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Il Medioevo è un periodo storico durato quasi mille anni, che inizia con la deposizione di Romolo Augustolo

e la fine dell’impero Romano d’Occidente e termina nella seconda metà del 400, per alcuni con la caduta di
Costantinopoli per altri con la scoperta dell’America. All’interno di questo arco di tempo si distingue l’Alto
Medioevo (dal V al X secolo) e il Basso Medioevo (dall’XI al XV secolo). Medioevo sta a significare “età di
mezzo” per distinguere il progresso e lo sviluppo culturale di quel tempo, si dà vita alla rinascita della
sapienza, della bellezza e della dignità umana dopo un lungo periodo di stallo iniziato con la caduta
dell’impero romano. Dopo la caduta dell’impero romano e fino all’8 secolo inoltrato, l’Europa vive un
periodo di quasi totale assenza di scambi e comunicazioni, le città si spopolano e il sistema socio-economico
si concentra sulle Curtis luogo che provvede ai bisogni primari della popolazione. Il nord europeo acquista
maggior rilievo dove prende vita il Sacro Romano Impero, in tale contesto si afferma il feudalesimo che
ordina e disciplina i legami degli uomini dopo le turbolenze delle invasioni barbariche e il crollo delle
istituzioni precedenti. Con il feudalesimo cambiano le basi del potere. I sovrani si circondano di cavalieri
disposti a combattere al loro servizio, ricompensati con terre e castelli, che costituiscono il cosiddetto
“feudo”. Coloro che ricevono questi beni sono chiamati “vassalli” e il loro dovere era assicurare al sovrano
protezione, lealtà e obbedienza. La conseguenza dell’ereditarietà dei feudi è che ogni vassallo, ormai
proprietario delle terre, può a sua volta diventare signore, assegnando terre e assicurandosi un proprio
esercito personale.
La divisione della società medievale consiste: al vertice ci sono i guerrieri, poi gli uomini di chiesa e infine i
contadini. Dopo l’anno Mille il panorama politico europeo ha raggiunto una maggiore stabilità
precisamente a partire dall’11 secolo, le nuove tecniche di produzione agricola permettono maggiori
rendimenti, le terre vengono dissodate e migliorano le vie di comunicazione e i commerci riacquistano
vigore. Le città tornano a popolarsi, i centri urbani assumono il ruolo di snodi fondamentali per i traffici,
subentra una visione più dinamica, basata sullo scambio, sulla comunicazione, sul denaro, sulle attività
imprenditoriali di cui si fa promotore un nuovo ceto sociale, la borghesia mercantile. I nuovi centri urbani
prendono il nome di Comuni, questi si organizzavano attraverso meccanismi sempre più efficienti, i cittadini
si riunivano e regolamentavano la vita collettiva, questo alto grado di libertà entrò in collisione con l’Impero
così a metà del 12 secolo l’imperatore Federico I detto il Barbarossa tenta di riaffermare la propria autorità
sui comuni ma venne sconfitto e venne costretto a riconoscere una sostanziale autonomia politica, all’inizio
il comune venne governato da esponenti della nobiltà poi nel corso del 200 guadagnano una maggiore
forza politica i membri della borghesia, questi mettono ai margini il popolo minuto che viene eliminato dalle
cariche cittadine. Il risultato è una situazione di conflittualità, famosi furono i conflitti tra i guelfi (gli
esponenti filopapali, devoti alla Santa Fede) e i ghibellini (sostenitori della causa imperiale) i primi ebbero la
meglio conquistando il potere nella maggior parte dei comuni italiani.
La crisi dell’impero si accompagna a quella della Chiesa, che deve fronteggiare un esteso malcontento
dovuto alla corruzione e all’intromissione negli affari politici. Comincia un duro scontro tra Chiesa e Impero
su chi, tra il Papa e l’Imperatore, abbia il diritto di nominare i vescovi, la cosiddetta “lotta per le investiture”
durata per oltre un secolo si concluderà solo nel 1122 con la vittoria del Papato. Si susseguirono le crociate,
guerre in cui la Chiesa chiama i popoli cristiani a liberare il Santo Sepolcro di Gerusalemme, ve ne furono 8.
Nonostante le difficoltà, comunque la Chiesa riesce a esercitare la propria influenza attraverso un
complesso gioco di alleanze, raggiungendo il culmine quando Papa Bonifacio 8 celebra il Giubileo nel 1300.
Tommaso D’Aquino, massimo interprete della filosofia cristiana medievale, la Scolastica, riuscì a conciliare
fede e ragione, concepisce un ordine gerarchico in cui vengono raccolti e sistemati i saperi e le attività
umane. Di diverso orientamento e il pensiero dei filosofi dell’ordine francescano, secondo cui il rapporto
con Dio può essere coltivato solo con la fede e non con la ragione. Per fare chiarezza sulle modalità con le
quali vengono letti nel Medioevo i testi, sia quelli sacri sia quelli letterari, si può fare affidamento alla sintesi
di Dante nel Convivio, l’autore distingue 4 livelli di comprensione: letterale, allegorico, morale e anagogico.
Il senso letterale analizza e comprende solo ciò che il testo esprime direttamente, quello allegorico affida
alla scrittura un significato allusivo, diverso dal contenuto logico delle parole. Quello morale ha lo scopo di
ricavare dalla letteratura un insegnamento, quello anagogico considera le vicende narrate nei testi sacri
come prefigurazione di verità divine.
Tra le conseguenze della caduta dell’Impero romano ci sono anche quelle che riguardano l’istruzione e la
cultura, il sistema scolastico che era importante per la trasmissione del sapere, controllato dalle autorità
statali entra in crisi, l’unico punto di riferimento rimasto è la Chiesa, che promuove lo sviluppo di scuole
parrocchiali e vescovili, fondamentali sono le scuole monastiche dapprima sorte per istruire i monaci poi
divennero il centro culturale più importante del Medioevo. I monasteri ospitavano biblioteche ricche di
volumi e gli scriptoria, laboratori dove i monaci “amanuensi” copiavano i manoscritti antichi svolgendo una
straordinaria funzione di conservazione e trasmissione culturale. Le discipline necessarie all’informazione
erano 7 chiamate “arti liberali”, di queste 3 riguardavano la parola e 4 comprendevano le materie
scientifiche. Le “arti meccaniche” invece erano finalizzate a scopi pratici. Le scuole fiorentine invece erano
poco frequentate Carlo Magno poi riformò il sistema scolastico e riaffermò l’esigenza dell’utilizzo della
lingua latina. Questa riforma migliorò le competenze linguistiche e grammaticali e un maggiore sviluppo
della scrittura e della lettura. Dall’11 secolo sorgono anche le scuole laiche e in Italia anche le scuole
giuridiche e mediche, mettendo in crisi il modello di istruzione monastico. Una notevole novità fu
l’università, un centro di studi dove l’insegnante viene stipendiato dai Comuni o dagli stessi allievi per la
funzione che svolge. La più antica università europea è quella di Bologna fondata nel 1088.

A partire dalla fine dell’11 secolo si sviluppa nella Francia del Nord una vasta produzione letteraria in
volgare, la lingua d’oil, le opere di questa produzione si distinguono in una materia di Francia e in una
materia di Bretagna alla prima appartengono le cosiddette chanson de geste sono componimenti in origine
cantati che raccontano imprese belliche ed eroiche del passato, il filone più importante è costituito dalla
imprese di Carlo Magno e dei suoi paladini, il testo più famoso in assoluto è la Chanson de Roland si tratta
di un lungo poema attribuito a un certo Turoldo, che narra di un episodio della guerra di Carlo Magno
contro i saraceni, i quali fanno strage della retroguardia dell’esercito franco nella battaglia di Roncisvalle,
l’episodio è vero ma viene proiettato in una dimensione fantastica, con la morte di Orlando che si sacrifica
fino al martirio pur di difendere il proprio re e il proprio Dio, che costituisce il momento più importante del
poema. Alla seconda appartengono le prose e i versi che celebrano le leggende dei cavalieri di re Artù e
della Tavola rotonda, da tali materie si sviluppano due cicli, il ciclo carolingio animato dalla dedizione alla
fede e dalla devozione per l’imperatore e il ciclo bretone fondato sull’amore e sull’avventura, nei testi del
ciclo bretone vengono rappresentati gli incantesimi di Merlino, le avventure di re Artù e quelle dei cavalieri
della tavola rotonda. A differenza del ciclo carolingio i romanzi del ciclo bretone celebrano il percorso di
formazione del perfetto cavaliere, che costituisce la propria identità non solo grazie al coraggio ma anche
attraverso sentimenti come l’amore e la generosità. L’autore più rappresentativo è Chretien de Troyes,
chierico attivo presso la corte di Maria di Champagne e autore di 5 fondamentali romanzi che hanno come
protagonisti i cavalieri della tavola rotonda e di re Artù. In area Francese poi trovano sviluppo due singolari
forme di narratio brevis, poemetti amorosi, sono i lais scritti da Maria di Francia vissuta nella seconda metà
del 12 secolo e i fabliaux racconti in versi dai contenuti erotici.
Un altro genere letterario è il poema allegorico e didascalico molto famoso e il Roman de la Rose, poema di
oltre 20mila versi, scritti in tempi diversi da due autori. La prima parte viene scritta nella prima metà del
200 da Guillaume de Lorris, la continuazione è ad opera di Jean de Meung il quale sposta la dimensione
amorosa e cortese a Guillaume in direzione scientifica e dottrinaria.
Parallelamente allo sviluppo della lingua d’oil, nello stesso periodo si diffonde nella Francia meridionale,
l’uso della lingua d’oc parlata nelle corti e utilizzata da trovatori dal verbo trobar cioè comporre, inventare,
i trovatori appartengono alla nobiltà essendo principi o cavalieri, l’amore è al centro della loro ispirazione.
Come il De Amore di Andrea Cappellano che teorizza i principi dell’amore cortese influenzando tutta la lirica
provenzale, l’amore nasce dalla vista e si alimenta attraverso un immagine destinata a modificare le
capacità intellettuali dell’amante. I poeti poi assunsero due forme opposte: il trobar clus, chiuso, consiste in
una poesia aspra, dura, che predilige l’allegoria, i principali rappresentanti furono Marcabru e Arnaut Daniel
che ispirerà Dante Alighieri e Francesco Petrarca e il trobar leu, lieve, consiste in una poesia lieve, fluida,
scorrevole, eredi italiani furono Chiaro Davanzati e Guido Guinizelli. Gli autori più significativi sono
Guglielmo 9 d’Aquitania, Jaufré Rudel, Bernart de Ventadorn. La poesia dei trovatori si diffonde poi anche
in Provenza spostandosi di castello in castello, di corte in corte per guadagnare, questa tendenza diventa
poi una necessità con la crociata indetta da papa Innocenzo 3 contro gli albigesi, da questo momento i
trovatori iniziano una vera e propria migrazione che li porta in Italia settentrionale come Rambaut de
Vaqueiras di cui si ricorda in particolare il contrasto tra un amante e la sua donna e, mentre il primo si
esprime in volgare, l’altra risponde in genovese. Nelle città dell’Italia del nord abbiamo autori come
Lanfranco Cigala, autore di poesie d’amore profano e di lodi devote alla madonna e Bonifacio Calvo a cui si
devono componimenti di carattere politico e civile. Sordello da Goito, reso famoso dal canto 6 del
Purgatorio, dove prorompe in una sdegnata invettiva contro quanti provocano la rovina dell’Italia. Alfredo
Stussi nel 1999, in una pergamena recupera un testo che possiamo considerare come il primo testo lirico
elaborato in volgare: la canzone Quando eu stava in le tu’ catene, che in 5 strofe sviluppa il tema del
lamento di un innamorato in catene, in dialogo con Amore. Lo scenario dell’aldilà, che è uno degli
argomenti toccati da Uguccione da Lodi, diventa interesse per in frate minore Giacomino da Verona, il
quale si occupa del destino ultimo dell’uomo in due poemetti, il primo De Ierusalem celesti et de
pulcritudune eius et beatitudine et gaudio sanctorum che ha per oggetto il Paradiso, che appare come una
città dotata di fondamenta di pietre preziose e circondata da mura altissime, la luce del giorno splende in
continuazione e gli angeli cantano le lodi della Madonna, di Cristo e di Dio. Il secondo De Babilonia civitate
infernali et eius turpitudine et quantis penis peccatore puniantur incessanter che parla dell’Inferno che ha le
sembianze di una immensa prigione dove dappertutto si diffonde una puzza insopportabile, vi strisciano
vipere e serpenti, i diavoli dai volti orribili infieriscono sui dannati.
Impegno morale e volontà didascalica sostengono il lavoro letterario di Bonvesin de la Riva, nato a Milano
nel 1240 è maestro di grammatica ed è conosciuto soprattutto per il Libro delle Tre Scritture, poemetto in
cui descrive le pene infernali (scrittura nera), la redenzione (scrittura rossa) e le gioie del Paradiso (scrittura
dorata) inoltre scrive anche una sorta di galateo in lingua volgare chiamato Le cinquanta cortesie a tavola
destinato a un pubblico borghese. In latino invece è l’opera intitolata Le meraviglie di Milano dove descrive
gli aspetti urbanistici e architettonici della Milano dei suoi tempi, muore poi a Milano tra il 1313 e il 1315.
Tra la fine del 300 e gli inizi del 400 emerge a Genova una figura singolare, di cui non si conosce l’identità e
pertanto viene denominato l’Anonimo genovese, la sua figura è associabile a quella di Bonvesin per il
comune orgoglio cittadino, al centro sta la città di Genova di cui sono celebrate le vittoriose imprese militari
contro Venezia nell’ultimo periodo del 200. Fino al 12 secolo veniva usato nelle scuole e nelle istituzioni
ecclesiastiche il latino conosciuto solo da dotti e da chierici. La gente comune invece faceva uso delle
diverse parlate locali dette “romanze”. Queste lingue definite “volgari” cioè popolari, quindi inferiori
rispetto al latino. Nel concilio di Tours si deliberò che i sacerdoti avevano l’obbligo di tradurre le proprie
prediche in volgare, segno che il popolo non è più in grado di comprendere il latino. Poco tempo dopo con i
Giuramenti di Strasburgo vennero redatte delle lingue nazionali, il tedesco e una forma primitiva di
francese. Nell’anno mille poi si diffuse l’uso del volgare anche nelle scritture, il primo documento scritto in
volgare italiano è noto come Indovinello Veronese, l’autore è ignoto e l’indovinello rappresenta una
metafora dell’atto dello scrivere.

Tra la fine del 12 e l’inizio del 13 secolo nascono due ordini religiosi, quello francescano fondato da
Francesco d’Assisi e quello domenicano fondato da Domenico di Guzman. Da un lato Francesco invita i suoi
frati a lavorare, pregare, vivere fianco a fianco con i più poveri, dall’altro Domenico predica la difesa delle
Sacre Scritture da raggiungere attraverso lo studio dottrinale. Nell’Italia centrale si sviluppa una poesia in
volgare di argomento religioso che tende a uscire dai monasteri per entrare nella vita mondana, questa
novità consiste in due aspetti da una parte si passa dall’idea di un Dio vendicatore a quella di un Dio
misericordioso, dall’altra si assiste a un profondo rinnovamento della vita religiosa e soprattutto
dell’istituzione ecclesiastica.
Francesco d’Assisi nasce ad Assisi nel 1182, figlio di un ricco mercante, ser Bernardone e dalla madre di
origini francesi. È destinato a seguire le orme del padre ma lui non intende occuparsi di stoffe, combatte
nella guerra tra Assisi e Perugia ma viene colpito da una febbre qui in lui matura una profonda crisi religiosa
che è opera di un importante cambiamento interiore, molto importante fu l’esperienza in carcere. Nel 1206
giunge alla conversione religiosa e decide di vendere tutti i suoi beni e distribuire il ricavato ai poveri e con
un gesto eclatante si denuda davanti al padre e al vescovo di Assisi dimostrando così la scelta irrevocabile di
una povertà radicale e stabilisce che allo stesso modo dovranno vivere anche i suoi compagni essi,
dormono dove capita, indossano abiti poveri e camminano scalzi, in segno di umiltà decidono di chiamarsi
frati minori. Francesco serve per molti anni insieme ai suoi compagni nei lebbrosari proibendo ai suoi
seguaci di chiedere denaro in elemosina, tutti i frati devono mantenersi solo con le proprie mari, aiutando i
contadini nei campi, in cambio possono ricevere solo un po’ di cibo. Inizialmente la scelta di Francesco non
ha buona accoglienza presso le alte gerarchie ecclesiastiche, tuttavia non sarà mai in contrasto con la
Chiesa. Nel 1210 l’ordine francescano ottiene una prima approvazione verbale da papa Innocenzo 3, ma
solo nel 1223 papa Onorio 3 approva la regola del suo ordine religioso. L’anno dopo sul monte della Verna
ammalato e quasi cieco riceve le stimmate, muore poi il 3 ottobre 1226 in una cella della Porziuncola. Alla
sua morte molti frati accettarono donazioni di case, denaro e terre e iniziarono a studiare e a predicare così
man mano divennero frati predicatori.
Il suo testo più importante è il Cantico delle Creature o Cantico di frate Sole è una poesia in volgare umbro,
il cantico muove da una premessa: all’uomo peccatore non è lecito neppure nominare Dio, ciò nonostante
gli è consentito colmare la distanza che lo separa dal Creatore lodando le creature e gli elementi
dell’universo che sono legati in spirito di fratellanza all’uomo, poiché sono generati dallo stesso padre.
Iacopone da Todi nasce a Todi tra il 1230 e il 1236, la sua biografia è piuttosto incerta, esercita la
professione legale e amava i piaceri mondani. L’episodio che determina la svolta della sua vita è la morte
drammatica della moglie Vanna a causa del crollo del pavimento durante una festa, così dal 1268 decide di
abbandonare la vita mondana, si dà per 10 anni alla penitenza ed entra infine nell’ordine dei frati minori.
Contrasta Bonifacio 8 perché sceglie di stare dalla parte degli spirituali, Iacopone è inoltre uno dei firmatari
del manifesto di Lunghezza, documento con il quale alcuni religiosi, avversari del papa Bonifacio ne
dichiarano illegittima l’elezione e chiedono la convocazione di un concilio. Quando il papa occupa Palestrina
Iacopone viene scomunicato e poi imprigionato fino alla morte di Bonifacio. Il papa successivo Benedetto
11 gli toglie la scomunica e lo libera dalla prigionia, Iacopone allora si ritira nel convento di San Lorenzo
dove muore la notte di Natale del 1306. È autore di circa 92 laude di argomento religioso, i temi sono la
lode di Dio, il rifiuto dei beni terreni e dei piaceri mondani, la mortificazione del corpo e l’invettiva contro la
corruzione del mondo e della chiesa, nelle laude troviamo spesso una visione cupa e pessimistica
caratterizzata da una particolare attenzione all’animo umano e ai suoi tormenti. La poesia di Iacopone si
precisa nei termini di un assiduo scontro tra forze opposte, il vizio e la virtù, l’anima e il corpo, il peccato e
la salvezza, l’inferno e il paradiso, il mondo e Dio. Il suo capolavoro è considerato la lauda Pianto della
Madonna che ha per argomento la passione di Cristo.
La differenza tra Francesco d’Assisi e Iacopone da Todi sta nel fatto che Francesco è portatore di una
religiosità più aperta e positiva che tende a valorizzare la bontà del creato, Iacopone invece incarna una
visione più cupa dominata dal senso del peccato e della colpa essendo vicino alla cultura dei flagellati. Tutti
e due usano il volgare umbro una decisione molto significativa sia sul piano religioso che culturale.

Il termine Scuola Siciliana indica un movimento letterario che sorge intorno al 1230 e dà luogo a una vasta
produzione lirica in volgare. Tale esperienza ha come centro la corte di Federico 2 e dei suoi figli
specialmente Manfredi. Federico II di Svevia divenne prima re di Sicilia, poi re di Germani e infine
imperatore, venne due volte scomunicato per contrasti politici con il papa, dopo la nomina a imperatore
crea un ambiente culturale laico e raffinato, che ha il suo punto di forza nello studio del latino e delle
scienze naturali, la Magna Curia i cui poeti sono dei funzionari imperiali cioè giuristi, notai, magistrati, per
loro l’attività poetica rappresenta uno svago. Argomento delle loro poesie è solo e sempre l’amore, c’è
quasi sempre la figura femminile, la donna però è assente nella sua reale individualità, si percepisce un
interesse di natura psicologica che scruta i riflessi interiori e spirituali dell’esperienza d’amore facendo
attenzione alle zone oscure o sentimentalmente delicate, ne consegue che al centro dell’interesse venga a
collocarsi non tanto la figura femminile quanto l’esplorazione del desiderio. Nei siciliani la poesia non viene
cantata e non viene accompagnata da musica la sua destinazione esclusiva è la lettura. Pertanto il poeta si
trova a puntare ad una musica interna ai versi, il riscontro più significativo si rivela nell’impiego di due
strutture metriche: la canzone e il sonetto. Nella canzone si opera per recuperare il corrispettivo metro
occitanico, nel sonetto invece è una vera e propria invenzione, dovuta al poeta più importante della Magna
Curia, Giacomo da Lentini ma anche Stefano Protonotaro di cui rimane solo un componimento in lingua
originale, Pierre delle Vigne, Cielo d’Alcamo esempio di poesia colta e aristocratica.
Giacomo da Lentini è funzionario di corte dell’imperatore Federico 2 dal 1233 morto nel 1250 è forse il più
antico fra i poeti della scuola siciliana, detto il Notaro, della sua vita si sa poco è autore di un canzoniere
composto da una quarantina di testi: 16 canzoni, 1 discorso, 19 sonetti. Come si legge nel sonetto
appartenente a una tenzone cioè una discussione in versi tra l’autore e altri due poeti Iacopo Mostacci e
Pier delle Vigne, sulla natura dell’amore, Amor è uno desio che ven da core, fa propria la teoria di Andrea
Cappellano per cui “l’abbondanza di gran piacimento” è elemento costitutivo della genesi dell’amore, ma si
spinge anche più in là, considerando l’origine dell’amore inteso come evento che coinvolge i sensi, in lui è
presente anche il tema del vagheggiamento, inteso come gioia contemplativa della bellezza esteriore della
donna come nella canzonetta Meravigliosamente in cui il poeta impressa nell’animo l’immagine della
donna amata ma quando le passa accanto non osa alzare gli occhi per guardarla, rimanendo paralizzato dal
suo stesso sentimento.
Cielo d’Alcamo è il nome attribuito all’autore Angelo Colocci, siciliano, è uno dei rappresentanti più
significativi della poesia popolareggiante nella scuola siciliana ed era vicino alla Magna Curia di Federico 2.
Rosa fresca aulentissima è un mimo, un dialogo realistico in forma di battibecco tra un corteggiatore che
tenta di piegare ai suoi desideri una contadina e la contadina che prima e sdegnosa poi alla fine cede al suo
corteggiamento. È un testo di tipo teatrale da recitare o da cantare, alterna la dottrina del vassallaggio
d’amore all’espressione del desiderio di conquistare una donna ritrosa ma non troppo, infatti conclude la
scena con un invito.

Alcune esperienze in versi estranee alla lirica amorosa che si manifestano in Toscana e che sono
riconducibili a un’attenzione nei confronti della realtà, sia che il testo abbia una finalità moralistica o
didascalica, sia che tenda invece a misurarsi col reale. Il personaggio di maggior rilievo è Brunetto Latini,
nato a Firenze nel terzo decennio del 200, è un notaio, per il prestigio acquisito oltre che per la sua
appartenenza alla parte guelfa viene inviato in ambasciata presso il re Alfonso 9 di Castiglia per chiedere il
suo intervento contro le minacce di Manfredi, figlio illegittimo di Federico 2, sulla via del ritorno gli arriva
una lettera del padre che gli comunica la notizia della rotta dei guelfi nella battaglia di Montaperti, si
stabilisce in Francia rimanendo in esilio fino a quando a seguito della battaglia di Benevento e della
riconquista del potere da parte dei guelfi rientra a Firenze dove compirà importanti incarichi pubblici fino
alla morte avvenuta nel 1294. È autore di un poemetto in settenari sul tema dell’amicizia, dedicato a
Rustico di Filippo, Il Favolello, ed è anche autore del Tesoretto scritto in settenari che rimano a coppie, il
testo intende rivolgersi ai ceti emergenti del comune fiorentino, adotta un linguaggio consono che intende
rispettare i criteri di chiarezza e di equilibrio. La trama del poemetto è tratta da uno spunto autobiografico
per poi snodarsi sotto forma di racconto allegorico, all’inizio Brunetto è disperato per aver appreso della
sconfitta guelfa e si smarrisce in una selva dove si imbatte in Natura, la quale gli fa da guida e da maestra su
aspetti che riguardano la fisiologia dell’uomo e il cosmo, prima di essere sostituita da Vertude che fa
conoscere al poeta le virtù cardinali e quelle che governano il comportamento umano ovvero: Cortesia,
Larghezza, Leanza e Prodezza. Quanto giunge al Regno del Dio d’Amore, Brunetto trova Ovidio, che lo
consiglia su come rimuovere le tentazione dell’amore. Arriva a Montpellier e qui decide di confessarsi
analizzando uno ad uno i peccati capitali. Infine trasportato sull’Olimpo incontra Tolomeo, ma qui al verso
2994 nel momento in cui Tolomeo dovrebbe spiegargli l’essenza dei quattro elementi e il rapporto che li
lega, il poemetto si interrompe. In questo testo ci sono due momenti che in qualche modo legano Brunetto
a Dante, il primo è quello che mediante l’immagine dello smarrimento del protagonista nella selva e del
soccorso di una guida non fa che richiamare la Divina Commedia, il secondo è il momento in cui Brunetto si
confessa.
Allegoria, enciclopedismo e destinazione accomunano tre poemetti nella seconda metà del 200 che sono
tutti e tra anonimi. Il primo porta il bizzarro chiamato Detto del gatto lupesco, è un breve componimento in
novenari-ottonari in rima baciata, che racconta tre avventure di un personaggio misterioso: il gatto lupesco,
l’incontro di due cavalieri di ritorno dall’Etna dove hanno invano chiesto notizie di re Artù, la notte trascorsa
nel deserto con un eremita, gli ostacoli e il loro superamento per raggiungere il traguardo di una croce
indicata dall’eremita. Le avventure sembrano velare simbolicamente la quete cioè la ricerca del
protagonista che dall'amor profano precede verso la conquista della fede. Il secondo Mare amoroso è un
poemetto di 330 versi in metrica libera che può essere considerato un piccolo manuale enciclopedico dei
luoghi comuni della tradizione letteraria. Il titolo può avere un duplice significato: o intende segnalare la
grandezza e l’onnipotenza dell’amore oppure sta a indicare la perfezione della donna amata. Il terzo
L’Intelligenza ha una struttura più ampia, ha 309 strofe di novenari e parla dell’avventura del poeta che
incontra una donna bellissima, la segue in Oriente e viene da lei ospitato nel suo palazzo, dopo che il poeta
ha dichiarato il suo amore ricevendo in cambio la promessa di felicità la vicenda si conclude. Pero affinché si
capisca il suo significato il poeta si sofferma a illustrare il senso allegorico: la donna e l’intelligenza la cui
sede, il palazzo, è l’anima dell’uomo.
Esistono anche le opere didattico-allegoriche di Francesco da Barberino, sono due: la pima scritta tra il
1309 e il 1313 è i Documenti d’Amore, dove il significato di documenti è quello di insegnamenti. L'opera è
suddivisa seguendo tre livelli diversi, il primo è costituito da versi in lingua volgare, il secondo è
rappresentato dalla parafrasi latina dei versi volgari, il terzo è costituito dai commenti in latino ai versi
volgari. L’altra opera è il Reggimento e costumi di donne è un prosimetro dove si alternano brani di prosa e
passi di poesia, complicata è la sua struttura, nella quale la sezione più interessante è quella che racchiude
una specie di galateo a uso delle donne.

Nel 1250 muore Federico 2 e la crisi della casa di Svevia giunge al suo culmine con la sconfitta di Manfredi a
Benevento. In questo periodo si esaurisce anche la funzione culturale della Magna Curia e giunge alla fine la
poesia in siciliano illustre. Tuttavia il magistero dei siciliani non resta senza eredità, alcune tracce del loro
patrimonio poetico si ritrovano in Umbria dove opera Iacopone da Todi e anche in Emilia, ma l’eredità dei
siciliani viene accolta soprattutto in Toscana che diventa il centro egemone dell’attività poetica. Questi
poeti pur essendo toscani, ripropongono con alcune variazioni i modelli della lirica siciliana, vengono
chiamati poeti “siculo-toscani”. I più importanti Bonagiunta Orbicciani il primo a compiere l’innesto del
siciliano illustre nel toscano e Giuttone d’Arezzo che diventa in poco tempo la figura di maggior rilievo della
nuova corrente. In queste poesie accanto all’amore i poeti avranno anche attenzione a temi di natura etica
e politica.
Bonagiunta Orbicciani è vissuto a Lucca coma giudice e notaio dal 1247 al 1257. Di Bonagiunta ci sono stati
tramandati 38 componimenti che riprendono tutto il ventaglio telematico e stilistico della produzione
siciliana, intorno a lui fiorì anche una piccola scuola poetica legata ai siciliani.
Guittone d’Arezzo nasce intorno al 1235 ad Arezzo da una famiglia della borghesia guelfa, nel 1263 lascia la
città per dissidi politici poi nel 1265 in seguito a una crisi spirituale lo induce a lasciare la moglie e i tre figli e
ad aderire alla confraternita laica dei cavalieri di Santa Maria, conosciuti come “frati gaudenti”. Muore a
Firenze nel 1294. La sua produzione poetica è costituita da 50 canzoni e 250 sonetti di argomento dapprima
amoroso poi moraleggiante e religioso. È un profondo conoscitore della poesia provenzale e del trobar clus
esso traduce quella tradizione in forme toscane in una lingua e in uno stile difficile ed elaborato. Fanno
parte della sua crisi interiore alcuni componimenti scritti come la canzone per la rotta dei guelfi fiorentini a
Montaperti Ahi, lasso! Or è stagion de doler tanto. Secondo Guittone Firenze che era destinata a diventare
la Roma dei tempi moderni, paga la colpa di essere venuta meno all’appuntamento con la storia per colpa
delle lacerazioni tra le fazioni. Nella canzone Ora parrà s’eo saverò cantare annuncia la sua nuova poesia,
abbandona l’amore per dedicarsi alla poesia dottrinale e morale, Guittone infatti poggia su solide certezze e
non conosce la dialettica dei contrasti e del dubbio, i suoi componimenti pertanto sono affermativi. Il
magistero guittoniano agisce per oltre un ventennio su un intera generazione di poeti i “guittoniani” tra i
quali Chiaro Davanzati autore di una sessantina di canzoni e di un centinaio di sonetti, Dante da Maiano un
attardato imitatore del guittonismo a Firenze è degno di menzione soprattutto per la corrispondenza
poetica messa in atto con Dante Alighieri e Monte Andrea da Firenze è il diretto seguace di Guittone per il
poetare chiuso e oscuro con qualche anticipazione stilnovistica.

