Parte prima
Capitolo 1
Paragrafo 1
Paragrafo 2
La trasformazione del "princeps" in un quasi Dio, modificò anche il sistema delle fonti del diritto,
che allora era caratterizzato da "leges" e "iura", le prime emanate dall’imperatore, le seconde
rescritti dei giuristi muniti di "ius respondendi", Giustiniano con la promulga del Digesto fece suoi
gli iura dei giuristi, trasformandoli di fatto in "leges" e formalmente unificò i 2 sistemi.
Della distinzione tra "iura" e "leges", le fonti del periodo parlano poco, e soltanto nella "Lex
Romana wisigothorum" redatta da un barbaro, si tenne effettivamente conto dei frammenti di una e
dell’altra specie, ma al tempo del dominato questa contrapposizione rappresentava lo "ius vetus" e
"ius novus", e rappresentò uno degli aspetti fondamentali della dialettica.
Gli "iura" come sappiamo erano principi e non leggi, tratti sia da editti pretori, che dai rescritti dei
giuristi, solo quelli muniti di "ius respondendi" concesso dall’imperatore, l’idea fu di Augusto, ma
questi giuristi la cui opinione mediante questo conferimento imperiale aveva valenza legislativa,
diedero fastidio a molti imperatori anche moderati come Adriano (117-138 d.C.) e Marco Aurelio
(161-180 d.C.), altri imperatori come Nerone addirittura pensavano di avere un monopolio
normativo, fino ad arrivare a Costantino che confinò i giuristi del "consilium" (ideato da Marco
Aurelio come istituzione stabile), nel concistoro, facendolo diventare una fucina di rescritti
giuridici, per conto dell’imperatore.
Da Costantino in poi la presenza dell’imperatore in fase legislativa, quindi di produzione del diritto,
fu sempre più ingombrante, ma gli "iura" non scomparvero, ma furono per così dire adattati ai tempi
caratterizzati da una grande decadenza culturale, caratteristica suffragata da cronache come quella
raccontata da Ammiano Marcellino che narra di furbi "legulei", che allegavano antiche fonti
dimenticate per prendere in giro i giudici, e trovando la contrapposizione di avvocati molto
impreparati, per tale motivo non stupisce quindi che nell’Occidente particolarmente sensibile agli
"iura", nel 426 d.C. l’imperatore Valentiniano III emanò da Ravenna la famosa legge delle citazioni,
approvata poi da Teodosio II e inserita nel Codice Teodosiano, secondo la quale il parere dei cinque
grandi giuristi: Papiniano, Gaio, Paolo, Ulpiano e Modestino, era vincolante come legge quando
erano tutti concordi, quando erano discordi la maggioranza vinceva, quando erano in parità
prevaleva quello di Papiniano, che era visto come il più grande, insomma una giuria di fantasmi,
inoltre anche altri giuristi potevano essere portati in giudizio, a patto che ci fossero i testi originali, e
fossero stati nominati dai 5 suddetti.
Paragrafo 4
Gli "iura" erano la parte antica del diritto ed erano nati nella Roma antica, giacchè il centro
dell’Impero si era ormai spostato ad Oriente, in particolare a Costantinopoli, e qui il vento d’Oriente
aveva posto l’accento sulle "leges" di fatto togliendo molta importanza agli antichi e Occidentali
"iura", su comando del monarca divenuto onnipotente.
In questo periodo nasce anche la tendenza a codificare, ovvero a raccogliere in codici le leggi nuove
e vecchie, di un certo periodo, di un certo tipo, di un certo personaggio, insomma raccogliere e
conservare queste norme, in quanto il termine codificare può essere inteso come rifare daccapo un
intero ordinamento, cosa che fu effettuata tra il 1700 e il 1800 dagli illuministi, ma nel nostro caso
non significa la stessa cosa, e a tal proposito Viora stabilisce una differenza tra le due chiamando il
lavoro che si è fatto nel periodo di nostro interesse consolidazione, mentre definisce il lavoro fatto
nel XVIII° e XIX° secolo come codificazione, ma noi utilizzeremo il significato dato dagli antichi
al termine codificazione.
Diocleziano (284-305 d.C.), vide sorgere i primi "codici" e normalmente la nascita di codici
coincide con grandi e importanti riforme politico-sociali e avevano carattere non ufficiale, non nel
caso di Diocleziano, in quanto furono voluti dalla cancelleria imperiale, in tal modo la loro autorità
fu indiscutibile dal principio, questi codici dioclezianei erano raccolte di rescritti, di norme da cui
non traspare la nuova immagine del monarca assoluto legislatore, quanto più la vecchia immagine
del vecchio principe nell’esercizio dei suoi poteri giurisdizionali e amministrativi.
Altro codice era quello Gregoriano redatto intorno al 292-293 d.C. in Oriente, forse a Nicomedia
oppure nella celebre scuola di Berito, e conteneva rescritti da Adriano in poi (117-138 d.C.).
Il Codice Ermogeniano, quasi a costituire un supplemento di quello Gregoriano, conteneva i
rescritti di Diocleziano degli anni 293-294 d.C.
Poco meno di un secolo dopo la tendenza a codificare passò in sede ufficiale, con risultati di altro
livello, solo 3 anni dopo l’emanazione della legge delle citazioni (426 d.C.), Teodosio II imperatore
d’Oriente, progettò di costituire un codice come seguito di quelli Gregoriano ed Ermogeniano,
inizialmente volle fare un codice grandioso comprendente le costituzioni imperiali, quelle vigenti e
quelle non più vigenti, a uso della scuola, e uno ad uso della pratica forense, quest’ultimo
comprendente solo le leggi vigenti e un pò di "iura", diciamo una sorta di Codice giustinianeo con
qualche secolo di vantaggio, ma il grande progetto di Teodosio II non andò in porto e dovette
accontentarsi delle sole costituzioni vigenti, valide sia per la scuola che per la pratica forense, gli
"iura" furono completamente tralasciati, in quanto come detto all’Oriente non interessavano, lo
erano molto di più riguardo alle "leges".
Questo Codice Teodosiano quindi fu un ripiego, e fu promulgato il 15 febbraio del 438 d.C., ed
entrò in vigore in entrambe le parti dell’Impero il 1 gennaio 439 d.C. tra cori di acclamazione,
comunque anche se fu un opera di ripiego, fu una grande opera composta da 16 volumi fitti di
costituzioni generali, e inteso come continuazione di quello Gregoriano ed Ermogeniano composti
da rescritti, questo era abbastanza differente, lasciando solo nelle intenzioni la continuità con i
precedenti, fu opera di grande impegno e buona mole.
Un altro segno di grande mutamento fu che la Chiesa affaciatasi sulla scena politica 100 anni prima,
si era ormai impadronita dell’anima dell’Impero, accodandosi alla normativa suddetta.
Paragrafo 6
La tradizione cattolica ci dipinge un Diocleziano a tinte molto fosche, mentre un Costantino pieno
di luce, in quanto liberatore della Chiesa dalle catacombe, e padre del millenario Impero cattolico
bizantino, la critica moderna ha diminuito sensibilmente la luce che la Chiesa e anche le genti
contemporanee gli hanno attribuito, infatti Costantino è visto più come un abilissimo politico,
intento più a sfruttare le credenze religiose per un suo tornaconto personale, più che come fanatico
della religione cattolica, e addirittura fa riflette e pensare che il famoso Editto di Milano emanato
nel febbraio del 313 d.C. non sia mai esistito, perchè un documento così importante è difficile che si
perda nei meandri del tempo, infatti di questo documento abbiamo solo copie e non l’originale, di
questo editto comunque ci rendono notizie Eusebio da Cesarea e l’apologista Lattanzio, il primo
vescovo e grande amico di Costantino, entrambi ci indicano in questo editto, un provvedimento
valido per tutti i culti, e non solo per quello cristiano, anche se bisogna dire che Costantino nella
primavera dello stesso anno restituisce le terre confiscate ai cristiani sia in Africa che in Calabria,
qualcuno vede in questo editto la prima dichiarazione di laicità dello Stato romano, cosa che in vero
non è mai avvenuta.
Nella stessa primavera del 313 d.C. Costantino concede alla Chiesa l’esenzione dai "munera
personalia", indicando come motivazione, la volontà di venire incontro alla Chiesa cattolica in
quanto vessata dalle fazioni eretiche, e qui si nota appunto una dicotomia tra la Chiesa cattolica,
ovvero universale da proteggere, contro le fazioni chiamate eretiche, da reprimere.
Tra il 318 e il 321 d.C. Costantino emanò dei provvedimenti che istituirono nuove situazioni in seno
alla Chiesa, come ad esempio nel 318 d.C. "l’episcopalis audientia", che permetteva alle parti di
sottrarsi al giudizio di un giudice ordinario, per sottoporsi al giudizio vescovile, a patto che
entrambi fossero daccordo, e anche se il processo era già cominciato.
Si è pensato che questa norma fosse stata l’origine del foro ecclesiastico, che fino allo scorso secolo
ha marcato la distinzione tra i poteri temporale e spirituale, ma comunque Costantino non voleva
creare una vera e propria giurisdizione ecclesiastica speciale, e a questo proposito nel 452 d.C.
Valentiniano III insisterà sul previo accordo delle parti per avere questo giudizio, escludendo le
cause penali, riducendo "l’episcopalis audientia" a un semplice arbitrato, che tra l’altro il diritto
romano usava riconoscere in maniera differente ai vari culti.
Giustiniano si orienterà a tale proposito verso una vera e propria forma giurisdizionale, causata
forse dal ripetersi di sconfinamenti, testimoniate da alcune lettere di S. Ambrogio, e l’indulgenza
dell’imperatore ha permesso talune volte che "l’episcopalia audientia" si occupasse anche di cause
penali, atteggiandosi via via a vera forma di giudizio.
La "manumissio in ecclesia" era un altro istituto concesso alla Chiesa dall’imperatore, Costantino
ha dedicato a questo istituto ben 3 costituzioni di cui una compresa nel Codice Teodosiano, e 2 in
quello Giustinianeo, ma si pensa che più che creare un nuovo modo di affrancazione dei servi,
Costantino abbia solo adattato alla Chiesa la più classica "manumissio inter amicos" celebrata dai
pagani durante banchetti e feste private, vi sono infatti molte analogie tra i 2 riti.
Comunque vi erano differenze sostanziali in termini di effetti, infatti Costantino attribuì
all’affrancazione in chiesa un valore solenne, capace di conferire la cittadinanza romana, mentre
quella fra amici conferiva quella latina, che precludeva tutta una serie di istituti al soggetto, quindi
tutti i rapporti con i romani erano per così dire viziati, ad esempio era precluso il "conubium" quindi
il soggetto non poteva sposarsi con un romano/a, era preclusa la capacità di ricevere eredità, sia
quella di disporre dei propri beni "mortis causa".
Naturalmente è facile pensare che la "manumissio inter amicos" sia servita da modello per quella
"in ecclesia", e questo si evince anche da altri istituti che sono stati comparati, come ad esempio il
matrimonio, quello tra amici paragonato a quello in chiesa.
Costantino concesse alle chiese cristiane la capacita di ricevere donazioni e legati, capacità che
verso l’anno 1000 d.C. farà diventare molto ricca la Chiesa, questa fu la porta che darà alla Chiesa
ricchezza e potere, attraverso una storia lunga tutto il Medioevo, basta consultare i documenti per
notare una costellazione di "donationes pro anima", legati a favore della Chiesa, con i quali i
donanti speravano di conquistarsi il paradiso.
Questo privilegio fu dato ai cattolici, e non genericamente ai cristiani, eretici e scismatici infatti era
negata la capacità patrimoniale, mentre agli ebrei era disconosciuto "ab antiquo" il diritto di
ricevere legati.
Paragrafo 7
Costantino fece un tributo al culto solare con l’istituzione della "dies soli", che si trasformò solo in
seguito nella "dies dominica" (domenica) tipico giorno di festa cristiana, culto al quale pareva fosse
stata attribuita dal principio, questa è una prova dell’ambiguità delle convinzioni religiose di
Costantino, ovviamente questa ambiguità era anche frutto della convenienza politica, poichè il culto
solare era molto diffuso in Oriente e anche in Occidente, ed era un culto caro alle importantissime
legioni danubiane, ma pare che piacesse a Costantino, altrimenti non si spiega il motivo per cui
facesse stampare sulle proprie monete il simbolo di questo culto, almeno fino al 325 d.C. e
addirittura verso il 330 d.C. si fece rappresentare in una gigantesca statua posta a Costantinopoli,
con le fattezze e le insegne della divinità solare, per farsi venerare con candele e incenso.
Queste prove fanno vacillare la tesi di Eusebio di Cesarea, secondo il quale Costantino ebbe una
fede cristiana inconcussa già dal principio del suo regno, e risulta strano che un imperatore così
scaltro non abbia considerato l’odio e la ripugnanza dei cristiani verso il culto del sole, che fra
l’altro è stato sponsorizzato dall’imperatore Massimino quando egli stesso stava cercando di
estirpare il cristianesimo dall’Impero.
Costantinopoli nata nel 330 d.C. la nuova Roma destinata a una vita millenaria, ebbe il marchio di
città pagana, questo perchè Costantinopoli nacque con le usanze dettate dal "ius italicus" del popolo
romano, che era intrinsecamente pagano, e lo sarebbe rimasto a lungo, e per tale motivo le
consacrazioni furono fatte con riti pagani, e questo malgrado la cristianizzazione dell’ordinamento.
Costantinopoli ebbe i suoi templi pagani collocati nei punti più eminenti della città, e Costantino
stesso come i suoi predecessori conservarono la dignità e il titolo di "pontifex maximus", a Roma
stessa il Senato era popolato di pagani, che praticavano ancora sacrifici sull’altare della Vittoria fino
a che nel 382 d.C. gli venne drammaticamente sottratto.
Con queste premesse rimane difficile pensare che Costantino abbia partecipato al grande concilio
ecumenico di Nicea del 325 d.C. per motivi prettamente religiosi, questa scelta pare invece sia stata
dettata più dall’interesse dell’imperatore verso le questioni religiose dell’Impero, dal consueto
interesse che esse avevano per l’imperatore.
Paragrafo 8
Cinquant’anni dopo Nicea vi fu un altro concilio questa volta a Costantinopoli (381 d.C.), dove fu
compreso nella "consubstantia" anche lo Spirito Santo, e fu completata la verità di fede odierna, la
trinità.
A Nicea era assente il vescovo di Roma Silvestro, e il principale ispiratore fu il vescovo Osio di
Cordova, Costantino assistì ai lavori dall’alto di una cattedra decorata sfarzosamente, e la sua
autorevole presenza bastò a sollevare i primi quesiti dell’imperatore con il dogma, visto che
comunque l’organizzazione ecclesiastica gli era dipendente.
Fu allora che si parlò per la prima volta di "cesaropapismo", un principio che legittima le
intromissioni dell’imperatore negli affari non solo temporali ma addirittura nelle verità di fede della
Chiesa.
Paragrafo 9
Ad alimentare il fenomeno del "cesaropapismo" ci si mise anche l’arianesimo, che nonostante fosse
stato condannato duramente dalla Chiesa durante il concilio di Nicea, non scomparve ma si diffuse
ancora più vigorosamente, infatti Antiochia stessa, designata quale sede preminente del
cristianesimo (non unica ovviamente), adottò questo culto dal 330 d.C. in poi per circa un
cinquantennio, e popolazioni come i Goti la adottarono come culto ufficiale, questi furono
catechizzati da un vescovo di nome Wulfila che addirittura inventò un alfabeto gotico per poter
tradurre le scritture e diffonderle tra quelle genti, altri barbari divennero ariani, come detto i Goti
della Tracia e della Dacia, i Visigoti della Gallia e dell’Iberia, e gli Ostrogoti d’Italia, e più in
generale tutte quelle popolazioni barbare che entrarono in contatto con questo culto.
Verso la fine della sua vita Costantino stesso abbracciò l’arianesimo, facendosi battezzare in quella
fede dal vescovo di Nicomedia Eusebio, che era il maestro di quel vescovo Wulfila che aveva
diffuso l’arianesimo tra i barbari, e quando Costantino nel 337 d.C. morì eretico, come lo divenne
suo figlio Costanzo II (337-361 d.C.), che credeva a tal punto nell’arianesimo da cercare in tutti i
modi di conferirgli il titolo di "cattolico" ma non vi riuscì.
In questo discorso il cesaropapismo si interseca sia nei confronti della Chiesa cattolica per quanto
riguarda Costantino, e per quanto riguarda la Chiesa ariana nei confronti di Costanzo II, nel primo
caso la definizione o qualifica di Costantino come "episcopus externus" può lasciare qualche dubbio
circa il suo reale significato, vescovo esteriore tradotto dal latino, ma taluni pensano che si riferisse
alla sorveglianza imperiale dei laici, in quanto "episkopus" in greco significa sorvegliante, ma
secondo la Chiesa questa definizione stà semplicemente a significare che l’imperatore si occupava
degli affari temporali della Chiesa "scienze esterne" come le chiama Eusebio da Cesarea biografo di
Costantino, lasciando ai vescovi ecclesiastici la gestione del megistero spirituale, tesi sorretta dalla
Chiesa intera e ufficializzata dal papa Gelasio I circa 150 anni dopo.
Costanzo II nei confronti della Chiesa ariana fu molto più intromissivo, in quanto gli fu assegnato il
titolo di "vescovo dei vescovi", che preludeva a un cesaropapismo molto forte, a tal proposito si
ricordano le battute velenose del vescovo cattolico di Cagliari Lucifero, allorquando Costanzo II
dopo aver tenuto la sinodo ariana a Milano nel 355 d.C., pretese dal papa che rinnegasse il principio
della consubstanzialità per abbracciare la dottrina di Ario, quindi come abbiamo visto con questa
qualifica l’imperatore si intrometteva in modo pesante all’interno del magistero religioso, anche
riguardo a tematiche prettamente spirituali.
La qualifica di "vescovo dei vescovi" scomparve per qualche tempo, per poi successivamente
riapparire ed essere attribuita a Carlo Magno, mentre ci furono anche altre cariche che potevano
indurre a fenomeni di cesaropapismo, come ad esempio "vicario di Dio", ma in questo caso pare che
gli antichi imperatori che furono investiti di questa carica, non ebbero i poteri per interferire nel
magistero spirituale, e ne è prova che questa carica era assegnata dal papa, e nello specifico caso da
Anastasio II che nel 496 d.C. la assegnò al suo omonimo imperatode di Costantinopoli, e poi
stranamente come la precedente la ritroveremo in capo al solito Carlo Magno nel 775 d.C.
assegnatagli da Catulfo.
Paragrafo 10
Teodosio I il Grande, imperatore di sicura fede cristiana cattolica, con il celebre editto di
Tessalonica del 28 febbraio 380 d.C., impose letteralmente a tutti i sudditi dell’impero di diventare
cattolici, indicando anche il nome del papa Damaso di Roma, e il nome del vescovo Pietro di
Alessandria, nonchè menzionò il nome dell’apostolo Pietro.
Questo editto sarà successivamente inserito nei vari codici che saranno redatti in futuro, aprendo tra
l’altro il Codice giustinianeo, e questo perchè fu molto importante elevando di fatto a religione di
Stato il cattolicesimo niceno-apostolico, giuridicamente obbligatoria per tutte le genti dell’Impero.
Nell’editto di Tessalonica come detto sono citate sia Roma che Alessandria come sedi principali
della spiritualità anche grazie al grande prestigio goduto dai titolari delle sedi del tempo, con la
defezione rispetto al concilio di Nicea di Antiochia, esclusa dalla triade spirituale, che fu fuorviata
dall’arianesimo dove per circa 50 anni fu professato, quindi ora le sedi guida erano due, e
cominciava a porsi il problema della contrapposizione tra le due, che volevano la supremazia l’una
sull’altra, a questo punto Roma avanzò delle pretese, che ad Oriente furono rifiutate.
Il concilio di Costantinopoli fu molto importante per vari motivi, intanto fu introdotto lo Spirito
Santo che così insieme al Padre e al Figlio compone la trinità come la conosciamo ancora oggi, in
secondo luogo fu sancita Roma quale sede spirituale maggiore, e al secondo posto Costantinopoli,
ovvero la sede dell’imperatore d’Oriente, considerato come "collega major" di quello occidentale,
che era visto come un "collega minor", che ormai nemmeno più risiedeva a Roma avendo preferito
Milano sin dai tempi di Diocleziano.
Quindi la visione "cesarista" della scala dei poteri ecclesiastici, per come era costume in Oriente,
era stata sancita si in favore di Roma, ma la dignità del patriarca di Costantinopoli era sorretta dal
fatto che era molto vicino al sommo monarca, ovvero l’imperatore che era quello da cui la Chiesa
dipendeva, essendo un’istituzione pubblica.
Questa pace tra le due sedi durò circa 70 anni, dopo di che Costantinopoli rivendicò la sua
preminenza rispetto a Roma, e durante il concilio di Calcedonia del 451 d.C. si stabilì lo stesso
livello di importanza tra le due sedi, defraudando il papa del suo primato.
Paragrafo 11
Roma non era solo un luogo di culto molto importante per il cristianesimo, anche se aveva perduto
la sua esclusività, era anche un luogo dove vi erano ancora gli ultimi focolai del paganesimo, che si
annidava all’interno del Senato, composto da persone colte, che esercitava un certo fascino su
quello nato a Costantinopoli in tempi recenti, per via della sua gloriosa storia.
Proprio all’interno del Senato vi era l’altare della Vittoria, un altare pagano, che ricordava tutti gli
sfarzi e la forza della Roma antica, e verso il quale molti senatori erano fedeli.
Questo in una città che voleva ergersi a capitale del cristianesimo non era più tollerabile, soprattutto
dopo l’editto di Tessalonica del 380 d.C. che aveva sancito il cristianesimo cattolico come religione
di Stato, in maniera obbligatoria e vincolante per tutto l’Impero, e fu proprio il collega di Teodosio
il Grande (colui che emanò l’editto di Tessalonica), Graziano, a far rimuovere dal Senato l’altare
della Vittoria nel 382 d.C. sotto forti pressioni di Ambrogio vescovo di Milano, ovviamente non
mancarono resistenze senatorie, e addirittura nel 383 d.C. Graziano fu assassinato, e il suo
successore Valentiniano II subì fortissime pressioni senatorie per ripristinare il monumento, e se non
fosse stato per l’opera del solito Ambrogio, che attraverso una polemica pluriennale con Quinto
Aurelio Simmaco, senatore e prefetto di Roma, ovviamante pagano, Valentiniano II avrebbe anche
riposizionato l’ara della Vittoria nel Senato.
Ma questo evento ebbe anche altre conseguenze come la guerra che vide come teatro il fiume
Frigido, vicino Aquileia, dove nel 394 d.C. Teodosio sconfisse fortunosamente l’usurpatore
Eugenio, che era spinto dalla volontà di ripristinare il monumento all’interno del Senato, e questo fu
l’ultimo rigurgito di paganesimo a Roma, anche se l’altare della Vittoria non fu mai dimenticato e
circa 30 anni dopo quando Alarico, re dei Visigoti saccheggiò Roma (410 d.C.), era la prima volta
che accadeva nella storia che Roma venisse saccheggiata, molti pensarono che fu la vendetta degli
dei per il sacrilegio compiuto in Senato dagli imperatori.
Paragrafo 12
Ambrogio vescovo di Milano ebbe un ruolo molto importante per la Chiesa, e la sua forte
personalità fu uno strumento con il quale riuscì ad ottenere cose di grande rilievo, in primis riuscì a
costringere Graziano e Valentiniano II ad interrompere i loro rapporti con l’aristocrazia senatoria
paganeggiante, che albergava a Roma, ottenne da Graziano come detto la rimozione dell’altare
pagano sito nel Senato, e la rinuncia al titolo di "pontifex maximus", non contento ottenne da
Teodosio una umiliante e inaudita penitenza pubblica, che ledeva in modo pesante la maestà
imperiale, tanto che S. Agostino scrisse che la popolazione si mise a piangere, penitenza derivata da
un gravissimo fatto avvenuto nel 390 d.C. allorquando a Tessalonica durante un tumulto morì il
capo del presidio militare, e Teodosio per punizione aveva lasciato uccidere migliaia di cittadini.
Ambrogio per riammettere all’eucarestia nell’occasione del Natale Teodosio, lo costrinse privo
delle insegne imperieli, a pentirsi e chiedere pubblicamente perdono in chiesa, era la prima volta
che il più grande dei sovrani si sottometteva alla Chiesa "in spiritualibus".
Ambrogio dopo questo evento non ebbe alcuna difficoltà a subordinare l’Impero alla Chiesa, con la
celeberrima citazione "Imperator enim intra ecclesiam non supra ecclesiam est", anche se è noto che
Ambrogio teneva molto alla grandezza di Roma, poichè si credeva che con la sua rovina sarebbe
arrivato l’Anticristo, questa affermaziione risulta quantomeno ardita raffrontata alle fonti patristiche
coeve, e soprattutto se raffrontata con quella di qualche anno prima del vescovo di Milevi
(nell’attuale Algeria) Ottato, con la quale dichiarava che non era lo Stato dentro la Chiesa ma era il
contrario, ovvero la Chiesa era dentro l’Impero, questo provocò una diatriba interna alla Chiesa
stessa, come due partiti politici quando litigano.
Leggendo bene entrambe le dichiarazioni si evince che dicono le medesime cose, Ambrogio
sicuramente con toni più accesi, indica nell’individuo dell’imperatore che in qualità di cristiano è
tenuto ad obbedire sia ai vescovi che al papa, mentre Ottato indica la struttura ecclesiastica
incastonata all’interno dell’Impero come un’istituzione pubblica, quale era e tutti i cristiani cattolici
lo sapevano bene.
Paragrafo 13
Entrambi i vescovi quindi anche se con toni differenti dicono le medesime cose, e si attengono alle
conclusioni tratte nel lontano concilio di Nicea, dove erano stati stabiliti i medesimi principi, che
verranno per così dire stabilizzati, da papa Gelasio I con un documento che darà un corpo definitivo
a questa formula, che verrà inserito in tutte le collezioni normative canoniche.
Il pontificato di Gelasio I durò solo 4 anni (492-496 d.C.) ma riuscì comunque a lasciare un
impronta indelebile nella Chiesa, egli nacque a Roma da famiglia africana, e difese gli interessi
della Chiesa in modo concreto, soprattutto sui punti più discussi, come la supremazia del papa, e
l’intromissione imperiale nelle questioni di fede, il cesaropapismo come abbiamo già visto.
La supremazia del papa come abbiamo visto era un tema caro a Gelasio I, e riguardo ad esso è
indubbio che il concilio di Calcedonia del 451 d.C. lo mettesse in pericolo, in quanto poneva sullo
stesso piano la sede di Roma e quella di Costantinopoli, sia per quanto riguardava la dignità che i
privilegi, queste parificazioni erano state giustificate dal fatto che anche la Chiesa di Costantinopoli
era vicina ad un imperatore e ad un Senato, al pari di Roma, e questa idea in Oriente era abbastanza
diffusa, il che portò l’imperatore Leone I a celebrare la Chiesa costantinopolita, quale madre
perpetua della religione e della fede, mentre a Roma veniva girato il problema politico e quindi
contingente a quello teologico stabile e perenne, e si derivava il primato del pontefice, attribuito
dalla scelta di Cristo nell’indicare Pietro come suo successore, derivazione supportata dall’autorità
di padri della Chiesa come S. Agostino, e ripreso da imperatori come Graziano in un rescritto
contenuto in una novella, destinato a Teodosio II.
Fu fra l’altro lo stesso principio che riprese Gelasio I, e lo si nota nel "Decretum Gelasianum", che
non è sicuro sia stato scritto dal papa Gelasio I, ma di sicuro ne rifletteva le idee e quelle della sua
cerchia.
Il secondo punto anch’esso molto caro a papa Gelasio I era il dualismo delle dignità e della
divisione delle competenze, tra i poteri spirituale e temporale, costituenti la dottrina della Chiesa, il
papa l’ha formulato nel "De anathematis vinculo", e anche in una famosa lettera scritta
all’imperatore, quest’ultima è stata scelta come testimonianza principe del suo pensiero, in quanto è
stata scritta con molta vivacità, e calata nel clima di ardenti problemi concreti.
Si pensa che questa lettera risalga al gennaio del 494 d.C. e allora l’imperatore era Anastasio (491-
518 d.C.), in quel periodo gli imperatori erano molto interessati alle vicende teologiche della
Chiesa, tant’è che un predecessore di Anastasio, Zenone aveva imposto per legge una sua dottrina
che era un compromesso tra quella monofista e quella diofista che era in vigore anche al tempo di
Gelasio I, ma tornando ad Anastasio si deve dire che all’epoca del suo regno, vi era un’altra dottrina
quella eutichiana, condannata dal concilio di Calcedonia, e che assegnava a Cristo la sola natura
divina, negandogli quella umana, ovviamente questo andava in contrasto con la Chiesa, e il
patriarca di questa nuova corrente religiosa Eufemio, si contrapponeva in modo pesante alla Chiesa,
avvicinandosi pericolosamente allo scisma, ed era anche appoggiato dall’imperatore, cui risultava
simpatico, e come detto erano tempi in cui era normale il cesaropapismo, per cui il papa prese
posizione e ammonì Anastasio, e questa lettera fu il mezzo attraverso il quale egli voleva
costringere l’imperatore a ritornare sui suoi passe, ed avere il suo aiuto per riunificare la Chiesa
sotto il segno cattolico romano.
L’introduzione era umile, chiedendo di non ravvisare arroganza nell’espletamento di un ufficio
spirituale al servizio di Dio, nè di giudicare offensiva l’esposizione della verità.
Quindi alzando i toni il papa pose l’accento sul fatto che per quanto riguardava le questioni
temporali, il sacerdote doveva seguire le indicazioni dell’imperatore, mentre per le questioni
spirituali era l’imperatore a dover seguire le direttive del sacerdote, su questo concetto per tutto il
Medioevo si cercherà di mettere l’accento sull’esigenza che i due poteri si armonizzino e si tengano
uniti, prendendo come termine di paragone il corpo umano che necessita di corpo e anima, come
condizione necessaria della vita, ovviamente questo discorso non è relativo al periodo di Gelasio I,
che si adoperò per arginare l’emergenza cesaropapista.
Gli storici si sono sorpresi dei termini utilizzati da Gelasio I nella lettera spedita all’imperatore
Anastasio, utilizzò infatti il termine "auctoritas" riferito al potere papale, e "potestas" riferito al
potere imperiale, i più maliziosi hanno interpretato questi termini come un modo per indicare il
potere papale, maggiore di quello imperiale, ma i tempi per un discorso di questo genere non erano
maturi, quindi non pare giusta questa interpretazione, mentre sembra più probabile che il papa con
l’utilizzo del termine "actoritas" relativo al suo potere, voleva indicare un potere astratto e garante
di legittimità, appunto com’era il potere spirituale del papa, mentre con il termine "potestas"
relativo al potere imperiale voleva riferirsi a un potere fonte di obbligatorietà di comportamenti
esterni, che si adattava al potere secolare dell’imperatore.
Altro termine sotto esame utilizzato in questa lettera fu "regalis" riferito alla "potestas"
dell’imperatore, invece del termine "imperialis", ma anche questo concetto appare di semplice
soluzione, infatti si riferifa alla regalità biblica che era tipica di un sacerdote, e questa allusione alla
Bibbia la si ritrova anche in altri scritti del papa Gelasio I, dove per esempio fa riferimento alla
regalità di Cristo che è stato l’unico e dopo di lui nessuno, ad unire sacerdozio e regalità in una
persona sola, e fu lui stesso a ordinare che queste rimanessero separate.
Paragrafo 14
Gelasio I rivendicando il primato papale e chiarendo in modo definitivo i rapporti con l’imperatore,
ci dicono che la Chiesa in quel tempo di precisazione della propria fisionomia, aveva bisogno e
ricercava un suo ordinamento giuridico interno, con cui potersi tutelare, e per tale motivo richiedeva
la redazione di norme, e l’Impero gli forniva queste norme, anche se la Chiesa stessa poteva
autoregolamentarsi auto emanandosi norme, questo poteva avvenire nei concili, ma questi nel
tempo produssero molti dogmi, e normalmente li utilizzavano per combattere le eresie, e quindi
erano una sede dove venivano emanate poche norme giuridiche.
Inoltre i contrasti tra il Papa d’Occidente e quello d’Oriente, infatti quello d’Occidente che
rivendicava la sua supremazia quale erede di Pietro, era duramente contestato in Oriente, e la sua
potestà legislativa universale fu rifiutata, tant’è che le norme che emanava erano valide solo in
Occidente, con la conseguenza che si crearono due distinti tronconi della Chiesa uno facente capo a
Roma uno a Costantinopoli.
Il potere normativo pontificio iniziò a manifestarsi verso il IV secolo d.C. all’inizio mediante
lettere, poi piano piano i pontefici emanarono alcuni "decreta generalia" di antica origine, e poi si
spinsero a emanare "decreta" poi chiamati "epistolae decretalis" e infine "decretales", erano rescritti
con cui il papa dava dei pareri su fatti concreti, divennero la controfigura dei rescritti imperiali,
nell’esercizio di un potere giurisdizionale e amministrativo.
Nel periodo di Gelasio I e subito successivo fu un fiorire di collezioni canoniche occidentali,
compresi i decretali pontifici, il che era una peculiarità che distinse queste raccolte, da quelle
antiche e da quelle bizantine.
Videro la luce anche sillogi canoniche di origine africana od orientale, ma erano opere a carattere
locale, come il caso del Codex di Cartagine nel 419 d.C., l’unica redazione generale di una certa
importanza furono i "Canoni degli Apostoli" redatti in Siria tra il IV e il V secolo d.C. comprendenti
regole conciliari sul culto, sull’ordinamento sacerdotale e sulla vita dei vescovi e dei chierici.
Tra il V e VI secolo d.C. a Roma esclusa qualche eccezione, furono redatte tantissime collezioni, tra
cui le più importanti furono:
Collezione Frisinga, contenente decretali cominciando con quelli di papa Damaso per concludere
con quelli di papa Gelasio.
Altre tre collezioni riconducibili agli anni di papa Ormisda (514-528 d.C.).
La più importante è sicuramente la Collezione Dionisiana, scritta dal monaco Dionisi che si definì il
piccolo in segno di umiltà, proveniva dalla Scozia, e giunse a Roma poco tempo dopo la morte di
papa Gelasio, era un uomo molto istruito tanto che dobbiamo a lui il conteggio degli anni che
ancora oggi è in vigore, anche se in quell’occasione fece un errore posticipando la nascita di Gesù
di 4 anni, ma ritornando alla Collezione Dionisiana dobbiamo dire che egli decise di redigerla
quando si ritrovò in mano una versione latina di canoni orientale, che lo disgustò per il disordine.
La Collezione Dionisiana era composta da 38 decretali, che spaziavano dall’epoca di papa Siricio
fino ad arrivare al successore di papa Gelasio, Anastasio II, questa collezione soppiantò presto
quella precedente, tanto da diventare il codice ufficioso della Chiesa di Roma, e quando nel 774
d.C. Carlo Magno arrivò a Roma dopo avere sconfitto definitivamente i Longobardi, ne ricevette
una copia da parte di papa Adriano I, con la richiesta di farla rispettare nel suo regno, anche se dopo
250 anni dalla sua pubblicazione, il suo continuativo utilizzo aveva creato molte aggiunte e
modifiche, tant’è che anche il nome Dionisiana era ormai inadeguato, oggi si preferisce chiamarla
Dionisio-Adriana.
Capitolo II
Paragrafo 1
Si pensa che le invasioni barbariche siano state un elemento determinante per la caduta dell’Impero
romano, ma solo di rado esse furono campagne militari bene organizzate al fine di conquistare
territori su cui stabilirsi e strapparli di conseguenza alla sovranità romana.
Spesso i barbari miravano a stazionare temporaneamente in territori fertili, ma nella maggioranza
dei casi erano scorrerie al fine di saccheggiare e razziare tutto ciò che potevano.
La parte peggiore delle invasioni barbariche si ebbe quando erano ormai già stabiliti all’interno
dell’impero, e venivano arruolati a scopi militari, attraverso gli accordi che si stipulavano a
Bisanzio, e il loro ingaggio pareva un’ottima idea in quanto era un modo per eliminare una possibile
minaccia, e nel contempo sopperire alla scarsità delle legioni, utilizzando la loro forza militare sotto
il vessillo dell’impero, ma talvolta divenivano nemici dell’imperatore poichè quest’ultimo o non li
pagava, o comunque non adempiva a qualche obbligo nei loro confronti, o ancora non mostrava
gratitudine per il loro lavoro, e in questi casi i barbari si ribellavano e potevano anche acquistare il
potere, creando dei veri e propri regni all’interno dell’Impero.
Oppure capitava che gli imperatori subissero una tirannide da parte dei barbari, tant’è che in questi
casi era facile che si creassero i regni barbarici all’interno dell’impero, comunque in ogni caso i
barbari non erano nemici dell’impero ma degli imperatori, e spesso e volentieri sono rimasti
affascinati dalla romanità.
Paragrafo 2
Con il sacco di Roma del 410 d.C. compiuto da Alarico re dei Visigoti, si ebbe l’inizio dei regni
romano barbarici, infatti dopo quell’episodio, a Tolosa in Gallia, e poi a Toledo in Iberia, a seguito
della sconfitta subita dai Visigoti ad opera dei Franchi, fu impiantata la capitale del regno dei
Visigoti, il maggiore dei primi regni romano barbarici.
Alarico era un generale federato dell’impero, "foedera" per la verità ne aveva conclusi e rotti molti,
fino ad arrivare alla vera creazione del regno visigoto, del quale divenne rex, termine latino ma con
il significato barbarico, e nella fattispecie gotico "reiks", il rex con il tempo arrivò ad avere il
significato che ebbe nel mondo romano, ovvero quello di capo politico e militare, ovviamente posto
a capo con la benedizione dei maggiorenti, che lo eleggevano per le sue qualità carismatiche e
politico-militari capo di un popolo intero.
Alarico era stato "dux" sotto bandiere romane, nella guarnigione della Pannonia e della Mesia,
regioni dei Balcani, a seguito di vicende tumultuose venne nominato "magister militum"
dell’Illirico, dall’imperatore d’Oriente Arcadio (395-408 d.C.), insomma Alarico da generale
dell’Impero d’Oriente scese in Italia, alternando guerre e tregue con l’imperatore d’Occidente, fino
a quando sconfisse Stilicone generale d’Occidente, barbaro come lui, entrambi di stirpe "patritius",
e sconfiggendo Stilicone si fece strada nella penisola italica.
Nel giugno del 410 d.C., l’anno del saccheggio l’imperatore d’Occidente Onorio e Alarico si
incontrarono a Ravenna, per cercare una soluzione diplomatica alla questione dei Goti, l’imperatore
propose ad Alarico uno stanziamento in Spagna qualora fossero riusciti a cacciare i Vandali, e
Alarico accettò e si incamminò immediatamente alla volta della Spagna, ma arrivato alle pendii
delle alpi, Alarico subì un attacco alle spalle da un piccolo esercito romano, la leggenda narra
capeggiato da Stilicone, notizia falsa in quanto egli fu coinvolto e ucciso 2 anni prima in una delle
solite oscure congiure di palazzo, per questo si pensa che fu Saro il goto a inseguire e attaccare alle
spalle Alarico, del quale era nemico personale e sicuramente aizzato dall’imperatore.
Alarico furibondo sconfisse lo sparuto esercito romano, e scese fino a Roma, dove entrò il 24 agosto
410 d.C. e la saccheggiò per 3 giorni consecutivi, era la prima volta che questo nella storia di Roma
avveniva, mai nessuno infatti prima di allora era stato capace di saccheggiarla, comunque questo
atto di Alarico fu dovuto più che altro all’odio verso l’imperatore, e dallo spirito di vendetta verso di
lui dopo il tradimento, ma vi era un odio proprio verso l’isitutuzione imperiale, suggerita anche
dalla cornice politico-giuridica dei fatti.
Quindi Alarico odiava l’imperatore e non Roma, la quale non venne incendiata interamente come si
usava fare con le città saccheggiate, ed evitò che fossero molestati i luoghi sacri della città, diciamo
una forma di rispetto verso Roma, ma non verso il suo imperatore.
Prima del saccheggio Alarico si occupò di far deporre Onorio, e al suo posto fu scelto Attalo il quale
era l’ex prefetto urbi che si adoperò per riappacificare Goti e Romani, scelta che fu fatta legittimare
dal Senato, e per questo sia il Senato che il principe erano titolari dell’"auctoritas", il sacceggio
servì anche per trasformare il principe in un monarca legittimo e assoluto.
Attalo nominò lo stesso Alarico "magister militum", e suo cognato Ataulfo come "magister
equitum", in modo tale che al momento del saccheggio, essi potevano esibire una valida qualifica di
generali dell’Impero, ovvero una copertura fittizia dell’emblema che di fatto calpestavano, far
sembrare il saccheggio una spedizione punitiva per i fatti delle alpi insomma, dandogli una
parvenza di legalità.
Nello stesso anno dopo il saccheggio Alarico si incamminò con il suo esercito verso l’Africa, ma
morì poco dopo, in autunno quando giunsero in Calabria, dove poi venne sepolto nell’alveo del
fiume Busento, con cerimonia commovente e partecipata.
Suo successore fu Ataulfo il quale nel 412 d.C. condusse i Visigoti in Gallia, dove combattè
nuovamente da federato dell’Impero, e dell’imperatore Onorio contro l’usurpatore Giovino.
Nel 414 d.C. Ataulfo sposò a Narbona, in casa di un notabile romano, Galla Placidia, figlia di
Teodosio II il Grande, e sorella di Onorio (tenuto in ostaggio), e siccome lei aveva grande influenza
verso il visigoto, accrescendo sicuramente lo spirito filoromano di Ataulfo, il quale venne
assassinato nel 415 d.C.
Una storia dell’epoca narra di un Ataulfo che aveva idea di sostituire l’Impero romano con un
impero Goto, questo probabilmente ne inficia le intenzioni filoromane tenute negli ultimi anni della
sua vita, comunque questo progetto di Ataulfo non fu mai attuato in quanto i Goti essendo un
popolo incline alla barbarie, non erano capaci di redigere leggi scritte e farle rispettare, per questo
motivo si decise di mantenere l’Impero romano e raccogliere allori in suo nome.
Questo episodio testimonia senza alcun dubbio il fascino esercitato dalla romanità sui barbari.
Paragrafo 3
Il fascino che la romanità esercitava sui barbari era davvero tangibile, per esempio ogni re visigoto
fino a Reccesvindo utilizzò il nome di Flavius, nome che evocava appartenenza fittizia con la
famiglia imperiale, era un omaggio a Costantino, fondatore del trono di Costantinopoli, e massimo
esponente dei Flavii, stirpe iniziata da suo padre Costanzo Cloro.
All’epoca era una cosa normale richiamare mediante questi nomi, fantomatiche parentele con la
famiglia imperiale, tant’è che si usava raffigurare persino gli alti funzionari come il padre o il
fratello dell’imperatore.
Il prenome Flavius fu portato anche da importanti generali dell’impero come Ezio, Stilicone,
Ricimero, che avevano grande potere, ed erano stati insigniti anche del prestigioso titolo di patritii,
altro titolo risalente a Costantino, il quale lo aveva istituito per decorarne prestigiose cariche
sopratutto militari, per questo motivo non deve sorprendere il fatto che molti generali barbari ne
erano provvisti, ed era sempre un segno di appartenenza alla famiglia imperiale.
I barbari erano molto avidi di questo titolo, era l’equivalente latino della qualifica militare
germanica di rex, e ovviamente i re barbari mediante questi titoli erano dei patrizi, che stabilivano
un rapporto fittizio di parentela con l’imperatore, e in questo contesto dobbiamo considerare quale
importanza ebbe il diritto romano nella formazione dei primi ordinamenti giuridici barbari.
Paragrafo 4
Una compilazione normativa barbarica fu la Lex Romana Wisigothorum, fatta redigere nel 506 d.C.
da Alarico II, chiamata anche Breviarum Alaricianum, ed era una ricca raccolta di fonti normative
romane vigenti, non parafrasate come nei compendi, ma bensì nel loro testo originale, la prima
sezione era composta da leges, facenti parte circa un ottavo del Codice Teodosiano, alcune leges di
Valentiniano III collega d’Occidente di Teodosio il Grande, e dei suoi successori, inoltre vi era una
seconda sezione composta da iura, e in questa sezione vi era la parte integrale delle Pauli sententiae
e del Liber Gai, con alcuni frammenti di Papiniano, e qualche rescritto preso dal Codice Gregoriano
ed Ermogeniano, nonostante fossero barbari sorprende come gli avessero defini iura in modo
corretto e non leges come invece li trattò Teodosio.
Si dice che il re avesse preso la decisione di far redigere questo codice perchè, nonostante fosse
ariano, voleva ingraziarsi sia i vescovi che la popolazione cattolica tutta, desiderosa di una
semplificazione dell’ordinamento, inoltre era alle porte lo scontro con i Franchi di Clodoveo e
quindi voleva massima fedeltà e conseso tra i suoi sudditi, scontro che poi avvenne l’anno
successivo, ovvero nel 507 d.C. e vide i Visigoti di Alarico II soccombere sotto i colpi dei Franchi, e
per questo dovettero varcare i Pirenei e rifugiarsi in Iberia, odierna Spagna, la sede del regno
visigoto da Tolosa divenne Toledo, dopo circa 50 anni.
La Lex Romana Wisigothorum venne a sovrapporsi alla già esistente Lex Visigothorum, nota anche
come Liber iudiciorum e come Forum iudiciale, codice che aveva il primo nucleo risalente al re
Eurico (466-485 d.C.), si pensa che sia apparso per la prima volta nel 476 d.C. ovvero il famoso
anno della caduta dell’Impero romano d’Occidente, oggi dopo molti studi si nega a Eurico di aver
fatto questo codice, anche se ovviamente in quanto re egli legiferava, si pensa che questo codice
come quello successivo sia stato fatto redigere da Alarico II, il quale se fosse vero sarebbe stato
capace di una grande opera di riordinamento dell’intero sistema di leggi visigoto.
Fino a quando il re Chindasvindo (642-653 d.C.) proibì l’applicazione del Breviario Alariciano, nel
regno visigoto ci furono due leggi e questo durò per circa un secolo e mezzo, nel quale stettero nel
regno iberico.
Questi due ordinamenti differenti quindi rimasero entrambi in vigore, e vigendo il principio di
personalità della legge, che prese molta importanza in seguito con l’età carolingia, si può dire che i
romani utilizzassero la Lex Romana Wisigotorhotum e i Goti invece la Lex Visigothorum, qualcosa
comunque non è chiara riguardo il principio di personalità della legge, che venne utilizzato da Carlo
Magno nel Sacro romano impero, rendendo di fatto legge le tradizioni ancestrali di tutte le
popolazioni assoggettate, di cui essi erano gelosi, in questo senso nella Lex Visigothorum non vi si
trovano leggi germaniche, ma venne definito un "monumento di diritto romano volgare", non si può
certo negare una germanizzazione del testo via via che il tempo passava, ma osservando le norme
che conteneva si rinvengono norme sugli ebrei, sugli eretici, sul commercio, sui commercianti, sugli
ecclesiastici e sui loro beni, sul diritto d’asilo nelle chiese, sui consorti che dovevano essere di
entrambe le etnie, dato che si trattava delle ripartizione delle terre al momento dell’insediamento,
quindi erano sia Romani che Goti, mentre per quanto riguard la Lex Romana Wisigothorum, essa
serviva più che altro a risolvere tutte le contestazioni, senza riscontrare alcun uso esclusivo da parte
dei Romani, quindi erano entrambe raccolte di leggi a contenuto romano, ed erano forse a carattere
territoriale, e avevano valenza nei medesimi confini.
Questo ha una spiegazione storica, infatti i re visigoti attuando il principio della personalità della
legge, non avrebbero fatto altro che separare i due ceppi etnici, dando ad ognuno di essi un diritto
proprio, mentre loro non volevano questo ma perseguivano una vita giuridica unificata per entrambe
le etnie, infatti in questo senso possiamo dire che i Goti non avendo mai avuto legge scritta prima di
Eurico, ricordiamo a tal proposito lo scetticiscmo di Ataulfo erede di Alarico che saccheggiò Roma
nel 410 d.C., erano abbastanza rozzi mentalmente quindi per iniziare a servirsi di leggi scritte
serviva loro un codice semplice come era del resto il primo scritto, ovvero la Lex Visigothorum, che
poteva essere usato anche dai romani per i negozi con i barbari, ma era un codice troppo semplice
per le menti raffinate dei romani per i quali fu redatta la Lex Romana Wisigothorum, che era
principalmente per i romani ma poteva essere usato anche dai Goti più esperti di diritto, in quanto si
avvicinava come complessità alla legge per definizione, ovvero la compilazione giustinianea, quella
dell’Impero per antonomasia.
Quindi minima applicazione del principio della personalità della legge, e avvicinamento della vita
giuridica dei Romani e dei Goti.
Paragrafo 5
Possiamo immaginare che la Lex Romana Wisigothorum fosse valida in tutto il regno dei Goti,
quindi aveva valenza territoriale, ma siccome era di complicata applicazione per i Goti stessi la
versione ridotta era più utilizzata, e i Romani che potevano ricorrere alla legge visigota
romanizzata, perchè dovevano usare il codice più complesso? in questo senso il D’Ors propose che
il Breviario Alariciano fosse utilizzato solo a scopi didattici per la formazione del giurista, ma
questa fu la realtà solo con Reccesvindo, che nel 654 vietò l’utilizzo della Lex Romana
Wisigothorum, in questo senso occorre ricordare come governassero i barbari all’epoca, non
mettendo mai da parte la romanità dell’Impero, e includendo anche la Chiesa che mediante i suoi
fedeli diffondeva il diritto romano nell’Impero, di questo essa ne era la faccia spirituale, ma
perpetrava anche il suo potere temporale, dandoli l’universalità che i barbari cercavano.
La Lex mundialis, ovvero la legge universale chiesta dai padri del concilio di Siviglia, con la
presenza del solito Isidoro, era stata invocata ed indentificata come il Breviario Alariciano, questo
avvenne nel 619 d.C., riapparve nel 775 d.C. in una lettera del monaco Catulfo a Carlo Magno,
chiamata questa volta Lex totius mundi, e in seguito anche Benedetto Levita farà una
proclamazione di questo tipo, comunque di fatto il diritto romano svolgeva il compito di diritto
comune a tutte le etnie, in rapporto ai diritti provinciali, era la strada che aveva intrapreso sin dagli
inizi dell’Impero e che andava a concludersi nel tardo Medioevo.
Paragrafo 6
Altro popolo barbaro che si scontrò con i Romani furono i Burgundi, essi attraversarono il Reno,
entrarono in Gallia con propositi feroci e da nemici di Roma, ma nel 437 il generale Ezio con
l’aiuto di Attila re degli Unni li sconfisse, fu una sconfitta memorabile che fece da spunto per opere
letterarie del calibro della Saga dei Nibelunghi.
Ezio stanziò il popolo vinto nella Supaudia, sotto il lago Lemano e ne fece milites foederati, grazie
anche al loro re Gundobado il processo di romanizzazione fu molto veloce.
Il nonno di Gundobado, Ricimero, fu un magister militium e un patritius, per 15 anni governò gran
parte dell’Occidente, mise sul trono Maiorano e Libio Severo, che poi destituì e uccise, alla sua
morte, Gundobardo privato della corona dai fratelli si rifugiò in Italia, ma aveva ereditato dignità e
potere dal nonno e divenne patritius, era un generalissimo di stirpe barbarica dell’Impero, e la fece
da padrone anche lui mettendo sul trono Glicerio, per un solo anno però, era una persona di sua
fiducia, dopodiche decise di tornare a fare il re dei Burgundi, e per tutto il suo lungo regno fino alla
sua morte nel 516 d.C. fu devoto all’imperatore, e trasmise questo sentimento ai suoi successori,
tant’è che Sigismondo penultimo re burgundo scrisse ad Anastasio imperatore d’Oriente
un’attestazione di ciò.
In questa atmosfera nacque la legislazione burgunda, anch’essa era duplice e dovuta tutta a
Gundobado, da qui si evince che fare due ordinamenti, come i Visigoti, era una precisa linea
politica.
