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LETTERATURA

Manuale di studio per il


concorso ordinario cdc
A022/A012
PARTE I
INDICE

1. LE ORIGINI DELLA LETTERATURA


Il medioevo latino
La nascita del volgare
La rustica romana lingua e le lingue d’oc e d’oil
Il volgare illustre e la nascita della letteratura
I presupposti culturali e sociali della letteratura in volgare
I generi letterari
L’età comunale: contesto: società, economia e cultura
Una nuova concezione del mondo e dell’uomo
La figura dell’intellettuale

1 La letteratura religiosa in età comunale:


San Francesco
Jacopone da Todi,
Jacopo Passavanti

2 I poeti siculo-toscani:
Guittone d’Arezzo
Seguaci guittoniani o siculo-toscani

4. La Scuola Siciliana
I Siciliani: origine e confini di una denominazione
La rima siciliana
I principali poeti della Scuola Siciliana
I generi metrico-tematici fondamentali della Scuola Siciliana
Giacomo da Lentini (Madonna, dir vo voglio; Chi non avesse mai veduto foco; Meravigliosa-
mente.

5. Dante Alighieri
Vita
Pensiero e Poetica precedenti all’esilio
Opere precedenti all’esilio
Vita Nova
Rime
Dante Alighieri dopo l’esilio
Pensiero e poetica dopo l’esilio
Convivio
De Vulgari Eloquentia
De Monarchia
La Divina Commedia: diffusione; inquadramento dell’opera; interpretazione e piani di lettura della
commedia; Struttura; lingua e stile; cosmologia; trama; inquadramento generale dell’infermo,
purgatorio e paradiso; analisi dettagliata della Divina Commedia.

6. Giovanni Boccaccio
La vita

I caratteri della cultura del Boccaccio

Le opere del periodo napoletano

Le opere del periodo fiorentino

L’Elegia di Madonna Fiammetta

Il Decameron: composizione, pubblicazione, diffusione

Gli interventi dell’autore

Un «orrido cominciamento»: la peste di Firenze

5.3 La brigata dei narratori

5.4 Struttura generale del Decameron e gli argomenti delle giornate

5.5 La coerenza della struttura

5.6 I temi delle novelle

5.7 I modi della rappresentazione

5.8 La prosa del Decameron

5.9 Verso un narrare moderno

6. Boccaccio umanista

7. Poesie e trattati latini

8. Il culto di Dante

9. Il Corbaccio

10. L’attualità dei classici

11. Il genere della novella


7. Ludovico Ariosto
La vita

Le opere minori

L’Orlando Furioso

8. Torquato Tasso
Contesto storico-culturale

Biografia

Produzione letteraria

I capolavori della maturità

Le opere degli ultimi anni

Caratteri della poetica tassiana

La Gerusalemme liberata

Critica letteraria

I Crociati giungono a Gerusalemme- Canto III, stanze I-X

9. Niccolò Machiavelli
Breve biografia

Lingua

Il pensiero

Le opere minori

Il Principe

10. Galileo Galilei


La vita

Contesto storico-culturale ed importanza delle opere di Galileo

Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano


11. Cesare Beccaria
Biografia

Contro la pena di morte

12. Vittorio Alfieri


La vita

I rapporti con l’Illuminismo

Le opere politiche

Il Misogallo

Le satire e le commedie

La poetica tragica

L’evoluzione alfieriana della tragedia dal 1775 al 1787

La scrittura autobiografica: la Vita scritta da esso

Le Rime

“Bollore” fantastico e disciplina formale

13. Alessandro Manzoni


Vita

Le idee, la poetica e il contesto storico

Le opere di Manzoni

I Promessi Sposi

Scritti storici e morali

Gli scritti linguistici e la questione della lingua

Analisi del testo: Il Cinque Maggio

14. Giacomo Leopardi


Vita

Le concezioni del Leopardi


La “storia di un’anima”

Lo “Zibaldone”

I “Pensieri”

Le “Operette morali”

I “Canti”

Per una poetica dei Canti

L’Epistolario

15. Carlo Porta

16. Gioacchino Belli

17. Giosuè Carducci


La vita

L’evoluzione ideologica e letteraria

La prima fase della produzione Carducciana: Juvenilia, Levia, Gravia, Giambi ed Epodi

Le Rime nuove

Le Odi Barbare

Rime e Ritmi

Elaborati mancanti: Petrarca; Goldoni; Parini; Foscolo; Verga; Collodi e De Roberto; Pascoli.
1. LE ORIGINI DELLA LETTERATURA

IL MEDIOEVO LATINO

Nel 476 d.C. viene deposto l’ultimo imperatore romano d’Occidente Romolo Augustolo. Questo atto
simbolico viene interpretato come la fine dell’Impero romano d’Occidente, dal quale nacquero i
cosiddetti regni romano-barbarici. A partire da questa data viene fissato l’inizio dell’Alto Medioevo.
I primi secoli dell’Alto Medioevo sono caratterizzati da un panorama politico e culturale molto
frammentato, nel quale l’unico fattore unificante è costituito dalla Chiesa che dopo la conversione
dell’imperatore Costantino (313 d.C.) e il riconoscimento del Cristianesimo come religione di stato
da parte dell’imperatore Teodosio (editto di Tessalonica, 380 d.C.), si presentava come istituzione
indissolubilmente legata al nome di Roma.
La ricostruzione di un organismo politico unitario si ha con la creazione del Sacro Romano Impero
di Carlo Magno, il cui progetto di far rivivere l’impero di Roma nel quadro di una nuova Europa
cristiana svanisce con la sua morte (814). La morte dell’imperatore segna la fine del sogno
universalistico e si determina una situazione di moltiplicazione dei centri di potere e di
frammentazione dell’autorità. Emersero dei nuovi poteri periferici capaci di sopperire a un potere
regio sempre più assente. Progressivamente furono questi signori locali a esercitare effettivamente
l’autorità. Questo processo portò alla nascita di corti feudali.
I secoli immediatamente successivi alla disgregazione dell’impero romano vedono un progressivo
aggravarsi della crisi economica (autoconsumo, ritorno al baratto, calo demografico, decadenza delle
città). La situazione comincia a mutare dopo il Mille in concomitanza con una maggiore stabilità
politica e con la cessazione delle invasioni da Est. Si ha un netto incremento demografico, le città si
ripopolano. Con la ripresa dell’Occidente ha inizio una nuova fase storica, il Basso Medioevo.
L’Alto Medioevo è caratterizzato da una visione statica della realtà. Tale visione è permeata dalla
religiosità cristiana che domina la civiltà medievale: poiché l’universo è stato creato da Dio, esso è
ritenuto perfetto e immutabile e le sue leggi non possono essere conosciute dall’uomo; l’unica verità
alla quale si può avere accesso è quella rivelata da Dio attraverso le Sacre Scritture. I due massimi
poteri Chiesa e Impero derivano la loro autorità da Dio e sono quindi universali (visione
universalistica dei due massimi poteri, ovvero la tendenza a esprimere valori ritenuti validi per tutti
gli uomini); anche i loro compiti rispondono ad un unico disegno provvidenziale: compito dell’impero
è condurre l’uomo alla felicità nella vita terrena; compito della chiesa è condurre l’uomo alla
beatitudine della vita eterna.
La visione medievale della realtà è soprattutto simbolica. Ogni aspetto del mondo non vale solo per
sé, ma rimanda sempre ad altro, a qualcosa che è al di là delle semplici apparenze, a qualcosa di più
alto in cui è inserito e che gli dà significato. Per questo l’uomo medievale è portato a leggere ogni
aspetto della natura come un segno di questo ordine misterioso, ad avvertirlo come denso di allusioni
a sensi ulteriori. Dal cercare nei testi altro da ciò che essi dicono deriva il termine allegoria (allon +
agoreuo = dire altro). Il metodo di lettura allegorico dei testi fu applicato dalla cultura cristiana in
primo luogo alle Sacre Scritture.
Si afferma l’uso di individuare 4 livello di senso nelle scritture (Dante nel Convivio):
1. Livello letterale: significato superficiale e immediatamente percepibile;
2. Livello allegorico: la parola rimanda ad un altro significato;
3. Livello morale: dai fatti narrati e dal loro significato intende ricavare un modello di
comportamento;
4. Livello analogico: relativo ai più alti misteri della religione e della fede, che risolve tutti i
significati del testo alla luce della verità divina.
Con la disgregazione della struttura politica dell’impero romano, l’unica istituzione scolastica resta
la chiesa. Al centro dell’insegnamento vi sono le arti liberali, così dette in quanto degne dell’uomo
libero, cioè non obbligato a lavorare per vivere. Si dividono in arti del Trivio (grammatica, retorica,
dialettica) e del Quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia, musica).
All’interno della chiesa una funzione culturale importante è svolta dai monasteri, che diventarono
sia aziende agricole ma anche luoghi deputati ad attività sociali e di cultura. La regola benedettina
assegna grande importanza alla lettura dei testi sacri: la lectio divina, la lettura della sacra pagina. Il
monastero svolge anche un ruolo culturale, non solo istituzione scolastica, ma anche scriptorium,
centro di produzione del libro, dove alcuni monaci (amanuensi) si dedicano alla riproduzione dei
testi copiandoli a mano. È la scuola religiosa che ora fornisce l’istruzione ed essendo l’istruzione
impartita dal clero, il termine chierico assume il significato di fornito di cultura.
La lingua della cultura è esclusivamente il latino, lingua ufficiale della chiesa e poiché il latino è
conosciuto solo dai chierici, e tutto il resto della società non sa né leggere né scrivere, la cultura è
patrimonio di un gruppo ristretto di persone.
La lingua parlata comunemente, il volgare, per secoli non viene impiegata per la produzione di testi
scritti, bisogna aspettare il XI secolo per la Francia e il XIII per l’Italia.
Nella produzione latina medievale la visione religiosa permea tutta la spiritualità medievale. Generi
di grande diffusione sono:
Agiografia: racconto delle vite dei santi, in cui ha larga parte il sovrannaturale miracolistico
e che spesso sfuma in un clima fiabesco e leggendario;
Exemplum: racconto di vicende esemplari con finalità morali ed edificanti;
Visioni: contengono descrizioni dei regni dell’oltretomba;
Inni liturgici: cantati nelle cerimonie del culto;
Opere teologiche: dibattono problemi religiosi e filosofico-teologici (Confessioni di
Sant’Agostino);
Bestiari, lapidari, erbari: enciclopedie dove si descrivono i significati simbolici e morali
degli animali, delle pietre e delle piante;
Cronache, opere storiografiche: registrazioni dei fatti accaduti in un ristretto ambito
territoriale, accompagnate da un’interpretazione provvidenzialistica;
Poesia goliardica: genere profano, in contrapposizione polemica e parodica con la letteratura
religiosa.

LA NASCITA DEL VOLGARE


L’italiano deriva dal latino: intorno al 1000 a.C. i latini si stanziarono nel Lazio, il cui nome deriva
dal termine latus (largo, ma anche pianeggiante con riferimento alla vasta pianura a sud del Tevere).
A quei tempi nella penisola italica si parlavano numerose lingue indoeuropee, chiamate così perché
diffuse tra le genti che abitavano i territori che andavano dall’Europa all’India. Non sappiamo molto
di queste parlate prelatine, a parte che esistevano degli alfabeti italici in alcuni casi differenti da quello
romano, che risentivano sia di quello etrusco sia di quello greco. Si può però ipotizzare che poiché il
latino primordiale nasce in questo contesto, la sua formazione abbia sicuramente subito l’influsso di
questi idiomi, in particolare quello degli Osci (osco-umbro). L’eredità dell’etrusco è più
documentabile, anche se questa cultura fu completamente assimilata dalla cultura romana al punto da
estinguersi abbandonando o perdendo il proprio patrimonio linguistico.
L’espansione di Roma che da piccola repubblica divenne potenza imperiale dominatrice di quasi tutta
l’Europa avvenne tra il III e il I secolo a.C. e in questo lungo periodo il latino si impose come la
lingua impiegata in tutti i territori conquistati. L’idioma dei romani si è a sua volta inevitabilmente
contaminato.
Le prime iscrizioni su pietra in latino risalgono al 600 a. C: ma solo a partire dal III sec. a.C.
comparvero i primi documenti di una lingua scritta letteraria che si usa suddividere in periodi: arcaico,
classico, augusteo e imperiale. La letteratura latina abbraccia perciò un periodo storico molto esteso
che continua fino al 476 d.C. e poiché a quel tempo il latino era una lingua viva, in questo lasso di
tempo si è modificato ed evoluto notevolmente. Nel periodo tardo-antico sopravvisse come la lingua
scritta per la comunicazione internazionale, impiegata per tutto il Medioevo. Tramandato però solo
per iscritto il latino si cristallizzò ricalcando soprattutto i modelli degli autori classici per ridursi
sempre più a una lingua morta. E passando al parlato con il trascorrere del tempo lo scarto tra la lingua
viva e i modelli letterari era sempre maggiore.
Con le invasioni barbariche lo sfaldamento dell’impero e della sua lingua fu inevitabile e dal latino
medievale sempre più variegato localmente nacquero le lingue neolatine o romanze.
Le nuove lingue si sviluppano in tutta l’area in cui anticamente si parlava latino, quella a cui si dava
il nome di Romània: area geografica su cui l’insieme delle lingue romanze o neolatine si è sviluppato
comprendente Italia, Francia, penisola Iberica e Romania (con la definizione di latino volgare gli
studiosi indicano l’insieme dei tratti colloquiali e popolari diffusi nelle diverse zone della Romània).
Queste parlate daranno origine alle attuali lingue romanze: italiano, francese, provenzale, spagnolo,
catalano, portoghese, rumeno. Parallelamente in Germania, Austria, Inghilterra, Scandinavia si
parlano volgari di ceppo germanico e nella penisola balcanica e Europa orientale si diffondono le
lingue slave. Tutti questi volgari all’inizio erano solo di uso orale; la rivoluzione si ebbe quando
vennero usate per comporre opere letterarie. Da qui nascono le letterature moderne dell’Europa.

LA RUSTICA ROMANA LINGUA E LE LINGUE D’OC E D’OIL


Una delle prime testimonianze dell’evoluzione delle lingue romanze avvenne durante il Concilio di
Tours (813) voluto da Carlo Magno. Questo rappresenta l’atto di nascita ufficiale delle lingue
romanze; attraverso questo concilio la Chiesa sancì che mentre il latino rimaneva la lingua
ecclesiastica ufficiale, per le predicazioni si doveva ricorrere alla lingua viva volgare. Ammise perciò
due lingue diverse dal latino in cui tradurre la predica affinché tutti potessero capire: “In rusticam
romanam linguam aut thiotiscam”, cioè nella rustica romana lingua o in tedesco. Le lingue tedesca e
francese furono le prime a delinearsi.
Un altro documento importante è costituito dai Giuramenti di Strasburgo (842), un atto politico stilato
dai due successori di Carlo Magno, Carlo il Calvo, sovrano della parte occidentale dell’impero, e
Ludovico il Germanico, sovrano della parte orientale, che strinsero una alleanza nella lotta comune
contro il fratello Lotario, che doveva essere approvata per acclamazione dai due rispettivi eserciti e
che perciò doveva essere comprensibile a tutti. Pronunciarono una formula di giuramento dapprima
nelle rispettive lingue (in francese Carlo, in tedesco Ludovico), poi si scambiarono le lingue per
impegnarsi ciascuno dinanzi all’esercito dell’altro, dando luogo alla più antica testimonianza scritta
del protofrancese di quell’epoca.
Nei secoli successivi nell’area di lingua francese a nord prese piede la lingua d’oil, derivata dal gallo-
romanzo e antenata dell’odierno francese, che finì per affermarsi a Parigi. A sud si diffuse invece la
lingua d’oc, cioè il provenzale della letteratura medievale francese. Quest’ultima sopravvisse fino al
XIII secolo, quando la crociata contro gli eretici albigesi pose fine alle corti provenzali e segnò
l’affermazione politica e linguistica del francese in tutto il paese. Entrambe le lingue ebbero una
notevole influenza sulla nascita del volgare italiano che anche a causa della divisione politica della
penisola si cominciò ad affermare con un paio di secoli di ritardo rispetto al francese.
Non ci sono tracce antiche del volgare parlato in Italia nel Medioevo antico. Uno dei documenti più
noti che si può collocare tra la fine dell’VIII secolo e l’inizio del IX, è un codice oggi conservato
nella Biblioteca Capitolare di Verona, noto per un indovinello veronese. Ancora scritto in latino, ma
in un latino ormai lontano da quello classico, attesta una fase di transizione in cui il volgare inizia a
insinuarsi nelle strutture del latino ma non ha ancora piena autonomia. Anche il Glossario di Monza
(datato agli inizi del X secolo) contiene 63 parole latino-romanze affiancate alle corrispondenti greco-
bizantine, ma non appartiene ancora all’epoca del volgare ma sono forme della rustica romana lingua
che lo ha preceduto. La prima frase in volgare di cui si ha traccia invece è considerata quella del
Placiti cassinesi contenuta nella Carta Capuana che risale al 960. I Placiti cassinesi sono testimonianze
relative ad alcune controversie giudiziarie inserite in documenti scritti interamente in latino: i giudici
sentivano la necessità di riportare le frasi così come erano pronunciate dai testimoni per evitare ogni
equivoco, dal momento che la lingua parlata da tutti era ormai il volgare. Quattro sono i Placiti e il
più famoso è il Placito Capuano: nel 960 a Capua un giudice deve decidere su una causa intentata
dall’abate del monastero di Montecassino a un tale, accusato di avere occupato indebitamente terre
di proprietà dell’abazia. Nel verbale del processo (placito, nel gergo giuridico del tempo) redatto in
latino, il giudice trascrisse delle testimonianze di contadini trascritte nel volgare parlato perché
fossero comprensibili a tutti. I placiti a differenza dell’indovinello, offrono testimonianza di un
idioma che ormai ha caratteristiche proprie, distinte dal latino. Dopo i Placiti per avere altri testi scritti
in volgare bisogna aspettare gli ultimi decenni dell’XI secolo. Tra questi compare la Postilla amiatina.
È una postilla aggiunta da un certo notaio Rainerio a una carta del 1087 con la quale un tal Miciarello
e sua moglie Gualdrada donavano i loro beni all’Abbadia di San Salvatore sul monte Amiata. Risale
alla fine dell’XI secolo anche l’iscrizione in un affresco nella Basilica di San Clemente al Laterano a
Roma. L’affresco rappresenta San Clemente che viene portato incatenato dai servi di un certo patrizio
Sisinnio che grida ai suoi schiavi frasi in volgare che testimoniano anche lo sviluppo dell’articolo.
Nell’epitaffio di papa Gregorio V (morto nel 999) c’è testimonianza che il volgare venga impiegato
nelle occasioni pubbliche come le predicazioni.
A parte questi documenti frammentari, le prime tracce dell’impiego del volgare nella scrittura
compaiono a partire dal XII secolo. Si tratta di scritti con motivi pratici e si trovano in ambito
giudiziario e notarile. In seguito l’uso del volgare presso i mercanti si diffuse e si tramandò. Nel 1215
uno scritto di Boncompagno da Siena attesta che i mercanti scrivevano in volgare. Successivamente
l’insegnamento del nuovo idioma in ambiente mercantile farà nascere un nuovo tipo di scrittura detto
appunto mercantesca. Nel 1246 gli statuti notarili di Bologna stabilirono che i notai dovessero poter
leggere i loro atti in volgare: la lingua parlata si estese così sempre di più agli usi pratici e cominciò
a essere codificata attraverso le convenzioni della scrittura e dell’alfabeto scritto, diventando perciò
testo. Esempio di atto notarile è un passo della Carta Picena del 1193; oppure vi è un libro di conti di
banchieri fiorentini del 1211, prima testimonianza di un volgare toscano; oppure la Carta di San
Gemignano (1227).
Mentre la trascrizione scritta del volgare rompeva il bilinguismo e la differenza tra parlato e scritto,
la lingua della letteratura continuava a essere il latino medievale, detto anche mediolatino sempre più
distante da quello classico. Nel 1200 comparvero le prime testimonianze di componimenti scritti con
intenti letterari anche nei vari dialetti volgari propri delle singole regioni. Tra questi si possono citare
i Sermoni subalpini, 22 componimenti festivi anonimi (lingua miscuglio di dialetto piemontese con
costrutti latini e risente del francese); i Proverbi de femene, anonimi, contenenti 189 quartine che
scherniscono le donne in una lingua del nord in cui si mescolano le culture dialettali arcaiche e
latineggianti. Ma questi primi esperimenti dialettali non hanno ancora intenti letterari, si inseriscono
in una tradizione di componimenti popolari non preceduti dalla diffusione della letteratura giullaresca
affermatasi per tutto il Medioevo per raggiungere le fasce della popolazione meno colte che non
conoscevano il latino. Per lo più erano canti di natura libera e a volte oscena anche se spesso venivano
recitati oralmente durante le feste, a quei tempi quasi sempre religiose, e che per questo suscitarono
l’ira della chiesa che li definì turpia et luxuriosa e causa del turbamento dell’ordine pubblico. I
giullari, joculares, cioè giocolieri, giravano per corti, castelli e città e recitavano queste poesie che
appartenevano alla tradizione orale e spesso si avvalevano della mimica e delle danze. Sono una
testimonianza del parlato più che dello scritto; esempio ne è il Ritmo Laurenziano (chiamato così
perché contenuto in un codice della biblioteca Laurenziana di Firenze) di un anonimo giullare che è
forse la più antica poesia in volgare di cui ci resta traccia. Si tratta di un elogio cantilenato di un
vescovo a cui si chiede il dono di un cavallo.

IL VOLGARE ILLUSTRE E LA NASCITA DELLA LETTERATURA


Le prime manifestazioni di un’attività letteraria in lingua italiana si hanno agli inizi del Duecento: a
questa data si può fare risalire quindi l’inizio della letteratura italiana. Ma questa letteratura non nasce
dal nulla: alle spalle della nascente produzione in lingua volgare vi era la tradizione della cultura
classica, poi la tradizione latina medievale e infine le letterature che si erano sviluppate in Francia: la
letteratura in lingua d’oil al nord e la letteratura provenzale in lingua d’oc al sud.
I primi autori che adoperarono il volgare si sforzarono di utilizzare un volgare illustre per essere intesi
da tutto il paese. La letteratura in volgare degli esordi era un tentativo di creare una lingua nazionale.
I componimenti nella lingua del si avevano un linguaggio depurato e ripulito da tutti gli elementi
regionali e municipali, quindi un linguaggio nobile differente da quello del parlato. E si può dire che
la letteratura italiana nasce già adulta dal punto di vista stilistico sia per il ruolo svolto dal latino
classico e medievale sia per l’influenza delle altre lingue romanze. Tutti gli autori del 200
conoscevano bene il latino dei classici, quello medievale e anche l’arte della retorica. Erano chierici,
ovvero le persone colte, i letterati e gli uomini di studi.
In paesi come Francia o Germania l’unità nazionale era già avvenuta e di conseguenza anche l’unità
linguistica esisteva da un paio di secoli. L’Italia invece era politicamente divisa da almeno 7 secoli.
La mancanza di uno stato e di un centro politico unificante corrispondeva al frazionamento
linguistico, ragion per cui i primi componimenti letterari nacquero contemporaneamente in più luoghi
e ogni poeta cercò di dare dignità letteraria al proprio volgare seppur in modo illustre.

I PRESUPPOSTI CULTURALI E SOCIALI DELLA LETTERATURA IN VOLGARE


Verso la fine dell’XI secolo in Francia è particolarmente sviluppata la società feudale e il ceto
dominante è costituito da un’aristocrazia guerriera che però col tempo si dimostra insufficiente per
sopperire ai bisogni di continue guerre. Viene pertanto affiancata nel controllo dei territori dalla
cavalleria. È per opera di questo ceto che si forma l’ideale cavalleresco, i cui valori sono:
Prodezza, coraggio
Sete di gloria e senso dell’onore
Lealtà e rispetto dell’avversario
Generosità con i vinti
Rispetto della parola data
Fedeltà al signore o al sovrano
La vera nobiltà è quella dell’animo, non quella di sangue.
La chiesa tenta presto di operare una mediazione tra la concezione guerresca e quella cristiana.
Gli originali valori guerreschi vengono ingentiliti; il cavaliere deve mettere la sua prodezza al servizio
dei deboli, in particolare delle donne e la guerra deve essere indirizzata alla difesa della vera fede.
Nasce inoltre il concetto di guerra santa contro gli infedeli musulmani che occupavano i luoghi santi
in Palestina. Vengono organizzate le prime crociate. In concomitanza con le crociate nascono in
Francia le prime grandi opere letterarie in volgare, le canzoni di gesta, poemi epici che esaltano le
imprese di eroici cavalieri in difesa della fede.
I valori cavallereschi della classe feudale trapassano nell’ideale cortese (così chiamato perché nasce
nell’ambito della vita delle corti feudali). Alle virtù cavalleresche come prodezza, onore e lealtà si
aggiungono le virtù civili:
liberalità (disprezzo per l’attaccamento all’interesse materiale),
magnanimità (capacità di compiere sacrifici e rinunce)
culto della misura (evitare lussi e eccessi volgari).
In questa concezione acquista rilievo la donna che diviene il simbolo della cortesia e della gentilezza,
il soggetto intorno a cui ruota la virtù, anzi la fonte da cui le virtù si originano perché ingentilisce
coloro che vengono a contatto con lei. Il culto della donna diviene il tema dominante della letteratura
di questo periodo e si traduce in una particolare concezione dell’amore, l’amore cortese: concezione
che appare per la prima volta nella poesia lirica dei trovatori provenzali, nella Francia meridionale.
Aspetti basilari dell’amore cortese:
La donna è vista dall’amante come un essere sublime e irraggiungibile, in certi casi addirittura
divino, tale da produrre effetti miracolosi e da essere degno di venerazione (culto della donna);
l’uomo si pone in un atteggiamento di inferiorità rispetto alla donna amata presentandosi come
suo umile servitore (servitium amoris);
l’amore è totalmente inappagato, l’uomo non chiede nulla in cambio dei suoi servigi; non si tratta
di amore spirituale, ma il possesso della donna è destinato a non concretizzarsi; l’amore
impossibile genera sofferenza, tormento perpetuo;
l’esercizio di devozione alla donna nobilita l’animo lo ingentilisce. Amore si identifica con
cortesia: solo chi è cortese può amare “finamente”, ma a sua volta l’amor fino rende cortesi; solo
chi è cortese può amare, solo chi ama ha un cuore nobile
Si tratta di un amore adultero che si svolge al di fuori del vincolo matrimoniale, anzi nel
matrimonio non può esistere amor fino; il carattere adultero dell’amore esige il segreto che tuteli
l’onore della donna; per questo il nome della donna non viene mai pronunciato, alla donna si può
alludere solo attraverso uno pseudonimo (senhal) per timore dei malparlieri che possono spargere
dicerie maligne;
L’amore è una passione esclusiva, totale, tanto che si parla di culto della donna: nasce un conflitto
tra amore e religione, tra culto per la donna e culto per Dio. La chiesa condanna l’amore cortese
come fonte di peccato e perdizione; a sua volta l’amante cortese sente questo antagonismo
insanabile coi principi religiosi e ne prova senso di colpa.
I GENERI LETTERARI
I due generi principali della letteratura in lingua d’oil sono l’epica cavalleresca (o chanson de geste)
e il romanzo cortese.
Lo spirito guerresco della società feudale dà vita al poema epico, le cosiddette Chanson de geste. La
chanson de geste è scritta in versi. Una chanson è un testo accompagnato dalla musica, allude al fatto
che questi testi venivano cantati; geste (gesta) deriva dal latino res gestae che indica i fatti accaduti,
cioè gli eventi storici. Molte di queste canzoni si incentrano su Carlo Magno e i paladini (ciclo
carolingio), la base delle narrazioni è storica la le vicende vengono trasfigurate in luce leggendaria.
La chanson de geste costituiscono l’espressione della visione della vita e dei valori della classe
feudale e cavalleresca, ne interpretano la mentalità e i gusti. La trasmissione di questi testi era orale:
venivano cantati da cantori dinanzi ad un uditorio, su una semplice melodia con accompagnamento
musicale. Erano in versi decasillabi raggruppati in strofe di lunghezza diseguale, dette lasse. I versi
non avevano rime, ma assonanze, cioè erano legati dal ricorrere nelle parole finali delle stesse vocali
a partire dall’accento tonico. Frequenti formule stereotipate e ripetizioni dovute al carattere orale di
questi poemi. Ci sono giunti anonimi.
Al XII secolo risale la Chanson de Roland, scritta in lingua d’oil che narra le avventure di Orlando
e degli altri undici paladini di Carlo Magno in guerra contro i musulmani di Spagna, caduti a
Roncisvalle. Il protagonista, il conte Orlando, cade in un’imboscata sui Pirenei, a Roncisvalle, tesagli
dai Mori a causa del tradimento di Gano e suona l’olifante per chiamare rinforzi, che però giungono
troppo tardi. Nella canzone compaiono due temi: la guerra santa dei cristiani contro gli infedeli e la
celebrazione del rapporto di onore e fedeltà che lega i paladini al sovrano. Altri cicli epici sono quello
dei Nibelunghi di origine germanica che esalta le gesta dell’eroe Sigfrido ucciso a tradimento e la
narrazione dell’amore tremendo e della vendetta della sposa Crimilde, e quello spagnolo del Cid,
centrato sulla figura di Rodrigo Diaz de Vivar detto il Cid Campeador che combatte contro i Mori e
gli intrighi di corte.
L’ingentilirsi dei costumi e l’emergere di più complesse esigenze culturali segnano il passaggio
dall’epica a un genere nuovo, il romanzo detto cavalleresco o cortese sia perché nasce nell’ambito
della vita delle corti feudali sia perché si fa espressione di quell’ideologia dell’amore cortese
codificata nel trattato De amore di Andrea Cappellano. In queste opere alla guerra come tema
dominante si sostituisce l’amore come espressione di sentimenti più nobili e raffinati.
Il romanzo cortese è scritto in versi, ha al centro le imprese cavalleresche ma l’amore ha un ruolo
preponderante a differenza della canzone di gesta; ne deriva un’importanza centrale dei personaggi
femminili. Il romanzo è privo di ogni referente storico e tratta materie puramente leggendarie. Narra
le vicende di eroi che cercano di conquistare o proteggere un amore o dimostrare il proprio valore. I
temi più diffusi sono l’amore, l’avventura e il meraviglioso, ma al centro della storia c’è sempre
l’individuo e la ricerca che questi deve compiere per provare il suo valore.
Il termine romanzo deriva da una parola del francese antico, romanz, che indicava ogni discorso in
lingua volgare (dal latino romanice loqui = parlare in lingua romanza). Successivamente designò il
genere letterario che per eccellenza era scritto in lingua volgare, la narrazione di argomenti
avventurosi e amorosi. Il romanzo ha una struttura aperta, usa l’ottonario a rima baciata, agile e
scorrevole. I protagonisti più celebri sono quelli del ciclo bretone, nel quale si narrano le avventure
dei cavalieri della Tavola Rotonda alla corte di re Artù, Lancillotto, Tristano e Isotta. L’autore più
significativo è Chretien de Troyes che scrive romanzi dedicati ai cavalieri della Tavola Rotonda, fitti
di avventure e di eventi magico-meravigliosi, in cui ha un ruolo preponderante l’amore. È considerato
il maggior poeta medievale prima di Dante, autore del Perceval e traduttore dell’Ars amandi di
Ovidio.
Se il romanzo francese usa la lingua d’oil, in lingua d’oc viene composta la lirica provenzale che si
afferma in Provenza da dove si diffonderà poi in Italia. Questi poeti, i cosiddetti trovatori,
accompagnano con la musica i loro componimenti.
La poesia dei trovatori è la più antica tradizione poetica in volgare. Il trovatore è chi scrive canzoni e
che fa della sua arte un vero e proprio mestiere, dal quale ottiene fama e che gli consente di vivere
nelle corti più ricche e potenti. La poesia dei trovatori non si diffuse solo nelle corti della Francia, ma
erano grandi viaggiatori e alcuni di loro si spostavano anche in Spagna, Italia, Inghilterra e Terrasanta.
Le loro poesie non erano inizialmente pensate per essere lette, ma per essere ascoltate con
l’accompagnamento della musica. Le loro canzoni avevano una precisa funzione nella società: erano
eseguite in pubblico, davanti alla corte. In primo luogo erano uno spettacolo d’intrattenimento per i
nobili. L’argomento principale delle canzoni dei trovatori è l’amore, l’amore cortese. Questo tipo di
amore è descritto nel più importante manuale d’amore del Medioevo, il trattato De amore
(Sull’amore) di Andrea Cappellano. È un sentimento inteso come passione assoluta e totalizzante;
una relazione prevalentemente extraconiugale tra un amante giovane e devoto e una dama nobile e
bella il cui nome non viene mai citato ed essa viene indicata attraverso un soprannome fittizio
(senhal); un desiderio per lo più insoddisfatto; un amore nel quale il compito dell’amante è desiderare
e obbedire, quello della donna essere servita e desiderata. L’amore è proclamato fonte di ogni bontà,
bellezza, gentilezza d’animo. Ma l’amore dei trovatori è cortese anche per altri motivi: perché le loro
canzoni erano cantate nelle corti e perché il tipo di rapporto che l’amante stabilisce con la donna
rispecchia in qualche modo il legame tra signore e vassallo alla base della società feudale. Oltre
all’amore cortese nella lirica dei trovatori troviamo molti componimenti che trattano di guerra, di
morale, di politica, di religione. Conosciamo i nomi di circa 460 trovatori. Il primo trovatore di cui
abbiamo notizia fu GUGLIELMO IX, duca d’Aquitania, uno degli uomini più potenti del suo tempo.
La sua originalità consiste nell’avere scelto di scrivere poesie in volgare rivolgendosi a un pubblico
in parte nuovo: un pubblico di laici che nella letteratura cercava divertimento, intrattenimento e non
istruzione morale.
Fra i trovatori più importanti va ricordato ARNAUT DANIEL, giullare di grande successo, inventore
della sestina, forma poetica imitata poi da Dante e Petrarca.
In questo tipo di poesia la forma è più importante del contenuto. Il poeta sceglie sei parole che
andranno utilizzate come parole-rima in tutte le sei stanze che compongono il testo. La particolarità
è che queste rime cambiano di posto ad ogni stanza: l’ultima diventa la prima, la prima la seconda, e
così via. Le poesie di Arnaut appartengono al filone del trobar clus, cioè del poetare chiuso, difficile.
Il poeta non è solo tenuto a seguire le rime, ma anche obbligato a inserire nel testo determinati temi
prescritti dal genere poetico. Il più celebre tra i trovatori che scrivono di guerra è Bertran de Born.
Bernart de Ventadorn invece è considerato il maggiore esponente della poesia sentimentale e
amorosa.
Altri generi di componimenti sono:
Sirventese: lunga canzone di argomento politico, morale o polemico collegata ad un fatto
esterno o contemporaneo;
Planh: compianto funebre per le virtù di un signore feudale
Tenzone: scambio di componimenti tra poeti, di argomento amoroso
Pastorella: dialogo tra un nobile e una pastorella che alla fine si concedeva
Alba: commiato degli amanti al termine della notte
Plazer: elenco di cose e situazioni piacevoli legate al mondo della corte, di stile comico
Enueg: elenco di cose e situazioni sgradevoli legate al mondo della corte, di stile comico
Ballata: componimento meno elevato
All’interno della poesia trobadorica si delineano anche diverse tendenze di stile:
il trobar clus (poetare chiuso) che consiste in uno stile elaboratissimo, artificioso ed oscuro, il
cui maggiore esponente è Arnaut Daniel;
il trobar leu (poetare dolce), il cui maggiore esponente è Bernart de Ventadorn, più limpido e
aggraziato.

L’ETA’ COMUNALE

CONTESTO: SOCIETA’, ECONOMIA E CULTURA


Il panorama politico dell’Italia nel 200 e 300 vede una bipartizione tra centro-nord della penisola e il
Sud: nell’area settentrionale e centrale si affermano i comuni; l’area meridionale invece è retta da
forme monarchiche (anche se il sistema feudale rimane forte): prima il regno normanno, poi quello
degli Svevi, infine la dinastia angioina che si installa a Napoli e quella aragonese che si impadronisce
della Sicilia. In Italia centrale si consolida lo Stato della Chiesa.
Le città diventano dei piccoli stati autonomi che si governano con ordinamenti repubblicani fondati
su consigli composti dai cittadini più influenti e su cariche pubbliche elettive. Nascono così i comuni
(lacerati dalle lotte tra guelfi e ghibellini). Dei conflitti tra i comuni approfittano uomini ambiziosi
per imporre la loro supremazia personale e in breve tempo l’ascesa di queste figure politiche porterà
al consolidamento di nuove organizzazioni statali, le Signorie e i Principati (ossia Signorie
riconosciute dall’autorità imperiale o papale).
Con l’avvento della civiltà comunale il centro della vita economica e sociale si sposta dalla campagna
alle città. Se nel sistema feudale l’economia si basa sulla produzione agricola, nella società comunale
l’attività fondamentale diviene quella mercantile; se quella feudale è un’economia chiusa, quella
urbana è un’economia aperta fondata sullo scambio e sulla rapida circolazione di capitali. La figura
sociale tipica della nuova età è quella del mercante. Si forma una nuova aristocrazia proveniente in
parte dalla vecchia nobiltà feudale che ha ormai interessi economici nelle attività mercantili e
bancarie, e in parte dall’alta borghesia che ha acquisito terre e stili di vita aristocratici. Sono attratti
dalla città anche i contadini.
La struttura sociale tipica delle città italiane è così composta:
magnati: di origine nobiliare, vivono delle loro rendite immobiliari;
popolo grasso (o alta borghesia): composto dai non nobili che esercitano le professioni e sono
organizzati in corporazioni di mestiere, le Arti;
clero: composto da colo che appartengono alla gerarchia ecclesiastica;
popolo minuto: composto dal popolo dedito ai mestieri meno remunerativi;
lavoratori a giornata: prestano il loro lavoro nelle botteghe o a domicilio dietro pagamento di
un salario, non hanno facoltà di organizzarsi in corporazioni e sono esclusi dai diritti politici;
poveri, nullatenenti, mendicanti.

UNA NUOVA CONCEZIONE DEL MONDO E DELL’UOMO


La nuova organizzazione dell’economia e della società in ambito comunale ha riflessi sulla mentalità
e sulla concezione del mondo. È in gestazione un uomo nuovo, rispetto a quello del mondo feudale.
La realtà cittadina è caratterizzata da un’economia aperta, dinamica e la conseguenza è una visione
dinamica del mondo; nasce una nuova fiducia nella forza dell’uomo che può trasformare la realtà e
modellarla secondo la sua volontà. Da questo atteggiamento scaturisce la curiosità di esplorare (si
pensi a Marco Polo nel Milione). Questa aderenza alla realtà concreta rende anche l’uomo più
attaccato alla vita terrena e più incline a giustificare il godimento dei beni materiali. Entrano così in
crisi i fondamenti dell’ascetismo medievale caratterizzato dal disprezzo del mondo e si delinea una
rivalutazione della sfera mondana che non viene più condannata come peccaminosa e fonte di
perdizione.
Si affermano nuovi valori. Se nella concezione feudale il valore centrale era la liberalità (saper donare,
disprezzo del denaro, rifiuto di ogni calcolo interessato), nella mentalità mercantile la virtù
fondamentale prende il nome di masserizia (oculata amministrazione dei propri beni).
Nell’Alto Medioevo e nella società cortese i principali centri di elaborazione della cultura erano
monastero e corte feudale. Nella società urbana si rafforzano alcune istituzioni:
chiesa: conserva un ruolo di primaria importanza per la produzione di testi scritti; accanto al
latino che rimane la lingua ufficiale della cultura, i chierici utilizzano il volgare per opere
finalizzate all’insegnamento morale e religioso e indirizzate a un pubblico comune;
scuola: il ceto necessita di elevarsi culturalmente per cui nasce il bisogno di una formazione
scolastica; esistono scuole tenute da religiosi anche se le famiglie borghesi più facoltose
preferiscono assumere maestri privati per l’educazione dei figli; più avanti si formano vere e
proprie scuole laiche;
università: originariamente è un’associazione privata e spontanea di maestri e allievi, una
corporazione (universitas è il termine che designa l’associazione che raggruppa la totalità dei
docenti e dei discenti); più tardi queste associazioni ricevano una consacrazione istituzionale;
in esse si impartivano insegnamenti di livello superiore che si organizzavano in quattro
facoltà: arti, diritto, teologia e medicina; il corso di studi durava di regola parecchi anni e
terminava con il conferimento della laurea, così detta dalla corona d’alloro che
tradizionalmente indicava la vittoria e che divenne il simbolo del titolo acquisito;
l’insegnamento era impartito in latino;
corte: tra il 1230 e il 1250 alla corte dell’imperatore Federico II di Svevia si forma una scuola
poetica costituita dai funzionari della stessa corte: è la scuola siciliana che riprende nel volgare
locale i temi dell’amore cortese della poesia provenzale; di qui prende le mosse la tradizione
della lirica illustre italiana; con l’affermarsi delle Signorie nascerà poi un altro tipo di corte
con caratteristiche urbane: i signori amano circondarsi di uomini di cultura e di letterati per
ricavarne lustro e prestigio;
spazi urbani: nonostante il diffondersi dell’alfabetizzazione il canale predominante nella
diffusione della cultura è quello orale; centri di elaborazione culturale sono la bottega dove
avviene la formazione professionale, la strada, la piazza, il mercato; la lettura era un fatto
soprattutto pubblico.

LA FIGURA DELL’INTELLETTUALE
Nella società urbana due e trecentesca i chierici conservano un ruolo importante: elaborare e
trasmettere la cultura di ispirazione religiosa. Tuttavia la figura più tipica di questa fase è quella
dell’intellettuale laico. Il primo gruppo di intellettuali laici in Italia è quello che si forma alla corte
siciliana di Federico II. I poeti della scuola siciliana a differenza dei trovatori e dei giullari, non fanno
dell’attività poetica la loro professione, ma sono funzionari dell’amministrazione che operano nella
cancelleria imperiale e si dedicano alla letteratura per svago e divertimento. Nei comuni centro-
settentrionali prevale la figura dell’intellettuale-cittadino che partecipa attivamente alla vita politica
del suo comune. Anche questi intellettuali non traggono sostentamento dalla loro attività di scrittori,
ma la affiancano all’esercizio di altre professioni. Lo scopo fondamentale delle loro opere è quello di
educare la coscienza dei concittadini poiché la divulgazione e l’ammaestramento sono l’abito mentale
dominante nella letteratura di questo periodo. Accanto all’intento didattico l’intellettuale comunale
porta poi nella sua produzione la passione politica e un forte impegno civile. Con l’affermarsi delle
Signorie nel corso del trecento compare un tipo nuovo di intellettuale, il cortigiano che si pone al
servizio di un signore dando lustro alla sua corte con la propria presenza. Viene meno la
partecipazione politica alla vita cittadina e con essa il carattere impegnato della produzione letteraria,
vista piuttosto come esercizio disinteressato lontano da ogni finalità pratica. Alla partecipazione
politica si sostituisce un atteggiamento di distacco dalla realtà per immergersi nello studio e nella
meditazione al fine di elevare spiritualmente se stessi. I destinatari della produzione culturale tornano
a identificarsi con una cerchia ristretta di letterati o gentiluomini di corte. Si riafferma l’uso del latino
ma al tempo stesso il volgare diviene una raffinata lingua letteraria.
2. LA LETTERATURA RELIGIOSA IN ETA’ COMUNALE
Il potere temporale acquisito dalla chiesa favorisce la nascite delle cosiddette eresie, movimenti
religiosi diversi ma accomunati dal desiderio di ritornare allo spirito evangelico della chiesa
originaria.
La patària si diffonde in area lombarda, combatte i costumi corrotti del clero, raggiungendo la sua
massima forza a Milano. I catari sono una setta ereticale che ispirandosi a posizioni rigoriste si
affermò in Francia meridionale tra Tolosa e Albi (da cui il nome di albigesi). Contro di loro fu indetta
da Innocenzo III una crociata che nel 1209 determinò la distruzione e la dispersione del movimento
contribuendo ad accelerare la fine della civiltà occitanica e della letteratura provenzale (nella
persecuzione fu coinvolto anche il movimento dei valdesi, che fondato a Lione nel 1170 da Pietro
Valdo si diffonderà anche in Italia).
La chiesa reagisce alla diffusione delle eresie con la creazione di ordini religiosi che si richiamano
alla povertà (Francescani) e alla fedeltà all’ortodossia (Domenicani) approvati da papa Onorio III, il
primo ne l123, il secondo nel 1216. Entrambi gli ordini si dedicarono alla predicazione: per i
francescani si espresse attraverso il racconto delle parabole evangeliche narrate al popolo, per i
Domenicani si realizzò nell’interpretazione dei passi della scrittura.
Il francescanesimo ebbe larga diffusione soprattutto tra i ceti popolari che trovarono in esso la risposta
alle proprie esigenze di purificazione e di vita condotta secondo i principi del vangelo. Il successo
dell’ordine non riuscì però ad evitare la scissione dei confratelli tra conventuali (sostenitori più blandi
della regola) e spirituali (rigidi e intransigenti seguaci della regola).
La predicazione dei francescani utilizza il volgare in quanto il loro messaggio d’amore deve
raggiungere un pubblico il più vasto possibile; la forma della comunicazione è semplice e immediata
ricorrendo spesso alle parabole evangeliche.
Il primo testo letterario legato alla tematica religiosa è il Cantico di Frate Sole di San Francesco che
nasce come preghiera, come inno da cantare coi fedeli.
Opera più significativa sono i Fioretti (esempi gentili, edificanti), raccolta anonima di episodi
esemplari riguardanti la vita del santo. Esempio di ottimismo evangelico in cui si celebra la fratellanza
di tutti gli esseri (Getto). Dopo la morte del santo e la divisione dell’ordine nei spirituali e conventuali,
l’intransigenza degli spirituali portò questi ultimi a veri scontri col papato che li accusò di eresia. Si
crearono gruppi di francescani ribelli, i fraticelli, che a loro volta accusarono il papa di eresia. Ai
fraticelli apparteneva Michele da Calci che venne condannato al rogo per essersi rifiutato di
riconoscere l’autorità del pontefice. La cronaca anonima “Storia di fra Michele minorita” racconta la
cattura, il processo e l’esecuzione di fra Michele.
Francescano è anche il maggior poeta religioso del periodo, Jacopone da Todi che inaugura la
tradizione delle laude1 drammatiche coinvolgendo il destinatario in una forma attiva di
partecipazione.

1 LAUDA: è un componimento poetico e musicale in volgare di argomento religioso. È un canto di lode a Dio, alla
Vergine e ai santi che offre spunti di meditazione e di preghiera. La sua origine è da ricercarsi nell’accompagnamento ai
riti liturgici, nelle lamentazioni della Madonna e delle pie donne per la morte di Cristo che venivano cantate in chiesa.
La lauda ebbe impulso col movimento del Flagellanti o Disciplinati che davano luogo a delle processioni in cui i fedeli
si flagellavano pubblicamente esprimendo il loro disprezzo per i beni del mondo e la loro aspirazione verso i valori
spirituali dell’anima. Esistevano due tipi di laude:
lauda lirica: ripercorreva gli schemi metrici della ballata profana
San Bernardino da Siena (1380-1444) è invece famoso per le prediche in volgare.
Più legata alle esigenze della predicazione appare la letteratura prodotta dall’ordine dei domenicani
che si proponeva il compito di diffondere la dottrina cristiana e che con il tribunale dell’Inquisizione
era il principale strumento della lotta contro le eresie. All’ordine domenicano appartiene Iacopo da
Varazze (1228-1298) , autore in latino della Legenda aurea: si tratta di vite dei santi in cui si concede
largo spazio all’elemento sovrannaturale e fantastico.
Domenicani sono anche Domenico Cavalca (1270-1342) e Iacopo Passavanti che scrivono le loro
opere in volgare toscano. Il primo è autore delle Vite dei santi padri che insistono sugli aspetti
meravigliosi e fiabeschi di comportamenti esemplari ed edificanti. Passavanti ha una visione cupa e
dolorosa dell’esistenza tutta dominata dal male e dal senso del peccato.
Caterina Benincasa da Siena (1347-1380) ha invece una visione caratterizzata da un senso lieto e
luminoso. La sua produzione letteraria costituita dalle Lettere e dal Dialogo della divina provvidenza
non rispecchia una religiosità semplice e popolare ma un complesso travaglio spirituale e una ricca
dottrina. L’uomo non è più la fragile creatura vittima del peccato perché la caduta è il risultato di una
libera scelta dell’uomo.

SAN FRANCESCO

Nato ad Assisi nel 1181-82. Figlio di un ricco mercante di stoffe, colpito da


una profonda crisi spirituale decise di abbandonare ogni bene mondano e di
fare voto di povertà. Attorno a lui si radunarono moltissimi seguaci. Per
VITA
organizzare questo gruppo di seguaci scrisse una regola fondata sui concetti di
(Assisi 1181-
1226) carità, obbedienza e povertà che poi venne ratificata dando origine all’ordine
francescano. Trascorse gli ultimi anni in solitudine e preghiera afflitto da molte
malattie Riuscì ad ottenere un primo riconoscimento papale nel 1210 e poi
l’approvazione definitiva da papa Onorio III nel 1223. Si reca a predicare in
Egitto e Terrasanta. Muore nel 1226. Secondo i biografi ricevette le stimmate
sul monte Verna e la certificatio (attestazione), una visione in cui Dio
approvava il suo operato e gli preannunciava la salvezza eterna. Il mattino
seguente avrebbe scritto il Cantico che si può considerare il testo da cui ha
avuto inizio la letteratura italiana.
OPERE Cantico di Frate Sole o delle Creature, considerato il testo da cui ha inizio
Cantico delle la tradizione letteraria italiana. Nella prima parte è una lode a Dio per tutti gli
Creature (1224) elementi del mondo creato; nella seconda è una preghiera penitenziale di fronte
alla morte dopo la quale per coloro che saranno nella volontà di Dio ci sarà la
beatitudine. Scritto in volgare si rivolge anche ai meno e agli illetterati,
destinato alla recitazione orale era accompagnato da una melodia purtroppo a
noi sconosciuta. Non è solo un testo letterario ma anche religioso, poggia sulla
concezione di Dio padre del creato e da ciò deriva la concezione di fraternità
per l’uomo e ogni cosa creata.

lauda drammatica: una sorta di rappresentazione teatrale incentrata dapprima sul dolore della Vergine e delle
donne ai piedi della croce, poi volta a rappresentare i vari momenti della vita di Gesù e dei santi. Col tempo
questo tipo di lauda si articola in forme drammatiche più complesse (sacra rappresentazione).
LINGUA Il Cantico è l’unico testo scritto in volgare umbro da Francesco, la scelta del
volgare influisce sul tipo di predicazione da destinare al popolo che doveva
capire senza fraintendimenti il messaggio religioso.
CRITICA Leo Spitzer ha parlato di antropocentrismo mettendo in luce che ogni creatura
citata è vista in sé e in rapporto all’uomo che è posto al centro del creato

JACOPONE DA TODI

Nacque a Todi dove esercitò attività di notaio, Egli conduce una vita
spregiudicata, poi forse la morte della moglie e la scoperta sotto le sue vesti
di un cilicio, strumento di penitenza e di dolore, determinano in lui una crisi
VITA
spirituale e decide di prendere i voti. La conversione avviene nel 1268 e da
(Todi 1230/36-
1306) quel momento entra a far parte dell’ordine francescano schierandosi con gli
spirituali, sostenitori di una rigida osservanza della regola francescana.
Conduce una vita da mendicante sottoponendosi a due fatiche e umiliazioni,
ma è anche un uomo combattivo e prende posizione contro la politica
temporale del papato schierandosi contro papa Bonifacio VIII che lo
scomunica e lo condanna al carcere a vita dal quale sarà liberato solo nel 1303
sotto il nuovo papa Benedetto XI. Muore nel 1306
POETICA Le sue opere esprimono un misticismo esasperato a tratti violento, benché
rientrano nella mentalità medievale dell’esaltazione di Dio a cospetto della
nullità dell’uomo. Nei testi poetici di argomento religioso affronta i temi come
la condanna dei beni mondani e della corruzione della chiesa, l’ardente amore
per Cristo che provoca gioia, il disprezzo per il proprio corpo e per la sua
fisicità, augurandosi che Dio gli mandi i malanni più ripugnanti a espiazione
dei suoi peccati. La sua visione è ispirata a un crudo pessimismo: egli insiste
sull’infelicità della condizione umana con un gusto di immagini cupe e forti
che richiama il genere del contemptus mundi, del disprezzo del mondo. Rifiuta
radicalmente la vita sociale che gli appare dominata dall’egoismo e
dall’ambizione. Dal rifiuto del mondo scaturisce la posizione ascetica: il corpo
aborrito deve essere mortificato con digiuno, flagellazione. Attraverso questa
ascesi persegue la purificazione dell’anima, la tensione verso il trascendente.
Un tema a lui caro è quello dell’amore divino, che non può essere espresso con
parole umane. Rende così il senso dell’esmesuranza (parola spesso ricorrente
nei suoi testi), della dismisura, della sproporzione incolmabile tra i due piani,
umano e divino.
OPERE La sua opera comprende 92 laude che si possono distinguere in due gruppi:
primo gruppo componimenti che si contraddistinguono pe il radicato
pessimismo con cui guarda alle cose del mondo che egli disprezza perché fonte
di perdizione così come disprezza il corpo. Da questo suo atteggiamento
scaturiscono un crudo realismo e un linguaggio gremito di termini violenti; al
secondo gruppo appartengono laude in cui traspare un mondo estatico di luce
e amore e nelle quali muta anche il linguaggio che mira a elevarsi verso la
realtà dello spirito (es. Donna de Paradiso).
Signor per Cortesia: chiede al Signore di punirlo con i peggiori mali
spirituali e corporali; il corpo è un nemico da mortificare con ogni mezzo
O Papa Bonifazio, molt’hai iocato al monno: una delle più violente
invettive contro Bonifacio VIII scritta durante la prigionia, ma non fa
cenno ai torti subiti, ma si riferisce allo svilimento del ruolo del papato
operato dal papa
O iubelo del core: esprime l’intensità della gioia che deriva dall’intima
fusione con Dio.
Quando t’aliegre: è un contrasto, un dialogo tra un vivo e un morto a
battute speculari, per cui alla quartina dell’uno risponde quella dell’altro
riprendendone l’argomento. Rappresenta un monito ai vivi di pensare nella
vita terrena come sarà la vita dopo la morte per acquisire consapevolezza
della vanità di ogni valore terreno.
Donna de Paradiso: è una lauda dialogata che descrive le ultime fasi della
vita di Cristo; è dedicato al dolore della Vergine, vera protagonista, al
contrario di Cristo cui sono concesse solo tre scarne battute consolatorie.
Dà voce a 4 personaggi: il Nunzio (forse San Giovanni), la Madonna che
non vuole rassegnarsi alla condanna del Figlio, il popolo che chiede la
crocifissione di Gesù e Cristo che sta per morire sulla croce. Si tratta di un
componimento polifonico destinato a un’esecuzione teatrale , che consente
di raggiungere il pubblico in modo più immediato e di realizzare il
principio francescano del dialogo vivo con il popolo e al tempo stesso
concilia con la devozione per la Vergine predicata dagli ordini mendicanti.
LINGUA Nelle sue opere respinge il volgare illustre e si volge al nativo dialetto umbro,
ma sono presenti anche provenzalismi e latinismi. Mescolati al lessico del
dialetto toscano
CRITICA Giovanni Getto parla di ossessiva presenza del corpo a cui il poeta guarda con
odio e paura, come ad un nemico insidioso da cui provengono male e peccato

IACOPO PASSAVANTI

VITA Domenicano. Studia a Parigi e insegna a Roma


(Firenze 1302 –
1357)
OPERE Autore di vari trattati in latino e di un’opera in volgare intitolata Specchio di
vera penitenza, trattato che comprende 48 exempla, racconti che offrono al
lettore un modello di comportamento morale. Insistenza ossessiva sul male, sul
peccato, la morte, le pene eterne. Sempre presente il pensiero del peccato
originale che ha corrotto l’uomo; avverte il continuo pericolo che lo minaccia
e che scaturisce dalle tentazioni della carne. Il tema della paura domina il libro.
Nella seconda parte presenti toni più sereni, tema della speranza fondata sulla
misericordia della Vergine
3. I POETI SICULO-TOSCANI
La lirica siciliana subì uno strano destino: nata dalla traduzione in volgare siciliano dei moduli
provenzali, si esaurì nella traduzione eseguita dai poeti toscani. Noi infatti possediamo i testi dei poeti
siciliani attraverso la trascrizione di copisti toscani che ne toscanizzano la lingua.
La dissoluzione della Magna Curia determinò la fine del movimento e alcuni poeti emigrarono
trasferendosi a Bologna e in Toscana, dove si erano rifugiati anche i trovatori che a causa della
crociata contro gli albigesi avevano dovuto lasciare la Provenza. I toscani scoprirono così la poesia
siciliana e la diffusero raccogliendo l’eredità dei poeti siciliani. Tuttavia il loro intervento sui testi, se
da un lato ebbe il merito di conservare le tracce della più antica esperienza letteraria italiana, dall’altro
ne comportò la perdita definitiva della facies linguistica. Nel ricopiare i componimenti infatti gli
amanuensi adeguarono inconsapevolmente la lingua e la grafia all’uso toscano con l’effetto di
produrre in molti casi delle rime imperfette che nelle liriche originali invece erano perfette; altra
trasformazione riguardò il vocalismo. Il trapianto in Toscana dei moduli siciliani funzionò anche da
stimolo per la creazione di una nuova poesia; ne nacque un nuovo movimento poetico definito poesia
siculo-toscana. La più importante differenza tra la poesia siculo-toscana e quella siciliana consistette
in una forte apertura tematica. L’ambiente politico e sociale della Toscana non è costituito da una
monarchia accentratrice come quella di Federico II, ma da liberi comuni dove la vita civile è percorsa
da conflitti e lotte. Il poeta non è più il burocrate ligio e il cortigiano raffinato, ma il cittadino inserito
nella vita politica della sua città e ne vive le passioni riversandole nella sua attività poetica. Liberi da
vincoli politici arricchirono il loro repertorio di quei motivi presenti già nella lirica provenzale e
soppressi dai siciliani come la politica e la critica ai costumi (argomenti politici, religiosi, civili).
Recuperano infatti la forma del sirventese, tralasciato dai poeti siciliani. Personalità più
rappresentativa è Guittone d’Arezzo.

GUITTONE D’AREZZO

VITA Maestro e caposcuola. Esponente di spicco del guelfismo conservatore, si


(Arezzo 1235 – recò nel 1263 in esilio per l’acuirsi dei contrasti cittadini. La sua vita si
Bologna 1294) distingue in due parti ben distinte segnate dalla conversione del poeta a vita
religiosa. Nel 1265 entrò nell’ordine dei cavalieri di Santa Maria, i cosiddetti
Frati Gaudenti, che si richiamavano a un francescanesimo moderato e
permissivo (Guittone era sposato e con figli).
POETICA Nel suo lavoro venivano sperimentati i temi e le forme metriche più disparate
e rivestivano particolare importanza le laude sacre di cui forse fu l’inventore.
Si propose di contrastare il monotematismo siciliano attraverso uno
straordinario arricchimento contenutistico (amore, politica e religione).
OPERE Le sue Rime (50 canzoni e circa 250 sonetti) percorrono tre distinti filoni
tematici: i componimenti politici, le liriche d’amore che rielaborano modi e
motivi della tradizione provenzale e siciliana, e le poesie religiose scritte
dopo la conversione.
Ahi lasso or è stagione de doler tanto (nota anche col titolo Dopo
Montaperti):composta in occasione della sconfitta che i guelfi fiorentini
subirono a Montaperti (1260) subirono da parte dei ghibellini e che segna la
nascita della lirica civile italiana. I ghibellini banditi da Firenze si
riorganizzarono sotto la guida di Farinata degli Uberti e con l’aiuto delle
truppe del re Manfredi sbaragliarono le forze guelfe e ritornarono al governo.
Tutte le 6 stanze sono collegate dalla ripresa (tecnica delle coblas capfinidas:
la strofa inizia con l’ultima parola del verso precedente). La prima strofa è
occupata dal compianto per la situazione presente, per il crollo della potenza
fiorentina; la rievocazione della grandezza di Firenze attuata per mezzo del
paragone con Roma, occupa la seconda strofa; la polemica contro i ghibellini
occupa terza, quarta e quinta, a metà della quale subentra un amaro sarcasmo
presente anche nella sesta strofa e nel congedo. Il poeta rovescia la situazione
attuale e ne presenta come positivi tutti gli aspetti che invece sono
fallimentari. Questo artificio retorico è l’antifrasi.
Tuttor ch’eo dirò: sonetto testimonianza della vocazione sperimentalistica;
componimento il lode di madonna tutto giocato sulla parola chiave gioia e i
suoi derivati aggettivali.
Amor m’ha priso ed incarnato tutto: Appartenente al periodo anteriore alla
sua conversione, questo è il primo di una corona di 86 sonetti, che sembrano
formare un microcanzoniere, cioè una serie unitaria di liriche collegate da
una storia. La situazione descritta è quella dell’amante completamente
soggiogato da Amore, che infierisce su di lui, trattenendolo in una situazione
di dolore e di angoscia
LINGUA Sceglie uno stile arduo e complesso, che spinge fino all’oscurità il gioco delle
allusioni e degli effetti verbali. Il suo è un poetare oscuro che Dane nel De
vulgari eloquentia definisce rozzo e municipale. È considerato il più alto
rappresentante del trobar clus con un sistema metaforico enigmatico e una
complessa struttura argomentativa e didascalica. Le affermazioni sono
spesso seguite dalle negazioni tramite un procedimento che pare suggerire
uno sguardo onnivoro sulla realtà con l’intenzione di inglobare ogni cosa che
in essa è presente.

SEGUACI GUITTONIANI O SICULO-TOSCANI

AUTORE VITA OPERE


BONAGGIUNTA È Considerato il primo Voi che avete mutato la
ORBICCIANI DA LUCCA esponente della corrente siculo maniera: polemizza con le
(1220-1290) toscana. La sua attività poetica innovazioni poetiche
fu intersecata con l’esperienza introdotte da Guinizzelli.
poetica di Guittone d’Arezzo e Convinto assertore della
con quella del primo Dolce poetica guittoniana difesa in
Stil Novo. Fu evocato da questo sonetto.
Dante nel XXIV canto del
Purgatorio, quando definirà le
caratteristiche della poesia del A lui forse si deve
Dolce Stil novo. l’invenzione della ballata laica
di argomento amoroso

BIBLIOGRAFIA

Baldi, Giusso, Razetti, Zaccaria – La letteratura ieri, oggi, domani – PEARSON, 2016
Bologna, Rocchi - Rosa Fresca Aulentissima – LOESCHER, 2011
Guglielmino, Grosser – Il sistema letterario – PRINCIPATO, 1992
Italiano, Storia, Geografia e discipline letterarie, Edizioni SIMONE
Italiano nella scuola secondaria, edizioni EDISES
4. LA SCUOLA SICILIANA

Nella prima metà del Duecento, nasce in Sicilia, a imitazione della poesia trobadorica,
una produzione lirica, che dà l'avvio alla tradizione poetica italiana.

Centro propulsore di questa esperienza è la Corte di Federico II (1194- 1250) e,


successivamente, del figlio Manfredi . Il regno di Federico II ebbe una notevole
importanza politica e culturale, perché dette all'Italia meridionale un assetto unitario e
accentrato, che per qualche aspetto sembra anticipare talune forme signorili del primo
Rinascimento. La vita poetica, economica e culturale dell'Italia meridionale fu
diversissima da quella che si sviluppò nel Nord, dove invece i Comuni costituirono
tanti piccoli centri di libera e autonoma iniziativa in ogni campo di attività. Nella
società comunale, i letterati erano le personalità più colte e operose, le stesse che si
impegnavano anche nell'esercizio politico: per questo, la passione politica traspare
nella produzione letteraria.

Personaggio eccentrico e carismatico, Federico II seppe creare alla sua corte itinerante
un ambiente di intenso fervore scientifico e letterario, aperto alle correnti di pensiero
greco-arabe, animato da multiformi interessi culturali, capace di accogliere letterati e
poeti di varia provenienza geografica e di attirare i dotti più insigni del tempo
(scienziati, astronomi, filosofi, giuristi, ecc…). La politica culturale di Federico II,
volta a emancipare il Regno dall'Egemonia della Chiesa, attrasse, inoltre, numerosi
poeti trobadorici che alla sua corte trovarono rifugio e protezione. Saranno proprio i
poeti trobadorici ad avere un'influenza fondamentale nello sviluppo della futura
produzione poetica siciliana.

In Sicilia, infatti, fiorisce una poesia cortese su modello di quella d'oltralpe, che utilizza
, anziché la lingua provenzale, un volgare siciliano raffinato e impreziosito da una
sintassi vicina a quella del latino e del provenzale. Rispetto al modello, il tema centrale
dell'amore viene sganciato dal contesto feudale d'origine, acquisendo una maggior
introspezione psicologica e accentuando il carattere di gioco elegante e convenzionale.
Inoltre, la poesia non è più accompagnata dalla musica e i poeti non sono più
professionisti, come i trovatori, ma dilettanti colti, esponenti di un élite laica di
funzionari dell'apparato burocratico dello Stato, di notai e magistrati (raramente nobili)
che coltivano la letteratura in volgare come svago e per puro diletto. Scomparendo la
musica, la lirica siciliana pone maggiormente l'attenzione sugli elementi metrici,
lessicali, stilistici e sulla dimensione linguistica. In particolare, si consolida il principio
che in un testo poetico i versi debbano avere lo stesso numero di sillabe. I siciliani
danno una struttura molto più codificata e rigida alla canzone, dividendola in due parti:
la fronte, composta da due piedi, e la sirma composta da due volte. A queste viene
aggiunto, talvolta, un ultimo verso, il congedo. Ai siciliani si deve anche il merito di
aver introdotto un nuovo componimento, destinato ad aver grande fortuna, il sonetto
che, nato probabilmente dalla modifica di una stanza della canzone, è composto da
quattordici versi endecasillabi raggruppati in due quartine e due terzine. La lirica
siciliana nasce, si sviluppa e si esaurisce nell'arco di un ventennio, tra il 1230 e il 1250.
A questi anni rinviano, infatti, i documenti d'archivio relativi all'attività pubblica dei
singoli poeti e gli scarsi riferimenti storici o autobiografici reperibili nei loro
componimenti. Essa consta di circa duecento testi ripartiti fra meno di trenta autori.

I siciliani: origine e confini di una denominazione

Il termine "siciliani" era comunemente impiegato già nella seconda metà del Duecento
per disegnare i primi autori cortesi in volgare d'Italia, prevalentemente, ma non
esclusivamente, siculi-meridionali, attivi negli anni del regno del Regno di Federico II
e di Manfredi (1232 circa- 1266). Con questo significato, esteso fino a comprendere
tutta la poesia pre-stilnovistica, lo utilizza Dante nel De Vulgari Eloquentia (I. XII. 1-
4), nel quale documenta quanto il termine fosse ormai diffuso: "quicquid poetantur
Ytali siciliaanum vocatur" (tutto ciò che gli italiani compongono in poesia viene detto
siciliano).
Tale denominazione tradizionale è oggi usata, di norma, nel senso più restrittivo
indicato da G. Contini, che la limita ai rimatore italiani vissuti alla Corte di Federico II
o che ebbero rapporti con questa e la cui produzione compare al primo posto nella più
ricca e organica delle antiche raccolte di componimenti lirici, il canzoniere Vaticano
3.793. La denominazione "Scuola Siciliana" è, invece, più recente e nasce per
sottolineare le caratteristiche unitarie del movimento e la spiccata uniformità dei tratti
comuni dei vari poeti, per quanto concerne temi, tecniche, lingua e lessico,
prescindendo, in parte, dal maggiore o minore rilievo delle singole personalità.

La rima siciliana

La lirica siciliana è stata trasmessa, per la gran parte, da alcune raccolte manoscritte
(canzonieri), risalenti alla fine del Duecento, trascritte in Toscana e destinate
all'ambiente letterario toscano. Questo ha favorito un processo di modificazione
linguistica, operato in maggiore o minore misura da ogni copista antico, e consistente
nella sostituzione dei tratti specifici del proprio dialetto alla lingua del testo trascritto.
Tale fenomeno ha portato ad una progressiva toscanizzazione della lingua dei Siciliani.
Ne consegue che i testi dei poeti della corte federiciana circolarono solo toscanizzati,
esercitando la loro influenza sui poeti del Duecento italiano, compreso Dante, ed è in
questa stessa veste che vengono ancora oggi letti. Il diverso sistema vocalico del
siciliano rispetto al toscano, porterà nelle traduzioni toscanizzate alla nascita della così
detta "Rima Siciliana", una rima imperfetta che abbina vocali di timbro diverso (ad
esempio: ora/ pittura, in luogo dell'originale ura/pittura). Nel siciliano vi sono cinque
sole vocali toniche (i, è, a, ò,u) contro le sette del toscano (i, é, è, a, ò, Ó, u) per il
diverso esito delle vocali lattine Ĭ Ē/Ō Ŭ, che danno i/u rispettivamente nel sistema
fonologico siciliano, é/Ó in toscano (esempi: latino DĬCTUM > sic. dittu, tosc. detto;
PLACĒRE > sic. placiri, tosc. piacere). Dunque nei testi della scuola siciliana erano
possibili e normali le rime come placiri/ partiti; usu/amorosu, ecc… che diventano
imperfette solo quando i copisti le toscanizzano: piacere/ partire; uso/amoroso. Lo
stesso vale per le vocali atone: nel siciliano vi sono tre sole vocali atone (i, a, u) contro
le cinque del toscano (i, e, a, o, u) che si riducono a quattro (i, e, a, o) in posizione
finale. Dunque, in sillaba atona il siciliano i corrisponde a e/i del toscano u a o. Queste
rime diventate imperfette vennero tuttavia accolte come legittime dai poeti dei primi
secoli che, conoscendo la produzione siciliana solo attraverso i codici toscani, le
ritennero originali e volute e le utilizzarono a loro volta come artificio metrico. Se ne
avvalse Dante (cfr. Donna pietosa vv. 27-28 fui/vui; Inferno 63-69 nome/come/lume),
più raramente Petrarca (son, Pace non trovo, vv. 11-14 altrui/voi) e oltre, fino ad
arrivare al Manzoni (Il Cinque Maggio vv. 32-34 nui/lui).-

I principali poeti della Scuola siciliana

Il momento di massima fioritura della Scuola siciliana viene a coincidere con l'attività
pubblica e poetica del suo fondatore, Giacomo da Lentini, notaio della Corte imperiale
(designato, a partire da Dante, come "il notaro"), caposcuola e modello per i poeti
siciliani. Di Giacomo da Lentini si possiedono atti datati 1233 e 1240 e componimenti
che rinviano agli stessi anni, il suo repertorio, benché non ampio, è tuttavia il meno
esiguo di quelli giunti fino a noi e contiene tutte le forme metriche e i filoni tematici,
poi variamente presenti presso gli altri esponenti della scuola. Proprio a Giacomo da
Lentini compete il ruolo di inventore della lirica cortese italiana e probabilmente della
forma metrica del sonetto. Altre personalità di rilievo sono Rinaldo d'Aquino, forse
appartenente al grande casato del filosofo Tommaso D'Aquino, e Giacomino Pugliese,
entrambi noti soprattutto per il loro repertorio "popolareggiante". Tra i messinesi,
possiamo annoverare il giudice, Guido delle Colonne e Stefano Protonotaro, forse
autori anche di opere latine, ma significativi soprattutto per la loro particolare abilità
retorico - stilistica. Tra gli esponenti della casa Sveva si può citare, Re Enzo (1225-
1275), mentre dell'altro figlio Manfredi, anche lui rimatore in volgare, non si conserva
nulla. Infine, va ricordato Cielo d'Alcamo, poeta di cui si hanno scarsissime
informazioni, legate solamente all'unica sua opera nota: Rosa fresca aulentissima.
Probabile giullare della Corte sveva, Cielo d'Alcamo era un uomo di vasta cultura, con
un'ottima conoscenza dei temi e dei modi della lirica aulica e dotato di una grande
abilità stilistica e metrica.
I generi metrico - tematici fondamentali della Scuola siciliana: canzone,
canzonetta e sonetto

Nel repertorio dei Siciliani si individuano tre filoni, definiti da particolari scelte di
metro e temi: la canzone riservata alla tematica lirico- morosa, di tono aulico e
manieristico; la canzonetta, spesso dialogata, di tono meno sostenuto e di tecnica
meno raffinata; il sonetto, più discorsivo, aperto a temi morali filosofici. Le divergenze
tra modi aulici e i modi colloquiali, sfumate agli inizi, subiscono una progressiva
divaricazione, che, da un lato, accentua il preziosismo formale e tende all'astratto,
dall'altro, intensifica la disposizione al comico e al realistico. Sono emblematici, per lo
stile alto, i componimenti di Pier della Vigna, Guido delle Colonne e Stefano
Protonotaro; per lo stile più andante Giacomino Pugliese e Rinaldo d'Aquino (che
coltivano però anche il registro aulico); mentre alla canzonetta dialogata si può
ricollegare il Contrasto di Cielo d'Alcamo (scritto fra il 1231 e il 1250), vivace scambio
di battute tra una donna e il suo corteggiatore, che oppone, a scopo parodistico,
vocabolario e stilemi cortesi, ad accentuati tratti (fonetici, lessicali, ecc…) dialettali e
a modi popolareschi.

Giacomo da Lentini

Madonna, dir vo voglio

La canzone è lodata per le eccellenze della lingua nel De Vulgari Eloquentia (I. XII.
8), dove viene citata come esempio egregio della produzione degli antichi
praefulgentes, cioè dei poeti illustri che si "espressero con eleganza, trascegliendo nelle
loro canzoni i vocaboli più nobili". Madonna, dir vo voglio sviluppa, attraverso la
centrale contrapposizione Amore/orgoglio e vita/morte, il tema dell'amore non
corrisposto e quelli, tradizionalmente connessi, della sofferenza dell'innamorato, della
incapacità di esprimere adeguatamente il sentimento amoroso, del sollievo procurato
da pianti e sospiri. Gli evidenti legami con la poesia d'oltralpe non si limitano alla
ripresa di una tematica convenzionale, del resto perfettamente padroneggiata e usata in
funzione dell'esperienza soggettiva e interiore. Infatti, almeno per i versi 1- 26, questo
testo traduce una canzone del trovatore Folchetto di Marsiglia (attivo tra il 1180 e il
1195): A voi Madonna, voglio descrivere cantando, della quale purtroppo sono
conservate solo le strofe iniziali. Si documenta così uno dei pochi casi noti del rapporto
più diretto e preciso fra modelli provenzali e i Siciliani, quello della traduzione, che
consente però anche di apprezzare la misura della maturità e dell'autonomia letteraria
nella nostra prima lirica. Si tratta, infatti, di una traduzione libera, originale, con
innovazioni evidenti nella struttura metrica, nella sintassi e nello stile che dimostrano.
da un lato, interventi volti a compensare, mediante una complessità tecnica
indubbiamente maggiore, l'assenza della musica, dall'altro un'invettiva solida e
genuina.

[C]hi non avesse mai veduto foco

Sonetto sul tema ricorrente del "foco amoroso", ingannevole e ardente come il fuoco
naturale, che attira con il suo splendore, solo all'apparenza innocuo: l'estesa descrizione
del fenomeno oggettivo (vv. 1-6) è strettamente funzionale alla descrizione
dell'esperienza personale. Gli elementi costitutivi della similitudine ritorneranno in un
adattamento composto dal siculo- toscano Bonagiunta da Lucca.

Meravigliosa-mente

Canzonetta, come lo stesso autore la definisce nel verso 55, sul tema tradizionale e ben
attestato nella lirica cortese, del fenhedor, cioè dell'innamorato timido, incapace di
manifestare alla donna amata i propri sentimenti, leggibili, però, attraverso
inconfondibili segni esteriore (sguardi furtivi, sospiri, pianti). L'adesione ai modelli
provenzali non è tuttavia né banale né meccanica, a cominciare dalla concezione di
Amore, qui più interiorizzata e complessa, collegata all'esperienza psicologico -
sentimentale personale. Tema centrale del testo è quello dell'immagine dell'amata
dipinta nel cuore, poi variamente ripreso e utilizzato fino allo Stilnovo, ma accanto
questo vi sono altri due tratti di rilievo. L'ultima strofa, con la funzione di commiato, è
rivolta al componimento stesso con un procedimento poi usuale fra gli stilnovisti;
inoltre, contiene la firma dell'autore, in contrasto con la norma trobadorica (non priva,
pertanto, di illustri eccezioni, come, per esempio Arnaut Daniel).

BIBLIOGRAFIA

Segre C., Martignoni C., Testi nella storia: guida ai classici, Milano, Edizioni scolastiche Bruno
Mondadori,, 1994, Vol 1

Fusillo C, .Federico II La Scuola Poetica Siciliana e il Monferrato,, 2012


5. DANTE ALIGHIERI

VITA

• 1265: nasce a Firenze, da parte appartenenti alla piccola nobiltà guelfa.

• 1290: morte di Beatrice.

• 1292 - 93: scrive la VITA NOVA, opera dedicata a Cavalcanti.

• 1295 - 1300: ricopre cariche importanti politiche in città.

• 1302: condanna all’esilio, a seguito della prese del potere dei Guelfi Neri,

appoggiati da Bonifacio VIII.

• 1302 - 21: periodo di peregrinazione tra le corti dell’Italia centro-settentrionale.

• 1303-04: scrive il DE VULGARI ELOQUENTIA.

• 1304-07: scrive il CONVIVIO.

• 1310-13: scrive il DE MONARCHIA

• 1321: muore a Ravenna.

PENSIERO E POETICA PRECEDENTI ALL’ESILIO

Gli anni precedenti all’esilio sono dedicati alla formazione e alla partecipazione

all’attività politica. La produzione è in versi, legata al movimento stilnovista e

alla trattazione dell’amore, e trova la sua sistemazione nella Vita Nova.

La sua prima educazione si basa sullo studio della grammatica, letteratura classica e

romanza. Va sottolineato che la formazione di Dante non deriva da un vero e proprio

percorso regolare, bensì da una serie di contatti assai preziosi per la sua crescita

culturale e per lo sviluppo della sua poetica.

Stringe amicizia con Guido Cavalcanti e si innamora di Beatrice, che avrà un ruolo
cruciale nella sua produzione. Sempre in questi anni, compie alcuni viaggi a Bologna,

entrano in contatto con quel vivace ambiente culturale, e seguito della morte di

Beatrice (1290) approfondisce la teologia e la filosofia.

Grande importanza ricopre anche l’attività politica in seno alle magistrature cittadine,

tra cui Guelfi Bianchi, favorevoli a una gestione autonoma della città, e

contrapposti ai Guelfi Neri, legati alla grande nobiltà cittadina e ai voleri del papa.

Dante riesce a raggiungere le più alte cariche pubbliche e proprio per questo nel 1302

viene esiliato.

OPERE PRECEDENTI ALL’ESILIO

VITA NOVA

Composta tra il 1292 e il 1294, l’opera è un promisero (misto di versi e prosa), in

cui il poeta inserisce delle liriche (31 poesie per un totale di 42 capitoli) e le

commenta. A spingere Dante a realizzare l’opera è morte di Beatrice (1290).

Composta prima dell’esilio, l’opera raccoglie la principale produzione dantesca

legata allo Stil Novo.

Nella Vita nova il poeta parla del forte sentimento amoroso per Beatrice, per dare

una spiegazione in chiave allegorica di un’esperienza mistica, che partendo

dall’amore cortese arriverà a quello mistico-religioso, affrontato poi più

approfonditamente nella Commedia.

Dante seleziona le liriche a suo avviso più importanti e le riordina, dando così un

senso ben preciso alla propria produzione poetica. Infatti, dopo aver spiegato in

un’introduzione in prosa la genesi della scrittura e l’occasione che ha ispirato la

stesura del testo in versi, procede a commentarlo. Questo elemento costituisce la vera
novità dell’opera, poiché si tratta di un forma di auto commento.

Tre sono le fasi dell’esperienza amorosa che seguono al primo incontro con Beatrice,

avvenuto quando lei ha nove anni e Dante otto:

1. Prima fase: dopo nove anni i due si rincontrano e Beatrice salute Dante per la

prima volta, generando nel poeta grande felicità. Dante cerca di mantenere

nascosto il suo sentimento e per riuscirci finge di essere innamorato di un’altra.

Beatrice, sdegnata, gli nega il saluto.

2. Seconda fase: Dante dopo travagli interiori decide che non vuole descrivere la

propria sofferenza, ma dedicarsi solo a elogiare la sua amata. Non passa molto

tempo che al poeta viene annunciata la prossima morte di Beatrice.

3. Terza fase: per fuggire al dolore, Dante vorrebbe consolarsi “nello sguardo di una

pietosa donna gentile”, ma Beatrice appare a lui in sogno e lo ammonisce a non

amare nessun’altra donna al di fuori di lei. Il prosimetro si conclude con

l’impegno di non parlare mai più di lei.

Le tre fasi corrispondono anche ai tre stadi dell’amore secondo Dante:

1. amore cortese, tipico della scrittura di Guinizzelli, in cui si rintraccia

l’equivalenza tra saluto e salvezza;

2. nuovo amore, interno, disinteressato, che si manifesta nella lode della creatura

amata;

amore mistico, perfetto, puro e astratto, senza legami con la realtà. Dante

comprende che la donna è un tramite per giungere a Dio. Si tratta di un amore

superiore, poiché il poeta ama semplicemente Dio, e tale amore contemplativo è

sufficiente alla vita.


RIME

Le Rime vengono composte da Dante in un arco di tempo compreso tra il 1283 e i

primi anni di esilio. Mai pubblicate in un’unica raccolta, circolano sparse e

disordinate in vari canzonieri e zibaldoni.

Nei testi è possibile ritrovare una gran varietà di temi, tra cui il più importante è però

sicuramente quello amoroso. In particolare Dante si rifà in questi scritti alla poesia di

Cavalcanti, in quanto in diversi componimenti riprende il tema del turbamento, legato

all’azione distruttiva che l’amore per la donna amata provoca nell’uomo.

Il sonetto più celebre è Guido, i’ vorrei che tu Lapo ed io, che si configura come

un’elegante conversazione legata ai tratti più esteriori della vita cortese. Nel sonetto

Dante immagina di viaggiare con i suoi amici e le rispettive donne amate sulla

navicella magica del mago Merlino.

- DANTE ALIGHIERI. DOPO L’ESILIO

PENSIERO E POETICA DOPO L’ESILIO

Negli anni successivi all’esilio Dante abbraccia gli ideali Ghibellini, cioè filo - imperiali.

Le opere di questo periodo trattano quindi argomenti di matrice poetica e

religiosa, anche se non mancano riferimenti agli scritti precedenti, di stampo stilnovista,

come dimostra la presenza di Beatrice nella Commedia. La produzione si presenta

assai più variegata, registrando testi in versi, in prosa, in latino e in volgare.

Gli elementi più caratterizzanti della produzione dantesca di questo periodo sono

due:
1. La critica della Chiesa e della società. Secondo la prospettiva che descrive nel

DE MONARCHIA, l’Impero deve occuparsi di procurare agli uomini sicurezza e

giustizia (potere temporale), mentre la Chiesa la salvezza della loro anima (potere

spirituale). In quanto Roma non perde occasione per esercitare anche il potere

temporale, ma così facendo determina la corruzione della società e la diffusione

della cupidigia, causa principale delle numerose e continue guerre.

2. La visione provvidenziale della Storia. Dante considera la storia come la realizzazione

di un disegno divino ben preciso, già determinato fin dagli inizi dei tempi

da Dio. Questo lo porta a interpretare tutti gli avvenimenti alla luce della concezione

cristiana: la classicità è intesa come una prefigurazione del Cristianesimo.

OPERE SUCCESSIVE ALL’ESILIO

CONVIVIO

Il Convivio è la prima opera redatta da Dante in esilio, tra il 1304 e il 1307, e mai

terminata. Si presenta come un’enciclopedia dei saperi per coloro che non hanno

mai potuto dedicarsi agli studi, ma vogliono intraprendere attività pubbliche e civili.

Proprio per venire incontro a chi non ha mai studiato il latino, l’opera è in scritta sin

volgare.

Nella scrittura si alternano poesia e prosa: la prima il poeta la usa per comporre delle

canzoni allegoriche e dottrinali; la seconda è utilizzata per spiegare chiaramente

ciò che la poesia vuole trasmettere, e presenta stile argomentato ed espositivo.

I principali temi trattati sono: politica, etica, metafisica, cosmologia. Al centro della

raccolta troviamo come filo conduttore la filosofia di Aristotele e il pensiero aristotelico


del XIII secolo, a cui il poeta fa chiaro riferimento per tutta l’oretta, denominato

Lo Filosofo.

Il progetto originario prevedeva 15 trattati, ma Dante ne scrive solo quattro:

• Primo trattato: di carattere introduttivo, Dante definisce le linee guida. “Convivio”

è una mensa dove il poeta offre una “vivanda difficile”, le canzoni in rima. Il poeta

giustifica l’uso del volgare a scapito del latino;

• Secondo trattato: inizia con la definizione dei quattro sensi che può assumere la

scrittura (letterale, allegorico, morale ed anagogico);

• Terzo trattato: la canzone allegorica che apre il trattato Amor che ne la mente mi

ragiona. E’ una lode ad una donna gentile e Dante vuole informare i lettori che

dopo la morte di Beatrice ha trovato consolazione nello studio della filosofia.

• Quarto trattato: Dante parla del concetto di autorità imperiale e della disputa in

corso nel Duecento sulla definizione di nobiltà.

DE VULGARI ELOQUENTIA

L’opera, composta tra il 1303 e il 1304, si presenta come sviluppo della digressione

sul volgare che troviamo nel primo trattato del Convivio. La struttura è legata ai

modelli della trattatista retorica latina e si sviluppa in prosa. L’idea originale prevedeva

quattro libri, ma Dante interrompe la scrittura durante la stesura del secondo libro

per dedicarsi alla Commedia.

Pone al centro del testo la ricerca di un volgare illustre, quel volgare in grado di assumere

i caratteri di lingua letteraria all’interno del variegato panorama linguistico

italiano. Pur affrontando il tema del volgare, la lingua utilizzata è il latino: questo

perché lo scritto non ha funzione divulgativa, ma è pensato da Dante come mezzo per
convincere l’élite culturale dell’epoca del valore della lingua volgare.

Il primo libro si apre con la definizione del volgare come lingua naturale, in quanto

appresa spontaneamente da ogni bambino fino all’infanzia. Per Dante questa caratteristica

rende il volgare più nobile del latino, che viene considerata invece una lingua

artificiale. Viene descritta l’origine delle lingue: Dio aveva dato ad Adamo una prima

lingua, che si era conservata presso il popolo ebraico e in seguito all’episodio della

Torre di Babele si era divisa in molteplici lingue in continua trasformazione.

A rendere più nobile il volgare è quindi il suo essere più antico rispetto al latino.

Il poeta si interroga su quale sia il volgare parlato nella penisola più idoneo ad assurgere

al ruolo di lingua letteraria, valida per tutta la penisola e caratteristica dall’essere

illustre, nel senso che deve dare lustro a chi lo parla; cardinale, cardine comune a

tutti gli altri volgari parlati nella penisola; regale e curiale, cioè degna di essere parlata

in una corte e tribunale. Dante deve arrendersi e ammettere che nessuno possiede

le caratteristiche per elevarsi a lingua letteraria, nonostante alcuni di essi

come toscano, siciliano e bolognese abbiano un’antica letteraria tradizione.

Nel secondo libro, non concluso, Dante affronta il tema dell’uso del volgare illustre

nella poesia, parendo dal presupposto che la poesia è superiore alla prosa.

DE MONARCHIA

L’opera è un trattato politico, scritto in latino, tra il 1310 e il 1313, in occasione della

discesa in Italia dell’imperatore Enrico VII di Lussemburgo. Questo evento permette

a Dante di prendere in esame il rapporto tra Impero e Chiesa. Il poeta vede

nel potere temporale della Chiesa e nel suo coinvolgimento nelle vicende politiche

una delle principali cause della degenerazione della società.


Per argomentare le sue posizioni, non esita a fare costante riferimento alla filosofia

aristotelica, al procedimento logico del sillogismo aristotelico, alle Sacre Scritture,

e alla cultura latina classica.

L’opera è suddivisa in tre libri:

- primo libro: Dante afferma la necessità di una monarchia universale e autonoma,

e la riconosce come unica forma di governo capace di garantire unità e pace.

- secondo libro: Il poeta afferma che l’Impero romano sia stato voluto direttamente

da Dio, per permettere alla religione cristiana, che in esso doveva nascere, di diffondersi

in tutto il mondo (provvidenzialità della storia).

- terzo libro: In questo libro Dante affronta la questione più delicata e complessa del

trattato, il rapporto tra i due grandi centri di potere dell’epoca: il Papato e

l’Impero. L’autorità dell’imperatore deriva direttamente da Dio e non è soggetta

all’autorità del pontefice.

LA DIVINA COMMEDIA

FASI DELLA COMPOSIZIONE

• Tra il 1304 e il 1307 lascia incompiuti Convivio e De Vulgari Eloquenti, per

dedicarsi alla stesura della Divina Commedia.

• 1309: completa e diffonde l’Inferno.

• 1313: completa il Purgatorio. Diffuso tra il 1315 e 1316.

• 1316: fino alla morte, lavora al Paradiso, inviato ad amici e conoscenti canto per

canto.
DIFFUSIONE

Alla morte di Dante iniziano a circolare alcune copie del poema, il più delle volte

diviso nelle singole cantiche. Nel XIV e XV secolo copie della Commedia si

diffondono in tutta Italia, negli ambienti più diversi: clericali, aristocratici,

mercantili, popolari, sia in forma scritta che orale.

INQUADRAMENTO DELL’OPERA

La Commedia è la descrizione del viaggio allegorico che Dante compie

attraverso i mondi ultraterreni (Inferno, Purgatorio, Paradiso) con l’obiettivo di

ritrovare la propria fede e pace interiore, perdute a causa di una vita votata ai vizi e

alla decadenza morale.

In origine il titolo era solo COMMEDIA, con il quale si voleva designare il

variopinto universo della natura umana, carico di tutte le sue sfaccettature e

contraddizioni. L’aggettivo Divina viene utilizzato per la prima volta da Boccaccio

nella sua biografia dantesca (1351).

Scritta in volgare, in terzine incatenate, l’opera si ricollega alla tradizione medievale

che narra di visioni dell’aldilà e a quella dei viaggi allegorici e morali. Inoltre,

possiamo trovare dei riferimenti ad autori classici, tra cui Omero e Virgilio, e a opere

quali la Visione di San Paolo, l’Odissea e l’Eneide.

INTERPRETAZIONE E PIANI DI LETTURA DELLA COMMEDIA

Il viaggio che il poeta compie attraverso l’Oltretomba è l’allegoria del processo di

redenzione e riscatto da lui compiuto nel passaggio della fase di peccato e di


difficoltà, in cui era sprofondato dopo la morte di Beatrice (smarrimento nella selva

oscura), fino alla redenzione morale e alla riconquista della fede (ascesa a Dio).

La Commedia va quindi vista alla luce dell’ascesi di Dante: per ottenere la

beatitudine è necessario aver prima compreso le conseguenze negative del male e dei

propri errori (Inferno), quindi intraprendere un cammino di purificazione che

comporta la sofferenza (Purgatorio), essenziale per poter giungere alla beatitudine

(Paradiso), dove è possibile contemplare Dio.

La Commedia offre diversi piani di lettura: il primo è cammino di redenzione del

poeta; il secondo è una panoramica che permette a lettori di prendere visione della

condizione delle anime dopo il trapasso. La Commedia si configura come un’opera

dottrinale, il cui obiettivo è trasmettere verità religiose, filosofiche e morali: è quindi

allegoria del percorso di purificazione che ogni uomo deve compiere nella sua vita

per poter ottenere la salvezza eterna e fuggire dalla dannazione.

Il terzo, l’opera vuole anche essere una denuncia politica contro i mali del tempo,

soprattutto contro la corruzione ecclesiastica e gli abusi del potere politico. Per Dante

il mondo contemporaneo è in preda alla cupidigia a causa della Chiesa che lo rende

teatro di lotte continue. Il poeta oppone sempre la speranza che nel mondo cristiano

possono instaurarsi la pace e la giustizia: questo per la sua visione provvidenziale

della storia.

STRUTTURA

La complessa architettura del mondo ultraterreno si riflette nell’accurata struttura del

poema, che si basa sul numero Tre, numero della Trinità. La Commedia è divisa in
tra cantiche, coincidenti con tre regni (Inferno, Purgatorio, Paradiso), suddivise a

loro volta in trentatré canti. Nell’Inferno è presente un canto in più, il

PROEMIO, che introduce alla “selva oscura” e all’esperienza del viaggio.

Quindi in totale il numero dei canti è cento, considerato nella tradizione medievale

numero perfetto. I canti sono scanditi al loro interno dalla terzina, costruita su

sistemi di tre strofe ciascuna di tre endecasillabi. Una serie di corrispondenze,

simmetrie, partizioni interne all’opera fa si che la disposizione dei canti e la struttura

dei tre regni si regge su di una precisa logica numerica. Ogni sesto canto di ogni

cantica è dedicato alla trattazione di un tema politico, nell’Inferno riguardante

Firenze, nel Purgatorio l’Italia, nel Paradiso l’Impero, e ogni carica termina con la

parola stella.

Nella Commedia dante fa un ampio ricorso all’allegoria: figura retorica per cui un

concetto viene evidenziato attraverso un’immagine, ma richiede un’interpretazione

razionale di ciò che sottende. Il viaggio stesso di Dante attraverso l’Oltretomba, come

è già stato detto, è un’allegoria del percorso di ascensione che l’uomo deve compiere

per arrivare alla salvezza eterna.

Le guide che aiutano Dante nel suo viaggio di redenzione sono esse stesse delle

figure allegoriche: Virgilio rappresenta la ragione umana e la conoscenza, che può

guidare l’uomo fino al livello della felicità terrena, che nella COMMEDIA è

simboleggiato dal Giardino dell’Eden; Beatrice rappresenta invece la fede e la

dottrina (conoscenza divina), ed è solo grazia a lei che l’uomo che può raggiungere

la felicità eterna; San Bernardo (la mistica) permette la contemplazione di Dio.

Dante per rendere ancora più incisiva la sua opera ricorre a un uso massiccio di
exempla: al momento di prendere in esame un determinato peccato e la relativa pena,

per fare sì che questo rimanga ben impresso nella mente di chi legge, viene attribuito

a personaggi celebri. Il repertorio dantesco è assai ampio, ma a solo fine dimostrativo

si tengano presente tra i personaggi mitologici Icaro; tra i classici Attila, Ettore,

Giustiniano, Omero e Ulisse; tra i contemporanei Bonifacio VIII, Cavalcante dei

Cavalcanti e Paolo e Francesco.

LINGUA E STILE

La lingua scelta da Dante per la COMMEDIA è il volgare fiorentino, che grazie a

quest’opera raggiunge un dignità superiore a quella delle altre lingue romanze, e

acquisisce una supremazia che manterrà fino al Cinquecento. Partendo dal volgare

fiorentino Dante riesce a creare una grande variazione di registri lessicali e

sintetici, adeguando volta per volta lo stile letterario al tema trattato. Per ottenere

questo risultato il poeta attinge sia dalla lingua nobile sia popolare, con uno spiccato

interesse per il linguaggio parlato.

Dante arriva a plasmare il volgare a tal punto da creare dei neologismi (parole

nuove), per descrivere e raccontare alcune delle vicende trattate.

COSMOLOGIA

La concezione dell’universo dantesco si basa sula filosofia scolastica e sulle

conoscenze / credenze geografiche e teologiche medievali. Secondo Dante l’Inferno

è una voragine a forma di cono rovesciato, che si spalanca nelle viscere della terra,

sotto Gerusalemme. Tale cavità si è aperta quando Lucifero, cacciato dal Cielo dopo
la sua ribellione a Dio, era stato scaraventato al centro del pianeta, ma la terra

inorridita da tanta malvagità si era ritratta per non toccarlo.

QUesto aveva comportato l’emersione della Montagna del Purgatorio, situata agli

antipodi di Gerusalemme. Discorso diverso per il Paradiso. Il poeta immagina la

Terra sferica e immobile al centro dell’universo, circondata da dieci Cieli che

costituiscono il Paradiso, separato dal mondo terreo da una sfera di fuoco: i primi

nove Cieli ruotano attorno alla Terra, sotto il governo di un’intelligenza angelica,

mente il declino è immobile e si estende all’infinito.

TRAMA

Il poema descrive il viaggio ultraterreno compiuto dal poeta all’età di 35 anni, che gli

permette di comprendere la struttura dell’universo, prendere visione della condizione

delle anime dopo la morte e contemplare Dio.

Il viaggio dura circa un settimana e inizia l’8 aprile 1300, nella notte del Venerdì

Santo. Il poeta si trova in una selva oscura, cioè in un periodo buio della sua vita,

ed è minacciato da tre feroci animali selvatici, ognuno di questi allegoria di un

determinato peccato. Queste tre fiere bloccano il paesaggio a un ripido pendio, che

simboleggia il cammino che ogni uomo dovrebbe intraprendere per conseguire la

felicità terrena.

Dal cielo Beatrice vede la difficile situazione in cui si trova Dante e per aiutarlo

chiede e ottiene il permesso di inviare in suo soccorso l’anima di Virgilio (la

conoscenza) affinché lo accompagni fino al giardino dell’Eden (felicità terrena). Il

poeta romano non essendo mai stato battezzato, lo condurrà solo nell’Inferno e nel
Purgatorio, mente sarà Beatrice a introdurlo nel Paradiso. Qui Dante sarà affidato alla

guida di San Bernardo che gli permetterà di arrivare a contemplare Dio.

INQUADRAMENTO GENERALE DELL’INFERNO, PURGATORIO E PARADISO.

-INFERNO

La prima cantica della Commedia è l’Inferno, composta da un proemio più 33

canti. Questa cantica è dominata da una visione negativa della condizione umana, in

quanto la sofferenza che il poeta descrive è priva di riscatto. Il linguaggio utilizzato

rimanda a immagini massicce, buie e allucinate. Le sequenze narrate sono un continuo

alternarsi di pene atroci e sofferenze.

Dante nella sua discesa verso Lucifero incontra numerosi personaggi celebri e li

guarda in modo distaccato e feroce (ad esempio Bonifacio VIII, canto XIX), con profonda

commozione (ad esempio Paolo e Francesca, canto V), o non li riconosce, a

causa del volto straziato dal dolore. Numerosi sono anche i riferimenti e i richiami

alla politica contemporanea, in particolare alla dissoluzione morale e alla corruzione

della vita comunale (canti VI-XV-XVI).

STRUTTURA

Dante arriva all’ingresso dell’Inferno insieme a Virgilio, dopo un giorno di peregrinazione,

a seguito dell’episodio della selva oscura. Descrive l’Inferno come un

immenso antro a forma di cono rovesciato, che si spalanca nelle viscere della terra

sotto la città di Gerusalemme. Sulla porta dell’Inferno una scritta ricorda a chi sta per

entrare che non avrà la possibilità di tornare indietro e le pene infernali.

L’Inferno è diviso in nove cerchi, che ospitano i vari dannati. All’inizio c’è l’Antinferno,
che ospita gli ignavi (cioè coloro che non hanno mai preso posizione in vita

su nessuna questione) ed è diviso dall’Inferno vero e proprio dal fiume Acheronte,

che i dannati possono attraversare grazie a Caronte e alla sua barca. Il I Cerchio, detto

anche Limbo, ospita i pagani virtuosi e i bambini morti prima del battesimo, che

non subiscono nessuna pena fisica, ma sono condannati a desiderare in eterno di vedere

Dio. Viene poi il II cerchio, custodito da Minosse, che dopo aver ascoltato le

confessioni dei peccatori ha il compito di indicare loro quale è il cerchio dove saranno

destinati. I cerchi dal II al IX sono ripartiti in tre zone distinte, dove vengono

puniti rispettivamente i peccati di eccesso (II - VI), di violenza (VII), di frode (VIII -

IX). Questa ripartizione è tratta dalla dottrina cristiana e da Aristotele, ed è illustrata

da Virgilio a Dante nel Canto XI della cantica.

I peccati sono ordinati dal meno grave al più grave, con criterio opposto a quello

del Purgatorio, e i colpevoli sono soggetti a pene eterne, in base alla legge del contrappasso,

che si attua per analogia o per contrasto:

- analogia, la pena è uguale al peccato. Ad esempio, i lussuriosi, che in vita si sono

lasciati travolgere dalla passione, nell’Inferno sono perennemente travolti da una

bufera;

- contrasto, la pena è opposta al peccato. Ad esempio, gli ignavi, che in vita non si

sono mai schierati, sono condannati a correre in eterno dietro a un vessillo bianco.

La gravità del peccato è data dal ruolo che ha giocato la ragione quando l’individuo

si è macchiato della colpa a lui imputata. Tralasciando l’Antinferno e il Limbo,

infatti, i cerchi dal secondo al quinto sono riservati alle anime di coloro che in vita

hanno commesso peccato di Incontinenza. Vale a dire che hanno ceduto di fronte
agli istinti primordiali (necessari comunque per ogni essere umano) e alle pulsioni.

In altre parole, la loro mente non ha saputo dominare il corpo. I peccati di Incontinenza

corrispondono ai sette vizi capitali, anche se la superbia e l’invidia non trovano

una collocazione precisa e autonoma in nessun cerchio. Il quinto cerchio è separato

dal sesto dalle mura della città di Dite. Al di là delle Mura vi sono i dannati che

hanno commesso la colpa più grave: i fraudolenti. Cioè coloro che hanno utilizzato

coscientemente la ragione per commettere del male e quindi erano pienamente

consapevoli di quello che stavano facendo. Infine, al centro della terra vi è Lucifero

in persona, origine del male, per tutta l’eternità condannato a divorare con le fauci

delle sue tre teste i corpi dei traditori dei fondatori dei due massimi poteri: Giuda

(Chiesa), Bruto e Cassio (Impero).


-PURGATORIO

Il Purgatorio è la seconda cantica della COMMEDIA, ed è composta da 33 canti.

Il Purgatorio è caratterizzato da una visione dell’umanità carica di speranza e di

riscatto. A differenza che nell’Inferno, i rapporti che Dante descrive tra le anime

sono incentrati sulla fiducia e sulla nostalgia per la vita terrena e gli affetti lasciati.

Un tema importante in questa cantica è quello del tempo, che scandisce i gesti e i

comportamenti delle anime, focalizzati nell’attesa e nell’impazienza di arrivare

alla visione di Dio.

Questa cantica ha inizio con Dante e Virgilio che, risalendo dal centro della terra, si

ritrovano agli antipodi di Gerusalemme, alle pendici della Montagna del Purgatorio. I

due viaggiatori risalgono i vari gironi, incontrando ancora una volta numerosi personaggi

illustri, sia del passato sia contemporanei, arrivando al Paradiso terrestre. Qui

appare loro Beatrice, seguita da una lunga processione (allegoria della storia dell’uomo

della Chiesa), e Dante, dopo essersi immerso nei fiumi Leté e Eunoé, si prepara

all’ingresso nel Paradiso.

STRUTTURA

Su un’isola in mezzo all’oceano si trova la montagna del Purgatorio, formata da un

antipurgatorio, sovrastato da sette cornici, alla cui sommità si trova il giardino dell’Eden.

L’antipurgatorio si divide in quattro schiere e ospita i morti scomunicati che in

punto di morte hanno rivolto il loro pensiero a Dio; le anime negligenti, che in vita
hanno dimenticato per pigrizia di praticare le virtù; coloro che morti di morte violenta

negli ultimi istanti si sono pentiti e hanno perdonato i loro uccisori; i prìncipi che

hanno trascurato i loro compiti di governo. Questi ultimi si trovano in una valletta

fiorita, corrispondente alla IV zona dell’Antipurgatorio, e qui attendono la fine della

loro pena.

Nelle sette cornici, invece, le anime penitenti devono espiare uno dei sette peccati

capitali, disposti dal basso verso l’alto per gravità decrescente. Ogni porta della cornice

successiva è protetta da un angelo, che rappresenta la virtù contraria al peccato

capitale che le anime stanno espiando. La salita è possibile solo di giorno, per evitare

le tentazioni che il buio della notte potrebbe portare. Nel Purgatorio vige sempre la

legge del contrappasso, ma le pene sono vissute e sopportate con serenità, in vista

della tappa finale; e a differenza dell’Inferno, le anime non sono statiche ma attraversano

le varie cornici per espiare le loro colpe e sostano per più o meno tempo in un

luogo in base alle loro azioni in vita.


-PARADISO

Il Paradiso è la terza cantica della COMMEDIA, ed è composta da 33 canti. Nel

Paradiso ritroviamo meno figure e meno movimento: l’intera struttura della cantica si

regge sul divario tra la perfezione di Dio e l’ascesa di Dante, ancora legato all’imperfezione

di tutto ciò che è terreno.

Durante questa ascesa, il poeta si interroga continuamente sulla difficoltà a tradurre in

parola la perfezione e la beatitudine che osserva nel Paradiso, fino ad arrivare alla visione
di Dio. In questo punto Dante ammette che le parole non sono sufficienti e non

possono descrivere quanto vede.

Un tema che possiamo ritrovare anche in questa cantica è quello politico. Infatti,

come in altre parti della COMMEDIA ritroviamo dure accuse verso la corruzione

della vita politica e religiosa. In particolare ricordiamo l’episodio dell’incontro di

Dante con il suo antenato Cacciaguida (canto XV): qui il poeta loda la grandezza morale

della Firenze in cui nacque il suo predecessore, e la paragona con rammarico alla

città attuale, contrassegnata dalla decadenza dei costumi pubblici e privati. Inoltre, in

questo canto Dante ascolta la profezia del suo esilio.

In questa cantica assistiamo a due cambiamenti per quanto riguarda la guida di Dante

durante l’ascensione a Dio: all’ingresso del Paradiso Virgilio (allegoria della ragione)

lascia il posto a Beatrice (allegoria della teologia), a simboleggiare il fatto che la ragione

umana da sola non è sufficiente per raggiungere Dio. Successivamente Beatrice

lascia il posto a San Bernardo (allegoria della contemplazione mistica), grazie al quale

Dante può accedere alla visione di Dio.

STRUTTURA

La struttura del Paradiso è costruita seguendo il sistema geometrico Aristotelico e Tolemaico,

e si configura come un luogo immateriale ed etereo, racchiuso nell’Empireo

e diviso in nove cieli: i primi sette prendono il nome dai corpi celesti del sistema solare,

gli ultimi due sono costituiti dalla sfera delle stelle fisse e dal Primo mobile.

In Paradiso le anime sono pure essenze intellettuali, e quindi non è possibile una loro

rappresentazione corporea. Inoltre, non sono divise in sedi differenti, ma sono ospitate

tutte nella candida rosa dei beati, dalla quale possono contemplare in eterno Dio.
Detto questo, al poeta le anime appaiono nei cieli corrispondenti alle loro virtù e qualità,

in modo che egli, essere terreno, possa averne un’immagine sensibile.

ANALISI DETTAGLIATA DELLA DIVINA COMMEDIA

La Divina Commedia è un poema didattico-allegorico scritto da Dante Alighieri tra il 1307 e il


1321, che racconta un viaggio compiuto dal poeta nei tre regni dell'Oltretomba (Inferno, Purgatorio,
Paradiso) nell'arco di sette giorni nella primavera dell'anno 1300. All'inizio del viaggio il poeta-
protagonista si smarrisce in una "selva oscura", dove incontra tre fiere allegoriche (una lonza, un
leone, una lupa), finché è tratto in salvo dal poeta latino Virgilio che lo invita a seguirlo in un
percorso di purificazione e ravvedimento morale che lo condurrà nei tre regni dell'Oltretomba
cristiano. Virgilio sarà la guida di Dante durante la discesa all'Inferno e durante la salita nel
Purgatorio, quindi nel Paradiso Terrestre subentrerà l'anima di Beatrice che accompagnerà Dante
nell'ascesa del Paradiso. Giunto nell'Empireo (il cielo più elevato dove risiede la "candida rosa" dei
beati) Beatrice lascerà il posto a S. Bernardo, che introdurrà Dante alla visione finale di Dio.
La Commedia è divisa in tre Cantiche corrispondenti ai tre regni visitati da Dante
(Inferno, Purgatorio, Paradiso), composte rispettivamente di 34, 33 e 33 Canti per un totale di 100.
Ogni Canto è scritto in terzine di versi endecasillabi a rima concatenata, per un totale di 14.233
versi.
Il poema appartiene certamente al filone della poesia religiosa del XIII-XIV sec., ma è anche
un'opera didattica, politica, dottrinale, oltre a costituire una forte denuncia dei mali e delle
ingiustizie del mondo in cui Dante viveva (egli scrisse l'opera quando era in esilio da Firenze). Il
titolo originale è Comedìa (Commedia, secondo la definizione degli studiosi moderni), mentre
l'aggettivo Divina venne aggiunto dal Boccaccio nel suo Trattatello in laude di Dante e comparve in
un'edizione del 1555 a cura di L. Dolce. È a tutt'oggi l'opera della letteratura italiana più famosa al
mondo ed è stata tradotta nelle più svariate lingue di ogni cultura.

Titolo, struttura, composizione

Il titolo del poema allude alla struttura del genere teatrale della commedia, in quanto l'opera inizia
male (con Dante che si smarrisce nella "selva oscura" del peccato) e finisce bene (con l'arrivo
all'Empireo e la contemplazione di Dio), inoltre c'è un riferimento alla teoria medievale degli stili
(alto, medio e basso, corrispondenti a tragico, comico ed elegiaco), in quanto l'opera presenta una
commistione di tutti e tre gli stili ma con una prevalenza di quello comico (la cosa è spiegata da Dante
nell'Epistola XIII a Cangrande della Scala, dedicatoria del Paradiso e che funge da introduzione
all'intero poema). Il titolo originale è dunque propriamente Comedìa, secondo quanto dichiara
l'Incipit dell'opera (Incipit Comedia Dantis Alagherii, florentini natione non moribus), mentre
l'aggettivo "divina" fu usato per la prima volta da Boccaccio nel suo Trattatello in laude di Dante e
poi nell'edizione a stampa del 1555 di Ludovico Dolce, momento dal quale esso è entrato a far parte
del titolo usato in tutte le edizioni moderne del poema. Non sappiamo con certezza quando Dante
abbia composto la Commedia, ma sembra certo che l'inizio sia da collocare durante l'esilio (forse
intorno al 1307) e che intorno al 1308-09 l'Inferno fosse già ultimato, mentre nel 1313-15 sarebbe
stato completato il Purgatorio; il Paradiso fu composto negli ultimi anni di vita del poeta e portato a
termine pochi mesi prima della morte, se bisogna dar credito all'aneddoto citato
da Boccaccio nel Trattatello quando riferisce che l'ombra di Dante sarebbe apparsa in sogno al figlio
Iacopo e gli avrebbe indicato la collocazione dei manoscritti con gli ultimi canti della terza Cantica,
sino allora inediti. Certo il poema circolava ampiamente in tutta l'Italia del nord già da parecchi anni
e a testimonianza della sua enorme diffusione vi è il numero altissimo di manoscritti che l'hanno
tramandato (circa 700), il che ha reso praticamente impossibile qualunque tentativo di edizione critica
dell'opera di cui, oltretutto, non si è conservato alcun autografo.

ll viaggio allegorico
Al centro del poema c'è il viaggio che Dante immagina di compiere in un momento storico
determinato nei tre regni dell'Oltretomba, tuttavia esso ha anche un significato allegorico e
rappresenta il percorso di redenzione che qualunque uomo può e deve affrontare per liberarsi dal
peccato e raggiungere la felicità eterna in questa vita: l'allegoria ha un peso determinante nella
struttura dell'opera e ne costituisce in un certo senso l'ossatura essenziale, per cui è impossibile
coglierne il senso profondo prescindendo da essa. Dante è dunque il poeta fiorentino chiamato da Dio
all'incredibile privilegio di visitare la dimensione ultraterrena da vivo per testimoniare al mondo le
cose viste (la condizione delle anime dopo la morte, in base a quanto spiegato nell'Epistola XIII), ma
è anche ogni uomo chiamato a compiere il percorso di purificazione in questa vita, per cui le tappe
del viaggio corrispondono a momenti diversi di tale percorso che, in quanto tale, ha molti punti di
contatto con l'itinerarium mentis ad Deum descritto da molti testi della letteratura medievale, specie
quella omonima di S. Bonaventura da Bagnoregio. Nel poema, infatti, Dante si smarrisce all'inizio in
una "selva oscura" che rappresenta il peccato, dal quale potrà redimersi intraprendendo un viaggio
che avrà come guida prima il poeta latino Virgilio, allegoria della ragione umana dei filosofi antichi,
poi Beatrice, allegoria invece della teologia e della grazia divina; Virgilio accompagnerà Dante sino
alla cima del monte del Purgatorio, dove si trova l'Eden che è allegoria della felicità terrena e del
pieno possesso delle virtù cardinali, quindi subentrerà Beatrice che guiderà Dante nel Paradiso
celeste, figura della felicità eterna e delle virtù teologali, sino alla visione finale di Dio che consiste
nella felicità ultima. In Inf., II viene spiegato che Virgilio è stato inviato in soccorso di Dante dalla
stessa Beatrice, scesa dal Paradiso nel Limbo, il che allegoricamente indica che l'uomo può salvarsi
in virtù della grazia e non con le sole proprie forze; del resto Virgilio non può scortare Dante più in
alto dell'Eden e all'apparire di Beatrice il poeta latino scompare, a significare che la ragione umana è
subordinata alla grazia e non è sufficiente a raggiungere a salvezza. Nel corso del viaggio anche altri
personaggi incontrati da Dante possono assumere una valenza allegorica, come ad es. le tre fiere del
Canto iniziale che sono le disposizioni peccaminose che respingono il poeta nel suo
cammino (significato analogo hanno anche molte figure demoniache che si oppongono al suo
passaggio all'Inferno), mentre Matelda, la donna che accoglie le anime nell'Eden, rappresenta
probabilmente la condizione di innocenza dell'uomo prima del peccato originale. Naturalmente
l'impianto allegorico dell'opera non esclude il significato letterale e "storico" dei luoghi e dei
personaggi descritti, mentre è ovvio che molte delle anime incontrate da Dante non hanno alcun senso
allegorico ma rispondono unicamente alla funzione di exempla dei peccati puniti o delle virtù
premiate, secondo quanto spiegato nell'Epistola a Cangrande.

La cronologia del viaggio

Al di là del significato allegorico, Dante colloca l'immaginario viaggio nell'Oltretomba in un


preciso momento storico e fornisce al lettore puntuali indicazioni temporali che permettono di
ricostruirne la cronologia, collocando la vicenda nella primavera dell'anno 1300: il percorso nei tre
regni ultraterreni dura in tutto circa una settimana, da collocarsi tra il 25 e il 31 marzo oppure, come
è più probabile, tra l'8 e il 14 aprile, in coincidenza con la Pasqua cristiana. Dante chiarisce già
in Inf., I che lo smarrimento nella "selva oscura" è avvenuto a metà del cammino della sua vita,
quindi all'età di 35 anni (era credenza diffusa e poggiante su passi scritturali che la vita dell'uomo
durasse 70 anni), e la scelta dell'anno 1300 per il viaggio allegorico è senz'altro simbolica, in quanto
coincide col primo Giubileo della storia della Chiesa indetto da papa Bonifacio VIII per
l'indulgenza dei peccati; sempre nello stesso Canto Dante spiega che la vicenda si svolge in
primavera, non lontano dall'equinozio che era interpretato dai testi cristiani come momento legati a
benefici influssi del sole. Fondamentale è poi l'indicazione del diavolo Malacoda di Inf., XXI, 112-
114, quando spiega che il ponte roccioso che unisce la V alla VI Bolgia è crollato il giorno della
morte di Cristo in seguito al terremoto che sconvolse la Terra: in realtà ad essere crollati sono tutti i
ponti della Bolgia (il discorso del demone è ingannevole), ma ciò che conta è l'affermazione in base
alla quale il giorno prima, cinque ore dopo quella presente, si sono compiuti esattamente 1266 anni
dal momento del crollo; poiché secondo una tradizione che altrove Dante mostra di seguire la morte
di Cristo sarebbe avvenuta nell'anno 34 dell'Era Volgare, se ne deduce che l'anno del viaggio è
1266+34 = 1300. Poiché inoltre la morte di Cristo risalirebbe, secondo il Vangelo di Luca, al
mezzogiorno di venerdì, quando Malacoda parla ci troviamo alle sette del mattino del giorno
seguente, ovvero di sabato: l'unico dubbio riguarda la data esatta, poiché il viaggio potrebbe essere
iniziato il venerdì santo del 1300, ovvero l'8 aprile, oppure il giorno dell'anniversario "storico" della
morte di Cristo, cioè il 25 marzo. A sostegno della prima ipotesi sta il fatto che in alcuni passi del
poema (Inf., XX, 127; Purg., XXIII, 118-120) si dice che la notte in cui Dante si smarrì nella selva
c'era il plenilunio, e com'è noto la Pasqua cristiana cade sempre la domenica successiva al primo
plenilunio di primavera; resta indubbio che la Pasqua è il momento centrale della liturgia cristiana,
poiché celebra la risurrezione di Cristo e simboleggia quel riscatto e quella redenzione dal peccato
che è la meta finale del viaggio intrapreso da Dante nel poema, che perciò si colloca non
casualmente proprio in quel periodo dell'anno.
In base a tale ricostruzione si può affermare che Dante si smarrisce nella "selva oscura" nella notte
tra giovedì e venerdì santo, venendo poi soccorso da Virgilio la mattina del venerdì; la sera del
venerdì i due poeti giungono alla porta dell'Inferno e la discesa nella voragine dura circa
ventiquattr'ore, sino alla tarda sera del sabato. Quando i due oltrepassano il centro della Terra dov'è
confitto Lucifero si ritrovano nell'emisfero opposto e "guadagnano" circa dodici ore (qui è ancora la
mattina del sabato), impiegandone poi circa ventuno nella risalita della "natural burella" fino a
sbucare sulla spiaggia del Purgatorio la mattina della domenica di Pasqua. L'ascesa lungo la
montagna del Purgatorio dura tre giorni e mezzo, concludendosi nel primo pomeriggio di
mercoledì. Quasi nessuna indicazione ci è fornita circa il viaggio in Paradiso, ma pare verosimile
che esso duri un giorno e mezzo o due giorni, per cui il viaggio si conclude a mezzanotte di
giovedì. È da osservare che il poeta dorme durante il viaggio solo nelle tre notti trascorse nel
Purgatorio, in virtù della «legge della salita» (spiegata da Sordello in Purg., VII) che non consente
ai penitenti, dunque neppure a Dante, di scalare il monte durante il buio. Superfluo notare che il
viaggiatore non sente mai il bisogno di nutrirsi lungo il cammino, per l'evidente volontà divina che
lo spinge a proseguire il suo "fatale andare" senza curarsi delle sue necessità fisiche.

La struttura dei tre regni dell'Oltretomba

• Inferno

Dante si rifà alla cosmologia teorizzata da S. Tommaso d'Aquino nella Summa Theologiae e ripresa
dal modello aristotelico-tolemaico, dunque immagina la Terra sferica e immobile al centro
dell'universo, mentre i cieli sono sfere che ruotano concentricamente intorno ad essa, sino
all'Empireo sede di Dio e dei beati. In questo modello l'Inferno è descritto come un'immensa
voragine sotterranea che si spalanca nell'emisfero boreale al di sotto della città di Gerusalemme,
restringendosi a forma di "imbuto" fino al centro della Terra dove è confitto Lucifero; non ci sono
indicazioni circa la posizione della porta che Dante e Virgilio attraversano in Inf., III ma è
ipotizzabile che essa sorga non lontano dalla città santa della Cristianità. Al di là della porta c'è
un Vestibolo (detto anche "anti-inferno") che ospita gli ignavi, quindi il fiume Acheronte separa
questi luoghi dall'Inferno vero e proprio, diviso in nove cerchi ognuno destinato a un peccato o a un
gruppo di peccati particolari, a parte il primo cerchio (il Limbo) che ospita le anime dei bimbi morti
senza battesimo e dei pagani virtuosi, esclusi dalla redenzione ma che non soffrono alcuna pena (tra
essi vi è anche Virgilio). Il demone Caronte traghetta le anime dannate sull'Acheronte,
mentre Minosse le giudica all'ingresso del secondo cerchio e decide in base alla giustizia divina in
quale cerchio sono destinate. La topografia morale dell'Inferno è spiegata nel Canto XI e suddivide i
cerchi in tre zone corrispondenti ai peccati di incontinenza (II-V), di violenza (VII), di frode (VIII-
IX). Ecco una sintesi della struttura dei cerchi infernali:

il quinto cerchio corrisponde alla palude dello Stige, fiume infernale, che circonda la città
di Dite presidiata da demoni e all'interno della quale vi è il sesto cerchio; è discusso se esso faccia
ancora parte dei peccati di incontinenza oppure sia separato dagli altri. Il settimo cerchio è diviso in
tre gironi, corrispondenti al fiume Flegetonte in cui sono immersi gli assassini e i predoni, alla selva
dei suicidi (in cui si trovano anche gli scialacquatori, violenti contro il proprio patrimonio) e
al sabbione infuocato dove sono puniti i bestemmiatori, i sodomiti e gli usurai (violenti contro Dio
nella persona divina, nella natura e nell'operosità umana). L'ottavo cerchio è diviso in dieci bolge (è
detto infatti Malebolge), ciascuna destinata a una categoria di fraudolenti. Il nono cerchio
corrisponde al lago ghiacciato di Cocito, quarto fiume infernale, ed è suddiviso in quattro zone
concentriche destinate ad altrettante categorie di traditori; al centro è confitto Lucifero, che divora
nelle sue tre bocche Giuda, Bruto e Cassio. Lucifero si trova esattamente al centro della Terra e
dell'universo, mentre una "natural burella" (sorta di budello sotterraneo) collega quel punto con la
spiaggia del Purgatorio, che sorge agli antipodi di Gerusalemme.
Tra il peccato punito e la pena inflitta c'è un rapporto simbolico detto di contrappasso, a volte molto
evidente (i lussuriosi sono travolti dal vento infernale come in vita lo furono dalla passione; i
violenti sono immersi nel sangue...) a volte più incerto (ad esempio il ghiaccio di Cocito); i peccati
diventano via via più gravi man mano che si scende e ci si avvicina a Lucifero, criterio opposto a
quello del Purgatorio. La collocazione dei peccatori nei vari cerchi è definitiva e nulla può cambiare
il loro destino, cosa che vale anche per le anime del Limbo (detto così in quanto "lembo" estremo
della voragine) che si struggono nel vano desiderio di salvezza; tra essi vi erano anche i patriarchi
biblici, che furono portati in cielo da Cristo dopo la sua resurrezione (cfr. Inf., IV). Le figure
demoniache appartengono sia alla tradizione biblico-cristiana sia a quella classica (Caronte,
Minosse, Cerbero...), nel qual caso si può parlare di una "demonizzazione" di alcune divinità
pagane legate alla dimensione dell'Oltretomba o interpretate dal pensiero cristiano come figura
diaboli (ciò rientra nella rilettura in chiave religiosa del mondo classico).
• Purgatorio

Luogo ultraterreno assente nella tradizione cristiana e creato ufficialmente dalla Chiesa solo nel
1274, il Purgatorio dantesco è una montagna altissima che sorge su un'isola posta al centro
dell'emisfero australe della Terra, secondo Dante totalmente invaso dalle acque; è collegato al
centro della Terra dalla "natural burella", lungo la quale Dante e Virgilio risalgono per uscire "a
riveder le stelle". Custode del secondo regno è Catone l'Uticense, rappresentato come un patriarca
biblico e scelto da Dante a dispetto del fatto di essere pagano e morto suicida; è lui presumibilmente
ad accogliere le anime dei penitenti quando arrivano sulla spiaggia, condotte sulla nave dell'angelo
nocchiero che le ha raccolte alla foce del Tevere. Le anime sostano nell'Antipurgatorio un tempo
proporzionale a quanto indugiarono in vita a pentirsi, quindi accedono alla porta del Purgatorio vero
e proprio (presidiata da un angelo armato di spada) e iniziano il percorso di purificazione; il
Purgatorio è diviso in sette cornici in cui sono puniti i sette peccati capitali e ogni anima percorre
l'intera ascesa, soffermandosi un tempo maggiore o minore nelle varie cornici a seconda dei peccati
commessi (o anche saltandone alcune, se non si sono macchiati di quella colpa particolare). I
peccati sono disposti dal più al meno grave man mano che si sale, con criterio opposto a quello
infernale. Sulla cima del monte vi è l'Eden, dove le anime purificate sono accolte
da Matelda (probabilmente simboleggia lo stato di innocenza primigenia dell'uomo) che poi le
immerge nelle acque dei due fiumi del Paradiso Terrestre: il Lete cancella il ricordo dei peccati
commessi, l'Eunoè rafforza la memoria del bene compiuto. Terminato questo rito, cui si sottopone
anche Dante, le anime possono ascendere al Paradiso Celeste, dove ovviamente salgono
direttamente le anime dei santi e dei fedeli particolarmente virtuosi, come nel caso di Beatrice. Ecco
una sintesi della struttura del secondo regno:

Le anime dell'Antipurgatorio devono attendere un tempo variabile prima di accedere alla porta del
Purgatorio, ad es. i contumaci (morti scomunicati) aspettano trenta volte il tempo trascorso dopo la
scomunica, mentre gli altri si trattengono per quella che fu la durata della loro vita, ma le preghiere
dei vivi possono abbreviare questo tempo così come quello da passare nelle varie cornici, fino ad
annullarlo (Forese Donati, ad es., è passato direttamente alla sesta cornice grazie alle preghiere della
moglie Nella). Le cornici sono collegate l'una all'altra da scale scavate entro la roccia, molto ripide
e che si percorrono con una certa difficoltà, e all'ingresso di ogni cornice vengono mostrati a Dante
esempi della virtù opposta a quella del peccato punito (il primo è sempre relativo a Maria Vergine),
all'uscita invece esempi del peccato punito e gli esempi possono essere scolpiti su bassorilievi,
recitati da voci aeree o dagli stessi penitenti, mostrati attraverso visioni estatiche. Esiste un rapporto
di contrappasso tra peccato e pena inflitta, analogamente alle pene infernali, mentre una differenza
rispetto al primo regno è che qui i penitenti si muovono da una cornice all'altra e completano il
percorso di purificazione, sino ad arrivare all'Eden; quando un'anima compie il percorso l'intera
montagna viene scossa da un terremoto e tutte le anime intonano a una voce il Gloria (la cosa
avviene, ad es., nel caso di Stazio, alla fine del canto XIX). Le anime nelle varie cornici intonano
dei Salmi e ciò fa parte della loro pena, mentre in base alla cosiddetta "legge della salita" enunciata
da Sordello (canto VII) le anime non possono salire di notte, per cui anche Dante è costretto a
fermarsi e a dormire. Prima di accedere all'Eden tutte le anime devono attraversare il fuoco
purificatore della settima cornice e poi sono accolte da Matelda, che le immerge nei due fiumi
del Lete e dell'Eunoè.
A differenza della discesa all'Inferno, qui Dante compie anch'egli un percorso di purificazione e
infatti l'angelo della Porta incide con la spada sette "P" sulla sua fronte, come simbolo dei sette
peccati capitali, che verranno via via cancellate dai vari angeli all'uscita di ogni cornice. Anche
Dante deve attraversare il fuoco della settima cornice e viene immerso da Matelda nei due fiumi
dell'Eden, per cui alla fine della Cantica egli è "puro e disposto a salire a le stelle".

