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Storia e testi della letteratura italiana – I

Il concetto di Medioevo nacque dalla riflessione degli umanisti quattrocenteschi,


impegnati a rivendicare la superiorità e la novità della loro cultura: essi giudicavano
negativamente i secoli della storia europea dopo la caduta dell’Impero romano
d’Occidente, vedendoli come una interruzione della tradizione classica, periodo di
tenebre, superato solo dalle loro moderne esperienze.
L’accezione negativa del concetto di M. elaborato dagli umanisti si accentuò nei secoli
successivi: prima per effetto della Riforma protestante, che vide in quell’età il trionfo della
Chiesa di Roma e del suo potere temporale e il tradimento dei valori del cristianesimo
originario; e poi per effetto dell’Illuminismo, che nel XVIII secolo adottò in chiave laica lo
stesso punto di vista, elaborando l’immagine della «notte dei tempi» – interpretando, cioè,
i secoli del M. come dominati dalla barbarie (l’immagine si è infine affermata nella comune
coscienza culturale per opera della storiografia ottocentesca).

I limiti cronologici dell’universo medievale non possono fissarsi in maniera rigorosa: il punto di
partenza è identificabile con il crollo dell’Impero romano d’Occidente e la dissoluzione del mondo
antico, per effetto delle invasioni barbariche: crollo che in realtà si protrae per alcuni secoli,
permettendo così agli storici di collocare l’inizio del M. tra i secoli IV e V. La data della deposizione di
Romolo Augustolo da parte del barbaro Odoacre è dunque solo simbolica: dopo questa data le strutture
della società romana continuano parzialmente a sussistere entro i regni romano-barbarici – in Italia
soprattutto entro quello gotico di Teodorico, 493-526. Fratture più determinanti producono
devastazioni e stragi della guerra greco-gotica (535-553) e l’invasione dei Longobardi, restii a stabilire
contatti con la civiltà classica (568).
Ancora più difficile fissare un momento finale: il venir meno del mondo medievale e lo sviluppo di
un mondo «moderno» sfumano l’uno nell’altro e sono segnati da una serie di conflitti e tumulti, di
ritorni e di persistenze (sia in ambito materiale che sociale e culturale). Diversi, peraltro, sono i criteri
che possono essere scelti per indicare una «fine» del M., che privilegi ora uno, ora un altro aspetto:
- Umanisti: secondo il loro punto di vista la frattura tra M. ed età moderna si colloca fra Tre e
Quattrocento, quando operano i primi umanisti italiani (ma anche in pieno Trecento, con il loro
«padre» riconosciuto, Petrarca).
- Storia politica: la data è il 1453, quando cade l’Impero bizantino (o il 1492, quando viene
scoperta l’America).
- Storia religiosa: giunge fino alla Riforma protestante, e quindi alle tesi di Lutero: 1517.
Ferroni fa riferimento al termine M. per indicare il lungo periodo che va dalla
disgregazione del mondo antico fino al configurarsi di una società di tipo urbano, evidente
in Italia fra il XII e il XIII secolo. Per ciò che riguarda la storia della letteratura, questo
periodo si caratterizza per due dati:

1. La presenza di un’ampia unità culturale, che coincide geograficamente con


l’Europa occidentale e che si regge su una cultura latina omogenea nei diversi Paesi
dell’Occidente cristiano;
2. Il concreto svilupparsi delle diverse lingue volgari, che a poco a poco portano alla
formazione delle letterature nazionali.

Il Medioevo latino (che Curtius ha indicato come fondamento della cultura europea)
insomma il corrispettivo linguistico-letterario di una società compatta, che in questi secoli
sviluppa strutture sociali e modelli mentali omogenei, sotto il segno dell’universalità del
cristianesimo e nel ricordo dell’antica Roma. Ciò non esclude la presenza di vivaci
esperienze locali: i primi elementi delle lingue e delle letterature volgari maturani da
questo particolarismo, e giungeranno a incrinare l’unità del Medioevo latino. Per ciò che
riguarda l’Italia, questa frattura prende avvio all’inizio del XIII secolo, quando si
compongono i primi testi scritti di una vera e propria letteratura volgare.

