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Dispensa di elementi di diritto

romano pubblico e privato


Diritto Romano
Università degli Studi di Milano-Bicocca
66 pag.

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ELEMENTI DI DIRITTO ROMANO PUBBLICO E PRIVATO
L’ORIGINE DEL DIRITTO
05/10/2021 ruva noemi lezione
P4 Lo studio dell’evoluzione del diritto, non risale più indietro della fondazione di roma (storico varrone, 753 ac).
P5 Sebbene i romani cercassero di tenere traccia e memoria materiale di tutto, ad esempio utilizzando strutture architettoniche e
arredi urbani, come statue, lapidi, iscrizioni, ritendendo che la memoria storica degli avvenimenti cittadini fosse un bene
comune e fondamentale e che il ricordo andasse aiutato con tracce scritte o con opere visibili e fruibili da tutti. Per conoscere i
romani e la loro storia dobbiamo attenerci, però, a quello che storici come Cicerone (106-43 AC), tito livio (59 AC -17 dc) e
Dionigi d’Alicarnasso oppure giuristi della metà del II secolo dc come sesto Pomponio ci hanno tramandato. Tra le fonti più
importanti vi è però l’Enchiridion di sesto pomponio.

Il diritto ha origine con la nascita di Roma e con le narrazioni di Pomponio


POMPONIO: fu un giurista che scrisse un’opera chiamata ENCHIRIDION (letteralmente “manuale”) contenente la storia del
diritto. Pomponio attraverso la narrazione ci fornisce delle informazioni sulla storia del diritto a Roma. A noi risalgono dei
frammenti della sua opera, in particolare un brano dello stesso Pomponio è importante poiché sembrerebbe essere l’inizio
dell’opera che narra dell’origine del diritto. In questo passo viene descritto come all’inizio delle civiltà era tutto governato con la
forza fisica e l’autorevolezza personale dei re, gestendola MANU. Pomponio scrive di Romolo, con il quale si inizia una fase
nuova poiché si vede un nuovo modo di governare Roma.

STRUTTURA DELLA CITTÀ

L’Area intorno Roma era chiamata AGER ROMANUS ANTICUS ed è qui che iniziano ad abitare coloro che saranno i primi
fondatori della città: i QUIRITI, i romani chiamavano così se stessi in qualità di cittadini dell’urbe (abitavano lungo il Tevere).
Questa zona era dominata da alcune gentes formata da popoli albani (populi albenses), che si riunivano su un monte sacro e
sacrificavano un toro in 30 parti (30 come i 30 villaggi latini che vi erano stati costruiti attorno alla città egemone di Alba longa)
per celebrare l’alleanza:
o Tribù dei Titienses discendenza sabina (nord) da tito tazio
o Tribù dei Ramnes discendenza medio-latina (est) da romulus
o Tribù dei Luceres discendenza etrusca (sud) forse da lucumone
Questi tre popoli furono i primi abitanti della città di Roma. Sappiamo inoltre che queste erano zone culturali fluide, ovvero
piene di scambi culturali.
C’è da precisare che in questo periodo storico le gentes vivevano ancora senza diritto; infatti, non vi sono norme ma si vive di
consuetudini, riti, riverenze e ossequi. Le consuetudini (mos maiorum: usi e costumi degli antenati) erano talmente radicate che
erano vincolanti: si sentiva la necessità di fare in quel determinato modo. Sfera del sacro: fas, regolava anche il tempo, ad
esempio vi era un calendario in cui era lecito o meno fare qualcosa (fasto/nefasto) e per la società era di grande importanza.
Queste comunità presentavano una struttura ed un modello organizzato (che sarà attuato anche a Roma) ben preciso:
- Capoluogo cittadino
- Villaggi/territori in campagna dove nel corso del tempo, iniziano a prendere forza delle famiglie, per ricchezza accumulata,
chiamate gentes, ossia comunità locali, sparse sul territorio, i cui capi famiglia, chiamati princeps/patres, controllavano ampi
campi dando lavoro a della sorta di dipendenti, chiamati clientes

GENS: la gens è una collettività di pari che non si identificano più in un capo vivente, ma in uno stipite comune di cui si è perso
ogni riferimento tranne il nome.
Nella zona del Tevere può essere circoscritta un'area, ager romanus antiquus, che circonda quella che sarà la città di Roma, in
cui si insediano, col tempo, degli individui, quiriti (diritto dei quiriti, nucleo originale del diritto), che saranno i primi fondatori di
Roma.

CLIENTELA: singole persone o intere famiglie che mancando di sicuri mezzi di sussistenza, in quanto provenienti da fuori la città
ed esclusi dall’organizzazione gentilizia, si erano sottomessi ad un patronus per averne protezione ed essere ammessi
all’utilizzazione collettiva delle terre gentilizie, se non addirittura a possedere piccole porzioni.
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Dionigi D’Alicarnasso dice che il cliente doveva servizi e piena obbedienza al patronus, partecipando al pagamento dei suoi debiti
ed obbligandosi per la costituzione della dote delle loro figlie, e dall’altro il patronus era vincolato verso di lui dalle regole etico-
giuridiche e religiose e perciò incorreva se lo avesse danneggiato ingiustamente.

Nel centro si sviluppa una sorta di realtà proto-urbana rendendo, quindi, Romolo non il fondatore della città da nulla, ma un
organizzatore, rifondatore di una città già organizzata amministrativamente. Ma come nasce una città? Le tre tribù con villaggi,
comunità stanziati lungo le rive del Tevere danno vita ad una comunità autonoma e, tra il IX e l’VIII secolo, iniziano a strutturarsi
nella microzona centrale, punta delle tre tribù, creando dei quartieri, agglomerati urbani chiamati curiae; inizialmente le curiae
erano tra i quattro ed i sette, chiamate veteres fino a raggiungere, con Romolo il numero di 30.

Questo equilibrio si rompe quando, soprattutto da nord ma anche da est e sud, i popoli vicini tentano di espandersi, in
particolare la città etrusca Meio, particolarmente forte, gettando le gentes in uno stato di impreparazione e caos permettendo
l’ascesa della figura di un uomo forte, Romolo il quale riprende in mano le sorti dell'area interessata da questi disordini e
mettendosi a capo di un gruppo armato va in aiuto al re di Albalonga con successo, successo che lo porterà a voler fondare,
lungo il Tevere, una piccola comunità autonoma sul colle palatino di cui si mette a capo con il desiderio di prendere la posizione
di prestigio da tempo occupata dalla città di Albalonga; (città capoluogo della federazione dei popoli che abitavano nel lazio)

Si costruisce, sul colle Palatino, un palazzo, una cittadella e si autoproclama re trovando l'opposizione di alcuni delle gentes locali
contro i quali, come i numerosi miti legati agli scontri testimoniano, si scontrerà con successo facendosi largo e conquistando il
potere con la forza. Per mantenere questa forza esegue una riorganizzazione della città come testimoniato da Cicerone e
Dionigi di Alicarnasso:
o Introduzione di una costituzione (constitutio);
o Circolo di consiglieri (capi delle gentes patrizie) - sorta di fase embrionale del senato;
o Riordina le curie: 30 (10 per ogni tribù) come il numero dei popoli albani dimostrando la volontà di Romolo di fare di Roma,
il successore di Albalonga e di trasferire il complesso di forza, cultura e potenza del Lazio nella sua cittadella proponendosi,
quindi, di trasformare il macro in un micro condensando in Roma la sfera culturale dell'intero Lazio;
o Trasforma le curie in unità militari, distretti di leva: forma un esercito di 3000 fanti (100 per ogni curia con a capo un
centurione, soldato subordinato al re) 300 cavalieri (10 per ogni curia);
il tribunus militum era a capo di ogni unità di 1000 fanti,
il tribunus celerum era a capo della cavalleria;
o I cittadini delle curie, in particolare i membri maschi adulti delle gentes dei quiriti, si riunivano e partecipavano a delle
assemblee collettive popolari, i comizi (pag 53), in alcune occasioni in un’area vicino al palazzo del re sul colle Palatino con il
compito di approvare le decisioni del re in ambito di diritto pubblico:
ü Nomina dei funzionari ausiliari del re;
ü Decisioni di guerra;
ü Sistema a vita di trasmissione della corona: alla morte del re ne subentrava un altro istituito su base non ereditaria in
quanto nel periodo tra la morte e la salita del nuovo re, uno dei membri anziani del consiglio, chiamato interrex, ne
proponeva al popolo l’investitura.
Interrex era uno dei membri piu anziani del consiglio.

L'espressione della volontà del popolo nel comizio viene indicata con il termine lex (legge) che assume, per quest’epoca (e per le
successive) una sfumatura di pronuncia normativa; quando aveva per oggetto l’investitura del potere veniva chiamata lex
imperium in quanto lex che attribuisce l’imperium
(ossia la disponibilità di potere pubblico ad alcuni individui). La lex imperium, circa 700 anni dopo, verrà riesumata da
Vespasiano per legittimare il proprio potere e per simboleggiare il proprio rapporto diretto tra popolo e re

➔ Attribuzioni relative alla sfera sacrale: contribuivano alla consacrazione di alcuni grandi sacerdoti.
➔ Competenze di diritto privato: era possibile, ancora nella tarda età repubblicana, che il padre di una famiglia diventasse figlio
del padre di un’altra famiglia sottoponendosi alla potestà paterna di questo (che potrebbe non avere dei successori e quindi
eredi) in modo tale da organizzare il futuro del proprio patrimonio; questa adozione prende il nome di adrogatio, ossia richiesta
supplementare, avanzata durante i comizi presieduti, in queste occasioni, dal pontefice massimo il cui compito era, innanzitutto
assicurarsi la ambivalente (adottante ed adottato) consapevolezza ed intenzione di portare avanti l’operazione e
successivamente chiedere il consenso al popolo nel momento in cui si trattava di un trasferimento patrimoniale importante.
➔ Approvazione della modalità di testamento, testamentum calatis Comitiis:
ossia la presentazione della volontà di disporre i propri beni, dopo la propria morte, a tutto il popolo il quale la raccoglieva e si
faceva garante della sua esecuzione.

Questa modalità di dichiarazione di legge, di pronuncia normativa veniva designata con il termine di lex curiata.
Si andava a costituire, dunque, un modello comportamentale unitario per le gentes che fino a quel momento avevano vissuto
sulla base delle proprie tradizioni. In tal senso, Romolo può essere inteso come un fondatore in quanto uniformatore omogeneo
della struttura della città e del suo modello di organizzazione giuridica.
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-lex comitialis: leggi approvate dal comitio, dal popolo
La collettività si regola secondo norme che non sono solo il frutto della volontà popolare espressa o col voto o con lo stesso
comportamento in concreto, ma che sono anche la derivazione delle intuizioni politiche e delle capacità gestionali di coloro che
sono stati posti all’apice della struttura politica che viene indicata con il termine res publica.

FONTI DEL DIRITTO CITTADINO:


1. Diritto proprio dei cives Romani, fondato per mezzo dei mores maiorum e delle leges comiziali, cioè pubbliche, che prende il nome di IUS CIVILE
2. Diritto costituito da quanto si è prodotto per esercitare in concreto la funzione che si ricopre e che prende il nome di IUS HONORARIUM, deriva da
honor, cioè dalla carica on concreto esercitata
3. Tutte le forme di relazione fra cives e peregrini (stranieri) che prende il nome di IUS GENTIUM, indica che tutte le genti che sono nel mondo
partecipano di uno stesso diritto in forma del quale si impone il rispetto reciproco e la fiducia che viene posta a base delle relazioni comuni

FORMAZIONE DEL DIRITTO ROMANO:


e’ possibile articolare la formazione del diritto romano in almeno 5 periodi:
1- Età della monarchia: dal regno di Romolo alla cacciata del settimo re Tarquinio il Superbo
2- Età della repubblica: dal primo consolato di Marco Giunio Bruto e Quinto Tarquinio del 509 a.c. al 27 gennaio a.c. quando Ottaviano rinunciò a tutti i
poteri straordinari e ricevette il titolo di Augusto
3- Età del principato: dall’età di Augusto alla sconfitta e morte dell’imperatore Carino
4- Età del dominato: dall’imperatore Diocleziano alla caduta dell’Impero Romano di occidente
5- Età bizantina: dall’imperatore di oriente Teodosio II sino alla morte di Giustiniano

REPUBBLICA E MAGISTRATURA
7/10/2021 lezione 2 ruva noemi

Nel 1546 vengono ritrovati, nella parte orientale del foro a Roma vicino alla zona del tempio di Oscuri, dei frammenti di tavole di
marmo in cui troviamo dei disegni fatti da un architetto dell’epoca (Pirro Ligorio) che mostrano il luogo e forniscono
un’illustrazione del monumento che al tempo ospitava le iscrizioni. I frammenti vengono poi raccolti e collocati in una sala del
palazzo conservatore (all’epoca restaurato sotto la supervisione di Michelangelo). Cosa contengono? due liste di nomi:
1. 30 frammenti di marmo, lista di nomi di magistrati e consoli (13 a c), per questo la lista è nota come FASTI CONSOLARI.
2. 26 frammenti, lista che porta nomi di comandanti di guerra che hanno trionfato, per questo chiamata de i FASTI
TRIONFALI (lista dei trionfi)

Per gli storici si trattava di un monumento dedicato ad Augusto (uomo molto forte) e nel momento in cui augusto emerge come
uomo di potere nell’Impero Romano e per questo si pensa di ricapitolare in augusto tutta la storia, tutto il potere messo ai suoi
piedi. Questo documento è un tipo di fonte (questo di natura epigrafica). Inoltre, come già detto queste liste offrono uno
spaccato di Roma dalle origini fino al principato. In questa doppia lista vi è una frattura nella prima fase di Roma: dal potere
monarchico alla fase repubblicana (non più re ma magistrati).
(p 39) FASE MONARCHICA viene trasmessa attraverso i 7 re di Roma: Romolo, Numa Pompilio, Tullo Ostillio, Anco Marcio,
Tarquino Prisco, Servio Tullio, Tarquino Superbo e si possono distinguere due fasi:
1. 753 anno fondazione Roma/ 509 monarchia caduta. Primi quattro re, dominio latino sabino
2. gli ultimi tre, dominio etrusco

DALLA MONARCHIA ALLA REPUBBLICA.


Dal 753 al 509 a.c secondo la cronologia di Varrone, avremmo avuto 244 anni di monarchia, cui sarebbe seguita la repubblica. La
dottrina discute se il passaggio sia avvenuto in modo violento e travolgente oppure con una lenta evoluzione. La tradizione
accoglie la prima ipotesi, presentando la fine dell’età monarchica come il successo degli oppositori del regime, parenti dei
Tarquini, capeggiati da Bruto. Ma ci sono anche fonti che dicono che sia stato un passaggio più graduale, segnato soprattutto
dalla guerra che avrebbe respinto indietro gli etruschi di Porsenna, il quale avrebbe tentato una calata verso nuovi territori a
sud. Nei fasti consolari (elenchi di magistrati che si trovavano nel foro romano e che furono collocati all’interno del palazzo dei
conservatori sul campidoglio) si trova che subito dopo la cacciata di Tarquinio superbo c’è stata una coppia consolare, sebbene
risulti anche l’esistenza di un pretore massimo, cioè di un comandante.

NOZZE MISTE (plebe)


conubium: alcuni patrizi sostenevano che era nefas, cioè contrario alle leggi divine, stringere nozze con i plebei, consentendo
cosi’ che il sangue di stirpi pure, si mescolasse a quello impuro (non conosce gli ascendenti da cui era nato).
Forma intermedia fra libertà e servitu veniva chiamata Clientela. I clienti (plebe) erano vincolati a determinate prestazioni di
lavoro e di ossequio nei confronti delle persone a cui farebbero riferimento chiamati patroni

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L’ORDINAMENTO CENTURIATO

L’attribuzione a un nuovo sistema assembleare si deve a Servio tulio à sistema che premia non più il ceto, ma il censo. Questi
comizi si chiamano comizi centuriati, sono un sistema di reclutamento dell’esercito e di ripartizione della popolazione a fini
fiscali e di votazione (modello creato da Tullio)
La popolazione viene divisa in centurie che sono nello stesso tempo unità militari (ordinamento oplitico falangitico), unità di
leva (reclutamento del personale che andrà a combattere), unità tributarie (poiché le tasse vengono riscosse sulla ripartizione
delle centurie), unità di voto. Nella tradizione (come forse scrive Servio Tullio) le centurie di fanteria (a piedi) sono divise in 5
classi di censo con un tot di 170 centurie:
o 80 centurie della prima classe di censo che accoglie le classi più abbienti
o 20 nella seconda, terza, quarta
o 30 nella quinta.

Le centurie erano ripartite per età: i più giovani, iuniores destinati a combattere nelle campagne, seniores combattevano nelle
città. Si determinava anche l’armamento per appartenenza di censo (ognuno si doveva comprare le armi da solo): più ricca la
prima classe con armamento in bronzo, l’ultima classe con fionde. Al di sotto di queste 5 classi vi erano altre 4 centurie destinate
ai servizi ausiliari dell’esercito: 2 di falegnami e fabbri servivano per predisporre le macchine da guerra o fabbricare gli strumenti
per le battaglie (ai fini del voto venivano aggregati alla 1 o 2 classe) e altre due classi di suonatori di corno o tuba (aggregati alla 4
o 5 classe).
Mentre al di sopra di tutte le centurie vi era una classe ancora più facoltosa che dava vita a 18 centurie di cavalieri, non solo
avevano le armi migliori dell’esercito ma possedevano anche i cavalli che venivano comprati dallo stato come riconoscimento
personale. Se un cittadino aveva un censo pari a quello equestre ma non veniva insignito del cavallo pubblico veniva iscritto alla
1 classe di fanteria, poteva comprare a sue spese un cavallo e porsi come “riservista” dell’esercito. Infine, al di sotto dell’ultima
classe (al di sotto della classe di ausiliari) vi era la centuria formata dai cittadini che non raggiungevano la soglia minima di
reddito per essere iscritti alle altre classi e per questo venivano censiti in base al loro caput (testa), come singole persone e non
per il proprio patrimonio: CAPITE CENSI che erano esclusi da tutto.
In tutto vi erano 193 centurie che in un primo momento erano inquadrati dal re (al tempo Servio Tullio, ai suoi successori e ai
consoli successivamente grazie alla magistratura dei censori). Loro facevano un censimento ai fini di inquadrare la popolazione.
Questa era un’operazione molto delicata per peso politico dei cittadini. Questo perché da ogni centuria l’esercito prelevava un
numero uguale di soldati: i cittadini della 1 classe contenevano meno persone e per questo era più facile venissero reclutati a
combattere, e lo stesso era per la riscossione dei tributi: si chiedeva una stessa somma per ogni classe indipendentemente dal
numero di persone che la componevano, per questo le persone della prima classe (composta da meno persone) dovevano
pagare di più ciascuno. Ovviamente a uno sforzo fiscale e militare maggiore corrispondeva un maggior peso politico, per cui
nelle centurie meno affollate il voto dei singoli valeva di più. Inoltre, il voto non era simultaneo ma successivo e i risultati erano
detti subito.
La prima chiamata (prerogativa) era destinata a una centuria della prima classe e una classe abbiente che esprime subito il
proprio voto influenzava molto gli altri: veniva favorita grandemente la ricchezza. L’insieme di questa struttura dà vita a un
regime timocratico (potere alla ricchezza), a cui si affiancava un carattere gerontocratico, dove il potere e la forza risiedevano
nei più anziani poiché erano meno (età compresa tra i 46/60). Sicuramente tutto ciò ebbe grande impatto o comunque influì
molto sulla caduta della monarchia.
REAZIONE PATRIZI: inizio 5 sec il potere viene riassunto dai patrizi e rovesciano la monarchia, impongono un sistema dove il
governo è tenuto anno dopo anno (cosicché il potere non crescesse solo nelle mani di una persona) da magistrati (una coppia):
figure dei consoli, che prendono il posto dei re.

LE MAGISTRATURE

P48 Come già li aveva il re, i consoli hanno la suprema potestas e l’imperium: comandano cioè sui cittadini in città e sul campo di
battaglia alla testa degli armati, apparentemente senza alcun limite. Tuttavia, poiché è proprio l’assenza di limiti era stata la
ragione delle critiche sempre più intense al potere monarchico, divenuto tirannico, l’Imperium consolare fu temperato con
alcuni rimedi di importanza fondamentale, e cioè: la collegialità, la temporaneità e la responsabilità.
1. La collegialità sta ad indicare che la stessa carica ricoperta da più persone che hanno ciascuna la pienezza del potere
conferito a quella carica, ma che tuttavia non sono soli ad agire, perché hanno colleghi con i quali si devono
confrontare. Tra i due colleghi consoli c’è intercessio, cioè un potere di veto reciproco. E ciò potrebbe anche portare ad

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una situazione di paralisi gestionale. Tale difetto era stato previsto ma evidentemente all’indomani della cacciata dei
Tarquini si era preferito ricorrere ad un rimedio che ovviasse al problema, pur di non lasciare ancora nelle mani di uno
solo la pienezza di un potere che era stato travolgente per gli interessi dell’intera collettività. Consul, infatti, è colui che
si consulta: questo dovere di consultarsi è riferito tanto al collega quanto agli altri rgani costituzionali, tra i quali
specialmente l’assemblea degli anziani, cioè il Senato.
2. La temporaneità indica che, contrariamente aire che duravano in carica fino a quando non fossero morti, i consoli,
come in genere anche gli altri magistrati, durano in carica un solo anno.
3. L’elettività segna l’emersione della figura di chi deve ricoprire la carica dalla scelta popolare, attuata mediante il voto. I
consoli sono eletti dall’assemblea del popolo diviso per centuria (comitium centurium)
4. Responsabilità significa che, alla fine dell’anno di carica, il console può essere giudicato per quanto di danno si asserisce
che la res publica abbia subito a cagione del superato. La novità rispetto all’irresponsabilità del re e dirompente: qui si
vede infatti che, mentre il re gestisce un complesso di uomini e beni come se fossero entità sue, alle quali cioè non deve
rispondere, i consoli governano i cittadini che gli hanno conferito quel potere e che quindi gli possono chiedere il conto
della gestione del complesso giuridico patrimoniale di uomini e beni di cui è stato per un anno responsabile.

Opposizione tra le classi, produce nei confronti della coppia consolare anche altri limiti: la provocatio ad populum, quando hanno irrogato sanzioni coercitive e il
tribuno della plebe chiede quindi che si faccia una verifica davanti all’assemblea popolare della fondatezza dell’accusa e del provvedimento adottati; e
l’intercessio tribunicia, in forza della quale il tribuno, opponendo il suo veto, cerca di indirizzare l’azione di governo.
P50 Tuttavia, il consolato impiega un certo tempo a strutturare un apparato amministrativo sempre più funzionale al
progressivo sviluppo della società cittadina, e perciò per i primi tempi i due consoli, pur soggetti alle limitazioni, rimangono
depositari di prerogative che già erano state del re. Conservano la iurisdictio ed amministrano la giustizia, esercitano tutte le
funzioni amministrative che sono necessarie per la gestione di una città che aumenta di giorno in giorno sia i propri abitanti, il
proprio territorio; hanno poteri di polizia per il mantenimento dell’ordine pubblico; organizzano la riscossione dei tributi e
discutono col senato i mezzi di prelievo della risorsa fiscale; allestiscono in conseguenza finanze pubbliche, ed esercitano la leva,
la spesa ed il comando militare supremo.
Si sentì presto il bisogno di riorganizzare la città e per questo acquistano sempre più visibilità alcune figure di contorno dei
consoli. Infatti, nascono figure come i censori o i questori per le stesse ragioni che avevano portato il re a servirsi di ausiliari.
o Il censimento della popolazione, l’imputazione della residenza in ciascuna unità territoriale e la determinazione della
consistenza delle famiglie e dei cespiti patrimoniali (per determinare la classe censitaria di appartenenza) verso la metà
del 5 sec viene affidata ai censori, a cui fu anche attribuito il compito di valutare la moralità del comportamento del
cittadino nell’assolvimento dei doveri pubblici.
o I questori, già esistenti, acquistarono autonomia nei compiti di amministrazione del denaro pubblico
Viene recuperata l’aristocrazia per ceto, non solo i consoli sono aristocratici ma anche altre figure come i magistrati (magisterare:
guidare, magister erano gli istruttori di arti, della società, dei villaggi ecc, si pensava che i buoni leader fossero dotati di un certo equilibrio, moderazione). Non più il
sovrano che fa di testa propria ma un uomo in grado di moderazione. Imperium:
potere dei comandanti militari e potere pubblico attribuito ad
alcuni soggetti per esercitare legittimamente la forza, potere attribuito ai MAGISTRATI (prima affidato solo ai consoli).
Tratti comuni tra i magistrati:
o Cariche onorifiche (cariche gratuite, non retribuite)
o Cariche che si legano a un’estrazione sociale elevata, serviva aver prestato almeno 10 anni di servizio come cavalieri
o Cariche elettive, consoli, pretori e censori dovevano essere eletti dai comizi
o Cariche collegiali, composte da una pluralità di persone (eccezione fatta per le dittature straordinarie)
o Cariche temporanee, nella maggior parte dei casi 1 anno (i pretori sono eletti 1 volta ogni 5 anni ma durano in carica 18
mesi) e lo stesso dittatore (magister equituum) rimane in carica non più di 6 mesi

LA PLEBE E I SUOI RAPPRESENTANTI

P43 Le fonti antiche attribuiscono a Romolo la divisione degli abitanti in patrizi, cui è riservato il governo, e plebei a cui sono
riservate le attività materiali. E sebbene siano tutti i cittadini liberi, essi non godono in modo uguale delle prerogative della
cittadinanza. Per questo il ruolo marginale è destinato alla classe più povera: la plebe. L’esplosione delle contraddizioni implicite
provoca nello stesso tempo l’evoluzione del sistema politico-costituzionale e di quello dei diritti privati, avviene così una
progressiva rivolta della plebe contro i patrizi. Durante il 5 secolo viene istituito il tribuno della plebe, la repubblica si sta
riorganizzando intorno alle magistrature e all’aristocrazia. Non solo i patrizi occupavano le cariche maggiori ma Roma si stava
espandendo, i territori conquistati vengono presi dallo stato e vengono assegnati come premio ad alcune persone (ager
publicus). P47 La diatriba sulle terre e sui modi di utilizzazione sorge quando ci si avvede che quella che doveva essere terra

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comune, occupabile da parte di tutti, era invece solo appannaggio di coloro che avevano beni da mettervi a frutto ed armenti da
farvi pascolare. E perciò parte del dissidio ben presto si incentra sulla richiesta di distribuzione dell’ager alla popolazione povera,
perché ne tragga lavoro e sostentamento.
Le terre vengono assegnate dai comizi e ovviamente vengono favorite le classi abbienti: la plebe si trova emarginata da tutto
ancora una volta (sia politicamente ma anche economicamente). In più la plebe doveva far fronte all’impegno militare pur non
avendo molto con cui vivere: vivevano con piccoli appezzamenti di terreno o facendo debiti. La plebe poteva acquisire denaro
dalle classi più abbienti e la garanzia era se stessi: vi erano negozi di asservimento volontario chiamati nexum: negozio in cui il
debitore metteva sé stesso come garanzia del proprio debito, in questo modo ci si asserviva. Inoltre, era possibile vendere non
solo se stessi ma anche i propri figli attraverso il MANCIPATIO, il potere di colui che acquistava era chiamato mancipium.
L’asservimento non era sempre volontario: se vi erano debiti e nessuno interveniva come garante, il giudice poteva applicare
l’ADDITIO, vendere il debitore. La plebe era quindi costretta ad asservirsi e mai ad emanciparsi: la rivoluzione sta nel loro
allontanamento di massa dalla città formando un vero e proprio esercito, si ritirano sul mons sacer ovvero l’Aventino: evento
chiamato la SECESSIONE DELLA PLEBE. Questa rivolta era un grande problema poiché sia forza-lavoro che militare erano in
“sciopero”. La plebe manifesta contro i patrizi che dovevano:
1. liberare i debitori asserviti ai creditori
2. la città patrizia doveva riconoscere i rappresentanti plebei.
P45 La tradizione attribuisce il merito della riappacificazione tra patrizi e plebei a Menenio Agrippa (patrizio ben voluto dai
plebei), il quale fa da mediatore con il noto apologo sulle membra lavoratrici in lotta con il ventre. Ma è proprio il ritorno a roma
che porta le due componenti a rafforzarsi ed a fare sì che dall’opposizione delle istituzioni politiche dell’una e dell’altra
scaturisca, in circa un secolo e mezzo, la forma costituzionale patrizio plebea che costruirà l’impero e la sua grandezza
economica. Si trova un accordo (FOEDUS): elezione dei capi della plebe chiamati tribuni, erano soggetti con molto potere poiché
potevano bloccare l’iniziativa di altri magistrati se queste iniziative andavano contro la plebe, potere di intercessio. La
secessione mette in evidenza che anche tra la plebe si sono strutturate istituzioni politiche, quali la sua assemblea chiamata
Concilium plebis dove la plebe prendeva decisioni: plebi-scitum.

Gli organi costituzionali P46 Alla coppia consolare dei patrizi, i plebei oppongono il tribuno che hanno dichiarato inviolabile,
comminando la pena della sacertà (sacertas) a chi osi recargli offesa. La sacertas consiste nella consacrazione del reo agli dei
degli inferi, e comporta che l’homo sacer possa essere impunemente ucciso da chiunque, non avendo egli altra aspettativa nella
vita che quella di andare negli inferi. Dunque, tutelato contro le ritorsioni patrizie, il tribuno esercita lo ius auxilii, cioè porta al
cittadino dapprima plebeo e poi al cittadino senza distinzione di classe, quanto aiuto gli serve contro le misure che il magistrato
patrizio abbia preso contro di lui. Allo stesso modo esercita la intercessio, cioè il veto contro la delibera del magistrato patrizio
che leda gli interessi della plebe, e poi col tempo, anche la coercitio, cioè la possibilità di irrogare sanzioni ai magistrati. Non c’è
dubbio, perciò, che il punto centrale dell’opposizione patrizio-plebea sia la partecipazione o meno alle cariche politiche e
soprattutto al consolato.

LE XII TAVOLE
12/10/2021 lezione 3 ruva noemi

La tradizione narra che verso la metà del V secolo (alla fine del sesto e all’inizio del quinto secolo a.C. abbiamo collocato quella transizione dalla fase
monarchica alla fase repubblicana), quindi negli anni intorno al 450 a.C., un collegio, cioè un gruppo istituzionale nominato di 10
magistrati patrizi (‘decemviri’ in latino) è stato nominato appositamente per la scrittura di leges. La tradizione riporta la nomina
di 10 magistrati straordinari ‘decemviri legibus scribundis’, che ebbe l’incarico di codificare le norme che fino a quel momento
erano state tramandate oralmente (codificare: metterle per iscritto e fissarle). Stiamo parlando di quel ‘mos maiorum’, di quelle
consuetudini vincolanti di cui abbiamo parlato nelle scorse lezioni e che erano un po’ il paramento di riferimento dei
comportamenti delle gentes originarie e anche di quelle norme sacrali che erano parametrate con la sfera del divino e familiare.
Immaginare la fase precedente alla creazione di Roma come un vuoto normativo non è corretto, è più corretto immaginarla
come una fase di “troppo pieno” perché c’erano troppi livelli normativi che si sovrapponevano.

Tutti questi livelli, in qualche modo, confluiscono adesso in una attività di legislazione, cioè di scrittura, messa per iscritto delle
norme. Da un lato si trattava di mettere ordine in queste norme di comportamento tradizionali, poiché questo deposito era
conservato nella memoria delle famiglie patrizie (i ‘quiriti) e dall’altra parte di rendere fisse, pubbliche e certe queste norme,
proprio perché il deposito di conoscenza che era nelle mani delle gentes originarie potesse venire trasmesso invece a tutti i
cittadini. Questo collegio dei decemviri, secondo la tradizione, svolse la sua opera nel corso dell’anno 451 a.C. e produsse dieci
tavole di leggi. P57 Riscontrate però delle lacune, l’anno successivo furono nominati altri legislatori, cinque membri plebei e
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cinque membri patrizi, che composero due ulteriori tavole di leggi. Il frutto complessivo di questi due anni di codificazione (451-
450 a.c.) sono XII tavole di bronzo che formarono ‘La legge delle XII tavole di Bronzo’. Proprio alla luce dell’esigenza di rendere
conoscibile il diritto, queste tavole, l’anno successivo nel 449 a.c. sarebbero state fatte incidere su delle tavole di bronzo ed
esposte al popolo nel foro affinchè ogni cittadino le conoscesse.

In queste dodici tavole troviamo un po’ il nucleo del diritto romano, in particolare del diritto privato ma non solo, diritto
processuale (delle origini e in parte anche norme sugli illeciti). Un nucleo che verrà conservato e custodito gelosamente per
tutta la storia di Roma, quindi nel corso dei secoli si tenderà a conservare e in qualche modo anche a venerare, quelle dodici
tavole di leggi, sempre considerate avvertite come il punto di fondazione del diritto in città.

P57 Il
contenuto delle 12 tavole ci è noto attraverso quello che può essere ricostruito da citazioni di scrittori, giuristi e non, di età
molto più tarda. É stato osservato che addirittura queste dodici tavole servivano un po’ anche all’educazione dei giovani cittadini
romani, al punto che qualcuno ha detto che costituivano la grammatica nazionale come per i Greci era Omero, per i Romani
erano le dodici tavole. Proprio questo attaccamento alla venerazione per la legislazione delle origini, il fatto che ne si
tramandasse la memoria al fine di custodirla, è il motivo per cui noi conosciamo in parte il contenuto delle dodici tavole. Pare,
sempre secondo delle notizie che ci vengono già dall’antichità, che le tavole stesse siano andate in realtà distrutte durante il
saccheggio di Roma da parte dei Galli nel 390 a.C. ed è per questo che noi non possediamo un’epigrafe, un testo originale, per
così dire, delle dodici tavole. Conosciamo però dei frammenti che sono stati ripetuti alla lettera, memorizzati e quindi trascritti
nelle opere di scrittori (giuristi e non) dell’antichità, oppure delle notizie che -sempre gli autori antichi- ci danno in via indiretta;
quindi, magari non citano il testo della legge ma ne ricordano il contenuto, il tema oppure in modo più o meno ampio i confini
della norma che era riportata.

Siccome alcune di queste notizie non si limitano a dire che nelle dodici tavole c’era una norma che parlava della tal cosa, ma
riportano anche il luogo in cui era contenuta, dicono quindi ‘nella tavola quinta oppure terza’ (in parte servendosi di queste
informazioni e in parte ricostruendole sulla base di congetture) gli studiosi moderni hanno provato a ricostruire il sistema delle
dodici tavole (operazione di ‘palingenesi’, ricostruire la forma originaria del testo). Non abbiamo quindi il testo originario, ma le
fonti antiche ci permettono di provare a ricostruire e immaginare il contenuto delle tavole.

La tradizione relativa alla formazione delle dodici tavole in realtà -come sempre in questo periodo- non è lineare, né priva di
contraddizioni. Oggi si tende a dire che probabilmente un decemvirato è veramente esistito in un dato momento storico e si
ritiene che sia stata una delle tappe che ha portato a colmare la distanza sociale tra le aristocrazie patrizie e le nuove classi
plebee. In realtà un’operazione che è stata compiuta e che è molto ragionevole, non è tanto provare a cercare nel panorama
storico di questo periodo (V secolo a.C.) delle notizie sulle dodici tavole, ma provare a fare l’inverso. Cioè provare a utilizzare le
dodici tavole per vedere che tipo di società c’era nel V secolo a.C. ed è quello che facciamo ancora oggi tramite i testi che, in
parte ci sono stati trasmessi dalle notizie che gli autori antichi ci hanno tramandato e proviamo a far emergere la società di
quell’epoca.

UNA FAMIGLIA A MISURA DI AZIENDA AGRICOLA AUTARCHICA

Che immagine della società ci danno le 12 tavole?

Queste leggi organizzano le relazioni familiari e infatti l’immagine più evidente che restituiscono è quella della famiglia romana
delle origini. Noi leggendo questi testi possiamo immaginare com’era costituita la famiglia romana delle origini. Una famiglia che
è inserita a sua volta all’interno di una società essenzialmente a base agricola, contadina, ma già dedita agli scambi commerciali.
Si trattava di una famiglia che è stata definita da un celebre storico ‘patriarcale, patrilocale e patrilineare’, e che in qualche
modo è installata in un tipo di società a base agricola, ma in cui l’unità fondamentale va aldilà delle dimensioni. É un tipo di azienda agricola
autarchica, auto gestita e di piccole dimensioni, in cui noi ritroviamo uno spazio recintato (“ortus”) che comprende un lotto di
terra ereditato dai propri antenati (“heredium”), poi si aggiungevano degli animali e degli schiavi. Vediamo quindi la famiglia
come un’unità che gestisce una produzione agricola. Dobbiamo immaginarci delle fattorie antiche con degli spazi di coltivazione,
dei recinti ecc.. non molto diverse da quelle che possiamo ancora vedere nelle nostre terre o dai nostri viaggi nel centro Italia.

In questo spazio agricolo solo il padre di famiglia (“pater familias”) è un soggetto di diritto, è l’unico all’interno della famiglia che
ha un patrimonio, può istituire un erede e può prendere parte a un processo. É quindi il centro di imputazione di tutte le
relazioni giuridiche della famiglia. Il pater familias è il vertice della famiglia ed è l’unico che risponde dal punto di vista del
diritto e di ciò che accade all’interno della stessa. Il figlio di famiglia (‘filius familias’) non ha capacità giuridica (capacità di essere

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titolare di diritti e di doveri) ma, se è maschio gode di diritti politici. Ne risulta una situazione -per certi versi- paradossale
perché se questo figlio di famiglia che godeva solo dei diritti politici faceva carriera militare o politica e veniva posto a comando
di un esercito, paradossalmente poteva comandare i suoi sottoposti ma doveva rispondere al proprio pater. Non veniva mai
meno questo legame forte con il padre di famiglia. Questo principio per cui il potere di diritto privato è nelle mani del padre è
stato chiamato “principio patriarcale”, il padre ha nelle mani il destino giuridico della sua famiglia e del relativo patrimonio.

Il padre può però avere una moglie. Il matrimonio a Roma ha una sfumatura un po’ diversa da quella che noi oggi siamo abituati
a prendere in considerazione, e richiede in qualche modo di dissociare degli elementi. Il matrimonio in quanto tale viene
configurato e costituito sulla base di una “affexio maritalis” cioè di una volontà e predisposizione a vivere come marito e moglie.
La sfera del matrimonio come tale non incide direttamente sui rapporti patrimoniali, ma questo matrimonio può essere
accompagnato o meno da un’uscita della moglie dalla famiglia di origine (sottrazione dal legame che la unisce al suo pater
familias e un ingresso della donna nella nuova famiglia del marito). Questo acquisto di un potere del diritto familiare sulla moglie
sposata si chiama “manus” ed è la potestà sulla donna. Il matrimonio può essere accompagnato o meno dall’acquisto della
manus e quindi la moglie può essere oppure no “in manu”, cioè sotto la potestà del marito se è pater familias o del pater
familias del marito.

La manus si acquista in tre modi:

o Una cerimonia formale che ha una sfumatura sacrale e si chiama “confarreatio” che consiste nello spezzare un pane di
farro con un valore simbolico-sacrale, p91 avveniva di fronte a 10 testimoni e al flamen dialis (sacerdote di giove); Giove
è evocato nella veste di farreo, cioè di protettore delle messi
o C’è poi una forma di acquisto negoziale della moglie, che coincide con un uso particolare della “mancipatio” ed è una
forma di acquisto che si chiama “coemptio” (emptio che è l’acquisto da compravendita, quindi coemptio è l’acquisto
negoziale della potestà sulla donna)
o La terza forma consiste nell’usus, cioè trascorrere con la moglie un anno intero di convivenza. Proprio le dodici tavole
(lo sappiamo da Gaio) prevedevano che si potesse interrompere l’anno di convivenza allontanandosi da casa per tre
notti prima dello scadere dell’anno.

In realtà il termine “manus” ha un significato più ampio, che si lega alla stessa “mancipatio” e a “mancipium”, che sono parole di
origine latina che indicano l’afferrare con la propria forza fisica (“manu capere“) qualcosa. La donna entra nella famiglia del
marito e assume la posizione di una figlia rispetto a lui e viene considerata alla pari dei figli del marito, quindi eventualmente
sorella dei propri stessi figli. Anche in questa collocazione della donna, il pater è il punto di riferimento della famiglia, quindi
dobbiamo considerare la posizione del padre per trovare quella della moglie (che viene considerata una sua figlia). Parliamo di
principio patrilocale. Il tema della composizione della famiglia e dei rapporti tra il padre e gli altri soggetti della famiglia sembra
essere affrontato con particolare diligenza nelle dodici tavole. Alla morte del pater familias, infatti, la famiglia per legge si
dissolve in tanti nuovi nuclei familiari quanti sono i discendenti immediati del defunto (“sui eredes”), compresa anche la moglie.
Tutti coloro che sono immediatamente soggetti alla potestà del pater familias, quindi i figli, i nipoti (se i figli sono morti), la
moglie (in quanto figlia) diventano “sui iuris”, cioè danno vita in qualche modo a dei nuovi nuclei familiari.

UNA FAMIGLIA PATRIARCALE, PATRILOCALE, PATRILINEARE

Nelle dodici tavole ci sono tre norme, tre versetti della V tavola che racchiudono di fatto tutto il nucleo della disciplina delle
successioni ereditarie secondo il diritto civile, che verrà alterata pochissimo nel corso dei secoli.

1. La prima norma di questa terna recita di come il testatore ha la possibilità di redigere un testamento e di disporre
attraverso quest’ultimo delle proprie sostanze per ciò che accadrà dopo la sua morte
2. Se non lo redige il suo patrimonio verrà dato all’agnato più vicino. Quindi la priorità è dell’immediato discendente, ma
nel caso manchi si fa riferimento all’agnato prossimo.
3. Nel caso in cui dovesse mancare anche questa figura allora il patrimonio viene destinato ai membri della gens: il suo
patrimonio andrà ai gentili.
o SUI HEREDES: persone che erano sottoposte alla potestà di un pater familias, che a seguito della morte di quest’ultimo
passavano dalla condizione di alieni iuris (la condizione giuridica in cui si trovavano le persone libere soggette alla
potestà del pater familias) a quella di sui iuris (espressione del diritto romano riferita a chi, non essendo soggetto alla
patria potestà di altra persona, gode i pieni diritti civili come cittadino.)
o ADGNATUS PROXIMUS: il più vicino tra i collaterali agnati: fratelli e sorelle (compresa la madre in manu), zio e nipote. È
un erede volontario, cioè deve accettare.
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Quindi in sintesi il pater familias fa un testamento e la legge impone di custodire le volontà del defunto contenute nel
testamento. Se però il pater familias non ha fatto il testamento interviene la legge stessa a disciplinare il destino del patrimonio
del defunto. Quest’ultimo è destinato in primo luogo agli immediati discendenti (sui eredes), ma se mancano, subentra una
seconda figura che è quella dell’agnato prossimo. Le dodici tavole danno la possibilità di mantenere il patrimonio in società tra
gli eredi per lo sfruttamento e la gestione dello stesso (“consortium ercto non cito”, una gestione comune del patrimonio che
deriva dall’assenza di frazionamento dello stesso patrimonio).

La legge parla di agnati, che sono i parenti in linea maschile (agnatio: parentela civile, non di sangue) e vengono stabiliti in base
al grado di potestà con il pater familias. I sui eredes sono i discendenti più prossimi, mentre gli agnati sono tutti coloro che
sarebbero stati sotto la potestà di un unico pater se costui fosse ancora in vita. L’agnato prossimo è la figura più vicina di grado
al defunto, la parentela civile viene determinata sulla base dei rapporti di potestà che abbiamo detto, ma non tutti i parenti
legati sotto questo profilo hanno lo stesso grado di parentela. Più sono vicini al defunto, più il loro grado è prossimo e ristretto. I
gradi si contano in base alle generazioni se la parentela è in linea retta, mentre se andiamo in linea collaterale si fa lo stesso
procedimento fino al capo stipite comune e si scende di nuovo la scala fino alla persona che stiamo considerando e si elimina il
capostipite.

L’agnato prossimo ha anche un secondo incarico: quello di prendersi cure delle donne della famiglia. Alla morte del capo
famiglia i figli maschi erano tendenzialmente autonomi, a meno che non fossero impuberi (minorenni), caso in cui dovevano
essere affiancati da una figura che li accompagnasse e facesse le veci del padre fino alla maggiore età (tutore). La donna invece
se non era soggetta alla potestas del marito o se non era rimasta sotto la potestà del proprio padre era sempre soggetta a
tutela; quindi, o è sotto la potestà del marito (o del proprio padre) o ha bisogno di un tutore anche se è adulta. Tutta la vita
rimane soggetta alla tutela di un’altra persona, che è l’agnato prossimo (adgnatus proximus). Per questo si intende famiglia
patrilineare, tutte le linee di parentela convergono verso il pater familias. Le dodici tavole sono una fotografia di una società in
cui il potere politico non è ancora del tutto scisso dal potere familiare, anzi è molto connivente con esso. Il potere del pater
all’interno della famiglia è molto grande. Del resto, la conservazione dell’impianto sociale più antico si può riconoscere anche da
altre tracce fuori dalla sfera dei rapporti familiari, per esempio Cicerone testimonia che le leggi delle dodici tavole non
permettevano il matrimonio tra patrizi e plebei. Matrimonio che invece fu la rivendicazione della plebe e che venne
effettivamente introdotta con un plebiscito di qualche anno dopo (445 a.c.). Nel lessico delle dodici tavole ci sono tracce di una
disparità sociale tra gli individui. Non è solo una società concentrata molto sulla famiglia e sul ruolo del pater familias, ma è
anche una società ineguale, dove gli individui non sono tutti posti sullo stesso piano (dal punto di vista sociale).