Nella seconda metà del 200 c’è un altro settore della produzione poetica toscana nel quale la componente
di realtà è ancora più massiccia. La si ritrova in quel tipo di poesia etichettata come “giocosa”, “borghese”,
“comico-realista”. I poeti sembrano piuttosto insofferenti perciò in opposizione alla donna-angelo, qui
troveremo figure femminili molto diverse: moralmente discutibili e sessualmente disponibili (soprattutto a
pagamento), anziché donne angelicate che tengono a debita distanza il poeta-amante, ma donne reali e di
ceto modesto, rappresentate nella loro concreta fisicità. L’amore qui diventa erotismo molto concreto,
lussuria e bramosia di possesso, si celebrano i piaceri della carne: il sesso, il cibo, il vino e io gioco
d’azzardo. C’è poi il gusto di deridere personaggi brutti e sgraziati e di descrivere modi, scene e passioni del
mondo plebeo. E ci sono invettive e ingiurie contro tutte quelle circostanze o quelle persone che
impediscono il soddisfacimento dei desideri del poeta, l’ultimo tema è quello politico-civile mostrando
personaggi di rango più basso rispetto alla nobiltà, questa poesia ci offre uno spaccato di notevole interesse
della realtà popolare e borghese. Di questo stile sono molto frequenti i termini concreti, le scelte
linguistiche sono tipiche della parodia. Guido Guinizzelli compone un sonetto contro una vecchia alla quale
di morire colpita da un fulmine e un altro sonetto in cui un rozzo uomo del popolo manifesta nei confronti
di una donna indicata per nome un’attrazione non spirituale ma sensualmente aggressiva. Guido Cavalcanti
compone una scherzosa caricatura di una donna gobba, Cino da Pistoia in un sonetto vorrebbe un mondo
rovesciato rispetto ai desideri comuni della gente per saziare la propria sete di distruzione. Altri autori
invece si dedicarono principalmente alla poesia comico-realistica, il caposcuola è senz’altro Cecco
Angiolieri, accanto a lui va ricordato anche Rustico di Filippo.
Rustico di Filippo è vissuto a Firenze nella seconda metà del 200, della sua vita si sa poco, era di famiglia
umile e di lui ci sono pervenuti 58 sonetti alcuni di ispirazione amorosa altri di intonazione comico-burlesca
in questi sonetti l’attenzione di Rustico è concentrata sulla vita quotidiana e sulla cronaca cittadina, ritaglia
scene e personaggi che vengono bloccati in un tipo di poesia che si realizza perfettamente nelle misure del
ritratto deformante e della caricatura irridente ma non c’è solo il ritratto, c’è anche il bozzetto narrativo che
nel breve giro di 14 versi racchiude una vicenda Oi dolce mio marito Aldobrandino, chi parla è una donna
che si rivolge al marito invitandolo a non prestar fede ai pettegolezzi secondo cui lei avrebbe avuto una
relazione adulterina, come le novelle non si consente che la situazione esploda in uno scandalo pubblico,
sarà più opportuno che cali il silenzio.
Cecco Angiolieri nasce a Siena prima del 1260, nel 1280 partecipa alla campagna militare per la conquista
del castello ghibellino di Turri e viene sanzionato due volte per essersi assentato dal campo l’anno
successivo, lo colpiscono altre ammende, una delle quali perché viene trovato a vagabondare per la città a
tarda notte, cosa proibita all’epoca. Nel 1288 i senesi inviano un piccolo contingente militare in aiuto dei
fiorentini impegnati nella guerra contro Arezzo. La guerra si conclude nel 1289 con la battaglia di
Campaldino, vittoriosa per Firenze alla quale partecipa anche Dante Alighieri, negli anni che verranno Cecco
invierà a Dante tre sonetti che tracciano una parabola di amicizia e di crisi dei loro rapporti. In seguito Cecco
abbandona Siena per un certo periodo da qui non vi sono notizie relative agli ultimi anni della sua vita,
senza dubbio la morte è avvenuta prima del 1313 infatti è del febbraio di quell’anno un documento che
attesta che i suoi 5 figli rifiutano l’eredità perché piena di debiti. Il denaro costituisce l’ossessione
dominante di Cecco, anche perché lo stato di povertà irrimediabile investe direttamente le disgrazie
amorose. Privazione della donna e privazione del denaro favoriscono in Cecco la disposizione alla
malinconia. Però la sua malinconia è piuttosto l’umor nero con cui il poeta si dispone difronte al reale, con
atteggiamento né rassegnato né depresso come nel sonetto S’ì fosse foco in cui dichiara la sua volontà di
annientare un mondo che detesta e che amerebbe distruggerlo se solo avesse il potere di farlo, le prime tre
strofe con tre elementi primordiali, con Dio, con i poteri costituiti dall’epoca medievale e infine con la
morte e con la vita personificante. Nella terzina finale l’ipotesi si fa reale, il poeta immagina di tornare sé
stesso, gettando la maschera del minaccioso incendiario e mostrando il suo volto boario. La reale ambizione
è soddisfare il piacere personale aspirando alle grazie di belle ragazze e lasciando agli altri le donne più
brutte e vecchie. Cecco si affida agli umori del linguaggio e alle espressioni per manifestare i suoi
risentimenti, per esempio nel caso del sonetto Becchina mia! Cecco, no’l ti confesso in cui per 14
endecasillabi, il primo emistichio (cioè metà verso) è occupato dalla battuta di Cecco e il secondo della
replica di Becchina, l’amata interlocutrice. Cecco assume nei confronti della loro poesia un’intenzione di
esplicita parodizzazione. Basti pensare al fatto che quando anche lui, come gli stilnovisti, si crea una figura
di donna e improvvisa attorno a lei una storia, la donna è caratterizzata da tratti grossolani, risulta per il
poeta irraggiungibile perché all’innamorato, Cecco, mancano i soldi per appagare i desideri dell’amata.
Becchina infatti incarna perfettamente la parte dell’anti-Beatrice per eccellenza.
Folgòre da San Gimignano Iacopo di Michele da San Gimignano, detto Folgore, di cui si hanno poche
notizie biografiche e di cui si può dire che muore prima del 1332, è poeta di corone, vale a dire di sequenze
di sonetti collegati tra loro per il tema o per l’occasione che li ha motivati. Della vita del suo tempo ci
dipinge il volto più luminoso e sereno, quello delle brigate allegre, dei pranzi festosi, delle caccie, dei giochi
cavallereschi di una società spensierata. Con i “Sonetti dei mesi” e con i “Sonetti della settimana” egli offre
ai giovani, molti consigli sul come trascorrere il più serenamente possibile i vari mesi dell'anno e i diversi
giorni della settimana. I quattordici sonetti dei mesi sono dedicati a un certo Niccolò di Nisi che era
probabilmente capitano di quella "brigata nobile e cortese" alla quale il poeta offre il suo poemetto. Gli otto
sonetti della settimana sono invece dedicati a un fiorentino, Carlo di Messer Guerra Cavicciuoli un nobile a
capo di un paese toscano e il sonetto di apertura è stato dedicato proprio a lui. La tendenza prevalente di
Folgore è di rinunciare ai toni aspri e plebei, preferendo le forme del plazer provenzale, l'opera di Folgore si
colloca in una posizione intermedia tra la poesia stilnovistica e la poesia giocosa. Folgore conserva della
prima l'ideale della “cortesia” e della seconda l'esaltazione dei godimenti materiali, raggiungendo i
momenti più intensi nella descrizione della natura, nitida e precisa e, nello stesso tempo, immersa in un
sogno.

Lo Stilnovo è un’esperienza poetica che nasce negli 60-70 del 13 secolo a Bologna, si sviluppa soprattutto
tra la seconda metà del 13 e l’inizio del 14 secolo a Firenze. Si tratta di una produzione letteraria pensata
per un nuovo pubblico borghese, la prima definizione di questo movimento risale a Dante, il quale nel canto
XXIV del Purgatorio, sesto girone, pone sulla scena, tra i golosi, il rimatore Bonagiunta Orbicciani. È
Bonagiunta ad attirare l'attenzione di Dante, mormorando un «Gentucca» che questi dapprima non capisce,
attraverso le parole di Bonagiunta, Dante si fa quasi "consacrare" principale poeta del Dolce stil novo e ne
enuncia una dichiarazione di poetica da cui poi il movimento stesso trarrà il nome che gli è attribuito.
Bonagiunta gli chiede infatti se è proprio lui che inventò le «nuove rime» con la canzone Donne ch'avete
intelletto d'amore, al che Dante risponde di essere uno che, quando Amore lo ispira, prende nota. Udite
queste parole, Bonagiunta esclama di capire finalmente l'ostacolo che trattenne lui, Giacomo da Lentini e
Guittone d'Arezzo al di qua del «dolce stil novo ch'i' odo», precisando come l'unica differenza tra i due modi
di poetare, a suo avviso, sia proprio questa fedeltà ai sentimenti e alle parole ispirate da Amore. Dopo
questa conversazione le anime riprendono veloci la loro corsa di espiazione. Rispetto al nuovo stile,
Orbicciani era un poeta della vecchia guardia, non a caso a partire dal sonetto Voi, ch’avete mutata la
maniera aveva polemizzato con Guido Guinizzelli le innovazioni polemiche da lui introdotte. Nella
produzione stilnovistica vengono abbandonati gli argomenti politico-civili, il tema principale diventa
l’amore, trasformandolo da una condizione sentimentale in un’esperienza intellettuale, la donna amata
diventa donna angelo che assolve una duplice responsabilità, una terrena e una mondana. La questione
della nobiltà non viene più vista come legata alla ricchezza e al prestigio della famiglia di provenienza ma
piuttosto alle qualità umane e intellettuali, la nobiltà d’animo. L’iniziatore della corrente è Guido Guinizzelli.
Guido Guinizzelli nasce a Bologna tra il 1230 e il 1240, partecipa alle lotte politiche del comune di Bologna,
ghibellino seguace della fazione dei Lambertazzi, è perciò costretto all’esilio a Padova dove muore nel 1276.
Sono giunti fino a noi 20 componimenti poetici, in questi componimenti bisogna riconoscere una fase di
tipo guittoniano e una di tipo siciliano. Fondamentale è la canzone Al cor gentil rempaira sempre amore, in
questa canzone viene illustrata la vera natura dell’amore, per amare, infatti, bisogna essere di animo
gentile, cioè nobile. Altre poesie di Guinizzelli sviluppano il tema della lode, dove si ricorre all’esaltazione
della luminosità delle immagini naturali per definire lo splendore dell’amata come nel sonetto Vedut’ho la
lucente stella diana e I’ voglio del ver la mia donna laudari, qui il poeta elenca le bellezze della sua donna, è
però una descrizione non realistica ma vaga e sfumata.
Guido Cavalcanti nasce a Firenze intorno al 1258, di ricca famiglia guelfa prende parte alla vita pubblica di
Firenze e nella divisione dei guelfi, si schiera con i Cerchi (bianchi) contro i Donati (neri). Nel 1300 a seguito
di una rissa dove era presente anche il suo amico Dante Alighieri viene esiliato a Sarzana dove rimane per
circa un mese, rientra a Firenze dove vi muore di malaria. Sdegnoso, ateo e materialista i tratti peculiari
vengono fissati dall’episodio dell’incontro di Dante col padre di Guido, nel X canto dell’Inferno, qui c’è una
distesa di sepolcri, alcuni di questi dati alle fiamme e dai quali escono orribili lamenti, si incontrano solo
eretici epicurei. Cavalcante dei Cavalcanti padre di Guido, chiede perché Dante ha avuto il privilegio del
viaggio ultraterreno per meriti dell'ingegno e suo figlio Guido no e Dante risponde che non è da solo e che
la destinazione del viaggio sarebbe una figura che Guido disdegnò inoltre Cavalcante pensa che il figlio sia
morto e visto che Dante esita nella risposta, ricade supino nel sepolcro e sparisce dalla scena per la
disperazione. Amicizia e solidarietà accompagnano Guido e Dante nella loro giovinezza, infatti Dante a 18
anni invia a Guido il sonetto che prenderà la posizione di primo componimento della Vita Nova intitolato A
ciascun’alma presa e gentil core, con l’auspicio che Guido lo aiuto a decifrare l’oscura e inquietante scena
apparsagli in sogno e descritta nella poesia. Guido risponde col sonetto Vedeste, al mio parere, onne valore.
Dopo il 1293 l’amicizia tra Dante e Guido entra in crisi e i due si muovono in direzioni diverse, da una parte
Cavalcanti che prosegue e addirittura esaspera il suo solipsismo, dall’altra Dante che sceglie di sostituire alla
poesia d’amore la poesia dell’impegno morale e delle virtù. Le Rime di Cavalcanti comprendono
cinquantina di componimenti caratterizzati da una visione spirituale ma anche angosciata dell’amore per la
donna, sempre avvolta in un alone di irraggiungibilità. Nella canzone Donna me prega, perch’eo voglia dire
Cavalcanti espone i fondamenti filosofici della teoria dell’amante fedele d’amore, è una delle poesie più
complesse e difficili e non a caso il primo a commentarla fu un medico, Dino di Garbo. Nel sonetto Voi che
per li occhi mi passaste ‘l core dove spiega quali effetti produce il sentimento d’amore in colui che ama, ma
gli effetti dell’amore sono anche negativi inducendo all’amante angoscia e sospiri. Cavalcanti si distingue
dagli altri Stilnovisti per la tendenza a rappresentare il mondo interiore dell’io lirico su un piano drammatico
della descrizione dello sbigottimento di fronte alla bellezza della donna. L’amore appare quindi a Cavalcanti
come una forza paralizzante che rende l’uomo incapace di agire e di parlare. Perch'io no spero di tornar
giammai è la più celebre ballata scritta durante un periodo di allontanamento da Firenze e con il
presentimento angoscioso della morte imminente: il poeta si rivolge direttamente alla lirica e la prega di
recarsi in Toscana dalla donna amata, per portarle tristi notizie sul suo conto, facendo bene attenzione a
non esporsi alle maldicenze dei suoi nemici.
Fra i minori dello stil novo si ricordano Lapo Gianni, notaio di lui abbiamo solo 17 componimenti, Gianni
Alfani forse nato nel 1272, gonfaloniere di giustizia, è costretto all’esilio nel 1313 dopo essere stato
dichiarato ribelle, amico e imitatore di Cavalcanti che insieme a lui faceva parte della stretta cerchia di amici
di Dante. Di lui ci sono pervenute 6 ballate e un sonetto, Dino Frescobaldi, mentre una posizione di rilievo
occupa Cino da Pistoia nato nel 1270 in toscana, di famiglia nobile studia diritto a Bologna, dal 1303 al 1306
è costretto come guelfo di parte nera a vivere in esilio, da dove torna ricevendo riconoscimenti e onori.
Compone un ampio numero di rime apprezzate sia da Dante sia da Petrarca. In particolare l’affinità con
Petrarca si riscontra nel tema della lontananza a questo tema si lega quello della rimembranza come nella
canzone La dolce vista e ‘l bel guardo soave il cui incipit sarà citato da Petrarca in un verso della sua
canzone Lasso me, ch’i’ non so in qual parte pieghi.

La prosa in volgare sorge e si sviluppa a Bologna, la figura di maggior rilievo è quella di Guido Faba autore di
due opere didattiche la Gemma purpurea un trattatello che istituisce un rapporto di parità tra latino e
volgare e i Parlamenta et epistole, qui un argomento, un tema, dapprima esposto in volgare viene
successivamente sottoposto a tre traduzioni in latino differenti per ampiezza e stile. Tra i primi
volgarizzatori dei testi latini va ricordato Brunetto Latini, nel tessere l’elogio di Brunetto Latini lo storiografo
trecentesco Giovanni Villani sottolinea il suo impegno di “digrossatore” frutto della consapevolezza di un
nesso tra arte del dire e dello scrivere da una parte e arte del governare dall’altra. Saper parlare in modo
appropriato e accurato è indispensabile per chi intenda ben governare. Brunetto scrive la Retorica nel 1260,
il testo consiste nella traduzione dei primi 17 capitoli del De inventione di Cicerone con l’aggiunta di un
ampio commento per il quale si fa ricorso a numerose fonti. Due sono le specifiche competenze della
retorica secondo Brunetto; stabilire le norme del dire e quelle del dittare, le prime riguardano l’oratoria
utile nell’attività politica, le seconde sono riferite al componimenti letterari in prosa e poesia. L’opera più
celebre di Brunetto è il Tresor scritto in francese e in prosa, è un enciclopedia nella quale Brunetto riversa il
patrimonio delle sue conoscenze. Viene articolato in tre libri, nel primo vi è la nascita dell’universo e si
danno informazioni di anatomia, geografia, zoologia e storia. Nel secondo sono descritti e analizzati vizi e
virtù mentre nel terzo si affronta il problema della retorica e della politica. È un enciclopedia che per lo
spirito laico segna un passo in avanti rispetto alla grande summa enciclopedica scritta in latino, lo Speculum
di Vincenzo di Beauvais di impronta scolastica e di spirito religioso.
Il primo epistolario significativo della letteratura italiana è quello costituito dalle Lettere di Guittone
d’Arezzo poco più di una trentina indirizzate ai frati gaudenti e hanno per argomento problemi religiosi e
questioni morali, nelle quali dimostra tutta la sua arte di cultore dell'arte del dettare.
Con il termine volgarizzamento si intendono le traduzioni e gli adattamenti in lingua volgare italiana di testi
latini e francesi, Bono Giamboni, fiorentino vissuto tra il 1240 e il 1292 a lui è stato attribuito anche il
volgarizzamento del Tresor di Brunetto, suo è anche il volgarizzamento delle Historiae adversus Paganos di
Paolo Orosio, delle opere di Bono va ricordata una di impianto allegorico-narrativo Il Libro dei Vizi e delle
Virtudi, dove sviluppa un discorso etico-filosofico che denota una prospettiva laica e progressista, gli scontri
della fede con le altre religioni vengono sceneggiati in modo tale da rivelare lo spirito di tolleranza
dell’autore. La strada dei volgarizzamenti è la stessa che conduce all’affermarsi della prosa narrativa, per la
precisione l’area in cui si indirizza è quella francese. La leggenda di Troia ha il suo testo più rappresentativo
nel Roman de Troie di Benoit de Sainte-Maure, l’interesse di un pubblico curioso di conoscere personaggi e
vicende del passato spiega il grande successo de Li faits des Romans che integrava la rielaborazione della
Pharsalia di Lucano con brani estrapolati da Sallustio e da Giulio Cesare.
Se in francese viene scritto il Tresor di Brunetto, in prosa aretina è La Composizione del Mondo colle sue
cascioni di Restoro d’Arezzo. È strutturato in due libri composti da 24 e da 94 capitoli. Nel primo libro
l'autore descrive il macrocosmo e il microcosmo con acuto spirito d'osservazione, mentre nel secondo
discute dei fenomeni e delle cause. Il trattato è tramandato da cinque codici, per uno dei quali, vale a dire
l’aretino manoscritto Riccardiano 2164 della Biblioteca Riccardiana di Firenze.
Il 200 è assai ricco di cronache storiografiche, si ricorda il francescano Salimbene de Adam autore di una
Cronica in cui racconta gli avvenimenti italiani dal 1168 fino all’anno della sua morte, quello usato è un
latino dialettale adatto a lettori più ansiosi di curiosità.
Il maggior cronista contemporaneo a Dante è Dino Compagni, a lui si deve la Cronica delle cose occorrenti
ne’ tempi suoi, in cui la concentrazione sull’attualità è dichiarata fin dal titolo. Viene scritta tra il 1310 e il
1312 quando è scosso dalla stessa illusione di Dante, la speranza, suscitata dalla discesa in Italia di Arrigo 7
e che cambi anche la situazione politica di Firenze. Il racconto ha il suo nucleo centrale nella
rappresentazione delle lotte civili che lacerano Firenze tra il 1300 e il 1308, avvenimenti che Dino ha vissuto
in prima persona e pertanto si affida alla memoria personale ricorrendo anche a testimonianze altrui. Il
condizionamento della mentalità medievale non è tale da impedire a Dino di investigare nella storiografia.
Malvagità e cattiveria si radicano in un ben determinato contesto storico, la Firenze devastata dalle fazioni.
Nel 200 manca il romanzo, la letteratura italiana per molto tempo sarà prevalentemente una letteratura
che non privilegerà il romanzo ma la novella, pensiamo a un libro come la Legenda aurea, che Jacopo da
Varazze scrive prima del 1267 un’opera in cui l’autore raduna 182 narrazioni di vite di santi, ordinate
secondo il calendario delle feste dell’anno. Dal punto di vista storiografico l’opera cui va rivolta la più
attenta considerazione è la Disciplina clericalis, che tradotto significa ammaestramento dello studioso,
l’autore è Pietro Alfonso, l’opera conobbe molte versioni sia in versi, sia in prosa, nelle lingue romanze, in
inglese, tedesco ed ebraico. Si possono poi individuare altre raccolte di narratio brevis come il Libro dei
Sette Savi, protagonista è il figlio di un re che è condannato a morte dal padre perché ingiustamente la
matrigna lo ha accusato di averla minacciata. Non potendo difendersi è aiutato da sette savi che vivono a
corte, a turno, ciascuno di loro racconta una novella maschilista che viene controbattuta da una novella
opposta raccontata dalla regina. Il soffermarsi delle narrazioni serve per guadagnare tempo in modo che
quando alla fine al giovane sarà possibile parlare gli sarà facile dimostrare la propria innocenza e salvarsi. Le
narrazioni a carattere romanzesco e le storie di cavalieri della tavola rotonda forniscono il materiale alle 20
leggende storiche e cavalleresche contenute nei Conti di antichi cavalieri, nel libretto le figure del mondo
greco-romano e anche quelle del mondo musulmano sono come modelli da imitare. Per queste ragioni il
Libretto sembra collocarsi vicino al Novellino simile anche per l’identità di alcuni personaggi.
Si sviluppa la novella concepita come genere narrativo a scopo etico e religioso, in questo ambito troviamo
il Novellino, si tratta di un opera composta da 99 novelle più il prologo, non si conosce l’identità dell’autore,
è un opera indirizzata a un pubblico non particolarmente colto ma ricco di valori cortesi come il coraggio, la
gentilezza, la generosità uniti ai valori borghesi come l’ingegnosità, la furbizia. Vari sono i temi sviluppati
come incontri nobiliari, vicende amorose più o meno fortunate, protagonisti sono personaggi illustri
dell'antichità come Alessandro Magno, Traiano o Socrate, della Bibbia come Davide, Salomone, temi
medievali come Ercole, Artù e anche della storia recente come Federico II di Svevia e Carlo d'Angiò. A
contribuire all'efficacia del Novellino è anche la volontà dell'autore di non approfondire i personaggi e a
descrivere particolarmente l'ambiente esterno inoltre nelle novelle appare un tema che tende a
evidenziare la morale.
Marco Polo nasce a Venezia nel 1254 da una famiglia di mercanti, hanno un’impresa commerciale che
porta prodotti da Oriente. Nel 1269 parte per la Cina insieme al padre per motivi d’affari, il viaggio dura 3
anni. L’imperatore mongolo dimostra simpatie per Marco Polo e lo prende come collaboratore
incaricandogli una serie di visite ufficiali in molte parti dell’Impero per controllare l’amministrazione e
risolvere vari problemi, torna a Venezia nel 1295. Partecipa alla battaglia tra veneziani e genovesi del 1298
ed è fatto prigioniero, liberato l’anno successivo torna a Venezia dove si sposa, muore nel 1324. Capolavoro
indiscusso della letteratura di viaggio è il Milione, scritto nel periodo della sua prigionia narra della sua
esperienza in Oriente e di quello che ha sentito dire dal compagno di prigionia Rustichello. Molte delle
informazioni riportate da Marco Polo sono le prime vere notizie sull’Asia come lo scrupolo puntuale dei
luoghi geografici, l’attenzione nel riportare nomi e dati, è animato dall’intenzione di comunicare il proprio
entusiasmo e il proprio stupore per una civiltà sconosciuta e ricca di fascino. Parla di palazzi e di intere città
con tetti d’oro, dell’uso della carta moneta simile alla banconota, nelle arti mediche, negli incantesimi dei
maghi e di quell’artificiale paradiso terrestre chiamato Veglio della Montagna, riservato ai fedelissimi, gli
assassini chiamati così perché drogati di hascisc.