Il lento declino del sistema sociale romano e gli insediamenti barbarici nei paesi
dell’Occidente europeo avevano prodotto una società frammentata, minacciata da
insicurezze e priva di centri di organizzazione civile ed economica: dal IV all’VIII secolo,
oltre ai conflitti, si diffonde un arretramento generale delle coltivazioni, mentre la
maggioranza dell’universo sociale si era ripiegata in una mera lotta per la sussistenza. Nei
regni barbarici, in questo modo, vigeva una società agraria chiusa, con attività agricole
limitate e di scarsa produttività, con commerci ridotti, contraddistinta da una
frantumazione di poteri e da numerosi conflitti tra le aristocrazie militari degli invasori e i
residui dell’antica aristocrazia senatoria romana. In questa realtà disgregata, ogni rapporto
tende a concepirsi come rapporto di potere personale, come forma di aggressione o di
difesa fisica.
Gli unici luoghi che svolgono una iniziativa culturale e progettano rapporti più
complessi sono i grandi centri monastici, che prendono avvio dall’azione di San Benedetto
(fondazione di Montecassino: 530 ca.) e dell’irlandese San Colombano (fondazione di
Bobbio: 612), e poche città che mantengono alcune strutture civili, culturali e giuridiche (in
Italia c’è Pavia, sede del palazzo reale longobardo, Verona, Ravenna e Roma per la
presenza del Papato).
La nascita dell’impero di Carlo Magno (800) ripropone una nuova unità per tutto il
mondo cristiano occidentale ed è accompagnata dalla «rinascita carolingia», che vede una
ripresa delle attività culturali e una parziale riorganizzazione delle strutture civili, dei
sistemi di potere e dell’economia agricola: proprio in questi anni si definisce il
feudalesimo.
Il massimo sviluppo della società feudale si verificò nei secoli XI e XII, quando si ebbe
anche una precisazione dei suoi principi giuridici e si acquisirono nuovi spazi geografici
(con le Crociate). A questa espansione si accompagnò una generale ripresa del mondo
occidentale: crescita demografica, estensione dei terreni coltivati, sviluppo produzione
agricola, formazione di centri urbani vivaci (si parlerà di una «rinascita del secolo XII»).
In Italia lo sviluppo della civiltà urbana e mercantile è molto precoce e genera una
nuova struttura istituzionale, il Comune, che si svincola dalle pretese dell’autorità
imperiale e dei poteri feudali attraverso varie lotte nel corso dei secoli XII e XIII (data
simbolo, battaglia di Legnano: 1176). Ma questa ascesa delle città è parallela alla
sopravvivenza dei modelli feudali: la stessa struttura del Comune italiano sorge del resto
da un’aggregazione di poteri e privilegi ed è controllata, all’inizio, da oligarchie di piccoli
feudatari che godono di numerosi diritti.

Intorno al X secolo matura una concezione della società che distingue al suo interno
tre «ordini», definiti dal vescovo francese Adalberone di Laon (inizio XI) con i termini di
oratores, bellatores e laboratores: “quelli che pregano”, “quelli che fanno la guerra”, “quelli
che lavorano la terra”.
La tripartizione mostra come nell’universo feudale si tenda a fissare con nettezza i
ruoli e le attribuzioni delle diverse classi:

- Al clero (gli oratores) spettano non solo la preghiera e l’ambito religioso, ma anche
quello spirituale, che comprende le istituzioni scolastiche e culturali;
- Ai bellatores tocca il controllo della violenza pubblica e di quella privata, secondo le
le norme della cavalleria, istituzione che ha una diffusione sempre più larga dall’XI
secolo;
- I laboratores infine detengono gli strumenti della produzione agricola;
Lo sviluppo delle città e dei Comuni porta alla formazione di nuovi ceti laici, vale a
dire burocrati e amministratori, mercanti e artigiani: essi possono essere designati
genericamente come borghesi (ma il termine va usato con cautela).
La città comunale si regge non solo sulla convergenza corporativa di cittadini dotati di
privilegi (spesso in contrasto tra loro), ma anche sulla presenza subalterna di lavoratori
poveri, privi di diritti e di servi di varia origine (l’universo medievale è percorso, peraltro,
da personaggi socialmente meno definibili, come viaggiatori, vagabondi ecc.).
Per lungo tempo la cultura scritta è controllata quasi esclusivamente dal clero, che so
pone come il conservatore della tradizione classica e cristiana. In età barbarica, tuttavia,
persistono residui di cultura laica e cittadina, soprattutto in Italia. I signori feudali,
inizialmente, non possedevano nemmeno la scrittura; a partire dal secolo XI, si afferma
sempre più una cultura feudale laica che elabora modelli cortesi in volgare, specialmente
nei paesi in lingua d’oil e d’oc. Le interferenze tra cultura ecclesiastica latina e quella laica
feudale sono numerose, grazie all’opera di personaggi intermedi, come i giullari e i clerici
vagantes (chierici che adattano, cioè, la loro cultura latina alle esigenze delle corti e creano
una nuova rete di contatti e Clero/clerici

comunicazioni. In una prima fase, La parola clero ha origine dal greco kleros “sorte, parte scelta”
(separata dal laós, “popolo comune”). Facevano parte del clero
però, la cultura feudale laica è non solo i sacerdoti veri e propri, che avevano conseguito gli
essenzialmente orale, e solo più ordini sacri, ma tutti coloro che sceglievano di seguire alcune
regole e norme religiose, all’interno delle istituzioni
avanti, tra la fine del secolo XI e il XII, ecclesiastiche (più strette erano le regole degli ordini monastici
– clero regolare –, meno vincolanti quelle del clero secolare
si traduce in forme scritte. che operava in mezzo al popolo. Si entrava nel clero anche
senza intraprendere una vera e propria carriera sacerdotale,
Nel mondo comunale l’iniziativa
ma assumendo la più generale condizione di chierico, con la
culturale è nelle mani di giuristi e tonsura (taglio di alcune ciocche di capelli). La condizione di
chierico dava diritto a ricoprire uffici ecclesiastici e a ricevere in
funzionari amministrativi, che hanno cambio pagamenti e sovvenzioni, in particolare i benefici
ecclesiastici. Nel M. la condizione di chierico era in genere
frequenti scambi con i dotti l’unica che permettesse di occuparsi di cose spirituali e
ecclesiastici e nutrono curiosità per i culturali.

modelli feudali cortesi. Nella stessa società urbana, poi, si sviluppa una cultura delle classi
subalterne, attenta alla concreta esperienza quotidiana e percorsa da una forte carica
religiosa e sociale. Forte rimane l’opposizione tra questi universi culturali e la cultura
contadina; quella società, che pure ha nel lavoro agricolo il proprio essenziale supporto
materiale, distingue infatti i suoi modi di comunicazioni da quelli del mondo rurali,
giudicato rozzo e ignorante.
Un determinante ruolo di mediazione, in questo senso, è svolto da una serie di
personaggi in movimento, privi di identità fisse, che portano in mezzo a tutti gli strati
sociali il fascino di mondi lontani: ciarlatani, mimi, giullari che si incontrano nelle fiere
popolari e nelle corti (questo mondo caotico è stato definito come esempio della cultura
del carnevale, tesa a negare ruoli e gerarchie sociali, creando nuovi rapporti tra tutti gli
strati della società).

