna consigliamo senz’altro le opere di Giancarlo Boeri,
massimo studioso della partecipazione bellica napoletana all’estero nel periodo che ci occupa; il
Carafa nelle sue memorie ricorda a tal proposito due terzi, cioè il Caracciolo (probabilmente
Gioan Battista, dei duchi di Martina) e il de Capoa, e inoltre un reggimento di cavalleria, il
Bracamonte. Purtroppo, l'opera del Filamondo si arresta proprio a questi anni e non può aiutarci
in tal senso; non ci resta quindi che attingere dalla gazzetta ufficiale del tempo, dal Cavallo, dal
Bulifon, da altri cronachisti minori e dai non numerosi documenti d'archivio che riguardano
questi ultimi anni del vice-regnato spagnolo. La stessa incertezza si ha anche per quanto
concerne i terzi che servivano invece in Fiandra, dove per esempio in questo periodo militava
col grado di mastro di campo un altro esponente della famiglia Carafa non meglio identificato.
A questo tempo la fanteria spagnola – e di conseguenza anche la napoletana, la siciliana e la
milanese – era ancora organizzata in tercios, come d’altra parte anche leggiamo nelle Istruttioni
militari dell’Alimari, pubblicate proprio in questo 1692:

L’infanteria, nervo principale di un essercito, presso de’ spagnuoli si divide in legioni (le chiamano
essi ‘terzi’) comandate da un mastro di campo, un sargente maggiore e da uno o due aiutanti; il
terzo si subdivide in più compagnie, cadauna delle quali è comandata da un capitano, un alfiere,
un sargente e più caporali secondo che più o meno è numerosa la compagnia; Presso le altre
nazioni d’ordinario si divide in reggimenti, che sono comandati da un colonnello, un tenente-
colonnello e un sargente maggiore, e ogni reggimento si divide in più compagnie, ogn’una delle
quali vien comandata da un capitano, un tenente, un alfiere, un sargente e più caporali
secondola grandezza della compagnia.

Poiché abbiamo più sopra accennato che in questo periodo le fanterie francesi, come del resto
quelle alemanne (‘austriache, imperiali’) erano molto meglio armate di quelle della Corona di
296
Spagna, ci sembra a questo punto necessario spiegare, anche se per sommi capi, l'evoluzione
dell'arma da fuoco di fanteria nel quarantennio che ci occupa. L'arma più moderna era ora il
cosiddetto e già più volte da noi menzionato moschetto leggiero, un’evoluzione del vecchio
pesante moschetto di Biscaglia di cui nel 1567 il duca d'Alba aveva appunto in parte armato la
fanteria spagnola nell'esercito da lui preparato per andare a reprimere la ribellione dei Paesi
Bassi. Il moschetto leggiero sparava palle di piombo di circa un’oncia a una distanza utile di circa
60 passi e presentava sostanziali vantaggi di maneggevolezza rispetto a quello precedente, il cui
unico punto a favore era il calibro alquanto maggiore; innanzi tutto, a ragione del minor peso e
certo a prezzo di una minor precisione dei tiri, si poteva sparare anche senza la forcina di
sostegno e quindi il fante era sollevato dal dover portarsi dietro nelle marce anche quell'attrezzo
complementare; inoltre, a dispetto del minor peso, aveva una cassa di legno molto più grossa e
fatta di tal misura e proporzione che, quando il soldato se lo alzava all'omero, andava da solo in
equilibrio, mentre la piccolissima e irrazionale cassa del moschetto di Biscaglia, non facendo da
contrappeso alla pesante canna, faceva sì che l'arma affaticasse il fante nella marcia; infine, le
proporzionate misure della cassa del moschetto leggiero permettevano di fermarla bene ora
contro lo sterno durante lo sparo, senza che il rinculo offendesse il moschettiere, rinculo che
invece col vecchio moschetto, dopo soli tre o quattro colpi sparati, cominciava a offendere al
soldato la spalla e la guancia, specie se questi non era espertissimo; il perché adesso il calcio si
dovesse appoggiare non più alla spalla bensì al centro del petto si spiega con la necessità di
sopperire alla mancanza della forcina di sostegno e quindi del bisogno di ambedue le braccia
equilibratamente per sostenere il peso, anche se ora inferiore, dell’arma. A motivo di questa sua
relativa leggerezza, esso poteva esser portato non più solo dai soldati più robusti ed esperti, ma
da tutti i fanti e quindi poteva sostituire nella fanteria sia il gravoso e poco maneggevole
moschetto di Biscaglia sia il debole archibugio, arma di calibro troppo piccolo e di troppo limitata
gittata, risultando così adesso i fanti armati di una sola arma da fuoco con un evidente
sostanziale miglioramento dell'uniformità dell'armamento; pur tuttavia il ferro di Biscaglia,
essendo per qualità tra i migliori d'Europa, restava sempre molto consigliabile anche per la
fabbricazione delle canne dei nuovi moschetti leggieri. In effetti l'adozione del nuovo moschetto
risultava quanto mai opportuna per le fanterie europee, in considerazione che i moschettieri non
più tolleravano di portare e maneggiare quel gran peso che avevano invece ben sopportato i loro
padri, allo stesso modo in cui gli stessi fanti non più avrebbero tollerato il peso e l'impaccio delle
vecchie armi difensive, quali il corsaletto con il morione o anche il semplice petto di ferro, armi
che, ormai tatticamente superate, continuavano a portare - e ancora porteranno sino Settecento

297
inoltrato – solamente gli ufficiali e qualche corpo di corazzieri della guardia, in un processo che
vedeva man mano diminuire nell'uomo europeo, se non la corporatura, certamente quella sua
vigoria che sino al secolo precedente gli aveva permesso, per esempio, di maneggiare
agevolmente anche i pesantissimi spadoni a due mani.
Nato dalle esperienze della guerra dei Trent'anni, il moschetto leggiero si affermò però nelle
fanterie della Spagna con notevole lentezza e ritardo e ne è una dimostrazione, oltre a quanto
da noi già preso dal Filamondo, la relazione del 14 febbraio 1686 sul ricevimento, da parte della
Signoria di Venezia, di due terzi italiani, un reggimento di fanteria alemanna e uno di dragoni
inviati dallo Stato di Milano perché venissero impiegati nella guerra che la Serenissima stava
conducendo contro i turchi; i fanti, cumulando insieme italiani e alemanni, sebbene nel relativo
trattato Milano si fosse impegnata a fornirli armati solo di moschetti e picche, risultarono armati
per il 45% di ormai obsoleti archibugi, per il 30% di picche, per il 7/8% di carabine (quindi i
granatieri) e solo per il 20% di moschetti e il conte Leonardo Turco, deputato veneziano a tale
ricevimento e relatore, non spiega nemmeno di che tipo di moschetti si trattasse; ma, data la
detta sopravvivenza degli archibugi, si sarà trattato sicuramente di quelli vecchi di Biscaglia.
Eppure già la Montecuccoli, nel suo Aforismi dell’arte bellica (1668-1673), dava per scontato il
nuovo modo d’armare la fanteria, perlomeno quella imperiale, cioè quella che lui era abituato a
comandare:

XVI. Sono perciò i reggimenti moderni a piede composti di due terzi di moschetti e di un terzo di
picche. Gli archibugii non si adoprano più negli eserciti alemanni, avvenga che il moschetto fa
maggior passata (‘gittata e penetrazione’) e quell’istesso uomo che porterebbe l’archibugio può
portare il moschetto.

Voleva allora però il Montecuccoli che i moschettieri continuassero a portare la forchetta


(‘forcina’) d’appoggio anche in campagna, se non più per necessità di sostegno dell’arma, però
ancora per accertar meglio il tiro, cioè per prender meglio la mira; inoltre egli era anche un
sostenitore del vecchio moschetto da posta, ossia un grosso tipo lungo circa 8 piedi invece di 5,
anch’esso a palla di piombo dal calibro di circa un’oncia, quindi da 12 a 16 palle la libbra, ma
più tardi i francesi l’useranno maggiore, cioè dal calibro di 3 once(de Gaya); quindi un’arma
molto più pesante, lunga e potente delle due da fanteria di cui abbiamo già detto e che, anche
se il predetto condottiero sembra quasi di volerlo far passare per una sua innovazione, in realtà
si era già usato per secoli come arma per la difesa delle piazze e anche da murata di vascello; i
francesi lo chiamavano mousquet de rempart (‘di bastione’, ‘di baluardo’) o mousquet de
citadelle oppure mousquet à croc, come del resto avevano anche finito per chiamare quello
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portatile pesante tipo Biscaglia ormai superato, ma non perché fosse munito di un qualsivoglia
crocco o raffio o gancio per appenderlo da qualche parte, bensì perché, con termine di origine
tedesca, ci si riferiva semplicemente alla parte superiore del cavalletto o treppiede sul quale lo
si piantava, cioè un sostegno girevole a forma di gruccia (td. Krücke). Invece che sulle grucce -
o forcine o forcelle o ‘forchette’ che dir si voglia - i mousquets à croc si potevano poggiare sui
cosiddetti coussinets (‘cuscinetti’), accessori da poggiare sul parapetto sotto i moschetti, dalla
funzione forse intuitiva ma che non sapremmo descrivere nei particolari. Alla fine si
chiameranno fusil de rempart e arquebuse à croc, quest’ultimo da ben 3 once di palla (de Gaya)
e quindi, anche se come quelli a palla di piombo e su gruccia girevole, in realtà una vera e
propria piccola e sottile artiglieria da feritoia muraria.
Altre due pretese innovazioni si attribuiva il Montecuccoli e cioè il meccanismo automatico
d’apertura del focone all’abbassarsi della miccia accesa su di esso e il moschetto a doppio
sistema d’accensione – acciarino e miccio, metodo che quindi accoppiava i vantaggi dell’uno e
dell’altro, che però egli stesso riconosce aver copiato dai turchi e che comunque in Europa non
ebbe però successo; il tenente generale (poi maresciallo di campo) de Vauban, governatore
della Cittadella dell’Isle, il quale fu sì espertissimo di fortificazioni e fabbriche militari, ma anche
maestro nel farsi attribuire le ideazioni d’ingegneri militari italiani vissuti prima di lui, ripresenterà
infatti più tardi come sua invenzione un moschetto-fucile in cui appunto il fuoco di una miccia
subentrerà in caso di cilecca dell’acciarino, ma, come tutte le armi magari ingegnose, ma poco
pratiche, anche questa sua non avrà successo (de la Chesnaye). Gli ottomani usavano in effetti,
ma per altro verso, moschetti a miccio veramente ottimi; erano più lunghi e di minor calibro di
quelli dei loro nemici imperiali, ma di una tempra di ferro talmente buona che potevano caricarli
con lo stesso peso di polvere che aveva la palla e di conseguenza, anche senza canna rigata e
senza una qualità di polvere più fina, ottenevano tiri più potenti e più lunghi e per questo poi
queste loro armi prenderanno in Europa il nome improprio di carabine; il loro difetto era però
che, non usando la suddetta forcina, non erano dei buoni bersaglieri. La maggior debolezza dei
turchi in battaglia campale era però un’altra e sempre la stessa da sempre; cioè, che, non
usando né gli squadroni di cavalleria pesante (leggi cavalli corazze) né i battaglioni di fanteria
pesante (leggi picchieri corsaletti), non potevano opporre a quelli imperiali dei corpi altrettanto
solidi, cioè statari, e quindi dovevano sempre sfuggire lo scontro fisico e cercare di vincere con
attacchi improvvisi e ritirate continue, nel che spesso però frequentemente riuscivano a ragione
dello sterminato numero di combattenti, cavalli e artiglierie che portavano e, anche se con
movimenti confusi, presentavano in campo.

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Ancora più sorprendente della suddetta veneziana è un’altra relazione, molto più tarda, cioè
quella cioè sullo stato del regno di Sicilia che nel 1705 Monsieur de Bedusar, inviato di Francia
in quell'isola, farà al suo governo a Parigi; egli infatti, trattando delle milizie siciliane, da lui
definite una matiére risible, descriverà i fanti spagnoli del terzo fisso di Sicilia ancora armati di
grossi moschetti di Biscaglia con forcine à l'antifumo. In effetti i fanti spagnoli sarebbero dovuti
andar armati non più nemmeno del moschetto leggiero, ma addirittura del fucile, come prescritto
dall'ordinanze del 1702 e del 1704 di cui a suo tempo parleremo. Questa sostanzialmente
mancata adozione generalizzata del moschetto leggiero e delle sue molto maggiori potenza e
intensità di fuoco rispetto a quelle del vecchio modo di armare la fanteria, fu certamente una
delle cause di quel declino della potenza spagnola che toccherà il suo fondo all’inizio del secolo
successivo; in sostanza, aumentando così tanto l’importanza delle armi da fuoco, la battaglia
cambiava radicalmente, passandosi infatti gradualmente da squadroni e battaglioni di gran
fondo (), cioè molto profondi, con ordini lunghi, perché destinati a sostenere, con questa loro
grande profondità, la pressione esercitata su di loro dal nemico nello scontro fisico o al contrario
a esercitare essi stessi pressione su di lui, a formazioni di poche righe o file (sp. hileras, fr.
rangs), cioè generalmente sei per la fanteria – ma si era iniziato questo processo con otto - e tre
sole per la cavalleria (infatti il nome squadroni, pur sopravvivendo, non corrispondeva più a una
configurazione geometrica), però molto più lunghe di prima, perché ora, abolite le picche e i
deboli archibugi, c’erano molti più soldati che dovevano sparare, cioè praticamente tutti e tutti
alternandosi alla fronte a sparare molto più rapidamente di quanto si facesse prima perché il
caricamento delle nuove armi era ora molto più veloce; quindi davanti a sé il soldato non doveva
aver troppe file di camerati che lo costringessero a stare troppo tempo inattivo tra un suo sparo
e l’altro. Un battaglione andava ora in genere dai 600 ai mille uomini. Se si arrivava sul campo
di battaglia con ordini o file (sp. ordenes, fr. files) troppo lunghi, questi prendevano il nome di
‘colonne’ e, poiché in colonne non si poteva combattere per i motivi appena detti, i sargenti
ricevevano l’ordine di dividerle in parti uguali da andare ad affiancare alle altre alla fronte, la
quale così si allungava sino al desiderato; ed è da questo importantissimo compito di faire la
division, da cui, se mal fatto, poteva dipendere l’esito negativo di una battaglia, che si arriverà
poi, con una normale degenerazione semantica, al nuovo e molto diverso significato militare,
che ha oggi il termine ‘divisione’.
Dopo la guerra di Successione Spagnola la Spagna militarmente si adeguerà e riprenderà,
come si vedrà per esempio in Italia al tempo di Carlo III di Borbone, ma solo per mettersi così

300
alla pari delle altre grandi nazioni europee, non certo più per essere, come nel passato, la
migliore di tutte.
Formata dunque ora la fanteria solo di moschettieri e di picchieri, il moschettiere europeo, oltre
che del moschetto e dei suoi accessori, era armato di una spada piuttosto lunga, ma non tanto
da dargli impaccio nella marcia, sostenuta da una tracolla che andava dalla spalla destra al
fianco sinistro, ed era equipaggiato di una bandoliera, lunga due piedi e larga 4 pollici, che
andava invece dalla spalla sinistra al fianco destro, alla quale erano appese una borsetta porta-
proiettili di pelle di montone e a cui anche si attaccava un rotolo di corda-miccia, un fiaschetto
contenente il polverino d’innesco e una dozzina di cartucce di polvere già preparate; queste due
strisce di cuoio, generalmente di bufalo, erano forti e larghe e non perché spada e borsetta
fossero molto pesanti, ma perché così, specie nel punto in cui s’incrociavano, potevano in
battaglia difendere alquanto il petto del soldato dai colpi di spada e anche da quelli di moschetto
più deboli. In effetti però, ora che, data la suddetta maggior potenza e intensità di fuoco
raggiunta, gli scontri corpo a corpo erano diventati piuttosto rari, si tendeva a liberare il soldato
da questi impacci; inoltre, quando si combatteva alla spada o alla baionetta, quelle due
corregge si dimostravano anche controproducenti perché ottimi punti di presa per le mani del
nemico, da cui il soldato poteva così trovarsi afferrato. C’era infine un'altra ragione per cui la
bandoliera finiva per servire veramente poco e cioè perché si era costatato che il moschettiere,
sollecitato a caricare e sparare il più velocemente possibile, versava il contenuto della borsetta
in una delle due tasche delle falde del suo giustaccorpo e quello delle cartucce nell’altra, in
modo da poter prendere tutto con maggiore semplicità e prestezza, il che, oltre ai motivi
dell’urgenza, poteva avvenire anche perché magari del detto fornimento di cuoiami non era
stato per nulla dotato; di conseguenza egli, quando doveva sparare, non disponendo più della
cartuccia di polvere già preparata, doveva calcolare la quantità di polvere da usare per caricare
la sua arma a occhio e quindi, posta la palla nel cavo della mano sinistra, le versava su polvere
fino a coprirla completamente e a quel punto, cioè quando la palla non si vedeva più, quella era,
per esperienza comune, la carica di polvere giusta; diceva il de Gaya () che questo modo
pratico era valido per tutte le piccole armi da fuoco. Per tutti questi motivi, come già abbiamo
accennato, nel 1684 si cominciò in Francia a togliere questi cuoiami ai reggimenti di fanteria e
s’iniziò da quelli delle guardie reali francesi e svizzere, sostituendoli con un cinturone, il quale
serviva a reggere sia la spada tramite pendoni sia la giberna, magari ora più grande se
contenente palle e cartucce, sia il rotolo di corda-miccia, mentre sia il fiasco della polvere, se

301
usato in alternativa alle dette cartucce, sia il suddetto fiaschetto del polverino si potevano
portare attaccati a una cordicella a bandoliera oppure in altra maniera (Manesson Mallet).
I picchieri, soldati che erano scelti tra i più alti e vigorosi in modo da poter aver un maggior e più
forte allungo di braccia contro la cavalleria nemica, oltre che di picca e spada erano armati
anche difensivamente e cioè, anche se ormai non più di un corsaletto completo come fino a un
recente passato, di una corazza con bracciali portata sulla marsina, proprio perché il contatto
con detta cavalleria gli esponeva a ricevere sulla testa, sulle spalle e sulle braccia stramazzoni o
rovesci, cioè forti colpi di sciabola o di taglio di spada. La corazza era composta, come già
sappiamo, di due grandi pezzi, di cui uno copriva il petto e l’altro la schiena, ma, a differenza
della corazza di cavalleria, era solo a prova di picca e appunto di stramazzone – talvolta anche
di pistola, mentre il petto di quella del soldato montato, di ferro più doppio e pesante, era, come
pure abbiamo già detto, a prova di moschetto; infatti, seduto com’era in alto sul cavallo, il
soldato rappresentava un più facile bersaglio per i moschettieri nemici. I bracciali erano uniti agli
spallacci e questi si attaccavano alla corazza generalmente per mezzo di tre fibbie; erano fatti di
lamine dello stesso ferro usato per la corazza, attaccate l’una all’altra per mezzo di chiodi
ribaditi da ambedue le parti, ma disposte l’una sull’altra in maniera che si estendevano o si
restringevano a seconda che il picchiere dovesse allungare o ritirare le braccia; erano inoltre
decorate con chiodi perduti, ossia con teste di chiodo non funzionali. I soli picchieri svizzeri
usavano praticamente ancora il corsaletto completo, perché indossavano anche le lamine
cosciali dette scarselloni (fr. tassettes), le quali erano disposte allo stesso modo di quelle dei
bracciali, ma erano più larghe e meno arrotondate, erano attaccate anch’esse con fibbie alla
corazza, in questo caso quattro, e servivano a proteggere, se non del tutto i fianchi, certamente
il basso ventre, le cosce e anche il ginocchio prché all’estremità inferiore avevano una
ginocchiera. Il collo era talvolta ancora difeso da un elemento detto gorgiera. Infine, la testa del
picchiere era protetta da una celata crestata, detta talvolta morione, talvolta anche borgognotta,
servendo la cresta a difendere proprio dai suddetti stramazzoni, copricapo però molto meno
pesante della borgognotta di cavalleria; ma nei loro ultimi anni questi soldati ne saranno spesso
privi in considerazione che ormai adibiti quasi esclusivamente alla guardia delle artiglierie,
compito che era di solito a loro affidato perché sarebbe stato troppo pericoloso tenere armati
d’arma da fuoco nei pressi dei barili di polvere. Le corazze a prova francesi più note e usate
erano quelle di Besançon, perché le meno care, mentre in Italia eccelleva in questo campo
ancora Milano.

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Gli ufficiali portavano il cosidetto alza-collo, ossia un pettorale alto di ferro dorato di dimensioni
variabili, ma al solo scopo di essere distinti dai soldati perché la parte del tronco così difesa era
molto piccola; quelli di fanteria erano generalmente armati di spada e, alfieri esclusi, di una
corta arma inastata, alabarda o partigiana, la quale però serviva più da distintivo del loro grado
che da arma vera e propria; i fantaccini svizzeri portavano, invece della spada, una specie di
sciabola ricurva. Assolutamente non più in uso erano le armi da difesa equine, le quali pertanto
si potevano ora solo ancora vedere in qualche armeria e in qualche munizione (‘magazzino
militare’).
Tornando ora alle cronache napoletane, diremo che nel mese di maggio di questo 1692 la
paura della flotta francese prese di nuovo Napoli perché nei mari d'Italia ne era comparsa una
formata da 35 galere, sei velieri e tre palandre e che si diceva fosse uscita dalle sue basi per
venire a vomitare su Napoli lo stesso inferno di bombe e carcasse che già avevano dovuto
sopportare Genova e Oneglia. I benestanti facevano piani per abbandonare la città con le loro
cose più preziose, ma nulla avvenne; ciò non ostante che il conte de San Estévan aveva
premunito cautelativamente la riviera di Napoli e le altre principali marine del regno; infatti sia
venerdì 16 maggio sia la mattina di mercoledì 28 dello stesso mese aveva spedito corrieri ai
governatori dei presidi marini perché vigilassero e a molti dei principali baroni del regno, tra cui il
principe d’Avellino e il duca di Maddaloni, perché mantenessero i loro vassalli in armi e pronti
alla difesa delle singole terre (cittadine e villaggi); inviò a Porto Longone l’aiutante generale
Girolamo Lavagna e 18 ufficiali maggiori riformati; richiamò alla difesa di Gaeta le compagnie di
presidio negli Abruzzi, compagnie generalmente spagnole del terzo fisso, allora comandato dal
mastro di campo Luis Espluga; ordinò al battaglione di Terra di Lavoro di tenersi pronto a
marciare, parte verso Castellammare e parte verso le marine di Pozzuoli e Gaeta, per impedire
possibili sbarchi del nemico; allertò 500 cavalli e parecchi ufficiali riformati; martedì 27 maggio
fece partire da Napoli 20 feluche, imbarcazioni piccole ma velocissime, per trasportare
urgentemente soldati a Longone; affidò a Marzio Origlia, duca d'Arigliano e generale
dell'artiglieria del regno succeduto al Brancaccio, la posa di colubrine, cannoni e mortari alle
batterie avanzate sulla riviera di Napoli, tra cui molto importante era quella del già ricordato
nuovo fortino costruito sulla scogliera avanti al Castel dell'Ovo, alla distanza di 80 passi da
questo, e munito di una quindicina di pezzi d’artiglieria, tra grandi e piccoli, e specialmente di
nove smisurate colubrine di nuova fonditura e di straordinaria gittata, la quale, prodotte dalla
fondizione sita nel regio arsenale di Napoli, colpivano di punto in bianco, ossia in linea
orizzontale, a una distanza di un miglio e mezzo d’Italia, (di cui una non so si abbia uguale in

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Italia. Filamondo); questa gittata, corrispondente ai km. 2,602 di oggi e veramente eccezionale
per quei tempi, e la posizione avanzata dei pezzi potevano quindi permettere di tener lontane
un’armata nemica, specie le esiziali palandre a bombe francesi, cioè quelle galeotte
bombardiere che si erano dimostrate così esiziali contro Genova nel 1684, con tiri diretti a fior
d'acqua, cioè con quei tiri che più facevano paura ai naviganti, perché aprivano falle tali nello
scafo da mandar presto a picco il malcapitato vascello. Una prova di queste nuove colubrine,
unitamente a quella di mortari di nuova invenzione, era stata fatta lunedì 12 maggio al predetto
fortino con molto concorso di gente venuta ad assistervi e i risultati furono molto soddisfacenti;
si dovette però dopo procedere a riparazioni del fortino stesso perché molto danneggiato da
recenti mareggiate.
Le altre batterie, cioè quelle del ponte della Maddalena, del Molo, della Torre di S. Vincenzo e
della riviera di Posillipo, vicino al palazzo della Roccella, furono armate con molti altri pezzi, tra
cui due colubrine fatte venire da Capua e cinque dal Castello di S. Eramo all'inizio del marzo
precedente. Inoltre, il viceré fece allestire un paio di contropalandre (probabilmente pontoni con
batterie galleggianti), di cui la prima armata di 12 cannoni grandi, 120 petriere, 200 moschetti di
posta (da postazione, cioè non portatili) e 40 granatieri, per spingerla a bersagliare più da vicino
l'armata nemica, se questa si fosse presentata nel golfo. Affidò ad Andrea d'Ávalos principe di
Montesarchio, soldato decisamente vecchio, ma molto sperimentato, la direzione dell'intero
armamento marittimo facendolo generale della marineria; a Fernando Gonzales de Valdés,
mastro di campo generale del regno (o al castellano del Castel dell'Ovo, cioè al mastro di
campo Peñalosa, secondo il nunzio apostolico) quella del predetto fortino davanti allo stesso
castello; al già nominato Marzio Origlia affidò invece la batteria del ponte della Maddalena e in
più la cura della zona del Mercato e del forte del Carmine, assistito dal generale dell'artiglieria
ad honorem Camillo di Dura duca d'Erchie e dal sargente generale di battaglia Restaino
Cantelmo principe di Pettorano; incaricò poi della batteria di Mergellina (vulgo ‘Mergoglino’) a
Posillipo il generale dell'artiglieria e mastro di campo Francesco Serra, fratello del marchese e
duca di Cassano, e di quella della Lanterna del Molo, cioè del fortino detto di S. Gennaro, il
generale dell'artiglieria conte Manzoli; conferì il generalato del baronaggio al suddetto Marzio
Carafa duca di Maddaloni, mentre, per assistere alla sua persona, nominò il mastro di campo
Antonio di Gaeta marchese di Montepagano; spedì a Longone in feluca l’aiutante di tenente
generale Geronimo Lavagna con 18 ufficiali riformati, al castello di Baia il capitano di cavalleria
Gioseppe Mendoza, all'isola d'Ischia il tenente di mastro di campo generale Eustachio
Brancaccio, a quella di Procida Luis Parisani (o il predetto Brancaccio, ancora secondo il nunzio

304
apostolico), alla Torre del Greco (a Salerno, secondo il detto nunzio) fra’ Francesco di Gennaro,
a Castellammare fra’ Alvaro Minutillo y Quinoñes, a Pozzuoli Domenico Dentice; questi ultimi
quattro erano tutti mastri di campo di provata esperienza. Infine si posero delle vedette munite
di occhialoni di lunga vista al luogo elevato detto di Nazareto (oggi ‘Camaldoli’), dove avevano il
loro romitorio i padri Camaldolesi.

Fu tanto il pericolo che non venisse a momenti l'armata francese che si erano poste delle
sentinelle spagnuole al luogo di Lazareto, ove tengono loro romitaggio li padri Camaldolesi, le
quali stavano alla mira con occhialini di lunga vista per dare avviso alla Città nell'occorrenze.

Poi lunedì 2 giugno, con gran giubilo generale, s’ebbe notizia che l’armata di Francia s’era
allontanata da quei mari. Nell’ultima decade di maggio approdarono a Napoli due galere di
Sardegna, le quali, si diceva, dovevano restarvi per contribuire alla sorveglianza delle marine
del regno e portavano con loro una saica inglese predata durante il viaggio. Gran parte delle
predette misure difensive furono poi smantellate nel mese di luglio, quando cioè il pericolo di un
attacco francese dal mare era ormai scongiurato, e infatti nella mattinata di lunedì 21 di detto
mese si tolsero i cannoni con cui si era provvisoriamente rinforzata la principale batteria, cioè
quella del ponte Ricciardo, vulgo detto della Maddalena; ma già si pensava di rendere
quest'ultima postazione stabilmente più forte, cosa che poi sarà realizzata più tardi dal viceré
marchese di Villena:

(Napoli, 1° luglio:) Essendosi conosciuto che il posto del Ponte della Maddalena sia molto
opportuno per guardare la spiaggia di questa Città da ogni tentativo nemico, si é risoluto di
fabbricarvi un fortino regolato capace di 30 pezzi di cannone (A.S.V. Nun. Nap. 112).

Nello stesso mese di luglio si dovette anche cominciare a pensare di dover sostituire i tanti fanti
dei Presidi di Toscana ultimamente uccisi da una virulenta e perniciosa pestilenza e si dettero
pertanto tre nuove patenti di capitano di fanteria con obbligo di leva:

(Napoli, 8 luglio:) Continuano i ministri della Regia Camera le loro consulte per ben provvedere
le piazze di Toscana di nuove provvisioni e si vanno tuttavia assoldando soldati per guernirle di
nuove compagnie in luogo di quelle che sono perite per infermità cagionate dalla pessima
qualità del pane...(ib.)

(Napoli, 15 luglio:) Si trovano ormai perfezionate le tre compagnie di soldati di nuova leva che
devono mandarsi in rinforzo de’ Presidîi di Toscana, in gran parte distrutti per la mala qualità del
pane e dell'aria (ib.)

305
Ma sulle effettive cause di quest'esiziale contagio ci dilungheremo presto. In quel tempo,
sempre a luglio, si spedirono da Napoli ancora fanteria, cavalleria e munizioni in Catalogna,
mentre un avviso da Milano del giorno 9 dello stesso mese informava che lettere da Madrid
segnalavano lo sbarco in Catalogna di 900 soldati italiani portativi dalle galere di Napoli e di
Sicilia, genti messe subito in marcia per Rosas.

Il 5 (agosto) nella darsena furono condotti sopra uno schifo (‘battello’) di galera tre schiavi che
avevano tentato la fuga. Furono frustati e poi riposti nella galera. (G)li tagliarono una orecchia
per ciascheduno per segnale, castigo solito darsi per tale tentativo.

Troppo digressivo sarebbe ora il diffondersi sulle punizioni corporali riservate a forzati e schiavi
di galera, ma, a proposito d’orecchie, ecco un altro avviso agostano:

Il 28 con la staffettiglia si seppe la morte del signor Gioseppe Giudice d'anni 27 di una
moschettata all'orecchia sotto Anbrun (Embrun) nel Delfinato, esercitando la carica di
commissario generale della cavalleria napolitana.

La predetta carica era stata inventata a suo tempo per la sola cavalleria napoletana di stanza in
Lombardia e infatti non si trova ripetuta in nessun altro esercito della monarchia di Spagna; a
Milano la predetta ferale notizia si era saputa due giorni prima che a Napoli; il Giudice era stato
commissario generale del detto trozo di cavalli corazze napoletani sin dal 1682 e quindi era
stato elevato a quell'incarico a soli 17 anni.
Una tartana napoletana fu assalita dai barbareschi in quello stesso agosto, nel quale anche
avvenne nel porto di Napoli un episodio diplomaticamente increscioso e cioè il seguente.
Giovedì 7, trovandosi in darsena le due galere di Sardegna del cui arrivo abbiamo già detto, il
loro generale, lo spagnolo marchese di Alconzel, fece arrestare dai suoi e incatenare al remo di
uno dei detti suoi vascelli nientedimeno che il capitano di una galera genovese che pure si
trovava in sosta a Napoli e tanto perché questi non aveva voluto consegnargli 22 remiganti
spagnoli di buonavoglia e alcuni francesi che teneva ai remi della sua galera. Bisogna a questo
punto spiegare - senza per questo ingolfarci in una trattazione dei vari tipi di remieri di galera -
che i buonavoglia erano i galeotti che servivano alla voga volontariamente e ricevevano per
questo un regolare salario; quegli spagnoli erano molto apprezzati nel Mediterraneo, perché,
come anche i soldati di quella nazione, erano ubbidienti e molto tolleranti delle fatiche e delle
privazioni, e pertanto le galere genovesi di proprietà pubblica, le quali all’inizio del 1701
risulteranno essere non più tre, come nel passato, bensì sei, se ne servivano correntemente,

306
cosa però mal digerita dalla Spagna, la quale considerava tale servizio indegno di spagnoli e
aveva talvolta ufficialmente richiesto a Genova la consegna di tali remiganti. Per quanto
riguarda invece i remieri francesi, si trattava allora di nemici della Spagna e, poiché la
Repubblica di Genova era in sostanza un protettorato spagnolo, il di Alconzel si credeva in
diritto d'ingiungerne a quel malcapitato capitano la cessione. Quest'atto grave e arbitrario,
essendo avvenuto nel porto di Napoli, rischiava di guastare gli ottimi rapporti che il regno
intratteneva con la signoria di Genova e ciò in un momento particolarmente delicato della
politica estera spagnola; pertanto il viceré fece immediatamente liberare il capitano genovese e
ordinò d'incarcerare il generale, il quale per evitare l'arresto, si nascose, ma poi, trovato dopo
qualche giorno, fu tradotto a Gaeta. Le due galere sarde lasceranno Napoli venerdì 5
settembre, non si sa se con o senza il loro generale.
Martedì 12 agosto lasciarono Napoli per Finale due tartane che, oltre a esser cariche di polveri,
portavano anche il capitano di cavalleria Antonio de Matta con i suoi soldati da montare a
Milano. In effetti la compagnia del de Matta pare che, invece che a Finale, sia poi stata sbarcata
a Genova, perché negli archivi milanesi c'è una liberanza (dallo spag. libranza, ordine scritto di
pagamento) del 26 novembre successivo che liquidava il pagamento delle spese di
trasferimento di quel reparto da Genova a Milano.
Mercoledì primo ottobre si fece una prova d'artiglieria in un posto diverso dai soliti Bagnuli, cioè
sul baluardo di S. Lucia a Mare, cosiddetto perché vicino alla chiesa omonima. Si provarono
bombe lanciate con un nuovo tipo di mortaro di bronzo (fatto all'uso francese con la camera
sotto); furono fatti i consueti tre tiri di prova sparando dalla parte di S. Giovanni a Teduccio e si
arrivò a circa tre miglia in mare, cioè sorprendentemente alla stessa lontana distanza che si
raggiungeva con la colubrina che si stava confrontando al detto mortaro. Evidentemente
l'importante evoluzione rappresentata da questi mortari incamerati alla francese e il grande
effetto distruttivo che proprio in quegli anni i transalpini ottenevano con i loro bombardamenti
delle città nemiche avevano molto impressionato gli spagnoli e quindi gli esperimenti d'artiglieria
e i tentativi di mettersi al passo con il progresso balistico del nemico si susseguivano; ma,
giacché si è più volte accennato all'artiglieria del tempo, riteniamo ora a proposito abbandonare
per un po’ le nostre cronache per delinearne in breve le principali caratteristiche, limitandoci
però alla classificazione delle varie bocche da fuoco e consigliando al lettore che a tale
argomento non fosse interessato di saltarlo senz’altro a pie’ pari.
Nella seconda metà del Seicento, in Spagna e nei suoi domini l’artiglieria era rimasta alquanto
indietro rispetto all’evoluzione avuta sia da quella del nemico francese sia da quella dell’alleato

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Impero; questa arretratezza ricordava quella che già si era sofferta alla fine del Quindicesimo
secolo, quando ci si era trovati di fronte a Carlo VIII di Francia e alla sua innovativa artiglieria
ferriera trainata da leggeri e veloci carri equini e ricordava anche il molto lento adeguamento più
tardi, nella seconda metà del Sedicesimo, alla complessa moderna dottrina balistica elaborata
dai maestri fonditori tedeschi verso la fine del Rinascimento; difatti l’indole iberica, ricca di
stupende qualità virili, si era però sempre storicamente dimostrata poco incline all’elaborazione
tecnica e quella fortunata innovazione fatta dal duca d’Alba nell’arte della guerra nel 1567, cioè
l’armare la fanteria spagnola anche del rinomato moschetto di MiIano, più tardi detto moschetto
di Biscaglia perché presosi a fabbricare su larga scala soprattutto in quella regione appunto per
soddisfare la grande richiesta fattane dell’esercito spagnolo, era stata un’innovazione certo
molto tattica, ma tutto sommato poco tecnica, perché detto moschetto milanese non era altro
che la versione portatile di quello più antico da posta, piccolo pezzo d’artiglieria, del quale
abbiamo già detto, molto in uso sia nella difesa di piazze e forti sia nella guerra marittima. In
Francia, per quanto riguarda la fabbricazione di armi da fuoco portatili, i luoghi più importanti e
produttivi erano nel territorio di Charleville, per esempio a Nozon, e poi il paese di Saint-Étienne
en Forez.
Nell’artiglieria italo-ispanica le bocche da fuoco, quasi tutte di metallo (‘bronzo’) e poche di ferro,
si suddividevano tuttora sostanzialmente nei generi e tipi introdotti dalla suddetta
cinquecentesca, cioè colubrine, cannoni ferrieri e cannoni petrieri, sebbene con una varietà di
calibri minore e più uniformata di quanto lo fossero stati sino a tutta la Guerra di Devoluzione.
Esse erano pertanto così classificate:

Primo genere o colubrine. Calibro della palla in libbre

Colubrina propriamente detta da 12 a 25 (spesso di 24)


Mezza colubrina o colubrina bastarda da 7 a 25
Moiana da 8 a 12
Mezza colubrina da 6 a 12
Sagro (o quarto di colubrina) da 4 a 6
Falcone(tto) (o mezzo sagro
od ottavo di colubrina) da 1 a 4
Smeriglio da 0,5 a 1

Secondo genere o cannoni ferrieri.

Cannone propriamente detto oltre 25 (ma comune di 40)


Mezzo cannone da 16 a 25
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Terzo di cannone da 10 a 13
Quarto di cannone colubrinato da 7 a 10
Ottavo di cannone (raro) circa 6
Doppio cannone (obsoleto) oltre 40 e fino a 100

Terzo genere o cannoni petrieri.

Cannone petriero intero da 19 a 40


Mezzo cannone petriero da 10 a 18
Quarto di cannone petriero da 5 a 10
Doppio cannone petriero (obsoleto) da 40 a 100.

I pezzi più potenti erano quelli del primo genere, ossia le colubrine; queste erano, di regola,
lunghe 30/32 diametri dei loro calibri, cioè delle loro rispettive bocche, eccezion fatta della
mezza colubrina bastarda che era più corta misurando 26 bocche, e avevano spessore di
metallo tanto rilevante da consentire le maggiori cariche di polvere, cioè generalmente ne
sopportavano una quantità pari al peso della loro palla di ferro, e quindi offrivano potenza e
lunga gittata; anzi, in questi pezzi detto spessore non andava assottigliandosi gradatamente
andandosi dalla culatta alla bocca, come invece nei pezzi degli altri due generi, ma al centro
della canna, per conferire maggior resistenza, si faceva maggiore, conferendo quindi al pezzo
una forma affusata; avevano però lo svantaggio di essere, sia per il loro gran peso che per la
loro notevole lunghezza, di faticosa messa in batteria e di costoso trasporto, bisognando di un
tiro di gran numero di buoi e affondando le ruote dei loro affusti, naturalmente di più di quelle
degli altri pezzi, nel fango e nel molle terreno della campagna, specie se coltivata; pertanto,
come pezzi da campagna, si usavano solo gli ultimi tre tipi più piccoli, i quali anzi erano
considerati tali per antonomasia, e con cui si sparavano palle di ferro non maggiori delle 10 o 12
libbre, se non talvolta, nei più piccoli, palle di piombo. La moiana era una bocca da fuoco ideata
per uso di marina, specie per armarne le galere e le tartane per la guerra di corso, ed era dello
stesso calibro e degli stessi spessori della mezza colubrina, ma in considerazione del limitato
spazio disponibile a bordo, specie di quello angustissimo delle galere, era l’unico pezzo di
questo primo genere a essere più corto di canna, misurando infatti la loro solo 26 bocche,
caratteristica che serviva a renderne più agevole la carica e perché nel rinculare non andasse a
urtare negli alberi o nell’altre opere morte dei vascelli; benché facesse tiro più corto di quello
della mezza colubrina o di quello del sagro, ciò nondimeno nelle battaglie navali era un pezzo di
grand’effetto. Non è questo pezzo assolutamente da confondersi con la moyenne francese della
stessa epoca, una bocca da fuoco da 24 libbre di calibro, il cui nome però fu probabilmente
ripreso da quello appena descritto.
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Moiana a parte, per quanto riguarda la lunghezza di canna, le colubrine o pezzi di questo primo
genere si chiamavano ordinarie se rispettavano il canone delle 32 bocche o comunque non se
ne discostavano molto (30-33 bocche), bastarde, se invece erano sensibilmente più corte di tale
misura, e estraordinarie se parecchio più lunghe. Le mezze colubrine si facevano generalmente
una bocca più lunghe delle colubrine. Quanto allo spessore di metallo, la regola voleva che
fosse un calibro o diametro di bocca al focone, 7/8 nel mezzo e 4/8 alla bocca, e queste si
chiamavano colubrine comuni moderne, ma quelle usate nel secolo precedente, dette colubrine
sottili antiche, presentavano, quando ancora esistenti, spessori minori (7/8, 6/8, 4/8); se invece
tali spessori erano sensibilmente maggiori al focone (9/8, 7/8, 3/8), allora si dicevano colubrine
moderne rinforzate o mezze colubrine rinforzate.
I suddetti ultimi tre tipi più piccoli, quelli da campagna, si facevano sempre rinforzati e più piccoli
erano e più si fondevano rinforzati perché resistessero meglio al tormento della polvere pirica
nell’uso molto frequente che se ne faceva.
Appartenenti a questo primo genere erano poi dei piccoli pezzi che usavano i veneziani, cioè il
moschetto da gioco (‘da esercitazione’), pezzo simile allo smeriglio, da una libbra di calibro e
alquanto corto (28/30 bocche), usato appunto nell’addestramento dei bombardieri, il
saltamartino, pezzo da 4 libbre, molto corto di canna (15 bocche) e così chiamato perché,
essendo fissato su un cavalletto girevole, si poteva girare appunto da qua e da là ricordando
l’irrequietezza dell’omonimo insetto; quest’ultimo, era usatissimo dai veneziani, specie sulle
murate dei vascelli, perché le artiglierie, per caricarlo, non doveva ritirarlo in coperta, ma
bastava appunto che lo girasse verso di sé. C’è da dire che le galere veneziane in questo si
distinguevano da quelle delle altre nazioni perché, oltre a portare la solita grossa artiglieria a
prua, erano zeppe di spingarderia, ossia appunto di varia artiglieria minuta da cavalletto o
forcella girevole, fissata sulle fiancate, a poppa, alla stessa prua e talvolta addirittura in corsia; il
che, certo utile e comodo negli abbordaggi (ma pericoloso quando era il nemico ad abbordare),
risultava invece d’aggravio nella navigazione e d’impaccio nelle manovre. Anche Genova ci
volle provare una volta, come si legge in un’informativa del Cornioni, residente veneziano in
quella città, datata 22 maggio 1701:

… È stata varata ad Arenzano e rimorchiata in questo porto una galea governativa della portata
di cinquanta cannoni; sarà montata da uno dei capitani Viviani (Moscati, Rel.)

Evidentemente il Cornioni era un diplomatico che non s’intendeva di artiglieria, trattandosi infatti
anche qui non di veri e propri ‘cannoni’ ma della sudetta spingarderia.
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Le gittate che mediamente si raggiungevano con i suddetti pezzi del primo genere erano le
maggiori e quindi, in metri odierni, all’incirca le seguenti:

Tiro orizzontale Tiro a elevazione massima.

Colubrina da 50 2.250 9.200


Colubrina da 30 2.100 8.700
Mezza colubrina da 14 1.200 6.600
Sagro da 10 950 6.100
alcone da 6 600 4.850,
Falconetto da 3 500 2.800
Smeriglio 310 1.050

I calibri sopraindicati erano quelli ora comunemente più usati, ma si potevano trovare pezzi di
questo primo genere di maggior calibro, tra cui i più evidenti, ma ormai obsoleti, erano quelli
detti doppie colubrine o anche dragoni, dal calibro che andava dalle 40 alle 60 libbre, dalla
lunghezza canonica di circa 30 bocche e non di 32, ma che erano ormai usati solo dai turchi, i
quali nell’artiglieria amavano il gigantismo secondo la falsa eguaglianza: più grande = più
potente. Non più usati erano anche altri pezzi del primo genere, cinquecenteschi o addirittura
medievali, e cioè quello detto passa volante o zebratana (‘cerbottana’), dalla canna molto lunga
e sottile e dal calibro che andava dalle otto alle nove libbre di palla di ferro; l’aspide, dallo stesso
calibro del precedente, ma povero di metallo e lungo circa un terzo di meno del canone previsto
per gli altri pezzi del suo genere; il ribadocchino, un pezzo fatto non di metallo, bensì di ferro,
dal calibro di palla che andava dall’1 libbra all’una e mezza, da non confondersi però con un
pezzo ‘moderno’ dallo stesso calibro che si usava in Fiandra, ma di bronzo e dalla canna
particolarmente lunga.
Per la formazione delle batterie alle troppo pesanti e lunghe colubrine si preferivano quindi
universalmente i più leggeri, corti e quindi maneggevoli cannoni o pezzi del secondo genere,
ogni tipo di cui, a differenza delle colubrine, aveva una sua particolare proporzione di
lunghezza, variando il genere nel suo complesso da una misura minima di 17 diametri di bocca
a una massima di 26. Infatti, il cannone era lungo 18 diametri della sua bocca, il mezzo cannone
da 18 a 20, il terzo cannone da 17 a 18, il quarto cannone da 24 a 26 e l'ottavo 27 diametri;
insomma, mentre nelle colubrine la lunghezza del pezzo era direttamente proporzionale al suo
calibro, nei cannoni invece minore era il calibro maggiore era la lunghezza del pezzo, la quale
non scaturiva da un calcolo proporzionale, bensì da uno tabellario.

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I cannoni, avendo medi spessori di metallo, permettevano buone cariche di polvere,
generalmente 2/3 del peso della loro palla di ferro, con conseguente buona potenza per le
batterie d’assedio, e d'altra parte, non essendo eccessivamente lunghi né pesanti, risultavano
sufficientemente maneggevoli e trasportabili; infatti, prendendo per esempio la predetta guerra
di Messina, sappiamo che il treno d'artiglieria degli assedianti era costituito da 120 cannoni da
batteria del calibro di 24 libbre spagnole e da 50 cannoni da campagna che andavano dalle 10
alle 16 libbre; c'erano poi 30 mortari da bombe e sei da pietre. Anche per questo secondo
genere i calibri che abbiamo sopraindicato erano ora i più comuni, ma se ne potevano trovare di
maggiori; non più usato era comunque il doppio cannone, pezzo pesantissimo, non perché
esorbitante dai suddetti canoni di spessore, ma perché era di calibro tra le 70 e le 120 libbre di
palla e in aggiunta aveva la canna un paio di bocche più lunga di quella del cannone ordinario. I
soli turchi ancora usavano questi colossi e in particolare il basilisco, la bocca da fuoco più
grossa allora esistente e il cui calibro, in genere tra i 120 e i 130, poteva però anche arrivare alle
200 libbre di palla. Il Moretti ci ha lasciato le misure di questo gigantesco pezzo ottomano,
grande all’incirca quanto i cannoni navali delle moderne corazzate; esso era dunque lungo dalle
24 alle 30 bocche e spesso al focone una bocca e, alla metà della canna una bocca e al collo,
ossia immediatamente prima della gioia (’cornice’) della bocca, ½ bocca; il principe Eugenio di
Savoia nel 1717, quando prenderà Belgrado, s’impadronirà tra l’altro del più grosso cannone
turco allora mai visto e cioè uno di 110 libbre di calibro e 52 di carica di polvere. Poiché però
nell’impero ottomano i cavalli da tiro erano rari, si trainavano le artiglierie ancora lentamente con
i buoi, come in occidente si era fatto sino al secolo precedente, e di conseguenza i turchi, a
meno che non si prefiggessero qualche importante assedio, cercavano di portare in campagna
pezzi di gran calibro il meno possibile, vedendosi quindi in genere nelle loro armate solo pezzi
che andavano dalle 8 alle 12 libbre di palla; anzi avevano preso l’abitudine che, in caso
d’assedi, portavano sul luogo a dorso di cammello tutti i materiali e le attrezzature per fabbricare
le grosse artiglierie, cioè metalli, ruote, pezzi di casse ecc. I mastri fonditori si sistemavano nei
villaggi vicini al loro accampamento e fondevano magnificamente ottime bocche da fuoco,
anche di grosso calibro, riccamente adornate di motivi di foglie e frutti in bassorilievo; che poi i
turchi non fossero per nulla abili in quelle opere che volevano razionalità matematica, come per
esempio la costruzione delle piattaforme per le batterie d’assedio o lo stesso puntamento dei
pezzi, questo era risaputo ed è per questo motivo che si servivano molto di artiglieri mercenari
stranieri, pagandoli benissimo e contentandone quanto più possibile le pretese; diffidando però

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dei cristiani, li sorvegliavano però anche molto e cercavano, con blandizie e promesse, d’indurli
a farsi mussulmani.
In seguito i turchi continueranno a usare le suddette gigantesche bocche da fuoco, ma solo
come armi da fortezza, e si serviranno di grossi cannoni a palla di pietra nelle fortezze marittime
ancora al tempo del de la Chesnaye des Bois, cioè nel 1744; invece negli stati cristiani solo
qualche grossissimo pezzo sarà lasciato in esposizione da qualche parte come simbolo della
potenza della sovranità, come per esempio quello che il Manesson Mallet, il quale era stato
ingegnere militare e sargente maggiore d’artiglieria in Portogallo negli anni Sessanta del
Seicento, ricorderà d’aver visto a Lisbona :

Il pezzo più lungo tra tutti quelli che ho visto è uno che sta nel castello di S. Giovanni della Barra
di Lisbona, il quale era lungo 22 piedi geometrici, tirava palle di 90 o 100 libbre di ferro con 60
libbre di polvere. Dal saggio che ne fece fare il re Don Sebastiano ad Alcántara si trovò che
raggiungeva ‘di punto in bianco’ (‘en mire commune’) 1.600 passi. (op. cit.)

Quindi questa enorme bocca da fuoco era lunga più di sette metri e ½ e con tiro parallelo al
terreno superava i due chilometri e ¾. Per quanto riguarda gli spessori del metallo, anche per i
cannoni valeva la generale distinzione in moderni comuni, moderni rinforzati e sottili antichi, a
seconda degli spessori che presentavano; i primi si dividevano in seguenti, cioè con l’anima (‘il
vuoto della canna’) del tutto cilindrica dalla culatta alla bocca (7/8, 5/8, 3/8), e incamerati, vale a
dire con la prima porzione posteriore dell’anima corrispondente alla culatta, cioè la camera della
polvere, molto più stretta in considerazione che colà il bronzo che circondava detta camera era
molto più doppio; infatti questa camera, lunga quattro bocche, tre per contenervi la polvere e
una per il boccone (‘stoppaglio’) di fieno, era larga solo 5/6 di bocca, mentre per il rimanente la
canna aveva gli stessi spessori dei suddetti pezzi seguenti. I cannoni moderni rinforzati, non
avendo bisogno di ulteriori rinforzi, erano tutti seguenti e i loro spessori 8/8, 5 o 6/8, 3/8, ma si
usava molto fondere mezzi e quarti cannoni di questa categoria addirittura dello spessore delle
colubrine e anche più lunghi (il mezzo 22/24 bocche e il quarto 26/28), in modo da potersene
servire al posto di quelle, anche se, rimanendo pezzi generalmente alquanto più corti, non ne
raggiungevano la stessa lunghezza di tiro; infine i sottili antichi potevano essere seguenti (6/8,
5/8, 3/8) o incampanati, cioè con gli stessi valori di spessore predetti, ma con in più un
alloggiamento per polvere e fieno nella culatta lungo quattro bocche e a forma appunto di
campana aperta verso la bocca, la cui larghezza era all’inizio davanti naturalmente una bocca(
3/3), alla metà 5/6 e alla fine indietro, insomma al focone, 2/3 di bocca, insomma erano questi
pezzi degli incamerati con camera strombata e allungata a forma di campana. È qui
313
interessante notare che gli spessori del bronzo erano quindi misurati in ottavi di bocca, invece i
vacui dell’anima in sesti o terzi di bocca.
Alcuni chiamavano rinforzati anche i suddetti cannoni incamerati o incampanati, essendo alla
culatta, in corrispondenza della camera o della campana, fatti di metallo di maggior spessore.
C'erano poi pezzi di questo secondo genere che presentavano caratteristiche di spessore
di metallo o di lunghezza della canna o eccezionali o intermedie tra quelle proprie del primo
genere e quelle proprie invece del secondo ed erano detti via via appunto rinforzati se di
spessore di metallo maggiore appunto del regolare, colubrinati o anche estraordinarij, se di canna
più lunga dell’ordinario, e infine bastardi o olandesi se al contrario di canna più corta del normale;
cannoni molto più corti, ossia di non più di 15 bocche, si chiamavano, a seconda delle tradizioni
locali, rebuffi, crepanti o verrati. Alcuni chiamavano invece bastardi i cannoni più lunghi
dell’ordinario, contribuendo così a rendere ancora più difficile questa già abbastanza complessa e
approssimativa classificazione; in sostanza si può dire che si chiamavano generalmente bastarde
tutte quelle bocche da fuoco che presentassero rimarchevoli ed importanti sproporzioni rispetto ai
canoni del tipo e del genere d’artiglieria a cui appartenevano.
Per quanto riguarda le gittate, quella dei cannoni da batteria era generalmente un terzo di meno
di quella delle colubrine di calibro uguale, mentre i mezzi e i quarti cannoni, se accolubrinati,
l’avevano di poco inferiore a quella delle colubrine di uguale calibro; essi infatti non
necessitavano di lunghissime gittate in quanto le mura nemiche si battevano a poca distanza da
esse e anche in mare non si faceva battaglia a grandi distanze perché i tiri, col movimento
continuo e l’instabilità dei vascelli, difficilmente avrebbero colto nel segno. Questi pezzi del
secondo genere tiravano esclusivamente palle di ferro, ma in marina si usavano anche palle
arroventate per procurare incendi e, specie per tranciare alberi, cordami e vele, anche le palle
inramate, ossia due palle unite da un ramo (‘barra’) di ferro di cinque o sei pollici di lunghezza, e
le palle incatenate, cioè due mezze palle unite insieme da un ramale (‘pezzo’) di catena; molto
usate erano anche due mezze palle incatenate oppure due intere, piccole e unite al centro da
una barra di ferro, dette queste angioli dagli artiglieri spagnoli, e si videro per esempio usate dai
francesi alla battaglia navale di Palermo del 1675:

... dove oltre le palle vennero certi ferri di due palmi, con le palle piccole alle punte,
artificiosamente fatte, che si chiamano ‘angiolini’ (V. Auria, cit. Vol. VI, p. 45).

All’inizio di giugno del 1686, comprate da quel Magistrato di Guerra, ne arrivarono a Genova
2mila portate da una nave olandese, ma risultarono troppo grosse per qualsiasi cannone in
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servizio per quella repubblica e pertanto si decise di fonderle per riciclarne il ferro. Lo stesso
nome di angioli fu poi dato anche a certi proiettili d’assedio, verosimilmente esplosivi ed
incendiari, di cui si sentirà la prima volta a proposito del suddetto assedio di Buda del 1686.
I cannoni petrieri o artiglieria del terzo genere erano così detti perché, a differenza dei pezzi dei
primi due generi che sparavano palle di ferro e quindi erano detti ferrieri, servivano a lanciare
sul nemico o grandi palle di pietra (allora però già da lungo tempo in quasi totale disuso) o
mitraglia di vario genere, per esempio scuffie (‘cuffie, sacchetti’) di sassi o di pezzi di catene, o
grandi proiettili composti, come sacchetti, tonelletti, lanterne, formati cioè di misture esplosive o
incendiarie per lo più frammiste a mitraglia; si riempivano generalmente sino alla bocca, ma di
regola il peso totale non avrebbe dovuto superare quello del calibro in palla di pietra. Poiché
dovevano dunque tirare a brevissime distanze proiettili che, anche se di dimensioni maggiori,
erano di un peso specifico ovviamente più basso di quello delle semplici palle di ferro, pur
essendo molto larghi di bocca si accontentavano di minori cariche di polvere, generalmente da
1/3 a ½ dl peso della loro palla di pietra, e di conseguenza i loro spessori di metallo erano
piuttosto sottili, ma non alla culatta, dove invece, essendo quasi tutti pezzi incamerati, lo
spessore era molto maggiore di quello dei cannoni e delle colubrine, i quali erano invece pezzi
seguenti. Quelli molto vecchi, di metallo più sottile e quindi da cariche di polvere minori, erano
stati detti, fino a qualche tempo prima, terziati per il sesto, perché in origine i loro spessori
sarebbero stati teoricamente da misurarsi in sesti di bocca; ma erano ora perlopiù spessi 1/3
(spessore della gengiva della camera esclusa), 1/4 e 1/6, mentre la loro camera era larga 2/3 di
calibro e lunga uno e ½. I più moderni, di metallo più spesso e dunque da cariche di polvere
maggiori e da gittate più lunghe, erano stati invece detti terziati per la metà, in quanto in origine i
loro spessori sarebbero stati teoricamente da misurarsi in metà di bocca; in realtà questi erano
ora generalmente spessi, dal focone alla bocca, 1/4 (spessore della gengiva della camera
esclusa), 1/4 ed 1/6 del loro calibro, mentre la loro camera era larga ½ del calibro e lunga due,
ma se ne fondevano anche alcuni con la camera larga 3/5 del calibro e lunga tre volte la detta
larghezza; infine, si facevano pure dei petrieri seguenti e questi erano generalmente lunghi
calibri 12 e presentavano i seguenti spessori: ½ al focone, 3/8 alla metà ed 1/4 al collo. La
lunghezza totale della loro canna andava da otto a 14 diametri della loro bocca - quindi in
maniera proporzionale, come le colubrine - e in effetti alla fine del secolo decimo settimo si
fondevano comunemente solo nei calibri fissi di 3, 5, 6, 10 e 24 libbre di palla di pietra per
uniformare i loro proiettili. Questi cannoni erano molto usati in marina dove, essendo i bersagli
di legno, le grosse palle di pietra procuravano sui vascelli nemici molto più conquasso delle

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semplici perforazioni procurate generalmente sullo scafo dalle piccole e velocissime palle di
ferro, dove la mitraglia faceva strage degli equipaggi e dove i grossi proiettili composti
appiccavano vasti e inestinguibili incendi e bruciavano vive le disgraziate ciurme incatenate
delle galere. Inoltre, questi petrieri, a ragione della cortezza della loro canna, del poco rinculo
che provocavano la loro piccola carica di polvere, del minor peso e quindi, in una parola, della
loro gran maneggevolezza, erano adattissime alle strettoie e ai piccoli spazi in cui erano
costretti a maneggiarli gli artiglieri di bordo; per motivi simili essi erano anche consigliabili per
armare i fianchi e le traverse dei baluardi delle fortezze e quind’anche per un uso terrestre. La
gittata dei cannoni petrieri, caricati che fossero con involucri di fuochi artificiati o con mitraglia,
avanzavano di poco il tiro del moschetto.
Per aumentare poi la già maggior maneggevolezza di questi pezzi in luoghi angusti, quindi torri,
campanili, piccoli baluardi e vascelli, specie le strette galere, si erano usati in guerra sino a un
recente passato petriere a braga e mascolo, cioè a retrocarica, e generalmente di ferro perché
meno costosi; si trattava di cannoncini petrieri, dal calibro che andava da due a un massimo di
14 libbre di pietra, montati su cavalletti girevoli a forchiglia, quindi senza rinculo, e con la
particolarità di avere la culatta apribile per l’inserimento posteriore sia del proiettile sia di un
cilindretto (mascolo) contenente la carica di polvere.
Gli ultimi pezzi di bronzo di questo tipo il Manesson ricordava di averli visti usati con successo
dai portoghesi che, comandati dal maresciallo conte di Schomberg, il 17 giugno 1665 difesero
Montes Claros di Villa Viciosa in Estremadura dagli assalti degli spagnoli del marchese di
Caracena:

Ho visto una quantità di questi petrieri di bronzo sulle muraglie del castello di Villa Viciosa, i
quali servivano meravigliosamente ai portoghesi a tirare maglie di catene, chiodi, ciottoli e tutte
le altre cose di tale natura contro gli spagnoli che stavano ai piedi delle muraglie quando
assediavano la piazza, che poi non presero mai. (op. cit.)

Di questi pezzi, però di ferro e ora solo caricati a mitraglia, detti in fr. berches, ancora si
vedevano andar armati i mercantili per difendersi dalle piccole barche a remi dei pirati quando
queste all’improvviso lasciavano la vicina costa e venivano all’abbordaggio; dovevano però
essere pezzi di breve vita, visto che il ferro, esposto alla salsedine, rapidamente s’arrugginiva e
che, ‘tormentato’ da cariche di polvere ora più potente, rischiava più facilmente e più
pericolosamente del bronzo di surriscaldarsi e creparsi. Trattandosi comunque di bocche da
fuoco ormai in guerra sostanzialmente in disuso sia a causa sia della complessità e lentezza di
caricamento sia a ragione della lor intrinseca pericolosità per i loro stessi artiglieri, non ne
316
descriveremo qui il complicato funzionamento, cosa che del resto abbiamo invece fatto in
un’altra nostra opera che tratta appunto dell’arte della guerra nel secolo precedente a quello
oggetto di questo studio.
La suddetta tipologia di bocche da fuoco, sebbene, come abbiamo detto, già alquanto
semplificata rispetto a quella del secolo precedente, restava però sempre più complessa di
quella dell’artiglieria, più standardizzata e moderna, che invece usavano i francesi, i principali
stati tedeschi e gli imperiali e che si usava, per esempio, nei conflitti che si combattevano contro
l’espansione ottomana nell’Europa centro-orientale, dove si vedevano infatti le bocche da fuoco
suddivise in due soli generi, a seconda della conformazione dell’anima della loro canna; così
infatti il suddetto Montecuccoli descriveva quelle adoperate ai suoi tempi nelle guerre contro i
turchi nell’Europa orientale e certo allora pochi s’intendevano più di lui d’artiglieria e di tutta la
materia bellica in genere:

Peso della palla di ferro in libbre. Lunghezza in calibri. Peso in quintali.

Pezzi seguenti.

Colubrina intiera 16 32 56.


Mezza colubrina 8 33 33.
Quarto di colubrina 4 34 20.
Falconetti 2 35 11.
Cannone intiero 48 18 72.
Mezzo-cannone 12 24 27.
Ottavo di cannone o falcone 6 26 21.

Questi pezzi pesanti servivano nelle batterie e nelle contrabatterie delle guerre
d’assedio e si caricavano ordinariamente con una quantità di polvere pari al peso della palla
oppure pari a 2/3 del peso della palla quando si volevano aprire delle brecce nelle mura
nemiche; esistevano anche i doppi cannoni, pezzi dal metallo ancora più spesso da usarsi
naturalmente anch’essi nella guerra d’assedio. Le colubrine servivano a tirare lontano.

Pezzi incamerati o incampanati.

Mezzo cannone leggiero 24 12.


Quarto cannone leggiero 12 14.
Ottavo cannone leggiero 6 16.
Mezzi ottavi (‘pezzetti’) da reggimento 3 18.

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I suddetti pezzi leggeri o da campagna, categoria di cannoni nata ai tempi della Guerra dei
Trent’anni, erano pezzi dal metallo più sottile per facilitarne il trasporto, ma non così sottile da
renderli simili ai cannoni petrieri; insomma erano un ritorno ai cannoni più leggeri del
Rinascimento, ma, perché non si fosse costretti a dover ritornare anche alla più debole polvere
pirica per essi si era usata in quei ormai lontani tempi, avevano di conseguenza le sole culatte
rinforzate perché fatte a camera o a campana. Erano dunque questi cannoni che si
adoperavano nelle battaglie campali o per l’offesa di piccoli posti fortificati sia perché erano di
più agevole trasporto sia perché dovevano solo colpire bersagli deboli e a distanza ravvicinata,
perlopiù uomini e cavalli o al limite fortini e ponti di legno, campanili o altre deboli costruzioni
civili; si dava loro una carica di polvere equivalente generalmente a un terzo del peso della
palla, specie se adoperati per sparare patrone o cartocci, ossia involucri di mitraglia di cuoio o di
carta reale (‘carta forte’), o talvolta anche alla metà, in caso di palla di ferro; ma infine solo a un
terzo della metà, se adoperati per sparare solo una granata reale, ossia una granata grossa non
da mano. Con pezzi molto piccoli, come i suddetti pezzetti da tre di palla di ferro, essendo essi
sempre rinforzati, si potevano sparare, volendo, anche palle di piombo, aumentando però di
quasi il 50% il peso della carica di polvere che si sarebbe data con quella di ferro. Naturalmente,
alleggerire le bocche da fuoco per renderle adatte all’uso da campagna si poteva ottenere non
solo assottigliandone il metallo, ma anche diminuendone in alternativa le dimensioni ed è quello
che realizzò presumibilmente il generale tedesco conte Philipp von Mansfeld (1589-1657), cioè
un cannone incampanato e rinforzato di calibro 12, dalla lunghezza di sole 10 bocche, dal peso
di 1.680 libbre, dalla cassa lunga solo 20 bocche, dalle ruote alte 14, dalla carica di 6 libbre di
polvere da 5-asso-asso, trainabile da una sola coppia di buoi oppure da soli tre cavalli da tiro,
capace di 80/90 tiri al giorno, una bocca da fuoco che in Italia era conosciuta come masfelto o
masfeltino (A. Porroni, op.cit. L. V, pp. 302-304).
C’erano poi anche in queste guerre i suddetti cannoni petrieri, pezzi dunque anch’essi
generalmente incamerati, lunghi solo dalle quattro alle otto palle, ora però per la maggior parte
di ferro e più piccoli di quelli che si erano adoperati nel passato e che non tiravano più semplici
palle di pietra dalle 12 alle 48 libbre, proiettili cioè utili solo nella guerra navale, bensì lanciavano
palle roventi, bombe (‘dette anche granate reali’), palle di materie illuminanti per scorgere le
attività notturne del nemico, ma soprattutto si riempivano sino alla bocca di agglomerati di
mitraglia - di pietra di ferro - e di materie incendiarie di vario tipo detti (palle di fuoco), a seconda
dell’involucro e del contenuto, tonelletti, (is)cartocci, scuffie, lanterne, sacchetti ecc. In ogni caso
però il peso del proiettile, di qualsiasi dei suddetti tipi fosse stato, non doveva eccedere quello

318
della palla di pietra che avrebbe dovuto sparare. Non avevano pertanto una linga gittata e
s’usavano pertanto, oltre che nella guerra marittima, nella difesa delle piazze contro gli approcci
degli assedianti.
Di questo secondo genere di artiglieria (terzo, nel caso della precedente classificazione)
facevano parte anche i mortari (‘mortai’), cioè dei pezzi cortissimi di ferro o di bronzo con
l’anima incampanata incassati in affusti privi di ruote in quanto non dovevao rinculare. Essi
sparavano a tiro d'arcata e nememno loro più semplicemente palle di pietra grosse dalle 50 sino
alle 500 libbre, a seconda della loro grandezza, o gruppi di sassi per rovinare le istallazioni
militari e le case delle città assediate o palle di ferro infocato per appiccare incendi, come
avevano fatto i loro antenati trabucchi, bensì ora bombe o granate reali e fuochi artificiali, ossia
involucri di materiali incendiari di vario genere e altri esplosivi quali soprattutto le temute
carcasse; caricati in media con due libbre di polvere, quelli francesi, che erano i più potenti,
avendo o una campana fatta quasi a camera, ossia dal diametro di bocca decisamente più
piccolo di quello dell’anima soprastante, oppure una vera e propria camera cilindrica con il
fondo leggermente concavo, raggiungevano comunque una gittata massima che non superava
le 150 tese francesi, ossia meno di 300 metri, il che significava che le batterie di mortari
dovevano essere pericolosamente poste a poca distanza dalle postazioni nemiche,
inconveniente che aveva di conseguenza già portato all’invenzione, oltre che degli obici, di cui
diremo, anche di mortari incamerati di nuovo tipo, e infatti in quel secolare terreno di scontro tra
i due principali potentati cristiani che fu la Fiandra, i francesi se ne facevano fondere con
camere a forma di pera, ma con la parte più stretta in alto così rovesciando il principio della
campana, la quale infatti, come già sappiamo, era invece svasata in alto, e ottenendo in tal
modo gittate anche di 700 tese, mentre gli spagnoli addirittura raggiungevano le 1.800 con
camere concave, le quali potevano così contenere quantità di polvere molto maggiori. È il
Surery de Sajnt Remy che ci ha lasciato queste memorie, ma non ha specificato se questi
mortari presentavano gli stessi inconvenienti dei cannoni con camera concava di cui presto
diremo.
I mortari fatti precipuamente per tirar bombe (fr. mortiers à bombes) erano più corti degli altri di
tipo più vecchio, cioè di quelli fatti per lanciare grosse pietre o proiettili composti di materie
principalmente incendiarie, in modo da agevolare il bombardiero nell’accensione delle spolette;
avevano pertanto la canna lunga due calibri e ¼, la camera lunga ¾ e larga ½; erano spessi,
spessore della camera escluso, ¼, ¼ e 1/6; gli altri erano invece più lunghi tre calibri e ½,
affinché i proiettili arrivassero più lontano con un’arcata più ampia:

319
… e di questi se ne vedono in Germania di calibre libre 500 chiamati ‘Galasi’, poi che lui fu il
primo generale a praticarli per tempestare di sassi (Moretti).

Il suddetto revival delle sassaiole a tiro d’arcata è confermato anche da un avviso dell’8 luglio
1704 inviato da Casale, disgraziata piazzaforte che a ogni guerra non faceva altro che passare
da un assedio all’altro, da un’occupazione all’altra, e che allora era assediata dai gallispani del
duca di Vendôme:

… e, perché il governadore della piazza fa caricar’i mortaj con sassi in vece (a guisa’) di
bombarde, ha il duca di Vandome preso ancora a far l’istesso per pagarlo del medesimo
denaro…

Il Montecuccoli riteneva sufficiente averne nel treno d’artiglieria dell’esercito un paio piccoli da
100 libbre, aumentabili però a sei nel caso si dovessero formare batterie d’assedio. Poi,
nell’ultimo quarto del secolo, essendone stati inventati tipi non grandi, ma molto più potenti,
i quali lanciavano con maggior arcata - e quindi a maggior distanza - proiettili fino a 130 libbre di
calibro, queste armi erano divenute molto più esiziali; i francesi soprattutto, come abbiamo già
ricordato, dai primi anni Ottanta del secolo avevano raggiunto con batterie di mortari da bombe non
più incampanati bensì incamerati - ben descritti per esempio dal Surirey de Saint Remy- una
particolare potenza distruttiva e ben lo sapevano città come Genova, Lussemburgo, Bruxelles,
Mons e altre che avevano dovuto sopportare i loro spaventosi bombardamenti a base di bombe,
carcasse e palle incandescenti. Di questi non daremo le misure perché nei testi transalpini
dell’epoca si trovano non espresse in calibri bensì in piedi e pollici francesi e quindi dovremmo
toccare anche l’argomento delle equivalenze di tali misure con quelle in uso in Italia e in
Spagna con probabile poco interesse del nostro lettore; diremo solo che la loro camera era
cilindrica ma col fondo leggermente arrotondato.
Però, mentre, come abbiamo detto, i napoletani sperimentavano ora per la prima volta - e quindi
con molti anni di ritardo rispetto ai francesi - questi mortari incamerati da bombe, i transalpini già li
avevano nel frattempo ulteriormente sviluppati sostituendo alla suddetta camera cilindrica una a
forma di pera, con l’estremità più stretta verso l’alto, ossia nel concetto opposto dei pezzi
incampanati perché si era costatato che con una bocca della camera più stretta invece che
più larga, l’esplosione della polvere aveva un effetto molto più violento e quindi le gettate delle
bombe molto più lunghe; gli spagnoli, avevano dal canto loro subito cercato di restare
all’altezza esasperando il predetto concetto e avevano di conseguenza introdotto mortari da

320
bombe con camera concava, detta appunto dai francesi alla spagnuola, innovazione che
permetteva l’uso di una quantità di polvere superiore di circa il 50% e tiri di gittata anch’essa circa
doppia. I mortari francesi di nuovo tipo infatti lanciavano, con 45 gradi d’elevazione, una bomba a
circa 700 tese ed erano quindi adatti, come quelli di vecchio tipo incampanati, a bombardare una
piazza da vicino, mentre quelli spagnoli con camera concava con la stessa elevazione
raggiungevano dalle 1.200 alle 1.800 tese, a seconda della quantità di polvere che poteva
contenere la loro camera, e potevano quindi bombardare da più lontano.
Il 2 settembre 1693 nella piana d’Ivry i francesi provarono diversi nuovi piccoli mortari di un
tipo inventato da un balistico fiorentino, certo sieur Petri, il quale, molto più leggero dei mortari
tradizionali e usabile con piccole quantità di polvere fina, tirava bombe e granate alle stesse
distanze di quelli più grossi e pesanti tradizionali; inoltre nello stesso tempo necessario a sparare
un colpo con questi ultimi se ne sparavano tre con quelli. I risultati furono dunque apprezzati dagli
esperti francesi che assistevano a quelle prove e l’unico dubbio che manifestarono fu la tenuta
di quei mortari così leggeri, cioè la loro durata; non sappiamo come poi andarono le cose, ma,
certo a vedere i piccoli e sottili mortai in uso oggi sin dalla IIa Guerra Mondiale, si può pensare che
il detto Petri aveva intrapreso una giusta strada.
A proposito dei proiettili che si lanciavano con i mortari, diremo che le bombe o granate
reali erano grosse palle cave di ferro, piene di polvere esplosiva e mitraglia minuta, e differivano
dalle granate da mano solo per esser quelle più grandi e per esser spesso queste non di ferro ma
di vetro; ma i proiettili senza dubbio più temuti erano le carcasse (o anche carcassi; in fr. anche
balles à feu), grossi proiettili composti fatti per appiccare incendi nelle città assediate e che, entrati
in uso generale dopo la metà del secolo, avevano in effetti nell'artiglieria preso il posto di vecchi
e meno efficaci proiettili similari detti tonelletti e lanterne; erano evidentemente così chiamate
perché erano involucri sostenuti da una struttura di cerchi di ferro a forma di ‘gabbia’ ovoidale,
forma che ricordava appunto la gabbia toracica (‘carcassa, carcame’); contenevano un
aggregato innescato generalmente e sostanzialmente fatto di polvere da sparo granita, pece
nera, piccole granate e fondi di canna di moschetto caricati di palle di piombo. In verità però,
usate solo per una ventina d’anni, verso la fine dello stesso diciassettesimo secolo le carcasse
furono dismesse a favore delle semplici bombe e i motivi furono molteplici; innanzitutto la loro
fattura richiedeva molto lavoro, il che le rendeva sensibilmente più costose delle bombe; il loro
effetto era sì più distruttivo di quello delle bombe, ma anche più incerto, perché la loro struttura
le faceva piroettare nell’aria e quindi troppo spesso mancavano il bersaglio; infine anche
troppo frequentemente esplodevano in aria prima di arrivare a terra.

321
In materia invece di granate da mano, il Montecuccoli ricordava che durante l’assalto svedese
di Copenhagen del 1658 il re di Svezia Carlo X, uomo di ottima preparazione e pratica militare,
aveva fatto usare una sua invenzione, cioè le faceva lanciare col moschetto, attaccate all'estremità
di una bacchetta infilata nella canna; tra Seicento e Settecento si useranno nella guerra
marittima, specie in quella mediterranea anche bottiglie di vetro incendiarie (fr. bosses), le quali
non sono quindi, come si crede, una molto più recente invenzione del russo Molotov.
Non era facile controllare il tiro ad arcata dei mortari e infatti così ne scriveva il Moretti, però
prima che i francesi, come abbiamo appena detto, ne introducessero di molto migliori:

I tiri del mortaro vanno per lo più fallaci, or più lunghi or più curti del bisogno, e le bombe or
creppano in aria or doppo il colpo tardano l’effetto, che danno (pertanto) tempo al nemico di
ritirarsi overo di soffocarle…

Alcuni esperti di balistica, quali il Moretti ed altri, facevano distinzione tra mortari e trabocchi o
trabucchi, chiamando col primo nome quelli che avevano gli orecchioni in corrispondenza della
gengiva, ossia dell’inizio, della camera e con il secondo quelli che l’avevano invece all’estremità
della culatta, ossia dell’intera canna, e di conseguenza spesso, sparando a qualche maggior
elevazione, a causa di tale posizione degli orecchioni, si rovesciavano all’indietro, dal che quindi
il verbo trabuccare, oltre a quello di ‘bersagliare con trabucchi’, aveva assunto anche il
significato di ‘rovesciarsi; ma si trattava di una pura opinione personale e perlopiù i due termini
erano usati in sinonimia, come spiegava il Montanari nel suo Manualetto de’ bombisti (pp. 13-
14) pubblicato nel 1690. In realtà ai tempi che stiamo qui raccontando si era ormai preferito un
terzo tipo di mortari, cioè dalle canne tenute non più in tradizionali casse, dove bilicavano sugli
orecchioni, bensì inzoccate quasi in verticale.
Incampanati restavano invece i petardi e gli organi; i secondi, antesignani in piccolo delle
katyusha russe, erano pezzi a più canne di moschetto poste in parallelo, talvolta anche a braga
e mascolo, ossia con il suddetto tipo di retrocarica molto usato nei due secoli precedenti, erano
montati su una cassa a due ruote o su un cavalletto e si sparavano con una sola miccia
serpeggiante che li collegava, ma erano pezzi più teorici che pratici e infatti il Surirey de Saint
Remy ne ha raffigurato uno che non aveva visto operativo ma solo conservato nel Magasin
Royal des Armes sito nella fortezza della Bastille a Parigi, la quale nel 1789 fu appunto assalita
non perché fosse davvero molto odiata dai parigini ma in quanto i rivoltosi volevano impadronirsi
delle armi in essa custodite.

322
In sostanza, le bocche da fuoco dovevano essere leggere in campagna e più pesanti e potenti
negli assedi, senza esagerare né in un senso né nell’altro, perché i pezzi troppo pesanti
costavano e consumavano molto, erano scomodi da maneggiarsi e lenti da trainarsi e,
sparandoli, rovinavano le stesse proprie istallazioni, cioè batterie, terrapieni, casse (‘affusti’),
piattaforme e cannoniere; d’altra parte quelli troppo leggeri facevano colpo debole, rinculavano
troppo, si riscaldavano eccessivamente falsando il tiro e talvolta persino scoppiavano. I turchi,
approfittando dell’esorbitante quantità della gente che costituiva i loro eserciti, trainavano
sempre in campagna anche pezzi molto pesanti e una quantità enorme di bagagli privati degli
ufficiali e dei funzionari, per cui poi i loro eserciti erano in genere costretti a viaggiare più
lentamente di quelli imperiali e a maneggiare più lentamente l’artiglieria in battaglia; in
compenso, non ostante la loro generale arretratezza nella preparazione e nell’uso dei fuochi
artificiali, le loro polveri piriche erano ottime perché composte sempre a regola d’arte. Un altro
settore in cui, a causa della loro mentalità poco razionale, essi restavano molto arretrati e
improduttivi era poi l’arte delle fortificazioni e infatti, quando ne conquistavano del nemico, a
meno che non si trattasse di quelle di città molto importanti e significative, ne spianavano buona
parte lasciando vaste aperture dappertutto e ciò sia perché nella loro mentalità la guerra era
soprattutto guerra campale sia perché le fortificazioni volevano numerose guarnigioni di soldati
a piedi, di cui loro, giannizzeri a parte, non disponevano perché, come abbiamo già detto,
intendevano il soldato soprattutto come uomo a cavallo; cionondimeno i giannizzeri erano ottimi
nella difesa delle piazze perché generalmente abilissimi bersaglieri. Un altro pregio dei turchi
era invece la gran abbondanza di vettovaglie a disposizione dell’esercito, dovuta sia all’ottima e
meticolosa preparazione delle riserve di cibo sia alle indiscusse contribuzioni di tutti i villaggi
sudditi che l’esercito incontrava, buona volontà dovuta non solo alla paura delle immediate
ritorsioni ma anche molto al vedersi sempre tutto subito pagato in contanti, non essendo mai la
Gran Porta a corto di denaro, correttezza invece questa, con qualche eccezione per quelli
francesi, generalmente sconosciuta agli eserciti cristiani, a cui paghe e forniture di viveri erano
spesso lesinate e sempre sporadiche e che di conseguenza in tempo di guerra erano costretti
perlopiù a confiscare quando non anche a rapinare; le cose poi peggioravano ulteriormente e
drasticamente quando gli eserciti avevano a che fare con popolazioni nemiche, perché in tal
caso si provocava addirittura la fuga generale dei contadini e uno stato di desolazione e
depauperazione delle campagne che poi durava per diversi anni anche dopo la fine della
guerra; gli ottomani in questo caso, avendo con loro appunto sempre tante provviste, non
avevano generalmente bisogno di depredare le campagne del nemico e quindi addirittura le

323
bruciavano e ne distruggevano villaggi e poderi per impedire ai soldati cristiani di trovare cibo. Si
aggiunga la grande parsimonia dei soldati turchi nel mangiare e nel bere e nel vestire; nei loro
eserciti, a similitudine di quelli degli antichi spartani, si mangiavano le cose più semplici ed
economiche e i giannizzeri, i quali costituivano il loro nerbo, erano abituati sin da piccoli a fare
un solo pasto al giorno al tramonto; innanzitutto si cercava di far provviste di riso e non di farina
perché quello non aveva bisogno né di forni né di macine come questa e non si guastava presto
come il pane, il quale per questo motivo aveva bisogno di essere trasformato e conservato sotto
forma di biscotto. Inoltre, come si sa, poiché la religione vietava ai mussulmani di bere sia il vino
che la birra, essi non dovevano di conseguenza impegnare tanti traini di carri e animali per
portarsene dietro grandi quantità come dovevano fare invece i viziosi cristiani, i cui stomaci non
erano allora abituati a ricevere acqua, anzi ancora un paio di secoli fa, prima che cioè si
cominciassero a diffondere in Europa più sobrie e salutari abitudini americane, si pensava che
berla facesse male e che andava fatto eccezionalmente solo in mancanza delle suddette
bevande alcoliche.
Anche i francesi, come gli imperiali, avevano abbandonato le complesse classificazioni
tradizionali dell’artiglieria e uscivano dalla Guerra dei Trent’anni limitandosi a quella seguente:

Cannone da 48 libbre (poi da 33 e ⅓)


Bastarda da 36
Mezzo-cannone o colubrina da 24
Cannone leggero da 24
Moiana da 24
Colubrina straordinaria da 16 e ½.
Falcone da 10
Falconetto da 5.

Un cannone da 48 poteva tirare una decina di colpi l’ora e un’ottantina al giorno con una carica
teorica di 24 libbre di poudre commune o poco di più (teorica perché tale ‘polvere comune’
ormai, come presto vedremo, non più si usava) e una gittata di punto in bianco, cioè quella del
tiro orizzontale, di sei o settecento passi, quindi all’incirca di mille/milleduecento metri odierni,
mentre con elevazione si potevano superare i milleduecento passi ; occorrevano venti cavalli
per trainarlo e una carretta tirata da quattro cavalli poteva portare 36 delle sue palle; per il suo
servizio servivano due canonniers (‘artiglieri’), tre chargeurs (‘caricatori’) e 30 pionniers
(‘guastatori’). Comunque, i cannoni più trasportati erano quelli da 24 perché ora i più usati per
battere le piazze nemiche; anche con un pezzo da 24 si potevano tirare dieci colpi l’ora, ma

324
sospendendo per un’ora ogni tre di fuoco per lasciarlo riposare e per rinfrescarlo
adeguatamente.
Tantissime altre bocche da fuoco molto difformi dalle suddette sia in calibro sia in spessore di
metallo sia per maggior lunghezza di canna, quali per esempio il dragone, il basilisco e la
sirena, in Francia non si usavano più, come c’informerà poi il Manesson Mallet nel suo trattato
del 1684, e quelli esistenti erano stati da tempo riciclati in fonderia su disposizione di Luigi XVI
per farne pezzi dalla lega più fine, ricca e moderna. La lega di bronzo regolamentare in Francia
era quella che voleva dalle 10 alle 15 libbre di stagno puro ogni cento di rame puro, ma si
usavano pure quelle fatte di venti parti di bronzo da campana ogni cento di rame oppure di otto
di stagno con dieci d’ottone ogni cento di rame. Si usava in quel grande paese tradizionalmente
misurare il peso del bronzo non in libbre, bensì in marcs, ossia in mezze libbre.
Usavano poi i francesi una serie di pezzi leggeri da campagna e da difesa di fortificazioni
secondarie, agevoli da trasportare e da maneggiare:

Colubrina a 16.
Colubrina bastarda da 8, lunga10 piedi.
Bastarda leggera da 8.
Pezzo da reggimento da 4.
Petriero a braga da 3.

Per questi pezzi si usava una carica di polvere che andava dalla metà a due terzi del peso
del loro proiettile. Con una successiva riforma (Gaya, Traité. 1678), evidentemente a seguito
di nuove vedute strategiche, fu data all’artiglieria francese un’impostazione più da uso di
campagna e di difesa di fortificazioni che da batteria e cioè la seguente:

Cannone da batteria da 33 e ⅓
Colubrina da 16 e ½
Bastarda da 7 e ½
Mediana da 2 e ¾
Falcone da 1 libbra e ½
Falconetto da 7 ottavi di libbra.

Il cannone da batteria e la colubrina da 16 e ½ manteneva il suo tiro orizzontale per circa 350
passi geometrici o tese di Parigi (qundi circa m. 620), la bastarda per circa 500 tese, la mediana
alquanto di meno, il falconetto 150, il falcone un po’ di più.
Verso la fine del secolo troviamo però l’artiglieria francese ordinaria di nuovo riformata e
reibasata ora sui seguenti pezzi (Surirey de Saint Remy):

325
Cannone di Francia da 33.
Mezzo-cannone di Spagna da 24.
Mezzo-cannone di Francia o colubrina da16.
Quarto di cannone di Spagna da 12.
Quarto di cannone di Francia o bastarda da 8.
Moiana (‘mediana’) da 4.
Falcone o falconetto da ¼ di libbra a 2.
Pezzo da 8 corto.
Pezzo da 4 corto.

Si fondevano però ora di due tipi e cioè o con la tradizionale anima tutta cilindrica oppure, in
base a nuova invenzione, con una camera della polvere che, a differenza delle camere classiche,
non era più stretta del resto dell’anima bensì più larga, di forma concava, per poter contenere più
polvere e permettere quindi tiri più potenti; infatti non per questo il metallo della culatta risultava più
sottile, anzi era più spesso perché questi pezzi si fondevano all’uopo con culatte più grosse, il
che non rendeva però questi pezzi più pesanti perché si facevano anche parecchio più corti di
quelli del vecchio tipo e quindi finivano invece per pesare sensibilmente di meno. Questo nuovo
tipo di bocche da fuoco si fondevano d’un modo in Fiandra e d’un altro un po’ differente in
Germania; in Francia il generale dell’artiglieria François Frézeau marchese de la Frézelière aveva
verso la fine del secolo fatto adottare un terzo modo e cioè pezzi con una camera di forma
oblunga per evitare due inconvenienti che questo nuovo tipo d’artiglieria presentava e cioè il
frequente andar in pezzi degli affusti e il rapido deterioramento della strombatura della camera,
ambedue dovuti alla maggior violenza dell’esplosione della polvere così rinchiusa nella camera
e inoltre usata in maggior quantità.
In marina s’armava d’artiglieria un vascello in relazione al suo tonnellaggio e alle funzioni che
gli sarebbero state assegnate, cioè se galera, se vascello di linea (‘da fronte di battaglia’) o da corso.
Francesi e svedesi avevano frattanto introdotto artiglierie navali di ghisa, lega di ferro e grafite più
dura del bronzo e quindi più fragile, ma ciò non ostante molto più adatta alle artiglierie
perché più resistente all’abrasione e soprattutto al surriscaldamento; per esempio nel 1657, oltre
alla già ricordata fregata francese Le Chasseur, vedremo La Reine, vascello anch’esso
francese, ma costruito in Svezia, il quale sarà equipaggiato con 237 uomini ed armato con 30
cannoni appunto di ghisa e 2 di ferro. I francesi però, a differenza di altre nazioni, non
ritennero vantaggioso l’uso della detta nuova lega anche nella guerra di terra. Ecco poi un
interessante avviso di Foligno del 3 giugno 1692, il quale ci segnala uno dei primi esempi di
artiglieria da montagna:

326
Torino: In questi arsenali si fabricano cannoni in due pezzi di libre 15 di palla, quali con facilità
possono essere portati sopra le montagne da soli 4 muli.

Era dal Quattrocento che non si erano più fabbricati cannoni in più pezzi ed è infatti proprio da
quell’uso medievale che il nome ‘pezzi’ era divenuto sinonimo di bocche da fuoco. Nel 1686 si
era sentito a Napoli per la prima volta il nome obizzi (td. Haubitzen; fr. obus; oggi Hauwitzer,
‘obici’) e ciò a proposito del secondo assedio di Buda allora in corso, dove queste nuove bocche
da fuoco avrebbero avuto un successo addirittura risolutivo; infatti, il Filamondo, laddove narra
le imprese militari del napoletano Francesco Piccolomini d’Aragona principe di Valle, il quale a
quell’assedio partecipò, così ne scriveva:

Irreparabili ruine scagliava su la città il celebre Antonio Gonzales spagnuolo da certi cannoni
che di proprio ingegno fabricò e chiamò ‘haubizzi’, le cui palle, dette ‘angeli’ – o più veramente
‘demonii’ – cagionavano sterminio maggior di una bomba.

Di questo Antonio Gonzales, benché celebre ai suoi tempi, oggi poco si sa, forse soprattutto
perché, come leggiamo nell’opera del de Salas, il suo trattato Arte tormentaria, rimasto
manoscritto, andò perduto dopo la sua morte; lo stesso predetto autore aggiungeva che egli fu
prima gentilhuomo (‘ufficiale’) dell’artiglieria a Napoli e poi tenente generale dell’artiglieria dei
Paesi Bassi, mentre nel 1690 il Bizozeri scriveva che questo rinomato ingegnere militare era
passato dal servizio francese a quello imperiale e che nell’inverno del 1685 aveva diretto la
produzione di un’ingente quantità di bombe, carcasse e altri fuochi artificiali offensivi di sua
progettazione da adoperarsi nella nuova campagna anti-ottomana che Leopoldo I stava
quell’anno approntando; ma delle cosiddette innovazioni tecniche pirobalistiche che il de Salas
gli attribuiva qualcuna non può esser vera, per esempio lo spostamento degli orecchioni dei
mortari, e qualche altra e poco chiara; d’altra parte, purtroppo, anche da quanto suddetto dal
Filamondo, non molto si capisce; egli dovrebbe dunque aver inventato, dopo la Guerra dei
Trent’anni, un tipo di bocca da fuoco d’assedio intermedio tra il cannone e il mortaro, appunto
gli obici o cannoni da bombe, i quali tiravano infatti bombe con tiri di volata, cioè al massimo ai
sei punti squadra o ai 45 gradi che dir si volesse, e non ad arcata, ossia oltre i sei punti di
squadra, come invece facevano i mortari. Ma c’era un altro napoletano, abbastanza precedente
al Filamondo, che lo smentiva, e cioè il Martena, il quale nel suo trattato del 1676, alle pp. 14-
16, già descriveva questa stessa nuova invenzione e ne aggiungeva anche una figura più

327
avanti, indicandola come Figura num. 8; leggiamo però ora cosa scrisse degli obici il Surirey de
Saint Remy a proposito della battaglia di Neerwinden o Landen, avvenuta il 29 luglio del 1693:

Alla battaglia di Nervinde, dove l’armata del re comandata dal defunto duca di Lussemburgo
sconfisse quella degli alleati rovinosamente (‘à platte-coûture’), oltre i 77 pezzi di ghisa che i
nemici lasciarono sul campo nella loro fuga, si trovarono 8 mortari chiamati ‘obici’ (‘obus’), che
s’usavano allo stesso modo dei cannoni; se ne servono gli inglesi e gli olandesi. Ce n’erano due
inglesi fatti allo stesso modo e sei olandesi anch’essi fatti alla stessa maniera (om.) Quelli
inglesi hanno il calibro più piccolo, sono di bronzo più spesso (om.); pesano 1500 (libbre), gli
olandesi non ne pesano che 900 o press’a poco.

Ecco innanzitutto la novità della suddetta ghisa presente anche nell’artiglieria terrestre. Per
quanto riguarda poi i suddetti obici, si trattava quindi di corti cannoni incamerati e rinforzati che
potevano tirare pesanti bombe con gittate molto più lunghe di quelle, ovviamente invece molto
brevi, ottenibili con i mortari; infatti con i normali cannoni tiri di tutta volata, cioè a lunga gittata,
con elevazioni quindi che raggiungevano anche i 6 punti di squadra, non erano possibili perché
il maggior sforzo avrebbe richiesto cariche di polvere maggiori del consentito, con il molto
concreto rischio cioè di far crepare le loro normali culatte. Il predetto Surirey non fa nessun
accenno al Gonzales, per cui ci sembra confermato che il detto balistico spagnolo avesse avuto
probabilmente sì molto a che fare con i primi usi degli obici ma non con la loro invenzione. Lo
stesso Surirey riporta poi le misure e le figure di due altri simili obici presi agli inglesi quando la
loro flotta, dopo il secondo poco riuscito bombardamento di Saint Malo, avvenuto questo
nell’agosto del 1695, abbandonò davanti a Dunkerque la galeotta che quelle due innovative
bocche da fuoco armavano; le illustrazioni mostrano due cortissimi cannoni, uno con camera
cilindrica e uno con camera a forma di pera, posti però in batteria a 45 gradi d’elevazione, cioè a
un alzo da mortari. Seguono poi le figure e le misure di altri due simili obici presi
La polvere pirica era stata nella prima metà del Seicento di due tipi e cioè la 5.asso.asso e la
6.asso.asso (dove asso stava per uno); la prima, commercializzata in Francia come polvere fina
– ma in Spagna come entre-fina (‘semi-fina’) - e era composta da una mistura di cinque parti di
salnitro, una di carbone e una di solfo, la seconda, detta in Francia polvere finissima – ma solo
fina in Spagna - da una di sei parti di salnitro, una di carbone e una di solfo; la prima, la meno
potente a causa del minor quantitativo di salnitro, si usava per le grosse bocche da fuoco, la
seconda per quelle molto piccole, soprattutto moschetti, pistole e carabine, le cui canne, rigate
e in proporzione fatte con maggior spessore di metallo, sopportavano di conseguenza cariche
più potenti. Sino all’epoca della guerra deiTrent’anni si era usata la prima per le piccole bocche
da fuoco e, per le grandi, la ormai obsoleta cinquecentesca 4.asso.asso, polvere quindi più
328
debole, detta in Francia poudre commune e in Spagna invece pólvora de munición, però tuttora
adatta a quelle vecchie artiglierie dallo spessore di metallo più sottile che, sfuggite alla rifusione,
ancora potessero trovarsi a difesa di qualche fortificazione, mentre nel secolo seguente, a
motivo dei progressi frattanto ottenutisi nella metallurgia e nella fondizione dell’artiglieria, si
potrà usare la 6.asso.asso anche per le grandi bocche da fuoco con conseguente aumento
della potenza balistica. Nella seconda metà del Seicento la potenza della polvere fu
generalmente ancora aumentata e verso la fine dei tre primi quarti del secolo il de Gaya diceva
la polvere d’artiglieria usata allora in Francia composta di 8 parti di salnitro, una di solfo e una e
un quinto di carbone di nocciolo o di salice, bagnandosi poi la miscela così ottenuta con aceto
forte o acquavite; in Portogallo, dove i fonditori dell’artiglieria erano soprattutto lorenesi e
tedeschi, come testimonia nel suo trattato il Manesson Mallet, in questi anni a cui siamo giunti si
usava sostanzialmente e unicamente la stessa predetta polvere francese per tutta l’artiglieria e
cioè ogni cento libbre 77 di salnitro, 11 ed ½ di solfo ed 11 ed ½ di carbone. Oltre alla suddetta
differenza di proporzioni le polveri differivano anche per la loro grana, grossa o fina a seconda
di quanto fossero state lavorate, cioè pestate e mescolate; nel 1685 il suddetto marchese de la
Frézelière, in seguito a prove all’uopo fatte fare in sua presenza con un telo bianco posto sul
terreno sotto e avanti la bocca del cannone, aveva definitivamente costatato un inconveniente
che d'altronde era già ben conosciuto e cioè che quella a grana grossa, detta dai francesi
poudre à canon, risultava quasi sempre e per qualche quantità espulsa dalla bocca non
bruciata, mentre quella fina bruciava interamente e quindi con un effetto ben più violento e
efficace; inoltre rimanenze di polveri non del tutto ben bruciate e talvolta ancora semi-accese
nella canna del cannone provocavano spesso incidenti gravi e mortali perché potevano
accendere improvvisamente la nuova carica di polvere che l’artigliere stava inserendo per
effettuare un successivo tiro e ciò succedeva soprattutto nella concitazione del combattimento,
quando cioè poteva capitare che non si avesse avuto il tempo di ripulire bene l’interno della
canna prima di sparare di nuovo. Il marchese pertanto ordinò che da quel momento sia per i
cannoni sia per i moschetti ordinari s’usassero solo polveri a grana mediana e mai più quelle a
grana grossa.
L’artiglieria delle galere era quasi del tutto concentrata all’estrema prua e quindi esse dovevano
in battaglia offrirsi al nemico sempre di fronte, tranne quando volessero abbordarlo, perché
allora era molto più conveniente - ma non sempre - presentargli il fianco; i pezzi di prua erano
andati un secolo prima da sette a nove, poi, col progredire dell’efficienza e della potenza
dell’artiglieria, erano diminuiti sempre di più, fino a diventare generalmente quattro (due

329
bastardi, cioè grossi, e due più piccoli) alla fine del Seicento e anche tre nel secolo successivo.
In effetti l’artiglieria stava diventando troppo potente perché le leggere e fragili galere potessero
continuare a farle da piattaforme; alla battaglia che avverrà nelle acque di Malaga il 24 agosto
1704, nella quale i franco-spagnoli avranno la meglio sugli anglolandesi, ma riporteranno
anch’essi grossi danni, soprattutto la perdita di tre galere e tra di esse la stessa Capitana del
duca di Tursi:

… che si era aperta per mezzo per l’impeto delle tante cannonate che avea tirate (Avvisi di
Napoli. B.N.Na. Sez. Nap. Per. 12O.)

Ci fermeremo però qui in questo discorso sull'artiglieria del tempo e non approfondiremo quindi
né l’argomento di quella di marina in generale né quello degli stati maggiori né delle casse
(dette anche letti e carri) e ruote né l’esame, assetto e caricamento dei pezzi né degli
orecchioni, gioie (‘cornici’), gengive, foconi, cartigli e bassorilievi ornamentali né le fonderie, le
leghe di stagno, rame e ottone, le proporzioni tra quantità di metallo e calibri del pezzi né i traini
di cavalli e sollevamenti dei pezzi né l’addestramento degli artiglieri né mire ed elevazioni di tiro
né cazze, scartocci, stivadori, cavafieno, lanate o scovoli, leve e insomma tralasceremo tutto il
lavoro ordinario degli uomini addetti a queste armi (it. bombardieri, sp. artilleros, fr. cannoniers),
perché per tanto occorrerebbero ancora così tante pagine che si perderebbe quindi
definitivamente di vista il nostro tema principale. Anche in questo caso, al lettore eventualmente
interessato all’argomento, possiamo solo consigliare di attendere pazientemente la nostra
prossima opera sull’arte della guerra al tempo della Controriforma, poiché in realtà da allora, per
quanto riguarda il maneggio dell’artiglieria, poche erano le cose sostanzialmente cambiate.
Ma torniamo ora alle nostre cronache e precisamente alla fine di settembre di questo 1692,
quando si seppe a Napoli che, nella guerra che i veneziani conducevano allora in Canea, era
morto al loro soldo il calabrese fuoruscito barone di Montebello, dei cui gravi reati abbiamo più
sopra già detto; evidentemente aveva avuto già in precedenza rapporti con Venezia, repubblica
sempre pronta, come si sa, a fomentare e ad alimentare disordini nel Regno di Napoli. La sera
di martedì 28 dello stesso ottobre arrivò a Napoli l'armata di Spagna, formata da 17 velieri e da
due o tre brulotti, e la mattina seguente il viceré si portò a bordo del vascello reale a
complimentare Pedro Corbete, comandante generale di detta armata, dieci vascelli della quale,
circa 20 giorni dopo l'arrivo, si trasferirono a Baia per i lavori di concia e spalmatura, mentre i
rimanenti sette sarebbero stati, per gli stessi lavori, trattenuti a Napoli nella darsena e in altri
approdi protetti del porto. Le milizie che vi si trovavano imbarcate furono alloggiate a Pozzuoli
330
nel palazzo detto di don Pietro - forse perché una volta di esso poteva disporre il famoso viceré
Pedro de Toledo, in case private e in molte baracche fatte per l'occasione; dettero mostra nel
mese successivo nella stessa Pozzuoli (con gran disciplina, che non se ne è inteso sinora un
minimo disturbo, e pontualmente pagata e fatta vestir di nuovo...) Evidentemente la precedente
negativa esperienza del 1675 era servita a far prendere misure preventive efficaci contro i
disordini che potevano nascere dalla presenza in regno di questa gran armata e dei suoi
turbolenti equipaggi.
Frattanto nell'arsenale di Napoli proseguiva la costruzione di tre nuove galere, le quali dovevano
sostituirne altrettante della squadra ormai vecchie, e si diceva che sarebbe stato trasformato in
vascello da guerra un legno che si trovava nel porto e che era detto la contro-carcassa, forse
perché dotato di contro-fasciame.

(Napoli, 18 novembre:) Si rifondono molti cannoni di smisurata grandezza per farli più piccoli e
accomodati al bisogno (A.S.V. Nun. Nap. 112).

Purtroppo, se ci sono stati conservati dal tempo così pochi pezzi d'artiglieria medioevali e
rinascimentali, ciò si deve proprio alla normale e secolare abitudine di rifondere le vecchie
bocche da fuoco, spesso enormi come quelli che nei secoli precedenti erano stati detti basilischi
o come alcuni obsoleti petrieri di cui si narrava, così grandi che in alcuni poteva addirittura
viverci un Diogene, in modo da poterne riutilizzare il metallo per la fondizione di pezzi più pratici
e moderni.
A seguito di viglietto vicereale del 28 novembre fu nel dicembre assegnato un partito del
vestiario per ben 2mila vestiti violeti, cioè del colore turchino usato per le fanterie regnicole, e
ciò significa che le leve militari proseguivano intensamente. Nella seconda metà di questo 1692
risulta poi servire nel Milanese un terzo napoletano comandato dal mastro di campo Ciarletta
Caracciolo, militare da noi già incontrato quando era ancora capitano di cavalleria. Nelle guerre
europee i fatti militari più significativi erano stati la vittoria navale inglese all’Aia, dove
l’ammiraglio Edward Russell aveva il 3 giugno sconfitto quello francese de Tourville, mentre il
30 giugno in Fiandra i francesi avevano preso Namur e poi il 3 agosto a Steenkerke il generale
francese maresciallo duca di Lussemburgo avrebbe respinto gli assalti delle forze collegate del
duca di Baviera, di Charles Thomas de Lorraine principe di Vaudemont (1670-1704), figlio
dell’ultimo governatore della Spagna a Milano, e di Guglielmo III de Orange, quest'ultimo giunto
alla testa degli inglesi solo sul finire della battaglia.

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1693. All’inizio di gennaio di quest’anno nel regno si reclutava per l'armata reale dell’ammiraglio
Pedro Corbete che, spartita tra Napoli e Baia, si trovava al raddobbo e si trattava sia di marinari,
essendone morti sull'armata di recente ben 300 soprattutto per eventi epidemici, sia di fanti
regnicoli, i quali erano destinati al ripristino del reggimento italiano, ossia napoletano, che era di
guarnigione sulla predetta armata, corpo che si trovava anch'esso molto diminuito per morti e
diserzioni; inoltre, sempre per l'armata spagnola, si mandavano a Baia molte provvisioni di
guerra e si disponevano su quella spiaggia alcune batterie di cannoni per difendere quei vascelli
alla concia da eventuali aggressioni dal mare.
In un documento del 16 gennaio che si trova all'Archivo General de Simancas il viceré conte de
San Estévan comunicava alla corte di Madrid quanto si stava facendo per l'armata in sosta nel
Napoletano, in particolare i lavori di carenamento a otto di quei vascelli e il pagamento del soldo
agli equipaggi. In quei giorni il viceré ordinava pure le provvisioni per lo Stato di Milano, specie il
denaro da inviare a quel governatore, il marchese de Leganés, a titolo di pane di monizione per
le soldatesche di stanza in Lombardia; infine dava commissione al consigliero del Collaterale
Joseph Pardo d’assumere tutte le necessarie informazioni sugli insoliti eccessi commessi a
Porto Longone dal sargente generale di battaglia Juan Manuel de Sotomayor, governatore di
quella piazza, un caso questo che merita senza dubbio qualche parola di più.
Già nel 1691 erano cominciate ad arrivare a Napoli lamentele e accuse a carico del Sotomayor,
il quale si rivelava sempre di più un piccolo Verre; egli infatti riceveva tangenti su tutte le attività
commerciali della piazza, sia sulle provviste e forniture che sulle vendite al dettaglio, faceva
nutrire la bassa forza di un pane pessimo, poco nutriente e mal digeribile, commetteva frodi
monetarie, scacciava i liberi mercanti per costringere i soldati a spendere o nella taverna
(spaccio militare) da lui controllata od, a prezzi maggiorati, in sei botteghe che gli versavano
puntualmente percentuali fisse mensili; conviveva scandalosamente con una prostituta, trattava
con arroganza e prepotenza sia i suoi subordinati sia i ministri regi inviati a porto Longone,
commetteva abusi di potere e violava i diritti e la giurisdizione del principe di Piombino, dissidio
quest'ultimo che aveva provocato persino la morte di due soldati. La sua qualità d’altissimo
ufficiale spagnolo fece sì che le accuse contro di lui, sebbene circostanziate, non gli
procurassero che un temporaneo richiamo a Napoli; ma, quando nella prima metà del 1692,
oltre alle vessazioni del Sotomayor, si cominciò ad avere notizia nella capitale di numerosi
decessi epidemici di soldati a Porto Longone, si mandarono colà anatomisti legali che
effettuarono autopsie e le loro conclusioni furono che i soldati morivano per un’infezione
agevolata dalla denutrizione conseguente alla pessima qualità del pane fornito dal partitario

332
scelto dal governatore e dall'omissione delle necessarie cure agli infermi. A questo punto, siamo
ora alla fine di questo 1693, il Sotomayor è imprigionato nel Castel Nuovo, carcere riservato ai
nobili e ai personaggi importanti, è processato, ma presto liberato, il 14 agosto 1996 finalmente
condannato alla sospensione dalla carica, a una forte ammenda e alla relegazione domiciliare;
ma le fortune napoletane di questo personaggio, anche se retrocesso a semplice mastro di
campo, non finirono qui, perché infatti solo alcuni mesi dopo la sua condanna, cioè nel marzo
1697, giungeranno lettere reali da Madrid che gli porteranno la nomina a castellano del Castello
di Sant'Elmo, nome questo che fu in origine Sant'Erasmo e spesso corrotto in Sant'Eramo,
Sant'Eremo, infine, derivandosi questo alla sincope tachigrafica Sant'Er.mo, in Sant'Ermo; ma
alla fine, in seguito alla contaminazione con l’uso degli spagnoli di chiamarlo con il loro San
Telmo (abbr. di San Antelmo), prevalse l’attuale Sant’Elmo.
Un documento milanese del 14 febbraio ci informa che era arrivata, forse a Finale o forse già in
Lombardia, un’altra compagnia di cavalleria smontata napoletana, questa comandata dal
capitano Gioseppe d'Ávalos figlio del principe di Troja e nipote di quello di Montesarchio, ma,
secondo il Filamondo, la partenza di questo corpo era avvenuta un paio di mesi più tardi e cioè
nell’aprile. All'inizio di marzo era ormai pronto il nuovo terzo di fanteria di 1.700 uomini da
inviare in Spagna e ne fu affidato il comando al mastro di campo Antonio Pappacoda dei principi
di Trigiano, il quale abbiamo in precedenza visto capitano di cavalleria in Lombardia; questo
corpo, vestito e armato di tutto punto, partirà per la Catalogna, portato da sette tartane, solo
domenica 19 aprile, essendo stato sino allora trattenuto a Napoli per mancanza di legni adatti al
suo trasporto:

Per compire le 18 compagnie inviate in Catalogna è stata presa a forza molta gente vagabonda
e inutile di questa Città e si è dato ordine di far il simile anco per il Regno (ib. 114).

Da un altro documento dell'Archivo General de Simancas, anch’esso di questo 1693, si


apprende che in effetti i 1.700 predetti nuovi fanti facevano parte di un piano di leva di 2.000
uomini, i quali, insieme con altri 700 soldati regnicoli che si trovavano allora nei Presidi di
Toscana, sarebbero dovuti servire a varie esigenze; cioè con loro bisognava, oltre a formare il
terzo suddetto per la Catalogna in sostituzione di quello levato da quelle parti per servizio
dell'armata reale di Spagna, inviare fanti a Milano in cambio di 100 dragoni testé ricevuti e di cui
ora diremo, fornire fanti alle galere del duca di Tursi, vascelli questi che, come abbiamo già
detto, erano tradizionalmente sempre andati guarniti di fanteria di marina napoletana e infine

333
usare il rimanente per i rimpiazzi del terzo napoletano che, anche questo da sempre, guarniva
l'armata spagnola dell'Oceano Atlantico.
La minaccia francese incombeva sempre sul regno e se ne ebbe un’altra prova giovedì 19
marzo, durante la Settimana Santa, quando la flotta dei transalpini, la quale era comandata dal
conte de Être e comprendeva 24 vascelli e tre palandre da gettar bombe, cercò di sorprendere
quella spagnola ferma a Baia per il carenamento, ma senza successo perché, ben
cannoneggiata da terra, fu costretta il giorno seguente a ritirarsi; in quest'occasione le principali
postazioni d'artiglieria della capitale, cioè la batteria sotto il ponte della Maddalena e il posto del
Carmine, erano state poste sotto il comando del duca d’Erchie Camillo di Dura. In seguito a
quest’episodio 4mila miliziani del Battaglione furono riuniti nei dintorni di Castell’a Mare, da
sempre uno dei bersagli più ricorrenti delle offensive marittime francesi nel golfo di Napoli.
In questa fine del secolo, mentre le fanterie della monarchia spagnola erano ancora suddivise in
tercios (sebbene quello spagnolo fisso di Napoli già dal 1692 nei documenti, precorrendosi i
tempi di non molti anni, si dice talvolta reggimento), le superiori unità di cavalleria erano ormai
definite stabilmente appunto reggimenti, alla francese, eccezion fatta per quella napoletana di
Lombardia, detta per lo più ancora trozo, ma forse solo per tradizione; la cavalleria poi nel suo
complesso si divideva ora in cavallos corazas, cioè i corazzieri, e cavalleria de dragones, nome
quest'ultimo che compare per la prima volta in connessione al Regno di Napoli proprio in questo
1693; ecco dunque una corrispondenza da Genova del 14 febbraio:

Le due galere qui rimaste della squadra del sig. duca di Tursi, già poste all’ordine per rendersi a
Napoli, mercordì passorno al Finale per levare (‘imbarcare’) 2 compagnie di dragoni venute da
Milano, a effetto di traghettarle a Napoli per introdurre in quel Regno questa sorte di milizia e la
forma di servirsene.