• Paradiso
È formato dai nove cieli che ruotano come sfere concentriche attorno alla Terra immobile, secondo
la cosmologia tomistica seguita da Dante nell'intero poema, ciascuno governato da una gerarchia
angelica e riflettente sulla Terra un influsso astrale; il decimo cielo più esterno è l'Empireo, sede di
Dio (anzi, coincidente con Lui e quindi infinito), degli angeli e dei beati. Questi risiedono
normalmente proprio nell'Empireo dove formano la "candida rosa", una sorta di anfiteatro celeste in
cui sono disposti secondo un complesso criterio (a sinistra di Maria i credenti in Cristo venturo, a
destra i credenti in Cristo venuto), ma nella Cantica i beati si mostrano a Dante nei vari cieli di cui
hanno subìto l'influsso in vita, ciò per ragioni di equilibrio compositivo e per maggiore chiarezza
del lettore; le anime sono quindi suddivise in sette schiere che corrispondono ai primi sette cieli
(dalla Luna a Saturno), ma non è detto che tutti i beati rientrino in questa suddivisione. Ogni schiera
di beati gode di un grado di beatitudine diverso, per cui ad es. gli spiriti difettivi che appaiono nel
primo cielo fruiscono del grado più basso, mentre gli spiriti contemplanti del cielo di Saturno di
quello più alto, anche se ciò non suscita in loro alcun malcontento e, anzi, tutti i beati sono
assolutamente appagati della beatitudine che ricevono. Ecco una sintesi della struttura del terzo
regno:

Dante si muove da un cielo all'altro ascendendo semplicemente ad essi, con un movimento


innaturale verso l'alto che viene spiegato da Beatrice (Par., I) come la tensione della sua anima
verso il proprio fine che è Dio; il poeta parla e dialoga con le varie anime, pone domande alla sua
guida che gli risponde con argomenti teologici e tali spiegazioni costituiscono la parte essenziale
della Cantica. Nel cielo delle Stelle Fisse c'è il trionfo di Maria e di Cristo, quindi Dante viene
sottoposto a un esame su fede, speranza e carità da parte di S. Pietro, S. Giacomo e S. Giovanni, che
egli supera brillantemente; nel Primo Mobile gli vengono mostrati i cori angelici e nell'Empireo il
posto di Beatrice come guida viene rilevato da S. Bernardo di Chiaravalle, che illustra a Dante la
disposizione dei beati nella "candida rosa" (Beatrice riprende il proprio seggio all'interno di essa).
Proprio Bernardo intercede presso Maria affinché consenta a Dante di figgere il suo sguardo
nella mente di Dio e con tale eccelsa visione si chiude la Cantica e il poema.
La rappresentazione poetica del Paradiso è altamente innovativa e, da un lato, Dante dichiara di
ricordare assai poco delle cose viste, dall'altro si scusa dell'imperizia con cui tenterà di esprimere
una traccia delle cose viste (è la poetica dell'indicibile di derivazione Cavalcantiana, qui riferita ad
argomenti ben più elevati); il terzo regno viene quindi raffigurato in termini astratti e simbolici, per
cui ad es. i beati sono mostrati come pure luci senza alcun aspetto umano (solo gli spiriti del primo
cielo appaiono come figure evanescenti, simili a dei riflessi) e dal quarto cielo in poi essi formano
figure geometriche di carattere simbolico, vale a dire due corone concentriche (spiriti sapienti), una
croce (spiriti combattenti), una scritta e il simbolo dell'aquila (spiriti giusti), una scala che si erge
verso l'alto (spiriti contemplanti). La stessa visione di Dio è descritta in termini fortemente stilizzati,
ad es. con tre cerchi che nascono l'uno dall'altro a simboleggiare il mistero della Trinità e l'effigie
umana dipinta con lo stesso colore nel secondo di essi, a indicare il mistero dell'incarnazione divina.
Tale astrattezza della rappresentazione, unitamente alla complessità delle spiegazioni teologiche,
hanno reso ardua la lettura della Cantica nel periodo moderno, quando al Paradiso è stato preferito
largamente l'Inferno (solo in tempi relativamente recenti la critica ha rivalutato la Cantica più
impegnata, sottolineando il carattere innovativo di essa e l'inevitabile distanza con la sensibilità e il
gusto moderno).

I personaggi del poema come exempla:

La Commedia mostra soprattutto ai lettori la condizione delle anime dopo la morte (lo status
animarum post mortem, come chiarito dall'Epistola XIII a Cangrande) e la scelta dei personaggi
inclusi nelle schiere di dannati, penitenti e beati risponde anzitutto al criterio della notorietà,
secondo la spiegazione offerta da Cacciaguida in Par., XVII: in questo senso Dante non fa
distinzioni tra figure del mito o bibliche, personaggi letterari, della storia antica o moderna, poiché
la scelta ricade su quei soggetti che sembrano più rappresentativi del peccato punito o della virtù
premiata e la loro funzione è essenzialmente quella di exempla morali per il lettore che dovrà
prenderli a modello per comportarsi rettamente nella vita terrena. Ciò spiega anche apparenti
incongruenze circa il luogo di pena in cui sono collocati alcuni dannati o penitenti, poiché il criterio
seguito non è la maggiore gravità del peccato compiuto ma l'esemplarità della loro figura, per cui la
regina Didone non è inclusa tra i suicidi ma tra i lussuriosi del secondo cerchio dell'Inferno, così
come Forese Donati appare tra i golosi della sesta cornice del Purgatorio anche se, forse, il suo
peccato più grave era il furto (allo stesso modo tra i lussuriosi della settima cornice rientrano i
poeti Guinizelli e Arnaut Daniel, in quanto "produttori" di quella letteratura amorosa che poteva
spingere a compiere peccati carnali e non perché peccatori di lussuria essi stessi).
A volte la scelta dei personaggi è quasi ovvia e conferma quanto di essi conosceva il pubblico, nel
bene e nel male, ma non mancano casi di dannazioni o salvezze clamorose che smentiscono le
attese dei lettori, creando uno "scandalo" che vuol sottolineare soprattutto l'imperscrutabilità del
giudizio divino: è il caso, ad es., dei papi simoniaci che Dante include nella terza bolgia dell'ottavo
cerchio dell'Inferno, tra cui Niccolò III che predice la futura dannazione di Bonifacio
VIII e Clemente V, ma anche di Guido da Montefeltro che si trova nell'ottava bolgia dei consiglieri
fraudolenti a dispetto del suo essere francescano; addirittura si trova fra i traditori di Cocito Branca
Doria, che nel 1300 era ancora vivo e di cui Dante afferma che un demone si è impossessato del suo
corpo (il fatto, spiegato da Frate Alberigo, riguarda tutte le anime della Tolomea). Casi analoghi e
opposti sono le salvezze imprevedibili di Catone l'Uticense, addirittura scelto come custode del
Purgatorio, e di Manfredi di Svevia, tra le anime salve nonostante la scomunica e la pubblicistica
guelfa contro di lui; allo stesso modo Dante colloca tra gli spiriti giusti del sesto cielo del Paradiso i
pagani Rifeo e Traiano, fornendo poi la spiegazione teologica che giustifica la salvezza
dell'imperatore romano (in ogni caso il giudizio divino è insondabile e ciò vale anche per la
salvezza negata, ad es., ai pagani virtuosi e i bimbi non battezzati del Limbo).
In tutti gli altri casi la scelta ricade su personaggi noti a tutti come esempi di vizio punito o virtù
premiata, sia nel caso di personaggi letterari o mitici (come Ulisse, condannato tra i consiglieri
fraudolenti per l'inganno del cavallo di Troia e protagonista del "folle viaggio" oltre le colonne
d'Ercole, episodio estraneo alla tradizione omerica), sia in quello di protagonisti della storia antica
(come Carlo Magno, esaltato in quanto militante per la fede e creatore di un Impero cristiano) o
della storia moderna (come Farinata degli Uberti, esponente del partito ghibellino e condannato tra
gli epicurei del sesto cerchio dell'Inferno). Non mancano infine casi di assenze altrettanto
sorprendenti, come quella dell'imperatore romano Augusto, che non rientra tra gli "spiriti magni"
del Limbo, o di Guittone d'Arezzo, o ancora di importanti religiosi come S. Paolo e S. Domenico,
più volte citati da Dante ma ignorati al momento della presentazione della "candida rosa" dei beati.
La Commedia come denuncia dei mali del mondo

Il poema nasce anzitutto dal forte sdegno dell'autore per i mali e le ingiustizie che caratterizzano il
mondo in cui vive, dovuti essenzialmente all'avidità di guadagno che porta i potenti a calpestare le
leggi e ad opprimere gli uomini onesti, e tale mancanza di giustizia viene denunciata a più riprese e
a voce alta nella Commedia, con una forza che nasce dalla passione civile di Dante e
dall'ingiusto esilio patito a causa delle persecuzioni politiche dei Guelfi Neri, di cui il poeta si sente
esempio in prima persona. Tutto viene ricondotto da Dante alla cupidigia umana, non a caso
condannata più volte come radice prima dei mali politici dell'Italia del Trecento (la lupa, allegoria di
questo vizio, è infatti la più pericolosa delle tre fiere che respingono Dante verso la "selva oscura"),
inoltre la mancata applicazione delle leggi che pure esistono ha ottenuto l'effetto di rovesciare la
realtà e di far sì che i disonesti la facciano da padrone, mentre chi si è comportato in modo retto
paga colpe non sue. Dante individua anche dei precisi responsabili di tale situazione e accusa
soprattutto la mancanza di un governo centrale in Italia, che nella sua visione dovrebbe essere
garantito dall'imperatore reo ai suoi occhi di non risiedere a Roma ma in Germania (Alberto
d'Asburgo viene apertamente accusato in Purg., VI di abbandonare l'Italia "per cupidigia", per
curare i suoi possedimenti tedeschi), per cui tale vuoto di potere ha creato uno stato di anarchia che
ha favorito la frammentazione politica e le rivalità tra Guelfi e Ghibellini, entrambi condannati
in Par., VI come corresponsabili del disordine e della confusione. Ugualmente condannata è la
commistione di potere spirituale e temporale, per cui i papi ingeriscono nelle vicende politiche e
creano a loro volta anarchia, spinti per lo più da sete di potere e cupidigia di ricchezze materiali (la
polemica contro la corruzione ecclesiastica è parte essenziale del poema, specie del Paradiso) e in
questo senso è viva la condanna del re francese Filippo IV il Bello, cui l'autore rimprovera
l'appoggio dato ai Guelfi nella loro lotta contro i Ghibellini nonché l'aver portato ad Avignone la
sede papale, ragion per cui il monarca viene duramente attaccato in più di un passo del poema (cfr.
specialmente Purg. XXXII, in cui Filippo è mostrato con le fattezze di un malvagio gigante nella
processione simbolica).
Dante non si limita ovviamente a una denuncia generica, ma punta il dito con forza contro
personaggi di spicco che lui ritiene essere responsabili di questa situazione e si assume un rischio
che acquista tanto maggior valore se si pensa alla sua triste e precaria condizione di esule (non a
caso in Par., XVII egli espone i suoi dubbi a riguardo all'avo Cacciaguida, il quale lo esorta a
rendere noto tutto ciò che ha visto nei tre regni senza omettere nulla, giacché solo i personaggi noti
hanno valore esemplare e possono offrire modelli di comportamento morale ai lettori). Ciò è
soprattutto evidente nella polemica contro la corruzione ecclesiastica, dal momento che Dante non
ha timore ad includere ben tre papi tra i simoniaci dell'Inferno (Niccolò III che predice la
dannazione di Bonifacio VIII e Clemente V), mentre in Par., XVIII si lancia in una durissima
invettiva contro papa Giovanni XXII, accusato di revocare i benefici ecclesiastici per arricchirsi, e
in Par., XXVII è S. Pietro a pronunciare una terribile requisitoria contro Bonifacio VIII, che
profana addirittura la santità del suo sepolcro in Vaticano ("fatt’ha del cimitero mio cloaca / del
sangue e della puzza", con riferimento alla corruzione che infanga e contamina i luoghi sacri). In
quest'ottica viene valutato positivamente il tentativo dell'imperatore Arrigo VII di Lussemburgo,
pure andato fallito, di ristabilire l'autorità imperiale sui Comuni del nord Italia e ostacolato, tra gli
altri, da papa Clemente V che lo ingannò con false promesse e in Par., XXX Beatrice mostra a
Dante il seggio della "candida rosa" dei beati già riservato ad Arrigo, che morirà solo nel 1313,
mentre il papa che lo ingannerà è già destinato alla dannazione tra i simoniaci della terza bolgia,
dove andrà a tener compagnia a Bonifacio VIII e Niccolò III. La denuncia di Dante è certo l'aspetto
maggiormente attuale di un'opera che, per altri versi, è lontana dalla nostra sensibilità moderna e
rende ragione probabilmente del successo che essa ha avuto per tanto tempo nella nostra tradizione
letteraria, contribuendo a creare il "mito" di Dante come fustigatore dei potenti e alto esempio
morale, avvalorato anche dall'esilio che affrontò con fierezza e che fu parte essenziale nella sua
volontà di colpire i mali del mondo, anche se la sua visione politica era per molti aspetti
anacronistica e superata dai tempi.

Il poema come visione e profezia

Dante compone il poema in forma di "visione" e in ciò si allinea a una lunga tradizione precedente,
che risale alle numerose visiones della letteratura mediolatina e ha un precedente recente nei poemi
di Giacomino da Verona sull'Inferno e il Paradiso, anche se la Commedia non si presenta come
descrizione di un'esperienza di tipo estatico ma come cronaca di un viaggio, compiuto dall'autore in
carne ed ossa in un momento storicamente determinato (sul punto Dante è molto chiaro e in vari
momenti dell'opera ribadisce l'assoluta veridicità dell'esperienza vissuta). La "visione" è dunque la
sostanza delle cose viste dal viaggiatore Dante durante il percorso cui è stato ammesso per un
eccezionale privilegio divino, in virtù della sua capacità poetica e con la missione di riferire ogni
cosa una volta tornato sulla Terra, come chiarito dall'avo Cacciaguida nell'incontro di Par., XVII, e
questo rende la Commedia un'opera profondamente diversa dalle altre scritte da autori precedenti,
quasi una sorta di "poema ispirato" (non a caso Dante parla di "poema sacro" in Par., XXV) e
scritto sotto dettatura divina, a indicare l'assoluto valore di "rivelazione" che il testo assume come
testimonianza dello "stato delle anime dopo la morte", al fine di indurre i lettori a comportamenti
morali sull'esempio dei vizi puniti e delle virtù premiate. Dante ovviamente non rinuncia ai suoi
diritti di "narratore", mantiene la sua identità di poeta-personaggio per tutto il racconto e, in quanto
tale, esprime giudizi personali sulle cose e i personaggi visti, talvolta si scontra persino con alcune
figure di dannati con cui è coinvolto a livello personale (è il caso di Filippo Argenti e di Bocca degli
Abati, rispettivamente in Inf., VIII, XXXII), tuttavia è anche fedele testimone delle cose che gli
sono mostrate per volontà divina e in questo mantiene una certa neutralità, talvolta asserendo la
veridicità di quanto ha visto con solenni formule di giuramento (cfr. ad es. Inf., XVI, quando giura
di aver realmente visto il mostro Gerione "per le note / di questa comedìa") o affermando con
orgogliosa auto-coscienza l'assoluta novità dell'argomento trattato, specie nell'affrontare la
descrizione mai tentata prima del Paradiso (cfr. specialmente Par., II, quando dichiara che l' "acqua"
metaforica del terzo regno e che lui solca con la "nave" dell'ingegno poetico "già mai non si corse").
In questo atteggiamento rientra anche l'uso frequente di passi profetici, in cui vari personaggi
autorevoli che Dante incontra e di cui lui riferisce la parole predicono eventi futuri che riguardano
variamente l'ordine morale o la politica e preannunciano un prossimo e imprecisato rinnovamento
ad opera di qualche personaggio enigmatico: sono le profezie più oscure del poema, a cominciare da
quella del "veltro" (cane da caccia) attribuita a Virgilio in Inf., I che profetizza la venuta di un
personaggio destinato a cacciare la lupa, ovvero l'avarizia, dal mondo (variamente interpretato
come Cangrande della Scala, un papa, un politico...), oppure quella del non meno misterioso
"DXV" fatta da Beatrice in Purg., XXXIII, secondo cui tale personaggio ucciderà la meretrice che
simboleggia la curia papale corrotta e anch'esso identificato con Cangrande della Scala ed altri
personaggi del tempo. Il carattere vago e indeterminato di queste profezie è dovuto al fatto che esse
auspicavano un qualche rivolgimento politico-morale in grado di ristabilire la giustizia nel mondo,
calpestata secondo Dante da politici e uomini di Chiesa corrotti, anche se certamente il
rinnovamento doveva venire dall'affermarsi del potere imperiale identificato prima con Arrigo
VII di Lussemburgo e poi col vicario imperiale Cangrande, del quale l'avo Cacciaguida in Par.,
XVII preconizza grandi imprese anche se ordina a Dante di non riferire tutte le sue parole (la
profezia, anche se riferita stavolta a un personaggio concreto, non è meno vaga delle precedenti). A
queste previsioni il poeta ne affianca altre che vengono definite post eventum, riferite cioè ad
avvenimenti posteriori al 1300 (anno dell'immaginaria visione) ma precedenti al periodo di
composizione dell'opera, riguardanti per lo più l'esilio di Dante e la vittoria dei Neri a Firenze, ma
anche ad es. la futura dannazione di alcuni papi, come Bonifacio VIII e Clemente V (che Niccolò III
dice di aspettare dopo di lui tra i simoniaci in Inf., XIX e il cui destino verrà ribadito da Beatrice
in Par., XXX), anche se il papa francese, essendo morto solo nel 1314, poteva forse essere ancora
vivo quando Dante scrisse di lui nel passo infernale o forse il poeta corresse i suoi versi in un
secondo momento. Il tono profetico è in linea con lo stile sentenzioso e morale delle "visioni" ed
aggiunge una certa solennità all'esempio morale fornito dai vari personaggi che Dante incontra nel
viaggio, inoltre è evidente che il poeta nutre un'assoluta e incrollabile fiducia in un prossimo evento
capace di estirpare dal mondo l'ingiustizia che lui stesso denuncia nel suo poema, assumendosi un
rischio che conferisce maggior valore al linguaggio quasi "sacrale" che lui adopera nell'indicare ai
lettori la giusta strada da compiere.

Il rapporto con la cultura classica


I riferimenti al mondo classico e alla cultura latina sono largamente presenti nell'opera, anche se la
visione che Dante ha di tale tradizione è ancora profondamente legata al Medioevo e parte dal
presupposto che gli autori antichi avessero intravisto alcune verità del Cristianesimo esprimendole
in forma velata nelle loro opere, dunque il compito degli scrittori moderni era quello di interpretare
i significati "latenti" dei loro scritti e spiegarli in modo chiaro ai lettori perché potessero trarne
insegnamento morale. Questa "cristianizzazione" dei testi classici è un atteggiamento ampiamente
diffuso nella cultura del Due-Trecento e spiega, ad es., perché la filosofia di Aristotele era stata
integrata nel pensiero cristiano da S. Tommaso d'Aquino, ma anche perché autori
come Virgilio e Ovidio erano stati sottoposti a una profonda esegesi da parte degli autori medievali,
alla ricerca di significati "cristiani" nelle loro opere (le Metamorfosi di Ovidio, in particolare, erano
un repertorio ricchissimo di miti che venivano piegati a una lettura cristiana, quasi sempre del tutto
forzata, e lo stesso vale ovviamente per l'Eneide di Virgilio). Dante si allinea perfettamente a questa
tradizione e infatti disegna un Oltretomba cristiano modellato sul sistema aristotelico-tolemaico
messo a punto nel Duecento, in cui tra l'altro l'Inferno contiene numerosi elementi dell'Ade pagano
(i fiumi infernali, varie figure demoniache...), inoltre sceglie come guida per i due terzi del viaggio
proprio quel Virgilio che la cultura medievale interpretava come saggio del mondo antico e anche
come "mago e profeta" del Cristianesimo, soprattutto per l'errata lettura dell'Egloga IV in cui
il puer di cui si annunciava la nascita sembrava un riferimento a Cristo (e invece il poemetto era
dedicato al figlio nascituro di Asinio Pollione, illustre protettore del poeta latino). Lo stesso
principio spinge Dante a includere nella rappresentazione dell'Inferno tutta una serie di personaggi
della mitologia pagana che, in quanto mostruosi o legati alla sfera dell'Oltretomba, vengono
"demonizzati" e assimilati alle altre figure diaboliche di origine cristiana (è il caso
di Caronte, Minosse, Cerbero, il Minotauro e molti altri, sottoposti non di rado a una radicale
trasformazione la cui origine non è sempre chiara), mentre le divinità dell'Olimpo possono essere
invocate come raffigurazione del Dio cristiano, come accade con Giove ("sommo Giove" è definito
Dio in Purg., VI) e con Apollo (la cui ispirazione poetica è invocata in Par., I, come figura
dell'ispirazione divina). Clamoroso è poi il caso di Catone l'Uticense, il personaggio pagano che
morì suicida a Utica dopo la sconfitta subìta ad opera di Cesare e che a dispetto di tutto ciò non solo
è considerato salvo da Dante, ma addirittura posto a custodia del Purgatorio (Dante si accoda alla
tradizione medievale che interpretava Catone come esempio morale e di lotta per la libertà), così
come quello del poeta latino Stazio, l'autore pagano della Tebaide che Dante trasforma in poeta
cristiano attingendo forse a una leggenda a noi ignota e che addirittura include tra le anime salve del
Purgatorio, attribuendo la sua presunta conversione all'influenza dell'opera di Virgilio che Stazio
considera come un maestro. Questo aspetto è ovviamente quello che forse allontana maggiormente
Dante dalla visione moderna poi affermatasi con l'Umanesimo e già anticipata da un poeta del
Trecento quale Petrarca, il quale proporrà una lettura dei testi classici di tipo "scientifico" e basata
sulla corretta interpretazione del loro significato, accompagnata oltretutto da una maggiore
padronanza del latino classico come strumento linguistico (è noto che Dante ne avesse una
conoscenza imperfetta e ciò è fonte non di rado di letture errate di alcuni passi antichi, che in
qualche caso portano a clamorosi fraintendimenti). Dante è autore del Medioevo e in nessun caso si
può considerare uno scrittore pre-umanista, per cui la modernità dell'opera dantesca risiede in altri
elementi quali la denuncia dei mali e delle ingiustizie oppure la testimonianza morale, non certo nel
rapporto col mondo antico che, come si è detto, propone una distorsione dei significati originali che
è incompatibile con l'atteggiamento critico e razionalista della letteratura moderna.

Simmetrie nella struttura dell'opera

Dante è autore del Medioevo e condivide con la sua epoca il gusto per le simmetrie e le
corrispondenze numeriche tipiche delle grandi costruzioni architettoniche, per cui non sorprende
che ad esempio il numero tre (corrispondente alla Trinità e perciò considerato perfetto) costituisca
l'ossatura di tutto il poema: le Cantiche sono tre, ciascuna comprende 33 canti (più il canto I
dell'Inferno che fa da proemio all'intera opera, per un totale di 100) e ogni canto è diviso in terzine a
rima concatenata, per cui si può parlare di un "ritmo ternario" che caratterizza tutta la Commedia (in
questo senso l'opera rappresenta un caso unico nella letteratura italiana). Naturalmente sono presenti
altri riferimenti a numeri simbolici della liturgia cristiana, come il sette (numero delle cornici del
Purgatorio e dei cieli del Paradiso corrispondenti ai pianeti), il dieci (le zone dell'Inferno incluso il
Vestibolo, le bolge dell'ottavo cerchio, il numero complessivo dei cieli) e anche il nove (i cerchi
infernali, le zone del Purgatorio incluso l'Antipurgatorio e l'Eden, i cieli del Paradiso governati dalle
gerarchie angeliche). Inoltre il sesto canto di ogni Cantica è di argomento politico, secondo una
gradazione crescente (Firenze nell'Inferno, l'Italia nel Purgatorio, l'Impero nel Paradiso), mentre
ciascuna cantica termina con la parola "stelle", con evidente riferimento alla meta finale del viaggio,
ovvero l'Empireo. Alcuni commentatori hanno individuato simmetrie ancor più complesse
nell'architettura del poema, anche se in questa sede conviene limitarsi a quelle più evidenti e
riconducibili alla volontà del poeta (è fin troppo facile, del resto, individuare presunte
corrispondenze in un'opera così vasta, non essendoci spesso riscontri oggettivi).
Il numero dei versi di ogni canto è variabile, per quanto nessuno è inferiore a 115 e nessuno
superiore a 160, per un totale di 14.233 endecasillabi che fanno del poema una delle opere
mediamente lunghe della nostra letteratura (ma nettamente inferiore per mole ai poemi del
Cinquecento e Seicento, come Orlando furioso e Adone). Altre simmetrie sono ravvisabili nella
struttura interna delle Cantiche, per cui ad es. l'Inferno descrive la parte "alta" della voragine nei
primi 17 canti e il "basso Inferno" nei restanti 17, mentre le tre notti trascorse da Dante nel
Purgatorio corrispondono ai canti IX, XVIII e XXVII della seconda Cantica (non casualmente, il
nove e due suoi multipli). Analogamente, il canto centrale del Paradiso (XVII) è dedicato alla
conclusione dell'episodio dell'incontro con l'avo Cacciaguida, che imita quello di Enea e Anchise
nell'Eneide e contiene l'enunciazione della "missione poetica" di Dante, mentre la descrizione della
"candida rosa" dell'Empireo e della visione di Dio occupa i canti XXXI-XXXIII, ovvero gli ultimi
tre della Cantica e del poema.
Altre corrispondenze non legate ai numeri riguardano la disposizione di personaggi ed episodi, per
cui ad es. Francesca è il primo dannato con cui Dante parla (Inf., V) e Arnaut Daniel l'ultimo
penitente incontrato (Purg., XXVI), entrambi lussuriosi e coinvolti in un discorso intorno alla
letteratura amorosa; in Inf., XXVII Dante incontra Guido da Montefeltro, la cui dannazione può
essere sorprendente essendo lui francescano, mentre in Purg., V incontra il figlio Bonconte, al
contrario del padre salvo contro ogni aspettativa (un'ulteriore analogia sta nel "contrasto" tra il
diavolo e S. Francesco per l'anima di Guido, vinto dal diavolo, e quello tra il diavolo e l'angelo per
Bonconte, vinto dall'angelo). In Purg., XII le iniziali di una serie di terzine che descrivono gli
esempi di superbia punita formano l'acrostico VOM ("uomo"), anch'esso rientrante nel gusto tutto
medievale per i giochi verbali, mentre il canto XIX delle prime due Cantiche presenta un'analogia
tematica, in quanto nell'Inferno si parla dei papi simoniaci e dannati, nel Purgatorio il protagonista
è il papa avaro, ma pentito e salvo, Adriano V (e in Par., XIX si parlerà nuovamente di salvezza e
dei principi cristiani corrotti, quasi a chiudere idealmente il cerchio della polemica).
Da ricordare, infine, che il numero 100 dei canti complessivi verrà imitato da Boccaccio nelle 100
novelle del Decameron, che però sarà un'opera totalmente diversa per concezione e lontanissima
dalle caratteristiche "medievali" della Commedia.
6. GIOVANNI BOCCACCIO

1. La vita
Nacque nel 1313 (quando Petrarca ha 9 anni e Dante 48 e la sede del papato era Avignone), da una
relazione extraconiugale tra il ricco mercante Boccaccino di Chelino e una donna di cui nulla
sappiamo: il luogo di nascita fu probabilmente Firenze o Certaldo, il borgo della Val d'Elsa di cui la
famiglia del padre era originaria. Boccaccio costruì sulla propria nascita e poi sulla propria giovinezza
molte invenzioni letterarie da cui hanno tratto spunto varie fantasiose ipotesi biografiche: prima fra
tutte quella di una nascita a Parigi da una nobildonna francese, o addirittura da una figlia del re di
Francia. Certo è soltanto che il piccolo «illegittimo» venne sottratto molto presto alla madre e fu
accolto nella casa paterna e «legittimato», anche prima che il padre si sposasse (prima del 1320) con
Margherita de' Mardoli. Il ricco mercante intendeva avviare il figlio alla propria stessa professione e
gli fece impartire la prima educazione nell'ambiente mercantile fiorentino; nel 1327 si trasferì a
Napoli, come rappresentante della potente impresa bancaria dei Bardi, principale sostegno finanziario
della corte angioina. Giovanni lo seguì, rimanendo a Napoli negli anni decisivi della sua formazione
umana e letteraria, fino all'inverno dei 1340-1341. Nei primi anni di questo soggiorno napoletano il
giovane seguì, secondo la volontà del padre, l'apprendistato bancario presso i Bardi; ma fu presto
attratto dalla vita elegante della corte angioina, nella quale i fiorentini avevano del resto un peso
particolare. Il giovane Boccaccio partecipò alla vita «cortese» della nobiltà napoletana, alla «dolce
vita» delle brigate giovanili, tra conversazioni mondane e ameni soggiorni nei luoghi di vacanza del
golfo di Napoli, tra amori frivoli o appassionati (le donne avevano un ruolo notevole in tale contesto).
Nello stesso tempo, egli prestò grande interesse alle esperienze culturali che gravitavano intorno alla
corte di Roberto d'Angiò: anzitutto subì il fascino della letteratura cortese e romanzesca di Francia,
che lì aveva una diffusione notevole; e la sua passione per la cultura latina, per l'erudizione storica,
mitologica, letteraria, ricevette un forte stimolo dalla frequentazione della grande biblioteca reale
napoletana.
In questo scenario sociale e culturale, fruendo della florida situazione economica del padre Boccaccio
iniziò una intensa attività letteraria, sia in latino sia in volgare, ma si concentrò soprattutto su scritti
in volgare destinati all’ambiente cortese, nei quali elaborò una serie di miti intorno alla propria
persona; miti biografici che prendono spunto da situazioni reali, ma le travestono secondo modelli
letterari: tra questi miti c’è quello del grande e infelice amore fiorito tra lui e una Fiammetta, dietro
al cui nome simbolico egli suggerì addirittura di vedere una Maria d'Aquino, presunta figlia illegittima
dello stesso re Roberto d'Angiò. Ma probabilmente la difficoltà di trovare alla corte di Napoli una
sicura sistemazione personale lo costrinsero ad abbandonare la città, che per lui resterà sempre
immagine di una felice giovinezza, e a rientrare nell'inverno 1340-41 a Firenze, in casa del padre
(che, morta la prima moglie, aveva sposato una Bice de' Bostichi). La situazione a Firenze era allora
difficile e confusa: al breve governo tirannico del duca d'Atene (1342-43) seguivano gravi conflitti e
una prima crisi della potenza finanziaria fiorentina (nel '45 fallì il banco dei Bardi). Ancora privo di
autonomia economica, Boccaccio si dedicò a una nuova e intensa produzione letteraria, ritrovando il
contatto più vivo con la tradizione fiorentina a cui sempre era rimasto legato (dal culto per Dante alla
curiosità per la lirica stilnovistica, per la letteratura comica e per la produzione narrativa di tipo
popolare); nello stesso tempo manteneva un'appassionata nostalgia per i modelli cortesi napoletani e
approfondiva la sua conoscenza della letteratura latina antica. Sperava in un ritorno a Napoli, ma
questa speranza ricevette un duro colpo dalle notizie sulle violenze che imperversavano nel Regno
dopo la morte del re Roberto (1343). Lasciò varie volte Firenze, in cerca di qualche sistemazione: fu
a Ravenna nel '46, alla corte di Ostagio da Polenta, e a Forlì tra il '47 e il '48, presso quella di Francesco
Ordelaffi. Si trovava a Firenze durante la peste nera del '48, che causò la morte del padre e della
matrigna (egli ebbe allora in eredità il patrimonio familiare). Subito dopo la peste, scrisse il
Decameron (terminato nel 1351), mentre la sua fama di letterato e la sua posizione sociale
cominciavano a procurargli vari riconoscimenti dal Comune di Firenze. Già nel '50 fu inviato a
Ravenna per consegnare alla figlia di Dante, la suora Beatrice, un'offerta di dieci fiorini d'oro, come
tardo riconoscimento dei fiorentini al grande poeta morto in esilio. Nel decennio che seguì ricoprì
vari incarichi ufficiali: tra il dicembre '51 e il gennaio '52 fu inviato nel Tirolo, presso Ludovico di
Baviera, per prendere accordi contro i Visconti di Milano; nel '53, sempre in funzione antiviscontea,
venne inviato a Forlì e a Ravenna; nel '54 ad Avignone, per presentare al papa Innocenzo VI il punto
di vista di Firenze sulla discesa in Italia dell'imperatore Carlo IV. In quegli anni Cinquanta egli era
ormai la guida della cultura fiorentina, a cui, impresse un nuovo indirizzo, di carattere umanistico,
promuovendo varie iniziative culturali. Per tutto ciò fu determinante il suo rapporto con Petrarca, nel
quale egli vedeva da tempo il proprio magister: già a Napoli aveva avuto notizia della sua poesia e
della sua cultura, grazie agli studiosi e amici del Petrarca là presenti, nel 1339 gli aveva rivolto
un'epistola latina (Mavortis miles extremus, Estremo soldato di Marte) e tra il '41 e il 42 aveva scritto
una sua breve biografia, (De vita et moribus domini Francischi Petracchi, Vita e costumi del signor
Francesco Petrarca); ma solo dopo il primo incontro personale avvenuto a Firenze nel 1350 - durante
la sosta del Petrarca che si recava a Roma per il giubileo - iniziò tra i due un rapporto vivacissimo e
affettuoso, durato per tutto il resto della loro esistenza. Nel '51 Boccaccio, su incarico della città di
Firenze, raggiunse Petrarca a Padova per invitarlo a ricoprire una cattedra nello Studio appena
fondato; e, nonostante il disappunto per il rifiuto e per la successiva scelta dell'amico di accettare
l'ospitalità dei Visconti, nemici giurati di Firenze, egli continuò a intrattenere con lui rapporti molto
stretti (con scambi di codici, di scritti vari, di informazioni erudite). Petrarca e Boccaccio avevano
amici comuni a Napoli, e a Napoli Boccaccio si recò nel 1355, con la speranza, presto sfumata, di
avere il posto di segretario regio; in questo viaggio sostò nel monastero di Montecassino e nella sua
ricca biblioteca poté conoscere importanti testi latini. Nel marzo '59 visitò il Petrarca a Milano,
consultando con entusiasmo la sua biblioteca e passando con lui intense giornate di lettura e di
conversazione intellettuale. Poco più tardi, proprio grazie all'interessamento dell'amico, fece
assumere il calabrese Leonzio Pilato, conoscitore del greco, per l'insegnamento di quella lingua nello
Studio fiorentino (e si trattò di un'iniziativa determinante per lo sviluppo della conoscenza del greco
nella cultura italiana, anche se il Pilato tenne quella cattedra solo per gli anni 1360-62). Da varie
relazioni il Boccaccio ebbe almeno cinque figli illegittimi; e grande dolore provò nel '55 per la morte
della piccola Violante. Ma, come il suo maestro Petrarca, scelse la condizione di chierico. Il fallimento
di una congiura nel dicembre 1360, in cui erano implicati personaggi molto vicini al Boccaccio,
modificò i rapporti politici all'interno del Comune di Firenze e fece cadere in disgrazia lo scrittore.
Tenuto lontano da ogni incarico pubblico, egli visse allora un periodo di crisi e di delusione, nutrendo
inquietudini anche di carattere religioso. Mentre in precedenza egli era stato toccato solo
esteriormente dal travaglio religioso del tempo, ora porse attenzione ai movimenti devozionali che si
diffondevano in Toscana e restò impressionato dall'ammonizione che nel 1362 un religioso toscano,
il beato Pietro Petroni, rivolse a lui e al Petrarca, rimproverati per il loro impegno in un'attività
mondana come la letteratura. A partire dal luglio 1361, Boccaccio si ritirò a Certaldo, dove condusse
una appartata vita di studio e di meditazione e scrisse nuove opere latine (tra cui la Genealogia
deorum gentilium, Genealogia degli dèi pagani) e volgari (il Corbaccio). Continuò però a recarsi a
Firenze con una certa frequenza. Compì anche più lunghi viaggi a Ravenna e a Napoli; nella città
della sua giovinezza era stato invitato da una sua vecchia conoscenza, Niccola Acciaiuoli, vero
padrone del Regno, che gli aveva promesso un posto di prestigio a corte; ma la parola non venne
mantenuta e Boccaccio espresse la sua delusione in una lettera a Francesco Nelli, che dipinge in modo
grottesco la volgarità di quel potente personaggio. A questa amara esperienza lo scrittore trovò
conforto visitando il Petrarca a Venezia, nella primavera del '63. In seguito a una nuova fase di
distensione politica, che si aprì a Firenze nel '65. Boccaccio ebbe nuovi incarichi pubblici, come la
sorveglianza delle truppe mercenarie. Molto importante la sua ambasceria ad Avignone nell'agosto-
novembre '65, che offriva a Urbano V l'appoggio di Firenze per il ritorno della sede papale a Roma.
Con il suo prestigio culturale, e con la scrittura di varie epistole, egli offrì un sostegno non trascurabile
alla politica estera del governo fiorentino, rivolta soprattutto contro l'Impero e contro i Visconti; e fu
punto di riferimento determinante per le nuove generazioni della sua città. Nonostante gli acciacchi
della vecchiaia e il fastidio di una vera e propria obesità, egli non si limitò a soggiornare a Firenze e
a Certaldo, ma compì ancora numerosi viaggi: tra l'estate e l'autunno del '68 fu a Padova, ospite per
l'ultima volta del grande amico Petrarca, con il quale si impegnava in intensissime discussioni (e fino
alla sua morte continuò con lui un ricco scambio epistolare); tra l'autunno del '70 e la primavera del
'71 si recò a Napoli. Nel 1373 venne chiamato dal Comune fiorentino a svolgere nella chiesa di Santo
Stefano di Badia una lettura pubblica, con commento, della Commedia di Dante (iniziando un uso
che a Firenze ebbe seguito molto più tardi): l'incarico doveva durare un anno e prevedeva un
compenso di cento fiorini. Boccaccio iniziò questa lettura il 23 ottobre 1373, continuandola per alcuni
mesi. Morì a Certaldo il 21 dicembre 1375.

2. I caratteri della cultura del Boccaccio


Boccaccio amò quasi sempre vivere esperienze multiformi e mescolare prospettive culturali
molteplici. Egli era animato da un vero entusiasmo per la comunicazione letteraria in quanto tale, per
il mondo dell'invenzione e della fantasia, per i repertori di immagini, di personaggi, di linguaggi
antichi e recenti; e insieme voleva che la letteratura si ripercuotesse nel contesto sociale, agisse su
ascoltatori e ascoltatrici che egli sapeva identificare nel suo stesso mondo quotidiano e che dalla
lettura dovevano comunque ricavare qualcosa di piacevole e di gratificante. Boccaccio si confrontò
quindi con le forme più vivaci della cultura del tempo, cercando di riassumere nelle proprie invenzioni
il meglio di ciò che aveva prodotto la nuova letteratura romanza e insieme guardando alla tradizione
latina medievale e al mondo classico, tanto da preparare la strada, insieme a Petrarca, al nuovo
atteggiamento umanistico. La condizione di fiorentino trapiantato a Napoli rende particolarmente
vari, nella giovinezza, gli interessi di Boccaccio. Da una parte, infatti, egli nutre la tipica curiosità
dell'ambiente mercantile per la letteratura narrativa e divulgativa anche nelle sue forme più popolari,
come quella appena nata del cantare e per le recenti esperienze poetiche toscane, prima fra tutte quella
di Dante, autore da lui venerato. Dall’altra, egli è attento alla cultura cortese e romanzesca, che nella
corte angioina si lega a un raffinato esercizio della passione d'«amore». Ma nello stesso contesto
napoletano ha un peso notevole anche la letteratura classica; si continuano a frequentare autori cari
alla cultura medievale (primo tra tutti Ovidio, maestro di letteratura amorosa, e poi Virgilio, Stazio,
Lucano) e insieme si cerca un rapporto con l'antico già in una prospettiva «umanistica» (in tale
direzione si orientavano i vari amici napoletani del Petrarca). Boccaccio aderisce in modi diversi a
queste prospettive, che arricchisce e approfondisce nel corso degli anni, elaborando una serie di opere
che si legano volta per volta a particolari esigenze di comunicazione, alla volontà di provare codici e
forme diverse: un metodo, molto diverso da quello del Petrarca. Soltanto i componimenti lirici, le
Rime, percorrono tutto l'arco dell'esistenza di Boccaccio: esse mostrano la disponibilità dell'autore a
praticare linguaggi e modelli differenti. Si sentono tracce dello Stilnovo, più rarefatto, del Dante più
maturo e severo, delle più recenti liriche del Petrarca, delle forme più aperte e disordinate della lirica
toscana trecentesca. Le Rime del Boccaccio non si organizzano in un vero «canzoniere» e non
raggiungono mai risultati eccezionali; ma alcune di esse sono ricche di grazia musicale e di leggera
sensualità, delineando figure femminili secondo sottili schemi figurativi di tipo cortese o
misuratamente popolaresco. Pronto a recepire e a rielaborare temi e moduli della letteratura romanza,
Boccaccio costruisce, in momenti determinati della sua esistenza, numerose opere che fanno da
fondamento a generi e a schemi destinati a durare per secoli: dal romanzo d'avventura (Filocolo) al
romanzo cavalleresco (Filostrato, Teseida), al genere arcadico-pastorale (Commedia delle ninfe
fiorentine), al poemetto idillico (Ninfale fiesolano), al romanzo-confessione sentimentale (Elegia di
Madonna Fiammetta), alla novella moderna (Decameron). Nel riprendere motivi e suggestioni della
cultura europea dei secoli XII e XIII, Boccaccio li traduce in un orizzonte più mondano, più laico,
privilegiando la comunicatività (per cui è essenziale la scelta del volgare) e cercando nuove forme di
rappresentazione della realtà. Queste opere presentano numerosi elementi autobiografici, ma trasferiti
e oggettivati in una dimensione narrativa, in un gioco di allusioni, di invenzioni, di enigmi o di vere
e proprie mistificazioni: la scrittura di Boccaccio si rivolge sempre all'esterno, ama i movimenti
romanzeschi e narrativi, la descrizione immaginosa, l'affabulazione; non si arresta mai a definire,
come invece fa quella di Petrarca, l'io dell'autore e i suoi sottili risvolti. In tutta la ricca produzione
volgare di Boccaccio si mescolano un atteggiamento cortese (che ha il suo punto di riferimento nella
corte angioina) e un atteggiamento comunale e municipale (che si rapporta alla vita di Firenze); ma
muovendo da tali premesse lo scrittore sa poi allargare lo sguardo all'intero mondo civile
contemporaneo. Oltre che nei suoi scritti, Boccaccio manifesta la sua apertura anche nell'attività di
organizzatore e suscitatore di cultura: a Firenze egli opera come un vero mediatore di modelli letterari,
dando impulso, con una vera e propria officina editoriale, a un notevole lavoro di trascrizione e
diffusione di manoscritti, che va dalle opere della tradizione romanza e popolare a Dante, a Petrarca,
ai classici che più interessano nella nuova prospettiva umanistica. E anche nella sua attività di
umanista egli ha ben chiaro che il pubblico della letteratura non si limita al mondo degli studiosi, ma
coincide con quanti sono dotati di coscienza civile e di capacità di sentire; e resta sempre ben convinto
della preminenza del volgare come lingua della moderna letteratura. Il suo atteggiamento umanistico
è insomma assai diverso da quello del grande amico e maestro: ha qualcosa di più cordiale e non pone
mai in vera e propria antitesi lo studio dell'antichità e il mondo contemporaneo. Boccaccio aspira
piuttosto a integrare la nuova cultura entro l'orizzonte comunale, legando lo studio dei classici
all'espressione della coscienza «municipale» della sua città: in questo modo egli si configura come
punto di riferimento essenziale per lo sviluppo dell'Umanesimo fiorentino.

3. Le opere del periodo napoletano

Nella giovinezza napoletana Boccaccio compose anche brevi scritti in latino, che si rifanno a motivi
amorosi e mitologici della letteratura classica (la cosiddetta Elegia di Costanza e la cosiddetta
Allegoria mitologica). Gli scritti più impegnativi si rivolgono tutti al pubblico cortese, un pubblico in
cui acquistano un grande rilievo le donne, tra le quali c'è sempre una donna amata dallo scrittore.
Ogni opera, all'interno di quel pubblico, si giustifica in nome della vicenda amorosa dell'autore, vuol
essere come uno specchio del suo rapporto con la donna scelta tra le altre donne «gentili». Se si
tralasciano le varie Rime, scritte già in quegli anni, il primo di tali testi è la Caccia di Diana, poemetto
in terza rima di diciotto canti, precedente al 1334, che riprende due schemi allora molto diffusi, quello
dell'elogio-rassegna delle belle della città e quello della descrizione della caccia. Come seguaci di
Diana, dea della caccia e della castità, le belle della società-bene napoletana si presentano una dopo
l'altra, nell'atto di uccidere ciascuna un animale. Dovrebbero poi consacrare le loro prede alla dea, ma
improvvisamente si ribellano alla sua autorità e invocano quella di Venere: allora tutti gli animali
uccisi riacquistano vita, trasformandosi in altrettanti uomini-amanti (tra essi il poeta, che, grazie alla
gentilezza e alla bellezza dell'amata, da cervo diventa uomo pieno di virtù). Boccaccio intreccia qui
vari elementi letterari (essenziali quelli di matrice dantesca) e crea un leggero gioco mondano,
comunicandoci il suo piacere di nominare una per una, osservare e descrivere, figure femminili dai
movimenti preziosi e stilizzati. Opera di fortuna europea è il Filocolo, ampio romanzo in prosa in
cinque libri, il frutto più rigoglioso dell'esperienza giovanile di Boccaccio, concluso probabilmente
nel 1336 (il titolo, con approssimativa formazione greca, vuol significare "fatica d'amore”). Esso si
presenta come risposta a una richiesta della donna amata, Fiammetta (indicata, attraverso una tortuosa
narrazione, come figlia di re Roberto): udendo parlare, nei «ragionamenti» di una brigata napoletana,
delle vicende di Florio e Biancifiore, Fiammetta avrebbe infatti invitato l'autore a «comporre un
picciolo libretto» in proposito. La storia dei due giovani amanti aveva avuto grande successo nella
tradizione romanza. Su questa materia Boccaccio opera un’eccezionale amplificazione narrativa,
tematica, stilistica, concentrando nella scrittura le sue varie curiosità culturali: al nucleo narrativo
originario, di estrema semplicità, sovrappone lo schema del romanzo greco-alessandrino (che aveva
avuto fortunate riprese nella letteratura medievale) e quindi moltiplica gli antefatti, le peripezie,
viaggi, i pericoli, le disgressioni. Biancifiore nasce da Giulia, nobildonna romana, dopo che tutti i
suoi familiari, in pellegrinaggio verso Santiago de Compostela, sono stati massacrati dai Saraceni del
re di Spagna Felice; lo stesso giorno nasce Florio, figlio del re; i due giovani crescono insieme, educati
secondo una cultura cortese e con letture della poesia amorosa di Ovidio. Tra loro nasce subito
l'amore, ostacolato però dai genitori di Florio. Per liberarsi di Biancifiore, il re la vende ad alcuni
mercanti che la portano in Oriente; là la giovane finisce in mano al potente ammiraglio di Alessandria,
che la tiene prigioniera in una torre insieme ad altre donne bellissime. Sotto il nome di Filocolo, Florio
inizia una tenace ricerca; e tra l'altro sosta a lungo a Napoli, dove frequenta le brigate cortesi e
partecipa al gioco delle «questioni d'amore», diretto da Fiammetta. Ad Alessandria si introduce nella
torre e nella stessa stanza di Biancifiore: scoperto, viene con lei condotto al rogo. Ma i due vengono
liberati dai cavalieri del seguito di Florio e benevolmente perdonati dallo stesso ammiraglio:
intraprendono quindi il viaggio di ritorno, visitando Napoli, Certaldo, Roma (dove Biancifiore ritrova
le sue origini familiari e Florio si fa cristiano); il loro arrivo in Spagna dà luogo a una conversione
generale al Cristianesimo e al definitivo trionfo dell'amore dei due giovani. La narrazione è piena di
descrizioni, discorsi, monologhi sentimentali, divagazioni dotte. In realtà i personaggi e la loro
vicenda si reggono qui proprio sull'incastro prezioso di «parlate» interminabili (per esempio di
numerosi «lamenti d'amore»), sulla ripresa e la variazione di dati eruditi, mitologici, romanzeschi di
origine classica e medievale, latina e volgare: è un perfetto esempio di narrazione tardogotica fitta di
emblemi, apparizioni simboliche, disegni manierati, richiami a distanza, storie interne alla storia, e
nella quale si alternano momenti tragici, eroici, comici, elegiaci. Sotto i segni più stilizzati si
nascondono talvolta allusioni autobiografiche: il romanzo, infatti, vuol essere anche uno specchio
indiretto e moltiplicato della vita cortese napoletana, offrendoci una idealizzazione delle passioni, dei
desideri, dei comportamenti di quella società vagheggiata dall'autore. E su tutto il materiale messo in
gioco Boccaccio impone il suo piacere, quasi sensuale, di raccontare; l'effetto romanzesco è
accresciuta dai numerosi anacronismi e dalle disinvolte confusioni storiche e geografiche (comunque
tipiche della tradizione medievale). Nel suo eccesso e nella sua esuberanza, il Filocolo costituisce una
sorta di punto di partenza della narrativa moderna; e il suo influsso si farà sentire soprattutto fuori
d'Italia. Di incerta datazione è il Filostrato, poemetto in ottave diviso in nove parti, ritenuto da alcuni
studiosi anteriore al Filocolo, da altri spostato verso la fine del periodo napoletano. In esso il
Boccaccio si confronta direttamente con la recente tradizione dei cantari: insieme al Teseida e al
Ninfale fiesolano quest'opera fissa un modello di uso narrativo dell'ottava, essenziale per tutta la
letteratura italiana fino al Seicento. Il tema del poemetto è ricavato dai romanzi del ciclo troiano, ma
si limita a un unico episodio, quello dell'amore del giovane Troiolo, figlio di Priamo, per la bella
vedova greca Criseida, prigioniera a Troia: questo amore ha fine quando Criseida, in seguito a uno
scambio di prigionieri, torna al campo greco e dimentica l'amante; avuta prova del tradimento della
donna, Troiolo si lascia uccidere da Achille. Il titolo Filostrato, nel solito greco approssimativo del
Boccaccio, significa "vinto d'amore”; ed è il nome stesso che assume l'autore nel dedicare l'opera alla
donna lontana (chiamata col nome di Filomena). Tutte le componenti storiche, belliche, eroiche del
ciclo troiano vengono qui messe da parte, per dar rilievo soltanto alla vicenda amorosa. Molti sono i
particolari comici e realistici: Troiolo assomiglia a uno sfaccendato giovane cittadino desideroso di
ottenere le grazie di una donna sensuale e proterva, che poi lo dimentica senza farsi troppi scrupoli.
Sullo sfondo della guerra di Troia si muovono immagini di erotismo quotidiano, e nella figura di
Troiolo si fondono in maniera suggestiva il trasporto dei sensi e una ostinata intensità sentimentale.
Il linguaggio è spedito, semplice, colloquiale, ben diverso da quello sovraccarico del Filocolo.
L'orizzonte eroico, cortese e cavalleresco ha un ruolo fondamentale nel Teseida delle nozze d'Emilia,
poema in ottave in dodici libri dedicato a Fiammetta, scritto fra il '39 e il '40 e forse sistemato più
tardi. La narrazione attinge alle vicende del ciclo tebano: inizia con la guerra dell'eroe ateniese Teseo
contro le Amazzoni, a cui segue una guerra contro Tebe. Da Tebe vengono portati prigionieri ad Atene
Arcita e Palemone, legati da forte amicizia, che si innamorano entrambi della bellissima Emilia, ex
amazzone e cognata di Teseo. Dopo varie vicende, Teseo concede ai due prigionieri di disputarsi
l'amore di Emilia in un grande torneo, in cui ciascuno dei due è spalleggiato da schiere di eroi venuti
da tutta la Grecia. La vittoria tocca ad Arcita, che celebra le nozze ma è in fin di vita per le ferite
riportate nel torneo: con suprema generosità, egli affida allora la donna amata al rivale Palemone. Il
poema si conclude con i funerali di Arcita e con le nuove nozze tra Emilia e Palemone. Il motivo delle
«armi» si intreccia a quello dell'amore, affermato in tutta la sua pienezza sentimentale. Elementi
drammatici, spunti comici e preziosi ricami descrittivi variano e colorano un universo fatto di gesti
eccessivi, di prove di magnificenza, di splendore, di cortesia (e cortesia estrema è il gesto di Arcita,
che lascia la donna al rivale). Il mondo del mito classico si presenta come una proiezione, resa più
seducente dalla distanza del mondo cortese e cavalleresco; e la narrazione dà ampio risalto ai riti di
questo universo: dal torneo, con lo splendido catalogo degli eroi che vi prendono parte, alle cerimonie
funebri e nuziali. Il poema offre una nitida e a suo modo appassionata immagine dell'universo
narrativo cortese e ci comunica tutto l'entusiasmo di Boccaccio per le armi e gli amori, lo sfarzo e la
magnanimità. L'opera ebbe una eccezionale diffusione, come attestano i numerosissimi manoscritti,
e tra l'altro fu ripresa dall'inglese Chaucer in uno dei suoi Canterbury Tales.
4. Le opere del periodo fiorentino

Il ritorno a Firenze (inverno 1340-41) induce Boccaccio a tentare una letteratura capace
di legare l'orizzonte cortese, in cui egli si è mosso negli anni precedenti, all'ambiente della sua città e
alla sua ricca tradizione, Scritta tra il '41 e il 42, la Commedia delle ninfe fiorentine costituisce cosi
un omaggio a Firenze e alle donne fiorentine. Il testo alterna prosa e poesia, a un'ampia narrazione e
descrizione in prosa si avvicendano componimenti in terza rima, cantati dai vari personaggi. Tutto è
sotto il segno di Amore, del ben vivere umano maestro e regola», dalle immagini della “fiorentina
bellezza”, l'autore trae conforto in un momento triste della vita (dopo il ritorno in patria, infatti, egli
non riesce a trovare una sistemazione soddisfacente). Gli antichi schemi di rappresentazione del
mondo pastorale si incentravano tradizionalmente sulla descrizione di una natura gradevole, fatta di
paesaggi boscosi ma accogliente e serena, abitata da dignitosi pastori e da ninfe piene di grazia; questi
schemi vengono trasferiti da Boccaccio nelle colline nei pressi di Firenze. Il rozzo pastore Ameto,
che vive tra Arno e Mugnone, si imbatte in una compagnia di bellissime e nobili ninfe, devote a
Venere, e si innamora di quella che appare la loro guida, Lia. Nel giorno della festa di Venere, Lia e
altre sei ninfe, si riuniscono in un luogo piacevole e, sedendo attorno ad Ameto, narrano i loro amori.
Dopo aver ascoltato le sette narrazioni, Ameto riceve un bagno purificatore, in seguito al quale può
scorgere il significato allegorico di quanto ha visto e udito: le donne rappresentano le virtù, e
l'incontro con loro ha trasformato il pastore «d'animale bruto in uomo, che può accedere alla
conoscenza di Dio. All'ambientazione pastorale Boccaccio sovrappone così gli schemi allegorici della
tradizione medievale (con l'occhio rivolto prima di tutto a Dante); ma la novità della Commedia delle
ninfe fiorentine sta nel fatto che sia i moduli pastorali, sia quelli allegorici vengono trasposti in un
orizzonte tutto mondano e cortese, in un contesto raffinato, fitto di allusioni e di suggestioni. La
descrizione delle sette donne è tutta al di qua dell'allegoria che emerge alla fine; l'occhio di Ameto
(con cui l'autore si identifica esplicitamente) insiste infatti sullo splendore fisico di quelle apparizioni
femminili, sull'eleganza delle loro vesti, sullo svelarsi e sul nascondersi dei loro corpi, sul loro fascino
erotico: queste rappresentazioni impongono un nuovo canone della bellezza femminile - nettamente
sensuale - che avrà vari svolgimenti, soprattutto nel Cinquecento. E le narrazioni delle donne si
presentano come novelle artificiose e composite, che ammiccano a vicende reali di donne fiorentine
del tempo, ricamano intorno alla biografia dell'autore stesso (la sesta donna, vestita di verde, che
rappresenta la speranza, non è altri che la solita Fiammetta), offrono omaggi eruditi alle città della
sua vita (Fiammetta narra la mitica origine di Napoli, Lia quella di Firenze), propongono spunti di
forte sensualità e motivi tipici della novella comica, come il rapporto di una delle donne con un
vecchio marito impotente. L'uso dell'allegoria nella Commedia delle ninfe fiorentine è insomma tutto
esteriore e strumentale: al Boccaccio interessano le qualità erotiche e cortesi di quelle figure, gli
schemi novellistici e romanzeschi che a esse si possono applicare. Più stretto rapporto con la
tradizione dell'allegoria medievale presenta l’Amorosa visione, poema in terza rima in cinquanta
canti, composto direttamente sul modello dantesco tra il '42 e il '43. Il poeta intraprende in sogno la
visita a un nobile castello, guidato da una «donna gentile»; nel castello vede affrescati i trionfi di
alcune entità astratte (la Sapienza, la Gloria, l’Avarizia, l’Amore, la Fortuna), seguite e contornate da
una serie di personaggi celebri che nella loro esistenza hanno incarnato quelle astrazioni: ciò offre il
pretesto a lunghe elencazioni erudite, a narrazioni delle vicende che riguardano quei personaggi. Sotto
lo schema del trionfo, che sarà ripreso nell'incompiuto poema del Petrarca e in molte opere letterarie
e figurative del Quattrocento, Boccaccio ci presenta una specie di catalogo-enciclopedia dei
comportamenti umani e delle figure storiche e leggendarie. Uscito dal palazzo, il poeta attraversa un
giardino abbellito da una sontuosa fontana e lì incontra varie nobildonne napoletane e fiorentine, di
cui tesse l'elogio: tra esse Fiammetta, che nel finale dell'opera, ambiguo e pieno di sorprese, egli cerca
di possedere. Molto più monotona delle opere precedenti, l’Amorosa visione propone una coerente
interpretazione «laica» del modello dantesco, poiché piega lo schema del viaggio allegorico e morale
alla ricerca di una figura femminile tutta terrestre e sensuale. L'amore per la tradizione fiorentina si
esprime in modo originale nel Ninfale fiesolano, poemetto in 473 ottave: fu scritto probabilmente tra
il '44 e il '46, poco prima del Decameron. Il poemetto vuole essere prima di tutto un cordiale omaggio
a Firenze: sotto il segno di Amore, si raccontano le origini di Fiesole e di Firenze, fondata dai
discendenti degli sventurati amanti Africo e Mensola all’amore dei quali è dedicata la parte più ampia
e più intensa della narrazione: il giovane pastore si invaghisce della ninfa, che fa parte del corteo di
Diana ed è obbligata alla castità; dopo lunghe pene riesce a possederla con la violenza. Mensola si
innamora anch'essa del giovane, ma, temendo la minaccia di Diana, continua a fuggirlo: Africo
disperato si uccide, e il suo sangue si spande nel fiume che prende il suo nome. Mensola si accorge
intanto di essere incinta e nasconde il suo stato finché dà alla luce un bellissimo bambino; ma Diana
la punisce trasformandola in fiume, mentre il bambino è affidato ai genitori di Africo. A questi schemi
più popolari si sovrappongono fitti motivi di origine classica, attinti alla poesia pastorale e bucolica
e a Ovidio. La rappresentazione, oggettiva e diretta, si tiene lontana dalle sottili allusioni mondane e
cortesi degli altri scritti giovanili: la vita del mondo contadino, semplice e ingenua, animata da
sentimenti elementari, si disegna con assoluta evidenza (e dal Ninfale si svilupperà in seguito tutta
una letteratura “rustica” toscana). Nel paesaggio toscano, proiettato in un passato mitico e originario,
la vita di Africo si concentra tutta in un desiderio intensissimo, estraneo a ogni intervento razionale o
culturale; in Mensola si incarna la più pura immagine della ritrosia, dell'inafferrabilità, della ingenua
paura dell'ignoto. Nel narrare la tragica fine dei due giovani, Boccaccio ci comunica un amaro
sgomento per il distruggersi della giovinezza, per l'improvviso spezzarsi di esistenze che non possono
difendersi dall'azione malefica di forze superiori e soverchianti.

4.1 L’Elegia di Madonna Fiammetta

Quest'opera costituisce la sintesi dei motivi amorosi, cortesi e classicistici della produzione giovanile
di Boccaccio: scritta forse tra il '43 e il '44 sotto forma di lunga lettera prosa rivolta da Fiammetta
«alle innamorate donne», essa riprende i moduli dell'elegia erotica latina, amplificandone oltremodo
la misura. La novità più sorprendente è data dal fatto che Boccaccio attribuisce direttamente la parola
a una voce femminile (sul modello delle Heroides di Ovidio): la donna non è rappresentata come
oggetto d'amore, ma come soggetto che parla, come amante abbandonata e disperata che si manifesta
ad altre donne per suscitare la loro compassione e consolarsi così della propria sofferenza. Ma su
questa essenziale novità si proiettano ancora i consueti schemi autobiografici di Boccaccio, rovesciati
e cambiati di segno: a parlare è Fiammetta, il grande amore napoletano dello scrittore; essa ci dice
del suo amore per un giovane fiorentino, Panfilo (ritratto dell'autore), che la tradisce lasciando Napoli
per tornare a Firenze. Attraverso questo scambio delle parti prendono vita nostalgiche immagini del
mondo cortese napoletano, e Boccaccio esprime indirettamente il proprio dolore per la perdita di tutto
ciò che il solo nome di Fiammetta rappresenta. Con questa struttura si costruisce il primo romanzo
psicologico della nostra letteratura: Fiammetta non racconta eventi, ma esprime i vari sentimenti che
l'amore suscita in lei, prima la gioia del possesso, poi l’intollerabile partenza di Panfilo, per il suo
silenzio, per il suo tradimento. La descrizione dei moti dell'animo è tanto più interna al personaggio
che parla, in quanto l'affetto per Panfilo è segreto: Fiammetta, sposata a un marito premuroso che si
preoccupa per lei, deve infatti nascondergli anche le ragioni del proprio evidente soffrire. L'analisi
psicologica dell'Elegia di Madonna Fiammetta non ha però nulla a che fare con la psicologia a cui
siamo oggi abituati: ciò che avviene nell'animo di Fiammetta è tutto determinato da un fittissimo
contesto letterario (in cui è in primo piano, ancora una volta, Ovidio), e situazioni e punti di vista
obbediscono a una calcolatissima serie di posizioni e simmetrie. In ogni passo dell'opera si affacciano
personaggi e invenzioni di matrice colta, raffinati exempla amorosi, soprattutto di origine classica; e
alla fine Fiammetta giunge «a identificarsi come supremo “essemplo": essa vuol essere insomma
l'ultimo anello di una lunga catena di figure amorose, e l'eccesso del suo disperato sentimento si
afferma attraverso un eccesso di nobile letteratura. La letterarietà di Fiammetta filtra d'altra parte una
concezione tutta concreta e carnale dell'amore, che non cerca altre beatitudini se non quelle del
rapporto fisico tra gli amanti. Fiammetta si pone allora come un rovesciamento dell'immagine di
Beatrice (e di quella di Laura, intorno alla quale il Petrarca elaborava in quegli anni molte rime): un
rovesciamento strettamente connesso all'attribuzione della parola alla donna stessa, che si esprime in
prima persona. Questa visione mondana della donna e dell'amore si colloca dunque in una dimensione
tutta aristocratica, che si fa sentire anche nello studiato classicismo della prosa. Boccaccio sa sfruttare
la sua esperienza di volgarizzatore di Livio, situabile proprio nei primi anni fiorentini, e dei maggiori
prosatori latini; e nell'Elegia di Madonna Fiammetta porta fino in fondo il processo di latinizzazione
della sintassi volgare: scostandosi dalla retorica della prosa medievale (di cui però non mancano echi),
Boccaccio si concentra infatti sul gioco delle subordinazioni, rinvia il verbo reggente verso la fine del
periodo e crea un ritmo avvolgente, pieno di pause e di incisi, ma sempre preciso e razionalmente
misurato.

5. Il Decameron: composizione, pubblicazione, diffusione

Subito dopo la terribile peste nera che infuriò a Firenze nel 1348, e in un arco di tempo che giunse
almeno fino al 1351, Boccaccio compose il suo capolavoro, la raccolta di cento novelle dal titolo
Decameron, parola modellata sul greco, riferentesi alle "dieci giornate" in cui le novelle sono
distribuite e ricalcata sul titolo di un trattato di sant'Ambrogio, Hexaemeron (Boccaccio leggeva la
parola con l'accento sull'ultima sillaba, Decameròn, e fece uso anche della forma Decamerone). Il
titolo è completato da un'ambigua precisazione: «Decameron cognominato prencipe Galeotto», che
collega l'effetto del libro a quello della lettura della dantesca Francesca da Rimini («Galeotto fu 'l
libro e chi lo scrisse», Inferno, V, 137). Non si ha comunque nessuna notizia precisa sui vari tempi
della redazione: qualche studioso ha pensato anche che diversi gruppi di giornate siano stati progettati,
compilati e messi in circolazione in fasi diverse; e poiché la quarta giornata è preceduta da
un'introduzione dell'autore, che risponde ad alcune critiche rivolte alle sue novelle, è probabile che le
prime tre giornate fossero divulgate a parte, anche prima della redazione delle altre. In ogni modo,
l'opera si diffuse subito con rapidità, consacrando la fama del suo autore in Italia e fuori. Pur avendo
a un certo punto deciso di dedicarsi soprattutto agli studi umanistici e nutrito preoccupazioni di ordine
religioso, Boccaccio non abbandonò mai del tutto il Decameron, anzi ricopiò e corresse varie volte il
testo. E di questo suo lavoro abbiamo un documento essenziale, un manoscritto autografo redatto
intorno al 1370 e conservato nel codice di Berlino Hamilton 90 (manca solo di brevi passi), su cui si
basano, le più recenti edizioni critiche. Ma il problema del testo del Decameron resta ugualmente
intricato, anche perché non è del tutto chiara la natura del testo diffuso prima di questa redazione
autografa. L'eccezionale diffusione del Decameron nei secoli XIV e XV è attestata da un numero
molto alto di manoscritti (ne contano circa 150). I primi copisti e i primi possessori di copie furono
soprattutto dei mercanti. Ma l'opera penetrò anche in ambienti molto diversi, e specialmente nel
secolo XV se ne produssero eleganti copie illustrate. Subito si ebbero anche numerose traduzioni.
Con il nascere della stampa, il Decameron divenne immediatamente uno dei libri più stampati e
diffusi. Dopo che, all'inizio del Cinquecento, il Bembo fissò nel Decameron il modello perfetto della
prosa volgare, i problemi legati alla precisa costituzione del testo crearono dibattiti accesi, più che
per qualsiasi altro classico italiano; e un intenso lavoro fu svolto a Firenze per l'allestimento della
grande edizione del 1582. Fin dal 1559 il Decameron fu inserito tra i libri proibiti: venne concessa la
circolazione soltanto di curiose edizioni espurgate e moralizzate.

5.1 Gli interventi dell’autore

L'autore parla in prima persona soltanto in tre punti del Decameron: all'inizio (in un breve proemio e
nell'introduzione alla prima giornata), nell'introduzione alla quarta giornata e in una breve
conclusione. Nel Proemio egli si rivolge alle donne, destinatarie ideali dell'opera: liberatosi dal fuoco
amoroso che aveva consumato la sua giovinezza, egli intende dar prova di gratitudine verso quante
in passato lo hanno consolato nei suoi dolori d'amore; e perciò scrive un libro la cui lettura possa
confortare le donne, costrette dalla società a tenere «l'amorose fiamme nascose» e private di quelle
distrazioni che sono invece ampiamente concesse agli uomini. Sempre nel Proemio, Boccaccio spiega
di volersi rivolgere alle donne per rimediare al «peccato della fortuna»: le donne, egli sostiene,
possiedono in misura molto minore degli uomini la facoltà di trovare distrazione dalle pene d’amore,
perché ad esse sono preclusi la caccia, il gioco, il commerciare, tutte le attività che possono occupare
l’esistenza dell’uomo; nelle novelle perciò esse potranno trovare diletto e utili suggerimenti, che
allevieranno le loro sofferenze. In questo motivo dell’ammenda al «peccato della fortuna» è suggerito
il tema fondamentale del Decameron: la capacità dell’individuo di superare le avversità, di imporre
il suo dominio su una multiforme e imprevedibile realtà regolata dalla Fortuna. Un altro spunto
fondamentale, suggerito dalla dedica alle donne, è il peso che nell’opera ha il motivo amoroso. In
effetti, gran parte delle novelle tocca questa tematica. Essa può assumere anche forme licenziose, e
questo aspetto suscita reazioni negative in un certo pubblico retrivo. Nell’Introduzione alla IV
giornata, e poi ancor più esplicitamente nella Conclusione dell’autore, Boccaccio affronterà anche
questo problema, rivendicando il suo diritto ad una letteratura libera dagli impacci moralistici
eccessivamente arcigni, ispirata ad una concezione naturalistica dell’eros. Si delinea un’idea di
letteratura del tutto laica e mondana, svincolata dalle pregiudiziali religiose e morali di tanta
letteratura medievale, compresi la Commedia e il Canzoniere. Nell'introduzione alla quarta giornata,
anch'essa indirizzata alle donne, Boccaccio difende infatti lo «istilo umilissimo e rimesso» della sua
opera, contro le critiche di quelli che lo accusano di voler troppo piacere alle donne e di metterle al
centro del suo discorso; e narra una celebre novelletta, quella di Filippo Balducci e delle papere, che
mostra scherzosamente quanto sia forte l'attrazione del sesso femminile e come l'amore per le donne
sia dettato dalle leggi della natura, alle quali è impossibile e dannoso resistere. Nella «conclusione
dell'autore», rivolta sempre alle «nobilissime giovani», si prevengono altre possibili critiche
moralistiche all'opera e si esaltano la varietà della materia narrata, la molteplicità dei pareri e dei punti
di vista, la stessa mutabilità delle cose del mondo. A parte questi tre piccoli spazi, la voce di Boccaccio
nel Decameron tende a mettersi da parte: egli si affida a una scrittura oggettiva, rinunciando a tutte
quelle allusioni autobiografiche ed effusioni personali che caratterizzavano molte sue opere giovanili;
e nello stesso tempo si allontana dal loro sfoggio di erudizione e di letterarietà, dal loro preziosismo
qualche volta ingenuo ed eccessivo. Le novelle non ci vengono però presentate una dopo l'altra, senza
legami, ma vengono inserite entro una complessa struttura, calcolata con cura in tutti i particolari
(quella che solitamente viene chiamata cornice), che le connette a una situazione precisa e ad alcune
figure di narratori.

5.2 Un «orrido cominciamento»: la peste di Firenze

La narrazione è legata alla «dolcezza» e al «piacere», ma ha un «orrido cominciamento», comincia


cioè dalla descrizione della città di Firenze in preda alla peste del 1348. L'epidemia sconvolge ogni
ordine morale e civile, annulla ogni «auttorità delle leggi», rompe ogni schermo e difesa, invadendo
ogni ambiente sociale; i sopravvissuti sono vittime di «paure e immaginazioni», che rovesciano tutte
le abitudini e tutti i costumi». Non si rispettano più le barriere tra le classi sociali e saltano tutti i
ritegni dettati solitamente dal pudore e dalle convenienze. L'accurata rappresentazione del contagio
fatta da Boccaccio ha certamente alle spalle alcuni celebri precedenti letterari (egli si servì soprattutto
dello storico medievale Paolo Diacono, che scrisse della peste scoppiata in Italia ai tempi di
Giustiniano in Historia Langobardorum, II, 4-5); ma essa non costituisce, come hanno sostenuto
molti critici, una pura esercitazione letteraria o un semplice sfoggio di bravura descrittiva, perché
vuol anzitutto proporsi come immagine di orrore: nel Decameron Boccaccio intende partire da un
impassibile resoconto dello stato di massima disgregazione raggiunto dalla società contemporanea.

5.3 La brigata dei narratori

Mentre la città è in preda alla violenza della natura e al caos sociale, sette fanciulle e tre giovani si
incontrano nella chiesa di Santa Maria Novella: Boccaccio finge che si tratti di persone reali, a cui
attribuisce nomi fittizi, atti a rivelare le qualità di ciascuno. Le donne sono chiamate Pampinea,
Fiammetta, Filomena, Emilia, Lauretta, Neifile, Elissa. È Pampinea a proporre alle altre di
abbandonare la città e di rifugiarsi nel contado, nelle proprietà di cui ciascuna di loro è ben dotata.
Ad esse si aggiungono i tre giovani (Panfilo, Filostrato, Dioneo) e, con servitori e masserizie, la
compagnia si trasferisce un mercoledì mattina in campagna, due sole miglia fuori di Firenze, dove
sorge un attrezzatissimo «palagio» circondato da prati, giardini e luoghi ameni di ogni genere. Qui il
gruppo organizza una vita di svaghi e di diletti, tenendo lontana ogni cattiva notizia che giunga da
fuori, e decide di eleggere, a turno tra i dieci, una regina o un re che regoli la vita di ogni giornata.
Eletta regina per prima, Pampinea decide che si passi il pomeriggio al fresco in un verde prato,
raccontando novelle. Così per dieci giorni, sotto il reggimento di diversi re, ognuno dei giovani
racconta una novella (dieci per uno, alla fine cento in tutto); solo il venerdì e il sabato non si eleggono
nuovi re e non si raccontano novelle. La regina o il re scelgono ogni volta i temi delle novelle da
narrare nella giornata, e ciascun narratore deve attenersi all'argomento, con l'eccezione di Dioneo,
che a un certo punto acquista il privilegio di raccontare ogni volta l'ultima novella, libero da vincoli
tematici. Il libro è diviso con categorica precisione nelle dieci giornate in cui si collocano le
narrazioni: ogni giornata ha una rubrica iniziale che ne indica il contenuto generale, inizia con una
breve introduzione e termina con una conclusione; le novelle sono distinte l'una dall'altra mediante le
singole rubriche, che ne riassumono brevemente ma accuratamente il contenuto. Nelle introduzioni e
nelle conclusioni Boccaccio descrive la vita amena della brigata e i luoghi in cui essa si svolge
(celebre la descrizione della «Valle delle Donne», nella conclusione della sesta giornata); e tra una
novella e l'altra i giovani si scambiano varie battute di commento e apprezzamento delle novelle
raccontate. Alla fine di ogni giornata una donna recita una ballata di leggera e quasi sospesa
sensualità, che fa da contrappunto musicale alla densità fisica e intellettuale della materia narrativa.
In questo modo il raccontare diventa restaurazione di un ordine, risposta allo sconvolgimento che la
peste ha causato nella città; la vita della brigata, pur rivolta al piacere, si afferma infatti come
coesistenza conveniente e onesta, come immagine ideale di una rinnovata dimensione civile. I
rapporti tra i tre giovani e le sette fanciulle restano nell'ambito di un distaccato «decoro», nonostante
la materia erotica che impronta molte novelle. Il loro non è un «mondo alla rovescia», uno sbrigliato
universo carnevalesco, ma un mondo stilizzato e ben composto. Tensioni sotterranee (svelate da certe
battute aggressive) e tentazioni amorose sfiorano la loro convivenza, ma ne risultano soltanto
immagini di rapporti ipotetici e di desideri sospesi, allusioni a vicende e storie solo possibili; e del
resto i nomi dei personaggi coincidono quasi tutti con quelli di protagonisti di avventure d'amore di
precedenti opere di Boccaccio. Nei tre personaggi maschili, d'altra parte, l'autore presenta tre diverse
immagini di se stesso. Queste figure potenziali appaiono perciò, per necessità di struttura, opache,
prive di individualità e di psicologia precisa, e si confondono facilmente l'una con l'altra. Grazie al
loro punto di vista sicuro e superiore, possono giocare a identificarsi ambiguamente con le situazioni
narrative e possono anche praticare la trasgressione, come fa il personaggio di Dioneo, che, oltre a
svincolarsi dai temi delle giornate, propende per la più scatenata materia comica ed erotica e si avvale
di una estrema libertà di parole (egli rappresenta l'immagine più aggressiva e sensuale dell'autore,
«spurcissimus Dioneus»: il suo nome, collegato a Diona, madre di Venere, appariva già nel
personaggio di una delle novelle della Commedia delle ninfe fiorentine). In ogni modo, i narratori
costituiscono uno schermo necessario tra l’autore e la materia delle novelle: con le loro relazioni
danno spazio, dall’interno del libro, a una relativa varietà di punti di vista; suggeriscono ai lettori
diverse possibili identificazioni psicologiche con la materia narrata: e in definitiva traducono
variamente, con sottile e artificioso distanziamento, lo stesso punto di vista dell’autore.

5.4 Struttura generale del Decameron e gli argomenti delle giornate


Questo l’elenco degli argomenti così come sono esposti dall’autore nei titoli-sommari premessi a
ciascuna giornata, detti “rubriche” perché nei manoscritti medievali era uso scrivere i titoli dei capitoli
in inchiostro rosso (dal latino rubrum, “rosso”):

I. «Libero sia a ciascuno di quella materia ragionare che più gli sarà a grado» (sotto il reggimento di
Pampinea).

II. «Sotto il reggimento di Filomena, si ragiona di chi, da diverse cose infestato, sia oltre alla sua
speranza riuscito a lieto fine».

III. «Si ragiona, sotto il reggimento di Neifile, di chi alcuna cosa molto desiderata con industria
acquistasse o la perduta recuperasse».

IV. «Sotto il reggimento di Filostrato, si ragiona di coloro li cui amori ebbero infelice fine».

V. «Sotto il reggimento di Fiammetta, si ragiona di ciò che ad alcuno amante, dopo alcuni fieri o
sventurati accidenti, felicemente avvenisse».

VI. «Sotto il reggimento d’Elissa, si ragiona di chi, con alcun leggiadro motto, tentato, si riscotesse,
o con pronta risposta o avvedimento fuggì perdita o pericolo o scorno».

VII. «Sotto il reggimento di Dioneo, si ragiona delle beffe le quali o per amore o per salvamento di
loro le donne hanno già fatto a’ lor mariti, senza essi essersene avveduti o no».

VIII. «Sotto il reggimento di Lauretta, si ragiona di quelle beffe che tutto il giorno o donna ad uomo
o uomo a donna o l’uno uomo all’altro si fanno».

IX. «Sotto il reggimento d’Emilia, si ragiona, ciascuno secondo che gli piace e di quello che più gli
aggrada».

X. «Sotto il reggimento di Panfi lo, si ragiona di chi liberamente o vero magnificamente alcuna cosa
operasse intorno a’ fatti d’amore o d’altra cosa».
5.5 La coerenza della struttura

La rappresentazione della vita della brigata, che si oppone al caos della città devastata della peste,
riceve comunque il suo valore soprattutto dall'incessante svilupparsi e differenziarsi di temi,
situazioni, spunti fantastici, avventurosi, comici e patetici offerti dalle novelle. Numerosi e sottili
sono i rapporti che intercorrono tra la cornice e la successione delle storie, le corrispondenze e i
richiami tra esse da un punto all'altro del libro; e valenze particolari può assumere la collocazione di
ciascuna in un certo punto della singola giornata e di tutta l'opera. La struttura del Decameron rivela
insomma una coerenza, una sottigliezza, una rete di equilibri veramente sorprendente. Per questa cura
della struttura il capolavoro di Boccaccio si riallaccia alla tradizione medievale, anche se l'uso di
«cornici» attorno a raccolte di novelle costituisce un vero e proprio schema antropologico, presente
presso le culture più diverse (così nel mondo arabo, la raccolta delle Mille e una notte si presenta
come una serie di racconti in «riquadro», destinati ad allontanare un pericolo mortale). Branca ha
suggerito di vedere nell'organismo del Decameron lo schema medievale della «commedia», cioè un
percorso ascensionale che va dal vizio dominante nella prima giornata (e dal protagonista della prima
novella, il celebre ser Ciappelletto, sintesi della malvagità umana) alla virtù dominante nell'ultima (e
alla protagonista dell'ultima novella, Griselda, apoteosi della donna-madre). Secondo questa
interpretazione, lo stesso succedersi dei temi nelle varie giornate rivelerebbe l'esplicarsi dell'azione
delle tre grandi forze che reggono il mondo, la Fortuna (II e III giornata), l'Amore (IV e V giornata),
l'Ingegno (VI, VII e VIII giornata), mentre la IX giornata costituirebbe una ripresa e una sintesi dei
motivi precedenti. Il senso dell'organismo del Decameron sfugge tuttavia a ogni schema rigido e
astratto: occorre piuttosto individuarlo in una serie di corrispondenze interne molto più sottili e
problematiche, in una fittissima pluralità di funzioni e di tensioni narrative, che non possono
riassumersi in un percorso ideologico troppo netto. Il mondo del Decameron non è organizzato dal di
fuori e non è orientato verso veri punti d'arrivo. I suoi significati più alti nascono tutti dal concreto
tessuto dei rapporti narrativi, relativamente libero e aperto alla varietà del reale.

5.6 I temi delle novelle

In punti strategici del libro alcune novelle sottolineano l'esemplarità di certi personaggi, traducendola
in gesti, parole e condotta sociale significativi. Quasi del tutto dedicate a queste figure esemplari sono
la sesta e la decima giornata. Nella sesta giornata il valore del personaggio si esprime attraverso il
sapiente uso del linguaggio, e in particolare del motto di spirito, che regola o sospende il conflitto con
gli altri individui, che trasforma l'aggressività in superiore manifestazione di civiltà (e la pratica del
motto di spirito viene presentata come espressione perfetta della civiltà fiorentina). Nella decima
giornata il valore si afferma attraverso prove di magnificenza e di cortesia, nel saper fare dono del
proprio essere e dei propri beni, nel consumarsi in splendida liberalità. Attraverso sottili legami e
richiami interni, le novelle della sesta e della decima giornata si richiamano a molte novelle della
prima, in cui le doti primarie dei protagonisti sono l'arguzia e l'aggressività. La natura dei personaggi
si manifesta anche attraverso la fittissima tematica religiosa, presente in ogni zona dell'opera. La
religione e il clero sono componenti fondamentali della vita contemporanea, e Boccaccio ne tiene ben
conto, senza per questo dare alla sua opera una dimensione spirituale e senza impegnarsi in alcuna
critica del mondo religioso: legandosi alla tradizione antifratesca, molto diffusa nella cultura del
secolo XIII, egli si limita semmai a qualche frecciata contro l'ipocrisia degli uomini di chiesa e contro
la loro condotta inconseguente. E poiché tutte le cose hanno «principio» da Dio, le giornate iniziali
(e soprattutto la prima) danno ampio spazio a situazioni e vicende che hanno a che fare con la
religione. La prima celebre novella di ser Ciappelletto ci propone un'immagine paradossale di uso del
sacro: ci delinea infatti l'exploit del malvagio peccatore che in punto di morte dà suprema prova di
sé, recitando in una falsa confessione la parte dell'uomo virtuoso, che lo farà considerare addirittura
santo dopo la morte. Si tratta della presentazione di una pratica di finzione e di rovesciamento,
essenziale per capire tanti aspetti del Decameron (in questo caso vengono ribaltati i valori della
confessione e della santità). Ai comportamenti esemplari Boccaccio intreccia continuamente atti e
discorsi ambigui, che si presentano come negativi ma nello stesso tempo chiedono consenso e
simpatia al lettore. Il rapporto più universale è quello amoroso, che Boccaccio rappresenta in tutte le
sue possibili variazioni: dal puro soddisfacimento di un bisogno «naturale» alla sensualità più dolce
e delicata, alla passione che accende il cuore e la mente, potenziando tutte le doti fisiche e intellettuali
della persona, all'eros più sconvolgente e indecifrabile, che non è possibile controllare. L'amore può
presentare risvolti allegri e comici, aggressivi e osceni; può darsi in forme remissive, tenere e
patetiche, o tradursi in aperta lotta contro le costrizioni sociali; può comportare vicende avventurose,
che si concludono in un lieto fine o scatenare violente gelosie o cozzare contro rigidi divieti e arrivare
a esiti tragici e distruttivi (questi ultimi suggellano tutte le novelle della quarta giornata). All'amore
si lega sempre la giovinezza, e l'opera esalta l'autenticità degli istinti che guidano i giovani, deridendo
gli ingiusti desideri dei vecchi, degli incapaci e degli indegni. Numerose sono le presenze femminili,
vivaci e concrete e nello stesso tempo piene di misteriosa seduzione: splendide immagini del
desiderio, che serbano in sé qualcosa di segreto e di indefinibile, anche quando si mostrano più
disponibili e facilmente sensuali. E non mancano dolci e appassionate figure materne o ricche di
amore materno: nell'apoteosi finale di Griselda, nell'ultima novella, si può del resto vedere, come ha
suggerito Muscetta, un ultimo omaggio, affascinante proprio perché eccessivo, alla madre da
Boccaccio tanto presto perduta. Il gusto del romanzesco ispira a sua volta novelle complesse e ricche
di peripezie: l'avventura mette i personaggi a confronto con le forze della fortuna e può trascinarli
verso un fascinoso imprevisto, che è anche benefico e liberatorio e ricostituisce l'essenza perduta della
persona; ma può risolversi anche in un quasi magico percorso di iniziazione, che pone l'uomo in
rapporto con forze mitiche e sotterranee (come nella novella di Andreuccio da Perugia, II, 5). La
ricerca di una dimensione occulta e funebre, allucinata e quasi diabolica, costituisce uno degli aspetti
più affascinanti della narrativa boccaccesca, spesso trascurato dalla critica, che nel Decameron ha
invece visto soprattutto l'esaltazione dell'intelligenza dell'uomo, della sua capacità di resistere alla
fortuna, della sua astuzia nel costruire inganni ai danni di altri uomini. Questa interpretazione ha
privilegiato le novelle più esplicitamente comiche e quelle che mettono in scena delle beffe
(interamente dedicate alla beffa sono le giornate settima e ottava): si tratta di novelle che mettono in
atto una eccezionale serie di meccanismi del riso (e che saranno per secoli il punto di riferimento di
tutta la tradizione comica italiana), ma non si legano certo a un astratto culto dell'intelligenza, né sono
una mera esaltazione dell'abilità dei beffatori, ma piuttosto obbediscono al piacere sottile di inseguire
le molteplici vie dell'aggressività, di inventare equivoci e miraggi, di giocare con varie e imprevedibili
possibilità di identificazione tra il lettore e i personaggi. Così i beffati sono indotti a scambiare
l'illusione per realtà, e ciò genera effetti narrativi sorprendenti.
5.7 I modi della rappresentazione

Vastissimo è lo spazio storico e geografico del Decameron: molte sono le novelle ambientate a Firenze
e nella Toscana contemporanea, ma numerose anche quelle che si collocano nelle più varie regioni
d'Italia (un posto particolare spetta a Napoli) o d'Europa, nel presente o nel passato prossimo, e fanno
riferimento a personaggi e situazioni notissimi ai lettori del tempo. La storia e la geografia d'Europa,
nello scorcio tra i secoli XIII e XIV, con proiezioni anche nell’Oriente islamico, dominano in tutto il
Decameron, mentre abbastanza scarse sono le novelle ambientate in un passato più remoto o
nell'antichità classica. Lo schema del viaggio, con il suo fascino, i suoi pericoli e i suoi imprevisti,
costituisce spesso l'ossatura della narrazione: esso comporta un paesaggio insieme reale e fantastico,
che fa da eco alle avventure, aderisce ai loro toni e alle loro sfumature. Geografia, storia e cronaca
contemporanea nutrono quello che la critica suole definire il «realismo» di Boccaccio, concorrono
cioè a dar vita a un mondo concreto e circostanziato, a rapporti difficili, vari, ambigui tra le cose e tra
le persone. Ma questo «realismo» non ci dà un «panorama» o una copia automatica della vita
contemporanea e della sua dimensione quotidiana: il mondo di Boccaccio è, al contrario, un mondo
finto, che si pone però come realtà, in quanto ingloba corrispondenze significative ed essenziali con
l'universo circostante. Sempre immersi in situazioni precise, i personaggi affermano se stessi, grazie
alla loro capacità di apparire, di farsi riconoscere e valutare dagli altri; ma, per rappresentarli,
Boccaccio non scende a minuti particolari, bensì fa balenare alcuni scorci rapidi, che spesso bastano
a rivelare tutto il senso di una vita o di un carattere. Un ruolo fondamentale assumono poi alcuni
semplici spezzoni di realtà, certe figure e certi oggetti che si impongono con forza sulla narrazione
grazie alla loro pura e semplice presenza. Altre volte, al contrario, è il gioco stilistico e linguistico
dell'autore a dilatare il rilievo degli oggetti, a caricarli di valore, o a deformarne i connotati fino al
grottesco. Tutte le esperienze culturali accumulate da Boccaccio negli anni precedenti collaborano
alla rappresentazione del Decameron. Temi e situazioni risalgono a fonti disparate, che vanno dalle
tradizioni popolari e folcloriche (molti i motivi di origine orale diffusi nelle aree geografiche più
diverse) alle raccolte narrative di derivazione orientale (molto diffuse nell'Europa del secolo XIII),
alla multiforme tradizione narrativa romanza (i romanzi cortesi, i fabliaux, il Novellino, ecc.) e ad
altri generi della letteratura medievali (in primo piano la commedia elegiaca latina diffusa nel secolo
XII). Grande incidenza ha poi la letteratura latina antica, rappresentata anche da autori che figuravano
poco o mancavano nella precedente produzione di Boccaccio: nuova è soprattutto la presenza di
Apuleio e di quegli scrittori della tarda antichità che suggeriscono situazioni di rovesciamento, di
parodia, di deformazione magica e grottesca, mentre l'insegnamento retorico di Cicerone e di
Quintiliano guida Boccaccio a definire i caratteri e i limiti della parola narrativa, il funzionamento
del riso e del motto di spirito. Il capolavoro di Boccaccio sa appropriarsi splendidamente di allusioni,
ammiccamenti, riprese e parodie di linguaggi e di temi di varia origine.

5.8 La prosa del Decameron

Tutti i materiali della narrazione sono sottoposti a una prosa raffinata, piena di sapienza stilistica, che
porta al punto più alto l'impegno già rivelatosi nel Filocolo e nell’Elegia di Madonna Fiammetta.
Ancora presenti sono alcuni schemi della retorica medievale, come l'uso di rime e la formazione di
versi all'interno del periodo. Ma Boccaccio tende soprattutto ad approfondire il rapporto con la prosa
latina antica (con una particolare predilezione per Livio), adattando il proprio volgare alle pieghe, ai
ritmi, alle pause di quella. Questa latinizzazione della prosa volgare si muove in una direzione diversa
da quella tentata da Brunetto Latini e dal Convivio dantesco: a Boccaccio interessa non tanto
perseguire il rigore razionale e logico del periodo, quanto legare la più lucida razionalità con una
flessuosa capacità di aderire alle cose e alle situazioni. La sua è una prosa avvolgente, fatta di periodi
ampi e modulati, che sembrano voler seguire tutte le sinuosità, le sfumature della realtà mediante
sempre nuove precisazioni e nuove specificazioni. Nello stesso tempo questa prosa sa guardare le
cose da lontano, compiacendosi della propria capacità di dire, della propria eleganza, del proprio
decoro: essa può parlare di qualunque materia mantenendo un superiore distacco. Essa crea così un
modello di «edonismo linguistico», che ha qualcosa di tortuoso, di lento e di estenuato e che avrà un
peso notevole nella tradizione della prosa italiana, specialmente nel corso del Cinquecento. Ma non
va trascurata la capacità che questa scrittura ha di far propri i livelli stilistici più diversi, dal sublime
al patetico, all'eroico, al tragico, al comico, al grottesco: i suoi poli estremi sono da una parte l'alta
retorica tragica, che si affida a una lingua «sublime», sciolta da ogni legame con le circostanze minute;
dall'altra una disposizione a toccare anche la realtà più banale e volgare, con il linguaggio più «basso»
e concreto. Nei discorsi dei personaggi si trascorre dalla parola più sorvegliata e posata alle battute di
dialogo più rapide e più concitate, che riflettono l'incalzare dell'azione o l'insorgere e il succedersi
delle voci. La lingua fiorentina si dispone spesso con classico equilibrio, in forme aristocratiche che
rifiutano ogni elemento dialettale o troppo particolare; altre volte essa è invasa da costruzioni e
termini popolari e vernacolari; e, quando lo richiede l'ambientazione delle novelle, recepisce anche
forme dialettali di altre aree, incastonandole con preciso effetto comico nel tessuto toscano. Non
mancano casi in cui, abbandonando la sua perfetta misura per inseguire il metodo comico, la lingua
del Decameron precipita verso la più indiavolata deformazione espressiva, verso le più allegre
invenzioni: al limite, essa giunge a parodiare se stessa e la propria compostezza, affidandosi al piacere
di creare parole vuote di senso, che fioriscono sulla bocca sia dei beffatori sia degli sciocchi, al di
fuori di ogni motivazione e destinazione, nel trionfo del più gratuito nonsenso.
Nonostante questa grande varietà, in Boccaccio prevale il tono “medio”, lontano sia dai toni troppo
sublimi sia dai termini troppo popolari. Questo tono “medio” è alla base del successo immediato che
il Decameron ebbe in tutta Italia, soprattutto tra i ceti borghesi. Infatti, la scelta della prosa e della
lingua utilizzata deriva dal fatto che il suo pubblico era un pubblico borghese, che non aveva gli
strumenti per comprendere la poesia colta.

5.9 Verso un narrare moderno

Nella sua ricchezza, il Decameron sembra già contenere in sé molte di quelle che saranno le
caratteristiche fondamentali della narrativa europea, almeno fino al secolo XVIII: esso crea un
repertorio di situazioni e di atteggiamenti che saranno per lungo tempo alla base di ogni narrativa
«amena», volta a suscitare la curiosità e il diletto; e già alla fine del Trecento il suo influsso si fa
sentire in una raccolta affascinante dalla struttura più mobile e «aperta», come i Canterbury Tales
dell'inglese Geoffrey Chaucer. In questa «fondazione» del moderno raccontare è determinante il
metodo comico di Boccaccio, la cui sottigliezza e la cui ricchezza di sfumature costituiscono una
eccezionale novità nell'ambito della letteratura volgare. Rispetto al genere comico medievale, sempre
legato a schemi generali, a situazioni e ad ambienti precisi e limitati (e molto ben conosciuto da
Boccaccio), il Decameron fa agire il comico in molte direzioni, sull'intero orizzonte dell'esperienza
umana. Suo strumento essenziale è l'ironia, che produce sempre un certo distacco tra la voce narrante
e gli argomenti, i personaggi, i dati culturali: grazie a essa, la realtà viene a presentare aspetti inattesi.
L'ironia di Boccaccio è però lontanissima da quella che si affaccerà nella letteratura successiva,
dall'ironia ariostesca a quella - più complessa - dei romantici: in essa c'è sempre qualcosa di trionfante,
una sorta di compiacimento per la gioia del narrare, per la varietà del mondo che viene a toccare. Ma
quali sono i caratteri storici del mondo rappresentato nel Decameron e con quale ottica ideologica gli
si accosta Boccaccio? L'autore (come rivelano anche molti discorsi dei giovani narratori) accetta la
realtà più concreta e materiale, esalta la natura e i sensi, riconosce la funzione degli «appetiti» che
guidano l'azione degli uomini e i rapporti sociali. Ma egli è convinto che queste inclinazioni naturali
si affermano in maniera autentica soltanto se controllate da una razionalità ordinatrice, dall'
«ingegno» e dall' «industria», in cui si esprime il valore individuale dell'uomo, traducendosi nel
rispetto dei valori dominanti, delle gerarchie e dei ruoli prefissati. Partendo da questo nucleo
ideologico, si è interpretato il Decameron come un'esaltazione del mondo terreno, una prima esplicita
affermazione di atteggiamenti che avranno la più piena espansione nel Quattrocento e nel
Cinquecento: Boccaccio sarebbe il primo scrittore «rinascimentale» e il suo uso del comico
equivarrebbe a una irrisione e negazione del mondo medievale, sarebbe espressione di una nuova
«borghesia» italiana, pronta ad affermare la propria vitalità e la propria gioia di vivere al di fuori di
ogni principio morale. A questa interpretazione (che risale a De Sanctis) ne è stata opposta (da Branca)
una completamente diversa, che fa di Boccaccio un autore tutto medievale, per il suo stretto legame
con le tradizioni culturali, letterarie, etiche e religiose dei secoli precedenti: il Decameron
rappresenterebbe organicamente, secondo schemi strutturali e simbolici del tutto «medievali», la vita
contemporanea in tutte le sue espressioni; ed esprimerebbe con vigore la prassi e i valori del mondo
mercantile trecentesco (tanto da potersi definire «epopea dei mercatanti»). Ma il senso dell'opera di
Boccaccio non è soltanto nei materiali della sua cultura, nelle tradizioni e negli ambienti sociali a cui
egli si collega: va cercato piuttosto nella sua forza di invenzione letteraria. Reinseritosi nell'ambiente
comunale fiorentino, dopo il noviziato «cortese» napoletano, egli si sente attratto da entrambi quei
mondi, quello aristocratico e quello. I valori espressi da quei due mondi sono per lui essenziali. Si
tratta di una integrale laicizzazione (quella stessa che egli ha attuato nei confronti degli schemi
allegorici danteschi); contenuti e comportamenti della tradizione comunale e cortese vengono evocati
e vissuti soprattutto nella loro forma esteriore, nella dimensione visibile del sociale; siamo molto
vicini all'atteggiamento tardo-gotico, con il quale Boccaccio condivide anche la nostalgia per
un'antica bellezza e per antichi equilibri che vengono meno. Nell'ordine «degno» che la brigata dei
narratori ricostruisce fuori della catastrofe della peste, ciò che conta è la convivenza così garantita:
una società minacciata da ogni parte cerca di sopravvivere appoggiandosi a regole che hanno la pura
funzione di tenere in piedi un rapporto sociale e di rendere possibile la narrazione. Nel mondo
rappresentato dal Decameron, ogni progetto, ogni costruzione razionale, ogni esercizio dell' ingegno
e dell'intelligenza sembrano legati al riflesso di una lotta per la sopravvivenza. Tesi all'affermazione
di sé, nei loro conflitti o nei loro amori, i personaggi paiono animati da un'incoercibile aggressività;
si ha l'impressione che tra gli individui manchi ogni cordialità, che ciascuno sia solo di fronte
all'azione della fortuna e a quella degli altri individui. Tutti sembrano costretti a lottare per conquistare
qualcosa, senza altra giustificazione che la conquista stessa o la necessità di dar prova di sé. Questo
è in realtà l'atteggiamento tipico delle classi dominanti nel Comune mercantile, nel momento di
depressione e di arretramento della metà del secolo XIV, quando si diffondono ampiamente il cinismo
sociale e un crudo realismo economico: un atteggiamento che impronterà per molti secoli le classi
superiori e intermedie della società italiana. Il capolavoro di Boccaccio ci presenta tutti gli aspetti
complessi e contraddittori di questo universo. E insieme dà voce alla paura e alla gioia, all'impetuosa
voglia di vivere e di affermarsi, al fascino meraviglioso del passato che si consuma e svanisce, al
divertimento della finzione e della commedia, allo scatenarsi del nonsenso, alle pulsioni distruttive,
all'evasione fantastica e avventurosa, alle figure della passione e della fascinazione erotica.

6. Boccaccio umanista

Dopo la redazione del Decameron, in seguito ai rapporti sempre più stretti con il Petrarca, Boccaccio
si dedica soprattutto allo studio della letteratura classica, nei modi di quell'umanesimo municipale di
cui si è detto. Senza rinnegare totalmente le sue precedenti esperienze, egli si impegna sempre più
nella raccolta di nozioni erudite, affermando il valore di tale attività solitaria e serena, e la rilevanza
morale delle figure letterarie e storiche. Questa scelta viene favorita dalla sua condizione di chierico,
dal ritiro dall'attività pubblica che segue la congiura del '60 e dai turbamenti religiosi che segnano la
sua vecchiaia. E negli ultimi anni egli è dibattuto (come accadeva anche al suo maestro Petrarca) tra
il desiderio di chiudersi nello studio e nel culto di poche amicizie e l'aspirazione a fare dei valori
classici indagati un modello di vita civile per il mondo contemporaneo. L'amore di Boccaccio per
l'antichità, già fortissimo negli anni giovanili, mantiene sempre, anche negli anni della vecchiaia,
un'impronta laica: la «virtù» degli antichi gli suggerisce esempi di comportamento che trovano il loro
fine in se stessi, in quanto manifestano la dignità dell'uomo. Egli aspira a conoscere anche il mondo
greco: l'insegnamento del maestro calabrese Leonzio Pilato non gli consente di impadronirsi
totalmente della lingua greca, ma gli permette di investigare in modo nuovo le tracce di una poesia,
come quella di Omero, che era rimasta sostanzialmente sconosciuta al mondo medievale. E a Leonzio
Pilato Boccaccio affida il compito di tradurre Omero in latino: dopo varie peripezie, una traduzione
latina dell'Iliade e di parte dell'Odissea viene inviata a Petrarca nel 1366. Nel lavoro umanistico di
Boccaccio, nelle sue trascrizioni, nei suoi volgarizzamenti, nelle sue ricerche di testi, permane
comunque qualcosa di confuso e disordinato. Nella sua passione per la «virtù» antica perdurano alcuni
atteggiamenti tipici della cultura medievale, come la tendenza a cercare dappertutto motivazioni
morali, a deformare particolari storici con invenzioni romanzesche, ad accumulare informazioni
disparate e incontrollate. In quest'ambito sembra mancare a Boccaccio lo spirito critico, quel senso
del distacco tra passato e presente che era invece notevole nel suo maestro Petrarca. Le Epistole (quasi
tutte in latino, giunteci in numero di ventisei e non organizzate in raccolta) offrono un'immagine
vivace del suo umanesimo. Tra esse sono di particolare interesse quelle indirizzate al Petrarca e
un'ampia lettera in volgare scritta all'amico Pino de' Rossi, per consolarlo dell'esilio a cui era stato
condannato dopo la congiura del 1360: la consolazione non si affida a un aldilà, ma alla coscienza
dell'uomo «savio», al suo impegno nel resistere alla fortuna.

7. Poesie e trattati latini

Abbastanza ridotta è la produzione poetica latina del Boccaccio: oltre a carmi di vario tipo che
risalgono al suo noviziato letterario, va ricordato il Buccolicum carmen, raccolta, confezionata intorno
al '67, di sedici ecloghe composte a partire dal '49: l'intenzione di far rinascere lo stile pastorale (che
ben diversamente si era espressa nella Commedia delle ninfe fiorentine) si richiama all'opera
petrarchesca dallo stesso titolo. I trattati in prosa latina si presentano tutti come cataloghi di situazioni,
di vicende, di figure letterarie, e sono vicini ad alcuni trattati del Petrarca. Il De casibus virorum
illustrium, Sulle sventure degli uomini illustri, in nove libri, ci propone un vastissimo affresco della
sfortuna umana, narrando le vicende di infelici personaggi storici, dai tempi più antichi al mondo
contemporaneo. Il gusto per la narrazione di eventi curiosi, riscontrabile in certi momenti del De
casibus, si afferma nettamente nel De mulieribus claris, Sulle donne celebri, che contiene le biografie
di un centinaio di illustri figure femminili. Repertorio di geografia «letteraria», disposto in
successione alfabetica, è invece il De montibus, silvis, fontibus, lacubus, fluminibus, stagnis seu
paludibus, et de nominibus maris liber (1355-74). Il più importante trattato latino del Boccaccio è la
Genealogia deorum gentilium, Genealogia degli dèi pagani, in quindici libri. Si tratta di un repertorio
di mitologia classica, costruito su una vasta conoscenza della letteratura antica e animato da una viva
passione per le «favole» pagane, sotto ciascuna delle quali si individuano tre tipi di significati: storico,
naturale e morale. Quest'opera ha grande importanza, perché inaugura, per la cultura umanistica, un
nuovo uso simbolico delle immagini classiche, offrendo indicazioni molto più ampie, precise e
sistematiche di quelle fornite dalla cultura medievale. L'interesse per le «favole» si collega poi
strettamente al culto della poesia, che le racconta e le trasmette: gli ultimi due libri della Genealogia
sono dedicati alla difesa della poesia contro i suoi detrattori. Boccaccio si avvicina qui alle posizioni
di Petrarca, ma del valore della poesia egli formula una definizione più entusiastica, fondata su idee
di origine platonica: sotto la spinta del fervor che anima il poeta, la poesia usa la fictio e l'imitazione
per costruire immagini di veri e propri mondi, che producono un effetto benefico sul lettore. Le
nozioni di fervor e di fictio, e le pagine che ad esse dedica Boccaccio, saranno alla base di tutte le
concezioni umanistiche della poesia.

8. Il culto di Dante

Nelle sue invenzioni letterarie Boccaccio trasse da Dante, poeta amato in ogni momento della sua
vita, gran frutto e a lui dedicò un importante lavoro di copista e di «editore»; inoltre scrisse un testo
in volgare che forse doveva accompagnare raccolte di opere dantesche, il De origine, vita, studiis et
moribus viri clarissimi Dantis Aligerii florentini (designato anche col più noto titolo di Trattatello in
laude di Dante). Si tratta di una biografia (la più antica sul grande poeta) concepita secondo
un'impostazione retorica, che vede la vita di Dante come modello esemplare del perpetuo confronto
tra il grande individuo e la fortuna, con l'inserimento di molti episodi di tipo romanzesco. Boccaccio
collega l'opera di Dante al mondo municipale fiorentino, ma la interpreta alla luce di una concezione
umanistica della poesia, vista come facoltà superiore che si connette allo studio e si contrappone
all'impegno politico e civile. Il messaggio dantesco viene privato così di tutta la sua carica polemica;
e lo stesso punto di vista troviamo nelle Esposizioni sopra la Comedia, che contengono le lezioni
tenute da Boccaccio nella chiesa di Santo Stefano di Badia e si arrestano al canto XVII dell'Inferno.
Il commento è ricco di passione e di erudizione e fornisce molte utili interpretazioni, ma è tutto chiuso
in un pacato moralismo religioso, in un moderato buon senso popolare.

9. Il Corbaccio

L'ultima opera di invenzione del Boccaccio è un breve e violento scritto in prosa volgare, il
Corbaccio, sulla cui data non si posseggono informazioni precise. Incerto è anche il significato del
titolo, che forse allude alla figura gracchiante del corvo, simbolo funebre di maldicenza e aggressività.
Torturato dall'amore per una vedova che lo respinge, l'autore sogna di trovarsi in un pauroso deserto
(che è un «laberinto d'amore»), dove gli appare, mandato da Dio, il defunto marito della donna. Il
defunto mostra allo scrittore come l'amore non si convenga alla sua età e alla sua condizione di
studioso, e fa un lungo elenco dei vizi e dei difetti delle donne, smascherando poi la finta bellezza, la
rapacità, la lussuria e la cattiveria della sua ex moglie. All'origine di quest'opera c'è forse qualche
sfortunato amore senile del Boccaccio e il desiderio di vendicarsi di qualche donna che lo aveva
respinto, ma il suo significato va molto al di là di questo possibile motivo occasionale. Essa si pone
infatti come una rabbiosa negazione di tutta la precedente opera in volgare dell'autore e del suo
rapporto, sempre stretto, con i personaggi femminili e con il pubblico femminile. Se tutti i precedenti
scritti volgari, fino al Decameron, si rivolgevano al mondo fascinoso delle «corti d'amore», ora ogni
«corte d'amore» viene negata in modo esplicito e violentemente si afferma l'estraneità del maturo
uomo di studio nei confronti del «porcile di Venere». Il Corbaccio è percorso da un furore misogino
livido e risentito, che, richiamandosi a una lunga tradizione letteraria di biasimo e di condanna della
donna, raggiunge una grottesca violenza descrittiva, specie quando indugia sugli aspetti repellenti del
corpo della donna e sugli artifici con cui ella li maschera. È una sorta di amarissimo addio al mondo
amoroso e cortese, ai suoi incantevoli richiami. L'autore che aveva dedicato alle donne il suo
capolavoro, finisce così con il fondare un altro, ultimo modello letterario, anch'esso variamente
seguito nella tradizione italiana: quello della satira crudele contro l'universo femminile.

10. L’attualità dei classici: Boccaccio e il Decameron

Quello del Decameron è un mondo interamente umano, dominato da forzi immanenti, terrene, che
operano in modo autonomo rispetto al piano trascendete. L’opera ci comunica quindi l’idea della
libertà dell’uomo nelle sue scelte, ci dà fiducia che esse possano essere non determinate da alcuna
forza esterna. Le novelle boccacciane sono la celebrazione dell’iniziativa umana. Specie in epoche di
crisi profonda come la nostra, spesso abbiamo la sensazione di essere prigionieri di un meccanismo
sociale ed economico ferreo che determina ogni nostro atto e persino il nostro modo di pensare e di
non avere alcuna possibilità di cambiare le cose; stato d’animo che può indurre al fatalismo, alla
rassegnazione e alla passività. Allora gli esempi di iniziativa vincente che leggiamo in Boccaccio
possono contribuire ad indurci a credere nell’espressione personale, nelle forze individuali e nel
coraggio delle scelte. Il Decameron è anche una celebrazione della parola pronta, precisa, elegante ed
efficace, come dimostrano soprattutto le novelle della VI giornata. Oggi il linguaggio quotidiano
appare sempre più stereotipato, piatto, povero e impreciso, composto di frasi fatte ripetute pigramente,
anche a causa del modello predominante dei mezzi di comunicazione di massa. La povertà del
linguaggio è una grave limitazione, che priva della possibilità di capire messaggi comprensibili,
limitando di fatto il pieno esercizio delle nostre potenzialità e dei nostri diritti civili. L’opera
boccacciana, mostrandoci come la parola possa risolvere situazioni difficili, modificando o addirittura
plasmando la realtà, ci può servire da stimolo per assumere coscienza della sua importanza, avendo
come fine quello di arricchire il nostro linguaggio, rendendolo più duttile e appropriato, in modo che
torni ad essere la chiave per meglio capire la realtà in cui siamo immersi e lo strumento per agire in
essa. Al tempo stesso l’opera di Boccaccio esalta la generosità magnanima, il bel gesto disinteressato.
Il comportamento degli “eroi cortesi” boccacciani diventa un modello ideale di riferimento per
sottoporre a critica e per contrastare gli aspetti negativi della nostra epoca, in cui dominano spesso
l’interesse egoistico e la ricerca del profitto che ignora ogni scrupolo. Infine, l’eleganza e la
raffinatezza di tanti personaggi boccacciani possono, per contrasto, facci avvertire con maggior
evidenza, la rozzezza, la maleducazione e la volgarità.

11. Il genere della novella

Il genere della novella, destinato ad attraversare i secoli fino ad arrivare ai giorni nostri, è difficile da
definire e da codificare, e costituisce a tutt'oggi un campo di animato dibattito. Non a caso un famoso
teorico della letteratura, Viktor Šklovskij, in uno studio sulla Teoria della prosa dichiarava
l'impossibilità di tracciare con chiarezza i confini di tale genere. In esso converge infatti la somma di
altri generi letterari brevi” che gli preesistono. Non ha, la novella, origine da una sola forma letteraria
ma da un insieme eterogeneo di antefatti; essa ha cioè una formazione “poligenetica”, e tale
formazione le conferisce un carattere di multiformità. Al suo interno trovano spazio le narrazioni
brevi di tema religioso o profano che esistono fin dalla letteratura delle origini: come la legenda, la
vida trobadorica, l’exemplum religioso, il fabliau francese, il lai, i racconti arabi e orientali, le fiabe
e i racconti popolari, i racconti orali delle brigate aristocratiche e cittadine. Boccaccio è consapevole
della novità straordinaria della propria opera. Egli, con il Decameron, conferisce dignità letteraria ad
un genere i cui autori fino a quel momento erano rimasti anonimi; e fissa i presupposti teorici del suo
lavoro nel Proemio al suo libro, mostrando di avere consapevolezza della intricata selva di forme
narrative con cui la novella è in rapporto: «intendo raccontare cento novelle, o favole o parabole o
istorie». Di particolare rilievo è il fine che si accompagna a questo genere, ovvero la delectatio
(divertimento): la novella è un racconto che ha come scopo l'intrattenimento, lo svago piacevole e
disimpegnato; che ha in se stesso la propria finalità; che non vuole impartire un insegnamento morale
(come l'exemplum cristiano), né cela un significato allegorico. Boccaccio stesso, per indicare la
varietà dei temi e dei registri del proprio lavoro, ricorre alla metafora del «campo ben coltivato», che
può contenere «erbacce» oppure le «erbe migliori»: come avviene nel multiforme ed accidentato
palcoscenico del mondo.
Bibliografia

Baldi, G. et alii, “Le occasioni della letteratura. Dalle origini all’età della Controriforma”, Pearson
Italia, Milano-Torino 2019.

Ferroni, G., “Storia della letteratura italiana. Dalle origini al Quattrocento”, Mondadori Università, X
edizione, Milano 2019.

Roda, V. “Manuale di italianistica”, parte II, Bononia University Press, Bologna 2005.

Fonti audio-visive

Documentario Rai “I grandi della letteratura italiana”: https://www.raiplay.it/video/2015/11/I-


GRANDI-DELLA-LETTERATURA-del-23112015-b6cdbe76-3199-4195-8af6 6ff1aeeee787.html

Sitografia

https://www.brown.edu/Departments/Italian_Studies/dweb/boccaccio/life1_en.php
7. Ludovico Ariosto
La vita

Ariosto nacque l’8 settembre 1474 a Reggio Emilia, da una nobile famiglia. Il padre, Niccolò, era
comandante della guarnigione militare di Reggio e funzionario al servizio dei duchi d’Este. Dall’84
si trasferì a Ferrara e qui Ludovico intraprese i primi studi: frequentò corsi di diritto soltanto per
obbedire al padre. Interruppe gli studi per dedicarsi alla letteratura: sono di questo periodo le sue
produzioni liriche.
A Ferrara, tra il 1497 e il 1499, e tra il 1501 e il 1505, soggiornò Pietro Bembo, con il quale Ludovico
strinse amicizia; nel frattempo Ariosto aveva cominciato a far parte della corte del duca Ercole I,
entrando nella cerchia dei cortigiani stipendiati.
Il 1500 è l’anno di morte del padre: Ludovico è costretto a farsi carico delle necessità familiari, quali
occuparsi del patrimonio familiare e assumere la tutela dei fratelli minori.

Nel 1503 entrò al servizio del cardinale Ippolito, figlio del duca Ercole I, con incarichi molto vari.
Per aumentare le entrate, prese gli ordini minori, in modo da poter godere di benefici ecclesiastici. Si
occupò di spettacoli di corte, scrivendo due commedie, La Cassaria (1508) e I Suppositi (1509).

A causa dei rapporti tesi tra il nuovo duca, Alfonso I, ed il papa Giulio II, Ariosto venne mandato più
volte, tra il 1509 e il 1510, a Roma come ambasciatore. Nel frattempo, iniziò a frequentare gli
ambienti fiorentini- che miravano alla restaurazione del potere mediceo-, e strinse rapporti con il
cardinale Giovanni de’ Medici, figlio del Magnifico: pensava ad uno sbocco di carriera, passando
dalla provinciale Ferrara alla corte romana. Quando Giovanni de’ Medici diventa papa con il nome
di Leone X, nel 1513, Ariosto credette che fosse giunta l’ora di ottenere incarichi ambiti: le sue
aspettative furono deluse, e dovette restare a Ferrara. A Firenze Ludovico aveva stretto un legame con
Alessandra Benucci, con la quale si sposò in segreto nel 1527.

Il 1516 è l’anno della pubblicazione della prima edizione dell’Orlando furioso, che Ludovico dedicò
al cardinale Ippolito, il quale non apprezzò l’opera. Nel 1517 Ariosto si rifiutò di seguire il cardinale
in Ungheria, passando così al servizio del duca Alfonso. Questi inviò il poeta come governatore della
Garfagnana, una regione turbolenta e piena di banditi: Ariosto dette prova di capacità politiche, di
equilibrio ed energia, ma ciò gli impediva di dedicarsi alla poesia e agli studi. Tornato a Ferrara nel
1525 si occupò degli spettacoli di corte scrivendo La Lena e riprendendo Il Negromante.

In questi anni riprese a lavorare alla revisione stilistica e all’ampliamento del Furioso. Morì nel 1533,
ammalatosi di enterite.

Le opere minori

Le liriche latine e le rime volgari

Le liriche latine sono 67 componimenti, scritti tra il 1494 e il 1503, mai pubblicate come opera
compiuta. Vi si rivela la formazione umanistica di Ariosto e sono ravvisabili i modelli classici: Orazio,
Catullo, Virgilio, Tibullo, Properzio, Ovidio. Di personale Ariosto inserisce la denuncia del contrasto
fra la durezza quotidiana e le aspirazioni all’otium intellettuale proprie del letterato.

Le rime volgari sono state scritte tra il 1493 e il 1527: anch’esse non furono mai raccolte
organicamente, e furono pubblicate postume, nel 1546. Si tratta di componimenti d’occasione, legati
ad avvenimenti della storia contemporanea, ma molti trattano del tema amoroso e della figura della
donna amata, Alessandra Benucci, componendo quasi un canzoniere. Il tono di questa poesia amorosa
è lontano dalla poesia petrarchesca: vi sono spunti più intimi e affettuosi, e spunti di più caldo
erotismo, ispirati ai classici latini.

Interessante anche i capitoli2: contengono riferimenti autobiografici, effusioni liriche e amorose, il


tutto in toni misurati e pacati e con un linguaggio medio, colloquiale, che li accosta alle Satire.

Le commedie

Ariosto si occupò professionalmente di teatro e due sue commedie, La Cassaria e I Suppositi, furono
rappresentate alla corte di Ferrara, nel 1508 e nel 1509. Questi testi costituiscono l’inizio e il modello
di tutta la produzione successiva di commedie classicheggianti del Cinquecento.

Con fini di intrattenimento, Ariosto mirò a un’alta dignità artistica e, nell’elaborazione dei suoi testi,
guardò ai modelli classici, in particolare a Plauto. Mentre però le commedie latine erano in versi,
Ariosto scelse in un primo tempo la prosa.

Le commedie riprendono il tipico schema plautino del conflitto fra i giovani, volti a raggiungere i
loro obiettivi amorosi, ed i vecchi che in vari modi li ostacolano. Una parte importante hanno anche
i servi astuti, che aiutano i giovani ad ottenere ciò che desiderano con stratagemmi e inganni. Al
modello plautino si aggiunge l’influenza della novella italiana boccacciana, nel motivo
dell’intraprendenza dei giovani nella ricerca del soddisfacimento amoroso e in quello dell’astuzia dei
servi.
La trama si conclude di regola con il lieto fine; la scena è collocata in ambienti borghesi cittadini. La
Cassaria si svolge in una città greca, Metelino; I Suppositi è ambientata in Ferrara e vi è una fitta rete
di riferimenti a realtà e luoghi cittadini ben noti agli spettatori, che potevano così vedere riflesso sul
palcoscenico il mondo a loro familiare.

Per un decennio l’attività teatrale di Ariosto si interruppe; quando la riprese, lasciò la prosa per il
verso, più vicino ai modelli a cui egli si rifaceva. Il verso prescelto fu l’endecasillabo sciolto
sdrucciolo.

Nel 1520 Ariosto inviava a papa Leone X Il Negromante, commedia rielaborata poi nel 1529, con
l’aggiunta di nuove scene. Al centro della vicenda vi è la figura di un mago imbroglione: Ariosto
prende spunto da essa per ridicolizzare le credenze irrazionali e la magia.

Oltre al solito motivo dell’amore contrastato di due giovani, La Lena (1528) insiste sul tema
dell’interesse economico, rappresentato dalla ruffiana che dà il titolo alla commedia. Tanti i
riferimenti alla realtà ferrarese, con spunti satirici nei confronti della disonestà e corruzione di
personaggi legati alla corte estense e alla burocrazia amministrativa. Vi si manifesta una visione
disincantata e amara dell’uomo, che appare mosso solo da interessi utilitaristici e meschini.

Dal 1518-19 Ariosto aveva abbozzato un’altra commedia, Gli studenti, interrotta all’inizio del IV atto,

2Il capitolo era un componimento di una certa ampiezza, in terzine dantesche, diffuso già nel Trecento per trattare temi
allegorici e dottrinali, mentre nel Quattrocento aveva assunto la forma della conversazione, con argomenti variamente
mescolati di carattere morale o politico.
poi completata postuma dal fratello Gabriele e dal figlio Virginio.

Le lettere

Scritte fra il 1498 e il 1532, ci sono giunte 214 lettere di Ariosto: si tratta di un epistolario che contiene
lettere private, relazioni diplomatiche, rapporti ai signori, biglietti d’occasione. Sono scritte in uno
stile semplice e immediato.

Le satire

Tra il 1517 e il 1525 Ariosto scrisse sette satire in forma di lettere in versi indirizzate a parenti e amici.
I modelli per queste satire sono classici: le Satire e le Epistole di Orazio3. A quest’ultimo Ariosto è
particolarmente vicino, nell’ideale di una vita quieta e modesta ma indipendente da ogni servitù.
Utilizza la forma del capitolo in terzine dantesche.

La Satira I è indirizzata al fratello Alessandro e all’amico Ludovico da Bagno, ed in essa l’autore


spiega le ragioni per cui ha rifiutato di seguire in Ungheria il cardinale Ippolito, insistendo
sull’incompatibilità degli incarichi pratici del cortigiano con la vocazione letteraria.
La Satira II è rivolta al fratello Galasso, e contiene una rappresentazione critica e polemica della corte
papale.
La Satira III, dedicata al cugino Annibale Malaguzzi, tratta della condizione del poeta nel nuovo
servizio del duca Alfonso, e ribadisce la sua esigenza di autonomia dalla corte.
La Satira IV, destinata a Sigismondo Malaguzzi, descrive le difficoltà del suo compito di governatore
della Garfagnana, il rimpianto dell’attività letteraria interrotta, la nostalgia della sua città e della sua
donna.
La Satira V, rivolta ancora al cugino Annibale, è una analisi dei vantaggi e degli svantaggi della vita
matrimoniale, e contiene una serie di consigli sui criteri da seguire nella scelta della moglie.
Nella Satira VI, indirizzata a Pietro Bembo, Ariosto chiede consigli per l’educazione del figlio
Virginio, esprime il suo rammarico per non aver potuto approfondire la conoscenza del greco, ed
esalta la funzione incivilitrice della poesia.
Nella Satira VII, dedicata a Bonaventura Pistofilo, il poeta motiva il suo rifiuto di andare a Roma
come ambasciatore ed esprime il suo amore per l’ambiente ferrarese.

La struttura di questi componimenti è quella della chiacchierata alla buona, che trascorre con
disinvoltura, talora senza apparenti connessioni, tra i più vari argomenti. Il discorso risulta ricco di
intreccio di voci, che propongono prospettive diverse sul reale.

I temi centrali delle Satire sono la condizione dell’intellettuale cortigiano, i limiti e gli ostacoli che
essa pone alla libertà dell’individuo, l’aspirazione ad una vita tranquilla e appartata, lontana dalle
ambizioni e dalle invidie della realtà di corte, dedita agli studi, la follia degli uomini che si danno ad
inseguire oggetti vani, la fama, il successo, la ricchezza. L’atteggiamento dell’autore è ironico, ma
raramente ha punte di asprezza polemica: in genere è pacato, misurato, tollerante. Lo stile delle Satire
è uno stile colloquiale, prosaico e in certi tratti disadorno e impiega ampiamente modi di dire della

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La satira antica era in origine un componimento che permetteva di toccare i più vari argomenti, senza un ordine prefissato
(il nome pare che derivi da satura lanx, un piatto votivo che conteneva i più vari tipi di cibi). Orazio aveva fissato il
modulo della satira come libera e svagata conversazione, in cui l’autore può toccare gli argomenti più diversi, riferimenti
autobiografici, riflessioni generali sul comportamento umano, ritratti di persone, apologhi, favole.
lingua parlata. Anche il ritmo del verso ha del colloquiale, predilige fratture e pause che avvicinano
il verso alla prosa.