Nel definire lo spazio, gli uomini della società medievale non mirano alla precisione,
ma cercano piuttosto interpretazioni e proiezioni globali. Ordinano e classificano secondo
schemi gerarchici, dove il punto di vista religioso è essenziale. Questa società tende o a
integrare qualsiasi novità nel proprio spazio mentale o a rifiutarla radicalmente come
male, come diverso; l’ignoto assume invece i connotati del meraviglioso e del favoloso e
spesso acquista sembianze mostruose e demoniache. La natura è vista con l’occhio della
cultura e i suoi oggetti vengono classificati in erbari, bestiari, lapidari, cioè repertori in cui
ogni aspetto naturale, biologico o minerale acquista valori simbolici. La cultura è a sua
volta intesa come qualcosa di naturale, che si svolge per accumulazione e sovrapposizione
di oggetti: così l’enciclopedismo medievale giustappone nel proprio orizzonte una serie
infinita di particolari. Numerose opere enciclopediche prodotte durante la dissoluzione
del mondo antico ebbero grande fortuna nel M.: la più celebre è costituita dai venti libri
delle Etymologiae, od Origines, di Isidoro di Siviglia (560-636).
A sua volta, il tempo vissuto dagli uomini di questa società non è un tempo meccanico
e preciso: è un tempo ritmico, misurato secondo il vario disporsi dei giorni nelle stagioni,
secondo gli avvenimenti naturali. Il tempo della società feudale ha una cadenza naturale,
che però non abbraccia mai spazi ed eventi simultanei. Le notizie del mondo arrivano
sempre in ritardo e vengono subito adeguate alla memoria della vita locale. A sua volta la
memoria si traduce in storia: una storia che, proprio per questo, non si costruisce secondo
le nostre coordinate cronologiche, ma tende a fondere il passato con un tutto omogeneo
privo di profondità.
A questa omogeneizzazione corrisponde però una visione globale del movimento
della storia suggerita dalla prospettiva cristiana: il divenire del mondo viene infatti diviso
in epoche, lunghe età caratterizzate da un diverso rapporto con Dio e con la redenzione.
L’umanità presente si rapporta a un passato diverso (quello del Vecchio Testamento,
prima della nascita di Cristo) e a un futuro ancora diverso, ma non concepisce un
progresso storico: si aspetta invece una dissoluzione della società, la definitiva rivelazione
del mondo divino, che alcuni lo collocano in un futuro lontanissimo, altri nell’imminente
(numerose sono le forme di millenarismo).
All’idea di una prossima fine si accompagna l’idea che il mondo sia vecchio e per
questo preda di violenze, distruzioni. Ma l’attesa di un radicale rivolgimento si converte
spesso in un proposito di renovatio, “rinnovamento”: si aspira, cioè, a un ritorno
dell’umanità a valori della perduta giovinezza del mondo, soprattutto ai valori del
cristianesimo delle origini e a quelli universali dell’Impero di Roma e della cultura latina.

Bestiari
In questa società la cultura vissuta
dalla maggior parte dei gruppi sociali Con il termine bestiario si indicano quei testi, diffusi nel
Medioevo, in cui vengono descritti e catalogati animali, sia
è orale, e in essa agiscono molteplici reali, sia mitici e fantastici (unicorno e fenice). Tali testi hanno
degli intenti didattici e delle significazioni morali e valori
tradizioni. Un ruolo determinante simbolici individuati in ognuna delle figure presentate: nella
nella produzione delle forme più vita e negli aspetti degli animali si riconosce così il senso
dell’esperienza dell’uomo e della stessa storia cristiana.
originali di questo sapere svolgono i Analoghi significati si attribuiscono alle figure del mondo
vegetale (gli erbari) e minerale (i lapidari). Agli animali, alle
personaggi che operano al confine tra piante e alle pietre vengono anche riconosciute virtù magiche,
capacità di curare o comunque di influenzare lo spirito e il
scrittura e oralità, come i giullari o i
corpo dell’uomo.
clerici vagantes.
Mentre la cultura orale sviluppa ed elabora il volgare, quella scritta è per molti secoli
in latino e quasi del tutto monopolio del clero: essa si impegna nella conservazione e
riproduzione dei monumenta, “memorie” dell’antichità classica e cristiana, e solo in
seconda istanza tenta delle scritture in proprio (ispirandosi a quei monumenti). Per la
cultura scritta, in età barbarica e durante la prima età feudale, non esiste un pubblico
medio di lettori o di curiosi né un mercato che non sia quello della pura conservazione. La
produzione materiale e la circolazione dei libri erano limitatissime e per lunghi periodi
mancarono del tutto; anche molte biblioteche dei più grandi monasteri possedevano un
numero ridottissimo di opere.