LEGGE, SOCIETÀ, DIRITTO

Nella prima tavola si fa riferimento alla possibilità che nel corso di un processo il debitore non paghi. Quindi il debitore viene
convocato dal creditore a giudizio, viene riconosciuto il suo debito e lo si condanna. Però il debitore continua a non pagare, c’è
allora la possibilità che un terzo intervenga in qualche modo in suo soccorso, questo terzo si chiamava “vindex”. Una norma
nella prima tavola dice che a fare da vindex (garante) può essere un “assidus” se il debitore è anche lui un assidus, mentre
invece può essere chiunque se il debitore è un proletarius. Assidus (colui che ha patrimonio) sembra voler dire proprietario di
una terra, che ha dei possedimenti stabili e di proprietà e proletarius sarebbe una trasformazione attraverso un’inversione di
lettere (metatesi) da “protelarius”, migrante, chi non ha una dimora fissa e migra in cerca di fortuna. In questa contrapposizione
riconosciamo la traccia di una società dove convivono proprietari terrieri e persone che non hanno proprietà dalla loro. Inoltre,
la legge discrimina tra i due soggetti perché prescrive che a fare da garante per l’una e per l’altra figura siano soggetti con delle
caratteristiche diverse.

Non è una società in cui convivono solo abbienti e meno abbienti, ma anzi è vivo il rapporto di patronato (che era lo stesso
rapporto delle origini). Un rapporto di disparità esisteva anche nelle relazioni tra debitore e creditore, perché era un rapporto di
sottomissione. Nella terza tavola troviamo un panorama suggestivo a questo proposito e questo ci fa pensare che il problema
non era stato risolto con la Secessione dell’Avventino, ma che anzi, cinquant’ anni dopo è ancora codificato nella norma e nelle
leggi scritte. Se un debitore fosse stato citato in giudizio, ovviamente avrebbe avuto la possibilità di dimostrare che il debito non
esistesse o di averlo estinto, oppure poteva confessare in giudizio di non essere in grado di pagarlo pur senza confessare poteva
essere condannato dal giudice. Nel caso in cui avesse confessato in giudizio o fosse stato condannato aveva trenta giorni a
disposizione per potere pagare, dopo questo periodo il creditore poteva riportarlo in giudizio e dare avvio a un secondo
processo che questa volta aveva una natura esecutiva, cioè c’è una fase del processo che si chiama dichiarativa (serve ad
accertare le posizioni delle parti) e poi a questa fase può fare seguito una fase esecutiva, perché se il condannato insiste nel
mantenere la propria posizione in qualche modo serve costringerlo ad eseguire quello che è stato deciso nel primo processo.
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In questa fase esecutiva, che nel processo romano più antico si chiamava “legis atio per manus inietiones“, si poteva dare vita a
una nuova condanna del debitore che aveva delle conseguenze per il debitore stesso: il creditore, qualora vedesse riconosciuta
la propria pretesa dal giudice in questo secondo processo, poteva trascinare il debitore a casa sua e tenerlo in catene per
sessanta giorni. Il debitore doveva essere nutrito con una libra di farro al giorno e durante questo periodo il creditore era tenuto
a portare il debitore per tre giorni consecutivi al mercato e cercare qualcuno che volesse riscattarlo (soggezione del debitore al
creditore). Se nessuno lo avesse riscattato il creditore avrebbe potuto:

o Vendere il debitore oltre il Tevere come schiavo.


o Ucciderlo (schiavitù per debiti).
o Le dodici tavole pare menzionino anche la possibilità (nel caso in cui ci fossero stati più creditori) di smembrare il corpo
del debitore e tagliarlo in pezzetti e distribuire questi ultimi tra gli altri creditori. Questa forma di durezza la ritroviamo
nella disciplina dei delitti e dei crimini, cioè degli atti illeciti che in qualche modo ci restituisce l’immagine di una società
dove il potere politico interviene lasciando molta libertà al privato cittadino (pater, patrono, creditore).

Per quanto riguarda i crimini e gli atti illeciti era lasciato molto spazio alla vendetta dell’offeso.

o Nel caso delle lesioni più gravi, che comprendono una menomazione fisica (“membrum ruptum”) era possibile rispondere
all’offesa con un male analogo, cioè applicare la Legge del Taglione (riguarda la lesione personale più grave). Il Taglione
viene applicato se non si viene a patti con l’offeso, quindi c’è una condizione.
o Se invece la lesione non è permanente (ad esempio la rottura di un osso che però si ricalcifica nel tempo) ma in qualche
modo è destinata a guarire, le leggi aboliscono il Taglione e lo sostituiscono con una pena particolarmente pesante (300 assi
se la lesione riguarda un uomo libero, 150 se riguarda un servo).
o Se invece la violenza è ancora più lieve e non dà nemmeno vita a una menomazione la pena scende ulteriormente (25 assi).

La pena privata era ammessa nel caso di delitto con tracce evidenti sul corpo dell’offeso (il ladro stesso si difendeva a mano
armata) o di delitto manifestus (flagrante): il danneggiato, chiamati i vicini a constatare, poteva impunemente (senza paura di
incorrere in una pena) uccidere il ladro, si considerava flagrante il ladro colto nell’atto di rubare o a cui veniva trovata la refurtiva
in casa. Ovvero, nel caso in cui la refurtiva venisse trovata in un secondo momento a casa del ladro a seguito di una
perquisizione formale di tipo rituale (“questio lance licioque”), che era una procedura oscura che doveva essere svolta seminudi
con un telo o un perizoma e un piatto di bronzo in mano. Se il ladro è una persona libera può essere attribuito al derubato, se
invece il ladro è uno schiavo viene fustigato e ucciso (fatto cadere dalla rupe tarpea). Anche in questo caso è fatta salva la
possibilità di venire ad un accordo amichevole tra le parti.

Alcune infrazioni -che si pensava attirassero la collera degli dei- venivano represse con un simbolismo che apparteneva alla sfera
divina, cioè con dei gesti di espiazione (vediamo una matrice primitiva, vi è una sorta di contrappasso: la punizione ricordava il
crimine commesso). In altri casi l’illecito religioso aveva come conseguenza la sacertà, sacer era colui che minava all’incolumità
dei tribuni della plebe. Veniva dichiarato homo sacer colui che infrangeva l’armonia cosmica ed era soggetto alla vendetta degli
stessi dei. Quindi nessuno gli infliggeva punizioni su presupposto che gli dei tanto sarebbero comunque intervenuti ma per
contro ogni cittadino poteva impunemente ucciderlo.

GIURISTI E IUS CIVILE

Lezione 4 13/10/2021 ruva noemi

Nella fase repubblicana l’attività dei giuristi si svolgeva su un piano dell’accumulo di operazioni e di nozioni, ed è il punto critico che una figura di intellettuale della Roma
Repubblicana rivolge ai suoi colleghi giuristi. Proviamo a guardare alla Giurisprudenza repubblicana con gli occhi di Cicerone.

Ciò che noi sappiamo del diritto romano più antico (dall’età Regia fino alla fine di quella repubblicana) è in gran parte filtrato dai
testi di Cicerone. Il nostro sguardo sulle procedure di costruzione del diritto a Roma si sovrappone in buona misura allo sguardo
di Cicerone stesso. Cicerone riservava l’appellativo di giurista o “giure consulto” agli individui che erano dediti ad attività
specifiche che ruotavano intorno a un evento, alla disponibilità di questi soggetti a essere consultati. Erano soggetti che davano
consigli particolarmente autorevoli, sostenuti da conoscenze tecniche, per cui potremmo dire che offrivano consulenza ai propri
concittadini. Ricordiamo che il potere politico e la conoscenza delle norme (e non) che reggono il tessuto sociale di Roma, era
depositato in una prima fase nella memoria e nella disponibilità dei patres. Questi pater prendono la responsabilità, ma anche
l’onore e il potere che ne consegue, di trattenere la conoscenza dei modi in cui va gestita la comunità; quindi, chi aveva un
problema o un dubbio su come amministrare la propria esistenza si rivolgeva a queste figure aristocratiche chiedendo loro un

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consiglio. Cicerone ci dice che nella fase iniziale l’assistenza fornita da queste figure era generale; quindi, non era solo
un’assistenza giuridica ma anche per chiedere come dovessero organizzare il matrimonio dei figli, ad esempio, oppure se
acquistare o no un terreno, come coltivarlo ecc...

Progressivamente poi con il tempo questa conoscenza si specializza e il consiglio diventa di tipo tecnico/giuridico e i giuristi
incominciano a dare consigli gratuitamente a chi li chiedeva. Quando l’attività diventa tecnica, Cicerone la descrive in tre sotto
attività:
1. Consulenza su come imbastire correttamente un processo: agere
2. Consulenza su come redigere degli atti negoziali: cavere
3. Consulenza su come regolare in generale una controversia: respondere, si rilevi che il responso è un parere che il
giurista esprime, relativamente al significato di una norma giuridica; quindi, l’attività di rispondere è proprio
quell’attività che contribuisce allo sviluppo dello IUS.

L’individuo che sceglieva di esercitare pubblicamente queste tre funzioni -almeno agli occhi di Cicerone- era un giurista. Questo
distingue i personaggi patrizi o aristocratici che si dedicavano al diritto come hobby dai giuristi veri e propri. Questa conoscenza
si acquisiva per esperienza sul campo e per discendenza di padre in figlio, da patrizio a patrizio, da esperto più anziano a un
esperto più giovane che faceva parte della stessa cerchia aristocratica. Il patrizio più anziano accoglieva nella propria casa dei
giovani a cui fare delle consulenze e spesso c’era anche un tirocinante. Con il tempo poi si sviluppa la prassi di accogliere più di
un giovane e in qualche modo di avere addirittura un pubblico più o meno aperto di uditori (auditores). É un modo di imparare il
diritto non sistematico (come siamo abituati a lavorare noi oggi), ma un po’ frammentario perché la costruzione del diritto a
Roma passa essenzialmente verso l’opera di questi giuristi e in una dimensione che oggi -enfatizzando il termine- si tende a dire
“casuistica” cioè caso per caso (caso specifico), perché il quesito che veniva posto dai soggetti era un quesito molto specifico.
Possiamo dire che l’ordine sociale e la coesistenza non violenta tra i cittadini erano retti in origine da delle leggi e delle
consuetudini giuridiche.

Queste consuetudini però dovevano essere poi fatte vivere in concreto nella società che -ieri come oggi- è in continua
evoluzione. Serve quindi un mediatore che si prenda l’incarico di adattare la norma alla società fluida che sempre cambia,
questa mediazione è ciò che chiamiamo “interpretatio”, operazione di interpretazione svolta dal mediatore fra le norme
derivanti dalle leggi e la vita quotidiana dei cittadini. Secondo Cicerone, quando parliamo di “ius” dobbiamo intendere tutto il
“lavoro di sartoria” che i giuristi fanno nel corso del tempo. L’insieme delle norme e delle consuetudini e dell’interpretazione è
quello che chiamiamo “ius civile”. Quando si trattava di dibattere all’interno del procedimento il ius (complesso di norme) non
dava vita a un’applicazione meccanica di una formula matematica, ma in un processo si trattava sempre di vedere in qualche
modo se l’applicazione della legge nel caso specifico è giusta.
L’avvocato in un processo a Roma era l’oratore, che sceglieva una strategia processuale a cui poi doveva rispondere l’altro, in
modo tale da arrivare alla fine del processo a far prevalere una parte oppure l’altra attraverso un dibattito dialettico.

Il diritto era un parametro di riferimento che serviva conoscere perché in processo serve conoscere la strategia processuale, e
perché è costruito sulla base di una serie di casi che sono stati affrontati dai giuristi nel corso del tempo. Da un lato Cicerone
dice che sarebbe bello poter conoscere questa materia in modo facile e organico senza dover ricorrere alla consulenza dei
giuristi e dall’altro lato dice che sarebbe bello anche se questa materia fosse organizzata in modo chiaro e perspicuo. Proprio da
qui per Cicerone ha inizio la storia della giurisprudenza. Noi sappiamo -da altre fonti- che nel momento in cui Cicerone ha vissuto
(primo secolo a.c.) la materia giuridica non era ancora organizzata. Il primo abbozzo di organizzazione della materia giuridica
risale probabilmente al primo secolo d.C. da un giurista che si chiamava Masurio Sabino. Nel primo secolo, quando parla
Cicerone, non c’è ancora una struttura organizzativa del diritto.
Questa struttura si avrà a partire -forse- da Masurio Sabino, ma poi la grande impalcatura che ancora oggi utilizziamo è quella
che risale a un giurista attivo nel secondo secolo d.C. che si chiamava Gaio, che è l’autore di un manuale di diritto per insegnare
agli studenti: le istituzioni di Gaio.

DIRITTO E ORDINE
Noi ora siamo due secoli prima di Gaio. Cicerone per mettere ordine nella materia fa essenzialmente tre cose:
o Propone una narrazione sulla storia del diritto romano dell’età repubblicana;
o Produce due operette in cui raccoglie gli argomenti logico/razionali utilizzati dai giuristi per
formulare le loro consulenze;
o Organizza la materia in uno schema complessivo razionale.

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La narrazione di cui Cicerone ci parla non è una narrazione continua, non si trova in un’opera unica, ma si svolge nell’arco di
tutta una vita.

LA PRIMA GENESI
Le prime pagine di questa narrazione continua corrispondono alle prime pagine di un’opera che ha scritto (“de invenzione”). In
questo proemio Cicerone propone anche una sorta di descrizione dell’albore della civiltà. In questa narrazione viene introdotto
un opuscolo dedicato all’importanza della parola, che è il motore principale della società perché è il meccanismo che permette il
passaggio dalla “legge del più forte” alla “forza della legge”.

Brano: “ci fu un tempo in cui gli uomini vagavano nei campi senza meta e gestivano con l’irruenza dei muscoli. No nozze
legittime. No figli certi. Nessuno pensava all’utilità del diritto”

C’è stato un tempo in cui gli uomini vivevano al modo degli animali, regolando i propri rapporti sulla forza. Una vita non
amministrata e non regolata. Il diritto, che emerge da tutti questi “non” citati nel testo, rende certo e stabile il tessuto sociale,
riconoscendo in primo luogo e dando stabilità ai legami tra individui (la famiglia, i figli certi e la moglie) e mette tutti sullo stesso
piano perché azzera le differenze di vigore fisico che invece governano lo stato fisico di natura, in cui il più forte ha la meglio. In
questo stato di natura però c’è già in potenza la genesi della società perché la società viene in qualche modo per separazione. In
questa società irrompe un personaggio mitologico, il quale per primo si accorge della differenza tra l’uomo e gli altri animali.
Questo personaggio di cui Cicerone ci parla porta un principio di ordine che ha l’effetto di convertire una situazione di
dispersione in una realtà di coesione. Il mezzo con cui avviene questa trasformazione è il linguaggio, la forza persuasiva (questo
è il proemio di un’opera dedicata al linguaggio). Il linguaggio permette di radunare gli individui dispersi tra i campi e di farli
convivere in un unico luogo.

Questo passaggio fa da contraltare alla seconda parte del testo in cui concludendo il ragionamento Cicerone descrive lo stato
nuovo in cui la società converge. Nessuno, se non spinto da una parola forte per forma e sostanza, potendo contare su una
grande prestanza fisica, avrebbe acconsento ad abbassarsi al diritto mettendosi su un piano di parità con coloro tra i quali
avrebbe prevalso e rinunciando spontaneamente a uno status quo vantaggiosissimo. L’equilibrio garantito però da questo diritto
introdotto nella città, come ogni altro equilibrio di natura, non è mai definitivo, ma è il frutto di un intreccio continuo di spinte e
contro spinte ed è soggetto alle leggi del mutamento. Questa operazione di bilanciamento sociale non è mai definitiva ed è
affidato a qualcuno che in continuazione rimetta le cose in equilibro. Questo qualcuno sono i giuristi.
LA SECONDA GENESI

Questo cambiamento viene eseguito dai giuristi attraverso le tre operazioni citate sopra. Dando risposte su quesiti generali su
come impostare le controversie, aiutarne le redazioni degli atti processuali e aiutarne la redazione degli atti negoziali. Questo lo
può fare perché ha dalla sua la conoscenza delle fonti normative che per Cicerone, nella Roma repubblicana, sono riconducibili a
due classi:
o la classe delle leggi
o la classe delle consuetudini
Nel corso della storia repubblicana di Roma però il compito di svolgere queste tre operazioni non era sempre svolto nello stesso
modo né sempre affidato alla stessa categoria di soggetti. In un primo tempo l’interpretazione del diritto era riservata ai collegi
sacerdotali, in particolare al collegio dei pontefici. Per la prima fase della Roma monarchica e repubblicana noi pariamo di
giurisprudenza pontificale perché queste tre operazioni erano condotte dai pontefici. A turno un membro del collegio veniva
destinato a dare responsi ai cittadini, responsi che in questa fase vertono sul diritto civile, ma che ha molte connessioni con il
diritto sacro. Sulle dodici tavole ci sono delle sfumature tra il modo di accordare le situazioni secondo comportamenti che
diremmo giuridici e dei comportamenti invece sacrali. I pontefici sono i depositari di entrambe le sfere e danno risposte in
entrambi i campi.

Questa sovrapposizione di sfere normative assume i caratteri di un monopolio esoterico, cioè in qualche modo nessuno può
accedere a questa conoscenza, come un oracolo. La popolarizzazione del diritto, ossia il monopolio pontificale e dell’esoterismo
nella trasmissione del sapere giuridico viene collegata intorno alla fine del quarto secolo, a cavallo tra gli anni 300 a.C. e i 200
a.C. e si lega un po’ tra storia e mito alla figura di uno scriba Kneof Flavio che avrebbe sottratto -surrettiziamente con l’inganno-
ai pontefici i fondamenti della loro conoscenza, in particolare avrebbe sottratto due cose: il calendario dei giorni utili e le
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formule da utilizzare nel processo. Li avrebbe poi messi per iscritto e divulgati. Questo evento è stato decisivo per la storia della
giurisprudenza repubblicana perché da vita a una fase della giurisprudenza laica. Da questo momento in poi significa che non
tutti i giuristi erano pontefici. Questo evento lascia una traccia nella storia dei romani e per molti secoli viene ricordato anche da
Cicerone, che ne offre una versione narrativa in un’orazione “promurena” in cui si confronta con la controparte che in questo
caso è un giurista e, siccome Cicerone vuole screditare l’avversario e quest’ultimo è un giurista allora Cicerone parla male del
diritto.

Parlando male del diritto mette in evidenza la difficoltà del diritto nel comprenderlo, acquisirlo e impararlo a Roma. Cicerone
dice però che questo è ancora un passaggio insufficiente perché il diritto resta difficile
da comprendere, i giuristi costruiscono intorno un linguaggio tecnico e si servono di nozioni che non sono di facile
comprensione e soprattutto perché la materia giuridica resta inaggregrata, caotica, dispersa, resta una conoscenza che si
acquisisce sul capo e non è quindi organizzata.

Si arriva qui alla terza narrazione, che porta da una situazione di caos a una situazione di ordine all’interno del diritto stesso.
Cicerone dice che c’è una situazione di caos normativo che deriva dal fatto che i giuristi vogliono mantenere potere perché chi
ha delle conoscenze che gli altri non hanno ha una posizione di forza, oppure anche dall’incapacità di spiegare le cose (o non
vogliono o non possono), fatto sta che la materia è caotica perché appunto è costruita caso per caso. Serve mettere ordine e
l’enunciazione della necessità di mettere ordine viene affidata a un’altra opera che è il “De oratore” a un oratore Lucio Licinio
Crasso che parla a nome di Cicerone stesso.

LA TERZA GENESI

Crasso sta difendendo la necessità di avere una conoscenza approfondita del diritto e per questo affronta una questione
specifica: è semplice o non è semplice conoscere il ius civile? Cicerone sostiene che il diritto sia particolarmente semplice,
mentre i profani sono contrari per una serie di ragioni. Una tra le quali era che per i profani era una materia difficile perché
inizialmente gli antichi conservavano il segreto sulle proprie tecniche e conoscenze, quindi era impossibile la diffusione. Come
Crasso stesso dice, nessuno ha ancora avuto modo di mettere ordine nel diritto civile. L’ultima frase del testo contiene molte
informazioni poiché dice: non c’è stato nessuno che abbia ripartito razionalmente quelle cose e le abbia organizzate per
categorie, nessuno aveva ancora raccolto tutti gli elementi dispersi della materia giuridica e diviso nelle varie porzioni (questa
operazione aveva a che fare con una disciplina antica, la dialettica, la quale era stata fatta già su tutte le altre materie di
cicerone ma non ancora per il diritto). Una volta raccolta tutta la materia, l’operazione veniva chiamata “definitio”, ovvero
tracciare dei confini tra un reparto concettuale e l’altro.

IL PRETORE E L’EDITTO
Lezione 5 ruva noemi 14/10/2021
Domanda in classse, cos’è ius: IUS espressione che raccoglie complessivamente l’idea del
diritto a Roma e raccoglie l’insieme di norme
che fanno capo a sia il nucleo originario del diritto a Roma (consuetudine e 12 tavole) e successivi adattamenti avvenuti
attraverso INTERPRETATIO (applicazione dei giuristi) contribuisce alla formazione dello IUS CIVILE: BRANCA del DIRITTO
ROMANO (IUS HONORARIUM, diritto onorario) settore/area del diritto romano che più ha a che fare con il PRETORE (magistrati
giusdicenti) e il PROCESSO perché è espressione che si lega al diritto creato da questi magistrati giusdicenti.

PROCESSO PRIVATO ROMANO


(DELL’ETA’ CLASSICA ultimi secoli repubblica e principato)
o processo formulare (manuale 67 e seguenti) - (manuale 187 e seguenti)
o prima del processo formulare vi era il PROCESSO PER LEGIS ACTIONES che riguarda periodo più antico della storia di
Roma (ESCLUSO DAL PROGRAMMA)
o poi c’è stata una procedura più tarda successivamente introdotta durante i secoli del principato COGNITIO EXTRA
ORDINEM (ESCLUSO DAL PROGRAMMA)

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PROCESSO FORMULARE

Nasce un processo bipartito, ovvero diviso in due fasi:


1. IN IURE → si svolgeva in tribunale davanti ad un magistrato → magistrato con potere chiamato iurisdictio, potere
giurisdizionale in mano, in primo luogo, al pretore e poi anche agli edili e governatori delle province (forma più
limitata). P67 Viene introdotto un nuovo sistema di diritto che emerge dall’attività di coloro che rivestono una carica
magistratuale (honor), prende il nome di ius honorarium.
2. APUD IUDICEM → diretta da privato cittadino. Il giudice non aveva competenza come oggi, perché il potere
giurisdizionale spettava al magistrato che aveva il compito di fissare gli elementi di diritto della controversia, mentre il
giudice (privato cittadino) doveva verificare e valutare gli elementi di fatto della controversia.

Come tutti i magistrati, il pretore prendeva funzione (carica temporanea) a mezzanotte del 31 dicembre e terminava il suo
incarico esattamente un anno dopo. P66/67 Per svolgere il proprio compito lontano da ogni arbitrio, il magistrato deve utilizzare
uno strumento di notificazione al popolo di quello che intenderà fare nell’esercizio della propria funzione. Lo strumento
utilizzato è recuperato tra le prerogative della magistratura, vale a dire il potere di emettere editti: e dunque il pretore all’inizio
del suo mandato annuale emette un editto il cui contenuto risulta scritto e pubblicato. Con l’affissione nel foro esso è notificato
a coloro che lo devono osservare. Nasce così l’editto giurisdizionale, che è un documento ufficiale utilizzato da tutti i magistrati
che esercitano la iurisdictio.
Nell’editto del pretore si dichiarava, facendo riferimento al suo potere, che avrebbe punito certe situazioni considerate come
indesiderabili ed ingiuste, una sorta di promessa. Il pretore prometteva a coloro che si sarebbero ritrovati lesi da una delle
situazioni elencate che avrebbero potuto portare in causa il colpevole.

Agire è un termine tecnico, rimanda al latino agere (agire in giudizio). A ogni torto subito corrisponde la possibilità di esercitare
un’azione giudiziale: ACTIO (termine tecnico processo romano, procedura specifica che permette di far valere i propri diritti
davanti al magistrato, anche IUDICIUM). Se qualcuno si trova in una situazione x allora io darò la possibilità di agire in giustizia
contro l’autore del torto.

PUBBLICAZIONE

insieme promesse per iscritto e pubblicato nella zona del foro, visibile a tutti→ editto era una fonte del diritto romano perché
nella misura in cui il pretore prometteva di proteggere una determinata situazione, chi si trovava in questa situazione aveva il
diritto di essere protetto. Dalla PROMESSA del PRETORE ne deriva un DIRITTO SOGGETTIVO, e per questo quando si parla di
fonti IURA POPULI ROMANI a Roma (fonti del diritto per il popolo romano) viene incluso anche l’editto, le promesse del pretore.
Non solo consuetudini, non solo leggi contribuiscono a costruire lo ius (diritto) ma anche l’editto del pretore, quindi si avrà il
diritto civile (leggi modellate dai giuristi) e il diritto onorario (fa capo ai pretori e magistrati).

QUALI SONO LE SITUAZIONI CHE IL PRETORE SCEGLIE DI PROTEGGERE?


o molte situazioni che il pretore promette di proteggere erano già previste dalle leggi pubbliche → quando ciò accadeva si
parlava di AZIONI CIVILI
o il pretore poteva introdurre anche delle innovazioni → poteva ritenere che insieme leggi pubbliche fosse non completo
o da modificare e allora poteva introdurre nuovi strumenti non previsti dallo ius civile. Quindi costruiva delle formule
PRETORIE → AZIONI PRETORIE, cioè prendere a modello un’azione civile già esistente e modificarla, qui si parla di
azioni utili o introdurre casi completamente nuovi costruiti su circostanze non previste dallo IUS CIVILE. Possiamo dire
che l’editto del pretore conteneva sia azioni civili che pretorie.

Ogni pretore poteva introdurre nel proprio editto delle nuove situazioni per correggere lo IUS CIVILE ma ogni anno il pretore
cambiava, nonostante ciò, in linea di massima il nuovo pretore tendeva a conservare le innovazioni introdotte dai colleghi
precedenti. Le azioni di matrice pretoria introdotte da magistrati precedenti prendevano nome di EDICTUM TRALATICIUM
(trasmesso da un pretore all’altro). Alla fine del periodo, l’universalità di Roma si esprime tramite la concessione da parte di
Antonino Caracalla, con l’Editto che porta il suo nome ovvero Constitutio Antoniniana (212 d.C.), della cittadinanza a tutti, o
quasi, gli abitanti dell’impero. EDITTO PERPETUO.

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Il pretore godeva di IMPERIUM: potere militare → poteva esercitare potere anche fuori dall’editto, ovvero era tenuto a
mantenere la promessa fatta nell’editto ma non era tenuto a limitarsi a fare solo ciò che aveva promesso, poteva sempre
concedere all’occasione nuove azioni non previste dall’editto in virtù del fatto che determinate azioni a cui non aveva pensato
prima erano meritevoli di giustizia: queste sono azioni STRAORDINARIE chiamate AZIONI DECRETALI IN FACTUM fuori dall’editto
e fondate su circostanze di fatto.
Quindi nell’editto si trovano elementi discrezionali e non → troviamo un insieme di azioni che fanno capo alle leggi pubbliche
(non discrezionali), azioni percepite da editti precedenti, azioni introdotte di nuovo e infine azioni concesse all’occorrenza fuori
dall’editto. Nel processo converge tutto l’insieme del diritto romano (matrice civile e pretoria), il processo è il punto dove il
diritto romano passa al vaglio dell’AEQUITAS (equità).

FUNZIONAMENTO PROCESSO FORMULARE


ESEMPIO
Il soggetto A è proprietario di un cavallo e viene spogliato del cavallo ad opera di un soggetto
B. Supponiamo che il soggetto B venda il cavallo a un soggetto C
A proprietario
B ladro
C possessore attuale del cavallo

A ha due strade per far valere il proprio diritto


1. ACTIO IN PERSONAM: il furto è un delitto →il furto è una delle situazioni che il pretore promette di proteggere con
un’azione che dà vita a delle obbligazioni, alcuni tipi di situazioni di atti illeciti, delitti, sono delle infrazioni punite dal pretore
con delle azioni che danno luogo a un rapporto chiamato obbligazione di diritto privato (le fonti delle obbligazioni possono
essere o delitti o contratti o una categoria residuale). Il furto è un’azione che obbliga il ladro a risarcire il danno.
Ragionamento romani: siccome un’azione in personam è introdotta contro il ladro allora nasce a suo carico un’obbligazione
(comportamento a cui si è tenuto dopo che il pretore ha introdotto un’azione a personam, perchè può essere utilizzata solo
nei confronti di alcuni soggetti particolari, ACTIO FURTI) → PENA PECUNIARIA al doppio o triplo della cosa rubata se
esistevano le circostanze. L’azione in personam può essere utilizzata solo nei confronti di una persona specifica in questo
caso solo del ladro e il ladro può essere chiamato a pagare una somma di denaro come risarcimento del suo
comportamento
2. ACTIO IN REM: A può agire anche contro C perché vuole riavere il cavallo piuttosto che punire B. Usa nei confronti di C
un’altra azione di rivendica (REI VINDICATIO) si tratta di un’azione in REM, utilizzo non limitato a soggetti particolari. La
relazione che viene fatta valere non è di tipo/ nesso personale ma riguarda il rapporto con l’oggetto della controversia.
Chiunque sia in una certa situazione rispetto a quell’oggetto PUÒ ESSERE LEGITTIMATO PASSIVO (chiamato così chiunque
sia in possesso della cosa). In questo caso il possessore della cosa ora è C, se C trasferisse la cosa a D sarebbe lui il
legittimato passivo. Le azioni in rem possono essere esercitate nei confronti di chiunque (IN ERGA OMNES) e i diritti reali
ovvero diritti tutelati dalle azioni in rem sono diritti validi erga omnes. Il diritto reale è diritto che fa seguito alla concessione
del pretore di un’azione in rem, tutte le volte che viene concessa un’azione in personam abbiamo a che fare con delle
obbligazioni.

Nel processo privato il giudice, però, può condannare il colpevole ad una sola somma di denaro. In realtà il giudice non può mai
obbligare il colpevole a restituire la cosa ma solo al risarcimento. Quindi A può ottenere una somma di denaro sia in caso di
azione di furto (in personam) che di rivendica (in rem).
C’è una differenza però:
o nel caso dell’azione di furto la somma ottenuta è a titolo di pena, che quantifica l’azione di chi ha commesso l’illecito.
AZIONI PENALI
o mentre nel caso dell’azione di rivendica c’è sempre una somma di denaro ma come equivalente della cosa: somma
come riparazione del danno / risarcimento. AZIONI REIPERSECUTORIE.

Questo è anche il motivo per il quale le azioni penali son sempre personali. Come capire se sono azioni penali o reipersecutorie?
Per le penali il giudice condanna il colpevole a pagare una somma che è il multiplo della cosa, mentre nelle persecutorie è quasi
sempre l’equivalente.

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Siccome gli interessi che vengono fatti valere con queste due azioni sono diversi è possibile usare entrambe le azioni penali e
reipersecutorie, mentre se il danno è solo uno allora non posso richiedere il risarcimento dello stesso danno due volte, NON
sono cumulabili tra loro 2 azioni.

SUPPOSIZIONE
E se il cavallo è morto quando era ancora in possesso di C?
A non può agire contro C per azione di rivendica perché il cavallo è morto e non lo possiede più.
Allora come faccio a riavere il risarcimento del cavallo?
Il pretore mette a disposizione una terza azione chiamata CONDICTIO EX CAUSA FURTIVA, intimazione a pagare una somma di
denaro a causa del furto. È un’azione personale perché può essere usata solo nei confronti del ladro più un’azione
reipersecutoria poichè fa sorgere un diritto di credito per il derubato nei confronti del ladro; quindi, mira ad ottenere il
risarcimento del danno.

CONDICTIO EX CAUSA FURTIVA


1. può essere fatta valere con un’azione penale ma non con azione di rivendica perché sarebbero due reipersecutorie
2. può essere usata anche se il cavallo non fosse morto: A avrebbe possibilità di scegliere se usare CECF nei confronti di B
o azione di rivendica nei confronti di C possessore attuale del cavallo

in base a cosa si sceglie? Da quali fattori?


In alcuni casi la scelta è obbligata: se l’oggetto della controversia muore non è possibile usare la rei vindicatio. In altri casi invece
la scelta dipendeva dalla valutazione strategica del proprietario. Siccome la CONDICTIO è un’azione IN PERSONAM (leva su
diritto di credito del derubato) A si pone sullo stesso livello di tutti i CREDITORI di tutti i generi.

Quindi se il ladro aveva molti debiti contratti in diversi modi, A avrebbe potuto usare questa azione ma si sarebbe messo insieme
a tutti gli altri creditori che a loro volta utilizzavano altre azioni per far valere i propri crediti
e quindi A avrebbe ottenuto solo una percentuale della cosa poiché divisa tra tutti. Però d’altro canto la CONDICTIO era la più
semplice da usare perché era nei confronti del ladro senza andare alla ricerca di un ipotetico C, perché le sorti della refurtiva non
erano immediate (comportavano spese, tempo, energie etc): non conosco le sorti della refurtiva e quindi sarebbe un’indagine
complicata per assicurami di poter usare la REI VINDICATIO (che mi darebbe più benefici perché non sarei sullo stesso piano
degli altri creditori).
Queste tre azioni erano poste nella promessa del pretore (editto) per scegliere quale azione utilizzare e contro chi.

Nei panni del soggetto A


A ordina a B o C di comparire in tribunale (non solo richiesta ma proprio atto formale, IN IUS VOCATIO, ovvero chiamata in
giudizio (è un atto di citazione che fa si che il processo si metta in moto). Il legittimato passivo deve presentarsi davanti al
pretore e prende la veste di convenuto, ovvero colui che è stato convocato in giudizio. Quindi vi sono due parti:
1. ATTORE chi agisce con un ACTIO
2. CONVENUTO chiamato in giudizio
Davanti al pretore l’attore indica nell’editto la situazione in cui si trova, cioè EDITIO ACTIONIS (dichiarazione dell’azione che
vuole utilizzare) e presenta circostanze che giustificano la propria domanda, cioè POSTULATIO ACTIONIS. Avviene una
valutazione sommaria del pretore chiamata CAUSAE COGNITIO, valutazione sommaria della
domanda dell’attore per vedere se ci sono i presupposti per procedere. Dopo aver esaminato il pretore può anche DENEGATIO
ACTIONIS, negare l’azione, poiché può considerare la domanda manifestamente infondata, non ci sono le condizioni affinché il
pretore mantenga la promessa.
Inizia una fase più tecnica → attore e convenuto insieme al pretore trasformano le proprie posizioni reciproche in un testo che
riassuma la domanda dell’attore ed eventualmente le richieste del convenuto, il testo viene chiamato FORMULA costruito e
composto dalle part. La formula (che dà il nome al processo) è il parametro che permette di arrivare al termine del giudizio.
Si tratta di testi molto corti che hanno una struttura fissa a periodo ipotetico → se risulta che ci troviamo nella situazione
prevista dal pretore allora il giudice condanna, in caso contrario dovrà assolvere.

Il testo è suddiviso in parti fisse


1. prima parte della frase può essere definita come la PROTASI DEL PERIODO IPOTETICO (SE RISULTA) prende nome di
INTENTIO. Talvolta veniva aggiunta la DEMONSTRATIO, indicava ciò che aveva dato origine alla controversia, cioè la ragione
sulla quale si basava la pretesa. Non tutte le formule avevano bisogno della demostratio: essa era necessaria quando
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l’intentio era generica, ovvero quando non c’era niente che desse al giudice sufficienti elementi per stabilire quanto avrebbe
dovuto fare il convenuto e quindi se andasse condannato o assolto.
2. seconda parte prende il nome di CONDEMNATIO se risulta può essere definita come l’apodosi del periodo ipotetico e
contiene l’ordine di condannare o assolvere.

La seconda è la parte fondamentale che determina l’esito del processo, di conseguenza A spesso si fa consigliare da un giurista
(agere) per una buona costruzione della formula di giudizio. Dopo aver costruito la formula serve scegliere il giudice, tutto quello
che è stato fatto fino ad adesso era stato fatto davanti al pretore (fase in iure). Per andare avanti alla seconda parte del processo
bisognava nominare il giudice (privato cittadino) nelle liste ufficiali di candidati e le parti si mettevano d’accordo e sceglievano il
giudice vidimata dal pretore: NOMINA DEL GIUDICE. Ora bisogna formalizzare l’accordo → rito ufficiale di formalizzazione del
processo, rito di apertura si chiama LITIS CONTESTATIO (PARTE CRUCIALE, celebrazione dell’inizio del processo). Si apre il
processo, tutto ciò che avviene dopo non ha importanza (ad esempio se il cavallo muore dopo la litis contestatio, non può avere
rilevanza). Una regola vuole che non si possa più proporre uno stesso problema DOPO l’inizio della litis contesatio, per questo
ciò che avviene prima della litis contestatio non fa ancora parte del processo: si dice che nel diritto romano ma ancora oggi non
si possa ripetere due volte lo stesso processo tra le stesse parti per lo stesso affare.

Con la litis contestatio si apre la seconda parte, il pretore doveva elaborare con le parti la formula del processo. È un’attività
tecnica del pretore che serve a stabilire gli elementi di diritto, ovvero la costruzione degli elementi che determineranno il
seguito della procedura. Ora vi è seconda fase →il giudice deve seguire istruzioni date nella formula dal pretore, verifica se
l’azione risulta o non risulta e come lo fa? raccoglie le prove. Deve valutare gli elementi di fatto (prove), se le circostanze di fatto
sono conformi alla richiesta che gli viene fatta nella formula verifica se deve rispondere affermativamente o negativamente alla
domanda fatta nella formula ed emettere una sentenza conseguente coerente con le risultanze probatorie.

Il pretore prometteva non solo strumenti di attacco ma anche di concedere ai convenuti strumenti di difesa (EXCEPTIONES,
eccezioni) VS ACTIO strumento dell’attaccante. Le eccezioni erano frammenti di testo che introducevano nel nostro testo
principale un secondo elemento condizionale (una seconda condizione).

Supposizione 2
Poniamo che A non sia stato derubato ma che abbia venduto il cavallo a B e gliel’abbia consegnato con TRADITIO a B. Il cavallo
fa parte di una categoria di oggetti particolari per i quali il trasferimento di proprietà può avvenire SOLO attraverso forme rituali
che rimontano alla fase più antica del diritto romano, MANCIPATIO (soprattutto questa) o IN IURE CESSIO, ci riferiamo a questi
oggetti e quindi al cavallo con il nome di RES MANCIPI, la cui proprietà può essere trasferita con un negozio formale che si
chiama MANCIPATIO.
Se A ha venduto il cavallo a B CON TRADITIO e sulla base della compravendita (non realizza immediatamente un trasferimento
di proprietà ma obbliga il venditore a fare si che l’acquirente possa ad un certo punto diventare il proprietario) facendo così il
proprietario rimane A e B il possessore del cavallo: A può utilizzare azione di rivendica.
Secondo il diritto civile A è ancora il proprietario e B è il possessore (legittimato passivo della mia azione di rivendica). MA se
vado dal pretore ed utilizzo l’azione di rivendica la situazione è iniqua (non ha senso) allora il pretore concede d’inserire nel mio
testo una eccezione (EXCEPTIO REI VENDITAE ET TRADITAE, eccezione di cosa venduta e consegnata). Se risulta che il cavallo è di
A secondo diritto dei quiriti; il convenuto dirà di voler inserire un’altra parte di testo (l’eccezione) e se A non ha venduto e
consegnato a B il cavallo di cui si tratta allora il giudice condanna. Da un lato il giudice dovrà verificare che la proprietà del
cavallo è ancora di A ma anche verificare che non ci sia stata una consegna materiale a seguito di compravendita e se verifica
che c’è stata allora il giudice non condanna B: funzione dell’exceptio.

C’è una lista molto ampia di eccezioni… tra queste


o EXCEPTIO DOLI → fa sì che il giudice tenga conto di tutti gli elementi contrari alla buona fede che sono stati tenuti dalle
parti. Le eccezioni non valgono per tutti i tipi di azione ma solo per azioni di stretto diritto. In queste azioni di stretto diritto
è sempre necessario per il convenuto chiedere al pretore di inserire l’eccezione se vuol far valere le sue ragioni. Se il
convenuto non chiede al pretore di inserire nel testo della formula anche un’eccezione allora il giudice non potrà far altro
che condannarlo perché è sua responsabilità e suo onere chiedere l’inserimento dell’eccezione. Si usa nelle rei vindicatio
Il pretore introduce con il tempo anche un’altra categoria di azioni:
o Azioni di buona fede (IUDICIA BONAE FIDEI) che permettono una valutazione automatica da parte del giudice di tutti questi
comportamenti. La necessità di inserire una eccezione vale per i giudizi di stretto diritto nei giudizi di buona fede il giudice
può valutare autonomamente, senza bisogno che venga richiesta una eccezione, gli elementi che giocano a favore del
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convenuto. Nei GIUDIZI DI BUONAFEDE la valutazione del giudice è PIÙ AMPIA perché tiene conto di tutti i comportamenti
che le parti hanno tenuto secondo buona fede ed è la classe di azioni che protegge i CONTRATTI CONSENSUALI.
GAIO E LA MAPPA DEL DIRITTO PRIVATO ROMANO
Ruva noemi lezione 6 19/10/21

IL MANOSCRITTO VERONESE DELLE ISTITUTIONES


Nel 1816 uno storico nato a Copenaghen da una famiglia di origine tedesca, chiamato Barthold Georg Niebuhr, diplomatico
presso il governo prussiano, aveva scelto di fare carriera diplomatica nella Prussia. Viene inviato come ambasciatore in una
missione a Roma, presso la Santa Sede per discutere come ministro plenipotenziario. Durante il viaggio si ferma a Verona e
siccome Niebuhr aveva dei trascorsi non solo da studioso antichista (per un certo periodo voleva studiare in università, voleva
fare carriera universitaria come insegnante), ma anche da bibliotecario, allora si fermò nella biblioteca Capitolare di Verona. Qui
ricercando tra i manoscritti (oggi secondo qualcuno sapeva già cosa cercare), si imbatte in un codice manoscritto molto
particolare. La pergamena è il supporto di scrittura principale ed è un materiale prezioso, non era a buon mercato e quindi c’era la tendenza a utilizzare la
stessa pergamena più volte. Si scriveva su questo supporto, ma poi una grossa parte del lavoro degli amanuensi consisteva nel raschiare l’inchiostro precedente
e nel sovrapporre un inchiostro nuovo. Quindi alcuni manoscritti avevano una scrittura visibile che è l’inchiostro del riutilizzo e però sotto si intravedono le
tracce dei solchi tracciati per la scrittura precedente. Questo tipo di manoscritto si chiama manoscritto Palinsesto, i manoscritti utilizzati più volte.

Il codice scoperto da Niebuhr era appunto un palinsesto e la parte del testo visibile, la parte superiore (scrittura superiore),
riportava delle lettere di alcuni padri della chiesa (tra cui le epistulae di San Girolamo e di altri scrittori cristiani), ma affiorava
sottotraccia, nei segni non visibili, un’altra scrittura inferiore (scriptio inferior) che subito è apparsa a Niebuhr particolarmente
importante. Allora Niebuhr coinvolse nella sua scoperta appassionante forse uno dei più grandi intellettuali dell’epoca in Prussia
e non solo, che si chiamava Friedrich carl von Savigny. I due con l’aiuto di altri collaboratori utilizzano dei reagenti chimici per
far riemergere lo scritto inferiore e si accorgono che il testo sottotraccia trattava di un testo antico che parlava di diritto romano.
In un primo tempo si è pensato che fosse uno scritto di un giurista che si chiamava Ulpiano, ma poi si sono resi conto che si
trattava delle Istituzioni di Gaio.

