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CAPITOLO 1 - Funzione e contenuto del corso di storia del diritto romano e sue periodizzazioni

Premessa linguistica
In Latino:
- le parole che terminano in “tio”, la “t” si pronuncia “z”,
- quelle con i dittonghi ae e oe, che si pronunciano solo e, a meno che non sia presente la dieresi come
nella parola cöemptio che si pronuncia “coempzio”.

Analisi e funzione corso


Diritto e storia del diritto concetti creati artificialmente da studiosi.
In una facoltà giuridica si ritiene dare più attenzione al “diritto” piuttosto che alla “storia”.
E’ inaccettabile la rigida contrapposizione storia/diritto, diritto pubblico/diritto privato anche se giustificate
da motivi didattici e metodologici.
Storia del diritto e diritto concorrono entrambi alla formazione del giurista.

Il corso di Storia del diritto romano è funzionale alla formazione del giurista e dello storico, dal momento
che non sembra possibile separare il diritto dalla società.

L’insegnamento di Storia del diritto romano si concentra sulla evoluzione del diritto pubblico nonché
sull’influenza che gli avvenimenti storico- politico, istituzionali hanno prodotto nel processo di evoluzione
del diritto: ciò spiega perché la dizione «storia del diritto romano» è per molti versi sinonimo di quella
«diritto pubblico romano».
Contenuto del corso: i fatti, le cause e le interpretazioni dell’ordinamento giuridico vigente in Roma dal
secolo ottavo a.C. al secolo sesto d.C.
In un territorio immenso, che si estende per 4.500.000 chilometri quadrati e ricopre l’oikoumene, ossia la
terreni portio habitabilis et cognita (il mondo fino ad allora conosciuto), il primo problema da affrontare è
quello di rinvenire criteri idonei a stabilire periodi interni in cui ripartire la complessiva esperienza romana.

Periodizzazione
Non si può certo credere che nei tredici secoli di storia del diritto romano, dalla fondazione dell’Urbe (753
a.C.) alla morte dell’imperatore Giustiniano I (565 d.C.) la forma di Stato e il suo ordinamento siano rimasti
immutati.
È opportuno chiarire peraltro che la periodizzazione è un espediente didattico e, come tale, non ha
determinato limiti temporali fissi o precisi o definitivi, ma è semplicemente orientativa.
Una prima divisione, che considera le varie modalità con cui sembra retto l’ordinamento politico di Roma -
ovvero monarchia, repubblica, impero - distingue tra:
- Età Monarchica (dall’VIII sec. a.C. alla fine del VI sec. a.C.)
- Età Repubblicana (dalla fine del VI sec. a.C. - inizi del V sec. a.C. alla fine del I sec. a.C.);
- Età Imperiale (dalla fine del I sec. a.C. al 565 d.C.).

Periodizzazione (GUARINO, dottrina maggioritaria)


PERIODO ARCAICO: dal VIII al IV sec. a.C.; dalla fondazione di Roma alle leggi Liciniae Sextiae (367
a.C., con le quali i plebei furono ammessi al consolato); questo è il periodo di formazione e fioritura della
civitas quiritaria.
PERIODO PRE CLASSICO: periodo della Res Publica romana; va dal IV sec. a.C. alla presa del potere
da parte di Ottaviano 27 a.C.; in questo periodo accanto al ius civile sorge il ius gentium e il ius honorarium
(creato ex novo dal pretore).
PERIODO CLASSICO cioè PRINCIPATO: va dal I sec. a.C. (27 a.C.) all’ascesa di Diocleziano (285
d.C.); sviluppo degli atti del principe (Constitutiones Principis) e nel 212 d.C. editto di Caracalla (il diritto
romano diviene “universale”).
PERIODO POST CLASSICO: dal III sec. d.C. (285 ascesa di Diocleziano) alla morte di Giustiniano (565
d.C.). Attraverso vari momenti di crisi l’impero si cristianizza e sotto Giustiniano rivede sua momentanea
unità geopolitica.

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Altra Periodizzazione: Arangio- Ruiz (1884-1964)
• PERIODO ARCAICO O MONARCHICO, dalle origini al II sec. a.C. (146 guerre puniche); Roma da
città-stato diviene “stato”.
• PERIODO REPUBBLICANO, dal II sec. a.C. fino a Ottaviano (27 a.C.), espansione territoriale e
commerciale massiccia.
• PERIODO CLASSICO O PRINCIPATO dall’avvento di Ottaviano fino a Diocleziano. Universalità
del diritto romano con la Cost. di Caracalla (212).
• PERIODO POST CLASSICO o DOMINATO, da Diocleziano fino al 527 anno dell’avvento di
Giustiniano. Periodo dell’impero assoluto.
• PERIODO GIUSTINIANEO dal 527 al 565: attività di Giustiniano
- Monarchia
- Repubblica
- Età imperiale:
- Principato
(27 a.C. - 235 d.C.)
- Dominato
(284 - 565 d.C.)

Conclusione
Le periodizzazioni hanno una valenza didattica e pratica.

Le fonti del diritto romano


Il periodo arcaico è poverissimo sia di fonti primarie tecniche che atecniche, nonché di fonti secondarie;
dato che tale periodo abbraccia un’epoca quasi leggendaria molto risalente.
Il periodo pre-classico numerose fonti di cognizione, originarie e derivate, sono quelle utilizzate dagli
storiografi, i quali però, hanno dovuto fare i conti con la tradizione (non sempre veritiera e quasi mai
completamente esatta).
La descrizione di questo periodo, infatti (dai Gracchi a Silla) ci è giunto attraverso narrazioni di seconda e
terza mano.
Il periodo classico è ricco di fonti (papiri, iscrizioni etc.). Tra esse notevole rilevanza assume, per il loro
valore storiografico, politico e giuridico, le Res Gestae divi Augusti pervenutaci quasi integralmente;
Il periodo post-classico: le fonti postclassiche altro non sono che rielaborazioni o alterazioni di quelle dei
periodi precedenti: pertanto sono state oggetto di una duplice interpretazione che comporta: l’accertamento
del significato e il valore della fonte nel contesto della compilazione di cui essa fa parte; l’accertamento del
significato e del valore della fonte nel momento in cui essa fu posta in essere; momento che può risultare
anteriore rispetto a quello della compilazione.
A tale tipo di interpretazione si sostituisce la cd. interpretatio multiplex nei casi in cui si accerti (o si
sospetti) che un determinato testo o gruppo di testi abbia subito nel corso dei secoli successive alterazioni,
sicché abbia assunto, dal momento della creazione a quello dell’entrata in una compilazione definitiva,
tenore, significato e valore diversi.

Leopold WENGER (1874.1953) e le Fonti del Dir. Rom.


Gli Annales: si tratta di raccolte delle annotazioni redatte dai Pontefici in relazione ai principali eventi
storici. Di tali raccolte si è avuta notizia attraverso le testimonianze di Dionigi di Alicarnasso, Cicerone,
Gellio etc.;
I «Dodici Cesari», dello storico Svetonio (II sec. d.C.), in cui è contenuta la biografia dei «principes» da
Giulio Cesare a Domiziano;
L’opera di Giuseppe Flavio (I sec. d.C.), «Le guerre giudaiche»;
L’opera di Appiano (II sec. d.C.), sulla storia di Roma dalle origini al II sec. d.C.;
L’opera di Cassio Dione (età dei Severi, III sec.) che descrive la storia dell’Urbe, da Enea fino agli eventi a
cui egli stesso ha assistito.
A queste opere si aggiungono altri preziosi contributi come quelli di Seneca, Quintiliano, Aulo Gellio,
Marco Aurelio, dall’imperatore Giuliano fino ad arrivare ai padri della Chiesa come Ambrogio, Agostino.

Notizie sulla civiltà romana:

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- Tradizioni relative alla costituzione e agli istituiti religiosi e giuridici connessi alla costituzione redatte
parzialmente per iscritto ovvero trasmesse oralmente da uomini politici e da sacerdoti.
- Avvenimenti che rendono avvincente la storia di Roma abbandonate alla leggenda popolare subirono gli
abbellimenti della fantasia e le alterazioni determinate da vanità nazionali e familiari.

CAPITOLO 2 - La problematica delle origini


Le origini: la leggenda
Secondo il racconto degli annalisti, la fondazione di Roma risalirebbe alla metà circa dell’VIII sec. a.C. (754
o 753 a.C.) e sarebbe opera di Romolo, esule da Albalonga.
Alla neonata comunità egli avrebbe dato tutte le fondamentali istituzioni politiche.

Dal punto di vista politico-sociale, la popolazione sarebbe stata ripartita in due classi:
a. patrizi - ceto dominante - suddiviso, ulteriormente, in genti (gentes);
b. plebei - ceto subordinato - non era organizzato in gentes, ma aggregato, in posizione di sottomissione,
ai patrizi, con il titolo di clientes.

Dal punto di vista amministrativo, i patrizi, col rispettivo seguito di clientes plebei furono distribuiti in tre
tribù: Ràmnes (derivante da Romolo); Tities (derivante da Tito di origine sabina); Lùceres (di origine
etrusca).
Ciascuna tribù era composta di dieci curie; ogni curia, a sua volta, sarebbe stata suddivisa in dieci decurie.
A capo di ogni tribù era posto un tribuno; a capo di ogni curia era posto un curione; a capo di ogni decuria
era un posto un decurione.
L’intera popolazione era, pertanto, ripartita, secondo un sistema piramidale (al cui vertice era il rex) in
trecento decurie, trenta curie e tre tribù.

Le origini
Alla figura di Romolo viene inoltre ricollegata la creazione dei comitia curiata, assemblea popolare
chiamata ad eleggere il rex (carica vitalizia) ed i membri del senatus (organo consultivo e deliberativo,
composto in origine da 100 membri, detti patres).
Sia Romolo che i suoi successori (Numa Pompilio, Tullo Ostilio, Anco Marzio) avrebbero governato nel
rispetto della volontà delle assemblee popolari e del Senato; alla morte di Anco Marzio, il potere fu usurpato
dal tutore dei suoi figli, Tarquinio Prisco, un nobile etrusco che impresse alla monarchia una brusca svolta
assolutistica, riorganizzando le istituzioni e governando dispoticamente, con spregio delle assemblee
popolari e del Senato.
Dopo di lui, avrebbe regnato Servio Tullio, cittadino romano imparentato con la dinastia etrusca, al quale
vengono attribuite importanti riforme; alla sua morte, salì al trono l’etrusco Tarquinio il Superbo, il cui
regno tirannico fu spezzato, nel 510 a.C. da una congiura di palazzo che allontanò il re e proclamò la
respublica.

Le origini: i pagi
Gli studiosi sono concordi nel ritenere che la vita sociale del Lazio, nell’epoca precedente alla fondazione di
Roma, fu caratterizzata da un’organizzazione strutturata in pagi (plurale di pagus = piccolo villaggio).
I pagi erano costituiti da piccoli nuclei di popolazioni indigene, composti spesso da poche capanne, e
reciprocamente uniti da: interessi comuni, tradizioni culturali e religiose, vincoli di sangue tra gli abitanti.
Tutti i componenti del villaggio partecipavano alle decisioni rilevanti per la vita della comunità; tuttavia, nei
momenti di pericolo o di crisi, ci si affidava alla leadership di personaggi-guida, che avevano in passato
dimostrato di possedere particolari capacità politiche o militari.
In ogni caso, al di là della «leggenda», sulle origini della città di Roma si sono alternate diverse ipotesi.

Le origini - Tesi di Giuseppe Guarino


La narrazione leggendaria degli eventi che portarono alla fondazione di Roma mostra parecchie
incongruenze:
- Romolo è probabilmente un personaggio mitico che nella realtà storica non è mai esistito, ma creato dalla
fantasia popolare;
- è dubbia la nascita improvvisa di una civitas con tutte le sue complesse strutture, come ci riporta sia la

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leggenda che la tradizione;
- è dubbia la stessa suddivisione iniziale della società in due classi sociali (patrizi e plebei), che
presuppone, invece, una precisa causa storica.
- Un solo dato è certo: la civitas romana sorse certamente nell’VIII sec. a.C., ebbe origini etniche latine, e
fu poi dominata dagli Etruschi.

GUARINO identifica tre fasi: fase latino-sabina; fase etrusco- latina; fase della crisi e della decadenza.

FASE LATINO-SABINA.
Secondo la leggenda, nei primi secoli Roma fu governata da quattro re di stirpe latina: Romolo, Numa
Pompilio, Tullo Ostilio, Anco Marzio. In questa prima fase, al primo nucleo di popolazione latina (la cd.
tribù dei Ramnes), stanziata sul Palatino, si unì la popolazione dei Sabelli o Sabini (cd. tribù dei Tities),
stanziata sul Quirinale: a questa alleanza tra popolazioni latine e popolazioni sabine farebbe riferimento la
leggendaria narrazione del Ratto delle Sabine.

Solo successivamente, intorno al VII sec. a.C., l’alleanza si trasformò in federazione, con l’adesione di una
terza tribù (Luceres), nella quale gli storici hanno individuato elementi etnici etruschi, per la probabile
derivazione del termine da Lucumone, capo militare etrusco.

Una traccia dell’esistenza di tale confederazione è data dalla misteriosa festa religiosa del Septimontium
(festa dei sette colli) che si celebrava l’11 dicembre di ogni anno.

La comunità pre-etrusca era estremamente primitiva e la sua economia si basava esclusivamente sulla
pastorizia. Le arcaiche strutture politiche (tribù, curiae, rex) interferivano ben poco con la vita economico-
sociale, che si svolgeva prevalentemente intorno alle familiae (sotto la direzione del proprio pater) ed alle
gentes, gruppi sociali costituiti da più famiglie.

La fase latino-sabina della storia di Roma, anche se non è caratterizzata dalla presenza di una città
completamente formata, costituisce il momento in cui si gettano le basi di quella che sarebbe stata poi la
civitas Quiritium romana e di tutte le sue strutture.

FASE ETRUSCO LATINA (VI Sec.)


Si tratta della fase caratterizzata dalla dominazione etrusca.
La tradizione ha conservato tracce ben precise del dominio etrusco a Roma; per opera di Tarquinio Prisco, la
regalità avrebbe acquisito tutti i connotati simbolici esteriori del potere (la sedia curule, il manto di porpora,
i littori).
L’istituzione monarchica conobbe una brusca svolta assolutistica.
Agli etruschi si deve l’introduzione di una nuova organizzazione militare, basata sul sistema «oplitico», in
uso presso i popoli greci: l’esercito venne suddiviso in fanteria pesante e fanteria leggera, e dotato di una
veloce cavalleria d’attacco; questa organizzazione costituì il nucleo fondamentale dell’exercitus centuriatus,
che con le sue legioni permise a Roma di sottomettere le gentes latinae.
La riforma dell’exercitus centuriatus rispecchiò importanti mutamenti economico- sociali: per effetto della
dominazione etrusca, intorno alla civitas fiorì, infatti, una nuova vita economica, incentrata principalmente
sull’agricoltura intensiva e sul commercio.
Questo nuovo sistema di produzione avvantaggiò soprattutto le piccole comunità familiari extraurbane,
stanziate al di fuori del pomerium che, stabilmente dedite all’agricoltura, acquistarono maggior forza
economica rispetto alle gentes quiritarie.

Le origini - Tesi di Giuseppe Guarino


FASE ETRUSCO LATINA (VI Sec.)
L’esercizio di attività agricole e commerciali consentì, favorendo un accumulo di capitali economici,
l’affrancazione dei clientes plebei dal predominio dei patrizi.
Il mutato scenario socio-economico produsse uno stravolgimento dell’organizzazione cittadina romana in
quanto l’arcaica organizzazione gentilizia risultò inadeguata a far fronte alle mutate esigenze di una società
più complessa.

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La società si presentava, sull’esempio delle polis etrusche, strutturata in due grandi gruppi: l’aristocrazia
gentilizia patrizia da un lato, e i loro clienti e schiavi dall’altro; questi ultimi, detti plebei (termine
derivante dal greco con il significato di «moltitudine») pur essendo posti in condizione di inferiorità rispetto
ai primi, fecero, nel corso degli anni, sempre più valere le proprie rivendicazioni, fino a che non raggiunsero,
in fasi successive, il pareggiamento politico delle classi.

Le origini - Tesi di Giuseppe Guarino


FASE DELLA CRISI E DECADENZA (V- IV sec.)
Secondo la tradizione, con la rivoluzione guidata da Lucio Giunio, Bruto e Lucio Tarquinio Collatino
(avvenuta nel 510 a.C.) sarebbe caduto per sempre, insieme con la dominazione etrusca, il sistema
monarchico, e sarebbe stato introdotto il sistema repubblicano.
Questa fase fu caratterizzata da violente lotte di classe. Ne derivò un seguito di gravi tumulti civili che si
conclusero solo nel 367 a.C., quando, con l’emanazione delle leges Liciniae Sextiae con cui i plebei furono
ammessi al consolato.

Le origini - Tesi “patriarcale” (Vico, Summer- Maine)


Secondo questa teoria, la familia (famiglia) costituiva l’organismo primitivo e il nucleo originario dal quale
progressivamente si sarebbero formate la gens, la civitas e lo Stato.
Queste comunità intermedie non avrebbero caratteristiche politiche e sarebbero fondate solo su vincoli di
parentela.

Le origini - Tesi “politica” (di Pietro Bonfante)


Premesso che lo Stato è un ente costante nella storia della società civile, contesta la validità della teoria
patriarcale, in quanto familia e gens si sarebbero dal primo momento identificate con lo Stato.
I vincoli parentali non erano fondamentali né nella familia né nella gens dove sopravvive solo il ricordo
lontano e impreciso di una discendenza comune.

Le origini - Tesi di Pietro De Francisci (1889-1971)


Contesta la possibilità di una definizione unica dei concetti di familia e di gens, perché «familia».
Allo stesso modo, la gens che normalmente è considerata come un complesso di familiae, potrebbe aver
acquistato tale aspetto parentale in un momento successivo quando, all’interno della civitas, perse la sua
funzione politica;
Per De Francisci la gens sarebbe stata un organismo politico territorialmente corrispondente al villaggio.

Le origini - Tesi di De Martino


De Martino attribuisce alla gens un ruolo di rilievo maggiore rispetto alle famiglie e agli altri gruppi, ed
affermando che lo stato romano fu originato da una federazione di gentes.
I motivi fondamentali di tale precisazione sono due: il vincolo che univa i membri della gens non era un
vincolo di sangue, ma un vincolo di ordine etnico (il che la fa somigliare ad un piccolo popolo, ad una
piccola nazione e, quindi, la rende idonea ad esser configurata come organismo originario);
Un gruppo tribale primitivo non è un’organizzazione politica, perché per aversi gruppo politico non sono
sufficienti le esigenze di difesa, ma occorre la presenza di un potere coercitivo.
La gens, dunque, non era una comunità familiare domestica, ma costituiva un rudimentale gruppo politico
perché aveva il predominio sulla clientela e usava su di essa un potere coercitivo.

Le origini - Tesi dello “Stato nazionale” di Meyer


Secondo MEYER in origine gli uomini vivevano in gruppi sociali indifferenziati e non conoscevano né
l’istituto del matrimonio né della parentela né alcun ordine.
Solo in un secondo momento il gruppo indifferenziato si divise (in tribù) e i matrimoni vennero regolati,
vietandoli all’interno di ogni gruppo e consentendoli, invece, all’esterno. Così, progressivamente, nasceva la
famiglia.
Da ciò conseguirebbe che alla base dello sviluppo della comunità romana vi era l’esistenza di uno «stato
nazionale della stirpe» dal cui frazionamento sarebbero sorte le città, le gentes, le tribù etc.
Le origini - Conclusione “relativa”
La storiografia moderna ha spesso ripreso l’ipotesi vichiana e, ponendo come organismo originario la

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familia, ha fatto derivare, da questa, organismi più ampi (come la gens e la civitas).
Questa opinione non tiene conto della circostanza che l’organizzazione naturale primitiva non era la
famiglia, ma una comunità indifferenziata. Tale comunità era considerata da MEYER un vero e proprio
Stato: si può parlare genericamente di comunità etniche, ma esse non conoscevano né un ordinamento
giuridico né una organizzazione economica e, dunque, non avevano carattere politico (DE MARTINO).

Le origini
Il territorio su cui era destinata a sorgere Roma si considera tradizionalmente costituito da: Palatino
Campidoglio, Quirinale, Viminale, Esquilino, Celio e Aventino, ma in verità costituito da Palatium, Velia,
Fagutal, Subura, Cermalus, Oppius e Cispius, come testimonia un frammento del giurista di età augustea M.
Antistio Labeone.
Dove è possibile guadare il Tevere si mettono in comunicazione territori etruschi e territori laziali:
- gli abitanti sono pastori;
- il luogo ha grande rilievo, per la vicinanza di saline ed il loro sfruttamento e controllo.
In questo territorio e nelle vicinanze di Roma si parla il latino:
 La popolazione si riunisce in occasione di festività e di celebrazioni religiose, formando una lega con
valore sia religioso sia politico;
 A 40 Km di distanza, la lingua è il volsco (umbro);
 Sulla riva destra del Tevere, l’etrusco;
 Nell’età delle origini, tra le popolazioni che hanno maggiore peso politico ci sono i Sabini, originari di
Testruna e insediati nei territori di Reate, Nursia e Cures;
 Saranno proprio i Sabini originari di Cures, inseriti sul Quirinale, a unirsi ai Romani, per mezzo delle
proprie donne, e a costruire la nuova comunità, governata dal loro re Tito Tazio e da Romolo;
 Tale comunità, riceve dal secondo re di Roma, Numa Pompilio, un’importante impronta in senso
religioso e pacifico.

L’età monarchica
L’età monarchica si svolge nell’arco di circa due secoli e mezzo.
Tradizionalmente la monarchia ha inizio:
- con la fondazione di Roma e con Romolo, il primo re (753 - 716);
- a Romolo succederanno:
 il sabino Numa Pompilio (715 - 673);
 il feroce Tullo Ostilio (672 - 640);
 il benemerito Anco Marzio (642 - 617);
 i re etruschi Tarquinio Prisco (616 - 578), Servio Tullio (578 - 534), Tarquinio il Superbo (534 - 510).

CAPITOLO 3 - L’età monarchica: dall’VIII sec. a. C. alla fine del VI sec. a.C. (753.a.C. - 510 a.C.)

L’età monarchica: il rex


L’età monarchica si svolge nell’arco di circa due secoli e mezzo dal 753 a.C. al 510 a.C.
Fonte principale è Tito Livio (I lib. - Libri ab Urbe Condita)
Le strutture di tale periodo sono:
a. Re (rex);
b. Senato (senatus, consiglio degli anziani);
c. Assemblea del popolo.

Il senatus era composto da capi di genti e famiglie potenti, capaci di prendere gli «auspicia», cioè di cogliere
la volontà degli dei e di orientare con il loro consiglio autorevole la vita della comunità e le decisioni del re.
Il nome senatus, designava l’adunanza di uomini scelti in considerazione di età (senex - anziano), esperienza
ma in esso si concentravano anche le aristocrazie politiche.
Nel caso di mancanza del re, il senato possedeva il potere auspicale, che si concretizzava nell’interregnum.

L’età monarchica: il rex - l’acquisizione del potere


Alla morte del re il Senato esercitava il suo potere auspicale, che eleggeva tra i suoi membri un interrex per
la durata di 5 giorni (decorsi i quali passava ad un altro interrex). Istituto dell’interregum.

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L’interrex proponeva il nome del successore (scelto tra i senatori) davanti ai comizi curiati (assemblea
popolare).
Se la votazione dei comitia era affermativa (creatio), si procedeva alla «inauguratio», una particolare
cerimonia religiosa attraverso la quale si richiedeva l’assenso degli dei alla nomina del rex.

Il nuovo rex richiedeva la lex curiata de imperio (approvazione da parte del popolo).
L’età monarchica: i poteri del rex-l’imperium
Il re deteneva poteri civili, religiosi (sommo sacerdote) e militari (capo supremo dell’esercito); era il vertice.
Imperium militiae: difendere lo Stato.
Imperium domi: amministrare la città e la comunità.

Mediatore tra gli uomini e gli dei (attività augurale, da augere, cioè far “aumentare con forza”).

In virtù dell’Imperium militiae aveva il Magister Populi (che sostituiva il re in caso di impedimento) e il
Magister Equitum (comandante della cavalleria sottoposto al Magister Populi). Al Quaestor Parricidii erano
demandate la repressione dei crimini più gravi.

In virtù dell’imperium domi: dirimeva le controversie tra i cives.

In virtù dei poteri religiosi, egli era sommo sacerdote. Sopravvisse in età repubblicana il rex sacrorum.

L’età monarchica: i 7 re
Secondo la tradizione e le fonti a ciascuno dei 7 re sarebbero attribuite opere e organizzazioni sociali.
Es.:
- Romolo istituì la prima organizzazione sociale: patrizi e plebei e rapporto di clientela
- Numa Pompilio: calendario e disciplina sull’omicidio (dolo e colpa nello stesso) e altre prescrizioni
sociali
- Tullio Ostilio: norme sulla guerra
- Anco Marzio: norme religiose
- Servio Tullio: riforma dell’assemblea - centuriata.

L’età monarchica: il Senato


 Assemblea dei patres; 100, 150, 300 (sotto Tarquinio Prisco).
 Il Senato deteneva l’interregum e l’auctoritas = ratifica delle delibere popolari (nei Comitia)
 «Senex»: anziano
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L’età monarchica: il Comitia Curiata
 Assemblea che adunava tutto il popolo, convocata da re nel Forum
 Comitium ≠ Concilium (assemblea della plebe soltanto)
 Curia (da co-viria, riunione di uomini)
 Secondo la tradizione Romolo divide in 3 tribù (Ramnes, Tities e Luceres) e ogni tribù in 10 curie (unità
militare e religiosa)
 Comitia Curiata: funzione legislativa; le leges regiae presentate dal re all’assemblea popolare
 La Lex Valeria de Provocatione (300 a.C.) attribuisce un ruolo anche giurisdizionale (commutazione
della pena capitale all’esilio)
 Nei Comitia possibili alcuni negozi giuridici, come l’adrogatio e il testamento calatis comitiis.

L’età monarchica: il Collegi Sacerdotali


Tre furono i collegi sacerdotali di primaria importanza:
pontifices, augures e duoviri sacris faciundis (2 magistrati custodenti i libri sibillini)

Due furono i collegi minori: flamines (esercizio del culto delle festività) e fetiales (culto di Giove e rituali
connessi ai rapporti internazionali).
Tutti gli esponenti di tali collegi appartenevano al ceto dei patrizi.
Vestali (collegio femminile, custodi del fuoco).
I pontefici conservano il segreto sui riti e sono depositari di un patrimonio di conoscenze; il Pontefice
Massimo è arbiter rerum humanorum et divinarum.
Loro carica era ad vitam.

L’età monarchica: il Collegi Sacerdotali - I Pontefici


 I pontefici (letteralmente facitori = via da seguire) organo di tutela degli interessi politico-religiosi del
patriziato verso la monarchia.
 Numero 3 (ciascuno per ogni tribù) poi 5; collegio presieduto da un Pontefex Maximus.
 Competenze del collegio: custodia dei riti supremi, calendario, forme degli atti e delle azioni giudiziarie,
esercizio della giurisdizione e dell’interpretazione del diritto pubblico e privato (ius e fas).
 Esercizio della giurisdizione sui magistrati del culto (sui flamini e sulle vestali).

L’età monarchica
L’età monarchica si svolge nell’arco di circa due secoli e mezzo.
Tradizionalmente il regnum ha inizio:
- con la fondazione di Roma e con Romolo, il primo re (753 - 716);
- a Romolo succederanno:
 il sabino Numa Pompilio (715 - 673);
 il feroce Tullo Ostilio (672 - 640);
 il benemerito Anco Marzio (642 - 617);
 i re etruschi: Tarquinio Prisco (616 - 578), Servio Tullio (578 - 534), Tarquinio il Superbo (534 - 510).
Assetto costituzionale:
- un potere regio, di tipo personale, non derivato o trasmesso, ma acquisito:
- si tratta comunque di un potere (imperium) che richiede una legittimazione, senza la quale non si
potrebbe avere obbedienza.

IMPERIUM = POTERE
Nell’individuare il soggetto che debba essere re non può mancare l’intervento della divinità:
- la presa di auspicia favorevoli dimostra il gradimento degli dei e consente la creatio, non l’elezione, del
futuro re, dichiarata dall’interrex;
- successivamente il rex convoca il popolo in assemblea;
- l’assemblea esprime il proprio suffragium, ossia procede all’acclamazione del re mediante la percussione
degli scudi.
- Il re non è un despota o un tiranno, tanto che qualora divenga tiranno, viene cacciato, come accadde per
Tarquinio il Superbo.

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Il rex nell’esercizio del proprio potere incontra dei limiti:
- la necessità di ordine religioso di prendere gli auspicia prima di agire;
- il necessario rispetto dei c.d. mores maiorum, gli usi e i costumi aviti;
- il diritto non scritto degli antenati.

Tradizionalmente si attribuisce a Romolo una organizzazione basata sulle tre tribù originarie riferite
rispettivamente agli abitanti:
- del Palatino Latini; Ramnes
- del Quirinale Sabini; Tities
- del Celio Etruschi. Luceres
Ogni tribù era suddivisa in 10 curiae. L’intera popolazione era ricompresa in 30 Curiae che formavano i
Comitia Curiata costituenti l’assemblea popolare.
Le curiae, oltre ad avere funzione di carattere politico avevano funzioni di carattere religioso e militare.
Il capo di ogni curia, il c.d. curio, era parte di un collegio, guidato dal curio maximus, preposto a svolgere
compiti di ordine religioso.
Riguardo le funzioni di carattere militare, le curiae fungevano da quadri di leva sia dei soldati a cavallo sia
dei fanti:
- i soldati a cavallo erano cento per ogni tribù ed erano guidati da un tribunus celerum di nomina regia;
- i fanti erano mille ed erano divisi in dieci centuriae corrispondenti alle dieci curiae, ed erano guidati da
un tribunus militum.
Questo esercito era comandato dal magister populi, il quale nell’espletare i suoi compiti era coadiuvato dal
magister equitum.
I clientes di ogni gruppo gentilizio prendevano parte alle campagne militari al seguito dei loro patroni.
L’attività più significativa delle curiae era quella comiziale. Quando la cittadinanza ascoltava il re gli
prestava il proprio suffragium e sosteneva a seguito della convocazione dal pontifex maximus, atti di grande
rilievo quali l’indicazione di:
- un successore del paterfamilias l’ammissione di una nuova gens la rinuncia al culto familiare
- la sottoposizione di un paterfamilias alla potestas di un altro paterfamilias

La dominazione etrusca cambiò l’assetto costituzionale appena descritto, dando una nuova struttura militare
alla comunità romana:
- si ebbe una differente modalità di reclutamento dell’esercito;
- secondo la tradizione proprio a Servio Tullio deve essere riferita la costruzione di un ager difensivo. Esso
comprendeva il Quirinale, il Viminale, l’Esquilino e probabilmente l’Aventino.
La falange oplitica diviene elemento essenziale dell’esercito.
Questo portò ad una rivisitazione delle centurie che vennero articolate per censo.
La costruzione di tale ager determinò l’estensione del pomerium, di quel terreno che, al momento della
fondazione di una città, gli Etruschi delimitavano in modo rigoroso e consacravano, per mezzo della c.d.
inauguratio, come luogo da fortificare con mura.

All’interno del pomerium non era possibile addossare edifici e all’esterno, sussisteva una zona di terreno
libera da attività umane.
Nella riforma serviana dell’esercito il reclutamento si basava sulla ricchezza:
- i soldati, dovendosi addossare il costo delle armi, non erano armati tutti nel medesimo modo;
- presupponeva una ripartizione della popolazione per tribù territoriali.

Quattro di queste tribù le c.d. tribus urbanae raccoglievano gli abitanti della città.
Le altre le c.d. tribus rusticae raccoglievano gli abitanti della campagna.

Alle tribù territoriali appartenevano soltanto coloro che fossero cittadini romani.
Nell’ambito dell’organizzazione centuriata si distinguevano milites armati per difesa ed offesa, che
entravano a far parte della c.d. classis, e i milites armati solo alla leggera, i quali erano collocati infra
classem.
L’organizzazione centuriata contemplava i cittadini milites maschi e idonei alle armi di età compresa tra i 18
ed i 60 anni

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L’assemblea centuriata era divisa in cinque classi censorie. Ogni classe era suddivisa in centurie le quali
originariamente erano unità di 100 uomini. Divennero presto quadri di leva e unità di imposta e di voto.
La leva - il c.d. dilectus - avveniva in ragione della ricchezza. La valutazione economica si riferiva al gruppo
familiare di appartenenza e provvedeva ad inserire i singoli nelle varie classi e nell’assemblea centuriata.
Lo schema contemplava 193 centurie costituite sulla base della registrazione della ricchezza dei cittadini
operata in occasione del census.
Si avevano 18 centurie di equites (cavalieri)
175 centurie di pedites (fanti). Le centurie di pedites erano a loro volta suddivise in cinque classi: la prima
classe comprendeva 80 centurie, la seconda, la terza, la quarta classe comprendevano 20 centurie ciascuna,
la quinta classe comprendeva trenta centurie.
I soggetti il cui censo era più elevato erano meno numerosi dei soggetti dal censo meno elevato.
I primi costituivano le centurie dei cavalieri - in numero di 18 - e le centurie della prima classe - in numero
di 80 - per un totale di 98 centurie.

Il censo occorrente per l ‘ appartenenza alle classi risulta di 125.000 assi per la prima classe, di 75.000 per la
seconda classe, di 50.000 per la terza classe, di 25.000 per la quarta classe, di 12.500 per la quinta classe. Si
tratta di una valutazione che presupponeva una economia e una circolazione monetaria, sicché sembra da
ritenere che in età precedente si considerasse piuttosto la proprietà fondiaria.

Ogni centuria era unità di voto:


Dava inizio alle votazione la c.d. centuria praerogativa, ossia la centuria che veniva interrogata per prima: si
trattava di una centuria che veniva estratta a sorte tra le centurie dei cavalieri se non addirittura tra le sole sei
centurie di equites (Ramnes, Tities, Luceres priores et posteriores).
Il voto della centuria - che veniva espresso dallo scrutatore, scelto dal magistrato tra i centuriones delle
singole centurie - era orale:
 chi votava per primo era in grado di orientare ed influenzare il voto delle centurie chiamate di seguito a
esprimersi, nell’ordine delle classi;
 al momento che equites e prima classe erano in grado da soli di raggiungere la maggioranza sufficiente
per ogni deliberazione, qualora una decisione fosse stata presa con la suddetta maggioranza, non vi era
più ragione di interrogare le restanti centurie, le quali generalmente non votavano.

La repressione criminale e la pax deorum


Difficile si presenta la ricostruzione del diritto criminale in età arcaica.
La stessa espressione «diritto criminale», se riferita al periodo più antico della storia di Roma, può essere
considerata impropria.
In questa età, infatti, il fenomeno giuridico non raggiunse un’articolazione tale da poter distinguere nel suo
ambito i diversi rami.
Il ius non si distingueva dal fas.
Le fonti ci informano circa l’esistenza di reazioni pubbliche che la primitiva comunità riconnetteva a
violazioni di regole di tipo religioso.
La necessità di preservare la pax deorum, ossia un costante rispetto nei confronti della divinità da parte della
comunità, condusse all’enucleazione di regole comuni attraverso le quali il rex interveniva nell’agire sociale.
Si tratta di regole che la tradizione riconduce ad antiche leges regiae.
Probabilmente le leges regiae avevano una loro origine consuetudinaria.
Distinguo tra scelera inexpiabilia e scelera expiabilia.
Scelera inexpiabilia = misfatti che non potevano essere espiati
Scelera expiabilia = espiabili con un’offerta espiatoria (piaculum).
Gli Scelera inexpiabilia: il colpevole diventava consecratum cioè perdeva ogni protezione da parte della
comunità e pertanto chiunque era legittimato ad ucciderlo impunemente (sembra anzi che vigeva un dovere
giuridico di tutti i cives di metterlo a morte).
Esistente anche la vendetta privata (nella sola età arcaica).

La caduta della monarchia


Svariate tesi.
Tesi tradizionale: cambiamento improvviso e violento. Espulsione di Tarquinio il Superbo e i suoi figli. Si

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eleggono 2 consoli annuali. La data del 509 a.C. è fissata.
Tesi moderna: cambiamento graduale. Lenta opera di esautoramento del re; tuttavia vi sono critiche.
Tesi dei rapporti internazionali: caduta della monarchia si inserirebbe in un contesto più ampio della
penisola italica dell’epoca coincidente con un ridimensionamento della potenza etrusca. Tuttavia anche qui
vi sono critiche.
Dato di fatto: la monarchia è sostituita dalla repubblica, ma gli inizi sono quanto mai oscuri e pieni di
interrogativi storici.
Comprendiamo solo che vi fu un conflitto sociale tra patrizi e plebei.
Problema delle origini incerte dei plebei:
a) Romolo sceglie 100 senatori che poi saranno patrizi;
b) plebe comunità originaria sottomessa da un popolo conquistatore;
c) distinguo economico e sociale tra plebei e patrizi.

CAPITOLO 4 - Dalla Monarchia alla Res Publica e il Codice Decemvirale (le XII Tavole)

Dal regnum alla res publica


I primi 50 anni di vita della Res Publica sono uno dei periodi più oscuri della storia di Roma, caratterizzato
da crisi, contrasti e guerre.

I Romani scelgono come loro capi supremi 2 praetores poi detti consules.

Il consolato non è una magistratura a vita.


Tradizionalmente si rivolge contro un potere regio esercitato in modo tirannico.
Il consolato può durare solo un anno

 Il predominio etrusco aveva garantito una pace


 I Romani sconfiggono i Latini (Lago Regillo 487/496 a.C.) e stipulano con loro un patto (Foedus
Cassianum nel 493).
 La plebe, forte di numero, insostituibile nucleo dell’esercito, riesce ad imporsi rappresentando la rampa di
lancio per la lotta dei plebei verso il potere.
 Lotta di classe o lotte tra élite? Storiografia marxista parla di lotta di classe; ma forse la questione fu più
complessa

La Plebe e le sue rivendicazioni


- Nel 494 a.C. prima secessione della Plebe e inizio della lotta tra plebei e patrizi.
- Diversi orientamenti dottrinali riguardo ai diritti politici della plebe che sono cittadini a tutti gli effetti di
Roma. Non sappiamo se i plebei erano esclusi dai diritti politici oppure no.