DANTE ALIGHIERI nasce a Firenze nel 1265 da Alighiero degli Alighieri e Bella degli Abati. Rimasto orfano
della madre all’età di 6 anni, trascorre la fanciullezza nella città natale dove studia il latino e la grammatica,
il padre muore quado lui ha 17 anni e per un periodo il giovane deve occuparsi degli affari di famiglia.
Intorno ai 18 anni inizia a scambiare poesie con i maggiori poeti del suo tempo, scrive versi amorosi per una
donna di nome Beatrice identificabile con il nome di Bice di Folco Portinari sposata con Simone de’ Bardi
morta nel 1290 a cui dedicherà la Vita Nova, anni in cui il poeta partecipa allo Stilnovo seguendo
soprattutto Guido Cavalcanti. A 20 anni sposa Gemma Donati, dal matrimonio nasceranno 3 figli, Pietro,
Iacopo e Antonia. Nel 1289 prende parte alla battaglia di Campaldino contro i ghibellini, per Firenze questi
sono anni sconvolti dalla rivalità tra guelfi bianchi e guelfi neri sostenute rispettivamente dalla famiglia dei
Cerchi e quella dei Donati, Dante dopo aver ricoperto vari incarichi viene eletto tra i priori mandando in
esilio diversi capi principali delle due fazioni tra cui Guido Cavalcanti. Nel 1302 Dante viene condannato
all’esilio per due anni con l’accusa di baratteria, cioè di aver tratto di illeciti guadagni ma non essendosi
presentato a giustificarsi viene condannato a morte. Inizia così il suo peregrinare di corte in corte, morirà a
Ravenna forse di malaria nel 1321.
Il primo libro di Dante è la Vita Nova, scritto dopo la morte di Beatrice. L’opera oltre che di una storia reale
parla anche di una verità intellettuale a cui l’autore approda, Beatrice è colei che conduce il poeta al suo
rinnovamento. La Vita Nova è un opera composta da 31 componimenti: 27 sonetti, 4 canzoni, 1 ballata e 1
stanza isolata di canzone, si tratta quindi di un prosimetro. La vicenda si apre con un tono quasi sacrale, a 9
anni Dante vede per la prima volta Beatrice 9 anni dopo Dante la rivede accompagnata da due donne.
Insiste sul numero “nove” come segno di perfezione in quanto multiplo di tre indicativo della Trinità, lei lo
saluta e poco dopo Dante torna nella sua camera e sogna una visione meravigliosa di Amore diventato
signore della sua anima, egli scrive così il primo sonetto dell’opera A ciascun’alma presa e gentil core che
invia a tutti di fedeli di Amore cioè ai poeti dello stilnovo. Amore toglie ogni vigore a Dante tanto che gli
amici si preoccupano per lui che però non svela il nome dell’amata. In una chiesa durante una funzione
religiosa si accorge che tra sé e Beatrice c’è una donna molto più bella che lo guarda, convinta che
l’attenzione del poeta sia per lei. I presenti immaginano che sia questa la donna oggetto d’amore di Dante
che non smentisce tale opinione, per proteggere Beatrice. Questa donne viene chiamata “donna dello
schermo” di cui il poeta si servirà per alcuni anni, quando poi questa donna si allontana da Firenze, il poeta
rivolge il suo fittizio amore a una seconda donna dello schermo, ma le voci giungono a Beatrice che lo
punisce togliendogli il saluto, questa negazione determina nel poeta una grande sofferenza che ha il suo
momento quando viene invitato ad una festa di nozze cui partecipa anche Beatrice, Dante nell’accorgersi
della sua presenza trema e impallidisce. La altre donne accorgendosi del suo stato sorridono
maliziosamente, la loro reazione è di scherno, di gabbo, secondo l’incipit del sonetto Con l’altre donne mia
vista gabbate. Il momento della crisi viene superato attraverso uno scatto mentale, quando Dante si rende
conto che gli è vietata la facoltà di realizzare la perfezione dell’amor cortese, perché la donna l’ha privato
del saluto e lui non sa sostenerne la vista così decide di lodarla, nasce un nuovo stile, lo stile della loda dove
il poeta si dichiara totalmente votato alla celebrazione dell’amata, su questi presupposti si fonda la
canzone-manifesto dello stilnovismo dantesco, Donne ch’avete intelletto d’amore al seguito del quale si
allineano le altre rime nuove della lode fra cui sonetti come Amore e l’ cor gentil sono una cosa e Tanto
gentile e tanto onesta pare. In un sogno che Dante fa in uno stato febbrile ha la visione della morte di
Beatrice accompagnata dal modello del Vangelo che racconta la passione di Cristo come è evidente nella
canzone Donna pietosa e di novella etade. Dante poi ha un’altra immagine gli appare la donna di Cavalcanti,
Giovanna denominata Primavera, seguita da Beatrice. Il rapporto tra Giovanna e Beatrice è segno della
natura divina di Beatrice stessa. Giovanna-Primavera la precede così come Giovanni Battista precede Cristo.
Dante non racconta la morte di Beatrice, la preannuncia e quando accade comunica solo l’evento, la sua
scomparsa non modifica la sostanza di un amore che non ha bisogno della presenza della donna. Al poeta
compare una gentile giovane e molto bella che lo osserva dalla finestra e lo vede immerso nel suo dolore
provando compassione per lui, Dante si lascia attrarre dalla consolatrice e per lei compone 4 sonetti. Il
rischio alla possibilità di un nuovo amore viene superato da un sogno, l’apparizione di Beatrice giovane e
bella come la prima volta che l’ha vista, aiuta Dante a scacciare il malvagio desiderio per la donna tornando
al pensiero della gentilissima Beatrice. L’ultimo sonetto accosta Beatrice a uno sfondo di eternità celeste,
essa è ormai irraggiungibile per l’intelletto ma il suo ricordo resta indelebile nel cuore.
La Vita nuova appartiene a un genere letterario, il "prosimetro" che prima di Dante non ha precedenti nella
letteratura volgare, per cui l'operetta si presenta come innovativa, i modelli devono essere ricercati in altre
tradizioni, a cominciare da Boezio con il De consolatione Philosophiae, il "libello" è originale in quanto
costituisce la rielaborazione della produzione lirica degli anni precedenti e una rilettura, delle vicende
giovanili del poeta che lascia già presagire il futuro schema della Commedia.
La raccolta delle Rime contiene i componimenti poetici giovanili non rientrati nella Vita Nova ma anche
alcune liriche appartenenti al periodo dell’esilio che Dante non si preoccupò mai di raggruppare e
riordinare in un libro organico. Nel complesso si tratta di 54 testi tra sonetti, ballate e canzoni. Nelle Rime
troviamo temi e toni molto diversi tra loro. Un primo modello è quello legato allo stilnovo e in particolare
all’imitazione del modello di Cavalcanti dove il rapporto di amicizia è testimoniato dal sonetto Guido, i’
vorrei che tu e Lapo e io poi l’altro modello è quello legato alla maniera di un poeta come Guittone
d’Arezzo. I sonetti della tenzone con l’amico Forese Donati appartengono al periodo dopo la morte di
Beatrice, sono 6 sonetti tre per ciascuno, di botta e risposta in cui i due non hanno freni nello scambiarsi
insulti e offese, nella logica dello stile comico. Che accusa Forese di essere un marito incapace di offrire
soddisfazioni coniugali alla moglie Nella e mette a nudo anche la sua situazione di povertà Forese lancia
contro Dante accuse della sua tendenza alla truffa. L’episodio verrà poi ripreso nel Purgatorio. Notevole è la
canzone Poscia ch’amor che espone il concetto di leggiadria che consiste nell’unione di divertimenti, di
amore cortese e di esercizio pratico delle virtù morali. Negli anni che precedono l’esilio Dante scrive 4
componimenti che costituiscono le cosiddette “rime petrose” dedicati a una donna Petra che è l'opposto
della donna-angelo dello Stilnovo: è dura, crudele, respinge l'amore del poeta e suscita in lui desiderio di
rivalsa e vendetta. Dante si ispira alla tradizione provenzale del trobar clus, soprattutto ad Arnaud Daniel
dal quale trae la forma metrica della sestina e della sestina doppia. L’ultima delle canzoni di Dante Amor,
da che convien pur ch’io mi dolga chiamata canzone montanina perché scritta in mezzo alle alpi, argomento
della poesia è l’amore non corrisposto per una bella donna del Casentino e il dolore che il poeta prova gli
appare più aspro di quello per la nostalgia di Firenze. Altri testi hanno struttura allegorica soprattutto nella
canzone Tre donne intorno al cor mi son venute, in cui Dante immagina che tre figure simboliche la Giustizia
universale, la Giustizia umana e la Legge naturale dialoghino con lui sui mali del mondo. Fra le opere degli
anni che precedono l’esilio ci sono anche due poemetti, il Fiore e il Detto d’Amore per i quali manca la
certezza della sicura paternità. Nel più elaborato dei due compare in due circostanze il nome dell’autore,
una volta come “Durante” e un’altra come “ser Durante”. A questo si sono aggiunti altri indizi e un fitto
reticolato di corrispondenze lessicali, stilistiche e formali. Il Fiore è costituito da 232 sonetti che rielabora il
Roman de la Rose di Guillame de Lorris. Il Detto d’Amore invece è un poemetto costituito da 480 versi in cui
sono analizzati e descritti i risvolti psicologici e gli aspetti sociali dell’esperienza amorosa.
L’altro determinante fatto biografico che segna la vita di Dante è quello dell’esilio, al culmine di un impegno
politico dalla parte dei guelfi bianchi si corona con la nomina a priore ma una settimana dopo
l’insediamento una violenta rissa tra alcuni componenti delle fazioni provoca il conflitto, fra questi c’era
anche Guido Cavalcanti. Nel 1301 Dante è uno dei tre ambasciatori fiorentini inviati a Roma presso il papa
Bonifacio 8, per dissuaderlo dal far giungere a Firenze Carlo di Valois per mettere pace tra le fazioni dei
bianchi e dei neri, il papa trattenne Dante e Carlo di Valois entra a Firenze favorendo l’ascesa al potere dei
neri. Si aprirono processi nei confronti dei bianchi e Dante fu una delle prime vittime perché accusato di
baratteria, multato e mandato in esilio per due anni. Dante che probabilmente era a Siena al momento
della sentenza non presentandosi entro i tre giorni prescritti per pagare la multa viene condannato a morte
con confisca di tutti i suoi beni. Per evitare di essere catturato sceglie la strada dell’esilio dopo diversi anni
l’unica speranza è quella di essere graziato che Dante pensava di guadagnare con un atto di perdono o per
meriti culturali attraverso la stesura di due trattati, il Convivio e il De vulgari eloquentia.
Se nella Vita Nova Dante aveva rivisitato i suoi anni giovanili esaltando l’esperienza amorosa per Beatrice,
nel Convivio ricostruisce la propria identità collocando al centro la maturazione avvenuta dopo la
scomparsa di Beatrice. Dante denomina il suo trattato Convivio perché egli intende allestire un banchetto di
sapere a beneficio dei non letterati che tuttavia siano dotati di cuore gentile, il pubblico cui Dante pensa di
rivolgersi è quello di principi, baroni, cavalieri e verso di loro pensa che sia più conveniente scrivere il
volgare. È un libro in 15 trattati, il primo introduttivo e gli altri 14 a commento di altrettante canzoni, in
realtà si avranno solo 4 trattati perché l’opera resta incompiuta. Nel primo trattato introduttivo, l’autore
dichiara lo scopo dell’opera ovvero fornire le basi della conoscenza a coloro i quali erano stati impediti gli
studi a causa di occupazioni civili e familiari. Il secondo trattato ha inizio con la canzone Voi che ‘ntendendo
il terzo ciel movete, si parla della struttura dell’universo, dei cieli e delle gerarchie angeliche, Dante inoltre
analizza il passaggio dall’amore per Beatrice all’amore per la filosofia. Il terzo trattato introdotto dalla
canzone Amor che ne la mente mi ragiona, vi è una sorta di inno alla sapienza che celebra la filosofia. Nel
quarto si trova la canzone Le dolci rime d’amor ch’io solia, dove si affronta un problema di attualità
all’epoca di Dante: la vera natura della nobiltà. Lo scopo di Dante è quello di difendersi dalle accuse
infamanti seguite alla condanna e all’esilio.
Contemporaneo al Convivio è il De vulgari eloquentia, un trattato in latino in 4 libri anch’esso rimasto
incompiuto al quattordicesimo paragrafo del secondo libro, i destinatari dovevano essere principalmente i
dotti, i chierici coloro che nutrivano forti dubbi sulle possibilità d’impiego del volgare. Nel primo libro
l’autore descrive il proprio ideale linguistico, trattando innanzitutto dell’origine del linguaggio, dalla
creazione di Adamo alla distruzione della torre di Babele, soffermandosi a considerare gli idiomi derivati dal
latino soprattutto il provenzale lingua d’oc, il francese lingua d’oil e l’italiano lingua del sì. Alla ricerca del
cosiddetto “volgare illustre” Dante passa in rassegna 14 varietà di parlate regionali giungendo alla
conclusione che nessuna di esse possiede i requisiti necessari per imporsi sulle altre. Inoltre Dante è
persuaso che sia possibile fondare una lingua comune, non una lingua per la comunicazione quotidiana ma
una lingua per la produzione letteraria, in sintesi il volgare dev’essere illustre perché perfetto e nobiliare,
cardinale poiché deve rappresentare il punto di riferimento degli altri volgari, aulico perché degno di essere
parlato nel palazzo dell’imperatore e curiale in quanto adatto alla corte dell’imperatore. Nel secondo libro
Dante indica i modi in cui il volgare illustre va utilizzato in poesia. L’opera assume la fisionomia di un
manuale di retorica e stilistica nel quale Dante si occupa dei contenuti distribuiti in tre categorie: salus,
venus e virtus dove a ciascuno dei quali corrispondono tre aspetti della poesia: poemi epici, la lirica e la
poesia della rettitudine, il più alto degli stili è il tragico.
L’unico trattato portato a termine da Dante è la Monarchia, un trattato in latino scritto negli anni dell’esilio,
si articola in 3 libri e racchiude le 3 idee fondamentali di pensiero di Dante, nel primo viene affermata la
necessità della monarchia universale per il benessere del mondo, nel secondo sostiene che il popolo
romano è il depositario del potere imperiale infine nel terzo si afferma la reciproca indipendenza tra papato
e impero, proprio in questo libro viene trattata la questione più delicata cioè se l’autorità imperiale venga
direttamente da Dio o per mediazione del papa. Secondo Dante il papa e l’imperatore derivano
direttamente da Dio e quindi la loro autorità provvede a un doppio fine, la felicità terrena e la felicità
eterna. Alla prima sovrintende l’imperatore mentre alla seconda provvede il papa e ciascuna autorità opera
in piena indipedenza e autonomia per fare questo è opportuno che l’imperatore porti verso il papa lo
stesso rispetto che un figlio deve avere nei confronti del padre ed è conveniente che in papa gratifichi
l’imperatore tramite la benedizione.
Sono 13 le Epistole di Dante che ci sono pervenute tutte in latino. La quinta, la sesta e la settima riguardano
la discesa di Arrigo 7 in Italia, le indirizza ai signori d’Italia perché accolgano l’imperatore, ai fiorentini
arroganti nella loro opposizione all’imperatore e all’imperatore stesso per incitarlo a rompere gli indugi.
Importantissima per i suggerimenti utili alla Divina Commedia è l’epistola 13, la più lunga e diretta a
Cangrande della Scala dove gli invia il primo canto del Paradiso. Dell’ultimo scorcio della vita di Dante sono
le due Egloghe in latino, scritte in risposta a due componimenti inviati da Giovanni Del Virgilio, professore
di retorica. Dante nella prima respinge la proposta del suo interlocutore di scrivere in latino il suo poema
mentre nella seconda rifiuta l’invito di trasferirsi da Ravenna a Bologna.
Poco dopo i 40 anni Dante avviò la stesura della Commedia e tale impegno lo accompagnerà fino alla
morte. La cronologia dell’opera è incerta, ma si ritiene che l’Inferno sia stato avviato intorno al 1307,
l’interruzione del Convivio e del De vulgari eloquentia confermerebbero l’urgenza del nuovo impegno. I dati
interni all’Inferno non vanno oltre il 1309, anche se verranno aggiunti pezzi fino al 1314, per quanto
riguarda il Purgatorio sarebbe stato concluso intorno al 1315 mentre per il Paradiso l’invio del primo canto
a Cangrande della Scala e la promessa di altri 10 canti fanno intendere che il Paradiso non sia ancora
portato a termine quindi possiamo dire che l’inizio della composizione va dal 1316 e che la conclusione
coincida con la fine della vita del poeta. Il titolo del libro è “Incomincia la Commedia di Dante Alighieri,
fiorentino di nascita, non di costumi” così Dante designa la sua opera nell’epistole a Cangrande,
“Commedia” mentre l’aggettivo “Divina” che viene usato per primo da Giovanni Boccaccio diventerà parte
del titolo dopo la sua apparizione sul frontespizio dell’edizione veneziana del 1555 curata da Lodovico
Dolce. Perché commedia? Lo si può motivare sempre grazie all’epistola inviata a Cangrande, Dante
distingue la tragedia dalla commedia, la prima tratta tematiche drammatiche e generalmente si conclude in
maniera tragica, la commedia invece tratta tematiche molto più leggere e si conclude spesso con un lieto
fine. Tuttavia nel Paradiso Dante avverte l’inadeguatezza del titolo e cercherà una definizione più adatta
“poema sacro” cioè ispirato da Dio. Per quanto riguarda il modus loquendi, cioè lo stile, Dante è favorevole
ad uno stile umile e piano per questo sceglie il volgare in grado di essere compreso da tutti. La mirabile
visione con cui li chiude la Vita Nova accompagnata dalla promessa di celebrare la donna amata si compie
nella Commedia con il ritorno di Beatrice che guida e conduce la conclusione del viaggio del poeta. Visione
e viaggio sono i due grandi modelli a cui Dante fa riferimento e sono le sue indicazioni a orientarci.
Suggerisce anche le fonti da cui fa riferimento come nel secondo canto, avendo dei dubbi in merito alla
possibilità di effettuare il viaggio ultramondano, si mette a confronto con Enea e San Paolo, anche Virgilio e
l’Eneide sono una delle fonti principali come anche Ovidio e Lucano. La Divina Commedia è un poema di
14.233 versi diviso in 3 cantiche di 33 canti ciascuno tranne l’Inferno che ne ha 34 perché il primo è
introduttivo. 9 sono le parti dei tre regni ultraterreni l’Inferno è costituito da un vestibolo e nove cerchi è il
luogo della dannazione eterna per violenti e fraudolenti. Le parti del Purgatorio sono 9 è la spiaggia dove
approdano le anime l’antipurgatorio, le 7 cornici dove si purgano dai sette peccati capitali con l’aggiunta del
paradiso terrestre. Il Paradiso invece è composto dai 9 cieli del sistema tolemaico più l’Empireo dove le
anime di presentano al poeta secondo le loro attitudini virtuose, così si avranno gli spiriti secolari, gli spiriti
attivi e gli spiriti contemplativi. Si ricorderà inoltre che in tutte e tre le cantiche il canto 6 è di argomento
politico, il vero incontro con i personaggi collocati nei tre regni avviene sono nel terzo canto di ciascuna
cantica. Ogni Cantica termina con la parola «stelle», nel cinquantesimo e il cinquantunesimo canto del
Purgatorio si affrontano i problemi fondamentali del libero arbitrio e nella parte centrale del Paradiso
Dante colloca l’incontro con il trisavolo Cacciaguida dal quale apprende la giustificazione del suo viaggio e
del poema.
L’Inferno mette Dante nella condizione di vedere quale sia il destino dei peccatori, immagina di compiere il
suo viaggio a 35 anni nel 1300 anno del Giubileo. Il viaggio si svolge in 7 giorni, lo stesso numero di giorni
impiegati da Dio nella creazione. Dante smarrito in una selva oscura pensa di poter trovare salvezza
dirigendosi verso un monte che vede illuminato dai raggi del sole. Il suo cammino però è ostacolato da tre
fiere che gli si parano davanti: una lonza l’invidia o la lussuria, il leone la superbia e una lupa la cupidigia,
soprattutto quest’ultima lo spaventa e Dante è costretto a tornare indietro. Viene soccorso da un’ombra
quella di Virgilio, inviato in suo aiuto da Beatrice e dalla Vergine. Virgilio avverte Dante che la lupa, cioè
l’avarizia, sarà cacciata dal mondo dal un Veltro (cane da inseguimento), ma intanto la salvezza per lui potrà
avvenire solo dopo che avrà percorso i regni della dannazione e della purificazione. Dante rappresenta
l’Inferno come una profonda voragine a forma di cono, che è stata aperta sotto Gerusalemme da Lucifero
quando fu cacciato d’Empireo insieme agli angeli ribelli e fu mandato a conficcarsi al centro della terra. I
dannati sono distribuiti lungo i cerchi secondo un criterio di valutazione delle colpe. Viene considerata la
diversa gravità del male, che va in ordine crescente. Man mano che si scende ci si allontana da Dio e ci si
avvicina a Lucifero, cresce la gravità del peccato. I peccatori scontano una pena stabilita dalla legge del
contrappasso che collega colpa e pena. Dopo essere entrati nell’Inferno e aver superato l’Antinferno dove
vi sono le anime degli angeli rimasti neutrali e dei pusillanimi condannati a correre incessantemente dietro
a uno stendardo e a essere martoriati da vespe e mosche. Virgilio e Dante, condotti dal traghettatore
Caronte, attraversano l’Acheronte ed entrano nel primo cerchio infernale, il Limbo dove si trovano le anime
di bambini e di adulti innocenti che non furono battezzati. Nel buoi spicca una zona luminosa, un castello
che ospita gli spiriti magni dei sapienti, degli eroi e dei poeti antichi tra cui lo stesso Virgilio. Gli incontinenti
occupano i cerchi dal secondo al quinto in questa successione: nel secondo, guidato da Minosse ci sono i
lussuriosi travolti da una bufera tra i quali Paolo e Francesca. Nel terzo sono puniti i golosi sotto una pioggia
lurida mista di acqua e fango tra cui il concittadino Ciacco che predice le sventure che accadranno a Firenze
nei primi anni del Trecento a seguito degli scontri tra i bianchi e i neri. Nel quarto guidato da Plutone ci
sono gli avari e i prodighi costretti a spingere con il petto enormi massi e a insultarsi a vicenda, sono
rappresentati come folla anonima da cui si distinguono i papi, i cardinali e gli uomini di chiesa. Nel quinto
costituito dalla palude Stigia ci sono gli iracondi e gli accidiosi, immersi nel fango si straziano crudelmente
tra di loro gorgogliando parole di dolore che fanno ribollire la superficie tra i quali Filippo Argenti. Virgilio e
Dante giungono nei pressi della città di Dite e qui una schiera di diavoli gli impedisce l’accesso, l’intervento
di un Messo celeste mette in fuga i diavoli e consente ai due di entrare in città. Dinanzi a loro si presenta
una pianura popolata di sepolcri infuocati: è il sesto cerchio, dove vengono puniti gli eretici fra i quali gli
epicurei, cioè coloro che non hanno creduto all’immortalità dell’anima, dagli avelli roventi emerge la figura
di Farinata degli Uberti, appartenente alla generazione precedente a quella di Dante e, nel corso di un
contrasto politico tra i due, affianco di Farinata emerge Cavalcante Cavalcanti il padre di Guido. Nel settimo
cerchio, guidati dal Minotauro ci sono i violenti, che vengono ripartiti in 3 gironi a seconda della loro
bestialità. Prima abbiamo i violenti contro il prossimo cioè i tiranni, gli omicidi e i predoni immersi nel
sangue bollente del Flegetonte e colpiti da saette. Seguono i violenti contro se stessi i suicidi e gli
scialacquatori i primi trasformati nelle piante di una selva, i secondi costretti a correre inseguiti da cagne
fameliche. Nell’ultimo ci sono i violenti contro Dio, contro la natura e contro l’arte: i bestemmiatori, i
sodomiti tra cui Brunetto Latini e gli usurai condannati in un deserto su cui si riversa una pioggia di fuoco.
Un mostro infernale Gerione, si carica sulla schiena Virgilio e Dante per portarli nell’ottavo cerchio, sede dei
fraudolenti che esercitarono la loro malizia contro chi non aveva motivo di fidarsi di loro, divisi in 10 bolge
che formano quell’area infernale chiamata Malebolge. I dannati che le occupano sono ruffiani e seduttori
sferzati da demoni, adulatori tuffati nel letame, simoniaci conficcati a terra con la testa in giù e con la piante
dei piedi bruciate da fiamme, indovini con il volto girato dalla parte della schiena, barattieri immersi nella
pece bollente, ipocriti gravati da pesanti cappe di piombo dorate e costretti a camminare lentissimamente,
ladri continuamente trasformati in serpenti e altri esseri mostruosi, consiglieri fraudolenti avvolti da
fiamme, seminatori di scandali straziati da colpi di spada e i falsari che sono distinti in: falsificatori di metalli
colpiti da lebbra o scabbia, falsificatori della persona, delle monete e della parola. Nel nono cerchio sono
puniti i peccatori che si macchiarono della colpa di frode. Sono i traditori che Dante vede conficcati nel
ghiaccio del lago Cocito, diviso in 4 zone: la Caina dove stanno i traditori dei parenti, l’Antenora occupata
dai traditori politici, la Tolomea dove sono i traditori degli ospiti e la Giudecca abitata dai traditori dei
benefattori. All’estremo c’è il traditore di Dio, Lucifero con tre facce dove in ciascuna delle sue bocche si
trova un traditore: Bruto e Cassio traditori dell’impero e Giuda traditore di Cristo. Virgilio e Dante
completano la loro discesa scivolando lungo il corpo di Lucifero raggiungendo il centro della terra e salendo
lungo le gambe del diavolo giungono alla montagna del Purgatorio.
Ai piedi della montagna del Purgatorio, Dante e Virgilio incontrano Catone l’Uticense che è il guardiano del
luogo e che sollecita Virgilio a lavare la caligine infernale dal volto di Dante e a cingerlo di un giunco in
segno di umiltà. Giunge un angelo che fa sbarcare le anime raccolte alla foce del Tevere e che sono
condotte verso l’espiazione. Fra queste c’è anche quella del musico Casella che intona la canzone Amor, che
ne la mente mi ragiona. Si procede verso l’Antipurgatorio dove sono le anime di coloro che tardarono a
pentirsi, i due incontrarono gli scomunicati tra di loro c’è il re Manfredi che chiede che il suo tempo di
attesa si abbreviato dalle preghiera della figlia, i pigri, i morti di morte violenta e i principi negligenti.
Davanti alla porta che consente l’accesso al monte del Purgatorio c’è un angelo portiere il quale incide sulla
fronte di Dante sette P indicative del peccato: queste verranno successivamente cancellate dagli angeli che
custodiscono le sette cornici in cui è suddivisa la montagna, articolata seguendo l’ordine dei vizi capitali.
Nella prima cornice espiano la propria colpa i superbi costretti a camminare ricurvi sotto macigni. Nella
seconda cornice sono puniti gli invidiosi con gli occhi cuciti da un filo di ferro. Nella terza cornice ci sono gli
iracondi immersi nel fumo, vi si trova l’angelo della pace. La quarta cornice è occupata dagli accidiosi cioè
coloro i quali ebbero scarso amore verso le cose divine. Nella quinta cornice troviamo gli avari e i prodighi
fra cui Stazio il quale ha compiuto il cammino dell’espiazione e pertanto si unisce a Dante e Vergilio
nell’ascesa al monte. Nella sesta cornice vi sono i golosi il cui volte è scavato da un’impressionante
magrezza, per questa ragione Dante riconosce a stento Forese Donati. Nella settima cornice troviamo i
lussuriosi immersi tra le fiamme fra di loro ci sono i grandi poeti d’amore Guido Guinizzelli e Arnaldo
Daniello che si rivolge a Dante i provenzale. A Dante viene cancellata l’ultima P sulla fronte e quindi gli è
consentito di salire al Paradiso Terrestre. Gli appare al di là del fiume Lete una donna che solo alla fine della
cantica dirà il suo noma: Matelda che rappresenta l’immagine della felicità terrena mentre su un carro
avvolto da una nuvola di fiori compare Beatrice. Smarrito il poeta non può trovare appoggio in Virgilio
perché si è congedato da lui. D’ora in avanti il cammino dovrà essere guidato dalla fede cioè da Beatrice che
rimproverandolo il poeta gli confessa le sue colpe dopo di che viene immerso nel Lete dove viene
cancellato il ricordo del male successivamente insieme a Stazio beve l’acqua del fiume Eunoè che ravviva il
ricordo del bene. Dopo questi riti Dante può considerarsi puro e disposto a salire le stelle.
Anche le anime del Paradiso pur avendo tutte le loro dimora nell’Empireo, più o meno vicino a Dio vengono
incontro a Dante. Nel primo cielo quello della Luna appaiono le anime di coloro che vennero meno
involontariamente ai voti religiosi. Nel secondo cielo quello di Mercurio vi sono gli spiriti di coloro che
operarono virtuosamente per amore di fama e di onore nel mondo. Nel terzo cielo quello di Venere si
trovano le luci degli spiriti amanti. Nel quarto cielo quello del Sole appaiono gli spiriti sapienti disposti sotto
forma di corone luminose. Nel quinto cielo quello di Marte fiammeggiano gli spiriti guerrieri che
combatterono per la fede di Cristo fra i quali spicca l’anima del trisavolo Cacciaguida, morto in crociata.
L’antenato dopo aver evocato la Firenze dei suoi tempi profetizza a Dante l’esilio e la sua missione di poeta.
Nel sesto cielo quello di Giove sprigionano la loro luminosità gli spiriti giusti che per parlare a Dante si
dispongono a forma di aquila. Nel settimo cielo quello di Saturno appaiono disposti su una scala altissima di
cui non si vede la fine gli spiriti contemplativi. Nell’ottavo cielo quello delle stelle fisse Dante contempla il
trionfo di Cristo e di Maria dopo essere stato esaminato da san Petro sulla fede, san Giacomo sulla speranza
e san Giovanni sulla carità. Nel nono cielo detto cristallino e Primo Mobile vi è la sede delle gerarchie
angeliche. L’ultimo è l’Empireo dove le anime dei beati formano una candida rosa, al poeta si affianca sa
Bernardo che ha preso il posto di Beatrice, andata a sistemarsi al posto assegnatole nella rosa e che si
rivolge alla vergine pregando affinché Dante possa accedere alla contemplazione di Dio. La grazia viene
esaudita e il poeta ha la visione di Dio e dei misteri della trinità.

L’Inferno è il regno del male e del negativo, del buio e dell’assenza di speranza, il senso dell’eternità
colpisce Dante nel momento in cui varca la porta così come lo riempie di scoraggiamento la grande
moltitudine delle anime dei dannati per sempre consegnati all’eternità a causa della colpa commessa e
nell’irrimediabilità del loro peccato. Su di loro grava il dramma della punizione, il male commesso si
perpetua nel castigo eterno. In uno scenario in cui si susseguono bufere, piogge di fuoco, laghi bollenti si
muove Dante. Nel canto XXVI fra i fraudolenti prende parola Ulisse, e si comprende che mentre Dante ha
temuto che il suo viaggio nell’aldilà potesse essere ritenuto folle, per Ulisse il traguardo del folle volo è il
naufragio. La politica occupa i versi dell’Inferno e coinvolge Dante nelle profezie che lo riguardano e che
sono annunciate da Ciacco, Farinata, Brunetto Latini e Vanni Fucci. Il Purgatorio si distingue per la
dimensione della temporalità estranea agli altri due regni infatti nel Purgatorio si registra un percorso di
espiazione e purificazione scandito dal ritmo di un tempo che fluisce. Perciò le anime sono preoccupate di
farsi ricordare ai vivi affinché il loro cammino venga reso più rapido dalle preghiere. Gli incontri del poeta
con le anime si venano di nostalgia e si riscaldano dal sentimento dell’attesa, la cantica si configura come la
più umana. Il paesaggio del Paradiso invece, si istituisce nell’incrocio di due coordinate: la luminosità e la
musica che riflettono la crescita di un amore. In particolare la successione dei vari cieli scandisce le tappe di
avvicinamento alla divinità. La commedia assume la configurazione di un poema totale perché in essa si
integrano le esperienze cruciali di Dante e le sue idee. Dante è protagonista in prima persona del viaggio
dell’aldilà è anche lo sceneggiatore e il regista dell’avventura oltremondana, la commedia costituisce il libro
definitivo del poeta, quello che riassume la sua attività di scrittore e la sua vicenda umana. Nell’opera il
numero di latinismi è vasto, straordinario è anche il lavoro metrico, sfrutta a pieno le potenzialità della
terzina e usa lo schema ABA/BCB/CDC. Dante dedica circa 15 anni della sua vita alla stesura e alla
composizione della commedia, merita di essere riconosciuto come il padre della lingua italiana.
FRANCESCO PETRARCA nasce ad Arezzo nel 1304, nel 1312 si trasferisce con la famiglia a Carpentras vicino
Avignone perché il padre aveva ottenuto un incarico alla corte del papa Clemente 5. Assieme al fratello
studia legge all’università di Bologna. Alla morte del padre nel 1326 torna ad Avignone, l’anno successivo il
6 aprile 1327, venerdì santo nella chiesa di Santa Chiara incontra Laura la figura femminile che canterà nelle
sue poesie. Nel 1330 prende gli ordini minori entrando a servizio del cardinale Giovanni Colonna sperando
di ottenere carriera nella chiesa. Il servizio per il Colonna non è pesante e Petrarca ha molto tempo per gli
studi, gli incontri, le amicizie e i viaggi. È di questi anni la sua fitta corrispondenza epistolare con i dotti del
tempo. Nel 1337 giunge a Roma successivamente si stabilisce a Valchiusa vicino alle sorgenti del fiume
Sorga. Nella quiete del luogo Petrarca concepisce molte delle sue opere e comincia a scrivere il De viris
illustribus e il poema latino Africa. È proprio quest’ultimo testo in cui si concentra maggiormente anche
perché la circolazione di alcuni brani del poema e il riscontro favorevole che ottengono alimentano il suo
desiderio di ottenere la laurea di poeta. L’opportunità gli viene offerta nel 1340 dall’università di Parigi e dal
senato di Roma, Petrarca su consiglio del cardinale Colonna il poeta sceglie Roma ma prima della cerimonia
ufficiale si reca a Napoli per essere esaminato dal re Roberto d’Angiò che lo dichiara degno dell’alloro, la
cerimonia si svolge in Campidoglio nel 1341 e Petrarca riceve l’alloro poetico. Petrarca scrive il De viris
illustribus dal 1338 racconta la vita di Scipione l’Africano che costituisce il punto di partenza per una serie di
23 biografie di personaggi del mondo romano, da Romolo a Catone il nucleo poi si allarga nel 1351,
vengono aggiunte altre 12 biografie appartenenti alla bibbia e alla mitologia classica da Adamo a Ercole. Nel
1347 il popolo porta al potere Cola di Rienzo, eletto tribuno della libertà e occupa il Campidoglio sperando
di sottrarre la città alle lotte delle diverse famiglie nobili. Petrarca sostiene con entusiasmo l’impresa
fiducioso che questo possa costituire il primo passo verso il ritorno del papa a Roma, così si mette in viaggio
verso Roma ma non fa in tempo ad arrivare perché giunto a Genova viene informato del fallimento
dell’impresa. L’anno successivo il 1348, anno della peste nera e della morte di Laura. Nel 1350 si reca a
Roma per il giubileo, sosta a Firenze dove conosce Giovanni Boccaccio, tra i due nasce una profonda
amicizia attestata da diverse lettere che si scambiano negli anni successivi. Nel 1353 si trasferisce a Milano
ospite dell’arcivescovo Giovanni Visconti, qui si ferme per 8 anni alla fine nel 1370 si stabilisce
definitivamente ad Arquà sui Colli Euganei dove, accudito dalla figlia Francesca trascorre i suoi ultimi anni
dedicandosi allo studio, alla lettura e alla scrittura, fino alla morte avvenuta nel 1374.
L’Africa è un poema in esametri con il quale Petrarca coltiva l’ambizione di far rinascere in tempi moderni
l’epica classica. Il modello di riferimento è l’Eneide, perché avrebbe dovuto constare i 12 canti ma l’Africa
resta un opera incompiuta e i 9 libri che ci sono rimasti saranno resi pubblici nel 1396 da Pier Paolo
Vergerio. Nel poema le due anime petrarchesche, quella dello studioso e quella dell’uomo irrequieto
anziché fondersi, si fronteggiano e non trovano un elemento di comunicazione. L’opera affronta il tema
della seconda guerra punica facendo riferimento alle fonti storiche di Tito Livio, il protagonista è il generale
romano Scipione l’Africano che si dirige a Zuma mentre Annibale si trova in Italia con il fratello Magone.
Dopo aver raccontato la battaglia, Petrarca immagina che Scipione incontra Ennio e che lo accompagni in
una sorta di viaggio profetico dove gli mostra tutti i porti e autori che racconteranno di Roma. I due episodi
più notevoli restano comunque la morte di Magone, narrata in maniera elegiaca con toccanti accenni alla
vanità delle cose, e la tragica storia d'amore di Sofonisba, di profonda tristezza.
Petrarca scrive quasi tutte le sue opere il latino, a lui di deve anche la fondazione dell’epistolario, infatti è il
primo a non abbandonare le lettere provvedendo invece a sistemarle in raccolte organiche. Interessanti
sono le tipologie e il metodo di scrittura di queste lettere che, indirizzate ad amici e persone illustri,
tendono ad allargarsi in un discorso culturale e morale. Per le numerose lettere si hanno più redazioni che
documentano aggiustamenti, rifiniture, eliminazione di nomi e all’eliminazione di particolari privati. La
silloge fondamentale delle lettere petrarchesche è costituita dai Familiarium rerum libri che comprendono
350 epistole in latino, il poeta vi racconta l’ascesa al monte Ventoux da lui compiuta insieme al fratello
Gherardo sottoposta a cambiamenti perché il fratello decide di farsi monaco certosino. Le 19 lettere che
compongono la silloge Sine nomine è del 1342, si intitola così perché vengono omessi i nomi dei destinatari,
in quanto si trattava di lettere di contenuto politico. Le 120 epistole distribuite nei 17 libri sono raccolte
nelle Seniles, è una lettera del tutto particolare in cui il nucleo originale è stato revisionato e arricchito ma
non portato a termine e pertanto la lettera non è stata inclusa nelle Seniles. Si tratta dell’Epistola ad
posteros o Posteritati, un autoritratto da trasmettere ai posteri. Hanno anche un peso specifico le omissioni
cioè i silenzi su alcuni episodi della partecipazione alla vita politica.
Petrarca si segnala per alcuni interventi dove afferma le proprie idee. Ricordiamo i 4 libri delle Invective
contra medicum quemdam, un trattato in risposta alle critiche rivoltegli da un medico in particolare contro
la medicina in generale. In risposta a 4 giovani veneziani che l’avevano giudicato ignorante scrive il De sui
ipsius et multorum ignorantia, sostenendo con notevole perspicacia spunti di Platone e Aristotele.
Le Epistole metrice sono 66 lettere raccolte in tre libri organizzati in una sorta di diario privato con
annotazioni che rendono questi testi assai preziosi. Il Bucolicum carmen sono 12 egloghe d’impronta
virgiliana è un poema pastorale. Scritto nel 1346 è il De vita solitaria, composto in due libri tesse l’elogio di
uno dei suoi miti essenziali, quello della vita solitaria. Nel De otio religioso invece il tema principale è quello
della celebrazione dell’ideale monastico. Nel De remediis utriusque fortune Petrarca organizza l’insieme
delle sue riflessioni morali, diviso in due parti è un libro sui due volti della fortuna, sulla buona e sulla
cattiva sorte. La prima parte contiene 122 dialoghi tra ragione, gaudio e speranza dove prende in
considerazione le gioie della vita, la seconda parte contiene 131 dialoghi tra speranze, dolore e timore dove
passa in rassegna tutte le occasioni di pena. Nel Secretum sono tre le fasi di redazione, dal 1347 al 1353 con
revisione del 1358. Ripartito in tre libri, il modello è quello delle visioni infatti al poeta appare una donna, la
verità che assiste muta accompagnata da sant’Agostino che per tre giorni lo sottoporrà ad esame. Nel
primo libro l’accusa principale che Agostino indirizza a Petrarca riguarda la debolezza della sua volontà. Nel
secondo libro si analizzano i sette peccati capitali con particolare riferimento all’accidia. Nel terzo libro
Agostino mette alle strette Petrarca imputandogli i peccati per lui più rovinosi: l’amore per Laura e il
desiderio di gloria. Per Petrarca dall’ultimo non c’è soluzione perché anche se riconosce i propri peccati si
dimostra impotente a resistere alle tentazioni.
La produzione in vogare si riduce a solo due titoli, uno è il capolavoro dei Rerum vulgarium fragmenta, la
raccolta di rime in cui Petrarca deve la sua fama universale l’altro è il poema dei Trionfi. Petrarca comincia a
scrivere versi in volgare da quando è studente a Bologna fino alla morte, impegnandosi in 9 fasi di
elaborazione i cui estremi sono rappresentati da un primo nucleo di 23 componimenti fino all’ultima
raccolta risalente ai mesi estremi della vita, dove il poeta sistema, sotto il titolo di Rerum vulgarium
fragmenta 366 poesie, di cui 317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate e 4 madrigali. Petrarca manifesta il
suo spirito di innovazione poiché per primo concepisce l’idea di costruire un libro in versi, una serie di rime
sparse. Petrarca è il fondatore di quel singolare contenitore di componimenti poetici che è il Canzoniere, il
Canzoniere si impone come modello destinato a imitazioni nei secoli a venire. Due sembrano essere le
componenti basilari che caratterizzano un canzoniere: una contenutistica e una strutturale. Al primo
aspetto appartiene la funzione di filtro lirico dell’autobiografia, al secondo aspetti si qualifica nella sua
struttura come opera chiusa. La suddivisione della raccolta avviene in due parti: la prima è detta delle rime
in vita di madonna Laura che coprono un periodo di 21 anni, la seconda in morte di madonna Laura che
coprono un periodo di 10 anni. Dell'opera esiste l'autografo di Petrarca e l'edizione critica si basa
principalmente sul Codice Vaticano Latino 3196, scritto in gran parte di suo pugno e che contiene anche le
annotazioni e le correzioni apportate dal poeta. Petrarca si apre a un rapporto di confessione e di dialogo
con chi avrà modo di leggere i suoi versi, l’opera si propone come una raccolta di poesie d’amore dedicate a
Laura, personaggio centrale della raccolta, che agisce a più livelli nei confronti del poeta: sul piano
sentimentale suscita i suoi affanni, sul piano conoscitivo provoca la sua analisi interiore e sul piano poetico
ispira i suoi versi. Laura viene descritta spesso coi tipici caratteri della donna-angelo stilnovista, cioè lunghi
capelli biondi o capei d’oro, occhi soavi, bellezza straordinaria. Anche la natura è sottoposta a un processo
di stilizzazione, i paesaggi sono spesso sfumati, i luoghi solitari come nel sonetto Solo e pensoso i più deserti
campi dove il poeta cerca la solitudine e il contatto con la natura oppure anche luoghi chiusi come nel
sonetto O cameretta che già fosti un porto dove la cameretta da luogo di rifugio diventa luogo di sofferenza
e in lui si apre un nuovo desiderio, la ricerca dei compagni per alleviare i suoi tormenti amorosi. L’amore del
Petrarca è un amore che non vive della presenza perché si nutre di memoria e sogno come nella canzone
più famosa Chiare, fresche e dolci acque dove il poeta desidera essere sepolto alla sua morte a Valchiusa
luogo dove Laura gli era apparsa in tutta la sua bellezza. Punto terminale del desiderio di Laura, sempre
destinato all’irraggiungibilità è il sonetto Movesi il vecchierel canuto e bianco dove viene descritto un
vecchio che mosso dalla fede decide di recarsi in pellegrinaggio a Roma. L’obbiettivo dell’anziano era quello
di venerare una reliquia come se fosse il volto di Cristo infatti il poeta paragona se stesso al vecchietto
poiché cerca di vedere il volto di Laura nelle altre donne. Nella seconda parte del Canzoniere l’esigenza di
autoanalisi si fa più incombente, con la scomparsa della donna il poeta porta allo scoperto le ragioni del suo
malessere. La poesia conclusiva è la canzone Vergine bella, che di sol vestita. È una canzone di preghiera, in
cui il poeta chiede alla Madonna di "liberarlo" dall’amore terreno per Laura per lui motivo di innumerevoli
patimenti e di intercedere presso Dio affinché accolga il suo spirito in pace. Infatti pace è la parola
conclusiva dell’intero Canzoniere, la stessa parola chiude un altro testo di Petrarca che affronta un
argomento estraneo alla lirica amorosa, un testo di impegno civile ovvero la canzone politica per
eccellenza, Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno, è rivolta ai signori d’Italia e li esorta a promuovere la
pace ritenuta indispensabile per la serena convivenza civile. Dal punto di vista stilistico Petrarca va in una
direzione opposta rispetto a quella di Dante. Per Dante il volgare è una scelta netta e decisa, lui è il poeta
della sperimentazione continua attuata attraverso il plurilinguismo e il pluristilismo mentre per Petrarca al
contrario il volgare deve tendere a ridurre la perfezione lessicale e strutturale del latino. La rigorosa
selezione a cui Petrarca si sottopone si traduce in una lingua che impiega un numero ristretto di vocaboli, il
poeta rifiuta ogni parola troppo precisa, realistica ed espressiva, ed evita ogni contro tra i livelli stilistici, per
questo si parla di unilinguismo. Notevole è anche l’impego del sonetto, i temi sono i sentimenti del poeta.
Al contrario Petrarca non raggiunge il bersaglio, perché alla sua mentalità risulta del tutto estranea la
disponibilità a inquadrare la complessità del reale. La prova della sua inadeguatezza è data dai Trionfi,
tramandati dai manoscritti con il titolo latino Triumphi. Petrarca vi lavora fino agli ultimi anni della sua vita
anche se l’opera rimane incompiuta. Diviso in 6 parti Petrarca si rifà alla Commedia dantesca e il modello
viene indicato a partire dalla scelta dello schema metrico, le terzine di endecasillabi a rima incatenata.
Petrarca sviluppa il poema lungo la sequenza di sei quadri che rappresentano sei trionfi, allineati in senso
discendente perché quello successivo indica il superamento di quello precedente. Il primo è il trionfo
dell’amore dove le vittime d’amore rinchiuse in un carcere figura Petrarca stesso. Nel secondo trionfo della
pudicizia i prigionieri sono liberati da Laura. Nel terzo trionfo della morte Laura viene sconfitta dalla morte.
Nel quarto trionfo della fama sconfigge la morte seguita da tre cortei rappresentati dagli antichi romani, i
personaggi antichi non romani e quelli medievali. Nel quinto il trionfo del tempo che sconfigge la fama e
copre di oblio gli eventi umani infine nel sesto il trionfo dell’eternità che sconfigge il tempo e celebra il
trionfo della gloria di Dio. Le tematiche fanno riferimento al contrasto tra mondo terreno e valori eterni, ma
l’opera risulta molto limitata e molto fredda. Lo stile e basso e utilizza un linguaggio volgare con termini
ripetuti molte volte.