Si trattava di una scoperta cruciale, perché aumenta incredibilmente le conoscenze del diritto romano dei moderni, fino a quel
momento diciamo che almeno in occidente, grande parte del diritto romano era stata trasmessa attraverso un'antologia degli
inizi del sesto secolo chiamata Corpus Iuris Civilis e in particolare per quanto riguarda i giuristi una parte del corpus iuris civilis che si chiama
Digesto. Però non abbiamo opere complete dei giuristi romani, questo è l’unico caso in cui un’opera ci è arrivata pressoché
completa e questo è un dato e un motivo di importanza. Per di più questa opera tratta anche del processo romano e quindi la
grandissima parte di informazioni che noi abbiamo sul processo romano vengono da questa opera. Inoltre, quest’opera è
un’opera che vista nella sua completezza, in parte si poteva già dedurre da alcuni piccoli frammenti che già si conoscevano della
stessa opera, è un’opera che appare nella sua maestosa complessità sistemica: le istituzioni di Gaio è un’opera che ci trasmette
non solo delle informazioni giuridiche, ma un sistema, una costruzione razionale della materia giuridica. Quel manoscritto poi è
stato trascritto nel corso dell’800 ed è stato poi in seguito più volte pubblicato e studiato.
LA MAPPA DEL MANUALE

L’indice di una edizione dei primi del 900, in cui in un indice finale si prova a dare conto di questa struttura che è stata ricostruita
dagli studiosi, ma in realtà è visibile perché è lo stesso Gaio (lo stesso autore del manuale) che in qualche modo segnala la
struttura. Gaio nel comporre quest’opera, che è un manuale di diritto, si ritiene che (di cui si sa pochissimo) sia vissuto nel
secondo secolo dopo Cristo ma non si conosce molto della sua identità ma si ritiene che sia stato un insegnante di diritto, perché
quest’opera è essenzialmente un’introduzione al diritto scritta per gli studenti dell’epoca. È Gaio stesso che segnala la struttura
dell’opera e la divide in 3 parti che sono divise a loro volta in 4 libri:
o la prima parte riguarda i temi delle persone 1 LIBRO
o la seconda parte riguarda i temi delle cose 2/3 LIBRO
o la terza parte riguarda i temi delle azioni 4 LIBRO

a) A sua volta il gruppo dei capitoli dedicati alle cose includono una porzione che riguarda i tipi di cose, la tipologia degli
oggetti con cui possiamo avere a che fare, ed è una tipologia che serve a capire come si possono trasferire questi oggetti,
come si possono acquistare dei diritti sulle cose e trasmettere questi diritti ad altri. Siccome i modi di acquisto e di
trasferimento dei diritti sulle cose cambiano a seconda del tipo di oggetto (se si tratta di un oggetto mobile, immobile, bene
corporale o incorporale, ect..) allora serve prima descrivere la tipologia delle cose e poi si passa appunto a parlare di come
si faccia ad acquistare e trasferire i diritti sulle cose

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b) Poi si prendono in considerazione i modi in cui si trasferiscono non i singoli beni, ma dei complessi di beni dei patrimoni e
qui entra in gioco il fenomeno della successione, in particolare della successione ereditaria (non solo perché il diritto
romano conosce altri fenomeni di successione) ma diciamo che quello che ci interessa ed è il fenomeno più rilevante è
quello della successione ereditaria

c) In una terza parte si prendendo in considerazione le obbligazioni, che a loro volta seconda Gaio sono un tipo di cosa in
particolare un tipo di res incorporale, ma che sono a loro volta uno strumento per maneggiare giuridicamente degli oggetti
di diritto. Allora tra le obbligazioni, Gaio prende in considerazione quelle che nascono da contratto (rrapporto obbligatorio
tra due o più parti) e quelle che nascono da delitto (obbligazioni che nascono da un atto illecito e che degli effetti di diritto
privato). BIPARTIZIONE GAIANA

Si tratta di una divisione dialettica per generi e specie, che era proprio l’auspicio di Cicerone: alla fine della Repubblica Cicerone
diceva che la materia del diritto si è formata per un accumulo di norme, per un accumulo di interpretazioni, ma quello che serve
è mettere in ordine le cose e raccoglierle in classi omogenee e quindi dividerle per generi e specie. Nessuno aveva mai diviso
ordinatamente la materia se non nel 2 sec con masurio sabino.
Questo tipo di divisione, questa tripartizione (persone, cose, azioni) è così radicata da quel momento in poi nella tradizione del
diritto romano che arriva ai giorni nostri, molti codici moderni di diritto privato sono organizzati sulla base di questa struttura a
partire da quelli di origine francese. C’è un’impalcatura ma naturalmente nulla è mai mutabile, ci sono influenze dovute alla
nostra successiva e quindi delle piccole variazioni che dipendono dalla cultura dei corsi dei secoli, però la matrice è sempre
questa, la matrice gaiana ha influenzato ancora il nostro modo di organizzare la materia giuridica.

GAIO E LE NOZIONI PRELIMINARI (PREMESSA)

Gaio espone la tripartizione della materia non all'inizio nelle prime righe, ma un po’ oltre, al paragrafo 8 del primo libro. Cosa c’è
nei primi 7 paragrafi? C’è una sorta di premessa, prefazione, ma non è prefazione generale o un proemio come quello che in
parte abbiamo visto di Cicerone, si tratta di nozioni preliminari di diritto che servono al lettore e in particolare allo studente
antico (abbiamo detto che le istituzioni era un manuale di diritto antico), servono per capire quello che verrà esposto nel seguito
dell’opera, sono delle nozioni introduttive che favoriscono la costruzione più precisa possibile della mappa mentale che seguirà
nelle righe successive.

IUS CIVILE E IUS GENTIUM


Gaio esordisce con un’affermazione così apparentemente generale: tutti i popoli che sono retti da leggi e consuetudini fanno uso
in parte di un diritto specifico della comunità e in parte di un diritto comune a tutti gli uomini.
Infatti, il diritto che ogni popolo ha istituito per sé, il diritto specifico della comunità, si chiama ius civile, in quanto è il diritto
della civitas. Invece ciò che l’ordine della natura ha imposto a tutti gli uomini, quello si trova presso tutti i popoli si chiama ius
gentium, perché è in uso presso tutte le genti. Perciò anche il popolo romano fa uso in parte di diritto specifico e in parte di un
diritto comune a tutti gli uomini.

(Pag. 141) Sponsio: promessa formalizzata da cui deriva un’obbligazione, la promessa è formalizzata perchè occorre rispettare
una struttura verbale prefissata, innanzitutto bisogna utilizzare un termine specifico in latino SPONDEO che significa rispondo,
nel senso che mi assumo la responsabilità per ciò che ho detto e promesso. Poi bisogna che questo verbo sia utilizzato
all’interno di uno scambio formale strutturato, cioè uno scambio di domande e risposta, allora un soggetto fa una domanda e
dice “prometti (spondes) di darmi X?” e l’altra parte utilizza quello stesso verbo spondeo e dice “si spondeo”. In questo scambio
rituale quello che dice “spondeo” diventa debitore di quello che ha posto la domanda. Già il fatto di dover utilizzare un termine
e una struttura precisi, come se fosse una formula sacrale, rinvia a quel ritualismo che abbiamo visto nell’età arcaica che è un
po’ a metà tra la logica umana e la logica divina / sacrale del diritto in cui l'utilizzo di formule fisse rituali fa sì che l’impegno
assunto in qualche modo sia messo in relazione con l’assunzione di una responsabilità davanti al divino e in effetti già
nell’antichità si metteva in relazione questo verbo latino SPONDEO con un altro verbo greco SPENDO che significa presentare
delle offerte alla divinità.

L'idea che utilizzando questo verbo ci si impegnasse solennemente davanti agli dei e agli uomini in relazione a ciò che si era
promesso, fa parte delle consuetudini più antiche di Roma ed è stata messa per iscritto nella legge delle XII tavole. Qui nelle XII
tavole troviamo non solo sancita l’idea che utilizzando questa formula rituale quello che ha pronunciato il verbo spondeo

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diventa debitore dell’altro ma anche il fatto che la controparte, cioè quello che ha posto la domanda, possa agire in giudizio a
partire da quel momento per far valere il suo credito. E siccome l’altro può far intervenire l’organo pubblico per costringerlo a
fare ciò che ha promesso allora si dice che lui ha un’obbligazione, è tenuto a farlo, è legato dalla promessa (obligazio) ed è
legato perchè c’è la forza pubblica che può costringerlo a farlo.

Chi ha inventato questa norma? Trovandosi nelle XII tavole l’ha inventata Roma, quindi è un istituto di ius civile, la fonte di
questo istituto è la legge antica, la legge di Roma, legge della civitas. E tuttavia la promessa in quanto tale non esiste solo a
Roma, ma esiste presso tutti i popoli. Tutti i popoli prevedono che se uno promette di fare qualcosa poi è tenuto a rispettare la
sua promessa, l’impegno preso, la fiducia reciproca, l'affidabilità degli uno verso gli altri è un fatto umano, anzi è il fatto stesso
che permette di vivere civilmente. Se non ci possiamo fidare gli uni degli altri non potremmo vivere di fatto, la promessa in linea
di massima esiste presso tutti i popoli. Quindi in qualche modo l’impegno è avvertito vincolante per tutti, non solo per i romani.

A Roma, dove si inizia prestissimo ad avere rapporti con i vicini, si osserva che tutti conoscono la promessa, ma la
conoscono in una forma diversa da quella dello sponsio. Allora la promessa in quanto tale è un istituto non dell’ius civile, ma
dell’ius gentium. Ma quale promessa? La promessa che NON utilizza il verbo spondeo, perchè il verbo spondeo è la forma tipica
della promessa coniata dalla città di Roma (quindi è dall'istituto dell’ius civile), ma se io utilizzo degli altri verbi allora siamo fuori
dall'ambito dell’ius civile, siccome la legge utilizza solo quel verbo lì, allora l’ambito del nucleo dell’ius civile si limita a quel verbo
lì, se io uso altri verbi allora entro in una sfera più ampia che è quella dell’ius gentium. Quindi la promessa di sponsio è un
istituto che possono utilizzare solo i romani, mentre se utilizzo altri verbi allora posso far promettere uno straniero.

Allora dice Gaio, il pacchetto di norme che regolano la vita di Roma complessivamente prevede che alcune norme sono
specifiche per i romani e altre norme che invece sono comuni agli stranieri, quindi, possono essere utilizzate anche dagli
stranieri. E come facciamo a sapere quali sono l’uno e quali sono le altre, come facciamo a sapere quali
figure sono di ius civile quali di ius gentium? Intanto, è il lavoro dei giuristi quello di orientare, ma il manuale di Gaio che è un
manuale di sintesi che raccoglie e costruisce l'impalcatura nel suo complesso si propone di volta in volta di dire quali sono quelle
di ius civile e quali sono le figure di ius gentium. L’introduzione non si limita alla distinzione tra le figure che appartengono a ius
civile e quelle che appartengono a ius gentium, se proseguiamo nella lettura dei paragrafi successivi delle institutiones vediamo
che Gaio si chiede dove si trovano queste norme, dove si devono cercare e quale sia il modo per sapere che esistono queste
norme e chi le ha introdotte e attraverso quale sistema. Allora Gaio fa un elenco di quelle che oggi normalmente vengono
chiamate le fonti del diritto.

GAIO E LE FONTI DEL DIRITTO

Qui Gaio dice che i diritti di cui fa uso il popolo romano risultano dalle leggi, dai plebisciti, dai senatoconsulti, dalle costituzioni
degli imperatori, dagli editti dei magistrati, dai responsi dei giuristi.

o Ci sono innanzitutto le leggi, alcune norme sono contenute nella legge, che è per eccellenza il provvedimento che vincola il
popolo romano. Perché vincola il popolo romano? Perchè abbiamo detto che alcuni popoli introducono delle norme per
cultura, in generale tutti i popoli condividono delle norme che appartengono ad un ordine razionale, naturale delle cose, ma
è il popolo che sceglie di vivere adeguandosi a delle norme, la volontà del popolo è espressa dalla legge e quindi per
eccellenza, quando il popolo esprime la sua volontà nella legge poi la legge vincola il popolo stesso. Allora si dice la legge è
ciò che il popolo ordina e impone, ma in un termine tecnico legge riguarda appunto i provvedimenti presi dal popolo nel
suo complesso.

o Gaio si preoccupa di dire che invece c’è un termine più specifico che è PLEBISCITO che invece riguarda le decisioni della
plebe, convocata in assemblea (concilium plebis), su proposta del tribuno; quindi, tutta la popolazione tolti i patrizi. Quando
diciamo che il popolo sceglie senza i patrizi la decisione si chiama plebiscito. In realtà qua sta facendo per sua stessa
ammissione un resoconto storico perché al suo tempo legge e plebiscito sono equiparate. Gaio cita una legge, la legge
ortensia che risale al 287 a.C. (4 secoli prima di Gaio) che equipara i plebisciti alle leggi, segna un po’ il punto finale, il
culmine di quel processo di pareggiamento politico tra le classi, cioè tra patrizi e plebei (che noi troviamo descritto nel nostro
manuale alle pagine 56-62.)

o La terza fonte del diritto citata da Gaio sono i senatoconsulti. Il senato è una istituzione molto importante a cui di fatto è
legata la stabilità dell’intero sistema, dell'assetto sociale di Roma dalle origini fino alla fine della storia, abbiamo visto che il
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senato è il risultato istituzionalizzato del consiglio dei padri di famiglia delle gentes, in qualche modo i capi famiglia, gli
anziani di quelle comunità locali riuniti in consiglio formavano un po’ il gruppo dei saggi che reggevano la comunità e da
quel nucleo si è formata un’istituzione che è il senato romano. Perchè Fascione vi parla del senato nei capitoli dedicati alla
fase del principato? Perchè appunto per il ruolo che assume il principe, parola indicativa che fa riferimento al primus inter
pares (=al primo tra i pari) che è il modo che aveva l'imperatore formalmente a partire da Augusto per dire che rientrava
nella linea di continuità con l'ordinamento repubblicano. Questo titolo era un titolo onorifico che veniva riservato al
presidente del senato. Il “primo tra i pari” formalmente, ma di fatto era una figura che accentuava il suo potere e
naturalmente in una fase di accentramento di potere il ruolo delle assemblee popolari viene progressivamente meno.

Le ultime leggi prodotte da un’assemblea popolare, dai comizi, le legge centuriate, i comizi centuriati a noi note risalgono
alla fine del primo secolo all’epoca dell’imperatore Nerva che regna dal 96 al 98 d.C. E dopo questa data le assemblee
popolari insieme allo spirito democratico che incarnano, tramontano definitivamente. Cosa significa questo? Significa che
l’ascesa del senatoconsulto coincide con la scomparsa delle leggi e questo avviene nell’età del principato (anche se i
senatoconsulti appartiene all’età repubblicana).

o In parte le decisioni del senato prendono il posto delle decisioni del popolo riunito in assemblea e in parte quel vuoto viene
colmato da dei provvedimenti che sono emanati dall’imperatore stesso. Imperatore che poteva produrre norme in diversi
modi, Gaio ne cita 3: decreti, editti e le epistole a cui di solito si aggiungono due ulteriori forme: mandati e rescritti (che
troviamo a pagine 468 del manuale). L’imperatore in linea di massima produceva il diritto, non di qualunque cosa facesse,
ma veniva a volte sollecitato su alcuni casi specifici e quindi dava delle risposte relative a dei casi concreti che venivano posti
alla sua attenzione e quelle risposte erano vincolanti, oppure in altri casi dava delle istruzioni ai suoi funzionari e queste
istruzioni erano vincolanti, in altri casi emanava dei provvedimenti generali, a sua volta gli editti erano vincolanti. Decreti,
editti, epistole, mandati e rescritti appartengono alla classe più generale delle costituzioni imperiali, costituzioni dei
principi.

A questo punto bisogna fare attenzione perché Gaio nel parlare di queste singole figure insiste nel dire che i diversi
provvedimenti che cita, hanno valore di legge, sono equiparati alla legge. Cita la legge poi dice che i plebisciti, dopo la lex
hortensia, vengono equiparati alle leggi, poi dice che i senatoconsulti al suo tempo hanno forza di legge, non ce l’avevano
prima. Perché Gaio insiste sul fatto che queste fonti del diritto abbiano forza di legge? La legge, insieme ai mores e
all’interpretazione dei giuristi, è la fonte di quella che chiamiamo ius civile. Ius civile qui in senso stretto perché prima abbiamo
parlato di ius civile come contrapposto a ius gentium (cioè norme della comunità e norme che riguardano tutti i popoli), qui ius
civile ha un senso diverso, si contrappone all'apparato di norme che non fa capo all’editto dei magistrati; quindi, un sistema di
norme che non è coniato dai magistrati, perché quello coniato dai magistrati è una classe che viene indicata con il nome di ius
honorarium (diritto onorario). Ius civile come contrapposto al diritto di conio edittale dei magistrati viene essenzialmente dalla
legge, dalle consuetudini e dall'interpretazione dei giuristi.

Allora dire che i senatoconsulti, i plebisciti e le costituzioni dei principi hanno forza di legge, significa dire, a partire da un certo
periodo storico, che anche queste norme come la legge possono incidere sull’ius civile, significa dire che sono nuove fonti di ius
civile, sono capaci di intervenire direttamente da pari a pari rispetto le antiche leggi sull’impianto dell’ius civile. Allora per tutto il
periodo repubblicano non fu mai riconosciuta alle decisioni del senato la possibilità di incidere sull’ius civile. Il senato poteva
prendere delle decisioni molto importanti, aveva competenze diverse in particolare di politica estera, poi soprattutto di ordine
consultivo ma anche normativo ma non poteva intervenire e incidere su quello che era il nucleo delle norme di ius civile. Invece
tra il I e il II secolo d.C., attesta Gaio si riconosce ai senatoconsulti la possibilità di intervenire sulla disciplina civilistica,
sull’apparato dell’ius civile.

I SUCCESSORI DEL DIRITTO ONORARIO

Allora sappiamo che la legge delle XII tavole disciplinava anche il destino dei patrimoni dopo la morte dei patres familias,
abbiamo già visto che il patres familia era l’unico soggetto di diritto e aveva la possibilità di redigere un testamento e lasciare il
proprio patrimonio a chi voleva lui, se però rinunciava questa facoltà di destinare autonomamente i propri beni a delle persone
di sua fiducia, allora interveniva la legge stessa, interveniva e stabiliva per tutti indistintamente dei soggetti che in un
determinato ordine vengano chiamati all’eredità. Questi soggetti erano in primo luogo le figure che erano immediatamente
sottoposte alla potestà del patres familias (i figli, o i nipoti se mancava il figlio se era premorto, la moglie se era con mano e
ect..) questa era la classe dei suos heredes, poi in particolare circostanze, qualora non diventassero eredi costoro, subentrava
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l’agnato prossimo oppure in terzo luogo i gentili. Questa è la disciplina della successione in assenza di testamento (ab intestato)
per il diritto civile (la legge delle XII tavole, il diritto civile prevedeva questa cosa).

Però a questa disciplina se ne sovrapponeva una che invece era di matrice pretoria, ovvero di diritto onorario. Perché in
determinate circostanze il pretore estendeva la platea di persone a cui concedere dei diritti sul patrimonio del defunto,
persone che potevano essere coincidenti con quelle previste dal diritto civile oppure no, in particolare il pretore valorizzava
molto i legami di sangue, mentre il diritto civile prendeva in considerazione solo la parentela giuridica, i rapporti agnatizi cioè
quelli di potestà, questo vuol dire che se per esempio un figlio era stato adottato, quest’ultimo entrava in potestà del padre
adottivo e questo significa che le sue aspettative di successione riguardavano la famiglia adottiva e non quella naturale, perché
in qualche modo quello che valeva era il vincolo di potestà che si instaurava con il padre famiglia della nuova famiglia, mentre il
vincolo di sangue veniva a meno. Invece il pretore valorizza in alcune circostanze proprio i legami di sangue e quindi tutela su un
piano diverso, che è il piano del diritto onorario, in una disciplina che è quella della bonorum possessio, il quale tutelava dei
soggetti diversi.

In primo luogo venivano presi in considerazione i figli, fossero naturali o a prescindere dal legame potestativo, poi una classe che
il pretore chiamava di legittimi, che vuol dire coloro i quali erano presi in considerazione dalla legge, cioè dall’ius civile, in
qualche modo in questa finestra il pretore faceva rientrare i soggetti che venivano presi in considerazione dall’ius civile, siamo
sul piano del diritto pretorio però il pretore comunque prendeva in considerazione, anche se non al primo posto, tutti i soggetti
che già il ius civile tutelava. Siccome il ius civile prendeva in considerazione i rapporti agnatizi (cioè di potestà), agli occhi dell’ius
civile contavano solo i rapporti essenzialmente maschili, mentre la successione delle madri rispetto ai figli e dei figli rispetto alle
madri non veniva presa in considerazione. Non viene presa in considerazione fino a che nel 178 d.C. un senatoconsulto orfiziano
(pag. 354 del manuale) dispone che i figli ottengano l’eredità della madre e prima ancora, un senatoconsulto che prende il
nome di Tertulliano dispone all’inverso che le madri siano eredi dei figli. Siccome i senatoconsulti intervengono nell’ius civile, a
partire da questo momento la disciplina civilistica include anche le madri rispetto ai figli e i figli rispetto alle madri. Cambia la
scena dell’ius civile (donne ritenute in grado di ricevere eredità) e quindi quando il pretore in questa seconda classe chiama i
legittimi, chiama da questo momento in poi anche le madri rispetto i figli e i figli rispetto le madri perché è cambiata la disciplina
dell’ius civile. Questo da una parte ci aiuta a capire i due livelli diversi, ius civile e ius honorarium, e dall’altra capiamo perchè è
rilevante che Gaio dica che senatoconsulti e costituzione dei principi hanno la capacità di incidere su ius civile, cioè hanno la
forza di legge. Le leggi, i plebisciti, i senatoconsulti e le costituzioni dei principi riguardano la sfera dell’ius civile, mentre gli editti
di coloro che hanno il potere di emettere riguardano la sfera del diritto onorario.

o L’ultima fonte menzionata è quella dei responsi dei giuristi. Quello che descrive Gaio è uno stato di fatto della sua epoca,
Gaio vive nel II secolo d.C. in pieno principato che abbiamo detto è la fase in cui la persona dell’imperatore accentra il
proprio potere su di sé, in questa prospettiva di accentramento il principe, anzi lo stesso Augusto, introduce una sorta di
licenza o di patente per dare consulenze, non tutti possono dare risposte in pubblico, ma solo i soggetti a cui questa facoltà
è concessa dall’imperatore stesso. Evidentemente è un modo per tenere sotto controllo la produzione di norme. Quindi i
giuristi che hanno la facoltà di dare responsi in pubblico, ius publice respondendi ex auctoritate principis, sono solo coloro
a cui è stata concessa dal principe stesso questa facoltà e solo costoro possono dare responsi (pag, 461).

A sua volta questo fenomeno può essere messo in relazione con la nascita, in questo periodo, delle scuole. Durante l'epoca
Agusta, infatti, nacquero i circoli culturali chiamati Sette (2 scuole di pensiero di giuristi contrapposte tra di loro):
o Una nasce da Capitone (giurista mediocre ma molto ligio nei confronti dell’Imperatore che lo premia in tutti i modi
diventando così famoso) il cui primo allievo era Sabino;
o Nasce da Labeone (giurista brillante ma che non ha successo pubblico, preferisce infatti studiare e non assecondare
l’imperatore perché secondo lui un giurista è un uomo libero) il cui primo allievo era Proculo.
Con i loro primi allievi nasce una dinastia: da Sabino nasce la scuola Dei Sabiniani (tradizionalisti) e da Proculo quella dei
Proculiani (innovatori).

Allora Gaio dice quando all’interno della classe dei giuristi che hanno la facoltà di dare responsi in pubblico, l’opinione di questi è
univoca allora quell’opinione ha forza di legge, quando invece le opinioni sono diverse allora il giudice può scegliere tra le
diverse opinioni in gioco quella che più lo aggrada maggiormente.

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PERSONE E STATUS LIBERTATIS (LIBRO 1)
Ruva noemi 20/10/2021 lez 7
Queste sono due immagini di una tomba etrusca di Tarquinia “Tomba degli Auguri” che risale al sesto secolo, 530 a.c. e raffigura
delle scene dipinte molto note, tra cui un personaggio con la maschera e la barba che sta probabilmente correndo o danzando,
mentre l’altro sta combattendo durante i cosiddetti giochi funerari.
Sotto questo personaggio è riportata un’iscrizione in caratteri etruschi: “fersu/persu”. Si ritiene che “fersu” sia l’immediato
precedente della parola latina “persona”. Secondo questa linea di tradizione la persona sarebbe la maschera, quindi in qualche
modo il ruolo rappresentato. La questione linguista non era chiarissima ed era già discussa nell’antichità, però ciò ci fa comodo
perché almeno per il diritto la parola “persona” è effettivamente una maschera, o meglio un ruolo. É Il ruolo assunto da quello
che oggi si chiama soggetto giuridico e che non corrisponde necessariamente con l’essere umano. Non tutti gli esseri umani
erano persone a Roma nel senso di soggetti di diritto (non lo erano nemmeno gli schiavi, i minorenni e le donne). Se seguiamo
l’ordine delle materie di Gaio e ci addentriamo nella parte dedicata alle persone troviamo una sezione divisa in 3 parti.
Gaio -prima di tutto- fa una distinzione tra:
o Uomini liberi e schiavi;
o Persone sui iuris (persone indipendenti) e soggetti alieni iuris (persone sottoposte al potere di un’altra persona, in
particolare al pater familias).

A sua volta la sottoclasse degli alieni iuris comprende i soggetti che sono sottoposti alla:
o Potestas (potestà del padre di famiglia);
o Manus del padre di famiglia;
o Soggetti che sono in “mancipio” (sottoposti al “mancipium”).

Infine, Gaio fa un’ulteriore distinzione tra persone che sono sui iuris, ma che sono autonome sotto tutti i punti di vista e altre
che, per muoversi nel mondo del diritto hanno bisogno di un’assistenza, ovvero di un tutore o di un curatore.
Nella mappa gaiana si incontra in primo luogo l’idea giuridica della schiavitù. I romani facevano una distinzione tra uomini liberi
e schiavi. Gli uomini liberi, a loro volta, si dividono in uomini ingenui (coloro che sono nati liberi) e libertini (coloro che sono stati
manomessi da una servitù legittima). La schiavitù è un fenomeno ampiamente previsto presso tutte le genti, fenomeno di “ius
gentium“, ma tuttavia si possono fare alcune distinzioni interne.

Come si diventa schiavi? Lo status di schiavo si acquista per nascita e poi -almeno fino all’età repubblicana- in seguito a
condanne penali o provvedimenti normativi che incidono sulla libertà dei condannati, oppure per prigionia di guerra, cioè
quando uno viene catturato dal nemico diventa schiavo nella patria nemica.
Un altro testo tratto da un’opera del giurista Marciano, vissuto tra il secondo e il terzo secolo d.c. il quale -tra gli altri scritti- ha
prodotto un manuale di 1.0 2.0 istituzioni. Una parte del brano dice: “I servi sono tutti servi perché c’è solo una forma di
schiavitù, mentre gli uomini liberi sono di due tipi: quelli che sono sempre stati liberi, nati liberi da madre libera (ingenui) e quelli
liberati, che erano schiavi ma poi non più (libertini).” Stessa distinzione che ha fatto Gaio nel suo manuale. I giuristi insistono su
questa distinzione perché gli schiavi liberati non sono completamente liberi ma restano legati con dei doveri nei confronti
dell’ex padrone che li ha liberati. Quando il padrone libera lo schiavo si riserva dei diritti nei suoi confronti. L’ex padrone -una
volta liberato lo schiavo- assume il nome di patrono nei confronti del liberto.

I liberti nei confronti del patrono gli devono “obsequium”, cioè un rapporto di riverenza che non è morale, ma ha delle
conseguenze giuridiche perché si traduce in un complessivo divieto di nuocere in giudizio rispetto al patrono, un divieto di
essere antagonista del patrono in giudizio (in ambito criminale significa vietare di accusare formalmente e nel processo privato il
divieto generale è di procedere contro il patrono, salva un’autorizzazione speciale del pretore). Pag. 255 I liberti devono anche
compiere di norma alcune ore di lavoro per il patrono, queste ore di lavoro vengono chiamate “opere”. Quando il proprietario
libera lo schiavo pretende che costui prometta di svolgere particolari prestazioni a favore del proprietario. Questa promessa si
chiama “promissio iurata liberti” cioè un giuramento che viene fatto nei confronti del padrone, di svolgere le prestazioni
concordate a saldo della liberazione.

Il manuale riporta le forme civili di liberazione che hanno effetto di ius civile e sono:
o La “manumissio vindicta” che fa riferimento a una procedura antica il cui rituale prevede l’utilizzo di una bacchetta, un’asta
che simboleggiava la presa di potere sulle cose. Rito utilizzato anche per far valere la proprietà sulle cose (antecedente alla
rei vindicatio). Si svolgeva davanti a un magistrato e le parti affermavano il proprio potere sulla cosa che era l’oggetto di

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contesa. Per liberare lo schiavo si riadatta questo schema, ma invece che litigare per il diritto sulla cosa, uno dei due era
come se rivendicasse lo schiavo alla libertà. Uno dei due sosteneva che lo schiavo era oggetto di proprietà e l’altro
sosteneva che invece era un uomo libero. Questo rito simulato era una finzione, una messa in scena e quello che faceva la
parte del proprietario non replicava all’affermazione del soggetto che rivendicava in libertà. Il magistrato, quindi, è come se
aggiudicasse l’ex schiavo alla libertà.
o La “manumissio censu”avviene nell’ambito del censimento. Il censore era un magistrato che assumeva l’incarico di
effettuare il censimento della popolazione, ascrivendo i cittadini alle diverse classi di censo. Nell’occasione del censimento,
quando il censore provvedeva a verificare in ciascuna famiglia quanti elementi ci fossero e quale fosse il loro ruolo, il
padrone di casa doveva indicare quali fossero gli uomini liberi e quali gli uomini schiavi nella sua casa. Questo era utile
perché gli uomini liberi venivano censiti come persone e gli schiavi invece facevano parte del patrimonio; quindi, era
un’informazione importante sotto il profilo del calcolo della consistenza patrimoniale del pater familias. Se il pater familias
in quell’occasione dichiarava uno schiavo effettivo nella classe degli uomini liberi allora quello era un atto di liberazione
formale.
o La “manumissio testamento” significava che il pater familias poteva liberare uno schiavo nel proprio testamento
liberandolo direttamente oppure poteva incaricare un erede di liberarlo. Era possibile liberare uno schiavo e nello stesso
tempo nominarlo erede.

Se questa è la situazione del diritto civile, tuttavia, il pretore -nel corso del tempo- concede una certa efficacia anche agli atti di
liberazione diversi da questi, diciamo informali. Per esempio, una dichiarazione di voler liberare lo schiavo fatta tra amici, quindi
in presenza di testimoni oppure con una lettera indirizzata allo schiavo stesso.
Per ius civile queste dichiarazioni non hanno alcun effetto essendo fuori da questi tre ambiti. Tuttavia, per equità il pretore
introduce di fatto una serie di tutele che impediscono -una volta liberato informalmente lo schiavo- al proprietario di trattare il
soggetto come schiavo e quindi, sebbene per ius civile formalmente rimanga schiavo, gode di uno scudo di fatto che gli viene
dalla protezione del pretore. Giuridicamente per il diritto civile lo schiavo resta tale, ma il pretore gli costruisce intorno uno
scudo di protezione che vale per tutta la vita dello schiavo.
Queste liberazioni diverse da ius civile non possono produrre lo stesso effetto facendo diventare lo schiavo libero in un cittadino
romano ma lo schiavo viene trattato come uno straniero privilegiato.

C’è differenza tra nascere liberi e diventarlo perché l’essere diventati liberi comporta il mantenimento di una serie di doveri nei
confronti del patrono ed è il motivo per cui sia Marciano che Gaio insistono sul fatto che i liberi sono di due tipi: ingenui e
libertini. Marciano ci spiega anche come si diventava schiavi nella sua epoca. Dice che le forme in riduzione di schiavitù sono
tre. Di questi tre modi uno è di diritto civile e gli altri due sono di diritto delle genti. Di diritto civile a suo tempo è rimasto il
fatto che se uno finge di essere schiavo e -d’accordo con il venditore- si fa vendere per poi avere una partecipazione del prezzo e
inganna il compratore, la conseguenza che gli viene inflitta è di diventare schiavo davvero. Questa è una forma di ius civile
perché solo i romani possono perdere la libertà in questo modo. Le altre due forme appartengono all’ius gentium:
o la cattura da parte del nemico
o nascere da una madre schiava.
Pag. 249 I giuristi discutono su un tema in particolare: se la gravidanza dura nove mesi, noi a che momento dobbiamo guardare?
Al concepimento o al momento della nascita? Se nel frattempo la madre passa dallo stato di libera a quello di schiava questo
incide sullo status del figlio o no? Se concepisce mentre è schiava, ma partorisce da libera, il figlio nasce libero. Se al contrario, è
libera quando concepisce e poi al momento del parto è schiava il figlio è comunque, libero.
Non importa se concepisce mentre era legittimamente sposata oppure fuori dal matrimonio perché le conseguenze dannose
della madre non devono ricadere sui figli. Per questo ci si domandò se una serva incinta che sia stata manomessa ma che poi sia
diventata di nuovo serva partorisca un libero oppure un servo. É stato sostenuto che nasce un libero e che è sufficiente a chi è
nel grembo aver avuto una madre libera o che è stata libera nel tempo intermedio.
Notiamo una tendenza a favorire la libertà, però sottotraccia resta il residuo di discussioni.

CITTADINANZA
Un secondo criterio distintivo del diritto personale, che in qualche modo nell’elenco di Gaio viene assorbito da questo primo, è
la cittadinanza. É un fattore di rilievo perché le possibilità di agire nel mondo del diritto cambiano a seconda del fatto che un
uomo sia libero o schiavo e sia se un uomo è cittadino romano oppure no.
A Roma regnava un principio di personalità del diritto, cioè veniva trattato da parte del diritto in base al suo statuto personale.
Ogni soggetto era un caso a sé.

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1. Anche la cittadinanza romana si acquista per nascita. Ne parla Gaio nel primo libro quando parla di libertà e di schiavitù,
poi affronta anche il tema della cittadinanza in maniera un po’ articolata, Pag. 86 e dice che se si nasce durante un
matrimonio valido (cioè matrimonio celebrato tra soggetti tra i quali c’è la possibilità riconosciuta da ius civile di sposarsi
“connubium“) tra individui di età pubere e consenzienti tra loro oppure lo sono i loro pater familias, allora la cittadinanza
dei figli è la stessa di quella del padre. Se invece si nasce fuori dal matrimonio si segue la cittadinanza della madre. Questo
succede perché il matrimonio “giusto” segue le regole del ius civile secondo la patria potestà.
2. La cittadinanza può essere concessa anche per beneficio istituzionale. Pag. 86 e 251.
Il terzo aspetto da valorizzare è la posizione all’interno della famiglia. La nozione di riferimento è quella della patria
potestas. Secondo un grosso blocco di materia analizzato da Gaio, ci viene illustrata la disciplina dei rapporti familiari. Gaio
in un testo (Pag. 90) pone come seconda distinzione quella tra persone giuridicamente autonome (“sui iuris“) cioè che fanno
capo a sé stesse e persone non autonome (“alieni iuris“), che seguono il diritto di un altro per il proprio inquadramento
giuridico.

Per raggiungere la piena capacità giuridica era necessario essere sui iuris, ovvero essere un padre di famiglia e non essere
dipendenti dalla patria potestas del padre, quindi dal potere domestico del capo famiglia maschio, per questo solo il padre di
famiglia era giuridicamente indipendente, mentre tutti gli altri partecipanti della famiglia erano alieni iuris; quindi, non erano
pienamente capaci sotto il profilo giuridico.
Gaio ci spiega che questa soggezione al potere altrui può essere di tre tipi:
1. alcuni soggetti sono sotto la potestas del padre, “in potestate”;
2. alcuni soggetti sono sottoposti alla manus del padre;
3. alcuni soggetti sono in mancipio.
Gaio dice che la potestas del padre lega il proprietario ai suoi schiavi, che non sono solo delle cose ma sono anche soggetti a un
rapporto potestativo nei confronti del loro padrone. Il potere del pater si estende fino ad avere il diritto di vita o di morte sui
propri sottoposti, in particolare sugli schiavi, che per il diritto sono degli strumenti del proprietario. Se il figlio o lo schiavo
comprano un oggetto, quest’ultimo viene acquistato dal padre di famiglia. Questo tipo di rapporto di potere tra il padrone e lo
schiavo è di ius gentium, tutti lo conoscono. Invece sono soggette alla potestas del padre anche i figli, ma solo quelli nati da un
matrimonio legittimo.

o La manus si acquista tramite tre forme:


ü La “confarreatio” che era un rito antico in cui si spezzava davanti a dei sacerdoti un pane di farro celebrando l’ingresso nella
nuova famiglia;
ü La “coemptio” che era un’applicazione particolare delle procedure di vendita della donna al marito;
ü L’usus che consisteva nel trascorrere un anno continuativo di convivenza nella casa del marito, salvo l’escamotage delle tre
notti passate fuori dalla casa per impedire l’acquisto della manus.
La donna -attraverso la manus- faceva ingresso nei rapporti agnatizi del marito e veniva trattata ai modi di una figlia in
potestate. Il marito assume nei confronti della moglie la stessa posizione che il padre occupa nei confronti della figlia.
o Infine, il mancipium, cioè il rapporto che si crea quando il padre vende il proprio figlio ad un altro pater.
L’acquirente acquista con questo figlio un rapporto “mancipium“, quindi non lega il pater familias al proprio figlio diretto ma
al figlio acquistato da un’altra famiglia.

LIBERAZIONE DALLA POTESTAS DEL PADRE

Pag. 89 Il procedimento con cui un figlio se ne liberava si chiamava emancipazione. Si dice che i genitori cessano di avere la
potestà sui figli che danno per effetto dell’emancipazione, ma il figlio maschio esce dalla potestà paterna in seguito a tre
mancipazioni, mentre tutti gli altri discendenti -sia maschi che femmine- per effetto di una sola mancipazione.
Infatti, la legge delle XII tavole parla di tre mancipazioni solo in corrispondenza di un figlio maschio: “Se il padre per tre volte
vende il figlio, quest’ultimo è libero dal padre.” É una procedura che utilizza la “mancipatio” che è un rito di vendita delle cose e
anche delle persone, ma anche la “manumissia vendicta” che rappresenta una formula di liberazione. La legge delle XII tavole,
tra le tante, conteneva una norma che diceva che se il padre per tre volte vende il figlio, quest’ultimo esce dalla potestà del
padre. SOLO PER IL FIGLIO MASCHIO
La procedura è articolata: se il padre vende suo figlio a una persona di fiducia si dice che lo acquista “in causa mancipi” e di
conseguenza lo libera con la manomissione vindicta, come se fosse un servo. Il figlio però non diventa libero perché secondo la
legge delle XII tavole ne servivano tre di mancipazioni; quindi, dopo questa prima liberazione da parte del fiduciario il figlio

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torna nello stato in cui era, cioè in potestate. Il padre mancipa una seconda volta il figlio e di nuovo il fiduciario lo riceve in
mancipio, lo libera ma non cambia ancora il suo stato. Torna quindi sotto la potestas e alla terza mancipazione da parte del
padre il legame di patria potestas si scioglie. A questo punto serve un’ultima manomissio per renderlo completamente libero e
indipendente. Questa manomissio può essere svolta o dal fiduciario stesso, oppure -con un ulteriore passaggio- dal padre,
perché colui che manomette il figlio conserva nei confronti di quest’ultimo una relazione di patronato.

PARENTELA E TUTELA (LIBRO 1)


Lez 8 ruva noemi
Per natura una famiglia unisce tutti gli individui procreati dalla stessa persona e i rispettivi discendenti, questo tipo di
relazione che attua dei rapporti di sangue riguarda -evidentemente- tutti gli uomini. La relazione di sangue coinvolge tutti: liberi
e schiavi, romani e stranieri. È una relazione che, a volte, troviamo descritta come “ius naturale” (diritto naturale), ed è la legge
di natura che pone questo tipo di relazione. Per i cittadini romani la parentela non è solo questa di sangue, anzi, sopravvive, è
sovraordinata ed è prioritaria rispetto alla parentela di sangue per tantissimi aspetti, una parentela che noi chiamiamo “civile”.

LA FORMAZIONE DI UNA FAMIGLIA CIVILE

Un brano di Ulpiano, che è un giurista attivo tra il II e il III secolo d.c., descrive il tessuto di relazioni che genera la famiglia in
senso civilistico, cioè quella formata sui rapporti potestativi tra il pater e gli altri individui.
Ulpiano chiama “famiglia” (in senso stretto) più persone sottoposte per natura o per diritto alla potestà di un unico individuo.
Pater familias è anche colui che governa la sua casa, ed è giusto usare questo termine anche se questa persona non ha alcun
figlio, infatti non indichiamo solo l’individuo, ma anche il ruolo giuridico. Al punto che chiamiamo pater familias anche il
minorenne, impubere e sui iuris. Quando Ulpiano dice “per natura” intende i figli di sangue che nascono all’interno di un
matrimonio giusto1, quando dice invece “per diritto” intende che dipendono da un’attribuzione del diritto (es. figli adottivi).
Quando il padre di famiglia muore iniziano ad esserci tante famiglie quanti sono gli individui che gli erano sottoposti. Alla
morte del pater familias le persone che sono legate alla sua potestà avanzano in carriera e diventano a loro volta sui iuris e
danno vita a tante famiglie quante sono appunto queste persone. Una famiglia nasce non solo quando il padre muore ma in
tutte le occasioni in cui un individuo diventa sui iuris autonomo.

Quali sono queste occasioni?


Si diventa sui iuris per due possibili cause:
- Se il suo genitore o progenitore che è pater muore; quindi, è lui che avanza e assume il ruolo;
- Se viene emancipato (il figlio attraverso una procedura complicata viene reso libero dalla potestà del padre ancora in vita,
attraverso questa procedura si “anticipa” l’ingresso nell’autonomia e nell’indipendenza del figlio).

Ulpiano aggiunge un altro significato di “famiglia”, sempre in senso civilistico, che include l’insieme degli agnati. Infatti, anche se
alla morte del padre di famiglia ognuno ha una famiglia propria in senso stretto, tutti coloro che erano sotto la potestà di un
unico individuo si dirà correttamente che sono della stessa famiglia. Si fa riferimento ai livelli di parentela “agnatizia”. Il
riferimento iniziale del testo, cioè che i rapporti agnatizi includano non solo le relazioni naturali (figli nati all’interno del
matrimonio giusto) ma anche le relazioni di diritto, portano ad esemplificare la specificità della famiglia civilistica parlando delle
adozioni.

L’ADOZIONE

Un figlio di famiglia -ma anche una persona sui iuris- può scegliere di sottoporsi alla potestà di un altro pater familias, ad
esempio, per una situazione economica familiare disagiata, questa scelta prende il nome di “adozione”. Ovviamente con ciò
rinuncia al suo ruolo di pater e sceglie di diventare figlio di un altro pater familias.

Il primo procedimento, cioè quando il figlio di famiglia sceglie di entrate in una nuova famiglia si chiama “adoptio”, mentre il
secondo procedimento viene chiamato “adrogatio”. Pag. 89 Gaio dice che non sono solo i figli naturali a essere in nostra potestà,
ma anche quelli che adottiamo. L’adozione si fa in due modi:
o per autorità del popolo ADROGATIO, atto con cui un pater familias si sottoponeva ad un altro alla presenza dei comizi
curiati. Per popolo si intende l’assemblea popolare riunita nei comizi, in particolare comizi curiati, che conservano questa
attribuzione anche quando poi la loro centralità nel sistema deliberativo romano viene meno. I comizi curiati sono la prima
forma di assemblea popolare e nonostante progressivamente perdano centralità all’interno del sistema romano (a
vantaggio di altri tipi di organizzazione, per esempio quella centuriata), conservano alcune attribuzioni, tra cui il

1
Era considerata ex iustis numptiis se avveniva almeno sette mesi dopo l’inizio della vita matrimoniale

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coinvolgimento nella procedura di adrogatio. Il ruolo dei comizi curiati era quello di certificare delle decisioni, dare l’avvallo
popolare a delle decisioni di varia natura.

Un soggetto che era già sui iuris poteva scegliere di farsi sottomettere alla potestà di un altro padre di famiglia.
Tutto ciò che i figli hanno o fanno viene imputato al padre che è l’unico soggetto di riferimento. Se un padre di famiglia -che
ha un suo patrimonio- sceglie di sottomettersi alla potestà di un altro padre di famiglia vuol dire che tutto il suo patrimonio
lo consegna al nuovo padre di famiglia. Anche in questo caso il popolo è chiamato ad approvare l’operazione. Si convocano i
comizi due volte all’anno presieduti per l’occasione dal pontefice massimo, il quale chiede il consenso alle parti se vogliono
concludere l’operazione e chiede anche al popolo l’assenso (adrogatio).

il popolo, inoltre, veniva chiamato ad approvare una serie di iniziative legate agli spostamenti patrimoniali tra una famiglia
e l’altra, che è un tema sensibile per una comunità romana delle origini in cui il tessuto sociale è costruito sulle famiglie e sui
loro patrimoni. In età arcaica se un padre di famiglia sceglieva di destinare dopo la sua morte una parte dei suoi beni a
persone estranee alla famiglia (quindi sceglieva di far uscire parte del patrimonio dalla sua famiglia dopo la sua morte a
degli estranei) poteva chiederne il consenso al popolo. Il popolo era chiamato non solo a testimone di questa volontà, ma
anche a certificare la bontà dell’atto (“testamentum calatis comitis“) venivano quindi convocati i comizi e veniva chiesto al
popolo di approvare il testamento, che appunto nella sua sostanza è un trasferimento patrimoniale. Lo spostamento
patrimoniale poteva avvenire anche prima della morte dell’interessato e quindi in una forma un po’ più articolata.

o per ordine del magistrato ADOPTIO, uno spostamento patrimoniale non avveniva, di norma, nel caso in cui il passaggio da
una famiglia all’altra coinvolgesse un figlio di famiglia.
Prima parte della procedura: il padre -che ha la potestà sul figlio maschio- lo trasferisce a una persona di fiducia, la quale
acquista questo figlio in mancipio. Il fiduciario ritrasferisce il figlio al padre, che non avendo mai perso la potestà, riacquista
il figlio in potestate. Così fino alla terza mancipazione.
Ultima parte della procedura: una volta eliminato il legame potestativo tra il padre e il figlio, il padre -con una “manumissio
vindicta”- rende indipendente il figlio (sui iuris).