Due erano gli obiettivi della plebe:


a. la aequatio iuris = rimozione degli ostacoli giuridici per prendere parte alla vita pubblica (abolizione del
divieto di connubio matrimoniale, accesso alle cariche)
b. rivendicazioni economiche = equa distribuzione dell’ager publicus

Il Codice decemvirale ovvero le XII Tavole


 451 è eletto un collegio di 10 patrizi (decemviri legibus scribundis) con pieni poteri militari e civili e tutte
le magistrature vennero sospese
 Dopo un anno fu eletto un nuovo collegio col compito di completare il lavoro del primo
 Importanza: non nella “novità” del diritto ma nella “stabilità” e nella “Pubblicità”
 Effetto desiderato: garanzia del diritto cioè stabilità e equa applicazione delle norme
 Le XII Tavole vennero affisse nel Foro fino al sacco e all’incendio gallico del 390 a.C. Cicerone (I sec.
a.C.) narra che il testo veniva imparato a memoria dai bambini come una sorta di poema d’obbligo e Livo
le definisce fonte di tutto il diritto. Il linguaggio delle tavole era arcaico.
 La dottrina prevalente è incline a considerare le XII Tavole come una codificazione parziale che, lungi
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dal coprire tutti gli aspetti della fenomenologia socio-economica, aveva lasciato sopravvivere, in affianco
ai suoi precetti, settori più o meno ampi del diritto regolato dai «mores».
 Nelle XII Tav. abbiamo le prime legis actiones, la prima forma di processo civile romano.
 Novità nel diritto penale: il distinguo - nelle XII Tavole - tra delitti pubblici (crimina) perseguiti dallo
Stato mediante apposita pena pubblica (corporale o pecuniaria) e delitti privati (delicta o maleficia)
perseguiti dall’offeso nelle forme del processo privato e sanzionati con pena privata, solo pecuniaria,
dovuta esclusivamente alla parte lesa.

L’istituto della «provocatio ad populum»


- La provocatio ad populum è uno dei pilastri della costituzione repubblicana romana;
- In virtù di esso il cittadino, condannato a morte (in seguito anche a pene minori) dal magistrato
esercitante l’imperium poteva sottrarsi alla condanna, chiedendo l’instaurazione di un regolare processo
dinanzi ai comitia per contestare l’esercizio arbitrario dell’imperium del magistrato;
- La provocatio ad populum poteva essere esercitata solo contro l’imperium domi (e non già contro
l’imperium militiæ);
- L’istituto della provocatio fu introdotto dalla Lex Valeria de oratia provocatione del 509 a.C..

Il processo comiziale si divideva in due fasi:


1. fase della anquisitio (inchiesta istruttoria in tre sedute) del magistrato per accertare l’effettiva esistenza
del crimine. Questa fase si concludeva in una quarta riunione (dopo un intervallo di almeno 24 giorni
detto trinundinum) con la condanna o il proscioglimento (che venivano contrassegnate su una tavoletta
cerata con una D per damnatio, o una L per liberatio).
2. fase della rogatio o richiesta dell’assemblea, che si pronunciava circa l’entità della pena.

I comizi dinnanzi ai quali si svolgevano i processi popolari furono inizialmente i «comitia curiata». Solo
successivamente tale svolgimento si spostò davanti ai «comitia centuriata» (attorno alla metà del V sec.
a.C.).

Questo cambiamento, introdotto dalle XII Tavole, rispondeva al principio secondo cui: «quando in questione
vi era il caput del cittadino la decisione doveva essere riservata ai comizi centuriati» (Cicerone, Pro Sestio).

Durante l’età imperiale i cittadini romani furono privati di tale guarentigia. Essi potevano far ricorso al
principe (mediante l’appello), ma si trattava di un rimedio meno sicuro, ovviamente, dello «ius
provocationis», infatti il potere discrezionale dei funzionari del principe in materia era molto ampio in
quanto essi potevano addirittura rifiutare di ricevere gli appelli interposti al solo scopo di procrastinare
l’esecuzione della sentenza.

Conflitti tra Patrizi e Plebei e loro composizione


 I patrizi che appartenevano alla gentes, avevano origini certe in quanto discendenti diretti dei fondatori
della città: i plebei erano, invece, di stirpe ignota e, comunque, diversa, non erano legati alle tradizioni
pontificali e religiose e adoravano divinità differenti (Cerere, Libero, Libera) rispetto ai patrizi legati a
Giove, Giunone, Minerva.
 I plebei avevano il loro santuario fuori dal pomerium: sull’Aventino (detto, perciò mons plebeius) per
venerare la dea della caccia Diana.
 Lo scontro tra le due classi, con l’espansione dell’Urbe e la crescita economica della classe plebea, era
inevitabile.

Le Leges Valeriæ Horatiæ (449 a.C. )


 La prima di tali leggi attribuiva ai plebiscita emanati dai concilia plebis valore vincolante.
 Della seconda lex Valeria Horatia de provocazione si è detto sopra.
 La terza, invece, riconfermò la tribunicia potestas dei magistrati plebei riconoscendo il carattere
sacrale dei loro atti; secondo la tradizione nel 449 a.C. attraverso la lex Valeria Horatia de tribunicia
potestate fu sancita la inviolabilità dei tribuni della plebe, degli edili plebei e dei iudices decemviri.
Tale legge in realtà riconfermava il carattere di sacertas riconosciuto ai magistrati plebei dalla plebe con

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il giuramento sul monte Sacro (nel corso della secessione del 495 a.C.). Detta inviolabilità li rendeva
immuni (a pena di sacertà dei violatori) da qualsiasi coercizione da parte di chiunque, e quindi anche da
parte dei supremi magistrati patrizi, i quali per non incorrere nella consacratio capitis, erano impediti
dall’impiegare nei loro confronti i mezzi coercitivi, espressione del loro imperium. Quanto
alla sacertas dei violatori, essa comportava che questi ultimi potessero essere uccisi da chiunque, in
qualsiasi momento, senza che da tale uccisione derivasse alcuna conseguenza penale o civile a carico
dell’uccisore.
 Con tali leggi, dunque, fu raggiunto un compromesso politico tra patrizi e plebei (TALAMANCA) e si
riconobbe la “dualità” degli ordinamenti attribuendo validità giuridica piena (e non più di fatto)
all’attività delle istituzioni plebee

Conflitti tra Patrizi e Plebei: le Leges Liciniae Sextiæ (367 a.C.)

Livio riferisce che nel 445 a.C. il Tribuno Gaio Canuleio propose l’abolizione del divieto di connubio tra
patrizi e plebei, divieto contemplato nelle ultime due tavole della Lex XII Tabularum.
Le leggi Liciniae-Sextiae segnarono la vittoria finale della plebe che portò al definitivo pareggiamento
politico delle classi a seguito di una serie di normative favorevoli al ceto plebeo.
Misure a favore dei debitori: il debito da pagare al creditore veniva da un lato diminuito di quanto era stato
già versato a titolo di interesse e, da un altro lato veniva rateizzato in tre annualità (Lex Licinia de aere
alieno).

Le Leges Liciniae Sextiæ (367 a.C.)


 misure relative alla distribuzione delle terre: la legge fissava un limite alle appropriazioni di terre
pubbliche (di esclusivo appannaggio dei patrizi), stabilendo che nessun pater familias potesse possedere
più di 500 iugeri (Lex Licinia de modo agrorum);
 misure relative al Consolato: si stabilì la possibilità per i plebei di rivestire la carica di console,
riservando loro uno dei due posti. Questa norma di fatto sarà osservata in modo regolare solo a partire dal
320 a.C.,ma solo nel 172 a.C. data in cui addirittura si ebbero due consoli plebei (Lex Licinia de consule
plebe).

CAPITOLO 5 - Le Istituzioni Repubblicane: le magistrature maggiori e minori

Le magistrature
Descrizione statica dell’assetto costituzionale repubblicano.
Assetto costituzionale: equilibrio tra funzioni e attività politiche svolte da organi costituzionali.
Questi principi coesistono per dare forma ad un assetto costituzionale misto.
Le magistrature: quadro generale
Magistrati “maggiori” = titolari di potestas e di imperium Magistrati “minori” = titolari di sola potestas1
Magistrature ordinarie - permanenti e non permanenti - : consoli, pretore, edili, questori, censori
Magistrature straordinarie - sempre non permanenti: tribuni militum, triunviri agris dandi, Dictator

Una rilevante differenza tra magistrati maggiori e magistrati minori deriva dal fatto che i maggiori erano
eletti dai comitia centuriata; i minori erano eletti dai comitia tributa

Nel periodo della Repubblica i poteri dei magistrati furono regolati attraverso una serie di istituti tesi a
stabilire soprattutto:
 la collegialità (per i consoli e dal 242 anche per i pretori);
 l’annualità per i consoli, la semestralità per il dictator;
 un reciproco controllo tra i magistrati di pari grado e funzione che giungeva fino all’intercessio, cioè al
diritto di veto dell’operato del collega;
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Nel diritto romano, potere di cui era investito ogni magistrato repubblicano, sia che fosse titolare anche di imperium (potere
assoluto di governo) sia che non lo fosse. In particolare, la nozione di potestas serviva a porre in relazione il potere del singolo
organo magistratuale con quello degli altri organi, di pari o maggior grado, secondo il principio generale par maiorve potestas
plus valeto («una potestas pari o maggiore vale di più»); nessuna iniziativa, quindi, poteva essere intrapresa contro la volontà del
collega, titolare di una potestas pari, e, a fortiori, contro la volontà di un magistrato titolare di una potestas maggiore.

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 una subordinazione delle magistrature inferiori alle maggiori;
 un più specifico controllo su ciascuna carica da parte;
 degli altri organi «costituzionali» (comitia, concilia, ecc.);

Alla regola secondo cui «il magistrato crea il magistrato» (cooptatio) che dava luogo al dominio di “casta”,
si sostituì quella dell’elezione popolare, che permetteva un accesso più ampio nelle magistrature.

Requisiti del cittadino per essere eletto magistrato erano:


 il godimento dell’elettorato attivo (ius suffragii); l’ingenuità: era ingenuus
 chi non era né liberto (schiavo liberato) né libertino (figlio
 di liberto);
 il patriziato (o l’appartenenza a famiglie plebee), quando si trattava di magistrati necessariamente patrizi
(o necessariamente plebei);
 il non essere mai stati colpiti da «infamia»;
 l’età minima richiesta dalla legge per l’accesso alle singole cariche (28 anni per la questura, che era la
prima carica a cui si poteva accedere)

Le magistrature: funzioni e poteri - imperium


 Deriva dall’originario potere (imperium) spettante al rex in epoca monarchica.
 Tra i magistrati forniti di imperium (magistrati cum imperio) rientravano il dittatore, i consoli e il pretore,
cioè quelle magistrature che in origine svolgevano funzioni militari di comando nell’exercitus centuriatus
 Nell’ambito dell’imperium si distinguevano:
- imperium domi, che si esercitava entro il pomerium (cioè entro le mura della città) il cui unico limite
era costituito dalle prerogative spettanti al popolo romano e alle altre magistrature (la provocatio ad
populum, l’intercessio);
- imperium militiae, che si esercitava fuori dal pomerium, non solo in guerra, ma anche nei rapporti coi
popoli conquistati;

L’imperium era caratterizzato, rispetto alla potestas, da:


- particolari segni esteriori: le insegne, i littori, (etc.) scortavano solo i magistrati cum imperio;
- gli auspicia maiora attribuiti solo ai magistrati cum imperio: gli altri magistrati possedevano solo gli
auspicia minora;
- la coercitio, consistente nella titolarità di mezzi repressivi per costringere i cittadini all’obbedienza.

Il magistrato cum imperio aveva a disposizione qualunque mezzo per ristabilire l’ordine sociale, eccettuati
quelli per i quali era concessa al cittadino la provocatio ad populum, potendo, pertanto citare, arrestare e
incarcerare i presunti colpevoli. Viceversa, la coercitio dei magistrati cum potestate si concretizzava soltanto
nel diritto di irrogare multe.

Le magistrature: funzioni e poteri - potestas


Apparteneva ai magistrati forniti di imperium e conferiva:
a. lo ius edicendi, cioè la facoltà di pubblicare nel foro gli edicta, che erano veri e propri programmi di
governo emanati da ciascun magistrato per il periodo in cui restava in carica, e in base ai quali, allo
scadere di essa, erano chiamati a rispondere del loro operato;
b. lo ius agèndi cum populo o cum plebe, cioè la facoltà di convocare i comitia e i concilia;
c. lo ius agendi cum patribus, cioè la facoltà di convocare e presiedere il Senato.

Le magistrature: limitazioni dei poteri dei magistrati


Vigevano alcune regole per consentire controlli reciproci e garanzie incrociate, al fine di evitare eventuali
degenerazioni tiranniche e cioè:
A) Giudizio sull’operato del magistrato
Al termine dell’anno di carica ciascun magistrato cum imperio doveva rendere conto dell’uso fatto del
potere attribuitogli, e poteva essere perseguito per le infrazioni o gli eventuali crimina commessi
B) Collegialità
Una importante garanzia derivò dalla piena realizzazione del principio della collegialità e della par

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potestas tra magistrati
C) Divieto del cumulo di cariche e dell’iterazione, cioè non era consentito, pertanto, ad un cittadino
di cumulare più cariche o di essere titolare di un ufficio già ricoperto (iterazione).
coesistenza di più magistrature
Ulteriore limite ai vari poteri dei magistrati derivava dalla contemporanea presenza di più magistrature.
Questa pluralità determinava spesso conflitti di competenze: al fine di risolverli furono enucleati 3 principi
fondamentali:
a. il principio della prevalenza dell’imperium: i magistrati forniti di imperium potevano vietare agli altri il
compimento di atti inerenti alla loro carica;

b. il principio della gerarchia: in virtù di esso, si distinse tra imperium maius e minus, oltre che tra maior e
minor potestas: i magistrati maggiori potevano controllare i minori e avevano diritto di veto in ordine ai
loro atti;

c. il principio di tutela plebis: in virtù di esso i tribuni plebis erano sottratti alla vis imperii e alla vis
maioris potestatis degli altri magistrati con il potere di bloccare, a nome del popolo, mediante veto,
l’attività dei magistrati ordinari (intercèssio tribunìcia).

MAGISTRATURE MAGGIORI: CONSOLI, PRETORI, CENSORI. IL DICTATOR

Il consolato
 Il consolato (che etimologicamente è collegato al verbo consúlere, cioè consigliare) si contraddistingue
per il carattere generale e illimitato delle sue competenze con il compito di provvedere alla Repubblica
“al massimo grado” (così Pomponio) anche se gradualmente alcune funzioni, in origine attribuite ai soli
consoli, furono trasferite ad altri magistrati.

 I consoli erano magistrati eponimi (i titolari del consolato davano, cioè, i propri nomi all’anno in cui
duravano in carica), erano eletti in numero di due ed esercitavano collegialmente il potere supremo
(suprema potestas) oltre all’imperium maius, nel cui ambito si distinguevano, come detto, l’imperium
militiae e l’imperium domi.

 Ciascun console era titolare del potere per intero, e poteva esercitarlo in piena autonomia, salva la facoltà
del collega di bloccare con l’intercessio qualsiasi sua iniziativa, esercitando così una specie di diritto di
veto per gli atti del collega che non condivideva in base al principio che due concordi volontà autorevoli
tutelavano meglio l’interesse comune, pur mantenendo l’unitarietà del potere

Il regime astratto della pari collegialità dei consoli fu variamente disciplinato, ricorrendo a vari sistemi:
- al turno (mensile per la gestione di affari civili, giornaliero in campo militare, se entrambi i consoli erano
al comando dello stesso esercito, sullo stesso fronte);
- al sorteggio;
- all’accordo politico per la ripartizione delle rispettive competenze: essa veniva generalmente fatta su base
territoriale, per provinciae.
I consoli erano nominati dai comizi centuriati, presieduti da un magistrato con potere maggiore o uguale al
loro, di regola il 15 marzo.
Essi avevano tutti i segni esteriori dell’imperium compreso il diritto al «trionfo»
Il consolato: imperium militiae
L’imperium militiae corrispondeva al comando militare al massimo grado, e si manifestava
• nella conduzione della guerra, che era comunque, sotto il controllo del Senato. La dichiarazione di guerra
spettava ai comizi (cd. leges de bello indicendo);
• nelle operazioni di leva (dilectus), che venivano compiute dai consoli anche quando il comando spettava
ai magistrati minori;
• nella nomina degli ufficiali, che doveva avvenire secondo lo schema costituzionale e non era perciò
rimessa alla discrezione dei consoli;
• nel potere di coercitio (coercizione) o iudicatio (giudizio), esercitabile nei confronti di militari o di
popolazioni nemiche (in tempo di guerra).

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Il consolato: imperium domi
Il potere dei consoli in città (imperium domi) era, invece, limitato dai poteri attribuiti alle altre magistrature
(soprattutto dei tribuni della plebe) e dalle norme costituzionali stabilite a difesa del cittadino.
 ius agendi cum populo e il ius agendi cum patribus (poteri di convocare, rispettivamente, le assemblee
popolari o il Senato).
 I consoli potevano convocare i comizi e presiederli; essi nominavano (creatio) il proprio successore, il
pretore, il censore, gli edili e i questori.
 Manifestazione essenziale del ius agendi cum populo fu certamente la funzione di iniziativa legislativa
che si concretizzava nella presentazione di leggi ai comizi per la votazione (rogatio); anche il pretore era
titolare di tale competenza, ma di solito essa era esercitata solo per questioni di limitata importanza.
 I consoli, nell’esercizio del relativo ius agendi cum patribus, avevano il potere di riunire il Senato, di
solito agendo collegialmente, data l’importanza politica dell’atto.
 Nominavano anche il dittatore, senza dover procedere in tal caso alla convocazione dei comizi

La pretura
La pretura era una magistratura: monocratica (l’esercizio delle sue funzioni coinvolgeva in proprio ciascun
pretore, e non l’intera magistratura collegialmente); ordinaria; permanente.
La durata della carica era annua.
Il praetor (che etimologicamente deriva dal verbo prae- ire, cioè precedere, indicare la strada, condurre) era
un magistrato maior, eletto dai comizi centuriati presieduti da un altro magistrato maior (generalmente dal
console), cui era gerarchicamente subordinato. Rispetto ai consoli, i pretori erano colleghi minores, essendo
titolari di un imperium qualitativamente non diverso, ma di una potestas di minore intensità.
La funzione prevalente dei pretori fu quella di amministrare la giustizia (in particolare quella civile).
In virtù dell’imperium domi, i pretori potevano, peraltro, affiancarsi ai consoli, sostituendoli, in caso di
impedimento o di assenza, nel governo civile della città, non per delega, ma nell’esercizio di proprie
competenze.
Il praetor in virtù del ius agendi cum populo convocava e presiedeva i comizi per l’elezione dei magistrati
minori ed aveva un autonomo potere di iniziativa legislativa di cui però si avvaleva non frequentemente ed,
in genere, per casi di non grande rilievo.
In base all’imperium militiae, il praetor veniva di tanto in tanto incaricato dal Senato del comando
dell’esercito fuori dell’urbe.
La pretura: l’editto pretorio
L’editto (edictum) era il tipico provvedimento emanato dal pretore ed esprimeva il programma della persona
che annualmente ricopriva la carica; con esso il pretore indicava le forme con cui avrebbe realizzato la
iurisdictio e le linee generali che avrebbero ispirato il suo operato, garantendo in tal modo la certezza del
diritto
Come prassi costituzionale i pretori tendevano a recepire, in linea di massima, il testo dell’editto emanato
dal predecessore; questa parte degli editti annuali, che si trasmetteva di anno in anno, era indicata con il
termine di edictum tralaticium.
A partire dal I sec. a.C., l’edictum cominciò ad acquistare molta importanza: non solo perché diveniva
strumento di creazione del ius honorarium (diritto onorario), ossia il diritto creato dal pretore «per regolare
gli aspetti emergenti dell’economia e della società aperta cioè anche agli stranieri» (TALAMANCA), ma
anche perché con esso venivano determinati i formulari delle azioni che le parti dovevano esperire nei
processi.
367 a. C. Prætor Urbanus - ius honorarium
242 a. C. Praetor Peregrinus - ius gentium

La censura
La censura era una magistratura ordinaria, non permanente, investita della carica con una lex potestate
censoria.
Era una magistratura collegiale; i censori, in numero di due, erano eletti dai comizi centuriati. Inizialmente
ricoperta solo dai soli patrizi successivamente con lex Publia Philonis (339 a.C.) si stabilì che uno dei due
censori dovesse appartenere all’ordine plebeo.
Le operazioni di censimento si aprivano con un editto (lex censui censendo) e si chiudevano con una

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cerimonia religiosa (lustrum).
I censori ricevevano le informazioni necessarie dai cittadini, e in base a queste procedevano all’iscrizione in
tribù della popolazione, dividendola secondo il censo.
Alla data fissata dalla lex censui censendo, tutti i patres familias erano tenuti a presentarsi alla contio, che si
effettuava nel Campo Marzio
Il pater declinava le proprie generalità e dei membri della familia e denunciava i suoi averi; i censori
valutavano i beni dichiarati, mediante la collaborazione di un consilium composto dai pretori e dai tribuni
della plebe e registravano i patres in due ruoli, uno per l’inserimento nella tribù, l’altro per le centuriae.
Il giudizio dei censori era libero e discrezionale ed influiva notevolmente sulla composizione degli ordini,
classi e centurie e, quindi, sul loro peso politico all’interno delle istituzioni.
I censori potevano escludere dal corpo dei cavalieri le persone indegne, spostare da una tribù all’altra i
cittadini da essi ritenuti di dubbia reputazione, rifiutare l’iscrizione (e, quindi, la cittadinanza) ai
pregiudicati: un tale provvedimento prendeva il nome di nota censoria2, ed era infamante in quanto
determinava la c.d. “ignominia” che comportava, tra l’altro, l’incapacità di adire alle cariche pubbliche
Oltre al censimento, ai censori furono affidate competenze riguardanti l’amministrazione dell’àger publicus,
degli edifici, delle strade e delle opere pubbliche; erano, inoltre, competenti della cognizione delle
controversie fra Stato e cittadini in ordine ai contratti di appalto.
Si trattava di una magistratura maggiore, collegiale, ordinaria e non permanente.
I censori, pur non essendo titolari di imperium (ma titolari di auspici maggiori) rientravano, unitamente ai
consoli, ai pretori ed al dittatore, nel novero delle magistrature maggiori.
Essi costituivano una magistratura non permanente in quanto venivano eletti (ogni 5 anni e per la durata
massima di 18 mesi) quando bisognava procedere al censimento.
I loro compiti oltre che nel censimento, si concretavano, altresì, nell’assegnazione degli appalti per i lavori
pubblici, nella concessione in affitto di terre statali e nella designazione (lectio), sia pure solo formale, degli
ex magistrati in Senato.
I censori (investiti da una lex de potestate censoria) in origine erano solamente patrizi; successivamente,
attraverso la lex Publilia Philonis del 339 a.C., si stabilì che almeno uno dei censori dovesse essere plebeo.
I censori non potevano assolutamente svolgere individualmente le loro funzioni.
Alla censura - stante la delicatezza della funzione - potevano aspirare solo gli ex consoli.

IL DITTATORE (DICTATOR)
Era una magistratura maggiore, straordinaria e monocratica.

 ha un imperium ampio, simile a quello del re;


 si ricorre a lui solo in casi di necessità e pericolo per la res pubblica;
 è nominato da uno dei due consoli, su invito del senatus;
 non è sottoposto ad provocatio ad populum, né ad intercessio tribunizia;
 può scegliersi il suo magister equitum;

Limiti:
- poteva essere eletto per un massimo di sei mesi. Durante la dittatura, le altre cariche sono sospese.

Il dittatore era nominato in momenti di grave pericolo esterno o interno per le sorti della repubblica o anche
per far fronte a particolari straordinarie necessità, soprattutto di ordine amministrativo o sacrale.
Il dittatore si poneva come emanazione dell’imperio consolare, infatti la sua nomina avveniva senza
partecipazione del popolo (comizi), ma per solo atto d’uno dei due consoli, seppure sulla base di un apposito
decreto senatorio che stabiliva, oltre che la nomina, l’identità della persona.
Tale carica, in origine, fu esclusivo monopolio dei patrizi: soltanto nel 356 a.C. venne consentito l’accesso ai
plebei.
2
La nota censoria consisteva in una sanzione inflitta dai censori.
Tale nota poteva consistere nella destituzione dei membri del senato, nella esclusione dalla classe dei cavalieri delle persone
indegne, nel trasferimento da una tribù ad un’altra dei cittadini di dubbia reputazione, nell’esclusione dall’ordinamento centuriato.
La nota censoria, macchiava di disistima sociale (ignominia) chi ne fosse colpito.
La censura era l’attribuzione indivisa dei poteri dei censori: essi dovevano agire sempre insieme e, qualora uno dei due mancasse
per un qualsiasi motivo, l’altro doveva dimettersi ovvero attendere l’elezione di un altro collega.
Nel periodo di vacanza di tale carica, molte delle loro competenze minori venivano affidate ai consoli ed ai pretori.
17
MAGISTRATURE ORDINARIE MINORI GLI EDILI - EDILES
 Erano 2 collaboratori dei tribuni (aedilis significava “signore dei templi”) cui era affidata la custodia
degli archivi e la gestione del tesoro, presso il tempio di Cerere sull’Aventino.
 Col tempo, l’edilità assunse il carattere di magistratura «mista» patrizio- plebea, estendendo le sue
competenze amministrative a tutta la città (cura urbis) con l’aggiunta ai primi due membri di altri due
magistrati (edili curuli erano i patrizi cui spettava una particolare sedia, in passato prerogativa del rex, ed
edili plebei).
Le attribuzioni di cui le fonti parlano, con riferimento agli edili sono:
 cura urbis implicava poteri di vigilanza e di polizia da parte di ognuno degli edili sulla viabilità, i luoghi
pubblici, le terme;

 cura annonae comportava la sovrintendenza sui mercati, la conservazione e la distribuzione delle scorte di
cereali:
 cura ludórum consisteva inizialmente nella sorveglianza di polizia sui pubblici spettacoli, poi si trasformò
nel compito di organizzare le solenni feste pubbliche, ad eccezione dei ludi Apollinari di competenza del
pretore urbano.
 L’organizzazione dei giuochi divenne, poi, nel corso della repubblica uno strumento di propaganda
politica.
 Per l’espletamento dei loro compiti, agli edili erano riconosciuti limitati poteri di coercizione e di
repressione. Godevano, inoltre, di un «ius edicendi» 3 connesso con poteri di giurisdizione civile,
soprattutto in ordine a controversie nascenti dalle operazioni commerciali svolte nei pubblici mercati.

I Questori - Quæstores
I questori erano magistrati minori ed in quanto tali non titolari di imperium. Costoro erano titolari soprattutto
di potestà finanziaria, amministravano l’erario del popolo romano, di cui custodivano le chiavi, il tesoro, i
documenti e le insegne militari; provvedevano alla erogazione dei fondi necessari alle spese decise dai
consoli secondo le direttive del senato; vigilavano, inoltre, sull’adempimento degli oneri attestati
dall’inquadramento del censo e provvedevano alla persecuzione dei debitori dello stato, mediante la sectio
bonorum.
Dopo l’istituzione delle province, ne amministrarono i proventi. Avevano, altresì, competenze nel campo
della repressione criminale.
Nel 421 a.C., ai questori cd. urbani furono affiancati i questori cd. militari che seguivano i supremi
magistrati per provvedere all’amministrazione finanziaria delle legioni.
 I Questori erano titolari soprattutto di potestà finanziaria.
 Eletti dai comizi tributi amministravano l’erario, provvedevano alla erogazione dei fondi necessari alle
spese decise dai consoli secondo le direttive del senato, vigilavano sull’andamento degli oneri tributari.
 Dopo l’istituzione delle province ne amministravano i proventi.
 Avevano, infine, competenze anche nel campo della repressione criminale, occupandosi, sino alla
introduzione delle Quæestiones Perpetuæ, della istruttoria e dell’accusa dei colpevoli di crimini capitali.
 Ai Quaestores Urbani, furono aggiunti i Quaestores Militari, che provvedevano all’amministrazione
finanziaria delle legioni.
 Le competenze assegnate per sorteggio a ciascun questore, erano fissate, di anno in anno, dal Senato a
seconda delle esigenze amministrative di Roma, dell’Italia e delle Province.
 Repressione delle condotte criminali e gestione finanziaria. Non a caso oggi in polizia vi è il grado di
questore

I Vigintiviri
Erano composti da:

3
Per espletare le loro funzioni tutti gli edili avevano limitati poteri di coercizione e di repressione (coercitio, multae dictio). Gli
edili curuli avevano in più uno ius edicendi connesso con poteri di giurisdizione civile, soprattutto in ordine alle
controversie nascenti dalle operazioni commerciali svolte nei pubblici mercati; sia pure in questo limitato settore, con i loro
editti gli edili curuli contribuirono notevolmente alla evoluzione del diritto privato repubblicano (ad es., l’azione estimatoria).
18
• Tresviri capitales: si trattava di uno dei più antichi collegi ausiliari con funzione di combattere la
delinquenza comune. Provvedevano alla direzione del carcere ed erano, altresì, responsabili della custodia
degli accusati in stato di «detenzione preventiva».
• Quattuorviri praefecti Capuam Cumas: erano delegati dal pretore urbano ad amministrare la giustizia in
alcune città campane in cui si era ritenuto, per particolari motivi, di istituire organi giurisdizionali operanti
sotto il diretto controllo di Roma. Da semplici delegati del pretore, i Quattuorviri si trasformarono, verso la
fine del III sec., in magistrati minori eletti dai comizi tributi. Furono aboliti da Augusto.
Decemviri litibus iudicandis: con competenza in materia di libertà decidendo sullo stato delle persone. Si
trasformarono in magistrati stabili, eletti dai comizi tributi, durante gli ultimi decenni del III secolo.

I TRIBUNI DELLA PLEBE


I Tribuni della plebe, in qualità di rappresentanti della classe plebea, avevano la funzione di difensori e
garanti degli interessi e dei poteri acquisiti dalla plebe: erano eletti per un anno dai concilia tributi (471
a.C.).
Essi ricoprivano inoltre, un importante ruolo di controllo politico e di opposizione dell’attività di direzione
della cosa pubblica affidata al senato e, soprattutto, ai magistrati curuli. (ossia gli edili patrizi)
Il tribunato, magistratura rivoluzionaria derivante dall’ascesa politica della plebe, era al di fuori della
gerarchia tradizionale ed immune da qualsiasi coercizione compresa quella dei supremi magistrati; ciò al
fine di consentire ai tribuni l’esercizio libero e indipendente dei poteri loro riconosciuti.
L’acme del potere, i tribuni lo raggiunsero attraverso l’attribuzione ad essi dell’intercessio tribunicia 4: potere
di veto agli atti di imperio di qualsiasi magistrato (non per i censori nell’attività di censo), paralizzandone
l’azione e rendendo impossibile l’esecuzione delle decisioni ritenute pregiudizievoli per gli interessi della
plebe.
Tale intercessio si concretava in un vero e proprio ius cioè in un potere legalizzato di «prohibire», di cui
disponeva ciascun tribuno riguardante la leva militare l’esenzione dei tributi, le proposte di legge ai comitia.
I tribuni, a difesa delle loro prerogative intervenivano anche nell’amministrazione della giustizia criminale e
civile, potendo rendere inefficaci gli atti dei magistrati giusdicenti contrari agli interessi della plebe.
In aggiunta ai loro poteri (intercessio) ai tribuni fu inoltre riconosciuta una potestas coercendi (in virtù della
quale comminavano multe, ordinavano il sequestro dei beni) limitatamente alla loro funzione.
Verso la fine del III sec. la tribunicia potestas si arricchì di un nuovo potere: il ius senatus habendi, il diritto,
cioè, dei tribuni sia di partecipare alle sedute del senato che addirittura di convocarlo, nonché di opporsi alle
sue decisioni.
Era loro riconosciuto, infine, un vero e proprio diritto di agere cum plebe, di stabilire con la plebe riunita in
assemblea (concilia) un rapporto dialettico permanente.
Da ciò scaturiva che ogni tribuno aveva il potere di convocare i «concilia plebis» anche per l’esame di
deliberazioni politiche o normative (plebiscita).
Nel 449 a.C. i Tribuni erano 10.
Successivamente fu il princeps (da Augusto 23 a.C.) ad impadronirsi delle loro funzioni con conseguente
esautoramento dei loro poteri.
Ai tribuni fu riconosciuta la sacrosantitas una particolare immunità personale che li avrebbe dovuti mettere
al riparo da violenza ed attentati, ma che non evitò l’uccisione di Tiberio e Caio Gracco (134 a.C.) che
introducendo le note leggi agrarie minacciarono da vicino gli interessi dei grandi proprietari latifondisti.
Nati come magistratura rivoluzionaria con il raggiungimento del pareggiamento politico delle classi anche i
tribuni, pur restando in carica, furono gradatamente risucchiati dal potere politico dominante facendo venir
meno lo scopo per cui erano nati e, grazie ad una lex Atinia (159 a.C.) fu ad essi attribuita la possibilità di
accedere al rango di senatore

4
Lo ius intercessionis (o intercessio tribunicia) attribuiva ai tribuni il potere di opporre un veto agli atti di qualsiasi magistrato
paralizzandone l’azione e rendendo, inoltre, impossibile l’esecuzione delle decisioni adottate laddove le ritenevano pregiudizievoli
per gli interessi da loro tutelati.
Il potere di intercessione non fu alle origini un potere giuridico precisamente delineato. Esso era esercitabile tutte le volte in cui
ricorresse l’auxilium plebis: il tribuno aveva, cioè, la possibilità di intervenire ogni qualvolta riteneva che gli atti magistratuali
fossero pregiudizievoli per gli interessi della plebe.
Intervento tipico dei tribuni fu il blocco del dilectus (leva), che costituì strumento utilissimo per la lotta contro le diseguaglianze
sociali e politiche. La intercessio tribunicia veniva attribuita individualmente ad ogni tribuno. Gli unici limiti allo ius
intercessionis furono previsti per i censori nell’attività di censo e per il dittatore; da una certa data in poi, però, fu prevista anche
nei confronti del dittatore ma limitatamente agli atti di governo civile.
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I tribuni della plebe tutelavano gli interessi della plebe; per l’esercizio di tale compito, furono loro attribuiti i
seguenti poteri:
- la potestas coercendi, in virtù della quale infliggevano multe, ordinavano il sequestro dei beni,
conducevano coattivamente gli imputati di reati politici;
- lo ius intercessionis, ossia il potere di opporre un veto agli atti di imperio di qualsiasi magistrato;
- lo ius agendi cum plebe, il potere, cioè, di convocare e presiedere i concilia plebis.

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INGRESSO DELLA PLEBE AL SENATO
Il plebiscito Ovinio e la Lex Ogulnia
Entrambi furono atti finali del pareggiamento politico delle classi furono le due leggi citate che permisero
l’ingresso di rappresentanti della plebe nelle due istituzioni (senato e collegi sacerdotali) composte
tradizionalmente da membri dell’aristocrazia patrizia.
Il plebiscito Ovinio (318-312 a.C.)
Nel corso del IV sec. a.C., il senato divenne un organo a composizione mista patrizio-plebea e il numero dei
senatori plebei si accrebbe gradualmente a partire dal 312 a.C. allorché iniziarono a prodursi gli effetti del
plebiscito Ovinio.
Con tale plebiscito, si attribuì ai censori il potere di procedere alla lectio senatus (scelta dei senatori)
effettuando la cernita tra «gli uomini migliori di ogni ordine», compresi, dunque, quelli di origine plebea.
In quest’ultima ottica furono chiamati a rivestire il ruolo di senatore anche gli appartenenti alla casta plebea.

Lex Ogulnia INGRESSO DELLA PLEBE AI COLLEGI SACERDOTALI

Nel 300 a.C., due tribuni della plebe, i fratelli Ogulni, proposero ed ottennero di ampliare la composizione di
alcuni collegi sacerdotali, facendovi entrare a farne parte i plebei. La resistenza dei patrizi fu più che mai
dura ed inflessibile. Ciò d’altra parte non deve stupire in quanto l’approvazione di tale legge avrebbe
provocato una "devastante" rottura della secolare tradizione di monopolio patrizio delle più delicate funzioni
religiose. Nonostante la dura resistenza patrizia, non si riuscì ad impedire l’approvazione di tale lex Ogulnia,
che rappresentò un fondamentale traguardo per i plebei. Ne conseguì che il numero del collegio pontificale
fu aumentato da 4 ad 8 e quello del collegio degli àuguri da 4 a 9.
Ciò spiega perché questo provvedimento fu fortemente avversato dai patrizi. Tale mutamento consentì alla
produzione giurisprudenziale dei pontificies, caduta la pregiudiziale classista, di dare ai loro responsa
portata generale, dando, così al dettato giurisprudenziale un rango assimilabile alla lex (generalis).

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CAPITOLO 6 - Le Istituzioni Repubblicane: Senato e Assemblee popolari

IL SENATO: funzioni, poteri e atti


Il Senato caratteri generali
Il Senato rappresentò un organo centrale dell’assetto costituzionale romano almeno fino al I secolo a.C. in
cui la supremazia senatoria costituì il cardine e il garante della Respublica fondata sulla reciproca
interazione ed equilibrio tra magistrati (cfr. sopra), assemblee popolari e senato stesso.
Si trattava di una istituzione antichissima, che in età monarchica raccoglieva i patres, capi dei gruppi
gentilizi, che contava circa di 300 membri, scelti dal Rex.
Il senato con l’avvento del regime repubblicano diventa progressivamente un’assemblea di politici, non solo
patrizi, ma anche plebei (Plebiscito Ovinio, vedi ante), ed era composto da personalità rappresentative, e
autorevoli e dal comportamento pubblico e privato «esemplare» ed irreprensibile (dignitas) che come organo
permanente garantiva continuità e stabilità in grado di orientare l’azione della magistratura e influire sulla
volontà popolare.
Al senato era affidato il compito di ricevere le ambascerie dei popoli stranieri e, più generalmente di gestire
la politica estera, dalle dichiarazioni di guerra ai trattati, dalla leva militare alle spese e alle forniture
dell’esercito, dall’assegnazione delle province ai «promagistrati», all’organizzazione delle province stesse
poteri che si andavano progressivamente ampliando con la parallela espansione dell’Urbe.
Il senato stabiliva, altresì, i culti pubblici e l’ampiezza dei poteri dei consoli, poteri che necessitavano,
comunque, dell’appoggio del senato.
Lo stesso popolo doveva sottostare ai voleri del Senato per la difesa degli interessi pubblici e privati. Ad
esempio per gli appalti, le scadenze, le eventuali proroghe e gli oneri erano gestiti esclusivamente dai
senatori.