Infatti sabato 28 marzo, provenienti appunto da Genova, giunsero nel porto partenopeo le dette
due galere del duca di Tursi con 100 soldati detti dragoni, fatti venire dal viceré dallo Stato di
Milano a guardia delle marine del regno. Si trattava delle due compagnie dei capitani Prospero
Emyñas Calizano (46 uomini) e Pascual Motet (47 uomini) e troveremo in seguito il Motet di
nuovo impegnato in simili trasferimenti; questa missione a Napoli dei due capitani è annunciata
da una liberanza milanese del 31 gennaio precedente con cui si liquidava il relativo compenso
spettante ai due ufficiali. I dragoni in questione, arrivati smontati perché portati via mare, furono
forniti delle necessarie cavalcature in capo a tre settimane.
Strano che a Napoli questo nome di dragoni sembrasse esser dunque stato sino a questo
momento quasi sconosciuto, all’estero si parlava invece di dragons già dalle guerre di Piemonte
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del Rinascimento (1536-1559) e inoltre in Sicilia erano apparsi già nel 1675, come abbiamo già
visto. Eppure in effetti questa fanteria montata, annoverata in Francia infatti tra le forze di
fanteria, era un’invenzione italiana, trattandosi non d’altro che dei comuni archibugieri a cavallo
nati nel Cinquecento e di cui già parlava il Machiavelli quando proponeva di creare corpi di
scoppiettieri a cavallo; infatti, per esempio, nel Fascio 12 del fondo Filiazioni della Sez. Mil.
dell’Archivio di Napoli c’è un documento che registra l’attribuzione in data 21 gennaio 1702 al
cap. Joseph de Velasco del capitanato di una compagnia nel reggimento di cavallos
arcabuzeros dragones del col. Joseph de Armendariz e ciò perché quello si era trovato tra
coloro che il 23 febbraio 1701 avevano combattuto a Napoli contro i rivoltosi del Macchia. Il
primo importante impiego di questo tipo di cavalli leggieri - erano così chiamati sin dal Basso
Medioevo tutti quei soldati a cavallo che, qualunque armamento offensivo adoperassero, o non
indossavano armi difensive o le indossavano sottili, quindi non a prova d’arma da fuoco – era
stato appunto nelle guerre di Piemonte della prima metà appunto del sedicesimo secolo; ora,
cioè nella seconda metà del Seicento, le sole due novità erano che questi fanti a cavallo
usavano generalmente la nuova arma di cui abbiamo già parlato e cioè il moschettone invece
del vecchio archibugio, per cui si chiamavano in Francia anche moschettieri a cavallo, e che in
tutta Europa si era nel frattempo perlopiù adottato questo nome di dragoni, nome della cui
origine, come in tanti altri casi, si sono volute dare interpretazioni alquanto fantasiose.
Incominciamo col dire che draco-nis in latino non significa ‘animale mostruoso’ ma
semplicemente ‘grosso serpente’ e quindi per gli antichi romani un serpente boa, un pitone era
un draco. L’immagine di questo potente e spaventoso rettile fu usato spesso nelle insegne
militari e feudali (fiamme, stendardi, bandiere, gonfanoni, cornette, stemmi ecc.), specie a causa
del noto mito di Apollo che uccide a colpi di freccia il grande serpente Python, facendone quindi
un’impresa onorevole per un cavaliere e potendosi vedere ancora oggi, anche se vulgo
chiamato ’biscione’ già dal Cinquecento, nello stemma visconteo della città di Milano; invece il
‘drago’ animale fantastico, come lo intendiamo noi moderni, cioè un elefantiaco rettile crestato,
munito di zampe e vomitante fuoco dalla bocca, era nel Medioevo quello chiamato basilisco.
Secondo il Melzo specialità e nome sono d’invenzione francese e nacquero durante le guerre di
Piemonte della prima metà del Cinquecento, tesi che molto più tardi sarà sostenuta anche dal
de la Chesnaye des Bois, il quale aggiungerà che nel 1544, durante quelle guerre, fu il
maresciallo Charles de Cossé de Brissac se non a inventare, bensì a raggruppare per la prima
volta in regolari compagnie questa specialità e in tale occasione, concedendo sicuramente a
quelle di portare vessillo, ne avrebbe forse immaginato uno con l’immagine del dragone, per cui

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quei soldati sarebbero stati in seguito conosciuti essi stessi come dragons; ma il de la
Chesnaye in realtà a questo proposito opinava solamente, né si può dire che gli spagnoli
prenderanno questo nome dai francesi, cioè, come tante altre cose, al tempo delle ordinanze di
Filippo V, perché, come abbiamo appena visto, già lo usavano nel 1675. Noi però non siamo
mai per le interpretazioni letterarie o fantastiche della terminologia militare, preferendo invece
cercarne sempre di tattiche o al massimo di araldiche, e, riguardo ai suddetti dragoni, pensiamo
che il Melzo si sbagliò e che l’origine di questo nome non sia francese ma spagnola, perché ci
sembra più plausibile che quei soldati montati presero sì il loro nome popolare dalle insegne
che portavano, ma non perché queste rappresentassero draconi del lontano passato, bensì
perché si trattava molto probabilmente di quei vessilli che già nel Medioevo si chiamavano in
Spagna daragones, rappresentando in origine lo stemma d’Aragona e in seguito stemmi di
regni in generale (vedi per esempio la Crónica de D. Álvaro de Luna a p. 168.)
Ecco cosa scriveva dei dragoni il Montecuccoli nel suo da noi già spesso citato Aforismi dell’arte
bellica (1668-1673):

I dragoni non sono altro che fanti posti a cavallo, armati di moschetti leggieri, un poco più corti
degli altri, di mezze-picche e di spade per occupare con diligenza un posto, per prevenire
l’inimico a un passaggio - e perciò forniti di zappe e pale - e per porsi a cavallo in mezzo e nel
vôto dei battaglioni, per quindi tirar sopra gli altri, combattendo essi altramente per l’ordinario a
piedi.

La suddetta descrizione del Montecuccoli sarà confermata dal Guillet nel suo dizionario del
1678:

Dragons, sont des mousquetaires à cheval qui combattent tantost à pied tantost à cheval et qui
dans une bataille ou dans de grandes attaques, servent d’enfans-perdus et vont les premiers à
la charge… Cependant ils sont reputés du corps de l’infanterie par une ordonnance positive du
25 juillet 1665…

Il de Gaya così descriveva i dragoni francesi del suo tempo, cioè degli anni Settanta del
Seicento:

I dragoni, i quali combattono a piedi e a cavallo, sono armati di spada, fucile e baionetta, hanno
per insegna uno stendardo un po’ più grande di quello della cavalleria leggera e per strumenti di
guerra tamburi, pive e oboi; e, quando marciano a piedi, gli officiali portano la pertugiana
(‘partigiana’) e i sergenti l’alabarda.

336
Insomma usavano pressappoco lo stesso armamento e gli stessi strumenti musicali della
fanteria a piedi eccezion fatta delle pive invece dei pifferi. L’evoluzione tattica dei dragoni li
porterà poi man mano a essere sempre meno fanteria e sempre più cavalleria. Possiamo
ricavare l'armamento che portavano i predetti dragoni milanesi da quello di un reggimento che
nel dicembre 1685 il governatore di Milano, il già menzionato conte di Melgar, s’impegnò a
inviare, unitamente ad altri corpi, al servizio della Signoria di Venezia, perché se ne servisse
nella guerra che allora quella repubblica stava combattendo contro i turchi, cessione di
soldatesche a cui abbiamo già più addietro accennato; dunque l'armamento in questione
consisteva in un moschettone con baionetta, una pistola, spada e strumenti da guastatore;
quando marciavano a piedi i loro ufficiali portavano la partigiana e i sergenti l’alabarda come di
regola nella fanteria. Essi erano inoltre equipaggiati di tascapane, operando perlopiù lontano
dalle salmerie dell’esercito, e, invece di stivali, di scarpe guarnite di alti bottini, in modo da
poterseli togliere velocemente in caso ci fosse da operare smontati.
Nelle sue Instruttioni militari del 1692 l’Alimari così poi descriverà i dragoni del suo tempo:

Li dragoni (om.) cioè fanteria a cavallo, sono soldati a cavallo armati di moschetto, pistolla e
baionetta in vece di spada, che si mandano per occupar prontamente qualche posto, ove
mettono piede a terra, servendosi de’ loro cavalli per trinciera; sparato lo schioppo, l’armano,
bisognando, con la baionetta e, commandati di ritirarsi, rimontano a cavallo e ritornano con
celerità a’ loro posti. Questa specie di cavalleria per il suo molteplice uso vien al presente
creduta la più fruttuosa d’ogni altra.

Lunedì 20 aprile salparono le galere del duca di Tursi con 500 spagnoli destinati a Milano, i
quali, suddivisi in sette compagnie, sbarcarono a Voltri tra il 7 e il 9 maggio; ma poiché il viceré
aveva manifestato il suo malcontento a privarsi di questi soldati spagnoli, il re gli aveva in
cambio concesso di conferire 12 patenti di capitano per la leva in Spagna d’altrettante
compagnie di fanteria da portare a Napoli per il reintegro del terzo fisso, il quale allora contava
481 ufficiali e 5.000 soldati, quindi non pochi. In effetti non doveva essere cosa facile – e la
corte di Madrid ben lo sapeva - trovare nella ormai semi-spopolata Spagna uomini validi a
sufficienza per formare ben 12 nuove compagnie di fanti. Secondo il nunzio apostolico a Napoli
le galere dei particolari genovesi portavano invece 300 fanti regnicoli, ma, eccetto che costoro
non siano stati lasciati nei Presidi di Toscana, non risulta che fanti italiani siano stati poi sbarcati
in Liguria in quest'occasione e, d'altra parte, i dispacci napoletani dei nunzi peccano di frequenti
imprecisioni; è invece certo che alla fine di questo mese d'aprile nell'arsenale di Napoli si
attendeva a rispalmare la squadra delle galere del regno, le quali si diceva dovessero imbarcare

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alcune compagnie di nuova leva destinate alla Lombardia e infatti all'inizio del mese seguente
era in corso un arruolamento di 500 nuovo fanti. Secondo il Nicolini verso la fine di giugno un
contingente napoletano comandato da Diego de Benavides, figlio del viceré, sarebbe partito per
il settentrione, dove avrebbe poi partecipato alla campagna piemontese di quell'anno, ma di tale
partenza noi non abbiamo trovato traccia né nelle cronache né nei documenti d'archivio da noi
consultati. In questo tempo in Piemonte l'esercito francese del maresciallo de Catinat
sconfiggeva quello savoiardo comandato ora da Eugenio di Savoia, cugino del duca, nella
battaglia di Marsiglia; i francesi proseguivano anche la guerra nel Palatinato, da loro per
l'ennesima volta devastato, dove distruggevano nuovamente la disgraziata città di Heidelberg.
C'è da chiarire il perché di queste continue osmosi di milizie tra un possedimento e l'altro della
Spagna; la politica imperiale spagnola tendeva a evitare la formazione di eserciti nazionali nei
suoi possedimenti, eserciti che avrebbero un giorno potuto scendere in campo non più da amici,
bensì da nemici Ogni esercito di quella corona doveva quindi essere sovranazionale, formato da
soldatesche spagnole, valloni, italiane e completato da corpi mercenari svizzeri e alemanni,
specie grigioni e tedeschi cattolici; tra tutti somma preminenza toccava però ai soldati spagnoli,
perché appartenenti alla nazione dominatrice e perché erano i più fedeli, tolleranti e coriacei di
cui quella monarchia disponesse. A proposito poi della tradizionale lega con gli svizzeri
instaurata da Carlo V e che implicava da parte loro una fornitura fino a 30mila fanti, se
necessario, da impiegare alla difesa del Ducato di Milano, essa sarà rinnovata ancora nel 1702.
Sabato 6 giugno una violenta zuffa si accese tra un gruppo di spagnoli dell'armata che si
trovava a Baia per i lavori di carenamento e uno di lacchè, essendo a Napoli, come abbiamo già
detto, così impropriamente chiamati spadaccini facinorosi, pericolosi attaccabrighe che, in barba
alle reiterate prammatiche contro il porto d’armi, portavano illegalmente la spada sotto la cappa
o la marsina e che servivano come guardie del corpo i nobili e in genere chi li poteva pagare,
corrispondendo quindi ai bravi manzoniani e ai vapos palermitani; gli spagnoli ebbero la peggio,
restandone tre trafitti e uccisi, ma diversi lacchè, i quali indossavano una livrea gentilizia
turchina, sebbene la vecchia prammatica del 29 ottobre 1683, della quale abbiamo a suo tempo
già detto, proibisse agli uomini questo colore, ed erano forse per questo stati scambiati per fanti
regnicoli dagli spagnoli, furono arrestati, convinti con la tortura a confessare e condannati;
l’Operti, nella sua relazione del 1697, ricorderà però quest’episodio in maniera diversa, molto
meno circoscritta e cioè come un vero e proprio moto popolare che per poco non si trasformò in
un’aperta rivolta contro gli spagnoli.

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Frattanto alla fine del marzo di quest’anno, subentrando ad Antonio Vasquez, divenuto a sua
vola castellano di Sabbioneta, era stato nominato commissario generale della cavalleria dello
Stato di Milano Gaetano Coppola, fratello del duca di Canzano, capitano della compagnia di
lance della guardia del viceré marchese di Leganés, mentre un terzo fratello, Nicolò, come
abbiamo già detto, serviva da capitano di una delle due compagnie di corazze della guardia del
viceré di Napoli conte di San Estévan; militava poi nell'Europa orientale il già nominato
maresciallo Antonio Carafa con l'incarico di commissario generale degli eserciti cesarei e
nell'agosto un altro napoletano, cioè Gioseppe Montoya, aiutante generale nello stesso esercito
imperiale, fu ferito da una moschettata mentre, sotto il comando del duca di Croy, si assediava
Belgrado nel tentativo di riprenderla ai turchi che l'avevano in precedenza occupata; ma il
Filamondo, per questo 1693, che è proprio l’anno in cui egli termina la sua narrazione, elenca
allora in servizio all’estero, oltre ai predetti, anche i seguenti altri ufficiali napoletani – e qui
riteniamo utile e interessante elencare per una volta anche quelli di compagnia, cosa che in
genere evitiamo per non appesantire troppo questo lavoro:

Antonio Conte Carafa, maresciallo di campo.


Andrea Coppola, duca di Canzano, capitano generale in Orano e regno di Tremisen in Africa.
Domenico Pignatelli marchese di S. Vincenzo, capitano generale in Estremadura.
Eustachio Brancaccio, tenente di mastro di campo generale.

Sargenti generali di battaglia:

Giovanni Pignatelli dei duchi della Rocca.


Restaino Cantelmo principe di Pettorano.
Marino Carafa dei duchi di Maddaloni.
Andrea Cicinello dei principi di Cursi, poco dopo deceduto.
Orazio Coppola dei duchi di Canzano.

Colonnelli di cavalleria:

Nicolò Pignatelli dei duchi di Bisaccia, morto il 29 luglio nella battaglia di Landen.
fra’ Fabrizio Ruffo.
Antonio Maria Gambacorta dei duchi di Limatola, morto nel luglio alla battaglia di Charleroi.

Mastri di campo:

Giulio Cesare Capuano.


Ferrante Pignatelli.
fra’ Alvaro Minutillo.
Gioan Battista Caracciolo dei duchi di Martina.
Domenico Dentice.
Domenico Acquaviva d’Aragona dei conti di Conversano.
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Annibale Moles dei duchi di Parete.
Antonio Domenico di Dura.
fra’ Francesco di Gennaro.

Capitani e sargenti maggiori:

Cesare Mormile.
Paolo Carafa dei duchi di Bruzzano.
Diego Moles dei duchi di Parete.
Alfonso Sanfelice dei duchi di Lauriano.
Carlo di Sangro dei marchesi di Santo Lucido.
Marcello Ceva Grimaldi dei duchi di Telese, oriundi genovesi.
Cesare Brancaccio.
Antonio della Marra.
Carlo de Montoja.
Antonio di Gennaro.
Giacomo Filomarino dei principi della Rocca.
Giulio Galluccio.
Gioan Battista e Michele Giudici fratelli del defunto Gioseppe.
Antonio Pappacoda dei principi di Trigiano.
Ciarletta Caracciolo dei principi della Torella.
fra’ Domenico e Francesco Gaetano d’Aragona dei duchi di Laurenzana.
Gioan Battista Brancaccio nipote di fra’ Titta.
Vincenzo de Capua dei principi della Riccia.
Pietro Sances de Luna.
Nicolò e Gioseppe Dentice.
fra’ Tomaso Caracciolo dei marchesi di Gioiosa.
Gioan Battista Parise.
Lorenzo de Franchis marchese di Taviano
Francesco Pisanelli.

Il tercio del Pappacoda stava però per passare di mano perché sarà molto presto falcidiato da
diserzioni ed epidemie causanti la morte di moltissimi soldati, di tanti ufficiali subalterni, di
cinque capitani e dello stesso mastro di campo, come si leggerà poi in missive del 5 gennaio e
del 23 marzo 1694 inviate dal nunzio apostolico di Napoli al suo governo a Roma:

Si dice che saranno distribuite patenti per la leva di 500 soldati per reclutare il reggimento
italiano Pappacoda che si trova in Catalogna, in gran parte distrutto, né si sa per ancora chi
sarà nominato per maestro di campo del sudetto reggimento in luogo del medesimo
Pappacoda, morto ultimamente d’infirmità naturale (A.S.V. Nun. Nap. 117).

Per ritornare ora alle cronache militari del Regno di Napoli diremo che l'armata di Spagna che si
era trattenuta a Baia tanti mesi lasciò finalmente il regno venerdì 3 luglio, dopo esser costata
all'erario napoletano 260mila scudi, oltre ai 14mila spesi peri fortini costruiti a Baia per
l'occasione allo scopo di difenderla da possibili incursioni francesi. Si componeva ora di 16
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vascelli da guerra e due brulotti, i quali salparono da Napoli, dove si erano in ultimo trasferiti per
le cerimonie ufficiali di commiato - prassi del tutto tradizionale in questi casi, accompagnati da
altri bastimenti e da 19 galere, tra napoletane, genovesi e siciliane e si diceva fossero diretti a
porto Mahón nell'isola di Minorca, dove avrebbero atteso gli ordini della corte di Spagna;
restavano così in darsena solo tre, tra cui le due galere di Sardegna, che non potevano salpare
per mancanza di ciurma, la quale vi stava morendo a causa di un'epidemia che era scoppiata a
bordo di quei legni. L'armata di Spagna - flotta di velieri da guerra, da non confondersi con la
squadra di Spagna, la quale era invece l'insieme delle galere - portava a bordo
tradizionalmente, tra le altre soldatesche, di guarnigione anche un vecchio terzo napoletano,
detto pertanto Armada viejo, allora ancora comandato dal mastro di campo marchese Antonio
Domenico di Dura.
Frattanto in questo stesso luglio del 1693 Muley Ismael re di Mequinez tentava ancora Orano
assediandola con 20mila cavalli, ma il suddetto Andrea Coppola duca di Canzano, viceré
napoletano di quel regno, lo costrinse a ritirarsi dopo averne ributtati moltissimi assalti e aver
fatto gran strage dei suoi.
In questo periodo furono riformate dal viceré ben 15 o 16 compagnie del terzo fisso spagnolo, le
quali erano divenute evidentemente troppo carenti di effettivi, con conseguente sospensione di
tutti gli emolumenti, cioè soldi, trattenimenti e vantaggi, degli ufficiali che restavano così
temporaneamente privi d’impiego, mentre i soldati erano ovviamente subito riutilizzati per
rinfoltire i ranghi delle altre compagnie e quindi nulla perdevano; poiché, come si sa, rumor
crescit eundo, in seguito a questi provvedimenti nel suddetto luglio si vociferava che si stesse
anche per ridurre della metà gli emolumenti degli ufficiali che restavano impiegati. In effetti
troviamo nel Giuliano la trascrizione di una deliberazione reale del 21 settembre successivo con
cui il re, trattandosi di una materia molto delicata e senza precedenti, cioè di togliere lo stipendio
a ufficiali spagnoli, si riservava di dare la sua approvazione alle modalità della suddetta
sospensione.
All'inizio d’agosto si trovavano rinchiusi nell'arsenale 400 soldati di nuova leva da usarsi
probabilmente per rinforzo del presidio di Porto Longone, mentre nello stesso periodo si
vociferava d'organizzare una nuova leva di 3mila uomini da dividere in compagnie che
sarebbero state arruolate dai capitani spagnoli ultimamente riformati, anche questa però
anomalia poco credibile. Domenica 16 agosto lasciarono Napoli per Bercellona, per dove
avevano poi proseguito anche le altre partite il 3 luglio, le due galere di Sardegna che erano
rimaste in attesa del reintegro delle ciurme e la settimana successiva partirono anche due

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tartane cariche di munizioni da guerra destinate al duca di Savoia, seguendo così delle altre già
salpate con la stessa destinazione alla fine della prima settimana del mese, approfittandosi
dell'avviso che i vascelli francesi che pattugliavano le coste liguri si erano allontanate. Invece,
nell'ultima settimana d'agosto due fregate o guardacoste francesi comparvero improvvisamente
tra l'isola di Ponza e quella d'Ischia e predarono 2 tartane cariche di vino; poi, portatesi nelle
acque dell'isola di Procida, presero su quella spiaggia alcune tartane vuote e si diceva che però
il giorno seguente le stesse fossero state restituite ai loro padroni, i quali erano andati a
raccomandarsi ai capitani di quei vascelli nemici; in seguito le due fregate si spostarono nelle
acque calabresi e siciliane, dove fecero preda d'altre tartane e poi, come si disse, pare che
fossero tornate nelle acque di Ponza; infine, per la fine della prima decade di settembre si erano
finalmente allontanate dai mari del regno. Non si era potuto uscire in mare a contrastare queste
scorrerie in considerazione che nell'arsenale di Napoli era rimasta allora, come abbiamo già
accennato, una sola galera e in aggiunta provvista di poca ciurma; per lo stesso motivo non si
poteva in quei giorni nemmeno andare a contrastare i corsari turco-barbareschi che
continuavano a infestare i mari calabro-pugliesi, specie le acque d'Otranto, e a far preda di legni
cristiani con gran danno del commercio marittimo del regno. Fortunatamente, i soliti combattivi
liparoti, messa in mare una loro squadriglia di barche e feluche armate, all’inizio d’ottobre
andarono ad attaccare i detti corsari e tolsero loro alcune delle prede che avevano fatto
rimettendo in libertà più di 120 schiavi cristiani.
Verso la fine di settembre giunse da Alicante una nave che portava 120 soldati spagnoli che
dovevano servire di rinforzo al presidio di Napoli, mentre nell'arsenale si trovavano ancora 300
reclute regnicole, le quali attendevano il ritorno delle squadre di galere per essere trasportate a
Porto Longone e avrebbero viaggiato di conserva con alcune barche cariche di provvisioni.
Domenica 11 ottobre un corriero straordinario spedito dal governatore di Milano, il predetto
marchese di Leganés, portò al viceré conte di San Estévan la ferale notizia della morte del suo
primogenito Diego de Benavides marchese di Solera, mastro di campo del terzo fisso spagnolo
di Lombardia, avvenuta il 4 precedente mentre il giovane combatteva contro i francesi
nell'avversa battaglia di Pinerolo o d'Orbassano che dir si voglia, dove il duca di Savoia era
stato, come alla Staffarda, di nuovo battuto dal maresciallo de Catinat; eppure tale battaglia era
cominciata nel precedente agosto con un’iniziativa dell'esercito di Milano, il quale aveva assalito
il piccolo, ma strategicamente importante forte di Santa Brigida di Pinerolo - questo, come
anche la piazza di Casale, era rimasto in mano francese sin dalla guerra precedente; gli scontri
erano stati sanguinosi e vi aveva partecipato anche il terzo napoletano del mastro di campo

342
Antonio di Francia, corpo che poi, alla rivista che a novembre sarà passata al predetto esercito,
risulterà contare infatti solo 445 fanti. Alla stessa suddetta rivista saranno inoltre presenti nove
compagnie di cavalleria napoletana per un totale di 475 soldati, i quali erano stati invece 442 in
occasione della riforma generale dello stesso esercito di Milano decretata il precedente 19
ottobre.
Si usava prender mostra, ossia controllare forza e armamento, di tutti i corpi dell'esercito una
volta il mese prima di pagar loro il soldo, il quale anche era mensile; questa frequenza delle
riviste serviva a evitare il più possibile di pagare piazze, ossia ruoli di soldati che fossero morti o
licenziati; ecco il risultato della rassegna passata nel mese d’ottobre dal commissario militare e
dagli ufficiali pagatori alle due compagnie di corazze della guardia del viceré di Napoli e alle due
di dragoni recentemente giunte dal Milanese:

Soldati Cavalli
Compagnie della guardia del viceré

Capitano Nicolò Coppola 55 51


Capitano Andrea de la Rinze y Muñoz 53 52

Compagnie di cavalli dragoni

Capitano Prospero Emiñas Calizano 49 43


Capitano Pascual Motet 45 41

In seguito alla predetta grave sconfitta subita dagli imperiali, il viceré si attivò per incrementare
le rimesse di denaro a Milano a titolo di contribuzioni di guerra e ordinò a tutti i baroni
(‘feudatari’) del regno di assoldare un soldato ogni 100 fuochi, in modo da poterne ricavare più
di 5mila uomini da inviare in Lombardia; inoltre, non essendo sufficienti le frequenti e tradizionali
contribuzioni volontarie offerte al sovrano specie dalla città di Napoli, nell’ultima decade dello
stesso ottobre il Consiglio del Collaterale, in una delle sue ormai frequenti riunioni, decise un
aumento del 10% degli arrendamenti (‘appalti e pigioni’) e dei fiscali (‘dazi e tributi’) e
l’introduzione di nuove imposizioni allo scopo di mettere insieme una somma di 300mila ducati
da mandare in soccorso dello Stato di Milano, dal cui governatore arrivavano sempre più
pressanti richieste di uomini, mezzi e denaro, mentre si ammassavano nell'arsenale provvisioni
per le piazze di Toscana, naturali porte d'accesso al Regno di Napoli e quindi da tenersi il più
munite possibili; inoltre verso la fine del detto mese erano inoltre già pronti mille fanti da inviare
a Milano non appena avessero fatto ritorno le galere e se ne era ordinata la leva d'altri mille. In
una sua lettera del 3 novembre il nunzio apostolico a Napoli aveva cominciato a parlare delle
343
leve in corso come di un arruolamento prefissato totale di 3mila uomini, cifra che poi ribadirà in
altre del 17 seguente e del 1° dicembre:

(Napoli, 3 novembre:) Si prosegue con sollecitudine la leva delli 3mila huomini destinati per
reclutare le truppe dello Stato di Milano e si prendono ancora con la forza per questa Città e
Regno molti vagabondi e altre persone inutili (A.S.V. Nun. Nap. 115).

A proposito del termine truppe (dal lat. turbae) è questa una delle prime volte che lo troviamo
usato nel senso contemporaneo di soldatesche in generale, mentre sino allora tale voce aveva
sempre avuto un significato ben preciso e cioè quello di un distaccamento di cavalleria formato
da alcune compagnie.

(Napoli, 10 novembre:) Arrivano giornalmente in questa Città truppe di soldati di nuova leva che
si vanno facendo per le Provincie di questo Regno, affine di reclutare le truppe dello Stato di
Milano (ib.)

Poiché però le galere del regno tardavano a tornare e giovedì 12 novembre era arrivato un altro
corriero straordinario dal governatore di Milano per sollecitare i soccorsi, si caricarono delle
predette provvisioni da bocca e da guerra parecchie tartane già in attesa nel porto e poi, sabato
14, essendo il vento ormai favorevole alla navigazione, su nove d’esse s’imbarcarono anche le
soldatesche; si trattava di 1.300 fanti regnicoli che si tenevano alloggiati nell’arsenale per i
Presidi di Toscana, essendo questi molto esposti alla minaccia nemica, e di due compagnie
spagnole, una di fanti e una di dragoni, da sbarcare invece a Finale perché destinate all’esercito
di Lombardia.

(Napoli, 1 dicembre:) Concorrono giornalmente molti ufficiali, anco forastieri, per arruolarsi nelle
compagnie di nuova leva che si vanno tuttavia proseguendo in questa Città e Regno per
servizio dello Stato di Milano. Non riesce però così facile d’assoldare la gente ordinaria, onde
per compire il numero delli 3mila uomini ha bisognato adoperare la forza (ib.)

S’aspettava il ritorno delle tartane che avevano fatto vela per Finale prevedendo di potervi
imbarcare un altro pari numero di uomini; frattanto la sera di martedì 8 dicembre fecero invece
finalmente ritorno le galere della squadra di Napoli. Nei giorni seguenti partirono alcune altre
tartane, le quali portavano molte provvisioni e 300 soldati alla piazza di Porto Longone, mentre
ogni giorno da ogni parte del regno arrivavano nella capitale gruppi di soldati arruolati dai baroni
nei loro feudi. In seguito, una corrispondenza da Genova datato 12 dicembre così informerà:

344
… approdarono qua 9 barche col resto de’ soldati che il Viceré di Napoli manda nello Stato di
Milano e mercordì mattina si cominciò il sbarco delli suddetti soldati a Ultri che fanno circa 1.500
(ib).

Povere reclute regnicole! Era stato loro detto a Napoli che sarebbero stati sbarcati in Toscana
dove avrebbero fatto una pacifica e oziosa vita di presidio e per un solo anno e invece li si era
portati in Liguria per incamminarli da lì verso i tragici campi di guerra! Ma quello che i disgraziati
giovani non sapevano era che nemmeno il servizio di guarnigione era esente da pericoli, anzi
erano uno dei luoghi di maggior virulenza delle gravi malattie epidemiche; infatti ecco quanto tra
l’altro scriverà il nunzio pontificio al suo governo il 22 febbraio del 1695:

Il signor don Marino Carafa, vicario generale de’ Presidii di Toscana, fa istanza per nuove
provvisioni di genti e di denari, essendo anco in quelle piazze periti molti soldati (A.S.V. Nun.
Nap. 119).

Più volte il conte di San Estévan, da due anni a questa parte, aveva chiesto senza successo
alla Regia Camera della Sommaria una fornitura straordinaria di livree ai suoi alabardieri della
guardia, avendo avuto l’ultima più di quattro anni prima in occasione dei festeggiamenti per le
seconde nozze del re Carlo II, apparendo pertanto ora detta compagnia in uno stato estetico
impresentabile (in forma tanto indecente de’ vestiti che più (che) di decoro serviva oggi
d’indecenza); ora rinnovava la richiesta con un suo viglietto (‘ordine’) datato 13 dicembre, ma la
risposta era ancora una volta sostanzialmente negativa:

… (per)che è stato solito vestirsi detta guardia alemana all’ingresso de’ signori viciré in questo
regno ed in occasione di feste regali ed accasamento del re nostro signore e nel solidissimo
governo di Vostra Eccellenza è stata detta guardia alemana due volte vestita, avendo anche
avuta la librera di lutto per la morte della regina nostra signora, che sia in cielo, e le strettezze in
che la presente si ritrova la Real Azienda non permettono di far spese straordinarie… (A.S.N.
Somm. Cons. 90).

Il regno era stato difatti di recente del tutto spremuto dalle tante contribuzioni di guerra ordinarie
e straordinarie; comunque quei magistrati rimettevano ovviamente la decisione finale allo stesso
viceré, il cui potere era insindacabile. Sennonché, con altro viglietto del 30 seguente, il viceré
ordinava che si fosse concluso partito (‘incanto ad estinzione di candela’) per la fornitura di 100
vestiti nuovi per le sue due compagnie di cavalleria della guardia più di altri cinque per i quattro
trombetti ed il timballo delle relative piane maggiori e stavolta la Sommaria non trovo nulla da
ridire, anche perché in questo caso si trattava di unifomi più ordinarie e non di costose livree

345
come quelle, ricche di sete, velluti e trine; l’incanto fu vinto dal partitario Nicola di Martino, un
habitué di tali competizioni, il quale aveva, com’era d’uso, presentato una mostra (‘modello’) di
detta uniforme e la stessa era stata approvata dal viceré. Il prezzo pattuito era di 28 ducati per
vestito, cioè più del doppio di quello che sarebbe costato un vestito di fante; ma l’abbigliamento
di cavalleria includeva parecchio di più e cioè stivali con speroni, mantello, gualdrappa ricamata,
tappafonde per pistole da sella, senza contare che si trattava qui di soldati della guardia e
quindi anche la qualità delle pannine usate doveva essere migliore. I vestiti si dovevano
consegnare per il giorno di S. Antonio Abate, cioè il 17 gennaio:

… ad avvertenza che, (se) non si potessero consignare per detto giorno per intero, si fossero
almeno consignati le casacche e li cappelli nei vestiti dei trombetti e timballo… (ib.)

Frattanto si era venuto a sapere a Genova da Madrid che giovedì 25 novembre il duca di
Nájera, capitano generale delle galere di Napoli, era arrivato alla Corte di Madrid (e, credesi, si
fermarà qui tutto l’inverno.) e in seguito che erano arrivate a Barcellona le due galere genovesi
destinate a fornire il passaggio di rientro in Spagna della figlia del vicerè di Napoli conte di San
Estévan. Lunedì 13 dicembre al porto della predetta città di Genova era approdato il duca di
Tursi con cinque delle sette galere che stava conducendo per il trasporto di soldatesche da
Barcellona a Voltri, essendosene purtroppo perdute le rimanenti due per il maltempo incontrato
e affogati i loro interi equipaggi unitamente a ben 300 degli 800 soldati che la squadra
trasportava a Voltri, perché da lì s’incamminassero verso il milanese; a Napoli la predetta
funesta notizia fu pubblicata il 22 dicembre nellla seguente maniera:

È stato inteso qui con molta amarezza il naufragio delle due galere della squadra del duca di
Tursi, non essendosi salvata che la metà della gente di una di dette galere (A.S.V. Nun. Nap.
115).

Ricordiamo che le galere del Tursi, pur se genovesi, usavano tradizionalmente per guanizione
militare, ossia diremmo per fanteria di marina, soldati nativi del regno di Napoli. Finalmente alla
fine dell’anno, probailmente perché arrivatisi alla normale sospensione invernale della guerra, le
frenetiche leve forzose sembrarono cessare:

Si sono sospese le leve che si erano principiate con la forza, assoldandosi solamente qualche
soldato che s’offerisce d’andare spontaneamente alla guerra. Si trovano in quest’arsenale 300
soldati con i quali si rinforzano (‘rinforzeranno’) i Presidii della Toscana, non avendo il
governatore di Milano bisogno d’altra gente (ib.)
346
Bugie tranquillizzatrici perché il minor numero possibile di coscritti tentasse la fuga; in realtà,
come vedremo, aldilà di quelli effettivamente destinati all’avvicendamento dei tranquilli presidi
toscani, si continuerà ad ammassare nell’arsenale coscritti gente arruolata forzosamente e
inviata dai baroni del regno per il successivo inoltro non solo alle guerre di Lombardia ma anche
a quelle di Catalogna. Tanto per dirne una, negli ultimi giorni dell’anno tre galere del Tursi, le
quali avrebbero dovuto lasciare Genova con destinazione Napoli proprio per prelevare fanterie
per lo Stato di Milano, furono costrette a rimandare la partenza a causa di un’epidemia che si
stava diffondendo a bordo; salperanno solo il giovedì 4 febbraio successivo, trovando però
evidenti ulteriori difficoltà nel viaggio perché, fatta la consueta sosta a Livorno, non ne
ripartiranno prima del martedì 23 febbraio.
Un’altra corrispondenza - questa da Milano - segnalava che un reggimento napoletano -
probabilmente il trozo di cavalleria, il quale serviva in quello stato agli ordini di un esponente
della famiglia Carafa, forse il maresciallo Antonio, era stato comprato dal suddetto governatore
di Milano affinché restasse permanentemente incorporato in quell'esercito; il che significa
evidentemente che il marchese di Leganés aveva accreditato denaro sia al Carafa, il quale
aveva a suo tempo comprato quella patente dal viceré di Napoli, sia al viceré medesimo che
quella patente aveva concesso.
La guerra in Europa era proseguita nel frattempo con grandi successi francesi; il 9 luglio il
maresciallo de Noailles aveva preso Rosas in Catalogna e il 29 dello stesso mese a Landen in
Fiandra il maresciallo duca di Lussemburgo aveva battuto le forze alleate di Guglielmo III
d’Orange; erano qui periti, tra i napoletani, anche Nicolò e Antonio Pignatelli dei duchi di
Bisaccia, il primo colonnello e il secondo capitano di cavalleria; Niccolo, dopo 17 anni di
esperienza di guerra in Catalogna, Fiandra e Ungheria, aveva infatti avuto il comando di un
reggimento di cavalleria alemanna (mercede insolita a italiani, Filamondo), con cui aveva
anch'egli partecipato alla predetta battaglia, scontro ferocissimo e sanguinosissimo in cui erano
morti d'ambedue le parti circa 27mila uomini in totale (in sagrificio all'odio delle nazioni, che in
questi tempi ha il general comando degli eserciti, Filamondo). Tra il 26 e il 29 novembre ci fu un
bombardamento navale inglese di Saint Malo che non ebbe però il risultato sperato dagli
albionici, nonostante vi avessero usato che gli albionici vi avessero usato, come abbiamo già
ricordato, una machine infernal, la cui deflagrazione infatti, a dire dei francesi, fece pochissimi
danni alla città:

347
… ne fit autre fracas que d’étonner et casser les vitres et la couverture de quelques maisons de
la Place et de tuer celuy qui y avoit mis le feu… (Surirey de Saint Remy.)

Invece gli inglesi poi dissero che quel loro brulotto, il quale era stato accostato il più possibile
alle mura della città, di danni ne aveva molti e ingenti. Più tardi in Piemonte, nonostante che i
savoiardi e i loro alleati avessero tentato una nuova invasione del Delfinato, Vittorio Amedeo II
era stato sconfitto pesantemente il 4 ottobre dall’esercito francese del maresciallo Catinat nella
battaglia detta della Marsaglia; infine poco dopo, il 10 dello stesso ottobre, era avvenuta la
famosa battaglia di Landen o di Neerwinden, importante perché portò alla presa francese di
Charleroi, nella quale, combattendo appunto contro i transalpini, era morto Antonio Maria
Gambacorta dei duchi di Limatola, capitano di cavalleria napoletano, il quale in quel conflitto era
però al comando non di una sola compagnia, bensì di un’intera tropa, ossia di un
raggruppamento di compagnie; in quest'importante scontro il maresciallo di Lussemburgo aveva
attaccato il principe d'Orange asserragliato in un sistema di trincee sostenute da due forti e
l'aveva sconfitto espugnando queste sue difese; di conseguenza i francesi avevano occupato
l'importante piazzaforte di Charleroi, ma non erano riusciti invece a riprendere Liegi; Charleroi
sarà però ripresa ai francesi appena nel settembre successivo da Massimilano di Baviera e i
transalpini saranno pure sconfitti sul mare dagli inglesi.
Tanti altri valorosi ufficiali napoletani militavano allora in Fiandra, per esempio il sargente
generale di battaglia Michele Cajafa, soldato vecchissimo delle guerre di Fiandra (ib.), il quale
aveva iniziato la sua carriera come alfiere nel terzo d’Alfonso Filomarino e poi fu capitano nel
famoso terzo vecchio dei napoletani d’Andrea Cantelmo dei duchi di Popoli, corpo che era
sempre ricordato come scuola d'ottimi soldati, tanto che lo stesso Andrea era poi divenuto
governatore della Catalogna; il Cajafa divenne in seguito capitano di cavalleria, sargente
maggiore di cavalleria e ritornò in seguito alla fanteria come mastro di campo, colonnello e
brigadiero; suo figlio Gioan Maria marchese di Massa Nuova seguiva le orme paterne in Fiandra
come capitano di cavalli corazze, dopo esserlo stato di fanteria nel terzo di Gioan Battista
Pignatelli.

1694. È della primavera di quest’anno una delle peggiori eruzioni del Vesuvio, vulgo detto allora
monte di Somma, di cui però, non presentando essa particolari conseguenze militari, non altro
faremo che riportarne il seguente avviso romano:

348
Da Napoli si avisa che correvano quei popoli a schiere verso il Monte Vesuvio pe ammirare le
stravaganze di quel furioso inferno, il quale fermò il suo furore dal giorno in cui quell’emin.
arcivescovo, salito col Viceré sino alla sommità della scaturigine di fuoco, gettò nella voragine,
con fede costantissima e gran divozione, un Agnus Dei della santa memoria d’Innocenzio
Undecimo (Avisi italiani ordinarii e straordinarii dell’anno 1694. Vienna, 1695).

Dunque altro succulento cibo per la sempre voracissima superstizione napoletana!


Riconfermandosi dunque la grande determinazione del viceré in carica, nella prima settimana di
febbraio salparono per Porto Longone tre galere dello stuolo di Napoli le quali avevano
imbarcato sei compagnie di fanteria spagnola destinate a dare il cambio a quell’importante
presidio e si diceva che sarebbero presto tornate a Napoli per poter così portare nello Stato dei
Presidi anche le soldatesche regnicole tenute nell’arsenale, alloggiamenti dove nel terzo lustro
di febbraio arrivarono altri 300 coscritti; ma era solo una bugia, perché, come già sappiamo, per
ragioni di sicurezza fortezze e castelli potevano essere presidiati solo da soldatesche spagnole.
Si mentiva così perché i coscritti regnicoli non tentassero la fuga dall’arsenale e s’imbarcassero
sulle galere tranquillamente, trattandosi infatti di gente arruolata a forza e d’indole molto poco
desiderosa di andare a guerre che, sapevano, avrebbero lasciato in vita ben pochi di loro e
comunque dalle quali nessuno che non fosse perlomeno un ufficiale maggiore sarebbe mai
tornato. Verso la fine della seconda decade del detto febbraio il viceré nominò Gaetano
Gambacorta principe di Macchia, personaggio che diventerà presto infelicemente famoso,
nuovo mastro di campo del terzo del defunto Pappacoda e costui sarebbe quindi presto salpato
per la Catalogna con un buon numero di rimpiazzi destinati a quello sfortunato corpo.
Il governatore di Milano marchese di Leganés, nell’approssimarsi della nuova campagna bellica,
aveva ripreso a chiedere ripetutamente uomini, munizioni e denaro a Napoli, dove i ministri della
Regia Camera della Sommaria continuavano a ammassarne per lui, mentre erano in corso
molte leve proprio per l’esercito di Milano, colà infatti affermandosi che da Napoli ci si
aspettavano invii per un totale di 2mila spagnoli e 2mila napoletani. Per sollecitare i predetti
aiuti, il detto governatore inviò al viceré di Napoli il napoletano duca del Sesto, allora ufficiale
generale nell’esercito di Milano, il quale partì la notte del sabato 27 marzo, e ritornerà a Milano il
martedì 20 aprile:

Il duca del Sesto ritornò hieri da Napoli con somme grosse di contanti e con promesse di grandi
assistenze (ib.)

In realtà gli invii di soldatesche dal regno non erano in quel mentre mai cessati ed infatti così poi
si leggerà in un avviso milanese del 14 aprile:
349
Sono stati già rimontati quasi tutt’i dragoni, particolarmente le compagnie venute da Napoli che
si ritrovano a Lodi, ove si trasferì sabbato scorso, con alcuni capi di guerra, il sig. marchese
Governatore per vedergli squadronati sopra la piazza maggiore di quella città… (ib.)

Il Regno di Napoli, anche se con ottime tradizioni di archibugeria a cavallo, non ancora
preparava la specialità dei moderni dragoni e quindi questi venuti da Napoli erano soldati
spagnoli; anche perché il governatore spagnolo di Milano non si sarebbe certamente messo in
viaggio per andare a dar calore a insignificanti reclute napoletane. In quel mentre nell’arsenale
partenopeo si preparavano provvisioni belliche anche per il duca di Savoia, in conto dei 100mila
ducati annui assegnatigli da Carlo III re delle Spagne, e inoltre si lavorava incessantemente al
completamento di una nuova galera destinata a sostituirne un’altra della squadra che non era
ormai più in grado di navigare; le leggere galere, se fatte di legno ben stagionato, se strutturate
con pesi ben equilibrati, specie quelli più gravi costituiti dalla zavorra di ciottoli o ghiaietta o
sabbia che si deponeva ordinatamente sul fondo di cala ai due lati del paramezzale della chiglia
o controcarena, dall’albero maestro con la sua scassa (‘zoccolo’) posta sul detto paramezzale e
dall’artiglieria di prua, e se tenute d’inverno ben protette nei volti dell’arsenale, duravano
tranquillamente minimo un decennio, ma altrimenti il legno troppo giovane marciva in pochi anni
e i punti del sottile fasciame soggetti ad anomale tensioni s’aprivano tanto che non era più
possibile risolvere con il solo calafataggio. Inoltre, se si tenevano all'aperto, il loro fasciame
risultava d’inverno inevitabilmente deteriorato dall'intemperie e dal freddo e d’estate spaccato
dal caldo sole; se poi d’inverno erano tenute invece ormeggiate, il fasciame ne risultava poi
irreparabilmente infradiciato dal mare o roso dalla bruma; pertanto, come norma generale, nella
stagione invernale andavano, come del resto tutti i leggeri vascelli remieri, conservate al coperto
nei loro volti, mentre d’estate si tenevano in acqua ormeggiate, mentre e si potevano tenere a
secco all’aperto solo per il tempo necessario a lavori di carenamento. La manutenzione era in
ogni caso determinante e infatti le galere turche, mantenute con molto maggior cura dai loro rais
(‘capitani’) di quanto fosse usata a quelle dei cristiani, perché, quando non erano più buone per
navigare anche loro perdevano l’impiego, duravano anche 18 o 20 anni; molto poteva durare
anche quindi una galera Reale, perché appunto tenuta con cura particolare. I napoletani
esercitavano anche la guerra di corso e lo facevano generalmente a mezzo di feluconi, cioè di
leggeri e veloci vascelli medio-piccoli che navigavano perlopiù a vela, ma che, quando si
riteneva necessario, si manovravano anche a remi e corrispondevano quindi più o meno a quelli
che erano stati fino alla prima metà del Seicento i fregatoni e i bergantini, ma naturalmente ora

350
con più spiccate qualità veliche; ecco infatti quanto si legge in un avviso genovese del sabato
17 aprile:

… (stanno) continuando a corseggiar i felucconi napoletani che ultimamente hanno


saccheggiato due felucche … (ib.)

E più avanti, cioè in uno del sabato 31 luglio:

Un feluccone napolitano aveva presa vicino Porto Maurizio una barca nostra (‘genovese’) ed è
stata ricuperata dalle due galere che scorrono le Riviere, obligate a tirargli delle cannonate con
ferir ed uccidere qualcuno del feluccone sudetto (ib.)

Ma, tornando alla metà del predetto aprile, si seppe in quei giorni che il re aveva conferito la
carica di luogotenente generale della cavalleria dei Paesi Bassi al Sig. Brancaccio, il quale si
preparava pertanto a partire; pensiamo si trattasse del già ricordato Eustachio Brancaccio, il
quale era luogotenente di mastro di campo generale nel Regno di Napoli dal 1688.
Continuavano in quel mentre ad arrivare dalle province del regno nuove reclute negli
alloggiamenti dell’arsenale e alla fine della prima decade d’aprile cominciarono di nuovo le
richieste di soccorsi e i solleciti del governatore di Milano, il marchese di Leganés, il quale non
voleva farsi trovare impreparato dalla prossima apertura della nuova campagna bellica in Alta
Italia, e quindi richiamava a Milano anche il napoletano Paolo Spinola, marchese de los
Balbases, duca di S. Severino e Sesto, il quale si era sempre dimostrato buon comandante,
intendente di cose militari.
Martedì 20 aprile partirono le tartane che portavano in Catalogna mille fanti suddivisi in dieci
compagnie (‘tutti buona gente’) con il loro mastro di campo principe di Macchia, il quale
conduceva dunque così in Catalogna non solo dei rimpiazzi per l’ex-Pappacoda, come si era
inteso in un primo momento, ma un nuovo terzo intero; si diceva che questo convoglio, il quale
portava anche molte munizioni da guerra e attrezzature militari, poiché non era scortato da legni
armati, non essendocene in quei giorni di disponibili, avrebbe navigato d’isola in isola in modo
da prender lingua del nemico, ossia raccogliere informazioni dell'eventuale presenza in mare di
vascelli prima d’inoltrarsi. Interessante fu il riporto della notizia che ne fu fatto da Genova,
perché veniamo a sapere qualcosa di più e cioè che la squadra di galere di Spagna era allora
nel cantiere di Baia dove la stavano risarcendo… anche questo a spese dell’erario napoletano
naturalmente:

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(Genova, sabato 1° maggio:) Due felucche provenienti da Napoli portano esser di là partite 8
barche cariche di fanteria destinata per Barcellona, che se ne approntavano altre 7 per lo
stesso viaggio e che fossero quasi del tutto allestite le galere di Spagna (ib.)

Infatti poi, con altro avviso genovese del sabato 8 maggio:

Con felucca napolitana che giunse in 8 giorni da Napoli martedì sentesi che 8 giorni prima della
sua partenza erano partite 7 barche napolitane cariche di fanteria per la volta di Barcellona (ib.)

Purtroppo verso la fine del suddetto viaggio una delle tartane, incappata in uno scoglio nei
pressi di Barcellona, affonderà portandosi negli abissi marini due intere compagnie di soldati e i
marinari per un totale di circa 160 uomini. Il giovedì 6 era in quel mentre partita per Napoli la
squadra del duca di Tursi (Tursis) per andare a caricare altre fanterie per il Milanese; tornerà il
giovedì 24 giugno dopo aver sbarcato fanterie e Finale e avervi anche scortato barche cariche
di provvisioni militari e di sale. La squadra, imbarcate alcune provviste, sarebbe dopo due giorni
ripartita per raggiungere quelle di Napoli e di Sicilia a Porto Maone nell’isola di Minorca; in effetti
le galere di Napoli, Sicilia e Sardegna saranno a metà luglio avvistate in navigazione verso
Alicante da una nave genovese e poi, verso la fine della prima settimana d’agosto, saranno
viste accompagnarsi anche alla squadra di Spagna, mentre quella del duca di Tursi si sapeva
alla fonda ad Evisa (‘Ibiza’). Tutte queste galere si supponeva sarebbero poi andate a unirsi alla
grande flotta di velieri alleati olandesi, inglesi e spagnoli che allora aveva dato fondo al largo di
Barcellona; ma era una supposizionie sicuramente sbagliata perché si trattava di due armate
(galere e grandi velieri) dalla navigazione, dalla strategia e dalla tattica completamente diverse.
Restavano in arsenale a Napoli ancora 600 fanti di nuova leva, dai quali si poté così trarre
alcune altre nuove compagnie per rinforzo dei Presidi di Toscana, le quali la sera del suddetto
sabato 8 maggio furono imbarcate su tre galere di Napoli e quella stessa notte salparono per
Porto Longone; queste galere faranno ritorno venerdì 28 maggio. La notte di domenica 6 giugno
partirono per la Spagna 8 galere del regno (o perlomeno tante ne contò l’una feluca napoletana
che arrivo poi a Genova non più tardi del 19 giugno), le quali, comandate dal cuatralbo Lorenzo
Villa Vincenti (o di Villavincencio), si unirono in Sardegna a quelle di Sicilia per poi proseguire
insieme, come predetto, per Porto Maone. Ambedue le squadre portavano un buon numero di
soldatesca spagnola e regnicola destinata a consumarsi nel sanguinoso conflitto di Catalogna,
dove il 27 seguì l’importante battaglia di Palamós vinta dai francesi, i quali, sotto il comando del
duca di Noailles, avevano in precedenza passato il confine e pertanto gli anglo-olandesi
avevano inviato una flotta nelle acque catalane a evitare che Barcellona cadesse in potere di
352
Luigi XIV, mentre con una seconda squadra navale bombardavano pesantemente i porti
settentrionali della Francia e tentavano, però inutilmente, d'impadronirsi di Brest. Poco tempo
dopo i francesi prenderanno Girona.
Il cronista delle predette spedizioni in Catalogna scrive che con le nuove leve reclutate ancora
disponibili il viceré avrebbe potuto formare più di un altro terzo e a breve ne sarebbero infatti
stati nominati anche i comandanti; e ciò non ostante il gran numero di soldati mandati, non solo
in Spagna, ma anche a Milano, gran numero che si capisce dalla seguente corrispondenza da
Torino del 10 luglio:

Sono giunti (dal Milanese) gli spagnuoli consistenti in 14 terzi, (di cui) 5 effettivi spagnuoli e
lombardi, uno vittemberghese e il resto napoletano, e fanno in mostra 10mila huomini e in armi
8mila. I cavalieri sono 3mila…

In quel mentre, prima della metà di giugno, era partito per militare in Fiandra il mastro di campo
Domenico Acquaviva d'Aragona dei conti di Conversano e a Genova il mercoledì 9 era arrivato
un corriere da Barcellona, il quale avrebbe poi dovuto proseguire per Napoli; ma era arrivato via
terra perché la sua feluca, la quale era napoletana, subendo la caccia di 5 galere di Francia, si
era dovuta spiaggiare nei presi di S. Remo ed era poi stata catturata; il corriere portava anche
dispacci per il governatore di Milano, al quale furono inoltrati immediatamente con una staffetta.
La stessa predetta sorte toccò poco dopo a un altro felucone napoletano, il cui equipaggio si
salvò andandosi a spiaggiare nei pressi di Albenga, ma la predetta feluca sarà poi rilasciata dai
francesi nella prima metà di settembre per le istanze fattene da un inviato straordinario di
Genova alla Corte di Francia. Fu in effetti riconosciuto a Genova che la prima feluca, anche se
napoletana, cioè nemica di Francia, navigava allora per un servizio di corriere fatto anche
nell’interesse della Repubblica di Genova e non per azioni di guerra; diverso invece il caso della
seconda, la quale si trovava evidentemente in mare per normali motivi di commercio o
forsanche di corso.
Gli ufficiali napoletani all'estero continuavano a segnalarsi e infatti nell’ottobre il mastro di
campo Ferrante o Fernando Pignatelli sarà promosso sargente generale di battaglia
dell’esercito di Catalogna e il tenente di mastro di campo generale Eustachio Brancaccio
guidava prima in Fiandra un reggimento di 600 dragoni spagnoli e in seguito un terzo di fanti
napoletani in Catalogna, regione da cui farà ritorno a Napoli alla metà di maggio del 1695;
Tomaso Pallavicino dei duchi di Castro era invece allora capitano generale dell'armata reale
dell'oceano del sud, altro comando raro e prestigioso per un italiano, e nello stesso 1694 moriva

353
il napoletano fra’ Fabrizio Ruffo mentre comandava in Spagna il trozo di cavalleria chiamato
Milano.
Martedi 29 giugno galere pontifice che si trovavano in sosta a Napoli partirono per Messina,
probabilmente per attendervi la famosa annuale fiera estiva delle sete e farne buon carico, ma
furono respinte a Castell’a Mare dai venti contrari e poterono ripartire solo dopo qualche giorno
d’attesa. All’inizio di luglio era invece segnalato il passaggio per Roma del principe di
Vaudemont (Thomas?) il quale, accompagnato dalla moglie, proveniva dal Regno di Napoli
dove era stato a curarsi con i famosi bagni termali di Ischia e di Pozzuoli; tornava in Belgio dove
militava e infatti un avviso da Bruxellls del 19 luglio ne segnalerà l’arrivo, precisando però che
quella stessa mattina era ripartito per raggiungere – come si diceva - l’armata britannica, nella
quale aveva intenzione da volontario.

(Napoli 6 luglio:) Sono giunti a questo viceré altri ordini della corte di Spagna d’ammassar denari
per li correnti bisogni di Catalogna e sollecita anco il governatore di Milano le solite rimesse
(A.S.V. Nun. Nap. 118).

Napoli era dunque per gli spagnoli, dopo l’America, il loro secondo inesauribile forziere; come
potranno nel 1707 darsi così poco da fare per non perderla? Si mandarono in quei giorni ordine
agli ufficiali del Battaglione di visitare le loro compagnie e di tenerle pronte per ogni occorrenza,
mentre nell’ultima decade di luglio giungevano a Napoli per reclutare le loro compagnie alcuni
capitani regnicoli che militavano nel Milanese e le province continuavano ad arruolare gente per
i rimpiazzi dei due terzi italiani che operavano in Catalogna e che avevano perso molti uomini;
tali rimpiazzi saranno sollecitati dalla Spagna con lettere dell’inizio di settembre:

(Napoli, martedì 3 agosto): Il Viceré ha ordinata la leva di 800 huomini da mandarsi in


Cattalogna per reclutare li terzi italiani che militano in quelle parti; ed ha concesse a 4 uffiziali le
patenti per assoldare genti nelle provincie, essendo pure usciti rigorosi ordini di attirare (in realtà
‘tirare’) tutti li vagabondi in questo arsenale… (Avisi italiani ordinarii e straordinarii dell’anno
1694. Vienna, 1695).

Nella prima decade di luglio si era nel frattempo sentito a Genova che una tartana francese
aveva preso nelle acque di Gaeta due feluche napoletane che stavano portando un carico di
preziose sete a Livorno e alla stessa Genova; ma anche i corsari turchi erano molto attivi in quei
mari, come anche si legge nel suddetto avviso da Napoli del 3 agosto:

… e progredisce con buon successo la leva de i marinari da impiegarsi ne i legni armati per
andar in traccia de i corsari barbareschi e francesi, massime per l’aviso che ne i mari di Calabria
354
fossero state prese da i turchi due tartane con grano ed oglio per questi negozianti (napoletani)
(ib.)

All'inizio d'agosto piccole imbarcazioni ben armate e guarnite di milizie furono infatti spinte nei
mari del regno per contrastare le attività dei corsari nemici; nella seconda metà dello stesso
mese due legni barbareschi fecero schiave 14 persone a Ventotene, inclusi sei facinorosi
ischitani che in quell’isola avevano trovato rifugio. Un avviso genovese del sabato 21 agosto
dava notizia che erano sbarcate a Finale Ligure, oltre al tercio spagnolo del mastro di campo
Polera, due compagnie di soldati provenienti da Napoli; un altro del 25, però questo da Milano,
segnalava l’arrivo a Finale anche di due barche napoletane cariche di grano, aspettandosene
delle altre sino alla somma di 40.000 mine in servizio dell’armata predetta de i collegati… (ib.)
Il detto grano era dunque a beneficio della potente armata di mare che si aggirava allora nel
Tirreno contro la Francia e che era costituita di grandi velieri olandesi, inglesi e spagnoli; il
grosso contributo finanziario che Napoli forniva, allora come sempre, alle operazioni di guerra
della Spagna e dei suoi alleati è confermato da diversi avvisi del tempo:

(Napoli, martedì 31 agosto:) Li ministri della Regia Camera hanno pronta un’altra rimessa di
60mila ducati per sussidio dello Stato di Milano e si ammassano diverse provisioni di guerra in
quest’arsenale per servizio del signor duca di Savoia (A.S.V. Nun. Nap. 118).

(Milano, mercoledì 22 settembre:) È ritornato da Spagna per mare il corriere che settimane sono
fu spedito a quella Corte per negozii di gran rilievo e si dice habbia portato lettere di cambio per
grosse somme di contanti da pagarsi a questa Regia Tesoreria per i bisogni dell’essercito,
aspettandosi di breve anco da Napoli buone somme, tenendo l’ordine quel Viceré di assistere
con le forze possibili a questo Stato. E (infatti) la passata settimana quel Viceré inviò al Finale
due barche di frumento a conto delli 25.000 scudi che paga ogni mese il Regno di Napoli per il
pane di munizione a questo essercito (Avisi italiani ordinarii e straordinarii dell’anno 1694.
Vienna, 1695).

Verso il 10 settembre arrivò a Napoli da Alicante una tartana che portava una compagnia di
fanti coscritti spagnoli comandati da uno dei capitani di compagnia del terzo fisso di Napoli,
Bartolomé Baldazano, il quale, munito d’apposita patente rilasciatagli dal viceré, era andato
appunto in Spagna ad arruolarla; un avviso da Genova datato sabato 11 settembre racconterà
poi esser avvenuto quanto segue:

… martedì scorso (7 settembre) a tiro di Porto Venere, verso la mezza notte, stando tirata in
terra la felucca francese ch’era in quelle acque al corso, le furono tirate dagli huomini di 4
felucche napolitane 30 archibuggiate, restandovi morto un tenente con un padrone di Lerice
(‘oggi ‘Lerici’); e, fuggiti gli altri marinari a nuoto, furono fatti priggioni a Porto Venere. Le dette 4
355
felucche napolitane sonosi ridotte a due ben armate ed, arrivate a Sarzana in Bocca di Legra
(‘Magra’), furono tutti fatti arrestare da quel commissario; e i francesi fatti priggioni fuggirono a
Lerice (ib).

Avviso questo alquanto poco chiaro, non comprendendosi infatti chiaramente chi fu fatto
arrestare e da chi; è però interessante notare come alla fine del Seicento la guerra di corso nel
Mediterraneo s’esercitasse ancora soprattutto a mezzo di feluche e feluconi, cioè di piccoli
vascelli velico-remieri. Domenica 26 settembre due tartane cariche di polveri piriche, bombe,
granate e altri strumenti bellici per il duca di Savoia (in conto del sovvenimento dovutogli da
questa Regia Camera) salparono alla volta di Finale Ligure. A ottobre 400 fanti spagnoli erano
pronti nel Napoletano per essere impiegati nella tradizionale guarnigione delle galere del regno,
800 fanti regnicoli di nuova leva erano invece nell’arsenale, in maggioranza destinati alla
campagna di Catalogna, anche se non si disponeva al momento di legni per il loro trasporto,
mentre invii di soldatesche e di denaro erano in previsione anche per lo Stato di Milano; in una
corrispondenza da Genova del 9 ottobre si segnalava infatti il passaggio di due barche
napoletane cariche di munizioni da guerra e dirette a Finale e forse queste imbarcazioni
portavano pure soldati, giacché un documento milanese del 12 settembre accenna a due
compagnie di fanteria ultimamente giunte da Napoli. La grande esportazione di milizie di questo
1694 trova anche adeguato riscontro nei partiti del vestiario; c'è per esempio un partito di 300
vestiti violetti e un altro fatto nel novembre per ben 2mila abiti turchini per fanti napoletani, a cui
ne furono aggiunti altri 202 per soldati pure regnicoli che in quel tempo stavano di guarnigione
sulle galere dei particolari genovesi. Da un documento dell'Archivo General de Simancas risulta
inoltre che il predetto governatore di Milano, il marchese de Leganés, nella seconda metà
dell'anno aveva inviato rinforzi al duca di Savoia, il quale gliene aveva fatto richiesta a causa del
pericoloso passaggio di reggimenti imperiali dalle sue parti, e si trattava di 300 spagnoli ed 800
napoletani. Nell'ottobre alla mostra dell'esercito di Milano risultarono ancora il terzo del di
Francia, ora della forza di 848 fanti, e nove compagnie di cavalleria napoletana che
raggiungevano un totale di 494 uomini.
La mattina di lunedì 18 ottobre Camillo di Dura duca di Erchie (cavaliere napolitano di gran
valore, prudenza e bontà) partì per Roma, dove si trasferiva a esercitare la carica di mastro di
campo generale dell’esercito ecclesiastico conferitagli da papa Innocenzo XII. In seguito, la sera
di sabato 18 dicembre, giungerà un corriero straordinario dal governatore di Milano con un
messaggio al mastro di campo generale Fernando Gonzales de Valdés, figlio naturale di Filippo
IV, nel quale lo si informava che Carlo III lo aveva nominato governatore del castello di Milano;

356
in verità si trattava d’una carica formalmente inferiore, ma sicuramente il sovrano aveva previsto
i modi retributivi per risarcirlo.
Tra la fine d’ottobre e l’inizio di novembre compagnie di fanteria spagnola e una di 100 fanti di
nuova leva furono inviate di rinforzo alla fortezza di Porto Longone e poi dopo qualche giorno si
distribuirono patenti per la formazione d’un altro terzo di fanteria destinato anch’esso a
rinforzare le guarnigioni dei Presidi di Toscana, dove negli ultimi tempi c’era stata, come
abbiamo già detto, una notevole mortalità di soldati; altre patenti per la leva di ulteriori 500 fanti
da inviarsi nei detti Presidi saranno poi distribuite alla fine della seconda settimana di dicembre.

(Genova, sabato 6 novembre:) Lunedì capitò qua il governatore di Valenza, che il giorno
seguente partì per Napoli sopra una felucca (ib.)

Interessante, tra l’altro, costatare anche qui come i passaggi marittimi spediti destinati a
personaggi di qualità non fossero prestati a mezzo di galere, come era avvenuto sino all’inizio
del secolo, ma con feluche; altro segno questo che la navigazione veloce velica, raffinatasi nel
tempo, stava ormai per prendere il completo sopravvento su quella remiera. L'ultimo
avvenimento militare di rilievo del 1694 a Napoli sembra sia stato l'arrivo, nella prima metà di
dicembre, di due compagnie di fanti spagnoli da Valenza in Spagna (tutta bella e scelta gente),
destinate presumibilmente al reclutamento del terzo fisso del mastro di campo Espluga, e si
trattava con ogni probabilità delle compagnie andate a reclutare in Spagna dai capitani Andrea
Urziz y Caz e Francisco de la Manca, mentre alla ricerca di spagnoli da reclutare che fossero
già in regno si metterà l’anno seguente il cap. Christóval de Ybarra.
Per quantoriguara i principali eventi bellici europei di questo 1694, diremo che nel febbraio i
veneziani, dopo una duplice sanguinossissima battaglia navale sostenuta nelle acque di Scio
contro forze turche preponderanti, avevano risolto di abbandonare nuovamente l’isola al
nemico; la riprenderanno il 15 ottobre successivo con l’ausilio delle squadre di galere pontificia
e maltese. In Catalogna il 27 maggio il maresciallo de Noailles aveva sconfitto il duca
d’Ascalona nella battaglia del fiume Ter ed era così avanzato sino a prendere Gerona e altri
importanti centri abitati; sul mare invece prevaleva l’armata anglo-olandese, la quale, dopo aver
pesantemente bombardato le maggiori città costiere della Francia nord-occidentale, aveva
ricevuto ordine di spostarsi nel Mediterraneo, costringendo le forze navali francesi a rifugiarsi a
Tolone e a togliere il loro supporto al Noailles, il quale quindi, a sua volta, era dovuto arretrare di
molto le sue posizioni in Catalogna. Infine il 6 ottobre i turchi erano stati sonoramente sconfitti

357
da polacchi e lituani in una grande battaglia avvenuta in Podolia; a quest’epoca i turchi
combattevano ancora con sterminate masse d’uomini armati in gran maggioranza di archi:

… Dalla parte de i polacchi restarono morti solamente 10 dragoni, un tovarisz (‘ausiliario slavo’)
e 2 soldati communi, feriti 40 incirca, cavalli però molti ammazzati. E questo non è favola a chi
sa che, i polacchi essendo cuoperti con giacchi di maglia e gli ussari con petti di ferro, non
possono ricevere le freccie de’ i tartari, se non i communi soldati ed i cavalli (An. Succinta
relazione della gloriosa vittoria ecc. Ib).

1695. All’inizio di gennaio, per mancanza di legni più grossi, furono imbarcati su otto feluche 50
fanti e un capitano di nuova leva e spediti a Finale, da dove avrebbero proseguito via terra per
lo Stato di Milano.

(Napoli, 11 gennaio:) Molti soldati napoletani che, disertando dall’esercito di Catalogna, erano
ritornati in questa città, sono stati condannati alla galera (A.S.V. Nun. Nap. 119).

Nella terza settimana di febbraio si cominciò a carenare e a provvedere del necessario la


squadra di galere di Napoli, appena ritornata, per renderla così al più presto pronta a ogni
esigenza:

… La difficoltà maggiore sarà in ritrovar la ciurma per esserne perita una gran parte nella
navigazione della passata campagna (ib.)
Qui, non essendoci stati nei mesi precedenti né grandi battaglie marittime né importanti
ammutinamenti, si era trattato certamente delle solite epidemie che, in ambienti così ristretti e
sovraffollati quali erano appunto le galere, purtroppo non mancavano mai; la somministrazione
di acqua spesso infetta e di cibi talvolta avariati, le conseguenti dissenterie, la quasi inesistente
igiene post-defecatoria, provocavano frequenti infezioni coleriche, alle quali s’aggiungevano
quelle, ancora più frequenti, dovute all’esposizione alle intemperie (i remieri dormivano
all’aperto in coperta, protetti di notte da una grande tenda). Mentre l'Europa faceva preparativi di
guerra per il teatro dell'Italia settentrionale, nel regno si ripresero intensamente le leve e a
Napoli s’andava facendo preda di vagabondi da reclutare per la Catalogna, dove la guerra era
già in corso:

Si vanno tuttavia prendendo per la Città persone disutili e vagabonde per servire la guerra e si
portano nell'arsenale per lo bisogno di soldatesca che vi è particolarmente alla guerra che fa il
Francese nella Catalogna (D. Confuorto, Gior.)

358
Era difatti molto importante in quel tempo poter dimostrare o fingere di avere un lavoro e di non
farsi trovare da birri e reclutatori a ciondolare oziosamente per la città. Nella terza settimana di
febbraio nell’arsenale le reclute rinchiuse nell’arsenale avevano raggiunto già il numero di 800.
C’è da chiedersi come si facesse nelle campagne del regno, dopo lunghe o ripetute guerre, a
reperire braccianti per i raccolti, ma la verità è che, soprattutto per questo motivo delle
incessanti leve militari, ai lavori dei campi erano adibite soprattutto le donne, come del resto,
seppure sotto la guida di caporali maschi, anche a quello gravosissimo del trasporto di corbe di
terra per la costruzione dei terrapieni militari.
Il Confuorto giustifica questo modo di reclutare asserendo che molti dei giovani poveri così
razziati dai birri in fondo se lo meritavano, poiché si trattava di persone indigenti non per
costrizione, ma per la loro poltroneria e il non voler lavorare; in realtà a Napoli c'era in quei
tempi lavoro per tutti, trattandosi di una città operosa e fortunata dove tutte le arti e tutti i
mestieri erano praticati, e quando proprio un’attività stabile non si fosse riuscita a trovare un
giovane poteva sempre fare il lazzarone, ossia uno che dormiva per strada o in una barca sulla
spiaggia e sbarcava il lunario facendo del facchinaggio spicciolo. E’intuibile che corpi militari
costituiti da simili elementi e da briganti accordati dovessero essere governabili sicuramente
solo con l'aiuto delle punizioni corporali, le quali allora erano di prassi comune sia nell'esercito
sia in marina, e non potevano certo diffondere all'estero una buona fama dei napoletani,
inconveniente questo che dura purtroppo ancor oggi. Quest'ultima leva forzata doveva aver dato
i suoi buoni frutti se un avviso da Milano del 4 maggio informava che 800 soldati da poco arrivati
da Napoli erano stati distribuiti tra i terzi napoletani e spagnoli che facevano parte dell'esercito di
Lombardia.
Lunedì 7 marzo furono rassegnati nell’arsenale 700 coscritti e poi, imbarcati su alcune tartane,
dopo qualche giorno partirono per la Catalogna; ne restavano altre quattro compagnie, le quali
però sarebbero servite per rinforzare Porto Longone e Port’Ercole. Si distribuivano frattanto altre
patenti di leva e, poiché i capitani nominati, trovavano ormai difficoltà a reperire volontari, si
andavano arrestando con la forza le solite persone inutili e vagabonde; si sollecitarono inoltre i
presidi delle province perché inviassero scrupolosamente a Napoli tutti i condannati, dovendosi
completare le ciurme delle galere, le quali, come da ordine reale, sarebbero dovute salpare per
Barcellona nella prima settimana di maggio. La sera di lunedì 28 dello stesso marzo, essendo
pronti nell’arsenale altri 500 fanti di nuova leva, furono imbarcati su quattro tartane per passarli
a Finale Ligure e poi a Barcellona per la recluta dei due terzi italiani che colà operavano e già

359
dopo un solo mese ne saranno stati raccolti ulteriori 500 nel suddetto arsenale, dove pure si
continuavano ad ammassare munizioni da guerra per lo Stato di Milano e per il duca di Savoia.
Nella seconda decade di maggio arrivò da Barcellona con viaggio veloce di pochi giorni una
barca che portò conferma di una ferale notizia e cioè del naufragio di una grossa tartana
napoletana, una cioè delle suddette quattro che avevano lasciato Napoli il 28 marzo
precedente, con perdita di tutte le soldatesche che vi erano state imbarcate. Guerre, epidemie,
naufragi, solo diversi ufficiali maggiori e generali e qualche soldato disertore riuscivano a
ritornare in regno e a rivedere le loro case!
Nello stesso maggio galere napoletane, partite dai Presidi di Toscana sotto il comando di
Marino Carafa bloccarono e presero l’isola di Ponza, la quale era in quel tempo proprietà del
duca di Parma, ed il cui governatore, un calabrese, aveva dato asilo a un corsaro francese e
cannoneggiato le galere napoletane quando queste precedentemente si erano avvicinate per
catturarlo; tolta quindi l’isola al Farnese, il Carafa vi pose di guarnigione una compagnia di fanti
spagnoli. La notte di sabato 28, sempre di maggio, scortate dalle otto galere di Napoli condotte
dal loro capitano generale Beltrán de Guevara duca di Nájera, salparono dal porto della capitale
per la Catalogna 11 tartane cariche d’altre 500 nuove reclute regnicole che stavano
nell’arsenale:

Questo Eccellentissimo signor Vice-Ré, doppo aver fatto ridurre a perfezzione lo scritto terzo di
mille fanti italiani, tutta scelta e bella gente, avendo fatto dar loro armi e abiti nuovi, li fe' partire
sabato trascorso sopra ben corredati legni sotto il comando del consaputo maestro di campo
don Domenico Caracciolo della Torella…

C'è qui da notare il termine maestro usato, alla spagnola, al posto di mastro, questo invece
italiano. Le suddette tartane portavano inoltre viveri, munizioni e denaro per l'esercito di
Catalogna, il quale, con l’appoggio dell’armata di mare inglese comandata dall’ammiraglio
Russel, combatteva allora contro quello francese; le galere portavano invece soldatesca
spagnola e attrezzature militari a Genova, dove arriveranno il giorno 11 giugno, anche per
attendere colà d’imbarcare in cambio 200 condannati al remo spediti proprio in quei giorni dalla
Lombardia, come da avviso da Milano del giorno 16, galeotti che avrebbero poi dovuto recare
alle galere del duca di Tursi che si trovavano in Spagna; infatti i forzati provenienti dallo Stato di
Milano erano tradizionalmente riservati a quella squadra e le galere napoletane non erano
autorizzate a servirsene. In realtà, quando, dopo qualche giorno, detti forzati arrivarono a
Genova, furono sì immediatamente imbarcati sulle dette galere per essere passati a Barcellona,

360
ma non erano 200, bensì solo 95; era errato quel numero di 200 avvisato da Milano o ce neera
stata una spaventosa moria lungo la strada? Le dette galere arriveranno a Barcellona l’8 luglio.
A fine giugno furono inviate in più riprese ai magazzini militari della piazza di Finale quattro
barche, in questo caso le solite tartane, cariche di bombe, granate, polvere da sparo e altre
provvisioni militari per l'esercito alleato che campeggiava sotto Casale in Piemonte, fortezza
occupata dai francesi, ma che Vittorio Emanuele di Savoia riuscirà a riprendersi, arrendendoglisi
la stessa il 9 luglio, riacquisto a cui parteciperà il solito terzo napoletano d’Antonio di Francia,
mentre per via di terra si mandavano 25mila scudi per mezzo di un corriero espresso; le quattro
suddette barche, le quali non arriveranno a Finale prima dell’inizio d’agosto, saranno scortate
colà da due galere sarde che proseguiranno poi per la Catalogna. La fondizione di bombe e
granate avveniva nelle ferriere di Stilo in Calabria; da lì le s’inviava alla polveriera di Torre
dell’Annunziata, dove le si riempiva generalmente di polvere, misture incendiarie e mitraglia e
dove le si muniva di miccio (oggi diremmo ‘spoletta’); poi le si trasferiva all’arsenale dove
s’immagazzinavano in attesa di spedirle ai teatri di guerra esteri.
Frattanto il 10 giugno i veneziani avevano frattanto conseguito una grande vittoria sui turchi nei
pressi di Argos in Grecia; in Fiandra invece l'esercito francese, comandato ora dal duca di
Villeroi, era all’offensiva e bombardava terribilmente e molto riprovevolmente Bruxelles con i
suoi famosi e tremendi mortari, distruggendo gran parte della città, e ciò per controbilanciare
l’assedio di Namur, la quale però cadde egualmente, riconquistata da Guglielmo III d'Orange re
d'Inghilterra il 5 settembre con opere d’assedio condotte dal famoso ingegnere militare Menno
von Coehoorn; dal canto suo nell’agosto la flotta inglese bombardava di nuovo il porto francese
di Saint Malo in Normandia e poi Dunkerque, tentando nuovamente di utilizzare al meglio una
sua machine infernal, ma anche stavolta, come abbiamo già ricordato, si trattò di un chiaro
insuccesso e la sua squadra navale si dovette ritirare. Ebbero invece la peggio i transalpini in
Piemonte, dove l’11 luglio s’arrese al nemico la piazza di Casale, uscendone il presidio francese
con otto cannoni e a tutte le altre solite condizioni onorifiche. La notizia di questa importante
vittoria fu portata a Napoli da una feluca inviata dal residente di Spagna a Genova e arrivata in
soli quattro giorni di veloce navigazione; fu poi presto confermata ufficialmente da un mastro di
campo appositamente inviato dal governatore di Milano e giunto la mattina di mercoledì 20
luglio; il viceré fece subito cantare un Te Deum di ringraziamento nella Chiesa del Carmine
Maggiore.
Sono della seconda metà di agosto le prime notizie che davano in corso a Baia la costruzione
d’un grande vascello da guerra, costruzione insolita per i cantieri partenopei, tradizionalmente

361
esperti in vascelli remieri e latini, ma non in grandi vascelli a prevalente vela quadra, cioè quelli
che sino a non molti anni prima si era usato chiamare vascelli tondi, data la somiglianza che si
vedeva tra il garbo del loro scafo e il corpo del pesce tondo (‘tonno’); certo c’era stato il
napoletano Sant’Antonio che aveva partecipato alla guerra di Messina, ma non c’è memoria che
fosse stato costruito nei cantieri del regno e non piuttosto acquistato all’estero, come allora già
correntemente s’usava. Certamente richiesto dalla corte di Madrid per sfruttare maggiormente le
risorse finanziarie del regno, si diceva che fosse da 50 cannoni, ma in realtà, come presto
vedremo, sarà da 80.
Come ogni anno, mercoledì 7 settembre si commemorò a Napoli la grande vittoria cattolica di
Nördlingen e il dí seguente la ricorrenza della Natività della Madonna in tutte le chiese, ma
specialmente in quella di Piedigrotta, giorno festivo che fu però angustiato da tre forti e
spaventose scosse di terremoto, come ricorda il già menzionato Operti; in quegli stessi giorni
arrivava a Napoli una tartana che portava una compagnia di fanteria spagnola reclutata dal
capitano Bartolomé Baldazano, il quale ne aveva ricevuto patente dal viceré; poco dopo 200
fanti italiani furono inviati alle piazze di Toscana in rinforzo di quei presidi, i quali costituivano il
principale baluardo anti-francese di tutto il Tirreno e nell'anno 1700 risulteranno formati da una
guarnigione complessiva di 1.300 uomini. Verso la metà di settembre arrivò l’alcance (‘corriere
straordinario di Spagna’) con la notizia della suddetta caduta di Namur, vittoria considerata così
importante da esser festeggiata a Napoli per un’intera settimana.
A metà ottobre si dettero altre patenti per assoldare altri 500 uomini da inviare ai soli Presidi di
Toscana, perché, per quanto riguardava la Catalogna, le perdite in questa campagna erano
state poche e cioè solo pochi uomini morti d’infermità, e nell’ultima decade dello stesso mese
furono imbarcate per Porto Longone altre compagnie di nuova formazione che si trovavano
nell’arsenale e che dovevano dare il cambio a quelle che già servivano in quella piazza; queste
ultime, addestrate se non alla guerra, perlomeno alla vita di presidio e di conseguenza alla
subordinazione militare, dovevano infatti essere inviate in Catalogna; ma già altre leve erano in
corso, anche se i giovani utili incominciavano ormai a scarseggiare:

(Napoli, 8 novembre:) Si è dato già principio a formare diverse compagnie di soldati per
rinforzare i Presidii di Toscana e, per la poca gente che si trova, hanno avuto ordine i capitani di
assoldare anco con la forza i forastieri vagabondi e le persone inutili di questa città (A.S.V.
Nun. Nap. 120).

Domenica 30 ottobre era frattanto arrivato al viceré un tradizionale tributo ogni anno che la
repubblica dalmata di Ragusa (oggi Dubrovnik), oltre a quello molto più sostanzioso di 12mila
362
zecchini dovuto al Gran Turco, riconosceva al sovrano delle Spagne e si trattava di 12 bellissimi
falconi da caccia.
La sera di domenica 27 novembre tornò a Napoli Giuseppe Dazza, incontrato da alcuni eleganti
tiri a sei di principali ufficiali generali di Napoli; egli era stato di recente giubilato dal suo lungo
incarico di generale della cavalleria leggera dello Stato di Milano ed ottenuto dal re la carica di
mastro di campo generale a Napoli, il che significava aver concesso a quest'ottuagenario
ufficiale napoletano di chiudere nella sua città natale la sua valorosa carriera e
contemporaneamente la sua vita; la nomina ufficiale arriverà solo nel luglio successivo, ma il
suo nuovo stipendio già decorreva e lo dimostra un documento di cassa militare (A.S.N. Tes.
An. fs. 143) che riporta un esborso di 550 ducati per suo soldo del mese di dicembre del 1695,
uno stipendio grosso davvero e pari a quello che aveva goduto il predecessore del Dazza, ossia
il mastro di campo generale Fernando Gonzales de Valdés, il quale - com'anche risulta dalla
predetta cassa militare - lo aveva ricevuto ultimamente per il trimestre gennaio-marzo dello
stesso 1695, aggiungendosi a questo ducati 247.2.10 mensili per suoi alimenti.
Al Dazza, in qualità dunque di nuovo commissario della cavalleria leggera dello Stato di Milano,
era nel mentre subentrato il napoletano Gaetano Coppola, carica che era terza per importanza
nella detta cavalleria dopo quelle di generale e di tenente-generale; il Coppola sarà in seguito
nominato tenente generale della cavalleria straniera e poi sargente generale di battaglia, grado
molto alto, a cui, come vedremo, la sua prestigiosa carriera nemmeno si fermerà.
Furono alla fine dell’anno dispensate ancora altre patenti di leva di compagnie da inviare
stavolta nello Stato di Milano, mentre erano ormai pronte nell’arsenale le reclute per la
Catalogna.

1696. Verso il 20 gennaio morì a Napoli un vecchio e valoroso soldato, il sargente generale di
battaglia barone Vincent Misnot di nazionalità fiamminga, il quale aveva servito
ragguardevolmente la Corona per lunghi anni; fu sepolto nella chiesa dei Padri Predicatori al
Monte di Dio. Sabato 21 dello stesso mese quattro galere della squadra del regno partirono per
dar la muta ai presidi delle fortezze di Toscana, dove portavano a tal scopo nove compagnie di
fanti spagnoli del terzo fisso, e fecero ritorno sabato successivo con le soldatesche sostituite;
ancora quattro galere, probabilmente le stesse, partirono lunedì 7 del mese successivo, cariche
anch'esse di fanti spagnoli, stavolta per mutare il solo presidio della real piazza di Longone, e
tornarono dopo il 20; verso il 25, comandate dal capitano Rossetti, arrivarono anche quattro
galere del duca di Tursi provenienti dalla loro base di Gaeta, dove erano state appena

363
spalmate, e all’inizio del mese seguente, poiché si vociferava che la flotta francese del
Mediterraneo avesse preso il mare, queste portarono, ancora a Porto Longone, ben 12
compagnie di sperimentati spagnoli, cioè in tutto 540 soldati e 30 ufficiali, più un mortaro, due
cannoni, abbondanti munizioni da guerra e da bocca e altre attrezzature belliche; il che fa
ritenere che a questo punto la maggior parte del terzo fisso di Napoli fosse stato schierato a
difesa dello Stato dei Presidi e quindi non sembra dunque un caso che il nunzio pontificio
prenda adesso a dire Marino Carafa commissario generale delle piazze spagnuole in Toscana;
le galere del duca di Tursi faranno ritorno a Napoli domenica 18 marzo.
In quel mentre lunedì 6 febbraio era morto un altro famoso militare, stavolta però napoletano e
dei più celebri del suo tempo; si trattava del più volte già nominato generale dell'artiglieria del
regno Marzio Origlia duca d'Arigliano, cavaliere di Calatrava e nobile del Seggio (‘sesto
cittadino’) di Capuana; fu sepolto privatamente nella chiesa privata della sua famiglia a Monte
Oliveto; con lui s’estingueva una delle più nobili famiglie napoletane. Presumibilmente per
andare a richiedere il posto dell’Origlia, verso la fine della prima decade di febbraio partì per le
poste alla volta di Madrid Restaino Cantelmo principe di Pettorano ora anche nuovo duca di
Popoli e quindi doveva in quel mentre esser morto il fratello che aveva portato sinora quel titolo;
infatti all’inizio del giugno seguente giungerà notizia a Napoli che il re gli aveva conferito il detto
generalato.
Alla metà di febbraio arrivò a Napoli da Vienna un altro ufficiale che faceva onore alla sua patria
e cioè il tenente colonnello di cavalleria Paolo Carafa duca di Bruzzano, il quale, trovandosi al
servizio cesareo, aveva partecipato ai più recenti fatti d'arme contro i turchi nell'Europa
orientale.
Con avviso di Livorno pubblicato a Genova il 18 febbraio si seppe che il padrone napoletano
Grattacascio, comandante di una grossa barca armata a corso, si trovava ormeggiato a Livorno
quando, vedendo partire da quel porto neutrale una barca francese che andava a Tripoli a
portarvi alcuni schiavi riscattati, era salpato anch'egli e, raggiunta al largo l'imbarcazione
francese, l'aveva impegnata in un ostinato combattimento con morti e feriti d'ambo le parti; alla
fine l'aveva catturata e sembra che avesse già catturato in precedenza un vascello corsaro
inglese, ma ritroveremo forse più avanti le gesta di quest'intraprendente corsaro napoletano.
Domenica 11 marzo s’incamminò verso i confini del regno la compagnia di corazze della
guardia comandata da Nicolò Coppola di Canzano, mentre l’altra, capitanata da Partenio
Petagna principe di Trebisacce, accompagnava il conte di San Estévan a Gaeta; tutti andavano
a ricevere il nuovo viceré e capitano generale del Regno di Napoli, il cui nome completo -

364
ricavabile dalla locandina d’una rappresentazione teatrale romana del tempo data in suo onore -
era Luis Francisco de la Zerda y Aragón, Enriquez Afán de Ribera, Ramón Folch de Cardona,
olim Fernandez di Córdoba, marchese di Cogolludo e duca di Medinaceli e d’Alcalà, conte di
Ampurias etcetera, cameriere di Sua Maestà, il quale era stato un tempo, come già sappiamo,
capitano generale delle galere di Napoli e in seguito ambasciatore di Spagna a papa Innocenzo
XII, arrivava ora via terra appunto da Roma e un po’ improvvisamente, perché privatamente; ciò
nonostante la detta cavalleria l’avrebbe poi ugualmente scortato fino a Napoli insieme alla
compagnia di alabardieri svizzeri, i quali però, essendo dei fanti, si erano limitati ad andare ad
aspettare il nuovo venuto a Sant’Antonio Abbate. In realtà la promozione del Medinaceli a
viceré era avvenuta già nel settembre o nell’ottobre del 1694 e ne era arrivata infatti allora
notizia a Genova, portata da un corriere approdatovi con una tartana da Barcellona la sera del
sabato 6 novembre di quell’anno. Il nuovo viceré arrivò a Napoli martedì 20 e fu alloggiato a
Pozzuoli nel famoso palazzo detto di Don Pietro; recatosi poi a palazzo in forma privata a
contraccambiare l’accoglienza ricevuta a Capua dal viceré uscente, il conte di San Estévan,
costui gli rinnovò presto l’omaggio recandosi alla predetta dimora di Pozzuoli dove però aveva
già inviato al nuovo viceré una compagnia di guardia (gareggiando questi gran personaggi tra di
loro negli atti di galanteria, generosità e compitezza. Avvisi di Napoli).
In quei giorni un avviso genovese del 17 marzo informava esser colà arrivato lunedì precedente
un picciol vascello - con ogni probabilità una tartana, da cui erano sbarcati a Finale 256 soldati
venuti da Napoli e da Porto Longone.
Mentre ancora finivano di giungere a Napoli le ben nove tartane che portavano il bagaglio del
nuovo viceré, includente un treno di tre splendide carrozze che erano che le più belle e ricche
che si fossero mai viste, lo stesso duca di Medinaceli già firmava la concessione di patenti per
una leva di altri 500 fanti regnicoli per le fortezze di Toscana, considerandosi allora le stesse
particolarmente esposte al nemico francese, e ordinava che si rivestisse immediatamente di
nuovo tutta la fanteria spagnola; mercoledì 4 aprile il conte di San Estévan lasciava Napoli con
la sua famiglia per tornarsene in Spagna e raggiungeva Gaeta, portatovi da cinque galere dei
particolari genovesi, le quali furono presto seguite dalle altre due galere della stessa squadra
con il resto dei suoi famigli; bisogna pensare che il numero delle persone al seguito di questi
personaggi era elevatissimo, per esempio nel corso dello stesso mese d’aprile, proveniente
dalla Spagna e diretto a Palermo, passerà per Genova il duca di Veraguas, nuovo viceré di
Sicilia in sostituzione del duca di Uzeda, con una famiglia di più di cento persone! Con le
suddette altre due galere partì pure il reggente della Gran Corte della Vicaria Francesco

365
Marciano che si recava anch’egli a Madrid, ma per prender possesso del suo nuovo incarico di
membro del Supremo Consiglio d’Italia; questi sarà sostituito da un militare e cioè dal mastro di
campo spagnolo Martín de Castrejon, usandosi allora correntemente impiegare alti ufficiali
militari, ormai troppo anziani per continuare a esercitare la milizia, in posti molto elevati
dell'amministrazione civile del regno e ciò anche a titolo di riconoscimento dei meriti di servizio
accumulati nel corso della carriera militare.
Non appena il tempo fu di nuovo favorevole, il che avverrà solo dopo Pasqua, le dette sette
galere del duca di Tursi proseguirono con la ex-viceregina e tutta la sua famiglia per
Civitavecchia, da dove dovevano con l’occasione rimorchiare a Genova un buco (‘uno scafo’) di
galera, e poi appunto per la Liguria, dove arriveranno non prima del mercoledì 9 maggio
insieme a sei grosse barche, presumibilmente tartane, cariche del bagaglio dei San Estévan; In
quel mentre infatti il conte, per anticipare appunto i non favorevoli tempi marittimi e poter far
fronte così a suoi ulteriori impegni in Italia, aveva lasciato i suoi e proseguito via terra verso
Roma. A Genova il San Estévan e tutti i suoi sarebbero stati ospitati dal duca di Tursi nel suo
palazzo e già lo si stava appunto preparando a tal scopo; egli si era inoltre anche già premurato
d’ottenere da quella Signoria altre due galere per poter continuare, con queste e con le suddette
barche del bagaglio, il suo viaggio verso Barcellona costeggiando la Francia, percorso per cui
già si era ottenuto anche il necessario lasciapassare dal Re Cristianissimo. Singolari queste
cortesie tra regnanti anche quando erano in procinto di farsi la guerra! Infatti le due monarchie
si stavano già allora preparando a un nuovo, imminente conflitto in Catalogna e in Alta Italia.
All'inizio d'aprile il nuovo viceré duca di Medinaceli conferì anche la capitania di una delle due
compagnie di corazze della guardia appena lasciata vacante dal predetto principe Partenio
Petagna e la detta al cavaliere gerosolimitano commendator fra’ Ventura Saracini, mentre
dell'altra rimaneva capitano Nicolò Coppola; capitano degli alabardieri svizzeri della guardia era
invece in quel tempo ancora il marchese Pompeo Azzolini e suo tenente il cavaliere di San
Giacomo Pietro Santa Colomba.
Alla fine della prima decade d'aprile dalle province del regno arrivarono nella capitale due
catene di condannati al remo per vari delitti per un totale di una cinquantina di forzati e si diceva
che il nuovo viceré intendesse rinfoltire le ciurme delle galere facendo arrestare più furbi e ladri
che fosse possibile; infatti lo stesso Medinaceli aveva ordinato il celere allestimento della
squadra del regno e aveva dato disposizioni perché si condannassero alla voga forzata tutti i
ladri e i malviventi che si riuscisse ad arrestare, perché si fosse così in grado di portare tutta

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l'assistenza possibile alle truppe regie in Piemonte e Lombardia o anche a Barcellona in vista
della nuova prossima campagna contro la Francia:

(Napoli, 17 aprile:) Continuano in tanto a capitare in questa dominante da diverse provincie del
regno catene di condennati per vari delitti al maneggio del remo e ogni giorno qui cadono in
potere della giustizia furbacchiotti che giuocano di mano per ricevere castigo adeguato a loro
delitti, volendo in ogni conto Sua Eccellenza estirparli tutti (A. di Costanzo).

Per giocatori di mano s’intendevano probabilmente i tanti che si guadagnavano da vivere


imbrogliando per le strade la gente con giochi di destrezza, quale per esempio l'ancora praticato
giuoco delle tre carte.
Nella seconda decade del mese fu ordinata anche la leva di alcune compagnie per riempire i
vuoti determinatisi ultimamente nel terzo napoletano di Catalogna.
Sabato 21 aprile, a quanto ricorda l’Operti nella sua già più volte citata relazione, ci fu a Napoli
un inizio di sommossa popolare, di cui però non spiega né gli aspetti né le motivazioni; il giorno
seguente ci fu la cavalcata pubblica di due viceré, quello entrante e quello uscente,
accompagnati dalle due compagnie di cavalli corazze della guardia con i loro suddetti capitani
Coppola e Saraceni, dagli alabardieri guidati stavolta da due capitani e cioè il marchese
Pompeo Azzolini e uno spagnolo, certo Tenendo (sic), dal cavallerizzo maggiore e da un
numeroso seguito di palafrenieri e lacchè; nella stessa domenica 22 il Medinaceli fece rimettere
50mila scudi al governatore della Lombardia, il marchese di Leganés, da spendersi per le
occorrenze della guerra, ossia un ennesimo di quei ricorrenti sussidî in denaro che, unitamente
a quelli in uomini e armi, Napoli inviava a Milano da più di un secolo e mezzo. Poi ci fu la
partenza dell'ex-viceré conte di San Estévan e della sua famiglia, portati da cinque delle sette
galere del duca di Tursi prima a Gaeta e poi a Genova, mentre i loro bagagli, includenti un treno
di carrozze tant'opulento da essere famoso, viaggiavano su ben nove tartane.
All'inizio di maggio capitò a Napoli il conte de Aguilar, mastro di campo del terzo fisso spagnolo
di Lombardia e governatore di Novara, il quale stava facendo un giro per l'Italia, viaggio che non
sappiamo se avvenisse in forma privata o pubblica né, nel secondo caso, con quale mandato;
ripartirà la sera di lunedì 7 maggio. In questi giorni poi, essendosi inteso che qualche legno
corsaro turchesco e francese andava infestando le acque delle riviere del regno, il viceré aveva
fatto provvedere di munizioni da guerra e da bocca quattro galere napoletane e lo stesso
predetto giorno 7 le fece salpare in traccia di tali corsari sotto il comando del cuatralbo della
squadra Lorenzo de Villavincencio. A proposito di questo grado di cuatralbo, pensiamo che sia il
caso di spendere qualche parola per spiegarne la funzione e diremo pertanto che il nome non
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deriva affatto, come molti hanno scritto da ‘quattr'alberi’, dall'essere cioè grado di comando di
quattro galere e ciò anche se, sia in questa circostanza sia in altre che si leggono per esempio
nell'opera del Cervantes, se ne parla appunto in occasione di squadriglie di quattro galere,
essendo questa, come si può notare anche leggendo queste cronache, una suddivisione tattica
molto comune delle squadre di tali vascelli; che non sia così lo dimostra anche proprio il
Villavincencio, il quale era, come s’intende, il cuatralbo della squadra di Napoli e non uno dei
cuatralbi. In effetti il nome significa ‘quadro albo’ e cioè si riferisce a quella banderuola quadrata
e bianca che mostravano sul calcese di maestra le galere dei vice-comandanti di squadra;
quindi era questo il secondo grado di comando di una squadra di galere - dopo quello di
capitano generale o di governatore - e si trova raramente in squadre non grandi qual era quella
di Napoli, la quale contava in questo periodo solo otto galere. Ecco a tal proposito un avviso da
Genova del 4 gennaio 1687 che riferiva una controversia di saluti marittimi nata in quel porto
proprio a causa della presenza di un vessillo quadro:

… Sono entrati in questo porto 8 vascelli olandesi venuti da Cadice con scorta di due comandati
dal conte di Stirum, quale, per avere il carattere di vice-ammiraglio, portando la bandiera quadra
al trinchetto, pretese il saluto della città, ma gli fu risposto che si osservarebbe la consuetudine;
al che, sogiongendo volere il saluto del pari, finalmente si risolse a salutare con 7 tiri,
rispondendoseli con 5, e, per dimostrare la sua sodisfazione, ringraziò con altri 3 (B.N.NA. Sez.
Nap. Per. 120).

Approfittando poi della circostanza che siamo ad argomenti strettamente filologici, vogliamo
anche spiegare perché, nel caso delle galere, si parli di squadre e invece, nel caso di velieri da
guerra, d’armate; ciò nasce dalla circostanza che ab antiquo le galere viaggiavano in una
formazione appunto dalla forma di squadra, ossia la Capitana avanti in un ideale angolo retto e
tutte le altre galere della formazione gradatamente più indietro, formanti le due semirette
dell'angolo; cosa questa che non era invece praticabile dai velieri, i quali, spinti dal volubile
vento e dotati di superfici veliche diverse, non potevano facilmente mantenersi a interdistanze
fisse, com'era possibile invece alle galere spinte da una voga controllata dai comiti e com'è
possibile oggi alle squadre di vascelli a elica.

... In quel mentre sono capitate da diverse provincie del regno altre numerose catene di
condennati al remo e Sua Eccellenza fa esercitare del continuo gli atti di un'incorrotta giustizia,
senza riguardo né distinzione di persone (A. di Costanzo).

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In effetti, questa mancanza di distinzione tra le persone esercitata dalla giustizia spagnola in
Italia, cioè il perseguire i nobili alla stessa stregua dei popolari - prassi che meravigliava gli
osservatori stranieri, alienò spesso l'affezione della nobiltà alla dinastia asburgica e mantenne
sempre vivo nel regno un attivo e pericoloso partito filo-angioino o filo-francese che dir si voglia;
in realtà l'unica distinzione che si faceva era quella sfacciata a favore dei naturali spagnoli, a cui
si perdonavano o si punivano molto blandamente tutti i reati tranne quello di lesa maestà, a
differenza di quanto facevano invece i cesarei, i quali condannavano molto più correntemente i
propri soldati a pene cruente, per esempio al taglio della mano in caso di furto, uso crudele che
anche la civilissima Venezia praticava correntemente.
Le quattro galere del Villavincencio tornarono a Napoli, sembra sabato 19 maggio, conducendo
con loro una tartana corsara francese, comandata da monsieur La Roche et Reul e armata da
guerra con sei cannoni, 30 petriere e 115 uomini, e inoltre altre quattro tartane e due legni più
piccoli carichi di grano e legnami che la predetta corsara aveva predato nei mari di Calabria e
che sembrava avesse già ammarinati per portarli a vendere in Levante; il Villavincencio l'aveva
abbordata con la sua Padrona - dunque la sua era la seconda galera della squadra, a comprova
di quanto abbiamo più sopra sostenuto - nelle acque di Capo del Cedraro (oggi Cetraro) e
l'aveva sottomessa con l'uccisione di cinque corsari francesi e il ferimento d’altri sette, ma prima
il legno corsaro aveva avuto il tempo di scaricare le sue artiglierie contro la stessa galera che
l'assaliva provocando la morte di un forzato e ferendone altri.

(Napoli, 21 maggio:) Avendo Sua Eccellenza ordinata la fabbrica di due nuove galere, l’una delle
quali per Capitana di questa squadra, ieri in questo regio arsenale, coll’intervento dell’illustre
monsignor di Vidania, cappellano maggiore del Regno, si fece la funzione di benedire due aurati
chiodi e Sua Eccellenza li pose, com’è costume, a suo luogo. ()

Nello stesso maggio si seppe da Madrid che Beltrán de Guevara duca di Nájera era stato
promosso al generalato della squadra di galere di Spagna, mentre al suo posto al comando di
quella di Napoli sarebbe subentrato il marchese d’Aytona, genero dell’ex-viceré conte di San
Estévan, notizia quest’ultima che però presto si rivelerà infondata. Avendo ordinato il Medinaceli
la costruzione di due nuove galere, una di cui avrebbe dovuto essere la nuova Capitana della
squadra, lunedì 21 maggio, accompagnato da monsignor de Vidania Cappellano Maggiore del
regno, si recò nel regio arsenale e piantò, com'era costume, due chiodi dorati che il detto
cappellano aveva benedetto per dare solenne inizio alle costruzioni; frattanto aveva mandato
altri 50mila scudi al Leganés per le necessità della guerra e ancora 50mila ne invierà nella
prima metà d'agosto.
369
Si seppe da Gallipoli che, essendo quei mari infestati da legni corsari turcheschi, il castellano di
quel castello Joseph de la Cueva aveva indotto i capitani di due vascelli olandesi
poderosamente armati di cannoni, i quali si trovavano in quel porto per caricare olii, ad andare
in traccia dei detti corsari e, alla prima loro uscita, i due legni avevano incontrato una caravella
turchesca nei pressi del Capo dell'Alice e le avevano dato la caccia, perdendola però poi di vista
a causa del sopraggiungere della notte; me i vascelli olandesi si erano impegnate a uscire
nuovamente in corso. Una corrispondenza da Livorno del 25 maggio informava, in maniera un
po’ vaga in verità, che un padrone di barca palermitano aveva portato colà la notizia che due
galere napoletane avevano catturato una barca corsara francese comandata da certo signor La
Roquet et Reul, liberando così ben sei legni da carico, quattro dei quali spagnoli, da essa
predati e ammarinati, ossia dotati di un minimo d’equipaggio francese perché potessero
proseguire di conserva con la corsara. Un avviso da Genova del giorno seguente informava poi
che era stato scoperto che una grossa barca napoletana si armava in corso in quel porto in
violazione della neutralità genovese e allora le si era intimato di sbarcare la gente del luogo già
arruolata; ma, non avendo la barca obbedito all'ordine, il maggiore della piazza, autorità
genovese, l'abbordò con quattro barche montate da 100 uomini; arrestato il suo padrone, posti
in galera alcuni soldati disertori che si erano trovati a bordo e sequestrati circa altri 20 giovani,
alla barca - non si sa se con il predetto padrone - fu intimato di salpare perché si andasse ad
armare nei porti soggetti alla Spagna. Questi padroni corsari si chiamavano comunemente -
specie nel secolo precedente - anche armatori e ciò proprio perché, ricevutane apposita patente
dal loro principe, armavano a guerra di corso barche private di proprietà loro o d’altri con cui
entravano in società con il fine di spartirsi le prede fatte sul mare; stranamente è rimasto oggi
questo nome d'armatori per i proprietari di naviglio commerciale, mentre sarebbe stato molto più
proprio quello di padroni, il quale invece cadde in disuso.
Alla fine di maggio il Medinaceli nominò il mastro di campo Domenico Dentice preside della
provincia di Montefusco in considerazione dei suoi meriti militari; il Dentice, nobile della Piazza o
Seggio di Nido, si era sposato alla fine del febbraio precedente e probabilmente i suoi
sopraggiunti doveri coniugali lo avevano indotto a chiedere e a ottenere un incarico non militare
che non lo portasse lontano, almeno per qualche anno, dalla giovane consorte. Continuava
pure il viceré a dedicare molta attenzione a tenere pronte, provviste ed equipaggiate di tutto
punto le galere, avendo anche fatto dare le paghe a ufficiali, marinari e soldati delle stesse; solo
di remieri c'era ancora molto bisogno:

370
... Intanto, premendo Sua Eccellenza con suoi ordini per il celere disbrigo delle cause, ogni
giorno si veggono votar le prigioni di rei di diversi delitti e riempir le medesime galere di
condennati al remo (A. di Costanzo).

Domenica 3 giugno, nell'ambito delle operazioni della guerra d'Italia allora in corso, partirono da
Napoli due tartane che portavano al Finale 400 fanti napoletani per reclutare il terzo della
medesima nazione che serviva nell'esercito dei collegati in Piemonte; portavano inoltre una
compagnia di fanti spagnoli, formatasi d'ordine del viceré e sotto il comando di Blas Loya, la
quale era destinata allo stesso teatro di guerra, mentre si preparavano le otto galere della
squadra regia di Napoli e si davano, come già ordinato, nuovi vestiti alla fanteria spagnola,
destinata a imbarcarsi in buon numero sulla medesima squadra. Le dette tartane giunsero
felicemente a Finale circa due settimane dopo e i 400 fanti regnicoli furono posti in marcia verso
Alessandria, mentre dal Milanese s’inviavano loro 400 vestiti nuovi. Queste soldatesche
arrivarono ad Alessandria verso la metà di luglio unitamente a cinque compagnie di spagnoli
tolti al presidio di Porto Longone e a fanterie svizzere. Come risulta da un partito del vestiario
coevo, in questo 1696 furono spedite a Milano anche compagnie di cavalleria; ma la guerra
d'Italia stava nel frattempo terminando in seguito a un trattato di pace intercorso tra Francia e
Piemonte.
All’inizio di giugno, come già accennato, arrivò dalla Spagna la nomina a generale dell'artiglieria
del regno per il sargente generale di battaglia Restaino Cantelmo duca di Popoli e principe di
Pettorano, fratello dell'arcivescovo di Napoli, nomina che il re Carlo II gli aveva concesso in
sostituzione del deceduto Marzio Origlia e in riconoscimento dei rilevanti servigi militari da lui
prestati alla Corona nella guerra di Messina, in quelle di Fiandra e in altre nel corso della sua
lunga carriera; alla cerimonia d'investitura avvenuta circa una settimana dopo il viceré gli donò
un bastone di comando ingioiellato di gran valore.
Un avviso genovese del 9 giugno portò a Napoli la notizia che due feluconi corsari napoletani, i
quali operavano nelle acque della riviera ligure di ponente, avevano catturato cinque bastimenti,
tra cui due sanremesi che erano da Marsiglia e quindi, avendo trafficato col nemico, potevano
evidentemente essere considerati oggetto di preda. Domenica 10 dello stesso giugno il
cuatralbo Lorenzo Villavincencio uscì al largo con una galera e, facendone sparare i pezzi di
prua, provò le polveri fornite alla squadra e le trovò d'ottima qualità; in quegli stessi giorni
lasciarono il golfo di Napoli cinque galere pontificie arrivate a Baia circa una settimana prima
sotto il comando del cavaliere gerosolimitano Ferretti e che, come il solito, erano dirette a
Messina per poi proseguire verso il Levante, dove andavano a partecipare alla campagna di

371
quell'anno contro gli ottomani; giunte all'isola di Capri, a causa del vento contrario furono
costrette a ritornarsene in porto, per poi ripartire definitivamente due giorni dopo, e questo
contrattempo fu purtroppo solo un prodromo della sorte avversa di questi sfortunati legni; infatti,
giunti nel golfo di Crotone, il maltempo le assalì e la galera Padrona, la S. Alessandro, naufragò
con perdita di tutto l’equipaggio, compresi il capitano comandante cav. Alfieri e il capitano della
fanteria da sbarco conte Saracinelli.
Verso la metà dello stesso giugno il viceré conferì la carica di governatore dell'importante piazza
di Reggio in Calabria al sargente maggiore Gioseppe Garofalo Suarez dei marchesi della
Rocca, anch'egli per i meriti acquisiti in tanti anni di servizio militare, e, sempre nel corso dello
stesso mese, si celebrarono le esequie della regina-madre Maria Anna d’Austria, morta a
Toledo.
La notte di giovedì 14 giugno la squadra delle otto galere di Napoli, imbarcati 400 fanti spagnoli
vestiti di nuovo e suddivisi in quattro compagnie più una nuova compagnia di fanteria italiana,
accompagnata dalle quattro del duca di Tursi che, come sappiamo, sino allora avevano
stazionato a Napoli, salpò comandata dal di loro quatralvo don Lorenzo Villa Vincenzio - il che
ulteriormente dimostra quanto da noi più sopra affermato riguardo al ruolo del cuatralbo, ma
questa condotta dové fermarsi alcuni giorni a Baia a causa dei suddetti venti contrari; poi, dopo
aver toccato Porto Longone, il 7 luglio sbarcò a Pegli le dette soldatesche, le quali il giorno
seguente si misero in marcia verso Serravalle, mentre le galere la notte del lunedì successivo
riprendevano il mare per Barcellona, la quale allora rovinava terribilmente sotto il tiro delle
bombe e delle carcasse lanciate dalle palandre o meglio galeotte da bombardamento della flotta
francese che l’assediava dal mare; nelle acque della Catalogna avrebbero trovato pure le galere
del duca di Tursi, le quali avevano infatti lasciato Genova per quella destinazione nell’ultima
domenica di giugno, ma senza il duca, il quale era rimasto a terra per motivi che non furono
divulgati. Mercoledì 20 giugno aveva in quel mentre lasciato il porto di Napoli per la Calabria, in
traccia di legni pirati o corsari, una tartana corsara il cui armamento era stato concesso dal
viceré al principe di Montesarchio, il quale, come abbiamo già visto, non accontentandosi
evidentemente dei lauti vitalizi che gli avevano certamente procurato le cariche ricoperte nel
corso della vita, cercava in tarda età d’integrarli con questa lucrosa d’attività e si trattava di una
tartana rinforzata, ossia con equipaggio e armamento aumentato, essendo infatti questa armata
di otto cannoni e 36 petriere ed equipaggiata da più di 100 uomini; d’altra parte egli sarà poi
ricordato come un generoso perché sarà solito assegnare ai suoi equipaggi ben un quinto del
valore delle prede catturate.

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Da una lettera di Spagna giunta a Napoli il 9 luglio si seppe che il re aveva conferito i nuovi
generalati delle squadre delle galere di Sicilia, di Sardegna e di Napoli e quest'ultima era andata
non al marchese d’Aytona, bensì al generale della squadra di Sicilia Joseph Fernandez de
Velazco marchese di Jodar, il quale lascerà detto suo precedente incarico il seguente 14
agosto; avrà decorrenza 15 agosto invece la nomina di capitano generale di quelle di Sicilia
conferita a Emmanuel de Silva y Meneses, fratello dell’influentissimo duca dell’Infantado e figlio
del marchese di Alconchel, il quale come vedremo, lo sarà in seguito anch’egli della squadra di
Napoli; infine di quelle di Sardegna aveva avuto il capitanato generale Antonio Branciforte conte
di S. Antonio, carica che egli ancora manterrà nel 1705. La carriera di questi capitani generali
del mare consisteva infatti di solito, come abbiamo già detto, nel passare dal comando di una
squadra di galere più piccola a una più grande. Verso il 10 agosto il duca di Medinaceli inviò
ancora 50mila scudi al marchese di Leganés, allora governatore di Milano, sempre a titolo di
contribuzioni per la guerra contro la Francia; il 15 agosto si arrese Barcellona.
All’inizio di settembre il famoso avvocato napoletano Flavio Gurgo fu fatto giudice della Gran
Corte della Vicaria, secondo un comune uso del tempo certo molto favorevole alla difesa degli
imputati, ma che comunque non era una regola, tant’è vero che circa otto mesi dopo arrivò da
Madrid la stessa nomina per il signor Cesare Invitti, non risultando dalle cronache del tempo
che fosse anch’egli un avvocato, ma solo sembra un raccomandatissimo ufficiale di detto
tribunale; di costui anche si sa che nel corso del secolo seguente o lui stesso o un suo
discendente comprerà il titolo di marchese di Pinto, essendo ormai già da tanto finiti i tempi in
cui i titoli nobiliari si potevano guadagnare solo sul campo di battaglia.
Venerdì 7 si tenne, come al solito, si tenne a corte cappella reale nella Real Chiesa del Carmine
Maggiore per la già più volte ricordata commemorazione della vittoria cattolica di Nördlingen ed
era allora maestro della Real Cappella di Napoli nientedimeno che il grandissimo Alessandro
Scarlatti. Il giorno seguente ci fu il solito corteo vicereale e la solita parata militare al borgo di
Chiaia in occasione della tradizionale festa della Natività della Madonna.
Alla metà dello stesso settembre il grande vascello di 80 cannoni in costruzione a Baia dall’anno
precedente, battezzato San Carlo, fu varato e poi trasferito al largo della Torre di S. Vincenzo a
Napoli per il completamento del suo arredo; questo gran veliero, orgoglio della cantieristica
napoletana, non molto adusa in verità, come abbiamo già detto, a simili grandi costruzioni, era
destinato all'armata oceanica della Spagna, era cioè un ennesimo costosissimo donativo che
Napoli faceva al suo lontano re, dono più che a chiavi in mano, diremmo oggi, dal momento che
lo stesso sarebbe partito già completamente armato ed equipaggiato di marinari e artiglieri

373
napoletani. Che tipo di vascello da guerra si poteva considerare questo? Secondo i criteri di
classificazione francese, i quali si ricavano da due grandi ordinanze di Francia, una del 1670 e
l’altra del 1688, e che poi furono adottati anche da altre potenze, questo era un vascello di
‘primo rango’; ecco dunque la detta distinzione dei vascelli degni di far parte d’un corpo
d’armata:

RANGO - CANNONI – PONTI - LUNGHEZZA DELLA CHIGLIA – PORTATA.