Stessa procedura per l’adozione. Se il padre non vuole rendere libero il figlio ma vuole trasferirlo a un altro padre di
famiglia, il finto processo si svolge nello stesso modo, se non che quello che vuole adottare non lo rivendica alla libertà, ma
per sé. Nella prima parte il figlio deve rimanere libero e nell’altra il figlio viene sottoposto alla potestà del nuovo padre
adottivo, quindi entra nella nuova famiglia. Diventa parente, dal punto di vista civile del nuovo pater familias. Dal punto di
vista di sangue continua ad essere discendente dai suoi genitori, ma dal punto di vista civilistico entra nella nuova famiglia
agnatizia. Questi due piani vanno tenuti a mente perché nella famiglia agnatizia si devono seguire i fili di potestà (potestas e
manus) allora qui si capisce perché di solito si dice che la famiglia agnatizia è quella che lega i soggetti in linea maschile dato
che i maschi sono quelli lungo i quali corre la linea potestativa.

TUTELA E CURATELA

Un altro tipo di parentala è quella naturale (cognatio), che lega i soggetti anche in linea femminile perché è un legame di
sangue. Se la donna invece non è in manu succede che, alla morte del padre della sua famiglia, la donna diventa sui iuris, cioè
capo di una famiglia. I giuristi dicono che “la donna fa’ famiglia per sé” (l’unico membro della sua famiglia). Solo le persone
giuridicamente indipendenti (sui iuris) possono essere “portatrici di diritti e doveri”, cioè con “capacità giuridica”. Per i romani
anche una persona sui iuris poteva non essere perfettamente autonoma dal punto di vista della capacità di porre in essere degli
atti o dei negozi giuridici, perché per esempio è minorenne, oppure ci sono dei soggetti affetti da incapacità mentale quindi
distinguevano tra:
o soggetti sottoposti a tutela: per la tutela, i minorenni impuberi (dodici anni per le femmine e quattordici per i maschi)
avevano bisogno dell’assistenza di un tutore e di nuovo in questo sistema patriarcale le donne continuavano ad essere
ritenute bisognose dell’assistenza di un tutore anche dopo quest’età. Per i maschi la tutela si fermava al raggiungimento
della pubertà, mentre per le femmine continuava per il resto della vita. Quindi prima era tutela legata agli anni (tutela
impuberum) poi diventa tutela specifica per le donne (tutela mulierum). Le dodici tavole consentivano al tutore di affiancare
il minore sui iuris (pupillo) nel compimento degli atti che se fosse stato maggiorenne o pienamente capace avrebbe potuto
compiere da solo.
o soggetti sottoposti a curatela: quando il figlio superava la pubertà ma rimaneva minorenne (dai quattordici anni fino ai
venticinque) l’assistenza era affievolita, non era un’assistenza impegnativa come quella del tutore ma era un’assistenza
affidata ad un curatore. La curatela riguardava i soggetti adulti che avessero delle fragilità per incapacità di gestire i propri
interessi, ovvero: Pag. 96 e 277.
ü Furiosi: soggetti che vengono ritenuti inabili dal punto di vista psichico
ü Prodighi: coloro che scialacquano il proprio patrimonio, non sono capaci di gestire gli interessi patrimoniali.

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Come nasce la tutela? Nel caso in cui un impubere, colui che non ha ancora raggiunto la pubertà, diventa su iuris ovvero
indipendente a causa della morte del pater familias, si ricorre all'istituto della tutela che procede per surrogazione del potere
del padre. Nasce così la tutela degli impuberi al quale si ricorre in tre modi diversi:
1- Tutela Testamentaria: Nel campo della tutela era possibile che la persona che confezionava il testamento, pensasse già ai
soggetti sottoposti, nominando un tutore, quindi quando un padre di famiglia nomina nel testamento un tutore per il figlio e la
tutela valeva solo nel caso che non ci fosse più il padre.
2- Tutela Legittima: in questo caso toccava all’Agnatus Proximo (ovvero al parente per linea maschile più vicino al soggetto che
aveva bisogno della tutela, quindi si contavano i gradi) fare da tutore. La nomina avveniva in maniera automatica per legge, non
si può quindi rifiutare l'incarico. Per esempio, nel caso il fanciullo/a avesse un fratello già “grande” toccava a quest’ultimo il
ruolo del tutore in quanto era il soggetto più vicino;
La tutela testamentaria e legittima aveva, soprattutto, un carattere potestativo cioè al tutore veniva conferito il potere che
serviva a proteggere il patrimonio della famiglia, si aveva paura che il pupillo per la giovane età potesse fare danni al patrimonio
della famiglia (non protettivo come è oggi che serve per proteggere il pupillo/debole)
3- Tutela Atiliana (nome deriva da LEX ATILIA della fine del II secolo a.C.). Questa tutela subentra quando non c'è quella
testamentaria o legittima. In questo caso si comincia a vedere un passaggio dall’aspetto potestativo a quello protettivo. Con
questa tutela, la madre o un parente si rivolgono al pretore per chiedere un tutore per l’Impubere. La Lex Atilia prevedeva che
fossero i pretori a nominare il tutore. Il patrono nei confronti del liberto ha una relazione equiparata all’agnato prossimo, se è il
liberto ad avere bisogno di tutela, la tutela legittima sul liberto spetta all’agnato prossimo (cioè il patrono).

Pag. 279. La responsabilità di fare il tutore era una responsabilità giuridica importante perché al termine del periodo di tutela,
quando il minore esce dalla minorità, il tutore è tenuto al rendimento dei conti. Sono previsti diversi strumenti: se il tutore
avesse coscientemente compiuto delle malversazioni nei confronti del minore sarebbe stata prevista un’azione infamante che
avrebbe permesso al minorenne di ottenere il doppio di ciò che era oggetto di contestazione e poi era previsto un procedimento
di accusa popolare nei confronti del tutore. Verso la fine della Repubblica viene introdotta una nuova azione “actio tutele” che
serve per tutti a prescindere dal carattere più o meno virtuoso da parte del tutore, ma che può essere esperita tutte le volte che
il tutore non ha fatto il suo dovere. Sempre il pretore prevede la possibilità che il tutore -nel momento dell’assunzione
dell’incarico- prometta di salvaguardare il patrimonio del pupillo (“satisdatio ren pupillim salvam fore”).

IL TESTAMENTO

Il testamento è il negozio con cui il pater familias -che è l’unico titolare del patrimonio familiare- può disporre dei suoi beni per il
tempo che seguirà la sua morte. Se non lo fa la legge sceglie al posto suo “legge ab intestato”.
Per il ius civile, che è impostato sulla famiglia agnatizia e i legami potestativi, non tutti possono fare testamento. Lo può fare solo
il pater familias che è anche cittadino romano e uomo libero. La validità del testamento dipendeva dalla sua capacità di testare
(fare il testamento) “testamenti factio” e spettava a qualsiasi soggetto sui iuris maschio.

Chi NON poteva fare il testamento?


o Coloro che erano soggetti all’altrui potestà, figli di famiglia
o gli impuberi, nemmeno con l’assistenza del tutore
o le persone fragili, perché il testamento era ritenuto un atto così importante e grave che addirittura neanche con l’assistenza
di un tutore si poteva disporre del proprio patrimonio
o le donne (nemmeno con l’assistenza del tutore), anche se si trovavano sotto la tutela legittima degli agnati

Solo verso la fine dell’età repubblicana si percepisce la necessità di riconoscere la validità del testamento della donna e quindi si
trova un modo per farle fare testamento.
La donna non poteva fare testamento sotto tutore legittimo (agnato prossimo) perché la donna viene da una famiglia diversa
rispetto a quella del pater familias che è morto; quindi, se il matrimonio era avvenuto con manus parte del patrimonio familiare
era finito alla donna stessa. Imponendole di fare testamento si faceva sì che la successione della donna dovesse essere regolata
dalle XII tavole stesse e queste ultime chiamavano a succederla o i figli in potestà (ma non in questo caso perché era una donna)
o gli agnati, quindi il patrimonio tornava alla famiglia del marito.
Quando parliamo di agnato prossimo stiamo sempre parlando di relazioni di diritto civile, quindi relazioni potestative e l’agnato
prossimo è colui il quale sarebbe stato discendente da un capo stipite comune qualora costui fosse ancora in vita.

L’agnato più vicino di grado (grado=gradino) permetteva alla donna di fare testamento. Siccome la donna non può fare
testamento se è sottoposta al tutore legittimo per risolvere questo problema di evidente iniquità si permetteva che la donna
attraverso una “coemptio” (strumento che permette di acquistare la manus sulla donna) di sé stessa a un soggetto di fiducia che
acquista quindi la sua manus. Lo fa però con l’accordo che questa persona di fiducia la ri-mancipi a una terza persona che la
acquista “in causa mancipi” e che a sua volta la rende libera e capace di fare testamento. Allora siccome il problema e la regola
voleva che non potesse fare testamento la donna che era sotto tutela legittima, in questo modo se si taglia il legame con il
tutore legittimo viene meno anche l'impedimento e la donna a questo punto è in grado di fare testamento purché con
l'assistenza del tutore. Se la donna non segue questa procedura il testamento non è valido per il diritto civile, però il pretore in
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alcune circostanze poteva concedere comunque tutela alle volontà degli individui, anche se avevano prodotto un testamento
invalido sotto il profilo del diritto civile
Al tempo di Gaio nel secondo secolo d.c. il pretore concede il suo scudo anche alle tavole testamentarie della donna che avesse
fatto testamento senza tutta la procedura di cambio del tutore, ma nell’epoca repubblicana era ancora dubbia la cosa.

LE COSE E L’ACQUISTO (LIBRO 2-3)


Lez 9 ruva noemi
Gaio utilizza un metodo specifico per narrare il diritto. È una tipologia di illustrazione che non riguarda solo il diritto; infatti, è
caratteristica dei manuali didattici, ma si adatta molto bene anche al diritto.

Si parte da delle classi maggiori, dividendosi volta per volta in delle classi minori, fino ad arrivare agli estremi delle ramificazioni.
Questa immagine dei tronchi e dei rami è un’immagine metaforica molto antica, derivante dell’albero di Porfirio. Porfirio era
un filosofo che inventò questo schema ad albero. Se noi utilizziamo questo schema (dal tronco ai rami) possiamo avere una
mappa generale della materia. Dobbiamo avere in mente ben presente il tronco (le nozioni base del diritto) e poi volta per volta
possiamo andare ad esplorare questi rami periferici. Gaio utilizza questo sistema per mostrare il diritto in un manuale di diritto
antico. Questo metodo l’ha utilizzo per localizzare il soggetto di diritto, ma lo fa anche per localizzare l’oggetto del diritto.

Se consideriamo le prime righe del secondo libro, Gaio afferma che nel libro precedente ha esposto i diritti delle persone,
mentre ora espone i diritti delle cose. Afferma che: le cose o fanno parte del nostro patrimonio o sono estranee (esterne) al
nostro patrimonio. Questa partizione iniziale ci fa capire che le cose o possono essere nostre o possono essere di altri. Gaio fa
scorrere il suo discorso attraverso due domande:
1. “Quali tipi di cose possono essere nostre?”
2. “Una volta individuate le cose che possono essere nostre, come facciamo a farle diventare in concreto nostre?”
Gaio nell’affrontare la seconda domanda divide il suo discorso in 3 blocchi.
o Diritti reali
o Le successioni
o Le obbligazioni

Subito dopo aver detto che le cose o sono nel nostro patrimonio o non lo sono, Gaio disegna il suo albero. Inizia dicendo che la
divisione primaria delle cose individua due classi: alcune sono di diritto divino, mentre altre di diritto umano. Sono di diritto
divino le cose sacre e quelle religiose. Sono “sacre”, le cose consacrate agli dèi celesti; mentre sono “religiose” quelle riservate
agli dèi dei Mani (anime divinizzate dei defunti). Ciò che è di diritto divino, è di nessuno; ciò che è di diritto umano, di solito è
posseduto da qualcuno, ma può essere possesso di nessuno: infatti i beni ereditari, prima che si presenti un erede, sono
posseduti da nessuno.

Inoltre, le cose di diritto umano sono o pubbliche o private. Quelle pubbliche, risultano essere possedute da nessuno; si ritiene
che siano della collettività stessa, non possono essere nel nostro patrimonio.
Sono private le cose che appartengono ai singoli individui. Siccome le cose pubbliche non possono essere solo nostre, dobbiamo
seguire la seconda ramificazioni dei diritti umani, ovvero i diritti umani privati. Da questo ramo si aprono altre ramificazioni, che
risponderanno alla seconda domanda di Gaio “come facciamo a fare diventare nostre le cose”. Da questa domanda si apre un
discorso corposo che regge l’intero libro. Tutto questo dipende dal tipo di cosa. I paragrafi successivi ci guidano attraverso due
distinzioni principali:
o Distinzione tra cose corporali e cose incorporali (pag 292)
o Distinzione tra res mancipi e res nec mancipi (pag 108-292)
Sono corporali le cose che possono essere toccate, come un terreno. Sono incorporali le cose che non possono essere toccate,
come i diritti: per esempio l’eredità, l’usufrutto, le obbligazioni, in qualunque modo esse siano contratte. Né rileva il fatto che
nell’ereditá sono presenti cose corporali, e che i frutti percepiti dal terreno siano pure corporali, e che ciò che ci è dovuto in
forza di qualche obbligazione, per lo più è corporale (per esempio: un terreno, uno schiavo, del denaro): infatti, ad essere
incorporale è il diritto di successione in quanto tale, e di diritto di usufrutto in quanto tale, e il diritto di obbligazione in quanto
tale. Nella stessa classe si collocano i diritti (= servitù) sui fondi urbani e rustici. Quindi l’eredità, l’usufrutto, le servitù e le
obbligazioni sono dei diritti e sono incorporali.

La seconda distinzione tra res mancipi e res nec mancipi ha una matrice culturale più forte. Le res mancipi sono dei beni, che
sono stati individuati in una fase molto antica della storia di Roma. Questi beni sono un numero definito:
1. I fondi situati in Italia
2. Gli schiavi
3. Gli animali da tiro o da soma→ (animali che possono essere domati sul collo o sul dorso)
4. Le servitù prediali rustiche→ il diritto di passare a piedi, o con il bestiame o con i carri sul fondo altrui per raggiungere il mio
fondo (servitù di passaggio) o di fare passare delle acque o dei canali (sempre sul fondo altrui) per trarre beneficio sul mio
fondo.

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Un ulteriore esempio dei problemi era che poiché la norma dice che sono res mancipi gli animali che possono essere domati (al
collo o sul dorso), allora si pone una questione: “si tratta degli animali che in generale possono essere domati oppure bisogna
guardare se sono stati effettivamente domati?”. Quindi un cavallo è una res mancipi solo per fatto che è un cavallo o deve
essere anche domato per esserlo? Da qui si aprivano due contrapposizioni di due scuole diverse:
o La scuola dei sabiniani sosteneva che la distinzione avveniva per specie, che siano res mancipi subito, appena nascono
o Mentre la scuola dei proculiani sosteneva che iniziano ad essere res mancipi solo quando arrivano all’etá in cui, di solito,
vengono domati.

Ci interessa per ora sapere la distinzione tra res mancipi e res nec mancipi, perché da qui dipende il tipo di atto di acquisto;
quindi, se una cosa possa essere nostra o no. Se combiniamo tra di loro queste due coppie (corporali o incorporali e mancipi e
nec mancipi) riusciamo a capire i modi più adatti per trasferire la proprietà sulle cose stesse. Gaio afferma che si ottengono in
particolare 3 gruppi:
1. Il primo gruppo è quello delle res nec mancipi corporali. Questo è un gruppo che comprende la maggior parte degli oggetti
della vita quotidiana (per esempio gli utensili di casa, da lavoro, vestiti, oro, argento ecc). Per appropriarsi di questi oggetti,
con un atto di trasferimento effettuato da un altro individuo, chiamata classe a titolo derivativo, basta la consegna
materiale della cosa. Questa consegna materiale procura degli effetti giuridici. C’è però una condizione, ovvero che chi
cede la cosa, deve essere l’effettivo proprietario e, che questo trasferimento avvenga per realizzare uno scopo giuridico-
economico valido. Non in tutti i casi la consegna dà vita ad una proprietà, per esempio se io presto il mio manuale di
romano al mio vicino di banco non diventa di sua proprietà, ma lo usa e poi me lo restituisce. In questo caso manca una
causa idonea, per far sì che questo trasferimento avvenga con successo. Ultimo requisito è che entrambe le parti (quello
che vende e quello che acquista) siano consapevoli di cedere e acquistare il diritto di proprietà sulla cosa. Date queste
condizioni, la consegna materiale della cosa si chiama traditio. La traditio è in grado di far ottenere a chi riceve l’oggetto la
possibilità di ottenere la proprietà civile sulla cosa stessa, ovvero quella riconosciuta dal ius civile (che non è l’unico tipo di
proprietà riconosciuta) e che viene indicata come dominium ex iure quiritium (proprietà̀ sulla base dei diritti dei quiriti).

2. Tuttavia, Gaio dice che questo schema di trasferimento non è sufficiente per le res mancipi: serve la mancipatio. Le res
mancipi come abbiamo visto possono essere corporali (animali, schiavi e fondi), ma anche incorporali (la servitù). La
mancipatio è un negozio con effetti reali, dato che un atto compiuto da più soggetti, che produce un effetto giuridico, è la
creazione o il trasferimento di un diritto reale. Quindi la classe dogmatica di riferimento è quella dei negozi reali.

Quindi riassumendo per la res nec mancipi basta la traditio, mentre per la res mancipi serve la mancipatio o la in iure cessio.
Gaio ci descrive che cos’è la mancipatio (ce lo spiega nel primo libro, non nel secondo), che come abbiamo visto prima, è una
sorta di vendita immaginaria, che all’epoca era considerata come vendita reale (il termine mancipio lo abbiamo già affrontato in
precedenza per indicare le persone in mancipium, ovvero quelle che il padre trasferiva ad un estraneo attraverso una
mancipatio). La mancipatio può essere fatta solo da cittadini civili romani e che permette di acquistare la proprietà civile.

La mancipatio si svolge così: sono chiamati a testimoniare non meno di 5 cittadini romani puberi, e un altro con analoghe
caratteristiche, che sorregga una bilancia (libra) di bronzo e che è detto “ libripens”, colui che riceve in mancipio, tenendo la
cosa dice “io dico che è mio in base al diritto dei quiriti; mi sia acquisito con questo metallo e questa bilancia di bronzo”; poi con il
metallo percuote la bilancia e consegna quel metallo a colui dal quale prende a mancipio, come fosse il prezzo. Qui Gaio dice
“come fosse il prezzo” perché all’epoca questa era una procedura slegata dalla vendita, quindi rimaneva la formula, senza che ci
fosse una vendita reale. Probabilmente in origine era lo scambio della cosa contro un prezzo, un prezzo che non era individuato
dalle monete coniate, ma dal metallo grezzo; quindi, richiama una procedura di vendita originaria.
Questo schema complesso è richiesto solo per le quattro categorie elencate in precedenza (gli schiavi, i fondi in suolo italico, gli
animali da tiro e da soma e le servitù prediali e rustiche). Per questi stessi soggetti si può effettuare un rito alternativo, che è
ancora più articolato e complesso, ovvero quella della in iure cessio.

Lo schema della in iure cessio non è molto diverso dalla mancipatio. In questo caso non è presente un funzionario pesatore
(libripens), ma è presente un magistrato, infatti “in iure” significa davanti al magistrato/tribunale. Di conseguenza l’in iure cessio
mette in scena un processo, in particolare un processo per legis actiones. Uno dei riti che veniva utilizzato nei processi più
arcaici (per fare valere la priorità su una cosa) era la legis actio sacramenti in rem: quando era controversa la proprietà su una
determinata cosa le parti contendenti si trovavano davanti al magistrato e, pronunciavano ciascuna una formula di dichiarazione
di proprietà “Quest’uomo, io dico che è mio in base al diritto dei quiriti” → questa formula si chiama vindicatio. Quindi una parte
faceva la vindicatio, mentre la parte opposta pronunciava la formula simmetrica (contra-vindicatio), quindi replicava
affermando la stessa cosa. A quel punto le parti giuravano che la propria dichiarazione fosse vera e si sfidavano depositando
presso l’erario di Saturno degli animali o una somma di denaro, come titolo di espiazione per il giuramento che fosse stato
ingiusto. Quindi il giudice era chiamato a verificare quale sacramento fosse stato giusto e quale uno spergiuro, l’autore dello
spergiuro perdeva quello che aveva depositato presso l’erario di Saturno. L’autore del sacramento giusto poteva ritirare la sua
parte e riprendersela. Questo era il processo della legis actiones sacramento in rem, quindi del processo arcaico.
Lo schema della iure cessio è molto simile e si mette in scena un processo fittizio. Una delle due parti, in particolare l’acquirente,
tenendo la cosa fa la vindicatio dicendo la frase “Quest’uomo, io dico che è mio in base al diritto dei quiriti”. Poi il magistrato
chiede anche all’altra persona di fare la sua contra-vindicatio. Se l’altra parte (il venditore) tace o nega, il magistrato
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conseguentemete attribuisce la cosa a quello che ha pronunciato la formula di rivendica. È un’applicazione finta dell’attuazione
del processo, quindi le due parti anziché dichiarare entrambi il diritto sulla cosa, solo uno dichiara questo diritto, mentre l’altro
non dicendo niente lascia che la cosa venga aggiudicata all’ acquirente stesso. Abbiamo già visto dei casi simili nel primo libro nei
diritti di famiglia, nel momento in cui si vuole dare in adozione un figlio. Gaio favorisce la mancipatio, perché anche se è una
procedura molto corposa non bisogna andare in un tribunale.

Le res nec mancipi incorporali creano un problema perché essendo incorporali (non potendole toccare) non possiamo trasferirle
materialmente con una consegna materiale, quindi è esclusa la traditio. Non essendo res mancipi (ad eccezione delle servitù
prediali e rustiche), non possiamo utilizzare neanche la mancipatio. Quindi cosa si può usare? Si può usare l’in iure cessio.
Infatti, Gaio afferma che le cose incorporali non ammettono la traditio, ma ammettono un in iure cessio. Che cosa può essere
trasferito con in iure cessio? Le servitù prediali e rustiche sono res mancipi, quindi si può utilizzare la mancipatio, mentre per
tutte le altre (eredità, l’usufrutto e obbligazioni) si deve utilizzare per forza l’in iure cessio.

Ma che cosa sono le servitù? Si utilizza una metafora: “sono un peso imposto su un fondo (detto fondo servente) per l’utilità di
un vicino (detto fondo dominante)”. Quindi se due fondi sono vicini (vicini significa contigui, ma anche non sufficientemente
vicini) può darsi che uno tragga beneficio a che l’atro fondo vicino sopporti un certo tipo di azione o operazione. Per esempio,
poniamo che io abbia un terreno che non può accedere alla strada, se non passando per il fondo del vicino. In questo caso
l’utilità del mio fondo è quella di passare dal fondo del vicino per raggiungere la strada (servitù di passaggio). È un rapporto tra
fondi, si chiamano servitù prediali (servitù= uno dei due ha una funzione di servizio rispetto all’altro; prediali= perché riguardano
i rapporti tra fondi, non i proprietari tra fondi). Se muore il proprietario di uno dei due terreni, questo diritto di servitù non si
estingue. Se viene trasferito il fondo stesso ad un altro, il diritto non si estingue, ma segue il fondo stesso.

Le servitù possono essere di vario tipo. I romani individuavano diversi tipi di servitù:
o Si parla di servitù iter, quando si passa a piedi;
o actus, quando si passa con il bestiame;
o via, quando si passa con i carri;
o acquae ductus, quando si fanno passare dei canali di acque

All’interno di questo ventaglio di servitù alcune sono res mancipi (iter, actus, via, acquae ductus, che sono le prediali rustiche
più antiche), che possono essere trasferite con mancipatio. Mentre le altre che sono res nec mancipi e incorporali hanno
bisogno di una in iure cessio.

Cos’è l’usufrutto? È il diritto di usare una cosa altrui e di percepirne i frutti (che possono essere frutti materiali, ma possono
essere dei frutti civili, come il fatto di percepire un determinato reddito). L’usufrutto probabilmente ha origine con i matrimoni
sine manu. La manus era quel meccanismo in cui la donna usciva dalla famiglia del pater familias per entrare in quella del marito
o del pater familias del marito. Se questa manus non ci fosse stata, la donna sarebbe rimasta nella famiglia d’origine. Quindi alla
morte del pater familias del marito, la donna che era sine manu, non entrava nella nuova famiglia e quindi non aveva delle
aspettative successorie. Quindi l’idea escogitata per risolvere il problema era quella di lasciare la proprietà alla famiglia
agnatizia del marito, ma dando la possibilità alla moglie di godere della cosa stessa, usufruendo i frutti per tutta la sua vita.
Questo diritto grava sulla cosa altrui, in effetti la servitù e l'usufrutto si chiamano diritti reali minori su cose altrui.

Per l’usufrutto Gaio menziona un'altra forma che coinvolge la mancipatio. Infatti, Gaio afferma che non siamo stati avventati nel
dire che l’usufrutto ammette solo la in iure cessio, sebbene (il diritto) possa essere costituito anche per mancipazione, perché
può essere trattenuto in riserva quando si fa mancipatio della proprietà quiritaria. Infatti, l’usufrutto in sé non è l’oggetto della
mancipatio, ma riservandosi l’usufrutto durante la mancipazione della proprietà, si ottiene che a uno resta l’usufrutto, all’altro la
proprietà. Quindi è possibile che anziché costituire il diritto di usufrutto a favore di un altro individuo, si può fare anche all’
inverso. Mettiamo caso che il proprietario voglia vendere la proprietà e trattenere per sé il diritto di usare la proprietà altrui. Io
vendo la cosa ma trattengo il diritto di usufrutto; quindi, la proprietà passa ad un altro, ma l’usufrutto resta al trasferente. Se la
cosa che trasferisco è una res mancipi l’atto di trasferimento sarà una mancipatio. Ma nell’atto della mancipatio, mancipando la
cosa posso riservarmi l’usufrutto. Quindi in questo procedimento l’usufrutto entra in gioco, ma non è l’oggetto della mancipatio.
L’oggetto della mancipatio è la proprietà, mentre l’usufrutto è la quota di riserva che io mi ritaglio e trattengo per me.

L’altra figura che Gaio cita è quella dell’eredità, che consente solo la in iure cessio. La in iure cessio hereditatis è una forma di in
iure cessio, che serve a trasferire l’aspettativa degli agnati, che sono gli eredi legittimi e volontari. Signficato di volontari→gli
eredi possono essere di due tipi: eredi necessari che diventano automaticamente eredi alla morte del pater familias; o eredi
volontari che hanno la possibilità di accettare o non accettare l’eredità durante un lasso di tempo. Durante questo lasso di
tempo c’è l’aspettativa della chiamata, ma non c’è ancora la certificazione dell’essere erede. Chi è stato chiamato può cedere la
sua aspettativa ad un altro, attraverso un in iure cessio. Quindi gli agnati sono i successori volontari, hanno la possibilità di
vedere l’aspettativa ad un terzo.

La quarta classe è quella delle obbligazioni. Questa classe ha un metodo tutto suo, dato che non va bene né la traditio né la
mancipatio e neanche l’in iure cessio, dato che non posso produrre l’effetto di trasferimento attraverso nessun negozio che ha
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citato Gaio. Inoltre afferma che è necessario che, su mio ordine (dice Gaio), tu ti faccia promettere dal terzo l’oggetto della
prestazione a me dovuta; cosa che fa sì che il terzo sia liberato nei miei confronti e incominci ad essere tenuto nei tuoi, e che
prende il nome di ‘novazione’ dell’obbligazione. È necessario, in questo modo, sostituire la vecchia obbligazione con una nuova
obbligazione. In questo modo quello che era il vecchio creditore, non è più un creditore e lo diventa un'altra persona (come se ci
fosse un trasferimento del credito). Queste modulazioni dovute alle combinazioni di corporali o incorporali e mancipi o nec
mancipi, dà vita a 4 categorie:
o Le res nec mancipi corporali vengono trasferite con traditio.
o Le res mancipi (che sono sia corporali, sia incorporali) con mancipatio o in iure cessio
o Le res nec mancipi incorporali (ad eccezione della servitù) solo con in iure cessio.
o Le obbligazioni che sono delle cose incorporali fanno eccezione, perché richiedono un meccanismo diverso: la novazione.

Il fatto di tracciare questa distinzione tra le cose che si possono toccare o no, e le cose mancipi e nec mancipi, ha prodotto un
effetto, ovvero l’effetto di mappare i modi in cui la proprietà delle cose possono entrare o meno nel nostro patrimonio.

Fin qui abbiamo parlato dei modi di acquisto della proprietà sulle cose, che corrisponde alla classe dei modi di acquisto della
proprietà a titolo derivativo. La proprietà si può acquistare anche a titolo originario, cioè senza che ci sia un passaggio da un
precedente proprietario. Tutto il seguito del libro di Gaio è dedicato ai modi di acquisto a titolo originario (l’occupazione, l’accensione,
l’isola nata dal fiume, la specificazione ecc.. che sono istituti che troviamo illustrati a pag 306 e seguenti). Il diaframma tra i modi di acquisto a titolo derivativo e
quelli a titolo originario è non a caso segnato da una forma ibrida, che è sia derivativa, sia originaria o forse non è né derivativa né originaria, è una forma a sé
stante. Cosa succede se io trasferisco una res mancipi usando una traditio; quindi, se io consegno materialmente una res
mancipi? Il risultato è che non ne trasferisco la proprietà civile, perché abbiamo detto che per la res mancipi serve o la
mancipatio o la in iure cessio. Ma produco qualche effetto? Si, se ci sono alcune condizioni produco l’effetto di trasferire, non la
proprietà della res mancipi, ma il possesso qualificato, che è in grado dopo un certo lasso di tempo di farmi acquisire la
proprietà. Questa procedura per cui il processo prolungato nel tempo mi permette di diventare prioritario civile della cosa si
chiama usucapione; quindi, se io trasferisco una res mancipi senza usare né la mancipatio né la in iure cessio, l’acquirente
acquista un possesso, che è destinato nel tempo a diventare di proprietà.

Ma dopo quanto tempo? Le 12 tavole hanno stabilito che ci volessero 2 anni per i fondi (cose immobili) e 1 anno per le altre
cose (mobili). Questo avveniva, purché ci fossero delle condizioni. Quali condizioni ci dovevano essere? Intanto la cosa doveva
essere idonea ad essere usucapita. Non tutte le cose possono essere nel nostro patrimonio, se le cose non sono di nostra
proprietà non possiamo neanche usucapirle. Quindi le cose sacre, religiose e pubbliche non possono diventare mie, neanche
attraverso l’usucapione. Non sono idonee all’usucapione neanche le cose rubate o le cose sottratte con la violenza. Se io rubo
una cosa e la faccio circolare, questa cosa diventa inidonea all’usucapione, anche se colui che la riceve è una persona di buona
fede. Stessa cosa succede se l’oggetto lo sottraggo con la violenza. Inoltre, serve che, almeno all’inizio dell’atto di acquisto di chi
riceve la cosa sia in buona fede, anche se poi nel corso del tempo il suo atteggiamento può cambiare.
Infine, serve che il trasferimento abbia una causa, un titolo legittimo. Come abbiamo visto la traditio permetteva l’acquisto della
proprietà, purché a monte ci stava una causa idonea, uno scopo idoneo/legittimo tutelato dall’ordinamento. Per le res nec
mancipi valeva la traditio, mentre per le res mancipi serve l’usucapione. Per esempio, se io ho acquistato con la compravendita
una res mancipi (un cavallo) il venditore si è impegnato a farmene avere il godimento, ma me la trasferisce con traditio, io ne
acquisto il possesso, ma a monte c’è una iuste causa; quindi, ne acquisto il possesso in quanto compratore. Quindi i requisiti
sono 5:
-il possesso
- il tempo
- il titolo (la iusta causa),
-la res (che deve essere habilis)
-la buona fede.
Con queste 5 caratteristiche la res mancipi può diventare di nostra proprietà con il decorso del tempo. Questo non è l’unico caso
di usucapione, perché si adatta anche ad un altro caso, che riguarda la traditio di un oggetto (sia che si tratta di res mancipi, sia
di res nec mancipi) che ci viene consegnato, da chi non è il proprietario. Se chi consegna non è il proprietario che effetti
produce? L’effetto di trasferire il possesso qualificato, che farà diventare proprietario dopo un lasso di tempo, 2 anni per le cose
immobili e 1 anno per le mobili.

TUTELA PROCESSUALE
Lez 10 ruva noemi

Come fare una volta che siamo titolari dell’oggetto a proteggerlo: proprietà quiritaria riconosciuta dal ius civile, che deriva dal
diritto civile (brano pag.212). Siamo all’inizio del 4 libro, Gaio ci dice che ci sono essenzialmente due tipi di azioni: le azioni in
rem (reali) e le azioni in personam.

o È in personam (obbligazioni) l’azione con cui agiamo ogni volta che ci contrapponiamo a qualcuno che è obbligato nei nostri
confronti, in forza di contratto o delitto e cioè quando pretendiamo che egli debba dare, fare o garantire.

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o L’azione è in rem quando pretendiamo che una cosa corporale sia nostra o che ci spetti un diritto. Le azioni in rem, diritti
reali, sono quelle che il pretore concede per tutelare una relazione del compratore e l’oggetto, possono essere esercitate
nei confronti tutti ERGA OMNES tutte le volte che viene ostacolata tale relazione. Le azioni in rem vengono definite
vindictiones mentre quelle in personam sono dette condictiones. Gaio suddivide le azioni in rem in 3 sottoclassi:

1. a tutela della proprietà quando pretendiamo che una cosa corporale sia nostra
2. a tutela dei diritti reali minori (usare e percepire i frutti, passare a piedi, diritto di non far togliere vista dal mio edificio, far
costruire ulteriori piani)
3. Azioni negatorie

Nelle azioni in rem i protagonisti sono la cosa e l’attore che usa la procedura e fa valere il diritto. Nelle azioni in personam oltre
all’attore e all’oggetto, abbiamo un ulteriore soggetto in scena. La tutela della proprietà civile è una tutela antica che ha le sue
radici nella storia di Roma e trova la sua collocazione nelle 12 tavole. Nel modello antico delle legisationes chi avesse perso il
possesso della cosa poteva convocare in giudizio chi ne avesse la disponibilità materiale in quel momento e chiedere al
magistrato la restituzione.

Nel corso del tempo questo modello viene superato e si sostituisce la Rei vendicatio: si poteva restituire o pagare la somma
equivalente della cosa. Era possibile proteggere la proprietà anche attraverso un’azione in personam perchè il proprietario
faceva promettere solennemente con una sponsio al possessore di restituire la cosa quando l’attore dimostrasse di essere il vero
proprietario (una promessa tipo obbligazione): agere in rem per sponsionem. Il vantaggio di questa procedura è il suo essere più
snella della procedura in rem, perché evita di richiedere a entrambe le parti di giustificarsi per attuare il proprio diritto sulla
cosa. Qui l’attuale possessore può anche non provare nulla, l’onere della prova è tutto nelle mani di chi deve provare di essere il
proprietario; questi due strumenti la tutela reale in rem con la legi actio sacramenti in rem e la tutela in personam attraverso il
contratto di sponsio, riflettono il nucleo interno della protezione della proprietà civile. Principio di esclusività della proprietà,
cioè avere il potere, possibilità di escludere gli altri: potere della esclusività.

o Tra il 3-2 secolo a.c. si è avvertita la necessità di dissociare all’interno del diritto di proprietà il titolo sulla cosa cioè il
diritto di proprietà stessa nudo dalla possibilità, dal diritto di utilizzare la cosa e coglierne i frutti: usufrutto. Quando esiste
un usufrutto questo comprime il diritto di proprietà, toglie delle facoltà del proprietario. Quando l’usufrutto finisce le
facoltà, proprietà tornano ad essere nelle mani del proprietario, in questo caso si parla di elasticità del diritto di proprietà:
compressione ed espansione.

In assenza di usufrutto, il proprietario aveva diritto di utilizzare lui stesso la cosa e sfruttarla, il pretore gli concede di
riottenere il possesso della cosa e negare l’esistenza dell’usufrutto ad un altro soggetto. Si chiama azione negatoria, l’azione
con cui nego che un altro soggetto abbia diritti reali minori che comprime la proprietà del possessore. Oggi si possono
paragonare le azioni negatorie con la protezione contro le turbative dell’esercizio della proprietà.

o A tutela della proprietà vi è un terzo gruppo che riguarda le relazioni di vicinato. Già le 12 tavole conoscevano dei mezzi
complementari per regolamentare i rapporti con il vicinato. Supponiamo che il proprietario di un fondo A, teme che B gli
possa procurare un danno con una sua proprietà (es. una costruzione sta per crollare). Qui si tratta di un danno che non è
ancora presente, è in–fectum. In questo caso io posso far promettere al mio vicino che se il danno diventerà effettivo, reale
mi risarcirà il danno. Questa promessa che io rivolgo al pretore per invitare il vicino a prestare questa promessa viene
chiama: CAUTIO DAMNI INFECTI (danno temuto). Se il vicino non promette, il pretore autorizza il possessore del fondo A di
entrare nel campo del vicino per mettere in sicurezza l’eventuale pericolo. E anche se io entro nel suo terreno e lui ancora
non garantisce questa promessa, il pretore può concedere che io mi immetta nel possesso del terreno del vicino, mi
permette di diventare proprietario nel decorso del tempo dopo 2 anni (USUCAPIONE). È uno strumento di sollecitazione
molto forte, protegge le aspettative del proprietario ma non solo esempio: sono proprietario del campo A ed ho una servitù
sul campo B e il proprietario campo B costruisce nuove opere che mettono a rischio la mia servitù o una nuova costruzione
rischia di fare danno al mio terreno o addirittura quando io cittadino vedono che su suolo pubblico vedo che sono costruite
opere nuove che fanno danno alla cosa pubblica. Posso rivolgermi al pretore e denunciare l’opera nuova (OPERIS NOVI
NUNTIATIO) e posso far sì che il pretore inibisca al vicino di continuare nel lavoro che ha iniziato. I lavori fatti dopo la
denuncia sono illeciti. Come fa vicino a continuare i lavori? presta una cautio, promette che anche se con i lavori provocherà
danni risarcirà il danno o demolirà la costruzione. Il diritto di proprietà è un argomento molto ampio difficile da
determinare, non è un diritto illimitato.

REI VENDICATIO

L'azione di rivendica è lo strumento che serve ad allineare il possesso rispetto alla proprietà. La proprietà è il diritto che indica
una posizione di titolarità giuridica di diritto sulla cosa. il possesso allude ad uno stato di fatto ad avere la disponibilità materiale
della cosa. La rei vendicatio è lo strumento che permette al proprietario, che ha il diritto di tenere per sé la cosa, di avere il
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diritto di rientrare in possesso della cosa stessa qualora l’avesse persa.
la legittimazione attiva = possibilità di rivolgersi al pretore di richiedere l’azione
la legittimazione passiva = la soggezione possibile all’azione esercitata in giudizio

Il processo formulare è costituito dalla parte in iure (davanti al magistrato in cui viene assemblata la formula e regolato l’aspetto
di diritto della controversia) e la parte apud iudicem (si raccolgono le prove). Nella fase apud iudicem, l’attore doveva
dimostrare di essere il proprietario civile e doveva mostrare un titolo d’acquisto (traditio, mancipatio, iure cessio o acquisto a
titolo originario). In caso di acquisto a titolo derivativo cioè nel caso in cui la cosa fosse stata trasferita da un altro non bastava
dimostrare un titolo, ma era necessario dimostrare di averla ricevuta dal proprietario. Inoltre, bisognava dimostrare che il mio
dante causa (colui il quale mi aveva trasferito il diritto) fosse il reale proprietario ma quindi serve che questo proprietario o
sedicente l’avesse ricevuta da un altro proprietario per poter dire di essere proprietario e così via. Quindi non serviva solo il
proprio titolo ma anche quelli passati degli altri proprietari. Questa viene chiamata prova diabolica (probatio diabolica). In realtà
non si andava indietro all’infinito ma bastava individuare un lasso di tempo sufficiente per dimostrare che l’attore o i dante
causa avessero usucapito la cosa. Una volta individuato il lasso di tempo idoneo allora potevo dire che lì vi era stata
un'acquisizione della proprietà civile. Da quel momento i passaggi successivi erano confermati. Se fossi stato erede avrei potuto
sommare il mio possesso ad usucapionem con il possesso ad usucapionem del mio defunto e sommare i lassi di tempo
(successio possessionis). Mentre nell’età classica non era possibile legare il tempo del mio possesso da quello della persona da
cui avevo acquistato il diritto a titolo particolare, con un contratto o anche un legato (accessio possessionis).

Il legittimato passivo è rappresentato da chi ha la disponibilità materiale della cosa, mentre il legittimato attivo è il proprietario.
Il termine possesso è un concetto molto ampio in realtà:

o coloro che possiedono la cosa per sé e sono convinti che spetti a loro il diritto di tenerla (a volte anche in mala fede),
vengono definiti POSSESSORI IN NOME PROPRIO, questi tipi di possessori vengono protetti dal pretore con gli interdetti che
sono degli strumenti con la funzione di proteggere la situazione possessoria
o individui che hanno la cosa ma sanno che la dovranno restituire: POSSESSORI IN COMODATO in nome altrui. Vengono
chiamati alieno nomine o pro alieno e sono chiamati in realtà DETENTORI come il locatario, comodatario, depositario che
hanno la cosa sapendo che la titolarità spetta ad un altro individuo e che la loro relazione con la cosa è solo transitoria e
funzionale a realizzare uno scopo specifico ossia custodirla e restituirla al deponente, usarla e restituirla al comodante ec..
non sono protetti dal pretore.
o tuttavia, vi è una classe all’interno dei detentori che riceve questa protezione, DETENTORI PRIVILEGIATI. comprende tre
figure la figura del precarista (colui il quale riceve la cosa per concessione gratuita dal proprietario senza formalità e può in
qualunque momento richiedergliela), del creditore pignoratizio (colui il quale tiene la cosa a titolo di pegno come garanzia
di credito), e del sequestratario (soggetto a cui le parti di un processo affidano la cosa per conservarla e poi consegnarla a
chi di dovere al termine della lite) pag.197

Gli interdetti erano procedure d’urgenza caratterizzate da rapidità. Ci si rivolgeva al pretore che concedeva questi strumenti
come tutela. Alcuni contenevano una clausola cosicché il possesso veniva affidato a chi tra i 2 contendenti vantava un possesso
giusto senza violenza e clandestinità o a titolo di precario. In tutti i casi in cui il soggetto è tutelato con un interdetto si parla di
POSSESSIO AD INTERDICTA mentre nei casi in cui viene concessa dal pretore una forma di tutela più ampia e complessa che
porta all’acquisto della proprietà per usucapione si parla di POSSESSIO AD USUCAPIONEM. Sono le due forme di tutela del
possesso. pag 298

Ulpiano scrive che il compito del giudice, sarà di verificare se il convenuto è possessore o meno. Ne rileva quale titolo egli
possieda: se avrà provato che la cosa è di sua proprietà, il possessore sarà automaticamente tenuto a restituire a meno che non
opponga qualche exceptio. Tuttavia, alcuni come Pegaso, ritengono che questa azione riguardi solo il possesso che da luogo alla
tutela degli interdetti uti possidet e utrubi. Dunque, l’azione di rivendica non è utilizzabile nei confronti del depositario o del
comodatario o del conduttore o di chi possiede per conservare i legati o la dote o per amministrare la quota dell’eredità
destinata al concepito non ancora nato o di chi è stato immesso nel possesso a seguito della mancata prestazione della cautio
damni infecti perché tutti costoro non sono possessori.

LA FORMULA DELLA REI VINDICATIO E LA TUTELA DELLA PROPRIETÀ CIVILE


Lez 11 ruva noemi

Il piano della protezione dei diritti attiene a livello processuale.


Si parla di protezione della proprietà, quindi l'azione che il pretore formulava nel suo editto, al fine di proteggere il diritto di
proprietà che risaliva al ius civile. Questo diritto di proprietà civile, a cui i soli romani potevano avere accesso, si chiamava
dominium ex iure quiritium.