Senato: poteri e atti


Gli strumenti con i quali il Senato gestiva il potere erano:
 l’interregnum,
 l’auctoritas patrum,
 il senatusconsultum

Senato: l’interregnum
L’Interregnum in età repubblicana rappresentava il mezzo necessario per evitare che la morte (o, comunque,
in genere l’assenza continuata) di entrambi i consoli spezzasse la continuità delle Respublica.
I senatori patrizi lo esercitavano per turni di 5 giorni sino a quando, a seguito di nuove elezioni, si
ripristinava la normalità costituzionale e la repubblica tornava ad avere i suoi regolari magistrati.
Si trattava, senza dubbio, di uno strumento di governo vetusto, ma idoneo e risolvere l’emergenza
istituzionale causata dalla vacanza della suprema magistratura

Senato: l’auctoritas patrum


L’Auctoritas si concretava nel potere di conferma delle deliberazioni assembleari. Subito dopo la votazione,
il magistrato che aveva presentato la «rogatio» di una lex o la nomina di un candidato, doveva «referre ad
senatum» (rimettersi al giudizio del senato), affinché l’assemblea dei patres confermasse, con la «auctoritas»
le delibere adottate dall’assemblea popolare, di per sé non abilitate a prendere decisioni vincolanti per tutto
il popolo.
Si tratta di fatto di un potere di controllo e ratifica.
Con la lex Publilia Philonis del 339 a.C. viene attribuito carattere preventivo alla «auctoritas».

Senato: il senatusconsultum
«Consultum» sta per “deliberazione”, “determinazione” del senato rispetto a qualsiasi questione esposta dal
magistrato (console, pretore e, dal 287 a.C., anche tribuno della plebe) che convoca la riunione indicandone
il tempo, il luogo, l’ordine del giorno.
Dopo la relazione il magistrato apre il procedimento di deliberazione.
Nel processo di formazione del «senatusconsultum» l’aspetto più rilevante è la possibilità di «intercessio»
sia da parte di uno dei consoli sia da parte dei tribuni della plebe, con la conseguenza di togliere validità alla

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deliberazione, che in tal caso riveste il rango e l’efficacia di «senatus auctoritas», ma non di
«senatusconsultum».
Quanto, infine, al contenuto normativo di tali provvedimenti, per tutto il periodo repubblicano, ad essi, pur
essendo riconosciuta una efficacia «normativa,» non fu mai riconosciuta l’idoneità a produrre «ius civile».
Gaio (giurista II sec. d.C.) diceva che il senatusconsultum è ciò che il Senato comanda e dispone e perciò ha
forza di legge.
Cfr. odierni decreti legge emanati dal Governo in caso di necessità e urgenza
I senatusconsulta rappresentarono lo strumento attraverso cui si estrinsecava la funzione consultiva del
senato afferente alla vita politica dello stato.
Quanto all’annoso problema del contenuto normativo di tali senatusconsulta, va detto che per tutto il periodo
repubblicano gli stessi non furono mai considerati come l’esternazione di una funzione legislativa,
evidentemente non riconosciuta al senato, pur essendo riconosciuta ad essi una efficacia normativa.
Invero, il senato durante l’età repubblicana pur non legittimato ad una vera e propria statuizione, aveva due
diversi modi di intervenire: da un lato, sollecitava i magistrati cum imperio a presentare alle assemblee
popolari una rogatio, di cui, a seconda dei casi, venivano fissate le linee direttrici; dall’altro il senato poteva
sollecitare i magistrati giusdicenti (i pretori) ad adeguarsi nell’esercizio della iurisdictio ai principi fissati nel
senatusconsultum.
In questo modo, i magistrati diventavano spesso meri esecutori della volontà senatoria.

LE ASSEMBLEE POPOLARI
Le assemblee popolari
Elemento centrale della Repubblica furono anche le assemblee popolari a testimonianza dell’importanza
attribuita al popolo che si sintetizza nella sigla S.P.Q.R. «Senatus populusque romanus».
Le assemblee assunsero diverse forme aggregative:
 comitia, se comprensive di tutti icives;
 concilia, secomprensive dei soli appartenenti alla classe plebea.

In particolare, le assemblee del regime repubblicano furono i comitia curiata, comitia centuriata, comitia
tributa e concilia plebis
Si ricordi, infine, che i concilia erano assemblee parziali della sola plebe, mentre i comitia erano assemblee
generali di tutto il popolo

Le assemblee popolari: i Comitia Curiata


Sin dai primordi della Repubblica le funzioni degli antichi comizi curiati, derivanti dalla remota assemblea
delle curie, furono limitate.
I loro poteri riguardavano solo il compimento di pochi atti solenni, tutti di tipo arcaico e dalle forti
implicazioni sacrali.
Nei comizi curiati si procedeva in via esclusiva alla inauguratio del Rex Sacrorum e dei Flamini Maggiori.
Inoltre, in essi si promulgava l’arcaica ed oscura lex curiata de imperio con cui si confermava il potere
(l’imperium) dei magistrati maggiori (non, però, dei censori), successivamente eletti dai comizi centuriati.
Tale lex curiata divenne un atto meramente simbolico e i comizi curiati furono in seguito sostituiti da un
gruppo di trenta littori (uno per ciascuna curia).
I comitia centuriata furono i più importanti tra i comizi repubblicani e derivavano dalla trasformazione in
forme politiche dell’antica assemblea del popolo riunito nell’esercito centuriato, ove l’assegnazione alle
diverse centurie era operata in ragione dell’ammontare dei rispettivi patrimoni (e non in rilevanza, già nel III
secolo, alla proprietà terriera).
Ciò importava una considerevole preminenza dei ceti più ricchi nelle decisioni assembleari.
Le origini militari erano evidenziate dal fatto che essa continuava anche in periodo repubblicano ad essere
convocata dai «magistrati cum imperio» e si riuniva nel campus Martius secondo rigorose formalità scandite
da regole militari
Tra i compiti dei comizi, oltre alle «leges de bello indicendo» (solenni deliberazioni con cui il popolo
approvava le dichiarazioni di guerra), il comizio centuriato procedeva:
 alla elezione dei magistrati maggiori;
 alla conferma dei censori;

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 al «iudicium» nelle cause che prevedevano la condanna a morte.
L’assemblea centuriata a causa delle complicazioni procedurali connesse al suo funzionamento fu sostituita
nella pratica dai comitia tributa

Le assemblee popolari: il voto nei Comitia


Il voto era uguale e democratico nei comitia?
Il voto non era “uguale” in base alle “teste” dei cittadini, perché le classi abbienti disponevano di un
maggior numero di centurie (a parità di appartenenti), e votavano per prime influenzando il voto delle classi
successive.
Esisteva, inoltre, una regola per la quale, raggiunta la maggioranza con il voto delle prime centurie, le
ultime, composta da cittadini con redditi più bassi, non erano convocate.

Le assemblee popolari: i Comitia Tributa


I comitia tributa costituivano l’assemblea deliberativa dell’intero populus (più equilibrata rispetto alla
precedente), ordinato per tribù su convocazione e sotto la presidenza dei magistrati maggiori (maiores).
L’adunanza si teneva nel Foro o sul Campidoglio; il voto era espresso viritim (votazione individuale) nel
seno delle tribù, tributim (votazione per tribù) ai fini della
deliberazione finale.
Il voto veniva espresso contemporaneamente da tutte le tribù ed aveva un peso più equanime.
Ordinata per tribù, tale assemblea assicurava, nella dinamica istituzionale, un riequilibrio sia pur parziale
della netta preponderanza garantita nei comizi centuriati alle classi di ricchi, esponenti della nobilitas
patrizio-plebea.
Nei comitia tributa, al contrario dei comizi centuriati, la maggioranza era detenuta dal ceto dei medi e nei
comizi centuriati alle classi di ricchi, esponenti della nobilitas patrizio-plebea piccoli proprietari terrieri,
distribuiti nelle 31 tribù rustiche, ceto divenuto politicamente preponderante a seguito delle guerre
espansionistiche intraprese da Roma.
Le attribuzioni dei comitia tributa furono:
 La creatio dei magistrati minori e dei tribuni militum;
 la votazione delle leges tributae;
 Il iudicium in alcune cause, in quanto organo di provocatio contro multe imposte dagli edili curuli e dal
pontefice massimo;
 alcune attribuzioni religiose.
Le assemblee popolari: i Concilia Plebis
I concilia plebis ebbero una preminente importanza nell’epoca repubblicana, soprattutto per la votazione
delle riforme del rigido ius civile
Con la lex Hortensia (287 a.C.) la definitiva equiparazione tra plebei e populus, molta dell’attività legislativa
fu affidata ai concilia plebis, sia per la maggiore speditezza delle riunioni e per la mancanza di implicazioni
religiose, sia per i numerosi impegni che spesso portavano i consoli lontani dall’urbe, data anche la
contemporanea disponibilità manifestata dai tribuni, ai quali, viceversa, era vietato allontanarsi dalla città
durante il periodo di carica.
I concilia plebis venivano convocati dai magistrati plebei (tribuni e aediles plebis) senza bisogno di prendere
preventivamente gli auspicia.
La riunione poteva avvenire in qualunque luogo purché non fuori del pomerium; solitamente aveva luogo
nel forum.
Le attribuzioni dei Concilia Plebis erano le seguenti:
 l’elezione dei magistrati plebei; la votazione di plebiscita;
 il iudicium per i crimina passibili di multa.
 I plebisciti avevano prevalenza ad oggetto materie privatistiche e le procedure per emanarlo erano più
agili.
Equiparazione dei plebisciti alle leggi
Per quanto concerne l’equiparazione dei plebisciti alle leggi le fonti ricordano tre norme: lex Valeria Horatia
(449 a.C.) lex Publilia Philonis (339 a.C.) lex Hortensia (287 a.C.).

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CAPITOLO 7 - Le leggi delle Assemblee popolari

Il procedimento delle leges


Leges, in origine, erano definite tutte le deliberazioni comiziali, quindi anche quelle relative alla creatio dei
magistrati e quelle interferenti negli iudicia criminali.
Solo più tardi il termine di «leges» designava unicamente le deliberazioni a carattere normativo.
Il procedimento legislativo si apriva con la proposta (rogatio) del magistrato, che il popolo poteva solo
approvare o respingere in blocco.
L’attività del magistrato prendeva il nome di «legem ferre» e la legge votata dal comizio era detta lata o
rogata, in contrapposizione alla lex data, che era quella emanata dal magistrato — per delegazione
legislativa — nei confronti dei popoli soggetti
Il ius agendi cum populo, cioè il diritto di convocare le assemblee, spettava ai magistrati maggiori (consoli,
pretori, dittatore);
Il ius agendi cum plebe, inteso come il diritto di convocare i concilia plebis, ai tribuni.
Sia i progetti di legge approvati preventivamente dal popolo che i nomi dei candidati per le elezioni
dovevano essere pubblicati (promulgatio) ed esposti sulla tabulae dealbatae per tre giorni (trinundinum)
prima della votazione.
Durante il trinundinum si potevano organizzare riunioni per illustrare i vantaggi delle leggi o gli svantaggi
(suasiones e dissuasiones).
La votazione non poteva avvenire né nei giorni festivi, né in quelli nefasti né in quelli di mercato, allo scopo
di evitare che nelle assemblee non fossero presenti tutti gli aventi diritto.
I comizi e i concili tributi si svolgevano nel Foro, quelli centuriati nel Campo Marzio

Alla mezzanotte del giorno precedente quello scelto per la votazione, il magistrato (se era un magistrato
curule) prendeva gli auspici e all’alba chiamava a raccolta il popolo.
Il magistrato, invocati gli dei e fatto uno speciale sacrificio, leggeva la lista dei candidati o la proposta di
legge. Dopodiché, invitava i membri dell’assemblea a votare.
Nel comizio centuriato si votava per ordine di classe e si interrompeva la votazione non appena raggiunta la
maggioranza; nel comizio e nel concilio tributo, invece, le tribù votavano contemporaneamente.
Nell’ambito di ogni centuria o tribù, il voto era determinato contando quello dei cittadini che ne facevano
parte: gli iscritti alla centuria o tribù entrati in recinti (saepta), sfilavano attraversando un ponte, davanti allo
scrutatore che segnava i voti favorevoli e contrari su di una tavoletta.
Gli scrutatori facevano poi lo spoglio (diribitio); effettuato il conteggio, il magistrato chiedeva i risultati di
questo al diribitore.
Nel comizio centuriato le operazioni di spoglio erano compiute seguendo l’ordine delle classi e si
chiudevano quando fosse stata raggiunta la maggioranza.
Una volta approvata, la delibera era resa nota attraverso pubblicazione.
La pubblicazione iniziava con la praescriptio, dove era indicato:
 il nome del magistrato proponente;
 il comizio votante;
 il giorno della votazione;
 l’unità comiziale che aveva votato per prima;
 il nome del cittadino che aveva votato per primo;
 faceva seguito il testo della legge, che, data l’assoluta mancanza di discussione, era naturalmente identico
a quello della promulgatio, e perciò continuava ad essere detto «rogatio».

L’ultima parte era costituita dalla «sanctio», che secondo molti studiosi sarebbe stata quella parte della legge
destinata a stabilire le conseguenze di un’eventuale inottemperanza.

L’efficacia delle legge nel diritto romano


Il diritto romano non concepì l’abrogazione tacita delle leggi per il sopravvenire di nuove leggi: le leggi
venivano considerate sempre vigenti ed in caso di previsioni contrastanti (rispetto a quelle di una legge
precedente) contenute da una legge successiva, si riteneva che quest’ultima - pur non abrogando la
precedente (che formalmente rimaneva in vita) - autorizzasse la generalità dei consociati all’inosservanza

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della legge più risalente.
Né i Pontefici, né la prima giurisprudenza repubblicana hanno elaborato una vera e propria classificazione
delle fonti del diritto.
Pertanto, anche per il diritto di quest’epoca mancano i riferimenti circa il rapporto in cui le fonti si trovano
fra di loro.
Per certo può affermarsi che la «lex rogata» costituiva l’unico mezzo per produrre norme di «ius civile».
Questa situazione si protrasse sino a quando tra la fine del I e gli inizi del II secolo d.C. la stessa efficacia
venne riconosciuta ai senatusconsulta ed alle costituzioni imperiali.
Quanto all’oggetto delle leggi comiziali, fu il più vario.
Una prerogativa fondamentale del civis romani era la dignitas, cioè la rispettabilità che essi guadagnavano
con la loro condotta di soldati, pater familias etc. (cioé riferita alla vita pubblica e privata) che doveva
essere, agli occhi dei concittadini, esemplare.
Giudici inappellabili di tali comportamenti erano appunto i «censori»il cui giudizio negativo era preclusivo
del cursus honorum (cioè nella progressione nelle cariche pubbliche) dei cittadini.
Di tale «dignitas», norma di etica politica, è rimasto il rispetto odierno solo negli ordinamenti giuridici più
avanzati (es.: Gran Bretagna, Germania, etc.) e comporta le dimissioni immediate da parte di parlamentari e
membri del governo su cui cadono «gravi sospetti» in merito al loro comportamento di cittadini.

L’ORGANIZZAZIONE DELL’ITALIA E DELLE TERRE CONQUISTATE NEL PERIODO


REPUBBLICANO - Cenni
Tra il III ed il II sec. a.C. la sfera di influenza romana comprendeva:
 il territorio Romano;
 le colonie romane o latine;
 i municipi;
 le città federate (alleate).

Le conquiste di Roma
Dopo le guerre sannitiche, il dominio romano si estese sull’intera penisola; nel cinquantennio successivo alla
vittoria ottenuta sugli Etruschi e sui Galli sul lago di Bracciano nel 283 a.C., ebbe inizio una nuova fase di
espansione verso il mediterraneo, che doveva condurre all’inevitabile conflitto con Cartagine, conflitto
conclusosi con la distruzione di Cartagine avvenuta nel 146 a.C.
Con la vittoria della III guerra punica Roma finalmente potè porre il suggello del suo predominio su tutto il
bacino del mediterraneo, avendo nel frattempo assoggettato anche alcune popolazioni orientali.
Lo sviluppo delle istituzioni repubblicane coincise con l’espansione della dominazione romana. Roma,
infatti, era riuscita gradatamente ad estendere i suoi confini oltre il Lazio antico, assoggettando quasi tutto il
territorio italico.
La Repubblica venne così a trovarsi in stretto contatto con popolazioni diverse per mentalità e condizioni
economiche, sociali e culturali e dovette fare i conti con problemi organizzativi di più ampia portata rispetto
a quelli fino ad allora affrontati.
Il nuovo sistema egemonico si fondava su una rete di alleanze e di amicizie internazionali (pacta, foedera,
etc.);
Sulla imposizione dell’imperium militiae dei magistrati dell’Urbe sui territori conquistati;
Sulla istituzione di una pluralità di comunità in posizione di parziale subordinazione nei confronti della
Respublica (provinciae).
Il metodo in prevalenza adottato fu proprio quello della istituzione delle provinciae.

L’amministrazione dei territori conquistati


Problema di capitale importanza fu, quindi, l’organizzazione dei territori e dei popoli conquistati: Roma nel
perseguire questo obiettivo non seguì nessuno schema rigido ma ricorse, a seconda delle situazioni, agli
espedienti di governo che apparivano di volta in volta più opportuni per garantire la
stabilità e la continuità della sua egemonia; solo alla fine del IV sec. a.C. i popoli conquistati furono
assoggettati ad un sistema politico più omogeneo.
Ciò nonostante, solo raramente tali comunità furono private delle loro terre.

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Le alleanze - fœdera
L’alleanza, che trovò la sua espressione nei confronti delle primitive comunità laziali, si attuava mediante un
«trattato di pace» di tipo religioso, il «foedus».
In origine, secondo le fonti, la situazione delle città del Lazio rispetto a Roma era di relativa uguaglianza.
Ricordiamo a tale proposito il «foedus Cassianum» si trattava di un patto dovuto a Spurio Cassio, magistrato
supremo intorno al 500 a.C.: si trattava di un patto stipulato tra Roma e una federazione di città latine, il
quale importava piena eguaglianza di diritti e obblighi fra cives ed alleati. Si trattava di un «foedus
aequum».

Nell’ambito dei patti internazionali stipulati tra Roma e le altre nazioni (foedera) si distinguevano:
 foedera aequa, in cui le parti erano poste sullo stesso piano ed assumevano obblighi reciproci anche se gli
alleati erano tenuti a riconoscere una generica maestà di Roma. Così dopo la vittoria sui latini al Lago
Regillo (493 a.C.) con il Foedus Cassianum vennero riconosciute ai Latini numerose prerogative con il
ius commercii, il ius connubi, la testamento factio passiva e lo ius suffragi per i Latini presenti nell’Urbe
che avevano il diritto di votare una tribù estratta a sorte;
 foedera iniqua, se Roma, facendosi forte di una situazione di preminenza (politica o militare), dettava
unilateralmente le condizioni al popolo vinto.

I Municipia
I municipia (da munus capere, lett. «prendere doni», in quanto tali comunità dovevano a Roma servizi e
prestazioni), erano dotati di una certa autonomia interna, ma amministrati - accanto ai loro organi originari -
da funzionari nominati dal pretore romano (praefecti iure dicundo).
Secondo la tradizione si costituirono due tipi di «municipia»:
a. le comunità annesse, ai cui abitanti era stata concessa la civitas sine suffragio: si trattava di cittadini senza
diritti politici, e quindi, di sudditi veri e propri (dedictio inconditionata);
b. le città assorbite dalla Repubblica, i cui abitanti venivano considerati come cittadini romani di pieno
titolo (optimo iure).

Le Coloniæ
Nelle regioni conquistate, per vigilare su alleati sospetti o su confini non sicuri, si inviavano cittadini romani
a fondare una città nuova o a popolare quelle preesistenti: nascevano, così, nuovi soggetti rispetto alla
Repubblica, detti colonie che potevano essere costituite:
a. da soli cittadini romani (coloniae civium romanorum), e allora erano parificate ai municipia;
b. da cittadini romani e Latini insieme (coloniae latinae), per cui i Romani che vi prendevano parte
perdevano la cittadinanza, e la colonia era trattata come città federata

Caratteristiche delle colonie furono:


 le limitate dimensioni;
 l’autonomia amministrativa: infatti pur essendo parte integrante della Repubblica, avevano propri
magistrati (pretores o duoviri) e proprie assemblee.
 Le più antiche colonie romane risalivano al IV secolo ed erano: Ostia, Anzio e Terracina.

La fondazione (deductio) di una colonia era stabilita con un plebiscito che fissava:
 la località del nuovo insediamento; il numero dei coloni; l’estensione delle terre da distribuire ad ognuno;
l’autorità che avrebbe presieduto alle operazioni necessarie.
 Le parti di terreno coltivabile, venivano divise in «lotti» e assegnate per sorteggio (sortes) in proprietà ai
coloni. AlNtermine delle assegnazioni, tutti i terreni residui (fundi excepti) venivano distribuiti, dai
magistrati, a persone di loro scelta (agri concessi). Le terre della colonia che restavano fuori delle linee
regolari (delimitatio) erano vendute o date in locazione secondo le regole dell’àger vectigalis. Le terre
non delimitate né assegnate rimanevano nella condizione di àger occupatorius.
 Le colonie - contrariamente ai municipi - costituirono dei veri e propri enti parastatali rispetto alla
Repubblica.
 Lo scopo di tali colonie fu essenzialmente quello di creare nelle regioni assimilate un controllo su confini
non sicuri o vigilare su alleati sospetti. Le colonie potevano essere costituite da soli cittadini romani (ed

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in questo caso erano parificate ai municipi) ovvero da cittadini romani e latini insieme, per cui i romani
che vi prendevano parte, perdevano la cittadinanza, e la colonia era trattata come città federata.
 Caratteristiche delle colonie furono le piccole dimensioni e l’autonomia amministrativa: esse pur essendo
parte dello stato romano, avevano propri magistrati, un proprio senato e proprie assemblee.
La colonia veniva fondata attraverso un plebiscito con il quale si fissava:
 la località del nuovo insediamento;
 il numero dei coloni;
 l’estensione delle terre da distribuire ad ognuno;
 l’autorità che avrebbe presieduto alle operazioni necessarie.

L’espansione fuori dall’Italia


La politica di conquista intrapresa da Roma con le guerre puniche (241-146 a.C.) pose il problema del
«regime di governo» da attuare nei territori conquistati fuori d’Italia.
Roma, che si era sempre trovata di fronte a civitates (singole collettività), ora si trovava di fronte a veri e
propri regna (grandi nazioni fornite di una ben decisa individualità e in cui vi era la signoria del singolo su
una massa di sudditi).

Le Leges Provinciæ
 I territori e i popoli conquistati da Roma vennero gradualmente organizzati in province, cioè territori
sottoposti alla diretta autorità di un magistrato cum imperio.
 Alcune fra le comunità extraitaliche sottomesse furono lasciate formalmente indipendenti, pur venendo in
realtà legate a Roma attraverso la stipula di trattati di alleanza (foedera).
 In altre comunità Roma lasciò invece una autonomia interna ed una indipendenza formale piena,
rinunciando anche a vincolarle a sé attraverso la stipula di foedera.
L’ordinamento interno di ogni provincia era stabilito attraverso la lex provinciae, emanata dal magistrato su
delega dei comizi, conteneva:
 i principi generali in base ai quali la provincia sarebbe stata amministrata;
 la divisione in circoscrizioni amministrative o distretti minori (diocesi);
 l’indicazione del contributo fiscale dovuto a Roma;
 l’indicazione del sistema da seguire per l’amministrazione della giustizia criminale e privata;
 il riconoscimento delle autonomie e degli ambiti territoriali delle civitates liberae o federatae.
Nell’ambito dei principi generali stabiliti dalla lex provinciae, il governatore godeva di una notevole
autonomia e adottava i provvedimenti più opportuni per la tutela degli interessi della madre patria e per il
mantenimento dell’ordine pubblico.
Il governatore esercitava anche l’imperium militiæ sia nei confronti dei provinciali sia nei confronti dei
cittadini che si trovavano nella provincia

CAPITOLO 8 - Il Diritto nell’età repubblicana

Premessa
Le caratteristiche principali della Respublica:
 l’applicabilità dello ius ai soli cives, mentre per gli abitanti dei territori conquistati vennero create norme
particolari;
 la conseguente pluralità e varietà dei sistemi normativi coesistenti su tutto il territorio della Respublica.
Il carattere spiccatamente religioso che caratterizzava inizialmente l’ordinamento giuridico romano andò via
via attenuandosi, ma non scomparve mai del tutto.

Il ruolo della interpretatio


Nel periodo arcaico l’attività interpretativa dei pontificies aveva assunto notevole importanza, per il suo
enorme contenuto creativo; l’interpretatio pontificale, in particolare, consisteva nel:
 redigere leggi scritte;
 chiarire punti oscuri delle norme scritte; dar valore di norma ad usi non ancora definitivamente accettati;
 per quanto riguarda il campo strettamente religioso, interpretare il pensiero degli dei.

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Tale attività di crescita e adeguamento dell’ordinamento alle esigenze sociali fu in origine di esclusivo
monopolio pontificale e tale rimase anche dopo la pubblicazione delle XII Tavole.
Solo verso l’inizio del III sec. a.C. si aprì la via ad una giurisprudenza laica libera da influssi religiosi.
Si narra che Tiberio Coruncanio, pontefice massimo di origine plebea, decise per primo di rendere pubblico
il suo sapere violando la tradizionale segretezza dell’attività pontificale.
Alla figura del sacerdote-sapiente si andò sostituendo, così, il nobile- sapiente che, in quanto aristocratico,
forniva gratuitamente «responsa» a chi li chiedeva. (gli avvocati non erano pagati).

L’attività giurisprudenziale
Durante il II sec. a.C. si vennero definendo in modo più preciso le attività della giurisprudenza prima
pontificale, poi laica.
L’attività del giurista si concretava in tre momenti distinti:
 RESPONDÉRE =dare ai privati, ai magistrati e ai giudici, consigli e pareri circa la possibilità di intentare
azioni o comunque relativi a casi giuridici;
 CAVÉRE (letteralmente, “curare un interesse”) = consisteva nell’elaborazione di schemi di negozi
giuridici e contratti propri del ius civile;
 ÀGERE = assistenza degli interessati (magistrati e privati) sulla scelta della via processuale più
opportuna da seguire. Il termine sarà poi usato per indicare l’attività di difesa prestata ai privati davanti ai
giudici nella seconda fase del processo (apud iudicem).

Caratteri fondamentali di tali attività furono:


 la GRATUITÀ: il dar pareri era un modo per conquistare stima, seguito ed onori;
 la PUBBLICITÀ: in contrapposizione alla segretezza che aveva caratterizzato in precedenza l’attività dei
pontifices.

Caratteri dell’interpretatio
L’attività interpretativa aveva un carattere totalmente creativo perché si concretizzava in una continua
attività di correzione e integrazione del diritto vigente attraverso il lavoro dei giuristi si realizzavano
l’evoluzione e la trasformazione dei principali istituti del diritto romano, risultò molto importante
classificare e raccogliere le decisioni giurisprudenziali.

La divulgazione dei responsa assunse varie forme:


 opere monografiche: responsi riguardanti uno speciale settore del diritto;
 opere di commento alle leggi, in ispecie alle leggi delle XII Tavole; raccolte di cautiónes (cioè di
documentazioni di negozi) o actiones (schemi processuali).

Mentre i responsa dei pontefices erano osservati in virtù dell’auctoritas dei pontefici, quelli dei giureconsulti
laici avevano a fondamento la stima e la fiducia nei confronti dei singoli giuristi
I giuristi dell’età repubblicana e le “scuole”
Il processo di laicizzazione della giurisprudenza avvenne gradualmente, tanto che solo con Sesto Elio Peto
Cato, edile curule nel 200 a.C., console nel 198 e censore nel 194 (la cui figura è più volte ricordata con
stima da Cicerone nel De Republica) si ha la vera e propria nascita della letteratura giuridica e, con ogni
probabilità, anche l’inizio di un insegnamento teorico.
Sesto Elio Peto oltre a dare responsi fu autore del «Tripertita», opera in cui l’interpretatio della tradizione
giuridica occupa un posto centrale; prende il nome dalla sua struttura che, infatti, è articolata in tre parti: una
dedicata al commento delle XII Tavole, la successiva all’interpretazione, l’ultima ai formulari processuali.
Secondo Pomponio tre furono i giuristi a cui si deve la «fondazione» del ius civile: Manio Manilio (console
nel 149 a.C.), Giulio Bruto, Publio Mucio Scevola.
Manio Manilio (console nel 149 a.C.) cui si deve la formulazione di una categoria generale di negozi
giuridici comprensiva di tutti gli atti per aes et libram. Sua opera principale, secondo le fonti pervenuteci, fu
una raccolta di formulari negoziali e processuali, le Actiones.
Giunio Bruto (II sec. a.C.) appartenne alla «nobilitas», compose una raccolta di «responsa» in tre libri, in
forma di dialogo il cui schema probabilmente derivava da precedenti ellenistici.
Publio Mucio Scevola, console nel 133 a.C. e pontefice massimo nel 131 a.C., oltre ad essere stato anch’egli

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autore di un libro di «responsa», pare abbia, secondo l’affermazione di Pomponio, lasciato «decem libellos -
dieci libri - (iuris civili)».

Due furono i maggiori giuristi del secolo successivo: Quinto Mucio Scevola e Servio Sulpicio Rufo.
Entrambi provenienti da antiche famiglie nobiliari romane, si dedicarono alla carriera politica, giungendo a
ricoprire anche il consolato essi furono influenzati visibilmente dalla filosofia stoica (Scevola) o
dall’accademia scettica (Rufo e Gallo).
Quinto Mucio Scaevola, fu console nel 95 a.C.: la sua opera principale furono i libri XVIII iuris civili
ordinati secondo una nuova e più organica sistematica, per «genera», ossia per categorie di rapporti:
Scaevola, infine, mutandolo dal pensiero filosofico stoico, fu il primo a introdurre l’approccio tecnico-
giuridico al concetto di buona fede.
Suo più importante allievo fu Aquilio Gallo, cui si deve la creazione della cd. stipulatio Aquiliana.
Servio Sulpicio Rufo (console nel 51 a.C., morto nel 43 a.C.) coetaneo ed amico di Cicerone che ricevette a
Rodi, probabilmente, insieme con Cicerone, una solida preparazione nella retorica greca alla scuola di
Apollonio Molone, e in un primo tempo esercitò l’oratoria forense. A lui è attribuita un’opera di commento
e critica delle dottrine muciane, Reprehensa Scaevola capita.
A lui si deve, inoltre, l’interpretazione dei testi secondo il “senso comune” delle parole che racchiude il vero
significato delle stesse (nel momento in cui apriamo un codice oggi cerchiamo di capire il senso comune
delle parole, questo modo interpretativo lo dobbiamo a Servio Sulpicio Rufo)

Sia Quinto Mucio Scevola, sia Servio Sulpicio Rufo, esercitarono un influsso notevole sui giuristi successivi
tanto che sono noti per essere i caposcuola di due indirizzi dottrinari i cui seguaci furono detti «muciani» i
primi e «serviani» i secondi.
(SI GETTANO LE BASI DELL’INTERPRETAZIONE E DEL COMMENTO GIURIDICO)

LO IUS PUBLICUM
Mentre nell’ordinamento moderno la legge nasce (procedimento redigente) e si forma (procedimento di
approvazione) nell’ambito dell’assemblea legislativa (il Parlamento), e solo eccezionalmente dovrebbe
essere di creazione del governo (decreto-legge), nell’ordinamento romano la lex era redatta interamente dal
magistrato, e veniva successivamente approvata dalle assemblee popolari, comitia e concilia.
Mentre nell’ordinamento moderno la legge nasce (procedimento redigente) e si forma (procedimento di
approvazione) nell’ambito dell’assemblea legislativa (il Parlamento), e solo eccezionalmente dovrebbe
essere di creazione del governo (decreto-legge), nell’ordinamento romano la lex era redatta interamente dal
magistrato, e veniva successivamente approvata dalle assemblee popolari, comitia e concilia.

La lex dunque:
 aveva carattere bilaterale in quanto rappresentava il risultato dalla convergente volontà fra il magistrato
proponente e il popolo votante;
 era detta pubblica in quanto votata dal popolo in pubblica assemblea;
 era definita rogata in quanto il magistrato presentava la sua proposta di legge al popolo interrogandolo
(rogare) su di essa, e questo, a sua volta, con il proprio voto, aveva il potere di accettarla o respingerla in
blocco senza poter apportare alcuna modifica.

LO IUS PUBLICUM - STRUTTURA DELLA LEX


Le leggi erano designate con i nomi gentilizi dei magistrati proponenti, cosicché di regola un nome doppio
indicava una legge comiziale proposta da due consoli (es. lex Papia Poppea), un nome semplice indicava un
plebiscito proposto da un tribuno della plebe (es. lex Aquileia).

La Lex si divideva in tre parti:


1. praescriptio: era la parte nella quale andavano indicati: i magistrati proponenti; l’assemblea deliberante (i
comizi centuriati, curiati, tributi); il luogo e la data della votazione;
2. rogatio: era il testo della proposta che veniva o approvata così com’era o del tutto respinta. Non erano
consentite modifiche (o emendamenti) da parte dell’assemblea;
3. sanctio: era la parte contenente una serie di disposizioni la cui funzione era quella di regolare o garantire

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l’applicazione della lex.

In relazione alla sanctio, ULPIANO enuncia una ulteriore distinzione delle leges:
 leges imperfectae: sono leggi che enunciavano il semplice divieto; l’atto contrario ad esse rimaneva
valido e non era prevista nessuna pena o sanzione per chi contravvenisse alla legge;
 leges minus quam perfectae: erano leggi che prevedevano la pena per i contravventori, lasciando in vita,
però, l’atto contrario ad esse;
 leges perfectae: erano leggi che prevedevano la pena per il contravventore e la nullità dell’atto posto in
essere contra legem.

Nel primo periodo della Respublica le leggi comiziali furono per lo più minus quam perfectae.

LO IUS PUBLICUM - EFFICACIA DELLA LEX PUBLICA O ROGATA


Non appena il magistrato annunciava l’esito positivo della votazione, ricevuta la convalida senatoria
(auctoritas patrum) la lex publica:
 entrava in vigore;
 acquistava valore personale, nel senso che si applicava a tutti i cittadini in qualsiasi territorio si trovassero
della res publica;
 non si applicava ai «non cives» (peregrini o stranieri): infatti sebbene risiedessero nel territorio romano,
essi conservavano il diritto di vivere secondo le loro leggi (sui legibus uti);
 acquistava efficacia nelle città alleate solo quando queste espressamente dichiaravano di volerla accettare.
(PRINCIPIO DI TERRITORIALITA’ DELLA LEGGE)

LO IUS PUBLICUM - LA LEX DATA


Si noti che, accanto alla lex rogata (o pubblica) vigeva anche la lex data che, a differenza della prima,
costituiva un atto unilaterale; infatti:
 era emanata dal magistrato;
 non richiedeva il voto di approvazione del popolo.
Esempio tipico di lex data è l’ordinamento dato (imposto) dal magistrato romano a colonie, province,
comuni municipi (municipia).

Tuttavia anche le città soggette a Roma (alleate) godevano di una certa autonomia legislativa: le leges datae,
infatti, si limitavano a regolare i rapporti di diritto pubblico e le prestazioni fiscali, ma per i rapporti interni
di diritto privato (che, come tali, non rivestivano interesse per l’Urbe) le province emanavano disposizioni
proprie.

LO IUS GENTIUM
L’estensione del dominio romano e i contatti con altri popoli rese pressante l’esigenza di regolare una serie
di rapporti che, non intercorrendo tra cives, dovevano adeguarsi ad altre regole giuridiche.
Per facilitare la soluzione di tali problematiche, nel 242 a.C. fu istituito accanto al praetor urbanus una nuova
figura di pretore: il praetor peregrinus che esercitava la giurisdizione tra Romani e stranieri o stranieri tra
di loro nel territorio di Roma.
Attraverso la prassi instaurata dal praetor peregrinus, sorsero, peraltro, nuovi istituti giuridici, che dettero
vita ad un nuovo tipo di diritto, affiancatosi al tradizionale ius civile, che prese il nome di «ius gentium».
Il ius gentium costituiva una sorta di diritto commerciale che divenne comune a tutti i popoli del
mediterraneo e che si articolava intorno a quattro schemi contrattuali: compravendita, locazione, società e
mandato e a tre principi guida: il consensualismo, la buona fede e la reciprocità. (DIRITTO
INTERNAZIONALE PRIVATO)

LO IUS HONORARIUM
Il sistema del ius civile, a causa della sua rigidità, si dimostrò inadeguato rispetto alla mutata situazione
economico-sociale, e di difficile attuazione anche in ordine ai rapporti tra cittadini romani.
Una formale e rigida applicazione dell’ormai vetusto ius civile comportava, per lo più, conseguenze inique:
allo scopo di evitare i più gravi inconvenienti verificatisi nella prassi, il praetor urbanus iniziò ad adottare

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una serie di mezzi complementari, producendo in tal modo un nuovo diritto.
Questo si andava consolidando e stratificando attraverso le norme create da essi durante la loro carica per
soddisfare le necessità di adeguamento del diritto alle nuove esigenze derivanti dalla espansione della
romanità.

L’opera del praetor urbanus fu ben presto imitata anche da altri magistrati: aediles curules, praesides
provinciarum (governatori delle province). A lungo andare si creò un nuovo sistema giuridico scaturito
dall’attività di tali magistrati, ben contrapposto al ius civile e definito ius honorarium, in quanto proveniente
da funzionari investiti di honores.

LO IUS HONORARIUM - GLI EDICTA


La principale fonte di produzione e cognizione del diritto onorario fu l’editto

L’edictum era un provvedimento tipico emanato all’inizio dell’anno dal magistrato in carica per
preannunciare le linee generali che ne avrebbero ispirato la giurisdizione e che costituiva il solco obbligato
nel quale il pretore doveva poi concretamente operare, soddisfacendo, così, un importante bisogno di
certezza dei cittadini sul futuro operato del magistrato.

Gli editti, destinati a rimanere in vigore tutto l’anno, erano detti edicta perpetua, per distinguerli dagli
edicta repentina, che erano quelli emanati occasionalmente nel corso dell’anno, per far fronte alle necessità
di volta in volta insorte.

Abbiamo 3 tipi di edicta perpetua:


 edictum praetorium, cioè l’editto del pretore emanato all’inizio dell’anno per
 indicare i criteri che il magistrato avrebbe seguito per risolvere le controversie;
 edictum aedilium curulium, che preannunciava i criteri ai quali gli edili curuli si sarebbero attenuti
nell’esercizio delle proprie funzioni;
 edictum provinciale: è l’editto di ogni singolo governatore della provincia al quale egli stesso doveva
attenersi nel regolare le questioni politico-amministrative riguardanti la provincia.

Teoricamente ogni magistrato poteva emettere un proprio editto; in realtà ben presto si giunse ad una
cristallizzazione dei vari editti, che conservavano un nucleo centrale immutato, salve specificazioni fatte qua
e là (cd. edictum tralaticium).
In tal modo si formò un nucleo fisso di norme edittali che costituì una sorta di codificazione del diritto
onorario, ma che presentava il vantaggio di essere sempre suscettibile di eventuali ulteriori sviluppi perché,
venendo ripubblicato ogni anno, poteva sempre essere aggiornato dal magistrato che entrava in carica.