Fin dalla prima diffusione della commedia dantesca fervido è il lavoro di chiosatori e commentatori. Si
limitano al solo Inferno le chiose il volgare del figlio del poeta Jacopo Alighieri, e il commento in latino di
Graziolo de’ Bambaglioli che nel 1323 esporta la commedia a Bologna. Jacopo della Lana è uno dei primi a
commentare integralmente il poema. Invece il commento in latino si deve al figlio Pietro Alighieri il quale
insiste nel dimostrare l’elevata cultura del padre. Negli anni 40 del secolo il frate Guido da Pisa ne accentua
la fisionomia del capolavoro dantesco, qualche anno prima si ha la prima delle tre redazioni che va sotto il
nome di Ottimo secondo la designazione dell’Accademia della Crusca ma il nome è di Andrea Lancia,
mentre nella seconda metà del secolo i commenti danteschi hanno come punto di riferimento
l’appassionato lavoro del Boccaccio, ne è prova il commento di Benvenuto da Imola. Uno dei poemi
allegorico-didattico più ambizioso è quello di Fazio degli Uberti con il Dittamondo, poema composto tra il
1345 e il 1367 anno in cui il poeta muore e rimarrà quindi un lavoro incompiuto, narra di un viaggio
condotto in prima persona, nel mondo dei vivi, il poeta immagina di incontrare prima Tolomeo, che gli
descrive la terra e poi il geografo Solino che gli illustra le parti del mondo e il Paradiso Terrestre. Non più di
menzione spetta al Quadriregio scritto dal monaco Federico Frezzi, un poema che si articola in 4 libri
corrispondenti i regni attraverso cui il poeta viaggia guidato da Minerva. Tra gli oppositori della commedia
dantesca è da ricordare Cecco d’Ascoli, egli scrive l’Acerba un poema rimasto interrotto al quinto libro,
spiega in opposizione a Dante l’obiettività scientifica contrapposta alla finzione allegorica. Nell’area toscana
i poeti si incentrano sullo stilnovo o sulle tradizioni di canzoni del risentimento morale e politico, per questo
il contributo toscano della poesia è di modesto rilievo. Tra questi si ricorda Fazio degli Uberti il cui libro di
versi fa riferimento ai modelli di Guittone e Cavalcanti per le rime amorose e Dante per i temi civili. Lo
stesso per Matteo Frescobaldi, con le stesse influenze di Fazio. La memoria dantesca agisce anche in
Giannozzo Sacchetti, autore del Trecentonovelle, il quale affronta con crudezza il disfacimento del corpo
femminile e la fortuna, del fratello di Giannozzo, Franco Sacchetti ricordiamo il Libro delle Rime dov’è
rivelatore di una duplice anima, quella del letterato e quella del moralista. La lezione petrarchesca si
percepisce prevalentemente in Senuccio del Bene, data la stretta amicizia con Petrarca. Tra i poeti della
seconda metà del secolo la poesia d’amore agirà più a fondo con l’eredità di Cino da Pistoia, è quello che
succede a Buonaccorso da Montemagno. Tra la fine del trecento si racconta agli stilnovisti attraverso
Petrarca, Cino Rinuccini. L’area veneta presenta una forte influenza dantesca, un amico e ammiratore di
Dante è Giovanni Quirini alla cui morte scrive un commosso compianto mentre Niccolò Quirini recupera
moduli arcaici entro i quali penetra una sensibilità che deriva da Cino da Pistoia. Niccolò de Rossi,
trevigiano, è il personaggio di maggior spicco, esporta la cultura fiorentina nella sua zona. A lui si deve
l’iniziativa più notevole per la diffusione della letteratura toscana in veneto, fondamentale è l’allestimento
del manoscritto Barberino 3953 che egli stesso si preoccupa di trascrivere in parte. Le sue rime sono
eterogenee nella maniera e nello stile, è influenzato da Cavalcanti, Dante stilnovista e comico oltre che dai
poeti giocosi. Nell’area nord-orientale dell’Italia avviene la diffusione dei poemi in franco-veneto con
interessi per le armi e l’amore, all’interno di questa produzione spiccano i Geste Francor che rielaborano 7
storie. Molto più elaborata è l’Entrèe d’Espagne, scritta da un anonimo scrittore padovano dotato della
cultura delle Chanson de Geste, che racconta gli avvenimenti che precedono la rotta di Roncisvalle, il testo
poi troverà continuazione per mano di Niccolò da Verona. Una delle novità del 300 sono i Cantari, coloro
che vagano per le piazze raccontando poesie e canzoni di tematica cavalleresca e che ricorrono all’impiego
dell’ottava rima. Uno dei primi cantari e il Cantare di Fiorio e Biancifiore. Bel Gherardino che sviluppa il
tema dell’amore di un cavaliere per una fata e La donna del Vergiù. I cantari si basano sui romanzi bretoni,
sulle leggende carolingie, sulla storia antica e sulla mitologia classica, da ricordare è Antonio Pucci che
scrive cantari genere leggendario e storico. Bindo Bonichi è un autore di canzoni pedanti e monotone, di
sonetti animati e arguti. Coetaneo di Dante, nelle sue opere tende alla semplificazione ed alla
banalizzazione dei problemi, nonostante emerga in alcune una moralità angusta e conservatrice turbata
dall’immobilità della struttura sociale. Le rime di Antonio Pucci rappresentano l’orgoglio municipale e la
realtà quotidiana fiorentina descrivendo con un incredibile umanità vari mestieri e occupazioni, il suo
carattere popolare lo porta ad inserire Firenze al centro del mondo, scrivendo eventi naturali e politici. Le
signorie del 300 favoriscono l’espandersi del fenomeno del poeti cortigiani, poeti che giravano di corte in
corte e scrivevano sotto servizio dei signori. Di qui le cosiddette canzoni disperate, definite così perché
piene di maledizione indirizzate contro tutto e tutti. Tra questi si ricorda Antonio da Ferrara autore della
canzone Le stelle universali è ciel rotanti, Francesco di Vannozzo con la sua vita sregolata e disordinata, gira
numerose corti dove dedica poesie ai signori con scopi di adulazione. La sua poesia è caratterizzata da vere
e proprie stravaganze espressive. Nella seconda metà del 300 si situa la vita errabonda e drammatica di
Simone Serdini conclusa con il suicidio. Egli scrive moltissimo su richiesta dei committenti e compone alcuni
poesie d’amore per donne mai conosciute e a pagamento. Agli inizi del 300 si manifesta un episodio
singolare della poesia del secolo: l’adozione della lingua latina. Il centro è a Padova, in un ambiente che
assume la convinzione della superiorità del latino nei confronti del volgare che prefigura istanze
dell’Umanesimo. Si ricordano Lovato de’ Lovati di cui restano alcuni esametri di un racconto delle vicende
di Tristano e Isotta. E Albertino Mussato che incoronato poeta nel 1315 desidera riproporre la grandezza e
la solennità del teatro classico.

GIOVANNI BOCCACCIO: nasce a Firenze nel 1313, il padre era mercante e nel 1327 lo porta con se a Napoli
dove si era trasferito come rappresentante della compagnia dei Bardi, potenti banchieri fiorentini,
sperando che il figlio, attraverso la pratica, potesse appassionarsi agli affari e al commercio. L’interesse per
la letteratura avrà però il sopravvento. In questi anni leggerà molti classici latini e greci, ben accolto alla
corte di Roberto 2 d’Angiò stringe amicizia con persone importanti. Frequentando i corsi giuridici conosce
Cino da Pistoia suo professore di diritto, attraverso Cino ha modo di avvicinarsi al Dolce stil Novo e a Dante.
A questi anni risale la composizione delle Rime, sono 126 componimenti in rima, soprattutto sonetti e
ballate, sono testi di ispirazione stilnovistica e dantesca di argomenti amorosi, esistenziali, spirituali e
politici. A Napoli Boccaccio incontra una donna, che chiamerà Fiammetta per la quale scrive la sua prima
opera importante, il Filocolo cioè “fatica d’amore” articolato in 5 libri. Racconta le disavventure di Florio e
Biancifiore che, innamorati e costretti a separarsi per volontà dei genitori di lui, avversi a una relazione del
figlio con una donna ritenuta non degna per stirpe, alla fine si ricongiungono e si sposano con gioia e
soddisfazione generale, anche perché viene riconosciuta la nobile casata cui la giovane appartiene, mentre
Florio si converte al cristianesimo e conduce alla conversione il suo popolo. In un episodio del quarto libro,
durante uno dei suoi viaggio Florio, alla ricerca dell’amata sosta in uno spazio piacevole e chiuso di un
bellissimo giardino di Napoli, dove un gruppo di aristocratici capeggiato dalla regina di nome Fiammetta,
conversa intorno ad una serie di “questioni d’amore” ispirati a 13 racconti e novelle. Il Filocolo nel suo
insieme assume un significato che si configura come un testo rappresentativo di un’operazione culturale
diretta a congiungere le due anime, una cultura alta della corte angioina: scientifica, naturale erudita e una
cultura bassa di svago, mondana. Il progetto di Boccaccio è quello di una letteratura mezzana,
nell’ambizione di amalgamare e richiamare a un unico ambito d’interesse due facce di pubblico fino allora
separate, i dotti e le donne. Del 1339 è il Filostrato che sta a significare “vinto d’amore”, un poema in
ottave che per argomento risale al mondo omerico. Entro un contesto di avventure d’armi, Boccaccio isola
l’episodio relativo al rapporto amoroso tra Troiolo e Criseida culminato con la scoperta del tradimento della
donna e con la risoluzione di Troiolo di vendicarsi del suo rivale Diomede, entra furioso in battaglia ma alla
fine viene ucciso da Achille. Il ritmo dell’ottava si rivela il più adatto ad accogliere le due direttrici
fondamentali del Filostrato, quella narrativa dello sviluppo della trama e quella della registrazione dei
sentimenti e dei monologhi. Boccaccio si cimenta nella stesura di un poema epico, Teseida. L’ambizione
dell’autore era quello di essere il primo italiano a comporre un poema epico in volgare, sulle orme
dell’Eneide virgiliana e della Tebaide di Stazio. La vicenda narra dell’amore di Arcita e Palemone, fatti
prigionieri da Teseo. Teseo li ha condotti ad Atene per la sorella Emilia. Arcita e Palemone sono legati da un
profondo sentimento d’amicizia, ma l’amore comune per Emilia li rende nemici. Teseo decide allora di
esiliare i prigionieri, e Arcita è la prima vittima di tale decisione. Dopo aver vagato per varie città riesce a
rientrare sotto mentite spoglie ad Atene, e inizia a servire Teseo sotto il falso nome di Penteo. Panfilo, unico
a conoscenza della vera identità di Penteo, avverte Palemone del ritorno di Arcita; quest’ultimo riesce ad
evadere dal carcere, con l’intento di eliminare l’amico. Palemone e Arcita, ritrovatisi, si sfidano ad un duello
all’ultimo sangue per conquistare il cuore di Emilia. All’ultimo minuto, s’intromette Teseo che cambia le
regole del “gioco”, imponendo non un classico duello uno contro uno, ma una vera e propria battaglia:
Arcita e Palemone verranno dotati di cento cavalieri ciascuno, e sposerà Emilia chi riuscirà a sconfiggere il
nemico. Il vincitore è Arcita il quale però ferito a morte, sposa Emilia, imponendo alla donna l’obbligo che,
dopo la sua morte, vada in sposa a Palemone. La sfida lanciata da Boccaccio non si risolve in modo vincente
perché gli eroi non sono guerrieri ma sono cavalieri che sono principalmente al servizio di un ideale
d’amore e che alla fine danno testimonianza di un trionfo dell’amicizia. Nel 1340 la crisi della compagnia dei
Bardi determina l’improvviso ritorno di Boccaccio a Firenze così per presentarsi all’ambiente fiorentino
Boccaccio si accosta alla letteratura toscana come nella sua opera la Ninfale d’Ameto, un prosimetro un
componimento misto di prosa e poesia e per le parti in versi impiega la terzina dantesca e che tratta un
tema centrale della poetica stilnovista, la forza purificatrice dell’amore. L’opera narra la storia del rozzo
pastore Ameto, che un giorno incontra alcune ninfe e si innamora di una di loro, nel giorno della festa di
Venere le ninfe si raccolgono intorno al pastore e gli raccontano le loro storie d’amore, alla fine dei racconti
Ameto è immerso in un bagno purificatore e comprende che sta a simboleggiare l’umanità, le sette ninfe le
virtù cardinali e teologiche attraverso le quali l’uomo si trasforma da essere rozzo in vero uomo degno di
elevarsi alla conoscenza di Dio. La parabola percorsa da Ameto è molto lineare, più complicato è il problema
del percorso perché lo scrittore denuncia un certo impaccio nel disporre organicamente i generi differenti
accostati in un rischioso gioco combinatorio: l’egloga pastorale, il poemetto allegorico e la novellistica
perché le 7 ninfe raccontano una per volta la storia dei propri amori ad Ameto. Contigua a quest’opera è
l’Amorosa visione, poema allegorico di 50 canti in terzine, in cui Boccaccio segue le orme di Dante e
racconta in prima persona un sogno nel quale una donna gentile lo accompagna dentro un castello dentro al
quale il poeta visita due sale, la prima conduce all’appagamento dei beni e delle glorie mondane mentre la
seconda che porta alla fortuna. Dopo la scomparsa del padre lo spingono ad adattarsi alla vita borghese di
Firenze. Dopo la peste a causa della perdita di molte persone a lui care lo conducono a una riflessione
spirituale dove fa amicizia con Petrarca. Boccaccio lo incontra per la prima volta a Firenze e vede in
quest’amicizia un’opportunità di miglioramento artistico e personale. Nel frattempo la partecipazione di
alcuni amici di Boccaccio a una congiura antigovernativa a Firenze, poi fallita, pone lo scrittore in cattiva
luce agli occhi delle autorità. Così Boccaccio decide di ritirarsi a Certaldo dove condurrà una vita appartata
dove vi muore nel 1375. Tra il 1341 e il 1347 Boccaccio scrive l’Elegia di madonna Fiammetta, un
romanzo in prosa in cui la protagonista Fiammetta si rivolge alle innamorate donne e racconta la triste storia
di una donna lasciata dall’amante Panfilo per un’altra donna. Dopo essere stata abbandonata dall’amato la
donna è disperato e vive nel dolore e nella vana speranza di poterlo rivedere. Il marito della donna ignaro di
tutto è preoccupato per il suo stato di salute e per consolarla la porta a Pozzuoli tale iniziativa però non fa
altro che accrescere l’infelicità della moglie, dal momento che quei luoghi gli fanno ricordare l’amante. La
donna sempre più disperata tenta il suicidio. In seguito a quest’episodio il marito per confortarla le promette
un nuovo viaggio e lei spera di potersi fermare a Firenze per rivedere il giovane. La donna allora riflette sul
suo dolore e le confronta con quelle delle eroine dell’antichità, la scoperta di provare una sofferenza ancora
più profonda costituisce per lei una sorta di consolazione. Questo testo è un discorso letterario sull’amore,
costruita a partire dal modello delle Heroides di Ovidio. L’elegia di Fiammetta è un’opera che mette in
primo piano l’animo ferito della donna e l’isteria suicida che deriva dal tradimento dell'amato, un vero
romanzo psicologico. Del 1344 e 1345 è il Ninfale fiesolano, un poemetto di 473 ottave sulle origini
leggendarie di Fiesole alle quali risale attraverso la storia di due giovani vede come protagonisti un pastore di
nome Africo e una ninfa, Mensola. Essa sedotta da Africo infrange l’obbligo di castità dovuto a Diana e
dopo aver dato alla luce un bambino, subisce la vendetta della dea, che la tramuta nel fiume porterà il suo
nome, mentre Africo si uccide proprio in riva al corso che da lui prenderà il nome. Il bambino superstite
Pruneo viene assistito dai genitori di Africo, cresciuto sceglie di mettersi al seguito di Attalante ed insieme a
lui fonderà Fiesole, dopo aver disperso le ninfe o ad averle costrette alle nozze. Boccaccio ripropone
l’ambientazione pastorale dell’Ameto per costruire un poemetto eziologico, particolarmente sensibile è
l’analisi riservata a Mensola di cui vengono delineate le tracce dei movimenti psicologici. Ma il poemetto va
oltre le situazioni sentimentali infatti si passa dal mito alla storia e per storia si intende l’imposizione di
nuove leggi e civilizzazione.
Il Decameron viene scritto fra il 1349 e il 1351, il titolo del libro richiama la lingua greca, il contenuto
consta di 100 novelle raccontate da un gruppo di 7 donne e 3 giovani che si allontanano da Firenze per
evitare la peste del 1348. Le 100 novelle sono ripartite in 10 giornate e ogni giornata è formata da 10 novelle
raccontate a turno dai componenti della brigata. Sempre a turno uno dei giovani o una delle donne viene
nominato re o regina della giornata e ha il compito di indicare l’argomento al quale i narratori dovranno
attenersi. L’opera è preceduta da un proemio in cui l’autore indica le donne come destinatarie della sua
opera, dando così giustificazione al sottotitolo del libro, “chiamato Decameron e cognominato principe
Galeotto” come Galeotto era disposto a favorire l’amore di Lancillotto, così Boccaccio dedica alle donne le
100 novelle come un’occasione di svago e di consolazione. Ogni giornata è aperta da un’introduzione e
terminata da una conclusione e ogni novella è preceduta da una rubrica, cioè una sorta di titolo o sommario
che ne sintetizza in poche righe il contenuto. Ad avviare l’opera è il Proemio dove Boccaccio presenta
l’opera come un aiuto per sconfiggere la malinconia, ma serve anche un’Introduzione, in cui si descrive la
terribile peste, che fornisce il pretesto del racconto. Infine ci sarà anche una Conclusione dell’Autore in cui
Boccaccio delinea alcuni punti della sua poetica. Nell’avviare il Decameron Boccaccio dichiara di dover dare
inizio alla sua narrazione partendo dalla rappresentazione della Firenze devastata dalla peste, solo da
quell’evento drammatico può trovare giustificazione l’ingresso sulla scena dei 10 giovani che decidono di
allontanarsi dalla città, essi si attengono alla ragione come metodo normativo della convivenza e a un criterio
di razionalizzazione risponde il sistema di ripartizione delle giornate con il trasferimento del regimento alla
fine di ogni giornata. La trasgressione è consentita solo se è la brigata a concederla, come nel caso di Dioneo
al quale gli è consentito di trattare solo gli argomenti che preferisce. I giovani a turno sono i creatori delle
novelle e il Decameron diventa anche una sorta di scuola che insegna a raccontare. Per Boccaccio sono 3 le
forze che guidano le azioni degli uomini: la fortuna, l’amore e l’intelligenza. Nella prima giornata il tema è
libero, la regina è Pampinea e lascia che ognuno racconti la novella che più gli piace, la figura del primo
personaggio ser Cepparello, il protagonista è un notaio che si vergogna della propria onestà, anziché delle
proprie truffe. Ovviamente, Cepparello non ha alcuna fede religiosa né frequenta la chiesa. Un giorno però,
mentre si trova ospite di due fratelli usurai fiorentini Cepparello ha un malore, tanto da capire di essere
vicino alla morte. I due mercanti, venuti a sapere della pessima condotta morale del loro ospite, iniziano a
chiedersi come comportarsi: non possono seppellirlo in un terreno consacrato senza prima farlo confessare e
dargli l’estrema unzione, ma non possono nemmeno pretendere che un prete, venuto a conoscenza della sua
vita gli dia il perdono. Cepparello, dopo aver sentito il dialogo preoccupato, decide di toglierli
dall’imbarazzo chiedendo egli stesso una confessione, così con una falsa confessione si fa credere addirittura
un santo. Nella seconda giornata l’argomento è la fortuna, si raccontano storie a lieto fine, la regina è
Filomena, emblematico è il caso della notte napoletana di Andreuccio da Perugia. Andreuccio, non si è mai
allontanato da Perugia, è un mercante di cavalli assai giovane ed ingenuo, cade nella trappola tesagli dalla
prostituta Fiordaliso, che si spaccia per una sua sorella illegittima, nell'arco di una sola nottata perde tutto il
suo denaro e rischia più volte di morire (quando cade nella latrina, quando viene calato nel pozzo e infine
quando resta chiuso nel sepolcro dell'arcivescovo), per poi entrare in possesso di un prezioso anello con cui
torna a casa più ricco. Nella terza giornata i racconti sono incentrati sull’ingegno, la regina è Neifile la
novella rappresentativa è quella di Masetto da Lamporecchio un astuto contadino che fingendosi muto riesce
ad essere accolto in un convento femminile come lavorante e a diventare l'amante di tutte le monache inclusa
la badessa, sino a svelare il proprio inganno e ad essere nominato addirittura amministratore del chiostro.
Una separazione più netta vi è tra la terza e la quarta giornata, perché la nuova decade narrativa è preceduta
da un intervento dell’autore che difende le 30 novelle precedenti dalle critiche mosse da chi aveva accusato
la facile disponibilità di Boccaccio nel compiacere le donne. Per difendersi fa ricorso a una novella, la
centunesima della raccolta, la novella delle papere che parla di un uomo fiorentino rimasto vedovo e decide
di andare a vivere da eremita assieme al figlio di 2 anni, parlandogli solo della religione e non della realtà
esterna dato che non lo fa uscire. A 18 anni il ragazzo convince il padre di portarlo con se a Firenze e il figlio
si meraviglia di tutto ciò che vede, il giovane si invaghisce di alcune giovani e belle donne: alla sua richiesta
di sapere il nome di una tale bellezza, il padre risponde che si tratta di "papere". Ha quindi inizio la quarta
giornata nella quale il re è Filostrato e la giornata si apre con il tema degli amori infelici, la novella ha per
protagonista Ghismonda figlia del principe di Salerno Tancredi, la quale rimasta vedova in età giovane, si
innamora e viene ricambiata da un giovane di umili origini: Guiscardo. Tancredi li scopre e geloso non
accetta la relazione fra lei e il giovane e ordina di uccidere Guiscardo e di far avere il suo cuore dentro una
coppa, la quale decide di suicidarsi però prima di farlo rivendica di fronte al padre i diritti della carne e della
giovinezza. Il centro della giornata ha il suo momento comico nella seconda novella, quella di frate Alberto il
quale si traveste da angelo Gabriele per sedurre madonna Lisetta, una donna ingenua e la convince di passare
la notte con lei, da lì dormono insieme tante altre volte finendo solo quando i cognati della donna li trovano
insieme, lo uccidono sotterrandolo, allora la donna dissotterra la testa mettendola in un vaso alimentato dalle
sue lacrime. Il dittico riguardante la vicenda d’amore si completa con la quinta giornata la regina è
Fiammetta e si prendono in considerazione gli amori felici, come quello di Federigo degli Alberghi un ricco
nobile di Firenze che si innamorò di Giovanna e per sedurla organizzò alcune feste in suo onore perdendo
tutti i suoi averi e sacrifica persino l’unico bene che gli è rimasto, il suo falcone, e per la sua nobiltà d’animo
verrà apprezzato dai fratelli della donna che infine ne favoriscono le nozze. Nella sesta giornata la cui
narratrice è Elissa si trattano i motti di spirito e le risposte argute come accadde al cuoco Chichibio e a Cisti
il fornaio un uomo che riesce a superare una situazione difficile grazie alla sua intelligenza la più
rappresentativa è la novella di frate Cipolla, un frate che gira di paese in paese mostrando false reliquie come
la penna dell’angelo Gabriele un giorno durante la predica ai contadini di Certaldo invece della penna nella
cassetta vi trova dei carboni quando il frate scopre la beffa, immediatamente afferma che quelli erano i
carboni con i quali fu bruciato san Lorenzo. La settima e l’ottava giornata sono dedicate alla beffa, nella
settima il re è Dioneo, il tema sono le beffe delle donne ai danni dei mariti la protagonista della novella è
Peronella che tradisce l'ingenuo marito con Giannello, un giovane galante e si incontrano a casa di lei quando
il coniuge va al lavoro. La donna si dimostra pronta a reagire quando l'inatteso ritorno del marito la
sorprende con l'amante, prima nasconde l'amante uomo nel "doglio" che si trova in casa, poi quando scopre
che il marito lo vuole vendere a un altro popolano ne approfitta per fargli credere che Giannello è lì per
esaminarlo e acquistarlo. Nell’ottava invece la regina è Lauretta e il tema sono le beffe varie, e la novella
racconta l'ennesimo scherzo che Calandrino, un pittore, subisce da parte dei suoi due amici Bruno e
Buffalmacco, che si prendono gioco di lui e della sua illusione di rendersi invisibile grazie all'elitropia. Nella
nona giornata il tema è libero e la regina è Emilia, la libertà che concede ai narratori permette di replicare
alcuni temi già sperimentati, il particolare quella dedicata alla beffa prevale quella della badessa e le brache,
la protagonista è Isabetta, una suora che vive in un convento un giorno conosce un giovane di cui se ne
innamora e viene ricambiata da lì inizia a una relazione fin quando verrà scoperta dalle altre suore che
decidono di chiamare la badessa e di cogliere Isabetta in fallo, bussano alla porta della badessa la quale
nasconde anche lei un prete e per la fretta vestendosi per sbaglio mette le brache del suo amante al posto del
velo ma le suore non notano l’errore. Dopo aver colto Isabetta sul fatto le altre la vogliono punire, ma essa fa
notare alla badessa le brache e lei, messa alle corde, non la punisce e permette le visite notturne nell’invidia
delle altre suore che non avevano nessuno da invitare. Nella decima giornata il tema sono gli esempi di
cortesia e il re è Panfilo e il novellatori fanno una sorta di gara in cui ognuno cerca di superare chi l’ha
preceduto. Viene raccontata la storia del marchese di Saluzzo che sposa Griselda malvolentieri. Griselda,
figlia di un popolano, viene sottoposta dal marchese a struggenti prove di fedeltà: il marchese finge di avergli
ucciso i figli, finge di non essere più innamorato di lei e le porta dentro casa una donna facendola passare per
la sua amante e finge addirittura di risposarsi. Dopo ben dodici anni, con i figli ormai grandi e maritati, svela
tutto a Griselda e con lei trascorre la vecchiaia. Due sono i nuclei più importanti, l’amore e il denaro, in
ambito amoroso e soprattutto relativamente all'eros, non solo non è condannato o giudicato negativamente,
ma è affermato come qualcosa di assolutamente naturale e i cui istinti sono insopprimibili, per cui una gran
parte delle novelle del libro hanno per protagonisti personaggi che danno libero sfogo ai propri desideri. La
tematica amorosa è significativa anche per determinare la fisionomia e la personalità delle figure femminili,
con atteggiamento di apertura mentale e di consenso Boccaccio considera quelle donne che si concedono
all’amore mentre si rivela avverso nei confronti di quelle che agiscono per interessi economici. Il denaro
invece emerge in molti temi, a cominciare dalla rivalutazione della figura del mercante che nella letteratura
del Duecento era spesso mal giudicato e accusato di arricchirsi secondo un pregiudizio religioso mentre per
Boccaccio egli è colui che sfrutta doti quali l'ingegno per procacciarsi il proprio guadagno, anche in modo
illecito. Boccaccio attinge da Apuleio, alla letteratura romanza, alle vidas e razos dei poeti provenzali alle
fonti italiane come il Novellino da cui vengono riprese due novelle della prima giornata, la terza e la nona.
Infine lo stesso Boccaccio perché la quarta e la quinta della decima giornata rielaborano due questioni
d’amore del Filocolo. Dominante è il procedimento dell’ironizzazione e il filo conduttore più robusto è
quella della parodia. Per le scelte stilistiche e lessicali Boccaccio si dimostra sempre molto attento
nell’adeguare il linguaggio ai personaggi, agli ambienti e alle situazioni e ogni personaggio parla la sua
lingua a partire dal volgare fiorentino.
Incontro fondamentale per Boccaccio è quello con Petrarca ma diversamente da Petrarca concepisce un
epistolario smilzo, composto da 26 lettere in tutto. Particolare è l’Epistola consolatoria a Pino de’ Rossi,
scritta in volgare all’amico esiliato dopo una congiura che impedirà allo stesso Boccaccio di ricoprire
incarichi pubblici. Petrarca diventa per Boccaccio un modello di vita e di letterato, e alla maniera del maestro
anche lui riprende il genere bucolico, nelle 16 egloghe del Bucolicum carmen portato a termine nel 1367, in
particolare Olympia che è una rievocazione della figlio Violante morta precocemente. Ad emulazione di
Petrarca scrive anche alcune opere a carattere storiografico che lo impegnano per l’intero arco della maturità
e della vecchiaia, portato a termine nel 1373 è il De casibus virorum illustrium cioè biografie di personaggi
famosi e infelici, il De mulieribus claris che consta di 106 capitoli che contiene le biografie di illustri figure
femminili. L’opera erudita che maggiormente impegna Boccaccio è le Genealogie deorum gentilium, una
raccolta di miti della classicità greco-romana. L’ultima opera a carattere narrativo è il Corbaccio scritto tra il
1363 e il 1366. L’autore racconta, sotto forma di visione, che invaghitosi di una donna rimasta vedova gli
compare l’ex marito che passa in rassegna tutti i vizi delle donne e che lo esorta a dedicarsi agli studi anziché
all’amore. Il titolo potrebbe alludere al corvo come simbolo di uccello del malaugurio, che strappa gli occhi
delle carogne di cui si ciba, con riferimento al potere accecante dell'amore oppure si riferisce al colore nero
della veste della vedova. Il Corbaccio risente di una visione misogina che ribalta la prospettiva del
Decameron, dedicato alle donne e dominato da una concezione serena e positiva dell'amore, mentre qui il
sentimento è descritto come passione che ottenebra la ragione e porta alla sofferenza infatti l’autore si
distacca dal pubblico femminile avvicinandosi ad un pubblico di dotti. Negli anni che vanno dalla
conclusione del Decameron fino alla morte Boccaccio ha una profonda ammirazione per Dante e per la
Divina Commedia. Due sono le attestazioni di maggior evidenza, il Trattatello in laude di Dante di cui si
hanno 3 redazioni è un saggio sulla vita del sommo poeta che fornisce informazioni sul contesto storico in
cui visse Dante e presenta anche un ritratto fisico e morale del poeta. Le Esposizioni sopra la commedia
invece raccolgono i commenti dei canti dell’Inferno esposti da Boccaccio nelle pubbliche letture nella chiesa
di Santo Stefano di Badia, arrivando solo fino al canto 17 e interrompendo l'attività per le aggravate
condizioni di salute.

Anche nel 300 continua l’attività dei volgarizzamenti, novità sono i volgarizzamenti in prosa di opere di
poesia di Andrea Lancia che si occupa di Ovidio e di Virgilio. Un apprezzatissima traduzione anonima della
tarda latinità, diffusa con titolo Arrighetto, che su inspirazione boeziana Arrigo da Settimello scrive il De
diversitate fortunae et philosophiae consolatione. Infine va ricordato l’episodio rappresentato dall’Esopo
volgare, cioè dai numerosi volgarizzamenti delle favole di Esopo, che si diffondono soprattutto in area
veneta e toscana. Circa 700 sermoni sono del primo decennio del secolo, di cui un nucleo è raccolto in
edizione moderna nel Quaresimale fiorentino di Giordano da Pisa, opera importante per almeno 3 ragioni: la
prima perché costituisce la prima attestazione di omiletica non latina, la seconda perché da spiegazioni
teologiche attraverso immagini della vita quotidiana e la terza per la lingua usata. Domenico Calva ha
lasciato numerosi scritti ma il suo capolavoro è costituito dalla Vite dei Santi Padri, dove racconta vicende
bibliche aggiungendo inserti narrativi per tenere l’attenzione viva. Iacopo Passavanti nato a Firenze agli inizi
del secolo, muore nel 1357, l’unica sua opera che ci è pervenuta è lo Specchio di vera penitenza un analisi di
vizi e virtù in cui l’autore prende in esame la scienza umana e quella diabolica prestando particolare
attenzione ai sogni. Colora le sue narrazioni con tinte fosche per mettere paura a chi legge e farlo allontanare
dal peccato, i temi dominanti del racconto sono i castighi di Dio, l’inferno e il demonio che il più delle volte
sono inquadrati nella cornice di cupe visioni e di sogni angoscianti. La lettera è invece lo strumento
adoperato da Caterina da Siena, massimo esponente della prosa religiosa del 300. Le 381 Lettere indirizzate
a ogni genere di persona, sono autobiografia mista a impegno morale, politico e spirituale. Il suo misticismo-
ascetico le permette però l’impegno pubblico, per affermare le sue idee di carità dialoga da pari a pari con i
potenti, il suo obiettivo è la liberazione della chiesa da ogni attaccamento ai beni, riportare la sede del papato
a Roma ritenendola una sua vittoria nel 1377. Il suo linguaggio scritto risente delle sue emozioni, a volte è
pacato, impetuoso nel discorso ai papi, affabile per dare conforto. Il maggior cronista del 300 è Giovanni
Villani autore della Cronica in 12 libri suddivisi in due parti: i primi sei distribuiti in 256 capitoli che
raccontano oltre 2000 anni di storia dalla torre di Babele alla calata in Italia di Carlo d’Angiò, gli altri sei
distribuiti in 1.125 capitoli racchiudono vicende di un’ottantina d’anni, dal 1265 al 1348 anno della morte
dell’autore a causa della peste. L’autore per la prima parte utilizza fonti, per la seconda fa ricorda a
documenti ufficiali, testimonianze dirette e esperienze personali. Egli inquadra le figure più elevate come
avviene nel caso di Dante e prende anche in considerazione i dati di natura statistica riguardanti il
commercio, la vita amministrativa della città, il fisco e la circolazione del denaro. Donato Velluti con la
Cronica domestica inaugura un genere destinato ad avere fortuna nel secolo successivo, narra le vicende di
Firenze iniziando con la ricostruzione della storia della sua famiglia tracciando i profili dei parenti più
rappresentativi. Autentico capolavoro è la Cronica di Anonimo Romano, che è stata tramandata con il titolo
improprio di Vita di Cola di Rienzo, l’autore è probabilmente uno studente di medicina di Bologna che
racconta gli avvenimenti di Roma dal 1325 al 1357. Inizialmente scritta in latino, poi redatta in volgare
romano. L’anonimo ha una cura dei dettagli nelle scene di morte dei personaggi e spesso come accade nella
descrizione della morte di Cola si passa dal tragico al grottesco. Paolo da Certaldo conterraneo di Boccaccio
è autore del Libro di buoni costumi, un manuale di istruzioni di come un buon borghese debba comportarsi in
famiglia e nei rapporti con gli altri. La narrativa romanzesca del 300 non ha tratti di originalità, si presenta o
come risultato di rielaborazione o come opera di compilazione. Nella prima categoria rientra la produzione di
Andrea da Barberino che raccoglie un ampio materiale narrativo sulle gesta dei paladini e dei re di Francia
utilizzato poi per i poemi cavallereschi. Invece per la seconda categoria è l’Avventuroso Siciliano di Bosone
da Gubbio dove narra la storia di cinque baroni che dopo i vespri siciliani lasciano la Sicilia per recarsi in
regioni nascoste. Ma dopo tre libri, ognuno dei quali dedicato alle peripezie di uno dei baroni, i racconto si
interrompe. Nella novellistica la prosa narrativa si concretizza nelle novelle di Franco Sacchetti nato tra il
1332 e il 1334 a Firenze e morto nel 1400. Oltre alle novelle Libro delle Rime si ricorda in curioso poemetto
in ottave La battaglia delle belle donne che narra scherzosamente la battaglia delle donne giovani e belle di
Firenze contro quelle vecchie e brutte. La vittoria è delle prime. Il suo libro di maggior rilievo è il
Trecentonovelle che consta di 258 novelle di cui 26 andate perdute e 7 pervenute in forma frammentaria.
Sacchetti è un ammiratore di Boccaccio tanto che piange la sua scomparsa come se si trattasse della morte
della poesia stessa. A Boccaccio attribuisce il riconoscimento nel proemio del suo libro di novelle
considerandolo un punto di riferimento. Ma la sua opera non prende la struttura del Decameron, le sue
novelle sono ordinate per argomento. La sua novellistica è incline all’aneddoto, predomina il piacere per la
beffa, c’è sempre a conclusione un motto che apre la strada al genere della “facezia” che troverà
affermazione nel secolo successivo. Il linguaggio è vicino al parlato, ricco di termini dialettali, modi di dire
ed espressioni gergali. Chi riprende il sistema boccacciano è Giovanni di Firenze, giullare di corte scrive il
Pecorone, protagonisti sono due giovani innamorati, Auretto e la monaca Saturnina i quali per potersi
incontrare e stare insieme si ritrovano tutte le sere nel parlatorio per raccontarsi una storia al giorno, per 25
giorni, ne risultano 50 novelle di cui 15 appartengono alla tradizione novellistica orale e scritta, 3 sono
relative a fatti di attualità e 32 sono riprese dai capitoli della Cronica di Villani. Giovanni Sercambi nel
Novelliere riproduce la situazione boccacciana della peste, quella del 1374. La modifica avviene attraverso il
viaggio, rappresenta una brigata di lucchesi che per trovare scampo dalla peste compie un lungo itinerario di
attraversamento dell’Italia e fra le attività d’intrattenimento durante il cammino c’è anche quella del narrare,
vengono raccontate una o più novelle al giorno per un totale di 155. L’autore è stato il primo ad affrontare
racconti di magia.