Il sistema di valori dominante e unificante di questa società, il cristianesimo, si fonda


sulla Bibbia, libro in cui si concentra tutta la verità del rapporto tra mondo umano e Dio.
La Scrittura e coloro che sono in grado di decifrarla assumono quindi un rilievo tutto
particolare, e ogni uso della scrittura che si allontani dalle vie della verità riconosciuta
viene considerato pericoloso.
La Sacra Scrittura si trasmette alla società medievale in forma latina (non attraverso gli
originali ebraici o greci), nella versione curata da San Girolamo tra il 385 e il 404, la Vulgata
– denominazione che risale all’intenzione del traduttore di far uso di un linguaggio
popolare, lontano dalla ricercatezza classica e orientato verso forme semplici e chiare.
La necessità di possedere gli strumenti per conoscere e interpretare una verità
trasmessa attraverso la scrittura e la vera e propria conquista delle istituzioni del mondo
operata dal cristianesimo avevano già posto ai Padri della Chiesa un problema delicato: si
trattava di decidere fino a che punto si dovesse tener conto di un patrimonio culturale
legato a prospettive pagane, ma capace di offrire nozioni e mezzi di espressione
insostituibili. Nel valutare la cultura classica i Padri oscillano tra un rigorismo
intransigente (che ritiene pericoloso per il cristiano quel mondo di forme stilistiche,
fuorvianti rispetto alla ricerca della verità), e un’aperta disponibilità, motivata dalla
necessità di sostenere il cristianesimo con mezzi tecnici. Tra il rifiuto della tradizione e la
pratica di una educazione linguistica a formale legata alla tradizione si muove
sant’Agostino, che afferma da una parte la radicale diversità tra cultura pagana e cultura
cristiana, dall’altra prospetta la necessità di utilizzare, nell’interesse della nuova religione,
l’esperienza degli antichi.

I secoli delle invasioni barbariche rappresentarono, per la cultura cristiana, un momento di


conservazione. Il clero, arroccato nei monasteri, ebbe l’assoluto monopolio degli strumenti della
comunicazione. Ma gran parte dello stesso clero era ignorante e aveva scarsa dimestichezza con la cultura
scritta – anche per via del progressivo affermarsi del volgare nella comunicazione orale (persino la
predicazione incontrava molte difficoltà, in quanto permanevano incertezze tra uso del latino e uso del
volgare).
Il rilancio della cultura religiosa e la riorganizzazione della vita ecclesiastica, concomitanti con il pieno
sviluppo della società feudale, obbediscono nella pratica a una dura prospettiva rigoristica, che sembra
affermare l’estraneità della cultura cristiana rispetto a quella classica. Al primo posto in questa scelta di
severità è il nuovo ordine monastico cluniacense, fondato da Oddone di Cluny nel 910; nel secolo XI, il
movimento di riforma investe il Papato, che si impegna a restaurare la disciplina e la gerarchia religiosa, per
affermare l’autonomia della Chiesa dai poteri laici, in particolare da quello imperiale. Questa è la lotta
guidata da personaggi come Gregorio VII e san Pier Damiani. Il rigorismo più inflessibile, poi, si ripropone
nel secolo XII con san Bernardo di Chiaravalle, fondatore nel 1098 dell’ordine cistercense, il quale propugna
la sottomissione della ragione ai dettami della fede.

Nelle esperienze di Damiani e san Bernardo si rivela un altro carattere dominante