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Il pretore proponeva anche di tutelare altre situazioni che non erano qualificabili a rigore, si parla di protezione in bonis habere,
cioè avere qualche cosa già in un patrimonio tutelato dal pretore (gli studiosi moderni la chiamano proprietà pretoria, definita
temporanea perché è il periodo che intercorre tra la presa in possesso di un bene e l'usucapione). Esistono anche altre riforme che
riguardano gli oggetti che non possono essere oggetto di dominium ex iure quiritium perché coinvolgono per esempio gli stranieri o possedimenti all'estero.
Proprietà civile quiritiana: è il processo formulare che tutela questo diritto di proprietà. Abbiamo già visto che nell’ editto era
presente una formula che si chiamava formula di rivendicazione petitoria (rei vindicatio), che tutela la procedura con cui il
proprietario agisce in giudizio quando ha perso il possesso/la disponibilità materiale della cosa che è sua. In linea di massima il
legittimato attivo della formula di questo tipo di azione è il proprietario civile, colui che può dire che la cosa è sua in base al
diritto dei quiriti (meum ex iure quiritium). Mentre il legittimato passivo è colui che tendenzialmente ha la disponibilità della
cosa, (ricordiamo che il giurista analizza i singoli aspetti anche quelli che sono più semplici e comprensibili). Abbiamo anche visto
che quando diciamo possessore intendiamo chiunque abbia la disponibilità materiale, che sia in grado di potere restituire la
cosa; però altri ritenevano che fossero solo coloro i quali a loro volta hanno a disposizione del loro tenere la cosa, un interdetto.

Che cosa deve fare il giudice se si trova di fronte a un soggetto, che d'accordo con la controparte, assembla una formula di
questo tipo: rei vindicatio, (rivendicazione, formula petitoria)?
“Sia giudice C, Se risulta che il fondo di cui si tratta è A in base al diritto dei Quiriti e il fondo non sarà restituito ad A in conformità con la valutazione arbitrale del
Giudice C., il Giudice C Condanni B a pagare ad A una somma pari al valore che avrà la cosa (al momento della sentenza). Se non risulta, lo assolva.”
Come abbiamo visto il processo formulare è bipartito. La prima parte si chiama fase in iure, si svolge davanti al
magistrato/pretore e qui viene costruita e certificata la situazione di diritto. La seconda parte si chiama fase apud iudicem, è
governata da un cittadino privato scelto, che deve raccogliere le prove e in qualche modo rispondere alle sollecitazioni che il
pretore sintetizza nella formula. Il giudice dovrà giudicare alla luce di questo testo.
La formula è costruita in periodi ipotetici, se risulta tale si condanna, in caso contrario si assolve. La prima cosa che deve fare il
giudice è provare che la pretesa (ciò che l’attore in qualche modo dichiara) è fondata. La pretesa è racchiusa nella prima parte
della formula:
intentio -> “Se risulta che il fondo di cui si tratta è di A in base al diritto dei Quiriti…”. Quindi il giudice deve certificare
l'affermazione dell’attore, cioè che la cosa è sua in base al diritto dei Quiriti, è fondata. Sta all’attore quindi provare il suo diritto
di proprietà.
Pronuntiatio de iure: pronuncia specifica del giudice (che è il nucleo dell’azione). Se l’attore non riesce a fornire la prova di
questo diritto, il giudice deve assolvere il convenuto. Ma se l’attore dimostra che la cosa è sua, che è davvero il proprietario
civile, il giudice deve stabilire le condizioni alle quali può avvenire la restituzione della cosa: ordine di restituzione (iussum de
restituendo), prima si accerta il diritto, se viene accertato allora si procede con la restituzione.
La caratteristica di un processo formulare è che l’imposizione che il giudice può imporre al convenuto è sempre una somma di
denaro (è quindi pecuniaria) equivalente alla cosa che non ha più. Il meccanismo è quello di permettere al convenuto (per
evitare la condanna) di restituire la cosa. È possibile fare solo ciò che è contenuto nella formula; quindi, tutti i comportamenti
che noi possiamo aspettarci devono essere riflessi nella formula, altrimenti non hanno valore. È necessario che la formula stessa
ci dica ciò che è possibile, e ce lo dice: “…e il fondo non sarà restituito ad A in conformità con la valutazione arbitrale del Giudice
C” -> questo si chiama clausola restitutoria/arbitraria, la cui funzione è quella di consentire al convenuto di restituire la cosa,
evitando così la condanna pecuniaria.
È importante inserire questa clausola perché la litis contestatio è il momento in cui si fissano le condizioni su cui si baserà il caso.
Se questa parte non ci fosse, e la litis contestatio accertasse semplicemente che il convenuto/l'attore è proprietario della cosa,
allora dobbiamo immaginare di escludere questa parte della formula dal testo, in quel caso il giudice dovrebbe semplicemente
condannare a una pena di denaro solo sulla base della prova della proprietà, a prescindere dal fatto che il convenuto abbia
restituito oppure abbia perso la cosa. Allora questa parte consente al convenuto di restituire la cosa anche in un momento
successivo alla litis contestatio.

Ma cosa succede se il possessore invece non vuole restituire oppure per negligenza o per caso fortuito, perde la cosa? Le
conseguenze della mancata restituzione sono per il convenuto più gravose della restituzione.
Se non restituisce la cosa per un motivo a lui imputabile, per incentivare il convenuto a restituire bisogna far sì che la condanna
abbia una somma che eccede il valore della cosa; quindi, sceglierà di restituire la cosa. Se non restituisce la cosa, allora il giudice
inviterà l’attore stesso a dare un valore alla cosa, con dei limiti elevati, così da includere il suo interesse a riavere la cosa stessa.
Se invece la mancata restituzione non dipende dalla malafede del convenuto, è nel potere del giudice decidere il valore della
cosa, che sarà comunque più alta del valore di mercato.

Cosa significa restituire la cosa? Significa rendere l'oggetto. Poniamo che la cosa produca dei frutti oppure che si deteriori, in
linea generale la regola è che per i giuristi romani restituire la cosa significhi restituire il corpo della cosa, cioè l'oggetto
materiale del possesso, ma anche la causa rei, cioè tutto ciò che dipende dalla cosa e/o tutto ciò che l'attore avrebbe potuto
avere se il corpo della cosa fosse stato restituito al momento della litis contestatio (che è sempre il nostro punto di riferimento).
Sta quindi al convenuto restituire la cosa dal primo momento utile, non solo prima della litis contestatio, ma anche dopo. Se il
giudice ha formulato la sua pronuntiatio de iure, cioè ha accertato il diritto di proprietà, e dica di restituire la cosa, da questo
momento in poi non ci sono più scuse.

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AZIONE UTILE IN REM
Lez 12 ruva noemi
Quando abbiamo parlato di processo abbiamo visto che nel programma di governo del pretore all’inizio dell’anno prometteva di
tutelare delle situazioni, alcune delle quali erano previste dalla legge. Le azioni che il pretore prometteva di concedere erano
fondate sul ius civile, altre azioni erano fondate sul proprio apprezzamento delle situazioni. Quando si usciva dall’ambito del ius
civile e si riteneva necessario l’intervento del pretore, egli poteva agire in tre modi:
o formule infactum conceptae = poteva costruire delle formule completamente slegate dal diritto civile, sulla base delle
circostanze di fatto che riteneva degne di essere protette;
o formulae ficticiae = costruiva delle formule sul modello di quelle già esistenti ma cambiandone qualche parte con
l’aggiunta di una finzione
o trasposizione dei soggetti = Il cambiamento poteva riguardare un meccanismo per cui cambiavano i soggetti coinvolti nella
formula
Teniamo distinte le formule infacto dalle azioni infacto che sono azioni decretali, cioè quelle che il pretore concede fuori
dall’editto. Le azioni infacto possono essere a loro volta delle tre categorie sopra citate: fittizie, con trasposizione di soggetto
oppure costruite infactum.

Le formule infactum sono un modello molto antico al quale si affianca un altro modello un po’ più recente che è quello delle
formule fittizie. La parte cambiata è l’aggiunta di una finzione, cioè una clausola in cui invita il giudice a giudicare come se un
certo fatto fosse accaduto o non fosse accaduto.
Il terzo consiste nel modificare i soggetti della formula da una parte all’altra del testo: trasposizione dei soggetti. Era un
meccanismo per dichiarare di avere una pretesa nata da un rapporto con un soggetto sottoposto all’altrui potestà, ma poi al momento della condanna il
soggetto menzionato era il pater familias.
Quando la formula è ricalcata su un’azione esistente parliamo di “azione utile“, categoria che raccoglie tutte le formule che il
pretore costruisce modificando in un punto un’azione già esistente e in particolare raccoglie due tipi di azioni: la formula utile e
la formula con trasposizione di soggetti.
o La formula utile è sempre costruita sull’esempio di un’azione edittale già esistente “ad exemplum”.
Il pretore ancora una volta non può intervenire direttamente sul ius civile, quello che fa è aggirarlo e per farlo utilizza degli
strumenti indiretti, riportando le cose in equilibrio.
Uno dei modi di acquisto della proprietà a titolo originario a Roma era l’accessione. L’accessione allude a un principio giuridico
per cui quando due cose si uniscono fino al punto di formarne uno solo (con delle caratteristiche nuove) allora bisogna
scegliere il proprietario tra i due. Nel caso dei terreni quando qualcosa viene costruito su un altro terreno (si fonde col terreno
stesso) si riteneva ragionevole che la “cosa principale” fosse il terreno. Questo principio viene trasformato nel principio giuridico
di “superficies solo cedit”, secondo il quale tutto ciò che viene costruito sul suolo altrui ne costituisce un incremento e quindi
spetta al proprietario del suolo.

(Pag. 308) Per quanto riguarda i beni mobili i giuristi hanno discusso su quale fosse la parte maggiore e quella minore. In generale
c’è una regola più ampia che vuole che se i due oggetti assemblati potevano essere separati senza danno di nessuno dei due,
allora ciascun proprietario poteva chiedere la separazione e poi rivendicare la propria parte. Se invece la cosa non poteva essere
separata senza danno allora entrava in funzione il meccanismo dell’accessione: il proprietario della cosa maggiore diventava
proprietario anche dell’elemento secondario.

Un caso che tratta di questo tema è il caso dell’opera d’arte, come per il fondo, si tratta di capire di chi sia il manufatto
realizzato. I giuristi hanno dibattuto a lungo su questo punto fino all’età di Giustiniano in cui si è deciso che la cosa principale è
l’opera d’arte, per cui l’artista ha diritto a tenersi la cosa.
Nell’ambito dell’accessione Gaio fa delle considerazioni. Dice che se qualcuno ha dipinto un ritratto su una tavola che non gli
appartiene, è accolta l’opinione opposta rispetto a quella evidentemente detta prima: é piuttosto la tavola che accede alla
pittura. Senza dubbio se si segue quest’impostazione qualora possedendo io la tavola tu rivendicherai che il ritratto è tuo, ma senza rimborsare il prezzo della
tavola potrai essere respinto in forza di un’eccezione di dolo; ma se a possedere sarai tu, sarà logica conseguenza concedere un’azione utile nei tuoi confronti. In
questo caso se io non ti rimborserò il valore del dipinto mi potrai respingere con un’eccezione di dolo, sempre che tu sia un possessore di buona fede perché se
tu (o un altro) mi avrai sottratto la tavola ti spetterà anche l’azione di furto.
La tavola dipinta non è più la tavola che era prima, quindi se io ho un oggetto grezzo (una tela) e poi lo dipingo il valore non è più lo stesso e quindi si tratta di
capire a chi spetta la proprietà dell’insieme. L’impostazione che accoglie Gaio è quella per cui l’artista diventa proprietario civile e quiritario della cosa. Il
proprietario della tavola non ha più niente perché perde la proprietà sulla tavola stessa.
Al termine del procedimento c’è un solo proprietario civile, che in questo caso è l’artista.
Gaio però dice che quest’azione ha un profilo di iniquità perché chi ha perso la proprietà vorrà perlomeno essere rimborsato del
valore del supporto materiale. Come fa ad ottenerlo? Dipende da chi è in possesso del mandato complessivo. Osserviamo due
casi:

1. Il primo caso è quello in cui ad avere il pieno possesso dell’oggetto resti il proprietario della tavola.
Es = io invito a cena un mio amico che è un celebre artista, il quale porta sempre con sé dei colori e si diverte durante la cena a dipingere un ritratto che poi
mi lascia. Il giorno dopo viene da me e pretende di avere l’opera d’arte che ha realizzato e io gli dico di no perché la tela era mia, ma lui si appella alla
regola che dice che in questi casi l’opera è dell’artista. Litigando poi lui mi chiama davanti al pretore con lo strumento della rei vindicatio. Come faccio io
quindi a dirgli che l’opera la può tenere pure lui ma che io mi aspetto perlomeno un rimborso della struttura su cui l’opera è stata creata? Devo usare

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l’eccezione di dolo. Poteva essere utilizzata per il rimborso delle spese effettuate sulla cosa e in questo caso non è in gioco il
rimborso delle spese ma il rimborso del valore della tavola. Se tu vuoi riavere il tuo oggetto senza rimborsarmi
evidentemente sei in dolo e quindi io ti blocco con la mia eccezione.
2. Il secondo caso è quello in cui sempre a questa cena io abbia un altro celebre artista che si mette a dipingere, ma che una volta dipinto poi si porta il
manufatto a casa. L’indomani io lo chiamo e gli faccio presente la cosa ma lui mi dice che la regola vuole che il proprietario sia lui, allora io chiedo come ci
possiamo organizzare con il rimborso della tavola. Lui dice che non sapendolo si tiene la tavola senza darmi nulla. In questo caso non
si può utilizzare la rei vindicatio e quindi se non c’è un’azione non ci può essere nemmeno un’eccezione (dolo). Non posso
nemmeno far valere il diritto di proprietà sulla mia tavola perché non ne sono più il proprietario. Cosa posso fare quindi?
Entrerà in gioco l’azione del pretore che per riequilibrare la situazione e mettere fine allo squilibrio introdurrà un’azione
utile in mio favore. Un’azione in rem che è modellata sulla rei vindicatio ma che potrà essere utilizzata anche dal non
proprietario. Quindi il giudice valuta le cose come se l’accessione non ci fosse mai stata. Se la decisione del giudice era che
io ne fossi il proprietario allora mi concedeva di riottenere il valore della cosa (la tela), quindi anche in questo caso la
compensazione tra il valore della tavola e il valore del manufatto avverrà attraverso l’esperimento di un’eccezione da parte
dell’artista. L’artista opponendo la sua eccezione metterà il giudice nelle condizioni di valutare il valore complessivo del
manufatto e di dare a me -che sono l’antico proprietario della tavola- la mia parte e all’artista lasciare il manufatto. Gaio poi
aggiunge che tutto questo vale nel caso in cui la tavola non sia stata rubata perché in questo caso si userà un ulteriore
strumento di tutela da parte dell’ex proprietario della tela, l’azione di furto.

L’usucapione è quel modo di acquisto della proprietà per cui si diventa proprietari con il decorso del tempo, ma a certe
condizioni. Se uno acquista il possesso della cosa in nome proprio per un periodo di tempo fisso (due anni per gli immobili e un
anno per i beni mobili), lo acquista in buona fede su una cosa che è idonea ad essere usucapita (perché non è una cosa né extra
commercium -quindi possiamo farla entrare nel nostro patrimonio- e né è stata rubata o ottenuta con la violenza) e il titolo di
acquisto è valido allora io con il passaggio del tempo posso diventarne proprietario. Queste sono le cinque condizioni
fondamentali per l’usucapione:
1. Res abili, cioè che la cosa sia idonea
2. Titulus o giusta causa di acquisto
3. Fides, la buona fede nell’acquisto
4. Possesso in nome proprio della cosa
5. Tempus, decorso del tempo.
Quando il proprietario civile di una cosa viene spossessato può utilizzare la rei vindicatio per far valere le sue ragioni. Ci sono dei
casi però in cui non è il proprietario a perdere possesso ma è il possessore e in particolare il possessore ad usucapionem.
Questo è un caso frequente perché l’usucapione avviene con il corso del tempo; quindi, c’è una finestra temporale in cui il
possessore ha tutte le carte in regola per diventare proprietario, ma non lo è ancora diventato perché manca il passaggio del
tempo. Cosa succede se perde il possesso della cosa in questo lasso di tempo? Non può ancora usare la rei vindicatio perché non
è proprietario civile e quindi entra in gioco l’azione publiciana. L’azione publiciana viene introdotta dal pretore per proteggere il
possessore ad usucapionem che non è ancora diventato proprietario perché non è ancora passato il tempo. Quando il
possessore è meritevole di quest’azione?
Gaio dice che è meritevole in due casi:

1. Quando io trasferisco con un atto idoneo (conforme al tipo di res) ma io non ne sono il proprietario. Se io trasferisco la cosa
da non proprietario -sebbene utilizzando un atto formalmente corretto- io non posso trasferire la proprietà, per il semplice
fatto che non ce l’ho io. Trasferisco allora il possesso che è destinato a diventare proprietà con il passaggio del tempo;
2. Il secondo caso è quello in cui io sono effettivamente il proprietario ma utilizzo uno strumento non idoneo. Se io consegno
materialmente (faccio traditio) una res mancipi non trasferirò una proprietà ma solo il possesso ad usucapionem.
Es = Io faccio traditio di un cavallo da corsa con il suo carro perché li voglio vendere o donare entrambi a un altro soggetto. Glieli
consegno entrambi con traditio e dopo sei mesi l’acquirente perde il possesso di questi beni. Cosa succede? Per il carro (che è
una res nec mancipi) il mio trasferimento -essendo io il proprietario- ha dato vita a un titolo di proprietà e quindi se lo perde
potrà rivolgersi al possessore con una rei vindicatio perché è il proprietario quiritario. Per il cavallo invece (res mancipi) la mia
traditio sarà inidonea a fargli acquistare la proprietà, ma gli farà ottenere il possesso ad usucapionem. In relazione al cavallo
dovrà utilizzare uno strumento diverso della rei vindicatio per riottenere il possesso o il valore del cavallo, dovrà utilizzare l’actio
publiciana.

L’actio publiciana quindi è l’azione concessa dal pretore al possessore ad usucapionem per riottenere (al pari della rei
vindicatio per il proprietario quiritario) il possesso della cosa perduta. L’actio publiciana è un’azione utile perché viene costruita
modellando un’azione esistente, la rei vindicatio. Si tratta di fare in modo che anche chi non è il proprietario quiritario possa
accedere a uno strumento simile a quello della rivendica.

Come si fa ad ottenere questo scopo?


Si inserisce una clausola che abbiamo visto essere di finzione. Si tratta della stessa formula della rei vindicatio.
Il pretore non finge che il possessore sia anche proprietario, ma dice: “immaginiamo che il tempo necessario sia già decorso,
sarebbe già potuto diventare proprietario o no?”. Questo vuol dire che gli altri quattro requisiti per l’usucapione devono essere
approvati dall’attore. L’oggetto della finzione in senso stretto è quindi il tempo, il resto va dichiaro in giudizio.
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L’usucapione può essere utilizzata in due casi:
o caso di acquisto del possesso da colui che non è il proprietario quiritario, è una tutela completa al 99% perché funziona nei
confronti di tutti tranne che per il proprietario quiritario
o il caso di trasferimento della cosa tramite un negozio inidoneo, qui l’azione publiciana protegge il possessore nei confronti
proprio di tutti
Entrambi i livelli realizzano un tipo di tutela di una situazione che non è civile, per cui Gaio dice che ci sono due livelli di
proprietà: civile e pretoria.

1. Poniamo il caso in cui un soggetto A venda a un soggetto B il cavallo di un soggetto C e lo trasferisca con una mancipatio,
quindi apparentemente è tutto in ordine. Il problema è che A non è il proprietario del cavallo e quindi non trasferisce la
proprietà a B. Un giorno B passeggiando con l’animale, incontra il proprietario civile che riporta a casa il cavallo. Il soggetto
B non essendo il proprietario quiritario, quindi non avendo la proprietà sul cavallo non può usare la rei vindicatio. Cosa può
fare allora? Essendo possessore ad usucapionem potrà provare ad utilizzare l’actio publiciana, ma in questo caso essendo il
possessore anche proprietario civile può opporre un’eccezione di giusto dominio che fa si che l’attore non possa avere la
meglio nei confronti del proprietario quiritario: “exceptio iusti domini“.

2. Prendiamo il caso in cui invece un soggetto A sia il proprietario del cavallo e venda il cavallo con un atto inidoneo a un
soggetto B con una traditio. Durante una passeggiata il cavallo riconosce il soggetto A e lo riporto a casa sua. In questo caso,
essendo che A è il proprietario, ma anche colui il quale ha dato titolo per l’acquisto ad usucapionem, allora ci sarà la
possibilità di una contro eccezione (“replicatio“) da parte del possessore ad usucapionem che farà valere il dolo. Solo in
questo caso il proprietario quiritario non ha la meglio sul possessore ad usucapionem.

3. Poniamo ora il caso che un soggetto A il quale non è il proprietario del cavallo, trasferisca per mancipatio a un soggetto B lo
stesso. B non acquista la proprietà del cavallo, ma il cavallo resta in suo possesso. Tempo più tardi passa il vero proprietario
del cavallo (proprietario civile), vede il cavallo e lo reclama come proprio. Qui cambia che il possessore non è più il
proprietario civile ma è il possessore ad usucapionem. Cosa può fare il proprietario civile per riottenere il suo cavallo? Potrà
fare la sua rei vindicatio. Il possessore ad usucapionem non potrà opporre nulla perché di nuovo ha la meglio il proprietario
quiritario. L’unica cosa che potrà fare l’acquirente è prendersela con A che gli ha venduto il cavallo. Eserciterà un’azione che
riguarda la compravendita (in personam) in cui si rivarrà sul venditore.

4. L’ultimo caso è quello in cui un soggetto A è effettivamente il proprietario del cavallo e questa volta lo vende a un soggetto
B e lo trasferisce con una traditio. B in forza di questa traditio non diventa proprietario civile del cavallo, ma solo possessore
ad usucapionem. Poniamo che A in malafede abbia l’idea di usare nei confronti di B, la rei vindicatio, cioè A dopo aver
venduto e trasferito il possesso, porta in giudizio B poiché il proprietario quiritario è rimasto A e ha ancora diritto a usare la
rei vindicatio. Ma B davanti al pretore potrà dire che A è il suo dante causa e quindi B blocca A con un’eccezione di cosa
venduta e consegnata. Quando non era il proprietario ad aver venduto la cosa allora si trovava in sicurezza, ma se invece era stato lui allora il sistema
di equilibri di pesi e contrappesi che il pretore crea va a vantaggio del possessore ad usucapionem e in questo caso possiamo parlare di un tipo di proprietà
che è protetta nei confronti di tutti, compreso il proprietario civile.

LA SUPERFICIE
Lez 13 ruva noemi
COME SI PROTEGGONO LE OBBLIGAZIONI A ROMA?
principio accessione → per cui quando due oggetti sono uniti per formarne una intera, la cosa che costituisce la maggior parte
dell’intero è considerata come primaria e il suo proprietario diventa proprietario dell’intero e diventa proprietario anche della
porzione minore (per cui la parte più piccola è considerata accessoria.)

BENI IMMOBILI

Gli immobili/ il suolo vengono considerati come la cosa maggiore/principale. Vi sono varie correnti di pensiero: chi pensa questo
perché senza esso l’edificio non potrebbe sorgere e quindi il suolo ha la sua priorità. Oppure perchè il suolo c’è sempre, è eterno
mentre l’edificio no. Da un punto di vista della precarietà dell’oggetto quello che c’è sempre è la cosa principale.
Successivamente, sulla base di queste idee, si stabilizza una regola/ una massima che recita “la superficie accede al suolo”. È
una massima molto antica e tocca il nucleo del diritto a roma: è una massima di ius civile. Questa massima è rigida e per questo
è difficile da scalfire perché la regola vale sempre, non ha eccezioni. Tuttavia, questa regola ha degli inconvenienti perché il
principio dell’accessione entra in conflitto con delle esigenze economiche e politiche sia pubbliche che private.
Esistevano già degli edifici di più piani con più famiglie e immaginiamo quindi la difficoltà che il principio civilistico comporta: il
problema della distribuzione degli spazi cittadini.

o FINALITÀ POLITICA: Questo problema sorge nel V sec anni 50 (456), sono anni di scontro tra patrizi e plebei. I plebei
rivendicavano le terre. Icidio (tribuno di quell’anno) propone di distribuire alla plebe le terre che si trovano sull'Aventino
per costruire degli edifici. Si tratta di terre pubbliche e si vuole dare la possibilità alla plebe di costruire su terre pubbliche,
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edifici, tenendo la proprietà civilistica del suolo ma dando la possibilità di sfruttare la terra. Si ipotizza quindi una
dissociazione della proprietà civilistica della terra e la possibilità di sfruttare ciò che sta sopra la terra (superficie).

o FINALITÀ ECONOMICA: durante il periodo successivo, quello repubblicano, si decise di affittare spazi commerciali di
proprietà pubblica all’interno del foro romano. Questi spazi (tabernae) venivano affittati dal pubblico al privato che poteva
quindi sfruttarli. In questo modo si risolveva il problema di conservare la proprietà dell’immobile ma concedere diritto di
sfruttamento al privato.

Il problema di dissociare la proprietà del suolo rispetto allo sfruttamento si pone anche ai privati nell'interesse dei privati di
cedere il diritto di edificare sul proprio suolo o di sfruttare un edificio già esistente. Siccome non posso vendere l’immobiile,
faccio un contratto con un altro soggetto impegnandomi contrattualmente con egli per concedergli lo sfruttamento dell’area
edificabile o edificata. Questo tipo di contratto era individuato come compravendita ma più spesso come locazione: nasce
quindi un rapporto obbligatorio. Ci sono, però, delle clausole nel contratto di locazione (lex locationis).
o Se il titolare del diritto di sfruttamento dell’edificio subisce turbative può reagire SOLO rispetto alle turbative che vengono
dal locatore. Questo perché lui è solo il conduttore e non ha un diritto reale: non può presentare un’azione in rem erga
omnes ma solo un’azione in personam nei confronti del locatore.
o Non ha neanche neanche possibilità di interdetti possessori perchè non è possessore in nome proprio. Essendo un
conduttore la cosa non è sua ma appartiene al proprietario del suolo. Troviamo quindi delle soluzioni.

Com’è costruita l’azione in personam a tutela della locazione?

1. La locazione è un contratto consensuale (concluso solo sulla base del consenso) protetto da un’azione di buona fede. È una
classe che include delle formule di giudizio che, per il fatto di essere riguardanti situazioni che i giuristi definiscono come accordi universali, possono essere
sfruttati nel commercio internazionale per massimizzare le aspettative economiche dei contraenti. Questi giudizi sono strutturati in maniera
tale da concedere al giudice delle capacità e libertà di valutazione più ampie rispetto a quelle dei giudizi di stretto diritto
(che non sono di buona fede). Queste formule che concedono più libertà al giudice sono le azioni di buona fede. Questo
implica che nei giudizi di stretto diritto (come rei vendicatio), invece, le pretese del convenuto (gli elementi che vuole far
valere) devono essere presentate al pretore con una exceptio, ma il testo è rigoroso e qualora non venga inserita nel testo
questa clausola, il giudice non può prendere in considerazione gli elementi del convenuto. Questo non avviene nei giudizi di
buona fede, l’exceptio non è necessaria: in tutti i casi in cui serve NEI GIUDIZI DI STRETTO DIRITTO un’eccezione per far
valere elementi a sostegno del convento, nel giudizio di buona fede non è necessario. Cosa prende in considerazione il
giudice? può prendere in considerazione tutte le clausole del contratto, chiamati patti. I patti sono accordi che vengono
tutelati di norma, che non danno origine a delle azioni, ma che si possono far valere quando il convenuto si difende con una
exceptio patti. Man mano il contratto di locazione si trasforma in un contratto sempre più complesso.

2. Vi è una seconda possibilità offerta al giudice dalla formula del contratto di locazione. Sappiamo che la clausola delle azioni
in buona fede, è costruita con un intentio diversa da quelle delle azioni in rem dove l’intentio è determinata e precisa: “se
risulta che la cosa è mia in base al diritto dei quiriti…”, quindi viene messa a fuoco la pretesa. In questo caso, invece,
l’intentio è indeterminata, (l’intentio è la parte in cui si dice: “con riguardo a tutto ciò che per tale causa deve dare o fare
secondo buona fede”). NON VI È ESPRESSA LA PRETESA ESATTA FATTA VALERE DALL’ATTORE ma si rimanda agli obblighi in
capo alla controparte. Per sapere quali sono gli obblighi bisogna far precedere l'intentio alla demonstratio che serve a
esprimere la causa che dà vita alle nostre pretese indeterminate. Quindi poiché ho stipulato un contratto di locazione
(l’attore è il conduttore) pretendo che l’altra parte agisca in un determinato modo. Quindi capiamo a cosa serve la
demonstratio: indica, dimostra la causa delle obbligazioni che sorgono in capo alla controparte. Quella causa contrattuale è
la locazione, ma è anche vero non viene preso in considerazione solo il contratto standard di locazione ma il contratto di
locazione con tutto il contorno ovvero tutte le clausole che lo trasformano in un contratto di locazione in perpetuo o in cui
si dà la possibilità ad altri di trasferire il diritto.

Cosa possiamo chiedere al locatore? Di cedere le sue azioni in rem al conduttore stesso. Ovvero, se il conduttore viene
disturbato da terzi nel suo sfruttamento, può chiedere che sia il locatore (proprietario) ad agire. Il locatore deve agire per mio
conto, se non lo fa lo chiamo in giudizio con questa azione contrattuale e costringo il locatore a pagarmi i danni. Costringo la mia
controparte (il locatore) ad usare le azioni in rem visto che lui può farlo. Si tratta di una prima forma di protezione sul piano di
diritti reali ma indiretta perché ottenuta attraverso un procedimento lungo.
Questa è una prima fase di protezione di questo diritto, che non possiamo ancora definire proprietà perché è una forma di
protezione che passa necessariamente attraverso l’azione che nasce dal contratto. Siamo sempre sul piano dello ius civile ma sul
fronte delle obbligazioni: è una tutela in rem indiretta.

Verso I sec AC, verso la fine della repubblica, Il pretore inizia a considerare che quel tipo di sfruttamento che ha il nostro
inquilino è un tipo di sfruttamento che merita almeno una protezione cautelare. L'inquilino non è un possessore in senso
stretto perché non è il titolare del bene di cui ha lo sfruttamento, quindi, non possiede in nome proprio. Quindi non ha diritto
ad usare l’interdictum uti possidetis (interdetti possessori) per difendere il possesso non violento, non clandestino rispetto
all’altra parte che disturba il possesso.
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Allora il pretore introduce un secondo interdetto e lo modella sulla base dell’interdetto già esistente. Interdictum de
superficiebus: viene protetto lo sfruttamento che nasce sulla base del contratto. Il punto di partenza è sempre il contratto di
locazione. Cosa può fare il non proprietario per proteggere il suo diritto?
o può prendersela con il proprietario del suolo. Può utilizzare l’azione che deriva dal contratto nei confronti del
proprietario se è il proprietario stesso a turbare il suo sfruttamento
o può costringere il proprietario sulla base dello stesso strumento a rivolgersi a terzi se sono terzi a turbare lo
sfruttamento
o Inoltre, a partire dalla fine della repubblica può anche utilizzare un interdetto in nome proprio senza passare dal
proprietario.
Si tratta di una tutela cautelare non è ancora una protezione piena sul piano dei diritti reali. Un ulteriore avanzamento va nel
concedere al conduttore una tutela che sia il più possibile simile a quella del proprietario.

Nei decenni successivi tra repubblica e principato il pretore concede al conduttore un’azione in rem in conoscenza di causa
(causa cognita) sulla base delle circostanze. Il pretore non può promettere un’azione in rem nell’editto ma se viene dimostrato
(quindi stiamo parlando del gruppo delle azioni decretali fuori dall’editto) che si ha un diritto che merita una tutela in rem allora
il pretore sarà disposto a concedere un’azione in rem, modellata a tutela della proprietà sulla rei vindicatio (esattamente come
le azioni per la difesa del proprietario della tavola e per il possessore ad usucapionem). Questo è un ulteriore esempio di come il
pretore intervenga concedendo un’azione modellata sulla rei vindicatio, un’azione probabilmente utile.

Quali sono le circostanze? Ulpiano dice per esempio che se la locazione è a breve termine già esclude che il pretore possa
concedere un’azione in rem. Quindi dev’essere una locazione lunga e devono esserci anche altre condizioni, come la possibilità
di trasferire il diritto ad altri eredi ecc. Viene quindi introdotta una tutela in rem ma non più sul piano del diritto civile ma
protetto sul piano di ius honorarium, sul piano del diritto pretorio. Successivamente, essendo tutelato in rem diviene un diritto
reale sulla base del diritto pretorio. Diventa un diritto reale perché questa formula basata sulla rei vindicatio può essere
utilizzata nei confronti di tutti erga omnes, non solo nei confronti del proprietario del suolo. Il pretore inizia a concedere in via
utile (modellate sulle azioni civili) anche tutte le altre azioni che abbiamo visto essere a tutela del proprietario (azione di
regolazione dei confini, azione negatoria di usufrutto ecc). Si modella su quelle azioni anche delle nuove azioni che sono a tutela
del superficiario: in questo modo il superficiario si trasforma in un vero proprietario ma sul piano del diritto pretorio. Il
superficiario si trasforma in un proprietario che però deve sempre dimostrare di avere un diritto assimilabile a quello del
proprietario, deve presentare al pretore le circostanze in cui è nato il suo diritto e viene tutelato sul piano del diritto pretorio.
Il superficiario avrà a disposizione un fascio complesso di strumenti che lo tutelano dalle turbative del suo sfruttamento.

Quindi il superficiario sarà tutelato: da una parte sul piano del diritto civile, sulla base di azioni in personam attraverso un
rapporto obbligatorio che lo lega solo al proprietario del suolo (solo con lui ha un rapporto obbligatorio). E dall’altra parte sul
piano del diritto onorario che diventa simile a quella del proprietario in rem. Sono strumenti in rem sia l’interdetto sia l’azione
che vengono concessi al conduttore a tempo indeterminato secondo alcune circostanze. Questo sistema di protezione di alcune
situazioni reali, attraverso il meccanismo di protezione sul piano obbligatorio con la costruzione di un diritto pretorio che
corregge il ius civile, non si limita alla superficie ma viene applicato ad altre situazioni. Viene applicato, in particolare, per i fondi
che sono di proprietà pubblica, chiamati AGER VECTIGALIS. Su questi fondi di proprietà pubblica lo stato conserva una
proprietà e spesso concede il fondo sia per edificazione per sfruttamento agricolo in cambio di un contributo: una via di mezzo
tra il pagamento di un'imposta e di un canone locatizio, questo contributo era il VECTIGAL. Finché il canone era pagato, il
conduttore non poteva essere spossessato e poteva trasmettere il suo diritto. In questo caso il titolare del diritto di
sfruttamento sull’ager vectigalis non è il proprietario perchè il proprietario è l’ente pubblico e non è possessore perchè
pagando un canone sa di possedere in nome altrui.

Gaio, parlando di questa situazione, cita questo caso come un caso di confine tra compravendita e locazione. Il pagamento del
canone e la revoca della concessione in caso di sospensione del pagamento stesso e delle coltivazioni, faceva pensare ad un
contratto di locazione, mentre la trasferibilità del diritto e la perpetuità dello stesso rendevano più verosimile l’analogia con la
vendita. I giuristi tendono a dire che si trattasse di locazione. A partire da qui anche per gli agri vengono concesse le azioni utili a
difesa del nostro diritto di sfruttamento sul suolo.

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Gli agri vectigales nella tarda antichità con giustiniano vengono successivamente associati con un altro tipo di contratto di
origine greca: ENFITEUSI. Sempre diritto di sfruttamento agricolo dei terreni che prevede il pagamento di un canone periodico. Il
discorso che vale per queste figure è molto simile a quello che vale per la superficie. Anche qui viene introdotta una tutela reale
ma sul piano del diritto pretorio attraverso la concessione di azioni utili. L'enfiteusi e la superficie sono il nucleo della dottrina
medievale del dominio diviso.

SUCCESSIONI: LA BONORUM VENDITIO


ruva noemi lez 14

Questa vendita (bonorum venditio) di beni è un fenomeno di cui gaio stesso ci parla nel terzo libro prima del tema delle
obbligazioni ed è un tipo di successione che coinvolge la vendita di beni che possono essere di vivi o di morti.
Vivi: i condannati dopo il periodo che è loro attribuito
morti: chi non aveva eredi
il debitore che non avesse pagato un determinato debito poteva essere chiamato in giudizio da parte del creditore e qualore il
pretore avesse accertato il deito, il debitore non era più tenuto a restituire la somma di denaro in forza di un’obbligazione ma in
forza della sentenza stessa. Qualore continuasse a non pagare,il creditore, passato un certo periodo di tempo, poteva chiamarlo
di nuovo in giudizio con un’azione chiamata ACTIO IUDICATI e se il debitore ancora non pagava si apriva una procedura
esecutiva in cui o avveniva la cessio bonorum (cessione spontanea dei beni da parte del fallito per evitare l’infamia) o qualora
fosse scaduto il termine per pagare se ancora non erano state trovate le risorse necessarie per pagare, allora il debitore andava
incontro ad infamia e si apriva la fase conclusiva della procedura → prevista la nomina di un altro soggetto magister bonorum,
che prende in carico il patrimonio e ha il compito di vendere i beni che fanno parte del complesso patrimoniale. A chi? a un
soggetto che si offre di norma a pagare una percentuale maggiore dei debiti del fallito. Egli subentra nel patrimonio del fallito →
fenomeno di successione. Quando l’acquirente del patrimonio del fallito requisisce il suo patrimonio e si sostituisce al fallito vi è
il fenomeno di successione tra vivi

I contemporanei distinguevano tra i modi d’acquisto dei singoli beni e i modi di acquisto dei complessi di beni. Il tema del modo
di acquisto dei patrimoni è quello che viene preso in considerazione quando parliamo di successioni.

Con diritto delle successioni ci riferiamo all’insieme di regole che disciplinano il trasferimento di un patrimonio nel suo
complesso dal defunto ad altri soggetti. Questo meccanismo della sostituzione di un altro soggetto nel patrimonio che era del
defunto (successione) è un aspetto specifico, infatti il fenomeno delle successioni, non riguarda soltanto quest’aspetto delle
successioni mortis causa (a causa di morte) perché è solo uno dei possibili fenomeni di successione che si verificano in diritto
romano. Vediamo in che modi dei complessi di beni diventano nostri:
o Se siamo nominati eredi di qualcuno o chiediamo il possesso dei suoi beni, bonorum possessio
o Se compriamo i beni di qualcuno, bonorum venditio
o Se adottiamo qualcuno, adrogatio/adoptio
o Se sposiamo una donna in manu come moglie, conventium in manum

L’eredità può essere di due tipi:


1. in forza di testamento
2. Alla luce della disciplina che regola in assenza di testamento, ab intestato

Questa vendita (bonorum venditio) di beni è un fenomeno di cui gaio stesso ci parla nel terzo libro prima del tema delle
obbligazioni ed è un tipo di successione che coinvolge la vendita di beni che possono essere di vivi o di morti.

VENDITA DI BENI VIVI


A. per esempio, di quelli che a scopo di frode sfuggono alla in ius vocatio
B. degli assenti dal procedimento che non sono stati difesi da altri
C. di coloro che cedono dei loro beni in base alla lex iulia
D. dei condannati dopo il periodo che è loro attribuito, in parte dalla legge delle 12 tavole e in parte dall’editto del pretore, per
procurarsi il denaro dei defunti

VENDITA DI BENI DEFUNTI


Vengono venduti i beni di quei defunti, per esempio, di cui è certo che non esistono eredi civili, ne bonorum possessores, e che
non ci sia alcun altro giusto successore.
Gaio mette insieme una serie di situazioni che si raccolgono attorno alla figura principale ovvero quella posta sotto la lettera D, i
beni dei condannati.
Ci occupiamo delle procedure esecutive dei debitori che non riescono a pagare, vanno incontro a fallimento.
Quando dei debitori subiscono una condanna in giudizio che accerta il fatto che loro abbiano un debito ma anche rispetto a
questa condanna non sono in grado di eseguire la condanna stessa, allora si apre una fase in cui i creditori cercano di soddisfarsi
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sul patrimonio del fallito. L’acquisto o la vendita dei beni di cui parla Gaio è proprio il fenomeno per cui il fallito si trova nelle
condizioni di cedere il proprio patrimonio ad un altro soggetto che lo acquisisce. Quest’altro soggetto subentra nel patrimonio
del fallito, avviene il fenomeno di successione. La procedura esecutiva si apre soprattutto nel caso della condanna, ci sono dei
casi ulteriori rispetto alla condanna.

Prima di arrivare ad una sentenza si può aprire una procedura esecutiva ma noi ci concentriamo sul fenomeno della condanna in
giudizio. Bisogna spezzare la dinamica del processo per capire. Abbiamo visto che nel processo formulare la condanna è sempre
una condanna pecuniaria. Quando il convenuto viene condannato, sorge a suo carico il dovere di pagare la somma alla quale è
stato condannato. Mentre l’attore vittorioso ha un credito che si riferisce all’ammontare di quella somma. Questo fenomeno per
cui la sentenza vincola il condannato al pagamento della somma si chiama OBLIGATIO IUDICATI (obbligazione che viene dal
giudicato/sentenza).

Che effetti sorgono dal giudicato?


Il fatto che con la sentenza nasca un dovere del condannato di pagare va di pari passo con un altro fenomeno per cui con la litis
contestatio si consuma il processo. Dobbiamo immaginare che il convenuto e attore entrano in giudizio con una situazione poi
quando si verifica la litis contestatio, la loro situazione cambia perché la litis contestatio trasforma la pretesa dell’attore e
l’obbligo del convenuto in un dovere di arrivare al termine del processo (andare a sentenza). Con la sentenza si trasforma
ulteriormente la loro situazione perché ciò che prima era il credito diventa l’obbligo di eseguire il giudicato. Queste
trasformazioni della causa del dovere che sorge in capo al convenuto sono descritte da Gaio. Gaio dice che l'obbligazione oltre
che in altri modi enunciati prima come:
o l’adempimento= (pagamento) prima forma di estinzione dell’obbligazione
o oppure il debito viene rimesso (remissione) = non devo più nulla al creditore = altro modo di estinzione dell'obbligazione.
o Oppure questo debito si può trasformare perchè posso rinnovarlo (novazione) aggiungendo o togliendo delle condizioni,
cambiare la persona del debitore e del creditore

Però gaio afferma che vi sia anche un altro modo attraverso cui si possa estinguere l’obbligazione ed è la litis contestatio. Dice
che quando avviene la litis contestatio il convenuto inizia ad essere tenuto non più in base alla sua fonte dell’obbligazione cioè a
ciò che ha dato vita al suo dovere di fare o di pagare qualche cosa ma è tenuto da questo momento in poi in forza della litis
contestatio. L’effetto della litis contestatio è creare un vincolo nuovo e diverso non più quello precedente del vincolo
contrattuale, ma è il titolo processuale. Poi se arriva a sentenza ed è condannato anche l’effetto della litis contestatio viene
meno e il convenuto inizia ad essere tenuto in forza del giudicato cioè della sentenza stessa. Per questo gli antichi hanno scritto
che prima della litis contestatio il debitore deve dare uno dei contenuti possibili che nasce dall’obbligazione che nasce da
contratto (dare una somma di denaro), dopo la litis contestatio deve essere condannato ed è tenuto a concludere il processo ed
arrivare a sentenza e dopo la condanna deve eseguire il giudicato. Ne deriva che se perseguo un credito, in seguito automaticamente non potrò
agire per lo stesso credito perchè l’intentio formulare dare mihi oportere è senza riscontro dal momento che con la litis contestatio viene meno l'obbligazione di
dare.
Diversamente accade se avvierò un processo imperio continens. In questo caso, infatti, l'obbligazione rimane, e dunque automaticamente (ipso iure) posso agire
ancora in un secondo momento: devo essere respinto con una 'eccezione di cosa giudicata o dedotta in giudizio".
Gaio dice che da questo cambiamento del titolo in base al quale il convenuto è tenuto durante il processo derivano delle conseguenze di ordine processuale.
Deriva cioè la possibilità o meno di ripetere la lite una seconda volta. Non si può agire in giudizio per la stessa situazione nei confronti delle stesse persone per
due volte. Le modalità cambiano a seconda del tipo di giudizio. In alcuni giudizi automaticamente il pretore respinge la pretesa di far valere due volte la stessa
cosa. In altri casi spetterà al convenuto di chiedere al pretore di inserire un’eccezione (eccezione di cosa giudicata o dedotta in
giudizio). Quali sono questi due casi?
1. iudicia legitima
2. iudicia imperio continentia anticipati ma spiegati poi nel IV libro.

I giudizi o si basano sulla legge (giudizio legittimo) o sono fondati sul potere del magistrato (imperio continentia).
o I giudizi legittimi sono quelli che si instaurano a Roma o nel raggio del primo miglio dalla città fra cittadini romani e sono
affidati a un giudice singolo. Essi si estinguono in base alla legge iulia giudiziaria se non siano stati definiti entro un anno e
sei mesi.
Tra i giudizi fondati sul potere del magistrato ci sono tutti quelli che non rientrano nella classe dei giudizi legittimi Esempi
giudizi fondati sul potere del magistrato:
ü I giudizi recuperatori (in cui i giudici sono più d’uno),
ü giudizi affidati ad un giudice singolo ma nel quale interviene uno straniero come parte o come giudice.
ü giudizi instaurati fuori dal territorio originario di roma oltre il raggio di un miglio da roma.