Verso la fine del V secolo d.C. fu emanata la Lex burgundionum, era più rozza di quella visigotica,
fu intitolata Liber constitutionum, ma fu chiamata più modestamente Lex Gundobada, ebbe una vita
lunga, e restò in vigore anche dopo il 534 d.C. data di annessione della Borgogna al regno franco, fu
influenzata da Eurico, e il suo aspetto romano-volgare era attutito da punte di germanesimo, come
la propensione a pene pecuniarie, i destinatari di questa compilazione, vi erano norme riferite solo
ai Burgundi altre a Burgundi e Romani, come le sortes, ovvero la spartizione delle terre, fatte alla
maniera dei Visigoti, ovvero due terzi ai barbari e un terzo ai vecchi proprietari.
Gundobado enuncia inoltre l’intenzione politico giuridica, infatti i giudici per risolvere controversie
tra Burgundi e Romani dovevano usare il codicetto.
Era un codice scritto in maniera semplice tale da permettere l’ingresso, in un sistema di norme
scritte, a un popolo che non le aveva mai avute, e permetteva la risoluzione di controversie con
diverse etnie come soggetti giuridici, non era dall’applicazione strettamente personale.
In seguito apparve la Lex Romana Burgundiorum composta da 180 capitoletti, tratti più o meno dai
medesimi della Lex Romana Wisigothorum, ma pare essere precedente a quest’ultima perchè non
ne sembra influenzata, infatti in questo testo le fonti sono parafrasate e non originali come in quello
visigoto, molti manoscritti di quest’opera sono posti a seguito del Breviario Alariciano, per tale
motivo si pensa che sia risultata insufficiente e per la sua consultazione era necessario avere anche
l’altra compilazione, quindi i Burgundi attingevano dalla raccolta infinitamente migliore di Alarico
II, inoltre certi passi della legge romano-burgunda sembravano scritti da Papiniano, infatti si
trovavano frammenti delle sue opere in molti punti della compilazione burgunda, tant’è che venne
soprannominata Papianus, storpiando il nome del grande giurista, pratica che era comune in età
post-classica anche all’interno di fonti bizantine.
Paragrafo 7
I Franchi al contrario di Visigoti e Burgundi non ebbero due legislazioni distinte, agli albori del VI
secolo d.C. divennero i padroni della Gallia, erano un popolo romanizzato cattolicissimo e avevano
una prassi cancelleresca e notarile, il loro re era Clodoveo (481-511 d.C.) e sembra che proprio
durante il suo regno entrò in vigore il Pactus legis Salicae, era una piccola raccolta di norme
germaniche, emanate dopo la consultazione con i maggiorenti e il popolo Franco, era una raccolta
di norme che in linea di massima prevedevano una pena pecuniaria.
Il sistema di istituire pene pecuniarie per risolvere i procedimenti penali, era di tipico stampo
germanico, ed era stato pensato per evitare faide interne allo Stato ed evitare così guerre civili, era
un flagello sociale temutissimo che avrebbe potuto distruggere lo Stato stesso.
Anche se il sistema da loro adottato non era più equo anzi, i maggiorenti potevano spuntare delle
somme molto alte o concedere dei risarcimenti irrisori ai più poveri, per evitare queste disparità si
fissò una tabella di valori, un tariffario penale prestabilito per legge, consueti per i giovani regni
barbarici.
In questo sfondo d’oltralpe diviso tra Visigoti, Burgundi e Franchi, c’era l’Italia che avrà una storia
drammatica e movimentata.
Paragrafo 8
Data famosa il 476 d.C., ovvero quando scompare l’Impero d’Occidente, l’anno prima nei palazzi
del potere dei due imperi si svolsero molti accadimenti, ad Oriente Zenone salito al trono da pochi
mesi venne spodestato dal cognato Basilisco, in Occidente invece Giulio Nepote salito al trono nel
474 d.C. l’anno seguente fu spodestato da Oreste, patrizio e potente generale, già segretario di Attila
in Pannonia, che mise al suo posto il giovane Romolo, il figlioletto chiamato col diminutivo
Augustolo, e nel 476 d.C. ci furono altri colpi di scena con protagonista Odoacre, membro della
famiglia reale scira, popolazione stanziata a sud dei Carpazi, figlio di un autorevole personaggio
della corte di Attila, cresciuto all’interno dell’impero unno, Odoacre servì presto Roma, diventando
comandante delle guardie imperiali, nell’agosto di quell’anno divenne re e fu chiamato da Oreste il
quale gli ordinò di andare contro i Visigoti, Odoacre non era dello stesso avviso e chiese uno
stanziamento in Italia con relativa concessione di un terzo dei territori della penisola, voleva
concludere un foedera riservato ai federati, secondo i canoni della nuova hospitalitas militare.
Oreste si oppose e fu ucciso, il giovane Romolo invece siccome era un bel ragazzino venne relegato
nella villa di Baia vicino Napoli, era strano che deposto un imperatore non se ne facesse un’altro,
questa era la fine di Roma e di quel glorioso impero dirato 1300 anni, anche se c’è da dire che una
parvenza di imperatore ancora vi era ed era Giulio Nepote deposto da Oreste anche se non si faceva
vivo e morì nel 480 d.C., inoltre i contemporanei non diedero molto risalto all’accaduto e solo dopo
qualche decennio si accorsero che l’Impero d’Occidente era caduto, questo però non gli imperdì di
fare giochi di parole sul nome dell’ultimo imperatore Romolo Augustolo, cosa che nessun scrittore
e cronista dell’epoca mancò di fare.
Paragrafo 9
Odoacre ottenne il titolo di rex dai suoi Germani, doveva ancora ottenere il riconoscimento
bizantino del suo potere, mediante la consueta attribuzione del patriziato, e grazia e Romolo
Augustolo cui aveva risparmiato la vita, ottenne che il Senato di Roma spedisse un’ambasceria a
Zenone che era ritornato sul trono d’Oriente nel 477 d.C., per assicurarlo che bastava all’Impero un
solo Augusto, nel cui nome Odoacre avrebbe governato, restituendogli le insegne dimesse di
Romolo Augusto, e dirgli che il Senato di Roma lo aveva scelto come protettore della romanità
nell’Occidente meritava il patriziato, Zenone glielo rifiutò e gli disse che doveva essere Giulio
Nepote a conferirgli quell’onore, che era il titolare del trono d’Occidente, non si sa se Odoacre
rimase sprovvisto per sempre del patriziato, si pensa che Costantinopoli non glielo abbia mai
concesso perchè era considerato un usurpatore, e a testimonianza di questo atteggiamento contrario
verso di lui ci fu il silenzio dell’Oriente verso i consoli da lui nominati, l’appoggio ai suoi
oppositori, e il disprezzo degli Ostrogoti che volevano prendere il suo posto, comunque vi sono
anche dei pareri benevoli nei suoi confronti come l’Anonimo Valesiano che dice di Odoacre "bonae
voluntatis", inoltre in alcune fonti viene indicato come patritius, e flavius è indicato sulle sue
monete, comunque Odoacre esercitò in pieno i suoi poteri nel rispetto di Roma e delle istituzioni
pre esistenti, e si collocò come e più di altri all’interno dell’Impero.
Paragrafo 10
Teoderico re degli Ostrogoti raccontano gli storici, dopo aver fatto perdere il trono a Zenone lo
aiutò a riconquistarlo e fu insignito con il titolo di magister militium praesentialis e patritius, chiese
all’imperatore di mandarlo in Italia a prendere il posto di Odoacre, anche se c’è chi pensa che sia
stata un’idea dell’imperatore, comunque fattostà che Teoderico arrivò in Italia nel 488 d.C. e nel
493 d.C. riuscì a rinchiudere Odoacre all’interno delle mura di Ravenna, e per farlo capitolare
strinse un patto con lui attraverso una mediazione da parte dell’arcivescovo, e appena lo ebbe in
pungo con la scusa di spartirsi il regno, lo invitò ad un banchetto e lo assassinò, lui e tutta la
famiglia avvelenandoli.
Teoderico ricevette da Zenone la delega a regnare finchè l’imperatore non fosse venuto a prendere
possesso dei beni riconquistati, questa notizia verrà smentita mezzo secolo dopo da Belisario intento
a riconquistare l’Italia in possesso dei Goti per Giustiniano, che si mostrò scettico che un imperatore
avesse voluto uccidere un usurpatore per mettercene un altro al suo posto.
Teoderico comunque portò la porpora e con arroganza si fece chiamare Augusto, mentre secondo un
ambasciatore goto che interloquì con il nemico Bellisario, Teoderico si comportò in maniera
corretta, rispettando Roma e i Romani, ai quali avrebbe sempre affidato le alte cariche dello Stato, e
pur essendo ariano avrebbe sempre rispettato le chiese cattoliche, insomma aveva regnato
coerentemente e imitando di fatto un imperatore romano, come scrisse in una lettera all’imperatore
d’Oriente Anastasio lo stesso Teoderico "imitatio vestra", e inoltre continuò l’ambasciatore goto,
Teoderico e i suoi successori mai fecero leggi, diritto monopolistico di pertinenza imperiale.
Su questo punto comunque si possono dire molte cose, ma mai che non hanno legiferato infatti si
conosce un Edictum di discreta mole e un altro più piccolo del nipote Atalarico.
Il primo fu scoperto quattro secoli fa da uno studioso francese, il quale lo pubblicò nel 1579, e fu
chiaro come anche gli Ostrogoti ebbero il loro codice romano volgare, scritto dichiaratamente per
regolare i rapporti tra Romani e Ostrogoti.
Paragrafo 13
Questo paragrafo tratta del patrocinium, ovvero di quell’istituto con il quale i piccoli contadini e
semplici cittadini andavano in cerca della protezione di un potente, che di solito era un generale
come testimoniano le opere dell’epoca, il patrocinium siccome era una pratica tipicamente bizantina
era visto in Occidente soprattutto dagli ecclesiastici come una sorta di ulteriore punizione per i
poveri che venivano protetti da questi generali per poterli rendere ancora più poveri, infatti
venivano costretti a donare i loro beni al protettore defraudando di fatto della giusta eredità i figli
dei padri come indica Salviano, autore ecclesiastico che scrisse in Gallia tra il 439 e il 451 d.C.
La domanda è: ma perchè questi contadini e cittadini non scappavano dall’Oriente invece di cercare
queste protezioni, che poi come abbiamo visto tali non erano?
La risposta è ovvia, ovvero i contadini e cittadini erano legati da un vincolo giuridico al loro lavoro,
da qui infatti ha origine il termine servo della gleba, che rimarrà in uso fino alla seconda metà del
1800, infatti questa figura fu abolita solo nel 1861 dallo zar Alessandro II, ma come abbiamo visto
ha origine nel nostro periodo e significa assoggettato alla terra, anche se in questa definizione si
omette il rapporto del contadino con il signore proprietario della terra.
I grandi latifondisti infatti data la crisi economica che colpì l’Impero dovettero suddividere i loro
fondi in pars dominica e pars colonaria, la prima era la parte del fondo destinata a una coltivazione
diretta, mentre la seconda era la parte del terreno destinata a una coltivaziona da parte di coltivatori
liberi, obbligati per contratto a prestare opere e versare un censo, e altrettanto importante fu
l’instaurazione di un vincolo che prevedeva l’inscindibilità tra il contadino e la terra, questo pet via
che nessun fondo rimanesse non sfruttato e quindi non producesse introiti fiscali per l’Impero,
l’obbligo a prestare opere fu trasformato in una intensa e più longeva soggezione personale del
contadino verso il proprietario del fondo, pratica inizialmente privatistica, ma poi a forti tinte
pubblicistiche, era proibito inoltre al proprietario di tenere carceri private, anche se era di uso
comune lo stesso, e alcuni imperatori permisero mediante legislazione determinate punizioni,
Costantino concesse di mettere in catene il contadino che tentava la fuga, Teodosio II consentì la
flagellazione in caso di eresia, e Giustiniano permise una castigatio, seppur moderata, al contadino
che avesse sposato una donna libera.
Come detto questa particolare forma servile che si diffuse nel basso Impero, fu chiamata servitù
della gleba, e abbiamo visto fino a quando questa rimase in auge, seppure con le dovute differenze,
fu una pratica che attraversò i secoli e le epoche, nel Medioevo infatti all’interno dei feudi, ci fu
l’hominium o hominicium nelle signorie vassalle, che aveva forti punti di contatto con l’homagium
vassallo.
Divenne per queste persone uno status perenne, acquistabile per prescrizione come un diritto reale,
e la contraria tendenza a sciogliersi in un rapporto obbligatorio come vollero i giuristi duecenteschi.
Le tristi condizioni di lavoro di questo periodo non finiscono qui, infatti i cittadini anche se non
erano legati alla terra come i contadini, furono legati indissolubilmente al loro lavoro mediante i
collegia, ovvero delle corporazioni di lavoratori di uno stesso genere, nel quale i cittadini si
identificavano e non potevano in alcun modo scollarsi da esso, era un vincolo ereditario, e come
detto era impossibile allontanarsi da queste corporazioni che avevano una funzione pubblica, come
dichiarato da Augusto.
Una tassa molto temuta dai contadini era la capitatio-iugatio, temuta tassa fondiaria istituita da
Diocleziano, veniva stabilita ogni inizio di anno, specificatamente il 1° settembre mediante una
indizione, ogni proprietà era gravata sul catasto da una certa quantità di capita o iuga, da cui il nome
della tassa, e in base ai bisogni dello Stato si stabiliva un valore per queste unità di credito a favore
dello Stato, e ogni proprietario doveva moltiplicare quel valore per ogni capita in suo possesso,
quindi non era una tassa sul reddito ma su una previsione del bilancio statale e di conseguenza si
facevano le richieste ai contadini, e ovviamente quelli che si accollavano il maggior esborso
finanziario erano i più poveri che erano la stragrande maggioranza, infatti i più ricchi e potenti
latifondisti avevano a loro disposizione l’autopragia, ovvero mediante accordi o furbizie con il fisco
riuscivano a ridurre sensibilmente le tasse che dovevano pagare, l’autopragia era fonte di abusi ma
sia Onorio che Teodosio non se la sentirono di privarne i personaggi degni di considerazione.
Paragrafo 14
Più il potere dei monarchi si avvicinava alla filosofia politica dell’Oriente più questi poteri venivano
minacciati e usurpati da ricchi e potenti, questa prassi era combattuta dai monarchi ma essendo
prassi tanto radicata ovunque, nel monumento di diritto romano volgare qual’era il codice di Eurico,
vi fu una legittimazione, per esempio era una cosa comune per gli alti gradi dell’esercito istituire
una miliza privata, e questi militi vennero chiamati buccellari, e vi fu proprio una legislazione in
merito, come ad esempio le norme che davano a questi militi durante il loro servizio presso questo o
quel signore di godere di determinati doni che il signore concedeva loro come terre, erano doni
temporanei strettamente legati al loro servizio, e finchè prestavano l’obsequium al signore questi
mantenevano i benefici, ed erano anche ereditari a patto che i figli dei militi continuassero a
prestare l’obsequium, mentre per le figlie femmine, mantenevano questi beni qual’ora si facevano
maritare dal signore con persone di pari livello, se esse non accettavano dovevano restituire i beni
avuti dal padre per il suo servizio.
Il termine buccellarius passò presto di moda, ma le caratteristiche di questi soggetti assomigliò
sempre più a quelle che poi successivamente avrà il vassallo, il Medioevo era ormai nato, e lo si
evince da modificazioni della legge visigota ad opera di Reccesvindo nel 654 d.C. che sostituì quel
termine con l’espressione qui est in patrocinio, indicando come il patrocinio avesse un senso molto
ampio, accogliendo i più svariati tipi di soggezione personale, inoltre la legge visigota non indica
che questo passaggio di poteri nascesse nel modo in cui venivano nominati i vassalli, il vassallo
mette le sue mani all’interno di quelle del signore, ma il fatto che si parli del buccellario come se
commendaverit, fa pensare che il rito associato all’obsequium, al fattore patrimoniale, alla
commendatio e al contenuto prevalentemente militare, evoca con incredibile chiarezza un’atmosfera
prefeudale, e inoltre si parla anche di infidelitas per chi violi il patrocinium, insomma sia i modi che
la terminologia indicano che il Medioevo era nato.
Paragrafo 15
Il patrocinium rappresenta una delle figure del diritto romano volgare più vicine al Medioevo, un
Medioevo tardo antico, in questo senso dobbiamo distinguere volgare e volgarismo, infatti i due
fenomeni si sono confusi per troppo tempo e soltanto una cinquantina d’anni fa questa distinzione si
è posta come problema, il processo di volgarizzazione del diritto fu una grande ondata che investì e
sommerse tutta la vita giuridica tardo antica, penetrando talvolta nell’ordinamento ufficiale, creando
il nuovo in contrasto con l’antico, che d’altra parte lo rifiutò e lo combattè.
Il volgarismo invece secono Wiecker è uno studio differente della storia, da un’altra angolazione,
un’angolazione nella quale il nuovo il volgare, sostituisce il classico antico, un pò come nei secoli
seguenti il gotico sostituì il romantico oppure come il barocco sostituirà il rinascimentale.
Il diritto quindi subì un processo di volgarizzazione, il normale percorso della vita giuridica
dell’Impero vide la comparsa di figure estranee al sistema o addirittura combattute da esso, in latino
praeter o contra legem, queste nuove figure diedero il senso delle nuove direttrici fondamentali
della storia.
Ci furono anomalie radicali della vita giuridica, furono praticate delle norme in certe zone,
malgrado le leggi le vietassero, e questo bastò a storicizzare il diritto romano classico inteso come
quello di Giustiniano, che era rimasto statico immobile, al limite solo modificato in parte dal
confronto con il codice Teodosiano, ora con la dinamicità data dalla volgarizzazione stava
cambiando.
Il movimento scatenato tra prassi e norme, due forze storiche opposte, apparve tempestoso, e non si
può ricondurre solo all’ignoranza l’avanzare del volgare nel diritto, ma è anche frutto delle
burrasche politiche, economiche e sociali, era l’ennesima prova che il Medioevo si stava
affacciando nella romanità del basso Impero.
Capitolo III
Giustiniano
Paragrafo 1
Giustiniano nacque in una località dell’Illira (attuale Macedonia), nel 482 d.C. crebbe in
un’ambiente in cui si parlava prettamente latino, e questo per un imperatore che poi avrebbe passato
il resto della sua vita in ambienti in cui si parlava greco, ebbe grandissima importanza, infatti si sa
che egli ebbe sempre grande affetto per la lingua dei padri, e da ciò si desume la voglia di rimettere
piede a Roma che egli ebbe durante il suo regno, e sul piano giuridico si notò questo affetto con la
volontà di restaurare i vecchi iura.
Giustiniano fu chiamato a Costantinopoli in giovane età, dall’allora imperatore Giustino, suo zio in
quanto fratello della madre, qui egli ebbe un’educazione superiore che lo aprì alla cultura
ellenistica, orientandolo verso la teologia, cosa che in seguito durante il suo regno si manifestò in
fantasie teologiche che arrecarono danno a tutti.
Il 1 aprile del 527 d.C. fu adottato e associato al trono dallo zio, che dopo soli 4 mesi morì, ed egli
dovette governare da solo, regnò per lungo tempo fino al 565 d.C. all’età di 83 anni, guardando gli
anni del suo regno si scorgono tre linee guida della sua politica, la prima fu un grande impegno per
la codificazione attenta al nuovo e fedele all’antico, che assicurasse la certezza del diritto, la
seconda fu un ampio programma di restaurazione con le armi del potere di Costantinopoli entro gli
antichi confini dell’Impero, e infine la terza linea politica riguardava l’unificazione della Chiesa
cristiana, lacerata dall’arianesimo che spopolava nei regni goti, e accerchiata da tendenze eretiche e
settarie.
Di queste tre linee solo la terza fu incompiuta, infatti quando era all’apice del successo egli si mise
a fare il cesaropapista, sostenendo che la dottrina dei "Tre capitoli", accettata dal concilio di
Calcedonia, fosse troppo aperta al monofisismo e quindi eretica, sequestrò con la manu militari il
papa Vigilio che non voleva assecondare le sue idee, e dopo anni di resistenze lo costrinse a farlo,
creò uno scisma, vescovi soprattutto africani, dell’Illiria e della Dalmazia non obbedirono al papa e
dichiararono la loro fedeltà a Calcedonia, in questo ambito si dimostrò molto arrogante e i risultati
ne rispecchiano il fallimento, ma comunque parlando di Giustiniano dobbiamo ricordare che i primi
due straordinari e un pò folli progetti andarono in porto.
Paragrafo 2
Già dopo pochi mesi di regno Giustiniano cominciò dal diritto, formò infatti una commissione
composta dal magister officiorum Triboniano e da altri 9 giuristi, 8 burocrati e 1 professore, Teofilo
che aveva il compito di rielaborare i codici Gregoriano, Ermogeniano e Teodosiano, di riassumerli,
ammodernarli e affrancarli dalle contraddizioni, al fine di preparare un nuovo codice snello e
moderno.
La nuova compilazione fu pronta nell’aprile del 529 d.C. e l’imperatore la chiamò Giustiniano
(Novus Iustinianus Codex), a giudicare dalle testimonianze dell’epoca egli era considerato molto
vanitoso, come dice Procopio di Cesarea, tanto da desiderare che le cose portassero il suo nome,
comunque questo testo dopo solo 5 anni venne soppiantato dalla nuova edizione, e nessun
manoscritto di quest’opera è giunto fino a noi, solo un frammento dell’indice, che rivela alcuni
contenuti come la legge delle citazioni, e questo fa pensare che a quel tempo Giustiniano non aveva
ancora in mente di selezionare autonomamente gli iura, ossia di redigere il Digesto, idea che gli
venne a breve, e la condivise con Triboniano, promosso nel frattempo a quaestor sacri palatii, una
sorta di ministro della giustizia.
Triboniano tra l’altro è stato sempre considerato l’anima di questa impresa, che prese il via il 15
dicembre 530 d.C. con precise indicazioni come l’ordine di Giustiniano di creare un templum
iustitiae con gli iura manipolati e adattati, in modo che il diritto stesse solo all’interno delle sue
mura, era un’immagine retorica ma con un significato reale, infatti gli iura adesso divenivano una
sezione autonoma dell’ordinamento, dopo essere stati nel 426 d.C. pesantemente circoscritti dalla
legge delle citazioni.
Una rappresentanza scelta e lucidata di iura entrava a fare parte a tutti gli effetti dell’ordinamento
come vera e propria legge, il resto era tenuto fuori e spariva per sempre.
L’ispirazione del Digesto venne a Giustiniano dalla reverenza che egli mostrava per l’Occidente, ma
con questa redazione egli ne decretò la condanna a morte.
Il Digesto venne promulgato solo 3 anni dopo l’inizio dei lavori, esattamente il 16 dicembre 533
d.C. e quindi pensare che la scelta di 10 mila pezzi di circa 40 giuristi, anche non dotati di ius
respondendi, in così breve tempo abbia richiesto un lavoro molto celere da parte della commissione
istituita da Giustiniano, questi pezzi furono sistemati in 50 libri, si pensa che la commissione abbia
suddiviso il materiale a disposizione in modo omogeneo, in modo tale da potervi attingere in modo
più facile e veloce per la redazione del Digesto, quei tre anni tra l’altro non furono tranquilli e poco
mancò che il Digesto non vedesse la luce, e questo fa di quest’opera una vera impresa.
Paragrafo 4
Giustiniano si preoccupava molto anche della scuola, infatti poco prima che il Digesto fu terminato
pensò che una grande riforma come quella che stava attuando necessitava anche di giuristi
all’altezza, e infatti pensò ad un manualetto didattico per formare appunto questi giuristi, e con la
costituzione Omnem provvide anche a questa riforma didattica, previde un corso di studi di cinque
anni, il primo dei quali avrebbe interessato una sintesi manualistica, dal secondo al quarto lo studio
dei Digesti che erano testi molto difficili, e infine all’ultimo anno previde lo studio del Codice, e si
noti come questa struttura della scuola mostri la concezione imperiale del sistema normativo, infatti
la parte portante era costituita dal Digesto che costituiva l’ossatura scientifica portante, la tradizione
della sapienza occidentale, mentre in ultimo vi era il Codice, posto al vertice a illuminare, a
legittimare tutto l’ordinamento alla luce dell’onnipotenza del monarca.
Per quanto riguarda il primo anno, le nozioni che gli studenti dovevano imparare erano racchiuse in
un manuale ufficiale, redatto da Teofilo e Doroteo sotto il controllo dell’onnipresente Triboniano, i
suddetti maestri tra l’altro si pensa che scrissero 2 ciascuno dei 4 libri di Istituzioni.
Anche nel caso del manuale didattico, ci fu una conclusione in breve tempo, la cui trama di fondo
era offerta dalle Istituzioni di Gaio, che naufragando in quelle giustinianee, conclusero il loro
glorioso viaggio secolare andando a volgarizzarsi.
Il 23 novembre del 533 d.C. l’immane lavoro sembrava finito, in questa data vennero promulgate le
Istituzioni, che diventarono così il primo manuale scolastico con forza di legge, e il 16 dicembre
dello stesso anno fu promulgato il Digesto, ma proprio questo evento mise in luce l’incompletezza
del Codice che non comprendeva le norme degli ultimi 4 anni, e per questo motivo ne venne redatta
un’edizione aggiornata, pubblicata un anno dopo e chiamato il Codex repetitiae praelectionis.
Nonostante questa immensa emanazione di norme da parte di Giustiniano, avvertì che anche dopo
la pubblicazione del nuovo codice, la sua vena legislativa non si era inaridita, e infatti negli anni a
venire, tra il 535 e il 540 ne emanò un buon numero, continuando sempre a ritmi decrescenti e mano
mano peggiorando anche qualitativamente la produzione.
Altre raccolte delle sue leggi furono fatte, le Novelle di cui ci sono almeno tre collezioni, quella
greca che circolo solo in Oriente e poi ci furono altre due che si alternarono in Occidente, l’Epitome
Iuliani e l’Authenticum.
La raccolta greca di Novelle è la più ricca, infatti ne contiene complessivamente 168, 158 di
Giustiniano, e nell’Occidente di questa è stata usata solo una critica moderna.
In Occidente ebbero vita molto più lunga le altre due, l’Epitome Iuliani, composta da un professore
di Costantinopoli di nome Giuliano, riassume, rimaneggia e traduce in latino 124 novelle, e
comporta una certa attrattiva l’ipotesi che questa traduzione fu fatta su richiesta della Chiesa di
Roma, perchè fu quest’ultima a servirsene per secoli e a diffonderla non solo in Italia, ma anche in
Francia che era una terra che non recepiva il diritto giustinianeo.
Questo testo scomparve ai tempi di Irnerio e delle scuole che si rifiutarono di utilizzare un testo
falso in modo così evidente.
Questi preferirono l’Authenticum, composto da 134 novelle tutte in latino, con una traduzione
giudicata letterale e affidabile, e c’è chi suppone che sia stato lo stesso Giustiniano a ordinarla, altri
indicano come fautori di quest’opera pubblici ufficiali dell’Illirico, o di Roma.
A Roma Gregorio Magno ne possedeva una copia, mentre da Ravenna poteva venire la copia da cui
attinse il proemio dell’Editto di Rotari nel 643 d.C. ovvero quando l’Authenticum fece l’ultima
comparsa prima di scomparire nelle biblioteche per 400 anni, dopo di che Anselmo di Lucca lo
riprese per riportarne qualche pezzo nella sua Collectio canonum.
La tradizione manoscritta della compilazione giustinianea è tutta medievale, salvo poche eccezioni
del VI secolo d.C. ovvero poco tempo dopo la sua promulgazione, il primo ovvero l’Epitome Iuliani
era di poca storia e di piccole dimensioni, utile solo a dimostrare che il testo originario teneva uniti i
primi nove libri con gli ultimi tre, mentre la tradizione medievale separerà questi ultimi.
L’Authenticum invece considerevolissimo sotto il profilo storico, è il famoso testo completo dei
Digesti, noto come Littera Pisana e poi come Littera Fiorentina, dopo che Firenze prese Pisa e i
tomi in questione, questo manoscritto a seconda del luogo di nascita varia la sua data, si pensa che
possa essere stato scritto a Costantinopoli, a Ravenna o in Italia meridionale, e la sua redazione può
essere datata dalla metà del VI secolo d.C. o i primissimi anni del VII secolo d.C.
Questa è stata un opera molto studiata dagli umanisti quattro e cinqucenteschi, dai filologi e dagli
storici moderni.
Paragrafo 6
Nell’agosto del 554 d.C. Giustiniano sanzionò la vigenza della sua compilazione per partes Italiae,
questa norma fu compresa in una serie di 27 disposizioni intese a restituire l’assetto della proprietà
fondiaria, mutato in seguito ai soprusi dei re goti in concomitanza con la guerra, e siccome la
Chiesa era parte molto interessata in quanto era una grande proprietaria terriera, non stupisce il fatto
che fu lo stesso papa Vigilio a chiedere l’intervento del legislatore, che peraltro lo costringeva a
Costantinopoli ormai da 9 anni, e nel contempo non stupisce che la costituzione in questione fosse
una pragmatica sanctio, ovvero di un genere normativo che aveva tra le sue caratteristiche una vera
e propria richiesta e l’esistenza di episodi concreti atti a giustificarla.
Quanto ai libri della compilazione giustinianea, il medesimo monarca affermò che aveva già
mandato i libri in Italia, forse con lo stesso papa Vigilio che rientrò a Roma nel 554 d.C. per
consegnarli al magistrato locale che all’epoca era Narsete, che li pubblicasse secondo un proprio
editto (edictali programmate).
Dopo questo atto di Giustiniano, l’Italia divenne territorio di diritto giustinianeo, ma non il resto
d’Europa che mantenne le sue norme romano barbariche, quindi il codice Teodosiano.
In Italia prima della compilazione giustinianea, vi era il codice Teodosiano, che era stato utilizzato
per 100 anni e più come legge propria dalla Chiesa, e sorprende il fatto che il testo giustinianeo
abbia soppiantato quello teodosiano in breve tempo, la popolazione non ebbe nemmeno il tempo di
adattarsi troppo perchè dopo soli 15 anni scesero in Italia i Longobardi, e solo infiltrazioni del
codice di Teodosio rimasero nel diritto medievale.
L’Italia era un paese devastato al momento in cui Giustiniano impose il suo diritto, e come suddetto
sorprende come il diritto giustinianeo abbia soppiantato quello teodosiano in breve tempo.
Capitolo IV
I Longobardi
Paragrafo 1
Nel 565 d.C. Giustiniano morì, poco prima che i Longobardi presero l’Italia che lui aveva
riconquistato dai Goti con tanta fatica, nel 569 d.C. i Longobardi comandati dal re Alboino, che
abbandonata la Pannonia sotto la pressione degli Avari si affaciarono nella pianura padana, i
Longobardi erano un popolo scandinavo descritto come ferocissimo, e lo stesso papa Gregorio
Magno parlando di loro scrive pagine terrificanti raccontando le loro efferatezze, e inoltre vengono
descritti dalla storiografia come nemici acerrimi dei Romani e della romanità.
La descrizione dei Longobardi è talmente fosca da sembrare esagerata, infatti ai tempi di
Giustiniano i Longobardi erano stati spesso e a lungo a contatto con i Romani tanto da diventarne
milites foederati, ottenendo in dono per questo la città di Norico e le fortezze della Pannonia,
secondo le fonti rimasero 42 anni nella regione, dimostrandosi fedeli all’imperatore, aiutando
l’imperatore bizantino nella riconquista dell’Italia, e nell’occasione dell’invasione persiana del 569
d.C. un grosso contingente tornò ad essere milites foederati nel 575 d.C. per combattere il popolo
invasore, e una leggenda che oggi comincia ad essere considerata vera, indica come Narsete vecchio
comandante longobardo destituito e quindi amareggiato con Costantinopoli, colui che ha chiamato i
Longobardi in Italia, d’altronde si pensa che anche l’imperatore d’Oriente Giustino II vedeva di
buon occhio l’arrivo dei Longobardi in quanto si sarebbe potuto servire di loro, per impedire ai
Franchi di arrivare alla pianura padana, a prova di ciò per i primi tre anni Alboino non incontrò serie
resistenze bizantine.
Vi sono anche episodi come il caso di Clefi che denotano crudeltà e sentimenti ostili ai romani,
infatti Clefi successore di Alboino uccise molti potenti romani e molti altri ne esiliò, ma era una
vendetta in quanto Alboino fu assassinato e tra i colpevoli figuravano i potenti romani e il palazzo
di Ravenna non ne era rimasto estraneo, in seguito il figlio di Clefi Autari diede luogo ad
un’ecatombe di nobili romani, anche in questo caso siamo di fronte a una vendetta, in quanto anche
Clefi fu ucciso, inoltre Autari fu eletto dal partito di intransigenza germanica, per combattere il
generale cedimento nei confronti del potere bizantino, doveva usare la mano forte.
Paolo Diacono aggiunge un altra motivazione della strage, il motivo era la cupidigia, vi era infatti
una serie di sistematiche confische, l’imposizione di un tributo ai Romani, e ci si accorge di trovarsi
di fronte alla genesi di quella struttura fiscale che dall’epoca di Autari costituirà la base da cui
partirà il consolidamento del potere centrale.
Il potere regio era stato fino ad allora inconsistente, e qualsiasi progetto di affermarlo sembrava
soffocato dalle macerie di un popolo già frantumato, a pochi anni dalla vittoriosa invasione, corrotto
dal denaro bizantino.
Paragrafo 2
La strategia adottata da Alboino per conquistare l’Italia, aveva fatto si che si disperdesse e
suddividesse in tanti piccoli gruppi con un loro leader le armate, disposti a riconoscere un unico
capo in guerra ma non in pace, infatti Alboino divise in farae con a capo un generale o un dux,
indicandogli quale distretto occupare, da ciò scaturirono ducati autonomi, e dopo pochi anni
dall’invasione ve ne erano già 36, ed erano molto poco disposti all’obbedienza, tant’è che dopo
l’uccisione del re Clefi nel 575 d.C. si rifiutarono di eleggere un successore e protrassero per 10
anni l’interregno, che generò il caos dell’anarchia, della quale ovviamente aprofittarono i bizantini,
a tal proposito Menandro afferma che la maggior parte di essi accettò i doni dell’imperatore,
tornando a combattere per le sue bandiere, come abbiamo visto nell’occasione della guerra contro i
Persiani.
Nel 584 d.C. Autari fu finalmente eletto re, cercò di restaurare seriamente la potenza germanica,
ruppe i rapporti con il ceto infido dei potenti romani, ritornò all’arianesimo e creò una struttura
politica unitaria e indipendente, forse sul modello visigotico, per tenere insieme i Longobardi.
Ricorse a un curioso mezzo per ottenere questa unità politica, utilizzando anche i beni sottratti ai
Romani, riuscì a farsi dare l’amministrazione della metà dei beni ducali, così facendo contrappose
nei singoli ducati alla curtis ducalis la curtis regia, affidata a un suo gastaldo e adatta a costituire
una spina nel fianco dei duchi, e nel contempo una fonte di reddito.
Questo peso finanziario che i conquistatori richiedevano fu ovviamente accollato ai Romani, i quali
dovettero pagare agli hospites longobardi, ovvero i maggiorenti, che divennero creditori dei
proprietari Romani di un terzo dei raccolti ai sensi dell’hospitalitas militare di cui questa tardiva
applicazione suona ricordo, eco tuttora viva dei tempi della militia foederata.
Ma il tocco finale fu dato dall’assegnazione dei duchi ad Autari del nome di Flavius, un titolo
onorifico, che portarono anche i suoi successori, e questo era stato fatto per emulare il vero modello
di Stato dell’epoca, ovvero l’impero bizantino, da un monarca che si fregiava del nome Flavius ci si
potevano aspettare atti contro gli oppositori Romani ma non contro la tradizione ideale e il loro
diritto.
Paragrafo 3
Andiamo al 643 d.C. era re da circa 6 anni Rotari, i Longobardi erano in pace da 4 decenni, non
fecero guerre perchè si accorsero che i vicini erano più forti di loro, consapevoli della loro scarsa
statura internazionale, e consci delle loro riottosità interne, comunque con la morte del grande
Eraclio (610-641 d.C.), erano finite per Bisanzio le vittorie, le glorie e il prestigio, per di più era
comparsa una nuova religione, l’Islam che dilagava in Siria, Palestina ed Egitto dove si era
impadronito nel 641 d.C. della capitale Alessandria, i rapporti con l’Occidente si erano deteriorati
perchè a Costantinopoli andava di moda il monotelismo che il Papa condannava.
A occidente vi erano i Franchi che furono a lungo uno spauracchio per i Longobardi, ma dopo la
morte del re Dagoberto e la successiva divisione del regno tra i suoi figli questi smisero di essere un
pericolo, e in questo scenario dove i rapporti di forza si stavano capovolgendo a favore dei
Longobardi, Rotari tentò d’impadronirsi dei territori ancora bizantini in Italia centro superiore, si
pensa che puntò prima Ravenna dove venne fermato e respinto, oppure iniziò dalla Liguria e dalla
Lunigiana dove non ebbe problemi di alcun tipo, comunque in ogni caso ritornò a novembre a Pavia
con gli allori della vittoria e verso la fine del mese promulgò il suo editto.
Bognetti suggerì l’ipotesi che la guerra servisse a promulgare l’Editto di Rotari, ma è difficile che
questa tesi venga accolta, è più facile pensare che Rotari abbia promesso ai suoi combattenti delle
condizioni migliori, infatti i più deboli si lamentavano spesso delle esazioni dei più forti, e lo fece
per avere tutto il popolo dalla sua e per vincere la guerra, dopo che questo avvenne non ebbe
problemi ad accontentarli emanando il suo editto.
Ora vedremo la cerimonia di promulgazione dell’editto, descritta nell’epilogo dell’editto medesimo.
Paragrafo 4
Rotari nell’editto afferma di avere fatto il codice con l’ausilio ed il consenso dei maggiorenti e di
tutto l’esercito vittorioso e di averne ordinata la redazione scritta, inoltre proclama di avere eseguito
un solenne gairethinx, antico rito germanico, per rendere la legge inattaccabile e inviolabile, e per
darla in custodia perenne ai sudditi.
E’ l’unica volta che nel mondo germanico la fase legislativa vede l’esercito coinvolto in modo così
importante, ma probabilmente Rotari parla così sullo slancio di una guerra appena conclusa
vittoriosamente, ma la storiografia ammette che in quell’occasione il rito del gairethinx sia stato un
atto di manifestazione di volontà del popolo, in ossequio a quello che restava dell’antica sovranità
dei Germani.
Abbiamo visto che il thinx (testamento dispositivo del patrimonio), e il gairethinx (atto di
emancipazione familiare), e ci appare quanto meno abnorme questo uso del termine per
l’approvazione popolare delle leggi, anche se considerando il significato dei termini thinx
significava assemblea e gaire derivante da gere significava lancia, quindi sommando i termini si
arriva alla denominazione di assemblea in armi, una cerimonia nella quale per manifestare
l’approvazione si sbatteva la lancia contro lo scudo, quindi abbastanza rumorosa, da questa
doverosa spiegazione si evince che il termine gairethinx utilizzato da Rotari come mezzo per
l’approvazione popolare delle norme, ma questa spiegazione non basta a farci pensare che le cose si
svolgessero davvero così, basta vedere i termini con i quali Rotari promulga le norme, sono termini
molto autoritari, e da qui ci fa capire che egli faceva discendere l’efficacia vincolante dell’Editto
dalla propria autorità e non dall’approvazione popolare, da questo possiamo affermare che è una
forzatura obbligare il gairethinx ad assumere un significato e una natura nuovi, mentre è più
naturale lasciargli mantenere il suo significato e i suoi valori certi e assodati, quindi Rotari utilizza
il gairethinx con il medesimo significato che aveva nel diritto privato, ovvero di rito formale che
rendeva irrevocabile il passagio di proprietà di un bene, in questo caso la legge consegnata al
popolo.
Questa idea dell’approvazione popolare è piaciuta agli storici, perchè sembra coadiuvare la
concezione pattizia della norma, scaturita dall’accordo tra re e popolo, considerata pratica usuale
del mondo germanico, e non soltanto nel periodo tardo carolingio.
Il titolo della prima legge germanica scritta, Pactus legis Salicae, ha come termine pactus, scritta in
latino sgrammaticato e starebbe a indicare un accordo, ma non tra il re e il popolo, bensì tra i
maggiorenti e il popolo, e fa pensare a uno scontro di interessi fra ceti diversi, che è preliminare alla
norma stessa la cui emanazione vera e propria è demandata a un’assemblea investita di poteri
legislativi.
Sempre dal proemio della prima legge germanica si apprende che si facevano questi accordi tra
potenti e massa popolare per evitare faide e risse interne, e la legge in questione era un tariffario di
pene per i singoli reati, analoga alla legge dei Longobardi di Rotari.
Per i Longobardi infatti vi era un’eccessiva esazione da parte dei potenti verso la massa, esazione
che attraverso questo Editto venne mitigata, infatti c’era un elenco tariffario delle compositiones dei
reati, che in precedenza non essendo regolati da legge alcuna, andavano in ogni caso a vantaggio dei
ricchi che pagavano pene ridicole e incassavano somme ingenti quando danneggiati, si pensa che
prima della campagna di Liguria l’esercito, ovvero gli arimanni o uomini d’arme, che altro non
erano se non il popolo, chiesero al re di emanare una legge con cui fissava queste pene, che
dovevano essere uguali per tutti, ricchi e poveri, e questo tariffario era molto preciso, talvolta
ridicolo, sicuramente molto più accurato del Pactus legis Salicae di 150 anni prima, componeva
poco meno della metà del complesso normativo e fu consegnato al popolo dopo la guerra, che vide i
Longobardi vittoriosi in Liguria.
Paragrafo 5
Come abbiamo detto il tariffario previsto nell’Editto di Rotari era molto preciso, alcuni esempi ci
possono chiarire le idee, ad esempio per un pugno la tariffa era di 3 soldi, mentre per uno schiaffo
ne occorrevano 6, pene più gravi erano previste per un occhio strappato, infatti in questo caso
occorreva la metà del guidrigildo, che era il prezzo dell’uomo libero, stessa pena per il naso
troncato, inoltre le pene variavano a seconda dello status sociale dell’offeso, erano più costosi i
danni effettuati verso un semilibero o un aldo, mentre più economici per i servi, e questi andavano
per categorie, dai costosi aldi al più economico pecoraro.
Rotari venendo incontro alle richieste dei poveri arimanni, non ha certo mitigato le pene, che ora
almeno erano uguali per tutti gli uomini liberi, stabilendo un senso di equità, per evitare che
nascessero faide interne Rotari peggiorò ulteriormente determinate pene, facendo leva sull’avidità
dei suoi sudditi per evitare che si ricorresse ancora all’auto difesa privata, che ancora era ammessa,
ma mentre in origine era la regola, ora si cercava di limitarla.
L’inasprimento delle pene da parte di Rotari comunque non giovò ai più poveri, questo perchè
anche in precedenza essi avevano difficoltà a pagare determinate somme, ora con l’imposizione
mediante una legge di questo tariffario, era facile che un povero non riuscendo a pagare la somma
prevista per un determinato reato, cadesse in schiavitù del creditore, pratica comune anche ai
Franchi, e fu un altro re longobardo Liutprando quasi 100 anni dopo Rotari, che la impose per
legge, delimitando il confine tra schiavitù temporanea e definitiva, la somma era di 20 soldi,
raggiunti i quali la parte inadempiente sarebbe caduta in schiavitù illimitatamente, mentre per meno
di 20 soldi la schiavitù era temporanea, inoltre non si conosce il destino che toccava alla moglie e ai
figli del novello schiavo, e solo in seguito verso la metà del IX secolo con un capitolare italico di
Lotario, si garantiva la libertà alla moglie e ai figli del soggetto caduto in deminutio capitis.
Paragrafo 6
Il diritto penale longobardo, ci appare molto meno fastidioso di quello bizantino che prevedeva
mutilazioni in quantità industriale, cosa che Rotari commina con rarità, certo determinate pene sono
previste, ma solo per determinati casi, per lo più come abbiamo visto si trattava di un tariffario che
prevedeva pene pecuniarie, Rotari prevede il taglio della mano per i reati di falso, del conio di
monete, per la falsa scrittura, mentre la pena capitale era prevista solo per i reati più gravi, che
potevano mettere a repentaglio la sicurezza dello Stato, ad esempio per i reati di congiura contro il
re, la diserzione, collusione con il nemico, l’attività sediziosa, l’abbandono del posto in battaglia.
Le pene di mutilazione sono esempi in cui si evince che il diritto longobardo attinge in gran parte
dal diritto volgare romano, mentre per la pena capitale si tratta di influenze ricordanti la militia
foederata, che prendeva le sue norme da quelle dei soldati romani.
La morte era prevista anche per i reati contro la famiglia, come per lo schiavo che uccideva il suo
padrone, la moglie che assassinava il marito, o per l’amante accusato dal marito dell’adultera che
non si sia purificato con duello, comunque in generale erano eccezioni, infatti all’omicidio
dell’uomo libero corrispondeva il pagamento del guidrigildo, che aveva un valore di 900 soldi,
altissimo, valore uguale per tutti gli uomini liberi.
Il guidrigildo rimane un istituto molto scandaloso, già dalle sue origini risalenti al primo duecento
con Roffredo di Benevento, il cosiddetto prezzo del corpo o aestimatio corporis (istituto escluso dal
diritto romano), ha sempre destato repulsione, e in questo senso il guidrigildo era la medesima cosa,
ma non rappresentava il valore del corpo, bensì il valore dello status dell’arimanno, e si era tenuti a
pagarlo anche per altri reati gravissimi diversi dall’omicidio, per quanto riguarda le donne che erano
sprovviste di status sociale, si riflettevano su quello del padre o del fratello e l’uccisione di una di
loro comportava il pagamento di un guidrigildo, benchè ne fossero sprovviste, pari o superiore a
quello degli uomini, arrivando al valore incredibile di 1200 soldi.
In taluni casi si poteva essere condannati al pagamento del proprio guidrigildo, in principio forse era
un riscatto dalla pena capitale, e poteva avvenire sia in casi in cui il notaio non abbia redatto i
documenti secondo la legge, oppure in caso di calunnia odiosa.
Le pene pecuniarie presenti nel diritto penale longobardo erano atte a favorire la soddisfazione della
famiglia offesa in modo tale da indurla a non cercare vendetta privata, e così facendo a scongiurare
il pericolo di faide, in seguito però a sancire il passaggio da un’organizzazione di carattere tribale a
una forma elementare di Stato, intervenne il fisco, o nel caso longobardo la curtis regia, fu imposto
infatti una ripartizione delle pene pecuniarie, metà andava alla famiglia dell’offeso e metà al fisco,
si passava da una pena pecuniaria di tipo privatistico a una multa o ammenda di carattere
pubblicistico.
Paragrafo 7
La donna come detto non aveva uno status, era perennemente sottoposta al mundio, che poteva
essere esercitata o dai maschi della famiglia, o in assenza di essi dalla curtis regia, per questo
motivo la donna non aveva la capacità di alienare o donare alcun bene proprio, a meno che il
mundoaldo non avesse dato il suo consenso al trasferimento della proprietà, la donna aveva la
capacità giuridica ma non quella di agire, quindi si può pensare che l’intervento del mundoaldo
fosse destinato a legittimare la volontà della donna, attraverso un’auctoritas tutoris, quindi il
mundio era una sorta di tutela per la donna, e come sappiamo nel diritto romano fu istituita la tutela
muliebre già in epoca classica e poi successivamente svuotata dei suoi principi e abrogata
definitivamente da Costantino, ma è facile pensare che qualche cosa di questo antico istituto
romano sia rimasta nelle prassi volgari, e i barbari ne fecero presto tesoro.
Il mundio oltre ad essere una tutela mette in evidenza aspetti potestativi e patrimoniali ancora più
marcati, Rotari lo chiamò potestas, non potendoci affidare troppo alla dicitura delle leggi,
analizziamo i contenuti, il mundoaldo poteva esercitare sulla donna un modesto potere educativo,
permetterne la monacazione e si occupava del passaggio al marito dei beni della donna e la sua
desponsatio.
Per quanto riguardava il modesto potere disciplinare si deve dedurre dalle pene che Liutprando ideò
per chi trattasse male le donne, che questo potere effettivamente esisteva, vi erano pene per coloro
che la facevano morire di fame, la vestivano al di sotto delle possibilità del suo patrimonio, la
picchiavano ed era concesso solo se era una bambina da correggere, oppure erano previste
condanne per coloro che la volevano maritare con un uomo non voluto, o darla in sposa a un aldio o
servo, la costringa a lavori intollerabili o la costringa a rapporti sessuali, e a giudicare dalle pene per
questi reati, si evince che il potere del mundoaldo era molto grande, questi poteri sicuramente erano
maggiori rispetto alla potestas del pater familias romano.
Si è pensato che questo potere derivasse dal Munt, ovvero il potere onnicomprensivo del
capofamiglia su beni e persone, che col tempo avrebbe circoscritto ad oggetto della sua efficacia
solo la donna, seguendo il medesimo percorso storico della manus romana, comunque l’istituto
longobardo fu conservato anche sugli aldi, ovvero i semiliberi.
Si è pensato che mundio e manus, provenissero da uno stesso capostipite comune, la trasfigurazione
di quello volgare latino in quello germanico.
Il mundio non si identificava con il capofamiglia, era un potere a forte carattere patrimoniale, nel
mondo longobardo vi erano due poteri sulla donna, una potestas di carattere familiare più ampio, e
il mundio appunto, che poteva rimanere nelle mani della famiglia d’origine qual’ora per esempio il
marito non l’acquistasse mediante la desponsatio, inizialmente infatti doveva essere pagata,
successivamente divenne un prezzo simbolico, comunque questo ci fa capire il carattere
patrimoniale come suddetto del nostro istituto, inoltre verso il X secolo d.C. il mundio divenne un
titolo, e fu presente anche in titoli al portatore, anche se questo era un sistema escogitato da mariti
gentili che volevano permettere alla propria moglie di scegliersi il mundoaldo che preferivano,
sottraendo di fatto il passaggio del mundio a parenti scomodi, anche se c’è da dire che capitava che
i figli, anche minorenni, potevano acquistarlo mortis causa della propria madre.
Col passare dei secoli il mundio divenne sempre più a carattere protettivo e di aiuto per la donna, i
carolingi lo chiamarono tutela o defensio, ma ancora nel 1300 un longobardista, Biagio da
Morcone, in epoca in cui la scienza giuridica divenne grande, non esitò a chiamarlo usufrutto sulla
donna, comunque c’è da dire che in Italia meridionale il mundoaldo si trsformò sovente in
advocatus, che veniva nominato dai giudici solo in presenza di una causa o un negozio, ed aveva
funzione di assistenza per la donna.
Il mundio poteva esserci anche sui liberti, che se affrancati senza l’espletamento delle necessarie
formalità rimanevano al pari di semiliberi, e il loro mundio veniva nel momento della
manomissione quantificato, quindi potevano essere compravenduti e loro stessi versando la somma
dovuta potevano riscattarsi dal padrone consenziente.
Non possiamo dimenticare inoltre che questo istituto ha avuto una vita lunghissima, 1000 anni dopo
Rotari ve ne furono ancora tracce soprattutto in Toscana e in Italia meridionale, via via modificando
i rapporti fra le sue tre caratteristiche, potestatività, patrimonialità e protettività.
Paragrafo 10
La famiglia longobarda viveva attorno ai beni ereditati che non potevano essere divisi, ponendoli
come fulcro della famiglia, sistema ideato per tenerla insieme e al contrario gli occasionali acquisti
effettuati da un singolo soggetto rimanevano di sua unica proprietà.
Se per esempio due fratelli eraditavano dai genitori, non potevano in alcun modo alienare il bene o i
beni ereditati, e dovevano vivere insieme nella casa genitoriale, inoltre troviamo un’imitazione del
peculium quasi castrense dei Romani, che indicava come di singola ed esclusiva proprietà i beni
acquistati nel servizio pubblico civile, cosa che non avviene nel peculium castrense, ovvero per i
beni acquistati mediante il servizio militare, la cui proprietà non era esclusiva ma era condivisa con
gli altri componenti della famiglia, cosa che non avveniva nell’istituto romano, in questo caso forse
pesava la vecchia consuetudine di dividere con l’intera unità il bottino di guerra.
Altre norme circa le difficoltà di alienare il patrimonio ereditato indicano questa possibilità solo in
caso di necessità e con il consenso ti tutti, mentre il patrimonio personale restava tale, questa
distinzione rimarrà a lungo come base della configurazione stessa della proprietà.
I beni della famiglia che uscivano avevano anche la tendenza a ritornare nella famiglia, infatti per
esempio se una donna moriva senza figli, i beni che aveva portato via dalla casa del padre, li
dovevano tornare.