della cultura religiosa medievale, il misticismo: questo concepisce il rapporto dell’uomo
con Dio nella solitudine e nell’ascesi e si configura come contemplazione interiore di verità
assolute che stanno al di là di qualsiasi controllo razionale. La contemplazione non è però
qualcosa di astratto, perché chiama in causa il corpo che deve liberarsi da vincoli terreni
così da lasciar vibrare l’anima nella visione divina. Parallelamente al misticismo, la cultura
cristiana sviluppa una disposizione razionalistica che si affida non all’ascesi, ma alla
dialettica.
Durante il XII secolo, l’argomentazione dialettica si impone nell’ambito della teologia:
si fa oggetto di discussione lo stesso patrimonio culturale cristiano, distinguendo gli
articoli di fede assoluti dagli argomenti sui quali la tradizione è discorde. Si distingue in
particolare Pietro Abelardo (1079-1142), la cui dottrina subisce una dura condanna da
parte di san Bernardo. Al di là di questa condanna, la cultura cristiana mette in moto un
vivissimo dibattito intellettuale, e genera quesiti e interpretazioni che escono dai confini
della tradizione: si acquisisce nuova disponibilità alla critica, al dissenso, al confronto, al
metodo razionale.
La riforma ecclesiastica del secolo XI non si limita a produrre forme culturali, ma
arriva anche a suscitare aspirazioni profonde in grandi masse popolari che, esigono dal
clero maggiore coerenza nell’esercizio della missione pastorale e cercano un rapporto più
diretto con la verità della fede (spesso in prospettiva di egualitarismo sociale capace di
affermare il valore supremo della povertà contro un mondo dominato dal potere e dalla
ricchezza). Dal secolo XI al XIII nascono numerosi movimenti religiosi popolari, che in
genere si scontrano con l’ostilità della chiesa e finiscono per acquisire i caratteri dell’eresia.
Gran parte di questi movimenti è riassumibile sotto i due termini di evangelismo (ritorno
dei fedeli al rapporto diretto col Vangelo) e di pauperismo (esaltazione della povertà).
L’atteggiamento della Chiesa oscillò tra forme di perplessa approvazione e di feroce
repressione.

La cultura classica antica mantiene comunque una funzione determinante: sia per la
continuità della lingua latina (che è l’unica lingua di cultura, anche se il latino medievale
assume forme in parte diverse rispetto a quello classico), sia attraverso una persistenza di
contenuti e tradizioni. Verso l’educazione letteraria classica vi è una certa diffidenza, ma
non mancano fervide adesioni e una certa venerazione per il mondo antico di cui si cerca
di conservare le tracce. Almeno fino al secolo X, la cultura medievale tende a organizzare i
reperti della cultura classica in sistemi totalizzanti, in enciclopedie che giustappongono i
vari frammenti del sapere antico indipendentemente dai loro contesti originari.
Grandi conservatori della cultura classica sono due personaggi che operano nella corte
di re Teodorico: il romano Anicio Manlio Severino Boezio (che scrisse uno scritto misto di
prosa e versi, De consolatione philosophiae) e il calabrese Flavio Magno Aurelio Cassiodoro.
Essi approfondiscono il sistema delle arti liberali, cioè delle discipline convenienti
all’uomo libero e prive di finalità economiche (grammatica, retorica, dialettica, aritmetica,
musica, geometria, astronomia), un sistema che ha le radici nella cultura antica e che
costituisce uno dei cardini dell’educazione medievale. Tra di esse la retorica assume nel M.
connotati molto vari e tende a svilupparsi come tecnica del discorso ornato, elaborando
specifiche artes che suggeriscono diversi modi di scrittura (ars dictandi o dictaminis per la
scrittura epistolare, ars poetriae per la poesia, ars praedicandi per la predicazione religiosa).
Nel sistema dell’educazione linguistico-letteraria, la continuità con la cultura classica è
comunque assicurata dalla lettura e dalla conoscenza di autori latini come Virgilio in
primo luogo, considerato suprema figura di poeta, immagine di civiltà e romanità,
maestro di stile; a lui seguono Ovidio, Orazio, Stazio, Lucano e Terenzio. Tra i prosatori,
sono in primo piano Cicerone, maestro insuperabile di retorica, e Seneca, la cui opera
morale era considerata integralmente cristiana.