Se è stato istaurato un processo fondato sul potere del magistrato – non importa se l’azione è reale o personale e nemmeno se
la formula è costruita in fatto o ha l’intentio in diritto -- non scatta una preclusione automatica all’esperimento di una nuova
azione per la stessa cosa ed è perciò indispensabile l’eccezione di cosa giudicata o dedotta in giudizio: exceptio rei iudicatae vei
in iudicium decutae.
Se invece è stata esperita un’azione in personam in un giudizio legittimo con una formula che ha l’intentio di diritto civile in ius
concepta, ci è preclusa automaticamente una successiva azione per la stessa cosa ed è superflua l’eccezione.

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Se, invece, l'azione era in rem o in factum, non scatta una preclusione automatica e di nuovo ho bisogno dell'eccezione
(l'eccezione di cosa giudicata o dedotta in giudizio)
Diversa era la disciplina delle legis actiones infatti era precluso agire di nuovo per la stessa cosa per cui si era agito prima e a quei
tempi non esisteva il sistema delle eccezioni

L’eccezione è uno strumento pretorio offerto dal pretore in aiuto al convenuto.


Se siamo nell’ambito dei giudizi in capo al pretore ho bisogno di uno strumento pretorio (eccezione).
Se parliamo di quelli di diritto civile dobbiamo distinguere. Il testo della formula il dovere del giudice e condiziona la stessa
esperibilità dell’azione. Dal modo in cui è espresso il testo stesso della formula dipende la sorte del giudizio stesso. Azioni
diverse. Esempi: azione di compra (giudizio di buona fede), in personam, rei vindicatio. La parte iniziale intentio viene espressa in
modi diversi.
• nella formula in rem è costruita così = se risulta che la cosa è di aula gerio in base al diritto dei quiriti giudice condanna
• nella formula dell’azione di compra = poiché aula gerio ha comprato da numerio negidio tutto ciò che per tale causa
deve dare o fare giudice condanna

alla bonorum venditio ci sono delle alternative legate all’infamia. Possibilità per il fallito se vuole evitare l’infamia di cedere
spontaneamente i propri beni al creditore (cessio bonorum). Segue alla cessio bonorum una bonorum venditio ma non
sappiamo in che forma.
Ulteriore possibilità di arrivare all’esecuzione personale se il convenuto già nella fase in iure confessa di essere in debito, non c’è
bisogno di accertare diritto perché c’è già una confessio in iure → si apre direttamente la procedura esecutiva (a seconda
dell’oggetto dell’obbligazione a cui era tenuto il debitore).
• debitore certo di denaro. Se era obbligazione a pagare immediatamente una somma di denaro = si va direttamente a
procedura esecutiva.
• Se sono tenuto a fare qualcosa che non ha valore monetario prima bisogna quantificare il valore e poi procedura
esecutiva

TESTAMENTO
Lez 15 ruva noemi
Entriamo nel campo delle successioni per noi più naturale, ossia quello delle successioni “mortis causa”. Nell'introdurre questi
temi Gaio stesso parla dell'eredità: l'acquisto della hereditas, che è il complesso patrimoniale che viene lasciato da un defunto
nel momento in cui muore, può avvenire in due modi: sulla base di un testamento oppure in assenza di un testamento, che
con un’espressione latina viene definita “ab intestato”.

CHE COS’È IL TESTAMENTUM


È un negozio giuridico, ossia una produzione da parte di un individuo a cui si legano degli effetti sul piano del diritto, che
contiene una dichiarazione di volontà. In questo caso il negozio è unilaterale perché, a differenza per esempio dei contratti, alla
formazione del negozio lavora solo un soggetto, che è appunto Il testatore. I romani stessi davano delle definizioni di
testamento che rinviano a questi due aspetti: l'aspetto della volontà del testatore e l'idea che questa volontà venisse
esplicitata, quindi espressa in modo tale che produca degli effetti giuridici.

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IL TESTAMENTO CIVILE
Per capire i modi in cui è possibile esprimere le proprie volontà per il diritto romano partiamo da un brano di Gaio.
Gaio dice che i tipi di testamento in origine erano due e si svolgevano:
o durante la convocazione dei comizi “calatis comitiis”, ossia i comizi curiati in cui vi era l'assemblea del popolo che
certificava, ratificava, prendeva atto e dava l’assenso ad alcuni fenomeni che incidevano e potevano avere delle
ripercussioni sulla vita della collettività. Questi comizi venivano convocati due volte all’anno apposta per questo scopo e in
queste assemblee ci si occupava sia di questioni politiche, come l'attribuzione di alcuni poteri pubblici, sia di questioni
invece di diritto privato (abbiamo visto per esempio che l’adrogatio, che si svolgeva in questi contesti siccome c'era uno
spostamento patrimoniale da un soggetto Pater familias ad un altro soggetto, allora il popolo certificava il proprio consenso
all'operazione). Un fenomeno simile avviene con il testamento, perché anche in questo caso c'è uno spostamento di
patrimonio da un soggetto che vede la propria fine vicina e quindi intende destinare le proprie sostanze ad un altro
soggetto, ossia l'erede, che acquisisce un'aspettativa di subentrare nel patrimonio.
o la seconda forma utilizzata dagli antichi è quella “in procinctu”, cioè nel momento in cui si indossavano le armi per andare
in battaglia. Pro cinctus dice Gaio è, infatti, l'esercito pronto e armato. Riguardo ciò abbiamo altre fonti: come dice la
parola stessa e il verbo da cui viene (in procinctus viene da una un verbo “pro cingo”). Il termine indica l’azione di indossare
le armature per andare in battaglia. Queste fonti sono in particolare riconducibili a Plutarco, che ci descrive brevemente
questa prassi: prima di uscire in battaglia -che evidentemente anche da un punto di vista statistico comportava il rischio
serio di non tornare- i soldati avevano l'usanza di chiamare tre testimoni e di dichiarare il loro testamento, cioè dire le
proprie volontà nel caso in fosse successo qualcosa. Questa forma di testamento viene accolta dal diritto e diventa una
forma lecita di testamento.

Gaio dice poi che si è aggiunto un terzo tipo di testamento che si svolge con il rito della bilancia del bronzo “per aes et libram”.
In questo caso la mancipatio viene utilizzata per il testamento: Gaio dice che se un individuo non aveva già fatto testamento
nelle due forme appena descritte poteva trasferire con una mancipatio la sua familia (qui Gaio intende l'insieme delle cose e
delle persone che fanno capo al soggetto capofamiglia). Il testatore trasferiva questo patrimonio con una mancipatio a un suo
fiduciario e lo pregava di eseguire la propria volontà dando alle persone indicate le cose loro destinate; si tratta di una
mancipatio fiduciaria, cioè io trasferisco a un soggetto il mio patrimonio, ma questo soggetto non è il destinatario finale del
patrimonio, è un fiduciario, è una persona a cui chiedo a sua volta di ripartire il patrimonio sulla base delle mie indicazioni.
Questa mancipatio fiduciaria veniva chiamata mancipatio familiae.

MANCIPATIO FAMILIAE

Gaio ci descrive anche come avviene questo testamento, che è il nostro principale punto di riferimento quando si parla di
testamenti. Il procedimento si svolge così: colui che fa testamento, dopo aver convocato -come avviene nelle altre
mancipationes- cinque testimoni cittadini romani e puberi e un “libripens”, mancipa il proprio patrimonio (la propria familia) a
qualcuno in via puramente rituale; nella procedura il “familiae emptor” , cioè colui che riceve il patrimonio, pronuncia una
frase: “io affermo che il tuo patrimonio familiae e pecuniaque è nei limiti del tuo mandato e della mia custodia, e lo stesso venga
da me comprato con questo bronzo e questa bilancia di bronzo, affinché tu possa fare testamento secondo la legge pubblica”.
Poi percuote con il bronzo la bilancia e trasferisce al testatore il bronzo stesso come se fosse il prezzo. Quindi il testatore
tenendo in mano le tavole del testamento dice così: “nei termini in cui le mie volontà sono scritte in queste tavolette cerate,
dispongo e chiamo voi presenti a testimoni ed in tali termini Quiriti offritemi la vostra testimonianza”. Questa disposizione si
chiama “nuncupatio”, perché “nuncupare” significa pronunciare solennemente in pubblico (quindi inizialmente avveniva
oralmente). Dice Gaio, in alcuni casi l’acquirente non era un fiduciario, ma era egli stesso l'erede designato: quindi la differenza
che passa tra la mancipatio familiae e il testamentum per aes et libram non è tanto nel rito, che rimane identico, ma è nel fatto
che quando si arriva al testamentum per aes et libram ormai si è fatto uno passo ulteriore perché il rito ormai puramente
formale. La celebrazione di questo passaggio è rituale e questo rito viene celebrato per certificare l'avvenuta redazione del
testamento. Successivamente poi invece il testatore dichiara che le sue volontà sono quelle contenute in un altro documento
esterno, delle tavole sigillate; in qualche modo il testamento avviene per relazione, si dice: io affermo, certifico e metto il sigillo
notarile sul fatto di avere fatto testamento (il contenuto del testamento verrà trovato dentro le tavole che sono segrete e
verranno aperte in seguito alla morte del testatore). Alla mancipatio partecipano più soggetti, ossia i cinque testimoni canonici
della mancipatio, il familiae emptor stesso e poi i libripens che è colui il quale deve pesare il prezzo della vendita, in totale siamo
in presenza di 7 soggetti testimoni dell'operazione.

Sappiamo da altre fonti che durante il Principato era presente anche una forma di testamento completamente orale, cioè era
possibile non solo scrivere il contenuto del testamento nelle tavole cerate, ma si poteva anche prima pronunciare e dichiarare
espressamente a voce le proprie volontà e poi pronunciare la formula di rito cambiata all'occorrenza, cioè non dicendo più che
la volontà è quella espressa nelle tavole ma è quella che è stata appena pronunciata, e quindi in qualche modo mettere un sigillo
formale alla volontà dichiarata oralmente. Quindi quando si fa riferimento al testamento per aes libram si deve immaginare un
testamento a sua volta che ha due possibili sotto varianti. In dottrina si dice che il fare riferimento alle tavole probabilmente
deriva da una prassi che serve per cautelarsi in vista di futuri processi: la prassi era quella di chiamare a testimonianza dei

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soggetti in merito al contenuto di un documento anche fuori dal testamento. Questa prassi di attestazione o di chiamata a
testimonianza di un documento era appunto la testatio, ossia attestazione riguardo al contenuto di un documento.

Perché un testamento sia valido per il diritto civile non basta la certificazione formale, cioè non basta che siano svolte le
formalità che abbiamo appena visto, ma serve anche che il testatore sia capace di testare la testamenti fatio attiva. Si tratta
della capacità di fare testamento che ha qualsiasi soggetto maschio (perchè le donne dovevano avere un tutore), pubere
(perchè gli impuberi avevano bisogno di un tutore) e sui iuris (perchè é il Pater familias).
I soggetti sottoposti alla potestà di un altro individuo non potevano fare testamento (esempio i figli di famiglia). Vi erano delle
eccezioni, per esempio alcuni servi che non erano schiavi privati ma pubblici a cui veniva concesso di fare testamento entro
alcuni limiti. La stessa cosa veniva concessa ai figli di famiglia con riguardo al peculio. Il principio di partenza è sempre lo stesso,
può fare testamento chi ha un patrimonio e siccome i figli di famiglia non hanno un patrimonio non hanno niente da lasciare,
però è stata riconosciuta la possibilità di riservare ai figli di famiglia e anche agli schiavi una somma, che poteva essere anche
grande, da utilizzare per le attività più o meno quotidiane. Questa somma rimaneva nella funzionalità del padre di famiglia ma
era appunto ad uso dei figli che ne avevano di fatto la disponibilità materiale; questa somma si chiama “peculio”.
La giurisprudenza ha distinto diverse forme di peculio a seconda delle finalità in cui veniva costituita. Si riconobbe perciò la
possibilità per i figli di famiglia di fare testamento nei limiti appunto di questo peculio, in particolare del peculio “Castrense”
(acquisti fatti dal figlio durante la vita militare).
Invece gli impuberi non potevano testare neanche con l'assistenza del tutore. E la stessa cosa è in linea di massima per le donne.
Allora siccome il problema e la regola voleva che non potesse fare testamento la donna che era sotto tutela legittima, in
questo modo se si taglia il legame con il tutore legittimo viene meno anche l'impedimento e la donna a questo punto è in grado
di fare testamento purché con l'assistenza del tutore. Nel corso del tempo anche questa necessità di passare attraverso la
coemptio testamenti faciendi causa, cioè questa coemptio fiduciaria, viene meno. Questo perché intorno al 40 dopo Cristo una
legge -la lex Claudia- abolisce la tutela legittima e viene meno anche la donna sottoposta a tutela legittima, la quale potrà
quindi fare testamento.

Successivamente si introduce sulla base di leggi di Augusto la possibilità che la donna faccia testamento anche senza il tutore
quando le veniva concesso quello che si chiama il “ius liberorum”. Augusto fa votare una serie di leggi che incidono sul regime
matrimoniale per questioni politiche e questioni demografiche. Perciò fa emanare una serie di leggi che promuovono i
matrimoni e la natalità, in particolare due leggi: una “lex Iulia de maritandis ordinibus” del 18 a. C. e una “lex papia poppaea
nuziali” del 9 a. C. Queste due leggi sono l'una l'integrazione dell'altra, si parla di “lex Iulia et papia”. Queste leggi nel loro
complesso sanciscono l'obbligo per gli uomini tra i 25 e i 60 anni e per le donne tra i 20 e i 50 di contrarre matrimonio, per dipiù̀
con alcune limitazioni (per esempio i senatori non potevano sposarsi con alcune categorie di persone). Queste leggi
matrimoniali che impongono l'obbligo di sposarsi incidono anche sul regime delle successioni mortis causa perché impediscono
che alcune categorie possano ricevere per testamento (essere eredi). Allora coloro che si trovavano nella fascia di età che
abbiamo detto e non si fossero sposati, i cosiddetti celibi, non possono acquisire eredità o lasciti.
Se invece un individuo si è sposato ma non ha figli viventi nel momento in cui si tratta di disporre del lascito ereditario, potrà
acquisire solo la metà del lascito che è stato fatto a loro favore. Si tratta di un incentivo fortissimo a sposarsi e a procreare. La
legge non incide solo sulla capacità di ricevere testamento, ma anche su quella di fare testamento: le donne che partoriscono 3
figli (se è una donna libera) o 4 (se è una liberta) nell'ambito di un matrimonio conforme alla legge ricevono cosiddetto ius
liberorum e vengono premiate, viene loro concesso fare testamento senza l'assistenza del tutore.

Una volta che un individuo diventava erede, come faceva a entrare o rientrare in possesso dell’eredità? Aveva a sua
disposizione naturalmente un'azione che si chiama hereditatis petitio e che era del tutto simile alla rei vindicatio.
Ma qual è la differenza rispetto alla rivendicazione? Per capirlo dobbiamo tornare al discorso di Gaio sulle res; alcuni beni, sono
corporali, ossia sono oggetti tangibili, altri sono delle entità immateriali, perché sono dei diritti. Tra questi il primo che citava era
l'hereditas, perché il complesso patrimoniale, in quanto complesso, può contenere dei beni materiali, ma se noi pensiamo
all'idea di eredità, quest’ultima è immateriale e comprende dei beni, dei debiti, dei crediti, delle posizioni soggettive e nel suo
complesso è immateriale.

HEREDITATIS PETITIO: LA FORMULA


La Rei vindicatio è una formula che si utilizza per i beni materiali, quindi non è utilizzabile in relazione a un tipo di res che non è
un bene corporale, per la quale c'è una formula apposita, che è appunto l'hereditatis petitio: questa è costruita esattamente
come la rei vindicatio. Vi è l'intentio se risulta che l'eredità di --- in base al diritto dei quiriti…, la clausola restitutoria …e la cosa
non sarà restituita a ---, in conformità della valutazione arbitrale del giudice ---…, la condemnatio, …il giudice condanna alla
somma pari al valore che avrà la cosa al momento della sentenza… Quindi è identica alla rei vindicatio, ma cambia l'oggetto:
non più una res corporale ma un bene incorporale.

TIPOLOGIA DI RES E TUTELA PROCESSUALE: LA REI VINDICATIO E LA HEREDITATIS PETITIO

VALIDITA’ DEL TESTAMENTO CIVILE Dice Gaio che se vogliamo vedere se un testamento è valido, dobbiamo verificare se il
testatore avesse la capacità di fare testamento oppure no, poi dobbiamo anche vedere se ha fatto testamento secondo i
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parametri del ius civile.
Cosa serve perché il testamento sia valido per il ius civile?
o testatore deve avere la capacità di fare testamento
o l'osservanza delle forme, cioè la dichiarazione rituale della mancipatio e della successiva nuncupatio, cioè quelle due
formule verbali che attestano l'avvenuta celebrazione del testamento
o presenza istituzione di erede con le formule corrette. Per il diritto civile romano le formule devono essere le parole
utilizzate dal testatore: esempio “tizio mi sia erede”, questa è la formula standard (titius heres esto).
Poi ce ne sono altre alcune accettate e alcune no che gaio stesso menziona: se un soggetto ordinava che un altro soggetto fosse
erede, utilizzando il verbo iubeo, la dichiarazione veniva accettata; al contrario un altro verbo non sarebbe stato accettato. Se il
testatore ha un figlio sottoposto alla potestà, che sia figlio naturale o adottivo, allora il testatore non può semplicemente
trascurarlo, deve o nominarlo erede oppure deve diseredarlo espressamente tramite una formula in cui dichiari di non volere
che sia il suo erede. Se non fa né una cosa né l'altra, il testamento non è valido.

Poi dice Gaio, una volta che il testamento è fatto non devono succedere eventi che invalidano il testamento.
Quali sono questi eventi che invalidano il testamento successivamente?
o Se nasce un figlio postumo; quindi, se il testatore concepisce un figlio prima di morire e il figlio nasce dopo la sua morte, è
un discendente legittimo anche lui. Il testamento non aveva potuto nominarlo erede o diseredarlo perché non era ancora
nato e allora questo è un evento che invalida il testamento
o se viene adottato un altro individuo successivamente al testamento, il testamento si invalida
o se il testatore dopo aver fatto il testamento ne fa un altro, naturalmente il testamento successivo prevale su quello
precedente, il momento da prendere in considerazione è quello più vicino alla morte
o se il testamento ha subito “capitis deminutios”(perdita di una delle qualità giuridiche dell’individuo), il testamento può
essere fatto da una persona “sui iuris”, cittadina romana e libera, ma se dopo aver fatto il testamento perde una delle sue
caratteristiche che lo rendono autonomo, anche il suo testamento viene invalidato.

IL TESTAMENTO PRETORIO
Cosa succede se manca uno di quei requisiti?
Se il testamento è invalido per il diritto civile, poiché mancano uno o più requisiti, dice Gaio che non è detto che non possa
produrre effetti sul piano del diritto civile; quindi, non è detto che sia del tutto inefficace, perché se il testatore era un cittadino
romano su iuris, chi è stato nominato erede in un testamento difettoso (che manca uno dei requisiti), può chiedere al pretore di
essere immesso nel possesso dei beni ereditari. Questo possesso sulla base del testamento del patrimonio di una persona che
scompare, è il fenomeno che prende il nome di: BONORUM POSSESSIO. Questa validazione pretoria espressa dalle volontà del
testatore dà vita al testamento pretorio. Quindi non c’è solo un testamento civile ma anche un testamento pretorio.

Perché il testamento pretorio sia valido, devono esserci dei punti fermi che sono le caratteristiche di chi l’ha fatto, deve essere
o cittadino romano su iuris
o ci deve essere un’istituzione di erede
o deve esserci la destinazione finale del patrimonio
o devono esserci 7 testimoni, ovvero i 5 testimoni della mancipatio, il libripens e il familie emptor.
Ci devono essere delle formalità, ma se ci sono degli sbagli non è detto che risulti non valido. Il pretore può validarlo sulla base
del suo potere (ius honorarium), quindi a livello di diritto onorario, il testamento può valere.

LA TUTELA PROCESSUALE DEL BONORUM POSSESSOR


Una volta che il pretore immette il soggetto nominato nel possesso dei beni ereditari, il pretore lo protegge. Come fa
proteggerlo? Gli concede prima di tutto un interdetto, che si chiama “quorum bonorum” e che serve per recuperare i beni da
altri soggetti, in realtà non da tutti i soggetti ma solo da coloro i quali o possiedono le cose perché sono convinte di essere loro
gli eredi, o perché li possiedono senza titolo, senza motivo. In questi due casi, chi è stato immesso nel possesso da parte del
pretore può essere tutelato a livello del diritto pretorio, come il titolare di un diritto reale, con l’interdetto e nel corso del
tempo gli viene concessa anche un’azione in rem, costruita sulla rei vindicatio con l’inserimento di una finzione (qualora
risultasse che il patrimonio è suo o il singolo fondo è suo allora il giudice condanna) e diventa un vero e proprio successore
pretorio, perché la sua tutela è completa. Mentre in origine questo tipo di strumento veniva sfruttato solo con riferimento a
un'azione in rem nel corso del tempo, il pretore concede di agire anche per le azioni in personam e questo vuol dire che non
solo i singoli beni materiali che facevano parte dell'eredità possono essere recuperati dal bonorum possessor, ma anche i crediti
e i debiti, perchè l'eredità è un complesso articolato di beni e crediti. Allora nel momento in cui vengono concesse sia azioni in
rem, che azioni in personam la sua posizione è completa ed è un successore pretorio completo.

Perchè il pretore concede la bonorum possessio? Gli studiosi hanno dibattuto a lungo, ma una cosa sicura è che il pretore,
come sempre accade per quanto riguarda le questioni di possesso, ha di mira esigenze diverse: per esempio nel caso del
testamento l’esigenza è quella di conservare validità per un testamento che “difettasse nella forma”.

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Il pretore avrà il potere di determinare chi è il possessore e chi invece avrà l’onere di provare il proprio diritto. Il pretore agisce
sulla base degli indizi che ha a disposizione; quindi, esempio se esiste un testamento che è però formalmente invalido, si baserà
sul fatto che nel testamento un individuo sia nominato come erede, nonostante non valga per il diritto civile.

Allora potevano crearsi diverse situazioni da questo punto di vista:


o ipotizziamo che ci sia una controversia tra il soggetto che viene nominato in un testamento civilmente invalido (manca un
requisito di forma) e un antagonista che è il soggetto nominato in un testamento precedente. Situazione ipotetica:
soggetto A fa testamento a giugno e nomina B, poi A fa un altro testamento a settembre e nomina C, ma il testamento di
settembre che teoricamente, essendo successivo dovrebbe avere la meglio sul primo, è invalido. Allora qui dove pende la
bilancia, nel testamento precedente che è formalmente valido o nel testamento successivo che è formalmente invalido? Qui
c'è una controversia. Allora il pretore dovrà decidere cosa fare: è possibile che all'erede C, che è stato nominato a
settembre in un testamento invalido, venga concessa la bonorum possessio, quindi la possibilità di essere lui il possessore
ad usucapionem sulla base del testamento. E allora dato che la decisione è fondata sulla base del testamento, che è quindi
il suo indizio, parliamo di bonorum possessio secundum tabulas -sulla base delle tavole del testamento-.

o Supponiamo che ci sia una controversia tra quelli che sarebbero eredi ab intestato (supponiamo i parenti) e gli estranei
nominati in testamento (situazione frequentissima ancora oggi: io nomino un mio amico e un parente più o meno lontano
dice che dovrebbe essere lui l'erede). Ci si trova così di fronte ad una controversia e in questo caso può darsi che pur avendo
il testatore fatto un testamento e nominato qualcuno di preciso, il pretore conceda sulla base di proprie valutazioni la
bonorum possessio agli eredi ab intestato e gliela conceda contro il testamento. Qui parliamo di bonorum possessio contra
tabulas.

o Oppure può anche darsi che un testamento manchi del tutto e la controversia nasce tra gli eredi per il diritto civile e degli
altri soggetti come, ad esempio, dei discendenti di sangue che però non sono soggetti alla potestà (figli naturali che però
non sono soggetti alla potestà del pater familias). Allora per il diritto civile questi figli naturali non contano nulla perché
conta il legame potestativo. Allora qui sarà il pretore a decidere chi prevale tra il figlio naturale e un erede magari più
lontano in grado ma che ha un rapporto potestativo con il testatore e concedere a lui la bonorum possessio. In questo caso,
quando la controversia riguarda dei soggetti e manca un testamento parliamo di bonorum possessio sine tabulis.

Allora non troverete solo questa tripartizione ma troverete anche la nozione per cui il bonorum possessor può essere cum re o
sine re. Il pretore quando si trattava di dire chi era possessore e chi no, consegnava il possesso a una delle parti. Allora all'inizio
questa assegnazione era provvisoria, cioè io ti rendo possessore però se arriva un erede che dimostra la sua qualità di erede e
agisce con la hereditatis petitio, egli prevale. Allora quando vi è questa situazione in cui l'erede civile prevale, quindi può agire
con la Rei vindicatio nei confronti del bonorum possessor, perché la valutazione del pretore era solo provvisoria, qui abbiamo un
bonorum possessio sine re. Però ci sono delle situazioni in cui col passare del tempo il pretore concede al bonorum possessor di
respingere le hereditatis petitio con exceptio doli. Allora tutte le volte in cui al bonorum possessor è concessa l'exceptio doli con
cui respingere l’hereditatis petitio dell'erede civile, vuol dire che il bonorum possessor prevale sull'erede civile, e in questo caso
il bonorum possessor sarà cum re.

Allora vedete che nel momento in cui io do al mio possessore nella bonorum possessor il possesso ad usucapionem, quindi
destinato a diventare proprietà, gli do degli interdetti, gli do un'azione fittizia e gli do anche la possibilità di respingere l'azione
dell'erede civile, l'erede vero è il bonorum possessor. Quindi il piano del diritto pretorio a questo punto prevale su quello del
diritto civile e sul piano del diritto pretorio i testamenti che coinvolgono i discendenti in linea femminile, la linea delle donne
rientrano sulla base di priorità rispetto al diritto civile. Col tempo il piano del diritto pretorio viene assimilato a quello del diritto
civile e diventa il piano sostanziale vero, ossia quello in cui si sviluppa il diritto dei testamenti a Roma.

IL CONTENUTO DEL TESTAMENTO


Lez 16 ruva noemi
Proviamo a vedere il possibile contenuto del testamento, quindi vedere cosa è stato scritto nel testamento dopo la celebrazione
del rito. Se analizziamo gli argomenti trattati da Gaio possiamo vedere una mappa dei contenuti all’interno del testamento:
o Istituzione di erede→ Il primo tema trattato da Gaio è quello degli Eredi: bisogna nominare un erede. Questa è la cosa più
importante all’interno del testamento
o Sostituzione di erede→ Poi c’è un riferimento a un sostituto dell’erede. Quindi il testatore può prevedere un sostituto, se le
cose vanno male
o liberazione di schiavi (Manumissiones)→ Gaio, in seguito, parla delle forme di liberazione degli schiavi. Tra le forme per
liberare uno schiavo c’era la manumissio testamento, ovvero la possibilità di liberare lo schiavo all’interno del testamento
o legati: Gaio affronta il tema dei legati
o fedecommessi: Gaio affronta il tema dei Fedecommessi. I Fedecommessi sono stati introdotti in un momento storico tardo.
Sono disposizioni a forma e contenuto libero, quindi non sono protetti dall’ ius civile, ma appartengono ad un piano
straordinario.

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L’ISTITUZIONE DI UN EREDE
I romani e lo stesso Gaio dicevano che la formula (heredis Istitutio) è “Caput atque fundamentum intelligitur totius testamenti
heredis institutio”, ovvero l’inizio e il fondamento dell’intero testamento è l’istituzione di un erede. Questa formula è una sintesi
degli aspetti del diritto che per noi sono molto importanti; il termine “fundamentum” rimanda alle fondamenta (al materiale su
cui si basa l’intera costruzione del testamento). Se non c’è l’istituzione di erede il testamento è invalido, perché lo scopo del
testamento è quello di prevedere un erede.

Siccome si tratta di atti che ciascuno di noi fa nella vita, il numero di questi negozi e la possibilità delle formule linguistiche
utilizzate nel corso della storia tendono ad infinito. Quindi l’interpretazione di queste formule ha dato spesso del filo di torcere
ai giuristi, perché si tratta di capire che effetti legare alle singole forme utilizzate. Sulla base di questa premessa generale ora
facciamo una piccola sintesi dei problemi che potevano porsi all’epoca. Se per esempio manca l’istituzione di erede, non solo il
testamento non è valido ma neanche le clausole aggiunte all’istituzione di erede. Ma se le istituzioni di erede sono molte che
succede? Crollano tutte le clausole se solo una è invalida? Dipende se le altre clausole sono direttamente legate all’istituzione
di erede (che è crollata) oppure no. Molti giuristi su questa fase dibattevano, ci sono alcuni tipi di clausola (es: liberazione degli
schiavi) che valgono a prescindere; quindi, basta che una sola istituzione di erede sia valida per fare in modo che anche le altre
clausole siano valide. Ma ci sono altre clausole (es: i legati) che si riferiscono ad un solo erede (l’erede designato); in questo caso
se viene meno l’istituzione di erede viene meno anche quella determinata clausola. Lo studio dei testamenti e delle clausole
richiedono un’analisi caso per caso. Oltre che i fondamenti del testamento l’istituzione di erede è anche il caput, quindi significa
che in origine doveva essere la prima clausola all’inizio del testamento. Almeno in origine il fatto che non era così provocava dei
problemi di validità del testamento stesso.

Ora dobbiamo accennare ad un secondo principio generale: il testamento doveva essere una certificazione della volontà del
testatore, per cui il diritto farà di tutto per custodire questa volontà. Questo è un principio che non è mai venuto meno. Quando
si tratta di diritto delle successioni del testamento, l’interpretazione ha come punto fermo il rispetto di ciò che il testatore
vuole (nei limiti del possibile). Questo principio si manifesta in tante forme, tra queste è importante la cosiddetta “favor
testamenti”, ovvero si fa di tutto per salvare il testamento.
Ben presto i giuristi hanno iniziato a considerare la possibilità, che se la prima clausola è invalida non è invalido tutto il
testamento, ma è invalido solo quello che precede l’istituzione di erede. Quindi essendo l’istituzione di erede la prima clausola,
si decise che tutto ciò che veniva prima di questa, fosse fuori dal testamento (nullità parziale), invece ciò che seguiva era valido.

Perché l’istituzione di erede può non essere valida? Perché sempre per una sorta di formalismo che gli effetti del linguaggio
possono produrre, i giuristi prevedevano delle espressioni che davano vita a delle istituzioni di erede valide e altre invece che
davano vita a delle istituzioni di erede invalide.
o Se uno diceva “titius heredes esto” (“tizio sia il mio erede”) →essendo la formula giusta il testamento era valido.
Ma c’erano altre formule che venivano dibattute.
o Una tra queste: “ordino che tizio sia mio erede”, questo perché si utilizzava il termine Iubeo = ordino; quindi, è come se
stessi imponendo qualcosa a qualcuno. Non è valido perché sto ragionando su una via che non è quella dell’istituzione di
erede. Quindi questa forma è valida o non valida? Alla fine, viene accettata.
o Se uno diceva “voglio che tizio sia mio erede”, non era una forma adeguata, questo perché i secondo i giuristi il termine
“voglio” veniva usato per i Fedecommessi. Quindi secondo i giuristi se una persona utilizzava questo termine, non stava
facendo un testamento sul piano del diritto civile, ma un testamento che allude ad un sistema alternativo che è quello dei
Fedecommessi.
o Era possibile dire “tizio mi sia erede se succederà qualcosa” ed era anche molto frequente.
o La condizione che si divide in sospensiva (ne condiziona l’inizio) o risolutiva (ne determina la fine); il termine è l’evento
futuro e certo al quale è subordinato l’inizio degli effetti o la fine degli stessi

Ma possono esserci più istituzioni di eredi. C’è una prassi (un modo) per indicare le quote nel diritto romano, che fa capo al
procedimento di frazionare il valore delle monete a Roma. Il valore delle monete viene sempre parametrato ad una certa
misura standard di valori monetari, che è l’asse librale. L’asse veniva diviso in frazioni di 12 parti: 1/12 di asse era l’oncia. La
prassi che utilizzavano sia i giuristi sia i cittadini era quello di dividere anche l’eredità in 12 parti. Per cui l’eredità veniva
destinata su una base di quote che erano definite in termini di dodicesimi. C’erano dei nomi convenzionali per definire le singole
quote; 1/12= l’oncia, 2/12 = sestante, 3/12 = quadrante, 4/12= triente ecc...

Ancora oggi parliamo di asse ereditario: l’insieme del patrimonio ereditario, e si chiama così perché corrisponde all’ unità
monetaria dell’epoca. Quindi è possibile dire “tizio mi sia erede per 1/12.”
Cosa succede se dico che “tizio mi sia erede per metà, e che Caio invece mi sia erede per un quarto?” In questo caso il testatore
sta destinando meno dell’intero. Un altro principio cardine dell’intero sistema è che nessuno poteva morire avendo redatto solo
parte del testamento (il testamento o c’è o non c’è). Non possono convivere la successione testamentaria con quella ad “ab
intestato”. Quindi nel caso mancasse 1⁄4 non posso pensare che intervenga la legge. Allora si verifica un fenomeno che si
chiama accrescimento, ovvero automaticamente gli eredi che vengono nominati acquistano proporzionalmente la parte
mancante. Mettiamo caso che non si esaurisca l’intero asso ereditario e nomini erede un soggetto A per 1/12 e un soggetto B per una quota maggiore, ma
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l’istituzione di B non vale perché l’ha fatta in una forma non valida. A questo punto mi rimane solo il soggetto A. L’eredità rimanente andrà tutta al soggetto A,
anche se lo avevo nominato solo per 1/12. Quindi i rimanenti 11/12 si accrescono alla sua quota di 1/12. Quindi è come se lo avessi nominato per l’intero
testamento. L’accrescimento interviene non solo nel caso in cui il testatore non ha disposto l’intero asso ereditario, ma interviene
anche quando una delle chiamate non è valida. O quando il chiamato non vuole o non può ricevere l’eredità.

EX RE CERTA E GLI EREDI


Non poteva essere fatta per il diritto romano una cosa che oggi è possibile (articolo 588 del Codice civile); non si poteva legare
la quota ad un singolo bene. Non si può dire “nomino erede Tizio per una quota corrispondente a un fondo X”. Questa è una
istituzione “ex re certa”, ovvero si individua il singolo bene. Questo non si poteva fare perché si oltrepassava un limite posto da
un altro tipo di clausola, che era la clausola dei legati. Anche in questo caso, siccome vale il principio del favor testamenti,
l’annullamento del testamento era solo parziale. Quindi è come se non ci fosse l’indicazione del singolo bene, si toglie e si tiene
in considerazione il resto. Per far sì che la chiamata dell’ereditá abbia effetto, è necessario che l’erede istituito possa ricevere il
testamento. Qui entra in gioco la “testamenti fatio”, ovvero la possibilità di ricevere il testamento. Abbiamo già visto alcuni casi
di incapacità di ricevere il testamento (per esempio la legislazione matrimoniale di Augusto).

È necessario che l’erede che io nomino sia individuato, ovvero sia una persona precisa (si deve sapere chi è). Non si può
nominare erede qualcuno di non individuato. Per questo motivo non posso istituire delle persone non fisiche. Nel diritto
romano non esistono le persone giuridiche. Invece oggi gli enti vengono considerati dei soggetti giuridici (es: società, fondazioni,
associazioni ecc..). Oggi gli enti possono essere considerati delle persone giuridiche per il nostro diritto. Ma a Roma questo
concetto non era possibile, non si potevano nominare eredi: le città, colonie o corporazioni di persone, perché non erano
persone fisiche determinate. Anzi cambiano in continuazione i loro membri. Quindi non posso nominare erede una città, perché
gli individui che beneficiano del mio patrimonio non sono determinati.

Gli eredi potevano essere eredi necessari o eredi volontari.


o eredi necessari: soggetti che per le loro caratteristiche diventavano automaticamente eredi, non c’era bisogno che
accettassero l’ereditá. Erano i sui heredes (soggetti alla podestà del testatore) oppure gli schiavi manomessi nel testamento
e nominati eredi
o eredi volontari: soggetti che dovevano accettare per poter entrare nel patrimonio ereditario, acconsentivano in due modi:
con cretio (accettazione espressa) o con pro herede gestio (comportamento concludente- comportandosi in maniera tale
da far capire di aver accettato, per esempio gestendo ed amministrando i beni lasciati a loro per eredità.)

Nel caso dei sui heredes la successione automatica può essere intuita facilmente, sono gli eredi sui iuris. Mentre per gli schiavi
era diverso. Era possibile che un’eredità non contenesse un attivo patrimoniale, ma contenesse un passivo patrimoniale, ovvero
dei debiti. Quindi era possibile che il testatore morisse lasciando anche dei debiti. I debiti li pagavano gli eredi. Se l’erede
nominato fosse stato un erede volontario, avrebbe potuto non accettare la chiamata. Ma se l’erede fosse stato necessario
sarebbe diventato erede automaticamente. Gli eredi necessari erano i sui heredes, e pagare i debiti non è una cosa piacevole,
ma soprattutto si poteva andare incontro ad una procedura esecutiva (la bonorum venditio) che aveva come effetto l’infamia.
Quindi c’era un effetto sia sociale che giuridico: gli infami non potevano fare una serie di cose a Roma. Quindi l’erede necessario
si trovava in una posizione scomoda ma poteva uscirne, perché gli veniva concessa la possibilità di rimanerne fuori attraverso il
“beneficium abstinendi”. Quindi potevano stare fuori dal patrimonio ereditario con questo beneficio e non subire le
conseguenze dell’eventuale procedura esecutiva.
Questo beneficio non veniva concesso agli schiavi. Questo è anche un motivo per la quale si istituisce erede uno schiavo. In
questo modo gli si fa carico di questa situazione molto scomoda, in cambio della sua libertà. Con il tempo viene limata questa
situazione, perché si concede allo schiavo di separare il proprio patrimonio personale rispetto a quello ereditario. Quindi lo
schiavo è invitato a rispondere nei limiti dell’asse ereditario, questo atto si chiama separatio bonorum, ovvero la possibilità di
separare i due patrimoni.

LA SOSTITUZIONE DI UN EREDE
Se l’erede non ha dato attuazione all’ereditá (perché era un erede volontario) manca una quota. Che succede in questo caso? Si
hanno due possibilità. Si può verificare il fenomeno dell’accrescimento. Ma prima che si verifichi questo fenomeno è possibile
che il testatore abbia già previsto questa possibilità. In che modo? Nominando un sostituto (seconda clausola).
È possibile che il testatore nomini un erede secondario, questo tipo di meccanismo può dare luogo a due tipi di sostituzioni
diverse sia per configurazione che per scopo. Quella di cui stiamo parlando adesso è la cosiddetta sostituzione volgare. Quindi,
se per qualche ragione Tizio non può/vuole essere mio erede, lo potrà essere Caio.
Se diventano eredi i figli di una determinata persona, si poteva nominarli per 1/3 ciascuno. Ma se uno di loro non fosse
diventato erede, sarebbero subentrati gli eredi estranei e le quote si riformulano in altro modo (3⁄4 i miei figli e 1⁄4 è destinata
all’erede estraneo). Quindi si potevano rendere autonome le due dichiarazioni, è possibile che le dichiarazioni avessero due
configurazioni diverse.

Era anche possibile anche una sostituzione che era più complicata dal punto di vista degli effetti: si sta parlando della
sostituzione pupillare. La sostituzione pupillare è quando il testatore poteva avere un discendente impubere e, in quanto
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impubere, non poteva fare da sé un testamento. Quindi era possibile che il testatore prevedesse un erede per suo figlio
impubere (nel caso in cui non avesse raggiunto la maggiore età). Questo tipo di sostituzione è più problematica perché si hanno
due testamenti: il testamento del padre e il testamento del figlio minore. Sono due tavole testamentarie separate. Si pone un
problema logico: l’erede chiamato come sostituito del minore, è l’erede del sostituto stesso o è erede del testatore, quindi del
padre? Questo è un problema, perché i chiamati all’ereditá potevano essere diverse persone nel caso della chiamata dell’ereditá
del padre e nel caso dell’ereditá del figlio. Quindi le controversie che possono nascere, possono essere nei confronti di soggetti
diversi, con modalità diverse e per oggetti diversi. I giuristi di volta in volta affrontano i vari casi e provavano a dare delle
risposte a questi temi.

I LEGATI
Gaio afferma che i legati sono un modo per acquistare singoli beni (singole res) contenuti all’interno di un testamento e non di
complessi patrimoniali, ma ne parla nell’ambito delle successioni mortis causa. Questo ci aiuta a capire che mentre l’istituzione
di un erede è il modo in cui il testatario esprime la volontà di far succedere il suo complesso patrimoniale (successione
universale) a determinati soggetti, i legati sono un fenomeno grazie al qaule il testatario trasferisce i singoli beni (successione a
titolo particolare). Se consideriamo l’articolo 588 del Codice civile vedremo che ancora oggi vi è la distinzione tra successioni a titolo universale e a titolo
particolare. I romani distinguono 4 tipi di legati sulla base delle parole usate dal testatore (le formule producono effetti diversi):
legato per vendicationem - legato per damnationem - legato per sinendi modo - legato per praeceptionem

1) Il legato per vendicationem è un legato che viene riconosciuto per l’uso delle parole “Do lego” (es: “a tizio Do lego questo
terreno X”). Questo Do e/o Lego significa “attribuisco per tale persona”. Questo significa che il legato ha effetti reali,
ovvero è un tipo di legato, che immediatamente traferisce la proprietà della cosa al legatario. L’attribuzione è diretta dal
testatore al legatario. I negozi con effetti reali hanno la capacità di creare un diritto reale e di trasferirlo da un soggetto
all’altro. Tra i negozi con effetti reali mortis causa, troviamo il legato per vindicationem. Che significa che ha effetti reali?
Significa che il legatario è immediatamente proprietario della cosa. Se il bene che io lascio per il legato è in possesso
dell’erede, il legato potrà usare una rei vendicatio, perché è già proprietario della cosa. Questo è la differenza principale
rispetto al legato per damnationem.

2) Il legato per damnationem si manifesta attraverso l’uso delle parole “damnas esto dare/ facere” (damnas significa
letteralmente condannato, quindi è colui che è tenuto a dare). Qui non è più un’attribuzione diretta dal testatore al
legatario, ma l’erede è tenuto a dare/fare in favore del legatario. Questo legato, perciò, ha effetti obbligatori in capo
all’erede. I negozi con effetti obbligatori tra vivi sono i contratti. Infatti, i contratti fanno nascere delle obbligazioni (es: la
compravendita che è un contratto consensuale, ovvero è nato da un accordo tra i contraenti, questo accordo non darà vita
ad un trasferimento immediato della proprietà, perché il contratto non ha effetti reali, al contrario farà nascere delle
obbligazioni). Tra i negozi con effetti obbligatoriin mortis causa troviamo il legato per damnationem. In questo caso il
legatario non sarà proletario della cosa che ho lasciato e non potrà usare la rei vendicatio (perché́ non ha il possesso di
quella cosa lì). Quindi la tutela del legatario la cercheremo nell’area delle azioni in personam, perché il suo sarà un rapporto
obbligatorio con l’erede (l’erede è il debitore e il legatario è il creditore). Il legatario potrà fare valere il suo credito nei
confronti dell’erede con un’azione che si chiama azione che nasce dal testamento. Una conseguenza di questa diversa
configurazione del legato, è che per disporre di un legato per vendicationem il testatore, per poter trasferire la proprietà
del bene in via immediata, deve essere il proprietario del bene. Il testatore può disporre per vendicationem solo ciò che ha:
può disporre solo di beni e diritti che gli aspettano. Il legato per damnationem può avere ad oggetto anche dei beni che non
sono nell’ereditá, perché l’effetto è di fare nascere l’obbligazione in capo alla erede (di fare o dare qualche cosa). Quindi
l’erede è obbligato a fare ciò che gli è richiesto, anche quando i beni (che sono oggetto del patrimonio) appartengono
all’erede stesso, oppure appartengono ad un terzo. Il legato per vendicationem e il legato per damnationem sono i due
grandi scompartimenti dei legati.

3) Il sinendi modo è un legato che fa nascere un’obbligazione in capo all’erede, ma è un’obbligazione che ha come contenuti il
non fare. Un esempio che dice Gaio è il portar via qualcosa dal patrimonio. Quindi è chiesto all’erede di non opporsi al
comportamento del legatario. Per cogliere la genesi dell’istituto dobbiamo guardare al procedimento per legis actiones
della formula del processo antico per la struttura della doppia rei vendicatio (in cui 2 persone rivendicavano la proprietà
sulla stessa cosa), una delle applicazioni di questa modalità della iure cessio prevedeva che uno dei due soggetti non dicesse
niente e che all’atro venisse aggiudicata la cosa. È possibile che l’origine sia qui, si chiede all’erede che il legatario rivendichi
come propria una cosa che è dell’erede e che non si opponga a questa cosa (quindi in qualche modo gliela trasferisce: un
trasferimento mediato dalla non opposizione alla pretesa aggressiva dell’altro). I giuristi discussero su questo tipo di legato
e quello per damnationem e con il tempo si decise dovessero diventare un unico legato, con effetti di obbligazione.