Il termine Umanesimo viene coniato in Germania nell’800 dal pedagogista Friedrich Immanuel Niethammer,
deriva dalla parola humanista usata nel 500 nel gergo universitario per indicare chi, insegnante o studente, si
occupa di discipline letterarie, a sua volta derivate dall’espressione antica studia humanitatis (discipline
relative all’umanità), intuita dai dotti italiani del 300 dai testi di Cicerone e del grammatico Gellio, in cui
indicava l’educazione liberale, di tipo letterario e filosofico. L’umanesimo si caratterizza per la superiorità di
un gruppo ristretto di discipline liberarli (retorica, storia, poesia, filosofia) di cui si afferma l’assoluta
centralità per la formazione dell’uomo/ cittadino rispetto ad altre discipline di carattere professionale
(scienza, medicina, diritto). Questi studia humanitatis vengono sentiti come un ritorno al magistero degli
antichi, latini e greci, che di queste discipline incentrate sull’uomo hanno fatto l'esempio più alto. Nello
stesso momento in cui il 400 propone una nuova gerarchia dei saperi, funzionale ad una nuova concezione
dell’uomo, esso si concepisce rispetto all’età precedente: quando nasce la coscienza dell’umanesimo nasce
anche il concetto e il termine stesso di Medioevo, “età di mezzo” tra l’antichità e il suo moderno
risorgimento. In questo caso, il termine media aetas per indicare quello che ancora oggi continuiamo a
chiamare Medioevo, compare nel 1518 nelle opere di Gioacchino di Watt. Precoce è l’opposizione tra
umanesimo sinonimo di luce e razionalità, e l’età di mezzo sinonimo di tenebra e oscurantismo. In questa
prospettiva gli studia humanitatis sono visti come il primo episodio di una grandissima rivoluzione di cultura
e di pensiero, cioè come il primo segnale della modernità. Da cui nasce la contrapposizione tra un Medioevo
barbarico, tenebroso, irrazionale e un Rinascimento razionale e individuale, prima tappa di un cammino che
porta alla piena lucidità della cultura moderna. Durante il romanticismo ottocentesco il giudizio di valore nel
confronto tra Medioevo e Rinascimento viene spesso ribaltato: Medioevo, epoca di fede, lealtà cavalleresca e
passionalità. Rinascimento, indifferente in campo religioso e intellettualistico. Ma studi piuttosto recenti
hanno dimostrato la floridità artistica, filosofica e letterale del Medioevo, che non può essere quindi
etichettato come oscurantista, inoltre gli studi hanno affermato fattori in comune tra le due: il Medioevo
viene liberato da etichette infondate e l’Umanesimo esce da semplificazioni sbagliate, dimostrando
l’impossibilità di un umanesimo laico-pagano-irreligioso, mettendo in luce le sue componenti laiche e
religiose. Quindi il rapporto tra Medioevo e Umanesimo/Rinascimento è oggi più problematico e sfumato del
passato, con elementi innegabili di continuità e di rottura che vanno esaminati a sé. Tuttavia la novità
rappresentata dalla nascita degli studia humanitatis nelle prime generazioni degli umanisti italiani, appare
ovvia. Il clima intellettuale del 400 è denominato da un rinnovamento negli studi che di realizza tramite un
ritorno all’antico, cioè tramite una riacquisizione più vera e consapevole della cultura classica pagana e
cristiana. L’Umanesimo del 400 è una rivoluzione culturale, anticipata già nel 300 da Petrarca, soprattutto
nel modo in cui lavora sui testi: partiva da un’esigenza di conoscenza storica dei testi e dei loro autori. Ciò
significava un’acquisizione fisica-materiale dei manoscritti. Avido collezionista di codici aveva messo
insieme una biblioteca straordinaria. Veniva poi lo studio sui testi ai fini di un accertamento il più possibile
esatto della loro lezione, confrontando le lezioni varianti dei manoscritti diversi della stessa opera. Questo lo
distacca dalla mentalità medievale per cui non conta l’autore, ma il messaggio: non quello che l’autore aveva
voluto dire secondo la cultura e la mentalità del suo tempo, ma ciò che le sue parole possono ancora
insegnare per l’uomo medievale. L’atteggiamento petrarchesco verso l’antico rappresenta una svolta verso
l’acquisizione di un nuovo, moderno senso storico. Inoltre Petrarca provava fastidio verso il latino medievale
a cui contrappone il vero latino degli autori classici, che lui imita e fa rivivere nei suoi scritti. Tutti questi
aspetti della cultura petrarchesca trovano riscontro nel rinnovamento culturale del 400 che indichiamo con il
nome di Umanesimo. L’umanesimo si propone come la riscoperta dei testi antichi, infatti i primi decenni del
400 vedono esplodere la ricerca dei codici latini e greci, nel tentativo di recuperare opere perdute e di venire
in possesso di quelle nuove e più complete. Vennero ritrovati manoscritti nelle biblioteche monastiche di
tutta Europa. In Italia particolarmente importanti furono le istituzioni monastiche dei benedettini. I libri
rinvenuti dagli umanisti erano quelli ricopiati nel Medioevo negli scriptoria dei conventi, anello
fondamentale di congiunzione con la civiltà antica. I manoscritti ricercati dagli umanisti erano dunque di
epoca altomedievale, i più risalenti ai secoli della rinascenza carolingia, quando Carlo Magno stesso aveva
promosso in prima persona un grandioso recupero del mondo classico e della sua letteratura. Significative
furono le scoperte di Poggio Bracciolini, che nel 1414 scoprì presso l’abbazia di Cluny due orazioni ignote di
Cicerone ma il ritrovamento più clamoroso fu il De rerum natura di Lucrezio. Mentre i manoscritti latini
vennero trovati nelle biblioteche monastiche di tutta Europa, il recupero dei manoscritti greci seguì un’altra
via: in Oriente, nel mondo bizantino e gli umanisti viaggiarono soprattutto verso Costantinopoli come
Giovanni Aurispa uno studente siciliano che dall’Oriente portò con se 238 codici, una vera e propria
biblioteca comprendente non solo i poeti maggiori ma anche quelli meno noti. Altro memorabile soggiorno
in Oriente fu quello di Guarino Veronese che nel 1403 si recò a Costantinopoli per impadronirsi della lingua
e della cultura ellenica e anche Francesco Filelfo che torna in Italia dopo 7 anni sfruttando il prestigio che
aveva ottenuto nel suo soggiorno in Oriente. Tuttavia fu importante anche il movimento dei dotti bizantini
che dalla Grecia vennero in Italia portando con se la loro competenza linguistica e i loro libri. La restituzione
del vero storico attraverso gli strumenti della filologia si rivelò tutt’altro che un semplice esercizio di
erudizione. Accertare la verità dei testi poteva significare accertare la verità della storia e quindi influire
anche in ambito politico ed ideologico. Questa applicazione della nuova filologia trova nel 400 un
formidabile campione, Lorenzo Valla, il più grande filosofo e grammatico dell’umanesimo. Dimostrò nella
sua orazione De falsa et emintita Constantini donatione che la famosa “donazione” di Costantino, secondo
cui l’imperatore avrebbe concesso al papa il diritto di esercitare il potere temporale sul territorio della chiesa,
era un falso compitalo del Medioevo. Valla allora era al servizio di Alfonso d’Aragona, che si opponeva alle
pretese del papa Eugenio 4 sul regno di Napoli. La competenza filologica può essere quindi impugnata come
un arma di contesa politico-ideologica. Valla analizza la Bibbia come un testo qualsiasi sottoposto agli stessi
errori, fenomeni di un qualunque altro testo secolare, inizia così un approccio laico ai testi sacri, studiati
nella loro concreta storicità. Il culto dell’antico e il restauro del puro latino classico implicano di per sé un
processo di imitazione, quando gli umanisti si discostano dal latino medievale corrotto per scrivere con la
lingua e lo stile della latinità aurea, assumono la posizione di chi ha davanti a sé modelli e cercano di
replicarne al meglio i pregi. Ma l’atteggiamento umanistico di fronte all’antico non è una duplicazione
passiva e inattiva. Già Petrarca aveva articolato in una lettera a Boccaccio il problema dell’imitazione
partendo da un’esperienza personale, cioè di inserire nelle sue opere involontariamente citazioni degli autori
prediletti, non si tratta di imitazione ma di immedesimazione, certi autori sono stati così assimilati da essere
diventati una memoria personale. Petrarca contrappone due metafore che simboleggiano l’accezione positiva
cioè l’ape che succhia il nettare e lo elabora in qualcosa di diverso e l’accezione negativa cioè un attore che
cambia identità cambiando personaggio. Nel 400 il problema dell’imitazione viene approfondito
ulteriormente e prendono piede due posizioni quella di Agnolo Poliziano che diceva di imitare vari autori e
Paolo Cortesi che sosteneva la necessità di scegliere un solo autore da imitare, nel suo caso Cicerone. Nel
400 la lingua latina viene sottoposta ad un processo di depurazione dalle corruzioni subite nel Medioevo e di
restaurazione tramite il confronto coi modelli classici, soprattutto ciceroniani. In seguito il latino diventa una
lingua sempre più privilegiata, rivolta ad un pubblico ristretto, poco utilizzabile per fini pratici, per i quali
viene usato il volgare. Così l’umanesimo dopo aver annullato il volgare per azione diretta, finisce a
riabilitarlo per azione indiretta. Non mancarono dibattiti fra sostenitori e oppositori dell’una e dell’altra
lingua come Leon Battista Alberti il quale compose una Grammatichetta della lingua toscana, che costituisce
la prima grammatica della lingua italiana, Alberti poi continuò la sua attività di promozione del volgare
istituendo nel 1441 il Certame coronario, gara poetica nel quale i partecipanti dovevano affrontarsi
attraverso componimenti in volgare su un tema prefissato, il tema deciso per il primo concorso fu “la vera
amicizia”, la corona d’alloro con cui doveva essere premiato il vincitore non fu assegnata dagli umanisti, che
ricoprivano il ruolo di giudici, perché ritenevano mediocri i versi proposti, ma secondo una protesta i giudici
fecero fallire intenzionalmente il Certame perché irritati dal fatto che una lingua come l’italiano pretendeva
di gareggiare con il latino. Se al centro della cultura medievale c’erano la chiesa e le università, la nuova
cultura umanistica si crea in ambiti educativi alternativi, spazi privati o semiprivati, scuole che si impongono
da sé per il prestigio dei maestri. Scuole di questo genere tennero letterati come Pietro Paolo Vergerio,
Gasparino Barzizza e Vittorino da Feltre, questi ultimi due elaborarono due modelli di scuola umanistica,
Guarino a Ferrara aprì in casa propria la sua scuola, il celebre contubernium che prevedeva un processo
formativo condiviso volto alla formazione integrale dell’individuo. Vittorino da Feltre invece invitato a
Mantova dal marchese Gianfrancesco Gonzaga che intendeva affidargli l’educazione dei propri figli, egli
accettò solo a patto che la sua scuola fosse aperta anche a ragazzi di altra estrazione sociale, chiamata la
Zoiosa “casa della gioia” dove il curriculum scolastico prevedeva un corso di grammatica, di oratoria e di
discipline matematiche. Il principio educativo è di mettere alla base dell’educazione gli studia humanitatis.
La libertà e creatività della nuova cultura umanistica si conferma anche nell’aggregazione culturale
strutturata: gli umanisti evitano le sedi tradizionali, formando così associazioni intellettuali che si riuniscono
attorno ad una figura di spicco, alcuni di questi gruppi cominciarono a chiamarsi accademie, dando inizio ad
un nuovo tipo di istituzione che avrà grande pregio nel 400. L’accademia più celebre fu quella platonica di
Marsilio FIcino, fondata nella sua villa vicino Firenze, un’altra fu quella romana di Pomponio Leto. Nel
1468 i principali esponenti dell’accademia romana furono arrestati sotto l’accusa di aver cospirato contro il
papa Paolo 2 e in quell’occasione furono avanzate contro Pomponio Leto accuse di vero e proprio
epicureismo. Altre accademie degne di essere ricordate sono quella napoletana di Antonio Beccadelli e
quella veneziana di Aldo Manuzio. Tra le istituzioni culturali che l’umanesimo muta in profondità c’è il
luogo di produzione del libro, lo scriptorium da cui escono i manoscritti, ma sempre più centrale è la
tipografia da cui escono i libri a stampa. Il libro del 400 è ancora per massima parte un manoscritto, prodotti
nei monasteri da religiosi e da copisti professionisti nelle botteghe artigianali. Il manoscritto del 400, grazie
al mecenatismo signorile, si arricchisce di preziose miniature e rilegature sontuose diventando un’oggetto
d’arte. Ma rimaneva in sostanza raro, costoso ed esclusivo perciò l’invenzione della stampa a caratteri mobili
è una rivoluzione, il libro costa poco, si diffonde in fretta e diventa così uno strumento di alfabetizzazione. Il
primo libro ad essere stampato fu la Bibbia, da Johann Gutenberg nel 1455 e ben presto l’invenzione dilagò
in tutta Europa ma i primi libri a stampa tuttavia non rispecchiavano le novità della cultura umanistica tanto
che Federico da Montefeltro, signore di Urbino proibì l’accesso dei libri stampati nella sua biblioteca. Anche
se la stampa si diffonde con rapidità, ci vorrà del tempo perché la cultura umanistica trovi in essa il suo
normale mezzo di diffusione. Petrarca segna la strada della nuove biblioteche umanistiche, indicando i
principi che devono caratterizzare la raccolta di libri in funzione di una nuova organizzazione dello studio.
Nel De remediis etrusque fortunae, Petrarca loda Tolomeo per la fondazione della di Alessandria soprattutto
per averla resa pubblica. Infatti per Petrarca le esigenze sostanzialmente erano due: che le nuove biblioteche
fossero pubbliche, aperte liberamente agli studiosi e che costituissero anche dei centri di controllo filologico
dei testi. Questi principi furono i criteri fondatori delle prime biblioteche umanistiche. La prima fu dovuta
all’iniziativa di Cosimo il Vecchio che nel 1444 fece costruire una biblioteca all’interno del convento di San
Marco. Lorenzo il Magnifico continuò il progetto incaricando Pico della Mirandola e Poliziano una
imponente campagna di acquisti con l’apertura della biblioteca Laurenziana, anche il papa Niccolò 5 fondò
la biblioteca Vaticana che diventò la più grande d’Europa. L’umanesimo italiano del 400 pur presentandosi
come un fenomeno unitario è dotato di una forza d’irradiazione anche oltre i confini italiani, allo stesso
tempo si dispiega entro una geografia culturale policentrica. I tratti fondamentali dell’umanesimo
accompagnano ovunque il diffondersi del fenomeno, tuttavia esso assume coloriture diverse di città e in città
e di stato in stato. Tale frammentazione politica si traduce dal punto di vista letterario in un fattore di vitalità
e creatività.

L’umanesimo fiorentino si distingue in due momenti storico-letterari successivi: umanesimo civile che fa
capo alla figura del cancelliere Coluccio Salutati caratterizzato da un legame strettissimo tra istituzioni
politiche e cultura e umanesimo laurenziano che grava intorno a Lorenzo de Medici caratterizzato da un
mecenatismo che tende a chiudere gli intellettuali all’interno del potere, allontanandoli da un impegno
attivo nella società. La fase civile è rappresentata dagli umanisti cancellieri ma teniamo presente che
Leonardo Bruni portò a termine la sua carica dopo che Cosimo de Medici salì al potere nel 1434. Il governo
di Lorenzo non segna uno stacco nella collaborazione tra politica e cultura ma la prosegue in termini diversi.
È innegabile infatti che il consolidarsi del principato occulto dei Medici modificò nel profondo la funzione
dell’intellettuale fiorentino: prima si identificava con la politica di cui era parte attiva, in seguito
l’intellettuale si realizza al di fuori della gestione diretta della cosa pubblica, si concede alla protezione di un
mecenate che gli consente di dedicarsi in pieno ai propri studi. Gli intellettuali della prima parte del 400
sono ancora legati alle istituzioni repubblicane di Firenze e al regime oligarchico che ha il controllo della
città fino di Cosimo il Vecchio dall’esilio. In questo clima matura il mito della florentina libertas. La seconda
fase dell’umanesimo fiorentino è introdotta dall’attività di Cristoforo Landino, maestro di Lorenzo e autore
di una raccolta poetica in latino, la Xandra un dialogo filosofico sul rapporto tra vita attiva e vita
contemplativa. Fu però l’attività di Lorenzo il Magnifico e della sua brigata laurenziana a indirizzare questa
seconda fase verso una cultura di carattere prevalentemente letterario. Durante il Medioevo il filosofo
antico per eccellenza era stato Aristotele, nell’umanesimo invece si vede la rivincita di Platone. Il profeta
del platonismo in Italia fu Gemisto Pletone, le sue lezioni fiorentine impressionarono profondamente
Cosimo de Medici che poté riportare in Occidente Platone con l’aiuto di Marsilio Ficino, egli mise a
disposizione la sua villa e gli procurò nell’originale greco le opere di Platone prendendo parte alla grandiosa
opera di traduzione di tutto Platone. L’anno della teologia fu anche quello dell’incontro fra Marsilio Ficino e
Pico della Mirandola il quale era convinto che esistesse un unico sapere originario, da cui si sarebbe
generate tutte le altre scuole di pensiero. Firenze conobbe un oppositore Girolamo Savonarola, frate
domenicano. Spesso presentato come anti-Lorenzo, oppositore della cultura umanistica, in nome di una
cultura rigorosamente cristiana. Negò in punto di morte l’assoluzione a Lorenzo non avendo da lui ottenuto
la promessa di restituire la libertà a Firenze. In sostanza Savonarola è un fenomeno unico e contraddittorio
nella Firenze del 400 che partecipa a modo suo all’idea di una rinnovazione. All’umanesimo si intreccia una
cultura di diversa inclinazione, che possiamo definire popolareggiante. Una letteratura tipica delle grandi
famiglie magnatizie, fedeli alla tradizione, questa letteratura è in volgare fiorentino, predilige i generi umili
e legati a destinazioni pratiche e immediate o di intrattenimento, da qui nascono i sonetti del Burchiello.

Lorenzo de ‘ Medici nasce nel 1449 a da Piero de’ Medici e Lucrezia Tornabuoni, mentre la guida della
famiglia è ancora nelle mani del nonno Cosimo il Vecchio e i Medici sono al culmine della loro fortuna.
Lorenzo apprende il greco seguendo le lezioni di Ficino e Landino ma riceve anche un educazione mondana
e cortese. Nel 1469 viene nominato vincitore in una giostra combattuta in piazza Santa Croce dedicando la
vittoria a Lucrezia Donati, nello stesso anno sposa Clarice Orsini, pochi mesi dopo il matrimonio muore il
padre Piero de’ Medici, il figlio lo piange nei Ricordi, aveva solo 51 anni e aveva retto le sorti della famiglia
per poco tempo dato che Cosimo il Vecchio era morto 5 anni prima. Così a soli 21 anni Lorenzo consolida il
dominio della famiglia, trasformando la sua corte nel punto di riferimento della cultura umanistica, per
questo verrà chiamato il “Magnifico”. Egli si affaccia al mondo della letteratura negli anni 60 del 400 dove
all’interno della sua stessa famiglia arrivano influssi contraddittori: da una parte Cosimo, il nonno,
sostenitore del nuovo umanesimo greco-latino e protettore di Ficino e dall’altra Lucrezia, sua madre, di
gusto popolare, rigorosamente in volgare, coltivato dalla vecchia oligarchia fiorentina. Lorenzo come poeta
si sentiva più vicino alla madre, non per nulla in questi anni gli sono vicino i fratelli Pulci, la cui impronta si
rivela in tutte le sue opere giovanili come la Nencia, testo che ci è stato tramandato in più versioni, di
diversa lunghezza e datazione, Nencia da Barberino è una contadina i cui testi costituiscono la lode della
sua bellezza. Nel 1473 Lorenzo cambia bruscamente registro con la composizione del summo bono dove
mette in scena un dialogo tra Lauro (Lorenzo stesso) e Marsilio (Marsilio Ficino) e testimonia il rapporto
profondo che si era istituito fra il giovane e l’antico filosofo, dal ’73 iniziano anche dissapori con i Pulci e
diversi membri della corte medicea. Lorenzo si riallaccia alla cultura medicea e al programma originario di
Cosimo, così il platonismo torna alla ribalta. Tracce di questa svolta letteraria sono rilevabili anche nella
lirica di ispirazione amorosa. Comincia a scrivere poesie d’amore nel 1464 seguendo un personale itinerario
lirico e sentimentale, ma senza mai dare al suo canzoniere una forma compiuta e chiusa. I risultato è un
libro in rime, costituito da sonetti, canzoni, sestine e una ballata. A questa produzione si intreccia e si
sovrappone la composizione del Comento, in essa raccoglie alcuni sonetti delle Rime e li commenta in
prosa, in quest’opera Lorenzo risale all’indietro lungo la genealogia della poesia d’amore toscana e riscopre
oltre a Petrarca e Dante anche Guido Cavalcanti. Il 26 aprile 1478 avviene la congiura de’ Pazzi dove alcuni
congiurati decidono di attaccare Lorenzo e il fratello Giuliano durante la messa in Santa Maria del Fiore,
Giuliano muore assassinato, Lorenzo barricato nella sacrestia con pochi amici fedeli tra cui Poliziano, riesce
a sfuggire all’agguato. L’orrore del delitto e la popolarità di Lorenzo ottengono un risultato opposto da
quello sperato dai Pazzi infatti il popolo fiorentino difende Lorenzo e addirittura da inizio al linciaggio dei
congiurati. I disordini si trasformarono in un caso di politica internazionale tanto che Lorenzo dovette
risolvere la situazione recandosi dal re di Napoli e mettendosi spontaneamente nelle sue mani negoziò la
fine delle ostilità. La missione fu un trionfo personale e arricchì la sua statura letteraria e culturale con la
Raccolta aragonese, la prima antologia della poesia volgare che Lorenzo fece allestire per Federico
d’Aragona, figlio del re e suo amico. La raccolta è preceduta da una epistola attribuita ad Angelo Poliziano,
nella quale si espongono le finalità culturali dell’opera che purtroppo venne perduta, conteneva 449 testi
dove vennero inserite le rime dei più illustri poeti toscani, dal Duecento fino all'epoca laurenziana, tra cui
Dante, Guinizelli, Guittone, Cavalcanti, Cino da Pistoia fino a giungere allo stesso Lorenzo. Dell'ultimo
periodo e di argomento più profano e lieto sono i Canti carnascialeschi, delle canzoni ballate e scritte per le
sfilate del carnevale fiorentino, sono tutti testi a doppio senso osceno. Questi canti venivano eseguiti
durante le feste di carnevale da un gruppo di maschere che camminavano sulla strada o collocate sui carri.
Tra di essi il più celebre è il Trionfo di Bacco e Arianna, in cui la descrizione del corteo del dio Bacco e degli
altri personaggi vuol essere, un invito a godere della vita e dell'amore, ma anche un monito a non sprecare
il tempo che "fugge e inganna" e quindi un richiamo al motivo oraziano del carpe diem. Al trionfo pubblico
fanno riscontro molti lutti, il fratello, la madre e infine la moglie tanto che al culmine del suo successo si
allontana via via dal suo ruolo pubblico dedicandosi insieme a Poliziano e Pico al progetto di una grandiosa
biblioteca. Di questa ultima produzione ci restano 9 laude e una Rappresentazione di San Giovanni e Paolo,
muore nel 1492 circondato dai suoi amici.
Luigi Pulci nasce nel 1432 a Firenze da una famiglia nobile impoverita a causa di debiti economici. Alla
morte del padre Pulci si avvicini alla cerchi dei Medici, in particolare alla madre di Lorenzo, Lucrezia
Tornabuoni il quale pare che su sua richiesta il poeta intraprende la stesura del Morgante. La princeps del
Morgante in 23 canti venne stampata probabilmente nel 1478, seguirono poi le edizioni di Ripoli nel 1481 e
di Venezia nel 1482. Il titolo non è d’autore ma fu imposto a furor di popolo. A questa prima edizione il 23
cantari si ne aggiunsero altri 5 a partire dall’edizione fiorentina del 1483, il cosiddetto Morgante Maggiore.
Il Morgante è l'unico poema epico a narrare la morte di Orlando, a differenza di quanto avviene
nell'Innamorato e nel Furioso. Morgante convertitosi al cristianesimo segue il paladino Orlando il quale
aveva abbandonato la corte di Carlo Magno a causa della calunnie del cugino Gano di Maganza e si dirige
verso le terre dei pagani, giungendo presso una badia i cui monaci sono assediati da tre giganti, ne uccide
due e risparmia il terzo Morgante che si converte al Cristianesimo e diventa il suo scudiero. Intanto altri tre
paladini Rinaldo, Ulivieri e Dodone hanno lasciato Parigi per cercare Orlando. Da questo momento inizia un
susseguirsi frenetico di avventure, gesta iperboliche e incontri stravaganti. Rinaldo si ribella proclamandosi
imperatore e Orlando riprende la via dell’Oriente. Nel frattempo Morgante in cerca di Orlando s’imbatte in
Margutte, un mezzo gigante, è l’episodio più famoso dell’opera. I due passano insieme varie avventure
troncate quando Margutte muore scoppiando dalle risate a causa di uno scherzo. Morgante rimasto solo
arriva in Babilonia e ritrova Orlando e conquistano la città, ma sulla via del ritorno dopo essere scampati ad
una tempesta Morgante muore punto da un granchio. Rinaldo riprende la via dell’Oriente ma Carlo reclama
la sua presenza in Francia. Nel frattempo Gano invidioso dei successi militari di Orlando si accorda con
Marsilio, re di Spagna, e gli tenta un agguato a Roncisvalle dove il paladino si batte rifiutando di suonare il
corno per chiamare rinforzi che solo in punto di morte l’eroe si decide a suonarlo per avvertire Carlo.
L'esercito giunge tardi per salvarlo, ma in tempo per annientare le armate di Marsilio. Carlo Magno venuto
a conoscenza della malvagità di Gano lo fa prigioniero, verrà poi squartato da cavalli spinti in direzioni
opposte. Rinaldo riparte all’avventura, Carlo muore e sale al cielo per ricevere la ricompensa della sua
fedeltà. Il Morgante sembra seguire da vicino la narrazione di un cantare popolaresco dell'epoca, scoperto
da Pio Rajna nel 1868 e contenuto nel manoscritto Mediceo Palatino 78 della Biblioteca Laurenziana di
Firenze ma l’originalità dell’opera è tutta di carattere linguistico e stilistico, nel Morgante non interessa ciò
che viene raccontato ma come viene raccontato. Negli anni 70 del 400 Pulci giunse a una rottura con la
famiglia Medici e con Lorenzo, fattore determinante sembrò essere il mutato clima culturale alla corte
medicea, con l'avvicinarsi di Lorenzo all'accademia platonica di Ficino e alla letteratura di Poliziano, un
nuovo contesto in cui Pulci non era più gradito tanto che scrisse sonetti ingiuriosi ridicolizzando la religiosità
dei ficiniani. Negli ultimi anni della sua vita Pulci si lega al condottiero Roberto Sanseverino, e in questo
clima difficile maturano gli ultimi 5 cantari del Morgante maggiore. Del resto della produzione di Pulci si ha
un Vocabolarietto di lingua furbesca, una ricca raccolta di voci commentate che si accompagnano ad una
lista di 200 nomi, una vera è propria passione per la parola rara. La Beca da Dicomano, un poemetto in
ottave di argomento rustico che Pulci scrisse per rispondere in modo satirico alla Nencia di Lorenzo. Negli
ultimi tempi si era avvicinato all’ortodossia cattolica scrivendo la Confessione, un poemetto dedicato alla
Vergine, morirà poi nel 1484 e verrà sepolto in una terra sconsacrata a causa dei suoi scritti profani.

ANGELO POLIZIANO: nasce a Siena nel 1454, si stabilisce a Firenze a 13 anni in seguito alla morte del padre.
Qui è allievo di Marsilio Ficino e Pico della Mirandola, dimostra fin da subito le sue qualità cimentandosi
nella versione latina dei canti 2-5 dell’Iliade. Con la dedica al secondo libro della traduzione a Lorenzo de’
Medici, Poliziano entra nelle grazie del signore di Firenze, di cui diventa prima segretario personale e poi
precettore dei figli Piero e Giovanni. Ben presto egli diventa il più significativo esponente della brigata
laurenziana, cioè di quel gruppo di letterati e poeti che ci riunivano intorno a Lorenzo. La sua produzione è
caratterizzata da una raffinata imitazione dei modelli classici, predilige il metro elegiaco come nel carme
l’Epicedion in Albieram, una lunga elegia per la morte di Albiera degli Albizi, avvenuta a causa di un male
contratto dalla fanciulla durante la festa di fidanzamento. In volgare Poliziano scrive esclusivamente poesia
in sintonia con la politica culturale promossa da Lorenzo. Il testo poetico in volgare più importante sono le
Stanze per la giostra, dedicate a Giuliano de’ Medici e rimaste incompiuta a causa della morte di
quest’ultimo. Il 29 gennaio 1475 nella piazza di Santa Croce a Firenze, si svolse un torneo in cui risultò
vincitore Giuliano de’ Medici, fratello minore di Lorenzo, era una tradizione che i rampolli delle famiglie
nobili facessero il loro ingresso ufficiale nella vita pubblica delle città partecipando a una sorta di
competizione, tradizione era anche la devozione amorosa che i cavalieri portavamo in pubblica a qualche
dama, Giuliano scelse Simonetta Cattaneo. Era anche norma che di questi tornei si celebrasse la memoria in
poemetti in ottave. Nel 1469 il torneo di Lorenzo era stato immortalato da Luigi Pulci nella Giostra, dopo la
vittoria di Giuliano anche Angelo Poliziano si mise all’opera per celebrare l’esordio del giovane con un
poemetto intitolato Stanze per la giostra, era simile ad un reportage sportivo, fatto di cronaca cittadina in
cui si celebravano la grandezza delle città insieme ai nomi delle famiglie più illustri di Firenze che
partecipavano alla gara. L’opera appartiene al genere encomiastico, accanto ai personaggi terreni agiscono
personaggi divini, rimase incompiuta a causa della morte di Giuliano nella congiura de’ Pazzi nel 1478. Parla
dell’innamoramento di Iulio per una ninfa misteriosa che gli appare in una caccia e della sua decisione di
rendersi degno con un’impresa che doveva corrispondere alla Giostra. Nel poemetto l’ottava viene
trasformata diventando più chiusa in se stessa e più lirica e romanzesca. Il rapporto di Poliziano con i Medici
dura tutta la vita ma non è privo di tensioni. Nel 1479 in seguito ad alcuni contrasti con Clarice Orsini lascia
Firenze e si ferma a Mantova fino al 1480 al servizio del cardinale Francesco Gonzaga. Qui compone la
Fabula di Orfeo, l’unica opera di Poliziano non fiorentina. Secondo una lettera l’opera fu commissionata da
Francesco Gonzaga che la volle in volgare perché fosse comprensibile a tutti. Poliziano per quest’opera si
ispira soprattutto a Virgilio e Ovidio. Narra di come Euridice muore morsa da un serpente per sfuggire alla
pretese d’amore del pastore Aristeo. Orfeo marito di Euridice scende nell’Inferno per riscattarla, ottiene da
Plutone che Euridice può tornare in vita a patto che durante il viaggio che la riporterà sulla terra, lui non si
volti mai a guardarla. Ma Orfeo non è capace di resistere al giuramento e così la donna fu condannata a
morte eterna. La favola si conclude con la morte di Orfeo dilaniato dalle Baccanti arrabbiate per la sua
decisione di non amare più nessuno dopo Euridice. L’opera si conclude con un canto in onore di Bacco. Il
testo è interessante perché inaugura il teatro di argomento non sacro nel 400. Ripristinati i rapporti con i
Medici Poliziano torna a Firenze ottenendo la cattedra di poetica greca e latina nello Studio della città e
dove si dedicò a studi filologici e letterari dei più grandi autori classici, in questo periodo compone degli
scritti di varia tipologia, come i Miscellanea di cui ci rimane solo la prima centuria (100 casi) che l’autore
stesso pubblicò nel 1489 per volere di Lorenzo de’ Medici, la seconda centuria è invece incompiuta ed è
rimasta inedita fino a pochi anni fa. Manto dedicata alla poesia virgiliana, Rusticus che introduce i poemi di
Esiodo e Virgilio, Ambra sulla poesia omerica e Nutricia una storia letteraria per generi. Negli ultimi anni
Poliziano diventa canonico della cattedrale di Santa Maria del Fiore, muore nel 1494 per un attacco di
febbre perniciosa.
L’umanesimo fiorentino si distingue per la sua complessità, prima civile, poi laurenziana e poi popolaresca e
signorile insieme, gestito da una molteplicità di fattoti che vanno oltre le mura di Firenze. Fuori Firenze
invece l’umanesimo si struttura secondo il modello cortigiano trovando nella corte il suo unico centro di
irradiazione, la Ferrara degli Este. Da punto di vista istituzionale e politico la Ferrara del 400 è una città
fragile e la vicinanza alla potente Venezia le impedisce di sviluppare una vocazione marinaresca e
commerciale. Nonostante tutto Ferrara si eleva ad una statura politica e culturale di primo piano,
soprattutto durante il breve governo di Leonello, allievo di Guarino, che incarna il sogno platonico del
filosofo al potere. Il suo successore fu il fratellastro Borso, spesso rappresentato come gaudente e
illetterato ma sotto il suo governo, la città viene promossa a ducato. Infine il ducato di Ercole 1 d’Este lancia
Ferrara all’avanguardia, sia dal punto di vista architettonico con la famosa addizione secondo il modello
della città ideale, sia dal punto di vista letterario con l’edizione dell’Orlando Innamorato. Ferrara diventa il
centro di traduzione della commedia all’antica e la nascita del gusto cortigiano. La politica matrimoniale di
Ercole per le figlie ebbe modo di diffondere il modello ferrarese nelle altre corti padane, infatti Beatrice
sposò Ludovico il Moro ma morì giovanissima, Isabella invece sposò Francesco Gonzaga e riuscì a
trasformare la corte di Mantova in una sorta di microcosmo della cultura e del gusto rinascimentale. I
generi in volgare prediletti dalla corte estense e dalle corti quattrocentesche sono la lirica e il romanzo
cavalleresco. Dopo Petrarca il genere lirico rimane uno dei più frequenti nei poeti italiani, tuttavia non si
può dire che il modello petrarchesco venga seguito con particolare fedeltà, questo perché la lirica è ormai
diventata il genere di consumo più frequente, caratterizzata da una nuova ed elegante musicalità che
anticipa il filone che dai madrigali musicali di Tasso arriva fino a Metastasio. In molti saccheggiarono temi
ed espressioni di Petrarca, stilizzandoli in forme abusate e ripetitive, in una sorta di stucchevole retorica. Il
primo canzoniere è quello Giusto de’ Conti La bella mano, che alle influenze di Petrarca somma quelle
stilnoviste. Quanto al romanzo cavalleresco occorre osservare che nelle corti del nord la storia di questo
genere segue vie diverse rispetto a quelle toscane. Due sono innanzitutto gli aspetti da sottolineare, da una
parte una lunga stagione creativa che ci consegna molti testi cavallereschi in lingua francoveneta, dall’altra
l’aspetto importante riguarda il pubblico di riferimento, appartenente al ceto nobiliare.