Primo 70 a 120 3 metri 40 a 50 KG. 936.000
Secondo 50 a 70 3 “ 34 a 36 ½ “ 686.400 a 748.800
Terzo 40 a 50 2 “ 34 “ 499.200 a 561.600
Quarto 30 a 40 2 circa “ 30 ½ “ 312.000 a 374.400
Quinto 18 a 20 2 “ “ 24 ½ “ 187.200

Ovviamente la lunghezza complessiva d’un vascello da estrema prua a estrema poppa era,
anche escludendo lo sperone, alquanto superiore a quella della sua chiglia. Il quarto e il quinto
rango, poiché di stazza e numero di cannoni da fregata, dovevano includere appunto le fregate
maggiori, ma non quelle minori né i fly-boats, cioè quei piccoli vascelli mercantili quando invece
armati per il corso veloce; insomma i ranghi concernevano solo i vascelli detti dagli inglesi
capital ships, quelli cioè adatti a partecipare alla linea di fronte in battaglia perché armati,
equipaggiati e regolati a (mo’ di) guerra, in inglese after the manner of war, espressione
trasformatasi dapprima tachigraficamente in man. of war e poi verbalmente in man’ of war. Non
abbiamo trovato questa non difficile interpretazione etimologica in nessun testo inglese di
linguistica e questa circostanza, unitamente a quanto abbiamo già detto a proposito del nome
spagnolo tercio e del francese arquebuse à croc, dimostra quanto siano sempre stati superficiali
– se non addirittura inesistenti - gli studi di filologia militare. Per quanto riguarda gli equipaggi, i
velieri da guerra erano necessariamente montati da equipaggi molto più numerosi di quelli dei
mercantili, portando inoltre a bordo anche fanterie di marina ed un maggior numero di
bombardieri; a partire proprio da questo secolo, diventerà invalso l'uso di calcolare l’equipaggio
loro necessario in base al numero dei cannoni che avevano e ciò indipendentemente dalla sola
necessità di artiglieri, il che significherà sette od otto uomini per cannone nel Seicento e dieci
nel Settecento.
Domenica 16, di ritorno a Livorno, approdarono a Napoli le ora tre galere del granducato di
Toscana, le quali, comandate dal loro governatore Lanfranchi, cavaliere dell’ordine militare di S.
Stefano, venivano dalla fiera di Messina cariche di seta, come facevano del resto tutti gli anni;
stava approfittando del loro passaggio verso Livorno un altro militare napoletano che si era fatto

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molto onore combattendo contro i turchi nell'Europa orientale e si trattava del mastro di campo
Adriano Carafa conte del Sacro Romano Impero e signore di Forlì, il quale era fratello del
sargente generale di battaglia Marino Carafa fratello del duca di Maddaloni cavaliere dell'ordine
di San Giacomo; ripartiranno mercoledì 19, giorno della festa di S. Gennaro. Domenica 23,
sempre di settembre, arrivò un vascello genovese da 40 cannoni, in precedenza predato ai
francesi, il quale trasportava anche 50 pezzi d'artiglieria destinati a completare gli 80 destinati al
predetto vascello San Carlo; evidentemente la qualità della produzione della fonderia di cannoni
di Genova, la quale nei secoli precedenti era stata ben nota per esser tutt'altro che eccellente,
doveva esser ora molto migliorata se Napoli ne comprava i cannoni navali per un vascello
destinato alla più prestigiosa flotta della Spagna. Infine, alla fine del mese, arrivò a Napoli anche
un vascello inglese armato a guerra, il quale ne conduceva seco un altro francese; questo,
mercantile e corsaro allo stesso tempo, appariva notevolmente danneggiato dalle cannonate ed
era stato predato dopo un lungo combattimento avvenuto nelle acque di Cipro.
All’inizio d’ottobre si festeggiò la recuperata salute della regina, la quale era stata di nuovo
malata; poi, dopo qualche giorno, si festeggiò anche la guarigione del re, la cui infermità era
stata, scriveva l’Auria, grave e pericolosa. Questi festeggiamenti erano dovuti, ma il duca di
Medinaceli credeva particolarmente nelle feste come strumento di governo e infatti, laddove
diceva del suo rigore, così anche scriveva infatti di lui il residente sabaudo a Napoli Giovanni
Operti nella sua relazione del 1697:

… Congiunge però a questo un’ottima massima che è di tenere lieta la città, procurando con la
diversità delle feste, nelle quali è magnifico, e con la frequenza d’altri pubblici divertimenti di
distraer l’animo del popolo dal torbido col gioviale…

Una condotta di governo che era stata comunque creduta utile e praticata anche dalla
maggioranza dei viceré che l’avevano preceduto e che più tardi anche i Borboni perpetueranno
con il loro famoso Feste, farina e forca.
Non ostante che il 29 agosto, con il trattato di Torino, si fosse posto fine alle ostilità tra Francia e
Savoia e in seguito, il 7 ottobre, fosse sottoscritto a Vigevano un armistizio tra Francia e impero
che impegnava francesi e imperiali a lasciare i campi di battaglia italiani con inizio dal giorno 20,
il viceré, il quale neaveva ricevuto notizia il 16, qualche giorno dopo fece un ulteriore rimessa di
30mila scudi al predetto governatore di Milano, denaro che arrivò a destinazione per mezzo del
corriero ordinario di Spagna circa due settimane dopo; evidentemente anche la smobilitazione
aveva un suo costo. Nel corso dello stesso ottobre comunque il viceré, probabilmente in

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considerazione della predetta tregua, dispensò parecchie grazie a detenuti civili e militari, questi
ultimi scarcerati dai regi presidi. Al contrario furono senza pietà impiccati due rei di delitto
abominevole, incapace di grazia e, poiché i loro corpi vennero poi dati alle fiamme, c’è da
supporre che si fosse trattato di un reato aggravato dalla pederastia; c’era poi un loro complice
dalle minori responsabilità, il quale, essendo minorenne, scampò la condanna al remo di galera,
ma fu prima fustigato (com’è l’uso) e poi condannato a dieci anni di carcere.
L’ultimo sabato dello stesso ottobre il viceré ricevé il consueto tributo di 12 falconi vivi in nome
della repubblica di Ragusa, tributo che era evidentemente quanto restava di quello originario dei
tempi della resistenza anti-turca degli albanesi e di Giorgio Castriota; alla fine dello stesso
mese, giunse infine un ordine reale a conferma della riforma dell'organico del castello di
Monopoli voluta dal viceré e ne era ora nominato governatore o castellano che dir si voglia
Jerónimo de la Fuente con soldo di 12 scudi mensili; era poi in questo periodo Segretario di
Stato e Guerra del regno uno spagnolo, cioè Diego Cabreros, cavaliere dell’ordine di S.
Giacomo. Un avviso di Genova del giorno 10 o del 16 novembre informava che le otto galere
della squadra di Napoli e quelle della squadra del duca di Tursi avevano lasciato Barcellona e,
mentre le prime dovevano toccare la Sardegna per prendere a bordo il conte de Altamira, nuovo
ambasciatore di Spagna a Roma, e portarlo a Gaeta, le seconde portavano il duca di Nájera,
generale dello stuolo di galere di Napoli e nominato tra aprile e maggio di quest’anno generale
di quello di Spagna, il quale veniva a Napoli a riprendersi la sua gentile consorte e vi resterà
all’incirca fino alla fine del gennaio successivo, quando la coppia lascerà il regno, forse portata
da galere del duca di Tursi, e farà sosta a Livorno. Delle galere di Napoli in effetti tre rimasero in
Sardegna nell’attesa dell'imbarco dell'ambasciatore e le altre cinque proseguirono per Napoli via
Civitavecchia, approdando infine nella capitale nella serata della vigilia di Natale.
Tra i festeggiamenti militari che, come ogni anno, avvennero verso la metà di novembre in tutti i
presidi spagnoli del Vecchio e del Nuovo Mondo in occasione del compleanno del re Carlo II, le
cronache riportano quello tipico che si era tenuto a Gaeta da parte della locale guarnigione
spagnola:

Sentesi da Gaeta che ivi (om.) fu fatto squadrone da quei fanti spagnuoli al numero di 300 con
quel signor don Emanuele de Toledo y Portugal ivi capitano a guerra, quale marchiava alla
testa di esso per tutta la piazza con l'archibugio, precedendogli la sua guardia di 12 ben vestiti
alabardieri; e il suo luogotenente capitan don Diego Gonzales de Silva assisté alla guida e
formazione di esso (squadrone) da sargente maggiore; l'accompagnarono molti cavalieri che
occuparono la prima fila di esso, anche loro con archibugi, e doppo moltissime scariche del
medesimo (squadrone, om.) seguì quella di tutto il cannone della piazza e del castello...

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La scorta di 12 alabardieri era prerogativa di tutti i governatori di castelli e piazze importanti,
così anche come dei generali dell'esercito.
Le cronache militari napoletane di questo 1696 si chiudono con la morte del settuagenario Juan
Alonzo de Salzedo, generale dell'artiglieria e castellano del regio castello di S. Eramo, avvenuta
dopo lunga malattia sabato 15 dicembre; il viceré affidò l'incarico del defunto, ma solo pro
interim, al tenente di mastro di campo generale Tommaso Cabanilla, uno spagnolo cavaliere
dell'ordine di Montesa da noi già ricordato in un non edificante episodio della guerra di Messina,
il quale, alla fine del marzo successivo, sarà sostituito dal mastro di campo Juan Manuel de
Soto Mayor, nominato dal re nuovo governatore del castello predetto, nomina scandalosa di cui
abbiamo già detto a proposito dell'anno 1693.
In seguito al summenzionato armistizio in Italia, che aveva finalmente fermato le ininterrotte leve
di Napoli, eccezion fatta per qualche rimpiazzo che bisognava ancora inviare in Catalogna, i
francesi avevano evacuato Nizza e la Savoia, rinunziando anche alle loro pretese su Casale
Monferrato, e il duca di Savoia aveva riottenuto Pinerolo; la guerra era però continuata sugli altri
fronti europei e americani; i francesi, con il rinforzo delle soldatesche distolte dal fronte italiano,
avevano infatti ripreso l’iniziativa.

1697. All’inizio dell’anno il viceré riformò 11 capitani della fanteria spagnola in modo che i loro
soldati potessero passare a rinfoltire i ranghi di quelle che, tra le rimanenti, fossero più carenti di
uomini. Verso il 10 gennaio, di venerdì, salparono da Napoli due galere che portavano due
compagnie di fanti spagnoli - per un totale di 300 uomini - a Gaeta, dove, portato, come
abbiamo già detto, da altre tre delle galere napoletane, era previsto l'arrivo dalla Sardegna del
suddetto conte di Altamira; il viaggio durò sei ore e dopo qualche giorno le prime due galere
fecero ritorno, mentre le seconde tre che portavano il conte arrivarono a Gaeta verso il giorno
20 e poi, sbarcato colà l’illustre passeggero, proseguirono per Napoli dove giunsero di
mercoledì. Alla metà di gennaio il viceré conferì al mastro di campo Antonio di Gaeta marchese
di Montepagano, cavaliere dell'ordine di San Giacomo, il presidato della città dell'Aquila,
incarico che si era reso vacante.
Durante la prima settimana di febbraio due barche da corso francesi che avevano fatto scalo a
Genova - secondo altra fonte a Livorno -avevano lasciato quel porto lunedì precedente e nelle
acque di Porto Venere avevano armato e messo in mare i loro palischermi (‘poliscalmi’) o schifi
che dir si voglia, per poter così controllare un più ampio tratto di mare; attaccarono infatti sei

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feluche napoletane dirette a Genova con carico di merci, ma queste si erano difese e poi erano
riuscite a porsi in salvo nel porto di Lerici.
Sabato 9 febbraio morì in età senile Luis de Espluga, mastro di campo del terzo fisso degli
spagnoli di Napoli e soldato dalla lunga e onoratissima carriera, il cui funerale ebbe forma
pubblica e fu sepolto nella chiesa gesuita di san Francesco Saverio; il suo posto sarà dal re
conferito, con lettera reale del successivo 16 maggio, al mastro di campo Martín de Castrejon y
Medrano, cavaliere dell'ordine di San Giacomo, il quale sino allora aveva esercitato l'altissima
carica civile di reggente della Vicaria e prenderà ufficialmente possesso della sua nuova carica
sabato 29 giugno, festa dei SS. Pietro e Paolo, con l'intervento del mastro di campo generale
dell'esercito del regno e d’altri principali capi militari. Nella seconda metà dello stesso febbraio il
viceré faceva allestire la squadra di galere per averla pronta alle occorrenze della prossima
campagna di guerra, in considerazione che, come si è detto, il conflitto tra Spagna e Francia,
fermato in Italia, proseguiva su altri fronti. In questo periodo s’inizio la pavimentazione selciata
della strada costiera di Chiaia per una lunghezza di circa un miglio, cioè dal palazzo del principe
di Striano di casa Ravaschieri sino alla chiesa della Madonna di Piedigrotta; era larga ben 53
palmi, ornata di 20 fontane e detta strada di Medinaceli in considerazione che voluta appunto
dal viceré; il termine di questi lavori era previsto per la fine dell’estate.
All’inizio di marzo in Catalogna, mortovi il mastro di campo napoletano Domenico Caracciolo
della Torella, il suo terzo, il quale, come si ricorderà, era arrivato in quel principato meno di due
anni prima, era stato riformato e la sua gente residua era stata aggregata agli altri due terzi
napoletani di quell'esercito, cioè quelli del principe di Macchia e di Domenico Recco, mentre si
attendevano da Napoli altri mille uomini di rinforzo; in effetti alla metà del detto mese si
ritrovavano nell’arsenale napoletano già 600 coscritti e si prevedeva d’inviarli con altri ancora
d’arruolare in Catalogna nel maggio seguente. Verso la metà del predetto mese approdò a
Napoli un vascello di 40 cannoni armato a guerra dal duca di Veraguas in Sicilia e diretto a
Finale, dove si diceva andasse a imbarcare soldatesca che dallo Stato di Milano, ormai in pace,
s’inviava in Catalogna, sempre che fosse riuscito a sfuggire ai corsari e alla flotta francese che
si aggiravano nel Tirreno. Verso la fine dello stesso marzo, nell'ambito di una riforma generale
dell'esercito di Lombardia che ebbe luogo a seguito della fine della guerra d'Italia, furono, tra gli
altri, riformate quattro compagnie del terzo spagnolo detto ‘di Napoli’ e due delle compagnie
della cavalleria napoletana che serviva in quello stato e cioè quelle dei capitani conte Besozzi e
Onofrio Afro, il primo di cui, a giudicare dal cognome, non era certamente un ufficiale
partenopeo. Il suddetto terzo fisso spagnolo di Lombardia, il cui nome completo originario era

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de la Mar de Nápoles - e in seguito appunto più brevemente Nápoles – era di stanza a Valenza;
esso doveva questo suo suggestivo nome all'esser stato formato nel 1635 il suo primo nucleo
con alcune compagnie del terzo fisso di Napoli, il quale era stato inviato dall'allora viceré conte
de Monterey alla guerra che si combatteva nell'Alta Italia per mezzo di una flotta da lui all'uopo
approntata e che quindi proveniva appunto dal mare di Napoli.
Verso la metà d'aprile morì a Napoli il tenente di mastro di campo generale Antonio Amaldia e
allora il viceré elevò a tale carica un capitano del terzo fisso degli spagnoli, ossia Bartolomeo
Specchio (‘Bartolomé Espejo’) e conferì la capitania della sua compagnia a Jerónimo de
Baldes, aiutante dello stesso terzo. Un avviso livornese datato 19 aprile informerà poi che il re
d'Algeri aveva ordinato il blocco dei riscatti degli schiavi cristiani finché non avessero avuto la
libertà gli algerini che si trovavano in schiavitù a Napoli, evidentemente molti in quel tempo.
Aveva intanto il Medinaceli in quei giorni inviato quattro galere napoletane nelle acque di
Calabria e di Messina per garantire un sicuro passaggio dello stretto a molte tartane cariche di
grano pugliese che veleggiavano verso Napoli per approvvigionarla; queste galere tornarono a
Napoli nella prima domenica di maggio convogliando ben 19 tartane granarie; esse, avvicinatesi
alla spiaggia di Chiaia, salutarono con la tradizionale salva di cannone la chiesa della Madonna
di Piedigrotta, poi andarono ad ancorarsi all'isola di Nisida e infine il 6 maggio mattina si
trasferirono alla darsena di Napoli, da dove sabato precedente erano invece salpate quattro
galere del duca di Tursi venute da Gaeta e dirette ora all'isola di Ponza con la missione
d'incrociare in quelle acque che si dicevano infestate dai pirati. Sabato seguente vennero ad
ancorarsi per un solo giorno nelle stesse suddette acque di Nisida invece due galere della
repubblica di Genova, le quali erano dirette in Sicilia, essendo la loro missione quella di servire
quel viceré portandolo da Palermo a Messina, come si diceva; perché poi si fossero dovute
muovere a tal scopo due galere da così lontano, non era noto. Verso il giorno 17 salpò in
compagnia di una tartana il summenzionato vascello armato a guerra giunto circa due mesi
prima dalla Sicilia, il quale si era fatto attendere tanto per approfittarne con l’imbarco di una
compagnia di 200 nuovi fanti regnicoli da portare in Catalogna a reclutare qualche terzo
napoletano colà operante; questo legno farà scalo a Genova in otto giorni.
In seguito, durante il medesimo maggio, il viceré sollecitò sia l'equipaggiamento del predetto
vascello San Carlo, sia il completamento delle due nuove galere iniziate l'anno precedente e il
giorno 19 fu varata la nuova galera Capitana, mentre, trainato a rimorchio da due galere
napoletane, il San Carlo fu condotto nel porto della capitale da quello di Baia perché ne fosse
terminato l'equipaggiamento; a dir il vero, se le maestranze di Baia avevano legittimamente

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impiegato un intero anno a ultimare un vascello grosso e complesso come il San Carlo, non
altrettanto perdonabili erano quelle dell'arsenale napoletano per non aver completato, nello
stesso lasso di tempo, le due galere; infatti un anno e più per costruirne solo due era un tempo
più che sufficiente e si comprendono le sollecitazioni del Medinaceli.

(Napoli, 20 maggio:) Ha Sua Eccellenza fatto dar libertà a circa 200 condennati al remo che
avevano già terminato il tempo della loro condennazione, quali andarono ieri tutti unitamente
trascinando le loro catene, accompagnati da i biferi (‘pifferi’), flauti e altri stromenti, a
disciogliersi e a lasciar le medesime catene alla chiesa di San Paolo de’ Padri Teatini...

Quest'atto d'inusitata liberalità, in una squadra di galere dove non erano impiegati remieri
buonevoglie, si spiega però probabilmente con il prosieguo dello stesso predetto avviso, il quale
infatti pure segnalava l'arrivo a Napoli in più riprese di numerose catene di delinquenti destinati
chi alla guerra e chi appunto al remo delle galere, catene mandate dal commissario di
campagna Ignazio d'Amico e dalle Udienze Provinciali del regno; ciò per il disposto rapido
disbrigo delle cause criminali a cui abbiamo più sopra accennato.
Era in questo periodo auditore generale dell'esercito del regno il marchese di Monte Falcone di
casa de Santis.
In quel mentre lettere dalla Calabria descrivevano un combattimento costiero avvenuto tra la
città di Cariati e tre caravelle tripoline da 44 pezzi ciascuna, le quali avevano cominciato
coll'inseguire in quelle acque una nave genovese carica di ricche merci; riuscita questa a
ripararsi sotto le artiglierie di Cariati, i tripolini le spinsero contro all'abbordaggio cinque lancie
armate e i genovesi, appoggiati sia dai cannoni della città, sia dagli stessi cittadini, i quali,
distribuitisi sulle mura e guidati dal loro feudatario principe Palegorio Rovegno e da suo suocero
Vincenzo Carafa di Stigliano, mantenevano un nutrito fuoco di moschetteria contro i corsari,
risposero al fuoco per ben sei ore continue, ma furono poi costretti ad abbandonare la loro nave
e a lasciarla preda del nemico. Non ostante però l'insuccesso di questa difesa, anche i tripolini
subirono notevoli danni e principalmente la perdita di una delle loro caravelle, finita fracassata
dalle cannonate con morte di molti barbareschi, ma le due residue, allargatesi in mare con la
loro ricca preda, si rifecero il giorno seguente predando una tartana nelle acque del Capo
dell'Alice.
Arrivò da Genova avviso datato 11 maggio in cui si riportava che una feluca napoletana con
ricco carico per poco non era rimasta preda di una galeotta turchesca nelle acque dell'isola di
Ponza e un paio di settimane più tardi si seppe poi da Livorno che due feluconi corsari
napoletani avevano catturato un bergantino corsaro turco, che un altro era stato invece predato
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da un bergantino corsaro d’Alassio e che due barche da corso francesi avevano fatto diverse
prede nei mari di Calabria; da Milano s’informava invece che il 28 maggio il principe Trivulzio e
gli ufficiali pagatori di quello stato si erano avviati verso Cremona per prender mostra e dare il
soldo alla cavalleria straniera (alemanna) e napoletana di stanza in Lombardia; nello stesso
tempo si dovevano riformare da quell'esercito diversi mastri di campo delle varie nazionalità e
ciò perché, a seguito della pace, si licenziava parte delle milizie.
Verso il 10 maggio salparono diverse tartane cariche della suddetta soldatesca di nuova leva
per la Catalogna, mentre se ne arruolava altra per i soliti Presidi di Toscana, e circa una
settimana dopo partirono ancora altri 200 fanti regnicoli a bordo di una nave armata a guerra di
circa 40 cannoni, la quale era di proprietà del suddetto duca di Vereguez ed era giunta
appositamente a Napoli due mesi prima; anche queste reclute, come quelle partite in
precedenza, erano destinate a rinfoltire i ranghi dei terzi napoletani di stanza in Catalogna e
fecero tappa a Genova e a Finale Ligure dopo otto giorni di viaggio.
Domenica 9 giugno, provenienti da Civitavecchia, approdarono nel golfo di Napoli le galere della
squadra pontificia, comandata dal cavaliere gerosolimitano Ferretti, le quali sabato seguente
ripartirono verso Levante dove, ancora una volta, si sarebbero unite all'armata veneta per la
lotta contro il comune nemico turco; nel frattempo, dopo aver costeggiato il regno in servizio di
guarda-coste, ne giungevano a Napoli quattro della squadra del duca di Tursi, le quali avevano
approfittato di quella missione per fare anche un carico di pannine di Castiglione (Salerno), poi
detta ‘Castiglione del Genovesi’ - altro feudo questo dei d’Oria del Carretto duchi di Tursi dal
1648 e da non confondersi con Castiglione Marittima (Falerna, Catanzaro), feudo questo invece
dei principi d’Aquino; colà infatti il duca aveva appunto fatto erigere una nuova fabbrica di dette
pannine, riuscendo colà le stesse delle migliori che si producessero nel regno. Giovedì 13 il
nuovo mastro di campo del terzo fisso spagnolo del regno, Martín de Castrejon y Medrano,
prese possesso della sua carica, inoltre lettere reali di Spagna datate 30 maggio, ma pervenute
a Napoli solo il 23 di questo mese di giugno, portavano la nomina a governatore di Porto
Longone per il mastro di campo fiammingo Alaba, mentre non ancora giungeva quella di nuovo
capitano generale delle galere di Napoli, (essendovi diversi qualificati soggetti che lo
pretendevano), e ne restava pertanto governatore provvisorio il già nominato cuatralbo Lorenzo
de Villavincencio, cavaliere di San Giacomo, comando che sarà poi ufficializzato dalla Spagna
alla fine di giugno; il Villavincencio guidava infatti le sei galere della squadra del regno che la
notte tra giovedì 27 e venerdì 28 giugno lasciarono Napoli dirette a Finale, dopo esser state ben
rifornite di provianda e attrezzature da guerra e dopo che le loro guernizioni (‘guarnigioni’) di

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fanteria di marina erano state opportunamente rinforzate; due sole galere della squadra
restavano così a Napoli, su istanza della stessa cittadinanza, al fine di proteggere il commercio
marittimo dalla pirateria. Le sei suddette galere erano state precedute dalle sette della squadra
del duca di Tursi (talvolta detto Tursis), avendo anch'esse lasciato Napoli per la Spagna via
Finale, in vista della ripresa delle ostilità contro la Francia, ma in due gruppi distinti e cioè le
prime tre lunedì 3 giugno e le restanti quattro, abbonacciatosi finalmente di nuovo il tempo, la
mattina del detto giovedì 27; queste sette galere avrebbero però prima fatto sosta a
Civitavecchia per sostituirvi i loro vecchi buchi (‘scafi’) con quelli nuovi per loro appositamente
costruiti in quel porto; sostituire lo scafo rappresentava infatti per una galera una sostituzione
molto parziale dell'intero vascello e non pressoché totale, come invece intenderemmo oggi,
perché altrettanto vitali erano le altre parti -tutte asportabili dallo scafo - e cioè alberatura,
palamento, banchi, corsia, posticcie e altre attrezzature. Sabato 20 luglio le suddette sei galere
napoletane e sei del duca di Tursi saranno segnalate in sosta a Genova, ma pochi giorni più
tardi, cioè lunedì successivo, come riportato da un avviso genovese del 27, si trasferiranno a
Finale a imbarcare 1.200 fanti provenienti dal Milanese e il giorno seguente partiranno, via Porto
Mahón, in soccorso di Barcellona assediata dai francesi; in seguito, con avviso da Genova del 3
agosto, si saprà che le suddette 12 galere erano state prima avvistate nelle acque di Provenza
mentre rimorchiavano quattro tartane, le quali o erano evidentemente al seguito e mancanti di
vento oppure erano state predate ai francesi, e poi erano state segnalate in sosta il 28 luglio nel
porto di Calvi in Corsica; infine, con avviso di Genova del 12 ottobre, si saprà che all’inizio di
detto mese le sei del duca di Tursi avevano sbarcato a Vinaroz le genti imbarcate a Finale,
come anche avevano fatto quattro delle napoletane, le quali poi erano ripartite verso Porto
Mahón.
A Napoli frattanto il viceré Medinaceli provvedeva con molto impegno a tenere la Capitale
sgombra dai malfattori castigandoli decisamente e pare che addirittura andasse talvolta egli
stesso di ronda con le guardie per la città; a tal proposito valga per tutti il caso del pericoloso
brigante Domenico Bruno, conosciuto come Rodomonte, il quale da ben 15 anni viveva rifugiato
nella chiesa di Santa Maria del Pianto con imbarazzo di tutto il vicinato, approfittando delle
immunità ecclesiastiche che impedivano ai birri d'entrarvi; costui, nella seconda decade di
luglio, mentre si tratteneva tracotantemente fuori della chiesa a discorrere con una sua amica,
fu assalito dalla gente di Corte che lo aveva appostato; ebbe il tempo di scaricare l'archibugio
contro i birri, ma questi lo uccisero e, mozzatagli la testa, la portarono in esibizione per la città
secondo il solito costume. Il duca di Medinaceli volle ai suoi inizi tentare di eguagliare il merito

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guadagnatosi dal marchese del Carpio, suo antecessore, con l’estirpazione del brigantaggio
mettendo fine invece ai contrabbandi, altra piaga del regno; ma i rigori che mise in atto contro
tale male si rivelarono subito non confacenti alle particolarità mercantili e sociali del regno, e
pertanto presto li convertì in semplici provvedimenti di una maggior vigilanza. Tentò, agli inizi del
suo vice regnato, di eguagliare il merito guadagnatosi dal marchese del Carpio, suo
antecessore, con l’estirpazione del brigantaggio mettendo invece fine ai contrabbandi, altra
piaga del regno; ma i rigori che mise in atto contro tale male si rivelarono subito non confacenti
alle particolarità mercantili e sociali del regno, e pertanto presto li convertì in semplici
provvedimenti di una maggior vigilanza.
Un avviso da Bruxelles del 21 giugno dava notizia che il terzo napoletano del principe
d'Acquaviva colà operante era passato di stanza a Malines. Nel luglio, a seguito di prescrizioni
mediche, sia il viceré, il quale soffriva di fiacchezza di testa, sia la regina, affetta da altri disturbi,
si recarono nell’isola d’Ischia in località Testaccio, dove il duca e altri del suo seguito si
sottoposero a un ciclo di rimedi detti sudatori o stufe e che si potevano praticare solo nella
stagione estiva e la consorte a uno di bagni termali.
Intorno al 20 luglio giunse l'assentista (‘appaltatore’) delle galere pontificie, accompagnato da
marinari, soldati e remieri, per prendere possesso di uno scafo di galera recentemente regalato
al Papa dalla Serenissima e recentemente trasferito dalla darsena di Messina a quella di Napoli;
questa nuova galera, presto armata ed equipaggiata, si trattenne per qualche tempo a Napoli
nell’attesa del primo vento propizio per condursi a Civitavecchia; ci fu in questo mentre avviso
dalla Calabria che il 4 luglio si erano viste passare al largo di Capo di Santa Maria le squadre
delle galere pontificie e maltesi, le quali passavano di conserva in Levante. Giovedì 8 agosto,
provviste di tutto e rinforzate, salparono le due galere napoletane rimaste nella darsena della
capitale e, accompagnate da due tartane armate a guerra, iniziarono una serie di crociere nel
basso Mediterraneo, accorrendo laddove si aveva notizia della presenza di pirati barbareschi,
specie per proteggere i legni cristiani che sarebbero concorsi alla fiera che nel settembre si
sarebbe tenuta a Salerno.
Avendo ad agosto il viceré replicato ai tribunali del regno l'ordine di spedire rapidamente le
cause criminali, onde procurare gli altri galeotti che servivano alle galere, molti erano i
condannati alla voga e, tra questi, se ne vide alla fine del mese entrare in Napoli una catena di
più di 40 inviata dal commissario di campagna Ignazio d'Amico, il quale presiedeva il tribunale
più famoso del regno dopo quello della Vicaria e cioè quello appunto detto di Campagna, a cui
abbiamo già più volte accennato e che aveva sede a Fratta Maggiore, istituito nel Cinquecento

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per combattere la criminalità del circondario di Napoli, affinché questa non finisse per esserne
soffocata. Le sollecitazioni del Medinaceli, oltre a procurare remiganti alle galere, ebbero il
positivo effetto d'allentare la predetta pressione criminale su Napoli e su tutto il regno in
generale:

Facendo le zelanti premure di quest'eccellentissimo signor Viceré continuare gli effetti della
giustizia con illibata e incorrotta permanenza, si gode nel castigo dei rei una tranquillissima
quiete in questa Capitale e Regno, venendone ogni dí condannati al remo e a altri supplicii...

Come si seppe poi tramite un avviso di Genova del 4 settembre, domenica notte precedente
una nave francese proveniente da Levante con un ricco carico, valutabile - come si diceva - a
40mila pezze da 8, mentre era alla fonda nel golfo di San Firenzo, era stata sorpresa e catturata
da una barca e una galeotta, ambedue corsare napoletane, essendo la galeotta una galera più
piccola con due soli rematori a ogni remo, mentre che cosa era una barca abbiamo già detto.
Erano frattanto tornate in porto le sopraddette due galere che erano state inviate a costeggiare
le spiagge del regno per difendere il traffico commerciale dai pirati, ma, provvedute delle
necessarie proviande, il viceré le fece subito risalpare verso la Calabria, nei cui mari si era
inteso esser state predate quattro tartane genovesi vuote che andavano a caricare grano e la
cui gente era riuscita però fortunosamente a porsi tutta in salvo. Questa spedizione marittima
tornerà definitivamente a Napoli lunedì 30 settembre dopo aver protetto nella sua crociera, tra
l'altro, anche i numerosissimi vascelli che sarebbero concorsi alla fiera di Salerno, fiera che,
anche se non notoria come quelle di Messina e di Crema, aveva avuto molto successo, tant'è
vero che il viceré ne aveva concesso la proroga di quattro giorni.
Come ogni anno, sabato 7 settembre si tenne cappella reale nella solita Real Chiesa del
Carmine Maggiore in commemorazione della famosa vittoria di Nördlingen ottenuta dai cattolici
sui protestanti nel 1634 e poi si festeggiò con salva reale dell'artiglieria dei castelli della
Capitale; il giorno seguente ci fu invece la tradizionale festa della Natività della Madonna e,
squadronatasi come il solito la fanteria spagnola sulla spiaggia di Chiaia, il viceré e la viceregina
in una delle loro tre bellissime carrozze e accompagnato dalle due compagnie di corazze, dagli
alabardieri alemanni, dal cavallerizzo maggiore e dalla loro numerosissima corte bassa, ossia
da tutti i famigli, si recò al santuario della Madonna della Natività di Piedigrotta; prima di quella
vicereale sfilò la carrozza del reggente della Vicaria, cioè ora il principe d’Ottaiano di casa
Medici, scortata dai soliti 12 alabardieri dell'alto magistrato, ma seguita stavolta da un gran
numero di uomini armati d'arma da fuoco, evidentemente per precauzione nel passaggio in

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mezzo a quella gran calca di popolo dopo le molte condanne inflitte da quel sommo tribunale;
ma la vera novità di quest'anno era che il corteo vicereale passava ora per il nuovo lungomare
del Borgo di Chiaia, strada voluta appunto dal Medinaceli e non ancora del tutto terminata, la
quale era abbellita da numerose piante ornamentali e da una serie di belle fontane, oggi in
massima parte scomparse e, per il resto, trasferite altrove.
Verso la metà di settembre, con lettere di Spagna datate 23 agosto, arrivò ufficialmente a
Napoli la pessima notizia della resa di Barcellona ai francesi di Louis-Joseph de Vendôme duca
di Vendôme (1695-1710) e dell’ammiraglio d’Êtrées, resa avvenuta il 10 agosto e capitolata il
15, dopo che la città era stata semidistrutta da un’ininterrotta pioggia di bombe e carcasse e
scossa dallo scoppio di tantissimi fornelli (‘mine’) e da molteplici assalti generali. Il dispiacere
che questa brutta nuova provocò fu solo in parte mitigato dalla notizia che resistevano invece
bravamente all’assedio dei mori, iniziato nel marzo precedente, le guarnigioni di Ceuta e di
Melilla in Marocco e da quella della nuova della grande vittoria che il principe Eugenio di Savoia
il giorno 11 dello stesso settembre riportava sui turchi a Zenta in Ungheria, la più grande vittoria
che si fosse mai ottenuta in Europa contro gli ottomani, per cui nella prima settimana d’ottobre il
viceré tenne di nuovo cappella reale nella Real Chiesa del Carmine Maggiore, con
accompagnamento delle due compagnie di corazze, squadronamento della fanteria spagnola
nella piazza antistante, triplicata salva dei moschetti e salva reale delle artiglierie dei castelli, e
che poi fu ufficialmente festeggiata il 13 seguente; alla fine d’ottobre Eugenio di Savoia
prenderà Sarajevo, ma la migliore notizia in assoluto risulterà poi quella della pace di Riiswijck
sottoscritta in più riprese - tra il settembre e l'ottobre - tra le principali potenze europee, pace
che metteva finalmente fine alla novennale guerra detta della Lega d'Augusta.
Giovedì 19 settembre i coniugi vicereali si recarono in seggetta (‘portantina’) ad assistere al
miracolo di S. Gennaro, quest’anno particolarmente felice perché il ribollimento del sangue
continuò anche nei giorni seguenti. Le seggette erano una caratteristica di Napoli e in quella
città avevano anche avuto origine, infatti, ancora nel Cinquecento, nell’Italia settentrionale erano
dette sedie coperte alla napoletana. Frattanto, poiché a seguito di una ricorrente attività eruttiva
del Vesuvio erano iniziati dei disordini nelle zone interessate da quel distruttivo fenomeno, il
viceré aveva ordinato a Ignazio d’Amico, Regio Commissario della Campagna, di trasferirsi dal
suo tribunale di Fratta Maggiore alla Torre del Greco con un grosso numero dei suoi soldati,
cosa che fu sollecitamente eseguita. Verso il 20 ottobre, saputosi che un bergantino corsaro
turchesco infestava le acque di Ponza, il Medinaceli fece salpare a quella volta una galera della
squadra di Napoli armata rinforzatamente e abbiamo forse già spiegato che rinforzare una

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galera significava aumentare i suoi remiganti da tre a quattro per banco e si diceva infatti anche
inquartarla, mentre rinforzare una galeotta, ossia aumentarne i remieri da due a tre per banco,
si diceva interzarla; ma le galere più grandi, come le capitane, avevano quattro uomini per remo
di prassi e quindi, quando si voleva rinforzarle, si ponevano cinque uomini a banco. La mattina
di lunedì 21 ottobre mattina approdarono a Pozzuoli quattro galere pontificie provenienti da
Levante, dove avevano combattuto con l'armata veneta contro gli ottomani e, essendo ora la
loro campagna terminata, a causa dell'avanzata stagione poco adatta alla navigazione delle
galere, le quali non reggevano il tempo inclemente, dopo una breve sosta in quel porto ripresero
il viaggio verso la loro base di Civitavecchia. Giovedì 21 novembre il San Carlo, ossia il grande
vascello reale appena costruito, armato ed equipaggiato nell'arsenale di Napoli, partì per il suo
primo viaggio sotto il comando del suo capitano britannico Albert Adsor; portava a bordo 150
fanti spagnoli e 200 italiani alla volta di Longone, dove avrebbe sbarcato i primi e imbarcato
altre due compagnie d'italiani per dirigersi poi verso la Spagna; ma, arrivato poi all’imboccatura
del golfo di Cadice, incappato probabilmente in una burrasca, si sfasciò in maniera irreparabile,
immaginiamo con grande vergogna delle maestranze napoletane che l’avevano costruito e che
non avevano saputo forse ben equilibrare i pesi delle alberature o, più probabilmente, degli
artiglieri di bordo che non avevano sufficientemente assicurato con funi quelli delle loro pesanti
bocche da fuoco. Il Savérien, eruditissimo architetto navale di Arles che eppure scriveva molto
più tardi, alla metà del Settecento, se fosse vissuto già allora, avrebbe certamente commentato:
L’avevo detto io! Egli infatti, ancora alla sua epoca era contrario alla costruzione di vascelli
molto grandi, affermando che più grossi erano e più grandi e pericolosi erano i loro difetti di
costruzione:
… Qualunque vantaggio essi presentino, l’architettura navale è ancora troppo imperfetta per
esporsi ai pericoli d’una cattiva costruzione, la quale è inevitabile, come si è provato nell’usare
tali vascelli…

E raccontava diversi episodi storici al riguardo; è comunque davvero sorprendente notare come
fosse presente la consapevolezza del certo avanzare del progresso tecnico-scientifico già in un
uomo di quei tempi. Certo di grandi vascelli nei cantieri di Francia, Spagna, Olanda, Inghilterra,
Svezia se ne costruivano tanti, ma quelli napoletani, prima dello sfortunato San Carlo, non ne
avevano mai provato a fare uno e quelli più grandi che avessero mai costruito erano state le
famose quattro galeazze che nel 1588 andarono a potenziare l’Invencible Armada,
congregazione di grandi vascelli che però poi, come si sa, nemmeno se la passò abbastanza
bene quando si trattò di affrontare il maltempo! In verità in generale i marittimi e le maestranze

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dei porti oceanici (ponentini, come allora si diceva) non avevano nessuna stima di quelli
levantini, perché dicevano che era gente molto sfaticata, inoltre cattivi artiglieri ed infine, come
se questo non bastasse, come navigatori erano solo abituati ad affrontare la tranquilla, quasi
lacustre navigazione mediterranea; ma il bello è che col termine levantini non indicavano, come
facciamo noi, i soli popoli che si affacciano sul Mar di Levante, chiamavano infatti così tutti i
mediterranei; insomma i navigatori di S. Malo, Le Havre o Boulogne non avevano nessuna
stima di quelli di Marsiglia o di Tolone!
A consolazione delle maestranze partenopee si può però dire che perlomeno il San Carlo era
arrivato da Napoli fino al golfo di Cadice; il 10 agosto 1628 il superlativo Vasa non era invece
nemmeno arrivato a uscire dal porto di Stoccolma!
All'inizio di dicembre arrivò la notizia che al principe di Cariati di Casa Spinelli, fratello del duca
di Seminara, come già al padre era stato concesso il grandato; la mattina del 10 dello stesso
mese entrarono in darsena tre delle sei galere napoletane comandate dal loro governatore
Villavincencio; queste tornavano dalla Spagna, dove avevano attivamente partecipato alle
operazioni di guerra, via Civitavecchia, mentre le altre tre, a causa del maltempo, si erano
dovute dividere dalle prime e riusciranno ad approdare nel porto partenopeo solo due giorni più
tardi.
Qualche tempo prima di Natale capitò a Napoli di passaggio il generale tedesco barone Steinau
(Stenhaus, secondo altra fonte), il quale aveva esercitato l'incarico di generale da sbarco
sull'armata veneta che aveva recentemente operato in Levante; era costui sbarcato a Otranto in
compagnia di suo fratello colonnello, del suo tenente e del suo medico e, godute le degne
accoglienze della corte di Napoli, ripartì poi domenica 22 dicembre alla volta di Roma e
Venezia, avendo come destinazione ultima la sua patria in Sassonia. Trovavasi anche a Napoli,
ma venuto dalla corte di Madrid, il mastro di campo biscaglino Joseph Alava, il quale era con
patente reale di nuovo governatore della piazza di Longone, a tanto promosso in
considerazione della sua ben nota perizia militare e del valore sempre dimostrato al servizio
della Corona, e non aspettava altro che le istruzioni del viceré per recarsi a prendere il comando
di quella fortezza; infine diremo che in questo periodo, come esperto di costruzioni civili e
militari, il viceré utilizzava i servigi dell’architetto Cristofano Schor e dell’ingegnere maggiore e
tenente generale dell’artiglieria Luc’Antonio Natale, questo dopo qualche anno deceduto e
sostituito da un figlio anche lui ingegnere militare esperto di fortificazioni.

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1698. Giovedì 2 gennaio furono passati in rassegna mensile le due compagnie di cavalli
corazze della guardia del viceré e risultarono così costituite:

Soldati Cavalli

Compagnia del capitano Nicolò Coppola 56 46


Compagnia del capitano fra’ Ventura Saracini 62 47

Nel maggio il viceré fece rivestire con nuovi abiti buona parte delle soldatesche del regno per
poi provvedere a uno dei soliti ordinari cambi delle guarnigioni della fortezza di Gaeta e dei
presidi di Toscana; a titolo esemplificativo, riportiamo qui di seguito il piede o forza di una delle
compagnie del terzo fisso spagnolo che erano di presidio a Porto Ercole in questo 1698 e si
tratta della compagnia del capitano Juan Prieto:

Capitano
Alfiero
Sargente
2 tamburi
Piffero
Abbanderato (ossia portabandiera)
Barbiero
Foriero
94 soldati.

Si noti la mancanza del tenente e ciò in conformità alla vecchia tradizione dell'esercito
spagnolo, la quale voleva il luogotenente solo nella compagnia di cavalleria, mentre in quella di
fanteria tale ruolo era sostenuto dall'alfiero; tale concezione però presto cambierà,
uniformandosi a quella della fanteria francese dove invece era presente anche il tenente.
Giovedì 21 agosto fecero mostra le cinque compagnie di corazze dette di nuova leva che si
trovavano di presidio a Napoli e il 28 successivo le si fece partire smontate per il Milanese; tra
queste notiamo la compagnia del tenente generale della cavalleria Sigismondo de Rho e quella
di fra’ Tomaso Caracciolo, il quale poi in quello stato diventerà mastro di campo.
Alla fine d'agosto arrivarono a Napoli in visita di cortesia 20 galere francesi comandate dal loro
tenente generale Jacques de Noailles, cavaliere e balì di Malta, fratello del duca di Noailles e
del vescovo di Chálons, in onore di cui il 1° settembre il Medinaceli offrì un gran convito. Nel
corso di questo 1698 Domenico de Sangro fu nominato capitano della compagnia di corazze
della guardia del viceré che era stata sino allora del Coppola.

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1699. Lunedì 26 gennaio di quest’anno si stipulò la pace di Karlowitz, con cui i turchi
restituivano all’impero la Transilvania e l’Ungheria e a Venezia il Peloponneso, arretrando quindi
la Gran Porta consistentemente in Europa. Nel marzo era luogotenente generale della
cavalleria napoletana che da lunghi anni stanziava nel Milanese Arcato Araceli, mentre alla fine
dell’ottobre, essendo vacato il mastrato del terzo di fanteria spagnola, detto tercio viejo de la
Mar de Nápoles, pure operante in quello stato, per la morte di Juan Zeñuda, sarà conferito a
Luis de Guzman y Spinola, secondogenito di Juan Antonio de Guzman y Spinola duca di San
Pietro. Il terzo dello Spinola, che come sappiamo, era di stanza a Valenza, a una rivista che gli
sarà poi passata nel Regno di Napoli all’inizio di giugno del 1702 risulterà formato di 12
compagnie.
Da una corrispondenza da Bruxelles dell'11 dicembre si venne a sapere che il generale
dell'artiglieria di Fiandra, cioè il napoletano duca di Bisaccia di casa Pignatelli, stava
ispezionando artiglieria e magazzini militari delle piazze di quelle frontiere; il Pignatelli risulterà
esercitare ancora quell’alto incarico nel maggio del 1703.

1700. Nell'anno 1700, secondo il de Clonard, le fanterie della corona di Spagna in Europa
comprendevano i seguenti terzi napoletani o comandati da napoletani:

Provincia Mastro di campo

Spagna: Pietro Garofalo


Gioan Battista Visconti (ex Armada viejo)
Luigi Gaetano d'Aragona
Domenico Recco

Paesi Bassi: Marcello Ceva Grimaldi


Paolo Magno
Domenico Acquaviva
Tomaso Caracciolo

Milano: Ciarletta Caracciolo


Gioseppe de Mariconda

Ma il de Clonard, sempre approssimativo e impreciso, si sbagliava anche stavolta a proposito


del Mariconda, il quale diventerà mastro di campo solo nel 1705; il terzo di Ciarletta Caracciolo
dei principi della Torella era di stanza a Tortona e colà infatti nel maggio del 1700 riceverà la
visita di Francisco de Córdoba, mastro di campo generale dello Stato di Milano, il quale stava
compiendo un giro della Lombardia per ispezionarvi tutte le soldatesche stanziali. Chiamato ad
389
altri non ben precisati incarichi e onori il mastro di campo Domenico Acquaviva, nel marzo del
1701 il suo terzo passerà al mastro di campo Antonio Grimaldi e risulterà ancora in Fiandra nel
maggio del 1704; probabilmente passerà ad altro mastro di campo, nello stesso 1700, anche il
terzo di Marcello Ceva Grimaldi, perché questi tornerà a Napoli in licenza sabato 26 giugno
dopo esser stato appena promosso nei Paesi Bassi sargente generale di battaglia, come
coronamento dei suoi 25 anni di servizio militare prestato alla corona di Madrid (alle importanti
promozioni seguiva spesso una licenza straordinaria che permetteva al neopromosso di
rivedere il suo paese, spesso dopo tanti anni d'assenza). Con il Grimaldi il predetto 26 giugno
farà ritorno a Napoli un altro mastro di campo, il cavaliere gerosolimitano commendator fra’
Domenico Recco, il quale sarà però per un’altra ragione e cioè per reclutare 400 fanti nelle
province di Montefusco, Salerno, Aquila e Chieti a beneficio del suo terzo di sperimentati
napoletani che operava in Catalogna; egli mancava da Napoli da ben 24 anni, in cui aveva
sempre servito la monarchia, e arriverà via terra accompagnato dai quattro capitani superstiti
del detto terzo, avendo fatta la strada di Roma per approfittare dell'Anno Santo e del relativo
giubileo. In realtà poi troveremo due di questi suoi capitani a reclutare in tutt’altre province e
cioè il cap. Antonio Scano in Abruzzo e il cap. Galluccio in Principato Ultra, mentre un cap.
Gioseppe Gaudio recluterà invece in Calabria e Basilicata per i terzi napoletani di Fiandra.
Il già ricordato reggimento di Antonio Grimaldi si troverà comunque ai confini del Lussemburgo
alla fine del maggio del 1704, come testimoniato da un avviso da Bruxelles del 24 di quel mese,
così come anche risulterà ancora operante nell'ottobre del predetto anno il terzo Aragon (?), nel
frattempo però divenuto reggimento. Ai terzi combattenti nei Paesi Bassi se ne deve poi
aggiungere, già dal maggio 1700, quello non napoletano del baron de Corrieres, corpo che,
venendo il suo mastro di campo promosso governatore della città di Courtrai, sarà affidato in tal
mese a Francesco (Cicco) Gaetano d'Aragona, figlio del duca di Laurenzana, anch'egli mastro
di campo in quell'esercito, ma senza terzo, essendo il suo stato riformato due anni prima; nel
1702 troveremo il d'Aragona colonnello di un reggimento di cavalleria della guardia reale.
Sempre nei Paesi Bassi, si formava in questo periodo un terzo vallone sotto il comando del
napoletano Filippo Caracciolo, corpo che poi - sabato 22 novembre 1702 – si trasferirà da
Bruxelles a Charleroy.
Venerdì 15 gennaio 1700 fece ritorno a Napoli da Roma il conte di Lemos, grande di Spagna,
parente del Medinaceli e generale delle galere di Napoli, mentre, provenienti da Genova, tra
mercoledì 20 e sabato 23 seguenti approdavano nel porto partenopeo tre galere del duca di
Tursi; furono poi condannati a Napoli 15 rei, di cui 11 al remo e quattro alla guerra. Martedì 16

390
febbraio la contessa di Lemos, la marchesa del Valle di casa Alarcón y Mendoza, la principessa
di Santobuono e sua nuora si recarono a bordo della galera Capitana della squadra di Napoli,
dove furono raggiunte dal sunnominato conte di Lemos e da un principe straniero di casa
d'Harmstadt, il quale si trovava di passaggio a Napoli, e dove furono servite di rinfresco e di
innumerabili curiosi giuochi da i forzati di quella, giuochi tra il ginnico e il clownesco che si
facevano forzatamente eseguire ai remiganti per divertimento degli ospiti di riguardo e di cui
scrivono pure il Cervantes e Jean Marteilhe nelle sue memorie; tale esibizione fu infatti accolta
con indicibile sodisfazione di tutte quelle dame e cavalieri e bisogna anche tener conto di un
possibile pizzico di morbosità in questa soddisfazione, giacché talvolta i capitani facevano
esibire i remiganti completamente nudi, specialmente se tra gli ospiti v'erano, come in questo
caso, delle dame; gli invitati furono inoltre salutati, sia nel salire a bordo, sia nello sbarcare, da
una salva di tutta l'artiglieria di detta galera.
Erano in questo periodo castellano del Castel dell'Ovo il mastro di campo spagnolo Torrejon y
Peñalosa, il quale morirà però nel gennaio del 1706, e capitani delle due compagnie di cavalli
corazze della guardia del viceré il cavaliere di Malta commendator fra’ Saraceni e Domenico di
Sangro di Torre Maggiore. Verso la metà di marzo di questo anno 1700 furono catturati due
disertori del terzo fisso spagnolo, i quali furono condannati da Francisco de la Cueba, auditore
dello stesso terzo, a essere archibugiati e quindi furono condotti al patibolo; questo per lo più
consisteva in pali piantati a terra nel largo del Castello Nuovo e a cui, davanti al plotone
d'esecuzione, si legavano i condannati. Questa forma di pena capitale era riservata ai militari
non nobili, perché i nobili avevano invece diritto alla tradizionale decapitazione nel largo del
Mercato, luogo dove pure si giustiziavano civili e plebei, ma questi a mezzo d'impiccagione,
forma d’esecuzione quest’ultima che, in caso d’occasionale mancanza di un boia, si faceva
generalmente eseguire a un forzato di galera; allo stesso modo, la pena del remo non era per i
nobili, i quali per reati equivalenti ad anni di galera erano invece condannati ad anni di
relegazione, cioè d’esilio. I due predetti disertori avevano però evidentemente la fortuna
d'essere spagnoli e per gli spagnoli che servivano e commettevano delitti all'estero quasi mai si
arrivava effettivamente a eseguire una condanna capitale; infatti nell'avviso del 23 marzo che
riporta l'episodio così si conclude:

... e nel giovedì 18 del corrente furono ambedue detti soldati condotti al patibolo e, nell'atto di
doversi effettuare la giustizia (esecuzione), l'Eccellenza Sua (il viceré) si compiacque far loro la
grazia della vita, essendo rimasti semivivi per l'orrore concepito dell'imminente morte...

391
Che non si volesse inoltre far a meno di due soldati spagnoli, soldati tanto rari e preziosi per le
loro indiscusse virtù militari, lo dimostra la circostanza che l'avviso predetto non prosegue
affatto col dire che le due condanne erano state convertite in voga forzata ai remi delle patrie
galere, cosa che sarebbe stata invece automatica nel caso di due condannati a morte italiani.
Perché uno spagnolo fosse effettivamente archibugiato o moschettato bisognava in effetti che
non si limitasse a disertare ma che passasse al nemico e in tal caso, a titolo di monito, si faceva
assistere all’esecuzione un intero corpo di fanteria o cavalleria squadronato davanti al luogo del
supplizio; infatti il giovedì 11 marzo del 1677 sarà a Palermo effettivamente così giustiziato un
fante del terzo di Sicilia, certo Luis Martínez di Valencia, perché passato ai francesi che allora
occuperanno Messina e poi catturato dai suoi (V. Auria).
Negli ultimi giorni dello stesso marzo numerose soldatesche spagnole lasciarono Napoli via
mare per andare a mutare i presidi di Gaeta e di Reggio e via terra per sostituire invece quelli
d'Abruzzo. Martedì 27 aprile si dette notizia della morte del preclaro mastro di campo Alvaro
Minutillo y Quiñones, cavaliere di S. Giovanni gerosolimitano e membro del Regio Consiglio
Collaterale, il quale fu sepolto con pomposo funerale nella chiesa di Santa Maria Maggiore detta
la Pietra Santa, evidentemente per qualche reliquia che in essa si conservava. Altra nuova di
quello stesso giorno 27 - questa portata dal corriero di Spagna - fu che il castellanato o
governatorato del castello di Civitella del Tronto, allora vacante, era stato conferito a Manuel de
Arrieta, sargente maggiore del terzo fisso degli spagnoli. Domenica 9 maggio lasciò Napoli
Giovanni Carafa di Policastro, il quale tornava in Germania a esercitarvi la sua carica di
colonnello al servizio cesareo, mentre giovedì 20 dello stesso predetto mese moriva un altro
ben noto e distinto mastro di campo e cioè Martín de Castrejon y Medrano, il quale, oltre a
essere, come sappiamo, il comandante del terzo antico o fisso degli spagnoli, era anche
cavaliere dell'ordine di San Giacomo, consigliere del Consiglio Collaterale e membro della
Giunta di Guerra; fu sepolto nella chiesa di S. Lucia del Monte, chiesa dei francescani riformati
spagnoli.
Martedì 25 maggio faceva ritorno a Napoli dalla Puglia l’ottantenne generale principe di
Montesarchio; perché ci fosse andato, non sappiamo; nella notte di giovedì 27, saputosi che i
mari di Calabria erano infestati dai pirati tripolini, i quali intercettavano i mercantili diretti alla
capitale, e che molte tartane cariche d’olio erano a causa loro bloccate nel porto di Crotone,
quattro galere delle cinque del duca di Tursi (squadra che allora contava, come sappiamo, un
totale di sette galere) da alcuni anni poste al servizio del viceré di Napoli e che allora si trovavano
in sosta a Baia, mentre la quinta, ossia la Capitana, era invece ormeggiata nella darsena di

392
Napoli, salparono per andare a pattugliare quelle marine, compito che non si poteva affidare a
quelle della squadra del regno, in considerazione che queste, ricevute le loro paghe e provviste
di tutto l'occorrente, partivano la stessa notte per i Presidi di Toscana, dove portavano ben
1.300 fanti destinati alla muta di quelle guarnigioni.
I dispacci inviati nel giugno al suo senato dal residente veneziano Savioni confermano la
recrudescenza delle incursioni barbaresche nelle acque dello Stretto di Messina, verso le quali, per
partecipare alla difesa, navigavano allora anche le galere di Malta; ma una burrasca che le colse
nelle acque di Ustica ne fece naufragare una, la S. Paolo, perendovi la maggior parte della ciurma
e tre cavalieri gerosolimitani; ma già nell’agosto successivo nell’arsenale della Valletta, approfittando
del legname all’uopo regalato dalla Signoria di Venezia e della promessa del regalo di 200 forzati
fatta dal Pontefice, si darà inizio alla costruzione di una nuova galera.
Un avviso da Genova del 26 giugno informava inoltre che tre barche sorrentine, di cui due
cariche di frumento e una d'aceto che portava a Livorno, erano state predate dai barbareschi
lungo il famigerato litorale laziale, sempre molto infestato da detti corsari, e pertanto si
apprestavano a uscire in corso le galere del granduca di Toscana e ciò in nome della
strettissima collaborazione che c'era tra quel principe e il Vaticano; in effetti anche la squadra
di Napoli, per antico obbligo assunto dalla corona di Spagna con lo Stato della Chiesa, correva
spesso in aiuto di quella dell’ordine militare di S. Lazzaro, il quale era stato a suo tempo
istituito dal Papato proprio con il compito di tener purgata da quella calamità la cosiddetta
spiaggia romana. Questo disgraziato litorale era stato in questo stesso secolo molto travagliato
anche da corsari francesi e catalani, i quali avevano intensificato la loro presenza in quelle acque
ai tempi della guerra per la successione di Mantova (1630-1631) e dell’instaurarsi d’una
preponderanza francese in Piemonte, e, come se tutto ciò non bastasse, era da sempre
lo spauracchio dei naviganti, specie delle galere che venivano da sud, per le correnti e i venti
contrari in cui così spesso colà s’imbattevano e che spesso le obbligavano a indietreggiare a
Gaeta e restare riparate in quel porto per periodi a volte anche d’una quarantina di giorni.
Frattanto anche Le forze marittime francesi minacciavano il regno, specie per la lunga sosta di
una loro squadra a Genova, e da Otranto s’informava che vascelli armati francesi erano stati
avvistati nelle acque di Zante e così il 6 e il 13 luglio scriveva il detto Savioni dei preparativi di
difesa che pertanto in quei giorni si facevano a Napoli:

A scopo, più che altro, decorativo si sono collocati pezzi di artiglieria nei punti più esposti di
questa città, specie al capo di Posilipo e al molo…

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… pertanto, si è ordinato alle provincie di tenere al completo le loro milizie, ossia il così detto
‘Battaglione’, quanto mai trascurato da anni, e alla cui testa si vanno ponendo ufficiali capaci in
sostituzione di quelli o inabili o morti. Ufficiali superiori di provata esperienza (tra gli altri il duca
di Popoli, generale dell’artiglieria, recatosi a Gaeta) sono stati inviati a ispezionare le principali
fortezze costiere.
Per rinforzare le ciurme delle galee si è presa l’abitudine di condannare al remo i rei di
qualunque delitto, grosso o piccolo; tanto che dai balconi di questo palazzo Venezia (oggi il n.
civico 352 a via Toledo) ne vedo passare incatenati da quattro a sei per giorno…

Il 24 agosto aggiungerà:
… Qui poi si continua a raccogliere e armare il ‘Battaglione’, ma i soldati regnicoli che lo
compongono si contentano per ora di guerreggiare contro il popolo napolitano, vittima d’ogni
sorta d’avanie (‘soperchierie’). Per ricordare un esempio solo, mentre passavo in carrozza per la
via Santo Spirito di Palazzo, un soldato ubbriaco si avventò col brandistocco (‘spiedo, mezza
picca’) contro i miei cavalli e sarebbe accaduto chissà quale disastro se un suo compagno non
fosse riuscito a disarmarlo.

Il mese successivo però il detto soldato sarà portato in stato d’arresto al palazzo di San Marco,
cioè al suddetto palazzo Venezia dove chiederà perdono al Savioni; sicuramente lo ottenne,
anche se non c’è dubbio che gli era stato imposto di chiederlo.
Sabato 3 luglio nel largo del Castel Nuovo era stato In quel mentre archibugiato un soldato
disertore come dispongono le leggi militari; evidentemente il disgraziato non aveva avuto la
fortuna d'essere spagnolo, come i due graziati dal viceré nel precedente marzo! Un altro
sventurato fu giustiziato alla stessa maniera sabato 10 seguente, ma questo nei quartieri di
Pizzo Falcone, dotati di un largo cortile come ancor oggi si può vedere, e ciò forse per non
impressionare troppo la gente comune con tutte queste ricorrenti diserzioni:

Nel sabato 10 del corrente entro il presidio di Pizzo Falcone fu archibugiato un altro soldato
disertore, non volendo l'Eccellenza Sua usar veruna indulgenza a tali delitti per esempio degli
altri.

Un altro avviso genovese ci permette di capire l'intensità dei movimenti di galere che, al servizio
della monarchia di Madrid, si avvicendavano nel Tirreno:

(Genova, 24 luglio:) Sono partite per il corso le nostre 4 galere e si aspettano quelle di Napoli
con alquanti soldati da sbarcar al Finale, essendone giunte due dello stuolo di Tursis per
ricevere la catena de’ condannati al remo proveniente da Milano e ripartirli su le altre galere che
sono a Gaeta.

Probabilmente le galere napoletane, dopo aver fatto nel mese di giugno una sosta nel Presidi di
Toscana, come sopra detto, invece di tornare a Napoli avevano proseguito il loro viaggio per
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sbarcare parte del loro carico umano anche in Liguria; per quanto riguarda la rigata, che così si
chiamava a Milano la catena dei galeotti, essa lascerà la capitale lombarda per Genova il giorno
seguente, 25 luglio, come si può leggere in un avviso milanese del 28. Lunedì 26 luglio moriva
nella sua città di Catanzaro il settantottenne Geronimo Susanna, un mastro di campo che aveva
servito il suo re per 50 anni, sia in guerra viva, sia passando sei anni prigioniero e schiavo dei
turchi, di cui uno al remo delle galere e tre ai lavori forzati, in ricompensa di cui servigi il re gli
aveva conferito nel tempo i governatorati di Gallipoli, Brindisi e Tropea e i presidiati di
Montefusco e dell'Aquila; fu sepolto nella locale chiesa dei padri gesuiti, dove la sua famiglia
aveva cappella gentilizia.
Nella prima settimana d'agosto cinque galere de’ particolari, ossia degli armatori privati condotti
da Gioan Andrea d’Oria del Carretto duca di Tursi, le quali si trovavano a Napoli, partirono in
corso verso le acque di Calabria e Messina e faranno ritorno a Napoli nella terza settimana di
settembre, mentre verso il 15 tornarono da Genova le altre due, e quali erano andate in quel
porto a imbarcare 150 condannati provenienti dallo Stato di Milano.
In quel mentre il suddetto d’Oria, trovandosi a Genova, aveva compiuto un viaggio a Milano:

(Genova, 15 agosto, missiva dell’ambasciatore veneziano Sornioni:) Insofferente di scambiare


visite di urbanità con gli ufficiali della squadra francese ancorata qui, il duca di Tursi, generale
delle galee particolari ora al servizio di Napoli, ha colto il pretesto di un’indisposizione del suo
amico Marc’Antonio Visconti per andarsene a Milano.

Alla fine dello stesso agosto si saprà che i tripolini, sbarcati da due vascelli presso il Capo di
Alici (oggi ‘Punta dell’Alice’), avevano catturato sette contadini e inoltre nelle acque di Messina
avevano predato una tartana trapanese, il cui equipaggio era fortunatamente riuscito a porsi in
salvo in quella città; negli stessi giorni lettere dalla Spagna portavano il conferimento del terzo
antico degli spagnoli, il cui comando era vacante dalla summenzionata morte del Castrejon y
Medrano, al mastro di campo Joseph Caro, governatore dell'armi di Gaeta, il quale giungerà a
Napoli da detta piazzaforte nella prima decade d'ottobre.

(Savioni, 31 agosto:) In un diverbio accaduto nel cortile di Palazzo Reale il nocchiero di


monsignor Nasoni ha ricevuto da un soldato alcune piattonate sulla testa, di che invano il nunzio
(apostolico) abbia chiesto soddisfazione.

Martedì 7 settembre fu commemorata, com’era tradizione, la grande vittoria di Nördlingen del


1634 e il giorno seguente fu quindi festeggiata la Madonna di Piedigrotta; nella serata di
domenica 12 settembre si tenne poi, nelle acque e sulla costa del golfo di Napoli, una finta
395
battaglia navale tra cristiani e turchi, finzione a cui parteciparono le galere che si trovavano
allora in darsena a Napoli. Giunse poi da Madrid ordine di costruire a Messina due vascelli da
guerra e a Napoli tre, tra cui uno da 70 cannoni per l’almirante dell’Oceano, ma, non
trovandosene poi traccia negli avvisi, c’è da ritenere che il progetto non sarebbe stato realizzato
e ciò con certo sollievo non solo del popolo, per cui ciò avrebbe significato pesanti vessazioni
fiscali aggiuntive, come era già accaduto pochi anni prima per la costruzione del pessimo San
Carlo, ma riteniamo anche dei protomastri dell’arsenale napoletano, non usi in verità alle grandi
costruzioni oceaniche. In verità anche i due vascelli da costruirsi a Messina arrecavano qualche
preoccupazione a Napoli:

(Savioni, 14 settembre:) …al qual proposito il principe di, generale delle galee regie siciliane, mi
disse due giorni fa che prevedeva d’essere chiamato da un momento all’altro in Spagna, non
ostanti i suoi ottant’anni e i non pochi malanni che lo rendono un cadavere ambulante.

All'inizio della seconda metà di settembre moriva un quarto alto ufficiale e cioè il mastro di
campo fra’ Nicolò Recco, cavaliere gerosolimitano come il suo sunnominato parente Domenico,
e fu sepolto nella sua cappella gentilizia nella chiesa di San Giovanni a carbonara dei padri
agostiniani. Sabato 25, sempre di settembre, il viceré graziò un soldato disertore che l'auditore
generale del regno, il marchese di Montefalcone, aveva condannato all'archibugiazione e la
grazia raggiunse il disgraziato mentre già lo si conduceva al patibolo; nel medesimo giorno
arrivò a Napoli una catena di 12 delinquenti condannati chi al remo, chi a servire in guerra e
l'inviava il già nominato Ignazio d'Amico, giudice di Vicaria e regio commissario generale della
campagna di Terra di Lavoro, territorio ancor oggi famigerato col nome di i Mazzoni. Seppesi poi
dalla Fiandra che il suddetto mastro di campo napoletano Domenico Acquaviva era tornato colà
dalla Spagna, dove aveva ricevuto l'onorificenza del Toson d'Oro dalle stesse mani del re, ma,
lupus in fabula, troveremo costui a Napoli alla fine dello stesso settembre in partenza per Parigi
via Genova né sappiamo quando e perché fosse tornato in regno e che cosa andasse ora a fare
nella capitale francese.
Seppesi che quattro corsari tripolini continuavano a infestare le coste calabresi e, tra l’altro,
avevano catturato nel golfo di Catanzaro due tartane frumentarie napoletane e ne avevano
incendiata una terza che non erano riusciti a rimorchiare come le altre.
Nella mattinata di sabato 23 ottobre il viceré si portò nel regio arsenale a piantare il tradizionale
primo chiodo dorato alla nuova galera che si doveva costruire e che sarebbe servita come
Capitana della squadra di Napoli, in considerazione che la vecchia non era ormai più in

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condizione di tenere il mare; un avviso genovese del 30 seguente portò poi la notizia che una
caravella turca aveva catturato una barca sorrentina carica di grano nel canale di Piombino.
Il 1° novembre moriva il re di Spagna Carlo II, l'ultimo della dinastia degli Asburgo di Spagna,
detti los Austrias, senza eredi di sangue e questa disgraziata circostanza provocherà, già con
inizio dall'anno seguente, un’altra guerra lunga e sanguinosissima, cioè quella detta della
Successione Spagnola, la quale non avrà termine prima del lontano 1714; infatti il sovrano,
contro le attese del mondo intero, lasciava suo erede Filippo Borbone duca d'Angiò, figlio del
Delfino di Francia e nipote di Luigi XIV, estromettendo così la casa d'Austria dal trono di Madrid
e gli Asburgo di Vienna, come vedremo, non tollereranno una scelta che faceva entrare la
Spagna e i suoi immensi possedimenti nell'area d'influenza francese. Nell’Europa settentrionale
era frattanto già iniziata una nuova guerra del Nord, in cui l’8 agosto Carlo XII, un altro sovrano
svedese che si distinguerà per le sue grandi capacità di condottiero, aveva, con la vittoria di
Copenhagen, subito costretto la Danimarca a trattative di pace e poi il 30 novembre a Narva in
Estonia aveva disfatto un esercito russo quattro volte più numeroso del suo.
Sabato 18 dicembre giungeva a Napoli, in missione da Milano, il già nominato tenente generale
Gaetano Coppola di Canzano, il quale era stato inviato da Charles Henri principe di Vaudemont
(1649-1723), ultimo governatore e capitano generale di Spagna a Milano, a chiedere al
Medinaceli ancora soldati e denaro; ottenne una tratta di 50mila ducati, con cui ripartì subito per
la Lombardia, e la promessa di alcune centinaia di reclute e infatti l’anno si chiudeva con l'arrivo
di tre galere della squadra dei privati del duca di Tursi, squadra che svernava, come ogni anno,
a Gaeta, le quali erano state richiamate a Napoli per effettuare il trasporto a Finale dei suddetti
soldati regnicoli destinati allo Stato di Milano. Frattanto era inziata anche

1701. All’inizio dell’anno erano inoltre pronte a salpare da Napoli le tre suddette galere del duca
di Tursi che dovevano portare circa 450 soldati, tra sperimentati e coscritti, destinati a Milano, i
quali erano stati sino allora alloggiati, come il solito, nell’arsenale, ma la partenza fu ritardata dal
maltempo e riuscì solo il giorno mercoledì 5 gennaio; queste galere, le quali viaggiavano di
conserva con due tartane genovesi sulle quali erano state caricati 1.500 barili di polvere e 2mila
bombe, arriveranno a Genova la mattina del sabato 22 e il 25 proseguiranno per Finale dove
sbarcheranno i predetti soldati, i quali da lì dovevano incamminarsi per Alessandria, dove
sarebbero stati armati di fucili e non più dei vecchi moschetti a miccio; le predette galere
faranno ritorno a Genova il 27, porto da cui infine salperanno martedì 15 febbraio per riprendere
la rotta per Napoli; le dette tartane invece arriveranno a Porto Venere parecchio più tardi, cioè

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tra il 10 e il 12 febbraio seguente. Frattanto giunse notizia da Capri che, in occasione del
Trigesimo della morte del re, quella popolazione aveva voluto commemorare degnamente il
triste avvenimento formando, tra l’altro, due squadroni di soldati di presidio e di miliziani armati
tratti per l’occasione dagli abitanti dell’isola medesima.
Giovedì 6 gennaio si tenne a Napoli una sontuosissima cavalcata pubblica di titolati e cavalieri
nell'ambito dei festeggiamenti organizzati per l'acclamazione di Filippo d'Angiò, nipote di Luigi
XIV, nuovo re delle Spagne. La Corte del viceré, i funzionari pubblici e i civili sfilavano vestiti di
nero con la golilla, cioè alla spagnola, secondo una moda che era entrata in uso generale in
Spagna più di un secolo prima, quasi a voler ribadire che, anche se il nuovo re era francese,
Napoli restava fedele alla tradizione spagnola della monarchia; i militari invece nella foggia
francese:

… Comparivano dopo questi, vestiti alla franzesa, come persone militari, due ajutanti del mastro
di campo generale e due tenenti generali… (Bulifon, XXVIII.C.12)

Iniziava la cavalcata la compagnia di corazze della guardia del commendator fra’ Saraceni
vestita molto riccamente e poi, per quanto riguarda i militari, si notava la guardia degli
alabardieri alemanni - in realtà svizzeri di lingua tedesca, come già sappiamo - con il loro
capitano marchese Pompo Azzolini e il loro tenente Pietro Santa Colomba, due aiutanti di
mastro di campo generale e due tenenti generali; infine, la seconda compagnia di corazze della
guardia - quella cioè di Domenico di Sangro dei principi di San Severo. La cavalcata
accompagnava il viceré Medinaceli il quale andava a prendere possesso ufficiale dei castelli di
Napoli in nome del nuovo re e cominciava da Castel di Capuana, antica residenza dei re di
Napoli e ora sede di tutti i principali tribunali del regno, dove si consegnavano al viceré
simbolicamente le chiavi delle annesse carceri e dove egli ordinava di metterne il libertà i
numerosi detenuti, e aveva termine alla cittadella della capitale, cioè a Castel Nuovo, dove a tal
scopo lo attendeva il governatore di quella, ossia il mastro di campo Antonio de la Croux Aedo,
il quale era accompagnato dai suoi 12 alabardieri riccamente vestiti e armati di petto e schiena
di ferro, mentre vestita a nuovo si presentava al viceré l'intera guarnigione del castello e dove il
Medinaceli riceveva dalle mani del predetto governatore simbolicamente anche le chiavi di
quella fortezza. Queste cerimonie furono, come il solito, accompagnate da salve d'artiglieria, ma
anche da quelle di migliaia di mortaletti (‘mortaretti’) che erano sparati a mina corrente, cioè in
catena, l'uno dopo l'altro, per mezzo di lunghe mine di polvere o di stoppini; inoltre si spararono
migliaia di fuochi d'artificio, mentre le merlature del Castel Nuovo e le alberature delle galere in
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darsena erano zeppe di luci; il tutto accompagnato da un festoso suonare di trombette, timpani
e tamburi.
Tutta questa festosità era però soltanto formale, come ci spiega il diarista fra’ Costanzo da
Napoli (al secolo Angelo di Costanzo) a proposito di questa stessa cavalcata del 6 gennaio,
durante la quale il viceré incedeva facendo gettare alla folla monete con l'effigie del nuovo re da
una parte e dei gigli di Francia dall'altra:

Nell'anno 1701, facendosi l'acclamazione del nuovo Re di Spagna Filippo V di Borbone nel
giorno dell'Epifania a’ 6 di gennaro, sebbene il Popolo non acclamò ’Viva il Re Filippo!’ con tutto
ciò si fece la funzione quietamente. E, perché la maggior parte degli animi erano inclini alla
Casa d'Austria come quella che per tanti anni l'aveva così benignamente governati, miravano il
tutto con riverente silenzio.

Mercoledì 26 dello stesso mese di gennaio salperà ancora da Napoli un’altra tartana che poi nel
corso del mese successivo sbarcherà a Finale 10mila palle di cannone e 2mila bombe da
mortaro, tutti proiettili esitati dal suddetto arsenale. In un dispaccio inviato in quei giorni al suo
senato l’ambasciatore veneziano a Genova Corniani opponeva la grande disciplina delle
soldatesche francesi, da ora non più nemiche della Spagna, all’indisciplina di quelle napoletane
testé sbarcate a Finale:

(Genova, 6 febbraio 1701:) … Sono sopraggiunte le altre dieci navi che si attendevano da
Tolone, una di cui, sbattuta più delle altre dal mare, è dovuta approdare ad Alassio. I soldati
sbarcati finora sono seimila, che, disciplinatissimi, hanno già preso la strada di Alessandria;
indisciplinate, per contrario, e già decimate dalle diserzioni le truppe napoletane sbarcate al
Finale.

Di conseguenza non c’è da meravigliarsi se i contadini liguri non vedevano di buon occhio
questi passaggi di soldatesche straniere attraverso le loro campagne, come sembra di capire da
un successivo dispaccio del Corniani:

(Genova, 20 febbraio:) Asprezza di strade, facilità di diserzioni (frequenti, non ostanti punizioni
severissime) e maltrattamenti da parte dei contadini, da cui sono stati persino uccisi alcuni
soldati, hanno indotto questi residenti (ambasciatori) delle due Corone a chiedere alla Signoria
che il resto delle truppe francesi, invece che a Vado, sbarchi tutto a San Pier d’Arena, donde
riuscirà molto più agevole avviarle in Lombardia; il che è stato concesso…

All'inizio di questo 1701, stretti dunque da un’inusitata e storicamente inopinata alleanza,


francesi, spagnoli e napoletani si preparavano a difendere la Lombardia da un incombente

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attacco dei cesarei, ossia degli imperiali sudditi degli Absburgo di Vienna, non essendo ormai
più questa e Madrid signoreggiate da una comune dinastia, mentre il primo atto di questa nuova
guerra si apprestava a essere l'occupazione francese della Fiandra spagnola. Il tenente
generale della cavalleria dello Stato di Milano, il napoletano Gaetano Coppola, fu spedito in
Francia, dove ottenne un soccorso di 50mila ducati da quella Corte, il qual buon servigio nel
marzo successivo non gli eviterà però di essere declassato al grado di semplice colonnello
comandante di reggimento e ciò nell'ambito di una generale riforma, ossia ridimensionamento,
della cavalleria di quello stato ordinata da Madrid; in Spagna si stava per imbarcare soccorsi per
la Lombardia; nel Regno di Napoli si levavano reclute per i terzi regnicoli che servivano
all'estero e si riattavano e rifornivano di munizioni le principali fortezze del regno, specie i
castelli di Capua e di Baia; alla fine di gennaio il viceré ordinò che si mettesse in ordine anche il
Battaglione del regno:

… si provvede a inviare nelle provincie di Bari e di Lecce grande quantità di letti per quelle
milizie provinciali o Battaglione che si voglia dire (Savioni da Napoli, l’8 febbraio 1701, in Fausto
Nicolini, L’Europa ecc.)

Fu ordinata anche l’adunata della cavalleria provinciale detta della Sacchetta e a questo scopo
era stato inviato nel Lucerese Domenico Dentice, ufficiale esperto di quell’arma. Frattanto la
giunta di governo di Madrid, come informava un dispaccio inviato il 20 gennaio al suo senato
dall’ambasciatore veneziano Mocenigo, aveva ingiunto al viceré d’inviare al predetto
governatore principe di Vaudemont altri soldati e altri centomila ducati, la metà di cui, in una
tratta, erano già partiti per corriere espresso nella prima metà di febbraio, mentre un’altra tratta
di 25mila ducati era inviata al governatore di Milano, il già più volte ricordato marchese di
Leganés, da Pedro Colón y Portugal duca di Veraguas e viceré di Sicilia dal 1696, richiestone in
realtà di 50mila, insieme a 3mila cantara di polvere pirica, la quale era colà di gran facilità di
produzione in considerazione che quell’isola era particolarmente ricca di salnitri; inoltre aveva
ordinato che le galere rege sia di Napoli che di Sicilia salpassero per Barcellona, dove
avrebbero dovuto imbarcare le soldatesche catalane destinate alla difesa della Lombardia,
difesa a cui stavano allora confluendo anche ingenti forze francesi; per tal motivo poi all’inizio di
marzo a Napoli si vedrà riattare appunto le galere ed essersene posta in costruzione una nuova.
Anche su richiesta del suddetto principe di Vaudemont, un ordine reale imponeva poi la
costituzione di un terzo di fanteria di 800 uomini che il mastro di campo Ciarletta Caracciolo,
fratello di Marino Caracciolo principe della Torella [Tor(r)ella del Sannio], doveva levare in

400
Napoli e se ne nominarono anche i capitani; passarono a servire da venturieri, ossia da
volontari senz'incarico né soldo, in questo nuovo reparto anche cinque capitani napoletani
riformati. In quei giorni partivano per la Calabria 200 soldati spagnoli portati da un vascello
inglese all’uopo noleggiato e destinati a potenziare il presidio di Reggio.
A Napoli, dove, a causa della diffusa e tradizionale francofobia, si era facilmente formato un
partito filo-asburgico che diventava ogni giorno più forte e riottoso, l’opinione pubblica
generalmente avversava decisamente l’alleanza francese, come del resto anche a Milano, e
mal tollerava l’afflusso di civili di quella nazione:

(Savioni, da Napoli l’8 marzo:) In proporzione agli aumentati arrivi di francesi crescono gli odii di
questi popoli contro la Francia e le mene di coloro che hanno interesse a soffiare sul fuoco,
senza parlare degl’insulti quotidiani della plebaglia a carrozze recanti individui di quella nazione.
Al Molo Piccolo c’è stata battaglia tra francesi e marinari messinesi con archibugiate e feriti da
tutt’e due le parti…
Le nuove leve disposte dal Medinaceli nella stessa città di Napoli danno ottimi risultati, giacché,
trovandosi sul lastrico ben ventimila setaiuoli disoccupati, parecchi di essi accorrono ad
arrolarsi…

E poi ancora il Savioni il 15 seguente:

Per nascondere il più possibile i continui arrivi di francesi da Roma, li si fa entrare in città o di
notte oppure mercè il giro delle mura, dalla porta di Chiaia, sperando, per tal modo, di farli
credere viaggiatori stranieri venuti a Napoli per diporto e reduci da gite alle antichità di Pozzuoli,
Baia e luoghi convicini; ma con ciò non si getta polvere negli occhi né alla plebe né alla
nobiltà…

Ma non tutti i nobili erano di parte austriaca:

… Parecchi di questi nobili, per farsi merito col nuovo sovrano, si preparano a militare
volontariamente nel Milanese e tra essi, quale venturiero, il principe di Avellino, che si dispone
alla partenza col fasto consueto… (Ib.)

Già 6mila uomini, tra fanti e cavalli, delle milizie provinciali del Battaglione erano stati raccolti e
molti di questi erano stati posti a guardia delle marine pugliesi per il timore che vascelli
veneziani – pur essendosi dichiarata la Serenissima neutrale - vi venissero a sbarcare
soldatesche cesaree; gli effetti di questa mobilitazione saranno presto visibili nella capitale:

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(Napoli, 18 marzo:) La Settimana Santa hanno principiato di venire li soldati de’ battaglioni di
questa provincia per rinovare l'assento (il contratto), tanto quelli a cavallo quanto a piedi,
volendo Sua Eccellenza che si esercitano nella milizia, e ciò si fa per tutto il regno.

(Savioni, da Napoli il 22 marzo:) Cominciano ad affluire in Napoli le truppe del ‘Battaglione’, alle
quali, provincia per provincia, si da la rassegna, sostituendo giovani agli uomini avanzati in età;
ciò non ostante, quella che si è vista finora è, generalmente parlando, gente così rozza, stolida
e feroce che, quando passa per le strade, vien salutata dal popolo con sibili e sberleffi. A ogni
modo si è cominciato a istruirla…

Intorno allo stesso martedì 22 era pure arrivata a Napoli una catena di 26 malfattori, ma questi
nell’avviso definiti tutta bella gente, i quali erano stati condannati chi al remo e chi alla guerra, In
quel mentre il giorno 20 il viceré, pagatone il passaggio a un vascello inglese evidentemente
allora a Napoli per motivi commerciali, aveva fatto partire per Reggio Calabria 100 fanti
spagnoli; ma leggiamo ancora il Savioni:

(Napoli, 29 marzo:) Per calmare questa plebe non solo non si sono fatti venire altri francesi, ma
parecchi sono ripassati alla spicciolata nello Stato della Chiesa e il Berwick, anziché per Napoli,
è partito da Roma per la Francia.

Ancora un dispaccio del Savioni ci fa capire le difficoltà in cui la Corona metteva il Regno di
Napoli e la sua cassa militare in forte deficit con le sue continue richieste di denaro, contributi
ora divenuti di 50mila ducati mensili fissi, e di uomini e mezzi:

(Napoli, il 5 aprile:) Da Madrid giunge ordine di far partire ai primi del mese entrante queste
galee regie per Porto Mahon (nelle Baleari); da che grande imbarazzo del Medinaceli e del
conte di Lemos, sia perché lo spalmo di esse non sarà terminato se non il 20 maggio sia perché
manca del tutto il denaro per mantenerle – si riesce a gran fatica a raggranellare i 50mila ducati
da mandare a Milano a principio di ciascun mese – sia perché occorrono almeno quaranta
giorni per la stagionatura del non ancora fabricato biscotto, tanto che il Collaterale, convocato in
seduta straordinaria, ha disposto di farne venire dai presidi viciniori, a cui si danno in cambio
razioni di pane, quel tanto che basti a nutrire le ciurme sino a Genova.

L’ordine suddetto fu poi sollecitato, ma le suddette difficoltà perduravano:

(Napoli, 26 aprile:) … Non ostanti gli sforzi del viceré e del conte di Lemos sembra difficile che
queste galee regie possano salpare, come si vorrebbe, doman l’altro; si pensi che fino a stasera
le ciurme non hanno avuto ancora né paghe né vestiti…

Finalmente sabato 30 aprile salparono:

402
(Napoli, 3 maggio:) Sabato, di conserva con la squadra particolare (‘privata’) del duca di Tursi,
queste galee regie sono finalmente partite, ma, per fornir loro il denaro necessario, il viceré ha
dovuto dare in pegno una cassetta di gioielli della viceregina. Sono stati obbligati a imbarcarsi
anche gli ufficiali i quali, pur percependo sul fondo della Marina soldi giungenti in qualche caso
sino a 50 ducati il mese, usavano restare quasi tutto l’anno inoperosi; quindi anche nobili
spagnuoli e napoletani avvezzi a viaggi marittimi non più lunghi di quelli occorrenti pei cambi di
guarnigione nei Presidii di Toscana…

Salparono dunque per la Liguria le suddette riattate otto galere di Napoli di conserva con le
sette galere dei particolari di Genova, ossia quelle del duca di Tursi, tutte sotto il comando del
Lemos, in considerazione che il duca di Tursi si tratteneva allora a Genova, e le seconde
portavano a Finale alcuni personaggi e gli 800 uomini del terzo di nuova leva del predetto
Caracciolo con destinazione ultima allo Stato di Milano, come il solito; a proposito di questo
terzo, una registrazione di dazione di denaro che si conserva nel fondo Papeles de Estado,
Nápoles dell’Archivio General de Simancas ci fa capire che i suoi 800 fanti erano suddivisi in
otto compagnie di 100 fanti l’una:

A 8 alfieri e 8 sargenti delle compagnie del terzo d’infanteria napoletana del mastro di campo
Ciarletta Caracciolo in luogo dei vestiti che non si poterono fare per la brevità del tempo…

Mentre domenica 1° maggio si teneva a Napoli un’altra sfarzosa cavalcata pubblica per
festeggiare l’arrivo di Filippo V a Madrid, tutte le suddette galere, dopo aver raggiunto la Liguria,
avrebbero poi proseguito per Porto Mahón in ignota missione, come si diceva, perché solo in
quel porto avrebbero trovato gli ordini di Sua Maestà; in effetti andavano a unirsi a cinque galere
di Sicilia, una di Sardegna, sette del duca di Tursi e dieci di Francia, venendo così a formare
una squadra di 30, da porsi agli ordini del vice-ammiraglio francese conte Victor Marie d’Êtrées,
forse per andare a liberare Ceuta dall’assedio dei barbareschi. Esse erano precedute a Porto
Mahón da tartane che portavano 3mila tomoli di frumento con cui fabbricare a Minorca il
biscotto occorrente alle ciurme, essendovi colà scarsità di grano, e dovendo approvvigionarsene
per il viaggio a Porto Longone e a Genova:

(Savioni da Napoli, 10 maggio:) … Sulle galee anzidette è stato imbarcato il ricchissimo


equipaggio (‘bagaglio e servitù’) del Gran Cancelliere del regno principe d’Avellino, che, cognato
del marchese de los Balbases, è in procinto di partire per la Lombardia, ove intende militare da
venturiero con numeroso seguito ingaggiato a sue spese.

Il predetto marchese de los Balbases, il napoletano Filippo Spìnola d’Oria, comandava allora
una compagnia di cavalleria dello Stato di Milano, unità che si faceva notare per l’eleganza delle
403
sue fin troppo sontuose uniformi, a quanto si legge in un messaggio del 18 maggio inviato dal
residente veneziano Bianchi; a metà dell’anno seguente lo troveremo però capitano generale
della cavalleria di quello stato.
Il maltempo obbligò però questa squadra a riparare subito nel vicino porto di Baia, dove
dovettero trattenersi qualche giorno e poi ancora, oppresse da una vera e propria tempesta,
anche in quello di Gaeta, dove in aggiunta disertarono moltissimi uomini, circa 400, i quali,
passato il confine dello Stato della Chiesa, furono poi accolti a Roma dall’ambasciatore
austriaco, il quale li munì di viveri, denaro e passaporti perché raggiungessero l’esercito cesareo
operante in Italia e vi costituissero un reggimento di fuorusciti; ciò era perfettamente in linea con
la tradizionale italica esterofilia, atteggiamento nato nella penisola già al tempo delle invasioni
barbariche che dissolsero l’impero romano e che faceva a pugni con le diserzioni che, per
esempio, pur numerose, si verificavano tra le soldatesche savoiarde aggregate all’esercito
francese di Lombardia, perché quei disertori, non andavano a servire lo straniero, ma,
passando per il territorio della Repubblica di Genova e vivendo di furti, se ne tornavano alle loro
case in Savoia; e come se ciò non bastasse, disertori tedeschi dell’esercito di Milano, non
volendo combattere contro gli austriaci, andavano a ingrossare le loro fila. Queste 15 galere
napoletane e genovesi dovettero fermarsi parecchi giorni pure a Porto Longone, sempre a
causa del maltempo, e si videro comparire davanti a Genova quindi solo mercoledì 25 maggio;
colà arrivate, il Lemos non si vide salutare dalle artiglierie dei forti locali come si aspettava,
probabilmente ciò era dovuto alle gelosie di comando del duca di Tursi, il quale, come abbiamo
già detto, non si trovava imbarcato sulla sua squadra, ma era già a Genova, e allora con 13
galere proseguì per Finale dove avrebbe sbarcato il terzo napoletano destinato alla Lombardia,
mentre due galere del duca di Tursi, tra cui la Capitana, restavano a Genova per ricevervi la
catenata dei condannati di Milano, la quale giunse infatti quella sera stessa e fu subito
imbarcata. Si sarebbero poi imbarcati sulle galere genovesi, oltre allo stesso Tursi, alcuni
personaggi di qualità e cioè Camillo d’Oria, il quale aveva ottenuto un importante posto di
ufficiale delle galere rege di Napoli, e poi il marchese di Francavilla, il napoletano Tomaso
Caracciolo e altri, i quali, diretti a Madrid, sarebbero stati sbarcati a Marsiglia. Avvenne allora un
grave tentativo d'ammutinamento sulle galere rege di Napoli, mentre queste erano alla fonda
nella rada di Vado; si scoprì infatti una congiura dei forzati, molti di cui erano scontenti perché,
pur scaduto il tempo della loro condanna, si continuava a trattenerli alla catena, e altri addirittura
sostenevano d’esser stati costretti al remo senza alcuna condanna; progettarono questi
l’uccisione dei soldati di guarnigione e il loro stesso generale conte di Lemos, particolarmente

404
odiato dalle ciurme a causa della sua durezza e della sua mancanza di liberalità, poi una fuga
generale per portare infine le galere a Trieste e porle al servizio dell’imperatore; ma il complotto
fu svelato al Lemos da un pilota e dunque, trovate infatti molte armi nascoste sotto i banchi dei
rematori, i 13 principali congiurati furono impiccati alle antenne; ecco come fra’ Costanzo da
Napoli, predicatore cappuccino, ricorda nei suoi diari questa vicenda, arricchendola cioè di
dettagli più crudi di quelli che erano concessi agli avvisi ufficiali:

... Ma queste arrivate a Genova, essendosi trattenute per lo mal tempo molti giorni a Gaeta, nel
porto della Spezia si scoprì una congiura di forzati ed era di dar la morte al generale signor
conte di Lemos e capitani e soldati; per cui ne furono molti di essi forzati squartati, appiccati alle
antenne e altri mercati (marcati) R e C, dicendo: Regia Corte, condannati a perpetua galera; poi
il medesimo generale, prima di ritornare a Napoli, fe’ l'indulto agli altri.

In effetti, se il marchio frontale d’infamia R.C. (‘Regia Corte’ o Real Corte) e l’estensione
della pena del remo a vita natural durante era una pena comminata frequentemente, ancora
sussisteva, in caso di gravissimi reati quali fellonia o lesa maestà, anche quella dello
squartamento e d’altra parte non c’è da meravigliarsene, se si pensa che stiamo parlando di
un’epoca in cui le malate d’isteria e di mente in generale ancora si bruciavano come streghe sul
rogo; s’adagiava e legava il condannato su uno dei banchi d’uno schifo di galera e poi a
ciascuno dei suoi polsi e delle sue caviglie, pertanto sporgenti dal bordo della piccola
imbarcazione, s’attaccava un cavo tirato dalla poppa d’una galera; poi, a uno squillo di tromba,
le quattro galere così impegnate iniziavano una voga divergente verso i quattro punti cardinali e
lo squartavano; nel 1690 anche i veneziani avevano così giustiziato un loro disertore catturato
alla presa di Malvasia, mentre altri nove furono impiccati alle antenne delle galere. L’indulto ai
più era inevitabile perché il Lemos non poteva ovviamente lasciare le sue galere prive di
braccia sufficienti alla voga.
Il Lemos proseguì poi con le sole galere napoletane verso Porto Mahón, però lentamente,
perché, timoroso di un altro tentativo di sollevamento, voleva farsi raggiungere da quelle del
duca di Tursi; ma queste il 2 e il 4 giugno, proprio mentre si disponevano a lasciare Genova,
furono raggiunte da replicati ordini del principe di Vaudemont da Milano, che le obbligava a
ritornare invece subito a Napoli dove il viceré ne richiedeva la rassicurante presenza perché
oppresso da diversi timori e cioè da quello di uno sbarco cesareo in Abruzzo e Puglia,
dell’ingresso di una flotta anglo-olandese, dell’approdo della flotta turca a Malta e infine di una
sollevazione filo-asburgica di cui già s’intravedevano possibili premesse; si diceva per
esempio di turbolenze provocate colà dal noto capo-bandito Santuccio, il quale, pur rifugiatosi
405
a Spàlato sotto la protezione della Signoria di Venezia, colà si dedicava a raccogliere
e armare fuorgiudicati e banditi a favore appunto del partito austriacante, in ciò sostenuto da
altro famoso capo-bandito fuoruscito e cioè da Domenico Soderini da Ascoli Piceno, il quale
invece anni prima si era rifugiato a Parigi. Partì dunque il duca di Tursi con le sue galere per
Napoli sabato 5 giugno, mentre le galere napoletane, giunte a Marsiglia, dove il conte di Lemos
fu ricevuto con magnificenza dal già ricordato tenente generale delle galere di Francia, cioè
Jacques de Noailles, essendone allora invece capitano generale il già ricordato duca di
Vendôme, vi trovarono ordini di ritorno urgente a Napoli anche per loro e pertanto subito
ripartirono e venerdì 17 giugno erano di nuovo all’ancora nella rada di Vado, da dove però
potranno riprender il viaggio solo la mattina del 29 a causa del vento contrario, per poi
però doversi fermare ancora due giorni a Porto Fino. Per gli ordini militari urgenti, i messaggi
diplomatici, cosiccome anche per i brevi passaggi veloci a personaggi importanti, s’usavano
allora nel Mediterraneo di ponente le velocissime filuche napolitane (dette anche feluche e
felucche; dal lt. fulica, folaga), scialuppe di origine palustre già menzionate nel Trecento, a
sei remi per lato, a vele latine o a saccoleva e a doppia prua, quindi col timone velocemente
trasferibile da un’estremità all'altra in caso di bisogno, utilizzate anch’esse come
porta-ordini e corrispondenza e per passaggi veloci, divenute molto comuni e apprezzate a
partire appunto dal Seicento; in versioni più grandi dette feluconi e con maggior numero di remi,
erano talvolta usate dai turchi anche per la guerra di corso di piccolo cabotaggio e servivano
inoltre al diporto marittimo e lacustre dei regnanti, come quella riccamente decorata in dotazione
alla Corte di Napoli, adoperata per le gite che quei vicerè e poi re amavano fare nell'acque di
Posillipo, e il cui ultimo esemplare ancor oggi si può ammirare al museo partenopeo di S.
Martino.
Equivalenti alle filuche napoletane erano nel Mediterraneo di levante i caichi o caicchi, piccole
imbarcazioni velico-remiere monoremo da 5 o 6 remi per banco molto simili a quelle, altrettanto
veloci e che poi nel Settecento saranno con nuovo nome chiamati a Venezia peote o peotte
(da pedota, ‘pilota’, quindi ‘pilotine’), mentre sino alla prima metà del Seicento se ne erano,
specie in guerra, molto usate in ambedue i mari delle altre, ancora un po’ più grandi, dette
fregate d’armata o fregatine.
Frattanto nel maggio quarantamila uomini comandati da Eugenio di Savoia, il meglio
dell’esercito imperiale, varcarono i confini italiani dal Tirolo ed entrarono in Lombardia; la fine
del dominio spagnolo in Italia era iniziata. Era un esercito diverso da quelli franco-ispanici
perché costituito da un minor numero di corpi ma più grossi perché dal piede di mille uomini

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l’uno quelli di cavalleria e di dragoni e di 2.500 quelli di fanteria, ma suddivisi in più battaglioni;
ecco il dettaglio dei suoi corpi e dei suoi ufficiali generali, inclusi quelli che si aggregarono
successivamente, mentre non abbiamo reperito memorie altrettanto esaurienti del suo treno
d’artiglieria che comunque comprendeva 46 bocche d’artiglieria leggera da campagna, mentre
altre pesanti d’assedio seguiranno sempre attraverso il Tirolo:

Reggimenti di fanteria:

‘Vecchio’ Staremberg
Mansfield
Conte Guido von Staremberg
Nigrelli
Herberstein
Bagni
Conte Guttenstein
‘Nuovo’ Conte von Daun
Principe Longuevall
Kirkbaum

Reggimenti di cavalleria (corazzieri):

Corbelli
Principe de Commercy
Lorraine
Principe di Vaudemont
Neuburg
Darmstad
Palfi
Conte Taff
Marchese Visconti
Geschwind

Reggimenti di dragoni:

Savoia
Serini
Dietrichstein
Vaubonne

Ussari:

Colonnello Paul Diack

Ufficiali generali:

Principe Eugenio di Savoia, capitano generale dell’esercito (generalissimo)


Principe de Commerci, maresciallo di campo generale
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Principe Charles Thomas di Vaudemont, capitano generale della cavalleria
Conte Guido von Staremberg, capitano generale della fanteria
Conte Palfi, luogotenente di maresciallo di campo generale
Conte Hermenstein, luogotenente generale
Conte Serini, maggiore generale
Conte Dietrichstein, maggiore generale
Conte Bagni, maggiore generale
Conte Solari, maggiore generale
Conte Guttenstein, maggiore generale
Marchese Visconti, maggiore generale
Barone von Riedt, aiutante generale
Barone Charee, aiutante generale
Barcet, aiutante generale
Conte de Soissons, capitano generale dell’artiglieria e fratello del principe Eugenio
Marchese de Vaubonne, quartier-mastro generale (poi maggiore generale)
Sebisk, quartier-mastro generale
Margravio di Anspach, luogotenente di maresciallo di campo generale (poi maresciallo di
campo generale)
Conte Davia, aiutante di maresciallo di campo generale

Altri ufficiali dello stato generale:

Conte Wallenstein
Boiner
Roccacione, colonnello del regg. Vaubonne
Sieur Ronvexone, colonnello di dragoni
Sell, colonnello di cavalleria
Wondt, colonnello di fanteria
Gonzales, colonnello di fanteria
Conte Leiningen
Principe Thomas de Vaudemont

Alla fine di giugno Milano, alle prese con ingenti spese di guerra, ebbe un ennesimo soccorso
finanziario da Napoli e si trattava di centomila scudi a cui se neaggiungevano altri cinquantamila
inviati da Madrid; continui erano gli esborsi fatti dall’erario di Napoli in soccorso degli altri
possedimenti spagnoli e così scriveva infatti il 6 settembre Savioni:

… Da qualche tempo il Collaterale non attende quasi ad altra che a studiare la guisa in cui
aderire alle continue richieste di denaro che pervengono qui da Milano e da Madrid.

Infatti a metà settembre furono trasmessi a Milano ulteriori 50mila ducati; frattanto a Napoli si
era saputo da Otranto che i marinai di vascelli mercantili francesi giunti in quel porto da paesi
infetti si erano rifiutati di sottoporsi a quarantena e avevano disperso a moschettate le locali
guardie di sanità che si opponevano al loro sbarco.

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Ma, tornando ora alle cronache napoletane, diremo subito che il primo maggio si era festeggiato
l'arrivo del re Filippo V a Madrid con pubbliche cerimonie e giochi cavallereschi, ma a Napoli in
realtà, mentre ai confini d’Italia si andava ammassando un grosso esercito cesareo, proliferava
sempre più il partito filo-absburgico. Per ordine di Madrid si preparavano incessantemente
legnami da costruzione di vascelli e si fabbricavano palle e bombe da cannone, inviandosi a tal
scopo, sia alle ferriere di Calabria sia ai boschi di Misuraca, il soprintendente dell’arsenale
presidente de Andrada, il quale era considerato espertissimo in tali materie; si davano inoltre
pure nuove patenti per la guerra di corso, in considerazione che, specie nei mari di Sicilia e di
Malta, era divenuta di nuovo molto virulenta la pirateria barbaresca, ora perdipiù esercitata non
più con piccole fuste remiere come nel passato, ma con grosse caravelle, così allora
impropriamente chiamandosi le tartane armate o gli altri velieri medio-piccoli che usavano, per
cui questi corsari potevano ora trattenersi più a lungo anche nel Mediterraneo settentrionale, per
esempio nelle acque livornesi, ricche di traffici marittimi, e si era saputo che una tartana che
portava roba del gran priore Vaini, generale delle galere maltesi, inseguita da quei pirati, era
naufragata sulle coste della Calabria. A proposito del suddetto passaggio dalla navigazione
bellica remiera a quella velica che stavano mettendo in atto i barbareschi, bisogna dire che esso
era ormai alquanto generale nel Mediterraneo; infatti la flotta che nel maggio di quest’anno
l’ammiraglio turco chiamato dai cristiani Mezzomorto portò fuori dai Dardanelli a minacciare la
Morea veneziana era costituita da 14 legni barbareschi e da 29 sultane – così chiamandosi i
grossi galeoni che gli ottomani e gli algerini ancora usavano, non parlandosi più ormai di galere
e galeotte come nel passato, e gli stessi cavalieri gerosolimitani avevano appena incominciato
ad armare velieri invece di galere, in considerazione che i primi, oltre al vantaggio offerto dalle
loro numerose grosse artiglierie, con i loro grandi carichi di munizioni e provvisioni permettevano
missioni in Levante molto più lunghe.
Martedì 24 maggio giunse a Napoli una tartana francese che portava 30 ufficiali tra capitani,
alfieri e sargenti del terzo napoletano del Grimaldi in Fiandra, terzo che era stato di Domenico
Acquaviva e che era stato conferito al Grimaldi dall'Elettore di Baviera, allora governatore di
Fiandra, verso la metà di marzo; costoro erano venuti a reclutare questo loro reparto e
addirittura si diceva che dovessero arruolare 2.500 uomini, mentre ancora sei di quegli ufficiali
dovevano giungere via terra.
Il giorno seguente partirono due delle compagnie di spagnoli del terzo di Napoli che andavano a
rinforzare il presidio di Pescara sotto la condotta di Rodrigo Correa, governatore dell'armi del
Torrione del Carmine, nel frattempo elevato a mastro di campo, il quale avrebbe dovuto colà

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pure organizzare i locali soldati del Battaglione perché sorvegliassero le marine; si sguarniva
Napoli di soldati per inviarli alla difesa delle coste abruzzesi e ciò su richiesta del potente
Cesare d’Ávalos marchese di Pescara e del Vasto, il quale aveva avvisato al viceré
l'avvistamento di molte vele, probabilmente turco-barbaresche (turchesche) o forse cesaree, al
largo della seconda di quelle città costiere, dove egli si trasferì dalla prima, preferendo la
protezione di un numeroso esercito vassallo personale d’alcune migliaia di uomini che vi aveva
raccolto a quella della guarnigione di Pescara ora pullulante di soldati spagnoli; entrate ormai le
armi imperiali in Italia, un’invasione del Regno di Napoli specie dalla parte d’Abruzzo era molto
temuta, ma si fortificavano nel frattempo anche Ischia, feudo anch’essa del marchese del
Vasto, e Procida. In questo periodo fu eletto il nuovo mastro di campo generale delle fortezze di
Toscana e governatore d’Orbitello nella persona dello spagnolo Bartolomé Espejo, carica che
era rimasta vacante alla morte di Marino Carafa dei duchi di Maddaloni.
Mercoledì 22 giugno arrivarono dunque di ritorno nel porto della capitale, con il loro generale
duca di Tursi, le sette galere dei particolari genovesi che, come abbiamo detto, alla fine del
precedente maggio avevano sbarcato a Finale il suddetto terzo di nuova leva di Ciarletta
Caracciolo, portando anche a Napoli la notizia del suddetto tentativo d’ammutinamento
avvenuto sulle galere rege di Napoli, ma ripartirono già la notte del giorno seguente, avendo
imbarcato milizie italiane destinate a dar il cambio a quelle spagnole allora di presidio a
Port’Ercole e Longone; dopodiché, riportate le seconde a Napoli, sarebbero andate a incrociare
sulle coste calabresi e tarantine dove imperversava una flottiglia turco-barbaresca di cinque
caravelle e sette galeotte, da cui 600 corsari, sbarcati a Boccalino, terra del conte Ferrante
Spinelli, presso Brancaleone, avevano catturato tre tartane napoletane colà ancorate e cariche
di olio, formaggio e pece da portare a Napoli; poi avevano subito la stessa sorte altre due
tartane napoletane che navigavano in quelle vicinanze e venerdì 24 giugno il mercantile
veneziano Santo Speridione, il quale era partito il giorno precedente da Augusta con un carico
di sale e formaggi per Venezia. Il Savioni si fece promettere dal viceré che avrebbe inviato in
quella zona anche le galere rege, tornate frattanto a Napoli lunedì 4 luglio, ma dubitava che la
promessa sarebbe stata mantenuta; invece lo fu, anche perché cominciò a non passar quasi
giorno senza che mancasse notizia di qualche nuova cattura di vascelli cristiani fatta da quelli
turco-barbareschi nelle acque siciliane e calabresi, aggiungendosi a questa quella, ancor più
negativa e non resa di pubblico dominio, di un’importante vittoria militare ottenuta in quel tempo
dagli imperiali a Carpi:

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(Savioni, da Napoli il 26 luglio:) Le scorrerie dei corsari tripolini sono divenute così esiziali,
anche ai piccoli legni, da determinare l’interruzione di qualunque commercio con la Calabria e la
Sicilia con danno gravissimo di questa popolosissima capitale, che trae gran parte del suo
vettovagliamento proprio da quelle parti. Sopra tutto per siffatta considerazione giovedì (21
luglio), a mezzanotte, salparono a quella volta anche queste galee regie…

Dopo qualche giorno partirono per Messina anche le galere del duca di Tursi, ma si trattò
comunque di partenze solo d’apparenza, tanto per far contento il Savioni, perché, lasciata sola
a incrociare nelle acque di Otranto la squadra dell’ammiraglio veneziano Diedo, tutte
prestissimo tornarono nuovamente a Napoli, destinate ad altra ben più vanagloriosa missione,
come racconta ancora il succitato Costanzo, il quale però erra sul mese di questo secondo
ritorno, essendo ritornate le prime, cioè quelle di Napoli, solo giovedì 4 agosto e le seconde
nella notte del martedì 9 seguente:

... Quali, ritornate in questa Città nel luglio, ebbero di nuovo l'ordine di prepararsi ad andare a
Nizza di Provenza, ove si sarebbe fatta l'unione delle altre galere, così di Spagna come di
Francia, per levare la figlia secondogenita del duca di Savoia, destinata per sposa di Filippo V
re di Spagna, che calava in Barcellona a giurare li privilegi di quel contato. Per la qual cagione
si prepararono le nostre galere e in particolare la Capitana, mentre si diceva che la regina
voleva far quest'onore alla Capitana di Napoli; onde si vide tutta la poppa indorata, li remi, il
nuovo stendardo, tutti i forzati con giubbe di damasco rosso con berrette in capo e altre
bizzarrie, che v'accorse tutta la Città a vederla e il giorno prima della partenza vi calò la
Viceregina colle sue dame di Corte e furono complimentate di rinfreschi; e poi a’ 27 d'agosto
partirono al numero di 15 alla volta di Nizza. Stavano di giorno in giorno aspettando l'avviso
dell'imbarco della sudetta regina, essendo sino ora un mese e mezzo che sono partite, col
continuo buon tempo, e non è giunta la nuova del suo arrivo...

In una missiva del predetto Savioni datata 2 agosto, a proposito della difficoltà del tempo
ristretto che si era avuto dalla Corte di Madrid per preparare degnamente le galere, tra l’altro
così si legge:

… A ogni modo il Viceré ha dato in appalto la doratura della poppa e dei remi a persona che si
è impegnata a compiere il lavoro in soli nove giorni e, al tempo medesimo, egli fa preparare in
tutta fretta un grande apparato di damasco orlato d’oro nonché cinquecento vestiti di gala da
indossare dalle ciurme e dai soldati di scorta.

Un avviso di Foligno del successivo 2 settembre darà anch’esso notizia del suddetto addobbo
della Capitana (o Generalizia, come anche si diceva a Venezia):

La galera Capitana è addobbata per trasportare la Regina di damasco cremisi e frange d’oro;
anche i forzati sono vestiti del medesimo damasco e coppo lini alla turchesca pure tramati d’oro.
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L’abbigliamento speciale dei forzati fu ricordato anche dal Bulifon:

… Tutti li forzati della ‘Capitana’ con una tabella conga di mezzo damasco incarnato, con uno
alone di seta gialla berrettone simile.

Questo addobbo speciale sarà ricordato e sommariamente descritto anche dal de Ubica y
Medina nella sua Successione de el rey D. Phelipe V. In realtà, come si legge nelle missive del
Savioni, la notte di sabato 27 agosto partirono per Villafranca solo le sette galere del duca di
Tursi, le quali faranno poi sosta a Genova il 5 settembre, mentre le otto rege di Napoli
salperanno solo la notte di martedì 30; frattanto a Nizza, arrivatavi sin dal 6 agosto precedente,
già si trovava la squadra di galere di Sicilia sotto il comando del suo generale Emmanuel de
Silva y Meneses. Il duca di Tursi fece un viaggio molto fastidioso, come lui stesso poi
racconterà, sia per il palese austriacantismo delle milizie napoletane imbarcate sulle sue galere
in considerazione che destinate in Lombardia sia per i continui litigi tra gli ufficiali di quelle e i
capitani di queste, tanto che era stato costretto a porre ai ferri i primi e, giunto appunto a
Genova, a consegnare a bordo i secondi; tutto ciò avrà come seguito la diserzione di molti di
questi militari napoletani, i quali, per non andare a servire contro gli austriaci, si arruolarono
nelle milizie genovesi e infatti sembra che dopo pochi giorni i rappresentanti delle due corone
alleate ne richiesero a quella repubblica la consegna. Il 6 settembre arrivarono a Genova anche
le galere rege del conte di Lemos, le quali, dopo due giorni di sosta in quel porto, ripartirono per
Villafranca dove avrebbero trovato le galere di Spagna e quattro di Francia, anch’esse destinate
alla predetta regale scorta.
A differenza di quelle del duca di Tursi e di Sicilia, le quali saranno subito rimandate nelle acque
del Regno di Napoli a seguito delle sopravvenute concrete minacce di colpi di stato filo-
austriaci, le galere napoletane, ridotte ora da otto a sette per motivi non riportati, sosteranno a
lungo a Nizza nell’attesa della nuova regina di Spagna, Luisa Maria di Savoia, la quale il 17
settembre di questo 1701 aveva in quel mentre compiuto appena tredici anni; essa non si
presenterà all'imbarco di Villafranca prima della fine di settembre e vi riceverà il regalo di nozze
inviato dal viceré di Napoli Medinaceli, regalo del valore di 300mila scudi e che era portato da
Carmine Nicola Caracciolo principe di Santo Buono. Imbarcatasi dunque la giovanissima regina
sulla Capitana di Napoli, accolta da tre salve dell’artiglieria di tutte le galere, vi trovò in attesa di
servirla madame Marie Anne de la Tremoville, le dette galere salparono il 27 settembre e
avrebbero dovuto subito trasferire la regale ospite dapprima a Tolone, poi a Marsiglia, e infine a
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Barcellona; ma martedì 25 ottobre giungerà a Napoli la nuova che, dopo ben 17 giorni di
difficoltosa e lenta navigazione dovuta ai venti contrari e al mare alquanto mosso che la
giovanissima regina non sopportava, la stessa era stata sbarcata il giorno 14 a Marsiglia per
farle proseguire il viaggio via terra via Perpignano, come da rapidissimo ordine reale del 12
ottobre controfirmato da Colbert a Fontaineblau, ordine che d’altra parte anche stabiliva la
necessità che le galere di Napoli, appena sbarcata la regina, tornassero in quel regno a causa
dei torbidi che l’agitavano. In seguito, una feluca proveniente appunto da Marsiglia porterà a
Genova notizia di una baruffa colà avvenuta tra il conte di Lemos e il comandante delle galere
francesi, conte de Luc, per motivi non riportati. In effetti, anche se la regina era sbarcata prima
del tempo e del luogo programmato, le galere napoletane proseguirono ugualmente per
Barcellona, probabilmente perché il Lemos voleva rendere omaggio al re Filippo V, il quale era
colà in attesa della sua sposa, e infatti arrivarono in quel porto a mezzogiorno del 25 ottobre e il
detto generale si recò subito a palazzo a baciare la mano al sovrano, come anche fece
Emmanuel de Silva y Meneses, il quale, probabilmente come comandante della loro fanteria di
marina spagnola con il grado però di mastro di campo, si trovava ora imbarcato sulle galere di
questo generale, avendo in precedenza dovuto inviare a Napoli le sue, come da istruzioni reali
ricevute e come abbiamo già detto; nella serata poi del giorno seguente il re, accogliendo il
doveroso invito del Lemos e salutato da tre salve d’artiglieria fatte da tutte le galere della
squadra e dagli altri vascelli allora in quel porto, venne a bordo della Capitana di Napoli, la
quale era sicuramente ancora addobbata come quando c’era stata a bordo la regina e dove fu
accolto dal generale sfarzosamente; poiché poi Filippo aveva manifestato il suo desiderio di una
corsa al largo, le galere salparono ponendosi subito nella loro tipica formazione a squadra e
s’ingolfarono per circa una lega marina, infine riportarono il re al porto ed egli si ritirò nel suo
palazzo. Avvicinandosi il giorno della partenza per Napoli, la notte del 30 ottobre le galere di
Napoli dettero spettacolo alla cittadinanza di Barcellona con una vistosa luminaria, gran numero
di fuochi artificiati e salve di cannoni; la squadra e altri legni allo scopo noleggiati avrebbero ora
convogliato soldatesche da trasferire nel Napoletano sotto il comando del Lemos, ciò
nell’ambito di un piano di potenziamento dei presidi di quel regno deciso, più da Luigi XIV che
dalla Corte di Madrid, per fronteggiare eventuali ulteriori tentativi di sovvertimento da parte del
sempre temibile partito filo-austriaco.
Ma facendo un passo indietro e tornando alla nostra cronologia generale, diremo che intanto
giovedì 23 giugno era tornato a Napoli Restaino Cantelmo duca di Popoli, principe di Pettorano
e generale dell'artiglieria del regno; nel luglio si conferirono onorificenze reali a Scipione

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Brancaccio, distinto militare che aveva servito per ben 37 anni in Fiandra e che per questo, non
ostante l'età per quei tempi ormai avanzata, sarà compensato dal re con la nomina a
governatore di Cadice. Venerdì 15 luglio nel largo del Castel Nuovo fu archibugiato un soldato
disertore del terzo di Ciarletta Caracciolo, i cui fanti, come sappiamo, erano di nuova leva (de’
quali molti sono fugiti); ad altri due disertori di quel corpo il viceré, il quale nel frattempo aveva
ricevuto da Madrid la conferma di ulteriori tre anni, dopo che il suo vice-regnato durava già da 6,
concesse invece, quando erano già legati al palo per l'esecuzione, la grazia di commutarne la
pena di morte in galera a vita. Secondo un’anonima cronaca napoletana, da noi gìà citata,
questi tre soldati sarebbero fuggiti quando erano già a Milano e quindi sarebbero riusciti a
tornare in regno quasi subito, magari nascondendosi a bordo delle stesse galere tornate il 22
del mese precedente, e non si possono certo biasimare quelle povere reclute, le quali erano
ben consapevoli che, si vincesse o si perdesse la guerra, sicuramente non sarebbero più
riuscite a rivedere la loro patria, giacché allora il soldato privato, ossia semplice, se non moriva
di ferite riportate combattendo, periva di malattie dovute alla malnutrizione, alla sporcizia e
all'intemperie cui era generalmente esposto. Inoltre sabato 30 luglio fu impiccato un grassatore
notturno omicida, triste fenomeno questo delle sanguinose rapine compiute nottetempo che
affliggeva da sempre la città di Napoli e che in quei giorni aveva riacquistato virulenza.
Verso la fine della prima decade d’agosto, arrivò la riconferma per tre anni del vice regnato del
Medinaceli, il quale sarebbe scaduto nel marzo dell’anno successivo, e tutti i notabili napoletani
facevano a gara ad andare a congratularsi con lui. L'esercito imperiale comandato dal principe
Eugenio di Savoia frattanto, invasa la Lombardia, sconfiggeva i franco-spagnoli (detti allora
angioini per motivi dinastici) prima a luglio a Carpi nel Veronese, come abbiamo già detto,
prendendo l’abitato di Castiglione, dandosi così inizio alle ostilità, e soprattutto due volte a
Chiari nel Bresciano e poi anche a Orsi Novi ad agosto e settembre, prendendo Solferino, ma a
Napoli non se ne fece notizia ufficiale, mentre l’ormai maggioritario partito austriacante esultava
apertamente e liberamente esagerando le vittorie del principe. Castiglione, difesa da 51
napoletani, cioè da un capitano, un alfiere e 49 soldati, si era arresa dopo un breve scambio di
spari; poi 8 soldati fuggirono, gli altri 41 e l’alfiere s‘impegnarono a non prendere più le armi
contro l’imperatore e furono lasciati liberi di tornare in patria, mentre l’anonimo capitano rifiutò
onorevolmente l’impegno e preferì restare prigioniero. Il castello di Castiglione sarà preso il
mese successivo.
All’inizio di luglio a Madrid il re aveva frattanto accettato le dimissioni del suo capitano generale
delle galere di Spagna, il duca di Nájera, e tra i pretendenti alla successione di questi c’era il

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suddetto conte di Lemos, il quale l’avrebbe tanto voluta non solo per la maggior importanza e il
maggior prestigio di quella carica, ma anche per liberarsi dal comando di ciurme che lo
odiavano e che avevano anche tentato d’ammazzarlo; ma otterrà molto di più di quanto sperava
e cioè addirittura il vice regnato di Sardegna. Una corrispondenza dalla stessa Madrid del 21
agosto informava che, mutata la dinastia seduta sul trono di Spagna, anche la livrea di Casa
Reale era stata mutata, passando dal tradizionale giallo al turchino gallonato di velluto cremisi,
a imitazione di quella di Francia. Nello stesso suddetto agosto s’incominciarono a prendere
misure di polizia straordinarie per timore di una sommossa degli austriacanti e così infatti si
legge in una corrispondenza del Savioni:

… giovedì notte (18 agosto) si sono mandati (ben) ottanta birri ad arrestare due agostiniani
riformati, spiegamento di forze del tutto inutile in considerazione che a Napoli la giustizia è di
solito così rispettata che basta un birro solo a condurre in carcere due arrestati. Trecento altri
birri, comandati direttamente dal proreggente della Vicaria principe di Ottajano, perlustrano di
notte le vie cittadine afflitte in questi ultimi trenta giorni da novanta omicidi notturni, dopo venti
mesi che, al dir del Viceré, non se neera perpetrato alcuno. E due giorni fa si sono fatti entrare
nella città cinquecento assassini di strada maestra, già fuorbanditi e ora graziati e riuniti in una
compagnia, detta ‘degli armigeri’, con l’incarico, in caso di tumulti, di usare l’archibugio, nel cui
maneggio sono espertissimi. Senza dubbio si è raggiunto lo scopo di far chiacchierare meno la
gente, ma – domandano gli uomini sennati – ‘quis custodit custodes?’