Rimane difficile valutare il peso che le forme culturali dei barbari invasori ebbero sulla civiltà europea
medievale, La società europea occidentale va comunque considerata come il risultato di una fusione tra la
componente latina e cristiana e la componente barbarica (che agisce sul piano dei rapporti sociali).
Significativi in ambito culturale furono i rapporti con le civiltà greca, araba ed ebraica. In particolare, la
cultura araba fu mediatrice per la conoscenza di quei testi greci che non erano noti al mondo latino e che
vennero tradotti dall’arabo. Lo studio della filosofia aristotelica ebbe fortissimo rilievo e culminò nella
riflessione di due originali filosofi: Avicenna, che sovrappone l’aristotelismo a una prospettiva neoplatonica,
e Averroè, che rivendica una più stretta fedeltà ad Aristotele e ne svolge il pensiero in chiave materialistica,
sottraendo la natura al controllo divino e affermando la mortalità dell’anima individuale.

In età barbarica e nella prima età feudale la scuola non dipende da istituzioni
amministrative centralizzate, ma obbedisce a iniziative eterogenee. Alcune corti barbariche
mantengono in vita istituzioni culturali di una certa complessità, legate ancora ai modelli
romani; in altri casi ci si limita a elaborare forme culturali molto più semplici. Tuttavia, i
più importanti luoghi di cultura medievale sono i monasteri, non solo per il lavoro degli
scriptoria, che conservano testimonianze scritte, ma per l’attività educativa svolta dalle loro
scuole.
Nel palazzo di Aquisgrana, i dotti al servizio di Carlo Magno si riuniscono in un
circolo, detto Accademia palatina (scuola palatina). Dal 717, anno in cui viene restaurata,
l’abbazia benedettina di Montecassino è un centro culturale molto attivo (vi svolge la
propria attività Paolo Diacono, esponente di spicco della cultura longobarda in Italia).

La vitalità della letteratura latina medievale si esprime in una serie di forme e tecniche
variegate. La stessa distinzione fra poesia e prosa appare oscillante, perché lo scrivere è
considerato un’attività sostanzialmente unitaria. La distinzione prevalente è quella tra una
scrittura prosaica, una scrittura metrica e una scrittura ritmica, a cui si aggiunge spesso un
tipo di prosa rimata.
La scrittura metrica segue i modelli della poesia antica, basandosi sulla scansione dei
piedi e della quantità delle sillabe (lunghe o brevi). La scrittura ritmica si regge su accenti
che regolano i rapporti tra le sillabe, non soltanto nella versificazione, ma anche in
determinate scritture in prosa. Questa versificazione costituisce una novità radicale
rispetto alla metrica classica e uno stimolo essenziale per lo sviluppo della metrica volgare,
che non si basa più sulla successione dei piedi e sulla quantità delle sillabe, ma su
un’aggregazione di queste, ritmate dal gioco degli accenti.
Per ciò che riguarda la prosa, la sua forma più corrente, non particolarmente curata
dal punto di vista stilistico e retorico, viene destinata agli usi più direttamente pratici,
come la corrispondenza epistolare, la cronaca, la storiografia, l’agiografia. Ma grande
diffusione hanno le prose con ambizioni retoriche: oltre alla prosa rimata è importante lo
sviluppo di una prosa ritmica dove il finale delle frasi è costruito secondo precisi ritmi
accentuativi. Questo nuovo sistema di clausole viene definito cursus.
Nell’ottica della cultura medievale il valore di un’opera letteraria non si arresta al suo
aspetto esterno, ma appare dotata di più piani di senso. Il caso più semplice di senso
interno è rappresentato dal valore morale ed esemplare di ciò che è narrato: già la retorica
antica prevedeva l’uso di favole e parabole come exempla, capaci di persuadere l’uditorio.
Ma il riferimento a sensi impliciti e a significati interni trova il suo strumento determinante
nel principio dell’allegoria, che ha le sue radici nella cultura greca, la quale cercava nei
poemi omerici una saggezza riposta e segreta, e nella interpretazione biblica.
La prospettiva figurale dell’interpretazione biblica attribuiva agli eventi del Vecchio
Testamento il valore di figurae dei misteri centrali della fede cristiana, li interpretava cioè
come immagini storicamente vere che prefiguravano eventi futuri altrettanto veri.

Le letterature romanze

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