MATTEOMARIA BOIARDO: nasce nel 1441 a Scandiano, tutta la prima parte della carriera poetica è
inclinata sul versante umanistico, in questo anni lo scrittore si impera a soddisfare le esigenze culturali di
Ercole d’Este, iniziò a scrivere versi in latino allo scopo di celebrare la famiglia estense, dunque la sua prima
produzione ebbe carattere encomiastico: compose i Carmina de laudibus Estensium, 15 componimenti di
vario metro dedicati al duca Ercole e ai quali l'autore dedicò 12 anni, in un arco di tempo piuttosto lungo.
Scrisse anche i Pastoralia, dieci egloghe di imitazione virgiliana, divenne collaboratore principale di Ercole
nell’ambizioso progetto del teatro classico che prevedeva il volgarizzamento e la messa in scena di
numerose commedie di Plauto e Terenzio, ma non ci è pervenuto nessun volgarizzamento boiardesco.
Estese la sua sperimentazione poetica alla poesia d’amore in volgare, il canzoniere di Boiardo rappresenta
la ripresa più seria del modello petrarchesco, si tratta di un vero e proprio libro di rime, in cui le singole
tessere del mosaico contribuiscono a un testo organico, continuo e compatto. L'opera volgare di Boiardo
più importante è certamente il canzoniere scritto per l'amore di Antonia Caprara, intitolato Amorum libri
tres, dove l’autore non guarda solo Petrarca ma anche ai poeti che parlano di amori più carnali. Costituito
da 180 componimenti divisi in tre libri, ciascuno di 60 liriche; ogni libro è simmetricamente formato da 50
sonetti e 10 composizioni d’altro metro, fra queste 5 sono ballate e altre 5 generalmente canzoni. Nel
primo libro è descritto l'innamoramento e la lode di Antonia, nel secondo il tradimento di lei e la delusione
del poeta amante, nel terzo un ritorno di fiamma che chiude il libro su una nota dolce-amara.
L’Orlando innamorato fu pubblicato per la prima volta tra la fine del 1482 e l’inizio del 1483, non si trattava
di un testo definitivo ma di un’edizione dei primi due libri, del quale non è sopravvissuto nemmeno uno, il
terzo libro fu steso a rilento e rimasto interrotto, fu pubblicato nel 1495 pochi mesi dopo la sua morte, nello
stesso anno uscì la prima edizione completa dell’opera in tre libri. Essendo perdute le prime edizioni del
poema c’è incertezza sul titolo originale, Orlando Innamorato è stato infatti prima messo in discussione e
poi abbandonato dalle curatrici dell’edizione critica più recente che ha preferito sostituirlo con il titolo
Innamoramento de Orlando. Alla corte di Carlo Magno a Parigi i cavalieri cristiani e saraceni, durante la
tregua della Pentecoste sono riuniti a banchetto alla vigilia di un grande torneo. La festa viene sconvolta
dall’arrivo di Angelica, una bellissima principessa orientale che si offre in premio a chi sconfiggerà che
cavaliere che l’accompagna, suo fratello Argalia. Ma è un inganno per sottrarre i guerrieri cristiani dal
campo di battaglia perché Argalia non può essere sconfitto per un incantesimo. Malagigi se ne accorge ma il
suo tentativo di neutralizzare Angelica fallisce e viene fatto prigioniero. Quando però il guerriero viene
ucciso dal saraceno Ferraù, la fanciulla fugge e viene inseguita da vari paladini innamorati di lei, tra cui
Orlando e Ranaldo. Giunta nella foresta delle Ardenne, Angelica beve dalla fonte dell’amore e secondo
quanto vuole l’incanto s’innamora del primo cavaliere che incontra, Ranaldo che nel frattempo ha bevuto
dall’altra fonte, quella del disamore, fugge davanti all’infiammata donzella tornandosene a Parigi. Dopo
varie peripezie, Angelica viene assediata nella città di Albracà dal re dei Tartari Agricane, innamorato anche
lui della fanciulla, finché non viene affrontato in duello da Orlando e ucciso, e poi non esita ad affrontare
Ranaldo, di cui sospetta una passione per Angelica, ma la fanciulla interverrà incaricando Orlando
nell’ardua impresa di distruggere il giardino incantato di Falerina. Intanto Parigi è assediata dal re africano
Agramante, aiutato da Rodamonte, guerriero feroce e quasi invincibile. Entra in scena anche Ruggiero,
guerriero musulmano di origini cristiane che il mago Atlante, suo padre adottivo, tiene lontano dalla guerra
temendo per la sua vita, in una dorata prigione. Per liberarlo Agramante ha bisogno dell’anello magico di
Angelica che rende invisibili e ha il potere di spezzare gli incanti, riesce a rubare l’anello e Ruggiero fa il suo
ingresso in guerra. Intanto Orlando riesce nell’impresa di distruggere come richiesto da Angelica il giardino
di Falerina e riprende il cammino verso l’Occidente. Nel frattempo Ranaldo giunto di nuovo nella foresta
beve questa volta alla fonte dell’amore mentre Angelica beve in quella del disamore. Orlando e Ranaldo
adesso sono veramente rivali in amore e si battono a duello, interviene Carlo che consegna Angelica a
Naimo di Baviera promettendola in premio a chi tra Ranaldo e Orlando darà il meglio nella battaglia
dell’indomani, il giorno seguente vede Orlando e Ranaldo fare prove di mirabile valore, fino a quanto
Atlante attira Orlando nella magica fonte del riso. Nel terzo libro vi è l’ingresso in campo di un nuovo
personaggio, Mandricardo che vuole vendicare la morte del padre Agricane, approda in Francia. Intanto
Ruggiero e Bradamante, sorella di Ranaldo si innamorano, ma si perdono subito di vista. Ruggiero rimane a
liberare i prigionieri delle foresta del riso e subito dopo parte per una nuova avventura e Bradamante ferita
alla testa viene accolta e curata da un romito che per medicarla meglio le taglia i capelli rendendola ancora
più simile ad un uomo. Infatti mentre si riposa viene trovata da Fiordespina, figlia del re di Spagna che
subito se ne innamora credendola un uomo. Sull’ambigua amicizia delle due Boiardo interrompe il poema.
L’invenzione primaria del poema era far innamorare Orlando, il sintagma “Orlando innamorato”, infatti, è
un ossimoro provocatorio dal punto di vista psicologico e narrativo, dato che esce, anche fisicamente dalla
scena epica per entrare nello spazio dell’avventura. Così si apre un tempo virtualmente continuabile
all’infinito, mentre il tempo narrativo rimane sospeso, senza reale sviluppo. Da qui si nasce la fusione dei
due maggiori cicli medievali: quello carolingio e quello bretone arturiano. Il sistema dei personaggi è
carolingio ma quello dei valori di comportamento e arturiano, rispetto ad una tradizione che privilegia la
cavalleria carolingia l’autore proclama la superiorità di quella arturiana in nome della dedizione all’amore.
Tipicamente boiardesca è la struttura ad intreccio del racconto, ripresa poi da Ariosto, con una continua
ripresa e interruzione dei fili narrativi (lassamo/tornamo) che crea suspense, è la tecnica dei cantari di
piazza dove il pubblico di volta in volta viene ridefinito. La tecnica narrativa boiardesca ha 3 diverse misure
narrative: la prima quella del singolo canto, la seconda è la sequenza lassamo/tornamo, la terza è l’aggiunta
di novelle brevi all’interno del canto. Boiardo è il primo introduttore delle novelle nel romanzo cavalleresco,
lo seguirà poi Ariosto. Boiardo affianca la sua carriera letteraria ai suoi doveri di feudatario estense, muore
nel 1494 dopo aver visto il passaggio delle truppe di Carlo 8 sul suo territorio.

Di identificazione tra mecenatismo principesco e promozione della nuova cultura umanistica è


rappresentato dalla Napoli aragonese, grazie ad Alfonso d’Aragona che quando arrivò in Italia impiantò la
sua cultura umanistica chiamando letterati di origine centro-settentrionale, tra cui Antonio Beccadelli e
Giovanni Pontano a cui si deve la nascita dell’Accademia napoletana. Quindi l’umanesimo aragonese ha
l’aspetto di un trapianto artificioso legato soprattutto all’energica iniziativa del re di raccogliere una
splendida biblioteca e promuovere la traduzione dei classici. Tutto si consumava tra la corte e l’accademia,
non promosse nessuna scuola universitaria e non si occupò di estendere la vitalità culturale in altri centri
del regno. Tuttavia lo spazio culturale finì col dare frutti caratteristici in autori come Jacopo Sannazaro che
muovendosi tra latino e volgare prosegue il bilinguismo e Masuccio Salernitano che nel Novellino offre
esempi di penetrazione dei modelli toscani nel napoletano. Giovanni Pontano nasce a Cerreto di Spoleto
nel 1429, rimase in tenera età orfano del padre trascorse l’adolescenza a Perugia e sotto la guida del
grammatico Guido Vannucci ebbe inizio la sua formazione letteraria e il suo grande amore per la cultura
latina. Divenne personaggio di spicco della corte aragonese, assumendo la carica di segretario di stato, si
dedicò specialmente alla lettere ma affronta lo stesso una vastissima gamma di generi poetici: i poemi
didascalici come Urania, Meteorum liber e De hortis Hesperidum, le Eclogae che dimostrano la rinnovata
vivacità del genere pastorale. Le raccolte lirico-epigrammatiche di cui fanno parte le Neniae, ovvero le
ninnenanne per il figlio Lucio. Quelli retorico-grammaticali che costituiscono un vivace resoconto
dell’attività dell’accademia, fondata dal Panormita e denominata Pontaniana in onore del suo più grande
esponente della cultura napoletana umanistica.
JACOPO SANNAZARO: nasce a Napoli intorno al 1456, diventa orfano del padre a 8 anni, nel 1481 entra alla
corte di Alfonso 1 d’Aragona, duca di Calabria e viene accolto dal grande umanista Giovanni Pontano che lo
induce nella sua accademia (pontaniana) imponendogli il nome di Azio Sincero. Alla morte di Alfonso
diventa re di Napoli Federico 3 d’Aragona, con cui Sannazaro intrattiene un’amicizia così salda da seguirlo
nell’esilio in Francia. Tornato a Napoli alla scomparsa del re nel 1504 vive appartato nella villa di Mergellina,
confortato dall’amore per una nobildonna napoletana Cassandra Marchese. Muore nel 1530 e viene
sepolto nella chiesa di Santa Maria del Parto a Mergellina, non lontano dal sepolcro di Virgilio. Sulla sua
lapide, si legge ancora oggi l’iscrizione dettata da Pietro Bembo: “Dai fiori alle sacre ceneri: qui giace il
famoso Sincero (Sannazaro) vicino a Marone (Virgilio) nella poesia come nel sepolcro”. Sannazzaro continua
la tradizione filosofica quattrocentesca, dedicandosi, specie durante il soggiorno francese, alla scoperta e
allo studio di rari testi latini, tra cui quelli di Nemesiano, Rutilio Namaziano, epigrammi inediti di Marziale e
di Ovidio. Possiamo suddividere la produzione di Sannazzaro tra le opere in volgare e quelle in latino. Le
prime risalgono al periodo giovanile: alcune filastrocche (i cosiddetti gliommeri in dialetto napoletano
gomitoli, un genere letterario tipicamente meridionale, che sovrappone i più vari argomenti proprio come
in un gomitolo si sovrappongono i fili di lana) e le liriche, di chiara ispirazione petrarchesca, pubblicate
postume nel 1530 con il titolo Sonetti et canzoni. In volgare oltre all’Arcadia, ci sono rimaste 6 Farse, scritti
d'occasione legati all'ambiente di corte, e soprattutto il suo canzoniere, una silloge di 101 liriche ispirate
all'amore per Cassandra Marchese, pubblicate a stampa tardivamente nel 1530 l'anno della morte. È bene
ricordare che la produzione in volgare precede quella latina rappresentata dalle 5 Eclogae Piscatoriae dove
l'ambiente idillico viene spostato dal mondo dei pastori a quello dei pescatori, e il De partu Virginis un
poema dedicato alla nascita di Cristo, alla cui revisione l'autore lavorò fino alla fine della sua vita. L’Arcadia
è l'opera che diede la fama a Sannazzaro, rappresenta la maturazione della multiforme opera sannazariana
e allo stesso tempo dell'umanesimo napoletano. La sua importanza nel 400 è duplice: da una parte
consacra, sul piano dei contenuti, la centralità della materia pastorale, dall'altra, con l'assunzione di un
toscano letterario, costituisce il superamento dell’ibridismo linguistico quattrocentesco. L'opera passò
attraverso una complessa lavorazione, il prodotto finale è il risultato di un unione di parti prosastiche e di
ecloghe poetiche che erano state composte sin dal 1480 ed erano originariamente destinate alla
recitazione. Negli anni 1485-86 l'opera era composta da 10 prose e 10 egloghe e in questa veste viene
stampata nel 1501. Dopo la revisione del 1496, le parti in prosa perdono man mano il ruolo di semplice
raccordo con quelle in versi e acquistano un'autonomia sempre più significativa, furono aggiunte altre 2
prose, 2 egloghe e un congedo. In questa forma è presentata l'Arcadia nell'edizione napoletana del 1504
curata da Pietro Summonte. L'arcadia racconta la vicenda di Azio Sincero (sotto cui si cela lo stesso
Sannazzaro) il quale a seguito di una delusione d'amore si reca in Arcadia la regione della Grecia, qui Azio
trova un ambiente sereno, incontaminato, percorso dei canti d'amore dei pastori che si dedicano alla vita
campestre, alla caccia, al pascolo e spesso si cimentano in gare poetiche cantando le loro vicende
sentimentali. Il protagonista spera di aver trovato in questa pacifica atmosfera un conforto alle proprie
sofferenze ma dopo un terribile sogno inizia a vagare per le campagne dell'Arcadia fino a un fiume che
scorre alle pendici di un monte, qui una Ninfa lo conduce attraverso un passaggio sotterraneo vicino Napoli
dove Azio viene a sapere della morte della fanciulla amata. L'opera si chiude col doloroso sfogo del
protagonista e col suo congedo dalla zampogna pastorale. Nell'arcadia convivono due mondi: uno ideale e
uno reale, infatti in molti dei poeti-pastori che popolano l'opera si possono riconoscere intellettuali e
scrittori dell'ambiente napoletano. Il carattere di “testo a chiave” apparentemente sospeso in un mondo
idillico di sogno era già riscontrabile nelle egloghe di Virgilio, ma in Sannazaro si accentua ancora di più, anzi
rimarrà tipico del genere bucolico in volgare e della letteratura europea di ambientazione pastorale, e sotto
il travestimento dei pastori saranno spesso riconoscibili i protagonisti della vita sociale politica e mondana
del tempo.
Rispetto a Pontano e Sannazaro il Novellino Di Tommaso Guardati, detto Masuccio Salernitano rappresenta
un aspetto diverso della cultura aragonese. Le sue novelle si rifanno al nobile decameroniano ma insistono
su temi misogini dell'infedeltà, della lussuria femminile e su quelli anticlericali della corruzione. Il tono è
polemico e accusatorio e in ogni novella si ha un finale in cui Masuccio condanna i comportamenti
rappresentati nel racconto. Il Novellino pur così lontano dalla cultura aragonese rappresenta un preciso
aspetto ideologico e linguistico, dal punto di vista ideologico una corte come quella napoletana non poteva
che consentire con la violenza antifratesca di Masuccio che escogita una forma di novelliere intesa a legarsi
organicamente con la corte e con l'aristocrazia del regno. L'opera è dedicata Ippolita d'Aragona, duchessa
di Calabria, ma ogni singola Novella è incorniciata da un epistola di accompagnamento e di dedica
personaggi illustri della corte. Dal punto di vista linguistico rappresenta una soluzione rilevante del
Quattrocento Aragonese, l’autore dichiara apertamente la sua ammirazione per Boccaccio ma senza
rinunciare a una fortissima coloritura linguistica locale, si tratta di un boccaccismo quattrocentesco libero e
complesso lontano dall’imitazione linguistica del 500 ormai imminente.

Quando si parla di Rinascimento ci si riferisce al classicismo rinascimentale, ovvero gli aspetti della civiltà
quattro e cinquecentesca che più appaiono indebitati col ritorno all'antico e col recupero e l’imitazione del
mondo classico. Nel 500 il classicismo non esaurisce il quadro culturale del secolo. All'aspetto
classicheggiante di questa cultura si intreccia un aspetto diverso, turbato, oscuro e inquieto che spesso
nasce da zone di pensiero diverse rispetto al platonismo dominante e da strati socio-culturali diversi. Il
controrinascimento e l'antirinascimento sono la presenza di correnti naturalistiche magiche ed esoteriche
accanto al neoplatonismo ufficiale e il crescente gusto per l'irregolare, il grottesco e il mostruoso accanto al
culto armonico della bellezza ideale del classicismo rinascimentale. Il Manierismo è l'anello di congiunzione
tra il Rinascimento e il Barocco, è la categoria primaria della storia dell'arte non della letteratura, il termine
nacque con intenzione dispregiativa, per indicare certe manifestazioni artistiche del tardo 500 che
sembravano l'irrigidimento e la ripetizione schematica, la trasformazione in “maniera” delle forme create
dall'arte classica del Rinascimento. Solo all'inizio del 900 non viene più visto come fenomeno di decadenza,
ma come l'emergere di un carattere soggettivistico e deformante dell'arte tardo cinquecentesca
contrapposto alle regole classiche e rigide. In seguito si è visto nel Manierismo l'espressione artistica della
crisi che scuote un secolo travagliato sintomo di una introversione malinconica che esprime il disagio
ideologico e sociale dell'artista, “manieristi” si sono chiamati gli artisti, inizialmente fiorentini, che danno
vita ad una pittura caratterizzata da linee serpentinate, allungate e sinuose e colori agri, preziosi e astratti. Il
letteratura invece i manieristi sono stati considerati tutti gli anticlassici, nonché tutti i personaggi
particolarmente tormentati e combattuti, da Cellini a Tasso, si tratta di un tentativo di caratterizzare quella
vasta area di sensibilità inquieta ombrosa ed eccentrica che attraversa tutto il Rinascimento e che ritorce su
se stessa l'estetica classicista stilizzandola in consapevole maniera.

Rispetto al 400, il 500 vede un accentrarsi ancora più forte delle attività intellettuali e culturali all'interno
della corte che viene descritta da Baldassarre da Castiglione nel Libro del Cortegiano, come il luogo della
conversazione e dello scambio di idee che caratterizzata dalla presenza femminile che fa sì che la
conversazione non possa mai addentrarsi in terreni troppo specialistici. Nelle numerose parodie le corti
sono rappresentate come un luogo spietato carico di insidie e competizione, unico palcoscenico capace di
assicurare lustro e visibilità. Infatti nel 500 tutta Italia tranne Venezia è governata dalla mano dei principi, e
il loro mecenatismo è la fonte principale di finanziamento e di sostegno di ogni attività culturale. In
particolare dal punto di vista dell'organizzazione intellettuale, emblematica è la vicenda dell'Accademia
Fiorentina fondata nel 1540 col nome di Accademia degli Umidi da Giovanni Mazzuoli detto lo Stradino che
ritiratosi a vita privata, si era dato a collezionare ricordi di cultura popolare e che rappresenta l'incarnazione
della sopravvivenza di un gusto municipale pulciano, burchiellesco attaccato all'uso della lingua fiorentina e
al culto di una letteratura comico-burlesca. Ma Cosimo de' Medici non può tollerare un'accademia di tale
genere, così prima vi immerge personaggi a lui devoti, poi ne modifica i regolamenti e alla fine il nome
stesso in quello di Accademia Fiorentina. Nel febbraio del 1542 Il console dell'Accademia eredita il controllo
sulle librerie e sulle attività di stampa, l'accademia quini è diventata in tutto e per tutto un organo di
funzionamento della corte medicea. Seppur sottoposte al controllo del principe le accademie rimangono
per tutti il 500 uno spazio relativo di libertà e di confronto culturale. Sono inconfrontabili con quelle
quattrocentesche, se quelle umanistiche del 15 secolo rappresentavano circuiti di cultura alternativa legata
all'avanguardia dei nuovi studi classici, le accademie cinquecentesche sono organismi tutt'altro che elitari,
legati alla divulgazione della cultura. L'Accademia si distingue dalla corte per il suo carattere non gerarchico
con pari dignità dei partecipanti, dal punto di vista della progettazione della scrittura ogni accademia
possiede una sua propria agenda ma con un tratto diffuso è la pianificazione collegiale e la stesura più mani.
Le università coltivano saperi ormai arretrati, mentre il nuovo maturava in spazi di libero scambio
intellettuale estranei alla rigidità burocratica del sistema universitario, controllate fortemente dalla chiesa.
Nel 1564 Pio 4 prescrisse il giuramento di fedeltà cattolica a tutti i laureandi, provocando un vero e proprio
esodo degli studenti stranieri e una conseguente provincializzazione degli atenei. Un centro nuovo e
propulsivo della cultura cinquecentesca è la tipografia dove non ci sono più gli editori coltissimi del 400, ma
editori di mercato sensibili ai gusti di un pubblico ora maturo e smaliziato, non stampano più solo per gli
umanisti, ma cercano lettori di ogni classe sociale e di ogni livello di educazione.
Nella sua organizzazione culturale il 500 vive una paradossale contraddizione, da una parte il mercato del
libro si espande presso ogni classe sociale, dall'altra la chiusura della società tardo cinquecentesca esige un
controllo delle idee e delle opinioni e quindi della stampa. Nel 1559 esce l'indice dei libri proibiti di Papa
Paolo 4 che proibiva tanti autori volgari come Boccaccio e Machiavelli e tutte le edizioni in latino e in
volgare della Bibbia. Ma risulta quasi impossibile controllare davvero la stampa, tutta l'Europa cristiana
Cerca di limitare i danni della stampa e la censura assume forme sempre più raffinate. Non si trattava
soltanto di distruggere i libri proibiti, di impedirne la stampa o la circolazione ma poteva valere anche la
pena di censurare nel senso di riscrivere, riaggiustare, tagliare è quando successe al Decameron giudicato
anticlericale ma anche troppo pregevole perché si potesse pensare di toglierlo dalla circolazione. La prima
revisione fu affidata a Vincenzio Borghini, filologo eccellente e grande studioso che si limitò a una ripulitura
filologico-linguistica, ma non bastò, nel 1582 fu fatta una nuova rassettatura da Lionardo Salviati altro
filologo fiorentino e massimo promotore del Vocabolario della Crusca. Il testo è sottoposto ad alterazioni
che vogliono salvaguardare il buon nome degli uomini di chiesa, l'operazione finisce con l'avere un
significato emblematico anche riguardo le sorti della grande tradizione filologica umanistica.

Nei primi anni 30 del 500 l'Italia constata il tuo distacco dell'Europa dove si consolidano i nuovi stati-
nazione e si perfezionano le moderne monarchie assolute, mentre l'Italia è incapace di superare il suo
particolarismo. Nel 500 la coscienza che l'Italia non sa dare origine a uno stato unificato esaspera per
contrasto l'esigenza di affermare un'identità italiana, se non politica, almeno culturale e linguistica. La
questione è: se un paese così frammentato senza centro o unità, senza re o capitale possa dotarsi di una
lingua unitaria. Le opzioni linguistiche che tentano di rispondere a questa necessità sono molteplici e danno
luogo alla “questione della lingua”, secondo due posizioni principali: chi è più interessato alla favella, cioè la
lingua parlata, e chi mira invece alla lingua letteraria. La prima posizione è incarnata dai sostenitori della
lingua cortigiana, uomini come Mario Equicola, Vincenzo Calmeta, Giangiorgio Trissino e Baldassarre da
Castiglione, che vedono la lingua come gesto sociale fatto di educazione e belle maniere, vogliono che si
parli ovunque con la stessa raffinatezza. Il modello cortigiano è legato alla vitalità politica del sistema
quattrocentesco e quando con la crisi delle guerre d'Italia quel sistema viene messo a nudo nella sua
precarietà anche il progetto linguistico ad esso legato si rivela altrettanto precario. Bembo nel suo dialogo
Prose della volgar lingua, dimostra l'impossibilità di una lingua nazionale cortigiana proprio in quanto varia,
legata a un sistema politico frammentario, mostra cioè l'assenza di un centro, una capitale che possa porsi
come luogo di elaborazione di una lingua nazionale. La lingua parlata, dunque, è una partita persa, perciò
Bembo si occupa solo della scritta. L'Italia divisa in tante realtà locali non può aspirare una lingua d'uso
unitaria ma può mantenere la sua identità culturale grazie a una lingua letteraria stabile, che rappresenti
almeno l'elite intellettuale italiana. Propone quindi i grandi modelli toscani del 300, Petrarca per la poesia,
Boccaccio per la prosa, il ritorno a una lingua letteraria di due secoli prima non parlata nemmeno più a
Firenze, è una scelta rischiosa e le reazioni di opposizione arrivano soprattutto dai toscani stessi, dato che
più degli altri sentono il carattere arcaico di tale lingua. Tra il 400 e il 500 il panorama letterario subisce
profonde modificazioni nelle strutture culturali, la codificazione del volgare come lingua colta e letteraria e
anche lo sviluppo della stampa producono un ampio allargamento della società letteraria che estende la
struttura a due nuove categorie sociali donne e artisti. L'espansione della letteratura femminile nel
Cinquecento, però, è soggetta a varie limitazioni. Ad esempio Vittoria Colonna discendente di una delle più
potenti famiglie dell'aristocrazia romana e sposa di un celebre capitano Francesco D'Avalos, marchese di
Pescara, Veronica Gambara sposa di Gilberto da Correggio, dopo la morte precoce del marito eredita il suo
feudo. Il 500 però Include un'altra categoria di persone a cui era concesso uno stile di vita più libero “la
cortigiana” o meglio “la cortigiana honesta”, una prostituta ma di alto livello come Tullia d'Aragona,
Veronica Franco autrice di rime poco petrarchesche in cui rivendica apertamente le proprie prodezze e
specialità erotiche e Gaspara Stampa nata a Padova tra il 1520-25 si trasferisce a Venezia nel 1531 dopo la
morte del padre, con la madre, la sorella e fratello, colta cantatrice e poetessa entra a far parte della
società raffinata e mondana della città conducendo una vita libera e spregiudicata. Gran parte delle sue 311
Rime pubblicate postume dalla sorella, è dedicata a suo grande amore cioè il conte Collatino, uomo darmi,
scienziato e poeta, nelle sue rime spiega il linguaggio petrarchista in una versione marcatamente femminile
rappresentandosi sconfitta nel confronto con l'uomo che ama, inoltre verrà dipinta come la nuova Saffo.

Alla categoria delle donne va aggiunta quella di un altro gruppo finora emarginato quello degli artisti. La
promozione dell'artista a un ruolo intellettuale inizia nel 16 secolo, poi nel 500 le migliori condizioni
economiche degli artisti sono la premessa per accedere al mondo della cultura, così nel corso del secolo
anche gli artisti cominciano a scrivere, non solo trattati tecnici ma anche autobiografie come Cellini o rime
come Michelangelo. Michelangelo Buonarroti nato in un paesino vicino Arezzo nel 1475, inizia a 13 anni,
presso la bottega fiorentina di Domenico Ghirlandaio l'apprendistato che lo condurrà a un immensa fama
come scultore, pittore e architetto. Frequenta gli intellettuali della corte medicea e successivamente, alla
morte di Lorenzo, si trasferisce a Roma dove vi rimane per 5 anni, poi inizia a lavorare tra Firenze e Roma,
affresca la volta della Cappella Sistina in Vaticano, poi torna a Firenze dove aderisce al governo
repubblicano dopo la cacciata dei Medici. Trasferitosi definitivamente a Roma nel 1537 completa il giudizio
universale, nel frattempo conosce la nobildonna e poetessa Vittoria Colonna frequentandola l'artista
accentua il proprio sentimento religioso, morirà poi nel 1564. Nelle Rime rappresenta un linguaggio aspro e
concreto, e il contrasto vissuto drammaticamente tra carne e spirito, adatta la lezione petrarchista a una
concezione dell'amore radicata nel neoplatonismo fiorentino, ecco allora che l'oggetto d'amore si trasfigura
in un tormentoso traguardo di perfezione che spinge verso una eroica sublimazione religiosa del
sentimento amoroso. Benvenuto Cellini nella Vita eleva un monumento alla propria eccezionalità di uomo
e di artista, è inutile pretendere dalla sua autobiografia il rispetto della verità, ma ciò che la rende così viva
e avvincente, è proprio l'evidente eccesso della finzione. Giorgio Vasari invece, nelle Vite vasariane,
pubblicate in due edizioni, sono un'opera militare che intende affermare il primato del disegno fiorentino
rispetto al resto dell'arte italiana. A questo scopo Vasari divide le sue vite in tre grandi periodi: l'inizio
dell'arte italiana, l’augumento e il culmine. Questo schema è l'esempio più chiaro che il 500 ci offre della
coscienza di una rinascita dopo il buio e la decadenza medievali, all'interno di questo schema le vite di
Vasari procedono per biografie staccate, ma si legano l'una all'altra attraverso strette parentele narrative.