Evoluzione del diritto penale


Nel campo del diritto penale in età repubblicana lo Stato assunse direttamente la funzione punitiva: centrale
divenne l’importanza della provocatio ad populum, nonché l’ingresso nella magistratura di magistrati di
origine plebea.
Competente per la repressione penale era il praetor urbanus, che, però, si occupava solo dei processi che
coinvolgevano cittadini di un certo rango, lasciando ai tresviri capitales il compito di punire i cittadini delle
classi inferiori.
Furono, dunque, abbandonati sia il concetto di vendetta privata sia l’applicazione di pene corporali, e si
passò alla repressione pubblica accompagnata, di regola, da pene pecuniarie.

I delitti pubblici e privati


Con l’evolversi del sistema di applicazione delle sanzioni sorse una netta linea di demarcazione tra delitti
«pubblici» e «privati».
Il delitto privato (delictum) nel quale la parte lesa era il solo cittadino e che veniva regolato con sanzioni
pecuniarie a favore del cittadino leso;
Il delitto pubblico (crimen) nel quale le parti lese erano sia la società sia il privato cittadino, ed era
perseguito non più privatamente, ma direttamente ed esclusivamente dall’ordinamento della città.

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La repressione dei crimina infatti spettava ai magistrati, che potevano applicare una pena pecuniaria (multa)
o pignorare cose del colpevole (pignoris capio) o addirittura ricorrere alla pena di morte (poena càpitis)

LE QUÆSTIONES PERPETUÆ
Notevole impulso alla riforma del processo penale venne dato dalla persecutio di crimini ancora sconosciuti,
come la concussione o il crimen repetundarum (= illecita appropriazione ed estorsione, da parte dei
magistrati romani, a danno delle popolazioni alleate e sottoposte al dominio di Roma).
Poiché i crimini erano spesso commessi dai governatori provinciali, la nobilitas senatoria, di cui tali
magistrati erano espressione, ebbe tutto l’interesse a gestire direttamente i processi e, dunque, fu sottratta la
competenza in materia penale al comizio centuriato e trasferita a giurie da essa stessa controllate (le cd.
quaestiones).
In un primo tempo, infatti, le denunce erano presentate dai provinciali davanti al Senato: dopo che gli stessi
abitanti della provincia avevano nominato un patronus, il Senato stesso deferiva la trattazione della
controversia ad un collegio di recuperatores, appositamente nominato.
Successivamente, con l’emanazione della lex Calpurnia nel 149 a.C., fu stabilita una procedura regolare; la
direzione del processo fu affidata in un primo momento al praetor peregrinus, che fu sostituito,
successivamente, a seguito dell’emanazione della lex Acilia repetundarum del 123 a.C., ad un apposito
magistrato.
Il processo veniva sviluppandosi attraverso la scelta di cento uomini (editio), effettuata dallo stesso
danneggiato- accusatore, da un elenco di 450 cittadini, compilato dallo stesso pretore; i nomi venivano poi
comunicati all’accusato il quale, a sua volta ne sceglieva (electio), tra questi, 50 per formare la giuria
(iudices selecti).
Questo procedimento prese il nome di quaestio (processo per quaestiones).
Le quaestiones perpetuae erano tribunali permanenti, istituiti ciascuno per i processi relativi a particolari tipi
di delitti (crimina) che, in seguito, su esempio di quello istituito dalla lex Acilia, furono creati per la
repressione di altri reati, politici e comuni, di volta in volta previsti e puniti.

LE QUÆSTIONES PERPETUÆ - PROCEDURA


Ogni legge che istituiva una questio permanente prevedeva anche la procedura da seguire dinnanzi alla
giuria, nonché la pena da irrogare. L’accusa partiva da un qualsiasi privato cittadino (e quindi non da
pubblici funzionari) che doveva, però, possedere la “dignitas”, cioè una buona reputazione per poter adire il
magistrato e formulare l’accusa (nominis delatio).
Si formava la giuria con la possibilità di esclusioni incrociate (vedi ante) da parte dell’accusa e ad essa
seguiva la disamina dei testimoni da interrogare.
Seguiva un processo di tipo accusatorio che richiedeva l’obbligatoria presenza dell’accusatore: in esso,
escussi e testi votavano i soli giurati, ma non i giudici.
Il verdetto era solo di condanna o assoluzione, in quest’ultimo caso l’accusatore correva il rischio di essere
imputato per calumnia se veniva accertata la faziosità dell’accusa, processo che importava la stessa pena
prevista dalla quaestio per l’accusato.

ALCUNI DEI PRINCIPALI CRIMINA CRIMEN AMBITUS (CORRUZIONE)


Il reato comprendeva ogni specie di corruzione elettorale consistente nell’acquisto o comunque nell’illecito
accaparramento di voti.
Questo reato venne punito dapprima irrogando al contravventore l’interdizione temporanea del ricoprire
cariche pubbliche per dieci anni (lex Cornelia Baebia, 180 a.C.); in seguito, con la lex Calpurnia (67 a.C.),
venne prevista anche l’interdizione perpetua del cursus honorum. Per combattere questo malcostume le pene
furono rese più aspre, ma i divieti comunque ebbero sempre scarsa efficacia.

CRIMEN PECULATUS (PECULATO)


Il peculato consisteva nella sottrazione o nell’abuso del denaro pubblico, fatto per fini privati.
Per tale reato venne istituita una quaestio nell’86 a.C.

CRIMEN MAIESTATIS (LESA MAESTÀ)

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Era il più grave delitto politico, consistente in un vero e proprio abuso di autorità compiuto da soggetti che
ricoprivano cariche pubbliche.
In seguito, con la lex Cornelia maiestatis (di Silla), si stabilì che fosse colpito con la pena capitale qualsiasi
atto che arrecasse offesa all’autorità e al prestigio dello Stato e, in special modo, all’organo senatorio
I reati contro la costituzione rimasero affidati ai duoviri perduellionis, mentre il tradimento, di competenza
del console, fu regolato secondo la concezione dell’hostis publicus che prevedeva la sanzione del supplicium
more maiorum (crocifissione).
Data la genericità dell’espressione maiestas populi romani e soprattutto considerata la tendenza ad allargare
la competenza delle quaestiones, si cominciò ad includere alcune figure meno gravi di tradimento
(sedizione, leve arbitrarie, incitamento alla guerra civile) nel concetto di maiestas, finendo per essere tutte
deferite alla quaestio maiestatis.
Fu, peraltro, deferito alla stessa quaestio maiestatis anche il crimen vis, introdotto da una lex Plautia del
periodo postsilliano; a titolo di crimen vis erano perseguitati tutti quegli atti di coercizione che avessero
ostacolato l’esercizio dei poteri magistraturali o senatoriali.

CAPITOLO 9 - Crisi delle istituzioni repubblicane Conflitti tra le classi: l’età dei Gracchi

La crisi della Res Publica


Dopo la vittoriosa conclusione della II guerra punica (battaglia di Zama, 202 a.C.) cominciarono a
manifestarsi i primi segni di una gravissima crisi sociale, determinata dalla politica espansionistica di Roma,
che a lungo andare avrebbe portato, verso la fine del I sec. a.C., alla inesorabile caduta della Repubblica (e
instaurazione del Principato).

LA CRISI DELLA RES PUBLICA: I MOTIVI


L’inadeguatezza della struttura politico-sociale romana a superare le contraddizioni determinate
dall’espansione del dominio di Roma, poiché si mostra un’evidenza di crisi dovuta al fatto che, nonostante
l’espansione territoriale, Roma conservò la struttura di città-stato: ciò implicava che i diritti politici, oltre
che rigorosamente riservati ai cives, fossero esercitabili solo entro la cerchia urbana; ne erano esclusi,
pertanto, i popoli ad essa subordinati, non essendo in vigore un ordinamento comune per tutti i sudditi;
I conflitti interni tra le classi sociali;
Le opposizioni dei popoli soggetti e, soprattutto, degli italici, che lottavano per conseguire la cittadinanza
romana e acquisire gli stessi diritti dei cives.

LA CRISI DELLA RES PUBLICA: MUTAMENTI ECONOMICI


Le grandi conquiste determinarono un mutamento del sistema economico tradizionale generando una grave
sproporzione economica fra le classi.
La trasformazione più significativa si ebbe nell’economia agraria e fu determinata:
 dall’estensione dell’àger romanus che raggiungeva in Italia ben 24.000 Kmq.;
 dal notevole accrescimento della popolazione; dalla formazione di immensi latifondi;
 dal mutamento dei sistemi di coltivazione.
L’ager publicus populi romani, che costituiva il patrimonio del Senato finì per cadere nelle mani dei
latifondisti avvantaggiando solo le famiglie più ricche e potenti con l’acquisto del dominium sulle terre
pubbliche.
Si formarono, così, immensi latifondi (latifundia) di proprietà di patrizi e ricchi plebei, coltivati a basso
costo da masse di prigionieri affluenti a Roma ridotti in schiavitù. Scomparivano così a poco a poco i piccoli
proprietari terrieri, che erano stati la forza della Roma repubblicana.

LA CRISI DELLA RES PUBLICA: NUOVE FONTI DI RICCHEZZA


L’industria ebbe un’apprezzabile crescita, dovuta, da un lato all’accresciuto fabbisogno di materiale bellico,
e dall’altro alla nuova e differente mentalità economica, diffusasi come superamento della vecchia
concezione dell’economia «chiusa»;
Il commercio, gli investimenti finanziari e lo sfruttamento delle province ebbero un incremento
vertiginoso di cui, però, si avvantaggiavano solo poche famiglie;
La concessione di pubblici servizi e la riscossione dei tributi fu data in appalto ai cd. «publicani»: di tale

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situazione approfittarono i membri della nobilitas e, di riflesso, quegli strati minoritari della popolazione
plebea che, in qualche modo, orbitavano intorno alla nobilitas.

LA CRISI DELLA RES PUBLICA: CONSEGUENZE SULL’ESERCITO


La mutata situazione economica produsse gravi e dannose conseguenze anche sull’esercito.
Infatti, decaduta la categoria dei piccoli proprietari terrieri, l’esercito si trovò privo della sua principale fonte
di reclutamento, cosicché, mentre le guerre aumentavano e più pressante diveniva l’esigenza di cittadini
soldati scarseggiavano invece gli individui da reclutare.
Si provvide, allora, all’arruolamento stabile di un esercito professionale reclutato tra le masse povere delle
popolazioni alleate.

LA CRISI DELLA RES PUBLICA: CONFLITTI SOCIALI


La sproporzione numerica tra i cittadini romani di pieno diritto e i sudditi era immensa, e i non-cittadini
nel corso dei secoli si batterono per essere parificati ai cives di fronte alla legge e per godere di eguali diritti.
Gli italici, in particolare (che erano più vicini a Roma ed erano stati determinanti per le sue vittorie), non
volevano essere esclusi dai vantaggi che procurava alla capitale il dominio del mondo (tributi, ricchezze
etc.), né dalle garanzie costituzionali di cui era circondata la libertà dei cives (es. la provocatio).
Per ottenere i vantaggi connessi alla situazione economica delle città, masse di latini ed italici si
trasferivano a Roma determinando un preoccupante processo di inurbamento e un progressivo abbandono
delle terre

LA CRISI DELLA RES PUBLICA: LA LEX CLAUDIA


Fu emanata una lex Claudia mediante la quale si obbligavano tutti i socii Latini censiti dal 189 a.C. in poi a
ritornare nelle loro città, attribuendo al questore il potere di giudicare i renitenti.
A causa della decadenza del ceto medio agricolo, l’Urbe in questa epoca risultava composta da una classe
abbiente e dalla massa popolare economicamente debole.
Il conflitto tra le classi sociali, con il passare del tempo divenne sempre più serrato, fino a costituire uno dei
fattori principali della crisi della Repubblica.

La crisi della Res Publica: la nuova classe “equestre”


A seguito dell’espansione del dominio romano e delle ampliate dimensioni dell’economia, si andò
affermando durante il II sec. a.C. un nuovo ceto, che aveva costruito la propria ricchezza e il proprio potere
soprattutto con i commerci e le speculazioni finanziarie.
La nuova classe, detta equestre, cioè di cavalieri, in quanto formata all’interno del comizio centuriato,
comprendeva coloro che, iscritti nelle centurie della cavalleria, servivano in battaglia in modo “equo
privato”, ossia con cavallo mantenuto a proprie spese; essa si affiancò, in parallelo, alla classe nobiliare, in
virtù di una sostanziale comunanza di intenti.

Il nuovo ordine sociale dei cavalieri (equites) fu essenzialmente composto da ricchi imprenditori che
dovevano la loro prosperità economica:
- alle grandi spedizioni militari transmarine che li vedevano protagonisti;
- alla riscossione dei tributi;
- ad affari e traffici di ogni genere con le regioni del mondo mediterraneo.
Fin dall’età delle guerre puniche (241-146 a.C.), con l’enorme afflusso di capitali liquidi, la classe dei
cavalieri rappresentò «l’alta finanza».
L’ascesa degli equites avvenne in contrasto con la classe senatoria, essa perciò fece causa comune con la
parte popolare per difendere i suoi privilegi.

LA CRISI DELLA RES PUBLICA: LA NOBILITAS


La nobilitas, costituita dalle potenti famiglie patrizie e da una frangia minoritaria di plebe arricchita,
conservava da una parte il monopolio delle magistrature e delle alte cariche pubbliche, cui fecero seguito il
governo delle province e il potere giudiziario, e dell’altro il possesso dell’àger publicus escludendo,
dall’occupazione degli stessi gli strati più umili della popolazione.
Le caratteristiche sociali e politiche di Roma in questa fase non potevano che consolidare le tendenze

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oligarchiche dell’ordine senatorio in passato fattore di equilibrio e mediazione tra i conflitti sociali.

LA CRISI DELLA RES PUBLICA: I CETI SUBALTERNI (PLEBE URBANA E PICCOLI


CONTADINI)
La residua massa dei cives era composta dal ceto contadino e dalla plebe urbana (proletarii).
Il ceto contadino, chiamato continuamente a rimpinguare le file dell’esercito, al suo ritorno in patria trovava
condizioni di mercato proibitive per la continuazione di un’attività agricola fondata sul lavoro familiare,
perché in quello stesso tempo i grandi latifondisti avevano ampliato i loro latifondi, adottato sistemi di
coltivazione avanzati e sfruttato mano d’opera servile a basso costo (schiavitù), proveniente dai territori che
(per somma ironia) gli stessi contadini, arruolati nell’esercito, avevano conquistato.
I contadini pertanto furono costretti a rinunciare alla vita di liberi coltivatori e andarono ad ingrossare le file
della plebe urbana.

La «plebe urbana» era composta dall’insieme delle masse che vivevano nella città usufruendo, per
sopravvivere, delle periodiche elargizioni pubbliche conseguenti alle vittorie militari.

La crisi della Res Publica: la condizione servile


Le guerre di conquista e la formazione del latifondo, l’abbandono delle campagne e la vittoria su tanti popoli
trasformarono la società romana in una società schiavistica.
Lo schiavo era res e anche modo per produrre lavoro.
In questo scenario si inserisce l’attività dei fratelli Gracchi.

L’ETÀ DEI FRATELLI GRACCHI


Tiberio Sempronio Gracco (163-133 a.C.) Gaio Sempronio Gracco (154-121 a.C.)

L’età dei Gracchi: l’opera di Tiberio Gracco


La prima figura di riformatore capace di individuare i motivi della crisi sociale e politica che Roma stava
attraversando verso la metà del II sec. a.C. fu quella di Tiberio Gracco.
Figlio di Tiberio Sempronio Gracco (uomo politico molto in vista) e di Cornelia (figlia di Scipione
l’Africano, il vincitore di Cartagine a Zama) pur appartenendo alla nobilitas, si era allontanato dal cieco e
ottuso egoismo degli esponenti della sua classe.
Occorreva, secondo Tiberio, restituire dignità alle centuriae e ai comitia, espressione del potere del popolo,
corrotti e involgariti dalla plebe urbana e ricostruire il laborioso e saggio ceto dei contadini che, come detto
nella slide precedente, andavano scomparendo per la crescita smisurata del latifondo.

Tiberio ritenne opportuno fare ricorso ad un ampio progetto di regolamentazione per la distribuzione
dell’ager publicus da parte dei nobili latifondisti ai piccoli proprietari, per dare nuova linfa a questa classe
che costituiva, tra l’altro, la base principale dell’esercito.
Dal punto di vista politico la sua opera (e, più tardi, quella del fratello Caio Gracco) aspirava a ristabilire un
equilibrio tra i poteri (assemblee popolari, senato, magistrature) che avrebbe consentito un rinnovamento in
senso democratico della società romana, anche se continuava ad essere legata ad una ideologia conservatrice
perché tendeva a restaurare un ordine di cose (piccola proprietà agraria, libero lavoro della terra, etc.) ormai
irrimediabilmente sconvolto dagli eventi.

L’età dei Gracchi: l’ager publicus


Per comprendere meglio i motivi della riforma graccana, è necessario esaminare il sistema dell’ager
publicus.
L’ager publicus, aumentato di estensione a seguito della confisca di zone del territorio di città italiche
soggiogate, costituiva la parte del territorio dello Stato non distribuito
ai singoli cittadini la cui amministrazione apparteneva al Senato il quale concedeva ai cittadini la possibilità
di utilizzarlo e sfruttarlo per la produzione agricola.
Il godimento dell’ager publicus dette luogo a notevoli e smisurate appropriazioni da parte dei ceti dominanti
che, così, crearono il latifondo.
Accanto e, talvolta, contro il parere del Senato in materia di distribuzione dell’ager publicus ai cives, si

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posero le richieste delle assemblee popolari (comizi), portatrici di istanze volte ad ottenere una più equa
distribuzione dell’ager publicas, secondo criteri diversi da quelli adottati dai patres.
Il più antico intervento dei comizi in materia è contenuto nelle leggi Liciniae Sextiae del 367 a.C.: secondo
le testimonianze delle fonti, tale lex avrebbe anche vietato il possesso dell’ager publicus in misura superiore
ai 500 iugeri, proprio per contenere la crescita del latifondo.

Tiberio Gracco e la Lex Sempronia Agraria


Nel 133 a.C. nella sua qualità di tribuno della plebe, Tiberio Gracco propose una legge agraria: Lex
Sempronia agraria
Tale legge rimetteva in vigore il limite di 500 iugeri previsto dalle leggi Liciniae Sextiae del 367 a.C.
aggiungendo un ampliamento di 250 iugeri per ognuno dei filii familias:
- tutta l’eccedenza sarebbe stata distribuita in lotti di 30 iugeri ai non possidenti;
- tali lotti sarebbero stati inalienabili e sottoposti ad un tributo e affidati, così, ai piccoli proprietari che
in precedenza erano rimasti esclusi.

Scopo della riforma era di evitare sia l’accentrarsi della ricchezza nelle mani di pochi sia il moltiplicarsi
di un proletariato che restava escluso dalla crescita economica

Lex Sempronia Agraria: opposizione del Senato


La riforma urtava contro gli interessi della classe conservatrice (che manovrava a suo piacimento il Senato):
- sia per motivi di forma, in quanto imponeva al Senato una decisione dell’assemblea in una materia che
esso intendeva riservare alla sua competenza;
- sia per motivi di sostanza, perché ledeva gli interessi dei latifondisti.
I patres dettero incarico a Marco Ottavio, tribuno della plebe collega di Gracco, docile strumento nelle mani
del Senato, di opporre il suo potere di veto (intercessio) contro la proposta di Tiberio.
Tiberio, accusando il collega di agire contro gli interessi della plebe, chiese ed ottenne la sua deposizione,
con un’azione formalmente anticostituzionale, malgrado ciò la legge agraria venne pertanto votata.

A questo gesto rivoluzionario, Tiberio ne fece seguire un secondo, chiedendo per l’anno seguente, il 132
a.C., contro il divieto della iterazione delle cariche, la rielezione al tribunato della plebe. Egli, infatti, non
intendeva limitare la sua azione politica alla redistribuzione dell’ager publicus, ma aveva intenzione di
sferrare un deciso colpo al monopolio politico del Senato, per accrescere il potere delle assemblee popolari.
Per tutti questi motivi il Senato dichiarò Tiberio reo di adfectatio regni, cioè di attentato alla costituzione, e
chiese a Publio Mucio Scevola di procedere alla soppressione di Tiberio Gracco e dei suoi seguaci.
Il console si rifiutò di dar seguito alle richieste del Senato e allora un gruppo di senatori guidati da Publio
Cornelio Scipione Nasica (pontefice massimo) organizzò l’omicidio di Tiberio e di molti suoi seguaci.
Malgrado ciò la legge agraria, pur incontrando notevoli resistenze nell’applicazione, rimase in vigore
Il Senato, per giustificare l’intenzione di sopprimere Tiberio, propose l’emanazione, per la prima volta, di un
senatus consultum ultimum, strumento eccezionale con il quale, ravvisando il carattere eversivo del
movimento graccano, si autorizzavano i consoli a reprimerlo con ogni mezzo; in particolare fu proposta
l’evocatio, ricorso alle armi per la salvezza delle istituzioni repubblicane, sospendendo tutte le garanzie
costituzionali: gli avversari più pericolosi, dichiarati hostes rei publicae (nemici della patria) erano passibili
di esecuzione capitale immediata, senza processo e senza possibilità della provocatio ad populum.

CAIO GRACCO
Nel 123, dieci anni dopo la morte di Tiberio, veniva eletto tribuno il fratello minore, Caio, che si presentava
come continuatore dell’opera riformatrice di Tiberio.
Caio, grandissimo oratore e uomo di grandi qualità politiche, avendo perfetta conoscenza della riforma
agraria ed avendone studiato le difficoltà incontrate in dieci anni di applicazione, aveva chiari gli obiettivi da
perseguire.
La sua opera, in particolare, fu più vasta di quella di Tiberio perché, oltre a porre rimedio ai mali economici,
aspirava ad una più equa organizzazione delle forze sociali e una riforma giuridica della società che,

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sfavorendo l’ordine senatorio, coinvolgeva prevalentemente i cavalieri.

GAIO SEMPRONIO GRACCO (154-121 A.C.)


Ai cavalieri furono affidate, a spese della classe senatoria, importanti mansioni, come il ruolo di giudici nei
processi per concussione perpetrati per arginare il malgoverno
delle province.
I problemi affrontati da Caio furono essenzialmente i seguenti:
 la questione agraria;
 la questione degli Italici, per i quali ormai la cittadinanza costituiva titolo per l’assegnazione delle terre
sulla base della riforma;
 i contrasti costituzionali tra aristocrazia e movimento democratico;
 la necessità di ordinare il regno di Pergamo lasciato in eredità a Roma dal re Attalo III (180 a.C.) e sul
quale esistevano contrasti tra senatori e cavalieri

La legge agraria del 123 a.C. (Lex Sempronia Agraria C. Gracchi)


Una rinnovata lex agraria, con la quale Caio Gracco non solo eliminò le difficoltà incontrate nella
applicazione pratica della prima, ma aggiunse il divieto, per gli assegnatari, di alienare, inter vivos, le terre
ottenute in proprietà.
Con la nuova legge, alle assegnazioni individuali, si aggiunsero anche assegnazioni collettive, nella forma di
deduzioni di colonie decise per plebiscito (atto tipico delle assemblee popolari che escludeva il senato).
Si procedeva, inoltre, alla colonizzazione dei territori conquistati oltremare, non solo per coprire le esigenze
del ceto agricolo italico, ma per creare, in tutto l’impero, nuovi centri di diffusione della civiltà italica.

L’opera legislativa di Gaio Gracco


Caio Gracco nei suoi due tribunati, 123 e 122 a.C., oltre a riprendere la lex agraria del fratello Tiberio, fu
artefice di un vero e proprio corpus di leggi costituzionali:
Lex de provinciis consularibus = il Senato avrebbe dovuto procedere alla determinazione delle province
consolari prima dell’elezione dei magistrati cui dovevano essere attribuite, al fine di evitare favoritismi
Lex iudiciaria er de pecuniis repetundis, anche con un plebiscitum de vectigalis = arginare le malversazioni
dei governatori verso i sudditi
Lex Sempronia de provincia Asia = attribuì il potere di determinazione dei tribuni nella provincia di
Pergamo lasciata nel 190 a.C. in eredità a Roma da Attalo III ai concilia plebis, sottraendola alla competenza
del Senato.
Lex Sempronia frumentaria = assicurare alla popolazione maschile adulta di Roma, appartenente al
proletariato, la distribuzione mensile di una quantità di grano a prezzo più basso di quello di mercato
Anche altre tendenze che offrono un intero quadro della legislazione graccana che non lasciava dubbi sulla
costituzione che egli intendeva dare allo Stato romano:
 la funzione legislativa doveva ritornare alle assemblee popolari;
 la funzione amministrativa doveva essere attribuita ai magistrati e al Senato;
 dovevano essere effettuati controlli numerosi soprattutto sul governo delle province.

Non potendo concedere la cittadinanza a tutti gli Italici, egli si limitò a proporre che la cittadinanza fosse
quantomeno concessa ai Latini, offrendo allo stesso tempo alle altre città italiche il diritto di voto. Ma questa
segnò la rovina di Caio Gracco.
Questo progetto, infatti, suscitò l’ostilità non solo della nobilitas, ma anche degli equites e delle masse
proletarie, timorose di vedere sminuito il loro peso politico a causa dell’accrescersi del numero dei cittadini.

LA FINE DI GAIO GRACCO


La proposta di Caio quindi cadde, ed egli non ottenne la rielezione per l’anno successivo, il 121 a.C. Caio
Gracco, non era più tribuno, e il suo fedele amico Fulvio Flacco, cercarono di resistere con la forza.
Il Senato emanò contro di loro il senatus consultum ultimum e, in uno scontro armato, entrambi i capi della
parte popolare perirono.
Protagonista di tale repressione fu l’esercito guidato da Caio Mario, composto non più dai cittadini, ma da

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numerosi nullatenenti arruolati da Mario stesso.
CAPITOLO 10 - Crisi delle istituzioni repubblicane l’età di Mario e di Silla

Mario e Silla e i conflitti tra le classi


Gaio Mario (157-86 a.C.) Lucio Cornelio Silla (138-78 a.C.)

Il periodo post-graccano
Dopo la morte di Caio Gracco (121 a.C.), il Senato tentò in ogni modo di contrastare l’applicazione della
legge agraria e di alterarne il contenuto democratico, attraverso l’emanazione di nuove leggi favorevoli ai
latifondisti.
Con una prima legge (di poco posteriore alla morte di Caio), fu abolito il divieto di alienazione dei fondi, per
consentire di continuare l’espansione dei latifondi e di acquistare nuove terre;
Una seconda legge, invece, stabilì il divieto di ulteriori suddivisioni dell’ager publicus, lasciandone il
possesso agli occupanti contro pagamento di un vectìgal (canone di affitto);
Si provvide, successivamente, ad abolire con una terza legge anche il vectìgal.

MARIO E LA RIFORMA DELL’ESERCITO


Malgrado i notevoli contrasti interni, nei rapporti esterni la politica romana proseguiva la sua espansione.
Dopo 10 anni dalla morte di Caio Gracco, nel III sec. a.C., Roma mosse guerra a Giugurta, re dei Numidi, il
quale aveva costituito in Africa un potente impero.
Dopo diverse sconfitte, il Senato, sotto la pressione dei populares affidò il comando delle truppe ad un uomo
duro ed energico: Caio Mario, che, ottenuto il comando delle legioni, in breve tempo portò a termine
vittoriosamente la guerra giugurtina.
A Roma Mario aveva conquistato notevole fama (soprattutto presso i cavalieri e i popolari) anche per aver
sconfitto le tribù barbare dei Cimbri e dei Teutoni
(102-101 a.C.) nel vercellese.
La nobilitas si vide, così, costretta, per proteggere i propri privilegi, a nominare un uomo del suo stesso
valore, da contrapporre a Mario. La scelta cadde sul patrizio Lucio Cornelio Silla.
Già agli inizi del I sec. a.C. si profilava il duello fra i due esponenti delle fazioni contrapposte; Mario godeva
però di una posizione di forte vantaggio: non solo era riuscito ad ottenere il consolato consecutivamente per
quattro anni, dal 104 al 100 a.C., dispensando favori ad amici, ma aveva, altresì, approfittato di tale
situazione per realizzare una riforma organica dell’esercito, a lui fedele anche per le sue generose
assegnazioni delle terre conquistate ai veterani.
Ed infatti per disporre di un numero maggiore di uomini nell’esercito, arruolò, come volontari, tutti i
cittadini, anche proletari (capite censi) (mettendo così da parte il vecchio sistema di partecipazione
alla leva dei soli cittadini abbienti), desiderosi di prestare servizio militare a scopo di guadagno.
Venne così a formarsi un nuovo tipo di soldato «professionale», attirato più dalla sete di denaro che
dall’amor di patria.
Effetto del nuovo sistema di reclutamento fu che l’esercito:
 era fedele più al proprio condottiero che alla patria;
 tale fedeltà era ricompensata dai comandanti con larghi e munifici donativi.
Per l’attuazione della riforma non vi fu bisogno di una legge, perché la leva (dilectus) rientrava nei poteri del
magistrato e, pertanto, fu sufficiente che un senatoconsulto autorizzasse il console Mario ad arruolamenti
eccezionali estesi anche alla classe dei proletari.
A seguito di questo mutamento nacque il problema della sistemazione economica del proletariato militare
dopo il congedo e, a tale scopo, venne colonizzata l’Italia e si procedette a numerose assegnazioni di terre ai
veterani.

IL POTERE DI MARIO
I capi politici e militari, forti della devozione delle loro truppe, potevano ormai violare apertamente le norme
sull’annualità delle magistrature, il divieto dell’iterazione ecc
Mario venne così rieletto console, come detto, per quattro anni consecutivi: tale fatto (senza precedenti) era
tale da rendere incombente la minaccia dell’affermazione del suo potere personale.
Nel 100 a.C. Mario riuscì per la quinta volta ad essere eletto console e a far eleggere pretore Glaucia e

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tribuno Saturnino: da tale alleanza derivò un movimento politico sui generis caratterizzato da un misto di
tendenze oligarchiche e di demagogia a favore del popolo e soprattutto dei veterani dell’esercito.

Le riforme di Glaucia e Saturnino


A Glaucia e Saturnino è dovuta l’emanazione di un complesso di leggi, tra le quali vanno segnalate:
 la lex Apuleia de maiestate minuta che ampliava l’ambito dei delitti politici;
 la lex frumentaria, che abbassava il prezzo del grano per accattivarsi le simpatie del popolo minuto;
 una lex agraria, che distribuiva ai veterani l’ager gallicus conquistato da Mario;
 una lex de coloniis in Africam deducendis per distribuire 100 iugeri a testa tra i veterani della guerra in
Numidia [territorio che oggi è compreso tra Mauritania e Tunisia]

L’approvazione di tali leggi fu tutt’altro che pacifica, provocando disordini, soprattutto a causa del
malcontento dimostrato dai populares, esclusi dai vantaggi offerti esclusivamente ai veterani dell’esercito. Il
Senato, allora, proclamato lo stato di emergenza, incaricò Mario, in qualità di console, di ristabilire l’ordine.
Mario non osò ribellarsi all’ordine del Senato e intervenne in armi, assediando in Campidoglio i suoi stessi
amici politici, che trovarono la morte nel conflitto.
Trovatosi solo, circondato dall’opposizione della sua stessa classe sociale, Mario decise di ritirarsi in Asia
Minore, allontanandosi temporaneamente dall’ambiente politico romano.
Una volta ristabilito l’ordine pubblico, e la propria egemonia, il Senato abrogò tutte le leggi emanate da
Saturnino.
Il Senato aveva temporaneamente ristabilito il proprio dominio, ma il malgoverno e i conflitti interni tra
oligarchia senatoria e ceto equestre portarono poco tempo dopo a nuove agitazioni politiche.
Nel 91 a.C. diveniva tribuno della plebe il figlio di quel Marco Livio Druso che si era opposto a Caio
Gracco.

Il giovane Druso, colto ed eloquente, voleva combattere l’invadenza dei cavalieri nella vita pubblica per
ridare potere al Senato, procurandosi nello stesso tempo il favore della popolazione meno abbiente e degli
alleati italici ai quali aveva promesso la tanto ambita cittadinanza romana.

Livio Druso e il suo programma politico


Per attuare il suo progetto Livio Druso propose le seguenti leggi:
 la lex Livia nummaria che stabiliva che le monete d’argento dovessero contenere 1/8 di rame e mirava
così a colpire gli speculatori di tale metallo prezioso, che, per la massima parte, appartenevano all’ordine
equestre. Forse la legge conteneva anche una «lex frumentaria» diretta a diminuire il prezzo del grano,
per accattivarsi i ceti più poveri ed isolare, così, i cavalieri all’opposizione;
 la lex Livia iudiciaria che stabilì che le funzioni giudiziarie passassero dai cavalieri al Senato, portando,
in compenso, il numero dei senatori a 600, con 300 nuovi membri scelti tra i cavalieri. Con questa legge,
in particolare, si componeva equamente (300 cavalieri e 300 senatori) l’annosa questione sulla scelta dei
giudici.

REAZIONE ARISTOCRATICA A DRUSO


Druso riteneva che per restaurare il potere senatorio bisognasse innanzitutto sanare uno dei più gravi
problemi del tempo: la questione degli Italici.
Tuttavia di fronte alla proposta di Druso di voler concedere la cittadinanza romana agli Italici, l’aristocrazia
reagì violentemente;
Nel 90 a.C. il console Filippo non gli consentì di presentare la rogatio de civitatis dandis (proposta di
cittadinanza per gli italici) e Druso fu assassinato a tradimento

LA GUERRA SOCIALE
La guerra durò dal 90 all’89 a.C. e assunse l’aspetto di una vera e propria guerra civile.
Di fronte alla veemenza degli avversari Italici, il Senato fu costretto a emanare una legge del console Iulius
Caesar (lex Iulia de civitate sociis dandis) che accordava la cittadinanza alle città rimaste fedeli ed a
quelle che si fossero arrese.
Nell’89 a.C. Plautius Silvanus e Papirius Carbo fecero votare un plebiscito (lex Plautia Papiria) che

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conferiva la cittadinanza romana a ogni cittadino appartenente a civitates foederatae, che entro 60 giorni ne
avesse fatto richiesta.
L’Italia fu organizzata in tanti municipia di cittadini romani, con ordinamenti analoghi a quelli di Roma e le
loro superstiti città si trasformarono in municipia romani.
I nuovi cittadini italici non ottennero, però, una vera parità politica coi Romani; le assemblee popolari
continuarono a tenersi a Roma, e quindi difficilmente gli Italici potevano parteciparvi.
Gli Italici dunque, pur avendo ottenuto la cittadinanza, continuarono a rimanere estranei alla
conduzione degli affari politici.

LOTTE CIVILI A ROMA E IL DOMINIO ASSOLUTO DI SILLA


Nell’88 a.C. apparve necessario inviare un esercito romano in Oriente a combattere Mitridate, re del Ponto;
ma il comando, anziché a Mario, fu affidato ad uno dei due consoli in carica: Lucio Cornelio Silla. Mario,
deluso, allora congiurò contro Silla.

Silla reagì con un altro atto illegale; entrò nell’Urbe, per la prima volta nella storia di Roma, alla testa di
Forze Armate regolari e Mario fu costretto a fuggire.
Nell’87 a.C., appena Silla e le sue truppe furono in viaggio per l’Asia Minore, le forze politiche
«democratiche» che facevano capo a Mario si trovarono nuovamente libere: furono eletti consoli un seguace
di Silla, Gneo Ottavio, e un suo avversario, Cornelio Cinna.
Morto Mario (83 a.C.), venne eletto L. Valerio Flacco, inviato successivamente in Grecia per togliere a Silla
il comando nella guerra contro Mitridate.
L’intera azione dei democratici risultò tuttavia inutile, perché i due protagonisti vennero assassinati, mentre
Silla si preparava a rientrare a Roma da vincitore.
Non appena gli fu possibile, Silla concluse con Mitridate un compromesso di pace che gli avrebbe lasciato la
Grecia e tutti i domini che possedeva prima di entrare in guerra con Roma, in cambio di una forte indennità
in denaro.
Sbarcato a Brindisi con forti disponibilità di fondi e di truppe, egli si riunì con le legioni condotte da
Pompeo e marciò su Roma, occupando la città nel novembre dell’82 a.C.
Sconfitti e massacrati migliaia di nemici politici (facenti parte pur sempre di eserciti della Repubblica),
spezzata la resistenza nelle province e affermato definitivamente il proprio dominio, Silla divenne padrone
della situazione ed intraprese un’opera di riforme fra le più vaste ed organiche, che prendeva di mira tutti gli
organi e le funzioni della repubblica.
Silla veniva nominato «dictator legibus scribundis et rei publicae constituendae» (lex Valeria de Sulla
dictatore), grazie alla quale Silla, godendo di poteri illimitati, avrebbe dovuto provvedere alla riforma della
costituzione della Respublica.
Silla con poteri ormai illimitati, potè emanare le liste di proscrizione.

Le riforme di Silla
Concessa la cittadinanza agli Italici e iscritti i novi cives nelle 35 tribù cittadine, Roma perdeva
definitivamente le caratteristiche di città-stato.
Rimaneva a Silla il compito di adattare le antiche istituzioni di città-stato alle nuove esigenze e funzioni di
Roma, che aveva ormai raggiunto le dimensioni di uno stato nazionale nel senso moderno della parola
Silla intese perseguire tale obiettivo tentando di ricostituire una repubblica oligarchica, sotto l’egida del
Senato che rappresentava sia l’antica nobilitas che l’ordo equester.
L’organo cui Silla dedicò maggiori attenzioni fu il Senato; in particolare:
 l’assemblea senatoria venne ampliata con nuovi senatori reclutati ex equestri ordine, ed anche fra i novi
cives;
 il numero dei senatori venne fissato in seicento e ricomprendeva anche i quaestores;
 al Senato vennero restituiti tutti gli antichi poteri, tra cui la funzione giudiziaria, che era stata trasferita
agli equites.
Allo scopo di ristabilire quell’equilibrio di governo che aveva caratterizzato il periodo aureo della
Repubblica, Silla portò avanti una serie di riforme (insenso autoritario) riguardanti le altre magistrature:
 apportò una serie di limitazioni al potere dei tribuni snaturando completamente lo status: ridusse il loro

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potere di intercessio, limitato all’auxilium del singolo cittadino maltrattato; annullò quasi del tutto il loro
potere di «legiferare», stabilendo che le proposte tribunizie fossero sottoposte al preventivo controllo del
Senato; stabilì che essi non potessero ricoprire in seguito magistrature curuli. Con ciò si ridusse la
magistratura tribunizia ad una carica di second’ordine;
 elevò il numero degli altri magistrati curuli, adeguandolo alle accresciute esigenze dell’amministrazione
della giustizia criminale e del governo di Roma e delle province;
 abolì il ruolo dei “pubblicani” (esattori pubblici) trasferendo le loro competenze ai governatori,
indebolendo così la classe equestre, da cui la maggior parte dei pubblicani proveniva.
 estremamente significativa fu nuova distinzione tra l’imperium domi e l’imperium militiae riducendo così
il potere e il prestigio dei consoli. Infatti, i consoli dovevano solo governare la città (esercitavano,
pertanto, il solo imperium domi), mentre la conduzione delle guerre veniva affidata ai proconsoli (che
esercitavano l’imperium militiae).
Lo Stato, infine, venne riorganizzato territorialmente. I confini vennero portati fino al Rubicone, cosicché
tutto il territorio, fino allo stretto di Messina, fu assoggettato all’imperium domi dei consoli.
Alla Gallia Cisalpina fu concessa la latinità.
Il regime di Silla non fu un regime monarchico, anche perché la presenza di una aristocrazia senatoriale forte
era ancora in grado di frenare il potere dei singoli.
Tuttavia introdusse importanti elementi di novità di carattere autocratico, che posero le basi per la futura
involuzione costituzionale.