4) Il legato per praeceptionem è un legato speciale che può essere disposto (ha effetti reali) solo a favore di un coerede e
funziona solo come prelegato. Il prelegato è una disposizione che rimanda ad un meccanismo di questo tipo: prima di
ripartire l’eredità tra gli eredi scorporo alcuni beni, che vengono assegnati in via prioritaria a dei determinati eredi. (Es:
prima di dividere l’eredità voglio che un bene sia dato in via prioritaria ad uno dei miei figli). Il legato per praeceptionem è
un prelegato, ovvero prende con preferenza prima degli altri. Quindi qualcosa diventa suo prima della divisione ereditaria.
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Infatti, questo tipo di legato poteva essere fatto valere nell’ambito dell’azione della divisione dell’eredità (actio familiae
hercisundae). Nell’ambito di questo procedimento il giudice doveva tenere in considerazione che un bene era stato
assegnato in via prioritaria a uno dei coeredi, e che quindi la divisione doveva essere fatta sull’intero, ma meno quel bene lì.
Con il tempo il legato per praeceptionem finisce per unirsi con il legato di vindicationem.

Tra il 1820 e 1830 vengono vengono trovati a Roma dei frammenti di una lapide contenente un’epigrafe che viene ricostruita. Questa epigrafe contiene un
testamento, il contenuto del testamento poteva valere come attestazione del diritto di proprietà su un tale campo o sugli obblighi (che aspettavano ad un tale
soggetto). Poteva succedere che tale testamento potesse essere fatto incidere su pietra, per testimoniare la titolarità di un fondo o l’obbligo di qualcuno (es:
l’obbligo dei liberti di portare i fiori sulla tomba del defunto o di celebrare delle feste in un giorno specifico per il defunto.) Questo testamento è stato
ricostruito. Abbiamo solo la parte verticale da cui possiamo capire la struttura. Il testamento era fromato in questo modo:
1. Intitolazione
2. un’istituzione di erede. Nel testamento ritrovato si può anche leggere la formula dell’istituzione di erede.
3. sostituzione
4. in seguito, c’è parte dedicata ai legati
5. istruzioni per il culto della memoria del testatore
6. clausole finali notarili e fiscali, in cui si dice che le tasse per la registrazione dell’atto devono essere pagate da un determinato erede
7. troviamo la data
8. dopo la data non ci dovrebbe essere più nulla, ma troviamo quella che è chiamato “codicilo”, ovvero degli scritti integrativi rispetto al testamento. È
possibile che il testatore, passato un certo tempo dalla redazione del testamento, aggiungesse qualcosa che non era valido come testamento in sé. Poteva
valere come testamento in sé solo se conteneva un’istituzione di erede, ma in questo caso invalidava il testamento precedente. I romani decisero, che
quindi era possibile integrare il testamento con alcune indicazioni mantenendone la validità.

LE SUCCESSIONI AB INTESTATO
Lez 17 ruva noemi
In questa lezione andremo a parlare della situazione in cui un uomo muore e non ha fatto testamento, ovvero le successioni ab
intestato. Si ripete il doppio binario che vede diritto civile e diritto pretorio.
Per parlare delle successioni ab intestato seguiamo di nuovo i testi, soprattutto gaio. Fin dalle XII tavole la legge disciplina il
modo in cui un patrimonio passa da una persona defunta a delle persone viventi, lo fa però in via sussidiaria, cioè solo nel caso
in cui manchi un testamento. Questo perché il testamento è l’espressione della volontà dello stesso defunto; quindi, la priorità
viene data al rispetto della volontà della persona che non c’è più. Solo nel momento in cui manca il testamento interviene la
legge a chiarire a chi spetta il patrimonio e a dirimere le controversie che sorgono inevitabilmente.
Seguendo il terzo libro di gaio, nei primi paragrafi gaio dice: << le eredità di coloro che muoiono senza aver fatto testamento, in
primo luogo, in forza della legge delle XII tavole, spettano ai sui heredes >>.
Scomponendo la frase:

1. in forza della legge delle XII tavole, stiamo parlando dello ius civile. La legge delle XII tavole, i mores e le leggi
successive, elaborazione dei giuristi, le norme parificate alla legge ecc, costruiscono il mondo del ius civile. Archetipo di
questi atti normativi che sono fonti di ius civile è la legge delle XII tavole: quindi ogni volta che troviamo, incontriamo
dei riferimenti alla legge sappiamo che siamo sul piano del ius civile, stiamo parlando di successioni civili ab intestato,
cioè in assenza di testamento.
2. Le eredità di coloro che muoiono senza aver fatto testamento, la priorità è del testamento, solo nel momento in cui non
viene fatto la legge interviene, non prima né in alternativa
3. Spettano in primo luogo ai sui heredes, la legge individua dei soggetti che sono chiamati non tutti
contemporaneamente ma vi era un ordine preciso. La legge dà la priorità ad alcuni individui rispetto ad altri. Il primo
posto è dei sui heredes (suus heres), coloro che erano sotto la potestà del defunto (che sono stati immediatamente
sotto la potestà). Nel diritto delle persone abbiamo detto che i sui heredes si distinguono in sui iuris e alieni iuris:
persone che stanno, rispetto al padre di famiglia, in una relazione di sottomissione che può prendere forme diverse:
potestas, figli e schiavi, manus per la donna e infine il mancipium per quanto riguarda i figli altrui. Sono sui heredes
coloro che sono sottoposti alla patria potestas del pater familias.

Perché sono soggetti alla patria potestas immediatamente? Sono coloro i quali al momento della morte del padre di famiglia
diventano sui iuris; quindi, il patrimonio passa dal pater familias defunto a coloro i quali sono i nuovi pater familias, i quali
possono avere un proprio patrimonio poiché il pater familias è morto. Come avevamo detto, infatti, alla morte del pater familias
si vanno a creare tanti nuovi nuclei familiari quanti sono i soggetti sottoposti alla sua potestà (del defunto pater). Infatti, gaio
dice, per esempio il figlio o la figlia, il nipote o la nipote nati dal figlio, il pronipote o la pronipote nato/a dal nipote maschio,
figlio del figlio. Non importa che siano discendenti naturali o adottivi, la linea è prettamente maschile perché seguiamo il filo
della parentela civile (si seguono le linee che uniscono i soggetti in base ai rapporti potestativi, non conta il sangue ma solo la
linea di sottomissione alla potestà l’uno dell’altro: per questo si segue la linea maschile, essendo gli uomini gli unici a poter
dare vita a rapporti potestativi.

Gaio aggiunge che non importa che siano discendenti naturali o adottivi: l’adozione è l’istituto con il quale il figlio (che non è
figlio naturale) viene accolto sotto la patria potestas del padre e acquisisce una parentela civile, entrando nella potestas del
padre, acquisisce il diritto come gli altri a essere nella classe dei sui heredes. Il punto da mettere a fuoco è il legame di tipo
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potestativo, quando si parla di rapporto agnatizio ci si riferisce proprio a questo, alla parentela data da legami di tipo civile: è il
diritto che lega le persone e le lega perché sovrappone agli individui questi legami di potestas che legano rispetto al padre di
famiglia. A conferma di ciò gaio aggiunge che il nipote o la nipote sono da annoverare tra i sui heredes solo se la persona che li
precede (nel grado di parentela agnatizia) avrà cessato di essere sotto la potestà dell’ascendente, sia che sia accaduto in
seguito a decesso, sia per altra ragione, per esempio in seguito ad emancipazione, cioè se un uomo A ha un figlio B e questo
figlio ha altri due figli (nipoti dell’uomo A), questi nipoti non sono immediatamente sotto la patria potestà dell’uomo A ma
dell’uomo B (figlio di A). Ma se il figlio (B) o muore o esce dalla potestas prima che l’uomo A muoia (emancipazione, dove il figlio
si tira fuori dal rapporto agnatizio), allora l’intermediario tra uomo A e nipoti non c’è più e quindi i nipoti sono immediatamente
sotto la potestà dell’uomo A. In sintesi, i nipoti sono sui heredes solo nel caso in cui il figlio (B) esce dalla potestas: o perché è
morto o perché è stato emancipato.

Se al tempo della morte del de cuius (espressione con cui si intende il defunto, dovuta al modo di dire latino che significa del
quale/della quale, sintesi che serve a dire che è la persona della cui eredità si tratta), il figlio è ancora sotto la sua potestà, quindi
c’è ancora l’intermediario, il nipote nato da quel figlio non può essere suus heredes. Ma abbiamo visto che il rapporto di
soggezione al potere del padre di famiglia non è solo la potestas dei figli ma anche la manus (la moglie che viene accolta nella
famiglia del marito con la conventio in manum viene considerata alla stregua di una figlia, loco filiae), qui abbiamo la
manifestazione di questo principio: anche la moglie che è stata in manu al defunto, è sua heres perché è nella stessa posizione di
una figlia. Quindi, come dicevamo, non solo i figli sono sotto la potestà del padre, ma anche la moglie in manu è sotto la potestà
del padre e dunque anche la moglie in manu rientra sotto questa categoria. Lo stesso vale per la nuora che sia in manu rispetto
al figlio (del defunto), perché è nella stessa condizione di una nipote, tuttavia anche qui, la nuora sarà sua heres solo se il figlio,
rispetto a cui è in manu, non è in potestate del pater quando questi muore (è lo stesso principio di prima, solo che qui non si
parla di potestas ma di manus; quindi, gaio riformula lo stesso principio adattandolo al rapporto che c’è tra il marito e la moglie
in manu). Quindi se la moglie è sposata al figlio o entra nella famiglia agnatizia del marito (conventio in manum), cade sotto la
potestà del pater familias (che può essere il padre del marito). Se, invece, alla morte del padre di famiglia, il figlio (che è marito
della moglie in manu) è ancora vivo ed è ancora sotto la potestà del padre, la moglie cade sotto la potestà del marito stesso, ma
se il marito non è più sotto la potestà del padre, allora vale lo stesso principio che valeva per i nipoti.

Gaio aggiunge ma anche i postumi che, se fossero nati quando il genitore era in vita, sarebbero stati in potestate rispetto a lui,
sono sui heredes. I postumi sono i figli che vengono concepiti quando il genitore è in vita ma che nascono quando il genitore è
già morto. Siccome nascono quando il genitore è già morto non possono essere in potestate perché uno dei due soggetti del
legame manca (un genitore non c’è più), allora a rigore loro non sarebbero sui heredes, perché se la regola vuole che siano sui
heredes solo i soggetti sotto la potestà del pater, i postumi non lo sono e non possono esserlo. Ma la regola interpretativa vuole
che anche costoro si considerino sui heredes, quindi in qualche modo si adatta, con una sorta di finzione, la loro situazione a
quella dei figli che cadono sotto la potestà del pater. Ciò non avviene con tutti i postumi, ma solo con coloro i quali nascono
dopo la morte del padre (non è detto nemmeno che siano figli dello stesso pater): si tratta di capire se sono i nati dopo la morte
del padre di famiglia defunto che sarebbero caduti sotto la sua potestà se fossero nati quando il de cuius era ancora in vita;
quindi, si ricade nella tipologia vista prima. Gaio dice che la stessa cosa vale anche per il figlio manomesso, dopo la morte del
padre, a seguito della prima o della seconda mancipazione.
Per capire il passaggio dobbiamo fare riferimento a delle lezioni passate: il processo di emancipazione e adozione prevedeva, ai
sensi delle XII tavole, 3 mancipazioni, dove il padre dopo la prima mancipazione a un soggetto fiduciario cede il figlio in
mancipium ma conserva la potestas, il fiduciario lo ricede al padre una prima volta che lo riacquista in potestate e così via fino
alla terza mancipazione: alla terza perde la patria potestas sul figlio. Qui ci si pone il problema di un procedimento che sia stato
avviato quando il padre era ancora in vita ma che non si è ancora concluso; quindi, il figlio liberato dalla potestà del padre, a
seguito della prima o della seconda mancipatio, il figlio non è ancora libero dal padre. Allora se il fiduciario lo manomette dopo
una delle prime due mancipazioni succederebbe che il padre teoricamente dovrebbe riacquistarlo in potestate ma il padre è
morto. Quindi qui dice Gaio è un po' come se fosse un postumo, come se fosse un concepito che non è ancora nato perché la
situazione è la stessa, è una dinamica per cui se il padre fosse ancora in vita lo riacquisterebbe in potestate: è un piccolo
esempio del modo di ragionare dei giuristi romani, per questo le situazioni che ritornano di volta in volta sono dinamiche che
mettono alla prova il ragionamento dei giuristi che non è mai arbitrario nel dare le soluzioni ma che trova sempre degli appigli in
un equilibrio complessivo che determina la tenuta del sistema.

Abbiamo detto che sono sui heredes in particolare i discendenti; quindi, i figli o i nipoti se il figlio è morto o mancipato, la moglie
in manu, la nuora se il figlio è sempre morto o mancipato e i postumi. Gaio dice, quando al testatore sopravvivono un figlio o una
figlia, da una parte e dei nipoti o delle nipoti nati da un altro figlio, tutti sono chiamati all’eredità alla pari, e chi ha un grado più
prossimo di parentela non esclude chi ha un altro figlio, tutti sono chiamati all’eredità. Appariva equo, infatti, che i nipoti o le
nipoti succedessero nella posizione e nella quota del loro padre. Per la stessa ragione, se sopravvivono un nipote o una nipote
nati da un figlio maschio, e un pronipote o una pronipote nati dal nipote maschio, sono chiamati tutti all’eredità nello stesso
momento. E poiché si era deciso che i nipoti e le nipoti, così come i pronipoti e le pronipoti, dovessero succedere nella posizione
dei loro genitori, parve conveniente che l’eredità si dividesse non per capi (singoli individui), bensì per stirpi (individui nati da un
comune ascendente), cosicché a un figlio spettasse la metà dell’eredità e a due o più nipoti nati dall’altro figlio spetti l’altra metà.
Allo stesso modo, se ci sono nipoti nati da due figli, per esempio uno o magari due nipoti nati da uno dei due figli, e tre o quattro
dell’altro figlio, al nipote o ai due nipoti nati da un figlio spetta la metà, e ai tre o quattro nipoti nati dall’altro figlio l’altra metà.
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Siccome abbiamo detto che i discendenti sono immediatamente soggetti alla potestà del pater quando l’intermediario viene
meno perché muore o si sottrae alla potestà, allora si tratta di capire in che posizione stanno i discendenti di grado ulteriore
rispetto all’eredità.
Esempio: gaio dice, poniamo che il nostro defunto abbia 2 figli, i quali sono entrambi immediatamente soggetti alla sua potestà (figlio A e B), quindi succedono
entrambi in pari quota. Ma immaginiamo che uno dei due figli non ci sia (morte o mancipazione) e che lasci a sua volta due figli (quindi due nipoti), a questo
punto i soggetti sono 3. Tuttavia, il figlio rispetto ai nipoti è di grado più vicino al testatore: succede che i nipoti subentrano nella quota che sarebbe spettata al
loro pater. Questo fenomeno viene chiamato rappresentazione, dove i discendenti di grado ulteriore subentrano nella quota che sarebbe spettata al loro
ascendente. Dunque, idealmente l’eredità si divide in due: una metà va al ramo del figlio superstite, l’altra metà va al ramo del figlio che non c’è più e all’interno
di questo ramo sarà divisa tra i superstiti, ovvero i nipoti. Quindi qui avremo metà divisa tra i nipoti (1/4 ciascuno) e metà all’altro figlio. E la stessa cosa vale se
mancano entrambi i figli, la quota verrà divisa ad entrambi i rami tra i nipoti. È proprio questo ragionamento per rami che prende il nome di
divisione per stirpi. Questi meccanismi vengono utilizzati ancora oggi, ovviamente adattati ai vari casi.

LA SECONDA CLASSE: GLI AGNATI


Abbiamo parlato fino ad ora di sui heredes, ma le XII non parlano solo di loro. Abbiamo detto che le XII tavole affermano che in
mancanza del testatario, il patrimonio spetta in primo luogo ai sui heredes, ma se mancano subentra una seconda classe: gli
agnati, coloro legati da parentela civile (unisce attraverso gli individui di sesso maschile, rispetto all’ascendente comune). Se il
defunto non lascia figli ma un fratello, lui è un parente agnatizio del defunto (ammesso che abbia conservato nel tempo questo
rapporto) attraverso il pater dello stesso defunto che a sua volta sarà verosimilmente defunto. Pertanto, i fratelli nati dallo
stesso padre sono reciprocamente agnati anche detti consanguinei (derivano da uno stesso ascendente comune, ma non si
richiede abbiano la stessa madre perché è una parentela che guarda alla dimensione della potestas). Similmente lo zio paterno è
agnato per il figlio del fratello e viceversa, della stessa classe sono annoverati i cugini chiamati anche consobrini. I romani
ovviamente avevano costruito un sistema di nomi molto più ampio rispetto a quello che noi usiamo oggi per la parentela. Quindi
gli agnati sono soggetti che si legano tra loro attraverso la parentela civile per via di un ascendente comune e tuttavia, aggiunge
gaio, la legge delle XII tavole non attribuisce l’eredità a tutti gli agnati ma solo a coloro i quali, nel momento in cui si accerta che
uno è morto senza aver fatto testamento, sono, rispetto a costui, gli agnati più vicini in grado. Allora, possiamo dire che la
seconda classe comprende non tutti gli agnati ma l’agnato prossimo, cioè il più vicino in grado e non è previsto lo scorrimento
nella chiamata per cui se l’agnato prossimo non accetta l’eredità perché non può o non vuole, allora agli agnati di grado
successivo non spetta nulla: l’agnato prossimo ha l’onere e l’onore di accettare o meno il patrimonio.
Perché questo discorso può essere fatto con gli agnati e non con i sui? Poiché i sui sono eredi necessari che non hanno bisogno
di accettare l’eredità mentre gli agnati sono eredi volontari, che possono decidere se accettare o meno attraverso cretio, oppure
pro herede gestio. Quindi se l’agnato non accetta l’eredità, blocca anche gli agnati di grado successivo.

SUCCESSIONE CIVILE DELLE DONNE


Un problema particolare spetta alle donne che venivano discriminate dal diritto civile: gaio dice, per ciò che riguarda le donne,
sotto questo profilo (chiamata degli agnati) si decise di applicare, con riguardo all’eredità lasciata dalle donne stesse, regole
diverse da quelle applicate quando le donne acquistano l’eredità di altri. Infatti, acquistiamo l’eredità delle donne per diritto di
agnazione nello stesso modo in cui lo facciamo con quelle degli uomini. Invece le nostre eredità non spettano le donne oltre il
grado dei consanguinei (fratelli dello stesso padre). Pertanto, la sorella è erede legittimo del fratello o della sorella, ma già la zia,
sorella del padre, e la nipote, figlia del fratello, non può essere erede legittima; ma rispetto a noi occupa la posizione di una
sorella anche la madre o la matrigna che, attraverso la conventium in manum, ha ottenuto da nostro padre i diritti di una figlia.

CRITERI DI SUCCESSIONE NELLA CLASSE AGNATIZIA


Se al defunto sopravvivono un fratello e il figlio di un fratello, il fratello viene preferito perché è più vicino in grado. Avviene in
modo diverso invece, fra i sui heredes. Se poi non resta alcun fratello del defunto, ma restano discendenti dei fratelli, l’eredità
spetta a ciascuno di loro; si chiede, però, se sono in numero impari rispetto ad ogni fratello-per esempio, se da un fratello
discendono uno o due nipoti, dall’altra tre o quattro-se l’eredità sia da dividere per stirpi, come avviene per i sui heredes,
oppure per teste (i singoli individui). Già da tempo si accetta che la realtà sia da dividere per teste. Dunque, l’eredità va divisa in
tante parti quanti sono le persone da entrambi le parti, in modo che ognuna riceva una singola quota. Anche qui il criterio di
ripartizione dell’eredità è diverso da quello che riguarda i sui heredes poiché qui non si divide per rami la famiglia ma si guarda
se tutti sono in pari grado e se lo sono partecipano come singoli (per teste) e vi è anche una differenza nel calcolo delle quote.

LA TERZA CLASSE:GENTILES
Cosa succedeva se non si fosse trovato nessun sui heredes o agnato? Subentrava la terza classe: i gentiles, ovvero coloro
appartenenti alla stessa gens (le famiglie aristocratiche chiamate gentes). Ai tempi dell’antica Roma, tra le classi a cui spettava il
patrimonio del defunto nel caso in cui non ci fossero stati altri parenti, vi erano i gentili ma riguarda un tempo in cui il diritto
gentilizio era ancora vivo mentre all’età di gaio ormai questa classe si era persa (viene menzionata per completezza).

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SUCCESSIONI
Gaio dice, finora sono state illustrate le previsioni della legge delle XII tavole circa l’eredità ab intestato. È chiaro a tutti quanto
sia severa questa disciplina, perché esclude alcuni soggetti che per equità dovrebbero essere inclusi nella disciplina ereditaria,
come ad esempio il figlio emancipato che perde la parentela civile e quindi perde il diritto al patrimonio, vi è un’iniquità. Oppure
gli agnati che hanno subito una capitis deminutio, non sono ammessi all’eredità in forza di questa legge, perché la parentela
civile viene meno con la capitis deminutio. Poi, se l’agnato prossimo accetta l’eredità, per il ius civile il parente successivo in
grado non è ammesso a succedere. Ancora: stesso modo le donne agnate di grado superiore a quello dei consanguinei non
hanno, per legge, alcun diritto. Similmente, non sono ammessi i cognati, che sono uniti da parentela naturale, attraverso le
persone di sesso femminile; al punto che tra madre e figlio o figlia, reciprocamente, non c’è alcun diritto di successione, a meno
che non esista tra loro una parentela civile-come consanguinei-in forza di una conventium in manum. Queste iniquità vengono
corrette dal pretore perché introduce quel tipo di successione mortis causa che prende il nome di bonorum possessio, anche in
questo caso (quando manca il testamento), il pretore può immettere alcuni soggetti, che sarebbero esclusi dall’eredità, nel
patrimonio del defunto, per una valutazione di equità. Il pretore, parallelamente, decide di destinare il possesso dei beni anche
ad altre persone rispetto alla lista tradizionale (sui heredes, agnati, gentiles). Questa lista comprende 4 categorie per le
persone libere:

1) Unde liberi, categoria dei discendenti che includono non solo i sui heredes ma anche gli emancipati (ovvero la categoria
esclusa dal ius civile); escludono invece i figli dati in adozione perché sono ormai con un’altra famiglia e avranno diritti di
successione rispetto alla famiglia adottiva. Problema: gli emancipati sono esclusi dall’eredità civile ma inclusi nella classe
dei liberi della bonorium possessio praetoriam; ma gli emancipati sono usciti dalla famiglia del padre e hanno ottenuto una
loro autonomia, questo significa che a loro volta hanno avuto la possibilità di mettere a frutto un loro patrimonio, che
invece i figli rimasti sotto la potestà del padre, non hanno avuto. Allora per risolvere questo squilibrio si introduce il sistema
della collazione: fenomeno per cui al momento della ripartizione dell’eredità (in questo caso del patrimonio che entra in
successione), il figlio emancipato deve unire i propri beni a quelli disponibili e una volta messo tutto insieme si procede alla
ripartizione. Ciò avviene attraverso delle promesse di garanzia (stipulazioni).
2) Unde legitimi, sono coloro i quali sono chiamati all’eredità in forza della lex (del ius civile). Include la disciplina prevista sia
dalle XII tavole che quella che nel corso del tempo si è aggiunta e ha modificato il regime del ius civile, per esempio due
senatoconsulti del 2 sec dc introducono la possibilità di chiamare in eredità la madre rispetto al figlio e il figlio rispetto alla
madre. Questi 2 senatoconsulti hanno forza di legge e quindi modificano il sistema di ius civile e quindi anche queste norme
rientreranno nel “pacchetto” di norme della classe dei legittimi.
3) Unde cognati, comprende la classe dei cognati, cognatio: relazione che lega le persone in base a rapporti di sangue,
parentela naturale.
4) Unde vir et uxor, coniuge che sopravvive, il superstite

Gaio dice, il pretore chiama al reddito tutti coloro che non hanno più diritto alla successione secondo il ius civile (emancipati), come se fossero in potestate
rispetto al defunto al tempo della sua morte, sia che non abbiano coeredi, sia che concorrono all’eredità i sui heredes, cioè coloro che erano in potestate rispetto
al Pater. Tuttavia, quanto agli agnati che hanno subito una capitis deminutio, il pretore non li chiama nella seconda classe, dopo i sui heredes, cioè non li chiama
nello stesso grado in cui sarebbero chiamati per legge se non avessero subito la capitis deminutio, bensì nella terza classe. Sebbene, infatti, con la capitis
deminutio abbiano perso il diritto alla successione civile, certamente hanno mantenuto i diritti che derivano dal rapporto di sangue. Dunque, se sopravvive un
altro agnato che avrà conservato intatto il diritto di parentela civile, quest’ultimo prevarrà, anche se è molto più lontano in grado. Lo stesso avviene come alcuni
ritengono, con riguardo all’agnato che, non avendo l’agnato prossimo accettato, non ha più la possibilità di essere ammesso all’eredità civile. Ma c’è chi anche
ritiene che costui sia chiamato dal pretore nella stessa classe in cui l’eredità è concessa per legge agli agnati. Le donne agnate, di grado ulteriore rispetto ai
consanguinei, sono chiamate nella terza classe, cioè, se manca sia un suus heres, sia un agnato. Nello stesso grado sono chiamati anche tutti gli individui uniti da
parentela in linea femminile. Anche i discendenti dati in adozione sono chiamati all’eredità dei genitori naturali in questa classe.

Abbiamo già detto che la bonorium posessio bisogna richiederla, e allora perché fare queste classi? Perché il pretore concede la
BP entro certi limiti di tempo in cui è possibile fare ricorso a pena di decadenza e la concede a scaglioni successivi (il primo
termine è assegnato alla classe da lui preferita e così via fino alle classi successive, passato il tempo di decadenza di uno arriva il
tempo di decadenza del’altro che normalmente è di 100 giorni). Se non si fa ricorso entro quel periodo di tempo, si perde la
possibilità di richiedere la bonorium possessio. Il primo termine riguarda i figli che sono stati esclusi dal testamento: il defunto
ha fatto tastamento ma ha escluso dei figli, se si tratta di un suus heres, il testamento deve contenere o l’istituzione di erede o la
clausola di diseredazione.

1) Se anche un discendente emancipato (classe dei liberi) non è stato né nominato erede né diseredato, il pretore può
concedere la bonorium possessio che in questo caso si chiamerà contra tabulas, contro il testamento, il quale verrà
preso in considerazione prima da parte del pretore.
2) Poniamo che non si presenti questa situazione, nessuno dei discendenti viene pretermesso (non nominato nel
testamento), allora se c’è il testamento ma è invalido, il pretore concede la BP ai nominati nel testamento, bonorium
possessio secundum tabulas.
3) Se il testamento non c’è o è invalidato si chiamerà sine tabulas.

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All’interno di ciascuna classe ci sono dei sotto termini e sottocategorie, per esempio nella categoria della BP secundum tabulas,
prima verrà concessa la possibilità di richiedere la BP all’erede e poi all’erede sostituto e così via per tutte le classi. Questo dà la
possibilità di entrare in più classi e quindi alcuni saranno più privilegiati poiché avranno più modi per richiedere la bonorium
possessio. Quindi la BP non è automatica ma qualcosa concesso dal pretore.

LE OBBLIGAZIONI
Lez 18 ruva noemi
Siamo arrivati al termine del ciclo del discorso di Gaio.
Si parte con l’analisi del termine obbligazione: ob-ligatione fa riferimento ad un legame tra due soggetti. Oggi si tratta di una
metafora ma non inizialmente. Nella Roma arcaica abbiamo assistito a dei fenomeni di tipo obbligatorio: le fasce di popolazione
meno abbienti dovevano ricorrere a dei prestiti da parte delle popolazioni più abbienti e in alcuni casi per ripagare il proprio
debito ampie fasce della plebe erano costrette a sottomettersi al creditore per ripagare in forma di lavoro o di servizi quanto
ricevuto. Si tratta di una sottomissione identificata con una sorta di vendita di sé stessi al creditore, è una forma che abbiamo
messo in relazione con il nexum: esso era una modalità di trasferimento per aes et libram (stesse formalità della mancipatio) di
sé stesso al creditore a garanzia del pagamento del proprio debito. Questa forma di sottomissione trasforma il debitore in una
sorta di soggetto asservito, legato anche fisicamente o quasi al creditore. Questo legame tra debitore e creditore rimonta ad un
legame non solo metaforico.

Parlando delle 12 tavole, esse comprendevano delle norme relative agli illeciti. Una norma, il cui contenuto era che se qualcuno
fa un’offesa fisica (irrimediabile, membrum ruptum) ad un altro soggetto e non si fosse giunti ad un accordo di risarcimento
patrimoniale del danno; allora l’offeso aveva diritto alla vendetta (legge del taglione). Se i due si accordavano per la
compensazione materiale, chi ha prodotto l’offesa doveva procurarsi il denaro per pagare il risarcimento. Il tempo necessario
non è breve e la vittima vuole ricevere delle garanzie per l’offesa ricevuta in vista della compensazione del denaro: rinuncia alla
vendetta perché ha accettato il risarcimento ma ha bisogno che l’autore dell’offesa garantisca. Questo avveniva attraverso
delle persone GARANTI. Prendono il nome PREDEDES e VADES (garanti utilizzati in situazioni diverse). Cosa facevano? Stavano
in ostaggio della vittima. La vittima teneva in ostaggio dei garanti terzi non l’autore dell’offesa (eterogaranzia) fino ad avvenuto
risarcimento. Venivano semi-asserviti al creditore in questo caso di una somma derivante da atto illecito non da un contratto
(tipo il prestito di denaro). Il legame che si crea è un legame fisico e materiale. Il termine Obligatio probabilmente rimanda ad un
legame di questo genere. In epoca classica ormai questo legame è un legame giuridico di diritto (si è un legame ma metafora). Si
tratta di catacresi cioè una metafora che ormai è diventata stabile. Ci due definizioni che il diritto romano ci offre di
obbligazione.
1. brano delle istituzioni di giustiniano. Nei primi decenni del VI sec riordina il diritto vigente e anche le fonti a disposizioni e a
sua volta produce un manuale di diritto che in gran parte è costruito su quello di gaio. Introduce una definizione di
obbligazione molto famosa OBLIGATIO EST IURIS VINCULUM: cioè l’obbligazione è un legame di diritto nel quale siamo
prigionieri della necessità di pagare ai sensi della nostra società. Gli stessi romani leggevano questa metafora. Si tratta di un
legame, un vincolo di diritto perché siamo costretti a fare qualcosa. Ci costringe perché abbiamo la necessità di eseguire la
prestazione.
2. brano da un manuale di istituzioni di Paolo (giurista II e III sec dc). La sostanza delle obbligazioni non consiste nel rendere
nostro un oggetto corporale o una servitù (oggetti incorporali) ma nel costringere qualcuno a darci, fare qualcosa per noi o
garantire qualcosa. Questo legame giuridico consiste nella possibilità di costringere la persona obbligata a carico della
quale è sorta l'obbligazione a tenere un certo comportamento. Costringere attraverso il processo, in particolare attraverso
azioni. La costrizione avviene perché il pretore, almeno per il diritto classico romano, concede un’azione al creditore: ha la
possibilità di portare il debitore in giudizio con un’azione in personam. Ogni volta che il pretore concede un’azione in
personam siamo di fronte ad una obbligazione cioè ad un legame che produce effetti sul piano del diritto, in particolare
diritto civile.
o azioni in rem → diritti reali: affermiamo che una cosa corporale è nostra (rei vindicatio), se risulta che la cosa è mia in base
al diritto dei quiriti, oppure se risulta che ho il diritto di passare ecc. L’azione in rem che le tutela, può essere utilizzata
contro chiunque metta in dubbio o a rischio questa relazione. La relazione è tra sogg/cosa
o azioni in personam → obbligazioni: nel caso delle azioni personali, il legame è tra due soggetti, tra persona che agisce e la
persona che è tenuta ad un certo comportamento. L’azione in personam non può essere utilizzata nei confronti di chiunque
ma nei confronti solo del debitore.

L’obbligazione è un legame tra due soggetti che nasce da una serie multiforme di situazioni. Già nelle 12 tavole le situazioni in
cui si potesse verificare un legame tra due persone erano diverse. Nel corso del tempo la casistica che riguarda le situazioni in
cui il pretore concedeva un’azione in personam sono tante. Come ci dice Gaio, questi legami sono essenzialmente di due tipi:
1) atti leciti ovvero i CONTRATTI = è un atto lecito, un negozio giuridico che produce degli effetti obbligatori. Tutti i contratti in
diritto romano hanno solo degli effetti obbligatori. Quando due parti stipulano un contratto di compravendita, per il diritto
romano la compravendita produce solo l’obbligazione a fare qualcosa. Non avviene un passaggio di proprietà con la
compravendita perché il contratto non ha effetti reali ma solo obbligazi. Obbliga il venditore a far sì che la controparte
acquisti la disponibilità della cosa e gli permetta di ottenere la proprietà.

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2) atti illeciti = DELITTI. In diritto romano il delitto è un atto illecito che produce obbligazioni sul piano del diritto civile. Per il
diritto romano, il crimine è un illecito che è perseguibile sul piano del processo criminale (diritto pubblico).
Vi è la possibilità di usare delle azioni in personam e di ottenere un risarcimento che riguarda il piano delle relazioni patrimoniali
tra i soggetti.

Questa classificazione è una classificazione a posteriori, cioè Gaio, guardando al proprio presente e passato, riconosce che tra le
situazioni tutelate dal pretore alcune hanno origine in un contratto altre in un delitto. Tuttavia, gaio stesso si rende conto che è
una classificazione incompleta. Infatti, vi sono situazioni in cui il pretore concede un’azione in personam ma che difficilmente
vengono inquadrate nei contratti e nei delitti. Per esempio, se io sono convinto per errore di essere debitore nei confronti di
qualcuno di una somma di denaro e la pago (do del denaro che non ero tenuto a dare, perché ho sbagliato), l’altra parte è
tenuta a restituirmi i soldi, sorge quindi a carico del soggetto che ha ricevuto denaro senza causa (ingiustamente arricchiti)
un’obbligazione. Io che ho dato i soldi senza causa ho un’azione per richiedere il denaro che ho dato senza causa. Questo
pagamento non dovuto è INDEBITI SOLUTIO (pagamento dell’indebito). L’azione concessa dal pretore sarà una condictio
indebiti con cui chiederò di restituire la somma. L’obbligazione che nasce, però, non riguarda nè un contratto, perché l’altro
soggetto è obbligato a restituire a fronte del fatto che, appunto, non vi è nessun contratto; ma nemmeno un delitto perché non
vi è un atto illecito alla base. È uno dei casi in cui lo stesso gaio, in un altro manuale sempre suo RES COTTIDIANAE, propone una
tripartizione.
1. contratti
2. delitti
3. situazioni residuali indistinte → una serie di altre situazioni varie che danno vita alle obbligazioni
Oltre dell’indebito ci sono altre situazioni: ad esempio quella del legato, in cui era possibile obbligare l’erede a fare qualcosa a
beneficio di una terza persona (il legatario). Quest’obbligo veniva tutelato perché al legatario veniva concessa un’azione in
personam ex testamento.

In una terza fase che risale a Giustiniano all’inizio del VI sec, il rapporto obbligatorio si sviluppa in 4 categorie:
1. contratti, 2. delitti, 3. classe residuale, 4. obbligazioni parificate ai contratti che si dividevano in atti leciti (obbligazioni nate
quasi ex contractu) e atti illeciti (quasi ex delicto/maleficio)

Già in antichità esistevano edifici a più piani e avevano dei davanzali: se un oggetto fosse caduto dall’alto e avesse procurato
danno a qualcuno sulla strada pubblica, il proprietario di casa era obbligato a risarcirlo, non in base ad un contratto, né un
delitto, ma in base alla responsabilità per negligenza, categoria che assomiglia a degli illeciti che danno vita a obbligazioni. Il
nostro Codice civile di oggi conserva tra le fonti delle obbligazioni l’origine di esse. Derivano da contratto, fatto illecito o da ogni altro atto o fatto idoneo a
produrle in conformità dell’ordinamento giuridico. Il comportamento che il debitore deve tenere, in un rapporto obbligatorio, nei
confronti del creditore viene chiamato PRESTAZIONE. Il debitore sarà obbligato a DARE, FARE, PRESTARE/GARANTIRE. Il
contenuto della prestazione per il diritto romano può far capo a una di queste tre categorie, nello specifico soprattutto ad una
delle prime due categorie (dare, fare).
o Obbligazione di dare è un termine tecnico che intende il trasferimento di proprietà sul piano giuridico di una cosa.
Esempio → soggetto A promette con stipulatio = rito orale che fa sì che uno dei partecipanti al rito si obblighi ad un altro di dare
a B un cavallo (attraverso mancipatio): non basta la consegna materiale del cavallo.
o Obbligazione di fare, fa riferimento a tutti i comportamenti che non consistono in un trasferimento di proprietà.
Se io mi obbligo dietro al pagamento di una somma di denaro a tollerare un certo comportamento da parte di qualcun altro, la
mia obbligazione ha come contenuto un comportamento negativo, non fare → rientra però nel fare.
A queste due prestazioni corrispondono dei modi di costruire la formula diversi. L'obbligazione di dare corrisponde ad una
formula in cui l’intentio è espressa in modo certo (se risulta che A deve dare a B diecimila sesterzi, il giudice condanna a pagare
quella somma). Mentre l’altra categoria residuale del fare (tutto ciò che non è dare) è espressa nelle formule con un’intentio
incerta (poiché A ha comprato da B una cosa, tutto ciò che per tale causa B deve dare o fare a favore di A ecc.). Con questa
stessa formula possiamo trovare una clausola ex fide bona e allora saremo nel caso dei giudizi di buona fede.
o La terza classe del prestare non ha dei limiti precisi nelle fonti. Nel diritto più arcaico il debitore che volesse garantire un
pagamento della composizione pecuniaria poteva offrire dei garanti (pres). Vi è un nesso tra origine del termine prestare
inteso come garanzia dell’adempimento e la terza classe.
Nell’Ottocento e soprattutto la dottrina di origine tedesca ha distinto nell’obbligazione due livelli. Il livello del debito (schuld) = essere tenuti ad un determinato
comportamento e il livello della responsabilità (haftung) = possibilità di essere chiamati in giudizio in caso di mancata esecuzione del comportamento. Questi
due livelli non stanno sempre insieme. Dare e fare farebbero riferimento al debito, cioè il tipo di comportamento da tenere. Il prestare farebbe riferimento al
piano della responsabilità, cioè concordare dei livelli di responsabilità, limiti e confini entro i quali l'inesecuzione può essere imputata all’obbligato oppure no.

Le obbligazioni naturali sono quei rapporti in cui non viene concessa una tutela nei confronti del creditore. Tuttavia, quando il
creditore riceve la prestazione, il pagamento, non è tenuto a restituirlo. Non è concessa neanche la condictio indebiti. Questa
possibilità del creditore di tenere la somma pagata si chiama SOLUTIO RETENTIO.
Finora abbiamo parlato di obbligazioni civili, ovvero quei legami che erano coercibili attraverso il processo. Essi davano luogo ad
un dovere sul piano del diritto e in particolare del diritto civile.
L’obbligazione naturale attiene a sfere diverse che si sono create nel corso del tempo. Oggi è un tema relativo a debiti di gioco.
Per il diritto romano il nucleo più interessante è quello legato al diritto di famiglia. L’unica persona che può essere titolare di
diritti e doveri era il pater familias. Tutti gli altri soggetti sotto la sua potestà (figli in potestate, schiavi in potestate, moglie in manus) non sono
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giuridicamente autonomi. Non possono essere centri di imputazione di responsabilità quindi mentre il pater familias può essere tenuto ad un certo
comportamento, si può obbligare perché contro di lui può essere esercitata un’azione in personam. Ma i soggetti alieni iuris no. Se questi soggetti
pongono in essere comportamenti che darebbero vita a delle obbligazioni. Siccome contro di loro in linea di massima non può
essere esercitata alcuna azione in personam, si può dire che non siano civilmente obbligati. I giuristi romani affermano che
queste persone davano vita a delle obbligazioni naturali, cioè non era il diritto civile a costringerle a pagare perché non vi era
un'azione ma era un diritto naturale/ una logica naturale perché se avevano contratto questo debito dovevano poi pagarlo. Se
avessero poi pagato il debito, il creditore poi avrebbe potuto trattenere la somma pagata. Quando a obbligarsi non è una
persona sui iuris ma alieni iuris allora nasce un’obbligazione naturale, la quale ha come effetto che l’obbligazione non sia
coercibile quindi non ci sia nessuna azione ma il debitore può trattenere la somma pagata. Gli schiavi potevano obbligarsi nei
confronti di terzi ma potevano obbligarsi anche nei confronti del loro pater familias. Avevano il peculio che potevano utilizzare
per la gestione degli affari personali e non potevano obbligarsi nei confronti del loro pater familias. Tra il figlio di famiglia e il
pater familias non poteva esserci un’obbligazione civile perché il pater familias è responsabile per entrambi. Non può agire nei
confronti di se stesso. Tuttavia, il rapporto che si crea tra il figlio e il padre è un rapporto di obbligazione naturale. Anche il
nostro Codice civile riprende il concetto di obbligazione naturale.

CONVENZIONI, PATTI, CONTRATTI


Lez 19 ruva noemi
Seguendo il discorso di Gaio dice che le obbligazioni da contratto possono nascere da 4 fattori. L’obbligazione viene contratta,
generata o per mezzo di una cosa, o di una parola, o per mezzo di una scrittura o per mezzo del consenso; questo vuol dire che
ciascuno di questi elementi è in grado di dare vita a delle obbligazioni, cioè dei legami giuridici.
Vi sono 4 tipi di contratti tipizzati, “contratti nominati”:

1) I CONTRATTI CONSENSUALI
Le obbligazioni consensuali si hanno quando, senza il rispetto di alcuna forma, è sufficiente che le parti siano d’accordo, questo
tipo di obbligazioni danno vita a contratti bilaterali, perché sanno che entrambe le parti vanno in contro a uno scambio di
prestazioni e quindi a un reciproco dovere di fare ciò che si è accordato di fare (si impegnano entrambe le parti), comprendono:
o Compravendita
o Locazione, contratto composito che oggi comprende oltre alla locazione moderna altri tipi di contratto in particolare quello
di appalto e quello di lavoro subordinato.
o Il mandato.
o La società.
Esempio: Passeggiando per il mercato, vedo un abito che mi attrae, ne chiedo il prezzo al venditore e confermo con una stretta di mano. Non ho con me il
denaro ma ci accordiamo comunque per il giorno seguente. La mia obbligazione a pagare il prezzo sorge nel momento in cui le parti si accordano, in questo caso
sul prezzo

2) I CONTRATTI REALI
L’obbligazione nasce nel momento in cui la cosa viene consegnata, parlando così di contratti reali (per mezzo di una cosa). In
questa classe di situazioni c’è (sicuramente) un’obbligazione a capo di una delle parti però in cui eventualmente sorge un’altra
obbligazione in capo alla controparte, prende il nome di contratti bilaterali imperfetti. L’eccezione principale è quella del mutuo
perché ha delle proprie caratteristiche, nel mutuo in realtà non c’è solo una consegna della cosa ma siccome ha come oggetto
delle fungibili (cosa che può essere scambiata o sostituita con altra dello stesso genere), allora si trasferisce una somma di
denaro fungibile e chi riceve questo denaro non deve restituirmi le stesse monete ma una quantità di denaro equivalente, sorge
un’obbligazione di restituire in capo a chi ha ricevuto la somma. Comprendono:
- Il comodato.
- Il deposito.
- Il mutuo.
- Contratti come pegno e fiducia.
Esempio: Mi serve un testo per la preparazione di un esame ma non lo voglio acquistare per via del prezzo elevato e chiedo di prestarmelo a un amico che mi
conferma di portarmelo il giorno seguente. Ci stringiamo la mano. Il contratto è concluso nel momento in cui avviene la consegna della cosa al comodatario.

3) I CONTRATTI VERBALI
L’obbligazione non sorge dall’accordo bensì dal verbo, lo scambio rituale per il diritto romano dà vita a un contratto che si
chiama stipulatio che fa nascere delle obbligazioni nel momento in cui avviene una pronuncia delle parole. Siccome
l’obbligazione nasce in capo solo di una parte, questo tipo di contratto viene etichettato come contratto unilaterale,
comprendono:
o Stipulatio
o Altri contratti specifici come dotis dictio, promissio iurtata liberi
Esempio: Mi serve un testo per preparare l’esame. Il mio amico mi dice che me lo porta domani per prestarmelo. Il giorno seguente lo dimentica ma promette
che me lo darà. Il contratto è concluso nel momento in cui sono pronunciate la parola “prometti”

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4) I CONTRATTI LETTERALI
L’obbligazione nasce anche per effetto della scrittura; per esempio, ogni padre di famiglia teneva a casa un registro dei conti, un
codice in cui segnava le entrate e le uscite. Nel momento in cui su questo registro veniva segnato un credito nella sezione
relativa, con l’accordo del debitore poteva nascere l’obbligazione del debitore stesso

Questi 4 contratti sono contratti tipici o nominati perché hanno un nome proprio, tipici perché fanno riferimento a delle
situazioni ricorrenti della vita economica della società romana e per questo motivo il pretore concede delle azioni altrettanto
tipiche perché rispondono a queste esigenze.