LUDOVICO ARIOSTO Nasce a Reggio Emilia nel 1474, primo di 10 figli. Il padre, Niccolò, e capitano della
Rocca di Reggio, al servizio di Ercole primo d'Este; la madre appartiene all'alta nobiltà reggiana. Nel 1484 la
famiglia si trasferisce a Ferrara dove il padre ricopre importanti cariche amministrative, tra il 1485 e il 1489
Ludovico compie i primi studi di grammatica col precettore Domenico Cattabene e l'umanista Luca Ripa.
Mentre la famiglia si trasferisce a Modena, Ludovico frequenta fino al 1494, per volere del padre, corsi di
legge allo studio di Ferrara ma senza grandi risultati. Nel 1493 scrive una Tragedia di Tisbe (oggi perduta) e
prende parte e rappresentazioni della compagnia teatrale di corte, abbandonati gli studi di legge comincia
la propria educazione umanistica sotto la guida di Gregorio da Spoleto. Nel 1498 comincia dedicarsi alla
lirica in volgare, anche se le sue Rime non si ordineranno mai in un organismo coerente. Nella Satira 4
Ariosto afferma orgogliosamente di aver composto poesia da giovane, rivendicando la duplice
frequentazione del latino e del volgare. Tuttavia i carmi in latino e le rime in volgare toscano, si dispongono
su piani diversi: i primi, in tutto 67 testimoniano il giovane entusiasmo di Ariosto, le rime volgari invece,
comprendono canzoni, sonetti, Madrigali, 27 capitoli in terza rima, a cui vanno aggiunte 2 egloghe in
terzine: la prima del 1506 ispirata alla congiura di Don Giulio e Don Ferrante d'Este contro i fratelli Alfonso e
Ippolito, la seconda del 1526 dettata dall'improvvisa scomparsa di un condottiero, forse Giovanni delle
Bande Nere. Alla varietà delle forme metriche si aggiunge la varietà dei temi, non solo amorosi e
autobiografici, anche politici e cronachistici lontani da un petrarchismo ortodosso, ma lontani anche dai
metri fantasiosi della lirica cortigiana. Le sue rime si collocano a metà strada tra il municipalismo dei
canzonieri delle corti settentrionali e il sistematico recupero del Petrarca di Bembo. Nel 1500 muore il
padre, e tocca Ludovico come primogenito assumersi le cure della famiglia, intraprende quindi la carriera
militare: nel 1502 è capitano di Canossa, l'anno dopo entra servizio del Cardinale Ippolito d'Este. La sua
condizione di chierico lo obbliga al celibato e lo lega alla gerarchia ecclesiastica. Del 1507 sono le prime
notizie di una continuazione dell'Orlando Innamorato lasciato incompiuto da Boiardo, è L'Orlando Furioso di
cui Ariosto è in grado di recitare alcuni episodi a Isabella d'Este, a Mantova. Il 5 marzo del 1508 viene
rappresentata nel Teatro del Palazzo Ducale di Ferrara la Cassaria prima commedia ariostesca, l'anno dopo
per il carnevale si rappresentano i Suppositi. Entrambi i componimenti si limitano a rielaborare temi e
situazioni di Plauto e Terenzio e ad allineare personaggi ben noti dal padre anziano, burbero e avaro, al
figlio innamorato di fanciulle di origini oscure, ma destinate a prestigiosi riconoscimenti finali, la novità
quindi è tutta linguistico stilistica. Nel 1512 Ludovico accompagna il duca a Roma e poi dopo un’aspra
rottura con il pontefice, nella sua fuga dalla città, travestito e inseguito dagli sgherri del papà, Ariosto
riferisce la sua avventura in una celebre lettera da Firenze l’1 ottobre di quell'anno. Nel 1513 incontra a
Firenze, durante le feste di San Giovanni, Alessandra Benucci che diventerà per lui l'amore di una vita, a
quel tempo però, la Bellucci era ancora sposata con Tito Strozzi, e solo dopo la morte di lui, la donna si
trasferisce a Ferrara dove nel 1528 con un matrimonio segreto Ariosto finalmente la sposerà. Nel 1516,
dopo un lavoro di circa 10 anni, esce la prima edizione dell'Orlando Furioso, un poema cavalleresco in
ottave composta da 40 canti, opera dedicata a Ippolito d'Este protettore del poeta, con cui rompe un anno
dopo dedicandogli una satira in cui esprime la sua frustrazione da cortigiano maltrattato e poeta snobbato,
a questa satira ne seguiranno altre sei pubblicate tutti insieme postume nel 1534. Dopo la rottura con il
cardinale Ippolito, Ariosto trova nella forma della satira il veicolo adatto per esprimere la propria
frustrazione, si apre così una stagione particolare della sua carriera, un Ariosto ironico e amaro, è una
stagione molto caratterizzata a livello letterario e psicologico. Le Satire furono composte dal 1517 al 1525,
si situano tra il primo e l'ultimo Ariosto, sono ispirate agli avvenimenti comuni di una vita certo non
avventurosa, ma inquieta e fitta di preoccupazioni, compongono un autoritratto quotidiano dello scrittore:
nella prima lo vediamo mareggiato e risentito dopo la rottura con Ippolito, nella seconda descrive senza
simpatia i fastidi della corte romana, nella terza ribadisce i disagi del servizio cortigiano, nella quarta
descrive a tinte aspre e desolate i guai del suo governatorato in Garfagnana, nella quinta discute i pro e i
contro della condizione matrimoniale, nella sesta, col pretesto di richiedere a Bembo un buon maestro per
il figlio Virginio, dipinge un'immagine poco accattivante dei precettori dell'epoca, nella settima infine, rifiuta
la nomina la nomina ad ambasciatore presso il papa, confermando il suo carattere di uomo schivo. In
sostanza le Satire sono lo sfogo di un intellettuale cortigiano che vive i propri malumori all’interno di una
più generale condizione precaria e di una grande crisi che attraversa l’età delle guerre d’Italia. Nel 1518
Lodovico è alla corte di Alfonso 1 d’Este contento del nuovo incarico, ma le angustie finanziarie non lo
lasciano in pace, così nel 1522 è costretto ad accettare l’incarico di governatore della Garfagnana dove vi
rimane fino al 1525, le lettere di questo periodo ci descrivono un uomo scontento e frustrato. Tornato a
Ferrara trascorre i suoi ultimi anni serenamente attendendo una nuova e ampliata edizione del Furioso,
dopo quella del ’21 sempre di 40 canti e con una lingua che si evolve verso una forma più toscaneggiante, la
terza edizione di 46 canti esce nel 1532, e la lingua si conforma sempre di più al fiorentino illustre, ma
Ariosto non è soddisfatto del tutto e già stava pensando ad una nuova edizione più amplia e corretta
quanto la morte lo colse nella sua casa a Ferrara nel 1533.

Il capolavoro ariostesco si presenta come un'opera di fortunatissimo intrattenimento, il che ci rimanda a


Ferrara, al pubblico di dame e cavalieri al quale il poema è rivolto, in questo senso Ariosto continua
Boiardo, non solo perché riprende le fila della trama lasciata interrotta ma anche perché ne eredita
l'artificio narrativo, cioè quello di aver trasportato la recitazione delle avventure cavalleresche dalla piazza,
all'interno della corte. Nel Furioso la storia non viene semplicemente raccontata, ma ci viene rappresentato
un narratore che ce la racconta, ogni canto non è semplicemente il capitolo di un racconto ma costituisce
una porzione di trama che il narratore ci porge, la figura del narratore è in primo piano, accoglie il suo
pubblico, si congeda da lui infine di canto, interloquisce e dialoga. Ma nel Furioso qualcosa cambia ad
esempio l'incipit non replica il sonoro appello orale del Boiardo ma imita l’avvio dell'Eneide preferendo la
nobilita dell'allusione classicista alla coinvolgente teatralità boiardesca. Il sistema romanzesco dell'oralità
simulata ne esce indebolito e i manierismi canterini sono sostituiti a fine canto da commenti morali del
poeta. Si può dire che Ariosto cerca di tenere sempre alta l'attenzione del pubblico, cambiando spesso
argomento, trae per esempio la sua tecnica di racconto continuamente interrotto e sempre sul più bello, al
culmine della suspense passa a un altro personaggio e a un'altra trama. La tecnica romanzesca del racconto
continuamente interrotto e dell'intreccio che ne consegue induce anche un altro genere di considerazioni,
Ariosto governa la sua materia cavalleresca secondo la regola di un'assoluta casualità della quale lo
scrittore è il regista ma il divertimento consiste nel impigliare il lettore, nel lasciarlo smarrire in un labirinto
di cui soltanto il poeta possiede la mappa.

Il poema ha una trama estremamente complicata e ricca di personaggi e filoni narrativi secondari, per cui
non si può riassumere: in generale l'opera si sviluppa seguendo due grandi linee, spesso intrecciate fra loro,
quella riguardante la guerra tra cristiani e pagani già oggetto dell'epica carolingia e quella degli amori e
delle vicende romanzesche che hanno come protagonisti i paladini di entrambi i campi. A ciò si aggiungono
innumerevoli intermezzi non direttamente legati alla trama principale che arricchiscono ulteriormente il già
complicato intreccio, a volte sotto forma di racconti e favole inserite come pausa narrativa dall'autore.
L'inizio della narrazione riprende in parte l'Innamorato di Boiardo rimasto interrotto, quando Carlo Magno
sottraeva Angelica ai due contendenti Orlando e Rinaldo promettendola in sposa a chi si fosse battuto più
valorosamente nell'imminente battaglia contro i mori di re Agramante che hanno invaso la Francia, nel
tentativo di vendicare la morte del padre ucciso proprio da Orlando. Lo scontro si risolve in una sconfitta
per i cristiani da cui Angelica approfitta per fuggire, dando inizio a una girandola di inseguimenti (da parte di
Rinaldo, Ferraù, Orlando). Angelica viene catturata dagli abitanti dell'isola di Ebuda e legata a uno scoglio
per essere divorata da un'orca mostruosa, venendo poi liberata da Ruggiero. La donna si rende invisibile
grazie al suo anello magico e continua a fuggire, spezzando in seguito l'incantesimo del secondo castello del
mago Atlante. Capitata sul campo di guerra tra pagani e cristiani, si imbatte nel giovane fante saraceno
Medoro gravemente ferito: lo cura, si innamora di lui e lo sposa, partendo poi con lui per l'Oriente. Sul lido
di Tarragona, in Spagna, i due stanno per imbarcarsi, quando incontrano un pazzo dal quale scappano a
stento: è Orlando, che ha appreso del loro matrimonio e ha perso il senno. Angelica e Medoro partono e
questa è la loro ultima apparizione del poema. > Orlando, invece, campione dei paladini cristiani, fa un
sogno in cui vede Angelica in pericolo, quindi lascia Parigi nel bel mezzo della guerra contro Agramante e
inizia a cercare la donna. Giunto in Olanda, aiuta Olimpia contro un malvagio re negromante che possiede
un archibugio. Orlando lo sconfigge e distrugge l'arma, poi libera Olimpia dall'orca dell'isola di Ebuda. In
seguito il paladino finisce nel secondo castello di Atlante, in compagnia di Ruggiero e altri guerrieri, e viene
liberato grazie all'intervento di Angelica che gli sfugge. Libera anche Isabella dai predoni che l'avevano
rapita e la riconsegna al fidanzato Zerbino, dopo aver liberato anche lui dai Maganzesi. Si scontra col
pagano Mandricardo, ma durante una pausa del duello capita nel luogo che aveva visto l'amore di Angelica
e Medoro, finendo per impazzire di gelosia: avendo perso del tutto il senno, Orlando si trasforma in un
bruto che va in giro per il mondo a fare follie, finché Astolfo non va sulla Luna a recuperare il suo senno
sotto forma di liquido dentro un'ampolla. Il paladino riacquista la ragione grazie all'intervento di Astolfo e
altri guerrieri, quindi torna a dare il suo apporto alla guerra contro i mori e partecipa allo scontro sull'isola
di Lipadusa, che si conclude con la vittoria dei cristiani. A questo punto Orlando torna a Parigi, essendo la
guerra vinta su tutti i fronti. >Bradamante, la sorella di Rinaldo innamorata del pagano Ruggiero, cerca il
suo amato e incontra Pinabello, che le racconta di come il fidanzato sia prigioniero del mago Atlante. La
donna libera Ruggiero dal primo castello del mago anche grazie all'aiuto di Melissa, un'incantatrice che le
predice le future gesta degli Este. Ruggiero viene però sottratto da un cavallo alato inviato da Atlante, e
giunge all'isola della maga Alcina dove libera Astolfo trasformato in mirto. In seguito, sempre in groppa al
cavallo, Ruggiero libera Angelica dall'orca dell'isola di Ebuda e ne è affascinato, ma la donna fugge grazie
all'anello magico. Il guerriero viene poi nuovamente rapito da Atlante nel suo secondo castello), che Astolfo
riuscirà a distruggere liberando lui e Bradamante, prima di impossessarsi del cavallo. Ruggiero decide di
tornare al campo pagano per unirsi a re Agramante, ma viene coinvolto in una serie di scontri con gli altri
saraceni e, ferito, deve separarsi da Bradamante. Ritrovata la sua donna, apprende dallo spirito di Atlante la
verità sulle sue origini cristiane e il fatto che lui e Marfisa sono gemelli; viene poi battezzato da un eremita e
si converte per sposare Bradamante, ma intanto il padre di questa, Amone, ha deciso di darla in moglie a
Leone, figlio dell'imperatore greco Costantino. Ruggiero parte per la Grecia per ottenere fama e ricchezze, e
in seguito a una serie di peripezie riesce a ottenere in sposa Bradamante. Le nozze concludono il poema,
anche se durante il banchetto irrompe Rodomonte che sfida a duello Ruggiero, il quale lo uccide dopo un
aspro combattimento. >Imprigionato in un mirto sull'isola della maga Alcina, Astolfo viene liberato da
Ruggiero e in seguito inizia una serie di viaggi avventurosi, dopo che Logistilla gli ha consegnato un libro di
incantesimi e un corno magico. Sconfigge i mostri Caligorante e Orrilo, distrugge il secondo castello di
Atlante e si impossessa del cavallo alato ippogrifo, in groppa al quale prosegue i suoi straordinari viaggi.
Attraversa l'Africa, poi visita l'Inferno e il Paradiso Terrestre, dove incontra S. Giovanni Evangelista, questi
gli spiega che Dio ha reso pazzo Orlando per punirlo dal suo amore verso una pagana e del conseguente
abbandono della guerra: raggiunge con questi la Luna grazie al carro di Elia e recupera il senno perduto di
Orlando, racchiuso sotto forma di liquido in una grossa ampolla. Crea magicamente un'armata da usare
contro i mori, poi restituisce il senno a Orlando con l'aiuto di altri paladini, dando un contributo decisivo
alla conclusione vittoriosa della guerra contro Agramante.

Appena pubblicata la terza edizione, Ariosto ne promette già un’altra e aumenta di parecchio il materiale.
Questo carattere aperto del poema si coglie osservando il passaggio dalla prima alla terza edizione, Ariosto
aggiunge 6 canti, 400 ottave in più, ma, non le aggiunge al finale, bensì intrecciandoli alla trama, quindi
arricchendo e complicando la narrazione. Le principali giunte del 1532 sono: la storia di Olimpia, la storia di
Bradamante, quella di Marganorre e infine quella di Ruggiero e Leone che occupa gli ultimi tre canti del
poema intrecciandosi al precedente finale del 1516. Sedici anni sono tanti, particolarmente decisivi e densi,
sia nella vita privata di Ariosto che in quella pubblica, intellettuale e politica dell'Italia rinascimentale. Dal
punto di vista più generale mentre l'edizione del 1516 era stata creata all'interno di una prospettiva ancora
molto boiardesca come dimostra il linguaggio colorito di forme padane, il poema del 1532 non può tenere
conto del crollo dell'antico sistema cortigiano e della necessità di muoversi su un piano di letteratura
italiana, dall'altra parte il testo del 1532 reca i segni di una stagione nuova, non solo quella della veste
linguistica, ma anche le aggiunte che intrecciano col testo del 1516 un discorso un po' diverso di colore più
scuro e pessimistico. È stato osservato dalla critica che tutte e quattro le giunte si caratterizzano per la
presenza di figure di autorità violente, lontani dagli ideali dell’autentica cavalleria, quest'ombra più cupa
domina anche i Cinque Canti, pubblicato postumo, e del quale sono tutt'ora sotto discussione la data di
composizione e il rapporto col poema. Per la datazione la critica oscilla tra gli anni precedenti alla seconda
edizione del Furioso e quelli delle giunte al poema. Ancora più difficile è decidere dove collocarli: due le
proposte più autorevoli, quella avanzata da Giovan Battista Nicolucci Pigna e altri critici che vedevano nei
Cinque Canti l'avvio di un altro poema, diverso dall’Orlando anche se di materia uguale, e quella avanzata
da Cesare Segre che vede nel lungo frammento il tentativo di inserire prima del lieto fine un'ennesima
diversione ritardante dovuta alle calunnie di Gano che intralciano i progetti matrimoniali di Bradamante e di
Ruggero. È innegabile che il cinque canti rappresentano un frammento non solo stilisticamente più opaco e
più spento rispetto al Furioso, ma anche dominato da presenze negative, da comportamenti falsi e
immortali. La trama è attivata dal risentimento delle Fate contro i cavalieri cristiani, e vede in primo piano
l'invidia. Il loro esecutore terreno è Gano di Maganza, il traditore per eccellenza, il frammento poi si
conclude con una caotica battaglia presso Praga durante la quale Carlo Magno cade rovinosamente nella
Moldava.

Gli ultimi anni ferraresi vedono tornare Ariosto sulle sue commedie: la Cassaria e i Suppositi in prosa,
vengono riscritti in endecasillabi sdruccioli sciolti, il Negromante viene ripreso e completato sempre in versi,
a questo si aggiunge una nuova commedia la Lena. L'evoluzione di Ariosto commediografo va da un
semplice passaggio dalla prosa alla poesia, da un linguaggio teatrale a uno più artificioso. Da una parte la
prosa degli anni 1508-09 tutta scandita da misure ritmiche, dall'altra la poesia del 1528-31 che nasconde la
monotona cadenza dei versi tramite una sintassi agile e varia. In tutte e due le stagioni del suo teatro
Ariosto conferma la sua continua ricerca di una lingua comica e dialogica ma al tempo stesso ritmica. Il
Negromante e la Lena si avvalgono sia delle sue esperienze intermedie, sia degli sviluppi intervenuti nel
frattempo nella commedia cinquecentesca ad esempio Bibbiena e Machiavelli, spiegando il nuovo spessore
psicologico assunto dai protagonisti.

NICCOLO’ MACHIAVELLI Nasce a Firenze il 6 maggio 1469 da Bernardo, dottore in legge e notaio, e
Bartolomea de’ Nelli. Niccolò riceve un'educazione tradizionale in linea con gli standard dell'Umanesimo
fiorentino, ma lontana dalle raffinatezze della cultura medicea. Dal Libro dei Ricordi del padre sappiamo che
nel 1476 Niccolò cominciava lo studio del Donatello, cioè della grammatica latina, nel 1480 si addestrava
non l'abaco e nel 1481 compone in latino. Pochissimo si sa dei suoi anni di gioventù o della sua preistoria,
da una delle poche lettere superstiti di quegli anni, si intuisce la sua scarsa simpatia per i Savonarola, ma è
probabile che egli non si schierasse apertamente per nessuna delle fazioni in campo. Nel giugno del 1489
viene chiamato a reggere la seconda cancelleria del comune dove resta fino al 1512, in questi anni
Machiavelli si trova ad accumulare un'esperienza politica che va al di là delle sue responsabilità di
segretario di cancelleria, sono 15 anni pieni di viaggi e di missioni speciali. Machiavelli è spesso al campo.
Oltre alla corrispondenza continua con i suoi superiori fiorentini, scrive in questi anni anche opuscoli di
riflessione politica, non immediatamente funzionali ai suoi impegni di lavoro. Del 1504 è la sua prima opera
poetica il Decennale Primo, pubblicato nel 1506, si tratta di una cronaca in terzine degli ultimi 10 anni di
storia Fiorentina. Nel 1508 scrive il Rapporto di Cose della Magna, nel 1510 comincia il Ritratto di cose di
Francia. Nel 1512 quando i Medici tornano a Firenze, il governo del gonfaloniere viene abbattuto e
Machiavelli perde il posto, lo stipendio e, coinvolto in una congiura antimedicea, l’anno dopo viene
condannato ad un anno di confino che sconta alle porte di Firenze. Qui egli compone il Principe, di cui dà
prima notizia all'amico Francesco Vettori in una celebre lettera del 10 dicembre 1513, probabilmente aveva
già cominciato in precedenza i Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio che verranno compiuti nel 1517.

La carriera di Machiavelli si divide in due periodi distinti: dalla sua “preistoria” fino al 1513, e dal 1513 fino
alla morte. Il primo periodo corrisponde al Machiavelli segretario, il secondo corrisponde alla lunga fase
della sua lontananza dalla cosa pubblica. Il primo sarebbe un periodo di attività pratica più che di scrittura, il
secondo un periodo di forzata inattività letteraria, un odio non scelto ma imposto dalle circostanze. Questo
si riscontra in molte delle sue missive dal confino e specialmente nel prologo della Mandragola, dove la
composizione della commedia viene presentata come una distrazione disperata, non meritevole dell’uomo
serio che egli sente di essere. La cesura del 1513 non può essere interpretata come lo spartiacque fra un
Machiavelli politico e un Machiavelli letterato. Innanzitutto, il poeta negli anni della segreteria sono anni del
Decennale 1, a cui va aggiunta la composizione del Decennale 2, di varie rime, l’inizio dell’Asino d’oro, la
prima volgarizzazione dell’Andria di Terenzio. Inoltre, gli stessi scritti di segreteria, ci presentano un
Machiavelli già scrittore di politica, relatore ma anche analista acuto e perspicace della politica
contemporanea. Ad esempio gli scritti relativi alla seconda legazione di Romagna presso il Valentino per
quest’occasione abbiamo dei dispacci inviati giorno dopo giorno ai Dieci, di una lettera finale riassuntiva e,
del celebre trattatello del Modo tenuto. Si tratta di una sequenza testuale paradigmatica, che ci dimostra
come Machiavelli trasformi via via l’esperienza concretamente vissuta in un teorema politico, dimostrando
così come il principe possa arrivare a capovolgere una situazione inizialmente negativa e a trionfare. Le die
principali opere politiche di Machiavelli, il Principe e i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio,
all’apparenza diverse. Una tratta dei principati, l’altra delle repubbliche. Il Principe viene buttato giù di
getto nel 1513, in tempi strettissimi, sotto l’urgenza di una situazione personale drammatica, i Discorsi
databili con minore precisione, sono il frutto di una composizione stratificata, il cui nucleo iniziale precede il
Principe, mentre la stesura finale risale al 1515, il Principe è sollecitato da uno scopo pratico di cui
Machiavello non fa mistero: acquistarsi il favore dei nuovi padroni, tornare ad essere impiegato nella
macchina statale. I Discorsi sono frutto di lunghe discussioni disinteressate, nell’ambiente politico. Il
Principe detta il suo primo disegno, l’ordine degli argomenti e la loro disposizione strutturale, i Discorsi
fanno dipendere la loro struttura e la successione degli argomenti dagli spunti di commento e di riflessione
che il testo di Livio suscita senza sosta. Un’altra radicale diversità è che il Principe considera il momento di
fondazione di uno stato, ovvero il momento di discossione e di discontinuità rispetto al regime precedente.
I Discorsi invece, puntano a individuare i fattori di una durata dello stato stesso, prendendo spunto dalla
storia di Roma, se al Principe interessa come si fonda uno stato, ai Discorsi preme scoprire come si fa a farlo
durare. Ma, va ribaltata anche la continuità e omogeneità ideologica tra le due opere. Non esente un
Machiavelli del Principe, malefico consigliere dei regnanti e un Machiavelli dei Discorsi, moralissimo
cittadino delle repubbliche. In realtà il mondo da cui nascono le due opere è omogeneo. Nessuna
divaricazione ideologica e morale, tra le due opere, ma un punto di vista differente, sulla realtà dello stato
in momenti e fasi di sviluppo diverse dalla sua esistenza.

Il Principe rappresenta senz’altro il cuore dell’opera machiavelliana, già completato entro la fine del 1513, è
sottoposto in seguito a una correzione linguistica e stilistica, il Principe è il primo tentativo da parte dello
scrittore di riaffacciarsi sulla scena pubblica della sua città. Inizialmente l’autore voleva dedicare l’opera a
Giuliano de’ Medici, ma dopo la morte di quest’ultimo la dedica viene indirizzata a Lorenzo di Piero de’
Medici, nipote del Magnifico, sul quale si appuntano le speranze della casata. Machiavelli dichiarava a
Francesco Vettori la forte ambizione teorica del trattato. L’opera è composta da una Dedica e 26 capitoli,
tutti piuttosto brevi preceduti da titoletti in latino, può essere scandito in 4 parti: dal 1 all’11 capitolo dove
si esamina le viarie tipologie dei principati, dal 12 al 24 in cui si considerano le ragioni di forza o di
debolezza degli stati con speciale attenzione al tema delle armi e della virtù del principe, il capitolo 25
affronta il tema della fortuna, il capitolo 26 consiste nell’esortazione finale a liberare l’Italia dai barbari. Più
ne dettaglio nella prima sezione: l’autore distingue tra i principati di natura ereditaria, mista e nuovi, i primi
sono le monarchie dinastiche già consolidate, i secondi sono formati dall’aggiunta di nuove conquiste a un
nucleo già esistente, i terzi prevedono la distruzione violenta di un regime precedente. Tra i principati nuovi
vanno distinti quelli acquisiti grazie alla virtù o alla fortuna da quelli ottenuti con armi proprie o altrui. Il
caso di chi sia divenuto principe per fortuna, confidando nelle armi altrui, è incarnato nell’esempio di
Cesare Borgia, detto duca Valentino, che Machiavelli indica come modello di “principe nuovo”. La soluzione
preferita dall’autore è però costituita dal principato civile, ottenuto e conservato con il consenso popolare,
che garantisce stabilità per il monarca e prosperità per i cittadini. Infine Machiavelli prende in esame i
principati ecclesiasti che, avendo natura atipica, obbediscono a regole proprie, diverse da quelle indicate
per gli altri principati. Il secondo nucleo costituisce un sintetico trattato sulle milizie, contenente argomenti
che l’autore riprenderà qualche anno più tardi con la stesura dell’Arte della guerra. Attraverso la consueta
classificazione oppositiva cara a Machiavelli, le milizie vengono dette proprie o mercenarie. Solo le milizie
proprie, cioè quelle guidate dal principe e composte dai suoi sudditi, sono in grado di garantire la sicurezza
dello Stato. Machiavelli, a cui sta a cuore evidenziare il legame tra esercito e strutture civili, sottolinea
l’inaffidabilità delle cosiddette compagnie di ventura e vede nel massiccio ricorso alle truppe mercenarie
una delle cause principali della debolezza degli stati italiani. La terza sezione dell’opera è quella più
rivoluzionaria, essendo imperniata su un profilo dell’uomo di governo non aderente all’etica tradizionale.
Machiavelli infatti dichiara subito che lo scopo della sua opera è l’utilità e per questo preferisce riferirsi alla
realtà, piuttosto che al modo con cui essa viene immaginata, cioè un ideale astratto. I tre capitoli conclusivi
si concentrano sulla situazione politica dell’Italia contemporanea, la cui rovina non dipende dalla fortuna
avversa ma dall’incapacità dei suoi principi. Machiavelli chiude l’opera con un’appassionata esortazione ai
Medici nel prendere l’Italia e nel liberarla dai barbari, dedicata Lorenzo duca di Urbino. La distanza di
Machiavelli e della sua opera da tale impostazione moralistica è nettissima. Egli non si propone di offrire
una sintesi di valori etici, a suo giudizio la morale non deve interferire con l’efficace gestione dello stato e
del potere, i quali in certi casi sono necessari comportamenti che il buon senso comune, la morale religiosa
ma anche quella laica giudicano intollerabili e spregevoli. I concetti di bene e male non rientrano più nella
riflessione di Machiavelli poiché essi non sono sufficienti per rappresentare fedelmente la verità, spesso
brutale della lotta politica.

A partire dal 1515 Machiavelli si attira man mano la benevolenza e la simpatia di una nuova generazione di
giovani aristocratici dalle idee libertarie, entra a far parte delle più alte cerchie intellettuali e culturali
fiorentine. Frequenta infatti l'ambiente degli Orti Oricellari, dove I Discorsi prendono la loro forma
definitiva è un trattato diviso in tre libri. L'opera è preceduta dalla dedica a Zanobi Buondelmonti e Cosimo
Rucellai, due importanti esponenti degli Orti Oricellari, segue poi il proemio dove vengono gettate le basi
della riflessione politica machiavelliana, i tre libri sono composti rispettivamente da 60, 33 e 49 capitoli.
Presenta una serie di divagazioni dedicate al tema delle repubbliche, affrontano alcuni temi in cui si
ritrovano molti capisaldi del pensiero dell'autore, ovvero la politica interna e l'organizzazione delle
repubbliche, la politica estera e militare e l'analisi di alcune figure di grandi personaggi dell'antica Roma.
Nel 1518 scrive e fa rappresentare La Mandragola forse per il matrimonio di Lorenzo de' medici e
Margherita de la Tour d’Auvergne, nel 1520 entrato in confidenza con il cardinale Giulio De Medici riceve
per sua mediazione dallo studio Fiorentino l'incarico di scrivere la storia di Firenze, ne usciranno le Istorie
fiorentine, e in precedenza aveva composto anche la vita di Castruccio Castracani, L'arte della guerra, e nel
1525 la sua seconda commedia La Clizia. La Mandragola procurò a Machiavelli un’immediata popolarità,
trovò la sua consacrazione soprattutto a Venezia, nel carnevale del 1522 e del 1526. Rappresenta lo scarto
più decisivo rispetto al modello classico di Ariosto, procedendo verso una modernità di situazione e di
linguaggio. La trama presenta molte affinità con quella della novella 6 della terza giornata del Decameron. Il
dottore in legge Nicia, uomo molto ricco e ingenuo, è sposato con la bellissima Lucrezia, donna più giovane
di lui e dalla quale lui vorrebbe figli che però non arrivano. Il giovane Callimaco, ricco borghese appena
rientrato da Parigi, è perdutamente innamorato di Lucrezia e pur di farla sua ricorre a un elaborato
inganno: con l'aiuto dell'amico Ligurio fa credere a Nicia che il solo rimedio alla presunta sterilità della
moglie è farle bere una pozione ricavata dalla mandragola, pianta dalle proprietà medicinali, per cui chi
andrà a letto con lei subito dopo la renderà incinta ma assorbirà il veleno e morirà entro una settimana.
Nicia viene dunque convinto a far bere la pozione a Lucrezia e a far sì che uno sconosciuto abbia un
rapporto con la donna, in modo che sia lui e non il marito a morire: ovviamente a infilarsi nel letto della
moglie di Nicia sarà lo stesso Callimaco. Lucrezia, però, donna molto religiosa non vuol tradire il marito, fra
Timoteo, il confessore della ragazza esercita su di lei pressioni e le fa credere che questo atto non sarà
peccato, e la stessa madre di lei, Sostrata, riesce a convincerla. Alla fine Lucrezia accetta a malincuore e
Nicia, Ligurio rapiscono un giovane per strada che, in realtà, è Callimaco camuffato e che viene poi portato
nella camera della donna. Qui Callimaco sente il bisogno di svelare il proprio amore a Lucrezia e le spiega
tutto l'inganno, al che la donna non solo approva pienamente quanto è accaduto, ma farà in modo che la
relazione possa proseguire anche in futuro all'insaputa del marito, che al termine della commedia risulta
cornificato, beffato e derubato dei danari. L'opera è interessante soprattutto per la visione del mondo e
della società contemporanea dove la commedia presenta molte analogie con quella presente nelle opere
politiche, a cominciare dal Principe (dove Machiavelli descrive un mondo pervaso dalla corruzione, in cui
tutti sono pronti a ingannare il prossimo per raggiungere i propri fini e dove prevale una visione
pessimistica). La Mandragola è ambientata nella Firenze dei tempi dell'autore ed è scritta in prosa, anche
se i cinque atti sono chiusi da delle canzoni in endecasillabi e settenari che esprimono il punto di vista
dell'autore e ammiccano ironicamente al pubblico. La lingua usata è il fiorentino popolare. Rispetto alla
Mandragola, la Clizia, scritta nel 1525 e rappresentata nello stesso anno alla corte dei Medici: la vicenda è
modellata sulla Casina dell'autore latino Plauto e narra dell'amore del vecchio Nicomaco per la giovane
schiava Clizia, finito male a causa della beffa tramata ai suoi danni dalla moglie Sofronia e da altri familiari.
La comicità della commedia è venata di malinconia e l'opera è senz'altro meno riuscita della Mandragola,
anche per una maggiore aderenza agli schemi della commedia classica e una conseguente minore vivacità
rappresentativa. La Riflessione politica di Machiavelli culmina nel Principe e nei Discorsi, ma da essa si
sviluppa anche un tipo di riflessione e di scrittura nuova, a carattere storiografico. Questo è visibile già
nell'Arte della Guerra un trattato in forma di dialogo che discute un tema caro a Machiavelli militante, cioè
quello delle Milizie, ribadendo l’avversione al sistema degli eserciti mercenari e la necessità di dotarsi di
truppe proprie, arruolate fra gli abitanti dello stato fiorentino. Alla fine dell'opera, per bocca di uno degli
interlocutori del dialogo, il condottiero Fabrizio Colonna, Machiavelli verifica amaramente l'impossibilità, in
Italia, di una vera riforma della milizia, e assume uno sguardo giudicante sulla realtà contemporanea.
Questo cambiamento culmina nelle ultime opere, ovvero la vita di Castruccio Castracani, un condottiero
trecentesco di Lucca visto da Machiavelli come una figura idealizzata e per questo possiamo identificare
nella sua descrizione un modello di principe guerriero, dotato al tempo stesso di una prudenza ed energia,
non molto diverso dal Valentino usato nel Principe, e nelle Istorie fiorentine dedicate a papa Clemente VII, 8
libri che si dividono in tre blocchi tematici fondamentali: il primo libro tratta gli avvenimenti italiani dalla
caduta dell'Impero romano fino alla metà del 400, i successivi tre si concentrano per lo più sull'evoluzione
del comune fiorentino, gli altri 4 analizzano la storia di Firenze dal 1434 fino alla morte di Lorenzo il
Magnifico, anche in relazione alle vicende degli stati italiani. Più che di uno storico, è l'opera di un politico. Il
racconto, infatti è spesso inattendibile, la documentazione è parziale. Tuttavia proprio questa impostazione
è alla base dell'interesse dell'opera che conserva lo stesso atteggiamento militante del Principe,
nell'analizzare i mali dell'Italia contemporanea, tra i quali spicca il ruolo della Chiesa, colpevole di impedire
l'unificazione della penisola. Machiavelli nelle sue lettere dimostra di essere perfettamente consapevole dei
rischi dell'impresa: la sua storiografia non vuole essere un semplice racconto, ma vuole essere
un'interpretazione di essi. Nel 1526 diventò provveditore dei Procuratori nell'ambito della guerra ormai
imminente tra la Lega di Cognac, cui Firenze aveva aderito, e l'imperatore Carlo V, incarico conferitogli
anche per la sua precedente esperienza con la Repubblica: collaborò con l'amico Francesco Guicciardini per
organizzare le forze della Lega, tuttavia i lanzichenecchi scesero in Italia scontrandosi con Giovanni dalle
Bande Nere, che rimase ferito a morte, e arrivarono a Roma, che venne orribilmente saccheggiata il 6
maggio 1527. L'avvenimento ebbe ripercussioni politiche immediate, tra cui il rovesciamento dei Medici a
Firenze e il ritorno della Repubblica: Machiavelli, per la recente collaborazione con la Signoria e la sua fama
di ateo, rimase nuovamente ai margini della vita pubblica. Le sue condizioni di salute peggiorarono
rapidamente ed egli morì il 21 giugno 1527 a Firenze.