Le Satire nel complesso sono un’opera fondamentale e costituiscono la chiave per capire l’Orlando
Furioso: in esse si trova quell’atteggiamento riflessivo e conoscitivo nei confronti della realtà che nel
poema è mascherato dietro il fluire delle avventure cavalleresche e dietro il fascino del meraviglioso
e del fiabesco.

L’Orlando Furioso

Le fasi della composizione

Intorno al 1505 Ariosto mise mano alla composizione di un poema cavalleresco, l’Orlando furioso,
che si collega direttamente all’opera di Boiardo, riprendendo la narrazione esattamente al punto in
cui il poeta l’aveva interrotta e proseguendola con nuove avventure.
Una prima redazione dell’Orlando furioso, in 40 canti, era terminata nell’ottobre 1515, e vide la luce
a Ferrara nel 1516. Appena uscita questa edizione, l’autore si mise a correggerla e a limarla. Una
seconda edizione uscì nel 1521, con qualche aggiustamento, qualche taglio, e una complessiva
revisione linguistica. Le due edizioni ebbero grande successo, ma, Ariosto, insoddisfatto, fece una
radicale revisione dell’opera. Una terza edizione uscì nel 1532. La revisione fu principalmente
linguistica: nelle prime due edizioni la lingua usata era quella cortigiana propria di Boiardo, basata
sul toscano letterario ma con numerose coloriture padane e latineggianti; nell’ultima edizione adeguò
la lingua ai canoni classicistici fissati dal Bembo ne le Prose della volgar lingua.

Le revisioni riguardano anche i contenuti: vi sono numerose aggiunte, di interi episodi; fitti sono i
riferimenti ai fatti della storia contemporanea. Il numero dei canti fu elevato, così, a 46. L’inserimento
dei nuovi episodi causò nuove simmetrie, determinando anche un clima diverso, più cupo, pieno di
pessimismo sulla Fortuna e l’azione umana, caratterizzato da tematiche negative, come il tradimento,
la violenza, la tirannide.

Rientrano in questo clima anche i Cinque canti: furono scritti con l’intenzione di inserirli nella
seconda edizione del poema, ma in realtà Ariosto rinunziò all’inserzione e li lasciò inediti. Furono
poi pubblicati postumi dal figlio Virginio.

La materia del poema

Continuando il poema interrotto da Boiardo, Ariosto riprende la materia cavalleresca operando quella
fusione tra materia carolingia e arturiana. I personaggi, Carlo Magno, Orlando, Rinaldo, Astolfo, sono
quelli della tradizione carolingia, ma grande rilievo hanno sia il motivo amoroso sia quello fiabesco
e meraviglioso, tipico della Bretagna.
Alla materia romanza si aggiungono infinite reminiscenze della letteratura classica, di Virgilio, di
Ovidio e tanti altri autori antichi: può trattarsi di interi episodi ricalcati, di rimandi mitologici, o di
semplici riecheggiamenti di versi o di clausole stilistiche. In ogni caso, le fonti sono solo “spunti”,
suggerimenti iniziali che poi Ariosto assimila alla sua visione della vita ed amalgama nell’organismo
del poema.
Il pubblico

Il poema è pensato come opera di intrattenimento, indirizzato ad un pubblico di cortigiani e persone


colte. Esso presenta i caratteri del racconto rivolto a viva voce ad un pubblico fisicamente presente
dinanzi al poeta, carattere proprio della tradizione romanzesca. In realtà quella della comunicazione
orale è solo una convenzione: il Furioso è opera interamente pensata per la diffusione attraverso la
stampa. Il pubblico non era più costituito solo dalla cerchia ristretta dell’ambiente in cui l’opera era
nata, ma era ormai il pubblico nazionale, formato dall’insieme delle persone colte di tutti i centri della
penisola. Proprio in consonanza con i gusti di questo pubblico – educato ormai ai canoni del
classicismo-, oltre che in rispondenza ai propri ideali poetici, Ariosto doveva tendere a dare forma
classica, sia nella lingua sia nei riferimenti alla letteratura antica, alla materia cavalleresca.

L’organizzazione dell’intreccio

Nell’Orlando Furioso si intrecciano le vicende di numerosi eroi; Ariosto riprende la tecnica di


Boiardo di interrompere improvvisamente la narrazione, in un punto cruciale, per passare a narrare la
vicenda di un altro personaggio. Questo procedimento nel Furioso diventa sistematico: il narratore
parta avanti in parallelo il racconto di più vicende contemporaneamente, troncandole e riprendendole.
Questo modo di procedere è stato definito entrelacement. All’interno del tessuto narrativo sono
inserite anche delle novelle: si tratta di racconti nel racconto. Oltre alle avventure cavalleresche, vi
sono episodi in cui si profetizzano eventi storici futuri offrendo al poeta lo spunto per introdurre
celebrazioni encomiastiche dei suoi signori. Ogni canto, inoltre, presenta un esordio in cui la voce
narrante fa considerazioni morali sul comportamento umano aprendo spesso un dialogo con gli
ipotetici destinatari.

Tre sono i fili narrativi, indicati dal poeta nel Proemio:

1- La guerra mossa dal re africano Agramante a Carlo Magno sul suolo di Francia, per vendicare
la morte del proprio padre Traiano;
2- L’amore di Orlando per Angelica e la vana ricerca della donna amata che si risolve nella
scoperta del suo tradimento e dello sposalizio con Medoro, nella follia dell’eroe e nel suo
finale rinsavimento, grazie ad Astolfo e al suo viaggio sulla Luna;
3- Le vicende di Ruggero e Bradamante, che si conclude con la conversione del primo al
cristianesimo e con le nozze, da cui avrà origine la casa estense.
La guerra tra cristiani e Mori costituisce il nucleo centrale dell’intreccio, intorno a cui ruotano tutte
le altre vicende.

L’intreccio dell’Orlando Furioso

L’argomento bellico, tipico della tradizione del poema epico e cavalleresco, incomincia
con l’invasione della Francia e l’assedio di Parigi da parte del re saraceno Agramante, che
inizialmente sembra aver la meglio sull’esercito cristiano di Carlo Magno, anche grazie all’aiuto del
grande guerriero Rodomonte, di Marsilio, re di Spagna, e Manfricardo, re tartaro, suoi alleati. I due
paladini più importanti dello schieramento cristiano, Orlando e Rinaldo, si perdono infatti dietro alla
bellissima Angelica, e gli infedeli possono così penetrare a Parigi. Il ritorno in campo di Rinaldo
costringe però i saraceni alla ritirata ad Arles e poi alla sconfitta in una battaglia navale. Caduta
anche Biserta, capitale del regno d’Africa, le sorti della guerra sono affidate ad una sfida tra i tre
migliori guerrieri mori (Agramante, Gradasso e Sobrino) e i tre campioni cristiani (Orlando,
Brandimarte e Oliviero) sull’isola di Lampedusa. Orlando sbaraglia i nemici e assicura la vittoria a
re Carlo Magno.

La tematica sentimentale è spesso intrecciata con quella militare, tanto da condizionare in più
occasioni lo sviluppo delle battaglie e i duelli tra i singoli cavalieri. Tutto ha inizio durante l’assedio
di Parigi; Angelica, ambita sia da Orlando che da Rinaldo, è affidata da re Carlo a Namo di Baviera,
con la promessa di darla in sposa a chi si dimostrerà più valoroso nello sconfiggere i mori. La fanciulla
riesce però a fuggire, inseguita da molti guerrieri di entrambi gli schieramenti. La ragazza, dopo
alcune traversie, incontra un giovane fante saraceno ferito, il bellissimo Medoro, di cui si innamora
e con il quale fugge in Catai. Orlando, giungendo in seguito nel bosco sui cui alberi la coppia aveva
inciso scritte che celebravano il loro amore, impazzisce e si dà alla devastazione di tutto ciò che
incontra. Il paladino, con la mente offuscata dalla gelosia, si aggira per la Francia e la Spagna, fino
ad attraversare lo stretto di Gibilterra a nuoto. Nel frattempo il guerriero Astolfo, dopo aver domato
un ippogrifo, vola sulla Luna, dove ritrova in un’ampolla il senno perduto di Orlando. Dopo aver
attraversato l’Africa e aver compiuto mirabili imprese, Astolfo fa odorare l’ampolla a Orlando, che
torna in sé e rientra in combattimento. Altri amori “secondari” sono quelli tra Zerbino e Isabella e tra
Brandimarte e Fiordiligi.

La terza linea narrativa, quella encomiastica, riguarda Ruggiero, guerriero saraceno, e Bradamante,
sorella di Rinaldo. I due, che si amano ma che sono continuamente divisi dal susseguirsi degli eventi
e delle battaglie, sono presentati come i capostipiti della famiglia d’Este, che, per via di Ruggiero,
discenderebbe così addirittura dalla stirpe troiana di Ettore. L’amore tra i due è innanzitutto ostacolato
dal mago Atlante, che vuole evitare le nozze tra i due perché sa, in seguito ad una profezia, che
Ruggiero è destinato a morire se si convertirà alla fede cristiana e sposerà Bradamante. Il guerriero
viene quindi imprigionato in un castello incantato creato appositamente dal mago. Ruggiero è poi
trattenuto sull’isola della maga Alcina, che lo seduce con le sue arti di strega. Liberato da Astolfo da
un secondo castello magico, Ruggiero può recarsi con Bradamante in Vallombrosa per convertirsi e
sposare l’amata, ma il tutto è ulteriormente rimandato dalla guerra con i saraceni. Concluse le ostilità,
si scopre che Bradamante è stata promessa a Leone, figlio di Costantino ed erede dell’Impero
Romano d’Oriente. Dopo un duello tra Bradamante e Ruggiero (che combatte sotto mentite spoglie
per non farsi riconoscere), Leone rinuncia a lei, così che si possa finalmente celebrare il matrimonio.
Rodomonte irrompe però al banchetto nuziale, accusando Ruggiero d’aver rinnegato la sua fede; il
capostipite della dinastia degli Estensi, dopo un acceso duello, lo uccide.

Il motivo dell’“inchiesta”

Al centro del Furioso vi è il motivo dell’“inchiesta”: ciò che muove la vicenda e suscita le imprese
dei cavalieri è la ricerca di un oggetto di desiderio. L’“inchiesta” assume qui un carattere laico e
profano, a differenza dei romanzi arturiani, in cui si caricava di sensi mistico-religiosi. Nel Furioso
tutti i personaggi desiderano e ricercano qualcosa, una donna, l’uomo amato, un elmo, una spada, un
cavallo. Ma il desiderio è vano, gli oggetti desiderati deludono sempre le attese e appaiono
irraggiungibili, l’“inchiesta” risulta sempre fallimentare e inconcludente.
Emblema del carattere delusorio degli oggetti del desiderio e della vanità dell’“inchiesta” è il
personaggio di Angelica, desiderata da Orlando e da molti altri cavalieri, che sfugge sempre,
irraggiungibile.
L’“inchiesta inconcludente si traduce in un movimento circolare, che non approda mai ad una meta e
ritorna sempre su se stesso, ad indicare il carattere ossessivamente ripetitivo della ricerca. Il moto
circolare e l’azione ripetitiva rendono metaforicamente il senso della ricerca inappagata. L’inseguire
questi oggetti delusori costituisce per i personaggi uno sviarsi, un “errore”, che può essere un errore
in senso materiale, l’errare, l’allontanarsi fisicamente ma anche moralmente e intellettualmente: il
desiderio ossessivo e insoddisfatto può trasformarsi in follia.

La struttura del poema: l’organizzazione dello spazio

L’organizzazione dello spazio ha una funzione essenziale nel Furioso: si tratta di uno spazio
vastissimo, che va dalla Francia alla penisola iberica all’Italia, al Nord dell’Europa, al vicino e
all’estremo Oriente, all’Africa.
La concezione dello spazio è indicativa a rivelare la concezione del mondo di un autore. Lo spazio
nel Furioso è del tutto orizzontale (a differenza della Divina Commedia, in cui lo spazio si sviluppa
in verticale): il movimento dei cavalieri avviene sul pianto di una perfetta orizzontalità, nella
dimensione puramente terrena.
Il mondo del poema ariostesco è un mondo tutto immanente: se la Commedia interpretava
perfettamente il senso della trascendenza medievale, il Furioso riflette la concezione laica propria del
Rinascimento. Inoltre, di fronte ai cavalieri di Ariosto si apre ad ogni momento un campo infinito e
vario di possibilità tra cui scegliere, e la ricerca non raggiunge mai il suo oggetto: il movimento non
è lineare ma circolare e ritorna sempre su se stesso.

Quello del Furioso è uno spazio aperto al desiderio e alla scelta umani, anche labirintico e frustante.
In esso domina l’azione capricciosa e imprevedibile della Fortuna; Ariosto ha una visione disincantata
e pessimistica rispetto alla fiducia nella virtù dell’uomo nella lotta contro la Fortuna, propria
dell’Umanesimo quattrocentesco.
La selva rappresenta un luogo metaforico che fa da sfondo al primo canto ma anche in molti altri
episodi: uno spazio intricato in cui infiniti sentieri si aggrovigliano ed in cui i personaggi si muovono
nelle loro “inchieste” mossi dalla Fortuna.

La struttura del poema: l’organizzazione del tempo

L’organizzazione del tempo è analoga a quella dello spazio. Il tempo non è lineare ma labirintico:
sono molteplici i fili narrativi che si intrecciano, molti fatti, che si succedono sull’asse sintagmatico
del racconto sono in realtà contemporanei. È un tempo aggrovigliato che torna spesso su se stesso,
perché il poeta torna costantemente indietro a riprendere fili narrativi lasciati interrotti.
La struttura narrativa è divagante, digressiva, che gioca sulla sospensione e sull’attesa e rimanda
sempre il suo compimento.
L’intersecarsi e l’aggrovigliarsi delle “inchieste” fra di loro dà origine all’aggrovigliarsi dei fili
narrativi: l’entrelacement, ossia l’intrecciarsi delle varie narrazioni fra di loro, con interruzioni e
riprese, è portato alle estreme conseguenze da Ariosto.

Labirinto e ordine: struttura narrativa e visione del mondo

Dalla struttura narrativa emerge l’immagine di un reale labirintico, infinitamente vario e molteplice,
mutevole e imprevedibile. L’impressione del poema in ogni caso non è quella del caos, del disordine:
l’immagine che si ricava è quella di un cosmo perfettamente ordinato e armonico. L’intrecciarsi delle
vicende narrate, l’entrelacement, appare sempre inserito in un disegno organizzativo rigoroso, che il
poeta regola dall’alto, con consapevolezza.
Il poeta, nel corso del racconto, più volte enuncia il principio dell’unità che vi deve essere nella
molteplicità; vi è l’idea di un’armonizzazione delle varie vicende e delle varie materie trattate,
imprese di guerra e amori, eventi tragici e intermezzi comici.
Inoltre, le intricate vicende della trama si vengono a comporre in equilibrate strutture e geometriche
simmetrie. Un esempio di simmetria si riscontra nei percorsi di Orlando e Ruggiero: per il primo si
tratta di un percorso di degradazione, dal positivo al negativo, da guerriero pio e assennato si abbassa
al libello delle bestie selvagge; per il secondo è un percorso di elevazione, dal negativo al positivo,
dall’incostanza di propositi all’acquisto della saggezza e al riconoscimento delle proprie
responsabilità di guerriero.

Dal romanzo all’epica

Se la materia cavalleresca dà l’impressione di una struttura aperta, capace di espandersi all’infinito


per addizione di avventure su avventure, in realtà tutti i filoni narrativi principali arrivano a una
conclusione: Angelica sposa Medoro e sparisce dal poema, Orlando riacquista il senno e dà un
contributo deciso alla vittoria dei cristiani, Ruggiero sposa Bradamante, Rinaldo rinsavisce e rinuncia
al suo amore ossessivo per Angelica, la guerra tra cristiani e Mori si conclude con la sconfitta dei
secondi. Alla struttura aperta del romanzo cavalleresco, che non arriva mai ad una vera conclusione,
si sostituisce una struttura completamente diversa, quella chiusa e compatta propria dell’epica
classica.
Vari indizi testimoniano la volontà del poeta del ricupero della struttura epica:

- La sconfitta del mago Atlante e la dissoluzione dell’incantesimo del palazzo segnano la fine
degli inganni, che con il loro gioco delle vane apparenze e la proposizione di fittizi oggetti del
desiderio costituivano una delle molle principali dell’infinito movimento delle avventure;
- L’entrelacement, nella seconda parte del poema, dopo il culmine della follia di Orlando, si fa
più raro: predominano sequenze narrative lunghe e ininterrotte come la lunga sequenza lunare
di Astolfo ma non solo;
- L’“inchiesta” muta carattere: non è più ricerca di un oggetto, ma ricerca intellettuale;
- La conversione di Ruggiero segna la fine del continuo “errare” cavalleresco del personaggio
e l’approdo finale al suo destino di eroe epico, fondatore di una civiltà.

La materia cavalleresca che prolifera all’infinito, con l’aggrovigliarsi di mille fili narrativi, rende
l’immagine di una realtà multiforme, continuamente mutevole, imprevedibile, caotica: nella visione
pessimistica di Ariosto la pluralità del reale e il caos del mondo retto dall’arbitrio capriccioso della
Fortuna non sono dominabili. L’uomo che si muove dentro questa realtà, di infinite possibilità, è
destinato a non raggiungere mai gli obiettivi. Ma il poeta, creando l’universo fantastico del poema,
costruisce un simulacro, un modello del mondo, che è domabile intellettualmente, attraverso
l’organizzazione formale dell’opera. Se il mondo è caos, mutevolezza, il poema che ne è il simulacro
può essere ridotto all’ordine, chiuso in una struttura limpida e simmetrica. L’unico ordine possibile
per Ariosto è la letteratura, l’universo del fittizio; solo la letteratura consente un dominio simbolico
del reale. Se nella realtà l’uomo è soggetto a forze capricciose e incontrollabili, nell’universo della
finzione l’uomo artista è come Dio, che può esercitare un controllo totale sulla sua creazione.
Il significato della materia cavalleresca

Boiardo era il celebratore della cavalleria, ma non nel senso medievale: egli credeva che i valori
cortesi potessero rivivere nella società cortigiana e che fossero in essa ancora praticabili, se venivano
rivitalizzati con contenuti nuovi e moderni. Ariosto, invece, non crede più in questa attualizzazione
del mondo cavalleresco, in quanto ai suoi tempi la civiltà cortese è ormai in piena crisi: la cavalleria
è per Ariosto un mondo ormai remoto.

Nell’Orlando furioso vi è il piacere di immergersi, narrando, in un mondo fittizio, di abbandonarsi al


meraviglioso e al fantastico, ma non si tratta di un abbandono fine a se stesso. Il Furioso non è pura
evasione fantastica, fuga dalla realtà in un mondo meraviglioso: il piacere di narrare belle storie
romanzesche è solo il punto di partenza per una approfondita riflessione etico-filosofica sui temi
centrali della civiltà rinascimentale, quali la molteplicità e mobilità del reale, il capriccio della
Fortuna, l’amore idealizzato, cortese, platonico, l’amore carnale e coniugale. Un esempio è l’episodio
del palazzo di Atlante, dove la materia romanzesca e meravigliosa degli incantesimi del mago assurge
a simbolo del carattere ingannevole della realtà, che delude perennemente i desideri degli uomini.

Nel poema trovano così una fusione due componenti eterogenee che sembrano impossibili da
amalgamare, l’abbandono al piacere del fantastico avventuroso e la riflessione concettuale. Dietro le
avventure meravigliose si manifesta un intento conoscitivo, un impegno intellettuale, profondamente
agganciato alla realtà e rivela un atteggiamento critico nei confronti degli uomini e della società,
affine a quello delle Satire.

Lo straniamento e l’ironia

Proprio perché sempre accompagnato da questa volontà di riflessione sul reale, l’abbandono al
piacere del meraviglioso romanzesco in Ariosto non può essere totale. Da qui il processo dello
straniamento: consiste in un improvviso mutamento nella prospettiva di cui è presentata la materia,
nell’allontanarla e nel guardarla con occhio estraneo, in modo da impedire l’immedesimazione
emotiva nel mondo narrato e costringe così il lettore a guardare personaggi, situazioni come da
lontano, e a riflettere su essi con atteggiamenti critici. Frequente è quindi il continuo intervenire della
voce narrante con giudizi e commenti, in genere maliziosi, che spezzano l’illusione narrativa. In altri
casi il narratore ostenta una imperfetta conoscenza dei fatti, giocando volutamente a limitare il proprio
statuto di onniscienza. Questi processi di straniamento sono tra gli strumenti principali dell’ironia
ariostesca, che implica una forma di distacco dalla materia, uno sguardo da lontano, disincantato.

L’ironia e l’abbassamento

Un procedimento analogo allo straniamento, veicolo di ironia, è l’abbassamento. Per Ariosto, come
abbiamo accennato precedentemente, i valori cavallereschi non sono più praticabili, dunque egli si
limita ad abbassare la dignità epica ed eroica dei personaggi, portandoli a un livello più prosaico e
familiare, facendo emergere, sotto le apparenze dei cavalieri e delle dame gli uomini e le donne, con
i loro limiti ed errori. L’abbassamento può essere prodotto, in alcuni casi, dall’intervento del narratore,
con l’uso di paragoni e similitudini prosaiche, che determinano un contrasto con la qualità dei
personaggi.
Proprio abbassando i personaggi eroici alla realtà quotidiana e familiare, e rivelando in essi l’uomo
comune, questo procedimento trasforma la materia epica e cavalleresca in punto d’avvio della
riflessione sulla natura del reale e sul comportamento degli uomini.
L’ironia non nasce quindi dall’indifferenza per la materia, non è solo il distacco con cui l’artista
contempla la sua creazione, non è strumento di evasione fantastica: se l’ironia è fondamentale per
rendere la materia romanzesca campo aperto per la riflessione etico-filosofica, essa appare lo
strumento della disposizione conoscitiva di Ariosto nei confronti del reale, del suo atteggiamento
critico dinanzi al mondo e agli uomini.

Personaggi “sublimi” e personaggi pragmatici

Il disincanto verso il reale dà origine ad un atteggiamento critico soprattutto nei confronti dei
personaggi più “sublimi” del poema, quelli eroicamente fedeli ai loro ideali e ai loro princìpi. Esempio
lampante è Orlando, l’eroe dall’animo più nobile ed elevato: la sua fedeltà ad Angelica è assoluta,
non desiste mai dall’idealizzarla secondo i canoni dell’amore cortese-platonico tipici della civiltà
cortigiana rinascimentale, e proprio per questo diventa pazzo. Il suo corrispettivo femminile è
Isabella, che spinge la sua fedeltà alla memoria di Zerbino ad una forma di autodistruttività, ad una
sorta di suicidio, per non cadere preda della bramosia di Rodomonte. Ariosto celebra la virtù sublime
di questi eroi, ma ne indica anche i limiti: è una virtù destinata alla sconfitta, pericolosamente vicina
alla follia, perché è fissazione rigida ad un’idea, incapacità di adattarsi alla mobilità del reale e alle
situazioni concrete determinate dal gioco della Fortuna: per questo l’esito dell’idealismo di questi
personaggi è fallimentare e tragico, la follia e la morte.

D’altro canto, Ariosto introduce personaggi più spregiudicati e pragmatici, più flessibili a conformarsi
al reale e alla Fortuna, presentando così esempi di una “virtù” di altro tipo. Questi personaggi non
sono fedeli ad un oggetto idealizzato ma, rinunciando ai princìpi, sanno accontentarsi di oggetti
sostitutivi, meno elevati e più facilmente disponibili. Un esempio è rappresentato da Ferraù che sa
rinunciare ad inseguire Angelica e si accontenta di un oggetto meno sublime, l’elmo di Orlando. Il
realismo spregiudicato di personaggi del genere costituisce il correttivo dell’idealismo estremizzato
dei personaggi “sublimi”. L’autore non si identifica mai con una prospettiva: se ammira la fedeltà
eroica, ne sottolinea anche con distacco gli esiti fallimentari; se ironizza sulla disinvolta
spregiudicatezza di personaggi come Mandricardo e Doralice, li guarda anche con divertita simpatia,
e riconosce l’efficacia pratica dei loro comportamenti.

Il pluralismo prospettico e la narrazione polifonica

Nel poema, ogni certezza e ogni acquisizione non è mai definitiva, ma viene superata con un
procedimento di correzione continua, che rende reversibile la lettura. Viene a crearsi così un
pluralismo prospettico: nel corso della narrazione diversi modi di giudicare un fatto o un
comportamento possono alternarsi, senza che mai si ponga un giudizio definitivo e unico.
Nel poema di manifestano varie voci, portatrici di varie prospettive sul reale, di vari orientamenti
ideologici, senza che l’autore intervenga a fissare una prospettiva privilegiata. L’Orlando furioso
possiede quindi i caratteri formali tipici della narrazione polifonica. Questo pluralismo prospettico
dominante nel Furioso è il corrispettivo speculare di quel mondo infinitamente molteplice e vario di
cui il poema vuole essere il simulacro.

La lingua e la metrica del Furioso

Il criterio linguistico seguito da Ariosto nella revisione del poema per la terza redazione è quello
bembesco, ispirato ad un’idea classicistica di uniformità, compostezza, levigatezza, equilibrio. Il
modello è l’unilinguismo di Petrarca. In realtà la lingua del Furioso è più variegata e multiforme della
lingua del petrarchismo, non è così selettiva e circoscritta nelle scelte lessicali. Possono comparire
termini aulici, termini più comuni, colloquiali, costrutti eleganti e costrutti più vicini al parlato.
Nonostante questa varietà, non si avvertono mai urti tra livelli diversi: i vari ingredienti nel Furioso
sono amalgamati in un impasto che appare perfettamente fuso, unitario, levigato e senza increspature.
Alla fusione unitaria contribuisce anche il ritmo dell’ottava ariostesca: l’ottava era il metro
tradizionale della poesia cavalleresca, ma nel Furioso essa non ha più nulla della ripetitività monotona
e meccanica che possedeva nei cantari. A seconda della materia trattata, l’ottava ariostesca può avere
impostazioni diverse: quando prevale la riflessione o l’ironia l’andamento è più prosaico e
colloquiale, nelle parti epiche può farsi solenne: al di là di ogni varietà tonale trionfa una costante
fluidità di ritmo, uno slancio che sembra tradurre sul piano formale il movimento incessante che
percorre tutta la vicenda narrata.

Bibliografia

- G. Baldi, S. Giusso, M. Razetti, G. Zaccaria, Il piacere dei testi. L’Umanesimo, il


Rinascimento e l’età della Controriforma. Volume 2, 2014, Paravia.
Sitografia

- https://library.weschool.com/lezione/orlando-furioso-ludovico-ariosto-testo-personaggi-
4389.html
8. TORQUATO TASSO

Contesto storico-culturale
La seconda metà del Cinquecento fu caratterizzata dal drammatico riflesso della crisi politica e
intellettuale, inauguratasi in Italia con la pace di Cateau-Cambrésis (1559) e con la conclusione del
Concilio di Trento (1545-1563). L’accordo stipulato tra Francia e Spagna era apparentemente
tollerabile e l’Italia era diventata ormai una semplice provincia dell’immenso impero spagnolo. Tutta
la penisola, compresa Roma, Venezia e residui stati indipendenti, si avviò pian piano al declino
politico, economico e culturale.
Urbino e Ferrara, le cui corti rinascimentali furono frequentate da Tasso, nascondevano sotto
l’eleganza dei costumi una situazione politica precaria. Dopo l’allontanamento nel 1560 di Renata di
Francia, moglie di Ercole II d’Este e animatrice del protestantesimo italiano, Ferrara fu sottoposta al
controllo diretto dell’Inquisizione romana. Poiché la successione dei feudi ecclesiastici era possibile
solo in linea diretta e Alfonso II d’Este morì senza eredi, Ferrara passò sotto la giurisdizione della
Chiesa nel 1598. Stessa sorte toccò ad Urbino, a Mantova la dinastia Gonzaga si estinse nel 1627 e
pure grandi realtà come Roma, Firenze e Torino erano soggette all’ingerenza straniera.
Torquato Tasso fu portavoce attraverso le sue opere dei dibattiti ideologici e letterari del secondo
Cinquecento, caratterizzati principalmente dall’affermazione del programma culturale della
Controriforma e da un sempre più acceso conflitto tra le istanze culturali laiche dell’Umanesimo e le
nuove esigenze didattiche e propagandistiche della Chiesa di Roma.
Il primo terreno di scontro riguardò la Poetica di Aristotele, della quale erano pervenuti solo i primi
due libri sull’epopea e sulla tragedia e sul cui testo operò una nuova traduzione e commento il
professore padovano Francesco Robortello nel 1548. Si innestarono vivaci dibattiti in particolare sui
generi letterari antichi e moderni, sulla natura filosofica e sul fine della poesia. A detta di Aristotele,
la poesia non rappresenta il reale, ma il verosimile e il suo fine non può essere solo il piace, ma anche
l’educazione morale del pubblico. Tale interpretazione fu fatta propria dalla Chiesa controriformista,
la quale abbandonò di conseguenza il platonismo umanistico, che aveva caratterizzato il petrarchismo
cinquecentesco.
Siamo di fronte ad una nuova concezione della letteratura che non ha più lo scopo di “dilettare”, ma
vuole essere “utile”, di edificazione morale e religiosa e affidata ai “generi” della tragedia e del poema
epico.
Sulla discussione del poema epico, negli anni Cinquanta del Cinquecento, i letterati italiani si divisero
in “classicisti” e “anticlassicisti”. I primi sostenevano di dover seguire le regole aristoteliche, che
imponevano l’unità del racconto e la fedeltà alla storia, si concentravano sul problema morale e
additavano in Omero il modello perfetto. I secondi, al contrario, forti del modello ariostesco, volevano
salvaguardare la libertà del poeta, affermando che il poema è storia in versi e per raggiungere lo scopo
di “dilettare e giovare” può essere usato qualsiasi artificio stravagante e romanzesco.
Negli anni Sessanta i professori dell’Università di Padova (la stessa che frequentò Torquato Tasso),
per conciliare le opposte posizioni, si fecero interpreti di un “aristotelismo edonistico”, che si
riassumeva nella massima «miscere utile dulci» (ovvero, “mescolare l’utile al dilettevole”).
Anche Tasso si mosse verso questa direzione nelle sue prime opere, per poi aderire infine con la
Gerusalemme conquistata alla concezione didattica della letteratura promossa dalla Chiesa. Tasso
volle dimostrare la possibilità di congiungere l’utilità morale con il diletto, il romanzo profano con le
gesta sacre per contribuire alla predicazione del cattolicesimo controriformato. Per questo motivo il
Romanticismo e la critica del Risorgimento (tra cui De Sanctis e Carducci) considerarono Tasso
vittima della cultura religiosa del suo tempo. Tuttavia la critica più recente ha posto l’attenzione sullo
sperimentalismo tassiano anche in generi non aristotelici e sulla sua graduale e controversa
accettazione del programma controriformato, come dimostra ampiamente la sua tormentata biografia.

Biografia
Torquato Tasso nacque a Sorrento nel 1544 da Bernardo, letterato bergamasco al servizio di Ferrante
Sanseverino, principe di Salerno, e da Porzia de’ Rossi, nobile di origine pistoiese. L’infanzia del
giovane Torquato non fu molto felice in base a quanto si evince dall’incompiuta Canzone del Metauro
e dalle sue innumerevoli epistole. Il padre Bernardo abbandonò la famiglia nel 1552 per seguire il
proprio signore in esilio, allontanato dal Regno di Napoli per aver sostenuto le ragioni del popolo
contro l’introduzione del Tribunale dell’Inquisizione.
Tasso frequentò la scuola gesuitica fino al 1554, anno in cui morì la madre Porzia e furono confiscati
i beni familiari. Torquato iniziò a seguire l’esule padre presso le corti di Ravenna, Pesaro e Urbino.
Nel 1559 Bernardo divenne segretario dell’Accademia veneziana.
Dal 1560 al 1565, fatta eccezione per un breve biennio bolognese, Torquato frequentò i corsi
universitari a Padova, ma, non del tutto interessato allo studio del diritto, si appassionò della
letteratura e della filosofia. Seguì le lezioni sulla Poetica di Aristotele di Carlo Sigonio letterati e
filosofi come Giovan Vincenzo Pinelli e Sperone Speroni. Gli anni degli studi furono considerati
dallo stesso poeta i più felici e sicuri e strinse amicizia con Battista Guarini e con il giovane prelato
Scipione Gonzaga. Tasso conobbe inoltre Lucrezia Bendidio e Laura Peperara, alla quale il poeta
dedicò rime d’amore.
Mentre Bernardo era al servizio dei Gonzaga di Mantova, nel 1565 Torquato iniziò la sua carriera di
cortigiano a cui, per nascita ed educazione, era destinato. Fino al 1572 fu al servizio del cardinale
Luigi d’Este e in seguito passò sotto il fratello Alfonso II, duca di Ferrara. Fu ben stipendiato e riverito
dal duca e dalle principesse Lucrezia e Leonora, tant’è che godette di un breve periodo di tranquillità
e felicità creativa.
Nel 1575 Tasso concluse il poema Goffredo (titolo originario della Gerusalemme liberata) e ne
sottopose i canti alla revisione di letterati ed ecclesiastici. I dubbi in materia religiosa, mossi
soprattutto dal gesuita Silvio Antoniano, lo spinsero ad autoaccusarsi davanti agli inquisitori
bolognesi e ferraresi. Inoltre, sempre più insofferente alla vita di corte, iniziò una serie di trattative
maldestre per entrare al servizio dei Medici di Firenze. Il duca Alfonso II si indispettì per
l’atteggiamento del poeta, giacché temeva l’intervento pontificio sullo stato estense, dove ancora non
si era sopito lo scandalo della madre ugonotta, Renata di Francia.
Alla prima esplosione di follia nel 1577, il duca decise di affidare Tasso al convento ferrarese di San
Francesco; tuttavia il poeta fuggì per raggiungere la sorella Cornelia a Sorrento e da lì errò per Roma,
Siena, Firenze e di nuovo Ferrara. Nel 1578 Tasso si rifugiò presso la corte urbinate di Francesco
Maria della Rovere e, qualche mese dopo, presso Emanuele Filiberto di Savoia a Torino.
Tasso tornò a Ferrara nel 1579 in occasione delle nozze di Alfonso II e Margherita Gonzaga, ma ebbe
un altro attacco di follia, inveendo contro la corte; su ordine del duca il poeta fu arrestato e rinchiuso
nell’Ospedale di Sant’Anna per ben sette anni. Il periodo di “prigionia” viene documentato nelle
lettere che scrisse febbrilmente nei suoi alternati periodi di lucidità e follia.
L’opinione pubblica si schierò dalla sua parte, apprezzando tra l’altro le sue opere in versi e in prosa,
tant’è che ricevette nel 1581 la visita di Montaigne e nel 1586 fu liberato per intercessione di
Vincenzo Gonzaga.
Tasso riprese il suo lungo peregrinare presso conventi e munifiche case private; si recò a Mantova,
Napoli, Firenze e Roma, dove nel 1592 rese omaggio a papa Innocenzo IX. Fu ospite anche presso
Giovan Battista Manso, autore della sua biografia pubblicata nel 1621, e soggiornò a Napoli per
l’ultima volta nel 1594. A Roma trovò protezione nel cardinale Cinzio Aldobrandini, nipote del
pontefice Clemente VIII, uomo di lettere e protettore di artisti, e fu proprio lì che nel 1595, alla vigilia
dell’incoronazione poetica, Torquato Tasso morì.

Produzione letteraria
La produzione giovanile
Tasso cominciò a comporre fin dal periodo veneziano-padovano (1559-1561), quando, prendendo
spunto dall’eccidio turco di Salerno da cui era scampata la sorella Cornelia, abbozzò Il
Gierusalemme, poema epico sulla prima crociata, bandita nel 1095 da Urbano II e guidata
vittoriosamente da Goffredo di Buglione, Il tema era piuttosto attuale, poiché in molti bramavano una
crociata contro la minaccia turca alla fede cattolica e ai possedimenti e ai traffici veneziani. Tuttavia
si tratta di un’opera incompiuta a causa del progetto troppo oneroso di realizzare un poema religioso,
eroico e politico. Fu interrotto alla 116esima ottava del primo libro e la sua materia confluirà
successivamente nei primi 3 canti della Gerusalemme liberata. Sappiamo, inoltre, che ebbe come
modello di riferimento L’Italia liberata da’ Goti (1547) di Trissino e l’Orlando furioso (1532) di
Ariosto.
Risale al 1562 Il Rinaldo, poema cavalleresco in 12 canti in ottave, la cui materia era attinta da un
romanzo omonimo di inizio Cinquecento Le storie di Rinaldo. Nella lettera prefatoria del poema, il
giovane Tasso rese chiaro il suo intento di voler conciliare le tesi dei classicisti e dei modernisti.
L’unità dell’azione prescritta da Aristotele è ottenuta attraverso l’espediente dell’eroe unico, cioè il
giovane Rinaldo che abbandona Parigi per avventurarsi in giro per il mondo. Rinaldo, in quanto
proiezione del cavaliere cinquecentesco, dà prova di virtù cortesi nei fatti d’arme e d’amore, ma non
sempre ottiene credibilità psicologica e poetica. La tecnica tassiana è ancora immatura, i cambi di
scena sono meccanici, l’ottava è bipartita e la lingua poetica appartiene alla tradizione lirica di
ascendenza petrarchesca. Sono inoltre assenti le punte tragiche ed elegiache che contraddistinsero la
Gerusalemme liberata.
L’impronta della scuola aristotelica padovana è presente anche nei Discorsi dell’arte poetica, scritti
nel 1561-62, ma pubblicati nel 1587. È una sorta di riflessione privata sulla Poetica e sul proprio
esercizio poetico, poiché ha il desiderio di tornare sul tema del Gerusalemme e vuole in qualche modo
rinnovarsi. Può essere quindi considerato una sorta di diario di lavoro privato, diviso in 3 libri,
dedicati alla materia, alla forma e allo stile più confacenti al poema eroico. Basandosi sull’autorità di
Aristotele e di Demetrio Falareo (filosofo e poligrafo ateniese del III secolo a.C.), Tasso considera la
materia storica più adatta a suscitare immedesimazione e diletto, mentre per la forma afferma il
principio dell’unità nella varietà, come se il poema debba proporsi come un piccolo cosmo, che
«rinchiude nel suo grembo diverse cose». Infine lo stile sublime, a detta di Tasso, è proprio del poema
eroico, perché sta a metà strada tra «la semplice gravità del tragico e la fiorita vaghezza del lirico».
Lo stile sublime è nobile, letterario, musicale, aperto agli arcaismi e ai prestiti stranieri, retoricamente
e foneticamente calibrato. Come metro viene scelta l’ottava narrativa al posto dell’endecasillabo
sciolto usato da Trissino. Qui Tasso, esattamente come fecero Virgilio, Dante, Petrarca e Ariosto, si
fa teorico della propria poesia, prefigurando così lo stile linguistico e retorico che caratterizzeranno
la Gerusalemme liberata.
I Discorsi, nella tarda maturità, furono poi ampliati, corretti e ripubblicati nel 1594 a Napoli, divisi
in 6 libri e dedicati al cardinale Pietro Aldobrandini con il titolo Discorsi del poema eroico. Tra le
varie differenze, troviamo l’abbandono della tesi edonistica a favore di quella educativa e l’uso della
formula del «vero-meraviglioso», teorizzando l’uso della poesia per arrivare alla verità universale
attraverso l’uso di un «altissimo verso».
Risalgono al periodo giovanile Le Rime, in parte circolanti manoscritte, in parte pubblicate in raccolte
miscellanee, come nel 1567 le Rime degli Accademici Eterei di Padova. Menzioniamo anche le tarde
edizioni delle Amorose (1591) e delle Encomiastiche (1592). La lirica tassiana è un punto di incontro
di varie tendenze del petrarchismo cinquecentesco. Accanto a Petrarca e Bembo, i modelli del giovane
Tasso si rintracciano nella tradizione elegiaca e idillica classica e negli stilnovisti. Successivamente
accoglierà le influenze stilistiche provenienti dal poeta cinquecentesco Giovanni della Casa, che
adottò nuove figure retoriche, tra cui l’enjambement. Per l’eclettismo culturale e linguistico provò
anche ammirazione per il poeta latino Lucrezio.
Secondo Tasso, la poesia è intesa come introspezione e, allo stesso tempo, elegante omaggio
cortigiano. Le situazioni sentimentali petrarchiste rimandano ad una concezione galante dell’amore e
della donna, mettendo sullo stesso piano le donne amate dal poeta e le gentildonne di corte. Nella
lirica d’encomio e sacra Tasso predilige e segue la maniera eroica classica di Orazio e Pindaro. I
principi e i prelati a cui va il suo encomio sono rappresentate da figure simboliche o si riconducono
ai temi della pietà controriformista, in cui si insinuano dolorosi accenti autobiografici con punte di
sublimità e dolcezza. Tasso predilige anche un ideale di tersa musicalità e forma una lingua nuova,
in cui concorrono latinismi, dantismi, petrarchismi e “lombardismi” (termini in uso nelle corti
settentrionali). Le iterazioni di alcune vocali, i forti rilievi ritmici e la ripetizione di parole tematiche
sono strumenti formali usali da Tasso per ottenere una grande varietà di toni e melodie, come dimostra
i madrigali e la sua Aminta, che saranno oggetto di imitazione tra l’ultimo Cinquecento e il Settecento.
Le rime tassiane furono riprodotte disordinatamente durante la reclusione a Sant’Anna e riscontrabili
in molti manoscritti e stampe pirata. Sono solo 3 le edizioni ufficiali, pubblicate nel 1567, 1591 e
1593.
Il primo canzoniere raccoglie 42 componimenti, composti tra il 1561 e il 1566 per la ferrarese
Lucrezia Bendidio (la cui identità è celata in Licori, personaggio dell’Aminta) e la mantovana Laura
Peperara. Successivamente il poeta tentò una riorganizzazione del progetto, articolando un piano di
edizione in 4 libri, che avrebbero dovuto raccogliere le rime amorose, gli encomi delle donne illustri
e dei principi, le cose sacre e infine le rime in lode dei prelati. Le prime due raccolte vennero
pubblicate nel 1591 e 1593, mentre la terza rimase una copia manoscritta secentesca. La scelta
dell’autore è comunque selettiva perché furono ammesse poche rime cronologicamente remote e
d’occasione, mentre fu trascurata la parte più fortunata, ovvero le rime amorose, encomiastiche e
sacre. Le rime tassiane in generale ebbero comunque più diffusione non tanto attraverso le edizioni
ufficiali, quanto piuttosto attraverso le Rime e prose, basate su manoscritti erronei e poco affidabili,
pubblicate durante la carcerazione e ripubblicate nel corso di tutto il Seicento.

I capolavori della maturità


Al periodo cortigiano ferrarese (1565-79) risale la favola pastorale Aminta. Composta nella
primavera 1573, fu più volte rappresentata prima della sua pubblicazione nel 1580. Rientra inoltre
nella tradizione drammaturgica coltivata dalle corti padane sin dal Quattrocento e ha anche un
originale taglio narrativo e una calibrata letterarietà d’insieme. Dietro questo contesto poetico
caratterizzato da ameni paesaggi, si nascondono in realtà situazioni e personaggi della corte ferrarese.
La favola narra l’amore del timido pastore Aminta per la ritrosa Silvia. Un giorno trovò ad una fonte
Silvia che viene importunata da un satiro villano, la libera, ma non ne ottiene riconoscenza. Durante
una partita di caccia, si diffonde la notizia della morte di Silvia, divorata dai lupi. Aminta disperandosi
si getta da un dirupo e viene ritenuto morto. Allorché giunge Silvia impietosita e bacia Aminta,
facendolo rinvenire. La favola si conclude con un lieto fine e il trionfo dell’amore dei due protagonisti.
La trama rimanda ad una ricca e illustre tradizione letteraria: il Ninfale fiesolano di Boccaccio, le
Stanze di Poliziano e l’Arcadia di Sannazzaro. Tasso attinge anche ai poeti idillici ed elegiaci classici,
tra cui i greci Mosco e Anacreonte e i latini Catullo, Tibullo, Orazio, Ovidio e Virgilio. Il linguaggio
è petrarchesco, il metro utilizzato è la lassa di endecasillabi e settenari e lo sviluppo narrativo è
caratterizzato da un uso sapiente della rima, dell’assonanza, della consonanza e da corrispondenze
interne sempre variate, giocate sul piano metrico e retorico. L’esperimento pastorale riuscì talmente
bene che lo stesso Tasso ne riprese interi versi nelle Rime e nella Gerusalemme liberata; fu tradotta
in latino, francese, spagnolo, inglese e slavo, più volte musicata e considerata capolavoro antesignano
del melodramma arcadico, che diventò famosissimo nel Settecento. Tuttavia fu investita anche da
alcune polemiche, come la dubbia originalità, in quanto ricalca fortemente la tragedia Canace (1546),
scritta da Sperone Speroni, maestro universitario di Tasso.
Al periodo ferrarese si collocano anche la tragedia incompiuta Galealto re di Norvegia, la cui materia
poi confluì ne Il re Torrismondo (1587), una cupa leggenda nordica di tema incestuoso.
Durante la carcerazione (1579-86), Tasso si dedicò alle Lettere, viste come un fragile ponte con
l’esterno e strumento per fare una ricostruzione eroicizzata e suggestiva della propria vicenda
biografica. Le Lettere poetiche non suscitarono grande interesse negli studiosi, quanto piuttosto quelle
Familiari, più volte ristampate, ma allo stesso tempo soggette a censura a causa di espliciti riferimenti
a personaggi famosi o a idee ritenute pericolose. Le Lettere offrono i più alti risultati dell’eloquenza
tassiana, aderente all’ideale di composta e splendida eleganza in una prosa impreziosita da citazioni,
arcaismi e neologismi e attenta ai valori ritmici.
Agli anni della carcerazione risalgono anche i Dialoghi in prosa, non sottoposti alla revisione finale
dell’autore. Sono 28 disloghi filosofici, morali e letterari, composti tra il 1578 e il 1595. Il dialogo
già dai tempi dell’Umanesimo era presentato come una trattazione dottrinaria o saggio breve, esposta
come civile conversazione tra due o più personaggi. Tuttavia i Dialoghi tassiani non condividono la
naturalezza e la vivacità dei capolavori cinquecenteschi, come ad esempio Bembo e Castiglione, ma
mostrano un tessuto oratorio elevato, fitto di citazioni e di massime erudite, volte ad accostare la
filosofia con l’eloquenza. Lo stile letterario e il contenuto morale e filosofico di queste prose è dovuto
alla destinazione cortigiana; infatti erano stato per lo più composte per dimostrare a chi era padrone
della libertà di non essere troppo “forsennato” e per chiedere a illustri protettori l’intercessione presso
il duca Alfonso che lo teneva prigioniero. Sotto lo pseudonimo di Forastiero Napoletano, Tasso piegò
la propria cultura filosofica-erudita a strumento per muoversi nella complessa vita di corte,
contaminando l’aristotelismo con suggestioni neo-platoniche e ficiniane, come nel caso dei dialoghi
autobiografici. Grazie alle Lettere è possibile risalire alla data di ideazione dei Dialoghi, ma non è
altrettanto facile stabilire la data delle varie redazioni. Tra l’altro l’indiretta pubblicità esercitata dalla
polemica fiorentina sulla Gerusalemme liberata non bastò ad assicurare ai Dialoghi una fama
duratura.

Le opere degli ultimi anni


Con la scarcerazione del 1586 si aprì una stagione di progetti editoriali e di rinnovata vitalità creativa.
Nel 1587 Tasso diede alle stampe il Floridante del padre Bernardo, i Discorsi dell’arte poetica e il
già citato Re Torrismondo, tragedia in 5 atti e in versi, che prende spunto da una storia narrata da
Olao Magno, vescovo di Uppsala, nel suo Historia de gentibus septentrionalibus. Per scrivere questa
tragedia Tasso si ispirò a Sofocle e Seneca.
Al periodo napoletano-romano (1592-95) risalgono gli ultimi dialoghi, la revisione della
Gerusalemme liberata e la composizione del poema sacro Il mondo creato, pubblicato postumo nel
1607. Si tratta dell’ultima opera del poeta, la cui stesura iniziò nel 1592 a Napoli, nella casa del
mecenate Giovan Battista Manso, e terminò nel 1594 a Roma presso il cardinale Cinzio Aldobrandini,
al quale dedicò il poema. Scritto in endecasillabi sciolti, si pone come l’equivalente cristiano del De
rerum natura del poeta latino Lucrezio ed la materia è distribuita in 7 giornate che, secondo il racconto
biblico della Genesi, altro non sono che le 6 giornate di creazione, a cui segue quella di riposo. È una
trattazione didascalica controriformista, scandita da apostrofi contro la scienza e la mitologia, e alla
base vi è una conoscenza da parte di Tasso della letteratura ascetica, come l’Esamerone di San Basilio,
le epistole di San Paolo, Sant’Agostino e San Tommaso. Il poeta, sempre più interessato alle
tematiche cosmogoniche e alla teologia, considera immagini di Dio e inni alla perfezione della
creazione e dell’ordine provvidenziale tutto ciò che riguarda fenomeni celesti, misteri alchemici,
creature araldiche o bizzarre. Trasportati nel poema sacro, questi temi ricevono nuova dignità
scientifica e letteraria e Tasso li ricontrollò puntigliosamente sulle trattazioni naturalistiche di
Aristotele e di Plinio il Vecchio. Il poema fu apprezzato dai letterati della generazione successiva a
Tasso, in particolare per la grazia idillica, il linguaggio medio tra l’eroico e l’elegiaco e l’impianto
sistematico della trattazione cosmogonica.
Tra le opere postume citiamo Monte Oliveto, poemetto in onore dei frati dell’omonimo convento
napoletano, il Rogo amoroso, composizione pastorale in morte della donna amata dal nobile Fulvio
Orsini, la Genealogia di casa Gonzaga e la commedia Gli intrichi d’amore.

Caratteri della poetica tassiana


La modernità dell’opera di Tasso fu percepita dai contemporanei, che lo definirono il più raffinato
innovatore della tradizione lirica dopo Petrarca. Poeta rappresentativo del suo tempo, Tasso ebbe il
merito di trattare temi filosofici, poetici, religiosi e politici, intuendone la portata morale e pedagogica
in tempi di Controriforma. Inoltre la sua drammatica biografia testimonia a pieno la condizione del
genio e dell’artista cinquecentesco.
Sul piano tematico il linguaggio poetico tassiano portava a compimento nella poesia pastorale, nella
lirica e nell’epica una rivoluzione già avviata dal petrarchismo napoletano cinquecentesco e si
ricavava all’interno della lirica amorosa e cortigiana e nel poema epico uno spazio dedicato
all’introspezione psicologica, all’autobiografismo poetico e all’interpretazione a volte cupa di una
realtà inquieta e sfuggente, animata dalle contraddizioni dell’io.
Sul piano stilistico, soprattutto nelle Rime e nella Gerusalemme liberata, Tasso unì il «parlar
armonico» al «parlar disgiunto», dando vita così ad uno stile arguto e concettoso, basato
sull’irrazionale trapasso di immagine in immagine e di sentimento in sentimento. Ben lontano
dall’equilibrata scorrevolezza logica petrarchesca e ariostesca, riesce però a contemperare le tendenze
artificiosa e culturalmente eterodosse del petrarchismo meridionale con quello veneto
cinquecentesco.
Per quanto riguarda la lingua, seppur soggetta a censure, è ricca di termini petrarcheschi, arcaismi,
forestierismi e parole “italiane”. Aggettivi petrarcheschi come “bruno, notturno, solingo, ermo,
romito” sono frequenti nelle Rime e nella Gerusalemme, utilizzati per descrivere una natura che è lo
specchio esteriore dei sentimenti dei personaggi. Tasso sperimentò una lingua musicale, fondata sulla
ripresa fonica e lontana dal modello fiorentino trecentesco di Bembo e applicato da Ariosto. Questa
lontananza è giustificato dall’intento di voler rendere la sua opera comprensibile e traducibile a livello
interregionale e popolare.
Nella metrica tassiane riscontriamo le ottave della Gerusalemme liberata, i sonetti, le canzoni
petrarchesche, le ballate, le sestine e soprattutto il madrigale. Nell’Aminta riscontriamo il madrigale
libero, che consiste nella lassa mista di endecasillabi e settenari variamente rimati; Tasso utilizzò
molto questo metro non solo perché si prestava al suo ampio sperimentalismo metrico, ma anche per
soddisfare le esigenze della corte estense con i suoi brevi componimenti in endecasillabi, settenari e
quinari variamente rimati e assonanzati, che trattavano con agile stile la materia cortigiana e galante.

La Gerusalemme liberata
La stesura della Gerusalemme liberata accompagnò Tasso per tutta la vita; l’abbozzo risale agli anni
della giovinezza veneziana con il poema allegorico Il Gierusalemme, di cui abbiamo già parlato. A
confronto di questo abbozzo, la Gerusalemme liberata appare completamente rinnovata sia nella
trama, sia nella strumentazione letteraria e storica. Composta tra il 1564-65 a Padova e il 1575 a
Ferrara, si tratta di un poema di 20 canti in ottave, il cui soggetto religioso era particolarmente
congeniale alla Chiesa di Roma che, dopo la vittoria di Lepanto (1571) contro i Turchi, vedeva di
buon occhio la predicazione di una nuova crociata. Per quanto riguarda la poetica, nel conflitto tra
aristotelici e platonici, il poeta trentenne scelse la via dell’aristotelismo edonistico padovano. Il suo
scopo è difatti, come ampiamente ribadito in precedenza, quello di accordare l’utile al dilettevole, la
“verosimiglianza” al “piacevolezza” dei romanzi cavallereschi, allora molto cari al pubblico della
corte ferrarese.
Nella Gerusalemme liberata viene rispettata l’unità di tempo e luogo dei poemi epici classici e la
“favola” è presente attraverso tanti episodi minori di stampo favolistico o “meraviglioso”. Lo stile è
costituito da concetti elevati e periodi lunghi e complessi, dove abbondano le figure retoriche
amplificanti (come la prosopopea, detta anche personificazione) o stupefacenti (come l’antitesi o
l’ossimoro). Anche il lessico è di grande raffinatezza, composto da parole metaforiche, arcaiche o
straniere.
Poiché l’intenzione di Tasso è «accompagnar la poesia con passi de l’istoria e con descrizioni di
paesi», egli studia molte fonti storiche e geografiche per avere informazioni più precise riguardo la
Palestina, gli eroi e le vicende della prima crociata. La fonte principale è l’Historia belli sacri
verissima di Guglielmo di Tiro e dallo storico Rocoldo di Prochese ricavò tante notizie curiose
riguardanti il tiepido zelo religioso dei crociati, la presenza di donne guerriere nei due schieramenti,
l’incanto delle macchine belliche e soprattutto i frequenti amori tra soldati cristiani e donne
musulmane.
I modelli epici più prossimi sono indicati da Tasso nei poemi omerici, letti in traduzione latina,
nell’Eneide di Virgilio, nella Commedia dantesca e nell’Italia liberata da’ Goti di Trissino. Guardò
anche ai poemi latini di Lucrezio, Stazio e Lucano, alle opere epiche cinquecentesche di Alamanni,
di Giraldi Cinzio e di suo padre Bernardo e ai “romanzi” (ovvero i poemi moderni di carattere più
fantastico che storico) Orlando innamorato di Boiardo, Morgante di Pulci e soprattutto l’Orlando
furioso di Ariosto.
Il poema nella sua versione definitiva è concepito come poema epico della cristianità, come omaggio
alla casa d’Este e come delicata favola sentimentale, in cui viene rappresentata l’immagine di un
«picciolo mondo» che riflette in sé l’unità e la varietà del reale. Tuttavia Lanfranco Caretti sottolinea
che l’inquieta e turbata personalità tassiana storpia la percezione di unità, visto come un bene conteso
e faticosamente raggiunto nella coscienza e nell’arte. Di conseguenza si crea una narrazione dialettica,
anzi “bifronte”, che per opposizione e per antitesi dimostra i molteplici e contraddittori volti della
realtà e dell’animo umano. Ad esempio, il motivo di base della lotta tra cristiani e pagani per la
riconquista della Città santa si prefigura come metafora dell’opposizione tra ordine morale, religioso
e civili da una parte e le forze della barbarie e del disordine dall’altra. Non solo, ma si innestano anche
altre opposizione, come Cielo e Inferno, città e selva, ragione e passione, eroismo ed erotismo, magia
bianca e magia nera. Nel poema il piacere si mostra illusorio, la gloria è un pallido sogno, gli eventi
sono fortemente influenzati dal mutare della fortuna, la gioia è minacciata dal dolore e l’impresa
cristiana può suscitare orrore, mentre quella saracena è circondata da umana simpatia.
Il paesaggio è ora sereno, ora torbido e fa da sfondo ad eventi e stati d’animo degli eroi cristiani
Goffredo, Tancredi e Rinaldo, degli eroi pagani Argante e Solimano e delle 3 musulmane Clorinda,
Erminia e Armida. I personaggi sono ben caratterizzati nelle loro azioni e nei loro sentimenti
psicologicamente verosimili. L’equilibrio instabile tra motivi eroici e lirici dà vita ad una dimensione
narrativa di carattere marcatamente teatrale, come d’altronde dimostra Ezio Raimondi osservando la
stessa suddivisione dei canti e la scenografia.
La trama può essere spiegata passando in rassegna ai 20 canti:
• Canto I-II-III: nomina di Goffredo di Buglione a generale dell’esercito crociato, da 6 anni in
Oriente. Mentre il re saraceno di Gerusalemme si prepara all’assedio cacciando i cristiani della
città, il re d’Egitto, suo alleato, cerca invano di dissuadere i cristiani all’azione
• Canto IV-V: Plutone, per opporsi alla pia impresa, raduna i demoni in un consiglio in cui
interviene la maga Armida, che con le sue arti tenta di irretire i principi cristiani
• Canto VI-VII: in seguito al duello tra Argante e Tancredi, l’innamorata Erminia lascia
travestita la città alla volta del campo cristiano, ma poi è costretta a fuggire tra i pastori, mentre
Tancredi viene imprigionato da Armida
• Canto VIII-IX-X-XI: sedizioni e combattimenti agitano l’esercito cristiano che prepara
l’assalto di Gerusalemme
• Canto XII: Clorinda tenta di frenare l’offensiva cristiana, ma Tancredi la uccide in duello
• Canto XIII-XIV-XV-XVI: mentre il mago Ismeno popola di incantesimi la selva di Saron
per impedire che i cristiani raccolgano la legna necessaria per la costruzione delle macchine
belliche, i crociati ricorrono al vecchio di Ascalona che indica loro come liberare Rinaldo
dalla prigione di Armida.
• Canto XVII-XVIII: nel frattempo a Gaza si raccoglie l’esercito del re d’Egitto e Goffredo
sferra un secondo attacco alla città
• Canto XIX: Vafrino, scudiero di Tancredi, trova a Gaza Erminia che gli rivela l’esistenza di
una congiura ai danni di Goffredo; a Gerusalemme confessa il suo amore a Tancredi, ferito
nel duello che è costato la vita ad Argante
• Canto XX: dopo un’aspra battaglia, Gerusalemme cade in mano ai cristiani e il poema si
chiude con l’adorazione al Santo Sepolcro.

In realtà il testo che noi oggi leggiamo non fu mai approvato dal poeta, che lo rilesse incessantemente,
ma è il risultato del sopruso degli editori. I canti revisionati venivano via via inviati per la copiatura
a Scipione Gonzaga e sottoposti a grandi letterati come Pier Angelio da Barga, Flaminio de’ Nobili,
Silvio Antoniano e Sperone Speroni che nel giro di due anni glieli restituirono completamente
stravolti. Come risulta dalla fitta corrispondenza, le preoccupazioni dell’autore erano di ordine
retorico e teologico ed egli rispose alle critiche riguardanti l’abbondanza nel poema di incanti e
meraviglie ribadendo la propria fedeltà ai principi aristotelici della verosimiglianza e dell’unità,
all’osservanza della storia e al rispetto della vera religione. Tuttavia si rese disponibile ad eliminare
tutto ciò per non mancare di rispetto ai religiosi e a sostituire i termini arcaici e disusati con quelli
toscani.
La prima edizione della Gerusalemme liberata venne pubblicata durante la sua reclusione a
Sant’Anna, quando era ancora intento alla correzione. Alcuni editori senza scrupoli non esitarono a
pubblicare l’opera basandosi su manoscritti perlopiù scorretti e lacunosi. A due prime edizioni
parziali stampate a Genova e a Venezia nel 1579-80, seguirono nel 1581 quattro edizioni simultanee
del poema, fortemente discordanti tra di loro per l’estrema instabilità del testo. Risale 1l 584
l’edizione attribuita a Scipione Gonzaga, che è quella più linguisticamente corretta, ma offre un testo
inaffidabile per la presenza di lezioni più confacenti al gusto del Gonzaga. Gli editori moderni danno
più fiducia all’edizione Bonnà pubblicata a Ferrara, poiché un tempo era creduta quella che godesse
dell’approvazione dell’autore, ma ad oggi si tratta di una teoria più che smentita.
L’opera si diffuse a macchia d’olio tra il pubblico italiano ed europeo e la sua grande fortuna tra
Seicento e Settecento è motivata dal grande proliferare di traduzioni nelle principali lingue europee e
in dialetto. Tasso fu orgoglioso nel riscontrare il gusto degli uomini di media cultura, ma avrebbe allo
stesso tempo voluto soddisfare l’élite intellettuale. Di fatto il poema ebbe un’eccezionale tradizione
popolare orale, pittorica, teatrale e musicale.
Nel 1593 uscì a Roma la Gierusalemme conquistata, dedicata al cardinale Cinzio Aldobrandini e
considerata come unica redazione riconosciuta dall’autore. Tasso iniziò la composizione dopo la
liberazione e terminò nel 1592 in casa di Giovan Battista Manso. Si tratta di un’opera più rispondente
all’ortodossia religiosa controriformista e alle sue norme retoriche, ma non riscosse lo stesso successo
della Liberata. Il rifacimento del poema conta stavolta 24 canti, ma vengono eliminati il racconto di
Olindo e Sofronia, la figura di Erminia tra i pastori e il viaggio alle isole Fortunate. Viene introdotta
questa volta una lunga lode ai papi nel canto XX e la maggiore adesione alla realtà storica porta al
cambiamento dei nomi di fantasia. La stessa varietà musicale viene appiattita da un uniforme stile
sublime, gli endecasillabi sono più a maiori, le rime piane sono eliminate a favore delle
pluriconsonantiche, il dettato stilistico è magniloquente e oratorio e l’osservanza delle norme
retoriche diventa rigida e coercitiva. Ristampata a Pavia e Parigi, nel 1630 contava solo cinque o sei
edizioni e l’ultimo frutto della lunga fatica tassiana, come affermò Solerti, procurò all’autore grande
motivo di commiserazione.
In assenza dell’edizione critica del poema, si è scelto di seguire il testo critico fissato dal filologo
Caretti.

Critica letteraria
L’Aminta, le Rime e soprattutto la Gerusalemme liberata riscossero un gran successo tra il pubblico
e la critica a livello internazionale grazie alla circolazione di manoscritti e stampe integrali e parziali.
Il successo editoriale fu dettato prevalentemente dalla sostanziale traducibilità culturale e
dall’apertura verso un pubblico misto. La Liberata, illustrata attraverso molte opere pittoriche,
inaugurò il filone epico-cristiano secentesco, ma anche nel resto dell’Europa si diffusero nuovi generi
modellati sull’Aminta: dalla pastorale francese all’epopea spagnola, oltre che essere riproposta anche
in ambito musicale attraverso il melodramma.
Le polemiche cinque-secentesche che accompagnarono la Liberata prendono avvio da Lionardo
Salviati e l’Accademia della Crusca per quanto riguarda il paragone tra Tasso e Ariosto. La polemica
riguardò non solo la fedeltà al genere epico descritto nella Poetica di Aristotele, ma anche il giudizio
espresso dal canonico Camillo Pellegrino, il quale giudicò l’opera tassiana nettamente superiore
«nella favola, nel costume e nella locuzione». Salviati infatti difese l’Orlando furioso di Ariosto,
definendolo più regolare sotto il profilo retorico e linguistico.
Tra i più fieri oppositori di Tasso citiamo anche Galileo Galilei, il quale prediligeva uno stile razionale
e limpido, anziché metaforico e contorto come quello tassiano e la Liberata viene giudicata come
religiosamente untuosa e povera di concetti.
Il dibattito cinquecentesco ha avuto il merito di impostare i problemi di fondo della critica tassiana,
tra i quali la struttura epica della Liberata e il suo rapporto con le disgressioni romanzesche; la
pertinenza della lingua al genere eroico e la presenza di temi religiosi e morali di origine
controriformista, in costante dialettica con l’autentica vena lirica ed elegiaca.
Nel corso del Seicento si consumò una forte polemica tra “antichi” e “moderni”, tra ariostisti e tassisti,
ovvero tra i sostenitori del purismo fiorentino e i fautori di una lingua italiana viva. La nascente
estetica barocca, partendo da posizioni antifiorentine, apprezzerà Tasso per la sua modernità
linguistica, la capacità di rompere la rigida normativa aristotelica e la consapevole ricerca del
successo di pubblico in Italia e in oltralpe.
Contro il culto secentesco di Tasso si schierò verso la fine del secolo la reazione razionalista francese,
avviata dal Boileau, il quale condannò Tasso per il suo stile freddamente concettoso e oscuro. Le
obiezioni dei razionalisti francesi furono confutate, in ambiente arcadico, da Muratori e
successivamente da Voltaire, il quale ritenne la Liberata come modello supremo di poesia epica.
In Italia si assistette nel Settecento ad una massiccia imitazione della produzione teatrale tassiana da
parte di Pietro Metastasio, Pier Jacopo Martello, Antonio Conti e Scipione Maffei. In Germania
invece nacque un grosso interesse per il Mondo creato, dopo un oblio secolare, mentre in Italia
guardarono al poemetto sacro Metastasio, Vincenzo Monti e soprattutto Giacomo Leopardi nella sua
Crestomazia della poesia italiana (1828).
È soprattutto grazie all’opera di Monti che si conferisce risalto per la prima volta alla personalità di
Tasso, sentita come principale fonte sentimentale della sua arte, ma allo stesso tempo limite del pieno
svolgimento della sua poesia. La stessa commozione per il genio infelice e perseguitato attraversa gli
scritti di Ugo Foscolo.
Anche in ambiente romantico e positivista verranno condotti studi approfonditi sull’opera tassiana in
chiave autobiografica per dimostrare l’origine patologica della poesia tassiana. I tedeschi Schlegel e
Hegel considerarono la Liberata come poema epico nazionale, mentre in ambiente francese Sismondi
e Quinet si dedicarono alla comprensione del contesto storico e religioso che l’avrebbe prodotta.
Entrambe le posizioni critiche saranno tenute presenti da Francesco De Sanctis, prima nelle Lezioni
di letteratura del 1843-45, edite da Benedetto Croce nel 1898, quindi nella Storia della letteratura
italiana del 1870-71. Secondo De Sanctis, in Tasso si attua il conflitto sempre irrisolto tra una
propensione lirica ed elegiaca e le preoccupazioni retoriche e morali dettate dal conformismo
letterario e religioso.
Il dualismo del giudizio desanctisiano passerà alla critica storicistica e all’estetica novecentesca, ma
verrà ignorata dalla scuola storica di fine secolo che, in vista di una rinnovata edizione completa delle
opere, attuerà una sistematica ricognizione erudita dei documenti.
Negli ultimi 50 anni la critica tassiana ha in parte superato le opposizioni rilevate da De Sanctis tra
storia e opera e tra struttura e poesia. A partire da Croce, gli studi novecenteschi si sono orientati nelle
seguenti direzioni:
- Fase anni ’50-’60: approccio filologico, che stabilisce testi critici sicuri ha prodotto notevoli
interventi metodologici ed ermeneutici (Caretto, Getto, Petrocchi, Raimondi, Resta);
attualmente la specializzazione filologica ha fornito contributi notevoli, ma senza toccare mai
il livello critico e interpretativo
- Anni ’40-’60: indirizzo linguistico e stilistico (Leo, Spoerri, Fredi Chiappelli, Vitale,
Battaglia, Fubini)
- Anni più recenti: conoscenza della cultura di Tasso e ricostruzione della sua biblioteca.

I crociati giungono a Gerusalemme – dalla Gerusalemme liberata, canto III, stanze I-X

Già l’aura messaggiera erasi desta


a nunziar che se ne vien l’aurora;
ella intanto s’adorna, e l’aurea testa
di rose colte in paradiso infiora,
quando il campo, ch’a l’arme omai s’appresta,
in voce mormorava alta e sonora,
e prevenia le trombe; e queste poi
dièr più lieti e canori i segni suoi.

Il saggio capitan con dolce morso


i desiderj lor guida e seconda:
ché più facil saria svolger il corso
presso Cariddi a la volubil onda,
o tardar Borea, allor che scuote il dorso
de l’Apennino, e i legni in mare affonda.
Gli ordina, gl’incammina, e ’n suon gli regge
rapido sì, ma rapido con legge.

Ali ha ciascuno al core ed ali al piede:


né del suo ratto andar però s’accorge;
ma quando il sol gli aridi campi fiede
con raggj assai ferventi e in alto sorge,
ecco apparir Gierusalem si vede:
ecco additar Gierusalem si scorge:
ecco da mille voci unitamente
Gierusalemme salutar si sente.

Così di naviganti audace stuolo,


che mova a ricercar estranio lido,
e in mar dubbioso e sotto ignoto polo
provi l’onde fallaci e ’l vento infido,
s’al fin discopre il desiato suolo,
il saluta da lunge in lieto grido,
e l’uno all’altro il mostra, e intanto oblia
la noia e ’l mal de la passata via.
Al gran piacer che quella prima vista
dolcemente spirò ne l’altrui petto,
alta contrizion successe, mista
di timoroso e riverente affetto.
Osano appena d’inalzar la vista
vèr la Città, di Cristo albergo eletto,
dove morì, dove sepolto fue,
dove poi rivestì le membra sue.

Sommessi accenti e tacite parole,


rotti singulti e flebili sospiri
de la gente ch’in un s’allegra e duole,
fan che per l’aria un mormorio s’aggiri
qual ne le folte selve udir si suole,
s’avien che tra le frondi il vento spiri,
o quale infra gli scogli o presso ai lidi
sibila il mar percosso in rauchi stridi.

Nudo ciascuno il piè calca il sentiero,


ché l’esempio de’ duci ogn’altro move,
serico fregio o d’or, piuma o cimiero
superbo dal suo capo ognun rimove;
ed insieme del cor l’abito altero
depone, e calde e pie lagrime piove.
Pur quasi al pianto abbia la via rinchiusa,
così parlando ognun se stesso accusa:

- Dunque ove tu, Signor, di mille rivi


sanguinosi il terren lasciasti asperso,
d’amaro pianto almen duo fonti vivi
in sì acerba memoria oggi non verso?
Agghiacciato mio cor, ché non derivi
per gli occhi e stilli in lagrime converso?
Duro mio cor, ché non ti spetri e frangi?
Pianger ben merti ognor, s’ora non piangi. -

De la cittade intanto un ch’a la guarda


sta d’alta torre, e scopre i monti e i campi,
colà giuso la polve alzarsi guarda,
sì che par che gran nube in aria stampi:
par che baleni quella nube ed arda,
come di fiamme gravida e di lampi;
poi lo splendor de’ lucidi metalli
distingue, e scerne gli uomini e i cavalli.
Allor gridava: - Oh qual per l’aria stesa
polvere i’ veggio! oh come par che splenda!
Su, suso, o cittadini, a la difesa
s’armi ciascun veloce, e i muri ascenda:
già presente è il nemico. - E poi ripresa
la voce: - Ognun s’affretti, e l’arme prenda:
ecco, il nemico è qui: mira la polve,
che sotto orrida nebbia il cielo involve. -

Comprensione
Le prime 10 stanze del III canto della Gerusalemme liberata riportano l’episodio verificatosi all’alba
del 7 giugno 1099, quando l’esercito cristiano arriva nei pressi della Città Santa, lanciando un grido
di esultanza. I crociati con grande pathos e gioia si apprestano alla battaglia sotto la guida di Goffredo
di Buglione, il quale, dopo mille peripezie, è riuscito a ricompattare l’esercito e a guidarlo come un
vero leader.
La marcia dei soldati cristiani viene rappresentata con grande pathos; costoro provano gran piacer
per la felice conclusione di un’avventura lunga e difficile e questo sentimento cresce ancor di più alla
vista di Gerusalemme, la città del Santo Sepolcro non solo da conquistare, ma soprattutto da venerare
e contemplare.

Parafrasi
Ormai la brezza si era destata per annunciare il sopraggiungere dell’alba; l’aurora (ella) nel frattempo
si abbellisce e cinge la bionda testa di rose raccolte nel giardino celeste (Paradiso), quando l’esercito
dei cristiani (campo), che ormai si prepara a combattere, vociava con brusii forti e sonori, e anticipava
le trombe; e queste, poi, emisero (dièr) squilli più gioiosi e intonati.
L’esperto condottiero, con morbidi comandi (dolce morso), conduce e asseconda l’entusiasmo dei
crociati, perché sarebbe stato più facile deviare il flusso della corrente vorticosa (volubil onda) di
Cariddi o frenare il violento vento settentrionale (Borea) quando si abbatte sulla dorsale appenninica
e inabissa le navi in mare. Impartisce loro ordini, li guida, e li fa avanzare a ritmo rapido, ma ordinato.
Ognuno ha le ali al cuore e ai piedi, perciò non si accorge della propria andatura rapida; ma quando
il sole ferisce (fiede) i campi secchi con raggi infuocati (assai ferventi) ed è già alto sull’orizzonte,
ecco che si vede spuntare Gerusalemme, ecco che si vede indicare Gerusalemme, ecco che si sente
salutare Gerusalemme da mille voci all’unisono.
Allo stesso modo [si comporta] una coraggiosa flotta di marinai, che parte alla ricerca di una terra
straniera e sfida le onde insidiose e il vento ingannevole in un mare pericoloso e sotto un cielo
sconosciuto, se alla fine giunge alla terra ricercata, la saluta da lontano con grida di gioia, e l’uno la
fa vedere all’altro, e intanto dimentica la fatica e la sofferenza per il viaggio compiuto.
Alla grande gioia che quella prima visione infuse, con dolcezza, nel cuore dei crociati, seguì un forte
pentimento, mischiato a preoccupazione e devozione. A stento hanno il coraggio di alzare lo sguardo
verso la città, sede (albergo) scelta da Cristo, dove egli morì, fu sepolto e dove poi resuscitò (rivestì
le membra sue).
Voci deboli e parole pronunciate sottovoce, lamenti spezzati e pianti mesti dei crociati che allo stesso
tempo gioiscono e si addolorano, fanno sì che nell’aria si diffonda un brusio come si è soliti sentire
nei boschi, quando il vento soffia tra i rami, o come il mare agitato che rumoreggia con basso rumore
(in rauchi stridi) fra gli scogli o sulle spiagge.
Ognuno cammina a piedi scalzi, perché l’esempio dei comandanti ha indotto ognuno a farlo; ognuno
toglie dalla propria testa gli ornamenti di seta (serico) e d’oro, le piume o i ricchi ornamenti; e, insieme
[agli ornamenti], ognuno toglie dal suo cuore l’alterezza del costume (del cor l’abito altero) e piange
lacrime calde e pietose. E tuttavia, come se (Pur quasi) avesse sbarrato il sentiero al pianto, ognuno
biasima se stesso con queste parole:
“Quindi, dove tu, Signore, hai abbandonato la terra intrisa di mille rivoli di sangue, io non verso oggi
almeno due ruscelli di pianto amaro in ricordo di un fatto così doloroso? O mio cuore di ghiaccio,
perché non sgorghi copioso attraverso gli occhi e non goccioli trasformato in lacrime? O mio cuore
insensibile, perché non ti spezzi e rompi? Certamente sei degno di piangere per sempre, se non piangi
ora”.
Nel frattempo una guardia che sta su un’alta torre della città e osserva le montagne e le pianure, vede
alzarsi laggiù (colà giuso) il pulviscolo che sembra formare una nuvola enorme nell’aria: quella nube
sembra piena di fiamme e lampi; poi [la guardia] vede distintamente il rifulgere delle armi lucenti e
riconosce gli uomini e i cavalli.
Allora urlò: “Oh, quale nube di polvere vedo nell’aria! Oh, come sembra che risplenda! Su, su, o
cittadini, ciascuno prenda rapidamente le armi per proteggere la città e scali le mura: il nemico è già
qui”. E poi riprese: “Ciascuno si sbrighi e afferri gli armamenti: ecco, il nemico è qui: guardate la
polvere che avvolge il cielo sotto una spaventosa nebbia”.

Analisi
Lo schema metrico che Tasso adotta nella Gerusalemme liberata è quello delle ottave di endecasillabi
con schema metrico ABABABCC, quindi tre coppie di rime alternate e una coppia di rime baciate.
Il canto è basato quindi sull’incontro-scontro di due diverse prospettive. Troviamo un “interno” nelle
ottave dall’1 all’8, ossia gli animi dei crociati, dove si confrontano la baldanza militaresca e la
trepidazione religiosa, e poi c’è un “esterno”, rappresentato da Gerusalemme, vista da due diversi
punti di vista: quello cristiano e quello musulmano, con la sentinella che dà l’allarme dalle mura della
città nelle ottave 9 e 10.
Il canto inizia con il motivo tassiano dell’alba, che è personificata nei primi 4 versi della stanza 1
(Già l’aura messaggiera erasi desta / a nunziar che se ne vien l’aurora; / ella intanto s’adorna,
e l’aurea testa / di rose colte in paradiso infiora). Qua troviamo molte citazioni petrarchesche e
dantesche (Purgatorio, XXIV), oltre che un chiaro riferimento al madrigale scritto da Tasso per Laura
Peperara Ecco mormorar l’onde. La descrizione paesaggistica è chiaramente lirica perché non parla
solo dell’alba naturale, ma anche di quella che sorge nel cuore dei crociati. Nel v. 5 sono presenti due
metonimie (quando il campo, ch’a l’arme omai s’appresta).
Nella seconda ottava troviamo un ritratto del coraggioso e audace Goffredo di Buglione, a capo
dell’esercito crociato. Il saggio capitan (epiteto, v. 1) ha un ruolo incisivo sui suoi soldati, in quanto
autoritario e dolce allo stesso tempo, capace di assecondarne i desideri e di guidarli in battaglia con
ordine e unità. Goffredo è d’altronde un personaggio che al meglio incarna l’utopia del perfetto
potere, capace di conciliare libertà e autorità. Dal v. 3 al v. 6 c’è un concetto iperbolico (ché più facil
saria svolger il corso / presso Cariddi a la volubil onda, / o tardar Borea, allor che scuote il
dorso / de l’Apennino, e i legni in mare affonda.). Inoltre i legni sono una metonimia.
Nella terza ottava dominano la concitazione epica e una tonalità esultante, che manifestano al meglio
le reazioni dei soldati cristiani alla vista della Città Santa. Ciò si manifesta da un punto di vista retorico
a partire dalla metafora e iperbole al v. 1 (Ali ha ciascuno al core ed ali al piede), per poi passare
all’anafora di ecco e Gierusalem dal v. 5 al v. 8 (ecco apparir Gierusalem si vede: / ecco additar
Gierusalem si scorge: / ecco da mille voci unitamente / Gierusalemme salutar si sente.); sempre
in questi troviamo anche la climax.
Nella quarta ottava subentra il registro lirico e un lessico caratterizzato da emotività e drammaticità,
come testimonia la citazione petrarchesca la noia e ‘l mal al v. 8. L’ottava è interamente caratterizzata
dalla similitudine delle peripezie dei soldati con quella dei marinai che cercano una nuova terra,
nonostante le insidie del mare. Ai v. 1-2 c’è un’anastrofe (Così di naviganti audace stuolo, / che
mova a ricercar estranio lido) e al v.3 un’ipallage (mar dubbioso). È presente anche un
enjambement ai v. 7-8 (e l’uno all’altro il mostra, e intanto oblia / la noia e ’l mal de la passata
via).
Nella quinta ottava emerge il bifrontismo ideologico nell’antitesi tra il gran piacer e l’alta
contrizion, tra laicità e Controriforma; i soldati crociati sono sconvolti da questo contrasto alla vista
della Città Santa dove Gesù morì, fu sepolto e resuscitò. Al v. 5 troviamo una metonimia (Osano a
pena d’inalzar la vista) e al v. 8 una metafora (dove poi rivestì le membra sue).
Nella sesta ottava spicca al v. 1 la metonimia e soprattutto l’ossimoro (Sommessi accenti e tacite
parole), che potremmo considerare le parole-chiave dell’intero passo, come anche l’antitesi al v. 3
(de la gente ch’in un s’allegra e duole). Dal v. 5 al v. 8 è presente inoltre la similitudine degli animi
cristiani con i paesaggi naturali (qual ne le folte selve udir si suole, / s’avien che tra le frondi il
vento spiri, / o quale infra gli scogli o presso ai lidi / sibila il mar percosso in rauchi stridi.)
Nella ottave sette e otto prevale un lirismo religioso, enfatico e colmo di artifici formali, in particolar
modo con la presenza delle seguenti figure retoriche: sineddoche al v. 3, stanza 7 (piuma o cimiero),
metafora al v. 5, stanza 7 (ed insieme del cor l’abito altero), enjambement tra v. 5 e 6, stanza 7
(l’abito altero / depone), ipallage e anafora di e al v. 6, stanza 7 (e calde e pie lagrime piove),
metafora al v. 7, stanza 7 (Pur quasi al pianto abbia la via rinchiusa). Nella successiva ottava
troviamo due iperboli al v. 1 (di mille rivi) e al v. 3 (duo fonti vivi), personificazione ed endiadi al
v. 7 (Duro mio cor, ché non ti spetri e frangi?), figura etimologica al v. 8 (Pianger ben merti
ognor, s’ora non piangi); in quest’ultimo caso troviamo una citazione dantesca da Inferno, XXXIII.
Infine le ottave nove e dieci descrivono l’allarme lanciato dalla sentinella musulmana e incita i soldati
alla difesa di Gerusalemme. Tra le figure retoriche individuiamo: anastrofe ai v. 1-2, stanza 9 (De la
cittade intanto un ch’a la guarda / sta d’alta torre) e al v. 4, stanza 9 (sì che par che gran nube
in aria stampi), zeugma al v. 6, stanza 9 (come di fiamme gravida e di lampi), sineddoche al v. 7,
stanza 9 (lucidi metalli), climax ascendente al v. 8, stanza 9 (distingue, e scerne gli uomini e i
cavalli), un’altra anastrofe al v. 8, stanza 10 (che sotto orrida nebbia il ciel involve).

Interpretazione
In questo episodio, come in tutto il poema, si riscontra un forte intreccio tra epica e lirica e solo
nell’ultima parte l’attenzione viene focalizzata non più sui cristiani, ma sulla reazione di una
sentinella musulmana, che dà l’allarme non appena si avvicina alle mura di Gerusalemme l’esercito
crociato. Lanfranco Caretti vede nella visuale pagana la rappresentazione dell’ideale laico-
umanistico, mentre i crociati incarnano lo spirito della Controriforma; in poche parole questo passo
manifesta perfettamente le due facce dell’irrisolto dramma del pensiero e della poesia di Tasso.
Franco Fortini nel 1993 interpretò in chiave “cinematografica” il III canto della Gerusalemme
liberata; Tasso avrebbe usato, a suo dire, “campi lunghi” accanto a riprese dall’alto, come nel caso
della sentinella, e con la reduplicatio nella stanza 3 si sottolinea l’esplosione di gioia dell’esercito
cristiano.
La critica ha osservato inoltre che nell’apparizione dei Crociati alla città è rappresentata da una
struttura binaria, fondata sull’antitesi e sulla ripetizione variata, e da una struttura ternaria, che è la
formula del movimento in avanti e dell’esaltazione.
Quello che appare a colpo d’occhio è che ci sono tantissimi riferimenti non solo a Petrarca e alla
Commedia dantesca, ma soprattutto all’Eneide di Virgilio, considerando che l’intento di Tasso è
sempre stato quello di misurarsi con il grande poema classico, con la differenza che ha voluto scrivere
un poema cristiano, che si fa portavoce delle problematiche e delle preoccupazioni del mondo
contemporaneo della Controriforma. La Liberata si fa portavoce dei contrasti ideologici e religiosi di
fine Cinquecento e Tasso si lascia coinvolgere più nell’introspezione psicologica dei personaggi e
meno alla narrazione delle grandi gesta. Motivo per il quale viene definito un poeta lirico che tratta
argomento epico ed egli stesso ne è consapevole quando nel proemio emerge il seguente messaggio,
ovvero che “il cantare è più importante che la materia del canto”.

Bibliografia
- C. Segre, C. Martignoni, Leggere il mondo: letterature, testi, culture, vol. 3 Il Rinascimento
e la sua crisi, a cura di G. Raboni, C. Vela, G. M. Gaspari, V. De Maldé, Edizioni Scolastiche
Bruno Mondadori, 2000.

Sitografia
- https://www.edatlas.it/documents/704d6d71-96b7-4d88-aef0-47ba67c091dc
9. Niccolò Machiavelli
1. Breve biografia
Machiavelli nacque a Firenze nel 1469 da una famiglia dell'alta borghesia. Dopo la morte di
Savonarola, iniziò nel 1498 la sua attività politica al servizio della repubblica fiorentina. Dopo
qualche anno ricoprì incarichi politici molto delicati, compiendo importanti missioni diplomatiche in
giro per l'Italia e per l'Europa e conobbe illustri personaggi storici, tra cui Cesare Borgia, duca
Valentino, figlio del papa Alessandro VI, uno degli uomini più potenti di tutta la penisola italiana.
Nel 1512, con il ritorno dei Medici a Firenze (per volere della Santa Alleanza: papa Giulio II con
Venezia, Spagna e Inghilterra contro il francesi), si concluse in maniera drammatica la sua esperienza
politica: fu estromesso da qualunque incarico, fu arrestato, torturato e condannato ad un anno di
confino perché sospettato di aver preso parte ad una congiura contro i Medici. Questa esperienza lo
segnò in maniera forte e lo fece cadere in una profonda crisi. Durante questi anni di riflessione
nacquero le sue opere maggiori, scritte tutte tra il 1513 e il 1525.
Qualche anno dopo si avvicinò ai Medici i quali, nel 1520, gli diedero il compito di scrivere le Istorie
fiorentine. Restaurata la Repubblica, Machiavelli fu di nuovo escluso da qualunque incarico proprio
per avere collaborato con i Medici. Morì a Firenze nel 1527.

2. Lingua
La materia delle opere di Machiavelli è tratta dal mondo reale e questo fa sì che il suo linguaggio è
caratterizzato da uno stile asciutto, chiaro, quasi freddo, sempre vicino alla lingua parlata; per questo
motivo la sua lingua da molti storici della letteratura è definita antiletteraria.
Non sceglie uno stile ornato, elegante o equilibrato, ma la sua è una scrittura pragmatica e vicina alla
realtà effettuale, quindi usa una prosa agile e chiara.
Scaturisce direttamente dal pensiero e quindi è piena di anacoluti e irregolarità sintattiche.
Concretizza concetti astratti con metafore e paragoni .
Machiavelli era molto attento al dibattito sulla lingua e proprio per questo scrisse un'opera, dal titolo
Dialogo intorno alla nostra lingua, a difesa del volgare fiorentino, inteso come una lingua naturale.
Per la sua visione fortemente antireligiosa, Machiavelli scandalizzò i lettori cinquecenteschi e per
questo nacque una corrente moralistica che porta il nome di antimachiavellismo, che durò fino
all'Ottocento.

3. Il Pensiero
Machiavelli parte della realtà per scrivere le sue opere e per rappresentare l'uomo e il mondo, in
maniera realistica e a tratti cruda.
Lui partiva dall'osservazione diretta degli eventi politici e poi da qui traeva le leggi che, a suo avviso,
regolavano il mondo politico italiano. Per risolvere i problemi della quotidianità prende a esempio i
classici latini e greci, segue le orme già battute per trovare delle soluzioni efficaci, perché la storia è
maestra di vita. Riprende quindi il principio di imitazione della cultura umanistica, ma non in modo
passivo: l’imitazione non deve essere fine a se stessa né ridursi allo sterile rifugio nel passato, ma
deve essere concreta adattandosi alle esigenze del presente.
Dagli intellettuali umanisti traeva la fiducia nelle capacità dell'uomo e l'interesse per il mondo classico
ma, a differenza degli umanisti, aveva una visione pessimista della storia: infatti Machiavelli utilizza
i classici come fonte di modelli politici, accanto all'osservazione diretta delle vicende politiche
realmente accadute, perché alcune vicende si sono ripetute negli anni, a suo avviso, e ciò
dimostrerebbe che la natura umana è fondamentalmente malvagia e non cambia mai.
L'originalità del pensiero di Machiavelli sta nella separazione tra la politica, la morale e la religione,
cercando di fondare la politica come una vera e propria scienza. Atteggiamento laico e umanista: i
problemi dovevano essere risolti partendo dalla situazione politica, mettendo da parte la morale e la
religione. Da qui nasce la sua famosa espressione “Il fine giustifica i mezzi”: se il fine da raggiungere
è la conservazione dello Stato, ogni azione che è indirizzata alla salvezza dello Stato dovrebbe essere
messa in campo, anche se non è moralmente buona.
Secondo la visione pessimistica di Machiavelli, visto che il mondo è retto dalla cattiveria, chi governa,
per riuscire a risolvere i problemi dello Stato, dovrebbe saper usare anche mezzi immorali e
spregiudicati.
Come in Boccaccio, anche in Machiavelli è presente la fortuna o il caso che, in modo imprevedibile
e capriccioso, può determinare il successo o l’insuccesso delle vicende umane.
La “virtù” dell'uomo può limitare gli effetti negatici del caso sfavorevole, ma sol in parte. La sua idea
di politica, separata dalla morale, gli è valsa l'inserimento de Il Principe tra i libri che non potevano
essere letti.
Nei vari secoli il pensiero di Machiavelli è stato interpretato in tanti modi diversi e in qualche caso
anche in maniera fuorviante. Il termine “machiavellico” è divenuto sinonimo di spregiudicatezza e di
cattiveria, anche se, chi lo utilizza in questo senso, dimostra di non aver compreso il messaggio
politico di Machiavelli.
Dal punto di visto politico, Machiavelli, pur essendo un repubblicano convinto, ammette che la
situazione italiana, tanto corrotta e degradata, rende necessaria l'azione energica di un principe. Anche
in questo caso, nella scelta della migliore forma politica, lui parte dalla realtà quotidiana.

4. Le opere minori
La produzione di Machiavelli può essere suddivisa in due parti: le opere storico-politiche e le opere
letterarie.
Tra le opere storico-politiche abbiamo I discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Dell’arte della
guerra, Il Principe e le Istorie fiorentine. Tra le opere letterarie abbiamo Belfagor arcidiavolo, la
Mandragola e la Clizia.

I Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio più che un'opera unitaria, sono piuttosto delle
considerazioni sparse di natura politica. Inizia a scrivere l’opera nel 1513, la interrompe per la stesura
de “Il Principe” e poi termina nel 1517.
In questi Discorsi, Machiavelli studia i primi 10 libri di Ab urbe condita, opera di Tito Livio, grande
storico latino, per trovare delle possibili analogie tra il presente e il passato, in modo da diffondere la
lezione del mondo latino.
Secondo Machiavelli la novità della sua opera stava nel fatto che nessuno prima di lui aveva cercato
nella storia della repubblica romana i principi e i valori ancora validi nel presente.
Secondo Livio la forma di governo migliore è la repubblica, anche se non esiste una forma di governo
valida sempre, perché la scelta deve essere fatta di volta in volta, a seconda delle condizioni politiche
e del momento storico.
Machiavelli osserva anche il ruolo della religione nel mondo romano specie per le ricadute civili e
politiche del sentimento religioso (amor di patria) e ritiene la chiesa cattolica colpevole di aver
inculcato nei cristiani una mentalità apatica e disgregatrice e abbia determinato, con la sua ingerenza
temporale, la mancata unificazione dell’Italia, permettendo agli eserciti stranieri di invadere il suolo
italiano.
All'interno dei Discorsi si parla molto anche del tema della fortuna, intesa alla maniera di Boccaccio,
cioè come quella forza che può mandare a gambe per aria tutti i progetti degli uomini.

La Mandragola, scritta nel 1518, è una commedia composta in occasione delle nozze di Lorenzo de'
Medici. Divisa in cinque atti, ricalca il teatro comico del tempo e riprende la commedia di Terenzio.
Callimaco si innamora di Lucrezia, sposa di un vecchio, e escogita un espediente per possederla.
Siccome Lucrezia e suo marito erano sposati da anni ma non riuscivano ad avere figli, si presenta da
loro fingendo di essere un medico che possedeva un'infallibile medicina, un decotto di mandragola,
contro l'infertilità. Questa medicina però aveva un effetto indesiderato: il primo uomo che avrebbe
fatto l'amore con la donna, dopo aver bevuto il decotto, sarebbe morto. Allora il marito fa catturare il
primo vagabondo e lo obbliga ad accoppiarsi con la moglie. Questo vagabondo non è altro che
Callimaco travestito, che confessa a Lucrezia il suo amore e Lucrezia decide di diventare la sua
amante.
La lingua usata è il fiorentino vivo, non quello del trecento, e a ogni personaggio adatta
un’espressività coerente con la propria personalità.
L'opera dimostra il pessimismo di Machiavelli: nessuno dei personaggi è innocente e tutti incarnano
dei modelli negativi. Anche nelle relazioni umane non esistono scrupoli morali e tutti i personaggi si
comportano da moralisti, ma invece sono falsi, freddi e cinici calcolatori.

Belfagor arcidiavolo è una novella pubblicata dopo la morte dell'autore. La novella si inserisce nel
filone comico, di tipo popolareggiante e misogino. Un villano, grazie alla sua astuzia, riesce a beffare
il diavolo in persona, Belfagor, sceso in terra per testare la perfidia delle donne che rendono la terra
peggiore dell’inferno.

Dell’arte della guerra (1521) è un’opera con cui Machiavelli mostra le debolezze delle truppe italiane
perché costituite da mercenari e compagnie di ventura. Su modello romano le truppe dovrebbero
essere costituite dai cittadini, unici di cui ci si possa fidare, per amor di patria.

Le Istorie fiorentine, scritte tra il 1520 e il 1525, narrano le vicende di Firenze dalla caduta dell'Impero
romano fino alla morte di Lorenzo il Magnifico.

5. Il Principe
Il Principe fu scritto nel 1513, mentre i Medici rientravano a Firenze, infatti è dedicato al nipote di
Lorenzo de' Medici, ma fu pubblicato dopo la morte di Machiavelli nel 1532. È un trattato in 26
capitoli, preceduti da titoletti in latino.
Riprende la tradizione medievale dei trattati politici degli specula principis “specchi del principe”
che davano dei consigli ai signori su come poter mantenere il potere.
In realtà Machiavelli se ne discosta perché mentre gli specula forniscono immagini ideali e astratte,
lui guarda alla realtà effettuale delle cose e non all’immaginazione di esse, per cui non propone solo
valori positivi ma anche negativi affinché il principe mantenga il potere.
Il suo è un manifesto per risolvere la crisi politica italiana: i vari stati italiani erano in guerra fra di
loro, l'intento politico di Machiavelli era quello di dimostrare che anche in Italia era possibile fondare
un principato forte, solido e unitario, uno Stato moderno insomma, come quelli che stavano nascendo
nel resto d'Europa.
Il suo scopo non è teorico, ma pratico e si proponeva di risolvere la crisi italiana. A suo avviso il
principale problema della penisola italiana, che nei fatti era un ostacolo alla formazione di uno stato
unitario, era la presenza del papa, che tendeva a non voler essere inglobato in uno stato potente.
Proprio per questo in Italia sarebbe servito un principe forte che avrebbe unito tutta la penisola; lui lo
aveva trovato in Cesare Borgia, detto il Valentino, figlio del papa.

L'opera, che ha un intento didattico – cioè quello di dare degli insegnamenti – è divisa in quattro parti.
Nella prima Machiavelli analizza varie specie di principati:
1. Ereditari, propri delle monarchie dinastiche,
2. Misti (in parte ereditari e in parte nuovi), con aggiunta di nuove conquiste a un nucleo
preesistente,
3. Nuovi, prevedono la caduta di un regime precedente. Essi possono essere ottenuti o
con la violenza e le armi o con il consenso del popolo (principato civile),
4. Ecclesiastici, atipici con regole proprie.
Nella seconda descrive come poter conservare lo Stato: nessuno stato nazionale può affidarsi alle
truppe mercenarie, che scappano al primo pericolo o che seguono il soldo, i migliori soldati sono i
cittadini, unici fedeli a cui può accrescere l’amor di patria.
Crede inoltre nel principio dell’imitazione: l’uomo, facendo parte della natura, non varia nel tempo.
L’agire degli antichi può essere un modello o una lezione per affrontare i problemi attuali.
Nella terza parla dei rapporti del Principe con i sudditi: il principe savio deve pensare al bene dello
stato e non può farsi condizionare dai precetti morali, la politica deve essere autonoma dalla morale
e dalla religione.
Machiavelli sa che gli uomini sono malvagi e il politico andrebbe in rovina se fosse buono, così deve
essere un rande dissimulatore, deve essere buono o cattivo all’occorrenza, un centauro, mezzo uomo
e mezzo animale. Deve essere sia leone (forte e violento) che volpe (furbo e astuto) a seconda delle
necessità.
Nella quarta descrive il rapporto tra virtù e fortuna: Machiavelli crede nella virtù umana ma si rende
conto che anch’essa abbia dei limiti determinati dalla fortuna. La virtù dovrebbe potersi opporre ai
colpi inevitabili della fortuna, che scombina in un attimo, tutto ciò che l'uomo ha programmato per
anni. I due elementi antitetici virtù/fortuna determinano al 50% i risvolti delle vicende umane. L’uomo
con la sua virtù deve riuscire a limitare i colpi della fortuna, ma come?
- Saper sfruttare le occasioni (la virtù resta potenziale se non si propone occasione per
mostrarla e l’occasione rimane potenziale se l’uomo virtuoso non sa coglierla)
- Fare previsioni sui possibili problemi futuri, al fine di progettare dei ripari, come
degli argini sulle rive di un fiume
- Saper riscontrarsi con i tempi e adattarsi alle situazioni con grande duttilità, sapere
usare l’astuzia della volpe e la forza del leone.
Questa è chiaramente una visione laica che non prevede l'intervento di Dio nelle vicende umane.
Si conclude con un'esortazione a Lorenzo de' Medici, il quale dovrebbe mettersi a capo di una
potenza politico-militare per riunificare l'Italia e cacciare le nazioni straniere.

NON PRESTO IL CONSENSO ALLA PUBBLICAZIONE


10. Galileo Galilei

La vita

Galileo Galilei nacque a Pisa nel 1564 da Vincenzo Galilei, liutaio, e Giulia Ammaniti. Dopo
l’infanzia vissuta a Firenze e gli studi di musica e letteratura si iscrisse all’università di Pisa per
conseguire la laurea in medicina. Si accorse ben presto della sua predilezione per la fisica e la
matematica; abbandonò così lo Studio pisano senza aver conseguito alcun titolo e tornò a Firenze,
per dedicarsi soprattutto alla geometria e alla matematica applicata.
Nel 1589 ottiene un incarico come professore di matematica presso l’Università di Pisa; in questo
periodo scrive il De motu e conduce esperimenti sul centro di gravità dei corpi. L’ambiente
universitario pisano apparve però ai suoi occhi troppo ristretto e refrattario agli influssi esterni e ciò
lo spinse a criticare la vanità dei suoi colleghi.
Nel 1591 morì suo padre ed il giovane scienziato fu costretto a provvedere da solo alla madre e ai
quattro fratelli. A causa della difficile condizione economica e dei complicati rapporti con il mondo
universitario pisano, lo studioso chiese ed ottenne la cattedra di matematica presso l’Università di
Padova, dove rimase dal 1592 al 1610; qui egli trascorse gli anni migliori della sua vita, anche grazie
alla libertà garantita dalla Serenissima ai suoi intellettuali.
Dopo l’osservazione di una supernova nel 1604, Galileo si dedicò all’astronomia, anche attraverso il
cannocchiale, strumento da lui perfezionato.
A seguito della pubblicazione del Sidereus nuncius (1610) e l’ammissione nella prestigiosa accademia
romana dei Lincei, iniziò a subire attacchi dai domenicani per le sue tesi filocopernicane circa il moto
della terra. Nel 1616 il Sant’Uffizio dichiarò eretica la dottrina di Copernico e l’Inquisizione lo diffidò
dal sostenerla. Galileo difese tuttavia le proprie tesi nel Saggiatore, del 1623, e nel Dialogo sopra i
due massimi sistemi, del 1632.
Convocato a Roma dall’Inquisizione, il 12 aprile 1633 fu processato sino al 22 giugno: gli fu impedito
di insegnare e pubblicare, fu costretto ad abiurare e condannato al carcere a vita. La permanenza in
carcere gli venne poi commutata in esilio nella villa di Arcetri.
Negli ultimi anni, benché quasi completamente cieco, non abbandonò le ricerche e, assistito dai suoi
discepoli, compose un ultimo trattato scientifico. Morì l’8 gennaio 1642.

Contesto storico-culturale ed importanza delle opere di Galileo

Galileo è il portavoce di alcune delle istanze più innovative della cultura tra Cinquecento e Seicento.
Il metodo di ricerca patrocinato dallo scienziato sancisce il controllo dell’uomo sulla natura, ma
infligge il colpo di grazia al principio di autorità aristotelico, secondo cui ciò che affermava Aristotele
era valido e non poteva essere messo in discussione. È il cosiddetto ipse dixit (“l’ha detto lui” e perciò
non può essere messo in discussione), accettato dalla Chiesa e divenuto emblema della sudditanza
del presente rispetto al passato. Galileo rovescia in maniera definitiva la questione, gettando le
fondamenta della ricerca scientifica, attraverso un metodo da lui ideato, il metodo sperimentale.
Quest’ultimo consiste, da una parte, nella raccolta di dati empirici sotto la guida di ipotesi e teorie da
vagliare; dall'altra, nell'analisi matematica. Lo scienziato non si limita ad osservare ma ritiene che i
fenomeni debbano essere risolti attraverso elementi quantitativi e misurabili. Solo dopo questo tipo
di raccolta dei dati, lo scienziato può elaborare un'ipotesi. Questa ipotesi è valida se ci consente di
riprodurre in un contesto del tutto artificiale il fenomeno osservato, dopodiché è possibile formulare
la legge.
Galileo consente così l’accesso ad una verità non più “rivelata” dalla Chiesa ed identificata con quanto
sosteneva Aristotele, ma comprovata dall’esperimento con la certezza delle leggi matematiche.
La matematica assume il valore di un metodo totale, l’unico in grado di decodificare il “libro
dell’universo”, come Galileo definisce la realtà che ci circonda nel Saggiatore.
Le posizioni di Galileo lo pongono inevitabilmente in contrasto con la Chiesa, benché lo scienziato
non metta in discussione le verità della fede, ritenendo l’efficacia della religione valida al di fuori
delle dimostrazioni scientifiche. Tuttavia, egli metteva in discussione e negava un’intera visione del
mondo, nel tentativo di salvaguardare l’autonomia della ricerca scientifica.

Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano

La redazione del Dialogo sopra i due massimi sistemi viene terminata nel 1630, ma la sua
pubblicazione avviene solo nel 1632, a seguito dell’autorizzazione da parte di papa Urbano VIII cui
Galileo sottopose la lettura. I due sistemi (tolemaico e copernicano) sono esposti assumendo un
atteggiamento neutrale, ma di fatto l’opera evidenzia la debolezza dei ragionamenti dei tradizionalisti.
Suddiviso in quattro giornate, il Dialogo, ambientato a Venezia, costituisce l’esito letterario più
brillante di Galileo che, attraverso la forma dialogica, riesce a dare alla contrapposizione dialettica
fra opposte visioni del mondo una straordinaria chiarezza ed efficacia espositiva.
I tre protagonisti –Salviati, il nobile fiorentino portavoce delle tesi galileiane e quindi difensore delle
teorie copernicane; Simplicio, sostenitore della visione del mondo aristotelico-tolemaica; Sagredo,
interlocutore neutrale, ma di fatto spalla di Salviati, e mediatore- hanno una loro autonoma personalità
e una vivacità attoriale che conferisce tensione ed intensità al testo. Simplicio risulterà perdente, in
quanto difensore del passato e del principio di autorità (ipse dixit) ormai inadeguato come mezzo di
indagine del reale. Il confronto non è dunque solo fra saperi diversi ma fra due diverse concezioni del
mondo.
L’utilizzo del volgare in luogo del latino interpreta bene lo spirito che anima il dialogo: l’esigenza di
rivolgersi ad un pubblico non specialistico, nell’ottica di divulgare non solo prospettive scientifiche
ma una nuova metodologia d’indagine, che rivoluziona il modello di pensiero fino ad ora condiviso.
Il pubblico cui Galileo si rivolge è comunque un pubblico colto, poiché egli era alla ricerca di un
consenso che agevolasse l’affermazione delle idee sostenute.
La scelta del volgare conferisce alla lingua italiana una dignità nuova, in quanto viene riconosciuta
in grado di trattare argomenti di carattere scientifico, per i quali l’autore conia numerosi neologismi
ancor oggi in uso. Inoltre, nel Dialogo, è presente il gusto di un’argomentazione che non è astratta
dimostrazione scientifica ma è anche pura narrazione, che sa avvalersi dell’ironia, con efficaci indugi
di tipo aneddotico.
11.CESARE BECCARIA

Nato nel 1738 da una ricca famiglia della nobiltà milanese, studiò al collegio
Farnesiano di Parma e si laureò in Legge nel 1758.
Si sposò con Teresa Blasco, scontrandosi apertamente con i propri genitori, ostili a
questa unione. La figlia, Giulia, sarà madre di Alessandro Manzoni.
Beccaria fu particolarmente colpito dalle idee progressiste degli illuministi francesi,
poiché rivide in essi la medesima condizione di disagio esistenziale. Sua opera di
riferimento furono le Lettere Persiane di Montesquieu e la lettura di Rosseau.
A contraddistinguere il suo operato intellettuale, il saggio Dei delitti e delle pene,
(1763-1764), partorito in seguito alle discussioni in casa Verri intorno al problema
dello stato deplorevole della giustizia penale. Infatti l’opera poneva la questione
centrale del fine della pena; annullava la tradizionale identificazione tra peccato e
reato e collegava quegli orrori e quelle storture con la struttura stessa dello Stato
tradizionale e con la mentalità dispotica che questo concretava in istituzioni e
comportamenti.
Il testo ispirò il codice penale del granduca Pietro Leopoldo di Toscana.
Caterina II di Russia tradusse le indicazioni del saggio di Beccaria in proposte
operative concrete.
Inoltre l’opera fu presentata dagli illuministi come baluardo della loro politica
d’intervento critico.
Lo scrittore passò un breve periodo a Parigi nell’autunno del 1767 e rifiutò anche la
proposta di Caterina II che lo voleva con sé a Pietroburgo.
Fu nominato professore di economia politica presso le scuole Palatine, dove Parini
insegnava eloquenza.
Degna di nota la sua partecipazione, seppure sporadica alla rivista Il Caffè, periodico
italiano pubblicato dal 1764 al 1766 a Milano ad opera di Pietro e Alessandro Verri.
L’intento illuminista della rivista fu condiviso anche da Cesare Beccaria che scrisse
alcuni articoli ma un dissidio con i fratelli Verri portò alla conclusione del progetto
editoriale.
Del 1770 è l’opera Ricerche intorno alla natura dello stile, una storia generale del
progresso civile dell’umanità, rimasta incompiuta.
Morì nel 1794.
Contro la pena di morte

Presentiamo qui di seguito un estratto del XXVIII dei Delitti e delle pene di Cesare
Beccaria dedicato alla pena di morte. Si tratta del capitolo più noto del libro,
certamente quello più discusso e di maggiore effetto. Esso influenzò il progetto di
costituzione russa elaborata dalla zarina Caterina II tra il 1765 e il 1767 (che
prevedeva l’eliminazione della pena di morte con argomentazioni ricavate
letteralmente dal testo di Beccaria) e, soprattutto, la Riforma della legislazione
criminale introdotta nel 1786 dal granduca di Toscana, Pietro Leopoldo (1765-1790),
con cui per la prima volta in Europa veniva abolita effettivamente la pena di morte:
nell’articolo 51 essa veniva definita non necessaria, meno efficace della pena
perpetua, irreparabile, con argomenti derivati, anche in questo caso, direttamente da
Beccaria. Tuttavia il progetto di Caterina II non si concretizzò e in Toscana la pena di
morte fu reintrodotta nel 1790 per i reati politici ed estesa, nel 1795, al reato di
omicidio. Da parte sua Beccaria, come componente della commissione che lavorò a
Milano tra il 1787 e il 1792 alla riforma del codice penale su incarico dell’imperatore
(prima Giuseppe II, poi Leopoldo, l’ex granduca di Toscana), nel 1792 prese ancora
posizione contro la pena capitale, ribadendo di essere contro di essa per i seguenti
motivi: «Primo, perché non è giusta, non essendo necessaria; secondo, perché meno
efficace della pena perpetua corredata da una sufficiente e ripetuta pubblicità; terzo
perché è irreparabile». Ma la sua perorazione non ebbe alcun successo. Nei passi che
proponiamo Beccaria prima dimostra che la pena di morte non può mai essere
considerata giusta, perché nessuno, sottoscrivendo il contratto con cui si è costituita
la società, può avere ceduto il diritto alla vita (di cui peraltro neppure potrebbe
disporre, essendo un diritto inalienabile, come aveva insegnato Locke). Quindi la
pena di morte non si configura come un atto di giustizia, ma come «una guerra della
nazione con un cittadino». Oltre a essere ingiusta, la pena di morte non è neppure
utile e necessaria, Beccaria presenta i due motivi per i quali si potrebbe pensare che
essa lo sia (per salvare la nazione o come deterrente): il primo motivo non vale
durante la normale vita di una nazione; il secondo è falso, in quanto si può dimostrare
che è più efficace l’«estensione» della pena che non la sua «intensione». Inoltre
punire con la morte appare un’inutile atrocità ordinata da chi, il legislatore, dovrebbe
fare in modo che le leggi siano moderatrici della condotta degli uomini.

Questa inutile prodigalità di supplicii, che non ha mai resi migliori gli uomini, mi ha
spinto ad esaminare se la morte sia veramente utile e giusta in un governo bene
organizzato. Qual può essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i
loro simili?
Non certamente quello da cui risulta la sovranità e le leggi. Esse non sono che una
somma di minime porzioni della privata libertà di ciascuno; esse rappresentano la
volontà generale, che è l’aggregato delle particolari. Chi è mai colui che abbia voluto
lasciare ad altri uomini l’arbitrio di ucciderlo? Come mai nel minimo sacrificio della
libertà di ciascuno vi può essere quello del massimo tra tutti i beni, la vita? E se ciò fu
fatto, come si accorda un tal principio coll’altro, che l’uomo non è padrone di
uccidersi, e doveva esserlo se ha potuto dare altrui questo diritto o alla società intera?
Non è dunque la pena di morte un diritto, mentre ho dimostrato che tale essere non
può, ma è una guerra della nazione con un cittadino, perché giudica necessaria o utile
la distruzione del suo essere. Ma se dimostrerò non essere la morte né utile né
necessaria, avrò vinto la causa dell’umanità. La morte di un cittadino non può
credersi necessaria che per due motivi. Il primo, quando anche privo di libertà egli
abbia ancora tali relazioni e tal potenza che interessi la sicurezza della nazione;
quando la sua esistenza possa produrre una rivoluzione pericolosa nella forma di
governo stabilita. La morte di qualche cittadino divien dunque necessaria quando la
nazione ricupera o perde la sua libertà, o nel tempo dell’anarchia, quando i disordini
stessi tengon luogo di leggi; ma durante il tranquillo regno delle leggi, in una forma
di governo per la quale i voti della nazione siano riuniti, ben munita al di fuori e al di
dentro dalla forza e dalla opinione, forse più efficace della forza medesima, dove il
comando non è che presso il vero sovrano, dove le ricchezze comprano piaceri e non
autorità, io non veggo necessità alcuna di distruggere un cittadino, se non quando la
di lui morte fosse il vero ed unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti,
secondo motivo per cui può credersi giusta e necessaria la pena di morte. Quando la
sperienza di tutt’i secoli, nei quali l’ultimo supplicio non ha mai distolti gli uomini
determinati dall’offendere la società, quando l’esempio dei cittadini romani , e
vent’anni di regno dell’imperatrice Elisabetta di Moscovia , nei quali diede ai padri
dei popoli quest’illustre esempio, che equivale almeno a molte conquiste comprate
col sangue dei figli della patria, non persuadessero gli uomini, a cui il linguaggio
della ragione è sempre sospetto ed efficace quello dell’autorità, basta consultare la
natura dell’uomo per sentire la verità della mia assersione. Non è l’intensione della
pena che fa il maggior effetto sull’animo umano, ma l’estensione di essa; perché la
nostra sensibilità è più facilmente e stabilmente mossa da minime ma replicate
impressioni che da un forte ma passeggiero movimento. L’impero dell’abitudine è
universale sopra ogni essere che sente, e come l’uomo parla e cammina e procacciasi
i suoi bisogni col di lei aiuto, cosí l’idee morali non si stampano nella mente che per
durevoli ed iterate percosse.
Non è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo
e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio,
ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte
contro i delitti. Quell’efficace, perché spessissimo ripetuto ritorno sopra di noi
medesimi, io stesso sarò ridotto a così lunga e misera condizione se commetterò
simili misfatti, è assai più possente che non l’idea della morte, che gli uomini veggon
sempre in una oscura lontananza. La pena di morte fa un’impressione che colla sua
forza non supplisce alla pronta dimenticanza, naturale all’uomo anche nelle cose più
essenziali, ed accelerata dalle passioni. Regola generale: le passioni violenti
sorprendono gli uomini, ma non per lungo tempo, e però sono atte a fare quelle
rivoluzioni che di uomini comuni ne fanno o dei Persiani o dei Lacedemoni; ma in un
libero e tranquillo governo le impressioni debbono essere più frequenti che forti. La
pena di morte diviene uno spettacolo per la maggior parte e un oggetto di
compassione mista di sdegno per alcuni; ambidue questi sentimenti occupano più
l’animo degli spettatori che non il salutare terrore che la legge pretende inspirare. Ma
nelle pene moderate e continue il sentimento dominante è l’ultimo perché è il solo. Il
limite che fissar dovrebbe il legislatore al rigore delle pene sembra consistere nel
sentimento di compassione, quando comincia a prevalere su di ogni altro nell’animo
degli spettatori d’un supplicio più fatto per essi che per il reo. Perché una pena sia
giusta non deve avere che quei soli gradi d’intensione che bastano a rimuovere gli
uomini dai delitti; ora non vi è alcuno che, riflettendovi, scieglier possa la totale e
perpetua perdita della propria libertà per quanto avvantaggioso possa essere un
delitto: dunque l’intensione della pena di schiavitù perpetua sostituita alla pena di
morte ha ciò che basta per rimuovere qualunque animo determinato; aggiungo che ha
di più: moltissimi risguardano la morte con viso tranquillo e fermo, chi per fanatismo,
chi per vanità, che quasi sempre accompagna l’uomo al di là dalla tomba, chi per un
ultimo e disperato tentativo o di non vivere o di sortir di miseria; ma né il fanatismo
né la vanità stanno fra i ceppi o le catene, sotto il bastone, sotto il giogo, in una
gabbia di ferro, e il disperato non finisce i suoi mali, ma gli comincia. L’animo nostro
resiste più alla violenza ed agli estremi ma passeggieri dolori che al tempo ed
all’incessante noia; perché egli può per dir cosí condensar tutto se stesso per un
momento per respinger i primi, ma la vigorosa di lui elasticità non basta a resistere
alla lunga e ripetuta azione dei secondi. Colla pena di morte ogni esempio che si dà
alla nazione suppone un delitto; nella pena di schiavitù perpetua un sol delitto dà
moltissimi e durevoli esempi, e se egli è importante che gli uomini veggano spesso il
poter delle leggi, le pene di morte non debbono essere molto distanti fra di loro:
dunque suppongono la frequenza dei delitti, dunque perché questo supplicio sia utile
bisogna che non faccia su gli uomini tutta l’impressione che far dovrebbe, cioè che
sia utile e non utile nel medesimo tempo. Chi dicesse che la schiavitù perpetua è
dolorosa quanto la morte, e perciò egualmente crudele, io risponderò che sommando
tutti i momenti infelici della schiavitù lo sarà forse anche di più, ma questi sono stesi
sopra tutta la vita, e quella esercita tutta la sua forza in un momento; ed è questo il
vantaggio della pena di schiavitù, che spaventa più chi la vede che chi la soffre;
perché il primo considera tutta la somma dei momenti infelici, ed il secondo è
dall’infelicità del momento presente distratto dalla futura. Tutti i mali s’ingrandiscono
nell’immaginazione, e chi soffre trova delle risorse e delle consolazioni non
conosciute e non credute dagli spettatori, che sostituiscono la propria sensibilità
all’animo incallito dell’infelice. Ecco presso a poco il ragionamento che fa un ladro o
un assassino [...]. So che lo sviluppare i sentimenti del proprio animo è un’arte che
s’apprende colla educazione; ma perché un ladro non renderebbe bene i suoi
principii, non per ciò essi agiscon meno. Quali sono queste leggi ch’io debbo
rispettare, che lasciano un così grande intervallo tra me e il ricco? Egli mi nega un
soldo che li cerco, e si scusa col comandarmi un travaglio che non conosce. Chi ha
fatte queste leggi? Uomini ricchi e potenti, che non si sono mai degnati visitare le
squallide capanne del povero, che non hanno mai diviso un ammuffito pane fralle
innocenti grida degli affamati figliuoli e le lagrime della moglie. Rompiamo questi
legami fatali alla maggior parte ed utili ad alcuni pochi ed indolenti tiranni,
attacchiamo l’ingiustizia nella sua sorgente. Ritornerò nel mio stato d’indipendenza
naturale, vivrò libero e felice per qualche tempo coi frutti del mio coraggio e della
mia industria, verrà forse il giorno del dolore e del pentimento, ma sarà breve questo
tempo, ed avrò un giorno di stento per molti anni di libertà e di piaceri. Re di un
piccol numero, correggerò gli errori della fortuna, e vedrò questi tiranni impallidire e
palpitare alla presenza di colui che con un insultante fasto posponevano ai loro
cavalli, ai loro cani. Allora la religione si affaccia alla mente dello scellerato, che
abusa di tutto, e presentandogli un facile pentimento ed una quasi certezza di eterna
felicità, diminuisce di molto l’orrore di quell’ultima tragedia. Ma colui che si vede
avanti agli occhi un gran numero d’anni, o anche tutto il corso della vita che
passerebbe nella schiavitù e nel dolore in faccia a’ suoi concittadini, co’ quali vive
libero e sociabile, schiavo di quelle leggi dalle quali era protetto, fa un utile paragone
di tutto ciò coll’incertezza dell’esito de’ suoi delitti, colla brevità del tempo di cui ne
goderebbe i frutti. L’esempio continuo di quelli che attualmente vede vittime della
propria inavvedutezza, gli fa una impressione assai più forte che non lo spettacolo di
un supplicio che lo indurisce più che non lo corregge. Non è utile la pena di morte per
l’esempio di atrocità che dà agli uomini. Se le passioni o la necessità della guerra
hanno insegnato a spargere il sangue umano, le leggi moderatrici della condotta degli
uomini non dovrebbono aumentare il fiero esempio, tanto più funesto quanto la morte
legale è data con istudio e con formalità. Parmi un assurdo che le leggi, che sono
l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne
commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino
un pubblico assassinio. Quali sono le vere e le più utili leggi? Quei patti e quelle
condizioni che tutti vorrebbero osservare e proporre, mentre tace la voce sempre
ascoltata dell’interesse privato o si combina con quello del pubblico. Quali sono i
sentimenti di ciascuno sulla pena di morte? Leggiamoli negli atti d’indegnazione e di
disprezzo con cui ciascuno guarda il carnefice, che è pure un innocente esecutore
della pubblica volontà, un buon cittadino che contribuisce al ben pubblico, lo
stromento necessario alla pubblica sicurezza al di dentro, come i valorosi soldati al di
fuori. Qual è dunque l’origine di questa contradizione? E perché è indelebile negli
uomini questo sentimento ad onta della ragione? Perché gli uomini nel più secreto dei
loro animi, parte che più d’ogn’altra conserva ancor la forma originale della vecchia
natura, hanno sempre creduto non essere la vita propria in potestà di alcuno fuori che
della necessità, che col suo scettro di ferro regge l’universo. Che debbon pensare gli
uomini nel vedere i savi magistrati e i gravi sacerdoti della giustizia, che con
indifferente tranquillità fanno strascinare con lento apparato un reo alla morte, e
mentre un misero spasima nelle ultime angosce, aspettando il colpo fatale, passa il
giudice con insensibile freddezza, e fors’anche con segreta compiacenza della propria
autorità, a gustare i comodi e i piaceri della vita? Ah!, diranno essi, queste leggi non
sono che i pretesti della forza e le meditate e crudeli formalità della giustizia; non
sono che un linguaggio di convenzione per immolarci con maggiore sicurezza, come
vittime destinate in sacrificio, all’idolo insaziabile del dispotismo. L’assassinio, che ci
vien predicato come un terribile misfatto, lo veggiamo pure senza ripugnanza e senza
furore adoperato. Prevalghiamoci dell’esempio. Ci pareva la morte violenta una scena
terribile nelle descrizioni che ci venivan fatte, ma lo veggiamo un affare di momento.
Quanto lo sarà meno in chi, non aspettandola, ne risparmia quasi tutto ciò che ha di
doloroso!

1) Perché la pena di morte lede un diritto inalienabile?


2) Come definisce la pena di morte Beccaria?
3) Quali sono i due motivi per cui si potrebbe credere che la pena di morte sia utile e
necessaria?
4) A quali argomenti ricorre Beccaria per contestare l’efficacia della pena di morte
come deterrente?
5) In che senso l’ergastolo può essere considerato anche più doloroso della morte?
6) Perché la pena di morte rappresenta un danno per un buon legislatore?
A) Ricostruisci l’argomentazione contrattualista con cui Beccaria sostiene
l’illegittimità della pena di morte. B) Che cosa significa che, nel «tranquillo regno
delle leggi», la pena di morte non può essere considerata necessaria? E se si cade in
uno stato di anarchia è possibile parlare di uso legittimo della pena di morte?
C) Ricostruisci il ragionamento con cui Beccaria sostiene che gli uomini temono
maggiormente l’estensione che l’intensità della pena. 4) Ricostruisci
l’argomentazione del criminale di fronte alla prospettiva della pena di morte,
evidenziando il suo carattere di denuncia sociale e indicando quali vantaggi egli creda
di ricavare dalla rottura del patto sociale che lo lega agli altri cittadini con il ritorno
allo «stato di indipendenza naturale». 5) Spiega quale dovrebbe essere il ruolo di un
buon legislatore alla luce della definizione che Beccaria fornisce delle leggi
veramente utili.
BIBLIOGRAFIA

G.BALDI, S.GIUSSO, M.RAZETTI, G.ZACCARIA, Dal testo alla storia dalla storia al testo, vol.II, tomo
II, Paravia, Torino, 1994, pp. 527-532, pp. 543-546

C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, a cura di G. Francioni, in Edizione nazionale delle opere di Cesare
Beccaria, vol. I, Milano, Mediobanca, 1984, pp. 86-94

SITOGRAFIA

https://www.treccani.it/enciclopedia/il-caffe/
12.VITTORIO ALFIERI
1. La vita

Alfieri nasce ad Asti nel 1749 da una ricca famiglia nobile. Dai nove fino ai diciassette anni frequenta
l’Accademia Reale di Torino; terminata l’Accademia, inizia i suoi viaggi in Italia e all’estero (Francia,
Inghilterra e Olanda) grazie ai quali, oltre ad arricchire il suo bagaglio culturale e umano, viene a
contatto con l’illuminismo.

Tornato a Torino, non riesce a dedicarsi all’attività politica e militare, proprie della nobiltà sabauda,
per il suo carattere solitario; conduce, perciò, una vita simile a quella del «giovin signor», piena di
inquietudini e “lati oscuri”. La depressione si acuisce a causa delle prime passioni d’amore che gli
provocano dolore, ma da cui non riesce a liberarsi. Non gli resta che “ripiegare” sulla letteratura. In
quest’ottica nel 1772 sempre a Torino fonda con alcuni amici una sorta di rivista letteraria come
l’Esquisse du jugement universel (schizzo del giudizio universale), satira della società nobiliare,
ispirata ai modi di Voltaire per cui scrive «cose facete miste di filosofia e di impertinenza» in lingua
francese. Nel 1775 fa rappresentare la sua prima tragedia: Cleopatra. Essa ottiene un notevole
successo tanto da spingerlo ad abbracciare a tutti gli effetti la strada delle lettere, trovando -
finalmente- anche un senso alla propria vita.

Da quel momento in poi, il poeta piemontese decise di ampliare la propria formazione culturale
immergendosi nella letteratura dei classici latini e italiani per sviluppare un linguaggio adeguato alle
tragedie che intende scrivere e non volendo più scrivere in francese. Iniziarono anni fervidi dal punto
di vista letterario: compose ben 14 tragedie, tra cui Filippo, Antigone, Saul e di cui 10 date alle
stampe nel 1783. In questo periodo fortunato, compì nuovi viaggi e compose nuove tragedie tra cui
la Mirra e i trattati in prosa Del principe e delle lettere e Della virtù sconosciuta e continuava a
lavorare alle Rime.