Con la nomina di Silla a dictator per la prima volta si era costituito ufficialmente un organo Superiore agli
altri (anche alla stessa costituzione) accompagnato da un ritorno ad un’aura di religiosità da molto tempo
assente nell’ordinamento giuridico romano.

CAPITOLO 11 - L’età di Cesare e l’avvento di Augusto Ottaviano

Il periodo post silliano


Prima di morire, Silla individuò i due uomini politici che sarebbero stati i protagonisti dell’epoca successiva:
il sillano Gneo Pompeo e l’aristocratico, ma popularis, Caio Giulio Cesare, parente di Caio Mario.
Il primo ad usare il termine politico «popularis» (al plurale populares), fu Cicerone, col significato di «amico
del popolo», e non di «democratico». In realtà il termine è usato come sinonimo di atteggiamento da leader
«demagogico» e designa in particolare chi mobilita e attrae la folla per sostenere i propri interessi.
Subito dopo la morte di Silla, la legislazione sillana fu quasi interamente abrogata: furono restituiti ai tribuni
i loro poteri, vennero riformate le quaestiones ecc.
In breve tempo l’intera opera del dittatore fu cancellata.
Sopravvisse soltanto la distinzione fra l’imperium domi e l’imperium militiae.

IL CONSOLATO DI MARCO EMILIO LEPIDO


Nel 78 a.C., anno dell’abdicatio sillana, furono nominati consoli Quinto Lutazio Catulo e Marco Emilio
Lepido, noto avversario di Silla.
Durante il suo consolato, Lepido tentò di cancellare tutti gli atti di Silla
Gradualmente abbandonato dai suoi sostenitori, Lepido cercò appoggi e consensi soprattutto tra coloro che
avevano subìto le persecuzioni di Silla, e cioè tra i vecchi seguaci di Mario (italici e populares).
Oltre al ripristino delle frumentazioni, Lepido propose che fossero richiamati in patria i proscritti
sopravvissuti e rifugiatisi in esilio, per restituire loro i patrimoni che gli erano stati confiscati; inoltre, chiese
che fossero ripristinati i poteri dei tribuni.
La riforma di Lepido era fin troppo eversiva per essere appoggiata dalla classe nobiliare e da quella
equestre; la classe dominante, pur divisa in fazioni diverse e contrastanti, si unì compatta per la difesa del
proprio monopolio nella gestione del potere.
Il Senato si oppose con ogni mezzo, legale e non, per sconfiggere l’avversario: Lepido fu così dichiarato,
con un senatusconsultum ultimum, hostis rei publicae (nemico della repubblica). Duri scontri seguirono.
Sconfitto militarmente oltre che politicamente, Lepido fu costretto a rifugiarsi in Sardegna, dove morì.

POMPEO

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La fortuna politica di Pompeo ebbe origine dal contributo da lui dato — tra l’82 e il 79 a.C. — alla
repressione dei seguaci di Mario e di Lepido.
Nel 77 a.C. come privatus cum imperio (cioè senza mai essere stato console o proconsole), aveva ottenuto il
comando delle truppe contro Lepido al fine di salvare il governo senatorio.
Nel 73 a.C., con l’aiuto di Crasso represse una rivolta di gladiatori a Capua capitanata da Spartaco, cui si
erano affiancati schiavi e contadini in lotta contro la classe dirigente.
Nonostante il conflitto avesse creato della rivalità tra i due capi militari, Crasso e Pompeo strinsero un
accordo nel 70 a.C., ed entrambi riuscirono ad essere eletti consoli.
Con l’appoggio di Crasso, suo collega nel consolato, Pompeo scardinò la costituzione sillana: con una lex
Pompeia Licinia de tribunicia potestate abrogò le limitazioni al potere dei tribuni, alienandosi in parte
il favore del Senato, ma accrescendo quello dei cavalieri nei suoi confronti.
Nel decennio successivo al consolato, una serie di eventi concomitanti contribuì a determinare l’ascesa di
Pompeo.

Nel 61 a.C. Pompeo tornò vincitore dalla guerra in Asia e, congedato l’esercito, aspettò fuori dal pomerium
la concessione del trionfo «de orbe terrarum», dovutogli secondo la tradizione.

A questo punto il Senato commise un grave errore politico: anziché appoggiare Pompeo, che avrebbe potuto
ridiventare il difensore dei privilegi del Senato, i senatori discussero se era opportuno ratificare o meno
l’operato di Pompeo in Asia, decidendo di respingere la sua richiesta di distribuire terre ai suoi veterani.
Pompeo si trovò, in tal modo, isolato politicamente: aveva infatti contro sia il Senato, che i democratici, i
quali lo consideravano troppo legato all’oligarchia senatoria.
Per rafforzare il suo potere personale, si trovò a dover stringere alleanza con Crasso, come già era
avvenuto nel 70 a.C.; l’accordo tra i due rivali fu reso possibile grazie alla mediazione di Caio Giulio
Cesare.

Questo accordo, segreto, è detto, impropriamente, primo triumvirato (fu in realtà solo un accordo politico tra
capi), per contrapporlo a quello non segreto, anzi approvato con i riti formali, che intercorrerà, come
vedremo, nel 43 a.C. tra Ottaviano, Antonio e Lepido (secondo triumvirato). Questo, al contrario del primo,
fu considerato una vera e propria magistratura

Il Consolato di Caio Giulio Cesare


Cesare (100-44 a.C.), forte delle sue brillanti fortune militari e dell’appoggio di Crasso e Pompeo a seguito
del primo triumvirato, divenne console nel 59 a.C.

Durante il suo consolato Cesare fece approvare:


 una lex agraria che, pur non avendo la stessa portata di quella dei Gracchi (in quanto colpiva solo il
demanio pubblico), incontrò l’opposizione dell’aristocrazia e dovette essere approvata dal comizio
tributo in un clima di aperta violenza;
 la lex Iulia de publicanis, che riduceva di un terzo le somme dovute dagli appaltatori di tributi in Asia e
mirava, quindi, ad ingraziarsi i cavalieri;
 la lex Iulia de actis Gnei Pompeis confirmandis, che confermava gli ordinamenti dati da Pompeo
all’Oriente;
 la lex Iulia de pecuniis repetundis che inaspriva le sanzioni contro gli abusi perpetrati dai magistrati
provinciali.
 Grazie ai servigi resi ai suoi alleati, nel 59 a.C. Cesare riuscì ad ottenere la conferma dell’imperium per
altri cinque anni, con l’incarico di conquistare la Gallia (lex Vatinia de provincia Caesaris).

GLI ACCORDI DI LUCCA (56 A.C.)


Si giunse allora al convegno di Lucca del 56 a.C., nel quale fu decisa la proroga, per altri cinque anni, del
primo triumvirato, riportando al consolato per il 55 a.C. Pompeo e Crasso.
Una volta sconfitta l’opposizione «nobiliare», i tre alleati si divisero, inoltre, i compiti, assicurandosi ognuno
un comando straordinario:
 Pompeo sarebbe rimasto a Roma per controllare la situazione provvedendo, mediante

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ambasciatori, al governo delle due provincie spagnole;
 a Crasso fu affidato il governo della Siria, dandogli così l’occasione di intraprendere una campagna
in Asia;
 Cesare avrebbe mantenuto le 4 legioni che già aveva, ma avrebbe dovuto procedere alla conquista
dell’intera Gallia.

LA GUERRA TRA POMPEO E CESARE


Dopo la morte di Crasso, nel 53 a.C., i due si trovarono di fronte: Pompeo si era affermato, dopo molte
ambiguità, come capo degli ottimati; Cesare, per tradizione familiare e per opportunità politica, si era messo
alla testa del partito democratico (populares).
L’oligarchia senatoria repubblicana non vide altro modo di opporsi al potere di Cesare, rimetteva i poteri del
governo cittadino nelle mani di Pompeo che, appoggiato anche da Catone e Cicerone, sicuramente legati
all’ideale repubblicano, venne nominato nel 53 a.C., console senza collega costituendo una violazione
dell’ordinamento repubblicano
In reazione a ciò, Cesare decise che non avrebbe lasciato il proconsolato gallico se non fosse stato nominato
anch’egli console per lo stesso anno. Ma Pompeo, per evitare di essere affiancato nel consolato da Cesare,
fece votare una legge, la lex Pompeia de provinciis, con la quale si stabilì che non si poteva ottenere un
nuovo consolato se non dopo 10 anni dal precedente. Cesare, quindi, che era stato console nel 59 a.C., non
avrebbe potuto riottenere il consolato prima del 48 a.C.
Alla fine del 50 a.C. Cesare, finito il periodo di carica proconsolare in Gallia, fu dichiarato decaduto e
richiamato in patria. Egli non si rifiutò, pretendendo, però, che anche Pompeo decadesse dal proconsolato di
Spagna ed Africa.
Il Senato rifiutò la sua proposta, anzi gli ordinò di abbandonare il comando degli eserciti di stanza in Gallia,
se non voleva essere dichiarato hostis publicus.
Questa imposizione, non accettata da Cesare, provocò lo scoppio della guerra civile: Cesare, volendo evitare
la rovina personale, fu obbligato a marciare contro Roma nel 49 a.C. varcando il fiume Rubicone.
Contro Cesare l’oligarchia senatoria inviò Pompeo: la guerra civile fu peggiore di quella sillana, perché gli
avversari non rappresentavano neanche classi contrapposte ma fazioni politiche in lotta.
In un breve volgere di tempo, Cesare ebbe ragione di Pompeo e dei suoi seguaci a Farsalo (48 a.C.),
contro i quali, al contrario di quanto era avvenuto nel recente e sanguinoso passato di Roma, non infierì.

Dal 49 a.C., Cesare divenne unico detentore del potere in Roma.

L’ETÀ DI CESARE E IL SUO PROGETTO “COSTITUZIONALE”


Dal 49 a.C. in poi, vi fu un progressivo accumularsi nella persona di Cesare di cariche ed onori che diedero
vita, nel loro complesso, ad una forma embrionale di potere monarchico, costruito sui ruderi della
costituzione repubblicana
Dittatore a tempo indeterminato (dal 48 a.C.), console senza collega, dotato del potere dei censori, pontefice
massimo, titolare della tribunicia potestas: con un crescendo di titoli, Cesare accentrò su di sé tutte le cariche
pubbliche divenendo capo assoluto di Roma.
Il breve periodo di tempo nel quale Cesare ebbe il potere, a causa della fine violenta dovuta alla congiura
degli ostinati sostenitori della reazione senatoria, guidata da Giunio Bruto (amatissimo figlio adottivo di
Cesare), alle idi di marzo (15) nel 44 a.C., non consentì al geniale condottiero la realizzazione di un vero e
proprio regime costituzionale alternativo rispetto a quello repubblicano.
Nondimeno le direttive del suo programma politico si manifestarono chiaramente, e si concentrarono intorno
a 2 punti essenziali:
 l’esautoramento degli organi repubblicani, mantenuti formalmente in vita, ma privati della loro sovranità,
al fine di creare un potere e un governo fortemente centralizzati;
 l’apertura di varchi che consentissero la partecipazione di uomini di sua fiducia alla direzione dello Stato
e la tendenza a distruggere le posizioni di privilegio tradizionalmente detenute dalla oligarchia nobiliare.
Per la realizzazione di questi obiettivi Cesare, tra il 49 e il 44 a.C., fece votare dai comizi una serie di leggi
costituzionali.
Il numero dei senatori fu portato a novecento e il Senato venne aperto agli amici del dittatore,

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trasformandosi in un organo a lui fedele che gestiva un potere prevalentemente consultivo; fu altresì ridotto
il potere della nobilitas.
Furono stabilite precise norme per l’avvicendamento dei magistrati e fu incrementato il numero dei
magistrati che componevano i singoli collegi.
Per quanto riguarda la politica estera, fu concessa la
cittadinanza romana ad un gran numero di stranieri e venne ripreso il programma graccano di colonizzazione
transmarina.
Accanto alle riforme costituzionali, fu notevole anche la produzione di leggi in materia penale e processuale;
fu, inoltre, regolato il governo delle province e vennero riprese e disciplinate le frumentationes. Fu, altresì,
sottratta la riscossione delle imposte agli appaltatori rapaci (publicani), affidata alle stesse comunità,
amministrate da un magistrato locale (governatore).
Si trattò in definitiva di un’opera legislativa imponente, frutto di un organico progetto che ebbe fine solo a
causa della improvvisa e violenta morte di Cesare.
Il problema della «romanizzazione», ovvero l’amministrazione locale dell’Italia dopo la guerra sociale,
caratterizzò il I sec. a.C.
Il mutamento fu dovuto ai profondi cambiamenti del quadro politico generale. Tra il 46 e il 45 a.C., Cesare
fece votare una «lex Iulia municipalis» che avrebbe segnato una importante tappa nel processo di
unificazione delle strutture dell’autonomia locale. In questo periodo si assiste infine alla
«municipalizzazione» degli altri tipi di circoscrizioni territoriali conosciute nell’epoca Repubblicana che
furono trasformate in «municipia» o trattati come tali per le funzioni e gli organi, pur conservando la vecchia
denominazione (forum o praefectura).

OTTAVIANO CESARE AUGUSTO (63 A.C. - 14 D.C.)


Il console Marco Antonio, compagno d’armi di Cesare, dopo l’uccisione di quest’ultimo, aveva indotto
il popolo a sollevarsi contro Bruto: dopo alcuni brevi ma cruenti scontri, Bruto ebbe la peggio, e fu
costretto a rifugiarsi in Oriente.
Nel frattempo, era stato aperto il testamento di Cesare che beneficiava i populares con larghissimi
lasciti e nominava figlio adottivo e suo erede il nipote Caio Ottavio (Ottaviano).
Occupata Roma, e volendo evitare una guerra civile contro Antonio e Lepido, Ottaviano (pure avendo
sconfitto Antonio a Modena nel 43) si accordò con essi costituendo un triumviato quinquennale rei publicae
constituendae causa, con poteri costituenti illimitati (secondo triumvirato, sancito con la lex Titia de
triumviris, 43 a.C.) che costituì una vera e propria magistratura.
A seguito di questo accordo, i tre alleati riuscirono ad eliminare le resistenze aristocratiche in Roma (venne
ucciso anche Cicerone) e ad affrontare e sconfiggere Cassio e Bruto a Filippi, in Oriente.
Dopo Filippi, i triumviri decisero di definire le rispettive zone di influenza, spartendosi in piena concordia
l’impero:
 Lepido ebbe l’Africa;
 Antonio l’Oriente;
 Ottaviano rimase a Roma.

Di fronte alla personalità di secondo piano di Lepido, la rivalità tra Ottaviano e Antonio non tardò a
manifestarsi.
Dopo aver rinnovato per un altro quinquennio il triumvirato, Ottaviano consolidava il suo potere, forte della
vittoria riportata sui pirati illirici e durante la guerra contro Sesto Pompeo, figlio di Pompeo Magno che,
disponendo di una potente flotta, era riuscito a conquistare la Sicilia, la Sardegna e la Corsica, dominando,
con grave danno per Roma, le esportazioni di grano.
Antonio si poneva sempre più in cattiva luce per la sua relazione con Cleopatra, regina d’Egitto, in quanto
intendeva porsi a capo di un regno d’Oriente indipendente da Roma. La sua popolarità crollò perché si
presentava davanti agli occhi dei Romani come succube di una regina straniera, dimentico dei suoi doveri di
cittadino e di magistrato
Morto Lepido in Africa, lo scontro tra Antonio e Ottaviano divenne inevitabile: nel 31 a.C., ad Azio,
Ottaviano riportò la sua definitiva vittoria su Antonio, il quale, sconfitto, decise di darsi la morte assieme a
Cleopatra.
Rimasto ormai da solo al potere, Ottaviano organizzò l’Egitto come provincia imperiale; al suo ritorno in

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Roma l’attendeva, finalmente, il trionfo: aveva così finalmente inizio una lunga era di pace (pax Augustea).
Nel 27 a.C. egli dichiarò di voler restaurare la repubblica e di ritirarsi a vita privata: ciò indusse il Senato, in
segno di riconoscenza, a nominarlo non solo moderator rei publicae e princeps Romanorum ma anche
«Augustus», titolare di imperium proconsulare che diede, così, inizio ad una nuova era: il principato.

CAPITOLO 12 - Il periodo augusteo: e la nascita del Principato (GIURISPRDENZA CLASSICA)

Introduzione
Il periodo classico o del Principato, va dal I sec. a.C. (27 a.C.) al III sec. d.C. (285 d.C. ascesa di
Diocleziano).
La data del 27 a.C. segnò, simbolicamente, la fine della fase della crisi della repubblica nazionale romana, e
l’inizio di una nuova epoca denominata della civiltà romano-universale (o Repubblica universale).
La nuova Respublica instaurata da Ottaviano Augusto si caratterizzò per la sua universalità.

Superata la angusta concezione della città-stato, infatti, essa aprì le sue porte a tutti i popoli dell’Impero,
costituendo una sorta di denominatore comune delle varie civiltà che facevano capo a Roma, i cui patrimoni,
tuttavia, rimasero per buona parte intatti sotto il manto comune della romanità.
Dal punto di vista storico-politico, la valutazione di tale età è molto controversa: ma è certo che fu
caratterizzata dalla fioritura di un pensiero giuridico singolarmente copioso e maturo, che si suole
denominare, nel suo complesso, giurisprudenza classica
L’affermazione del Principato dopo l’avvento di Ottaviano è dovuta al fatto che le istituzioni repubblicane
(in primis, il Senato) considerarono necessaria l’istituzione di un princeps, che avrebbe dovuto garantire:
 l’ordine interno;
 la pax romana nelle province.

Nell’epoca del Principato le istituzioni repubblicane sopravvissero solo formalmente; infatti:


l’autorità del Senato era crollata anche per l’ascesa, favorita da Antonio, dei Cavalieri (ordine costituito
prevalentemente dai nuovi ricchi) che aspiravano alla gestione della cosa pubblica;
i magistrati e i promagistrati non agivano più secondo le più antiche consuetudini e con l’antica ampiezza di
poteri, ma erano gerarchicamente subordinati al Princeps;
 l’esercito, dopo l’ascesa di Caio Mario, costituiva un potere indipendente sia dal senato che dal comizio
obbedendo soltanto agli ordini del suo comandante;
 le assemblee popolari (comizi) non avevano più alcuna autonomia né alcun potere;
 l’ordinamento repubblicano era diventato inadeguato per l’immenso territorio conquistato da Roma: un
cambiamento istituzionale era, dunque, divenuto inevitabile.

LA GIUSTIFICAZIONE COSTITUZIONALE DEI POTERI DI OTTAVIANO


La detenzione del potere da parte di Ottaviano, attraverso un triumvirato, (con Antonio e Lepido) a partire
dal 43 a.C. per cinque anni, prorogati poi di altri cinque, costituiva per alcuni autori una grave violazione
dell’ordinamento repubblicano (che prevedeva solo due consoli annuali), mentre per altri una nuova
magistratura.
Lo stesso Ottaviano, nella sua autobiografia «Res Gestae», mostrò di ritenere esaurito il potere triumvirale il
31 dicembre del 33 a.C. in quanto dopo aver concluso le guerre civili, si era impadronito del potere
attraverso il consensus universorum.
Dal punto di vista della storia sociologica, l’indebolimento delle strutture repubblicane genera un vuoto,
riempito da un personaggio forte come Ottaviano. Ottaviano riuscì a creare una vera e propria leadership con
40 anni di regno.
Augusto, dunque, affrontando il problema in modo più concreto di quanto hanno fatto i moderni storici, per
giustificare il fondamento e l’esercizio del suo potere rerum omnium (universale) ricorreva al consensus
universorum, cioè ad un fatto extra-costituzionale che però, non lo avvicinava né ad un dictator, né
tantomeno ad un tyrannus.

IL CONSOLATO DI OTTAVIANO
Il potere consolare, che Ottaviano dal 31 a.C. si fece formalmente rinnovare ogni anno dal senato, gli

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consentì la “legale” direzione della vita politica di Roma, e sostanzialmente fu analogo a quello
tradizionalmente riconosciuto alla magistratura consolare.
I poteri di Augusto sulle province erano del tutto estranei alla tradizione: si trattava di un imperium di nuova
creazione, non definibile secondo le formule politiche risalenti al precedente sistema istituzionale, che
trovava il suo fondamento nel comando supremo dell’esercito.
I poteri di Ottaviano nel 23 a.C.
La più importante tappa della ascesa politica di Augusto si ebbe nel giugno- luglio del 23 a.C. quando,
abbandonato il consolato, ottenne dal Senato poteri totalmente estranei alla tradizione repubblicana, e tali da
costituire la base giuridica del nuovo ordinamento.
Egli concentrò nelle sue mani tutti i “poteri” per “vie costituzionali”, in quanto ottenne:
 dai concilia plebis, la tribunicia potestas a vita;
 dai comitia centuriata, l’imperium proconsulare maius, non solo sulle province imperiali ma anche su
quelle senatorie.
In particolare, la tribunicia potestas attribuì ad Augusto il diritto di controllo e di iniziativa sulla vita
costituzionale e gli conferì:
 la qualità di sacrosantus;
 l’intercessio contro tutti gli atti dei magistrati e del Senato;
 lo ius agendi cum plebe, ovvero la capacità di convocare i plebisciti (oltre a convocare il Senato);
L’imperium proconsulare maius, non più limitato alle province assegnategli, ma esteso su tutto l’Impero
(imperium infinitum), gli diede il supremo comando militare e il potere sulle province.
Questa potestas gli concesse un «potere formidabile»: pur non essendo tribuno della plebe, egli godeva di
tutta la potestas propria dei tribuni della plebe
Accanto a questi due poteri fondamentali, ad Augusto fu conferita inoltre tutta una serie di poteri minori,
come:
 la cura legum et morum: (potere di controllo sulla legislazione e i costumi) oltre alla non secondaria
carica di pontifex maximus;
 il diritto di commendatio: potere di raccomandare, alle assemblee, i candidati alle magistrature.
 Il conferimento di questi ampi poteri segnò, dunque, un vero e proprio mutamento istituzionale, aprendo
le porte all’età del Principato, e rendendo palese il disegno politico già di Giulio Cesare: calare, in forme
idealmente repubblicane, la realtà di un assetto istituzionale nuovo, incentrato sul suo potere personale
assoluto

In particolare, Augusto fu insignito dei titoli di:


 Imperator: il titolo, assunto da Augusto come prenome, nelle istituzioni repubblicane designava solo il
“generale vittorioso” e l’intenzione di assimilare i soldati ai cittadini. In questa nuova fase, perciò, esso
indicò il titolare di un potere esclusivo e illimitato;
 Princeps: il titolo, peraltro non sempre usato da Augusto, designava il leader del Senato, ma fu inteso da
Augusto in senso più ampio;
 Augustus (da áugeo = accresco): questo titolo aveva valore meramente onorifico per mettere in evidenza
lo sforzo di Ottaviano per far crescere lo “Stato” a lui affidato.
Gli obiettivi
Il principale obiettivo di Augusto, come in passato per Giulio Cesare, era di riformare la costituzione
repubblicana per adeguarla alla nuova realtà.
Tuttavia Cesare era stato più innovatore: la sua opera lascia intendere, infatti che, se fosse rimasto più a
lungo al potere, avrebbe certamente realizzato una monarchia assolutistica di tipo orientale sulla base del suo
potere personale.
Ottaviano era più conservatore: voleva limitarsi a restaurare la Repubblica, dando vita ad un ordinamento
giuridico che risultasse dal compromesso fra le tradizioni dell’epoca repubblicana e la figura nuova di un
princeps, titolare di un potere sostanzialmente vicino a quello monarchico.
Il princeps non doveva essere considerato un sovrano investito costituzionalmente ma, semplicemente, il
primo cittadino (princeps, primus inter pares, da cui principato) che, grazie al suo prestigio etico e politico
(auctoritas) si poneva al fianco del governo repubblicano per garantire la pace e per aiutarlo a
mantenere l’ordine pubblico e l’amministrazione dell’Impero universale secondo il costume repubblicano
della “dignitas” e nel formale rispetto della tradizione.

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Ottaviano Augusto con ogni probabilità cominciò a realizzare il suo piano di riforma e di restaurazione già
nel 28-27 a.C. prima, cioè, di essere nominato princeps Augustus.
Nell’ambito della sua opera riequilibratrice formalmente restauratrice, egli provvide a restituire formalmente
la sovranità agli organi costituzionali che ne erano titolari: così il popolo, il Senato e le magistrature
ripresero l’esercizio legittimo delle loro tradizionali funzioni, come previsto dalla costituzione repubblicana
(che mantenne quindi la sua grande influenza morale).

AUGUSTO PROVVIDE A:
 dividere le insegne consolari con l’altro collega console;
 abolire le norme triumvirali eccezionali (vicine allo spirito e all’emergenza della dittatura) ripristinando
la legislazione ordinaria, sintomo della pax augustea;
 proporre adeguati provvedimenti riguardanti l’amministrazione finanziaria, la giurisdizione, e il divieto
dei culti stranieri (tendenza, invece, manifestata da Cesare e Antonio), segnando, così, un ritorno formale
alle tradizioni più radicate dell’Urbe.
Anche se Augusto aveva permesso la ripresa del regolare funzionamento delle istituzioni repubblicane
attraverso il ripristino delle assemblee popolari e la riattribuzione del potere legislativo e giudiziario al
Senato, ciò non voleva dire che la Repubblica fosse stata realmente ed effettivamente restaurata.
Augusto infatti, non abbandonò mai la sua iniziativa politica, che si esplicava nel continuo controllo di tali
organi

IL CONSILIUM PRINCIPIS, OVVERO IL “CONTROLLO”


Nel nel 27 a.C. egli creò un consilium principis volto da un lato a ratificare tutte le deliberazioni
assembleari, e dall’altro a preparare provvedimenti che, trasmessi al Senato, apparivano emanati da
quest’ultimo.
Gradualmente, ma costantemente, il Senato fu privato di iniziativa legislativa: la sua attività finì ben
presto col ridursi a mera ratifica - fatta senza godere di alcun autonomo potere valutativo e discrezionale -
dei provvedimenti legislativi voluti dai vari imperatori

IL SIGNIFICATO POLITICO DEL PRINCIPATO


Secondo la storiografia tradizionale il passaggio dalla Repubblica al Principato sarebbe stato realizzato
attraverso una rivoluzione silenziosa, che si concretizzò nella sostituzione di una nuova oligarchia di
potere a quella precedente della classe degli optimates.
In realtà però:
 non vi era stato alcun mutamento importante né nei rapporti tra le classi, né nella struttura economica;
 non era cambiato il rapporto tra liberi e schiavi, caratteristico della società romana;
 non era mutato neanche il regime che subordinava le province a Roma e all’Italia.

Per tali motivi la dottrina nega la possibilità di parlare di rivoluzione e considera, invece, il nuovo regime
conservatore e restauratore perché tendente a:
 consolidare la struttura economica schiavista della società;
 perpetuare il divario economico esistente tra i ceti più abbienti e la plebe;
 a perpetuare nel mondo mediterraneo l’egemonia romano- italica.
Ovviamente tutto ciò non significa che non si assistette a cambiamenti strutturali

In particolare:
 il regime schiavistico cominciò lentamente a decadere;
 la classe dei cavalieri fu privilegiata rispetto all’ordine senatorio;
 i sudditi provinciali vennero integrati nella Respublica e ne fu favorita la romanizzazione;
 il regime superò definitivamente l’antica concezione dello Stato come polis o civitas, per assumere la
forma di un “governo mondiale”.
Tali mutamenti non furono repentini, ma produssero una evoluzione profonda nella struttura giuridica di
Roma, modificandone sia l’assetto costituzionale, sia l’ordinamento civile, penale e giurisdizionale.
Augusto ebbe molti meriti, in primis fu un politico eccezionale e un eccellente amministratore, e riuscì
gradualmente a creare una nuova elite avendo intuito il mutare dei tempi e facendo in modo che le vecchie

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elite non si sentissero messe da parte.

Alcune caratteristiche dell’età del Principato


I primi due secoli dell’età imperiale del principato di Augusto, fino più o meno ad Antonino Pio (161 d.C.),
furono caratterizzati dalla sovrapposizione di un ordinamento più consono ai tempi rispetto al vetusto
impianto repubblicano e, pertanto, rappresentarono un momento culminante della storia della società romana
in cui regnavano finalmente la pace e si assisteva ad un grande sviluppo economico.
Dal punto di vista politico si alternarono forme illuminate di autocrazia a soluzioni dispotiche anche se il
fondamento del potere non si rifaceva più alle istituzioni e al popolo (Senatus populusque romanus), ma
prevalentemente al “consenso” dei cives e delle legioni.
Il verificarsi di tali eventi consentì la pax romana.
Dal punto di vista economico si deve soprattutto all’apertura e all’urbanizzazione delle province la maggiore
attività commerciale, industriale ed artigianale.
Tuttavia la principale fonte di ricchezza del paese rimase la produzione agraria che prosperò non solo nelle
zone agricole tradizionali, ma anche in zone fino ad allora arretrate, grazie all’introduzione di metodi di
coltivazione più redditizi e alla grande quantità di forza lavoro servile a disposizione.
Dal punto di vista sociale dell’età del Principato non si differenziava molto da quella della tarda repubblica.
La società appariva ancora divisa in due classi sociali: lo strato sociale superiore, rappresentato dalla classe
dirigente, l’élite, al quale spettavano i posti più elevati.
Nell’amministrazione dell’impero (ordo equester e ordo senatorius) e lo strato sociale inferiore della città e
della campagna i cui componenti (liberi, liberti o schiavi) vivevano secondo differenti forme di dipendenza
sociale (ed erano detti proletari).
Le persone più importanti (cd. honestiores) erano trattate con maggior riguardo, in quanto «degni d’onore»,
principalmente nel campo del diritto penale, nel quale erano previste per essi pene più miti e meno infamanti
rispetto a quelle previste, per gli stessi delitti, per le persone di condizione sociale inferiore (cd. humiliores).
Non vigeva assolutamente il principio di uguaglianza della popolazione di fronte alla giustizia.
Così per esempio i membri dell’ordine equestre colpevoli di crimini per i quali era prevista (per gli
humiliores) la pena dei lavori forzati, erano puniti col solo esilio. Ai senatori colpevoli di delitti capitali,
veniva risparmiata la pena di morte, che era sostituita dall’esilio.
La classe che effettivamente trasse vantaggio dal nuovo assetto costituzionale fu il ceto medio composto
soprattutto funzionari imperiali, ufficiali, impiegati ecc.
Si moltiplicarono, infatti, gli impieghi pubblici al servizio dell’imperatore, e, quindi, gran parte dei
cittadini si trovarono ad essere mantenuti dallo Stato.
Questo ceto medio di burocrati, dotato di una certa cultura, ma con disponibilità finanziarie non eccelse, si
inserì in ogni settore dell’amministrazione imperiale, e costituì il vero e proprio nerbo sociale del Principato

CAPITOLO 13 - Il periodo post - augusteo e lo sviluppo del Principato fino alla dinastia dei Flavii

Residui dell’ordinamento repubblicano


Nel periodo successivo all’età augustea, caratteristica essenziale dell’ordinamento fu il progressivo
rafforzamento dell’organizzazione che faceva capo al Principe, e la contestuale decadenza degli elementi
repubblicani
Gli storici dividono l’età dell’Impero in due fasi:
 la fase del Principato (che ha termine con l’ascesa al trono imperiale di Diocleziano, nel 285 d.C.) in cui
le istituzioni repubblicane classiche, pur rimanendo in vita formalmente, vanno progressivamente
scomparendo e nella quale il princeps (soprattutto Augusto) si fa valere per la sua autorevolezza;
 la fase della monarchia assoluta, o Dominato in cui le istituzioni repubblicane vengono completamente
cancellate e si afferma il dominio (da cui il termine dominatus) personale dell’imperatore.
In realtà, con i successori di Ottaviano, mentre l’assetto repubblicano si riduceva rapidamente «a una larva»,
la nuova organizzazione statale (il Principato) ampliava e perfezionava sempre più i suoi meccanismi di
potere, così che l’avvento della monarchia assoluta nel III sec. d.C., con Diocleziano, costituì una sorta di
esito naturale della parabola istituzionale.

Il problema della successione

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Il punto debole del progetto politico di Ottaviano Augusto fu la questione della successione nel Principato.
In particolare, era necessario stabilire in che modo si potesse passare da un sistema fondato sul carisma
personale (come quello di Augusto), ad un sistema fondato su un carisma istituzionalizzato (come quello da
conferire ai suoi successori per legittimarli sul trono).
Poiché il potere del principe trovava il suo fondamento non nella costituzione, ma in una ideologia politica,
non si potè ricorrere ad una disciplina legislativa del sistema di successione.
In particolare:
 la trasmissione ereditaria era inconciliabile con la visione ufficiale della
 continuazione della repubblica;
 l’elezione dei successori, da parte del Senato, non poteva avere altro valore se non quello puramente
formale, essendo il Senato ormai privo di reali poteri in materia;
 l’esercito inevitabilmente era l’unico centro di potere in grado di influire nella scelta del successore.

Su 16 imperatori che successero ad Augusto, fino a Commodo, solo otto salirono al trono in qualità di
discendenti, e, quindi, in veste di appartenenti alla stessa gens.
Ciò evidenzia come il principio dinastico fu certamente, nella prassi, determinante nella scelta dei successori
e già ai tempi di Augusto rappresentava il criterio prevalente
Al sistema dinastico si affiancò quello della corregenza: il successore era chiamato dal princeps
(ancora in vita) a collaborare agli affari di governo, venendo al tempo stesso già indicato come futuro
princeps.

Il problema della successione: l’adozione


Spesso i prìncipi, a causa della difficoltà della successione, designavano come successori persone
appartenenti alla loro famiglia, fornendo per tale via la legittimazione.

Per questa ragione alla fine del I sec. a.C. si diffuse un nuovo sistema: il principe adottava il migliore dei
suoi collaboratori, designandolo come successore.

Politicamente l’adozione trasmetteva molto più di una eredità materiale ed economica: l’adottato diveniva
heres spirituale del princeps, dal quale proveniva il carisma di base e al quale si sarebbe aggiunto quello
proprio del successore.

Il problema della successione: il ruolo dell’esercito


Questo procedimento fu gradualmente affiancato e poi sostituito dall’investitura dell’esercito.
In tale situazione giuridicamente non ben definita, erano normali le controversie, sicché, se gli eserciti
designavano più principi o si trovavano in disaccordo con il Senato, la forza poteva decidere, eliminando o
costringendo alla rinunzia tutti i competitori meno uno.

I successori di Augusto
Lo stesso Augusto, che apparteneva alla gens Iulia, fece ricorso, per la sua successione, alla correggenza:
infatti, quando ancora era in vita, adottò Tiberio figlio di primo letto della moglie Livia (della famiglia
Claudia) designandolo come suo successore.
Di qui l’origine della dinastia Giulio-Claudia.
Dal 31 a.C. al 235 d.C. si susseguirono le seguenti dinastie imperiali:
- Giulio-Claudia (31 a.C.-68 d.C.);
- Flavii (69-96 d.C.);
- Successori dei Flavii (96-138 d.C.)
- Antonini (138-192 d.C.);
- Severi (192-235 d.C.).

LA DINASTIA GIULIO-CLAUDIA (31 A.C.-68 D.C.)

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La dinastia Giulio-Claudia: Tiberio (14 d.C.-37 d.C.)
Alla morte di Augusto (avvenuta il 19 agosto del 14 d.C.) divenne Princeps il successore designato, Tiberio,
che ebbe delle esitazioni ad accettare la carica e i relativi titoli, comportandosi più come un patrizio titolare
di una magistratura che come princeps
Non fu un «principe democratico», perché la sua azione fu rivolta a distruggere gli ultimi poteri dei comizi e
ad accrescere l’influenza del Senato, appoggiando la nobilitas e gli equites.
Invero, il suo avvento al potere fu molto gradito al senatus: uno dei suoi primi atti fu proprio quello di
trasferire al solo Senato la decisione politica sulle designazioni dei candidati alle magistrature.
Dal punto di vista sostanziale l’ordinamento costituzionale instaurato da Augusto non subì importanti
mutamenti.
Tiberio, infatti, seguì la stessa linea politica del predecessore, ponendo molta attenzione al controllo delle
province e dei governatori di esse spesso corrotti.
Anche dal punto di vista formale, i poteri attribuiti a Tiberio non differirono da quelli di Augusto (tribunicia
potestas, imperium proconsulare maius); d’altronde, era ancora lontana la possibilità di porre il fondamento
del regime imperiale su basi religiose, ed ogni tentativo in tal senso venne respinto da Tiberio.
Dopo la morte dei più autorevoli candidati alla successione (il nipote Germanico ed il figlio Druso), Tiberio
si ritirò a Capri;
A Roma crebbe l’influenza del praefectus praetorio Elio Seiano, che arrivò persino a congiurare contro
l’imperatore, ma fu alla fine condannato a morte.
La morte colse Tiberio nel 37 d.C., a Miseno (Napoli).

La dinastia Giulio-Claudia: Caligola (37-41 d.C.)


Tiberio prima di morire aveva designato per testamento come successori Gaio, figlio di Germanico, e
Tiberio Gemello figlio di Druso.
Dalle truppe venne acclamato il solo Gaio, detto Caligola (per la forma dei suoi calzari, caligae), che a 25
anni divenne princeps e imperator.
La scelta presto si dimostrò infelice: Caligola rivelò immediatamente un carattere violento e scarse
propensioni alla politica.
Egli si alienò le simpatie dei ceti dominanti, finendo con l’avere la peggio: nel 41 d.C. in seguito ad una
congiura, Caligola fu ucciso da un ufficiale delle coorti (Cherea) scomparendo dalla scena dopo solo 3 anni
di Principato.

La dinastia Giulio-Claudia: Claudio (41-54 d.C.)