La limitata disponibilità dei beni della famiglia ha fatto pensare che esistesse una proprietà
familiare, ma è certo che all’epoca di Rotari la proprietà individuale era conosciuta, è corretto
quindi parlare di proprietà comunitaria dei beni ereditati, pratica più figlia del costume che delle
leggi che imitavano le usanze di altre popolazioni, in questo senso l’archetipo era la proprietà di
chiese e monasteri, che avevano una funzione etico-sociale e religiosa, atta al garantire il ministero
degli ecclesiastici e al rigido compimento della loro opera di assistenza verso i poveri, Giustiniano
vietò addirittura l’alienazione di beni della Chiesa, in modo da creare un vincolo indissolubile con il
compito che dovevano assolvere, tanto da arrivare a chiamarla dos ecclesiae, ed era naturale che
evocassero la dote, che non poteva essere alienata perchè necessaria al sostentamento del
matrimonio.
Sulla società medievale questa situazione dei patrimoni ereditati pesava parecchio, il termine
fundamentu di estrazione sarda indicava valori di stabilità e di sostegno per l’intera famiglia, mentre
con il termine conporu si identificavano quei beni acquistati e di esclusiva proprietà di un singolo,
ma si intendevano anche i patrimoni delle chiese e i demani dei villaggi.
La diffusione comunitaria della proprietà andava di pari passo con la propensione medievale a
costituire comunità, che presso i Longobardi si costituivano anche in campagna, dove vicini di terra
costituivano delle fabule, ovvero dei patti, che si facevano tra varie famiglie, e questi divenivano
confabulati, si può scorgere in queste fabule degli statuti che possono essere forse considerati alla
base della formazione di queste comunità rurali, che sono un preannuncio della più tarda
organizzazione dei comuni rurali.
Paragrafo 14
Il processo longobardo era animato da spirito diverso da quello romano, nella sua forma originaria e
pura non era nemmeno un giudizio, il giudice longobardo infatti non era chiamato a valutare la
fattispecie concreta in corrispondenza con l’ordinamento, inizialmente per i Germani il problema
principale era allontanare il pericolo di faide, pericolo sempre presente in una società così rozza,
inizialmente crearono una controfigura meno sanguinosa della guerra, il duello tra campioni da
combattersi con armi vere o con randelli, questa pratica fu utilizzata anche dai Romani arcaici,
quando fecero combattere tre Oriazi contro tre Curiazi nella disputa tra Roma e Alba Longa
evitando di fare strage tra i due eserciti, chi vinceva doveva calmarsi e prendersi la soddisfazione di
avere avuto ragione per così dire, era un gioco con regole precise accettate da tutti.
Un altro sistema di risolvere le controversie era quello di far giurare il convenuto o imputato ma
non da solo, altre persone chiamate sacramentales o aidos o coniuratores, che non erano testimoni
perchè non giuravano sui fatti, ma sulla persona e sulla sua onestà, e il numero variava a seconda
del valore della causa, avevano il compito di dare la misura del seguito che aveva il convenuto nella
società, del suo consenso sociale insomma, ma non giuravano sui fatti perchè probabilmente non vi
avevano nemmeno assistito.
Il processo era identico sia per le cause civili che penali, il giudice non aveva il compito di accertare
la verità, ma quello di dirigere il gioco, perchè di tale si stà parlando, secondo le regole stabilite dal
diritto, e infine dichiarava chi aveva vinto e chi aveva perso, sulla base del fatto se la prova fosse
stata superata o meno da parte del convenuto.
In caso affermativo il convenuto era libero nelle cause civili, oppure purificato o purgato nelle cause
penali, mentre se il convenuto o imputato soccombeva, doveva impegnarsi mediante una wadio a
risarcire l’attore, e in caso di inadempienza scattava la pegnoratizio ovviamente privata, di
esecuzione pubblica manco a parlarne.
Paragrafo 15
Inizialmente i processi si concludevano tutti con duello, ma questa pratica non è mai stata molto
apprezzata dai re longobardi, per tale motivo in seguito si preferiva usare il giuramento, che non era
molto praticato nelle liti sulla proprietà e sul possesso di immobili, mentre per le cause di un certo
rilievo sociale i re attraverso una legislazione apposita imposero l’uso del giuramento, questo
perchè chi vinceva non importava se avesse ragione o meno, ma quanto meno aveva il seguito di
una larga parte di opinione pubblica, e questo avveniva per le cause tra famiglie, o questioni di
status personale ad esempio.
Il duello era inaffidabile, soprattutto agli occhi di chi ebbe contatti con il mondo romano e cristiano,
per cui si premiavano spesso i malvagi, la cosa urtava ancora di più al solo pensiero che aveva
mascherato la sua immagine di prova di forza per mostrare una maschera di giudizio divino e
portatore di verità, in questo senso il procedimento germanico risultava ambiguo, rimanendo una
gara ludica, esprimendo una parvenza di procedimento etico-giuridico, si pretendeva che la divinità
intervenisse caso per caso a premiare colui che aveva ragione, mutando la prova di forza in una
prova di fatto o di diritto.
La sicurezza dell’intervento divino per regolare queste controversie in modo corretto mediante il
duello era tipicamente pagana, secondo la credenza pagana era una cosa normale che gli abitanti
degli Olimpi si occupassero delle faccende degli uomini, ma adattare il Dio cristiano a queste
pratiche non piacque alla Chiesa tanto che Gundobado re dei Burgundi, fu pesantemente criticato
dal vescovo S. Avito per avere introdotto nel processo l’intervento divino, e addirittura nella prima
metà del IX secolo d.C. esattamente 3 secoli dopo, il vescovo di Lione Agobardo lo criticherà
ulteriormente, nella sua critica dei giudizi di Dio.
I re longobardi ebbero poca fiducia dei giudizi divini, Liutprando non vi vedeva niente di divino,
questo perchè vide molto spesso soccombere chi aveva palesemente ragione, tanto da chiedere di
abolire il duello giudiziario, dal canto suo non lo abolì solo perchè il suo popolo nonostante tutto era
affezionato a quell’antica abitudine ancestrale, circa 60 anni prima di Liutprando, Grimoaldo
introdusse la prescrizione trentennale romana, e così risolse molte liti sull’appartenenza dei beni
immobili senza fare ricorre i contendenti al duello, palesemente inaffidabile.
In seguito l’ostilità a questo istituto si attenuò, stranamente, prima i carolingi lo tollerarono, poi
Ottone I lo riportò in auge, nell’ottobre del 967 a Verona emanò una serie di norme, che dovevano
essere per la maggior parte definite con un duello, tant’è che un ignoto scrisse sopra queste norme,
ecco che il gran re Ottone ci arricchisce del dono della guerra.
Le altre tante tipologie di ordalie, prima del Mille furono praticate poco in Italia e anche in ritardo,
molte arrivarono con i carolingi, con i quali si affacciarono sia in Europa che in Italia dove furono
frequenti dopo il Mille, dove peraltro trovarono posto in alcuni statuti comunali.
Liutprando ammise la prova dell’acqua bollente, ma solo per i servi, e forse derivava da una tortura
o probabilmente continuava ad esserlo.
Paragrafo 16
Il processo longobardo andò verso un’ambigua romanizzazione, i legislatori per la prima volta
chiesero ai giudici di decidere in base alle testimonianze, infatti temevano che mediante il sistema
del giuramento vi fossero spergiuri di tantissime persone insieme, come in caso di legioni intere che
andavano a giurare tutti insieme per ottenere beni temporali, e non esitavano a farlo pur di ottenerli,
anche se secondo la tradizione così facendo condannavano l’anima all’inferno.
Nonostante queste richieste dei legislatori, l’aspetto teologico era sicuramente il meno ricercato, in
questo senso si deve ricordare che la portata delle testimonianze fu dimezzata, per concludere il
processo sempre con l’antico rito del giuramento collettivo sul quale si basava effettivamente il
giudizio del giudice, pratica sancita anche da una norma emanata da Liutprando, che è stato
considerato il re longobardo più sensibile verso l’equità dei processi, e come introduttore
dell’istituto romano della testimonianza ma questa norma con cui si appropria della conclusione del
processo mediante giuramento collettivo ne attenua le tinte innovative.
La testimonianza fu presente prima nel diritto canonico e poi in quello laico.
La prova scritta invece fu ammessa già con Rotari che la ammetteva per provare il possesso e la
proprietà di un bene, che l’attore dichiarava essere stato dato solo in godimento, oppure consigliava
la redazione scritta di un documento quando veniva mutato lo status di uno schiavo in aldio, in
modo tale che si aveva la prova scritta di ciò, i giudici quindi iniziavano a maneggiare documenti
per fondare la loro sentenza, e fu un altro re longobardo che accantonò giuramenti collettivi e duelli
per seguire le indicazioni scritte e fare la volontà del suo predecessore.
Capitolo V
Paragrafo 1
La Chiesa è da ritenersi come responsabile della caduta del regno longobardo, caduta che avvenne
nel momento in cui questo aveva raggiunto il massimo della sua potenza, e questo avvenimento
ebbe conseguenze strutturali per l’intera Europa, cambiarono infatti gli equilibri da Oriente e
Occidente.
I Longobardi avevano sempre avuto il desiderio di occupare Ravenna, ed eliminare l’enclave che vi
si trovava, e nel 726 d.C. Liutprando decise che il momento era giunto, ed occupò l’esarcato, ma
successivamente i Longobardi capirono che dovevano andare oltre, dovevano occupare anche
Roma, che come si sa era sede della Chiesa cattolica la quale aveva accettato di buon grado il fatto
di avere un padrone seduto sul trono di Costantinopoli, quindi lontano, ma avere i Germani in casa a
spadroneggiare non era una cosa accettabile per il papa.
Liutprando nelle fonti ecclesiastiche è visto come un pericolo dalla Chiesa, anche se il grande re
longobardo era davvero come si definiva nei proemi delle leggi, cristiano e cattolico principe, e lo
dimostrava ispirandosi nella sua opera di normazione a principi ecclesiastici del papa e della
Chiesa, e inoltre per rassicurare il papa delle sue buone intezioni restituì nel 728 d.C. il castrum di
Sutri, uno dei punti fortificati della cinta difensiva del ducato di Roma, ma questo non bastò a
rassicurare la Chiesa, che cominciò a guardarsi attorno considerando che l’esercito bizantino si era
dimostrato incapace di difendere la città eterna, e se aggiungiamo anche il fatto che a Costantinopoli
si era scatenata l’iconoclastia, si deduce facilmente che non era facile chiedere aiuto ai Bizantini da
parte della Chiesa, perchè i rapporti erano più tesi, la situazione dell’Italia si andava a complicare.
Paragrafo 2
Nello stesso 726 d.C. anno in cui Liutprando invase i territori bizantini e messo in allarme la
Chiesa, in Oriente l’imperatore Leone III, cominciò la campagna contro l’iconoclastia, il culto delle
immagini, inizialmente la Chiesa non fu contraria, non vi furono riscontrate caratteristiche eretiche,
anzi aveva antiche radici cattoliche che risalivano persino ai primi tempi di Costantino, ma nel 730
d.C. Leone III con un decreto impose l’asportazione di tutte le immagini sacre dalle chiese, insorse
prima Germano patriarca d’Oriente, fu costretto alla fuga, e in seguito Roma mediante una sinodo
romana del 731 d.C. condannò ufficialmente l’iconoclastia.
L’imperatore dopo questa presa di posizione della Chiesa di Roma, non fu molto contento e pose in
essere una durissima ritorsione, la diocesi dell’Italia meridionale passò sotto la giurisdizione del
patriarca d’Oriente, e sul piano finanziario furono aumentate le tasse sopra i grandissimi
possedimenti ecclesiastici nel sud Italia, furono espropriate alcune rendite alla Chiesa, nell’Italia
bizantina e nella stessa città di Roma, inoltre ci furono delle sommosse popolari che a Ravenna si
manifestariono in maniera violenta, e ci fu anche l’uccisione dell’esarca Paolo, e a questo punto
l’ira dell’imperatore aumentò, e il nuovo esarca che sbarcò a Napoli, fu istruito in maniera precisa
dall’imperatore, doveva imporre in ogni modo l’iconoclastia alla Chiesa di Roma, con ogni mezzo
arrivando anche a comprendere l’uccisione del papa stesso, la curia romana venne a sapere di queste
istruzioni imperiali, e ne fu ovviamente sconvolta, tant’è che balenò un’idea, quella di deporre un
imperatore così malvagio ed eleggerne uno a Roma e mandarlo a Costantinopoli, questa era solo
un’idea ma solo 70 anni dopo si sarebbe verificata con l’incoronazione di Carlo Magno.
Il papa Gregorio II, oggetto della minaccia imperiale, si mostrò con animo distensivo esortando tutti
alla fedeltà verso Costantinopoli, il suo successore Gregorio III fece altrettanto in alcune lettere al
patriarca di Grado e al duca Orso di Venezia, chiedendogli di resistere a Liutprando, ovviamente
quello che scrivevano non era proprio quello che pensavano, tant’è che Gregorio II pensò di
sottrarre l’Italia e tutto l’Occidente a Costantinopoli, e Gregorio III vedendo Liutprando tornare alla
carica pensò di gettarsi nelle mani di Carlo Martello subregulus dei Franchi, la Chiesa lentamente e
faticosamente cambiava padrone.
Paragrafo 3
Nel 749 d.C. salì al trono longobardo Astolfo, re notoriamente bellicoso e supportato dal partito
guerrafondaio insito all’interno della società longobarda, nel medesimo anno i Longobardi deposero
il mite Rachi che morì nel convento di Montecassino, inoltre l’ennesima invasione dell’Esarcato
con relativa conquista di Ravenna, tra il 750 e 751 d.C. furono le gocce che fecero traboccare il
vaso.
I timori del papa questa volta furono supportati da un’indignazione dell’imperatore Costantino V, il
quale mandò a Roma una sorta di ciambellano d’alto rango, il silentiarius Giovanni, il quale per
conto dell’imperatore ordinò letteralmente al papa di recarsi da Astolfo per richiedere indietro il
maltolto, il papa comportandosi da buon funzionario imperiale, seppur di alto rango, nel 753 d.C.
andò da Astolfo, implorandolo di restituire i territori occupati, ma come era prevedibile il re
longobardo non acconsentì alle richieste pontificie, a questo punto al papa non restò che rivolgersi
ai Franchi, che all’epoca erano governati da Pipino il Breve, succeduto a Carlo Martello, suo padre,
egli era insoddisfatto del titolo di subregulus, era inoltre principe dei Franchi, maggiordomo di
palazzo, e divenne re nel 751 d.C. per salire al trono comunque dovette uccidere l’ultimo re
merovingio che era il legittimo sovrano, e questa non era cosa da poco.
Per fare questo Pipino chiese l’autorizzazione per così dire a papa Zaccaria, predecessore di Stefano
II, ovvero colui che gli chiese aiuto, papa Zaccaria scrisse una lettera a Pipino in risposta alla sua
richiesta di autorizzazione, ordinando la deposizione del re merovingio Childerico III, considerato
un inetto, e questa lettera fu utilizzata in seguito verso il XII e XIII secolo, per affermare che il papa
poteva deporre sovrani dai canonisti ierocratici, era comunque un’inauidita ingerenza del papa
all’interno del potere secolare dei sovrani, in questo caso comunque fu una liberazione per Pipino il
quale rassicurato l’animo del popolo e la sua coscienza, nel 751 d.C. si liberò del legittimo sovrano
merovingio, e nel medesimo anno ricevette l’unctio sacra da Bonifacio, santo vescovo di Magonza.
Dopo questa piccola parentesi torniamo al papa Stefano II, il quale come detto fu respinto da
Astolfo, e sollecitato da ambasciatori franchi, si rivolse a Pipino il Breve appena salito al trono, per
fare questo si recò a Ponthion nel 754 d.C in Francia settentrionale, il papa in questa occasione
chiese aiuto a Pipino affinchè lui riconquistasse tutto il Ravennate, e la pose come questione di
vitale interesse sia per il pontificato che per l’Impero, il re franco accettò e promise di restituire il
Ravennate allo Stato bizantino.
Paragrafo 4
Il papa comunque rimase un pò di tempo ospite dei Franchi, giungendo ad avere rapporti quasi
familiari con la corte franca, cominciavano forse le grandi manovre per liberare la Chiesa dal trono
d’Oriente?
Nel 754 d.C. il papa Stefano II, nella chiesa di Saint Denis impartì una solenne unzione regia a
Pipino e ai figli Carlomanno e Carlo (futuro Carlo Magno), ma come ricordiamo solo 3 anni prima
Pipino ricevette un’unzione dal vescovo Bonifacio, come è possibile che il papa desse una
medesima unzione allo stesso re?
Per i suoi figli questa unzione serviva a collegarli al trono in maniera indelebile e siccome non ne
avevano ricevute in precedenza la cosa andava bene, mentre per il padre si doveva trattare di
qualcosa di diverso rispetto a quella ricevuta in passato, altrimenti non si spiega il perchè di questa
unzione regia, un monaco di Saint Denis ci ha lasciato il resoconto di questa cerimonia attraverso la
Nota de unctione Pippini, ci racconta che i carolingi furono unti re e patrizi, ma qui la domanda
sorge spontanea, come poteva il papa insignire qualcuno del titolo di patrizio?
Un conferimento di regalità e patriziato insieme non si era mai visto, e quest’ultimo non poteva
essere dato con un’unzione men che meno dal papa, era dato dall’imperatore infatti, e il papa non
poteva non saperlo, inoltre non aveva inventato alcun titolo, anche se si diceva che l’imperatore
aveva parlato di insignire i carolingi di questa onorificenza nel momento in cui questi avessero
deciso di riconquistare il Ravennate, ma è difficile che il papa avesse messo in pratica questo
progetto imperiale, è più probabile pensare che come indicano le fonti con la dicitura patritii
Romanorum, per antonomasia identificava gli esarchi di Ravenna, fu data dal papa ai carolingi
perchè a Ravenna ormai non vi era più un Esarca e l’ultimo di nomina imperiale, Eutichio fu
scacciato via dai Longobardi, a questo punto il Papa nominò i suoi successori.
Stefano II stava attuando il piano pensato già nel 739 d.C. da Gregorio IX, ovvero quello di
sostituire l’Impero bizantino con i Franchi guidati dalla potentissima e fedelissima stirpe di Carlo
Martello, inoltre nel medesimo anno l’imperatore d’Oriente Costantino V, diede personalmente
lettura dei canoni iconoclastici sanciti da un concilo costantinopolitano da lui personalmente voluto,
e come sappiamo la Chiesa di Roma era molto contraria all’iconoclastia.
Che i carolingi fossero considerati come i nuovi esarchi dalla curia romana, lo si evince da alcuni
episodi avvenuti in quegli anni, infatti quando nel 757 d.C salì al Soglio il nuovo papa Paolo I, fu
subito data comunicazione a Pipino, come da prassi si faceva per l’Esarca di Ravenna, e ovviamente
anche all’imperatore d’Oriente, e nel 774 dopo che Carlo Magno conquistò il regno longobardo fece
una visita memorabile a Roma e fu accolto con le cerimonie previste per le visite dell’esarca, e si sa
che la Chiesa non ha mai scelto le forme a caso, quindi dobbiamo interpretarle come una prova che
i carolingi nel 754 d.C. con l’unzione di Stefano II furono considerati alla stregua dell’Esarca
appena deposto dai Longobardi.
Paragrafo 5
L’unctio in regem et patritium di Stefano II verso i carolingi appare incongrua sotto vari punti di
vista, ad esempio perchè un re che era stato unto solo 3 anni prima fu nuovamente protagonista di
questa cerimonia? Oppure perchè il papa usò il sacro crisma dell’unzione per insignire di patritii i
carolingi quando questo non era necessario? La soluzione può essere soltantanto una, questa
unzione aveva avuto un nuovo oggetto, o un regno franco esteso all’Esarcato o un’Esarcato elevato
a regno, quest’ultima ipotesi pare la più credibile in quanto il patriziato rappresentava la faccia
romana della regalità barbarica, tesi confermata dalle forme usate dalla cancelleria di Carlo Magno
che considerava il patriziato dei Romani come un nuovo regno.
Le fonti ecclesiastiche dal canto loro slegano il regno dall’effettivo esercizio del potere, chiamano
infatti patrizio romano già prima dell’Esarcato in mano ai Longobardi, mentre lo stesso Carlo
Magno si assegnerà questo titolo solo dopo la sconfitta dei Longobardi e non prima di quel fatidico
774 d.C. egli aveva una visione concreta della regalità, una concezione germanica.
Carlo Magno dopo la sconfitta longobarda e la relativa conquista di tutti i territori appartenenti al
regno longobardo, correderà i suoi documenti con le tre cariche più importanti dell’epoca, con
l’unzione di Stefano II cominciò la sua brillante carriera bizantina sponsorizzata dal pontificato, ora
era divenuto rex Francorum et Longobardorum et patritius Romanorum, concluderà questa carriera
nel Natale dell’800 quando il papa Leone III lo promuoverà da esarca a imperatore.
Paragrafo 6
Nell’estate del 754 d.C. il papa e Pipino si incontrarono in un piccolo villaggio della Francia,
Qiuerzy-sur-Oise ove il re aveva un palazzo, che venne poi utilizzato per assemblee e diete, il
pontefice che solo pochi mesi prima supplicò l’aiuto dei Franchi per scacciare Astolfo dal
Ravennate ricevette una promessa da parte di Pipino, ovvero che i territori dell’Esarcato, Venezia e
l’Istria, l’Emilia e la Tuscia, la Corsica e i ducati di Spoleto e Benevento sarebbero stati donati al
papa e non all’Impero bizantino come si era inizialmente pattuito, questa fu chiamata Promissio
Carisiaca, dal nome del luogo in cui fu fatta (Carisiacum).
Alcuni dei territori promessi da Pipino al papa sarebbero dovuti andare all’Impero e la straordinaria
ampiezza della donazione fanno presuppore, che i due avrebbero stabilito l’eliminazione del regno
longobardo che aveva mire espansionistiche verso tutta la penisola italica, inoltre stabilirino anche
una suddivisione del regno longobardo, con la pianura padana in mano ai Franchi, e il resto al papa,
era la parte che interessava di più alla Chiesa del resto.
Il papa cominciava a immaginarsi il dominio peculiare che avrebbe avuto, anche se questa mega
donazione non fu mai eseguita integralmente, e nel 756 d.C. dopo la sconfitta di Astolfo, passarono
in mano del pontificato alcune zone dell’Esarcato, dell’Emilia e della Pentapoli che erano in mano
ai Longobardi, in questi luoghi la Chiesa inviò il duca Eustachio e il prete Filippo da Ravenna ad
amministrare le zone, dimenticandosi dell’Impero.
Papa Adriano I in seguito scriverà a Carlo Magno di volere configurare la promessa fatta da suo
padre Pipino, la Promissio Carisiaca, come istitutiva di un patriziato della Chiesa parallelo a quello
dato dal papa anni addietro ai carolingi, un doppio regno gravante sugli stessi territori insomma,
cosa che con la Chiesa si ripeterà anche in seguito per esempio quando nel 781 d.C. Carlo Magno
diede al figlio Pipino il potere sulla Repubblica romana, territorio dove vigeva l’incontestato potere
del papa, inoltre l’imperatore Lotario in seguito sovrapporrà il suo potere a quello del papa a Roma.
Ma cosa pensava Costantinopoli riguardo tutti questi avvenimenti?
Non dimentichiamoci che a Roma vi era il silentiarius Giovanni, emissario dell’imperatore
d’Oriente, accompagnato dal protosecreta Giorgio, entrambi si imbarcarono alla volta della Gallia,
la Chiesa per controllare la situazione aggregò un ecclesiastico romano, si doveva impedire il
ritorno di Costantinopoli a Roma, ma non si dovevano rompere i rapporti con l’Impero, anche
Pipino era contrario alla cosa, ma la Chiesa teneva un comportamento ambiguo, infatti papa
Adriano I mostrò di essere un suddito fedele di Costantinopoli consegnandoli Paolo Afiatra, capo
del partito filolongobardo di Roma, da un altro lato diede forza alla sua tesi di titolarità sul territorio
romano della sua giurisdizione, inoltre da quando iniziò il suo pontificato coniò delle monete con la
sua effige, e dati i documenti ufficiali dallo stesso anno, la Chiesa che era sempre stata alleata
dell’Impero e sua istituzione ora lo stava tradendo.
Paragrafo 7
La Chiesa quindi aveva una cattiva coscienza in quel periodo, e questo forse ebbe qualche influenza
nella redazione della Donazione di Costantino, il più celebre falso medievale, che fu utile nel 1200 a
corroborare le pretese ierocratiche della Chiesa, i civilisti ne negheranno la validità giuridica, e in
varie epoche fu dichiarato falso ma solo nel 1440 fu accertata la sua falsità da Lorenzo Valla.
Le origini del Constitutum Constantini sono abbastanza oscure, inizialmente a metà del IX secolo fu
introdotto nelle Decretali pseudo-Isidoriane, opera di diritto canonico in cui fu ritrovato, si pensa
che il falsario sia il medesimo delle Decretali pseudo-Isidoriane composto verso l’850 d.C. in
Francia, comunque si fanno molte ipotesi attorno a questo documento, si pensa comunque che sia
stato redatto molto prima del’850 d.C. scritto tra Italia e Francia, magari in qualche convento, altri
pensano sensatamente che abbia avuto una composizione graduale, ma quella che si sente
maggiormente è l’atmosfera romana attorno al documento, si intravede la Promissio Carisiaca fatta
da Pipino al papa, e con la lettera di Adriano I a Carlo Magno, chiedendogli di adempiere alla
promessa fatta tempo addietro dal padre, si voleva fare pensare a Carlo Magno di poter essere il
novello Costantino difensore e benefattore della Chiesa, generosità il cui oggetto erano territori in
his Hesperiae partibus che assomigliano alle occidentalium regionum provinciae loca et civitates di
cui parla la promessa di Costantino, questo fa pensare che al tempo di Adriano I il documento falso
fosse già stato redatto, e comunque la Promissio Carisiaca lo evocava in maniera netta.
Anche se il falso era molto più generoso della promessa del re carolingio, concedeva il palazzo
Lateranense sede di Costantino e del potere, la città di Roma e le province d’Italia, ovviamente
l’Esarcato e la Pentapoli che la Chiesa non restituì all’Oriente, e in generale tutte le regioni
occidentali, inoltre proseguiva con la concessione all’allora papa Silvestro della corona dello scettro
e delle vesti imperiali, questo per dargli un effettivo potere o come onorificenza?
Inoltre secondo questo documento Costantino avrebbe dato l’autorità al papa di creare consoli e
patrizi, questo forse su ispirazione dell’unctio in regem e patritium conferito ai carolingi?
Inoltre l’imperatore confessava che la capitale era stata trasferita a Costantinopoli per non dare
fastidio al papa nella città di Roma, in tutto il documento vi sono agganci alla politica della seconda
metà dell’VIII secolo, e traspare la volontà di legittimare il sogno di quel dominuim peculiare Beati
Petri, che la promessa fatta da Pipino il Breve aveva alimentato, e che comportava il tradimento
dell’Impero, sperando forse che l’ombra bugiarda del grande Costantino acquietasse i rimorsi e la
cattiva coscienza della Chiesa.
Paragrafo 8
L’elevazione imperiale di Carlo Magno era traguardo coerente con la politica ecclesiastica,
avvenimento considerato il più grandioso di tutto il Medioevo, alcuni vedono in questo evento la
restaurazione dell’Impero d’Occidente, vacante dalla destituzione di Romolo Augustolo, chi vi vede
la nascita di un impero sacro cristiano, chi un impero germanico con niente a che vedere con la
romanità, chi il trasferimanto a un Franco dell’Impero di Costantinopoli con trasferimento a Roma,
quest’ultima tra l’altro è l’unica interpretazione che conviene alla cerimonia del Natale 800 e
corrisponde all’immagine imperiale che la Chiesa conservò sempre, mentre per quanto riguarda
l’interpretazione germanica, vale dall’812 d.C. data della pace di Aquisgrana dove Carlo Magno
rinunciò ad essere l’imperatore dei Romani.
Nel Natale dell’800’ sul trono bizantino vi era l’usurpatrice Irene, quindi era considerato vacante, il
papa Leone III voleva trasferirlo a Roma, decisione presa li per li si diceva, ma non era vero, del
resto Carlo e la sua corte non avevano stima per la romanità, e un atto del genere non poteva essere
fatto senza la sua volontà, e l’iniziativa di spodestare Irene non era nata in ambiente franco, questo
lo si evince da una lettera indirizzata a Carlo da un suo amico, Alcuino il quale lo chiama reggitore
di tutto il popolo cristiano ma non lo chiama imperatore dei Romani, cosa che nemmeno Carlo
voleva essere, ed era contrario anche Alcuino stesso.
Quest’idea come prevedibile girò in ambienti romani, e il papa ne parlò anche pochi giorni prima in
un concilio, era un modo fantastico per uscire da un brutto periodo dove aveva subito molte
umiliazioni, fu infatti accusato di spergiuro e adulterio da nobili romani ostili, fu incarcerato e
riuscito incredibilmente e fortunosamente a fuggire, andò in Germania dove Carlo Magno lo
proteggeva, dopo di che tornò a Roma sotto scorta, fu deferito per volere dello stesso Carlo Magno
a un concilio dove si doveva fare chiarezza sulla sua posizione, il concilio si dichiarò senza
giurisdizione in quanto nessun giudice poteva giudicarlo, si ritirarono i testimoni dell’accusa, a
questo punto il papa stesso dichiarò la sua innocenza, e si fece ricorso al rito della purgazione che
era previsto anche dall’ordinamento canonico nei casi in cui non si riusciva a dimostrare la
colpevolezza del soggetto, per ripristinarne l’immagine, ma il papa dichiarò la sua innocenza con il
rito germanico, quindi con i sacramentali, e non da solo come voleva il rito canonico, ovviamente
non era nulla di rivoluzionario, forse fu stato Carlo stesso a chiedergli di sottoporsi a questo istituto,
inoltre fu usato il rito germanico per offrire una bella prova all’imperatore carolingio, per cercare di
persuaderlo sulla sua onestà e innocenza.
Pochi giorni dopo il medesimo papa Leone III, nella basilica di S. Pietro officiava la cerimonia in
cui elevava Carlo da patrizio dei Romani a imperatore, era una cerimonia che veniva fatta così da
secoli, forse dal 457 d.C. con papa Leone I o con il suo successore Zenone, comunque la cerimonia
era in stile Orientale, il papa si doveva prostrare nella proschinesi, con atteggiamento adorante che
sicuramente urtava l’orgoglio della Chiesa occidentale, infatti di questo ne parlano solo le fonti
germaniche, poi vi erano le regolari acclamazioni che simboleggiano il pleibiscitario consenso del
popolo tutto, nella formula bizantina, infine forse vi fu la conferma del Senato, secondo la
tradizione secolare.
Il rito era stato fatto per nominarlo imperatore dei Romani, opinione condivisa sia in Occidente che
in Oriente, qui se ne parlò con ironico disprezzo, il papa infatti anzichè usare il crisma sacro nella
giusta misura imbrattò il povero Carlo Magno d’olio da capo a piedi, ma il vero obiettivo del
pontefice era quello di nominare Carlo Magno eis Basilea ton Romaion, per strappare a
Costantinopoli il trono.
Paragrafo 9
Secondo il suo biografo Eginardo, Carlo si pentì di avere assunto il titolo di imperatore dei Romani,
se avesse saputo quello che lo aspettava avrebbe evitato di entrare in chiesa quel giorno, malgrado
fosse solenne, gli storici si sono chiesti il significato di queste parole, forse a Carlo dava fastidio il
fatto di essersi messo nelle mani del papa, ma i rapporti futuri tra Impero e Chiesa stabilirono senza
ombra di dubbio che fu la Chiesa a subire Carlo Magno e non viceversa, oppure lo esasperarono i
guai che la nomina gli creò con Costantinopoli? Ciò è sicuramente possibile.
Alcuni si sono chiesti se ci si debba fidare di Eginardo, il quale era molto più interessato a imitare
Svetonio che a narrare i fatti come erano in realtà.
In ogni caso Carlo accettò di buon grado il titolo di imperatore, successore di Costantino e
Giustiniano, e si atteggiò di conseguenza, lo rivela la sua cancelleria.
Carlo rimase a Roma fino all’801 d.C. per poi andare a Ravenna, dove forse i suoi collaboratori
diedero uno sguardo agli archivi, infatti in un giudizio dato da Carlo a Bologna adottarono
un’itenstazione dal sapore bizantino, Karolus serenissimus Augustus a Deo coronatus, magnus ac
pacificus imperator, Romanum gubernans Imperium, in questa formula vi è una parte cara a
Giustiniano, Romanum gubernans Imperium, da quel giorno fu l’intitolazione dei diplomi pubblici,
documenti privati e placidi, anche se sarebbe dovuta sparire nell’812 d.C. dopo la pace di
Aquisgrana che restituì il titolo di imperatore dei Romani a Costantinopoli, la cancelleria si servì
della medesima intitolazione almeno fino a tutto l’816 d.C.
Non fu solo l’intitolazione copiata per i formulari, ma Carlo sottoscrisse i diplomi a garanzia
dell’approvazione del testo, adotto il Legimus che era una consuetudine bizantina, nonchè l’uso
della bolla e del sigillo plumbeo furono di origine bizantina, Carlo di suo aggiunse il simbolo di una
torre e le iscirizioni Roma e Renovatio Romani Imperii, iscrizioni che confermano la portata
straordinaria della cerimonia del Natale 800, si era messo un Germano sul trono di Costantinopoli,
ritrasferendone la giusta sede a Roma, questo fu di ispirazione per molti poeti e scrittori che videro
il loro estro riecheggiare, acclamando l’aurea Roma, Roma caput mundi, questo fu apprezzato in
Occidente, molto meno in Oriente.
Paragrafo 10
Per appianare i contrasti che si erano venuti a creare con l’Oriente, si pensò anche ad un
matrimonio, vecchio metodo usato dalle diplomazie, il matrimonio doveva celebrarsi tra Carlo e
l’usurpatrice Irene, la quale mandava messaggeri a Carlo per proprorgli l’Impero, ed era innegabile
che aveva bisogno d’aiuto, dal canto suo Carlo fece i primi passi in questo senso, tutto ciò avvenne
nell’802 d.C. ma nello stesso anno Irene fu deposta senza che alcun matrimonio fu celebrato, dopo
di che il suo successore Niceforo non ebbe buoni rapporti con Carlo e per 10 anni si alternarono
guerre con trattative, e solo con la pace di Aquisgrana che restituiva il titolo di imperatore romano,
o dei Romani, all’imperatore d’Oriente, si placarono le acque, i messaggeri greci acclamarono Carlo
come Basileus il che fu di grande orgoglio per Carlo, ma a Costantinopoli precisarono, dei Franchi.
Carlo si spogliò di quelle vesti di imperatore romano, dotato di quella universalità e di altre
astrattezze che poco comprendeva, si sentiva più a suo agio nella veste barbarica, ovvero una
visione quantitativa dell’Impero, si facevano chiamare imperatori infatti coloro che avevano
assorbito territori altrui, altri regni, chi ne possedeva almeno un’altro oltre il suo aveva un impero,
così in Inghilterra e Spagna, e così in precedenza Carlo il Calvo, Carlo Magno non era quindi re dei
Franchi solamente, sarebbe stato riduttivo per lui, era imperatore dei Franchi, e prima di morire
nell’813 d.C. cambiò la scritta sul suo sigillo da Renovatio Imperii Romani con Renovatio Regni
Francoforum, e incoronò lui stesso sui figlio Ludovico il Pio, non perchè vi erano stati problemi con
la Santa Sede, ma perchè la nomina pontificia implicava la nascita di un imperatore dei Romani, il
che poco si addiceva a un germanico, poteva essere anche controproducente come nel caso di Carlo
Magno, scatenando una guerra con l’Oriente, e questa visione quantitativa si evince ancor di più
nell’epitaffio di Ludovico il Pio, nel quale lo si celebra come imperatore che ha nobilmente
ampliato il regno dei Franchi, senza parlare di Roma e di Romani.
Romanità dell’Impero quindi rinnegata dai Franchi, ma la Chiesa cosa ne pensava?
Per quanto riguarda la Santa Sede poco era cambiato e si continuava a propugnare la romanità
dell’Impero, lo si evince da due gaffe eclatanti e famose, la prima fu una lettera inviata da Ludovico
II imperatore Franco nel 871 d.C. a Basilio imperatore di Costantinopoli, nella quale il primo è
chiamato imperatore dei Romani e il secondo imperatore dei Greci, si sa che Ludovico II andava in
cerca di un’alleanza ma con questa provocazione era difficile ottenerla, questa lettera fu dettata da
Anastasio, potente bibliotecario della Chiesa, che ancora dopo 50 anni definiva l’imperatore franco
come imperatore romano.
Con la fine della dinastia carolingia e quindi la conclusione di una lunga crisi, nel 962 d.C. ci fu la
seconda restaurazione dell’Impero, l’imperatore Ottone I di Sassonia fece sposare suo figlio con una
principessa bizantina, per unire i troni più importanti dell’epoca, le trattative per fare si che questa
unione si concretizzasse furono affidate al vescovo Liutprando di Cremona, che andò a
Costantinopoli, dove si recarono anche messi del papa Giovanni XIII per appoggiare la cosa, questi
ultimi resero omaggio a questa alleanza tra l’imperatore dei Romani e l’imperatore Greco, e
ovviamente Niceforo andò su tutte le furie, interrompendo immediatamente le trattative e forse vi fu
anche una ritorsione verso la Chiesa, e solo dopo la sua morte, la principessa Teofano sposò Ottone
II nel 972 d.C.
La Chiesa non voleva ammettere che dall’812 d.C. il trono dell’Impero era ritornato a
Costantinopoli, era ancorata inossidabilmente al Natale dell’800 data in cui la Chiesa trasferì il
trono dell’Impero in Occidente nelle mani carolingie, predicò la translatio Imperii prima in Francos
poi in Germanos, riuscendo a fare accettare la sua tesi a tutto l’Occidente.
Paragrafo 11
La Chiesa non ignorava che l’Impero era anche sacro oltre che romano, nel senso che la sacertà era
insita in ogni potere che veniva da Dio e la cerimonia religiosa la imprimeva come un marchio,
l’unctio con il sacro crisma, quello che aveva fatto di Carlo Magno imperatore dei Romani per
intenderci, era un marchio che era caratteristico di re e imperatori, e nel Medioevo queste persone
erano considerate tra cielo e terra, e secondo le credenze popolari erano capaci addirittura di
miracoli, l’Impero a differenza del regno aveva l’universalità che lo metteva in relazione con la
Chiesa, inoltre la Chiesa era vista come istituzione dell’Impero, questo già dalla tradizione
postcostantiniana che la vedeva inoltre organizzativamente legata ad esso, questa era la
reinterpretazione medievale del dualismo gelasiano, papa Gelasio infatti già alla fine del V secolo
d.C. avendo paura del cesaropapismo, chiese una separazione di pertinenze riguardo i poteri, mentre
nell’era carolingia si cercava un’integrazione, per cercare di unire il genere umano.
Ordine spirituale e temporale erano stati fusi nella visione ecclesiastica del mondo, unum corpus
mysticum, cui a capo c’era Cristo, in questo corpo mistico non vi era possibilità di scindere il
cittadino dal cristiano, come non si poteva scindere l’anima dal corpo di una persona vivente,
inoltre la società si era trasformata in ecclesia, trasfigurazione della realtà divina e umana,
inscindibili del Redentore, l’impero del monarca coincideva con l’omnicomprensività imperiale,
sicchè l’imperatore poteva essere definito imperatore della Chiesa d’Europa.
Questa configurazione tra Impero e Chiesa va tenura in considerazione quando si affrontano le linee
politiche e ligislative dei carolingi.
Capitolo VI
L’Impero carolingio
Paragrafo 1
Nonostante una vita semplice, i carolingi emisero un buon numero di norme, che vengono chiamate
capitolari, perchè apparvero sotto forma di serie più o meno lunghe, non sempre omogenee e di
brevi capitoli, venivano emanate mediante diete o altre riunioni pubbliche, questo tipo di
normazione accoppiava alle usanze germaniche le modalità ecclesiastiche, i concili per intenderci,
Pipino padre di Carlo Magno nel 744 d.C. ne presiedè uno, le norme emesse furono considerate un
capitolare, e fu un primo punto di contatto tra la prassi ecclesiastica e quella carolingia.
Il termine capitulare era tipico dei carolingi, e in generale della cultura franca, si trova
sporadicamente anche nei proemi delle leggi di Astolfo re longobardo, la terminologia antica
romana è sopravvissuta e traghettata dai merovingi, si identificava con lex un complesso normativo
popolare, edictum scomparve, decretum praeceptum videro attenuare il loro utilizzo, come detto di
antica provenienza romana, le norme comunque si consideravano emanate per volontà del re, come
in precedenza e il termine constituere presente nella promulgazione delle norme ne è la prova.
Dopo la morte di Carlo Magno i capitularia si diversificarono in varie categorie, vi erano i
capitularia ecclesiastica, contenenti provvedimenti relativi al clero, chiese e monasteri, cui si
contrapponevano i capitularia mundana, riguardanti il mondo laico, vi erano i capitularia missorum,
contenenti le istruzioni per i missi dominici, i funzionari statali spediti in provincia a rappresentare
l’imperatore, con compiti di governo, di giurisdizione e di controllo, infine vi erano i capitularia
legibus addenda, modificavano le leggi popolari ancestrali, adeguandole alla volontà del sovrano.
Paragrafo 2
Prendiamo in esame i capitularia ecclesiastica, si nota il tema più significativo dei carolingi, quello
dei rapporti tra il regno e il sacerdozio, questi furono abbondanti durante l’Impero di Carlo Magno e
suo figlio Ludivico il Pio, questo chiarisce la volontà dei suddetti di garantire alla Chiesa una vita
ordinata, questi capitolari furono raccolti tra l’826 e l’827 d.C. dall’abate Ansegisio, il quale solo
dei due imperatori più attivi ne riempì 4 libri, e solo due erano dedicati ai capitolari ecclesiastici,
entrambi questi imperatori guardavano a cielo e terra in egual misura quindi.
Sia Carlo Magno che suo figlio erano religiosissimi, ma è probabile che la Chiesa essendo
istituzione dell’Impero, li obbligava a intervenire, tanto più che la Chiesa aveva gran bisogno di
questi interventi visto che tra il 680 e il 740 d.C. la sua decadenza toccò il fondo, in quanto le
gerarchie precostituite andavano in pezzi, il clero era ignorante e mal reclutato, c’era corruzione e
indisciplina, l’aristocrazia laica era invadente e prepotente, in alcune diocesi vi erano 2 vescovi in
altre nessuno, alti prelati si facevano trasferire in sedi più ricche per puro interesse, si allontanavano
dalle loro sedi di competeza disinvoltamente, mentre il pastore come dicevano le fonti
ecclesiastiche doveva essere legato indissolubilmente al proprio gregge.
Altri preti erano disobbedienti, chiese in rovina, utilizzavano libri inaffidabili per l’esplteramento
del ministero ecclesiastico, già Pipino padre di Carlo Magno cominciò ad occuparsi di queste
questioni, convocò il concilio di Soissons nel 744 d.C. tenne d’occio la liturgia, e curò la messa
gelasiana, suo figlio Carlo Magno nel famoso concilio di Francoforte del 794 d.C. difese il dogma
del culto delle immagini e reagì contro l’eresia adozionista.
I Libri Carolini di autore ignoto del 787 d.C. trattanti l’iconoclasita dopo la sinodo niceana, furono
attribuiti a Carlo Magno, forse non materialmente ma furono suoi sicuramente spiritualmente, Carlo
medesimo ordinò ad Alcuino una revisione della Bibbia e a Paolo Diacono la redazione di un
nuovo omeliario da far adottare nei suoi regni.
La Chiesa mai si risentì di queste interferenze, peraltro richieste, spesso erano i concili stessi a
preparare il testo delle norme che il re avrebbe emanato nei suoi regni, fornendogni della sua
autorità, della quale le sinodi locali avevano bisogno.
Agobardo grande arcivescovo di Lione affermò che l’opinione pubblica era restia ad accettare
norme che non avessero l’autorità dell’imperatore, i capitolari ecclesiastici erano il modo migliore
per attuare i desideri delle sinodi regionali ed eccellente strumento per attenuare le usurpazioni,
prevaricazioni ed iniquità.
Quando la dinastia carolingia perse potere, l’aristocrazia aumentò la sua importanza e quando i suoi
interessi erano lesi a favore della Chiesa, riusciva a impedire l’emanazione di questi capitolari
ecclesiastici.
Paragrafo 3
Un esempio del potere aristocratico si verificò nella dieta di Compiègne dell’823 d.C., quando i
laici riuscirono a impedire la promulgazione di un editto, il cui testo era disposto da un concilio
ecclesiastico, che prevedeva la restituzione alla Chiesa dei beni in possesso dei nobili, questo
avvenne anche in altre occasioni, in cui il re Carlo il Calvo dovette piegarsi in quanto era debole e
bisognoso dell’appoggio dei nobili, come nel caso della riproduzione in legge dei canoni del
concilio di Parigi, Meaux ed Epernay, con l’indebolimento della monarchia carolingia, già ai tempi
di Ludovico il Pio, le diete cessarono di essere il luogo di semplice pubblicazione delle norme
intese come volontà dell’imperatore, divenendo invece luogo di discussione delle medesime, che
ora necessitavano di approvazione da parte dell’assemblea, i capitolari si feudalizzano, come lo
sono ormai i centri del potere, questo cambiamento colpì innanzitutto i capitolari ecclesiastici,
uccidendo la politica di rapporti stretti tra Impero e Chiesa, caratteristica del regno di Carlo Magno.
L’aumento del potere dell’aristocrazia significava per la Chiesa un maggiore disordine in quanto
l’imperatore non poteva più garantirgli quella protezione che dava in precedenza, inoltre così
l’aristocrazia poteva meglio controllare e dominare la Chiesa medesima, disorganizzata com’era, a
questo proposito nella seconda metà del 700’ nacquero molte falsificazioni, grande fenomeno
iniziato nella Chiesa di Francia, e costituivano un antidoto al fallimento e alla fine dei capitularia
ecclesiastica.
Paragrafo 4
Paragrafo 5
La Decretali Pseudo-Isidoriane anche se un palese falso è da considerare come uno dei prodotti
giuridici più importanti dell’età carolingia, ebbe molta fortuna e circolò tantissimo.
Più di un centinaio di manoscritti completi e tantissimi frammenti di quest’opera ci sono giunti,
disseminati tra il IX e il XV secolo, il nome di Isidoro appare nella prefazione, e si definisce anche
peccator in qualche manoscritto, nella maggioranza delle fonti marcator, la prima è segno di umiltà,
la seconda poco comprensibile, si rivolge al lettore professando la propria ansia per la verità e si
dichiara spinto alla compilazione dell’opera da 80 vescovi e molti canonisti, dobbiamo chiarire che
all’epoca Isidoro era inteso come Isidoro di Siviglia, vescovo e da due secoli il massimo
dispensatore di dottrina, quindi è facile capire perchè abbia avuto l’intitolazione dell’opera.
Il lavoro falsificatorio consistette nel comporre un mosaico di pezzi carpiti da tradizioni
ecclesiastiche e laiche, ritoccati e forniti di autorevoli paternità canoniche, e l’autorevolezza si
andava a ricercarla nel passato, avvicinandosi all’età dell’oro, alla Chiesa delle origini, più i principi
erano vetusti più erano portatori di verità, per questo vi ritroviamo lettere papali risalenti addirittura
al I secolo, anni in cui erano papa Anacleto I (79-90 d.C.), e Clemente I (90-101 d.C.), noi oggi
sappiamo che le decretali genuine più antiche risalgono all’anno 385 d.C.
La ratio della raccolta è di facile desunzione, essa andava infatti verso la pari dignità dei vescovi, e
verso una loro autonomia, questo perchè all’epoca la Chiesa francese si andava organizzando in una
struttura feudale, di tipo piramidale con a capo un primate che faceva il suo esordio nello Pseudo-
Isidoro, passando via via per i vari livelli subordinati, arcivescovi, vescovi ecc ecc, la raccolta
andava palesemente contro questa trasformazione che stava attuando la Chiesa francese.
La Chiesa non si può dire che ottenne il livellamento dei poteri vescovili come auspicava, ma di
sicuro ottenne l’effetto conseguente ovvero l’accrescimento del potere papale, che andò nei secoli
seguenti ben oltre le aspettative dei falsificatori che volevano liberare la Chiesa dal ruolo di organo
dell’Impero, come sappiamo la Chiesa si libererà completamente dell’Impero con Carlo Magno, e le
mire gregoriane di affiancarla all’Impero medesimo, e valicare i limiti del potere spirituale per avere
anche quello temporale saranno raggiunti.
Ma le Decretali Pseudo-Isidoriane contenevano un documento che diede alla Chiesa la possibilità di
arricchirsi in maniera spropositata, ovvero la falsa Donazione di Costantino.
Paragrafo 6
Le false decretali opponendosi con forza alla struttura ecclesiastica che si stava creando in Francia,
coinvolsero Incmaro (806-882 d.C.), arcivescovo di Reims e metropolita della Gallia era un
teologo, scrittore di trattati moralistico-politici, molto influente presso la corte carolingia.
Non voleva rinunciare ai poteri che aveva assunto come metropolita, depose tutti coloro che
invocarono la limitazione di questi poteri, come il vescovo Rotado di Soissons (869 d.C.), stessa
sorte per l’omonimo nipote, ovvero Incmaro vescovo di Laon che fu per giunta accecato.
Incmaro nipote fu uno dei primi a utilizzare le Decretali Pseudo-Isidoriane, ne fece redigere un
estratto, lo fece sottoscrivere a tutto il suo clero e lo firmò egli stesso, dopo di che lo usò come arma
verso lo zio, per fare capire quale era il senso e la volontà di queste decretali.
Giunse abbastanza preso a Roma e fu usata forse da papa Niccolò I (858-867 d.C.), che avrebbe
sicuramente gradito l’esaltazione della plenitudo potestatis contenuta nell’opera, si crede che non
abbia avuto una vita lunga, cosa difficile da immaginare visto che si è ritrovata in tutte le raccolte
più importanti di materiale canonistico della fine del primo millennio, come la Collectio Anselmo
dedicata composta verso la fine dell’800’ ne contiene qualche pezzo, altri se ne trovano in altre
opere come nel Decretum di Burcardo di Worms redatto tra il 1008 e il 1012, inoltre avrà una
grande fortuna verso la metà del XI secolo con le compilazioni canoniche gregoriane.
Non ci deve sorprendere che la Chiesa dia tanta importanza ai falsi, infatti in quell’epoca era un
pullulare di falsi e si dava forse un valore diverso rispetto a quello che diamo oggi, per fare capire a
che punto erano arrivati possiamo elencare alcune fonti, ad esempio la metà dei diplomi merovingi
era genuina, 162 su 262 di quelli di Carlo Magno erano genuini, ed erano falsi almeno il 10/15 % di
quelli successivi dei Carolingi e Sassoni, c’era inoltre una grande paura del falso, era come abbiamo
visto una paura fondata.
Vi erano falsari che lo facevano per averne un tornaconto personale, e in quel caso si cadeva nel
mendacium, che la Chiesa aborriva, considerandolo gravissimo peccato, in altri casi come in quello
delle Decretali Pseudo-Isidoriana, l’autore non voleva trarre in inganno nessuno ma riportare la
Chiesa verso i suoi valori originari, verso la purezza, voleva giovare alla Chiesa stessa insomma,
poi che fossero dei falsi aveva poca importanza per loro, in quanto bisognava ascoltare quello che si
diceva e non chi lo faceva, nel Medioevo inoltre era importante per i testi normativi e canonici, la
datazione e la paternità e quindi la relativa genuinità, l’autenticità era importantissima e autentici
erano gli scritti dotati di auctoritas, che non potevano essere rifiutati, e ovviamente questa auctoritas
era data dalla Chiesa, che riconosceva taluni scritti che erano quindi recepiti e accettati da tutti,
anche se magari erano dei falsi clamorosi, mentre altri scritti per esempio teologici potevano essere
genuini ma rifiutati dalla Chiesa quindi non aventi l’auctoritas, i falsari per cui commisero
sicuramente peccato veniale nella loro opera di falsificazione.