Inizialmente favorevole alla Rivoluzione francese, cambiò opinione fino ad esprimere con il
Misogallo un vero e proprio odio nei confronti dei francesi. Fuggito da Parigi, nel 1792 si stabilì
definitivamente a Firenze e studiò il greco e l’ebraico, si dedicò al completamento della Vita
(stampata nel 1806) e alla redazione definitiva delle Rime.

Alfieri, uomo e poeta in conflitto con il proprio tempo muore a Firenze nel 1803.

2. I rapporti con l’Illuminismo


Abbiamo già detto che Alfieri nel corso dei suoi viaggi venne a contatto con la cultura illuministica
che costituirà le basi della sua formazione culturale. Ma qual è il rapporto del poeta con questa
corrente, sviluppatasi proprio nel ‘700?

Alfieri non riesce a superare teoricamente e ideologicamente le posizioni illuministe, ma nei confronti
di questa cultura prova una grande insofferenza che gli farà sviluppare, quasi in ogni campo, posizioni
opposte:
• In campo scientifico, rifiuta il razionalismo ed esalta la dimensione irrazionale e passionale
dell’uomo, in opposizione all’illuminismo francese che esalta il razionalismo e la scienza
come fonte di progresso;
• In campo religioso, mentre gli illuministi francesi criticano la religione tradizionale,
approdando a posizioni atee e deiste, in Alfieri c’è uno spirito religioso che lo proietta in
un’oscura tensione verso l’infinito;
• Nel rapporto uomo-realtà, il Nostro crede che l’uomo sia impotente di fronte alla realtà a
differenza degli illuministi che hanno fiducia nel progresso, grazie al quale l’uomo può
migliorare la propria posizione;
• In campo economico, se da un lato gli illuministi ritengono che le attività industriali e
commerciali debbano essere incrementate in quanto fonte di ricchezze, Alfieri sostiene che
tale sviluppo favorisca solo la classe borghese, meschina e incapace di alti ideali;
• In campo politico, Alfieri inizialmente desidera la fine dell’ancien régime, ma poi lo
rimpiangerà perché non si riconosce nella borghesia, arrivando a considerarla «sesquiplebe»
(peggio della plebe). Gli illuministi, invece, si dimostrano fermi sostenitori della repubblica
che sancisce la fine della monarchia e dei privilegi aristocratici.
Bisogna, però, sottolineare che, pur criticando l’aristocrazia e successivamente l’ancien
régime, egli non propone alternative positive, ma si limita a criticare in nome del proprio
individualismo: il conflitto tra tirannide e libertà è ansia di totale realizzazione di sé, di
volontà piena di affermare il proprio io. Libertà e tirannide, dunque, come dice il Sapegno
sono «due entità mitiche e fantastiche, proiezioni di forze che nascono all’interno di Alfieri
stesso» (Natalino Sapegno, 1949). Si è parlato, perciò, di titanismo alfieriano con il quale
s’intende proprio un atteggiamento di ribellione e di sfida ad ogni forma di autorità e di potere
oppressivo che grava sugli uomini: Dio, il destino, la tirannide regale, la legge, le convenzioni
sociali, a cui in Alfieri si accompagna sempre un senso di impotenza generando un senso di
sconfitta perenne e da cui nasce il senso di trasgressione;

• In campo culturale, mentre gli illuministi ritengono che la cultura sia utile al progresso
umano, il poeta vede in essa uno strumento fine a se stesso come espressione di un alto sentire
e non utile per divulgare la conoscenza.

3. Le opere politiche [Della tirannide, Del principe e delle lettere, Della virtù sconosciuta]

Da quanto detto finora, emerge la figura di un poeta inquieto e ribelle che trova l’unico modo per
esprimere la propria insofferenza nella letteratura, concependola come antitesi irriducibile al potere
e ritenendola privilegio di individui eccezionali.

Nel trattato Della tirannide, scritto nel 1777 e stampato a sua insaputa nel 1789, si riscontra proprio
l’atteggiamento astratto e velleitario che lo caratterizza. L’opera è strutturata in due libri: il primo
dedicato a definire la tirannide e le sue forme; il secondo ai modi di resistere e ribellarsi ad essa,
presentando la lotta dell’uomo contro questa forma di governo come condizioni eterne, come uno
scontro titanico di natura eroica e individuale (vedi l’individualismo e il titanismo del paragrafo
precedente). Alfieri definisce la tirannide come ogni tipo di monarchia che ponga il sovrano al di
sopra delle leggi e non accetta l’ideale illuministico del dispotismo illuminato perché, a suo avviso,
le tirannidi moderate che nascondono le brutalità fanno assopire i popoli, a differenza di quelle
estreme che suscitano reazioni eroiche. Inoltre, l’autore individua ed esamina le basi su cui poggia la
tirannide (nobiltà, casta militare e casta sacerdotale) e suggerisce i modi in cui l’uomo libero può
sottrarsi alla tirannide, per esempio ritirandosi dalla vita sociale, suicidarsi o uccidere il tiranno
andando consapevolmente incontro alla morte.

L’opera rappresenta il momento più radicale e rivoluzionario della sua riflessione politica.

Nel trattato Del principe e delle lettere, iniziato nel 1778, compiuto nel 1786 e stampato nel 1789,
esamina il rapporto tra lo scrittore e il potere assoluto proclamando la superiorità della scrittura, che
fiorisce solo in regime di libertà, su ogni altra forma di attività: è più difficile inventare e descrivere
piuttosto che eseguire un’azione. La figura dell’intellettuale, per Alfieri, deve vivere separato dalla
realtà, chiuso in solitudine per poter pensare, scrivere e di conseguenza trovare se stesso: è
l’intellettuale di tipo umanista a cui assegna la funzione di guida utile per le generazioni future, non
ai contemporanei.

In questo trattato è ravvisabile un atteggiamento meno rivoluzionario e un mutamento di pensiero


rispetto al trattato precedente nei confronti della nobiltà e della casta sacerdotale, prima causa del
dispotismo monarchico, ora personalità superiori il cui compito è essere promotori di libertà e di virtù
ed esempio di magnanimità, da venerare come «uomini sommi e sublimi».

Nel dialogo Della virtù sconosciuta, composto nel 1786 e pubblicato nel 1788, Alfieri si confronta
con l’anima di un caro amico morto sui temi della libertà, mettendo a confronto due scelte di vita:
l’aperta ribellione e la dissimulazione onesta.

4. Il Misogallo

Non è un’opera esplicitamente politica, ma possiede una forte valenza politica in cui Alfieri esprime
il suo odio contro i francesi (da cui il titolo Misogallo, odiatore dei francesi) e la sua avversione alla
Rivoluzione.

Il Misogallo è un’opera in prosimetri (insieme di prosa e versi) scritta tra 1793 e il 1799 in cui il
poeta difende i privilegi dei nobili che, secondo Alfieri, sono gli unici ad avere il diritto al pieno
godimento dei diritti politici e l’esercizio del potere; ribadisce il ruolo di subalternità del terzo stato;
rivaluta la tirannide monarchica come male minore rispetto a quella borghese e plebea e, dall’altra,
spera che un giorno l’Italia risorga «virtuosa magnanima, libera, e una», auspicando una rinascita
italiana. L’importanza di quest’opera sta proprio nel fatto che si iniziano a delineare l’idea di nazione,
componente essenziale del Romanticismo.

5. Le satire e le commedie

Nelle satire, scritte tra 1786 e il 1797 in terzine di endecasillabi, ritroviamo ancora una forte polemica
contro la realtà contemporanea, soprattutto contro la borghesia – in satire come la plebe e la
sesquiplebe - a cui Alfieri non riconosce nessun diritto; crede che la borghesia debba restare al proprio
posto e obbedire. Altro bersaglio delle sue satire sono i principi fondamentali dell’illuminismo:
nell’Antireligioneria è a favore della religione, attaccata da Voltaire, e ritiene necessaria la funzione
consolatrice della religione nella vita dell’uomo, biasimando invece gli ideali umanitari
dell’Illuminismo, l’egualitarismo e la pretesa di estendere i diritti umani e civili agli strati più bassi
della società nella Filantropineria; continua con spirito polemico nel Commercio in cui si scaglia
contro lo spirito mercantile.

Tra il 1800 e il 1803 il poeta scrisse anche sei commedie in cui vengono evidenziate le motivazioni
che spingono l’uomo ad agire: ambizione, egoismo, vanità e interesse materiali. Esse sono
caratterizzate da accenti aspri. Quattro satire sono di argomento politico e rappresentano
un’allegoria delle forme di governo: L’uno (monarchia), I pochi (oligarchia), I troppi (democrazia) e
L’antidoto (governo misto, visto come un antidoto contro i mali rappresentati dalle altre forme di
governo); La finestrina è una satira morale in cui si comprende che la matrice delle azioni umani è la
vanità e il meschino interesse, come si vede dalla «finestrina» aperta sul loro animo: pessimismo
estremo. Una commedia più felice, con qualche battuta comica e sarcastica, ma pur sempre con
accenti aspri, è il divorzio (satira sul cicisbeismo).

6. La poetica tragica
Nella tragedia, Alfieri trova il senso della sua vita la quale è dominata dal vuoto, dalla noia, dalla
scontentezza. Ma perché proprio la tragedia? Probabilmente c’è, da un lato, una ragione di
temperamento, volto alla teatralizzazione dei conflitti interiori e alla radicalizzazione, insofferente
com’era, alle mediazioni o ai compromessi; dall’altro ci sono ragioni ideologiche, in quanto
nell’ideologia alfieriana ci sono antinomie elementari: bene/male, coraggio/viltà, libertà/tirannide che
nella tragedia potevano esprimersi e svilupparsi al meglio. Proprio questa ragione configura la
presenza di un teatro elitario, indifferente ai gusti del pubblico, in quanto le stampe delle tragedie
erano pagate dall’autore e destinata ad una circolazione ristretta e a rappresentazioni svolte in salotti
aristocratici, affidate a compagnie di dilettanti e riservate ad un ristrettissimo pubblico di invitati non
paganti. La scelta di misurarsi con il teatro rappresentava, inoltre, per l’autore una vera e propria
sfida che soddisfaceva il suo bisogno di gloria perché alla letteratura italiana mancava un modello a
cui ispirarsi.

È lo stesso Alfieri a fornire, in varie opere (Risposta dell’autore del 1783, le Note del 1785, il Parere
dell’autore sulle presenti tragedie del 1789), indicazioni sul metodo di composizione: esso si
articolava in tre momenti «ideare, stendere, verseggiare». La fase dell’ideazione consisteva nella
scelta del soggetto, nello sviluppo della trama, nella distribuzione della materia atto per atto e scena
per scena, nell’organizzazione del sistema dei personaggi. La fase della stesura consisteva nel
mettere in prosa l’azione teatrale. La fase della versificazione consisteva nel “convertire” in versi
endecasillabi ciò che era stato scritto in prosa. All’inizio le prime due fasi venivano svolte in francese
a causa dell’incertezza che Alfieri aveva sull’uso dell’italiano. Inoltre, tra una fase e l’altra potevano
passare mesi o anni a causa del labor limae che l’autore rivolgeva alle sue opere.

Il modello adottato è quello della tradizione aristotelica: la tragedia presenta unità di luogo, di tempo
e di azione, è divisa in cinque atti e vi sono da quattro a sei personaggi a favore di una concentrazione
drammatica ed espressiva per cui non ci sono personaggi secondari e colpi di scena al di fuori della
dinamica dell’azione, in aperta polemica con il modello francese: ai tragici francesi rimprovera il
rallentamento dell’azione che fa calare l’interesse, rimprovera i sentimentalismi, gli espedienti
romanzeschi dell’intreccio. Inoltre, per valorizzare la dimensione intima e accrescere la tensione
intorno ai personaggi ci sono frequenti monologhi, essenziali allo svolgimento del dramma e per
innalzare la materia trattata utilizza un lessico scelto ed elevato, evitando un linguaggio quotidiano
e banale. La sintassi è costruita su contrasti e piena di inversioni e di fratture, accentuate dalla fitta
punteggiatura; vi è ricerca del sublime. Ad Alfieri non interessa scorrevolezza e musicalità, ma
rottura e disarmonia come non interessa lo svolgimento dell’azione che appare già definito dal
principio, quanto l’approfondimento delle ragioni che determinano lo scioglimento finale. Il
destino tragico di morte che accomuna gli eroi alfieriani è l’unico segno di grandezza in cui possono
rifugiarsi e riaffermare la propria identità.

7. L’evoluzione alfieriana delle tragedie dal 1775 al 1787


Nell’arco di tredici anni Alfieri compose 19 tragedie. Gli argomenti sono vari: Polinice, Antigone,
Agamennone, Oreste e Mirra sono tratti dal mito classico; Ottavia, Bruto primo e Bruto secondo
sono tratti dalla storia romana; Saul è tratto dalla Bibbia; La congiura de’ Pazzi, Filippo, Maria
Stuarda, Timoleone, Don Garzia sono tratti dalla storia moderna; Rosamunda ambientata nel
medioevo; Agide; Sofonisba; Alceste seconda e la tramelogedia, cioè a metà tra dramma e tragedia,
Abele. Nella scrittura delle tragedie converge l’intera personalità del poeta: l’irrequietezza
esistenziale, il desiderio psicologico di grandezza, lo slancio titanico di affermazione dell’io. La
tensione eroica e il pessimismo costituiscono le due direttrici sui cui si muove tutta la produzione
tragica con la prevalenza dell’una e dell’altra a seconda dei momenti.

Filippo: il tiranno e la virtù eroica

La prima tragedia accolta da Alfieri nella sistemazione definitiva della sua produzione tragica è il
Filippo, ideato e steso nel 1775 e verseggiato più volte tra il ’75 e l’81 nella quale compare per la
prima volta il mito del «tiranno» disposto a tutto per affermare la propria personalità e, per imporre
il suo dominio incontrastato, anche a costo di uccidere il figlio Carlo che gli si oppone, è la prima
incarnazione tragica dell’individualismo alfieriano, del suo bisogno di grandezza sovraumana
insofferente ad ogni limite.

Polinice e Antigone: affermazione dell’io e purezza di ideali

Al Filippo seguono Polinice (ideata nel 1775) e Antigone (ideata e stesa nel 1776) e Agamennone e
Oreste, tutte di argomento greco. Nella prima, che costituisce una coppia tematica con la seconda
tragedia, vi è un’ambizione al regno che diventa desiderio cieco di grandezza, individualismo
esclusivo che non tollera ostacoli davanti a sé, pronto com’è ad uccidere chiunque gli si ponga
innanzi; nella seconda vi è un’ideale di purezza e di giustizia, incarnato dalla stessa Antigone che pur
di seppellire il fratello Polinice, contro la legge di Stato, affronta consapevolmente la morte,
incarnando una nuova virtù eroica non volta all’affermazione individualistica di sé, ma restauratrice
della propria assoluta purezza.

Agamennone e Oreste: eroismo e insensatezza


Anche queste due tragedie, entrambe ideate nel ’76, stese nel ’77 e versificato nel ’78 e di nuovo
nell’81, sono tematicamente accoppiate. Nell’Agamennone e nell’Oreste affiora il motivo della
debolezza umana, in quanto i protagonisti sono vittime di una forza interiore che li spinge
rispettivamente ad ordinare e a compiere un delitto: Agamennone è trucidato da Egisto, amante della
moglie Clitemnestra; Oreste, per vendicare il padre, uccide la madre. Sia Clitemnestra che Oreste
sono portatori di una personalità contradditoria e smarrita, la prima trascinata da passioni
incontrollabili, il secondo tormentato da incubi, ossessioni e deliri.

Virginia: superamento della crisi dell’individualismo eroico e simbolo di virtù romana

La Virginia, ideata e stesa nel ’77 e verseggiata tra il ’77 e il ’78 e nell’81, si ispira allo storico romano
Livio. In questa tragedia viene superata la crisi dell’individualismo eroico ed essa è ispirata
all’ideologia di libertà in quanto Icilio si scontra con il tiranno Appio Claudio Cieco per difendere
l’amata Virginia, da lui insediata. Icilio, dunque, viene considerato il primo «eroe di libertà» e,
attraverso questo personaggio, si è visto il superamento della crisi dell’ideologia eroica in una
positiva fede politica. Gli eroi alfieriani, ora, non sono tormentati da angosce e tormenti, ma
vanno dritti al loro scopo. C’è un messaggio di speranza: il popolo rovescerà il tiranno e
ristabilirà la libertà repubblicana.

La congiura de’ Pazzi: il declino dei moderni

Con La congiura de’ Pazzi, ideata nel ’77, stesa nel ’78 e versificata nel ’79 e nell’81, abbandona il
mito classico e approda alla materia moderna. Come la Virginia anche questa è una «tragedia di
libertà», ma qui l’eroe non trionfa, va incontro alla disfatta perché il fiero Raimondo, difensore dei
valori di libertà, si uccide per non cedere alla tirannia di Lorenzo de’ Medici: l’esempio virtuoso del
mondo classico è impossibile nella storia moderna.

Timoleone: tirannia e libertà

In Timoleone, ideata nel ’79, stesa nell’80, versificata nell’81-82, vi è la contrapposizione tra tirannia
e libertà che si incarna in due figure astratte e ideali, ispirate allo storico greco Plutarco: Timoleone
uccide il fratello Timofane, tiranno di Sparta, per restituire la libertà alla propria patria. In questa
tragedia sembra esaurirsi la tensione titanica di Alfieri.

Don Garzia, Maria Stuarda, Rosamunda, Ottavia

Don Garzia (1776-78), Maria Stuarda (1779-80) e Rosmunda (1779-80) sono le meno interessanti,
di ispirazione letteraria con intrecci complessi e intrighi romanzeschi mescolati ad una sensibilità
patetica, elegiaca e melodrammatica.

Ottavia: fragilità della virtù

L’Ottavia, ideata nel ’79, stesa nell’80, verseggiata nell’80-81 e nell’82, presenta una variante del
caratteristico eroismo alfieriano: l’eroina Ottavia, moglie di Nerone da lui uccisa, è una creatura
fragile e debole a cui è affidato il punto di vista della libertà che, secondo Alfieri, non vuole più
suscitare «l’ammirazione che si deve ai forti», ma «le lacrime». Si dà vita così a temi nuovi come
l’intenerita contemplazione della debolezza umana, la pietà e la commozione, animata da ideali e
ragioni psicologiche semplici e umili.
Merope: il tirannicidio virtuoso

Merope, ideata, stesa e verseggiata nell’82 con molta rapidità, è incentrata su un’eroina infelice e
torna su temi elegiaci e patetici.

Saul: crisi definitiva dell’individualismo eroico

Nel Saul, stesa e verseggiata in soli sei mesi nell’82, ispirata al racconto biblico del Primo Libro dei
Re e capolavoro dell’autore che recitò in più occasione la parte del protagonista, l’esasperato
individualismo e il desiderio di una titanica grandezza eroica entrano definitivamente in crisi.
In apparenza la tragedia ripropone il conflitto, tipicamente alfieriano, tra tiranno (Saul) e uomo libero
(David), ma in realtà il vero conflitto è quello combattuto all’interno del personaggio di Saul perché
dilaniato da opposte passioni: i suoi avversari, David e Dio, sono proiezioni del suo io diviso. Saul
ama David e lo odia. Più in profondità Saul è combattuto tra il delirio di onnipotenza del re con
uno smisurato desiderio di affermazione personale di indipendenza nelle scelte, nei giudizi, nella
volontà di primeggiare senza compromessi e mediazioni e limiti della condizione umana, in
particolare la vecchiaia e la morte, per cui sente il bisogno di essere rassicurato, il desiderio di
amare e di essere riamato. Il suicidio finale esprime la non risoluzione delle contraddizioni interne
che vedono il protagonista vincitore come sovrano e vinto come essere umano che si arrende ai propri
limiti. La tragedia, dunque, mostra l’evoluzione se non la crisi del sistema tragico alfieriano che, in
questo capolavoro, si interroga sull’interiorità del suo personaggio tipico, piuttosto che metterne la
volontà a confronto con quella contrastante di un contraddittore.

Dopo il Saul il poeta si ferma per due anni, sono anni tormentosi, di sofferenza, addirittura di un senso
di disgusto per l’esistenza umana.

Agide e Sofonisba: apertura alla dimensione sociale

A seguito degli anni tormentosi vissuti dopo la composizione del Saul nasce nel poeta un bisogno di
rapporti umani e di solidarietà nel dolore, non vi è più l’ideologia di un eroe chiuso nella sua
egoistica solitudine, ma un’apertura altruistica e un senso di pietà per l’infelicità e la sofferenza.
Questi temi nuovi sono visibili nell’Agide, tragedia ideata nell’84, stesa nell’84-85 e verseggiata
nell’86, in torna l’eroe di libertà, ma con una mentalità nuova: non ha più sogni di potenza smisurati,
anzi inizia a concedere generosamente la libertà ai sudditi. Alla contrapposizione tra potere e libertà
si sostituisce una considerazione sulla condizione umana e apertura alla dimensione sociale.

Così come nell’Agide anche nella Sofonisba, tragedia poco riuscita, ideata, stesa e verseggiata tra il
1784 e 1787, non ci sono più passioni individualistiche, ma sentimenti come amore, amicizia,
solidarietà reciproca, mitezza e pietà per i vinti.

Mirra: nuovo orientamento della sensibilità alfieriana

Il cambiamento di poetica che si percepisce già dall’Agide, trova la sua espressione più alta nella
Mirra (ideata nell’84, stesa nell’85 e verseggiata nell’86), tragedia che, insieme a Saul, costituisce il
vertice della produzione tragica di Alfieri. L’argomento è tratto dal mito classico, ma la vicenda si
svolge in un ambiente “borghese”. Mirra nutre un amore incestuoso per il padre; il conflitto perciò è
dato dalla lotta di Mirra con questa passione irrefrenabile che corrode a poco a poco la volontà di
resistere e la sua stessa vita. Il poeta per questa tragedia, come si vede dalla trama, si ispira alle
Metamorfosi di Ovidio ma, mentre la Mirra di Ovidio mette in atto sotterfugi per soddisfare la sua
passione, quella di Alfieri cerca di soffocarla e non la vuole neppure nominare. Un altro confronto si
può fare con la tragedia Saul dello stesso Alfieri, in quanto Saul aveva intorno a sé – come abbiamo
visto nel paragrafo ad essa dedicato – figure esterne su cui proiettare il proprio dissidio, inventandosi
dei nemici (David e Dio), Mirra non può perché è circondata da persone che le vogliono bene e che
vogliono la sua felicità. Il suo conflitto è, perciò, interiore e si rivela nella contrapposizione
insanabile tra il mondo della parola (rappresentato dai genitori, dalla nutrice, dal fidanzato che
cercano da lei verità) e il mondo del silenzio (rappresentato da Mirra stesso). Alfieri, in questa
tragedia, riconosce la forza devastante di una passione inspiegabile. Il suicidio della protagonista
rappresenta la sconfitta della volontà perché Mirra, nonostante abbia supplicato tutti di ucciderla per
morire da innocente, finisce per provocare la morte dell’innocente fidanzato Perseo e, quando si getta
sulla spada del padre, rivela la sua passione provocando così la condanna dei genitori.

Con quest’opera la crisi dell’individualismo eroico tocca il punto più alto che era già presente nelle
altre e rivela un nuovo orientamento della sensibilità alfieriena.

Alceste seconda e Abele: due opere marginali

La crisi dell’ideologia eroica si manifesta ancora sia nell’Alceste seconda (tragedia dell’89) che è un
rifacimento della tragedia greca di Euripide, incentrata sulla delicatezza degli affetti domestici e alla
dedizione di una moglie al marito sia nell’Abele (compiuta nel ’90) che il poeta stesso definisce una
«tramelogodia», una via di mezzo tra il melodramma e la tragedia.

Bruto primo e Bruto secondo: il ritorno della virtù eroica

Con queste due tragedie, il poeta ritorna ad affrontare temi tratti dalla storia di Roma riprendendo le
opposizioni care ad Alfieri tra tirannide e libertà. Queste tematiche, però, appaiono svuotate e
scarsamente motivate. Gli «eroi di libertà» appaiono qui convenzionali e freddi.

8. La scrittura autobiografica: la Vita scritta da esso

Alfieri mostra interesse per la scrittura autobiografica prima della conversione alla letteratura e la
Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da esso rappresenta l’opera in cui la sua tendenza
all’autobiografismo ha meglio modo di esprimersi. La Vita fu composta sotto l’influenza dei
Mémoires di Goldoni; la sua prima stesura risaliva al 1790 e la sua redazione finale avvenne dal 1798
e il 1803, ma l’opera uscì postuma nel 1806, con una datazione falsa («Londra, 1804»).

L’opera si divide in due parti: la prima parte si apre con un’Introduzione ed è divisa in quattro
segmenti «Puerizia», «Adolescenza», «Giovinezza» e «Virilità», la seconda parte è la «continuazione
della quarta epoca».

Con questa autobiografia Alfieri vuole non tanto recuperare il passato della memoria o rievocare
l’infanzia, come avverrà per gli autori otto e novecenteschi, ma vuole ricostruire il delinearsi di una
vocazione poetica che costituirà il centro della sua esistenza e acquisirà senso e valore: il poeta
ripercorre la sua vita alla luce dell’opera tragica e la presenta tutta incessantemente protesa a
raggiungere quella meta. Perciò, l’opera non è sempre pienamente attendibile come documento
storico perché l’autore tende a dare un ritratto di sé idealizzato, quello cioè di un uomo che grazie ad
una straordinaria forza di volontà ha superato ogni ostacolo. Inoltre, l’avvicinamento alla tragedia
viene concepito come una conversione: vi è, in primis, l’inquietudine oscura dell’animo, proteso
verso un oggetto ignoto, poi il momento centrale della rivelazione, dell’illuminazione. È lo stesso
Alfieri ad utilizzare il termine «conversione» quando scopre la vocazione tragica. La scrittura poetica,
dunque, per l’autore è la realizzazione suprema dell’essere. Alla crescita della vocazione tragica
corrisponde la formazione di una personalità eroica, protesa verso un ideale di magnanimità: la
suprema realizzazione dell’eroico è la figura del poeta. La narrazione si concentra quasi
esclusivamente sul protagonista, perciò a differenza dei Mémoires, nella Vita non c’è spazio per
aneddoti o macchiette: il protagonista assoluto è il poeta con la sua vita interiore.

L’autore nell’autobiografia contempla se stesso, le contingenze esterne che ne compromettono la


sensibilità eroica, consapevole del limite umano come nelle tragedie (ovviamente in queste ultime in
chiave tragica); altro aspetto dell’opera è la coerenza tra vita ed arte: per Alfieri non è l’eccellenza
artistica a nobilitare la vita dello scrittore, ma è la sua tempra morale a caratterizzare in modo
inconfondibile le esperienze da lui vissute e le sue creazioni artistiche.

Lo stile è lontano da quello classico, è uno stile medio e sorvegliato in quanto afferma di aver voluto
«lasciar fare alla penna» e di non essersi voluto distaccare dalla «spontanea e triviale naturalezza» di
un’opera «dettata dal cuore e non dall’ingegno». Il ritmo è nervoso e incalzante, il linguaggio è
conciso e incalzante e, il lessico è caratterizzato da molti neologismi («spiemontizzarsi»,
«filosofessa»).

9. Le Rime

Anche le Rime come la Vita hanno carattere autobiografico e sono state composte nell’intero arco
della propria attività di scrittore. La prima raccolta fu pubblicata nel 1789, la seconda non fu
pubblicata, l’intera produzione fu pubblicata dopo la sua morte nel 1804. Esse costituiscono una sorta
di sfoghi autobiografici, vere e proprie pagine di diario in versi nella forma privilegiata del sonetto in
quanto, la breve estensione di questa forma poetica (due quartine e due terzine), consente una
concentrazione espressiva massima.

Il modello a cui si ispira per dar vita alla raccolta delle Rime è Petrarca di cui recupera: la tendenza
ad un linguaggio e ad uno stile tesi ed essenziali, nobilmente disposti, tralasciando la ricerca di
equilibrio ed armonia; la presenza del soggetto lirico che, però, in Alfieri si carica di una tensione
eroica; l’importanza del paesaggio come funzione interiore (sarà un motivo tipicamente romantico),
ma nel Nostro, la natura è orrida e minacciosa. Per quanto riguarda l’organizzazione, le Rime non
vanno a formare un Canzoniere, ma si presentano come singoli momenti dell’esistenza: in ogni testo
c’è un dissidio interiore; radicalizza un sentimento, una lacerazione psicologica. Inoltre, in Alfieri, il
piacere dello sfogo poetico è nel «far sempre più viva la dolglia», in quanto abbandonarsi all’amore
porta con sé sempre un qualcosa di combattivo e risentito, e non come per Petrarca che vede nella
poesia l’arma per purificare il dolore, trasfigurandolo in nitide forme letterarie.

Il tema amoroso domina nella raccolta, in particolare quello lontano e irraggiungibile, occasione di
infelicità. Oltre a questa tematica ritroviamo anche la tematica politica, molto vicina alle tragedie
come: la polemica contro un’epoca vile e meschina, il disprezzo dell’uomo che si sente superiore
contro la mediocrità che domina il mondo, l’amore per la libertà, il protendersi verso un passato
idealizzato.

In questi sonetti Alfieri vuole dare un ritratto di sé, un uomo dotato più di sentimento che di ragione
e lui stesso, in un sonetto, ammette di avere in compresenza «ira» e «malinconia» e di vedere nella
morte un’unica possibilità di liberazione e un’ultima prova per dimostrare la forte magnanimità
dell’io («Uom’ se tu grande o vil? Muori e li saprai»).

Accanto alle Rime, vi sono gli epigrammi, 17 odi di occasione tra cui una scritta per la proclamazione
dell’indipendenza americana (L’America libera) e una per la presa della Bastiglia (Parigi
sbastigliato) e il tentativo del poemetto in quattro canti in ottave (L’Etruria vendicata) dedicato a
vicende fiorentine del tardo Rinascimento.

«Bollore» fantastico e disciplina formale

Dalla Vita scritta da esso, epoca terza, capp. IV e XII; epoca II cap. V

A) Oltre il teatro, era anche uno de’ miei divertimenti in Marsiglia il bagnarmi quasi ogni sera nel mare.
Mi era venuto trovato un luoghetto graziosissimo ad una certa punta di terra posta a man dritta fuori
del porto, dove sedendomi su la rena con le spalle addossate a uno scoglio ben al tetto che mi toglieva
ogni vista della terra da tergo, innanzi ed intorno a me non vedeva altro che mare e cielo; e così fra
quelle due immensità abbellite anche molto dai raggi del sole che si tuffava nell’onde, io mi passava
un’ora di delizie fantasticando; e quivi avrei composte molte poesie, se avessi saputo scrivere o in
rima o in prosa in una lingua qual che si fosse.

B) Postomi in via per Saragozza e Madrid, mi andava a poco a poco avvezzando a quel nuovissimo
modo di viaggiare per quei deserti; dove chi non ha molta gioventù, salute, danari e pazienza, non ci
può resistere. Pure io mi vi feci in quei quindici giorni di viaggio sino a Madrid, in maniera che poi mi
tediava assai meno l’andare, che il soggiornare in qualunque di quelle semibarbare città: ma per me
l’andare era sempre il massimo dei piaceri; e lo stare, il massimo degli sforzi, così volendo la mia
irrequieta indole. Quasi tutta la strada soleva farla a piedi col mio bell’andaluso accanto, che mi
accompagnava come un fedelissimo cane, e ce la discorrevamo fra noi due; ed era il mio gran gusto
d’essere solo con lui in quei vasti deserti dell’Arragona ; perciò sempre facea precedere la mia gente
col legno e le mule, ed io seguitava di lontano. Elia frattanto sovra un muletto andava con lo schioppo
a dritta e sinistra della strada cacciando e tirando conigli, lepri ed uccelli, che quelli sono gli abitatori
della Spagna; e precedendomi poi di qualch’ora mi facea trovare di che sfamarmi alla posata del
mezzogiorno, e così a quella della sera. Disgrazia mia (ma forse fortuna d’altri) che io in quel tempo
non avessi nessunissimo mezzo né possibilità oramai di stendere in versi i miei diversi pensieri ed
affetti: ché in quelle solitudini e moto continuato avrei versato un diluvio di rime: infinite essendo le
riflessioni malinconiche e morali, come anche le imagini e terribili, e liete, e miste, e pazze, che mi si
andavano affacciando alla mente. Ma non possedendo io allora nessuna lingua, e non mi sognando
neppure di dovere né poter mai scrivere nessuna cosa né in prosa né in versi, io mi contentava di
ruminar fra me stesso, e di piangere alle volte dirottamente senza saper di che, e nello stesso modo
di ridere: due cose che se non sono poi seguitate da scritto nessuno, son tenute per mera pazzia, e lo
sono; se partoriscono scritti, si chiamano poesia, e lo sono.

C) Nelle vacanze di quell’anno di filosofia, mi toccò di andare per la prima volta al Teatro di Carignano,
dove si davano le opere buffe. [...] Il brio, e la varietà di quella divina musica mi fece una profondissima
impressione, lasciandomi per così dire un solco di armonia negli orecchi e nella imaginativa, ed
agitandomi ogni più interna fibra, a tal segno che per più settimane io rimasi immerso in una
malinconia straordinaria ma non dispiacevole; dalla quale mi ridondava una totale svogliatezza e
nausea per quei miei soliti studi, ma nel tempo stesso un singolarissimo bollore d’idee fantastiche,
dietro alle quali avrei potuto far dei versi se avessi saputo farli, ed esprimere dei vivissimi affetti, se
non fossi stato ignoto a me stesso ed a chi dicea di educarmi. E fu questa la prima volta che un tale
effetto cagionato in me dalla musica, mi si fece osservare, e mi restò lungamente impresso nella
memoria, perch’egli fu assai maggiore d’ogni altro sentito prima. Ma andandomi poi ricordando dei
miei carnovali, e di quelle poche recite dell’opera seria ch’io aveva sentite, e paragonandone gli effetti
a quelli che ancora provo tuttavia, quando divezzatomi dal teatro ci ritorno dopo un certo intervallo,
ritrovo sempre non vi essere il più potente e indomabile agitatore dell’anima, cuore, ed intelletto mio,
di quel che lo siano i suoni tutti, e specialmente le voci di contralto e di donna. Nessuna cosa mi desta
più affetti, e più vari, e terribili. E quasi tutte le mie tragedie sono state ideate da me o nell’atto del
sentir musica, o poche ore dopo.

Analisi del testo

Da questi primi due passi (A e B), tratti dalla Vita scritta da esso, si percepisce il senso della natura
proprio del poeta e nell’ultimo passo si percepiscono gli effetti che la musica provoca sul suo animo.
Nel primo passo (A), il poeta dichiara di non vedere nient’altro intorno a sé, proprio come a voler
indicare che la chiusura nel proprio mondo ideale – lontano dalla realtà – lo porta a fantasticare, a
costruirsi una realtà parallela che sarebbe stata fonte d’ispirazione per le sue poesie, se avesse saputo
scrivere. L’immaginazione è favorita da ciò che gli è posto davanti che gli impedisce la visuale, come
accadrà a Leopardi con la siepe «che da tanta parte il guardo esclude». A differenza, però, di come
avverrà al poeta di Recanati, in Alfieri non vi è un totale annullamento dell’io e le «immensità» (il
mare e il cielo) nelle quali si immerge il poeta piemontese sono reali. Nel secondo passo (B), si
percepisce tutta l’inquietudine del poeta per la realtà limitata che lo porta continuamente a cercare
spazi; spazi che trova nelle distese deserte dell’Aragona le quali suscitano sensazioni contrastanti,
facendo produrre «riflessioni malinconiche e morali», perché attraverso la solitudine il poeta evade
dalla realtà per approdare in una dimensione fantastica che favorisce l’attività letteraria. stimolando
«idee fantastiche, malinconiche ed anche grandiose». Al pari dei paesaggi, anche la musica favorisce
l’immaginazione ed è la causa motrice di «un bollore di idee fantastiche» (C).

Alfieri, dunque, ritiene che alla base della poesia vi sia un impulso passionale sfrenato, un «bollore»
fantastico, senza limiti, quasi una «pazzia», per cui l’origine della creazione poetica è nell’irrazionale,
nella zona oscura dell’animo (in questo Alfieri anticipa il romanticismo), pur chiarendo che per far
poesia non basta questa «divina follia», ma c’è bisogno di una rigorosa disciplina formale e di precisi
mezzi tecnici che il poeta dice di non possedere ancora (A).
Bibliografia

Baldi 2012= Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti, Giuseppe Zaccaria. Il piacere dei testi, vol.3
(dal Barocco all’Illuminismo). Milano – Torino, 2012.

Luperini 2011= Romano Luperini, Pietro Cataldi, Lidia Marchini, Franco Marchesi. Il nuovo, la
scrittura e l’interpretazione. Storia della letteratura italiana nel quadro delle civiltà europea, vol.4
[Illuminismo, Neoclassicismo, Romanticismo (dal 1748 al 1861)]. Firenze, 2011.
13. ALESSANDRO MANZONI
Alessandro Manzoni nacque a Milano il 7 marzo 1785 dal conte Pietro Manzoni e da Giulia, figlia di
Cesare Beccaria. Sebbene di formazione illuminista e razionalista, fu assai sensibile alle nuove
ideologie romantiche. Giovane ancora, scrisse liriche di scarso valore, nelle quali è palese l'influsso
del Parini, del Monti e del Foscolo. Meno convenzionale fu il carme “In morte di Carlo Imbonati”,
ispirato al Parini, in endecasillabi sciolti, scritto a Parigi per compiacere la madre che, separata dal
marito, aveva vissuto con l'Imbonati fino alla sua morte. Gli anni parigini (1805-1810) furono assai
importanti per il Manzoni: egli venne a contatto con ambienti culturali vivaci e aperti alle nuove
concezioni del Romanticismo e dello storicismo tedeschi che rafforzano in lui l'amore per la storia e
per la scrupolosa narrazione dei fatti che avrà grande importanza nelle sue opere maggiori. Nel 1808
sposò la figlia di un banchiere ginevrino, Enrichetta Blondel, calvinista. Questa, convertitasi due anni
dopo al cattolicesimo, influì sul ritorno dello stesso Manzoni alla fede cristiana. La conversione fu un
fatto determinante nella sua vita; egli, infatti, rivedendo con scrupolosa coscienza morale le sue
posizioni di uomo e di letterato, non rinnegò le posizioni illuministe (libertà, fraternità, uguaglianza),
ma le potenziò e le illuminò attraverso la verità del Vangelo. Il poeta trascorse un paio anni di profonda
meditazione sui testi della fede e nel 1812 riprese la sua attività letteraria con spirito ed impegno
nuovi. Da questo momento la vita del Manzoni si svolse quasi esclusivamente a Milano e fu appartata
e schiva, ma la sua fama si diffuse in tutta l'Europa. Nel 1861, nominato senatore, partecipò alla prima
seduta del Parlamento Italiano e nel 1870 ebbe la cittadinanza onoraria di Roma, quale
riconoscimento del contributo che, attraverso la sua opera di scrittore, aveva dato alla causa italiana.
Morì a Milano il 22 Maggio 1873.

LE IDEE, LA POETICA E IL CONTESTO STORICO

Il Manzoni è il maggior rappresentante del movimento romantico italiano in quanto più di ogni altro
rispose ai canoni di una poetica nuova che rifuggiva dai convenzionalismi razionali per rispondere ai
moti più spontanei dell'anima e a una sincera analisi delle passioni degli uomini. Da queste aspirazioni
il Manzoni seppe elaborare una poetica originale, basata sulla concretezza e orientata a dare all'arte
una precisa funzione sociale. L'arte, secondo lui, non poteva rispondere esclusivamente a un gusto di
bellezza estetica, come nei classicisti, ma doveva assumere compiti di utilità per l'uomo, ispirandosi
al vero, proponendosi come scopo l'utile e usando come mezzo il dilettevole; intendeva come vero la
realtà storica, come utile il fine educativo e morale, come dilettevole una narrazione avvincente e di
facile comprensione anche per le persone meno colte, per quegli umili che il Manzoni fece
protagonisti delle sue opere. In questa concezione venivano a identificarsi le sue idee liberali e
illuministe (fraternità, uguaglianza, libertà) e i suoi ideali cristiani. Centro del suo mondo è la
Provvidenza di Dio, un Dio che si cala nella storia degli uomini per dare un senso alle loro azioni e
guidarle verso il Bene, secondo una logica che sfugge all'occhio umano, ma che porta all'esito
migliore, per cui anche dal male può nascere il bene e dal dolore la gioia. Fondamentale è la completa
fiducia nella Provvidenza: solo in essa l'uomo trova la pace e può trovare la felicità. Anche la lingua
del Manzoni aveva bisogno di innovazioni: per rispondere alle esigenze che abbiamo espresso era
necessaria una lingua piana, libera dalle preziosità della cultura, comprensibile per ogni strato sociale.
Ecco lo sforzo di tanti anni di eccessivo perfezionamento della lingua, specialmente ne I promessi
sposi, raggiungendo una prosa naturale e semplice.

Egli riteneva che lo scrittore dovesse avere come obbiettivo l'educazione morale del lettore, cioè
dovesse spingerlo ad odiare il male ed amare il bene. L'opera d'arte deve avere l'utile come scopo, il
vero come soggetto, l'interessante come mezzo scriverà in una famosa lettera a Cesare D'Azeglio. Se
l'utile era l'educazione del lettore, il soggetto dell'opera d'arte doveva essere vero cioè preso dalla
storia. Manzoni, quindi, rivaluterà l'importanza della storia e si allontanerà sempre di più da quella
concezione illuministica che rifiutava la storia perchè piena di storture ed ingiustizie. Tra le sue opere
più famose scritte dopo la conversione ci sono gli Inni sacri, il più famoso dei quali è la Pentecoste.
Scrisse poi due tragedie storiche "Il conte di Carmagnola" ed “Adelchi”; ma la sua opera più famosa
è il romanzo storico “I promessi sposi”.

Qual è il sentimento più importante in questa nuova concezione romantica che troviamo nelle
sue opere?

Senza dubbio l'amore. Questo sentimento veniva esaltato fortemente dai romantici, non solo veniva
esaltato l'amore tra uomo e donna, tra genitori e figli, ma anche l'amore verso Dio e soprattutto
l’amore verso patria. In Italia, il Romanticismo, infatti, coinciderà con il grande periodo del
Risorgimento italiano, movimenti di pensiero e lotte per l'indipendenza dell'Italia dallo straniero.
Alessandro Manzoni, da grande romantico, si batterà attraverso le sue opere per la liberazione
dell'Italia. Da romantico egli, infatti, pensa che come ogni singolo uomo, per i suoi sentimenti, è
unico, così lo è ogni nazione e ogni popolo in quanto ha una lingua, una religione, usi e costumi
propri. Nessun popolo deve essere oppresso da popoli stranieri, questo è il grido d'onore del Manzoni,
costretto a vedere la sua amatissima Italia sempre dominata da stranieri, resa schiava e oppressa. Il
suo romanzo I promessi sposi, infatti, oltre a voler essere una difesa delle classi più povere (Renzo e
Lucia) contro i prepotenti (don Rodrigo), vuol essere anche un incitamento agli italiani a cacciare per
sempre dal loro suolo i dominatori stranieri. Il romanzo manzoniano, infatti, è ambientato nel periodo
della terribile dominazione spagnola in Italia nel Seicento. Manzoni, per evitare la censura austriaca
ed anche per potersi muovere più liberamente nelle parti non perfettamente storiche ma inventate,
scelse il Seicento non l'Ottocento. Il romanzo è un misto di storia ed invenzione e si propone di
raggiungere l'obbiettivo dell’educazione morale del lettore secondo i principi basilari
dell'Illuminismo (giustizia sociale, fraternità, solidarietà) rivisti alla luce del Vangelo. Nel romanzo,
infatti, gli umili oppressi ingiustamente da prepotenti alla fine saranno premiati dalla sola giustizia in
cui il poeta crede, quella divina. I prepotenti, invece, saranno vittime di questa giustizia se non
vorranno anche loro convertirsi. Le vicende di Renzo e Lucia sono legate alla storia vera di quel
periodo, gli anni che vanno dal 1628 al 1630 in cui l'Italia era sottoposta al dominio degli spagnoli.
E' questo il periodo della terribile peste che decimò in Italia milioni di persone. L'opera manzoniana
è considerata una delle massime espressioni del nostro Risorgimento. L'autore riuscì a vedere la
nascita del Regno d'Italia, avvenuto il 1 Marzo 1861 e fu nominato senatore del regno. Attraverso il
romanzo Manzoni si proponeva anche di svecchiare la lingua italiana rendendola più vicina a quella
effettivamente parlata dal popolo. Per questo motivo furono eseguite tre versioni dei promessi sposi
una nel 1823 che si intitolava "Fermo e Lucia", la seconda quella del 1827 che di intitolava "Sposi
promessi", l'ultima quella che noi leggiamo oggi del 1840 intitolata "I promessi sposi".

LE OPERE DEL MANZONI

INNI SACRI

Gli Inni sacri (1812 e il 1822): prima opera scritta dopo la conversione, nascono sotto il segno di un
duplice rinnovamento, morale e religioso insieme: Manzoni vuole cantare l’importanza che per
l’umanità ha assunto il messaggio cristiano, e vuole contrapporre alle favole mitologiche del
neoclassicismo i contenuti cristiani; ma vuole anche servirsi di un nuovo linguaggio, in modo che
nell’opera si specchiassero vaste masse e non solo i dotti. Gli Inni Sacri, dovevano essere,
nell’intenzione del poeta, dodici, per celebrare le principali festività dell’anno liturgico cattolico. Ne
scrisse però solo cinque: La Resurrezione, Il nome di Maria, Il Natale, La Passione e La
Pentecoste (1817-1822). I primi quattro inni sono in strofe di decasillabi; la Pentecoste è in strofe
settenari. Degli altri ci restano sette titoli, un frammento di Ognissanti, le prime strofe de Il Natale
1833, scritti a seguito dei gravi lutti familiari.

LE TRAGEDIE

L’interruzione degli Inni sacri si accompagna ad un momento di crisi spirituale, in cui si accentua
l’amara coscienza della debolezza umana, della sua incapacità di realizzare la giustizia nella storia.
Da questa coscienza nascono le tragedie manzoniane: Il Conte di Carmagnola e L’Adelchi. Esse si
propongono come modello di un nuovo teatro, di ispirazione cristiana e storica, da contrapporre alla
tragedia classicista e alfierana. Le principali novità del teatro manzoniano:

- il rifiuto delle unità del teatro classico – primariamente quella di luogo e di tempo – in nome della
libertà creatrice;

- l’introduzione dei cori, come momento di riflessione morale, politica o religiosa, una sorta di
parentesi in cui si dispiega liberamente la voce dell’autore;

- l’autore, dopo aver presentato una cornice storica, deve calarsi nell’animo dei protagonisti,
ricostruendo dall’interno il loro comportamento.

Il Conte di Carmagnola (cinque atti in endecasillabi sciolti) narra della storia di un condottiero del
XV secolo, Francesco Bussone, detto il Carmagnola, dal paese d’origine, che, passato dal servizio ai
Milanesi a quello dei Veneziani, guida questi ultimi alla vittoria contro i Visconti (i milanesi). La
vicenda abbraccia sette anni (1425-1432). Nella decisiva battaglia di Maclodio nel 1427, il
Carmagnola lascia liberi i prigionieri, destando i sospetti del senato di Venezia che lo condanna a
morte. Il pensiero della giustizia divina lo conforta a sopportare l’ingiusta condanna. La trama è
quindi storica, ma gli interessi dell’autore sono per gli aspetti morali: come può accordarsi un atto di
generosità – la liberazione dei prigionieri – con le ferree leggi politiche? Nel coro che commenta la
battaglia di Maclodio, “S’ode a destra uno squillo di tromba”, Manzoni fa sentire la sua
disapprovazione per le guerre che contrappongono Italiani ad Italiani – Milanesi e Veneziani –
deprecando le contese fratricide ed auspicando la rinascita di uno spirito fraterno tra i popoli.

ADELCHI (1822): la tragedia, preceduta da un attento lavoro di ricostruzione storica (i cui risultati
confluirono in Discorso sopra alcuni punti della storia longobarda in Italia; 1822), rievoca episodi
degli ultimi due anni (772-774) della dominazione longobarda in Italia. Carlo Magno, re dei Franchi,
ripudia la moglie Ermengarda, che è riaccolta dal padre Desiderio, re dei Longobardi, e dal fratello
Adelchi. Mentre il primo pensa solo a vendicarsi dell’affronto recato a lui, il secondo comprende il
dolore della sorella e la conforta. Ermengarda, tra l’altro, chiede al padre di potersi chiudere in
convento, per trovare conforto nella preghiera. Intanto un rappresentante di Carlo Magno intima a
Desiderio di restituire al papa Adriano le terre che aveva occupato, e, al rifiuto sdegnoso del re
longobardo, muove in armi contro di lui. Ma il valore militare di Adelchi, che presso le Chiuse di
Susa difende con il suo esercito l'unico passaggio dalle Alpi, scoraggia Carlo dal tentare l'impresa.
Quando il re franco è ormai deciso a rinunciare, giunge il diacono Martino (inviato dal vescovo di
Ravenna) ad indicargli una strada segreta per la quale egli potrà cogliere alle spalle i Longobardi.
Carlo, con questo aiuto, può sconfiggere i suoi nemici, mentre Adelchi, amareggiato dal tradimento
di molti suoi generali, cerca di difendersi valorosamente. Intanto Ermengarda muore in convento, a
Brescia, vinta dal dolore. Desiderio, fatto prigioniero a Pavia, chiede a Carlo di lasciar libero Adelchi,
ma questi giunge morente davanti a loro: ha preferito battersi fino all'ultimo sangue per non subire
l'onta della resa.

Le tragedie manzoniane presentano due tipi di personaggi: gli uni hanno il senso concreto della realtà
e sono capaci di agire sordi alle voci del cuore – come i senatori veneziani, Carlo e Desiderio – ; gli
altri, invece, vivono per alti e nobili ideali, comprendono le angosce e le sofferenze altrui, si
tormentano tra la realtà e sogni generosi, trovando solo nella morte la piena realizzazione della loro
travagliata personalità – come il Carmagnola; Adelchi ed Ermengarda – . Questi personaggi sono
frutto di un pessimismo di stampo giansenista, che trova il suo sigillo nell’affermazione finale di
Adelchi: è meglio nascere oppressi piuttosto che oppressori, perché solo chi vive fuori dalla storia
attiva non è costretto dalla tragica necessità del male.

LE ODI CIVILI

Nell’ambito della poesia civile, Manzoni aveva esordito con Aprile 1814 (scritto in occasione della
caduta dell’impero napoleonico in Italia) e Il Proclama di Rimini (non terminata; ispirato al tentativo
di Murat di opporsi al rientro degli Austriaci e di difendere l’indipendenza nel napoletano). Si tratta
però di due prove mediocri dal tono retorico.

L’entusiasmo dei moti carbonari lo porta nel 1821 a tornare alla poesia civile: compone così Marzo
1821 e Il 5 maggio.

L’ode Marzo del 1821: un gruppo di rivoluzionari piemontesi organizzò un tentativo di insurrezione
contro l’Austria. L’intento era di dichiarare guerra all’Austria e liberare la Lombardia dal dominio
straniero. L’insurrezione fallì e l’8 aprile l’esercito degli ribelli fu sconfitto dall’esercito austriaco e
sabaudo.
Manzoni scrisse l’ode immaginando che gli insorti avessero già varcato il Ticino e fossero pronti a
morire per la liberazione della Lombardia dagli austriaci.
In realtà l’esercito venne sconfitto a Novara e non arrivò al fiume, che segnava il confine tra il
Piemonte del Regno di Sardegna e la Lombardia austriaca.
L’ode è dedicata alla memoria del poeta e patriota tedesco Theodor Koerner (1791-1813), morto
combattendo contro Napoleone a Lipsia.
Scritta in strofe di versi decasillabi, la poesia ha un ritmo martellante e impetuoso a sottolineare il
coraggio e la forza dei soldati
Il cinque maggio (1821), come l’ode precedente, supera gli eventi storici per collocarsi su un piano
umano e religioso: il poeta si accosta a Napoleone, nel dolore e nella solitudine dell’esilio. Manzoni
scorge accanto al grande condottiero la presenza della Fede, che gli consente di sopportare la sventura,
offrendolo pacificato alla morte. Da qui anche la convergenza con le tragedie: dalla delusione della
gloria e della potenza terrena deriva il rifiuto del passato ed una speranza che può realizzarsi solo
nell’aldilà (l’ode verrà analizzata in seguito)

I PROMESSI SPOSI

(trama in breve)

I promessi sposi sono ambientati nella Lombardia del 1628, all'epoca occupata dagli spagnoli. Il
romanzo parte col ritrovamento di un manoscritto anonimo del 1600 in cui erano contenuti i
documenti della triste vicenda di Renzo e Lucia; Manzoni parte da questo manoscritto in quanto vuol
far credere che questa storia non sia mai stata da lui inventata. Il romanzo, infatti inizia con la finta
traduzione di questo manoscritto che lui ad un certo punto interrompe perché ritiene troppo noiosa
questa traduzione. Il romanzo parla di due giovani Renzo Tramaglino e Lucia Mondella le cui nozze
sono impedite dal nobile e prepotente Don Rodrigo. Quest'ultimo minaccia il prete del paese, Don
Abbondio, di non fare sposare i due giovani. La coppia, aiutata da padre Cristoforo, un frate
cappuccino, dopo il fallito matrimonio, sono costretti a fuggire separatamente. Renzo va a Milano
mentre Lucia con la madre Agnese vanno a Monza nel convento della Monaca Geltrude. Qui Lucia
viene fatta rapire dall'Innominato, un temuto fuorilegge che ebbe questo incarico da don Rodrigo.
L’Innominato alla fine si pente di compiere questa azione e la libera. La seconda parte del romanzo
si intreccia con gli avvenimenti storici dei primi decenni del XVII secolo: la carestia, la guerra e la
peste. Renzo, guarito dalla peste, ritorna a Milano per cercare Lucia e rivede ormai padre Cristoforo
e don Rodrigo vicini alla morte. I due così si sposano dopo tante disavventure e sono consapevoli che
i dolori e le difficoltà della vita non finiscono mai. La visione pessimistica della vita è addolcita dalla
fede e dalla convinzione che Dio non abbandona chi crede in lui.

Il capolavoro manzoniano ebbe una lunga gestazione, che portò alla pubblicazione di tre diverse
edizioni. Nato dietro la suggestione della lettura delle storie milanesi di Giuseppe Ripamonti (1573-
1643) e di Melchiorre Gioia (1767-1829), dopo la prima redazione, apparsa nel 1821, il Fermo e
Lucia, si accinse subito ad una seconda edizione, pubblicata nel 1827. L’anno successivo si trasferì
in Toscana, dove soggiornò per qualche tempo, “per risciacquare i panni in Arno”. Dette cioè inizio
ad un processo di revisione linguistica, per espellere dall’opera gli elementi linguistici lombardi e
forgiare un modello ideale d’italiano, che allora egli identificò con il fiorentino parlato dalle classi
colte. Questo lungo lavoro di lima durò ben dodici anni e si concluse con la pubblicazione a puntate
tra il 1840 e il 1842 della terza redazione, che è quella che leggiamo oggi. Essa era completata da
un’appendice, la Storia della colonna infame, in cui è descritto un processo agli untori avvenuto
durante la famosa peste.

Il Fermo e Lucia (1821-1823): manca della profondità spirituale che vedremo nei personaggi de I
promessi sposi. Assai meno efficaci sono i nomi degli stessi personaggi: ad esempio, Renzo
Tramaglino e Lucia Mondella si chiamavano Fermo Spolino e Lucia Barella. La storia della monaca
di Monza aveva uno sviluppo molto più esteso, addirittura eccessivo; Don Rodrigo moriva in modo
melodrammatico, lanciandosi fuori dal lazzaretto con grandi urla su un bianco cavallo. Le singole
parti dell’opera sono scarsamente integrate tra loro: soprattutto le storie di Gertrude e del Conte del
Sacrato (l’Innominato) appaiono romanzi dentro il romanzo. Inoltre, vi sono forti echi della
concezione giansenistica: i personaggi sono divisi in due blocchi distinti, i buoni e i cattivi. La
seconda redazione, “Sposi promessi” si differenzia dalla successiva esclusivamente dal punto di vista
linguistico.

I Promessi sposi sono un romanzo storico (composto da XXXVIII capitoli), secondo il modello
iniziato dallo scozzese Walter Scott ed imitato dai romantici: su uno sfondo di episodi realmente
accaduti e di personaggi realmente esistiti, si dipana una trama di episodi e personaggi creati
dall’autore. Manzoni ambienta il suo romanzo nel ‘600 milanese, segnato dal malgoverno spagnolo,
dalla carestia e dalla peste: su questo sfondo si svolge la vicenda dei due giovani popolani, Renzo e
Lucia, vicenda che, nelle intenzioni dell’autore, vuole rappresentare l’eterna vicenda della vita. Il
grande racconto mostra umili schiacciati dalle angherie dei potenti; ma su questa desolante e
pessimistica visione si innalza la possibilità del riscatto: di fronte al male, non bisogna cedere ma
resistere e lottare, fiduciosi nell’aiuto della Provvidenza. Il dolore è una prova di benedizione celeste:
Renzo e Lucia riusciranno infatti a coronare il loro sogno d’amore. Al pessimismo passivo
dell’Adelchi si contrappone un pessimismo attivo, che sa trovare sulla terra il meritato premio per la
fede che mai si arrende. E’ questa la convinzione che emerge alla conclusione del libro, noto come
“il succo di tutta la storia”. I principali personaggi sono realisticamente disegnati, ma al contempo
sono modelli assoluti di comportamento religioso e morale, in senso negativo o positivo. Lucia e
Padre Cristoforo sono le forme in cui l’autore più palesemente cala la sua concezione etico-religiosa:
in entrambi si riscontra la necessità di vivere la propria esistenza nella certezza della costante presenza
divina accanto a noi. La personalità e l’umanità dei singoli personaggi si arricchisce dal contatto con
gli altri personaggi, costituendo così un quadro completo della vita umana.
Una delle grandi conquiste dell’arte manzoniana, nel passaggio al romanzo, è la capacità di
comprendere l’umanità media, che esprime insieme le virtù ed i difetti, le speranze e le debolezze
degli uomini comuni. Da qui discende anche l’originalità del tono, esempio unico nella nostra
letteratura: egli trova nell’umorismo la capacità di rappresentare ed insieme comprendere la
debolezza umana e l’imperfezione del reale. I Promessi sposi sono l’opera in cui più profondamente
ed esplicitamente si realizza l’ideale dei romantici di una letteratura popolare nei contenuti e negli
indirizzi. Il realismo manzoniano è soprattutto capacità di inquadrare e rappresentare la vita ed i
sentimenti delle classi umili, sentite come espressione di un’umanità più vera e sincera, anche se
apparentemente ingenua ed elementare. Ma questa ingenuità è anche intuizione istintiva del lato più
significativo dell’esistenza, consistente nei valori di carità, di amore, della famiglia. Proprio il
motivo della famiglia è al centro della tematica sociale del romanzo: la famiglia degli umili come
nodo di affetti semplici e sinceri, contrapposti alla famiglia dei nobili, fondata sui falsi ideali della
potenza e della ricchezza. Manzoni si fa così interprete delle opinioni di quei romantici che sentivano
l’esigenza di fare la storia di coloro che passavano sulla terra senza lasciare traccia di sé. I Promessi
sposi sono così un’opera profondamente innovativa, in quanto introducono nella nostra letteratura,
da secoli espressione delle classi dominanti, l’interesse per le classi popolari. La vita degli umili è
vista alla luce degli ideali del Vangelo: proprio perché sono vittime dell’eterna violenza della storia,
sono i più vicini a Dio. Ma la vicinanza dell’autore verso gli umili si accompagna alla sfiducia di una
reale possibilità di riscatto: la dimensione in cui si realizzano pienamente è quella familiare, mentre
è impossibile che essi riescano ad agire sul piano della storia ufficiale. Ma su questo quadro fosco,
calerà la peste, che svolge quasi una funzione riequilibratice, arricchendo la meditazione sul destino
umano.

SCRITTI STORICI E MORALI

L’interesse manzoniano per la storia si manifesta in alcune opere specificamente storiche, nate dalle
ricerche condotte sulle epoche, in cui intendeva ambientare le sue opere letterarie. E’ il caso del
Discorso sopra alcuni punti della storia longobarda, contemporaneo all’Adelchi, in cui sostiene la
debolezza del regno longobardo e il ruolo positivo del papa nella storia politica italiana.

Legata ai Promessi sposi è invece la Storia della colonna infame, in cui emerge la condanna ai giudici
che perseguitarono degli innocenti.

Manzoni ha anche scritto il Saggio comparativo sulla rivoluzione francese del 1789 e quella italiana
del 1859, incompiuto e pubblicato postumo: alle stragi e la violenza francese si oppone la soluzione
cavouriana, che portò al raggiungimento della vera libertà.
Gli interessi di carattere religioso confluiscono invece nelle Osservazioni sulla morale cattolica
(1819), in cui si difendono i principi della morale cattolica e se ne esalta l’eccezionalità spirituale.

GLI SCRITTI LINGUISTICI E LA QUESTIONE DELLA LINGUA

L’esigenza romantica di una lingua viva e parlata, aderente alla realtà del Manzoni, trovò espressione
ne I Promessi sposi. Era intenzione dell’autore comporre una trattazione organica sulla questione
della lingua, in un trattato dal titolo Della lingua italiana. Ne rimane un solo frammento, pubblicato
nel 1823, con il titolo Sentir messa.

Le sue concezioni sulla lingua sono espresse in molti scritti, composti in prevalenza dopo l’unità
d’Italia. Tra questi scritti ricordiamo: la lettera a Giacinto Carena (1850); la relazione al ministro
Broglio, Relazione intorno all’unità della lingua italiana e ai mezzi per diffonderla(1868); le lettere
al Bonghi (1868) e al marchese Casanova (1871).

La soluzione manzoniana non si discosta da quella adottata nel romanzo, che divenne modello per la
successiva produzione letteraria italiana. E’ pur vero però che la sua proposta non poteva applicarsi
alla realtà, perché innalzava a lingua nazionale un linguaggio municipale (il fiorentino) e proprio di
una ristretta cerchia sociale (la borghesia colta).
ANALISI DEL TESTO: IL CINQUE MAGGIO

1. Ei fu. Siccome immobile,


2. dato il mortal sospiro,
3. stette la spoglia immemore
4. orba di tanto spiro,
5. così percossa, attonita
6. la terra al nunzio sta,

7. muta pensando all’ultima


8. ora dell’uom fatale;
9. né sa quando una simile
10. orma di pie’ mortale
11. la sua cruenta polvere
12. a calpestar verrà.

13. Lui folgorante in solio


14. vide il mio genio e tacque;
15. quando, con vece assidua,
16. cadde, risorse e giacque,
17. di mille voci al sonito
18. mista la sua non ha:

19. vergin di servo encomio


20. e di codardo oltraggio,
21. sorge or commosso al subito
22. sparir di tanto raggio;
23. e scioglie all’urna un cantico
24. che forse non morrà.

25. Dall’Alpi alle Piramidi,


26. dal Manzanarre al Reno,
27. di quel securo il fulmine
28. tenea dietro al baleno;
29. scoppiò da Scilla al Tanai,
30. dall’uno all’altro mar.

31. Fu vera gloria? Ai posteri


32. l’ardua sentenza: nui
33. chiniam la fronte al Massimo
34. Fattor, che volle in lui
35. del creator suo spirito
36. più vasta orma stampar.

37. La procellosa e trepida


38. gioia d’un gran disegno,
39. l’ansia d’un cor che indocile
40. serve, pensando al regno;
41. e il giunge, e tiene un premio
42. ch’era follia sperar;

43. tutto ei provò: la gloria


44. maggior dopo il periglio,
45. la fuga e la vittoria,
46. la reggia e il tristo esiglio;
47. due volte nella polvere,
48. due volte sull’altar.

49. Ei si nomò: due secoli,


50. l’un contro l’altro armato,
51. sommessi a lui si volsero,
52. come aspettando il fato;
53. ei fe’ silenzio, ed arbitro
54. s’assise in mezzo a lor.

55. E sparve, e i dì nell’ozio


56. chiuse in sì breve sponda,
57. segno d’immensa invidia
58. e di pietà profonda,
59. d’inestinguibil odio
60. e d’indomato amor.

61. Come sul capo al naufrago


62. l’onda s’avvolve e pesa,
63. l’onda su cui del misero,
64. alta pur dianzi e tesa,
65. scorrea la vista a scernere
66. prode remote invan;

67. tal su quell’alma il cumulo


68. delle memorie scese!
69. Oh quante volte ai posteri
70. narrar se stesso imprese,
71. e sull’eterne pagine
72. cadde la stanca man!

73. Oh quante volte, al tacito


74. morir d’un giorno inerte,
75. chinati i rai fulminei,
76. le braccia al sen conserte,
77. stette, e dei dì che furono
78. l’assalse il sovvenir!

79. E ripensò le mobili


80. tende, e i percossi valli,
81. e il lampo de’ manipoli,
82. e l’onda dei cavalli,
83. e il concitato imperio
84. e il celere ubbidir.
85. Ahi! forse a tanto strazio
86. cadde lo spirto anelo,
87. e disperò; ma valida
88. venne una man dal cielo,
89. e in più spirabil aere
90. pietosa il trasportò;

91. e l’avvïò, pei floridi


92. sentier della speranza,
93. ai campi eterni, al premio
94. che i desideri avanza,
95. dov’è silenzio e tenebre
96. la gloria che passò.

97. Bella Immortal! Benefica


98. Fede ai trïonfi avvezza!
99. Scrivi ancor questo, allegrati;
100. che più superba altezza
101. al disonor del Golgota
102. giammai non si chinò.

103. Tu dalle stanche ceneri


104. sperdi ogni ria parola:
105. il Dio che atterra e suscita,
106. che affanna e che consola,
107. sulla deserta coltrice
108. accanto a lui posò

Parafrasi

1-3. Egli (Napoleone) non c’è più, è morto. Come le sue spoglie senza memoria, dato l’ultimo
respiro, rimasero immobili,
4. prive di una così grande anima,
5-6. così la terra rimase scossa e incredula alla notizia della sua morte,

7. pensando in silenzio all’ultima


8. ora dell’uomo che ha segnato il destino;
9. e non sa quando una simile
10. impronta di un piede d’uomo
11-12. verrà a calpestare la sua polvere insanguinata.

13-14. Il mio ingegno poetico lo vide trionfante sul trono e non si espresse;
15. quando, con continui cambiamenti di sorte,
16. fu sconfitto, tornò grande e fu piegato definitivamente,
17-18. non ha mischiato la sua voce al suono di mille voci:

19. immune dalla lode servile


20. e dalle offese vili,
21. ora (il mio ingegno poetico) si risveglia commosso dinnanzi all’improvviso
22. scomparire di un raggio così luminoso;
23. e innalza sulla tomba un canto
24. che forse non morirà mai.

25. Dall’Italia (Alpi) all’Egitto, (Piramidi)


26. dalla Spagna (Manzanarre) alla Germania (Reno),
27-28. ogni progetto di quell’uomo mai esitante era seguito dalla sua realizzazione;
29. si manifestò dall’Italia meridionale (Scilla) alla Russia (Tanai: è il fiume Don),
30. dall’uno all’altro mare.

31. È stata una gloria reale? Lascio ai posteri


32. la difficile decisione: noi
33. ci inchiniamo a Dio, l’Alto
34. Creatore, che volle imprimere in Napoleone
35-36. un’impronta più vasta del suo spirito creatore.

37. La tempestosa e trepidante


38. gioia di un grande progetto,
39. l’ansia di un animo che, indomabile,
40. obbedisce, pensando già al comando;
41. e lo raggiunge e ottiene un riconoscimento
42. in cui era folle sperare;

43. egli sperimentò tutto: la gloria,


44. più grande dopo il pericolo,
45. la fuga e la vittoria,
46. il regno e il pesante esilio:
47. due volte fu sconfitto (a Lipsia e Waterloo),
48. due volte tornò sul trono.

49. Egli pronunciò il suo nome (si proclamò imperatore): due secoli (il 1700 e il 1800),
50. armati l’uno contro l’altro,
51. sottomessi si volsero a lui,
52. come aspettando la sua decisione sul loro destino;
53-54. egli impose il silenzio e si sedette in mezzo ai due secoli come arbitro.

55-56. E scomparve, e finì i suoi giorni nell’ozio, in un’isola così piccola (Sant’Elena),
57. fatto oggetto di grandissima invidia
58. e di profonda compassione,
59. di odio implacabile
60. e di amore incondizionato.

61-62. Come incombe e si abbatte sulla testa del naufrago l’onda,


63-65. la stessa onda su cui poco prima scorreva lo sguardo del poveretto, alto e proteso ad
avvistare
66. invano rive lontane;

67-68. simile scese su quell’anima la grande quantità di ricordi!


69-70. Oh, quante volte cominciò a raccontare di se stesso
71. e sulle pagine destinate a durare eternamente
72. si posò la sua mano stanca!
73. Oh, quante volte, al silenzioso
74. terminare di un giorno ozioso,
75. chinati gli occhi lampeggianti,
76. incrociate le braccia sul petto
77-78. si fermò e l’assalì il ricordo dei giorni passati!

79-80. E ripensò agli accampamenti sempre spostati, alle trincee colpite,


81. e al lampeggiare delle armi dei soldati,
82. all’assalto della cavalleria,
83. agli ordini concitati
84. e all’immediato ubbidire.

85-86. Ahimè, forse l’animo spossato si lasciò andare ad uno strazio così grande
87-88. e si disperò; ma giunse dal Cielo una mano forte
89-90. e, mossa a compassione, lo trasportò in un’atmosfera più serena;

91-92. e lo indirizzò, attraverso i fiorenti sentieri della speranza,


93. ai luoghi eterni, verso il premio (il Paradiso)
94. che supera tutti i desideri dell’uomo,
95-96. dove la gloria terrena, ormai passata, è dimenticata, non conta più.

97-98. Bella immortale! Fede portatrice di bene, abituata ai trionfi!


99. Scrivi anche questo trionfo, rallegrati;
100. perché nessun uomo più grande di Napoleone
101-102. si è mai chinato ad adorare la disonorante Croce (il Golgota è il luogo della crocifissione
di Cristo).

103. Tu (Fede) dagli stanchi resti mortali,


104. allontana ogni parola cattiva;
105. quel Dio che fa disperare e fa risorgere,
106. che dà dolore e consolazione,
107. sul letto di morte abbandonato da tutti,
108. riposò accanto a lui.

Figure Retoriche

• Similitudini

vv.1-5: “Siccome immobile…… così percossa…”; vv. 61-73: “Come sul capo… tal su
quell’alma…”;

• Metafore:

v. 4: “orba”; v. 21: “tanto raggio”; vv. 27-28: “il fulmine/ tenea dietro al baleno”; vv. 47-48: “nella
polvere…sull’altar”; v. 75: “rai fulminei”;

• Enjambement
vv. 6-7: “ultima / ora”; vv. 9-10: “simile / orma”; vv. 21-22: “subito / sparir” vv. 33-34: “Massimo /
Fattore”; vv. 37-38: “la procellosa e trepida / gioia”; vv. 73-74: “tacito / morir”; vv. 79-80: “mobili /
tende”; vv. 97-98: “benefica / fede”;

• Anastrofi

v. 12: “a calpestar verrà”; v. 17: “di mille voci al sonito”; v. 18: “mista la sua non ha”; v. 27: “di quel
securo il fulmine”; v. 35: “del creator suo spirito”;

• Iperbato

vv. 13-14: “lui folgorante in solio / vide il mio genio e tacque”; vv. 67-68: “tal su quell’alma il cumulo
/ delle memorie scese”; vv. 77-78: “e dei dì che furono l’assalse il sovvenir!”; vv. 89-90: “e in più
spirabil aere / pietosa il trasportò”;

• Anafore

vv. 25 ss: “dall’Alpi alle Piramidi, / dal Manzanarre al Reno […], da Scilla al Tanai, dall’uno all’altro
mar”; vv. 47-48: “due volte…due volte”; vv. 62- 63: “l’onda…l’onda”;

• Antonomasia

vv. 33-34: “Massimo Fattore”;

• Sineddoche

v. 10: “orma di pie’ mortale”; v. 56: “breve sponda” (isola);

• Polisindeti

v. 55: “e sparve e i dì nell’ozio…”; vv. 79-84: “e ripensò…e i percossi…e il lampo…e l’onda…e il


concitato…e il celere…”;

• Apostrofi

vv. 97-99: “Bella Immortal!….Scrivi ancor questo…”; v. 103: “tu dalle stanche ceneri…”;

• Ossimori

v. 37: “la procellosa e trepida / gioia d’un gran disegno”;

• Antitesi

vv. 57 ss. “immensa invidia…/ pietà profonda… / inestinguibil odio… / indomato amor”;

• Perifrasi
v. 8: “dell’uom fatale”; v. 27: “di quel securo”; v. 101: “al disonor del Golgota”;

• Personificazione

vv. 5-7: “percossa, attonita / la terra…/ muta”

Commento

Il cinque maggio fa parte dei componimenti manzoniani di argomento storico e fu insolitamente


scritta di getto (in soli tre giorni), ispirata da un evento contemporaneo e contingente: la morte di
Napoleone, avvenuta il 5 maggio 1821 sull’isola di Sant’Elena. Nonostante i divieti della censura
austriaca, l’ode ebbe grande diffusione e Goethe la tradusse subito in tedesco. Per Manzoni, dopo la
conversione, la letteratura deve avere “l’utile per iscopo, il vero per soggetto e l’interessante per
mezzo” e ciò si realizza pienamente, oltre che negli Inni sacri e nelle tragedie, anche nelle odi di
argomento politico e civile come questa e Marzo 1821. I fatti contemporanei sono analizzati in chiave
religiosa e con l’entusiasmo fideistico dato dalla recente conversione: è la prospettiva dell’eternità
che dà pieno significato alla vicenda terrena di Napoleone, in cui si sono alternate continuamente
gloriose ascese e rovinose cadute.

I due monosillabi isolati ed antitetici con cui si apre Il cinque maggio – “Ei” (“quel grande”, “quel
famoso”) e “fu” (“è morto”) – racchiudono già tutta l’essenza della vita del personaggio, che non ha
bisogno di essere nominato esplicitamente sia perché la sua identità si può dedurre dal titolo, sia
perché il suo ricordo è ancora vivo nel pensiero di tutti: infatti, in tutta la poesia, non è mai nominato
apertamente.

Tutta la lirica si basa su una serie di antitesi: tra stasi e movimento (“ei fu”, “immobile” vs “con
vece assidua / cadde, risorse e giacque”; “mobili, lampo, onda, concitato, celere”, “fulmine, baleno,
scoppiò, rai fulminei” vs “ozio, stanca man, tacito, inerte”), tra luce e tenebre (“orba, tenebre” vs
“raggio, fulmine, baleno, rai”), tra lo spazio immenso delle conquiste (“dall’Alpi alle Piramidi…”) e
quello angusto dell’esilio (la “breve sponda”). Nella prima parte dell’ode, fino al verso 54, è rievocata
la vicenda terrena dell’eroe, del quale Manzoni non aveva mai tessuto elogi finché era in vita. La
rievocazione storica è interrotta da una pausa di riflessione sulla gloria terrena (vv. 31-32).

Nella seconda parte (che inizia con “e sparve”, evidentemente parallelo all’ ”ei fu” iniziale), è
rievocato l’esilio a Sant’Elena, durante il quale l’eroe ripensa alla sua vita ed arriva alla disperazione
più nera: ciò che poteva sembrare una grande impresa, nel ricordo resta solo un fallimento. Ma nella
parte finale, i contrasti vengono superati grazie all’ingresso di una nuova dimensioni, fuori dallo
spazio e dal tempo: l’eternità, dinnanzi alla quale la gloria terrena si annulla nel silenzio e
l’immobilità, inizialmente simbolo della negatività della morte, diventa conquista della pace per
l’eternità.

Il tema di fondo è la meditazione sull’eroismo dei grandi uomini e sul loro ruolo nella storia,
guardato da Manzoni con grande pessimismo, in quanto cercare la gloria su questa terra può
provocare solo dolore, sofferenza, morte. Secondo il poeta, nella storia, o si è oppressi o si è
oppressori: se si decide di agire e compiere il male si è oppressori, se ci si rifiuta di farlo, si è oppressi,
come è più volte ribadito nell’Adelchi (che, morente, afferma: “non resta / che far torto o patirlo”)
Anche Napoleone, nonostante la grandezza delle sue imprese, alla fine, è un oppresso: oppresso dai
suoi ricordi, da se stesso, dal suo fallimento. Nella prospettiva dell’eterno, invece, si svela il vero
significato della vita, che si può comprendere solo nel momento estremo della morte.
Sintatticamente, prevalgono i periodi brevi e concitati per rendere la rapidità d’azione
dell’eroe (se si escludono il lungo periodo iniziale e quello che occupa i vv. 37-48); sono frequenti le
anastrofi, gli iperbati e le collocazioni del verbo in fondo alla frase. Sono numerosissimi gli aggettivi,
spesso di sapore latineggiante (“immemore”, “cruenta”, “anelo”….)

BIBLIOGRAFIA

www.fareletteratura.it

Le lettere e le arti di A. Sainati e G. Varanini – Le Monnier 1963

Appunti universitari dal corso di Letteratura Italiana presso l’Università Federico II di Napoli

I Promessi Sposi a cura di G. Giacalone – Ferraro 2006


14. Giacomo Leopardi
Giacomo Leopardi nacque a Recanati nel 1798 e morì a Napoli nel 1837, poeta italiano, tra i maggiori
del secolo scorso. I suoi genitori erano il conte Monaldo e la marchesa Adelaide Antici. La famiglia
era la più cospicua del paese, il suo patrimonio era dissestato, per ricostruirlo , la madre impose una
rigida economia domestica per decenni . Queste ristrettezze, congiunte ai pregiudizi nobiliari dei
genitori furono per Giacomo causa d ’infelicità. Gli impedirono di crearsi una libera sistemazione,
costringendolo a macerarsi per gran parte della vita, nell’atmosfera stagnante di un piccolo borgo di
provincia , tagliato fuori dalle correnti vive del pensiero della cultura europea . Monaldo era un
erudito, conservatore e d’idee reazionarie, la madre era rigida e spiritualmente gretta. Mancarono cosi
all’adolescenza del poeta sogni e ansie romantiche. Dopo una prima educazione ricevuta dal padre e
da due sacerdoti, appena decenne s’immerse nella biblioteca paterna, e consumò sette anni in uno
studio, com’egli dirà, “matto e disperatissimo”, che fu la causa prima della sua prematura e
irreparabile decadenza fisica. Acquistò ben presto una conoscenza eccezionale delle lingue classiche,
studiò l’ebraico e le lingue moderne. Sono di questi anni la Storia dell’ astronomia (1813), il Saggio
sopra gli errori popolari degli antichi (1815), discorsi su scrittori classici, traduzioni poetiche, molti
versi, persino in greco, e due tragedie, la Virtù indiana e il Pompeo in Egitto. In quegli studi Leopardi
cercava un’evasione dalla sua vita uggiosa, alimentando sogni di gloria, ai quali lo portava l, indole
solitaria e sognatrice. Ma nel contempo, si astraeva dalla realtà, consumava senza vera gioia la sua
vita e minava irrimediabilmente la sua salute. Alle soglie della giovinezza si trovò fisicamente
rovinato: il mal d’occhi, una malattia nervosa, una deviazione della spina dorsale e altri malanni che
lo tortureranno per sempre lo misero in condizioni di avvilente inferiorità. Nel 1816 abbandonò gli
studi eruditi per quelli della poesia, meglio adatta ad esprimere il suo bisogno di uscire dalla solitudine
e di stabile un contatto vivo con gli uomini. Seguirono le letture appassionate di autori moderni, la
Vita dell’ Alfieri, l’ Ortis del Foscolo, attraverso le quali maturò la sua sensibilità romantica. Nel 1817
ebbe inizio la corrispondenza epistolare con Pietro Giordani, che aveva intuito la grandezza di quel
giovane solitario, lo aveva incoraggiato, aveva ascoltato con animo commosso i suoi sfoghi contenute
nelle sue lettere, l’espressione dellla sua infelicità e della sua ansia di vita e di gloria. Nel 1818
Leopardi partecipò alla polemica classico-romantica, come scudiero dei classici, ma rilevando
un’originale sensibilità romantica, nel Discorso di un italiano sulla poesia romantica, compose due
canzoni civili All’ Italia e Sopra il monumento di Dante, di spiriti liberali e protese a un ideale di vita
eroica. La gravissima situazione fisica si rivelò irreparabile e, privandolo persino del conforto dello
studio, gli fece sentire ancor più p00’ptragicamente la sua solitudine e la sua infelicità, lo spinse a
porsi con urgenza le domande sul perché della vita. E’ quello che in seguito chiamò il passaggio dalla
poesia alla filosofia. Il pessimismo Leopardiano non deve essere considerato un episodio strettamente
personale e legato fatalmente alla sua malattia. Fin dall’inizio il poeta aspira a un carattere universale.
Inizialmente la problematica leopardiana è molto simile a quella del Foscolo. Come il Foscolo, il
Leopardi rigetta le primitive convinzioni cattoliche e aderisce alle concezioni sensistiche, con l’ansia
romantica delle illusioni e dell’infinito. Però il pessimismo Leopardiano appare più radicale di quello
foscoliano. Nel 1819 fece un tentativo di fuga dalla casa paterna. Espresse intolleranza per il mondo
chiuso di Recanati. Nel 1822 il padre gli concesse di andare per qualche mese a Roma, presso gli zii
Antici, ma era troppo tardi. L’incontro col mondo fu una delusione, e non fece che ribadire l’amarezza
del poeta. Ritornò stanco sentendo anche inaridita la sua vena poetica. Nel 1824 compose le Operette
morali, in prosa, a prima sintesi delle conclusioni del suo pensiero. Con i proventi di lezione private
potè vivere qualche tempo a Bologna, poi a Firenze e infine a Pisa, dove il suo animo si ridestò alla
poesia, ed ebbe inizio coi canti Il Risorgimento e A Silvia, la seconda stagione della sua poesia, che
si concluse nel 1830. Nel 1828 prostrato dalla miseria e dalle sofferenze fisiche, fu costretto a ritornare
a Recanati, dove visse fino all’aprile del 1830. Sedici mesi di notti orribili, eppure proprio allora
compose i grandi Idilli. Nel1831, si trasferì a Firenze curo un’edizione dei suoi Canti .Ebbe una
passione per Fanny Targiani Tozzetti, fu una delusione e ne conseguì disperazione. Poesie satiriche
come i Nuovi credenti, satira contro l’ottimismo del secolo e la sua fede nel progresso. Scrisse anche
La Ginestra che unisce ai toni polemici un’esortazione agli uomini affinchè si uniscano fortemente
contro l’ostilità della natura. Mori nel 1837. Scrisse anche Lo Zibaldone (un diario spirituale), I
Pensieri e L’Epistolario, nei quali come nei Canti abbiamo l’immagine di una vita volta
costantemente a un’indagine sulle ragioni dell’esistenza.

Le concezioni del Leopardi

Il “ pessimismo storico”

Il problema delle ragioni e giustificazione della vita è il tema centrale della meditazione di Leopardi.
Il poeta protestava contro coloro che collegavano le sue conclusioni pessimistiche alla sua infelicità
personale. Accanto a essa va considerata la problematica storico-culturale del tempo, la delusione
storica. Centrale è per lui il problema del piacere ( o della felicità ) visto come fine supremo
dell’uomo. E qui il poeta scopre una prima contraddizione di fondo: il piacere tende all’ infinito
nell’intensità e nella durata, scontrandosi con la limitatezza della vita umana nello spazio e nel tempo.
La felicità è un’esigenza insopprimibile e , al tempo stesso, impossibile da conseguire. In un primo
momento, il Leopardi concepì la Natura come una madre amorosa, che ci aveva creato per la felicità,
e diede la colpa della tristezza attuale del vivere all’incivilimento, allo sviluppo della razionalità,
limitatrice del sentimento e dell’immaginazione, che distoglie dalla serena comunione primitiva con
la Natura stessa. Questa aveva generato nell’uomo delle illusioni (patria, libertà, centralità dell’uomo
nell’universo, gloria). Col trionfo della ragione l’uomo si era rinchiuso nell’egoismo, nella solitudine.
Noia che consegue alla scoperta della vanità delle illusioni. Il “pessimismo storico” legato a una
precisa realtà temporale. La felicità degli antichi si fondava sull’ignoranza, sul non pensare alla
miseria effettiva della condizione umana, perché essi erano distratti, appagati, da una vita più attiva,
da quelle illusioni come la virtù e la patria, che conferivano una finalità all’esistere. Il secondo
momento della poesia leopardiana sarà la presa di coscienza e la denuncia di questa contraddizione,
e approderà a un pessimismo totale o “cosmico” come fu chiamato dagli interpreti.

Il “pessimismo cosmico”

L’idea leopardiana di Natura si sdoppia. Da un lato è amorosa e dall’altra matrigna. L’uomo non è
nulla, non sa nulla, non ha nulla da sperare dopo la morte: vive in un universo di cui ignora ragioni a
differenza degli altri esseri ha il dono funesto della coscienza razionale, che gli rivela la sua miseria
di creatura nata per la morte. L’infinito bramato dell’uomo è solo ciò che non esiste, il nulla; il piacere
è soltanto parziale e momentanea cessazione del dolore; l’esistenza un essere per il nulla. Il desiderio
naturale di felicità insito nell’uomo e l’impossibilità totale di conseguirlo. Leopardi alla poesia
chiederà di ridonargli i sogni e lo slancio della giovinezza, così come dinanzi alla bellezza d’un
paesaggio lunare dimenticherà il cieco meccanismo della Natura per sognare una comunione con
l’armonia del mondo e della vita. Credere nel progresso dell’ umanità porta a dare all’uomo la colpa
dell’ infelicità attuale, mentre essa è colpa della Natura; significa chiuder gli occhi per viltà davanti
al male connaturato al nostro vivere. L’uomo deve avere il coraggio di guardare in faccia il proprio
destino, deve usare la ragione come arma, trovare nel dolore comune una fraternità vera con gli
uomini, per costruire un mondo umano di affetti, di solidarietà, di ideali contro quello impostaci dalla
Natura. E’ questo il messaggio della Ginestra.

Dalla “filosofia” alla testimonianza

Il pensiero del Leopardi va definito non soltanto attraverso l’analisi delle sue pagine più “filosofiche”(
Zibaldone, Operette morali, i Pensieri ) ma nel complesso della sua scrittura che trova un approdo
definitivo nella poesia; Non va dimenticato mai il suo carattere specifico, che è quello della
testimonianza. Il suo pensiero, è sempre una risposta alla vita, un dialogo con essa, un appassionato
dibattito con la natura, ora come una madre , ora come una matrigna. Al patetico e vano interrogare
dell’uomo, nel Dialogo della Natura e di un Islandese. Nei Canti la scoperta della validità delle
illusioni (l’amore, le gloria, la felicità) pur nella consapevolezza piena della loro reale, fatale
illusorietà, del loro essere “enti di ragione” costruiti fantasticamente. Ma ciò che conta, per il
Leopardi, è non il loro soddisfacimento, riconosciuto impossibile, bensì il loro essere e vivere nella
coscienza, segno d’ una intatta nobiltà e creatività di essa, di là da ogni gelida costruzione
materialistica. Il critico Francesco De Sanctis afferma che Leopardi odiala vita e ce la fa amare, dice
che l’amore, la patria, la virtù sono illusioni e ne accende nell’anima , un desiderio vivissimo. Nel
Leopardi c’è una costante febbre e nostalgia d’azione, la volontà di “buttarsi” nella vita, di illudersi,
di seguire l’impeto della fantasia e del cuore e non le gelide conclusioni del pensiero; di dimenticare
nell’azione coraggiosa il tragico destino comune. La condanna alla “ vecchiezza” e alla morte poteva
essere soltanto superata dalla solidarietà degli uomini intesi alla lotta contro la natura, un
miglioramento nei rapporti reciproci, una società migliore.

LA “ STORIA DI UN’ANIMA”

A lungo il Leopardi vagheggiò di scrivere un libro con questo titolo: un’opera intensamente
autobiografica, di un’autobiografia tutta interiore. Tutta la sua produzione, dai Canti alle Operette
morali , agli appunti dello Zibaldone divenne l’attuazione e l’abbandono di questo progetto di opera
organica , unitaria. Il poeta preferì abbandonarsi alla suggestione di una confessione senza chiudere
in un libro un’avventura esistenziale non mai conclusa. Si tratta d’una vicenda discontinua di attese
e delusioni :d’un significato dell’esistere e di frustrazione di questa ricerca. L’autobiografismo del
Leopardi è presente nei Canti, che la poesia fu sentita dal Leopardi come la gioia dell’animo , nata
da questo sentimento d’una propria dignità e grandezza, che nel canto si esprime. L’io del poeta è
presente nelle emblematiche figure delle Operette morali: nella condizione di prigioniero di Torquato
Tasso, o nell’attesa, sul mare ignoto, di Cristoforo Colombo. Nasceva così la convergenza fra il
Leopardi e la corrente lirica del Romanticismo; quella che il poeta stesso aveva inizialmente
combattuto, salvo poi ad accettarla più tardi sentendola inscindibilmente legata al suo destino di poeta
moderno, riflessivo e “sentimentale”.

LO “ZIBALDONE”

Allo Zibaldone, uscito postumo nel 1898, ad opera d’una commissione di studiosi presieduta da
Giosuè Carducci. All’interno note, appunti e trattazioni più ampie intorno a disparati argomenti:
osservazioni linguistiche, filologiche e di critica letteraria, osservazioni psicologiche e morali su se
stesso e su gli altri, e la sua filosofia, cioè le sue considerazioni lucide e appassionate sulla vita. Non
mancano immagini, spunti e argomenti di poesie, alcuni dei quali ritornano nei Canti. Il termine
usato come titolo vale, appunto, miscuglio. Si potrebbe definire lo Zibaldone il cantiere, l’operosa
officina delle opere maggiori. Rispetto alle opere in prosa di Leopardi, si può dire che, pur nella sua
frammentarietà, questo libro sia più ricco. Se le Operette morali ci mostrano le conclusioni, in forma
tra logica e fantastica, del pensiero leopardiano, lo Zibaldone ci fa assistere al suo travaglio formativo.
Diciamo giorno per giorno, perché molto spesso il Leopardi annota la data precisa dei singoli pensieri,
si che il libro diviene un diario culturale e spirituale che consente di seguire il suo continuo colloquio
con se stesso.

I “ PENSIERI”

Nel 1845 il Ranieri pubblicò una raccolta di centoundici pensieri, che il Leopardi aveva lasciato
incompiuta. Era il nucleo essenziale di un manuale di “ filosofia pratica” condensata in massime, che
il poeta vagheggiò a lungo. Ne abbiamo un’importante testimonianza in una lettera del ’29 a Pietro
Colletta, nella quale il Leopardi rivelava la sua intenzione di comporre una raccolta di pensieri
intitolata Paradossi , ispirata al carattere degli uomini e alla loro condotta in società. Molti pensieri
sono una nuova redazione, più incisiva e concentrata, di pagine dello Zibaldone, altri sono totalmente
nuovi. Tutti appaiono una sintesi delle esperienze del Leopardi.

L’opera non ha una vera organicità, è una raccolta di aforismi in cui domina un tono distaccato, privo
di calore umano, mentre sarebbe piuttosto meglio parlare di un’amarezza contenuta, di una voluta
impassibilità sotto la quale s’insinua l’eco dolente del disinganno. Sembra che i Pensieri vadono
ricollegati soprattutto alle ultime poesie del Leopardi, alle quali sono, anche cronologicamente, vicini.

LE “OPERETTE MORALI”

Le Operette morali sono raccolte di dialoghi e prose. Il libro è formata da 24 operette. Le “Operette”
si presentano come la trasposizione fantastica ( 15 nella forma dialogica) dei contenuti filosofici del
poeta, delle sue meditazioni esistenziali e prendono spunto dalle sue riflessioni sui testi antichi e
moderni, con una galleria di personaggi che derivano o dall’immagine artistica ( Tristano e di un
amico, che esprime una virile attesa della morte, Timandro, l’Islandese) o della mitologia ( Atlante,
Prometeo, Ercole) o della storia (Parini, Tasso, Colombo, Ruysch).

Nella STORIA DEL GENERE UMANO, il primo componimento della raccolta, viene rappresentato
l’eterno conflitto fra Giove e gli uomini riguardo al tema della morte e dell’infelicità. A costoro,
smarriti per la finitezza della loro esistenza, Giove contrappone la moltiplicazione delle apparenze
all’infinito, sino a creare “ il popolo dei sogni” per distoglierli dal vero, su cui, comunque, sono
destinati ad infrangersi i “vaghi fantasmi” del genere umano, votato senza scampo all’infelicità.

Cosicchè la terra nel dialogo seguente DIALOGO DI ERCOLE E ATLANTE diviene, sullo sfondo
di un paesaggio astrale, occasione di mero trastullo per gli dei in una sequenza ironica di provocazioni,
a cui s’adegua pure il linguaggio: il mondo è tenere sulla schiena, che si può attaccare “ ciondolone
ad un pelo della barba” ed “ è diventata a uso delle pagnotte”.
Nel DIALOGO DELLA MODAE DELLA MORTE la figurazione delle due sorelle, nate entrambe
dalla caducità, la cui “ natura e usanza comune è di rinnovare continuamente il mondo” l’una mirando
alle persone e al sangue, l’altra alle barbe, ai capelli, agli abiti, avviene in uno scenario lugubremente
fantastico.

Vanificatosi il proposito di restaurazione avanzato dalla Moda, nella PROPOSTA DI PREMI FATTA
DALL’ACCADEMIA DEI SILLOGRAFI si propone la costruzione di 3 macchine ( l’amico, l’uomo
virtuoso e magnanimo, la donna fedele) in grado di sosituirsi, in un futuro automatizzato, agli uomini.

E in una natura senza uomini, in un paesaggio rarefatto si muovono un folletto e uno gnomo
DIALOGO DI UN FOLLETTO E DI UNO GNOMO, intenti a disputare , sul filo di un’ironia
apocalittica, per quale specie sia fatto il mondo.

Incentrato sul dramma dell’uomo proteso alla ricerca di una felicità che non esiste è il DIALOGO DI
MALAMBRUNO E FARFARELLO; così come nel DIALOGO DELLA NATURA E DI UN
ISLANDESE nella domanda finale dell’Islandese sul significato dell’esistenza cala grottescamente il
sipario della morte ancora più beffarda nel suo duplice volto.

Ispirato all’immagine inquieta del Tasso è il DIALOGO DI TORQUATO TASSO E DEL SUO
GENIO FAMILIARE, poetico colloquio di un’anima tormentata col suo spirito sui temi dominanti
del vivere umano: il rapporto tra il vero e il sogno, l’essenza del piacere, l’origine e il significato della
noia, i suoi possibili rimedi.

Sulla vanità della gloria è l’operetta PARINI OVVERO DELLA GLORIA, in cui motivi illuministici
si intrecciano a ragionamenti filosofici sulla caducità dell’esistenza, alla quale comunque bisogna
resistere con spirito eroico ( “ Il nostro fato, dove che egli ci tragga, è da seguire con animo forte e
grande”)

L’ atmosfera surreale domina il DIALOGO DI FEDERICO RUYSCH E DELLE SUE MUMMIE,


improvvisazione scenica in cui il coro dei Morti, allo scadere dell’ anno matematico, leva un inno al
non essere, ad un’esistenza senza tempo né mutamento, sospesa nel nulla eterno, e concepisce la
morte come essenza del dolore, come languere del sonno.

Intensamente poetico è IL DIALOGO DI CRISTOFORO COLOMBO E DI PIETRO GUTIERREZ,


colloquio notturno tra gli spazi immensi nell’oceano, che diventa solenne meditazione sui confini tra
la vita e la morte.

Nell’ ELOGIO DEGLI UCCELLI il poeta inneggia alla natura gaudente e felice dei volatili , simbolo
della vita e del movimento, il cui canto è simile al riso degli uomini, che però non è segno di
allegrezza, ma una “specie di pazzia non durabile”.

Poesia in prosa è il CANTICO DEL GALLO SILVESTRE, in cui si snodano liricamente, scandite
dalla presenza arcana di un “ gallo selvatico” sospeso tra cielo e terra, le angosciose sequenze del
divenire umano.

Ritornano nel DIALOGO DI PLOTINO E DI PORFIRIO i temi della infelicità e della morte,
affrontati sul filo della disputa filosofica.

Efficace per la sua immediatezza e per lo stile conciso e lapidario è IL DIALOGO DI UN


VENDITORE DI ALMANACCHI E DI UN PASSEGGERE, in cui la felicità si può solo definire
nell’attesa, nell’aspirazione indefinita ad una gioia che non si conosce, angoscioso contrasto tra la
tensione del sentimento e la freddezza della ragione che non concede speranza.

Testimonianza di un animo eroico, incapace di piegarsi all’ottimismo illuministico è il DIALOGO DI


TRISTANO E DI UN AMICO, che conclude le Operette ed è, nel tono distaccato e misurato della
meditazione filosofica, la coraggiosa contemplazione della morte di un’anima invitta.

La pubblicazione delle Operette suscitò un’aspra reazione: persino il padre di Leopardi , il conte
Monaldo, invitò il figlio ad apportare alcune modifiche all’opera, che comunque subì la censura
ecclesiastica e fu messa all’ Indice dei libri proibiti nel 1850.

I “ CANTI”

I Canti riflettono il doloroso itinerario del Leopardi, ma costituiscono anche la risoluzione luminosa
del suo pensiero e della sua chiusa e solitaria pena. La poesia rappresentò per lui il ritrovamento della
sua interiorità più vera e il solo conforto al male del vivere.

Per questo la poesia del Leopardi non descrive, ma canta; non è racconto , ma espressione dei “ tristi
e cari moti del cor”, non ripete gli antichi miti, ma coglie la favola eterna della vita.

La poesia leopardiana ha sempre il carattere d’una scoperta o riscoperta elementare del mondo alla
noia che consegue alla delusione esistenziale.
Il primo tempo della poesia leopardiana

I Canti veri e propri si aprono con due canzoni civili del ’18 : All’Italia e Sopra il monumento di
Dante.

Nella canzone Ad Angelo Mai il tema politico e civile diviene la semplice cornice del canto, e sale
in primo piano la dolorosa esperienza dello scrittore.

I due canti più importanti di questa tendenza, che potremmo chiamare storico-mitologica, sono il
Bruto minore ’21 e L’ ultimo canto di Saffo ’22 , secondo una tradizione la poetessa greca Saffo,
bruttissima, si uccise gettandosi in mare dalla rupe di Leucade, delusa perché il giovane Faone non
ricambiava il suo amore. In Saffo però il poeta rappresentava se stesso e la propria infelicità nel
vedersi respinto dalla vita e dalla natura, verso cui si sentiva attratto con slancio e trasporto: infatti
come lui Saffo ha animo sensibile e appassionato, ma corpo deforme e riformante. La natura è per il
poeta il mondo degli affetti, delle speranze e, purtroppo, anche delle disillusioni e del dolore. che
segnano il tramonto del mito della classicità come età eroica , dominata dalle grandi illusioni e quindi
più generosa e meno infelice di quella presente. Bruto e Saffo sono due figure autobiografiche ed
esprimono il crollo degli ideali del poeta. Il primo si uccide , con un atto alfieriano di sfida al destino,
dopo aver visto infranti i supremi ideali della virtù e della patria ; la seconda vede crollare l’illusione
dell’amore espia con la morte volontaria il fallo crudele della natura che ci ha creato soltanto per il
dolore. In queste due canzoni la sostanza è una trama di pensieri e affetti. Si ha in esse il passaggio
graduale da un pessimismo storico a un pessimismo cosmico.

Questo primo tempo della lirica leopardiana presenta dapprima un tentativo di fusione delle forme
classicheggianti con una sensibilità moderna e romantica. Ma lentamente il poeta avverte l’esigenza
di liberarsi da ogni suggestione libresca e di ritrovare da un lato nuovi miti, tratti dalla sua vita,
dall’altro, un linguaggio personale, più aderente ai moti del cuore e della fantasia. Gli idilli sono
piccoli quadri, nei quali il poeta esprime moti, sentimenti e “ avventure dell’ animo proprio”,
rivelazioni spirituali colte nel loro immediato affiorare. In un paesaggio che diventa tutto interiore La
vita solitaria.

Assai più grandi, La sera del dì di festa, composto nell’estate del 1820, quest’idillio poterebbe venir
considerato l’esempio tipico di come la situazione sentimentale dei primi Idilli, tutta basata sul
vagheggiamento di sensazioni musicalmente vaghe ed indeterminate, si distende sull’onda di ricordi
di paesaggi e di intuizioni dell’anima e si raggeli invece ogni qual volta raffiori un tema
immediatamente personale e polemica. Così quest’ idillio si racchiude soprattutto sulle descrizioni
del villaggio addormentato; sull’eco musicale del canto che sale dalla strada, e sul ricordo della
fanciullezza che quel canto suscita. Alla luna, dopo un anno il poeta torna a contemplare la luna, che
splende nel dolce silenzio della notte. Come allora, egli è triste, e i suoi occhi sono velati di lacrime.
Ma lo spettacolo notturno è così placido e sereno, che il ricordo del tempo passato da un po' di pace
al suo cuore. Quando si è giovani i ricordi sono meno numerosi dei sogni che la speranza alimenta
incessantemente nel nostro animo, è pur dolce, anche in un momento di sofferenza, ripensare a un
dolore ormai trascorso. Contemporaneo, o di poco posteriore all’ Infinito, questo idillio svolge dunque
quello che al Leopardi di quegli anni sembrava l’altro tipico tema poetico accanto alla contemplazione
dell’infinito: il senso della rimembranza; ed infatti il primitivo titolo del componimento era La
ricordanza. Il ricordare, che gli è caro, e gli asciuga la lacrima e lo fa sorridere. E’ ancora quel sentirsi
giovane, disposto all’affetto, alla tenerezza, e parlare alla luna e farle le sue confidenze. L’ infinito,
composto nella primavera del ’19, prima di quel gruppo di canti che il poeta chiamerà idilli a
sottolineare il loro carattere di pure “ avventure dell’animo” , l’ Infinito rappresenta il momento di
lirica effusione di un atteggiamento che molto impegnò il poeta in quegli anni e di cui troviamo
frequenti tracce nello Zibaldone. L’ immergersi in una coscienza cosmica dell’ infinito non è intenso
dunque da Leopardi come abbandono ad una pura emozione, ad un immediato vagheggiamento
musicale, nasce sempre da una consapevolezza vigile della realtà, da un’ esigenza di superamento dei
suoi dati immediati. Per questo si parla di una dimensione religiosa dell’infinito in Leopardi, quello
che più tardi diventerà, nel Canto notturno o nella Ginestra meditazione ammirata dell’immensità
della vita del cosmo qui è ancora ansia vagheggiamento di assoluto e di eternità che nasce dalla
coscienza della finitezza della propria realtà individuale. Negli ultimi due affiorano i due grandi
motivi su cui si svolgerà il secondo tempo della poesia leopardiana: l’ infinito e la ricordanza.

Il secondo tempo della poesia leopardiana

Dopo la lunga pausa di silenzio poetico dal ’22 al ’27. La poesia leopardiana riprende nel ’28, col
Risorgimento, annuncio dolente e insieme festoso d’una rinnovata vita del cuore, che, pur nella piena
consapevolezza del disinganno, ritorna a palpitare , a illudersi, a sognare la felicità, anche se
chiaramente avvertita impossibile. Nascono i cosiddetti grandi idilli ( A Silvia, Le ricordanze, La
quiete dopo la tempesta, Il Sabato del villaggio, il Canto notturno di un pastore errante, il passero
solitario il tema è il vagheggiamento e il rimpianto della giovinezza e del suo malinconico svanire. Il
tema è svolto in forma di similitudine come il passero trascorse solitario la primavera, così il poeta
passa solo ed estraneo al suo mondo la primavera della sua vita, la giovinezza, che egli già sente
trascorrere e tramontare come a poco a poco se ne sta andando il giorno festivo. Ma se per il passero
che vive secondo il suo istinto, questa condizione di vita è perfettamente naturale, il poeta sente già
fin d’ora che vive diversamente da come vorrebbe, e già questa coscienza gli anticipa un futuro
infelice. ), composti il primo a Pisa, nel ’28, gli altri a Recanati fra il ’28 e il ’30. Essi costituiscono
un ripiegamento su se stesso del poeta, che ritrova intatta nella memoria la favola della giovinezza,
la sua sete di infinito, le sue speranze e anche l’ansia struggente con cui le concepiva. In primo luogo,
la meditazione risolta nel paesaggio che spontaneamente diviene un paesaggio d’interiorità; in
secondo luogo la presenza d’immagini tratte da una realtà concreta, quotidiana, perché riflette il
senso d’un destino non solo individuale, ma universale.

Il terzo tempo della poesia leopardiana

Se i grandi idilli rappresentano un vertice della poesia leopardiana, un momento di raro equilibrio
spirituale e poetico, non ne esauriscono tutte le voci e le esigenze. La poesia era, per il Leopardi un
messaggio totale, individuale e universale insieme, sfida contro il disinganno della vita e del destino.
Negli ultimi canti ritroviamo il poeta affranto ma non rassegnato. Questo è soprattutto evidente nei
canti ispirati all’amore per la Targioni Tozzetti (Il pensiero dominante, Amore e morte, Consalvo,
Aspasia, A se stesso ) e nella Ginestra, dove la resistenza al destino culmina in una ritrovata fraternità
umana e in una pietà combattiva, in un invito agli uomini a combattere contro la natura matrigna.
Accanto a questi canti, le due canzoni sepolcrali ( Sopra un bassorilievo antico sepolcrale e Sopra il
ritratto di una bella donna scolpito su una tomba) e Il tramonto della luna, ripropongono il senso di
una stanchezza desolata. Ma l’ultimo canto è ancora uno sguardo pieno d’amore rivolto alla
giovinezza, e unisce all’estrema rinuncia alla vita un senso d’inappagata nostalgia.

PER UNA POETICA DEI “ CANTI”

Sull’ infinito e l’ indefinito la distanza fra la poesia degli antichi e quella dei moderni, cioè fra poesia
d’immaginazione e poesia sentimentale. L’idea di poesia come impulso dell’anima e impeto lirico
irriducibilmente originale, avverso a ogni forma di imitazione, della natura e dei classici, la polemica
contro la poetica dell’utile e del vero propria del primo Romanticismo italiano. In tal modo il Leopardi
si avvicina a certe posizioni del Romanticismo europeo individualistico e lirico, pur restando lontano
dalle sue impostazioni spiritualistiche.

Alcune conclusioni generali:

1. La poetica leopardiana si modifica nel tempo. Dalle canzoni civili a un modello di poesia –
eloquenza classicistici, giunge al nuovo linguaggio, polemico e demistificatore della Ginestra
, dopo essere passata per una fase idillica che costituisce un rovesciamento del genere
letterario chiamato con questo nome: un ritorno a una spontaneità.
2. Le modalità strutturali- espressive di questo processo si definiscono intorno ad alcuni nuclei
tematici che si cercherà di definire in alcuni punti qui di seguito.
a) Sostituzione, dopo le canzoni civili, alle figure eroiche esemplari poste fra l’io e la realtà
con funzione nobilitante della diretta testimonianza dell’io, nella sua drammatica
opposizione alla natura. Al posto dell’ “io” nella canzone Italia mia, o di Bruto e Saffo
come “doppio” del poeta, si ritrovala sua persona, col suo dramma e la sua sconfitta
esistenziale non rassegnata, proiettati su sfondi cosmici interminati.
b) Volontà d’una poesia che si confronti con le ragioni supreme del vivere e del morire.
c) La poesia come gesto di protesta dell’io davanti al silenzio di spazi sterminati che si
confondono col nulla, con l’assenza totale di significato. Ne risulta un paesaggio
metafisico dove l’io , personaggio testimone, è solo con le sue domande e la sua
opposizione all’impassibilità assurda della natura.
d) La poesia come lirica, come “esplorazione” della propria interiorità.
e) La poesia come canto : gioia e armonia ritrovata dell’animo che s’avverte superiore in
dignità, pur nella sconfitta, al destino che lo condanna al dolore e alla morte.
f) La rimembranza come continuità della persona pur ridotta a gesti essenziali: la dialettica
di illusione/delusione, di giovinezza e di precoce vecchiezza.

Fra idillio e protesta prendono corpo, nella poesia leopardiana, tutte le gioie negate dal “fato indegno”:
la giovinezza, l’amore, la gioia dell’attesa, la scoperta, nella stessa capacità di formulare illusioni di
felicità, d’una superiore creatività dell’animo. Il nulla diventa paradossale affermazione dell’altezza
e nobiltà dello spirito che lo riconosce e lo nomina.

L’ EPISTOLARIO

Per comprendere la personalità del Leopardi, così portato al continuo scavo interiore, ha in singolare
valore la lettura del suo epistolario, che senz’ altro è uno dei più belli della nostra letteratura.

Oltre ad avere una notevole importanza storico-biografica, esso consente di seguire la formazione
spirituale del poeta e del suo pensiero, di cogliere gli aspetti della sua sensibilità ricca e profonda.
Dalle lettere leopardiane emerge un ritratto che si svolge nel tempo, e rivela, per ridurlo ad alcuni
tratti essenziali, un’anima assetata di vita, d’amore, d’affetti, ripiegata sul proprio dolore, ma pur
sempre anelante a ritrovare nella propria esistenza un significato universale.

Lo stile delle lettere è confidenziale. E’ tuttavia sempre vigilato e fine, come ogni pagina leopardiana,
inteso, più che all’eleganza formale, alla proprietà, all’evidenza, alla spontaneità del colloquio.
15. Carlo Porta
Carlo Porta (1775-1821), è stato un poeta in dialetto milanese, esponente del realismo romantico.
Funzionario statale, nel 1792 pubblicò El lavapiatt del Meneghin ch'è mort (Il lavapiatti del
Meneghin che è morto) e, intorno al 1804, una spigliata e popolare versione-travestimento in
milanese dell'Inferno di Dante. Dal 1814 al 1816 il poeta cominciò a raccogliere in vari quaderni
autografi le proprie opere, che dopo la sua morte subirono censure moralistiche e cancellazioni da
parte di Luigi Tosi. Nel 1817 viene pubblicata una piccola raccolta dal titolo Poesie. Postuma
l'edizione del 1826 curata dall'amico Tommaso Grossi. Il mondo di Porta è una straordinaria
rappresentazione linguistica del popolo e della borghesia che affollano piazze e mercati della
Milano del tempo. La sua opera è un altissimo risultato di rapida e guizzante comicità e di dolente
satira sociale. Determinanti sono una profonda ma mai corriva simpatia per il mondo dei perdenti e
degli oppressi e l'infinita varietà dei registri del dialetto. Tra i risultati più straordinari, che lo
pongono tra i grandi della nostra letteratura, i componimenti poetici On miracol (1813-14); La
nomina del cappellan (1819-20); I desgrazi de Giovannin Bongee (1812-13); La Ninetta del
Verzee (1814); El lament del Marchionn di gamb avert (1816), On funeral (1816), La preghiera
(1820).

Era il 1820 quando Carlo Porta, scriveva “La preghiera”, opera che si inserisce a buon diritto nel
filone di critica dell’aristocrazia e, più marginalmente, del clero. Delle poesie del Porta, tutte in
dialetto milanese, è questa la più facile a capirsi per chi non è milanese, perché sulla bocca della
protagonista, che è una nobildonna, il dialetto si ripulisce dei termini più crudi e per un tratto, nella
preghiera vera e propria, è sostituito dall’italiano.

La prima parte (w. 1-42) ha carattere narrativo. Donna Fabia Fabron de Fabrian, un sabato, seduta
davanti al caminetto, racconta al padre Sigismondo, ex francescano dopo la soppressione dei
conventi, un incidente occorsale, che per lei costituisce la prova del mutamento dei tempi, uno dei
frutti più amari della moderna filosofia, ispiratrice di congiure, stupri, violenze, angherie,
sovvertimenti di troni e di morale, beffe, motteggi contro la religione e contro la nobiltà, che è il
primo cardine dell’ordine sociale. Frattanto che il riso cuoce, il padre Sigismondo l’ascolta con
deferenza. Donna Fabia racconta di essersi recata il giorno precedente, per devozione, come ogni
venerdì di marzo, alla chiesa di San Celso con tutto lo sfarzo che si addice a una donna della sua
condizione: la carrozza con lo stemma di famiglia e gli alamari sulla livrea del domestico e del
vetturino. Davanti alla chiesa la ressa era tale che ella, nello scendere, per non urtare contro un prete
sporco ed unto, stramazzò a terra, a gambe levate, fra le risa sconce, i fischi e i dileggi dei popolani,
che le mancarono di rispetto, come se fosse uguale ad essi in rango, <<cittadina…merciaia…o simil
fango>>. Ma il cielo che l’aveva sempre protetta dalla culla, la protesse anche questa volta,
infondendole coraggio. Ella ingiunse al servo di tacere e di seguirla in chiesa. Giunta all’altare, si
prosternò e rivolse a Dio la sua preghiera.

La seconda parte (w. 43-72) è costituita dalla preghiera, che è un misto di superbia, ipocrisia e
disprezzo per i popolani. Dapprima ringrazia il <<caro e buon Gesù>> d’averla fatta nascere nel
ceto distinto della prima nobiltà, per la qual cosa egli l’ha colmata di così gran bene che, essendo le
gerarchie terrene dei nobili simbolo delle gerarchie degli angeli che fanno corona a Dio, essa gode
di un grado sociale che è un riflesso del grado dei Troni e delle Dominazioni. Questo favore, lungi
dall’esaltarla, come accadrebbe ad un cervello leggiero, le ispira gratitudine verso Gesù ed il dovere
di imitarlo, specialmente nella clemenza verso i delinquenti, che, se l’hanno offesa, l’l’hanno fatto
certamente senza conoscere che cosa facessero. Infine, si augura che la sua umile rassegnazione,
congiunta ai meriti della passione di Cristo, possa espiare le colpe ed i delitti dei plebei, condurli al
bene e salvare l’anima di lei.

Nella terza parte (w. 73- 114) donna Fabia racconta ciò che fece all’uscita dalla chiesa, dopo la
preghiera. Fece distribuire dal servo un quattrino per uno a quelli che l’avevano offesa, sia per
mortificare quella gentaglia, sia per dare alle donne un esempio da seguire in una situazione simile
alla sua. Don Sigismondo ha seguito il racconto pieno “come un uovo” di zelo religioso. Quando
donna Fabia tace, si accinge a pronunziare un’orazione di lode che, se il servo non l’avesse
interrotta arrivando con la zuppiera, <<vattel’a catta che borlanda l’era!>>(vattel’a pesca che
sproloquio era!).

Il racconto ci fa comprendere la tecnica compositiva del Porta: la sua satira non si sovrappone ai
fatti, ma scaturisce dal loro interno. Le parole di donna Fabia, che crede sinceramente di essere una
persona rispettabile, rispecchiano fedelmente la mentalità altezzosa, ottusa e meschina della nobiltà
più retriva di quel tempo, incapace di comprendere il nuovo corso della storia. Pur nella obiettività
del racconto il Porta lascia trapelare il suo sentimento di scherno verso il decrepito ceto nobiliare,
servendosi di un linguaggio immediato e vivace.
16. Gioacchino Belli

Giuseppe Gioacchino Belli nasce a Roma nel 1791. Dopo un’infanzia ed un’adolescenza difficili
per la morte dei genitori e le conseguenti difficoltà economiche nel 1816 sposa la vedova del conte
Pichi, Maria Conti, più anziana di lui di 13 anni. Il matrimonio gli porta un periodo di agiatezza
economica. Inizia in quel periodo a dedicarsi più intensamente agli studi letterari e alla poesia e
compie numerosi viaggi.

Un viaggio a Milano nel 1827 è l’occasione per entrare in contatto con la cultura romantica e
l’illuminismo che dominavano nell’ambiente intellettuale lombardo dell’epoca, tanto lontana dal
provincialismo della situazione romana. Scrittori come Giordani e Porta contribuiscono al
mutamento degli orientamenti culturali di Belli.

Nel 1821 conosce la Marchesina Vincenza Roberti con la quale ebbe un lungo legame sentimentale.
Alla Marchesina, chiamata affettuosamente Cencia, egli dedica 51 sonetti, in lingua, raccolti nel
“Canzoniere amoroso”.

Nel 1837 la moglie muore e la sua condizione economica subisce un netto peggioramento. La vena
creativa va diminuendo finchè si esaurisce definitivamente nel 1849.

Negli ultimi anni il suo pensiero subisce un’involuzione in senso conservatore e filo-papista. Lavora
come funzionario pontificio e nel biennio 1852-1853 viene nominato censore e gli viene affidato
l’incarico di giudicare i testi degli spettacoli teatrali dal punto di vista della “morale politica”. Si
contraddistingue per la severità con cui condanna opere di Rossini, Verdi e addirittura di
Shakespeare (Mosè, Rigoletto, Macbeth).

La produzione poetica di Belli inizialmente è quasi esclusivamente in italiano poi diventa


prevalente quella in dialetto e nell’arco di pochi anni il poeta scriverà quasi 2000 sonetti, arrivando
a scrivere fino a 12 sonetti al giorno.

La prima lirica è datata 1814 mentre i primi componimenti dialettali risalgono al 1817.

Tra il 1829 e il 1849 compose 2179 testi romaneschi che vennero uniti nella raccolta dei Sonetti,
l’opera per la quale il Belli raggiunge la notorietà.

Nei sonetti il poeta fa un ritratto in romanesco della Roma dell’epoca, dei suoi abitanti, dei costumi
pubblici e privati, sferza la corruzione dei governanti, disapprova gli abusi di governo, il
malgoverno, l'ozio, la lussuria dei potenti e fa una satira amara della società romana e della cultura
arcadica e accademica. La Roma che viene rappresentata è la Roma dei Papi sulla quale grava
l'immobilismo, la negazione di ogni progresso e di ogni speranza. Niente sfugge all’indignazione
fredda e sfrontata di Belli, nemmeno il popolino, la plebe di cui condanna il torpore, l'ignoranza,
l'insipienza di certi modi di vedere. Uno dei più famosi sonetti belliani è Er giorno der giudizzio,
1831, nel quale la forza della scena è stata spesso paragonata a quella di un quadro barocco.Questo
è anche uno dei pochi sonetti dal finale non umoristico.

Sono versi talvolta audaci, licenziosi e blasfemi, destinati nelle intenzioni di Belli a rimanere
clandestini. Infatti il poeta incarica l’amico Monsignor Tizzani di distruggere, dopo la sua morte,
tutta la sua produzione dialettale. Il Monsignore non rispetta le volontà di Belli e li salvaguarda
consegnando l’opera integrale al figlio del poeta.

La 1° edizione completa dei sonetti viene pubblicata soltanto nel 1952.

La produzione poetica in lingua è stata invece raccolta in tre volumi dal titolo “Belli italiano”,
pubblicati nel 1975, che comprendono sonetti, odi, canzoni, epistole e lo "Zibaldone", raccolta di
estratti e di indici di opere che testimonia la sua conoscenza di illuministi e romantici italiani e
stranieri.

Muore, nel 1863.

Er giorno der giudizzio (Il giorno del giudizio universale)

E’ uno dei più noti sonetti del Belli, in cui è descritto il giorno del giudizio universale, visto con la
fantasia primitiva e grottesca dei popolani, contaminata dalle numerose figurazioni barocche che i
Romani hanno continuamente sotto occhi. Il sonetto descrive i due momenti del giudizio. Il primo è
quello della resurrezione dei morti, descritto nelle due terzine. Nel giorno del giudizio, quattro
angioloni con le trombe in bocca si metteranno a suonare, disponendosi ognuno ai quattro angoli
della terra: poi ad altissima voce cominceranno a dire:<<Fuori a chi tocca per il giudizio>>. Allora
verrà su dalla terra una fila interminabile di scheletri, che cammineranno come le pecore, con mani
e piedi, per riprendere poi la figura umana, come pulcini che si raccolgono intorno alla chioccia. La
loro chioccia sarà Dio, che ne farà due parti, la bianca dei beati, la nera dei dannati, questa destinata
all’inferno (in cantina), quella destinata al paradiso (sur tetto). La cantina e il tetto sono immagini
simboliche, ricavate dalla consuetudine della vita quotidiana, e sono assunte senza irriverenza. Alla
fine uscirà una fitta e numerosa schiera di angeli, e come se si andasse a letto, spegneranno i lumi e
daranno a tutti la buona sera, come alla fine di uno spettacolo. <<Il capolavoro – scrive il Pazzaglia-
è l’ultima terzina: come in un teatro dopo i balli, così nell’universo si spengono i lumi, finisce lo
spettacolo e …buona sera! La tensione tragica e la fantasia cupa del Dies irae si dissolvono in una
parodia grandiosa>>.
17. GIOSUÈ CARDUCCI

LA VITA

Giosuè Carducci nacque nel 1935 in Varsilia, da famiglia medio borghese. Trascorse l’infanzia nella
Maremma toscana. Questa infanzia libera, a contatto con la natura aspra e selvaggia, che egli sentiva
affine al proprio carattere, fu poi oggetto di nostalgia e di mitizzazione poetica. Studiò alla Scuola
Normale Superiore di Pisa, laureandosi in Lettere nel 1856 e iniziò la carriera di insegnante nelle
scuole secondarie.

Nel 1860 il ministro dell’Istruzione lo chiamò alla cattedra di Letteratura italiana a Bologna, che tenne
per un quarantennio, lasciandola nel 1904. Condusse la vita del professore e dello studioso, creando
intorno a sé una scuola di allievi devoti. Partecipò intensamente alla vita culturale del tempo,
collaborando ai periodici culturali importanti. Ottenne il premio Nobel per la poesia nel 1906 e morì
l’anno successivo.

1. L’EVOLUZIONE IDEOLOGICA E LETTERARIA

DALLA DEMOCRAZIA REPUBBLICANA ALL’INVOLUZIONE MONARCHICA

L’opera carducciana, soprattutto quella giovanile, è profondamente permeata dagli ideali politici
dell’autore. Cresciuto in un’atmosfera familiare patriottica, ammiratore della Rivoluzione francese,
Carducci fu inizialmente di idee accesamente democratiche e repubblicane. Negli anni giovanili seguì
con entusiasmo le vicende risorgimentali, in specie l’impresa garibaldina. Come molti democratici,
subì, però, una cocente delusione alla conclusione del processo unitario, con trionfo del compromesso
monarchico e delle forze moderate della Destra storica.
Nei confronti del nuovo governo assunse atteggiamenti di violenta opposizione, che gli costarono
anche una sospensione dall’insegnamento. La sua poetica intellettuale e poetica si indirizzò alla
polemica contro l’Italia “vile” del suo tempo: si scagliò non solo contro la mediocrità della classe
politica, ma anche contro la società italiana, giudicata priva di tensione eroica. Si fece sostenitore dei
diritti del popolo, considerandolo una forza motrice della storia, capace di abbattere le tirannidi e di
trasformare il mondo, come depositario di un patrimonio di grande virtù civili e di energie politiche.
Fu anche violentemente anticlericale, si scagliò contro la Chiesa e il papa quali baluardi della reazione
tirannica, dell’oppressione e dell’oscurantismo, polemizzò contro la religione cristiana stessa,
presentando la religione come residuo dell’oscurantismo medievale, ormai sconfitto dalla “forza”
della Ragione, del Progresso, della Scienza. Nella maturità, venne gradualmente moderando le sue
posizioni. Innanzitutto si andò avvicinando alla monarchia. Un evento simbolico fu, nel 1878,
l’incontro con la regina Margherita, di cui subì il fascino e alla quale dedicò un’ode. Anche il suo
anticlericalismo si attenuò: assunse atteggiamenti concilianti verso il papa e arrivò a riconoscere il
valore del cristianesimo. Si trasformò , nella seconda parte della sua vita, nel poeta ufficiale dell’Italia
umbertina, l’interprete dei suoi valori e dei suoi miti.

DALL’ANTIROMANCISISMO CLASSICISTICO ALL’ESOTISMO EVASIVO


Un’evoluzione in certo modo parallela seguì nel suo gusto letterario. Negli anni giovanili assunse
posizioni violentemente antiromantiche, proclamandosi “scudiero dei classici” e formando un gruppo
che si definì degli “Amici pedanti”, inteso a combattere le manifestazioni del Romanticismo e a
sostenere il gusto classico. Bersaglio della sua polemica era soprattutto il Romanticismo sentimentale
della seconda generazione, ma si scagliava anche con il Romanticismo cristiano di Manzoni e della
sua scuola, ritenuto troppo debole e rassegnato, non combattivo e virile come esigeva la tradizione
classica. Per questo, Carducci mirò alla restaurazione di un discorso poetico “alto”, che recuperasse
la dignità aulica dei classici; per questo disdegnò i generi “popolari” prediletti dei romantici, il
romanzo soprattutto, rivolgendosi esclusivamente alla lirica. Più avanti, con l’affievolirsi dell’impeto
polemico, si sostituisce il ripiegamento intimo, l’analisi dei momenti di sconforto, l’angoscia per
l’incombere della morte, la memoria struggente degli anni dell’infanzia e della giovinezza.
Compaiono anche tendenze evasive, l’abbandono alla fantasticheria, l’impulso a fuggire dallo
squallore del presente per rifugiarsi in una mitizzata Ellade, regno di pienezza vitale, bellezza,
armonia, energia eroica.