Morto Caligola, la successione si presentava estremamente difficile, tanto più che non mancava, tra le file
del Senato, chi concepiva addirittura il proposito di restaurare le istituzioni repubblicane e, con esse, il
predominio del Senato stesso.
Mentre il Senato si dibatteva vanamente, i pretoriani, esprimendo anche le aspirazioni popolari,
avevano già fatto la loro scelta, acclamando imperatore Claudio fratello di Germanico e zio di
Caligola.
Claudio, che fino ad allora si era tenuto lontano dalle lotte per il potere, coltivando con dedizione solo gli
studi storici, assunse il potere a 51 anni.
Il principato di Claudio, caratterizzato dall’intento di rafforzare il potere autoritario centrale, fu
caratterizzato:
 dall’accentuarsi dell’importanza della burocrazia, con l’ingresso dei liberti in affianco ai cavalieri;
 dall’aumento del numero delle coorti pretorie;
 da larghe concessioni della cittadinanza romana;
 dalla concessione della libertà religiosa agli ebrei.

L’insieme di questi provvedimenti condusse l’Impero sulla strada di una «monarchia burocratica e
universale», anche se non sono presenti modifiche giuridiche e costituzionali in tal senso.
Claudio morì improvvisamente nel 54 d.C.: la sua quarta moglie Agrippina, che da sempre aveva
tramato per assicurare la successione al trono di suo figlio Nerone, fu sospettata di averlo avvelenato.

A soli 17 anni, assunse il principato Nerone, figlio di prime nozze di Agrippina, ed adottato da Claudio

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per soddisfare le pressanti richieste di quest’ultima.
Nerone sembrava non adatto a sostenere i pesi del governo: nei primi cinque anni del suo Principato, egli
fu notevolmente aiutato dalla madre e dal maestro Seneca; probabilmente proprio a questa cooperazione
vanno attribuite le azioni più apprezzabili di Nerone, consistenti soprattutto in una politica di sostentamento
dei ceti meno abbienti.

Raggiunta la maturità, egli si liberò di tutti coloro che lo circondavano e si abbandonò completamente ad
impulsi violenti ed irrazionali: si atteggiò a monarca assoluto abbandonò gli affari militari ed anche
l’economia cominciò a risentirne.

La dinastia Giulio-Claudia: Nerone (54-68d.C.)


Tutto ciò causò il malcontento della nobiltà, che iniziò a congiurare contro di lui.
Nel 65 d.C. fu repressa nel sangue la congiura dei Pisoni, ma il malcontento dilagava: ormai in declino,
Nerone morì nel 68 d.C.
Indubbiamente con Nerone si accentuò la concezione di una monarchia accentrata su base trascendente e
religiosa.
Tale impostazione venne temuta dai ceti possidenti, interessati a difendere i privilegi che avevano
conquistato, nonché i vantaggi del dominio di Roma.

LA DINASTIA FLAVIA (69-96 D,C)


Alla morte di Nerone, una crisi di potere ed i conflitti sorti tra i pretendenti militari nel corso del 69 d.C. (la
cd. prima anarchia militare) portarono successivamente al principato, per brevi periodi, Galba, Ottone e
Vitellio.
Il 22 dicembre del 69 d.C. la crisi si chiuse con il riconoscimento da parte del Senato del princeps già
acclamato dalle legioni: Tito Flavio Vespasiano, già noto per aver nel ‘66 represso una ribellione in
Giudea.
Si apriva così un nuovo periodo del Principato all’insegna della cd. dinastia dei Flavi, della quale fecero
parte Vespasiano, Tito e Domiziano
In questo periodo si manifestano i primi fattori di crisi dell’impero:
 l’ingerenza dei militari nella vita politica aveva già assunto notevoli proporzioni; anche le province
intervenivano nella lotta politica per la successione al trono imperiale;
 la guerra civile incoraggiava le rivolte locali e la ribellione delle province;
 la crisi economica crescente impoveriva masse sempre più vaste; l’Impero, infine, era sotto l’influenza di
una capitale turbolenta e sovrappopolata.

La dinastia Flavia:
Tito Flavio Vespasiano (69-79 d.C.)
L’opera di Vespasiano, salito al principato nel 69 d.C. dopo un lungo periodo di disordini, si caratterizzò per
le seguenti ragioni:
- riassestò le finanze statali, applicando un severo regime di economia nelle pubbliche spese e vendendo i
beni accumulati dai Giulio-Claudii; non si appoggiò ufficialmente all’esercito, anzi tentò di farlo rientrare
nei limiti della necessaria disciplina;
- non approfittò della forza militare, e restituì formalmente al Senato ed alle assemblee popolari, il potere
di eleggere i principi
Risale a Vespasiano la famosa «lex de imperio Vespasiani»
Questa ebbe notevole importanza perché conferì una patina di giuridicità alle attribuzioni di poteri al
principe, fatte al di fuori dei precetti della costituzione romana.

La dinastia Flavia: La Lex de Imperio


Approvata dal Senato nel 69 d.C e ratificata pro forma dai comizi, riguardante la definizione del potere e
delle prerogative del Principe Vespasiano rispetto a quelle del Senato stesso.
La legge costituisce l’unico esempio di documento ufficiale che conferisce i poteri a un imperatore.
La parte che ci è pervenuta è solo una porzione su un’iscrizione bronzea, rinvenuta nel 1347 da Cola di

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Rienzo nella basilica di San Giovanni in Laterano, e conservata presso i Musei Capitolini di Roma.

La tavola comprende 8 clausole distinte.

Dal testo si evince che a Vespasiano fu concesso il diritto di agire al di sopra della legge come era stato fatto
già da parte degli imperatori precedenti. Il testo sembra richiamare l’esempio dei predecessori (tutti tranne
Caligola, Nerone, Galba, Otone e Vitellio), a partire da Augusto, per definire le prerogative "speciali"
conferite agli imperatori, e per giustificare il diritto contenuto nella clausola discrezionale (la sesta) di
prendere provvedimenti in qualsiasi campo della vita pubblica e privata.

«Perché abbia il diritto e il potere di fare ed effettuare tutto ciò che riconoscerà utile per lo stato e gli
rechi grandezza nelle questioni divine e umane, pubbliche e private, come spettò ad Augusto, Tiberio
e Claudio »

Nel testo si legittima che il principe indica e presieda le sedute del Senato (con Adriano il senatus consultum
diventerà poi definitivamente oratio principis in senatu habita, spogliando i senatori del potere di emanare
senaticonsulti e lasciando loro l’unico compito di ratificare per acclamazione il discorso del principe).

Inoltre si stabilisce che il principe è absolutus ex legibus, cioè sciolto dalla legge: la sua condotta è
insindacabile.
La legge rese stabile il nuovo ordinamento dello Stato che si era determinato con i poteri, formalmente
straordinari, conferiti ad Augusto e ai suoi successori. Alla carica era collegato il titolo di cesare ed erano
create le premesse per la sua trasformazione in senso ereditario.
Difficoltosa è stata negli anni l’interpretazione della natura della legge.
In particolare gli studiosi si sono divisi tra il considerare la legge una normale prassi, condivisa per tutti gli
imperatori, un atto formale di investitura dei comizi ispirato dalla tradizione, oppure un atto eccezionale
considerato opportuno dopo la confusione delle guerre civili e gli eccessi di Nerone.
Si ritiene anche che fosse intenzione di Vespasiano, assunto il potere, di conferire una legittimazione alla
propria funzione e inserirla negli ordinamenti pubblici, rimuovendo il carattere di "potestà eccezionale e
rivoluzionaria" al principato per farne una magistratura superiore alle altre.
Intenso è anche il dibattito sulla corretta traduzione dell’iscrizione.

La dinastia Flavia:
Tito (79-81 d.C.) e Domiziano (81-96 d.C.)
A Vespasiano, morto nel 79, successe il figlio Tito, già noto per le sue imprese militari che culminarono con
la distruzione di Gerusalemme e del suo tempio del 70 (prima che ascendesse al trono imperiale);
Egli fu osteggiato per alcuni suoi atteggiamenti orientaleggianti e per la sua opposizione alla nobilitas.
Tuttavia Tito fece di tutto per guadagnarsi la benevolenza generale, tanto da essere, poi, definito «amore e
delizia del genere umano».
Morto nell’81, gli successe il fratello Domiziano (81-96 d.C.).
Con Domiziano, si accentuarono ancor di più le caratteristiche monarchiche del Principato: egli si fece
chiamare dio e signore, portò sempre l’abito purpureo, fu censore a vita e console per 10 anni (oltre agli altri
poteri).
I provinciali ottennero alte cariche, l’esercito si vide aumentare lo stipendio, la burocrazia fu rafforzata.
Domiziano fu un imperatore tirannico e fortemente osteggiato dall’aristocrazia senatoria, che ne decise la
morte in una congiura eseguita il 16 settembre del 96.

CAPITOLO 14 - Lo sviluppo del Principato dai successori dei Flavii all’anarchia militare

I successori di Augusto
Dal 31 a.C. al 235 d.C. si susseguirono le seguenti dinastie imperiali:
- Giulio-Claudia (31 a.C.-68 d.C.);
- Flavii (69-96 d.C.);
- Successori dei Flavii (96-138 d.C.)

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- Antonini (138-192 d.C.);
- Severi (192-235 d.C.).

I successori dei Flavi: Nerva (96-98 d.C.)


Con la morte di Domiziano, la cd. dinastia dei Flavi si estinse.
Il senato designò principe un vecchio senatore: Marco Cocceio Nerva (96-98) il quale, come Augusto, riuscì
per l’ultima volta a conciliare monarchia e libertà repubblicane tradizionali.
Egli seppe conquistarsi, contemporaneamente, il favore della nobilitas e del popolo, ma non ebbe la
possibilità di far rinascere l’ordinamento repubblicano, che era già quasi totalmente scomparso e distrutto;
Sopraffatto da maneggi di corte, a seguito di un ammutinamento delle coorti pretorie, egli fu costretto a
nominare nel 98 come successore Traiano, comandante delle legioni occidentali.

I successori dei Flavi: Traiano (98-117 d.C.)


Fra gli imperatori romani, Traiano è quello che ha lasciato il miglior ricordo del suo operato
Fu, infatti, celebrato per le sue imprese militari avendo conquistato la Dacia, l’Armenia e l’Arabia Nabatea
definito optimus princeps (anche se la memoria di Traiano rimane soprattutto legata alla sua impresa di aver
sconfitto gli indomabili Parti).

Traiano morì nel 117 d.C. mentre faceva ritorno a Roma dalla Cilicia, dove aveva ottenuto le sue ultime
vittorie militari.

I successori dei Flavi: Adriano (117-138 d.C.)


A Traiano successe Adriano, che impresse una svolta decisiva alla politica romana
Sotto il suo principato fu definitivamente eliminata ogni iniziativa degli organismi repubblicani tradizionali;
il Senato, totalmente esautorato, venne sostituito da un consilium principis, composto dai più alti funzionari
imperiali e i più qualificati giuristi dell’epoca.
Le amministrazioni provinciali furono considerate sottoposte non più alla Res publica romana, ma
direttamente al principe.

Gli ultimi anni del governo di Adriano furono tormentati dalla rivolta degli ebrei in Palestina, che
l’imperatore riuscì a sottomettere totalmente.
Adottò Antonino fondatore della successiva dinastia che da lui prese il nome
La dinastia degli Antonini (138-192 d.C.) Gli Antonini
L’età degli Antonini fu la più prospera e felice dell’Impero
Fu caratterizzata da un diffuso benessere e da una situazione di pace sia all’interno che all’esterno dei
confini.
I governi furono fondati su ideali culturali e filosofici molto vicini agli ideali umanitari greci, l’Impero
conobbe la sua massima estensione territoriale.

Gli Antonini Antonino Pio (138-161 d.C.)


Con Antonino Pio, dopo le gravi e tormentate vicende degli anni precedenti, la storia romana vive
finalmente un periodo di tranquillità;
Poche furono le campagne militari, pacifici i rapporti con la nobilitas, grazie ad un’equilibrata politica
interna, diretta a favorire la classe senatoria.
Antonino Pio provvide, infatti, ad abrogare una delle riforme più impopolari di Adriano, ristabilendo i
quattro giudici itineranti (i cd. consulares) istituiti dal predecessore.

Antonino Pio morì nel 161 d.C., lasciando il trono a Marco Aurelio

Gli Antonini
Marco Aurelio (161-180 d.C.)
Marco Aurelio, uomo saggio, illuminato e apprezzato filosofo, non volendo reggere l’Impero da solo,
nominò come corregente il fratello Lucio Vero;
Marco Aurelio pose il fratello in una posizione identica alla sua realizzando una collegialità eguale (pari

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collegialità) che evocava quella che aveva contraddistinto la somma magistratura repubblicana, il consolato.
Morto nel 169 L. Vero, Marco Aurelio rinunciando all’esperimento della corregenza, rimase unico princeps,
fino a che non nominò suo corregente il figlio Commodo.
Morto Marco Aurelio di peste a Vienna, nel 180 gli successe Commodo

Gli Antonini Commodo (180-192 d.C.)


Commodo, figlio degenere di Marco Aurelio, giunto al potere a meno di vent’anni, attuò una politica
dissennata.
Si attribuì qualità divine, titoli onorifici e imperiali e giunse al punto di dare a Roma il titolo di colonia
fondata dall’imperatore.
Una congiura portò alla sua morte nel 192 d.C. ed aprì un periodo di torbidi conflitti e di anarchia.
Il successore di Commodo fu Pertinace che rimase al potere per soli 3 mesi, dopo i quali vi fu una seconda
anarchia militare che si concluse con l’ascesa al principato di Settimio Severo, che sconfisse ad uno ad uno
tutti gli altri contendenti

La dinastia dei Severi (193-235 d.C.) I Severi


Settimio Severo (193-211 d.C.)
Con Settimio Severo, salito al Principato dopo intense lotte militari, iniziò una nuova dinastia di imperatori
(la dinastia dei Severi), che impresse un andamento deciso alla svalutazione della repubblica e
all’evoluzione dell’Impero verso l’assolutismo imperiale
Settimio Severo esautorò totalmente il Senato, disprezzò le tradizioni italiche, e conferì a se stesso,
apertamente, il titolo di dominus, dando al proprio potere il carattere di una monarchia assoluta.

I Severi Caracalla (211-217 d.C.)


Alla morte di Settimio Severo avrebbero dovuto succedergli i figli Caracalla e Geta in corregenza, ma il
primo, fatto uccidere il fratello, si impadronì del potere.
Nel 212 d.C. Caracalla emanò la famosissima constitutio Antoniniana de civitate peregrinis danda (cd. editto
di Caracalla), con cui concesse la cittadinanza romana a tutti i sudditi dell’Impero.
Questa costituzione imperiale regolò lo status civitatis dei peregrini (stranieri) stabilmente dimoranti
nell’ambito territoriale dell’impero e contribuì in maniera decisiva alla romanizzazione dell’impero stesso,
anche se diede l’ultimo colpo alla Respublica.
Nel 217 d.C. fu ucciso per istigazione di Macrino, suo successore

La Constitutio Antoniniana 212 d.C.


La Constitutio Antoniniana stabiliva la concessione della cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’Impero,
ad eccezione dei dediticii.
Il testo greco della costituzione ci è giunto tramite un papiro lacunoso conservato nel Museo di Giessen in
Germania (Papiro di Giessen, 40,1)
Resta quindi aperto il dibattito sulla reale applicazione del provvedimento, in particolare riguardo al
problema della identificazione dei dediticii.
La Constitutio Antoniniana non venne avvertita dai contemporanei come un atto rivoluzionario in quanto
confermava una situazione giuridica già in parte esistente.
Molti studiosi moderni hanno posto l’accento sull’azione “civilizzatrice” garantita dal processo di
romanizzazione dell’Impero.
Dall’altro lato, l’estensione generalizzata a tutti gli abitanti dell’Impero della cittadinanza romana disposta
dalla Constitutio Antoniniana è stata considerata come un provvedimento demagogico e un mero strumento
di esaltazione dell’unico potere effettivo del despota.
Già Dione Cassio vi aveva rintracciato una semplice misura fiscale: tutti gli abitanti dell’Impero sarebbero
stati tenuti a pagare la tassa di successione che già gravava sui cittadini romani.
Tuttavia, di fatto, il provvedimento realizzava l’unificazione politica di tutti gli abitanti liberi dell’impero
traducendo concretamente sul piano del diritto positivo il principio dell’uguaglianza degli uomini.
Ulpiano testimonia che: « coloro che abitano nel mondo romano, in base alla costituzione dell’Imperatore
Antonino sono stati resi cittadini romani. » (Digesto, 1,5,17.)

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Il testo della costituzione di Caracalla sembra accennare a 2 principali motivi:
- uno di carattere politico-amministrativo, quello di evitare numerosi ricorsi al sovrano per questioni
riguardanti il possesso del diritto di cittadinanza,
- l’altro di carattere religioso: ovvero assimilare nel culto e nella venerazione dei popoli dell’impero, le
tradizionali e le nuove divinità introdotte nel Pantheon romano da ogni provincia (in particolare quelle
dell’Oriente, dell’Egitto e dell’Africa punica) in nome del sincretismo religioso.

La lode del provvedimento di Caracalla proviene, infatti, sia da autori pagani che cristiani.
La Constitutio Antoniniana - i dediticii
Il papiro di Giessen testimonia l’esclusione dei dediticii:
« Accordo a tutti gli abitanti dell’Impero la cittadinanza romana e nessuno rimanga fuori da una civitas, ad
eccezione dei dediticii» (Papiro di Giessen, 40,7-9.)
La nozione di dediticius si è formata nel corso delle conquiste romane.
Quest’ultima indicava coloro che si arrendevano al vincitore consegnando tutti i loro beni. Inoltre si
aggiungevano i liberti condannati per un delitto secondo la legge Aelia Sentia e i liberti iuniani, liberati
secondo le previsioni della legge Iunia.
I dediticii erano privi di qualsiasi diritto come ad esempio il diritto di fare testamento: quonam nullius certae
civitatis
Il diritto romano conosce due categorie di dediticii:
- i peregrini - cioè i popoli sconfitti che si erano arresi a discrezione
- e gli schiavi manomessi che si erano macchiati di crimini infamanti durante la schiavitù.
Entrambi erano di condizione libera, ma inferiori giuridicamente, in quanto non avrebbero mai potuto
diventare cittadini romani o latini. L’esclusione avrebbe, quindi, potuto interessare sia i peregrini sia gli ex
schiavi.

L’analisi filologica del testo papiraceo condotta finora in merito alla definizione dei dediticii mette in
evidenza la difficoltà d’interpretazione di questa categoria.
Tra le varie definizioni fornite dagli studiosi, emerge una [Poma] secondo la quale i dediticii del papiro di
Giessen erano sia i barbari, tra i quali si reclutava l’armata romana, sia quei limitati gruppi di popolazione,
che non appartenevano a nessuna città.

“Augusto precursore della globalizzazione, Caracalla precursore della geopolitica del diritto.”

I Severi
Macrino, Eliogabalo e Severo Alessandro (217-235)
Macrino resse le sorti del principato solo dal 217 al 218, e gli successe sino al 222 Eliogabalo. Eliogabalo si
atteggiò a sacerdote del sole (da ciò derivava il suo nomignolo) e con numerose spese folli contribuì a
dissestare le già carenti finanze statali.

A Eliogabalo successe Severo Alessandro che coprì il principato dal 222 al 235, ristabilendo una certa
armonia con il Senato e con le province: ma la sua opera non poteva certo bastare a far fronte ad una
situazione ormai sempre più deteriorata.

La sua morte, avvenuta per opera di un gruppo di soldati ribelli, segnò la fine della dinastia dei Severi,
poiché egli non aveva figli di sangue e non lasciava figli adottivi.

Con la dinastia dei Severi il Principato aveva assunto le forme di una monarchia di tipo orientale,
nell’ambito della quale, l’esercito ebbe una grande importanza, tanto che l’età dei Severi viene definita da
alcuni studiosi come «monarchia militare»

Con la fine dei Severi, si aprì in Roma una lunga crisi della Repubblica universale romana (fase della III
anarchia militare - 235-285) il cui esito sarà, sul finire del III sec., il sopravvento dell’imperium romano
assolutistico.

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La fine del periodo classico o principato e l’anarchia militare

Dal 235 al 285 d.C. (anno dell’ascesa di Diocleziano), in Roma si susseguirono violenti conflitti militari, per
lo più interni, che accentuarono la crisi delle istituzioni già evidenziatasi negli anni precedenti; gli imperatori
che si susseguirono non si segnalarono se non per aver impresso una brusca svolta in senso assolutistico ai
caratteri dell’impero.

A Severo Alessandro successe Massimino il Trace (segnalatosi per aver difeso l’impero dai Persiani e dai
Germani);

Salirono poi al trono imperiale Gordiano I e Gordiano II (acclamati dal senato), trucidati dopo un mese, e
sostituiti da Pupieno e Balbino; nel frattempo, moriva Massimino (238).
Dal 238 al 244 fu princeps Gordiano III, ucciso da Filippo l’Arabo, a sua volta ucciso da Decio (che era
stato acclamato imperatore dalle truppe).

Dopo la morte di Decio (che morì combattendo contro i Goti), all’impero salirono successivamente
Treboniano Gallo ed Emiliano, e poi Valeriano che si segnalò per la divisione dell’impero in Occidente ed
Oriente (affidato al figlio Gallieno) e che fu sconfitto e preso prigioniero dai Persiani.
Gallieno, inoltre, subì l’onta di dover assistere alla menomazione dell’impero in quanto in Gallia il generale
Postumo creò un impero autonomo (imperium Galliarum) e a Palmiria, città della Siria, Odenato nobile
insignitosi del titolo di «deus totius orientis» formò un nuovo regno che si estese per la Mesopotamia e parte
dell’Asia minore.

A quest’epoca di mortificanti sconfitte seguì un periodo di convulse lotte militari


Vi furono poi gli effimeri imperi di Claudio II, Aureliano, Tacito (ultimo ad esser nominato dal Senato), e
quindi di Floriano, Probo, Caro, Numeriano e Carino.

Con essi, si chiuse il triste periodo denominato dell’anarchia militare, con l’avvento di Diocleziano, iniziò il
periodo del Dominato.

I cinquanta anni di anarchia (235-285 d.C.) segnarono, dunque, un’epoca drammatica a causa dei violenti
attacchi di Goti e Persiani del 251.

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59
CAPITOLO 15 - Evoluzione del diritto romano durante il principato.
1 Parte
a

La legislazione comiziale
La legislazione comiziale ebbe nella fase augustea un periodo di feconda attività, quanto meno dal punto di
vista formale.

Augusto non volle esercitare direttamente i poteri (anche legislativi) offertigli per rendere più equo
l’ordinamento ma preferì — negli anni 17 e 18 a.C. — ricorrere alla votazione popolare.

Augusto fece votare ai concilia plebis una serie di leggi di diritto pubblico e privato (Augusto godeva,
infatti, della tribunicia potestas, che gli dava il diritto di sottoporre all’approvazione popolare i disegni di
legge) soprattutto al fine di moralizzare i costumi, calmierare i costi dei beni essenziali e punire gli
amministratori pubblici disonesti.

La legislazione comiziale augustea


Lex Iulia de collegiis, che scioglieva le associazioni esistenti (collegia e sodalitates) e vietava di costituirne
di nuove senza l’autorizzazione del Senato;
Lex sumptuaria, per contrastare il lusso eccessivo;
Lex de ambitu (contro i casi di corruzione), lex de adulteriis coercendis (18 a.C.); lex de vi publica et privata
(17 a.C.) con cui identificò e disciplinò i crimina publica;
Lex Iulia de peculàtu e de resìduis (per combattere gli abusi degli amministratori pubblici);
La lex Iulia iudiciorum privatorum e la lex Iulia iudiciorum publicorum, che disciplinarono rispettivamente
il processo civile e penale;
La lex Iulia de annona (18 a.C.) per multare che faceva incetta di generi alimentari.

Augusto favorì anche la presentazione di leggi ai comizi centuriati da parte dei consoli; ne sono un esempio
quelle in materia di:
- affrancazione degli schiavi: (lex Fufia Canina del 2 a.C., Aelia Sentia del 4 d.C., Iunia Norbana del 19
d.C.), dirette a regolare e sottoporre a controllo l’eccessiva facilità con cui molti proprietari liberavano i
loro schiavi;
- matrimonio: la lex Papia Poppea nuptialis (9 d.C.), che ampliò le norme
- della lex Iulia de maritandis ordinibus per incentivare i romani a generare più figli gravando con più tasse
il celibato;
- ereditaria: la lex Iulia de vicesima hereditatum che prevedeva una tassa di successione del 5%.
Subito dopo la fine del lungo governo di Augusto (14 d.C.), l’attività dei comizi decadde totalmente in tutti i
settori e la legislazione popolare, pur non essendo abolita ufficialmente, finì per estinguersi.

L’attività legislativa del Senato


 In età repubblicana il Senato era intervenuto nella legislazione attraverso:
 l’auctoritas, intesa come approvazione delle proposte del magistrato, da presentare alle assemblee per la
votazione;
 gli interventi preventivi: il magistrato, infatti, spesso si rivolgeva al Senato per chiedere pareri (consulta)
tutte le volte che lo riteneva utile. Tali pareri non erano vincolanti, ma costituivano una direttiva dalla
quale difficilmente il magistrato richiedente si discostava. I pareri del Senato erano definiti appunto
Senatusconsulta.

L’attività legislativa del Senato: dai senatusconsulta alla oratio principis


A poco a poco i senatusconsulta cominciarono ad acquistare forza di legge, a divenire, cioè, vincolanti: tale
riconoscimento fu la diretta conseguenza dell’impossibilità di convocare i comizi data la loro composizione,
limitata alla plebe urbana.
I senatusconsulta venivano indicati con il nome del magistrato o dell’imperator che aveva chiesto la
decisione senatoriale.

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Tuttavia nel corso dell’evoluzione del principato, la forma del senatoconsulto venne sostituita dall’oratio
principis in senatu habita. Tale oratio era il messaggio o proposta di legge che l’imperatore inviava al senato
per far approvare (solo formalmente) il provvedimento.

L’attività legislativa del Senato: l’oratio principis


Tale oratio era il messaggio o proposta di legge che l’imperatore inviava al senato per far approvare (solo
formalmente) il provvedimento.
Tra la fine del II e gli inizi del III secolo d.C., l’oratio costituì lo strumento più adoperato dall’imperatore per
gli interventi in materia di diritto privato, volti a porre norme generali ed astratte sul piano del «ius civile».

L’attività legislativa del Princeps


Nel periodo del principato anche se il potere legislativo restava formalmente attribuito agli organi
repubblicani, il princeps cominciò ad esercitare una propria attività normativa autonoma
A fondamento di tale attività vennero posti due principi:
a. il princeps era del tutto svincolato dall’osservanza delle leggi, godendo di una sorta di immunità assoluta
(princeps legibus solutus);
b. la volontà normativa del princeps costituiva fonte di produzione del diritto secondo il principio quod
príncipi placuit, legis habet vigorem (la volontà del princeps ha la medesima forza delle leggi ordinarie).

Gli atti normativi (Contitutiones ) del Princeps


I provvedimenti imperiali venivano definiti constitutiones:
tra di essi, si distinguevano
 Edicta
 Mandata
 Rescripta
 Decreta
 Epistulae

Gli atti normativi del Princeps - Gli Edicta


Si trattava delle ordinanze più frequenti, emanate in virtù dell’imperium proconsulare, per una o più
province o municipi.
L’editto iniziava con una formula enunciata dal principe in prima persona. Raramente l’editto conteneva
innovazioni legislative (ad esempio dei 5 editti emanati da Augusto per la Cirenaica solo uno conteneva
norme nuove) e, quando anche ne conteneva, esse erano sempre poste sotto forma di raccomandazione.
Almeno in un primo periodo, gli editti avevano vigore solo finché era in vita l’imperatore.

Gli atti normativi del Princeps - i Mandata


Mandata erano istruzioni (date dall’imperatore ai funzionari dipendenti, in base all’imperium proconsulare)
di varia natura, ma che, più frequentemente degli editti, contenevano vere e proprie innovazioni
normative.
Anche i mandata avevano vigore per la durata della vita dell’imperatore; ma poi, come per gli editti del
pretore, essi divennero tralaticii: cioè tramandati tacitamente da un princeps al suo successore a meno che
quest’ultimo non li abrogasse esplicitamente

Gli atti normativi del Princeps - i Rescripta


Rescripta erano pareri (cd. responsa) dati dall’imperatore su punti del diritto non chiari o quanto meno
controversi, espressi su richiesta:
- dei giudici tramite (relationes, consultationes, suggestiones), cui il principe rispondeva con epistulae;
- delle parti (libelli, preces, supplicationes, cui il principe rispondeva in calce, con subscriptiones).
- Il principe, in questi casi, non faceva altro che ratificare il provvedimento apponendo il sigillo a pareri
dati dal suo consilium, composto da eminenti giuristi.

Gli atti normativi del Princeps - i Decreta


Decreta erano decisioni dell’imperatore riguardanti controversie a lui sottoposte, sia in grado di appello

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che extra ordinem.
Di solito nei decreta, come nei rescripta, l’imperatore applicava il diritto vigente, a meno che non vi fossero
lacune o incongruenze, nel qual caso il diritto veniva modificato.
Essi non vincolavano i giudici per il futuro, sebbene quest’ultimi fossero soliti conformarsi alle decisioni
degli imperatori.

Gli atti normativi del Princeps - le Epistulæ


Epistulae erano di istruzioni o consigli (sempre vincolanti al di là delle forme), che il princeps inviava a
magistrati o funzionari imperiali in risposta a quesiti posti da questi ultimi.

Il ruolo della giurisprudenza - il processo penale


La lex iudiciorum publicorum, fatta emanare da Augusto, regolò definitivamente le competenze e le
procedure da seguire nel processo per quaestiones, ma non comprese nella loro competenza tutti i reati
previsti dalle leggi penali.
In particolare:
non venne abolito il processo comiziale, e alcune competenze dei comizi furono attribuite al Senato; anche
in campo penale, l’intervento del principe e dei suoi funzionari diede vita ad una cognitio extra ordinem, che
ben presto soppiantò l’altro sistema

La cognitio extra ordinem


Il sistema delle Quaestiones Perpetuae, fin dai primi anni del principato, dovette subire la concorrenza di un
nuovo tipo di procedimento penale, la cognitio extra ordinem, più adeguato al nuovo assetto politico-
costituzionale dello Stato.
Pur sopravvivendo per tutto il II secolo d.C., le corti di giustizia permanenti vennero progressivamente
sostituite dal nuovo procedimento, caratterizzato dall’assenza di giurati ed in cui l’intera questione era
affidata all’imperatore o ad un suo delegato.
Tale procedimento fu definito «cognitio extra ordinem» perché sorse e si sviluppò al di fuori del sistema
processuale dell’Ordo Iudiciorum, e quindi senza i vincoli e le restrizioni formali propri della giurisdizione
ordinaria.
Tre furono gli aspetti caratterizzanti questo nuovo procedimento:
l’avocazione: il principe poteva avocare al proprio tribunale, spontaneamente o su istanza degli interessati,
la cognizione di ipotesi delittuose non previste dalle leggi pubbliche (non rientranti nelle quaestiones
perpetuae), ma anche quella di crimini per i quali era stata preordinata una specifica Quaestio. In tal
modo questa ultima cognizione veniva sottratta alla competenza del tribunale ordinario.
l’appello: al Principe venne riconosciuto il potere di conoscere, in grado d’ appello, delle decisioni emanate,
sia in Italia che nelle province, da magistrati o funzionari da lui dipendenti, contro le quali fosse stato fatto
ricorso alla sua autorità.
La delega di giurisdizione: il principe esercitava la sua giurisdizione principalmente per delegazione,
attribuendo cioè in via generale e permanente la cognizione di determinate materie a propri funzionari (per
Roma e per l’Italia i praefecti urbi, praetorio, annonae e vigilium e, per le province, i legati Augusti ed i
procuratores) o rimettendo la decisione di singoli casi a speciali commissari di volta in volta nominati
(iudices dati).

Ruolo della giurisprudenza nella formazione del diritto


La creatività del ius honorarium, nel periodo del principato, venne rapidamente meno, a seguito della
diversa organizzazione dell’ordinamento e del venir meno dell’attività pretorile cui faceva capo la funzione
giurisdizionale sia attraverso il sistema delle legis actiones che, alla fine del IV secolo, del processo per
formulas.

Caratteristiche della repressione penale durante il Principato


Col passaggio dalla Repubblica al Principato si ebbe un mutamento nel sistema della repressione criminale.
Si affermò un nuovo processo criminale, la cognitio extra ordinem (così denominata perché si esplicava al di
fuori dell’ordo iudiciorum publicorum costituito dalle corti repubblicane) che faceva capo al principe, a
funzionari imperiali e al senato e che si sostituì lentamente alla procedura delle quaestiones perpetuae.

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Gli interventi legislativi del principe e del senato, nonché l’interpretazione dei giuristi introdussero nuove
fattispecie criminose, e alle pene applicate in età repubblicana se ne aggiunsero di nuove.

Diritto e processo penale in età augustea


Nel 17 a.C., con la lex lulia iudiciorum publicorum Augusto conferì un assetto definitivo alle
quaestiones perpetuae. La suddetta legge (di cui le fonti ci forniscono notizie in modo lacunoso) costituì
una sorta di «codice di procedura penale», con cui venne disciplinato in maniera uniforme il processo
criminale, eliminando le diversità contenute nelle diverse leggi istitutive di quaestiones
Tra le principali innovazioni previste da tale legge si ricordi il riordino degli albi dei giudici, da cui si
dovevano trarre i componenti delle giurie e la prescrizione che l’accusa fosse formulata per iscritto,
tramite un libello, in cui dovevano essere indicati il nome dell’accusato e i fatti dedotti in giudizio.
Augusto, inoltre, nella sua opera di moralizzazione dei costumi istituì due nuove quaestiones per punire
l’adulterio (Lex Iulia de adulteriis coercendis) e i crimini annonari

Diritto e processo penale in età augustea: l’adulterio


Per quanto riguarda in particolare la repressione dell’adulterio, essa si inseriva nella politica di restaurazione
dei costumi, perseguita dal principe. Per la prima volta, con la lex Iulia de adulteriis coercendis, l’unione
sessuale con una donna coniugata, o anche non coniugata purché di onesti costumi, veniva sanzionata come
un crimen.
Al marito, inoltre, veniva riconosciuto il diritto di uccidere l’amante (solo di bassa condizione sociale) della
moglie, qualora la coppia fedigrafa fosse stata sorpresa in flagrante nella casa coniugale.
Tale diritto venne riconosciuto anche al padre, nei confronti della figlia e del complice, sempre che fossero
stati scoperti nella casa coniugale.
Il reato di adulterio venne in tal modo introdotto definitivamente nell’ordinamento giuridico romano: la lex
Iulia, sia pure modificata, rimase ancora in vigore in età giustinianea).

La cognizione criminale del princeps


A partire dal principato di Augusto venne riconosciuta all’imperatore una competenza in materia criminale
che successivamente venne estesa, per delega, anche ai funzionari e ai governatori provinciali.
Gli studiosi discutono sul fondamento giuridico- costituzionale di tale competenza del principe. Alcuni
fanno riferimento alla tribunicia potestas o all’imperium proconsulare ad esso conferita; altri ad un diritto di
«giudicare su richiesta» che un plebiscito del 30 a.C. avrebbe attribuito ad Augusto ( e di cui ci riferisce
Dione Cassio).
Ad ogni modo, la cognizione criminale del principe si affermò ben presto in alternativa o in sostituzione di
quella delle quaestiones perpetuae.
Il princeps giudicava sia su richiesta dei diretti interessati, sia su propria iniziativa e sia sui crimini di nuova
istituzione, sia su quelli di normale competenza delle quaestiones.
Egli era affiancato da un consilium, costituito da senatori e cavalieri di sua fiducia, davanti al quale si
svolgevano le udienze del processo.
Il consiglio esprimeva il suo parere, che però non era vincolante.
A partire da Adriano furono regolarmente chiamati a costituire il consilium giuristi illustri ed esperti
funzionari.
Gradualmente accanto alla cognizione di I grado si sviluppò anche quella di II istanza: le sentenze emanate
dai magistrati e dai funzionari di tutto l’impero potevano essere appellate dinanzi al principe.
Si discute sul fondamento di tale appello. Secondo alcuni studiosi esso sarebbe in relazione con l’auctoritas
imperiale, intesa come fonte suprema di ogni potere.
Secondo altri esso trarrebbe origine dalla provocatio ad populum, avendo il principe assunto determinate
prerogative un tempo appartenenti al popolo.

La cognizione criminale dei funzionari imperiali


Con l’affermarsi di un’amministrazione imperiale (centrale e periferica), a molti funzionari venne affidata la
competenza a giudicare sia in materia civile che criminale.
Si trattò soprattutto di una cognizione di primo grado (ad eccezione di quella del prefetto del pretorio), che
gradatamente si sostituì in modo globale alle corti permanenti.

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Ciò avvenne in particolare nelle province: la sempre maggiore estensione della cittadinanza romana anche in
zone dell’impero lontane dall’Italia, comportò la pratica impossibilità di mantenere la prerogativa dei cives
romani di farsi giudicare a Roma dalla quaestio competente
In tal modo il principe iniziò ad accordare ai governatori (sia delle province imperiali che senatorie) il potere
di giudicare extra ordinem i cittadini risiedenti nella circoscrizione da essi amministrata.
Ai cittadini sottoposti al giudizio del governatore era riconosciuto il diritto di proporre appello al tribunale
imperiale.
L’atto di appello doveva essere presentato al giudice che aveva emanato la sentenza, il quale aveva il
compito (tuttavia non sempre adempiuto) di trasmetterlo al tribunale imperiale.
La cognitio extra ordinem su Roma e sul territorio compreso nel raggio di cento miglia da Roma era
esercitata dal prefetto urbano (praefectus urbi), di rango senatorio, il quale gradualmente estese la sua
competenza sino a sostituire del tutto le quaestiones.
Sempre a Roma limitate funzioni giudiziarie venivano esercitate anche dal praefectus vigilum (competente
in materia di reati minori) e dal praefectus annonae (in materia di reati commessi nell’approvvigionamento
della capitale e nel commercio di generi alimentari).
Anche il prefetto del pretorio ottenne competenze giudiziarie nel campo criminale, dapprima limitate
all’Italia (oltre, cioè, le cento miglia da Roma). In seguito, nell’età dei Severi, gli fu affidata anche la
cognizione d’appello al posto dell’imperatore

La cognizione criminale del senato


Già sotto Tiberio (14-37 d.C.) il senato era competente a conoscere in via ordinaria di reati politici quali
quello di maiestas e di repetundae.
A poco a poco si delineò inoltre una speciale competenza del senato a giudicare, anche per i reati comuni,
gli appartenenti all’ordine senatorio.
Tuttavia, in qualsiasi momento il principe, in virtù della sua tribunicia potestas, aveva il potere di bloccare i
processi che si svolgevano dinanzi al senato, anche avocando a sé la decisione.
Inoltre, il principe partecipava di diritto alle sedute del senato ed esprimeva per primo il voto, con ciò
conferendo ai senatori un indirizzo che essi difficilmente avrebbero disatteso.
Con l’età dei Severi (192-235) il tribunale imperiale si sostituì sempre più spesso al senato, e dopo
Alessandro Severo non vi sono più notizie di processi svoltisi dinanzi a tale consesso.
Le profonde innovazioni e trasformazioni, determinatesi nel campo del diritto e del processo criminale
nell’età del principato, furono determinate in primo luogo dall’attività normativa imperiale.
Tuttavia, raramente l’imperatore interveniva con edicta, ossia con costituzioni aventi carattere generale.
Più spesso, lo spunto per introdurre nuovi princìpi era dato invece dalla risoluzione, tramite rescritti, di
singole fattispecie.
Le sentenze imperiali (decreta), dotate di valore di precedente normativo vincolante, si diffusero anche
grazie all’interpretatio giurisprudenziale con cui i giuristi commentarono le norme penali contenute nelle
antiche leges, nei rescritti, nei decreta imperiali, apportando profonde riflessioni.
Nel complesso, però, la loro riflessione fu attratta in misura minore dai temi penalistici.
Non v’è dubbio che essi contribuirono alla circolazione e applicazione delle nuove soluzioni, ma forse
maggiore incisività ebbe il lavoro dei retori, i quali, a differenza dei giuristi, vivevano da protagonisti i
processi criminali, svolgendo in essi il ruolo di avvocati difensori; fu verosimilmente dalla loro attività
forense che nacquero e si affermarono nuovi criteri in tema, per esempio, di elemento soggettivo dell’illecito
o di graduazione della colpa, che trovarono poi accoglimento soprattutto nelle sentenze imperiali.