Le leggi popolari e la personalità del diritto
Paragrafo 7
Paragrafo 8
Il rito solenne della manufirmatio, fatto per i capitolari aggiunti alla legge Salica, era forse quella
parvenza di democrazia che apparteneva gli antichi Germani? No sicuramento no, in quanto la
legge era emanata per volontà del re, poi nel caso del potente Carlo Magno, magari era la prova
d’obbedienza che era tenuta a dare l’aristocrazia al sovrano, cosa che sicuro non valeva per Carlo il
Calvo nipote di Carlo Magno, che regnò in un periodo in cui la monarchia era già malata, ed era una
larva di monarca in confronto al suo illustre predecessore, per lui era sicuramente un problema
secondario il fatto che i nobili rispettassero o no le leggi, aveva bisogno del loro appoggio per
governare e più che altro emanava leggi che andavano bene al ceto ormai dominante, e in una sua
frase indica che la legge era emanata per volontà del popolo e del re, ma in realtà era la nobiltà che
governava, nessuna democrazia in entrambi i casi insomma.
Carlo Magno con lo sfoggio di consensi voluto per i suoi capitolari salici dell’803, volle in via del
tutto eccezionale celebrarli, evento che viene posto dagli annali del periodo, sfoggio fatto forse per
mostrare con orgoglio il patrimonio normativo della gente salica, vittoriosa e dominante, alla quale
apparteneva il sovrano che ora era imperatore, mentre nessuna richiesta di consenso ci fu per
l’emanazione dei capitularia legibus addenda, che modificavano il patrimonio ancestrale legislativo
dei vinti, come i Longobardi per esempio.
Carlo Magno disse al figlio Pipino re d’Italia di intimare pubblicamente le modifiche da lui fatte
all’editto di Rotari e a quello di Liutprando, obbligando i Longobardi a osservarli, non era una
richiesta di consenso popolare, era solamente la forza vincolante data dalla volontà del sovrano,
sottoforma di manifestazione solenne (adnuntiatio).
Paragrafo 9
I capitularia legibus addenda servivano al sovrano per attrarre nella sua sfera legislativa anche le
antiche leggi popolari, sottolineando l’ordinamento generale e unito dell’Impero, così vasto e
decentrato ma sempre sotto controllo del sovrano, anche se era un controllo difficile, soprattutto se
si considera che unificare tutta l’Europa voleva dire mettere in contatto tantissime etnie, e quindi
tutti questi ordinamenti che si intersecavano in quello dell’Impero creavano quantomeno
confusione, ponendo il problema della personalità della legge.
Nei primi decenni del IX secolo il problema della personalità della legge, minava l’unità
dell’Impero tanto invocata dalla Chiesa, si verificavano situazioni in cui varie etnie incontrandosi
utilizzassero il proprio diritto e questo andava contro i principi della Chiesa che aveva una sola
legge, quella di Cristo, il rimedio richiesto da un alto prelato come Agobardo fu quello di imporre a
tutto l’Impero la legge dei dominatori Franchi, parso a molti rimedio irrealizzabile, illusorio e
ingenuo.
In realtà Agobardo voleva che l’allora imperatore Ludovico il Pio seguisse l’esempio di suo padre
Carlo Magno, che inizialmente diffuse la legge salica nell’Impero, in Italia capitò che con la caduta
dei Longobardi si utilizzasse la legge salica, e in seguito con l’emanazione del Capitolare italico,
dimostrò che le armi carolingie portarono la legge dei vincitori.
I tentativi di imporre la legge dei dominatori furono presto abbandonati per ovvi motivi di
impossibilità, e si sviluppò la tendenza da parte dei notai, di indicare in cima ai documenti da loro
redatti il diritto che si sarebbe utilizzato, che di solito era deciso dalla parte forte del contratto, come
il venditore nella compravendita, il marito nel matrimonio, il donante nelle donazioni e il
concedente nelle concessioni agrarie, questo era scelto in funzione della natio di questi soggetti,
ovvero della loro etnia, la pratica di inserire il diritto utilizzato era chiamata professiones iuris, e in
Italia come nel resto dell’Impero prese piede, si era entrati nell’era della piena personalità della
legge.
In Italia durante il regno longobardo questo principio era più che altro apparente che effettivo,
questo perchè il diritto romano era quello territoriale, quello incardinato nel territorio e nelle
persone che vi abitavano, mentre il diritto longobardo era destinato alla casta militare longobarda,
quindi era un diritto riservato e per esempio un mercante varcati i confini del regno lo poteva
utilizzare, rinunciando al suo diritto, solo dopo essersi messo sotto lo scudo reale, ovvero essersi
messo sotto la protezione del re, per il principio che il protetto usava lo stesso diritto del protettore,
secondo l’editto di Rotari (Rot. 367).
Comunque le differenze tra Romani e Longobardi non furono mai così marcate, infatti questi ultimi
sicuramente usavano il diritto romano per i negozi giornalieri, e dopo l’ammissione dei Romani,
con Liutprando, nei ranghi dell’esercito longobardo, l’emanazione di Editti del re aveva carattere
territoriale, il diritto longobardo valeva per tutti insomma, in sintesi il principio della personalità
della legge nel regno longobardo si vede e non si vede.
Un capitolo, precisamente il 91 de scribis, emanato da Liutprando nel 727 d.C. è stato erroneamente
considerato come quello che introduceva il principio di personalità della legge in Italia, questo
capitolo indicava ai notali la possibilità di scelta del diritto a patto che entrambe le parti fossero
daccordo, questo non significa che le parti non erano tenute a rispettare il diritto della propria natio,
ma significava che potevano rinunciare ai propri diritti soggettivi, a patto che non ledessero la
controparte, queste interpretazioni differenti sono da attribuire all’ampio significato che voleva dire
lex allora, come diritto oggi del resto.
In ogni caso questo famigerato principio è arrivato in Italia solo grazie a Carlo Magno, e per l’intera
Europa è comunque da ricondurre ai Franchi per i quali questo principio è sempre stato congeniale.
Paragrafo 10
Un complesso importante di norme vigenti in Italia erano i Capitularia legibus addenda di cui
faceva parte il Capitulare italico, che si formò dopo la conquista franca dell’Italia e si aggiunse agli
Editti longobardi, era una mossa di Carlo Magno per dare una patina salica alla legge longobarda, in
una nota si evince come Carlo impose l’utilizzo della legge nazionale, quindi romana per i Romani
e longobarda per i Longobardi, come facevano in passato, per determinati istituti come nei
giuramenti, successioni, documentazioni e nelle composizioni pecuniarie dei reati, mentre
avrebbero usato la legge comune, aggiunta da Carlo Magno per tutte le altre materie.
Se questa nota era la risposta all’adnuntiatio che Carlo fece delle sue innovazioni di stampo
carolingio, si può suppore che così fecero anche i suoi successori, le cui disposizioni fecero parte
del Capitulare italicum, inoltre Pipino re d’Italia, figlio di Carlo fu intimato dal padre di fare inserire
nel Capitolare italico anche le riforme della legge salica, questo per uniformare la sua politica
legislativa, ma la domanda è: queste aggiunte al Capitolare italico abbiano avuto successo o no,
parrebbe dalla necessità dell’imperatore Lotario di emanare 13 norme risalenti a Carlo Magno,
nell’832 d.C. forse perchè l’ordinamento ne mancava?
Non è proprio così perchè quest’azione di Lotario si può anche interpretare come molto modesta, e
inoltre era atta a riequilibrare qualche lacuna del Capitolare italico, del quale entrarono a fare parte
col tempo anche talune falsificazioni di Benedetto Levita o dello Pseudo-Isidoro di cui abbiamo
parlato in precedenza, in ogni caso questa consolidazione rimase parte viva dell’ordinamento del
Regno d’Italia, che divenne sempre più grande con l’aggiunta nell’XI secolo di ulteriori norme,
come il testo del Liber Papiensis, e le ultime aggiunte riguardano Enrico III imperatore e re d’Italia,
risalenti al 1054 d.C.
Paragrafo 11
Nei 200 anni di dominazione longobarda il diritto giustinianeo originale subì duri colpi, con
l’emanazione del cap. 91 de scribis di cui abbiamo parlato, Liutprando era preoccupato per
l’applicazione in relazione al diritto romano che vigeva come consuetudine volgare, e non in
relazione al diritto longobardo che era noto a quasi tutti per la circolazione obbligatoria di testi
scritti, i testi giustinianei di difficile consultazione erano divenuti irreperibili in grande parte,
l’ultimo utilizzo che se ne fece, riguardò il Digesto e risale al 603 d.C. solo 50 anni dopo dalla
Pragmatica sanctio che l’aveva promulgato in Italia, ed era un’istruzione data da papa Gregorio
Magno che ne riportava un pezzo, data a un defensor, Giovanni che doveva portarla in Iberia per
dirimere una controversia che interessava la Chiesa.
Paolo Diacono nell’VIII secolo fa una breve descizione del Digesto, cosa che non si sa se sia frutto
di una visione diretta, oppure si trattino di notizie di scrittori antichi.
Una trascrizione dei primi sette titoli del Digesto, appare in un manoscritto berlinese, ma si pensa
che sia un’errore dell’amanuense che dopo avere terminato la trascrizione delle Istituzioni non si
accorse di avere iniziato una nuova opera.
L’uso del Digesto riprese nell’XI secolo.
Riguardo al Codice, opera più facile del Digesto, ma per le modeste esigenze dell’epoca si trattò di
materiale complicato da maneggiare, per questo si supponeva la sua compendiazione in una
Epitome Codicis, che vedeva l’origilanale ridotta a un quarto, a causa di varie estromissioni come
gli ultimi tre libri, le disposizioni in greco e varie costituzioni, ma si tratta di un fantasma, opera mai
esistita, è veramente esistente invece un manoscritto risalente al X secolo, quello pistoiese, sia la
Summa Perusina che è la parafrasi fortemente compendiata del Codice, dimostrano come si sia
ridotto nel corso del Medioevo, ma non più di tanto, gli ultimi tre libri sono stati esclusi anche in
questo caso, la Summa Perusina inoltre è più antica del manoscritto pistoiese.
Nemmeno le Istituzioni hanno lasciato ricordi altomedievali consistenti, per quanto riguarda le
Novelle, l’Authenticum è capitato nelle mani di Rotari che ne estrapolò qualche frase per il suo
proemio, per poi scomparire fino alla fine dell’XI secolo come il Digesto, restò in uso solo
l’Epitome Iuliani cara alla Chiesa.
Paragrafo 12
Il diritto romano fu rilanciato con la Renovatio Imperii, anche se Carlo Magno si sentì il nuovo
Giustiniano solo per 12 anni, dopo di che rinunciò al titolo di Imperatore dei Romani, ma la Chiesa
considerava ormai irreversibile il trasferimento del trono a Roma, l’atmosfera di esaltazione che si
respirava all’epoca in Occidente, indirizzò i poeti verso il passato glorioso, la Chiesa mediante
centri ecclesiastici non individuati, scelse i testi migliori della sterminata quantità di compilazioni
che ci furono all’epoca, tutte tendenti all’antico ovviamente, il prodotto più cospicuo dell’epoca è la
Lex Romana canonice compta, apparsa verso la metà del IX secolo, ed ebbe grande successo in alta
Italia, tanto che venne usata dai notai fino al XII secolo, meritò alcune glosse verso il IX e X secolo,
di poca importanza, ma sono indizio della sua popolarità all’epoca.
L’ignoto autore, forse ravennate o forse del monastero di Bobbio, nel Piaacentino utlizzò molto
l’Epitome Iuliani, meno il Codice, poco le Istituzioni e poco altro.
Buona parte dei suoi capitoli ricomparve nella Collectio Anselmo dedicata, collezione canonica di
qualche decennio più tardi, denominata così in funzione della dedica ad Anselmo arcivescovo di
Milano tra l’883 e l’896 d.C.
Consolidazione di 12 libri, quasi esclusivamente di diritto canonico, inoltre vi si riscontrano 238
capitoli della Lex Romana, quasi uguali alla canonice compta.
Possiamo pensare che la Collectio Anselmo dedicata essendo postuma abbia tratto dalla precedente
Lex Romana canonice compta, ma alcuni studiosi danno per certa l’esistenza di un’altra
consolidazione, la Lex Romana, redatta all’indomani della Renovatio Imperii di Carlo Magno, e
questo spiegherebbe anche l’esistenza di un’altra compilazione, l’Ecerpta Bobiensia costituita da 70
capitoletti risalente agli stessi anni delle precedenti, e spiegherebbe il perchè questi 70 capitoletti
tratti dall’Epitome Iuliani siano presenti anche nella Lex Romana canonice compta e nell’Anselmo
dedicata.
Paragrafo 13
L’esistenza della Lex Romana progenitrice delle tre seguenti compilazioni è testimoniata forse da
una risposta data da Carlo Magno stesso a un quesito postogli da un missus, circa certe tasse da
esigere, il monarca che viveva uno dei primi anni dopo l’incoronazione a imperatore dei Romani,
rispose di consultare la Lex Romana, ma intendeva dire per caso, di consultare l’intera
compilazione normativa di Giustiniano o si riferiva a questa fantomatica Lex Romana?
Ed inoltre la risposta al quesito del missus la si ritrova nella Lex Romana canonice compta, che però
fu redatta nell’814 d.C. al capitolo 249, ma come era possibile che vi era una risposta a una
domanda risalente almeno 15 anni prima?
È possibile che ai tempi di Carlo Magno vi fosse quindi una compilazione dal nome Lex Romana,
cui si doveva dare efficacia personale, ma non era valida per i Franchi salì.
Fu longeva ed era molto utilizzata, subì delle modificazioni con materiale normativo eterogeneo,
germanico e di uso corrente.
Verso l’anno 1000, un’operetta le Questiones ac monita, operetta longobardistica di carattere
scolastico, tratta della risoluzione di una questione di legge romana, facendo riferimento alla Lex
Romana, soluzione non presente nelle fonti giustinianee, questo ci fa pensare che sia davvero
esistita quest’opera, e ci fa pensare che sia stata un’opera in cui i possessori intervenivano con
grande libertà, per via delle aggiunte dei vari imperatori, inoltre ci fa pensare anche al ritorno verso
la genuinità del testo giustinianeo, durante il Medioevo, questo dopo la Renovatio Imperii.
Paragrafo 14
L’unico manoscritto di un’opera contenente rozzi sommari del Codice fu ritrovata nella biblioteca
capitolare di Perugia, denominata Summa Perusina, è di difficile datazione perchè l’amanuense che
la scrisse nel X secolo forse, copiò da un’altra opera che poteva andare dal VII al IX secolo, spazio
di tempo molto ampio, scritta in territori bizantini e non longobardi, forse a Roma, si sa infatti che
tra il 999 e il 1014 giudici nella zona di Roma la utilizzarono nelle loro sentenze al posto del Codice
in forma genuina, questo ci fa pensare che non esistesse un’Epitome Codicis, e se ne esisteva una
non circolava, in più dobbiamo notare molta disinvoltura nell’uso delle norme di Giustiniano
volgarizzate, tradizione tipica della Chiesa, che nel XII secolo ci darà un celebre esempio con
l’Exceptiones legum Romanarum Petri.
La Summa Perusina era rozza e spesso travisava il vero significato delle fonti giustinianee, errori
frutto dell’ignoranza, ma talvolta sono il frutto della volontà di adattare alla realtà contemporanea
gli antichi istituti di Giustiniano, talvolta queste modificazioni ci fanno pensare ai mutamenti della
società, ad esempio il termine officium tradotto in collegium, ha fatto pensare la sopravvivenza dei
collegia romani nell’alto Medioevo, curia è stato modificato con magistratus o defensor è segno
della vitalità delle curie municipali, scriptum ha preso il posto di stipulatio, significa che forse
l’istituto di obbligarsi dei romani si è tramutato in forma scritta.
Paragrafo 15
Il diritto romano in Europa durante il Medioevo si è scisso in 2 tronconi, con la Pragmatica sanctio
il diritto giustinianeo è stato emanato solo in Italia, perchè nel resto d’Europa vigeva ancora quello
Teodosiano, e la Chiesa usava la Lex Romana Wisigothorum, il diritto giustinianeo è stato usato
mediante Epitomi, anche dopo l’abrogazione da parte del re Reccesvindo nel 654 d.C.
Il Breviario Alariciano ha sconfinato in Italia? Si è andati a cercare eventuali tracce, nel manoscritto
udinese compare una di quelle numerose epitomi, la si è chiamata Lex Romana Utiensis, ma era
presente anche in manoscritti svizzeri, e in principio verso l’VIII secolo si stabilì in Svizzera,
nell’antica Rezia, per cui oggi viene chiamata Lex Romana Raetica Curiensis, non si crede per cui
che l’opera sia stata scritta in Italia, e da noi comparve solo in qualità di scambi di libri tra
monasteri, fenomeno importante ma trascurabile, stesso modo in cui del resto sono apparse
nell’Italia meridionale copie di diritto visigotico, di questo materiale possiamo contare solo la
Lectio Legum collezione molto piccola, solo 6 capitoletti dei quali due sono tratti dalla Lex
Visigothorum, molto più importante è sicuramente la collezione Gaudenziana, chiamata con
l’immaginoso titolo di Ordo mellifluus in expositione legum Romanorum, il cui contenuto appare
attribuito a Giustiniano, che si sarebbe avvalso dell’aiuto dei sacerdoti e dei vescovi del Senato di
Roma a imitazione dell’assenso dei chierici e dei vescovi celebrato da Alarico II nel
commonitorium con cui apre il suo Breviario.
La prima parte dell’opera viene fornita da Giustiniano, i restanti 159 capitoli appartengono alla
legge visigotica, ma anche nella prima parte vi sono interpolazioni visigotiche del diritto
giustinianeo, in particolare 14 capitoletti, i Fragmenta Gaudenziana, di cui non si capisce la
provenienza.
Il manoscritto di grafia beneventana è stato redatto nel Mezzogiorno d’Italia nel X secolo, ma
potrebbe essere anteriore la composizione, le fonti usate hanno diverse provenienze è evidente, il
che presuppone le misteriose migrazioni di libri e persone di cui si è accennato in precedenza.
La fantomatica attribuizione a Giustiniano è una delle pietre miliari della storia del diritto,
fenomeno che si riscontra anche in altre compilazioni, tutte redatte in Italia, perchè solo qui per
quanto riguarda l’Occidente il diritto giustinianeo ha preso piede, per cui anche la figura del grande
legislatore Giustiniano è da ritenersi come quella figura capace di attirare sotto le sue ali tutte le
produzioni normative italiane, e come detto rappresenta il percorso compiuto dalla storia del diritto,
dalla grande legislazione del VI secolo alla scienza giuridica del XII secolo.
Capitolo VII
Paragrafo 1
In Italia meridionale agli inizi del 1300 si cominciò a discutere sulle origini del feudo, se fosse un
istituto nuovo, oppure se aveva radici romane, ma solo dopo che l’umanesimo accese l’interesse per
la storia, il feudo divenne argomento di discussione, anche con dovizia di argomenti eruditi, in
principio venne considerato come frutto di un antico istituto romano, già presente all’inizio della
storia di Roma, ovvero la clientela, che poi fu esportata in Gallia e in Germania, quando diedero pro
clientelis ai veterani terre nei territori conquistati, ma dopo qualche decennio di distanza i punti di
vista mutarono del tutto, fu Carlo Molineo o Charles Dumoulin francese, che diede la nozione
adottata dalla storiografia moderna del feudo, che sarebbe stato un’invenzione dei Franchi, e fu
varato nel monento che i Merovingi si insediarono in Gallia, all’inizio del V secolo, poi furono i
Longobardi a esportarlo in Italia sia al nord che al sud.
La rivendicazione barbarica ebbe successo, in Germania parlarono di Germani in genere, ma la
costruzione del feudo moderna la si doveva a Carlo Magno che faceva da collante tra le varie
tradizioni barbariche e i tempi antichi e oscuri con quelli moderni e documentati, per questo si
pensa ancora oggi che sia Carlo Magno e quindi i Carolingi i veri fautori del feudo, all’epoca del
resto vi erano tanti documenti che testimoniavano la preparazione di questo istituto, ma non
compare mai il nome feudo, ne tanto meno compaiono tutte insieme le componenti che ne fanno
parte, infatti il feudo si è sempre considerato composto da tre elementi essenziali, il primo era un
rapporto personale detto vassallaggio che c’era tra un signiore e il suo subordinato, elemento di
lontane origini germaniche dei tempi di Tacito e Cesare, poi vi era il beneficium, ovvero una
concessione patrimoniale usata come remunerazione e ispirata alla benevolenza, di origini
ecclesiastiche, infine vi era il privilegio formale dell’immunitas, che era proprio delle terre fiscali e
dei latifondi imperiali dell’antichità si riteneva originario di Roma antica.
Era l’incontro storico delle tre forze che componevano il Medioevo, ovvero il germanesimo, la
Chiesa e la romanità, anche se questa venne vista in seguito come un’unione meccanicamente
forzata, e in particolare per gli storici di ascendenza idealistica risultò difficile concepire che una
realtà umana potesse formarsi come una reazione chimica tra vari elementi, come erano chiamati i
tre suddetti, non potevano così creare una nuova sostanza.
In quell’epoca comunque i tre fattori costitutivi del feudo erano ancora elementi a se stanti, e non si
integravano ancora in una figura unitaria, il feudo appunto, questo perchè ad esempio era difficile
collegare il rapporto personale nel feudo, con l’antica comitiva dei principi germanici, in virtù della
grande diffusione della volgarizzazione che vi era in quel periodo e anche prima, istituti come il
patrocinium, la commendatio e i milites privati o buccellari erano diffusi anche nel medio Oriente e
non solo nell’Occidente barbarizzato, in ogni caso i tre elementi tradizionali del feudo: il
vassallaggio, il beneficium e fino a un certo punto anche l’immunitas, a prescindere dalle loro
origini erano molto presenti nel mondo carolingio, ma come detto erano ancora figure separate e
non convergevano nel feudo.
Paragrafo 2
Il rapporto personale, in altre parole la fidelitas era quel rapporto che legava il vassallo al suo
signore, ma non era di pertinenza esclusiva, bensì aveva ormai raggiunto quel grado di diffusione,
tale che erano investiti della fidelitas, praticamente tutti, ovvero dava al rapporto di sudditanza un
impegno di carattere morale, che quindi gravava su tutti i soggetti subordinati al sovrano.
I monarchi di Costantinopoli ad esempio, secondo le fonti, pretesero dai funzionari almeno sin dal
V secolo, un giuramento di fedeltà, anche i concili prestavano questo giuramento ai re visigoti, le
diete di Liutprando nel regno longobardo sono affollate di fideles, Carlo Magno stesso fece grande
uso della fidelitas, mandando i propri missi o messaggeri a riscuoterla dal popolo, pretendendola
con puntiglio, tanto che una volta incoronato imperatore, volle che questo giurmento fosse
rinnovato, in quanto già ricevuto in precedenza da re, con nomine Caesaris, questo forse dopo il
trattato di Aquisgrana, con il quale Carlo rinunciò al titolo di imperatore dei Romani nell’812 d.C. e
gli sarà sembrato il caso di pretendere un rinnovo della fedeltà in funzione della sua mutata dignità
imperiale, ma comunque la fidelitas entrò come parte integrante del rapporto dei sudditi con la cosa
pubblica, e anche per quanto riguardava i reati divenne importantissima, infatti se un suddito
commetteva un reato, non veniva punito in funzione di esso, ma in quanto si era reso infedele nei
confronti del re.
La fidelitas rese concreto il rapporto tra sovranità e sudditanza, divenne individuale, imitando
modelli privatistici e assunse natura bilaterale, e nel periodo della decadenza carolingia i giurmenti
di fedeltà divennero occasionali, e dobbiamo dire inoltre che con il giuramento di fedeltà, il sovrano
era implicitamente o esplicitamente obbligato alla protezione del suddito, principio che si affermò
già nel 755 d.C. nel regno longobardo con Astolfo, il quale legiferò in questo senso, assicurando
protezione a tutti, ma in particolare verso miseri e deboli e ancora di più verso vedove e orfani e
delle chiese.
Paragrafo 3
Nel paragrafo precedente si è parlato della fidelitas generale, che tutti dovevano al sovrano, vi erano
anche fidelitas particolari come appunto il vassallaggio, la parola vassus che significava uomo
comparse in Gallia verso l’inizo dell’VIII secolo, il re ne aveva sia a palazzo che in giro per il regno
ad amministrare beni fiscali, erano servitori, famuli li definì correttamente il Muratori, ma essendo
servitori di re le loro mansioni erano onorifiche e spesso privilegiate.
Il vassallo in principio aveva funzioni servili quindi, il suo legame con il signore era forte ma non
indissolubile, un capitolare di Ludovico il Pio dell’816 d.C. indica i 5 casi in cui il vassallo poteva
sottrarsi al rapporto con il signore o senior, ovvero:
L’ultimo caso, poteva essere invocato dal vassallo solo nel caso in cui il rapporto fosse stato
instaurato con formale commendatio.
I casi sopra elencati sono particolarmente simili a quelli previsti da Rotari, nel suo Editto per i casi
di diseredazione dei figli, dando al vassallaggio una patina etico-familiare.
La commendatio, necessaria nell’ultimo caso, era praticata da secoli, presente nella Lex
Visigothorum per l’assunzione dei buccellari nel patrocinium dei potenti, i Longobardi l’avevano
attinta da usi volgari, e ne trassero la condizione semi-servile per i lavoratori della terra, chiamati
commendati, erano gli eredi degli antichi contadini che si commendavano al patrocinio dei potenti.
Era un istituto formale, che avveniva quando il suddito metteva le proprie mani all’interno di quelle
del signore, pronunciando solenne giuramento di fedeltà, e riguardava personaggi di grande rilievo
non servi o semiliberi, il primo caso euninciato dalle fonti riguarda il potente duca Tassilone di
Baviera, che facendo atto di sottomissione si commendava a Pipino e figli, nel 757 d.C. è il primo
vassallo altolocato della storia, il più antico.
Nel rapporto vassallatico vi erano i senior, o più anziani forse in contrapposizione degli iuniores, o
più giovani, che fin dall’età merovingia erano i collaboratori dei conti, ma si riscontrano anche in
età carolingia, fino al 787 d.C. collocati come categoria affine ai vassi dei conti.
Paragrafo 4
Agli inizi del vassallaggio vi erano varie figure, poste su vari livelli sociali, vi erano ancora quelli
chiamati servi, si parla del 792-793 d.C. che comunque erano onorati di beneficia e ministeria,
progredirono nella scala delle gerarchie, il beneficio era un tipo di salario, era connesso a un
servizio, un ministerium, e farlo per il signore significava avere onori.
Questi ministerium potevano essere di vari tipi, il più importante e remunerativo era quello militare,
ed è da qui che si venne creando il fattore patrimoniale del feudo, il beneficia.
Si narrava che fosse stato per la minaccia mussulmana presente oltre i Pirenei che diede la spinta ai
beneficia, in quanto era necessaria una sovvenzione per dotarsi della cavalleria pesante di cui Carlo
Martello aveva bisogno per sconfiggere gli arabi, ma non era vero perchè la vittoria franca del 732
d.C. a Poitiers fu merito della fanteria come dimostrato in seguito, comunque anche se l’Islam non
c’entrava nulla, fu il malgoverno merovingio a determinare la necessità di avere sempre un esercito
forte che potesse ricostituire un regno sempre prostrato da quella situazione, al punto che divennero
così forti, grazie alla grande diffusione dei beneficia, che poi arrivarono fino ai trionfi del Natale
800’ con Carlo Magno.
Inizialmente si diedero terre mediante i precaria, forma di concessione agraria usata dalla Chiesa, ai
combattenti, queste terre erano di proprietà della Chiesa stessa, che in quanto istituzione pubblica
aveva moltissime terre a disposizione, ed erano equiparate ai beni fiscali.
La precaria medievale, ricorda il precarium romano, istituti simili solo nel nome, l’istituto romano
era gratuito, mentre la precaria no, il precarium era provvisiorio la precaria no, l’istituto non era un
contratto, l’altro si.
I benefici per finanziare l’esercito erano particolari, infatti non erano precaria normali, che
necessitava di una richiesta da parte del beneficiario e una relativa contrattazione, in questo caso era
il re che unilateralmente decideva, o al suo posto il principe o il maggiordomo di palazzo prima
dell’unzione regia di Pipino del 751 d.C.
In un capitolare, quello di Les Estinnes del 743 d.C. vi sono elencate le scelte che il re faceva, quale
territorio donare, per quanto tempo e vi erano anche possibilità di rinnovo ovviamente a discrezione
del re, inoltre erano stabilite anche le quote del patrimonio della Chiesa da destinare ad uso militare,
ed il censo da pagare alla Chiesa stessa.
La precaria svanì presto dalla scena beneficiale, ma l’abitudine di distribuire terre della Chiesa ai
militari restò, si mantenne il forte legame tra beneficio e servizio militare, infatti chi aveva un
beneficio doveva obbligatoriamente andare in guerra quando ce n’era bisogno, e in caso di fuga la
prima sanzione era la perdita del beneficio.
Paragrafo 5
Per tutta l’età carolingia il beneficio come istituto giuridico non ebbe definizioni, il termine di atto
benevolo aveva un significato generico, ad esempio nel IX secolo il re era voglioso di ricompensare
coloro che gli prestavano fedeltà ed obsequium, elargendo loro terre regie in piena proprietà
stavolta, per le concessioni in godimento invece il sovrano poteva darle per tutto il tempo della vita
del beneficiario, oppure talvolta era indicato un termine, ma più di frequente veniva dato al
beneficiario un terreno il cui godimento poteva essere revocato ad libitum.
Il beneficio tra l’VIII e IX secolo ha avuto quindi un grande carattere aleatorio, data la revocabilità
del sovrano del beneficio stesso, questo ha dato luogo a reazioni dei vassalli che hanno portato alla
modificazione dell’istituto ma nel periodo suddetto ha creato di certo una confusione perchè non vi
era una redazione di documenti data l’aleatorietà dell’istituto, questo non ci ha permesso di
conoscerlo a fondo, comunque vi erano casi in cui questa confusione portò anche a delle vere e
proprie truffe ai danni del re, infatti alcuni beneficiari alienavano a terzi il beneficio per poi
ricomprarlo e avere una carta notarile che provasse il possesso del terreno, questo ovviamente
indignò il sovrano, che punì questi reati non per il fatto che fossero reati, ma perchè coloro che gli
avevano commessi avevano violato la fidelitas.
Per ovviare a questo problema vennero mandati dei missi dominici in varie città, per accertare che i
benefici dati ai vari soggetti fossero legittimi e che non vi fossero state operazioni truffaldine come
quella suddetta, si verificò che i benefici non fossero scaduti, usurpati da altri, altri da reintegrare
nel patrimonio del fisco o in quello ecclesiastico, vennero aggiornati gli inventari, e si evince che
già dalla prima metà del IX secolo vi erano comprensori pubblici da usare come benefici, e i terreni
avevano un proprio status giuridico, terreni che acquistavano natura beneficiale come se avessero
questo marchio impresso sopra.
In età carolingia la fidelitas e il beneficium convergevano, tanto che nell’839 d.C. l’imperatore
Lotario proclamò che era una cosa degna di maestà imperiale donare benefici a coloro che
prestavano la loro fedeltà assoluta al sovrano.
Paragrafo 6
È più difficile capire il gioco del terzo elemento costitutivo del feudo, ovvero l’immunitas.
I beneficia concessi si suppone conservassero il loro status di terre fiscali o della Chiesa,
l’immunitas in questo senso è stata concessa solo alla Chiesa e consisteva nell’impossibilità da parte
di funzionari dello Stato di riscuotere tasse, ammende e tributi, come ci racconta un monaco di
nome Marcolfo già nel VII secolo, era impedito quindi a ufficiali pubblici l’introitus, l’exactio e la
districtio, formula generica perchè le esenzioni erano diverse da caso a caso.
Sono state fatte varie ipotesi sull’immunitas, chi diceva che fosse ristretta alla sola esenzione
fiscale, chi invece pensava che servisse al conte di penetrare nel territorio immune.
Comunque sia le esenzioni che i divieti erano un modo per portare sotto la protezione del sovrano i
vari enti ecclesiastici, questo anche per scavalcare sotto il profilo giudiziario i tribunali di quei
conti, che spesso andavano in contrasto con la Chiesa, le immunità come detto erano di sola
pertinenza ecclesiastica, ed avevano un regime poco uniforme, in quanto la certezza delle
riscossioni di tasse ne soffriva, quindi in sintesi poca luce sull’immunità dei beni della Chiesa e
buio pesto per la prassi beneficiaria.
Paragrafo 7
Carlo II il Calvo, penultimo imperatore carolingio, era in crisi di potere e pochi mesi prima di
morire, si apprestava a difendere il trono con le armi, e nell’877 d.C. in giugno, (morì in ottobre),
radunò una dieta a Quierzy, era pronto a scendere a compromessi con la nobiltà di cui aveva tanto
bisogno, concesse l’ereditarietà dei feudi maggiori, cioè alla morte dei conti partenti in guerra, il
feudo sarebbe passato ai loro figli, però c’è da dire che questo passaggio non sarebbe avvenuto in
maniera automatica, bensì sarebbe occorsa una nuova investitura del sovrano, e nel frattempo la
contea sarebbe stata governata da un consiglio di reggenza, e nel caso il conte defunto non aveva
figli egli poteva anticipatamente nominare un suo erede, era insomma un impegno del sovrano a
reinvestire i figli dei conti defunti, ma non è chiaro se valesse solo in tempo di guerra, resta il vago
dubbio che il capitolare di Quierzy vi comprenda anche la dignità e l’ufficio comitale.
La norma si rivolgeva esclusivamente ai conti, che oggi rappresentano il prototipo dell’aristocrazia
feudale, ma hanno origini diverse dagli altri fideles e vassalli, che hanno un’origine più recente.
Paragrafo 8
Vi erano comites di vario tipo, ad esempio i comites rerum privatarum e sacrarum largitionum,
comites Gothorum che giudicava tra Goti e Romani, ve ne erano negli alti gradi militari come i
duces che comandavano truppe nella frontiera, insomma varie tipologia di comites che in età gotica
e merovingia governavano città e regioni, questi erano gli antenati dei conti carolingi, Carlo Magno
gli investì di poteri giurisdizionali, sebbene in seguito ebbero accanto in tribunale dei trovatori di
sentenze, ovvero gli scabini, nominati dai missi regi, l’imperatore pretendeva che i conti fossero
istruiti in legge da poter intervenire in maniera corretta nell’applicazione delle norme imperiali, il
monarca gli controllava, mandando 4 volte l’anno i missi per giudicare in appello le loro sentenze,
riparare gli abusi, e in tali occasioni i missi dovevano controllare anche i vescovi che facevano parte
del ministerium regis, la giurisdizione spirituale si connette spesso peraltro con quella comiatale,
dato che il vescovo la poteva invocare, aggiungendo il potere temporale a quello canonico, il c.d.
braccio secolare.
Per cogliere la nascita del feudo dobbiamo osservare la feudalità minore, che non comprende i
conti, feudalità maggiore, i quali sono da considerare come dei funzionari del re, per il quale
governano un territorio, una regione, ricevono dall’imperatore dei pubblici poteri differenti dal
vassallaggio, che non gli rende vassalli nonostante prestino lo stesso giuramento di fedeltà dei
vassalli medesimi.
Paragrafo 9
Se il termine feudo compare in un documento carolingio del IX secolo, dobbiamo stare certi che il
documento è falso, perchè questo termine non compare per tutto il IX secolo quasi, nel X secolo
qualche volta invece comincia ad apparire e si pensa volesse indicare il bene dato in concessione a
titolo remuneratorio, quindi più o meno il beneficio, ma Ourliac ha precisato che all’epoca vicino
Tolosa le chiese usavano il volgarismo feo per indicare i beni ricevuti in donazione e restituiti in
godimento, liberalità con altra liberalità verso gli antichi proprietari, in Italia in documenti tutti
redatti da vescovi, si pensa che il termine abbia lo stesso significato.
La culla del termine feudo fu l’Italia e la Francia meridionale, che furono territori influenzati dai
Goti, quindi feudo potrebbe derivare dal gotico, e significava bene, una modifica del termine
THIUTH – THEOTH – THEO – FEO si è rinvenuta in una carta fiorentina, e si trattava di una
concessione agraria della Chiesa a precedenti donatori, il documento è un’enfiteusi a tre generazioni
con obbligo di miglioria, ma essendo concessione ecclesiastica la si chiama precaria, fu redatta in
duplice copia per entrambe le parti.
Comunque quello che importa è che la modificazione del termine gotico ci porta al termine FEO,
ovvero quello che ci riconduce al feudo, e abbiamo visto come sia stato quindi di origine
ecclesiastica, con lo scopo di remunerare il donante, la Chiesa infatti dopo avere ricevuto il bene in
donazione lo restituiva in concessione, quindi a carattere remunerativo vero e proprio.
Il termine che avrebbe poi indicato il beneficio e non il vassallaggio, veniva quindi dal gotico e fu
trasmesso dal volgare giuridico della Chiesa, per i contratti di concessione agraria.
Paragrafo 10
Per parlare dei milites cittadini e di conseguenza dei loro benefici, dobbiamo descrivere il panorama
europeo del IX e X secolo, nel IX secolo per cominciare sappiamo che furono i Normanni a
devastare mezza Europa, e per quanto riguarda il X secolo invece questo lavoro è da attribuire ai
Magiari, o Ungari come vennero chiamati dai popoli con cui entrarono in contatto, essi provenivano
dal Caucaso e si insediarono nella Pannonia, l’odierna Ungheria cui essi diedero il nome, e
utilizzarono questa regione dell’Europa orientale come base per i loro attacchi a occidente, se ne
contanto 33, di cui la maggior parte nell’Europa settentrionale e qualcuno anche in Italia, arrivarono
anche in Puglia, essi operarono in questo modo dall’898 d.C. al 955 d.C. durante questo lasso di
tempo furono l’incubo di un paio di generazioni, finchè Ottone I il sassone, re di Germania e
d’Italia gli sconfisse in Baviera nel 955 d.C. in maniera definitiva, tanto che tornarono in Pannonia
si convertirono al cattolicesimo, e divennero addirittura fideles diretti del papa, questo fece si che
Ottone I ebbe tanto merito da essere considerato il novello Carlo Magno, e si ebbe addirittura una
seconda Renovatio Imperii, dopo che l’Impero era scomparso con la morte di Carlo III il Grosso,
quindi traminte il papa tanto per cambiare, l’Impero risorse dalle sue ceneri e passò in mani
tedesche.
In questo scenario si inseriscono le città ed il loro rafforzamento, quindi della milizia cittadina,
questo anche perchè la paura ungara come fu soprannominata, era imbattibile in campo aperto ma
non avendo al loro seguito armi da assedio, le mura delle città e la loro milizia erano la salvezza per
questi centri abitati, talvolta i Magiari riuscivano a incendiarle lanciando frecce infuocate come
avvenne a Pavia, ma mai riuscirono ad entrare e a razziare e uccidere come loro solito, e le città con
le loro milizie rappresentavano la salvezza dagli Ungari.
Tra il X e XI secolo vennero a formarsi le prime milizie cittadine, che erano comandate da quei
personaggi che diventeranno i valvassori maggiori, chiamati milites primi ordini o capitanei, vecovi
e conti assicurarono loro beneficia molto cospicui, mentre benefici di minor valore furono concessi
alla truppa, a mò di stipendio, ai valvassori minori o milites secundi ordinis.
La riorganizzazione della milizia fu decisiva affinchè il feudo italiano sorgesse, furono riesumati
termini romani in disuso come milites/militia, e rappresentavano un servizio armato retribuito,
dando luogo a un rapporto sinallagmatico tra prestazione militare e retribuzione, o conferimento del
beneficio, ma l’integrazione tra prestazione militare e conferimento del beneficio, caratteristiche
vitali del feudo, fu rallentata, infatti il Mitteis vedeva vassallaggio e beneficio concettualmente
separati, e quindi di indipendente costituzione, ancora nel XIII secolo.
Il beneficio era un reddito, e per tale motivo poteva anche essere una strada, un ponte da cui
ricavare dazi e pedaggi, ma la concessione di terre comunque rimase la forma di beneficio più
utilizzata, ed è in questa configurazione che noi troviamo la trasformazione di un beneficio
concesso al vassallo con il diritto reale concesso al medesimo, quindi da godimento temporaneo
divenne diritto reale, ovvero il feudo.
Paragrafo 11
Tra il X e XI secolo si ebbe un grande sviluppo economico in tutta Europa, questo perchè si pensava
che l’anno 1000 fosse la fine del mondo e siccome allo scadere di quest’ultimo non successe nulla,
si creò un tale ottimismo tra la gente che si ripresero con grande forza tutte le attività economiche,
era una favola chiaramente, ma lo sviluppo economico ne fu una conseguenza.
In campo agricolo si passò da un’agricoltura intensiva a una di tipo estensivo, e quindi si
coltivavano anche terreni che erano oltre le mura cittadine, che necessitavano di investimenti
importanti per essere utilizzati, come per esempio la costruzione di canali di irrigazione e
infrastrutture varie come strade e ponti, e chi era interessato a spendere tutti questi soldi per creare
queste strutture? Senza ombra di dubbio coloro che avevano un beneficio a lungo termine, un
beneficio permanente, che caratterizzava un ceto, quello della nobiltà composto dai milites, quindi
per garantire che alcuni terreni non rimanessero indietro rispetto ad altri si doveva in qualche modo
rendere ereditario il beneficio, quindi lo status cetuale che solo l’ereditarietà del patrimonio poteva
garantire.
Le città padane non avevano nell’XI secolo rapporti idilliaci con l’imperatore-re d’Italia, la capitale
Pavia ad esempio ad ogni visita di Enrico II re dal 1004 e imperatore dal 1014, fu teatro di varie
rivolte popolari, e nel 1024 addirittura fu distrutto il palazzo risalente ai tempi di Teodorico, si data
da quel tragico evento la nascita del fenomeno comunale a Pavia, anche se forse non è dipeso da
quello, in ogni caso si aveva prova evidente che c’era fermento e un ambiente in crescita.
15 anni dopo Corrado II venne in Italia a combattere Milano e il suo potente arcivescovo Ariberto,
ed ebbe bisogno dei molti milites minori del suo regno, che combatterono contro i loro seniores, i
quali revocavano ai primi i loro benefici arbitrariamente, e per avere il loro appoggio dovette
ascoltarli ed emanare nel 1037 d.C. il famoso Editto de beneficiis.
Paragrafo 12
Questo editto accordò la stabilità dei benefici, ebbe grande rilievo storico, e aprì la strada verso la
costruzione del feudo lombardo, e indicava l’irrevocabilità dei benefici messi a disposizione dei
miles primi ordinis nominati da vescovi e abati e badesse, e conti e marchesi, e nessun miles minore
che aveva benefici fiscali o della Chiesa.
Potevano esserne privati solo per propria colpa, giudicati da un tribunale di pari, dell’imperatore o
di suoi missi, inoltre era prevista l’ereditarietà, verso i figli dei beneficiari e ai figli dei figli, in via
eccezionale ai fratelli, era vietato loro permutare i benefici, assoggettarli a precarie o livelli senza il
consenso dei beneficiari.
Questo editto fu aggiunto al Capitulare italicum, introdotta nel Liber Papiensis, che circolò
tantissimo nell’XI secolo come raccolta di tutte le leggi lombardo-franche vigenti nel regno d’Italia,
la costituzione di Corrado II fu il tronco su cui si innestarono le consuetudini feudali.
Oberto dall’Orto descrisse queste consuetudini in alcune lettere spedite al figlio, e verso la metà del
XII secolo descriverà il feudo riferendosi alla norma di Corrado II.
Il rapporto personale inizialmente era visto come negativo, considerato come le colpe da evitare per
non perdere il feudo, arretrerà di fronte al carattere spiccatamente patrimoniale che l’istituto acquisì.
Caratteristica che si esalterà fino a diventare un diritto reale assimilato a una quasi-proprietà.
Questa patrimonialità spiccata è sicuramente la peculiarità del feudo italiano, mentre per quanto
riguarda il feudo d’oltr’Alpe la peculiarità era rappresentata dal rapporto personale, mantenendo il
vassallaggio come ruolo attivo, i servizi da prestare insomma.
In Francia si utilizzò l’homagium, che rappresentava il rito e il rapporto principale, e rendeva il
vassallo homo del signore, dai connotati servili come nell’antichità, in Italia le stesse caratteristiche
si riscontrano nell’hominicium o hominium, che era la subordinazione dei contadini al padrone
nella grande signoria fondiaria.
Quindi il feudo della Francia meridionale era simile a quello lombardo, stesso discorso nel
mezzogiorno Normanno dove vigevano le stesse consuetidini feudali, fermandosi a Roma per
esempio a Farfa, dove c’era un monastero che proclamava di usare il diritto lombardo ma siccome
spesso gli abati erano francesi, agevolavano l’uso della prassi francese.
Quindi anche se il panorama della nascita del feudo era variegato, da noi dominava la caratteristica
patrimoniale, i Libri feudorum, che tra il XII e XIII secolo diventeranno il codice del diritto feudale,
e il termine feudum dopo l’editto di Corrado II fu sinonimo di beneficium.
Nella terminologia amministrativa del 200’ feudum significava il salario del potestà o degli ufficiali,
anche se per i giuristi dell’epoca aveva un significato simile all’altro.
L’evoluzione semantica del termine durante il nuovo millennio non si discosterà molto da quella
originaria del X secolo, che legava indissolubilmente il termine feudum alla proprietà terriera,
ovvero il marchio di fabbrica del feudo italiano.
La storia del feudo e quella della proprietà terriera sono quindi legati.
Capitolo IX
Paragrafo 1
La prassi era davanti ai legislatori e ai complessi normativi, che a loro volta derivavano dalla grande
storia politica, e i protagonisti erano giudici e notai, che oltre a interpretare le leggi provenienti
dall’alto dovevano accertare i principi non scritti, posti dai costumi, e quando gli applicavano gli
caricavano della loro auctoritas, sia giudici che notai quindi trasformavano i costumi in norme
consuetudinarie.
Iniziando dai notai, in quanto maggiori redattori di fonti, ovviamente il notaio nell’alto Medioevo
non era quello che è oggi, non aveva il potere certificativo statale come oggi, anche se un certo
potere pubblico gli era riconosciuto, ai tempi dei Longobardi era chiamato notarius publicus, e il
termine publicus non si sa se indica che fosse un dipendente statale capace di dare agli atti da lui
redatti una fides publica o comunque una certa credibilità, oppure se si trattasse di ruoli che
esplicavano la propria attività pubblicamente.
I capitolari carolingi parlano di una nomina e controllo dall’alto, quindi è possibile che a quei tempi
avesse un carattere semi-ufficiale.
I legami dei notai con i centri del potere variarono oltre che nel tempo anche in base alla zona, ad
esempio nei territori di tradizione bizantina, come Ravenna per esempio fino al X secolo circolava il
prestigioso nome di tabelliones, non presente nelle regioni longobardo-franche, stesso discorso per i
curiales, a Ravenna erano sistemati in apposito ufficio o forse corporazione con a capo un
prototabellio.
A Napoli erano raccolti in un ordo, ed erano chiamati talvolta scriniarii, nome tipico delle
cancellerie papali e vescovili per identificarne il personale.
Lo scrinium era una sede di scrivani, termine che designava anche il contenitore dei documenti e
anche il luogo in cui erano conservati gli archivi.
La conservazione dei documenti era una mansione dei notai, in quanto conservavano a lungo la
valenza probatoria dei suddetti.
Nella storia sono sempre stati chiese e monasteri ad avere archivi, enti perenni che garantivano
l’immortalità delle memorie, ma ve ne erano anche pubblici e laici, ad esempio da Ludovico il Pio
fu obbligatorio conservare in archivio tutti i capitolari, sia per assicurarne la memoria che per
garantirne la firmatas.
Paragrafo 2
Il Medioevo aveva imperniato il problema dell’atto giuridico e del negozio non su come e quando
nascesse la sua efficacia obbligatoria, ma sulla firmatas che doveva conseguire, questo era un
problema antico proveniente dalla romanità, ed era solo in parte coincidente con il primo, la
firmatas infatti aveva molti significati, determinava l’irrevocabilità e inattaccabilità dell’atto, questi
valori mostrano aspetti diversi a seconda delle tappe lungo le quali si svolgeva la dinamica dell’atto,
la prima tappa è il momento in cui la volontà dei contraenti, una volta che le parti si sono messe
daccordo, l’atto si stacca dall’instabile mondo soggettivo, e in questo momento individuiamo la
nascita dell’obbligazione, gli antichi dicevano che in questo momento l’obbligazione diventava
firma, si conmpivano delle formalità per esemplio i Romani usavano la stipulatio, i Longobardi il
launegild e per le promesse la datio wadie.
Nel Medioevo con firmatas si intendeva il documento notarile, assumendo il nome dell’effetto che
conseguiva, in questo documento vi era la sottoscrizione delle parti chiamata ancora oggi da noi
moderni firma, che poteva essere corroborata da simboli formali, addirittura poteva essere posto
durante la sua compilazione dinanzi al corpo di un santo e compiere la manufirmatio, ovvero
l’apposizione della mano sul documento, applicandovi bolli e sigilli.
Il documento così compilato aveva sempre dei testimoni, come lo stesso notaio del resto, questo per
garantire l’inattaccabilità delle posizioni di interesse delle parti enunciate nel documento stesso, i
testimoni qual’ora vi fosse una causa inerente questo documento, erano chiamati in giudizio a
testimoniare la veridicità delle disposizioni contenute nella carta.
Il documento erogava la firmatas quando le parti si mettevano daccordo e da quel momento, con
l’apposizione delle firme dei contraenti e dei testimoni, quelle disposizioni divenivano obbligazioni.
Paragrafo 3
Il documento notarile o firmatas era un documento pressochè utilizzato come prova in giudizio
qual’ora sorgessero dei problemi nella normale vita del contratto, ma una teoria nata poco più di
100 anni fa, di Heinrich Brunner, tutt’oggi molto seguita indica come il documento oltre a essere
una valida prova giudiziaria, aveva anche valenza dispositiva, ovvero dopo la sua stipula
l’obbligazione doveva essere resa operativa.
La riforma leoniana della stipulatio, ovvero l’abolizione della rigidità delle formule stipulatorie e la
conseguente libertà di espressione, e sostituzione della forma orale con quella scritta, indusse gli
studiosi a pensare che il documento cartaceo sarebbe diventato vincolante e non solo probatorio, ma
vi sono altri studiosi come il Brandileone che indicava come nell’alto Medioevo ancora era usata la
forma orale, secondo lui infatti il documento era solo una prova giudiziaria e non aveva poteri
dispositivi dell’atto.
Non possiamo affermare che il documento avesse potere dispositivo in quanto vi erano degli atti
che nonostante non avessero il documento notarile, erano già in atto, come molti lasciti e donazioni,
ma si ricorreva alla compilazione di un documento cartaceo, a scopo precauzionale, e qual’ora
questo non fosse stato redatto il giudice poteva richiedere alle parti di convocare in giudizio gli
immancabili testimoni.
Al termine della redazione del documento avveniva l’absolutio, ovvero la consegna del documento
fatta si pensava dalle parti, con il relativo potere dispositivo, ma in seguito a ulteriori studi si è
scoperto che era il notaio a conegnarla alle parti senza alcun potere dispositivo.
Brunner e i suoi seguaci pensarono che la consegna del documento, nei casi di passaggio di
proprietà, fatta dal venditore al compratore, era la traditio romana simbolicamente riprodotta, infatti
come sappiamo la traditio era quel negozio usato per il passaggio di proprietà dei beni, e vi era un
passaggio materiale del bene medesimo dal venditore al compratore, nel nostro caso, era un
passaggio simbolico, si parlava infatti di una traditio per chartam, era evocata dai notai
altomedievali quando i proprietari scrivevano l’alienazione dei loro beni sulla carta appunto.
La traditio per chartam agli occhi degli storici rappresenta un documento che incorporava i diritti,
tale configurazione era data in particolare da alcune clausole come quelle al portatore che
conferivano alla controparte diritti che trasformavano il documento in un titolo di credito,
anticipazione moderna di un’istituzione del diritto commerciale.
Brandileone ha invece ridimensionato queste clausole, secondo lui queste non trasferivano il diritto
ma individuavano il soggetto cui spettava ad altro titolo.
La traditio della carta comunque rappresentava una semplificazione della fastidiosa traditio
corporalis, ma sicuramente non incorporava il diritto nel documento.
Paragrafo 4
Paragrafo 5
A chiamare la redazione scritta erano in larga parte i documenti che trasferivano i diritti reali come
la proprietà, i contratti di concessione agraria a lungo termine erano molto longevi e mutavano in
ordinamenti stabili della terra, lex o consuetudo fundi saranno chiamati, perchè appunto le
disposizioni erano a lungo termine, e determinavano lo status semiservile dei coltivatori.