Al proposito del suddetto rispetto, c’è da spiegare che opporre resistenza ai birri era considerato
dalla giustizia criminale napoletana un delitto di lesa maestà e quindi comportava la pena di
morte, ma in verità lo stesso Savioni un paio di mesi più tardi riporterà anche di un birro
disarmato e gravemente ferito dalla folla. Domenica 28 agosto arrivò al viceré un espresso dalla
costa pugliese che segnalava lo sbarco a Noia presso Bari di 150 reclute albanesi e d’altre 150
a Monopoli di un numero di mille che il console spagnolo a Corfù stava arruolando per conto del
Regno di Napoli. Martedì 30 tutti i marinari liberi delle galere rege che si trovavano a Baia
disertarono in massa e si rifugiarono nelle chiese come forma di protesta per la mancanza della
loro paga e impedendo in tal modo alle galere di salpare; ma il Lemos, elargito alle ciurme un
piccolo regalo e promesso di non far mancare loro le paghe durante il viaggio, ne ottenne il
ritorno a bordo, eccezion fatta dei tre capi della protesta, i quali non si sa se scapparono o se
furono presi e puniti, e quindi la squadra poté quella stessa notte salpare per Villafranca.
All’inizio di settembre il Savioni fu informato che i veneziani stavano armando contro i legni
barbareschi che infestavano le coste adriatiche del Regno di Napoli perché ciò comprometteva
anche i loro traffici marittimi; infine un avviso da Milano del 12 settembre informava che erano
appena partite da quella città dieci compagnie di cavalleria smontata che il governatore principe
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di Vaudemont inviava nel Regno di Napoli, dove le medesime sarebbero state fornite di
cavalcature e poi rispedite via terra a Milano; la predetta condotta si dirigeva a Genova sotto il
comando del già nominato Gaetano Coppola e colà si sarebbe imbarcata per Napoli sotto altro
comando. Non bisogna dimenticare che, come abbiamo già detto, il Regno era uno dei migliori
produttori di cavalli da guerra d'Europa e quindi il predetto andirivieni si spiega con tale
circostanza.
Venerdì 23 e sabato 24 settembre avvenne la famosa sommossa originata da una congiura filo-
austriaca capeggiata da Gaetano Gambacorta principe di Macchia e i cui primi sentori il
Medinaceli aveva già avuto nella precedente notte di giovedì 22. Si trattò di una ribellione che
durò in effetti solo 40 ore e non staremo a raccontarla nei suoi aspetti politici, perché questi
esulano dal tema della presente cronologia; diremo solo che il partito cesareo, ossia filo-
austriaco, forte a Napoli e a Milano come del resto anche in Aragona e in Catalogna,
capeggiato a Napoli appunto dal Gambacorta, da Malizia e Tiberio Carafa dei principi di
Chiusano, da non confondersi con l’omonimo Tiberio Carafa dei principi di Belvedere di parte
invece angioina e di cui poi più volte diremo, e da altri, si era proposto di sollevare il popolo
contro il regime angioino e quasi ci riusciva. Probabilmente i congiurati si mossero perché in
procinto d’essere scoperti, ma forse anche per approfittare dell’assenza delle galere di Napoli,
le quali, come sappiamo, erano guarnite di ottime ed esperte soldatesche spagnole, mentre
quelle del duca di Tursi, anche se da qualche giorno tornate in regno, disponevano, come
anche abbiamo visto, di soldatesche napoletane di dubbia fedeltà e il viceré non ne avrebbe
quindi certo richiesto lo sbarco; essi cominciarono col farsi forti nei monasteri di S. Chiara e di
S. Lorenzo e nella Casa della Città (oggi diremmo ‘nel palazzo comunale’) e da questi luoghi,
essendo spalleggiati da una sommossa del popolaccio (questi quasi tutti erano della più vile
canaglia che sia in Napoli, Bulifon), il quale, rafforzato proprio la sera di venerdì 23 da tre o
quattrocento uomini venuti dai casali vicini e dalla campagna:

… ma tutti gente quanto mai facinorosa e composta nella maggior parte da fuorbanditi per delitti
atrocissimi, (Savioni.)

Si trattava quindi di un migliaio di uomini in totale; si mossero per assalire Castello di Capuana,
sede dell’odiata Vicaria criminale, in cui imperava, specie di notte, il sadico capo-ruota
inquisitore Francisco Torrejon Peñalosa, infliggitore di crudelissimi tormenti, e di cui, per
ulteriormente ingraziarsi la peggiore e più violenta parte della popolazione, aprirono le carceri
liberandone i reclusi e saccheggiandone e distruggendone l’archivio, come del resto anche

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fecero di quello, vastissimo, contenuto in ben 48 stanze, della Regia Camera della Sommaria, la
quale aveva anch’essa sede in quell’edificio, rubandone persino le porte e le strutture in ferro,
come balconi, cancelli, catene e simili, e, ahimé, bruciando, disperdendo e distruggendo registri
e documenti vecchi anche più di sette secoli. Furono recuperati poi una decina di carrettoni
pieni dei detti registri della Sommaria, ma si trattava solo di una piccola parte di quelli che
andarono perduti. Purtroppo questa sventura - tutta partenopea - di prendersela con gli antichi
documenti, sventura di cui abbiamo già parlato in occasione di un precedente incendio, non si
fermerà qui, come dimostrerà poi l'incendio appiccato dai soldati tedeschi ai più preziosi
documenti napoletani durante la seconda guerra mondiale; il che dimostra che purtroppo nel
corso del processo storico l’ignoranza finisce prima o poi ineluttabilmente per prevalere sulla
cultura così come, altrettanto storicamente, fa la forza bruta sul diritto. La stessa notte di giovedì
22 il viceré si rifugiò nel Castel Nuovo, dove fece affluire dei rinforzi, e ordinò che le sue corazze
della guardia occupassero immediatamente le venute, cioè le traverse, sia della strada di
Toledo sia della piazza del castello medesimo, poi fece mettere in postazione quattro bocche da
fuoco davanti al palazzo reale e infine chiamò il vecchissimo, ma stimatissimo e fedelissimo
Andrea de Ávalos principe di Montesarchio, membro del Consiglio di Guerra, il quale aveva
servito la Casa d’Austria per 40 anni in tante guerre e in particolare per mare, era stato più volte
ferito e - nella rivoluzione del 1647 - gravemente da un’archibugiata, lo incaricò di reprimere la
rivolta con mezzi militari e il principe, coadiuvato soprattutto dal sunnominato Restaino
Cantelmo, generale dell’artiglieria, e da Joseph Caro di Montenegro, mastro di campo del terzo
fisso degli spagnoli, lo stesso venerdì 23 settembre fece mettere in ordine le due uniche
compagnie di cavalleria allora di presidio a Napoli e le poche soldatesche spagnole, circa 500
fanti, che si trovavano nel presidio di Pizzo Falcone e quelle che stavano in darsena a bordo
delle quattro galere di Sicilia che qualche giorno prima, ossia tra martedì e mercoledì, erano
giunte da Nizza da dove, come abbiamo detto, erano state con quelle del duca di Tursi
urgentemente richiamate, vi aggiunse poi la guardia del viceré, fece porre quattro cannoni e un
mortaletto nel cortile del real palazzo, dette il comando della fanteria al mastro di campo Recco
e organizzò un’offensiva, facendo avanzare il piccolo esercito così raccolto lungo via Toledo con
il seguente ordine e facendogli sparare moschettate da ambedue le parti. Precedevano dunque
i soldati di campagna, ossia i birri della compagnia del commissario di campagna, destinati alla
lotta al brigantaggio in Terra di Lavoro e nel circondario di Napoli in generale, insieme con un
buon numero di quelli urbani della capitale, tutti costoro ordinati in 15 file di soli cinque uomini
l'una, essendo via Toledo, come si può vedere ancor oggi, una strada piuttosto angusta;

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seguivano 14 granatieri spagnoli, il sunnominato generale dell'artiglieria duca di Popoli a
cavallo, Tomaso d’Aquino principe di Castiglione, la compagnia di cavalleria di Domenico di
Sangro fratello del principe di Sanseverino, la cui prima fila, capeggiata dal predetto capitano,
era costituita da cavalieri napoletani; era poi parte dei 400 soldati delle galere di Sicilia in 18 file
di sei uomini l'una, mentre il resto era rimasto a guardia del regio palazzo; procedevano poi sei
file di soldati spagnoli del presidio di Napoli a cinque fanti l'una, una compagnia di cavalieri
napoletani e ufficiali riformati a piedi con i loro servitori armati in 21 file di cinque o di sei uomini
l'una, alcuni bombardieri con due cannoni di bronzo da batteria tirati ognuno da sei cavalli frisoni
(oggi diremmo olandesi) del viceré e due carrettoni, uno carico di munizioni e l'altro di granate,
anch'essi tirati ognuno da sei di quei grandi cavalli abituati a trainare solo le opulente carrozze
vicereali; seguiva ancora il principe di Montesarchio, il quale, a causa della sua decrepita età, si
faceva portare da un cocchio scoperto e procedeva armato di moschetto e spalleggiato da 12
suoi armigeri e da un paggio a cavallo; dopo il principe incedevano altre 17 file di cavalieri e
gentiluomini, un gruppo costituito da civili delle corporazioni, francesi che si trovavano a Napoli
e ufficiali riformati, ancora 14 file di fanti spagnoli, la compagnia di corazze della guardia del
commendator fra’ Saraceni e infine altri 14 granatieri. Questo dispiegamento di forze, per un
totale di quasi 2.500 uomini, di cui però solo un 700 erano soldati regolari, ebbe facilmente
ragione dei pochi congiurati che opposero resistenza armata, i quali, subito abbandonati dal
volubile popolo, si erano barricati nel fortissimo campanile della suddetta chiesa di Santa Chiara
e a Port'Alba, quest'ultima vulgo detta Fuscelli, forse perché fatta di legno molto debole. Presi
più di 150 dei suddetti ribelli e imprigionatili in Castel Nuovo, l’anno seguente saranno mandati a
scontare la loro pena al presidio d’Orano in Africa; parecchi insorti invece riuscirono a fuggire
dirigendosi verso Montevergine e furono allora inviati sulle loro tracce 300 uomini comandati da
Ottaviano de’ Medici duca di Sarno e figlio del principe d’Ottaiano e da Gioseppe Piccolomini
d'Aragona principe di Valle; parecchi furono presi o uccisi, ma diversi, tra i quali Malizia Carafa,
riuscirono a rifugiarsi nella solita Benevento, possedimento della Santa Sede che
tradizionalmente, come fosse una grande chiesa, dava ricovero a tutti i perseguiti che riuscivano
a raggiungerla e che si trovò allora di conseguenza quasi assediata da forze angioine, ossia da
numerose soldatesche comandate dal preside di Montefusco e da 300 birri capitanati dal
commissario di campagna. In effetti la rivolta, soffocata a Napoli, si trasferì nelle province, dove
sembrò trovare nuovi capi nel principe della Riccia e negli Acquaviva di Conversano e per
questo motivo le galere del duca di Tursi, ripartite, come abbiamo visto, da Napoli qualche

418
giorno prima della sommossa, si trattenevano nella loro base di Gaeta, pronte a intervenire in
caso di bisogno.
Si cominciò subito a far epurazioni nei castelli di Napoli perché i nobili congiurati avevano avuto
collusioni con elementi di quelle guarnigioni al fine di procurarsi molte armi; si cambiarono
quindi completamente i presidi del Castel Nuovo, di Sant'Elmo e di Castel dell'Ovo e si liberò in
tal circostanza questi castelli da tutt'una folla di civili che vi abitavano indebitamente (altro abuso
questo tipicamente napoletano che dura ancor oggi) e che quindi li rendevano poco utilizzabili in
caso di sommosse:

... in questo castello (Castel Nuovo) si trovavano genti che dagli anni (erano anni) che sempre vi
aveano habitati e, quando uno soldato vi moriva, si lasciava le abitazioni a sua famiglia per
ricompensa; cossì si è fatto a S. Eramo e castello dell'Uovo...

In Castel Nuovo avveniva anche che il suo governatore, il mastro di campo Antonio de la Croux
Aedo, vi faceva alloggiare a pagamento una moltitudine di gentarella, ma il luogo era sempre
stato abusivamente utilizzato come una specie di mercatino rionale; ecco infatti una istruzione
reale al Medinaceli del 23 settembre 1622 in cui gli si ordinava di accertare e di riferire su
quanto era stato recentemente denunziato e cioè:

… sobre el descuido con que se vive en la guarda de Castilnovo y las puertas que se habren de
noche, la mucha jente que entra de día a comprar cossas de comer…

Circa un anno dopo evidentemente disattesa l’istruzione suddetta, ne arrivava un’altra, questa
del 23 novembre 1623, sullo stesso argomento:

Sobre que se averiguen los excessos de Castilnovo y se visite el dicho castillo por persona
práctica y de confianza y de todo se envie relación con parezer de Vuestra Excellencia…

La suddetta relazione che poi sarà inviata dal viceré avrà certamente dovuto prospettare delle
convenienze di contenimento della quiete popolare, perché ancora un’altra istruzione, questa
definitiva, datata 21 novembre 1624 chiuderà in maniera alquanto permissiva questa materia
dell’utilizzo civile del Castel Nuovo:
…no permitiendo que se puedan vender en el otra cossa que pan y vino y carne…

In quel mentre in Europa la guerra per la successione al trono di Spagna era ormai in corso e
Luigi XIV, temendo ciò che poi, come abbiamo già visto, effettivamente era avvenuto, cioè che
419
l'imperatore Leopoldo, alleatosi con Olanda, Inghilterra e principati imperiali, assalisse il Ducato
di Milano, rivendicato come feudo imperiale, e se ne impadronisse, oltre a invadere subito la
Fiandra spagnola, aveva mandato in Italia 25mila soldati con ausiliari dell'esercito spagnolo per
dare man forte all’esercito di Milano; ma, tornando ora alle nostre cronache napoletane, si
seppe che gli imperiali continuavano anche ad ammassare soldatesche e munizioni da guerra a
Trieste e in altri luoghi del loro litorale adriatico, il che faceva pensare e temere che stessero
progettando uno sbarco invasore sulle marine d’Abruzzo; queste paure facevano ‘sì che i
napoletani benestanti corressero a ritirare i loro depositi di denaro liquido dai banchi della città,
privandoli così in breve tempo di più di un milione di ducati, mentre sino allora avevano tutti
avuto l’abitudine di non effettuare il benché minimo pagamento se non con fedi di credito, ossia
con gli assegni bancari del tempo; per evitare quindi il fallimento dei banchi si adotto la misura
che per le somme superiori ai 50 ducati si rimborsassero ai depositanti solo un quinto di quanto
richiedevano. Il viceré Luis de la Cerda marchese di Cogolludo e duca di Medinaceli, a titolo di
ulteriori misure precauzionali, ordinò di ripristinare il più possibile le artiglierie da tempo in
disuso nei castelli e addirittura si barricò nel suo palazzo, fortificandolo e affollandolo di soldati,
in ciò imitato da tutti i principali nobili che si misero a vuotare di ogni bene di valore le loro
magioni e a farle guardare da armigeri privati, per cui il Savioni scriveva che Napoli aveva
assunto l’aspetto di una grande caserma; uscirà la prima volta dal palazzo reale solo sabato 15
ottobre, festa di S. Teresa d’Avila, per recarsi, come da tradizione, alla chiesa del Carmine d a
quella appunto detta di S. Teresa degli Spagnuoli, ma stavolta non più quasi solo, come era
anche tradizione, bensì circondato da tutta la sua guardia svizzera e seguito da 250 altri armati.
Frattanto all'inizio d'ottobre lo stesso predetto viceré aveva conferito al già nominato Gioan
Girolamo Acquaviva d'Aragona duca d'Atri il vicariato generale delle due province d’Abruzzo,
incarico impegnativo perché implicava l'organizzazione della difesa di quella delicata provincia
di frontiera, la quale era oltretutto travagliata da un cronico brigantaggio.
Nell’ambito di una riforma complessiva della spesa erariale che si stava attuando in Spagna e
allo scopo di risparmiare i pingui stipendi di tre generali di mare, lo stesso Luigi XIV volle
riordinare le preminenze delle galere di comando nelle varie squadre delle due corone; sino
allora, ad esempio, la galera Patrona era stata tradizionalmente la seconda dello stuolo dopo la
Capitana, se non c’era anche una galera Reale - il che succedeva quindi proprio in Francia, ma
anche in Toscana e a Malta, mentre in Spagna, esistendo la detta Reale, era la terza. Egli
ordinò che solo la galera Capitana di Spagna dovesse conservare questo titolo e quindi lo
stendardo regio, che quella della squadra di Napoli doveva invece essere declassata a Patrona

420
Reale e inoltre che le squadre di Sicilia, Sardegna e del duca di Tursi dovevano da allora in poi
esser, all’uso di Francia, comandate da un semplice caposquadra (sp. cuatralbo), nuove norme
queste che entrarono in vigore proprio in occasione del suddetto accompagnamento in Spagna
della nuova regina. In quel mentre Filippo V ordinava al Regno di Napoli di continuare a spedire
a Milano i soliti 40mila scudi il mese a titolo di normale soccorso in denaro che dal regno così si
elargiva per la Lombardia, unitamente agli invii di milizie che si facevano in quell'antico stato,
elargizioni e invii che duravano ormai da due secoli, ossia sin da quando il ducato e il regno
erano entrambi venuti in possesso della Spagna, anche se in quantità all’incirca consistenti a
seconda dei periodi e ciò si giustificava allegando - ed era vero - che lo Stato di Milano faceva
da baluardo avanzato al Regno di Napoli, impedendo agli eserciti invasori di spingersi al sud per
andare a conquistarlo, come invece aveva potuto, alla fine del Quattrocento, Carlo VIII.
Inoltre la sera del mercoledì 19 ottobre tornò a Napoli il corriere che il de la Cerda aveva inviato
a Parigi con la notizia d’aver domato l’insurrezione e portava, oltre a complimenti e a
ringraziamenti di Luigi XIV al viceré per il successo ottenuto nella repressione, a esortazioni ad
arrestare i contumaci e ad assicurazioni che, in caso di ulteriore bisogno, l’armata del vice-
ammiraglio conte Victor Marie d’Êtrées, tenente generale del mare di ambedue i sovrani,
sarebbe prontamente intervenuta, veri e propri ordini anche da questo sovrano; infatti Luigi
chiedeva al predetto de la Cerda la leva di un trozo di cavalli corazze - ma in realtà, trattandosi
di 500 uomini suddivisi in dieci compagnie, di un intero reggimento - da porre sotto le capitane
di signori (parola testuale), ossia di esponenti delle prime famiglie del regno e ufficialmente da
far servire nello stesso regno nella forma di compagnie franche, né paleso la sua vera
intenzione che era quella di procurare con questo nuovo corpo a Filippo V un vero e proprio
reggimento della guardia personale, da trasferire quindi prima o poi al seguito di costui, tanta
era sempre stata in Francia la stima della cavalleria napoletana, considerata seconda in Europa
solo a quella francese. Così inizia dunque una conseguente prammatica napoletana del 23
ottobre 1701:

Haviendo resuelto el Duque mi Señor (‘il duca di Medinaceli’) que se formez en este Reyno un
trozo de Cavalleria para que sirva a Su Magesta en el, compuesto de diez compañias de a
cinquenta soldados cada una y servidose de nombrar por capitanes de ellas a...

Le nomine furono ufficialmente conferite domenica 23 ottobre, ma già da giovedì 20, cioè da
quello subito successivo all’arrivo dell’ordine reale, erano stati resi noti i nomi dei dieci capitani

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prescelti, ossia dei seguenti nobili appartenenti a famiglie titolate di prima sfera, come allora si
diceva per indicare le famiglie primarie del regno:

Paolo di Sangro principe di San Severo;


Gioseppe Piccolomini d'Aragona principe di Valle (ma costui sarà presto nominato mastro di
campo);
Ottaviano de’ Medici duca di Sarno e primogenito del principe d'Ottajano;
Carlo Carafa principe della Guardia e figlio di Marzio duca di Maddaloni;
Tiberio Carafa marchese d'Anzi e primogenito di Francesco Maria principe di Belvedere;
Giosia IV Acquaviva d'Aragona marchese di Giulianova e primogenito del duca d'Atri;
Titta (Gioan Battista) Caracciolo Pisquizj fratello di Petricone, duca di Martina (ma passerà poi a
Francesco Felice Ajerba dei duchi d’Alessano);
Fabrizio Ruffo figlio del duca di Sant'Antimo (della Bagnara) e fratello del maestro di camera del
Papa;
Titta Brancaccio (ma passerà poi a Nicolò di Sangro);
Antonio della Marra.

Ciascuno dei suddetti capitani prescelti aveva a sua volta nominato i suoi ufficiali subalterni,
anch'essi tutti appartenenti alla nobiltà titolata del regno, ed era tenuto ad arruolare (per conto
della regia corte, ma anticipandone le spese) 50 uomini, a fornirli di cavalcatura, vestito,
mantello, stivali, speroni e spada e per questo avrebbe in seguito ricevuto un fondo di 85 ducati
dalla Corte stessa, la quale avrebbe anche dato direttamente l'armamento da fuoco e cioè 50
carabine e 50 pistole per compagnia; ma avrebbe cominciato a percepire il suo soldo da
capitano solo quando avesse arruolato perlomeno i primi 25 uomini. Erano comunque i capitani
facilitati nell'arruolamento dalla seguente clausola:

...que los soldados hayan de ser de todas naciones excepto subdidos del Emperador...

Ovviamente non era consentito arruolare potenziali nemici! Queste disposizioni lasciarono
scontente diverse famiglie importanti, quali quelle dei Pignatelli e dei Filomarino, per non essere
stati prescelti anche loro componenti, ma soprattutto i nobili napoletani si sentivano offesi da
quell’epiteto di ‘signori’ venuto dalla Corte di Francia, epiteto colà giustamente ritenuto
rispettosissimo e molto significativo in fatto di diritto feudale, ma in Italia considerato invece
sminuente in considerazione che già da secoli erroneamente concesso a troppe persone anche
non propriamente nobili.
Frattanto il conte d’Êtrées aveva effettivamente ricevuto da Luigi XIV ordine di uscire da Cadice,
dove allora la sua armata si trovava, di andare a imbarcare le fanterie francesi che il maresciallo
Villeroi avrebbe ritenuto opportuno inviargli e di portarsi quindi nelle acque del Regno di Napoli.
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Mercoledì 26 ottobre giunse da Milano nella capitale il colonnello Gaetano Coppola dei duchi di
Canzano, ex-commissario generale della cavalleria lombarda con il suo nuovo incarico di
tenente generale della cavalleria del Regno di Napoli, essendone allora capitano generale lo
stesso viceré, e portò la notizia che era imminente l’arrivo di 500 soldati appiedati di cavalleria, i
quali, spediti a Napoli in rinforzo della guarnigione di quella capitale dal principe di Vaudemont a
seguito di pressanti richieste del Medinaceli, erano giunti il 19 ottobre a San Pier d’Arena via
Pavia e Voltaggio; colà erano stati imbarcati subito i loro bagagli ammontanti a più di 30 carri,
mentre gli uomini, prima di salire a bordo di un vascello, avevano preteso quanto era loro
dovuto in paghe e in risarcimento per i cavalli che avevano dovuto lasciare a Milano; il convoglio
era complessivamente formato dal suddetto vascello, il quale aveva imbarcato le dette
soldatesche e salpato l’ancora la sera di domenica 23, e da tre tartane, le quali erano invece
partite il giorno dopo. In tale occasione ai soldati della guarnigione di Genova era stato proibito
di lasciare la città a evitare che alcuni disertassero unendosi ai partenti; di converso molti
disertori del corpo di spedizione francese in Lombardia si trovavano nel Genovese, essendo
infatti quelli ancora tempi in cui le continue diserzioni affliggevano tutti i principali eserciti
europei, assumendo questo fenomeno quasi le caratteristiche di una continua osmosi tra l’uno e
l’altro.
Giovedì 27 ottobre approdarono a Napoli le galere di Sicilia, le quali portavano due compagnie
di fanteria spagnola sottratte da Porto Longone per rinforzare la Capitale e sostituite colà da
milizie italiane e nel frattempo si stavano preparando a Pozzuoli magazzini, vettovaglie e alloggi
per ricevere l’armata del suddetto conte d’Êtrées che portava nel regno rinforzi di fanteria
francese. Il Savioni scriveva in questi giorni che di notte a Napoli scorazzavano gruppi d’armati
che fermavano i passanti chiedendo Chi vive? Se la risposta era Filippo V, i malcapitati
subivano subito una crudele bastonatura; se invece rispondevano Cesare (ossia l’imperatore
d’Austria), ricevevano elogi.
Lunedì 31 il viceré firmò i viglietti, ossia gli ordini brevi, per la leva di 11 nuove compagnie di 60
fanti ciascuna con la nomina degli 11 capitani, i quali erano in parte nobili napoletani, tra i quali
il diciottenne Nicola Antonio Caracciolo marchese di Torrecuso, il quale, come presto vedremo,
stava per esser fatto grande di Spagna come il defunto padre Carlo Andrea, e l’altrettanto
diciottenne primogenito del suddetto principe di San Severo, e per il resto ufficiali riformati di
condizione civile, tra cui un tre spagnoli. Frattanto i nobili e i benestanti avevano abbandonato le
loro abitazioni site nel centro cittadino per timore di nuove violenze; per lo stesso motivo il viceré

423
aveva accresciuto le fortificazioni del palazzo reale e inoltre aveva preso l’abitudine di
pernottare nel Castel Nuovo.
4 capitani di fanteria napoletana furono riformati e cioè Nicola di Manzo, Gabriele Speradios,
Gioan Battista Pappacoda e Ottavio Cavafelice.

(Giovedì, 3 novembre:) Detto giorno fu mandato in galera in vita uno che si era assentato per
soldato di cavalli con don Fabrizio Ruffo perché aveva ucciso uno ragazzo.

Probabilmente l'essersi arruolato nella cavalleria era stato considerato dai giudici
comportamento meritevole e aveva quindi evitato all'assassino la pena di morte, anche se in
effetti al remo quasi mai si riusciva a invecchiare e la galera a vita non era dunque che una
lentissima pena capitale.
In questo periodo il viceré, per scongiurare una ripresa del partito filo-austriaco, il quale era
ringalluzzito per l'arrivo, giovedì 3 novembre, di voci di una prossima venuta dell'esercito
imperiale e dell'armata navale inglese contro il regno, raddoppiò le guardie per tutta la città e
fece venire a questo scopo 100 soldati di campagna, i quali, insieme con i birri urbani, andavano
pattugliando Napoli in grosse truppe; a questi si aggiungevano le milizie regolari, cioè le
pattuglie di cavalleria e le ronde di fanteria che scorrevano la città per tutta la notte, e infatti le
cronache riportano la morte di un granatiere che partecipava a una di queste ronde, decesso
avvenuto nella notte di domenica 6 novembre in seguito a un incidente; il Savioni così
descriveva i provvedimenti presi dal viceré:

… Per suo ordine, pertanto, furono rinforzati i posti di guardia della città e forniti di granate per
disperdere, occorrendo, la folla, s’introdussero carri di granate e di polvere e altri duecento
soldati, oltre i molti che già la presidiavano, nella reggia; nel largo antestante vennero
squadronate compagnie di cavalleria e di fanteria, si alzarono i ponti levatoi dei castelli, si
prescrisse ai bombardieri di restare in piedi tutta la notte con la miccia accesa, si disposero
pattuglie notturne a cavallo con istruzione di girare incessantemente per le varie ottine, vennero
occupate infine le strade principali da altre milizie e gente armata.
… Salvo due stanzini e una galleria, ove restano alcune sedie e quadri di poco valore, Palazzo
Reale è stato spogliato de’ mobili, caricati tutti sulle galee, che il viceré ha fatto allontanare dalla
darsena. I campanili di Santa Chiara e di San Lorenzo sembrano divenuti due fortezze da
quando, alla stessa guisa che in tutti i castelli, compreso Castel Capuano, e in altri posti,
occupati da soldatesche spagnuole, vi si sono immesse bombe e granate.

Poiché poi si era sparsa la voce che dava per certo l’aver le botteghe di archibugiari venduto
oltre 3mila armi da fuoco a gente vilissima del Mercato e del Lavinaio, il Savioni aggiungeva:

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… Ho assoldato, cioè a due tarì al giorno per ciascuno, ma senza vitto, venti di coloro che qui
chiamano armigeri… Oltre quelli che avevo in casa, ho comprato altri dieci schioppi, con cui ho
armato tutta la mia famiglia (‘servitù’); ho incettato grossi sassi per gettarli dalle finestre, qualora
la moltitudine assalga questa casa di San Marco, ho fatto puntellare il portone con poderosi
travi.

Il tarì (da troncamento fonetico di tarino; l. tarenus) era una moneta di medio valore e a quei
tempi già d’argento, mentre in passato era stata anche d’oro; in Sicilia si divideva in 20 grana e
a Napoli in 20 tornesi, corrispondendo questi a 40 quattrini di Roma. Il nome non viene affatto
dall’arabo, come i soliti africano-maniaci nostrani cercano di far passare, ma dall’antico greco
τάρες, contrazione tachigrafica di τέτταρες e τέσσαρες (‘quattro’), significando nel nostro caso
‘quarta parte’’ di una moneta superiore (soldo, grosso, ecc.) Infatti, per esempio, nella seconda
metà dell’11° secolo in 4 tareni risultava dividersi il solido d’Amalfi e ogni tareno in 5 once
(Giuseppe del Re, Cronisti e scrittori sincroni della dominazione normanna nel regno di Puglia e
Sicilia ecc. Napoli, 1845 p. 398). Per quanto riguarda i predetti loschi armigeri, più sopra
abbiamo già detto. Un senso di momentaneo sollievo si ebbe la sera del giovedì 3 novembre
quando cioè incominciarono ad arrivare da San Pier d’Arena con scalo a Civitavecchia i
menzionati soccorsi milanesi inviati dal principe di Vaudemont; si trattava per ora di una tartana,
a cui però il giorno successivo ne seguirono altre due e un piccolo vascello e in tutto portavano
500 uomini di cavalleria appiedata, definiti dal diarista bellissima gente, giudizio così confermato
da Angelo di Costanzo:

… Sebbene era bella gente, erano però di varii paesi dell’Italia…

Si trattava dunque di 100 dragoni in tenuta giallo scuro provenienti dai reggimenti Monroi e
Valdefuentes e divisi in due compagnie comandate dai capitani Pascal Motet (o Mottet, già più
sopra incontrato) e Carlos de Jaune, e di 400 corazze spagnole (cavalleggieri, li diceva invece
Bianchi, residente veneziano a Milano) del reggimento di Gaetano Coppola, questi in uniforme
turchina e grigia e divisi in otto compagnie, ma includenti ben 16 capitani, evidentemente
essendosi così a Milano approfittato per scaricare al Regno di Napoli il compito e l’onere di
trovare nuovi incarichi agli otto privi di capitania; secondo il Cornioni, cioè il residente veneziano
a Genova, due delle suddette dieci compagnie erano costituite da tedeschi. Pur dovendo essere
provviste di cavalli nel Napoletano, queste truppe arrivarono già fornite di selle e pistole, come
in effetti allora si usava per i soldati a cavallo che erano inviati all'estero via mare e quindi per lo
più privi di cavalcature. La condotta arrivò comandata dal tenente colonnello Fernando
Cayetano de Ayala del reggimento del marchese di Valdefuentes che anche serviva nello Stato
425
di Milano. A costoro il viceré fece subito cedere i cavalli dalle suddette dieci compagnie di nuova
leva che si stavano formando e inoltre, per propiziarseli ulteriormente, elargì a ciascuno di loro
una cospicua gratificazione in denaro.
Con questi arrivi la guarnigione di Napoli saliva a circa 7.500 uomini; se però si va a controllare
alla Sezione Militare dell’Archivio di Stato la prima mostra che fu data a Napoli da questa
cavalleria, si riscontra che in effetti i cavalli corazze non raggiungevano i 400 uomini che si
erano detti e che la prima fornitura di cavalli era stata solo parziale, essendosi infatti distribuiti
solo 17 o 18 animali per ogni compagnia:

Compagnie di dragoni Soldati Cavalli

Capitano Pascal Motet 57 17


Carlos Jaune 51 17

Compagnie di corazze spagnole


Capitano Phelipe Dupuy 54 18
Joseph Garofalo 37 18
Antonio Mattia Arfau 38 18
Marchese Hel. Pallavicini 34 17
Antonio C. (sic) 49 17
Marco Montero 36 17
Gaspar Gon. Prieto 38 17
Carlos Bononi 37 17

In Spagna, come racconta il Montecuccoli, si usava rimontare cavalleria e dragoni dando cavalli
marchiati col taglio di un orecchio e, a evitare che i soldati se li andassero a vendere e poi ne
allegassero invece la morte per averne altri, la morte di ogni cavalcatura si andava a dichiarare
all’ufficio del commissario che aveva il compito di passare periodicamente in rassegna quel
corpo e bisognava accludere alla dichiarazione un’attestazione del capitano della compagnia,
l’orecchio del cavallo avuto a suo tempo e la pelle della testa, il che era ritenuto sufficiente a
dimostrare la morte dell’animale. Non ostante il buon trattamento ricevuto sin dal loro arrivo,
questi soldati, specie i dragoni, cominciarono subito a provocare disordini e problemi e infatti il
Savioni così scriveva tra l’altro al suo senato:

… Ciò non ostante, essi, più che ad altro, hanno concorso ad accrescere eccitazione con
soprusi d’ogni sorta a borghesi, a bottegai e alle milizie spagnuole, soprusi generatori di
quotidiane risse, nelle quali cinque di loro, in soli tre giorni, hanno lasciato la vita…

Inoltre nelle cronache del tempo si legge quanto segue:


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(Napoli, 7 novembre:) Lunedì alcuni dragoni, essendosi ubriacati nelli quartieri, fecero rumore e
li soldati spagnuoli li presero prigioni; uno altro di nazione todesco, verso la Selaria, pose le
mani sopra le tette di una femina, ciò che causò alarme a quel quartiere e perciò s’inchiusero
nell'arsenale, levandovi quei italiani della guarnigione delle galere di Genoa che vi erano e li
rinchiusero agli Studi publici e li lettori delle Scienze andarono a insegnarle al claustro di Santo
Domenico, ove principiarono alli 10 del mese.

Si seppe frattanto da Milano che, sempre per le insistenze del preoccupato Medinaceli, si erano
incamminate per Napoli dalla Lombardia anche sei compagnie del terzo spagnolo di Luis de
Guzman y Spinola. La mattina di sabato 12 novembre il viceré si recò a sentire la messa alla
Madonna del Carmine e per la prima volta si vide la sua carrozza preceduta da 30 dei suddetti
dragoni a cavallo e seguita da altri 18, tutti con spada alla mano e archibugio alle spalle e
comandati da due ufficiali; i capitani delle due compagnie di corazze della guardia che avevano
sempre goduto la prerogativa di quell'onorevole scorta andarono quindi a lamentarsi dal viceré,
protestandogli che la guardia della sua persona toccava a loro e non ad altri; il Medinaceli
rispose che, quando andava in incognito, preferiva ora servirsi dei dragoni per risparmiare la
sua guardia, a cui avrebbe invece conservato il posto che le toccava nel caso di uscita in forma
pubblica. Molto probabilmente, in tempi di congiure filo-austriache, egli non più si fidava
nemmeno delle sue compagnie di corazzieri; certo è che anche in seguito continuerà a servirsi
di tale scorta di dragoni, la cui compagnia divenne così in effetti un altro corpo della sua guardia
personale.
Domenica 20 novembre arrivò una flotta francese di nove vascelli, di cui cinque a Napoli e
quattro invece a Baia, perché questi ultimi erano tanto grandi e tanto pescavano che si pensava
non esserci fondo sufficiente nel porto della capitale. Quelli che si fermarono a Napoli erano
dunque i più piccoli e si trattava infatti di un vascello leggero che serviva da corriero, di due
brulotti e di due galeotte bombardiere, di quelle cioè dette in Italia impropriamente palandre. I
quattro ancorati a Baia, vascelli tra gli 80 e i 90 cannoni, portavano a bordo da Cadice i 600
fanti spagnoli del tercio de la armada (ossia ‘terzo di fanteria di marina’) del mastro di campo
Jorge de Villalonga, i quali erano in tenuta verde (tutti giovani e di bello aspetto della parte
d'Andalosia.) Questi soldati provenivano dall'assedio di Ceuta ed erano divisi in ben 18
compagnie, ma, poiché alcune avevano così pochi effettivi da non superare i 20 uomini, giovedì
1° dicembre ne furono cassate otto con i loro capitani e i relativi soldati furono incorporati nelle
restanti 10. Il de Villalonga aveva levato questo terzo a sue spese nel 1691 e aveva con esso

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servito, oltre che nell’armata oceanica e a Ceuta, in Lombardia e in Catalogna nella campagna
militare che fu detta di Hostalrique.
Questi vascelli francesi, i cui nomi vengono riportati dal Bulifon e il più grande di cui aveva ben
104 cannoni, erano comandati dall'ammiraglio conte de d’Êtrées col titolo di tenente generale di
Sua Maestà Cattolica e portavano a Napoli anche 100 cadetti venturieri detti guardie marine,
giovani cadetti di nobili famiglie francesi, molti di cui cavalieri gerosolimitani, che facevano così
apprendistato per diventare un giorno buoni ufficiali di marina; furono così costoro i primi soldati
francesi giunti a Napoli da alleati e non a caso saranno stati scelti proprio quei bei giovani
eleganti e raffinati, in modo da dare ai napoletani la migliore impressione possibile dei militari
dell'ex-nemico di sempre, così come evidentemente per la stessa ragione di far bella figura si
era scelto di mandare a Napoli vascelli tra i più grandi di cui la potentissima Francia disponesse.
Con inizio da questo stesso novembre 1701 la Corona di Spagna, a causa della guerra di
successione appena iniziata, cominciò a intercambiare la dislocazione delle sue soldatesche in
Fiandra, a Milano e in Spagna, nel senso che i reggimenti mercenari alemanni erano ora di
dubbia fedeltà e si dovevano allontanare dalle province in cui c'era più contatto col nemico; si
prese pertanto a scambiare reparti di cavalleria che si trovavano nel Milanese con altri che
erano invece in Catalogna, poi si ordinò che due buoni reggimenti di fanteria delle Fiandre
passassero in Lombardia in cambio di due alemanni. Un altro fattore importante che determinò
numerosi movimenti militari fu l'appena repressa sommossa del principe di Macchia a Napoli; la
preoccupazione politica provocata da quell'evento deve esser stata grande se da quel momento
cominciarono ad arrivare nel regno soldatesche su soldatesche allo scopo d'impedire ai filo-
asburgici d’alzare nuovamente il capo dopo quella prima batosta subita; la situazione politica del
regno continuava a dimostrarsi particolarmente preoccupante e anche quella finanziaria, fallito
in quei giorni il Banco della Casa Santa dell’Annunziata, non era delle più rosee.
Martedì 29 novembre il re aveva nominato il Medinaceli presidente del Consiglio delle Indie e al
suo posto di viceré a Napoli quello di Sicilia Juan Manuel Hernández Pacheco de Acuña duca
d’Ascalona e marchese di Villena, subentrando a costui pro interim a Palermo il napoletano
cardinale Giudice, un gran personaggio che dal 1692 al 1696 era stato anche ambasciatore di
Spagna a Roma. Nel frattempo il 31 ottobre imperiali comandanti dal principe Charles Thomas
di Vaudemont avevano sorpresero prima di giorno nella zona di Truccazzano-Albignano-
Cassano d’Adda i quartieri di un nutrito distaccamento di cavalleria e dragoni ispano-napoletani,
il quale era stato tagliato fuori dal resto del loro esercito; si trattava del reggimento di dragoni
spagnoli del colonnello Montroy, di parte del reggimento di cavalleria napoletana Valdefuentes

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di due tropas di quello, anche di cavalleria napoletana, del colonnello Coppola. Gli ispano-
napoletani vi avevano perso circa 500 uomini contro due soli degli imperiali, l’intero stato
maggiore del reggimento Montroy e circa 80 soldati erano stati presi prigionieri ed erano stati
anche presi al nemico 11 stendardi, un paio di timballi, 500 cavalli e la maggior parte del
bagaglio; il già ricordato napoletano duca del Sesto e lo spagnolo marchese di Valdefuentes
che comandavano queste truppe si erano precipitosamente ritirati verso Milano.
Mercoledì 7 dicembre giunsero 240 soldati dalla Catalogna e l'11, dalla stessa provenienza, tre
tartane che portavano 300 dragoni smontati; e si aspettavano ancora altri 500 soldati a cavallo
e 700 fanti, i quali dovevano arrivare portati dalle galere napoletane comandate dal conte di
Lemos, galere che avevano lasciato Barcellona il 3 novembre precedente e la cosa si sapeva in
considerazione che era anche arrivata a Napoli una tartana che portava 72 tra donne e figli di
quei soldati. Infatti verso la metà dello stesso dicembre fece sosta a Genova un convoglio
militare proveniente dalla Spagna e destinato a Napoli, il quale comprendeva due tartane con
250 dragoni, tre barchi con 440 soldati e galere che ne portavano altri 500, e inoltre in quegli
stessi giorni si sarebbero dovute imbarcare a San Pier d'Arena per Napoli le suddette sei
compagnie del terzo spagnolo di Luis de Guzman y Spinola, ma, respinte da una prolungata
burrasca di mare, queste soldatesche a Napoli per questa volta non arriveranno, come
informava un avviso di Foligno riportando una corrispondenza da Milano del 18 gennaio:

Deve ritornare a Milano il terzo di Spinola, che per la burrasca non ha potuto andare a Napoli.

Come però vedremo, arriveranno nel regno queste compagnie giovedì 5 gennaio dell’anno
seguente e vi resteranno sino alla fine del domino franco-spagnolo nel 1707, mentre il resto di
questo reggimento sarà a Finale Ligure nel 1706 e si tratterà dei soli 160 uomini che ne erano
allora rimasti nel Milanese; costoro, unitamente e altri 160 rimasti invece dal Lisboa, altro
reggimento di fanteria spagnola originariamente di stanza in Lombardia, erano stati mandati in
quella località marittima ligure, strategicamente così importante per la Spagna, come sappiamo,
per rinforzo del suo presidio.
In quel tempo nel regno si era completata sia la leva delle dieci nuove compagnie di cavalleria
richieste direttamente dal re, sia quella delle 11 nuove di fanteria napoletana da 60 uomini l’una
che di lì a pochi giorni e cioè martedì 20 dicembre avrebbero dovuto dare la mostra generale; si
era poi anche compiuta la rimonta dei 500 soldati smontati recentemente giunti da Milano.
Venerdì 16 dicembre partirono per Gaeta quattro compagnie di fanti su tre galere e il 19,

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ricorrendo il diciottesimo compleanno di Filippo V, si tenne cappella reale, ma stavolta nel regio
palazzo, nel cui cortile si squadronò la fanteria spagnola e vi fece esercizi militari; nel largo
davanti allo stesso edificio si squadronarono invece 500 soldati francesi della squadra dell'Être,
portati a Napoli da Baia per l'occasione da quattro galere di Sicilia e tra i quali c'erano le già
ricordate 100 guardie marine in elegante uniforme scarlatta (tutti co’ pirucche e sciammerche),
essendo le sciammerche o sciamberghe le marsine di foggia militare francese introdotte più di
trent'anni prima dal già ricordato maresciallo conte di Schomberg nell’esercito portoghese da lui
comandato tra il 1661 e il 1668, ma che, sebbene adottate in tutta Europa, evidentemente
ancora non erano nei domini spagnoli di generale utilizzo, giacché il diarista qui le nota:

...essendo squadronati, prima fecero gli esercizij militari li 400 soldati comandati dal loro oficiale
a voce con un’esattezza surprenante che diede maraviglia a ogne uno, ma più sorpresi furono la
gente in vederli fare alli guardiamarina col solo tocco di tamburro con tanto garbo, che non si
vedeva ne scorgeva che uno avesse fatto un moto prima del compagno.

I napoletani che, in tantissimi (ne concorse quasi tutta questa città), erano convenuti a vedere
tale bella esibizione, se ne andarono alla fine completamente soddisfatti:

...paghi di questa veduta non ancora pratticata in questi paesi che non ne potevano chiudere
bocca...

Il tutto fu accompagnato da una triplicata salva di cannoni e poi, dopo pranzo, i predetti francesi
si squadronarono ancora e stavolta fuori la porta di Chiaia; nello stesso borgo, ma alla marina,
pure si era squadronata la cavalleria della capitale, sia la vecchia che la nuova:

…dove fecero bella comparsa, particolarmente la nuova che per la prima volta comparve con
vestiti nuovi bene asortiti.

Si trattava di quattro compagnie di dragoni e di dieci di cavalleria, tutti napoletani e tutti vestiti
alla frangesa, ossia con le predette marsine alla Schomberg; era cavalleria capitanata da titolati
e cavalieri e quella nuova era stata levata tempo addietro col contributo dei baroni del regno,
ciascuno di cui aveva dato 85 ducati oppure 170, a seconda del suo reddito, importi
corrispondenti alla spesa di uno o di due soldati montati ed equipaggiati, per cui si erano così
raccolti più di 37mila ducati.
Le guardie francesi furono poi acquartierate nel Castel Nuovo; inoltre nei castelli di Napoli in
generale furono tolti i bombardieri napoletani per sostituirli con altri pure francesi, scesi dalla
squadra del conte d’Êtrées, e questo fu un atto politicamente maldestro e sicuramente offensivo
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nei riguardi degli artiglieri napoletani, atto che sicuramente molto contribuì a far accogliere i
militari francesi, nemici di sempre, a volte con diffidenza, specie appunto nei castelli, baluardi e
simulacri della secolare fedeltà di Napoli agli Asburgo, e il castellano di Sant'Eramo addirittura si
rifiutò di farli entrare; ma poi, richiamato dal viceré e sentendosi dare dell’imperiale, anche lui si
piegò. In seguito anche Capua si rifiuterà d’accogliere soldati francesi.
Per la fine di questo 1701 risultavano in Lombardia due terzi napoletani, uno di 500 e l'altro di
400 fanti, mentre secondo la generale norma del tempo avrebbero dovuto essere di 600 uomini
ognuno; uno di questi era il terzo del Caracciolo, formato mesi avanti nel Regno di Napoli, come
abbiamo già detto, corpo che tra il maggio e il giugno dell'anno successivo sarà impegnato nel
Novarese, tra l'altro, nel trasferimento di una colonna di 470 prigionieri alemanni; per l'inizio poi
dell'anno successivo risulterà un terzo napoletano anche nell'esercito di Catalogna, definito
questo molto buono in una relazione francese del 7 febbraio.
Svoltisi nel Regno i predetti ultimi avvenimenti, le sette galere napoletane che avevano avuto
l'alto onore di portare dalla Liguria a Barcellona la nuova regina di Spagna e il suo seguito
tornarono a Napoli venerdì 30 dicembre (il 28, secondo il di Costanzo):

A 28 dicembre ritornarono in questa darsena le nostre sette galere comandate dal signor conte
di Lemos, quali partirono da Napoli tutte pompose nella fine d’agosto per servire la novella
Regina di Spagna, e ritornarono tutte conquassate per lo viaggio e senza che il Re l'avesse
fatta alcuna mercede, come sogliono costumare i grandi in simili congiunture. Solo il signor
conte di Lemos, che vi spese per la comparsa da diecimila scudi, ne riportò due tagli di vestiti
per la moglie delli sei che furono donati alla Regina di Spagna, rimanendo a detto signore la
speranza di qualche carica più vantaggiosa. E anche portarono in voce le fattezze della Regina,
che, sebbene dicevano ch'era spiritosa e ardita, aggiungevano ch'era di poca beltà e piccola di
persona, essendo nell'età di 13 anni.

Dunque, mancate lodi della regina per contraccambiare l'avarizia di Filippo V! Le sette galere
facevano ritorno a Napoli portandovi il reggimento di fanteria vallona del mastro di campo
Ignace Fariaux visconte di Maulde e quello di dragoni catalani del colonnello Joseph de
Armendariz; quest'ultimo corpo, alla sua prima mostra avvenuta lo stesso predetto 30 dicembre,
era composto di sei compagnie per un totale di 165 uomini solamente, più gli ufficiali di piana
maggiore. Nelle prime registrazioni il de Armendariz e il suo reggimento vengono definiti mastro
di campo e terzo, quasi forse a ricordare che i dragoni erano non molto di più che della fanteria
montata; d'altro canto, il titolo di mastro di campo non si usava nella cavalleria degli eserciti
della corona di Spagna, mentre era adoperato nella cavalleria francese e in quella toscana,
avendo da sempre Firenze accettato l'influenza francese.

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In questa fine d'anno Napoli viveva momenti di grande apprensione per gli sviluppi di una guerra
che si vedeva sempre più vicina e minacciosa per il regno e il viceré faceva marciare molte
compagnie verso l'Abruzzo, per la difesa di quella provincia limitanea tanto esposta alle
offensive del partito imperiale, così come fino allora lo era stato a quelle della parte filo-
francese.

1702. L'anno 1702 ora iniziato sarebbe stato per Napoli gravido dei risvolti militari di due
avvenimenti politici molto importanti; uno - e l'abbiamo detto - era stato il recentissimo tentativo
di colpo di stato capeggiato dal principe di Macchia, per cui la Corona stava facendo affluire
molte milizie nel regno, e l'altro, conseguenza del primo, fu la visita al regno fatta dal re Filippo
V, primo Borbone che regnasse su Napoli, il quale fu appunto per guadagnarsi la fedeltà dei
sudditi napoletani, fedeltà che - la recente sommossa lo dimostra - si era recentemente
indebolita perché Napoli, asburgica da secoli e considerata a considerare la Francia un perenne
pericolo per il suo regno, non aveva ben digerito di dover ora essere soggetta a un sovrano
francese e di dover sopportare che truppe francesi venissero addirittura a presidiarla.
Tra il dicembre 1701 e il febbraio dell'anno successivo, provenienti dall’esercito di Catalogna,
giunsero a Napoli corpi smontati di cavalleria e dragoni, in gran parte nemmeno equipaggiati e
mancanti persino degli stivali, ma anche di fanteria, essendosi deciso nel novembre precedente
alla corte di Madrid di rinforzare le difese del Regno di Napoli, ora esposto alla minaccia
austriaca, trasferendovi quattro tercios provinciali di mille uomini l’uno e uno catalano di 700; il 6
dicembre il re aveva ordinato l’imbarco di quanto restava delle suddette soldatesche destinate al
Regno di Napoli e difatti giovedì 5 gennaio, oltre a tre tartane provenienti dalla Liguria e cariche
delle sei compagnie del terzo spagnolo di Luis de Guzman y Spinola, di cui abbiamo già detto,
giunse anche un vascello da Barcellona, il quale portava una prima partita di micheletti,
probabilmente circa duecento, anch’essi venuti a rinforzare i presidi sia del regno, sia di
Toscana. Questi micheletti erano i montanari catalani, i sanniti della Spagna, come li definiva il
Filamondo, il quale altrove anche li diceva e gente feroce e di durissima cervice e gente
selvatica, ch’ha per proprio carattere la ferocia; ora, premesso che il termine feroce si usava
allora ancora nel senso latino di combattivo e turbolento e pertanto le cronache del Seicento
definiscono talvolta gente feroce anche i posillipini e i capresi, ma leggiamo ancora a tal
proposito il Filamondo:

… quelli almogaveri catalani che, dalle coste selvagge delle montagne sortita, robustezza di
membra, fierezza di genio, familiarità di pericoli, continuo esercizio di ben tirare co’ schioppi per
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le private nemistà tra di loro, con sopranome di ‘micheletti’ e azzioni di fuorusciti, su la bocca di
un archibugio portano l’anima disperata… (Cit. Parte II, p. 100.)

Si trattava in effetti d’abili bersaglieri che andavano armati di molteplici armi da fuoco, specie di
canna corta, e che poi ancora nel Settecento saranno utilizzati da Carlo III di Borbone per la
repressione del brigantaggio montano e del contrabbando; i napoletani comunque, a causa del
loro ostico carattere, non li amavano e non li volevano in città.
Imbarcatosi il 19 novembre 1701 a Barcellona, venerdì 6 gennaio arrivò il reggimento di corazze
catalane del colonnello Juan Estéban Billet, più tardi promosso brigadiero, di cui era sargente
maggiore Juan de Campos, e anche da Barcellona arrivarono quello di dragoni del colonnello
Francisco Domingo Velbalet e le sette compagnie di corazze del colonnello Pedro Manzo y
Zuñiga. Sul numero di compagnie e uomini che costituivano i suddetti reggimenti Billet e
Velbalet le fonti sono incerte, in considerazione che questi due corpi sarebbero arrivati in più
distaccamenti; certo è che di loro ancora non si parla nella mostra generale che la cavalleria di
Napoli dette nel gennaio del 1702, mostra che includeva le dieci nuove compagnie di corazze
napoletane più sopra menzionate, le quali in tale occasione erano passate in rivista per la prima
volta, le due compagnie di corazze della guardia del viceré, le due compagnie di dragoni e le
otto di corazze giunte da Milano nel novembre precedente; queste ultime, originariamente
destinate a unirsi alle dieci napoletane appena levate per formare con esse un trozo di
cavalleria, furono invece poi probabilmente usate per rinfoltire gli scarsi ranghi dei reggimenti
Billet e Manzo, quando fu più chiara l'intenzione del re di fare di quelle napoletane un
reggimento autonomo; allo stesso modo le predette due compagnie di dragoni dei capitani
Motet e Jaune confluirono nel reggimento Velbalet.
Verso la fine della prima decade dello stesso gennaio partirono invece da Napoli per l'Abruzzo
circa 800 soldati, fra i quali due compagnie di cavalleria dei capitani Ruffo e Garofalo e due di
dragoni; il motivo di questa consistente spedizione non è riportato, ma si trattava evidentemente
di una delle misure prese per salvaguardare le marche settentrionali da possibili invasioni,
specie ora che il re stava per onorare il regno di una sua visita. Sempre in questo mese il viceré
Medinaceli mandò a Madrid i fondi necessari per la leva di un nuovo terzo spagnolo in
Catalogna, Aragona e Valenza, terzo che però non era destinato al Regno di Napoli, bensì a
quello di Sicilia; ma si sa che Napoli era considerata a Madrid una vacca grassa.
All'alba di venerdì 13 giunsero al porto di Baia 18 feluche, sulle quali s’imbarcarono per Pozzuoli
630 fanti francesi di quell'armata che colà sostava, ufficiali compresi, e le 100 predette guardie
marine; il trasferimento da Baia avverrà effettivamente martedì 17 e da Pozzuoli tutti costoro
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proseguiranno via terra per Napoli, dove i fanti saranno alloggiati nell'arsenale e i cadetti, arrivati
a cavallo su cavalcature mandate apposta dalla cavalleria di Napoli, prenderanno invece
quartiere nel Castel Nuovo; si trattava di soldatesche tutte spesate dal re di Francia, piacevole
novità questa per l'erario napoletano, abituato invece a dover mantenere in tutto e per tutto
qualsiasi soldato straniero che sbarcasse nel regno. La notte dello stesso suddetto 13 giunsero
in soli venti giorni da Cadice due vascelli carichi di soldati e portavano infatti 1.100 fanti
spagnoli, forse quelli del terzo fisso di Sicilia sotto il mastrato di Lopez Pardo, il quale sarà poi
nominato generale di battaglia. Il 14 e il 15 furono presto seguiti da altri vascelli e tartane che
avevano viaggiato di conserva con i primi due e portavano ancora 1.400 fanti spagnoli divisi in
tre terzi e cioè lo Joseph de Redonda, che sbarcò il 14, il Pedro de Castro e l’Ambrosio
Antolinez, i quali invece sbarcarono il 15; tutti costoro provenivano da Cadice e avevano fatto
anch'essi un lungo viaggio di 20 giorni; due di tali tartane però, forse a causa di forti venti
contrari, dettero in terra sulla spiaggia laziale e i 400 uomini che si salvarono restarono in
maggior parte di presidio a Gaeta; un terzo vascello carico di truppe giunse a Napoli il seguente
22 gennaio.
In effetti il far affluire a Napoli tanti rinforzi rappresentava un non irrilevante impegno soprattutto
per la Spagna, in considerazione una guerra non ancora dichiarata era già in atto in Lombardia,
dove gli austriaci assediavano Mantova, avendo già occupato le piazze di Bressello, Guastalla,
Borgoforte, Governolo e Ostiglia, si erano fortificati nel campo di Serrallo, erano praticamente in
loro arbitrio tutte le piazze da Modena a Parma e avevano il passo libero sino a Cremona, città
che infatti nel corso dell’anno anche prenderanno.
La presenza a Napoli e nel suo circondario di tanti soldati stranieri non poteva non cominciare a
dare dei problemi:

... A dì 16 gennaro si pubblicò bando che niuno potesse mascherarsi in alcuna maniera, per
ovviare a’ disordini che potessero nascere per tante sorte di soldati e altri inconvenienti.

Lunedì 20 febbraio arrivò a Napoli a prendere possesso della sua nuova carica di generale
dell'armi del regno un vecchio vallone, Jean-Baptiste de Bassecour (altrove Baseconth)
marchese di Grigny, il qual era stato prima generale della cavalleria di Catalogna, poi,
dall’ottobre 1697, governatore di Mons, infine dal marzo del precedente 1701 generale della
cavalleria di Fiandra; ora però, probabilmente a causa della sua tarda età (aveva ormai ben 82
anni), si era pensato d’assegnarlo ad altro incarico molto meno impegnativo, essendo infatti il
titolo di generale dell'armi molto più onorifico che operativo.
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Giovedì 23 febbraio alcuni soldati francesi ubriachi provocarono dei tafferugli in città, perché,
imbattutisi in alcuni cittadini, avevano cominciato a picchiarli (...li davano di chiatta con le dette
spade...)

(Venerdì, 24 febbraio:) Detto giorno furono condotti in Napoli molti diversi soldati disertori quali
fuggivano in Benevento; nell'essere seguitati dalla Corte ne furono feriti alcuni ed essi uccisero
uno de’ birri; alcuni si salvarono in quella città.

Benevento, feudo del Pontefice, sebbene circondata da ogni parte da territorio del Regno di
Napoli, era quindi come una grande chiesa, in cui qualsiasi sorta di criminali poteva trovare
ricetto e protezione contro i soldati o i birri che l'inseguissero.
Martedì 28 febbraio, accompagnato da quattro galere del duca di Tursi e da tre di Sicilia, lasciò
Napoli il duca di Medinaceli; infatti già il precedente mercoledì 15 era sbarcato alla darsena
della capitale il nuovo suddetto viceré duca d’Ascalona e marchese di Villena; questi, tra i suoi
primi atti di governo, nominò il suo maggiordomo Baltasar Cortes e il suo ex-paggio Diego Bayo
- ora capitano di sulle galere di Sicilia - nuovi capitani delle sue due compagnie di guardie a
cavallo, le quali, come sappiamo, erano state in precedenza comandate dal Coppola e dal de la
Rinze, mentre nel frattempo una delle due era passata a Domenico di Sangro; il Bayo fu così
premiato per il suo valoroso comportamento nella recente occasione della rivolta capeggiata dal
principe di Macchia.

Mercordì primo marzo, per evitare li disordini che possono nascere per causa della molteplicità
de’ soldati di diverse nazioni forastiere, li quali facilmente si ubriacano e fanno de’ romori, si è
stabilito di mandare molte ronde per la città e questi che rondano sono ogni pattuglia o ronda
composta di due francesi, due valloni o fiamminghi, due spagnuoli, uno dragone e uno
Napolitano.

Da un avviso successivo queste ronde risulteranno invece costituite da nove persone e non
otto:

... corse la ronda, la quale è composta di nove soldati di diverse nazioni, acciò s’intendano li
linguaggî d'ognuno.

Giovedì 2 marzo sbarcarono dalla flotta francese del conte d’Êtrées, la quale si era In quel
mentre avvicinata a Pozzuoli, 600 fanti del reggimento di Berry e furono acquartierati in
quell'antica cittadina nel già menzionato palazzo di Don Pietro. Giunsero in quei giorni a Napoli
altri due reggimenti di fanteria francese, il Dauphinée e il Beauvoisy, mentre se ne attendeva un
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quarto e cioè quello di Grancey, il quale arrivò per il giorno 6 marzo e si trattava solo del
secondo battaglione di questo reggimento, battaglione pure mancante di 150 uomini perché
composto per il momento di soli 448 fanti e 18 ufficiali disposti su nove compagnie.

Per fare largo all'arsenale per li soldati, si sono levati 54 banditi che ivi erano dall'anno 1682 e
posti ne’ castelli Nuovo e di Sant'Elmo.

Premesso che è questa una delle prime volte - se non la prima - che il castello di Sant'Eramo
vede il suo nome corrotto in Sant'Elmo, ci domandiamo che cosa ci facessero tanti ex-briganti
da vent'anni nell'arsenale, senza che fossero stati inviati all'estero a combattere alla prima
occasione; possiamo solo pensare che si trattasse di condannati ai lavori forzati a vita in quella
fabbrica, così come ce ne erano generalmente anche nei castelli.
Nello stesso predetto 6 marzo il nuovo viceré rese pubblica la notizia della prossima venuta del
re in Italia, viaggio deciso dal sovrano allo scopo di animare sia i suoi fedeli sostenitori di Napoli
sia il suo esercito combattente nell’Alta Italia e pubblicata a Barcellona con editto del 2 febbraio
precedente, e impose pertanto ai baroni un dono di 170 ducati per due uomini a cavallo, ossia
un ammontare equivalente alla spesa che si sarebbe sostenuta per equipaggiare e montare due
soldati di cavalleria e ciò secondo una medioevale unità di misura ancora in vigore. Il 9
seguente ci fu un episodio che una volta di più dimostrava quanto i militari fossero all'epoca più
solidali con i criminali che con i poliziotti:

Conducendosi da’ birri uno preso per contrabbandi, passando alli Studij li soldati levarono il
prigione e uccisero uno sbirro.

Anche in questo caso c'è da rilevare l'introduzione di una corruzione che poi diventerà lingua
ufficiale e cioè la voce sbirro invece del solito latinismo birro.
Sabato 11 si tolsero dai campanili di San Lorenzo e di Santa Chiara i corpi di guardia spagnoli
che vi erano stati posti al tempo della recente sommossa, non essendoci ormai più alcun timore
visto il gran numero di soldati stranieri venuti; proprio però per questo affollamento di
soldatesche - circa 14mila soldati di varie nazioni a Napoli, tra cui circa 5mila francesi e molti di
cavalleria ancora da montare ('tutta gente scelta), e altri 600 francesi di presidio a Pozzuoli - il
viceré ordinò che si moltiplicassero in città le pattuglie di fanteria già esistenti e che se ne
aggiungessero anche di cavalleria fino a 30 uomini l'una, oltre a quelle dei birri che numerose
anche percorrevano le strade della capitale. Altre misure cautelative prese quei giorni, in cui
ogni tanto anche il sospetto di qualche nuovo colpo di mano dei filoaustriaci riaffiorava, furono
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l'allarme dato al presidio di Pozzuoli e il rafforzamento di quello di Castel Sant'Elmo con ben
700 spagnoli del terzo di Pardo. Si pensava però anche ai presidî provinciali e prima della metà
del mese si spedirono 600 fanti francesi a Brindisi, mentre si prendeva in esame l'opportunità di
mandarne altri a Baia e di rinforzare Capua con compagnie di cavalleria regnicola. Nel
frattempo, il viceré eleggeva Mercurio Pacheco conte di San Estéban de Gormaz, suo
primogenito, nuovo capitano della guardia svizzera o alemanna, che dir si volesse, il marchese
di Puar, suo secondogenito, tenente della stessa guardia e Lopez Bustamante, suo cameriero
maggiore, auditore generale dell'esercito, incarico che in verità ci sembra troppo professionale
per un cortigiano.
Giovedì 16 marzo arrivò il vascello francese La Fortune, il quale portava a Napoli molti ufficiali
transalpini di gran conto, come il maresciallo di campo marchese d’Avaray, cinque brigadieri
generali, il marchese de Guebrian colonnello del reggimento di Berry, il conte de Mure
colonnello di quello di Beauvoisy, lo chevalier de Carcadeau colonnello del Dauphinée e il
signor de la Géhiniére tenente colonnello dello stesso reggimento; inoltre il tenente colonnello
del Beauvoisy, il cavaliere Desmonville brigadiere degli ingegneri e altri per un totale di una
trentina con i loro cavalli; inoltre il predetto vascello portava 300 soldati per completare i ranghi
dei quattro reggimenti francesi, 8mila doppie per pagare la truppa francese di Napoli e molte
provvisioni; non essendoci dunque più bisogno a Napoli dei 500 fanti di marina che erano
arrivati in precedenza con il conte d’Êtrées, costoro si sarebbero dovuti imbarcare sulla stessa
La Fortune per far ritorno in Francia. Il marchese d’Avaray veniva come comandante in capo di
tutte le truppe francesi allora a Napoli, mentre domenica 19 arrivò dalla Spagna la nomina a
mastro di campo generale per il generale dell'artiglieria Restaino Cantelmo, duca di Popoli,
principe di Pettorano e cavaliere dell’ordine del Santo Spirito, e ciò in compenso per aver servito
il re accompagnandolo dalla Francia alla Spagna quando vi era venuto a prendere possesso di
quel trono; questa mercede, con cui restava contemporaneamente giubilato il precedente
vecchio mastro di campo generale Gioseppe Dazza, era stata ufficialmente concessa dal re il
26 febbraio .
In questo periodo, avendo avuto sentore di qualche pericolo di nuove sommosse e congiure, il
viceré aveva ordinato che alle pattuglie di fanteria e di birri che già andavano per la città se ne
aggiungessero altre sia di fanteria, sia di cavalleria, le quali ultime erano di 30 cavalli l'una e
furono mantenute per un paio di giorni.

(Napoli, 21 marzo:) In questa Città sono venute diverse compagnie di spagnuoli novellamente
assoldati, dove nel giorno de’ 19 uscirno tanto da Palazzo quanto dal Torrione del Carmine…
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(om.) tanto bene in ordine che faceano restar maravigliata questa Città, dove si hanno
acquistata tanta benevolenza dal popolo che erano tenuti come parenti delli medesimi cittadini.

In effetti, al di là di quella che poteva essere la convenienza politica dei tempi, specie ora che si
voleva forse far fare ai soldati spagnoli un confronto vincente con quelli francesi, non è questa
però l'unica affermazione di gradimento delle milizie spagnole che si ritrova nelle cronache di
quei giorni, milizie la cui presenza era comunque considerata cosa naturale da chi le aveva
sempre viste in città sin dalla sua nascita, anche se in effetti gli spagnoli differivano non solo
caratterialmente, ma anche fisicamente dai regnicoli, per quella loro corporatura asciutta e
nervosa tanto apprezzata dagli esperti militari del tempo e che però aveva loro procurato da
taluno il soprannome di saracche che vivono, essendo allora le saracche quelle che oggi
chiamiamo aringhe salate. Lunedì 26 marzo il marchese di Grigny cassò il capitano di cavalleria
milanese marchese Pallavicino, non sappiamo perché, e dette la sua compagnia a Placido
Dentice; da allora vedremo il Dentice fare una rapida carriera. Mercoledì 28 giunsero dalla
Spagna altre due barche cariche di micheletti, ossia di feroci fanti montanari catalani, e di fanti
ordinari in numero di 600 col loro mastro di campo Blas de Trincheria; si trattava del resto di
quelli che abbiamo visto arrivare il 5 gennaio precedente e dunque un nuovo terzo spagnolo
s’introduceva nella vita dei napoletani, un corpo di 700 fanti che era partito dalla Spagna
composto di dieci compagnie di 60 uomini l'una, inclusi dieci granatieri, e una, la colonnella, di
100 uomini; questo trasporto di milizie aveva impiegato gran tempo a raggiungere Napoli e
infatti il terzo, imbarcatosi in Spagna il 14 febbraio, era salpato tra il 17 e il 19 seguente. Questo
corpo resterà nel regno però solo pochi mesi, perché, resosi subito inviso dai napoletani, non
più tardi del giugno successivo sarà, come vedremo, reimbarcato per Cadice. Filippo V aveva
comunque a questo punto inviato a Napoli tutte le truppe che aveva potuto sottrarre agli altri
teatri europei; in effetti il re avrebbe voluto inviare altri due reggimenti di cavalleria, ma non lo
fece perché, come sappiamo, i soldati che s’imbarcavano sulle veloci galere non potevano
ovviamente portarsi dietro anche i cavalli e dovevano pertanto essere montati nei paesi di
destinazione; ora pare che in quel tempo nel Regno di Napoli non ci fosse grande disponibilità
di cavalli bellici e ciò anche se moltissime erano le razze (allevamenti) di cavalli soprattutto
corsieri che in esso si allevavano, tanto che, come abbiamo già detto, questo è il motivo per cui
emblema del regno era da sempre un bianco cavallo rampante, anche se i settentrionali
spregiativamente dicevano trattarsi non di un cavallo, ma di un asino.
La Spagna chiedeva frattanto al regno d’inviare altre contribuzioni di guerra allo Stato di Milano,
cioè sia per il socorro (‘anticipo di denaro’; fr. prêst,) dovuto alle soldatesche francesi sia per il
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pane di monizione (‘pane per i militari’) in generale, contributo quest’ultimo che fu chiesto anche
al regno di Sicilia.
Sabato primo aprile arrivò a Napoli da Milano il mastro di campo Ciarletta Caracciolo e nello
stesso giorno il viceré marchese di Villena dichiarò colonnello delle dieci nuove compagnie
sciolte di cavalli corazze napoletani il capitano spagnolo Pedro (Luis?) Manzo, il quale era stato
in Spagna tenente colonnello (poi evidentemente riformato di tale grado) ed era militare di molta
reputazione, ma di scarsa nobiltà; né dichiarò inoltre tenente colonnello Antonio de Mata, il
quale era già luogotenente della sua guardia alemanna, e sargente maggiore Francisco
Sanchez, anche questi dunque spagnoli non molto blasonati. I nobilissimi cavalieri napoletani
che comandavano queste compagnie si risentirono molto di queste nomine, ma, ovviamente
indispettiti dal vedere affidato a spagnoli il comando di cavalleria napoletana, addussero che le
loro erano compagnie nate sciolte e a compagnie sciolte volevano continuare a comandare,
senza quindi dover essere soggetti a un colonnello; aggiunsero comunque che in ogni caso
essi, signori di qualità, non potevano essere comandati da un militare certo degnissimo, ma non
titolato e che quindi un eventuale colonnello avrebbe dovuto essere uno di loro, magari il più
anziano, come la consuetudine e la giustizia avrebbero voluto, e che insomma piuttosto
avrebbero rinunciato al loro incarico. Capeggiava la contestazione di questi capitani Titta
Caracciolo di Martina, mentre un altro di loro, Ottaviano de’ Medici duca di Sarno e figlio del
principe d'Ottajano, sorprendentemente si dichiarava soddisfatto della decisione del viceré, il
quale si giustificò asserendo che aveva scelto il Manzo perché non poteva prendere uno
colonnello vecchio per uno corpo di cavalleria nuovo; ma non era certo questa
un’argomentazione convincente e si faticò quindi non poco a convincere i predetti capitani
napoletani a non abbandonare le loro compagnie, almeno finché non fosse arrivato a Napoli il
re Filippo, il quale avrebbe preso la decisione suprema riguardo a tale vertenza; ma comunque,
finché ciò non avvenne, i suddetti capitani per ripicca trascurarono molto le loro compagnie.
Martedì 4 aprile giunsero due vascelli francesi e un terzo arrivò il venerdì successivo; questi
portavano da Cadice i due terzi provinciali andalusi che il re aveva deciso d'inviare a Napoli nel
precedente novembre e cioè quelli dei mastri di campo Miguel Gasco e Diego de Alarcón
Peñarvia, ambedue cavalieri dell’Ordine di Santiago; si trattava di 900 fanti in tutto, ma se ne
attendevano altri 1.100.

Il 9 domenica a Posilipo alcuni soldati francesi uccisero un loro compagno.

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La laconicità di quest'avviso è certamente dovuta alla mancanza di familiarità che c'era - per
forza di cose - tra militari francesi e popolo napoletano e quindi non trapelavano le motivazioni
dell'accaduto. Un corriere lasciò Barcellona il giorno 7 aprile per portare al marchese di Villena
l’avviso che il re si sarebbe imbarcato in quel porto per Napoli il giorno seguente e infatti l’8
Filippo V salì a bordo del vascello ammiraglio da 104 cannoni del d’Êtrées, il quale si chiamava
le Foudroyant ed era accompagnato da un gran seguito di personaggi che avrebbero viaggiato
con lui, tra cui il principe d’Avellino di casa Caracciolo e il suo Segretario di Stato e degli Affari
Universali Antonio de Ubilla y Medina marchese di Ribas, a cui si deve il principale giornale di
questo viaggio in Italia; gli altri sette grandi vascelli da guerra, tutti dai 70 ai 90 cannoni, che,
oltre ad altri legni minori, facevano parte dell’armata messa da Luigi XIV a disposizione del
regale nipote erano le Admirable, le Content, le Fortuné, le Lyon, l’Eclair, l’Irondelle e le Sorcier.
Domenica 16 aprile, giorno di Pasqua, detta armata passò l’isola di Ponza, poi quella d’Ischia
con l’isolotto del castello chiamato Penischia e le altre del golfo di Napoli, infine alle cinque della
sera, sempre adeguatamente salutata dalle artiglierie di quei castelli e da quella di Pozzuoli, la
quale era comandata da un capitano, dette fondo a Baia, dove frattanto la mattina di quello
stesso giorno era già arrivato l’Irondelle, il quale il giorno 12, quando si era stati ormai in vista
della Sardegna, aveva distaccato gli altri legni per confermare al viceré l’arrivo del sovrano,
essendo del resto il Villena già stato informato dal suddetto corriere arrivato il giorno
precedente. Scoperta l’armata del re anche dal castello di S. Eramo, il mastro di campo e
generale delle galere di Sicilia Emmanuel de Silva y Meneses, adesso conte di Galvez, il quale
allora ancora serviva allora nella squadra di galere di Napoli, e altri alti ufficiali militari
s’imbarcarono in una feluca e andarono a Baia a dare un primo benvenuto al sovrano, mentre il
giorno seguente arrivava a bordo della Reale, ossia de le Foudroyant, lo stesso marchese di
Villena e verso mezzo giorno arrivavano a Baia pure cinque galere napoletane e cioè la
Capitana, la Patrona, la S. Diego, la S. Ferdinando e la S. Francesco; il re pertanto,
accompagnato da tre salve fatte dall’artiglieria di tutti i vascelli e galere, del forte di Baia e di
Pozzuoli, si trasferì in feluca nella predetta Capitana di Napoli, la quale per l’occasione aveva
inalberato le insegne di Reale, mentre le Foudroyant ammainava lo stendardo con le armi di
Spagna e tornava a sventolare quelle di Francia; il resto della sua corte s’imbarco nelle altre
quattro galere. Il sovrano fu portato così a Napoli, dove navigò quindi lungo l’amenissima
costiera di Posillipo, ricca di grandi e opulente casas de campo, ossia di ville nobiliari per la
villeggiatura, uno dei tre luoghi più belli della capitale, essendo gli altri il sobborgo di Mergellina
e quello d’Antignano in collina; passò quindi davanti al Castel dell’Ovo, le cui grosse artiglierie,

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unitamente a quelle del Castel Nuovo e di quello di S. Eramo, lo salutarono con le solite tre
salve, e sbarcò senza pompa dalla Capitana in feluca al fortino della darsena in cui finiva la già
ricordata scala segreta che veniva dagli appartamenti reali e dove l’aspettavano lo stesso
marchese di Villena, il cardinale arcivescovo di Napoli, i più alti dignitari del regno e, tra i militari,
il governatore dell'armi signor di Grigny, il generale delle truppe francesi marchese d’Avaray, il
duca di Popoli Restaino Cantelmo, il quale aveva ora il doppio incarico di generale dell'artiglieria
e di mastro di campo generale, il tenente generale della cavalleria Gaetano Coppola, il veditore
generale e scrivano di razione dell'esercito Alonzo Pinto e tutta la nobiltà titolata della città (Io mi
ritrovai presente - scrive il diarista di Costanzo, perché era (‘ero’) alla calata del Gigante,
essendo Il Gigante una grossissima statua che una volta si trovava appunto all'estremità sinistra
del palazzo reale. In occasione delle predette tre salve d’artiglieria si era purtroppo verificato un
grave incidente a bordo di una delle galere; cioè, sparatosi un cannone, lo si cominciò a
ricaricare di polvere per una seconda salva senza aver evidentemente prima ben pulito l'anima
della canna, in cui era pertanto rimasta qualche scintilla del fuoco precedente, e la nuova
polvere introdottavi prese così fuoco da sola immediatamente, investendo con la sua fiammata
gli artiglieri che ancora si trattenevano davanti alla bocca del pezzo, uccidendone così tre e
ferendone seriamente altri due.

… (Il re) era guardato da 12 alabardieri spagnuoli e 6 moschettieri della guardia del corpo
spagnuoli con braghe corte all'uso de’ paggi di Francia, casacche alla spagnuola e mantello
corto e le 6 guardie del corpo di goniglia, il mantello senza cappuccio, il corpetto giallo senza
galloni, avevano ciascheduno una pennacchiera bianca e poco rossa; quali poi per la Città e a
Palazzo guardavano il Re con certe alabarde con solo lungo taglio lungo due palmi, chiamate
‘cuciglio’…

Un diario d’anonimo trascritto da Gioseppe de Blasiis e conservato dal Capasso farà dei
predetti alabardieri una descrizione che ci da qualche particolare in più:

... dove venivano nella detta gallaria dodeci spagnuoli, al modo di Spagna vestiti di color giallo,
goliglia e ferrajolo corto sino alli reni anche giallo, spada e pugnale e nella mano portavano una
lancia, alla cima di cui era un ferro a simiglianza di coltello, e chiamavansi questi ‘la guardia de
los cuchillos e sempre nel mezzo d’essi caminava il Re, così fuora come dentro del Palazzo.

Si tratta dunque non d’altro che della ronca inastata tanto usata nel Medioevo e che, prima di
cuchillo, si era detta in spagnolo archa, da cui il nome non di alabarderos né di cuchilleros,
bensì di archeros con cui questi soldati erano ufficialmente chiamati e che si usava anche per la
guardia alemanna dei governatori di Milano. Arrivato nella reggia, per dare soddisfazione al
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popolo che affollava la piazza di palazzo aldilà di uno squadrone di fanteria spagnola e di alcuni
corpi di cavalleria, il re si affacciò brevemente al balcone che guarda il largo di Palazzo, dove
ricevé un’acclamazione generale e salutò i suddetti corpi militari colà schierati, e poi si ritirò nel
suo appartamento.
In quel mentre un avviso da Milano del 12 precedente informava che il terzo di fanteria
napoletana di quello Stato che sino allora era stato comandato dal mastro di campo Antonio di
Francia era stato affidato ora al cavaliere di Malta fra’ Tomaso Caracciolo, il quale, come
abbiamo visto, il de Clonard faceva alla guida di un terzo napoletano in Fiandra un paio d'anni
prima; trasformato presto anch'esso in reggimento, il terzo del Caracciolo sarà uno dei due corpi
di fanteria che il 21 luglio del 1704 entreranno per primi nella piazza di Vercelli appena
conquistata.
Martedì 18 aprile il re, accompagnato dalle sue guardie e dalle due compagnie di cavalleria
della guardia del viceré, si recò per la messa alla cappella di S. Gennaro, dove al santo,
principale protettore di Napoli, in onore del re si sarebbe chiesto di compire il suo famoso
miracolo, prodigio che allora infatti non solo non avveniva, come oggi, necessariamente il solo
19 settembre, ma si scioglieva nelle sue ampollette tradizionalmente e unicamente quando lo si
poneva al cospetto della testa dello stesso santo. Comunque, poiché il prodigio ritardava,
Filippo V, ascoltata la messa, si ritirò a palazzo e gli fu servito il pranzo; era questo appena
terminato che gli fu portata la notizia che il sangue si era sciolto e quindi il sovrano fu riportato
alla detta chiesa, dove l’arcivescovo gli mostrò le dette ampollette; egli, dopo aver adorato la
reliquia, si trattenne brevemente a osservarla, poi andò via per lasciar posto nella cappella alla
Corte e al popolo che si affollavano per poter beneficiare di quel miracolo, il quale comunque
durò tutta la serata.
Il giorno seguente il re si recò alla cappella di S. Tomaso d’Aquino ad adorare un crocefisso che
si diceva fosse quello che aveva parlato al detto santo; nel pomeriggio il viceré lo condusse al
passeggio in carrozza alla marina di Chiaia, bellissima strada molto recentemente ampliata e
abbellita di alberi e fontane dal Medinaceli, la quale, fiancheggiando quella spiaggia, portava,
come sappiamo, alla chiesa della Natività della Madonna a Piedigrotta. La sera poi nel
belvedere di palazzo, luogo ornato di giardini e fontane, si fece musica per allietare il sovrano.
Venerdì 21 Filippo V si recò a udir messa alla chiesa di S. Maria della Nuova dei francescani
della Regolar Osservanza e poi si trattenne a vedere il corpo del beato Jacopo della Marca,
appartenete allo stesso ordine, che colà si conservava intero; nel pomeriggio del giorno dopo fu
portato a cacciare in una boscaglia detta Pascone, dove fu servita dal Montiero (‘cacciatore’)

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Maggiore del regno, ossia dal duca di Limatola di casa Gambacorta; domenica 23 udì messa
nella cattedrale e poi ritornò alla cappella di S. Gennaro per partecipare a un’orazione a quel
santo, sul cui altare, essendo un giorno festivo, erano state poste 30 effigi di argento contenenti
le reliquie dei martiri protettori della città; lunedì 24 promosse sargenti generali di battaglia i
mastri di campo Miguel Gasco e Diego de Alarcón Peñarvia, poi ricevé l’omaggio dei
comandanti di alcuni dei vascelli francesi che l’avevano portato a Napoli e che si apprestavano
a tornare alla loro base di Tolone e nel pomeriggio fu portato a cacciare nel bosco di
Sant’Arcangelo, di proprietà della marchesa di Fuscaldo, la quale lo accolse con un sontuoso
ricevimento; il pomeriggio di martedì 25 andò di nuovo a caccia in un luogo vicino alla città, ma
questa volta in uno detto le Paludi, e la notte si divertì invece a palazzo con il gioco; il 26 fu
condotto in collina al sontuoso e panoramicissimo convento di S. Martino dei monaci certosini,
oggi sede dell’omonimo museo, nella cui chiesa era stato esposto il Sacramento per la
ricorrenza delle Quaranta Ore, e poi gli si fece visitare il vicino castello di S. Eramo, avendo egli
preventivamente ordinato a quel castellano che il presidio non lo salutasse come segno di
rispetto al Santissimo Sacramento esposto nel vicino convento; infine volle tornarsene a
palazzo a cavallo, accompagnato da tutta la nobiltà titolata e dalle acclamazioni del popolo.
La mattina di giovedì 27 il re, attraverso la famosa grotta, fu portato in carrozza a Pozzuoli e
colà, salutato da quelle artiglierie e da quelle del castello di Baia, s’imbarco su una gondola che
lo portò a Procida, dove si divertì a cacciare i fagiani, di cui quell’isola allora ancora abbondava,
e poi la sera tornò per lo stesso cammino. Il 28 aprile il re fece grande di Spagna Carlo Maria
Sanseverino principe di Bisignano e il giorno seguente anche Nicola Antonio Caracciolo nuovo
marchese di Torrecuso e, poiché costui aveva manifestato il desiderio di servire in guerra,
com’era tradizione nella sua famiglia, il re, non essendoci un capitanato vacante per
l’occasione, dette ordine che gli si formasse una compagnia de ramos con la fanteria spagnola
del terzo fisso di Napoli, sottraendo dieci uomini a ognuna delle compagnie di quello, e in quello
servisse con il soldo di ben 500 scudi il mese, cioè quello che toccava ai capitani che godessero
del grandato. In effetti, come abbiamo già detto, a un non-spagnolo non si sarebbe mai dato il
comando di una compagnia spagnola, ma i grandi di Spagna facevano eccezione a questa
tacita regola, perché il grandato li rendeva praticamente spagnoli d'adozione e quindi pari in
dignità e preminenza agli stessi spagnoli. Il sovrano in quest'occasione aumentò anche la paga
del generale dell'armi del regno marchese di Grigny e probabilmente concesse altri benefici che
però né gli avvisi, né i diaristi riportano.

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Sabato 29 Filippo, informato che alcuni commercianti giudei erano venuti da Roma per
approfittare della presenza della Corte di Spagna, ordinò che entro 15 giorni ripartissero e
lasciassero il regno, pena la perdita dei loro beni più eventuali altre pene riservate alla volontà
reale; insomma l’antisemitismo ha radici molto lontane, in considerazione che, oltre a biasimare
gli ebrei per la loro ricorrente pratica dell’usura, nel Settecento i cristiani non ancora avevano
loro perdonato l’antico deicidio! Domenica 30 se cubriò por grande - ossia ricevé il grandato e
quindi da quel momento poté ricoprirsi il capo al cospetto del sovrano – Gregorio Boncompagno
principe di Piombino e di Venosa; nel pomeriggio Filippo si recò a pregare alla chiesa dei SS.
Filippo e Giacomo e poi al passeggio di Chiaia, passeggio che volle ripetere il giorno seguente
per poi, tornato a palazzo, ascoltare musica e vedere, giunto il buio, un gran castello di fuochi
artificiali acceso per lui; nello stesso 1° maggio era frattanto giunto a Napoli Arcangelo Corelli
(miglior sonatore di violinio d’Europa, Bulifon) perché era stato ingaggiato per suonare in
un’opera musicale che stava per andare in scena, evidentemente per svago del re.
Martedì 2 maggio si seppellì l'ex-mastro di campo generale del Regno di Napoli Gioseppe
Dazza, morto vecchio di 86 anni e già giubilato il 19 marzo precedente, quando era stato
sostituito per inabilità dal sunnominato Restaino Cantelmo (Era il corpo del vecchio tutto pieno
di ferite di guerra...); una di queste ferite, al braccio, se l’era presa alla battaglia della Staffarda,
vinta dai francesi il 18 agosto 1690; nel pomeriggio il re fu portato a cacciare nel bosco di
Portici, il quale era di proprietà dei monaci dell’ordine degli Agostiniani Riformati. Il giorno
seguente il re elevò le dieci nuove compagnie di corazze napoletane a reggimento di guardia
della sua reale persona col nome ora di Guardia d’Italia, mentre prima della sua venuta a Napoli
si era detto che il nome sarebbe stato quello di Reggimento delle Guardie Napoletane; ordinò
poi che si cassassero gli ufficiali maggiori spagnoli a cui i dieci nobili capitani napoletani non
volevano ubbidire, ufficialmente per non esser loro pari, e che i detti capitani gli presentassero i
nominandi a loro scelta, i quali avrebbero senz'altro ricevuto la sua approvazione, decretò
inoltre che queste compagnie avrebbero ceduto le loro cavalcature al reggimento di dragoni del
colonnello Francisco Velbalet venuto dalla Catalogna e sarebbero state portate così smontate in
Lombardia, dove lo avrebbero servito con cavalli che lui stesso avrebbe colà loro dato, e infine
concesse ai dieci capitani la facoltà di nominare altri al loro posto, se fossero stati impediti a
recarvisi. Per non far ingiustizia al Manzo, il re lo nominò invece colonnello delle sole otto
compagnie di cavalli corazze venute da Milano, le quali erano così irreggimentate, soluzione
questa che già si vociferava da qualche tempo e che aveva il duplice pregio di dar
soddisfazione alla nobiltà napoletana senza appunto arrecar torto all'ufficiale spagnolo. Giovedì

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4 i suddetti nobili capitani napoletani si recarono da Filippo a rendergli grazie, a dichiararsi
pronti a spargere il loro sangue al suo servizio e a pregarlo di scegliere egli stesso i loro ufficiali
maggiori, ma il re insisté che gli fossero semplicemente presentati i nomi dei nominandi; quella
sera Filippo fu portato a caccia al bosco di Resina. Il giorno seguente il giovane figlio del
principe di Belvedere di Casa Carafa gli consegnò dunque una memoria contenente i nomi di
persone scelte dagli stessi dieci capitani; si trattava di tre nomi per ogni incarico, affinché Filippo
potesse fare la sua elezione definitiva. Quello stesso venerdì 5 maggio, dopo pranzo, i 100
guardie marine francesi, le quali, come abbiamo detto, erano tutte elettissimi cadetti di nobili
famiglie, per ordine del re vennero a schierarsi nel largo del Palazzo a farvi i loro esercizi militari
e maneggi d'arme (quali veramente son ammirabili); essi erano evidentemente armati di fucile,
perché quando qualcuno di loro montava la guardia all’appartamento reale, lo faceva con la
baionetta a lato; Filippo scese nella piazza e si mise di persona a riconoscerne e ad aggiustarne
le fila una per una e inoltre a comandarne gli esercizi come fosse un ufficiale di quel corpo, in
ciò facilitato ovviamente dal poter comandarle nella sua propria lingua, il francese, giacché,
come scrive il già nominato editore francese Antoine Bulifon, egli parlava mediocremente
spagnuolo e il che, nel caso del re, voleva certo dire che lo parlava molto poco. Questi cavalieri
guardie marine sfileranno anche durante le cavalcate pubbliche che, come vedremo, si terranno
nello stesso mese di maggio il 20 e il 29, quest'ultima in omaggio al legato pontificio cardinale
Carlo Barberini. Sempre il 5 giunsero a Baia sei galere di Francia comandate dal signor de
Fourville e destinate ad accompagnare il re nel proseguimento del suo viaggio in Italia; esse si
trasferiranno a Napoli la successiva domenica 7. La notte il re si divertì col gioco.
Sabato 6 Filippo si recò a udir messa nella chiesa del convento di Santa Chiara, il quale fu
fondato dal re Roberto d’Angiò, il cui sepolcro si poteva infatti vedere adiacente all’altare
maggiore; nello stesso giorno egli scelse gli ufficiali maggiori del suo nuovo reggimento della
guardia napoletana a cavallo e li scelse tra i nomi presentatigli il giorno prima; ne fece dunque
colonnello Gaetano Coppola principe di Montefalcone, tenente colonnello il capitano di
cavalleria Ottaviano de’ Medici duca di Sarno e figlio del principe d'Ottajano e sargente
maggiore Tiberio Carafa figlio del principe di Belvedere, il quale ultimo stava servendo allora
come capitano di cavalleria nell’esercito di Lombardia, ma presto si trasferirà a Genova per poi
venire a Napoli ad assumere questo suo nuovo incarico; Gaetano Coppola rinunciò però alla
nomina e il 12 sarà eletto al suo posto Francesco (Cicco) Gaetano d'Aragona figlio del duca di
Laurenzana, il quale, da quando era scoppiata questa nuova guerra, stava servendo con un
reggimento nell’esercito imperiale. Essendo il predetto il primo sabato di maggio, si celebrava la

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traslazione da Pozzuoli a detta chiesa del sangue di S. Gennaro, essendo tradizione che ogni
anno si collocasse antecedentemente la testa di tal arcivescovo martire in uno dei siti in cui si
congregavano e tenevano i loro parlamenti i Seggi (‘sesti, municipi’) di Napoli, i quali erano
allora cinque perché, essendo stati invece un tempo sei, quello detto di Forcella era stato nel
1684 incorporato nel Seggio di Montagna, pur stabilendosi però che, in seguito a ciò, questo
dovesse da allora in poi avere due Eletti che lo rappresentassero e non più uno solo; tal festa si
chiamava delle Ghirlande, poiché ne erano tradizionalmente adorni coloro che portavano il detto
sangue a Napoli. Quest’anno la celebrazione di questa festa era toccata al Seggio di Montagna
e dunque nel pomeriggio il re si recò a tal Seggio, il quale era stato per l’occasione
doviziosamente adornato e nel quale era stata portata la testa del santo e posta su un altare,
mentre uscivano in generale e sontuosa processione dal duomo le reliquie di altri santi martiri, e
vi arrivò il sangue portato sulle spalle da portantini di tanto beneficiati e fu preso dal cardinale
arcivescovo, il quale lo porse al re perché lo baciasse, poi lo mostro pubblicamente perché si
riconoscesse che esso era rappreso e lo pose sull’altare suddetto di fronte alla testa del santo;
in brevissimo tempo si vide il sangue sciogliersi; infine la reliquia, ostentata in alto al popolo
dall’arcivescovo, fu portata in processione alla cattedrale. Filippo accompagnò detta
processione e poi la sera si rilassò ascoltando musica.
Domenica 7 maggio Filippo si recò a udir messa nella chiesa di S. Paolo, nella quale si
veneravano i corpi di S. Gaetano e del beato Andrea da Avellino, di cui il superiore di quel
tempio donò al re alcune reliquie; poi concesse al mastro di campo Emmanuel de Silva y
Meneses, adesso conte di Galvez, con ritenzione però del suo preesistente incarico di generale
delle galere di Sicilia, il tercio del promosso Gasco, di cui nel 1706 risulterà poi essere tenente
colonnello tale Joseph Badillo, e fece Melchor de Montes, sargente maggiore del tercio del
sargente generale di battaglia Diego de Alarcón Peñarvia, mastro di campo del medesimo.
Frattanto dalla Spagna si decideva d’inviare nel Regno di Napoli grossi quantitativi di polvere da
sparo e ciò doveva essere fatto con urgenza da tutti i principali porti meridionali, ossia da
Cadice, Malaga e Alicante; perché poi la polveriera della Torre dell’Annunziata non riuscisse in
questo periodo, non solo a esportare come nel passato, ma nemmeno a far fronte alle esigenze
del regno non sappiamo.
Lunedì 8 arrivarono dalla Francia altri due vascelli che portavano soldati e i rappresentanti della
città vennero a rendere grazie al sovrano per aver onorato il regno elevando a guardia della sua
reale persona il reggimento delle dieci compagnie di cavalieri napoletani; nel medesimo giorno
giunse per le poste da Milano il generale dell’artiglieria Francisco Colmenero inviato dal principe

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di Vaudemont con l’importante notizia che gli svizzeri avevano rinnovato la lega con la Corona
di Spagna, la quale risaliva al tempo dell’imperatore Carlo V, riconoscendo così Filippo V
legittimo duca di Milano e obbligandosi a calare alla difesa di quello stato con l’esercito che si
ritenesse necessario e permettendo di conseguenza a detto sovrano di arrolare in quella
confederazioni tutte le soldatesche che egli desiderasse con il pagamento delle consuete
pensioni annuali sia in denaro sia in sale, frumento e altri beni previsti dai capitoli di tale trattato.
La mattina di mercoledì 10 maggio il re, dopo aver ascoltato la messa nella cappella di Palazzo,
scese per la scala segreta e nella darsena assisté al varo di un nuovo scafo di galera fabbricato
per quella squadra e nel pomeriggio tornò a cacciare nel sito detto le Paludi; e fu per lui questo
un giorno fortunato, in considerazione che il Seggio di Nido decise di fargli un donativo di un
milione di ducati, seguito poi subito da quelli degli altri quattro Seggi di Napoli.
Venerdì 12 il re si recò alle carceri di Santiago degli Spagnoli e a quelle della Gran Corte della
Vicaria, le cui chiavi gli furono consegnate dai rispettivi reggenti, ed egli le restituì loro,
comandando che ponessero in libertà tutti coloro che fossero colà carcerati per reati che non
fossero esclusi da simili indulti e che fossero messi a servire nei castelli, e ciò fu fatto. In questo
stesso giorno, comandate dal loro generale Camillo Guidi, arrivarono al porto tre galere del
Granduca di Toscana Cosimo III de’ Medici con cui veniva suo fratello, il cardinale de’ Medici; le
galere fecero tre salve di saluto sia con le loro artiglierie sia con le armi della loro guarnizione di
fanteria di marina; il cardinale sbarcò e si recò a far visita al sovrano, il quale gli dichiarò che la
Casata de’Medici era sotto la protezione della Corona di Spagna, tutela che poi il Granducato di
Toscana otterrà anche da quella di Francia.
Il giorno seguente il re ordinò che il mastro di campo Melchor de Montes si trasferisse con tutti i
500 fanti del suo terzo, il quale era detto torchino dal colore dell’uniforme, al presidio della città
di Capua; volle poi che tutte le leggi e prammatiche del Regno di Napoli fossero raccolte in una
sola opera con il titolo di Codice di Filippo Quinto e che la sua stesura fosse affidata a una
giunta presieduta dal dottor in legge Philippe Bulifon, evidentemente altro figlio dell’editore; non
che non esistessero già delle raccolte in tal senso, come si evince da una registrazione di
pagamento del 1695 (A.S.N. Tes. An. fs. 143):

A Giacomo Barillaro ducati quindeci per la consegna di quindeci tomi con l’aggiunta di tutte le
Pramatiche emanate sino a’ questo giorno per servizio della Regia Camera (della Sommaria)…

Arrivarono quel giorno al re un gran numero di cassette di dolci e di frutta dal predetto cardinale
de’ Medici in ringraziamento dell’accoglienza ricevuta il giorno precedente. Domenica 14 maggio
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il sovrano concesse indulto ai messinesi esuli o carcerati per i noti fatti iniziati nel 1674 e venne
da Roma, inviato dal Pontefice, il duca Sforza Cesarini a portare in regalo a Filippo quattro
dipinti del famoso pittore Filippo Lauri. Nel pomeriggio di martedì 16 quei vascelli di Francia che
avevano portato il re a Napoli e che erano rimasti a Baia vennero nel porto della capitale a
salutare il sovrano con una tripla salva di tutta la loro artiglieria. Il giorno successivo il re fu
portato a cacciare nei pressi del ponte della Maddalena e in tal occasione il duca di Limatola di
casa Gambacorta, il quale era Montiero Maggiore, gli regalò un archibugio, termine ormai
obsoleto, ma a quest’epoca era ancora usato per le carabine da caccia; infatti in francese
queste armi a ruota si chiamavano arquebuses buttieres o rainoises (‘raniere’) e i cacciatori
arquebusiers. Erano armi potenti e precise perché internamente rigate a spirale per tutta la
lunghezza della canna, raggiungevano i mille passi di gittata con non più polvere di quellla che
s’usava per un normale fucile di fanteria; quella donata a Filippo V era molto ben ornata di
diverse pietre preziose e il re, molto appassionato di caccia, la gradì molto, tant’è vero che volle
tornare a cacciare in quel luogo anche il giorno seguente. A proposito di arquebuses da caccia,
riteniamo interessante aggiungere che il de Gaya (Traité. 1678) narrava di aver una volta visto
usare con efficacia un’arma ad aria pre-compressa:

J’ay veu chez un gentilhomme de Picardie proche S. Quentin une arquebuse qui se chargeoit
avec le vent et dont la bale perçoit de trente pas une porte épaisse de deux doigts.

Sabato 20 si celebrò finalmente ufficialmente l’entrata del re a Napoli, il che avvenne con una
specie di fiction svoltasi in questo modo; al mattino Filippo fu portato in carrozza e con gran
riservatezza (como de secreto), ma comunque con la scorta del suo nuovo reggimento della
Guardia d’Italia, fuori città, uscendovi da Porta Capuana, al luogo detto ancor oggi Poggio
Reale, perché colà usavano andare a svagarsi nel Medioevo i re di Napoli; colà era stata
approntata al re una gran tenda da campagna militare decorata con i colori di Spagna
intervallati da gigli di Francia. Il percorso che andava dal palazzo reale alla detta tenda fu
fiancheggiato in ogni strada da due ininterrotte ali di soldati, utilizzandosi allo scopo tutte le
milizie che allora si trovavano in città e cioè ben 9mila uomini tra spagnoli, valloni, francesi,
milanesi e napoletani. Filippo dunque rientrò ufficialmente a Napoli accompagnato da un lungo
corteo a cavallo che nel frattempo si era formato e nel quale si distinguevano i 15 capitani di
giustizia vestiti di nero alla spagnola, i quali incedevano per primi, il capitano della Grascia
(‘annona’), i quattro Trombetti della città con vaqueros (‘grembiuli’) di damasco cremisi e fiori
d’oro, sei trombetti del re in livrea reale, due altri trombetti che accompagnavano alcuni
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timballieri, tutta la nobiltà in traje militar, ossia vestita come il re di giamberga; a piedi andavano
invece i 24 mazzieri della città, vestiti di scarlatto alla spagnola con berrette di velluto e adornati
sia dell’armi del re sia di quelle della città. Spiccavano ancora i sei nobili Eletti, tutti con abiti e
berrette di broccato cremisi e oro, posti a capo dei cinque Seggi nobili della città, non essendo
evidentemente stato autorizzato a partecipare anche il sesto Seggio, ossia quello detto della
Piazza del Popolo, il quale non aveva alcuna funzione municipale né alcun potere decisionale; i
quattro portieri di palazzo con i loro abiti rossi e guarniti d’oro, con le loro mazze d’argento e in
mezzo a loro incedeva il Re dell’Armi del regno, ossia l’araldo reale, il quale, come il solito,
vestiva una casacca alla spagnola ornata con le armi del regno ricamate e teneva in mano uno
scettro; il Gran Contestabile Giovan Battista Colonna, cavaliere dell’ordine del Toson d’Oro, il
Gonfaloniere reale che portava il pendone con le armi di Filippo V in mezzo a due Re dell’Armi
del sovrano ed era seguito dallo stesso Filippo, il quale avanzava sotto un ricchissimo pallio, in
mezzo a due ali di guardie del corpo, guardie spagnole e guardie del palazzo di Napoli,
chiudendo questo accompagnamento il nuovo reggimento delle corazze napoletane della
guardia reale. Arrivò il corteo davanti all’ingresso del Castel Nuovo, il quale fungeva da cittadella
della capitale e aveva, come da prescrizioni cerimoniali, la porta chiusa e il rastrello alzato
(infatti questo spuntava dal suolo e non dall’alto, come si può pensare). Antonio de la Croux
Aedo, governatore di quel castello per conto del suo castellano proprietario Filippo Spìnola
d’Oria marchese de los Balbases, chiese ad alta voce: Chi viene là? E il re rispose: Filippo V re
di Napoli. Ciò detto il rastrello fu abbassato e la porta aperta e ne uscì il suddetto governatore, il
quale, postosi in ginocchio davanti al sovrano, gli porse le chiavi del castello, le quali il re però
subito gli restituì, come voleva l’antico cerimoniale, mentre si udivano festose salve d’artiglieria;
poi il re si fermò alquanto nel largo del castello a ricevere l’omaggio del popolo e, mentre i suoi
funzionari gettavano alla folla monete d'oro e tutti si accapigliavano per raccoglierle, accaddero i
due seguenti episodi:

Li soldati Spagnuoli fecero in alcuni luoghi delle impertinenze; si battevano e battevano gli altri
in raccogliere li denari che si gettavano e nel largo del Castello uno soldato diede
impertinentemente una puntonata di moschetto al ventre di uno ragazzo di circa sette anni, la
madre di cui fu a piangere al Re, quale la consolò con darle cento doppie d'oro; la poveretta
piangeva poi di più per l'allegrezza che di dolore.
Vicino la Pace fu ucciso da un soldato a cavallo uno soldato spagnuolo, perché quello li diede
una pontonata perché il suo cavallo aveva dato addietro; questo li diede una botta di sciabla
che li spaccò la testa.