Le caratteristiche della cognitio extra ordinem


La cognitio extra ordinem in materia penale era essenzialmente un processo di tipo inquisitorio, a
differenza di quelli svolgentesi dinanzi alle quaestiones perpetuae, (a carattere accusatorio).
Ciò vuoi dire che il processo extra ordinem dipendeva dall’iniziativa del pubblico funzionario
competente: spettava a lui decidere se procedere o meno, anche sulla base di informazioni fornite da
indagini di polizia.
Non vi era, dunque, necessità di un accusatore privato, anche se poteva accadere che il processo avesse
inizio sul fondamento di denuncie presentate da privati (delatores).
Al funzionario procedente era affidato lo svolgimento del processo, dall’inizio sino alla sentenza; questi

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non solo compiva le indagini preliminari con l’ausilio dei collaboratori, ma godeva di piena libertà di
iniziativa probatoria, potendo decidere di sentire testimoni non indicati dalle parti o di sottoporre a tortura
gli stessi imputati (se non appartenenti alle classi elevate).
Nell’emanare la sentenza poteva variare la pena, commisurandola alla gravità del fatto, alla personalità del
reo ed alle sue condizioni sociali.

Sviluppo del diritto penale: i nuovi crimina


La discrezionalità nella determinazione della pena produsse una maggiore varietà di sanzioni rispetto a
quelle previste in età repubblicana e un loro incrudelimento.
Alla tradizionale morte per decapitazione si aggiunsero la crocifissione, la vivicombustione, l’esposizione
alle belve nelle arene.
Vi erano poi pene che, pur non privando della vita, esponevano il condannato ad un tale pericolo da potere
essere assimilate al supplizio: la condanna ai lavori forzati nelle miniere, la condanna a combattere come
gladiatori o contro le belve.
Pene meno gravi erano la condanna all’esecuzione di opere pubbliche, alla deportazione perpetua
(comportante la perdita della cittadinanza e la confisca dei beni), alla relegazione su un’isola o nel deserto
(che a differenza della deportazione poteva essere temporanea e non implicava la perdita di beni e di
cittadinanza).
L’inflizione di tali pene, comportando la perdita della vita o della libertà, riduceva il condannato a “servo
della pena”: egli subiva perciò le conseguenze giuridiche di tale status, consistenti nella confisca dei beni,
nello scioglimento del matrimonio, nell’incapacità di disporre o di ricevere per testamento. Il carcere
continuò invece a essere considerato una misura preventiva per evitare la fuga dell’imputato o
l’inquinamento delle prove e non una pena a sé stante
Carattere accessorio avevano alcune pene corporali, quali la battitura coi bastoni o la flagellazione, che
accompagnavano la pena di morte.
Sanzioni minori erano le multe, i divieti di assumere determinate cariche e l’interdizione dai pubblici uffici.
Caratteristica dell’ordinamento penale di questa età era quella di essere fondato sul principio della
disuguaglianza. Gli individui erano distinti tra honestiores e humiliores.
Alla prima categoria appartenevano i cittadini di più alto livello sociale, ai quali solitamente erano
risparmiate le sanzioni più atroci, riservate invece agli humiliores.

Signoli crimina publica


Crimen ambitus (corruzione), crimen sodaliciorum: entrambi persero rilievo pratico, col decadere
dell’importanza delle assemblee elettorali. In particolare, il crimen ambitus fu disciplinato da una lex Iulia
de ambitu, del 18 a.C.; vi rientravano ipotesi come l’illecita iterazione di una magistratura, o l’avere
esercitato pressioni su un giudice.

Alcuni crimina publica


Crimen repetundarum: fu molto ampliato, fino a ricomprendere tutti i tipi di malversazioni commesse sia da
pubblici funzionari, sia da privati che esercitavano pubbliche funzioni.
La pena prevista fu quella della deportazione, con obbligo di restituire il quadruplo delle somme
indebitamente sottratte.
Figura affine fu quella del crimen concussionis, che consisteva in estorsioni di somme di denaro perpetrate
da magistrati o da pubblici funzionari attraverso la minaccia di compiere (o non compiere) atti inerenti al
proprio ufficio. Le pene per quest’ultimo reato furono più severe (per gli humiliores fu prevista la pena di
morte).
Crimen peculatus: ricomprese gli abusi della credulità popolare commessi da pubblici funzionari, nonché la
sottrazione di beni pubblici. La pena ordinaria fu quella della deportatio in insulam.
Crimen maiestatis: fu disciplinato ex novo da una lex Iulia maiestatis, dell’8 a.C. Ricomprese ogni sorta di
attentato all’ordine costituito, oppure alle istituzioni (in particolare, con riguardo al princeps), commesso sia
da privati che da pubblici funzionari, nonché i fatti rientranti nella vetusta perduellio. La pena fu quella di
morte, inflitta con modalità strazianti per gli humiliores (che venivano bruciati vivi, o dati in pasto a belve
feroci).

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I fori “privilegiati”
Numerosi erano i fori privilegiati, a favore di senatori, militari, funzionari di ogni genere, ecclesiastici: gli
appartenenti a queste categorie avevano generalmente il diritto di sottrarsi al giudice ordinario e farsi
giudicare da un giudice speciale. La procedura aveva carattere squisitamente inquisitorio.
Il funzionario procedente sottoponeva a giudizio il sospettato sulla base di una decisione discrezionale,
senza che fosse necessaria la presentazione di un’accusa (che ormai fungeva da mera notizia del crimine,
come qualunque altra informazione pervenuta all’ufficio).
Il processo prese a svolgersi sempre più spesso nel segreto degli uffici, senza che alle udienze fosse
ammesso il pubblico.
Soltanto pochi atti, come la pronuncia delle sentenze, avvenivano pubblicamente. La discrezionalità della
pena, che aveva caratterizzato la cognitio extra ordinem nel principato, venne abbandonata.
La legge imperiale, infatti, fissava le pene da infliggersi in modo rigido, lasciando scarsa o nessuna
discrezionalità al funzionario giudicante.

LA CENSURA NEL PERIODO AUGUSTEO


Nel 22 a.C., Augusto ripristinò la censura. Ciò avvenne non soltanto nell’ambito del programma di
restaurazione delle istituzioni repubblicane, ma verosimilmente per risolvere esigenze concrete sempre
nell’ambito del programma stesso.
Tale magistratura, tuttavia, cessò di avere rilevanza autonoma con l’esercizio delle funzioni proprie di essa
da parte di Domiziano, nella qualità di censor perpetuus.

CAPITOLO 16 - Evoluzione del diritto romano durante il Principato

2a PARTE: I GIURISTI
IL IUS PUBLICE RESPONDENDI E IL PROBLEMA DELLA CERTEZZA DEL DIRITTO

Nell’età del principato la giurisprudenza conservò un ruolo preminente nella produzione del diritto anche se
dovette operare in un contesto politico radicalmente diverso rispetto all’età repubblicana e confrontarsi con
la produzione legislativa imperiale.

Complessivamente, i giuristi assicurarono lealtà e collaborazione al princeps e ne ricevettero in cambio il


riconoscimento della preminenza della fonte giurisprudenziale nella gerarchia delle fonti giuridiche: ciò
segnò l’ascesa del loro ceto.
Lo stesso principe, d’altronde, non si proclamò legislatore, ma piuttosto giurista tra i giuristi, «principe
respondente.
Come ci informa Pomponio, Augusto stabilì che determinati giuristi, da lui personalmente scelti, potessero
fornire· i propri responsa fondandoli sull’autorità del principe, ex auctoritate principis.
Ai giuristi ai quali non era stato concesso di respondere ex auctaritate non era vietato di dare responsa o di
scrivere testi giuridici; tuttavia essi mantenevano una posizione marginale poiché solo i responsi dei giuristi
autorizzati, in forma scritta e sigillata, potevano orientare o vincolare le decisioni dei tribunali.
“NUOVA ELITE CREATA DA AUGUSTO - ELITE DEI GIURISTI”
Pomponio ricorda che Augusto aveva concesso ai giuristi il ius publice respondendi, onde accrescere
l’autorità del diritto, ossia ridurre il diritto controverso (spesso reso incerto circa l’autenticità dei responsi) e
procedere ad una riscrittura in chiave sistematica del ius civile.
Già in un tale contesto si deve inquadrare il «progetto codificatorio» di Caio Giulio Cesare, cui fanno
cenno Svetonio e Isidoro di Siviglia.
Il primo attribuì a Cesare l’idea di ridurre il diritto civile a norma sicura, compendiando in pochissimi libri
solo quelle leggi che fossero ottime e necessarie;il secondo fece risalire lo stesso progetto di Cesare a una
precedente elaborazione di Pompeo non giunta a compimento per timore delle critiche.
Tale disegno, tuttavia, fu accantonato con la morte di Cesare.
Col trascorrere del tempo, anche il sistema del ius publice respondendi manifestò, tuttavia, i propri limiti.
Infatti i giudici e i magistrati si videro allegare dalle parti in seno ai processi opinioni ugualmente autorevoli
ma spesso contraddittorie, che creavano loro ulteriori difficoltà per l’impostazione delle controversie.
A partire dunque dalla seconda metà del I sec., i principi limitarono progressivamente la concessione

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del ius publice respondendi.
Più tardi Adriano dispose che i responsa giurisprudenziali vincolassero i Magistrati solo se fossero
conformi tra loro.

Le opere di compilazione
I giuristi forniti di ius respondendi oltre all’attività di consulenti dei giudici, si occuparono di raccolte
sistematiche di responsa (pareri) e quaestiones (casi di scuola e fattispecie fittizie): raccolte dette «Digesta»
Grande importanza ebbero inoltre i commenti alle leggi, ai senatusconsulta e agli editti.
Numerose furono anche le opere di elevato contenuto scientifico, volte a chiarire principalmente singoli
istituti (monografie sui legati, sull’appello, ecc.) e le opere didattiche di contenuto giuridico (institutiones,
manualia, ecc.).

Tra tali opere annoveriamo:


 opere di casistica, consistenti in raccolte di casi e problemi;
 opere di commento a testi giurisprudenziali, edittali e legislativi;
 opere di carattere didattico, consistenti in trattazioni sistematiche elementari, alcune specificamente
dedicate all’insegnamento, come i manuali di institutiones;
 opere monografiche su specifici temi, sia di diritto privato che pubblico. Se si eccettua il caso delle
Institutiones di Gaio, noi non possediamo le opere originali dei giuristi, ma possiamo leggere solo
frammenti più o meno numerosi di una parte di esse nelle raccolte tardoantiche di iura e leges e nella
compilazione di Giustiniano.

Le Scuole dei Sabiniani e dei Proculiani


L’età compresa tra Augusto e Adriano è caratterizzata dall’attività giurisprudenziale di due scuole rivali:
- la sabiniana, fondata da Ateio Capitone (allievo di Masurio Sabino)
- la proculiana, fondata da Labeone (allievo di Proculo).
Non è dato rinvenire differenze sostanziali sul piano scientifico o metodologico tra tali scuole ed è probabile
invece che l’appartenenza all’una o all’altra sia stata motivata quasi esclusivamente da tradizioni familiari o
da rivalità personali.

La Scuola Sabiniana
Appartennero alla scuola sabiniana: Ateio Capitone, Masurio Sabino, Cassio Longino, Celio Sabino,
Giavoleno Prisco, Aburnio Valente.
Capitone scrisse i Libri de iure pontificio, sul diritto pontificio e i Libri coniectaneorum in cui raccolse
pareri e congetture, da lui formulati, su vari problemi di diritto privato e pubblico.
Masurio Sabino, uomo di umili origini, scrisse i famosi Libri tres iuris civilis, in seguito commentati da
Pomponio, Paolo e Ulpiano, e opere di diritto pubblico e sacro.
Cassio Longino compose l’opera nota come Libri iuris civilis, da cui gli derivò grande fama, al punto tale
che la scuola sabiniana da alcuni fu chiamata anche «cassiana».
Celio Sabino, allievo di Cassio, scrisse un’opera sull’editto degli edili curuli, i Libri ad edictum aedilium
curulium e, forse; anche Libri iuris civilis».
Giavoleno Prisco scrisse libri di Epistulae, che raccoglievano quaestiones e responsa su argomenti di diritto
civile, e commentò sia le opere di Cassio sia quelle postume di Labeone.

La Scuola Proculiana
La scuola proculiana annoverò tra i suoi esponenti: Nerva padre, Proculo, Nerva figlio, Pegaso, Celso padre,
Celso figlio, Nerazio. Proculo fu antagonista di Masurio Sabino.
Nerva padre fu, secondo la testimonianza delle fonti antiche, giurista di grande cultura, ma di lui non
conosciamo neanche i titoli delle opere. Scrisse libri di Epistulae e fu autore di alcuni responsa, citati da
giuristi di epoca successiva. Nerva figlio scrisse i Libri de usucapionibus, sull’usucapione e alcuni responsa.
Pegaso, vissuto durante il regno di Vespasiano, fu probabilmente autore del senatusconsultum Pegasianum,
promulgato dal senato in materia di diritto ereditario.
Anche se fu citato dai giuristi di epoca successiva, di lui non conosciamo le opere. Lo stesso dicasi per Celso

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padre.
Celso figlio, implicato giovanissimo in una congiura contro Domiziano e scampato fortunosamente al
supplizio, fece parte del consilium principis di Adriano. Scrisse i 39 Libri digestorum, dedicati al ius
honorarium, con integrazioni tratte dal ius civile e alle principali leggi, dalle XII Tavole alla lex Cincia
(legge che sosteneva che gli avvocati non potessero avere un compenso o che comunque non potesse
superare i 10k sesterzi), a quella lulia et Papia.
Nerazio Prisco fece parte del consilium di Traiano e di Adriano. Srisse libri di regulae e di responsa.

Ruolo dei giuristi da Adriano a Commodo


Le rivalità tra Sabiniani e Proculiani furono definitivamente superate nell’età di Adriano soprattutto grazie
all’influenza esercitata da uno dei maggiori giuristi del mondo romano, Salvio Giuliano, giurista di
particolare fiducia di Adriano (117-138 d.C.).
Di scuola sabiniana, allievo di Giavoleno, fece parte del consiglio di Adriano e poi dei suoi successori, fino
a Marco Aurelio.
Merito di Giuliano fu quello di aver superato le sterili controversie di scuola e di aver composto con
equilibrio i dissidi, dando origine a nuovi orientamenti giurisprudenziali
Giuliano scrisse 90 libri di digesta, più volte ripubblicati, anche dopo la morte dell’autore, con note di altri
giuristi. I digesta sono divisi in due parti: la prima espone, seguendo l’ordine edittale, il diritto onorario e
quello civile; la seconda analizza varie leggi e costituzioni.
Stando ai documenti tra il 134 e il 138 Adriano avrebbe affidato a Giuliano il compito di redigere un testo
unico e definitivo dell’editto perpetuo.
Sebbene tale opera non siano giunta a noi, la maggior parte degli storici non nutre dubbi sul fatto che tale
codificazione sia realmente avvenuta.
Nelle intenzioni di Adriano, i pretori avrebbero avuto l’obbligo di proporre l’editto nella redazione di Salvio
Giuliano che, sancita mediante un senatoconsulto, sarebbe stata modificabile solo da altro senatoconsulto o
da una costituzione imperiale.
Discepolo di Salvio Giuliano fu Cecilio Africano, che come il :maestro si mostrò interessato a dispute
teoriche, legate a casi finti o estrapolati dalla prassi.
Nell’età compresa tra Adriano e Marco Aurelio visse anche Sesto Pomponio. Scrisse ampi commentari
all’Editto e alle opere di Quinto Mucio e di Masurio Sabino e l’autore del liber singularis enchiridii, una
sorta di storia giuridica di Roma, che prende le mosse dalle origini della città.
Da Adiano a Commodo (età degli Antonini 138-192) appartiene anche Gaio, famosissimo tra i posteri.
Gaio scrisse le Institutiones, divise in quattro libri, dirette all’insegnamento che rappresentano l’unica
opera della giurisprudenza del principato giuntaci pressoché integralmente.
A Gaio sono attribuite anche le res cottidianae, un manuale destinato agli operatori del diritto e
considerate una semplificazione delle Institutiones.

Un altro manuale di Institutiones fu scritto, sempre durante l’età degli Antonini, da Fiorentino.
Tale manuale, diviso in 12 libri, non segue tuttavia l’ordine di Gaio, trattando prima i contratti, poi le
persone e quindi il diritto successorio.

Ulpio Marcello, membro del consiglio di Antonino Pio e di Marco Aurelio, scrisse i libri digestorum, in cui
riesaminò criticamente anche per la notevole quantità di sue opere giunte in nostro possesso il pensiero dei
suoi predecessori, compreso quello di Salvia Giuliano.
Ugualmente consigliere di Marco Aurelio fu Cervidio Scevola, autore di responsa, quaestiones, regulae e
libri digestorum (redatti secondo l’ordine dei digesta di Giuliano).
Papirio Giusto, infine, vissuto sotto Marco Aurelio e Commodo, scrisse 20 libri constitutionum, in cui sono
riportate in riassunto costituzioni di Marco Aurelio e di Lucio Vero e, poi, del solo Marco Aurelio.

Il Princeps e i giuristi
Nel corso del I e Il sec. d.C. si consolidò il primato della giurisprudenza.
Tuttavia, già nel corso del I sec. una parte della giurisprudenza andava maturando diverse posizioni.
In particolare, Sabino, prendendo le distanze da Labeone, negò che le regole interpretative introdotte dai
giuristi potessero di per sé avere un diretto valore normativo.

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Secondo Sabino, non è la regola giurisprudenziale a stabilire il diritto, ma è dal diritto (in ossequio
alla politica) che solo può avere origine la regola.
Quest’ultima, inoltre, non solo deve essere pienamente conforme al ius ma deve fondarsi sulla brevitas,
ossia deve contribuire a rendere più chiaro e certo possibile il ius medesimo.
I giuristi nell’età degli Antonini (138-180 d.C.)
Fu durante l’età degli Antonini (138-180 d.C.) che il dialogo tra giurisprudenza e imperatore si fece più
serrato.
L’attività normativa dell’imperatore, a partire da Adriano, divenne sempre più intensa.
È proprio a partire da quest’epoca che la giurisprudenza compie un ulteriore decisivo passo: se essa
riconosce alla constitutio principis tutta la sua decisiva importanza come fonte di produzione normativa di
un impero universale e comincia dunque a utilizzarla nelle sue opere, l’imperatore a sua volta riconosce alla
scienza giuridica la sua insostituibile funzione di consigliare e orientare al punto da essere spesso decisiva
nello stesso processo di formazione della lex;

I giuristi nell’età dei Severi (193-223 d.C.)


Fu durante il regno dei Severi che si affermò definitivamente l’idea di un impero universale cosmopolitico.
La Constitutio Antoniniana, con cui nel 212 un imperatore severiano, Antonino Caracalla, concesse la
cittadinanza romana a tutti i sudditi dell’impero segna l’inizio di questa nuova fase, in cui il diritto romano,
da un lato, tende a caratterizzarsi sempre più in senso universale ma dall’altro, a causa del contatto con le
province, si involgarisce, perdendo molti dei suoi istituti classici.
In un tale contesto, ciò che il principe dice e dispone costituisce la fonte principale, se non addirittura
esclusiva, del diritto (quod principi placet legem habet vigorem).
La giurisprudenza, pur avendo mutato il proprio ruolo, continua tuttavia ad avere importanza.
La funzione del giurista non consiste più nel dare responsi che lo rendono autore diretto di norme, ma
piuttosto nell’interpretare il diritto e nel partecipare col princeps al lavoro legislativo.
Non a caso i maggiori giuristi dell’età dei Severi, quali Papiniano, Paolo, Ulpiano, Modestino furono
importanti funzionari nell’amministrazione imperiale. Nell’età dei Severi il ruolo del giurista si eleva: sono
interpreti del diritto stesso e partecipano insieme al principe alla formazione del lavoro legislativo.

I giuristi nell’età dei Severi (193-223 d.C.) - Papiniano


Papiniano fu prefetto del pretorio agli inizi del III sec., chiamatovi da Settimio Severo.
Fu condannato a morte da Caracalla.
Scrisse 37 libri di quaestiones, 19 di responsa, 2 di definitiones e 2 de adulteriis, commentando la legge
Giulia su tale crimine.
Papiniano, considerato il principe della giurisprudenza romana si distinse per l’impronta nettamente
autonoma dei suoi giudizi, e soprattutto per l’introduzione — in molti casi — dell’equità, concetto fino
ad allora ignorato nelle compilazioni strettamente tecniche.

I giuristi nell’età dei Severi (193-223 d.C.) - Ulpiano


Ulpiano fu prefetto del pretorio di Alessandro Severo.
Scrisse opere di carattere casistico (disputationes e responsa), libri dedicati all’insegnamento (institutiones) e
commentari d’insieme, quali i libri sull’editto del pretore e sull’opera di Sabino.
Particolarmente importanti furono le sue monografie pubblicistiche relative ai compiti dei funzionari
imperiali, quali i proconsoli o i prefetti.

I giuristi nell’età dei Severi (193-223 d.C.) - Paolo


Paolo fu consigliere di Settimio Severo e prefetto del pretorio sotto Alessandro Severo.
Scrisse numerosi libri di quaestiones e responsa, di commento a leggi pubbliche, a senatoconsulti, all’editto
del pretore, nonché brevi monografie su vari istituti di diritto civile, specie in tema di eredità

I giuristi nell’età dei Severi (193-223 d.C.) Marciano e Modestino


Nel clima cosmopolitico instaurato in seguito alla Constitutio Antoniniana, un importante ruolo
divulgatore del diritto romano ai nuovi cittadini dell’impero fu svolto da Marciano e Modestino.
Marciano si caratterizza per la citazione di rescritti. Scrisse alcuni libri di regulae, altri sull’appello, sui

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processi e sull’ipoteca. Legò il suo nome, tuttavia, ai 16 libri di Institutiones che si ponevano lo scopo di
rendere chiara e aggiornata l’esposizione del diritto romano in specifici settori.
Modestino compose per i nuovi cittadini dell’impero, soprattutto quelli di lingua greca, scritti nella loro
lingua originale. Scrisse libri di regulae, di differentiae, di excusationibus (ossia sulle cause di scusa della
tutela).
Nel complesso, può dirsi che una caratteristica molto importante dei giuristi severiani è quella di essersi
posti, con molta lucidità e coscienza della nuova storia che stava maturando, il problema di raccogliere le
molteplici fonti del diritto, dando a esse una prima, sia pur sommaria, sistemazione.

Le fonti di cognizione del diritto classico


Oltre al Digesto (di Giustiniano), che costituisce la fonte di cognizione del diritto romano classico per
eccellenza, altre opere ci sono pervenute, fra esse ricordiamo:
- Fragmenta iuris Romani Vaticana. Posti sotto varie rubriche e i frammenti dottrinali sono tutti di
Papiniano, Paolo e Ulpiano.
- Le Sentenze di Paolo (Pauli Sententiae). Sono pervenute attraverso la lex Romana Wisigothorum e
attraverso vari dei frammenti citati (Fragmenta Vaticana, Collatio ecc.). È una raccolta di massime,
ordinate in modo da servire come un prontuario, per la pratica, piuttosto che come un’opera didattica. È
un’opera preziosa dal punto di vista informativo.
I Tituli ex corpore Ulpiani. Sono una trattazione molto elementare del diritto romano attraverso
l’esposizione di massime.
Tuttavia l’opera probabilmente non fu elaborata da Ulpiano, ma da giuristi posteriori.
Le Istituzioni di Gaio. Quest’opera è conservata quasi integralmente in un palinsesto della Biblioteca
Capitolare di Verona, dove il Niebuhr la scoprì al di sotto di un’opera di S. Gerolamo

Riflessioni in margine
I giureconsulti, a garanzia dell’autenticità del parere, vi apponevano un sigillo personale e i loro pareri erano
vincolanti, nel senso che il giudice doveva uniformarvisi.
In genere i principes si avvalsero della collaborazione dei migliori giuristi, provenienti di solito dall’ordine
senatorio o da quello equestre, e concessero loro onori e privilegi, contribuendo alla diffusione della cultura
giuridica anche nelle più lontane province.
Paolo e Ulpiano sono, in genere, considerati rivolti alla medesima finalità di chiarire e riassumere il diritto
nelle sue istituzioni più importanti.
Entrambi vennero sfruttati più di qualunque altro giurista nella compilazione dei Digesta di Giustiniano,
assumendo un ruolo previlegiato per quanto riguarda la conoscenza del diritto romano.
Con la scomparsa dei giuristi severiani tramonta un certo modo di essere della giurisprudenza che aveva
caratterizzato le epoche precedenti; si afferma un «nuovo modello di giurista, quello che lavora all’interno
della cancelleria imperiale in maniera certo più anonima e non certo autonoma rispetto al passato, ma che è,
sia pure per motivazioni assai diverse, altrettanto indispensabile. In sostanza, i giuristi sono consci di servire
“‘l’impero”, si sentono membri di questo impero e capiscono l’importanza del loro lavoro, del loro operato.
I giureconsulti diventano un’èlite intellettuale, perché trovano soluzioni a problemi giuridici, vengono
coinvolti nell’amministrazione imperiale (consilium principis e come prefetti del pretorio).
Con l’evoluzione del Principato, la giurisprudenza non fu più libera e indipendente; controllata dal potere
centrale, poi assorbita nella stessa organizzazione burocratica diritto diviene volontà imperiale; la norma era
imposta da un potere legiferante.
Il diritto non è più condiviso a livello di assemblee (comitia o plebiscita) ma lo è tra elite (il principe e i suoi
giuristi); ma non per questo non “funziona”.

CAPITOLO 17 - Il dominato: da Aureliano a Diocleziano 270-305

DAL PRINCIPATO ALLA MONARCHIA ASSOLUTA (O DOMINATO)


Aureliano e la fine dell’Anarchia Militare
Con la fine della dinastia dei Severi, ebbe inizio un’epoca di anarchia, durante la quale gli imperatori
investiti dall’esercito si susseguirono ad un ritmo frenetico.
Per ritrovare un certo ordine dovettero trascorrere circa 50 anni: nel 270 d.C. le truppe elevarono al comando

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il capo della cavalleria Lucio Domizio Aureliano, e i suoi cinque anni di potere possono essere definiti di
restaurazione dell’ordine imperiale.
Dopo mezzo secolo di disordini si tentò di restaurare l’Impero; durante tale fase i principi:
- si ispirarono ad una concezione democratico-militare del comando;
- seguirono una politica di agevolazioni sociali per gli humiliores;
- si considerarono i restitutores (restauratori) dell’unità dello Stato;
- costituirono due distinte gerarchie fra loro indipendenti, quella civile e quella militare, entrambe facenti
capo ad un unico vertice, l’Imperatore;
- ridimensionarono le autonomie provinciali.

Le cause della crisi del principato


Il regime che caratterizzò il III sec. d.C. fino all’ascesa di Diocleziano (285) fu profondamente diverso dal
Principato classico.
Le trasformazioni, già visibili verso la fine della dinastia dei Severi, si attuarono completamente nel periodo
successivo, nel quale le istituzioni repubblicane scomparvero del tutto (anche dal punto di vista formale), per
far posto ad un Impero dai tratti assolutistici.
I motivi di questa evoluzione furono molteplici:
a. la prima causa è nella struttura stessa del Principato: la situazione di compromesso tra prìncipi ed organi
repubblicani, inaugurata da Augusto e dai suoi successori, era destinata a non durare all’infinito. La
burocrazia imperiale, infatti, effettiva detentrice del potere politico e militare, andava inevitabilmente a
sovrapporsi agli organismi costituzionali e in particolare al Senatus
b. Sulla scena politica rimase solo il princeps forte del suo naturale sostegno, l’esercito. Dalle milizie,
infatti, provennero le migliori figure di imperatori: nacque così la figura dell’imperatore-soldato scelto
dai soldati stessi.
c. la prima causa è nella struttura stessa del Principato: la situazione di compromesso tra prìncipi ed organi
repubblicani, inaugurata da Augusto e dai suoi successori, era destinata a non durare all’infinito. La
burocrazia imperiale, infatti, effettiva detentrice del potere politico e militare, andava inevitabilmente a
sovrapporsi agli organismi costituzionali e in particolare al Senatus
d. la decadenza economica e la contrazione demografica del III sec. ebbe un ruolo molto rilevante, perché
determinò la decadenza dell’Italia e di Roma, non più rifornite di ricchezze dalle province, ma costrette
ad acquistare i beni necessari altrove. Il crescente fabbisogno economico dell’impero costrinse i principi a
coniare monete adulterandone la lega con metalli poveri
e. L’Italia divenne un peso nella economia dell’Impero e non poté risollevarsi perché, mentre Roma era
affollata da circa un milione di cittadini, la penisola era disabitata, divisa in latifondi scarsamente coltivati
e, quindi, totalmente improduttiva.
f. La susseguente contrazione demografica divenne inevitabile
g. la decadenza del sistema schiavista: terminate le guerre di conquista era venuta meno la più grande
fonte di reclutamento di schiavi. L’esaurimento della mano d’opera servile provocò un’ingente
diminuzione di produttività delle campagne e una forte urbanizzazione; Si dovette, pertanto, ricorrere al
lavoro libero, che comunque non fu valorizzato adeguatamente. I figli furono obbligati al medesimo
lavoro del padre.
h. la decadenza culturale dell’Occidente
i. la provincializzazione dell’esercito e della pubblica amministrazione. Tale provincializzazione
determinò tendenze autonomistiche nell’esercito e una diffusa anarchia nell’ambito dell’Impero
j. Diffusione del cristianesimo con le problematiche connesse che mettevano in discussione l’autorità
religiosa dell’imperatore

La riorganizzazione delle classi sociali


Fra i cives romani fu conservata la distinzione, già affermatasi durante il Principato, fra honestiores ed
humiliores
Rientravano nella categoria degli honestiores i seguenti ordini:
- l’Ordine Senatorio: si trattava dell’ordine di gran lunga più privilegiato. Vi si accedeva per nomina
imperiale, per aver ricoperto determinate cariche pubbliche, nonché, per nascita, in virtù della
trasmissione ereditaria del titolo. A seconda della diversità di rango, gli appartenenti all’ordo venivano

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distinti in illustres, spectabiles e clarissimi: diversamente i membri dell’ordo per diritto ereditario
ricevevano tutti indistintamente il rango più basso di clarissimi;
- l’Ordine Equestre: durante l’impero di Diocleziano aveva goduto di notevole autorità in campo politico,
perse invece di importanza con Costantino;
- i militari, i funzionari dell’amministrazione centrale e periferica, gli esercenti le professioni liberali
(es. avvocati), e i decurioni.
Rientravano, invece, nella categoria degli humiliores i negozianti, gli artigiani, gli operai della città ed i
lavoratori dei campi.
Rientravano altresì nella categoria i «coloni vincolati alla terra»: si tratta di una nuova classe la cui nascita
era la diretta conseguenza della riduzione del numero degli schiavi.
La condizione dei coloni (pur essendo uomini liberi), nella sostanza fu molto simile alla schiavitù. A
differenza dello schiavo, però, il colono non può essere manomesso, né il proprietario può allontanarlo dalla
terra. Il colono, infine, è tenuto nei confronti del proprietario al pagamento del canone di fitto ed alla
prestazione di servizi personali

Distinguo tra Principato e Dominato


 il Principato poggiava le sue basi politiche sulla indiscussa supremazia di Roma (ed in genere,
dell’Italia) su tutte le altre province dell’Impero; al contrario, nel periodo della monarchia assoluta il
rilievo e l’influenza delle province extra-italiane dell’Impero aumentò grandemente (e molti
imperatori furono di estrazione non italica);
 il Principato si collegava idealmente, alle istituzioni della tradizione repubblicana; la monarchia
assoluta, al contrario, si fondava essenzialmente sulla potenza militare dell’imperatore (e, quindi, sul
suo legame con l’esercito) e sulla sua consacrazione religiosa, sotto l’influsso, per quest’ultimo profilo,
delle monarchie orientali.

Le diverse fasi del Dominato (Monarchia assoluta)


Con la conquista del potere da parte di Diocleziano (285 d.C.) si aprì il periodo di decadenza della civiltà
romana.
Dal IV al VI sec. d.C. l’Impero attraversa un lento processo di dissoluzione scandito da diverse fasi:
1. fase dell’Impero unico (285-395 d.C.);
2. fase dell’Impero duplice (395-527 d.C.) nella quale si delinea la distinzione tra parte orientale e parte
occidentale;
3. fase Giustinianea (527-565 d.C.) nella quale si verificò il grandioso, ma effimero, tentativo di
Giustiniano I di restaurare l’unità dell’Impero e ripristinare i valori tipici della romanità. Con il
fallimento di questo disegno la storia di Roma può considerarsi conclusa.

Diocleziano (285-305 d.C.)


Nel 285 d.C., salì al trono imperiale Gaio Aurelio Valerio Diocleziano, generale di origine dalmata che
mantenne il potere fino al 305 d.C.
Diocleziano, nei suoi 20 anni di regno (un periodo lunghissimo se lo si confronta con quelli dei suoi
predecessori), fu allo stesso tempo difensore della tradizione e profondo innovatore.
Cercando la sintesi tra vecchio e nuovo egli ricostruì l’unità dell’Impero romano e del suo ordinamento
giuridico e politico.
Con l’avvento di Diocleziano, tradizionalmente, si ritiene abbia inizio il periodo della monarchia assoluta.
Diocleziano (285-305 d.C.): le riforme
Diocleziano attuò un piano di riforme tendenti a rafforzare organicamente la stabilità militare, politica ed
economica dell’Impero
Tra le principali riforme dioclezianee, ricordiamo:
 la riforma militare, per adeguare la struttura dell’esercito alla difesa dei confini: alla pluralità di eserciti
Diocleziano sostituì un unico esercito mobile, detto «exercitus praesentalis»;
 la riforma tributaria per distribuire equitariamente su tutte le regioni il carico tributario
 l’imposizione di un prezzo di calmiere su tutti i beni, attraverso l’emanazione di un edictum de pretiis
rerum venalium (c.d. editto sui prezzi) nel 301 d.C., che comminava pene gravissime per i trasgressori
Diocleziano attuò un piano di riforme tendenti a rafforzare organicamente la stabilità militare, politica ed

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economica dell’Impero

Riforma tributaria
Riforma fiscale per razionalizzare l’esazione:
Attraverso la riforma tributaria Diocleziano intendeva risanare la situazione finanziaria dell’impero.
Tale riforma si attuò introducendo una nuova imposta fondiaria (annona) che gravava su
ciascun iugum (unità fiscali in cui furono divisi i territori di uguale valore, ma di estensione diversa in
ragione del tipo di coltura a cui erano destinati). L’imposta gravava, altresì, su ciò che era stanziato sui
fondi: gli animali, gli schiavi e i coloni. Coloro che non possedevano fondi pagavano un’imposta personale
(capitatio plebeia), in danaro.
L’ammontare dell’imposta era determinato in modo semplice: era stabilita e accertata la quantità di
danaro di cui aveva bisogno lo Stato; tale somma era poi divisa per le unità fiscali e ripartita tra le
diocesi e le provincie dell’Impero.
Va precisato che prima di Diocleziano le imposizioni tributarie venivano compiute in modo saltuario. Il
nuovo sistema presentava il vantaggio di assicurare alle casse statali un gettito regolare e una distribuzione
del carico fiscale attuata in modo uniforme su tutto l’Impero. Tuttavia ci fu una controindicazione,
costituita dal fatto che lo stato, nel determinare la somma complessiva che intendeva esigere, si basava
sulle sue necessità anziché sulle possibilità effettive dei contribuenti.
Conseguenza del sistema descritto, fu una eccessiva onerosità della tassazione che portò inevitabilmente ad
una sorta di evasione fiscale.
Il sistema di riscossione si basa sulla misura di terra lavorata tenendo conto della capacità produttiva di un
maschio adulto;
Il carico fiscale è determinato dall’analisi del fabbisogno dell’esercito e dell’amministrazione:
 il carico viene ripartito tenendo conto del numero di abitanti primo censimento nel 287 d.C. e rinnovato
ogni cinque anni;
 attraverso la misurazione dei terreni e suddivisione in base a colture specifiche;
 tenendo conto della forza lavoro impiegata, animali compresi;
Indictio: editto imperiale che stabilisce il tributo dovuto all’erario da ogni provincia per l’anno fiscale.

Diocleziano (285-305 d.C.): le riforme


Il riordinamento delle gerarchie centrali della burocrazia imperiale, attuato raccogliendo in una sorta di
«gabinetto di ministri» una serie di funzionari che formarono il Consistorium sacrum, organo consultivo del
principe. Tale opera fu proseguita e completata da Costantino, che diede all’amministrazione un assetto
rimasto inalterato nell’Impero d’Oriente fino alle riforme del sec. VII

Riforma delle province (ved. sotto)

Nella riorganizzazione territoriale dell’Impero fu evidente l’applicazione dei principi gerarchici e la


tendenza accentratrice del nuovo regime, che creò una burocrazia imperiale forte, fedele ed unitaria a
scapito delle forme di autonomia locale.
Uniformità del regime interno: l’intero territorio venne diviso in circoscrizioni territoriali uniformemente
governate da funzionari dell’unica gerarchia burocratica dello Stato. La funzione guida dell’Italia
tramontò e fu abolita la distinzione tra province imperiali e senatorie;
Divisione delle province in distretti minori: al fine di frenare eventuali sedizioni i territori provinciali
furono ridimensionati e frazionati in quattro prefetture; ogni prefettura conteneva più diocesi (12 in totale);
ogni diocesi costituiva una circoscrizione di province;
Riduzione dei poteri dei governatori provinciali: essi, privati dei loro poteri militari, furono ridotti al
rango di semplici funzionari (rectores), mentre la difesa militare fu affidata a nuovi funzionari (duces) fedeli
all’imperatore;
In particolare, a capo delle prefetture furono posti i prefetti del pretorio, mentre a capo delle diocesi, i vicarii
praefectorum praetorio.
L’Italia fu una delle quattro prefetture dell’Impero (Gallia, Italia, Illirico, Oriente) e venne divisa in vicariati
(vicariatus urbis Romae e Italia annonaria). Solo Roma rimase sottoposta ad un regime speciale e fu
governata dalle magistrature repubblicane, ridiventate meramente municipali, come nella loro lontana

73
origine.