Nelle documentazioni notarili era la gestione della terra l’argomento dominante, era il concreto
possesso di interesse e non l’astratta proprietà, si parla in tal senso di inclinazioni al mondo
germanico, dato che queste popolazioni erano poco inclini a porsi questi quesiti teorici, erano molto
più attenti al rapporto quotidiano con i beni, è stato inoltre il basso Impero a sovrapporre il possesso
alla proprietà, nell’800 si è messo in luce l’istituto del Gewere di origine germanica, che designava
il legame materiale dell’uomo con la terra, fuori da qualificazioni giuridiche.
Questo istituto non prendeva in considerazione buona o malafede del possesso, ma consentiva la
coesistenza di vari possessi (Gewere) sullo stesso bene, come ad esempio quello del proprietario,
usufruttuario, concessionario e beneficiario, tutte con identica tutela.
La radice del termine Gewere indica il termine vestire, da qui possiamo parlare di investitura,
termine dalla lunga e grande storia, con varie applicazioni differenti, si diceva infatti che
l’investitura fosse l’istituto sostaziale del possesso come la traditio che la conferisce, ma in realtà
era un istituto peculiare in quanto aveva atteggiamenti peculiari.
In Italia questo termine non compare, il termine investitura fu utilizzata dall’età franca in poi, era un
espediente processuale usato nei tribunali del Regno d’Italia dal IX secolo, si parlava di investitura
salva querela nel caso di contumacia del convenuto, si dava il possesso della res litigiosa alla parte
attrice riservando a eventuali altri giudizi "salva querela" di decidere sul titolo.
In Lombardia fu molto utilizzato tanto che designò un tipo di contratto agrario, ce ne parla
Anselmino dall’Orto figlio del famoso giudice Oberto autore dei primi Libri feudorum che
trattavano di diritto longobardo, egli dice che l’investitura è molto simile all’enfiteusi, al livello e
alla precaria, ma era differente per l’atto simbolico con cui si eseguiva, ovvero la consegna di una
bacchetta, un lignum, atto simbolico inderogabile di forma, senza il quale il contratto risultava
nullo.
Il rito era simbolo del passaggio della proprietà del bene, ed era usato dalla Chiesa anche per beni
incorporali già in tempi precedenti, i canonisti infatti facevano oggetto di possesso anche questa
tipologia di beni, in deroga al diritto romano classico e conforme a certe tendenze bizantine.
Era usato per investire i prelati dei loro uffici e delle loro dignità, per cui l’investitura andava oltre
le tinte materiali con le quali era uso dipingerla, del possesso e della traditio corporale dei beni per
passare a quelle spirituali come l’attribuzione di cariche e di uffici a contenuto etico.
In questo senso si può spiegare la congenialità dell’investitura in funzione dei rapporti feudali, con
il relativo conferimento di benefici di cui divenne la forma giuridica tecnica.
Era un conferimento che riguardava sia la patrimonialità dei beni, che l’immaterialità della dignitas,
e l’immagine del vestito che ricopre la persona era particolarmente adatta a indicare la nuova
qualifica di cui si fregiava il vassallo-beneficiario, come se avesse indossato un’uniforme.
Nel basso Medioevo la giurisprudenza non troverà categorie romanistiche in cui incasellare
l’investitura, e sarà costretta a ricondurla alla traditio, l’istituto più simile.
Ma verrà specificata come una traditio abusiva, verrà interpretato come il diritto personale alla
consegna di un bene, ius ad rem, diritto caro ai canonisti e feudisti, e cangiante nelle sfumature che
può assumere.
Capitolo X
Paragrafo 1
Nel nuovo millennio si avviavano molti mutamenti degli assetti economico-sociali, che scatenarono
medesime ansie e aspettative di tipo religioso e politico, quindi tentativi di riforma della Chiesa e
dell’Impero.
L’Impero era alla ricerca degli antichi poteri, con l’incoronazione del sassone Ottone I nel 962,
seconda renovatio imperii, si chiuse il periodo di vacanza dopo la morte dell’ultimo carolingio
nell’888, in Italia ci fu una germanizzazione, lo si nota dalla volontà di ristabilire nella sua pienezza
l’uso giudiziario del duello barbarico (967 d.C.), che Ottone volle valido per tutti, fu solo una
leggera brezza germanica, perchè questa misura durò poco, fu Ottone I stesso a riaprire le porte alla
romanità, preparando il matrimonio del figlio Ottone II con una principessa bizantina, che nel 967
d.C. fu associato al trono, e Ottone III figlio di Ottone II educato dalla madre bizantina, mentre
soggiornava a Roma si dichiarò affascinato dalla città eterna e la preferiva alla Germania, e per
questo passò alla storia come restauratore della tradizione imperiale.
Con Ottone III l’appellativo di Augustus si trasformò in Caesar Augustus, più romano del
precedente, inoltre riapparve sui monarchi occidentali il titolo di Imperator Romanorum, che Carlo
Magno dismise nell’812 d.C. dopo la pace di Aquisgrana, inoltre fu riesumata la dicitura Renovatio
Imperii Romanorum sempre risalente ai tempi di Carlo Magno, la leggenda narra persino di un
Ottone III successore di Giustiniano e rilanciatore del diritto romano, e fatto della compilazione
giustinianea il proprio ordinamento, comunque quest’ultima è stata una errata interpretazione di una
fonte, Ottone III non rilanciò il diritto romano ma fu comunque colui che restaurò l’Impero.
Paragrafo 2
Qualche decennio dopo la sua morte, nell’XI secolo si diede inizio al recupero delle regalie, ovvero
quei diritti sovrani che si erano persi con la decadenza carolingia, diritti sulla corona e demaniali,
sui feudi maggiori, sulla nomina e controllo di alti ufficiali e magistrati anche locali, sul conio della
moneta, sui mercati, sull’esazione di imposte d’ogni genere.
Inizialmente gli iura regalia erano di connotazione germanica, in seguito con la loro ricomparsa
furono di carattere anche romano, alcune fonti indicano infatti come facevano parte delle regalie le
imposte personali e fondiarie del basso Impero, ovvero quelle con connotazioni romane, in più in
quel periodo vi fu la riesumazione dei Tres Libri del Codice giustinianeo, che iniziavano appunto
trattando del de iure fisci, erano anni in cui il diritto romano veniva riscoperto e coglieva trionfi
nelle scuole, e ispirava anche un aggiornamento del diritto pubblico, cominciando dal monarca che
aveva una maggiore potenza, accanto alla figura del rex-iudex che era riconosciuta dalle scuole di
arti liberali, vi era una figura del monarca risalente a Giustiniano, ovvero quella del principe
legislatore, lex animata in terris.
Quindi era in atto un recupero dei poteri imperiali, questa politica del monarca comunque dovette
scontrarsi con i poteri forti di allora, ovvero la Chiesa e le città, partiamo dalla Chiesa che aveva la
necessità e non la nascondeva, di scrollarsi di dosso l’immagine di istituzione dello Stato, che a
partire da Costantino per arrivare ai carolingi aveva sempre mostrato la superiorità gerarchica del
monarca sulla Chiesa, questa volontà verrà espressa nella riforma fatta da Gregorio VII, per secoli
questa assoggettazione al sovrano la si era tollerata, ora non più.
Per quanto riguarda le città invece, erano più ricche e popolose, e mostrarono sin dall’anno Mille
l’insofferenza verso i germanici re d’Italia, aspiravano all’autonomia che verso l’XI e il XII secolo
d.C. diventerà realtà con l’esplosione del fenomeno comunale.
Paragraafo 3
Scoppiò una guerra violenta tra Impero e Chiesa, e come si sa il sovrano aveva l’abitudine di
nominare papi e vescovi, e questo a una Chiesa attraversata da un nuovo fermento religioso in cui la
società civile gli aveva riconosciuto prestigio e autorità, non poteva più andare bene, era il
concretizzarsi finale delle Decretali Pseudo-Isidoriane della metà del IX secolo d.C.
Il rinnovamento dei conventi fu il catalizzatore di questo nuovo riformismo, questo processo iniziò
in Francia, a Cluny, nella Borgongna meridionale, quì nel 910 d.C. il duca Guglielmo d’Aquitania
fondò un monastero per l’abate Bernone, il quale a sua volta creò l’ordine dei cluniacensi, da quì
partì la riforma dell’ordine dei benedettini, che si propagò prima in Francia attraverso una capillare
rete di sedi cluniacensi, ci fu il potenziamento della disciplina all’interno e l’obbedienza diretta al
pontefice romano all’esterno, furono due direttive che maggiormente ristrutturarono la Chiesa.
Molti ordini religiosi furono creati e tantissimi conventi sorsero, anche in Italia ne nacquero di
prestigiosi, e il loro appello a una spiritualità più intensa arrivò a mascherarsi di integralismo, molti
monaci si ritirarono in solitudine per perfezionarsi, forse per tornare ritemprati alla comunità della
vita monastica.
San Romualdo fondatore dell’ordine camaldolese visse tra eremo e convento, come Pier Damiani
che divenne cardinale, grande conoscitore del diritto romano e futuro pilastro della riforma
gregoriana.
Il cardinale Ildebrando da Soana, che divenne il papa Gregorio VII gli chiese di redigere una
collezione normativa canonica a tema unico: i poteri del pontefice, che fu uno dei temi centrali della
riforma e sarà il tema del Dictatus papae, ovvero uno dei più celebri e misteriosi documenti della
politica gregoriana.
Nell’XI secolo le collezioni erano di moda, Gregorio VII fu affamato di nuove raccolte al tempo
della riforma, ma si aprì con il Decreto di Burcardo, una silloge notevolissima.
Paragrafo 4
Enrico II era il sovrano (1008 – 1012 d.C.), Burcardo vescovo di Worms era in buoni rapporti con il
monarca e scrisse la prima collezione canonica del millennio, un quadro ampio e articolato
dell’ordinamento, e in sostanza diede l’immagine vecchia maniera della Chiesa "imperiale" di
stampo costantiniano, ma con qualche differenza:
Omise il modello dei vecchi concili, che consentivano al re d’intervenire nelle elezioni vescovili,
rifiutò la pretesa del sovrano di disporre a suo piacimento dei beni delle chiese, sottolineò
l’autonomia dei vescovi, mascherò qualche volta sotto la paternità ecclesiastica norme temporali per
evitare illazioni sul potere legislativo laico su cose spirituali, in sintesi rivelò molte aperture verso le
concezioni della riforma, per questo motivo il Decretum di Burcardo di Worms rimase in circolo per
un bel pezzo e si attinse ad esso per 150 anni, fino a Graziano.
La collezione redatta da Burcardo è posta a cerniera tra la Chiesa pre anno 1000 e post anno 1000,
due tipi differenti di Chiesa, chiuse un’epoca e ne aprì un’altra che aveva obiettivi differenti dalla
precedente, ed emersero verso metà secolo.
L’esaltazione del primato del pontefice romano, dei suoi pieni poteri sulla gerarchia ecclesiastica,
della preminenza su quella temporale, i beni della Chiesa erano ancora più sacri per sottrargli a
sovrani e feudatari, la rigorosa disciplina del clero, la riforma del celibato, lotta contro la simonia
che riguardava le investiture laiche, era considerata una grave eresia, la rivendicazione della
giurisdizione ecclesiastica, il processo era depurato da ordalie e duelli, l’aumento del potere
reppressivo della Chiesa attraverso il braccio secolare, il disegno preciso dei sacramenti e della loro
efficacia.
Alcune collezioni addirittura si occuparono della guerra, dichiarandola legittima qualora vi fosse
una iusta causa, aprendo la strada alla santificazione delle crociate, che partiranno alla fine del
secolo X, Gerusalemme fu conquistata nel 1099 d.C.
I compilatori di queste collezioni usarono lo stesso metodo usato per le falsificazioni come le
Decretali Pseudo-Isidoriane, la tradizione non si rinnega, ogni buona riforma doveva ricercare le
fonti nel passato della Chiesa, anche alle sue origini, per trovare acque pure, come fece il
compilatore delle Pseudo-Isidoriane che aveva inventato lettere a Giacomo "fratello" del Signore.
Anche se in questo periodo cominciavano ad esserci le prime esigenze filologico-critiche, essi non
sembravano nutrire sospetti di falsità dai testi cui attingevano, dopotutto chi denunciava la loro
falsità veniva zittito, e tutta la gerarchia gli ammantava di auctoritas che come abbiamo visto,
all’epoca era sinonimo di autenticità.
Leone IX grande papa alsaziano precursore di Gregorio VII, diede il via alla penetrazione di testi
nelle collezioni canoniche romane, il Fournier datò il più antico "manuale" della riforma, la
Collezione in 74 titoli, proprio agli anni del pontificato di Leone IX, attribuita al monaco
benedettino francese Umberto, nominato da Leone IX cardinale e vescovo di Silvacandida, assieme
a Pier Damiani e lo stesso Gregorio VII fu personaggio di grande spicco, questi costituirono la
triade dei fautori e teorici della riforma.
Oggi si dubita sia della paternità che della datazione, che si suole spostare più avanti nel tempo, ma
non oltre il gennaio del 1076 anno in cui scoppiò la guerra con l’imperatore Enrico IV, periodo di
intransigenza che non si concilierebbe bene con la Collezione in 74 titoli, bensì molto più adatto per
questo periodo burrascoso il Dictatus papae di Gregorio VII.
Paragrafo 5
Composto da 27 brevi proposizioni, esaltanti con audacia e arroganza la dignità e i poteri del
pontefice romano, erano lettere del 3 e 4 marzo 1075 d.C. nel registro di Gregorio VII, non fu un
appunto sperduto tramandatoci solo perchè casualmente legato nel registro, siccome lo si è ritrovato
trascritto e parafrasato in codici del XII secolo dovette avere qualche diffusione.
Si scorgono in queste pretese premonizioni ierocratiche, soprende inoltre leggere che spetta solo al
papa usare delle insegne imperiali, inoltre non viene ridimensionata questa frase dal sapere che è
stata tratta dalle Decretali Pseudo-Isidoriane, che come sappiamo è un libro molto apprezzato dai
riformatori gregoriani.
Il Dictatus papae ha sollevato molte domande sulla sua natura, scritto da Gregorio VII per se stesso
oppure un foglio di istruzioni dato a prelati d’oltr’Alpe con la lista dei capisaldi da mantenere nelle
discussioni con l’Impero e con la gerarchia ecclesiastica tedesca?
La tesi di padre Borino risalente a 50 anni fa, oggi generalmente accolta indica che si tratterebbe dei
titoli di una collezione canonica, oggi perduta, che riguardava il papa e i suoi poteri.
Si pensa che fosse una traccia per i futuri redattori di una collezione forse mai scritta e a tal
proposito ricordo che papa Gregorio VII prima di salire al Soglio di Roma, richiese la redazione a
Pier Damiani di una collezione, e se quest’ultimo non avesse accettato non è detto che il progetto
fosse caduto nel vuoto.
In ogni caso il Dictatus papae è il manifesto della riforma, con un’organizzazione molto
centralizzata, subordinazione dei vescovi al papa, del concilio al papa, della legislazione al papa,
della giurisdizione ovviamente al papa.
Paragrafo 6
La collezione più completa legata a Gregorio VII fu quella del vescovo Anselmo di Lucca, suo
amico e seguace fedelissimo, opera che prende due terzi del materiale contenuto della Collezione in
74 titoli, ed è più accesa nel sottolineare il primato del pontefice sui vescovi e sui concili, insiste sul
tema del "Tu es Petrus" in modo di derivarlo direttamente dalla parola di Cristo, per sottrarlo a
qualsiasi contestazione terrena, ovviamente non manca la dichiarazione di supremazia papale su
tutti i potentati laici e anche sull’imperatore, che il papa può deporre, c’è il richiamo alla falsa
Donazione di Costantino, per rintuzzare pretese imperiali, vi è un limitato ricorso alle leggi laiche,
in particolare al diritto romano, ma si deve riscontrare la ricomparsa dell’Authenticum, raccolta
sparita ormai da 4 secoli, ripresa e riportata con 2 novelle greche.
Con la morte di Gregorio VII la produzione di collezioni non si fermò, al contrario continuò fino
alla fine del secolo.
Ivo di Chartres, definito da Bossuet come l’uomo più santo e dotto del suo secolo, scrisse ben tre
collezioni: Il Decretum, la Panormia e la Tripartita.
Sicuramente la Panormia è uscita dalla sua penna, mentre per gli altri due possiamo sicuramente
dire che sono stati ispirati e comunque composti nell’ambiente del grande vescovo.
Rispetto alle precedenti queste tre paiono più pacate, limitano le Decretali di Gregorio VII e danno
maggiore spazio a Burcardo di Worms, sfruttano capitolari ecclesiastici franchi sia di Ansegisio che
di Benedetto Levita, il diritto romano fa comparse consistenti, ridimensionano il legato papale, che
in precedenza appariva troppo arrogante, strumento dell’assolutismo pontificio.
Le raccolte canoniche francesi si differenziano da quelle italiane in quanto nelle prime vengono
usati capitolari carolingi, mentre nelle seconde non vengono usati perchè rappresentano il simbolo
dell’antica dipendenza dai sovrani carolingi, ad esempio non piacciono al Policarpo, opera tributata
a Ivo ma espressione dell’ambiente curiale romano dei primi anni del XII secolo, scritta da Gregorio
cardinale, caratterizzata da un costante richiamo ai padri della Chiesa come Girolamo, Ambrogio e
S. Agostino, accentuando la sua colorazione teologica a scapito di quella giuridica.
Il periodo di papa Gregorio VII fu caratterizzato da tantissime collezioni che ricostruirono
l’ordinamento giuridico della Chiesa, ma ve ne furono anche altre che non seguirono le direttive
indicate dal pontefice, come la collezione di Farfa, nata nella grande abbazia protetta
dall’imperatore, composta da Gregorio di Catino, verso la fine dell’XI secolo, il quale attinse alle
Decretali pseudo-Isidoriane care alla riforma, ingorandone tuttavia le preoccupazioni maggiori, tace
del primato del papa sui principi temporali, non parla nè del concubinato dei preti, nè della simonia,
insomma andava abbastanza contro la riforma, ma come sappiamo Farfa era fedele all’imperatore
grande nemico di Gregorio VII e Farfa aveva persino riconosciuto Clemente III l’antipapa.
Paragrafo 7
Nelle opere di Ivo di Chartres e nel Policarpo affiorano per quanto riguarda le fonti laiche, passi del
Digesto, sparito per quasi 500 anni, la sua riscoperta era il maggiore segno che il diritto stava
cambiando, con la più alta scienza giuridica fino ad allora conosciuta si poteva avere la nascita di
una nuova scienza.
In verità già ai tempi di Gregorio VII i suoi seguaci si imbatterono nel Digesto e ben 93 frammenti
ne erano stati introdotti in una collezione canonica, chiamata la Britannica perchè conservata al
British Museum di Londra, ma composta di sicuro a Roma.
Composta sicuramente durante il pontificato di Urbano II (1088 – 1099 d.C.), attivo esponente della
riforma, uomo colto di diritto.
La Britannica pur nel suo complesso disordinata, mette in giusta successione i passi del Digesto dei
primi 24 libri, e indica di ciascuno passo il libro e il titolo in cui è contenuto.
Cosa particolare perchè di solito nelle collezioni coeve vi erano citazioni senza alcuna indicazione
se non molto generica, per questo si pensa che il redattore della Britannica avesse davanti a se il
Digesto o parte di esso, inoltre offre redazioni divergenti sia delle Pandette pisano/fiorentine, che
della tradizione vulgata ovvero la cosiddetta littera Boniniensis.
Quest’ultima cosa contrasta con il fatto che si pensava che tutte le tradizioni testuali del Digesto
circolanti in Occidente, derivassero dalla nota littera Pisano/Fiorentina, manoscritto risalente a
Giustiniano.
Si pensava che le origini di tutta la storia europea del Digesto risalissero alla littera
Pisano/Fiorentina, in quanto tutte le compilazioni successive presentavano il medesimo errore di
impaginazione di quest’ultima, presente anche nella littera Bononiensis quindi questa è sicuramente
successiva alla Pisano/Fiorentina, circostanza singolarissima resa nota da Lelio Torelli nel 500, che
fece considerare per quattro secoli la Pisano/Fiorentina come unico anello di congiunzione tra
Giustiniano e la sua storia.
Ora vi è la dimostrazione che vi sono altri anelli, come per esempio il manoscritto che aveva tra le
mani nel 603 d.C. Gregorio Magno, e che questo libro sia finito tra le mani dei compilatori della
Britannica, infatti il testo del "Digesto Nuovo" allegato integralmente nel commonitorium di
Gregorio I ha le stesse differenze sia dalla Pisana che dalla Bononiensis o vulgata, che hanno i
medesimi passi della Britannica.
Paragrafo 8
La riforma gregoriana quindi aiutò il ritorno genuino dei testi giustinianei, prima di tutto il Digesto.
Ma la prima risurrezione non avviene per mano di canonisti e teologi ma bensì in un processo civile
dove Ultpiano riemerge e riesce a determinare una sentenza.
Marzo 1076 a Marturi, il monastero di S. Michele rivendicava alcuni beni donatigli un’ottantina di
anni prima dal marchese Ugo di Toscana, ma che erano nelle mani di fideles dei canossiani dal
tempo del malvaglio marchese Bonifacio, che amava confiscare i beni a chiese e conventi per se e i
propri vassalli.
Nonostante le continue richieste di restituzione, i possessori facevano orecchie da mercante, la
prescrizione era scattata e il possessore si sentiva al sicuro, ma Beatrice rimase vedova del
marchese, e a questo punto il convento ritentò la sorte, e invocando un testo del Digesto riuscì ad
aggirare la prescrizione ed a ottenere la restitutio in integrum, per mancanza di giudici a cui
ricorrere, questo era il caso del monastero che riottenne i beni indietro.
Uno dei fautori di questa vittoria processuale storica, fu senza ombra di dubbio tale Pepo legis
doctor (legis doctor indicherà in futuro i professori di diritto romano), questo Pepo fu il primo a
insegnare le leggi giusitinianee?, se fosse vero sarebbe lo stesso Pepo che si incontra nel Placito
lombardo, accanto a Enrico IV verso gli anni 80’ del secolo, e Pepo siccome si sentiva apprezzato
dal monarca si schierò al suo fianco nella guerra che era scoppiata tra Chiesa e Impero, anche in
sede imperiale infatti vi era interesse a riscoprire il diritto giustinianeo per utilizzarlo a proprio
vantaggio.
Paragrafo 9
I giuristi imperiali di solito erano ecclesiastici e i libelli de lite che scrivevano per difendere i diritti
dell’imperatore, erano infariciti di citazioni sacre, ma vi erano anche richiami al diritto romano.
La famosa Defensio Henrici IV Regis, databile al 1084, attribuita a Pietro Crasso fidelis
dell’imperatore, del quale è tutto incerto compreso il nome.
Egli aveva una grande cultura teologico-canonista, ma aveva anche una discreta conoscenza del
diritto romano, lo si evince dalla citazione di passi di opere appartenenti al diritto giustinianeo.
Nella sua opera c’è chi vi ha sentito echi della cancelleria imperiale, ma si considera lo scritto come
opera dell’ambiente ravennate, di stretta obbedienza imperiale, sotto l’arcivescovo Ghiberto che era
fedele ad Enrico infatti questo ambiente si trasformò in una vera e propria fucina di opere cesariste,
considerando anche il fatto che era un luogo dove vi era molta antica cultura.
Tre opere divennero celebri, la prima detta Hadrianum, narra del soggiorno di Carlo Magno a Roma
all’indomani della conquista del regno longobardo, nel 774 d.C., si narra che insieme a papa
Adriano, Carlo Magno riunì una sinodo nel patriarchio lateranense, cui avrebbero partecipato
numerosi vescovi e abati e giudici e legum doctores, di clero e di popolo romano.
Si parlò dei rapporti tra la Chiesa e l’Impero, si definì anche la dignità del patriziato, questioni in
cui in tutto il mondo dominava l’errore, e siccome prendere decisioni collettive così importanti era
molto complesso, soprattutto nel riunire in un concilio tante persone, l’ostacolo fu superato quando
il popolo romano trasferì al principe ogni potere con la celebre lex regia, e papa Adriano mosso da
tanto esempio conferì a Carlo il patriziato ed il potere di eleggere il papa e di ordinare la Chiesa,
non era cosa da poco.
Il 774 d.C. apparve troppo lontano, per tale motivo nacque una coppia di falsificazioni, il
Privilegium maius ed il Privilegium minus, entrambe le opere attribuite all’antipapa Leone VIII, e
in particolare il Privilegium maius interviene in favore del sovrano Ottone I, ripetendo le
disposizioni dell’Hadrianum, in particolare la lex regia, mostrando di averne notizia dalle
Istituzioni, e la interpreta per la prima volta come un’alienazione irrevocabile.
L’idea che la lex regia avesse dato all’imperatore un potere eterno a scapito del popolo, sarà
condivisa da Irnerio e dal suo allievo Martino, e da tutta la scuola gosiana, e questo rappresenta uno
dei pochi ponti ancora oggi visibili tra la prima scienza giuridica bolognese e la cultura imperiale
del secolo precedente, che rappresenta seppur grossolanamente una delle culle del pensiero
bolognese.
Paragrafo 10
Queste iniziative culturali, sia da parte papista riformista sia da parte cesarista conservatore, sono
tutte soffuse di quelle aspirazioni religiose, nel fervore delle lotte tra papi e principi, atti di vero
fanatismo che costituiscono il sale dell’XI secolo, rispecchiate nel diritto che ne rivela le antiche
radici.
Alcuni studiosi hanno rilevato dai documenti della regione di Gaeta, che i notai che redigevano
donazioni e testamenti ne assicuravano la legittimità, invocando sia l’auctoritas ecclesiastica sia la
lex romana, un’invocazione che nessuna norma precisa, i notai sapevano che la legittimità di un atto
doveva derivare sia dalla legge divina come da quella umana, e nonostante alcuna legge ci fosse in
proposito essi operavano in tal senso.
Questa prassi non era peculiare nella regione di Gaeta, anche in Provenza, e persino i lombardi si
dichiaravano proprietari "et canonico ordine et legibus".
Non era un capriccio dei notai, Enrico III a Rimini nel 1047 d.C. intervenne personalmente per
chiarire un dubbio dei giuristi circa un dubbio filologico su una legge del Codice giustinianeo,
passandola al vaglio dei principi canonici, avvertendo che così facendo obbediva a Giustiniano, che
assegnava la medesima efficacia ad entrambi gli ordinamenti, Utraque lex era l’espressione che si
usava per indicare l’una e l’altra legge, espressione che lega insieme i soggetti dello storico
dualismo normativo a unità.
30 anni dopo la Defensio Henrici IV regis, arrivò a dare dell’Utraque lex una descrizione teorica,
dal sapore e dal fascino delle professioni di fede dell’alto Medioevo.
Siccome il creatore ha particolarmente a cuore l’uomo tra tutte le sue creature, gli ha dato due leggi,
una per mezzo degli apostoli arrivata agli ecclesiastici, l’altra per mezzo degli imperatori data ai
laici, ma Dio ha voluto che nessuna delle due avvantaggiasse sia il clero che il popolo, in modo che
nessuno in alcun negozio osasse violarle, il legislatore umano affermando nel Codice che chiunque
offenda la santità della legge cada nel sacrilegio lo attesta inequivocabilmente.
Utraque lex, unione indissolubile tra spirituale e temporale, tra etica e diritto, tra canoni e leggi, in
seguito i canonisti vorranno rilanciarlo nelle scuole, i civilisti per 2 secoli stenteranno a farlo, infine
diritto canonico e civile si stringeranno insieme nell’utrumque ius fino all’età contemporanea.
Parte II
I: scuole e scienza
Capitolo 1
Paragrafo 1
Nel nuovo millennio ci fu un risbocciare della cultura, le arti liberali cui ci si affidava da secoli per
formare i dotti, erano in grande espansione come le loro scuole, che nascevano nelle città in ripresa,
e avevano molto successo.
Le arti liberali erano sette, ed avevano tutte una grande rilevanza pratica, quando riferivano principi
teorici era perchè erano applicabili nella quotidianità dell’uomo.
Erano divise in due gruppi, il Trivium era composto dalle tre arti che venivano chiamate
sermocinales, perchè riguardavano i metodi della corretta e ornata espressione nel pensiero del
discorso, erano la grammatica, la dialettica e la retorica.
La grammatica veniva insegnata mediante i classici latini, da cui si imparava un linguaggio
irreprensibile e il gusto per il bello stile nello scrivere.
La dialettica forniva gli elementi essenziali della logica aristotelica.
La retorica era l’arte del persuadere, cara agli oratori ed avvocati, ovvero i giuristi ed il suo
insegnamento trovava il suo punto di forza nei testi di Cicerone, oratore e avvocato principe
dell’antichità.
Il Quadrivium era il secondo gruppo e comprendeva le rimanenti 4 arti liberali, che erano chiamate
reales perchè riguardavano fenomeni obiettivi, fondati sul numero e sulla quantità e non il
funzionamento dell’intelletto, erano l’aritmetica, la geometria, la musica e l’astrologia o
astronomia, le materie scientifiche insomma opposte alle precedenti umanistiche, usando un termine
più moderno ma che appare una forzatura.
Le arti liberali rappresentavano l’istruzione superiore anche nell’alto Medioevo, istruzione
superficiale a giudicare dalle preoccupazioni di Carlo Magno, in quanto la cultura nel suo periodo
era in un misero stato, e seppure egli stesso fosse ingorante, subiva il fascino del sapere, lo riteneva
uno strumento utile sia all’Impero che alla Chiesa per espletare le proprie funzioni, per tale motivo
curò la crescita culturale circondandosi di dotti egli stesso.
Gli storici a tal proposito parlano di una "rinascenza" carolingia alla sua corte, utilizzando il termine
rinascimento ante litteram, sospinto come tutti i rinascimenti da una fiammata di entusiasmo per la
latinità, un ritorno alle lettere e al pensiero classico insomma.
Furono prodotti molti libri, e tanti altri furono copiati e di conseguenza salvati, fu esibita anche una
nuova forma grafica elegante, ricalcata dalla semionciale tardo-romana, che venne chiamata
carolina in onore del sovrano, che è poi quella arrivata fino a noi attraverso l’umanistica,
caratterizzata dai caratteri tipografici tondi dei giorni nostri.
Gli sforzi del sovrano sul piano della cultura qualche risultato lo portarono, anche se in Italia la
situazione in questo senso era sempre drammatica.
Paragrafo 2
La doctrina italiana all’imperatore Lotario nell’825 d.C. parve così messa male da essere definita
estinta, e decise d’intervenire attraverso il capitolare ecclesiastico olonese, perchè emanato presso
Castiglione Olona, presso Varese, si limitava a distribuire gli studenti a seconda della loro
provenienza, tra le sedi vescovili del Regno d’Italia, prima fra tutti Pavia la capitale, poi Ivrea,
Torino, Cremona, Fermo, Verona e Vicenza, fu forse il provvedimento carolingio più significativo
in tema di istruzione superiore.
Emanato sotto forma di capitolare ecclesiastico, ciò conferma che l’istruzione era affidata
interamente al clero, nelle cui mani stava per cui la cultura.
Viene citato un maestro solo in questa disposizione, Dungalo, il quale dava lustro alla scuola di
Pavia, forse si tratta del monaco irlandese che si intrattenne alla corte di Carlo Magno, e che fu
chiamato dal sovrano "amico della sapienza", era studioso di Marziano Capella (colui che aveva
descritto per la prima volta le arti liberali), per questo motivo la scuola di Pavia era legata da tanto
alle arti liberali.
La scuola di Pavia era molto rinomata all’inizio del nuovo millennio, attirava studenti da ogni zona
d’Europa, probabilmente si studiava anche il diritto, e qui forse lo ha appreso Lanfranco, futuro
arcivescovo di Canterbury, che da giovane amava mettere in difficoltà i giuristi.
L’insegnamento del diritto non sorprende in quanto era un’appendice naturale della retorica, che
appunto era disciplina tipica di oratori e avvocati, ed era buon campo di esercitazione per preziosi
meccanismi logici della dialettica.
Il vincolo tra diritto e le arti liberali d’altronde rimase attivo per secoli, influenzando non poco i
metodi dei giuristi, e mantenne aperto il canale tra etica e diritto e ravvivò nei glossatori e
commentatori la ben nota attenzione al contenuto morale del fenomeno giuridico.
Sempre a Pavia accanto alla scuola di arti liberali, si affacciò una scuola professionale di diritto
longobardo, che era quello ufficiale nel Regno d’Italia, volta a formare i giudici, questo verso l’XI
secolo.
Questa scuola nacque in funzione della riqualificazione degli apparati giudiziari dopo la seconda
Renovatio Imperii voluta da Ottone I, riqualificazione notabile dalla scomparsa progressiva dei
vecchi scabini e dall’aumento dei iudices domini regis, gruppo folto, compatto e autorevole
gravante sul palatium del sovrano.
Il palatium era l’edificio fisico che comunque i cittadini di Pavia distrussero nel 1024, ma in questo
caso deve essere inteso come il complesso degli uffici dell’amministrazione del regno, che non
erano necessariamente locati a Pavia, ma erano itineranti almeno occasionalmente, questo può
spiegare il perchè la scuola di diritto, incardinata nel palatium, sia stata localizzata in città diverse
da Pavia.
Paragrafo 3
Nella scuola di Pavia si studiavano gli Editti longobardi e il Capitulare italicum, attraverso una
raccolta cronologicamente ordinata, il Liber Papiensis, testo che non era ancora completo quando si
iniziò ad insegnarlo, la forma definitiva fu raggiunta non prima dell’XI secolo.
In seguito lo stesso materiale fu disposto in forma sistematica a imitazione del Codice giustinianeo,
fu distribuito per materia in titoli, e i titoli in tre libri, operazione scientifica compiuta in ambiente
scolastico.
Fu chiamato Lex Longobarda (Lombarda in volgare), ed entrò in circolazione dalla metà del XII
secolo.
Il primo approccio dei maestri pavesi ai testi normativi fu pratico, furono corredati di formule per
facilitarne l’attuazione nei tribunali, formule primitive e di fattura grossolana erano di poco
posteriori all’anno mille, dato che l’ultimo ad inserire le sue costituzioni fu Enrico I (II come
imperatore) del 1019 d.C.
In corrispondenza con gli stessi argomenti delle costituzioni di Enrico I finiva anche l’Expositio,
redatta dopo il 1070 d.C. si pensa per questo che li finisse il testo del Liber Papiensis usato nella
scuola e rimasto invariato, privo di aggiornamenti per quasi tutto il secolo.
La caratteristica principale della prima produzione fu l’attenzione al rito processuale, la vita del
diritto ancora non sorretta dalla scienza si espletava nel processo, la scuola voleva migliorare il
processo, stesso intento del Placiti forma glossata, di mano ignota dell’XI secolo, compie un passo
avanti nei confronti del formulario, anche se era comunque una raccolta di formule, le dispone in
ordine logico, articolandole sulle ipotetiche domande dell’attore e risposte del convenuto, inserite
nella trama di un astratto giudizio, in cause pratiche che succedevano realmente nella vita
quotidiana, come una lite per il possesso di terre.
Il passo in avanti di tipo scientifico lo si nota quando si citano leggi longobardo-franche appropriate
che accompagnano le formule, e illustrate con glosse nelle quali si leggono persino due citazioni
romanistiche, del Codice e dell’Epitome Iuliani.
Il Cartularium è un’altro scritto attribuito alla scuola pavese, che riguarda i notai e la redazione di
atti privati di cui offre una serie di schemi, questo testo veniva chiamato "longobardo", unico
rappresentante italiano di un genere che in Francia appare ben rappresentato, tanto vecchio da
risalire forse al IX secolo d.C. mentre altri lo hanno collocato all’XI secolo d.C., colpisce che
descriva un quadro aggrovigliato di leggi germaniche, mettendo in rilievo qualche volta la legge
salica, contrapponendola alla romana e ignorando quella longobarda, suggerendo che almeno quelle
parti dell’opera abbiano influenze transalpine.
In tal senso l’ignoto autore dell’Expositio attribuisce il longobardo (cartolario), a un re Teoderico
cartarum compositor, ovviamente non si tratta del re gotico Teoderico il Grande di cui si era persa la
memoria, ma si potrebbe riferire a Teoderico I re dei Franchi (511 – 534 d.C.), che lo stesso autore
riteneva padre della legge salica, quindi si pensa che egli leggesse il Cartolario in aggiunta a un
testo della legge salica attribuita al merovingio Teoderico.
Quindi a prescindere dalle influenze che ebbe, il nostro Cartolario fu redatto in Italia e qui circolò in
tutta la penisola, e in alcuni manoscritti vengono richiamate zone diverse nella formula 9, l’unica
richiamante una città, in alcuni testi si legge Pavia in altre Tuscolo ovvero la zona di Roma.
Ludovico Antonio Muratori, autore delle Quaestiones ac monita, operetta evocante echi scolastici,
composta da una serie di quesiti con relativa elementare risposta, su svariate materie, infatti
Quaestiones significa quesiti e si adatta all’operetta.
Per quanto riguarda l’altro termine, monita, pare rivolto ai lettori, ovvero studenti in quanto molti
pezzi cominciano con il termine recordare, tieni a mente, accenni chiaramente ammonitori.
Paragrafo 4
Paragrafo 5
Paragrafo 6
Paragrafo 7
Odofredo raccontò inoltre che Irnerio non fu il primo a insegnare il diritto romano, lo precedette un
certo Pepo, il quale non ebbe fama alcuna al contrario di Irnerio, ma a quanto si sa oggi Pepo non fu
una nullità da scartare in modo brusco come fece Odofredo, in talune fonti oltremontane è apparso
più volte circondato di considerazione.
Radulfus Niger, maestro inglese di arti liberali che insegnò a Parigi, lo dipinge come il protagonista
della nuova aurora del diritto romano e declassa Irnerio quasi a un ruolo subalterno, un semplice
propagatore dell’iniziativa di Pepo.
La summa Institutionum provenzale, ingora la scienza giuridica bolognese ma conosce Pepo, quindi
come abbiamo visto egli raccolse fama in Francia, ma anche in Italia qualcuno ebbe memoria di lui,
all’inizio del XII secolo, in base a una precoce glossa, qualora se ne accertasse l’italianità, che cita
l’interpretazione di Pepo della parola embola, che compariva fugacemente nel Codice.
Il ricordo di Pepo era affidato alla tradizione orale in quanto non lasciò scritti, e in questo senso fu
paragonato all’antico giurista romano Tiberio Coruncanio, il quale non lasciò alcun testo.
Si ritiene in generale che Pepo sia da identificare in quel doctor legis che comparve nel placito di
Marturi, che partecipò come advocatus di altri monasteri in altri placiti toscani tra il 1072 e il 1078.
Quindi possiamo ricondurre la notorietà che ebbe in Francia con i noti rapporti che intercorsero tra
Provenza e Toscana agli inizi del XII secolo, comunque manca la sicurezza dell’identificazione.
Sempre Radulfus Niger ci racconta di un’altra impresa di Pepo, un placito che vide protagonista
l’imperatore Enrico IV tenuto in Lombardia, in cui una sentenza pronunziata secondo il diritto
germanico, assolutamente regolare, fu cambiata dopo l’intervento di Pepo e l’utilizzo della legge
romana, si trattava di un padrone che uccise il suo servo, secondo la legge germanica si doveva
pagare una somma pecuniaria, sentenza che venne modificata in pena capitale per l’omicida, in
quanto secondo Pepo il diritto naturale non consente di fare distinzioni tra servi e liberi, quindi non
si possono applicare pene differenti in base allo status personale delle vittime, inoltre la legge di
natura prevede che chiunque uccida sia ucciso, utilizzò il termine pariter, evocando la legge del
taglione che per la verità non lasciò grandi segni nel diritto romano, comunque il discorso di Pepo
fu improntato sui danni che l’omicida arrecava al naturale consorzio degli uomini e della comune
natura umana, Pepo più che a leggi giustinianee si riferiva alla legge di natura che era parte del
diritto canonico.
Inoltre sul fatto che i servi non fossero da distinguere dai liberi, si trattava del principio della
originaria naturale libertà di tutti gli uomini, prevista dal mitico diritto naturale di cui Pepo ebbe
notizia se non dal Digesto dalle Istituzioni.
Paragrafo 8
Solo la Chiesa pensava che il diritto naturale prevaleva su quello civile, in quanto la natura era Dio
stesso, quindi il diritto naturale era quello divino, rispetto al quale qualsiasi legge umana sarebbe
stata sottostante, per queste regioni il diritto naturale caricato dal pensiero canonistico di una
valenza religiosa irresistibile, assunse una valenza polemica nei confronti del diritto positivo, e a
diventare all’occasione, forza eversiva della norma vigente qualora risultasse ingiusta.
Il discorso di Pepo nel placito lombardo appare chiaro che fondava le sue radici su presupposti
ecclesiastici, possiamo dire che il primo maestro di diritto romano era un canonista.
Il suo attacco al diritto germanico e alle pene pecuniarie era conforme alla politica della Chiesa.
Una congettura fatta da Piero Fiorelli qualche decennio fà ci fa riflettere, verso la fine dell’XI
secolo a Bologna vi erano due vescovi, uno chiamato Sigifredo era fedele al papa Urbano II, l’altro
era scismatico, quindi fedele all’antipapa Clemente III il quale era stato nominato dall’imperatore
Enrico IV, il suo nome era Pietro che come dimintivo di marca germanica aveva Pepo, rimase in
carica come vescovo dal 1085 al 1096, erano gli anni dello scisma, della guerra tra Chiesa e Impero,
e queste coincidenze fanno supporre che il Pepo maestro di diritto romano, colui che nel 1084
partecipò dalla parte dell’imperatore nel placito lombardo, fu lo stesso che un anno dopo fu
nominato vescovo scismatico di Bologna?
Questa tesi per quanto possa favorire una serie di incastri favorevoli, appare troppo debole per
essere accettata, soprattutto se pensiamo alle fonti, a coloro che ci hanno raccontato questa storia,
Sigismondo Ticci nel suo Historiae Senenses, definisce Pepo come clarum Bononiensis lumen,
ovvero luce dei Bolognesi, non è una semplice variazione su tema chiaramente odofrediano?
Inoltre è lecito dare tanto peso all’inaffidabile Ticci?
La damnatio mamoriae dello scismatico sia responsabile del buio caduto su Pepo, come è possibile
che la sua dignità vescovile sia stata integralmente cancellata da ogni ricordo che abbiamo di lui?
È ammissibile che sia sempre stato chiamato Pepo e mai con il suo vero nome Pietro?
Quindi pensare che sia stato un vescovo pare ardito ma possibile, inoltre più che maneggiare il
diritto romano, Pepo predicò idee della Chiesa, portando alle conseguenze estreme il connubio tra
legge divina e legge umana (utraque lex), che nella prassi religiosa dell’XI secolo voleva dire
subordinare l’umana alla divina.
Questo poteva voler dire attentare all’autorità di Giustiniano, ragione per la quale da Irnerio in poi
l’utraque lex piacerà poco ai glossatori civilisti, che saranno molto lontani da Pepo e dalle sue idee.
Capitolo II
Irnerio e Bologna
Paragrafo 1
Wernerius (nome originale di Irnerio), fu il grande caposcuola bolognese, nome di chiara origine
germanica, come del resto lo era quello di Pepo, suo predecessore.
Un’antica tradizione assegna a Irnerio la qualifica di Theutonicus, tradizione insicura in quanto
Irnerio stesso si definisce iudex Bononiensis, che consente le ipotesi di ascendenze germaniche di
Irnerio, fatto che spiegherebbe perchè Enrico V, che sceglieva le persone di fiducia tra i
connazionali, lo nominò nel 1116 giudice imperiale e gli affidò missioni politiche importanti.
Irnerio debuttò nel giro di quella grande antagonista degli Enrici ch’era la contessa Matilde di
Canossa, seppure in un periodo di tregua tra le due potenze, dopo la riconciliazione del 1111.
All’epoca era un semplice causidicus, un avvocato e incontrò di persona almeno una volta Matilde,
quando entrambi parteciparono al placito di Baviana nel 1113, nel Ferrarese forse.
Irnerio doveva avere già iniziato i suoi studi dei libri giustinianei, e la sua fama di conoscitore degli
impervi manoscritti si era già diffusa quando Matilde di Canossa gli chiese di rinnovare i libri delle
leggi, che possiamo datare nel 1113, data che andrebbe bene.
Questo invito parve poca cosa a prenderlo alla lettera, si preferì intenderlo come una metafora che
avrebbe indicato il rinnovamento della scienza del diritto romano, in poche parole l’avvio della
scuola di Bologna.
Una richiesta di una persona così importante parve più un ordine che una petitio, altri hanno pensato
ad un’autorizzazione, che sarebbe risultata molto importante se messa in relazione a una frase
oscura della biografia di Matilde, frase che diceva che l’imperatore Enrico V aveva concesso a
Matilde il governo del regno in vece del re, un poetico ricordo della riconferma avvenuta nella
tregua del 1111, dei feudi già revocati al tempo della guerra.
Queste frasi scritte in modo piacevole da leggere, possono portare a fraintendimenti, circa 60 anni
fa infatti alcuni studiosi pensarono che il re concesse il vicariato regio a Matilde.
Quindi riassumendo la richiesta con valore di comando a Irnerio fatta da persona vicaria del
sovrano di rinnovare non soltanto i "libri legali" ma la scienza e gli studi produsse un eccezionale
corollario, Irnerio che si pensava fondatore di una scuoletta privata invece fu fondatore di una
grande Università imperiale.
Il vicariato di Matilde è un falso perchè questo istituto apparirà tra qualche secolo, come falsa
appare la creazione di uno Studio imperiale a Bologna, ma ancora oggi alcuni storici sostengono
che Irnerio iniziò il glorioso insegnamento non in via ufficiale, perchè Bologna non faceva parte dei
possedimenti canossiani, ma con tutta l’autorevolezza derivante da una richiesta di una quasi
sovrana, la contessa-marchesa-duchessa di Canossa.
Paragrafo 2
Burcardo di Ursperg spiega con chiarezza quale era il contenuto preciso della famigerata petitio di
Matilde: l’invito a rinnovare i libri di Giustiniano non era altro che l’invito a restituire la forma
originaria a questi libri ormai palesemente corrotti, la medesima che gli aveva dato Giustiniano,
ovvero a produrne nei limiti del possibile una versione critica.
Ce n’era gran bisogno, in quanto i giuristi medievali trovandosi di fronte a manoscritti epitomati,
lacunosi e inaffidabili hanno dovuto procedere a una ricostruzione del testo collazionando i vari
testimoni, sfruttando gli uni per arricchire gli altri, intervenendo a sistemare razionalmente nei titoli
appropiati le leggi di cui appariva incerta la collocazione.
Ci sarebbe da chiedersi quanta parte del Codice che adoperiamo oggi sia opera dei giuristi
medievali anzichè di Giustiniano.
Il Codice poneva problemi filologici vistosi, come parecchi ne presentava il Digesto, soprattutto per
il divergere della littera Pisana/Florentina da almeno due altri filoni testuali diversi separatisi già
nell’età giustinianea.
Matilde era attenta quindi ai problemi filologici del diritto romano riesumato, ma era pronta ad
applicare le leggi germaniche vigenti se necessario, Irnerio era un giurista differente da quello tipico
che si occupava di ricostruire meccanismi giuridici e istituti, era un filologo esperto del testo
giustinianeo, che come tale godeva di buona fama.
Irnerio era immerso nell’atmosfera dei gramatici delle scuole di arti liberali, dove si respirava aria
di preumanesimo, egli bazzicava con la grammatica in quanto proveniva dai ranghi dei maestri delle
arti liberali, e qui comincia a farsi vistoso il distacco da Pepo e dai suoi metodi, come abbiamo visto
Pepo era un ecclesiastico che esperto di Giustiniano lo forzava ad adattarsi alle Scritture sacre,
mentre Irnerio era un giurista entusiasta dei problemi testuali, come del sistema giuridico e delle
logiche romane.
Perseguiva con cura i suoi obiettivi filologici, fatto dimostrato dall’attenzione alla genuinità del
testo, e quando per la prima volta ebbe sotto mano la più completa raccolta delle Novelle
giustinianee, l’Authenticum, sparito per secoli insieme al Digesto, si trovò una collezione molto
disordinata, costituzioni molto lunghe che trattavano argomenti disparati e confrontandolo con il
Codice si accorse che era molto diverso, per cui pensò che non fosse autentico, si rifiutò di inserirlo
tra i libri legales, ma nel contempo sapeva che anche se non erano genuine erano comunque novelle
valide, infatti erano applicate mediante la forma sintetizzata e rimaneggiata dell’Epitome Iuliani, e
siccome non voleva privare il suo codice del ius novissimus dell’ultimo Giustiniano, tolse brevi
estratti dalle Novelle dell’Authenticum per sistemarli in calce alle costituzioni del Codice che ne
venivano modificate.
Vennero chiamate authenticae e tutte le edizioni del Codice sia manoscritte che a stampa ne furono
corredate, Burcardo di Ursperg parlando della renovatio librorum, disse che Irnerio la completò
interpolando quà e là poche parole.
Frase fraintesa, in quanto Irnerio non interpolò nulla, e curò che le authenticae avessero l’aspetto di
note editoriali ben distinte dalle costituzioni del Codice cui si riferivano, con le quali nessuno
avrebbe mai potuto confonderle.
Paragrafo 3
Irnerio voleva destinare il proprio lavoro alla pratica, e questo lo si evince quando completa il
Codice utilizzando le authenticae, e nel contempo fece una revisione obbediente ai canoni filologici.
Irnerio si interessò alla prassi notarile, componendo il primo formulario per notai, altro fatto che
dimostrò come il grande caposcuola voleva aprirsi al mondo professionale.
In questo formulario parla solamente dell’enfiteusi, che è l’unica di cui abbia reale conoscenza,
Accursio ne tramanda l’incipit, e attraverso atti privati possiamo riscontrare come l’enfiteusi ebbe
quest’incipit a Bologna nel 1116, quando per la prima volta due abili notai lo utilizzarono,
abbandonando la vecchia formula.
Comunque a parte l’enfiteusi che sembra sia stata migliorata mediante discorsi circa i suoi problemi
tra i i due notai Angelo e Bonando e Irnerio stesso, egli non si è mai particolarmente interessato alla
materia notarile, men che meno tanto da indurlo a dedicare tempo e fatica alla redazione di un intero
formulario.
La scuola irneriana di diritto inoltre non deriva di sicuro da una scuola notarile, ma il 1116 di cui
suddetto risulta importante soprattutto per un placito di Padova dove comparve come giudice la
prima volta accanto all’imperatore Enrico V.
Paragrafo 4
I documenti che riguardano la vita di Irnerio non sono molti, coprono solo 14 anni della sua vita, tra
il 1112 e il 1125, disegnano un Irnerio impegnato tra arbitrati e giudizi, specialmente nel 1116, anno
in cui fioccano le carte che mostrano il giudice Irnerio accando all’imperatore, poi altre due tra il
giugno ed il 1° agosto 1118 sempre al fianco del monarca, infine dopo 7 anni appare un arbitrato del
dicembre 1125, poi il buio.
Nel 1118 accadde un evento cruciale nella vita del giurista, come sappiamo era presente nel nord
Italia dal giugno al 1° agosto, e verso la fine dello stesso 1118 Enrico V lo spedì a Roma a perorare
la causa di Maurizio Burdino che fu eletto antipapa nel marzo dello stesso anno con il nome di
Gregorio VIII, Irnerio a Roma fece un grande lavoro, le sue arringhe ebbero grande risonanza, ma
nel novembre dell’anno successivo il legittimo papa Callisto II scomunicò Enrico V e la sua corte,
compreso Irnerio, ed è possibile che proprio la scomunica fu la causa della scomparsa di Irnerio
fino al 1125.
Fu coinvolto in modo molto pesante in uno scisma sfortunato può darsi che si allontanò con
l’imperatore dall’Italia, se fosse rimasto a Bologna si sarebbe comunque dovuto nascondere,
smettere di insegnare e la sua scuola addirittura sparire, si pensa che sia morto poco tempo dopo il
1125.
Irnerio ebbe un’esistenza travagliata, passata tra studi severi, tribunali, problemi dei notai e alta
politica, qualche eco se ne coglie nell’opera scientifica.