2. LA PRIMA FASE DELLA RIPRODUZIONE CARDUCCIANA: JUVENILIA. LEVIA


GRAVIA. GIAMBI ED EPODI
Gli inizi della riproduzione poetica carducciana sono segnati dal classicismo degli “Amici pedanti”.
Nelle prime raccolte in versi, Juvenilia e Levia gravia vi si vede all’opera lo scudiero del classici, che
riproduce amorosamente temi, immagini, metri degli autori della grande tradizione italiana, da Dante
a Petrarca sino a Monti e Foscolo. E’ una poesia che va in direzione esattamente contraria a quella
inaugurata dal nostro Romanticismo, che puntava al “popolare” ed è ricca di termini aulici e preziosi,
di riferimenti dotti alla mitologia, alla storia, alla letteratura.
I Giambi ed Epodi, invece, sono una raccolta di poesie scritte tra il 1867 e il 1879. Il titolo allude alle
forme metriche usate dai poeti antichi, come Orazio, per la poesia di violenta satira e invettiva. Sono
infatti le poesie in cui Carducci sfoga le sue ire di democratico e di anticlericale contro “l’Italianetta”
vile e indegna del presente, contro una classe politica inetta e corrotta, contro un costume ipocrita e
immorale, che ha dimenticato la tensione eroica del Risorgimento, contro l’oscurantismo della Chiesa
e la tirannide papale.
In opposizione a questa realtà, che gli appare intollerabile, il poeta evoca la precedente epopea
risorgimentale, gli eroi come Garibaldi. In questa raccolta Carducci sperimenta una linguaggio che si
allontana dai classici e ricorre a termini della lingua parlata, ad un ritmo spezzato e dissonante.

3. LE RIME NUOVE
Nel 1887 Carducci raccolse sotto questo titolo un gruppo di poesie scritte dal 1861 sino a quella data.
Se i Giambi ed Epodi sono poesie satiriche che traggono spunto dalla cronaca politica o dal costume,
le Rime nuove nascono da spunti intimi, privati, o dalla sollecitazione della letteratura e della storia.
Sono accumunate anche dalle scelte metriche, che si rifanno alle forme tradizionali della lirica
italiana, caratterizzate dall’istituto della rima, da cui deriva il titolo.
Una cospicua parte di queste poesie è ispirata dalla letteratura: nasce cioè da impressioni di lettura e
vuol rendere le emozioni originate dalla bellezza artistica. Vi sono così liriche dedicate a Omero,
Virgilio, Dante, Petrarca, Ariosto.
Affini a queste sono le poesie in cui vengono rievocati eventi storici o particolari atmosfere del
passato. La rievocazione si anima sempre nel confronto con la mediocrità del presente ed esprime la
volontà di contrapporre ad esso altre età, in cui la vita era più degna e piena. Le età verso cui si orienta
la nostalgia eroica del poeta sono la Roma repubblicana, il Medio Evo comunale, la Rivoluzione
francese, il Risorgimento italiano.
Vi è però un gruppo di poesie in cui si esprime la volontà di una fuga in un’Ellade mitizzata come
mondo di gioia vitale e pura bellezza, per dimenticare la realtà contaminata e mortificante del mondo
moderno.

4. LE ODI BARBARE
Nel 1877 uscì un primo libro di Odi barbare, in cui Carducci abbandonava i metri tradizionali italiani,
cercando di riprodurre quelli classici. Una riproduzione fedele è però impossibile nelle forme della
poesia italiana: la metrica greco-latina si fondava infatti sulla quantità, cioè sull’alternanza di sillabe
lunghe o brevi; nella lingua italiana invece non esistono sillabe lunghe o brevi, ed i nostri versi si
basano sul ritmo creato dall’alternanza di sillabe accentate e atone. Carducci riproduce allora i metri
classici come se fossero letti secondo il ritmo accentuativo moderno, senza tener conto della quantità.
Egli definisce “barbara” questa metrica perché agli occhi di un greco o di un latino questi versi
suonerebbero come se fossero detti da un barbaro, ignaro dell’alternanza delle lunghe o delle brevi.
L’esperimento metrico suscitò scalpore e si attirò molte critiche, ma poi, a poco a poco, la novità fu
assorbita e la metrica “barbara” entrò nel gusto corrente del pubblico.
Queste poesie, che appartengono allo stesso arco temporale di quelle delle Rime nuove, presentano
anche gli stessi motivi, spunti intimi e autobiografici. Vi si accentuano le tendenze evasive, a rifugiarsi
nel passato come paradiso perduto di bellezza e di forza, per dimenticare il presente. Nelle Odi
vengono però accentuati due aspetti: la rappresentazione della Roma antica, la malinconica
consapevolezza dell’irrealizzabilità del proprio sogno classicistico, e il motivo della fugacità del
tempo, del senso della tomba e della morte contrapposto al ritmo solare della vita.

5. RIME E RITMI
L’ultima raccolta, Rime e ritmi comprende solo 29 poesie. Il titolo è dovuto al fatto che vi si
susseguono liriche scritte nella metrica tradizionale (sono le rime) e componimenti invece in metrica
“barbara” (ritmi). I temi prevalenti sono due: quello celebrativo e retorico e quello intimo e
malinconico, pervaso dall’idea di morte.

BIBLIOGRAFIA
Luperini Romano, Cataldi Pietro, Marchiani Lidia, Marchese Franco, La Scrittura e l’Interpretazione,
2014, Palumbo editore, Palermo.
PARTE II
INDICE Letteratura Italiana (parte seconda)

1. Gabriele D’ANNUNZIO (Maria Irene Compagnino)


- Sintesi cronologica: vita e opere
- Sintesi della sua poetica
- Sperimentalismo
- Opere principali
- Analisi del romanzo “Il Piacere”
- Bibliografia e sitografia.

2. Grazia DELEDDA (Maria Irene Compagnino)


- Sintesi cronologica: vita e opere
- Poetica
- Analisi del romanzo “Come al vento”
- Bibliografia e sitografia

3. Luigi PIRANDELLO (Maria Irene Compagnino)


- Vita
- Poetica
- Il teatro Pirandelliano
- Le novelle
- La poesia pirandelliana
- Analisi del romanzo “Il fu Mattia Pascal”
- Bibliografia e sitografia

4. Italo SVEVO (Giulia Di Rienzo)


- Contesto culturale
- La vita di Ettore Schmitz
- Le opere
- La coscienza di Zeno e la fortuna di Svevo
- Bibliografia

5. Clemente REBORA (Paola Delero)


- Biografia
- Produzione letteraria
- Contesto culturale
- Poetica
- Dall’immagine tesa
- Curriculum vitae
- Bibliografia

6. Dino CAMPANA (Giuseppe Catania)


- Vita e contesto storico
- Poetica

1
- Bibliografia

7. Giuseppe UNGARETTI (Daniela Ciceri)


- Vita
- Opere
- Stile
- Analisi del testo poetico: La Madre
- Bibliografia

8. Eugenio MONTALE (Maria Tranfaglia)


- La vita
- Opere, genere letterario e contesto storico-sociale
- Da Ossi di Seppia: Meriggiare pallido e assorto
- Bibliografia e sitografia

9. Umberto SABA (Maria Tranfaglia)


- La vita
- Opere, genere letterario e contesto storico-sociale
- Dal Canzoniere: A mia moglie.

10. Salvatore QUASIMODO (Maria Tranfaglia)


- La vita
- Opere e contesto storico-sociale
- Ed è subito sera
- Da giorno dopo giorno: Alle fronde dei salici
- Genere letterario
- Bibliografia e sitografia

11. PAVESE (Giuseppe Campana)


- Vita e contesto storico-culturale
- Le opere
- Bibliografia

12. Elio VITTORINI (Rossella La Malfa)


- Il Neorealismo
- Vita e opere
- Conversazione in Sicilia
- Opere del Dopoguerra
- Bibliografia

13. Mario LUZI (Mariarosa Scalisi)


- Contesto storico-culturale
- Biografia
2
- Poetica
- Critica letteraria
- “Nell’immediatezza dei quarant’anni” dalla raccolta “Onore del Vero”
- Bibliografia e sitografia

14. Vittorio SERENI (Irene Iessi)


- Le opere e la Poetica
- Analisi: La Malattia dell’Olmo
- Bibliografia

15. Giorgio CAPRONI (Riccardo Eugenio Zanini)


- Vita e contesto storico-culturale
- Poetica e opere
- Analisi della raccolta poetica: Il seme del piangere
- Bibliografia

16. ZANZOTTO (Maria Nicolino)


- Vita
- Là sul ponte (Da dietro il paesaggio)
- Prima persona ( Il vocativo)
- Altre opere
- Bibliografia

17. MORANTE (Gertrude Poggi)


- Premessa
- Quadro storico-culturale
- La vita e le opere
- L’attività letteraria giovanile
- I Romanzi e altri testi
- La Storia
- Bibliografia

18. PRIMO LEVI (Elena Petruzzello)


- Contesto Storico –Letterario
- Vita e opere
- Se questo è un uomo
- Analisi: Il canto di Ulisse
- Bibliografia

19. Carlo Emilio GADDA (Giuseppe Catania)


- Vita e poetica
- La cognizione
- Quer pasticciaccio de via Marulana
- Altre opere
3
- Bibliografia e sitografia

20. Alberto MORAVIA (Antonio Gentile)


- Vita, opere e contesto storico
- Gli indifferenti: Analisi dell’opera
- Bibliografia

21. Italo CALVINO (Edvige Turco)


- Biografia, vita e opere
- Il Visconte Dimmezzato
- Interpretazioni e approfondimenti
- Bibliografia

22. Beppe FENOGLIO (Sara Fattizzo)


- La vita e le opere
- Il Partigiano Johnny
- Il mondo dei suoi racconti e romanzi
- Bibliografia

23. Leonardo SCIASCIA (Cristina Palazzo)


- Vita
- Poetica
- Analisi di un’opera: La scomparsa di Majorana
- Bibliografia

24. Pier Paolo PASOLINI (Giulia Di Rienzo)


- La vita e i contesti
- La poesia
- La narrativa
- Il teatro
- Il cinema
- Pasolini Saggista
- Opere post-mortem
- Bibliografia

25. Luigi MENEGHELLO (Maria Rosa Petrella)


- Vita
- Opera principale: Libera nos a Malo
- Le altre opere
- Bibliografia

26. Natalia GINZBURG (Maria Grazia Salomone)


- Vita
- Le Piccole Virtù: trama e analisi
4
- Lessico Famigliare
- Bibliografia

Gabriele D’Annunzio

(Pescara 12 marzo 1863 - Gardone Riviera 1 marzo 1938)

SINTESI CRONOLOGICA VITA E OPERE.


Gabriele D’Annunzio nasce a Pescara, in Abruzzo, da una famiglia borghese il 12 marzo 1863.
1874/1881 Studia a Prato al Collegio Cicognini, poi s’iscrive a Roma presso la facoltà di Lettere;
1879 ancora giovanissimo pubblica Primo Vere, “all’inizio della primavera”. Primo vere è il primo
libro di Gabriele d’Annunzio e fu pubblicato in prima edizione nel dicembre del 1879 e in seconda
edizione, nel 1880. È una raccolta di poesie composte durante la frequentazione del Reale Collegio
Cicognini. Il poeta sedicenne dedicò tutto il periodo delle vacanze estive per redigere la sua prima
opera, e poi con l'accordo del padre, decide di farlo stampare a spese della famiglia. Con Primo
vere, l'autore vuole raccontare la sua età giovanile (l'espressione latina, infatti, significa proprio
"all'inizio della primavera") nella quale si affaccia per la prima volta alle gioie della vita e
dell'amore. Sono riscontrabili le influenze di Carducci ed in modo particolare si evidenziano alcune
espressioni e immagini tipiche del poeta toscano, nonché l'uso del metro barbaro.

1882 compone Canto Novo. Canto novo è una raccolta di poesie di Gabriele D'Annunzio, scritte
nel 1882 per l'editore Sommaruga e ripubblicate in una nuova edizione nel 1896 dall'editore Treves.
Questa raccolta fu dedicata a Elda Zucconi, il primo amore per l'autore. Comprende
63 liriche composte in sonetti assomiglianti a quelli carducciani. La prima edizione è divisa in
cinque libri, più un sonetto dedicato alla Zucconi e un preludio. Dalla "filologia" di Primo vere,
D'Annunzio passa alla "fisiologia" di Canto novo. Si tratta di testi "impressionistici" già pubblicati
separatamente, arricchiti da illustrazioni dell'amico pittore Michetti. La seconda edizione è ridotta a
soli 27 testi e ogni argomento politico o sociale ne è tagliato fuori: ne deriva un "poema lirico
panteistico", dove D'Annunzio fonda un nuovo paganesimo. Fonti di D'Annunzio sono alcune
riduzioni delle teorie di Darwin. Non scompare il filtro libresco che si frappone tra il poeta e la
natura. Si scorge già la volontà della creazione del mito di sé. ;

1889 Scrive “il Piacere” il primo romanzo dannunziano. Scritto nel 1888 a Francavilla al Mare e
pubblicato l'anno seguente dai Fratelli Treves. A partire dal 1895 recherà il sopratitolo I romanzi
della Rosa, formando un ciclo narrativo con L'innocente e Il trionfo della morte, trilogia
dannunziana di fine Ottocento.

1889 Inizia a dedicarsi anche al teatro e scrive “La città morta”;


5
1895 Conosce l’attrice Eleonora Duse e se ne innamora;

1904 Compone l’opera “La figlia di Jorio” una tragedia in tre atti;

1910 si trasferisce in Francia, dove conosce molti scrittori e intellettuali decadenti. Il decadentismo
corrente culturale di quel momento influenzerà tutta la sua opera.

1911: Compone “Il martirio di San Sebastiano”;

1914 allo scoppio della prima Guerra Mondiale si schiera con gli interventisti contro tedeschi e
austriaci;

1915/1916 diventa aviatore e subisce una ferita agli occhi che lo porterà a comporre “Il Notturno”
un'opera in prosa lirica, costituita da una raccolta di meditazioni e ricordi;

1919 ripresosi dalle ferite compie il volo sulla città di Fiume e guidando un gruppo di ribelli occupa
la città istituendo la Repubblica del Carnaro. La Reggenza italiana del Carnaro fu un'entità
statuale provvisoria proclamata nel 1920 nella città di Fiume durante l'occupazione ribelle guidata
da Gabriele D'Annunzio. Il suo scopo era preparare l'annessione della città al Regno d'Italia. La
Reggenza ebbe termine quando il Trattato di Rapallo stabilì la creazione dello Stato libero di Fiume.
Nel dicembre 1920 l'esercito italiano, incaricato di verificare l'applicazione del trattato, dopo
un cruento scontro con le truppe dannunziane impose lo scioglimento della Reggenza.;

1921 si trasferisce al Vittoriale degli Italiani la sua casa museo;

1938 muore a Gardone Riviera, dove trascorre gli ultimi anni di vita.

SINTESI DELLA SUA POETICA ATTRAVERSO I CONCETTI CHIAVE:

SUPEROMISMO: L’intellettuale è diverso dalla massa, domina la massa, orientandone i gusti con
la forza persuasiva della parola. Agli inizi degli anni Novanta D’Annunzio, sotto la suggestione
delle opere di Nietzsche, approda al superomismo. Impoverendo e banalizzando il pensiero del
filosofo tedesco, egli elabora la figura del superuomo, essere eccezionale che ha come unico scopo
quello di affermare la propria individualità per esercitare sul mondo il suo dominio, e sottometterlo
con il vigore dei sensi e con la forza.

NICHILISMO: “Non v’è scopo, non v’è meta, non v’è fine nell’universo e non v’è Dio”. È uno
degli elementi che influenzano la poesia di D’Annunzio. Ogni cosa finisce nel nulla, la Natura è un
flusso infinito che nasce dal nulla e finisce nel nulla.

6
ESTETISMO: “ Fare della propria vita come fosse un’opera d’arte”. Dedicare l’esistenza alla
creazione del godimento sensuale della bellezza. Il periodo romano degli anni 1881-1891 coincide
con la fase dell’estetismo. I valori della bellezza e dell’arte sono contrapposti all’arrivismo e
all’affarismo borghesi.

PANISMO: Ricerca dell’”assaporamento di tutti i frutti terrestri” in un’immersione nella vita


naturale. Il poeta s’identifica nella Natura. È intrecciato alla visione superomistica. Il panismo
dannunziano è l’immergersi totale dell’io nella natura, fino a divenirne parte.

SPERIMENTALISMO: D’Annunzio sperimenta ogni forma espressiva cercando e coniando


nuovi termini. La lunga parabola dell'attività letteraria di D'Annunzio rivela il costante bisogno del
poeta di adeguarsi alle diverse suggestioni culturali, per cui l'opera di G. D'Annunzio si configura
come un enorme repertorio della tradizione letteraria Europea. La sua ispirazione nasce da un
atteggiamento sensuale nei confronti della parola, della lingua e dei suoi suoni; questa sensualità è
coerente con la poetica estetizzante ed è alla base delle sue scelte stilistiche più importanti. Tre i
momenti per definire lo stile di D'Annunzio:
-predilezione per il lessico insolito, per i termini alcolici, per le forme ortografiche.
-Ricerca di termini che abbiano una forte suggestione musicale, una sorta di magia soprattutto nella
scelta dei nomi.
-Inserimento nel tessuto linguistico italiano di termini dialettali e tecnici perchè rispondenti al gusto
del raro e del prezioso.
Le tecniche espressive rientrano nell'aria del simbolismo e nascono dall'esigenza di travestire la
realtà. Insieme a Pascoli ebbe un’incidenza importante sul linguaggio poetico del nostro 900,
contribuendo:
- ad ampliare il lessico poetico tradizionale, tra i termini coniati da D’Annunzio, ricordiamo
Automobile Tramezzino Arzente Milite Ignoto Il Piave La Rinascente.
- a vendicare il romanzo delle esigenze della trama
IL LINGUAGGIO.

D’Annunzio vuole creare una lingua che esprima estetismo e superomismo, e per fare questo segue
tre strade: uso di un lessico arcaico, ricerca di suggestione musicale, ampliamento dell’area
linguistica attraverso termini rispondenti al gusto del raro e del prezioso, ad esempio il termine
aeroplano lo sostituisce con velivolo.

OPERE PRINCIPALI:

1 Primo periodo: poesia e novelle (1879 – 1893)


7
1882 CANTO NOVO la prima edizione nel 1882 e una seconda edizione nel 1896 con vistose
modifiche. È una raccolta poetica. Il poeta si “immerge” in una natura estiva sensuale e avvolgente.

1881 INTERMEZZO DI RIME D'Annunzio abbandona la "metrica barbara" carducciana e si


cimenta in altre forme metriche più chiuse e tradizionali. La sperimentazione caratteristica della
poesia dannunziana è presente sia nei temi sia nella forma di queste poesie che presentano figure di
donne degradate, amori lascivi e spinte scene di sesso. Intermezzo di rime è riconducibile al
"periodo romano" dannunziano e così come Canto novo rifletteva la vita abruzzese di D'Annunzio,
così "Intermezzo di rime" ne testimonia la frequentazione degli ambienti della più moderna società
romana, ricercatrice di temi piccanti e soprattutto più aperta agli sperimentalismi della poesia
decadente.
1886 ISOTTA GUTTADAURO, POI L'ISOTTÈO E LA CHIMERA In quest'opera, poi divisa
in due libri nell'edizione del 1890, d'Annunzio si propone di gareggiare con i poeti contemporanei,
iniziando la prima vera sperimentalizzazione della poesia decadente. Nel primo libro sono descritte
varie scene di gusto decadente ed erotico. Nel secondo libro d'Annunzio ripercorre la figura mitica
della Chimera, narrando episodi dei più grandi poeti fiorentini del Rinascimento e dell'Italia tutta.
Oggi l'opera è nota nell'edizione riveduta, divisa in due blocchi: "L'Isottèo / La Chimera".
1887-92 ELEGIE ROMANE E POEMA PARADISIACO 1893 La prima raccolta fu scritta
a Roma, dopo la lettura dell'omonima opera di Goethe, in cui erano descritti i sentimenti di passione
e avventura del giovane autore tedesco, quando era in viaggio tra le rovine dell'antico impero degli
Augusti e dei Cesari. D'Annunzio tenta lo stesso sperimentalismo, narrando gli amori clandestini
vissuti in quel periodo (1886 - 1889 ca.), con Barbara Leoni. Il Poema paradisiaco è l'ultima delle
opere del primo periodo dannunziano, quando il poeta aspetterà il 1903 per la pubblicazione
delle Laudi. L'opera costituisce una svolta della produzione letteraria dannunziana, che a partire
dal Poema si avvicina in modo più netto alla poesia decadente e crepuscolare. Il poema è anche una
parabola di conversione verso uno stile di vita casto e frugale, quasi francescano. Il protagonista,
infatti, è un uomo soggetto alla prigione dei sensi, sedotto da figure insidiose e enigmatiche: le
larve. Soltanto il ritorno del protagonista nel rassicurante orticello di casa, mantenuto con modestia
e lavoro sarà la sua ancora di salvezza, proprio qui infatti avverrà la sua purificazione. Il
protagonista riesce quindi a raggiungere un traguardo di salvezza adottando uno stile di vita in
perfetta antitesi rispetto allo stesso D'Annunzio.
1893 POEMA PARADISIACO. Raccolta poetica.

2. Secondo periodo poetico dal 1903-1918.

Laudi del cielo, della terra, del mare e degli eroi:


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Le Laudi nascono come progetto non unitario, ma d'Annunzio tentò un grande sforzo per celebrare
l'apice massimo della sua poetica superomistica decadentista, narrando esperienze di vari viaggi
in Grecia, Umbria e Toscana (questo per il secondo volume "Elettra"), collegando ciascuna
sensazione con miti dell'antica Grecia e soprattutto in comunione panica con la natura e con le
"compagne", in questo caso Eleonora Duse. Un valido esempio è La pioggia nel pineto, tra le
liriche più conosciute del libro Alcyone, assieme ai Pastori, dove d'Annunzio rievoca la
vecchia transumanza abruzzese delle sue terre pescaresi. Del progetto delle Laudi, che doveva
comprendere volumi, sette in tutto, dedicati alle Pleiadi, restano nel 1918 il quarto volume
"Merope" ossia i "Canzoni della guerra d'oltremare", e il postumo "Asterope" ovvero "Canti della
guerra latina" (1949).
1. Maia - Laus vitae: Il primo libro, Maia, fu composto nei primi anni del Novecento, riunito e
pubblicato nel 1903 insieme a "Elettra - Alcyone"; è la mitizzazione del suo viaggio in Grecia,
spunto per un'esaltazione panica della natura. Il sottotitolo, Laus Vitae, ne chiarisce i motivi
ispiratori: una vitalistica celebrazione dell'energia vitale ed un naturalismo pagano impreziosito dai
riferimenti classici e mitologici, l'io poetico si pone come una sorta di Ulisse pronto a compiere un
viaggio epico verso la conoscenza di nuove sensazioni visive e uditive da trasporre in poesia, un
profeta dell'arte che deve tornare a trionfare nella società.
2. Elettra: Il secondo libro, Elettra, composto tra il 1899 e il 1902 e pubblicato nel 1903, è
dedicato al mito del superuomo nell'arte e nell'eroismo universale. Segna anche la nascita del
nazionalismo dannunziano. D'Annunzio stesso rimane in genere in secondo piano e diviene il
cantore degli eroi immortali: nelle prime due parti celebra principalmente gli eroi della patria (La
notte di Caprera dedicata a Garibaldi), in cui l'Italia viene trasformata nella "supernazione",
proprio come il poeta è diventato "superuomo", e dell'arte (A Dante, Per la morte di Giuseppe
Verdi, ma anche le liriche dedicate a Victor Hugo e a Nietzsche); nella terza parte, i "Canti della
ricordanza e dell'aspettazione", sono cantate venticinque "Città del silenzio" (Ferrara, Ravenna,
Pisa, ecc.), simbolo del passato glorioso dell'Italia; nella quarta si trovano il Canto di festa per
Calendimaggio e il famoso Canto augurale per la Nazione eletta, che infiammò di entusiasmo i
nazionalisti, e chiude il libro.
3. Alcyone: 1902 – 1912 “Alcyone” una raccolta di poesie. La Natura viene esaltata e il poeta
invoca una pausa per entrare in comunione con la natura stessa. Il terzo libro, Alcione (poi come
"Alcyone"), fu pubblicato insieme al secondo e contiene per acquisito giudizio il meglio del
D'Annunzio poeta (La pioggia nel pineto, La sera fiesolana, Stabat nuda Aestas, I
pastori, Meriggio, Le stirpi canore, La tenzone e vari "ditirambi"). Esso è un unico e vasto poema
solare, che raffigura l'estate trascorsa dal poeta con la compagna Ermione (Eleonora Duse) sulla

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costa della Versilia. In essa il superuomo si fonde totalmente con la natura, divenendone parte
("panismo dannunziano").

1912 “La pioggia nel pineto” opera appartenente all’Alcyone. La scena si svolge in una pineta
lungo il mare, dove il poeta e la compagna Ermione, ovvero Eleonora Duse, passeggiano. Sorpresi
da un acquazzone estivo subiscono una sorta di metamorfosi che li porta a perdere la loro umanità
per trasformarsi in elementi vegetali, ed è il cosiddetto panismo dannunziano che viene espresso,
cioè il sentimento mistico di unione con la natura.

4. Merope (Canzoni della guerra d'oltremare) - 1918 Il quarto libro, Merope, raccoglie i canti
celebrativi della conquista della Libia e della guerra italo-turca in Dodecaneso, composti
ad Arcachon, e pubblicati dapprima sul Corriere della Sera e poi in volume nel 1912. Si tratta di
una nuova divagazione sul tema patriottico e nazionalista e sul mito di Roma. Famosa è La
canzone dei Dardanelli, inizialmente censurata per alcuni versi ritenuti offensivi nei confronti
dell'imperatore Francesco Giuseppe d'Austria.
5. Asterope (Canti della guerra latina) - 1949 il quinto libro, incluso nelle Laudi dopo la morte di
D'Annunzio, fu in realtà concepito e pubblicato a se stante nel 1933 col titolo Canti della guerra
latina. Racconta l'esperienza del poeta nella prima guerra mondiale e le imprese compiute dagli
italiani per il completamento dell'Unità d'Italia contro l'Austria. L'ultima parte è dedicata
all'impresa di D'Annunzio come Comandante a Fiume della Reggenza italiana del Carnaro. In essa
si trova la famosa lirica La canzone del Quarnaro, celebrazione della beffa di Buccari a cui aveva
partecipato lo stesso poeta nel febbraio del 1918.
3 LA PROSA E I ROMANZI (1882 - 1936)

1882 TERRA VERGINE una raccolta di novelle. Guardando al modello verghiano, lo scrittore
predilige l’ambientazione regionale e la rappresentazione delle classi popolari; tuttavia sono molti
gli elementi che allontanano queste novelle dalla poetica verista.

1884 IL LIBRO DELLE VERGINI Pubblicato dall'editore Sommaruga, si tratta di quattro


novelle che risentono più del sensualismo parnassiano che del verismo verghiano. Il tema trattato è
l'amore nelle sue diverse sfumature, spesso tragico e adulterino. Un accenno di verismo lo si
potrebbe individuare nel fatto che queste donne protagonisti, nel tentativo di voler cambiare il loro
equilibrio sociale e coniugale, falliscano sempre, e nella maniera più triste, oppure si macchino di
empietà; è il caso della prima novella "Le vergini", rielaborata come "La vergine Orsola"
nelle Novelle della Pescara, che essendo consacrata a Dio da un voto, guarendo il giorno di Natale
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da un terribile male, si innamori di un ladrone, viene messa incinta, decise di abortire con un filtro
magico, e alla fine proprio all'estremo si ravvede dei suoi errori, morendo però tra gli spasmi e le
contrazioni. Anche la terza novella "In assenza di Lanciotto", in parte ripresa nelle Novelle del
1902, è evidente il naturalismo, nella descrizione anatomica dei particolari della carne e dei gemiti
durante l'amplesso adulterino della protagonista con il padre di suo marito, che è al letto gravemente
ammalato.
1886 SAN PANTALEONE: D'Annunzio tratteggia bozzetti di società più variegati, infatti quasi
tutti verranno ripresi, con poche correzioni stilistiche, nel volume finale delle Novelle della
Pescara; il panorama rimane sempre l'entroterra abruzzese attorno a Pescara. Si narra di nobili
decaduti e di mezzadri che vedono la loro proprietà andare in fumo a causa delle rivolte contadine.
Tra le novelle più note, c'è quella ambientata nel santuario di Miglianico, vicino Pescara, dove un
fanatico credente si taglia la mano in onore di San Pantaleone. La raccolta del San Pantaleone è
un'innovazione del naturalismo di Verga da parte di D'Annunzio, sul piano elaborativo delle
novelle, composte in maniera più originale e ricercata, alcune sono molto più che semplici bozzetti,
e sono dotati di più capitoli. D'Annunzio si distacca dai bozzetti in stile squisitamente carducciano
di Terra vergine (1882) e della prosa aulica e parnassiana del Libro delle vergini (1884) per creare
una raccolta non prettamente organica, ma le cui novelle intendono rappresentare saldamente il
nuovo programma dannunziano che seguiva all'epoca la scia del verismo.
TRILOGIA DEI ROMANZI DELLA ROSA
1889 IL PIACERE. Primo romanzo della trilogia. Andrea Sperelli il protagonista.
Opera divisa in quattro libri il cui protagonista è Andrea Sperelli, un intellettuale poeta che nella
Roma mondana ha una relazione con due donne, Elena Muti e Maria Ferres. Il protagonista Andrea
Sperelli, personaggio esteta, vuole vivere la sua vita esclusivamente all’insegna della bellezza e
dell’arte.
Il racconto è ambientato tra Roma e Rovigliano (NA), dove il nobile dandy Andrea Sperelli,
simbolo del poeta decadente per eccellenza, vive la forte passione per Elena Muti. Costei è ritenuta
la fèmme fatale di tutta la storia, perché Elena non si farà mai conquistare, benché Andrea faccia di
tutto per lei. Dopo essere stato abbandonato da Elena, che doveva risolvere il problema dei suoi
debiti mediante un matrimonio con un ricchissimo nobiluomo inglese, dopo un conflitto a duello
con Giannetto Rutolo, amante di una nobildonna di cui si è invaghito, Ippolita Albonico, Andrea
viene ferito, è in convalescenza a Rovigliano, nella bellissima villa Schifanoia di proprietà di una
sua cugina, dove conosce una carissima amica di lei, Maria Ferres, di cui si appassiona nella
speranza di dimenticare Elena Muti. Tuttavia questo ignobile tentativo egoista, incurante dell'amore
di Maria, pieno dei rimorsi di una donna sposata e madre di una bambina, non andrà a buon fine,

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giungendo alla tragedia della memorabile e significativa scena in cui Andrea, durante un abbraccio
ardente con Maria, grida il nome di Elena.
1892 L'INNOCENTE. Secondo romanzo della trilogia. Tullio Hermil il protagonista.
Il romanzo mescola in un certo senso l'estetismo romano e il tema dell'evangelismo russo di Tolstoj
e Dostoevskji.
Tullio Hermil, ex diplomatico e ricco proprietario terriero, è da sette anni marito di Giuliana, dalla
quale ha avuto due figlie. Uomo dai gusti raffinati e privi di moralità, ha un temperamento inquieto
e sensuale e tradisce la moglie continuamente. Una grave malattia di Giuliana sembra riavvicinarlo
a lei, ma è un'illusione. Quando poi, veramente pentito, Tullio torna da lei, deve apprendere che la
donna l’ha tradito a sua volta e aspetta un figlio dallo scrittore Filippo Arborio; il protagonista
comincia a nutrire odio verso "quel figlio non suo", sin da quando il bambino è ancora in grembo
alla madre. Il nascituro è visto dai due come un elemento di disturbo del loro improbabile amore.
Ma la gravidanza è difficile e i coniugi sperano che il bimbo muoia prima di venire alla luce, oppure
lo uccideranno loro stessi, sollevandosi da un grave problema. Venuto al mondo l'innocente,
Giuliana si fa silenziosa complice del piano disumano del marito. Tullio, approfittando della breve
assenza della governante, espone il bambino al gelo di una notte natalizia. Questo ovviamente si
ammala e muore poco dopo, fra la disperazione dei parenti e dei servitori.
1894 IL TRIONFO DELLA MORTE: Terzo libro della trilogia. Giorgio Aurispa il protagonista.
Il terzo libro della trilogia è di grande importanza, in quanto mostra l'avvicinamento dannunziano al
filosofo Friedrich Nietzsche, e al tema del "superomismo", di cui d'Annunzio creerà una creatura
"superomista" del tutto legata al carattere letterario e al decadentismo, ovviamente. Fu avviato nel
1889 dopo "Il piacere", col titolo provvisorio "L'invincibile", e pubblicato a parti sul giornale, poi
interrotto. D'Annunzio dovette rielaborare le sue esperienze passate a San Vito Chietino (Abruzzo)
sulla costa dei Trabocchi con l'amante Barbara Leoni, e soprattutto dovette leggere lo Zarathustra di
Nietzsche per poter tornare a riprendere l'opera con più ardore, sino al completamento.
Giorgio Aurispa è un giovane abruzzese di Guardiagrele (Chieti), esteta, colto, raffinato e di nobili
discendenze, che ha abbandonato il paese natìo per trasferirsi a Roma, dove vive libero da qualsiasi
impiego grazie all'eredità lasciatagli dallo zio Demetrio, morto suicida.
GLI ALTRI ROMANZI:
1891 GIOVANNI EPISCOPO: Romanzo. Abbandonata la prospettiva estetismo e sotto le
suggestioni della narrativa russa, l’autore dà voce a un personaggio che racconta in prima persona la
sua storia: umiliato continuamente da un amico, giunge ad ucciderlo.
Il romanzo è un unicum nella prosa dannunziana, realizzato nel panorama di composizione della
"Trilogia della Rosa", in quanto in quei tempi d'Annunzio, nel suo sperimentare stili diversi, si

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avvicinò all'evangelismo russo di Tolstoj e Dostoevskij. Da ciò nacque Giovanni Episcopo,
purtroppo non accolto favorevolmente dalla critica, tantomeno dallo stesso autore. Giovanni è un
povero diavolo, felicemente sposato, vittima del suo stesso carattere bonario, che conosce uno
strano figuro di nome Giulio Wanzer, che si approfitta di lui, installandosi nella sua casa e
corteggiandone la consorte. Nessuno riesce a capire come mai Giovanni non reagisca alle
ingiustizie della vita, finché un giorno Giulio non è freddato da un colpo di pistola.
1895 LE VERGINI DELLE ROCCE: Claudio Cantelmo il protagonista.
Il progetto di una nuova trilogia, quella del giglio, andò in fumo, e d'annunzio scrisse solo il primo
libro. Nel romanzo, ambientato intorno a Popoli (PE), roccaforte dei duchi Cantelmo, Claudio è uno
degli ultimi superstiti dell'antica famiglia nobile. Egli tenta l'approccio con tre sorelle, figlie del
principe Montaga, per garantire la continuazione di una stirpe superiore, ma la scelta resta sospesa e
incerta. Il progetto di d'annunzio era di tentare una nuova via del superuomo decadente, ossia quella
di procreare una nuova stirpe, per dominare la massa ignorante della borghesia a Roma, legandosi
al mito dei sette re.
1900 IL FUOCO. Romanzo. Protagonista è Stelio Effrena, (effrena sta per spericolato, senza
limiti), che ama l’attrice Foscarina ed è la trasposizione dell’amore tra D’Annunzio e Eleonora
Duse.
Nel romanzo il protagonista Stelio Effrena si trova a Venezia con la sua amante Foscarina
(Eleonora Duse), detta Perdita in segno di rapporto di padronanza con il suo innamorato. Stelio
incontra vari amici intellettuali, e progetta la costruzione di un nuovo potere dell'intellettuale
superomista nella Città del Silenzio, che ha a che fare con il teatro, un nuovo potente mezzo di
comunicazione, scoperto da poco dal D'Annunzio nell'incontro con la Duse nel 1897. Perdita,
sebbene in un primo momento gelosa dell'aura d'ombra che Stelio esercita su di lei, alla fine decide
di concedersi totalmente al poeta, finché la comunione panica non passa il suo momento migliore,
per una nuova vita. La storia si conclude con la scena del funerale monumentale di Richard Wagner,
morto a Venezia, celebrato da Stelio sin dalle prima pagine del romanzo.
1910 FORSE CHE SÌ FORSE CHE NO:
L'ultimo romanzo dannunziano abbandona il tema dell'esteta decadente, per allacciarsi alla nuova
corrente novecentesca del futurismo. D'Annunzio mescola il suo stile tipico alla nuova protagonista
del secolo: l'automobile e l'aeroplano. Nella storia infatti il nobile Paolo Tarsis è innamorato di
Isabella, con cui fa visita a Mantova al Palazzo Gonzaga, sede degli Estensi, famiglia ricca da cui
discende lo stesso protagonista. Nel frattempo però Isabella è segretamente innamorata del fratello
Aldo, e quando di scopre l'incesto, ella si uccide folle di dolore. Paolo deicide di suicidarsi

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compiendo un gesto folle: arrivare in aeroplano fino alla Sardegna. Contro il suo volere, Paolo
riesce nell'impresa e involontariamente è acclamato come eroe.
1912 CONTEMPLAZIONE DELLA MORTE
Il libro è preceduto da un messaggio a "Mario Pelosini da Pisa" ed è dedicato "Alla memoria
di Giovanni Pascoli e di Adolph Bermond", quest'ultimo il proprietario della villa di Saint-
Dominique (a pochi chilometri da Arcachon) in cui D'Annunzio soggiornò tra il 1910 e il 1916. Il
poeta, colpito dalla morte a brevissima distanza di questi due personaggi molto importanti per lui,
seppure per motivi diversissimi, ne commemora la scomparsa.
1913 VITA DI COLA DI RIENZO
Fa parte di un ciclo incompiuto di autori antichi scelti dal poeta per essere celebrati. D'Annunzio
narra l'esistenza del romano Cola di Rienzo, che seppe destreggiarsi in senato contro la tirannia
del papato e dei baroni, venendo acclamato come un antico "tribuno della plebe".
1902 LE NOVELLE DELLA PESCARA L'antologia è una rielaborazione definitiva delle
precedenti raccolte de Terra vergine - Il libro delle vergini - San Pantaleone, in gran parte
quest'ultima compone le novelle. Fu pubblicato da Treves editore nel 1902, poi il copyright passò a
Mondadori editore. Come nelle precedenti, d'Annunzio rielabora stilisticamente le novelle, creando
un Abruzzo naturalistico e selvaggio, composto da istinti primordiali per quanto concerne la
caratterizzazione della massa, ed estrema decadenza morale per la descrizione delle classi medie e
nobili. Il progetto come gli altri si ispira alla Vita dei campi di Giovanni Verga e al naturalismo;
anche se d'Annunzio prende delle distanze per inserimento dei dialoghi in dialetto e usa una
descrizione composta da stile elevato, anziché usare la tecnica della "forma inerente al soggetto". Le
storie narrano scene di vita della popolazione di una Pescara ancora provinciale, ridotta a semplice
villaggio di mare, in rivalità con il comune vicino di Castellammare Adriatico, come dimostra la
novella La guerra del ponte; i personaggi principali sono i cafoni abruzzesi in lotta con il destino e
con il loro istinto primordiale quasi animalesco di rapportarsi con la realtà e con il prossimo.
1911-1914 LE FAVILLE DEL MAGLIO
Scritti di prosa lirica usciti sulla Terza pagina de Il Corriere della Sera, in quattro serie, tra il 1911
e il 1914, furono redatte durante il soggiorno in Francia. L'autore li raccolse in due volumi,
pubblicati dall'Editore Treves, raccolti definitivamente in due tomi: Il venturiero senza ventura e
altri studi del vivere inimitabile nel 1924, dedicato a Eleonora Duse; il secondo, Il compagno dagli
occhi senza cigli nel 1928, con lunghe parentesi rievocative della fanciullezza del poeta a Pescara e
al Collegio Cicognini. Il titolo allude alla simultaneità dell'opera, costituita come uno scritto di
intermezzo tra i grandi capolavori dannunziani del passato e quelli che devono sopraggiungere: le

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sue riflessioni, ricordi, confessioni sono come le "faville" sprizzanti dall'incudine battuto dal poeta
fabbro (il maglio).
Tra gli scritti figura quello in cui D'Annunzio accoglie, dopo tanti anni, un vecchio compagno
conosciuto al Liceo Cicognini di Prato. Il ragazzo di nome Dario, è mostrato malato e febbricitante,
mentre d'Annunzio si tratteggia in splendida forma, addirittura un giorno seduto seminudo sul tetto
di casa, sfidando il temporale e la pioggia.
1916 POI 1921 IL NOTTURNO
È un memoriale della Prima guerra mondiale, in cui d'Annunzio dà prova del suo stile, narrando in
tre parti ("offerte") le sofferenze del conflitto. Il titolo allude all'incidente di d'Annunzio durante il
volo su Vienna, quando fu ferito ad un occhio, battendo la tempia dentro l'aereo. Essendo costretto
a letto, bendato, nella convalescenza, il poeta volle esprimere le sue sensazioni scrivendo alla cieca
su lunghi fogli di carta. La scrittura è asciutta, piena di frasi brevi e spezzate, disposte a colonna, in
un verticalismo lirico che ricorda la metrica di Giuseppe Ungaretti. Tra gli episodi più famosi
descritti, vi è quello del rientro della salma, a Venezia, dell'aviatore Giuseppe Miraglia, amico
intimo di d'Annunzio. Il poeta si sofferma a lungo per tutta la prima parte dell'opera su questa scena,
descrivendo in maniera minuziosa il suo stato d'animo, mentre è seduto davanti al letto dove giace il
corpo.
1916 LA LEDA SENZA CIGNO.
Il tentativo di quest’opera è quello di ricercare nuove esperienze di vita, come già avvenuto con le
automobili e gli aeroplani in Forse che sì, forse che no. D'Annunzio si adegua con più coerenza,
anche se la storia non ha una trama precisa, una donna gira di albergo in albergo con un oscuro
amante che la domina, e con il fidanzato che lui le procurò, quasi lei debba pagargli un pegno.
Quest’amante procurato viene avvelenato dalla morfina, indotto a sottoscrivere una grossa
assicurazione sulla vita in favore della fidanzata, è infine ucciso in una disgrazia. Nasce il sospetto
del delitto, la donna è di nuovo prigioniera della scelta: denunciare ambedue oppure tacere, sicché il
grosso macigno della colpa la travolge, e si uccide.
La prosa si concentra sulle descrizioni cupe della donna, contrapposte alla sua sgargiante bellezza,
nella scena del canile tra i bianchi levrieri, la donna sembra rinnovare il mito della Leda tra i cigni.
1936 IL LIBRO SEGRETO
Titolo completo: Le cento e cento e cento e cento pagine del libro segreto di Gabriele d'Annunzio
tentato di morire è l'ultima opera in prosa ufficiale del poeta, redatta nel Vittoriale degli italiani nel
1935. Il poeta si abbandona al ricordo delle sue imprese fiorentine e alla sua infanzia soprattutto,
dichiarando di essere stato scelto dal destino e dalla volontà divina di esser poeta, patriota e
combattente, mettendo sempre a rischio la vita. Infatti, d'Annunzio sostiene di aver ricevuto una

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visione durante la visita al santuario dei Sette Dolori di Pescara, affermando che i suoi progetti
consistevano in una semplice vita da erudito.
1896/1914 IL TEATRO DANNUNZIANO
D'Annunzio entrò in contatto con il teatro grazie ad Eleonora Duse, circa nel 1895. Il suo intento era
di riformare da un punto di vista sperimentale la drammaturgia italiana, incentrata in storie che
ricalcavano i grandi avvenimenti del passato rinascimentale o romano-greco. Il tutto doveva
svolgersi in scenografie di ampia suggestione emotiva, che avrebbero dovuto mettere in
comunicazione panica lo spettatore con la natura e l'aura di ombra e mistero del destino, facendo
provare sensazioni oniriche. Attraverso il teatro dannunziano inoltre si affermeranno attori e attrici
che acquisiranno una formazione professionale presso le scuole di recitazione che, tra fine 800 e
primi del 900, cambieranno la figura dell’attore di teatro. Non più attori formati da una tradizione
ereditaria di famiglia ma attori che studiavano tecniche di recitazione e dizione.
1896-97 IL SOGNO DI UN MATTINO DI PRIMAVERA E SOGNO D'UN TRAMONTO
D'AUTUNNO.
Queste due opere prime teatrali sono strettamente legate tra loro, per quanto riguarda la tensione del
protagonista con la sensazione della morte imminente. Nel 1897 in pochi giorni D'Annunzio scrive
per la Duse una tragedia, il primo Sogno, elabora l'idea nella villa di Albano alla fine di marzo,
quando inizia a sviluppare la figura della protagonista "Demente". La protagonista diventa folle
d'amore, per tutta la notte tiene in braccio l'amante ridotto in fin di vita dal marito, ricoperta di
sangue dell'amato, a nulla servono i tentativi di riabilitarla dal medico e dalla sorella Beatrice. Il
"sogno" è un breve idillio in cui la protagonista sembra riacquistare il senno e la calma, Isabella
sogna di essere in un lussureggiante giardino, lontano dalla morte e dalla pausa, il suo desiderio di
metamorfosi viene scoperto da Virginio, fratello dell'amante ucciso, segretamente innamorato di lei,
il simbolo della tragedia sta nel punto in cui nel sogno Isabella prende un ramo e lo trasforma in
ghirlanda, simbolo della primavera, della dicotomia tra vita e morte presente nella tragedia.
Dal punto di vista stilistico la prima tragedia è un esperimento in cui vi sono delle tracce che
D'Annunzio userà sostanzialmente in quasi tutte le altre tragedie, la dicotomia vita-morte, la follia
d'amore, la passione, la gelosia.
Nel secondo Sogno il tema è lo stesso, quello del tradimento d'amore, la follia, la vendetta, anche
gli scenari cambiano, se nel primo Sogno la scenografia è più tranquilla e sensuale, qui si ha la
descrizione paesaggistica del rossore del cielo che sembra combaciare con la tensione emotiva della
protagonista, pronta a scoppiare nell'omicidio, nella distruzione, nella vendetta amorosa. Lo spirito
dionisiaco avvolge la nemica della protagonista, la meretrice Pantea con cui il doge di Venezia si è
appartato, che naviga il Brenta su una nave dorata verso la città, seguita da altri amanti folli di lei.

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La vicenda della dogaressa Gradeniga sembra ricordare la Medea euripidea, lei per il doge ha ucciso
suo marito, legittimo doge di Venezia, ora con i sortilegi intende vendicare il tradimento, sicché,
sempre rievocando un'altra scena euripidea delle Baccanti, gli amanti della meretrice sono stregati
dai filtri e dalle maledizioni della dogaressa, e si avventano su Pantea uccidendola, sempre alla
tragedia greca D'Annunzio allude, usando in quest’opera la figura del messaggero, che interviene
nel raccontare i particolari più cruenti, come la scena dell'uccisione della nemica.
1896 LA CITTÀ MORTA.
D'Annunzio, a circa vent'anni di distanza, celebra la scoperta archeologica di Troia e Micene da
parte dello Schliemann, una ventina d'anni prima. La scena mette in mostra una compagnia di
giovani arricchiti, tra cui un giovane archeologo, che a Micene rinviene la tomba di Agamennone.
Due ragazze, nel frattempo (l'una delle quali cieca), leggono l'Antigone di Sofocle per legarsi
maggiormente nello spirito alla sensazione di grande rinascita della culla della civiltà greca, per cui
autori come Omero, Eschilo ed Euripide hanno contato le gesta. L'archeologo Leonardo riesce a
coronare il suo sogno, scoprendo le tombe di Cassandra e Agamennone a Micene. Con lui ci sono la
sorella Bianca Maria, dolce creatura che passa il tempo leggendo Sofocle, e gli amici Alessandro ed
Anna, marito e moglie, lui poeta e lei sua semplice consorte, priva della vista, e molto amica di
Bianca Maria con cui passa la giornata ascoltando i tragici greci. Loro sono due donne che vivono
in adorazione dei mariti, rispettivamente fratello e marito, ma Alessandro è innamorato di Bianca
Maria, la scena della dichiarazione avviene nel momento in cui lei sta contemplando le maschere
funebri rinvenute a Micene; pare che d'Annunzio si ispirò allo Schliemann che fece la sua
dichiarazione alla futura moglie, mentre maneggiava la maschera di Agamennone. Ma Bianca
Maria respinge Alessandro, comunicandogli di essersi votata alla verginità; d'altro canto Leonardo
ama Maria a sua volta, un amore possessivo e geloso, nutrendo dei sentimenti molto oltre quelli del
comune fratello protettivo, e per questo è combattuto non volendoglielo comunicare. Leonardo
diventa folle di gelosia per Alessandro, si apparta con Bianca Maria presso la fonte Perseia,
meditando il delitto contro l'amico, mentre Anna che ha intuito l'amore del marito per la fanciulla, e
l'incombere di una tragedia irreversibile, quasi fosse una veggente nella sua cecità, lo incita ad
affrettarsi verso la fonte, ma giunge troppo tardi: Bianca Maria è morta, il cadavere viene raggiunto
da Anna, la scena si conclude con lei che riconosce l'amica e urla di orrore
L’intento di d'Annunzio, sembra, fosse quello di realizzare un dramma moderno, capace di
rivaleggiare con la tragedia greca, volle rappresentare l'azione della catarsi, sublimando le passioni
del pubblico, mettendo Bianca Maria come vittima espiatrice dei peccati, come fosse la figlia di
Agamennone Ifigenia. Purtroppo il prodotto finale pecca di vari fraintendimenti del senso stesso
della tragedia greca e dei suoi temi, come il destino e l'espiazione, il tema dell'incesto di Leonardo e

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Bianca Maria sembra essere un contorno alla sensazione tragica, ma si pone come struttura portante
della vicenda.
1898-99 LA GIOCONDA - LA GLORIA
1) La prima è una tragedia in 4 atti, rappresentata nel 1899 dalla Duse ed Ermete Zacconi.
Nella storia, come nella Città morta, il protagonista è un artista scultore, Lucio Settala,
incerto tra la pietà per la moglie Silvia, e l'amore per la sua modella Gioconda Dianti. Alla
fine, intendendo realizzare sé stesso al di là dai vincoli della legge coniugale per lui limitata,
Lucio commette adulterio; la moglie Silvia non lo sa, e un giorno assiste a una lite tra i due,
la Gioconda getta per terra una statua, sentendosi abbandonata, e Silvia nel tentativo di
salvarla si mutila le mani.
L'opera fu pubblicata nel 1903 da D'Annunzio in Francia insieme a "La Gloria - La città morta",
come a comporre una sorta di trilogia.

2) Nella Gloria, tragedia in 5 atti rappresentata da Eleonora Duse e da Ermete Zacconi, D'Annunzio
intende glorificare il mito del Superuomo, ma risulta per glorificare la Super femmina sua
compagna: Ruggero Flamma combatte per il potere a Roma contro un dominatore già anziano,
Cesare Bronte, al quale riesce a strappare il potere mediante l'adulterio con l'amante Comnèna.
Costei è rappresentata come una donna insaziabile di potere e di desiderio, s’impadronisce della
mente di Ruggero, sino a ucciderlo e darne il cadavere in pasto alla folla ribelle, quando arriva il
momento di scegliere tra la politica, l'amore e l'esilio. Le velleità politiche che riguardano la
tragedia sembrano essere desunte dalla storia de Le vergini delle rocce (1895).
L'opera non ebbe il successo sperato, e fu pubblicata in Francia nel 1903 insieme a "La Gioconda -
La città morta" con il titolo Le victoires mutilées.
1902 FRANCESCA DA RIMINI
Tragedia in 5 atti in versi, che riprende le vicende tristi di Francesca da Polenta e Paolo
Malatesta, citata già da Dante Alighieri nella Divina Commedia; l'opera fu rappresentata dalla
Duse nel 1901.
La tragedia fu scritta per avere un sottofondo musicale: si parla dell'amore "galeotto" tra Paolo e
Francesca, con l'aggiunta del matrimonio forzato di Francesco con Gianciotto Malatesta, avvenuto
per procura, per cui d'Annunzio attinse alla testimonianza di Boccaccio. L'atto IV fu molto lodato
dalla critica, il maligno Gianciotto, qui chiamato "Malatestino" ordisce la trama in cui cadranno i
due amanti, che saranno colti in flagrante nella loro manifestazione d'amore, e saranno assassinati.
Fu lodato dalla critica l'amoroso languore interiore di Francesca, che pare risenta delle odi iniziali
delle "Città del Silenzio" in Elettra (1903), D'Annunzio canta molto bene la voluttuosa malinconia

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del presentimento d'amore adulterino, nei colloqui tra lei e la sorella nell'atto I, nei colloqui iniziali
con Paolo, negli atti II-III. Il colloquio dell'atto V è meno potente degli altri, il tema d'amore non è
più sostenuto dallo struggimento della malinconia, ma scivola nel tono enfatico e celebrativo,
assecondando il gusto di quel movimento di revival del neogotico che andava in voga alla fine
dell'800. Nel 1912 la tragedia fu musicata e ridotta da Tito Zandonai.
1904 LA FIGLIA DI IORIO.
Il primo successo vero di d'Annunzio nella drammaturgia teatrale avviene con il ritorno alle origini
abruzzesi. D'Annunzio infatti nell'opera descrive situazioni di cui è pienamente conoscitore e
cesellatore, del tutto sconosciute al grande pubblico italiano, come appunto le vicende dell'Abruzzo.
Il figlio di Lazzaro di Roio del Sangro sta per sposarsi, presso Taranta Peligna, quando
improvvisamente nel clima di pace irrompe una ragazza, Mila di Codro, ritenuta strega. Il ragazzo
immediatamente se ne innamora, e decide di isolarsi dalla comunità peligna, fuggendo nella grotta
del Cavallone. Lazzaro s’innamora anch'esso, ma suo figlio, nella follia, lo uccide, recandosi poi a
Roma per chiedere l'indulgenza al papa. Ma i paesani nel frattempo rapiscono Mila e la bruciano
come strega.
Ciò che colpisce di più della tragedia è la sensazione di pace e calma apparente, espressa dalla
gioiosità popolare dei personaggi minori dell'opera, formata da canti in dialetto e scene di profonda
fede cattolica, mischiata alle tradizioni pagane che corrono attorno alla "grotta".
Quest’opera segna la nascita di due grandi attori teatrali di formazione, Teresa Franchini e Ruggero
Ruggeri, nei panni rispettivamente di Candia la Leonessa prima e Mila di Codro poi, e di Aligi.
1905 LA FIACCOLA SOTTO IL MOGGIO
La seconda opera drammaturgica del ciclo abruzzese ha ambientazione ad Anversa degli Abruzzi,
sede della nobile famiglia dei Sangro. D'Annunzio visitò il vecchio castello con il filologo
sulmonese Antonio De Nino nel 1896 per poter costruire la storia, e il risultato fu un compendio del
superomismo dannunziano con la leggenda popolare abruzzese tradizionale del malocchio. La
nobile famiglia dei Sangro, vive in condizioni misere nei resti del castello medievale. La
baronessina è osteggiata dal severo padre, che ha ucciso la madre per poter vivere in perdizione con
una fattucchiera di Luco dei Marsi. Disperata, la ragazza si fa consigliare da un "serparo" (termine
dei cacciatori di serpenti locali, che celebrano una festa cristiano-pagana) di evocare con una
fiaccola lo spirito della madre. Il suo sacrificio farà andare in cielo la ragazza, e farà crollare
definitivamente il vecchio mastio, simbolo di decadenza e corruzione, con tutti i nobili della
famiglia, ormai in preda alla pazzia.
1906 PIÙ CHE L'AMORE

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È una tragedia in due atti in prosa, rappresentata nel 1906 dallo Zacconi; il protagonista è Corrado
Berando, l'eroe che vorrebbe essere esploratore, e non avendo i soldi necessari, diventa un
assassino. Il tema è la smania polemica di scandalizzare con la superumana ideologia; il
protagonista è disposto a tutto pur di raggiungere il suo scopo, e abbandona la sua amante incinta,
alla fine Corrado riuscirà a viaggiare, arrivando in Africa dove si sta combattendo per la conquista
di nuovi territori coloniali.
Tale sentimento patriottico di colonizzare nuovi territori, tornerà nel 1936 con l'orazione
dannunziana Teneo te, Africa.
1908 LA NAVE
La seconda tragedia è in 3 episodi più un prologo in versi. Il superuomo Marco Gratico è
contrapposto alla super femmina Basiliola Faledra, che ricorda la Pantea del Sogno d'un tramonto
d'autunno, o la Comnena della Gloria. Basiliola è assetata di vendetta per il padre e i quattro
fratelli che Marco accecò, e dispone del suo potere lussurioso per ingannarlo, divenendo anche
amante di suo fratello, il vescovo Sergio; alla fine lei li aizza uno contro l'altro, sicché nella lotta
Sergio morirà. Marco è disperato, e decide di compiere un viaggio in mare, alla ricerca di
un'impresa eroica espiatrice, mentre Basiliola sembra risentire dell'influsso di Mila di Codro,
uccidendosi gettandosi nel fuoco.
D'Annunzio appare piuttosto vacuo nella descrizione delle parti, soprattutto nella ricerca di unire la
figura di Basiliola con le divinità e le figure bibliche di Bibli, Mirra, Pasife, Dalila, Iezabel, al fine
di gonfiare l'immaginazione di donna mostruosa qual è la super femmina. L'impresa per mare di
Marco sembra essere un altro richiamo allo spirito patriottico italiano di colonialismo africano.
1909 LA FEDRA.
Realizzata tra il 1908 e il 1909, D'Annunzio concepisce l'unico vero omaggio al teatro tragico
greco, riprendendo il mito dell'eroina Fedra presente nell’Ippolito euripideo, anche se alla
rappresentazione alla Scala di Milano l'opera fu un fiasco. La musa ispiratrice pare fosse Nathalie
de Golouleff, detta Donatella Cross, e pubblicata anche in versione francese. Il testo, nonostante una
ripresa romana al Teatro Argentina il 25 maggio 1909 per opera della compagnia di Ippolito
Pizzetti, non fu più riproposta.
La Fedra è una ricerca letteraria del sublime, D'Annunzio intendeva scardinare il mito la cui storia
era già bella e scritta, come nel testo di Euripide o di Seneca, per riscrivere la storia sotto un altro
punto di vista, sicuramente privilegiò il superomismo, dato che lo stesso mito lascia intendere come
Fedra sia una fèmme fatale che porterà Ippolito alla rovina, dopo aver giaciuto in maniera
incestuosa con il sovrano di Atene Teseo, colui che tornò sano e salvo dal labirinto di Creta
combattendo contro il Minotauro. La Fedra dannunziana sublima il concetto del destino nella

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tragedia classica, si percepisce il senso del sublime del trattatello di Longino, si respira in un certo
senso l'epicità della tragedia antica.
1911 IL MARTIRIO DI SAN SEBASTIANO O Le martyre de Saint Sébastien.
Scritta in versi francesi nel periodo di esilio a Parigi, rappresentata nel 1911 da Ida Rubinstein con
le musiche di Claude Debussy e pubblicata nello stesso anno, fu tradotta in italiano da Ettore Janni.
Anche quest'opera come la Crociata si presenta come un "mistero" in cinque "mansioni" con un
prologo preghiera.
Sotto un'atmosfera di misticismo, d'Annunzio ripercorre la vita di San Sebastiano. Il santo è un
giovane soldato della scorta di Diocleziano imperatore, che decide di salvare due ragazzi dalla
morte, condannati perché scoperti cristiani. Diocleziano tenta di corrompere Sebastiano con il
gozzoviglio e i piaceri, offrendogli anche sua figlia in sposa, il soldato, che nel frattempo ha avuto
varie visioni paradisiache e si è completamente convertito al cristianesimo, è schifato e offeso dalle
lusinghe dell'imperatore corrotto, e dunque è condannato a essere ucciso con delle frecce.
1913 LA PARISINA.
Fu una tragedia composta per la rappresentazione lirica al teatro, su testo di D'Annunzio e musica di
Romani. La storia originale narra di Niccolò III d'Este, duca di Ferrara, rimasto vedovo della prima
moglie, che si sposa in seconde nozze con Parisina Malatesta, appartenente alla famiglia dei signori
di Romagna; ma Parisina s’innamorò poi di uno dei vari figli illegittimi di Niccolò: Ufo d'Este, Ugo
era figlio di Stella de' Tolomei, unica amante pare manata con vera passione da Niccolò III. Il duca
d'Este scoprì la relazione incestuosa del figlio bastardo con la Parisina mediante un'apertura nella
botola della biblioteca del palazzo di Ferrara, e li assassinò decapitandoli.
D'Annunzio concepì questa tragedia come secondo capitolo del "Trittico dei Malatesta", dopo
Francesca da Rimini con la musica di Zandonai, la terza tragedia dal titolo "Sigismondo", non fu
mai composta per le vicende belliche della prima guerra mondiale.
1913 LA PISANELLA.
Commedia in versi francesi in 3 atti, rappresentata a Parigi da Ida Rubinstein, con i commenti
musicali di Ildebrando Pizzetti, tradotta da Ettore Janni nel 1935, col titolo La Pisanella, o il giuoco
della rosa e della morte. Il prologo narra del re Ughetto di Cipro, che s’innamora di una meretrice
pisana contesa con dei predoni pirati, Ughetto riconosce in lei la "Santa d'Oltremare" predettagli dal
canto di una Mandica, come immagine sacrale della Povertà, e la vuole avere come moglie.
Combatte con suo zio uccidendolo, e trascorre con lei una vita serena sicché la Regina Madre,
fingendo di accoglierla come figlia, la inganna e l'uccide.

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Analisi del romanzo “Il piacere” – Gabriele D’Annunzio.

NARRATORE.
D'Annunzio delega il compito di raccontare gran parte della vicenda a un narratore in terza persona
singolare; inoltre, nel capitolo quarto del libro secondo, il narratore lascia che parte della vicenda
venga appresa mediante il diario di un personaggio. Per distinguersi dal narratore, d'Annunzio fa si
che il narratore lo citi ben due volte: una volta come un "poeta contemporaneo" che Sperelli
predilige, e una seconda volta come autore di un "emistichio sentenziale" caro allo stesso
personaggio. Siamo alla presenza di un narratore onnisciente: sa tutto quello che è successo e che
succederà, fa anche premonizioni e anticipazioni. Tuttavia l'onniscienza del narratore non gli
impedisce a volte di utilizzare il punto di vista interno di svariati personaggi e l'oggettività di
partenza è spesso sopravanzata e cancellata dagli interventi personali e soggettivi del narratore, che
anche nel corso delle descrizioni s’inserisce continuamente con le sue valutazioni personali
introdotte da formule come "quasi direi".
GENERE LETTERARIO.
Possiamo definire "Il piacere" un romanzo autobiografico. Si vede perciò nella figura di Andrea
Sperelli l'immagine dell'autore stesso: la storia d'amore tra Andrea Sperelli ed Elena Muti copre un
periodo che va dal novembre al marzo 1885, cioè proprio quanto dura l'intensa passione di
D'Annunzio per Olga Ossani.
Nel personaggio di Sperelli d'Annunzio incarna oltre alle sue esperienze reali, anche i suoi sogni e
le sue aspirazioni. Sperelli è così ciò che d'Annunzio è e ciò che vorrebbe essere: è giovane,
elegante, raffinato e piacente come lui, ma è anche come lui non è, nobile, ricco e alto di statura;
come lui è un intellettuale, ma Sperelli oltre che poeta è anche incisore; è come lui un seduttore ora
timido come "Cherubino" ora cinico come "Don Giovanni", ma diversamente da lui è libero da
vincoli coniugali e da obblighi familiari; come lui ha facile accesso nei ritrovi mondani e nei salotti
della nobiltà, ma diversamente da lui vi entra come protagonista e non come cronista.
PERSONAGGI PRINCIPALI.
Il protagonista della storia è Andrea Sperelli. Da piccolo ha vissuto la separazione dei genitori, con
la madre che ha preferito seguire l'amante piuttosto che occuparsi di lui. È cresciuto con il padre,
che ne ha incoraggiato l'amore per l'arte e l'estetica, ma anche la propensione agli amori facili e alle
avventure galanti. Così, diventato un giovane bello e ricercato, passa da una storia all'altra, per
divertimento, senza nessun rimorso. Il suo cinismo nei confronti delle donne che frequenta è tale da
fargli pensare minuziosamente e freddamente alle parole da dire, anche durante un incontro: per lui
la seduzione e la conquista sono solo strategie per ottenere ciò che vuole da una donna. Quando

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però incontra Elena, al primo sentimento di volerla fare sua subentra qualcosa di nuovo, che gli farà
perdere la testa sul serio; se ne innamora. Tuttavia nel romanzo il narratore non manca mai di
sottolineare la debolezza morale di Sperelli oltre che il suo cinismo e la sua perversione. È evidente
come questo personaggio sia solito scindersi in ciò che è e in ciò che deve apparire, in ciò che è e in
ciò che vorrebbe essere, in ciò che sente e in ciò che esprime all'esterno. La sua intera vita è fondata
sulla doppiezza, sulla falsità, sulla menzogna e sull'inganno. In questa presentazione di Andrea
Sperelli si possono cogliere gli aspetti più tipici dell'"eroe decadente".
Il protagonista del romanzo rivela un distacco aristocratico e snobistico dalle masse, una raffinata
curiosità estetica, una predilezione per le cose insolite. La sua regola di vita è tutta basata su una
forma di esasperato estetismo: "il senso estetico aveva sostituito il senso morale" e l'asse intorno al
quale "gravitano" tutte le sue passioni è soltanto "la concezione della Bellezza".
Elena Muti e Maria Ferres:
Costituiscono le due figure in cui è scisso il protagonista femminile, rappresentano infatti l'una
l'opposto dell'altra. Emblematicamente si contrappongono fin dal nome: l'una richiama la donna che
secondo il mito trascinò in rovina un intero popolo, l'altra la donna pura della tradizione cattolica.
La prima, Elena Muti, incarna l'ideale dell'amore erotico e sensuale la seconda quello dell'amore
spirituale: Elena, nella sua vicenda d'amore si avvale dei versi di Goethe (poeta sensuale), Maria
invece ha il suo poeta in Shelley (poeta più malinconico). Elena non ha figli; Maria è madre. Elena
ha una cultura superficiale; Maria è colta e ha un'intelligenza sensibile alle cose dell'arte e della
musica. L'unica cosa che le accomuna è la voce, che costituisce nel testo il primo indizio di una
futura sovrapposizione. Nel corso della vicenda, Elena consapevolmente e Maria passivamente, le
due donne subiscono prima un processo di radicalizzazione dei ruoli (Elena sempre più malvagia,
Maria sempre più dolce e tenera), poi un processo d'identificazione che le porta dapprima alla
sovrapposizione sentimentale ed erotica dell'una all'altra e, infine, addirittura allo scambio dell'una
con l'altra: è il mostruoso connubio finale di cui Andrea è artefice e vittima e che pone fine
drammaticamente a tutto il romanzo. Elena Muti: è una giovane vedova, molto bella e nota nell'alta
società romana. Ricambia l'amore per Andrea, e per tutta la durata della loro breve storia è molto
coinvolta. Poi inspiegabilmente decide di partire, lasciando Andrea sconsolato e soffrendo anche lei
stessa.
Maria Ferres: è la moglie del ministro di Guatemala, e conosce Andrea durante il periodo di
convalescenza del giovane nella villa della cugina di lui. È molto religiosa, e legata alla famiglia, in
particolare alla figlia Delfina, che rappresenta per lei la gioia più grande. All'inizio non s'interessa
più di tanto ad Andrea, presa com'è dall'amica e dalla figlioletta, ma più passano i giorni più si sente

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inspiegabilmente inquieta ed attratta dalle parole del ragazzo. Cerca di farsi forza anche quando lui
le confessa di amarla, ma alla fine è costretta ad ammetterlo: prima a se stessa, poi a lui.
TEMPO
Il romanzo è ambientato verso la fine dell'800, in pratica contemporanea alla sua pubblicazione
visto che D'Annunzio scrisse questo romanzo fra il luglio e il dicembre 1888. Precisamente la
vicenda ha inizio nel 1887 nel giorno di S. Silvestro, due anni dopo la prima separazione con Elena
il 25 Marzo del 1885.
SPAZIO
La vicenda si svolge per lo più a Roma (ne siamo certi poiché incontriamo moltissimi toponimi
quali piazza di Spagna, Palazzo del Quirinale, Palazzo Zucconi, Palazzo Barberini, ecc), città in cui
vive Andrea. Per un breve periodo il racconto è ambientato però nella campagna di Rovigliano nella
villa di Schifanoia della cugina Francesca, dove Andrea passa il periodo di convalescenza. La
descrizione degli spazi è concentrata sulla descrizione minuziosa degli interni tra i quali primeggia
l'appartamento di Andrea arredato finemente prima degli incontri amorosi.
TEMI.
I temi affrontati dal romanzo sono:
- critica all'alta borghesia romana della fine dell'Ottocento: è completamente vuota di
contenuti e sentimenti e devastata dall'edonismo: infatti nel romanzo vi è un continuo
accennare a banchetti, riunioni, feste appuntamenti in sale da te, cene e in generale alla più
svariate occasioni che la mondanità romana offriva.
- L' amore: ne vengono presentati diversi tipi: quello fine a sé stesso, il piacere, la cui ricerca
diventa alla fine un'ossessione, e l'amore puro, visto però come qualcosa di esterno alla
società e quindi da eliminare.
I temi dibattuti nel romanzo sono presentati soprattutto direttamente dal personaggio di Andrea e
dai suoi innumerevoli pensieri e passioni. Essi sono ancora oggi attuali: l'amore è sempre il centro
della società e spesso viene inteso solo come raggiungimento di un piacere fisico.
RIASSUNTO
Il romanzo racconta le vicende di un giovane intellettuale, Andrea Sperelli. Andrea giunge a Roma
nell'ottobre 1884; qui una sera di Novembre, a una cena, conosce la contessa Elena Muti, una
giovane vedova. I due in breve si innamorano e vivono un'intensa relazione che dura fino al marzo
1885, quando Elena annuncia ad Andrea la sua intenzione di porre fine senza una ragione alla
relazione; la donna poi parte da Roma. Il giovane cade nello sconforto e si dà a una vita depravata,
passando di donna in donna cercando di riempire il vuoto lasciato da Elena. Nel maggio, cercando
di sedurre Donna Ippolita Albonico, entra in conflitto con il marito, Giannetto Rutolo, il quale dopo

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essere stato sfidato a cavallo lo sfida a duello e lo ferisce gravemente a un polmone costringendolo
a una lunga convalescenza nella villa della cugina Francesca D'Ateleta. Qui Andrea conosce Maria
Ferres, in vacanza con la figlioletta Delfina e, affascinato dalla bellezza spirituale della donna ben
presto se ne innamora. Anche Maria ricambia l'amore di Andrea, ma inizialmente a causa della sua
alta moralità rifiuta; in seguito però si lascia trasportare dalla passione e decide di cedere. I due si
lasciano e alla fine di ottobre Maria lascia la villa imitata poco tempo dopo anche da Andrea.
Tornato a Roma, il giovane crede di essere cambiato infatti guarda con ribrezzo gli amici che
continuano a fare la stessa vita; si lascia però poi riprendere dalla corruzione dell'ambiente
abbandonandosi ancora una volta ai piaceri della vita mondana; ha anche una relazione con
un'inglese di nome Clara Green. Sempre a Roma a teatro, il 30 dicembre, Andrea rincontra Elena,
tornata dall'Inghilterra e ormai sposata con un nobile inglese che non ama ma che è molto ricco, e
viene invitato per il giorno successivo a casa di Elena; lei si prende ancora gioco di lui: a
quell'incontro in cui Andrea riponeva tante speranze infatti partecipa anche il marito di lei, senza
lasciarli mai soli. Nel frattempo giunge a Roma anche Maria, ed egli per far ingelosire Elena decide
di corteggiare Maria. Elena non cede, quindi Andrea decide di dedicarsi soltanto a Maria, con la
quale riesce finalmente ad instaurare un'intensa relazione. L'uomo, però, non riesce a dimenticare
Elena. Un giorno si viene a sapere che il marito di Maria, l'ambasciatore spagnolo, è stato colto a
barare e questo grave scandalo, oltre a sconvolgerla del tutto, le imporrà di lasciare Roma per
ritirarsi nella villa della madre a Siena. Andrea in un momento di smarrimento, distrutto dal fatto
che Elena avesse un nuovo amante, nell'ultima notte passata insieme a Maria, dopo giorni e giorni
di progetti e promesse, chiama quest'ultima con il nome dell'altra. Maria, sconvolta, scappa via
senza dire una parola e lo lascia per sempre.

Bibliografia e sitografia:

“Dal testo alla storia, dalla storia al testo”, G. Baldi, S. Giusso, M. Razzetti, G. Zaccaria, Paravia,
1999
https://www.atuttarte.it/autore/d-annunzio-gabriele.html
https://it.wikipedia.org/wiki/Gabriele_D%27Annunzio

Maria Irene Compagnino

NON ACCONSENTO ALLA PUBBLICAZIONE.

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GRAZIA DELEDDA

(NUORO, 28 SETTEMBRE 1871 – ROMA, 15 O 16 AGOSTO 1936)

Sintesi cronologica vita e opere.

Grazia Maria Cosima Damiana Deledda, nota semplicemente come Grazia Deledda o, in lingua
sarda, Gràssia o Gràtzia Deledda, è stata una scrittrice italiana vincitrice del Premio Nobel per la
letteratura 1926. È ricordata come la seconda donna, dopo la svedese Selma Lagerlöf, a ricevere
questo riconoscimento, e la prima italiana.

Giovinezza

Nacque a Nuoro, in Sardegna, il 28 settembre 1871, quarta di sette tra figli e figlie, in una famiglia
benestante. Il padre, Giovanni Antonio Deledda, laureato in legge, non esercitò la professione.
Agiato imprenditore e possidente, si occupava di commercio e agricoltura; si interessava di poesia e
lui stesso componeva versi in sardo, aveva fondato una tipografia e stampava una rivista.
Fu sindaco di Nuoro nel 1863.

La madre era Francesca Cambosu, donna di severi costumi; dedita alla casa, educherà lei
Grazia. Dopo aver frequentato le scuole elementari fino alla classe quarta, Grazia venne seguita
privatamente dal professore Pietro Ganga, un docente di lettere italiane, latine, greche, che parlava
francese, tedesco, portoghese, spagnolo). Ganga le impartì lezioni di base
di italiano, latino e francese. Proseguì la sua formazione totalmente da autodidatta.

OPERE:

1896 La via del male

1903 Elias Portolu

1904 Cenere

1913 Canne al vento

1920 La madre

Poetica

I suoi temi principali

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I suoi temi principali furono l'etica patriarcale del mondo sardo e le sue atmosfere fatte di affetti
intensi e selvaggi.

Il fato

L'esistenza umana è in preda a forze superiori, "canne al vento" sono le vite degli uomini e la sorte è
concepita come "malvagia sfinge".

Il peccato e la colpa

La narrativa di Deledda si basa su forti vicende d'amore, di dolore e di morte sulle quali aleggia il
senso del peccato, della colpa, e la coscienza di una inevitabile fatalità. «La coscienza del peccato
che si accompagna al tormento della colpa e alla necessità dell'espiazione e del castigo, la pulsione
primordiale delle passioni e l'imponderabile portata dei suoi effetti, l'ineluttabilità dell'ingiustizia e
la fatalità del suo contrario, segnano l'esperienza del vivere di una umanità primitiva, malfatata e
dolente, 'gettata' in un mondo unico, incontaminato, di ancestrale e paradisiaca bellezza, spazio del
mistero e dell'esistenza assoluta».

Il bene e il male.
Nelle sue pagine si racconta della miserevole condizione dell'uomo e della sua insondabile natura
che agisce - lacerata tra bene e male, pulsioni interne e cogenze esterne, predestinazione e libero
arbitrio - entro la limitata scacchiera della vita; una vita che è relazione e progetto, affanno e dolore,
ma anche provvidenza e mistero. Deledda sa che la natura umana è altresì - in linea con la grande
letteratura europea - manifestazione dell'universo psichico abitato da pulsioni e rimozioni,
compensazioni e censure. Il paesaggio dell'anima è inteso molto spesso come luogo di un'esperienza
interiore dalla quale riaffiorano ansie e inquietudini profonde, impulsi proibiti che recano angoscia:
da una parte intervengono i divieti sociali, gli impedimenti, le costrizioni e le resistenze della
comunità di appartenenza, dall'altra, come in una sorta di doppio, maturano nell'intimo altri
pensieri, altre immagini, altri ricordi che agiscono sugli esistenti.
Una Sardegna mitica.
Deledda esprime una scrittura personale che affonda le sue radici nella conoscenza della cultura e
della tradizione sarda, in particolare della Barbagia. «L'isola è intesa come luogo mitico e come
archetipo di tutti i luoghi, terra senza tempo e sentimento di un tempo irrimediabilmente perduto,
spazio ontologico e universo antropologico in cui si consuma l'eterno dramma dell'esistere
Personaggi.
Le figure deleddiane vivono sino in fondo, senza sconti, la loro incarnazione in personaggi da
tragedia. L'unica ricompensa del dolore, immedicabile, è la sua trasformazione in vissuto,

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l'esperienza fatta degli uomini in una vita senza pace e senza conforto. Solo chi accetta il limite
dell'esistere e conosce la grazia di Dio non teme il proprio destino.

Sentimento religioso.
Di fronte al dolore, all'ingiustizia, alle forze del male e all'angoscia generata dall'avvertito senso
della finitudine, l'uomo può soccombere e giungere allo scacco e al naufragio, ma può altresì
decidere di fare il salto, scegliendo il rischio della fede e il mistero di Dio. Altri tormenti vive chi,
nel libero arbitrio, ha scelto la via del male, lontano dal timor di Dio e dal senso del limite, e deve
sopportare il peso della colpa e l'angoscia del naufrago sospeso sull'abisso del nulla.

LA LINGUA E LO STILE.

“Leggo relativamente poco, ma cose buone e cerco sempre di migliorare il mio stile. Io scrivo
ancora male in italiano, ma anche perché ero abituata al dialetto sardo che è per se stesso una
lingua diversa dall’italiana”, così la scrittrice in una sua lettera descrive il suo stile e la sua scrittura
come un miscuglio quasi tra lingua italiana e presenza costante del suo dialetto. Una delle prime
problematiche che deve affrontare la Deledda, dunque, è quella di far propria la lingua italiana, che
lei, come sardofona, non sente sua. Operazione ancora più difficile se si tiene conto che l’autrice si
accinge a narrare il proprio vissuto, il proprio universo antropologico sardo. Ne è sorto un dibattito
recente sul bilinguismo, in quanto il sardo è stato riconosciuto lingua e non dialetto; dibattito che
però non è riuscito ancora a chiarire questo rapporto di doppia identità. Questo però non deve far
pensare che il suo linguaggio si sia improntato solamente di verismo e naturalismo, ma al contrario
si è piegato al lirico e al fiabesco. Secondo Natalino Sapegno, infatti, dall’adesione ai canoni del
Verismo vi sarebbero troppi elementi che distanziano la scrittura della Deledda e primo fra tutti la
natura intimamente lirica e autobiografica dell’ispirazione.
Fin dai tempi in cui scrive su riviste di moda, Grazia Deledda, si rende conto della distanza esistente
tra la stucchevole prosa in lingua italiana e la sua esigenza di impiegare una lingua che sia più
vicina alla realtà e alla società dalla quale proveniva. E così si protende alla letteratura russa e le
parole delle sue opere rievocano memorie tolstojane e dostoevskiane.
L’intento della Deledda, spesso, finisce con l’approdare ad un linguaggio scarno, soprattutto in quei
scritti giovanili e alcuni attribuiscono questo risultato alla paura di sbagliare, a quell’ansia che
potremmo definire “da prestazione” nel dover maneggiare contemporaneamente due lingue :
l’italiano ed il sardo. Secondo altri critici, invece, questo linguaggio non propriamente fluido deriva
dal pensare in sardo e il tradurre in italiano. In alcuni punti delle sue opere si può chiaramente
scorgere come siano utilizzati dei veri e propri “sardismi”, soprattutto quando mancano

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corrispondenti in italiano. La scrittrice non ha problemi a marchiare di lingua sarda la sua poetica e
tutto questo deriva da una scelta voluta e consapevole.
L’influsso della Sardegna e della lingua sarda nelle opere della Deledda non riguarda solo le opere
sintattiche e il lessico ma anche e soprattutto le tematiche: i costumi, le immagini, i detti e i
proverbi.
La sintassi è prevalentemente paratattica, ma questo non equivale alla mancanza di stile ma deriva
dal trasferimento nella scrittura di modalità linguistiche di costruzione del racconto orale.
Approfondimento
1896 LA VIA DEL MALE

“La via del male”, caso unico nella lunga carriera di Grazia Deledda, conobbe ben quattro redazioni
a stampa. Il libro fu pubblicato per la prima volta nel 1896 da Speirani a Torino; nel corso del 1906
la Gazzetta del Popolo di Torino lo pubblicò in appendice con il titolo ‘Il servo’; nello stesso anno
di nuovo con il titolo ‘La via del male’ il romanzo uscì di volume nella Biblioteca Romantica della
Nuova antologia di Roma; infine, nel 1916, presso l’editore Treves di Milano, se ne ebbe una nuova
ed ultima versione. Il testo, dunque, è rimasto in lavorazione per più di vent’anni, essendo passato
attraverso una massiccia attività correttoria. In questo romanzo, che incontrò il favore di Luigi
Capuana, l’autrice, suggestionata dal verismo, abbandonò le imitazioni degli autori romantici a
favore di un’elaborazione maggiormente aderente alla realtà, con descrizioni di situazione concrete
in cui far muovere personaggi più autentici. Ne ‘La via del male’, comparvero gli elementi tipici
della produzione della Deledda: gli uomini, abitatori della sua ‘misteriosa’ Sardegna, primitivi e
taciturni, in ascolto solo delle voci della natura, chiusi nelle loro credenze e tradizioni, in lotta
contro un destino avverso che li piega o li costringe a ripiegare in se stessi, che, agitati da passioni
violente, guidati dall’amore, vissuto come esperienza passionale, o dall’odio, sono indotti al
peccato, ma poi travagliati dal senso di colpa che li condurrà ad espiare.

1903 ELIAS PORTOLU

«Giorni lieti s’avvicinavano per la famiglia Portolu, di Nuoro. Agli ultimi di aprile doveva ritornare
il figlio Elias, che scontava una condanna in un penitenziario del continente; poi doveva sposarsi
Pietro, il maggiore dei tre giovani Portolu. Si preparava una specie di festa: la casa era intonacata di
fresco, il vino ed il pane pronti; pareva che Elias dovesse ritornare dagli studi, ed era con un certo
orgoglio che i parenti, finita la sua disgrazia, lo aspettavano. Finalmente arrivò il giorno tanto
atteso, specialmente da Zia Annedda, la madre, una donnina placida, bianca, un po’ sorda, che
amava Elias sopra tutti i suoi figliuoli.»
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1904 CENERE

«Cadeva la notte di San Giovanni. Olì uscì dalla cantoniera biancheggiante sull’orlo dello stradale
che da Nuoro conduce a Mamojada, e s’avviò pei campi. Era una ragazza quindicenne, alta e bella,
con due grandi occhi felini, glauchi e un po’ obliqui, e la bocca voluttuosa il cui labbro inferiore,
spaccato nel mezzo, pareva composto da due ciliegie. Dalla cuffietta rossa, legata sotto il mento
sporgente, uscivano due bende di lucidi capelli neri attortigliati intorno alle orecchie: questa
acconciatura ed il costume pittoresco, dalla sottana rossa e il corsettino di broccato che sosteneva il
seno con due punte ricurve, davano alla fanciulla una grazia orientale. Fra le dita cerchiate di
anellini di metallo, Olì recava striscie di scarlatto e nastri coi quali voleva segnare i fiori di San
Giovanni, cioè i cespugli di verbasco, di timo e d’asfodelo da cogliere l’indomani all’alba per farne
medicinali ed amuleti.»

1913 CANNE AL VENTO.


“Canne al vento” è un’opera esemplare: induce, già nel titolo, un’inconfondibile immagine
dell’aspro ed essenziale paesaggio dell’isola (n.d.r. la sua amata Sardegna), ma evoca nel contempo
l’immagine universale, ‘biblica’ dell’uomo, fragile e oscillante creatura battuta dalla sorte, ma
sempre tentata da un confronto diretto con la forza potente di una misteriosa Giustizia. Forse, dopo
aver letto il romanzo, molti lettori avranno come l’impressione che in Sardegna non si va, ma dalla
Sardegna si viene.
Il romanzo canne al vento è ambientato in Sardegna e tutta la storia ruota intorno a Efix una
contadino servo aggrappato con amore ad un poderetto che possedevano le sue padrone: le dame
Pintor; tre sorelle nobili con pochi mezzi.

1920 LA MADRE.
In un paese ricco di tradizioni e unito da una ferrea legge morale, Paulo, giovane sacerdote in cui
tutti confidano e che tutti ritengono esempio di fede e devozione, si innamora di Agnese, una donna
che vive sola nella grande tenuta di famiglia. La madre di Paulo, accortasi dei sentimenti del figlio e
delle sue fughe notturne e decisa a proteggerlo dalle tentazioni, tenta di riportarlo sulla retta via,
ricordandogli i doveri di parroco e consigliandogli di confidare nel Signore, interrompendo
immediatamente la peccaminosa relazione. Dilaniato tra il senso di colpa e la profonda passione,
Paulo torna ancora una volta dall’amata, ma, ormai convinto della propria fede, si rifiuta di cedere
alle sue lusinghe. Agnese promette di rivelare pubblicamente la loro relazione durante il rito

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domenicale, causando in Paulo e nella madre una profonda angoscia. Nonostante la rinuncia della
donna, a mettere in pratica quanto minacciato, lo stress accumulato nei giorni precedenti causa la
repentina morte della madre al termine della funzione. Un romanzo di fede e di peccato,
prostrazione e letizia, timori taciuti e passioni che irrompono incontrollate.

Analisi del romanzo “Canne al vento” – Grazia Deledda.


Narratore
Il narratore è esterno.
Tipologia testuale
La vicenda è lineare: gli eventi sono legati l’uno all’altro.
Fabula o intreccio
Fabula e intreccio generalmente coincidono. L’ordine cronologico è seguito nella narrazione degli
eventi eccetto in due occasioni, quando Giacinto racconta il perché della sua venuta e quando Efix
dice la verità sulla morte di don Zame
Tempo
La vicenda è ambientata nella seconda metà dell’‘800.
Durata
Il ritmo è abbastanza regolare in tutto il romanzo, tranne per il periodo in cui Efix se ne va: siccome
non è specificato quanto tempo egli stia via non si può precisare la durata degli eventi.
Spazio
I luoghi principali in cui si svolge la vicenda sono: il podere; il villaggio, in cui la vita collettiva si
esplica nelle necessità d’ogni giorno e nelle preoccupazioni economiche; i mitici luoghi del
continente, dove è andata Lia e da cui è venuto il figlio.
Tecniche narrative
Le sequenze sono prevalentemente narrative.
Stile e lessico
Lo stile è paratattico per asindeto, molto semplice ma d’effetto. Il registro è quello popolare; i
colloqui sono spicci; i termini dialettali sono frequenti.
Personaggi
- EFIX è scarno come un adolescente, con dei lineamenti che esprimono un’angoscia infantile. Ogni
volta che s’allontana dal poderetto lascia là la sua parte migliore. È una persona schietta che dice
ciò che sente. Sente agire dentro di sé una forza sovrannaturale che lo guida nel bene. Non coglie il
significato delle sue azioni: intuirà la sua vita senza capirla.

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- GIACINTO è il figlio di Lia. Alto, pallido, capelli dorati, è un ragazzo debole ed influenzabile, ma
in fondo buono e sognatore. Alla fine mostra d’essere un vero uomo, accettando il duro lavoro e il
matrimonio.
- LE SORELLE sono evitate dai parenti. Sanno sbrigare solo le faccende di casa e non conoscono
nemmeno il loro poderetto.
- NOEMI è la sorella più giovane (35 anni), bei capelli, occhi freddi. Pur essendo innamorata di
Giacinto, alla fine è costretta sposare don Pietro, anche se lo fa con rabbia ed invidia.
- DON PIETRO è ricco e superbo (48 anni). Da sempre evitato dalle donne Pintor, che lo
ritenevano loro nemico, alla fine acquista il loro poderetto. Innamorato di donna Noemi, alla fine la
sposa.
Temi
- Fragilità umana e dolore dell'esistenza
- Povertà
- Passione, gelosia e amore
- Religiosità
Messaggio
Il messaggio è implicito. L’autrice vuole far trasparire la fedeltà e tutti i servizi che può offrire un
servo al proprio padrone in qualsiasi modo, in questo caso anche arrivando a uccidere una persona.

Riassunto per capitoli.


Cap. I
Efix, un contadino che lavora da parecchi anni in un podere di proprietà delle dame Pintor, al termine di una
dura giornata di lavoro riceve, in tarda serata, la visita di un giovane con la richiesta di presentarsi
l’indomani mattina per dei chiarimenti riguardo una lettera appena giunta. Efix ripercorre la storia della
famiglia Pintor; le tre signorine Pintor, Ruth, Noemi e Ester, la madre Donna Cristina, morta
prematuramente, il padre Don Zame, dispotico ed arrogante, sempre più tiranno nei confronti delle figlie fino
alla sua morte, avvenuta in strada per cause sconosciute, forse per sincope o forse per una aggressione di
sconosciuti, la sorella Lia, scappata improvvisamente per dissapori familiari. Le tre sorelle rimaste in casa
nutrono ancora rancore nei confronti della sorella Lia per il disonore che aveva arrecato alla famiglia.
Lia si rifece viva e comunicò la nascita di un figlio a cui diede il nome Giacinto. In questo quadro familiare
si inserisce anche Efix, umile e fedele servo delle dame Pintor, che dalla morte del padre vivevano della
modesta rendita del podere, visto che egli non riceveva compenso per il lavoro prestato da parecchi anni.

Cap. II

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L’indomani Efix si reca in paese per incontrare le dame Pintor; dopo aver aspettato pazientemente il ritorno
di Donna Ester dalla messa ed il risveglio di Donna Noemi, tutti insieme leggono il telegramma giunto dal
nipote Giacinto, che era rimasto orfano, il quale anticipa una sua imminente visita alle zie. Le donne
convengono di accogliere il nipote. Efix che aveva l’intenzione di richiedere il pagamento degli arretrati,
resosi conto della situazione economica in cui versano le Dame Pintor, desiste dal suo intento e finisce con
promettere di controllare il comportamento del giovane Giacinto. Efix è contento della visita inaspettata di
Giacinto che non conosce, approfitta della visita in paese per richiedere un prestito all’usuraia Kalina e
decide di comprarsi per l’occasione un bel berretto nuovo. Incontra anche Don Pedru, parente delle Dame
Pintor, che è già a conoscenza della prossima visita del giovane Giacinto. Egli, con tono sprezzante,
ammonisce Efix in quanto reputa solo una fonte di guai l’arrivo del giovane.

Cap. III
Ai primi di maggio, dopo una lunga attesa da parte delle Dame Pintor, arriva finalmente Giacinto. Il ragazzo
che arriva in bicicletta, viene accolto calorosamente dalla zia Noemi, in quanto le sorelle sono alla festa
presso il Santuario di Nostra Signora del Rimedio.
Giacinto risulta simpatico ed estroverso. Riporta la notizia che un amico del padre che lavora a Nuoro gli ha
promesso un posto di lavoro in un mulino di sua proprietà.

Cap. IV
Al Santuario di Nostra Signora del Rimedio, dopo una frugale cena, vengono accesi i fuochi.
Grixenda e Natolia, due ragazze del paese sono annoiate perché non c’era nessun giovane che ballasse con
loro. A questo punto arrivano Efix a cavallo e Giacinto in bicicletta. Grixenda rimane colpita da Giacinto e i
giovani ripresero a ballare.
Cap. V
Il giorno successivo Efix riporta in paese il cavallo e tornò al podere. Dopo tre giorni, mentre ritorna al paese
per portare le provviste alle Dame Pintor, incontra Don Pedru che lo accompagna nel tragitto portandolo sul
suo cavallo. Durante il viaggio Don Pedru ribadisce le sue perplessità su Giacinto, immagina che il ragazzo
che sembra tanto bravo ed affabile porterà solo disgrazia e, in caso di rovina, avanza la richiesta di acquisire
il podere accudito da Efix. In paese viene riportato a Efix che Giacinto in quei giorni è stato molto generoso,
ha pagato da bere a tutti, spendendo ben trecento lire. Corre voce che sia molto ricco.
Efix, allarmato, chiede ragguagli a Giacinto, ma egli risulta totalmente assorto, ad invece di rispondere alle
domande di Efix si confida innamorato della bella Grixenda ed è intenzionato a sposarla.

Cap. VI

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La nonna di Grixenda, la signora Pottoi, fa una visita a Efix e chiede informazioni sulle intenzioni Giacinto,
che risulta invaghito dalla giovane. Efix risulta titubante, ma ammette che Giacinto gli ha confermato
l’intenzione di sposare sua nipote. La signora Pordoi è convinta delle buone intenzioni di Giacinto, è certa
che sia ricco, visto il denaro che spende, e pensa che Giacinto sia un bravo ragazzo. Una sera al podere
arriva Giacinto, febbricitante. Efix si prende cura di Giacinto che confida la sua volontà di sposare
Grixsenda, anche se le zie non sono contrariate perché la ragazza è solo una povera serva. Giacinto vorrebbe
mettersi in affari per guadagnare soldi e risollevare la sorte delle zie, costrette a vendere frutta e verdura in
modo defilato, senza farlo sapere alla gente in quanto non confacente a una famiglia di nobile lignaggio. Le
confidenze di Giacinto vanno oltre: racconta una storia di un suo conoscente caduto in disgrazia a causa del
vizio del gioco, che arrivò sperperare una considerevole somma presa con l’inganno da un ricco capitano. Il
capitano truffato riuscì a perdonare il suo conoscente, che nel frattempo era diventato un barbone e si era
ammalato. Non solo lo perdonò, ma lo curò e lo rimise in sesto. A questo punto Giacinto si confida
ulteriormente e confida che la storia appena non era occorsa ad un conoscente, ma a lui. Una volta guarito,
dopo aver appreso l’intenzione di Giacinto di recarsi delle zie, gli aveva procurato il biglietto per il viaggio e
regalato la bicicletta. Efix resta colpito dal racconto di Giacinto, il quale sembra pentito della confidenza
fatta. Appena può Giacinto, scappa dalla casa di Efix, senza più farsi vedere. Dopo qualche giorno Efix
riceve la visita di Don Pedru, il quale racconta che Giacinto gioca a carte e perde parecchi soldi. Don Pedru
si offre di portare un cesto di verdura alle dame Pintor. Il giorno successivo Giacinto ritorna da Efix per
riferire che le zie sono risentite del fatto che era stata mandata loro della roba tramite il cugino, Don Pedru,
che non è in buoni rapporti con loro. Inoltre Giacinto confida di aver preso la lettera che sua madre aveva
scritto tanto tempo fa alle sue sorelle, Efix si arrabbia e, strappata di mano la lettera a Giacinto, la vuole
riportare al suo posto.

Cap. VII
L’indomani Efix si reca a casa Pintor. Le sorelle sono arrabbiate con lui in quanto la promessa di vigilare sul
comportamento di Giacinto non è stata mantenuta. Giacinto vuole sposare Grixenda, una povera serva.
Giacinto inoltre, nella sua ingenuità, ha ottenuto parecchi soldi dall’usuraia Kallina. tramite cambiali a firma
di Don Pedru. Le dame Pintor sono certe della malafede del loro cugino Don Pedru, il quale vuole in tale
modo ottenere il loro podere. Nella discussione concitata, le dame Pintor, che risultano debitrici nei
confronti dei loro servo Efix, mettono in evidenza che i servizi erogati nessun compenso al mondo poteva
retribuire. Efix, concertato, fa visita a Kalina, l’usuraia. Lì apprende che le cambiali, oltre ad essere firmate
da Don Pedru, sono firmate anche da donna Ester, ma è chiaro che Giacinto ha falsificato la firma. Dopo una
accesa discussione con Kalina, Efix, preso dallo sconforto si reca in Basilica a pregare. Delirante, ha strani
ricordi dei tempi passati, sulla fuga della madre di Giacinto, donna Lia, e sulla strana morte di suo padre Don

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Zame, ritrovato senza vita per strada con uno strano segno sul collo. Ritornato al podere, Efix incontra
Giacinto. Convengono che l’unica cosa da fare è che Giacinto si rechi a Nuoro per trovare lavoro e saldare i
debiti accumulati, tenendo nascosto alle zie la storia della firma falsa sulla cambiale.

Cap. VIII
Giacinto si reca da Kalina per un ulteriore prestito di cinquanta lire per il viaggio a Nuoro.
Prima di lascare il paese, saluta il rettore ed incontra alla taverna Don Pedro con un suo amico. Dopo una
debole resistenza, si convince a bere ed a giocare a carte, perdendo tutti i soldi che aveva.

Cap. IX
Una sera di luglio si reca a casa Pordoi la nonna di Grixenda, disperata per la situazione in cui versa la
nipote. Ella è innamorata di Giacinto, ma non riesce a capire le intenzioni del ragazzo. Grixenda, molto
infelice, è deperita fisicamente. La nonna, piangendo, chiede che le zie facciano pressione sul ragazzo per
definire la situazione tra i due fidanzati.
Dopo averla rincuorata donna Noemi si addormenta spossata e turbata. Viene svegliata dalla visita di un
usciere che le consegna una carta relativa alla cambiale protestata con cui Kalina richiede la restituzione di
una somma ingente. Una concitata analisi e la verità viene a galla, o si salda il debito, vendendo il podere o
si denuncia Giacinto per la falsificazione della firma della zia Ester, che dovrà andare in galera.
Presa da malore, Donna Ruth muore all’istante.

Cap. X
Dopo la morte di Donna Ruth, Efix aspetta invano il ritorno di Giacinto.
La tensione in casa Pintor è elevata, Efix viene accusato di non aver controllato come promesso il ragazzo.
Efix decide di cercare il ragazzo, lo trova ad Oliena. Nasce una accesa discussione, Efix accusa Giacinto sul
suo comportamento, questi gli rinfaccia di aver ucciso suo nonno, Don Zame. Efix, con calma e lucidità
conferma l’insinuazione di Giacinto, ma precisa che fu un incidente per proteggere la fuga di sua madre Lia,
di cui Efix era invaghito.
Efix ritorna a casa Pintor nella speranza che Giacinto tornasse per riparare al malfatto e che poi andasse via
per non tornare mai

Cap. XI
Efix risulta provato fisicamente dalla situazione creatasi mentre le sorelle Pordoi cercano di racimolare
disperatamente soldi.

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Don Pedru sa che Giacinto ha trovato un lavoro, ma modesto, tanto che si è dovuto vendere la bicicletta.
Don Pedru pensa che mai Giacinto riuscirà a pagare il debito, e l’unica soluzione è la cessione in suo favore
del podere.

Cap. XII
Le dame Pintor acconsentono alla vendita del podere. Il debito viene saldato.
Le dame Pintor si chiudono in casa e non si fanno vedere in giro. La nonna di Grixenda muore. Don Pedru
confida con Efix che vorrebbe sposare donna Noemi. Efix ritiene che il matrimonio tra Don Pedru e donna
Noemi sarebbe un evento positivo. Efix si presta a favorire il piano di Don Pedro, ma Noemi si rifiuta. Efix
pensa che quell'accecamento sia il castigo di Dio al suo passato delitto.

Cap. XIII
Efix abbandona il suo lavoro e il podere. Inizia a vagabondare senza meta, ma prima passa a trovare Giacinto
a cui annuncia la morte della nonna di Grixenda e la prossima venuta della ragazza per sposarsi con lui. Ma
Grixenda non si fece vedere. Efix infine incontra un mendicante cieco e decide di vagabondare con lui.

Cap. XIV
La vita da mendicante è per Efix un’espiazione del suo peccato, dell’uccisione di Don Zame. Si sente solo al
mondo, solo come un usignolo che sente cantare in un bosco. Vaga con il suo compagno cieco elemosinando
per il modo senza una meta. Un giorno , vicino ad una basilica, un mendicante per impietosire i passanti
simula un tumore. Nasce un diverbio, il falso invalido viene mascherato e portato in caserma assieme ad un
cieco ed il compagno di viaggio di Efix. Riscontrata la cecità dei due mendicanti, Efix si ritrova con un
ulteriore compagno di sventura.

Cap. XV
Efix è ormai abituato alla vita del mendicante. Vaga per sagre, chiese e basiliche con i sui due compagni
ciechi. Ha paura di essere riconosciuto in quanto si vergogna della sua condizione. Ma alla festa del
Redentore si fa forza e incontra infine Don Pedru.
Don Pedru, riconosciutolo, lo informa che Giacinto sposerà a breve Grixenda.
Efix è ora felice, uno dei due compagni di viaggio si allontana rivelando la sua falsa cecità. Per Efix è un
segno divino, una liberazione dal fardello di un compagno da accudire. Lo stesso giorno, per uno scherzo del
destino, si libera anche dell’altro compagno e si ritrova solo, libero da impedimenti. Efix ritorna al suo
antico podere, lo ritrova mal accudito, dato in carico ad un giovane del paese. Efix non si adira, chiede della

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bella Grixenda che sta preparando il vestito da sposa il vecchio Efix passa la notte nel capanno del podere,
all’indomani si accorge delle canne spezzate per il forte vento della notte. Efix incontra Kallina, l’usuraia. Le
racconta di un suo fantomatico viaggio in oriente e riesce a farsi prestare dei soldi per comprarsi un vestito
decente. Decide di andare dalle dame Pintor, ma prima incontra poi Grixenda che lo aggiorna sulla corte che
Don Pedru fa a Noemi, con grande contentezza di Efix.

Cap. XVI
Efix incontra Noemi ed Ester. Noemi è a conoscenza della vita da mendicante di Efix, ma non Ester. Il
vecchio Efix, su richiesta di Ester, le racconta di sue peripezie per i mari del mondo, di pura fantasia, non per
burlarsi della sua vecchia padrona, ma solo per renderla felice con la sua piccola bugia. Alla domanda della
sua dipartita, senza un apparente senso, Efix non fornisce una spiegazione logica, ma dice che ha vagato
come una canna al vento.
Il discorso tra i tre vecchi conoscenti mette in risalto la differenza dei caratteri tra le due donne: Ester
amabile ed accondiscendente, Noemi sprezzante ed austera. Efix constata che non prova alcuna soggezione
nei confronti delle due donne. Prima di addormentarsi, Noemi gli confida l’intenzione di accettare la
proposta di matrimonio di Don Pedru.

Cap. XVII
Efix si sistema nel capanno del vecchio podere, oramai vecchio e dolorante. Ritiene che la sua vita, a seguito
degli ultimi avvicendamenti, fosse una opera compiuta, e aspetta la morte.
Una notte ha un forte dolore, si trasferisce in casa Pintor. Qui viene accudito con amore. Una sera viene a
trovarlo Giacinto, che per incontrare il vecchio servo deve scavalcare la staccionata in quanto ospite non
gradito. Giacinto lo informa che a breve sposerà Grixenda. I giorni passano, Efix peggiora ed il giorno delle
nozze tra donna Noemi e Don Pedru muore in grazia di Dio ed in pace con la sua anima.

Bibliografia e sitografia:

“Dal testo alla storia, dalla storia al testo”, G. Baldi, S. Giusso, M. Razzetti, G. Zaccaria, Paravia,
1999.
https://www.900letterario.it/focus-letteratura/bilinguismo-grazia-cosima-deledda/
https://it.wikipedia.org/wiki/Grazia_Deledda

Maria Irene Compagnino


NON ACCONSENTO ALLA PUBBLICAZIONE.
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LUIGI PIRANDELLO
(Girgenti, 28 giugno 1867 – Roma, 10 dicembre 1936)
È stato un drammaturgo, scrittore e poeta italiano, insignito del Premio Nobel per la letteratura nel
1934. Per la sua produzione, le tematiche affrontate e l'innovazione del racconto teatrale è
considerato tra i più importanti drammaturghi del XX secolo. Tra i suoi lavori spiccano diverse
novelle e racconti brevi (in lingua italiana e siciliana) e circa quaranta drammi, l'ultimo dei quali
incompleto.
Nasce a Girgenti (Agrigento) nel 1867, compie studi classici, si laurea a Bonn e diventa professore
universitario. Nel 1894 sposa Antonietta Portulano con cui ebbe 3 figli. Nel 1903, un tracollo
finanziario genera in famiglia una crisi profonda, non soltanto economica. La moglie, infatti, inizia
a soffrire di disturbi psichici e verrà curata in casa per 15 anni prima di essere affidata ad una casa
di cura. Pirandello naturalmente soffrì per questa situazione, a tal punto da meditare il suicidio. Non
lo fece, anzi, decise di “rinascere” affrontando la vita e accettando la realtà per quello che è: un
flusso continuo, un cambiamento, una trasformazione inarrestabile che non può essere spiegata in
maniera razionale ne’ comunicata con le parole. In linea con la sua rinascita e dopo essersi
avvicinato a Freud e alla psicologia, Pirandello lascia l'università e si mette a girare l'Europa con
una compagnia teatrale da lui fondata. Nel 1934 gli viene riconosciuto il premio Nobel per la
letteratura. Muore a Roma nel 1936.
La famiglia e la sua formazione.
Luigi Pirandello, figlio di Stefano Pirandello e Caterina Ricci Gramitto, appartenenti a famiglie di
agiata condizione borghese, dalle tradizioni risorgimentali, nacque nel 1867 in contrada Càvusu a
Girgenti, nome di origine araba con cui era nota, fino al 1927, la città siciliana di Agrigento .
Nell'imminenza del parto che doveva avvenire a Porto Empedocle, per un'epidemia di colera che
stava colpendo la Sicilia, il padre Stefano aveva deciso di trasferire la famiglia in un'isolata tenuta
di campagna per evitare il contatto con la pestilenza. Porto Empedocle, prima di chiamarsi così, era
una borgata (Borgata Molo) di Girgenti (l'odierna Agrigento). Il padre, Stefano Pirandello, aveva
partecipato tra il 1860 e il 1862 alle imprese garibaldine; aveva sposato nel 1863 Caterina, sorella di
un suo commilitone, Rocco Ricci Gramitto.
Il nonno materno di Luigi, Giovanni Battista Ricci Gramitto, era stato tra gli esponenti di spicco
della rivoluzione siciliana del 1848-49 e, escluso dall'amnistia al ritorno del Borbone, era fuggito
in esilio a Malta dove era morto un anno dopo, nel 1850, a soli 46 anni.

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Il bisnonno paterno, Andrea Pirandello, era stato un armatore e ricco uomo d'affari di Pra', ora
quartiere di Genova. La famiglia di Pirandello viveva in una situazione economica agiata, grazie
al commercio e all'estrazione dello zolfo.

Il giovane Pirandello dopo l’istruzione elementare impartitagli privatamente, nel 1878 fu iscritto dal
padre alla regia scuola tecnica di Girgenti, ma durante un’estate preparò, all’insaputa del padre, il
passaggio agli studi classici. In seguito a un dissesto economico, la famiglia si trasferì a Palermo,
dove il quattordicenne Luigi frequentò il regio ginnasio Vittorio Emanuele II e dove rimase anche
dopo il rientro dei suoi, nel 1885, a Porto Empedocle. Qui si appassionò subito alla letteratura. A
soli undici anni scrisse la sua prima opera, "Barbaro", andata perduta. Per un breve periodo,
nel 1886, aiutò il padre nel commercio dello zolfo, e poté conoscere direttamente il mondo degli
operai nelle miniere e quello dei facchini delle banchine del porto mercantile.
Iniziò i suoi studi universitari a Palermo nel 1886, per recarsi in seguito a Roma, dove continuò i
suoi studi di filologia romanza che poi, anche a causa di un insanabile conflitto con
il rettore dell'ateneo capitolino, dovette completare, su consiglio del suo maestro Ernesto Monaci,
a Bonn, dove seguì i corsi di filologia romanza ed ebbe l'opportunità di conoscere grandi maestri
come Franz Bücheler, Hermann Usener e Richard Förster. Si laureò nel 1891 con una tesi sulla
parlata agrigentina "Foni ed evoluzione fonetica del dialetto di Girgenti" (Laute und
Lautentwicklung der Mundart von Girgenti), in cui descrisse il dialetto della sua città e quelli
dell'intera provincia, che suddivise in diverse aree linguistiche. Il tipo di studi gli fu probabilmente
di fondamentale aiuto nella stesura delle sue opere, dato il raro grado di purezza della lingua
italiana utilizzata.
Il matrimonio.
Nella città tedesca alla fine di gennaio del 1890 conobbe a una festa in maschera la giovane Jenny
Schulz-Lander, della quale si innamorò e con cui andò ad abitare nella pensione tenuta dalla madre
della ragazza. A lei dedicherà i versi di Pasqua di Gea dove la descriveva come «lucifera fanciulla,
tu che il mio tutto sei e pur, forse, sei nulla» e la ricorderà anche nei versi di Fuori di chiave: «Fuori
la neve eterna fiocca; / piano l'uscio s'apre e, un dito in bocca, / entra scalza Jenny...». Quarant'anni
dopo, Pirandello ormai famoso, durante un soggiorno a New York ricevette un biglietto, a cui non
rispose, da Jenny, che nel frattempo era diventata scrittrice.
Nel 1892 Pirandello si trasferì a Roma, dove poté mantenersi grazie agli assegni mensili inviati dal
padre. Qui conobbe Luigi Capuana che lo aiutò molto a farsi strada nel mondo letterario e che gli
aprì le porte dei salotti intellettuali dove ebbe modo di conoscere giornalisti, scrittori, artisti e critici.

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Nel 1894, a Girgenti, Pirandello sposò Maria Antonietta Portulano (1871 - 1959), figlia di un ricco
socio del padre. Questo matrimonio concordato soddisfaceva anche gli interessi economici della
famiglia di Pirandello.
Nonostante ciò tra i due coniugi nacque veramente l'amore e la passione. Grazie alla dote della
moglie, la coppia godeva di una situazione molto agiata, che permise ai due di trasferirsi a Roma.
Nel 1895, a completare l'amore tra gli sposi, nacque il primo figlio: Stefano (1895–1972), a cui
seguirono due anni dopo, Rosalia Caterina (Lietta) (1897-1971) e nel 1899 Fausto Calogero (1899–
1975).
Nel 1903, un allagamento e una frana nella miniera di zolfo di Aragona di proprietà del padre, nella
quale era stata investita parte della dote di Antonietta, e da cui anche Pirandello e la sua famiglia
traevano un notevole sostentamento, li ridusse sul lastrico. Questo avvenimento accrebbe il disagio
mentale, già manifestatosi, della moglie di Pirandello, Antonietta. Diversi anni dopo, nel 1919, egli,
ormai disperato, acconsentì che Antonietta fosse ricoverata in un ospedale psichiatrico; Antonietta
Portulano morirà in una clinica per malattie mentali di Roma, sulla via Nomentana, nel 1959 a 88
anni di età. La malattia della moglie portò lo scrittore ad approfondire, portandolo ad avvicinarsi
alle nuove teorie sulla psicoanalisi di Sigmund Freud, lo studio dei meccanismi della mente e ad
analizzare il comportamento sociale nei confronti della malattia mentale. Spinto dalle ristrettezze
economiche e dallo scarso successo delle sue prime opere letterarie, e avendo come unico impiego
fisso la cattedra di stilistica all'Istituto superiore di magistero femminile (che tenne
dal 1897 al 1922), lo scrittore dovette impartire lezioni private di italiano e di tedesco, dedicandosi
anche intensamente al suo lavoro letterario. Dal 1909 iniziò anche una collaborazione con
il Corriere della Sera.
Il primo grande successo.
Il suo primo grande successo fu merito del romanzo Il fu Mattia Pascal, scritto nelle notti di veglia
alla moglie paralizzata alle gambe. Il libro fu pubblicato nel 1904 e subito tradotto in diverse lingue.
La critica non diede subito al romanzo il successo che invece ebbe tra il pubblico. Numerosi critici
non seppero cogliere il carattere di novità del romanzo, come d'altronde di altre opere di Pirandello.
Perché Pirandello arrivasse al successo si dovette aspettare il 1922, quando si dedicò totalmente al
teatro. Lo scrittore siciliano aveva rinunciato a scrivere opere teatrali, quando l'amico Nino
Martoglio gli chiese di mandare in scena nel suo Teatro Minimo presso il Teatro Metastasio di
Roma alcuni suoi lavori: Lumie di Sicilia e l'Epilogo, un atto unico scritto nel 1892. Pirandello
acconsentì e la rappresentazione il 9 dicembre del 1910 dei due atti unici ebbe un discreto successo.
Tramite i buoni uffici del suo amico Martoglio anche Angelo Musco volle cimentarsi con il teatro

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pirandelliano: Pirandello tradusse per lui in siciliano Lumie di Sicilia, rappresentato con grande
successo al Teatro Pacini di Catania il 1º luglio 1915.
La guerra fu un'esperienza dura per Pirandello; il figlio Stefano venne infatti imprigionato
dagli austriaci, e, una volta rilasciato, ritornò in Italia gravemente malato e con i postumi di una
ferita. Nel 1925 Pirandello fu tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali fascisti, redatto
da Giovanni Gentile. L'adesione di Pirandello al Fascismo fu per molti imprevista e sorprese anche
i suoi più stretti amici; sostanzialmente egli, per un certo conservatorismo che comunque aveva,
guardava al Duce come riorganizzatore di una società in disfacimento e ormai completamente
disordinata.
Un'altra motivazione addotta per spiegare tale scelta politica è che il fascismo lo riconduceva a
quegli ideali patriottici e risorgimentali di cui Pirandello era convinto sostenitore, anche per le
radici garibaldine del padre. Pirandello vedeva, secondo questa tesi, nel Fascismo la prima idea
originale post-risorgimentale, che doveva rappresentare la "forma" nuova dell'Italia destinata a
divenire modello per l'Europa. Secondo alcuni critici antifascisti vera motivazione sarebbe stata il
ricercare dei finanziamenti per la sua compagnia teatrale, tuttavia nonostante il Nobel, il regime
fascista preferì a Pirandello D’Annunzio e Grazia Deledda, anche lei tra l’altro vincitrice del premio
Nobel, come letterati ideali del regime, mentre Pirandello ebbe molta difficoltà a reperire i fondi
statali, che Mussolini spesso non voleva concedergli.
Appassionato di cinematografia, mentre assisteva a Cinecittà alle riprese di un film tratto dal suo
romanzo Il fu Mattia Pascal, nel novembre 1936 si ammalò di polmonite. Pirandello aveva 69 anni,
e aveva già subito due attacchi di cuore; il suo corpo, ormai segnato dal tempo e dagli avvenimenti
della vita, non sopportò oltre. Al medico che tentava di curarlo, disse: «Non abbia tanta paura delle
parole, professore, questo si chiama morire»; dopo 15 giorni, la malattia si aggravò e il 10 dicembre
1936 Pirandello morì, lasciando incompiuto l'ultimo lavoro teatrale, I giganti della montagna,
opera a sfondo mitologico. Il terzo atto venne ideato e illustrato al figlio Stefano nell'ultima notte di
vita, che lo scrisse poi sotto forma narrativa, tentandone anche una ricostruzione, onde integrare la
sceneggiatura del dramma che solitamente è però rappresentato nella forma incompiuta, in due atti.

LA POETICA.
L'umorismo.
Nel 1908 Pirandello scrive L'umorismo, un saggio dove confluiscono idee, brani di scritti e appunti
precedenti: ad esempio sue varie chiose e annotazioni a L'indole e il riso di Luigi Pulci di Attilio
Momigliano e parti dell'articolo Alberto Cantoni, che era apparso già nella «Nuova Antologia» del
16 marzo 1905. Pirandello distingue il comico dall'umoristico. Il primo, definito come

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"avvertimento del contrario", nasce dal contrasto tra l'apparenza e la realtà. Nel saggio Pirandello ce
ne fornisce un esempio:
«Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di qual orribile manteca, e poi
tutta goffamente imbellettata e parata d'abiti giovanili. Mi metto a ridere. "Avverto" che quella
vecchia signora è il contrario di ciò che una rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a
prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa espressione comica.
Il comico è appunto un "avvertimento del contrario"». (L. Pirandello, L'umorismo, Parte seconda)
L'umorismo, il "sentimento del contrario", invece nasce da una considerazione meno superficiale
della situazione:
«Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova
forse piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché
pietosamente, s'inganna che, parata così, nascondendo le rughe e le canizie, riesca a trattenere a sé
l'amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché
appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o
piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo
sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l'umoristico» (L.
Pirandello, L'umorismo, Parte seconda)
Quindi, mentre il comico genera quasi immediatamente la risata perché mostra subito la situazione
evidentemente contraria a quella che dovrebbe normalmente essere, l'umorismo nasce da una più
ponderata riflessione che genera una sorta di compassione da cui si origina un sorriso di
comprensione. Nell'umorismo c'è il senso di un comune sentimento della fragilità umana da cui
nasce un compatimento per le debolezze altrui che sono anche le proprie. L'umorismo è meno
spietato del comico che giudica in maniera immediata.

«non ci fermiamo alle apparenze, ciò che inizialmente ci faceva ridere adesso ci farà tutt'al più
sorridere.»

(Luigi Pirandello)
La poetica dell'Umorismo Pirandelliana, in realtà nasce già quando, nel 1904, pubblica le due
premesse de Il fu Mattia Pascal dove richiamandosi a Il
Copernico di Leopardi del 1827 nelle Operette morali riprende l'ironia letteraria di Leopardi che
attribuiva la scoperta copernicana dell'eliocentrismo alla pigrizia del Sole stanco di girare attorno ai
pianeti. Il richiamo a Copernico si ritrova poi nel saggio su L'umorismo (cap. 5 della seconda
parte), dove Pirandello vede una notazione umoristica nella contrapposizione di due sentimenti
opposti per i quali dopo la scoperta copernicana l'uomo scopre di essere una parte infinitesimale

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dell'universo e nello stesso tempo la sua capacità di compenetrarsene. L'analisi dell'identità condotta
da Pirandello lo portò a formulare la teoria della crisi dell'io.
Il male di vivere.
Tutta la sua produzione letteraria risente quindi di quel male di vivere, così caro agli autori di fine
800/primi 900. Egli era dentro alla crisi di un secolo (il 900) che aveva perduto molte certezze
scientifiche (crollo del positivismo) ed era dentro ad una profonda crisi nazionale (l' Italia stava
vivendo un difficile momento storico--->età giolittiana, questione meridionale, arretratezza del sud).
Oltre a questa crisi più “esterna” lo accompagna anche una crisi più intima, quella dell'uomo e dell'
intellettuale del 900---> un uomo che non sa più chi è, che non si riconosce nel mondo esterno e
deve trovare da solo le ragioni e la forza di affermarsi, vivere, esistere. (decadentismo).
La frantumazione dell'io.
Questa crisi genera quel relativismo da cui Pirandello trarrà grande ispirazione per le sue opere--->
l'uomo e le cose cambiano a seconda di chi le percepisce (dalla sua educazione, dalla provenienza
sociale, dall'istruzione, dall'età etc. etc). Quindi l'uomo non è uno solo, ma ha tante forme a seconda
di quanti lo percepiscono---> crediamo dunque di essere unici, ma invece siamo tanti (centomila) a
seconda di chi ci guarda e finiamo per essere “nessuno”. ---->frantumazione dell'io.
La maschera.
Paradossalmente, il solo modo per recuperare la propria identità è la follia, tema centrale in molte
opere, come l'Enrico IV o come Il berretto a sonagli, nel quale Pirandello inserisce addirittura una
ricetta per la pazzia: dire sempre la verità, la nuda, cruda e tagliente verità, infischiandosene dei
riguardi, delle maniere, delle ipocrisie e delle convenzioni sociali. Questo comportamento porterà
presto all'isolamento da parte della società e, agli occhi degli altri, alla pazzia.
Per relazionarsi con la società l'uomo-nessuno è costretto ad indossare una maschera (sia con se'
stesso sia con gli altri) che nasconde la sua vera personalità. L'unico modo per sfuggire a questa
finzione quotidiana è la follia.
Il ruolo della follia
La pazzia per Pirandello è liberarsi dalla maschera, toglierla dal volto o non accorgersi di portarla:
solo in questo modo l'uomo riuscirà a mostrarsi per quello che veramente è. La follia è lo strumento
di contestazione di una vita sociale sostanzialmente finta, fasulla; è l'arma che fa esplodere
convenzioni e rituali, riducendoli all'assurdo e rivelandone l'incoscienza e l'inconsistenza.
Abbandonando le convenzioni sociali e morali l'uomo può ascoltare la propria interiorità e vivere
nel mondo secondo le proprie leggi, cala la maschera e percepisce se stesso e gli altri senza dover
creare un personaggio, è semplicemente persona. Esemplare di tale concezione è l'evoluzione di
Vitangelo Moscarda, protagonista di Uno, nessuno e centomila.
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La "lanterninosofia".
Ancora sulla crisi dell'identità del singolo impotente con la sua razionalità di fronte al mistero
universale che lo circonda, Pirandello, all'inizio del XIII capitolo del romanzo Il fu Mattia Pascal,
espone metaforicamente la sua filosofia del "lanternino", tramite il monologo che il personaggio di
Anselmo Paleari rivolge al protagonista Mattia Pascal, in cui la piccola lampada rappresenta il
sentimento umano, che non riesce ad alimentarsi se non tramite le illusioni di fede e ideologie varie
("i lanternoni"), ma che altrimenti provoca l'angoscia del buio che lo circonda all'uomo, l'animale
che ha il triste privilegio di "sentirsi vivere". La sua sfiducia verso la fede religiosa tradizionale lo
porta ad accentuare così il proprio vuoto spirituale, che cercò di riempire, come il citato
personaggio del Paleari, con l'interesse personale verso l'occultismo, la teosofia e lo spiritismo, che
tuttavia non gli daranno la serenità esistenziale.
Il contrasto tra vita e forma.
Luigi Pirandello svolge una ricerca inesausta sull'identità della persona nei suoi aspetti più profondi,
dai quali dipende sia la concezione che ogni persona ha di sé, sia le relazioni che intrattiene con gli
altri. Influenzato dalla filosofia irrazionalistica di fine secolo, in particolare di Bergson, Pirandello
ritiene che l'universo sia in continuo divenire e che la vita sia dominata da una mobilità inesauribile
e infinita. L'uomo è in balia di questo flusso dominato dal caso, ma a differenza degli altri esseri
viventi tenta, inutilmente, di opporsi costruendo forme fisse, nelle quali potersi riconoscere, ma che
finiscono con il legarlo a maschere in cui non può mai riconoscersi o alle quali è costretto a
identificarsi per dare comunque un senso alla propria esistenza
Se l'essenza della vita è il flusso continuo, il perenne divenire, quindi fissare il flusso, equivale a
non vivere, poiché è impossibile fissare la vita in un unico punto. Questa dicotomia tra vita e forma,
accompagnerà l'autore in tutta la sua produzione evidenziando la sconfitta dell'uomo di fronte alla
società, dovuta all'impossibilità di fuggire alle convenzioni di quest'ultima se non con la follia. Solo
il "folle", che pure è una figura sofferente ed emarginata, riesce talvolta a liberarsi dalla maschera, e
in questo caso può avere un'esistenza autentica e vera, che resta impossibile agli altri in quanto non
è fattibile denudare la maschera o le maschere, la propria identità (Maschere nude è infatti il titolo
della raccolta delle sue opere teatrali).
Questa riflessione, che si rispecchia nelle varie opere con accenti ora lievi ora gravi e tragici, è stata,
ad opera dello studioso Adriano Tilgher, interpretata come un sistema filosofico basato sul contrasto
tra la Vita e la Forma, che talvolta ha fatto esprimere alla critica un giudizio negativo delle ultime
opere precedenti al "teatro dei miti", accusate a volte di "pirandellismo", cioè di riproporre sempre
lo stesso schema di lettura.
Il relativismo psicologico o conoscitivo.

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Dal contrasto tra la vita e la forma nasce il relativismo psicologico che si esprime in due sensi:
orizzontale, cioè nel rapporto interpersonale, e verticale, ovvero nel rapporto che una persona ha
con se stessa. Gli uomini nascono liberi ma il Caso interviene nella loro vita precludendo ogni loro
scelta: l'uomo nasce in una società precostituita dove ad ognuno viene assegnata una parte secondo
la quale deve comportarsi. Ciascuno è obbligato a seguire il ruolo e le regole che la società impone,
anche se l'io vorrebbe manifestarsi in modo diverso: solo per l'intervento del caso può accadere di
liberarsi di una forma per assumerne un'altra, dalla quale non sarà più possibile liberarsi per tornare
indietro, come accade al protagonista de Il fu Mattia Pascal.
L'uomo dunque non può capire né gli altri né tanto meno se stesso, poiché ognuno vive portando -
consapevolmente o, più spesso, inconsapevolmente - una maschera dietro la quale si agita una
moltitudine di personalità diverse e inconoscibili.
Queste riflessioni trovano la più esplicita manifestazione narrativa nel romanzo Uno, nessuno e
centomila:
• Uno perché ogni persona crede di essere un individuo unico con caratteristiche particolari;
• Centomila perché l'uomo ha, dietro la maschera, tante personalità quante sono le persone che ci
giudicano;
• Nessuno perché, paradossalmente, se l'uomo ha centomila personalità diverse, invero, è come
se non ne possedesse nessuna, nel continuo cambiare non è capace di fermarsi nel suo vero
"io".
L'incomunicabilità.
Il relativismo conoscitivo e psicologico su cui si basa il pensiero di Pirandello si scontra con il
conseguente problema dell'incomunicabilità tra gli uomini: poiché ogni persona ha un proprio
modo di vedere la realtà, non esiste un'unica realtà oggettiva, ma tante realtà quante sono le persone
che credono di possederla e dunque ognuno ha una propria "verità". Così l'incomunicabilità produce
un sentimento di solitudine ed esclusione dalla società e persino da se stessi, poiché proprio la crisi
e frammentazione dell'io interiore crea diversi io discordanti. Il nostro spirito consiste di frammenti
che ci fanno scoprire di essere "uno, nessuno, centomila".
I personaggi dei drammi pirandelliani, come il Vitangelo Moscarda del romanzo Uno, nessuno e
centomila e i protagonisti della commedia Sei personaggi in cerca di autore, di conseguenza
avvertono un sentimento di estraneità dalla vita che li fanno sentire «forestieri della vita»,
nonostante la continua ricerca di un senso dell'esistenza e di un'identificazione di un proprio ruolo,
che vada oltre la maschera, o le diverse e innumerevoli maschere, con cui si presentano al cospetto
della società o delle persone più vicine.