Trasferimento della Capitale da Roma a Nicomedia (vicino Bisanzio)


L’istituzione dei curatores civitatis: la necessità di controllo sulle amministrazioni condusse alla creazione
del curator civitatis, controllore governativo dello stato delle finanze imperiali.
La politica di Diocleziano, in linea con la concezione sacrale che l’imperatore ebbe della propria persona, si
caratterizzò anche per le feroci persecuzioni dei cristiani.
Con l’aiuto di Cesare Galerio, Diocleziano promulgò quattro editti tra il 303 e il 304 attuando una intensa,
feroce e sistematica politica di persecuzione contro i cristiani, ritenuti inoltre la causa scatenante della
crisi economica perché contrari al sistema schiavistico (teoria del complotto);
Il cristianesimo, tuttavia, non poteva essere sradicato né con le stragi né con il terrore. Pertanto Galerio,
convintosi di tale realtà, provvide ad emanare nel 311 un editto di tolleranza verso i cristiani.

Diocleziano (285-305 d.C.): la tetrarchia


L’aspetto più importante del regime di Diocleziano fu la riforma della stessa carica imperiale, che egli volle
costituire come tetrarchia.
In particolare Diocleziano nominò un collega (Massimiano), dotato di par potestas, a cui fu attribuito il titolo
di Augustus, affidandogli il governo delle prefetture occidentali, e tenendo per sé quelle orientali.
Accanto ai due augusti furono nominati anche due Caesares (filii Augustorum, successori designati): Galerio
e Costanzo, anch’essi provenienti dalle file dell’esercito, con il potere di governare determinate regioni.
Prima di diventare troppo vecchi, i due Augusti avrebbero lasciato volontariamente il potere e abdicato ai
successori già designati (Caesares), i quali a loro volta, assunto il titolo di Augusti, avrebbero cooptato due
nuovi successori.

Scopo della tetrarchia era essenzialmente:


 rendere il supremo comando presente ovunque fosse necessario per la difesa e il controllo delle province;
 assicurare una soluzione precostituita alla successione al trono, sottraendo la scelta dei capi all’arbitrio
dei soldati e sostituendo il criterio della trasmissione ereditaria familiare.

La riforma ideata da Diocleziano tuttavia non funzionò.


Nel 305 d.C. egli abdicò, così come Massimiano, ma il loro esempio non fu seguito dai successori.
Una volta Morto Costanzo (il successore che Diocleziano aveva cooptato come Caesar) l’esercito non
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rispettò la designazione operata dai nuovi Augusti, acclamando come imperatore il giovane figlio di
Costanzo, Costantino.

Diocleziano (285-305 d.C.): un bilancio


Il governo di Diocleziano è stato caratterizzato da un lungo periodo di stabilità, da attenta amministrazione e
tutela dalla sicurezza dei confini;
Tuttavia le riforme (soprattutto il sistema tetrarchico ed il frazionamento delle circoscrizioni) che avevano
consentito tali risultati, si riveleranno instabili e causa di disgregazione alla scomparsa della figura
carismatica del loro ideatore.

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CAPITOLO 18 - Evoluzione del diritto romano nel periodo del dominato: il diritto nella monarchia
assoluta e le compilazioni pre-giustinianee

La decadenza del diritto post-classico


Il periodo della monarchia assoluta vide venir meno tutte le fonti che avevano caratterizzato l’ordinamento
della Repubblica e del Principato: unica fonte del diritto era l’imperatore, la cui volontà si identificava con la
legge.
Tale epoca, dunque, rappresentò un periodo di generale decadenza per il diritto romano nonostante il
pregevole tentativo giustinianeo di ripristinarne l’autorità.

La decadenza del diritto post-classico: i motivi


I motivi di tale declino derivano da una complessa serie di fattori:
 il sostituirsi al paganesimo del cristianesimo, portatore di una nuova ideologia, mutazione progressiva dei
costumi, esercitando una forte influenza anche sul diritto;
 la trasformazione del diritto pubblico in un ordinamento rigorosamente gerarchico e accentrato; il
sovrapporsi alla popolazione e alla civiltà romana di nuovi elementi non romani, né romanizzati: i
barbari che fecero sentire il loro peso anche nel campo del diritto;
 il totale venire meno della classe senatoria, portatrice delle antiche tradizioni politiche e giuridiche;
 il mutamento dell’assetto economico generale.

Le fonti del diritto post-classico: la volontà imperiale


Con l’avvento della monarchia assoluta scomparvero tutte le fonti di produzione del diritto ad esclusione di
quelle imperiali.
La volontà dell’imperatore divenne fonte suprema del diritto
Ciò non vuol dire che le fonti tradizionali — i senatusconsulta, i responsa, le leges — avessero perso valore,
ma che la capacità di creare diritto nuovo era ormai attribuita ufficialmente al solo imperatore, che a
ciò provvedeva prevalentemente tramite le costituzioni da lui emanate.
Le constitutiones imperiali, definite «leges novae», rappresentano la fonte di produzione primaria del diritto
post-classico.
A partire da Costantino, gli imperatori preferiscono legiferare attraverso i cd. edicta o leges generales,
ovvero ricorrendo a statuizioni contenenti norme di carattere generale e astratto.
Persero, invece, importanza le statuizioni a carattere particolare (leges speciales), nonché i decreta e i
mandata.
Nel basso Impero (cioè negli ultimi secoli di esso) entrano nell’uso due nuovi tipi di costituzioni,
costituenti un genere intermedio fra le leges generales e speciales, le adnotationes e le pragmaticae
sanctiones.
Le prime si possono accostare ai rescritti, benché il divario rispetto a questi ultimi non sia accertabile con
sicurezza.
Le seconde (pragmaticae sanctiones) sono una via di mezzo fra i rescritti e le leges generales.
Normalmente contenevano disposizioni in materia amministrativa, indirizzate a funzionari o privati che
avessero richiesto un intervento imperiale oppure erano emesse su iniziativa dell’imperatore;
In genere riguardavano solo singoli casi concreti, ma talora potevano avere un’efficacia che si estendeva
oltre il caso concreto, disciplinando anche altri casi diversi, ma affini.

Nuovo ruolo dei giuristi e della giurisprudenza


L’aspetto del diritto in cui fu più evidente la frattura tra Principato e Impero tardoantico riguardò il ruolo
della giurisprudenza.
Infatti, mentre nel Principato (e ancora nell’età dei Severi), i giuristi avevano funzioni di guida nello
sviluppo e nella creazione del diritto, a partire da Diocleziano essi divennero per lo più anonimi burocrati, al
lavoro nelle cancellerie imperiali per la preparazione di testi normativi del principe, oppure erano docenti
nelle scuole (Beirut, Costantinopoli).

Scomparve il ius respondendi ex auctoritate principis. Giustiniano, addirittura, giunse a riservare alla
figura dell’imperatore non soltanto la creazione del diritto, ma anche la stessa interpretazione.

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Il prezioso patrimonio giurisprudenziale del principato, tuttavia, non venne dimenticato. Gli scritti dei
giuristi dell’età precedente vennero infatti utilizzati per dare lustro al diritto vigente, accanto alle
costituzioni imperiali.

In contrapposizione alle leges (costituzioni imperiali) si posero dunque gli iura (scritti giurisprudenziali).
Leges e iura costituivano il ius ex scripto (diritto scritto), distinto dal ius ex non scripto (o diritto
consuetudinario).
La consuetudine assunse in quest’epoca una posizione marginale.
(Giustiniano promulgherà il Codex per le leges e il Digesto per gli iura)

Nel diritto giustinianeo era ammessa solo la consuetudine secundum legem, ossia quella espressamente
richiamata dalla legge, mentre erano respinte la consuetudine praeter legem (ossia quelle che colmavano
lacune legislative) e quella contra legem (che, cioè, contraddicevano di fatto alla legge) non gradite
all’imperatore
In questa età si assiste anche all’emergere di un dualismo legislativo, dovuto alla divisione dell’impero in
due partes, quella occidentale e quella orientale

Unità legislativa tra le 2 parti dell’Impero


Ancora è discusso tra gli autori il problema dell’unità legislativa dell’Impero durante il periodo che seguì
l’istituzione della tetrarchia.

Le costituzioni emanate dall’imperatore di una pars imperii erano rispettate nell’altra pars: vi erano riportati
i nomi di entrambi gli imperatori.

Per le discordanze nella disciplina legislativa adottata nelle due partes valeva il principio che le costituzioni
emesse da un imperatore, pur non respinte dall’altro, erano praticamente ignorate e disapplicate nell’altra
parte, a favore di norme antecedenti.

Peraltro, dalla lettura delle subscriptiones di ogni costituzione appare come queste fossero prevalentemente
indirizzate a funzionari che operavano nella stessa pars Imperii in cui era emanata la legge.
Alcuni autori ne deducono, quindi, che l’unità dell’Impero fosse da ritenersi solo formale; in realtà in campo
amministrativo e legislativo era ormai riconosciuta l’autonomia e l’indipendenza delle due parti.
Solo con Teodosio II (408-450) il dualismo legislativo assunse un aspetto formale: egli, infatti, stabilì che le
leges imperiali emanate da un solo Augustus potevano avere efficacia in tutto l’Impero solo se trasmesse
all’altro Augustus tramite una pragmatica sanctio (pragmatica sanzione, forma di costituzione imperiale
tarda).
Fu il Codex Theodosiànus (439) a segnare la rottura definitiva dell’unità giuridica tra Oriente ed Occidente.

La consuetudine e la prassi: il così detto «diritto volgare»


Le costituzioni imperiali non furono tuttavia l’unica fonte idonea a produrre innovazioni nell’ordinamento
giuridico.
A seguito dell’editto di Caracalla (212) non vi fu un’«abrogazione» dei diritti locali: questi continuarono ad
essere applicati nelle province, affiancandosi di fatto al diritto romano.
Tale sviluppo si sarebbe verificato in modo spontaneo (per opera, cioè, della prassi) ed autonomo (cioè
senza subire l’influsso di altri diritti). Per prassi, in quell’epoca, si intendeva l’applicazione quotidiana del
diritto nella vita pratica.

Il diritto nato dalla prassi, sia giudiziale sia negoziale, fu definito «diritto volgare»: si trattava di un diritto
che corrispondeva alle necessità ed ai bisogni della vita pratica e che, pertanto, divergeva dal diritto classico
(decisamente più tecnico) divenuto oramai parzialmente inattuale per le mutate esigenze della società.
Da quanto accennato, emerge l’incapacità della legislazione imperiale di sostenere il ruolo di fonte unica del
diritto nel periodo del basso impero

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Il nuovo processo penale
In campo penale la monarchia assoluta portò alla definitiva abolizione delle quaestiones, ed all’affermazione
della giurisdizione esclusiva dei funzionari imperiali (cognitio imperiale).

Per tale motivo dal processo penale, esclusivamente imperiale, fu estromesso il Senato, che in precedenza
aveva tenuto sotto controllo tale «settore».

L’accusatio publica, vale a dire quella aperta a qualsiasi cittadino (che aveva costituito un importante
controllo popolare della giustizia), era ammessa solo per i crimina più gravi, quali la maiestas, l’omicidio, la
violenza.
L’impossibilità per il princeps di seguire tutte le procedure che si svolgevano nel vasto impero condusse ad
una moltiplicazione dei tribunali, le cui competenze furono, perciò, rigidamente determinate.
Il mutamento di procedura influì anche sul sistema del diritto penale sostanziale:
 le figure criminose aumentarono e le pene vennero generalmente aggravate;
 prevalse una tendenza a considerare come reato qualsiasi infrazione di leggi di diritto privato e pubblico;
 lo Stato avocò a sé interamente il potere di punire: venne così definitivamente cancellato il
riconoscimento legale dell’autodifesa (provocatio ad populum abolita) e della reazione privata.

I tipi di pena
I principali tipi di pena del Dominato:
 larghissima applicazione della pena di morte: cadute in desuetudine le quaestiones perpetuae (i tribunali
permanenti istituiti sull’esempio delle quaestiones repetundarum create da Silla), venne meno la
possibilità per il condannato a morte di sottrarsi alla esecuzione della sentenza con l’esilio
volontario;
 damnatio ad metalla, pena perpetua che comportava la servitus poenae del condannato;
 poena existimationis che comportava la perdita delle cariche eventualmente coperte;
 larga diffusione avevano poi: l’esilio, la confisca dei beni e l’antica poena cullei che prevedeva che il
colpevole venisse rinchiuso in un sacco con alcuni animali, sacco che veniva poi gettato in mare.

Nuove fattispecie criminose


Numerose furono, nel periodo postclassico, le nuove fattispecie di reato inserite nel quadro dei crimina,
soprattutto per i reati commessi dai funzionari statali.

Per quanto riguarda le singole fattispecie costituenti reato, occorre evidenziare che:
 il crimen falsi assunse particolare rilievo sociale, e fu esteso alla falsificazione di monete (in qualunque
forma perpetrata): in parecchi casi fu punito con la pena capitale;
 il crimen peculatus fu punito con la pena di morte nel caso di sottrazione di denaro da parte di funzionari
pubblici;
 il crimen repetundarum ricomprese ogni tipo di violazione di doveri d’ufficio, o di concussione
(concessione di congedi a militari, dietro compensi in denaro, illecita esazione, da parte dei comandanti
militari, di derrate alimentari);
 il crimen sacrilegii ricomprese ogni sorta di offesa arrecata alla religione cristiana, e fu affiancato dal
nuovo crimen violatae religionis (riguardante la professione di culti eretici o pagani, o la violazione dei
precetti della religione cristiana, relativi ai doveri di culto).

In sostanza il cristianesimo con l’editto di Costantino del 313 (editto di tolleranza) venne leggittimato
e con l’editto di Nicomedia venne dichiarato religione di stato (piccola parentesi di Giuliano
L’Apostata). Infine, con Teodosio con l’editto di Tessalonica del 380 venne ripristinata come religione
ufficiale dell’impero e divenne unica religione professabile (vengono chiusi i templi e vietati i sacrifici).
Le opere post-classiche
La coesistenza tra opinioni di giuristi repubblicani (iura) e nuove norme imperiali (leges) creava uno
stato di incertezza circa la scelta della norma da applicare.
Ciò rese necessario raccogliere e scegliere, proprio in ossequio al principio della certezza del diritto, le
norme in vigore nonché adeguare il diritto alle nuove esigenze sociali.

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Nacquero così una serie di opere a carattere compilativo che intendevano distinguere, nella massa delle
norme esistenti, quelle effettivamente vigenti da quelle desuete.
Ancora oggi i documenti dell’età post-classica costituiscono la maggior parte delle fonti di cognizione
in nostro possesso per la ricostruzione del diritto romano.

Gli elaborati dell’epoca post-classica pervenutici sono stati divisi in tre categorie:
 compilazioni di iura;
 compilazioni di leges;
 compilazioni miste di iura e leges.
A noi sono giunti elaborati ufficiali, cioè pubblicati da imperatori o da reges (re) barbarici e compilazioni
private.
La separazione tra Occidente e Oriente ebbe effetti anche nel campo giuridico, a tal proposito la dottrina ha
distinto tra compilazioni occidentali e orientali.

I giureconsulti
L’intensificata produzione di costituzioni imperiali non tolse efficacia all’opera della giurisprudenza.
Le scuole ufficiali sia in Oriente sia in Occidente furono numerose e seguivano la tendenza generale di
rivalutare il diritto romano.
Nelle scuole d’Oriente (Berito, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Cesarea) e d’Occidente (Roma)
predominò il culto della giurisprudenza classica e specialmente di Gaio, Papiniano, Paolo, Ulpiano e
Modestino.
La giurisprudenza post-classica non brillò per originalità, né fornì particolari spunti innovativi, incentrando
la sua attenzione prevalentemente sull’analisi, sul commento e sulla rielaborazione delle opere dei giuristi
classici.
Il titolo riservato a questi docenti e studiosi era di Antecessor

La «legge sulle citazioni» (426 d.C.)


L’indiscriminata utilizzazione, per risolvere le controversie giudiziali, di brani di giuristi classici portò
all’emanazione, da parte dell’imperatore Valentiniano III, della cd. legge delle citazioni (426 d.C.).
Allo scopo di disciplinare il ricorso all’immenso e complesso confuso e ingestibile insieme di materiali
giurisprudenziali di provenienza classica, fu sancita la particolare autorità — in giudizio — delle opere di
cinque tra i giuristi ritenuti di maggior prestigio Papiniano, Paolo, Gaio, Ulpiano e Modestino

La «legge sulle citazioni»: meccanismo


in particolare:
 in giudizio potevano esser citate solo le opinioni di quei
 cinque giuristi (che risultavano vincolanti per il giudice);
 le opinioni di altri giuristi assumevano rilievo solo se citate nelle opere di uno di quei cinque giuristi;
 se i pareri dei 5 giuristi erano discordi, prevaleva quello sostenuto dalla maggioranza;
 in caso di parità, prevaleva l’opinione di Papiniano (ritenuto il giurista più eminente).

La «legge sulle citazioni»: effetto


La legge delle citazioni ridusse grandemente l’autonomia e la «fertilità» della giurisprudenza post-classica,
nonché le sue potenzialità innovative (risultando essa rigidamente vincolata all’osservanza dei pareri dei
cinque giuristi sopra citati).

I Codici privati
Nel periodo post-classico (III sec. d.C.) furono compilate in Oriente due raccolte private contenenti
esclusivamente costituzioni imperiali che ebbero larga fortuna e furono riconosciute ufficialmente:
 Il Codice Gregoriano
 Il Codice Ermogeniano

I Codici privati: il Codice Gregoriano


il Codice Gregoriano - Codex Gregorianus

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risale al 292 o 293 d.C., fu redatto sotto Diocleziano, comprendeva solo rescritti ed era composto da almeno
15 libri destinati principalmente all’amministrazione della giustizia civile.
Tale codice fu largamente utilizzato dai compilatori giustinianei per la redazione del Codex di Giustiniano
(529, 1° Codice, e 534, 2° codice)
I Codici privati: il Codice Ermogeniano
Codice Ermogeniano (Codex Hermogenianus) fu pubblicato in Oriente nel 293 d.C. dallo stesso
Ermogeniano.
Tale codice non è diviso in libri, ma solo in titoli entro i quali le varie costituzioni vengono riportate in
ordine cronologico.
La raccolta comprende in buona parte rescritti emanati da Diocleziano nel 293- 294 d.C.

I due codici privati non ci sono pervenuti direttamente in quanto riprodotti e richiamati nelle leggi romano-
barbariche e nel codice di Giustiniano. Entrambi i codici ottennero notevole diffusione e sopravvissero a
lungo nell’uso quotidiano, in quanto largamente utilizzati sia dalla prassi sia nella scuola.

CAPITOLO 19 - L’età costantiniana e quella teodosiana. La fine dell’Impero Romano d’Occidente

Costantino (312-323 e 324-337 d.C.)

Costantino era salito al potere insieme a Licinio e nei primi due anni di regno il trono imperiale fu
regolarmente tenuto da entrambi, secondo le regole della “tetrarchia”; presto, però, i rapporti si inasprirono e
ne derivarono forti conflitti: Licinio fu costretto all’abdicazione e fu poi assassinato.
Costantino si trovò così a governare da solo un impero con due capitali: Roma e la cd. «Roma nova»
(Costantinopoli, l’antica Bisanzio).

Costantino, rispetto al suo predecessore, ebbe una concezione più assolutistica del dominio imperiale:
introdusse definitivamente il dispotismo orientale con i suoi fasti esteriori e affermò definitivamente il
principio dinastico.
Mentre Diocleziano si era illuso di poter mediare l’opera di rafforzamento dell’autorità imperiale con la
restaurazione dei valori tradizionali della civiltà romana, Costantino impresse all’Impero un carattere
esclusivamente monarchico.
Quanto all’organizzazione burocratico-amministrativa dell’Impero, Costantino continuò l’opera
accentratrice di Diocleziano.
Grazie all’opera riformatrice dei due imperatori si formò un’organizzazione burocratica che divenne forza di
governo autonoma subentrando al disorganico governo senatorio- repubblicano.

Costantino: rimodellamento del consistorium


Costantino, in particolare, introdusse nel consistorium:
 i due capi dell’amministrazione finanziaria imperiale: il comes sacrorum largitionum per l’erario e il
comes rerum privatarum per il patrimonio della corona;
 il capo dei servizi della casa imperiale: il magister officiorum (funzionario di creazione costantiniana);
 il capo del tribunale imperiale: il quaestor sacri palatii.
 Costantino allontanò dal consistorium i praefecti praetorio e vi accolse una serie di funzionari detti
comites consistoriani.

Costantino: visione politico-amministrativa


La periferia e il governo centrale rimasero collegati attraverso i prefetti e attraverso una complessa rete di
organismi burocratici, detti comites Augusti.
Allo scopo di fissare una carriera e un trattamento economico uniforme per i burocrati, fissò definitivamente
gerarchia, onori, stipendio e carriera dei funzionari.
Costantino tentò di attirare verso l’orbita statale l’immensa forza politica che il Cristianesimo
potenzialmente rappresentava: pur avendo abbracciato molto più tardi la fede cristiana, il suo atteggiamento
pubblico fu chiaramente filocristiano.

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Costantino: tolleranza religiosa o cesaropapismo?
L’Editto di Milano (Nicomedia) del 313 d.C., con cui Costantino rese libero il culto cristiano, sancendo il
principio della tolleranza in materia religiosa: in tal modo il Cristianesimo veniva equiparato a tutte le altre
professioni religiose.
Interventi imperiali successivi mirarono ad attribuire al Cristianesimo una condizione privilegiata: ricche
donazioni alla comunità cristiane, favorita la costruzione di chiese, riconoscimento della giurisdizione dei
Vescovi (episcopalis audientia)
Di importanza fondamentale fu il Concilio di Nicea del 325 d.C., convocato per combattere l’eresia ariana,
diffusasi ormai largamente in Oriente, ed affermare la dottrina “ufficiale” della Chiesa di Roma.
“Cesaropapiamo” = influenza dell’impero - “Stato” - sulla Chiesa. Tutti i concili ecumenici del Primo
Millennio (fino al Niceno II del 787) saranno presieduti dagli imperatori romani d’oriente. Da Costantino in
poi gli imperatori “plasmano” il cattolicesimo anche dogmaticamente e il cattolicesimo si rifà al modello
amministrativo romano. Il dibattito su Costantino, che riceve il battesimo in punto di morte, è ancora aperto.

I successori di Costantino (337-379)


Alla morte di Costantino, che pure aveva già diviso l’Impero tra i suoi figli Costanzo e Costante, nominati
entrambi Caesares, si aprirono le lotte per la successione aggravate da una fosca sequela di delitti e di
discordie familiari.
Particolarmente grave si presentava, inoltre, il problema della difesa dei confini sottoposti ad una sempre
più insistente pressione barbarica. Dotati di pari autorità e tutt’altro che animati da sentimenti fraterni,
Costanzo e Costante regnarono adottando politiche di governo differenti. Morto Costante a causa di una
congiura, Costanzo designò come suo Augustus, Gallo.
Il regno di Gallo durò ben poco; avendo abusato dei poteri attribuitigli, fu destituito da Costanzo e
giustiziato: Costanzo nominò al suo posto il proprio fratellastro, Giuliano.
Nel 361 d.C., morto anche Costanzo, e già acclamato Augustus dalle truppe, Giuliano rimase unico
detentore del potere imperiale; oltre ad essere un buon condottiero, fu un assennato imperatore: tentò di
ridurre le spese pubbliche, ridusse il numero dei funzionari di palazzo e le imposizioni fiscali.

Essenzialmente Giuliano è ricordato per la sua politica religiosa sfavorevoli ai cristiani: la religione
cristiana fu messa in second’ordine e si tentò di restaurare i tradizionali culti pagani.
Durante il suo regno, infatti, furono abolite tutte le concessioni elargite in precedenza ai cristiani in materia
fiscale e giurisdizionale; fu per questo che fu denominato l’Apostata, ossia il «rinnegatore» della fede.
Ma anche il suo regno ebbe breve durata: nel 363 d.C., dopo la vittoriosa campagna militare contro i
Persiani, fu ucciso durante uno scontro ai confini dell’Impero. La sua morte provocò un nuovo periodo di
anarchia, durante il quale ancora una volta furono le truppe ad eleggere i nuovi imperatori.
Valentiniano e Valente, entrambi militari, assunsero un atteggiamento di favore verso l’esercito,
ammettendo alle più alte cariche dell’Impero soprattutto gli ufficiali.
Al pari di Giuliano, Valentiniano e Valente cercarono di risolvere la grave crisi economica che aveva colpito
l’Impero e di annullare l’enorme divario sociale tra le classi più abbienti e meno abbienti. Vari furono i
provvedimenti emanati al fine di proteggere coloro che appartenevano ai ceti più umili dalle vessazioni dei
potenti: tra essi, va ricordata la creazione di un funzionario apposito (defensor plebis o civitatis).
Intanto ai confini dell’Impero sempre più frequenti si facevano le incursioni barbariche: i Goti, sotto la
spinta delle orde degli Unni, erano giunti fino alla penisola balcanica.
Molte furono, quindi, le campagne belliche condotte, durante il regno di Valentiniano e Valente, per
arginare l’avanzata dei barbari. In una di queste trovò la morte nel 375 d.C. lo stesso Valentiniano; tre anni
più tardi ad Adrianopoli anche Valente fu ucciso, dopo esser stato sconfitto dagli Unni.
Graziano, figlio di Valentiniano, nominato Augustus dal padre prima della sua morte, designò come suo
collega lo spagnolo Teodosio (379 d.C.) dimostratosi valoroso generale nella guerra contro i Goti.

Teodosio I il Grande (379-385)

Teodosio I
Proveniente dalle file dell’esercito, Teodosio dimostrò di essere innanzitutto un abile e brillante stratega:
grazie alle sue capacità l’esercito imperiale sconfisse i Visigoti, riuscendo a salvare la stessa Costantinopoli,

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quasi assediata.
Fu il primo, peraltro, a consentire l’arruolamento di Visigoti nell’esercito, soprattutto nelle postazioni di
frontiera, dando luogo alla cd. barbarizzazione dell’esercito, che fu una delle cause del crollo dell’Impero
romano.
A Teodosio si deve, inoltre, la definitiva e ufficiale proclamazione della religione cristiana come
«religione di Stato», con l’Editto di Tessalonica del 380 d.C. e l’interdizione del culto pagano, la
chiusura dei templi ed il divieto di celebrazione dei sacrifici nonché la condanna dell’arianesimo nel
Concilio di Costantinopoli (381).
Con la sua morte, avvenuta nel 395 d.C., la frattura fra Oriente e Occidente divenne insanabile, tanto che
egli considerato l’ultimo imperatore dell’impero unificato
I figli di Teodosio, Arcadio e Onorio, a cui spettarono, rispettivamente, l’Oriente e l’Occidente, adottarono
politiche indipendenti e spesso ostili; per la prima volta nella storia dell’Impero si giunse ad un conflitto
armato tra le due parti.
Il conflitto fra i due imperi si concluse con la morte di Onorio nel 432 d.C., in seguito alla quale l’Impero
d’Occidente iniziò il suo inarrestabile declino, a causa della cattiva amministrazione e delle continue
invasioni barbariche.

L’impero d’Oriente
Il distacco dall’Occidente, che era stato un gravoso peso economico e politico per l’Oriente, consentì a
questa parte dell’Impero una apprezzabile ripresa. Dopo essersi staccati da Roma gli imperatori d’Oriente
diedero vita ad una nuova organizzazione politica, legata alla tradizione ellenistica (rifacendosi
all’esperienza giuridica romana) e chiamata «Impero bizantino» o più propriamente Impero Romano
d’Oriente.
Anche in Oriente, peraltro, gli imperatori dal 395 al 527 d.C. si susseguirono senza compiere alcuna
significativa azione politica fino al 527, anno dell’incoronazione di Giustiniano col quale si chiude la storia
giuridica “romana” e alla cui morte (565) principia quella bizantina.

Teodosio II

Teodosio II e il Codice Teodosiano (CTh)


Figlio (n. 401 - m. 450) di Arcadio, fu incoronato nel 402 e successe al padre nel 408.
Teodosio promosse di una raccolta delle costituzioni imperiali da Costantino in poi, che sarà denominato
come Codice Teodosiano (CTh).
Pubblicato nel 438 d.C. da Teodosio II, entrò in vigore in Oriente il 1° gennaio 439 d.C. su iniziativa di
Teodosio II
Il CTh rappresenta il primo tentativo di una codificazione ufficiale delle fonti del diritto e, nello stesso
tempo, la raccolta più cospicua di costituzioni pervenutaci fuori dalla compilazione giustinianea.
Il CTh era diviso in 16 libri ed ogni libro in titoli ed entro ogni titolo le costituzioni venivano riportate in
ordine cronologico:
 il libro I trattava delle fonti del diritto, nonché delle varie competenze (officia) dei funzionari imperiali;
 i libri II e V erano dedicati al diritto privato; il libro VI sulla gerarchia dei funzionari; il libro VII sul
diritto militare;
 il libro IX sul diritto criminale;
 i libri X e XI sul diritto finanziario;
 i libri XII e XV sulle corporazioni;
 il libro XVI infine sul diritto ecclesiastico.

Il CTh costituisce un completamento delle precedenti raccolte, non ha carattere sostitutivo, ma meramente
integrativo rispetto ai codici privati Gregoriano e Ermogeniano.
In particolare si differenzia da questi ultimi essenzialmente per il suo contenuto, che comprende quasi
esclusivamente leges generales, mentre i precedenti codici racchiudevano rescripta ed epistulae.
Il Codex Theodosianus ha svolto nel contesto della storia giuridica romana un ruolo notevole: in Oriente
esso rimase in vigore fino alla pubblicazione del primo Codice di Giustiniano che, peraltro, vi attinse
largamente, unitamente ai due precedenti codici.

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Il CTh segnò il distacco normativo tra Oriente ed Occidente tale raccolta restò viva e rilevante, nella parte
occidentale, anche dopo la caduta dell’Impero in quanto il suo contenuto fu in gran parte trasfuso nelle
successive leggi romano- barbariche.
Insieme al Codice teodosiano (lat. Codex Theodosianus), accolto e pubblicato in Occidente dall’imperatore
Valentiniano III, sono da menzionare le Novelle teodosiane e posteodosiane, raccolta di costituzioni,
orientali e occidentali, emanate tra il 438 e il 468, applicate in Occidente.
In essa sono contenute costituzioni di Teodosio II e di Valentiniano III, posteriori alla compilazione del
Codice teodosiano, e costituzioni dei loro successori Marciano, Maggiorano, Severo, Antemio.
Ne sono contenuti degli estratti nella Lex Romana Wisigothorum (506 d.C.)

La fine dell’Impero d’Occidente


Le convulse vicende dell’Impero di Occidente portarono quest’ultimo in meno di un secolo alla fine (476
d.C.).
Le cause di tale dissoluzione furono molteplici, ma fra le principali vanno annoverate la dissoluzione
economica, morale, sociale e politica, nonché la mancanza di un legame culturale, romano o non romano, tra
le varie parti dell’Impero.
Nel 476 d.C., con la deposizione di Romolo Augustolo l’impero chiuse per sempre il suo ciclo
Il titolo di imperatore d’Occidente fu assunto formalmente dagli imperatori d’Oriente; in realtà l’Occidente
era ormai dominato dai barbari ed ebbe, da quel momento in poi, una storia del tutto autonoma.

CAPITOLO 20 - L’età giustinianea

Giustiniano regna dal 527-565 ed è un nipote dell’Imperatore Giustino.


Giustiniano, come i suoi predecessori, volle predisporre una legislazione conforme alle esigenze dei suoi
tempi ma aderente alla tradizione romana, proseguendo, così, l’opera della giurisprudenza classica. Volle
inoltre snellire i processi.
Alcuni studiosi reputano la compilazione giustinianea più come momento iniziale di un nuovo diritto
(bizantino), che come momento conclusivo del diritto romano.
La maggior parte degli storiografi suddivide l’epoca giustinianea in tre periodi:
1. il primo periodo (528-534 d.C.), caratterizzato dalle grandi compilazioni, e cioè dalla intensa attività di
preparazione e di aggiornamento per la pubblicazione del primo Codex, del Digesto, delle Institutiones ed
infine del secondo Codex;
2. il secondo periodo (535-542), contrassegnato da una proficua produzione legislativa «corrente»;
3. il terzo periodo (543-565) fu un periodo in cui, anche a causa della minore e comunque diversa qualità
dei collaboratori, l’attività legislativa tende a farsi sempre più rara e dal punto di vista tecnico più
scadente.

Giustiniano: il Codex
La grandiosa opera di compilazione giustinianea ebbe inizio nel 528 d.C., con una raccolta di leggi.
Con la costituzione (Haec quae necessario) Giustiniano nominò una commissione composta da dieci suoi
collaboratori, tutti esperti in diritto.
Ad essi fu assegnato il compito di provvedere alla compilazione di un Codex nel quale doveva confluire
tutto il materiale che faceva parte dei codici Gregoriano, Ermogeniano e Teodosiano, oltre alle costituzioni
imperiali emanate dopo la compilazione di quest’ultimo.
Con la costituzione Summa rei publicae, fu stabilito il divieto assoluto di utilizzare in giudizio leggi non
comprese nella raccolta, sotto pena di falso.
Lo scopo di questa raccolta era soprattutto pratico: ridurre le prolixitas litium, cioè la lunghezza delle cause.
Fu, così, consentita per la stesura di questa nuova codificazione una serie di «manipolazioni» dei testi
legislativi ed in particolare la resecatio, cioè l’eliminazione delle norme cadute in desuetudine, e
l’eliminazione delle praefationes e delle «cose» simili e contrarie.
Ai commissari fu riconosciuta anche la facoltà di modificare il testo di una legge, riducendolo, ampliandolo,
o cambiando le parole stesse, purché le norme risultassero chiare, brevi e succinte.
Questo codice non ci è pervenuto nella primitiva edizione e abbiamo solo, in originale, un frammento di
indice (12 libri)

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Giustiniano: il Digestum o Pandectæ
Fu probabilmente in occasione della redazione del primo Codex che a Giustiniano venne in mente di
procedere ad una compilazione di iura, che dovevano, da una parte, raccogliere i brani degli scritti dei
giureconsulti (senza alcun ordine di preferenza) muniti di ius publice respondendi, dall’altra modificare le
parti di questi brani ormai non più attuali (ciò al fine di favorire una maggiore comprensione e diffusione
dell’ordinamento giuridico romano), ed eliminare le eventuali contraddizioni.
Il materiale fu distribuito in cinquanta libri, divisi in titoli, seguendo l’ordine tradizionale dei Codici e
dell’Editto perpetuo. Ogni titolo portò una rubrica con l’indicazione del contenuto (tranne i libri 30, 31 e 32
sui legati e i fidecommessi, che non ebbero titoli).
Accanto ad ogni passo doveva essere indicato l’autore e l’opera di provenienza, per evitare che il nome dei
più insigni giuristi fosse dimenticato.
Tale attenzione è risultata di grande utilità per gli studiosi contemporanei: l’indicazione sopra menzionata
ha, infatti, consentito la ricostruzione, almeno in parte, delle opere classiche non pervenuteci.
Giustiniano: le Institutiones o Elementa.
Mentre era ancora in corso il lavoro per il Digesto, Giustiniano ordinò a Triboniano e ai suoi collaboratori
Teofilo e Doroteo (Antecessores) di compilare un trattato elementare di diritto, in sostituzione delle
Institutiones di Gaio, per uso scolastico.
Le Institutiones constano di quattro libri, secondo lo schema delle Istituzioni di Gaio; oltre che a queste i
compilatori attinsero anche alle Res cottidianae dello stesso Gaio, e ad opere di altri autori classici. Nel testo
non venne, però, mai indicata la fonte degli scritti riportati.
Per quanto riguarda la natura delle Istituzioni, va detto che si tratta di un manuale «polivalente», e cioè non
limitato soltanto al «ius civile» (come le Istituzioni gaiane) ma esteso, anche seppur per sommarie linee, al
diritto e al processo penale.

Giustiniano: Codex Repetitæ Prælectionis


Dopo la promulgazione dei Digesta e delle Institutiones, il Codice compilato alcuni anni prima, apparve
superato. Si ritenne, quindi, di dover procedere ad una emendatio del Codice e ad una sua seconda editio.
Così una commissione, composta, ancora una volta, da Triboniano, Doroteo e tre avvocati, fu incaricata di
raggruppare tutte le nuove leggi, ordinandole eventualmente in capitula, da inserire nei titoli più opportuni

Giustiniano: Novellæ
Giustiniano non limitò la sua opera alla compilazione ma si dedicò anche alla pubblicazione di nuove
costituzioni (Novellae), delle quali alcune veramente vaste e innovatrici.
Sul piano dei contenuti le Novellae lasciano trasparire la centralità del problema dello Stato e delle sue
strutture amministrative e burocratiche; netta è quindi la differenza con le compilazioni precedenti e in modo
particolare con i Digesta.

Diritto e Procedura in età giustinianea


Sia i Digesta, che dedicano alla materia del diritto penale due libri (i cd. libri terribiles), sia le Institutiones,
offrono del diritto penale un quadro piuttosto deludente; lo schema di trattazione è alquanto antiquato.
Il libro XLVII è dedicato esclusivamente all’esame dei delicta privati, con particolare riguardo a quelli
disciplinati dall’antico ius civile, e dei crimina extraordinaria; nel libro XLVIII si passa, invece, ad
esaminare i publica iudicia (cioè quei crimina per cui era competente una quaestio).
Quasi trascurati, nascosti, anziché approfonditi appaiono i nuovi aspetti del diritto e i vari processi evolutivi
in atto o già realizzatisi
Con la compilazione di Giustiniano può considerarsi conclusa la storia del diritto romano.
Infatti, in seguito, gli studi romanistici ebbero sempre come loro fondamento esclusivo l’opera di
Giustiniano, considerata l’espressione più perfetta di studio legislativo.
Le fonti giuridiche successive, appartengono al c.d. diritto bizantino; tutte scritte in greco ebbero vita propria
anche se il loro influsso - soprattutto nell’Europa Orientale e nel diritto canonico orientale - è giunto fino ai
giorni nostri.

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