Paragrafo 5
Già dai tempi di Enrico IV alcuni testi falsificati tirarono in ballo la lex regia de imperio, ovvero
quella legge con la quale il popolo romano concedeva all’imperatore i suoi poteri, l’Hadrianum e il
Privilegium maius addirittura inventarono che il popolo romano e il clero della Roma medievale, in
ricordo di un antico e glorioso passato, concedettero all’imperatore Carlo Magno il loro potere di
eleggere il papa, ed allo stesso modo appare verosimile che Irnerio seguendo la falsariga del
falsificatore cesarista, abbia utilizzato la lex regia de imperio in difesa dell’intervento imperiale
nell’elezione del cardinale Maurizio Burdino, la lex regia dopo questo avvenimento rimarrà nei suoi
pensieri e nei suoi ragionamenti, e sarà il caposaldo teorico della sua visione del potere imperiale.
Un esempio di questo modo di vedere le cose lo possiamo riscontrare allorquando Irnerio si trovò
ad analizzare scientificamente la contrapposizione tra un passo di Salvo Giuliano e la legge di
Costantino.
Salvo Giuliano ammette le desuetudini mentre Costantino toglie ogni efficacia alle consuetudini
contra legem, Irnerio per risolvere la questione si affidò alla lex regia, aggiungendo che Giuliano
dice cose giuste per i suoi tempi in quanto all’epoca il popolo aveva ancora il potere di legiferare e
di conseguenza anche quello di abrogare le leggi, ma dopo l’alienazione di ogni sua potestà al
principe la desuetudine era diventata per sempre inammissibile.
Per Irnerio la lex regia era un’alienazione totale, definitiva ed irrevocabile, egli la evocava
soprattutto a sostegno della battaglia politica sul recupero delle regalie, che era destinata alla
sconfitta.
I Comuni vittoriosi a Legnano attraverso la pace di Costanza (1183 d.C.), pretenderanno di derogare
con le loro consuetudini anche alle leggi sacre dell’imperatore.
Verso il 200 Azzone sovvertirà tranquillamente l’interpretazione di Irnerio, affermando che il
popolo anche dopo la lex regia avrà conservato reliquiae del potere, e ancora Ugolino dei Presbiteri
cambierà completamente la lex regia da pilastro delle concezioni cesariste a quelle popolari,
mediante una distinctio si evince che il popolo con la lex regia aveva nominato il principe
procuratore ad hoc, rilasciandogli una delega ma la titolarità dei diritti sovrani l’aveva sempre
conservata.
Fortunatamente per il sovrano questa tesi non fu approfondita, sarebbe potuta anche valere la revoca
del mandato, qualora fosse stata considerata veritiera.
Paragrafo 6
La lex regia vista come argomento giuridico in favore del recupero dei poteri dell’Impero è uno dei
pochi spunti teorici di Irnerio che ci sia stato tramandato, il suo pensiero infatti ci appare scarno ed
episodico, ed è inoltre uno dei pochi filoni di pensiero che ha continuato ad esistere dai tempi di
Gregorio VII fino a Irnerio.
Il Fitting attribuì ad Irnerio parecchie opere, in cui veniva trovata una qualche corrispondenza con
glosse irneriane, e ciò fece di lui uno degli autori più prolifici di tutto il Medioevo, avrebbe scritto la
prima Summa Codicis, che oggi viene chiamata Trecensis, poi la Summa Institutionum detta
Vindobonensis, perchè esibita in un codice di Vienna, inoltre le famose Questiones de iuris
subtilitatibus e il Formularium tabellionum per arrivare fino a una summa di diritto longobardo, che
testimoniava una versatilità senza confini.
Ma i cosiddetti "sogni fittinghiani" sono spariti e di Irnerio sono rimaste solo alcune glosse relative
al Codice a al Digestum vetus, firmate da Irnerio in persona anche se c’è anche in questo caso
qualche dubbio, in quanto si ritrovano firme di Irnerio scritte come Yrnerius ma sappiamo che egli
usava chiamarsi Wernerius, inoltre essendo il primo glossatore non aveva necessità di distinguere le
proprie glosse da quelle altrui, gli sono state attribuite glosse che non gli appartegono sicuramente
mentre ce ne sono state altre che sono attribuite a lui ma gli sono state rubate dai suoi allievi, a
questo proposito si ritrovano glosse identiche con varie firme, ovviamente vi sono anche quelle che
sono sue di sicuro e talvolta sono molto tecniche e noiose alcune volte sono ridotte a oscuri appunti
forse da svolgere oralmente, ma lasciano intravvedere qua e là sintesi dottrinali di mirabile
eleganza.
Paragrafo 7
Si conoscono 4 allievi di Irnerio, cosiddetti i "quattro dottori": Bulgaro, Martino, Iacopo e Ugo, che
saranno molto importanti perchè continueranno il lavoro di Irnerio garantendo longevità alla sua
scuola, che in altro modo sarebbe scomparsa alla morte del caposcuola.
Per puro caso il più grande degli Studia mise radici a Bologna, al tempo dei contatti con Matilde di
Canossa, verso il 1112/1113, Irnerio si trovava a Ravenna dove sicuramente studiava e forse
insegnava, dopo di che si trasferì a Bologna forse perchè di origine bolognese, e quì decise di
insegnare perchè si trovava a casa propria, furono i quattro dottori a fare del suo magistero
un’istituzione fissa e massima gloria cittadina.
L’ambiente che essi crearono non fu statico e opaco, parecchie raccolte di dissensiones dominorum
mostrano che la scuola era tutt’altro che monolitica, vi erano molti punti di divergenza riguardo
l’interpretazione delle norme.
Le divergenze tra i maestri crearono delle differenze dei modi di pensare anche nei giuristi futuri,
gli storici sono riusciti a individuare almeno le linee di pensiero di due dei quattro dottori, Bulgaro e
Martino di cui si conosce anche il cognome, Gosia.
Bulgaro sarebbe stato difensore dell’interpretazione rigorosa della legge scritta, mentre Martino
Gosia, da cui la scuola gosiana, sarebbe stato più elastico, e avrebbe occasionalmente preferito le
maglie larghe dell’equità a quelle strette del dettato legislativo.
Questa due scuole si sarebbero scontrate attraverso gli allievi e gli allievi degli allievi, e avrebbe
trionfato la scuola di Bulgaro, secondo Azzone, che ovviamente apparteneva alla scuola medesima,
l’interpretazione dei giuristi ha sempre oscillato tra i due poli del rigor iuris, ovvero dalla "lettera"
della legge astratta, e l’equità, ovvero principio razionale ed etico invocato da peculiarità della
fattispecie concreta.
Anche il legislatore mediante un’eccezione normativa può dare voce all’equità, solo per casi
particolari in deroga alla legge generale, questo viene chiamato ius strictum o rigor iuris, in questa
ipotesi prevale l’equità come raccomandato persino da Costantino.
Bulgaro e i suoi allievi come Giovanni Bassiano, Azzone, Odofredo e altri hanno sempre accusato
la corrente di Martino Gosia di trarre l’equità arbitrariamente dalla propria coscienza, di inventarla
(ex genio suo), un’equità personale (in corde retenta), in sintesi un’equità ficta bursalis e anche
capitanea perchè destinata a dominare e prevalere sulla legge.
Martino sembra fare la figura del giurista da strapazzo, ma andando a rivisitare le sue glosse ci si
accorge che non è così, analizzandole con attenzione ci si accorge che questa equità non c’è, e
talvolta Martino appare più fedele di Bulgaro al dettato normativo.
Ed è lo stesso Azzone che dopo avere accusato Martino Gosia di essere fedele all’equità, lo
rimprovera per mantenersi ciecamente incollato alla lettera della legge.
Pare ovvio affermare che l’interpretazione tradizionale dell’equità gosiana va riveduta.
Paragrafo 8
Enrico da Susa cardinale Ostiense, nonchè uno dei maggiori canonisti del Duecento definì Martino
Gosia come spiritualis homo disposto a seguire la legge di Dio a tal punto da sacrificare
Giustiniano, e che l’equità non era altro che il rispetto del diritto canonico quando l’occasione lo
imponeva.
Preferire l’aequitas canonica al rigor secolare in certi istituti significava applicare l’umtrunque ius,
integrazione cioè del diritto civile con quello canonico all’interno del Diritto comune, era
concezione antica della prassi del mondo preirneriano, l’utraque lex da sempre familiare ai canonisti
ma rifiutata dai civilisti postirneriani.
Questi erano talmente infatuati delle leges da non accettare alcuna deroga a favore dei canonisti,
solo nel Trecento con il fallimento della politica sveva (recupero delle regalie), e la fine
dell’illusione del sogno di restaurare l’Impero portarono i civilisti ad adattarsi anche loro
all’umtrunque ius.
Grazie a Enrico da Susa possiamo aprire uno spiraglio sulle due correnti di pensiero, che secondo
Azzone proseguirono parallelamente agli opposti cosa sicuramente non vera.
Bulgaro era il capostipite di quel mondo che vedeva la sua missione nell’interpretazione scientifica
dei libri giustinianei, rispetto al passato era il mondo nuovo.
Martino non ha mai sostituito Giustiniano con la legge canonica, solo in particolari casi ha avuto
delle piccole e caute aperture, al contrario di quanto dice Enrico da Susa, egli credeva nell’utraque
lex ma non certo quella in cui credeva Pepo, in sintesi Martino non tagliò mai gli ormeggi con il
mondo vecchio, quello che aveva due leggi, quella civile e quella ecclesiastica, ma mai e poi mai si
sognò di sostituire a Giustiniano la legge ecclesiastica, mai ferì o offese il grande legislatore
Giustiniano.
Campo di battaglia molto acceso dei due ordinamenti fu sempre stato il computo dei gradi di
parentela, infatti essendo differente il modo indicato nel diritto romano da quello canonico, si
ritrovano molte polemiche in relazione ad esso, nel 1045 Pier Damiani a Ravenna si trovò a
discutere di questo con alcuni dotti che indicavano nel metodo romano quello da seguire, mentre il
Pier Damiani dichiarava il contrario, per quanto riguarda Martino circa 100 anni dopo mise gli
occhi su tre lettere papali che presentavano la risoluzione dei problemi in tale materia, il pontefice
Gregorio VII propose di utilizzare il computo romano nelle successioni mortis causa, chiara materia
temporale, mentre per il divieto al matrimonio era lecito applicare il conteggio canonico, Martino
trovò in questo un buon compromesso, in quanto la legge romana non prevedeva proprio i divieti al
matrimonio, quindi di conseguenza nemmeno un loro conteggio, e per questo motivo non vi era
alcun tradimento nei confronti di Giustiniano, che per un integerrimo interprete delle leggi romane
era cosa irrinunciabile.
Secondo Martino utilizzare il diritto ecclesiastico nelle situazioni di mancanza del diritto romano
non comportava alcun tradimento a Giustiniano, come in questo caso.
Martino quindi non utilizzava l’umtrunque ius, non considerava deroghe al diritto romano, a
differenza di Bulgaro egli riusciva per un attimo a smettere i panni del giurista filologo del diritto
romano, dell’esclusivo interprete del diritto romano, come prevedevano le antiche tradizioni della
scuola di Bologna, egli parlava da giurista aperto alla prassi, aperto ai problemi pratici del diritto,
era un modo di comportarsi legato alle vecchie tradizioni e quindi strano per l’epoca, ma come detto
era sensibile alle esigenze concrete e all’equità.
Paragrafo 12
Il diritto divino era solo una parte marginale di quello realmente utilizzato, infatti il diritto romano
prospettava una formazione di sfere concentriche, nel quale i canonisti non vedevano il Vecchio e
Nuovo Testamento.
Sotto il naturale vi era il Ius Gentium, comune a tutto il mondo, cui andava il merito e il demerito di
avere introdotto guerre e paci tra i popoli, ma non solo anche istituti come la proprietà privata, la
schiavitù e i contratti consensuali facevano parte di esso.
Il Ius Civile aveva aggiunto forme giuridiche che venivano usate singolarmente da ciascun popolo,
mentre il diritto naturale era il primo, il più antico, era un ricettacolo e dispensore di equità di cui il
giurista medievale era perennemente alla ricerca.
Era un sistema che non si esauriva in un insieme di aerei principi di tipo neoplatonico, a mezz’aria
tra filosofia e religione, conteneva tutto ciò che diceva il giurista Paolo.
Rappresentava la forza equitativa interna dell’ordinamento positivo, espressa in modo concreto
mediante istituti:
il diritto naturale era espressione di tutti gli angoli della compilazione giustinianea, ed era il giurista
che doveva analizzarla e scoprire i medesimi angoli suddetti.
Il Ius pretorium era il filone più ricco, molti frammenti del Digesto riproducendo e commentando
l’opera del pretore che era intrinseca di un’equità naturale, e tanto bastò al glossatore per
convincersi che il caso illustrato era parte del diritto naturale.
I patti che non erano regolati dallo Ius civile potevano mediante un’eccezione essere regolamentati
dal pretore che con il suo lavoro proteggeva sia l’attore che il convenuto da violazioni del patto
medesimo, era fatto rientrare sotto molti aspetti del diritto naturale.
Ad esempio la restitutio in integrum dei minorenni che avessero subito danni da improvvide
alienazioni di beni era chiaramente ispirata dall’intento di impedire la soppraffazione dei deboli da
parte dei più forti, era manifestazione di equità e aspetto del diritto naturale.
Anche lo Ius Gentium aveva una ratio naturalis, si rivelava portatore di equità naturale, ad esempio
nel caso dei contratti consensuali e della loro causa naturalis.
Altri istituti dello Ius Gentium realizzati mediante fatti naturali, come l’acquisto della proprietà per
accessione o per occupazione, e per questo richiamavano il diritto naturale.
In casi sempre più nomerosi il diritto delle genti si sovrapporrà sempre di più al diritto naturale.
Paragrafo 13
Secondo Azzone l’equità animatrice del diritto naturale non era quella soggettiva, e in corde retenta
Azzone ne faceva colpa a Martino ed era una forza obiettiva, era intrinseca nei rapporti e nei fatti.
L’equità ogni qual volta si contrapponeva al testo normativo originale, entrava in contrapposizione
con il rigor iuris, stesso discorso lo si può fare tra il diritto naturale che rappresentava l’equità e il
diritto civile che rappresentava il rigore del testo giustinianeo.
L’equità era carissima al pensiero medievale, viene dipinta da Cicerone come principio di
eguaglianza in alcuni passi del Digesto, richiedeva parità di trattamento giuridico in presenza di pari
fattispecie concrete.
Altra citazione dell’equitas si ritrova in alcuni trattatelli medievali, descrive l’equità come la
corrispondenza dell’atto giuridico con la sua causa, ossia con lo schema tipico della fattispecie, ad
esempio se il venditore consegna la cosa (equità), vuole che il compratore la paghi, e viceversa.
Questa era la causa naturale che non ha originato la legge, ma tutto il mondo ha sempre a che fare
con essa, la ritroviamo nei rapporti tra le genti e nei fatti stessi che avvengono.
I dottori medievali chiamavano l’equità rudis o grezza, Cino da Pistoia la definirà come il metallo
prezioso nascosto nella terra, stà a l’uomo di aprire miniere per estrarlo e farne oggetti di valore.
Era compito del legislatore enuclearla dalla sua forma grezza e caricarla di autorità e di racchiuderla
all’interno della legge.
L’equità grezza viene mutata in equità, di conseguenza il diritto naturale viene trasformato in diritto
civile.
L’equitas era l’anello di congiunzione tra diritto naturale e diritto civile all’interno di una cornice di
un sistema normativo unitario.
Paragrafo 14
Ius naturale e ius civile erano due ordini diversi, legati ma autonomi, ad esempio nel campo delle
obbligazioni vi erano obbligazioni naturali e civili, vi erano obbligazioni civili che non potevano
nascere se non rispettando il diritto naturale, in questo caso l’equitas rudis si era trasformata in
equitas costituita, la causa naturale era al contempo causa civile e generava oltre a un’obbligazione
naturale un’obbligazione civile.
Nel caso che non era necessaria alcuna causa naturale alla nascita di un obbligazione civile, il
soggetto per essere tutelato dalla legge civile poteva rivolgersi a istituti previsti dall’ordinamento
per ottenere lo stesso scopo.
La scienza giuridica si imperniava su questo, ovvero tutto il sistema delle obbligazioni private sul
gioco delle due cause, naturale e civile, ciascuna all’origine dei due tipi di obbligazione in forza dei
rispettivi ordinamenti.
Quando entrambe le cause sono interessate, i soggetti sono pienamente tutelati, ad esempio
consegno una somma (causa naturale) e faccio una stipulatio per farmela restituire (causa civile).
Ma se le due cause vengono realizzate in momenti diversi si creano temporanee incertezze, e se
peggio una delle due manca si creano degli scempi:
Se nella causa civile manca la causa naturale si scatenerà l’appropriazione indebita, (la stipulatio
obbliga a restituire una somma non dovuta), si dovrà correre ai ripari attraverso un’exceptio doli o
pacri per paralizzare la richiesta della controparte, oppure con una condictio in vista della
ripetizione.
Se inceve manca la causa civile, nascerà solo l’obbligazione naturale, che consente di trattenere
quanto spontaneamente prestato (come nel debito di gioco), ma non di esercitare un’azione petitoria
per ottenere quanto dovuto.
È vero che riappare il vecchio rapporto preirneriano, tra il diritto naturale e civile, ma appare
lontano dall’utraque lex predicata Pepo nell’XI secolo, si era verificato un evento particolare, le
scuole dei legisti si erano staccate da quelle dei canonisti, che come primo effetto ebbe un primo
ritorno al diritto romano, il diritto naturale si modificò e assunse l’immagine del Digesto.
Il dirito naturale venne identificato come in antichità come diritto divino.
Paragrafo 15
Erano le cause naturali a rappresentare il momento equitativo dei fenomeni giuridici, ogni rapporto
sia pubblico che privato presupponeva tacitamente lo schema della conversione dell’equità grezza.
Atti, negozi, leggi e consuetudini ruotavano intorno a due principi, l’uno obiettivo l’atro soggettivo
che sono poi da sempre i poli necessari del circuito vitale del diritto.
I glossatori erano consci di questo quadro, misero come polo obiettivo, l’equità sulla base di fonti
giuridiche e teologiche, mentre il polo soggettivo era rappresentato dalla giustizia.
Irnerio descrisse la questione: La dinamica della vita giuridica stà tutta nell’assunzione di equità
all’interno di formali dichiarazioni di volontà, e queste ultime costituiscono la giustizia.
La Chiesa insegnava che la giustizia era una delle virtù cardinalI, e le arti liberali definivano la
giustizia come habitus animi, quindi abitava nell’animo, ovvero una predisposizione soggettiva.
Secondo Ulpiano, la giustizia era la volontà che ha per oggetto specifico di dare a cascuno il suo, se
ne deduceva che l’identica carica soggettiva doveva muovere tutto il ius, dato che esso discende
dalla iustitia, ne deriva ed eredita la natura della madre.
La teoria generale dei principi postirneriani, appare strutturata in un’archittettura logica e coerente,
ovvero completamente impostata sulla trama dei rapporti, tra diritto naturale e civile racchiusa nel
circuito che corre tra equità e giustizia, tra principi empirici obiettivi e interventi soggettivi.
A scanso di equivoci non tutte queste ottime argomentazioni provengono dalla scuola bolognese,
anzi la maggior produzione uscì da laboratori minori spesso transalpini.
Erano scuole che avevano l’obiettivo di formazione pratica dei giuristi, erano meglio disposte alle
costruzioni dogmatiche rispetto a Bologna, che per tutto il XII secolo rimane chiusa all’interno delle
mura severe dell’esegesi testuale.
Nell’età dei glossatori le scuole e dottrine extrabolognesi sono importanti, esse subivano il fascino
di Bologna e spesso erano tenute da maestri ivi formatisi, avevano anche interessi propri,
sfoggiando una propria cultura, usano propri generi letterari.
Sappiamo ancora poco di queste, abbiamo tuttavia sprazzi di luce che ci illuminano.
Capitolo IV
Paragrafo 1
Sembra una contraddizione, ma quando l’Impero fu sconfitto dai Comuni e fu firmata la pace di
Costanza, tornarono di grande interesse i Tres Libri, ovvero quella parte della compilazione
giustinianea che trattava la normazione imperiale sul fisco e sul demanio, sulle concessioni dei beni
pubblici e sulle magistrature locali, che avrebbero dovuto essere superati nel momento in cui i
Comuni avessero ottenuto la vittoria per il recupero delle regalie, invece questi Tres Libri tornarono
di grande interesse.
Il Piacentino in quegli anni andò via da Bologna, dopo esserci rimasto per due anni e averci
insegnato, andò a Piacenza dove insegnò per quattro anni, dove forse ebbe Carlo di Tocco come
allievo, in seguito rientrò a Montpellier dove morì poco dopo, si pensa che sia morto verso il 1182,
retrodatando la data scritta sul suo epitaffio di 10 anni, in base a studi recenti.
Il Piacentino stava compiendo una coraggiosa impresa, la redazione di una summa dei Tres Libri,
del quale ebbe il tempo di scrivere solo il titolo, De municipibus.
Durante il regno di Enrico VI (1191 – 1197 d.C.), Rolando un giudice lucchese dichiarò di voler
tentare l’impresa, dicendo di essere il primo a provarci, ci sembra strano che nessuno sapesse
dell’intento del Piacentino e ancora più strano che nessuno sapeva che Pillio l’aveva continuata.
Pillio narra che in uno dei suoi sogni, gli apparve il Piacentino il quale lo sollecitò a continuare la
sua opera sui Tres Libri, Pillio allora si mise al lavoro, era consuetudine allora che i maestri
apparissero in sogno agli allievi e questi ultimi ne continuassero le opere lasciate mutilate, ma
siccome Pillio si era trasferito a Modena nel 1180, il suo primo documento modenese risale al 1181,
risulta ancora più difficile comprendere come Rolando non sapesse niente di tutto ciò.
In ogni caso nemmeno Pillio completò l’opera, quindi quella di Rolando tornò buona, quando gli
editori delle summae azzoniane vollero fornire al mercato una silloge di summae di tutto il Corpus
iuris, quella dei Tres Libri fu composta dall’inizio del Piacentino, il grosso di Pillio, e la parte
minore e finale di Rolando da Lucca.
Paragrafo 2
Pillio appena arrivato a Modena compose il Libellus disputatorius, originale lungo elenco di
principi teorici tratti dalla compilazione giustinianea, corredati sia delle fonti normative favorevoli e
contrarie.
Quest’opera inizialmente pensata per i pratici, in seguito fu adattata anche per gli studenti (1195
d.C.), a scopo didattico fu un’edizione ampliata da una vasta raccolta di brocardi, riforma didattica
intesa a introdurre il metodo brocardico.
Era un metodo di studio che puntava sul ragionamento e non sulla memoria, Pillio era sicuro che
con questo sistema si sarebbero ridotti da 10 a 4 gli anni di studio necessari a rendere gli studenti
idonei a lavorare nei tribunali, la filosofia era semplice invece di imparare glosse e sommae a
memoria lui gli avrebbe abituati al dibattito sui principi e alla tecnica dell’argomentazione.
Brocardo o brocardico è un termine curioso, ridicola la leggenda che lo fa risalire a Burcardo di
Worms, autore della raccolta canonica redatta poco dopo l’anno Mille, la tesi del Kantorowicz che
lo fa discendere dai termini pro-contra è stata bocciata ma rimane suggestiva perchè spiega la
funzione del brocardo, ovvero enucleare dalle leggi i generalia (principi), ai quali vengono accostate
le fonti che li suffragano e quelle che li contrastano, pro e contra appunto.
La soluzione inizialmente non era prevista, ma in seguito si ritenne necessario aggiungerla per
ristabilire l’immagine armonica dell’ordinamento, e per arricchire il brocardo di preziosi intenti
sistematici.
I brocardi costituiscono un genere letterario non bolognese, ve ne furono canonistiche e
longobardistiche, la loro nascita è sicuramente avvenuta nelle scuole minori legate alle arti liberali.
La loro origine infatti appartiene alla retorica, e Pillio stà alle origini della sua divulgazione in
quanto appartiene alla linea di giuristi che, da Rogerio al Piacentino, si sono dimostrati molto
attaccati alle arti liberali, e quindi alla retorica.
Stesso tema respirato dal Libellus disputatorius, che fra l’altro fu influenzato da certa produzione
canonistica in tema di presunzioni.
I brocardi si diffusero in fretta ed entrarono poco dopo anche a Bologna, questo avvenne quando
Azzone entrò in possesso dell’importante raccolta di Ottone da Pavia, vi aggiunse le solutiones che
mancavano e la portò al successo.
All’inizio del Duecento Bologna stava cambiando, si stava aprendo sempre più alla vita forense, e
Azzone che la dominava era convinto della necessità di tagliare i ponti con le arti liberali, ma allo
stesso tempo prendeva tutto ciò che veniva prodotto dalle scuole minori, come summae e brocardi
appunto, che furono utili alla formazione professionale dei nuovi giuristi.
Paragrafo 3
I generalia (principi) avevano il nome di argumenta, evocativo dell’uso che si faceva dei brocardi ai
fini del dibattito e dell’argomentazione.
Da questo metodo nacque una tecnica argomentativa esclusivamente giuridica, che tra Due e
Trecento sfocerà nella nuova specialità della catalogazione dei modi arguendi.
Li si chiamava anche loci perchè avevano sede tutti in qualche "luogo" del Corpus iuris,
individuavano strade percorribili dal ragionamento, strade già percorse da Giustiniano quindi
controllate.
Ad esempio vi erano argomenti che autorizzavano deduzioni dal più al meno e viceversa,
dall’assurdo al logico, dal contrario al contrario, dall’uguale all’uguale e dal simile al simile.
Quest’ultimo sarà il principale argomento perchè porterà all’estensione de similibus ad similia, che
sarà la categoria generale entro la quale si collocherà il procedimento analogico.
Ovviamente si faranno collezioni di questi loci o argumenta, numerose e varie rappresenteranno un
nuovo genere letterario tra scienza e prassi.
Paragrafo 4
Abbiamo parlato della storia del metodo brocardo, analizziamo la sua preistoria e le forme che lo
hanno preceduto, che avevano tutte come presupposto l’approccio critico a Giustiniano, il passaggio
dalla mera comprensione del testo (assicurata dalle glosse), alla discussione degli interrogativi che
le fattispecie normative prospettavano.
Ogni scienza nasce perchè ci si pone un perchè, un quare, genere che non fu estraneo ai primi
glossatori, ma fu la questio la figura didattica che contribuì al progresso della scienza, partendo
dall’interrogativo posto da un dubbio (casus), si opposero due gruppi di argomenti contrari dai quali
doveva scaturire una solutio, una formula molto simile a quella brocardica quindi.
Già dai tempi di Bulgaro si discutevano testi giustinianei discordanti al fine di metterli d’accordo,
era una questio (interrogativo) semplice che, avendo finalità sistematiche ed esegetiche delle leges,
fu detta queaestio legitima.
Poco dopo si svolse la discussione a fini didattici, su qualche caso pratico inventato dal maestro,
opponendo come di consueto due gruppi di fonti normative prese come argumenta contrari, la
cosiddetta quaestio de facto.
Spesso tali quaestiones erano disputatae tra studenti, su un casus controverso posto dal maestro, il
quale incaricava alcuni allievi di sostenere una tesi e altri di sostenerne il contrario, egli stesso
guidava il dibattito e alla fine dava la soluzione.
Era un modo che gli studenti apprezzavano, si teneva il sabato fuori dalle ore di lezione, erano dei
veri e propri processi, le quaestiones disputatae, a suon di leggi delle due parti avversarie, il maestro
era la controfigura del giudice che al termine dava la soluzione sottoforma di sentenza.
Le quaestio si diffusero perchè al posto dei casi di fantasia furono utilizzati casus pratici, estratti
dalla prassi giudiziaria, sentenze che avevano avuto una risonanza notevole all’interno della società
che, quindi attiravano l’interesse degli studenti, oppure erano sentenze mal fatte o da rifare, infine
anche dei pareri (consilia) di giuristi noti potevano fare al caso del maestro.
Attingere dalla prassi voleva dire avere a che fare non solo con Giustiniano, ma anche con statuti,
consuetudini, capitoli barbarici, costituzioni di re e imperatori coevi e canoni della Chiesa, ossia con
tutte le norme che a qualunque titolo erano richiamate nei processi.
Le cosiddette quaestiones ex facto emergentes, furono il più solido ponte tra la scuola e i tribunali, e
contribuirono molto a radicare Giustiniano nella prassi in modo definitivo.
Paragrafo 5
Giovanni Bassiano verso la seconda metà del secolo, fu tra i primi ad utilizzare le quaestiones anche
nel corso della lezione, il che la rendeva più viva e partecipata.
Bassiano giunse a Bologna dopo una lunga esperienza nelle scuole minori, e grazie a lui a Bologna
arrivarono molte novità che rinnovarono i metodi della scienza bolognese.
Era un giurista aperto alla prassi, esperto nelle arti liberali e fine dialettico, si pensa che fosse
tutt’uno con il canonista Baziano, il primo cioè a professare un utroque iure, se fosse vero sarebbe
stata una grande novità per l’epoca e avrebbe anticipato l’umtrunque ius presso i civilisti.
Ma restano molte difficoltà per affermare questa tesi, Giovanni mostrò effettivamente qualche
attenzione a fattispecie canonistiche e a interessi ecclesiastici, ma ciò non basta a dire che sono la
stessa persona.
Giovanni Bassiano mostra affinità con Pillio da Medicina, il fautore del metodo brocardico, e per
ciò doveva unirli la passione per le quaestiones soprattutto de facto emergentes.
Di Giovanni si conosce una collezione di quaestiones limitata, mentre di Pillio se ne conosce una
estesissima, che si formò gradatamente a partire dal 1193/94 d.C. ed ebbe grande successo nella
forma definitiva, tanto che venne adottato anche a Bologna coma manuale didattico, ciò è
testimoniato da Roffredo che non amava Pillio, in quanto il tradimento di quest’ultimo
dell’emigrazione a Modena aveva lasciato il segno a Bologna, ma la sua collezione di quaestiones
rimase in stampa addirittura fino al Cinquecento.
Paragrafo 6
Pillio e Modena aggiunsero i Libri feudorum tra le materie d’insegnamento della scuola
romanistica, questo fu un altro grande contributo innovativo alla storia medievale del diritto.
Modena era votata alla prassi, sicchè era normale che non dedicassero le proprie forze
esclusivamente a Giustiniano, l’unico legislatore vero che meritasse attenzione, secondo i primi
glossatori bolognesi.
Nelle scuole minori non si ignoravano gli altri diritti pratici, lo stesso Pillio a Modena allega fonti
canoniche, e addirittura in qualche quaestio usa costituzioni feudali di Federico Barbarossa.
Sia il diritto feudale che i Tres Libri furono oggetto di attenzione da parte di Pillio, riguardavano
entrambi il problema delle regalie e delle concessioni di terre fiscali, e spesso furono accoppiate
nella produzione dei giuristi.
Pillio scrisse per primo un’apparato di glosse ai Libri feudorum sia una loro breve summa, Pillio
diede importanza a una materia d’indubbio rilievo economico e sociale, staccandola da una scienza
longobardistica rozza e in declino al quale il diritto dei feudi era agganciato, per annetterla a una
dottrina romanistica raffinata e trionfante.
I Libri feudorum contenevano consuetudini feudali lombarde, il grosso era composto da due lunghe
lettere scritte dal giudice e console milanese Oberto dall’Orto, mandate al figlio Anselmo, studente
a Bologna verso la metà del secolo.
Il figlio Anselmo dall’Orto sarà poi autore a sua volta del Iuris civilis instrumentum, il giovane
quando era studente a Bologna si lamentò che il diritto feudale fosse stato dimenticato, e il padre
che lo applicava nel suo mestiere di giudice, gli descrisse egregiamente le consuetudini che si
applicavano nei feudi.
Non è certo che la forma epistolare sia quella reale, ma in linea di massima viene accettata, poteva
essere un artificio retorico quello di scrivere su richiesta di allievi, o in mancanza di figli, ed è anche
probabile che dietro le lettere di Oberto ci sia il progetto milanese della redazione scritta delle
consuetudini, di cui si aveva il bisogno man mano che il Comune si ingrandiva e rafforzava.
Comunque nel 1216 ci fu la redazione di un codice delle consuetudini milanesi, codificazione dalla
lunga gestazione, e conteneva anche un titolo sui feudi che rispecchia in parte Oberto.
La prima stesura dei Libri feudorum, fu definita anche obertina in quanto, come detto, è imperniata
sulle due lettere al figlio, comunque c’è da dire che conteneva anche scritti di altri giudici.
Nel 1158 oltre che delle consuetudini i Libri feudorum contenevano anche alcune costituzioni di
Federico Barbarossa, e questo fece divenire più importante il testo, un parente acquisito, più povero,
delle leggi imperiali.
Con l’aggiunta delle costituzioni federiciane apparve alla fine del secolo la seconda edizione dei
Libri feudorum, la si chiamò ardizzoniana, erroneamente perchè si pensava che Iacopo di Ardizzone
giurista duecentesco fu il primo ad averla tra le mani per studiarla, cosa non vera.
La terza e ultima versione, con poche aggiunte rispetto alla precedente, è detta accursiana o vulgata,
perchè fu introdotta nel Corpus iuris civilis, e la glossa di cui era corredata passò come l’intera
compilazione, come opera di Accursio.
Paragrafo 7
Narra una leggenda che Federico II abbia assegnato l’autorità di legge ai Libri feudorum,
ovviamente non è vero ma fu la giustificazione usata per inserire questi libri nella compilazione
giustinianea, in quanto contenevano costituzioni imperiali.
I monarchi pretendevano infatti che le loro emanazioni fossero equiparate alle Novelle di
Giustiniano, Federico II ad esempio al momento della sua incoronazione imperiale del 1220 d.C.
emanò in Basilicata Beati Petri alcune norme ordinategli da papa Onorio III, il monarca ordinò ai
dottori bolognesi di inserirle nei libri legales e di insegnarle, i maestri bolognesi dopo una
discussione obbedirono e collocarono queste norme come authenticae nei posti giusti del Codice.
Forse in base a questo avvenimento, Ugolino dei Presbiteri, allievo di Giovanni Bassiano (30 anni
di insegnamento a Bologna), trascrisse gli interi Libri feudorum nel Corpus iuris, facendone una
Decima collatio in appendice alle nove collationes, in cui erano state suddivise le novelle
dell’Authenticum.
Ci racconta Odofredo, in quanto forse doveva essere stato testimone dell’iniziativa, e nulla ci vieta
di pensare che Ugolino avesse trascritto i Libri feudorum nel libro magistralis, quello che
utilizzavano per insegnare nella scuola, e inoltre la formazione della Decima collatio doveva essere
nell’aria se Accursio poco dopo Ugolino disse che, la trovava "ragionevole".
Passò molto tempo prima che la Decima collatio fu "istituzionalizzata", ovvero prendesse residenza
stabile nel Volumen parvum o Volumen, ovvero l’ultimo dei cinque in cui era diviso il Corpus iuris.
Sempre Odofredo precisa che a metà del Duecento (ai suoi tempi), erano ancora pochi i manoscritti
che la contenevano, uno dei quali era di sicuro in possesso del cardinale Ostiense che, annovera i
Libri feudorum e Pace di Costanza tra le fonti della legalis sapientia.
Paragrafo 8
Pillio attraverso i suoi studi dei Libri feudorum, diede un contributo essenziale alla figura tecnico-
giuridica del feudo lombardo.
Nella sua summa di quei libri e nel suo apparato di glosse ritroviamo reiteratamente definita come
actio in rem o rei vindicatio utilis l’azione spettante al vassallo, mentre dominum utile il suo diritto
sul beneficio.
Era la comparsa di una teoria nuova, il "dominio diviso", che spaccava la proprietà in due
sottospecie, il dominium diretto spettante a chi aveva la titolarità astratta del bene (al nudo
proprietario), e il dominium utile a chi ne aveva il godimento concreto, tale da configurare come
diremmo oggi: un diritto reale su cosa altrui di speciale intensità.
Non era un’innovazione da poco, si trattava di allargare tutte le norme sulla proprietà, a una serie di
situazioni reali che, a rigore, non erano proprietarie.
Pillio traeva ispirazione da Oberto dall’Orto, che non aveva dato definizione precisa del beneficium
feudale, che in un passo descriveva come uno strano usufrutto trasmissibile agli eredi, in un altro
concedeva al vassallo una reivindicatio per proteggersi, in altri l’aveva dipinta come una quasi-
vindicatio, che era più vicino alla proprietà che all’usufrutto.
L’immagine di quasi proprietario del diritto del vassallo era costruita sulla costituzione di Corrado
II del 1037 d.C., questa legge ebbe un’azione fondamentale per il feudo italiano, assicurò intanto
l’assoluta stabilità del beneficio, purchè il vassallo non incorresse nell’infidelitas, e inoltre stabiliva
l’ereditarietà del feudo ai discendenti diretti, era di fatto un diritto reale molto intenso, almeno
quanto gli enfiteuti che venivano definiti fundorum domini da una costituzione di Teodosio e
Valentiniano.
Era stata la consuetudine ad avvicinare il feudo e l’enfiteusi ai tempi di Oberto, l’investitura che
serviva per assegnare i benefici era divenuta anche un contratto agrario, gemello di enfiteusi, livello
e precaria appunto.
Lo testimonia il figlio di Oberto, Anselmo dall’Orto che fu anche autore di un componimento sui
contratti agrari usati in Lombardia, oltre che del più famoso trattato sulle azioni.
Pillio quindi era circondato da un’atmosfera consuetudinaria al momento di assimilare il feudo a
una sorta di proprietà, ma i romanisti del tempo potevano fare i loro ragionamenti sulla base delle
fonti giustinianee, Pillio quindi prese spunto da quelle che attribuivano un’actio in rem al
superficiario, al conduttore a lungo termine, all’enfiteuta per spiegare come fosse naturale
assegnarla per analogia anche al feudatario.
Erano azioni definite utiles dalle fonti, per questo passò dal piano formale a quello sostanziale,
arrivando a parlare di dominium utile.
Pillio a differenza del suo maestro Piacentino, fu uno dei protagonisti di questa nuova conquista
dottrinale, e siccome le idee del Piacentino non accettavano lo sdoppiamento della proprietà, la
teoria del "dominio diviso" si verificò proprio al tempo di Pillio e giuristi coevi.
Paragrafo 9
L’actio utilis era invocata dal pretore romano per fattispecie simili a quelle direttamente protette
dall’actio legittima e meritevoli di analoga tutela, i glossatori per spiegare questo concetto
utilizzavano l’esempio dell’actio legis Aquiliae, che spettava solo per danni inferti fisicamente ai
bei altrui (damnum corpori corpore illatum), ma il pretore concesse un’actio legis Aquiliae utilis
anche a quel proprietario danneggiato da quel soggetto che aveva provocato il perimento di un bene
anche senza toccarlo, come per esempio lasciando morire di fame il bestiame altrui chiuso nella
stalla.
Dall’actio legis Aquilia non si poteva ricavare un dominio utile, ovviamente, mentre dall’actio
Publiciana possiamo ricavare una situazione congeniale, una fattispecie adattissima a fornire un
modello di actio e dominio utile, questa era data in origine all’acquirente che in buona fede non
fosse diventato proprietario, in quanto non aveva compiuto le formalità necessarie, come per
esempio non avere fatto una mancipatio, in iure cessio, per acquistare una res mancipi, in questo
senso l’actio Publiciana era una ficticia (finzione), si faceva finta che fosse passato il tempo
necessario per usucapire il bene e acquistarne la piena proprietà.
Gaio ne aveva dedotto lo sdoppiamento della proprietà romana, mettendo l’in bonis habere protetto
dal pretore accanto al dominio quiritario, ma non conoscendo le Istituzioni di Gaio i glossatori non
ebbero questo esempio a disposizione, comunque la Publiciana non era definita utilis dalle fonti,
infine Giustiniano predicava che questa distinzione tra l’in bonis habere e la proprietà quiritaria era
una sottigliezza obsoleta da eliminare, per cui i giuristi medievali lasciarono cadere questi discorsi.
Bulgaro insegnava che la prescrizione ventennale o trentennale (praescriptio longi temporis), non
aveva efficacia acquisitiva della proprietà e attribuiva un semplice effectus dominii, mentre Martino
diceva il contrario, facendo della prescrizione un modo di acquisto del dominio pieno.
Giovanni Bassiano, precisando la tesi di Bulgaro, disse che l’effectus dominii non era altro che un
dominium utile, e mediante questa strada si sarebbe affacciata nella scuola la divisione del dominio.
In verità la teoria del dominio diviso non si affacciò mediante la prescrizione, ma attraverso le
concessioni di terre fiscali, dei contratti agrari, dei diritti di superficie, nel feudo insomma, dove ne
individuò le radici Pillio da Medicina.
Alcuni giuristi due e trecenteschi rifiutarono questa tesi, definendo il dominio utile una chimera, e
occorrerà aspettare il Cinquecento per vedere qualche giurista francese delineare la moderna figura
dei diritti reali su cosa altrui, e aspettare il Settecento perchè questo istituto soppianti
definitivamente il diritto utile, ma fu una teoria che diede un volto caratteristico, ben diverso da
quello dei nostri tempi, all’assetto dogmatico dei diritti reali.
Paragrafo 10
Pillo per 25 anni impersonò una Modena all’apice del successo, dimostrando una grande versatilità,
dà la misura della creatività delle scuole "minori" e del grandissimo contributo che diedero alla
scienza, di cui finirono col dettare il corso.
I giuristi si interessarono alle consuetudini locali, agli statuti, ovvero agli iura propria, che
divennero sempre più robusti e corposi man mano che i Comuni crescevano e su affermavano, tra la
fine del XII e l’inizio del XIII secolo.
Il coordinamento del diritto vigente con quello insegnato, ovvero quello romano, che verrà forzato a
ricoprire il semplice ruolo di diritto sussidiario e non più principale, darà luogo all’epoca del
"Diritto comune".
Con l’ingresso delle consuetudini (iura propria) nelle scuole, in quanto diritti speciali derogavano al
comune, imponeva lo smantellamento dell’idea irneriana che, le consuetudini ai sensi di quanto
voleva Costantino dopo la lex regia, non potessero più vincere sulla legge.
La tesi di Irnerio ebbe grande rilievo nei gosiani fino al Piacentino, e fu abbandonata solo ai tempi
di Azzone e Ugolino ai primi del Duecento, dopo che i Comuni sancita la pace di Costanza
consolidarono le loro autonomie cittadine, e iniziarono a derogare alle leggi a piacimento.
Da Milano ad Amalfi si diceva che se la legge era santa, la consuetudine era ancora più santa, e
dove la consuetudine parlava la legge era zittita.
Alcuni glossatori, non del tutto sordi alle voci provenienti dai Comuni, cercarono un compromesso
tra le autonomie locali e la legge imperiale.
Vi era chi ammatteva che una consuetudine generale di tutto l’Impero potesse abrogare le leggi, ma
era un’ipotesi astratta.
La consuetudine locale, l’unica che meritava considerazione, era considerata una species di fronte al
genus legge, quindi avere il sopravvento localmente in virtù della nota regola logica che la species
deroga al genus.
Ad una condizione, siccome la consuetudine essendo atto di volontà del popolo occorreva accertare
che tale volontà fosse correttamente formata e non viziata da ignoranza o errore, il popolo doveva
conoscere la legge contraria.
Una condizione provocatoria, il Piacentino esclamerà che un popolo che contravviene alla legge si
comporta da delinquente, andrebbe quindi punito, e lo si vuole invece premiare permettendogli di
aggirare la legge!
Il Piacentino era uno degli ultimi difensori della politica di restaurazione dei poteri imperiali, non
era la prima volta che cercava di difendere posizioni di pura retroguardia.
Un’altra teoria ancora di più fondata su ragionamenti privatistici, consisteva sull’analogia tra il
regime dei patti privati e la consuetudine che come i patti nasceva dal consenso, la tesi suggeriva
che la consuetudine fosse capace di derogare tutte le volte che potevano derogarvi i negozi dei
privati, ovvero poteva prevalere su norme ordinatorie e doveva sottostare a norme imperative.
Soluzione moderata e ragionevole ma che piacque poco.
A questo punto si cominciò a coltivare il ius proprium.
Paragrafo 11
All’inizio del Duecento molte delle novità delle scuole minori, avevano conquistato Bologna o lo
stavano facendo, cambiando l’alma mater.
Azzone allievo di Giovanni Bassiano, era affascinato da quest’ultimo, che era un personaggio da un
glorioso passato nelle scuole minori, esperto nelle arti liberali, Azzone al contrario non lo era ma
scrisse comunque anche lui quaestiones e rilasciò anche qualche consilium per il foro.
Le sue summae furono il segno più vistoso della penetrazione dei metodi dalla periferia, esse erano
una novità a Bologna, da sempre dedita alla produzione di apparati di glosse, ed è fenomeno
particolare che le due summae Codicis e Institutionum più ricche e approfondite che si abbiano,
rimasero per secoli in dotazione a giudici e avvocati, escano dalla penna di un maestro bolognese
come Azzone, che rimase per trenta o quarant’anni in cattedra a Bologna dal 1190 d.C.
Azzone aveva una passione per le summae, tanto che tentò di redigerne una del Digesto, un’impresa
che solo Piacentino avrebbe potuto tentare prima di lui, l’opera gli riuscì solo a metà, proseguita da
Ugolino ma rimase comunque incompleta, ma fu comunque stampata innumerevoli volte insieme
alle altre summae azzoniane.
Il genere della summa prese piede a Bologna, e siccome le Novelle erano l’ultima parte della
compilazione giustinianea che ne era priva, Accursio a conclusione e coronamento dell’età dei
glossatori, scrisse la summa Authenticorum, pubblicata anch’essa nella raccolta azzoniana.
Accurso preso dall’entusiasmo scrisse anche una summa ai Libri feudorum, come se egli che aveva
definito ragionevole l’ingresso dei Libri feudorum nel Corpus iuris come Decima collatio, avesse
voluto completare la collana delle summae bolognesi ai libri legales.
L’ultima summa bolognese fu di Odofredo, fatta ai feudi, fu l’ultimo sprazzo dell’uso didattico nella
scuola romanistica di un genere glorioso.
Paragrafo 12
Nella prima metà del Duecento la scuola bolognese rimase il tempio della glossa, e attraverso le
grandi imprese di Azzone e Accursio ne celebrò il rito.
A Bologna la glossa non era vista come un genere d’autore, per così dire, che si attuasse in
componimenti conclusi, ma era vista come opera continuativa legata al succedersi degli
insegnamenti, un unico grande albero a cui ciascun maestro poteva aggiungere o togliere rami e
fronde, ma il tronco attraversava le generazioni.
All’inizio del Duecento affioravano qua e la malcontento nei confronti di questo genere, i
manoscritti che passavano di mano ne erano pieni ormai, al punto da creare difficoltà di
consultazione del testo, inoltre Azzone avvertì i pericoli insiti nello stesso modo di chiosare le
parole: polverizzando l’esegesi del testo, esso frammentava la visione sistematica del Corpus iuris e
così rischiava di tradirla.
Si dice che per questo motivo si dedicò alle summae, genere sistematico per eccellenza, ma la
vecchia tradizione didattica era molto importante per lui per ignorarla, e da grande maestro quale
era si mise a scrivere apparati di glosse, con risultati egregi in verità, ma non ebbe la popolarità per
questo, in quanto i suoi lavori furono soppiantati dalla magna glossa del suo allievo Accursio.
Il quale ancora in età giovanile cominciò a scrivere, proseguì il lavoro del maestro e lo ampliò in
breve tempo, forse completò l’opera nel 1228, inizialmente anche ai contemporanei apparve un
legame tra le glosse di Azzone e quelle di Accursio, ma poi rimase solo il nome di quest’ultimo a
indicare la paternità dell’opera.
Accursio si prese l’onore di avere raccolto quasi 97.000 glosse, che corredavano l’intero Corpus
iuris dell’apparato definitivo chiamato magna glossa o glossa ordinaria, che dal Duecento stesso
accompagnò stabilmente tutti i manoscritti e poi dal 1468 in tutte le stampe.
Da allora nessun giurista ne potè fare a meno, nè a scuola nè in giudizio.
Era normale che l’allievo proseguisse il lavoro del maestro, suona strano per questo che Accursio
abbia concluso la glossa ai Libri feudorum iniziata da Pillio da Medicina, che non era stato suo
maestro ed era persino seguace dell’avversa scuola piacentiniana, transfuga da Bologna e professore
nella disprezzata Modena.
Fino a poco tempo fa l’apparato al codicetto feudale era assegnato a Iacopo Colombi, un giurista di
Reggio Emilia che poteva essere stato allievo di Pillio e quindi avere ragione di completare l’opera,
ma recenti studi hanno ridato la paternità ad Accursio, che peraltro le stampe del Corpus iuris hanno
sempre messo sotto il suo nome.
In questo senso le summae composte da Accursio e i consilia dati alla prassi ci fanno capire come
Bologna fosse cambiata, ma aggiungono poco alla gloria del "glossatore" per antonomasia.
Paragrafo 13
Accursio fu l’ultimo glossatore, dopo decenni di scalata sociale i professori erano ormai sazi, il
titolo di domini dalle vaghe risonanze nobiliari, gli era ormai riconosciuto, dopo una lunga rincorsa,
erano insofferenti alla qualifica di magistri che ritenevano buona solo per i docenti di arti liberali,
anche se in verità fino al Duecento cercarono dignità più che il potere spicciolo.
All’inizio del secolo infatti erano ancora pochi i casi di professori chiamati a fare i potestà in altri
Comuni per esempio, mentre gli Azzone e gli Accursio sembrano ansiosi di accreditare la cultura
giuridica come la nuova filosofia della pratica che nobilita i suoi studiosi, li rende meritevoli di
onori e li colloca tra i principi del mondo, una cultura omnicomprensiva e autosufficiente dato che
non ha bisogno di uscire dal recinto delle proprie fonti, perchè "omnia in corpore iuris inveniuntur".
La cultura che aprirà ai giuristi le porte dell’aristocrazia cittadina, e poi con il passare dei secoli li
trasformerà in quella "nobiltà di toga" di cui si parlerà fino alla caduta dell’ancier régime.
Il diritto svolgeva una funzione sociale elevatissima, era il veicolo naturale che faceva scendere la
giustizia dalle vette etiche delle virtù cardinali sul terreno concreto delle attività dell’uomo-
cittadino.
Il diritto ereditava lo spirito moraleggiante della giustizia teologica, e i giuristi dei tempi di Azzone
e Accursio cercavano la ratio più intima di norme, atti e negozi, i loro contenuti e il loro spirito,
dando poca importanza ai quesiti letterali e di forma.
La glossa era tanto adatta all’analisi filologica del testo, andava un pò stretta all’esternazione
sintetica delle rationes, ed è per questo che la glossa magna fu l’ultima.
Anche le lezioni cambiavano, la lectura non era solo spiegazione del testo con le parole, ma presso
certi autori era divenuta anche illustrazione continua dell’intera legge, così annunciando da lontano
quel metodo del commento dal quale la glossa sarebbe stata sostituita: Giovanni Bassiano, il primo
innovatore della tradizione bolognese dice che le sue lezioni iniziavano col porre il casus della
legge, e poi si discutevano i contraria, quindi elencavano gli argomenti adducibili o loci generales,
infine dibattevano quaestiones.
Questo metodo era simile a quello di Odofredo, il quale fu uno dei principali modelli della scuola di
Orléans, la culla del metodo dei commentatori.
Paragrafo 14
Il metodo del commento era notoriamente rivolto alla ricerca della ratio delle leggi, ma ricercarla
significava sapere per lo meno cosa fosse, Azzone iniziò a definirla ma fu Giovanni Bassiano che
gettò le fondamenta della sua costruzione.
Si iniziò a parlarne partendo dalla causa dell’obbligazione, partendo dal presupposto che il compito
della causa è quello di agganciare gli atti umani all’ordinamento, unica fonte di forza obbligatoria.
Gli antichi glossatori misero in rilievo che gli unici ordinamenti che avevano quella forza
obbligatoria erano quello civile e quello naturale, ma dopo pochi decenni non se ne parlò più.
I sottili problemi filosofici della casualità si erano fatti avanti, e anche nel mondo del diritto si sentì
l’esigenza di adottarne i meccanismi più avanzati.
Si cercò di cambiare angolo visuale, la causa stava diventando il motore dell’azione, la forza che
mette in movimento un meccanismo giuridico dinamico, e non ci si concentrò più sulle cause civili
e naturali, statici ancoraggi a ordinamenti immobili.
Giovanni Bassiano evocò in una glossa la causa finalis, come la molla che faceva scattare la volontà
negoziale e quindi stava all’origine del rapporto, essa presupponeva che volontà e causa (elementi,
soggettivo e oggettivo essenziali nel negozio), interagissero e si integrassero perfettamente.