Le 4 categorie di contratti tipici sono però solo una parte dei possibili accordi che gli individui possono fare per realizzare ì loro
scopi socioeconomici e per questo motivo si devono distinguere queste 4 categorie di contratti nominati da altre categorie
all’interno delle quali ci sono delle differenze. La categoria generale viene chiamata delle convenzioni, degli accordi tra le parti
che possono produrre degli effetti diversi sul piano del diritto. Oltre ai contratti nominati, troviamo all’interno di questa classe
altri 2 tipi di accordi che producono effetti sul piano del diritto: patti e contratti innominati.
Per orientarci ci possono aiutare due brani di Ulpiano che si è preoccupato, prima di questo passaggio, di dire che il patto si
chiama così dall’accordo tra le parti (paxio) e la stessa radice la si trova nella parola pax cioè pace che è anche un accordo;
Ulpiano dice che il contratto non è categoria a se stante, ma è una categoria delle possibili forme di accordo che si manifesta nel diritto privato. Il termine
convenzio è tanto generale che Pedio (turista romano) può dire che non c’è nessun contratto e nessuna obbligazione che non abbia una convenzio.
Ulpiano dice che ci sono alcune convenzioni, anche quelle che si compiono quando le obbligazioni nascono dalla consegna della cosa, dalla pronuncia di parola o
dalla scrittura, c’è sempre un accordo alla base; però le convenzioni comprendono diversi tipi di accordo: alcune che danno vita a delle
azioni quindi obbligazioni e altre a delle eccezioni.

I patti sono degli accordi che il pretore prende in considerazione in modo indiretto. Dai patti non nascono delle obbligazioni ma
producono l’effetto di essere protetti indirettamente per effetto di eccezioni e cioè quando si stipula un patto le parti che lo
hanno stipulato non possono chiamare in giudizio la controparte per far valere il patto. Tra i patti troviamo i Patti Nudi che
possono essere fatti valere con le eccezioni. Ma tuttavia c’è un’eccezione a questo principio: se il patto è accessorio al contratto
ed è stato stipulato nel momento stesso in cui è stato concluso il contratto allora entra a far parte del contratto stesso.

CONTRATTI INNOMINATI
Ulpiano dice che i giuristi ad un certo punto si sono interrogati sul tipo di effetto che producono degli accordi fuori dagli
standard, contratti diversi ma che hanno una caratteristica simile a quella dei contratti consensuali di buona fede cioè c’è uno
scambio di prestazioni; quando avviene uno scambio di prestazioni per alcuni giuristi sorgono delle obbligazioni civili che
nascono solo nel momento in cui una delle due prestazioni è stata già eseguita quindi si produce l’obbligazione civile in capo alla
parte che non ha ancora eseguito la sua prestazione. Queste obbligazioni vengono fatte valere con azioni in factum, decretali
fuori dall’editto e di volta in volta il pretore concede l’azione specifica o più avanti nel tempo si individua uno schema di azione
che è modellato sullo schema delle azioni dei giudizi di buona fede. In questi, prima della formula, si descriveva la situazione
specifica e poi seguiva il modello o di prestazione in cui veniva chiesto il dare oppure della locazione se veniva chiesto il facere.
Siccome la caratteristica è la descrizione della fattispecie che viene prima della formula allora l’actio è pre scriptis verbis cioè fa
riferimento al preambolo della formula. Queste due possibilità si pongono per la protezione dei contratti innominati.

LA COMPRAVENDITA
Lez 20 ruva noemi
Dice Gaio: ‘’Le obbligazioni che si contraggono con il consenso possono sorgere anche in qualunque modo sia manifestato il
consenso stesso.’’ Quindi sia oralmente e in presenza oppure che sia per lettera o tramite un intermediario, dice invece che
l’obbligazione verbale, quella che nasce dalla stipulatio non può nascere tra assenti; quindi, una conseguenza della libertà di forma è il fatto che
non ci siano vincoli neanche riguardo alla necessaria compresenza dei contraenti.

LE CARATTERISTICHE PRINCIPALI DEI CONTRATTI CONSENSUALI


I contratti consensuali sono contratti sinallagmatici, cioè le obbligazioni nascono non solo a carico di una delle parti, ma in capo
ad entrambe le parti contraenti. La seconda caratteristica, che si lega alla prima, i contratti consensuali sono protetti attraverso
delle azioni che hanno una struttura diversa da altre azioni che proteggono, per esempio la stipulatio o i contratti reali.

IL CONTRATTO SINALLAGMATICO Ciascuna delle parti è tenuta, in forza di un’azione in personam ad eseguire una determinata
prestazione, la protezione offerta dal pretore non è unilaterale, non riguarda solo una parte delle parti contraenti, ma riguarda
entrambe le parti. Il nome stesso dei contratti consensuali, della compravendita e della locazione, nel momento in cui parliamo di emptio e venditio stiamo
guardando l’immagine di uno scambio, una delle parti vende, l’altra parte compra, questa compravendita da vita a delle obbligazioni reciproche dei due
contraenti.
‘’Analizziamo’’ la reciprocità delle due obbligazioni, reciprocità che segna una differenza rispetto ad altri tipi classi di contratto e
che viene messa particolarmente in evidenza sotto il profilo processuale. A fronte di due obbligazioni, quella del venditore e del
compratore, vi è la possibilità per entrambi di agire in giudizio per fare valere la responsabilità della controparte.

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Se diamo uno sguardo alle due azioni che nascono dal contratto di compravendita, che sono l’azione di compra e l’azione di
vendita, si tratta di azioni speculari, perfettamente sovrapponibili, ciò che cambia è il ruolo dell’attore. Se si fa caso alla struttura
della formula si vedrà che è una formula che ha un tipo di costruzione molto aperta perché ha una intentio2 indeterminata.

Diversamente da altri tipi di azione in cui la pretesa è circoscritta, determinata e indicata espressamente: abbiamo visto tra le
azioni rem la re ivindicatio (posizione giuridica è il rapporto con la cosa). Abbiamo anche accennato un’altra formula, la conditio
che è un’azione in personam che serve per far valere l’obbligazione di dare una determinata somma di denaro: vediamo che
anche in questo caso la pretesa è circoscritta, determinata. Se io presto del denaro ad una persona, la persona è tenuta a
restituirmela, è tenuta a darmi del denaro. La stessa cosa se in un contratto verbale, la stipulatio qualcuno promette di darmi
una somma di denaro. Se risulta che X deve dare a Y diecimila sesterzi: in questo caso il giudice deve accertarsi dell’esistenza
del debito, la condizione a cui il credito è stato contratto ecc. però la somma, la pretesa è già determinata.
Nel giudizio di buona fede invece la pretesa è espressa in un altro modo, “con riguardo a tutto ciò che in forza di tale rapporto X
deve dare o fare secondo buona fede”: qui il giudice non deve seguire delle istruzioni determinate, ma può rivalutare la
situazione in modo libero. L’unica delimitazione che ha il giudice nella sua valutazione è il fatto che i doveri reciproci delle parti
sono quelli fondati sul rapporto di compravendita e questo rapporto che delimita il campo del giudizio del giudice, è la causa
delle obbligazioni, quindi il fondamento delle obbligazioni reciproche delle parti. Questa causa viene espressa nella formula del
giudizio in una ulteriore parte della formula che precede l’intentio e che si chiama demonstratio.

Cosa vuol dire trasferire il possesso? Perché trasferire il possesso e non la proprietà?
Per quanto riguarda la compravendita ci sembrerebbe intuitivo pensare che il venditore trasferisca la proprietà dell’oggetto
venduto al compratore, in realtà per il diritto romano non è così. Dal contratto di compravendita e dai contratti in generale,
nascono solo delle obbligazioni. I contratti sono dei negozi giuridici che hanno degli effetti obbligatori.
Il contratto di compravendita è un contratto che inizia ad emergere nel momento in cui Roma si espande nel Mediterraneo ed è
un contratto che serve ai commerci, in particolare tra romani e stranieri. Gli stranieri non potevano essere titolari di dominium
ex iure quiritium perché è una forma di proprietà civilie. L’effetto generato dalla compravendita non può essere quella di
trasferire la proprietà civile ma consisterà quindi nel garantire il trasferimento del possesso della cosa, non la proprietà.
Il piano su cui si pone la compravendita è un piano di flessibilità che permette lo scambio di beni anche con gli stranieri e
questa disponibilità di fatto deve anche entrare in relazione con la protezione giuridica che viene offerta all’acquirente rispetto
al bene che ha comprato; quindi, non può essere semplicemente una responsabilità personale del venditore, questa disponibilità
viene definita come pacifico godimento o pacifico possesso. Pacifico vuol dire che il venditore si impegna a non interferire, dal
punto di vista giuridico, rispetto alla disponibilità della cosa che ha acquistato l’acquirente. Cosa vuol dire interferire?
--Supponiamo che il venditore non è obbligato a trasferire la proprietà per i motivi che abbiamo anticipato, ma si limiti a
consegnare il cavallo. Se si limita a consegnare il cavallo, l’acquirente acquista non la proprietà sul cavallo ma acquista il
possesso ad usucapionem: l‘acquirente sarà protetto nella sua posizione perché avrà a disposizione l’actio publiciana3.
--Poniamo però che il venditore non sia il proprietario della cosa, ma abbia utilizzato uno strumento idoneo per trasferire la
cosa. In questo caso l’acquirente, che è diventato possessore ad uso capionem, non è completamente coperto rispetto al suo
godimento, perché sarà protetto nei confronti del venditore che gliel’ha trasferita ma non sarà protetto nei confronti del vero
proprietario quiritario. Questo principio per cui il proprietario quiritario può far valere il suo diritto prevalente nei confronti del
possessore acquirente della cosa si chiama EVIZIONE. Il venditore deve quindi garantire:
o di trasferire la disponibilità materiale della cosa
o di non disturbare lui stesso il compratore rispetto al godimento della cosa
o nel momento in cui dovesse arrivare un terzo a rivendicare la cosa, si farà carico di questa situazione, cioè risponderà
rimborsando il pregiudizio avuto dal compratore, questa è la responsabilità per evizione.

L’altro tipo di obbligazione che entra in gioco e che tocca il venditore è quello per i difetti della cosa, il venditore quando vende
un oggetto, lo vende come visto e piaciuto; quindi, in qualche modo dichiara che la cosa è esente da difetti ma può essere anche
obbligato a dichiarare se ha dei difetti, se non lo fa il compratore può sempre utilizzare la nostra formula di compra per fare
valere la sua responsabilità.
Gaio dice: ‘’la compra e la vendita è contratta quando si è convenuto nel prezzo, ancor che il prezzo non sia stato ancora pagato
e non si sia data ancora la caparra’’. I contratti consensuali sono quelli in cui le obbligazioni delle parti nascono per effetto del
semplice consenso; il consenso a cui fanno riferimento i giuristi è quello relativo al prezzo della merce, quando le parti si
accordano sul prezzo, allora li nasce l’obbligazione. L’accordo oltre a vertere sul prezzo verte anche sulla qualità del prezzo,
quando un soggetto decide di pagare con una Res che non è il denaro, questo tipo di configurazione giuridica è la permuta.
I Sabiniani ritengono che la cosa sia possibile e che si tratti della forma più antica di compravendita, per argomentarlo utilizzano un esempio di tipo letterario.
Essi sostengono che Omero stesso fosse testimone del fatto che la compravendita può avvenire con altri beni, perché nel Libro 7 dell’Iliade, c’è un passo

2
parte del testo della formula in cui viene espressa la pretesa dell’attore cioè la posizione giuridica che l’attore in un processo fa valere

3
azione posta a tutela del soggetto che, avendo acquistato una res mancipi a seguito di mera traditio e non avendone conseguito il dominium ex iure quiritium
ne fosse stato spossessato prima di averla usucapita. In tale caso, l’acquirente-spoliatus (possessore in buona fede) poteva, attraverso l’AP, chiedere la
restituzione della res nei confronti di chi gliela aveva sottratta, venditore compreso (erga omnes).

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riguardante dei Greci che, stanchi dalla Guerra, decidono di banchettare e comprare del vino da dei commercianti, che a loro volta vengono pagati con quello
che c’è nell’accampamento (schiavi, rame, acciaio, ferro, armi, pellame, bestiame).
I Proculiani contestano questo argomento con un argomento logico-giuridico; sostengono che, utilizzando la prospettiva per cui lo scambio di cosa contra cosa
sia una compravendita, allora le conseguenze sul piano giuridico sono negative: se si permette che uno scambio di questo tipo sia una compravendita, come si fa
a riconoscere quale sia la parte venditrice e quella acquirente? questo tipo di rapporto, dunque, non è una compravendita, ma un rapporto “DO UT DES” — “Ho
dato perché tu mi dia”, quindi nel caso dei contratti innominati. Celio Sabino, invece, sosteneva che l’argomento logico-giuridico si risolvesse facilmente:
bisognava basarsi su circostanze di fatto e non su termini astratti. Questa posizione però non ha avuto fortuna e la soluzione prevalente fu quella dei Proculiani.

OBBLIGAZIONI STANDARD DEL VENDITORE Il venditore è obbligato a trasferire il possesso pacifico della cosa e allo stesso tempo deve garantire per
l’evizione e per i vizi occulti. La società era di stampo agricolo, dove il Pater Familias gestiva una realtà economica famigliare improntata al modello agricolo. Il
trasferimento di proprietà avveniva attraverso un atto formalizzato, la Mancipatio; questo atto serviva a trasferire il Dominium Ex Iure Quiritium, cioè la
proprietà civile. Ma nel momento in cui Roma si espande nel Mediterraneo, ci si accorge che la Mancipatio diventa inadatta alla
compravendita: questo perché Roma esce dai confini della comunità cittadina di origine, e ha a che fare con altri popoli; si
assiste quindi ad una dissociazione tra l’atto formale che serva a trasferire la proprietà e i contratti commerciali che servono a
favorire lo sviluppo commerciale di Roma. Gli effetti reali del negozio della Mancipatio vengono dissociati dagli effetti obbligatori
che prima facevano parte della Mancipatio stessa, e poi vengono presi in carico dal contratto di compravendita.

Gaio dice che al suo tempo, nel 2 secolo d.c., ormai la mancipatio è una vendita fittizia (immaginaria Venditio), non più uno
strumento di compravendita; tuttavia, nel descrivere come avviene la Mancipatio, Gaio tradisce il fatto che in origine essa fosse
una vendita reale. Questa vendita originaria viene mantenuta a livello simbolico ancora nella mancipatio che descrive Gaio.
1) In origine la Mancipatio era una compravendita, da essa derivava un tipo di responsabilità particolare per il venditore; le 12
tavole già dicono che il mancipio dans che trasferiva la cosa, era chiamato a garantire che il trasferimento della cosa avesse
a monte anche il proprio diritto di proprietà, se il mancipio accipiens fosse stato chiamato in giudizio dopo la mancipatio da
un terzo che affermava di essere il reale titolare della cosa, il mancipio dans era tenuto ad intervenire in giudizio al posto del
mancipio accipiens (come convenuto) e poteva contestare il diritto del terzo oppure farsi carico delle conseguenze dello
spossessamento della cosa da parte del terzo e rimborsare il venditore, questa sorta di garanzia che il mancipio dans offriva
rispetto alla cosa trasferita con mancipatio, prende il nome di AUCTORITAS. Il mancipatio accipiens, nel momento in cui
perde la disponibilità della cosa, ha la possibilità di agire nei confronti del mancipio dans attraverso un’azione che si chiama
ACTIO AUCTORITATIS, consente di recuperare il doppio del prezzo pagato per la vendita (questa responsabilità dura 1 o 2
anni, a seconda della res mancipi sia mobile o immobile).
2) I romani, per risolvere questo problema, hanno introdotto la responsabilità per evizione in un altro modo: far promettere al
venditore di garantire per l’evizione; quindi, affianco al contratto di compravendita si fa stipulare alle parti un secondo
contratto, che è un CONTRATTO DI STIPULATIO. Si tratta di una stipulatio che ha come oggetto la garanzia di non
interferire nel godimento della cosa e di risarcire il doppio del valore della cosa, se la cosa viene evitta. In questa seconda
tappa, è ancora una facoltà del venditore e delle parti decidere di concludere questo secondo contratto, cioè la stipulatio.
3) Ben presto però, i Giuristi iniziano a dire che, siccome l’azione di compravendita ha un’intentio indeterminata, in quella
valutazione del Giudice che deve guardare a tutto ciò che in forza del rapporto il convenuto deve dare o fare, c’è anche il
dovere di effettuare la stipulatio e se non la effettua, in forza del contratto di compravendita, l’acquirente può agire in
giudizio e far valere la responsabilità del venditore (actio empti).
4) Ad un certo punto i giuristi dicono che non serve più stipulare la garanzia, perché il dovere del venditore include la
garanzia per evizione; quindi, la quarta tappa fa discendere la garanzia per evizione dalla compravendita stessa. In questa
ultima fase, l’ammontare del risarcimento al compratore in caso di evizione, è deciso dal Giudice; le parti possono sempre
decidere cosa succederà in caso di evizione, ponendo in essere una stipulatio. La Stipulatio di garanzia sopravvive, ma come
strumento facoltativo e complementare. Una vicenda molto simile si pone riguardo alla garanzia per i vizi della cosa, anche in questo, all’inizio
essa non è compresa nella compravendita consensuale, ma a fianco dovuto della compravendita viene normalmente formulata una Promessa di garanzia
per i vizi, si tratta di una promessa sulla quale i giuristi lavorano moltissimo, questo è un passo della “De Re Rustica” di Varrone, scritta nel 1 secolo a.c, si
tratta di un trattato della gestione di un’azienda agricola antica, in particolare la gestione amministrativo-giuridica.

Nella seconda fase, si inizia a ritenere che anche la responsabilità per i vizi possa essere presa in considerazione alla luce della
clausola di Buona Fede dell’azione di compra, oltre alle azioni di compravendita, in questo campo, si deve prendere in
considerazione un altro tipo di provvedimento, quando la compravendita ha oggetto uno schiavo, una schiava o un animale,
allora gli editi, nel loro editto, prevedono 2 azioni a tutela dei vizi della cosa:
1. ACTIO REDHIBITORIA che permette al compratore di restituire, in caso di vizi, l’animale o lo schiavo e di riavere il
prezzo.
2. ACTIO QUANTI MINORIS che permette al compratore, sempre in caso di vizi, di ottenere un rimborso della differenza di
prezzo.
Con il tempo si inizia a sostenere che queste 2 azioni possano essere utilizzate per qualunque tipo di merce.

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DELITTI E DANNEGGIAMENTI
Lez 21 ruva noemi
Gaio ci aveva spiegato che le obbligazioni nascono da due categorie, poi questa bipartizione si è accresciuta di una terza
categoria. Poi con Giustiniano è diventata una quadripartizione delle fonti e delle obbligazioni.

I DELITTI
Il delittto è un atto illecito che produce obbligazioni sul piano del diritto civile. I delicta, detti anche malefica costituivano
offese arrecate ad un singolo individuo e legittimavano una reazione individuale. Nel diritto classico erano
considerati delicta quattro illeciti civilistici. Un’altra sfera di illeciti che NON riguardano un interesse privato ma pubblico, viene
chiamata crimina. Per fare qualche esempio nel corso della storia i processi criminali pubblici vengono instaurati per casi di
corruzione, per casi di corruzione elettorale e anche di utilizzo della forza, per esempio, in bande armate o in gruppi che agitano
il sistema, oggi diremmo terrorismo. Quindi ci sono delle sfere che sicuramente attengono a degli interessi pubblici per le quali
vengono istituiti dei tribunali altrettanto pubblici (quaestiones).

Noi però ci occupiamo dei delitti privati che sono in numero di 4:


1) il furto (furtum sottrazione) consisteva nella sottrazione non violenta e clandestina (contro la volontà del suo detentore) di
una cosa mobile, oppure di un animale o di uno schiavo. Si diceva anche “commettere furto dell’uso”, situazione in cui la
possibilità d’uso che viene data a un soggetto è più limitata di quella esercitata e quindi quella parte in più, viene detto che,
è stata rubata. Quindi è una sfera più complessa della semplice sottrazione per la quale i romani utilizzavano un termine
tecnico per comprendere sia sottrazione che uso indebito: CONTRETTACTIO (manipolazione, maneggiamento indebito).
L’importante che ci ricordiamo che il furto non è solo sottrazione ma anche appropriazione d’uso della cosa altrui.
2) la rapina (bona vi rapta) è una sottospecie del furto solo che invece di essere clandestina è violenta, quindi si inserisce l’uso
della forza per sottrarre la cosa all’altro. In questo caso il pretore concedeva un’azione specifica con una pena severa.
3) L’ingiuria (iniuria) comprende, anche qui con un’evoluzione, una serie di offese personali nel senso di fisiche, in primo
luogo, ma successivamente anche all’onore e al decoro di una persona. Abbiamo già visto che le XII tavole prevedevano la
pena del taglione per il caso in cui qualcuno rompesse un arto di una persona, era il primo nucleo di un fenomeno che poi si
sarebbe sviluppato nell’iniuria.
4) Damnum iniuria datum che è un’azione contro il diritto, iniuria→ iura→ ius → contro ius. Il damnum iniuria datum è il
danneggiamento che comprende alcune condotte. Questa espressione DANNEGGIAMENTO è un’espressione sintetica che
riassume dei comportamenti diversi. Gaio e altri giuristi (es. Ulpiano) ci informano che è una legge, che noi possiamo
collocare probabilmente nel 286 a.C. quindi è una lex di epoca repubblicana successiva alle XII tavole, che ha introdotto la
possibilità di punire il danneggiamento. Noi sappiamo da Gaio e Ulpiano che questa legge era divisa in 3 capitoli: quando
noi ci riferiamo al danneggiato ci riferiamo nel complesso a ciascuna di queste tre condotte. Dobbiamo tenere presente che
parliamo di tre condotte diverse che vengono riassunte in un’unica nozione.

DAMNUM INIURA DATUM – IL DANNEGGIAMENTO

LA LEX AQUILIA: PRIMO CAPITOLO


Il primo capitolo della Lex Aquilia dispone così “colui che avrà ucciso, senza giustificazione in diritto uno schiavo o una schiava
altrui, o un quadrupede o un animale da armento o da gregge, sia condannato a pagare al proprietario (della cosa danneggiata)
una somma di denaro pari al maggior valore raggiunto dalla cosa in quell’anno”. E più oltre prevede che l’azione sia per un
valore raddoppiato nei confronti del convenuto che neghi l’addebito.

Gaio ci riporta che il comportamento descritto dal primo capitole della legge è quello dell'uccisione (occidere) senza
giustificazione giuridica (iniuria), di una/o schiava/o, oppure un animale quadrupede o da armamento o da gregge che
appartengono ad altri. Si tratta di uccidere una cosa perchè l’animale e lo schiavo che si sono esseri viventi, ma per il diritto
romano sono delle res. Quindi è vero che noi vediamo “uccisione” ma quello che dobbiamo intendere è un danno alla proprietà,
perché il danno non è fatto allo schiavo o all'animale, ma al proprietario dello schiavo o al proprietario della cosa che perdono
un bene proprio di valore. Siccome stiamo parlando di un pecus, sorge spontaneo il paragone con res mancipi. In realtà i giuristi in
qualche modo discutono e danno una sfumatura diversa, Gaio dice che in realtà gli animali quadrupedi a cui si fa riferimento sono quelli che vivono in gregge, gli
animali di uso agricolo e quindi questo esclude da un lato alcuni animali domestici, come il cane che è un animale quadrupede ma non vive in gruppo e non
servono all’uso agricolo, e dall’altra parte rientrano in questa categoria elefanti e cammelli, che non sono bestie agricole, ma siccome in alcune zone della Roma,
di cui ormai parla Gaio che è estesa in tutto il mediterraneo, vengono utilizzati in ambito agricolo allora vengono parificate a quegli animali che tradizionalmente
sono usati in agricoltura.

Se qualcuno uccide una/o schiva/o oppure un animale da gregge o da armento, può essere chiamato in giudizio con l'azione che
deriva dalla lex Aquilia e può essere condannato a pagare un risarcimento. E quanto ammonta il risarcimento? Ammonta al
valore dell’animale o dello schiavo che ha ucciso ed è effettivamente così, ma con un correttivo: supponiamo che io abbia
ucciso il vostro schiavo o la vostra schiava il 24 novembre, ma che questo schiavo il 15 agosto prendendosi una giornata di
libertà sia caduto e si sia rotto il braccio, quindi dal 15 agosto ad oggi è stato inabile al lavoro; evidentemente il valore dello
schiavo dopo il 15 agosto è inferiore rispetto al valore dello schiavo prima del 15 agosto. Prima era uno schiavo perfettamente

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abile, dopo è uno schiavo inadatto a molte mansioni.
Quale prezzo o valore prendo in considerazione? I Romani dicevano che bisogna prendere in considerazione il valore massimo
raggiunto dallo schiavo nell’anno precedente al delitto. Quindi il valore di mercato massimo sarà il valore di uno schiavo sano
in questo caso; quindi devo risarcire lo schiavo non ferito, ma perfettamente integro.
Questo avviene se il convenuto nella nostra azione, che nasce dalla lex Aquilia, ammette l’indebito, se invece lo rifiuta / nega la
pena viene raddoppiata. Questa è una regola che vale per tutti e tre i capitoli: l'autore del danneggiamento che ammette
l’indebito paga una pena, mentre se nega raddoppia la posta.

LA LEX AQUILIA: SECONDO CAPITOLO


Abbiamo menzionato più volte il tema della stipulatio e abbiamo detto che è un contratto verbale che ha come requisito il fatto
di essere realizzato attraverso uno scambio di domanda e risposta, in cui la risposta deve utilizzare un verbo congruo rispetto
alla domanda: “prometti di darmi 100” → “prometto”.
Questo tipo di scambio permetteva di far obbligare il promittente, cioè colui che dà la risposta, rispetto a qualunque tipo di
prestazione, MA il limite era che non si potesse promettere una prestazione nell’esclusivo interesse di un terzo. Questo dava
vita ad una regola che dice che non si può stipulare in favore di un terzo. Era possibile invece aggiungere al proprio interesse,
l'interesse di un terzo: “prometti di dare a me o a tizio 100” allora in questo caso i giuristi dicevano che la terza persona (in
questo caso tizio) è semplicemente una persona chiamata a ricevere il pagamento, in nome del debitore: io do la possibilità al
mio debitore di pagarmi dando direttamente il denaro a me o di darlo sempre a me ma attraverso un’altra persona. Stiamo
parlando di una persona che viene aggiunta al fine del pagamento (ad iniectio solutionis causa).
Era possibile usare la stipulatio per raggiungere scopi diversi. Per esempio, io con una seconda stipulatio potevo cambiare qualche elemento del
contratto precedente, per farlo devo creare un legame testuale tra il testo della vecchia domanda e il testo della nuova domanda: es. “prometti di darmi il 15
gennaio ciò che mi avevi promesso di darmi il 15 dicembre” in questo caso il nesso testuale riguarda il contenuto della prestazione, sto cambiando un elemento
e in qualche modo sostituisco la nuova obbligazione alla vecchia. Questa procedura si chiama NOVAZIONE che può essere oggettiva quando
cambia l'oggetto dell’obbligazione o soggettiva se cambia il soggetto (nuovo creditore). Un ultimo modo per far intervenire un
terzo non è quello di rimpiazzarlo ma è quello di aggiungere un soggetto, fenomeno che noi chiamiamo oggi di solidarietà
attiva: si tratta di due obbligazioni diverse che tuttavia hanno lo stesso oggetto dove si hanno 2 creditori e un debitore, i due
creditori sono indipendenti l’uno dall’altro e hanno le stesse prerogative sono entrambi creditori a pieno titolo (non come il caso
precedente).

La funzione economica di questo schema: supponiamo io voglia far avere il denaro al mio erede, io stipulo con voi affinché voi
paghiate al mio erede. Posso formulare una stipulatio semplicemente dicendo “prometti di dare 100 al mio erede”? No perchè
non è possibile la stipulazione a favore del terzo. Posso dire “prometti di darmi 100 dopo la mia morte”? Questa obbligazione
non esiste non si può fare. Allora come faccio? O il debitore salda a me prima della morte oppure quando io muoio salda al co-
creditore il quale avrà mandato di trasferire la cosa all’erede. Questo comporta che il creditore aggiunto sarà tenuto nei miei
confronti ma anche nei confronti del mio erede con l’azione che nasce dal mandato. Il mandato è un contratto consensuale che
assorbe tutti i comportamenti (che sono quella clausola che abbiamo visto ieri per la compravendita) che rientrano nella sfera
nell’atto giuridico che viene richiesto al mandatario e quindi posso realizzare con questo schema un'operazione che con la sola
stipulatio non avrei potuto fare.

FRODE AI DANNI DELLO STIPULATOR


Lo schema precedente però comporta un rischio. Il terzo che interviene con me, il creditore accessorio è un creditore a tutti gli
effetti e può fare tutto quello che può fare il creditore. Non può solo esigere la prestazione dal debitore, ma può anche
rimettere il debito. Un creditore può dire al debitore che quello che gli deve non glielo deve più, questo è un modo di estinzione
della obbligazione. La remissione del debito avveniva in modo particolare con un negozio che si chiamava acceptilatio →
negozio verbale che serve a rimettere il debito e che viene concepita come una stipulazione al contrario, è il negativo
fotografico della stipulatio, essa si concretizzava in una sorta di pagamento fittizio: il creditore dichiarava di aver ricevuto dal
debitore la prestazione dovuta, estinguendo con ciò l’obbligazione anche a prescindere da un effettivo pagamento. Siccome
questo modo serve per estinguere le obbligazioni nate verbis, i romani dicevano che non era applicabile alle obbligazioni che
nascevano da un’altra causa, cioè da un contratto consensuale o da altro. Per estinguere questi altri contratti utilizzavano una
novazione: sostituivano un’obbligazione verbis alle vecchie obbligazioni, cioè facevano una stipulatio e poi si procedeva con una
acceptilatio, rimettendo il debito.
E quindi qual era il rischio? Supponiamo che il mio creditore secondario abbia fatto acceptilatio del debito al debitore che io e
lui condividiamo, ma l’abbia fatto per frodare me, accordandosi con il debitore in frode a me che sono il creditore principale.
Può farlo? Si perchè è un creditore a tutti gli effetti e tuttavia mi crea un danno.
Quindi come detto, il secondo capitolo della lex Aquilia, riguardava il creditore secondario (adstipulator) che avesse rimesso
fraudolentemente il debito per acceptilatio in danno al creditore principale (stipulator).

Anche in questo caso se il convenuto ammette ci sarà una pena mentre se il convenuto non ammette la pena raddoppia. Il
valore in questo caso sarà corrispondente all’entità del danno, cioè alla parte di debito (una parte o per intero) rimessa dal
creditore secondario. Normalmente si passa sopra a questa fattispecie perché ad un certo punto Ulpiano dice che al suo tempo
non si usa più questo capitolo, ma è un componente essenziale della lex Aquilia.

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LA LEX AQUILIA: TERZO CAPITOLO
Cosa succede se io non uccido, ma ferisco lo schiavo o l’animale da gregge oppure se io uccido o ferisco un animale che non fa
parte della categoria presa in considerazione nel capitolo uno? Con il terzo capitolo viene preso in considerazione ogni altro
danno. Gaio dice (pagina 435) vengono presi in considerazione non solo tutti gli animali ma anche tutte le cose inanimate: quindi
ferire (= vulnerare) l’animale o lo schiavo che sono compresi nel novero di quelli previsti nel primo capitolo oppure ferire o
uccidere (= vulnerare e occidere) gli animali che stanno fuori da quella cerchia, oppure causare ogni altro tipo di danno agli
animali o ai beni inanimati. In effetti il testo della legge prevedeva 3 termini: “viene punito in forza di questo terzo capitolo,
chiunque abbia incendiato, infranto o rotto la cosa di un altro.” In latino i verbi erano: urere, frangere e rumpere.

Ormai abbiamo imparato che la testualità, il testo nel diritto romano è importantissimo è l'ancora che in qualche modo decide
ciò che è permesso e ciò che è vietato, ma lo è ancora oggi, il 90% dei ragionamenti che si svolgono in tribunale riguarda
l’applicabilità di una norma, ma la sua applicabilità dipende da come viene formulata la norma, una parola cambia tutto. Ancora
oggi, se ci pensiamo, gran parte del tempo speso nelle commissioni parlamentari e nel Parlamento per discutere il testo di una
legge dipende da questo perché l’inserimento di una parola o la sua esclusione fa cambiare tutto il panorama. Allora il testo
della legge è la nostra ancora, il nostro punto di riferimento.
Lo stesso per i romani: per questo possiamo dire che ciò che non era compreso in queste tre condotte non era punibile. Però i
romani dicono che di queste tre parole ce n'è una che ha un significato più ampio delle altre, anzi ha un significato generale
perché rumpere che significa rompere, in realtà include anche il corrompere. In qualche modo rompere è un verbo generale che
significa fondamentalmente alterare la forma e la sostanza della cosa.
Se significa alterare la forma o la sostanza della cosa assorbe anche le altre due condotte, incendiare (urere) che è un modo per
alterare la forma di una cosa (prima integra poi è stata bruciata) e infrangere (frangere) che è un altro modo per modificare la
forma o la sostanza della cosa. Ma non assorbe solo queste due condotte, ne assorbe anche altre: ammaccare, tagliare,
deteriorare, alterare. Tutti i tipi di modifica della forma o della sostanza altrui a danno del proprietario configurano
un’alterazione punibile ai sensi di questo capitolo della lex Aquilia.
Con questa procedura interpretativa di tipo estensivo, si produce una norma che diremmo generale, per cui tutti i danni sono
compresi nel terzo capitolo di questa legge ed è per questo che la sintesi che ne fa Gaio al suo tempo dice che questo terzo
capitolo comprende ogni tipo di danno che viene punito con una sanzione:
o se il convenuto ammette l’indebito è condannato a pagare al proprietario una somma corrispondente al valore più elevato
della cosa danneggiata nei trenta giorni (questo perchè non si tratta più della distruzione totale, ma di un’alterazione di beni
di valore per così dire minore) che hanno preceduto l’illecito
o se il convenuto nega l’addebito la pena è raddoppiata
Ricapitolando:
1. primo capitolo → uccisione di schiavi e animali da armento o gregge
2. secondo capitolo → la adstipulator che rimette il debito in frode al stipulator
3. terzo capitolo → attraverso questa linea interpretativa, ogni tipo di danno ma a partire dal ferimento degli stessi animali previsti nel primo capitolo,
dall’uccisione o ferimenti di altri animali o dall’alterazione di cose inanimate.
Nel diritto giustinianeo, l’actio legis Aquiliæ fu considerata il rimedio generale di risarcimento di ogni danno colposamente
arrecato a cose.

DANNO CAUSATO CORPORE


Proviamo a vedere altri due aspetti. Sono due aspetti che rendono la lex Aquilia particolarmente rilevante nella storia del
pensiero politico moderno, perché a partire da qui i giuristi prima romani, poi medievali e moderni fino ad oggi, hanno via via
elaborato due concetti che ancora oggi sono centrali nel trattamento giuridico di molte fattispecie, sono i concetti di causalità e
di colpa.
o Causalità: è il nesso tra un atto e il suo effetto che in questo caso è il danno. È una nozione che in diritto penale viene
esplorata ampiamente perché io posso punire qualcuno solo se il danno dipende da lui, se è il responsabile del danno. Devo
trovare il nesso che lega l’autore al risultato del danno.

Come si può risalire dal danno al suo autore?


I romani dicevano che il danno causato dalla lex Aquilia deve essere prodotto da un'azione fisica, che deve essere causato con il
corpore al corpo di un altro. La mia causalità sta nel fatto che io ho con il mio corpo toccato il corpo di un altro, l’azione è
continua perché dal mio corpo si trasmette al colpo altrui. Il mio nesso di causalità è il contatto fisico. Quando c’è il danno fisico
causato allo schiavo, all’animale o alle altre cose, causato per un’azione altrettanto fisica posso utilizzare l’azione che nasce dalla
lex Aquilia. Allora, ci dice Gaio, questa azione non potrà essere usata quando il danno non sia procurato da un’azione fisica.

Fissata la norma poi si tratta di capire cosa ci sta dentro e fuori dai confini: il problema della definizione.
Definizione è un confine e naturalmente una volta che io traccio il confine poi quello che sta fuori viene escluso dall'applicazione
della norma. Quindi devo stare molto attento a come traccio il confine stesso.
Ma se uno imprigiona uno schiavo o un animale altrui e lo fa morire di fame, qui NON C’È CONTATTO FISICO; eppure, lo schiavo
o l’animale muore e io sono responsabile perché l’ho rinchiuso e fatto morire di fame. In questo modo, io ho ucciso lo schiavo o
l’animale altrui, ma non c’è stato contatto. Non posso usare l’azione della lex Aquilia, perchè il danno deve essere corpore,
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corpori. Quindi il pretore introduce un’azione modellata sulla lex Aquilia che è di nuovo un’azione utile, esattamente come
abbiamo visto le azioni utili che venivano date al possessore ad usucapionem (lex publiciana), oppure alle azioni utili che
venivano usate al superficiario per la protezione al suo diritto di superficie. Qui è la stessa cosa, il pretore concede delle azioni
sulla base del proprio potere modellandolo su uno strumento che già c’era, che è lo strumento che nasce dalla lex Aquilia.

Terzo passaggio: cosa succede se io non solo non provoco un danno con il mio corpo all’altro, ma non provoco neppure un
danno fisico, non ledo il corpo dell’altro. In questo caso rispondono le istituzioni di Giustiniano, fanno l'esempio di un tale che
per misericordia passa davanti ad uno schiavo altrui, lo slega e gli permette di fuggire. Ha procurato un danno al proprietario
dello schiavo, però non ha toccato lo schiavo; quindi, non ha commesso un danno corpore e non ha neanche leso lo schiavo,
almeno non nel corpo, lo ha leso semmai nell’animo. Ma siccome lo ha leso nell’animo, lo ha corrotto e siccome lo ha corrotto,
e corrompere è rompere, allora in questo caso posso dire che qui qualcosa ha fatto ai sensi della lex Aquilia, allora il pretore
concede in questo caso un’azione in factum. Quindi non più un’azione che dipende direttamente dalla lex Aquilia, neanche
un'azione utile, ma il pretore fuori dall’editto, sulla base delle circostanze di fatto, considerando la situazione concreta, può
concedere al momento un'azione specifica.

RESPONSABILITÀ PER DOLO O COLPA


L’altra nozione importante, per quanto riguarda la lex Aquilia, è quella di colpa. I criteri soggettivi in base ai quali si può parlare
della responsabilità di un soggetto per un illecito. La lex Aquilia parla di danni commessi in iniuria, contro il diritto. Lo sfondo è
che non ci deve essere una giustificazione dell’ius, per esempio, le XII tavole permettevano di uccidere il ladro se colto in
flagrante: il ladro che venisse preso nell’atto di commettere il furto poteva essere IMPUNEMENTE ucciso, cioè il diritto ne
consentiva l'uccisione; in questo caso, quindi, non sta commettendo iniuria, non va contro il diritto.
Quindi deve essere un'uccisione che avviene in un contesto che non trova giustificazione nel diritto.
Se io uccido volontariamente uno schiavo o un animale altrui, non c’è dubbio che è tenuto ai sensi della lex Aquilia.
Ma se io lo uccido per errore? Esempio: sto tagliando / potando i rami di un albero, il ramo cade su un animale che sta sotto e lo
uccide. Non mi ero accorto che ci fosse sotto un animale. Cosa succede? Allora, è a partire da questo punto che i giuristi romani
iniziano a ragionare sulla possibilità di imputare a qualcuno anche la negligenza, cioè iniziano a dire che non c’è dolo, non c’è
intenzionalità (come in questo caso) e tuttavia c’è un comportamento colpevole, perché non è stato previsto ciò che una
persona diligente avrebbe dovuto prevedere.
Questo vuol dire che a partire da queste definizioni e da altre, in qualche modo i giuristi arrivano ad escludere dalla
responsabilità che deriva dalla lex Aquilia, solo ciò che non dipende neanche dalla negligenza dell’autore dell’illecito, cioè da
caso fortuito. Questo perchè in teoria il termine “contro il diritto” (in/iuria) può avere due interpretazioni in astratto:
1. da un lato può voler dire “tutto ciò che non è espressamente permesso dalla legge è contrario alla legge”, in qualche modo
anche il caso fortuito non configura un atto che è secondo la legge;
2. l’altra interpretazione è “contro il diritto” significa solo ciò che è stato commesso intenzionalmente contro il diritto, cioè mi
oppongo volontariamente alle previsioni del diritto, in questo caso viene escluso ciò che avviene per caso fortuito.

CASO: brano riportato da Ulpiano


Ulpiano dice poniamo che io abbia un mulo e il mulo da soma richiede per essere condotto qualcuno che lo guidi, un mulattiere
che lo porti per i sentieri di montagna fino a destinazione. Supponiamo che io non abbia qualcuno che lo possa guidare e non lo
guidi io; quindi, ho bisogno di uno schiavo che faccia questo lavoro. Per procurarmi lo schiavo, lo prendo in locazione, vado da
un mio amico e chiedo se mi affitta lo schiavo. Stipuliamo un contratto di locazione. Lo schiavo prende le briglie del mulo e la sta
trascinando e a un certo punto, il mulo da in escandescenza, strattoni le briglie e rompa il dito dello schiavo. Non solo ma per
l’azione, il mulo finisca in un dirupo.
Io sono il proprietario del mulo, ma il mio amico è proprietario dello schiavo. Mulo, quindi animali, e schiavo sono i due casi tipici
che rientrano nella lex Aquilia. Chi deve indennizzare il danno di chi? Ulpiano riporta un'opinione di un giurista precedente,
Fabio Mela (vissuto all’epoca di augusto) e quest’ultimo diceva che per risolvere questo caso (ma anche tutti gli altri casi)
bisogna guardare ai fatti, ovvero al modo in cui si sono svolte le cose. Il diritto è sempre un po’ questo pendolare tra i
ragionamenti astratti e la vita concreta e questo è il lavoro che spetta ai giuristi guardare alla vita concreta.
Perchè ad un certo punto il mulo ha strattonato le briglie e reciso il dito dello schiavo?

o Supponiamo che il mulattiere che preso in locazione non era capace. Per portare un mulo bisogna avere le competenze. Se
io ho preso in locazione uno schiavo che non era capace di fare quel lavoro lì la responsabilità è di chi me lo ha affittato,
quindi io in questo modo dovrò prendermela con chi mi ha dato in locazione lo schiavo. Con che cosa me la prenderò: se
uno mi ha dato in locazione uno schiavo che non era in grado di fare il suo lavoro, quindi io ho preso in affitto il bene che
supponevo avesse delle certe caratteristiche, ma in realtà non le aveva, l’azione che mi spetta è un’azione che nasce dal
contratto di locazione, quindi potrò utilizzare l’actio conducti, cioè prendermela con chi me lo ha dato in affitto sulla base
della sua obbligazione che aveva nell’azione di actio conducti di darmi uno schiavo capace di fare questa operazione.
L’actio conducti contiene la clausola di buona fede, quindi ì questa clausola è molto ampia, tutto ciò che per tale causa
deve dare o fare. Questa copertura molto grande mi consente di dire che la tua responsabilità comprendeva il darmi uno
schiavo all’altezza. In linea di massima, posso usare anche l’azione che nasce dalla lex Aquilia, perché l’azione che nasce dal
contratto di compravendita è un’azione reipersecutoria, mentre l'altra è un’azione penale. Quindi due azioni
reipersecutorie non possono essere cumulate, mentre un’azione reipersecutoria e una penale si e due penali si. Quindi in
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linea di massima le due azioni potrebbero anche essere cumulate, ma i giuristi dicevano che tuttavia, in questo caso,
chiedere due volte l’indennizzo per lo stesso danno sarebbe contrario alla buona fede. Quindi, in funzione di questa
possibilità di contemplare atti contrari di buona fede, qui va a svantaggio di chi ne vuole due, perché non sarebbe secondo
buona fede utilizzare due volte due azioni diverse per ottenere un risarcimento relativo alla stessa situazione; quindi,
Fabio Mela dice che si può utilizzare solo l’azione che nasce dal contratto di locazione.

o Supponiamo che il mulo abbia reagito così perchè si è spaventato oppure è stato percosso da un’altra persona. Allora la
responsabilità sarà della persona che ha percosso il mulo e siccome questa persona, con il suo corpo ha percosso il mulo, il
mulo ha strappato il dito allo schiavo, allora ha causato un danno sia al proprietario dello schiavo sia al proprietario del
mulo. E quindi, sia io che la persona che mi ha dato lo schiavo potremmo agire con l’actio legis Aquiliae nei confronti di
colui che ha provocato tutto questo

Ulpiano aggiunge di suo, dicendo che anche quando si agisce con l’azione contrattuale che nasce da locazione si può agire con la
lex Aquilia. Perché, un conto è salvaguardare il mio interesse contrattuale: io avevo interesse contrattuale a prendere in
locazione uno schiavo capace di portarmi la merce da qui a là (interesse contrattuale). Un conto è che io faccia valere il mio
interesse all’integrità fisica del mulo. Sono due contratti diversi, non è il risarcimento per lo stesso interesse e quindi posso usare
due strumenti diversi: sia far valere la responsabilità contrattuale, sia l’interesse che il mulo restasse integro.

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