La reazione al relativismo.
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A tutto questo relativismo secondo Pirandello ci sarebbero solo tre tipi di reazione:
- Reazione passiva: L'uomo accetta la maschera, che lui stesso ha messo o con cui gli altri
tendono a identificarlo. Ha provato sommessamente a mostrarsi per quello che lui crede di
essere ma, incapace di ribellarsi o deluso dopo l'esperienza di vedersi attribuita una nuova
maschera, si rassegna. Vive nell'infelicità, con la coscienza della frattura tra la vita che
vorrebbe vivere e quella che gli altri gli fanno vivere per come essi lo vedono. Accetta alla fine
passivamente il ruolo da recitare che gli si attribuisce sulla scena dell'esistenza. Questa è la
reazione tipica delle persone più deboli come si può vedere nel romanzo Il fu Mattia Pascal.
- Reazione ironico – umoristica: Il soggetto non si rassegna alla sua maschera però accetta il
suo ruolo con un atteggiamento ironico, aggressivo o umoristico. Ne fanno esempio varie opere
di Pirandello come: Pensaci Giacomino, Il giuoco delle parti e La patente. Il personaggio
principale di quest'ultima opera, Rosario Chiàrchiaro, è un uomo cupo, vestito sempre in nero
che si è fatto involontariamente la nomea di iettatore e per questo è sfuggito da tutti ed è
rimasto senza lavoro. Il presunto iettatore non accetta l'identità che gli altri gli hanno attribuito,
ma comunque se ne serve. Va dal giudice e, poiché tutti sono convinti che sia un menagramo,
pretende la patente di iettatore autorizzato. In questo modo avrà un nuovo lavoro: chi vuole
evitare le disgrazie che promanano da lui, dovrà pagare per allontanarlo. La maschera rimane
ma almeno se ne ricava un vantaggio.

- Reazione drammatica: L'uomo, accortosi del relativismo, si renderà conto che l'immagine
che aveva sempre avuto di sé non corrisponde in realtà a quella che gli altri avevano di lui e
cercherà in ogni modo di carpire questo lato inaccessibile del suo io. Vuole togliersi
la maschera che gli è stata imposta e reagisce con disperazione. Non riesce a strapparsela e
allora se è così che lo vuole il mondo, egli sarà quello che gli altri credono di vedere in lui e non
si fermerà nel mantenere questo suo atteggiamento sino alle ultime e drammatiche conseguenze.
Si chiuderà in una solitudine disperata che lo porta al dramma, alla pazzia o al suicidio. Da tale
sforzo verso un obiettivo irraggiungibile nascerà la voluta follia. La follia è, infatti, in
Pirandello lo strumento di contestazione per eccellenza delle forme fasulle della vita sociale,
l'arma che fa esplodere convenzioni e rituali, riducendoli all'assurdo e rivelandone
l'inconsistenza. Solo e unico modo per vivere, per trovare il proprio io, è quello di accettare il
fatto di non avere un'identità, ma solo centomila frammenti (e quindi di non essere "uno" ma
"nessuno"), accettare l'alienazione completa da se stessi. Tuttavia la società non accetta il
relativismo, e chi lo fa viene ritenuto pazzo. Esemplari sono i personaggi dei drammi Enrico
IV, dei Sei personaggi in cerca d'autore, o di Uno, nessuno e centomila.

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LE OPERE DI LUIGI PIRANDELLO.
L’esordio narrativo: le novelle.
Le novelle costituiscono un genere letterario particolarmente caro a Pirandello.
Esse si diversificano tra loro: si passa dai moduli veristici delle prime raccolte allo psicologismo
amato, all’umorismo disincantato, alla presenza dell’inconscio fino al limite del surrealismo di
alcuni testi dell’ultimo periodo.
La struttura stilistica si modifica gradualmente e sempre più i personaggi tendono a “entrare in
scena”, facendosi personaggi teatrali, rappresentanti di un microcosmo paradossale, privo di
organicità e coerenza. L’ordine delle novelle nei volumi non è mai cronologico né tematico, proprio
perché deve riprodurre la casualità e caoticità del reale.
I protagonisti sono uomini e donne ”senza qualità”. Anche la loro rivolta è quasi sempre inutile, la
loro ricerca di significato impossibile: essi si aggirano in una sorta di labirinto, da cui solo la pazzia
o la diversità li può - almeno in parte - liberare. L’ampio margine concesso alla sperimentazione
stilistica di questo genere rispetto ad altri più collaudati, spiegano l’interesse dell’autore per la
novella.
Moltissime novelle furono utilizzate per la costruzione di testi teatrali, specialmente atti unici.
L’approdo al romanzo
L’approdo al romanzo è sollecitato da Luigi Capuana, che invoglia Pirandello a scrivere. Nel 1901
pubblica “L’Esclusa”. Racconta la vicenda paradossale di una donna, Marta Ajala, cacciata di casa
perché accusata ingiustamente di tradimento, che dopo varie peripezie è riaccolta, proprio quando
ha commesso effettivamente l’adulterio.
In questo romanzo Pirandello anticipa la riflessione sulla crisi d’identità, ma la storia scaturisce
paradossalmente da un fatto inesistente, il tradimento che tuttavia finisce per produrre conseguenze
reali; un’innocente, scacciata dalla società - per esservi riammessa - deve prima passare sotto le
forche dell’infamia, commettere cioè davvero quella colpa di cui ingiustamente era stata accusata.
1903 Il secondo romanzo è “Il turno”; il titolo allude all’attesa cui è costretto il protagonista prima
di poter sposare la donna amata, che il padre spinge a un matrimonio d’interesse con una ricca
ultrasettantenne. Il dominio del dialogo è d’impianto già teatrale.
1904 Il terzo romanzo sarà “Il fu Mattia Pascal” primo grande successo. Il libro fu pubblicato
nel 1904 e subito tradotto in diverse lingue. La critica non diede subito al romanzo il successo che
invece ebbe tra il pubblico.
1910 -1926 Uno, nessuno e centomila.
L’ultimo romanzo di Pirandello è in gestazione già dal 1910, ma la sua stesura si prolunga per
quasi undici anni, fino alla stampa nel 1925-26 con il titolo definitivo di “Uno, nessuno e

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centomila”.
La vicenda è imperniata sulle disavventure di Vitangelo Moscarda, detto dalla moglie Gengè, che
scopre, grazie a una casuale battuta, di avere un naso diverso da come se l’era immaginato. Nasce
da tale banalissima constatazione una lunga indagine che il protagonista attua per scoprire la
propria immagine negli amici e conoscenti: e deve rendersi conto che ognuno lo valuta e lo
considera in maniera differente da ogni altro, che lo si vede in “centomila” forme diverse,
“nessuna” delle quali, a suo parere, vera. Per sfatare quelli che egli ritiene puri pregiudizi,
Vitangelo comincia allora a compiere stravaganze fino a essere ritenuto pazzo. E dopo essere stato
assolto in un processo intentatogli, decide di allontanarsi dalla società, ritirandosi in un ospizio di
mendicità che lui stesso aveva fatto costruire, soddisfatto di questo epilogo che “non conclude”,
pronto a rinascere “nuovo e senza ricordi”, come afferma nella conclusione del romanzo.
L’alienazione di Mostarda consiste nell’impossibilità di calarsi in ruoli che egli stesso non conosce
cosicché egli giungerà a ricusare la propria immagine e solo distruggendo il proprio passato e
l’immagine di sé presente negli altri, può recuperare la “via della salute”, fuori dagli schemi e dagli
obblighi nella società.
In un’intervista del 1922 Pirandello dichiarava a proposito di questo testo: “È il romanzo della
scomposizione della personalità”.

IL TEATRO PIRANDELLIANO.

Pirandello divenne famoso proprio grazie al teatro che chiama teatro dello specchio, perché in esso
viene raffigurata la vita vera, quella nuda, amara, senza la maschera dell'ipocrisia e delle
convenienze sociali, di modo che lo spettatore si guardi come in uno specchio così come realmente
è, e diventi migliore.
Nel 1907 pubblica l'importante saggio Illustratori, attori, traduttori dove esprime le sue idee,
ancora negative, sull'esecuzione del lavoro dell'attore nel lavoro teatrale: questi è infatti visto come
un mero traduttore dell'idea drammaturgica dell'autore, il quale trova dunque un filtro al messaggio
che intende comunicare al pubblico. Il teatro viene poi definito da Pirandello come un'arte
"impossibile", perché "patisce le condizioni del suo specifico anfibio": un tradimento della scrittura
teatrale, che ha di contro "il cattivo regime dei mezzi rappresentativi, appartenenti alla dimensione
adultera dell'eco". È in questo momento che Pirandello si distacca dalla lezione positivista e, presa
diretta coscienza dell'impossibilità della rappresentazione scenica del "vero" oggettivo, ricerca nella
produzione drammaturgica di scavare l'essenza delle cose per scoprire una verità altra (come è
spiegato nel saggio L'Umorismo con il sentimento del contrario).

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Il 6 ottobre 1924 fondò la compagnia del Teatro d'Arte di Roma con sede al Teatro Odescalchi con
la collaborazione di altri artisti: il figlio Stefano Pirandello, Orio Vergani, Claudio
Argentieri, Antonio Beltramelli, Giovani Cavicchioli, Maria Letizia Celli, Pasquale
Cantarella, Lamberto Picasso, Renzo Rendi, Massimo Bontempelli e Giuseppe Prezzolini: tra gli
attori più importanti della compagnia figurano Marta Abba, Lamberto Picasso, Maria Letizia
Celli, Ruggero Ruggeri. La compagnia, il cui primo allestimento risale al 2 aprile 1925 con Sagra
del signore della nave dello stesso Pirandello e Gli dei della montagna di Lord Dunsany, ebbe però
vita breve: i gravosi costi degli allestimenti, che non riuscivano ad essere coperti dagli introiti del
teatro semivuoto costrinsero il gruppo, dopo solo due mesi dalla nascita, a rinunciare alla sede del
Teatro Odescalchi. Per risparmiare sugli allestimenti la compagnia si produsse prima in
numerose tournée estere, poi fu costretta allo scioglimento definitivo, avvenuto
a Viareggio nell'agosto del 1928.
La critica lo ha definito come uno dei grandi drammaturghi del XX secolo. Scriverà moltissime
opere, alcune delle quali rielaborazioni delle sue stesse novelle, che sono divise in base alla fase di
maturazione dell'autore in:
• Prima fase - Il teatro siciliano
Nella fase del Teatro Siciliano Pirandello è alle prime armi e ha ancora molto da imparare.
Anch'essa come le altre presenta varie caratteristiche di rilievo; alcuni testi sono stati scritti
interamente in lingua siciliana perché considerata dall'autore più viva dell'italiano e capace di
esprimere maggiore aderenza alla realtà.
- La morsa e Lumìe di Sicilia Roma, Teatro Metastasio, 9 dicembre 1910;
- Il dovere del medico, Roma, Sala Umberto, 20 giugno 1913;
- La ragione degli altri, Milano, Teatro Manzoni, 19 aprile 1915;
- Cecè, Roma, Teatro Orfeo, 14 dicembre 1915;
- Pensaci Giacomino, Roma, Teatro Nazionale, 10 luglio 1916;
- Liolà, Roma, Teatro Argentina, 4 novembre 1916;

• Seconda fase - Il teatro umoristico/grottesco


Man mano che l'autore si distacca da verismo e naturalismo, avvicinandosi al decadentismo si ha
l'inizio della seconda fase con il teatro umoristico. Pirandello presenta personaggi che incrinano le
certezze del mondo borghese: introducendo la versione relativistica della realtà, rovesciando i
modelli consueti di comportamento, intende esprimere la dimensione autentica della vita di là della
maschera. A questo periodo appartengono:
- Così è (se vi pare), Milano, Teatro Olimpia, 18 giugno 1917;

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- Il berretto a sonagli, Roma, Teatro Nazionale, 27 giugno 1917;
- La giara, Roma, Teatro Nazionale, 9 luglio 1917;
- Il piacere dell'onestà, Torino, Teatro Carignano, 27 novembre 1917;
- La patente, Torino, Teatro Alfieri, 23 marzo 1918
- Ma non è una cosa seria, Livorno, Teatro Rossini, 22 novembre 1918;
- Il giuoco delle parti, Roma, Teatro Quirino, 6 dicembre 1918;
- L'innesto, Milano, Teatro Manzoni, 29 gennaio 1919;
- L'uomo, la bestia e la virtù, Milano, Teatro Olimpia, 2 maggio 1919;
- Tutto per bene, Roma, Teatro Quirino, 2 marzo 1920;
- Come prima, meglio di prima, Venezia, Teatro Goldoni, 24 marzo 1920;
- La signora Morli, una e due, Roma, Teatro Argentina, 12 novembre 1920.

• Terza fase - Il teatro nel teatro (metateatro)


Nella fase del teatro nel teatro o metateatro le cose cambiano radicalmente, per Pirandello il teatro
deve parlare anche agli occhi non solo alle orecchie, a tal scopo ripristinerà una tecnica teatrale
di Shakespeare, il palcoscenico multiplo, in cui vi può per esempio essere una casa divisa in cui si
vedono varie scene fatte in varie stanze contemporaneamente; inoltre il teatro nel teatro fa sì che si
assista al mondo che si trasforma sul palcoscenico.
Pirandello abolisce anche il concetto della quarta parete, cioè la parete trasparente che sta tra attori e
pubblico: in questa fase, infatti, Pirandello tende a coinvolgere il pubblico che non è più passivo ma
che rispecchia la propria vita in quella agita dagli attori sulla scena.
In questo periodo Pirandello ebbe un decisivo incontro con un grande autore teatrale italiano
del XX secolo: Eduardo De Filippo. Conseguenza, oltre alla nascita di un'amicizia che durò tre
anni, fu che l'autore napoletano sentì, come accadde in passato per quello siciliano, il bisogno di
allontanarsi dal "regionalismo" dell'arte verista pur conservandone però le tradizioni e le influenze.
È il periodo delle seguenti opere teatrali:
- Sei personaggi in cerca d'autore, Roma, Teatro Valle, 10 maggio 1921;
- Enrico IV, Milano, Teatro Manzoni, 24 febbraio 1922;
- All'uscita, Roma, Teatro Argentina, 29 settembre 1922;
- L'imbecille, Roma, Teatro Quirino, 10 ottobre 1922;
- Vestire gli ignudi, Roma, Teatro Quirino, 14 novembre 1922;
- L'uomo dal fiore in bocca, Roma, Teatro degli Indipendenti, 21 febbraio 1923;
- La vita che ti diedi, Roma, Teatro Quirino, 12 ottobre 1923;
- L'altro figlio, Roma, Teatro Nazionale, 23 novembre 1923;

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- Ciascuno a suo modo, Milano, Teatro dei Filodrammatici, 22 maggio 1924;
- Sagra del signore della nave, Roma, Teatro Odescalchi, 4 aprile 1925;
- Diana e la Tuda, Milano, Teatro Eden, 14 gennaio 1927;
- L'amica delle mogli, Roma, Teatro Argentina, 28 aprile 1927;
- Bellavita, Milano, Teatro Eden, 27 maggio 1927;
- O di uno o di nessuno, Torino, Teatro di Torino, 4 novembre 1929;
- Come tu mi vuoi, Milano, Teatro dei Filodrammatici; 18 febbraio 1930;
- Questa sera si recita a soggetto, Torino, Teatro di Torino, 14 aprile 1930;
- Trovarsi, Napoli, Teatro dei Fiorentini, 4 novembre 1932;
- Quando si è qualcuno, Buenos Aires, Teatro Odeon, 20 settembre 1933 (in spagnolo);
- La favola del figlio cambiato, Roma, Teatro Reale dell'Opera, 24 marzo 1934;
- Non si sa come, Roma, Teatro Argentina, 13 dicembre 1935;
- Sogno, ma forse no, Lisbona, Teatro Nacional, 22 settembre 1931.

• Quarta fase - Il teatro dei miti


A questa fase si assegnano solo tre opere della produzione pirandelliana.
- La nuova colonia
- Lazzaro
- I giganti della montagna
LE NOVELLE.
Le novelle erano considerate le opere più durature, ma i critici moderni hanno cambiato tale
opinione ritenendo le opere teatrali sono più degne di essere ricordate. Fare distinzione tra i
contenuti delle novelle (o i romanzi) e le opere teatrali è difficile, in quanto molte novelle sono state
messe in opera a teatro ad esempio: Ciascuno a suo modo deriva dalla novella Si gira...; Liolà ha il
tema preso da un capitolo de Il fu Mattia Pascal; La nuova colonia viene già presentata in Suo
marito.
Analizzando le novelle possiamo renderci conto che ciò che manca veramente è una delineazione
tematica, una cornice, infatti sono presenti un crogiolo di personaggi ed eventi.
Il tempo in cui le novelle sono ambientate non è definito, infatti, alcune si svolgono nell'epoca
umbertina, poi giolittiana e del dopo-Giolitti; diversamente accade nelle novelle
cosiddette siciliane, nelle quali il tempo non è fissato, ma è un tempo antico, di una società che non
vuole cambiare e che è rimasta ferma.

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I paesaggi delle novelle sono vari; per quelle dette siciliane si ha spesso il tipico paesaggio rurale,
anche se in alcune troviamo il tema sociale del contrasto tra le generazioni dovuto all'Unità d'Italia.
Altro ambiente delle novelle pirandelliane è la Roma umbertina o giolittiana.
I protagonisti sono sempre alla presa con il male di vivere, con il caso e con la morte [70]. Non
troviamo mai rappresentanti dell'alta borghesia, ma quelli che potrebbero essere i vicini della porta
accanto: sarte, balie, professori, piccoli proprietari di negozi che hanno una vita sconvolta dalla
sorte e da drammi familiari.
I personaggi sono presentati così come appaiono, è difficile trovare un'approfondita analisi
psicologica. Le fisionomie sono spesso eccentriche, per il sentimento del contrario, hanno un
carattere opposto a come si presentano.
I personaggi parlano e ragionano nel presentarsi per come essi sentono di essere, ma alla fine
saranno sempre preda del caso, che li farà apparire diversi e cambiati.
Novelle per un anno.
Pirandello è uno dei più grandi scrittori di novelle, raccolte dapprima nell'opera Amori senza amore.
In seguito l'autore si dedicò maggiormente per tutta la sua vita, cercando di completarla, alla
raccolta Novelle per un anno, così intitolata perché il suo intento era quello di scrivere 365 novelle,
una per ogni giorno dell'anno. Arriverà a 241 nel 1922, solo postume ne usciranno ancora 15.
- Novelle per un anno, Firenze, Bemporad, 1922-1928; Milano, Mondadori, 1934-1937.
I, Scialle nero, Firenze, Bemporad, 1922.
II, La vita nuda, Firenze, Bemporad, 1922.
III, La rallegrata, Firenze, Bemporad, 1922.
IV, L'uomo solo, Firenze, Bemporad, 1922.
V, La mosca, Firenze, Bemporad, 1923.
VI, In silenzio, Firenze, Bemporad, 1923.
VII, Tutt'e tre, Firenze, Bemporad, 1924.
VIII, Dal naso al cielo, Firenze, Bemporad, 1925.
IX, Donna Mimma, Firenze, Bemporad, 1925.
X, Il vecchio Dio, Firenze, Bemporad, 1926.
XI, La giara, Firenze, Bemporad, 1927.
XII, Il viaggio, Firenze, Bemporad, 1928.
XIII, Candelora, Firenze, Bemporad, 1928.
XIV, Berecche e la guerra, Milano, Mondadori, 1934.
XV, Una giornata, Milano, Mondadori, 1937.
Novelle scartate da Novelle per un anno verranno raccolte in Testi estravaganti.

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LA POESIA PIRANDELLIANA.
Dal 1883 al 1912 si svolge la produzione letteraria di Pirandello meno conosciuta dal grande
pubblico, quella delle poesie che, contrariamente alla composizione teatrale, non esprimono alcun
tentativo di rinnovamento sperimentale estetico, e seguono piuttosto le forme e i metri tradizionali
della lirica classica, pur non rimandando a nessuna delle correnti letterarie presenti al tempo dello
scrittore.
Nell'antologia poetica Mal giocondo, pubblicata a Palermo nel 1889, ma la cui prima lirica risale
al 1880, quando Pirandello aveva appena tredici anni, emerge uno dei temi dell'ultima estetica
pirandelliana del contrasto tra la serena classicità del mito e l'ipocrisia e la immoralità sociale della
contemporaneità. Sono presenti, come nota lo stesso Pirandello, anche toni umoristici, specie quelli
derivati dal suo soggiorno a Roma.
Le raccolte di poesie sono:
- Mal giocondo, Palermo, Libreria Internazionale Pedone Lauriel, 1889.
- Pasqua di Gea, Milano, Libreria editrice Galli, 1891 (dedicata a Jenny Schulz-Lander, di cui si
innamorò a Bonn, con una chiara influenza della poesia di Carducci).
- Pier Gudrò, 1809-1892, Roma, Voghera, 1894.
- Elegie renane, 1889-90, Roma, Unione Cooperativa Editrice, 1895 (il cui modello sono
le Elegie romane di Goethe);
- Elegie romane, traduzione di Johann Wolfgang von Goethe, Livorno, Giusti, 1896.
- Zampogna, Roma, Società Editrice Dante Alighieri, 1901.
- Scamandro, Roma, Tipografia Roma, 1909.
- Fuori di chiave, Genova, Formiggini, 1912.

53
Analisi del romanzo “Il fu Mattia Pascal”– Luigi Pirandello.

Narratore.
Il narratore della vicenda è lo stesso Pascal, che in prima persona ricorda le vicende passate e in
terza persona descrive le ambientazioni e i personaggi (si dice che il narratore è omodiegetico). Il
tipo di focalizzazione è interna e si qualifica come “fu” in quanto figura che riesuma la propria
vicenda di “morto in vita” privo di identità e ruolo sociale in seguito ad una circostanza fortuita
ed imprevista.
Fabula e intreccio.
Fabula e intreccio non coincidono. Infatti il libro scritto da Luigi Pirandello è costituito da due
cornici: la prima, che corrisponde all’inizio e alla fine della storia, si svolge nella biblioteca; la
seconda, invece, è una lunga analessi e corrisponde agli eventi principali del romanzo.
Luogo.
I due luoghi principali dove si svolge la vicenda sono Miragno, suo paese natale, e Roma, dove
risiede presso la famiglia Paleari. Durante la narrazione Mattia compie molti viaggi visitando sia
città estere che italiane, come Milano, Torino, Pisa e Nizza
Tempo.
Pirandello ne Il fu mattia Pascal non riferisce precisi elementi che riescano a determinare l’anno
preciso dell’ambientazione dell’opera, ma, grazie alle informazioni che dà di Roma, ormai diventata
capitale del Regno d’Italia, si sa che si svolge tra il 1870 e l’inizio del Novecento. Si può dedurre
anche dal fatto che ci sono i treni e l’elettricità e il Ponte Umberto I a Roma. Viene anche
specificato da Anselmo Paleari che durante la permanenza a Roma di Adriano Meis il papa è Leone
XIII. La storia narrata dura sicuramente più di 2 anni (due anni e mesi, Cap. XVIII), che sono quelli
trascorsi da Mattia Pascal-Adriano Meis girovagando per l’Italia e l’Europa.
Trama: Il fu Mattia Pascal.
È il romanzo della consacrazione letteraria per Pirandello giunge a inizio secolo (1904), ed è il terzo
romanzo dopo “L’Esclusa” e “Il turno”.

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Scritto in uno dei periodi più tormentati della vita di Pirandello (tra pesanti preoccupazioni
economiche e l’aggravarsi dei problemi psichici della moglie), il romanzo fu pubblicato a puntate
sulla “Nuova Antologia” nel 1904 e immediatamente dopo in volume per la stessa rivista. Fu riedito
nel 1910 e nel 1918 presso Treves con puntualizzazioni che giovano a una maggior aderenza alla
poetica.
Il romanzo narra la vicenda di un uomo che, oppresso da una situazione familiare insostenibile,
approfitta di un’inattesa vincita a Montecarlo e del ritrovamento di un suicida erroneamente
identificato come Mattia Pascal stesso, per cambiare nome e vita.
A Roma egli diventa Adriano Meis, si accorgerà ben presto dell’impossibilità di esistere al di fuori
di ogni norma e legge.
Deciso quindi a ritornare a Miragno, il paese natale, inscena un nuovo finto suicidio: ma
presentandosi alla moglie e ai compaesani scopre di essere ormai totalmente emarginato.
Per sopravvivere deve adattarsi a essere unicamente il fu Mattia Pascal.
I diciotto capitoli con brevi titoli possono scandirsi in tre blocchi narrativi:
- i capitoli 1-5, dove prevale la descrizione comico-satirica della “prima vita” di Mattia
Pascal;
- i capitoli 6-16, quelli della “prima morte”, dell’evasione fantastica di Mattia, che si trasforma
in Adriano Meis;
- i capitoli 17-18, dove avviene la “reincarnazione” del fu Mattia Pascal.
Con questo romanzo Pirandello chiude definitivamente i conti con naturalismo e verismo.
L’ironia tagliente di Pirandello alla fine porta all’impossibilità di analizzare e riprodurre la realtà in
maniera oggettiva.
Mattia Pascal, eroe sdoppiato (anzi triplicato), scrive un’autobiografia, narra la propria vita dal
momento successivo alla sua perdita d’identità. La novità principale del romanzo risiede nello
smontaggio della dimensione cronologica che porta a un cortocircuito fra il tempo “oggettivo” della
storia e quello “soggettivo” del personaggio. Il presente stesso sfugge, poiché non può essere
vissuto pienamente da un uomo privo d’identità. Il dramma di Adriano Meis è proprio quello di
essere cosciente di esistere ma di non poter assolutamente condurre una vita normale in quanto
inesistente per l’anagrafe.
La vera novità tematica del romanzo consiste però nella poetica dell’umorismo che Pirandello
teorizzerà quattro anni dopo nel saggio omonimo che non a caso porterà la dedica “Alla
buon’anima di Mattia Pascal bibliotecario”.

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Analisi in sintesi di alcune opere teatrali:
Sei personaggi in cerca d’autore
Rappresentato per la prima volta al teatro Valle di Roma è un clamoroso fiasco; ma nella replica al
teatro Manzoni di Milano viene subito riconosciuto come un capolavoro e ben presto messo in
scena in tutta Europa.
Il testo confluì nel primo volume della terza raccolta di Maschere nude, insieme con Ciascuno a
suo modo e Questa sera si recita a soggetto.
La vicenda dei Sei personaggi in cerca d’autore ruota sull’apparizione dei “personaggi”:
• il Padre,
• la Madre,
• il Figlio,
• la Figliastra,
• il Ragazzo,
• la Bambina
che mettono in scena il proprio dramma a scapito degli attori e contro la volontà dello stesso autore.
Al centro sta l’apparizione di madama Pace tra il Padre, la Figliastra e la Madre: “momento eterno”
nel quale l’opera d’arte cerca di sfuggire alla sua consunzione e “vive sempre”.

In Ciascuno a suo modo tale eternità della forma artistica è continuamente messa in crisi
dall’irrompere della realtà esterna al teatro, che di fatto impedisce la rappresentazione.

In Questa sera si recita a soggetto lo scontro si svolge principalmente tra l’autore (assente e
contestato) e il regista, che vuol far prevalere la creazione scenica sul testo, fino a proclamare
l’inconoscibilità di quest’ultimo.

Si capovolge allora il rapporto: non ci sono più, come nei Sei personaggi, dei personaggi che

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vogliono vivere sulla scena prescindendo dagli attori, ma degli attori che si immedesimano a tal
punto nell’opera di creazione artistica da divenire personaggi.

Bibliografia e sitografia:

“Dal testo alla storia, dalla storia al testo”, G. Baldi, S. Giusso, M. Razzetti, G. Zaccaria, Paravia,
1999.
http://www.parafrasando.it/BIOGRAFIE/Pirandello_Luigi.html
https://it.wikipedia.org/wiki/Luigi_Pirandello

Maria Irene Compagnino


NON ACCONSENTO ALLA PUBBLICAZIONE.

ITALO SVEVO

1. Il contesto culturale

Negli ultimi anni dell'Ottocento erano apparsi i primi due romanzi di un autore che, sotto lo
pseudonimo di Italo Svevo, nascondeva la persona dell'ebreo triestino Hector (o Ettore) Schmitz:
due romanzi che allora erano stati quasi completamente ignorati e che dovevano essere riscoperti
solo dopo che, nel corso degli anni Venti, alcuni attenti lettori avvertirono il fascino e la modernità
del nuovo romanzo di Svevo, La coscienza di Zeno.
Le esperienze narrate da queste due opere erano nate in un ambiente culturale particolare: la Trieste
del tardo Ottocento, appartenente ancora all'Impero austriaco, priva di una sua tradizione culturale,
ma vivacizzata da una attivissima borghesia imprenditoriale e dall'intreccio di popoli, di lingue e di
culture diverse. Più che identificarsi con le tendenze e con i problemi della contemporanea cultura
italiana, Trieste partecipava a pieno titolo a quella cultura che suole definirsi mitteleuropea, una
cultura cosmopolita e problematica che ebbe una straordinaria fioritura proprio nell'ultimo periodo
di vita dell'Impero asburgico. Oltre che dalla situazione triestina, la peculiarità della posizione di
Svevo è data dalla sua origine ebraica e dalla sua condizione di intellettuale non professionista,
diviso tra la passione per la letteratura e una vita borghese «normale», che lo portò ad ottenere la

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posizione di uomo d’affari: a differenza della maggior parte degli intellettuali italiani del tempo,
egli non partecipa alle istituzioni culturali e letterarie, non è né un professore, né un letterato di
mestiere, conduce un’attiva vita borghese, all’interno della quale la letteratura si pone
essenzialmente come spazio di ricerca, esercizio di analisi su di sé.
Vita borghese e letteratura sono in lui intrecciate e nello stesso tempo separate: la letteratura è per
lui come una zona d' ombra e di inquietudine, la faccia nascosta dell'apparente equilibrio borghese,
e nella scelta di firmarsi con lo pseudonimo di Italo Svevo (che allude proprio alla sua posizione
intermedia tra mondo italiano, Italo, e mondo germanico, Svevo) possiamo leggere tutta la
contraddittoria distanza che separa lo scrittore dalla persona reale, Ettore Schmitz.

2. La vita di Ettore Schmitz

Egli nacque a Trieste il 19 dicembre 1861 in una famiglia ebrea per metà austro-ungarica e per metà
italiana. Visse una serena infanzia borghese all’interno di una famiglia agiata e numerosa, nutrendo
un grande amore per la madre. Il padre, uomo d’affari, gli fece intraprendere studi rivolti verso una
carriera commerciale e lo fece educare, insieme ai suoi fratello Adolfo ed Elio, in un collegio
tedesco in Baviera. Fu proprio lì che Ettore si avvicinò alla letteratura.
Tornato a Trieste si iscrisse all'Istituto superiore commerciale Revoltella, e molto presto cominciò a
interessarsi di problemi culturali e letterari, partecipando alla vita intellettuale triestina.
Nel 1880 iniziò una collaborazione che durò fino al 1890 al giornale triestino «L'Indipendente», con
numerosi articoli soprattutto letterari e teatrali.
Dopo varie ricerche di impiego era intanto stato assunto, nel settembre del 1880, presso la filiale
triestina della banca Union di Vienna come corrispondente per il tedesco e per il francese, ma, nelle
sue giornate, trovava modo di frequentare quasi regolarmente la Biblioteca Civica di Trieste.
Tra le sue numerose letture, una posizione di primo piano occupavano i grandi narratori francesi
dell'Ottocento: fortissimo era il suo interesse per la filosofia di Schopenhauer.
Si accostava intanto anche alla narrativa, scrivendo le prime novelle e il romanzo Una vita, iniziato
nell'88 e apparso, sotto la firma di Italo Svevo, nel '92, l'anno della morte del padre.

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Agli anni intorno al '92 risale anche il rapporto con una bella ragazza di estrazione popolare,
Giuseppina Zergol (che poi doveva divenire cavallerizza in un circo), di cui rimane una traccia nel
personaggio di Angiolina nel successivo romanzo Senilità, pubblicato nel '98.
Ettore Schmitz continuava intanto la sua vita di impiegato di banca, assumendo anche incarichi
ufficiali nell'ambiente borghese triestino, come la direzione dell'Unione Ginnastica, tenuta nel '92 e
nel '93; per il giornale «Il Piccolo» compiva lo spoglio della stampa estera; nel '93, presso lo stesso
Istituto Revoltella in cui aveva studiato, iniziava l'insegnamento (che avrebbe lasciato solo nel
1901) della corrispondenza tedesca.
Nel dicembre 1895 si fidanzò con Livia Veneziani, figlia di un industriale cattolico, che dirigeva
una fiorente fabbrica di vernici sottomarine: il Diario per la fidanzata, redatto nel ’96, mostra una
passione amorosa che si intreccia a una “distanza” della donna, legata a sani principi borghesi,
familiari, religiosi, dal mondo intellettuale dello scrittore.
Il matrimonio con Livia avvenne nel luglio del ’96 con rito civile e solo nell’agosto del ’97 con rito
religioso; nel settembre ’97 nacque l’unica figlia, Letizia. La nuova famiglia abitava in un
appartamento della grande villa Veneziani, li dove il mondo intellettuale dello scrittore doveva
confrontarsi con la solida vita patriarcale e borghese della famiglia della moglie, che chiedeva al
genero una più concreta produttività economica: in questa nuova situazione, anche in seguito al
totale insuccesso di Senilità, egli fu costretto a trasformarsi, come aveva voluto il padre, in uomo
d’affari.
Nel 1899 lasciò la banca ed entrò direttamente nella ditta del suocero, impegnandosi attivamente e
sospendendo quasi totalmente la sua attività letteraria. Continuò tuttavia a elaborare sparsi progetti,
a lavorare saltuariamente ai suoi testi teatrali e soprattutto a scrivere note e appunti di vario tipo,
nell'intento di capire meglio il proprio «essere», di trovare un punto di equilibrio nella propria vita,
data la sua abitudine «di non saper pensare che con la penna in mano» (a questo si aggiungeva
anche la grande passione per il violino).
Nella nuova veste di uomo d'affari, Ettore Schmitz compie lunghi viaggi in Francia e in Inghilterra,
senza però rinunciare alle sue curiosità culturali, e sviluppando interessi di tipo scientifico,
modernissimi e originali rispetto al ristretto orizzonte della cultura italiana del tempo, segno di una
notevole apertura agli stimoli provenienti dal resto d'Europa.
Nel 1905 avviene l'incontro con James Joyce che, come insegnante della Berlitz School di Trieste,
gli dà lezioni di inglese, lingua di cui ha bisogno per i suoi frequenti viaggi d'affari in Inghilterra:
l'amicizia con lo scrittore irlandese e la curiosità da questi manifestata per le sue opere mantengono
viva la sua passione letteraria.

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Intorno al 1911 egli viene a conoscenza delle teorie di Freud e della psicoanalisi, anche in seguito al
fatto che il cognato Bruno Veneziani aveva appena terminato a Vienna una cura psicoanalitica con
lo stesso Freud.
Dopo un viaggio d'affari in Germania, nell'estate del 1914, lo scoppio della guerra mondiale trova
Svevo con la moglie a Trieste, mentre tutti i suoi parenti sono passati in Italia o in Svizzera (la figlia
Letizia, in particolare, trascorre questo periodo a Firenze): la guerra riduce l'attività della fabbrica
Veneziani, requisita dalle autorità austriache.
Dopo la forzata inattività di quegli anni, nella Trieste ormai italiana del dopoguerra, Svevo
collabora con vari articoli, anche di costume, al nuovo quotidiano triestino «La Nazione», e
riprende, anche se in modo attenuato, la sua attività di industriale.
Ma a partire dal '19 torna con grande impegno alla letteratura, lavorando al nuovo romanzo La
coscienza di Zeno, pubblicato nel '23.
Dopo il disinteresse iniziale manifestatosi in Italia per questo romanzo, fu l'amico Joyce ad aprire la
strada a un riconoscimento del suo valore da parte di vari critici francesi, mentre in Italia la sua
grandezza veniva affermata dal giovane Eugenio Montale, con cui strinse una grande amicizia.
La valutazione positiva del nuovo romanzo riaccendeva intanto l'attenzione della critica nei
confronti dei due precedenti, mentre Svevo si interrogava sul senso di tutta la sua esperienza e dava
avvio a una nuova, ricca attività letteraria, scrivendo racconti e frammenti di vario tipo, nuovi testi
teatrali e materiali in vista di un quarto romanzo rimasto incompiuto.
Numerosi furono ancora i suoi viaggi, non più legati soltanto agli affari, ma alla letteratura e alla
promozione della sua opera, da lui seguita ora con ansia esigente.
Un momento risolutivo per l'affermazione della sua opera fu costituito dalla pubblicazione del
fascicolo a lui dedicato dalla rivista parigina «Le Navire d'argent», nel febbraio 1926.
Dopo aver ottenuto i suoi riconoscimenti, ormai in condizioni di salute malferma ebbe un incidente
d'auto seguito da un collasso che il 13 settembre 1928 lo portò alla morte nell'ospedale di Motta di
Livenza.

LE OPERE

1. Una Vita

Il primo romanzo di Svevo, il cui titolo originario era Un inetto, venne pubblicato nel 1892 (ma con
data 1893), a spese dell'autore, dall'editore triestino Vram, col titolo Una vita.

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Al centro della narrazione in terza persona c'è un intellettuale fallito, Alfonso Nitti, venuto dalla
campagna nella città di Trieste.
Egli vive presso un affittacamere e lavora come corrispondente per la banca Maller: la situazione e
il personaggio hanno numerosi precedenti nella narrativa ottocentesca e si appoggiano anche su
motivi autobiografici.
La rappresentazione, legata ai modelli realistici e naturalistici, tende a concentrarsi tutta sul punto di
vista del personaggio protagonista che, preso dai suoi vaghi sogni intellettuali, non riesce mai a
impadronirsi delle circostanze, ma viene sempre trascinato in situazioni rispetto a cui .si sente
estraneo o assente.
In lui si dà, come poi in modo diverso negli altri «eroi» di Svevo, «uno scompenso tra
l'orientamento che l'individuo dà alla propria vita, e la curva che la vita descrive»; tutto il suo
muoversi sembra il risultato di un «errore di calcolo».
Nella sua condizione di subalterno, date le sue qualità intellettuali, egli viene ammesso a
frequentare la casa borghese del signor Maller, il direttore della banca, e si trova, quasi senza
rendersene conto, a possedere Annetta, la giovane figlia piena di vaghi desideri di fuga e di velleità
intellettuali, che progetta di scrivere un romanzo a quattro mani insieme con lui.
Proprio quando sembra porsi il problema di superare gli ostacoli sociali che si opporrebbero a un
matrimonio con Annetta, Alfonso si trova quasi insensibilmente a rinunciare a questa possibilità di
scalata sociale: si mette alla ricerca delle proprie origini e ritorna al paese natale, dove assiste alla
morte della madre, si ammala e finisce per vendere ogni bene familiare.
Tornato a Trieste riprende la vita di impiegato, più umiliato ed emarginato del solito, e dopo un
dissidio col signor Maller dà le dimissioni dalla banca e invia ad Annetta una lettera, che viene vista
dalla sua famiglia come un tentativo di ricatto. Sfidato a duello dal fratello di Annetta, egli rinuncia
definitivamente alla lotta suicidandosi, ma anche nel suicidio non c’è nulla di eroico, c’è solo la
conferma della sua condizione di inferiorità rispetto alla logica che governa il mondo reale.
Nella vicenda di Alfonso Nitti il confronto con il mondo borghese, con la sua solida concretezza,
svuota di ogni valore il personaggio intellettuale, che aveva avuto molteplici incarnazioni nella
narrativa ottocentesca e che trovava ancora recenti esempi nella narrativa italiana, dal Corrado Silla
di Fogazzaro ai contemporanei personaggi dannunziani.
A differenza di questi altri personaggi, Alfonso non può rappresentare nessun modello assoluto, non
può proclamare nessun valore ideale o alternativo: tutto ciò che egli oppone al mondo del lavoro,
del consumo, della concretezza borghese, non è che subalternità, passività, estraneità, autoinganno.
Il naufragio di Alfonso porta con sé una implicita critica dei modelli decadenti, delle varie
sopravvalutazioni della figura intellettuale che proliferano nella cultura del tardo Ottocento: eroe

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«senza qualità», il personaggio sveviano è lontano da ogni compiacimento estetico ed è immerso in
una realtà quotidiana senza valore e senza colore.

2. Senilità

L' allontanamento dall'orizzonte naturalistico si accompagna, in Senilità, a una più forte tensione
narrativa e a una eccezionale densità simbolica; il romanzo, che in un primo momento doveva
intitolarsi ‘Il carnevale di Emilio’, venne elaborato a partire dal ’92, nei mesi del rapporto con
Giuseppina Zergol, e concluso dopo il matrimonio con Livia, nel ’97.
L’opera apparve a puntate ne ‘L’Indipendente’ nel ’98 e subito dopo in volume che fu del tutto
ignorato dalla critica; venne scoperto solo dopo l’uscita della Coscienza e ritenuto addirittura
superiore ad essa.
Anche qui la narrazione è in terza persona e si concentra sulle vicende e sul punto di vista di un
altro personaggio inetto, Emilio Brentani, intellettuale fallito di trentacinque anni, che in passato ha
pubblicato un romanzo senza successo, mentre ora conduce una inerte vita di impiegato.
Emilio vive una relazione con l’esuberante e inafferrabile popolana Angiolina, e in ogni suo gesto
sembra mancare di energia vitale: è tutto rivolto a costruire se stesso, i proprio rapporti umani, la
propria vita sentimentale con un distacco che lo separa dalle cose e dalle persone, con una
sopravvalutazione dei propri propositi che non gli permette nessuna vera conoscenza della realtà,
ma lo chiude soltanto in una spirale di autoinganni.
Brentani ha bisogno di vedere gli altri attraverso proiezioni artificiali e banali che crede veritiere e
assolute. Non gli è mai possibile istituire rapporti diretti, ma in ogni scambio umano e anche nella
sua passione per Angiolina, egli deve fare affidamento su dei mediatori, crearsi degli ostacoli, dei
modelli esterni; non sa vivere il presente, perché si guarda vivere, si sente continuamente
minacciato dall'errore, teme di finire nel ridicolo.
Ma l’inettitudine e la senilità del Brentani rappresentano anche un modo tutto nuovo di vedere i
rapporti dell'Io con la realtà: la sua fallimentare esperienza svela che la «vita» finisce comunque,
inevitabilmente, per nascondersi e sottrarsi al bisogno di afferrarla, che non è mai possibile farla
propria con immediata trasparenza.
Questi caratteri del protagonista vivono entro un intreccio che lo lega ad altri tre personaggi, con i
quali esso forma un quartetto perfetto, costruito secondo sottili raccordi e simmetrie: da una parte
c'è l'amico scultore Stefano Balli, personaggio sicuro e spregiudicato (quasi come lo Speier della

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Coscienza), che per Emilio rappresenta una figura paterna e un modello di «salute»; dall'altra le due
opposte figure femminili, destinate a non incontrarsi mai, Amalia, la sorella, e Angiolina.
Triste e «grigia» figura di ragazza condannata all’inerzia sentimentale e alla moralità casalinga,
riservata e votata alla rinunzia, Amalia è sconvolta fino alla follia e alla morte da un impossibile e
silenzioso amore per il Balli. Emilio sente un bisogno di proteggerla che si rivela controproducente,
poiché in realtà, a causa della sua passione per Angiolina, egli la trascura provando nei suoi
confronti minacciosi sensi di colpa. La bionda Angiolina, donna del popolo, rappresenta invece la
vitalità più libera e aperta, la salute e l’energia fisica, il piacere di guardare e di essere guardata, di
esistere sotto il segno della luce: incontrata Angiolina, Emilio vorrebbe godere della sua vitalità
prendendo una vacanza dalla sua vita normale, senza annullare il divario sociale che lo separa dalla
donna, tenendola a distanza, confinandola in uno spazio e in un tempo ben delimitati.
Egli vorrebbe farne un prezioso oggetto che risponda ai suoi desideri più fumosi, e si diletta a
vederla come un angelo e a chiamarla col nome francese ‘Ange’ (tenta perfino una sua pedagogia di
Angiolina, suggerendole idee di riscatto sociale che la trovano totalmente indifferente).
La donna copre il rapporto con lui di una rete di finzioni, di inganni, che egli si ostina a non vedere,
diventando subalterno a lei e alla propria passione: a ogni disinganno egli sostituisce nuove illusioni
e nuovi accecamenti; ma al di là dei comportamenti della donna, spesso volgari, sopravvive in lei il
fascino di qualcosa di enigmatico e di indefinibile.
La situazione giunge al suo punto estremo quando Emilio incontra per l'ultima volta Angiolina,
quasi contemporaneamente alla morte della sorella Amalia, e l’immagine della donna sembra
trasfigurarsi in una «metamorfosi strana» che ne fa un simbolo segreto e luminoso a cui, nonostante
tutto, la vita di Emilio resta legata, come l'immagine della giovinezza vista da un vecchio.
La splendida figura femminile apparsa in visione ad Emilio arriva a riassorbire in sé anche il ricordo
dell'infelice Amalia, riassumendo così il passato e il futuro, e diviene perfino simbolo indefinito di
un desiderio di rivolta proiettato in un lontano avvenire.
Questi motivi tematici si svolgono entro un fascio di rapporti concreti, sul filo di una vita quotidiana
che ha tutto il colore della Trieste contemporanea, del mondo frequentato dal giovane Svevo.
La narrazione è sostenuta da una prosa incalzante che sa accendersi in scorci vigorosi, collocandosi
quasi completamente entro il punto di vista di Emilio.

3. Gli scritti saggistici

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Si è già detto che, dopo l'ingresso negli affari, 1a letteratura rimase per Svevo soprattutto una sorta
di sfogo sotterraneo, una specie di cura della propria coscienza: proprio da questa scrittura
frammentaria, nelle pause dei suoi impegni di imprenditore, egli ricava scaglie e segni di coscienza,
proponendosi di portare alla luce ( come indica in una nota del 2 ottobre 1899) «bizzarria,
rimpianto, un dolore, qualche cosa di sincero, anatomizzato, e tutto e non di più», convinto
dell'impossibilità di organizzare tutto questo materiale in un'opera compiuta.
Nel ventennio che precede la nascita della Coscienza di Zeno questo impegno analitico non viene
mai meno e trova nuova forza nella più vasta esperienza della modernità che, nel suo lavoro di
industriale e nei suoi viaggi europei, l'autore viene ad acquisire.
In numerosi saggi di difficile datazione, Svevo approfondisce una questione che gli era stata sempre
a cuore, fin dai primi contatti con il pensiero di Schopenhauer e di Nietzsche: occorre qui ricordare
almeno i saggi sulla Teoria Darwiniana, La corruzione dell'anima, Ottimismo e pessimismo, dove
tra l'altro Svevo esplicita una visione estremamente negativa dello sviluppo della civiltà.
Allo svolgimento di queste tematiche si aggiungono poi i nuovi stimoli culturali derivati
dall'incontro con Joyce, che spinse Svevo a confrontarsi con una letteratura assai lontana dai
modelli del naturalismo e che si stava per mettere sulla strada del flusso di coscienza e del
monologo interiore; nello stesso tempo egli volgeva la sua attenzione alla letteratura umoristica e
paradossale, soprattutto a quella di tradizione inglese (e siamo proprio negli anni della riflessione di
Pirandello sull'umorismo).
Un posto tutto particolare assumeva inoltre la conoscenza della psicoanalisi freudiana, con una
attenzione ossessiva al rapporto tra salute e malattia.
Le opere più compiute di questo periodo sono soprattutto testi teatrali, mentre limitati restano i
tentativi narrativi: al 1904 dovrebbe risalire comunque il racconto umoristico ‘Lo specifico del
dottor Menghi’, incentrato sull’invenzione di un medicinale che, intensificando l’energia vitale,
permette una sorta di distruttivo ringiovanimento.
La condizione di inattività a cui Svevo fu costretto dalla guerra non si tradusse subito in una più
diretta ripresa dell'impegno letterario ma lo vide fermo in una situazione di attesa e di sospesa
preoccupazione. Una prima immagine del suo turbamento, pervasa quasi da un senso di allibita
sorpresa di fronte agli eventi, è affidata a una vibrante nota di diario del 23 maggio 1915 sugli
avvenimenti di Trieste allo scoppio della guerra tra Italia e Austria; Svevo espresse poi la sua
preoccupazione per il destino del mondo e per il potenziale distruttivo della civiltà moderna
nell’abbozzo di un Trattato sulla teoria della pace.
Approfondendo lo studio della psicoanalisi compì la traduzione di un breve scritto di Freud su Il
sogno. Con l’inizio, nel 1919, della stesura della Coscienza di Zeno prende avvio una nuova

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vitalissima fase di esperienze narrative e teatrali delle quali parleremo anche successivamente,
accompagnata anche da scritti e interventi di tipo saggistico o diaristico e dagli articoli del giornale
«La Nazione»: alcuni di questi forniscono immagini molto concrete della vita triestina, altri
definiscono gli aspetti della vita inglese nel dopoguerra (a conferma della simpatia di Svevo per la
civiltà inglese basti qui ricordare le interessanti pagine sul Soggiorno londinese, forse del 1926,
sguardo retrospettivo ai suoi viaggi in Inghilterra).

4. La coscienza di Zeno e la fortuna di Svevo

Pochi mesi dopo la fine della guerra (intorno al febbraio 1919), Svevo cominciò a lavorare al nuovo
romanzo che terminò, tra varie interruzioni dovute soprattutto a viaggi, prima della fine del 1922,
quando entrò in contatto con l'editore Cappelli di Rocca San Casciano, presso Bologna, per
un'edizione a proprie spese: la stampa del volume fu terminata alla fine dell'aprile 1923.
Anche questo nuovo romanzo fu accolto all'inizio da una quasi totale indifferenza; fu essenziale
l'intervento di James Joyce, che invitò Svevo a inviarne una copia ad alcuni critici e scrittori come
Valéry Larbaud, Benjamin Crémieux, Thomas S. Eliot.
Attraverso vari incontri e progetti, si arrivò cosi a1 fascicolo della rivista «Le Navire d'argent» che
ospitava un saggio di Crémieux su Svevo e traduzioni del primo capitolo della Coscienza di Zeno e
di passi di Senilità, e all'uscita, nel 1927, di una traduzione francese di Zeno, presso l’editore
Gallimard (successivamente l’autore ebbe vari contatti in vista di una traduzione tedesca, che uscì
solo dopo la sua morte, nel 1929).
Ma intanto la scoperta di Svevo si era svolta per strada autonoma anche in Italia, grazie alla
curiosità del giovane Montale, a cui la letteratura dei romanzi sveviani era stata suggerita da Bazlen.
Montale fu autore di un Omaggio a Italo Svevo e, sulla spinta di questo articolo, la conoscenza di
Svevo si diffuse presso la più intelligente e moderna cultura italiana del tempo.

4.1 La struttura del Romanzo

La coscienza di Zeno, a differenza dei due romanzi precedenti, si svolge in prima persona: esso non
si presenta come narrazione di una vicenda particolare ma come un'autobiografia aperta in cui non
si segue un disegno organico. Il protagonista è Zeno Cosini, personaggio che non coincide
direttamente con l' autore (anche se ne riproduce qualche carattere): è un ricco triestino che, per
liberarsi da una nevrosi che si manifesta nei rapporti con se stesso e con gli altri, e che si riconosce

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innanzitutto nell'impossibilità di liberarsi dal vizio del fumo e nel continuo fallimento dei propositi
di fumare l' «ultima sigaretta», si è sottoposto, ormai in età abbastanza avanzata, a una cura
psicoanalitica e ha ricevuto dal dottor S. l'incarico di ripercorrere per iscritto il proprio passato, in
funzione della cura. Ma questa ricostruzione del passato si compie per salti, in maniera non
organica, senza un punto di vista risolutivo che riesca a spiegarlo e a interpretarlo; si interrompe a
un certo punto, come interrotta risulta la cura psicoanalitica, per l'insofferenza del paziente nei
confronti del medico e del suo metodo. Svevo finge che l'iniziativa di pubblicare il romanzo si
debba allo stesso dottor S., che intende così vendicarsi del tiro giocatogli dal «malato», il quale,
grazie a un'interpretazione adeguata di quelle memorie, avrebbe potuto avvicinarsi alla guarigione.
Il testo si compone di otto capitoli di diversa misura: due brevissimi all'inizio, una Prefazione, in
cui il dottore presenta la sua decisione di pubblicare quelle memorie, e un Preambolo, in cui lo
stesso Zeno ritorna al periodo della sua infanzia e ·afferma l'impossibilità di recuperarla; seguono
poi due capitoli di media misura, Il fumo , dedicato agli infiniti sotterfugi che il personaggio mette
in atto per evitare di abbandonare le sigarette, e La morte di mio padre, che rimanda indietro alla
sua giovinezza, alla difficoltà dei rapporti col padre e a un gesto di questi in punto di morte, che
viene visto come una punizione nei suoi confronti.
Vengono poi capitoli molto ampi: La storia del mio matrimonio, incentrato sulle vicende che hanno
portato Zeno a frequentare i Malfenti e le quattro sorelle Ada, Augusta, Alberta e Anna; sul suo
amore per la bellissima Ada, dalla quale ripiega verso Alberta, finendo dirottato, quasi
automaticamente, e senza nemmeno rendersene conto, verso la meno affascinante Augusta, che
però si rivela come la moglie ideale, dotata di quella concretezza borghese e di quella «salute» di
cui egli soffre la mancanza;
La moglie e l'amante, in cui Zeno, marito felice, ripercorre le tappe del rapporto clandestino,
segreto e tortuoso che lo lega a Carla, una giovane donna di origine popolare che aspira a divenire
cantante;
Storia di un 'associazione commerciale, che segue le difficoltà di Zeno nel mondo degli affari e
illumina il complicato rapporto che egli intrattiene con il marito di Ada, Guido Speier, la cui abilità
e la cui apparente fortuna è come ribaltata da un fallimento che lo porta ad un suicidio non voluto.
Più breve è l'ultimo capito Psico-analisi, in cui si abbandona la narrazione del passato dando spazio
a una forma di scrittura diaristica con tre brani datati tra il maggio 1915 e il marzo 1916: qui il
protagonista annuncia la sua decisione di abbandonare la cura, svolge varie critiche alla
psicoanalisi, parla della sua improvvisa scoperta della realtà della guerra e sostiene di essere guarito
dalla malattia grazie a una serie di successi commerciali ottenuti proprio per effetto della situazione
bellica.

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Con questo diario finale il romanzo si conclude quasi uscendo da se stesso e smentendosi,
spezzando il proprio percorso narrativo, che del resto nei precedenti capitoli si era sviluppato in
modo obliquo,
con continue fratture e riprese.

4.2 Il protagonista, Zeno

Tutto il discorso di Zeno si sviluppa in un'oscillazione continua tra malattia e salute, tra narrazione e
riflessione, tra coscienza e inganno, tra bisogno degli altri e difficoltà di instaurare con loro un
rapporto.
Egli è trascinato da una forza che lo costringe a compiere tortuosi percorsi: giunge così al
matrimonio con Augusta dopo aver cercato di conquistare Ada e Alberta, ha bisogno della moglie
per amare l'amante e dell'amante per amare la moglie, vive il suo rapporto con Guido come riflesso
ambiguo del rapporto impossibile con Ada, ecc.
Eternamente irresoluto, ha bisogno, per ogni azione e per ogni decisione, di riferimenti e di stimoli
esterni, e in ciò somiglia ai due protagonisti dei precedenti romanzi di Svevo, da cui però lo
allontana un distacco umoristico da se stesso e dalle proprie vicende.
Egli è del tutto immerso in un mondo borghese in cui lui si sente a disagio, in uno stato di perpetua
inferiorità che gli impedisce sempre di comportarsi come si dovrebbe. Questa inferiorità sembra
derivare da due opposte motivazioni: da una parte la sua disponibilità ai richiami del desiderio, a
immagini e promesse inafferrabili di felicità, ai profumi e alle seduzioni della bellezza, dall’altra il
suo eccesso di coscienza, l’ostinazione con cui egli ama smascherare gli inganni che ciascuno
costruisce per proteggere i propri desideri (nell’ottica di Zeno, il valore su cui si regge la vita
borghese è l’inganno).
A ogni passo egli scopre l’imprevedibilità della vita e l’idea che ciascuno ha di se rispetto a ciò che
effettivamente accade: ad esempio, nel corso di un dialogo con Guido, una casuale associazione di
parole lo porta a coniare una ironica definizione in cui si può riassumere tutto il senso delle vicende
del romanzo: “La vita non è né brutta ne bella, ma è originale!”. Tutto il vivere si risolve in
qualcosa di strano e bizzarro che fa concludere “che forse l’uomo vi è stato messo dentro per errore
e che non vi appartiene”.
Ma a differenza di Alfonso e di Emilio, Zeno non è uno sconfitto: egli sa di non poter essere un
personaggio serio, anzi scopre che ogni serietà nasconde inganni e illusioni, e così si abbandona
all’imprevedibile, si immerge nelle sproporzioni dei comportamenti individuali, conserva un
impassibile sorriso perfino nella sofferenza e nelle situazioni più drammatiche, viene aggredito e

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deriso come una marionetta… ma curiosamente cade sempre in piedi e vede, con sua stessa
sorpresa, risolversi la sua inferiorità in una serie di successi, che culminano nei successi
commerciali avuti in coincidenza con i tragici eventi della guerra.
Sembra insomma che egli riesca a passare quasi intatto in mezzo a un mondo da cui si sente
schiacciato e da cui vorrebbe fuggire, che si trovi a trionfare miracolosamente sui meccanismi di
una «vita» che pure non è fatta per lui: in tutto ciò somiglia proprio a un clown (un fool) o a una
delle figure del comico cinematografico, che proprio negli anni del dopoguerra trovava le sue più
grandi manifestazioni.

4.3 La malattia e la psicoanalisi

Zeno sfugge a ogni soluzione definitiva, si nasconde e si sottrae continuamente a se stesso e al


lettore, compie una serie di sotterfugi per ridursi al minimo, non vuole, né può, essere un eroe
modello. Con lui la malattia si configura come la sola autentica possibilità di essere dell'io: il
personaggio moderno si impone come «malato», rinunciando a tutte le pretese eroiche dei
personaggi tradizionali.
La psicoanalisi si rivela strumento essenziale per la costruzione di questo personaggio «malato»:
non soltanto le memorie di Zeno vengono presentate come frutto di una cura psicoanalitica
interrotta e divulgate da un medico, ma in molti momenti del suo racconto si sente l'effetto dello
sguardo del tutto nuovo che Freud aveva portato sulle tensioni nascoste negli atti psichici.
La presenza di Freud si sente particolarmente nella rappresentazione dei sogni del protagonista,
nella sua abitudine ai motti di spirito, nel suo continuo incorrere in lapsus ed equivoci e, sempre nei
termini della psicoanalisi, è la nevrosi, con le sue molteplici manifestazioni, la malattia che domina
il mondo di Zeno. Sarebbe sbagliato definire in un modo clinico più preciso la natura della nevrosi
di Zeno, poiché accumulando «verità e bugie», avviluppandosi nella sua malattia e continuando a
ricercare la guarigione, lui non ci presenta un «caso» specifico di nevrosi, ma una immagine più
ampia della condizione nevrotica dell'uomo contemporaneo.
La nevrosi dell’individuo è anche la nevrosi della civiltà e della cultura, ed è per questo che Zeno
cerca immagini della malattia universale anche al di fuori dell'orizzonte della psicoanalisi:
memorabile l'attenzione che egli riserva al morbo di Basedow, da cui a un certo punto viene
deformata la bellezza di Ada.
La malattia diventa insomma strumento fondamentale di conoscenza, e in questo essa si intreccia
con la scrittura e la letteratura: scrivere è anche cercare le ragioni segrete della malattia, le ragioni

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dell'inganno che si nasconde sotto le apparenze sociali, ma nello stesso tempo la scrittura è un atto
di invenzione e di artificio che allontanano l’uomo da una conoscenza autentica.

4.4 il Tempo

La narrazione di frammenti della propria esistenza, lo scavo del proprio io imposto dall'analista, si
confrontano necessariamente con il tempo: La coscienza di Zeno è anche un'opera sul tempo, una
sottile indagine sul rapporto tra tempo della scrittura (e della cura) e tempo della vita, tra il flusso
del presente (in cui la coscienza interroga se stessa e i propri ricordi) e il flusso dell'esistenza
trascorsa e perduta. È la stessa cura psicoanalitica a imporre un recupero del tempo, un ritorno
all'infanzia, un riassorbimento di tutto il vissuto nella coscienza del presente, una continua
attenzione ai ricordi e ai sogni, ma Zeno, impegnato com'è a ricordare e a raccontare, si accorge che
non è possibile nessun rapporto sicuro e lineare con il tempo: da una parte il tempo si ripete e si
riavvolge su di sé ( «il tempo, per me, non è quella cosa impensabile che non s’arresta mai. Da me,
solo da me, ritorna»); dall'altra il suo ritornare lo trasforma in qualcosa di diverso da ciò che era, ne
lascia solo frantumi eterogenei, lo muove e lo deforma.
I ricordi diventano sempre un'altra cosa, creano nuove realtà che non è possibile identificare con
quelle originarie; la coscienza si muove solo allontanandosi da sé. A differenza di quello che accade
in Proust, per Svevo non è possibile nessuna salvezza nella memoria, nessun recupero del tempo
perduto.

4.5 il Finale

Nell'ultimo capitolo l'abbandono della cura si collega all'esibizione della distanza che separa il
protagonista, ormai vecchio, dalle sue «avventure» precedentemente narrate: la scrittura si
accanisce a mostrare come la cura fosse basata sull'insincerità e arriva a mettere in dubbio fino in
fondo la verità della narrazione, costringendo il lettore a dubitare perfino della verità del diario
finale.
È certo comunque che la frattura su cui La coscienza si chiude è segnata fortemente
dall'incombenza della guerra: questa si pone anche come segno simbolico dell'uscita da un'epoca,
della rottura di un mondo compatto quale era stato, al di là dei suoi precari equilibri, quello del
giovane Zeno (la guerra, nel finale dell’opera, costituisce anche un avvertimento della nuova
minaccia di distruzione che incombeva sul mondo borghese).

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Raggiunto improvvisamente da una guerra che fino all'ultimo egli aveva creduto lontana, Zeno si
accorge che la sua malattia e il gioco dei suoi desideri gli hanno fatto ignorare la realtà, ma, grazie a
un imprevedibile e ambiguo rivolgimento, Zeno sembra ottenere la guarigione proprio da questa
distruzione, dai fortunati affari che la guerra gli permette cli fare.
Questa guarigione lo riconduce però - dal punto di vista sicuro di chi riesce a salvarsi nella
catastrofe universale - ad allargare lo sguardo alla malattia che ha colpito l'intera civiltà umana: le
ultime battute del romanzo mostrano come sia lo stesso accumulo di oggetti e di «ordigni» che
rende l'uomo più civile e lo allontana dalla natura.
Come ha rivelato la guerra, lo sviluppo dei mezzi industriali e il dominio sulla natura si rovesciano
in distruzione e morte, e il romanzo si chiude proiettando il suo movimento nel tempo verso un
futuro minaccioso, dilatando la malattia di Zeno verso l'ipotesi di una distruzione della terra per
effetto di un esplosivo creato dalla malattia degli uomini: «Ci sarà un'esplosione enorme che
nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di
malattie».

5. Altre opere

Le prime opere di Svevo sono i quattro testi teatrali scritti nel 1880, in contemporanea all'inizio
della sua collaborazione con l'Indipendente. Si tratta di Ariosto Governatore, Il primo amore, Le
Roi est mort; vive le Roi! e I due poeti.
Ma tra i capolavori teatrali di Svevo, i più importanti sono Un marito (terminato nel 1903, questo
testo sembra anticipare certe situazioni del teatro pirandelliano, presentando la vicenda di un
avvocato che, dopo aver ucciso per gelosia una prima moglie, evita di ripetere con la seconda il
gesto che la coerenza dei principi gli imporrebbe di nuovo), e La rigenerazione (una commedia
dominata dalla tematica della vecchiaia e dagli svariati tentativi, da parte del protagonista, di
ringiovanire. Il vecchio Giovanni Chierici, uomo borghese, si sottopone ad un’operazione nel
tentativo di riacquistare l’energia giovanile, ma questa illusione lo proietta inevitabilmente verso il
passato e i ricordi).
Quanto alla prima narrativa sveviana, l’opera più importante è L'assassinio di Via Belpoggio,
pubblicato nel 1890 a puntate sull’Indipendente’.
La storia è quella di un assassinio, il quale resta però un antefatto in quanto il racconto si apre con le
considerazioni dell'autore del delitto sul suo gesto. L'assassino è Giorgio, il quale dopo aver
dilapidato gli averi della madre, è costretto ad impiegarsi come facchino finché non ucciderà

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Antonio Vacci, uomo che aveva conosciuto per caso e che, avendo improvvisamente ricevuto
un'ingente eredità, la esibiva con orgoglio. I momenti del delitto vengono rievocati nella mente di
Giorgio, che cerca di comprendere i motivi del suo gesto mentre è ossessionato da alcuni immagini
ricorrenti e dal timore di essere scoperto. La narrazione segue dunque il corso dei tumultuosi
pensieri di Giorgio, i suoi sogni, le sue paure, inframmezzati dal racconto dei suoi stessi
comportamenti, delle reazioni degli amici, della perquisizione e della confessione. Aspetto
interessante dell'opera è il tipo di narrazione non lineare e anti-ottocentesca, mentre la scelta del
tema è tipicamente naturalistica.
Tra le opere dell'ultima fase della sua produzione merita un attenzione a parte La novella del buon
vecchio e della bella fanciulla. I protagonisti sono un vecchio, un agiato e signorile triestino, e una
fanciulla, una giovane e schietta popolana priva di malizie e scrupoli morali.
La madre della fanciulla ottiene dal vecchio un posto alla società tramviaria per la figlia. Un giorno,
su un tram, il vecchio è colpito dalla bellezza della giovane conducente, la riconosce e la invita a
casa sua per la sera. La fanciulla accetta con spontaneità.
Per il vecchio questo incontro rappresenta il ritorno alla giovinezza, ma, durante l’incontro
amoroso, viene colpito da un’angina pectoris e non riesce a riprendersi del tutto: capisce allora che
non può più ambire ad essere l'amante della giovane e il modo di rapportarsi a lei si trasforma.
Concepisce una teoria secondo la quale per un uomo anziano è un'azione meritoria l'occuparsi della
formazione culturale e morale di una giovane, e decide di riversarla in un libro, rendendone
partecipi il suo medico curante (che l'incoraggia nella misura in cui gli sembra che l'aiuti nel
percorso di guarigione) e l'infermiera che l'accudisce. La fanciulla, tuttavia, non sembra capire i
sentimenti del vecchio: veste in modo più ricercato, si fa vedere in compagnia di uno zerbinotto
(cosa che suscita la gelosia dell'anziano) e non mostra particolare riconoscenza quando le viene
detto che per lei ci sarà un lascito testamentario.
Un giorno, il vecchio viene trovato senza vita, deceduto mentre stava effettuando una revisione del
suo scritto, un trattato riguardante il rapporto tra vecchiaia e giovinezza, oltre che la sua vita.
Un'altra opera interessante è Una burla riuscita, lungo racconto suddiviso in otto paragrafi. I
protagonisti sono i fratelli Giulio e Mario Samigli e gli amici di Mario, Brauer e Gaia. Mario è un
sessantenne modesto impiegato che all'età di vent'anni ha scritto un romanzo pubblicato con risultati
fallimentari. Questo non gli ha tolto l'entusiasmo per la letteratura anche se ora scrive favole con
protagonisti gli animali.
Mario deve accudire il fratello maggiore Giulio, costretto a letto, e per allietarlo ogni sera gli legge
ad alta voce un brano del suo romanzo. Ma Gaia, che aveva coltivato le stesse ambizioni di Mario e
che con questi aveva rapporti non proprio amichevoli, perpetra una burla ai danni del Samigli.

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Simula un ricco contratto con una casa editrice viennese e lo fa firmare a Mario, il quale è convinto
di aver cambiato vita per sempre. Comincia così a spendere il suo denaro per togliersi degli sfizi,
come ad esempio quello di arredare casa con mobili nuovi.
Quando si scopre la burla, Mario si trova tuttavia ad avere una somma considerevole grazie ad
operazioni bancarie fatte per lui sulla fiducia dell'amico Brauer. Mario non può accettare questo
'regalo' senza nobilitarlo e allora scrive l'ennesima favola.
Altra opera è Il vecchione (o Le confessioni del vegliardo), ultimo ed incompiuto romanzo di Italo
Svevo, che racconta i ricordi che la vista di una fanciulla suscita nel 'vecchione' Zeno (si tratta
infatti di una continuazione de La coscienza).

BIBLIOGRAFIA

Battistini A., Storia della letteratura italiana: dal Settecento ai giorni nostri, Bologna, Il Mulino,
2014.
Debendetti G., Il romanzo del Novecento, Milano, La nave di Teseo, 2019.
Ferroni G., Storia della letteratura italiana: il Novecento e il nuovo millennio, Milano, Mondadori,
2017.

Giulia Di Rienzo

CLEMENTE REBORA

Biografia

Clemente Rebora nasce a Milano, nel 1885, da una laicissima famiglia di origine genovese: il padre,
che era stato con Garibaldi a Mentana, tiene il ragazzo lontano dall'esperienza religiosa e lo educa
agli ideali mazziniani e progressisti, tanto in voga fra la borghesia ambrosiana del tempo.
Dopo il liceo, il giovane frequenta medicina per un anno a Pavia, ma non è questa la sua strada.
Passa a Lettere: l'accademia scientifico letteraria di Milano - presso la quale si laurea - era un
ambiente pieno di fervore creativo. Rebora incontra condiscepoli di grande ingegno, con i quali

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intrattiene appassionanti conversazioni.
Intraprende poi l'attività d'insegnante. La scuola è per lui luogo d'educazione integrale, per formare
uomini pronti a cambiare la società; e proprio con articoli di argomento pedagogico comincia a
collaborare a "La Voce", la prestigiosa rivista fiorentina.
Conosce Lidya Natus, un'artista ebrea russa: nasce fra loro un affetto che li lega fino al 1919. Allo
scoppio della prima guerra mondiale Rebora è sul fronte del Carso: sergente, poi ufficiale. Ferito
alla tempia dallo scoppio di un granata, ne rimane segnato soprattutto a livello psicologico (i
biografi parlano di «nevrosi da trauma»).
Nell'immediato dopoguerra torna all'insegnamento, optando per le scuole serali, frequentate da
operai: da quel popolo semplice che egli, con slancio umanitario, ama.
Si autoimpone un regime di vita molto austero, devolvendo gran parte dello stipendio ai poveri e
spesso ospitandoli in casa. Appare a molti come una specie di santo laico, ma in realtà, egli è
sempre più affascinato dalla religione.
Sono questi, diversi segnali che preludono all'approdo: la conversione al cattolicesimo, nel 1929.
Rebora adesso capisce che la via alla totalità passa attraverso la sequela di un carisma particolare:
una mistica prospettiva di «patire e morire oscuramente scomparendo polverizzato nell'amore di
Dio».
La vita di Rebora può procedere ormai con passo sicuro: nel 1931 entra come novizio nell'Istituto
rosminiano di Domodossola, nel '33 emette la professione religiosa, nel '36 è' ordinato sacerdote.
Per un ventennio don Clemente spende le proprie energie in mezzo a poveri, malati, prostitute.
Colui che camminando tra le tante parole (magari poetiche) si era imbattuto nel Verbo che si è fatto
carne, ora non ha più bisogno di scrivere: la parola fa spazio all'azione di carità. Solo negli ultimi
anni di vita, malato nella carne, tornerà alla parola poetica. Il 1957, l'anno della morte di Rebora.

Produzione letteraria
-Nel 1913 la sua opera prima: i Frammenti lirici. Il successo è immediato.
-Canti anonimi: il suo secondo libro di poesia, del 1922.
-I sedici Libretti di vita attraverso cui divulga opere di mistica occidentale e orientale .
-Curriculum vitae, autobiografia in versi, del 1955
-Canti dell'infermità, del 1957

Contesto culturale

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Poesia crepuscolare e vociana: nell’ambito del DECADENTISMO IN Italia si colloca
l’esperienza dei cosiddetti “vociani” ”, poeti legati all’ambiente della rivista “La Voce”.

Poetica

La palestra in cui il giovane Rebora affina il proprio stile poetico è la rivista "La Voce": egli,
assieme a Sbarbaro e Jahier, e a narratori quali Boine e Slataper («gente che - avverte Gianfranco
Contini - era abbonata al Cahier de la quinzaine, che sentiva l'esigenza religiosa ... »), pensa un'arte
come testimonianza nuda, autentica, magari polemica, sempre carica di tensione morale ed
esistenziale.
Tra questi autori, Rebora è colui che più di tutti ha trasfuso in poesia esistenzialità e moralità,
disperazione e speranza, rifiuto dell'esistente e ansia di assoluto, fino a costruire il più autentico
monumento di poetica espressionistica della nostra letteratura primonovecentesca» (Elio Gioanola).
Stile
Il suo stile espressionistico consiste nel deformare il segno linguistico, renderlo aggressivo,
incandescente, non temendo di mescolare termini aulici e dialettali per ottenere accordi stridenti e
disarmonici.: «La poesia di Rebora appare lacerata da un'inquietudine profonda, dal senso di
un'inadeguatezza radicale rispetto al mondo com'è e agli uomini come mostrano di vivere. Egli ha
intuito la sproporzione tra il comune operare umano e l'ansia delle domande sul senso dell'essere e
dell'esistere».

Dall’immagine tesa
Dall'immagine tesa
vigilo l'istante
con imminenza di attesa –
e non aspetto nessuno:
nell'ombra accesa
spio il campanello
che impercettibile spande
un polline di suono –
e non aspetto nessuno:
fra quattro mura
stupefatte di spazio
più che un deserto

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non aspetto nessuno:
ma deve venire;
verrà, se resisto,
a sbocciare non visto,
verrà d'improvviso,
quando meno l'avverto:
verrà quasi perdono
di quanto fa morire,
verrà a farmi certo
del suo e mio tesoro,
verrà come ristoro
delle mie e sue pene,
verrà, forse già viene
il suo bisbiglio.

Universalmente riconosciuta come il capolavoro di Rebora, Dall'immagine tesa sta sulla soglia
della conversione: scritta nel 1920 e posta in chiusura dei Canti anonimi, questa lirica sigilla la
produzione "laica" del Nostro. Poesia dell'attesa, o meglio dell"'Atteso", è reputata «la lirica italiana
più religiosa e vibrante del nostro tempo»; e «uno dei più alti canti religiosi dell'arte
contemporanea».

Struttura: è divisa in due parti di tredici versi ciascuna. Nella prima, costruita su una fitta serie di
affermazioni e negazioni, il corpo è teso a vigilare l'istante, all'erta come sentinella (o come le
vergini prudenti: imminente è l'arrivo dello Sposo). «Nell'ornbra accesa» (ossimoro), nel buio
dell'incertezza in cui scintilla l'attesa, il poeta spia quel silenzio gremito d'impercettibili suoni,
profumati e leggeri come polline ( sinestesia: «polline di suono»!). Lo spazio, nell'immobilità
sospesa e colma di stupore, pare dilatarsi all'infinito. In esso il poeta, che tre volte ribadisce «non
aspetto nessuno», pre-sente di essere sull'orlo di una rivelazione. L’«immagine tesa» dell'incipit -
spiegherà Rebora ormai vecchio - è «la mia persona stessa assunta nell'espressione del mio viso
proteso non solo verso un annunzio a lungo sospirato, ma forse (confusamente) verso il Dulcis
Hospes animae».
La seconda parte della lirica, aperta dall'avversativa «Ma», afferma perentoriamente che l'Ospite
atteso «verrà» (sei volte ricorre l'anafora). Fragile è la mia capacità di vigilanza, sempre minacciata
dalla distrazione - dice il poeta - ma, «se resisto» nell'attesa, non potrò non assistere al Suo
impercettibile «sbocciare» (dunque era Lui - l'Ospite - a spandere «un polline di suono»). La Sua
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venuta sarà un avvenimento «improvviso», imprevisto (qui come già in Péguy); e porterà il "per-
dono", il grande dono della vittoria sul peccato e sulla morte (qui la concezione è già pienamente
cristiana, sebbene la conversione accadrà solo nove anni dopo). Verrà come certezza che c'è un
«tesoro», per acquistare il quale vale la pena vendere tutto; dolori e pene permarranno, ma
abbracciati da un «ristoro» umanamente impensabile. «Verrà, forse già viene»: «La Presenza è alle
soglie e chiede un totale tremante silenzio perché possa essere udito il suo discreto "bisbiglio"»
(Jacomuzzi). Testirnoniando la propria fede a Eugenio Montale, Rebora - negli ultimi anni di vita -
tornerà su quel bisbiglio: «La voce di Dio è sottile, quasi inavvertibile, è appena un ronzio. Se ci si
abitua, si riesce a sentirla dappertutto».

Curriculum vitae

In quest'opera il poeta, ormai vecchio e malato, ripercorre la propria vicenda esistenziale, a partire
dagli anni della giovinezza, quando «sola, raminga e povera /un'anima vagava». Ogni "idolo"
illudeva e puntualmente deludeva. «Immaginando m'esaltavo in fama /di musico e poeta e grande
saggio: /e quale scoramento seguitava!». La cultura cresceva in quantità, non in profondità:
«Saggezza da ogni stirpe affastellavo /a eluder la sapienza». Un’esistenza mondana era «civil
asfissia». Finché si piegò alla Grazia.
Come nella mistica classica, l'incontro con l'Agnus Dei accade al culmine di una lunga salita, dopo
aver attraversato la notte oscura dello smarrimento, quando egli si era visto schiacciato da nebbia e
caligine, quando aveva provato terrore, disperazione e angoscia. A salvarlo dallo smarrimento era
stato dapprima un richiamo, un indizio: un fievole belato. Poi tutto si fa chiaro, e la strada è
finalmente in discesa: gli è dato di baciare la tenerezza di Dio, di sostare nella «dimora buona», di
camminare lieto, «ri-cordando» - portando nel cuore - Colui che è venuto attraverso Maria.
Alla critica laicista non è piaciuto questo Rebora novissimo, questa poesia che si fa inno,
officiatura, parola paraliturgica. Giovanni Getto trova inveceche proprio adesso questa lirica «si
insapora d'un gusto pungente»: il senso e il gusto riconosciuto in «Gesù il Fedele, /il solo punto
fermo nel moto dei tempi». Centro del cosmo e della storia.

Bibliografia

-Margherita Marchione. L'imagine tesa, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1974.

-Maura Del Serra, Clemente Rebora. Lo specchio e il fuoco, Milano, Vita e Pensiero, 1976, pp. 218.

76
-Clemente Rebora. Lettere. I (1893-1930), prefazione di Carlo Bo, a cura di M. Marchione, Roma,
Edizioni di Storia e Letteratura, 1976.

-Clemente Rebora. Lettere. II (1931-1957), prefazione di Mons. Clemente Riva, a cura di M.


Marchione, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1982

Daniela Ciceri

Dino Campana

Vita e contesto storico

Nessuno dei protagonisti della storia letteraria patria potrebbe vantare una biografia e una
valutazione da parte della critica tanto controverse come Dino Campana. Infatti, il poeta toscano,
che ha orbitato intorno agli ambienti futuristi e lacerbiani, senza che si possa considerare realmente
parte né dei primi né dei secondi, costituisce un’appendice separata della lirica della sua epoca. Il
suo esiguo canzoniere è costituito dalla sola raccolta Canti Orfici e da alcuni altri componimenti
pubblicati postumi da chi si è occupato di redigere delle edizioni della sua opera, e contenuti nel
cosiddetto Quaderno.

Dino Campana nasce a Marradi, oggi comune della provincia di Firenze collocato sul versante
romagnolo dell’Appennino, il 20 agosto 1885 da Giovanni, maestro elementare, e Francesca Luti,
casalinga. Frequenta il liceo di Faenza finché a diciotto anni, nel 1903, s’iscrive all’Accademia
militare di Modena. Sebbene la scelta dell’Accademia rivela una tendenza militaristica del carattere
del ragazzo, e un vivo desiderio di realizzazione all’interno della gerarchia dell’Arma, questo
desiderio viene frustrato dalla cacciata dalla struttura modenese già alla fine del primo anno a causa
di una notte brava che gli fece vivere per la prima volta una brevissima esperienza carceraria.
Fallito il suo tentativo di carriera nei ranghi dell’esercito che avvilisce il suo ideale eroico, avvia la
sua formazione culturale dedicandosi alla lettura solitaria isolato tra i monti dell’Appennino.
Qualche tempo dopo s’iscrive all’Università di Bologna, facoltà di Chimica, ma, alla luce dei suoi
scarsi risultati accademici, abbandona la città emiliana e si da all’avventura. Infatti, è da collocare
nel periodo compreso tra il febbraio e il maggio del 1906 la prima fuga campaniana. Nel corso del
suo peregrinare, nascondendosi sempre nei bagni dei treni, il giovane visita Pavia e Milano e
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attraversa la Svizzera sino a raggiungere Parigi. Ad accoglierlo al suo ritorno a Marradi è il padre
che decide di farlo internare «in prova» nell’Ospedale psichiatrico di Imola per sospetta «demenza
precoce» dal 4 settembre al 31 ottobre. Al termine dell’esperienza in manicomio, ritenuta inutile o
troppo crudele, in casa Campana si decide per l’espatrio del figlio psicopatico alla volta
dell’Argentina. Una volta giunto nel paese sudamericano, Dino parte per la Pampa e fa ogni sorta di
mestieri, dal bracciante al pompiere, al suonatore di triangolo in una banda. Nel maggio 1908 si
imbarca come mozzo su una nave che sbarca ad Anversa, si sposta a piedi a Bruxelles, dove finisce
in prigione, e raggiunge Parigi. Giunge alla frontiera franco-italiana e i gendarmi, notata l’assenza
del tutore (lo zio Torquato, nominato dal Tribunale al termine della permanenza in manicomio), lo
spediscono nella Maison de Santé di Tournai. Non molto dopo lo lasciano andare e torna a Marradi,
dove spesso si ubriaca, da in escandescenze e va in giro per i boschi e le montagne. Così, il padre
decide di nuovo per il manicomio e il 9 aprile 1909 ce lo fa riportare dai carabinieri. Ma dopo pochi
giorni viene rilasciato per «insufficienza di titolo»: evidentemente, per gli psichiatri non era proprio
pazzo da manicomio. Il ritorno e la permanenza a Marradi sono caratterizzati questa volta da studio
intenso e letture di ogni genere: testi francesi, italiani, inglesi e tedeschi che lui va a leggere sui
monti. Trascorre il triennio dal 1909 al 1911 tra Marradi, Firenze e Bologna. Infine riprende i corsi
dell’Università di Bologna frequentando le lezioni dell’anno 1912-1913 e supera l’esame di fisica.
In questi anni va fissata la completa formazione culturale di Campana e l’intensificata conoscenza
diretta sui testi tedeschi di Nietzsche. L’8 dicembre 1912 vedono le stampe le sue prime poesie , sul
«Papiro», un foglio goliardico, sotto lo pseudonimo di «Campanone» o «Campanula»: sono i
componimenti La Chimera, le cafard e Dualismo. All’inizio dell’anno successivo, complice la
persecuzione da parte della polizia bolognese, si trasferisce a Genova. Nel corso di questo periodo
entra in contatto, tra la città ligure e Firenze, coi futuristi. Si interessa al movimento e invia una
poesia (Traguardo) dedicata proprio a Marinetti alla sede del Movimento Futurista proponendo la
stampa di una raccolta quasi ultimata. Invia dei testi anche a «Lacerba» e alla «Voce». Inizia la sua
rottura con l’ambiente letterario del tempo che lo respinge (Marinetti esclude i suoi versi dalle
Edizioni Futuriste di poesia). Nell’estate del ’13, a seguito di altri guai con la polizia, abbandona
Genova e torna a Marradi. Qui, si impegna in qualche mese a realizzare la prima redazione
manoscritta dei Canti Orfici (il cui titolo in questa fase embrionale è Il più lungo giorno),
manoscritto che andrà perduto stando alla testimonianza dello stesso poeta. Riguardo a questo
episodio, Campana racconta di essersi recato a Firenze con l’unica copia manoscritta dell’opera che
consegnò nelle mani di Papini. L’intellettuale fiorentino, concedendo al marradese la stessa
considerazione che si elargisce a uno straccione, disse di trovare i versi molto interessanti e tenne il
manoscritto promettendogli di pubblicarlo sull’«Acerba». Ma i componimenti campaniani non

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videro mai le stampe sulla rivista. La delusione di Campana fu ulteriormente acuita poiché, nel
corso della “trattativa” per la presunta edizione che Papini tirò per le lunghe, il poeta, davvero male
in arnese, vestito di cenci e alloggiato in un asilo notturno, fu duramente messo alla prova dal rigido
inverno fiorentino. Seppe che il manoscritto fosse passato nelle mani di Soffici ma, nonostante i
suoi ripetuti tentativi di riaverlo indietro, la prima redazione del testo andò perduta. Da allora,
Campana decise di riscrivere la raccolta a memoria e giurò vendetta contro i lacerbiani. Tornato a
Marradi, comincia il periodo cruciale della sua poesia. Difatti, tra il dicembre del ’13 e il gennaio
del ’14, spinto dalla rabbia e dalla risoluzione di stampare la sua opera, ricomincia a lavorare sui
propri appunti, cambia molto, toglie e aggiunge. Durante questa stesura si serve della scrittura
dattilografica dell’unica macchina da scrivere del paese in una stanza del Municipio, giungendo a
un orfismo nietzschiano più digerito e assimilato, essenziale per quello stile che fu poi riconosciuto
come tipico dei Canti Orfici. Falliti i tentativi presso Vallecchi, Zanichelli e Treves, Campana
decide di pubblicare la raccolta presso il tipografo marradese Bruno Ravagli grazie al contributo
economico dell’amico Luigi Bandini. Le prime copie dei Canti Orfici uscirono fresche di stampa
nel luglio del 1914.

Segue quell’unico periodo nella vita del poeta in cui gode di un certo rispetto e di una certa
considerazione: frequenta il bar delle Giubbe Rosse, vende il suo libro, visita le mostre, discute con
gli artisti e Soffici e Papini gli pubblicano tre testi dei Canti Orfici. Viene addirittura presentato a
Marinetti non più come uno squilibrato. Dopo una serie di viaggi che lo portano in giro per l’Italia
in cerca di lavoro, col 24 maggio 1915 e l’ingresso dell’Italia in guerra, si presenta volontario al
distretto ma non viene accettato. Intanto la raccolta comincia a essere recensita sulle testate più
autorevoli. Tuttavia, quello che sembrava essere il periodo roseo della notorietà comincia a essere
inficiato non soltanto dal clima plumbeo dell’entrata in guerra ma anche dall’insorgere di una serie
di disturbi del poeta variamente interpretati e ai quali ancor oggi non si sa dare una spiegazione
certa. Infatti, lui parla di «congestione cerebrale», i medici di «nefrite» mentre i biografi Pariani e
Vassalli parlano, il primo, di un principio di pazzia dissociativa, il secondo, di disturbi derivanti da
un’infezione luetica contratta nel febbraio 1912 (pur non avendo molte prove a riguardo). Fatto sta
che Campana comincia a delirare. Così, nel 1916 comincia a rivangare la storia del manoscritto
scrivendo delle minacce a Soffici e Papini e si sente molto malato di testa, ha forti nevralgie e
insonnie. In questo stesso periodo avvia lo scambio epistolare col futuro autorevole critico Emilio
Cecchi e inizia la sua turbolenta relazione con Sibilla Aleramo, che riesce a vincere la misoginia del
poeta, e si reca a trovarlo al Barco. L’intenso rapporto tra i due poeti, che dura poco meno di un
anno e abbraccia tutte le sfumature di sentimento e passione (dall’amore e l’attenzione tenera e
sognante alla gelosia violenta e le botte da orbi), conferma l’ormai totale stato di squilibrio mentale
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di Campana (sulla loro storia è stato anche realizzato il film, Un viaggio chiamato amore, per la
regia di Michele Placido con Stefano Accorsi e Laura Morante). Nel gennaio 1917 i due si separano
e il poeta di Marradi passa da un periodo di delirio a un altro finché, dopo una serie di avventure per
lo stivale e un’altra parentesi di prigionia carceraria, nel gennaio del ’18 viene internato nel
manicomio di San Salvi: la diagnosi è sempre la stessa, «demenza precoce». Da lì viene trasferito
nel cronicario di Castelpulci, in comune di Badia a Settimo. Alla fine, dopo la pubblicazione dei
Canti Orfici, e conseguentemente al rapporto difficile con l’Aleramo, lo stato mentale del poeta
subisce un tracollo che inaridisce progressivamente la forza del suo canto. Muore a Castelpulci il
primo marzo del 1932 a seguito di una setticemia (per Vassalli a causa di una sifilide all’ultimo
stadio).

Poetica

Come abbiamo accennato, il giudizio sulla poesia di Campana fu tanto controverso nel corso della
sua vita da prolungarsi dopo la sua dipartita. E, alla luce di una biografia sicuramente eccentrica che
fonde i tratti di un Torquato Tasso in salsa decadente a quelli dell’intellettuale girovago allo stesso
modo di un Goethe proletario, non si può stupirsene. Nei manuali di storia della letteratura viene
spesso accostato agli ambienti vociani benché se ne riconosca l’originalità. Nei suoi versi è
possibile rilevare l’influenza dei poeti maledetti francesi (in particolare Rimbaud) e dei futuristi.
Qua e là riemerge stratificata e scomposta un’eccentrica conoscenza dei classici che si estende da
Dante a Goethe e comprende anche la triade Carducci, Pascoli e D’Annunzio. I Canti orfici,
collocandosi nell’alveo dell’orfismo (come programmaticamente dichiarato nel titolo), esprimono la
ricerca di una poesia sostanzialmente simbolista che evoca i significati profondi e nascosti dietro la
superficie della realtà. La propensione visionaria, secondo molti interpreti, viene tuttavia mitigata in
una più ordinaria attitudine al visivo: infatti, non infrequentemente alcuni testi di Campana traggono
spunto da un paesaggio o un dipinto per cercarne una resa nella scrittura. A livello stilistico, i testi
del poeta di Marradi presentano alcuni tratti ricorrenti, come ad esempio, l’uso insistito dell’anafora
e, in generale, delle figure di ripetizione per creare un ritmo quasi onirico che incalza e rallenta
dinamicamente. I Canti Orfici raggiungono i risultati più alti in poesie come Genova o La Chimera
dove il gusto visionario incontra quello visivo, e la ricerca della potenza vitale, di sicura matrice
nietzschiana, si colloca con una percezione finale dell’impossibilità della sua durata.

Bibliografia

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- Canti orfici e altre poesie – Dino Campana con introduzione e note di Neuro Bonifazi, Garzanti,
Milano 2007;
- Il Novecento – Alberto Casadei, facente parte della collana Storia della letteratura italiana a cura
di Andrea Battistini, Il Mulino, Bologna 2014;

Sitografia

- Dino Campana – Wikipedia, voce consultabile al seguente link:


https://it.wikipedia.org/wiki/Dino_Campana

Giuseppe Catania

Giuseppe Ungaretti

Vita

Giuseppe Ungaretti nasce ad Alessandria d'Egitto nel 1888 da genitori toscani di Lucca; il padre era
andato in Egitto per lavorare alla costruzione del canale di Suez, ma durante gli scavi muore. Giuseppe
rimasto orfano di padre si trasferisce a Parigi, dove inizia a conoscere il mondo culturale delle
avanguardie (tra cui Picasso).

Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale torna in Italia come volontario e combatte sul Carso,
l'esperienza di guerra lo segna profondamente. Torna a Parigi dove inizia a lavorare come ambasciatore
e giornalista.

Quando sale al governo Mussolini torna a Roma per allearsi con lui, ma già alla fine degli anni ’20
matura una forte crisi spirituale e si converte al cattolicesimo.

Quando Mussolini si allea con Hitler, presagendo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, Ungaretti
va in Brasile e si distacca totalmente dal fascismo.

Nonostante avesse rinnegato il fascismo, nel dopoguerra viene aspramente criticato da tutti gli
intellettuali e considerato ex-fascista.

Muore a Milano nel 1970.

Opere

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Nel 1969 (l’anno prima di morire) raccoglie tutte le sue opere nell'edizione “Vita di un uomo” dove
inserisce tutta la sua produzione poetica. In quest’opera Ungaretti fa confluire tutte le sue poesie: le
prime raccolte del libro “Porto sepolto” pubblicato nel 1916, “Allegria di naufràgi” del 1919,
“Sentimento del tempo” del 1933, “La terra promessa” del 1950, “Taccuino del vecchio” del 1960.

Stile

Ungaretti rivoluziona la forma poetica puntando tutto sul contenuto. Il linguaggio diventa denso di
espressività (parola nuda), senza artifici retorici. Lo fa attraverso la forza evocativa e simbolica che
affida alla singola parola (ogni parola richiama un universo metaforico). Utilizza molto spesso le
analogie proprio perchè l'uomo si trova disarmato, incapace di esprimere il dramma esistenziale del '900
e soprattutto la tragedia della guerra. Le sue poesie di guerra sono composte da versi brevissimi,
spezzati, come fossero grida nel silenzio. La sua poesia è un diario di vita, racconta infatti tutte le fasi e
tutte le evoluzioni del suo pensiero.

ANALISI DI UN TESTO POETICO:

LA MADRE

E il cuore quando d'un ultimo battito


avrà fatto cadere il muro d'ombra
per condurmi, Madre, sino al Signore,
come una volta mi darai la mano.

In ginocchio, decisa,
sarai una statua davanti all'eterno,
come già ti vedeva
quando eri ancora in vita.

Alzerai tremante le vecchie braccia,


come quando spirasti
dicendo: Mio Dio eccomi.

E solo quando m’avrà perdonato,


ti verrà desiderio di guardarmi.

Ricorderai d’avermi atteso tanto,


e avrai negli occhi un rapido sospiro.

1) Comprensione

Fa parte di “Sentimento del tempo” (1933) -sezione Leggende, poesia scritta nel 1930. È chiara
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espressione della conversione al Cristianesimo dell’autore ed è poesia autobiografica, scritta dopo la
morte della madre (Maria Lunardini).

Tematiche principali sono il colloquio con Dio, l’attesa del nuovo incontro nei cieli, il perdono cristiano
e la figura della madre come mediatrice di salvezza.

2) Analisi

Composta da 6 strofe irregolari (2 quartine, 1 terzina e 2 distaci) di endecasillabi e settenari. Dopo la


morte il poeta si ritrova di nuovo con l’anziana madre che nell’oltretomba lo attende per condurlo
davanti a Dio. La madre è mediatrice di grazia e misericordia. E’ un momento supremo: Ungaretti si
ritrova come da bambino, a tendere la mano fiducioso a sua madre. Ha bisogno di lei per essere condotto
verso il giudizio e il perdono di Dio. Solo dopo potrà guardare sua madre con un sospiro.

3) Interpretazione e approfondimento

La lirica assume il ritmo di una preghiera, dal ritmo pausato e cantilenante. Le figure evocate sono
semplici e familiari in un continuo scambio tra passato (infanzia) e presente (piena maturità). Le scelte
lessicali richiamano un tono di serenità e pace e anche le scelte metriche consentono al poeta di ottenere
una musicalità dolce e pacata.

Rispetto agli scritti precedenti di Ungaretti è risolta la disperazione e il senso di smarrimento


(riferimento alla lirica “Il dolore”), e viene quindi superata la poetica di “parola nuda” e di “canto
strozzato” (Langella).

Bibliografia:

- Cesare Segre e Clelia Martignoni, Testi nella storia vol. 4, edizioni scolastiche Bruno Mondadori,
1998.

Daniela Ciceri

EUGENIO MONTALE

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La vita

Eugenio Montale nasce a Genova nel 1896 da una famiglia borghese. In Liguria trascorre l’infanzia
e la prima giovinezza. Si forma da autodidatta: studia musica, canto e si dedica alla lettura nella
biblioteca di Genova senza l’insegnamento di nessuno. Nel 1917 a soli 21 anni, durante la prima
guerra mondiale, è costretto ad arruolarsi e spedito al fronte. Dal 1922 vive alcuni anni a Torino e
diventa Direttore del Gabinetto Viesseux. Qui comincia anche l’attività di giornalista, di critico e
traduttore di poeti e scrittori anglo-americani. Nel 1927 si trasferisce a Firenze per lavorare presso
una casa editrice: un lavoro modesto che gli offre, però, la possibilità di conoscere intellettuali come
Gadda e Quasimodo. A Firenze conosce anche la scrittrice Drusilla Tanzi che sposa nel 1962. Nel
frattempo intraprende una relazione anche con Irma Brandeis, studiosa di letteratura italiana di
origine ebraica che diventa ben presto l’ispiratrice delle sue poesie. La relazione tra i due dura fino
al 1938, anno in cui Irma, cantata nelle poesie da Montale con il nome di “Clizia”, è costretta a
lasciare l’Italia. Montale si dichiara antifascista e nel 1925 firma il Manifesto degli intellettuali
antifascisti promosso dal filosofo Benedetto Croce. Il suo impegno antifascista, tuttavia, lo paga
con il licenziamento dal Gabinetto Viesseux. Durante la seconda guerra mondiale rischia più volte
la vita, perché nasconde in casa sua intellettuali ebrei, come Saba. Dopo la guerra si trasferisce a
Milano dove lavora per il Corriere della Sera. Nel 1967 è nominato Senatore a vita e nel 1975
riceve il premio Nobel per la letteratura. Muore all’età di ottantacinque anni a Milano, nel 1981.

Opere, genere letterario e contesto storico - sociale

La poesia di Montale non può essere inserita all’interno di una corrente letteraria ben precisa. È
certo che Montale sia lontano dalla poesia dannunziana. Nei suoi scritti si evidenzia “il
classicismo”, emergente dalla critica nei confronti delle Avanguardie europee. La poesia per
Montale è un mezzo per esprimere il dolore, caratteristica dell’uomo. Questa sua concezione del
“male di vivere”, così come lui la definisce, ricorda il pessimismo di Leopardi. Per il poeta, infatti,
si tratta di un destino senza speranza, nonostante i tentativi di fuga da questa sensazione di
malessere. Montale adotta la poetica del “Correlativo-oggettivo”, già utilizzata da uno scrittore
inglese, Thomas Eliot: gli oggetti vengono evocati perché richiamano la condizione dell’uomo. Ad
esempio il “cavallo stramazzato” è il correlativo oggettivo della morte e del dolore dell’esistenza
umana: l’oggetto richiama quella sensazione. Il poeta non parla del dolore ma utilizza l’immagine
del cavallo stramazzato che richiama alla mente la sensazione di dolore. Spesso, proprio per questo

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motivo, è difficile comprendere la sua poesia, in quanto il legame tra l’oggetto e la sensazione è
noto solo al poeta.

La produzione di Montale è molto ristretta, soprattutto se paragonata a quella di poeti come


D’Annunzio: oltre agli articoli di giornale, pubblicati nel Corriere della sera, scrive solo quattro
raccolte poetiche. La sua prima raccolta di versi è Ossi di seppia, pubblicata nel 1925. Nella
raccolta, pone in rilievo il paesaggio ligure, ma è un paesaggio arido, secco, morto. La natura
descritta non è vitale e il poeta cerca una via di fuga senza però mai trovarla. Già dalla sua prima
raccolta, Montale precisa la sua poetica: la parola non ha alcuna funzione salvatrice e la realtà che ci
circonda è scabra, impassibile, rude, simboleggiata nei suoi versi dal paesaggio ligure scabro e
roccioso. Il titolo della raccolta richiama alla mente cose morte, inaridite, simbolo dell’aridità della
vita dell’uomo, della sua angoscia esistenziale. Gli Ossi di seppia rappresentano una metafora della
condizione umana, ormai senza vita e ci ricordano il dolore; come già detto, il poeta non ha più
risposte da dare e l’unica cosa che rimane è la consapevolezza del male di vivere, che viene
continuamente richiamato alla mente attraverso oggetti quotidiani, come il cavallo stramazzato e la
foglia accartocciata (correlativo-oggettivo). La poesia degli Ossi non ha nessuna verità da rivelare
ma si limita a registrare la profonda angoscia del poeta, la sua “disarmonia” con il mondo.
Ricordiamo la bella poesia contenuta nella raccolta: Meriggiare pallido e assorto, dove l’asprezza
del paesaggio ligure simboleggia la solitudine e l’angoscia dell’uomo. È una condizione di disperata
immobilità, senza possibilità di scampo. La consapevolezza della drammatica condizione umana di
solitudine e d’incomunicabilità si accompagna alla ricerca di un linguaggio poetico che deve essere
quanto più aderente possibile alle cose, un linguaggio essenziale, ricco di simboli e di analogie, a
volte anche oscure, ma che, nel contempo, è anche straordinariamente narrativo e descrittivo per la
precisione dei riferimenti e per la cura dei particolari. La poesia di Montale si colloca in una
posizione di assoluta autonomia rispetto ai fattori ideologici e politici, nonostante la netta presa di
distanze del poeta dal fascismo, eppure questa poesia vive in pieno rapporto con la realtà del tempo,
specchio dell’angosciante condizione di solitudine e di alienazione dell’uomo moderno. Quella di
Montale è una poesia dura di suoni e di immagini, che contempla freddamente, con distacco, le
forme della vita che si sgretola. La seconda fase dell’itinerario poetico di Montale è rappresentato
dalla raccolta Le occasioni (1939), in cui con un fraseggiare più lento, si succedono figure ed
episodi che, evocati mediante una simbologia di oggetti e di gesti, vengono trasfigurati liricamente.
In particolare, vengono approfonditi i motivi già presenti negli Ossi di seppia, la sua visione del
mondo. Qui però Montale ricerca le occasioni della sua vita, ciò che ha condizionato e determinato
la sua esistenza: persone, incontri, luoghi; è una sorta di viaggio a ritroso nel tempo, non però in
chiave nostalgica e sentimentale ma guidato da una precisa volontà di dare a quelle occasioni un
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ordine razionale, di capirle, non di rappresentarle. L’Occasione principale di fuga per il poeta è
rappresentata dalla donna, intesa quasi come una donna-angelo che conduce alla salvezza; questa
salvezza, però, è distante rispetto a quanto concepito da Dante perché quella è una salvezza
spirituale ed eterna, la salvezza di Montale, invece è terrena, un rifugio dalla condizione dell’uomo
e dalle tragiche vicende di quegli anni come il fascismo, il nazismo e la seconda guerra mondiale.
Per questo motivo in questa raccolta sono presenti figure femminili come Clizia. L’ambientazione
qui cambia perché non è più il paesaggio ligure a fare da sfondo ma la città di Firenze. Il linguaggio
utilizzato nella raccolta poetica le Occasioni è più difficile e classico, tipico atteggiamento di
“ritorno all’ordine”. Il terzo momento del percorso creativo del poeta è costituito dalla raccolta La
bufera e altro (1956): è il dramma della guerra, ma i riferimenti alle vicende contemporanee restano
episodici e costituiscono piuttosto ulteriori occasioni per una ricognizione sulla propria condizione
esistenziale. La guerra non provoca una nuova visione della realtà da parte del poeta ma
semplicemente accentua il rapporto critico con la realtà. L’attenzione di Montale è sempre rivolta
alla condizione umana più che agli eventi storici. Per salvarsi dalla follia dell’uomo e dalla guerra
(rappresentata dalla bufera), Montale cerca rifugio, nuovamente, nell’amore e nelle donne: Clizia è
ancora presente ed è presente anche una donna ancor più sensuale di lei, Volpe. Dopo questa
raccolta, la poesia di Montale cambia stile e temi: la lingua è più discorsiva e i temi sono legati
all’attualità politica degli anni sessanta e settanta del novecento. Satura, libro pubblicato nel 1971,
raccoglie i versi scritti fra il 1962 e il 1970. Montale medita su eventi comuni, di carattere privato.
Come si evince dal titolo stesso, si tratta di un libro di satira nei confronti della sottocultura della
società contemporanea, soprattutto quella proposta dai giornali e dalla televisione. Il linguaggio è
nuovo, più colloquiale e familiare, attraverso il quale prende in giro la società contemporanea. Le
brevi poesie sono dedicate a momenti semplici e toccanti di vita familiare e sono dedicati alla
moglie Drusilla Tanzi, morta nel 1963, che nella raccolta chiama Mosca perché miope. Tra queste
c’è la famosissima poesia Ho sceso, dandoti il braccio, una delle poesie d’amore più belle della
letteratura italiana. Eugenio Montale offre al lettore una testimonianza acuta delle paure, dei
desideri e delle attese dell’uomo contemporaneo. Da osservatore critico e attento, ha fornito un
bilancio degli eventi più drammatici del XX secolo, di cui è stato testimone diretto e rielaborando
liricamente i contenuti del suo vissuto, ha illustrato i tratti salienti della condizione umana di ogni
tempo. Montale tocca uno dei grandi temi della letteratura novecentesca europea: la crisi del
soggetto, la perdita dell’identità individuale.

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Da OSSI DI SEPPIA – Meriggiare pallido e assorto

In Meriggiare pallido e assorto si precisano l’immagine del poeta e la sorte degli uomini, testimoni
di una catastrofe senza scampo. Il componimento risale al 1916, quindi il più antico della raccolta.
Solo la strofa finale fu poi modificata nel 1922. È un momento di sospensione quasi assoluta, in un
colloquio muto tra l’uomo e le cose, dove compare il motivo predominante della raccolta, quello del
paesaggio arido e scarnificato durante un assolato pomeriggio d’estate, definito “pallido e assorto”.
Gli aggettivi assumono una valenza rilevante perché sono di solito riferiti ad esseri umani. Il titolo
allude a un aspetto temporale della poesia, durante il quale il poeta trascorre le ore del pomeriggio a
pensare, assorto e pallido a causa della luce accecante e della calura, presso il muro rovente di un
orto, a sentire tra gli arbusti e i rami secchi, i rumori improvvisi prodotti dai merli e dai serpenti. Il
poeta si ferma a guardare le file di formiche rosse nelle crepe del terreno o sulle pianticelle erbacee
che si dividono e si intrecciano sulla sommità di mucchietti di terra accanto ai formicai. Osserva tra
le fronde il mare che, illuminato dal sole, sembra fatto di scaglie luccicanti come squame di pesci,
mentre alla sommità delle alture desolate si leva il frinire delle cicale. Nel momento in cui si
incammina verso il sole che abbaglia realizza con triste stupore quanto è tormentata la vita, come il
cammino lungo una muraglia invalicabile, a causa dei cocci aguzzi di bottiglia. Dalla descrizione
non emergono sensazioni di gioia e di slancio vitale; al contrario domina il motivo dell’aridità,
l’isolamento, la solitudine.

Meriggiare pallido e assorto

presso un rovente muro d’orto,

ascoltare tra i pruni e gli sterpi

schiocchi di merli, frusci di serpi.1

Nelle crepe del suolo o su la veccia2

Spiar le file di rosse formiche

ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano

1
Meriggiare…serpi: indugiare nel meriggio, l’animo stanco, pensoso, all’ombra di un muro calcinato dal sole e
ascoltare il fischio dei merli, il fruscio delle serpi.
2
veccia: sugli steli dei rampicanti. Probabilmente la veccia è una pianta leguminosa.
87
a sommo di minuscole biche.3

Osservare tra frondi il palpitare

lontano di scaglie di mare4

mentre si levano tremuli scricchi

di cicale dai calvi picchi.5

E andando nel sole che abbaglia

Sentire con triste meraviglia

com’è tutta la vita e il suo travaglio

in questo seguitare una muraglia

che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia6.

BIBLIOGRAFIA

Baldi G., Giusso S., Razetti M., Zaccaria G., La letteratura:il primo Novecento e il periodo tra le
due guerre, Bruno Mondadori, 2007.

Baruffini G., Conti G., Marziano N., Storia e antologia della letteratura italiana, Edizioni
scolastiche Mondadori, 1973.

D’Ambrosio F., Lucignano M., Temi svolti di letteratura, Editrice il girasole, 2008.

3
ch’ora… biche: il ritmo dei versi sembra accompagnare la lenta, continua,, monotona fatica delle formiche, il loro
ordinato e preciso andirivieni in lunghe file dal cibo ai mucchietti di terra (biche) dove nidificano.
4
il palpitare…mare: l’occhio sembra spaziare lontano, aprirsi su orizzonti più vasti, cogliere in lontananza il palpito
del mare, il suo bagliore; ma è un occhio semispento quello che guarda lontano, un occhio abbacinato, che appena
intravede.
5
tremuli… picchi: il modulato frinire delle cicale sui dossi aridi delle colline.
6
E andando… bottiglia: la vita, nel suo monotono continuo seguitare è come una muraglia invalicabile, difesa da
cocci aguzzi di bottiglia, al di là della quale il mistero resta inattingibile, inviolabile per l’uomo.
88
De Robertis F., Italiano nella scuola secondaria – il nuovo concorso a cattedra – III Edizione
Copyright 2019, 2016, 2013, Edises S.r.l. – Napoli.

Genesini P., Letteratura italiana 123, Padova, 2020.

SITOGRAFIA

Di Gregorio A., Lezioni di letteratura italiana, www.adrianodigregorio.com/lezioni-di-letteratura-


italiana/, consultato il 05/10/2020.

Skuola Network s.r.l. https://www.skuola.net/appunti-italiano/eugenio-montale/meriggiare-pallido-


e-assorto.html consultato il 10/10/2020.

Ilaria Tranfaglia

UMBERTO SABA
La vita

Umberto Saba, il cui vero nome è Umberto Poli, nasce a Trieste nel 1883; appartiene ad una famiglia della
borghesia imprenditoriale, di origine ebraica. Trascorre un’infanzia traumatica: il padre lo abbandona ancor
prima della sua nascita e la madre, una volta venuto al mondo, decide di darlo in affidamento ad una donna
di nome Sabaz, dalla quale eredita il nome. La madre stessa, decide poi di riprenderlo all’età di quattro anni.
Il trauma subìto caratterizza tutta la sua vita ed è immediatamente evidente nelle sue poesie. Nel 1903 si
iscrive all’università di lettere a Pisa. Nel 1910 collabora con il giornale l’Avanti diretto da Benito Mussolini.
Partecipa alla prima guerra mondiale solo per poco, perché affetto da crisi nervosa. Nel 1922 pubblica la sua
opera più importante, il Canzoniere e si mette a fare il libraio. Nel 1938, con l’entrata in vigore delle leggi
razziali, Saba ne risente fortemente: è costretto a cedere la libreria e a rifugiarsi. Negli anni ’50 viene
ricoverato per le sue sempre più evidenti crisi nervose. Nel 1956 muore la moglie Lina. Saba muore l’anno
seguente a Gorizia, nel 1957.

Opere, genere letterario e contesto storico - sociale

Umberto Saba scrive molte raccolte poetiche, iniziando nel 1903 con Il mio primo libro di poesie, Poesie
dell’adolescenza e giovanili, Trieste e una donna, Poesie scritte durante la guerra e tante altre riunite poi nel
Canzoniere. Il Canzoniere di Saba – pubblicato per la prima volta nel 1921 e ripubblicato altre volte fino al
1961 – raccoglie alcune poesie del primo periodo e tutta la produzione poetica dal 1921 in poi; sin dal titolo
89
il poeta si richiama al Canzoniere di Petrarca e di conseguenza a tutta la grande tradizione poetica italiana.
L’opera viene definita dallo stesso Saba “un romanzo autobiografico”, perché il percorso poetico coincide
con la sua vita. Ogni volta che Saba lo ristampa, cambia le sezioni, inserisce o esclude alcune poesie, in base
all’ordine e al criterio narrativo scelto di volta in volta. In quest'opera sono inserite anche le poesie più
famose di Saba, come La Capra, nella quale l’autore si immedesima con il doloroso destino degli uomini.
Nel Canzoniere ricorrono spesso alcuni personaggi simbolo, come la madre, la donna che l’ha cresciuto fino
all’età di quattro anni, la moglie e Trieste, sempre descritta come una vera e propria donna. Nel 1948
pubblica il romanzo autobiografico Ernesto, nel quale racconta le sue tendenze omosessuali, nonostante sia
sposato da tanti anni.

Quando Saba inizia a scrivere, tra il 1911 e il 1912, sembra un poeta fuori moda, all'oscuro della grande
rivoluzione portata avanti dalle Avanguardie. Quest’ultime, nei primi anni del XX secolo, avevano avuto un
ruolo importante per i risultati poetici raggiunti ma soprattutto per aver interrotto le ferree catene della
tradizione poetica e letteraria. Con Saba si assiste ad un ritorno alla rima, l’endecasillaba, il sonetto, spariti
ormai da un po’ di tempo. Dopo la tragedia della prima guerra mondiale, negli anni venti e trenta del
Novecento, si sente il bisogno di ritornare all’ordine, quindi di ripristinare le forme metriche, il linguaggio ed
i temi della tradizione. Per questo motivo, vengono abbandonate le Avanguardie. Per quanto riguarda i
modelli letterari di riferimento, si ritorna a Leopardi e Petrarca. Umberto Saba è proprio uno dei
rappresentanti del cosiddetto “Ritorno all’ordine” eppure, tra le due guerre, non viene apprezzato. Dopo la
seconda guerra mondiale, arriva per lui un periodo di grande fama. Le sue poesie sono fortemente anti-
dannunziane per un’estrema semplificazione di lingua e struttura metrica. Si richiama spesso a Freud perché
la sua poesia cerca le motivazioni dell’agire umano. Il trauma infantile avuto viene fuori molto spesso nelle
sue poesie, quasi fino a tormentarlo. Nonostante tutto, ritroviamo nella sua poesia la celebrazione della vita e
dell’amore. E’ un poeta che si distingue nel panorama del ‘900 letterario italiano per la sua condizione di
solitudine. Egli infatti è rimasto estraneo a tutti i più significativi movimenti letterari del suo tempo: al
dannunzianesimo come all’ermetismo. Tuttavia Saba non è assolutamente estraneo alle tensioni e alle
inquietudini del secolo e infatti, come capitato anche a Svevo e Pirandello, pur distante dalle mode letterarie
e poetiche del momento, è in grado di andare alla radice dei mali dell’uomo del nostro tempo.

La poesia di Saba vuole essere chiara, semplice ed il più possibile aderente alla realtà. Secondo il suo punto
di vista, il poeta non deve inventarsi il mondo e, così facendo, mentire; deve piuttosto comprendere il mondo
osservandolo. Si pone dunque in rapporto con il mondo quale esso è: il poeta non deve porsi al di sopra del
mondo quale sua guida o eroe, ma deve essere un uomo comune fra gli uomini comuni, con i problemi, le
contraddizioni, i dolori e le piccole gioie di tutti gli individui comuni.

La poesia di Umberto Saba respinge la parola ornata e oratoria di D’Annunzio, così come sembra respingere
anche la parola scabra e scarnificata degli ermetici, per adoperare invece la parola comune, quella dell’uso
quotidiano, tuttavia caricata delle vibrazioni, delle emozioni, dei sentimenti che gli uomini comuni possono
attribuirle. Non a caso, nelle sue poesie, ritrae tanti aspetti della vita quotidiana: fatti, persone, paesaggi,
uomini, strade e quartieri della sua Trieste, nonché le immagini del suo repertorio umano, la moglie, la
madre.

Il poeta è consapevole che la vita è una grande delusione, un colossale inganno e in questo sembra vicino a
Leopardi; eppure è lontano da qualsiasi atteggiamento sconsolato: egli non rinuncia a descrivere anche la
gioia di vivere, la ricerca della felicità, i momenti di spensieratezza. In lui ritroviamo la consapevolezza di un
contrasto sempre presente nell’individuo: impulso gioioso e volontà di castigo che riflette un po’ l’alternarsi
del bene e del male che costituisce la realtà del nostro mondo.

La poesia di Saba si rivela, nello stesso tempo, antica e moderna: antica perché si riallaccia a quel senso di
lacerazione che ha sempre caratterizzato il ripiegamento dell’uomo in se stesso e nuova e moderna per la
90
valida interpretazione della crisi esistenziale dell’uomo contemporaneo e per la consapevolezza che il
poetare resta l’unico significativo conforto al dramma umano.

La poesia di Saba è una poesia di una semplicità ed efficacia disarmante. Nelle sue opere Saba, sempre
attraverso la semplicità e la quotidianità, cerca di comprendere le ragioni dell’agire umano e i suoi grandi
conflitti interiori, soprattutto partendo da Freud. La sua poesia nasce da lontano, dai traumi vissuti durante la
sua infanzia e la sua formazione: lo comprende ancor prima di scoprire la psicanalisi. Per questo motivo al
centro della sua produzione, come punto di partenza, pone le sue vicende autobiografiche per poi arrivare al
senso profondo delle cose. Nonostante tutto, però, la sua poesia è sempre consolatoria e celebra la vita. Un
posto importante lo trova sua moglie Lina, descritta con precisione. Negli anni a cavallo tra le due guerre,
Saba è uno dei pochi poeti italiani ad aver rifiutato la difficoltà e l’astrattezza della poesia ermetica. Per
questo motivo, per non aver aderito alla corrente culturale in voga, non viene apprezzato dalla critica
letteraria tanto che si parlò di un “caso Saba”. Soltanto nel secondo dopoguerra, quando la moda
dell’Ermetismo passò, Saba e la sua poesia “semplice” furono compresi, studiati, e apprezzati.

Visto che la sua poesia è basata sulla semplicità, è ovvio che anche il suo linguaggio sia molto semplice,
quotidiano e a tratti infantile. Le parole “dotte” non sono mai termini ricercati, ma tratti dalla tradizione
letteraria

Dal CANZONIERE - A mia moglie

A mia moglie è tra le più belle poesie di Umberto Saba. Si presenta con una descrizione realistica della realtà
umana ed è ovviamente dedicata alla moglie Lina. Il testo è costituito da sei strofe di misura irregolare,
nonché da frequenti figure di ripetizione (rime, assonanze, anafore, allitterazioni…). Questi elementi
convivono in lessico umile e colloquiale. Il poeta descrive la propria donna attraverso una serie di paragoni
con il mondo animale. Ogni strofa, ad eccezione dell’ultima, è dedicata ad un animale in particolare e si apre
con l’anafora: “Tu sei come…”, che introduce la similitudine tra l’animale e la moglie. La finalità dell’opera
è proprio quella di svelare una persona vera e amata dal poeta.

Nella prima strofa (vv. 1-24) la moglie è paragonata ad una gallina perché anche se china il collo per bere e
nutrirsi, ha un passo lento e superbo, simile a quello di una regina. Le “gallinelle” ricordano al poeta la
moglie per via della “soave e triste musica dei pollai”, paragonata ai lamenti della donna.

Nella seconda strofa (vv. 25-37) assistiamo alla similitudine fra la donna e “una gravida/giovenca”. La
mucca viene descritta libera e non molto appesantita, nonostante la gravidanza. Anche in questo caso
paragona il muggito triste dell’animale al temperamento malinconico della donna, che egli può colmare
attraverso regali affettuosi.

Nella terza strofa (vv. 38-52) la moglie è paragonata ad una cagna: perché fedele, dolce e gelosa fino alla
possessività.

Nella quarta strofa (vv.58-68) la moglie viene paragonata ad una coniglia impaurita che dalla gabbia tende le
orecchie in attesa del cibo e teme di continuo che le venga sottratto. La coniglia viene anche descritta con
un’immagine di infinita dolcezza quando si strappa i peli di dosso per costruire una tana in cui partorire ed
accogliere i cuccioli. La coniglia è al tempo stesso madre e moglie. Questo fa emergere il rapporto
tormentato con la madre e la figura femminile in generale ed il suo tormentato rapporto con la madre e la
figura femminile in generale che lascia spazio al complesso di Edipo di Freud nella sua biografia.

Nella quinta strofa (vv. 69-76), la donna è paragonata alla rondine. Mentre la rondine ritorna in primavera
per poi ripartire in autunno, la donna non ha partenze e ritorni, per cui viene ammirata la fedeltà.
91
La sesta ed ultima strofa (vv. 77-87) è dedicata alla formica. La formica rappresenta le gestione della
famiglia e della casa. Si accenna ad una nonna che racconta ad un bimbo la favola della formica, in un
quadretto affettuoso.

Tu sei come una giovane,

una bianca pollastra.7

Le si arruffano al vento

le piume, il collo china

per bere, e in terra raspa;

ma, nell’andare, ha il lento

tuo passo di regina,

ed incede sull’erba

pettoruta e superba.

E’ migliore del maschio.

È come son tutte

le femmine di tutti

i sereni animali

che avvicinano a Dio.

Così se l’occhio, se il giudizio mio

non m’inganna, fra queste8 hai le tue uguali

e in nessun’altra donna.

Quando la sera assonna

le gallinelle

mettono voci che ricordan quelle,

dolcissime, onde a volte dei tuoi mali

ti quereli, e non sai

che la tua voce ha la soave e triste

7
Tu sei… pollastra: Saba deve aver sentito con gioia le identità che correvano tra la giovane donna che gli viveva
accanto e gli animali della campagna dove allora abitava. Il poeta ritrova la sua donna nella giovane e bianca pollastra,
nella cagna, nella rondine, nella pavida formica. Ad ogni animale sono attribuite (come nelle favole) qualità essenziali.
8
fra queste: fra le pollastre
92
musica dei pollai.

Tu sei come una gravida giovenca;

libera ancora e senza gravezza9, anzi festosa;

che, se la lisci, il collo

volge, ove tinge un rosa

tenero la sua carne.

Se l’incontri e muggire

l’odi, tanto è quel suono

lamentoso, che l’erba

strappi, per farle un dono.

È così che il mio dono

t’offro quando sei triste10.

Tu sei come una lunga

cagna, che sempre tanta

dolcezza ha negli occhi,

e ferocia11 nel cuore.

Ai tuoi piedi una santa

sembra, che d’un fervore

indomabile arda12,

e così ti riguarda

come il suo Dio e Signore.

Quando in casa o per via

segue, a chi solo tenti

9
senza gravezza: senza la pesantezza degli animali adulti.
10
È così… triste: viene resa nota la cordialità del poeta, il suo affetto profondo e semplice per la moglie, espresso in
modo semplice.
11
ferocia: nel senso di: fierezza
12
che d’un…arda: l’immagine rende perfettamente la fedeltà dell’animale per il suo padrone, la dedizione assoluta,
che non è passività, debolezza, ma amore.
93
avvicinarsi, i denti

candidissimi scopre.

Ed il suo amore soffre

di gelosia13.

Tu sei come la pavida

coniglia. Entro l’angusta

gabbia ritta al vederti

s’alza,

e verso te gli orecchi

alti protende e fermi;

che la crusca e i radicchi

tu le porti, di cui

priva14 in sé si rannicchia,

cerca gli angoli bui.

Chi potrebbe quel cibo

ritorglierle? chi il pelo

che si strappa di dosso,

per aggiungerlo al nido

dove poi partorire?15

Chi mai farti soffrire?16

Tu sei come la rondine

che torna in primavera

Ma in autunno riparte;

e tu non hai quest’arte.17

13
Ed il suo… gelosia: si può notare la stretta correlazione fra la fedeltà dell’animale e l’amore della donna, che quando
è sincero e profondo è altrettanto esclusivo.
14
di cui priva: se è rimasta priva di quelli.
15
chi il pelo…partorire?: sottinteso: potrebbe ritorglierle.
16
chi mai…soffrire?: anche qui la stessa correlazione, l’identico rapporto tra la bestiola e la donna amata.
94
Tu questo hai della rondine:

le movenze leggere;

questo che a me, che mi sentiva ed era

vecchio, annunciavi un’altra primavera.

Tu sei come la provvida

formica. Di lei, quando

escono alla campagna,

parla al bimbo la nonna

che l’accompagna18.

E così nella pecchia

ti ritrovo, ed in tutte

le femmine di tutti

i sereni animali

che avvicinano a Dio;

e in nessun’altra donna19.

BIBLIOGRAFIA

Baruffini G., Conti G., Marziano N., Storia e antologia della letteratura italiana, Edizioni scolastiche
Mondadori, 1973.

D’Ambrosio F., Lucignano M., Temi svolti di letteratura, Editrice il girasole, 2008.

De Robertis F., Italiano nella scuola secondaria – il nuovo concorso a cattedra – III Edizione Copyright
2019, 2016, 2013, Edises S.r.l. – Napoli.

17
Tu sei… quest’arte: è un sottile intrecciarsi di motivi che appartengono alla donna e alla rondine: la donna che non
ha come la rondine le partenze e i ritorni, e di cui al contrario si ammira la fedeltà immutabile. Ma pare quasi che in
fondo di questa lode tremi vagamente il rimpianto ch’essa non ne abbia quell’arte.
18
Di lei…l’accompagna: è delicato il breve accenno alla nonna che racconta al bimbo la favola della formica, e ha
evidenza limpida e affettuosa questo quadretto appena accennato.
19
in nessun’altra donna: il verso conclusivo dice la profondità dell’affetto, l’intensità dell’amor coniugale.
95
SITOGRAFIA

Di Gregorio A., Lezioni di letteratura italiana, www.adrianodigregorio.com/lezioni-di-letteratura-italiana/,


consultato il 21/09/2020.

fareLetteratura, https://www.fareletteratura.it/2018/10/11/analisi-del-testo-e-parafrasi-a-mia-moglie-di-
umberto-saba/, consultato il 28/09/2020.