Inoltre poneva l’attenzione sullo scopo da cui il soggetto era spinto ad agire, la cui presenza era
necessaria all’efficacia del negozio e la vitalità del rapporto, a tal punto che se lo scopo causa-finalis
cadeva, si invalidava il negozio e si estingueva il rapporto, ai sensi della regola logica cessante
causa cessat effectus.
Fu Aristotele a regalare questa nuova figura della causa al mondo del diritto, la sua teoria delle
"quattro cause", le due statiche "materiale" e "formale", e le due dinamiche "efficiente" e "finale"
era illustrata nel secondo libro della sua Fisica, e venne ripetuta anche dai maestri di arti liberali, di
cui Giovanni era esperto.
Irnerio stesso, essendo stato magister artium, ha richiamato un paio di cause aristoteliche in una
glossa, ma altro è conoscere figure utilizzabili, altro utilizzarle.
Giovanni Bassiano ebbe il grande merito di avere introdotto per primo la causa finale all’interno di
istituti tecnico-giuridici, e di averne fatto un congegno essenziale al loro funzionamento.
La causa finalis era la previsione di un effetto futuro, la si definiva infatti causa de futuro, il che
sembra contraddire il principio che la causa deve precedere il causato.
Vi era anche una seconda peculiarità che dava fastidio, essendo una previsione soggettiva, ogni
individuo poteva proporsi scopi-cause finali differenti a seconda dei propri interessi e desideri.
Si potevano per cui avere delle difficoltà a distinguere persino la causa finale dalla condizione, che
consiste anch’essa in un’obiettivo pratico da raggiungere in futuro, tanto essenziale da far si che,
qualora non lo si consegua, cada il rapporto, come il cessare della causa finale comporta la
cessazione dell’effetto.
Per questi problemi i glossatori staccarono la causa finale dal mondo psicologico individuale, per
farne uno scopo previsto in astratto dal diritto, e dal diritto offerto al soggetto agente perchè se ne
servisse.
In caso di negozio bilaterale, ciascuna delle parti avrebbe dovuto trovare nell’ordinamento il proprio
obiettivo tipico, la propria causa, per esempio nella compravendita le cause finali dell’obbligazione
erano due: l’acquisto del bene per l’acquirente e il pagamento del prezzo per il venditore.
Una volta distinta la causa finale dai moventi psicologici individuali, questi ultimi divenivano
causae de praeterito, individuando la situazione di fatto da cui muoveva il soggetto agente, lo stato
d’insoddisfazione cui voleva ovviare o il desiderio personale che voleva soddisfare.
Si salvò quindi la regola che almeno una causa dovesse precedere il causato, oggi si parla di motivi,
i glossatori inventarono invece la qualifica di causa impulsiva, ispirandosi alla tradizione retorica,
dove la causa era definita impulso dell’animo ad agire.
Paragrafo 15
Nel Medioevo non vi erano regole diverse per il diritto pubblico e il diritto privato, i medesimi
congegni muovevano gli atti del principe e i negozi privati.
Leggi e negozi erano dichiarazioni di volontà, l’affinità sostanziale che li collegava esigeva regimi
omogenei, quindi anche per le leggi si dovette ricercare una causa che le inserisse nell’ordinamento,
il quale a sua volta gli desse efficacia vincolante.
Nacque di conseguenza la causa legis, e anche questa doveva essere sottoposta al principio
"cessante causa cessat effectus", per cui se veniva a mancare la causa per la quale la legge era stata
emanata, questa sarebbe dovuta cadere automaticamente, senza bisogno di un’abrogazione.
La causae legum non poteva essere prevista in modo specifico come per i negozi privati, per questo
i giuristi prendendo spunto dalle fonti dissero che le leggi dovevano avere come causa o una
"necessità urgente" oppure una "utilità pubblica evidente".
Soprattutto quest’ultima ebbe le maggiori applicazioni nel campo dei rescritti con conseguenze
dottrinali di rilievo, ad esempio i rescritti che derogavano al ius gentium espropriando i privati, la
scienza trecentesca ideò l’istituto dell’espropriazione per pubblica utilità.
La causa della legge visse le stesse vicende teoriche della causa del negozio, contrapponendo causa
finale e causa impulsiva.
Venne trovata anche una fonte per legittimare e spiegare la loro consistenza: nel commento
all’editto pretorio che proibiva alle donne di rappresentare altri in giudizio, Ulpiano pone l’esempio
di Cafarnia che fece causa all’editto comportandosi in giudizio in modo inverecondo.
La glossa del Duecento pone un quesito, se la causa dell’editto era stata l’impudicizia di una donna,
in presenza di donne oneste e pudiche, in virtù del principio "cessante causa cessat effectus", la
norma non sarebbe dovuta decadere automaticamente? Ovviamente la risposta fu negativa.
La vicenda di Cafarnia era stata la causa impulsiva della legge, e non aveva rilevanza ai fini della
vigenza della norma, mentre la causa finale era stata invece la tutela della pudicizia del sesso,
obiettivo di utilità pubblica generale e perenne che non bada a casi singoli.
Le cause di utilità pubblica quindi erano viste come forze soggettive, e come tali determinavano il
legislatore a legiferare, ma proprio per la loro valenza generale e perenne rimanevano impigliate
nelle norme trasformandosi in dato obiettivo, anima delle norme stesse.
La causa finalis legislatoris diventava causa legis e rappresentava la ratio legis, causa e ratio erano
due concetti che nella retorica convergevano, e che i giuristi vedevano accostati anche nel Corpus
iuris.
Nel linguaggio filosofico il termine ratio voleva dire molte cose, era la fonte della rationabilitas di
persone e cose, la quale era un requisito carissimo allo spirito medievale, che vi vedeva una misura
della ragionevolezza dell’operare umano, una misura del bene e del male.
Il binomio causa-ratio divenne un trinomio con l’aggiunta dell’aequitas, e presso i giuristi questi
termini avevano il medesimo significato.
Oltre a rappresentare il potenziale etico-equitativo della norma, la causa o ratio legis ne rappresentò
anche la mens, ovvero il significato sostanziale.
Ovvero quello che i commentatori volevano indagare, e che la glossa secondo loro intralciava.
La glossa secondo loro era una zavorra che li portava verso il basso, alla lettera del testo, mentre i
commentatori volevano volare verso l’alto e raggiungere il modo di pensare che la legge usava per
mostrare all’uomo ciò che Dio gli aveva dettato.
Capitolo V
Graziano e la decretistica
Paragrafo 1
Parallela alla civilistica di Irnerio, si aprì a Bologna quella canonistica iniziata da Graziano.
È particolare che le due scienze giuridiche che più tardi si uniranno nell’utrumque ius, siano nate
nello stesso periodo e nella stessa città.
Burcardo di Ursperg colpito da questa coincidenza descrive i due capiscuola l’uno accanto all’altro,
quasi immaginandoli al lavoro gomito a gomito.
Nella seconda metà dell’XI secolo il diritto canonico entrò in grande fermento, nel clima della
riforma gregoriana fiorirono tantissime collezioni canoniche, ma il fatto che fossero tante metteva in
forse la certezza del diritto, e nemmeno i papi gregoriani pensarono di renderne una esclusiva e
uguale per tutti, solo nei primi del Duecento papa Innocenzo III, di grande personalità, promulgò
ufficialmente per la prima volta nella storia della Chiesa, un codicetto di decretali, la Compilatio III.
Il Decreto di Graziano, pur rimanendo opera privata, sprovvista dell’approvazione papale, compì un
grande passo avanti verso l’unificazione normativa.
Grandi innovazioni furono portate nel XII e XIII secolo nella teologia, quindi anche nel diritto
canonico che oltre a dipendere ne faceva parte, in Francia si ebbe una straordinaria rinascita
teologica, sede privilegiata di quegli studi.
Abelardo davanti ai sacri testi fu critico, e non più reverente e arrendevole come la conoscenza
altomedievale dei testi sacri, trasformandola in vera scienza teologica, all’occasione polemica e
aggressiva, lo stesso termine teologia è di marca abelardiana.
Non sappiamo se Graziano fu influenzato dall’operetta di Abelardo, Sic et non, dove il filosofo
coraggiosamente metteva di fronte contraddizioni della Sacra Scrittura.
Anche Graziano partì dalle contraddizioni, ma il suo intento era quello di appianarle, non voleva
scandali, voleva dare al diritto canonico la tranquillità.
Concordia discordantium canonum, titolo che diede al suo lavoro, chiamato Decreta e poi Decretum
da noi oggi, inizialmente dai suoi seguaci.
I canoni comunque sembravano più tranquilli rispetto alla teologia, papa Urbano II, forse per
attutire certe puntate dell’intransigenza gregoriana, ammise che i canoni non sempre erano
immutabili, ve ne erano di derogabili a seconda delle esigenze.
Paragrafo 2
Di Graziano non si sa molto, nato forse in qualche piccolo centro tra Orvieto e Chiusi verso la fine
dell’XI secolo, era un monaco camaldolese, che era attivo a Bologna tra il 1130 e il 1140 nel
monastero di SS. Felice e Naborre, dove compose la sua opera nel 1140, dove avrebbe insegnato in
quanto viene fregiato del titolo di magister, come docente di arti liberali, e alla fine degli anni 50’
morì, notizie frammentarie e incerte.
Unico episodio testimoniato da un documento notarile della vita di Graziano, fu quando nell’agosto
1143 a Venezia a S.Marco, il cardinale legato di papa Innocenzo II, emanando una sentenza in tema
di decime ecclesiastiche, volle consultare l’opinione di alti prelati ed esperti di diritto, tra cui figura
anche il nostro Graziano, insieme a Gualfredo legis doctor e al dotto Mosè.
Questi ultimi non erano gli ultimi venuti nell’ambiente dei giuristi della prima metà del secolo, un
episodio che li riguarda mette sull’avviso chi pensasse di esaurire la vita giuridica bolognese entro
la scuola di Irnerio e i 4 dottori, i due suddetti infatti ebbero una disputa particolare che ebbe eco
per secoli tra i grandi professori, giungendo fino a noi.
Il quesito era: nel caso un convento fosse stato abbandonato, i suoi beni a chi sarebbero toccati?
Al patrono che gli avesse donati al convento, oppure erano vacanti e quindi da assegnare al fisco
pontificio?
Giovanni Bassiano ci narra della polemica, sempre attento alla prassi e alle questioni dei conventi,
che si trovano spesso nelle sue quaestiones.
Gualfredo e Mosè forse in un dibattito pubblico erano i contendenti, il primo riteneva che, essendo i
monaci i veri proprietari e possessori, la loro mancanza comportava che i beni vacanti entrassero a
far parte del fisco papale, soluzione logica condivisa da Giovanni, Azzone e Accursio, ovvero dalla
fazione dominante dell’ultima glossa.
Mosè invece diceva che proprietà e possesso erano del convento stesso, all’edificio materiale,
questo per evitare che le istituzioni ecclesiastiche deserte perdessero il patrimonio, e una volta
ripopolate come spesso avveniva non potessero più assicurare la vita dei monaci.
Era una tesi ardita, ma nelle fonti romane il termine ecclesia aveva spesso l’accezione di luogo
materiale titolare di diritti e privilegi, per cui Mosè poteva avere ottime argomentazioni.
Vi erano esempi di enti collettivi materiali, come l’eredità giacente, che avevano notoriamente
obblighi e diritti, inoltre alcuni studiosi hanno visto in Mosè il lontano precursore dell’odierna
teoria della "fondazione" oggi dotata di personalità giuridica.
Attribuire diritti a edifici e mura è un’astrazione come lo è l’antropomorfizzazione insita nella teoria
della persona giuridica.
La tesi di Mosè non fu accolta con favore inizialmente, forse per la sua audacia, ma in seguito
riemerse e verso la metà del Trecento raccolse adesioni anche di personaggi illustri come Bartolo da
Sassoferrato, tra Cinque e Seicento si trasferì nel Mezzogiorno dove svolse una funzione sociale
rilevante, infatti i feudatari all’epoca quando i villaggi venivano abbandonati per vari motivi come
guerre, pesti ecc, spogliavano i villaggi stessi dei demani, e quando questi villaggi venivani riabitati
non volevano restituire nè i demani stessi nè gli usi civici come ad esempio i diritti di pascolo,
legnatico, erbatico ecc, usi che erano necessari alla sopravvivenza dei nuovi abitanti.
La tesi di Mosè riapparve anche in una celebre sentenza della Commissione feudale napoletana del
1810, in tema di demani comunali dopo l’abolizione della feudalità, e addirittura ha fatto capolino
in una sentenza del 1953 della nostra Cassazione, in materia di usi civici.
Paragrafo 3
Dopo questa breve parentesi torniamo a parlare di Graziano, il quale nel consulto di Venezia appare
come esponente di un giro di giuristi bolognese alternativo ai seguaci di Irnerio.
Per la composizione della sua opera Graziano non ebbe il problema del reperimento delle fonti, ne
aveva molte considerate tutte le collezioni che erano venute alla luce nel periodo gregoriano.
Egli attinse da Ivo di Chartres dalla sua Panormia, dalla seconda edizione di Anselmo da Lucca,
poco dal Policarpo e opere minori.
Tenne conto dei contrasti delle fonti, ma aveva un’originalità relativa, aveva già cominciato a farlo
Ivo di Chartres.
A Graziano viene riconosciuto il merito di aver separato il diritto canonico dalla teologia, avendo
costruito alla Chiesa un ordinamento puramente giuridico, cosa non da poco.
Nonostante la sorte data alla sua impresa dalla storia, si deve riconoscere come la Concordia
discordantium canonum rimase sempre in bilico tra teologia e diritto, infatti quando agli inizi del
Duecento i canonisti erano ormai buoni giuristi, in una quaestio tenuta nella scuola di Giovanni
Ispano, sul caso di un testamento che avesse previsto due legati distinti dei libri di teologia e diritto,
ci si domandava in quale rientrasse il Decreto grazianeo.
Altro merito attribuito a Graziano sono i dicta intercalati da lui tra i pezzi della collezione per
spiegare problemi, fornire principi di teoria generale e appunto sanare contraddizioni.
Ma nonostante tutti i suoi sforzi, Graziano venne definito da un maestro di diritto canonico come
Marcel Le Bras come "un compilatore di mediocre ingegno che ha spesso ingarbugliato i suoi
modelli".
Dopo questo poco lusinghiero giudizio su Graziano, ci dobbiamo chiedere cosa permise alla
Concordia discordantium canonum di fermare in breve tempo la vorticosa produzione di sillogi
normative e di restare l’unica in campo?
Cosa le permise di diventare il monumento del ius vetus ecclesiastico e la prima pietra del Corpus
iuris canonici?
E per quale motivo divenne, mutando anche il nome, il Decretum per antonomasia?
Paragrafo 4
Quest’opera dominò il giro delle scuole canonistiche e quindi conquistò la scienza, l’opera stessa fu
concepita da Graziano per la didattica e non per la prassi, venne usato nella dotta Bologna nella
scuola fondata da Graziano stesso.
Graziano nell’uso pluriennale che ne fece in aula, ebbe modo di apportarvi modifiche, che furono
completate da allievi e successori, che ne completeranno la sistemazione in tre parti, la prima e la
terza divise in distinctiones, la parte centrale in cause e le cause in questioni.
Integrazioni successive a Graziano furono il lungo de poenitentia contenuto nella seconda parte, e
tutta la terza e ultima.
Inoltre il trattatello De consecratione, dedicato ai sacramenti e a questioni liturgiche, è destinato a
coloro che sono destinati alla vita sacerdotale, accentuando l’aspetto teologizzante dell’opera.
Gli allievi intervennero anche sul contenuto, si contano ben 166 fonti tratte da collezioni di vari
autori come il solito Ivo di Chartres, meno da Anselmo di Lucca e da Burcardo di Worms, queste
furono chiamate paleae, nome discusso e misterioso.
Nel Decreto sono contenute paleae provenienti da fonti romanistiche, che danno qualche tocco in
più di tecnica giuridica.
Paragrafo 5
Un recente studio ha dimostrato che Graziano non era insensibile all’insegnamento dei quattro
dottori, ma aveva scarso entusiasmo per la compilazione giustinianea, quelle contenute nel Decreto
sono state inserite dai suoi allievi, in modo graduale fino al termine del secolo.
È uno degli aspetti che hanno reso il diritto canonico sempre più diritto e meno teologia.
Gli allievi di Graziano sono per lo più sconosciuti, Paucapalea al quale si attribuiscono interventi di
sistemazione e nell’aggiornamento del Decreto, di cui ne radesse anche una summa, salvo che
qualcuno oggi dubita che si tratti di quella edita cent’anni fa sotto il suo nome, e della sua vita non
si sa nulla.
C’è chi lo identifica come il vescovo di S. Giusta in Sardegna intorno al 1146 – 1147, chi pensa a un
testimone comparso senza qualifiche in una compravendita bolognese del 1165, ma nessuna delle
ipotesi pare convincente.
Verso la metà del 1100 una seconda summa del Decreto, chiamata Stroma, fu scritta da un certo
Rolando, si è subito pensato a Rolando Bandinelli divenuto papa Alessandro III nel 1159,
avversario di Federico Barbarossa, ispiratore della Lega Lombarda, e per gli storici del diritto il
legislatore che sfornava decretali a gran ritmo.
Era suggestivo che un tale personaggio avesse studiato diritto canonico da Graziano e poi l’avesse
anche insegnato, ma non è così.
Colui che ci interessa è magister Rolando, di cui sono state pubblicate alcune serie di glosse, mentre
il futuro papa fece i consueti studi teologici, e casomai avesse insegnato, questo lo avrebbe fatto in
una scuola di arti liberali.
Varie summe furono fatte del Decreto, prima il francese Rufino poi vescovo di Assisi tra il 1157 e il
1159, questa era una summa di soddisfacente ampiezza, poi il suo allievo Stefano il "Tornacense"
perchè divenne vescovo di Tournai nel 1192, dopo avere studiato teologia a Parigi e poi diritto
canonico a Bologna e anche civile da Bulgaro, negli anni 60’ scrisse una summa al Decreto che
rappresentò il maggior veicolo di diffusione dell’opera in Francia, ebbe un’iportanza storica
notevolissima quindi.
Paragrafo 7
La scienza francese reagì su quella italiana, verso il 1171 Giovanni da Faenza attingendo da Rufino
e Stefano Tornacense contribuì molto a fare conoscere in Italia il loro pensiero, erano entrambi suoi
maestri, ma l’avvio del rinnovamento del pensiero canonistico fu tutto italiano, si ebbe nell’ultimo
quarto del secolo, quando Uguccione da Pisa fece entrare il diritto romano in quello canonico.
Il diritto romano era una miniera di tecnica giuridica, cambiò lo spirito del diritto canonico,
l’ordinamento della Chiesa, lo allontanò dalla teologia, e cambiò l’aspetto ambiguo del canonista-
teologo nel volto deciso del giurista.
Uguccione era pisano di nascita, e di certo studiò a Bologna il diritto canonico, ma non si
conoscono i suoi maestri, e sicuramente completò i suoi studi con il diritto civile.
Negli anni 80’ insegnò a Bologna, e una tradizione vuole che tra i suoi allievi ci fosse stato Lotario
di Segni, futuro Innocenzo III, tra il 1188 e il 1190 compose la preziosa Summa Decretorum.
Nel 1190 divenne vescovo di Ferrara, e rimase tale fino alla morte sopraggiunta nel 1210.
Nel 1190 lasciò lo studio del diritto, e un’altra tradizione vuole che si interessò alla grammatica, ma
ad oggi non si è sicuri che l’Uguccione canonista vescovo, fu anche l’Uguccione grammatico.
La sua figura fu decisiva nella storia del diritto canonico, dopo di lui si esigeva la formazione
civilistica dei canonisti era rivoluzione non da poco, i canonisti in breve tempo arrivarono al pari
dei civilisti in fatto di tecnica giuridica, e questo sarà il preludio alla fusione delle due scienze
nell’utrumque ius.
Proprio i canonisti prefigureranno il giurista in utroque, a parte la contestatissima ipotesi
dell’unificazione di Giovanni Bassiano e Baziano in una figura di docente dei due diritti, tra il XII e
XIII secolo, ci saranno canonisti grandi conoscitori di Giustiniano, che addirittura scrissero glosse
al Codice e al Digestum vetus, che erano insegnanti anche di diritto romano.
Bertrando vescovo di Metz ad esempio compose un apparato di glosse al de regulis iuris del
Digesto, collocandosi con quest’opera sulla linea di studi segnata da Bulgaro, Piacentino e Giovanni
Bassiano.
Altri due canonisti daranno al Decreto la "glossa ordinaria", che sarà destinata ad accompagnare il
testo di Graziano come l’apparato di Accursio accompagnerà Giustiniano.
I due suddetti canonisti anonimi avrebbero avuto come maestri due grandi civilisti: Giovanni
Teutonico e Bartolomeo da Brescia, il primo forse allievo di Azzone e redasse la prima edizione
della "glossa ordinaria" al testo di Graziano, mentre il secondo allievo di Ugolino dei Presbiteri le
diede il tocco definitivo.
Paragrafo 10
Capitolo VI
Paragrafo 1
La prima pietra di un sistema fondato sulle norme papali fu posta da Gregorio IX, le cosiddette
Compilationes Antiquae erano state solo un assaggio delle possibilità che offriva la massa delle
decretali in vista della costruzione di un ordinamento organico e moderno.
Gregorio IX non aveva intenzione di imitare Giustiniano, ma non nascose di voler fare una nuova
grande collezione di decretali.
Era un papa forte, aprì il suo pontificato durato dal 1227 fino al 1241, con la scomunica di Federico
II, e prendendo le redini della lotta contro l’Impero, e gli convengono anche le vesti del
codificatore, come a tutti i monarchi che hanno lasciato un segno nella storia.
Gregorio IX incaricò dal 1230 il domenicano spagnolo Raimondo di Penafort, canonista e moralista
di grande levatura che sarà secoli dopo fatto santo, di scrivere la suddetta collezione.
Vi erano tante e disordinate fonti, vi erano contraddizioni tra l’antico Decreto e le nuove decretali,
ve ne erano persino tra le Quinque Compilationes Antiquae che non erano coordinate tra loro, e
siccome nessun papa le aveva mai donato efficacia esclusiva, entrarono in disaccordo con altre
collezioni private nelle quali non si sapeva mai ciò che si trovava.
Fu fatta quindi una cernita del materiale a disposizione, recependo tutto quello che si poteva
organizzare in un’architettura armoniosa, e fu la maggior parte anche attraverso la modifica dei
testi, cosa che il papa autorizzò.
La massa delle fonti selezionate fu completata con le decretali di Gregorio IX, che non furono
molte, e inoltre furono usati anche i Canoni degli Apostoli, concili sia ecumenici che particolari
d’Oriente e d’Occidente, fonti germaniche e poche leggi romane prese solo dall’Epitome Iuliani e
dalla tradizione teodosiana.
L’ultima aggiunta servì a dare all’opera qualche tonalità diversa da quelle usuali nella dottrina
giuridica nostrana, che non concepiva romanità fuori da Giustiniano.
Questa collezione fu chiamata Decretales Gregorii IX, ma nel linguaggio corrente fu chiamata Liber
Extravagantium, abbreviato il Liber Extra.
Fu promulgata il 5 settembre 1234, e la bolla Rex pacificus di promulgazione conteneva il divieto di
consultazione e di redazione di altre raccolte, salvo l’ipotesi di autorizzazione del papa.
Il Liber Extra diventava così il pilastro portante ufficiale dell’ordinamento della Chiesa.
Paragrafo 2
Il Liber Extra ebbe più di un apparato di glosse, quello di Bernardo da Parma anche se non era il
migliore divenne la glossa ordinaria, e l’autore stesso ne fece almento quattro stesure successive.
Ci soffermiamo su tre personaggi di spicco: Goffredo da Trani cardinale diacono di S. Adriano,
Sinibaldo Fieschi futuro papa Innocenzo IV ed Enrico da Susa cardinale Ostiense.
Goffredo da Trani era un buon conoscitore del diritto romano, tanto da ipotizzare che lo avesse
insegnato nell’Università di Napoli poco dopo la sua fondazione nel 1224, ma di sicuro si sa solo
che fu professore di diritto canonico a Bologna.
Il suo apparato alle Decretali di Gregorio IX ebbe poca e temporanea diffusione, e non fu nemmeno
stampato, mentre una summa che scrisse a Bologna nel 1241-1243, agile e succinta, utile per
studenti e pratici fu più volte edita.
Il genovese Sinibaldo Fieschi, papa Innocenzo IV (1243-1254), scrisse un apparato di glosse alle
Decretali, ben noto per le idee originali e per la particolarità di essere stato composto durante il
pontificato, nel 1251.
Egli fu anche legislatore, a due riprese mandò gruppi di decretali alle Università per pubblicarle e
farle studiare, la serie del 1253 ebbe più di un apparato.
Fu coinvolto nell’ultimesse della lotta della Chiesa con l’Impero, si pensava avesse scritto
un’operetta sulle giurisdizioni delle due somme autorità, che però oggi gli si nega.
Sinibaldo dopo Alano e Tancredi passa per essere stato uno dei teorici della ierocrazia, la cosa è ben
possibile e perfettamente in linea con il pensiero politico della Chiesa, ma gli spunti offerti dal
commentario innocenziano non sono sufficientemente chiari.
La storiografia specialmente italiana celebra il papa giurista per il contributo fondamentale che egli
avrebbe dato al diritto privato, configurando per la prima volta l’ente collettivo astratto come
persona ficta, delineando sulla scorta di una fictio iuris l’immagine della "persona giuridica".
Le fonti romane costruivano l’universitas come ente capace di diritti, ma Innocenzo IV,
personificando l’universitas, avrebbe esposto una teoria non solo più avanzata ma molto vicina a
quella coniata nell’800’ e passata nella nostra.
Egli era consapevole che l’antropomorfizzazione si adatta solo in parte alla vita dell’ente collettivo,
che non può delinquere, nè giurare e agisce solo per il tramite di un rappresentante, Innocenzo se la
cavava dicendo che, trattandosi di un semplice nomen iuris, la persona ficta non aveva il
comportamento della persona vera.
Ovviamente questa immagine aveva dei limiti, ma ebbe successo, e comunque è possibile che non
fosse una novità inventata da lui, ma erano idee che circolavano da qualche parte, più che in Italia si
pensa oltr’Alpe, ci sono testimonianze infatti dell’uso corrente in Francia e Inghilterra di chiamare
"persona" chiunque avesse una maschera di soggettività (personatum), il che fa pensare che la
personificazione degli enti era congeniale ai giuristi transalpini.
Qualche anno dopo i civilisti della scuola d’Orleans, ne daranno un’esposizione assai più organica,
senza ispirarsi a Innocenzo IV, come dimostra l’adozione di una terminologia diversa, parleranno di
persona rapraesentata e non ficta.
Paragrafo 3
Il piemontese Enrico da Susa percorse come gli altri, una brillante carriera ecclesiastica, nel 1262
venne nominato cardinale vescovo di Ostia, per cui viene chiamato l’Ostiense.
Tra il 1250 e il 1253 quando era arcivescovo di Embrum, comparve la seconda e definitiva
redazione della sua Summa del Liber Extra, la prima stesura risalente agli anni 30’ fu distrutta da un
incendio.
Opera dal successo enorme, e divenne il vade-mecum dei canonisti, come le summae azzoniane lo
erano dei legisti, anzi la sua opera era destinata anche ai civilisti dato che l’Ostiense fu uno dei
primi sostenitori della convergenza dei due diritti: sin dal proemio invoca l’utrumque ius, dichiara
di rivolgersi agli studiosi in utroque iure e ostenta di dedicarsi alla scienza utriusque iuris.
Non è quindi azzardato porlo tra le personalità che più hanno contribuito a diffondere l’unione dei
due diritti in un unico sistema, e delle due dottrine in un’unica scienza, che dal tardo Trecento
caratterizzerà il mondo giuridico europeo.
L’Ostiense fu definito pater canonum, fons o monarcha iuris, stella, di lumen lucidissimum, Dante
ne fece il simbolo del diritto canonico, la sua esposizione non lascia alcun problema privo di una
risposta illuminante.
Forse ancora più grandiosa e ricca della Summa fu l’imponente Lectura delle medesime decretali
gregoriane, iniziata quando insegnava a Parigi, rielaborata e riapparsa poco prima della morte,
rappresenta una delle vette più alte raggiunte dall’esegesi canonistica duecentesca.
Sulla scia di Innocenzo IV anch’egli proseguì il cammino lungo la strada delle dottrine ierocratiche,
quindi ebbe spunti ierocratici, ma come spesso accade l’interpretazione varia col variare delle fonti
interpretate, tanto da assumere posizioni anche contraddittorie.
Ad esempio l’Ostiense comprende la Donazione di Costantino tra gli argomenti in favore della
titolarità pontificia del potere temporale, che gli sembra logico sostenere in quanto l’umanità deve
essere sorretta da un solo capo.
Dall’altra ammette che le due giurisdizioni nascono distinte direttamente da Dio, secondo la forma
più schietta del pensiero gelasiano.
Ai nostri occhi una palese incoerenza, che i canonisti medievali non riscontravano in quanto anche
il più puro dei canonisti ierocratici, Alano, rendendo obbligatoria per il pontefice la delega del
potere secolare all’imperatore, rendeva il papa un mero tramite nel passaggio della potestà da Dio al
monarca, salvaguardando di fatto il dualismo sul piano dell’esercizio concreto del potere.
Il giurista più ierocratico sembrava un dualista.
Paragrafo 5
La Chiesa del tardo Duecento sembra essere ovunque vittoriosa, con la decapitazione dell’ultimo
discendente della casa imperiale di Svevia, Corradino avvenuta a Napoli nel 1268, annullata quindi
la politica di recupero delle regalie e la restaurazione degli antichi poteri dell’Impero,
l’avanzamento delle tesi ierocratiche.
Papa Celestino V, il "papa angelico", eletto nel luglio 1294 e consacrato ad agosto, nel dicembre
dello stesso anno si dimette, sopraffatto dagli intrighi della curia, dopo di che Benedetto Caetani
accusato di essere al centro di quegli intrighi, diventa papa come Bonifacio VIII.
Entro tre anni la famiglia dei Colonna, esasperata dalla concorrenza dei Caetani nella politica di
espansione territoriale nel Lazio meridionale, gli va contro.
Nel 1297 i cardinali Giacomo e Pietro Colonna, diffondono tre manifesti contro il papa, il primo
denunciava che la rinuncia di Celestino V era stata illegittima, ed era quindi nulla l’elezione di
Bonifacio VIII, alla quale anche loro avevano contribuito, gli altri due manifesti vertevano sul
cambiamento del generalis status Ecclesiae, e sulla venalità degli uffici legata al gravissimo peccato
di simonia che la plenitudo potestatis papale non giustificava.
Restituivano al papa l’accusa di scisma e di eresia che egli aveva fatto ai Colonna, e ripetevano
l’auspicio che si tenesse un concilio per giudicare il papa.
I Colonna impostarono la controversia su un punto teologico, ovvero che la consacrazione papale
era indelebile e irrinunciabile, ma era strada difficile da percorrere, in quanto era stato argomento di
discussione dal 1295, e le dimissioni erano state giudicate legittime.
L’accusa di eresia era molto più pericolosa per Bonifacio VIII, con l’auspicio di un deferimento al
concilio, in quanto la grande scuola teologica di Parigi stava sovvertendo la tradizione che voleva il
papa ingiudicabile dal concilio, come nel caso di Leone III alla vigilia dell’incoronazione di Carlo
Magno nel Natale 800’.
Filippo il Bello re di Francia e avversario dei Caetani esercitava pressioni, e si sa che in seguito
dopo alti e bassi, scontri e tregue, nell’estate del 1303 ci fu lo "schiaffo di Anagni", inferto da
Nogaret inviato da re Filippo, e ad ottobre il papa morì.
Bonifacio VIII quanto più era attaccato, tanto più esaltava le tesi ierocratiche, che agli occhi del re
francese apparivano pericolosa e insopportabile mania di potenza.
Una famosa bolla papale, Unam Sanctam del 1302, infastidì parecchio il re, che vi lesse di essere
subordinato al papa, e che questi non poteva essere giudicato da nessuno e poteva giudicare tutti.
La lotta tra Filippo e Bonifacio VIII produsse conseguenze di gran peso per la Chiesa, il papa infatti
fu trasferito ad Avignone pochi anni dopo la scomparsa di Bonifacio VIII, le tesi conciliari
imprudentemente evocate, alla lunga scossero la Chiesa.
Al tempo del Grande Scisma (1378-1417), quando al papa tornato a Roma se ne contrappose uno
rimasto ad Avignone, si aprì l’era di drammatici concili che, lungi dal riuscire sempre a evitare
antipapi, ottennero il risultato di nominare un terzo papa, nel concilio di Pisa del 1409.
La figura del pontefice ne uscì ridimensionata, rispetto all’epoca del fervore ierocratico bonifaciano,
e dal medesimo tempo iniziò l’ascesa del collegio cardinalizio, visto che il papa richiamò le
decisioni dei fratres cardinali a convalida della propria elezione e, dato che aveva dalla sua la
maggioranza del collegio, lo vezzeggiò accrescendone l’autorevolezza.
Il conciliarismo finì col dargli grandi poteri fin quando rese necessario che fossero i cardinali a
convocare i concili chiamati a mettere ordine tra i papi.
Il grande canonista Francesco Zabarella, cardinale e padre conciliare a Costanza, riconobbe che se
nessuno poteva disconoscere al papa la plenitudo potestatis che Graziano gli riconosceva, non
significa ch’egli fosse il solo ad esserne investito.
In realtà la potestas era della Chiesa, e se andava principalmente al papa che ne era il capo, toccava
anche in parte ai cardinali che ne costituivano le membra.
Capitolo VII
Paragrafo 1
Gli ultimi glossatori descrivendo la causa legis, individuarono in essa la ratio della norma, avevano
avuto il grande merito di precisare l’obiettivo del rivolgimento metodico verso il quale la dottrina si
stava avviando.
L’analisi della lettera doveva essere superata dai giochi con la ratio legis, la glossa condizionata
all’aggancio con le parole doveva essere sostituita da un genere letterario adatto alla ricerca della
ratio.
Secondo Celso conoscere una legge non significava verba tenere ma vim ac potestatem, poteva
diventare il motto di una nuova scuola di cacciatori di rationes legum.
Una volta conosciuta la sostanza della legge, una volta trovata la rationes, si poteva procedere in
modo analogico alla creazione di nuovi istituti.
L’invenzione della causa legis cambiò il modo di interpretare la legge, si passò dal modo "ricettivo"
a quello "creativo".
I primi glossatori posti dinanzi a testi difficili si posero il problema della loro comprensione e, non
del loro adattamento alle prassi coeve, lontanissime nel tempo da Giustiniano.
Si doveva costruire sulle rationes legum l’edificio medievale del "Diritto comune".
Le basi di questa rivoluzione furono poste dagli ultimi glossatori bolognesi, ma le prime grosse
novità si ebbero in Francia.
Papa Gregorio IX nel 1235 autorizzò a Orleans l’insegnamento del diritto romano, proibito a Parigi
dal suo predecessore Onorio III, forse per evitare la pericolosa concorrenza del diritto agli studi
teologici.
Dalla metà del secolo a Orleans giunsero maestri francesi e italiani formati a Bologna, in quanto
l’alma mater era la più prolifica di figlie.
Guido de Cumis, narra di essere stato allievo a Bologna di Iacopo Balduini, forse compagno di
Odofredo.
Balduini e Odofredo sono i rappresentanti di una corrente scolastica alternativa all’indirizzo
dominante degli Azzone e Accursio, e tra queste due linee caratterizzate da mentalità e gusti diversi,
non sempre corse buon sangue.
I maestri orleanesi frequentarono quasi tutti la scuola di Balduini, almeno quelli della prima
generazione, tra cui appunto Guido de Cumis, ma non solo altri potevano essere Simone di Parigi e
Pietro Peregrossi che divenne seguace di Odofredo, allievo di Iacopo Balduini.
Guido de Cumis al momento di sostenere l’esame finale si trovò in commissione Accursio, e
temerariamente ne criticò una glossa, forse spinto da quella sorta di malanimo insita nella cerchia di
Balduini, nei confronti del mostro sacro della scienza giuridica italiana.
Accursio disse:"Fratello non sai quel che dici", ma il ragazzo non ritrattò le sue critiche, Accursio
decise che l’esame non era stato superato, e Balduini dovette adoperarsi per salvarlo.
Questa vicenda ci fa capire lo spirito d’indipendenza che Orleans ebbe da Accursio, che pesò come
un macigno sulla dottrina italiana, e del favore che ebbe invece la lectura di Odofredo, scelta
occasionalmente come testo per la didattica.
Orleans era un nuovo Studio, e la schiera dei suoi professori fu insolitamente numerosa, il che
indica il suo rapido successo, gli studenti affluirono in massa e gli alloggi arrivarono a costare
tantissimo, tanto che i docenti scesero in campo in favore degli studenti.
Paragrafo 2
Era il 1260 e Jacques de Revigny, futura stella dello Studio orleanese, era solo baccelliere e non
ancora doctor, narra la leggenda, quando mise in difficoltà Francesco figlio di Accursio, che era un
autorevole professore bolognese che di passaggio a Orleans come da tradizione fu invitato a tenere
una lezione solenne o repetitio.
Ammesso che ciò sia vero, poco dopo iniziò un insegnamento che si prolungò sino alla fine degli
anni 70’.
Divenne arcidiacono di Toul e nel 1289 vescovo di Verdun, morì a Ferentino nel 1296 andando a
Roma.
Scrisse le maestose lecturae, alcune anche andate in stampa nel Cinquecento ma sotto altri nomi.
In queste lecturae appaiono intercalate repetitiones, ovvero lezioni o conferenze tenute fuori
dall’orario didattico, sembra che il Revigny usasse farle settimanalmente.
Inoltre vi sono tante questiones disputate e no, e introdotte ormai nei corsi del maestro, le
quaestiones feudali vennero agganciate alle Istituzioni.
Erroneamente gli è stata attribuita una summa feudale fatta sui Libri feudorum lombardi e corredata
da citazioni del diritto longobardo, non poteva essere sua in quanto solo quando i Libri feudorum
entrarono come Decima collatio all’interno del Corpus iuris all’inizio del Trecento, ebbero ingresso
libero nelle aule degli Studia di Francia.
Scrisse un’opera del genere lessicografico tipico delle arti liberali, il De significatione verborum o
Dictionarium iuris.
Era un opera che non era un enciclopedia generale di tutto il sapere, ma era un’enciclopedia relativa
alle voci giuridiche, e divenne libro d’uso di insegnamento nella scuola di Orleans, e ne ispirò
aggiornamenti successivi da altri maestri, infine capitò nelle mani di Alberico da Rosciate e confluì
nel suo grande e celeberrimo Dizionario.
Ma questi dizionari erano un prodotto sempre in movimento, l’uso comportava aggiunte o
sottrazioni o rimescolamenti di pezzi, l’autore è presto dimenticato e prevale il marchio d’uso che
varia a seconda degli utenti.
Per tali motivi attribuire una sicura paternità ai singoli esemplari è impresa spesso disperata.
Paragrafo 3
Alcuni allievi del Revigny ebbero molta fama, ma non fu suo allievo il più celebre dei suoi
successori quel Pierre de Belleperche (1250-1308), molto amato da Cino da Pistoia che lo farà
conoscere in Italia, diffondendo il commento francese.
Iniziò a insegnare verso la fine degli anni 70’ del Duecento fino alla metà degli anni 90’, verso il
1296 entrò al servizio del re Filippo il Bello come uno dei principali consiglieri, poi dopo il 1306
divenne vescovo di Auxerre e cancelliere in Francia.
Scrisse anche lui grosse lecturae e ripetitiones, compose anche una raccolta di quaestiones.
Le quaestiones suddette non contenevano vivaci situazioni come le quaestiones de facto emergentes
nostrane che rispecchiavano i casi discussi nei tribunali.
In realtà la raccolra di Belleperche contiene soltanto distinctiones.
Anche al Belleperche è stata attribuita erroneamente una summa dei Libri feudorum lombardi.
La scuola di Orleans divenne famosa per la scuola civilistica, ma tenne anche insegnamenti
canonistici, e i contatti tra maestri di leggi e canoni erano frequenti, e aggiungendo anche i rapporti
con artisti e teologi scolastici, si comprende come il civilista orleanese avesse una mente aperta a
tutte le novità culturali maturate fuori dall’ager Iustiniani, e fosse pronto a gettarsi tra quelle
sottigliezze filosofeggianti che successivi commentatori italiani, più attenti al rigore della tecnica,
potranno giudicare fastidiose ruminazioni e vacue fantasie.
Paragrafo 4
Molte invenzioni orleanesi furono importanti e si diffusero, ad esempio la nascita della "persona
giuridica ficta" ricondotta al commento di Innocenzo IV intorno al 1251, dopo pochi anni Orleans
dimostrò di padroneggiare l’analogo concetto di "persona repraesentata", che rivela di aver
conseguito seguendo strade sue proprie, indipendenti da Innocenzo IV.
Revigny insegna che anche l’Impero è una persona repraesentata titolare di beni e poteri, e si
distingue dagli altri enti collettivi astratti come l’eredità giacente, perchè l’eredità perde la
personificazione quando viene adita dall’erede, mentre l’Impero è eterno e la sua personificazione
non svanisce quando l’imperatore sale sul trono, questi si limita a gestirne gli affari, come un
semplice amministratore.
I poteri straordinari derivanti dall’absolutio legibus appartengono all’Impero, alla "persona
repraesentata", il monarca come persona fisica può accedere alla potestas absoluta solo
momentaneamente, in via straordinaria e in presenza di una giusta causa.
Di regola dovrà assoggettarsi alle leggi esercitando quella semplice administratio che la dottrina
chiamerà anche potestas ordinaria o ordinata.
Era la prima volta che lo Stato veniva rappresentato come persona giuridica, fino ad allora ogni
potestà era stata sempre concentrata nella persona del principe.
L’atmosfera impregnata di filosofia e di arti liberali ha aiutato la scienza orleanese, e la Scolastica
nascente le ha offerto il modello del nuovo metodo del commento in sostituzione della glossa.
Per secoli la tecnica dei commentatori è stata chiamata dialettica e dialettici erano i commentatori
stessi, questo ha fatto credere che l’uso della dialettica, ovvero dell’argomentazione, era la novità
con la quale si era rivoluzionata la scienza giuridica, ma già i glossatori con Pillio ad esempio
utilizzarono la dialettica per cambiare la cattiva abitudine di far memorizzare agli scolari glosse e
summae.
La dialettica fece irruzione nella cultura del nuovo millennio ancora prima di Irnerio, san Pier
Damiani ai suoi tempi lamentava come gli eccessivi entusiasmi che riscuoteva, stavano
pericolosamente gonfiando l’arroganza degli studiosi persino nei confronti della parola sacra.
Quindi a caratterizzare il genere del commento non fu il ricorso a quel metodo, ma l’uso di certe
figure dialettiche che qualifica i nuovi itinerari del nascente commento.
L’opposizione dei contrari, sistema alle radici dell’amatissima quaestio, essi usavano i vecchi giochi
dei tardi glossatori.
Ma il procedimento dialettico che qualificò i commentatori fu la "coniunctio rationum", nata dal
gusto per la ratio legis divulgato dagli ultimi glossatori.
Consentiva di ricondurre fattispecie concrete nuove sotto le ali di vecchie fattispecie giustinianee,
ovunque le unisse l’identità, vera o presunta, della ratio.
Questo sollecitava a procedere a colpi di interpretazione estensiva e di analogia, più lo si faceva in
modo libero e più tardi spregiudicato, più si dava impulso e inventiva all’edificazione del Diritto
comune medievale.
Paragrafo 5
In Italia alla fine del Duecento, i giuristi nostrani ebbero notizie di quelli orleanesi, li conobbero
senza apprezzarli eccessivamente sia Martino Sillimani dal 1285, e Dino del Mugello morto nel
1303.
Cino Sighibuldi da Pistoia allievo di Dino ebbe grande entusiasmo per i giuristi di Orleans, fu il
venerato maestro di Bartolo da Sassoferrato, collocato alle origini del grande commento italiano
trecentesco.
Ammirava sia Revigny che Belleperche, ne saccheggiò le opere e attinse dalle loro idee, tanto che si
è parlato di un suo soggiorno in Francia per farne il responsabile dell’importazione nella penisola
della merce francese.
Si è ipotizzato che avesse frequentato corsi orleanesi, si è detto che Pietro Bellapertica fosse stato
suo maestro, sappiamo solo che i due si conobbero a Bologna quando l’ex maestro orleanese tenne
una lezione, quando quest’ultimo si stava recando a Roma.
Cino era di famiglia magnatizia, coinvolto nei disordini dei Comuni di fine secolo e bandito da
Pistoia sua città natale, seguace di Arrigo VII e del suo programma di restaurazione dell’Impero,
Cino non aveva paura di dare sfogo alle proprie convinzioni ghibelline nel grande commento
terminato nel 1314, in seguito mutò le idee politiche e divenne fedele della Chiesa, forse per via dei
vari incarichi pubblici che ebbe in città guelfe.
Si dedicò infine all’insegnamento tra il 1321 e il 1333, a Siena, Napoli e Perugia, in quest’ultima
sede si trattenne più delle altre ed ebbe Bartolo da Sassoferrato come allievo.
Era un giurista poeta, autore di sonetti e canzoni che lo inquadrano nello stil novo, amico di Dante e
Petrarca, frequentò giuristi vicini ai fermenti preumanistici.
Scrisse un poderoso commentario al Codice e all’inizio del Digesto, non una lectura scolastica ma
un commentario vero e proprio, scritto a tavolino.
Forse scritto dopo la morte di Arrigo VII, in un periodo di studi e di raccoglimento, per lui quello fu
un avvenimento sconvolgente, un trauma per tutti quelli che vedevano svanire con lui le speranze
ghibelline e i sogni di restaurazione dell’Impero.
Svolse l’attività didattica, essenzialmente attraverso le aggiunte alla glossa accursiana, il nuovo
genere delle additiones era solo in apparenza una continuazione della glossa, in realtà erano pezzi di
considerevole mole, in cui venivano trattati casi o problemi complessi collegati con le singole leggi.
Cino inoltre scrisse un pò di quaestiones sempre di moda, e anche consilia che la vita forense
richiedeva sempre più ai professori, anche nel suo caso vi sono opere attribuite erroneamente a lui.
Paragrafo 8
La storia dello Studia di Perugia iniziò quando nel 1308 papa Clemente V, che si trovava già in
Francia e si apprestava a stabilirsi ad Avignone, mandò alla città la patente di Studium generale.
Perugia si accaparrò subito maestri di prestigio: Giovanni d’Andrea per il diritto canonico ma questi
rimase a Bologna, Iacopo di Belviso per il civile che accettò l’offerta di Perugia.
Iacopo di Belviso era un giurista che spiccava per la logica stringata, per l’uso rigoroso della
quaestio, e per la padronanza del metodo brocardico, e in quest’ultimo metodo ormai vecchio egli
eccelleva, ed è proprio per questo che non lo si considera un precursore.
Cino lui si che era proiettato verso il futuro, chiamato a Perugia verso il 1326, già nel 28’ egli ebbe
come allievo un adolescente straordinario, Bartolo da Sassoferrato, che fu fortemente suggestionato
dal maestro celebre per il commentario del Codice.
Bartolo stessò confesso a un suo allievo, che il maestro gli aveva "fabbricato l’ingegno".
Tuttavia Bartolo non divenne dottore a Perugia, quasi in coincidenza con il passaggio di Cino a
Firenze, il giovane allievo andò a Bologna dov’ebbe il titolo di baccelliere discutendo una quaestio
con Iacopo Bottrigari il 15 dicembre 1333 e alla fine dell’anno successivo, presentato dallo stesso
Bottrigari sostenne l’esame di dottorato e ricevette le insegne nel novembre.
Bartolo divenne assessore a Todi, avvocato generale a Macerata, assessore a Pisa nel 1339, e nel
medesimo anno fu chiamato nel nuovo Studio pisano a insegnare, dove rimase fino al 1342, dopo di
che ritornò a Perugia dove insegnò, salvo una breve parentesi tra il 1351 e il 1353, fino alla morte,
che arrivò nel 1357 quando aveva solo 43 anni.
Nonostante la vita così breve scrisse ben nove volumi contenenti la sua opera omnia, denotando una
grande produttività, e infatti si è scoperto che molte opere attribuitegli non sono state composte da
lui, ma nonostante questo la sua dottrina gli diede fama straordinaria da quando era in vita.
Quando il Comune lo mandò a Pisa ambasciatore presso Carlo IV, disceso in Italia per farsi
incoronare imperatore, il monarca lo nominò proprio consigliere, gratificandolo.
Gli conferì il potere di legittimare gli scolari di natali illegittimi, e secondo una leggenda fu
concesso a lui e ai suoi eredi di fregiarsi di un blasone.
Nel Quattrocento la sua celebrità crebbe molto, fu definito lucerna iuris come secoli prima fu
definito Irnerio, specchio del diritto e oracolo di Apollo altri nomi dati a Bartolo.
Lo si accostò a Omero, Virgilio e Cicerone, ed entrò in modo trionfale nella storiografia quando
Giovanni Battista Caccialupi lo esaltò nelle sue Vitae doctorum, la prima storia della giurisprudenza
medievale.
Nel Cinquecento nelle Università di Padova, Torino e Bologna si istituirono corsi su Bartolo, e nel
Seicento altri Studi fecero altrettanto.
All’estero in particolare in Spagna e Portogallo, si sancì mediante una legge, che i giudici mediante
diversità di opinioni, dovessero scegliere quella di Bartolo, facendo sulle sue opinioni una nuova
"legge delle citazioni", e lo stesso metodo del commento prese nome da lui, il suo più importante
esponente, fu chiamato per secoli "bartolismo".
Paragrafo 9
Vi sono due aspetti di Bartolo che si contrappongono, il primo era quello di un esegeta acuto e
rigoroso di Giustiniano, apprezzato da mezza Europa e criticato dagli umanisti, il secondo
appassionato del suo piccolo mondo comunale in declino, dominato dalle signorie arroganti.
Vi era il problema dei conflitti tra statuti di città diverse sulla condizione giuridica dello straniero,
per il quale Bartolo introdusse la distinzione tra statuto reale e statuto personale, anche se questa era
gloria orleanese, mentre la predisposizione al diritto pubblico che la storiografia gli riconosce, gli
venne principalmente dalla curiosità per le anomalie della vita culturale italiana del tempo.
Con la crisi dei Comuni, egli vide a casa sua un rimescolamento dell’ordine giuridico, da questo
arrivarono i vari trattatelli sulle costituzioni di Arrigo VII, sull’istituto del bando con il quale
estrometteva intere fazioni politiche dalle città e ne confiscava i beni, sulle lettere di rappresaglia
che autorizzavano la cattura del concittadino di un delinquente o la rivalsa sul concittadino di un
debitore insolvente, sulla tirannia nelle varie signorie, sui guelfi e ghibellini, sul regimen civitatis.
Dal proemio dell’operetta sulle rappresaglie, Bartolo fa trasparire anche un motivo politico-
ideologico, in tempi antichi non si ricorreva a quel brutto istituto, le controversie tra città si
risolvevano ricorrendo al monarca, in seguito però principi e città si resero indipendenti dall’Impero
e le prassi antigiuridiche divennero frequens et quotidiana.
Quest’interessamento alla crisi del Comune arrivò gli ultimi tre anni della sua vita, 1354-1357, ed
erano gli anni della grande incoronazione di Carlo IV, Bartolo stesso come detto conobbe il
monarca da cui ebbe privilegi, e forse rivide l’aurea immagine dell’Impero che dopo la morte di
Arrigo VII nel 1313 era andata sbiadita nel tempo.
Era un’immagine necessaria per il giurista che voleva riproporre la dialettica Impero-città, orbis e
urbes, universalità del diritto romano e specialità del diritto statutario dei Comuni.
Il quadro teorico del sistema del Diritto comune, imperniato sul rapporto tra i due ordinamenti
universali, con gli iura propria ancora incerti all’epoca dei tardi glossatori, quando l’Impero svevo
era vivo, fosse compiutamente disegnato, quando sia l’Impero sia i Comuni erano all’ultimo stadio
della crisi.
Probabilmente qui si trova una conferma della grande forza operante che hanno le mere forme nella
storia del pensiero, dalla presa che esercitano anche sulla politica vissuta, in fondo perchè signori e
principi avrebbero dovuto cercare vicariati e feudi imperiali, se conseguendoli, il loro potere non
fosse uscito rafforzato dall’energia sprigionata da un fantasma?