FRANCESCO GUICCIARDINI Nasce a Firenze il 6 marzo 1483 da Piero e da Simona Gianfigliazzi. Il padre era
stato fedele sostenitore dei Medici, fedeltà ricompensata con importanti cariche politiche. Francesco
dimostra da subito una forte ambizione politica che lo induce a dedicarsi agli studi giuridici, seguiti a
Firenze, Ferrara e a Padova. Nel 1504 ha l’occasione di intraprendere la carriera ecclesiastica e di ottenere
dei benefici dello zio Ranieri, vescovo di Cortona, morto nel febbraio dello stesso anno. Francesco è molto
tentato da quest’offerta, come egli sosterrà nelle Ricordanze, tuttavia rinuncia. Intraprende la carriera di
avvocato e nel giro di pochi mesi assiste i clienti più in vista della città. Nel 1507, contro il volere del padre,
sposa Maria Salviati, di famiglia aristocratica. Nel 1511 viene eletto ambasciatore di Spagna presso
Ferdinando il Cattolico. Risalgono a questo periodo il primo nucleo dei Ricordi e termina il Discorso di
Logrogno. La fine del governo repubblicano e il ritorno al potere dei Medici lo spingono a rientrare a
Firenze nel 1514. Rientrato, egli fu bene accolto dai nuovi signori della città per via degli ottimi rapporti che
avevano con la sua famiglia e ottenne da loro alcuni incarichi politici nel governo cittadino. Nel 1516 il papa
lo nomina governatore di Modena, e nel 1517 di Reggio Emilia. Nel 1521 è suo ospite Niccolò Machiavelli, i
due stringono un’amicizia schietta e vivace documentata dalle lettere che si scambiano, spesso dal tono
scherzoso. Nello stesso anno scoppia il conflitto fra Leone 10 e il re di Francia, Guicciardini è chiamato in
quest’occasione a rivestire il ruolo di commissario generale dell’esercito pontificio. In questo periodo inizia
la stesura del Dialogo del reggimento di Firenze, sollecitato dalla nuova crisi in cui versa lo stato fiorentino
dopo la morte di Lorenzo di Piero de’ Medici del 1519. Guicciardini difese con successo Parma dall'assedio
delle truppe francesi e quando nel 1523 divenne papa Giulio de' Medici, col nome di Clemente 7, se ne
rallegrò sperando di ottenere nuovi incarichi; fu in effetti poi nominato governatore della Romagna, mentre
nel 1526 si trasferì a Roma dove divenne consigliere del papa. In seguito alla conclusione della Lega di
Cognac, Guicciardini diventò luogotenente dell'esercito pontificio e prese parte ad alcune operazioni
militari, dopo la drammatica uccisione del capitano Giovanni de' Medici, i lanzichenecchi giunsero a
saccheggiare Roma nel 1527. Nell’aprile 1528 si trasferisce nella villa di Santa Margherita a Montici, dove
raccoglie e riordina i suoi Ricordi, dando vita alla redazione nota come B, e scrive le Cose fiorentine, una
storia di Firenze dell’anno 1375 fondata su un’attenta e scrupolosa comparazione delle fonti. Tra le
ripercussioni di tali fatti ci fu la cacciata dei Medici da Firenze e il momentaneo ritorno della Repubblica,
che accusò Guicciardini di concussione e lo processò in contumacia, l'uomo politico preferì ritirarsi a vita
privata in una sua residenza di campagna, dove si dedicò alla produzione letteraria (specie dei Ricordi) e
dove rimase sino al 1530, quando a Firenze tornarono i Medici. Guicciardini assunse alcuni importanti
incarichi politici, avvicinandosi al nuovo duca Alessandro: il suo compito era di riportare l'ordine in città
dopo il periodo repubblicano e Guicciardini vi si dedicò con particolare zelo, stabilendo pesanti condanne e
guadagnandosi l'odio di molti concittadini. Alla morte del pontefice, il successore Paolo 3 tolse a
Guicciardini il governo di Bologna ed egli tornò a Firenze, nella villa di santa Margherita a Montici, qui scrive
i Commentari della luogotenenza, che costituiranno un primo nucleo della sua opera maggiore: la Storia
d’Italia. Quando il duca venne assassinato Guicciardini venne emarginato dal governo cittadino, al punto
che si ritirò dalla vita pubblica, dedicandosi alla stesura di alcune opere (specie la Storia d'Italia), morì il 22
maggio 1540.

In Guicciardini colpisce prima di tutto il fatto che le sue opere siano in massima parte opere segrete, cioè
non destinate alla pubblicazione. L'unica scritta per essere divulgata è la Storia d'Italia, ma I Ricordi,
arrivano alla stampa nel 500 solo per fortuna, ciò dipende dal carattere degli scritti guicciardiniani. Alcuni di
essi come Le Memorie di Famiglia, Le Ricordanze e I Ricordi stessi, sono opere private, scritte per se o tutt'al
più per i propri eredi, e appartengono al genere dei ‘libri di famiglia’ destinati a non uscire dagli archivi
familiari. I trattati politici derivano la loro non pubblicità dal contrasto fra il pensiero politico e le funzioni
pubbliche, è un contrasto di cui Guicciardini è il primo a rendersi conto nella seconda redazione del
Proemio al Dialogo del Reggimento di Firenze, infatti, egli denuncia l'ovvia contraddizione fra il soggetto
dell'opera e l'obbligo che lo lega personalmente alla casa dei Medici. È una contraddizione che non si
risolve, se non a prezzo di una lucida schizofrenia: da una parte lo spazio segreto e privato della riflessione
sulla libertà fiorentina, dall'altra quello pubblico degli incarichi dei Medici. Nel Discorso di Logrogno la sua
proposta contempla un accordo di poteri che se da una parte rimanda al modello veneziano e alla sintesi
delle forme classiche, dall'altra tiene ben presenti le concrete condizioni civili e istituzionali di Firenze. Nel
Dialogo sul Reggimento di Firenze vengono esaminate le forme di governo largo, popolare, di signoria
familiare, la proposta alternativa è quella di un governo misto che dia sfogo sia alle esigenze politiche del
popolo, sia al bisogno di prestigio dei grandi. Le Considerazioni intorno ai discorsi di Machiavelli sopra la
prima Deca di Tito Livio sono un commento polemico relativo a 38 capitoli dell'opera di Machiavelli, scritto
da Guicciardini nel 1530. In esso l’autore prende le distanze da alcune idee espresse da Machiavelli,
mettendo in luce la sua differente interpretazione della storia e della politica. I Discorsi di Machiavelli
insistevano sulla necessità, per gli uomini moderni, di trarre dalla lezione degli antichi regole utili a ordinare
le repubbliche e mantenere gli stati. Guicciardini invece oppone una concezione relativistica della storia,
dalla quale non può essere tratta alcuna regola ferma, nessun esempio da imitare, perché i fatti nella storia
non si ripetono mai uguali ma sono sottoposti alla mutazione del tempo. Per Guicciardini leggi valide una
volta per sempre, applicabili a ogni stato e ogni epoca non esistono. La tendenza a rifiutare teorie assolute
e sistemi ideologici astratti emerge nelle Considerazioni, proponendo un metodo e una filosofia della storia
lontani da quelli di Machiavelli.

I Ricordi è considerata l'opera principale di Guicciardini e una delle più originali del Cinquecento, per la
distanza dai modelli rinascimentali che in quel periodo erano stati fissati: è una raccolta di 221 pensieri o
aforismi, scritta in diversi momenti della vita dell'autore (principalmente tra 1527 e 1530, poi più volte
rimaneggiata), pubblicata postuma nel 1576 col titolo non d'autore Consigli e avvertimenti in materia di
repubblica e di privato e successivamente col titolo, poi diventato tradizionale, di Ricordi politici e civili. Nel
testo i pensieri si succedono senza un ordine prestabilito e privi di qualsiasi divisione interna, per cui l'opera
ha carattere frammentario ed è lontanissima dal modello di trattato rinascimentale in voga in quegli anni,
tanto che gli studiosi moderni hanno parlato di "anti-trattato". Il genere degli aforismi, ovvero brevi
massime di commento su vicende storiche o di vita vissuta, Guicciardini è il primo a cimentarsi in un'opera
interamente formata da massime sentenziose, non molto imitato da altri scrittori negli anni seguenti. I
Ricordi costituiscono il frutto della desolata percezione della fine dell’epoca, l’opera in cui si consuma
definitivamente la rottura con la tradizione umanistico-rinascimentale. I pensieri sono quasi tutti di relativa
brevità e si possono raggruppare in diverse "aree tematiche", tra cui le principali riguardano il potere e la
tirannide, il ruolo del consigliere del principe, l'importanza della "discrezione" e il potere della fortuna, la
critica alla corruzione della Chiesa, l'arte della simulazione e dissimulazione, gli eserciti, varie considerazioni
morali e sulla natura degli uomini. Nei Ricordi emerge chiaramente la visione del mondo che caratterizza
l'autore e in molti aforismi si vede la sua sottile polemica contro le idee di Machiavelli, senza che il suo
amico venga mai esplicitamente nominato. L'idea di fondo è che difficilmente gli uomini possano opporsi al
destino e al potere della fortuna, per cui è illusorio proporre modelli o massime di validità generale, ed è
preferibile affidarsi alla "discrezione" intesa come la capacità di adattarsi alle diverse circostanze.
Interessante anche la riflessione sul ruolo delicato del consigliere del sovrano, che in fondo è quello svolto
dall'autore in tutta la sua vita politica, il quale ha spesso la necessità di mascherare i propri veri pensieri
specie quando ha a che fare con un tiranno. Cruda ed esplicita è poi la condanna della corruzione
ecclesiastica, benché Guicciardini ammetta che ha dovuto lavorare per due papi, accettando in modo
ipocrita una situazione, pur preferendo aderire alla Riforma luterana. Interessanti anche le osservazioni
sull'ingratitudine degli uomini e sull'ambizione, che per lui è da condannare solo se conduce ad azioni
delittuose, mentre viene irrisa ogni concezione metafisica e in particolare l'astrologia, con la quale molti si
illudono follemente di prevedere il futuro. Degni di nota infine i pensieri dedicati alle questioni militari, di
cui Guicciardini aveva qualche competenza avendo avuto più incarichi come responsabile di eserciti, in
questi emerge ancora la sua distanza dalle idee di Machiavelli circa il modello delle soldatesche antiche e la
considerazione dell'importanza delle artiglierie, da lui tutt'altro che sottovalutate.

Storia d’Italia Scritta tra il 1537 e il 1540, dopo il definitivo ritiro dalla vita politica in seguito all'assassinio
del duca Alessandro de' Medici, la Storia d'Italia è un trattato storiografico in 20 libri che ricostruisce le
vicende della Penisola dal 1492, anno della discesa in Italia dell’esercito francese, al 1534, anno della morte
di papa Clemente 7. L'opera è considerata assieme ai Ricordi il capolavoro di Guicciardini e presenta delle
interessanti novità rispetto alla tradizione storiografica dell'Umanesimo, soprattutto perché il libro è privo
di qualunque intento encomiastico e l'autore si sforza di essere il più possibile oggettivo, senza deformare i
fatti. Di qui la scelta di concentrare la narrazione su un periodo relativamente breve e per il quale è
possibile reperire fonti di prima mano e pezzi d'archivio, che rendono la ricostruzione degli avvenimenti
assai precisa. L'elemento più interessante dell'opera, è la coscienza che dopo il 1492 si è aperto un periodo
di crisi politica e militare per l'Italia, le cui cause vengono ricondotte al quadro più ampio delle vicende
storiche dell'Europa, giungendo a conclusioni assai più profonde del suo contemporaneo Machiavelli. Tutto
questo fa di Guicciardini il primo vero storico moderno operante in Italia, aprendo una strada che verrà
presto seguita da altri importanti scrittori a cominciare da Paolo Sarpi autore della Istoria del Concilio
Tridentino in cui come Guicciardini, farà ampio uso di fonti documentarie per rinforzare le sue tesi. L'opera
rimase inedita sino al 1561, quando venne stampata senza gli ultimi quattro libri, e fu ripubblicata nel 1564
per intero ma con l'eliminazione di alcuni passi giudicati "sconvenienti", specie quelli dedicati alla
corruzione ecclesiastica e alle implicazioni religiose delle nuove scoperte geografiche. Così Guicciardini, pur
non condividendo l’idea umanistica della storia come guida della condotta umana, torna alla concezione
umanistica del valore morale della storia: una storia che forse non insegna più a vivere, ma induce l’uomo
ad acquistare coscienza del valore della propria esistenza.

Alla morte di Bembo, Niccolò Franco scrisse in un sonetto commemorativo: senza Bembo la lirica in volgare
sarebbe continuata nella versione cortigiana, caratterizzata da una lingua ibrida e incerta. Bembo traccia la
strada della nuova lirica cinquecentesca basata sull'imitazione del modello petrarchesco, in breve, scrivere
sonetti in stile petrarchesco diventò per i letterati italiani l'esercizio più comune di addestramento alla
lingua nonché la via più facile per la notorietà. Il petrarchismo è un fenomeno di costume letterario, prima
che un movimento poetico, attraverso il petrarchismo il 500 vede arrivare alla ribalta della letteratura
categorie e gruppi sociali finora esclusi come le donne e gli artisti, favorì la comunicazione fra letterati e li
aiutò a uscire da loro individualismo, per questo prima ancora dei canzonieri singoli, vanno ricordate le
antologie di rime ad esempio le Rime diverse di molti eccellentissimi autori nuovamente raccolte di
Ludovico Domenichi o le Raccolte in memoria di Livia Colonna. Di grande importanza furono le raccolte
collettive per celebrare la vittoria di Lepanto sui Turchi. Dei canzonieri individuali abbiamo quelli veneziani
di Bernardo Cappello, Trifone Gabriele, Orsatto Giustinian, Giorgio Gradenigo e Maffio Venier. La lirica
petrarchista veneziana culmina nelle Rime di Celio Magno un canzoniere con punte di magniloquenza
religiosa che hanno fatto pensare al barocco. Altro centro del petrarchismo fu Napoli dove fiorirono le
esperienze di Angelo Di Costanzo, Bernardino Rota per l'argomento coniugale e familiare, e Galeazzo di
Tarsia barone di Belmonte, personaggio della vita oscura e avventurosa, le cui rime hanno attratto
l'interesse di critici e lettori per il loro carattere tormentato e aspro. Una svolta vera e propria è quella di
Giovanni Della Casa, se ne accorse subito Tasso che nel suo dialogo: la Cavaletta, in cui discute della poesia
toscana, lo Individua come modello di stile grande, magnifico. Della Casa si rinnova attraverso il ricorso
all’enjambement e attraverso l'impiego di una sintassi oratoria, in lui culmina il processo di
drammatizzazione del petrarchismo, più che l'amore, in questo filone contano i temi esistenziali, di amara
riflessione sulla vita e sul destino dell'uomo. Il Cortegiano di Baldassar Castiglione propone una soluzione
radicale nell'ambiente della corte. Tratto peculiare delle idee linguistiche di Castiglione e il privilegio
accordato alla lingua parlata, di conversazione, rispetto a quella scritta, letteraria: sì che la questione della
lingua, costituito da 4 libri il trattato di Castiglione si svolge nella forma di un dialogo alla corte di Urbino da
famosi letterati e gentiluomini di palazzo, impegnati in un gioco di società: quello di formare con parole un
perfetto cortigiano. Così le questioni via via discusse, da quelle più impegnative alle più frivole si
raggruppano tutte in un discorso complessivo volto alla costruzione di un modello ideale di umanità. Al
perfetto cortigiano si richiede di saper conversare, danzare, cantare, suonare e disegnare, non come un
professionista ma come un dilettante disinteressato o come un uomo a tutto tondo capace di ogni arte,
padrone di ogni tecnica. La migliore qualità dell'uomo di corte è ulteriormente precisata come la
"sprezzatura", ovvero l'estrema disinvoltura e naturalezza nel fare anche le cose più difficili e l'assenza di
affettazione, nemica secondo l'autore dell'eleganza: viene citato l'esempio dei grandi oratori del passato
che ostentavano ignoranza letteraria per far credere che i loro discorsi fossero il prodotto di doti naturali, il
che spiega che l'atteggiamento del cortigiano deve essere attentamente studiato e finalizzato a fornire
un'immagine di sé al "pubblico". Dopo Castiglione la fitta trattatistica successiva tende a specializzarsi
applicandosi ad ambiti più circoscritti, in una prospettiva più attenta al particolare e al comportamento
quotidiano. Significativa è l'opera di Stefano Guazzo dedicata alla Civil Conversazione, 4 libri stesi in forma
di dialogo fra Annibale Magnocavallo e il fratello dell'autore, Guglielmo, forniscono una guida per la
corretta forma della comunicazione sociale: il primo detta le premesse su cui si fonda la successiva
discussione, il secondo fissa le regole da osservare in tutte le relazioni che si svolgono fuori di casa, il terzo
si occupa delle relazioni domestiche, infine il quarto offre l'esempio diretto di una perfetta conversazione
aristocratica. Certamente l'opera più emblematica è il Galateo di Giovanni Della Casa, un testo chiave per
comprendere le trasformazioni nella civiltà cinquecentesca. È un breve trattato in forma di dialogo, in cui si
immagina un vecchio, un illetterato, dietro al quale si nasconde la figura dello stesso autore, che impartisce
insegnamenti ad un ipotetico giovane, forse Annibale suo nipote, diviso in 30 capitoli ripartiti quasi
sicuramente dall'editore che detta le regole consone alla conversazione, all'abbigliamento, ai costumi di un
gentiluomo: come deve stare a tavola e come deve comportarsi nella vita di relazione. L'opera vuole
ispirare un forte conformismo, Della Casa a differenza di Castiglione non mette in discussione la teoria
linguistica dominante, vuole formare un tipo d'uomo colto, insiste sul “non si dice e non si fa”. Il Galateo è
un sistema di norme da seguire, vi sono diverse questioni una delle più importanti e quella su cosa non si
deve fare a tavola. Infine un settore particolare è quello dei trattati sull'amore a cominciare dagli Asolani di
Pietro Bembo, in cui tre gentiluomini e tre gentildonne discutono per stabilire se l'amore sia un bene o un
male, decidendo alla fine per la bontà colma del sentimento amoroso. Negli stessi anni di Bembo scrive i
suoi Dialoghi D'amore Leone Ebreo un intellettuale formatosi a Lisbona e poi in Spagna, rifugiatosi in Italia
frequentò varie corti. Il suo trattato è in forma di dialogo tra Filone e Sofia (La Sapienza), e include anche
motivi magici e cabalistici. Dagli anni 30 in poi la produzione di trattatistica si infittisce con Giuseppe
Betussi, Francesco Sansovino, Benedetto Varchi, Alessandro Piccolomini, Sperone Speroni e Tullia
d'Aragona.

Il 500 vede imporsi nella cultura italiana l’influsso di Aristotele e della sua Poetica. L’Aristotele del
Medioevo era stato soprattutto il filosofo naturale, lo studioso della metafisica. L’interesse per l’Aristotele
della Poetica, invece, si risveglia nel 400, quando questo trattato viene tradotto in latino da Giorgio Valla.
Tuttavia per assistere a una vera e propria divulgazione della Poetica bisognerà aspettare la traduzione
latina con testo greco di Alessandro de’ Pazzi e soprattutto il volgarizzamento di Bernardino Segni. Solo
dalla metà del 500 il testo aristotelico, giunto incompleto alla modernità, comincia a essere commentato ed
entra nel circolo vivo della letteratura italiana. Nel 1548 escono le Explicationes alla Poetica di Francesco
Robortello, nel 1550 il commento di Vincenzo Maggi, nel 1560 i Commentarii di Pietro Vettori, e infine nel
1570 la Poetica d’Aristotele volgarizzata e sposta di Ludovico Castelvetro. Un caso a parte rappresenta
Giangiorgio Trissino, che già nel 1524 aveva stampato le sue prime quattro Divisioni sulla Poetica, che
sarebbero state seguite dalla sesta e quinta soltanto nel 1562. Le date parlano chiaro: la Poetica di
Aristotele, penetra molto lentamente nella cultura italiana del Rinascimento. Non è Aristotele a diffondere
nel 500 un bisogno di precetti, codici sicuri, regolamenti, bensì la società letteraria del maturo Rinascimento
che sente l’esigenza di armarsi anche sul piano teorico per affrontare le sfide di un’età nuova, di crescita e
di espansione, che cerca in Aristotele un orientamento e una guida. La novità centrale è rappresentata dalla
riflessione sull’atto poetico, come imitazione della realtà. La novità centrale è rappresentata dalla
riflessione sull’atto poetico come imitazione della realtà. Per la narrativa la mimèsi della realtà significa la
scelta del vero e della storia come materia del racconto. Per il teatro, voleva dire perfetta corrispondenza
del tempo dell’azione scenica col tempo reale dello spettatore. Si arrivò a parlare di mimèsi anche per la
lirica: in questo caso, ad essere ‘imitati’ dal poeta erano i sentimenti.

Il Boiardo e l’Ariosto non avevano lasciato alcuno scritto di teoria letteraria. La riflessione teorica che i
fondatori del ‘romanzo’ italiano non avevano sentito il bisogno di accompagnare ai loro capolavori esplode
postuma, dopo la pubblicazione dell’ultimo Furioso e la morte dell’Ariosto. È una stagione di accesi dibattitti
e anche di sperimentazione creativa: critici e poeti cominciano a interrogarsi sulla natura. L’Ariosto non si
era preoccupato nemmeno di dare un nome specifico al genere letterario che egli aveva ereditato da
Boiardo, egli si riferisce al poema semplicemente come “istoria”. Adesso si comincia a discuterne come
romanzo. Nel pieno del 500 la parola romanzo passa a significare il genere letterario incarnato da Boiardo e
poi da Ariosto: ovvero un poema d’argomento cavalleresco, in ottave, a trama intrecciata, e costituito sul
finto presupposto d’essere recitato dal cantore e ascoltato da una platea di dame e cavalieri. A questo
modello si contrappone nel corso del secolo il modello “epico”, rappresentato da Omero nell’Iliade e
nell’Odissea e da Virgilio nell’Eneide. Dunque: moderno contro antico, favola multipla concentrata su una
pluralità di personaggi, contro favola unitaria, incentrata su un eroe solo, racconto orale con un autore ben
presente nel testo, racconto impersonale in cui la figura del poeta non appare in prima persona ma tende a
sparire nel racconto. Al centro del dibattito sul “romanzo” e la sua struttura vi è il montaggio della trama: la
“favola”. La favola romanzesca a più personaggi, multipla, intrecciata è quella che piace al pubblico, e
sembra garantire il successo di un’opera, esempio che lo dimostra è l’Orlando Furioso. La favola “epica”
invece, con un solo protagonista principale, con un filo narrativo continuo e non interrotto è quella che
piace all’avanguardia letteraria, ai critici, e sembra volta all’insuccesso. Esempio l’Italia liberata dai Goti di
Gian Giorgio Trissino, Girone il cortese di Luigi Alamanni, l’Amadigi di Bernardo Tasso e l’Ercole di
Giovanbattista Giraldi, tutti poemi colti, animati dall’ambizione di eguagliare o superare Ariosto, accolti
però dal pubblico con freddezza. Sarà Torquato Tasso con la Gerusalemme Liberata ad andare oltre il
romanzo ariostesco con un poema capace di conquistare non solo l’approvazione dei dotti, ma anche
l’ammirazione e l’entusiasmo dei lettori comuni.

Nei primi anni del 500 si assiste all’invenzione del teatro. I testi drammaturgici degli autori greci e latini, le
riflessioni aristoteliche sulla tragedia sono le basi di questa rinascita che mira a superare l’esperienza
quattrocentesca dello spettacolo di piazza verso un’idea di teatro come luogo chiuso, deputato alla
recitazione di un testo letterario. Questa vera e propria rivoluzione ha come scenario la corte e vede nella
commedia il genere privilegiato. È in modo speciale alla corte ferrarese con l’importante stagione promossa
da Ercole 1 d’Este, e su questo terreno fertile inaugura la sua fortuna Ludovico Ariosto. Tutta l’esperienza
ariostesca si dimostra ancora insoddisfacente dal punto di vista linguistico-espressivo. La commedia
richiedeva un linguaggio colloquiale e quotidiano, invece Ariosto rifiuta di attingere al dialetto ferrarese e
adotta una lingua fortemente letteraria, toscana, quindi la definitiva emancipazione del genere comico
moderno è compiuta da autori toscani, gli unici a disporre di una lingua letteraria e d’uso. Con la Calandria
di Bernardo Dovizi da Bibbiena e con le due commedie di Niccolò Machiavelli: la Mandragola e la Clizia, si
realizza l’incontro fra struttura classica e universo comico decameroniano. Tuttavia, non è soltanto dalla
novelle del capolavoro boccacciano che il teatro cinquecentesco trae i suoi spunti, ma anche da quelle
avventurose. Si origina nel corso del secolo un filone comico, quello della commedia di intreccio patetico,
che si sviluppa a Siena, all’Accademia degli Intronati. In essa è in risalto il tema amoroso, sviluppato in una
serie di peripezie in cui i personaggi si separano e infine si ritrovano, si scambiano e si riconoscono,
rimanendo vittime della loro stessa passione o di singolari avversità del destino, esempio Ingannati del
1531, Amor Costante del 1536 e la Pellegrina del 1589. La commedia “regolare” si sviluppa in Toscana con
l’affermarsi del toscano come lingua letteraria ufficiale e provoca la retrocessione dei dialetti a idiomi
provinciali, utilizzati soltanto in senso comico-parodistico. Così si sviluppano forme di teatro interamente
dialettali che affondano le proprie radici nella tradizione popolare giullaresca. In area veneta il teatro
dialettale trova il suo sviluppo. Le ragioni di questo fenomeno sono due: da una parte l’importanza del
veneziano come lingua pubblica e ufficiale, dall’altra il perdurare della tradizione del teatro buffonesco.
L’esperienza dialettale di sviluppa a Padova dove opera Angelo Beolco detto il Ruzante che sceglie come
protagonista il contadino ruzante, personaggio con il quale si identifica esprimendo la drammatica e
miserevole realtà del contadino veneto, in dialetto padovano. Il suo teatro si fonda su un testo concepito
per un’esecuzione orale e gestuale, che rivela il suo intero potenziale artistico a contatto con
l’interpretazione dell’attore. Se la commedia all’antica riesce a innestarsi nel tessuto letterario del 500
italiano, non si può dire lo stesso per la tragedia. Già nel 1515 Giangiorgio Trissino aveva steso la sua
Sofonisba, la prima tragedia che tentasse di trapiantare in una lingua moderna il modello della tragedia
greca antica. L’argomento è tratto principalmente dalle storie di Tito Livio, ma l’eroina trissiniana non è più
quella fatale di Livio. Il personaggio risulta modellato sulla mite Alcesti di Euripide e ne ricava
un’intonazione elegiaca e sentimentale. L’opera però è importante perché fissa una morfologia della
tragedia classica moderna, in volgare. La fortuna della tragedia non comincia con l’Orbecche di
Giovambattista Giraldi Cinzio rappresentata nel 1545 davanti al duca Ercole 2 d’Este. Giraldi non guarda
alla tragedia latina di Seneca con il suo gusto per l’orrido, il sangue, le mutilazioni, questa precede di un
anno un’altra tragedia la Canace di Sperone Speroni. La concorrenza fra Orbecche e Canace, fra l’ambiente
cortigiano degli Este e quello accademico degli Infiammatori di Padova, dette luogo alla prima grande
polemica letteraria del secolo. Questo dibattito è significativo perché rivela il livello di consapevolezza
raggiunto dalla civiltà letteraria italiana negli anni del pieno Rinascimento. Gli ultimi due generi teatrali
sono: la favola pastorale e il melodramma. Il 500 non conobbe altra favola pastorale se non l’egloga di stile
virgiliano e sannazzariano, elaborata in forma di dialogo. Nel 1545 Giraldi fece recitare a Ferrara l’Egle e nel
1554 pubblicò una Lettera o vero discorso sulle satire atte alle scene, distinguendo attentamente tra satira,
genere autorizzato dall’antichità e favola o egloga pastorale genere secondo lui poetico e non teatrale.
Portando in scena l’Egle Giraldi avviava la moda delle pastorali, questa storia continua a Ferrara con le
opere di Agostino Beccari, Agostino Argenti, l’Aminta di Tasso e il Pastor fido di Battista Guarini.
Quest’ultima opera diede luogo a una della più famose e aspre polemiche letterarie, nella quale Guarini
stesso intervenne per difendere l‘opera specie contro Giasone De Nores che l’aveva criticato perché
rappresentava un tipo di genere letterario di cui non si aveva esempio nella classicità. Resurrezione di una
forma drammaturgica classica è il melodramma. Vari critici avevano avanzato l’ipotesi che la tragedia antica
fosse non recitata, ma cantata cioè una combinazione di melos (canto) e drama (azione). Esempio il Dialogo
della musica antica e moderna di Vincenzo Galilei, animatore della fiorentina camerata de’ Bardi. Fu presso
questa accademia che maturò l’idea di sperimentare la rinascita di uno spettacolo insieme agìto e cantato.
Si arrivò così agli esperimenti della Favola di Dafne di Ottavio Rinuccini e dell’Euridice. Ma di lì a poco il
genere musicale s’impadronirà di questa nuova formula rappresentativa ovvero, del melodramma, una
delle manifestazioni principali dell’arte italiana.

Solo dopo gli anni 30 del 500 si afferma la volontà di conferire piena dignità poetica e retorica ai generi
letterari volgari. I letterati eleggono a modello il Decameron, non solo dal punto di vista linguistico ma
anche strutturale, iniziando a costruire veri e propri libri di novelle. Eredi diretti furono i narratori toscani
che si cimentarono in raccolte in cui prevaleva l’elemento dell’evasione e dell’intrattenimento. A differenza
di Boccaccio l’occasione del novellare non è data dalla fuga da un evento pericoloso e funesto, ma da una
situazione di intrattenimento, esempio le Cene di Anton Francesco Grazzini e Le giornate e Le piacevoli
notti di Pietro Fortini. In Grazzini la novella presenta un carattere cronistico, mentre le strutture di beffa
acquistano un carattere di sadica violenza, concludendosi con la morte o con lo strazio fisico del beffato. Se
il Decameron è il principale punto di riferimento della novella rinascimentale a sfondo comico, è anche il
modello indiscusso della novellistica tragica e patetica, la quale trova la sua massima espansione fuori dalla
Toscana, nella raccolta di novelle degli Hecatommithi (cento novelle) di Giovan Battista Giraldi Cinzio,
questo nuovo modo di narrare assume toni e caratteristiche proprie della tragedia. Giraldi esprime un
marchio di tragicità all’intera opera: se nel Decameron una terribile pestilenza aveva determinato la fuga
della brigata di giovani da Firenze, la nobile comitiva giraldiana fugge al sacco di Roma del 1527 e alla
pestilenza che ne consegue, imbarcandosi su due navi dirette a Marsiglia. Destinato a grande fortuna è
anche il novelliere di Matteo Maria Bandello da cui Shakespeare trarrà la storia di Romeo e Giulietta.
Pubblicate in due riprese le Novelle bandelliane spiccano nel panorama cinquecentesco per l’originale
congegno narrativo che le sorregge, l’autore a ogni racconto collega una lettera dedicatoria e finge di
inviare l’epistola e la novella a illustri e diversi destinatari. Infine, un episodio particolare della novellistica
cinquecentesca è il recupero della fiaba. Il primo a percorrete questo nuovo sentiero è Giovan Franceso
Straparola che pubblica le Piacevoli notti, le favole di questa raccolta riproducono i modi tipici del racconto
fiabesco. Tutti i fenomeni fondanti del classicismo del 500 non mancarono di suscitare moti di opposizione,
di contestazione, di parodia. Contro questa rigidità modellizzante si mossero voci che invocarono ribellione,
libertà e spontaneità. Resistenze della norma di Bembo cominciarono ad apparire prima della pubblicazione
delle Prose della volgar lingua, non si era d’accordo sulla sua natura tecnicista. L’antipetrarchismo non
tarda a stilizzarsi in “maniera”, che Berni è all’origine di una saldissima e durevole tradizione di poesia
“bernesca”, caratterizzata dall’uso del vocabolario e dello stile burlesco che arriverà fino all’Arcadia e alle
soglie del Romanticismo. In questo senso petrarchismo e antipetrarchismo cono due facce della stessa
medaglia. Un personaggio che nel 500 si aggiudica il diritto e il titolo di contestatore violento è Pietro
Aretino, con la sua commedia La Cortigiana e col Dialogo delle corti egli rovescia il mito luminoso della
corte castiglionesca in un’immagine di corruzione morale e di vergogna. Con le sue Sei giornate dissacra la
trattatistica amorosa che insegna alle donne come sfruttare il loro sesso non tanto a fine di piacere erotico,
quanto di utile economico. La sua lingua indisciplinata è quanto di più lontano si possa immaginare dalla
bellezza del toscano predicato da Bembo. La scelta di Venezia dove Aretino vivrà liberamente del proprio
mestiere di scrittore e il suo rapporto privilegiato con l’industria tipografica configura un nuovo tipo di
intellettuale, consapevole del contesto editoriale e culturale in cui appaiono le sue opere. Aretino finisce col
rappresentare il capofila di una tipologia di letterato che la storiografia ha cercato di etichettare: quella
“degli irregolari”, dei “bizzarri”, degli “scapigliati”, dei “poligrafi”, Aretino potrebbe benissimo definirsi un
poligrafo data la sua quantità di scritture e di generi diversi coltivati. Seguendo Aretino molti scrittori
cinquecenteschi cercano di imitare la sua carriera come: Niccolò Franco arrivato a Venezia da Benevento si
alloga come correttore nella bottega dell’editore Marcolini, stringe amicizia con Aretino e diventa suo
collaboratore editoriale, poco dopo rompe clamorosamente con lui, uscito dalla tutela di Aretino, Franco ne
imita e ne replica il successo con le sue Pistole volgari. Francesco Sansovino apre una propria stamperia e si
dedica alla produzione specializzata in titoli di interesse storiografico. Faranno lo stesso Ludovico
Domenichi correttore presso Giolito e poi presso Torrentino a Firenze. Lodovico Dolce, Girolamo Ruscelli,
ma la figura più geniale fu Anton Francesco Doni frate e intellettuale nomade, anche lui destinato ad
approdare a Venezia dove rimane fino alla morte. Doni è editore, curatore, antologista, ma allo stesso
tempo è scrittore in proprio.

Alla fine del 400 fa la sua comparsa la poesia “maccheronica”, che ha le sue prime espressioni nella
Macaronea di Tifi Odasi, composta intorno al 1490. Nella lingua antica i maccheroni sono gli gnocchi: cibo
rustico, popolare e grossolano. In realtà la poesia maccheronica è tutt’altro che rustica e popolaresca. I suoi
creatori sono tutti di estrazione universitaria, dunque ben esperti di latino e perfettamente consapevoli
dell’operazione espressiva che la poesia maccheronica comporta. Si costruisce attraverso l’applicazione
della morfologia latina attraverso un materiale lessicale volgare, anzi dialettale. Da una parte il latino viene
abbassato e irriso, dall’altra il linguaggio del dialetto viene comicamente innalzato. In questa tradizione
l’opera di Teofilo Folegno occupa un posto a sé, egli seppe servirsi dell’ardito strumento di questo
linguaggio con una superiore coscienza espressiva, con Baldus egli applica il linguaggio maccheronico al
poema epico-cavalleresco. Con quest’opera Folegno finisce così per offrirci uno dei primi e più riusciti
esempi del filone espressionistico della nostra letteratura. Accanto alla poesia maccheronica e folenghiana,
si afferma un fenomeno simile nella sostanza, ma invertito negli aspetti. Si tratta della letteratura
“fidenziana” così detta da I cantici di Fidenzio, scritti dal vicentino Camillo Scroffa. Il suo linguaggio compie
l’operazione opposta, cioè assume un vocabolario latino dentro una morfologia italiana.

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