449
La sera fu allietata, tra l’altro, da una gran quantità di fuochi artificiali, dalle luminarie delle
galere e dei vascelli ormeggiati in porto o ancorati in rada e da una grande sfilata popolare delle
corporazioni cittadine e di macchine preparate dai Seggi e raffiguranti varie immagini
allegoriche inerenti alla città, tra cui quella del dio Mercurio, divinità tutelare di Napoli, la quale,
evidentemente non a caso nell’antichità pagana si scelse per tal ruolo il dio dei commercianti e
dei ladri!
Nella stessa predetta sera arrivarono a Gaeta quattro galere dello Stato della Chiesa che
stavano portando a Napoli il cardinale Carlo Barberini, legato del Pontefice a Filippo V, e alla
loro salva di saluto la fortezza di Gaeta rispose con quella di tutti i suoi 52 pezzi d’artiglieria e di
80 mortaretti; colà il cardinale fu accolto e omaggiato dal governatore della piazza, il mastro di
campo Gaspar de la Torre, dal vicario generale di quelle milizie, il marchese de Preu (sic) e da
soldatesca squadro nata; poi le galere proseguirono per Napoli e lunedì 22 nelle acque di
Procida furono incontrate da cinque della squadra di Napoli venute a riceverle con il loro
generale conte di Lemos, tra le quali quella di comando, come da recenti ordini reali già
ricordati, levava ora stendardo non più di Capitana, bensì di Patrona Reale; scambiatisi le due
squadre i convenevoli di rito, proseguirono insieme per Pozzuoli, dove il cardinale sbarcò in una
feluca ornata di pallio e guidone approntata apposta per lui e anche qui da uno squadrone di
soldati; infine una carrozza portò l’illustre personaggio alla casa del principe d’Ischitella nel
borgo di Chiaia dove sarebbe stato ospitato sino al giorno della sua entrata pubblica nella città,
cerimonia che fu ritardata di ben una settimana, perché non si confondesse con quella, appena
celebratasi per il re.
Il predetto 22 Filippo V concesse la promozione a sargente generale di battaglia al mastro di
campo fra’ Domenico Recco, il quale si trovava allora a Napoli per reclutare per il suo terzo di
napoletani che serviva nell’esercito di Catalogna e di cui fece nuovo mastro di campo il capitano
di cavalleria Loise Gaetano; mercoledì 24 ordinò che i corrieri ordinari per la Spagna, da
quindicinali che erano stati sino allora, fossero invece settimanali.
La notte tra il 25 e il 26 maggio fuggirono dal presidio del Castello Nuovo o del Torrione del
Carmine alcuni soldati micheletti con le loro armi; furono spedite a inseguirli due compagnie di
cavalleria.
Sabato 27 il re si recò a visitare Castel Nuovo, alla cui porta fu ricevuto dalle guardie marine
francesi e da altri militari di quella nazione che vi alloggiavano; nella piazza d’armi del castello
era stato formato uno squadrone con la fanteria spagnola colà di guarnigione, alla cui fronte
stavano il marchese di Villena, in considerazione che capitano generale del regno, il marchese

450
di Grigny, Governatore dell’Armi, e il duca di Popoli, mastro di campo generale. Filippo ne visitò
dapprima la chiesa, poi assisté nella piazza d’armi agli esercizi militari fatti dalla predetta
fanteria, poi visitò i grandi magazzini delle monizioni e attrezzature militari, infine si ritirò a
Palazzo, dove ordinò la scarcerazione dei molti prigionieri di stato che in quel castello erano
rinchiusi e dove ricevé un donativo fattogli dalla Città di Napoli e dai baroni.
Lunedì 29 avvenne la suddetta fastosa entrata in Napoli del cardinale Barberini, il quale era
dunque stato mandato dal Pontefice a complimentare Filippo V; entrò attraverso la porta di
Chiaia e il corteo formato per l’occasione iniziava con 36 asini ricoperti di paramenti con il
ricamo delle armi del cardinale, seguiva una sfarzosa carrozza del marchese di Villena tirata da
sei cavalli, poi un altro asino adornato come i precedenti e due cavalli di rispetto del cardinale
con i loro palafrenieri, una delle due compagnie di corazze della guardia, due trombetti, le cui
livree e banderuole ostentavano anch’esse le armi del cardinale, e altri due invece con le armi
del re, due camerieri del legato vestiti di nero alla romana, nobili vestiti alla moda, ossia alla
francese con giamberga, come vestiva il re, il già menzionato Re dell’Armi con le sue insegne in
mezzo ai quattro Portieri di palazzo, mentre il pendone reale stavolta era portato dal sindico
della città di Napoli; seguiva il Cappellano Crucifero del cardinale con il suo guidone e dietro di
lui due Re dell’Armi del re, poi le guardie spagnole e il cardinale scortato da quella degli svizzeri,
la quale, anche se serviva i viceré di Napoli, era anch’essa una guardia del re, e, tra le due file
formate da questi soldati, i palafreni del cardinale, del marchese di Villena e del re; venivano poi
carrozze a due e a sei cavalli e il corteo si chiudeva con la seconda compagnia di corazze della
guardia. Arrivatisi alla Chiesa di S. Maria a Cappella, dove era previsto che il cardinale dovesse
officiare, le guardie svizzere che lo avevano scortato sin là, come si usava in quei tempi,
s’impossessarono del suo cavallo a titolo di compenso, con ciò obbligando il cardinale a
riscattarlo generosamente; inoltre, alla fine della funzione, i suoi palafrenieri, come anche si
usava, tennero per sé il ricco pallio che gli avevano fatto trovare al suo arrivo alla chiesa perché
se ne servisse per la detta funzione. Fu portato poi a palazzo, dove gli era stato riservato un
appartamento e un buon numero d’alabardieri svizzeri per sua guardia, e, poiché era ormai
notte, v’arrivò accompagnato da sei capitani di strada o di giustizia che dir si volesse, ognuno
dei quali gli faceva luce con una fiaccola.
Nello stesso 29 il re concesse alcune nomine e promozioni, tra cui le seguenti; innanzitutto fece
viceré di Sardegna il conte di Lemos e al suo posto di capitano generale delle galere di Napoli
pose il vecchio principe di Montesarchio, poi fece generale della cavalleria del Regno di Napoli
Tomaso d’Aquino principe di Castiglione, grande di Spagna. Gioan Girolamo Acquaviva duca

451
d'Atri e cavaliere del Toson d'Oro fu fatto sargente generale di battaglia, accentuandosi così
maggiormente il suo importante ruolo militare di difensore confinario del regno; in seguito il
duca, come accertato dal Nicolini, riceverà anche le nomine di grande di Spagna e di capitano
della guardia del corpo italiana del re. Fra’ Carlo Carafa di Maierà, cavaliere dell’ordine di S.
Giovanni, fu nominato viceré d'Orano, impiego che però avrebbe assunto quando l’allora viceré
Juan Francisco Manrique l’avesse reso vacante, avvicendamento che avverrà verso la fine del
1704, e Gioseppe Piccolomini d'Aragona principe di Valle, il quale tra gli altri meriti, si era l’anno
precedente guadagnato quello di aver perseguito con il duca di Sarno i congiurati che erano
fuggiti in montagna, fu fatto mastro di campo di un terzo di napoletani che doveva andare a
servire in Catalogna. Essendo poi recentemente morto il governatore di Capua Pedro de
Cortés, il re nominò al suo posto Pedro Antonio Chavarri (sic; Echavarria?). Infine il mastro di
campo Rodrigo Correa, governatore del Torrione del Carmine, fu nominato reggente della
Vicaria, incarico che poi, all’inizio di luglio del 1704, gli sarà rinnovato da viceré per un secondo
biennio. Altre nomine minori seguirono il giorno dopo e infatti l'orologiaro Carlo de la Planche
ebbe il posto d’orologiaro del re.
La mattina di martedì 30 maggio il cardinal Barberini, il quale, come si è visto, riceveva onori
reali, si recò a visitare il convento di Monte Oliveto; uscendo da palazzo passò in mezzo a due
ali continue di guardie che iniziavano fuori del suo appartamento, si snodavano per un lungo
corridoio e finivano ai piedi della grande scalinata; poi, squadronata nella grande piazza, trovò
la fanteria spagnola allora di guardia al palazzo e infine una squadra di alabardieri svizzeri lo
accompagnò al convento. Nel largo di palazzo si tenne poi un torneo in onore del re, nel quale i
nobili napoletani, famosi per la loro destrezza nel maneggio dei cavalli, si misurarono nella
lancia, nella pistola e nella spada, all’anello, nel gioco dei caroselli e nelle scaramucce ecc. La
notte seguente il conte d’Êtrées, il quale presto sarebbe stato nominato maresciallo di Francia,
salpò con i suoi vascelli per riportarli alla loro base di Tolone. Lunedì 31 Sua maestà concesse
uno scudo di vantaggio al soldo di tutti coloro che avevano partecipato alla repressione della
ribellione dell’anno precedente, beneficio che poi sarà esteso anche a soldati, ufficiali e marinai
delle galere di Sicilia che pure avevano dato un importante contributo a quella azione, e nello
stesso giorno arrivarono due galere pubbliche di Genova con rappresentanti di quella repubblica
mandati a ossequiare Filippo.
Tenutasi giovedì 1°giugno la tradizionale processione detta del Battaglino, la sera del 2, alle ore
23 italiane del tempo (le 19 di oggi), salutato da tre salve d’artiglieria e moschetteria di tutte le
galere presenti e da una dei quattro castelli, il re s’imbarcò per Finale; era sceso infatti per la

452
scala segreta alla darsena e la gondola del viceré lo aveva portato alla galera Capitana di
Napoli, ora elevata a Reale per l’occorrenza e adornata degli stessi ornamenti adoperati in
occasione del passaggio che aveva recentemente dato alla nuova regina di Spagna; tra gli altri
avrebbe accompagnato Filippo in quel viaggio anche l’editore Antoine Bulifon, il quale gli faceva
da interprete. Dopo tre ore dall’imbarco, ossia due prima della mezzanotte, ci fu la partenza
della squadra che era stata formata per questa nuova prestigiosa incombenza e si trattava di 22
galere, le quali sventolavano sulla loro alberatura, tutte le flammule e gagliardetti di cui
disponevano, cioè quattro di Napoli comandate dal loro generale conte di Lemos, sei di Francia,
tra cui la Valeur del capitano generale signor de Fourville e la Perle, quattro del granduca di
Toscana, tre di Sicilia col loro generale Emmanuel de Silva y Meneses, tre dei particolari
genovesi col loro generale Gioan Andrea d’Oria duca di Tursi e infine due della Repubblica di
Genova che però si allontanarono subito, precedendo le altre per ragguagliare il loro governo
dell'imminente arrivo del sovrano. Le 20 residue si disposero subito in navigazione nella
seguente formazione: alla destra della suddetta Reale andava la Capitana del Granducato di
Toscana che portava il cardinale de’ Medici e poi nell’ordine la Patrona e le altre due galere di
Napoli, la Patrona e le altre due di Sua Altezza Reale il granduca di Toscana, infine le tre di
Sicilia nell’ordine ordinaria, Patrona e Capitana; mentre alla sinistra navigavano la Comandante
di Francia, le altre cinque di questa squadra e infine le tre del duca di Tursi con la loro Capitana
all’esterno. Partì per mare lo stesso giorno 2 anche il cardinal Barberini con tutto il suo folto
seguito e così in una sola giornata Napoli restò sgravata di migliaia di costosi ospiti stranieri.
Seguiva la predetta formazione di galere del re un convoglio composto di due brulotti francesi e
molte tartane cariche del nuovo reggimento di corazze della guardia e dei cavalli e bagagli del
re; dei dieci capitani del detto corpo due restarono però a Napoli e cioè Antonio della Marra, il
quale trattenne con sé anche il figliuolo, alfiere nella stessa compagnia del padre, e il principe di
San Severo, il quale era ammalato e poi rinunciò; il loro posto alla testa delle rispettive
compagnie sembra fosse allora assunto pro interim dai capitani Placido Dentice e Verginio
Colonna; inoltre, deve aver rinunziato anni dopo anche Carlo Carafa, figlio del duca di
Maddaloni, giacché nel 1707 lo troveremo a Napoli col suo nuovo prestigioso incarico di
reggente della Vicaria. Approfittando di questo naviglio, partivano pure molti cavalieri napoletani
desiderosi di servire il re in guerra da venturieri, onde avere così l'opportunità di mettersi in
evidenza e ottenere poi incarichi ben remunerati; tra questi si notavano i seguenti:

Il colonnello Cavolera.
Giosia Acquaviva, figlio di Gioan Girolamo duca d'Atri.
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Il principe d'Avellino di casa Caracciolo.
Vincenzo de Capoa principe della Riccia.
Antonio del Giudice principe di Cellamare.
Il marchese di Sant'Eramo di casa Caracciolo.
Scipione de Capoa, primogenito del duca di Mignano.
Un cognato del precedente, figlio del duca Cesarini.
Il duca di Barrea e principe di Scanno di casa d'Afflitto.
Andrea d'Afflitto, fratello del precedente.
Il conte di Giungano.
Il terzogenito del principe di Chiusano.
Il principe di Leporano di casa Muscettola.
Il duca di Castel d'Ajrola.
Il figlio del duca di Mataluna (oggi ‘Maddaloni’).
Il marchese di Torrecuso di casa Caracciolo.

Negli ultimi giorni della sua permanenza a Milano, cioè all’inizio del novembre 1702, il re, come
meglio più avanti vedremo, concederà in compenso ai suddetti Scipione de Capoa e principe di
Leporano la mercede (in questo caso ‘l’assegnazione’) di una delle tradizionali compagnie di
uomini d’arme del Regno di Napoli ciascuno.
A causa però dei venti contrari che l'avevano colto nel canale d'Ischia, il predetto convoglio non
poté seguire il passo delle galere e fu costretto a tornare indietro, dopo aver rischiato anche di
perdere una dei velieri, il cui fasciame, cedendo al maltempo, si era sdrucito; poi mercoledì 7
giugno poté ripartire con vento ora favorevole. Le suddette guardie del corpo partivano non solo
smontate, ma anche mancanti di vestiario uniforme, di equipaggiamento e di bassi ufficiali, tutte
necessità che saranno soddisfatte solo più tardi in Lombardia.
La mattina seguente alle 13 (le 9 d’oggi) il re si svegliò nelle acque di Ventotiene (oggi
‘Ventotene’; alterazione del più antico Bentitiene, ossia ‘isola dai fondali buoni tenitori’) salutato,
come avverrà poi ogni mattino del viaggio, dallo sparo dei cannoni di corsia di tutte le galere; la
sera seguente, a causa del mare mosso, il sovrano fu costretto al vomito e, nella seconda notte
di viaggio, un soldato della galera del re cadde in mare, ma, evidentemente data appunto la
presenza del sovrano a bordo, non si ritenne ammissibile fermare al salvataggio il veloce
vascello, il quale navigava allora a più di dieci miglia marine l’ora. La mattina di domenica 4,
giorno di Pentecoste, il re si svegliò alle 12 (cioè alle 8 d’oggi) e, sebbene si stesse
proseguendo il viaggio con le vele gonfie da buon vento di poppa, si celebrò ugualmente la
messa, eccezione questa che si faceva a bordo delle galere per i soli reali, mentre sui più ampi
e sicuri velieri il problema non c’era.
A proposito delle ore, dobbiamo spiegare che diversi erano i modi di calcolare l’inizio e la fine
del giorno civile che si usavano in Europa; noi oggi lo facciamo andare da mezzanotte a mezzanotte
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e quindi usiamo il modo che fu introdotto dai naviganti ponentini, cioè dell’Oceano Atlantico, i quali
lo trovarono il più adatto a collegare le cose d’Europa e d’America, e, data l’importanza assunta dal
Nuovo Mondo nella civiltà moderna, hanno finito per adottarlo tutti i popoli; ma, ancora al tempo di
cui ci stiamo occupando, gl’italiani consideravano le 24 ore del giorno andare da occidente ad
occidente (da tramonto a tramonto), per cui l’ultima ora, la ventiquattresima, era quella delle 20
di oggi; i francesi, il popolo nel Seicento più dedito alla ricerca di un progresso scientifico, il che
faceva loro molto onore, proprio in quel secolo a un certo punto vollero adottare il modo usato
dagli astronomi, i quali calcolavano invece le ore del giorno da mezzogiorno a mezzogiorno; i
norimberghesi lo facevano da oriente ad oriente, cioè come avevano fatto gli antichi babilonesi; ad
Algeri il mezzogiorno era l’ora sesta, iniziando quindi colà il computo delle ore col sorger del sole, il
che coincide con l’omonima ora canonica della Chiesa e ci ricorda le origini semitiche di questa.
Infine, i naviganti olandesi avevano un modo tutto particolare di calcolare le ore; essi infatti
dividevano il giorno in otto frazioni di tre ore ciascuna assimilandole alle sezioni della rosa dei venti,
nel modo che segue:

Da mezzanotte alle tre: noorder zon.


Dalle tre alle sei: noord-ooster zon.
Sei-nove: ooster zon.
Nove-dodici: suid-ooster zon.
Mezzodì-quindici: suider zon.
Quindici-diciotto: suid-wester zon.
Diciotto-ventuno: wester zon.
Ventuno-mezzanotte: noord-wester zon.

Fortunatamente per noi questo modo un po’ complicato non ha avuto il successo di quello dei
loro competitori oceanici!
Un’ora dopo il mezzogiorno di quella stessa domenica e quindi dopo sole 39 di navigazione, in
cui erano state coperte più di 200 miglia di viaggio, le galere della squadra reale giunsero a
Porto S. Stefano nei Presidi di Toscana, dove si sostò a causa del vento troppo gagliardo, e il
giorno seguente, cioè il 5 giugno, il re fu portato per quattro miglia in feluca sino a Orbitello,
dove nel primo pomeriggio quel governatore Bartolomé de Espejo mostrò al sovrano quella
celebre fortezza, circondata da una laguna che la rendeva quasi imprendibile; qui il sovrano si
fece notare anche per alcuni consigli per migliorarne le fortificazioni che dette all’ingegnere
militare francese cavalier de Sault barone di Zizac (sic), la quale colà era stato da poco inviato a
servire; mentre giungeva notizia che, nella guerra di Lombardia, un soccorso era riuscito a
entrare nell’assediata Mantova, visitò poi Filippo Porto Longone e ordinò che si liberassero i
455
disterrati (‘confinati’) che servivano in quella fortezza. Proseguendo poi il viaggio, la squadra
reale fece sosta a Porto Ferraio, Livorno, Porto Venere, Savona e Finale, dove si arrivò
domenica 11 giugno e dove il re nominò parecchi nobili del suo seguito suoi aiutanti di campo,
tra questi Mercurio Pacheco conte di San Estéban de Gormaz, figlio del viceré di Napoli, e il
grande di Spagna Nicola Antonio Caracciolo marchese di Torrecuso. Lasciò il sovrano Finale
martedì 13 in carrozza per andare a porsi così simbolicamente alla testa del suo esercito che in
Lombardia affrontava quello cesareo, cioè imperiale, ma la scomodità delle pessime strade
delle Langhe lo costrinse presto ad abbandonare la carrozza per una sedia volante, vale a dire
per un tipo di leggero e veloce cabriolet a quattro ruote, il quale portava un solo passeggero ed
era tirato da un solo cavallo; questo veicolo evidentemente, oltre a rendere il viaggio più breve,
in virtù della sua leggerezza molto meglio attutiva le asperità della strada. Domenica 18 Filippo
V fece la sua solenne entrata in Milano… ma il resoconto del suo viaggio in Italia non è ormai
più cronaca napoletana, eccezion fatta per qualche episodio implicante militari napoletani che
combattevano nell’esercito dell’Alta Italia e di cui egualmente diremo; chi comunque fosse
interessato a saperne il seguito potrà trovare facilmente alla BBN sia quello ufficiale del de
Ubilla y Medina sia quello non ufficiale scritto dal francese Antoine Bulifon, il quale, proprio per
servire Filippo V in questo suo viaggio d’Italia e scriverne un diario o giornale, si trasformò in
cronista lasciando temporaneamente tutto il suo lavoro d’editore al figlio e già collaboratore
Nicolas; i Bulifon avevano infatti da qualche tempo la concessione della pubblicazione degli
Avvisi ufficiali di Napoli, beneficio che era stato in precedenza di Lodovico Cavallo e a cui essi
erano subentrati evidentemente approfittando della circostanza che ora il vento del potere
spirava dal suo paese d’origine anche su Napoli; ecco a tal proposito una sua nota agli avvisi
del settembre 1703:

Si è stampato da noi il giornale del viaggio del re Filippo Quinto in Italia, il quale contiene tutte le
cose adoperate da Sua Maestà dalli 16 di aprile, che giunse a Napoli, in sino alli 16 di
novembre, che s’imbarcò a Genova per lo suo ritorno in Ispagna. È ornato il libro di molte belle
figure scolpite in rame e del ritratto di Sua Maestà intagliato da Teresa del Po’ dell’Accademia
Romana e si vende carlini cinque ligato.

Frattanto a Napoli, in quei giorni, si raddoppiarono le pattuglie e le guardie notturne, perché


c'era stata una notevole recrudescenza di furti con scasso.
Nel già citato fondo Papeles de Estado, Nápoles dell’Archivio General de Simancas c’è una
relazione datata 10 giugno in cui si da conto alla Corte di Madrid dell’ammontare della paga e
socorro di tutto il personale militare del Regno di Napoli, inclusi castelli e arsenale; sono esclusi
456
i quattro reggimenti di fanteria francese, perché non a carico della cassa militare del regno, e il
suddetto terzo dei micheletti di Blas de Trincheria, probabilmente perché, essendo appena
arrivato, non aveva ancora percepito in regno alcun soldo. Detta relazione è confermata da
un’altra dello stesso periodo dell’anno che è stata invece rinvenuta nell’Archivio storico di Parigi
e che da però, a proposito della consistenza dei vari corpi, dei numeri piuttosto approssimativi;
quindi abbiamo preferito qui riportare quelli, necessariamente precisi, della predetta cassa
militare; naturalmente questi documenti sono per noi molto importanti perché ci permettono di
sapere con precisione quale fosse allora la consistenza di tutti i corpi allora presenti e di tutti i
presidi del regno. Tralasciando gli emolumenti, perché appesantirebbero troppo le nostre
elencazioni, cominciamo dalla primiera plana Mayor dell’esercito, ossia dal suo stato maggiore:

Governatore dell’Armi
Mastro di campo generale
3 tenenti di mastro di campo generale
4 sargenti generali di battaglia
8 aiutanti dei predetti sargenti generali
Udienza generale dell’esercito (cioè l’auditore generale e altro personale)
Pagatore della fanteria e cavalleria
Aiutante di detto pagatore
Governatore del Torrione del Carmine
Governatore dell’arsenale
Un portiero, il quale aveva il compito dell’esposizione di pubblicazione delle mostre o riviste.

Seguono i sei terzi di fanteria spagnola e il vallone, ma per brevità ne sintetizziamo il piede;
ecco quello del terzo fisso, cioè di quello del mastro di campo Joseph Caro, che alloggiava in
gran parte nel presidio di Pizzo Falcone:

Stato maggiore del terzo (primera plana mayor).

Mastro di campo
Sargente maggiore
2 aiutanti fissi del predetto più 2 soprannumerari
Chirurgo maggiore
Tamburo maggiore
12 cappellani
Auditore
Capitano di campagna
8 soldati del predetto
Maestro di matematica del presidio di Pizzo Falcone

Stato maggiore di compagnia (primera plana).

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Capitano
Alfiere
Sargente
2 tamburi
Piffero
Porta-bandiera (abanderado)
Barbiero
Furiero.

I suddetti strumentisti, porta-bandiera, barbiero e furiero di compagnia, non essendo


prettamente personale combattente, erano gli unici che in questi terzi fissi spagnoli di presidio in
Italia potevano ufficialmente essere – e infatti perlopiù erano – non spagnoli, bensì italiani. Le
compagnie erano allora 30, il totale dei soldati semplici di 1.989, quello dei capi di squadra
(‘caporali’) di 102; ma a carico economico del terzo c’erano poi molte piazze aggiunte di militari
pensionati aggregati e cioè ben 96 alfieri, di cui 64 riformati, 102 sargenti, di cui 35 riformati, un
tenente di mastro di campo generale, un sargente maggiore, cinque capitani riformati, due
aiutanti riformati, un ufficiale a disposizione (entretenido) e sette servi. Un ‘peso morto’ di
questo tipo, in tempi in cui non ancora esistevano istituti pensionistici, gravava su tutti i corpi
degli eserciti della corona di Spagna, nessuno escluso, ma generalmente più importante era il
terzo o il reggimento e più gravoso esso era; anche se negli altri corpi di fanteria lo troveremo
quindi molto più ridotto, non rappresentava un sollievo per essi, in considerazione che gli
stipendi e le sovvenzioni che ricevevano erano in proporzione a questi loro pesi.
Lo stato maggiore degli altri predetti sei reggimenti era per tutti il seguente:

Mastro di campo
Sargente maggiore
2 aiutanti del predetto
Cappellano maggiore
Furiero maggiore
Chirurgo maggiore
Tamburo maggiore
Capitano di campagna
4 soldati del predetto

Ecco inoltre la loro consistenza:

Antolinez: 14 compagnie, 29 capi di squadra, 581 soldati, 17 aggregati.


Castro: 20 compagnie, 27 capi di squadra, 570 soldati, 28 aggregati.
Redonda: 17 compagnie, 30 capi di squadra, 577 soldati, 26 tra aggregati e avvantaggiati.
458
Montes: 15 compagnie, 22 capi di squadra, 445 soldati, 95 tra aggregati e avvantaggiati.
Galbez: 15 compagnie, 22 capi di squadra, 429 soldati, 57 tra aggregati e avvantaggiati.
Villalonga: 11 compagnie, 22 capi di squadra, 427 soldati, 43 aggregati.
Maulde: 12 compagnie, 17 capi di squadra, 250 soldati, 35 aggregati.

Il terzo vallone aveva, come si vede, un numero di uomini molto minore di quanti ne avessero gli
altri; evidentemente avere dei rimpiazzi dalla Fiandra era cosa più difficile.
Passando ora alla cavalleria, iniziamo anche qui dalla primera plana mayor, la quale includeva
solo tre personaggi e cioè il capitano generale, un suo aiutante e un capitano di campagna,
questo però privo di soldati; forse ai ‘nobili’ soldati di cavalleria non poteva toccare l’essere
arrestati da volgari birri militari! Ecco la primera plana di una delle due compagnie di cavalli
corazze della guardia del viceré, ossia quelle dei capitani fra’ Ventura Saracini e Domenico de
Sangro:

Capitano
Tenente
Alfiere
Primo caporale
Secondo caporale
2 trombette
Timballo
Marescalco
Armarolo.

La seconda compagnia aveva un’uguale primera plana, ma le mancava il timballiere; in totale


poi le due compagnie avevano 125 soldati e sopportavano un peso di dieci aggregati, tra i quali
il barone d’Armont e tale Ambrosio Corvet.
I due reggimenti di cavalli corazze dei colonnelli Pedro Manzo de Zuñiga e Juan Estéban Billet
avevano ognuno la seguente primera plana mayor:

Colonnello
Tenente colonnello
Sargente maggiore
2 aiutanti del predetto
Cappellano maggiore
Furiero maggiore

Ognuna delle otto compagnie del Manzo de Zuñiga aveva la seguente primera plana:

Capitano
459
Tenente
Alfiere
Sargente
Primo caporale
Secondo caporale
Trombetta
Furiero
Marescalco

I soldati erano 309.


Quella delle 11 compagnie del Billet era uguale con la differenza che mancavano però furiero e
marescalco; questo reggimento contava poi 497 soldati e dieci riformati.
I due reggimenti di cavalleria dragona, ossia il Velbalet (9 compagnie per 340 soldati e 35
riformati) e il de Armendariz (10 compagnie per 350 soldati e 14 riformati), avevano la stessa
primera plana mayor detta per le corazze, mentre la primera plana di compagnia era in
ambedue la seguente:

Capitano
Tenente
Alfiere
Sargente
Primo caporale
Secondo caporale
Tamburo
Piffero

C’erano infine due compagnie sciolte di dragoni venute da Milano, per un totale di 101 soldati,
ognuna con la stessa predetta primera plana, ma in più avevano marescalco e furiero.
Il presidio completo del regno tra maggio e giugno di questo 1702 risulta, sempre escludendo i
predetti reggimenti francesi e il de Trincheria, anche da uno stato militare del tempo tratto
dall’Archivio di Stato di Parigi e messo a nostra disposizione dall’ing. Giancarlo Boeri; da tale
documento possiamo conoscere anche l’ubicazione dei singoli corpi, mentre i relativi numeri in
uomini, generalmente alquanto differenti da quelli precedenti, sono da ritenersi meno attendibili
sia nella sostanza, perché non si riferiscono ai pagamenti del soldo, sia nella forma, in
considerazione che troppo spesso arrotondati alle centinaia e alle decine:

A Napoli:

TERZI SPAGNOLI DÌ FANTERIA Uomini

460
Caro (fijo de Nápoles) 1.027
Castro 587
Galbez 488
Redonda 600
Antolinez 600

CAVALLERIA

Reggimento Manzo 240


Reggimento Billet 300
Compagnia conte Ventura Saracini 73
Compagnia Domenico de Sangro 57

DRAGONI

Reggimento Velbalet 400


Reggimento de Armendariz 315

A Capua:

FANTERIA

Terzo spagnolo di Montes


(ex-de Alarcón Peñarvia) 400

A Gaeta:

FANTERIA

Terzo spagnolo de Villalonga 460


Tre compagnie del terzo spagnolo Caro 328
Terzo vallone Maulde 250

In Abruzzo:

CAVALLERIA E FANTERIA 1.000

Nelle isole: 70

Nei Presidi di Toscana: 1.190

Il numero dei cavalli è qui talvolta menzionato, ma solo per le compagnie del commendator fra’
Ventura Saracini (56) e del de Sangro (54). La nazionalità dei corpi di cavalleria e dragoni è
negli stati militari raramente indicata in considerazione che per lo più multinazionali, a differenza
della fanteria dove i terzi erano invece costituiti in preponderanza da una sola nazione; ciò
perché quella del soldato montato era una vera e propria professione militare, mentre quella del

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semplice fante aveva più le caratteristiche del servizio di leva e quindi era di più facile
reperimento;
Il terzo vallone del Maulde passerà a Capua nel corso di questo stesso 1702 e poi, nell'aprile
del 1703, a Napoli; passerà pure a Capua, ma solo nel 1704, il reggimento dragoni di Velbalet e
c'è anche da precisare che le tre compagnie del terzo del Caro di presidio a Gaeta diventeranno
sei nel 1703; aggiungeremo infine che lo stato in questione esclude, pur menzionandoli, oltre ai
quattro reggimenti di fanteria francese, anche 1.400 regnicoli levati ultimamente e destinati a
imbarcarsi quanto prima per la Sicilia e la Spagna e, proprio a questo proposito, diremo che
l'anno 1702 fu caratterizzato da ingenti leve militari. Si cominciò col formare due nuovi terzi, uno
di 500 fanti agli ordini del mastro di campo Domenico Recco e l'altro di 626 affidato invece a
Gioseppe Piccolomini d'Aragona principe di Valle, mentre troviamo trasferito nel Milanese quello
di Ciarletta Caracciolo.
Ecco ora lo stato del treno dell’artiglieria:

Generale.
Tenente del detto.
Capitano della scuola d’artiglieria.
2 gentiluomini d’artiglieria.
1 gentiluomo soprannumerario.
Capitano dei trabucchi (‘mortai’).
Aiutante del detto.
2 armaruoli.
2 aiutanti dei detti.
Capo-mastro di casse e ruote d’artiglieria.
Capo-mastro della scuola degli artiglieri.
10 artiglieri ordinari.
11 artiglieri bombisti.
Artigliero che serve da capo di quelli che si trovavano a Pescara.
Artigliero che serve da capo degli artiglieri di Longone.
70 artiglieri straordinari inclusi 6 che stavano servendo in detta piazza di Pescara e 5 in quella di
Longone.
5 altri artiglieri, tra cui 2 per S. M. (‘a disposizione di Sua Maesta’) e uno livornese
soprannumerario.
2 ingegneri militari e cioè il sargente maggiore Luca Antonio di Natale, il quale fungeva allora
datenente generale dell’artiglieria, e il sargente maggiore Domingo La Corte ingegniero per Sua
Maestà; inoltre Honoré Domingo Gualtierez, aiutante dell’ingegniero militare col. Fernando de
Grunemberg, il quale serviva nei Presidi di Toscana, posto che nel 1682 aveva comportato un
soldo mensile di scudi castigliani 15.
15 intrattenuti, ossia i mastri di campo Domenico dentice e Francesco de Gennaro, il
colonnelloGioseppe de Pace, il tenente di mastro di campo generale Simone Jamundi, due
capitani di cavallera e due di fanteria, un frate, tre giubilati, due piazze morte e infine un certo
Giacomo Domenico Benetti.

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Il suddetto colonnello Fernando de Grunemberg era già ingegniero delle fortificazioni del Regno
vent’anni prima, cioè nel 1682, come risulta dagli esiti di cassa militare di quell’anno (A.S.N.
Tes. Ant. Fs. 352). Per quanto riguarda il personale dei castelli e delle torri del regno, elenco
che sarebbe lunghissimo, ci limitiamo qui a elencare, a titolo esemplificativo, solo quello dei tre
castelli della città di Napoli e del Torrione del Carmine:

Castel Nuovo.

Castellano, il tenente generale Carlo Spinola d’Oria dei duchi di Sesto.


17 alabardieri del detto.
Tenente del detto.
Veditore dei castelli del regno.
Ufficiale della scrivania dei castelli.
Ufficiale maggiore della veditoria (‘ispettorato’) dei detti castelli del regno.
Due ufficiali della detta veditoria.
Un intrattenuto per Sua Maestà.
Pagatore dei castelli della città di Napoli.
Sargente.
Sacrestano.
Diacono.
Uditore.
Questurino (alguazil).
Carceriere.
Medico
Chirurgo
Barbàro.
Capo-mastro degli artiglieri.
9 artiglieri.
Ferraro.
Carpentiere.
Armarolo.
Archibugiero.
Monizioniero.
Sovrastante.
6 musici (‘oboisti’).
Tamburo.
Piffero.
4 portieri.
2 scolari (della scuola d’artiglieria).
Torriero della Torre di S. Vincenzo.

Castello di Sant’Elmo.

Castellano.
12 alabardieri.
Tenente.
Sargente.
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Sacrestano.
Diacono.
Medico.
Barbàro.
Capo-mastro degli artiglieri.
5 artiglieri.
Armarolo.
Ferraro.
Carpentiere.
Monizioniero.
Sovrastante.
Carceriere.
4 portieri.
2 scolari.
Fornaio.
Questurino.
Tamburo.

Castel dell’Ovo.

Castellano.
Tenente.
Diacono.
Monizioniero.
Medico.
2 artiglieri.
Carceriere.
Portiero.
Tamburo.

C’erano poi un monizioniero al Torrione del Carmine e 25 intrattenuti, generalmente tutti ufficiali
maggiori e generali, presso la persona del viceré.
Lasciamo ora per un po’ le cronache del Regno di Napoli e occupiamoci d’avvenimenti che su
quelle cronache influiranno. Quando Filippo V salì al trono, l'organizzazione militare spagnola
sembrò ai consiglieri del giovane sovrano non più consona ai tempi e da conformarsi ai canoni
francesi e in effetti la volontà di uniformare gli eserciti spagnoli, valloni e italiani alle ordinanze di
Francia era stata già espressa da Luigi XIV al suo ambasciatore a Madrid in una lettera del 6
gennaio di questo 1702. L'effetto però che si ebbe con l'applicazione di tali cambiamenti fu
esattamente il contrario di quanto si sperasse a Parigi, perché gli eserciti della Spagna, regolati
appunto da allora secondo regolamenti e consuetudini tipiche della mentalità statalista e
collettivistica francese e che oltretutto Filippo d'Angiò Borbone andava introducendo molto
velocemente, persero quelle loro precipue caratteristiche di individualismo, personalismo e ligia
fedeltà feudale che duravano dal Medio Evo e che probabilmente avevano sino allora costituito,
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insieme colla grande capacità di sopportare ogni privazione ubbidendo, il vero segreto del loro
secolare successo. Divenuti dunque anche i suoi eserciti moderni, compagini cioè in cui il
soldato, spersonalizzato e ridotto a un numero, perso quel deferente don con cui sempre ci si
rivolgeva anche al più umile dei fantaccini, non era più il soldato, bensì un soldato, la Spagna
vide il declino della sua potenza accelerarsi ulteriormente.
La trasformazione più evidente fu l'abolizione dei terzi di fanteria e la loro sostituzione con i
reggimenti; scompariva così anche la figura del mastro di campo e al suo posto ritornava quella
– molto meno gloriosa - del colonnello rinascimentale d’origine italiana; la nuova configurazione
del corpo di fanteria, ossia il reggimento, implicava la sua suddivisione in due o tre sotto-corpi
chiamati battaglioni, i quali potevano operare autonomamente l'uno dall'altro, tanto da acquisire
poi col tempo ognuno d'essi un suo stato maggiore. Una tendenza verso questo cambiamento
si era comunque manifestata in Spagna parecchio tempo prima che la Francia, per i noti motivi
dinastici, incominciasse a imporle i suoi canoni militari, e infatti all'inizio del 1681 si era già
parlato di una simile suddivisione dei terzi a Bruxelles, in occasione cioè della ristrutturazione
dell'esercito di Fiandra che fu poi pubblicata all'inizio di febbraio di quell'anno e il cui
ordinamento purtroppo non ci è stato dato di rintracciare; quello di Fiandra era, come forse
abbiamo già detto, l'esercito guida di tutti gli altri della corona di Spagna, data l'enorme
esperienza accumulata in un secolo e mezzo di guerre quasi ininterrotte, a tal punto che,
quando allora si voleva sostenere che un uso militare era buono e indiscutibile, bastava dire: Si
fa in Fiandra! In seguito, alla fine del 1693, si era prescritto che ogni terzo dell'esercito di
Catalogna venisse suddiviso appunto in due sotto-corpi chiamati prima, come sembra,
squadroni e poi definitivamente battaglioni, nome però questo storicamente improprio e incolto
perché esso era stato caratteristico del Rinascimento col senso di una formazione di fanteria
molto ampia, la quale includesse potenzialmente più reggimenti, e vedi appunto i battaglioni
(‘grossi squadroni’) svizzeri e tedeschi di parecchie migliaia di uomini e quello, ancora più
ampio, delle cernite, ossia delle milizie territoriali, del Regno di Napoli. Il primo di questi nomi,
cioè quello di squadrone, pur se anch'esso nato durante il Rinascimento nella fanteria svizzera
e tedesca, fu presto introdotto anche nella cavalleria da quella medievale borgognona, la quale
fu infatti la prima a disporsi sul campo in formazione quadrangolare, una forma di
combattimento che sarà poi mantenuta dai cavalli corazze in tutta Europa sino all’inizio del
Settecento; avendo poi all’inizio del Settecento la fanteria abbandonato del tutto le picche e
quindi anche le formazioni quadrangolari e raggruppandosi organicamente ora i fanti in
reggimenti e in suddivisioni di questi, cioè in battaglioni, fu il nome di squadrone stabilmente

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lasciato alla sola cavalleria, probabilmente perché questa più a lungo mantenne tali forme
quadrangolari sul campo di battaglia.
Le suddette trasformazioni furono però lente e infatti, per esempio, nel marzo del 1701 la
fanteria spagnola dell’esercito di Lombardia risulterà costituita da unità di 800 uomini l’una
chiamate nominalmente ancora tercios, mentre la fanteria dell’esercito alleato francese sarà
formata da battaglioni di 500 uomini ciascuno. L’esercito del Regno di Napoli non avrà pero il
tempo storico di recepire sostanzialmente i rilevanti cambiamenti tattici e organizzativi prescritti
dalla grande ordinanza promulgata da Filippo V, ma in realtà dettata da Luigi XIV, il quale volle
con essa uniformare gli eserciti della corona di Spagna a quelli più moderni ed evoluti della
Francia, e cioè l’ordinanza per l’esercito di Fiandra del 10 aprile 1702, la quale poi, con quella di
Spagna del 2 novembre dello stesso anno, sarà prima estesa all'esercito dell'Alta Italia e in
seguito, con una quarta anch'essa di Spagna, che sarà pubblicata il 28 settembre del 1704, agli
stessi eserciti iberici.
Sintetizzando brevemente e congiuntamente le due suddette ordinanze del 1702 - però nei soli
loro aspetti d’innovazione tattica, perché, per quanto riguarda quelli organizzativi e subordinativi,
non vuole essere la nostra una storia amministrativa, diremo che con le stesse si prescriveva
che la fanteria fosse suddivisa direttamente in battaglioni di 12 compagnie sensiglie, ossia di
semplici archibugieri (termine improprio per ‘moschettieri’), e una di granatieri; si notano ancora
10 picchieri per compagnia sensiglia, il che significa che le baionette ancora non erano state
adottate, mentre già dal 1698 i francesi avevano cominciato a sostituire le poche picche che
ancora s’usavano con le baionette dette à douille (‘a boccola’), sostituzione che sarà poi
completata nel 1703; ecco il piede del nuovo battaglione, dove l'estensione della compagnia
granadera, ossia di soli granatieri, a tutti i battaglioni costituisce apparentemente la più
importante innovazione introdotta fino a quel momento dai transalpini:

STATO MAGGIORE

Mastro di campo o colonnello.


Tenente di mastro di campo o Tenente colonnello.
Sargente maggiore.
Aiutante del suddetto.
Maresciallo d'alloggio (‘que tendrá lugar de theniente’.)
Cappellano.
Chirurgo.

COMP. SENSIGLIA
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Capitano.
Tenente.
Secondo tenente
2 sargenti.
Tamburo.
10 picchieri.
37 archibugieri (‘moschettieri’).

COMP. GRANATIERA
(piede omesso.)

Nel numero dei 47 archibugieri della compagnia sensiglia si comprendevano sei vantaggiati,
cioè tre caporali e tre lancie spezzate; lo stato maggiore prevedeva inoltre un altro aiutante per
ogni battaglione che si aggiungesse a formare cuerpo o reggimento con il primo e siamo
dunque in un brevissimo periodo in cui si tentò, senza successo, di transitare dal terzo alla
spagnola di 600/800 uomini al reggimento alla francese di 1.060 suddivisi in due battaglioni, e
non ancora sono previsti gli stati maggiori dei secondi e teoricamente anche di terzi battaglioni.
Questa suddivisione in battaglioni dei reggimenti avrebbe reso questi ultimi profondamente
dissimili dagli antichi reggimenti esistiti in Spagna prima dell'istituzione dei tercios e nel resto
d'Europa anche in seguito; infatti i reggimenti del passato erano stati corpi suddivisi
direttamente in compagnie, le quali potevano sì combattere tutte insieme o in distaccamenti
separati, ma sempre alle dipendenze di un unico stato maggiore; i due battaglioni del nuovo
reggimento invece sarebbero dovuti essere tanto autonomi l'uno dall'altro da essere nel
Settecento spesso impiegati su fronti diversi e lontani tra loro.
Per quanto riguarda la cavalleria, c'è subito da osservare che essa ora non si distingue più,
perlomeno nominalmente, in corazze e dragoni, bensì – appunto come in Francia – in cavalli
leggieri e dragoni; in effetti le pesanti armi difensive non erano più necessarie in considerazione
che non più in grado d’opporsi alla forza penetrativa dell'ormai evoluto e potente moschetto di
fanteria. Per questo motivo, cioè per non portare armi difensive, la nuova cavalleria di linea alla
francese si chiamava cavalleria leggiera, nome che infatti nel passato si era sempre dato sia ai
lancieri leggeri, sia agli archibugieri a cavallo e in genere a tutte quelle cavallerie armate di sole
armi offensive e di cavalli piccoli e agili. Questo non significa che in passato non ci fossero state
armi dalla gran forza penetrativa, come infatti era il vecchio moschetto di Biscaglia, del cui
declino abbiamo già detto; ma quel pesantissimo moschetto era allora affidato a un numero
limitato di soldati, cioè ai soli abbastanza robusti da portarlo e maneggiarlo, mentre ora il nuovo
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moschetto leggiero di fanteria era portato da tutti i fanti e inoltre i soldati di cavalleria non
sopportavano più, come nel passato, il grave peso delle armi difensive; infatti già nel 1675 in
Francia, in occasione di una fornitura di 1.800 petti e schiene di ferro (vulgo ‘corazze’) alle
truppe della Maison du Roi, si chiedeva che le stesse fossero sì a prova di moschetto, ma più
leggiere di quelle ordinarie. Resteranno, come abbiamo già detto, singoli reggimenti di corazzieri
a livello di corpi di guardia reale in tutti i principali principati europei, Francia inclusa, mentre
l'Austria conserverà l'uso del ’petto e schiena’ di ferro - se non più naturalmente di scarselloni,
spallacci e borgognotte - addirittura per tutta la sua cavalleria di linea, affiancandola però con
validissime cavallerie leggere del tipo degli ussari e degli ulani. La detta nuova cavalleria da
battaglia alla francese, cioè non più armata di armi difensive, era comunque ‘nuova’ per modo di
dire perché esisteva già dalla metà del secolo; era infatti nata dopo le esperienze della Guerra
dei Trent’anni e infatti l’ingegnere militare cap. Pietro Ruggiero, nel suo trattato pubblicato del
1661, già diceva i soldati montati da suddividersi in corazze e carabini; il secondo era nome
allora certamente ancora appropriato perché ai suoi tempi si trattava effettivamente di cavalleria
ancora armata di vere e proprie carabine, cioè di armi con accensione a ruota, anche se
qualche tempo dopo, come abbiamo visto, il Montecuccoli avrebbe parlato di cavalleria armata
invece di moschettoni, cioè di accensione a pietra. Comunque, a differenza dalla detta
sostituzione della carabina con il certo più semplice moschettone, trasformazione questa
dunque abbastanza veloce, l’altra, quella più cospicua, cioè l’abbandono pressoché generale
delle armi difensive da cavalleria (corazza e borgognotta), stava avvenendo invece molto
lentamente in Europa e infatti, perlomeno in questo 1702, vediamo la cavalleria dell’esercito di
Lombardia della corona di Spagna ancora ufficialmente suddivisa in cavalli corazze e dragoni
come nel passato.
In base alle stesse predette ordinanze del 1702 ogni squadrone di cavalleria sarebbe potuto
essere composto o di quattro compagnie da 30/35 soldati l'una o di tre da 45/50; il reggimento o
il corpo di cavalleria (trozo) poteva essere costituito da due, tre o quattro squadroni,
avvicinandosi dunque al reggimento di cavalleria francese, il quale contava allora nominalmente
500 uomini; lo stato maggiore del reggimento ricalcava quello del battaglione di fanteria,
mancando però del maresciallo d'alloggio e degli aiutanti supplementari; il piede della singola
compagnia comprendeva capitano, tenente, cornetta, maresciallo d'alloggio, tromba e il
suddetto numero di soldati.
Fu introdotto inoltre nell’esercito spagnolo anche il nome francese di brigate per le squadre in
cui erano suddivise le compagnie di cavalleria e si trattava ora di 3 brigate comandate quindi

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ognuna non più da un capo di squadra bensì da un brigadiere; a meno che non si trattasse di
una compagnia della guardia dagli effettivi doppi, cioè di circa cento uomini, perché allora le
brigate erano sei. Ma brigade si chiamava in Francia anche un grosso raggruppamento sia di
cavalleria (12 squadroni di tre compagnie ognuno) sia di fanteria (6 battaglioni per un totale di
circa 5mila uomini); un battaglione era costituito da 16 compagnie, quindi da circa 800 soldati,
mentre quelli della guardia erano fatti di sole tre compagnie ma da 150 uomini l’una. Allo stesso
modo si chiamava brigadiere anche chi comandava questi grossi raggruppamenti e la cosa era
avvenuta prima nella cavalleria perché, per quanto riguarda la fanteria, l’ordinanza che ne
istituiva brigate e brigadieri era stata più tarda e cioè del 30 marzo 1668.
Ma, tornando ora al predetto regolamento del 2 novembre, esso prescriveva, tra l'altro,
un’interessante uniformazione delle armi da fuoco portatili e ciò agli articoli 231 e seguenti:

Comandiamo che in tutta la Nostra infanteria, di qualsivoglia nazione che sia, non abbia più che
una sorte d'arme e un medesimo calivre, che sarà di dieci o dodici balle la libra, e, essendosi
trovato per il passato che li moschetti di Viscaia (Biscaglia) e altri a micchio erano di troppo
impedimento per la guerra di campagna, comandiamo che tutta la nostra infanteria sia armata
d’archibugio con pietre.

Poiché nelle fanterie della Spagna di fucili si era sinora fatto solo poco e particolare uso, tant’è
vero che sin’ora le grandi ordinanze precedenti rimasteci non ne facevano cenno, si può dire
che con questa si dava dunque anche per la Spagna un inizio ufficiale all'era della pietra focaia,
ossia a quella nuova arma di fanteria che appunto dalla detta pietra prenderà per sineddoche il
nome di fucile; non che le armi dette da pietra (in contrapposizione a quelle da miccio e a quelle
da ruota) fossero proprio una novità, essendo infatti l’accensione a scintilla già da circa due
secoli di uso comune nelle cavallerie europee, in considerazione che il cavaliere, avendo la
mano sinistra impegnata nella guida del cavallo, non poteva servirsi agevolmente d’armi da
fuoco né molto lunghe né dal maneggio complesso quale quello che richiedeva appunto l'uso
del miccio; ma si era quindi sempre trattato di congegni a ruota, i quali, applicati sia alle pistole
sia ai cherubini (‘carabine’) sia all’archibugio venatorio, avevano a loro volta il difetto di un
complicato e disagevole caricamento, e inoltre, più che del focile (‘silice’), ci si era sinora
soprattutto serviti della mina (‘solfuro di ferro in forma di pirite o di marcasite’), minerale meno
scintillogeno dell’altro. Le novità dunque ora consistevano non solo nell’uso generalizzato del
focile invece della mina, nell’accensione a grillo (‘grilletto’), la quale permetteva di fare a meno
del detto troppo macchinoso congegno a ruota e nell’estensione di questo tipo d’accensione
anche alla fanteria. In realtà questo nuovo uso era già comune da molto tempo per le armi da
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caccia, dove, già ai tempi di Luigi XIII, cioè verso il 1630-1635, Charles d’Albert duca di Luynes
gran falconiere del re, poi pari e conestabile di Francia, l’aveva rimesso in auge riproponendolo
al re con successo perché così si potevano fare tiri ai volatili e alla cacciagione in genere molto
più rapidi e quindi fortunati di quelli che sino ad allora si erano ottenuti con le tradizionali armi a
ruota a piccola molla inventate dai tedeschi e poi quelle a gran molla introdotte dagli stessi
francesi, senza contare poi i più antichi archibugi e bastons de chasse a miccio di stoppa bollita
o di carta artificiata o di fungo Agaricus secco (de Cleirac). Non era però vero che questa nuova
accensione a fucile e grilletto fosse stato inventata in Francia qualche tempo dopo il 1630, cioè
durante il regno di Luigi XIII, come sosteneva Aubert de la Chesnaye des Bois (op. cit.); infatti
già nel secolo precedente Eugenio Gentilini (1529-?), esperto d’artiglieria che agli inizi della sua
carriera militare aveva servito per lungo tempo nella marina del granduca di Toscana, l’aveva
potuta vedere e apprezzare a bordo delle tante navi britanniche che già nella seconda metà del
Cinquecento facevano scalo a Livorno, anzi aveva detto gli inglesi esserne gl’ingegnosi
inventori:

… Per quanto ho visto alcuni schioppi inglesi alli quali si dava il foco con prestezza per via d’uno
accialino et una pietra, il qual edificio (‘congegno’) è molto più presto che non sono le ruote et
anco il foco per via del micchio over corda stando in su la serpa (‘serpentino’), sia con
archibugio alla spagnola o alla italiana, per tanto io dico che gli inglesi sono huomini d’ingegno,
massime per haver anco visto abruciare alcuni fochi artificiali di molto mio gusto…. (Instruttione
de’ bombardieri etc. P. 76. Venezia, 1592)

Dunque la Spagna si adeguava con ritardo rispetto ad altri stati vicini, appunto come la Francia
e la Savoia, perché, per quanto riguarda la prima, già nel 1678 il de Gaya ne diceva dotate
compagnie di fucilieri e di granatieri francesi, oltre ad altre regolarmente presenti in quota nei
battaglioni di quella fanteria (vedi ordinanza del 1679), inoltre dell’alternativa d’armare i fanti
francesi di fucili invece che di moschetti parlava tranquillamente il Manesson nel suo trattato
pubblicato nel 1684 e infatti, dagli attestati di servizio del capitano di cavalleria napoletano
Domenico Dentice, risultano presenti maniche (fr. pelotons, ‘plotoni’) di fucilieri francesi nel
1684 sui campi di battaglia di Catalogna (Filamondo); insomma il fucile era stato prima d'ora
soprattutto l'arma dei cosiddetti fanti perduti o appunto fucilieri, ossia di quelle maniche
avanzate (fr. manposteries) che erano molto adoperate nelle scaramucce e, in caso di battaglia
generale (battaglia reale), davanti ai loro battaglioni per indebolire con un fuoco continuo il
nemico prima dello scontro frontale; a volte si riusciva a ottenere da dette maniche un fuoco
così intenso e preciso che il nemico ne risultava disordinato e sconfitto senza che ci fosse

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bisogna d'arrivare alla battaglia vera e propria; inoltre i transalpini usavano mettere fucilieri alla
testa dei battaglioni e delle compagnie in marcia d’ordinanza perché più pronti dei moschettieri
a reagire a improvvisi attacchi o inaspettati incontri col nemico e di fucile armavano anche le
partite di incursori di cui abbiamo già detto; per la sua maneggevolezza il fucile era stato
dunque all'inizio preferito nelle azioni che implicavano rapidità nell'attaccare e nel ritirarsi e
quind’anche in caso di sortite, sorprese, scorrerie o rapide occupazioni di postazioni nemiche;
l'uso del moschetto invece sopravvisse nella difesa di luoghi fortificati, dove tenere acceso in
permanenza il fuoco per la corda-miccia era certo più agevole che in campagna aperta. Di
questa nuova arma si era fatto in un primo tempo un uso, oltre che specializzato, anche elitario
e cautelativo; infatti un avviso dell'aprile 1675 pubblicato nella gazzetta Mercure Hollandois
dava notizia dell'armamento di fucili che si era dato alle guardie a cavallo del principe d'Orange;
inoltre sappiamo da un’ordinanza di Luigi XIV del 13 dicembre 1686 che in Francia era stato da
poco tempo già istituito un reggimento di fuseliers du Roy adibito a guardia e scorta
dell’artiglieria e perché si fossero armati questi fanti di fucile è del tutto evidente; cioè quando si
stava a guardia e a scorta di barili di polvere il pericolo portato da accensioni a fucile era
certamente molto trascurabile rispetto a quello invece molto incombente che avrebbe
rappresentato la presenza di micci accesi; infatti, come abbiamo forse già detto, prima
dell’adozione generalizzata del fucile la guardia delle artiglierie era sempre stata affidata a corpi
di picchieri, specie a quelli di lingua tedesca, perché erano gli unici che consideravano un tale
incarico non una noia infinita bensì un grande onore; e per lo stesso motivo di prevenire gli
incidenti da polvere furono tra i primi armati di fucile anche i granatieri, portatori di una sacca
piena di pericolose granate. Il suddetto reggimento francese fu poi regolato da due altre
ordinanze, quella del 15 aprile 1693 e quella del 25 novembre 1695 (Surirey de Saint Remy).
Infine, tra il 1699 e il 1700 la nuova arma, la quale, anche quando fatta particolarmente per i
granatieri o per i fucilieri della Maison Royal, non era di lunghezza e calibro sostanzialmente
diversi da quelli del moschetto, fu prescritta a tutta la fanteria francese.
Per quanto riguarda invece l’adozione del fucile da parte delle fanterie savoiarde, possiamo così
leggere tra gli Avvisi di Foligno in una corrispondenza da Torino datata 20 luglio 1689:

Reclutano li capitani di questi reggimenti le loro compagnie… parendo che Sua Altezza Reale
sia per fare (‘nominare’) un alfiere in ciascuna compagnia del reggimento di guardia e vuole che
la gente d’armi (‘corazzieri’) abbino un colletto di dante (‘una casacca di pelle’) come le guardie
del corpo a cavallo e che li soldati di questi reggimenti portino per l’avvenire focili, de’ quali se
ne fabbrica quantità per tale effetto.

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Paradossalmente, con l’adozione del fucile, la fanteria usciva dall’era delle ‘armi da fuoco’
perché per queste si erano sempre intese quelle ad accensione pirica, cioè per mezzo di fuoco
avvicinato all’arma con del miccio acceso, manualmente o con un serpentino che fosse; infatti
sino a quest’epoca le armi da polvere si erano sempre suddivise in armi da fuoco e armi da
ruota, generi quindi ora ambedue definitivamente sostituiti dalle armi da pietra.
Ma, tornando al suddetto regolamento spagnolo del 1702, aggiungeremo che la fabbricazione
del fucile doveva essere iniziata in ogni fonderia e fabbrica dei possedimenti della Spagna
secondo il modello che sarebbe stato loro inviato; e inoltre:

Comandiamo che il medesimo si eseguisca per li archibugi delli dragoni, moschettoni e pistole
delli soldati di cavalleria, secondo la misura e longhezza che si regolerà.

Anche le armi da taglio saranno da ora uniformi:

Si come sin qui le spade della Nostra infanteria sono state diforme e non conforme all'uso e
convenendo che le truppe stiano ben armate, comandiamo che in avenire tutte le guardie e
lame siano uniformi, almeno in ogni battaglione o corpo, avendo d'avere la lama (om.) di
lunghezza, e quella della baionetta (om.) e nella cavalleria e dragoni le guardie tutte uniformi e
le lamme larghe a due taglie, lunghe (om.) e questa misura e proporzione si darà in ogni
fabbrica dei Nostri Regni e Stati.

Purtroppo in questa traduzione in italiano fatta da Carlo Buonangury, comandante militare di


Piacenza, le misure sono state omesse; forse perché mancavano anche nel testo originario in
spagnolo e furono poi aggiunte con un decreto attuativo successivo che non abbiamo però
avuto la fortuna di reperire. Diversa da quella usata dalla cavalleria in passato appare dunque
questa spada a due tagli, in considerazione che la corazza era andato armato di una specie di
corta scimitarra detta cortellazzo, arma a un solo taglio, e, se ora si preferivano i due tagli, vuol
dire che la tattica usata dalla cavalleria era molto cambiata e che i gloriosi cavalli corazze
dovevano andare in pensione. Infatti la cavalleria pesante usata per sfondare lo schieramento
nemico non tornerà più in auge se non all'epoca napoleonica. Si noti pure il nuovo uso del
termine truppe, il quale, nato per indicare distaccamenti di cavalleria formati da più di una
compagnia, viene ora usato nel significato moderno che anche oggi gli attribuiamo e cioè quello
di soldatesche in generale.
Perché le ordinanze del 1702 non facciano molta distinzione tra cavalleria e dragoni e quella del
1704 ne farà, come vedremo, così poche non sappiamo spiegarlo; eppure allora la differenza
tra le due specialità era sostanziale, come si può leggere ne Il soldato a cavallo, trattato coevo
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del capitano Carlo de Rougeterre, laddove questo autore descrive l'equipaggiamento dei
dragoni di questo periodo:

I dragoni servono a piedi e a cavallo; i loro cavalli pel solito sono più piccoli che quelli della
cavalleria, non portano stivali forti, ma stivaletti semplici che si mettono sopra la scarpa, le loro
giubbe e i mantelli sono di color rosso, turchino, verde o giallo; per lo più, in vece del cappello, i
dragoni portano un berettone. Per arme i dragoni hanno un archibuso, una spada, una
bajonetta e al più una pistola all'arcione sinistro della sella; il luogo dell'altro serve per attaccar
la zappa, accetta, vanga e altri stromenti per lavorar la terra.
Le dette truppe non si servono di timpani né di trombe, ma di un tamburo per compagnia; quasi
tutti i reggimenti hanno gli oboè e quelli che li suonano, come i tamburi, sono a cavallo e
portano la livrea del colonnello e dell'istesso colore sono le copertine delle selle e la guernizione
delle fonde di pistole (om.) La cornetta o stendardo dei dragoni è tagliata in fiamma.
I dragoni sono truppe di gran valore e di una grande utilità e, avendo da combattere a piedi e a
cavallo, conviene che siano perfettamente ammaestrati nel maneggiar l'armi, nell'evoluzioni
dell'infanteria e servizio della cavalleria (om.) e, come hanno degli archibusi di buona lunghezza,
gli appoggiano sopra la sella del cavallo, il quale viene a servir di parapetto...

Non sempre poi i dragoni sono peggio montati della cavalleria:

...anzi vi sono dei reggimenti di dragoni che forse averanno più belli e migliori cavalli ed
equipaggi che la cavalleria e in più paesi si permette ad alcuni reggimenti di portar i timpani che
avessero acquistato sopra l'inimico.

Vi sono inoltre talvolta fanti montati che non portano però il nome di dragoni:

Vi sono nel numero delle compagnie d'ordinanza moschettieri e granatieri, che sono truppe di
una grandissima distinzione e che servono a piedi e a cavallo.

Armamento e funzioni dei granatieri a cavallo, sono spiegate nelle Instruttioni militari
dell’Alimari:

Li granatieri sono soldati a cavallo, armati di spada, pistolle, schioppo e d’una sacchetta con
dentro tre o quattro granate, che si avanzano velocemente contro de’ battaglioni o altri posti de’
nemici e, giunti in distanza proporzionata, danno fuoco alle loro granate, le lanciano dentro di
quelli per mettervi disordine e far apertura all’altra cavalleria di subintrare al favor di quello e
terminare di metter il nemico in scompiglio. L’uso di queta specie di cavalleria non è però ancora
introdotto in tutti gli esserciti.

C'è ora da spiegare perché la picca, la più gloriosa arma della fanteria, fosse ora alla sua fine e
le ordinanze suddette ne prevedessero pertanto solo dieci per compagnia, mentre ai non
lontanissimi tempi del Montecuccoli ancora se ne erano voluti per un terzo della compagnia. La

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sua lunghezza si era stabilizzata nella prima metà del Seicento ai 13 piedi veneziani (circa 14 di
Francia) esclusi il ferro apicale e il tallone di ferro o rame, insomma all’incirca 4 metri e mezzo,
misurando infatti il piede di Venezia cm. odierni 34,70; anche gli svizzeri e i francesi usavano
picche all’incirca di quella lunghezza. Essa era stata sin’ora considerata talmente essenziale e
irrinunciabile da essere definita da sempre la regina delle armi; infatti non solo aveva
caratterizzato nel tardo Medio Evo il risorgere dell'importanza della fanteria, bensì un periodo
tattico di ben due secoli e anche una maniera di concepire il soldato, la guerra e il valor militare
in generale, sia che quell'arme si maneggiasse, sia che contro di essa ci si lanciasse, tant'è
vero che anche il figlio di un re o di un viceré doveva iniziare la sua preparazione militare dal
maneggio della picca e spesso ufficiali maggiori o anche generali che fossero stati licenziati in
seguito alla riforma del loro corpo o dell'intero esercito, per dimostrare la loro affezione al
servizio e la volontà di riprenderlo, si arruolavano come semplici picchieri nell’attesa di essere
ricordati e riproposti a ruoli di comando. Era stata sempre un’arma importantissima nel
contrastare le cariche della cavalleria nemica, perché era risaputo che, mentre un cavallo ferito
da arma da fuoco, invece d’arrestarsi, maggiormente si animava all’attacco, uno che si sentiva
trafitto da un ferro di picca non sarebbe stato convinto a continuare ad avanzare nemmeno da
cento colpi di sperone; ciò non ostante si trattava ormai di un’arma inadatta al moderno fante,
principalmente perché questi doveva ora affrontare un nemico non più armato in massima parte
di deboli archibugi, ma di potenti e altrettanto maneggevoli moschetti di nuova concezione, armi
da fuoco dalla lunga gittata e dalla grande forza penetrativa; inoltre nelle strettoie dei lunghi
assedi che sempre di più caratterizzavano la guerra del tempo la lunghezza della picca ne
impediva un appropriato maneggio e quindi in quei frangenti era stato necessario usarle
accorciate di molto per poterle usare, chiamandole così mezze picche, snaturandone però lo
scopo originario dell'arma e cioè quello d'offendere con la sua punta il nemico alla maggior
distanza possibile. Il fante moderno in marcia era diventato insofferente non solo alle armi da
difesa inerenti all’uso della picca, cioè celata e corsaletto, ma anche all'ondeggiare stesso di
quella lunga e flessibile pertica, movimento che gli dava tanto fastidio all'omero e per questi
motivi nella guerra della Lega d'Augusta (1688-1697) si cominciò in Europa ad armare terzi e
reggimenti di fanteria senza picche interpolandoli tra altri che invece le avevano e, per poter
difendere egualmente i lati di un battaglione schierato sul campo di battaglia, era invalso l'uso di
fiancheggiarli con i cosiddetti cavalli di Frisia (o Frisa), i quali erano - e sono all'incirca tuttora -
certi legni quadrangolari lunghi da 5 a 7 piedi e grossi 3 o 4 pollici; in questi erano infilati dei
ciussi o brandistocchi o mezze picche, ossia dei lunghi ferri di circa 7 piedi di lunghezza,

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acuminati da ambedue le parti e con un gancio di ferro da un lato, il quale si conficcava nel
legno per tenere così il ciusso ben fermo; questi legni, posti orizzontalmente, si reggevano su
quelle due punte di ciussi che puntavano così verso il suolo e nel quale si conficcavano, mentre
le punte delle altre estremità puntavano diagonalmente verso l'alto, sia verso l'esterno del
perimetro protettivo formato da questi cavalli, sia verso l'interno dello stesso, dove però
ovviamente non servivano; questo stecconato di punte di ferro proteggeva dalle cariche della
cavalleria nemica i fianchi del battaglione, come se questo stesse chiuso in un forte, senza che
ci fosse pertanto bisogno ai fianchi delle picche e otte che i battaglioni così protetti avevano una
potenza di fuoco superiore a quella delle formazioni in cui tradizionalmente una parte dei fanti si
presentava ancora armata di picche.
Questi cavalli di Frisia (così chiamati perché forti come i famosi e giganteschi equini della Frisia,
oggi detti ‘cavalli olandesi’) avevano alle due estremità del legno un anello di ferro, in modo che,
dovendosi spostare il battaglione sul campo e afferrando ogni soldato con ambedue le mani gli
anelli di due legni consecutivi, l'intero perimetro di difesa poteva essere spostato agevolmente
insieme col battaglione; anche durante la marcia in campagna il trasporto di questi attrezzi era
agevole, perché ogni terzo o reggimento si portava i suoi, ponendo i legni in un carro e
affidando a ogni soldato in marcia, liberato ormai dall'ingombro della forcina da moschetto e da
altri attrezzi da lavoro, uno dei ciussi di ferro, di cui egli poteva anche servirsi, in caso di sosta o
di servizio di sentinella, per poggiarvi il moschetto in verticale, approfittando del gancio predetto,
e così riposarsi. I cavalli di Frisia non si mettevano dietro il battaglione schierato in campo,
perché la linea di fronte da questo costituita e formata da più terzi uniti si usava ormai lunga e
per la cavalleria nemica non era facile aggirarla per assalirlo alle spalle; al limite poteva essere
conveniente porne solo dietro le due estremità della linea di retroguardia, ma, quando il terzo
era solo in battaglia, allora bisognava proteggerlo con i cavalli di Frisia anche da dietro, in
considerazione che facilmente aggirabile dalla cavalleria. Quest'uso dei cavalli di Frisia, il quale
nei tempi passati era stato spesso tenuto da file di carri posti appunto ai lati della fanteria
ordinata in battaglia, non avrà però fortuna per molto tempo e presto il servirsi di quei pur
utilissimi attrezzi sarà limitato a trinceramenti, batterie, barricate e tagliate di difesa, in
considerazione che la necessità di mobilità veloce dei battaglioni sul campo diventerà sempre
maggiore, sia per potersi così sottrarre al sempre più rapido e potente fuoco del nemico, sia per
effettuare improvvisi e veloci attacchi alla baionetta.
Ma la spinta finale all’abbandono della picca fu data appunto dall’invenzione della baionetta, un
nuovo e semplice accessorio del moschetto – presto del fucile - che, anche se non in tutto,

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sostituiva non solo la picca, ma anche la spada, consistendo in una lunga e acuminata
squarcina lunga circa un piede di Francia, quindi all’incirca quanto quella del pugnale di cui il
fante pure disponeva, e larga un pollice, con un manico di legno di 8/9 polllici inseribile
dapprima direttamente nella canna del moschetto, come si prese a fare nell’assalire le trincee
nemiche durante la Guerra dei Trent’anni:

… come pur talvolta, in vece di forcina, costumasi far portar al moschettiere un’asta ferrata,
quale doppo lo sparo, ponedo in bocca al moschetto, se ne serve per brandistocco (A. Porroni,
Trattato universale ecc. L. VI, p. 318).

Ma, poiché in questa posizione impacciava un secondo caricamento dell’arma, in seguito si


escogitò d’inserire la baionetta in due anelli di ferro posti sotto l'estremità anteriore della cassa
dell’arma da fuoco (o per lo meno questo fu il tipo adottato dalle fanterie della Spagna, mentre a
Saint-Étienne, in Francia, le baionette si fabbricavano anche con differenti tipi d’innesto), in ogni
caso però in modo che tutta la lama sporgesse avanti alla bocca della canna dell'arma;
insomma in tal maniera il fante con un solo strumento era armato non solo d’arma da fuoco, ma
anche di una specie di partigiana da usare negli scontri all’arma bianca e non aveva così più
bisogno di portare la fastidiosa spada, la quale, a causa della sua pendula lunghezza, gli dava
non poco impaccio e fastidio durante le manovre e la marcia; inoltre con la baionetta si poteva
anche andare alla fascinata, ossia a tagliar sarmenti e ramoscelli per farne fascine, materiale
tanto necessario agli eserciti, specie se assedianti, senza essere perciò costretti a portarsi
addosso altri attrezzi da taglio, né a doversi slacciare la spada e lasciarla per terra durante quel
lavoro. Anche se in realtà, nel contrasto alla cavalleria, la corta baionetta riusciva a sostituire la
lunghissima picca solo in una maniera molto più pericolosa per il fante che non fosse ben
addestrato a schivare la carica del cavallo nemico, specie del lancere, la sua introduzione fu
importantissima per la tattica delle fanterie, perché significava che il moschettiere – poi fuciliere,
per difendersi dalle cariche della cavalleria nemica, non aveva più bisogno di smettere di
sparare e correre a rifugiarsi dietro i suoi camerati picchieri, ma poteva farlo da sé, anche se
indubitabilmente con una maggior dose di coraggio di quanto gliene occorresse prima.
Il subentrato uso dei cavalli di Frisia in luogo delle picche fu così spiegato nel 1692 dal da noi
già citato Alimari:

Sin a questi tempi è stata l’infanteria composta di due specie di milizia, cioè picchieri e
moschettieri; quelli fanno la lor funzione colla picca e questi col moschetto. Al presente è stato
da molte nazioni quasi che abbandonato l’uso della picca e in sua vece sostituito l’armar la
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fronte de’ battaglioni con cavalli di Frisia e i soldati, oltre lo schioppo, con la baionetta in vece di
spada. Il cavallo di Frisia è un picciolo trave tagliato a quattro o sei faccie, di lunghezza d’otto o
dieci piedi, sforato per il traverso con tanti forami - alternatamente fra loro equidistanti – quanti
sono li soldati che con quello si devono coprire; dentro detti forami si ripongono brandistocchi
(‘spiedi d’arme’) o mezze picche ferrate con punte d’ambe le parti, quali si fanno portar a
cadaun moschettiere oltre il moschetto. La baionetta è un coltello di lunghezza d’un braccio in
circa, tagliente da ambe le parti e pungente, col manico aggiustato in modo che può entra
dentro la bocca dello schioppo, in modo che, doppo haver tirato una o più volte con lo stesso al
nemico, può il soldato mettervi dentro la canna la baionetta e presentarsegli avanti armato poco
meno che della picca…

Con l’adozione della baionetta, la fanteria inglese si liberò dunque anch’essa della picca, ma
non della spada e per il semplice motivo che, approfittandosi probabilmente dell’innata
noncuranza del pericolo sempre dimostrata dal soldato inglese, già non ne era stato dotato:

… I fantaccini non si servono per nulla di spade e, dopo aver scaricato, si battono a colpi di
calcio di moschetto… (de Gaya).

Restavano comunque ancora in uso armi inastate utilissime nella guerra di trincea, nella difesa
delle brecce e negli abbordaggi, quali mezze-picche, bastoni ferrati a due punte, raffi, forconi,
ronconi o falcioni che prendevano a modello gli attrezzi agricoli.
L'abbandono della picca non rese però particolarmente più agile e individuale il modo di
combattere della fanteria, arma che resterà ancora per secoli vincolata a rigidità di evoluzioni e
di maneggio d'armi, come spiega il predetto de Rougeterre nel distinguere la diversità del
combattere a cavallo:

... però vi è la differenza, perché i soldati a cavallo adoprano il moschettone, le pistole e la


spada quando e conforme lo richiede l'occasione, senza regola veruna, ma i fantaccini, nel
maneggio del moschetto e della picca come nelle loro evoluzioni, osservano i loro tempi e
istruzioni particolari...

In effetti qui il de Rougeterre sembra dimenticare la tattica del caracollo, comune anche alla
cavalleria, la quale consisteva appunto in una manovra simile a quelle praticate comunemente
dalla fanteria, manovra però che non ci dilungheremo a spiegare, essendo la tattica materia
diversa da quella che stiamo qui trattando.
Infine, per ciò che concerne l’artiglieria, l’evoluzione più importante fu in questo periodo quella
che riguardò il treno (dal fr. train), ossia il traino d’essa, reso più agile e veloce perché, essendo
ora le bocche da fuoco da campagna più leggere, esse si trainavano sempre di più con cavalli e

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muli e sempre di meno con i tradizionali e lentissimi buoi; ecco infatti a tal proposito una
corrispondenza da Milano del 18 aprile 1703:

Un gran numero di cavalli e muli sono in mossa per lo treno dell’artiglieria delle truppe di questo
Stato che si manda per l’assedio di Bresello…

I buoi si usavano però ancora per trainare le artiglierie pesanti, come quelle che i gallispani
porteranno all’assedio della sempre contesissima Casale all’inizio dell’estate del 1704:

(Casale:) Si sono qua mandate 300 carra a 6 bovi dal Melanese e 200 altre paja di bovi sciolti
per poter tirare tutt’il treno d’artiglieria e portar le bombe… e 1.000 guastadori…

Come abbiamo già accennato, l'influenza che le predette ordinanze possono aver esercitato
sugli ordinamenti militari del Regno di Napoli sembra esser stata solo scarsa e indiretta, nel
senso che quella del 2 novembre 1702, avendo per oggetto l'esercito dell'Alta Italia, non
riguardava i presidi meridionali; le ordinanze spagnole del tempo infatti si facevano di solito per
un singolo esercito e non per tutti quelli che si avevano nei vari teatri di guerra; troviamo infatti
per esempio un reale ordine del 1701, il quale si applicava al solo esercito dello Stato di Milano
e stabiliva un solo sargente e due soli caporali per ogni compagnia sia di cavalli corazze, sia di
dragoni, e un altro del 30 giugno 1703 che riduceva il piede delle compagnie di cavalleria
milanese e vallona a un massimo di 40 uomini montati e tre smontati, includendovi i due
suddetti caporali, ma, evidentemente, non gli altri ufficiali. Oltre a ciò c'è da osservare, a fronte
della lentezza di Napoli a recepire, anche se di riflesso, i nuovi ordinamenti, una notevole
prontezza invece di Milano, in considerazione che la Lombardia era tanto spesso campo di
battaglia; per esempio, in un avviso da Milano datato 6 dicembre 1702, cioè circa due settimane
prima che l'ordinanza per l'Alta Italia venisse ufficialmente pubblicata nel capoluogo lombardo,
così si scriveva:

... fra brieve si farà nuova mostra per ridurre li terzi e reggimenti a 12 compagnie per
ciascheduno.

Addirittura quest'ordinanza del 2 novembre era data alle stampe a Milano prima della sua
stessa promulgazione a Madrid:

(Milano, 1° novembre 1702:) Si sono stampati 236 capitoli di nuove ordinanze militari che si
deono osservare dalle nostre truppe, secondo il costume de’ franzesi...
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Alla stessa maniera un altro precedente avviso, datato questo 5 aprile 1702, ossia quando
nemmeno l'ordinanza di Fiandra era stata ancora pubblicata, informava di sostanziali
trasformazioni che incominciavano a investire anche l'esercito di Lombardia:

Si va a poco a poco dirigendo il piede della soldatesca di quest'esercito come quello di Francia,
essendosi formato un reggimento intero di fucilieri coll'aggiunta di una compagnia di granatieri.

C'è dunque da pensare che queste grandi ordinanze altro non erano che un riassunto di
molteplici ordini reali informali dati in precedenza e già in via d’applicazione. Premettendo che
detta ordinanza del 2 novembre attestava esistere in quel tempo nell'esercito di Lombardia due
terzi di napoletani e cioè quelli dei mastri di campo fra’ Tomaso Caracciolo e Ciarletta
Caracciolo, riprendiamo ora le nostre cronache militari del Regno di Napoli in quest'anno 1702.
Lunedì 5 giugno nel cortile del Castel Nuovo si dette la rivista alle sei compagnie di fanteria
spagnola del terzo chiamato de la Mar de Nápoles venute dal Milanese; erano presenti, oltre al
loro colonnello e cioè Lucas de Guzman y Spìnola, secondogenito del duca di S. Pietro,
trasferitosi a Napoli con loro, il viceré duca di Medinaceli, Filippo Spìnola marchese de los
Balbases e molta nobiltà. Sia il mastro di campo de Guzman y Spìnola sia il marchese de los
Balbases torneranno però molto presto in Lombardia e infatti all’inizio del mese seguente
troveremo il primo di guarnigione a Cremona con il grosso del suo terzo e il secondo alla testa
dell’ordinanza costituitasi per scortare il re da Milano al fronte; al marchese poi il 5 luglio Filippo,
poiché c’era l’uso che il sovrano ricompensasse coloro che lo scortavano nei suoi viaggi,
ripristinò il soldo di castellano proprietario del Castel Nuovo di Napoli, soldo che gli era stato
sospeso evidentemente a seguito dei suoi nuovi impegni assunti in Lombardia.
La notte di sabato 10 giugno si praticò a Napoli la massima vigilanza e si rondò per tutta la città
e si mutarono di notte le guardie al Torrione del Carmine, poiché era corsa voce che si
macchinava una nuova congiura, con cui ci si proponeva di sorprendere i tre castelli presidiari
della capitale e nella quale sarebbero stati implicati soldati catalani e granadini, mentre dai
casali dei sobborghi di Napoli sarebbe dovuta venire in città molta gente a dar appoggio alla
sommossa; furono pertanto cautelativamente imprigionate molte persone d'ogni sorta, tra cui
anche titolati, ma nulla poi accadde.
La presenza nella capitale di tanti soldati di così varia nazionalità continuava a creare degli
inconvenienti e parecchi erano infatti i crimini e i disordini che ne nascevano:

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(Napoli, 11 giugno:) Oggi alli Quartieri (quartiere centrale di Napoli) è stato ammazzato un
soldato franzese da un altro soldato di quei che stanno agli Studii Pubblici della nuova leva de’
napoletani.
... si pubblica bando contro l'uso di spada dei soldati e il mancato ritorno ai quartieri all'Ave
Maria. Questo ordinamento è stato preso per rimediare ai ladronecci e uccisioni che da alcuni
giorni hanno incominciato a fare gli soldati spagnuoli. Oggi a Porto (altro quartiere di Napoli) è
stato ammazzato un altro tavernaro da un soldato spagnuolo; la notte passata agli Quartieri
sono stati ammazzati 2 soldati franzesi.

L'assassino del detto tavernaro, un soldato catalano, sarà archibugiato nel pomeriggio di lunedì
26 giugno al largo del Castel Nuovo, dopo esser stato legato a un palo come il solito; si era
frattanto saputo che aveva ucciso dopo aver mangiato e bevuto all'osteria della vittima,
probabilmente non gli era piaciuto il conto presentatogli. In altri tempi, ossia in tempi asburgici e
non angioini, difficilmente, come abbiamo già detto, un soldato spagnolo che avesse ucciso un
napoletano sarebbe stato punito con la morte; più facilmente sarebbe stato rinchiuso nel
carcere di San Giacomo, il quale era riservato ai soli spagnoli, nell’attesa di un giudizio che
sarebbe stato più e più volte rinviato e alla fine, passata la pubblica indignazione, se la sarebbe
anche cavata a buon mercato; ma si sa che i soldati spagnoli erano pochi nel mondo e quindi la
loro vita era particolarmente preziosa.
Un altro avviso napoletano, questo del 20 giugno, ribadirà la severità del suddetto bando contro
le intemperanze dei soldati:

Venerdì si è pubblicato bando con pene gravissime contro qualunque soldato e di qualsiasi
nazione che ardisse in avvenire por mano alla spada, per causa grave o leggiera che fosse, e
contro a coloro che la sera al tocco della campana non si saranno ritirati a’ loro quartieri e ciò
per rimediarsi a i ladronecci e uccisioni che da alquanto tempo si sentivano.
Nel medesimo dì dopo pranzo schierossi la milizia francese innanzi la piazza del Real Palagio,
dove, in presenza del signor Viceré e altri supremi capi militari, ferono i soliti esercizii con tanta
destrezza e leggiadria che non vi fu alcuno che non fosse soprafatto dalla maraviglia...

E ancora, in data 27 giugno:

Il Reggente della Vicaria mastro di campo don Rodrigo Correa ha pubblicato diversi bandi per la
tranquillità di questo Comune e compensare gli abusi che spesso avvenneno per lo portar delle
spade che indifferentemente faceasi, perlocché vengono proibite a chiunque non è gentiluomo
o non ha mestiere in Corte, fuori delle altre armi da fuoco e da taglio già vietate; che niuno vada
per la Città di notte, vagando con suoni e canti e altri ordini profittevoli per lo pubblico...

Nel pomeriggio di venerdì 16 giugno i fanti francesi, schieratisi nella piazza del palazzo reale, si
esibirono in esercitazioni al cospetto del viceré:
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… ferno i soliti esercizij con tanta destrezza e leggiadria che non vi fu alcuno che non fosse
soprafatto dalla maraviglia.

In quel mentre una lettera proveniente da Novara con la data del 14 giugno informava frattanto
che 50 granatieri e 150 fucilieri del terzo napoletano Caracciolo - non sappiamo se si trattasse
di quello di Tommaso o di quello di Ciarletta, guidati dallo scrivente, ossia il capitano Angelo
Pisanelli, e da altri due loro capitani, avevano convogliato da quel castello 400 prigionieri
alemanni da loro catturati in Valdazia, ossia nel Comasco; in un’altra missiva si comunicava che
il re aveva nominato il marchese di Torrecuso e altri suoi aiutanti di campo.
Verso la metà dell'anno si disse che sarebbero presto passati a Napoli altri due reggimenti di
cavalleria della Lombardia e cioè il Milano e l’Òrdenes, ma ciò non avvenne e infatti era
improbabile che, infuriando la guerra nell’Alta Italia, soprattutto con l’assedio di Mantova,
soldatesche colà così necessarie venissero distolte e inviate nel regno; al contrario nella notte
tra lunedì 19 e martedì 20 giugno lasciarono il porto partenopeo sei tartane che portavano il
terzo dei catalani del mastro di campo Blas de Trincheria giunto in regno, come già sappiamo,
appena il 28 marzo precedente:

Oggi si sono imbarcati sopra alcune tartane 900 micheletti spagnuoli, gli quali colle loro
impertinenze aveano posto in romore tutta la Città. Per questa cagione il signor Viceré ha
stimato a proposito di mandarli altrove e, quantunque, già sieno imbarcati, non si sa nemmeno
ancora dove deano andare. Dicesi che vadano in Sicilia, però si crede che vadano a Ceuta in
Africa per digerirvi il mal talento che li fa fare tante impertinenze...

Invece furono sbarcati a Cadice, perché in effetti sarebbe stato un vero spreco decentrare così
tanto o addirittura confinare questi ottimi - anche se impertinenti - soldati.
Alle tre di notte del detto giorno 20 tornarono a Napoli le quattro galere napoletane che avevano
accompagnato il re a Finale, porto che avevano lasciato solo il 15 precedente, e portavano con
loro il cavaliere gerosolimitano Carlo Carafa, scelto dal re come nuovo governatore d’Orano.
Qualche giorno prima, proveniente da Tolone e carico di bombe e altri ordigni di guerra, aveva
fatto breve sosta a Napoli un vascello francese, il quale si era poi presto rimesso in viaggio
verso l'Adriatico, dove andava a incontrarsi con le fregate francesi che, sotto il comando del
cavalier de Forbin incrociavano in quel mare per intercettare i rifornimenti marittimi diretti a
Fiume e aTrieste per il campo degli imperiali.
La notte tra giovedì 22 e venerdì 23 il sargente generale di battaglia duca d'Atri, preceduto da
due compagnie di dragoni, lasciava Napoli per le due province d'Abruzzo, dove si recava a
prendere possesso della sua nuova carica di vicario generale, mentre lettere da Madrid
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informavano il viceré che il re aveva nominato i suoi aiuti di campo e tra essi c'era il napoletano
marchese di Torrecuso. Lunedì 26 arrivò a Milano da Napoli a servire da venturiero un altro
nobile cavaliere, Nicolò de Sangro, il quale consegnò la rinuncia alla sua capitania nel
reggimento delle guardie d’Italia inviata dal principe di S. Severo per motivi di salute; il re lo
sostituì dunque concedendo la sua compagnia al marchese di S. Ermo, il quale già serviva in
quel reggimento, ma con piazza sensiglia, cioè senza alcun grado di comando; comandò inoltre
il sovrano, con suo ordine del 27, che tutti coloro che lo avevano seguito in Lombardia per
servire da venturieri si scegliessero un corpo - di fanteria o cavalleria che fosse – nel quale
partecipare quella campagna.
Martedì 27 giugno tornò a Napoli dalla Catalogna il governatore di Girona, cioè l'anziano Orazio
Coppola dei duchi di Canzano, il quale il 5 aprile precedente era stato nominato colà dal re
mastro di campo generale del treno di artiglieria ed era ora venuto a esercitare qui in regno
l’incarico di nuovo governatore generale dell'artiglieria, posto che il Cantelmo si apprestava a
lasciargli per ritenere solo quello di mastro di campo generale; ma c'è qui da spiegare che il
governatorato generale dell'artiglieria, come del resto quello delle galere o d'altro ancora, era
una carica pro interim che si dava quando non si voleva o si poteva ancora nominare il relativo
capitano generale e ciò perché quest'ultimo grado era incarico importantissimo e remunerato
con così laute prebende che il sovrano, prima di concederla a qualcuno, doveva esser certo di
farlo alla persona e al momento politicamente più convenienti, quando cioè la cosa non
suscitasse eccessivo malcontento in altri pretendenti; oppure, talvolta il capitano generale era
diventato ormai troppo vecchio per esercitare effettivamente questo suo ruolo, né d'altra parte si
poteva giubilarlo perché uomo troppo autorevole, e allora si nominava appunto un governatore
che ne facesse le veci nel servizio attivo. Mercoledì 28 arriverà poi a Napoli una feluca
proveniente da Genova e recante la notizia che il nuovo reggimento di cavalleria napoletana
della guardia reale era arrivato sì a Finale, ma aveva dovuto sostenere nel viaggio una forte
tempesta di mare, da cui alcuni di quei bastimenti erano usciti con vele squarciate e corredi
spezzati; 100 di queste guardie del corpo reali giungeranno per primi a Milano non più tardi del
12 luglio. Lo stesso mercoledì, scortate da quattro galere di Sicilia, giunsero cinque tartane sulle
quali si sarebbero dovute imbarcare le dieci compagnie di 50 uomini ciascuna e la piana
maggiore che formavano il terzo di fanteria napoletana di nuova leva sotto il mastrato del
sargente generale di battaglia fra’ Domenico Recco, corpo destinato a Palermo in rinforzo dei
presidi di quel regno, anch'esso oggetto delle minacce austriache; l’imbarco avvenne sabato 1°

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luglio e la partenza per Palermo con vento favorevole la sera del lunedì 3; ma a tal proposito
vennero poi dalla Sicilia nuove spiacevoli:

Si sono imbarcati molti soldati Napolitani fatti nelli Regij Studij, lo quali vanno in Palermo e
Messina sopra alcune tartane; li quali, essendo arrivati in quei paesi, le dette città non li
volevano ricevere, facendoli stare tre giorni senza fare ne sbarcare ne meno l'ufficiali e senza
darli nessuno rinfresco; che, dopo elasso detto tempo, li riceverno.

Che brutta fama che accompagnava dunque le soldatesche napoletane, persino i più
meridionali siciliani non li volevano come truppe di presidio! In effetti si risolse poi il problema
ambientale lasciando questo corpo di presidio a Milazzo. Nel Regno di Napoli si stava intanto
per arruolare, come abbiamo già ricordato, un secondo terzo, da porre questo sotto il comando
di Gioseppe Piccolomini d'Aragona principe di Valle, e già all'inizio di questo stesso luglio il
sunnominato Orazio Coppola si era immediatamente messo all'opera per rinforzare con grosse
bocche da fuoco le marine più esposte a eventuali attacchi dei cesarei, ossia degli imperiali,
attacchi che in effetti non avverranno.
La mattina del predetto 1° luglio arrivò una filuca da Genova che portava buona notizia che i
bastimenti che portavano il reggimento di cavalleria napoletana delle guardie del corpo, dopo
aver dovuto affrontare una forte tempesta di mare, erano già approdati, salvi anche se non sani,
a Finale Ligure e c’è qui da notare questo termine bastimenti, sineddoche di recente
introduzione a indicare quelli che sino al secolo precedente si erano chiamati generalmente
vascelli; dell’arrivo a Milano dei primi 100 uomini di questo reggimento darà poi notizia un avviso
milanese del 12 seguente. Ancora il 1° luglio, accompagnata da una galera napoletana, salpò
da Napoli una tartana carica di soldatesca e d’ordigni bellici destinati al potenziamento della
fortezza d'Ischia; frattanto alla fine di giugno era arrivata a Napoli notizia di un’importante vittoria
sugli olandesi ottenuta dai francesi comandati dal conte di Borgogna, i quali avevano costretto il
nemico a ritirarsi con gravi perdite sino a Nimega.
Da un avviso di Milano del 5 luglio si seppe che il re aveva ordinato ai cavalieri napoletani che lo
avevano seguito dal regno come volontarij di scegliere il reggimento dell'esercito a cui
aggregarsi; qui è da notarsi il nuovo termine di volontari che sostituisce quello antico di
venturieri e forse si tratta di un ennesimo francesismo; ma non bisogna dimenticare che i
venturieri combattevano a proprie spese, mentre i moderni volontari prendono regolarmente il
soldo militare. La sera di venerdì 7 luglio il reggimento francese di Berry, il quale era di stanza a
Pozzuoli, fu a eseguire gli esercizi militari nel largo di Palazzo al cospetto del viceré, il quale,

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accompagnato da alcuni supremi capi militari, era sceso a piedi nella piazza per osservarlo più
da vicino.

(Sabato, 8 luglio:) Oggi, mentre nel largo del Castello si stava legando al palo per essere
archibugiato un soldato spagnuolo disertore, che con altri quattro similmente disertori spagnuoli
aveva giocato ai dadi la sua vita per ordine del magistrato, Sua Eccellenza gli ha fatto la grazia
ed è stato mandato alle carceri di San Giacomo.

Quest'avviso dimostra una volta di più quanto abbiamo già detto a proposito delle condanne
inflitte a soldati di nazionalità spagnola; qui c'è però da spiegare che, in caso si dovessero
punire gravi reati militari collettivi, quali la diserzione o l'ammutinamento, era antico uso
obbligare i soldati rei a una sorta d’auto-decimazione; essi dovevano cioè giocarsi la vita ai dadi,
il maggior perdente sarebbe stato regolarmente giustiziato e gli altri tre o quattro giocatori d’ogni
gruppo avrebbero avuto pene meno severe della morte. Così era avvenuto dunque in
quest'occasione, ma, trattandosi di un militare spagnolo, anche il quinto soldato viene salvato,
non facendogli mancare quindi la grazia del viceré, grazia che doveva però essere concessa
all'estremo momento in modo che il condannato, se non la morte, provasse perlomeno di quella
il terrore. In realtà questo metodo della fatalità del giuoco era adoperato più spesso per i
reclutamenti e più avanti ne parleremo.
Partito dunque il terzo dei catalani del mastro di campo Blas de Trincheria, restavano però,
come sappiamo, in regno altri terzi di fanteria spagnola, tra i quali uno detto gli Rossi e un altro i
Turchini, nomi chiaramente derivanti dal colore di fondo delle loro uniformi; si trattava di corpi di
fanteria ordinaria, ma d’origine provinciale, come si legge nel de Clonard. In questo periodo era
poi di stanza a Fondi, un territorio molto importante per la difesa del regno in considerazione
che vi esisteva un comodo passo per accedervi con un esercito dallo Stato della Chiesa, una
tropa (lat. turba), ossia distaccamento, di cavalleria catalana composto di due compagnie di
dragoni del reggimento Velbalet, le quali, per ordine dato dallo stesso Filippo V il precedente 27
aprile di questo 1702, vi erano state inviate sotto il comando dei capitani Pascal Mulet (Motet;
l'abbiamo già incontrato) e Carlos Segun; nel successivo 1703 altre tre compagnie di dragoni
del Velbalet raggiungeranno Fondi per unirsi alle prime due e si tratterà di quelle dei capitani
Ráfael Mulet (Motet?), forse congiunto del detto Pascal, Geronimo Portocanero (sic) e Fermin
Lopes de Jerés.
In questo periodo, oltre ai tre già menzionati terzi di fanteria napoletana e alle compagnie delle
guardie del corpo a cavallo, servivano nel Milanese il tradizionale trozo di cavalleria napoletana,
ormai però detto reggimento, e ora comandato dal più volte da noi nominato colonnello Gaetano
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Coppola, corpo che alla fine del 1701 era stato acquartierato a Pizzighettone, e un terzo di
fanteria spagnola costituito con compagnie di quello fisso di Napoli, i quali ultimi due corpi
ritroviamo, nel luglio 1702, far parte del corpo d'armata dislocato a Rivalta sul Mincio nel
Mantovano sotto il diretto comando del governatore principe di Vaudemont; il predetto
reggimento Coppola, così come informerà un avviso milanese, nel corso dello stesso luglio si
trasferirà poi nel campo alleato presso Mantova, campo dove pure perverrà la fanteria
napoletana di quell'esercito. In Fiandra troviamo invece un reggimento di cavalleria napoletana,
il Brancaccio, altro cognome questo che, come il Caracciolo e il Carafa, è tra i più ricorrenti nella
storia militare napoletana.
Verso il 10 luglio lasciarono il porto di Napoli due galeotte francesi e una napoletana col compito
di costeggiare il regno e guardarlo dai corsari barbareschi, fino a eventualmente unirsi ai già
mentovati vascelli francesi agli ordini del cavaliere de Forbin (Claude Forbin de Janson, come
precisa il Niccolini), i quali incrociavano allora nell'Adriatico e nello Ionio con il duplice compito di
far fallire eventuali tentativi di sbarco austriaci su quelle marine orientali del regno e
d'intercettare legni che, risalendo l'Adriatico, portassero ai porti austriaci di Trieste, Pola, Fiume,
Segna ecc. rifornimenti, specie granari, destinati all'esercito cesareo; giunse il 12 luglio a Napoli
nuova - confermata da avvisi successivi - che da questa flotta erano sbarcati a Brindisi 800
soldati fanti di marina francesi, di cui parte erano entrati di guarnigione nel locale castello, parte
nella fortezza dell'isoletta situata davanti a quel porto e parte era rimasta a guardia della città;
furono anche sbarcati un mortaro, 1.500 bombe e altri ordigni bellici e poi ancora altri armamenti
e soldati a Trani e a Barletta, 100 per il primo castello e 100 per il secondo; evidentemente si
temeva allora uno sbarco nemico sulla costa pugliese e già il 16 giugno precedente era stato
inviato da Napoli un distaccamento di 30 fucilieri per rinforzare il presidio del castello di Bari,
castello in cui ancora prima erano stati anche mandati alcuni riformati spagnoli.

(Napoli, mercoledì 12 luglio:) Oggi uno de’ reggimenti spagnuoli che chiamano los Colorados (‘i
Rossi’) ha fatto gli soliti esercizii militari innanzi alla piazza del Palazzo Reale con molta
destrezza e disciplina.

Ciò al cospetto del viceré come il solito. C'è in quest'ultimo avviso da notare sia l'uso del nome
reggimento, il quale stava evidentemente soppiantando quello di terzo ancor prima che tale
trasformazione venisse imposta da un’apposita ordinanza di cui a suo luogo diremo, sia quello
del termine ‘piazza’ per indicare il largo di Palazzo, evidente francesismo, in considerazione che
sino allora in Italia detto termine era appartenuto solamente al vocabolario militare, indicando un

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luogo abbastanza ampio e sgombro da essere adibito agli squadronamenti dei soldati. Il viceré
scese in piazza a veder da vicino le evoluzioni di questi soldati e ne restò soddisfatto; questi
spagnoli evidentemente si dettero da fare per non sembrare da meno dei soldati francesi, i quali
si erano fatti tanto ammirare quando eseguivano queste esercitazioni.
Sempre difficile era controllare i tanti militari di presidio a Napoli; martedì 18 luglio un soldato
spagnolo uccise un acquarolo e martedì 1° agosto ci fu una rissa nella centralissima strada di
Toledo tra soldati spagnoli e francesi; alcuni di costoro furono carcerati. Fu inviato poi a
Pozzuoli un piccolo distaccamento di fanti spagnoli, costituito da uomini tratti dai vari terzi
presenti a Napoli nella misura di otto per corpo e il 29 luglio arrivarono dalla Sicilia due tartane
che portavano 100 cavalli destinati all'uso delle milizie di stanza nel Napoletano. Giunse poi
notizia che l’esercito di Lombardia, galvanizzato dalla presenza del re al fronte, aveva il 26 luglio
sconfitto gli imperiali a Santa Vittoria, procurando al nemico più di mille perdite e subendone
poche decine, e poi quella che il 29 aveva preso Reggio Emilia, città del duca di Modena. La
mattina di domenica 30 luglio arrivarono le sei galere francesi comandate dal de Fourville che
avevano accompagnato il re a Finale e poi erano state a corredarsi a Marsiglia, ma le autorità
portuali non permisero ai loro equipaggi di scendere a terra, perché su quei legni infuriava una
violenta pestilenza con grande mortalità tra gli equipaggi e i cadaveri, dopo esser stati
appesantiti con pietre, ne erano gettati nel mare del golfo; la gente a Napoli non comprava più il
pesce, dicendo che puzzava di francesi morti. Partendo da San Pier d'Arena, queste galere
francesi avevano imbarcato 17 condannati mantovani:

... Sopra queste son venuti alcuni soldati mantovani condannati alle galee da quel principe
(Ferdinando Carlo Gonzaga Nevers), per essersi rivoltati contro di lui dentro il Castel Giuffré,
dove stavano di guarnigione; questi erano in tutto 30 assieme col loro capitano, il quale fu
archibusato e con lui due soldati che furono commessi a sorte, dieci altri come men colpevoli
furono liberati e gli altri 17 furono condannati alla galea, de’ quali già ne son morti una buona
parte in questo viaggio.

Ecco quindi un altro esempio di pena capitale inflitta a sorte; queste galere ripartiranno solo il
giorno 2 settembre, quando evidentemente si potrà ritenere finito il contagio.
Le predette galere francesi proseguirono poi per Messina, porto per cui lunedì 31 luglio erano
salpate pure due galere napoletane per andare a unirsi a due galere di Sicilia, col comune
compito di costeggiare per vigilanza le marine ioniche, e infatti alla fine d’agosto si seppe a
Napoli del loro arrivo a Brindisi; il giorno 2 seguente anche due galere del duca di Tursi, le quali
però si trovavano a Gaeta, partirono per Messina, dove si diceva che tutte queste galere

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andassero a mettersi agli ordini del conte di Tolosa, il quale comandava una flotta francese ora
in Sicilia; nel frattempo la squadriglia del cavalier de Forbin stava facendo un buon lavoro
nell'Adriatico, dove intercettava gli approvvigionamenti di grano che via mare giungevano al
campo imperiale, e da Manfredonia era giunta nuova che ultimamente aveva catturato altri tre
legni.
Pervenne poi notizia che, a seguito della rinuncia alla capitania di una delle compagnie di
corazze napoletane guardie del corpo fatta da Paolo di Sangro principe di San Severo a causa
della sua infermità, il re aveva concesso tale compagnia al marchese di Sant'Elmo di casa
Caracciolo, il quale aveva sino allora servito in quello stesso reggimento da privato, vale a dire
da soldato semplice; il predetto reggimento con il suo colonnello Francesco Gaetano e Aragona
si trovava ora di presidio nella piazza di Novara, soluzione provvisoria che gli si era trovato sia
per evitargli gli imbarazzi che potevano venirgli nell’esercito per la sua evidentemente non da
tutti riconosciuta preminenza come reggimento della guardia reale sia per non strapazzarlo con
il continuo e gravoso lavoro che in effetti comportava il servizio presso la persona del re.
Giovedì 3 agosto tre piccoli squadroni di cavalleria fecero gli esercizi militari nel largo del Castel
Nuovo alla presenza del nuovo mastro di campo generale dell'esercito Restaino Cantelmo duca
di Popoli e del generale delle galere napoletane conte di Lemos, mancando il nuovo generale
della cavalleria Tomaso d'Aquino principe di Castiglione in considerazione che malato; è questa
l’ultima volta che vediamo nominato nelle cronache il suddetto conte di Lemos, a breve nuovo
viceré di Sardegna, in qualità di generale della squadra di Napoli, carica che da ora in poi
troveremo infatti di nuovo in potere del vecchissimo principe di Montesarchio e stavolta, data
appunto la sua tarda età, ottenuta a vita. Nella notte di venerdì 4 giunse la felice nuova di
un'importante vittoria francese ottenuta a Friedlingen in Germania dal luogotenente generale
duca di Villars e di Usson sul margravio di Baden, vittoria che fece ottenere al detto duca il
bastone di maresciallo di Francia e che fu festeggiata a Napoli il giorno seguente, e domenica
seguente arrivò invece quella della resa di Reggio Emilia, anch'essa festeggiata il giorno
successivo con luminarie e salve d'artiglieria dei castelli, delle galere che si trovavano in
darsena e delle suddette sei francesi che ancora si trattenevano in rada. All'inizio d'agosto era
poi pronto e vestito il nuovo terzo regnicolo del Piccolomini, 626 fanti in tutto, destinato a essere
trasportato a Cadice da vascelli genovesi; in quel mentre un avviso da Genova informava che
era appena arrivata in quel porto una tartana con 90 soldati napoletani da sbarcare, legno da
cui a Finale erano già scesi a terra alcuni ufficiali. A proposito del vestiario militare, proprio in
quei giorni in Lombardia il re aveva comandato la pubblicazione di un bando, resosi

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evidentemente necessario, che minacciava la pena di morte a quei militari, spagnoli o francesi
che fossero, i quali tirassero fuori la spada o altra arma offensiva contro quelli dell’altra nazione;
inoltre, per ridurre le condizioni esteriori che determinavano dette differenze, il sovrano anche
comandò che da allora in poi le divise delle due nazioni, ossia le gale o coccarde distintive
portate dai soldati sul cappello, bianca dai francesi e rossa dagli italo-spagnoli, fossero da allora
in poi di ambedue i colori per tutti. Essendo morto recentemente a Napoli il discusso mastro di
campo Juan Manuel de Sotomayor, castellano del castello di S. Eremo, giunse notizia che il re
aveva elevato a quell’incarico Juan de Buides, sargente maggiore del terzo spagnolo di
Lombardia.
Nella notte tra lunedì 7 e martedì 8 agosto lasciarono Napoli altre tre tartane che portavano 400
fanti spagnoli e si diceva che avrebbero dovuto imbarcarne altri 100 del presidio di Gaeta per
poi andare a porsi ai confini del regno verso Terracina; questa spedizione era comandata dal
mastro di campo Rotondo, il quale era provvisto d’ordini segreti da aprire solo in alto mare; a
bordo dei tre piccoli vascelli erano state imbarcate anche attrezzature militari insolite per un
semplice trasferimento di truppe e che erano di quelle che potevano servire a fare un’impresa,
come allora ancora si diceva, per esempio a sorprendere un luogo fortificato nemico per
impadronirsene; altri dicevano che questa missione avesse come sua prima destinazione
Messina e infatti verso la fine del mese lettere da quella città confermeranno l'arrivo colà dei
500 fanti; quando poi giovedì 7 dicembre queste tartane torneranno a Napoli in compagnia di
una quarta e riportando i medesimi 400 soldati scelti ai loro quartieri d'inverno, si saprà
finalmente che esse si erano portate in Adriatico a disposizione del cavaliere de Forbin e della
sua flottiglia, né si potrà saperne al momento di più. Altre sei tartane si trovavano ormeggiate a
Napoli perché, come si diceva, anch'esse noleggiate di conto della Regia Corte per il trasporto
di truppe, mentre più avanti nel mese giungeranno due legni genovesi, i quali - unitamente a un
altro pure genovese già a Napoli - sarebbero serviti al trasporto del nuovo terzo del Piccolomini.
Mercoledì 9 agosto Orazio Coppola dei duchi di Canzano giurò per la sua nuova carica di
governatore generale dell'artiglieria, carica che, come abbiamo già detto, il Cantelmo, morto il
Dazza, gli aveva lasciato per assumere in pieno le sue precipue funzioni di mastro di campo
generale; nuovo generale della cavalleria al posto del Coppola fu ufficialmente nominato il
predetto principe di Castiglione e bisogna qui chiarire che le promozioni formali erano spesso
alquanto tardive rispetto a quelle effettive.
Frattanto i gallispani vincevano il 15 agosto un’importante battaglia a Luzzara e si trattò di un
combattimento che segnò una svolta nella guerra in Europa, perché per la prima volta fu

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caratterizzato, per tutta la giornata sino a sera, da un intensissimo fuoco sparato da ambedue le
parti a medio tiro di fucile e moschetto e quasi per nulla da scontri fisici; risultò infatti molto
sanguinoso, subendo i cesarei, i quali erano comandati dall’italiano principe Eugenio di Savoia,
uno dei più grandi condottieri di quei tempi che ricordava molto in questo il cinquecentesco duca
di Parma Alessandro Farnese (1545-1592), più di 6mila perdite tra morti e feriti e i franchispani
del duca di Vendôme circa 1.500; eppure poi, come spesso succedeva, gli imperiali sostennero
di aver vinto loro. Il castello di Luzzara si arrenderà il giovedì 17, giorno in cui a Napoli giungeva
dalla Sicilia una nave genovese carica di cavalli siciliani destinati alla rimonta della cavalleria
lombarda di stanza nel Napoletano e questa ci sembra una riconferma che la famosa
produzione equina del regno era ormai in declino. Tornarono poi in licenza dalla Lombardia
diversi soldati delle più volte nominate compagnie delle guardie del corpo napoletane del re e
raccontarono che Sua Maestà aveva ordinato che il loro reggimento venisse presto vestito con
abiti carichi di trine, velluti e ricami come le guardie del re di Francia; in quel mentre tra gli
ufficiali generali dell’esercito dell’Alta Italia si diffondeva una violenta epidemia di terzana
doppia, costringendone diversi a riparare a Milano per farsi curare adeguatamente e tra questi i
due napoletani principe di Avellino di casa Caracciolo e Vincenzo de Capua principe della
Riccia, mentre altri e cioè Andrea d’Afflitto e Nicolò de Sangro erano rimasti infermi e bloccati
dalla guerra a Casalmaggiore e di questa loro difficile situazione il loro rispettivamente fratello e
cugino principe di Scanno andò a portare notizia al campo gallispano che allora era nei pressi di
Mantova.
Sabato 19 agosto arrivò a Napoli da Messina monsieur de la Jonquiére, ispettore generale della
marina francese, inviato dal conte di Tolosa, grand'ammiraglio della flotta dei transalpini che
allora si trovava alla fonda in quel porto siciliano, per ricambiare al viceré di Napoli i saluti che
questi gli aveva recentemente mandato tramite il sargente generale di battaglia Diego de
Alarcón. Frattanto i vascelli granari catturati dal de Forbin in Adriatico erano arrivati a otto e gli
stavano dando buon sostegno le galere napoletane, siciliane e anche genovesi che
perlustravano quelle coste.
Mercoledì 23 agosto il marchese d’Avaray, in qualità di comandante in capo delle milizie
francesi di Napoli, le rassegnò:

... Passò mostra la sua soldatesca con esercizii; ciò fu anco fatto da un reggimento di cavalleria
spagnuola, qual fece gli esercizzi in forma di battaglia, diviso in due parti, con scarica,
comandati da monsù don Francesco Velbalet.

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Martedì 29 fu pubblicata ufficialmente anche a Napoli la guerra già pubblicata a Madrid il 9
giugno precedente e in effetti già in atto contro l'imperatore, gli inglesi e gli olandesi, i quali
erano accusati dalla Spagna di aver violato la pace di Riiswijck del 1697, e, mentre già nel corso
del mese si erano dati sei mesi di tempo a questi stranieri per andarsene dal regno, ora
s’imponeva loro di lasciare Napoli entro quindici giorni e il resto del regno entro venti, con il
permesso di portar via i loro beni mobili che erano stati provvisoriamente sequestrati. Nell'Italia
settentrionale le truppe imperiali del principe Eugenio di Savoia avevano in quel tempo preso e
saccheggiato Cremona, mentre i franco-spagnoli avevano occupato Modena.
La sera di giovedì 31 lasciarono finalmente il porto di Napoli le sei galere di Francia che per
forza di cose, come sappiamo, vi soggiornavano da qualche tempo e si diressero verso
Marsiglia. La stessa sera, celebrandosi quel giorno e in quello seguente la festa di San
Ludovico, tanto caro ai francesi, il predetto generale marchese d’Avaray di nuovo passò in
rassegna i suoi quattro reggimenti e partecipò ai festeggiamenti anche il reggimento di dragoni
spagnoli del colonnello Francisco Velbalet, eseguendovi esercizi con scarica in formazione di
battaglia, essendovi anche intervenuto il nuovo generale della cavalleria principe di Castiglione.
La mattina seguente, dopo esser stato rassegnato dallo stesso viceré, partì finalmente il nuovo
terzo del mastro di campo Gioseppe Piccolomini d'Aragona principe di Valle ed era costituito da
6 o 700 fanti napoletani; questo corpo, imbarcato su tre piccioli vascelli genovesi, probabilmente
tre tartane, si diceva fosse destinato a, ma, in effetti, dopo aver toccato Genova il giorno 16, fu
invece sbarcato a Marsiglia, circostanza questa che forse si collega a un permesso di transito
che il governo di Genova concesse all'inizio dell'ottobre seguente a due innominati reggimenti
napoletani diretti al campo dei collegati in Lombardia. La mattina di sabato 2 settembre giunse
un petacchio francese da Messina, probabilmente inviato dal conte di Tolosa che tuttora vi si
trovava; inoltre nello stesso inizio di settembre il principe di Castiglione rassegnò la cavalleria di
stanza nel napoletano, rivista che, come abbiamo già forse detto, era da tenersi di prassi una
volta il mese.
Il marchese di Villena aveva frattanto inviato una lettera a Filippo V con il corriero d’Italia,
missiva che era pervenuta al sovrano tra il 31 agosto e il 1° settembre, informandolo che i sei
Seggi napoletani avevano deliberato di omaggiarlo con una statua equestre da porsi davanti
alla chiesa del Gesù Nuovo; il de Ubilla y Medina ne mandò subito a chiedere una stampa al
viceré per inserirla nel suo diario, sempre che gli fosse arrivata in tempo. Che i soldati francesi,
proprio al contrario di quelli spagnoli, generalmente non rispettassero le donne era fatto risaputo
nel meridione d'Italia sin dai lontanissimi tempi dei Vespri Siciliani e se ne ebbe un ulteriore

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conferma il 4 settembre, quando alcuni di loro ingiuriarono una donna nella strada di San
Giacomo, per cui ne nacque una rissa tra francesi e spagnoli; la sopraggiunta ronda spagnola,
spalleggiata dai napoletani, arrestò tre connazionali che avevano ferito cinque francesi.
Commemoratasi giovedì 7 settembre, come ogni anno, la già menzionata e famosa vittoria di
Nördlingen, nel dopo pranzo del giorno seguente si tenne la tradizionale funzione nella chiesa
della Madonna della Natività di Piedigrotta e nella spiaggia del borgo di Chiaia si schierarono
come il solito le soldatesche della capitale - specie i dragoni - a far da ala al tradizionale corteo
del viceré che si recava alla predetta chiesa; a questa parata partecipava, tra gli altri, il generale
della cavalleria Tomaso d’Aquino principe di Castiglione alla testa della sua nuova compagnia di
cavalleria e c'erano anche i reggimenti francesi:

... dove nel borgo di Chiaia squatronarno tutti li frangesi che stanno in questa Città, che fu
meraviglia il vedere li suddetti soldati squatronati a lore usanza.

La mattina di sabato 16 settembre, nell'ambito dei festeggiamenti che si tennero a Napoli per la
ricorrenza del compleanno della regina di Spagna, il viceré tenne a pranzo molti dei comandanti
militari e intanto si ebbe notizia che tre legni armati flessinghesi erano apparsi nelle acque della
Roccella (Roccella Ionica), acque comunque ben guardate dai vascelli del de Forbin e dalle
galere di cui si è già detto. La notte seguente giunse nuova della resa della città di Guastalla,
avvenuta l’8 precedente, cioè proprio il suddetto giorno della festa della Natività della Madonna -
la piazza era stata investita dai gallispani il 29 agosto, e quindi il giorno seguente si festeggiò a
Napoli anche quest'altra buona notizia. In quel tempo in Germania, con alterna fortuna,
l’Elettore di Baviera, alleato delle due Corone, aveva preso Ulma e gli imperiali Landau, mentre
si distingueva nel frattempo nella guerra in Europa l'esercito inglese che era sbarcato nel
continente sotto il comando del duca di Marlborough; gli inglesi infatti in questo settembre
prenderanno Venlo nella Fiandra settentrionale e in ottobre s’impadroniranno anche di Liegi.
La notte di sabato 30 settembre salparono per Tolone un vascello e due palandre francesi che
si trovavano a Napoli da molti mesi, mentre lunedì successivo giungevano dalla Puglia 45
cavalli, i quali, unitamente ad altri 40 già arrivati il precedente martedì 26 e ad altri ancora che si
attendevano, dovevano servire alla rimonta della cavalleria acquartierata nel Napoletano. Il
terzo spagnolo detto dei turchini e comandato dal mastro di campo Montes era stato inviato a
maggio di presidio a Capua e ora, mercoledì 4 ottobre, fece ritorno a Napoli, dove doveva
essere imbarcato per la Catalogna; la minaccia del nemico si era infatti concretizzata sulla
penisola iberica e il 7 settembre gli alleati erano infatti sbarcati sulla costa dell'Andalusia.

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Venerdì 6 ottobre furono avvistate al largo di Ischia le tartane che avevano a luglio portato in
Sicilia il terzo di fra’ Domenico Recco, respinto dai Siciliani come abbiamo già detto, e ora lo
stavano invece trasportando dalla Sicilia in Spagna; ma, sorprese dal mal tempo, non riuscivano
a superare le acque di Napoli. Era In quel mentre arrivata notizia che i turchi avevano predato
una tartana olearia che, partita dalla Puglia, stava portando il suo carico a Napoli.
In quel mentre, il re, il quale era in trasferimento dall’esercito a Milano, da dove però presto
avrebbe iniziato il suo viaggio di ritorno a Madrid, si trovò iI 5 ottobre a pernottare a Lodi e
avrebbe dovuto montargli la guardia il terzo fisso spagnolo di Lombardia, ma questo arrivò colà
in ritardo e dovette accamparsi fuori di Lodi perché nel frattempo aveva assunto l’onere e
l’onore di quella guardia reale il terzo napoletano di fra’ Tomaso Caracciolo, il quale già si
trovava di presidio in quella piazza. Una corrispondenza da Genova del 7 ottobre informava che
quel governo aveva concesso a due reggimenti napoletani il passaggio verso il campo di
Lombardia, ma di quali reggimenti si trattasse non si diceva né ci è stato dato di capire.
Mercoledì 11 ottobre Orazio Coppola dei duchi di Canzano, mastro di campo generale e
governatore generale dell'artiglieria del regno, assisté alla prova d’alcuni nuovi mortari che si
fece su diverse elevazioni dei pezzi nel solito luogo costiero detto de’ Bagnuli (o ai Bagnoli),
dove ancor oggi tale poligono di tiro esiste ed è affidato all'Associazione di Tiro a Segno
Nazionale. Nella notte tra il 12 e il 13 salpò dal porto o molo grande della capitale un convoglio
di dieci tartane diretto a Barcellona sotto la scorta di due vascelli genovesi; trasportava in
Catalogna soldatesche che si erano imbarcate appena la sera precedente e cioè alcune
compagnie dei terzi spagnoli dei mastri di campo Melquior Montes, venuto apposta da Capua, e
Emmanuel de Silva y Meneses conte di Galbez, costui, come sappiamo, anche generale delle
galere di Sicilia, compagnie destinate a essere incorporate in un solo tercio, il reggimento di
dragoni spagnoli di Francisco Velbalet e inoltre 350 fanti napoletani di nuova leva che il mastro
di campo Luigi Gaetano dei duchi di Laurenzana portava con sé per reclutare il suo terzo che
serviva in Catalogna. Pur partendo anche questo convoglio di notte, come allora si usava per
impedire a eventuali spie del nemico di vedere quale direzione prendessero i vascelli, alcune
delle dette tartane e i due vascelli genovesi dovranno far ritorno a Napoli venerdì 24 novembre
con tutte le milizie che avevano imbarcato perché non erano riuscite a filtrare tra le squadre
nemiche che incrociavano nel Mediterraneo; a giudicare dalle milizie spagnole che poi
troveremo ancora in regno, i vascelli che furono costretti a ritornare dovevano essere quelli che
portavano il reggimento dei dragoni e le predette compagnie di quello del conte di Galbez.
Queste soldatesche spagnole tornate a Napoli vi riceveranno poi il soldo senza soluzione di

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continuità, come se non fossero mai partite, e questo trattamento sarà poi ovviamente
apprezzato e approvato dal re con sua carta del 22 aprile dell’anno successivo.
Questa partenza di tante soldatesche spagnole ci fa capire, come in effetti era, che la minaccia
delle flotte nemiche sembrava ormai decisamente orientata verso le coste franco-spagnole,
specie verso la Catalogna, e quindi bisognava farvi affluire dal Regno di Napoli i corpi
recentemente inviativi dalla Spagna e dal Milanese per proteggere sia il regno dalle congiure
filo-asburgiche, sia il re nel suo soggiorno a Napoli.
Nei giorni seguenti si dette esecuzione a una cedola reale colla quale Filippo V aveva ordinato
che si accrescesse di uno scudo il soldo di tutti quei soldati che si erano ritrovati di servizio a
Napoli nei giorni 23 e 24 settembre dell'anno precedente, ossia nei giorni della sommossa
capeggiata dal principe di Macchia. La sera di martedì 17 ottobre fu a far sosta a Napoli lo
sfortunatissimo terzo del sargente generale di battaglia fra’ Domenico Recco, il quale, respinto
dal maltempo oltre che dai siciliani, non riusciva a far rotta per la Spagna e fu quindi costretto a
trattenersi quattro giorni nel porto partenopeo, senza che si concedesse ai militari di sbarcare a
terra perché ovviamente tutti avrebbero disertato, e infine, rinnovate le sue provviste, ripartì
sulle sue cinque tartane sabato 21 verso la predetta destinazione. Il predetto terzo raggiungerà
Barcellona solo verso il 10 febbraio del 1703 e quindi non è sicuramente da includersi tra i non
meglio identificati terzi napoletani (presumibilmente il Recco e il Piccolomini) che, come
dichiarato da un avviso di Madrid del 2 dicembre di questo 1702, sebbene recentemente arrivati
nel capoluogo catalano, sarebbero stati colà già reimbarcati per esser riportati nel Regno di
Napoli a causa delle mutate esigenze belliche; risultava ora infatti un rallentamento nelle
operazioni militari della guerra di successione spagnola e tacevano le armi per esempio in
Fiandra; fra’ Domenico Recco restò comunque quasi sicuramente in Spagna, perché, mentre
nel 1705 sarà ancora a capo del suo terzo, nel 1706 lo troveremo in Catalogna con l'incarico di
governatore della piazza di Rosas, incarico che però poi pare gli fosse stato revocato, in
considerazione che giudicato ufficiale ben intenzionato, ma incapace; non tutti i nobili
nascevano certo fatti per la guerra e non per nulla ne erano pieni i monasteri e le curie! Invece,
insignito di un'onorificenza reale detta della Chiave d’oro, tornerà effettivamente a Napoli da
Barcellona Gioseppe Piccolomini principe di Valle e ciò avverrà mercoledì 31 gennaio 1703.
Che poi ci fossero stati effettivamente dei terzi napoletani reimbarcati a Barcellona per essere
riportati a Napoli ci sembra, non ostante il suddetto avviso, una cosa impossibile; come si
potevano infatti riportare in regno dei terzi reclutati con tanta fatica, vincendo cioè la tradizionale

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riluttanza dei meridionali al servizio militare, per vederli quindi, una volta sbarcati in patria,
dissolversi nella generale diserzione come neve al sole?
Mercoledì 18 ottobre giunse notizia che il re, come abbiamo più sopra già ricordato, aveva
nominato colonnello, con soldo però in Napoli, Titta Brancaccio, il quale militava nel Milanese;
non si perdeva dunque alcuna occasione d’approfittare dell'erario napoletano! Il giorno
seguente giunsero dalla Sicilia alcuni legni che portavano 150 cavalli inviati dal viceré di quel
regno, il cardinale napoletano Giudice, da utilizzare per la rimonta di fanteria montata che si
trovava in Abruzzo e quindi sabato seguente furono messi in viaggio per quella provincia.