Paragrafo 10
Baldo degli Ubaldi fu allievo di Bartolo a Perugia, dove per tutto il Trecento e attraverso varie
generazioni, passarono tanti luminari.
La famiglia di Baldo era importante a Perugia, il padre Francesco era docente di medicina, e altri
due suo fratelli studiarono diritto, e divennero professori eccellenti.
Baldo e Angelo civilisti, Pietro canonista.
In particolare Baldo ebbe una fama pari a quella di Bartolo, ma di lui non si sa la data di nascita,
ipotizzata nel 1319, mentre certa è la data della morte, il 28 aprile 1400 a Pavia dove fu sepolto.
Insegnò principalmente a Perugia, ma temporaneamente anche a Pisa, Firenze e Padova, infine a
Pavia trascorse gli ultimi 10 anni, dando un grosso aiuto al lancio del nuovo Studio generale.
Gli furono affidate come consuetudine ai grandi professori, ambascerie, specialmente presso la
curia papale, papa Gregorio XI fu su allievo e gli aprì canali privilegiati di contatti, e il successore
Urbano VI che riportò la Sede Apostolica a Roma scatenando il Grande Scisma, gli era grato per
due celebri scritti in suo favore.
La lettura delle Istituzioni che compare nella sua opera omnia a stampa, in tempi recenti è stata
attribuita a Bartolomeo da Novara, personaggio marginale nella storia del pensiero giuridico.
Viene spontaneo notare come i nostri grandi maestri del Trecento abbiano quasi ingorato le
Istituzioni, questo fenomeno tipicamente italiano, fa capire come si sia andati avanti
nell’insegnamento civilistico delle tradizioni esegetico-erudite a scapito di più moderni intenti
sintetico-sistematici, che denuncia un forte conservatorismo accademico che non è in linea con la
forte pressione della prassi forense, interessata più al sistema che all’analisi.
Baldo scrisse molte opere, e fu molto ricercato per consilia, che interessavano sicuramente più i
tribunali che i commentatori, scrisse migliaia di consilia che lo fecero arricchire in breve, egli stesso
ammise che solo quelli in materia di sostituzioni ereditarie gli fruttarono 15.000 ducati, somma
enorme.
Era una persona che amava il denaro ed era avaro.
Comunque era meno legato di Bartolo al rigore stringente della logica interpretativa, ma aveva
molta fantasia, infatti nel dare consilia trovò il modo per fabbricare diritto nuovo, intorno ai casi
pratici della prassi quotidiana, con una libertà molto ardita, quasi incontrollata.
Nei suoi ultimi anni, ai tempi di Pavia Baldo si impegnò molto sui feudi, i Libri feudorum ebbero
notevole popolarità agli inizi del Trecento nelle scuole, ma nella seconda metà sembrava che
fossero un pò usciti di scena nelle scuole dell’Italia padana, forse fu Giangaleazzo Visconti a
ispirare a Baldo l’opera feudale, che annuncia comunque la ripresa di questi libri tra Quattro e
Cinquecento.
Baldo scrisse un commento alla Pace di Costanza, il privilegio che Federico Barbarossa sconfitto
dalla Lega lombarda nel 1183 rilasciò alle città vittoriose, che fu completato a Pavia insieme o poco
dopo il corso sui feudi, dopo tutto la Pace di Costanza era legata alla tradizione dei feudi, cui già
Odofredo dedicò una glossa, e una summae agli altri.
Ma a differenza dei tempi di Odofredo, la Pace di Costanza nel tardo Trecento (i tempi di Baldo),
non poteva essere più sbandierata come simbolo delle autonomie comunali, non aveva senso in
quanto le signorie ne avevano spazzato via da tempo le libertà e stavano a loro volta lasciando
spazio ai principati.
Feudi e Pace di Costanza tuttavia risultarono utili per descrivere i poteri esercitati da Giangaleazzo,
nominato duca dall’imperatore Venceslao nel 1395, sulle città del suo Stato, ed era vantaggioso
richiamare anche l’Impero come fonte formale di legittimazione della nascente potestà principesca.
Baldo negli ultimi anni della sua vita, sempre a Pavia, fu il primo tra i maestri delle leges a
dedicarsi molto al diritto canonico, e a trasformarsi da civilista in giurista in utroque.
Il suo commento alle Decretali di Gregorio IX, interrotto dalla morte, fu stampato più volte.
Baldo ci ha lasciato commenti manoscritti del Sextus, del titolo de regulis iuris, e delle Clementine,
segno di un interesse al diritto canonico tardivo, ma molto intenso.
Uomo di grande cultura, le sue teorie erano tanto originali da sembrare avventate, si è detto di
Baldo che sarebbe stato il più filosofo dei giuristi, e colpisce il suo uso costante di concetti e
ragionamenti della Scolastica tomistica.
Capitolo VIII
Paragrafo 1
Più passava il tempo e più il gioco di ricercare la ratio delle leggi, slegava la fantasia dei
commentatori, e di conseguenza si guardava poco o nulla alla lettera della norma, questo aveva un
pericolo, nei casi di giuristi poco abili e dotati di grande disinvoltura, ratio e verba troppo distanti
davano luogo a interpretazioni variabili, insicure e arbitrarie, mettendo in pericolo la certezza del
diritto, si doveva quindi sostituire il legame con il testo con un altro vincolo, che mantenesse entro
certi canoni l’interpretazione delle leggi.
Si pensò di utilizzare le opinioni di grandi maestri che avevano enunciato e difeso determinate
teorie, e radicare in essi il valore e l’efficacia della norma, che comunque avrebbe avuto meno
valore rispetto all’opinione imperiale, ma il peso di determinati giuristi poteva servire a frenare la
libertà interpretativa, e assicurare la stabilità delle rationes legum e la continuità della loro
osservanza, in modo tale da garantire la certezza del diritto.
L’argumentum ab auctoritae, auctoritas in latino significa sia autorità che autorevolezza, si diffuse
come metodo principale di argomentazione, e spinse il Diritto comune a divenire un "diritto
giurisprudenziale".
Alle origini dell’argumentum ab auctoritae vi era l’exemplum, teoria romana che consisteva
nell’utilizzare la precedente soluzione di giudici e giuristi, cui si poteva adeguare o ispirare la
propria soluzione di casi simili, oggi chiameremo questo "precedente" in quanto si trattava di
decisioni giudiziali.
Giustiniano disse che i giudici dovevano applicare la legge e non i precedenti, ma non vietò l’uso di
questi ultimi, si limitò a negare che l’uso di essi fosse vincolante, si poteva ignorarlo persino
quando era di provenienza importante che ispirasse timore reverenziale, ovviamente quando
arrivava dal principe in persona andava seguito sempre.
L’efficacia dell’exemplum si dilatò fino a Giovanni Bassiano, il quale introdusse un nuovo concetto,
ossia quando si trattava di una sentenza singola era ammissibile il carattere non vincolante, quando
erano numerose, queste si trasformavano in una consuetudine diventando legge obbligatoria.
Giustiniano inoltre indicava che lo si doveva disattendere quando appariva inadeguato al caso in
esame, questo presuppone che tutte le volte che esprimeva rationes adeguata andava osservato,
quindi nasceva il dovere morale di attenervisi ogni qual volta che vi si riscontrava una buona ratio
che gli dava forza vincolante, almeno sul piano etico di valore universale.
Paragrafo 2
Oltre al giudice cercatore di rationes per le sue sentenze vi era il sapiente, che di questo tipo di
ricerca era il massimo esperto, di solito un professore.
In forza della ratio servivano da exempla le decisioni dei giudici che avevano per definizione la
potestà pubblica, allo stesso modo le opinioni dei dottori potevano servire da exempla in virtù del
peso della loro dottrina.
Nei casi dubbi si decise che i pareri dei dotti di grande fama andassero seguiti, da qui nacque
l’argumentum ab auctoritate vero e proprio.
Non fu mai considerato necessarium, vincolante, l’unica autorità che poteva emanare tali
disposizioni era il principe, norme obbligatorie per tutti in astratto.
Il giudice dava una sentenza necessaria ma non generalis, perchè era obbligatoria solo per il caso
esaminato, e il professore dava pareri generales, perchè enunciava rationes di per se astratte, ma non
necessarii, in quanto non investito di alcuna autorità.
Le si seguivano solo in funzione del prestigio e del fascino intellettuale che aveva il proponente, e
ovviamente della fiducia che si aveva in lui.
L’argumentum ab auctoritate allargava quindi dal campo giudiziale a quello dottrinale la teoria
romana dell’exemplum, il suo uso prolungato e costante restituì una sorta di patina obiettiva alla
ratio legis, che stava diventando sempre più una fantasia del giurista, completamente staccata
com’era dal testo da cui era stata enucleata.
Ma a forza di seguire tutti il medesimo principio, in ossequio al prestigio di colui che l’aveva
formulato, questo prese le sembianze di un’opinio communis, che comunque restò solo probabile,
idonea alla dimostrazione, quindi attendibile ma mai vincolante, tuttavia la sua osservanza
prolungata la rendeva sempre buona per i giudici.
Nel Cinquecento si concluse che era pericoloso non attenervisi, andare contro le opinioni comuni
poteva essere pericoloso, e per consentire a tutti di conoscerle ed utilizzarle se ne fecero grosse
raccolte, veri e propri prontuari di diritto giurisprudenziale.
I ricorsi all’argumentum ab auctoritae e all’opinio communis interessavano soprattutto i pratici,
quindi di casa nelle letteratura consiliare (consilia).
Il pensiero giuridico quindi affondava sempre più nella pratica forense, e questo allentava i legami
con la grande cultura, soprattutto l’umanesimo che nel Quattrocento era ormai il fulcro di una
rivoluzione intellettuale, stentava a entrare nel mondo del diritto per cambiarne i metodi.
Paragrafo 3
L’umanesimo diede grande entusiasmo alla filologia, consentì un grande ritorno alla grammatica
delle arti liberali, era il contrario di quei giochi con le rationes, cari ai giuristi, che avevano prodotto
un distacco dallo studio filologico del testo giustinianeo.
La dialettica dei commentatori era disprezzata dagli umanisti, che amavano poco la dialettica in se,
ma soprattutto accusavano quella usata dai giuristi di essere vecchia, un rozzo tradimento a quella
raffinata dialettica aristotelica, quella vera.
L’ingresso della filologia nello studio dei classici latini e greci, fu la molla originaria
dell’umanesimo, prima agì solo nell’ambito letterario poi in tutti i campi del sapere.
La quattrocentesca "disputa delle arti", comico concorso di bellezza e importanza, nato tra medicina
e diritto cui si aggiunsero anche le lettere in seguito, fu un chiaro segno della riscossa delle arti
liberali nei confronti delle discipline giuridiche, che in precedenza in Italia le avevano sovrastate.
I giuristi che primeggiavano negli atenei, percepivano i più alti compensi, e questo scatenava
l’invidia degli umanisti i quali passarono attraverso le corti dei principi, e con meccanismi
cortigiani arrivarono a cattedre nei grandi Studi, naturalmente, di Arti.
Ai primi del Trecento risalgono i primi scontri tra umanesimo e diritto, inizialmente vi furono
contatti amichevoli, fatto dimostrato dai tanti giuristi toccati dal fascino delle humanitates.
Ma a risentire di quel fascino erano i giuristi e non il diritto, il cui metodo restò impermeabile alle
suggestioni della filologia, continuò il solito gioco delle rationes rifiutando il ritorno alla littera del
testo, il diritto rimase fedele alla vecchia dialettica respingendo la nuova "grammatica" fuori dai
confini di Giustiniano.
I giuristi ammaliati dall’umanesimo sembrano avere una doppia personalità, come passatempo
intellettuale prendono la penna del letterato, ma sono pronti a recuperare la mentalità e lo stile
consueti quando indossano i panni del giurista.
Gli scontri furono causati da frecciate di letterati, Dante rimproverò i giuristi di voler fare i filosofi
senza esserne capaci, mentre Petrarca centrò il difetto della giurisprudenza nella pretesa di studiare
il diritto giustinianeo senza la storia, invitò una svolta sicuro che l’indagine delle origini del diritto e
della giurisprudenza avrebbe consentito di sfruttare meglio le fonti giuridiche romane nella stessa
pratica professionale.
Questo nuovo ammonimento avviò il diritto verso l’umanesimo giuridico.
Alcuni giuristi come Baldo si cimentarono in opere letterarie, egli scrisse varie biografie di giuristi,
solo un secolo dopo l’umanesimo aprì una breccia nella giurisprudenza, questo avvenne quando i
giuristi seppero dagli umanisti, che il testo del Digesto vulgato, usato nella scuola e nella prassi, era
pieno zeppo di errori, e che si doveva correggerli ricorrendo al manoscritto più antico, la famosa
littera Pisana diventata Florentina nel frattempo.
A questo punto si aprì il problema della ricostruzione del testo normativo, riaffiorarono
preoccupazioni per la littera, un risorgere della grammatica, insomma si aderì ai metodi umanistici.
Non era un’assoluta novità, era un andare a ritroso nella storia, sembrava di risentire l’eco della
richiesta fatta quattro secoli prima dalla contessa Matilde di Canossa a Irnerio di renovare libros
legum.
Ludovico Bolognini accolse il progetto di un’edizione del Digesto critica, egli era un giurista di fine
secolo di non eccelsa levatura, ma suscitò più perplessità che consensi tra i cultori del diritto.
Quest’iniziativa conteneva molti pericoli, si stava mettendo in discussione il testo normativo usato
da secoli nella scuola e nel foro, poteva comportare la messa in discussione del patrimonio
dottrinale accumulato da generazioni che avevano preso per buono quel testo, si minava in questo
modo una ricchezza ormai consolidata.
C’era il rischio oltre che di cambiare interpretazioni teoriche, di colpire la prassi giudiziaria, quindi
di sconvolgere un intero sistema ormai affermato.
L’idea di un’edizione nuova del Corpus iuris albergava più presso umanisti che presso giuristi, e nel
Cinquecento sono state fatte alcune belle edizioni della littera Florentina, furono stampate anche
copie del testo fiorentino del Digesto, per appagare i dotti, corredato dall’apparato di glosse
accursiano per accontentare i pratici, con il risultato che spesso il testo non trovava riscontri nella
glossa e viceversa.
Paragrafo 4
Fino a quando furono umanisti a dare consigli e fare progetti sulle fonti giuridiche, le opere
sfiorarono poco il diritto, toccando solo la storia esterna dei suoi libri e non la dottrina, ma quando
giuristi dediti alla pratica divennero umanisti, ci fu una nuova grande ventata che penetrò
all’interno, influì su dottrine, tecniche e istituti, solo ora si può parlare di "umanesimo giuridico" in
senso pieno.
In tutta Europa prese piede, e la prima triade di opere dell’umanesimo giuridico furono composte da
un francese, un tedesco e un italiano: il Budeo, lo Zasio e l’Alciato.
Questi tre nomi furono collocati sin dal Cinqucento alle origini della nuova giurisprudenza, che
verrà chiamata più tardi "scuola culta".
Parleremo solo dell’Alciato, se non altro perchè appare come il più bravo sia nella filologia che nel
diritto, e fra i tre fu quello che più contribuì alla diffusione in Europa del nuovo metodo.
La sua prima formazione nella "grammatica" gli fornì da giovanissimo, conoscenze dei classici e
della filologia, durante gli studi di giurisprudenza non interruppe la serie di ricerche antiquarie che
aveva iniziato, che gli diedero la padronanza dei metodi scolastico-dialettici del vecchio bartolismo.
Nel 1516 si laureò a Ferrara in diritto civile e canonico e divenne un grande avvocato, che lo fece
diventare un esperto della prassi.
Tra il 1518 e il 1521 divenne insegnante ad Avignone, il suo metodo apparve ancora legato ai
metodi dei commentatori, mentre nello Studio di Bourges tra il 1529 e il 1533 il suo metodo di
insegnamento apparve un misto tra filologia e tecnica giuridica, che gli procurò una singolare
affluenza di uditori dotti ed ebbe vasto eco negli ambienti umanistici.
Al suo ritorno nella penisola insegnò in vari studi, Pavia, Bologna e Ferrara, poi ancora Pavia dove
morì.
Paragrafo 5
A Bourges ebbe tra i tanti uditori anche Giovanni Calvino (famoso per la riforma religiosa), e
Francesco Connan, giurista e professore nello stesso ateneo.
Quest’ultimo ricordato per una strana teoria del sinallagma, che rappresenta un lucido esempio dei
ragionamenti della scuola culta, della metodologia giuridico-umanistica.
La sua teoria finisce con il negare che l’efficacia dei contratti consensuali iuris gentium derivi dal
consenso, egli spiega che il consenso non è fonte di forza obbligatoria, lo dimostra il fatto che è
incapace di fornirla a patti "nudi".
Il termine sinallagma significa scambio, ricorrendo alla sua etimologia si evince che è la struttura
bilaterale del contratto a esigere che a una prestazione ne sia agganciata un’altra, al fine di
equilibrare il rapporto tra le parti.
Conseguenza di questo è che non importa quindi che le singole figure di negozi sinallagmatici
previste dall’ordinamento come: compravendita, locazione, ecc, ricevano un nomen.
La vecchia teoria dice che il nomen dia il vestimentum al patto nudo, ossia lo renda obbligatorio
trasformandolo in contratto, non ha senso in quanto i contratti innominati perchè privi di nomen,
come ad esempio: do ut des, do ut facias, facio ut des e facio ut facias, avendo la stessa struttura dei
contratti consensuali nominati, hanno la stessa efficacia obbligatoria.
Dietro la teoria suddetta del sinallagma risiede la concezione aristotelica del diritto, o cosiddetta
della giustizia correttiva, la giustizia non può aspirare a un’impossibile uguaglianza, come la latina
aequitas aequalitas, ma vuole proporzione nelle cose umane, quindi dice Aristotele che funzione del
diritto è "correggere" i rapporti squilibrati, bilanciarli coattivamente e questo si fa appunto rendendo
entrambe le prestazioni obbligatorie.
Questa teoria comunque ha avuto scarsa fortuna, e il principio consensuale, fondato sul dogma della
volontà che obbliga, ha avuto storicamente la meglio sia perchè fu diffuso dal giusnaturalismo sia
perchè fu codificato, in ogni caso la teoria del Connan rimane un bell’esempio del modo di
procedere dei culti.
Paragrafo 6
Dopo Alciato, Bourges ebbe un momento di splendore, tra i suoi maestri quello che divenne più
famoso fu Jacques Cujas conosciuto in tutta Europa, uomo di grande erudizione, storico, editore di
fonti giuridiche antiche e al contempo sottile esegeta critico del testo giustinianeo.
L’umanesimo in Francia non si limitò a Bourges, il cultismo apparve ben radicato in tutta la cultura
giuridica transalpina, il relativo insegnamento fu chiamato mos gallicus iura docendi, mentre la
didattica ancorata al vecchio metodo dialettico-scolastico che in generale continuò ad essere seguita
in Italia fu detta mos italicus iura docendi.
I maestri del mos gallicus hanno lanciato frecciate a quelli del mos italicus, condannando la loro
ignoranza della storia, della lingua greca e delle eleganze della lingua latina, ma erano rimproveri
vecchi, risalenti alla prima polemica umanistica, una lettera di Lorenzo Valla del 1433 trabocca di
rara violenza, e spesso esprimevano tanta faziosa intolleranza da eccitare anche in ambienti
umanistici qualche moto di fastidio, tanto da suscitare benevolenza e comprensione nei confronti
del metodo dialettico italiano.
L’umanesimo nacque in Italia, ma nel Cinquecento ci furono solo radi bagliori di Alciato, che
invece dilagò in Francia, di questo se ne sono cercate ovviamente le ragioni, si è pensato che nella
Provenza e nella Linguadoca, nel "paese del diritto scritto", potesse agire la forza d’inerzia di quei
tribunali che prediligevano ovunque il mos italicus, mentre nel "paese di diritto consuetudinario"
nessuna prassi forense romanistica ostacolasse il diffondersi del mos gallicus.
Teoria che non convince del tutto perchè i giuristi francesi non erano insensibili alle esigenze
dell’uso pratico del diritto romano.
Si devono tenere in considerazione le caratteristiche della vita del diritto in Francia in quell’epoca,
c’era una concezione del "diritto comune" e un’aspirazione a un diritto nazionale che da noi ancora
non era presente, se non qualche preannuncio nel Mezzogiorno.
Dal XII secolo il diritto romano in Francia era visto con sospetto, passava come diritto dell’Impero
e la sua osservanza era il simbolo della soggezione politica che rifiutavano.
Diritto romano-comune universale, specchio dell’universalità dell’Impero era un’idea che non
attecchiva in suolo transalpino.
L’espressione diritto comune in Francia alla fine del Duecento, intendeva quel complesso di regole
per lo più consuetudinarie che si seguivano nel regno.
Philippe de Beaumanoir, giudice esperto di pratiche locali e diritto romano, parlando di "Diritto
comune", lo descrive come un insieme di principi dettati principalmente dal costume e dalla ragione
e raramente dalle decretali e dalle leges.
Dal Trecento in poi grazie alla chiara influenza della scuola, il diritto romano diventò parte sempre
più importante del diritto comune francese, ma le consuetudini che lo contraddistinsero non
scomparvero mai, essendo sempre una parte importantissima del droit commun francese.
Sulle consuetudini facevano leva i sovrani e la loro politica nazionalistica, in vista della costruzione
di un ordinamento nazionale, i re ordinarono una loro redazione scritta sin dalla metà del
Quattrocento, esse riscossero l’attenzione dei giuristi culti che ne trassero materiale per la
costruzione di un ordinamento del regno.
Riservando alle consuetudini di Parigi, soprattutto dopo il memorabile commento fatto loro dal
Dumoulin, il compito di esercitare la necessaria azione unificante.
Paragrafo 7
La critica filologica e la storicizzazione delle leges fatta in Francia dal cultismo, cancellò gli ultimi
residui dell’antica venerazione per Giustiniano, e a differenza di quello che dicevano glossatori e
commentatori nessuno pretendeva più che le sue leggi fossero ispirate da Dio.
Era ormai risaputo che erano state fatte da uomini e per questo imperfette, evidenziandone i difetti
qualcuno attaccò la compilazione giustinianea, denunciandone le gravi mancanze, alcuni diedero le
colpe a Giustiniano, altri a Triboniano che fu l’esecutore materiale.
Francesco Hotman, fu protagonista del più vistoso caso di antitribonianismo, egli infatti era un
uomo nuovo e per tanti versi rivoluzionario, monarcomaco e nazionalista insieme, i suoi programmi
codificatori sono tutti rivolti a valorizzare le codificazioni autoctone, ripudiando di fatto il diritto
romano, anche se questo appare abbastanza antistorico, in quanto il diritto romano sarà ingrediente
fondamentale dei codici sette e ottocenteschi, ma l’auscipio di una codificazione rimane un’idea
profetica.
Hotman era un dotto calvinista che usava coinvolgere l’Impero e il diritto romano nell’astio che
nutriva verso la Chiesa e la sua tradizione, era critico del potere monarchico oppressore, soprattutto
sul piano religioso da doversi catalogare tra i più accesi monarcomachi.
Il diritto romano in quel periodo stava cambiando funzione, da legge universale quale era stata fino
a quel momento stava diventando miniera di principi e di rationes ed esempio di razionalità da
seguire per le codificazioni moderne che nascevano in modo disordinato, era la trama omogenea in
cui inserire i fili eterogenei dei tanti episodi normativi scordinati.
Il Medioevo si stava trasformando in un’eredità del passato, si stava entrando nell’epoca moderna
del diritto, il Medioevo in ogni caso sarà un’eredità con cui si dovranno fare i conti per secoli.
Capitolo IX
Paragrafo 6
Alla fine del Duecento il processo inquisitorio trionfò su quello accusatorio, videro la luce
importanti opere di diritto e procedura penale, nate fuori dalla scuola e destinate alla prassi, scritte
da giudici dotti attenti sia alla pratica forense, sia alla produzione accademica, in particolare alla
massa delle quaestiones prodotte nelle scuole.
Nelle loro opere ne inserirono raccolte ordinarie, chiamate libelli, il termine libellus indicava nel
Medioevo i prodotti della letteratura processualistica, il termine libellus fu scelto dagli editori
quattro e cinquecenteschi, forse con il significato generico di "trattazione", ma è un titolo fuorviante
perchè evoca monografie d’autore e non sillogi di pezzi altrui, com’erano sostanzialmente queste
scritture processualpenalistiche.
Alberto Gandino scrisse il primo monumento di questo genere letterario negli anni della crisi del
Comune, egli fu un giudice di buona levatura che mai divenne insegnante, ricoprì la carica di
assessore di podestà in varie sedi, fino a quando nel 1305 divenne podestà di Fermo.
Era assessore a Perugia quando nel 1286/87 scrisse la prima edizione del De maleficiis, che poi
aggiornò e ampliò in seguito.
Quest’opera consiste in una prima parte scritta dal Gandino stesso, seguita da una collana di
quaestiones delle scuole di Odofredo e Guido da Suzzara, e in seguito anche di Dino del Mugello.
Era una collana di perle staccate, aperta all’inserimento di nuove quaestiones e alla sostituzione di
questioni vecchie a seconda dei bisogni, fu usata in modo intenso e subì vari interventi di
rielaborazione, anche spuri.
Tra il 1300 e l’anno seguente, comparve un altro scritto di fattura egregia, sotto il nome di
un’inesistente Bonifacio Vitalini, che pare essere stato identificato circa 20 anni fa in Bonifacio
Antelmi, giudice, magistrato e potestà, personaggio di buona casata mantovana.
Paragrafo 7
Le gravi turbolenze politico-sociali, si evince leggendo sia il Gandini che l’Antelmi, diedero grande
impulso alla modifica del processo penale in senso inquisitorio.
Il rito accusatorio che aveva dominato l’alto Medioevo, era consono all’idea barbarica che il reato
dovesse dare luogo a un rapporto di tipo privatistico tra offeso e offensore, il secondo per cui aveva
l’interesse a un risarcimento, e l’onere della prova e soprattutto dell’accusa, in modo che se nessuna
accusa veniva portata innanzi al giudice nessun procedimento s’instaurava.
Al contrario il processo inquisitorio si caratterizzava per un interesse pubblico alla repressione dei
reati, il giudice informato di un delitto, in seguito a una denuncia o anche grazie a una notizia avuta
privatamente, o anche solo perchè correvano voci, aveva il diritto-dovere di indagare, di accertare la
colpevolezza dell’imputato e conseguita la prova, di processarlo e condannarlo.
Il fatto che la figura del giudice inquirente e quello giudicante erano spesso la stessa persona,
diminuiva le garanzie per l’imputato che come se non bastasse poteva, anzi era sempre torturato per
ottenere in tempi brevi la confessione che lo avrebbe condannato.
Quando l’onere della prova spettava alla parte lesa, nel processo accusatorio appunto, questa non
aveva a disposizione il metodo coercitivo che invece l’autorità pubblica aveva, per cui l’estorsione
di confessioni era un rito comune, in quanto la tortura come detto diventò una tappa fondamentale
del procedimento inquisitorio.
Nell’opera del Gandino sono presenti tantissime questioni che riguardano la tortura, raccolte nel
titolo più lungo, e non sorprende data l’importanza dell’argomento nella prassi, che questa sia
divenuta un’operetta a se stante, chiamata trattato De tormentis, che è stata ritrovata in diverse
varianti in parecchi manoscritti, composta da questioni e autori differenti, incorporata in altri
manuali penalistici.
La tortura che i Romani inizialmente riservarono agli schiavi, e in seguito anche agli uomini liberi,
era lecita solo quando c’erano chiari indizi di colpevolezza, ed aveva un’ampia sfera di
applicazione, che oltre ai giudizi penali si estendeva anche a quelli civili, e oltre l’imputato colpiva
anche frequentemente i testimoni reticenti.
Tuttavia vi era una gamma di esenzioni, di scarso interesse quelle a favore di fanciulli e vecchi,
malati e feriti, donne incinta e puerpere (che hanno appena partorito), perchè ispirate da ragioni
tecniche.
Di maggiore interesse le esenzioni ratione dignitatis perchè sono indicative di privilegi cetuali e di
gerarchie: oltre gli uomini di Stato e gli alti gradi militari sottratti da sempre alla tortura, il Diritto
comune medievale ha privilegiato di questo anche i nobili, gli ecclesiastici e i doctores.
Fenomeno storico di rilevanza non trascurabile fu quello che vide gli uomini di toga, che furono
messi un grado immediatamente seguente l’aristocrazia.
Paragrafo 8
I ceti erano strati sociali, posti l’uno sull’altro, erano ordini chiusi, governati da codici etico-
giuridici di solito non scritti, disposti in una scala gerarchica i cui vertici erano tanto gelosi del loro
prestigio, da accendere dispute anche per banali precedenze cerimoniali.
Tramitte sfoggi di stemmi e carrozze, e anche attraverso gli abiti indossati, si rendeva palese
l’appartenenza a un ceto, un’umanità in uniforme quindi, che fondava le proprie pretese alla
considerazione sociale in larga misura sulle apparenze, che teneva per questo alla propria buona
fama e temeva l’infamia.
Il binomio fama-infamia, già noto ai Romani, suscitava nei giuristi molta attenzione sin dal tempo
della glossa.
Non sorprende che l’istituto della fama, così legato all’organizzazione cetuale della società, agisse
sull’istituto della tortura: chi aveva buona fama aveva qualche possibilità, quando cadeva nelle mani
dei giudici, di sfuggire ai tormenti, mentre chi aveva mala fama non aveva questa opportunità.
I latrones per esempio, diventavano famosi quando una voce pubblica li descriveva come tali, e
catturati erano spesso subito sottoposti a supplizi, senza prima verificare il riscontro degli indizi,
perchè la cattiva fama era già di per se sinonimo di colpevolezza.
Contro i latrones famosi, si concedeva ai giudici e ufficiali che li perseguitavano l’arbitrium, che
dava loro il potere di non seguire le norme garantistiche della procedura, una deroga a queste
insomma.
Alcuni ufficiali ne approfittavano, torturando i ladroni famosi subito dopo la cattura, per estorcergli
subito una confessione frettolosa e impiccarli immediatamente, negando loro anche il diritto di
difendersi.
Nel regno di Sicilia, questo tipo di giudizio sommario, che aboliva tutte le garanzie procedurali, fu
concesso agli ufficiali mediante lettere regie che assegnavano loro l’arbitratum, queste lettere erano
chiamate arbitrariae o arbitrales.
In questo caso il termine arbitrium, che era significato di discrezionalità più o meno estesa, andava
oltre, evocando persino poteri straordinari contra legem.
Nel clima tempestovo dei Comuni in crisi, la repressione della dissidenza politica diede vita a vari
istituti dal carattere spiccatamente oppressivo.
Si diffuse il bando, designato dalla parola bannum che nell’ordinamento carolingio dell’alto
Medioevo erano le prescrizioni sovrane in tema di ordine pubblico e di chiamata alle armi, di
protezione delle chiese, strade, mercati e di donne e orfani.
Inoltre indicava anche la pena pecuniaria prevista per la violazione di quegli ordini regi.
Nel mondo comunale il bando significò l’espulsione dalla città, con eventuale confisca dei beni, di
solito per ragioni politiche.
Questo istituto era differente dall’esilio dei Romani, che confinavano in un determinato luogo il
soggetto condannato, mentre il bando scacciava il "bandito" dalla città, ma lo lasciava libero di
andare dove voleva.
Il trattato De bannitis di Iacopo d’Arena trattava proprio questo istituto.
Capitolo X
Paragrafo 1
Insieme alla formazione dei Comuni, in tutta Europa stavano cominciando a formarsi le varie
nazioni, sulle quali si fonda il mondo moderno.
Mentre le monarchie europee progredivano, l’immagine ormai vecchia e logora dell’Impero andava
scomparendo.
La vecchia concezione dell’ordinamento giuridico dell’antica Roma stava gradatamente lasciando il
posto a un’idea più vicina alla mentalità germanica, ovvero che l’unità di una monarchia ideale
senza frontiere, fosse da frammentare in tante istituzioni monarchiche concrete, quindi circoscritte
entro confini territoriali.
La Chiesa era restia ad abbandonare il dogma dell’unus Imperator in orbe che nel potere temporale
rispecchiava l’unus Papa nello spirituale.
Eppure fu proprio la riforma gregoriana che diede il colpo più grave all’immagine dell’Impero, i
giuristi ierocratici gregoriani, quando arrivarono nel sistema canonistico, furono i primi ad accettare
un’innegabile realtà, ovvero della formazione di tanti regni.
A testimoniare quanto appena detto ci pensa Alano anglico che agli inizi del Duecento dice: che i
miti dell’universalità della suprema monarchia erano stati ispirati da un ius gentium antico, mentre
un ius gentium nuovo ha ora introdotto la divisione dei regni, e il papa l’approva.
La frammentazione dell’Impero ebbe come prima conseguenza la difficoltà di applicazione del
diritto romano, che continuava ad essere ritenuto l’ordinamento imperiale.
L’applicazione del sistema del Diritto comune era naturale quando la dialettica tra leges e statuti
cittadini rispecchiava il tradizionale, pacifico rapporto tra urbe e orbis, ossia la consueta interazione
delle autonomie locali e della sovranità generale, ma strideva al contatto di due sovranità, l’una
imperiale più ampia, l’altra più limitata dei vari regni, ma entrambe gelose del proprio sistema
giuridico, la convivenza se non impossibile era cosa ardua.
La scienza canonistica già dalla fine del XII secolo con Uguccione da Pisa, propose la mediazione
della Chiesa per impedire la frammentazione e salvaguardare l’universalità di Giustiniano, ma i
regni di Francia e Inghilterra si dichiararono indipendenti dall’Impero, ma non per questo poterono
fare a meno del diritto romano, perchè le leggi romane erano volute dalla Chiesa alla quale tutti
dovevano obbedire.
Uguccione non era ierocratico, ma in questa proposta qualcosa di tale si nota, ma qualunque colore
politico le si voglia riconoscere, questa risuonò in un’ambiente di decretisti legati ai meccanismi
dualistici predicati da Graziano e quindi ebbe poco seguito nella dottrina.
Mezzo secolo dopo, la salvaguardia del diritto romano in Europa si affidò a Bernardo da Parma, il
glossatore ordinario delle decretali gregoriane.
Egli riconobbe in una sua glossa famosa, che solo de iure tutti i popoli erano sottoposti alle norme
di Roma, ma de facto taluni popoli non le applicavano, un ragionamento curioso perchè de iure
significava secondo le leggi romane, per cui queste finivano col legittimare se stesse nel pensiero di
Bernardo.
Paragrafo 4
Federico II nel regno di Sicilia promulgò nel 1231 un codice ufficiale di leggi dello Stato, era
l’entità politica più forte presente in Italia e aveva già una bella storia alle spalle, una straordinara
dominazione normanna creatrice del nuovo ordine, preceduta da un’eredità bizantina e longobarda
lunga secoli.
Narra la leggenda, che verso l’anno Mille quaranta cavalieri normanni, di ritorno da un
pellegrinaggio dai Luoghi Santi, si fermarono a Salerno assediata dai Saraceni, e aiutarono il
principe longobardo Guaimario, il quale per ringraziarli di aver liberato la città li ricoprì di doni, e
in seguito mandò un’ambasciata in Normandia per arruolare un corpo di ausiliari, infatti fu colpito
dalle loro straordinare qualità in battaglia.
Altre leggende vogliono che, qualche anno più tardi un gruppo di normanni accusati di assassinio
scappò dalla patria per sfuggire alla collera del duca Riccardo, questi si rifugiarono prima a Capua
poi in Puglia al servizio mercenario del pugliese Melo nella rivolta contro i bizantini, questa
leggenda è in parte vera perchè molti immigrati normanni erano nobili fuori legge perseguitati in
patria.
Infine ebbe la meglio la casata di Altavilla, Roberto detto il Guiscardo, ossia l’astuto, dopo essersi
fatto eleggere dai suoi conte di Puglia, riuscì a mutare questa qualifica in titolo feudale facendosi
reinvestire da papa Niccolò II nel 1059 Dei gratia et Sancti Petri dux Apulie et Calabrie.
Questa fu una mossa abile in quel momento, nessuna autorità che avesse avuto l’avallo di uno dei
due poteri universali, poteva essere formalmente contestata in Occidente.
Ma da quella investitura feudale ebbe inizio anche la subordinazione vassallatica, che gravò per
secoli sul nostro Mezzogiorno, e permise alla Santa Sede di chiamare dinastie straniere di proprio
gradimento a occuparne il trono.
Quindi Roberto il Guiscardo s’impadroniva dei territori del continente, nel frattempo suo fratello
minore Ruggero I completava virtualmente la conquista della Sicilia entrando a Palermo nel 1072,
fu il figlio di Ruggero I a riunire nel 1128 nelle proprie mani contea di Sicilia, ducato di Puglia e
Calabria, e anche il principato già longobardo di Salerno, ossia l’interno Mezzogiorno, a tanta
potenza mancava solo il titolo di re.
Anacleto II antipapa glielo concedette, e l’arcivescovo di Palermo incoronò Ruggero II il giorno di
Natale del 1130, compariva quindi in Europa un nuovo regno, che prese il nome dall’isola
riconquistata all’Islam, teatro di una grande vittoria oltre che militare e politica anche religiosa, in
quanto il cristianesimo sconfisse l’Islam.
Paragrafo 5
Paragrafo 7
Nel regno di Sicilia vi erano spezzoni di diritto mussulmano, giustinianeo e bizantino e anche
longobardo, ed erano unificati mediante il ius novum normanno, che non rinnegava alcuna
tradizione.
Già prima dell’incoronazione di Ruggiero II nel Natale 1130 è possibile ipotizzare che siano stati
emanati provvedimenti ducali e comitali andati perduti, lo stesso Ruggero II nel 1129 potrebbe
averne pubblicati in una dieta, che ovviamente non ci è pervenuta.
I Normanni tennero diete soprattutto giudiziarie sin dall’inizio del loro regno, che vennero chiamate
assise, un nome che finì coll’adattarsi secondo le abitudini a quanto nell’assise si deliberava.
Prima del 1184 non si hanno documenti di questa pratica terminologica, una sorta di rudimentale
codicetto composto da 43 costituzioni sarebbe stato emanato da Ruggero II nella dieta o assise di
Ariano del 1140, anche se in questo senso ci sono ancora dei dubbi che tuttavia non sono riusciti a
inficiare la tradizione della vicenda normativa svoltasi presso la città irpina.
Inoltre è difficile immaginare quale circolazione ebbero le assise, verso il 1230 Federico II ordinò
un’inchiesta per reperirne e introdurne un certo numero nel suo Liber Augustalis, in quanto erano
disperse, e inserì 37 costituzioni ruggeriane, e circa 30 di Guglielmo II, ma queste lasciano molti
dubbi circa la loro autenticità.
Una costituzione di quelle prime 43 emanate nell’assise di Ariano, addirittura mantiene in vigore sia
le consuetudini che l’antica legge, romana e longobarda, purchè non contraddicano a quelle
ruggeriane, e naturalmente non vi è alcun esplicito riferimento al Diritto comune, che doveva
ancora arrivare.
Le leggi romane furono messe in un’unico calderone di ius vetus, insieme con le consuetudini, e se
ne può dedurre che all’epoca Normanna il diritto romano era rappresentato dal complesso
giustinianeo solo nelle zone, specialmente in Campania, in cui da secoli si era conservato nella
prassi, ma in generale era da rappresentare nelle leggi bizantine, di cui nel XII secolo si facevano
ancora estratti e analogie.
Il concetto di Diritto comune non era chiamato in causa, ma la graduazione delle fonti del diritto
ruggeriane, la legge longobarda e romana insieme alle consuetudini, comparivano con funzione di
sostegno delle assise, e questa funzione sussidiaria sarà appunto quella tipica del più tardo Diritto
comune, ma in questo modo saranno etichettate solo cento anni dopo, nella redazione vulgata della
celebre e discussa costituzione federiciana Puritatem.
Paragrafo 8
Quando nel 1189 Guglielmo II morì, Enrico VI imperatore figlio di Federico Barbarossa, vide
profilarsi l’opportunità di impadronirsi del regno di Sicilia, giocando sui diritti ereditari di sua
moglie Costanza d’Altavilla, figlia di Ruggero II.
Erano pretese che andavano perseguite con le armi, perchè il conte di Lecce Tancredi era già stato
eletto successore di Guglielmo II suo zio, elezione della quale si contestava la legittimità, dato che
la regola voleva che il successore fosse scelto dal predecessore, in questo caso la scelta di
Guglielmo II era caduta su Costanza, ma siccome Tancredi non rinunciò si arrivò alla guerra.
Napoli fu inutilmente assediata, e le cose si mettevano male per Enrico VI, ma nel 1194 Tancredi
morì e la situazione cambiò in fretta, l’imperatore si impadronì di Palermo e del trono, ma solo
dopo 3 anni morì anche lui, e la moglie Costanza poco prima di morire fece in tempo a incoronare
re suo figlio di 4 anni Federico nel 1198.
Il bambino fu messo per 10 anni sotto la protezione di papa Innocenzo III, cosa che rinsaldò il
potere feudale della Santa Sede e indebolì il regno, lasciando il campo libero alle ispirazioni
autonomistiche di signori e città.
Nel 1208 quando aveva 14 anni, Federico si proclamò maggiorenne (era consentito ai principi), nel
1212 incoronato re di Germania, nel 1220 a Roma da papa Onorio III fu incoronato imperatore, e
poi prese possesso del regno di Sicilia, si aprì ufficialmente l’era di Federico II di Svevia.
Nel Mezzogiorno Federico II, fu sia continuatore che riformatore della politica dei suoi avi
normanni, egli completò e migliorò le strutture del regno, assicurandogli unità anche in presenza di
etnie, culture, diritti e lingue diverse.
Tornato da una discussa crociata nel 29’, emanò una dieta quella di Melfi del 1231 e pubblicò il
Liber constitutionum Regni Siciliae, e venne chiamato comunemente Liber Augustalis, in omaggio
alla dignità imperiale che Federico II amava sbandierare, questo era il miglior codice prodotto
nell’Europa medievale.
Federico II viene ricordato sia da contemporanei che storici come colui che ha costruito un’impero
forte, di uno Stato opera d’arte, ma nel contempo vi sono fastidiose identificazioni di lui con satana
e l’anticristo, forse per il suo odio per la Chiesa, ma in generale l’opinione pubblica lo vide come un
pesante oppressore.
Paragrafo 9
Nel suo codice Federico II dovette tenere presente le antiche leggi, quella longobarda, e ovviamente
la romana, che anche grazie allo Studio di Napoli fondato dallo stesso Federico II, si andava a
identificare in quella giustinianea e non più bizantina.
In tarde versioni della costituzione federiciana Puritatem, si dichiarano quelle due leggi come
"diritti comuni" del regno.
Era una costituzione importantissima per quanti volevano da essa trarre il diritto che si utilizzava
come sussidiario, ma il Calasso afferma che possono essere molti quelli speciali, ma solo uno
poteva essere quello comune o sussidiario, e non poteva essere certo il rozzo longobardo, ma solo il
romano giustinianeo che era ricco e articolato.
Alcune delle stesse norme federiciane inoltre riservano queste funzioni al solo diritto romano.
La costituzione Puritatem voleva che la scelta del diritto sussidiario andasse fatta seguendo il
principio vecchio e ormai superato della personalità della legge, e secondo il Calasso solo il Corpus
giustinianeo poteva fungere da "diritto comune" in senso tecnico, non solo nel Mezzogiorno ma
ovunque.
L’allusione anche al diritto longobardo, secondo lo studioso, fatta da Federico II, si riferiva al
semplice fatto che nel Mezzogiorno era largamente applicato, sarebbe stato usato in senso atecnico.
La frase tanto discussa non era presente nel testo originario del 1231, ma fu aggiunta in seguito,
forse nel 1246, ma la cosa non convince.
La costituzione Puritatem pare sia stata vittima di interventi sul testo da parte di vari giuristi verso
la fine del Duecento, Martino da Caramanico nella sua glossa del 1285, non cita minimamente i due
diritti comuni, negli stessi anni Andrea Bonello parla del diritto longobardo, come di un diritto
speciale che deroga al diritto romano per antica consuetudine, affermando esattamente il contrario
della costituzione Puritatem attribuita a Federico II, entrambi rivelano di essere allo scuro della
frase controversa.
In altre costituzioni i due diritti vengono citati insieme, ma vengono chiamati semplicemente iura e
non iura communia, a parte la Iudices ubique che è una Novella inserita nel codice, di cui non si è
affatto sicuri.
Quindi non pare essere stato Federico a trasformare i due diritti in diritti comuni, pare piuttosto che
sia stato un errore di stampa ad avere creato questo malinteso, questo sarebbe solo un esempio di
errore, ma ve ne furono molti altri come l’attribuzione della Puritatem a Guglielmo e non a
Federico.
In base a quanto suddetto non appare il caso di costruire la trasformazione delle due tradizioni, sia
romana che longobarda, nel sistema ufficiale del duplice Diritto comune.
Questo sistema fu riconosciuto dai giuristi dall’età angioina avanzata, il diritto longobardo,
nonostante l’opinione contraria del Calasso, sulla sua capacità di svolgere una funzione tanto
complessa, si deve ammettere che la svolse, ma in misura limitata, non tanto ratione personae come
voleva il pezzo interpolato nel Puritatem, ma come ratione rei.
Esso fu usato per le successioni feudali, relativo ai feudi iure longobardorum che avevano i signori
giunti nel Mezzogiorno dal settentrione d’Italia.
Tramite i Libri feudorum quei feudi richiamavano il diritto longobardo, quindi era normale si usasse
quel diritto per loro, a maggior ragione quando i Libri feudorum fecero il loro ingresso al sud verso
la metà del Duecento.
Paragrafo 11
Nel 1224 Federico II impiantò lo Studio di Napoli, di fatto facendo entrare al sud la dottrina
romanistica che era molto presente al nord d’Italia, questo fu il primo Studio di Stato
nell’Occidente, e intese insegnamenti di tutte le facoltà, ma siccome volle fare concorrenza a
Bologna si privilegiò il diritto.
La didattica della scuola verteva sulle leges giustinianee com’era regola generale, e non sappiamo
se dopo la sua emanazione nel 1231 si studiava anche il Liber Augustalis.
Ai tempi di Federico la scuola funzionò poco e male, ed è difficile dire se sia migliorata nell’epoca
angioina.
L’opera più significativa prodotta nella scuola fu la lectura dei Tres Libri del barlettano Andrea
Bonello, personaggio di cui si è già accennata l’estemporanea impresa longobardistica suddetta.
La cosa strana era che la produzione scientifica nasceva fuori dallo Studio ufficiale, e spesso erano
opere di professori, fenomeno che quasi spacca la cultura giuridica napoletana in due tronconi.
Nell’accademia si studiavano programmi romanistici e si ignoravano le richieste dei tribunali che
erano affamati di ius Regni, e come avvenne in altre città, questo fabbisogno venne soddisfatto da
giudici importanti, che spesso erano titolari o ex titolari di cattedre, i quali cominciarono presto ad
applicarsi sul codice federiciano.
Accanto alle edizioni del Liber Augustalis ci sarà sempre l’apparato di glosse "ordinario" di Marino
da Caramanico, giurista noto alla storiografia ma non fu mai professore dello Studium di Napoli.
Alla sua glossa furono aggiunti i commenti di Andrea d’Isernia, che dovette frequentare poco lo
Studium, dopo avere assunto l’impegnativo incarico di Maestro razionale.
Tutto questo non ci vieta di pensare che accanto agli ufficiali corsi sulle leges, ci fossero anche corsi
magari occasionali sul ius Regni, ma non è il caso di cercare analogie con l’esempio di Iacopo
Belviso, che all’inizio del Trecento insegnò diritto feudale quando questo non era ancora materia
compresa nel normale ordine degli studi, forse questo insegnamento fu scaturito dalla presenza dei
Libri feudorum nel Corpus iuris in appendice all’Authenticum giustinianeo.
Andrea d’Isernia scrisse la sua opera sugli usi feudali dichiaratamente sottraendo tempo ai tribunali,
questo fa si che non fu il frutto di lezioni universitarie, ma fu scritta tutta fuori dall’Accademia.
Glosse furono scritte anche ai capitoli che i re angioini aggiunsero alla legislazione, un’esauriente
glossa fu scritta per le Consuetudini di Napoli, che erano equiparate a una legge perchè redatte sotto
la supervisione del Protonotaro Bartolomeo da Capua, e Carlo II d’Angiò le promulgò
solennemente nel 1306, acquistando quindi veste ufficiale.
A Napoli quindi il ius Regni diede spazio alla cosiddetta "cultura di funzionari" che a Napoli
sopravanzò molto quella accademica.
Paragrafo 13
Paragrafo 14
La Chiesa sin dalla fine dell’XI secolo aveva enunciato la curiosa teoria che le isole, essendo di
"diritto regio" (regalis iuris), erano comprese nella Donazione di Costantino, e perciò erano del
papa, Innocenzo III cento anni dopo aveva rilanciato questa tesi, rivendicando la Sardegna, e verso
la fine del 1200 Bonifacio VIII aveva tranquillamente infeudato l’isola a Giacomo d’Aragona.
Ma nonostante questo per gli Aragonesi non fu facile impossessarsi della Sardegna, che ebbero
totalmente in mano solo nel 1410, dalla metà del Trecento cominciarono a introdurre usi tipici della
penisola iberica, come quello di conmvocare parlamenti, come ad esempio quello di Pietro IV nel
1355 per discutere di questioni varie.
I rappresentati locali ne approfittarono per contrattare i contributi fiscali richiesti dal sovrano, e in
cambio ottennero privilegi e leggi favorevoli, chiamate "pazionate".
I "parlamenti" o "colloqui" erano praticati un pò ovunque nel Mezzogiorno normanno, svevo e
angioino, negli stati della Chiesa, nel Patriarcato del Friuli e nei domini sabaudi, ma furono
particolarmente importanti solo in Sicilia e in Sardegna sotto la dominazione aragonese e poi
spagnola.
La Carta de Logu de Arborea fu l’ultimo sprazzo di libertà sarda, ai tempi dell’ultima guerra tra
Arborea ed Aragona tra il 1390 e il 1391, questo fu un celebre complesso normativo scritto in lingua
sarda, promulgato dalla grande Eleonora, giudicessa di fatto (era reggente), diventata famosa per
l’eroismo in guerra e la saggezza in pace, trasformata in un mito dall’opinione popolare.
La Carta de Logu era in realtà aggiornamento di quella emanata dal padre Mariano IV sedici anni
prima, dopo tutto di cartae de logu ve n’era più d’una prima di Eleonora.
Al padre di Eleonora, Mariano IV va il grande merito di avere composto il "codice agrario" di
Arborea, introdotto in seguito nella Carta di Eleonora, e rispecchia la vita elementare dei pastori, e
il timore degli agricoltori di vedere rovinate le colture dagli animali, in questo antico ambiente le
consuetudini erano autoctone.
La Carta de Logu era molto più ampia, non era solo espressione di tradizioni autoctone, vi si può
trovare una serie di ingredienti, in parte locali, in parte provenienti dal mondo statutario in
particolare da Pisa, e vi erano anche le innovazioni di Eleonora.
Vi furono infatti pregevoli interventi della giudicessa, ad esempio il diritto penale viene lodato per
l’equilibrio e la saggezza.
La Carta de Logu divenne il simbolo delle tradizioni isolane, infatti divenne il diritto di tutta la
Sardegna nel 1421 quando l’aragonese Alfonso estese la sua giurisdizione, certificando la "sardità"
del suo contenuto, ed era esattamente opposta ad alcuni statuti di città erettesi a Comuni sotto la
protezione pisana o genovese, come Sassari il cui statuto era si aperto alle consuetudini, ma
rappresenta un solido ponte gettato tra la vita giuridica isolana e il variegato mondo comunale.
Ovviamente questi statuti erano molto distanti dalla Carta di Eleonora, ma avevano anche dei punti
in comune, ad esempio i legami con il continente.
In entrambi vi erano citazioni del diritto canonico e del diritto romano, quest’ultimo era la
compilazione giustinianea e non le consuetudini bizantine, che ormai erano diventate tutte sarde, il
tempo ne aveva cancellato la paternità originaria.
Va detto che nessun indizio esplicito fa del Corpus iuris un Diritto comune sussidiario, i richiami ad
esso testimoniano una prima apertura della Sardegna al mondo giuridico romanizzante del
continente.
Solo nella seconda metà del Quattrocento l’ordinamento isolano entrerà nel sistema del Diritto
comune.