Ilaria Tranfaglia

SALVATORE QUASIMODO

La vita

Salvatore Quasimodo nasce a Modica, in Sicilia, il 20 Agosto 1901 e nella sua terra trascorre l’intera infanzia
e giovinezza, trasferendosi in vari paesi a causa dei frequenti spostamenti del padre, capostazione delle
ferrovie dello Stato. Dopo aver conseguito il diploma a Messina come geometra, a diciannove anni si
trasferisce a Roma dove svolge vari lavori e si avvicina agli studi letterari. Sempre a Roma si iscrive alla
facoltà di ingegneria senza mai conseguire la laurea per i suoi interessi prevalentemente letterari. Con la sua
Sicilia mantiene sempre un forte legame. A Roma vive con Bice Donetti, di circa otto anni più grande di lui e
la sposa nel 1926. Divenuto funzionario del Genio Civile, viaggia a lungo per motivi di lavoro in varie
regioni d’Italia. Nel 1930 si trasferisce a Firenze: qui il cognato, Elio Vittorini, lo introduce nell’ambiente
letterario della rivista Solaria, entra in contatto con Montale e poeti che si riconoscono nel movimento
dell’Ermetismo. Ad Imperia incontra Amelia Spezialetti, una donna già sposata. Dal legame con la donna
nasce Orietta Quasimodo. Nello stesso anno, intraprende una relazione burrascosa con Sibilla Aleramo,
venticinque anni più anziana di lui. Tuttavia, Quasimodo scopre l’amore autentico solo nel 1936, quando
incontra Maria Cumani, dal cui legame nasce Alessandro. Nel 1934, stabilitosi a Milano, intraprende
l’attività di pubblicista. Dopo qualche anno viene chiamato al Conservatorio di Brera per insegnare
letteratura Italiana, cattedra che terrà fino all’anno della sua morte. Nel 1946 muore Bice Donetti e nel 1948
sposa Maria Cumani. Chiaramente incapace di essere un uomo fedele, dopo il matrimonio con la donna,
decidono comunque di vivere separati. Muore nel 1968 ad Amalfi, colto da un malore.

Opere e contesto storico – sociale

L’esperienza poetica di Quasimodo si può dividere in tre tappe essenziali. La prima è rappresentata dalle
poesie improntate ai modelli più illustri del tempo (Pascoli, D’Annunzio, i crepuscolari), nella quale i temi
salienti sono l’amore per la terra siciliana, la malinconia, il ricordo dell’infanzia. Tutti questi sentimenti
vengono espressi con un linguaggio sobrio e sincera effusione. La seconda tappa vede il poeta concentrarsi
sullo studio della parola che porta ad una poesia pura e intensa, tipica dell’ermetismo. L’ultima tappa risale
all’esperienza dolorosa della guerra, momento nel quale la poesia non può considerarsi come elemento
isolato ma deve farsi interprete dell’uomo, diventare il mezzo per raccontare una realtà. La prima raccolta di
versi di Quasimodo è Acqua e terre del 1930, opera nella quale viene resa nota la sua nostalgia per la sua
terra lontana, per i luoghi dell’infanzia. Nell’opera, viene evidenziata la ricerca della parola come valore
fonico, scandita e chiusa in una gelosa architettura musicale. Nelle sue prime raccolte Acqua e terre ed Oboe
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sommerso (1932), egli esprime, secondo i moduli dell’ermetismo (frequenti analogie, rarefazione del lessico,
versi pausati), i ricordi dell’infanzia della terra siciliana, ripensati nostalgicamente come un’età
dell’innocenza, un sogno di purezza perduta. Quasimodo si sente come sradicato e proprio per questo rivive
la sua Sicilia ripensandola in una dimensione nello stesso tempo dolorosa e mitica. Quasimodo scrive poesie
di guerra e durante la guerra si iscrive al partito comunista, non in quanto comunista ma perché fortemente
antifascista. Gli anni della guerra rappresentano una svolta al suo modo di fare poesia. Nel 1959 riceve il
premio Nobel perché con la sua poesia è in grado di dar voce alle tragiche esperienze di quei tempi. Il premio
suscita un po’ di scalpore perché molti storici della letteratura non lo credono all’altezza di ricevere un
premio simile. La sua raccolta di poesie più famosa, Ed è subito sera, pubblicata nel 1942, racchiude
l’ermetismo e all’interno della stessa si ritrovano anche poesie di guerra. In conseguenza della tragedia della
seconda guerra mondiale la meditazione di Quasimodo sul dolore dell’uomo si arricchisce, di nuovi motivi:
la raccolta Giorno dopo giorno (1947), esprime il bisogno di scoprire la sofferenza di tutti, la partecipazione
al dramma dell’umanità offesa e colpita nei suoi più elementari valori civili. Si tratta di una poesia più attenta
alla società. Tra i più significativi componimenti di Giorno dopo giorno ricordiamo Alle fronde dei salici,
poesia ispirata alla situazione italiana durante la seconda guerra mondiale dove si evince lo strazio, la
sofferenza, l’offesa alla dignità umana. Quasimodo, con la sua poesia, sente il bisogno di cantare l’angoscia
dell’uomo di fronte al mondo contemporaneo. La poesia, con lui, rappresenta l’ultimo rifugio contro la
disgregazione dei valori. Tra il 1939 ed il 1940 Quasimodo si occupa della traduzione dei Lirici greci,
pubblicata poi nel 1942. L’opera ha grande successo perché considerata dal grande valore creativo e viene
ripubblicata e rivenduta più volte. Al 1966 risale l’ultima sua opera, Dare e avere: si tratta di una raccolta
che rappresenta un bilancio della propria vita.

Ed è subito sera

Ognuno sta solo sul cuor della terra

trafitto da un raggio di Sole:

ed è subito sera.

È questa una delle poesie più celebri di Quasimodo, breve ed incisiva, raccolta in un’unica sentenza di
causa– effetto. Per il poeta, ognuno vive la sua vita in solitudine, pur trovandosi “sul cuor della terra”, quindi
nel cuore e al centro delle cose. Con la parola “trafitto”, troviamo una contraddizione: il “raggio di sole” che
colpisce l’uomo è simbolo di luce e di calore ma “trafitto” rimanda al significato di “ferito”, trasformando il
“raggio” in una sorta di dardo che provoca morte e dolore. Poi la sua vita si conclude ben presto nella sera. Il
sopraggiungere della sera, rimanda all’improvviso il sopraggiungere della fine. Nella poesia, inoltre, è
assente la possibilità di incontrare un altro individuo: l’uomo è uno ed è sempre solo. Nella sua brevità, la
lirica esprime perfettamente i tratti salienti della poetica dell’Ermetismo: il significato profondo della parola
che richiama ad una serie di rimandi analogici. Viene posto in primo piano il significato della precarietà della
vita, della solitudine e della morte, come caratteristica dell’esistenza, del rapporto esistente tra l’uomo e ciò
che lo circonda. Quasimodo fornisce una riflessione poetico-filosofica sulla condizione umana.

Da GIORNO DOPO GIORNO - Alle fronde dei salici

97
Con l’opera Alle fronde dei salici, viene rievocato il tempo dell’occupazione in Italia da parte dei nazisti, i
mesi terribili che succedettero all’8 Settembre 1943, quando anche la parola ed ogni messaggio di speranza e
di amore da parte dei poeti sembravano vani. La lirica scritta da Salvatore Quasimodo racconta la terribile
realtà della guerra. Di fronte a tanta crudeltà e tanto strazio, il poeta esprime l’angoscia ed il terrore dinanzi
alla visione di morti, pianti dei bambini. Negli ultimi versi, il poeta tende a sottolineare come gli strumenti
per esprimere sentimenti di gioia siano stati appesi ai rami dei salici, quasi ad indicare un disprezzo per la
guerra. Inoltre, questi ultimi, oscillano tristemente perché a farli oscillare è proprio un vento di guerra. La
lirica evidenzia ciò che genera la guerra: terrore e distruzione.

E come potevamo noi cantare

con il piede straniero sopra il cuore,

fra i morti abbandonati nelle piazze

sull’erba dura di ghiaccio, al lamento

d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero

della madre che andava incontro al figlio

crocifisso sul palo del telegrafo?20

Alle fronde dei salici, per voto,

anche le nostre cetre erano appese,

oscillavano lievi al triste vento.21

Genere letterario

Come accennato, Salvatore Quasimodo è stato il poeta più rappresentativo dell’Ermetismo, la più grande
corrente letteraria d’Italia che si diffonde tra le due guerre. Il termine viene inizialmente usato in senso
negativo, come sinonimo di oscurità. La poesia ermetica rinuncia alla complessità della comunicazione in
favore di un rapporto complesso realtà-poesia, caratterizzato dalla presenza di analogie. Nella corrente
letteraria dell’Ermetismo ritroviamo il culto della parola: la parola viene caricata di significato ed isolata
all’interno del verso per renderla importante. La stessa corrente letteraria risulta essere fortemente anti-
dannunziana. Mentre D’Annunzio utilizza una marea di parole per dire una cosa semplice, gli ermetici
utilizzano pochissime parole per esprimere concetti importanti. La seconda guerra mondiale, l’occupazione
nazista, le deportazioni, le torture, gli orrori di un tempo senza amore, influiscono molto sulla poesia di

20
al lamento… telegrafo? : sono immagini intense: il lamento dei fanciulli, indifesi come agnelli nel furore della
guerra e lo strazio delle madri, il loro urlo nero, così terribile, disperato, carico di odio e di protesta.
21
Alle fronde… vento: I poeti, in quel tempo, avevano cessato di cantare e, come gli antichi profeti di Israele, avevano
appeso le loro cetre ai rami dei salici, che un vento triste di morte faceva oscillare, perché quel sangue e quell’odio
avessero fine.

98
Quasimodo. Durante il periodo della guerra, tuttavia, il poeta rompe con la precedente esperienza ermetica
per andare al di là di un discorso autobiografico: ora sente l’impegno di una sua missione umana e sociale fra
gli uomini.

BIBLIOGRAFIA

Baruffini G., Conti G., Marziano N., Storia e antologia della letteratura italiana, Edizioni scolastiche
Mondadori, 1973.

D’Ambrosio F., Lucignano M., Temi svolti di letteratura, Editrice il girasole, 2008.

De Robertis F., Italiano nella scuola secondaria – il nuovo concorso a cattedra – III Edizione Copyright
2019, 2016, 2013, Edises S.r.l. – Napoli.

Baldi G., Giusso S., Razetti M., Zaccaria G., La letteratura:il primo Novecento e il periodo tra le due guerre,
Bruno Mondadori, 2007.

Genesini P., Letteratura italiana 123, Padova, 2020.

SITOGRAFIA

Di Gregorio A., Lezioni di letteratura italiana, www.adrianodigregorio.com/lezioni-di-letteratura-italiana/,


consultato il 21/09/2020.

Studenti.it, Salvatore Quasimodo: vita e opere, https://www.studenti.it/salvatore-quasimodo-vita-opere.html,


consultato il 02/10/2020.

D. Ruocco, Salvatore Quasimodo, Premio nobel per la letteratura 1959, https://www.salvatorequasimodo.it/,


consultato il 02/10/2020.

Redattori di Biografieonline.it, Salvatore Quasimodo, biografia, https://biografieonline.it/biografia-


quasimodo, Creative Commons 2, consultato il 02/10/2020.

Sapuppo A., Biografia: Salvatore Quasimodo, https://www.scuolissima.com/2012/05/biografia-salvatore-


quasimodo.html, consultato il 02/10/2020.

Ilaria Tranfaglia

Cesare Pavese

- Vita e contesto storico-culturale

Cominciamo dalla fine. Il cadavere di Cesare Pavese fu ritrovato disteso sul letto di una camera
dell’albergo Roma di Piazza Carlo Felice a Torino il 27 agosto 1950. Morì suicida a soli

99
quarantadue anni, disilluso e depresso, ingerendo una forte quantità di sonnifero. Ma, nonostante la
sua prematura dipartita, aveva contribuito in maniera notevole alla causa culturale italiana, tanto in
qualità di traduttore, quanto in qualità di romanziere, poeta, critico, recensore e funzionario per la
casa editrice Einaudi. Pavese fu sicuramente uno dei giovani che durante gli anni del regime si batté
affinché l’Italia, congestionata dalla temperie culturale strapaesana littoria, mettesse da parte il
provincialismo al quale la politica culturale delle camicie nere lo aveva costretto. E, anche se in
questo breve profilo biografico- letterario terremo conto principalmente della sua produzione
poetico- letteraria, una considerazione generale sul lavoro intellettuale di Pavese andava fatta per
chiarire la rilevanza della sua figura. Ora si può ricominciare da capo.

Cesare Pavese nacque nel 1908 a Santo Stefano Belbo, in provincia di Cuneo, nelle Langhe, e la sua
infanzia non fu particolarmente felice benché la sua famiglia potesse concedergli degli agi: il padre
Eugenio era cancelliere presso il Palazzo di Giustizia di Torino mentre la madre, Consolina
Mesturini, era figlia di ricchi commercianti. Il povero Cesare nacque dopo la morte prematura di
una sorella e due fratelli, e, all’età di cinque anni rimase orfano del padre. Così, la madre, rigorosa e
autoritaria, dovette provvedere da sola alla sua educazione e a quella della sorella maggiore. Benché
la famiglia Pavese fosse solita soggiornare a Santo Stefano nei periodi estivi, fu a Torino che si
svolse la formazione di Cesare, e, durante quegli anni, entrò in contatto con giovani intellettuali
ostili o poco affini al fascismo riunitisi attorno a Giulio Einaudi nel 1933. La prima grande passione
letteraria di Pavese fu la letteratura angloamericana, non a caso nella sua tesi di laurea si occupò
della poesia di Walt Whitman, e, una volta conclusi gli studi accademici, dedicò il suo impegno
all’attività di traduzione, avviando un apprendistato delle lettere di là dell’Atlantico che lo
porteranno a realizzare delle personali versioni non solo di titoli ottocenteschi come il Moby Dick di
Melville ma anche di romanzi, racconti e poesie di autori contemporanei come William Faulkner,
John Dos Passos ed Edgar Lee Masters. Infatti, l’influenza della cultura americana è
immediatamente riscontrabile nei versi di Pavese, in particolare nelle poesie di una delle sue prime
prove, ovvero, Lavorare Stanca (raccolta del 1936 ampliata nel ’43), in cui i metri lunghi e
tendenzialmente narrativi, nonché alcune immagini metaforico-mitologiche evocano l’emaciato
volto barbuto dell’autore di Leaves of Grass.

Intanto l’autore piemontese ha dovuto subire due anni di confino per sospetto anti-fascismo: la sua
salute, minata dall’asma, peggiora insieme al suo stato di depressione che periodicamente insorge
compromettendo il suo stato d’animo. Nel corso del periodo bellico si rifugia sulle colline del
Monferrato e le sue scelte politiche non sono all’epoca nette. Nel dopoguerra, invece, Pavese
aderisce al Partito comunista e rafforza la sua collaborazione con l’Einaudi. Tuttavia, i suoi interessi

100
sono più mitologici e antropologici, piuttosto che politici, al punto che elabora e realizza nuove
collane di carattere etnologico. Non a caso, il mito, inteso come fondo primitivo e inconscio da
riscoprire dietro la razionalità moderna, acquisisce un ruolo topico nelle sue opere, le quali si
collocano più in una dimensione metastorica che storica in senso stretto. In altre parole, si occupa di
trattare eventi reali però mai come elemento cardine della narrazione, a differenza dei neorealisti
più osservanti.

- Le opere

Nel 1941, Pavese esordisce come romanziere con Paesi tuoi: opera di ambientazione realista-verista
che, influenzata da modelli americani, lascia spazio ad aspetti simbolici e antropologici, come il
rapporto tra violenza ancestrale e amore. Nel periodo compreso tra il 1945 e il ’50, si impegna in
un’intensa attività come scrittore e saggista, e, uno dei primi notevoli frutti di questo intenso
impegno è sicuramente la raccolta di racconti Feria d’agosto (1946). A questo volume fa seguito un
esame della psicologia borghese nella trilogia che esce sotto il titolo La bella estate (1949). Su un
piano sfalsato, invece, va collocata la sua riflessione filosofica ed etica che trova spazio in una serie
di brevi testi in cui compaiono personaggi della mitologia greca: i Dialoghi con Leucò (1947),
particolarmente efficaci nel trattare argomenti come il rapporto tra significante e significato e la
questione dell’origine.

Le opere più fortunate di Pavese furono però quelle riguardanti, coi limiti già menzionati, la storia
contemporanea, organizzate in una tetralogia che include Il compagno (1947), Il carcere (1949), e
soprattutto i due capolavori La casa in collina (1949) e La luna e i falò (1950).

Nel primo romanzo, l’intellettuale Corrado, rifugiatosi in collina nel corso della fase più aspra della
guerra, s’interroga sul rapporto con Cate e col figlio di questa (che potrebbe essere il frutto di una
loro relazione). A fare da sfondo a questo cruccio interiore è il contesto dei soprusi nazi-fascisti che,
pur essendo evidenti, non sono tali da spingere Corrado a prendere posizione, procrastinando la sua
scelta, identificata col momento della «maturità» (altro elemento topico nella letteratura pavesiana,
visto come un approdo desiderato e atteso ma al contempo temuto). L’epilogo de La casa in collina
è una desolata richiesta di senso per tutti i morti del conflitto. Nel successivo romanzo breve, La
luna e i falò, le terribili lotte della guerra civile sembrano già collocarsi su uno sfondo lontano,
assorbite dal naturale succedersi delle vicende e, tutt’al più, rievocate solo in conclusione al
protagonista Anguilla, vissuto a lungo negli Stati Uniti, dal suo coetaneo Nuto, rimasto invece nelle
Langhe. Anche in questo caso gli elementi cronachistici vengono proiettati in una prospettiva
101
mitica, caratterizzata dalla lontananza candida e materna della luna, che, però, può apparire diversa
nel Nuovo o nel Vecchio mondo, e insieme dal fuoco distruttore-rigeneratore dei falò. Anche il
sacrificio della bellissima e malvagia Santa, uccisa e bruciata dai partigiani per tradimento, non
viene raccontato come un evento unicamente storico perché simbolicamente rappresenta
l’impossibilità di trovare un luogo – terra d’origine piemontese o idealizzate lande americane – nel
quale non ci sia macchia di violenza e nel quale sia possibile radicarsi definitivamente. Su questa
drammatica scoperta si conclude la poetica di Pavese che, tuttavia, si arricchisce di numerosi testi
postumi, tra cui la pregevole raccolta di versi Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (1951), dedicata
all’attrice statunitense Constance Dowling, e il diario Il mestiere di vivere ( 1952, e riedito nel 1990
con ampie integrazioni).

Dell’epilogo biografico di Pavese ne abbiamo già parlato. Le sue spoglie giacciono nel cimitero di
Santo Stefano Belbo.

Bibliografia

- Paesi tuoi – Cesare Pavese con uno scritto di Alberto Asor Rosa, Einaudi, Torino 2015;
- La casa in collina – Cesare Pavese, Einaudi, Torino 2014;
- La luna e i falò – Cesare Pavese con un’introduzione di Gian Luigi Beccaria, Einaudi, Torino
2014;
- Saggi letterari – Cesare Pavese, Giulio Einaudi editore, Torino, 1968;
- Il mito dell’America negli intellettuali italiani (dal 1930 al 1950) – Dominique Fernandez,
traduzione in italiano di Alfonso Zaccaria, Salvatore Sciascia editore, Caltanissetta Roma, 1969;
- Il Novecento – Alberto Casadei, facente parte della collana Storia della letteratura italiana a cura
di Andrea Battistini, Il Mulino, Bologna 2014;
Sitografia

- Cesare Pavese – Wikipedia, voce consultabile al seguente link:


https://it.wikipedia.org/wiki/Cesare_Pavese#Bibliografia
- Per ulteriori informazioni sul caso Pavese abbiamo trovato di grande interesse il blog
Totalitarismo.blog che ha riservato un’intera sezione di articoli all’autore piemontese attingibili al
link che segue: https://www.totalitarismo.blog/category/cesare-pavese/

Giuseppe Campana

102
ELIO VITTORINI

Il Neorealismo

Il neorealismo che si affermerà pienamente negli anni Trenta del secondo dopoguerra affonda le
proprie radici nella rivista Solaria. Non è facile dare un’unica definizione poetica in quanto non
costituisce un movimento omogeneo, nato da un manifesto programmatico, ma un variegato
orientamento della cultura italiana che avverte l’esigenza di rappresentare la concreta condizione
dell’uomo contemporaneo. Non è facile indicare l’estensione e i confini del Neorealismo, il termine
fu usato già negli anni Venti per indicare recenti tendenze artistiche e letterarie. I temi più frequenti
nelle opere neorealistiche sono quelle legate alla guerra e al dopoguerra. La nuova visione della
realtà viene espressa attraverso il linguaggio semplice, popolare.

La prima fase del neorealismo si sviluppa tra la fine della seconda guerra mondiale e i primi anni
del dopoguerra, le opere di questo periodo son scritti narrativi di memorialistica o di taglio
documentario, che trattano vicende dell’oppressione nazifascista, della guerra e della resistenza
partigiana. ( uomini e no di Vittorini, Il compagno di Pavese, Cristo si è fermato a Eboli di Carlo
Levi…) La nuova poetica rivendica all’arte un preciso fine sociale da perseguire attraverso una
rappresentazione oggettiva della realtà. Sul piano strettamente letterario ci si richiama al Verismo
italiano dell’Ottocento, dà luogo ad una vasta produzione narrativa intesa a rappresentare la realtà in
modo realistico, per un altro al romanzo americano, riscoperto da Vittorini, che nel 1941 pubblica
l’antologia Americana, sequestrata dalla polizia fascista. La seconda fase si affermano temi legati
alla realtà dello scontro politico e sociale. Il tramonto definitivo è legato alla crisi del comunismo.

Non esiste un vero e proprio manifesto, ma Elio Vittorini nei suoi interventi sul Politecnico esprime
delle posizioni che lo configurano come un punto di riferimento. Vittorini e Pavese vengono
considerati gli autori più rappresentativi.

Per ricostruire l’atmosfera da cui nacque il Neorealismo è fondamentale l’introduzione che Italo
Calvino scrisse nel 1964 ad una nuova edizione del suo romanzo neorealista Il sentiero dei nidi di
ragno, apparso per la prima volta nel 1947. Calvino sottolinea in particolare il carattere spontaneo
del movimento, che nasceva soprattutto da una ‘smania di raccontare’ e di documentare quanto
accaduto, e allo stesso tempo testimonia quanto fosse pressante l’esigenza dell’impegno morale e
politico da parte degli intellettuali.

Elio Vittorini ( Siracusa 1908– Milano 1966)


Vita e opere

Elio Vittorini nasce a Siracusa il 23 Luglio 1908, a causa del lavoro del padre, che è capostazione,
la famiglia si trasferisce spesso da un luogo all’altro della Sicilia. Sposa Rosa Quasimodo nel 1927
e i due giovani si trasferiscono a Gorizia, dal matrimonio nascono due figli, ma l’unione si
concluderà negli anni della guerra e i due sposi otterranno l’annullamento nel 1950.

Dopo il matrimonio Vittorini collabora a numerose testate giornalistiche, come Il Mattino, Il resto
del Carlino, La stampa e L’Italiano.
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Nel ’30 si trasferì a Firenze fu correttore di bozze del quotidiano «La Nazione» divenne redattore
della rivista letteraria «Solaria», e con la collaborazione al «Bargello» espresse la sua adesione al
“fascismo di sinistra”, che insieme ad altri letterati mantenne fino a quando non vi fu la guerra in
Spagna con cui fu chiara la vera natura del regime.

A Firenze, Vittorini inizia a scrivere numerose opere letterarie, nel 1931 uscirono i racconti Piccola
Borghesia. I racconti Piccola borghesia (1931) esaltano l’istintività e trovano i loro modelli formali
nel monologo interiore di Proust e nel flusso di coscienza di Svevo e Joyce. e parte del romanzo Il
garofano Rosso, la cui pubblicazione provocò il sequestro del periodico da parte delle autorità
fasciste.

Nel 1936 mette mano ad un altro romanzo Erica e i suoi fratelli pubblicato nel 1956. Erica e i suoi
fratelli (1936) è la storia di una ragazza abbandonata dai genitori, è una adolescente costretta dalla
povertà alla prostituzione, vede i suoi ideali infrangersi contro il male del mondo e la cattiveria
degli uomini. Dedita alla prostituzione per sopravvivere alle necessità quotidiane che la affliggono,
degna rappresentante del «mondo offeso», tema assai caro allo scrittore con cui viene evocata e
denunciata l’assenza delle tutele dell’uomo calpestato nella sua dignità per mezzo dei soprusi che
vengono perpetrati e restano impuniti.

Intanto, su Letteratura dall’Aprile del 1938 all’ Aprile 1939, viene pubblicato a puntate
Conversazione in Sicilia.

Conversazione in Sicilia

È il romanzo più significativo di Vittorini e uno dei capolavori del Neorealismo.

Nella premessa all’edizione in volume del romanzo dichiara che ciò che conta, nell’opera, non è il
luogo geograficamente determinato, la Sicilia, ma il senso complessivo del messaggio, valido per
ogni luogo del mondo. Infatti non si tratta della Sicilia storica, quanto di un luogo mitico e favoloso:
uno spazio dell’anima, simbolo di quell’isola salvezza a cui si approda alla fine della tempesta.
L’intero viaggio del protagonista è simbolico – allegorico, è un viaggio di conoscenza ed
esperienza. Il romanzo è costituito da una narrazione in prima persona: ma la voce narrante solo in
parte coincide con quella dell’autore e rappresenta una sorta di soggetto collettivo, l’immagine
dell’intellettuale cittadino chiuso in astratti furori che all’inizio appare incapace di uscire dalla
grigia passività del presente, percorsa da bagliori di guerra che si annunciano sulle pagine dei
giornali. ( il termine furori è una derivazione del titolo italiano del secondo romanzo di Steinbeck,
furore, e si riferisce all’ira per dover riconoscere che il mondo è offeso, un’ira che però non si
traduce in impegno ( perciò astratti). Ma a questo tetro orizzonte, egli sfugge partendo in treno da
una città dell’Italia settentrionale verso la Sicilia, in cui è nato e si trova la madre. Il romanzo più
che una vera narrazione propone una serie di situazioni liriche e di figure esemplari, di
personificazioni morali più che individui concreti: mette in scena, con vigore drammatico, dialoghi
tra espressioni di una realtà mitica e sacra. Lo stile è pieno di cadenze musicali, di ripetizioni che
tendono a sottolineare il carattere rituale del discorso, di modi grammaticali che si riallacciano al
parlato popolare. Il linguaggio si presenta, per un verso, semplice e chiaro, molto vicino al parlato,
ma per un altro verso – grazie anche ad alcuni procedimenti retorici come l’iterazione e la metafora
– evocativo e “poetico”, non senza la presenza di suggestioni ermetiche e decadenti.

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Trama

Il protagonista-narratore, l’intellettuale Silvestro Ferrauto, tipografo a Milano, intraprende un


viaggio verso la nativa Sicilia dopo aver ricevuto una lettera dal padre, che lo informa di aver
lasciato la madre per seguire un’altra donna. Il viaggio si trasforma in un percorso introspettivo e
d’analisi egli cerca di comprendere le ragioni della consapevolezza, maturata in lui che il Mondo è
offeso ( dalla guerra e dalle morti che ne derivano). Sul traghetto che lo conduce verso la Sicilia,
l’uomo inizia la prima conversazione del romanzo. I siciliani che incontra non lo riconoscono come
conterraneo, lo credono un forestiero.

Già i primi incontri sono carichi di un significato emblematico ad esempio il volto del potere, cieco
e prepotente, attraverso le figure di due questurini, Coi Baffi e Senza Baffi, che si propongono come
i custodi dell’ordine di una società che vuole tenere lontani i poveri. Il continuo uso da parte
dell’autore di nominare i suoi personaggi attraverso semplici connotazioni fisiche testimonia la
volontà di universalizzare determinati aspetti e atteggiamenti umani escludendone la
personalizzazione individuale. Il Gran Lombardo è un personaggio importante che diffonde la sua
saggezza e il suo equilibrio come modello di un’umanità futura e mostrerà a Silvestro il lato umano
dei due poliziotti, spiegando come, essendo siciliani, siano anch’essi condannati al destino di quel
«popolo triste». La scelta di diventare poliziotti è determinata dalla disperazione.

Giunto a casa, ritrova la madre Concezione, «alta» e orgogliosa nella sua nuova veste di infermiera.
Dall’incontro con la donna in poi, il flusso memoriale investe il personaggio che riscopre il presente
attraverso le intermittenze del suo vissuto passato. Vittorini affida al personaggio femminile un
nome proprio; è quantomeno improbabile che la scelta di Concezione, nome così evocativo, non sia
stata determinata dalla volontà di richiamare il ruolo anche simbolico assunto dalla donna, ossia di
genitrice di una nuova esistenza, colei che accompagnerà Silvestro lungo una tappa del suo
cammino di rinascita. Silvestro la accompagna nel suo giro quotidiano per le iniezioni in varie case
del paese e ha l’occasione di constatare una realtà di malattia, di miseria e di disperata
rassegnazione. Davanti a questa umanità «offesa» comincia a riflettere e a domandarsi se non siano
«più genere umano» i sofferenti e i poveri, in quanto serbano in sé una maggiore autenticità. Nei tre
giorni e tre notti di permanenza, Silvestro ha modo di dialogare con altri siciliani. Le
«conversazioni» con altre persone del luogo (l’arrotino, il sellaio, il commerciante di stoffe) gli
rivelano altresì una realtà fatta solo di fame, di malattia e di dolore. Silvestro è così costretto a
constatare che il dolore del mondo è ovunque. Ogni personaggio incontrato è se stesso e
contemporaneamente un simbolo dell’offesa, ma anche di un possibile riscatto della Sicilia
dall’immobilismo secolare. Dopo i colloqui con la madre e con gli amici, Silvestro è maturo per
l’ultimo colloquio con il fratello Liborio, morto in Spagna, anche lui condannato a sostenere nella
storia la sua parte di «offeso». Il defunto gli rivela, l’orrore della guerra e della violenza di cui è
stato vittima. Silvestro ormai è un altro uomo: disceso simbolicamente nell’oscurità terrestre del
corpo materno e riemerso alla luce grazie alle parole degli amici egli vede tutto con chiarezza e i
suoi furori non saranno più astratti. Nell’epilogo, dopo un incontro con il padre, debole e
ammalato, a cui la madre perdona la fuga, invitando anche il figlio a perdonare. Silvestro, è pronto
a ripartire animato dalla coscienza di «nuovi doveri» e dalla volontà di adempiervi, perché le offese
del mondo vengano riscattate.

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Il romanzo è strutturato in brevi capitoli. La scrittura si avvicina alla composizione poetica per le
scelte linguistiche e per le intuizioni espressive: frequenti frasi ripetute, tono solenne e lapidario,
dove ogni parola nasconde un ammaestramento e una visione della vita.

Nel 1938 si trasferisce a Milano, Vittorini lavora presso la casa editrice Bompiani, per la quale
progetta e prepara la pubblicazione di un’antologia di autori d’oltreoceano, Americana ma l’opera
dopo la prima edizione del 1941, viene bloccata dalla censura, per poi essere ristampata senza
l’introduzione critica di Vittorini. Durante l’occupazione tedesca, entrato nel Partito Comunista,
partecipò alla Resistenza e nell’estate del 1943, nel corso di una riunione clandestina lo scrittore
viene arrestato e fu incarcerato al San Vittore di Milano, l’8 Settembre prende parte alla resistenza.
Nel 1944 riuscito a sfuggire alla polizia tedesca a Firenze torna a Milano, e si ritira per qualche
tempo in montagna, dove scrive Uomini e no.

Uomini e no viene pubblicato nel 1945, il titolo da una parte gli uomini e dall’altra i non-uomini.
Quando nell’edizione francese il libro apparve con il titolo Les hommes et les autres, Vittorini
intervenne presso il traduttore Michel Arnaud contestandolo e spiegando il suo intento: «il titolo
Uomini e no significa esattamente che noi, gli uomini, possiamo anche essere “non uomini”». In
altre parole, lo scrittore ha inteso dire che ci sono nell’uomo molte possibilità umane e non che
l’umanità si divide in due, una tutta umana e l’altra tutta inumana. La narrazione si articola su due
piani: l’uso della terza persona, che conferisce agli eventi un tono realistico, riguarda le diverse
azioni dei partigiani, le rappresaglie tedesche, la lotta di Enne 2 contro la sopraffazione e il suo
impegno per il bene comune. Gli interventi del narratore in prima persona e il dialogo diretto con il
protagonista (riportati graficamente in corsivo) consentono di contrapporre all’esperienza della
guerra le esigenze spirituali di Enne 2 (il suo amore per Berta) e creano una dimensione lirico-
evocativa, che trasferisce i fatti su un piano di esperienza assoluta, al di là dello spazio e del tempo.

L’autore separa questi due piani, organizzando la narrazione prima dei fatti e degli episodi storici
per poi trasferirli sul piano della riflessione. Nella costruzione i due piani vengono così ad
alternarsi, a giustificarsi l’un l’altro.

Lo stile incisivo e secco del romanzo ricalca quello degli scrittori americani, e in particolare di
Ernest Hemingway.

Il romanzo ha per protagonista un partigiano, nome di battaglia Enne 2, travagliato da un amore


impossibile per Berta, una donna sposata. Dopo l’armistizio e la fuga da Roma del re e del governo,
i tedeschi hanno occupato l’Italia settentrionale. Milano vive sotto l’incubo dei rastrellamenti
guidati da Cane Nero, crudele capo fascista sempre armato di scudiscio. Enne 2 è ricercato perché
con un piccolo gruppo di uomini ha organizzato diverse azioni di guerriglia contro i nazifascisti.
Sorpreso e circondato nel suo nascondiglio, non fugge ma uccide Cane Nero e poi cade sotto il
fuoco nemico. La sua scelta lascia agli altri sopravvissuti la speranza della Liberazione. Uomini si è
soltanto quando si resiste agli offensori del mondo senza proporsi altro che il dovere di resistere.
Enne 2 decide di aspettare la morte con l’intento di colpire il male, incarnato in Cane nero.

Ma più che i fatti, nel romanzo contano le impressioni dei personaggi colti nei loro dialoghi scarni e
ripetitivi; le immagini crude della guerra, delle rappresaglie, degli attentati; le riflessioni del
protagonista spesso confuse con quelle dell’autore grazie all’uso del discordo indiretto e diretto
libero.
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Dopo la guerra fu leader della cultura impegnata, ma sorse la polemica con Togliatti nel definire il
ruolo dell’intellettuale e quella del politico, e Vittorini decise di staccarsi dal Partito Comunista e
nel 1947 pose fine all’esperienza del «Politecnico», da lui fondata per Einaudi. Dalle sue pagine
Vittorini sostiene la necessità di una cultura nuova, aperta a molteplici interessi essa doveva porsi al
servizio di un impegno politico e in polemica con Togliatti afferma che la cultura – anche quand’è
rivoluzionaria deve rimane libera e l’artista autonomo. ( vd lettera a Togliatti pubblicata sul
politecnico).

Opere del dopo guerra:

Il Sempione strizza l’occhio al Fréjus (1947) di impronta neorealista. È la storia di una famiglia
nell’immediato dopoguerra, accampata in un parco alla periferia di Milano. La miseria costringe
tutti ad arrangiarsi, le risorse sono minime ma la madre che è il centro del gruppo vuole che a non
mancare mai nulla sia il vecchissimo nonno che ha un fisico enorme e vegeta immobile ma che
saprà morire con suprema dignità. Nel Sempione la fabula è ridotta al minimo; la voce narrante è di
uno dei figli di questa numerosa famiglia che si fa però semplice spettatore dell’azione dominata
principalmente dalla madre e dal nonno. Tutt’intorno si muovono gli altri personaggi. Al centro
della narrazione è la madre, donna severa, chiusa nel suo è lei che guida la storia, che erige un
monumento di ammirazione nei confronti di quel padre. Il padre, figura immobile e statuaria, che
non parla ma la cui presenza è costantemente avvertita, diventa il simbolo dell’uomo operaio e
dell’identificazione dell’essere umano con la propria funzione lavorativa. La stima per l’anziano,
che viene come imposta dalla madre anche alla sua famiglia, si confonde tuttavia con il disprezzo
non solo per gli altri ma anche per il vecchio che non è più l’uomo forte di un tempo e che è
diventato ormai solo un peso economico e fisico. Ciò che l’uomo-elefante ha perso, con la
vecchiaia, non è solo il vigore ma, nella rappresentazione di un’umanità che nel proprio lavoro vede
riconosciuto il suo unico valore e ruolo, è la dignità di essere umano.

Nel 1949 pubblicò il romanzo Le donne di Messina, scritto fra il ’46 e il ’48, ritorna il tema di un
isola allegorica in cui approdare e trovare rifugio, non si tratta della Sicilia, ma di un paese vicino
Bologna, sulla linea gotica, completamente isolato dal mondo perché semidistrutto e ancora
circondato da campi di mine. La guerra ha spazzato via i rapporti sociali, i diritti di proprietà e la
stessa memoria del passato (gli archivi del municipio e della parrocchia), per cui sembra diventare
possibile il sogno di ricominciare la storia da zero: un gruppo di sbandati, provenienti da ogni parte
d’Italia ( tra cui un gruppo di donne di Messina, che danno il titolo al romanzo), rappresentanti di
un’umanità dispersa e ferita, decide così di rifondare il mondo, mettendo in atto un’utopia di una
società nuova, basata sull’uguaglianza e sulla giustizia. Ma difronte questa utopia permane la realtà
di sempre, quella dove domina il potere economico e sarà essa a mettere in crisi la comunità del
piccolo paese. Rispetto a Conversazioni in Sicilia è più politicamente definito, legato alla speranza
utopica di una società priva di condizionamenti ideologici, ma sembra avere un carattere artefatto
perciò Vittorini lo ripubblica nel ’64 e nella nuova versione, l’utopia appare un sogno irrealizzabile.

Nel 1948 esce il volume Il garofano Rosso con un’importante prefazione in cui lo scrittore enuncia
i principi fondamentali della sua poetica neorealista.

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La stesura del Garofano rosso impegna Vittorini a lungo, dal 1933 al 1936, ed è segnata da
numerose pause e arresti nella scrittura. L'opera viene pubblicata, a partire dal 1933, sulla rivista
fiorentina «Solaria», per un totale di otto puntate. Tuttavia la consegna dei brani procede lentamente
e con continui ritardi. Il romanzo rimane inedito fino al 1948 quando viene pubblicato presso
Mondadori con un'importante prefazione dell'autore, poi rimossa nelle edizioni successive.

Narrato in prima persona, secondo la tecnica del genere memorialistico, Il garofano rosso è un
tipico esempio di romanzo di formazione: esso narra il passaggio dall’età dell’adolescenza alla
maturità di Alessio Mainardi, un ragazzo siciliano di sedici anni. Il passaggio coinvolge non solo la
sfera degli affetti e dell’esperienza esistenziale, ma anche la visione politica del mondo da parte del
ragazzo.

Il diciassettenne siciliano Alessio Mainardi, figlio del proprietario di una fabbrica di mattoni,
frequenta la prima liceo a Siracusa, dove vive in una pensione con il suo migliore amico. I due
ragazzi condividono un’ accesa passione per il nascente fascismo, che essi vivono come rivoluzione
contro i privilegi della borghesia. La simpatia politica, più che adesione ideologica, è moto istintivo
e irrazionale di ribellione adolescenziale verso tutto quanto rappresenta la società e il conformismo
borghese. Alessio si innamora di Giovanna, studentessa della sua stessa scuola, che gli dona un
garofano rosso e un bacio; tuttavia la ragazza lo lascia subito perché era più grande di lui.

Ritornato a casa durante l’estate, Alessio scopre quanto è grande la distanza che lo separa dagli
operai che lavorano in fabbrica e inizia ad assumere una posizione critica nei confronti del
fascismo. Quando ritorna a Siracusa, Alessio ha una vera storia d’amore con Zobeida, donna dolce e
bellissima, alla quale offre come pegno della loro passione il garofano rosso donatogli da Giovanna.
La relazione con Zobeida, prostituta e trafficante di droga, lo costringe di nuovo e fare i conti con la
realtà, lo trasporta in una dimensione più adulta e più matura. Alla fine però, Alessio perde l’anno
scolastico perché non sostiene gli esami da privatista, perde Zobeida, arrestata per un affare di
droga, perde Giovanna che si lega a Torquinio, il suo migliore amico.

Nel 1956 appare La garibaldina, un’opera festosa , costruita intorno alla protagonista che le dà il
titolo. È una sorta di viaggio nel mondo siciliano, senza intenti di conoscenza. È più evidente la
passione sociale che già si esprime nel nome della protagonista che dice di aver conosciuto
Garibaldi.

Pubblica Erica e i suoi fratelli (1956).

Nel 1957 fondò e poi diresse con Italo Calvino la rivista Il menabò.

Nel 1957 raccoglie , nel Diario in Pubblico la maggior parte dei suoi scritti critici e polemici.

Postumi apparvero il romanzo incompiuto Le città del mondo nel 1969 (ma scritto negli anni 1952-
55), due ragazzi, Rosario e Nardo, seguendo i loro padri, vanno alla ricerca della città ideale. Il
romanzo è costituito da un continuo e fitto intreccio di episodi e di incontri, dove i personaggi sono
accumunati dall’ansia di fuggire da un mondo oppressivo e angoscioso e dal bisogno di una libertà
che dia dignità alla vita umana.

Postuma l’opera di saggistica Le due tensioni nel 1967. Morì a Milano il 12 Febbraio1966.

108
CRITICA

La valutazione critica dell’opera di Vittorini, con particolare riferimento al romanzo Conversazione


in Sicilia, segue due linee: quella più interessata all’ideologia dello scrittore e quella che punta sulle
doti del narratore, il suo linguaggio e il suo stile.

Dalla metà degli anni 50 le indagini critiche mettono da parte le questioni ideologiche e i rapporti
tra i testi e le specifiche occasioni storiche, in favore dello studio delle caratteristiche linguistiche e
stilistiche. Tra queste la prima a essere posta in evidenza è l’allusività, la costante tensione
simbolica.

BIBLIOGRAFIA

Storia e antologia della Letteratura, Barberi Squarotti, Amoretti, Balbis Boggione, Atlas Vol. 6
STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA IL NOVECENTO di Giulio Ferroni

ISTITUTO ITALIANO EDIZIONI ATLAS

estensione online del corso B. Panebianco, M. Gineprini, S. Seminara, LETTERAUTORI - edizione


verde © Zanichelli 2012

Rossella La Malfa

MARIO LUZI

Contesto storico-culturale
La critica crociana con la sua distinzione tra poesia e non poesia costituì un terreno fertile in Italia
per la nascita di nuove poetiche, tra cui l’Ermetismo, fondata su un ideale di “poesia pura”. I
crociani reagirono negativamente a questo nuovo movimento, proprio perché lo stesso Benedetto
Croce sosteneva che la poesia debba avere un contenuto sentimentale e non può essere solo forma
“pura”.
Il termine ermetismo si riferisce a Ermete Trimegisto, dio della parola al servizio di Zeus. Questa
parola fu utilizzata per la prima volta da Francesco Flora (1891-1962) nel suo saggio La poesia
ermetica (1936), dove giudicò negativamente la nuova lirica italiana degli anni Trenta per l’uso
eccessivo di analogie e per la formulazione di pensieri non in canto, ma in suoni e luci, che non
possono soddisfare la più intima ragione umana.
Uno dei più grandi sostenitori dell’Ermetismo fu invece Carlo Bo (1911-2002), autore di un
intervento intitolato Letteratura come vita, esposto al Quinto convegno degli scrittori cattolici a San
109
Miniato nel 1938. Qui Bo rovescia la formula dannunziana vita come letteratura e rifiuta qualsiasi
opposizione fra letteratura e vita, che sono in egual misura strumenti di ricerca e quindi di verità. La
poesia non può avere uno scopo esterno, ma deve esprimere piuttosto l’ansia religiosa, intima e
profonda dell’anima.
L’ermetismo non è un indirizzo che nasce da un manifesto, né una “scuola”, ma si configura
piuttosto come una sensibilità e una concezione della lirica legate alla lezione del Simbolismo
francese. Ermetico significa letteralmente “chiuso”, quindi di difficile comprensione ed è connotata
dalla capacità iniziatica ed evocativa della letteratura, considerata “luogo” di ogni rivelazione
religiosa.
Questa esperienza letteraria trovò campo fertile soprattutto nelle riviste fiorentine “Solaria”,
“Letteratura” e “Frontespizio”, ma con l’avvento della Seconda guerra mondiale entra in crisi l’idea
di una letteratura separata dal mondo per dare spazio ad una nuova poetica finalizzata all’impegno
politico e civile.
Ormai sono sopite le apre polemiche dei primissimi anni del dopoguerra e oggi si guarda con
distacco critico e con maggiore comprensione all’esperienza ermetica. Giorgio Bàrberi Squarotti dà
all’ermetismo il merito di «aver adeguato la cultura italiana ad un’atmosfera europea, salvandola e
aerando il suo sterile provincialismo».
Da un punto di vista formale si riscontra un rifiuto dei legami logico-sintattici fra le parole che
definiscono le vuote apparenze della realtà sensibile. Inoltre le parole si legano attraverso
connessioni inedite e prive di logica: ardite metafore, relazioni analogiche, allusioni simboliche,
talvolta polisemiche e aperte ad interpretazioni multiple. Vengono anche utilizzati termini arcaici,
rari e preziosi e a livello metrico troviamo il verso libero, anche se alcuni ermetici ritornano alle
misure tradizionali, come l’endecasillabo.
Le caratteristiche principali della poesia ermetica sono rifiuto di qualunque impegno civile e
politico, essenzialità espressiva, purezza lirica di tipo evocativo, simboli vaghi e misteriosi e
soprattutto tematiche assolute come la sofferenza umana, il mistero dell’universo e la ricerca di Dio.
Molti poeti sono accomunati dalla dolorosa consapevolezza del male di vivere, mentre altri
traducono la tensione inquieta verso l’inquieta realtà, che nel caso di Mario Luzi si traduce in una
profonda ricerca mistico-religiosa.

Biografia

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Mario Luzi nacque a Castello, in provincia di Firenze, il 20 ottobre 1914.
Nel 1932 si iscrisse alla facoltà di lettere presso l’università di Firenze e in quegli anni cominciò a
frequentare gli ambienti letterari, maturando una nuova tendenza ermetica. Ebbe modo di incontrare
Piero Bingogiari, Oreste Macrì, Carlo Bo, Romano Bilenchi e Leone Traverso, poeta e traduttore
padovano con il quale stringerà una forte amicizia, ma soprattutto farà la conoscenza del poeta
Eugenio Montale.
Si laureò in Lettere nel 1936, realizzando una tesi sullo scrittore cattolico francese Mauriac. Dal
1938 divenne insegnante di liceo e i suoi spostamenti di lavoro gli diedero l’opportunità di stringere
importanti amicizie. A Parma conobbe Attilio Bertolucci, mentre nel 1941 a Roma incontrò
nuovamente Giorgio Caproni, già conosciuto a Firenze qualche anno prima.
Negli anni Trenta collaborò alle riviste fiorentine “Campo di Marte”, “Letteratura” e
“Frontespizio”, legate agli ambienti dell’Ermetismo cattolico, di cui Luzi ormai era diventato uno
dei maggiori esponenti. Collaborò anche alla rivista milanese “Corrente”, presso la cui redazione
lavoravano anche il critico Luciano Anceschi e il poeta Vittorio Sereni.
Nel 1942 Luzi si sposò e si stabilì nella sua natia Firenze, da lui stesso definita la città
letterariamente più viva d’Italia.
Dopo la seconda guerra mondiale, fondò la rivista “Società” in collaborazione con Elio Vittorini e
Romano Bilenchi, ma dopo poco tempo il Partito Comunista Italiano avoca a sé la direzione del
periodico e Luzi rinuncia definitivamente a tale progetto.
Dal 1954 divenne animatore della rivista “La Chimera”, il cui tema portante è la realtà come
questione esistenziale, utilizzando una chiave di lettura divera rispetto al Neorealismo e alla poesia
“impegnata” sul piano politico.
Dal 1955 insegnò letteratura francese alla facoltà di scienze politiche presso l’università di Firenze.
Negli anni Sessanta cresce sempre di più il consenso letterario alle sue opere e divenne maestro di
Roberto Mussapi, Davide Rondoni, Milo De Angelis e Silvio Ramat. Il poeta ebbe anche grandi
riconoscimenti, come il Premio Viareggio nel 1978 per Al fuoco della controversia, ma non gli fu
mai conferito il Premio Nobel.
Nel 1967 iniziò a collaborare con “Il Corriere della Sera” e “Il Giornale” e anche negli ultimi anni
del secolo diede il suo contributo a riviste aperte a giovani poeti e narratori, si dedicò alla stesura di
opere teatrali, partecipò ad incontri internazionali di scrittori e addirittura nel 1999 predispose il
testo da leggere durante la Via Crucis per conto del pontefice Giovanni Paolo II.
Nel 2004 il presidente della Repubblica allora in carica, Carlo Azeglio Ciampi, lo nominò senatore
a vita e l’anno successivo, precisamente il 28 febbraio 2005, morì a Firenze.

111
Poetica
Mario Luzi fu, oltre che traduttore e critico letterario, il maggior rappresentante del gruppo degli
ermetici fiorentini degli anni Trenta. Si tratta di un poeta che, al pari di Vittorio Sereni e Andrea
Zanzotto, si incanalò verso la corrosione della tradizione simbolista già avviata da Eugenio
Montale. Luzi prosaicizza il linguaggio poetico, ma ne mantiene allo stesso tempo i toni alti per
poter scavare la condizione umana. Descrive l’uomo che prova smarrimento a causa della realtà
contraddittoria e sfuggente, ma costui non si rifugia nella memoria, poiché la considera labile.
Preferisce affidarsi all’attesa, pur sapendo che essa sarà vana, in quanto il futuro non regala
certezza, ma è proprio la speranza che dà alla poesia luziana una connotazione religiosa.
In realtà Luzi ha sempre vissuto la propria fede con una problematicità di fondo: il mutamento,
tipico del Novecento e delle sue incessanti trasformazioni culturali, sociali e storiche.
La visione della realtà nelle opere luziane è quasi sempre angosciata e cupa, rientrando nel filone
pessimistico cattolico di Manzoni e Pascal. In ogni caso resta comunque la certezza che, anche nello
scenario tragico di sofferenza e sopraffazione, c’è sempre una positività, anche se quest’ultima
sfugge alla comprensione umana. Questa positività altro non è che la certezza dell’esistenza di un
progetto divino, che si compie nella storia servendosi degli uomini in maniera provvidenziale.
L’attività del poeta sta dunque nella testimonianza del trionfo della giustizia e del bene attraverso la
scrittura poetica; è così che in Mario Luzi si incontrano formazione religiosa e formazione
culturale-letteraria. Da un lato la concezione cristiana riconosce alla parola un valore di grande
positività, poiché ha il compito di mettere in comunicazione la sfera divina con quella umana e
Cristo altro non è che parola fatta carne. Dall’altro la coincidenza con la concezione letteraria degli
ermetici è fortissima, in quanto anche loro danno una grande valore alla parola, vista come
strumento per cogliere il senso delle cose e la loro armonia segreta. Tuttavia Luzi se ne distacca ad
un certo punto perché non ripone la sua fiducia tanto nel dono misterioso della poesia, quanto
piuttosto nel valore della vita e della storia, considerando che la fiducia nella scrittura presuppone
necessariamente quella nel valore delle cose.
La sua poesia sfida ciò che non può essere sfidato, mantenendo quel grande valore della parola
poetica stabilito dall’ermetismo, che puntava a dire l’indicibile. Per Luzi l’indicibile è Dio e i grandi
mistici lo definivano come qualcosa che non poteva essere pronunciato.
Inoltre Luzi investe la propria ricerca poetica negli interrogativi capaci di sconvolgere anche la
composizione formale e la tenuta strutturale dei testi, superando l’aspirazione classica di ordine e di
compostezza delle prime raccolte e raggiungendo risultati decisamente originali e audaci sul piano
della sperimentazione formale. Le certezze offerte dall’adesione al Cristianesimo e

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dall’appartenenza alla tradizione poetica simbolistica non impediscono, nell’ultima fase della
produzione luziana, un coinvolgimento drammatico e appassionato nella prospettiva della crisi.
La poetica dello sperimentalismo formale è un modo per gettare definitivamente “nel magma”
inquietante della condizione moderna le proprie certezze e per cercare nuove risposte e verifiche.

Produzione letteraria
In Luzi si possono individuare 3 fasi della sua poetica, corrispondenti alle 3 grandi opere che il
poeta fece pubblicare presso Mondadori nel 1998 per raccoglie tutta la propria produzione lirica.

Il giusto della vita (1935-57)


La prima fase luziana è fortemente influenzata dall’Ermetismo, in particolar modo da quello
spiritualistico con impronta platonica, dove le cose sono solo il tramite per giungere alla verità
assoluta che le trascende.
La sua prima raccolta è La barca (1935), dove Luzi riflette molto sul rapporto fra uomo e tempo
assoluto, quest’ultimo distanze dagli accidenti della storia umana. Delicate allusioni richiamano alla
fugacità delle vicende umane e figure di personaggi assenti vengono evocate come ombre. Sul
piano formale Luzi sfruttò molto l’analogia, la versificazione libera, ma con anche la presenza
saltuaria di rime e assonanze, assestandosi in genere sul ritmo tradizionale dell’endecasillabo.
Segue Avvento notturno (1940), dove la drammatica situazione storica proietta sul poeta un’ombra
di inquietudine, che rende più tese e oscure le immagini analogiche e le cifre simboliche. La metrica
diventa complessa e il poeta si accosta a forme chiuse legate alla tradizione, come la quartina.
Un brindisi (1946) è caratterizzato da un vertiginoso gioco di analogie, che porta ad esiti di
intensità visionaria. Dell’anno successivo è Quaderno gotico (1947), breve, intenso e drammatico
canzoniere amoroso, che riprende alcuni aspetti di “stilnovistici” di Montale e lascia intravedere
sullo sfondo la dolorosa esperienza della guerra.
In Primizie del deserto (1952) la poesia di Luzi mira ad un discorso poetico più ampio, con il testo
centrale Invocazione a metà strada tra la forma della lirica e del poemetto. Qui riprende la tecnica
del “correlativo oggettivo”, tipica di Montale, Dante ed Eliot. C’è in lui l’attesa di un rinnovamento
dell’uomo e i primi frutti spuntano da un luogo arido in questa continua ricerca del “vero”.
L’ultima raccolta di questa fase è Onore del vero (1957), dove si esprime una tensione e una ricerca
sempre più forte verso il “vero” della natura e della storia e anche una fiduciosa apertura agli altri
uomini nella consapevolezza che tutti vivono nella stessa condizione dolorosa. Non è presente solo
un convinto, ma sofferto Cattolicesimo, ma emergono anche i temi del paesaggio e della
transitorietà attraverso la figura del pellegrino e del viandante, in contrasto alla resistenza dell’uomo

113
del tempo che tenta di trovare rifugio nei valori del privato quotidiano, ma questi ultimi sono allo
sfacelo dell’epoca moderna.

Nell’opera del mondo (1963-78)


Il titolo indica un superamento netto dell’ermetismo della prima fase. La svolta emerge già in Nel
magma (1963), che sul piano tematico si concentra nella dissoluzione del motivo lirico. L’io
poetico si apre al mondo reale, visto come un “magma” di fatti incomprensibili e volti misteriosi,
paesaggi naturali e luoghi cittadini, cose e uomini che dialogano con lui. Qui al posto della
musicalità distesa troviamo una narrazione ricca di pause, dissonanze e ripetizioni; la rima
scompare e il verso, abbandonata la cadenza endecasillabica, assume un andamento monotono e
quasi prosaico.
La raccolta successiva è Dal fondo delle campagne (1965) e stavolta si verifica un ritorno alle
scelte poetiche precedenti con la rievocazione del mondo della campagna senese. Ma la vera svolta
antiermetica e “realistica” si verifica con Su fondamenti invisibili (1971), costruito su 3 brevi
liriche e 3 lunghi e complessi poemetti: Il pensiero fluttuante della felicità, Nel corpo oscuro della
metamorfosi e Il gorgo di salute e malattia. In toni visionari e onirici, narrativi e dialogici, il poeta
discende nel corpo oscuro della realtà contemporanea, rintracciando ambigue allegorie che
rimandano all’incarnazione di Cristo e al progetto divino di salvezza.
In Al fuoco della controversia (1978) si fa sempre più stretto il confronto con la storia
contemporanea. Nella raccolta troviamo infatti liriche e poemetti che si arricchiscono di allusioni ed
episodi autobiografici, eventi storici e personaggi più o meno recenti, dalla rivoluzione sovietica
alla guerra nel Vietnam, da Greta Garbo a Marylin Monroe, dal movimento del Sessantotto alle
Brigate Rosse. Tuttavia ci sono anche riferimenti ad episodi del Vangelo e dei testi sacri. Il
linguaggio è più netto rispetto alle raccolte precedenti, poiché qui riscontriamo termini desunti dal
parlato e dalla cronaca, tecnicismi, parole straniere, ma allo stesso tempo vi è ancora la presenza di
alcune forme letterarie e arcaiche.

Frasi nella luce nascente (1985-99)


La terza ed ultima fase è segnata ancor di più dall’impronta religiosa e mistica. Per il battesimo dei
nostri frammenti (1985) richiama l’esigenza di ricomporre i frammenti del mondo moderno
secondo una nuova e unitaria visione religiosa. La modernità, secondo Luzi, ha rinunciato ad una
conoscenza complessiva, totale e definitiva e pur avendo nostalgia dell’unità perduta, accetta di

114
conoscersi solo per frammenti e ai barlumi della conoscenza umana non possiamo che augurare un
nuovo “battesimo”. Ai riferimenti storici e autobiografici si alternano le immagini di natura
“assoluta”, i cui elementi diventano simboli mistico-religiosi.
Questo carattere di poesia sacra è ancor più esplicito in Frasi e incisi di un canto salutare (1990),
dove si attribuisce un senso alto e unificante in chiave religiosa ai frammenti di un discorso che
altrimenti si disperderebbe nel caos del mondo. La lirica luziana assume un tono profetico e il poeta
diventa cantore di una speranza di rigenerazione religiosa. Sul piano metrico Luzi abbandona il
verso lungo e prosastico per sperimentare una versificazione franta e segmentata, dando così la
percezione di una profonda tensione tra la parola e il silenzio. L’opposizione fra linguaggio poetico
e l’irraggiungibile verità divina costituisce il tema centrale dell’ultimo Luzi, che tende ad una
formulazione in chiave simbolica di una vera e propria esperienza di tipo mistico.
Il poemetto Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (1994) ha come protagonista il pittore
medievale vissuto tra il 1284 e il 1344, scelto da Luzi come simbolo dell’artista e dell’uomo
religioso. Il titolo si riferisce al viaggio “storico” e “mistico-religioso” che portò Simone da
Avignone a Siena, la sua città natale dove era destinato a morire, secondo l’invenzione allegorica
luziana basata sull’idea che la fine debba ricongiungersi con l’inizio.
L’ultima raccolta poetica è Sotto specie umana (1999), concepito come una sorta di frammentario
diario postumo che Luzi immagina di scrivere per un suo alter-ego, Lorenzo Malagugini.
L’estremo testamento poetico è rappresentato da La passione. Via Crucis al Colosseo, composto su
invito di papa Giovanni Paolo II per accompagnare la via Crucis della Pasqua 1999. Nel monologo-
preghiera che Cristo rivolge al Padre trova il suo compimento, sul piano poetico e umano, la
continua ricerca religiosa condotta dallo scrittore fin dalle prime raccolte e poi resa più esplicita
nell’ultima fase della sua produzione.

Critica letteraria
Oltre agli estimatori e agli amici dell’area ermetico cattolica come Piero Bigongiari, Oreste Macrì,
Carlo Bo e Carlo Betocchi, citiamo tra gli studi degni di nota quelli condotti da Giuseppe De
Robertis, il quale considerò la poesia luziana come circolare nel suo moto di idee e simboli e nel
suo linguaggio pieno di immagini, che altro non sono che figure dei suoi stessi pensieri.
Negli anni Sessanta Elio Filippo Accrocca sottolineò come Luzi, dopo gli schemi raffinati delle
prime raccolte, approdò ad uno stato di accesa trepidazione, confessione e meraviglia per le sorti
dell’uomo contemporaneo. Giorgio Caproni, amico dello stesso Luzi, riconobbe che egli aveva
raggiunto una totale presa di coscienza della mutevole e ingannevole realtà. Oreste Macrì si

115
soffermò sulla prima raccolta La barca, dove è chiaro il tema del ritorno alla natura e all’uomo.
Odoardo Strigelli invitò alla lettura non metafisica e chiusa, ma storica e aperta dei testi di Luzi.
Alfredo Luzi si occupò del recupero delle fonti europee della poesia luziana e dell’esame delle
varianti, mentre Gianfranco Contini scrisse un saggio dedicato al poeta fiorentino, che dopo diverse
raccolte approdò ad una sorta di prosa pausata in cui si incide una spietata analisi di rapporti umani,
accompagnata da un linguaggio assai risentito.
Negli anni Settanta molti traduttori e studiosi stranieri si dedicarono alle poesie di Luzi, mentre in
Italia ci furono diversi approcci psicoanalitici e filologici da parte di Stefano Agosti, Leone
Piccioni, Silvio Ramat e Pier Vincenzo Mengaldo.
Negli anni Ottanta invece Anna Panicali analizzò la poesia luziana, che si muove a ritroso dal futuro
al passato, dall’io al suo primo principio.
Negli anni Novanta Stefano Verdino realizzò il volume Per Mario Luzi, in cui ripercorre in modo
approfondito le tre tappe fondamentali della sua poetica e produzione letteraria.

Nell’imminenza dei quarant’anni – dalla raccolta Onore del vero (1957)

Il pensiero m’insegue in questo borgo


cupo ove corre un vento d’altipiano
e il tuffo del rondone taglia il filo
sottile in lontananza dei monti.

Sono tra poco quarant’anni d’ansia,


d’uggia, d’ilarità improvvise, rapide
com’è rapida a marzo la ventata
che sparge luce e pioggia, son gli indugi,
lo strappo a mani tese dai miei cari,
dai miei luoghi, abitudini di anni
rotte a un tratto che devo ora comprendere.
L’albero di dolore scuote i rami…

Si sollevano gli anni alle mie spalle


a sciami. Non fu vano, è questa l’opera
che si compie ciascuno e tutti insieme
i vivi i morti, penetrare il mondo

116
opaco lungo vie chiare e cunicoli
fitti d’incontri effimeri e di perdite
o d’amore in amore o in uno solo
di padre in figlio fino a che sia limpido.

E detto questo posso incamminarmi


spedito tra l’eterna compresenza
del tutto nella vita nella morte,
sparire nella polvere o nel fuoco
se il fuoco oltre la fiamma dura ancora.

Comprensione
Questo testo è stato composto nel 1954, anno in cui Mario Luzi compì quarant’anni. Si tratta di una
poesia in cui l’autore fa un resoconto non solo della propria vita, ma anche della storia e
dell’esistenza in generale. In questa fase della sua vita Luzi è investito da una crisi esistenziale,
dove sente la necessità di cogliere il senso del dolore, della morte e della fine delle cose. La risposta
viene fornita dalla fede in Dio e dalla Provvidenza, riconoscendo un valore che investe sia la vita,
sia la morte. Tutto è finalizzato alla realizzazione del progetto divino e al compimento della
Rivelazione cristiana. In questa prospettiva si accetta anche il proprio destino individuale, nella
fiducia che esso non si esaurisca in sé stesso, ma si prolunghi al di là dell’estinzione apparente.
La vita del poeta ha avuto finora momenti di spensieratezza, ma è stata anche piena di dolori e
preoccupazioni; Luzi, mentre cammina per le vie di un paese ventoso, riflette sul senso
dell’esistenza e si chiede perché esiste il male e dove ci condurrà il viaggio della vita. Capisce
inoltre che anche la stessa umanità ha attraversato “vie chiare” e “cunicoli” e il tutto è finalizzato ad
un disegno divino della storia, che lo porta a sperare nella vita dopo la morte.

Parafrasi
Il pensiero mi segue in questo paese buio dove soffia una brezza di pianura e il volo rapido dei
rondoni attraversa la linea esile delle montagne distanti.
A breve saranno quarant’anni di inquietudine, di noia, di inaspettate gioie, brevi come è breve il
colpo di vento a marzo che spande luce e pioggia, saranno le attese, la separazione a mani tese dai
miei cari, dai miei posti, le usanze di anni interrotte all’improvviso che a questo punto devo capire.
A causa del loro l’albero agita i rami…

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Alle mie spalle gli anni si innalzano a gruppi. È questo il compito che compiamo ciascuno di noi e
tutti insieme i vivi e i morti, non è stato inutile attraversare il mondo incomprensibile lungo percorsi
illuminati e strade sotterranee pieni di incontri fuggevoli e di morti o di amore in amore o in un
unico (amore) di padre in figlio finché sarà sereno.
E dopo aver detto ciò posso dirigermi con sicurezza tra la perpetua presenza di Dio nella vita e nella
morte posso scomparire nella polvere o nel fuoco, se (è vero che) il fuoco persiste ancora dopo la
fiamma.

Analisi
La poesia è organizzata in una rigorosa struttura metrica: in apertura troviamo una strofa di 4 versi e
in chiusura una di 5 versi, mentre al centro sono presenti due strofe di 8 versi ciascuna. Tutti i versi
sono endecasillabi, fatta eccezione per il v. 4 che è decasillabo. Non sono presenti rime, ma molti
versi si concludono con parole sdrucciole.
Questa organizzazione simmetrica trasmette un senso di equilibrio psicologico e ideologico,
alludendo ad una segreta armonia del rapporto tra l’uomo e il suo destino. Anche lo stessa metrica è
ben assestata sul ritmo dell’endecasillabo. Se da un lato c’è un legame alla tradizione poetica e
all’ideologia religiosa, dall’altro si riscontrano incrinature, che esprimono turbamento esistenziale e
malinconico, riscontrabile negli enjambements alla fine dei v. 1, 3, 7, 10, 13, 14, 16, 17, 21, 22, la
maggior parte tra sostantivo e aggettivo. Irrompe spesso e volentieri una sintassi frantumata e
affannosa nella seconda strofa, ma nel corso della terza si recupera la serenità solenne della prima
fino al completo rasserenamento nella quarta.
Qui sono riscontrabili elementi della poetica ermetica, tra cui il paesaggio indefinito nella prima
strofa, l’esperienza biografica del poeta senza precisi riferimenti concreti, la problematica
esistenziale affrontata attraverso l’uso di immagini materiali con valore metaforico e simbolico (vv.
17 e 24 e seguenti). Domina la volontà di parlare di ciò che è individuale attraverso l’aspirazione
costante al suo valore universale. Si esprime così fiducia nel valore superiore della poesia, in grado
di conoscere il mondo e di affermarne i valori sia per il poeta, sia per l’umanità intera.
Al v.1 c’è la personificazione del pensiero (Il pensiero m’insegue).
La sineddoche, in particolare il singolare per il plurale, si presenta al v. 3 (rondone per rondoni).
Ai v. 5-6 le ilarità improvvise, rapide / com’è rapida a marzo la ventata è una similitudine e
sempre in questi versi troviamo l’anafora d’ (quarant’anni d’ansia, / d’uggia, d’ilarità
improvvise).
Al v. 12 (l’albero di dolore scuote i rami…) c’è una reticenza che lascia come la frase in sospeso.

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Troviamo inoltre l’anastrofe nei v. 10-11 (abitudini di anni / rotte a un tratto che devo ora
comprendere), v. 13-14 (Si sollevano gli anni alle mie spalle / a sciami) e al v. 25 (se il fuoco
oltre la fiamma dura ancora).
Altre figure retoriche da segnalare sono la litote nei v. 14-16 (non fu vano… penetrare il mondo)
perché afferma un concetto mediante la negazione del suo contrario; è presente la metafora continua
anche nei v. 16-17-18 (il mondo / opaco lungo vie chiare e cunicoli / fitti d’incontri effimeri). Si
può individuare, sempre nei v. 14-16 (non fu vano… penetrare il mondo) un caso di iperbato.
Nel v. 23 è presente un asindeto e un’antitesi (nella vita nella morte).
Nel v. 24 (sparire nella polvere o nel fuoco) c’è l’ellissi del verbo posso, presente in realtà nel v.
21 in riferimento ad un altro verbo all’infinito (E detto questo posso incamminarmi).

Interpretazione
Attraverso un’apparente esattezza realistica e l’uso di riferimenti concreti, si allude ad un paesaggio
interiore, più precisamente ad una condizione psichica del soggetto. La tendenza
all’interiorizzazione e alla spiritualizzazione del paesaggio è determinata dagli oggetti evocati quasi
sempre al singolare per rappresentare la loro essenza più che la loro realtà e dagli elementi accostati
per cercare un effetto di incoerenza e di spaesamento. Per esempio Debenedetti ha osservato che
non si può dire con certezza se il borgo sia in un altipiano oppure se è solo il vento ad assomigliare
al “vento d’altipiano”. Di conseguenza, a causa della condizione di sospensione e astrattezza, il
lettore non riesce ad immaginare uno scenario preciso.
Il tema affrontato da Luzi in questa poesia riguarda la grande questione esistenziale del rapporto tra
crescita e morte, che il poeta sente la necessità di chiarire per trovare un senso alla propria
esistenza. Ciascun individuo affronta con gli anni e con le varie esperienze un processo di
maturazione; ovviamente ciò significa anche affrontare il sentimento della perdita e del lutto.
Compiere gli anni vuol dire misurarsi con il futuro e con il passato, in particolare con le persone che
non ci sono più e con le esperienze finite. Gli anniversari comportano un bilancio esistenziale e un
sentimento misto a felicità e malinconia, tuttavia Luzi attraverso la fede cristiana capisce che esiste
la dialettica vita-morte, dalla quale è impossibile distaccarsi. Inoltre l’umanità intera, vivi e morti,
collabora nella realizzazione dell’opera di rivelazione del Vangelo, rendendo sempre più limpido
l’amore cristiano. Ciò permette all’uomo di poter attraversa le “vie chiare” in un “mondo opaco”.
La risposta per Luzi è la fede in Dio e nella Provvidenza e ciò gli permette di trovare il significato
della vita. La fiducia nella risposta religiosa è solo uno dei tanti modi possibili, ma altrettanto validi,
per poter affrontare e risolvere questa angoscia esistenziale.

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Bibliografia
- R. Luperini, P. Cataldi, L. Marchiani, F. Marchese, Perché la letteratura, vol. 6 Modernità e
contemporaneità (dal 1925 ai nostri giorni), G. B. Palumbo editore, Palermo 2015.
- G. Bàrberi Squarotti, G. Amoretti, G. Balbis, V. Boggione, Contesti letterari, vol. 6 La
prima metà del Novecento, Atlas, Bergamo 2011.
- O. Reboul, Introduzione alla retorica, Il Mulino Manuali, Milano 2017.

Sitografia
- https://www.edatlas.it/documents/5568f1dc-ea2a-4f21-98ae-86efcc0795fe

Mariarosa Scalisi

VITTORIO SERENI

VITA, OPERE E POETICA

“Ci sono momenti della nostra esistenza che non danno pace

fino a quando restano informi e anche questo, almeno in parte,

è per me il significato dello scrivere versi.”

(Vittorio Sereni)

Dare forma ai momenti della vita è stata la missione sublime del poeta Vittorio Sereni, che
ha trasformato i pensieri in figure d’effetto che hanno raccontato in versi la sua esistenza colma di
eventi spiacevoli che lo hanno segnato e accompagnato fino alla morte.

120
La sua vita inizia a Luino il 27 luglio 1913 e prosegue con tutte le sfumature della solitudine
di figlio unico e dell’abbandono di una casa (o di un nido) per spostarsi in quelle successive
affinché i suoi studi proseguissero nel migliore dei modi. La mancanza di un punto fermo lascia nel
giovane Vittorio degli incolmabili vuoti, che tenterà di riempire con la malinconica poetica che
pervade le sue opere.

Dopo il tentativo di intraprendere gli studi alla Facoltà di Giurisprudenza a Milano, si iscrive
a quella di Lettere e Filosofia, terminando il percorso nel 1936, a soli 23 anni, con una tesi su Guido
Gozzano. È questo il periodo in cui si avvicina al filosofo Banfi frequentando il circolo culturale
con altri giovani. La posizione filosofica di Banfi può essere sintetizzata come «un “razionalismo
critico” in cui la ragione ha una funzione di unificazione non dogmatica dell’esperienza ed è diretta
a comporre le conoscenze parziali in strutture organiche respingendo però ogni generalizzazione.
Rinunciando ad avere per oggetto un preteso “sapere assoluto”, la ragione salvaguarda l’autonomia,
la specificità e la pluralità delle diverse forme del conoscere. L’integrazione delle multiformi
esperienze storico-culturali per mezzo dell’attività unificatrice della ragione, vero orizzonte teorico
“aperto”, si configura come un compito “infinito”»22. Tali interessi porteranno il giovane Vittorio
alla redazione della rivista “Vita giovanile”, finanziata da Ernesto Treccani23e contestualmente alle
prime pubblicazioni delle sue poesie. È un momento importante per la sua carriera poiché Banfi lo
vuole come assistente all’Università, intanto inizia anche a insegnare come supplente di latino e
storia. Vince il concorso per la cattedra di Italiano, Latino e Storia quindi si trasferisce a Modena
dove, grazie anche all’amicizia con il poeta Attilio Bertolucci, sembra ritrovare l’ispirazione
poetica. Il 1942 è infatti l’anno che segna l’uscita della sua prima raccolta di poesie, Frontiera.
Queste sono le attività che preludono ad una vita intensa affidata al potere della scrittura che
custodisce la memoria, ai ricordi tenuti vivi attraverso le parole incise su binari immaginari che
conducono ad una meta prevalentemente triste.

La vita di Sereni è segnata da vicende forti che lo vedono combattente e combattivo dentro i
suoi versi, ma combattuto nella sua anima solitaria, lontana da casa: una deportazione spirituale
prima ancora che fisica, che imploderà in una tragedia intima quasi senza speranza. Richiamato alle
armi con il grado di ufficiale di fanteria e nell'autunno del 1942 è assegnato ad un reparto destinato
all'Africa settentrionale; come egli stesso racconta, non arriverà mai a destinazione: viene trasferito
in Grecia, poi in Sicilia a fronteggiare lo sbarco alleato, per poi approdare nuovamente in Africa,
nei campi di concentramento in Algeria e Marocco, dopo esser stato fatto prigioniero a Paceco,

22
L’Enciclopedia della Filosofia e delle Scienze umane, Novara, De Agostini, 1996
23
GIULIA RABONI (a cura di), Nota introduttiva, in VITTORIO SERENI, Poesie e prose, Milano, Arnoldo Mondadori
Editore, 2013, p. 15
121
vicino Trapani, il 24 luglio 1943, facendo ritorno a casa soltanto a guerra ultimata. Questa triste
migrazione forzata unita al brutale sradicamento dai suoi luoghi beati, sfocerà in una condizione di
straniamento dalla realtà, soggiogato da sentimenti di amarezza e sofferenza che pervaderanno tutta
la sua produzione futura.

Con la moglie Maria Luisa e la figlia Maria Teresa affronta l’ennesima migrazione: dopo la
guerra, al suo ritorno in Italia, si sposta a Milano e riprende ad insegnare al liceo classico Carducci.
E’ un periodo di ristrettezze economiche e grandi sacrifici, in parte ripagati dalla conoscenza di
alcune grandi personalità come Umberto Saba, Vasco Pratolini, Giansiro Ferrata. Il 1947 potrebbe
considerarsi un anno di rinascita, ma anche di reminiscenza di un doloroso passato che ancora lo
attanaglia: viene infatti alla luce la sua secondogenita Silvia e pubblica Diario di Algeria, sua nuova
esperienza poetica.

Nel 1952 decide di lasciare l’insegnamento definitivamente per dedicarsi alla direzione
dell’ufficio propaganda e pubblicità alla Pirelli. I molti impegni pratici lo obbligano a quello che
egli stesso definisce “silenzio creativo”: «È stato un modo per campare, per risolvere determinati
problemi pratici, non prevedendo poi di essere coinvolti molto di più di quanto in partenza non si
pensasse.» Questa nuova attività, sicuramente più redditizia della precedente, restituisce a Sereni
una momentanea tranquillità che gli permette di vivere all’interno di un nuovo mondo, quello
dell’industria, con spirito propositivo, intento ad acquisire e fronteggiare situazioni che
arricchiscano di nuove esperienze la sua vita, che solo sei anni dopo cambierà nuovamente rotta.

E’ il 1958 e Vittorio Sereni, che due anni prima diventava padre per la terza volta della
piccola Giovanna, riceve la nomina di direttore editoriale alla Mondadori, ruolo che rivestirà fino al
pensionamento e che gli consentirà di entrare in contatto con numerosi letterati. Sono anni di
successi editoriali, che vedono il susseguirsi di pubblicazioni, riconoscimenti e produzioni poetiche:
nel 1962 sono dati alle stampe Gli immediati dintorni e nel 1965 la seconda edizione riveduta del
Diario d’Algeria e la prima de Gli strumenti umani, considerata dalla critica una delle più grandi
raccolte del Novecento. sono però anche anni di successi e soddisfazioni personali, oltre che
lavorative, nei quali la ritrovata serenità lontano dagli assilli economici degli anni precedenti lo
porterà ad intraprendere numerosi viaggi, che diventeranno una vera e propria passione: Egitto,
Russia, Cina, Olanda, Francia, Stati Uniti, sono solo alcuni dei luoghi toccati dalla curiosità e dalla
passione del poeta, che nel ’69 decide addirittura di recarsi in Sicilia con la moglie e la figlia più
piccola per rivisitare i luoghi della guerra mai combattuta.

122
Sarà tuttavia non molto lontano dalle sue origini che troverà il suo luogo privilegiato per le
vacanze: il piccolo centro balneare di Bocca di Magra, sulla riviera di Levante, in provincia di La
Spezia, luogo che passò agli onori della storia nell'immediato dopoguerra, quando alcuni dei più
celebri poeti, scrittori, artisti e letterati dell'epoca cominciarono a frequentarla, rapiti dall’aspetto
della sua natura intatta e perfettamente mescolata alle attività della gente del posto, scandita dal
ritmo naturale delle stagioni e dal lento scorrere del fiume Magra, che celebrerà con il pometto Un
posto di vacanza e che diventerà un topos poetico dell’autore proprio come l’originaria e tanto cara
Luino.

Ottimo traduttore (si veda il volume Il musicante di Saint-Merry, del 1981, oltre ad una ricca
serie di traduzioni di scrittori e poeti francesi e americani, tra i quali Julien Green, Paul Valéry,
William Carlos Williams, René Char, Guillaume Apollinaire), autore di una gran mole di lettere e
carteggi vari, le fatiche letterarie di Sereni si compongono anche di prose diaristico narrative, i già
citati Gli immediati dintorni (1962) e di racconti. In Letture preliminari (1973) ha riunito una scelta
di pagine critiche. Nel 1981 appare infine la sua ultima raccolta di versi in una collana di poesia di
Garzanti: l’edizione definitiva di Stella Variabile.

Il 10 febbraio 1983, Vittorio Sereni si spegne improvvisamente per un aneurisma a Milano,


città in cui si era trasferito con la famiglia nel ’67 e nella quale pareva di aver finalmente trovato un
punto fermo, il baricentro di una vita mai in perfetto equilibrio tra un QUI e un ALTROVE.

Il maggior problema del Sereni degli anni della prigionia è quello della mancata
partecipazione alla resistenza, una sorta di estraneità alla vita italiana che Sereni si porterà sempre
dietro come una colpa e che convergerà soprattutto ne Gli strumenti umani, in alcune poesie di vena
civile tra le più rilevanti del secondo dopoguerra. Sono gli anni in cui si compie l’evoluzione della
poesia del Novecento, nei quali si colloca un punto di svolta, un momento di rottura tra il vecchio
(la tradizione) e il nuovo. Questa prima ondata di modernità novecentesca in Italia è molto più
precoce in poesia che in narrativa e si concretizza già nelle prime opere di Govoni, Palazzeschi e
soprattutto nei Canti di Castelvecchio di Pascoli e nell’Alcyone di D’Annunzio. Vociani, futuristi e
crepuscolari segnano già, quindi, con la loro poesia fatta di immagini, di onomatopee e di parole
quasi isolate dal contesto, una prima riflessione sul fare poesia.

Questo inizio dirompente con l’avanguardia, tuttavia, subisce una repentina battuta d’arresto
dopo la Prima Guerra Mondiale: si torna, in quegli anni, ad un riflusso delle poetiche, che tendono a
stabilizzarsi in seno alla tradizione e ad un ritorno alla classicità. Emblematico è il caso di
Ungaretti, noto modello di Sereni e grande autore de L’allegria, che segna nella raccolta una poesia

123
moderna, asciutta, in bilico tra ordine e avventura nei suoi versicoli frantumati, (secondo quelle che
erano le categorie di Apollinaire e della poesia di avanguardia di inizio Novecento), ma che solo nel
’33 con Sentimento del tempo è testimone di un netto cambiamento: il ritorno al mito, alla classicità
e, soprattutto, ai metri della tradizione (endecasillabo, settenario) e ai grandi modelli di Petrarca e
Leopardi, scelti in quanto insigni rappresentanti del canto italiano. Questo tentativo di ricostruzione,
di “estrema illusione di canto”, per usare le parole di Sergio Solmi (traduttore nonché caro amico di
Sereni), che ritorna negli anni ’30 nella poesia italiana, segna l’inizio di un percorso che condurrà la
poesia a chiudersi in sè stessa, con esiti altissimi a livelli di qualità e accordo tra corrente italiana e
temperie europea, ma anche una settorializzazione della stessa. Si tratta dunque di una poesia fatta
di allegorie, emblemi, nomi ed evocazioni pure (i fantasmi e le illusioni della poesia, che
ritroveremo anche in Sereni), in linea con quella post-simbolista di derivazione francese, che va da
Baudelaire, passa per Rimbaud, Guerlaine, Mallarmè, per giungere fino ad Apollinaire e al
surrealismo. Dare nome alle cose, con l’accezione non dell’oggetto, della realtà, ma di funzione
demiurgica della poesia: l’uomo che dà il nome alla realtà di fatto ne è padrone ed esercita un
controllo assoluto su di essa.

Molti sono i poeti che debuttano in questi anni: Salvatore Quasimodo, che con Oboe
sommerso ed Èrato ed Apollo tenta la via del sublime mediante l’uso della parola assoluta e il suo
tentativo di attingere ai temi della nostalgia e dell’esilio, calandosi in una sorta di abisso, e agli
archetipi, alle sostanze elementari, alla natura e al mito (e Quasimodo è il poeta del mito classico
per eccellenza); Alfonso Gatto, che nel ’32 con Isola si pone sulla scia di Quasimodo e cerca la via
di una poesia che si dissolve in musica, in accordi sintattici che, come per la corrente ermetica, si
fondano sull’analogia a discapito di qualsiasi tessuto narrativo, argomentativo e logico, assestandosi
sull’immagine, sull’impressione e su una sorta di “cromatismo”; abbiamo poi il debutto degli
ermetici Luzi, Parronchi, Sinisgalli.

Gli anni Trenta segnano quindi l’idea di una poesia luminosa, che si rifà al mito, al rapporto
diretto tra l’IO e l’universo e viene fuori da linee diverse della produzione letteraria e dal ritorno ad
una linea da un lato introspettiva, dall’altro trascendente. Basti pensare che anche autori
estremamente laici come Montale cercano uno scarto verso una dimensione metafisica, anche se
quest’ultimo rappresenta una voce fuori dal coro per quanto riguarda le tendenze del periodo: Ossi
di seppia, la cui seconda edizione risale al 1928, è una raccolta moderna, che si discosta dal ritorno
alla classicità di quegli anni e meglio si accosta al filone più fresco della letteratura inglese e anglo-
americana.

124
Siamo nel pieno dell’oppressione cupa da parte del regime fascista e dunque va da sé che i
poeti cerchino nel loro specifico letterario una via di fuga dalla realtà, dalla situazione politica e
l’estromissione di tutto ciò che avesse un diretto riferimento con la contingenza storica. Si avverte,
nella poesia di questi anni, il preludio del conflitto della Seconda Guerra Mondiale: una sorta di
sentimento della dissoluzione e di senso della crisi profonda, che è anzitutto la crisi della parola
poetica di derivazione simbolista. Questo problema di crisi della parola intesa come assoluta, come
compimento del rapporto tra l’uomo e il sacro, come analogia cosmica e universale sarà, nel
secondo Novecento, uno dei temi di fondo che Sereni si porrà e la soluzione che egli si darà sarà
ambigua: nelle intenzioni andrà verso la prosa, ma nel concreto della sua poesia cercherà di
attaccarsi al lirismo e ad una concezione assoluta e quasi sacra della stessa.

La produzione poetica di questi anni viene catalogata da un grande critico, Luciani


Anceschi, che sarà in seguito uno dei principali promotori della nuova poesia e del cambiamento.
Nel 1941 Anceschi pubblica un’antologia fondamentale della poesia italiana contemporanea, che
vuole offrire un panorama completo delle nuove e migliori forze operative, scegliendo così di
pubblicare una serie di testi di autori appartenenti alla terza generazione novecentesca, ovvero i nati
nella prima decade del Novecento con qualche eccezione (ad esempio Montale e Ungaretti, nati
prima) e a ciascuno richiede una presentazione di accompagnamento alle proprie opere: vuole, in
altre parole, che siano gli stessi autori a presentarsi, facendosi promotori di sé e presentando una
sorta di manifesto della propria poetica. Gli elementi essenziali sono la compattezza e l’omogeneità
di questa poesia, che Anceschi intitola “I lirici nuovi”: il titolo sta appunto ad indicare i grandi
autori degli anni Trenta-Quaranta, come Ungaretti, Montale, Vigolo, Quasimodo, Sinisgalli, Gatto
ecc…, rappresentati nella raccolta per indicare una rottura con il passato e una linea comune, quella
della poesia di derivazione simbolista, che rispondono ad una linea che va da Baudelaire, fino ad
approdare al surrealismo (in Italia da Leopardi all’Ermetismo, passando per Pascoli e D’Annunzio).
E’ un’opera importante, che celebra, incorona e quasi chiude questa stagione, seguita dalla fine di
quella fortissima ondata trascendente, spirituale e religiosa che accomuna tutti i poeti di questi anni.

Il secondo Novecento segnerà, dunque, il passaggio alla fine del sacro e delle illusioni ed è
chiamato a fare i conti con la tragedia della guerra e il non senso delle cose immanente: anche la
parola subirà questa progressiva sfiducia e sarà chiamata all’increscioso onere di ricostruire e ridare
forma ad una realtà svuotata e svilita.

Il debutto di Vittorio Sereni con la sua prima raccolta Frontiera, uscita per la prima volta nel
1941 presso le edizioni milanesi di «Corrente», indica proprio il sunto di quello che un giovane
poteva ricavare dalla lettura di Ungaretti, Montale e della poesia pura degli anni Trenta, ovvero
125
l’idea di esclusione, di separatezza, di limite inscindibile tra l’amata Luino, luogo di confine non
solo tra Italia e Svizzera, ma anche tra Italia ed Europa e, soprattutto, tra la dittatura e le democrazie
europee, tra la giovinezza e la linea d’ombra della maturità: è una raccolta giovanile che già però si
congeda dai miti della gioventù, dagli amori un po’ provvisori, dall’ozio, dalle amicizie e dai primi
incerti tentativi letterari. Il paesaggio è quello prealpino e lacustre, ma investito di un’inquietudine
che si fa segno della precarietà di un mondo minacciato, rispetto al quale il poeta vuole tuttavia
conservare una tenace e forse monotona e troppo umana fedeltà al tempo e alle circostanze vissute.
La vita ovattata del giovane in una sorta di paese incantato, quasi estraneo ai drammi che preludono
la guerra non è altro che preludio ad una rassegna di elementi d’allarme e segnali che preludono ad
un cambiamento di rotta, mediante la presenza di elementi inquietanti: navi, torpediniere treni che
portano verso il confine, elementi volti a trasmettere un senso di inquietudine e transitorietà rispetto
alla vita placida, alle situazioni quasi idilliche, fresche e ingenue tipiche della vita giovanile (i
giardini, le gite al lago, le conversazioni e il corteggiamento delle ragazze, ecc…), che tuttavia
preannunciano anch’esse l’incombenza non solo della guerra, ma anche il cambiamento epocale
della fine della gioventù. Il legame con la realtà risulta interiorizzato e attenuato, per una
discrezione e un pudore che ne circoscrivono l’espressione. Il monolinguismo della raccolta non è
estraneo a suggestioni ermetiche, anche se non si identifica con esse. Si tratta di una sorta di
perplessità esistenziale coerente con la cultura e con la poetica dell’Ermetismo, ma vissuta già in
termini realistici che risentono della lezione di Gozzano e di Saba; se insomma è possibile
riscontrare la presenza di segni caratteristici della poesia ermetica, è tuttavia evidente l’originalità di
Sereni, che si ritrova a privilegiare, in modo laico e spesso pessimistico, il presente e i dati
particolari visti realisticamente in se stessi. Del resto, egli stesso assume una posizione di distacco
dalla corrente, specificando, in un’intervista rilasciata a Gian Carlo Ferretti: «In me, non so, c’era
[rispetto agli ermetici] un maggior attaccamento alle cose, agli aspetti della quotidianità, anche se
allora forse non li esprimevo, e non ero in grado di esprimerli, o non li ascoltavo direttamente;
diciamo che c’era, così, un senso più concreto dell’esistenza di quanto non ci fosse in loro»24.

D’altro canto Milano non è Firenze, e a dimostrarlo basterebbe l’uso assai diverso che nei
due diversi ambienti si fa del modello Ungaretti, di cui a Firenze si legge Sentimento del tempo
(1933), che costituisce infatti la stagione più propriamente ermetica della sua poesia, mentre a
Milano si apprezza soprattutto L’Allegria (1931), momento chiave della storia della letteratura
italiana, nella quale l’autore rielabora in modo molto originale il messaggio formale dei simbolisti
(in particolare dei versi spezzati e senza punteggiatura di Apollinaire), coniugandolo con

24
GIANCARLO FERRETTI, “Stella variabile" e stella polare di Vittorio Sereni, in «Belfagor: rassegna di varia umanità»,
A. 39, n. 4, Firenze, Vallecchi, 31 luglio 1984, pp. 409-421.
126
l'esperienza atroce del male e della morte nella guerra. Al sentimento di fraternità nel dolore si
associa la volontà di ricercare una nuova armonia con il cosmo e il suo valore di rottura rispetto a
una certa tradizione, vera e propria rivoluzione nella storia delle nostre lettere. Quella di Sereni vuol
essere, sul modello di Montale, una «poesia che si faccia corpo, che si possa vedere e toccare». La
“poetica degli oggetti” si colloca esattamente sul versante opposto alla “poetica della parola” degli
ermetici, anche se poi l’esigenza di circoscrivere e fermare la propria inquietudine esistenziale porta
il poeta, in Frontiera e nel Diario d’Algeria (le due sue raccolte più vicine dal punto di vista
formale e linguistico) a praticare, come notato da Dante Isella, «una lingua poetica diversa, ma non
meno aristocraticamente selettiva di quella degli adepti dell’orfismo fiorentino. Non volendo, a
scanso di equivoci, chiamarla ermetica, si potrebbe dirla “petrarchesca”, se è lecito nominare dal
Petrarca, per analogia, qualsiasi processo di decantazione della complessità del reale per estrarne
delle levigate essenze primarie, tali da riassumere in sé, sublimandolo, l’intero universo»25.

Lo stesso Sereni ammetterà la sua totale indifferenza giovanile rispetto alla società,
all’impegno civile e alla politica e come proprio per questo si trovò traumatizzato e nudo dall’essere
gettato, di punto in bianco, nella situazione della guerra quando viene inviato sul fronte balcanico.
Questa concentrazione sul qui e ora non arriva d’altronde, come nel Montale delle Occasioni, a
proporsi quale valorizzazione dell’esperienza individuale irripetibile; piuttosto i fatti particolari
dell’esistenza tendono a coincidere con una specie di non-vita, con una sorta di prigione inesorabile,
in cui però l’autore mostra di riconoscere il significato possibile della vita stessa, oltre che il suo
limite.

Alcune poesie del Diario di Algeria, molto significative, ripercorrono il viaggio che
attraverso la Serbia lo porta fino al fronte greco: bellissimi componimenti dedicati all’occupazione
italiana della Grecia e al senso di colpa che investe il poeta, che si sente parte delle “schiere dei
bruti”, ovvero gli occupanti nazi-fascisti della Grecia, gli assassini dell’Europa. L’esile mito di
Frontiera subisce un duro colpo, proprio in relazione all’occupazione balcanica: «C’era in noi –
ribadisce Sereni – il senso di un’Europa che era stata, o che comunque avrebbe potuto essere, e che
non aveva proprio niente a che fare con quella che si andava raffigurando durante l’occupazione. Di
qui il senso di colpa in noi»26.

Un “testo miliare” della raccolta, Italiano in Grecia, coglie con precisione proprio il senso
della brutalità percepito dall’intellettuale-ufficiale e della triste consapevolezza che ne consegue:

25
DANTE ISELLA, La lingua poetica di Sereni, in L’idillio di Meulan. Da Manzoni a Sereni, Torino, Einaudi, 1994, pp.
263-277.
26
FERDINANDO CAMON, Il mestiere di poeta, Milano, Garzanti, 1982, p. 143.
127
«Europa Europa che mi guardi / scendere inerme e assorto in un mio / esile mito tra le schiere dei
bruti, / sono un tuo figlio in fuga che non sa / nemico se non la propria tristezza». Chiarisce ancora
Sereni: «Il trovarsi in Grecia come militare significava appartenere, volente o nolente, a un esercito
oppressore nella terra oppressa. Il contatto con l’Europa che stava al di là della frontiera, e su cui
avevo anche fantasticato, avveniva nel modo più brutale e più naturale, che prima non avevo potuto
nemmeno immaginare»27.

La storia gli appare nella sua forma più tragica e beffarda, cioè come guerra che lo travolge,
costringendolo a parteciparvi come ufficiale, senza entusiasmo, convinzione e in totale contrasto con
la sua formazione “europea”. Questo evento lo immobilizza nella condizione di impotenza di una
prigionia che gli toglie ogni possibilità di scelta diversa (di opposizione e di riscatto) e che diviene
presto corrispettivo di una prigionia interiore che nemmeno il ritorno alla vita civile e al colorito
mondo dell’industria gli permette di superare.

Senza questa premessa di Frontiera, cioè della chiusura dell’idillio e del locus amoenus,
rappresentato persino fisicamente da questo lago di Luino in cui l’Io del giovane si rispecchia,
sarebbe impossibile capire lo stravolgimento della poesia successiva di Sereni svuotata, proprio
dalla crisi determinata dalla guerra, dagli elementi caratteristici del paesaggio elegiaco, fatto di
piante, foglie, venti, luci, nuvole. La guerra, in sostanza, coinvolgendo il poeta con la sua brutalità
ma vietandogli ogni possibilità di reagire, svela i limiti di una formazione culturale la cui
inadeguatezza (almeno così egli la avverte) lo costringe ad un incalzante inseguimento degli eventi.
Il risultato è che Sereni si sentirà sempre in ritardo nel suo tempo e bloccato perennemente in una
condizione di sconfitto.

A metà strada tra questa formazione e quella che verrà, si colloca il Sereni del Diario di
Algeria (prima edizione del 1947), raccolta “ponte”, di passaggio, tra il codice espressivo dei Lirici
Nuovi (con i quali, è bene ricordarlo, prende forma l’intera ossatura novecentesca della poesia
italiana contemporanea) e quello degli anni del dopoguerra, nei quali va definendosi la prima
tendenza poetica vera e propria, che comprende anche il poeta luinese e che si fonda addirittura
sulla sua figura come capofila. Questa raccolta riprende e accentua la componente diaristica, come
aderenza ad un vissuto che occorre accettare integralmente. Mengaldo ha potuto parlare di «una
vicenda esemplare, che oscilla fra il referto di un’esperienza ben reale e storica e l’allegoria della
vita intesa come transito e prigionia, centrata sulle due figure emblematiche del protagonista quale
“viandante stupefatto” (prima e terza parte) e prigioniero (seconda)». Ne risulta uno dei libri più

27
Ibidem.

128
originali nati dall’esperienza della guerra. La chiusura individualistica, come retaggio
dell’Ermetismo, si apre a forme di una più distesa comunicazione, in cui il rifiuto della storia è solo
apparente; si tratta piuttosto di un’integrale accettazione del proprio destino e dei limiti della propria
circoscritta individualità, che non consente evasioni o idealizzazioni. Anche in seguito, il
pessimismo dell’autore, come acuta coscienza delle brutalità della storia, non rinuncia ad un
intervento critico nei confronti del presente, come necessità di una testimonianza ora commossa ora
risentita.

Il grande problema di Sereni è proprio questo: lui che si è formato, da una parte, sotto
l’influenza dell’Ermetismo fiorentino degli anni ’30 (sebbene svuotato di quelle vertiginose
sfumature metafisiche che riverberano nel caposcuola Mario Luzi) e, dall’altra, leggendo autori
come Gozzano, Saba, Ungaretti e i grandi simbolisti francesi, lui che ha letto e tradotto grandi poeti
come Rilke e dal quale ha ricevuto particolare influenza, lui che ha debuttato con le poesie idilliche
della prima raccolta, come può utilizzare un linguaggio, un codice, un immaginario idillico e
simbolista per descrivere una situazione distorta e frammentaria che è quella della crisi, degli orrori
della guerra e delle faide civili dell’Italia all’indomani del conflitto? La lingua del passato non
regge il confronto con una realtà di crisi e disagio, così Sereni trova uno strumento proprio nella sua
scrittura, che è sempre di confine, sempre di frontiera e mai del tutto classificabile; sceglie di
abbracciare anche la via della prosa, ma lo fa mantenendo l’idea della poesia come canto, un canto
sempre interrotto, che sta lì lì per innalzarsi verso la dimensione del sublime, dell’assoluto, ma che
poi inciampa e cade. Quella di Sereni è una poesia di conflitti.

Gli anni Cinquanta sono gli anni, oltre che del Neorealismo (nonostante sia difficile
individuare una tendenza neorealista vera e propria), della prima tendenza poetica davvero
significativa dell’Italia post bellica, ancora una volta individuata grazie ad un’antologia curata da
Luciano Anceschi. Egli è infatti il primo tra i critici a rendersi conto che i tempi sono cambiati e che
una nuova leva di artisti della parola si sta affacciando sul panorama contemporaneo: si tratta, a
differenza di quelli neorealisti, di poeti e scrittori del Nord Italia, concentrati soprattutto tra
Lombardia, Piemonte e Ticino (la Svizzera italiana). Il grande merito di Anceschi è dunque quello
di aver individuato una cosiddetta Linea lombarda, così intitola la sua antologia, termine che va ad
abbracciare tutta l’area settentrionale e avente il suo fulcro proprio nella Luino di Sereni, e non si
tratta certo di un tentativo di creare un filone separatista o di “geostoria letteraria”: semplicemente
questi autori si trovano più vicini a quella che è la frontiera già individuata da Sereni come idea di
confine con l’Europa e, quindi, a quelle tendenze in atto soprattutto in Francia e in Germania.
L’andamento è così quello di una poesia che va verso l’impegno, il rapporto diretto con le cose, con

129
gli oggetti, con le metropoli, con le città moderne, con l’industria, con l’uomo e con la realtà, intesa
non più in senso idillico ed esistenziale, ma in un’ottica addirittura sociologica, oltre che filosofica.

Per capire i motivi che portano Anceschi a definire Vittorio Sereni come il capofila di questa
Linea Lombarda riservandogli un posto privilegiato, facendo di lui il rappresentante più autorevole
di una tendenza poetica che ha radici lontane e che concepisce la poesia come un confronto diretto
con la realtà, dobbiamo però fare un passo indietro, alla sua formazione, che passa non soltanto
attraverso l’esperienza della poesia placida e dimessa della sua prima raccolta, ma soprattutto per i
suoi studi all’università di Milano, compiuti insieme ad un gruppo di giovani che darà delle
intelligenze tra le più fervide del periodo. Parliamo di personalità di grandissimo carisma
intellettuale come Ernesto Treccani, che realizzerà l’enciclopedia italiana, e Antonio Banfi, filosofo,
docente universitario e portatore in Italia della scuola fenomenologica. Quest’ultimo si interessa a
tutta la scuola di pensiero che riflette non più sulla metafisica, ma sull’uomo calato nella realtà e
gettato nel mondo e quindi sulla condizione esperienziale nei confronti del concreto e del
contingente. I modelli stranieri di questa linea filosofica sono Husserl e Merleau-Ponty,
dimostrazione del fatto che la riflessione poetica è viva un po’ in tutta Europa, mentre in Italia la
scuola fenomenologica ha il suo centro in un gruppo di intellettuali di Milano ai quali fa capo Banfi
e si diffonde proprio grazie ad Anceschi, che vi aderisce. Questa tendenza filosofica si svincola
dall’idealismo crociano e gentiliano con il quale l’Italia degli anni Cinquanta era ancora chiamata a
fare i conti, ovvero con una concezione di poesia come puro intuizionismo, svincolata dagli aspetti
tecnici, storici e contingenti e si inserisce all’interno della neoavanguardia sempre per merito del
critico milanese, che si farà in seguito promotore delle opere degli autori sperimentali degli anni
Sessanta (come Sanguineti, Giuliani, Balestrini ecc…).

Al momento della stesura della sua antologia, il motto che Anceschi usa è “poesia IN re e
non ANTE rem”, ad indicare che la poesia non è prima delle cose o innanzi ad esse,
prescindendone, ma è al loro interno e permea il mondo: il poeta è colui che, attraverso la sua
sensibilità, non più unicamente lirica, ma anche narrativa e descrittiva, riesce a cogliere tali
percezioni e a captare ciò che è nella realtà, tanto meglio se si tratta di una realtà industriale e
caotica delle grandi metropoli in trasformazione dal dopoguerra. In questo senso, non si appaga
della parola, ma la investe di una forte tensione problematica, esprimendo un’esigenza di moralità
che coinvolge lo scrittore sul piano dell’impegno critico, di un coscienza umana e civile.

Non è un caso che la Linea Lombarda nasca a Milano: gli autori che ne fanno parte si
muovono tutti nella zona che va dal capoluogo lombardo, grande metropoli industriale e terreno
fertile per i grandi temi di quegli anni (lavoro, alienazione, vita operaia e impiegatizia), e la zona dei
130
laghi (lago Maggiore, lago di Como, lago di Luino e lago di Lugano, quelli svizzeri) e, oltre a calare
la poesia nella realtà contemporanea, sono anche degli elegiaci; e non è un caso neanche che
Anceschi individui Sereni come modello di questa corrente, poiché egli mette insieme un canto
esistenziale ma calato nell’esperienza concreta dell’uomo, una poesia come indagine e giudizio, una
lirica fatta di cose e oggetti che parlano, sempre accompagnato dal sentimento del paesaggio, della
nostalgia e della perplessità tipico di questi poeti “laghisti”. Antonia Pozzi (poetessa sventurata e
morta suicida in giovane età), Renzo Modesti, Luciano Erba (futuro protagonista di una lunga
carriera come poeta ironico, parodico e satirico), Roberto Rebora (nipote del noto Clemente, grande
poeta vociano dei primi anni del Novecento). Questi e alcuni tra i maggiori poeti lombardi degli
anni Sessanta riconosceranno in Sereni un modello.

Tuttavia il poeta luinese, venuto a conoscenza di essere stato incasellato e in qualche modo
classificato, rompe con Anceschi: non accetta il fatto di essere stato in qualche modo relegato
all’interno di una poesia di carattere locale, in qualche modo implicito in una geografica
marcatamente milanese, ma soprattutto rifiuterà la sua idea che la poesia sia solo “in re”. Per quanto
egli possa condividere il fatto che la poesia non sia ontologia (al punto da tradurre dei versi di uno
dei suoi autori preferiti, il noto poeta americano Williams: «Not in ideas, but in things», calco
perfetto del latino motto anceschiano, che tra l’altro sarebbe bene contestualizzare nella misura in
cui per un americano che vive in un mondo di oggetti, privo di orizzonti metafisici e della struttura
culturale europea, parlare di poesia calata nelle cose è naturalmente molto più semplice), non riesce
nemmeno ad accettare l’idea di una poesia meramente oggettiva. La linea lombarda, proiettata verso
la città di Milano e verso una poesia fatta di esperienze vivide e concrete come in accordo con i
temi e i problemi principali di quegli anni, ovvero l’alienazione, il lavoro, la vita operaia e
impiegatizia, sembrerebbe dunque essere una tendenza vincente, ma Sereni la rifiuta.

L’altra corrente dominante nel dopoguerra è quella che fa i conti con l’esperienza passata,
ossia con l’ermetismo e con la poesia pura. La poesia dei lirici nuovi viene ferocemente contestata
nel momento in cui, con Liberazione la nuova letteratura si fa carico delle trasformazioni sociali,
dell’impegno civile, dei nuovi valori, di creare un’epica dell’Italia nuova, della ricostruzione e del
Mezzogiorno. Si riapre nel dopoguerra e proprio a partire dalla poesia, quell’eterna questione
meridionale: Salvatore Quasimodo arriverà a proclamare che le forze più vive all’interno di questo
nuovo panorama, ovvero quelle non legate a tendenze del passato e quindi libere da ogni
condizionamento, sono quelle dei poeti del Sud Italia. La polemica furibonda contro la lirica del
passato in nome di una tendenza nuova, impegnata, corale, etica ed universale si fa sempre più
accesa e secondo questi autori la parola poetica non doveva ambire alla letterarietà, bensì essere il

131
più possibile neutra e quotidiana per facilitarne la fruibilità ad un pubblico già abbastanza scosso
dall’esperienza estenuante del conflitto mondiale.

Il fatto che la poesia degli anni Cinquanta possa essere considerata come una sorta di veicolo
linguisticamente neutro di messaggi ideologici, sociali e culturali, dove l’importanza del contenuto
prevale sui valori formali e stilistici, può ravvisarsi nel fatto che i poeti nuovi di questi anni sono
giovani, quasi tutti autodidatti che si occupano di poesia impegnata, soprattutto di vena politica.

Il grande peso di Sereni, che si porterà dietro come un macigno, è di certo quello di non aver
partecipato alla liberazione e alla resistenza partigiana. Questo senso di esclusione e
disappartenenza emerge nella raccolta successiva, Strumenti umani (1965), di un ventennio
successiva alla precedente, nella quale emerge la sacralità dell’uso della poesia, il più nobile degli
strumenti di cui l’uomo è in possesso e l’unico che possa contribuire a chiarire il suo destino, i suoi
perché e i suoi interrogativi esistenziali. Siamo nella seconda fase della poesia di Sereni, nella quale
appare ormai netto il distacco dalla tradizione dell’Ermetismo e del postsimbolismo; il tema dei
morti costituisce uno dei più costanti motivi conduttori, sino ad assumere un valore centrale. Da un
lato rappresentano lo svelamento del reale significato della vita e la conferma della sua fragilità,
dall’altro indicano un modello di stabilità definitiva e soprattutto impongono al poeta di rompere la
prudenza ed uscire dalla sua costituzionale esitazione. Essi infatti gli consegnano una estrema
possibilità di riscatto: dare voce ai vuoti e all’insensatezza della vita restituendole, o provando a
farlo, un significato. Sereni è il più esplicito dei poeti che si pongono allo stesso livello del lettore,
non un rivoluzionario autore d’avanguardia, ma un uomo tra i tanti che cerca una collocazione in
un’epoca storica molto difficile, che vede il susseguirsi di guerra, prigionia, dopo-guerra,
ricostruzione e boom economico, fino all’urbanizzazione sfrenata con tutte le sue conseguenze. Nel
rappresentare un contesto desolato e inospitale, egli mostra di saper rinnovare le sue risorse
stilistiche, affiancando, alle soluzioni mono-linguistiche, l’uso di una durezza discorsiva in cui il
linguaggio si altera e si spezza, diventa faticoso e privo di ogni armonica cantabilità, in quanto
trascrizione di una realtà frantumata e disgregata. Questo suo tratto schivo e gentile, questa sua
modestia che addirittura quasi sembrerebbe paura di scrivere (ricordiamo che oltre alla notevole
produzione in prosa scrive solo quattro raccolte di versi, produzione davvero esigua per un poeta
tanto attivo nel panorama culturale del tempo) son dovuti al fatto che per Sereni la scrittura è un atto
necessario, che nasce quando vengono superati dei nodi, in particolare quello della “pagina bianca”.
Franco Fortini, suo caro amico e portatore di un’idea diversa di poesia, impegnata, realista e
allegorica, lo provoca in suo celebre epigramma nel quale rivolge a Sereni l’invito a strappare

132
quella “pagina bianca”28 (poiché l’amico reticente taceva da ormai quasi vent’anni), esortandolo a
trovare il coraggio per una presa di posizione sulla realtà e sui tempi nuovi. Nessuno sospettava che,
nel silenzio, l’autore luinese stava in realtà concependo la sua raccolta più bella, ricca, innovativa e
anche più complessa, punto di congiunzione tra la poesia dello sperimentalismo pasoliniano, quella
della nuova avanguardia, e quella della poesia oggettiva degli anni Sessanta.

La complessità e, al contempo, la modernità del mondo espressivo di Sereni sono al crocevia


di quello che sarà, soprattutto negli anni Sessanta, lo sviluppo della lirica di tutti i maggiori poeti
del secondo Novecento. Luzi, Raboni, Zanzotto, Giudici: nessuno di essi può esimersi dal confronto
con Sereni, un poeta umile, della perplessità, che non afferma mai la sua visione netta della realtà,
ma quasi si scusa per le sue mancanze e inadempienze e per la sua poesia, mai definitiva e mai
definita. Il lavoro variantistico che c’è dietro i suoi testi testimonia la sua insoddisfazione costante.

Senza la guerra e la sconfitta, difficilmente Sereni sarebbe uscito dai confini di un’educata
letteratura. L’annuvolarsi delle stagioni sui laghi, il ricordo di una morte, il senso della propria
fugacità, il presentimento di una minaccia alle cose e agli esseri più cari, tutto questo era fin dal
principio in lui come in molti altri giovani della sua generazione, la nube entro la quale muovevano,
senza contatto alcuno con altre verità.

Per dirla in breve, Sereni rifiutava la «musica d’angeli»29, ma non poteva fare a meno di
riecheggiarla. C’è una discrasia, una distanza, perfino tra la realtà e il nostro modo di percepirla,
ravvisabile in particolar modo in quest’ultima raccolta, nella quale al motto anceschiano della
“poesia in re” si oppone l’incertezza persino nelle cose stesse, perché l’uomo non ha gli strumenti
per vivere a prescindere dalla propria schiera di sensibilità, sentimenti ed emozioni. Esso è
imperfetto e in quest’imperfezione sta la grandezza della poesia di Sereni, quel continuo zoppicare
del suo testo assimilabile ad una sorta di albatros baudelairiano che è lì lì per prendere il volo, ma
poi ricade sempre per qualche motivo, ed anche la sua dimensione assoluta.

Potremmo definire Sereni, insieme a Montale, il poeta più “massimalista” del nostro Novecento,
autore di una poesia che è in primo luogo ricerca espressiva, ma anche e soprattutto esistenziale,
politica e civile.

“STELLA VARIABILE”

28
FRANCO FORTINI, in un epigramma edito ne L’Ospite ingrato, Bari, De Donato 1966, p.18.
29
VITTORIO SERENI, Diario d’Algeria, Firenze, Vallecchi, 1947.
133
La raccolta fu edita in una prima impressione riservata per i Cento amici del libro nel 1980
(anche se con indicazione tipografica 1979). L’opera, grazie alla quale si aggiudicò il Premio
Viareggio nel 1981, viene ripubblicata nel 1982 (ma con indicazione 1981), in un edizione
notevolmente accresciuta: quarantasei testi rispetto ai trenta della prima (tutti posteriori al ’65, anno
di uscita de Gli strumenti umani, ma in molti casi già comparsi prima del 1980 in varie riviste o
plaquette). Il titolo della raccolta è estrapolato dal componimento La malattia dell’olmo, che rientra
nella V sezione della stessa. Nella sua edizione definitiva, le poesie sono suddivise in cinque sezioni
senza titolo, con numerazione romana.

Essa, per metafora, rappresenta la discontinua intensità dell’ispirazione poetica e gli


intermittenti ritorni alla memoria di momenti passati durante l’arco della vita e che, proprio come
avviene per alcune stelle durante il loro ciclo cosmico, variano di intensità e luminosità apparente, è
riscontrabile a partire dallo stesso titolo e si plasma sulla volontà di sottolineare la difficoltà
dell’uomo davanti alle antitesi e alle contraddizioni del reale. Una interessante chiave di lettura
della raccolta è offerta da una breve citazione di Montaigne posta nel risvolto di copertina
dell’edizione definitiva «La vita fluttuante e mutevole», accompagnata da poche righe dell’autore:
«La natura che alletta e dissuade. La bellezza onnipresente e imprendibile. Il mondo degli uomini
che si propone al giudizio e si sottrae, e mai passa in giudicato». Sappiamo, da una nota della figlia
Maria Teresa, che curò la prima edizione complessiva delle opere del padre dopo la sua morte, che
in un’eventuale ristampa egli avrebbe voluto sostituire queste righe con una definizione scientifica
di stella variabile, trovata solo in un secondo momento su un manuale di astronomia nautica: «Gran
parte delle stelle non hanno splendore costante ma variabile periodicamente: cioè non conservano
sempre la stessa grandezza visuale apparente, ma in un periodo più o meno regolare, che va da
qualche giorno a oltre un anno, la loro grandezza assume successivamente valori diversi: tali stelle
sono dette variabili»30.

Sono entrambe dichiarazioni significative: in particolare la prima, attraverso le tre antitesi,


allude alla difficoltà dell’uomo di fronte alle contraddizioni del reale, al motivo della disarmonia tra
soggetto e mondo, e all’inappagabile sete di soddisfazione estetica e conoscitiva; sembrano venir
meno anche gli unici punti di riferimento che l’uomo possiede per tentare di comprendere la realtà, i
cosiddetti “strumenti umani” della raccolta precedente, ovvero la fiducia nella forza pulsante del
mezzo poetico ai fini di innalzarsi ad una dimensione conoscitiva profonda che guidi a penetrare il
senso profondo delle cose. Tutti i mezzi per accoglierle e provare a comprenderle, sono ora venuti a
mancare e al poeta, in balìa dei percorsi tracciati dal tempo e della memoria che ritorna, non resta

30
FERDINANDO FLORA, Astronomia nautica, Milano, Hoepli 1945.
134
che abbandonarsi alle fluttuazioni della vita, consapevole che nemmeno la parola poetica è ormai in
grado di spiegarli o scioglierli («sospesa ogni ricerca, / i nomi si ritirano dietro le cose»).

L’instabilità, il senso di vertigine e questa caleidoscopica e vertiginosa mutevolezza si


riflettono anche nell’organizzazione interna dei componimenti della raccolta, dall’eterogenea
ambientazione dei testi alla varietà dei temi in essi affrontati. Riconoscere un preciso disegno
interno globale risulta davvero difficile. Il solo filo conduttore dei testi è rappresentato da un sottile
e costante senso di angoscia, oppressione ed impotenza, che si esprime attraverso una notevole
varietà di toni: dall’ironia alla rabbia, per arrivare alla riflessione ferma, pacata e malinconica. Si
generano una serie di immagini negative di grande pregnanza che ruotano intorno al silenzio, alla
fissità, alla malattia, alla morte e infine al nulla e all’inesistenza. Del resto, lo stesso Sereni si
dimostrava del tutto consapevole delle differenze che investivano la sua ultima raccolta rispetto alle
precedenti. Un panorama dal sentore cupo dunque, per certi versi onirico, nel quale persistono
tuttavia valori considerati, già nelle raccolte passate, un solido rifugio, come amore, amicizia e
senso di nostalgia per luoghi, occasioni e persone, ma anche sottili riflessioni sulla propria attività
creativa.

Alla vasta eterogeneità tematica e contenutistica della raccolta, che di certo contribuiscono a
conferirle il suo reale fascino e anche la sua difficoltà a relegarla entro più precisi schemi rispetto
alle precedenti (si pensi soprattutto alle ambientazioni e tematiche ricorrenti in Diario d’Algeria),
corrisponde un altrettanto variegato e molteplice reticolo formale e stilistico sul quale i
componimenti prendono forma, si sviluppano e si aggrappano come rampicanti. Rispetto alla
compattezza degli Strumenti, che rappresenta il precedente prodotto poetico dell’autore, seppur
preceduto dal solito edificante espediente sereniano del silenzio (passeranno infatti ben sedici anni
tra l’una e l’altra raccolta), Stella variabile presenta una pluralità di registri che potremmo definire
quasi “verticale” e perfettamente coerente al principio cardine della raccolta, veicolato dallo stesso
titolo, volto a concretizzare il senso di altalenante rimando dell’esistenza: si parte da andamenti
legati al registro basso e del parlato colloquiale (si va sempre più verso l’italiano della
comunicazione, a discapito di quello più aulico e sublime della tradizione letteraria), spesso
interrotto da figure di ripetizione e interiezioni volte ad esprimere particolari atteggiamenti emotivi
del poeta, fino a toccare elevati espedienti di assoluta liricità (o «compatta», per dirla con
un’accezione voluta da Mengaldo31), veicolati dall’impiego di tempi imperfettivi (gerundio e
participio presente), da artifici ritmici e sintattici che comunicano un senso di rottura e sgomento

31
P.V. MENGALDO, La tradizione italiana del Novecento. Nuova serie, Vallecchi, Firenze 1987, pp. 377-386.
135
(attraverso numerose costruzioni sospese, chiasmi ed enjambement), un effetto straniante e una
tensione quasi metafisica.

LA MALATTIA DELL’OLMO

Se ti importa che ancora sia estate


eccoti in riva al fiume l’albero squamarsi
delle foglie più deboli: roseogialli
petali di fiori sconosciuti
– e a futura memoria i sempreverdi
immobili.
Ma più importa che la gente cammini in allegria
che corra al fiume la città e un gabbiano
avventuratosi sin qua si sfogli
in un lampo di candore.
Guidami tu, stella variabile, fin che puoi...
– e il giorno fonde le rive in miele e oro
le rifonde in un buio oleoso
fino al pullulare delle luci.
Scocca
da quel formicolio
un atomo ronzante, a colpo
sicuro mi centra
dove più punge e brucia.
Vienmi vicino, parlami, tenerezza,
– dico voltandomi a una
vita fino a ieri a me prossima
oggi così lontana – scaccia
da me questo spino molesto,
la memoria:
non si sfama mai.
È fatto – mormora in risposta
nell’ultimo chiaro

136
quell’ombra – adesso dormi, riposa.
Mi hai
tolto l’aculeo, non
il suo fuoco – sospiro abbandonandomi a lei
in sogno con lei precipitando già.

Siamo a Bocca di Magra. L’estate volge al termine e lentamente il poeta, passeggiando sulla
riva di un fiume, osserva un olmo malato perdere le foglie: durante questa occasione quotidiana,
sfumano dolcemente i contorni dell’albero fino ad identificarsi con quelli della coscienza del poeta,
che vive così l’ennesimo momento epifanico. La scena è un’onirica visione dai toni danteschi tra
stelle e ombre parlanti:

La lirica ricrea un paesaggio idillico con tratti nuovi e particolari, che tuttavia si incrina con
il sopraggiungere di un dolore improvviso, di una memoria insaziata che si conficca nella carne: la
metafora della puntura, con tutto il significato di lacerante disagio che porta con sé. La poesia, che
affronta il tema della memoria, è costruita su due parti che ruotano intorno al verso «Guidami tu,
stella variabile, fin che puoi...», che dà il titolo alla raccolta; essa è, per mutevolezza di luminosità,
l’emblema del rapporto, in Sereni incostante e tormentato, tra vissuto e poesia. Attraverso
l’osservazione della natura, della quale abbiamo riscontrato l’importanza per Sereni, si innesca il
meccanismo associativo, il «formicolio» da cui «scocca» quell’«atomo ronzante»: il ricordo, la
memoria.

Alla domanda «Che cos’è l’olmo? La vita? Sei tu?» postagli da Anna Boffino in
un’intervista nel 1982, Sereni rispose: «E’ un albero qualsiasi, visto in riva al fiume, che comincia a
perdere le foglie; e le foglie, invece di diventare gialle, sono rosee… Cosa vista con i miei occhi, a
Bocca di Magra. E sembrano petali di fiori. C’è questo aspetto esteticamente affascinante, e in
realtà l’albero sta morendo»32. La risposta rispecchia perfettamente la tendenza dell’autore ad
evitare qualsiasi tentativo di circoscrizione all’interno di una linea ben definita, di dare un nome
precostituito alle cose o una spiegazione logica alla sua poesia.

L’albero che si squama, assalito dall’ingordo parassita mai sazio è metafora ardita dell’uomo, qui
vittima di una memoria dolorosa e molesta, che non gli dà pace («scaccia / da me questo spino
molesto, / la memoria: / non si sfama mai»).

32
VITTORIO SERENI in un’intervista di Anna Del Bo Boffino, in “Amica”, 28 settembre 1982.
137
La parola poetica sfocia a questo punto nella dimensione dialogica con un tenero e quasi
supplichevole invito rivolto ad un’entità posta fra la vita e la morte, ponte di collegamento tra
passato e presente: «Vienmi vicino, parlami, tenerezza». Ed ecco di nuovo, quasi inaspettato, l’Io
del poeta che emerge, questa volta, sotto forma di dolce personificazione.

BIBLIOGRAFIA
CAMON, Ferdinando, Il mestiere di poeta, Milano, Garzanti, 1982
Canova, Mauro, Ultimi fantasmi e nuove cosmologie: letture e proposte per Sereni, Zanzotto e
Caproni, Firenze: Franco Cesati Editore, 2005.

Carletti, Beatrice, (a cura di), Vittorio Sereni. Carteggio con Luciano Anceschi. 1935-1983, Milano,
Feltrinelli 2013.
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Bologna: Edizioni Pendragon, 2004.

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Editore, 2015.

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varia umanità», A. 39, n. 4, Firenze, Vallecchi, 31 luglio 1984.
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dell’altro nella letteratura di viaggio della contemporaneità (a cura di Silvia Camilotti, Ilaria Crotti
e Ricciarda Ricorda), Venezia, Edizioni Ca’ Foscari, 2015.

Grignani, Maria Antonietta, Lavori in corso: poesia, poetiche, metodi nel secondo Novecento.
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Iacopetta, Antonio, Costanti e varianti nella poesia italiana del Novecento, Roma: Bonacci Editore,
1988.

138
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Luzi, Alfredo, Introduzione a Sereni, Roma-Bari: Editori Laterza, 1990.

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All'Insegna del Pesce d'Oro, 1980.

Quiriconi, Giancarlo, In questo mezzo sonno: Vittorio Sereni, la poesia e i dintorni, Venezia:
Marsilio Editori, 2017.

Scaffai, Niccolò, Appunti per un commento a Stella variabile, in Vittorio Sereni, Un altro
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Idem, Appunti per un commento a Stella variabile, in Vittorio Sereni, Un altro compleanno,
Milano, Ledizioni 2014.
Sereni, Vittorio, Stella variabile, Garzanti, Milano 1981 (ivi, 1982; Einaudi, Torino 2010, con
prefazione di F. Pusterla).
Sereni, Vittorio, Gli immediati dintorni primi e secondi, a cura di M.T. Sereni, «Biblioteca delle
Silerchie» Il Saggiatore, Milano 1983.

Irene Iessi

Giorgio Caproni

- Vita e contesto storico-culturale

Originario di Livorno (ma molto legato a Genova), Caproni esordisce in pieno clima ermetico. Nel 1956 tutta
la sua prima produzione è pubblicata nel Paesaggio d’Enea, insieme a nuove liriche.

Caproni percepisce la vita come somma di violenza e guerra, e contrappone a questa dimensione la
leggerezza, il tono ironico o idillico dei versi. Lo stile del Paesaggio d’Enea e dei successivi Il seme del

139
piangere (Garzanti, 1956) e Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee (Garzanti, 1966), è
costruito sui versi brevi o brevissimi, rime molto frequenti, forme tradizionali come il sonetto.

Il poeta livornese partecipa alla Resistenza, e appartiene alla generazione dei poeti per i quali la Seconda
guerra mondiale rappresenta un trauma. Nei suoi libri di versi prevale una privatizzazione della storia: chi
scrive si rifugia nella vita quotidiana, intesa come unica sede possibile dell’autenticità. Fanno parte della sua
poetica la ricerca di identità e di senso in un mondo di personaggi mitici, di defunti, e di storie private e
casalinghe. Il seme del piangere, ad esempio è incentrato sulla vita della madre, dalla giovinezza fino
all’ingresso nell’Ade. Nel Paesaggio di Enea, e ancora di più nel Congedo, si intuisce che la perdita d’identità
è dovuta anche al passaggio da un’epoca all’altra, e che a questo si lega la condizione di eterno pellegrino.
Il viaggio conduce «là/dove non si può tornare».

- Poetica e opere

Caproni vuole «parlare di sé senza dire io, delegando il proprio discorso a controfigure» (Mengaldo,
1978)33. Per farlo, sceglie la prosopopea: nel Congedo del viaggiatore cerimonioso un uomo viaggia su un
treno e si rivolge a un pubblico immaginario, come se fosse su un palcoscenico. Il treno si presenta come
allegoria della vita: non se ne conoscono l’evoluzione né la fine. Scrive infatti Caproni «Anche se non so
bene l’ora/d’arrivo, e neppure/conosco quali stazioni/precedano la mia». Il viaggio, la ricerca dell’identità e
il senso di incombenza della morte saranno costanti nei suoi libri; e per parlarne ricorrerà spesso alla
formula del congedo, come in questo caso: «Scusate. È una valigia pesante/ anche se non contiene gran
che:/ tanto ch’io mi domando perché / l’ho recata, e quale / aiuto mi potrà dare / poi, quando l’avrò con
me». In Caproni lessico e sintassi sono sempre più vicini all’oralità, e ancora una volta c’è uno dilatazione
dei confini fra poesia e prosa ed una tendenza alla teatralizzazione che caratterizza la poesia degli anni
Sessanta. Caproni ha fortuna negli anni Ottanta, quando diviene poeta dell’ateologia, della poesia che
allude ai grandi temi della filosofia, pur non assumendone toni e forme. La poesia dell’ultimo Caproni
configura un orizzonte di pensiero che è in larga parte costruito per mezzo di figurazioni allegoriche o di
elementi pragmatici e testuali. La sua è una afilosofia, una (a)teologia negativa, un poeta che lo studioso
Paolo Zublena ha definito essere «per filosofi, cioè soggetto a essere filosoficamente interpretato»34.