Il 21 nell'arsenale ove stanno due reggimenti de’ soldati francesi, perché un soldato di quelli
aveva tirato un colpo di baionetta posta sulla punta della scoppetta (‘fucile’) al suo sargente,
benché non l'avesse colto, il consiglio di guerra degli officiali francesi lo condannò al taglio della
mano; ma il signor Viceré fe’ avere la grazia...
Sua Eccellenza ha fatto visitare alcuni banditi rimasti da molti anni nelli castelli per liberarli e
cambiare le loro pene in altro. Ve ne è uno in Santo Elmo che aveva stato in una fossa oscura
più d’otto anni, calatovi con una corda, e ivi non sentiva né voce né suono come fusse stato
sepolto.

La mattina del 23 a Milano il re passò in rivista a cavallo i corpi della sua guardia davanti al
palazzo reale e tra questi il reggimento di corazze napoletane guardie del corpo reale, le quali,
come sappiamo, il sovrano aveva qualche settimana prima molto deluso, facendo loro sapere
che non gli era più possibile portarle con sé in Spagna, ma che si sarebbe ritenuto ben servito
ugualmente se fossero rimaste a militare, pur con le preminenze che gli spettavano come
guardia reale, nell’esercito dell’Alta Italia, perché questo non mancasse di un corpo tanto
principale e segnalato (de Ubilla y Medina); il reggimento, sempre al cospetto del sovrano, si
esibì in esercizi militari a piedi, in considerazione che aveva sì ricevuto le sue nuove uniformi
turchine e gallonate in oro, ma non ancora i cavalli.
Domenica 29 ottobre si festeggiò a Napoli un altro successo militare di cui era appena arrivata
notizia e cioè la sorpresa di Neoburgo, presso il fiume Reno in Alsazia, fatta dall’esercito
francese del marchese di Villars; lo stesso giorno fece ritorno dalla Lombardia uno dei capitani
del reggimento di corazze napoletane della guardia reale e si trattava di Carlo Carafa principe
della Guardia e figlio del duca di Maddaloni; egli raccontò che il suo reggimento si trovava
ancora in Lombardia e, sebbene avesse ricevuto la sua nuova uniforme, come abbiamo già
visto, non era stato però ancora montato. Un altro di quei capitani tornerà invece martedì 12
dicembre e si tratterà d’Ottaviano de’ Medici duca di Sarno e tenente colonnello del reggimento.
Sostanzialmente le notizie portate da questi ufficiali confermavano sia quanto abbiamo appena
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ricordato sia un avviso milanese del 18 ottobre, nel frattempo pervenuto a Napoli, nel quale così
si leggeva:

Il Re ha fatto sapere al reggimento della guardia napolitana che, non potendolo condurre in
Spagna, si terrà ben servita Sua Maestà se resterà a militare in questi paesi.

Erano dunque i consiglieri di Filippo V ricorsi a un inganno per far sì che i nobili napoletani di
prima sfera si decidessero a partecipare più numerosi e attivamente alla guerra che si
combatteva nell'Alta Italia! Aveva cioè il re falsamente promesso di portare a Madrid questo
reggimento di cavalleria, da poco costituito a Napoli con l'entusiastica adesione di tanti giovani
appartenenti a grandi famiglie e in molti casi provvisti di titoli altisonanti, e invece l'aveva
semplicemente portato al fronte di Lombardia; i nobili napoletani, famosi per la loro tradizionale
vanagloria e illusi di poter così in futuro frequentare l'ambitissima Corte di Spagna, c'erano
ingenuamente caduti! In seguito però, evidentemente meglio consigliato sulle convenienze
politiche, il re cambierà idea e porterà il reggimento in Spagna; e bene farà perché questi nobili
napoletani molto contribuiranno a mantenergli perlomeno quei regni!
Un avviso da Genova del 4 novembre informava che il convoglio di tartane che aveva lasciato
Napoli il 13 ottobre e che doveva portare tante soldatesche, soprattutto spagnole, in Spagna era
stato richiamato in quel porto:

Da quest'Inviato (ambasciatore) di Spagna si spedirono ultimamente alcune navi in traccia delle


tartane che portano in Spagna da Napoli li soldati spagnuoli per farli ritornare a Napoli, a cagion
che in Ispagna non ve ne era più di bisogno; e'l mercordì (29 ottobre) poi le dette tartane,
secondo l'ordine avuto, approdarono in questo porto e oggi appunto son partite per Napoli.

In effetti i vascelli inglesi dell'ammiraglio sir George Rooke avevano desistito dall’attacco che
stavano portando a Cadice sin dall'agosto e il ritorno a Napoli delle predette soldatesche sarà
confermato da un altro avviso, questo napoletano, del 22 novembre:

Tornano i due vascelli e due delle tartane che si erano inviate in Spagna con altre sette cariche
di milizie, riportando le milizie spagnuole che s’inviarono verso Cadice, essendo queste
trattenute in Genova da’ cattivi tempi, fin che fu la nuova che i nemici erano partiti da Cadice.

I vascelli in questione giungeranno a Napoli la sera di martedì 28 novembre; perché con i due
vascelli facciano ritorno solo due delle nove o dieci tartane originalmente partite da Napoli si
può solo spiegare pensando che sicuramente, per i motivi di cui abbiamo più sopra parlato, non

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si riportavano in regno i 350 fanti regnicoli di nuova leva che facevano parte di quella spedizione
e quindi costoro saranno stati con ogni probabilità sbarcati o nello stesso Genovese o più tardi
nei Presidi di Toscana; inoltre, le tartane saranno certamente salpate da Napoli cariche, oltre
che di uomini, anche di provviste, munizioni e apparati bellici, tutta roba cioè utile alla guerra e
la cui restituzione al regno non poteva certamente essere consentita!
Nella prima settimana di novembre arrivarono a Napoli lettere spedite il 18 ottobre dalle due
galere napoletane che, come sappiamo, operavano nello Ionio e nel basso Adriatico agli ordini
del cavaliere de Forbin e che a quella data si trovavano a Taranto; informavano che stavano
nell’attesa del suddetto ammiraglio, il quale si era trattenuto ad Ancona per provvedersi d’alcune
attrezzature, e che, non appena egli fosse arrivato a Taranto, sarebbero tornate a svernare a
Napoli - dove infatti arriveranno poi martedì 14 novembre, mentre i vascelli del de Forbin
l'avrebbero fatto forse a Brindisi. Domenica 12 novembre approdò a Napoli un vascello
olandese carico di farina, il quale, catturato dal de Forbin in Adriatico mentre era diretto a Fiume
a rifornire l'esercito imperiale, era ora condotto come preda a Tolone, e un altro vascello, questo
carico di vino, predato da quel comandante francese arriverà poi venerdì 1° dicembre. Arrivò
anche un ordine reale del 29 ottobre che imponeva da allora in poi la rimessa mensile in
Lombardia dell’equivalente di 25mila scudi di Spagna come contributo al mantenimento
dell’esercito che colà combatteva.
Da Milano si leggeva che, il 7 novembre il re aveva lasciato quella città per Genova, da dove
poi, imbarcatosi il 16 successivo sulla galera reale di Francia del marchese di Fourville, la quale
con altre cinque della sua stessa squadra era venuta a Genova a tal scopo, si salpò per Antibo
e la squadra era appunto formata dalle suddette sei galere di Francia, dove però la reale, la
quale si chiamava le Valeur, oltre alle insegne che la qualificavano come tale, sventolava anche
lo stendardo reale di Spagna, inoltre da sei galere del duca di Tursi di casa d’Oria, la cui
Capitana però si dichiarava umilmente in quel viaggio solo Padrona, ossia seconda della
squadra, e ciò faceva sventolando il suo stendardo di Capitana non più poppa, bensì alla
gabbia maggiore e infine dalle galere pubbliche di Genova, comandate da Domenico Maria
Spinola, il cui numero non viene però riportato dai cronisti che ci è stato dato di leggere. In
effetti, arrivati che si fu al Capo di Noli, il re volle che queste pubbliche tornassero indietro,
perché, essendo Genova una libera repubblica e non un suo possedimento, esse non erano né
galere appartenenti alla sua Corona né, come invece quelle del duca di Tursi, galere straniere
al suo servizio e quindi scortandolo fin lì lo avevano omaggiato abbastanza. Subito dopo, cioè
nelle acque di Finale, la cui fortezza salutò il sovrano con tre salve d’artiglieria, il napoletano

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principe di Cariati di casa Spinelli, grande di Spagna ed ex-viceré d’Aragona, il quale era tra
coloro che accompagnavano il re, salutato costui come si conveniva, scese nella sua feluca al
seguito e sbarcò appunto al Finale, da dove poi passò a Napoli con la principessa sua moglie.
Arrivato ad Antibo, a causa dei venti contrari, il re proseguirà il suo viaggio per terra lungo la
costa francese.
Prima di partire Filippo V aveva - come del resto aveva fatto anche a Napoli - concesso molte
mercedi e, tra l'altro, aveva nominato Mercurio Pacheco conte di San Estéban de Gormaz
anche mastro di campo del secondo terzo fisso spagnolo di Lombardia, cioè quello detto di
Savoia, per esser passato a più importante incarico il marchese di Mirabello, suo precedente
mastro di campo, e aveva affidato, come abbiamo già accennato, a Scipione de Capoa ora
duca di Mignano la compagnia di gente d'armi del Regno di Napoli che era stata tolta a Cesare
d’Ávalos marchese di Pescara e del Vasto perché austriacante e al principe di Leporano di casa
Muscettola quella che invece aveva tenuto il principe di Caserta; il de Capoa però morirà presto
e cioè verso la mezzanotte di lunedì 26 febbraio 1703 all’età di soli 35 anni. L'antico istituto
militare delle compagnie franche di hombres de armas era, con l'introduzione dei reggimenti di
cavalleria e dragoni, divenuto sostanzialmente un retaggio del passato ed esisteva ormai solo
sulla carta, il tutto risolvendosi nel privilegio nominale di possedere tali compagnie che
continuavano ad avere alcuni dei maggiori titolati del regno; anche la gazzetta ufficiale del
tempo continua ad accennare a compagnie sciolte di titolati, quali quelle del principe di
Castiglione, del marchese del Vasto, dei duchi di Martina Caracciolo, del principe di Caserta,
ecc. e non è chiaro perché, almeno in questi anni di sostanziale egemonia francese sul regno,
questa cavalleria che, suddivisa appunto in 20 compagnie sciolte e mai raggruppata in trozos,
era stata per secoli l'unica ordinaria del Regno di Napoli, non sia stata anch’essa raggruppata in
reggimenti ed elevata quindi a un reale livello operativo, pari a quello dei reggimenti che erano
dall'estero o che all'estero s’inviavano non appena reclutati; probabilmente la loro natura
feudale e signorile che le obbligava, come per altri versi il Battaglione e la Sacchetta, solo alla
guerra difensiva del regno, confliggeva con le moderne necessità della guerra che voleva tutti i
corpi dell’esercito, tranne quelli di palazzo, immediatamente disponibili all’espatrio e
all’operatività in terre lontane; eppure il 18 luglio 1702 era stata addirittura concessa la
formazione di un’altra tali compagnie di corazze, cioè quella da costituirsi per guardia del
governatore dell'armi marchese di Grigny (come la tengono tutti i governatori dell'armi),
compagnia che sarebbe stata fastosa e avrebbe, come la guardia del viceré, ostentato i
timballieri, cioè quei suonatori che nei reggimenti di cavalleria erano riservati alla sola piana

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maggiore; essa aveva sfilato per la prima volta in pubblico alla solita annuale parata di
Piedigrotta del 9 settembre:

... si vide con quest'occasione la prima volta la nuova compagnia di cavalli del governadore
degli armi, ch'è composta di gente eletta e vestita tutta nobilmente ed è comandata dal capitan
don Gioseppe Carlo di Grünenbergh, figlio del colonnello di quel nome.

A Genova Filippo V fece altre mercedi e nominò Carlo Grillo, figlio del marchese di tal nome,
cuatralbo delle galere di Napoli, ossia comandante in seconda di quella squadra; tale nomina
sarà poi messa per iscritto il 21 febbraio successivo con un appannaggio di 300 pezze mensili.
Fece poi Gioan Andrea d’Oria del Carretto duca di Tursi governatore generale di tutte le
squadre d'Italia, ossia di Sicilia, Sardegna, Napoli e del duca di Tursi stesso, e si diceva che
però, per quanto riguarda la napoletana, ne avrebbe assunto questo comando superiore solo
alla morte del generale di quella, cioè del principe di Montesarchio, il quale, come abbiamo
detto, ne aveva ora titolo a vita, perché questi lo sopravanzava in anzianità generalizia e il re
non aveva voluto fargli torto; infine, concesse il governo della squadra di Sicilia a Camillo d’Oria,
secondogenito del principe di questo nome, e questo sostituire così presto il generale de Silva y
Meneses significa che questi aveva già dovuto prendere effettivamente in mano le redini di
quella di Napoli a causa dell’età troppo avanzata del suo generale.
Il 14 novembre era arrivata a Milano la notizia che il 23 ottobre precedente una grossa flotta
anglolandese comandata da George Rooke, la quale, secondo gli spagnoli, contava più di 200
vele tra le quali 70 vascelli di linea, aveva abilmente sorpreso nella baia di Vigo in Galizia la
flotilla dei cosiddetti galeoni spagnoli proveniente dalle Americhe e diretta a Cadice, l'aveva in
gran parte distrutta, sebbene questa fosse difesa da un’armata francese, e si era impadronita di
buona parte del tesoro che questa consuetamente trasportava in Spagna dal Nuovo Mondo e il
cui valore ammontava a più di 20 milioni di scudi; dei 17 vascelli spagnoli sei erano stati
incendiati, due affondati e nove catturati, mentre dei 21 francesi (15 grossi e sei piccoli) 15
erano stati incendiati o affondati e sei catturati; unica consolazione per i gallispani era stata
l’aver respinto precedentemente, soprattutto con la vittoria di Matagorda, lo sbarco che il
nemico, arrivato a Cadice prima che a Vigo, aveva fatto in forze sulle coste andaluse. La
versione degli spagnoli fu che i loro vascelli, essendo stati giudicati indifendibili, erano stati
incendiati dai loro stessi capitani per non farli cadere in mani nemiche, riuscendo così il nemico
a catturarne solo alcuni, e che il tesoro americano era stato in precedenza messo al sicuro. A
Napoli però, come il solito, si dava pubblica notizia solo delle vittorie o delle battaglie dagli esiti
incerti che si facevano passare per sicure vittorie e quind’ora si parlava solamente del
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summenzionato grande successo che, a Friedlingen in Fiandra, il maresciallo conte François de
Villars e di Usson, comandante dell'esercito francese, aveva riportato sul principe di Baden, il
quale era invece a capo di quello imperiale, meritandosi con ciò il bastone di comando di
maresciallo di Francia.
Mercoledì 22 novembre arrivò a Napoli Juan Boines, sargente maggiore del terzo spagnolo di
Lombardia, il quale era ad assumere il suo nuovo incarico di castellano del regio castello di
Sant' Elmo, nomina che già da mesi il re gli aveva conferito; forse il precedente governatore del
castello aveva ritenuto bene di dimettersi, dopo essersi messo in cattiva luce per la questione
dell'ammissione dei soldati francesi nel castello. Il giorno seguente arrivò pure, di ritorno dal
campo di Lombardia, il giovane principe della Riccia Vincenzo de Capoa e venerdì, anch'egli
proveniente dal medesimo campo, il marchese di Torrecuso Nicol'Antonio Caracciolo, grande di
Spagna, il quale nella passata campagna aveva servito da aiutante di campo di Filippo V.

Martedì mattina (28 novembre) il marchese di Torrecuso, Caracciolo, grande di Spagna, entrò
per la prima volta di guardia colla sua compagnie di fanti spagnuoli conferitagli da Sua Maestà
infin dal tempo della sua gloriosa dimora in questa Città e vi fu un grandissimo convito, nel
corpo di guardia, di cavalieri spagnuoli, franzesi e napoletani, i quali tutti nel medesimo luogo
furono tenuti da esso marchese a un lautissimo pranzo.

Come sappiamo il marchese poteva comandare questa compagnia spagnola perché, essendo
grande di Spagna, era di diritto un naturalizzato spagnolo (come gode naturalezza di
spagnuolo).
Giunsero in questi giorni e nei successivi dalla Lombardia, come sempre verso Capodanno,
parecchi cavalieri napoletani che in quell’esercito prestavano servizio e i principali erano il
principe della Guardia di casa Carafa, il conte di Jungano di casa Minadois, Carmine Nicola
Caracciolo principe di Santo Buono, il principe di Leporano di casa Muscettola, il duca di Sarno
di casa Medici, il principe di Scanno di casa d’Afflitto e il duca di Mignano di casa di Capoa;
frattanto si seppe che il 16 novembre il re aveva concluso la sua visita ai suoi domini italiani
imbarcandosi a Genova per tornare in Spagna.

Giovedì (14 dicembre) si celebrò nella chiesa della Solitaria il matrimonio tra’l mastro di campo
don Antonio la Crux, governatore di questo regio Castel Nuovo e la signora donna Ursola
Astuto con corcorso di tutti gli ufficiali di queste milizie, che nella di lui casa furono trattenuti con
grandissima magnificenza.

499
Lo stesso suddetto giovedì l’appena quattordicenne Marciano Pacheco marchese di Moya,
secondogenito del viceré marchese di Villena, arruolatosi come semplice moschettiere nella
compagnia del capitano Antonio Porres del terzo spagnolo del conte di Galbez, fece la sua
prima comparsa pubblica in tale veste, partecipando al cambio della guardia davanti al palazzo
reale ed essendovi accompagnato con molta pompa da tutti più ragguardevoli generali e ufficiali
maggiori del presidio di Napoli, i quali marciavano con il giovanetto e portavano anch'essi il
moschetto; ciò perché anche il figlio di un viceré doveva, come si diceva, imparare a ubbidire
per poter apprendere a comandare e, se fosse vissuto nel secolo precedente, invece che dal
moschetto avrebbe iniziato la sua istruzione militare dalla semplice picca. Il giorno seguente si
festeggiò anche a Napoli il ventesimo compleanno del re Filippo V e in tale occasione il viceré
offrì un lautissimo pranzo ai predetti generali e ufficiali maggiori.
Giovedì 28 dicembre le 100 guardie marine francesi, comandate dal cavaliere de Langon,
lasciarono il loro alloggio dentro Castel Nuovo e s’imbarcarono su un vascello genovese per
portarsi a Tolone per una licenza collettiva, come da concessione sopraggiunta dalla corte di
Parigi, ma, a causa del maltempo, il seguente martedì 2 gennaio il vascello, con il suo carico di
giovani, non era ancora salpato; subito dopo il loro imbarco il viceré aveva però cercato
d’alleviare il loro prevedibile disagio, mandando a bordo un copiosissimo rinfresco portato da più
di 100 facchini; poi, prolungandosi eccessivamente le sfavorevoli condizioni atmosferiche, i 100
giovani furono fatti sbarcare e non si darà il via alla loro partenza prima della metà del seguente
gennaio. Restavano a Napoli ancora i quattro reggimenti di fanteria francese e sia per questi,
che per i suddetti cadetti aveva il re di Francia mandato ogni mese a Napoli 4.300 doppie per il
loro mantenimento, comportamento questo dunque tanto diverso da quello della corte di
Madrid, la quale aveva sempre cercato di far pagare all'erario napoletano ciò che doveva e ciò
che non avrebbe dovuto.
Con inizio dagli ultimi giorni dell’anno e sino a tutti i primi quindici di quello seguente arrivarono
a Napoli come il solito molti altri cavalieri napoletani in licenza dai vari teatri di guerra all’estero; i
nobili e gli alti ufficiali in genere erano infatti gli unici a cui si concedevano licenze per
temporanei ritorni in patria. Dal campo di Lombardia vennero e si notarono soprattutto Mercurio
Pacheco conte di San Estéban de Gormaz, primogenito del viceré di Napoli, il principe
d'Avellino di casa Caracciolo, il duca di Monteleone di casa Pignatelli, i fratelli Nicolò e
Domenico di Sangro e ancora due germani, cioè il principe di Scanno di casa d'Afflitto e suo
fratello Andrea; dalla Fiandra giungeranno invece i fratelli Domenico e Tomaso Gaetano dei
duchi di Laurenzana. Si ebbe poi notizia che il re aveva promosso sargenti maggiori due

500
capitani di fanteria spagnola che si erano particolarmente distinti nella repressione della
congiura del principe di Macchia, avvenuta il 23 e il 24 settembre del 1701. C'era infine in quei
giorni un continuo partire di compagnie, sia di fanti sia di cavalleria e dragoni catalani, le quali
dalla capitale erano inviate verso Fondi non solo per dare il solito cambio a quella guarnigione,
ma anche per rafforzare quel confine, partire che ancora continuerà alla fine del gennaio
successivo; così finiva questo 1702, anno che era stato per Napoli così pregno d’avvenimenti
militari e diplomatici, pur in mancanza di guerra viva che interessasse direttamente il territorio
del regno.

1703. Questo nuovo anno si aprì con la partenza - avvenuta infatti lunedì primo gennaio - di
quattro galere sulle quali già da molti giorni si erano imbarcati i soldati spagnoli detti li Rossi,
ossia i fanti del terzo del mastro di campo Joseph de Redonda, per andare a mutare le
guarnigioni dei Presidi di Toscana; questi poveri soldati, oltre al disagio della ristrettissima
coabitazione sopportata a bordo di quelle anguste galere ferme in porto a Napoli, saranno
anche costretti a sostare altri giorni a Baia per lo stesso motivo, non essendo infatti quella
stagione propizia alla navigazione remiera, cioè di basso bordo. Questo cambio di guarnigioni è
da notarsi in considerazione che significava l'allontanamento definitivo dal regno di quel terzo
spagnolo. Nello stesso primo giorno dell'anno il viceré conferiva la carica d’auditore generale
dell'esercito allo spagnolo Lope de Bustamante (Dottor dell'una e dell'altra legge e soggetto di
molto ragguardevole). Altro avvenimento militare tra i primi dell’anno fu inoltre la mostra
generale della cavalleria, montata e smontata, che si trovava nel Napoletano; queste erano ora
ordinate da un nuovo regolamento che le poneva sul piede di Catalogna e che riteniamo essere
quello del 2 novembre 1702, promulgato in Spagna inizialmente per il solo esercito dell'Alta
Italia, ma che ora evidentemente era esteso anche a quello del Regno di Napoli. Perché poi a
Napoli si dicesse piede di Catalogna non sappiamo; forse la cavalleria di quel principato di
frontiera era stata la prima a essere uniformata agli usi francesi e ciò prima ancora della
promulgazione delle succitate ordinanze del 1702.
La mostra predetta fu dunque data martedì 2 gennaio ed ebbe le seguenti risultanze:

Compagnie della guardia del viceré. Ufficiali Soldati Cavalli

Capitano Baltasar Cortes Carrillo 10 78 74


Capitano Diego Bauzo Ivañez 9 69 65

Compagnia del generale della cavalleria


501
principe de Castellar (di Castiglione) 8 49 52

Reggimenti di cavalleria di corazze

Colonnello Juan Estévan Billet, di 6 compagnie 42 260 272


Colonnello Pedro Manzo Zuñiga, di 7 compagnie 59 274 274

Reggimenti di dragoni

Colonnello Francisco Domingo Velbalet, di 6 compagnie 42 224 ?


Colonnello Joseph de Armendariz, di 10 compagnie 60 250 254.

Le due compagnie della guardia risultano qui capitanate da nuovi comandanti i cui nomi
sentiamo per la prima volta e che sono ambedue spagnoli, mentre finora una sola delle due
compagnie doveva, come sappiamo, essere spagnola. Queste mostre erano, come abbiamo
già detto, mensili, corrispondendo al pagamento del soldo, e ci è rimasta anche la relazione di
quella del mese successivo, cioè di quella che sarà data giovedì primo febbraio, mostra che
sostanzialmente confermerà i dati della precedente, ma con le seguenti due rilevanti variazioni;
nel reggimento di corazze del Manzo ci sarà ora un surplus di circa 30 cavalli rispetto agli uomini
e, per quanto riguarda quello dei dragoni Velbalet, risulteranno a Napoli solo tre delle sei
compagnie presenti all'inizio dell'anno; infatti il precedente giovedì 25 gennaio erano partite
verso Fondi tre compagnie smontate di questi dragoni catalani, compagnie che però venti giorni
più tardi torneranno a essere sei per il ritorno a Napoli di quelle tre che l'anno precedente erano
riuscite a toccare il suolo della Spagna avevano fatto ritorno a Napoli; inoltre martedì 20
febbraio torneranno da Fondi due compagnie smontate dei predetti dragoni che avevano
ricevuto la muta dalle predette e alle quali avevano evidentemente dovuto lasciare le loro
cavalcature. Si aggiungeranno infine anche due compagnie di cavalleria (forse dragoni) che
arriveranno da Milano, per un totale di 20 ufficiali e 106 soldati, compagnie guidate dai capitani
Motet e Carlos Legiun, non nuovi, come abbiamo visto, a questo lavoro di condottieri di truppe
di cavalleria. Inoltre nel corso di questo gennaio il napoletano Antonio Pignatelli, fratello del
duca di Bisaccia, generale dell'artiglieria di Fiandra, mentre serviva in quell'esercito, ricevette a
Bruxelles l'incarico di levare un nuovo reggimento proprio di dragoni, corpo che sarà passato
per la prima volta in rivista venerdì 20 aprile dello stesso 1703.
Un avviso dalla Spagna lascia capire che colà si stava tentando di sveltire il non
facile adeguamento dell’esercito iberico alla suddetta ordinanza del 2 novembre, ma, a quanto
sembra, con una ‘gallicizzazione’ ancora più spiccata di quanto con l’ordinanza medesima
sembrasse essersi inteso:

502
(Madrid, 6 gennaio:) In esecuzione degli ordini di Sua Maestà si reclutano tutt’i terzi di fanteria
infin’a 1.000 (1.060?) uomini per ciascuno e si levano 5 altri nuovi trozzi di cavalleria, i quali
hanno da esser tutti di 500 uomini per ciascuno, intendendo Sua Mestà di aver’a guardia di
questi regni 17mila fanti e 6mila cavalli…

Nel prosieguo il suddetto avviso distinguerà le soldatesche montate in corazze e dragoni.


Per quanto riguarda la fanteria, è chiaro che terzi di mille uomini erano destinati a esser
suddivisi in due battaglioni come i reggimenti francesi e infatti, per esempio, all’inizio di marzo a
Milano si stava pensando di suddividere in tal modo (secondo l’uso de’ franzesi) quello del
mastro di campo Bonesana in considerazione che, in osservanza alle nuove ordinanze, gli
erano state appena unite altre compagnie.
Verso il 20 gennaio fu pubblicato a Napoli un editto che proibiva le maschere in occasione
dell’imminente carnevale; si aveva infatti ancora paura di ulteriori congiure e sollevazioni filo-
austriache e che dei camuffamenti potessero nascondere dei congiurati; una corrispondenza da
Madrid dell’8 febbraio informava poi che il re aveva ordinato al viceré di Napoli d’inviare 50mila
scudi in Lombardia per i bisogni di quello stato e infatti di spedizione di grosse somme fatte colà
per il pane di monizione per l’esercito di Milano si avrà poi pubblica notizia il 12 marzo seguente.
Verso la metà di questo febbraio arrivò a Napoli un vascello che riportava dalla Spagna 400
fanti spagnoli del terzo del conte di Galbez, i quali erano stati i soli di quel corpo a esser riusciti
a raggiungere Barcellona su uno dei predetti vascelli genovesi ed evidentemente era stato con
questo stesso vascello o comunque con una sua conserva che erano tornate anche le predette
tre compagnie di dragoni catalani; del succitato ritorno di terzi napoletani dalla Catalogna non si
trova invece conferma alcuna nelle cronache del tempo - cosa che del resto ci aspettavamo - e
anzi è riportato un evento opposto e cioè che martedì 20 febbraio giunsero a Napoli quattro
capitani del terzo di Luigi Gaetano di stanza a Barcellona, per il quale si aveva ancora bisogno
di reclutare. In effetti, come abbiamo già ricordato, non capitò mai che un terzo regnicolo fosse
fatto ritornare in patria; una volta fattele uscire dai loro paesi, la Corona utilizzava all'estero le
soldatesche napoletane, milanesi o borgognone che fossero fino alla loro completa
consumazione, spostandole da un teatro di guerra all'altro, da un presidio all'altro, dal Vecchio
al Nuovo Mondo, rinfoltendone i corpi con reclute provenienti dalle loro terre d'origine finché
possibile e infine riformandoli e facendone confluire i resti in altri terzi o reggimenti della stessa
nazionalità. Giunsero inoltre dalla Francia molte lettere di cambio di grosso importo per pagare il
soldo delle fanterie francesi di stanza a Napoli, primo esempio d’occupanti stranieri nel regno
che non pretendessero tale pagamento dalla cassa militare napoletana.
503
Arrivò poi nuova che, in occasione di rimpiazzi, il re continuava a sostituire i capitani del suo
reggimento di corazze napoletane con altri capitani nobili pure napoletani e questa era una
conferma che i francesi nutrivano un sincero apprezzamento della cavalleria napoletana; si era
dunque saputo che Nicolò di Sangro aveva avuto la compagnia che era stata di Titta Brancaccio
e Francesco Felice Ajerba d’Aragona dei duchi d’Alessano quella che aveva comandato Titta
Caracciolo figlio di Petricone duca di Martina; poi, dopo qualche giorno, giunse anche nuova da
Madrid che Filippo V aveva affidato all'intendente Ory la soprintendenza della valutazione dei
servigi di cui si erano resi meritevoli gli ufficiali che chiedevano impiego nel predetto reggimento
della guardia.
In questo primo bimestre dell'anno l'Abruzzo, oltre a essere colpito da rovinosi terremoti che
facevano strage di quelle popolazioni, era anche travagliato dalle bande di fuorusciti filo-
austriaci, i quali avevano le loro basi nel confinante Stato Ecclesiastico e scorrevano e
depredavano quella provincia sotto il comando di un famoso capo-bandito Giulio Cesare de
Santis, detto Scarpaleggia, forse perché particolarmente abile a sottrarsi con la fuga; a questi si
aggiungevano i numerosi ex-vassalli e accoliti del marchese del Vasto, a cui, poiché
apertamente dichiaratosi austriacante e fuggito prima a Roma e poi a Vienna, erano stati
recentemente confiscati i beni e i feudi; infine, come se ciò non bastasse, c'erano le incursioni
costiere dei pirati dalmati mandati dagli imperiali ad accrescere l'insicurezza degli abruzzesi.
La Spagna si preparava frattanto alle future campagne di guerra, riorganizzando i suoi eserciti
sempre sul modello di quelli francesi, e, per esempio, nel Milanese si procedeva, ove reso
possibile dalla consistenza del piede, a suddividere i reggimenti di fanteria in due battaglioni di
12 compagnie secondo l'uso transalpino. Anche nel Regno di Napoli si attendeva a nuove
fortificazioni e altri preparativi militari; tra questi nel marzo fu pronto il nuovo treno dell'artiglieria
da campagna che era in preparazione da tempo e che sarebbe stato trasferito all'estero alla
prima occorrenza; inoltre si preparavano le milizie del Battaglione, specie in Puglia, e a tale
scopo i presidi provinciali ne avevano convocato tutti i capitani, onde trasmetter loro gli ordini
regi e comandare che ciascuno di loro rassegnasse al più presto la sua compagnia.

(Napoli, 6 marzo:) Si è fatta la settimana passata una divota missione per 8 giorni continui nella
chiesa di S. Francesco Saverio de’ padri gesuiti, nella quale è intervenuto quasi ogni giorno Sua
Eccellenza (il Viceré) e vi è stato un grandissimo concorso degli officiali generali di queste
truppe e di tutt’i militari, i quali poi domenica accompagnarono per alcune strade la statua di S.
Francesco Borgia con una lunghissima e divota processione, nella quale andovvi anche
l’Eccellenza Sua, dando nobile esempio di sua pietà a questo Comune (‘a questa
cittadinanza’)…

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Insomma anche la guarnigione di Napoli, evidentemente poco confidando nelle sue forze,
riteneva utile affidarsi alla protezione dei santi! Un avviso da Milano del 21 febbraio precedente
informava intanto che la soldatesca napoletana di stanza nel Lecchese si preparava a passare
a guardare il territorio della Gera d’Adda, ma di quali corpi si trattasse non si specificava.
Sabato 10 marzo morì di un colpo apoplettico Francesco Serra marchese di Riva d’Ebro, il
quale in gioventù aveva servito per lungo tempo come mastro di campo in Catalogna; mercoledì
14 si pubblicarono per Napoli alcuni bandi, tra cui uno che ordinava ai capitani di giustizia di
mantenere continuamente sotto di sé 25 birri ognuno, tutti abili all’arme e non inquisiti di alcun
delitto, e un altro che vietava di ospitare prostitute negli alloggiamenti militari. Sabato 17
approdarono a Napoli sei tartane francesi cariche di soldati di marina e di munizioni da guerra,
le quali si misero nell’attesa d’altre dello stesso convoglio, per poi proseguire tutte insieme verso
l'Adriatico, dove andavano a rinforzare quella squadra francese ora comandata dal du Quesne;
costui era giunto a Baia, nella prima decade di marzo, al comando di un vascello da guerra
francese partito da Tolone di conserva con un altro, il quale poi lo stesso du Quesne aveva
rimandato al porto di partenza perché vi scortasse tre vascelli nemici predati durante la
navigazione e trovati ricchi di carico per un valore di ben 300mila scudi. Nello stesso sabato
lasciò Napoli Ottaviano de’ Medici duca di Sarno, il quale tornava all'esercito di Lombardia a
esercitarvi il suo incarico di tenente colonnello del già tanto menzionato reggimento di corazze
napoletane della guardia reale. Martedì 20 partirono per Milano anche il colonnello marchese de
Goisbrian, comandante del reggimento francese di Berry, e il suo luogotenente Folard,
promossi dal re di Francia il primo maresciallo di campo e il secondo suo aiutante di campo; il
de Goisbrian, il quale dopo circa un anno e mezzo otterrà un'ulteriore promozione a
luogotenente generale, era accompagnato anche dal suo ricco e numeroso equipaggio di
viaggio e nel relativo avviso così lo s’incensava:

... il quale ha portato con seco l'affetto di tutti gli ordini di questa Città, dove è vivuto con grande
splendore e con grandissima gentilezza di costumi.

Mercoledì 21 fu archibugiato nel largo del Castel Nuovo, il quale ora cominciava a esser
chiamato più modernamente con il termine militare di piazza, un soldato spagnolo disertore e
omicida (per vari atroci misfatti ch’egli avea commessi); infatti, probabilmente a causa della
contemporanea e più autorevole presenza francese, erano ormai finiti i tempi in cui i boriosi
conquistatori iberici la passavano all’estero sempre liscia, qualsiasi delitto avessero commesso!
Nel frattempo, nell’ambito dei preparativi militari cautelativi, si era completato il treno

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dell’artiglieria di campagna del regno, il che significava aver reperito un gran numero di cavalli e
di muli, si munivano inoltre ulteriormente costiere, specie le più strategiche, castelli, fortezze e
torri marittime del regno e dei Presidi di Toscana – furono aggiunte nuove fortificazioni
specialmente al castello di Baja - e i presidi provinciali avevano convocato tutti i capitani del
Battaglione per comunicar ulteriori ordini regi dopo quello, già da loro ricevuto, di dar presto la
mostra alle loro compagnie. Furono inoltre fatte pervenire a Napoli forniture alimentari
supplementari e si trattava di 60mila tomola di grano portato da 20 tartane provenienti dalla
Capitanata e dalla Sicilia, cioè dalle due regioni d’Italia tradizionalmente gran produttrici di
frumento, e inoltre dalla Puglia giunsero altre quattro tartane cariche d’olio d’oliva, l’unico che
allora si conoscesse e producesse. In questi giorni fu inoltre proibito a Napoli d’installare per le
strade i banchi dei giochi detti lotti, perché notoriamente fonti di raggiri e di disordini; si trattava
di una specie di tombola pubblica tenuta da privati, spesso imbroglioni e truffatori che
approfittavano del vizio del gioco che, allora come oggi, affliggeva tante persone; dopo alcuni
giorni la proibizione fu estesa a tutto il regno.
Giovedì 22 marzo giunse dalla Sardegna una fregata francese che portava 102 fanti venuti a
reclutare i quattro reggimenti transalpini di stanza a Napoli, reggimenti che erano mantenuti in
costante disciplina anche facendoli esercitare quasi ogni giorno nelle piazze della città,
probabilmente soprattutto perché i napoletani si abituassero così a sentirsi protetti dalla Francia.
Giovedì 29 lasciarono Benevento per Roma alcuni dei congiurati dei torbidi del 1701, i quali si
erano allora rifugiati in quel feudo pontificio; essi avevano ora ottenuto i salvacondotti necessari
e viaggiavano scortati da molti soldati sia regnicoli, sia papalini. Sabato 31 fu condotta alle regie
galere una catena di malfattori condannati a questa pena dal commissario di campagna. Ad
aprile fu trasferito da Capua a Napoli il terzo vallone del visconte di Maulde, corpo che era stato
appena reclutato, ossia rinfoltito con nuove reclute di diverse nazioni, essendo difficile
procurargli rimpiazzi solo valloni, e che giovedì 26 dello stesso mese sarà trasportato via mare
con due vascelli a Longone; in sua sostituzione fu inviato a Capua, maggior piazza militare del
regno, il reggimento di dragoni Velbalet, il quale, come abbiamo visto, non era riuscito l'anno
precedente a raggiungere la Spagna. A Orbitello risultano presenti - e già dal gennaio – le sei
compagnie del più volte nominato terzo spagnolo del mastro di campo Luis de Guzman y
Spinola, fanterie che vi erano state mandate di rinforzo e che, come sappiamo, provenivano da
Valenza in Lombardia.
Giovedì 12 lasciò Napoli su una galera Mercurio Pacheco conte di Estéban de Gormaz,
primogenito del viceré, il quale tornava in Lombardia dove, come abbiamo visto, comandava ora

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il terzo fisso spagnolo detto di Savoia; il suo arrivo a Milano sarà segnalato da un avviso
milanese del 25 dello stesso mese, mentre del suo precedente passaggio per Genova aveva
informato un appunto genovese del 21 e, poiché quest’ultimo diceva anche del passaggio del
suddetto marchese de Goisbrian, partito, come sappiamo, sensibilmente prima del Pacheco, c’è
da pensare che questi avesse viaggiato portato da una veloce galera regia, mentre il francese
magari a bordo di una tartana, in considerazione che, come sappiamo, era accompagnato dal
suo completo bagaglio, il che allora significava portarsi dietro anche gli arredi di casa. Sabato
14 aprile salparono per Finale anche due compagnie di dragoni ‘lombardi’ per un totale di 150
soldati, il cui nucleo principale doveva essere costituito dagli uomini delle ex-Motet e Jaune,
perché non ci risulta che in regno ce ne fossero allora altre pure costituite da dragoni di
provenienza lombarda; arriveranno in Liguria il venerdì 20. Si provvedevano frattanto in quei
giorni d’ogni cosa due galere destinate ad andare in corso a protezione delle coste del regno;
inoltre nello stesso aprile s’iniziarono alcune opere di difesa fuori del ponte della Maddalena,
principale strada d'accesso alla capitale e al tempo stesso ottimo luogo per postazione di
batteria costiera:

17 detto (martedì) al ponte della Maddalena si è incominciato a fare un fortino e un altro alla
Torre del Greco, dove vi faticavano di continuo più di lucenti uomini e donne.

Da quando, due secoli prima, si era iniziato a costruire le opere di fortificazione non più in
pietra, bensì in terra incamiciata l'uso delle donne come mano d'opera era divenuto consueto;
esse erano ingaggiate e guidate nel lavoro da uomini detti caporali di donne, ognuno dei quali
comandava un buon numero di queste macchine e possiamo immaginare quale potere
esercitasse su di loro; queste donne erano generalmente addette al trasporto di pesanti corbe
piene di terra che esse portavano sul capo, snodandosi in lunghe teorie, e chissà quante di loro
tornavano a casa all'imbrunire con gli occhi fuori dalle orbite per la continua pressione che il
grave peso trasportato esercitava sui loro cervelli!
In realtà il marchese di Villena, per potenziare le difese delle venti miglia di spiaggia che
andavano da Napoli a Castell’a Mare, aveva, alla fine di quest’aprile, dato inizio alla costruzione
di un totale di cinque nuovi fortini costieri e cioè quelli di San Giovanni a Teduccio, del
Granatello, della Torre di Resina, dello Scoglio di Jovigliano a Torre del Greco e appunto di
Castell’a Mare; egli aveva poi inviato ispettori a controllare tutti i castelli e le fortezze del regno,
perché riconoscessero la necessità che potevano avere di essere rinforzati d’opere murarie,
d’artiglieria e di provvisioni da guerra e da bocca e nuove fortificazioni furono aggiunte
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soprattutto al castello di Baia; infine, rinforzava ulteriormente il regno spargendovi nuove
artiglierie e anche le numerose compagnie del terzo antico di fanteria spagnola, mandandole
cioè in rinforzo ai maggiori locali presidi ed era in procinto di partirne una anche per quello delle
Tremiti, presidio che però in effetti doveva essere poco impegnato sia dagli imperiali sia dai
pirati dalmati giacché le cronache mai ne menzionano fatti.

Si portò Sua Eccellenza mercordì (18 aprile) a’ Bagnuli, fuori della grotta di Pozzuoli, a vedervi
la pruova che si fece dagli artiglieri di alcuni nuovi mortaj; e vi andarono con tale occasione
quasi tutti i più ragguardevoli officiali di queste truppe.

In quel mentre, martedì 24 aprile, pagata con le elemosine del mastro di campo Emmanuel de
Silva y Meneses conte di Galvez e dei soldati delle tre compagnie del suo terzo ancora di
stanza a Napoli, nella chiesa di S. Luigi di Palazzo era stata festeggiata sontuosamente la festa
detta dei sette dolori di Maria.
Un avviso da Bruxelles del 23 marzo relazionava dei provvedimenti e delle innovazioni militari
che Filippo V stava In quel mentre adottando in Fiandra (… di che si vede che il re vuole in ogni
modo ridurre la disciplina militare di questo paese all’uso di quella di Francia…); insomma i
francesi consideravano la propria organizzazione militare più moderna ed evoluta di quella della
Spagna, la quale effettivamente era ancora afflitta da una forma di subordinazione feudale.
Domenica 29 aprile giunse a Napoli la compagnia di cavalleria del Battaglione di Teano - il
nome di cavalleria della Sacchetta era ormai in disuso - e viene così descritta da un diarista:

... Tutta ben vestita di nuovo e ben fornita di tutte le cose bisognevoli, che passò mostra nella
piazza di questo Real Palagio e poi fu mandata a quartiere nel Borgo di Chiaia, ove saranno
eziandio stabilite le altre del Battaglione medesimo che dovranno venire in questa Città.

La circostanza che queste compagnie provinciali fossero spostate a Napoli ben vestite ed
equipaggiate lascia intendere che si voleva trasformarle in cavalleria ordinaria, snaturando così
questa milizia, la quale, come sappiamo, era stata istituita nel Cinquecento per la sola difesa
territoriale del regno.
Alla fine d’aprile fece sosta a Napoli un vascello francese carico di bombe destinate
probabilmente alla flotta del du Quesne che operava nell’Adriatico; nello stesso periodo, mentre
si fondevano nuove artiglierie da fortificazione, si mantenevano in esercizio tutte le soldatesche
e numerose fanterie spagnole tratte dal terzo antico di Napoli, unico corpo esperto dei presidi di
ogni provincia del regno, erano state messe in marcia per andare a rinforzare le guarnigioni

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confinarie e quelle delle marine più esposte a una possibile invasione, il viceré ordino e poi
controllò di persona la costruzione di altri tre fortini costieri, questi però sulla riviera di ponente
del golfo, e cioè uno presso il castello di Baia, un altro non lontano dalla stessa Baia e il terzo in
località Mare Morto, odierna Lucrino; la costruzione di queste opere fu affidata a ingegneri
francesi, a cui fu pure richiesta la formazione di sei batterie sulla stessa costiera di Pozzuoli e
precisamente a Nisida, a Capo Carusello vicino al Monte Nuovo, all’Epitaffio di Tritoli, sotto il
castello di Baia, a Capo di Mare Morto, dove però, oltre alla batteria, si ritenne opportuno
costruire anche un forte trinceramento, e infine a Miliscola (dal l. militum schola) vicino al monte
di Procida; a Tritoli s’impiantò anche una nuova fonderia, mentre ce ne era già in costruzione
un’altra nel Castel Nuovo di Napoli. Stranezze della storia! Ancor meno di un secolo prima era
la Francia ad assoldare ingegneri militari italiani, fino allora universalmente riconosciuti come i
migliori e più esperti del mondo; ma forse ora, più che l'arte della fortificazione, si apprezzava
dei francesi l'indiscussa superiorità nelle tecniche d'artiglieria e, di conseguenza, nella
costruzione di batterie fisse e di fortini offensivi. L'ammirazione per tutto ciò che fosse francese,
ammirazione perfettamente in linea con l'inguaribile esterofilia italiana, già cominciava a
prendere piede e si avviava ad diventare secolare anche nell'Italia ex-asburgica, destinata infatti
a durare fino agli anni Trenta dell'appena trascorso ventesimo secolo, quando sarà soppiantata
da quella per le realizzazioni della nazione tedesca e, poco dopo, di quella statunitense;
bisogna però riconoscere che il lustro militare e civile della Spagna perderà in tutt'Europa
sempre più quota a tutto vantaggio di quello della Francia e ciò per tutto il Settecento.
È da notare che, nell’eseguire i suddetti lavori di Tritoli, furono disseppellite antichità romane
con affreschi tanto ben conservati che sembravano eseguiti di fresco e si pensò subito che
potesse trattarsi della residenza neroniana a cui si accenna nell’antica storiografia (Gazzetta
napoletana).
Lunedì 30 aprile, poiché il conte di Lemos di lì a pochi giorni sarebbe partito per la Sardegna,
isola di cui andava ad assumere il viceregnato, si mandarono al suo palazzo una guardia di
spagnoli e d’alemanni, omaggio tradizionale che si faceva ai viceré di altri regni e ai governatori
di altri stati che fossero ospiti a Napoli; infatti venerdì 4 maggio tre galere di Napoli salparono
per portare il loro ex-generale e nuovo viceré in Sardegna; il suo incarico di comandante della
squadra delle galere rege napoletane - già in vista di questo evento restituito ufficialmente al
vecchio Andrea d’Ávalos principe di Montesarchio l’anno precedente con quel tipo di promessa
regia che era detta volgarmente la futura e che era stata poi ufficializzata il 18 gennaio di questo
stesso 1703 - fu effettivamente passato a costui la mattina seguente, ossia sabato 5, con una

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cerimonia pubblica avvenuta sulle galere presenti nell’arsenale, cerimonia a cui intervennero sia
il viceré stesso sia la maggior parte della nobiltà napoletana per onorare un uomo che aveva
accumulato nella sua lunga vita così tanti meriti e incarichi di gran prestigio. In seguito le tre
galere suddette, portato il conte in Sardegna, imbarcarono colà il conte di S. Giovanni che
governava prima quell’isola, lo portarono a Messina, dove si fermarono qualche tempo per
provvedersi di ciurma, e ritornarono finalmente a Napoli nel pomeriggio di martedì 29 maggio.
Frattanto mercoledì 2 maggio era giunta di presidio a Napoli da Teano una compagnia di
cavalleria di quelle territoriali dette della Sacchetta ed era la prima volta che ciò accadeva e che
una compagnia del genere si faceva notare per il suo presentarsi ben vestita ed equipaggiata
con forniture nuove di zecca; passò mostra nella piazza del Palazzo Reale e poi fu mandata ad
acquartierarsi al borgo di Chiaja, dove anche sarebbero state sistemate altre della stessa
cavalleria che si aspettavano nella capitale; inoltre una corrispondenza da Madrid dello stesso
predetto 8 maggio informava che il re aveva affidato uno dei tre terzi dell’armata di mare, ossia
quello detto Terzo di Napoletani dell’Armata, al colonnello aquilano Biagio Dragonetti.
Mercoledì 9 partiva per i Presidi di Toscana il loro nuovo vicario generale e cioè il generale
dell’artiglieria Francisco Pinel y Monroy, il quale, per altra precedente nomina, era già castellano
e governatore del castello e presidio di Porto Longone e con ordine reale del 2 gennaio di
questo 1703 gli erano anche stati concessi i 12 alabardieri di guardia che avevano avuto anche i
suoi antecessori in quell’incarico; il giorno seguente anche il principe di Castiglione, capitano
generale della cavalleria, lasciò Napoli per andare a passare in rivista tutti i corpi della
medesima, i quali erano di stanza in vari luoghi del regno e assommavano a circa 2mila ordinari
e 3mila territoriali della Sacchetta.

(Napoli, 15 maggio:) …Nel cavare le fondamenta del forte di Tritoli si sono ritrovati a
trentacinque palmi d’altezza due pavimenti, l’uno di schietto marmo, di mosaico l’altro, posto
alquanto più sotto, e ancora altre diverse fabbriche ornate di pilastri di marmo con le loro basi e
capitelli e dipinte ‘sì vivamente di uccellami e paesi che paiono fatte di fresco. Credono perciò
alcuni che quivi fusse il magnifico palagio dell’imperatore Nerone…

Sabato 19 il viceré scese di mattina nell’arsenale, dove pose il primo chiodo, quello dorato, a
due nuove galere di cui si era iniziata la costruzione e poi, nel pomeriggio, si recò alla detta
nuova fonderia del Castel Nuovo dove assistette alla fondizione di due nuovi cannoni; il giorno
seguente lasciarono il porto della capitale quattro feluche di gente armata e comandata dallo
spagnolo Manuel Spedara, giudice della Vicaria criminale, il quale si recava a Sorrento per
intimare all'arcivescovo di quella città l'ordine regio di disterro, ossia di allontanamento da quella
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città, come in effetti fece, e quali fossero i motivi di questo grave provvedimento preso contro
l'alto prelato non sappiamo. La sera della stessa domenica 20, utilizzando il ritorno di due galere
che avevano portato colà 450 fanti spagnoli del terzo fisso per una muta di guarnigione, giunse
da Gaeta a Napoli il terzo spagnolo de Villalonga, il quale era stato di presidio in quella piazza,
ed erano anche giunte a Napoli alcune tartane francesi che portavano qualche centinaio di fanti
di quella nazione per reclutare i loro quattro reggimenti; venerdì 25 maggio ne approdò un’altra,
questa con 80 fanti, e ancora un’altra con altre reclute si presenterà circa una settimana dopo:

… Venne il giorno medesimo (appunto il 25 maggio) dalla Regia Audienza di Lecce una
numerosa catena di malfattori condannati alle galee, avendo Sua Eccellenza mandato ordine a
tutte le Regie Audienze Provinciali che spediscano prontamente le catene de’ loro condannati
per la mancanza che vi ha di ciurme in queste regie galee; e per questa medesima ragione ha
mandato il principe di Montesarchio nella Cicilia per far compera di schiavi e assoldar
buonavoglie per provvedimento delle medesime…

Messina, pochi lo sanno, era appunto un mercato di schiavi mussulmani, così come Algeri,
Tunisi, Costantinopoli ed altre città costiere mediterranee lo erano di cristiani. La sera di venerdì
25 arrivò a Napoli il marchese del Grillo, quatralbo della squadra delle galere napoletane, il
quale veniva a esercitare la nuova carica di luogotenente generale del regno, carica molto
importante, perché si trattava di essere secondo dopo il viceré, e che era così tolta al vecchio
principe di Montesarchio, le cui ricche spoglie dunque cominciavano a essere spartite prima che
il vegliardo morisse; nella mattinata del martedì 29 il viceré, accompagnato da monsieur de la
Tremoville, si recò a visitare la costruzione delle summenzionate fortificazioni che si stavano
approntando sulla costiera puteolana.
A dispetto di tutte le suddette buone provvidenze militari, quattr'anni più tardi gli austriaci
avrebbero conquistato il regno con una semplice passeggiata, senza incontrare quasi
resistenza, e ciò non per mancanza di virtù militari nei napoletani, i cui ufficiali erano anzi
all'estero apprezzati e spesso valorizzati, tanto da essere posti a volte a capo di corpi d’altra
nazionalità, e proprio nell'aprile precedente il colonnello Antonio Pignatelli, fratello del duca di
Bisaccia, il quale era, come abbiamo già detto, generale dell’artiglieria della Fiandra, aveva
avuto a Bruxelles il comando di un nuovo reggimento di dragoni non napoletani, ma perché in
sostanza non si volle combattere, sia perché le bandiere nemiche portavano l'impresa degli
Asburgo, i quali non erano mai stati nemici del regno, sia perché in fondo nel passare da una
dominazione all'altra la maggior parte dei napoletani non vedeva un pericolo, anzi
probabilmente un’opportunità di guadagno; ciò sempre avviene – allora come oggi - quando un

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popolo, per sua natura e carattere, rinuncia a governarsi da se stesso e si lascia padroneggiare
dagli altri.
Pervenne in quel mentre una corrispondenza da Madrid la quale informava che il 19 maggio il re
Filippo V aveva presenziato alla mostra fatta dal reggimento di corazze napoletane della guardia
reale, rassegna che fu fatta con gli uomini appiedati perché i loro cavalli in quel periodo erano
all’erba, ossia al pascolo primaverile:

… i soldati erano vestiti tutti di panno fino, guerniti riccamente di galloni di argento; fecero essi i
loro esercizi nel cortile interiore del Ritiro e il Re, come ché stasse di sopra a vederli, volle
scender giù e porsi a cavallo per riconoscer egli stesso le file…

Dopo i cavalli corazze napoletani, dettero mostra in presenza del sovrano anche i suoi
moschettieri della guardia reale.
Non ostante la vigilanza della flotta francese, le coste adriatiche erano divenute oggetto di
frequenti attacchi di vascelli corsari; infatti si seppe a Napoli che i pirati uscocchi detti segnani
(da Segna o Sign, loro principale base), i quali erano dalmati vassalli dell'imperatore, avevano
recentemente tentato vari sbarchi sulle coste abruzzesi, ma erano stati dovunque respinti tranne
che a Giulianova, dove, si diceva fossero sbarcati da alcune fuste col preciso mandato di
catturare il duca d'Atri, allora vicario generale dell'armi in Abruzzo; ma, poiché questi era
assente, gli avevano solo devastato e bruciato il palazzo e altre proprietà, catturando invece del
duca due o tre dei maggiori dignitari del luogo e ripartendo indisturbati senza fare alcuna
violenza ad altri. Secondo un avviso ufficiale del 12 giugno questi corsari avevano invece
saccheggiato nottetempo tre o quattro case e poi, a causa del sopraggiungere dei soldati, si
erano reimbarcati in tutta fretta; s’incominciarono pertanto in arsenale a corredare quattro
galere destinate ad andare al più presto a guardare quelle marine e inoltre già la mattina di
martedì 5 giugno si erano subito fatte partire dalla capitale per l'Abruzzo ben 29 compagnie di
fanteria, dove si sarebbero tutte poste agli ordini del predetto duca; i corpi d’appartenenza di
queste compagnie - le quali non erano però a ranghi completi, annoverando in tutto soli mille
uomini - sono indicati nella gazzetta napoletana del tempo, i quali ci permette quindi di sapere
quali terzi fossero allora acquartierati nella capitale e nel suo immediato circondario. Cinque
compagnie erano dunque del reggimento (come già prematuramente si diceva) che da sempre
vi era stato di presidio col nome di terzo fisso antico degli spagnuoli e che era ora comandato
dal sargente generale di battaglia e mastro di campo Joseph Caro di Montenegro; una
compagnia proveniva invece dal reggimento di Jorge de Villalonga, tre da quello di Emmanuel

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de Silva y Meneses conte di Galbez (ex-Gasco), tre dal reggimento di Pedro de Castro e le 17
residue (500 uomini) di quello di Joseph de Redonda. Quest'ultimo sarà, con inizio dal 1705,
chiamato ex-de Redonda perché questo mastro di campo morirà, come vedremo, il 16 gennaio
di quell’anno e questo corpo, detto anche los Colorados (‘i Rossi’), dal colore di fondo della sua
uniforme che era appunto il rosso. A giudicare comunque da quanto sulla fanteria spagnola del
tempo scriveva il conte de Clonard, il reggimento de Redonda poteva essere in origine quello
nato col nome di Sevilla nel 1694, il de Castro sarebbe da ravvisarsi invece nel Segovia,
costituito anch'esso nel 1694 e che poi prese il nome di Blancos per il colore di fondo
dell'uniforme che lo distingueva; infine il reggimento de Villalonga era da ravvisarsi in quello di
fanteria di marina chiamato Armada dal de Clonard, con mastro di campo appunto Jorge de
Villalonga conte de la Cueva e si trattava, come sappiamo, di un corpo in uniforme verde, colore
cioè che troveremo ancora, nel corso del Settecento, usato per le monture di corpi di fanti di
marina ispano-napoletani. A proposito di queste uniformi, sembra che le spese per il vestiario di
questi reggimenti spagnoli fossero a carico della corte di Madrid e non di quella di Napoli e ciò
rappresentava una novità per il regno, novità evidentemente introdotta dalla nuova dinastia
angioina, la quale si dimostrò appunto meno vessatoria di quella asburgica che l’avea
preceduta. Mentre due compagnie di corazze del reggimento Manzo, a partire da mercoledì 20
giugno, tornavano dall’Abruzzo, dove erano state più di sei mesi ai comandi del marchese
Garofalo, il viceré, sempre per contrastare altri eventuali sbarchi, corsari o cesarei che fossero,
lo stesso 20 inviò in Puglia sei compagnie di corazze del reggimento catalano Billet, ma non si
verificarono altri episodi del genere. Più tardi, lunedì 1° ottobre, sarà inviata verso le marine
pugliesi e abbruzzesi ancora altra cavalleria a porsi sotto il comando del generale della
cavalleria principe di Castiglione cui era stata affidata la sorveglianza di quei litorali; infine
sabato 29 dicembre, d'ordine del duca d’Ascalona, il reggimento de Armendariz partirà per
Barletta.
Giovedì 14 giugno uscì dalla real chiesa di S. Jacopo degli Spagnoli la tradizionale processione
del Santissimo Sacramento, a cui prendevano parte gran parte degli ufficiali spagnoli del
presidio di Napoli, tutto il governo del regno e lo stesso viceré, accompagnato dalle sue due
compagnie di cavalleria della guardia. La mattina di sabato 23 giugno il viceré scese
nell’arsenale, dove pose il primo chiodo a una galeotta che colà si stava costruendo e che sarà
poi varata sabato 4 agosto, anche stavolta alla presenza del viceré, il quale in genere riservava
ai fine-settimana queste cerimonie di cantiere, e inoltre del piccolo marchese di Moya, suo figlio;

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nel corso della stessa mattina del giorno 4 due galere partirono per Baia, dove portavano alcuni
cannoni destinati a guarnire le nuove fortificazioni che si erano fatte in quelle marine.
Nello stesso giugno si era frattanto saputo da Madrid che il mese precedente il re Filippo V, tra
varie numerose promozioni di militari, aveva fatto mastro di campo del terzo dei napoletani
dell’armata del Mar Oceano l’aquilano Biagio Dragonetti, aveva promosso (sargente) generale
di battaglia Francesco Gaetano d’Aragona, brigadiere e colonnello del suo reggimento
napoletano della guardia del corpo, il cui nome ufficiale era, come abbiamo già detto,
reggimento di cavalleria della Guardia d’Italia, con ritenzione però di detto colonnellato; infatti
verso il 22 aprile precedente era stato segnalato a Madrid l’arrivo del detto colonnello, venuto
evidentemente a ricevere la sua nuova nomina. Aveva inoltre il re, il 6 di detto mese, nominato
brigadiere Ottaviano de’ Medici duca di Sarno e figlio del principe d'Ottajano, anch’egli con
ritenzione del suo grado di tenente colonnello dello stesso reggimento; infine aveva affidato a
Michele Cabanilla, figlio del marchese di S. Marco, una delle due capitanie di compagnia del
detto reggimento allora vacanti. Il reggimento aveva da poco ricevuto dalla Francia i suoi nuovi
e definitivi stendardi, essendo infatti ora da quel paese che arrivavano in Spagna per l’esercito
sia i vessilli e le uniformi sia anche le armi, gli attrezzi e le munizioni a dimostrazione di quanto
fosse assoluta la dipendenza militare spagnola dai transalpini; ecco a tal proposito un avviso da
Madrid del precedente 31 marzo di questo 1703:

… Sono di Francia giunte molte vesti e altri finimenti di soldati e cavalli per servigio delle truppe
che qui si vanno mettendo all’ordine continuamente…

E un altro, anche questo da Madrid, datato 26 settembre dello stesso 1703:

… Sono di qua passati molta quantità di muli carichi d’arme che da Vizcaya si mandano a
Badajoz, essendone qua venute ancora molto numero dalla Francia, volendosene far de’
magazini per quello che può bisognare negli affari (di guerra) presenti.

Poiché i suddetti vessilli del reggimento di cavalleria napoletana includevano, tra l’altro, anche
l’impresa del Portogallo, il re di questo regno aveva chiesto che venisse tolta e il suo
ambasciatore a Madrid disertò gli incontri col cardinal d’Êtret, Segretario di Stato, fino a che
detta istanza avanzata dal suo re non fu accolta da Filippo V.
La sera di domenica 1° luglio, ottava della passata festa di S. Giovanni, poiché questo santo era
considerato il protettore delle galere, queste uscirono dall’arsenale e si esibirono in rada
illuminate da gran quantità di lumi, mentre contemporaneamente sul lido cittadino si dava il via a
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uno spettacolo di fuochi artificiali a cui assistettero un gran concorso di popolo e lo stesso viceré
dai balconi del suo palazzo, dove gli facevano compagnia il signor de la Tremouille, residente
francese a Napoli, e molti altri ufficiali generali; in quella prima decade di luglio il marchese di
Villena, il quale partecipava in quel periodo a frequenti consigli di guerra che si tenevano
radunando i capi militari delle tre nazioni di presidio a Napoli, si recò anche a visitare le
fortificazioni in costruzione nella zona di Baia. Nei giorni seguenti si notò l’arrivo in città di carichi
di metallo per la nuova artiglieria che si doveva fabbricare, giungeva in quei giorni anche un
avviso madrileno del 7 giugno, il quale informava che erano stati portati in quelle carceri
spagnole i prigionieri napoletani che stavano in Francia, ma in base a quale accordo ciò fosse
avvenuto e perché non fossero stati del tutto liberati, non si diceva.
Dal resoconto della rivista di cavalleria del luglio 1703 si notano, rispetto alle mostre precedenti
da noi trattate, le seguenti principali variazioni. È presente ora anche la compagnia di corazze
del governatore dell'armi marchese di Grigny, comandata dal capitano Carlos Grunemberg e
costituita da sei ufficiali, 57 soldati e 60 cavalli; il reggimento Manzo ha sostanziosamente
aumentato i suoi ranghi a 76 ufficiali, 404 soldati e 363 cavalli, evidentemente così
incrementando anche il numero delle sue compagnie; il reggimento Velbalet ha ora sette
compagnie per un totale di 52 ufficiali, 267 soldati e 168 cavalli. A quest'ultimo corpo - ora
dimorante, come sappiamo, a Capua - fu ordinato nello stesso luglio, certamente in seguito alla
predetta rivista, di uniformarsi a quanto disposto dal predetto viglietto del maggio precedente e
già osservato dagli altri reggimenti. Il reggimento Billet sarà ora di presidio a Pescara, mentre
due compagnie di quello di dragoni de Armendariz, le quali erano state di presidio una a Fondi e
l’altra a Gaeta, fecero ritorno a Napoli sabato 7 luglio.
Domenica 15 luglio il viceré, dopo pranzo, si recò nella sua gondola e con gran
accompagnamento di feluche e di galere a godersi la solita gita lungo l’amenissima costa di
Posillipo; erano con lui tutti i soliti capi militari, i quali evidentemente anche con queste feste e
svaghi gratuiti pensavano di rinsaldare le difese del regno. Lunedì 23 luglio corse voce che
anche il nuovo governatore di Sant'Elmo - lo spagnolo Juan, non avesse voluto far entrare
militari francesi nel suo castello, così come aveva appunto fatto il suo criticato predecessore;
ma la voce non trovò conferme. Negli ultimi giorni di luglio arrivò a Napoli dalla Calabria una
catena di 35 malfattori, di cui però solo 15 furono inviati alle galere, perché gli altri 20 avevano
presentato ricorso e le loro cause dovevano essere riviste.
Tra la fine di luglio e l’inizio d'agosto i predetti corsari segnani che infestavano l'Adriatico, in
numero di 500 e con sette galeotte, attaccarono la città di Termoli, la quale seppe però

515
respingerli avvalendosi del suo presidio di 30 soldati spagnoli comandati dall’alfiere Francesco
Puchi e aiutati validamente dagli stessi cittadini; questo valoroso comportamento fu premiato
dal viceré - con successiva conferma reale del novembre successivo - e la città di Termoli fu
così esentata dal pagamento di qualsiasi dazio per otto anni, mentre i 30 soldati ricevevano in
regalo un mese di paga e l'alfiere, Francesco Puchi, era promosso capitano di una costituenda
compagnia de ramos di fanti spagnoli - e già sappiamo di che cosa si trattasse, il tutto
accompagnato da una lusinghiera relazione del fatto che lo stesso marchese di Villena inviò alla
corte di Madrid.
La mattina di venerdì 3 agosto arrivò la lieta notizia della resa della città fortificata austriaca di
Bressello nel Modenese, notizia che fu subito festeggiata a Napoli nei modi di uso; detta
piazzaforte, occupata dal principe Eugenio solo l’anno precedente, sarà ora tenuta dai franco-
spagnoli sino alla fine della guerra nel 1707. Il giorno seguente il Villena, accompagnato dal
marchesino di Moja suo figlio e da molti ufficiali militari, scese all’arsenale, dove assistette al
varo di una nuova galeotta, vascello che poi, nel primo pomeriggio di domenica 12, utilizzera al
posto della sua gondola per la solita passeggiata domenicale marina lungo la costiera di
Posillipo. In questi giorni la nuova compagnia di cavalleria del principe di Castiglione per la
prima volta in pubblico le sue esercitazioni e ciò avvenne nella piazza del palazzo reale, anche
in questo caso al cospetto del viceré, il quale le osservava dai suoi balconi assieme a molti
ufficiali generali; intorno al 20 poi arrivò da Tolone un vascello carico di forniture militari per i
suoi reggimenti di stanza nel Napoletano, a ulteriore dimostrazione di come la Francia usasse
profittare molto meno delle province di quanto facesse la Spagna, e si tenne la rivista generale
di tutte le soldatesche e correva voce che grandi movimenti militari erano imminenti e che si
dovevano inviare da Napoli in Spagna ben 5mila uomini da unire a tante altre truppe che dagli
altri possedimenti della Corona pure si richiamavano nella penisola iberica, dove sembrava
imminente un’azione franco-spagnola contro il Portogallo di Pietro II, sovrano molto dipendente
dall’Inghilterra. Fare tante nuove leve nel regno, specie per la fanteria, doveva però essere
allora cosa molto difficile a giudicare da una lettera del marchese di Villena inviata alla Corte in
data 6 ottobre di questo 1703, missiva che si trova nel più volte già ricordato Archivio General
de Simancas, Papeles de Estado, Nápoles e con cui questo viceré, il quale nei mesi precedenti
aveva con altre lettere dato conto degli alacri e intensi rafforzamenti dei presidi e delle batterie
costiere del regno, dichiarerà la contingente impossibilità di reclutare 500 rimpiazzi per i due
reggimenti napoletani che servivano allora in Spagna, come da ordini reali dei precedenti 28

516
febbraio e 22 maggio, e inoltre anche quella di fornire il pane di monizione per l’esercito di
Lombardia e il socorro per il reggimento a cavallo della guardia d’Italia.
Nella seconda metà d'agosto si comunicò al visconte di Maulde, che si trovava col suo terzo
vallone a Longone, che doveva continuare a reclutare per il suo corpo, i cui ranghi non erano
evidentemente ancora completi; a metà dell'anno seguente questo reggimento conterà 436
soldati e bassi ufficiali e lo sappiamo da uno strumento di fornitura del vestiario datato 24 luglio
1704; si sarebbero infatti forniti ai detti valloni - ancora di stanza nei Presidi di Toscana - 436
vestiti composti di casacca, calzoni, corpetto, cappello, camicia, cravatta, calzette e scarpe.
Mercoledì 22 agosto giunse da Tolone un vascello francese che portava attrezzature militari per
le soldatesche transalpine di stanza nel Regno di Napoli; sabato 25 agosto, onomastico del re
di Francia Luigi XIV, il viceré dette un gran pranzo a 24 invitati e cioè a monsieur de la
Tremouille e a tutti i principali capi militari delle tre nazioni; il giorno dopo, pagata con una
colletta raccolta tra i predetti soldati francesi, ci fu prima messa solenne alla chiesa di S. Luigi di
Palazzo e fuochi artificiali serali e poi il maresciallo di campo marchese de Avaray, comandante
delle milizie francesi di Napoli, dette a sua volta a casa sua un gran pranzo a 44 invitati tra capi
militari ed esponenti della nobiltà napoletana di prima sfera, ossia titolata. Lunedì 27 si festeggiò
per la notizia di vittorie ottenute dai franco-spagnoli sui campi di battaglia dell’Europa centrale e
si pubblicò un bando della Gran Corte della Vicaria Criminale, con cui si rinnovavano le pene
già stabilite per chi, correndo con il calesse per le vie della città, metteva così a repentaglio
l’incolumità pubblica; il giorno seguente tre galere napoletane partirono per andare a esercitare
la guerra di corso nell’Adriatico, mentre in quei giorni arrivava dalla Corte di Madrid la nomina a
sargente generale di battaglia per Joseph Caro, mastro di campo del terzo fisso degli spagnoli,
con ritenzione anche di questo incarico e quindi del relativo stipendio e nei giorni seguenti si
seppe della stessa nomina per Bartolomé Espejo, mastro di campo e governatore di Orbitello, e
per Manuel Joseph de la Borda, mastro di campo e governatore di Port’Ercole, anche in questi
casi con ritenzione dei loro precedenti incarichi. Alla fine dello stesso agosto moriva frattanto il
viceré di Galizia, il napoletano Domenico Pignatelli marchese di S. Vincenzo, il quale aveva
ottenuto quel viceregnato appena l’11 aprile precedente, e il re nominava al suo posto il duca
d’Icar, anch’egli napoletano e della medesima famiglia del defunto, mentre, come già sappiamo,
era allora viceré di Sicilia, anche se pro interim, un altro napoletano, cioè il cardinale Giudice, a
cui, come si saprà poi a Napoli per lettere da Palermo datate 16 ottobre, il re concederà anche il
ricco arcivescovato di Monreale, fonte di grandi redditi ecclesiastici; questi incarichi così
prestigiosi dimostrano che Madrid aveva dei suoi sudditi napoletani molta più considerazione

517
politica e stima di quanto oggi si pensi. Il predetto duca d’Icar non dovette però esser proprio
entusiasta del grandissimo onore ricevuto perché, tardando a prenderne possesso, una ventina
di giorni dopo fu raggiunto dall’ordine reale di affrettarsi a raggiungere la Galizia.
La relazione sull’ammontare di paghe e acconti elargiti a tutte le soldatesche del regno fatta nel
1702 e che abbiamo tanto largamente citato si ritrova anche per questo 1703 ed è datata 10
aprile; essa è del tutto simile alla precedente, eccezion fatta per qualche differenza nei numeri
degli aggregati ai singoli corpi; più interessante quindi ci sembra un’altra relazione sulla fanteria
e cavalleria presenti in regno, che il viceré marchese di Villena inviò a Madrid il 21 agosto di
questo stesso anno e che si trova nello stesso fondo Papeles de Estado, Nápoles dell’Archivio
General de Simancas:

Fanteria. Compagnie. Ufficiali di Soldati.


prima piana.

Terzo fisso Joseph Caro 42 374 2.923


“ Pedro de Castro 19 168 542
“ Jorge de Villalonga 12 106 455
“ Conte di Galvez 18 158 621
“ Joseph de Redonda 17 149 511
“ Ambrosio Antolinez 14 125 489
“ Luis de Guzman y Spinola 6 53 190
2 compagnie sciolte di napoletani (‘regnicoli’) 2 18 196

1.258 6.230

Cavalleria di corazze.

2 compagnie della guardia del viceré 19 149


Compagnia della guardia del governatore
dell’armi (cap. Joseph Carlos Grunemberg 9 58
Compagnia del generale della cavalleria 9 58
Reggimento del col. Pedro Manzo de Zuñiga 95 420
Reggimento del col. Estéban Billet 84 470

216 1.155

Cavalleria di dragoni.

Reggimento del col. Francisco Domingo Velbalet 78 396


Reggimento del col. Joseph de Armendariz 78 369

156 765

Tot. generale: 1.630 8.150.


518
I suddetti 9.780 uomini erano suddivisi a difesa del regno come segue:

Fanteria. Cavalleria.

Napoli: 530 + 2.816 210 + 1.054


Capua: 9+ 73 54 + 273 (dragoni)
Fondi: 24 + 123 (tre compagnie di dragoni)
Gaeta: 54 + 392
Castello d’Ischia: 9+ 52
Abruzzo: 255 + 1.000 41 + 224
Barletta: 43 + 246
S. Angelo di Puglia: 9 + 100
Castello di Brindisi: 9+ 51
Reggio: 9+ 90
Castello di Bari: 28
Isola di Tremiti: 29
Porto Longone: 214 + 870
Orbitello: 106 + 490
Porto Ercole: 54 + 239

Per quanto riguarda l’Abruzzo, si deve precisare che il presidio del castello dell’Aquila
comprendeva 73 soldati, i quali all’inizio del 1705 saranno trasferiti nella piazza di Pescara,
perché evidentemente colà più utili nella difesa contro un’eventuale invasione austriaca,
rappresentando allora questa una minaccia certo più concreta del brigantaggio abruzzese. A
proposito poi del col. Spinola, bisogna dire che è del 12 luglio precedente una supplica del
medesimo inviata al re, in cui egli chiedeva un beneficio ormai negato dagli ultimi recenti
regolamenti e cioè il grado di sargente generale di battaglia con ritenzione del comando del suo
terzo, quest’ultimo oltretutto ridotto ai minimi termini da quando sei delle sue compagnie erano
state inviate nel Regno di Napoli. La stessa richiesta sarà poi avanzata anche dal de Villalonga
nell’ottobre seguente.
Nell'Europa centrale la guerra proseguiva In quel mentre con fasi alterne, ma le principali vittorie
erano franco-spagnole; infatti, anche se gli inglesi del conte di Marlborough avevano occupato
Colonia, Bonn e altre città tedesche ed Eugenio di Savoia avanzava nella Germania occidentale
e meridionale, a Höchstädt in Baviera i franco-bavaresi comandati dal maresciallo duca Claude
Louis Hector de Villars, il quale aveva allora l'incarico di luogotenente generale dell'esercito,
sconfissero nettamente il 20 settembre gli imperiali del conte Herman-Otto von Limburg-Styrum
e poi a Spira il 15 novembre, guidati da Camille d’Hostun duca di Tallard, ebbero ragione del
principe d'Assia-Cassel, il quale era in soccorso dell'assediata Landau, presa dagli imperiali

519
solo l’anno prima; infine in Alta Italia i gallispani avevano espugnato la piazza di Bressello,
vittoria che fu festeggiata a Napoli venerdì 3 agosto, essendone arivata notizia quella mattina
stessa. L'avvenimento più gravido di conseguenze fu però la proclamazione imperiale a re di
Spagna, col nome di Carlo III, dell'arciduca Carlo d'Austria, secondogenito dell'imperatore
Leopoldo I, proclamazione che, come vedremo, intensificherà la guerra anche in Catalogna.
Venerdì 7 settembre ci fu la consueta commemorazione della grande vittoria di Nördlingen e il
giorno seguente, in occasione della festa della Natività della Madonna, la solita parata di
Piedigrotta per dove si squadronarono in ordine di battaglia 12 battaglione di fanteria spagnola
e francese e sei squadroni di cavalleria, soldatesche al cui capo si posero il governatore
dell’armi marchese di Grigny, il mastro di campo generale Restaino Cantelmo duca di Popoli e
principe di Pettorano e il capitano generale della cavalleria Tomaso d’Aquino principe di
Castiglione:

… E si vide con quest’occasione per la prima volta la nuova compagnia di cavalli formata
ultimamente per guardia del governatore dell’armi, chè composta di gente eletta e vestita tutta
nobilmente ed è comandata dal capitan Gioseppe Carlo di Grunembergh, figlio del colonnello di
quel nome…

Sabato 15 il viceré si portò a visitare nuove fortificazioni costruite attorno al castello di S. Eramo
e, con l’occasione, restò invitato a pranzo dai monaci Certosini dell’attiguo monastero di S.
Martino, oggi bellissimo e panoramicissimo museo; arrivò in seguito da Brindisi una lettera
inviata il 20 settembre da Francisco de la Serma, comandante delle tre galere che erano
passate nell’Adriatico, il quale informava che il 14 precedente presso Capo di Solda i tre vascelli
si erano imbattuti in una formazione nemica composta di una grande imbarcazione armata di
otto cannoni, 28 petriere ed 87 uomini d’equipaggio, di una tartana di 12 petriere e 15 uomini e
una fusta di Cefalonia; dopo qualche resistenza la prima era stata incendiata e l’altre due
predate, essendosi così liberata una tartana regnicola carica d’orzo che il nemico aveva
catturato nelle acque di Manfredonia; di quale nazionalità fossero questi nemici l’avviso non
dice, ma la presenza di una fusta ci fa ritenere che si trattasse d’imbarcazioni ottomane.
Venerdì 28 si seppe di un’altra presa fatta al nemico in Lombardia e cioè quella di Brissago,
località fortificata presso Varese, vittoria che fu, come il solito, subito festeggiata a Napoli, ma si
trattava, come anche il precedente di Bresello, d’effimeri successi che non impediranno la vicina
e totale vittoria degli imperiali in Italia. Nello stesso settembre il principe Tomaso d'Aquino di
Castiglione, generale della cavalleria del regno e soprintendente della milizia del Battaglione,
passò di nuovo in rivista la cavalleria di stanza nella capitale, ammontando allora, come
520
abbiamo già detto, quella ordinaria del regno a 2mila uomini; poi lunedì 1° ottobre, nominato
vicario generale delle tre province di Puglia, Lecce e Capitanata, partì per la Puglia e l'Abruzzo
con dieci compagnie per effettuare un’ispezione generale di quei presidi pugliesi e di quelle
guarnigioni e inoltre con l'incarico di difendere quelle coste così esposte alla minaccia cesarea
che veniva da Fiume e Trieste e dall’ingresso nel Mediterraneo della flotta nemica anglo-
olndese, avvenuto questo il 23 settembre, di comandarne la difesa e d’arruolare altri fanti del
Battaglione per la formazione dei reggimenti ora frequentemente richiesti dal re; infatti nel corso
dello stesso ottobre fortificò ulteriormente Manfredonia, pose e passò in rivista un campo
militare tra Trani e Barletta, comprendente 18 squadroni di cavalleria e dragoni, nove di fanteria
del Battaglione di quelle province e un treno d’artiglieria da campagna, stabilì poi la piazza
d’armi a Barletta e si spostò nella provincia di Terra d’Otranto; non tornerà a Napoli prima della
fine dell’anno.
Giovedì 4 ottobre giunse notizia che, sin dal 30 precedente, la potente flotta anglolandese
nemica – 48 vascelli grossi più fregate e brulotti per un totale di 64 - era arrivata a Livorno e
questa presenza ostile così potente e vicina fece piombare il governo napoletano nella più
profonda preoccupazione; pertanto l'ottobre di questo 1703 fu un mese d’altri frenetici
preparativi militari, con l'invio a Gaeta del reggimento de Villalonga e del sargente generale di
battaglia Caro nominato comandante di quella fortezza, a Pozzuoli di quello francese di Berry, il
quale, come abbiamo visto, aveva già alloggiato in quella cittadina in precedenza, ma, cessato il
pericolo appena il mese seguente, ne verrà subito richiamato di nuovo a Napoli, e infine in altri
luoghi di varie compagnie spagnole; furono muniti inoltre di cannoni tutti i fortini e le batterie
della costiera del Napoletano, tra cui quelli costruiti di recente dagli ingegneri francesi
appositamente inviati a Napoli dal re di Francia sotto il comando del primo ingegnero del regno,
cioè il cavalier de Neonville (Neuville?), ora nominato brigadiere dal viceré; si trattava
principalmente dei fortini di Baia, Maremorto, Miliscola, Nisida, Lazzaretto, Torre di Rovigliano,
Tre Torri, mentre non ancora terminati erano quelli iniziati al Granatello e aSan Giovanni a
Teduccio, cioè alle porte di Napoli. Frattanto il principe di Manfredonia fortificava quel suo
principal feudo e stabiliva tra Trani e Barletta un campo militare per 18 squadroni di truppe
montate, tra cavalleria e dragoni, e per nove raggruppamenti di fanteria del Battaglione, tratti
questi ultimi dalle terre di Puglia, Lecce e Capitanata; disponeva inoltre questo campo di un
buon treno d'artiglieria da campagna, ma in seguito la piazza d'armi fu stabilita a Barletta. Si
temeva dunque ancora principalmente che il nemico sbarcasse sulle coste adriatiche, ma i
cesarei ciò proprio non faranno, forse perché bene informati di tutti questi preparativi di difesa

521
approntati a ridosso di quelle marine; in effetti questo concentramento di truppe sarà poi presto
smobilitato nel marzo del successivo 1704, ma con tutto ciò le coste orientali del regno
restarono anche in seguito eccezionalmente presidiate e nella sola Vasto, per esempio,
nell'agosto del 1704 ci saranno di presidio ben sei compagnie di fanteria spagnola.
Mercoledì 10 ottobre si festeggiò a Napoli la suddetta grande vittoria franco-bavarese di
Höchstädt ottenuta dal maresciallo di Francia François de Villars e de Usson e si dette il cambio
alle guarnigioni dei regi castelli della capitale aumentandone gli effettivi.

(Napoli, 16 ottobre:) Da questa Gran Corte della Vicaria fu venerdì mandato a servire in queste
regie galee per dieci anni un certo disgraziato per aver empiamente bestemmiato il glorioso
nome di S. Gennaro nostro protettore e di altri Santi.

Arrivò poi una catena di 20 condannati inviata dalla Regia Audienza di Lucera ed era la terza
che detto tribunale aveva inviato a Napoli nel corso dell’anno, mentre mercoledì 17 un’altra di
14 malfattori, condannati questi da Ignazio d’Amico, commissario di campagna, fu mandata in
galera. Allontanatasi verso ponente la flotta anglolandese da Livorno il giorno 9 ottobre e vista
poi il 16 far rotta verso Gibilterra, si tirò a Napoli un grosso respiro di sollievo, anche se le cose
si mettevano ugualmente molto male, giacché il Portogallo e poi anche la Savoia passavano
entrambi alla coalizione nemica e che Filippo V aveva ora in Carlo d'Austria un temibilissimo
concorrente al trono di Spagna. Nel novembre infatti Vittorio Amedeo II di Savoia aderirà
all'alleanza anti-francese e occuperà Casale Monferrato, scacciandone il presidio transalpino
che vi era stato in precedenza chiamato dal duca di Mantova, il quale era tuttora il legittimo
proprietario di quella sempre tanto contesa piazzaforte.
Nel pomeriggio di domenica 28 ottobre il viceré, accompagnato da suo figlio il marchesino di
Moya e da sua nuora la contessa di S. Estéban de Gormaz si recò a visitare i lavori dei due
fortini delle spiagge del Granatello e di S. Giovanni a Teduccio che erano in via di ultimazione;
giovedì 1° novembre si festeggiò la nuova vittoria gallispana di S. Sebastiano presso il fiume
Secchia, mentre delle sconfitte non si usava di solito dar notizia, a meno che i loro riflessi non
fossero sotto gli occhi di tutti, e ciò per non incoraggiare il partito imperiale.

(Madrid, 2 ottobre:) Con le lettere di Lisbona degli 11 (settembre) si è saputo che quel tribunale
del S. Ufizio (‘Inquisizione del S. Ofizio’) avea fatto abjurare 75 persone, tra donne e uomini,
accagionati di Giudaismo, e, perché uno de’ medesimi era stato ostinato nel suo errore, era
stato la medesima sera strozzato e bruciato nella piazza il di lui cadavere.

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Basti pensare, a proposito del millenario anti-semitismo europeo, che già da centinaia di anni in
alcuni paesi europei s’imponeva agli ebrei, come più volte si legge nelle cronache, di portare un
contrassegno di color giallo per poter essere immediatamente distinti, contrassegno che tutti
credono invece escogitato solo nel secolo scorso in Germania. Ecco a tal proposito i due più
antichi documenti italiani rimastici, cioè prima un bando veneziano del 27 agosto 1394 con il
quale si decretava l’espulsione da Venezia degli ebrei che allora vi risiedevano, i quali
avrebbero dovuto lasciare la città entro due anni:

… trascorso detto termine non possa restare a Venezia aucun giudeo più di 15 giorni, qualsiasi
sia la vicissitudine per la quale sia venuto a Venezia, e per tutto il tempo che vi starà qualsiasi
giudeo debba portare sulla veste di sopra sopra il petto uno 0 giallo della misura di un pane da
4 denari, il quale sia ben evidente (elapso dicto termino non possit stare in Venetiis aliquis
Judaus ultra 15 dies, pro qualibet vice qua veniret Venetias, et de quanto sleterit aliquis Judæus
debeat portare in veste superiori super pectus unum 0 zallum quantitatis unius panis quatuor
denariorum, quod sit bene apparens (Giambattista Gallicciolli, Delle memorie venete profane ed
eccesiastiche etc. Tomo II, pp. 287-288. Venezia, 1795).

La multa per inadempienza sarebbe stata di 25 lire d’allora. Avevano votato a favore 76
senatori, 22 contro e 4 si erano astenuti. Il motivo per cui erano espulsi e relegati a Mestre, se
pure avessero voluto andarci, era che si erano impiantati a Venezia con la promessa di
esercitare la loro principale attività di usurai nel settore del ‘piccolo credito’, cioè prestando
denaro solamente ai poveri e ai plebei che ne avessero bisogno; ma poi, probabilmentea causa
dei magrissimi guadagni, avevano cominciato a prestare anche su pegno di ori ed argenti loro
presentati da gente di condizione sociale superiore e questa concorrenza non andava bene a
banchieri e pignoranti veneziani. Saranno riammessi nella capitale solo nel 1508, per poi essere
da essa espulsi di nuovo nel 1527 e di nuovo riammessi nel 1533 e così via altre volte fino alla
riammissione dell’11 luglio 1573, la quale è da considerarsi definitiva perché da allora in poi
sempre costantemente rinnovata.
E poi ecco un bando milanese del 31 agosto 1473:

MCCCCLXXIII, DIE ULTIMO AUGUSTI, MEDIOLANI PROCLAMATUM EST UT INFRA:


Per parte et comandamento de li spettabili e generosi Maestri dell'intrate del nostro ill. Principe,
et excell. Signor Duca, Galeaz Maria Sforza Vesconte etc. – (la cui ill. Signoria el summo Iddio
accreschi e mantenga longamente in stato felice). – In executione de lettere de sua Excellentia,
date a Cropello a dì 27 del mese presente, et signate A. Iacobus, per le quale vuole sua
Celsitudine, como convene al vero e christianissimo Principe, che nel dominio suo siano distincti
et cognosciuti li Hebrey da li Christiani, como etiam è usato in altri paesi de' Christiani; per la
presente crida,la quale habeat vim decreti ducalis, se ordina et se comanda ad caduno como se
voglii Hebreo, che deba portare uno O gialdo nel pecto per segnale, et de tal forma e
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grandezza, ch'ello sia distintamente cognosciuto da Christiani, et se gli dà termine quindeci dì
proximi a venire ad mettersi detto signale nel petto. Li quali quindeci giorni proximi passati che
saranno, qualunque di essi Hebrei serà da puo' trovati senza dicto 0 gialdo nel pecto
apertamente, come è predicto, debbia incorrere in la pena de tracti quattro di corda, e de
pagare ducati mille d'oro da fir applicati alla camera ducale irremissibilmente. Signat. GABRIEL
(Carlo Morbio, Codice visconteo-sforzesco ecc. P. 418. Milano, 1846.)

Singolare che a distanza di quasi cento anni e in due stati diversi il simbolo che gli ebrei
dovevano ostentare sul petto fosse ancora precisamente lo stesso; ma sembra che già da
secoli ci fosse stato il problema di renderli riconoscibili, onde distogliere I cittadini dal fare affari
con loro, perché, esercitando l’usura, accaparravano senza rimettere sufficientemente in circolo
I capitali così accumulati; insomma loro si arricchivano, ma le comunità in cui operavano si
impoverivano:

… Dalla Dissertazione XVI del Muratori abbiamo che l'Imperator Federico II nella Sicilia
decretò l'anno 1221 che gli ebrei portassero un vestito diverso da quello dei cristiani, la qual
cosa fu eziandio prescritta da un Canone Ravennate nel 1311 (G. Gallicciolli, cit. P. 288).

Furono poi espulsi dalla maggoor parte delle maggiori città della Repubblica di Venezia:

… Così nel 1453 e 1486 furono esclusi da Vicenza, nel 1409 e 1509 da Treviso, nel 1479 da
Bergamo, nel 1463 da Brescia, nel 1479 eziandio dalla Riviera di Salò, ma non mi è noto l'anno
in cui furono esclusi da Belluno (Ib. P. 294).

I giudei del regno di Napoli, dopo quelli spagnoli espulsi nel 1492 e prima di quelli portoghesi
scacciati nel 1495, erano stati anch’essi in quegli anni del secolo precedente rapinati dei loro
beni ed esiliati più volte; il Sanudo narra a tal proposito un significativo episodio del 1494, il
quale, al di là delle nostre moderne ipocrisie, fa senza dubbio capire il vero motivo per cui essi
prima o poi s’attiravano il dispetto dei popoli dovunque s’insediassero, motivo che non era
dunque più quello originario e cioè d’esser stati un popolo deicida:

… In questo tempo a Liesena (‘Lesina’), ch’è una isola di Dalmazia, per lettere di Alessandro
Barbo conte se intese (a Venezia) come erano capitati alcuni navilii de’ marani et zudei et altri
puiesi (‘pugliesi’), i quali venivano di Puia (‘Puglia’) per alozar in ditta isola, che erano forsi
fameie (‘famiglie’) 43, con haver assa’ di panni et altre supelectile, et però (‘perciò’) ditto conte
domandava licenzia, si a la Signoria li piaceva fusseno lassati habitar; et per el Senato fu
decreto che ditti potessero starvi et li fusse dato recapito (‘alloggio’) a ciò fusse fatto boni li luogi
(‘luoghi’) di San Marco ‘licet’ in Liesena non vi era prima zudei, ‘tamen’ che non imprestassero a
usura. Et cussì fu rescritto al ditto conte. (Marino Sanudo, La spedizione di Carlo VIII in Italia.
Estratto dall’Archivio Veneto – Serie I. P. 213. Venezia, 1883.)

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La stessa autorizzazione con la stessa risposta ebbe anche il governatore veneziano di Corfù,
mentre altri, anch’essi provenienti dal Regno di Napoli, arrivarono fino a Santa Maura, allora
possedimento ottomano, e furono anch’essi accolti; gli ebrei residenti nello Stato della Chiesa,
specie ad Ancona, si trasferirono invece a soprattutto a Valona, come ci fa sapere il Rosaccio
(Giuseppe Rosaccio, Viaggio da Venetia a Costantinopoli etc. P. 27. Venezia, 1598.
Ma la persecuzione degli ebrei continuerà ancora per secoli a opera della Santa Inquisizione e,
per sfuggire a quella portoghese, particolarmente feroce, ancora emigreranno negli anni attorno
al 1684; ma torniamo ora alle nostre cronache napoletane:

(Napoli, 13 novembre:) sabato fu da questo auditor generale dell'esercito mandato in galea in


vita un certo sartore, per aver dati ad alcuni soldati vestiti novellamente degli abiti vecchi co’
quali ei potessero nascostamente fuggire, per farvi egli il guadagno delle loro livree.

Domenica 11 novembre fu varata una nuova galera alla presenza del viceré e di molti ufficiali
militari; frattanto, il precedente una lettera della Corte di Madrid chiedeva al viceré di Napoli
d’attivarsi perché qualche cavaliere napoletano arruolasse a sue spese due nuovi terzi di mille
fanti ciascuno, ben vestiti e armati, più gli ufficiali, i quali andassero a servire nel Milanese.

Ritiratesi alla fine di novembre le bocche da fuoco in soprannumero che erano state inviate ai
nuovi fortini costruiti nel Puteolano, perché il pericolo di un attacco dal mare sembrava
scongiurato, venerdì 30 furono sperimentati con successo fuori della Porta Capuana due
cannoni che sparavano palle incendiarie e ciò alla presenza del viceré, di sua nuora la giovane
contessa di S. Estéban de Gormaz, la quale, lontano il marito, doveva evidentemente a Corte
annoiarsi moltissimo, se si riduceva ad assistere alle costruzioni dei fortini e agli esperimenti
d’artiglieria, e dei soliti numerosi ufficiali militari della guarnigione della Capitale.
Sabato 1° dicembre si festeggiò la già ricordata vittoria di Spira e mercoledì 5 fu archibugiato
nell’arsenale un soldato francese disertore e tre altri, colpevoli del medesimo reato, furono
condannati alla galera a vita unitamente a un marinaio che li aveva aiutati a fuggire. Furono in
questi giorni affidati i nuovi presidati di provincia, di cui molti, com’era costume, ad alti funzionari
che venivano dalla carriera militare; così Chieti andò al capitano di cavalli corazze Giovanni
Battista Verga, Aquila al mastro di campo e consigliere del Collaterale Luigi Parisani, Lecce al
colonnello Joseph Paz Palomeque; Trani al mastro di campo e cavaliere dell’ordine di S.
Giacomo Antonio di Gaeta, marchese di Montepagano, già preside dell’Aquila; Lucera e
Capitanata al generale e consigliere del Collaterale marchese di Polla; la Basilicata al capitano
di cavalli corazze Gioseppe Majuli, barone di Santo Caloiro (prob. ‘San Calogero’, Catanzaro).

525
Con viglietto del 12 dicembre il viceré trasmise a Giovanni Caracciolo dei principi della Torella e
a Placido Dentice, due capitani del reggimento di cavalli corazze della guardia reale d’Italia, le
loro nomine a colonnello, nomine decise dal re con suo ordine del 7 novembre precedente e
con cui Filippo V accettava formalmente l'offerta avanzata dai due di levare a loro costo due
reggimenti di cavalleria, ognuno di 12 compagnie, ciascuna di 40 uomini vestiti e armati di tutto
punto, eccezion fatta delle selle, delle fonde da pistola e degli stivali. In effetti queste iniziative
potevano partire solo da titolati o da cadetti di nobili famiglie benestanti che li sostenessero
economicamente onde metterli in grado d’anticipare le prime spese; i due nuovi colonnelli si
sarebbero infatti dovuti preoccupare di vestire ed equipaggiare le reclute di tasca loro, ma con
l'autorità di nominarne loro stessi gli ufficiali, prerogativa questa dagli importanti risvolti
economici perché significava in pratica poter vendere quei posti da ufficiale a chi offrisse di più
e recuperare così gran parte delle spese di leva, se non guadagnarci addirittura; in ogni caso,
con il soldo da colonnello e con un uso spregiudicato dei fondi che avrebbero ricevuto per
gestire i loro reggimenti, si sarebbero in futuro più che rifatti del denaro investito. Diverso era il
caso di militari d'esperienza, ma magari poveri e non d'alto grado, i quali si offrivano di levare
non terzi o reggimenti, ma singole compagnie, in modo da dover anticipare molto meno denaro
e da guadagnarne grado e soldo da capitano; queste offerte erano talvolta accettate dal viceré
in nome del re, ma ciò accadeva a seconda delle necessità del momento e della credibilità
dell'offerente.
Con lo stesso corriere del novembre con cui aveva comunicato le due predette nomine a
colonnello, il sovrano aveva anche inviato una sua lettera personale al mastro di campo
generale Restaino Cantelmo duca di Popoli, con cui ‘si degnava di concedergli’, ossia in
sostanza gli imponeva, di arruolare una compagnia di 200 fanti più ufficiali, tutti rigorosamente
gentiluomini, da impiegarsi come guardie del corpo reale di fanteria italiana e da unirsi a tre
altre uguali, di cui due da levarsi in Spagna e una in Fiandra; evidentemente, nel caso del
Cantelmo, ossia di un altissimo ufficiale di provatissima fedeltà e che aveva trascorso tutta la
sua vita sotto le bandiere del re di Spagna, la richiesta di leva arrivava senza né preamboli né
mezzi termini. Il capitano di questa compagnia sarebbe stato lo stesso Cantelmo e gli altri
ufficiali dovevano essere due luogotenenti, due sottoluogotenenti, due alfieri, quattro esenti,
quattro brigadieri ed otto sottobrigadieri; ma si sarebbe trattato di ufficiali d'eccezione, in
considerazione che il primo luogotenente doveva essere un luogotenente generale, il secondo
un maresciallo di campo, i sotto luogotenenti dei brigadieri generali, gli alfieri dei mastri di

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campo, gli esenti dei luogotenenti colonnelli, i brigadieri dei capitani, i sottobrigadieri dei
luogotenenti e tutte le guardie appunto dei gentiluomini.
Martedì 18 dicembre il viceré tenne a pranzo monsieur de la Tremouille, tutti i soliti ufficiali
generali delle tre nazioni e molti dei principali cavalieri per festeggiare il compleanno del re
Filippo V, ricorrenza che sarebbe venuta il giorno seguente. Sabato 22 dicembre fu giustiziato
nella piazza del Mercato un soldato di campagna de la Fravola (oggi Afragola) per aver ucciso
un uomo di Ponticiello (oggi Ponticelli). I soldati di campagna, essendo in realtà i birri extra-
urbani o, per meglio dire, la polizia giudiziaria provinciale, in considerazione che dipendevano
direttamente dalle Udienze Provinciali, quando non dallo stesso Tribunale di Campagna, non
erano, non ostante il nome, considerati dei militari, né infatti erano giudicati da auditori
dell'esercito; questo è il motivo per cui il predetto condannato era stato giustiziato nella piazza
del Mercato, luogo tradizionalmente destinato alle esecuzioni dei popolari e dei civili, e non era
stato invece fucilato nel largo del Castel Nuovo come usavasi ai militari.
Un avviso madrileno del 21 novembre informava che, a seguito di ultimi ordini reali, i nuovi terzi
non avrebbero dovuto oltrepassare il numero di 800 uomini, evidentemente volendosi così
evitare la scissione in due battaglioni che si era incominciata a sperimentare coma cosa
tutt’altro che semplice e che necessariamente un numero superiore portava di conseguenza;
tale nuovo provvedimento si rifletterà infatti nella grande ordinanza di Spagna del 28 settembre
dell’anno seguente con il limite di 12 compagnie per reggimento e soprattutto nella mancanza di
nuovi accenni a un secondo battaglione. Un avviso genovese dell’8 dicembre segnalava invece
il ritorno da Milano di Francesco Maria Carafa principe di Belvedere con due suoi figli, di cui uno
era un alto prelato e che in breve sarebbero passati a Napoli, arrivandovi poi infatti da Roma
martedì 22 gennaio seguente.
Sabato 29 dicembre ritornò dalla Puglia la compagnia di cavalleria del capitano generale della
cavalleria Tomaso d’Aquino principe di Castiglione e il giorno seguente lo stesso principe,
avendo compiuta la sua lunga missione di fortificazione e guarnigione di quelle marine; invece,
anche negli ultimi giorni dell'anno, partirono per le poste, ossia utilizzando la carrozza postale,
verso il campo di Lombardia il neo-colonnello Placido Dentice, il capitano Tiberio Carafa, figlio
del principe di Belvedere, e il capitano Giovanni de Capoa, fratello del duca di Mignano, per
riprendere il comando delle loro compagnie destinate al fronte di Catalogna; ma rivedremo il
Dentice presto di ritorno a Napoli, dove lo attendeva, come sappiamo, l'impegnativo compito di
formare un nuovo reggimento di cavalleria.

527
In quel mentre, nella guerra del nord, Carlo XII di Svezia aveva sconfitto anche i sassoni nella
battaglia di Pultusk, avvenuta il 21 aprile

1704. In lettere francesi inviate da Napoli il 3 gennaio di quest’anno si tratta di quella leva di due
nuovi terzi per la Lombardia chiesta dal re al marchese di Villena il precedente 26 ottobre; in
esse lo scrivente annota sconsolatamente che per l'arruolamento di tali reggimenti non si
presentava nessun ufficiale al viceré e in seguito, in un’altra missiva del 6 marzo, si dirà che per
costituire questi due nuovi corpi si era fatto ancora ben poco; infine il viceré, rispondendo a un
sollecito reale del 10 gennaio, con sua lettera datata 24 esprimeva la difficoltà di quella leva e
che al massimo si poteva sperare in due corpi di un numero di uomini, vestiti e muniti di spada,
che poteva andare dai 500 ai 600 l’uno. Era invece iniziata con successo la leva delle
compagnie di fanteria della guardia chiesta dal re e la cui capitania era stata affidata al mastro
di campo generale il duca di Popoli; i giovani cavalieri di prima riga del regno, specie i cadetti, e
altri gentiluomini provinciali correvano ad arruolarsi in gran numero e, tra i primi a presentarsi, i
più conosciuti furono i seguenti:

Michele Acquaviva, fratello del duca d’Atri.


Lelio Carafa, fratello del duca di Matalona.
Ferdinando Pignatelli, figlio del duca di Monteleone.
Ottavio Gesualdo, figlio del marchese di S. Stefano.
Andrea d’Afflitto, fratello del principe di Scanno.
Placido di Sangro.
Andrea Bonito, fratello del duca dell’Isola.
Andrea Serra, figlio unico del Principe di Pado.
Fra’ Gioan Battista Recco.
Vincenzo, Gioseppe e Gaetano Pagano.
Filippo Russo.
Michele Blanco, fratello del marchese di Pezzone.
Gioseppe Mariconda.
Scipione Moccia, marchese di Montemare.
Francesco Vespoli, fratello del marchese di Montagana.
Domenico d’Afflitto, figlio del conte di Lizzanello.

Domenica 6 gennaio si festeggiò la resa d’Augusta in Germania, la cui nuova era arrivata il
giorno precedente; ma ciò che avvisi e giornali avrebbero poi nascosto accuratamente saranno
le più numerose e sonore sconfitte che l’esercito franco-bavarese subirà nel corso dell’anno e
che detti avvisi fossero solo parzialmente veritieri i napoletani ben lo sapevano; ecco, per
esempio, un divertente episodio narrato da Costanzo da Napoli, al secolo Angelo di Costanzo,
nelle sue cronache e avvenuto tra giugno e luglio del 1704:
528
… passò gridando un giovine che vendeva gli Avvisi e, mentre con voce ardente gridava ‘avvisi,
avvisi, relazioni nove!’, molti ragazzi alzarono le voci ‘n’è lo vero, n’è lo vero!’…

Frattanto, sin dalla fine dell'anno precedente, Filippo V aveva ordinato che il suo reggimento di
corazze napoletane della guardia del corpo si preparasse a lasciare la Lombardia e a
raggiungerlo finalmente in Spagna e di ciò si legge una prima notizia in una corrispondenza
diplomatica francese da Napoli datata anche questa 3 gennaio 1704, corrispondenza in cui si
definisce il reggimento gioia della nobiltà, perché la maggioranza degli ufficiali sono nobili e in
cui si riportava che i giovani gentiluomini napoletani facevano a gara per ottenere la bandoliera
di guardia del re, ossia per entrare a far parte della compagnia che stava allora ancora
arruolando il duca di Popoli; Un avviso da Madrid del 5 gennaio confermava l'incarico di
capitano della suddetta nuova compagnia che il re aveva conferito al Cantelmo, in
considerazione che questi aveva presentato al sovrano i nomi degli ufficiali che proponeva per
la costituzione di quel prestigioso corpo e nel frattempo già arruolava le prescritte guardie:

Tutta la nobiltà del Paese vuole entrare in questa compagnia e al presente si sono arruolati il
fratello del signor duca d'Atri, il fratello del duca di Maddaloni, il figlio del duca di Monteleone e
molti altri.

Questo fervore iniziale dovette poi subire un rallentamento se in un avviso da Napoli alla corte
di Francia, datato 6 marzo 1704, si leggerà che a quella data la compagnia di guardie italiane
(napoletane) non andava ancora oltre i 60 uomini; ma forse non si trattava di una notizia
aggiornata, perché, arrivata a S. Pier d’Arena il 4 aprile, alla metà di detto mese la compagnia,
ormai completata, s’imbarcherà per la Spagna sotto il comando di Francesco Gaeta, ufficiale a
cui il Cantelmo l'aveva evidentemente affidata affinché la capitanasse per il governo giornaliero,
non potendolo certamente fare egli stesso direttamente a causa dei più gravi e impegnativi
incarichi che già aveva. Era stata completata, molto prima della predetta, un’altra compagnia di
nuova leva e cioè quella di cavalleria napoletana arruolata dal giovane marchese di Peschici di
casa Turboli; infatti il 14 gennaio questo nuovo capitano andò per la prima volta con la sua
compagnia a mutar la guardia al Palazzo Reale di Napoli, accompagnato da molti cavalieri e
ufficiali di cavalleria suoi amici.
Giovedì 17 gennaio, festa di S. Antonio Abate, come ogni anno si festeggiò con
squadronamenti di fanteria e cavalleria e pertanto, fuori della porta e del castello di Capuana si
videro schierati il terzo di Napoli, quello del conte di Galvez e due compagnie della cavalleria di
529
Lombardia. IN questa seconda metà di gennaio giunse notizia che, combattendo in Germania
contro gli imperiali nella battaglia di Spira, nella quale pesanti erano state le perdite subite
dall'esercito franco-spagnolo, era morto il colonnello napoletano Domenico Gaetano figlio del
duca di Laurenzana. In quei giorni i giovani gentiluomini napoletani che non avevano trovato
posto nella suddetta compagnia di fanteria della guardia reale, stavano facendo a gara per
ottenere incarichi anche nei due nuovi reggimenti di cavalleria ordinaria che pure, come
abbiamo già detto, si stavano formando, reggimenti che comunque - a leggere altre lettere del
28 febbraio successivo - sarebbero stati poi formati per la maggior parte con soldati francesi; da
dove provenissero tutti questi corazzieri transalpini non sappiamo né immaginiamo, ma è certo
che nel marzo si proibì ai due nuovi colonnelli d’arruolare disertori francesi nei loro costituendi
corpi; comunque nel marzo si tolse una compagnia al reggimento Manzo y Zuñiga e la si fece
passare con tutti i suoi ufficiali a quello, così completato, di Placido Dentice, il qual colonnello,
come si seppe, si era frattanto battuto a duello con l'altro nuovo colonnello di cavalleria,
Giovanni Caracciolo, per controversie nate tra i due a proposito della spartizione delle armi
venute da Brescia per armare i loro corpi.
Tra febbraio e marzo, durante scavi in esecuzione a Pozzuoli, furono ritrovate, oltre a monete e
urne romane, due belle statue con iscrizioni incise sul loro piedistallo; nei giorni dopo il 20
febbraio il viceré pose il primo chiodo a un’altra galeotta che si stava fabbricando nell’arsenale e
a cui sarebbe stato dato il nome di S. Giacopo. Una corrispondenza da Milano datata 27
febbraio informava che il giorno precedente, martedì, era stata distribuita la paga al reggimento
di cavalli corazze napoletani della guardia del re, il quale si apprestava a partire per la Spagna,
una da Madrid del 30 gennaio dava notizia, tra l’altro, che si era colà in attesa da Lione delle
livree, ossia delle uniformi da casata, delle nuove quattro compagnie di fanteria delle guardie
del corpo reale (…Giungon tutto giorno in questo Regno molta quantità di attrezzi e munizioni
da Francia.); insomma la Francia era talmente ricca di risorse belliche da dimostrarsi in grado
d’armarne anche l’esercito spagnolo! Infine un altro avviso da Genova del 9 febbraio diceva che
erano colà presenti due ufficiali francesi a capo di un gruppo di reclute di quella stessa nazione
che dovevano imbarcarsi per Napoli.
La sera dì martedì 11 marzo giunse da Longone il generale Francisco Pinel, vicario generale dei
Presidi di Toscana.

A’ dì 20 di marzo, di Giovedì Santo, mentre due franzesi al Mercato, volendo comprare delle
ove, furono a contrasto fra loro due e, perché uno di essi stava pieno di vino, cavò la sciabla e,
mentre altercavano, la turba de’ ragazzi, sentendo ch'erano franzesi, immaginandosi che
530
volessero fare qualche insulto a quello che vendeva polli e ove, incominciarono a pigliar pietre e
lanciarle contro di essi. L'uno scappò via e l'altro, malconcio dalle sassate, mentre si era ritirato
dentro una portella per scansar la furia, un artigliero li diede due colpi di coltello e l'uccise. E
tutto ciò avvenne per l'antipatia che avevano a essi.

Questo il di Costanzo, mentre l'avviso ufficiale dell'episodio si riferisce solo alla condanna di tre
uomini alle galere, avvenuta mercoledì 2 aprile, per aver tirato pietre ai due predetti francesi, i
quali, a dire dello stesso avviso, se ne andavano nel quartiere del Mercato con scimitarre nelle
mani dando fastidio a tutti, ed è qui da notarsi il termine scimitarra usato per sciabola, in
considerazione che la seconda effettivamente è arma che trova la sua origine nella prima. Il 5
successivo i tre condannati, preceduti da un trombetta, il quale proclamava alla folla che quelli
andavano in deposito di galera per ordine del viceré e per aver insultato la nazione francese,
furono quindi dapprima rinchiusi in loco deposito a desposizione di Sua Eccellenza e poi se la
cavarono con solo un mese circa di galera; non uguale sarà la sorte dell'accoltellatore, il quale
aveva comunque ferito solo non gravemente il francese, e pertanto il 16 agosto dello stesso
1704, evidentemente dopo un lento processo, sarà condannato a soli due mesi di galera. Al
predetto episodio delittuoso ne seguì poi a breve un altro, anche questo narrato da Angelo di
Costanzo:

A’ 7 d'aprile, ritrovandosi a parlare insieme un soldato franzese e un catalano, il quale lodava


Sua Eccellenza che castigava quelli che portavano poco rispetto alla sua nazione, il secondo
non so che li rispose e l'una parola portò l'altra. Alterati ambedue, trassero fuori le spade e
rimase ucciso il franzese dal catalano, che si salvò sopra San Giacomo.

Il quartiere di San Giacomo era evidentemente rimasto a Napoli una specie di fortilizio della
nazione spagnola.
Frattanto la notte tra lunedì 24 e martedì 25 marzo una violenta burrasca aveva fatto naufragare
in porto ben otto tartane cariche di grani, canapi, olii e altro, restandone anche danneggiato il
fortino del Castel dell’Ovo, investito da onde così forti da portarsi via tre colombrine. Inoltre
caddero in mare alcuni piccoli ripari che si trovavano ai piedi del Castel Nuovo e ne restarono
inondati molti magazzini litoranei che, sfortunatamente, erano allora pieni di merci; il viceré vi
mandò subito dei soldati perché dessero una mano al ripristino ed evitassero possibili furti.
Il predetto 25 marzo si mandarono nei quartieri di cavalleria di Caserta il reggimento di dragoni
di Joseph de Armendariz, appena tornato dalla Puglia, quello di corazze di Pedro Manzo y
Zuñiga e alcune compagnie del reggimento di corazze di Juan Estéban Billet, anche queste di
ritorno dalla Puglia; sia queste truppe del Billet, sia il reggimento de Armendariz si erano
531
presentati a Napoli in assai cattivo stato. Frattanto Filippo V si trovava ancora a Piacenza, fuori
le cui mura venerdì 28 assisté alle esercitazioni militari del suo reggimento di corazze
napoletane della guardia in partenza per la Spagna. Nel pomeriggio di lunedì 31 marzo lasciò
Napoli Mercurio Pacheco conte di S. Estéban de Gormaz, figlio del viceré, il quale, avendone
avuto di recente licenza reale, si recava via Genova in Andalusia a combattere, al seguito del
sovrano e in qualità d’aiutante reale, la guerra che si era preparata contro il Portogallo e il cui
inizio si stava rimandando a causa delle continue piogge; lascerà poi Genova il 16 aprile e
arriverà a Madrid nella seconda settimana di maggio assieme al napoletano marchese di
Torrecuso, grande di Spagna, il quale aveva ottenuto anch’egli l’incarico d’aiutante reale.
Notizie che erano dalla Spagna dicevano che in quel marzo la flotta anglolandese nemica,
penetrata nel Mediterraneo, aveva effettuato uno sbarco presso Barcellona, ma il suo attacco
era stato respinto (per lo valore delle truppe spagnuole e napoletane che vi si ritrovano.)
Sempre nel marzo era venuto ordine da Madrid di trarre 4mila uomini dalla milizia del
Battaglione per formarne otto reggimenti di fanteria regolare da ordinarsi sul piede di Francia,
cioè in conformità agli ultimi ordinamenti del 1702; ancora una volta dunque si mancava di
rispettare le istituzioni di questa milizia, che le assegnavano solo la difesa territoriale del regno e
privilegi che prevedevano, tra l'altro e come sappiamo, che non si poteva impiegare all'estero né
i miliziani del Battaglione né quelli della Sacchetta; ma si trattava di un serbatoio di uomini
troppo appetitoso perché prima o poi la rapace Corona non ne approfittasse per i suoi fini
imperiali. Si dovevano dunque ora sacar in media 30 fanti da ogni compagnia del Battaglione, il
quale era a quel tempo così suddiviso:

Province Compagnie di fanti

Terra di Lavoro 18
Principato Citra 15
Principato Ultra 9
Contado di Molise 5
Capitanata 5
Basilicata 11
Terra di Bari 14
Terra d'Otranto 14
Calabria Citra 12
Calabria Ultra 16
Abruzzo Citra 9
Abruzzo Ultra 11

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Ognuno degli otto nuovi reggimenti doveva comprendere una compagnia di granatieri ed è
questa la prima volta che tali compagnie sono formate nella fanteria regnicola, anche se in
effetti compagnie di soli granatieri si devono esser viste in regno anche prima, giacché, a dire
del de Clonard, esse erano state introdotte ufficialmente in Spagna il 12 aprile del 1685. Tali
compagnie scelte dovevano essere armate, oltre che di spada e granate, della nuova arma
d'ordinanza a canna lunga detta in sp. fusil, la quale, provvista di baionetta, già da qualche
tempo stava pian piano soppiantando sia il moschetto a serpentina e miccio che era stato fino
allora in uso nelle fanterie europee, sia la stessa picca; si consigliava inoltre d’armare di fucile
anche i capi-squadra o caporali e gli ufficiali riformati che si trovassero aggregati ai reggimenti,
sia per la sua maneggevolezza, sia per la sua maggior velocità di fuoco, sia perché, in caso di
pioggia, la sua accensione a scintilla dava meno problemi di quella a fuoco di miccio; infine il
miccio acceso si consumava alla velocità di circa nove dita l’ora, cioè circa 20 cm, e il
moschettiero ne poteva portare in campo con sé un solo scoffone (‘rotolo’). Non sappiamo se
nelle compagnie sensiglie di questi reggimenti sia stato allora conservato quel numero di dieci
picchieri per ciascuna previsto appunto dalle ordinanze del 1702, giacché proprio nell'inverno tra
il 1703 e il 1704 la Francia stava eliminando del tutto la picca dalle sue fanterie e lo stesso
avrebbe fatto subito dopo con il moschetto, il quale era così completamente sostituito dal
predetto fucile con baionetta à doüille (‘a bossolo, a manicotto’), in modo che il fante potesse
sparare senza doverla per questo togliere dalla canna come si doveva fare col vecchio tipo a
cilindro, il quale, con la canna di ferro di due pollici più lunga di quella del moschetto, in Francia
si era cominciato a dare a un certo numero di moschettieri sin dal 1684 perché se ne servissero
contro la cavalleria, come testimonia il Manesson Mallet, il quale pubblicava il suo trattato
proprio in quell’anno e che in tale occasione si domandava appunto se nel prossimo futuro
quest’innovazione avrebbe veramente finito per mandare in pensione le gloriose picche. Il
nuovo tipo à douille (‘a boccola’) fu presentato ufficialmente a Luigi XIV re di Francia quattro
anni più tardi, cioè nel 1688, e il sovrano ordinò che si facessero delle prove alla sua presenza;
il nuovo congegno fu dunque applicato all'estremità di un certo numero di moschetti, ma, poiché
questi avevano le canne di svariate misure, il cilindro delle baionette risultava per alcuni di essi
troppo largo, con la conseguenza che allo sparo diverse baionette cadevano e ad altre la palla,
uscendo dalla canna, rompeva loro la punta; Luigi dunque le bocciò e per il momento non
furono adottate dalla fanteria francese. Qualche tempo dopo però la baionetta fu adottata con
maggior successo da nazioni contro le quali la Francia era stata recentemente in guerra, nazioni
che già l'avevano applicata anche al fucile e che l'avevano appunto tanto innovativamente

533
adottata al posto della tradizionale picca; pertanto i transalpini furono obbligati a riprenderla in
considerazione e infatti un’ordinanza francese datata 25 giugno 1698 e riguardante la fanteria
che doveva campeggiare quell'anno nella Champagne prescriveva che tutti i fucili e i moschetti
fossero dotati di baionetta à douille, la cui lunghezza doveva essere à l'ordinaire - il che significa
che in Francia erano già in uso da anni e che quindi il diametro delle canne doveva nel
frattempo esser stato adeguatamente standardizzato; queste lame dovevano avere un doppio
taglio per sole quattro dita a cominciare dalla punta e, per il resto della loro lunghezza,
dovevano avere doppia costa, quindi nessun taglio.
Anche quando si era più tardi trattato di decidere d'abbandonare completamente il moschetto,
sebbene i vantaggi del fucile fossero più che evidenti, non erano mancate in Francia le voci
contrarie; si cominciò infatti col dire che il moschetto poteva durare al fuoco per un tempo più
lungo, perché la batteria del fucile in breve si logorava e che il moschetto, molto raramente
mancava allo sparo, mentre il congegno del fucile faceva spesso cilecca e quindi falliva
l'innesco. Era tutto vero, però chi lanciava queste critiche non diceva che, anche se la batteria
del fucile non aveva acceso il polverino d'innesco, l'arma si rimetteva in stato di tiro solo un
istante dopo, mentre, per quanto concerne il moschetto, ci voleva un gran tempo a rimettere la
corda-miccia sulla serpentina, a farla ben tenere da questa, a compassarla, ad attizzarla
soffiando, a soffiare sul bacinetto e ad aprirlo; se poi c'era vento, il leggero polverino se ne
volava via e, se pioveva, si bagnava e non serviva più; e anche quando tali inconvenienti non
accadevano, se il miccio non era ben stretto e ben acceso, si rischiava di azionare
ripetutamente la chiave sul serpentino senza che il polverino prendesse fuoco; infine, poiché
nella parte interna del bacinetto restava dopo lo sparo della cenere del miccio, bisognava
attendere che fosse ben spenta prima di ricaricare l'arma, altrimenti si sarebbe rischiato di far
incendiare la nuova carica di polvere prima del tempo, con il pericolo che bensì può immaginare
per il moschettiere stesso e per i suoi camerati. Non che il sistema a focile non potesse esser
anch’esso causa d’incidenti anche mortali, perché al fuciliere poteva accadere d’azionare
involontariamente il grilletto, e pertanto nelle esercitazioni s’usava talvolta di tenere l’innesco
coperto da un tampone di cuoio (Exercice etc.)
C'era inoltre da tener in debito conto che, anche se era vero che il moschetto poteva reggere al
fuoco per più tempo del fucile, tutte le azioni di campagna richiedevano piuttosto un fuoco
pronto, vivace e accelerato che uno sparacchiare tento e più duraturo; che occorrevano soldati
ben destri per potersi servire del moschetto utilmente e ciò proprio a causa del suo lento e
macchinoso maneggio; che nel tempo che ci voleva a tirare due colpi di moschetto se ne

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tiravano invece quattro di fucile; che i granatieri dei battaglioni facevano da utile esempio, in
considerazione che tutti già armati di fucile e più sovente in azione degli altri soldati, e nessuno
avrebbe detto che c'era qualche buon motivo d’armarli diversamente; innegabile era poi il gran
vantaggio di potersi con esso tornare a tirare di mira o di traguardo, cioè come si era sempre
fatto prima dell’adozione del moschetto leggiero, perché il fucile, pur offrendo lo stesso calibro e
la stessa gittata di quello, aveva le parti in legno sostanzialmente più piccole, leggere e
maneggevoli e di conseguenza si poteva nel tiro appoggiare alla spalla e alla guancia, invece
che allo sterno, pertanto prendendosi di mira il bersaglio traguardato con l’occhio destro
attraverso il foro della visiera e ottenendosi così tiri a distanza molto più precisi; infine, quando i
battaglioni andavano alla carica con la spada alla mano, i moschettieri erano costretti a tenere il
moschetto con la sinistra, perché per quest'arma non era prevista la bretella che invece presto
si applicava al fucile perché lo si potesse portare a bandoliera.
Tornando ora a trattare di Napoli in particolare, c'è da osservare che lo schioppo da focile, cioè
l'arma da fuoco a selce focaia, il cui nome fu poi in tutt’Europa ridotto per brevità e sineddoche
a fucile, è menzionato già dal Fuidoro nel suo diario a proposito del marzo 1672, dove se ne
parla come d’arma in dotazione alla fanteria spagnola; ma doveva trattarsi di una dotazione
molto limitata ed elitaria, come lo era quella ai già ricordati fanti perduti francesi.
Formare nel Regno di Napoli ben otto reggimenti tutti insieme, anche se ora di soli 600 fanti più
ufficiali, e per lo più traendoli da milizie come quelle del Battaglione, le quali erano
particolarmente recalcitranti a essere trasformate in truppe regolari per i motivi già detti, cioè per
il loro privilegio di non poter essere mandati a servire all’estero, non doveva risultare cosa
possibile in alcun modo e solo un nuovo e inesperto re francese poteva sperarci; comunque ci
si provò, ma, narrano le cronache, si dovettero portare i soldati del Battaglione a Napoli in
catene, come se fossero dei delinquenti comuni; infatti alla fine di marzo un nuovo ordine reale
si limitava a precisare solo la leva di un primo nuovo reggimento sul piede di Francia, leva che
si era subito iniziata a spese del suo neo-eletto colonnello, il duca di Castel d'Ajrola di casa
Suardo, e, verso la metà d'aprile, un altro ordine rendeva ufficiale la leva di un secondo, quello
cioè del sargente maggiore Gioseppe Garofalo Suarez; questi due nuovi colonnelli, proprio
perché la formazione di un reggimento era formalmente una grazia concessa dal sovrano e
proprio perché arruolavano a loro spese, avevano poi la facoltà di poter scegliere a loro arbitrio i
rispettivi ufficiali, sia maggiori che minori; in effetti il Suardo - e crediamo anche il Garofalo -
doveva a sue spese vestire e armare di spada i primi 200 uomini solamente, perché agli altri
400 avrebbe pensato la Corte, e aveva cinque mesi di tempo per presentare il suo reggimento

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completo alla mostra. Ricordiamo che il Garofalo Suarez era arrivato in regno nel novembre del
1701 in qualità di capitano di una delle otto compagnie di corazze spagnole di cui a suo luogo
dicemmo.
Mentre si costituivano questi primi due nuovi reggimenti di fanteria e mentre, già dall'inizio
d'aprile, erano presentate offerte per la leva degli altri sei, corrispondenze da Genova
informavano che il reggimento di corazze napoletane guardie del corpo del re di Spagna, il
quale era sul piede di circa 600 uomini, ufficiali compresi, era arrivato a San Pier d'Arena dal
Milanese e che, dopo esser stato colà trattenuto diversi giorni, il 15 aprile era salpato per
Tolone, dopo ben due mesi che aspettava di essere trasferito in Spagna a esercitare finalmente
il suo precipuo compito di guardia del corpo del re (essendo tutta gente eletta e riccamente
vestita); questo corpo poi, sempre sotto il colonnellato di Francesco Gaetano, sarà condotto da
Tolone a Barcellona dove arriverà nella seconda settimana di maggio, come informerà un
avviso da Madrid del giorno 14 seguente. Erano frattanto anche giunte a Genova due barche
napoletane che recavano 90 soldati spagnoli tolti dal presidio di S. Stefano perché sostituiti da
altrettanti provenienti da quello di Gaeta.
La mattina di lunedì 7 aprile, d’ordine del viceré, furono mandati in galera tre uomini del
quartiere Mercato per aver il precedente Mercoledì Santo preso a sassate due soldati francesi
nella piazza del Mercato; mercoledì 9 fra’ Carlo Carafa dei duchi di Majer, nominato dal re
governatore e capitano generale d’Orano, s’imbarco a Pozzuoli non per l’Africa, bensì per
Antibo, dove si diceva avrebbe preso un’altra imbarcazione per un approccio più sicuro alle
coste africane. In realtà il Carafa passerà invece in Spagna dove si tratterrà sino alla fine
d’Ottobre per partecipare a quella campagna di guerra contro il Portogallo; poi finalmente
lascerà Madrid per Orano via Cartagena, dove lo attenderanno alcune galere per il passaggio
marittimo.
Un avviso da Madrid del 6 marzo informava che la Francia continuava a equipaggiare
massicciamente l’esercito spagnolo:

… Da Guiposcoa (‘Guipúzcoa’) partiron già 1.000 bovi per li confini di Francia per tirar 95 pezzi
di bronzo che vanno all’esercito… Ha il Re Cristianissimo mandato ancora in questi regni infinite
provvisioni per le sue milizie e, fra gli altri, più di 60mila ferri per la sua cavalleria.

Un altro avviso, questo da Genova, diceva che il 31 marzo si era saputo in quella città che due
filuche armate napoletane avevano catturato e predato nelle acque di Viareggio un filucone che
batteva bandiera imperiale ed era comandato da un capitano napoletano; nella seconda metà

536
d’aprile si ebbe poi ancora avviso dalla Spagna di un atto di liberalità di Filippo V nuovo e mai
visto in precedenza nei possedimenti di quella Corona:

(Madrid, 16 aprile:) Di ordine del Re si sono spedite delle lettere circolari a tutti i governadori e
altri ufficiali supremi delle città e qualsivoglia altro luogo di questi regni, affinché le leve che vi si
stanno facendo non si faccian con forza e non si usi violenza alcuna, ma solo si arrolino coloro
che di spontanea volontà si presentassero al servigio di Sua Maestà…

Da Genova, in data 11 aprile, s’informava poi che due barche (tartane) napoletane avevano
sbarcato colà ben 900 soldati spagnoli presi a Porto S. Stefano, dove però ne erano stati
mandati in sostituzione altrettanti da Gaeta; un altro da Livorno del 21 aprile si leggeva che,
avendo la notte del sabato precedente una barca corsara imperiale lasciato quel porto senza la
necessaria autorizzazione e trovandosi colà anche la galeotta del famoso corsaro napoletano
Gioseppe Fumo, al secolo Gioseppe Pisanti, il console di Spagna la mattina seguente la fece
partire in caccia di quella con il supporto a distanza di una grossa barca sorrentina che colà
anche si trovava; la corsara imperiale, essendo ancora in vista di Livorno, fece subito preda di
una tartana francese carica di vino, ma, raggiunta dal corsaro napoletano, il suo equipaggio
fuggì a terra con lo schiffo (‘battello’) di bordo e così il Fumo se ne impadronì senza sforzo,
trovandovi a bordo solo tre inglesi e due sudditi dell’imperatore e così liberando la tartana
francese:

… Questi mercatanti franzesi si confessano grande obbligazione al detto Capitano Fumo,


perciocché ha sgombrato da questi mari molti di tai corsari, che tenevano continuamente
inquietata la navigazione, permodocché si apparecchiano a fargli un qualche buon presente
quando sarà ritornato da Massa di Carrara, dove per avventura (‘probabilmente’) sarà andato a
ricovrarsi.

Anche nell'aprile si ebbe avviso da Milano che truppe dei collegati erano entrate in Vercelli e ciò
perché l'anno precedente il duca di Savoia aveva aderito alla coalizione anti-francese, mentre
per lo stesso motivo il suo stato era invaso dai franco-spagnoli comandati dal duca di Vendôme.
Giovedì 1 maggio, festa degli apostoli Giacopo e Filippo, si festeggiò l’onomastico del Re, tra
l’altro scarica di fucileria del reggimento di fanteria spagnola di Pedro de Castro, vestito con abiti
nuovi ricevuti proprio in quel giorno per quella occasione e squadronato nel cortile del palazzo
reale, ma i festeggiamenti erano già iniziati, come era di uso, il giorno precedente con l’invito a
pranzo che il viceré aveva fatto al signor de la Tremouille, residente francese a Napoli, ai
principali ufficiali militari delle tre nazioni e ad alcuni principali cavalieri napoletani. Una

537
corrispondenza da Milano del 28 aprile diceva di due reggimenti di cavalleria napoletana
smontata che si trovavano in quello Stato e dovevano mettersi in marcia per la costa ligure dove
si sarebbero imbarcati per la Spagna; ma quali erano questi reggimenti, in considerazione che i
suddetti due nuovi belli reggimenti di cavalli corazze smontati formati da Giovanni Caracciolo e
da Placido Dentice si trovavano ancora a Napoli? Comunque questi furono proprio in quei giorni
completati (il primo il 2 maggio) e, nella mattinata di domenica 4, dettero mostra davanti al
palazzo reale, dove quello del Dentice, sempre al cospetto del viceré, eseguì anche i suoi
esercizi militari; il primo era vestito con marsina di panno rosso (colorado) con mostre (‘risvolti’)
di panno blanquisco (‘bianco’), giubbe e calzoni di pelle color daino, cappe di panno anch’esso
blanquisco con mostre di panno rosso; il secondo si distingueva anch’esso per i predetti colori
bianco e rosso, ma li portava invertiti rispetto al primo; ogni uomo era fornito e armato, come il
solito, di calze (non sappiamo se del colore della marsina o dei suoi risvolti), di due paia di
camice, di due cravatte (generalmente nere) e poi sciabola con sui pendoni, carabina con sua
tracolla, giberna con suo cinturone. Nei documenti d’archivio che li riguardano, i quali pur
definiscono anche questa cavalleria cavalli corazze come nel caso del già ricordato nuovo
reggimento napoletano della guardia del re, non si fa però assolutamente menzione di corazze,
ossia di pettorali e schienali di ferro; si trattava dunque di una cavalleria di vecchio stampo o di
una di nuova concezione francese, come da ultime ordinanze, ma ancora chiamata per
abitudine con il vecchio nome? La seconda ipotesi è certamente molto più probabile. Questi
reggimenti lo stesso predetto 4 maggio furono imbarcati su un convoglio di ben 12 tartane per
essere inviati nel Milanese, secondo gli ordini dati da più di un mese; questo convoglio salperà
però, per contrarietà dei venti, solo la sera del mercoledì successivo, portando via da Napoli
anche i primi 200 fanti del reggimento di 600 che stava formando il duca di Castel d'Ajrola;
questi ultimi erano divisi in quattro compagnie e viaggiavano sotto il comando del sargente
maggiore del reggimento. Immaginate che strazio dover vivere, stipati per giorni su piccole
tartane ferme in porto, senza poter scendere a terra ed nell’attesa di un via alla partenza che
tanto tardava a giungere! Queste tartane arrivarono sulle coste liguri giovedì 22 e in seguito, tra
il 30 e il 31, sbarcarono a Vado Ligure le soldatesche, le quali subito s’incamminarono verso il
Milanese, dove il loro arrivo sarà poi segnalato da un avviso dell'11 giugno; esse,
indipendentemente dalla guerra viva, ebbero poi subito vita molto dura, perché durante quella
stessa estate, mancando evidentemente le paghe, si disse che i capitani delle loro compagnie
erano nell'impossibilità di soccorrere i soldati, cioè d’anticipar loro parte del denaro spettante;
certo è che tali difficoltà finanziarie procurarono disordini all'interno di quei corpi, disordini cui si

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accennerà in una corrispondenza del settembre tra la Corte e Milano e a cui si ovvierà con
nuove provvidenze di paga prescritte solo il 2 dicembre 1704. In seguito, cioè nel marzo del
successivo 1705, i due reggimenti, i quali alla predetta prima mostra data in Napoli erano
risultati composti ognuno di 106 ufficiali e 480 soldati, cioè proprio come prescritto dalle loro
capitolazioni, saranno inviati via mare a Barcellona e conteranno allora solo 749 uomini in
totale, ufficiali compresi.
Tornando ora alle cronache napoletane, diremo che, oltre alla mostra dei due predetti nuovi
reggimenti di cavalleria, all'inizio di maggio fu data anche quella generale della cavalleria del
regno, la quale ne risultò così composta:

CORPI. Ufficiali Soldati Cavalli.

Le 2 compagnie della guardia del viceré 22 146 116


La compagnia della guardia del governatore dell'armi 13 58 51
Il reggimento di corazze Manzo 103 432 423
Il regimento di corazze Billet (a Casoria) 56 325 318
Il reggmento di dragoni de Armendariz (ad Aversa) 76 370 319
Il reggimento di dragoni Velbalet (a Capua) 61 311 276

In queste riviste si nota come quasi mai avvenisse che il piede effettivo di un corpo
corrispondesse appieno a quanto prescritto dalle ordinanze, ma questa era una deficienza
comune a molti eserciti europei soprattutto, naturalmente, in tempo di guerra; inoltre, a
prescindere dai numeri, quanto fosse poi ambigua la forza ufficiale di un corpo militare del
tempo e quanto dipendesse anche da pensioni e trattenimenti che si pagavano dal denaro
corrisposto a titolo di soldo è dimostrato, per esempio, dal seguente avviso del 24 ottobre 1704:

Sua Eccellenza ha deciso di stabilire il numero fisso di soldati che devono avere le due
compagnie di cavalli corazze della sua guardia, che deve essere di 70 soldati montati e 3
smontati in ogni compagnia, inclusi i riformati che godono soldi, oltre i sopranumerari che
tengono piazza.

Su ogni corpo gravava dunque un certo numero di trattenuti, ossia di mantenuti non più in
servizio attivo, ma passibili di richiamo in caso di bisogno, di pensionari e di piazze morte,
trattenimenti e pensioni che erano sempre concessi come grazie reali e mai assumevano il
carattere di diritti, come invece avviene oggi.
Frattanto un avviso da Genova datato 3 maggio così informava:

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Li napolitani di qua ultimamente partiti, essendo sbarcati a Vado, marchian per occupare Spigno
nelle Langhe, al fine d’aprirsi di bel nuovo la comunicazione del Finale col Milanese e tagliar la
strada a’ tedeschi, che stanno in numero di 500 in quel luogo di Spigno, per far loro forte
opposizione.

Se poi questi reparti siano effettivamente riusciti a liberare Spigno dai 500 tedeschi che
l'avevano occupata, riaprendo così quella via di comunicazione così vitale per lo Stato di Milano,
non sappiamo.
Dopo la metà di maggio, mentre si corredavano nell’arsenale due galere e una galeotta che si
dovevano mandare in Adriatico, dove già operavano tre altre galere napoletane, in caccia di
corsari nemici, poiché ne erano stati colà segnalati diversi, il governatore generale dell’artiglieria
Orazio Coppola, accompagnato da alcuni ministri della Regia Camera e da un ingegnere
francese, si recarono alla polveriera della Torre dell’Annunziata ad assistere alla
sperimentazione di una nuova polvere d’artiglieria che era preparata in quella fabbrica; i predetti
legni si uniranno nel porto istriano di Rovigno a quelle suddette già presenti in Adriatico, le quali
avevano svernato nel porto di Brindisi, e ad alcuni vascelli e fregate francesi colà operanti il 24
giugno. Un avviso da Bruxelles del 24 maggio segnalava, come abbiamo già più sopra
accennato, movimenti di truppe che stavano avvenendo in quel mentre in Fiandra e, tra gli altri
menzionava il reggimento di fanteria comandato dal napoletano Antonio Grimaldi che stava per
incamminarsi verso il Lussemburgo.
La mattina del lunedì 26 maggio, accompagnato dalla moglie, lasciò Napoli il principe di
Trigiano di casa Pappacoda, il quale andava a prendere possesso del suo nuovo incarico di
castellano del castello di Bari; immaginiamo quanto poco contenta sarà stata la sua consorte
nel lasciare gli agi e le distrazioni sociali della Capitale per andar a rinchiudersi in quel lontano
castello! La notte di mercoledì giorno 28 partirono invece per l’Adriatico i suddetti tre vascelli;
intanto tra il 27 e il 29 si festeggiavano notizie di vittorie militari ottenute dalle due Corone.
Venerdì 6 giugno la tradizionale compagnia formata da quattro trombetti, quattro capitani di
giustizia (oggi diremmo commissari di polizia), un giudice e molta birraglia andò per Napoli a
pubblicare la guerra contro il Portogallo, l’arciduca d’Austria e i loro alleati, intimando a tutti i
portoghesi residenti nel regno di lasciarlo entro 20 giorni, pena la vita e la confisca dei beni;
ognuno di questi capitani doveva mantenere sotto di sé di continuo 25 birri, tutti abili all’arme e
non inquisiti di alcun delitto; o perlomeno questo prescriveva un recente bando della prima
decade del 1703. Da allora in poi ogni giorno soldati spagnoli e francesi presero ad alternarsi a
fare esercitazioni militari nel largo di palazzo al cospetto del viceré e dei principali ufficiali
generali. Nello stesso giugno il marchese d’Avaray, maresciallo di campo che aveva il comando
540
generale delle truppe francesi a Napoli, lasciò il suo incarico perché il 16 marzo precedente il
corriero di Spagna gli aveva portato la promozione a luogotenente generale e doveva di
conseguenza far presto ritorno in Francia; era contemporaneamente arrivata anche la
promozione a maresciallo di campo al suo posto al brigadiere chevalier de Carcadeau
colonnello del Dauphinée.

(Napoli, 17 giugno:) Domenica dopo desinare passarono la mostra li 4 battaglioni francesi di


Grancey, Beauvoisy, Dauphiné e Berry, di cui ve ne erano 3 tutti novellamente vestiti, e vi
fecero con la loro solita destrezza gli esercizii militari innanzi al loro generale marchese
d’Avaray, luogotenente generale, e al cavaliere di Carcadò, maresciallo di campo degli eserciti
di Sua Maestà Cristianissima, onde ebbe molto piacere quest’eccellentissimo sig. Viceré, che vi
si portò a vederli, e moltissimo popolo ancora, che vi si trovò presente.

Una lettera spedita in Francia da Napoli, probabilmente proprio dal de Avaray, conferma il
predetto evento, ma lo anticipa al giorno 14:

(Napoli, 16 giugno:) Ho visto ieri le truppe del Re; sono belle e ben vestite. I reggimenti di
Beauvoisin, Dauphiné e Berry sono tutti vestiti di nuovo e quello di Grancy ha avuto solo
qualche vestito, perché la maggior parte dei vecchi era ancora in grado di servire ancora fino
all'inverno.

La sera della stessa suddetta domenica 15 arrivarono a Napoli dalla Lombardia il grande di
Spagna e generale della cavalleria napoletana, ossia il principe di Castiglione, il quale, per
necessità contingenti, era stato colà chiamato a esercitare l’incarico di tenente generale
dell’esercito pro interim, e il duca d’Airola Caracciolo, il quale si era unito a lui a Roma; la
mattina di venerdì 20 giunsero poi col corriero di Spagna, notizie d’altre vittorie franco-spagnole
ottenute in quella penisola, successi che furono festeggiati il mattino seguente in forma pubblica
e nei soliti modi tradizionali. Giunse infine avviso dalla Sardegna che il giorno 14 era giunto a
Cagliari il corsaro napoletano Gioseppe Santi, vulgo Fumo, il quale con la sua tartana e un
vascello flessinghese (‘vlissinghese’) di 18 cannoni e 80 uomini d’equipaggio da lui predato
dopo un combattimento di tre ore in cui il Fumo uccise 15 nemici e ne ferì 40 con perdita tra i
suoi di quattro morti ed 11 feriti. Alla fine di giugno, a seguito di notizie che davano la flotta
anglolandese nemica in avvicinamento, il viceré dette ordini opportuni per il rafforzamento di
artiglierie e presidi delle fortificazioni costiere del regno.
Al mezzogiorno di martedì 1° luglio giunsero a Napoli due fregate francesi, una di 45 e l’altra di
36 cannoni, le quali portavano il marchese des Ailleurs, luogotenente generale degli eserciti del
re di Francia, il marchese d’Avaray, luogotenente generale e comandante delle soldatesche
541
francesi nel Regno di Napoli, e il marchese de Gervesais, il quale veniva ad assumere l'incarico,
ora vacante, di colonnello del reggimento di Berry; queste fregate ripresero il loro viaggio verso
Messina venerdì seguente, mentre la mattina del lunedì 7 lasciò la capitale il capitano generale
della cavalleria Tomaso d’Aquino principe di Castiglione, il quale si recava a Capua per dare
una rivista a tutta la cavalleria che si trovava acquartierata fuori delle mura di quella città.
Con una sua lettera del 9 luglio il viceré chiedeva alla corte di Madrid l’aumento da 108 a 200
del numero degli artiglieri del regno, gli ordinari di cui prendevano sei ducati il mese e gli
straordinari un reale al giorno, con la promozione a tal fine anche di 41 scolari d’artiglieria;
questo incremento, il quale si era reso necessario per poterne dotare sufficientemente sia i
castelli sia le batterie costiere che ora difendevano la capitale, sarà approvato dal re e il relativo
ordine reale sarà del 27 ottobre seguente.
Mercoledì 9 luglio arrivò la notizia della nascita del duchino di Borgogna, pronipote del re di
Francia, e, per cominciare a festeggiare questa felice notizia, il giorno seguente il viceré tenne a
pranzo il signor de la Tremouille, tutti i principali ufficiali militari delle tre nazioni e molti dei
maggiori titolati, mentre nella piazza del Palazzo Reale s’iniziava l’allestimento di un ampio
teatro per una di quelle che allora si chiamavano le cacce di tori e più tardi corride; lo stesso
mercoledì approdarono a Pozzuoli tre galere dell’Ordine di Malta che erano in viaggio di ritorno
alla loro isola.
Venerdì 11 luglio salpò da Napoli un altro convoglio di tartane, portando truppe anche queste
destinate a Milano via Genova; vi si erano imbarcati quel giorno stesso, come da viglietto
vicereale del 9 precedente, altri 200 coscritti del reggimento di fanteria che non aveva ancora
finito d’arruolare il Suardo. La leva di questo reggimento e di quello del Garofalo era sollecitata
da Madrid perché si dovevano inviare nel Milanese al più presto possibile, tanto che poi, per
completarli, pare che si sia stati costretti a farvi servire a piedi alcuni soldati di cavalleria. Su
queste tartane si erano pure imbarcate due compagnie smontate del reggimento di cavalleria
del Manzo con i loro armamenti e, per rimpiazzarle, il viceré dette immediato ordine che si
arruolassero due nuove compagnie di cavalleria, le quali avrebbero potuto così subito utilizzare
l'eccedenza di cavalli che quel corpo si trovava ora ad avere; a proposito del colonnello Pedro
Manzo y Zuñiga, bisogna dire che verso la fine d'agosto egli permuterà il suo posto con quello
del colonnello Juan de Tovar y Castilla, il quale comandava in Spagna il reggimento di
cavalleria di Santiago. La circostanza che le reclute del nuovo reggimento del Suardo erano
inviate all'estero in diverse partite e in tempi diversi stava diventando rischioso per il
completamento di quel corpo e per il lavoro che quel colonnello stava appunto a quel fine

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svolgendo; non se ne erano infatti inviate le ultime compagnie che a Milano arrivava un
dispaccio della corte di Madrid con cui si proponeva già la riforma di questo corpo non ancora
compiuto e l'aggregazione dei suoi fanti agli altri due reggimenti napoletani dell'esercito di
Lombardia, cioè a quelli dei predetti Tommaso e Ciarletta Caracciolo, i cui ranghi si erano molto
ridotti; ciò però non fu realizzato, perché in seguito del reggimento del duca di Castel d'Ajrola
ancora si parlerà, mentre quello di Ciarletta Caracciolo sarà più tardi definito battaglione di
fanteria di nuova leva, come se questo colonnello avesse poi ricevuto un reggimento
completamente nuovo. Poiché il 29 aprile del 1705 quello di Ciarletta partirà per la Spagna via
Finale, resterà più tardi in Lombardia un solo reggimento Caracciolo e si tratterà quindi di quello
di Tommaso, nominato già in questo 1704 col nuovo titolo di brigadiere; questo reggimento,
formato da un solo battaglione, e il terzo spagnolo di Lombardia del principe Pio di Savoia erano
frattanto stati i primi due corpi di quell'esercito a entrare il 21 luglio in Vercelli conquistata ai
savoiardi e agli svizzeri loro mercenari, evento importante che fece credere a torto conclusa la
guerra nell’Alta Italia e di cui il governatore principe di Vaudemont mandò relazione al viceré di
Napoli a mezzo di un napoletano, il cap. Nicola Cavaselice, il quale giunse a tal scopo a Napoli
la sera del venerdì 25. Il predetto reggimento di Tommaso Caracciolo probabilmente non sarà
più tardi, all'assedio di Verrua, altrettanto fortunato perché, come si leggerà in una
corrispondenza francese del 4 novembre, 40 dei suoi fanti saranno ricoverati in un ospedale da
campo francese.
In precedenza, l’11 giugno, si era già arresa ai gallispani Susa e in seguito, il 29 settembre,
capitolerà anche Ivrea; ma in realtà nel resto dell’Europa le cose stavano invece prendendo una
piega molto sfavorevole ai franco-spagnoli e infatti l'esercito franco-bavarese del maresciallo di
Francia duca di Tallard era stato dapprima sconfitto il 2 luglio a Donauwörth da John Churchill
duca di Marlborough e poi completamente sbaragliato il 13 agosto nella seconda battaglia di
Höchstädt – detta dagli inglesi di Blenheim - dove, mentre l'ala sinistra dei franco-bavaresi
comandata dal luogotenente generale conte de Marcin e dall'elettore Massimiliano II Emanuele
di Baviera riusciva nel principio a rompere per ben due volte gli imperiali del principe Eugenio e
alla fine a ritirarsi in parte oltre il Reno, la destra condotta dal duca di Tallard era sconfitta e
circondata dagli inglesi del Marlborough, i quali facevano prigionieri ben 26 battaglioni di
fanteria, quattro reggimenti di dragoni e lo stesso di Tallard. Altro episodio molto grave fu la
presa inglese di Gibilterra, compiuta il 4 agosto, dopo un violento bombardamento, da 800
uomini (4mila, secondo gli spagnoli) sbarcati alcuni giorni prima dall'armata dell'ammiraglio
George Rooke, armata che contava 64 vascelli di linea più molti altri legni minori; secondo gli

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spagnoli, Gibilterra era guardata da soli 80 uomini, ma in effetti, come si legge nel de Larrey (),
agli assediati fu concesso di uscire armati, tra l’altro, anche di tre pezzi d’artiglieria di bronzo
con polvere e palle per 12 tiri e non si capisce come 80 soli uomini avrebbero potuto pensare di
tirarsi dietro un simile fardello. Questa conquista da allora in poi darà all'Inghilterra il controllo
della porta del Mediterraneo, ponendo su questo mare una pesante ipoteca inglese che sarà più
tardi consolidata dall'occupazione, altrettanto strategica, dell'isola di Malta; in precedenza gli
anglolandesi avevano cercato di prendere Barcellona, ma erano stati respinti:

(Madrid, 4 giugno:) Si avvisa da Barcellona che l’armata inglese e olandese avea fatto sbarco
presso quella città di truppe nimiche, però, avendo quivi ritrovata forte resistenza per lo valore
delle truppe spagnuole e napolitane che vi si trovarono e per la fede di tutta la nobiltà e
cittadinanza, che tutte si posero in arme, con la provvidenza e molta vigilanza di quel viceré don
Francesco Velasco, eran coloro stati costretti a imbarcarsi di bel nuovo, senza avervi lucrato
altro che la perdita di molte bombe, che non fecero non pure un picciol danno a quella città.

In effetti, esattamente 20 giorni dopo essersi impadronito di Gibilterra, il Rooke, come presto
vedremo e come abbiamo già accennato, sarà sconfitto e fatto prigioniero dall’armata del conte
di Tolosa nelle acque di Malaga, ma ciò non basterà a far mutare il corso negativo della guerra.
Si aggiunga che continuava in Africa l’assedio di Ceuta.
Giovedì 17 luglio si festeggiò pubblicamente la predetta nascita del duchino di Bretagna con
squadronamenti di soldatesche nelle strade e luminarie serali organizzate dagli ufficiali francesi:

Verso la sera andarono li quattro battaglioni franzesi che stanno in questa Città, de’ quali ve ne
avea tre con gli abiti nuovi che hanno avuti ultimamente, a disporsi in ala a doppia fila per tutte
le ampie strade che terminano a quel monistero reale (di monte Oliveto), le quali essi
ingombravano con vaga e leggiadra ordinanza, per modo che non impedivano a tutta la gente e
anche alle carrozze l’andar agiatamente per mezzo di quelle a lor piacere; e, tramontato già il
sole, cominciarono quelle soldatesche a far la scarica di tutta la loro moschetteria, che
replicarono per tre volte…

Seguirono altri festeggiamenti privati nei giorni successivi e mercoledì 23 il duca di Popoli,
mastro di campo generale del regno, tenne a pranzo una quarantina di cavalieri, tra cui, come il
solito, il signor de la Tremouille, i maggiori titolati napoletani e gli ufficiali generali delle tre
nazioni:

… L’istessa dimostrazione hanno fatta ancora in altri giorni il principe di Castiglione di Aquino,
general della cavalleria del regno, il marchese d’Avaray, luogotenente generale delle truppe di
Francia e varj altri uficiali generali.

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Nei due giorni seguenti si festeggiarono invece le notizie delle più recenti vittorie militari.
Nella notte tra giovedì 24 e venerdì 25 luglio erano frattanto stati arrestati tre falsi arruolatori di
soldati che andavano nottetempo per le strade catturando giovani col pretesto d’arruolarli per
conto dei francesi, ma per poi liberarli dietro pagamento di un riscatto; il primo rumore di ciò si
era levato in città già il detto 24, quando si era sparsa appunto la voce che i francesi
prendevano gente a forza per rinfoltire le ciurme delle galere francesi a Tolone, poi la voce
cambiò e si disse che i francesi facevano a forza invece soldati, perché molti, arruolatisi
volontariamente e percepita la prima paga, non si erano poi presentati ai reggimenti e allora gli
arruolatori - ufficiali minori francesi e ufficiali riformati napoletani - li andavano a cercare e li
conducevano con la forza ai loro capitani. Infine si seppe la verità e cioè che si trattava di un
arruolamento fatto per conto di un nobile settentrionale, il conte di S. Secondo, il quale,
servendo nell’esercito francese di Fiandra, ne aveva evidentemente avuta segreta facoltà dai
francesi medesimi, e i suddetti arruolatori, approfittando della mancanza di ufficialità e di
pubblicità di quella leva, di notte andavano fermando per le strade cittadini onorati, addirittura, si
diceva, preti e dottori, con il pretesto d’arruolarli forzatamente, ma per poi liberarli in cambio di
denaro, dicendosi che alcuni complici dei tre si fossero rifugiati in alcune chiese per non essere
arrestati anche loro. I tre condannati erano due alfieri e un sargente, i quali, prima di essere
trasferiti dal carcere al deposito delle galere, erano stati per ordine del viceré condotti e frustati
pubblicamente per tutta la città, mentre una folla di ragazzi gli andavano davanti sbeffeggiandoli
e gridando: ‘Arrobba cristiani, arrobba cristiani; dateli, dateli!’ (‘… frustateli, frustateli!’);
Naturalmente con questa condanna non si voleva punire il modo dell'arruolare, all'epoca
abbastanza comune e non solo nel Regno di Napoli, bensì l'estorsione commessa:

… la qual cosa avea generato una grandissima commozione in questo popolo, ch’ebbe così
gran soddisfazione di una ‘sì pronta giustizia di Sua Eccellenza, che si vide in quel giorno tutto
concorrer per le strade per cui passavano quei ladri con grande allegrezza e acclamazione…

Questo episodio aveva dunque agitato molto il popolo napoletano e fu probabilmente per
contribuire ulteriormente a calmare gli animi che si pubblicò immediatamente un bando d’indulto
per tutti i disertori, eccezion fatta per quelli fuggiti dagli ultimi tre reggimenti arruolati a Napoli, a
condizione che tornassero in servizio nel limite di 40 giorni dalla pubblicazione di detto indulto.
Il fenomeno che nei corpi militari del tempo si trovassero comunemente uniti soldati delle più
svariate nazionalità si doveva, tra i vari fattori, anche a questa pratica degli arruolamenti forzati;
ma la cosa era diventata tanto abnorme che, nell'ambito degli strettissimi accordi d’alleanza che

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vigevano allora tra Spagna e Francia, vennero proprio in quei giorni ordini dai due sovrani che i
militari di una nazione che si trovassero a servire nel reggimento di un’altra potessero passare,
se ne avessero fatta richiesta, a un corpo della propria nazione; infatti martedì 29 luglio il
generale della cavalleria principe di Castiglione tenne a quest’effetto al borgo di Chiaia una
rivista di tutti i suoi reparti di stanza nella capitale e, alla presenza d’alcuni ufficiali francesi, 30
soldati di quella nazione passarono alla loro fanteria e in cambio un numero dei loro fanti di
nazionalità non francese passarono alla suddetta cavalleria regnicola. In quegli stessi giorni si
pubblicò a Napoli anche un indulto per tutti i disertori a patto che tornassero ai loro reparti entro
un termine di 40 giorni; ne erano esclusi quelli degli ultimi tre reggimenti di fanteria ultimamente
levati.
Un avviso da Venezia del 19 luglio informava che era colà giunto in incognito il nuovo
ambasciatore di Spagna e si trattava di un napoletano, cioè Carmine Nicola Caracciolo principe
di Santobuono, accompagnato dalla principessa sua consorte e dalla sua numerosa corte.

(Napoli, 5 agosto:) È uscita alla luce una carta geografica del Regno di Francia, ove, sulle
frontiere di essa, si rappresenta il teatro della guerra di Fiandra, Germania, Savoja e Lombardia,
di grandezza di palmi cinque. Si vende carlini dieci da Paolo Petrini a S. Biagio de’ Librari.

Sabato 16 agosto fu, per ordine del viceré, mandato al deposito delle galere un birro che
qualche giorno prima aveva ferito un soldato francese. Domenica 24 agosto arrivò la tartana
corsara del summenzionato capitano napoletano Gioseppe Fumo, il quale recava due prede da
lui fatte nei mari di Sardegna e cioè una turca e l’altra flessinghese (‘zelandese’), mentre altre di
minor peso le aveva vendute lungo la strada; ripartirà dopo quasi un mese. Il giorno seguente,
essendo S. Luigi, il luogotenente generale marchese d’Avaray festeggiò l’onomastico del re di
Francia, ospitando prima con molta pompa a una messa corale alla chiesa di S. Luigi di Palazzo
dei Frati Minimi e poi a pranzo i soliti tanti cavalieri e ufficiali delle tre nazioni, e poi nel
pomeriggio i quattro reggimenti francesi si squadronarono davanti al palazzo reale e vi stettero
sino al calar della notte, quando fecero una triplice scarica di moschetteria. Si seppe da Brindisi
alla fine d’agosto che le sei galere napoletane che scorrevano l’Adriatico avevano predato un
vascello olandese da 28 cannoni, il quale però ne portava allora solo 18 più quattro mortari e
quattro petriere, e 63 uomini d’equipaggio con ricco carico, vascello che le sei galere
rimorchieranno a Napoli arrivandovi nel pomeriggio del 2 ottobre seguente, mentre domenica 31
agosto approdò a Napoli la galera Capitana di Sardegna, la quale era accompagnata da una

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tartana carica di forzati e marinai destinati a equipaggiare un’altra galera che si era costruita
nell’arsenale partenopeo per la squadra sarda; il nuovo vascello sarà varato alla metà d’ottobre.
Un avviso del 4 settembre rendeva noto che erano allora in corso esercitazioni delle
soldatesche che presidiavano il Napoletano, affinché fossero preparate a qualsiasi emergenza,
e il 15 ottobre ancora 100 soldati del Suardo partirono per la Lombardia, rimanendo così da
inviarvisi, di quel reggimento, solo altre due compagnie. In quel tempo un avviso da Milano del
20 agosto precedente informava che due compagnie di cavalleria napoletana smontata erano in
quello stesso giorno partite per Soncino nel Cremonese per andare a reprimere eventuali
scorrerie delle partite di ussari austriaci provenienti dal Trentino e un ordine reale del 27 agosto
imponeva al marchese de Villena d’inviare a Barcellona con la massima sollecitudine quei 500
nuovi fanti la cui leva l’anno precedente lo stesso viceré aveva, come si ricorderà, descritta a
Madrid come difficile da realizzarsi, e ora servivano per il nuovo reggimento ‘italiano’, appunto di
500 uomini, che il 19 giugno il colonnello napoletano Pietro Garofalo, forse fratello del suddetto
Gioseppe, si era offerto di formare colà, muniti di vestiario e spade a sue spese; pertanto il
marchese ordinò che si avviassero subito a Barcellona due compagnie di fanti italiani che erano
stati in precedenza destinati invece a Milano, ma queste non sembra siano mai arrivate al
Garofalo; evidentemente, non trattandosi di nuove leve, furono utilizzate diversamente.
Domenica 7 settembre si commemorò come il solito l’anniversario della vittoria di Nördlingen del
1634 e il giorno dopo la festa della Natività della Madonna a Piedigrotta con la tradizionale
parata pomeridiana del borgo di Chiaia e la novità che quest’anno alla stessa partecipavano
anche le soldatesche francesi; la mattina di venerdì 19 settembre arrivò il corriero di Spagna
con la felice notizia della vittoria navale riportata il 24 agosto nelle acque di Malaga dal conte di
Tolosa sull’armata anglolandese dell’ammiraglio George Rooke, forte di 60 vascelli e alcune
galeotte a bombe, le quali erano però riuscite a fare grossi danni all’armata delle 2 corone, per
cui ognuna delle due parti poté vantarsi d’aver prevalso. Secondo le esageratamente vittoriose
notizie che arrivarono a Napoli, l’armata gallispana, fatta di 50 vascelli di linea che andavano dai
104 ai 70 cannoni, otto fregate, nove burlotti (‘brulotti’), 24 galere - cioè nove di Spagna, sette
del duca di Tursi ed otto di Francia - e molti legni da carico, aveva in quell’occasione preso ben
28 vascelli nemici, affondatine altri 16, ucciso o ferito circa 5mila nemici, tra cui il generale
inglese Schowel, e addirittura preso prigioniero il Rooke, mentre da parte sua aveva perso
1.500 uomini, tra uccisi e feriti - tra i quali però molti ufficiali di qualità, inoltre due soli vascelli,
due galere francesi e la galera Capitana del duca di Tursi, la quale era stata letteralmente
aperta nel mezzo dalle cannonate ricevute (immaginiamo chissà con quale rabbia del d’Oria,

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sicuramente avaro come tutti i suoi capitani generali antenati!) Gli anglolandesi accusarono
invece, tra uccisi e feriti, una perdita complessiva di 2.908 combattenti (de Larrey) e nessun
legno; comunque il numero degli uomini persi doveva senza dubbio implicare anche la perdita di
naviglio, anche in considerazione della circostanza che i nemici, pur dichiarandosi vincitori,
riconoscevano, come abbiamo appena detto, di aver perso alcuni legni.
Giovedì 9 ottobre arrivò la nuova della suddetta resa d’Ivrea per cui quello stesso giorno e il
seguente si festeggiò questo positivo avvenimento; tra il 13 e il 14 si varò una galera che si era
fabbricata a Napoli per la squadra di Sardegna; mercoledì 15 altri cento fanti del nuovo
reggimento del duca di Castel d’Ajrola Suardo, con i loro capitano e tenente, salparono per il
Milanese, non restando così da mandarsi di quel corpo che altre due compagnie; sabato 18 il
viceré scese nell’arsenale a porre il primo chiodo, quello dorato, alla costruzione di una seconda
galera per la squadra di Sardegna, di cui, come già sappiamo, era allora capitano generale
Antonio Branciforte conte di S. Antonio. Nella seconda metà d’ottobre arrivò da Madrid a
Francesco Caracciolo Pisquizj duca di Martina la mercede reale della compagnia di uomini
d’arme (ossia di cavalli corazze) che era stata prima di suo padre il duca di Petricone, ma
presto, come vedremo, al duca sarà chiesta la formazione di un nuovo terzo.

(Napoli, 4 novembre:) Sabato, dopo desinare, fecero con molta destrezza gli esercizii militari
innanzi al real Palazzo li soldati del terzo del colonnello di Galves vestiti assai nobilmente di
nuovo con molta spesa anche del conte medesimo, oltre a’ denari che perciò aveva ricevuto
dalla Corte…

Le predette esercitazioni avvennero, come al cospetto del viceré duca d’Ascalona, di Monsignor
de la Tremouille, il quale presto partirà alla volta di Roma, e dei soliti altri principali capi militari, i
quali al solito le guardavano dai balconi, ma questa volte il viceré volle scendere nella piazza,
ufficialmente per meglio osservarle, ma in realtà per dare a quei soldati un maggior senso di
gratificazione; nel pomeriggio del 9 dicembre seguente il suddetto col. Emmanuel de Sylva y
Meneses conte di Galbez partirà per la Corte di Madrid. Frattanto un avviso da Madrid dell’8
ottobre precedente informava che al campo posto a Badajoz dal maresciallo di campo James
Fitzjames duca di Berwick, irlandese al servizio spagnolo, stavano arrivando anche le
compagnie del reggimento delle guardie napoletane del colonnello Gaetano, corpo che sino
allora aveva servito a Barcellona; un altro da Genova segnalava l’arrivo in quel porto, la mattina
del 24 ottobre, del legno corsaro napoletano del più volte sopraricordato capitano Giuseppe
Fumo, il quale poi, a causa del maltempo in Liguria, non potrà ripartire prima di domenica 16
novembre; tornerà però a fa scalo a Genova all’inizio di dicembre.
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La sera del sabato 8 novembre giunsero in porto a Baia tre tartane da guerra e quattro barche
armate sotto il comando del conte de Sabran Baudimar, tutti corsari francesi che tornavano in
patria dopo aver scorso l’Adriatico, e ripartiranno poi la mattina di lunedì 24; si trattava forse di
vascelli coordinati dal già menzionato cavalier de Forbin. Lo stesso suddetto giorno 8 il
marchese di Villana scrisse alla corte di Madrid per dar conto di una spiacevole controversia in
materia di saluti marittimi che si era verificata a Castellammare di Stabia in occasione dell’arrivo
di quattro galere pontificie, tra cui la Padrona. Nel corso di questo mese di novembre fecero
ritorno a Napoli dall'Abruzzo le compagnie spagnole colà inviate e si diceva però che il viceré
avesse rinforzato i presidi spagnoli delle fortezze, mentre nella capitale i francesi non erano
ancora riusciti ad accattivarsi le simpatie dei napoletani:

... Si vedevano frattanto li franzesi molto accorati, conoscendo esser malvisti dalla Città, non
mancando quando li vedevano qualche sfaccendato di qualche borbotto... (A. di Costanzo)

La sera di sabato 15 giunse dagli Abruzzi il loro vicario generale, ossia il sargente generale di
battaglia Gioan Girolamo Acquaviva duca d’Atri, il quale aveva anche ottenuto il grandato di
Spagna all’inizio dell’anno precedente e che veniva a conferire col viceré per riceverne istruzioni
e a partecipare a un importante consiglio di guerra che si terrà l’ultimo giorno dell’anno con
l’intervento dello stesso viceré; ripartirà per gli Abruzzi giovedì 1° gennaio.
Il pomeriggio di martedì 9 dicembre la cavalleria di stanza a Napoli eseguì gli esercizi militari
all’arenile presso il ponte della Maddalena, luogo di proprietà reale perché una volta sede della
Real Cavallerizza della Maddalena e tradizionalmente adibito anche a quest’uso di Campo di
Marte per la cavalleria; ciò avvenne alla presenza del suo generale Tomaso d’Aquino principe di
Castiglione e grande di Spagna, del viceré, di tutti i principali ufficiali delle tre nazioni e di
numeroso popolo; lo spettacolo sarà poi stranamente ripetuto con le stesse modalità il
pomeriggio del sabato 13 con parte della predetta cavalleria, trattandosi forse di corpi che non
avevano potuto partecipare alle precedenti esercitazioni. Lo stesso giorno partirono via mare i
primi 250 nuovi fanti per il reggimento di nuova leva che stava costituendo in Catalogna il
colonnello Pietro Garofalo sopra menzionato; erano divisi in sei compagnie dirette a Finale, da
dove poi avrebbero proseguito per Barcellona. Probabilmente approfittò di questo passaggio
marittimo anche Emmanuel de Silva y Meneses, conte Galvez e colonnello di uno dei
reggimenti di fanteria spagnola presenti in regno, partito lo stesso pomeriggio del martedì 9, il
quale si recava alla Corte di Spagna per motivi non dichiarati. A Longone questi vascelli
imbarcarono altre due compagnie di fanteria napoletana, anch’esse destinate alla Catalogna, ed
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erano queste guidate dai capitani Biagio di Ginza e Domenico di Ruggiero; infatti una
corrispondenza da Genova del 3 gennaio successivo informerà che colà si era in attesa di 400
soldati di nuova leva provenienti da Napoli. Era in quel tempo arrivato ordine che si dovessero
imbarcare per il Milanese le soldatesche francesi di Napoli e si attendevano perciò vascelli di
quella nazione che li trasportassero. In quel tempo un avviso da Genova del giorno 13
informava che il 10 precedente era colà arrivata una barca napoletana che portava 180 fanti
prelevati da Porto Longone e che andavano a sbarcare a Finale; questi uomini erano destinati a
proseguire per la Spagna e ciò dimostra che nel regno le difficoltà di reclutamento
proseguivano.
La mattina di giovedì 18 dicembre, vigilia del compleanno del re Filippo V, il viceré tenne a un
lautissimo pranzo i soliti molti cavalieri e ufficiali generali delle tre nazioni; nel pomeriggio nella
piazza del Castel Nuovo fu archibugiato un soldato del Battaglione perché uxoricida. Un altro
avviso genovese, questo datato 20 dicembre, riportava poi di un violento combattimento
avvenuto in mare tra due vascelli da guerra inglesi e la barca del corsaro napoletano Gioseppe
Fumo, il quale, non ostante la sproporzione delle forze, si era difeso gagliardamente riportando
la perdita di soli 20 uomini.
In questo 1704 era stata data a Napoli un’istruzione che prescriveva le norme e le procedure da
osservarsi nella manifattura e nella prova delle polveri da sparo che si andavano producendo
nella Real Polveriera della Torre dell'Annunziata; il 28 settembre invece in Spagna era stata
emanata un’innovativa ordinanza, la quale prescriveva: Toda la infanteria se forme en
regimientos...; siamo dunque alla fine ufficiale dell'antico e glorioso tercio. Con tale nuovo
regolamento il reggimento o battaglione era ridotto a 12 compagnie inclusa quella di granatieri;
la compagnia sensiglia doveva da ora in poi esser armata di soli fucili con baionetta, essendo
l'anno precedente stati aboliti in Francia moschetti e picche. Ecco dunque il piede del nuovo
reggimento di fanteria:

Piana maggiore

Colonnello
Tenente colonnello
Sargente maggiore
Aiutante
Cappellano
Chirurgo
Tamburo maggiore.

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.
Ogni compagnia

Capitano
Tenente
Alfiere luogotenente
2 sargenti
3 primi capi-squadra
3 secondi capi-squadra
2 carabineros o fusileros que han de traer el fusil rayado.
Tamburo
39 soldati.

Alla possibilità della suddivisione dei reggimenti in più battaglioni quest’ordinanza non fa più
accenno; le inferiori capacità disciplinari degli eserciti ispanici rispetto a quelli francesi non
permettevano evidentemente un’organizzazione basata su una tale più complessa struttura.
Di conto reale si sarebbero dati ogni anno e a ogni soldato semplice o graduato due paia di
scarpe, un paio di calze, un cappello, una camicia e due cravatte; a ogni compagnia 25 vestiti
comprendenti un giustacorpo (chamberga o casaca), una veste o giubba (chupa) e un paio di
calzoni; a ogni reggimento infine 12 casse di tamburo con relativi cordoni e cinque tende per
ogni compagnia destinata ad accamparsi in campagna, tende la cui durata era preventivata in
due anni. Il resto necessario dei generi predetti non era fornito dalla Corte perché era a carico
dei capitani delle stesse compagnie. Il predetto nome giustacorpo era traduzione del fr. juste-
au-corps (‘abito attillato’), il quale era nato dalla contaminazione con il precedente garde-coeur
(‘corazza guarda-cuore’), per cui la prima traduzione italiana era stata non giustacorpo bensì
giustacuore.
Ogni reggimento di cavalleria, divisa ora in cavalli leggieri e dragoni, doveva comprendere 12
compagnie e ogni compagnia doveva avere il seguente piede:

Capitano
Tenente
Cornetta
Maresciallo d'alloggio
2 brigadieri
3 carabinieri
Tromba
25 soldati.

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La piana maggiore non differiva da quella dell'ordinanza di Fiandra del 1702, se non per
l'aggiunta di un timballiere e della precisazione che l'aiutante era sin tenencia, cioè non poteva
sostituire il sargente maggiore quando questi era assente.
Il definire qui la cavalleria ordinaria cavalli leggieri significa che era ormai sancita la
trasformazione dei cavalli corazze in cavalleria priva d’armi difensive, trasformazione voluta
appunto dai francesi, anche se, come abbiamo già detto, reggimenti elitari di corazzieri
continueranno a esistere anche nella stessa Francia, mentre un uso più generalizzato della
cavalleria pesante sopravvivrà in Austria e in Germania anche nel Settecento. Ogni anno si
sarebbero forniti di real conto a ciascuna compagnia di cavalleria otto cavalli, dieci selle con
relativi fermi e finimenti completi, dieci paia di fonde per pistole d'arcione, 15 giustacorpi, 15
vesti, dieci cappe, otto paia di pistole, otto moschetti per i cavalleggeri od otto fucili con
baionette per i dragoni, otto cinturoni, otto spade e 15 paia di stivali.
Per quanto riguarda la terminologia, c'è da notare in quest'importante ordinanza che il termine
squadrone, una volta usato indistintamente sia per la cavalleria che per la fanteria, viene ora
modernamente riservato solo alla prima, mentre il termine equivalente per la fanteria è ora
esclusivamente quello di battaglione, alla francese, termine che in tempi precedenti era invece
talvolta impropriamente usato anche per la cavalleria; scomparso è anche dalla cavalleria l'uso
del termine trozo per significare invece un corpo di cavalleria inferiore al reggimento, in
considerazione che la cavalleria è ormai quasi dappertutto organizzata appunto in regolari
reggimenti, come anche non più si trova quello di tropa (‘truppa’), a indicare un’occasionale
aggregazione di compagnie sciolte, perché ormai l'uso di compagnie franche era in estinzione e
quelle dei reggimenti quasi mai operavano separatamente.
Il timballiere della piana maggiore non è invece una novità assoluta, in considerazione che
questo tipo di musicante è documentato nella cavalleria napoletana sin dal 1690 e sicuramente
esisteva anche prima, perché la trattatistica militare del Cinquecento già lo menzionava, ma
allora come una caratteristica delle cavallerie nord-africane; i mori erano stati dunque i primi a
introdurre tra gli strumenti musicali militari della cavalleria questi timpani che sporgevano dai
due lati dell'arcione e che essi chiamavano naccare, mentre nell’Europa latina prenderanno il
nome di timballi; ancora oggi c’è a Napoli si vende un tipo di pasticcino rustico chiamato
timballo, perché la sua forma originaria ricordava appunto quella di tali strumenti, così come un
famoso dolce napoletano si chiama babà, perché ha la forma del copricapo dei baba, alti
dignitari dell’impero ottomano che il popolo napoletano conosceva, perché li vedeva sfilare nei
cortei che sempre accompagnavano l’ingresso dei nuovi ambasciatori ottomani a Napoli; così

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anche come la cialda, quell’antica pasta dolce arrotolata detta oggi in Sicilia sigaretta dolce,
ricorda appunto la gialda, ossia il giavellotto o corta lancia usata dalle fanterie medievali, e così
infine come la provola, formaggio fresco di antica origine campana, dal greco antico probolà
(attico προβολή, dorico προβολά), nome comune significante ‘sporgenza’ e con il quale si
indicavano quindi genericamente tutte quelle cose che sporgessero o che si tenessero protese
in avanti come scogli, armi ecc. Questo nome voleva in somma riferirsi a quella caratteristica
piccola protuberanza che la provola, nella sua versione originaria, presenta.
Mentre i cavalleggeri portano, come sappiamo il moschettone, i dragoni usano, come il solito, la
stessa arma della fanteria, quindi il fucile con baionetta, essendo, come sappiamo, non altro
che fanteria montata.
Nella predetta ordinanza seguono poi i piedi dei reggimenti della guardia, della piana maggiore
dell'esercito, dell'ospedale militare e delle compagnie delle guardie del corpo del re, ma,
trattandosi d’ordinamenti che riguardano l'esercito spagnolo e interessano Napoli solo
marginalmente, li tralasciamo, così come omettiamo di esporre tutta la complessa normativa
disciplinare introdotta e dalle ordinanze del 1702 e da questa del 1704 perché, essendo tutta di
concezione francese, quindi profondamente innovativa e molto moderna, andremmo al di là del
nostro assunto, il quale è solo quello di voler descrivere la realtà militare napoletana durante il
vice-regnato spagnolo, realtà che è ora alla sua fine e a cui gli austriaci non daranno il tempo di
sperimentare, se non in minima parte, questi ordinamenti franceseggianti.
Anche le bandiere reggimentali erano modificate dal regolamento del 1704:

Mando que en cada batallón de mis tropas aya tres vanderas, cuyas astas sean mas largas y
fuertes que las ordinarias, y la vandera sea mayor.

Comunque, non ostante che la succitata ordinanza avesse per oggetto solo gli eserciti iberici,
con dispaccio reale del 30 ottobre dello stesso 1704 se ne raccomandava l'osservanza anche
nel Regno di Napoli, dove però l'applicazione di tali nuovi ordinamenti avvenne senza fretta e
con poca pubblicità, come generalmente era sempre stato per le innovazioni militari; infatti solo
in un avviso napoletano dell’anno successivo leggeremo dell’applicazione delle nuove
disposizioni:

(Napoli, 21 aprile 1705:) Essendosi qui finalmente ordinato che si mandasse a esecuzione il
nuovo regolamento delle milizie mandato già alcuni mesi addietro da Sua Maestà, giovedì si
diede la mostra generale a tutte queste soldatesche e si dette loro una novella situazione
secondo il sistema di detto regolamento; e Sua Eccellenza (il viceré) ha cominciato a conferire
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con quest’occasione varj carichi a diversi officiali di merito, di cui si darà poi ragguaglio al
pubblico quando sarà finito di provvedersi tutti quei carichi vacanti. Questo regolamento si è per
noi dato alle stampe e si vende nella nostra libreria.

Si tratta della libreria del francese Antoine Bulifon, il quale aveva a Napoli l’appalto pubblico
dell’edizione degli Avvisi.

1705. Tra la fine del 1704 e l'inizio dell'anno successivo furono condannati alla frusta e al remo
due spagnoli delle galere di Sardegna per aver commesso nottetempo dei furti in città, mentre
martedì 3 febbraio 1705 sarà giustiziato un uomo nella piazza del Mercato per aver ucciso un
soldato francese a Capodichino. Venerdì 16 gennaio morì di una grave malattia Joseph de
Redonda, cavaliere di S. Jacobo e mastro di campo di uno dei reggimenti di fanteria spagnola
allora presenti nel Regno di Napoli; gli si fecero pomposi funerali a spese del suo reggimento
sabato 24 seguente nel convento dei Padri Francescani Riformati di S. Pietro dì Alcántara,
chiamato di S. Lucia del Monte, dove egli stesso, sentendosi prossimo alla fine, era voluto esser
portato a morire, e nello stesso convento fu seppellito.
Una corrispondenza madrilena del 7 gennaio informava che il 5 precedente era da colà partito
per Milano il napoletano Tiberio Carafa figlio del principe di Belvedere, il quale avrebbe poi
proseguito per Napoli dove veniva con l’incarico di levare un reggimento di fanteria; dopodiché il
re gli avrebbe concesso in premio il colonnellato di un reggimento di dragoni; arriverà a Napoli,
accompagnato dal padre, quasi alla metà di marzo. Un’altra corrispondenza madrilena, questa
del 14 gennaio, partecipava che nei giorni precedenti Nicola Antonio Caracciolo marchese di
Torrecuso, grande di Spagna, si era colà sposato con una nobildonna spagnola; una terza del
28 diceva invece dell’arrivo a Barcellona di 170 soldati napoletani già sperimentati (assai ben
vestiti) destinati a rinforzare il terzo di napoletani colà di guarnigione e che si aspettava l’arrivo
di un secondo reggimento partenopeo. Un avviso milanese del 28 gennaio riportava invece che
il corriero di Spagna aveva portato ai due reggimenti di cavalleria napoletana di Placido Dentice
e di Giovanni Caracciolo l’ordine di passare a servire nella guerra contro il Portogallo; essi si
trovavano infatti ora a Pavia ben armati, vestiti e provvisti di buoni ufficiali, e in Spagna
avrebbero ricevuto finalmente i cavalli, di cui invece ancora mancavano; lasceranno Pavia infatti
il 3 marzo e arriveranno il giorno 12 a S. Pier d’Arena dove, accolti e passati in rivista dagli
ufficiali generali marchesi di Valdefuentes e di Quintane, i quali erano allo scopo già arrivati da
Milano martedì precedente, subito saranno imbarcati alla volta di Barcellona. Una
corrispondenza genovese del 31 segnalava l'arrivo in quel porto di una barca napoletana che

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portava 160 soldati regnicoli diretti allo sbarco di Finale, dove si stavano radunando tre
reggimenti da portare in Spagna.
Martedì 3 febbraio fu afforcato, presumibilmente nella piazza del Mercato, un uomo che aveva
assassinato per futili motivi un soldato francese con cui in precedenza era stato in amistà.
Il 12 febbraio, come si saprà poi, verso la fine di marzo, da Madrid, il napoletano Carlo Carafa,
governatore d’Orano, aveva condotto una sortita contro i mori accampati a qualche distanza da
quella piazza e ne aveva ricavato un ricco bottino di bestiame; inoltre, come da avviso da
Madrid del 19 agosto di quest’anno, un’altra ne condurrà nel luglio con molto successo,
uccidendo molti nemici e prendendone 271 schiavi.
Verso la metà di febbraio il viceré assegnò sei degli otto reggimenti di fanteria di nuova leva
richiesti dal re e i nuovi colonnelli erano i seguenti:

Landulfo d’Aquino, il quale al momento serviva come capitano nel Milanese.


Pietro di Vico.
Francesco Caracciolo di Luigi.
Il cap. Carlo Maria Caracciolo.
Il cap. Gioseppe Mariconda.
Il cap. Niccolò Cavaselice.

Pietro Vico era un nobile sardo il quale nell’ottobre del 1703 aveva invano offerto al re di levare
in Sardegna un reggimento di 800 fanti italiani, a sue spese vestiti e muniti di spada, con il
contraccambio del posto di quatralvo della squadra di galere di Sardegna.
Verso la mezzanotte di giovedì 26 febbraio morì Scipione de Capoa, duca di Mignano, in
prematura età di circa 35 anni; egli era capitano di una delle compagnie di uomini d’arme del
regno, il cui capitanato diventava quindi vacante. Nel pomeriggio di domenica 1° marzo, in
occasione del battesimo del figlio del principe di Bisignano alla chiesa parrocchiale di S. Maria
della Neve, cerimonia a cui partecipava come padrino, in nome del re di Francia, monsignor de
la Tremouille, per rendere onore a quest’ultimo, si schierarono in ala per le strade del borgo di
Chiaia, quartiere in cui abitava il detto principe, i quattro battaglione francesi salutandolo con
bandiere e spontoni come si faceva con lo stesso re, di cui egli era infatti procuratore, e questo
schieramento coprì ben 2mila passi di strade; nell’arena del borgo, di fronte alla detta chiesa, si
schierarono pure sei squadroni di cavalleria inviati dal viceré e salutarono il de la Tremouille tre
volte.
Ecco ora una rivista della cavalleria presente in regno da cui risulta il suo stato nel marzo 1705:
Ufficiali Soldati Cavalli

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Le due compagnie della guardia del viceré 23 144 118
La compagnia della guardia del marchese di Grigny 12 63 62
La compagnia del generale della cavalleria principe di Castiglione 9 58 61
Il reggimento di corazze Manzo y Zuñiga 105 432 378
Il reggimento di corazze Billet 70 299 265
Il reggimento di dragoni de Armendariz 77 356 244
Il reggimento di dragoni Velbalet 60 289 271

È però nei documenti di questo stesso marzo che si cominciano a trovare menzionati due nuovi
reggimenti di corazze e cioè quello di guardie del corpo del colonnello Domingo de Garate y
Olea, costituito - evidentemente proprio ora - utilizzando le due compagnie del viceré, quella del
Castiglione e probabilmente anche quella del marchese di Grigny, e quello del colonnello Juan
de Tovar y Castilla, il quale però potrebbe aver preso semplicemente il posto del colonnello
Manzo y Zuñiga, perché di quest'ultimo non più si fa parole nelle cronache. Il colonnello de
Garate y Olea non era comunque ancora in regno; vi giungerà, come vedremo, solo nel
novembre seguente. Era in quest'anno sargente maggiore del reggimento Billet tale Gaspar de
Gritto, venuto negli anni passati da Milano al comando di una compagnia di cavalleria presto
però passerà al Tovar y Castilla con lo stesso grado.
Lunedì 30 marzo fu seppellito Francesco Pisano Carafa, gentiluomo napoletano, morto
centenario dopo una lunga carriera militare; si era trovato a combattere come capitano di
cavalleria nella famosa battaglia di Nördlingen del 1634. All’inizio d’aprile giunse a Napoli notizia
che una nave napoletana carica di polvere pirica che il viceré aveva inviato per le esigenze della
guerra contro il Portogallo aveva fatto sosta a Barcellona e aveva poi proseguito per Malaga;
qualche giorno dopo arrivò a Madrid il mastro di campo napoletano Ciarletta Caracciolo, il quale
aveva preceduto l’arrivo da Milano del suo reggimento colà destinato, e fu ospite per un bel po’
di suo cugino il nunzio apostolico a Madrid; infatti è solo in una corrispondenza da Milano del 22
aprile che troveremo la prima notizia della prossima partenza di questo corpo:

L’altro jeri il reggimento di fanteria napoletana di Don Ciarletta Caracciolo, composto tutta di
gente eletta e ben vestita, fece con molta leggiadria gli esercizii militari avanti ln nostro signor
principe Governadore e li dovrà fare ancora in presenza del sig. duca di Vendome, dopodiché
tan tosto partirà inverso la Spagna.

Abbiamo voluto citare per intero quest’avviso perché nemmeno allora era cosa consueta trovare
settentrionali che parlassero bene dei napoletani, specie trattandosi di un comune reggimento di
fanteria e non di un corpo della guardia! Questo reggimento era comunque già stato passato in
rassegna l’11 aprile, cioè appena arrivato a Milano dai suoi alloggiamenti di campagna; lascerà
Milano il 27 dello stesso aprile e in seguito un avviso da Genova del 9 maggio informerà che
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allora esso si stava imbarcando a Finale per la Spagna su due vascelli; questi però, durante il
viaggio, incapperanno in una fierissima tempesta di mare e alla fine dello stesso maggio da
Barcellona ne segnaleranno l’arrivo di uno con l’albero e il timone rotti, che recava quattro delle
compagnie di detto reggimento; il secondo, con le altre otto compagnie, arriverà solo parecchi
giorni dopo. In questo 1705 risulta inoltre al servizio spagnolo - forse proprio in Spagna - un
reggimento di fanteria napoletana sotto il colonnellato di Nicola Castellone, corpo però di cui
ben poche tracce si ritrovano e che deve essere pertanto durato breve tempo, e contemporaneo
- se non immediatamente precedente - a quello del Castellone fu un altro terzo di fanteria
italiana, cioè quello del mastro di campo Fernando Pignatelli.
La notte di martedì 7 aprile salparono per lo Stato di Milano due dei quattro battaglioni francesi -
il Grancey e il Dauphiné - e due di spagniuoli e taliani, ma l'anonimo diarista non specifica quali
fossero; per queste soldatesche, in tutto sembra circa 2mila uomini da impiegarsi nella guerra
contro il duca di Savoia, era stato preparato un convoglio di 11 tartane e un vascello da 36
cannoni ormeggiati alla darsena:

… Il nostro eccellentissimo sig. Viceré avea già mandato li giorni innanzi agli ufficiali delle dette
truppe, mentre stavano già sopra le navi, un copiosissimo rinfrescamento di varie sorti di viveri,
che fu portato da 40 facchini.

Il di Costanzo così commentava questa partenza:

... dovendo detti franzesi imbarcarsi e portarsi a guerra viva conforme all'ordine mandato dal Re
di Francia, li rincresceva la partenza perché, avendo assaggiato le nostre lagrime, dovevano
lasciarle per andare a lagrimare ne’ pericoli della guerra.

Ovviamente per nostre lagrime s’intendevano, come abbiamo già detto, i vini bianchi, tipici del
Regno di Napoli, il quale non produceva quasi per nulla il vino greco, ossia il vino rosso,
caratteristico quest'ultimo, oltre che della Grecia, anche della Spagna, la quale produceva i rossi
più corposi e pesanti d'Europa; è singolare vedere come poi il senso di questi nomi si sia perso
e infatti oggi si vedono vini bianchi chiamati greco e addirittura rossi detti lacrima! I due detti
reggimenti erano comandati dal brigadiere monsieur de la Gerémiere, tenente colonnello del
Dauphiné e dal conte de Muret, colonnello del Beauvoisy, il quale era stato promosso
maresciallo di campo tra l’ottobre e il novembre dell’anno precedente, e si diceva che
andassero a unirsi al campo francese del gran priore duca di Vendôme posto nel Bresciano. Il
convoglio era scortato da due legni, di cui uno armato a guerra, comandati dal già più volte
ricordato corsaro napoletano cap. Gioseppe Pisanti, detto Fumo, ma, come poi si leggerà in una
557
lettera che lo stesso corsaro avrebbe inviato da Le Spezie, come allora ancora si diceva, al
viceré, a causa di una insistente caccia subita da parte di sei grossi legni da guerra nemici,
quattro inglesi e due piscilingui, cioè di Vlissingen in Zelandia, e durata sette ore, il 18 aprile
dovette trovar rifugio nel suddetto porto ligure; e, poiché aveva avvistato anche tre altri vascelli
vlissinghesi incrocianti al largo di Livorno, arrivato che fu questo convoglio a Porto Venere, su
richiesta del console francese il governo genovese concesse che i soldati imbarcati, invece di
andare a sbarcare a S. Pier d’Arena, potessero già da lì proseguire il loro viaggio via terra in
Liguria e poi, come il solito, attraverso le montagne liguri, verso il Milanese; pertanto furono da
Genova spediti alcuni ufficiali militari alle popolazioni locali perché facessero loro
buon’accoglienza. Il Fumo tornerà a Napoli con i suoi suddetti due vascelli alla metà di maggio.
A proposito della predetta spedizione di truppe bisogna dire che in questo 1705 continuò la leva
degli otto reggimenti di fanteria dalla milizia del Battaglione come ordinato dalla corte di Madrid,
ma ancora con grandissime difficoltà e resistenze da parte dei regnicoli, notoriamente e a
ragione tutt'altro che amanti della vita militare; nel precedente febbraio il viceré aveva inviato
una circolare a tutti i comandanti di presidio del regno, chiedendo nota completa di tutti gli
organici delle loro guarnigioni, avendo evidentemente pensato di utilizzare anche parte dei
presidiarî per il completamento degli otto bestemmiati reggimenti, i quali, a quanto si sapeva,
sarebbero stati utilizzati parte in Lombardia e parte in Spagna. Una corrispondenza del 2 marzo,
il quale li aveva dati per quasi compiti non ostanti le dette notevoli difficoltà di reclutamento, sarà
poi, come vedremo, assolutamente smentito da cronache e avvisi successivi.
Giovedì 9 aprile il viceré mandò un piccolo presidio di spagnoli nel fortino di San Giovanni a
Teduccio da poco costruito e, vista la particolare attenzione dedicatagli dal viceré, ribattezzato
Forte di Vigliena, nome quest’ultimo che tuttora ancora porta tutta quella parte estrema del
porto di Napoli. Arrivò poi un avviso madrileno del 18 marzo che raccontava come il governatore
d’Orano, il napoletano Carlo Carafa, avesse il 12 febbraio guidato una spedizione contro alcuni
‘distaccamenti di soldati’ mori che si erano stabiliti a 11 leghe dalla detta città senza
chiedergliene la facoltà:

… e, essendo entrato in quei luoghi, vi avea presi 680 schiavi, 50 bovi, 500 vacche e molto altro
bestiame, la qual preda avendosi egli ritenuta, rese la libertà a’ mori, che l’assicurarono di voler
esser fedeli vassalli di Sua Maestà e difensori della piazza (di Orano). La quale risoluzione
parve esser di maggior servigio del re che non potea importare lo interesse del loro prezzo, se li
avesse venduti…

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Insomma i poveri mori avevano conservato la loro libertà, ma a prezzo di una totale povertà!
Sabato 18 aprile si festeggiava a Napoli, con il solito squadronamento di soldatesche nelle
piazze della città, la resa di Verrua in Piemonte all'esercito delle due Corone avvenuta a
discrezione Giovedì Santo 9 aprile per mancanza di viveri:

... E mentre stava lo squadrone avanti al Carmine, al passaggio del Viceré l'alfiere che
maneggiava la bandiera, nel voler salutare Sua Eccellenza, non so come s’imbrogliasse nel
giocarla, di modo che cagionò qualche risa nella plebe... (A. di Costanzo)

Un’assurdità del tempo era infatti pretendere che un valoroso alfiere facesse lo sbandieratore!
Nello stesso predetto giorno 18 partirono per la Catalogna gli altri 250 fanti richiesti dalla
Spagna per il completamento del nuovo reggimento del col. Pietro Garofalo e, sempre in data
18, il viceré si affrettò a confermare per lettera a Madrid che questi uomini tanto sollecitatigli
erano finalmente partiti (A.G.S. Papeles de Estado, Nápoles.)
Mercoledì 22 aprile si seppe che il principe di Castiglione si era offerto di tornare a servire a
Milano, però con la conservazione del suo impiego di generale della cavalleria del Regno di
Napoli; in realtà egli aveva fatto molto per tale cavalleria, in considerazione che, quando era
arrivato a Napoli ad assumerne appunto il generalato, l’aveva trovata formata da 1.400 soldati,
di cui però solo 500 montati e la maggior parte senz’armi né vestiti; ora in poco tempo erano
diventati 1.900, tra corazze e dragoni, tutti già sperimentati, tutti ben vestiti e armati e tutti
disposti sul nuovo piede voluto dalle più recenti ordinanze reali. La sera di sabato 25 aprile
giunse a Napoli il colonnello francese conte de la Motte, il quale veniva ad assumere il comando
del reggimento Beauvoisy lasciato vacante dal suddetto conte de Muret; egli portò la nuova che
il 18 precedente, con l’apertura della trincea, era formalmente iniziato l’assedio della piazza
della Mirandola presso Modena, fortezza allora tenuta dagli imperiali.

(Napoli, 2 maggio:) ... per le presenti guerre il Re ha ordinato che delli soldati del Battaglione ne
vole il terzo per il Stato di Milano, onde alla giornata ne vanno venenno da diversi luoghi tutti
con catene, atteso nessuno ne vogliono andare, così alcuni paesi pagano ducati cinquanta per
ciascheduno soldato al Re per non mandare detti soldati e alcuni se ricattano (riscattano) con
pagare ducati 70 e 80 per fare lo scagnio di detto soldato (Anonimo).

Il riscatto, se dunque pagato dalle università o comuni che dir si voglia, veniva a costare di
meno di quanto il singolo privato, forzatamente arruolato, avrebbe dovuto sborsare per farsi
sostituire da un povero disperato reperito alla fine a Napoli.

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Nella notte di lunedì 11 maggio sei galere napoletane salparono da Napoli per portare una muta
straordinaria alle guarnigioni dei Presidi di Toscana, dove infatti portavano due reggimenti
spagnoli, cioè quello del conte di Galbez e quello fisso di Napoli, e a parte di quello di Gaeta,
dove pure recarono quello vallone, il quale evidentemente si trovava nei detti Presidi;
torneranno a Napoli la mattina del lunedì 25 maggio. Lunedì 18 si festeggiò a Napoli la presa
della Mirandola, avvenuta l’11 precedente e la cui nuova era stata portata a Napoli la mattina di
sabato 16 da un corriero straordinario proveniente da Roma.
Una corrispondenza da Genova del 16 maggio informava che il cavalier de Forbin, ritornando
dalla Dalmazia, aveva fatto preda di due legni inglesi carichi di mercanzie imbarcate a Smirne;
un’altra da Milano del 20 riportava invece che sabato 16 il reggimento di cavalleria napoletana
che serviva allora in quello Stato aveva passato mostra al cospetto del principe governatore, il
quale, accompagnato dalla principessa sua consorte, ne restò pienamente soddisfatto per
essere tutta gente veterana, ben montata e vestita novellamente. Ecco qui uno dei primi casi in
cui rincontriamo il termine veterani col suo significato originario, cioè quello che ebbe nella
romanità classica e che oggi infatti di nuovo gli diamo, gente di guerra sì esperta, ma tuttora
viva, ossia in servizio attivo. Questo reggimento sarà subito dopo spedito con marchese di
Valdefuentes contro una grossa partita di 600 imperiali che venerdì 8 aveva superato il Tesino,
invaso quella parte della Lombardia, riscosso contribuzioni da varie terre e razziato parte dei
cavalli e del bagagli che erano arrivati dal Piemonte per l’esercito del duca di Vendôme; ma,
essendosi il nemico già troppo avanzato e quindi allontanato da MIlano, si giudicò che il
reggimento non avrebbe potuto raggiungerlo e quindi gli s’inviò il contrordine di marciare invece
su Verona, dove era già stato in precedenza destinato. Terminatasi frattanto la demolizione
delle fortificazioni di Vercelli, per togliere così al nemico la possibilità di rioccuparle, e, mentre si
stava facendo lo stesso con quelle di Verua, il reggimento di fanteria di Tommaso Caracciolo
prese pertanto a trasferirsi da Vercelli alla Sesia.

(Napoli, 26 e 27 maggio:) Si sollecitano gli ordini per completare gli 8 reggimenti colla gente
estratta dal Battaglione (om.) In questi Regni si vive con amarezza, atteso che si faccino, come
si dice, per ordine regio soldati anco contro voglia per riempire il numero del Battaglione di
questo Regno, calato finora al numero di 8 mila huomini impiegati in altri Stati della Monarchia
(Ib.).

Bisognava dunque rinfoltire i ranghi del Battaglione perché si potesse continuare ad attingervi
forzosamente gli uomini destinati a formare i predetti reggimenti! Il primo giugno il vecchio duca
Scipione Brancaccio, il quale, dopo reiterate richieste, all’inizio di quest’anno aveva finalmente
560
ottenuto dal re licenza di lasciare il governo di Cadice a causa delle sue indisposizioni,
evidentemente ora ristabilitosi, lasciò Napoli per andare, come si diceva, a servire come
semplice venturiero in Lombardia, sebbene avesse circa 60 anni e avesse già guerreggiato
tantissimi anni in Fiandra; ma già altri casi precedenti ci hanno insegnato che allora per gli
anziani militari non esisteva quiescenza e, chi per non avere una pensione decorosa, chi per
gran senso di fedeltà al suo Principe, spesso anziani o anche anzianissimi personaggi
riprendevano quelle stesse armi che avevano maneggiato quando erano ancora ragazzi.
Probabilmente il vecchio soldato si riammalò presto, perché all’inizio dell’anno successivo
morirà a Napoli dove evidentemente era presto ritornato.
La notte di sabato 6 giugno, il maresciallo di campo francese monsieur de Carcadeau lasciò
Napoli per andare a servire anche lui nel Milanese, mentre un avviso di Genova del 13
seguente segnalò l’arrivo colà del napoletano Giulio Pignatelli, mastro di campo di un terzo
italiano in Navarra, il quale era invece in trasferimento da Madrid a Napoli; la sera di venerdì 12
arrivò una staffetta che portava al luogotenente generale marchese d’Avaray l’ordine di passare
immediatamente a servire in Spagna e per tal motivo il seguente venerdì 19 tornerà a Napoli
precipitosamente, per prenderne il posto, il predetto Carcadeau, il quale, come sappiamo, era
da pochissimo partito.
Sabato 13 giugno salpò da Napoli verso Barcellona il nuovo reggimento di fanteria di Landulfo
d’Aquino, scortato dal solito corsaro napolitano capitan Fumo, ma la lettera di conferma a
Madrid inviata dal viceré sarà solo del 14 luglio, e negli stessi giorni moriva il francese du Bois
tenente colonnello del reggimento francese di Berry. Il detto venerdì 19 arrivò il corriero di
Spagna con una nuova lettera del re per il mastro di campo generale Restaino Cantelmo duca
di Popoli e principe di Pettorano; nella missiva il sovrano ordinava di proprio pugno all’alto
ufficiale napoletano di portarsi al più presto in Spagna per assumere il già menzionato in carico
di comandante di una delle quattro nuove compagnie di cavalleria della guardia del re, cioè di
quella che doveva essere di napoletani mentre le altre dovevano essere una di fiamminghi e
due di spagnoli, conducendo 40 cadetti delle principali famiglie del Regno di Napoli, perché gli
altri 160, per compiere il numero stabilito di 200, li avrebbe presi a Barcellona dal reggimento
delle guardie del corpo italiane di cavalleria della guardia colà stazionante e di cui abbiamo
tanto già detto; avrebbe poi dovuto consultarsi con il viceré per portare a Barcellona, oltre alle
predette 40, anche altre 160 reclute per sostituire i suddetti soldati da prendere a Barcellona. In
sostanza il re voleva che il Cantelmo in pochi giorni partisse con 200 nuove reclute di cavalleria
che fossero a livello di guardie del corpo reale; incarico non proprio semplice! È da notare infatti

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che un numero di 200 significava formare una specie di trozo di quattro compagnie più che una
singola compagnia, ma, non avendo noi purtroppo conservato memoria dell’ordinanza
costitutiva dei suddetti quattro nuovi corpi di guardia reale voluti da Filippo V, non siamo più in
grado di fare ulteriori osservazioni al riguardo. Un avviso genovese del 13 trascorso segnalava
l’arrivo a Genova da Madrid, nel suo viaggio che lo portava a Napoli, del mastro di campo
napoletano Giulio Pignatelli.
In quello stesso mese di giugno erano frattanto arrivati a Napoli dalle province del regno molte
catene di soldati del Battaglione, i quali, per essere convertiti in truppe ordinarie da mandare
all'estero, dovevano essere posti in ceppi come i delinquenti; questi arruolati a forza furono
vestiti e imbarcati in più volte su varie tartane, chi diceva per la Spagna e chi per Milano. L'arrivo
di queste catene di miliziani e d’altre di criminali condannati al servizio militare o alle galere sarà
segnalato anche in data 4 luglio dal suddetto anonimo diarista, il quale più tardi così
aggiungerà:

(Napoli, 21 luglio:) …Resta sospesa l’unione delli 3 restanti reggimenti che mancano dalla leva
del Regno, non solo, come si scrisse, per la causa della calda stagione, ma per quiete di
qualche commozione (‘sommossa’) d’alcuni, che si erano ammotinati per sfuggire d’esservi
compresi.

Intanto una corrispondenza da Milano del 1° luglio dava finalmente una prima notizia militare
negativa per i franco-spagnoli e cioè che il principe Eugenio, capitano generale degli austriaci,
aveva passato l’Oglio in località Calzo e in quest’azione 40 granatieri del reggimento di
Tommaso Caracciolo sembrava fossero stati presi prigionieri. La mattina del suddetto mercoledì
1° luglio arrivarono a Napoli le cinque galere della squadra di Sicilia comandate dal loro
capitano generale Emmanuel de Silva y Meneses recanti molti cavalieri della prima nobiltà
siciliana, tra i quali spiccava il mastro di campo Antonio Santander de la Cueva, inviato della
città di Palermo; costoro venivano a complimentarsi col nuovo viceré di Sicilia, il marchese di
Bedmar, il quale era atteso a Napoli da Roma. Infatti, domenica 5 luglio il detto marchese,
entrato in regno dal confine con lo Stato Ecclesiastico, e accompagnato verso Napoli da due
compagnie di cavalleria che erano di stanza a Fondi, come era stato preordinato, fu incontrato
la sera presso Melito dal viceré uscito dopo pranzo per recarsi a incontrarlo, accompagnato dal
marchese di Grigny, governatore dell’armi, da Tomaso d’Aquino principe di Castiglione,
capitano generale della cavalleria, e da due compagnie del nuovo reggimento di cavalleria della
guardia di Domingo de Garate y Olea, colonnello che a Napoli non era però ancora arrivato;
quando questo corteo militare arrivò al borgo di S. Antonio, il quale era subito fuori della Porta
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Capoana, le artiglierie dei castelli di Napoli fecero una salva reale. L’importante ospite, la sua
consorte e il suo numeroso seguito furono ospitati a Palazzo Reale e poi, nella sera di lunedì
13, scesi all’arsenale dalla scala segreta del Palazzo Reale e, facendo loro ala le milizie
francesi, tutti s’imbarcheranno sulle dette galere siciliane e salperanno per la Sicilia
accompagnati da una salva reale delle artiglierie e per un tratto in mare dallo stesso viceré di
Napoli.
In quel mentre un avviso da Madrid del 7 luglio riportava che a Barcellona erano giunti due
reggimenti napoletani; probabilmente ci si riferiva a quello di Landulfo d’Aquino e ancora a
quello di Ciarletta Caracciolo. Mercoledì 8 luglio partì poi per la Catalogna su alcune tartane
anche il secondo nuovo reggimento di fanteria levato da Pietro Vico – la lettera del viceré di
conferma a Madrid è del 18 seguente - e nello stesso giorno il tenente colonnello baron du Sault
lasciò Napoli verso gli Abbruzzi alla testa di due compagnie del reggimento Billet da unire alle
altre dello stesso corpo che già si trovavano in quelle province; poi, domenica 12 luglio, circa
un’ora prima di giorno, tre galere napoletane comandate dal quadralbero (alterazione di
quatralbo) Carlo Grillo lasciarono la darsena della capitale alla volta di Barcellona, dove
portavano Restaino Cantelmo, il quale era tra l’altro anche gentiluomo della Camera del Re e
cavaliere dell’ordine dello Spirito Santo, la duchessa sua moglie e il principino suo figlio, 42
cadetti di nobili famiglie del Regno di Napoli e di quello di Sicilia e 160 soldati scelti tratti dalla
cavalleria di stanza a Napoli, tutto quindi in osservanza dei suddetti ordini reali ricevuti per la
formazione della nuova compagnia italiana della guardia reale istituita da Filippo V a imitazione
dell'analoga guardia del re di Francia e affidata, come sappiamo, al capitanato del suddetto
duca di Popoli, fratello del defunto cardinal Cantelmo. Gli Avvisi di Napoli riportano i nomi di tutti
i 42 cadetti predetti e noi abbiamo pensato di ripeterne qui l’elenco in considerazione che ciò
potrebbe esser gradito a chi facesse ricerche sulla nobiltà meridionale, quando questa era
ancora quella vera e antica:

Alessandro Porzio, cavaliere siciliano.


Andrea d’Afflitto, fratello del principe di Scanno.
Andrea Bonito, fratello del duca dell’Isola.
Andrea Serra, figlio del principe di Pado.
Carlo Felice Corbelli, figlio di un marchese milanese.
Domenico Carafa, fratello del principe di S. Lorenzo.
Lelio Carafa, fratello del duca di Matalona.
Fernando Pignatelli, fratello del marchese di Casalnovo.
Francesco Vespoli, fratello del marchese di Montaghena.
Fra’ Gioan Battista Recco, fratello del duca d’Acadia.
Michele Acquaviva, fratello del duca d’Atri.
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Michele Blanco, fratello del marchese del Pizzone.
Nicolò Sanseverino, fratello di Carlo Maria principe di Bisignano.
Ottavio Gesualdo, terzogenito di Domenico, marchese di Santo Stefano, morto il seguente 17
settembre.
Scipione Moccia, marchese di Montemare.
Gregorio Pinto, fratello del principe di Montauto.
Carlo Grimaldi.
Carlo Rinaldi.
Capitan Rinaldo de’ Rinaldi.
Carlo Spasiano.
Gioan Battista Spasiano
Carlo Velluto.
Domenico d’Afflitto.
Felice Vignapiana.
Filippo Ruffo.
Francesco Buongiovanni.
Francesco Celentano.
Francesco di Ruggiero.
Gaetano Pagano.
Gioseppe Pagano.
Gioacchino Parisano.
Gioseppe Caravita.
Matteo Caravita.
Gioseppe Palmieri.
Giovanni di Palma.
Ottavio di Palma.
Gioan Tommaso Simonetti.
Ignazio Capaccio.
Nicolò Cella.
Ottavio Cimmino de Arrieta.
Placido di Sangro.
Salvatore Magnacapra della Torre.

Erano imbarcati su queste galere anche il già ricordato capitano di cavalleria milanese
marchese Pallavicino, il quale aveva il compito di comandare e guidare per strada questa nobile
soldatesca, il sargente generale di battaglia fiammingo marchese del Pru (sic) che andava a
servire in Spagna e il più volte già ricordato luogotenente generale marchese d’Avaray, diretto a
Parigi, ma anche lui destinato alla guerra contro il Portogallo, restando a sostituirlo a Napoli nel
comando delle milizie francesi il maresciallo di campo cavalier di Carcadeau. Queste tre galere
giungeranno nelle acque genovesi martedì 28 luglio, come sappiamo da un avviso genovese
del 2 agosto, ma non entrarono in porto per differenze (‘controversie’) sorte con i forti di Genova
in materia di saluti, trattandosi di formalità allora molto importanti e anche politicamente
pericolose, le quali, come spieghiamo più diffusamente nel nostro trattato sulle galere, erano
fonte d’infinite controversie diplomatiche, potendo condurre addirittura a conflitti, e quindi il
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giorno seguente, unitesi a quattro tartane che portavano in Catalogna uno dei tre suddetti nuovi
reggimenti di fanteria napoletana che pure avevano lasciato Napoli in quel luglio, probabilmente
quello di Nicolò Cavaselice, ripresero direttamente il viaggio per Barcellona, dove arrivarono
dopo l’11 agosto e avranno appena il tempo di sbarcarvi i suddetti cadetti che subito dovranno
ripartire per non restare bloccate in quel porto dalla grande armata anglolandese
sopraggiungente il 22 seguente contro Barcellona; nel ritorno saranno infatti inseguite da 4
vascelli, i quali però per mancanza di vento non riusciranno a raggiungerle, e, dopo aver fatto
sosta a Marsiglia e probabilmente anche a Genova, lunedì 14 settembre, a tarda sera,
arriveranno a Napoli portandole quelle preoccupanti notizie. Si saprà poi, da lettere da
Barcellona del 17 agosto portate dal corriero di Spagna, che il duca di Popoli aveva avuto
ordine di restare colà con i suoi cadetti a causa della minaccia portata dall’armata nemica che
infatti, dopo un primo cannoneggiamento della città, il giorno 23, come si saprà poi da lettere
livornesi arrivate a Napoli lunedì 7 settembre, aveva sbarcato truppe a Mataró, luogo distante
solo otto miglia; l’arciduca Carlo d’Austria sbarcherà invece il 29 seguente, acclamato
dappertutto nuovo re di Spagna.
In conseguenza della partenza del Cantelmo, a cominciare da martedì 14 luglio il comando
dell’esercito sarà esercitato a Napoli, mancando il Cantelmo, a giorni alterni dal generale della
cavalleria Tomaso d’Aquino principe di Castiglione e da quello dell’artiglieria Orazio Coppola dei
duchi di Canzano, come prescriveva l’ultimo regolamento reale, e iniziò il d’Aquino per aver egli
maggior anzianità come tenente generale.
Nella mattinata di domenica 19 luglio, anch’esso su tartane, partirà per Barcellona il terzo
reggimento di fanteria di nuova leva, quello di Gioseppe Mariconda, e nella notte di giovedì 23 il
quarto, cioè quello di Nicolò Cavaselice, le cui leve erano state evidentemente anch’esse
completate e ciò non ostante l’aggravarsi delle difficoltà di leva espresso dal marchese di
Villena nella predetta lettera. Nel corso di questo 1705 fanti regnicoli di nuova leva si trovavano
alloggiati nei Regi Studi, luogo in cui, oltre che nell'arsenale, tradizionalmente si rinchiudevano
le reclute; che degli otto suddetti reggimenti ne fossero stati a questo punto formati cinque è
confermato da una successiva corrispondenza da Napoli del 10 agosto riportata tra gli Avvisi di
Foligno, con cui s’informava della partenza di quello del Cavaselice e di quella imminente del
quinto, assegnato questo al duca di Castel d'Ajrola, il quale, come si ricorderà, era già stato
colonnello del primo reggimento formato, corpo che però, poco dopo il suo arrivo a Milano, era
stato riformato e probabilmente a vantaggio d’altri corpi preesistenti. Questa seconda nomina al
duca Suardo, decisa dunque in risarcimento della perdita della prima, era però tenuta a Napoli

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formalmente in sospeso nell’attesa che si conoscesse da Milano la data in cui era avvenuta la
riforma predetta, data da cui si sarebbe dovuto cominciare a conteggiare amministrativamente
l'anzianità del secondo incarico; anche allora dunque la burocrazia poneva i suoi cavalli di
Frisia!
Giovedì 6 agosto il corriero di Spagna portò a Napoli la notizia della presa di Civiasco presso
Vercelli e questa vittoria si festeggiò a Napoli il giorno seguente; la mattina di venerdì 21
partirono alcune tartane che portavano a Barcellona il resto del nuovo reggimento del duca di
Castel d’Ajrola di casa Suardo e la sera di quello stesso giorno giunse anche la notizia della
grande vittoria ottenuta il 16 precedente dal duca di Vendôme sugli imperiali di Eugenio di
Savoia alla Geradadda, ossia alla Ritorta presso Cassano d’Adda, battaglia in cui lo stesso
principe Eugenio era rimasto ferito, e si festeggiò la mattina seguente, infine, martedì 25 agosto,
festa di S. Luigi, si festeggiò come il solito l’onomastico del re e il maresciallo di campo
Carcadeau tenne a lautissimo pranzo le gerarchie militari delle tre nazioni, mentre i due
battaglioni francesi rimasti a Napoli si squadronavano presso il Palazzo Reale, davanti a cui poi
la sera ci furono i fuochi artificiali pagati dallo stesso Carcadeau al cospetto di una folla di
popolo.
Ed ecco ora la mostra della cavalleria ordinaria del regno data nell'agosto 1705:

Ufficiali Soldati Cavalli

Reggimento Garate y Olea di corazze della guardia, di 12 compagnie. 113 257 214
Reggimento di corazze Billet. 59 137 172
Reggimento di corazze Tovar y Castilla. 117 240 327
Reggimento di dragoni del colonnello Tiberio Carafa (in Pozzuoli). 129 268 24
Reggimento di dragoni del colonnello Velbalet. 105 230 264

La novità è dunque che il reggimento di Joseph de Armendariz è ora invece del colonnello
Tiberio Carafa, probabilmente perché l’Armendariz, appena titolato marchese di Navarra dal re,
era stato per tal motivo richiamato in patria; c'è poi da dire che nel seguente 1706 il reggimento
Tovar y Castilla sarà di guarnigione a Capua, mentre il predetto Carafa sarà nominato col titolo
di brigadiere, avendone nel frattempo ottenuto il grado.
Nel pomeriggio di martedì 8 settembre si tennero il solito corteo e la solita parata al borgo di
Chiaia, a cui parteciparono squadro nati i due battaglioni di fanti francesi rimasti a Napoli:

… E perciò anche è quivi concorso un numero grandissimo di carrozze e di popolo infinito, di cui
è stata piena tutta quella lunghissima strada.

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Martedì 15 settembre il viceré tenne a pranzo la nobiltà e le solite autorità militari delle tre
nazioni per ricorrer l’indomani, giorno però di digiuno religioso, il genetliaco della regina.
Un avviso da Genova del 13 settembre segnalava che nei giorni precedenti erano passati colà
legni napoletani carichi di 600 soldati del reggimento Suardo e avevano proseguito in direzione
di Marsiglia; un altro del 28 ottobre da Milano informava che il colonnello di fanteria napoletano
Tommaso Caracciolo era stato promosso dal re maresciallo di campo e sperava di ritenere
anche il suo colonnellato, anche se ciò sarebbe stato contrario ai nuovi regolamenti militari
introdotti da Filippo V; un terzo del 30 ottobre da Bruxelles raccontava che il napoletano Nicolò
Pignatelli duca di Bisaccia si preparava a partire per la Sicilia dove andava ad assumere il suo
nuovo incarico di mastro di campo generale di quel regno e che probabilmente quello di
capitano generale dell’artiglieria dei Paesi Bassi che egli così lasciava e che gli aveva portato
una rendita annua di ben 30mila fiorini sarebbe stata con l’occasione soppressa; infine un
quarto avviso del 2 novembre da Livorno diceva che il 27 ottobre erano colà giunte da Rosas in
Catalogna, dopo un viaggio di ritorno di soli 12 giorni, due delle tartane napoletane che avevano
sbarcato colà il reggimento del duca di Castel D’Ajrola, il quale si era subito incamminato verso
Barcellona.
Alla fine d’ottobre si venne a sapere che era stato catturato il famoso bandito Giacinto Tasso, il
quale, essendo stato in precedenza accordato con l’impegno di servire egli stesso la Regia
Corte contro i banditi della provincia di Lecce, aveva, contrariamente a tali patti, abbandonato la
detta provincia passando nella sua terra natia, cioè Olevano sul Tusciano nel Salernitano; colà il
duca di Melito, preside di Salerno, temendo che il bandito si rimettesse a infestare le campagne,
ne fece arrestare la moglie e le due figlie, inducendolo così a costituirsi con un suo figliuolo, un
suo cugino e altri tre suoi accoliti. In quel tempo era uscito in campagna anche il bandito lucano
Vincenzo di Canio con sei compagni, ma, ben perseguitati dalle genti della Regia Corte, cioè
dai soldati di campagna di quella provincia, era stato costretto a fuggire in quella di Montefuscoli
e colà, incontrato dal tenente di campagna locale, dai suoi soldati e da alcuni vassalli del duca
di Bisaccia che si erano a quelli aggregati in aiuto, era stato ucciso ad archibugiate unitamente
a due dei suoi, portandosene poi, come allora si usava, le teste a Napoli in qualità di prova,
mentre un quarto bandito ne era rimasto seriamente ferito e un quinto, fuggito, era venuto poi a
costituirsi. Quello del banditismo era un problema secolare ed endemico del regno; ad esempio
ce n’era stata un’imperversare nei primi anni ’70 del Trecento, quando cioè la banda del
brigante Mazziotto, godendo di potenti protezioni, aveva imperversato nelle Puglie, in Molise e

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in Campania; il fenomeno, allora represso dai baroni del regno per ordine della regina Giovanna
I d’Anjou, presto si ripresentò e nel 1380 il regno ne fu di nuovo intollerabilmente infestato:

Il paese a questo tempo cominciò ad essere infestato da’ malandrini, che non si poteva uscire
un passo da le terre (‘città’). Allora la regina fece capitanio messer Ramundiello di Nola per
Terra di Lavoro contro li malandrini. Alli 20 di aprile messer Ramundiello fece buttare un bando
da parte della regina e sua, che, qualunque malandrino volesse indulto, havesse tempo otto dì;
e che nullo villano dovesse cavalcare in sella se non a panniello di lana (‘cioè solo con la
gualdrappa’), colla briglia in mano, senza spata (‘cioè guidando il cavallo con la mano destra,
quella della spada’); ed, uscendo (in campagna), messer Ramundiello trovò (‘il brigante’)
Sabatino d’Arnone on sperone e sella e, benché (gli) havesse trovato l’indulto in petto (‘la
richiesta d’indulto che teneva in petto’), pure lo fece impiccare (An. Diaria neapolitana etc. In L.
A. Muratori, Rerum Italicarum Scriptores etc. C. 1.036, t. 21. Milano, 1732.)

Interessante qui l’epressione buttare un bando; cioè nelle città i bandi si leggevano nei luoghi a
ciò deputati, ma i cavallari banditori, cavalcando nelle campagne, si limitavano invece a buttarne
copie per terra, naturalmente nei luoghi dove ciò si riteneva più osservato ed utile:

… In questi dì li malandrini havevano pigliato tanta audacia che venivano sino allo Ponte della
Matalenae facevano grandissime occisioni e crudelitate sino ad aprire le femine nel ventre. La
regina […] creò un capitanio contro li malandrini, il quale prese uno che si chiamava Pascale
Vorcillo, che haveva spaccate le femine nel ventre e lo appiccò nello ponte (ib.)

Ma, tornando ora al tempo oggetto di questo nostro studio, diremo che nel pomeriggio di
mercoledì 4 novembre il principe di Castiglione fece esibire tutta la cavalleria di guarnigione
nella città in esercitazioni di destrezza nella piana d’arena fuori del ponte della Maddalena,
luogo che tradizionalmente fungeva a Napoli da Campo di Marte della cavalleria, e ciò avvenne,
come il solito, alla presenza del viceré e di numerosi alti ufficiali e cavalieri; in quello invece del
venerdì 6 arrivarono una tartana e una galeotta inviate dal già più volte menzionato capitan
Gioseppe Pisanti, detto Fumo, le quali rimorchiavano prede turco-barbaresche che quel famoso
corsaro napoletano aveva fatto sulle coste di Barbaria; egli era però rimasto a Cagliari con i due
suoi principali vascelli. Frattanto, il giorno 7, Carlo d’Austria, aveva fatto la sua entrata ufficiale a
Barcellona con una cavalcata pubblica. Alcuni giorni dopo giunse finalmente a Napoli dalla
Spagna il colonnello Domingo de Olea, venuto ad assumere il colonnellato del nuovo
reggimento di cavalleria della guardia di Napoli. Lunedì 16 furono impiccati un soldato spagnolo
e un galeotto romano, mentre tre loro complici erano stati condannati alla galera, e si trattava di
una banda che aveva commesso nelle chiese parecchi furti d’oggetti sacri, come calici e
patene, e confessarono anche d’aver rubato la pisside della chiesa di Santa Maria degli Angeli
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dei Padri Riformati; furti dunque sacrileghi che spiegano perché il soldato spagnolo fu giustiziato
con l'infamia dell'impiccagione, invece che con la molto più onorevole fucilazione riservata
tradizionalmente ai militari.
La mattina di domenica 22 novembre giunse il corriero di Spagna, il quale portava la notizia
della vittoria ottenutasi a Badajoz sui portoghesi e su gli inglesi loro alleati e a Napoli si
festeggiò il giorno stesso nei soliti modi, mentre solo mercoledì 25 vi si pubblicava la nuova
della resa di Barcellona, la quale era stata concordata in capitoli già il 9 ottobre; in effetti la
guarnigione di quella città si era arresa a buona guerra, come allora ancora si diceva, e cioè con
risparmio della vita e con un capitolato di resa più che onorevole; infatti i difensori superstiti
poterono uscire dalla capitale di quel sempre conteso principato a bandiere spiegate, a tambur
battente, con i micci dei moschetti accesi e palle in bocca, ossia tenendo ognuno nella sua
bocca due o tre palle dell'arma per poter servirsene più prontamente in caso venissero
proditoriamente attaccati dai vincitori; inoltre con bagagli, cavalli, quattro cannoni al seguito e
molte altre condizioni favorevoli e rispettose del valore mostrato durante la difesa della città. Il
14 ottobre si erano però verificati colà dei torbidi:

... onde il suddetto Viceré (di Catalogna) volse portare alcuni prigionieri catalani ribelli di Felippo
V; a questo il popolo se risolse a pigliar l'arme contro il detto Viceré facendolo prigioniero con
tutti li 40 cavalieri e cadetti napolitani, unito con il duca di Popoli capitanio di detti 40 cadetti,
che, se non fosse arrivato, il generale inglese, certo sarebbero stati tutti morti, onde restorno
tutti prigionieri di guerra, con che chi voleva pigliar piazza (‘arruolarsi’) li lasciavano e quelli che
non pigliavano piazza restavano prigionieri di guerra; a questo dicono che la maggior parte
pigliorno soldo al partito di Carlo III.

Questa voce che i difensori erano passati in massa al nemico non poté essere smentita se non
sabato 5 dicembre, quando finalmente, col corriero di Spagna, arrivarono a Napoli le lettere
scritte dal duca di Popoli alla sua congiunta duchessa di Bruzzano di casa Cantelmo, da sua
moglie, anch’essa salvata dagli inglesi del conte di Peterborough, e di quasi tutti i 40 cadetti
napoletani che si trovavano allora a Barcellona, in considerazione che tali missive erano state
trattenute circa due mesi dai vincitori:

Le lettere venute qui de’ nostri cadetti a’ loro parenti sono di consolazione, mentre dubitavamo
che loro non fussero osservati li patti della capitolazione di Barcellona, li quali in poca parte
furono eseguiti.

Il duca informava infatti che tutti i 40 suddetti cadetti stavano bene e che sarebbero stati
trasportati tutti dall’armata nemica o a Malaga o ad Alicante non appena il tempo fosse stato
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favorevole alla navigazione; persino tutti gli ufficiali e maggiorenti della parte di Filippo V che lo
volevano furono dotati dal generale inglese di un passaporto per raggiungere Madrid. Altro non
si seppe perché, a causa dei suddetti torbidi verificatisi poi in quella città, non si erano potute
spedire notizie ufficiali né dell’assedio né delle capitolazioni della resa. In seguito, con lettere
da Madrid del 18 novembre, si seppe che, per evitare la furia dei sediziosi, il viceré Francisco
Velasco, il marchese di Risbourgh, il duca di Popoli e molti altri ministri e ufficiali erano stati
costretti a salvarsi sulla Capitana inglese.
Subito dopo Barcellona si era arresa senza combattere Tarragona, presidiata dal reggimento
napoletano di Pietro Vico, in considerazione che il suo popolo si era sollevato a favore
dell’arciduca.

(Napoli, 24 novembre:) Essendo stata qui presa ultimamente dalla Corte una brigata di 6 ladri
che avena fatti varj rubamenti, anche nelle pubbliche strade, jeri ne furon menati tre in galea, li
meno colpevoli, due altri alle forche e l’altro, che dovea ancora esse appiccato, morì li dì passati
di timore nelle carceri.

Del 25 novembre di quest’anno sembra essere una relazione manoscritta del più volte citato
fondo Papeles de Estado, Nápoles nella quale si disegna un adattamento dei terzi del Regno di
Napoli alla grande ordinanza del 1704, adattamento che evidentemente non era ancora stato
realizzato. Per quanto riguarda quello ‘fisso’ di Joseph Caro, essendo costui maresciallo di
campo, i nuovi regolamenti non gli consentivano più di mantenere ancora anche l’incarico di
colonnello di quell’ormai reggimento e perciò nel documento si suggeriva che uno dei suoi tre
battaglioni si aggregasse al reggimento di Ambrosio Antolinez, per cui inoltre alla fine del 1706
si recluterà in Spagna e Catalogna, e che gli altri due fossero passati al comando di Pedro de
Castro, ufficiale che lo meritava per aver tanta anzianità e aver accumulato tante esperienze di
servizio; il reggimento attualmente del de Castro invece si sarebbe potuto incorporare, come
secondo battaglione, in quello del de Villalonga, essendo due corpi molto affini perché entrambi
provenienti dall’armata oceanica ed entrambi dello stesso piede antico e provvisti d’ottimi
ufficiali sperimentati, e, poiché il de Villalonga non ne era più colonnello, perché evidentemente
aveva In quel mentre ottenuto la promozione a sargente generale di battaglia da lui stesso
richiesta, il colonnellato di questo nuovo reggimento si sarebbe potuto affidare al tenente
colonnello del Villallonga, cioè a Jeronimo Maldonado; oltretutto il Maldonado si offriva di fornire
a sue spese al reggimento 220 vestiti di cui quel corpo aveva gran necessità, mentre si poteva
eleggere al grado di tenente colonnello il suo sargente maggiore Francisco Muñoz de
Contreras, il quale si obbligava per latri 100 vestiti. Invece poi in realtà il Caro manterrà anche il
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suo incarico di colonnello in deroga alle nuove norme, la fusione de Castro - de Villalonga non
avverrà e il de Castro sarà semplicemente sostituito nel comando dal suo tenente colonnello
Joseph Mercado de Morales, il quale aveva in passato servito in Fiandra, nell'armata
dell'Oceano, nel presidio di Gibilterra e nella piazza di Ceuta, ossia dovunque ci fosse maggior
impegno e pericolo, e il de Villalonga dal marchese di Villa Torres, mentre il Maldonado ne
resterà tenente colonnello.
Nello stesso suddetto documento si suggeriva inoltre di unire l’ex-de Redonda al reggimento del
conte di Galbez per l’affinità d’essere ambedue provenienti dall’esercito di Catalogna; ma di
questo reggimento in seguito solo sapremo che ne era tenente colonnello uno Juan Gonzales e
che se ne nominerà il sargente maggiore nella persona di Diego Phelipe Donzel, nomina questa
fatta direttamente dal viceré, come da nuovi poteri conferitigli dal già menzionato dispaccio
reale del 30 ottobre 1704, poteri dovuti evidentemente all’emergenze di guerra, in
considerazione che sino allora le nomine degli ufficiali erano sempre arrivate dalla corte di
Madrid e con la firma del re. Infine, non si consigliava di confidare molto sul reggimento vallone,
ora non più comandato dal colonnello visconte di Maulde, bensì dal col. Johannes de Kamps,
perché, a causa delle già dette difficoltà di reclutamento incompleto, era non solo incompleto,
ma anche una congerie di diverse nazioni; comunque, se proprio se ne voleva formare un
secondo battaglione, bisognava inviare ufficiali a reclutare in Fiandra e Spagna.
Nel pomeriggio di giovedì 3 dicembre Tomaso d’Aquino il principe di Castiglione, capitano
generale della cavalleria e grande di Spagna, aveva frattanto fatto di nuovo esibire la sua
cavalleria nell’arena del Ponte della Maddalena e questa volta il viceré si era portato a vederla
con sua nuora la contessa di S. Estéban de Gormaz; sabato 19, ventiduesimo genetliaco del re,
ci furono i soliti festeggiamenti, tra cui il lautissimo pranzo che il viceré offriva in tale occasione
ai principali cavalieri e agli ufficiali generali di Napoli, mentre nello stesso giorno nominava
capitano della sua guardia svizzera il suo secondogenito marchese di Moja, capitanato che era
stato reso infatti vacante dalla nomina a viceré d’Aragona del suo primogenito conte di S.
Estéban.
Negli ultimi giorni dell'anno, tramite l’alcance di Spagna, si seppe che il 22 novembre
precedente l'armata dei collegati contro Filippo V e Luigi XIV aveva, dopo lungo e penoso
viaggio, sbarcato presso Almeria la sconfitta guarnigione di Barcellona con il suo viceré, in tutto
circa 2mila uomini, tra i quali molti erano i napoletani, come appunto il duca di Popoli, sua
moglie e isuddetti 40 cadetti napoletani, i quali poi però, prima di proseguire per Madrid, furono
evidentemente trattenuti a Murcia, perché è da quella città che quasi tutti ancora scrissero e

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quest'altre lettere arriveranno a Napoli nel corso del febbraio dell'anno seguente; tra le altre,
ancora quelle del duca di Popoli, capitano delle guardie regie di fanteria napoletana, e del duca
di Sarno di casa Medici, loro brigadiere. Nel frattempo, tramite Milano, si venne anche a sapere
della triste morte del colonnello Ciarletta Caracciolo, ucciso in quella guerra dallo scoppio di un
deposito di munizioni provocato dalla caduta di una bomba nemica. Intanto i francesi e lo stesso
Filippo V marciavano verso la Catalogna con l’intento di riprendere Barcellona, dove Carlo
d'Austria aveva assunto il titolo di Carlo III di Spagna ed era stato riconosciuto re di Catalogna,
Valenza e Aragona, ponendo la sua capitale nella stessa Barcellona; riconoscimento
ovviamente non accettato da Filippo il quale infatti contemporaneamente, come abbiamo
appena detto, faceva viceré d’Aragona Mercurio Pacheco conte di San Estéban de Gormaz,
figlio primogenito del viceré di Napoli; aveva pure nominato viceré di Valencia il duca d’Arcos e
suo luogotenente il napoletano Andrea Coppola duca di Canzano.
Mercoledì 30 dicembre giunsero a Napoli tre galere di Sicilia che portavano il cardinale Giudice,
arcivescovo napoletano di Monreale, il quale era stato viceré di Sicilia pro interim per tre anni e
aveva appunto lasciato il suo posto al marchese di Bedmar. Dello stesso 30 dicembre di questo
1705 è un’addizione alla succitata ordinanza del 1704, da cui traiamo qui di seguito la lista dei
generi di equipaggiamento da fornirsi alle soldatesche e i loro relativi costi in magazzino:

Generi comuni a fanteria e Costo in reali di biglione,


cavalleria. valuta di Spagna.________

Casacca 80
Giubba 25
Calzoni 20
Calze 11
Cappello 11
Scarpe 15
Camicia 10
Cravatta 4
Cinturone 12
Portafucile (tracolla) 3
Cartucciera 8
Cassa di tamburo 6
Cordone di tamburo 1
Spada 15
Fucile 75
Fucile rigato 150
Baionetta 10

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Ulteriori generi per la cavalleria

Cappa 106
Gualdrappa e coprifonde 24
Bandoliera 12
Stivali 97
Sella con finimenti, porta-moschettone e
fonde delle pistole 180
Staffe 11
Freni 18
Carabina rigata 145
Carabina 135
Un paio di pistole d'arcione 70.

Le carabine sono in realtà moschettoni, come già più volte ricordato, e sempre tre soli sono i
soldati che lo portano rigato. Una completa descrizione dell'equipaggiamento - quindi
dell'aspetto - di questi primi cavalleggeri ci è stata lasciata dal già da noi citato autore coevo de
Rougeterre:

Il soldato a cavallo ha una giubba (leggi giamberga) e un mantello di un buonissimo panno, la


mostra (leggi ‘risvolti’) e fodera delle giubbe e mantelli è di color rosso, turchino, verde, giallo o
altro, che fanno la differenza o distinzione da un reggimento all'altro; ma ogni reggimento
seguita lo stesso colore e tutti i soldati di esso hanno da aver simili il cappello, cravatta,
bandoliera, cinturone, guanti, cordoni sopra la spalla e della spada, bottoni della giubba e stivali,
essendo l'uniformità quella che dà al reggimento o alla truppa una bellissima comparsa; quella
si deve osservare quanto si può nell'ugualità de i cavalli e di tutto l'arnese, che deve essere
simile, come briglie, selle, fonde di pistole, le loro guernizioni e copertine; le giubbe del
timpanista e trombettiere del reggimento sono del colore o livrea del colonnello.
Il soldato a cavallo è armato di una sciabola, di un paio di pistole all'arcione della sella e di un
moschettone overo archibuso piccolo; i carabinieri hanno una carabina rigata, che si carica con
la bacchetta di ferro e che porta più di 400 passi di punto in bianco (leggi ‘ad alzo zero’). Vi sono
delle truppe che portano una sciabola corta e larga quattro dita con la punta rovesciata; si
attacca per lo lungo delle cigne dalla parte sinistra, prolungata dalla spalla alla groppa del
cavallo. Quella che si usa adesso e che si mette nei pendenti del cinturone si chiama spada da
cavalcare ed è larga due buone dita, lunga trentaquattro, taglia bene da una o da tutte due le
parti ed ha una buona punta, di modo che, in caso di bisogno, può servire a piedi e a cavallo.
Nelle marce il moschettone si porta dentro una borsa di cuoio forte, dove entra il calcio spianato
alla spalla dritta del cavallo, il fucile in fuori e la canna, traversando sopra la coscia del soldato,
volta la bocca in sù verso il gomito del medesimo, che, avendo da salire o scendere da cavallo,
lo può fare e senza impedimento e senza il risico che il moschettone spari da sé e faccia del
male, come più volte e succeduto. Quando la cavalleria è comandata, il moschettone si leva da
quel posto e, con un anello che sta dall'altra parte del fucile, si attacca al ganghero della
bandoliera, avendo la bocca in giù.
Si son dismesse le tracolle per servirsi del cinturone, il quale ha da essere di dante buono e
largo quattro dita come la bandoliera, che si fa lunga in modo che il soldato, volendo sparare,
abbia tutta la libertà di stendere il moschettone senza levarlo dal ganghero, dove resta sospeso
all'estremità della bandoliera, per trovarsi la spada alla mano subito sparato; perciò si deve
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attaccar alla guardia della spada un cordone, che si passa al pugno dritto, e, avendo di bisogno
d'adoprar l'arme da fuoco, si lascia andare la spada sospesa al detto cordone senza obligar il
soldato a rimetterla nel fodero, bensì, avendo sparato, si ritrova a un tratto la spada alla mano
pronta a ogni operazione...
Un reggimento (di cavalleria) forma più squadroni ed ha un paio di timpani che marcia alla testa
della prima compagnia (om.) I timpani sono adornati intorno di un pezzo di drappo di seta
ricamato coll' arme del Principe, come ancora le banderole delle trombe.
Lo stendardo o cornetta di cavalleria è quadrato; sopra di esso sono riccamate da una parte le
armi del Principe e dall'altra una impresa; e, come nell'armate si usa di eleggere un colore per
differenziare un partito dall'altro, che tutti gli uffiziali e soldati, tanto di cavalleria che d'infanteria,
portano sopra il cappello per riconoscersi nelle battaglie, il cornetta di cavalleria ha la cura di
mettere il colore del suo partito alla cima dell'asta e sotto il ferro dello stendardo; la detta asta
ha da essere guernita d’alcune verghe di ferro prolungate perché il legno non venga a essere
tagliato dalle sciabolate; l'asta, per essere portata commodamente, ha da avere il suo calcagno
dentro una piccola borsa di cuoio forte, che si tiene attaccata in fuori del ferro della staffa dritta;
nelle battaglie il cornetta passa l'asta nel cinturone per più sicurezza di non abbandonare o
perdere lo stendardo. Nella marcia la cornetta è piegata e serrata dentro una borsa di cuoio per
conservarla; quando poi fa di bisogno, si spiega e si dice spiegar lo stendardo. Non può esser
meno di un stendardo per squadrone, né più di tre; molti sono con due stendardi...
Le funzioni del trombetta sono conosciute; esso dà il segno del buttasella, della radunanza allo
stendardo, della marciata, della carica nelle battaglie, delle ritirate, chiamate e altre toccate che
si fanno secondo gli ordini e nelle occorrenze...
Il numero degli uomini di una compagnia, delle compagnie di un reggimento e il numero delle
compagnie che formano uno squadrone non è fisso e depende interamente dalla volontà e
ordine del Sovrano.

Come poi le varie specialità di cavalleria si andassero da ora sostanzialmente uniformando alla
moderna cavalleria leggera si comprende dalle seguenti altre spiegazioni del de Rougeterre:

La guardia del corpo dei Principi, gente d'armi, cavalleggieri, corazze, carabinieri, compagnie
d'ordinanza o veterane, moschettieri e granatieri a cavallo non differiscono dalla cavalleria
leggiera, se non che queste sopradette compagnie hanno principi e generali per capitano, che
in esse si ammette solamente o la nobiltà o soldati veterani, hanno più alta paga, sono vestiti di
scarlatto o di colore turchino gallonato d’oro o d’argento, che hanno un paio di timpani per
squadrone e più trombe per compagnia e, come truppe di distinzione, occupano con tutta
preferenza il posto d'onore e la testa di tutta la cavalleria leggiera, ma nel resto si accampano,
marciano e seguitano l'istesse regole nel combattere e squadronare.

Il predetto processo di razionalizzazione della cavalleria era comunque in atto già da un


ventennio ed ecco infatti una corrispondenza da Torino che, alla data del 5 luglio 1692, si
leggeva a tal proposito tra gli Avvisi di Foligno:

Vi è apparenza che le genti d’arme consistenti in 1.000 cavalli possano essere divise in 2
squadroni sotto il nome di ‘cavalleggieri’ e sotto il comando di due colonnelli.

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1706. Da uno stato della fanteria intrattenuta dalla Spagna nell'esercito di Lombardia nel 1706
risultano esservi in quell’anno presenti due reggimenti comandati da napoletani, cioè quelli di
Tommaso Caracciolo e di Cesare de Capoa, ambedue composti di un solo battaglione; il
reggimento de Capoa, corpo di nuova leva, darà la sua prima mostra all’inizio di maggio; in
effetti in essi di soldati napoletani dovevano essercene ben pochi se in una ripartizione della
suddetta fanteria del settembre di questo stesso 1706 si elencheranno 27 battaglioni, di cui
nessuno definito napoletano, mentre 2 stati militari della guarnigione di Finale del settembre e
del 20 dicembre parleranno del reggimento de Capoa e di quello del colonnello Gaetano Golino,
anch'egli napoletano, come di corpi annoveranti - tra tutti e due - non più di 250 fanti e per lo più
milanesi; infatti il brigadiere Albertin, colonnello di un reggimento di grisoni di stanza a Finale,
proporrà la riforma, ossia lo scioglimento, d’ambedue i detti reggimenti; il Golino era stato
capitano nel terzo condotto da Napoli nel 1677 dal mastro di campo Antonio di Gaeta marchese
di Montepagano, poi in altri terzi nel Milanese e in seguito sargente maggiore in quello formato
invece da Domenico Dentice nel 1690, corpo col quale aveva partecipato alla battaglia della
Staffarda e vi rimasto ferito da ben tre moschettate. Nei predetti documenti, mentre si parla del
Golino, il quale era soprannominato Garrillo, come di militare onestissimo, per quanto riguarda
invece il de Capoa si scrive che, oltre a non avere questi alcun talento per la guerra, era anche
agli arresti per aver cercato contatti col principe Eugenio (S.H.A.T. A1-1960). A gennaio il re
sollecitò di nuovo la leva dei tre reggimenti di fanteria napoletana che ancora mancavano degli
otto richiesti nel 1704 e il primo fu quello formato sin dal 13 dello stesso mese dal sargente
generale di battaglia Diego de Alarcón Peñarvia; ma le difficoltà di reclutamento dell'anno
precedente si ripresentavano puntualmente, come apparirà dal seguente laconico avviso:

(Napoli, 14 febbraio:) Qui si cerca d’assoldare gente, ma riesce molto difficile.

Frattanto giovedì 14 gennaio il principe di Castiglione faceva eseguire gli esercizi militari alla
sua cavalleria nella piana al di là del ponte della Maddalena, come era consueto; poi, verso il 30
gennaio giunse dalla Spagna nuova che era morto a Granada, dopo pochi giorni di dissenteria,
Landolfo d'Aquino, cugino del predetto principe di Castiglione e colonnello di uno dei reggimenti
napoletani che si erano mandati in Catalogna; lo stesso corriere informava altresì che il re
aveva ordinato al duca di Popoli di riunire in un nuovo corpo le genti dell'ex-presidio di
Barcellona che erano rimaste, formandone due reggimenti di fanteria e uno di cavalleria, e gli
aveva dato anche facoltà di nominarne egli stesso gli ufficiali, cosa cui il duca aveva subito dato

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esecuzione inviandone i nomi al sovrano per l'approvazione. Il Cantelmo ne formò infatti i
reggimenti di fanteria di Fernando Caracciolo e del conte de la Rivera e ricostituì sia quello di
cavalleria di Placido Dentice sia la sua compagnia delle guardie del corpo di fanteria; poi,
nominato suo comandante in seconda il napoletano duca di Sarno, s’incammino verso Murcia
con l’ordine di raggiungere Valencia, dove bisognava sedare nuovi tumulti.
Sabato 20 febbraio il principe di Castiglione Tomaso d’Aquino fece di nuovo esercitare la sua
cavalleria al ponte della Maddalena, presente lo stesso viceré; la cosa si ripeté ancora il mese
seguente con esercitazioni di tutta la cavalleria e di tutta la fanteria di guarnigione a Napoli e in
presenza, oltre che del viceré, anche di una folla di cavalieri e di popolani, i quali ultimi, come
racconta nelle sue memorie Tiberio Carafa principe di Chiusano, molto si divertivano a
indirizzare sberleffi e motteggi alle evidentemente non molto apprezzate evoluzioni di quella
cavalleria e ciò in conformità al tipico carattere del popolo napoletano, cioè alla sua assoluta
insofferenza di qualsiasi ordine o disciplina e al non avere di conseguenza alcun rispetto delle
istituzioni civili o militari che fossero, a ciò aggiungendosi che allora il partito austriacante
soffiava molto sul fuoco:

Domenica 7 marzo fora del ponte della Maddalena il principe Castiglione generale della
cavalleria fece fare gli esercizii a’ suoi soldati. Li dragoni a piedi furono più volte attaccati dalla
cavalleria e quelli con moschettate e granate non si fecero rompere il battaglione quadrato. Vi fu
il signor Viceré.

Mercoledì 10 marzo si pubblicò un bando che proibiva le scuole di scherma:

… perché non si vedeva che malandrini, giovanetti e artigiani frequentare quei luoghi e ne
derivava degli disturbi (Bulifon).

Martedì 16 marzo un reggimento di cavalleria lasciò Napoli per andare a dar la muta a quello
dei dragoni Velbalet che stava parte in Capua e parte in Fondi e che sarebbe così ritornato nella
capitale; venerdì 19 furono impiccate a piazza Mercato quattro persone e due altre furono
mandate in galera, ma di quali delitti si fossero macchiati non sappiamo; il giorno seguente
Tiberio Carafa, il quale vedemmo tra i dieci capitani del reggimento di corazze napoletane della
guardia reale e che nel frattempo era diventato colonnello, prese possesso della sua nuova
carica di brigadiere concessagli dal re; giovedì 25 il solito corriero dalla Spagna annunciava che
Restaino Cantelmo duca di Popoli era stato fatto grande di Spagna di prima classe e aveva
avuto l'incarico di restare a Corte in guardia della regina, dovendo infatti il re - come poi in effetti

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aveva fatto il giorno 24 - lasciare Madrid per andare a comandare personalmente il suo esercito
in Catalogna; poi con altro corriero, arrivato questo il 26 aprile, si seppe che il duca di Vendôme
aveva sconfitto Eugenio di Savoia a Montechiaro in Piemonte, vittoria che fu subito festeggiata
nei modi di uso, e che Filippo V si trovava all’assedio di Barcellona, città nella quale si trovava in
visita d'investitura l'arciduca d'Austria proclamatosi Carlo III di Spagna.
Martedì 4 maggio gli ultimi due battaglioni francesi, il Beauvoisy e il Berry, s’imbarcarono su 14
tartane e un vascello e il giorno seguente lasciarono Napoli, essendo diretti a Genova per
passare poi in Lombardia, e avrebbero in seguito partecipato alla campagna di Piemonte. Il
Bulifon così scriveva di questo evento nei suoi Avvisi:

... la loro partenza è stata compianta da molti per l'amicizia che si è contratta in quattro anni
circa ch'erano in Napoli, ove spendevano da 250.000 scudi annui de’ denari del re di Francia.

Era dunque storicamente la prima volta che i napoletani o i siciliani rimpiangevano la presenza
di francesi nel loro regno, avendoli in precedenza sempre odiati per la connaturata arroganza
del loro comportamento; potenza del denaro, da sempre panacea per tutti i mali! Narra il di
Costanzo che furono costretti a seguire queste truppe molti regnicoli che erano stati assoldati
dalla Francia, ma tutti molto afflitti e sconsolati, non sapendo nemmeno a quale fronte di guerra
sarebbero stati assegnati, e si disse che parecchi, per non essere obbligati a partire, si erano
rifugiati nelle chiese o erano fuggiti a Benevento, feudo del Pontefice dove quind’anche
sarebbero stati sotto la protezione dell'immunità ecclesiastiche.
Sabato 15 maggio il viceré lasciò Napoli con tre galere per andare a visitare le fortificazioni di
Gaeta con il già nominato ingegnere francese de Neuville, il quale, dopo aver portato a termine
il suo compito di migliorare le opere di difesa dei principali castelli del regno, specie di quelli di
Baia e del circondario di Napoli, se ne stava per tornare in Lorena dove normalmente esercitava
il suo incarico d'ingegnere militare; accompagnavano anche il viceré in questa visita il generale
della cavalleria principe di Castiglione, il generale delle galere di Napoli Andrea d’Ávalos
principe di Montesarchio e due altri ingegneri francesi, cioè il Negret di Tolone e il Saucy
d’Antibes; la comitiva sarà di ritorno a Napoli il seguente mercoledì 19.
Lunedì 17 maggio tre soldati olandesi e un trombetta tedesco, tutti luterani, abiurarono e si
convertirono al cattolicesimo dopo aver assistito al famoso miracolo di San Gennaro. Venerdì
21 morì l'ottantaseienne fiammingo Jean-Baptiste de Bassecour marchese di Grigny,
governatore dell'armi del regno, dopo aver trascorso ben settant'anni della sua lunga vita al
servizio della corona di Spagna; il giorno seguente si tennero i suoi funerali con la solita
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scenografia di ufficiali in gramaglie, tamburi coperti di nero e sonanti mestamente, cannone
tirato da quattro cavalli e che seguiva il feretro circondato da sei ufficiali generali e milizie
schierate con le punte delle armi rivolte verso terra; la salma fu portata nella chiesa di Santa
Maria degli Angioli a Pizzo Falcone:

... Stiede tre giorni insepolto, perché li padri teatini dicevano che volevano essere pagati...

Evidentemente il marchese era venuto a Napoli senza parenti e nessuno quindi, una volta
terminato il funerale di stato, intendeva più preoccuparsi della sua spoglia mortale!
Alla fine di maggio giunsero cattive notizie dalla Catalogna e cioè che, mentre Filippo V si
apprestava ad assaltare Barcellona per riprenderla a Carlo III, era arrivata colà il 7 maggio una
grande armata anglolandese e quindi quella francese, contando minori forze del nemico, era
stata costretta a ritirarsi a Tolone; il giorno seguente 8 maggio anche l'esercito di terra di Filippo
aveva dovuto lasciare in fretta l'assedio, abbandonando cannoni inchiodati e provviste di farina
mescolate a polveri d’artiglieria per renderle inservibili al nemico, mentre si diceva che ben
14mila montanari catalani, i famigerati bersaglieri detti micheletti, si erano uniti alle forze
dell'ammiraglio inglese Lache; grande era la ferocia di quei ribelli e grande il dispetto del re
verso di loro:

... il suo esercito, quanno faceva prigioniero qualche migaletti mezzo vivo, lo gettavano in mare,
ma (om.) quanno li micaletti avevano qualche franzese nelle mani, lo mettevano un grocco nella
gola e lo strascinavano per la città.

Altra cattiva nuova dalla Spagna fu quella della caduta d’Alcántara, presa dai portoghesi, e vi
era stato fatto prigioniero, tra gli altri, il ventenne napoletano marchese di Torrecuso di casa
Caracciolo; la situazione militare della Spagna era infatti aggravata dall'invasione dell'esercito
portoghese, il quale, appoggiato dagli inglesi, arriverà nel giugno a occupare Madrid; inoltre
anche sugli altri fronti europei i franco-spagnoli erano in completo arretramento e infatti il 23
maggio in Fiandra, a Ramillies, il maresciallo de Villeroi, dimostratosi molto meno capace dei
suoi predecessori, e il duca di Baviera erano stati duramente sconfitti dai generali anglolandesi
Marlborough e Ouwerkerque, i quali, in seguito a questa vittoria, conquistavano una gran parte
del Brabante e della Fiandra. Nell'Italia settentrionale il principe Eugenio e il duca Vittorio
Amedeo II di Savoia, superate moltissime difficoltà al loro passaggio, verranno al soccorso di
Torino, assediata sin dal 14 maggio dai franco-spagnoli comandati dal duca della Feuillade, e,

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attaccato il nemico nelle sue trincee, il 7 settembre lo sconfiggeranno definitivamente e lo
costringeranno a levare l'assedio, restandovi ucciso il conte de Marcin e ferito il duca d'Orléans;
infine gli imperiali strariperanno in Lombardia occupando Milano e togliendola alla Spagna per
sempre.
Tornando ora alle cronache di Napoli, diremo che giovedì 24 giugno il reggimento di fanteria
spagnolo del marchese de Villa Torres fece le sue esercitazioni militari nel largo dì palazzo
reale, pavoneggiandosi nelle sue nuove uniformi rosse con divisa verde; all'inizio di luglio il
viceré chiese ai baroni del regno un contributo finanziario per la guerra in corso pari alla spesa
di uno o due cavalli montati a loro arbitrio; i più ricchi dettero così 150 ducati e gli altri la metà,
come si era praticato in passato, essendo calcolato ogni uomo a cavallo montato 75 ducati. Nel
pomeriggio di lunedì 12 luglio s’imbarcò su un vascello e su diverse tartane (feluconi, secondo
gli Avvisi di Foligno) il nuovo reggimento di fanteria levato da Carlo Maria Caracciolo, bastardo
(cioè figlio naturale) della casa di Torrecuso; quattro compagnie di questo corpo erano destinate
a Gaeta con il loro predetto colonnello e le altre otto invece ai Presidi di Toscana con il loro
tenente colonnello Nicolò Brocco; con questo reggimento, la cui leva, come abbiamo visto, era
iniziata nel precedente 1705, s’imbarcarono anche una trentina di carcerati civili destinati a
Longone. In questo periodo fu poi inviato all'Aquila il reggimento di dragoni Velbalet, il quale,
come sappiamo, si trovava a Napoli solo da pochi mesi.
Giovedì 15 luglio arrivò a Napoli da Madrid Gioan Battista (Titta) Recco, uno dei cadetti delle
guardie del corpo reali italiane ora promosso capitano di cavalleria, e recò la notizia di alcune
promozioni concessa dal re a ufficiali napoletani; erano stati nominati tenenti generali il
brigadiero fra’ Domenico Recco, governatore di Rosas in Catalogna, non ostante la cattiva
opinione che, come abbiamo già detto, si aveva di lui negli ambienti militari, e Francesco
Gaetano d’Aragona, fratello del duca di Laurenzana, attualmente prigioniero a Barcellona, con
facoltà di ritenere il posto di primo tenente della compagnia delle guardie del corpo reali italiane;
era stato poi fatto maresciallo di campo il brigadiero duca di Sarno di casa Medici, figlio del
principe d’Ottajano, anche lui con facoltà di ritenere il posto di secondo tenente della detta
compagnia; promossi infine brigadieri i due sotto-tenenti della medesima compagnia e cioè
Luigi Gaetano d’Aragona, fratello di Francesco, e Giovanni Caracciolo, fratello di Marino
Caracciolo principe della Torella.
L’anonimo diarista della Nota di quello succede etc. alla data del 26 luglio riferisce di una
recente prammatica contro il porto d’armi:

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Il viceré ha ordinato che i creati (‘lacchè, servì) non portino più spada; essi portano invece della
spada un bastoginio (‘bastoncino’) con una zecarella (‘zagarella, pizzillo’, ossia ‘merletto’) alla
mano. Nessuno che non sia cavaliere o militare può portare più spada.

In effetti l’uso ormai generalizzato del vestire alla franzesa, ossia l’indossare la lunga marsina,
permetteva di nascondere bene la spada e quindi lacchè e genti basse ne approfittavano per
portarla occultamente, verificandosi così continui scontri armati, ferimenti e omicidi. Chi fosse
quest’anonimo cronista non si è mai saputo; l’unica notizia che si ha di lui è la sua data di
nascita, perché alla data del 24 giugno così mestamente annota:

Questo infelice giorno ad ore 4 nacqui io per mia disgrazia.

Da un documento francese del 17 agosto di questo 1706 risultano essere allora in Catalogna, i
reggimenti di fanteria napoletana Castel d'Ajrola, Gaetano e Vico, ma tutti ormai a ranghi
scarsissimi; quello del Suardo duca di Castel d'Ajrola contava solo 79 uomini così suddivisi nelle
seguenti 11 compagnie:

Granatieri: capitano, tenente, sottotenente e 16 soldati.


Colonnella: 11 soldati.
Tenente-colonnella: 5 soldati.
Capitano di Pulga: 3 soldati.
Capitano de Ver: 3 soldati.
Capitano Passalacqua: 3 soldati.
Capitano d'Emboino: 7 soldati.
Capitano Benedicto: 3 soldati.
Capitano Francisco: 4 soldati.
Capitano Gaspant d'Aegre: 3 ufficiali ed 11 soldati.
Capitano Salvati: capitano, tenente e 5 soldati.

A questi va aggiunto il sargente maggiore Bernardo d'Ancona. Al reggimento Gaetano


mancavano quattro compagnie e aveva in tutto 53 uomini; al Vico mancavano ben sei
compagnie e disponeva in tutto di soli 26 uomini! Tanto e tanto presto dunque si consumavano
e sparivano divorati dalla guerra e dai disagi i corpi che, quando lasciavano il porto di Napoli,
contavano invece parecchie centinaia di giovani! Circa due terzi dei predetti tre reggimenti, cioè
100 soldati e sei ufficiali, erano di guarnigione a Rosas.
Mercoledì 28 luglio fu sepolto con pompa militare il mastro di campo Pedro de Castro e il suo
reggimento sarà, come già sappiamo, dato al Mercado. Sabato 7 agosto si ebbe notizia dalla
Calabria che un corsaro inglese era stato respinto dagli abitanti d’Amantea, dove aveva

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inseguito quattro tartane sorrentine; venerdì 27 dello stesso mese fu riportata l'azione predatrice
di un altro corsaro, cioè di una feluca savoiarda, e allora il giorno seguente, al comando di una
tartana armata in corso e guarnita con ben 40 granatieri, partì il già ricordato famoso corsaro
napoletano Peppe Fumo e si mise in caccia del corsaro nemico.
In Spagna l’8 agosto cadde Alicante, presa da un corpo di spedizione inglese sbarcato
dall'armata anglolandese che alla fine del mese precedente si era presentata davanti alla città; il
comandante della guarnigione, il maresciallo di campo irlandese Daniel Mahony si era ritirato
nella cittadella con il suo reggimento di dragoni e tre reggimenti napoletani, ossia quello di
cavalleria di Placido Dentice e quelli di fanteria di Gioseppe Mariconda e di Carlo Maria
Caracciolo di Torrescolo; quest'ultimo corpo non era quindi rimasto di guarnigione a Gaeta, ma
era stato di là inoltrato in Spagna. L'assedio della cittadella durò sino al settembre e nella sua
difesa i predetti reggimenti napoletani si fecero molto onore. Si seppe poi che Filippo V aveva,
con l’aiuto francese, ripreso Madrid all’esercito portoghese che l’aveva da poco occupata.
A Napoli mercoledì 18 agosto fu impiccato al Mercato un fiorentino di nome Fabio Canni, il
quale era stato trascinato al supplizio legato alla coda di un cavallo, ma anche in questo caso
non sappiamo perché era stato a ciò condannato. Frattanto progredivano in Abruzzo le bande
dello Scarpaleggia, il quale s’impadroniva della terra di Vallepietra e di quella di Camerata e si
rendeva in tal modo ancora più infesto a quel territorio. Nel pomeriggio di mercoledì 8
settembre, festa della Natività della Madonna, alla tradizionale parata militare che si teneva sul
lungomare del borgo di Chiaia, si notarono tra l’altro le nuove uniformi dei soldati:

... Fe’ bellissima comparsa la soldatesca tanto a piedi che a cavallo, tutti vestiti di nuovo alla
francese.

Negli Avvisi di Napoli si può leggere di questa nuova foggia già alla data del 29 luglio 1702, cioè
in una corrispondenza da Venezia in cui, a proposito di un’apparizione a cavallo del re Filippo V
allora in visita a Milano, si menzionano le milizie che in tal occasione lo accompagnavano:

… Il Re a cavallo (om.) colla scorta di 2 reggimenti, uno di cavalleria catalana e l’altro di fanteria
spagnuola, oltre le solite 2 compagnie della guardia e gli alabardieri e carabinieri, che prima
andavano vestiti alla spagnuola e comparvero (ora) con gala francese, con giustacor blò e
camisciole di scarlatto, tutti guarniti d’argento.

Di questa moda francese abbiamo già detto. Nel pomeriggio di giovedì 16 settembre fecero i
loro esercizi le sei compagnie del reggimento di cavalleria Billet, comandate dal suo tenente

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colonnello il francese barone de Sault, e, a proposito della cavalleria, doveva esserci stata
qualche altra innovazione dopo di quelle introdotte dall'ordinanza di Spagna del 28 settembre
1704. Infatti è di questo 1706 una rivista del reggimento di cavalleria del colonnello Domingo de
Garate y Olea, da cui risulta, oltre alle normali compagnie sensiglie, anche una compagnia
intera di carabinieri, mentre, come si sa, l'ordinanza predetta prescriveva tre carabinieri per ogni
compagnia e non altri; inoltre, a convalida di questa nostra impressione, c'è una corrispondenza
francese da Napoli di questo stesso 1706, la quale informava essersi allora aumentato il piede
sia alle compagnie di cavalleria che a quelle di dragoni. Lo stesso giorno 16 il viceré,
avvalendosi dei pieni poteri conferitigli dal sovrano in quegli estremi frangenti del regno, donerà
cinque compagnie di uomini d’arme, i cui capitanati erano allora vacanti, rispettivamente al
principe di Cassano di casa Ajerbo d'Aragona, al duca di Bovino di casa Guevara, al duca di
Laurito di casa Monforte, al conte di Potenza di casa Loffredo e al duca di Mignano di casa de
Capoa.
Venerdì 24 settembre - l'8 secondo il di Costanzo - fece ritorno con una galera genovese
Mercurio Pacheco conte di San Estéban de Gormaz, figlio del viceré, il quale il 21 novembre
1705 era stato eletto viceré d'Aragona e, perché detto regno era caduto in potere di Carlo III
d'Asburgo, era stato ora mandato a Napoli a esercitare l'incarico di direttore generale della
fanteria, titolo d'invenzione francese che si sostituisce a quello di mastro di campo generale in
uso negli eserciti della Spagna prima di Filippo V; Angelo di Costanzo scrive invece che il titolo
conferitogli era quello di soprintendente generale dell'armi.
Continuavano a giungere nel frattempo ferali notizie sulle gravi sconfitte dei francesi in
Piemonte e domenica 10 ottobre arrivò quella addirittura agghiacciante che il 26 precedente il
principe Eugenio di Savoia e il duca di Savoia erano entrati in Milano, cioè nel principale
antemurale del Regno di Napoli, e tale annunzio risuonava lugubremente per il dominio
angioino-borbonico sull'Italia meridionale; bisognava ora, anche se probabilmente già troppo
tardi, pensare seriamente a difendersi e, tra la fine dello stesso ottobre e l'inizio del mese
seguente, si propose a Napoli di prelevare dieci uomini da ogni compagnia del Battaglione per
formarne nuovi reggimenti regolari, ma anche questo progetto, come del resto tutti i grandi
progetti che avevano riguardato nel passato questa milizia territoriale, non si realizzerà che in
qualche parte. Pare comunque che, oltre a quello dell’Alarcón Peñarvia, furono effettivamente
reclutati anche gli altri due dei tre reggimenti di fanteria sollecitati dal re nel gennaio di questo
1706, perché infatti in un documento francese del 2 novembre si parla di 6 battaglioni (tre
reggimenti?) levati a Napoli e mandati in Catalogna; ma, per completare gli otto nuovi

582
reggimenti richiesti dalla Corte di Madrid, il Villena, oltre a spremere contingenti dai feudatari,
sembra avesse dovuto commutare la pena di ben 800 detenuti, imporre nuove imposte e
persino monetare la sua ricca argenteria per ricavarne il denaro necessario!
Domenica 21 novembre i Seggi di Napoli si riunirono a parlamento, su suggerimento del viceré,
per deliberare riguardo ai fondi occorrenti al mantenimento in armi delle tradizionali milizie
autoctone del regno, cioè il Battaglione (ora circa 9mila fanti), la Sacchetta (circa 3mila
cavalleggeri) e le genti d'arme (circa mille cavalli pesanti), essendo queste ultime quella famosa
ventina di compagnie franche appartenenti ai maggiori titolati del regno e che da molti anni
nessuno aveva più visto; ma si sperava comunque ancora e sempre soprattutto nella protezione
del Cielo e infatti fu portata in processione l'immagine della Madonna di Piedigrotta, la quale
non usciva da quella chiesa da ben duecento anni!
Le grandi ordinanze di Spagna successive a quella del 1704 giunsero troppo tardi perché se ne
potessero sentire sostanzialmente gli effetti nel Regno di Napoli; ma, poiché anche dopo il
1707, anno della conquista austriaca, sopravviveranno alcuni corpi napoletani al servizio della
corte di Madrid, ne abbiamo voluto trarre ugualmente qualche elemento più colorito e distintivo
sempre in materia di equipaggiamento. L'ordinanza del 30 dicembre 1706 ci fa sapere che
recentemente Filippo V aveva fatto adottare alla sua fanteria l'uniforme bianca già usata dai
francesi:

... habiendo mandado vestir y armar uniformemente mi infanteria, que quiero esté toda vestida
de blanco, variando los colores en las muestras (leggi risvolti), con lo que de aqui a dos años
podrá tener más de que bolverse a vestir...

La stessa ordinanza prescrive inoltre una regolamentazione del bastone di comando che i
generali e gli ufficiali superiori ancora portavano, estendendone anzi l'uso anche agli ufficiali di
compagnia, onde consentire in tal modo una più certa distinzione dei vari gradi e delle varie
funzioni, perché questo antico simbolo d'autorità si era sempre di più diffuso in maniera confusa
e arbitraria, rendendo ormai problematico il riconoscimento dei gradi degli ufficiali d'ogni livello;
c'erano infatti i bastoni degli ammiragli, dei governatori dell'armi, dei capitani generali, dei
governatori delle fortezze e dei castelli e degli altri ufficiali generali, dei mastri di campo e dei
sargenti maggiori dei terzi, dei capitani a guerra delle piazze e d'altri ancora; c'erano poi le
cosiddette bacchette che portavano i capitani di fanteria, i quali a volte con esse picchiavano i
poveri soldati per punirne piccole mancanze, per esempio quando, incontrandoli per la strada,
questi non usavano loro la creanza del cappello, cioè non li salutavano scoprendosi il capo

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come si doveva. Tutti questi bastoni non erano poi più grandi e imponenti secondo il grado - per
esempio i capitani generali, massima carica dell'esercito, portavano ora un bastoncino corto - e
quindi non era semplice capire quale ufficio indicassero:

Habiendo hecho reflexion sobre el buen método de la distinción de los oficiales por sus
insignias y las ventajas que de ello se pueden seguir à mi servicio, siendo assimismo este el
estilo de mis tropas, he resuelto señalar a cada empleo las que aquí se ponen, pareciendome
las más proporcionadas para la distinción, comodidad y conocimiento de los oficiales,
mandando...

D'ora in poi il colonnello avrebbe dunque portato un bastone dal pomo d'oro o comunque
dorato, il tenente colonnello dal pomo d'argento bianco, il sargente maggiore e il capitano di
compagnia con un caschetto d'argento bianco che lo guarnisse per un solo dito e che fosse
liscio sopra; l'aiutante, il tenente e il cappellano dal pomo d'avorio, il furiero maggiore dal pomo
di legno, il sotto-tenente con un caschetto di legno o di corteccia che avesse però alla fine un
cerchietto d'argento bianco; al tamburo maggiore andava invece un bastone di legno senza
pomo né caschetto e lo stesso al sargente di compagnia, ma di legno pieghevole (que pliegue),
evidentemente per poter picchiare i soldati senza spezzarlo.
Invece del bastone il capitano avrebbe però continuato a portare in parata la mezza picca, ossia
quell'arma distintiva che si era chiamata anche nel Cinquecento brandistocco, nel Seicento
ginetta (dallo spagnolo gineta) e ora spuntone (dal francese sponton), la quale, lunga dagli otto
ai nove piedi e perlopiù a punta di picca, ma più piccola, talvolta portava invece punta di
partigiana e talvolta era di legno più pregiato di quelli usati per la picca, per esempio d’ebano o
di quello che allora si diceva legno d’India; anche il sargente avrebbe mantenuto la sua
sargentina, ossia una piccola alabarda col manico di frassino o faggio, come la picca, e lunga in
tutto in genere un po’ meno di sei piedi e mezzo.

1707. Verso l'11 gennaio di quest'ultimo anno di vice-regnato spagnolo tornò a Napoli, come
racconta il Nicolini, il generale della cavalleria principe di Castiglione, il quale nei due mesi
precedenti aveva ispezionato le milizie del Battaglione in vari luoghi; egli riferiva che trattavasi di
gente o vecchia o inabile, la quale attendeva solamente a disertare o a elevare giuste lamentele
contro il governo del regno per non aver ricevuto le indennità previste sia per l'onere delle
ricorrenti rassegne, sia per quello delle armi ed equipaggiamenti, di cui era comunque quasi del
tutto sfornita.

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L'ordinanza di Spagna del 7 febbraio 1707 stabiliva nomi fissi, bandiere e anzianità ufficiale dei
vari reggimenti di fanteria:

Il Re: in considerazione che si sono riconosciuti molti inconvenienti dalla circostanza che tutti i
miei reggimenti di fanteria abbiano perduto i loro antichi nomi, titolandosi con quelli che hanno i
loro colonnelli o dai colori di cui sono stati vestiti, dal che è seguito ignorarsi, con la varietà, la
loro anzianità e altri pregiudizi, specialmente in caso di riforma, e convenendo che ciascuno dei
reggimenti che sussistono o che si possono formare in Spagna tengano un solo nome
perpetuamente, che questo non si vari quantunque si cambino i colonnelli e siano di colori
diversi i vestiti, avendo fatto per questo appurare, per quanto è stato possibile, l'origine di
ciascun corpo, ho risolto che tutti quelli che in questa mia Real Ordinanza sono menzionati con i
nomi dei colonnelli che attualmente hanno si chiamino d'ora in avanti e perpetuamente in
conformità a quanto segue...

Sono indicati i criteri da adottare per ritornare al nome originario e, nella lista dei reggimenti di
fanteria di Spagna che viene fatta seguire risultano due corpi sicuramente napoletani o
comunque di chiara origine partenopea; quello del colonnello aquilano Biase Dragonetti, il quale
si era chiamato prima Visconti e ancor prima Armada viejo o meglio Tercio viejo del mar
Océano de infanteria Napolitana, era stato uno dei terzi più antichi e gloriosi della Corona e
aveva per lo più sempre fatto da fanteria di marina dell'armata oceanica spagnola, prenderà ora
il definitivo e perpetuo nome di Nápoles, mentre quello del colonnello Ferdinando Caracciolo si
chiamerà da questo momento Basilicata. Vi sono poi altri due reggimenti non napoletani, ma
comandati da colonnelli napoletani, e sono quello del marchese di Torrecuso, il quale prende
ora il nome di Guadalaxara, e quello di Fernando Costanzo, battezzato Costa.
A proposito poi delle bandiere di fanteria, così prosegue la predetta ordinanza:

... ed è mia volontà che ciascun corpo porti la bandiera colonnella bianca con la croce di
Borgogna, secondo il costume delle mie truppe, al che ho comandato d’aggiungere due castelli
e due leoni, ripartiti nei quattro spazi bianchi, e quattro corone che chiudano le punte dei bracci
e le altre bandiere saranno di taffetà, dei colori principali che avessero le armi della provincia o
città del nome con cui Io contrassegno il reggimento, e, sempre che questo abbia più di un
battaglione, le bandiere degli altri battaglioni che avesse saranno in questa forma; dunque non
deve avere più di una colonnella, la quale dovrà star sempre nel primo battaglione, che è dove
deve star sempre questa compagnia.

Verso la fine di gennaio, come sembra, fu conferita la nomina a luogotenente del re nella piazza
di Gaeta al capitano di cavalleria co Miguel Vasquez y Charny, il quale aveva servito sin dal 28
agosto 1689, prima nell'esercito di Catalogna e poi nello Stato di Milano; era stato inoltre
capitano di una compagnia di Dragones Arcabuceros a cavallo que se formó de ramos e

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capitan-tenente della compagnia del marchese di Aytona, generale della cavalleria di
Catalogna.
Nel marzo di questo 1707 si ebbe la scontata nuova della caduta del castello di Milano, arresosi
però con onore; il viceré chiedeva intanto l'armamento di 25mila uomini a difesa del regno e di
questi almeno due reggimenti dovevano esser armati dalla Piazza del Popolo, ossia dal Seggio
di Napoli così chiamato; ma questa proposta non fu bene accolta, implicando notevoli esborsi di
denaro da parte di quei cittadini per una causa non sentita, perché contro una minaccia che non
faceva paura a nessuno tranne che al regime. Anche in marzo il col. Gioseppe Garofalo Suarez
marciava con i suoi ufficiali verso Sessa, dove avrebbe dovuto finalmente ultimare il suo ormai
fantomatico reggimento utilizzando le milizie del Battaglione di quel territorio, e la stessa cosa
stava tentando un altro nuovo colonnello, Francesco Caracciolo, anch'egli al comando di un
reggimento ben lontano dal suo completamento; già nel 1704 per questo reggimento nuova
leva, terzo degli otto richiesti a suo tempo dalla corona, era stata registrata una fornitura di
spadini guarniti d'ottone, e chiariamo che per spadini s’intendevano le normali spade e non
spadini del tipo cerimoniale, come si potrebbe pensare. Il mese successivo, cioè nell’aprile di
questo 1707, il figlio del viceré, il conte di San Estéban Gormaz, riceveva appunto denaro da
spendersi per il completamento della leva dei suddetti otto reggimenti di fanteria regnicola in
corso ormai da anni. Ancora un altro di questi reggimenti fu comunque certamente costituito in
quest'ultimo anno del dominio spagnolo sul regno e si trattava di quello del colonnello
Francesco d'Eboli duca di Castropignano, corpo che doveva esser con ogni probabilità formato
da 513 fanti ordinari e da 47 granatieri, giacché tali erano appunto i quantitativi di cappelli e di
barrettoni (berrettoni) che gli furono forniti, come risulta da una registrazione di vestiario militare
del tempo; questo reggimento fu mandato a presidiare Orbitello, probabilmente in sostituzione
delle sei compagnie dello Spinola che colà risultavano in precedenza, e a Orbitello sarà
sorpreso dagli esiti della guerra unitamente a cinque compagnie del già menzionato reggimento
di Carlo Maria Caracciolo e a due compagnie di fanteria spagnola comandate dai capitani Diego
Ramirez e Diego Palay, compagnie queste che dovevano essere le sole del terzo antico di
Napoli rimaste nei Presidi di Toscana; infatti la maggior parte della fanteria spagnola di stanza
in quelle fortezze, cioè circa 1.100 uomini, era stata ritirata dal marchese di Villena e trasferita a
Gaeta, come del resto aveva fatto anche con quella di guarnigione a Napoli, e ciò in osservanza
di quella meschina e rinunciataria strategia suicida degli alti comandi napoletani che, evitando
accuratamente un virile scontro campale col nemico invasore, volle lasciare il controllo della
campagna alla sola instabile cavalleria e rinchiudere appunto a Gaeta quasi tutta la fanteria

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spagnola, ossia il nerbo dell'esercito, come se non il regno da essa, ma essa stessa dovesse
essere difesa.
Giovedì 28 aprile giunse a Napoli il duca di Tursi con le sue galere e con un dispaccio di Filippo
V che lo nominava, a quanto sembra di capire, capitano generale anche della squadra di
Napoli, privando così anche di questo titolo il vecchio principe di Montesarchio; venerdì 6
maggio, in occasione dell'arrivo della regina di Polonia in visita a Napoli, il diarista di Costanzo
rischiò di buscarsi le percosse che in tali occasioni, per mantenere l'ordine pubblico, le
odiosissime guardie alemanne del viceré distribuivano solitamente alla folla con le aste delle
loro alabarde:

... E io mi ritrovai presente al tutto, non senza pericolo di rimanere oppresso dalla calca o di
qualche bastonata tedesca...

Nel maggio arrivarono notizie della presenza nemica in Romagna e pertanto soldatesche
spagnole e soldati di campagna furono inviati in Abruzzo e, secondo il Nicolini, si trattava del
reggimento di cavalleria Billet, d’alcune compagnie di dragoni, di una compagnia di fanti
spagnoli e di 200 soldati di campagna. In quel mentre cresceva di giorno in giorno il gran
numero dei banditi e dei malviventi che si raccoglievano intorno allo Scarpaleggia col pretesto di
voler combattere per la Casa d’Austria, tanto da convincere presto alla resa addirittura
Francesco de Resta, il quale per conto del duca d’Atri difendeva la frontiera del reame a Celano
e Avezzano al comando di un reggimento di cavalleria e di 300 fanti! Comunque il duca d’Atri
riuscirà, alla fine dello stesso maggio, a ricacciare lo Scarpaleggia da buona parte dell'Aquilano
e, all'inizio di giugno, terrà validamente testa anche a un altro migliaio di banditi ad Avezzano,
contrastando così il loro proposito d’andare a unirsi al generale austriaco conte di Daun, il quale
già scendeva nelle basse Marche.
Frattanto mercoledì 18 maggio si era avuta finalmente, anche se con il solito gran ritardo, una
buona notizia e cioè quella della vittoria ottenuta dal re sugli anglo-portoghesi ad Almanza il 25
aprile precedente, successo il cui merito il Bacallar y Sanna attribuisce al coraggioso ed efficace
comportamento dei napoletani che vi parteciparono, cioè quelli che erano rimasti in Spagna al
servizio di Filippo V dopo la caduta di Barcellona e Tarragona, e, detto da uno spagnolo, non se
ne può certo dubitare; narra dunque il predetto autore che fu la compagnia delle guardie del
corpo napoletane del duca di Popoli, inclusa nell’ala destra dell’esercito del già menzionato
duca di Berwick, ala comandata da un luogotenente generale francese e dal napoletano
Antonio del Valle, a provocare, con un suo improvviso e vigoroso attacco, la rotta dell’ala
587
sinistra dell’armata anglo-portoghese comandata dal conte di Galloway, rotta che in breve si
trasformò in una sconfitta totale del nemico; ne restarono però morti e feriti molti valorosi
napoletani della guardia del re e, mentre tra quelli dei caduti spiccava proprio il nome del
vecchio duca di Popoli, tra i feriti si contavano Ottaviano de’ Medici duca di Sarno e figlio del
principe d'Ottajano, anch’egli artefice della vittoria, Antonio del Valle, Lelio Carafa fratello del
duca di Maddaloni, Michele Acquaviva, Gioan Battista Caracciolo, il marchese di Sant'Eramo, il
marchese Pisanelli e altri dei cadetti. Il nemico ebbe 6mila caduti, gli spagnoli 2.500.
Qualche giorno dopo s’inviarono il reggente della Vicaria Rodrigo Correa, nel frattempo elevato
anche a brigadiere nel corso della sua veloce e inarrestabile carriera, e altri emissari a Palermo
perché ritornassero con 2mila soldati spagnoli del terzo fisso di Sicilia che si volevano mandare
in Abruzzo, ma ritorneranno poi senza aver ottenuto nemmeno un fante. A proposito degli aiuti
che si potevano eventualmente ricevere dall'estero, così scriverà il contemporaneo Gioan
Battista Pujadies:

Il soccorso.(om.) si spargeva dover venire di Francia, procuratoci da don Tiberio Carafa de’
principi di Belvedere, ch'era stato per tal effetto spedito dal Vigliena (Villena) al Re
Cristianissimo (il re di Francia), da cui non mai si ebbero positive promesse di tal soccorso, ma
solamente speranze generali (om.) che stando la gran flotta d'Inghilterra e d'Olanda, tra li mari
di Genova e Livorno, caricando genti e provisioni per assaltar la Provenza, ci si voleva dare a
credere che, ciò non ostante, il soccorso da Tolone e da Marseglia venuto sarebbe per via di
Sardegna, facendo il giro dell'Affrica! Si faceva ancora pubblicar nelle gazzette stampate che'l
distaccamento (austriaco) sarebbe ritornato addietro tra per le malattie che regnavano ne’
soldati, tra per lo poco numero e tra per le opposizioni de’ collegati.

Il Carafa era stato infatti inviato in missione in Francia nel 1703 ed era ritornato a Napoli da
Parigi nel novembre di quell’anno. Come abbiamo già avuto modo di evidenziare in casi
precedenti, il governo spagnolo di Napoli si avvaleva di una mendace propaganda di stato non
appena lo ritenesse necessario. Il 26 maggio Filippo V nominava marescialli di campo quattro
titolati napoletani, trattandosi del principe della Torella, il principe di Cellamare, il duca di
Maddaloni e il principe d'Avellino, e inoltre un militare di carriera, il colonnello Francisco
Velbalet; ma queste e altre tardive investiture minori non serviranno a conservare il Regno di
Napoli alla Corona madrilena, perché ci sarebbe voluto ben altro, cioè, come abbiamo già
osservato, la volontà di prepararsi ad affrontare il nemico in campo aperto; sono inoltre a tal
punto ben appropriate le seguenti parole tratte dalle memorie di Tiberio Carafa principe di
Chiusano di parte austriaca:

588
... già costumanza e uso ordinario degli spagnuoli era divenuto in questi ultimi anni il cercar
nella corte e nelle città più che negli eserciti gli officiali de’ reggimenti e comandanti delle
armate, cagione assai naturale delle perdite e delle confusioni.

Sabato 28 maggio il marchese di Villena scrisse a Madrid informando ufficialmente quella corte
dell’avvicinarsi al regno di un distaccamento nemico e ordinò a Tomaso d'Aquino principe di
Castiglione d’avviarsi alle frontiere del regno con tre dei quattro reggimenti di cavalleria,
lasciando così a Napoli solo quello delle corazze della guardia. Era in quei giorni di passaggio
per Napoli Nicolò Pignatelli duca di Bisaccia e tenente generale nell'esercito di Fiandra,il quale
si recava in Sicilia ad assumervi il suo nuovo incarico di governatore generale dell'armi; il
marchese di Villena approfittò dell'occasione per proporgli lo stesso predetto incarico, ma per il
Regno di Napoli, cioè gli offrì il comando supremo delle forze napoletane; il Pignatelli, dopo aver
costatato la pochezza di quelle, sia quantitativa che qualitativa, dapprima declinò l'offerta e poi
si fece però convincere ad accettarla. Per ridelineare il quadro del comando supremo
dell'esercito del regno che si opponeva agli austriaci diremo che direttore generale della fanteria
era il conte di San Estebán Gormaz, figlio del viceré; comandante della cavalleria - col solo
grado però di tenente generale, in considerazione che capitano generale ne era lo stesso
viceré; capitano generale della cavalleria era il suddetto principe di Castiglione, quello
dell’artiglieria era invece Orazio Coppola dei duchi di Canzano e capitano generale delle galere
il tante volte già ricordato duca di Tursi; governatore generale dell'armi - oggi diremmo capo di
stato maggiore - era il predetto Nicolò Pignatelli duca di Bisaccia; Gioan Girolamo Acquaviva
d'Aragona duca d'Atri, grande di Spagna e sargente generale di battaglia, era, come sappiamo,
vicario generale delle due province d’Abruzzo e il principe dell'Avellina di casa Caracciolo era il
comandante della milizia del Battaglione e della Sacchetta, ma era costui un nobile di prima
sfera che aveva in realtà molto seguito e potere solo nei suoi feudi dell'Avellinese.
Lunedì 6 giugno lasciarono nottetempo la darsena quattro galere che andavano a portare
cannoni e altre attrezzature belliche a Gaeta, la quale andava opportunamente rinforzata in
considerazione che era il propugnacolo del regno in cui più si confidava; il giorno seguente il
suddetto Pignatelli e il principe di Castiglione partirono da Napoli alla testa di mille cavalli
incamminandosi verso Sora, ai confini del regno, dove si stava riunendo l’esercito per
fronteggiare la ormai certa invasione; mercoledì 8 furono tolti tutti i cannoni di bronzo dal
Torrione del Carmine e molti altri tra quelli in dotazione agli altri castelli di Napoli per un totale
complessivo di 40 pezzi, i quali si andavano imbarcando per Gaeta, la quale, come abbiamo già
detto, secondo il viceré e i suoi consiglieri militari andava particolarmente potenziata; ma ciò
non per un errato piano di difesa, come si potrebbe pensare, bensì perché essi avevano in
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progetto d’andare a rinchiudersi in quella fortezza, se si fosse reso necessario, e colà aspettare
l'eventuale arrivo di un’armata amica che venisse a portarli in salvo in Spagna. Questo
considerare la fortezza di Gaeta come la miglior via di scampo, quando nel regno tutto fosse
perduto, sarà una costante strategica anche dei regimi napoletani successivi e durerà fino alla
caduta dei Borboni nel 1860. Così, infatti commenterà e confermerà il già citato Pujadies:

... Quanto a’ nostri castelli, è cosa strana il sapere che non fu data provvedenza alcuna,
pensandosi anzi ognindì di cacciarne via quanto vi stava 'sì di cannoni e munizioni da guerra
come di viveri, trasportandosi tutto a Gaeta, che di metter loro in istato di difesa. Ancora da i
magazzini che sono nell'arsenale si tirarono cannoni e attrezzi militari per Gaeta, né ancora
(leggi neanche) introducendo ne’ castelli quel che sopravanzava (om.) Cominciò (il viceré) fin
dalli 4 del mese a evacuare il Torrione del Carmine, togliendone 18 pezzi di cannone di bronzo
e molti attrezzi e munizioni di guerra, tutto per Gaeta (om.) né il Vigliena pensò mai di mandare
a’ mentovati confini di Sora altro rinforzo di gente, qualche cannone, qualche altro soccorso
delle cose necessarie alla guerra, attendendosi solamente a sgombrar tutto con le galere e
portarlo via a Gaeta.

Sabato 11 giugno, alla notizia che i cesarei erano già presso Roma, partirono verso i confini del
regno tutti gli ufficiali dell'esercito che si trovavano a Napoli e andarono così a raggiungere il
duca di Bisaccia, il marchese della Rocca e il conte di San Estéban Gormaz, il principe di
Castiglione e i suoi mille cavalli, i quali, come abbiamo detto, già si trovavano a Sora; ma presto
al Castiglione sarà ordinato di condurre la sua cavalleria a Capua. Nello stesso predetto giorno
11 il viceré usciva in una carrozza privata e si recava a ispezionare i sobborghi settentrionali
della città, evidentemente per studiarne le possibilità di difesa, e un’altra simile uscita farà poi
verso la fine del mese, per visitare invece anche le difese meridionali della città e cioè la zona
delle porte Nolana, Capoana e del Carmine, accompagnato in quest'ispezione dagli architetti
militari Marinelli e Natale. Sempre a giugno si posero cancelli all'ingresso della darsena a difesa
delle galere che vi attraccavano; si fecero venire in città molti soldati di campagna,
assegnandone dieci a ogni capitano di giustizia, e si faceva pattugliare inoltre la stessa capitale
da soldati a cavallo; ciò perché, allontanati tutti i soldati spagnoli, si temevano tumulti e infatti il
popolo non aveva gradito il disarmo dei castelli, subodorando che il viceré volesse rinunciare
alla difesa di Napoli. Per lo stesso motivo i nobili si erano frattanto armati privatamente e
facevano guardare i loro palazzi da armigeri che assoldavano a nove ducati il mese:

(Napoli, 13 giugno:)... e per questo non se vede altro che gente armate per la città e notte per
notte vanno per la città due deputati con 30 soldati cittadini, rondando ognuno li loro quartieri
per guardia della medesima Città.

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Martedì 14 giugno si posero in parata davanti al palazzo reale [essendomi(ci) io ritrovato, scrive
il di Costanzo] alcune compagnie spagnole, le quali poi s’imbarcarono su tartane e galere e si
diceva che andassero a Gaeta; sabato 18 ritornarono invece quattro galere che avevano
portato l'ultima muta ai presidi delle fortezze di Toscana, lasciandovi soldatesche regnicole e
riportandone a Napoli circa 500 spagnoli, ma il viceré quasi tutti i giorni sottraeva soldati dalla
capitale inviandoli di rinforzo a Capua, a Gaeta e in Abruzzo e lasciando pertanto i castelli di
Napoli pressoché sguarniti.
Martedì 21 giugno nella capitale si cominciò a reclutare un corpo di guardia o milizia urbana le
cui compagnie, guidate da gentiluomini scelti dal viceré, guardassero la città a somiglianza di
quello milanese di 10mila uomini, perlopiù artigiani, che, senza bisogno d’altro aiuto, guardava
Milano, mentre il contado lombardo era guardato da un’altra milizia detta invece paesana. E
questa fu l'ultima leva che ebbe luogo nel regno prima dell'invasione cesarea, leva del tutto
inutile perché solo pochi giorni, non trovando gli austriaci alcun contrasto al loro ingresso nella
capitale, questo corpo di milizie dovette dimettersi:

Solamente la sera de’ 21 viddersi in Città cominciar le guardie urbane. Divise queste in più
quartieri, furono eletti molti diputati dell'ordine civile per capi d'ogni quartiere e fu dato loro per
compagno un diputato nobile.(om.) cominciaronsi in questa sera le guardie urbane, che
duravano sine alla mezza notte, girando per la Città...armati della miglior maniera che da se
stessi potevano, per vitare la distribuzion dell'armi (om.) e ogniuno attendendo alla custodia
delle proprie case e a mantener in freno gli spiriti torbidi e inquieti, se alcun ce ne fosse stato
(Pujadies).

Sulla confusione, mancanza di competenza militare e, soprattutto, di coraggio, questo ancora


notava il suddetto scrittore:

... In questo medesimo dì (21 giugno) furono mandate sei compagnie di fanteria spagnuola di
guarnigione a Capoa, ma ben tosto ne furono ritirate; e intanto con somma meraviglia si viddero
a’ 23 del mese tornare in Città il governador generale dell'arme e'l direttor generale della
fanteria, gli quali diedero materia a varj ragionamenti, ma in sostanza si ritirarono per mai più
non tornare a’ confini, sul bel pretesto di riferire al marchese di Vigliena i lor voti nel consiglio di
guerra che fecero a Sora dopo aver visitato lo stretto e importante passo di Ceperano...(ib.)

Dunque, a quanto s’incominciava a vedere, quasi nessuno aveva voglia di combattere, a


cominciare dallo stesso comandante in capo dell’esercito e dallo stesso figlio primogenito del
viceré! Lo stesso predetto giovedì 23 il marchese di Villena si mostrò ancora una volta
ufficialmente in pubblico partecipando alla processione che si fece in occasione dell’ottava del

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Corpus Domini, scortato da una delle sue compagnie di corazze della guardia del corpo, la
quale aveva appena ricevuto una nuova uniforme:

… vestita nuovamente di violato, con galloni di argento, che faceva certo un assai gentil vedere
(Pujadies).

Insomma tutto doveva andare ancora avanti come il solito e il popolo napoletano non doveva
nemmeno lontanamente sospettare che la situazione stesse – come in effetti stava -
precipitando. Il 25 dello stesso predetto mese arrivò un ultimatum del comandante in capo
dell'esercito imperiale generale conte di Daun, il cui esercito il giorno seguente attraversò i
confini del regno; il viceré chiese allora alla città che tutti lo seguissero contro il nemico, ma i
napoletani pretesero la convocazione delle piazze dei nobili e del popolo, parlamento che fu
tenuto lunedì 27 e la cui decisione fu che era ormai tardi per uscire in campagna, pensandosi a
torto che non si disponesse di forze sufficienti per affrontare il nemico in campo aperto. Fu
questo un certo sintomo dell'avversione che i napoletani provavano per la guerra in corso,
anche quando questa avrebbe ormai dovuto significare la difesa della propria patria; il Daun
infatti non aveva con sé che un non eccezionale corpo di spedizione di circa 9mila uomini, cioè
cinque reggimenti di cavalleria e cinque di fanteria, contro il quale, con un po’ di buona volontà
da parte di tutti, si sarebbe potuto schierare un numero di uomini pressoché quadruplo. Lo
stesso suddetto 27 al Torrione del Carmine, a cui si era tolto quasi tutto l’armamento per
trasferirlo a Gaeta, si trovò affisso questo cartello:

Se loca questo torrione con un soldato e un cannone.

Eppure, durante la rivoluzione del 1647 i popolari che avevano occupato quel torrione erano
riusciti a resistere ben dieci mesi agli assalti portatigli dagli spagnoli e dalla nobiltà! La mattina di
martedì 28, dopo aver volteggiato alcuni giorni tra Ponza e Gaeta, vascelli inglesi comparvero
nella rada di Napoli, proprio di fronte alla città, e angelo di Costanzo così ricorda l'episodio:

... E io, che l'istesso giorno ritornava la sera dall'ospizio di Pozzuoli, vi passai distante dal Capo
di Posilipo da un mezzo miglio. E volteggiarono tutto il giorno in questa marina senza usare né
saluti né atti d’ostilità.

Si trattava di quattro vascelli e tre tartane, i quali, indisturbati dai castelli ormai privi dei migliori
cannoni, permisero persino che parecchi ingenui cittadini li avvicinassero in barca e vi salissero
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a bordo; alcuni di questi furono però fatti arrestare dall'indignato viceré non appena tornati a
terra.
Non è nostra intenzione tediare il lettore con la narrazione dei fatti militari che portarono alla
conquista austriaca del regno, soprattutto perché si trattò di episodi di scarsissima consistenza
bellica in considerazione che i napoletani erano già palesemente disponibili ad acclamare un
nuovo sovrano, tanto più che, come abbiamo già ricordato, si sarebbe trattato di un Asburgo,
cioè di un appartenente a una dinastia che aveva regnato su Napoli per secoli prima di questo
re angioino, la cui personale bandiera era appunto quella, sempre stata tradizionalmente
nemica, dei tre gigli d’oro in campo azzurro! Diremo dunque solo brevemente che l'esercito
nemico, passato a Ceprano il fiume Liri ed entrato pertanto nel reame, mercoledì giorno 29
giugno arrivò nei pressi di Sora e di San Germano, territorio in cui era stata raggruppata la
maggior parte del raccogliticcio esercito regnicolo, consistente sostanzialmente in quattro
reggimenti di cavalleria e alcune migliaia di miliziani del Battaglione, mentre una minor parte -
600 cavalli e alcune centinaia di miliziani - era in Abruzzo al comando del duca d’Atri per
fronteggiare il predetto Scarpaleggia; infatti la fanteria spagnola, quella cioè che avrebbe potuto
respingere l’invasione, era tutta di presidio a Napoli, Capua, Gaeta e Pescara. Nel sentire che
gli ussari austriaci erano già così vicini, il viceré ordinò al principe di Castiglione di ritirarsi verso
Capua, ma costui interpretò in maniera estensiva detto ordine e anche a Capua, appena avvistò
le avanguardie di ussari nemici e sebbene il nemico gli si stesse avvicinando ora ben quattro
volte inferiore di numero, fuggì lo scontro e con tutti e quattro i suoi reggimenti si ritirò, si disse a
rotta di collo, ulteriormente verso Napoli. Capitolata Capua lunedì 4 luglio, dopo una discreta
resistenza, con firme del conte di Daun e del marchese di Feria, comandante di quel castello, e
uscitini liberamente i 300 uomini di guarnigione con l’impegno d’onore di non prendere più le
armi in quella campagna, la mattina di mercoledì 6, mentre gli austriaci arrivavano ad Aversa
dove il Daun si accorderà con gli inviati della Città di Napoli, il marchese di Villena, il quale
aveva in verità provato inutilmente un’ultima volta a eccitare alle armi il popolo, utilizzando la già
più volte ricordata scala segreta che dagli appartamenti reali portava al mare, s’imbarcò con la
sua famiglia su una gondola e lasciarono Napoli per Gaeta, accompagnati da un convoglio
formato dalle sei migliori galere - avendo in precedenza il marchese fatto sfondare le altre due
perché gli austriaci non potessero con quelle inseguirlo - e da sette tartane, le quali ultime
portavano munizioni ed evidentemente anche il ricco bagaglio vicereale, comprensivo
sicuramente di mobilio e arredi asportati dal palazzo reale, come era solito farsi da tutti i viceré

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che lasciavano Napoli, e i vascelli inglesi che bloccavano il porto misteriosamente si allargarono
per lasciarli passare:

... restando per tal partenza molto alterati gli animi de’ napolitani, mentre egli si era lasciato
intendere che voleva difendersi contro l'esercito alemanno, quale dicevasi essere vicino a
Capoa, ed egli aveva posto in salvo la roba e il sangue.

Gli austriaci (genti con frasche attaccate al cappello, di Costanzo) proseguivano infatti il loro
rapido avvicinamento a Napoli passando per Caianello e Mugnano ed entreranno giovedì 7
luglio nella Capitale in più di 20mila, scriveva il Bacallar, dato che ancora avevano, come nei
secoli precedenti, l’uso di portarsi dietro in guerra le loro donne e i loro bambini; furono accolti
da un incredibile plauso popolare, avendo a ciò ben incitata la gente di Napoli i ribelli che
tornavano in regno al seguito dei vincitori, personaggi cioè come il duca di Telese, il marchese
di Rofrano, fatto a Barcellona da Carlo III d’Austria grande di Spagna, e il principe di Chiusano,
e aspettandosi Napoli, come il solito, grandi cose da chi veniva a sottometterla. I primi atti di
guerra che gli invasori fecero a Napoli furono il blocco del Castel di Sant’Eramo e l’occupazione
del Torrione del Carmine, mentre il popolaccio si dava subito a saccheggiare le case le botteghe
dei negozianti francesi che, con l’avvento al trono di Filippo V, si erano impiantati nella città;
saccheggiarono per esempio la stamperia dei Bulifon, cioè del padre Antoine e del figlio Nicolas
e anche distrussero la statua equestre di Filippo V, ora detto semplicemente duca d’Angiò.
Sabato 9, poiché ci si era accorti che tre delle tartane del convoglio del viceré ancora
bordeggiavano nel golfo in cerca di vento, s’inviarono a quella volta delle filuche per intimare a
quei padroni che non proseguissero il loro viaggio verso Gaeta e poi s’inviò il già ricordato
Peppe Fumo (Gioseppe Pisanti) a prenderle e convogliarle a terra; erano cariche di munizioni
da bocca e da guerra, di un grosso cannone di bronzo e molti di ferro e di un’opulenta carrozza
del seguito vicereale. Il Fumo poi completò l’opera mettendo a disposizione degli austriaci
anche un buon numero d’artiglierie che aveva nascosto in alcune grotte presso Sorrento.
Ma due delle suddette galere non arrivarono a Gaeta perché, nel corso di quel breve tragitto,
sotto il comando del già più volte ricordato tornarono a Napoli per offrire al nemico arrivante il
loro carico di munizioni! Lunedì 11 capitolò il Castel Nuovo, ma l’osservanza della sua
capitolazione, a firma del Borda, del la Croux, del detto conte di Martinitz e del conte di Daun,
prenderà tempo e i suoi 550 uomini di guarnigione ne usciranno infatti solo sabato 16:

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… e i loro volti parevano di condannati a morte e ciò per l’ammirazione (‘meraviglia’) che li
napoletani e li medesimi tedeschi loro avevano per essersi così vilmente resi (An. del de
Blasiis).

Critico anche Angelo di Costanzo:


… E in vero non poté esser che di gran dolore alla nazione (spagnola) che, se bene uscissero
con onore di bandiere spiegate, micci accesi, palle in bocca, con cinque cannoni, carri di
munizioni e altri carri di robe e anche un carro coperto, con alcune carrozze che seguivano,
(era) appena uscita l’ultima fila che cominciarono a entrare i tedeschi e il popolo, che in gran
numero stava presente, cominciarono con fazzoletti a gridare ‘Viva l’Imperatore, viva Carlo III’;
ne vi mancarono degl’insolenti che non facessero qualche beffata a’ medesimi spagnoli, se
bene molti s’intenerirono…

Gli ufficiali spagnoli che avevano comandato quel principale castello e cioè il suo governatore
proprietario, il mastro di campo Antonio de la Croux Aedo, e i due che l’avevano più coadiuvato,
il sargente generale di battaglia Manuel Joseph de la Borda, governatore della piazza di
Port’Ercole, ma ora a Napoli effettivo comandante di Castel Nuovo, e Christóbal de Ybarra, il
quale ultimo abbiamo lasciato nel 1695 semplice capitano di fanteria e che nel frattempo era
diventato governatore dell’arsenale, perfezionata che ebbero la conquista del regno, furono
compensati dagli austriaci per essersi arresi senza combattere; il Borda fu fatto mastro di
campo generale e gli altri due sargenti generali di battaglia. Non ostante la promessa di lasciarli
a Napoli che era stata loro fatta, l’Ybarra fu inviato a combattere in Ungheria, il de la Croux
Aedo morì pochi anni dopo e il Borda visse il resto della sua vita godendo di ben poca
considerazione da parte dei vincitori (S.N.S.P. Ms. XVI.A.12):

Facendosi vero d’amarsi il tradimento, restando sempre mal visto il traditore.

Si dettero nello stesso giorno agli austriaci il molo, l’arsenale e la Torre di S. Vincenzo; martedì
12 luglio si arresero il Castello di Sant’Eremo – circa 460 uomini di guarnigione, castellano di cui
era Rodrigo Correa e quello dell’Ovo, la cui castellania era ora di Antonio Carreras - 173 uomini;
tutti furono fatti prigionieri e temporaneamente reclusi nei quartieri dei Regi Studi. Frattanto si
seppe che nello stesso giorno pure il castellano del Castello di Baia, Gioseppe Pariente, si era
arreso con i suoi 40 uomini. Alle nove di mattina del giorno dopo si videro quattro delle galere
che avevano portato il Villena a Gaeta, le quali, non sapendo della resa, erano tornate per
portar aiuto alle nostre fortezze e invece furono prese a cannonate sia dal fortino del Castel
dell’Ovo sia dal Castello di Baia; approfittando della nuova situazione, si misero quindi a
predare pacifiche tartane da carico in navigazione (… e quelle che sette giorni prima erano
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amiche, vennero da nemiche, di Costanzo); la sera dello stesso mercoledì 13 il primo viceré
austriaco, il conte Georg Adam von Martinitz, e il conte di Daun si stabilirono ambedue nel
palazzo reale. In quel tempo il principe di Castiglione, fatto la precedente domenica 10
prigioniero dai paesani di Cava dei Tirreni con tutto quello che gli restava della sua cavalleria,
ormai più che dimezzatasi per le continue defezioni, e quindi costretto a terminare la sua
cosiddetta e poco onorevole lunga ritirata, era stato portato a Napoli e rinchiuso prigione nel
Torrione del Carmine; sarà liberato da Tiberio Carafa principe di Chiusano a patto di non
combattere più contro Sua Maestà Cesarea almeno per un anno. Il Nicolini, probabilmente
fuorviato dal Granito, presenta invece queste ultime vicende del principe di Castiglione
diversamente e cioè come quelle di un valoroso generale, fedele e desideroso di battersi, ma
continuamente impeditone dal tradimento di tutti gli altri; non riesce però a spiegare a
sufficienza le contraddizioni di questa sua benevola e patriottica ricostruzione. Domenica 31
luglio, i vincitori sfilarono a Napoli in una cavalcata pubblica; si erano arresi pure i castelli
d’Ischia e di Brindisi e mercoledì 14 settembre, dopo una vigorosa e coraggiosa resistenza, si
arrenderà Pescara – quattro compagnie di dragoni, due di fanteria e un numero di miliziotti, la
quale era comandata ora dal duca d’Atri e dal brigadiere Juan Estéban Billet. Si difenderà infine
particolarmente Gaeta, dove erano racchiusi 3mila uomini, il meglio dell’esercito del regno, e
cioè il reggimento multinazionale ancor detto vallone, cinque di spagnoli, quattro compagnie
d’italiani e 150 dragoni, e, finché ebbe polvere, fece eroica resistenza e procurò perdite al
nemico soprattutto il detto reggimento vallone, il cui eroico colonnello de Kamps cadde ucciso
dalle baionette imperiali con la maggior parte dei suoi soldati, evidentemente credendo nella
difesa del regno più quegli stranieri che gli stessi napoletani, e dove in tale difesa morirà anche
il governatore della piazza maresciallo di campo Joseph Caro, ucciso dall’esplosione di un barile
di polvere. Gli austriaci, resisi padroni anche di quella fortezza venerdì 30 settembre
assaltandone la breccia, a causa della resistenza incontrata e delle molte perdite subite le
dettero il sacco e, come allora purtroppo sempre si usava con chi aveva offerto resistenza,
perché non fosse così d’esempio agli altri nemici, trattarono molto duramente tutti i capi militari
che l’avevano difesa, tra cui il generale dell’artiglieria Orazio Coppola, il governatore generale
dell’armi duca di Bisaccia; persino il Villena, ultimo ad arrendersi, fu molto maltrattato:

On le traita di une maniere si dure et si barbare que non-seulement elle excédoit toutes les
regles de la guerre, mais même que le comte de Thaun (‘Daun’) montroit en cela un
acharnement indigne de son courage et de son rang (Bacallar y Sanna)..

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Il suddetto viceré fu, tra l’altro, portato a Napoli e fatto passare in trionfo in mezzo al popolaccio
che lo apostrofava, chiamandolo scassa galere, arrobba cannoni e indirizzandogli tanti altri
improperi; in Spagna gli fu data la colpa della perdita del regno perché si disse che era stato lui
a far allontanare i reggimenti francesi che lo avevano presidiato ultimamente e che lo avrebbero
sicuramente e validamente difeso e ciò aveva fatto per compiacere quei tanti napoletani che
diffidavano della presenza dei transalpini; pertanto, quando poi aveva inviato Tiberio Carafa dei
principi di Belvedere a Parigi a chiedere un novello aiuto al re di Francia, non lo aveva ottenuto;
né gli aveva inviato i pur richiesti soccorsi il marchese di Bedmar, viceré di Sicilia, il quale
temeva di sguarnire così l’isola. In realtà il regno di Sicilia era militarmente anche più
impreparato di quello di Napoli e a tal proposito in un suo rapporto del 26 settembre 1705 così
scriveva il residente francese in quell’isola, monsieur de Bedusar, relazione a cui abbiamo già
accennato:

Per ciò che concerne la milizia, essa è una materia risibile; essa consiste in un reggimento di
fanteria spagnola che può consistere di quattromilacinquecento uomini; è comandato da un
maggiore che ha anche la carica di gran maestro dell’artiglieria (‘capitano generale
dell’artiglieria’). Le 56 compagnie di cui è formato questo reggimento sonno sparpagliate per
tutto il reame, di modo che lo stesso comandante né conosce né ha mai visto la metà di dette
compagnie; i capitani sono tutta gente senza esperienza, non essendocene tra di loro nemmeno
tre che abbiano mai tirato un colpo di pistola in vita loro; i soldati che sinora ho visto sono tutti
nativi spagnoli e i più begli uomini che si possano vedere, ma malvestiti e armati all’antica di
grossi moschetti e di forchiglie… non c’è poi un solo uomo a cavallo in tutto il reame; è un anno
o due che è stata cassata una compagnia di cento cavalli che servivano di guardia al viceré per
puro capriccio dei signori del consiglio d’Italia; si sono dopo arruolate due compagnie di dragoni,
le quali furono cassate un mese prima del mio arrivo per lo stesso motivo… (S.H.A.T.
Vincennes, A1-1867).

In effetti, poiché il nuovo viceré di Sicilia Isidoro de la Cueva y Benavides marchese di Bedmar
(1705-1707), il quale aveva preso possesso della sua nuova carica appena il 15 luglio
precedente, è ricordato, tra l’altro, appunto per una sua riforma del corpo di presidio spagnolo
con cui lo divideva in molte compagnie disseminate in tutto il regno, non si capisce se qui il de
Bedusar critichi la vecchia oppure la nuova organizzazione del presidio spagnolo in Sicilia;
probabilmente stigmatizza ambedue.

Allora egli divise in vari reggimenti soggetti a vari colonnelli i militari spagnoli di presidio, avendo
essi militato sino ad allora in una sola formazione sotto un sovrintendente generale dei presidi
ed essendo inclini a demolire tutte le cose nuove, e aumentò di numero le compagnie, le quali
contavano (ora) solo quaranta soldati semplici. Di conseguenza volle che fossero molti di più i
capitani e i loro luogotenenti, alfieri e caporali affinché gli mantenessero in servizio i sottoposti;

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tutto ciò invero dispiaceva ai veterani (Tomaso Fazelli, De rebus siculis decadis secundae etc.
P. 318. Catania, 1753).

Alla fine dell’anno una spedizione austriaca comandata dal generale Wetzel partì da Napoli e
andò a impadronirsi dei Presidi di Toscana.
Qui finiscono le nostre cronache militari napoletane; non vogliamo però terminare quest'opera
senza cercare di riassumere la consistenza delle forze del regno che avrebbero dovuto opporsi
a quelle del Daun e, a ulteriore testimonianza dell'esiguità delle soldatesche che si era deciso di
mettere in campo, citeremo ancora Tiberio Carafa principe di Chiusano, allorché questo
memorialista di parte austriaca ricorda lo sgomento che aveva preso il sunnominato Nicolò
Pignatelli, resosi conto di che misero esercito gli avevano preparato:

Tutte le forze che i gallispani avevano nel Regno e ne’ Presidi di Toscana erano cinque o
seimila fanti e duemila o poco più cavalli, partiti in piccoli reggimenti di cavalleria e di fanteria.
Imperciò vi si augumentò il numero ordinario de’ soldati detti di campagna o di e si raccolsero le
milizie del Regno nominate soldatesche del Battaglione e di queste se ne scelsero alcune
migliaia, gente abile, ma inesperta, e il rimanente fu rimandato a casa.

Il Parrino concorda sostanzialmente con queste cifre e fa ammontare le forze del regno a soli
2.100 cavalli e 5mila fanti d'ogni specie, inclusi quelli dei Presidi e delle guarnigioni; dunque
addirittura meno di quante ne aveva il generale Daun, il quale oltretutto comandava gente
sperimentata e agguerrita, e sarebbe stato pertanto impossibile affrontarlo così in campo
aperto. I migliori corpi di cavalleria e dragoni erano i sei reggimenti dei colonnelli Domingo de
Garate y Olea, Francisco Domingo, Pedro Tovar marchese di Marcellina, Joseph Chavés,
Esteban Billet e Tiberio Carafa; quest'ultimo reggimento, nominato la prima volta nel 1705, si
componeva di 12 compagnie di dragoni e il Carafa aveva ottenuto, con ordine reale del 26
marzo di questo 1707, il titolo di maresciallo di campo, senza perdere quello di colonnello del
suo reggimento e ciò in barba alle ultime ordinanze, portandosi a giustificazione di ciò il recente
esempio del Caro; la stessa promozione ottenne cinque giorni dopo anche il Velbalet. Si
distinguevano invece nella fanteria il detto reggimento vallone del colonnello Johannes de
Kamps, quelli spagnoli di Torremayor, Guzman, Mercado (515 uomini), Antolinez, marchese di
Villa Torres e quello italiano di Carlo Maria Caracciolo di Torrescolo. I fanti valloni, onestissimi
combattenti, saranno dunque in realtà gli unici a farsi trucidare dagli austriaci a Gaeta insieme
al loro colonnello, nell'estremo tentativo di difendere un regno non loro; a questo eroico quanto
inutile e immeritato sacrificio nessuno storico ha mai proposto di dedicare, magari, una piccola
lapide a Gaeta!
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Sulla scarsissima partecipazione dei regnicoli alla difesa del loro reame leggiamo di nuovo il
Pujadies:

Le truppe del Regno consistettero in quattro compagnie di uomini d'armi che si fecero in questi
dì venire, le quali, comeché fossero state di tutto il bisognevole fornite da’ loro capitani, che
sono de’ principali baroni del Regno, e fussero tutte di bravi (leggi ‘coraggiosi’) uomini
composte, pur tutta via non erano secondo la presente disciplina militare esercitate; che ogni
altra milizia del regno o non era stata chiamata ovvero, dopo chiamata, era stata licenziata e
solamente furono posti insieme molti armiggeri, che volgarmente noi chiamiamo ‘tracolle’ e altre
volte furono ‘stradioti’ appellati, concedendosi ancora un indulto generale per quelli che fossero
venuti a servire in tale occasione. È il vero che si distribuirono ancora molte patenti di colonnello
e altri ufiziali per far leva di nuovi soldati, ma puossi ogniuno immaginare quanto fortunato e a
tempo debito si fu un cotal provvedimento.

Surono dunque arruolati detti armigeri, ossia armati a cavallo, tra le popolazioni di lingua e
costumi greco-albanesi residenti in regno, che di tali individui era stata in passato appunto
costituita la compagnia di cavalleggeri detti stradioti o anche di tracolla, perché evidentemente
erano stati gli unici a conservare quel vecchio modo di portare la spada, ossia ad armacollo.
Sebbene Capua fosse la principale piazzaforte del regno, le predette truppe furono in buona
parte concentrate a Gaeta per i motivi che abbiamo già espresso; Gaeta si trovò così ad avere
circa 3mila uomini di presidio (di cui però solo 2.500 atti alle armi), inclusi 33 ufficiali maggiori,
600 ufficiali subalterni e si trattava dei cinque predetti reggimenti di fanteria spagnola, di quello
vallone, di quattro compagnie del reggimento italiano del suddetto Caracciolo di Torrescolo e di
150 dragoni; notevole era poi la dotazione d'artiglieria della fortezza perché comprendeva 113
pezzi tra grandi e piccoli e 13 mortari, di cui due per bombe da 100 libbre, uno da 60 e dieci
piccoli per comuni granate reali; la polveriera disponeva di 10mila proiettili d'artiglieria tra palle,
bombe ossia granate reali, oltre che di 26mila granate da mano, di 450 casse di pallottole da
fucile e di 1.800 cantara di polvere.
Nella piazza di Pescara si trovavano invece quattro compagnie di dragoni per un totale di circa
200 uomini, quattro di fanteria spagnola del reggimento dello Spinola per circa 250 fanti, quasi
tutto il reggimento di cavalleria del brigadiere e governatore militare della piazza Esteban Billet e
lo stato maggiore della piazza stessa; completavano la difesa 40 pezzi d'artiglieria tra grandi e
piccoli e 2 mortari per granate reali. A Capua si posero di guarnigione solamente 900 uomini,
forse perché si pensava che facilmente poteva esser tagliata fuori da strategie ormai più
dinamiche di quelle del secolo precedente; di questi 600 costituivano il principale corpo di
cavalleria ed erano comandati dal capitano generale di quest'arma, il principe di Castiglione, a
cui però il viceré, saputo che la cavalleria cesarea aveva raggiunto Capua, ordinò di lasciare
599
quella piazza con tutta la sua cavalleria, cioè i 600 soldati che gli erano rimasti avendo gli altri
400 disertato, per sottrarla all’assedio; dopo di che la piazza restò difesa da soli 300 uomini, tra
cui molti ufficiali, i quali poi si arrenderanno al nemico, in parte passando dalla sua parte e in
parte ritirandosi a Marcianise.
Il principe di Castilglione d'Aquino e i suoi, furono in effetti gli ultimi dell’esercito campale ad
arrendersi, ma per motivi di fuga e non di resistenza, dando luogo così a una ben lunga ‘ritirata’
attraverso il regno, essendosi uniti a loro in verità anche 180 altri onesti ufficiali che veramente
non volevano cedere le armi, ma alla fine, arrivati tutti costoro a Cava dei Tirreni, come abbiamo
già accennato, saranno costretti ad arrendersi e i loro cavalli saranno requisiti e utilizzati dagli
austriaci per rimpiazzare le cavalcature perse dai loro dragoni. Oltre alle tre piazze suddette, le
più importanti del regno, avevano consistenti guarnigioni militari i seguenti castelli.
A Napoli il Castel Nuovo era dunque difeso da 550 uomini, inclusi il sargente maggiore e
parecchi altri ufficiali, sia vivi sia riformati, del reggimento Caro, inoltre tre artiglieri e 13 scolari
d'artiglieria senza esperienza, essendone comunque atti alle armi solo 400; c'erano poi 50
cannoni tra grandi e piccoli e quattro mortari, numero insolito per quel castello, ma ora dovuto
all’avervi ultimamente introdotti tutti quelli che erano rimasti sul molo e in altre parti della città. Il
Castello di Sant'Elmo era presidiato da meno di 500 uomini (250, secondo il Pujadies) regolati
in otto compagnie da alcuni ufficiali riformati; l'artiglieria comprendeva 21 pezzi, 5mila palle, 500
bombe, 3.800 granate e 700 cantara di polvere. Nel Castel dell'Ovo c'erano 173 difensori, 28
cannoni, sei mortari per granate reali, 556 barili di polvere e gran numero di palle e granate da
mano; nel Torrione del Carmine, fortezza di cui oggi, essendo le sue mura state abbattute nel
corso del tempo, residua veramente poco di più del solo torrione, gli austriaci troveranno invece
100 bombe, molte granate e 16 bocche da fuoco di ferro, quindi scadenti e dalle scarse
prestazioni, utili in quel quartiere del Mercato solo per sparare eventualmente su folle di rivoltosi
e che non era valsa quindi la pena di trasferire; si trattava comunque di pezzi d’artiglieria
recuperabili in considerazione che malamente inchiodati dagli spagnoli in ritirata.
Gli unici altri castelli che avevano una guarnigione appena degna di questo nome erano quello
di Brindisi e quello di Baia, quest'ultimo contando infatti una quarantina di uomini, ma per la
maggior parte vecchi o malati, e ciò anche se, come sappiamo, era stato in precedenza molto
rafforzato dal marchese di Villena, ultimo viceré spagnolo, il quale aveva pure speso inutilmente
grosse somme per consolidare i fortini di Vigliena e del Granatello, spese del tutto inutili giacché
la capitale non fu attaccata dal mare e inoltre si arrese poi ai vincitori senza combattere; Napoli
non era dunque già più quella città salda di mura e di cuori che così bene aveva resistito

600
all'assedio postole nel 1528 dall'esercito francese del maresciallo de Lautrec e, d'altra parte, né
il complesso del Castel Nuovo, che ne costituiva la cittadella, né gli altri castelli cittadini,
semplici luoghi forti per ritirate provvisorie, avrebbero potuto ora impedire la caduta di un
agglomerato urbano così vasto e così penetrabile, essendo praticamente privo di difese di cinta
che fossero adeguate alla forza offensiva raggiunta ormai dall'artiglieria del tempo.
Per finire sulla dislocazione difensiva delle truppe del regno aggiungeremo che non ci è stata
riportata quella del reggimento dello sfortunato maresciallo di battaglia Joseph Caro, cioè
dell'ex-terzo fisso spagnolo, il quale già dal 1692 risultava elevato al rango di fanteria della
guardia del viceré; ma trattandosi di ben tre battaglioni, come si è detto, le sue numerose
compagnie devono esser state distribuite in più presidî, probabilmente con il nucleo principale a
Gaeta, dove infatti, come abbiamo già detto, al tempo dell'assedio e della successiva resa agli
austriaci, il Caro esercitava l'incarico di governatore della fortezza.
Quando nel 1714, ristabilitasi la pace tra le nazioni e ritirati i corpi che avevano servito all'estero,
si passerà in Spagna una rivista generale a tutta la fanteria che si era trovata in Europa al
servizio spagnolo risulteranno, oltre ai predetti Nápoles e Basilicata, a cui sarà riconosciuta
un’anzianità ufficiale da computarsi rispettivamente dal primo settembre 1572 e dal 29 giugno
1658, anche altri due reggimenti napoletani e cioè quelli dei colonnelli Tommaso Gaetano e
Alessandro Lettiero, i quali saranno però ambedue presto riformati l'11 aprile 1715,
facendosene confluire i resti nel Nápoles. C’era infine un reggimento milanese comandato da
un napoletano, il colonnello Bernardo Carafa, ma anche questo corpo sarà riformato - il 13
aprile 1715 - e i ranghi residui varranno incorporati nel reggimento Milán.
Persa In quel mentre l'Italia e costretta alla ritirata in Fiandra, la Francia e la Spagna si
dedicavano alla salvaguardia della loro stessa conservazione e, mentre Eugenio di Savoia era
costretto ad abbandonare l'assedio di Tolone, dopo aver tentato più volte inutilmente di
prenderla, nella penisola iberica l'esercito delle due Corone guidato dal duca di Berwick
passava alla controffensiva e sconfiggeva gli anglo-portoghesi ad Almanza, permettendo così a
Filippo V di riacquistare Madrid e gran parte della Spagna.
Vogliamo chiudere quest'opera citando il genovese Paolo Mattia d’Oria, il quale tra il 1713 e il
1717, descrivendo il Regno di Napoli e riferendosi anche al passato regime spagnolo, così
scriverà a proposito delle istituzioni militari a cui abbiamo più volte accennato:

... Questo esercito si chiama ‘il Battaglione’ e le compagnie di uomini d'arme; questo
‘Battaglione’ è composto di più di 20mila uomini e si forma dall'elezzione che si fa da tanti
uomini per terra. Di questi se ne formano compagnie e a quelle si assegna un capitano; le
601
compagnie di uomini d'arme, che sono 12, si formano dell'istesso modo, ma a queste si
assegna un capitano uomo di qualità e a quelle del ‘Battaglione’ semplici gentiluomini di Regno
o qualche cavalliero dell'infima qualità di Napoli.
Questo esercito però è affatto inutile, perché queste compagnie non si uniscono mai, mercé che
i soldati che lo compongono abitano a due o tre per terra; ond'è che non fanno mai esercizio e
perciò non sono nel maneggio dell'armi punto istruiti e la sola cagione per cui dalla gente di
Regno si desidera di essere soldato o capitano del battaglione o uomo d'arme si è che questo
porta seco alcuni privilegi, com'è quello di essere esente dalla autorità baronale e molti altri.
Infine questo esercito non solo non è d'alcun utile, ma di danno, perché con i privilegi che
godono i soldati di esso turbano il governo delle terre e il Tribunale del Collaterale, e tutto ciò
ch'è di militare in questo paese è in stato di pochissima auttorità e decoro.
La ragione ancora per cui i spagnuoli non hanno curato di disciplinare questo Battaglione e
questi uomini d'arme si è perché i spagnuoli hanno stimato meglio perdere il vantaggio che
poteano avere di tanto numero di gente istrutta nell'armi, che esporsi al pericolo d’avere un
popolo agguerrito che poi non potessero agevolmente dominare. Infine hanno voluto ammollire
e avvilire i popoli e lo hanno ottenuto quasi in tutto, perché quello che teneva ancora molta
gente occupata nell'armi erano i forasciti d'Abruzzo, ma, doppo la totale estinzione di quelli dalla
saggia condotta del marchese del Carpio fatta, il Regno si è in tutto disusato dall'armi; per modo
che oggi osarei dire che in questo Regno non si trovarebbero tremila uomini che sapessero
resistere e tener fermo il piede al pericolo dell'archibuggiate (om.) Sin’ora in questo Regno vi
hanno mantenuto i spagnuoli poco numero di truppe, perché lo Stato di Milano era frontiera
dell'Italia, ond'era che qui hanno creduto che bastasse quel numero di gente ch'era sufficiente a
presidiare scarsamente i castelli di Napoli, le piazze di Toscana e le picciole fortezze del
Regno...
Il poco conto che la politica spagnuola ha fatto in questo paese della milizia è stato cagione che
altresì i napoletani abbino poco stimato i militari, per la qual cosa li officiali supremi della milizia,
che ne i paesi di guerra acquistano stima e stabile qualità, in modo che ottengono di fare
matrimoni con le prime Case del paese, qui non ottenevano né meno di conversare con le prime
Case, né con l'infima nobiltà, a meno che non fossero Grandi di Spagna, come per lo più
spesso erano i generali delle galere e alcuna volta (ma di rado) i mastri di campo generali.

602
FONTI E SCELTA BIBLIOGRAFICA.

Archivi:

Archivio di Stato di Napoli (fondi consultati):


Sommaria - Consulte.
Sommaria - Dipendenze I e II.
Collaterale – Consultarum.
Armigerorum.
Reali Dispacci (voll. 10).
Viglietti.
Collezione Notai.

(Sezione Militare:)
Reali Ordini – Inventari I e II.
Presidi di Toscana.
Tesoreria Antica - Cassa Militare
Cedole di Tesoreria (Inv. 61 III).
Tesoreria Antica - Frammenti di Cassa Militare.
Cedole di Cassa Militare (Inv. 61 III).
Giunta Arsenale.
Galere.
Scrivania di Razione – Registri dei pagamenti.
Scrivania di Razione – Miscellanea
Filiazioni.
Aggiusti (Inv. 62).
Fs. non inventariati.

Archivio di Stato di Milano, Atti di Governo, Militare, Parte Antica Fs: 2, 110.
Archivio ducale spagnolo-austriaco, Cancellerie dello Stato di Milano, Fs. XXII.74-77;
XL.6-7.
Registri delle Cancellerie dello Stato XXII 74-77, XL 6-7.

Archivio General de Simancas, Papeles de Estado. Milan. 3400-3402-3407-3411-3412-

Archivio Historico Nacional de Madrid, Consultas de Italia. Fs. vari.


3413-3414-3415-3418-3420-3422-3424-3428-3471.
Papeles de Estado. Nápoles. Fs. 3307-3324.

Archivio Segreto Vaticano, Nunziatura di Napoli. Fs. 76-77-79 a 107-109-111-112-114-115-


117 a 122.

Archive Nationale de Paris, Mercure Hollandois. Z.XIV. Vol. 5-11.

603
Service Historique de l’Armée de Terre au Château de Vincennes, Fs. A1-1775-1779-1780-
1788-1863-1865-1867-1868-1960-1964-1983.

Raccolte:

Avisi italiani ordinarii e straordinarii dell’ano 1694. Vienna.


Avvisi di Napoli. B.N.NA. Sez. Nap. Per. 120.
Avvisi di Napoli. B.N.NA. XXIV.I.23.
Avvisi di Bologna. Rac. Gen. Storia III 1011. Bib. Apost. Vatic. Roma.
Avvisi di Foligno. Racc. Gen. Storia III 1012; Per Est.A.2 Bibl. Cas. Bib. Apost. Vatic. Roma.
Avvisi di Milano, Bibl. Barberini, Q.II.47-48. Bibl. Apost. Vatic. Roma.
Bandi, Costituzioni, Statuti e ordini d’Italia e d’Europa. B.N.NA. Bibl. S. Giacomo Statuti 208/209
181.D.2-3.
Bandi napoletani fino al 1718. B.N.NA. Statuti 603-604.
Bandi napoletani (1694-1701). B.N.NA. XX.L.29.
Bandi napoletani (1702 e segg.) B.N.NA. XXII.L.36.
Gazzetta napolitana (1680-1681). B.N.NA. Sez. Op. Rare XXIV.I.23
Gazzetta napolitana (1694-1701). B.N.NA. Sez. Op. Rare XX.L.29 (S.2.XX.L.29).
Gazzetta napolitana (1702-1805). B.N.NA. Sez. Op. Rare XXII.L.33-42; XXII.L.46.
Gazzetta napolitana (1702-1704). B.B.N. S.2.XXII.L.46
Gazzetta napolitana (1704). B.N.NA. Banco Rari C.11 (1.E.11).
Gazzetta di Napoli (1675-1718). Voll. sette. S.N.S.P. S.G.B.1
Gazzetta di Milano (1686-1699). Voll. cinque. S.N.S.P. S.G.B.1
Gazzetta di Palermo (1689-1691). Vol. unico. S.N.S.P. S.G.B.1
Giornali di Napoli (1700-1709). S.N.S.P. Man. XXI.D.1
Giornali di Napoli (1681-1703). S.N.S.P. Man. XXI.B.9.
Ordini, bandi, grida, editti, leggi, decreti e ordinanze di Milano. B.N.NA. Statuti; 182.A.38;
B. Branc. 21.K.59; B. Branc. 26.K.1; Racc.Vill.C.406(1.
Mercurii Relation, oder wochentliche Reichs Ordinari Zeitungen, von underschidlichen Orthen.
Monaco, 1688
Manoscritti della S.N.S.P. Fasci consultati (Reali Ordini, Cassa Militare, Reali Dispacci, Bandi,
Camera della Sommaria, Ristretto di pagamenti ecc.): XXI.A.3-8; XXI.D.7; XXI.D.10; XXI.D.35;
XXV.A.1-4; XXV.A.7; XXVI.A.4; XXVII.A.17; XXVII.B.11-13; XXVII.C.3; XXVIII.C.8; XXVIII.D.16;
XXIX.A.3; XXIX.C.4; XXIX.E.1-3Bis; XXIX.E.6.
Manoscritti della B.N.NA. Fasci consultati (Reali Ordini ecc.): I.B.1; I.C.20-24 Voll. 5 (1536-
1714); II.A.3; III.D.9; IV.C.5; X.A.2; X.A.31; X.A.47; X.B.12; XI.A.1-16; XI.A.21-22; XI.A.33-34;
XI.B.40-44; XI.C.18; XI.D.8; F(a) 22.1.5.

Relazioni anonime varie:

Bombas. Invencion de las de fuego que usaron los franceses en el sitio de Fuenterrabía en el
año de 1637. Ms. C.-H.-70 della Biblioteca Nazionale di Madrid.
Battaglia di Lombardia (1710). B.N.NA. 74.G.6(62.
Stato delle carceri della Vicaria (1600-1674). B.N.NA. B. Branc. 25.H.21(2.
Stato delle carceri della Vicaria (1609-1674). B.N.NA. 54.D.35.
Successo in Messina (1672-1674). B.N.NA. 316.G.7.
Da Madrid (1706). B.N.NA. 74.G.6(77.
Presa di Aquileia (1703). B.N.NA. 74.G.6(42.
Da Napoli (1707). B.N.NA. 784.H.27(5.

604
Assedio di Torino (1706). B.N.NA. Coll.It.B.1(17.
Morte del Gran Contestabile (1689). B.N.NA. 74.F.11(17.
Arrivo a Madrid di Filippo V (1701). B.N.NA. 74.H.27(2.
Fatto d’armi tra francesi e imperiali a Montebaldo (1703). B.N.NA. 74.H.27(12; 74.H.27(19.
Battaglia del Reno (1675). B.N.NA. Bibl. Colellise 413.
Condotta del Montecuccoli (1675). B.N.NA. 73.A.12(3.
Condotta del Montecuccoli (1673). B.N.NA. B. Branc. 39.D.30(4.
Conbattimento nelle acque di Malaga (1704). B.N.NA. 74.H.27(22.
Condotta del Principe Eugenio (1707). B.N.NA. 74.G.6(88.
Acclamazione di Carlo III austriaco a Napoli (1707). B.N.NA. LV.6.8(6.
Presa di Gaeta (1707). B.N.NA. 74.H.27(69.
Acquisto di Namur (1695). B.N.NA. 74.G.6(17.
Guerra in Europa (1703). B.N.NA. 74.H.27(9.
Acclamazione di Filippo V a Madrid (1700). B.N.NA. 74.H.27(1.
Ingresso degli austriaci a Napoli (1707). B.N.NA. 74.H.27(67.
Battaglia d’Almanza (1707). B.N.NA. 74.H.27(37.
Battaglie del Reno (1702). B.N.NA. 74.H.27(8.
Battaglia di Fiandra (1707). B.N.NA. 74.G.6(89.
Nova e distinta relatione della segnalata vittoria ottenuta dall'armi della serenissima republica di
Venetia nella Dalmatia contro Turchi etc. Venezia, 1688.

Altre opere di autori vari o anonimi:

Edicta Decreta Napoli Pragmaticae. Napoli, s.d. B.N.Na. Sez. Nap.


Frammenti di annali dal 1611 al 1679. S.N.S.P. Man. XXI.D.15.
Miscellanea di notizie storiche e aneddotiche varie (1701-1734). B.N.Na. Sez. Ms. XV.23.
Nuova collezione delle Prammatiche. Napoli, 1805. B.N.Na. Sez. Nap.
Ordinanza di Milano di Filippo V del 2 novembre 1702. B.N.Na. Sez. Ms. XII.D.11.
Ordinanze varie date in Bruxelles riguardo al Consiglio di Guerra. 18.12.1701. B.C.D.S.
Trattati e relazioni varie (1631-1735). B.N.NA. Sez. Ms. e opere Rare SQ XXV.I.1.
Reglamento y Ordenanzas del Exercito de Flandes. Bruxelles, 10.4.1702. B.N.Na.
Reglamento para que la Infanteria, Cavalleria y Dragones que al presente ay y huviere etc.
Madrid, 28.9.1704. Napoli, 1705. B.N.NA. 106.J.44.
Nota di quello succede alla giornata in questa Città di Napoli. (1700-1709). S.N.S.P. Man.
XXI.D.I.
Racconto di varie notizie accadute nella Città di Napoli dall’anno 1700 all’anno 1732 (da un Ms.
di B. Capasso). S.N.S.P. Man. XXVI.A.12; XXVIII.C.21 e Arch. Stor. Nap. XXXI-XXXII (1906/7).
Relazion de la cosas mas prinzipales de la conquista de los Reynos de Nápoles y Sizilia
sacada por un General que se ha hallado en ella. B.N.NA. Sez. Ms. X.B.87
Dell’eroico governo del marchese del Carpio (1683-1688). S.N.S.P. Man. XXII.B.17.
Notizie delle cose appartenenti al posto di Capitan Generale del Regno di Napoli. (Post. al
1690). S.N.S.P. Man. XXII.B.10
La vita di Don Giovanni d’Austria, figlio naturale di Filippo IV Rè di Spagna. Colonia, 1686.
B.N.NA. 63.B.51.
La congiura avvenuta in Napoli nel MDCCI. Venezia, 1702. B.C.N.
Relation des mouvemens de la Ville de Messine depuis l’année 1671 jusques à present. Lione,
1675. B.N.NA. Sez. Ms. e opere Rare XXIII.A.3.
Descrizione del Regno di Napoli (sec. XVII). S.N.S.P. Man. XX.B.33.
Descrizione dell’amministrazione del Regno per i sigg. Viceré (sec. XVIII). S.N.S.P. Man.
XXVIII.D.23.
605
Diccionario de la lengua castellana etc. Tomo II. Madrid, 1729.
Notizie del Regno di Napoli per i Sigg. Viceré. B.N.NA. Sez. Ms.
Cavalcata reale del 1690. B.N.NA. XXIV.K.14(5.
Relazione sul Regno a Carlo III (d’Asburgo) all’atto della conquista (1707). S.N.S.P. Man.
XXI.D.7.
Storia di Napoli fino al 1694. S.N.S.P. Man. XXI.C.23.
Distinta relazione del diario dell’assedio della città e fortezza di Gaeta. Parrino & Cavallo.
Napoli, 1707.
Relazione dell’armata inglese all’assedio di Barcellona. S.N.S.P. Man. XXVI.D.10 (da p. 6339.
Successi in Napoli alla morte di Carlo II. S.N.S.P. Man. XXX.D.18.
Recopilacion de los reglamentos y ordenanzas del Rey para el servicio, exercicio, disciplina,
paga, mando y subordinación de las compañias de guardias de corps y de alabarderos y de los
regimientos de guardias de infanteria desde 29 de septiembre de 1704 hasta marzo de 1724.
Madrid, s.d.
Notizie per gli eminenti signori Viceré del Regno di Napoli ecc. B.N.NA. Sez: Ms. XXVIII.D.23.
Capitoli e leggi colle quali Filippo Quinto Rè di Spagna, essendo a Milano, ha regolata la militia
spagnola e ausiliaria etc. Milano, 2 novembre 1702. B.N.NA. Ms. XII.D.11 e Piacenza, 25
gennaio 1703. B.N.NA. Ms. XII.D.11.
Relazioni di ambasciatori sabaudi, genovesi e veneti (1693-1713) Bologna, 1935. B.N.NA. S.C.
Fonti Storiche 223(6.
Relazioni di ambasciatori veneti a Napoli in Fausto Nicolini, Studi di Storia napoletana. B.N.NA.
Sez. Nap. II.A.20.
Le bombardement et la machine infernal des anglais contre Saint-Malo en 1693 etc. Nantes,
1885.
Stato del Regno di Napoli e spese occorrenti per il suo mantenimento, (Circa 1680). S.N.S.P.
Man. XXVII.A.17
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Parigi, 1677.
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bâtiments de Sa Majesté. 1703.
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incampments in Italy under the command of Prince Eugene of Savoy etc. Londra, 1702.
Ordonnance du Roy pour regler les rangs entre les officiers des galeres (om.) du dixiéme
novembre 1697. Parigi, 1697.
Ordonnance du Roy servent de Règlement Général pour l’entretenement des troupes (om.) du
28 fèvrier 1679. Parigi, 1679.
Ordonnance de Monseigneur le duc de Maine, Grand-Maître et Capitaine General de l’Artillerie
de France… portant fixation du nombre des ateliers des salpestriers etc. Parigi, 1701.
Exercice pour toute l’infanterie de France et autres mouvemens reglez par la main de Sa
Majesté le 2 Mars 1703.
Règlement général du Roy pour le regiment de ses Gardes Françoises (1691). Versailles, 1692.
The Netherlands historian. An exact relation of the late wars between Great Britain and the French
king against the States Generall (1671-1674) etc. Amsterdam, 1675.
Feuerwerkeren und Büchsenmeisterenkunft etc. Friburgo, 1703.
Materialien, so zu einem Zeughaus gehörig etc. Heidelberg, 1659.
Feuer-, Wasser-, Sturmkugeln, Granaten etc. Osnabrück, 1660.
Pyrologia curiosa et experimentalis etc. Hanover, 1689.
Unterricht von der Artillerie etc. Amburgo, 1699.
Tarif des marchandises & ouvrages nécessaires pour les galères de Sa Majesté pour les
années 1686, 1695, 1700, 1707 & 1713. Voll. 5. Marsiglia, 1686 e segg.
606
Historia degli avvenimenti dell'armi imperiali contro a' ribelli ed ottomani confederati etc.
Venezia, 1687.
Bibliotheca militum or the souldiers publick library. London 1659.
Crónica de D. Álvaro de Luna, condestable de los reynos de Castilla y León etc. Madrid, 1784.
Neu-entdeckte practicable Minir-Kunst, etc. Norimberga, 1686.
Colección de documentos inéditos para la historia de España etc. Madrid, 1843 e segg.
Autori in ordine alfabetico:

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P.F. Gennaro Maria d'Afflitto etc. Firenze, 1665. Introduzzione alla moderna fortificazione etc.
Firenze 1667.
Agurto de Gastañaga (de), Francisco Antonio, Tratado y reglas militares etc. Madrid, 1689 e
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Alberghetti, Giust’Emilio, Compendio della fortificatione etc. Venezia, 1694.
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orizzontali. Venezia, 1691. Nova artilleria veneta. Venezia, 1703
Albéri, Eugenio, Le relazioni degli ambasciatori veneti al Senato durante il secolo decimo sesto.
Firenze, 1853. Le guerre d’Italia del Principe Eugenio di Savoia. Torino, 1831.
Alcázar y Zuñiga (de), Melchor, Arte de escuadronar y ejercicio de la infanteria etc. Madrid,
1703.
Alimari, Doroteo, Instruttioni militari etc. Acierum instruendarum systema novum etc. Venezia,
1703.
Allard, Carel, Nieuwe hollandsche scheeps-bouw etc. Amsterdam. 1695. Architecture navale
hollandaise etc. Amsterdam, 1695.
Allard, Charles & Abraham, Les principales forteresses et villes fortes d'Espagne, de France,
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INDICE.

Prefazione. P. 3.
Introduzione (Prima parte). P. 6.
Introduzione (Seconda parte). P. 17.
Cronache militari commentate. P. 40 a 598
Fonti e scelta bibliografica. P. 601.
Indice. P. 615.

Considerazioni esplicative (le paginature indicate sono approssimative):


Palandre o galeotte da bombe francesi. P. 44.
Evoluzione delle tecniche di carenamento navale. P. 52.
Nascita del vestiario militare uniforme. P. 74.
Brulotti. P. 110.
Evoluzione della cavalleria e della fanteria. P. 121.
Evoluzione della fregata. P. 135.
Evoluzione della cavalleria e della fanteria. P. 176.
L’esercito francese dopo la pace di Nimega. P. 178.
Stato militare del regno. P. 187.
Evoluzione delle galere. P. 240.
Evoluzione del moschetto di fanteria. Armamento dei picchieri. P. 287.
Evoluzione della fanteria. P. 290.
Artiglierie europee. P. 297.
Cavalleria e dragoni. P. 338.
Classificazione dei vascelli di linea francesi. P. 361.
Modi di computare l’ora in Europa. P. 440.
Evoluzione della fanteria (dalla picca alla baionetta) e della cavalleria. P. 458.
Evoluzione della fanteria. P. 531.
Evoluzione della fanteria. P. 552.
Evoluzione della fanteria spagnola (dal moschetto al fucile) e della cavalleria. P. 555.
Nuovi contrassegni di grado per la fanteria spagnola. P. 563.
FINE.

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