Tre stagioni della poesia di Caproni:

1. Il ‘primo’ Caproni (1936-1943)

1936 Come un’allegoria (1932-1935)

1938 Ballo a Fontanigorda (1935-1938)

1941 Finzioni (1938-1939)

1943 Cronistoria (1938-1942)

2. Il Caproni ‘di mezzo’ (1952-1965)

33
Cfr. Per interposta persona: lingua e poesia nel secondo Novecento, Enrico Testa, 1999.
34
Paolo Zublena, Giorgio Caproni. La lingua, la morte 2013, pp.113-4.
140
1952 Le stanze della funicolare

1956 Il passaggio d’Enea (1943-1955)

1959 Il seme del piangere (1950-1958)

1965 Congedo del viaggiatore cerimoniso & altre prosopopee (1960-1964)

3. L’ ‘ultimo’ Caproni (1975-1990)

1975 Il muro della terra (1964-1975)

1982 Il franco cacciatore (1973-1982)

1986 Il conte di Kevenhuller (1979-1986)

1991 Res amissa (postuma)

Analisi della raccolta poetica Il seme del piangere

Il seme del piangere comprende le poesie scritte da Caproni tra il 1950 e il 1958 e si incentra – nella prima e
più corposa sezione, Versi livornesi – sulla figura della madre scomparsa, Anna Picchi. Il titolo è dantesco,
recuperato dal canto XXXI del Purgatorio «udendo le serene, sie più forte, / pon giù il seme del piangere e
ascolta» (vv. 45-46), nei quali Beatrice rimprovera Dante con severità, cosa che ben s’attaglia al senso di
colpa e al rimorso che il poeta avverte in occasione della morte della madre. Essa viene rievocata nel
momento della sua piena giovinezza. Traendo ispirazione, come accade ai testi coevi di Mario Luzi, dalle
atmosfere poetiche dello Stilnovo, e in particolare da Guido Cavalcanti, il libro compie un viaggio a ritroso
nel tempo, verso la Livorno anteguerra, dove la madre di Caproni, Annina, aveva vissuto una giovinezza
lieta e spettrale. In un contesto armonico ricco e complesso, dominato da una freschezza sensoriale di luci e
profumi, l’evocazione della madre-fanciulla si accompagna a un gioco di rime in -ina, che esprimono
verbalmente la leggerezza del nome.

In Il seme del piangere (1959) l’invenzione centrale consiste nel ricostruire, in un ciclo narrativo costruito
per brevi affondi, quadri lievi, rapide scene in sequenza, la vita della madre ragazza, nella sua città
(Livorno): con una paradossale postura da ‘testimone informato dei fatti’ (il figlio-fidanzato) al fine di
evitare ogni rischio di “mammismo” di “patetismo”. Qui c’è ben poco di edipico nella rappresentazione di
Annina che i Versi livornesi ci presentano.

Nella raccolta poetica persiste una dialettica fra precisione, vividezza realistica dei dettagli (del
personaggio; dell’ambiente in cui si muove) e collocazione onirico/surreale accompagnata ad una grande
attenzione alla costruzione del libro. È una “narrazione” semplice ma “nervosa”. Sul piano formale:

• Nuova interpretazione del modulo della “canzonetta”, ancor più rastremata di quelle d’esordio.
• È una forma “fine e popolare”, assottigliata e incisiva: versi brevi, strofette, recupero
raffinatissimo di

141
• rime facili, “chiare” (rime “in are”); ma con enjambements frequenti, benché di breve gittata,
che
• movimentano e increspano il dettato (effetto di “recitativo”, pausato). Cfr Mengaldo: è una
sorta di
• emblema della figura stessa di Annina (“un’icona del suo corpo svelto e sottile”).
• Contrappunto fra materia psicologica complessa, grave, e leggerezza di tocco (“che sembri
scritta per
• gioco / e lo sei piangendo: con fuoco”, La gente se l’additava)

Analisi della prima poesia della raccolta Perch’io.

...perch'io, che nella notte abito solo,


anch'io di notte, strusciando un cerino
sul muro, accendo cauto UNA CANDELA
bianca nella mia mente - apro UNA VELA
timida nella tenebra, e il pennino
strusciando che mi scricchiola, anch'io scrivo
e riscrivo in silenzio e a lungo il pianto
che mi bagna la mente...

Lo stesso soggetto viene reiterato più volte perch’io, anch’io, anch’io in un periodo sorretto da una
struttura coordinativa fortemente parallelistica.

Il soggetto è sempre lo stesso con rinvii anaforici ad un antecedente vuoto, come i puntini di
sospensione, perché io (perché rispetto a cosa? Quale sarebbe l’antecedente logico?) e lo stesso
accade in anche io. Seguono poi sintagmi sparsi che collocano questo io, nella tenebre, nella mia
mente e in questo spazio-tempo la voce abita stabilmente solo, in silenzio, a lungo. Questa serie di
elementi definisce la condizione di partenza dell’io lirico che si trova in una condizione di
solitudine stabile abito solo in uno spazio buio, introflesso, caratterizzato dal doloro inondante.
Questa condizione è quella del lutto, della perdita della madre. Il soggetto però compie una serie di
azioni anche se l’unica vera azione è scrivo e riscrivo, gli altri elementi sono similitudini implicite.
Il soggetto struscia il pennino sulla pagina come fosse un cerino sul muro (una similitudine senza
come) che produce una scintilla, un’accensione. Da qui l’altra coppia che viene paragonata, quella
dello scrivere e riscrivere: la scrittura come modo di illuminare (accendo una candela) e
l’immagine della vela (apro una vela) prepararsi a salpare all’interno del mare di buio e piante
all’interno del quale il soggetto si trova. In entrambi i casi la scrittura rappresentata come mezzo
che consentirebbe una fuoriuscita dalla condizione claustrofobica in cui il soggetto si trova anche se
l’azione scrivo e riscrivo sembra indicare azione che pare protrarsi indefinitamente.

Riflessione sul piano metrico-prosodico

142
Colpisce l’associazione fra scontri d’accenti ravvicinati spesso associati alla presenza di una
sinalefe che contrae le vocali e avvicina accenti posizione continua strusciando che mi scricchiola,
anch'io scrivo e poi zone di vuoti ritmici timida nella tenebra (due parole sdrucciole).

La condizione del presente della voce all’inizio della raccolta è di dolore asserragliato, di mancanza
straziata quasi di lutto infinito.

Richiami intertestuali

…Perch’io → ripresa della celebre Ballatetta di Cavalcanti, «Perch’i’ no spero di tornar giammai».
Altri richiami li troviamo in il pianto che mi bagna la mente → «L’anima mia dolente e paurosa
piange ne [l]i sospir’ che nel cor trova sì che bagnati di pianti escon fòre. Allora par che ne la mente
piova»;(G. Cavalcanti, S’io prego questa donna che Pietade, vv. 9-12).

Cavalcanti sarà fonte di richiamo anche nei testi successivi, soprattutto nel modulo dell’apostrofe,
come nella poesia Preghiera, che segue Perch’io nel Seme del piangere. Il nesso perch’io assolve la
funzione causale dell’invito rivolto alla Ballatetta, vale come un poiché. Anche in Caproni, dunque,
il perch’io, potrebbe avere valore di elemento cataforico piuttosto che anaforico e valere come
poiché/dal momento che e l’elemento causato da questa premessa sarà l’apostrofe aperta nel testo
successivo Preghiera, «Anima mia leggera,/va’ a Livorno, ti prego.».

Bibliografia critica

Crocco Claudia, La poesia italiana del Novecento. Il canone e le interpretazioni, Carocci, Milano,
2015.

Grosser Herman, Guglielmino Salvatore, Il sistema letterario: guida alla storia letteraria e
all’analisi testuale: Novecento, Principato, Milano, 1994.

Lorenzin Niva, La poesia italiana del Novecento, Il Mulino, Bologna, 2018.

Riccardo Eugenio Zanini

ANDREA ZANZOTTO

- Vita

Nato a Pieve di Soligo (Treviso) laureato in lettere a Padova, fu insegnante di lettere nelle scuole

medie. A parte qualche soggiorno all'estero e a Milano, non ha mai lasciato la campagna veneta, che

è il luogo che gli ha consentito la scrittura poetica, come lui stesso ha confessato.

1950 vince il Premio San Babila (giuria composta da Ungaretti, Montale, Quasimodo, Sinisgalli,

Sereni).
143
1951 pubblica la raccolta Dietro il paesaggio edita da Mondadori.

1971 pubblica A che valse? Edita da Scheiller, Milano.

1954 Elegia ed altri versi edita La Meridiana Milano

1957 Vocativo

Si parla di un primo e un secondo Zanzotto. Il secondo Zanzotto parte da

1962 IX Egloghe

1968 La beltà

1973 Pasqua

1976 Filò raccolta in dialetto Edizone del Ruzzante Venezia

1978 Galateo in bosco

1983 Fosfeni

1986 Idioma

Tra le prose ricordiamo:

1964 Sull'Altipiano edito da Neri Pozza Venezia

1990 Racconti e prose

1991 Fantasie di avvicinamento

Zanzotto fu considerato da Contini il maggior poeta italiano dopo Montale, con il suo lavoro di

ricerca e sperimentazione sulla lingua, nello stile e nei contenuti. La sua poesia è carica di

riflessioni filosofico-culturali.

Con Dietro il paesaggio Zanzotto utilizza una certa visionarietà surrealista e l'esperienza ermetica,

utilizza particolari tratta stilistici come le metafore e le analogie, folta presenza di termini al plurale

e di voci astratte tipici del surrealismo, per arrivare all'uso ermetico, vago e polivalente della

preposizione “a”.

- Da dietro il paesaggio

Là sul ponte

Là sul ponte di san Fedele

dove la sera abbonda

144
di freddo fieno

e dove la pioggia raccoglie

tutte le sue vele madide

c’è da ieri una fanciulla bionda

che ha un nome come una corona

e che ha perduto per sempre

una mano per salutare una rosa.

Sulle rive oscure del fieno

c’è una nave di pioggia

abbandonata dalla notte

Dalle stretture delle sorgenti

là si libera talvolta

la dalia abbigliata di rosso

e illumina la crisalide

intricata del sole.

Là un animale azzurro

deperisce nella sua tana

è l’estate legata dalla neve

non conosce altro frutto che se stessa.

Analisi:

versi liberi da 5 sillabe a dodici, il ritmo si basa sul settenario, ottonario, novenario.

breve quadro paesistico dove convergono elementi reali resi surrealmente: un ponte dotato di nome

preciso, l'ora di sera e poi di notte, il fienile raccolto, la pioggia insistente, l'enigmatica apparizione

di una ragazza bionda, un animale (azzurro) nella tana e l'estate (però singolarmente legata alla

neve).

Semplicità e limpidezza del quadro sono più apparenti che reali.

La poesia intitolata “Là sul ponte” fa parte della prima raccolta di poesie di Andrea Zanzotto. Nelle

poesie di questo suo primo esordio egli si ricollega sia al Surrealismo sia all’Ermetismo, una
145
corrente nata e diffusasi nello stesso secolo, ormai in declino, caratterizzata da un’elevata

complessità e brevità delle composizioni dove, dietro un’apparente semplicità e banalità si

nascondono significati e concetti secondari.

E’ un breve quadro paesistico[1] che si apre con la visione di un ponte , uno degli elementi

principali e al contempo uno dei più misteriosi, che caratterizzano la poesia. Essa inizia in modo

semplice e diretto nonostante la limpidezza della descrizione venga subito abbandonata con

l’inserimento, già dal secondo verso, di elementi strani e contraddittori. Il ponte prima di tutto ha un

nome preciso “San Fedele”, fattore in contrasto con il resto della lirica completamente impregnata

di un linguaggio vario e polivalente. Probabilmente Fedele, nome del ponte, è invece un aggettivo

da riferirsi al poeta stesso che è fedele nei confronti della campagna veneta che egli non abbandona

mai se non per brevi viaggi e che è l’unico luogo che gli consente di comporre poesia. [2]

Già nella prima strofa Zanzotto inserisce elementi surrealisti, liberi giochi di immagini anche al di

fuori dei nessi sintattici, legati da metafore fantastiche e analogie quasi come fossero i protagonisti

personificati di un sogno. La sera, con la sua luce soffusa data dal sole che sta tramontando per

lasciare il posto al buio della notte abbonda di freddo fieno, il paesaggio è lavato da una pioggia

insistente e bagna le vele delle navi che sono madide, zuppe.

Da questo sfondo, nella sua duplice veste di incanto e gabbia, inquietante e quasi angoscioso per la

presenza di aggettivi come “freddo” e “madide”, emerge l’enigmatica apparizione di una ragazza

bionda, una sorta di fantasma , da leggere in un clima di visione allucinata, surrealistica, che

pervade tutta la poesia e ne diventa la colonna portante oltre che la chiave di lettura. Mentre

all’inizio il ponte aveva una precisa denominazione, che dava un’illusoria sensazione di concretezza

realistica, la fanciulla non viene descritta se non tramite il colore dei capelli. La fanciulla è una

figura fortemente emblematica, forse semplicemente l’ennesimo elemento misterioso del sogno,

forse simbolo dell’io, dell’interiorità dell’autore stesso che guardando e analizzando

malinconicamente la propria vita da un ponte, simbolo di solidità o precarietà, ripensa a ciò che ha

perduto e per cosa.

O ancora la fanciulla potrebbe essere considerata come un riferimento ad una persona reale. Il poeta

la inserisce nel suo paesaggio mentre malinconica si affaccia dal ponte; per seguire una chimera,
146
una bellezza illusoria (“per salutare una rosa”), ha buttato via la sua vita (“ha perduto per sempre

una mano”). E’ una crisalide, un bozzolo che si nasconde alla bellezza della vita, nonostante per lei

ci sia ancora speranza (dalie rosse che talvolta riescono a sbocciare dalle strutture), è quell’animale

azzurro chiuso nella sua tana, mentre l’estate della sua vita è gelata dalla neve.

Nella seconda strofa già dall’inizio il poeta riprende alcune figure usate in precedenza come il fieno,

la notte che ha sostituito la sera e la pioggia che prima rendeva madide le vele e che ora è diventata

quasi materia di cui è fatta la nave, inserita in questa strofa al posto di vele.

La visione procede poi con l’aggiunta di nuovi elementi: una dalia, altro fiore da aggiungersi alla

rosa che la fanciulla ha salutato perdendo per sempre una mano e poi un animale, la crisalide che

riconduce al tema del bozzolo. La crisalide, in una nuova immagine surrealistica, è intricata di sole,

illuminata da un sole che è pallido perché filtrato e offuscato dalle nuvole.

Infine la visione termina con un animale che però è azzurro e l’estate che, con una sorta di

ossimoro, è “legata dalla neve” ed è infeconda perché come frutto possiede solo se stessa.

La poesia è in generale caratterizzata da un ritmo piano, calmo e abbastanza lento basato

sull’alliterazione delle liquide, cioè sul frequente uso di parole con ricorrenti suini “r” ed “l” che

conferiscono al componimento un ritmo fluido che, grazie agli enjambement unisce in un nucleo

composito, con poche interruzioni, tutta la poesia.

Sono frequenti le metafore e le analogie mediante le quali il poeta accosta immagini diverse tra

loro, talvolta antitetiche, creando una visione confusa e apparentemente incomprensibile e priva di

significato, che suscita nel lettore un senso di smarrimento e allucinazione. Zanzotto si impegna

nella ricerca di un linguaggio autentico, è mosso da una forte tensione dal non significato al

significato, dalla inconoscibilità del mondo alla conoscibilità, anche quando i termini sembrano

raggrupparsi in modo caotico per sola forza di relazioni foniche.

Il paesaggio ha una funzione focalizzatrice poiché è specchio dei sentimenti e pensieri dell’autore.

Infatti in gran parte della filosofia del 800-900 il mondo è rappresentato in modo soggettivo

secondo colui che osserva con una propria e personale scala di valori. Oltre che agli ermetici e ai

surrealisti, ai quali si affianca nello stile, la poesia si può inserire nel quadro romantico e

malinconico della poesia del passato[3] nonostante con essa non abbia sicuramente in comune la
147
semplicità e immediatezza comunicativa. Zanzotto infatti, proiettato già ad una visione molto più

moderna e raffinata, smonta la realtà per dare vita ad un quadro, ad un film nel quale le immagini

surreali si accostano una dopo l’altra percorrendo quelle vie logico-linguistiche che appaiono chiare

alla nostra mente solo durante i sogni

(analisi copiata da internet https://gioina21.blogspot.com/2012/10/andrea-zanzotto-la-sulponte.html)

- Prima Persona: Vocativo

Vocativo (1957): i testi che raccoglie, scritti tra il 1949 e il 1956, sono quasi tutti posteriori a una

grave crisi di nervi che colpì il poeta nel 1950. Il protagonista di Vocativo è appunto un io

nevrotico che denuncia e sfida l’inautenticità della Storia.

Opera di transizione, un'opera ponte che che anticipa modalità e istituti formali tipici di Zanzotto

maturo. La novità di Vocativo consiste nella presa di coscienza della disgregazione dll'io,

manifestato attraverso una serie di fenomeni di smotaggio grammaticale e sinttatico, in cui l'io

monologa rivolgendosi verso altri in una specie di balbettìo qusi vicino all'afasia. Il paesaggio

circostante appare in urto con l'io, mescolato con il “paesaggio interno” mentale e fisiologico.

Zanzotto nelle sue poesie esprime: angoscia, terrore e desiderio di travare scampo.

Prima persona

– Io – in tremiti continui, – io – disperso

e presente: mai giunge

l’ora tua,

mai suona il cielo del tuo vero nascere.

Ma tu scaturisci per lenti

boschi, per lucidi abissi,

per soli aperti come vive ventose,

tu sempre umiliato lambisci

indomito incrini

l’essere macilento

o erompente in ustioni.

148
Sul vetro

eternamente oscuro

sfugge pasqua dagli scossi capelli

primavera dimora e svanisce.

Tu ansito costretto e interrotto

ora, ora e sempre,

insaziabile e smorto raggiungermi.

Ora e sempre? Ma se di un bene

l’ombra, se di un’idea

solo mi tocchi, o vortice a cui corrono

i conati malcerti, il fioco

sospingermi del cuore. E là nel vetro

pasqua e maggio e il rissoso lume affondano

e l’infinito verde delle piogge.

Col motore sobbalza

la strada e il fango, cresce

l’orgasmo, io cresco io cado.

Di te vivrò fin che distratto ecceda

il tuo nume sul mio

già estinto significato,

fin che in altri terrori tu rigermini

in altre vanificazioni.

da Vocativo, Mondadori 1981

- Le altre opere

Il titolo della raccolta Vocativo allude ad una struttura-chiave del testo, le liriche sono organizzate

come rivolte verso qualcuno o qualcosa: l'io indirizza il suo monologo verso entità varie, pur nella

con.

149
In Prima persona l'indagine viene fermata centralmente sull'io del poeta che si interroga per tutto il

testo, in una mobilissima perlustrazione, dialetticamente sospesa tra affanno, paura, sentimento di

perdita e spiragli di possibile auto-identificazione.

La lirica è strutturata sugli ossimori e le antitesi.

Con la raccolta IX Egloghe Zanzotto si muove verso esperimenti di poesia meta linguistica.

In esse si trova il massimo di contaminazione dei generi e degli stili: a partire dalla struttura del

genere bucolico.

Il metro è raffinato e regolare, la struttura composta da un prologo ed un epilogo racchiudenti le

nove egloghe, con l'Interposizone bilanciata di altre poesie.

Il contenuto tende verso il surrealismo, l'ironia e continue operazioni metalinguistiche.

I temi-chiave ossessivamente ricorrenti sono quelli del drammatico e conflittuale rapporto dell'io

con paesaggio e linguaggio e della continua investigazione sulla poesia.

Con La Beltà (1968) lo sperimentalismo di Zanzotto supera un punto di non ritorno. Il poeta forza il

normale rapporto che lega significanti e significati. Molte poesie della raccolta sono costruite da

catene associative di significanti puri che proliferano uno dall’altro, in appartente completa

autonomia dai valori semantici.

Stefano Dal Bianco, critico e curatore delle opere di Zanzotto, mette in luce alcune conseguenze

stilistiche di questo processo, spiegando che:

L’armamentario delle figure foniche è portato all’incandescenza, organizzando direttamente la

produzione del senso. Il procedimento dominante è l’allitterazione

Leggiamo il testo che apre la raccolta, intitolato significativamente Oltranza oltraggio:

Salti saltabecchi friggendo puro-pura

nel vuoto spinto outrè

ti fai più in là

intangibile - tutto sommato -

tutto sommato

tutto

sei più in là
150
ti vedo nel fondo della mia serachiusascura

ti identifico tra i non i sic i sigh

ti disidentifico

solo no solo sì solo

piena di punte immite frigida

ti fai più in là

e sprofondi e strafai in te sempre più in te 9.

L’io poetico è all’inseguimento di una fantomatica entità femminile, probabilmente la stessa

“Beltà”, o la personificazione della poesia. L’entità è sfuggente, si trova “più in là” del soggetto

lirico e sfugge alla logica razionale. Vediamo come i versi violano il principio di noncontraddizione,
accostando di proposito gli opposti (vv. 8-9: “ti identifico [...] | ti disidentifico”; v.

10: “solo non solo sì”). Oltre le esibite allitterazioni, notiamo un marcato plurilinguismo: il

lessico accoglie francesismi (v. 2: “outré”, cioè “eccessivo”), latinismi (v. 9: “sic”; v. 12: “immite”

per “crudele”, e “frigida”), neologismi (v. 10: “disidentifico”) e persino un anglicismo tipico dei

fumetti (v. 9: “sigh”). La lingua onnivora e sperimentale di Zanzotto accoglie termini e immagini

dalle più diverse provenienze: latinismi, stranierismi, dialettismi, aulicismi letterari, termini mutuati

dai linguaggi settoriali scientifici e umanistici (come la filosofia o la psicanalisi). Dal punto di vista

metrico, La Beltà è decisamente sperimentale. I pochissimi endecasillabi sono irregolari o inseriti

nel generale balbettio e sussulto dello stile.

IDIOMA

Ultima raccolta, Idioma è il terzo titolo di una trologia, le cui due prime parti, assolutamente

autonome, sono Galateo in bosco, che rappresenta l'incursione nel mondo naturale e primordiale

(sullo sfondo della zona veneta del Montello) e Fosfen (punti luminosi) è il momento più arduo,

metafisico e siderale, mentre Idioma sembra aprirsi ad una nuova morbidezza, colloquialità e

umanità.

Andrea Zanzotto pubblicò Idioma nel 1986, libro che rappresenta la chiusura della trilogia, di cui

fanno parte Fosfeni e Galateo in bosco. Zanzotto mostra non solo tutta la sua massima

sperimentazione e novità riguardo la lingua, ma proietta anche la volontà di far concatenare vari

151
idiomi, passando dal parlare "nascente" a quello popolare, dunque al dialetto. L'iter di Idioma si

articola con vari dialoghi con «figure e figurine» trapassate o presenti, reali o simboliche, attraverso

le quali si innesca la concezione del poeta riguardo il futuro e il «dopo». Un futuro meschino, atroce

esplicitato dai vari «colloqui» con personaggi vivi, semivivi, e morti soprattutto. È evidente una

ferrea consapevolezza del presente, ma una distante comprensione del passato; il presente è

banalizzato dal poeta, è messo in confronto con il passato, e accedendo al mondo del trapassato,

ossia dei morti, Zanzotto crea nuovi mondi neopoetici. Il dialetto è al centro del libro. Grazie

all’Ermeneneutica, che ritiene che la lingua sia la sede naturale dell'uomo, anche Zanzotto

acquisisce quest'idea del linguaggio come origine dell'uomo; infatti in un’intervista sostiene:

«L’idioma è la base verbale per cui l’uomo riconosce sé stesso, trovarsi dentro un idioma vuol dire

trovarsi nel proprio io, self. Quindi idioma è tutto ciò che appartiene ad una singola persona ma

soprattutto ad un gruppo che è fortemente coeso, tanto è vero che basta spostarsi anche da un

villaggio all’altro e le parole non sono più le stesse» (Intervista di Marco Pollini a Zanzotto). Ma in

questo caso: il dialetto come storicità ed origine dell'umanità. Dunque secondo il Poeta, il dialetto

ha in sé una verità nascosta che deve essere mostrata. Ed ora, in Idioma, è posto come confronto e

relazione tra passato e presente, il quale mette le radici nello sgretolarsi della realtà, attraverso il

fiorire del dire eloquente e l'incepparsi della parola. Non vuole assolutamente sperimentare un

plurilinguismo, e nemmeno accettare una lingua e poi contaminarla, ma far vedere la mancanza di

fiducia nel linguaggio poetico funzionale alla necessità di mettersi tra il dire e il non-dire. Infine

ritiene che nel presente la parola è limitata, anche a causa dell'immagine (pubblicitaria, televisiva

ecc..) che inibisce il vero senso della parola. «La parola per quanto ambigua, imprecisa ed incapace

di dare lo shock che danno un’immagine ed un’icona, può essere molto precisa in quanto a catene di

riferimenti, la parola indica con una certa precisione concetti e fatti» (Ibidem). Prima di Idioma il

Soggetto del sapere e il Soggetto del Mondo erano in posizione differente, ora invece sono sullo

stesso piano, c'è una reciprocità. Zanzotto crede che il sapere si fermi davanti alla realtà assoluta,

che unisce ma annulla allo stesso tempo entrambi. Crede che nel dialetto il codice della cultura e

della storia sono azzerati, perché il dialetto è una memoria senza storia. Il colloquio con i morti è

importante per il fatto che si ricordano non solo i fatti storici, ma anche le stesse emozioni, orride
152
come quelle del Terrorismo, ma anche di felicità, come la liberazione dal Fascismo. Nella prima

parte del libro c'è la presenza della morte. Vi è una morte fisica o individuale, come nella poesia

Maria Fresu, oppure morte collettiva, come in Verso il 25 Aprile. In quest'ultima poesia Zanzotto

allude ad un percorso «verso» il 25 aprile, in cui ricorda attraverso i versi di Molière posti in

exergo, che tutto ha un suo termine, come il tempo, il quale però si può far rinascere attraverso la

commemorazione. Si tratta di un percorso in cui il ricordare implica compatire gli eventi della

Resistenza, in cui la dimenticanza è una prerogativa ineluttabile. In seguito introduce due lemmi

greci importanti: Ethos e Pathos. Il primo riguarda i valori della Resistenza, e il secondo si oppone

alla commemorazione ufficiale. In questa poesia Zanzotto annuncia che è pronto per iniziare la

poesia come Insomnia, affinché possa dare un senso alla banalizzazione del reale, ma anche l'unico

modo di far resistere quel tempo, quello della Resistenza, è introdurlo nel presente, «ripercorrendo

un Passio nei luoghi dell’insonnia, della pretesa» (G. L. Beccaria). Ma il senso ultimo di questa

poesia è cercare di non cadere nella superficialità, come la commemorazione ciclica di eventi, fatta

di retorica fine a se s t e s s a , m a e n t r a r e n e l v i v o dell’esperienza storica passata affinché si

comprenda meglio, il passato e il presente, nel quale il poeta si sente vuoto. Al vv.8 «il vostro

perire» Zanzotto usa il tempo presente, simboleggiando che l’evento non ha un termine, e si deve

rinnovare ogni anno. Al v. 70 il Poeta utilizza il sostantivo «pianto» il quale ha due significati: il

primo è il pianto unito al pensiero dei morti e delle vittime, il secondo significato deriva da un

vuoto interiore, causato dal tempo moderno, ecco perché Zanzotto preferisce creare mondi

metapoetici, solo per cercare di scappare dal presente banale che lo circonda. Invece la poesia Maria

Fresu introduce la morte individuale.

E il nome di Maria Fresu

continua a scoppiare

all'ora dei pranzi

in ogni casseruola

in ogni pentola

in ogni boccone

in ogni
153
rutto − scoppiato e disseminato −

in milioni di

dimenticanze, di comi, bburp.

Zanzotto ricorda la strage neofascista avvenuta nella stazione di Bologna, 1980, ore 10.25. Ricorda

in particolare Maria Fresu, ragazza morta con sua figlia di 3 anni, talmente vicino al punto dello

scoppio della bomba, che il suo corpo fu totalmente disintegrato. Il Poeta vuole ribadire che il nome

della vittima è in ogni cosa, ovunque, e ha creato una poesia con un finale leggermente volgare per

alludere alla dimenticanza del popolo italiano, e all'indifferenza che aumenta col tempo. Ci sono

fortissimi enjambements, e l’anafora «in ogni» crea un senso di riverbero, quasi un’eco del nome

della vittima. Al v. 10 «comi» sta a significare un’indefinitiva sospensione della consapevolezza, e

ciò si riallaccia al tema dell’insomnia nel presente. Ma questo lemma ha anche un altro obiettivo:

deriva dal greco κωµος, che vuol dire in modo negativo, banchetto o gozzoviglia, o nell’accezione

del Tommaseo-Bellini «uscita in pubblico dalla mensa». Ciò che si è disintegrato, contaminato, è la

coscienza civile e politica del paese, e non il corpo di Maria e delle 84 vittime. Infatti il termine

«bburp» indica volgarità ed ignoranza delle persone, ed inoltre simboleggia l' apatia della

maggioranza italiana, sempre pronta a dimenticare. Ma il nome di Maria Fresu continua a

scoppiare.

- Bibliografia

A. Zanzotto, Idioma, Milano, I edizione maggio 1986, poi in Id., Poesie e prose scelte,

a c. di S. Dal Bianco, Milano, Mondadori, I Meridiani, 1999. Contributo: Alessandro Romei (classe

V B, L.C. Virgilio, Roma)

Maria Nicolino

ELSA MORANTE

154
Premessa

Elsa Morante (1912–1985), scrittrice, saggista, poetessa e traduttrice, tra le più importanti del
secondo dopoguerra, è stata la prima donna a essere insignita del Premio Strega con il romanzo
L'isola di Arturo (1957), e con La storia (1974), ambientato su Roma durante la seconda guerra
mondiale, figura nella lista dei cento migliori libri di tutti i tempi. Nel 1941, Morante sposa Alberto
Moravia e durante la guerra, scrive il suo primo romanzo, Menzogna e sortilegio, che uscirà, solo
nel 1948, grazie all’interesse di Natalia Ginzburg. Vincerà il Premio Viareggio. La parabola
narrativa di Morante parte da quegli anni violenti e drammatici e arriva alla soglia degli anni
Ottanta. Morante riutilizza tematiche, archetipi e modelli narrativi del romanzo ottocentesco,
rielaborati con estrema indipendenza per creare il suo stile personalissimo e inclassificabile,
disancorato da qualsiasi corrente e gruppo. (Giulio Ferroni -
https://www.raicultura.it/letteratura/articoli/2020/05/Elsa-Morante)

Quadro storico e culturale

“Il «neorealismo» non fu una scuola. (…) Fu un insieme di voci, in gran parte periferiche, una
molteplice scoperta delle diverse Italie, anche – o specialmente – delle Italie fino allora più inedite
per la letteratura. Senza la varietà di Italie sconosciute l’una all’altra – o che si supponevano
sconosciute -, senza la varietà dei dialetti e dei gerghi da far lievitare e impastare nella lingua
letteraria, non ci sarebbe stato «neorealismo»”. Italo Calvino

Con il termine Neorealismo si indicano una serie di tendenze manifestatasi nella cultura italiana in
campo letterario, cinematografico e artistico, che può essere collocata all’incirca tra il 1930 e il
1955. Il Neorealismo nasce, infatti, come conseguenza della seconda guerra mondiale e delle lotte
antifasciste, caratterizzato da una morale e delle ideologie nuove in linea col modello tedesco Neue
Sachlicheit (Nuova oggettività). Questo movimento era nato in Germania dopo la prima guerra
mondiale e il suo scopo era la rappresentanza amara, fredda, realistica di un paese corrotto e malato,
un’espressione concreta della società nel dopoguerra. La Nuova Oggettività venne stroncata quando
i nazisti salirono al potere, considerata come arte degenerata, non in linea con le linee del regime.
La corrente neorealista deriva, dunque, dallo sconvolgimento dell’Italia durante il dopoguerra,
trovatasi ad affrontare un momento di grandi squilibri sociali, economici e culturali. Tutto ciò porta
gli scrittori ad avvertire l’esigenza di raccontare gli avvenimenti con quanta più verità possibile,
impegnandosi a una cronaca nuda e dura della realtà durante gli anni della ripresa italiana. Questo

155
impegno sociale era un bisogno interiore degli autori, che incontrava i bisogni di un’Italia misera e
arretrata, e che si trasformò in testimonianza e in conoscenza. Questo tipo di intellettuale aveva una
responsabilità politica nei confronti delle classi subalterne, il popolo, che da massa passiva si era
trasformato in entità attiva, protagonista delle lotte e portatore a sua volta di una forma di cultura.
La ricerca della testimonianza, del documento, deriva dal desiderio di parlare delle cose con
semplicità ed immediatezza. La nuova letteratura ambiva a diventare un’arma da usare nelle lotte
politiche e voleva incidere sulla società e cambiarla.
Il Neorealismo non nasceva all’interno di una precisa poetica, ma raccoglieva intellettuali di diverse
ideologie con uno stato d’animo comune per celebrare le esperienze vissute. Questa volontà di
denuncia sociale, di rivolta al fascismo, di celebrazione delle virtù partigiane, si nota, per esempio,
nella Prefazione di Italo Calvino al suo romanzo Il sentiero dei nidi di ragno (1947). “Si era carichi
di storie da raccontare, scriveva Calvino. Ed erano storie che scrittore e pubblico avevano vissuto
insieme, in questo caso erano alla pari. Nel 1950, il critico letterario Carlo Bo, nella sua Inchiesta
sul Neorealismo, fa notare come non ci siano regole specifiche per questo movimento, ma “se
proprio si vuole disporre di un libro della legge, si pensi innanzitutto di una stanchezza, condivisa
da tutti, della letteratura compiaciuta, leggera, disinteressata che ha dominato fino verso il 1930 da
noi”. Dunque, il Neorealismo non ha delle qualità specifiche, ma volendo comunque assegnare a
questa corrente delle tematiche originali, potremmo cominciare considerando uno dei principali
problemi del popolo italiano durante gli anni del fascismo, della guerra e del dopoguerra, la miseria,
non solo materiale, ma anche spirituale. A questa condizione di arretratezza, causata da una
devastante crisi economica e scioperi e agitazioni di tipo sociale, si collegano altre questioni come
l’antifascismo, la resistenza e le lotte politiche, che mettono in luce le esperienze in prima persona
degli autori e i valori umani che sono alla base della resistenza stessa. Verso il 1950, quando la
ripresa italiana contribuì a un cambiamento del contesto storico nazionale, i letterati si spinsero
verso tematiche più psicologiche, moralistiche, nostalgiche e in generale più ottimistiche. In questo
periodo di transizione, durante il secondo dopoguerra, si crea una grande “nebulosa narrativa”
durante la quale prende vita la ricerca sperimentale e la Neoavanguardia, insieme a quello che verrà
chiamato il Gruppo ’63. Un gruppo di scrittori, tra i quali emergono Calvino, Bassani, Moravia,
Pasolini e Vittorini, che andava contro le ideologie neorealiste e perseguiva una letteratura nuova
per forma, scrittura e lingua. A questi cambiamenti si associava anche il femminismo italiano che,
in quest’ultimo periodo, aveva fatto molti progressi. Negli anni Settanta le donne conquistavano il
diritto allo studio e al lavoro, cominciavano a far valere la propria posizione, le proprie idee, in
cultura e in politica, formando gruppi femministi e invadendo le piazze. “La forza del femminismo
italiano giaceva nella sua apertura alla diversità”, scrive Alba Amoia, e chi, se non Elsa Morante,

156
rappresenta l’esempio concreto di questa affermazione. Anticonformista, schietta e determinata, la
Morante ruppe i soliti schemi di pensiero ed espressione. La sua umanità si rispecchiava nei suoi
scritti, commoventi e intriganti, per nulla artificiosi, dando vita a una nuova visione della realtà.

La vita e le opere

«Io sono il punto amaro delle oscillazioni fra le lune e le maree». (Il Mondo salvato dai ragazzini)

«[…] tu che ti leghi per la vita e per la morte, quasi t’identifichi con le cose che fai. Ma vedi, tu
appunto hai questo dono di ricondurre ad unità gli elementi più disparati […]. Tu senti che il
mondo è fatto a pezzi, che le cose da tener presente sono moltissime e incommensurabili tra loro,
però con la tua lucida e affezionata ostinazione riesci a far tornare sempre i conti». (Lettera di Italo
Calvino a Elsa Morante, 2 marzo 1950).

“Se proprio fosse necessario definire Elsa Morante, gli appellativi che troverebbero il suo consenso
sarebbero, forse, “poeta” e “cantastorie”. La sua parabola narrativa parte dalla seconda guerra
mondiale e arriva alla soglia degli anni Ottanta, cristallizzando in romanzi e poesie la sua visione
della realtà del XX secolo. Autrice-crisalide, che costruisce la sua poetica e il suo stile come un
bozzolo attorno alla vocazione di scrittrice (già avvertita nella prima infanzia), riutilizzando
tematiche, topoi e modelli narrativi del romanzo ottocentesco, si leva sul panorama letterario a lei
contemporaneo con estrema indipendenza, disancorata da qualsiasi corrente o gruppo. Il suo
bagaglio di letture, vastissimo ed eterogeneo, la sua capacità di rielaborare archetipi e modelli per
creare il suo personalissimo stile e i suoi indimenticabili personaggi fanno di lei una figura di
intellettuale che modella la propria coscienza metaletteraria e la propria sensibilità umana nel corso
delle esperienze della vita.” 35

Segue cronologia della vita e delle opere a cura Cesare Garboli (pubblicata in appendice
a Menzogna e sortilegio, Einaudi 1994)

1912-22

35
http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/elsa-morante/
157
Elsa Morante nasce a Roma, in via Anicia 7, il 18 agosto 1912; è figlia di Irma Poggibonsi – moglie
di Augusto Morante – e Francesco Lo Monaco. Venuta alla luce dopo Mario, morto in tenerissima
età, è la secondogenita della famiglia; a lei seguiranno tre fratelli: Aldo, Marcello e Maria. La
madre, ebrea originaria di Modena, è maestra alle scuole elementari; il padre anagrafico è istitutore
al riformatorio romano «Aristide Gabelli». Ad alcuni mesi dalla sua nascita, la famiglia Morante si
trasferisce nel quartiere Testaccio. Elsa non frequenta le scuole elementari, e per qualche tempo
viene ospitata in una villa del quartiere Nomentano dalla madrina, donna Maria Guerrieri Gonzaga:
«ero una bambina anemica; la mia faccia, fra i riccioli color "ala di corvo", era pallida come quella
di una bambola lavata, e i miei occhi celesti erano cerchiati di nero. Venne un giorno una lontana
parente, che aveva per sua sorte favolosa sposato un conte ricchissimo. Ella mi guardò con pietà e
disse: "La porto a vivere con me, nel mio giardino"».
I quaderni risalenti a questo periodo già contengono, tra i disegni, storie, poesie e dialoghi.

1922-30
La famiglia Morante si trasferisce nel quartiere Monteverde Nuovo, dove Elsa si iscrive dapprima al
ginnasio, poi al liceo. Verso i diciotto anni, dopo aver conseguito il diploma, lascia la famiglia e va
a vivere per conto proprio. Per la mancanza di mezzi economici abbandona l'università (facoltà di
lettere) a cui si era iscritta e si mantiene dando lezioni private di italiano e latino, aiutando gli
studenti a compilare tesi di laurea e pubblicando poesie e racconti su riviste.
1930-35
Dopo alcune sistemazioni provvisorie, Elsa prende in affitto un alloggio in corso Umberto. Inizia a
collaborare al «Corriere dei piccoli» e a «I diritti della scuola» sul quale dal 1935 esce a puntate il
romanzo Qualcuno bussa alla porta.
1936-40
Comincia la collaborazione al «Meridiano di Roma» con i racconti L'uomo dagli occhiali, Il gioco
segreto, La nonna e Via dell'angelo poi raccolti nei volumi Il gioco segreto e Lo scialle andaluso.
Nel 1936 conosce Alberto Moravia con il quale inizia di lì a un anno una relazione. Risale a questo
periodo un quaderno di scuola intitolato Lettere ad Antonio, uno dei più importanti documenti
intimi rimastoci, un diario personale di fatti reali e descrizioni di sogni.
Collabora, talvolta con pseudonimi, al settimanale «Oggi» sul quale pubblica racconti e cura la
rubrica «Giardino d'infanzia». Traduce Scrapbook di Katherine Mansfield (Il libro degli appunti,
Longanesi 1941).
1941-43

158
Il 14 aprile 1941, lunedì dell'Angelo, Elsa sposa Alberto Moravia e con lui si stabilisce in un
piccolo appartamento in via Sgambati dove rimarrà, salvo i temporanei spostamenti dovuti alla
guerra, fino al 1948. Presso l'editore Garzanti nella collana «lI delfino» esce la raccolta di racconti
Il gioco segreto. È di questo periodo il quaderno di scuola intitolato Narciso. Versi, poesie e altre
cose molte delle quali rifiutate che contiene progetti di lavoro, testi abbozzati e poesie. Nel
settembre 1942 esce da Einaudi la fiaba Le bellissime avventure di Caterì dalla trecciolina (il cui
nucleo originale risale ai tempi del ginnasio), illustrata dalla stessa Morante. Ha inizio nel frattempo
la stesura del romanzo Menzogna e sortilegio originariamente intitolato Vita di mia nonna; in esso
la saga di una famiglia del Sud italiano è raccontata e ricostruita da un membro dell'ultima
generazione, Elisa, che ha scelto di confinarsi nella propria stanza.
Essendo Moravia accusato di attività antifasciste, la coppia si sposta verso Sud, stabilendosi a
Fondi, un paese di montagna della Ciociaria, in attesa della liberazione.
1944-48
Dopo un breve soggiorno a Napoli, Elsa comincia la seconda stesura di Menzogna e sortilegio. Il
racconto Il soldato siciliano, poi raccolto nel volume Lo scialle andaluso, inaugura la
collaborazione con l'«Europeo» su cui uscirà anche Mia moglie.
Nel 1947, tramite Natalia Ginzburg, manda Menzogna e sortilegio in lettura all'Einaudi che lo
pubblicherà l'anno successivo.
1948-49
Le condizioni economiche di Elsa e Alberto Moravia vanno via via migliorando ed Elsa visita per la
prima volta la Francia e l'Inghilterra. Nell'agosto 1948 Menzogna e sortilegio vince il Premio
Viareggio. La coppia abbandona la casa di via Sgambati e acquista un attico nei pressi di piazza del
Popolo, in via dell'Oca 27; Moravia, inoltre, compra per Elsa uno studio ai Parioli. Nel 1950 inizia a
collaborare con la RAI curando la rubrica settimanale di critica cinematografica intitolata
«Cronache del cinema»; interromperà tuttavia la collaborazione di lì a due anni, a causa delle
ingerenze dei dirigenti.
1950-57
Nel 1950 ha inizio la collaborazione con il settimanale «Il mondo» sul quale cura la rubrica «Rosso
e bianco»; nel novembre comincia a lavorare a Nerina, un romanzo d'amore presto abbandonato che
confluirà però nel racconto Donna Amalia. Tra l'aprile e il giugno del 1951 scrive il racconto Lo
scialle andaluso che uscirà in «Botteghe oscure» nel 1953. Nella primavera del 1952 comincia la
stesura di L'isola di Arturo, pubblicato da Einaudi nel 1957, con il quale vincerà il Premio Strega.
La storia della difficile maturazione di un ragazzo che vive quasi segregato nel paesaggio immobile
dell'isola di Procida, accanto all'imponente presenza del penitenziario.

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Con una delegazione culturale visita nel marzo l'Unione Sovietica e in settembre la Cina.
1958-61
Esce da Longanesi la raccolta di poesie Alibi, ed Elsa comincia, interrompendosi tuttavia nel 1961,
a lavorare a un romanzo intitolato Senza i conforti della religione, la storia della caduta di un idolo,
la fine di una divinità-fratello distrutta e smascherata dalla malattia. Nel settembre del 1959 parte
per New York e Washington dove si trattiene fino alla fine di ottobre. Durante il viaggio incontra
Bill Morrow, un giovane pittore newyorkese con il quale instaura un'intensa amicizia. Qualche
tempo dopo Morrow lascia gli Stati Uniti per trasferirsi a Roma. Elsa frattanto, pur non
abbandonando la residenza coniugale e il proprio studio ai Parioli, si trasferisce in una nuova casa
tutta per sé in via del Babuino. Nel numero di maggio-agosto di «Nuovi argomenti» escono come
«saggio sul romanzo» nove risposte ad alcuni quesiti letterari posti dalla rivista. Tali risposte sono
poi state raccolte in Pro o contro la bomba atomica uscito da Adelphi nel 1987. Nel 1960 invitata al
XXXI congresso internazionale del Pen Club parte con Moravia per Rio de Janeiro e trascorre
qualche tempo in Brasile. Nel gennaio 1961 si reca in India dove la attendono Moravia e Pasolini:
visitano Calcutta, Madras, Bombay e il Sud del paese.
1962-65
Nel 1962, presentato da Moravia, Bill Morrow inaugura una mostra personale alla galleria "La
nuova pesa" di Roma. Nell'aprile dello stesso anno, tuttavia, dopo aver fatto ritorno a New York,
Bill Morrow perde tragicamente la vita precipitando nel vuoto da un grattacielo. Nell'autunno
Moravia lascia via dell'Oca mentre Elsa continua a risiedere nell'attico di via del Babuino. Nel
novembre del 1963 esce da Einaudi la raccolta di racconti Lo scialle andaluso ma ogni altro
progetto è interrotto e a chi le chiede notizie sul suo lavoro dice di scrivere pochissimo.
Nell'autunno del 1965 compie un secondo viaggio negli Stati Uniti trascorrendovi le feste natalizie;
di lì raggiunge il Messico, dove il fratello Aldo è dirigente della Banca Commerciale di Città del
Messico, per poi spostarsi nello Yucatan.
1966-70
Compone i poemi e le canzoni che andranno a formare Il mondo salvato dai ragazzini, edito da
Einaudi nel 1968. Una raccolta di poemi e canzoni diretta «all'unico pubblico che oramai sia forse
capace di ascoltare la parola dei poeti», i ragazzi, ingenui custodi dell'unica felicità possibile, quella
dell'innocenza astorica e barbara. Nel 1969 prepara per i "Classici dell'arte Rizzoli" il saggio
introduttivo sul Beato Angelico dal titolo Il beato propagandista del Paradiso. Trascorre l'estate del
1970 in Galles a casa dell'amico Peter Hartman.
1970-75

160
Tra la fine del 1970 e l'inizio del 1971 Elsa comincia a formulare l'idea de La Storia, un'«Iliade dei
giorni nostri», nata in seguito alla lettura dei greci ritrovati tra le pagine dei quaderni di Simone
Weil. La stesura del romanzo la impegnerà fino al 1973. Uscito nel 1974, incontrando un immenso
successo popolare ma anche la violenta opposizione dell'establishment, il libro racconta l'odissea
bellica dell'Italia e del mondo, opponendo alla Storia l'umile microcosmo di una famiglia romana,
composta da una donna insicura, un ragazzo, un bambino e un paio di cani.
Nel 1975, in compagnia dell'amico Tonino Ricchezza, trascorre qualche settimana a Procida,
l'ultimo soggiorno nell'isola di Arturo; nell' agosto comincia un romanzo dal titolo Superman, ma il
progetto viene subito abbandonato.
1976-80
Comincia la stesura di Aracoeli che la terrà impegnata per cinque anni. Il dolente ritratto di un
personaggio «diverso», che disperatamente cerca di ricostruire la figura materna perduta.
Nel marzo del 1980 dopo essersi banalmente rotta un femore viene ricoverata e operata alla clinica
"Quisisana".
1981-85
Nel dicembre del 1981 Aracoeli è terminato, ma i continui dolori alla gamba la costringono a
restare immobile a letto e a farsi ricoverare in una clinica di Zurigo. Le sue condizioni fisiche
migliorano leggermente e nel novembre del 1982 esce da Einaudi Aracoeli. Presto però la salute di
Elsa subisce un peggioramento impedendole di camminare: trascorre le proprie giornate a letto e
nell'aprile del 1983 tenta il suicidio aprendo i rubinetti del gas. Viene trovata priva di sensi dalla
domestica e trasportata in ospedale dove, diagnosticatale una idrocefalia, è sottoposta a un
intervento chirurgico. Le cure non danno tuttavia i risultati sperati ed Elsa non lascerà più la clinica.
Il 25 novembre 1985, verso mezzogiorno, Elsa Morante muore d'infarto.

L’attività letteraria e giovanile

La stagione si apre nei primi mesi del 1933 con le favolette Paoletta diventò principessa uscita il 12
febbraio 1933, La casina che non c’è più (26 febbraio 1933), La storia dei bimbi e delle stelle (5
marzo 1933). I protagonisti sono tutti fanciulli, si lanciano in avventure meravigliose; l’ambiente è
incantato, abitato da nani, principi, fate e animali parlanti.
La favola più nota è Le bellissime avventure di Caterì dalla trecciolina che si compone di otto
capitoli dove sono raccontate e disegnate le peripezie di una bimba che vuole recuperare la sua
bambola di stracci, Bellissima, in compagnia di un amico fidato e di una schiera di aiutanti

161
animaleschi. La favola mai apparsa in rivista viene pubblicata nel 1942 e ristampata nel 1959 con il
titolo Le straordinarie avventure di Caterina.
Tra il settembre 1935 e l’agosto 1936 esce i Diritti della scuola e il romanzo a puntate Qualcuno ha
bussato alla porta. Il testo è diviso in undici capitoli e si apre con la storia di Mirtilla, la quale
abbandonata dalla sorella Paola fugge con un misterioso uomo che la lascia sola dopo averla
iniziata ad una vita zingaresca. Poiché era rimasta incinta, abbandona la creatura, una bambina,
davanti al cancello di casa di una vecchia paralitica di nome Elena e del nipote Franco. Tuttavia la
bambina viene affidata ad un sacerdote che la consegna ad un uomo di nome MicheleWogan. La
piccola Lucia vive nel palazzo dell’uomo dove un giorno incontra un ricco americano, Jack
Sullivan. Innamoratosi di Lucia, il giovane vuole portarla con sé ma Franco la rapisce, i due
scappano e si sposano. Lucia partorisce un bambino e motiva il marito, compositore a far ascoltare
le sue canzoni. Un giorno arriva il successo desiderato e di conseguenza la situazione economica
della famiglia si risolleva. Dopo anni Lucia, nella sua isola, incontra la madre naturale Mirtilla e la
Morante lascia il lettore in balia del testo in quanto la narrazione si arresta nel punto in cui Lucia
deve scegliere tra il restare nell’isola o tornare a casa.
La fine della preistoria romanzesca avviene nel 1941 quando esce Il gioco segreto. Il primo volume
morantiano nasce dalla decisione di ritagliare una ventina di racconti dalla vasta scelta di
componimenti apparsi sulla stampa periodica. Il nucleo è costituito da quattro racconti usciti sul
Meridiano di Roma e sono L’uomo con gli occhiali (1937), Il giuoco segreto (1937), La nonna
(1937), Via dell’Angelo (1938), affiancati da altre quattro narrazioni apparse su Oggi e sono Il
cocchiere (1939), Innocenza (1939), Il compagno (1940), I gemelli (1940). A conclusione del
volume c’è il racconto Uomo senza carattere (1941).
I testi non sono in ordine cronologico, ma seguono un ordine in cui si alternano lavori più lunghi
con lavori più brevi. Il gioco segreto, racconto da cui prende il nome la raccolta, fu dapprima
pubblicato con il titolo Giuoco segreto il 13 giugno 1937 e poi ripreso per essere integrato nella
raccolta. I protagonisti della storia sono tre ragazzi, Antonietta, Giovanni e Pietro, figli tristi di una
nobile famiglia decaduta e perenni sognatori, i quali trasformano la loro triste vita in un’avventura.
Tuttavia la Morante rispetto al racconto apparso sul Meridiano di Roma, aggiunge nel finale il focus
sulle labbra che sembrano bruciate, suggerendo così l’idea di un bacio incestuoso tra Giovanni e
Antonietta. La recita viene così interrotta da questo gesto e rompe gli schemi della monotona vita
familiare.

Lo stile dei primi anni

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La produzione letteraria dei primi anni è caratterizzata da una forte impronta presa dal grande
romanzo ottocentesco, in particolare quello francese e russo, in cui elementi reali e favolosi si
intrecciano per dare corpo a una narrazione che dai toni fanciulleschi, in cui gli avvenimenti del
racconto sono appigli per l’indagine psicologica sui personaggi. Queste caratteristiche si spingono
al massimo nei primi due romanzi della Morante: Menzogna e sortilegio (1948) e L’isola di Arturo
(1957). Il primo narra delle vicende di una famiglia del meridione i cui componenti sono persone
assolutamente comuni, preda dei loro desideri. Il secondo racconta il passaggio del protagonista
dall’adolescenza, vissuta in un ambito favolistico, attraverso la delusione del rifiuto amoroso e lo
svelamento della verità sul padre.

I romanzi e altri testi

Durante gli anni drammatici della Seconda Guerra Mondiale, Elsa Morante si accinge a scrivere il
suo primo romanzo, intitolato Menzogna e sortilegio. Elsa vive con il marito Alberto Moravia e il
matrimonio le consente di potersi dedicare totalmente alla scrittura. Nel 1941 esce il suo primo
libro, la raccolta di racconti Il gioco segreto chiusura della stagione preistorica e la Morante
abbandonata la misura breve del racconto si dedica alla stesura del suo primo romanzo. La stesura
viene interrotta a causa dello scoppio della guerra e abbandonata Roma dopo l’8 settembre del 1943
la Morante e il marito Moravia si rifugiano a Fondi. Il romanzo viene custodito dal regista Carlo
Lodovico Bragaglia. Nell’estate del 1944 appena Roma fu liberata la Morante ritorna nella capitale
e riprende il lavoro e terminato il romanzo decide di mandarlo alla casa editrice Einaudi tramite
Natalia Ginzburg.
Il libro viene pubblicato da Einaudi nel 1948 e nello stesso anno vince il premio Viareggio. Tuttavia
il libro viene accolto con distacco in quanto non parla di eventi di quegli anni di guerra, ma mentre
tutti affrontano la realtà, la Morante si distacca dal presente e volge su uno scenario lontano. La
vicenda si svolge in un ambiente e in un tempo indefinito; solo tramite alcuni elementi come il
telegrafo e l’assenza di automobili si intuisce che si tratta del periodo della bella époque. La
Morante tratta una storia reale dal punto di vista del dramma umano e lo ambienta in una società
reale da una parte e dall’altra favolosa. Il modello a cui la Morante fa riferimento è il Don
Chisciotte; il personaggio creato dalla fantasia di Cervantes si situa nel cuore del familienromance
morantiano, termine coniato da Freud e sta ad indicare una rielaborazione immaginaria dei ricordi
basata su motivazioni edipiche attraverso cui il soggetto riscrive i capitoli iniziali della sua
autobiografia, inserendovi elementi di fantasia. La Morante adotta e riplasma le strutture
romanzesche del familienroman per rappresentare gli aspetti della vita privata in correlazione con la

163
storia collettiva e soprattutto accorda la preminenza assoluta ai personaggi, colti nella dialettica di
pulsione profonde e condizionamenti sociali e tutti i personaggi sono personalità che riportano alla
figura di Don Chisciotte, personaggio non soddisfatto della realtà che cerca salvezza nella finzione.
Menzogna e sortilegio è un romanzo familiare raccontato da Elisa De Salvi, la quale ormai sola al
mondo e rinchiusa nella sua stanza narra la storia della sua famiglia. Nelle prime quattro parti del
romanzo Elisa cerca di ricostruire la storia da quello che le è stato raccontato da piccola e
soprattutto attraverso le finte lettere scritte da Anna, sua madre al cugino Edoardo, mentre i fatti
raccontati nelle ultime due parti provengono da esperienze vissute in prima persona. Elisa parte,
per esporre il dramma familiare, da Cesira, sua nonna materna, una maestra di paese che viveva con
il desiderio di elevarsi socialmente. Si sposa con un anziano e decaduto nobiluomo Teodoro Massia
di Corullo, ma dopo le nozze tutti i sogni di Cesira svaniscono davanti alla miseria e alla decadenza
del marito. Dal loro matrimonio nasce Anna, che sin da bambina si innamora del cugino Edoardo,
figlio della sua ricca zia Concetta, sorella del padre Teodoro. Un altro personaggio della storia è
Nicola Monaco, disonesto amministratore dei Cerentano, il quale convince Teodoro a compiere nei
confronti di Concetta un atto che romperà i rapporti tra le due famiglie e causerà la rovina totale dei
Massia. Dopo la morte di Teodoro, Cesira si rivolge a Concetta per chiederle aiuto. La donna
accetta di aiutare Cesira a patto che lei e sua figlia non siano più presenti nella sua vita. Trascorrono
alcuni anni e Anna e Edoardo si rincontrano e tra di loro scatta l’amore. Anna è ossessionata dal
rapporto con Edoardo mentre il ragazzo la maltratta e la umilia. La loro relazione finisce quando
Edoardo si ammala. Edoardo nel frattempo conosce Francesco De Salvi, figlio di contadini che si
finge un barone e il cui vero padre è l’amministratore dei Cerentano, Nicola Moanco. Francesco è
fidanzato con la prostituta Rosaria, che non disprezza i doni di Edoardo e finisce per diventare la
sua amante. Dopo che Francesco scopre il tradimento di Rosaria, si innamora di Anna. Edoardo,
ammalatosi di tisi, va a curarsi in una clinica e Anna disperata decide di sposare Francesco.
Francesco abbandona l’università e inizia a lavorare nelle poste. Dal matrimonio nasce Elisa. Un
giorno Francesco e Elisa, passeggiando per la città, incontrano Rosaria e da quel momento
trascorrono le domeniche da lei e riesplode la passione tra i due vecchi amanti. Dopo alcuni viaggi
all’estero Edoardo muore e sua madre Concetta impazzisce. Un giorno Anna la incontra e finge di
avere una corrispondenza con Edoardo così da lenire il suo dolore e quello di Concetta.
Francesco muore a causa di un incidente sul treno postale e dopo alcuni giorni, essendosi ammalata
muore anche Anna. Elisa viene adottata da Rosaria, la quale la porta con sé a Roma. Quando muore
anche Rosaria, Elisa, ormai adulta, si chiude nella sua stanzetta e comincia a scrivere la storia della
sua famiglia.

164
Nel 1957 esce il secondo romanzo L’isola di Arturo in cui la Morante ha abbandonato il mondo
delle follie e decide di narrare con tonalità nostalgiche la storia di un fanciullo che si evolve verso la
maturità. Il romanzo parla di Arturo Gerace, orfano di madre, il quale trascorre la sua infanzia e
adolescenza nell’isola di Procida. Suo padre Wilhelm viaggia e trascorre solo dei brevi soggiorni a
Procida. Arturo è sempre solo nella sua isola e viaggia con la fantasia sognando il padre e le
avventure che vorrebbe compiere con lui. Quando il padre porta con sé la nuova moglie Nunziata,
Arturo dapprima la disprezza e poi quando nasce il suo fratellastro Carmine diventa geloso. Arturo
si innamora della ragazza che rifiuta questo amore incestuoso anche se ricambia e prova gelosia
quando Arturo trova un’amante. Un giorno Arturo scopre che suo padre è innamorato di un uomo
appena uscito dal penitenziario. Wilhelm scappa dall’isola con quest’uomo e Arturo perde tutta la
stima per suo padre. Alla fine decide di partire anche lui e insieme all’amico Silvestro, suo balio da
piccolo, partecipa alla guerra.

Elsa Morante non si dedica solo alla prosa ma è anche autrice di alcune poesie. La sua prima
raccolta poetica intitolata Alibi viene pubblicata dalla casa editrice Longanesi nel 1958. Le poesie di
Alibi sono poesie d’amore; nella raccolta vengono ricordate soprattutto due poesie, la prima è
Avventura che parla dell’amore doloroso per Luchino Visconti e la seconda Alibi, indirizzata a un
figlio immaginario.
Nel 1963 Elsa Morante decide di uscire con un nuovo libro Lo scialle andaluso, pubblicato da
Einaudi. Si compone di dodici componimenti, il cui nucleo centrale si articola in sei testi recuperati
dal libro d’esordio Il gioco segreto; lo completano due narrazioni apparse su Oggi nel 1940 e altri
quattro componimenti di varia lunghezza.
Nel 1968 la Morante pubblica Il Mondo salvato dai ragazzini, che contiene canzoni e poesie. La
raccolta si divide in tre parti. In questa raccolta la Morante esprime la sua solitudine. L’unico
rifugio per lei è rappresentato dal mondo dei ragazzini ossia dei puri e poveri di spirito perché
questi sono gli unici che si interessano delle cose veramente importanti.

Elsa Morante, venti anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, scopre in sé un forte
antifascismo e questa scoperta la spinge a scrivere il romanzo intitolato La Storia, pubblicato nella
collana economica Gli Struzzi dalla casa editrice Einaudi nel 1974. La sua struttura appare come
quella di un romanzo neorealista al cui interno oltre ad esprimere tutto il suo odio nei confronti
della guerra, affronta il tema del materno incentrando la sua vicenda su una donna, Ida Ramundo e
sui suoi figli, Nino e Useppe. La vicenda del romanzo si svolge tra il 1941 e il 1947 sullo sfondo
drammatico di una Roma devastata dalla guerra e poi avviata verso una ricostruzione. Qui abita Ida

165
Ramundo, una timida maestra elementare, di origine per metà ebraica, rimasta vedova e con un
figlio, Nino. Viene violentata da un giovane soldato tedesco e resta incinta. Malgrado la vergogna
per quella gravidanza quando nasce Useppe le rallegra la vita e quella dell’altro figlio. Ida deve
rifugiarsi a Pietralata a causa delle bombe, soffrendo la miseria e la povertà. Il piccolo Useppe
conserva la propria felicità mentre Nino si aggrega ai partigiani. Finita la guerra la vita diventerà
ancora più dura. Nino continua la lotta armata e rimane ucciso in un conflitto a fuoco; Useppe
muore dopo un attacco di epilessia e genera nella madre la pazzia.
Nelle bellissime descrizioni del rapporto tra Ida e Useppe, la Morante esprime tutto il suo amore
materno e tutto il suo negato istinto materno con una tale forza e passione che la rende capace di
descrivere le diverse fasi della gravidanza, il rapporto filiale in maniera così dettagliata sebbene non
ne avesse mai avuto esperienza.
Nel periodo dell’ultimo romanzo morantiano, Elsa Morante vive in uno stato di confusione e di
depressione profonda che non le consentono di esprimere sé stessa.
L’ultimo romanzo si intitola Aracoeli, esce nel 1982. Morante riprende il tema del rapporto carnale
tra madre e figlio, inseparabili e stretti in una creatura sola ma in Aracoeli si trasforma in un
sentimento innaturale e perverso. Al centro della vicenda del romanzo c’è Manuele, un uomo
quarantatreenne isolato dal mondo, omosessuale, che odia il suo lavoro in una piccola casa editrice
ed infelice che racconta il fallimento della sua vita causato da un evidente e morboso complesso
edipico nei confronti della propria madre, Aracoeli. La donna è andalusa analfabeta e proveniente
da un paese della Spagna dove a sedici anni incontra un ufficiale della marina italiana, Eugenio
Ottone, di cui si innamora. Lui la conduce con sé in Italia ma la sua famiglia non accetta questa
relazione. Dopo alcuni anni quando Eugenio ufficializza la loro relazione con il matrimonio,
Aracoeli e il figlio Manuel si traferiscono nei Quartieri Alti. Eugenio è spesso assente e così
Aracoeli dedica tutto il suo tempo a Manuele. La rottura del loro rapporto morboso avviene dopo la
morte della figlia di Aracoeli, Carina soltanto un mese dopo il parto. La donna cambia, diventa
infedele e abbandono il marito e il figlio per lavorare in un bordello. Questo suo comportamento è
causato da una malattia che la porterà alla morte e anni dopo morirà anche il padre, alcolizzato e
distrutto dalla tragedia. Ormai solo al mondo, Manuele, decide di avviarsi verso l’Andalusia con la
speranza di trovare tracce della madre ma il viaggio non conclude a nulla, solo ad una deserta
pietraia e così anche il suo rapporto con la madre rimane irrisolto.
Dopo Aracoeli la Morante non ha pubblicato più nulla ma alcune sue opere sono state pubblicate
postume. Nel 1987, esce presso la casa editrice Adelphi, la raccolta di saggi intitolata Pro o contro
la bomba atomica e altri scritti il cui tema centrale è il rapporto dell’artista con la letteratura. In
questo libro, tratto da una conferenza che l’autrice presenta presso il Teatro Carignano di Torino nel

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1965, Elsa Morante illustra il problema principale che affligge la nostra società moderna: l’istinto
autodistruttivo, quello stesso istinto che ci ha portati alla scoperta della bomba atomica e che oggi ci
fa assumere il nome di civiltà atomica. L’unico antidoto all’istinto di autodistruzione è l’arte, nello
specifico la poesia, massima espressione della scrittura.

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La Storia

Il romanzo è la narrazione, anzi la ricostruzione, di un triste episodio riportato da un giornale


romano nel giugno del 1947: una madre e il suo figlioletto morto vengono ritrovati, in compagnia di
un cane pastore maremmano, in un appartamento del quartiere Testaccio. Da questo finale tragico la
Morante ripercorre gli antefatti, che si svolgono nel corso di sei anni. La storia che vede come
protagonista la vicenda individuale del piccolo Useppe in compagnia della madre Ida, si svolge,
però, in un continuo gioco di rimandi e di scambi con la storia collettiva. Lo stile annalistico é,
infatti, una delle principali caratteristiche dell'opera, ed è costruito allo scopo di mostrare che la
Storia ricapitola, anzi travolge, la vicenda dei singoli individui.
Il romanzo, pubblicato nel 1974, regalò alla scrittrice un enorme successo di pubblico (le tirature
de La Storia furono seicentomila) e divenne, almeno agli occhi della critica più feroce, un'opera
nazional-popolare. Lo scopo dichiarato dalla Morante era quello di parlare a tutti, e di essere
"dentro" la Storia.
Nel romanzo del ’74, La Storia, criticato in maniera caustica da molta parte della critica militante,
perché considerato troppo populista, l’autrice affianca la storia ufficiale della seconda guerra
mondiale (rappresentata in liste di avvenimenti in ordine cronologico) con la misera storia di una
coppia insolita ma inscindibile, la maestrina Ida e il suo figliolino Useppe, nella Roma occupata dai
nazisti. Questo romanzo ponderoso ha il fascino cinematografico del susseguirsi di inquadrature
della vita quotidiana dei tanti personaggi vittime della Storia, che cercano attraverso dialoghi scarni
eppure straordinari il senso della loro vita e della esperienza che condividono: gli ebrei, i giovani
mandati alle armi o in fuga, gli sfollati. La lingua utilizzata si rivolge a quelli che Morante, nel
saggio sul Beato Angelico, definisce gli “idioti”, ovvero coloro il cui intelletto è confinato nella
dimensione del tempo e dello spazio; la scrittura è caratterizzata dal connubio efficace fra
immediatezza della comunicazione quotidiana e ricerca di uno stile che colga tutte le sfumature del
reale (le similitudini rappresentano in questo senso uno strumento molto utilizzato dalla scrittrice).
La trama è tessuta dalla voce di un narratore onnisciente, e come sempre non manca la presenza
benefica del mondo animale. L’influenza del pensiero di Simone Weil è evidente in diversi punti.
La prima edizione de La Storia viene pubblicata da Einaudi nel giugno 1974 nella collana «Gli
Struzzi» in edizione economica al prezzo politico di duemila lire. In un primo momento la Morante
pensa di mettere in copertina la celebre foto del Miliziano caduto di Robert Capa, immagine
simbolo di chi sacrifica la propria vita nella lotta per la libertà, ma poi decide per
un'altra fotografia di Capa, un uomo qualunque caduto di faccia, di cui non conosceremo mai il
volto.

168
“Una speranza, a volte, indebolisce le coscienze, come un vizio”. Elsa Morante

Sitografia

Riassunti precedenti
http://193.206.215.10/morante/index.html
http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/elsa-morante/

Gertrude Poggi

PRIMO LEVI

CONTESTO STORICO- LETTERARIO

L’Italia che esce dal conflitto acquista piena consapevolezza di uno sfacelo che, oltre al tragico
bilancio di distruzioni e di morti, aveva spalancato gli abissi d’orrore della deportazione e del
genocidio ebraico. I progetti di ricostruzione richiedevano comunque un impegno rinnovato, a cui
non era estraneo il bisogno di ricordare, di portare una testimonianza sul passato.

Durante il ventennio fascista la censura ideologica e le persecuzioni del regime avevano impedito la
libera espressione della cultura e delle arti. Riacquistata la libertà, si sviluppa la concezione secondo
la quale l’artista deve uscire dalla posizione di isolamento dalla realtà, di “assenza”, di
“disimpegno”, si avverte la necessità di un’arte che si faccia interprete dei problemi e dei bisogni
reali del popolo. Molti artisti adottano l’ideale di un’ “arte impegnata”, calata nella realtà politica e
sociale, che rifletta i drammi, le lotte e le speranze di rinnovamento del periodo. Questa tendenza
artistica sfocia nel movimento del Neorealismo che trova in Italia la sua massima affermazione nel
decennio tra il 1945 e il 1955, coinvolgendo soprattutto la letteratura e il cinema.

Il Neorealismo, così chiamato perché in parte si rifà al Verismo o Realismo italiano dell’Ottocento,
dà luogo ad una vasta produzione narrativa intesa a rappresentare la realtà in modo realistico sia nei
suoi aspetti positivi che negativi. A differenza dei veristi, però, gli scrittori neorealisti si sentono
investiti di una grande responsabilità, quella di contribuire, attraverso l’impegno politico e sociale,
alla ricostruzione materiale e spirituale della società contemporanea. I temi più frequenti delle loro
opere sono tratti dalla realtà coi suoi problemi e le sue ingiustizie: la guerra e il dopoguerra, la
resistenza, la lotta della povera gente per l’esistenza quotidiana, la fame, la miseria, le
rivendicazioni degli operai, gli scioperi, il mondo dei semplici affetti, le lotte e le condizioni dei
contadini, la realtà della vita dei ceti più umili. Nuovi contenuti, quindi, e nuove forme espressive,

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fitto uso del dialogato, nuovo linguaggio, umile e dimesso, semplice, popolare, che si avvicina al
parlato con influssi dialettali e inserzioni gergali.

Nascono nuovi generi letterari, quali il documento, la cronaca, la narrativa saggistica in nome di una
nuova esigenza di concretezza e di obiettività, di adesione alla realtà. Il romanzo è ispirato
anch’esso ai temi della guerra, della lotta partigiana, ed è volto a ricercare nel passato figure ed
eventi che abbiano un richiamo con situazioni attuali. Compito dello scrittore è essere testimoni del
suo tempo, rappresentare la realtà così com’è. Gli intellettuali devono assumersi delle responsabilità
storiche e farsi portavoce ed interpreti dei problemi e dei bisogni reali del popolo.

Gli scrittori neorealisti rappresentano le condizioni di vita della parte più povera ed emarginata della
popolazione italiana, ma a differenza dei veristi, nei quali c’è una pessimistica accettazione della
realtà sociale, essi credono che l’impegno politico e sociale possa cambiare le cose e trasformare la
società, costruire una società più giusta e democratica.

Tra gli esponenti rappresentativi di questa corrente letteraria quali Pavese, Moravia, Silone,
Pasolini, Pratolini, rientra Primo Levi. Chimico, scrittore e testimone dell’Olocausto è una delle
maggiori figure nel panorama europeo che si dedica al dialogo fra cultura tecnico-scientifica e
cultura umanistica. Può essere considerato un filosofo naturale in senso stretto per diversità di
spunti etici, conoscitivi e pratici.

VITA E OPERE

Primo Levi nasce il 31 luglio del 1919 da Cesare Levi ed Ester Luzzati. Frequenta gli studi a Torino
e si laurea nel 1941 in Chimica, malgrado le leggi razziali emanate nel 1938 che impedivano agli
ebrei di frequentare le scuole pubbliche. Durante quegli anni, Levi inizia a frequentare dei circoli di
studenti antifascisti. Quando, nel 1942, gli alleati sbarcano in Nord Africa e i russi vincono a
Stalingrado, Levi e alcuni suoi amici si mettono in contatto con le associazioni militanti antifasciste;
così entra a far parte del Partito d’Azione clandestino. Malgrado l’arresto di Mussolini nel 1943, la
guerra continua e le armate tedesche occupano il Nord Italia. È allora che Levi si unisce a un
gruppo partigiano in Valle d’Aosta, dove, a dicembre dello stesso anno viene arrestato e portato nel
campo di Carpi-Fossoli, nei pressi di Modena. L’anno successivo, il campo viene preso in gestione
dai tedeschi, i quali spediscono Levi e gli altri prigionieri ad Auschwitz, esperienza che viene
raccontata in Se questo è un uomo. Nel 1945, ancora detenuto nel campo, egli contrae la scarlattina
che paradossalmente lo salva, in quanto viene abbandonato ad Auschwitz insieme ad altri malati. In
questo modo lo scrittore guarisce viene liberato con l’arrivo dei russi. Da quel momento inizia la
sua Odissea verso casa: un viaggio lungo e tortuoso in cui attraversa la Russia, l’Ucraina, la
Romania, l’Ungheria e l’Austria per arrivare, dopo cinque mesi, nella sua casa di Torino.

L’anno successivo scrive Se questo è un uomo, che presenta, nel 1947, alla casa editrice Einaudi.
Quest’ultima rifiuta il dattiloscritto leviano; che viene accettato e pubblicato dalla casa editrice De
Silva. Esattamente dieci anni dopo, nel 1956, propone una nuova versione del suo libro all’Einaudi,
che lo pubblica, nel 1958, nella collana “Saggi”.

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Se questo è un uomo un resoconto dell'esperienza dei campi di sterminio nazisti. È un'opera che si
colloca nel filone documentario che fu ricco in quegli anni di "scoperta" della realtà, ma si stacca
con eccezionale rilievo dello sfondo del clima neorealistico, assurgendo alla statura di un vero e
proprio classico. Il libro è una testimonianza sulle barbarie, sulla sua crudeltà non solo fisica, ma
anche morale, che mirava prima di tutto a distruggere la sostanza umana stessa del deportato. Ciò
che conferisce forza alla rappresentazione di Levi e l'assenza di emotività e di retorica, unita alla
sobrietà e alla lucidità della scrittura, che riescono a fissare un quadro di orrore indicibile in linee
ferme, essenziali. È un libro non solo di memorie, ma è anche uno studio acutissimo, scientifico e
antropologico, sulle leggi che regolano quella società fuori del comune che è il Lager. La
rievocazione è quindi sorretta da un estremo rigore conoscitivo, che giunge in un certo qual modo a
fornire un riscatto intellettuale di ciò che sarebbe mostruoso e intollerabile. La chiarezza
"scientifica" dello sguardo, che porta ordine nel caos atroce della realtà, sarà poi una prerogativa
costante dello scrittore. Oltre alla lucidità conoscitiva, il libro rivela anche, una grande felicità
narrativa.

Incoraggiato dal successo del primo libro, Levi, nel 1962 inizia La Tregua, pubblicato poi l’anno
seguente, è un’ ideale continuazione di Se questo è un uomo, in quanto narra la lunga odissea del
ritorno in patria dei deportati, attraverso tutta l'Europa orientale.

Mentre lavora come chimico in una fabbrica di vernici nei pressi di Torino, scrive vari racconti
riguardanti il tema della tecnologia: vengono pubblicati tra il 1964 e il 1967 sul quotidiano “Il
Giorno” e in altre riviste.

Le sofferenze e le pene assumono spesso nella levità dello humour e la narrazione assume una
dimensione avventurosa. Alla Tregua, che ha un taglio narrativo ma è ancora un’opera di memoria,
non d’invenzione, seguono alcune raccolte di racconti: Storie naturali (1966), Vizio di forma
(1971), Il sistema periodico (1975), La chiave a stella (1978), Lilit (1981). In queste pagine si
propone un altro aspetto di Levi, la sua qualità di tecnico che opera nell'industria, la sua formazione
scientifica. Nella sua opera l'incontro tra le due culture, quella letteraria e quella tecnico-scientifica,
raggiunge esiti originali. Il punto di contatto è per Levi da ravvisare nella chiarezza nell'ordine:
l'ambito scientifico insegna allo scrittore a dare ordine al caos informe della realtà. Viene spontaneo
il confronto con un altro tecnico-scrittore, l'ingegner Gadda, in cui l'unione delle due culture
conduce a esiti opposti: anche Gadda aspira con ostinazione portare l'ordine razionale nel caos della
realtà, ma va inesorabilmente incontro allo scacco e sprofonda nel "pasticcio" e nel "garbuglio".
Alle tematiche della persecuzione degli ebrei lo scrittore ritorna con un romanzo, Se non ora,
quando?(1982), che con ampio respiro epico narra le vicende di un gruppo di partigiani israeliti
dell'Europa orientale. All'esperienza del Lager è ancora dedicato l'ultimo libro I sommersi e i
salvati (1986), denso di terribili e tormentosi interrogativi, ben lontano dalla compostezza delle
opere precedenti.

Levi non opera mai una distinzione netta tra la sua attività di scrittore e quella di chimico; anzi tiene
sempre a sottolineare come la formazione scientifica scelta in gioventù gli offrisse punti di vista e
strumenti originali straordinariamente utili nella propria opera di scrittore. Infatti, nonostante egli
abbia pubblicato diversi libri e raccolte, si è sempre considerato un chimico più che uno scrittore,
respingendo questa idea e parlando di sé come uno “scrittore-non scrittore”.

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Inoltre, non solo egli non si considerava un vero e proprio scrittore, ma per molti anni anche altri
scrittori e critici, come Cesare Pavese, si rifiutano o non riconoscono in Levi la figura di una
scrittore, almeno fino al 1975. Belpoliti, a questo proposito, lo identifica come un uomo dalla
“natura centauresca”:

Davvero Levi è un centauro, possiede una doppia natura : scrittore e testimone, italiano ed ebreo, chimico e
intellettuale, ecc. Se questo è un uomo si apre con una dichiarazione precisa : sono stato catturato come
partigiano, minacciato di fucilazione, e mandato in Lager come ebreo. A questo aspetto di resistente,
combattente per la libertà, Levi ha sempre tenuto molto e lo ha ribadito in tanti scritti. Inoltre, Se questo è un
uomo non è solo un libro sulla testimonianza, ma una lunga riflessione sulla natura umana in condizioni
estreme ; è un libro di etologia. Vi si parla dell’animale-uomo. E questo è un altro aspetto della sua natura
bifida : scrittore e scienziato, testimone ed etologo.

SE QUESTO È UN UOMO

Se questo è un uomo costituisce l’esordio letterario di Primo Levi. Scritto febbrilmente durante il
ritorno dal Lager, tra il dicembre 1945 e il gennaio 1947, racconta la prigionia subita dallo scrittore
nel campo di Auschwitz nel 1944. La prima edizione del libro venne stampata in 2500 copie nel
1947 dalla piccola casa editrice torinese De Silva, diretta da Franco Antonicelli, dopo che alcuni
grandi editori, fra cui Einaudi, avevano rifiutato il manoscritto (fu Cesare Pavese a prendere questa
decisione e Natalia Ginzburg a comunicarlo a Levi). Nel 1958 fu pubblicato da Einaudi nella collana
Saggi.

Nell'opera viene descritta la permanenza di Primo Levi all'interno del campo di concentramento per
circa un anno, dal febbraio 1944 al gennaio 1945. Le pagine dell'opera offrono così una
testimonianza sia della tragedia dei campi di sterminio della Germania nazista, sia dell’inumana vita
nei lager a cui Primo Levi riesce a sopravvivere solo grazie al suo mestiere di chimico, evitando i
lavori più duri all'interno del campo di concentramento.

La struttura dell'opera risulta composta da una poesia, Shemà, da una prefazione e da 17 brevi
capitoli non numerati. Come dichiara Levi stesso, gli ultimi capitoli sono stati scritti per primi, allo
scopo di fissare immediatamente l'ordine dei ricordi. La narrazione non avviene in modo
cronologico, bensì ogni capitolo è dedicato allo svolgimento di un tema o di un argomento
specifico. La struttura narrativa si svolge così come una sequenza di vicende divisa per argomenti.

Shemà , poesia messa ad epigrafe, è datata 10 gennaio 1946, ossia circa un anno dopo la liberazione
dal campo di Auschwitz avvenuta nel 26 gennaio 1945. Shemà in ebraico significa "Ascolta". In
una fondamentale preghiera della liturgia ebraica recitata due volte, al giorno al mattino e alla sera,
troviamo l'espressione Shemà Israele. Questa parola compare inoltre in tre passi biblici: due volte
nel Deuteronomio e una volta in quello dei Numeri. A cominciare dal significato della parola,
intuiamo che questa poesia rivolge un appello al lettore affinché presti attenzione a ciò che sta per
leggere e fissi nella memoria la testimonianza agghiacciante della Shoah. L'appello al lettore è
sottolineato da quel pronome personale “voi” con cui si apre immediatamente la poesia, ma anche
dalla serie di imperativi che sottolineano un tono perentorio: è la volontà del poeta di far ricordare i
fatti che si appresta a narrare. Imperativi come “considerate” ripetuto per due volte, “meditate”,
“riflettete”, “scolpite”, “ripetete”. La prima parte di questa poesia è volta a sottolineare il contrasto tra la
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vita normale e la follia disumana del campo di concentramento. Dunque emerge un forte contrasto tra la
sicurezza di chi è al sicuro nelle proprie case e non ha conosciuto la tragedia della Shoah, e chi
invece ha conosciuto quella tragedia e dunque ha vissuto sulla propria pelle la follia disumana dei
campi di concentramento. Ma da questi versi è possibile anche due temi che sono presenti in ogni
capitolo dell'opera, ossia il tema della fame, della necessità di procurarsi il cibo per sopravvivere e
il tema della sopravvivenza alla logica disumana del campo di concentramento. La poesia prosegue
chiamando in causa direttamente il lettore e costringerlo a fissare nella propria mente quanto si
accinge a raccontare e soprattutto lo costringe a non disconoscere la follia dei campi di
concentramento. In altre parole è il poeta assegna una funzione fondamentale al ricordo e sottolinea
l'impossibilità di negare ciò che è accaduto nei campi di concentramento nazisti. La memoria e
ricordo sono gli strumenti di fondamentali per evitare che quanto è accaduto non solo si dimentichi,
ma anche non si ripeta più nel corso della storia. Il poeta rivolge dunque al lettore un vero e proprio
comandamento morale.

Nella Prefazione sono spiegate le motivazioni profonde alla base del libro e gli obiettivi proposti.
Tratta di un libro che nasce dal bisogno e dalla necessità di raccontare e rendere partecipe gli altri
delle esperienza tragica vissuta nel lager. Come l'autore stesso spiega in un'intervista del 1944,
corrisponde ad una sorta di liberazione interiore in una sorta di trance. La prefazione si apre con la
parola fortuna, in quanto l’autore crede di essere stato fortunato, paradossalmente, a giungere al
lager quando il governo tedesco a causa della crescente scarsità di manodopera, aveva deciso di
allungare la vita media dei prigionieri. Il libro non si pone l'obiettivo di coinvolgere il lettore
descrivendo le atrocità del lager tedesco poiché non aggiunge niente a quanto il lettore già conosce,
né di formulare nuovi capi di accusa. L'autore vuole invece fornire una sorta di documento pacato
su alcuni aspetti dell'animo umano. Secondo Levi, infatti, i campi di concentramento costituiscono
una fonte di sapere sugli uomini e sul mondo, simili addirittura ad un gigantesco ed irripetibile
esperimento. L’odio razziale, considerato una sorta di infezione latente che giace nel fondo
dell'animo umano, quando dilaga, nasce e prende piede la convinzione che lo straniero in quanto
tale meriti di essere eliminato dando vita ai campi di sterminio.

Quest'opera non può essere considerata un testo letterario in senso stretto, bensì un documento
testimoniale antropologico e tecnografico. L'autore ha infatti voluto svolgere un'analisi delle
condizioni dell'animale-uomo all'interno di un campo di concentramento

Per quanto concerne la lingua, essa diviene un vero e proprio elemento caratterizzante. È innervata
dello stile di Dante e di Manzoni e per questo motivo l'opera è considerata un classico della
letteratura italiana. Lo stile è essenziale è composto e riflette l'approccio razionale di Levi per ciò
che testimonia. Nel corso dell'Opera l'autore assume uno sguardo da scienziato in cui si alternano
momenti di testimonianza a momenti in cui guarda e osserva i fatti dalla prospettiva di uno
scienziato. La società dei detenuti è governata da regole complesse che divengono oggetto di analisi
da parte dell'autore. Grande spazio è dato alla descrizione dei ruoli sociali, delle doti di carattere,
dei sotterfugi che cercano di mettere in atto riuscire ad entrare nel gruppo dei privilegiati della lager
per poter aumentare le proprie possibilità di sopravvivenza.

Tra le tematiche che pervadono il testo, si possono senz’altro citare: la conservazione di un minimo
di dignità umana e dell'amicizia, nei limiti ristrettissimi in cui è possibile farlo nel lager; gli episodi
di carità e di solidarietà tra prigionieri; la fame, condizione che assilla in permanenza i prigionieri
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sottoalimentati; l'insensatezza e l'arbitrarietà delle regole e degli ordini che governano la vita nel
campo; la concentrazione dei prigionieri sul presente, sulla necessità di sopravvivere giorno per
giorno, con l'incapacità di raffigurarsi un futuro e la rimozione del passato.

La detenzione del Lager è paragonata ad una sorta di discesa agli inferi, in un mondo dal quale si
crede di non poter più uscire, similmente a quanto accade nell'Inferno dantesco. Ritroviamo un
riferimento esplicito nel capitolo XI dell’opera, Il canto di Ulisse, che approfondiremo qui di
seguito.

- Il canto di Ulisse (Se questo è un uomo, capitolo XI)

...Il canto di Ulisse. Chissà come e perché mi è venuto in mente: ma non abbiamo tempo di
scegliere, quest’ora già non è piú un’ora. Se Jean è intelligente capirà. Capirà: oggi mi sento da
tanto.
... Chi è Dante. Che cosa è la Commedia. Quale sensazione curiosa di novità si prova, se si cerca di
spiegare in breve che cosa è la Divina Commedia. Come è distribuito l’Inferno, cosa è il
contrappasso. Virgilio è la Ragione, Beatrice è la Teologia. Jean è attentissimo, ed io comincio,
lento e accurato :

Lo maggior corno della fiamma antica


Cominciò a crollarsi mormorando,
Pur come quella cui vento affatica.
Indi, la cima in qua e in là menando
Come fosse la lingua che parlasse
Mise fuori la voce, e disse : Quando...

Qui mi fermo e cerco di tradurre. Disastroso: povero Dante e povero francese! Tuttavia l’esperienza
pare prometta bene: Jean ammira la bizzarra similitudine della lingua, e mi suggerisce il termine
appropriato per rendere « antica».
E dopo «Quando»? Il nulla. Un buco nella memoria. «Prima che sí Enea la nominasse». Altro
buco. Viene a galla qualche frammento non utilizzabile: «... la piéta Del vecchio padre, né ’1
debito amore Che doveva Penelope far lieta...» sarà poi esatto ?

... Ma misi me per l’alto mare aperto.

Di questo sì, di questo sono sicuro, sono in grado di spiegare a Pikolo, di distinguere perché « misi
me » non è « je me mis », è molto piú forte e piú audace, è un vincolo infranto, è scagliare se stessi
al di là di una barriera, noi conosciamo bene questo impulso. L’alto mare aperto: Pikolo ha
viaggiato per mare e sa cosa vuol dire, è quando l’orizzonte si chiude su se stesso, libero diritto e
semplice, e non c’è ormai che odore di mare: dolci cose ferocemente lontane.
Siamo arrivati al Kraftwerk, dove lavora il Kommando dei posacavi. Ci dev’essere l’ingegner Levi.
Eccolo, si vede solo la testa fuori della trincea. Mi fa un cenno colla mano, è un uomo in gamba,
non l’ho mai visto giú di morale, non parla mai di mangiare.
« Mare aperto ». « Mare aperto ». So che rima con « diserto » : « ... quella compagna Picciola,
dalla qual non fui diserto », ma non rammento piú se viene prima o dopo. E anche il viaggio, il
temerario viaggio al di là delle colonne d’Ercole, che tristezza, sono costretto a raccontarlo in prosa:

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un sacrilegio. Non ho salvato che un verso, ma vale la pena di fermarcisi :

.. Acciò che l’uom piú oltre non si metta.

« Si metta » : dovevo venire in Lager per accorgermi che


è la stessa espressione di prima, « e misi me ». Ma non ne faccio parte a Jean, non sono sicuro che
sia una osservazione importante. Quante altre cose ci sarebbero da dire, e il sole è già alto,
mezzogiorno è vicino. Ho fretta, una fretta furibonda.
Ecco, attento Pikolo, apri gli orecchi e la mente, ho bisogno che tu capisca :

Considerate la vostra semenza :


Fatti non foste a viver come bruti,
Ma per seguir virtute e conoscenza.

Come se anch’io lo sentissi per la prima volta : come uno squillo di tromba, come la voce di Dio.
Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono.
Pikolo mi prega di ripetere. Come è buono Pikolo, si è accorto che mi sta facendo del bene. O forse
è qualcosa di piú: forse, nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha
ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in
specie ; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle
spalle.

Li miei compagni fec’io sí acuti...

e mi sforzo, ma invano, di spiegare quante cose vuol dire questo « acuti ». Qui ancora una lacuna,
questa volta irreparabile. « ... Lo lume era di sotto della luna » o qualcosa di simile ; ma prima ?...
Nessuna idea, « keine Ahnung » come si dice qui. Che Pikolo mi scusi, ho dimenticato almeno
quattro terzine.
- Ça ne fait rien, vas-y tout de même.
...Quando mi apparve una montagna, bruna
Per la distanza, e parvemi alta tanto
Che mai veduta non ne avevo alcuna.
Sí, sí, « alta tanto », non « molto alta », proposizione consecutiva. E le montagne, quando si vedono
di lontano... le montagne... oh Pikolo, Pikolo, di’ qualcosa, parla, non lasciarmi pensare alle mie
montagne, che comparivano nel bruno della sera quando tornavo in treno da Milano a Torino!
Basta, bisogna proseguire, queste sono cose che si pensano ma non si dicono. Pikolo attende e mi
guarda. Darei la zuppa di oggi per saper saldare « non ne avevo alcuna » col finale. Mi sforzo di
ricostruire per mezzo delle rime, chiudo gli occhi, mi mordo le dita : ma non serve, il resto è
silenzio. Mi danzano per il capo altri versi : « ... la terra lagrimosa diede vento... » no, è un’altra
cosa. È tardi, è tardi, siamo arrivati alla cucina, bisogna concludere :

Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque,


Alla quarta levar la poppa in suso
E la prora ire in giú, come altrui piacque...

Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda che questo
«come altrui piacque», prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non
vederci mai più, devo dirgli, spiegargli del edioevo, del così umano e necessario e pure inaspettato

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anacronismo, e altro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto,
nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui …
Siamo ormai nella fila per la zuppa, in mezzo alla folla sordida e sbrindellata dei porta-zuppa degli
altri Kommandos. I nuovi giunti ci si accalcano alle spalle. – Kraut und Rueben? - Kraut und
Rueben -. Si annunzia ufficialmente che oggi la zuppa è di cavoli e rape: - Choux et nevets. –
Kaposzta és répak.

Infin che ‘l mar fu sopra noi richiuso.

ANALISI

Ne “Il canto di Ulisse”, undicesimo capitolo di “Se questo è un uomo”, è narrata la storia
dell’amicizia tra Levi e il più giovane del Kommando Chimico, Jean, cioè Pikolo. Nel non lungo
tragitto che va dalla “cisterna interrata”, dove Primo Levi sta lavorando quando viene chiamato da
Jean alle cucine dove i due si recano a riempire la marmitta di zuppa per il rancio dei deportati, si
svolge una lezione dal profilo molto speciale. Il giovane Jean, che essendo di origini alsaziane, parla
perfettamente il francese e il tedesco, esprime al proprio compagno di prigionia il desiderio di
apprendere la lingua italiana. Levi vuole subito accontentarlo, ma compie una scelta
metodologicamente curiosa: assume come testo di partenza il canto XXVI dell’Inferno dantesco,
quello di Ulisse. Una scelta istintiva, la cui ragione profonda si chiarisce solo dopo, quando la
lezione assume una piega imprevista: i versi danteschi si rivelano poco produttivi dal punto di vista
linguistico, ma incredibilmente attuali e incisivi riguardo ai contenuti, capaci di far luce in maniera
sorprendente sulla situazione dei deportati.
La lezione assume subito una piega inedita perché Levi fatica a ricordare le parole e soprattutto la
successione dei versi. Il compito è reso più difficile dal fatto che si tratta di tradurre un testo
“antico”, cioè appartenente al passato della scrittura e della lingua, nonché della memoria. Tuttavia
Pikolo è “buono”, un buono studente e Levi inizia la sua lezione “lento” e “accurato”.
Il recupero di Dante non è solo citazione, in quanto contamina il racconto in una continua erranza
tra testo in prosa e testo in poesia, in cui il testo in poesia viene citato e continuamente rielaborato.
L’autore inizia da un fatto: una lezione di italiano, ma poi lo apre a un significato che va oltre lo
specifico, lo trascende in una continua ricerca di senso. Se è vero che attraverso il Canto di Ulisse,
simbolo della volontà di conoscenza, Levi recupera, sia pure per poco tempo, quell’umanità e quella
dignità negate nel campo di sterminio, il brano sembra suggerire anche altro. In realtà Levi è
impegnato, nonostante le apparenze, in un vero e proprio recupero memoriale che della conoscenza
è la condizione essenziale, una sorta di vertigine del pensiero in cui, tramite la scrittura, vengono
messe a nudo le capacità ermeneutiche della memoria in un vorticoso percorso ascensionale alla
ricerca del senso ultimo.
Perché proprio Dante, perché proprio il canto di Ulisse per cominciare a insegnare l'italiano a uno
straniero? Il motivo del viaggio verso il mare aperto, verso la libertà assoluta dal carcere di
disumanizzante in cui prigioniero era relegato, le suggestioni che l'eroe greco ha sempre suscitato
quale straordinario emblema dell' essenza dell'uomo, grazie alla sua intelligenza, alla sua sete di
conoscenza e forse anche a quella fine tragica a cui Levi si sente in qualche modo condannato, sono
ipotesi abbastanza intuibili.
Suffragano tali ipotesi l'insistenza dell'autore su certi versi quale "ma misi me per l'alto mare
aperto", di cui cerca di sottolineare la forza espressiva. Levi infatti ha colto implicitamente il
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significato aggiunto dalla forte allitterazione (ma misi me per l'alto mare aperto) che esprime
fonicamente l'intenso desiderio di Ulisse di conoscere un mondo ignoto, sul quale si proietta per
appagare la sua natura più profonda di uomo. In quel verso c'è, per il prigioniero, l'inconscio
desiderio di evasione verso uno spazio sconfinato e aperto che si contrappone al circoscritto e
chiuso carcere dove si consuma la sua miserrima esistenza.
La faticosa ricerca mnemonica della rima di “aperto” con “diserto” lo porta alla “compagna
picciola”, a quei compagni che non hanno mai cessato di seguire Ulisse e all' “orazion picciola” con
cui questi cerca di persuaderli a seguirlo nell'ultimo fatale viaggio: “Considerate la vostra semenza:/
Fatti non foste a viver come bruti,/ ma per seguir virtute e canoscenza”.
È a questa terzina forse che tendeva veramente l'inconscio di Levi-deportato, ridotta un numero
tatuato indelebilmente sul braccio, personalizzato e trasformato in una larva umana attraverso un
processo di degradazione e di umiliazione infinita, perché in questa celebre terzina c'è scolpita
l'essenza dell'uomo: il “seguir virtute e canoscenza”, senza le quali si è semplicemente e
rozzamente dei bruti.
Condizione alla quale Levi è stato ridotto contro la sua volontà, ma non annichilito al punto di aver
smarrito il desiderio di sentirsi ancora veramente uomo. Lo strumento del riscatto dalla involontaria
condizione di Bruto a quella volontaria di uomo, è stata la grande poesia, recuperata in un difficile
ma non impossibile sforzo di memoria, poiché il messaggio dell'arte sublime si deposita per sempre
sul fondo dell'animo umano è proprio nei momenti più tragici può costituire un aiuto spirituale per
trovare la forza di sopravvivere in un contesto che tende ad annientare qualunque parvenza di
umanità. Questi versi hanno per il prigioniero una freschezza primigenia, uno “squillo di tromba”
che lo risveglia dal torpore della vita brutale.
Poi lo sforzo rievocativo si avvia verso il finale dell' episodio di Ulisse; tale è il coinvolgimento
emotivo e il desiderio di comunicazione dell'alto messaggio all' amico straniero, che Levi darebbe la
zuppa del giorno per potersi ricordare il finale; e quel finale, che faticosamente riaffiora, apre un
altro squarcio di verità, rivela “il perché del nostro destino, essere oggi qui”. Anche loro hanno la
colpa paradossale, come Ulisse, di sfidare un potere più grande di loro ( l'oppressione nazista e
fascista), loro sono destinati a soccombere, anche per loro il mare si richiuderà. La fine del racconto
coincide con l'arrivo alla baracca. I due portantini, con sulle spalle le stanghe della marmitta che
servirà a trasportare il rancio, appaiono nella loro grottesca e tragica realtà esteriore di poveri esseri
ridotti ad automi. Ciò che pone fine all'incantesimo creato dalla poesia è quel grido prosaico “Kraut
und ruben” (zuppa di cavoli e rape); una parentesi di luce ha fatto tuttavia brillare gli animi,
riscoprire la loro essenza di uomini calpestati, ma non ancora piegati nei valori più alti che la poesia
ha contribuito a tenere vivi.
L'ostinato tentativo di ricomporre nella memoria i versi di Dante diviene una forma di resistenza
all'annientamento,. Il recupero dell'umanità si unisce al bisogno di socialità: la letteratura serve
anche a stabilire immediatamente il legame con l'altro uomo. L’arrivo tra la folla sordida dei porta-
zuppa segna la reimmersione nel quotidiano inferno concentrazionario, ed è suggellato
emblematicamente dal parallelismo tra la ripetizione degli ingredienti della zuppa in varie lingue,
che allude al ritorno, a una condizione animalesca attenta solo ai bisogni primari, e l'ultimo verso
dell' episodio dantesco, “In fin che ‘l mar fu sopra noi rinchiuso”. Il naufragio di Ulisse in vista
della montagna del Purgatorio – a cui rimanda la citazione finale – riflette il naufragio di Primo:
anch’egli, proprio grazie alla memoria di Dante, ha momentaneamente riconquistato la propria
identità che tuttavia, subito dopo, viene nuovamente sommersa dalla realtà di Auschwitz che torna a

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dominare con la sua Babele di lingue (il tedesco, il polacco, il francese), con le sue necessità fisiche
primarie (il rancio) e con tutto il suo dolore.

BIBLIOGRAFIA

A. SACCONE, Secolo che ci squarti, secolo che ci incanti, Salerno editrice, 2019.
BALDI- GIUSSO, La letteraura, vol. 7, Paravia, 2006.
R. LUPERINI, La scrittura e l’interpretazione, vol. 3, Palumbo, 2014.

Elena Petruzzello

Carlo Emilio Gadda

- Vita e poetica

Notoriamente schivo, riservato ma anche burbero e misogino, Carlo Emilio Gadda fu uno di quegli
autori che, un po’ come possono esserlo stati Franz Kafka o Emily Dickinson, seppero dare una
rappresentazione letteraria autentica della modernità senza amare particolarmente i riflettori, e le cui
vite cominciano e si concludono all’interno della loro produzione letteraria. Come se a guidarli
nella loro esistenza fosse stata la necessità di esprimersi. Ma il nostro autore lombardo ebbe lo
straordinario pregio di saper maneggiare la lingua con straordinaria maestria servendosi talvolta
delle sue sfumature più sottili e raffinate a mo’ di bisturi, talaltra in maniera virulenta e sguaiata
mozzando braccia e gambe con linguaggi gergali e dialetti manco fosse un machete. Quando sia ha
a che fare con Gadda si ha sempre l’impressione di leggere pagine senza tempo, antichissime ed
estremamente contemporanee al contempo, e, per quanto vasta possa essere la cultura dei suoi
lettori, ci si ritrova comunque a perdersi nella vastità della sua straordinaria erudizione. Nelle
prossime righe proveremo sinteticamente a spiegarne il perché.

Carlo Emilio Gadda nacque a Milano nel 1893, primogenito di seconde nozze dell’industriale
tessile Francesco Ippolito Gadda e l’insegnante di lettere e poi direttrice Adele Lehr. Benché
l’infanzia del futuro romanziere sia trascorsa tra gli agi dell’alta borghesia della quale la sua
famiglia era fieramente rappresentante, una serie di cattivi investimenti del padre e la sua morte
(1909), uniti all’acquisto e alla gestione di una villa a Longone in Brianza, rivelatisi molto più
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onerosi di quanto le improvvisamente dimagrate finanze famigliari potessero permettersi,
l’adolescenza e la prima età matura del giovane Gadda furono inasprite dalla necessità di porre
rimedio ad esigenze di natura eminentemente materiale. Così, nonostante la peculiare propensione
per le lettere, il giovane Carlo Emilio fu costretto, su consiglio della madre, a studiare ingegneria.
Allo scoppio della prima guerra mondiale , si arruolò come ufficiale volontario, ma venne fatto
prigioniero dopo la sconfitta di Caporetto (1917: durante la guerra tenne un Giornale, pubblicato tra
il 1955 e il ’91): solo al termine del conflitto venne a sapere della morte del fratello Enrico, trauma
che scosse ulteriormente il suo equilibrio psichico. Di tutti questi spunti autobiografici, insieme a
molti altri, si trovano tracce nella trama della produzione gaddiana. Pur essendo costretto a svolgere
l’attività di ingegnere, che lo portò a viaggiare per lo Stivale e in Argentina, Gadda cominciò negli
anni Venti a scrivere ampi abbozzi di romanzo e trattati pubblicati solo postumi. Fra gli altri, vanno
ricordati almeno il Racconto italiano di ignoto del Novecento (1924-25) e La meccanica (1928-29),
contenenti diverse riflessioni delle caratteristiche richieste a un romanzo moderno rispetto alla
tradizione; e la Meditazione milanese (1928), un trattato filosofico basato su ampie letture di
Leibniz e Kant, che influenzarono anche la successiva scrittura gaddiana. Nello stesso periodo
Gadda avvierà una riflessione riguardante i rapporti tra i vari registri linguistici (che ebbe poi un
peso rilevante all’interno di tutta la sua opera): da quello aulico-tradizionale a quello tecnico-
scientifico sino a quelli popolari e gergali.

Nel 1931 esce la prima raccolta di racconti, La Madonna dei filosofi, alla quale seguì tre anni dopo
la seconda, Il castello di Udine. Il riscontro di questi due primi volumi è buono, soprattutto per
l’ammirazione suscitata negli ambienti della rivista «Solaria», tuttavia, i proventi dell’attività
letteraria non sono tali da consentire a Gadda di abbandonare il lavoro di ingegnere che lo porta a
collaborare col Vaticano e a conoscere bene l’ambiente romano. Intanto, scrive brevi testi inseribili
nel filone della prosa d’arte (raccolti ed editi nel 1939 sotto il titolo Le meraviglie d’Italia, 1939), e
cospicue parti di un romanzo ( Un fulmine sul 220), dal quale verranno ricavati materiali per alcuni
racconti, parte dei quali editi nella raccolta L’Adalgisa (1944). Quest’ultima comprende “disegni
milanesi” rielaborati in vari periodi e integrati, come di frequente nella letteratura officinale di
Gadda (che sfrutta materiale scrittorio precedente reintegrandolo in prospettiva di un’edizione per
successive raccolte di racconti o romanzi), con note d’autore erudite e/o satiriche.

Il 1936 è un anno significativo per Gadda, il quale, a causa della morte della madre, è costretto a
prendere dolorose decisioni che alimentano i suoi sensi di colpa e le sue nevrosi. Questo
angosciante grumo interiore fu il propellente necessario ad avviare la stesura del primo dei suoi
romanzi maggiori, La cognizione del dolore. Quest’opera fu dapprima parzialmente pubblicata sulla

179
rivista fiorentina «Letteratura» tra il 1938 e il ’41, poi in volume nel 1963 (nella collana dei
«Supercoralli» di Einaudi) che fu ulteriormente ampliata nell’edizione del 1970 (ma l’edizione
critica a oggi più completa risale al 1987). La cognizione del dolore, oltre a dare risalto ad alcuni
dei temi più forti di Gadda, testimonia la difficoltà dell’autore a chiudere definitivamente le opere al
punto che quasi tutte le più lunghe restano allo stadio di abbozzi o comunque incompiute. Ciò
implica la necessità per la critica di interpretare i finali, solo accennati e spesso molto differenti nei
diversi stadi compositivi. Ma, al di là di questioni che in senso figurato potremmo sintetizzare come
eminentemente “pratiche” a causa della mancanza di uno scioglimento del nodo della trama,
l’assenza dei finali ha motivazioni radicate nella poetica di Gadda come in quella di tanti altri
narratori sperimentali del Novecento: per questi la trama non è più uno degli elementi essenziali del
romanzo, che vive invece della sua capacità conoscitiva, ovvero della possibilità ad esso
connaturata di interpretare il mondo attraverso il linguaggio. Per Gadda in particolare, che dichiara
in molti suoi saggi di aver bisogno di tutte le potenzialità linguistiche, la mescolanza delle lingue e
degli stili è l’unico modo di riuscire a rappresentare l’infinita complessità, che egli definisce come
la «baroccagine» del mondo.

- La Cognizione

La cognizione è ambientata nel fantastico paese sudamericano del Maradagàl, molto simile alla
Brianza, popolato da reduci della guerra col Parapagàl che in realtà non hanno mai visto il fronte,
profittatori e speculatori. Tra questi, il protagonista don Gonzalo Pirobutirro D’Eltino, un ingegnere
che vive in una villa dissestata con la vecchia madre (dopo la morte del padre e di un fratello), e che
deve subire angherie e minacce di ogni tipo, diventando ancora più nevrotico ed esasperato. Le
copiose parti satirico-grottesche, atte ad esprimere una volontà di giudizio che riguarda tanto i
comportamenti umani consueti quanto le storture più gravi e ingiuste, si alternano con altre molto
più dolorose e drammatiche. A quest’ultima categoria è ascrivibile il dialogo tra Gonzalo e un
medico, nel quale il primo rivela il suo «male oscuro», legato in parte al rapporto di amore e odio
con la madre, la cui prospettiva viene adottata nel quinto «tratto» del romanzo (così Gadda si
riferisce ai capitoli o alle sezioni dell’opera), estremamente lirico, nel quale si comprende tutto il
rammarico dell’anziana signora di non riuscire ad instaurare un rapporto spontaneo col figlio. Dopo
varie vicissitudini, non del tutto rilevanti ai fini della trama, la quale, più che raccontare una storia
sembra rappresentare espressionisticamente uno spaccato di mondo attraverso una serie di
intersezioni di episodi, si giunge a una conclusione tragica, benché non del tutto compiuta: la madre
viene trovata agonizzante, forse a causa di un’aggressione di estranei, o piuttosto del figlio. Gli
elementi edipici, individuabili nel complesso rapporto madre-figlio, non esauriscono la ricchezza

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del testo gaddiano, la cui natura fortemente psicanalitica non va certo trascurata. La drammatica
nevrosi di Gonzalo non è un’esclusiva conseguenza del legame filiale, ma anche il prodotto di
un’incapacità di adattarsi all’imperfezione del mondo, che, da una parte schiera le ingiustizie e i
soprusi di un proletariato rozzo e opportunista, dall’altra esibisce la scialba mentalità dei borghesi
«ossobuchivori». Così, il disadattamento del protagonista vissuto con un opprimente disagio
interiore ed identificato nel suo «male oscuro» rimane e senza una causa univoca, poiché a
generarlo è l’interazione di una serie di concause, e senza una terapia di guarigione percorribile.
Quindi, a Gonzalo rimane l’amara consapevolezza che quel male «lo si porta dentro di sé per tutto il
fulgurato scoscendere d’una vita, più greve ogni giorno, immedicato». Questa breve citazione
fornisce un esempio di uno dei tanti registri stilistici della Cognizione: si può riscontrare il tragico
(come sopra), il lirico (come il già citato quinto tratto avente come protagonista la madre, senza
dimenticare il finale commisto di lirico e tragico), oppure il parodico e il satirico grottesco (a tal
proposito andrebbe citato il racconto del medico della truffa sventata dal colonnello Di Pascuale ai
danni del soldato finto sordo Palumbo). Anche i linguaggi e i registri linguistici assumono uno
spettro cromatico caleidoscopico: dal finto spagnolo, al fiorentino colto, al dialetto brianzolo, al
napoletano, passando per incisi in latino, preziosismi e costruzioni sintattiche complesse. Tuttavia,
questa miscela espressionistica non rimane un vacuo sfoggio di superfluo virtuosismo, ma si fa
strumento fondamentale affinché l’autore riesca ad esprimere la propria «cognizione» (latinismo
scientemente selezionato per esprimere un graduale processo di conoscenza del dolore, quasi come
l’opera fosse un atipico Bildungsroman – come ci fa notare Manzotti -) del dolore della vita.

- Quer pasticciaccio bruto de via Marulana

Negli anni della seconda guerra mondiale, Gadda soggiorna a Firenze e poi a Roma, dove compone
il suo secondo grande romanzo, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Il romanzo fu edito
parzialmente su «Letteratura» in cinque puntate nel 1946, e poi in volume, con molti
rimaneggiamenti, nel 1957, grazie all’interessamento dell’editore Aldo Garzanti. Il testo si presenta
in forma di giallo: nel 1927, in pieno regime fascista, il commissario Francesco, detto Ciccio,
Ingravallo (o Ingravaglio) si ritrova a dover indagare sul delitto di Liliana Balducci, residente a
Roma al civico 219 di via Merulana, chiamato il “Palazzo degli Ori” e situato a quattro passi dal
Colosseo. La Balducci, all’apparenza donna e moglie proba, è figlia di uno dei tanti profittatori di
guerra. Mentre, il commissario, è un arguto e orgoglioso molisano amico della famiglia vittima. Le
indagini avviate dal detective, però, non seguono una pista logicamente lineare ma, assecondando
una teoria dell’agente Ingravallo secondo la quale le «inopinate catastrofi» sono il prodotto di «tutta
una molteplicità di causali convergenti», cercano quasi vanamente di risolvere quello che lo stesso

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commissario vede come un «nodo o groviglio, o garbuglio o gnommero» di concause. Conciò, il
giallo gaddiano non sembra procedere alla scoperta di indizi che possano dare spiegazioni sui fatti
accaduti ma si muove attraverso deviazioni, piste sbagliate, riconoscimenti di contatti insospettabili.
Insomma, più che la concreta indagine sembra contar di più quella conoscitiva dell’Ingravallo, che,
alla fine, sembrerebbe giungere alla scoperta di un assassino (l’ultima domestica di Liliana), ma
senza che ciò sia confermato. A ciò andrebbe aggiunta la considerazione che nelle varie redazioni
(inclusa quella approntata per la versione cinematografica Il palazzo degli ori) il finale viene
modificato e il colpevole cambia.

Rispetto alla Cognizione, nel Pasticciaccio regna una narrazione più stringente e consequenziale,
nella cui tramatura l’autore non si esime dal servirsi un linguaggio espressionistico che procede
alternando al romanesco popolare molti altri gerghi, non escluso quello della mala. All’interno di
questa policromia si collocano sezioni stilisticamente più marcate, come quella tragica e barocca in
cui viene descritto il cadavere della vittima. Inoltre, andrebbe aggiunto che l’autore, servendosi del
romanzo, scaglia i suoi strali polemici non soltanto verso il genere romanzesco del giallo e il nesso
causa-effetto alla base del pensiero positivo ma, soprattutto, punta alla gola di un nemico preciso: il
fascismo. Difatti, nella realtà biografica, probabilmente per il suo maniacale senso dell’ordine,
Gadda si mostrò in un primo momento vicino agli ideali del regime, propagandato come l’unica
soluzione ai disordini che turbavano la vita politica e sociale del Paese. In seguito, però, l’autore
dovette prendere atto, insieme a molti altri intellettuali della sua generazione, di quanto squallido,
becero e vaniloquente, nonché sempre ingiusto, si fosse rivelato il governo littorio. Inoltre, come
nella Cognizione, anche nel Pasticciaccio agisce una volontà giudicatrice, che trova in Manzoni,
Eschilo e in Tolstoj alcuni dei modelli più influenti.

- Altre opere

Dopo la prima stesura del Pasticciaccio, Gadda cominciò a rimaneggiare le proprie opere,
pubblicandole spesso in forma di lunghi frammenti o racconti più o meno compiuti. È il caso delle
raccolte Novelle del Ducato in fiamme (1953) e Accoppiamenti giudiziosi (1963, si tratta di un
ampliamento della raccolta precedente).

Nel 1955 Gadda decide di dare alle stampe il Giornale di guerra e di prigionia, benché parziale,
rivelando un altro dei suoi tragici trascorsi esistenziali. Dal testo si evincono i motivi del
risentimento dell’autore nei confronti degli opportunisti e dei profittatori di guerra, svelando la sua
forma mentis, tendenzialmente portata all’elaborazione idealistica di un mondo perfetto, poi
distrutto dal lassismo morale e dal pressappochismo dei più.

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Nel 1958 arriva l’edizione della raccolta di saggi I viaggi la morte, contenente alcuni dei testi
fondamentali per la comprensione della poetica gaddiana: tra questi vanno ricordati Lingua
letteraria e lingua dell’uso (1942), dove lo scrittore fferma la necessità di contorcere il linguaggio
per ricavarne un senso autentico, e Come lavoro (1949), nel quale definisce la propria attività come
un «impiego spastico» del linguaggio, grottesco ma sempre in funzione gnoseologica.

A parte molti testi minori (apologhi, aforismi, favolette ecc.), andrebbe citato un saggio umorale e
parapsicanalitico, ovvero, Eros e Priapo (edito nel ’67 ma risalente agli anni della prima stesura del
Pasticciaccio). In questo volume, Gadda scatena la sua virulenta satira contro Mussolini, evocato
nei modi più stravaganti e accusato di essere soltanto il collettore di pulsioni erotiche represse. Da
ciò, se ne ricava che il fascismo non avrebbe minimamente cambiato il carattere del popolo italiano,
privo di coerenza etica e pronto ai compromessi. Il linguaggio, qui più che mai abrasivo e perfido,
mostra con le sue deformazioni espressionistiche i lati più osceni del potere.

Gadda morì a Roma il 21 maggio 1973. È sepolto nel cimitero acattolico di Roma.

Bibliografia

- La cognizione del dolore – Carlo Emilio Gadda, Garzanti, Milano 2008;


- Quer pasticciaccio di via Merulana – Carlo Emilio Gadda a cura di G. Pinotti, Adelphi, Milano
2018;
- La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda – Emilio Manzotti, in Letteratura italiana. Le
Opere, diretta da Asor Rosa, vol. IV, Il Novecento, tomo II, Einaudi, Torino 1996;
- Il Novecento – Alberto Casadei, facente parte della collana Storia della letteratura italiana a cura
di Andrea Battistini, Il Mulino, Bologna 2014;

Sitografia

- Carlo Emilio Gadda – Wikipedia, voce consultabile al link che segue:


https://it.wikipedia.org/wiki/Carlo_Emilio_Gadda
- Su Youtube è inoltre possibile trovare una serie di interviste dell’autore come la seguente:
https://www.youtube.com/watch?v=_UocHVySIls&ab_channel=sipsun8 , a cura di rai, oppure il
documentario Carlo Emilio Gadda un ingegnere del linguaggio al link che segue:
https://www.youtube.com/watch?v=G-bvWvOl3hQ&ab_channel=videotecascolastica

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Giuseppe Catania

ALBERTO MORAVIA

Alberto Moravia: vita, opere e contesto storico.

Alberto Moravia, pseudonimo di Alberto Pincherle (Moravia era il secondo cognome della
famiglia paterna), nasce a Roma nel 1907 e vivrà a lungo nella capitale, sino alla morte avvenuta
nel 1990. Moravia è stato uno scrittore, saggista, drammaturgo, giornalista, sceneggiatore, critico
cinematografico e reporter di viaggio. Un “intellettuale impegnato”, sempre molto presente nel
dibattito culturale, politico e sociale del nostro Paese. Durante la sua lunghissima attività di scrittore
ha pubblicato tantissimi romanzi, raccolte di racconti, saggi, reportage ed è considerato uno dei
maggiori romanzieri del Novecento. La produzione dell’autore romano è molto variegata ed
eterogenea e quindi difficile da catalogare in una determinata corrente letteraria; Moravia ha infatti
attraversato diverse fasi e si è confrontato con svariati generi letterari. Esistenzialismo e realismo,
scavo interiore e rappresentazione razionale, soggettività e oggettività si uniscono strettamente nelle
sue opere.
L’infanzia e l’adolescenza condizioneranno notevolmente il suo percorso da scrittore: all’età di
nove anni gli viene diagnosticata una grave forma di tubercolosi ossea ed è proprio nei cinque anni
di ricovero tra casa e il sanatorio di Cortina d’Ampezzo che il giovane Moravia inizia ad
appassionarsi alla letteratura e cresce in lui la vocazione da scrittore. Moravia si può quindi definire
un “narratore nato”, dotato di una spontanea e immediata vocazione al narrare, che lo porterà a
concepire la scrittura come una specie di compito quotidiano che egli si è assunto e a cui mantiene
ininterrottamente fede. Dopo il periodo di ricovero, si reca nel 1925 a Bressanone per la
convalescenza e qui inizia a scrivere il suo esordio, Gli indifferenti, uno dei capolavori della
letteratura italiana. Il romanzo, pubblicato nel 1929, è un ritratto della decadenza morale della
borghesia sotto il fascismo e riscuoterà sin da subito un notevole consenso. La storia ruota su una
famiglia i cui componenti, legati da una vicenda di corruzione e di viltà, sono fondamentalmente dei
vinti, vinti dalla loro apatia, dalla assenza totale di orgoglio e dignità morale. Sin da questo romanzo
Moravia pone la riflessione sulla propria classe sociale al centro della propria ricerca. Inoltre vi
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sono delle costanti che saranno sempre presenti nelle opere dello scrittore romano: nella realtà
borghese contano solo il sesso e il denaro, concepiti come mezzi per possedere le persone,
l’intellettuale e l’adolescente sono personaggi estraniati, impotenti e in crisi, incapaci di uscire dalla
classe in disfacimento a cui appartengono.
Non avrà assolutamente la stessa fortuna editoriale il secondo romanzo, Le ambizioni sbagliate,
opera dalla grande ambizione letteraria, ispirato allo stile e alle tematiche tipiche di Dostoevskij,
pubblicato nel 1935. Negli anni ’30 Moravia collabora con molte riviste letterarie e scrive in diversi
quotidiani dell’epoca; sin dai primi anni di attività scrive inoltre svariati racconti brevi di cui sarà un
finissimo autore. Nel 1937 viene pubblicato L’imbroglio, raccolta di cinque racconti lunghi, che
mostra come Moravia abbia una notevole propensione per questa forma letteraria. I racconti si
basano sui vari personaggi, figure della borghesia italiana, descritti con minuziosa attenzione,
soprattutto dal punto di vista psicologico. Oltre che sulla psicologia dei personaggi la narrativa di
Moravia viene costruita su schemi etici, quasi facendo di personaggi e situazioni l’incarnazione di
categorie morali (da qui deriva la frequenza, nei titoli delle sue opere, di sostantivi astratti, come
“disubbidienza”, “disprezzo”, “noia”, “attenzione” ecc…).
Successivamente, agli inizi degli anni ’40 Moravia pubblicherà un'altra raccolta di racconti, I
sogni del pigro, questa volta però non tanto di stampo realista o esistenzialista, bensì influenzata dal
surrealismo e con diversi significati allegorici. L’anno dopo sarà invece la volta di un altro
romanzo, La mascherata: l’autore sviluppa una dura satira al regime fascista, ambientando la storia
in una dittatura immaginaria del Sud America. L’opera verrà sequestrata dai funzionari del regime e
sin dal suo esordio Moravia risulterà ostile ai fascisti che già lo tenevano d’occhio e lo pedinavano
da tempo, considerandolo un sovversivo. Nello stesso anno Moravia sposerà la scrittrice Elsa
Morante, con la quale rimarrà legato sentimentalmente fino al 1962. Negli anni saranno diverse le
donne con le quali Moravia instaurerà relazioni amorose, tutte legate al mondo della scrittura e della
letteratura. Con gli anni del conflitto mondiale si apre per Moravia un nuovo scenario letterario,
l’autore dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943 è costretto a scappare con la moglie a Fondi, un
villaggio in provincia di Latina e qui inizierà la composizione de La ciociara, romanzo che vedrà
poi la luce nel 1957. Sempre nel ‘43 viene pubblicato “Agostino”, un romanzo in cui il protagonista
è un ragazzo che in vacanza con la madre in Versilia scopre il sesso e subisce lo shock dell’impatto
con la realtà sociale. Quelli del dopoguerra sono anni molto produttivi per l’autore, in pochi anni
vengono pubblicati svariati romanzi, tra cui spicca sicuramente La romana, che uscì nel 1947.
L’opera ambientata durante gli anni del fascismo narra di una ragazza di umili origini, Adriana,
spinta dalla madre a provare una scalata sociale che le farà venire a contatto con un mondo
meschino e ipocrita, nel contesto di un triangolo amoroso.

185
Qualche anno dopo, nel 1951, dopo uscirà un altro interessante romanzo, Il conformista,
preceduto da La disubbidienza e dalla raccolta L'amore coniugale e altri racconti. Proprio la forma
breve, di cui come si diceva prima Moravia è un abilissimo artigiano, varrà all’autore la vittoria del
Premio Strega con l’opera I racconti nel 1952. Altro grande interesse e notevole impegno per il
quale si dedicò in quegli anni è quello del cinema: Moravia scrive diverse sceneggiature e
tantissime opere dello scrittore vengono utilizzate per altrettante rappresentazioni cinematografiche
e film per la televisione. L’autore stesso si occupa di cinema attraverso recensioni e rubriche in
diversi giornali nazionali. Inoltre nel 1953 fonda una rivista letteraria, “Nuovi argomenti” che
diverrà una delle più importante da lì agli anni a venire e vedrà illustri contributi, come quella
dell’amico Pier Paolo Pasolini in veste di redattore. Nella prima metà degli anni Cinquanta continua
l’interesse e il lavoro verso la narrativa breve: nel 1954 verrà pubblicato una nuova raccolta di
racconti, Racconti romani, seguita da Nuovi racconti romani, uscita nel 1959. Quelli romani sono
racconti precedentemente usciti nel corso degli anni sulle pagine del Corriere della Sera,
raggruppati e racchiusi in queste due raccolte. Si tratta di più di ben centotrenta brevi racconti
ambientati nella capitale e dove personaggi di varia natura e classe sociale, dal popolano al
borghese benestante, vengono ritratti con estrema raffinatezza e capacità narrativa nelle storie e
nelle situazione più disparate e nel contesto degli anni del boom economico.
Gli anni ‘60, decennio altrettanto prolifico per Moravia, si aprono con uno dei romanzi più noti e
riusciti della sua intera carriera, La noia. Nel libro ritorna il tema dell’indifferenza del primo
romanzo, trasformata in noia, apatia, incapacità di avere rapporti interpersonali. Il protagonista del
romanzo è Dino, un pittore di estrazione borghese, che vorrebbe sottrarsi ad una realtà che lo
circonda, condizionata fortemente dal denaro e dall’ipocrisia nei rapporti umani. Nel 1963 viene
pubblicato uno dei più importanti saggi, dal titolo emblematico: L’uomo come fine e altri saggi. Nel
1965 poi Moravia si confronta con la neoavanguardia (sono gli anni del Gruppo 63) con il romanzo
L’attenzione, un libro fortemente metanarrativo e sperimentale. Sono anni che vedono attivo
Moravia anche come scrittore di reportage, nel ‘67 si reca sia in Cina che in Giappone, e qualche
anno dopo anche in Africa insieme alla nuova compagna Dacia Maraini e vari amici.
Negli anni Settanta la produzione letteraria è quantitativamente inferiore, vengono pubblicati due
romanzi: uno nel 1971 dal titolo Io e lui, mentre l’altro nel 1978, intitolato La vita interiore.
Moravia scrive però diversi racconti che verranno pubblicamente in svariate raccolte: Il paradiso,
Un’altra vita, Boh. Gli anni Ottanta rappresentano l’ultima decade di attività. Nel 1982 pubblica un
romanzo intitolato 1934, mentre l’anno successivo è la volta di una nuova raccolta di short stories,
La cosa e altri racconti, dedicato alla nuova compagna Carmen Llera. Nel 1984 viene eletto
europarlamentare come indipendente nelle liste del Partito Comunista Italiano, riporterà questa

186
esperienza politica nel Il diario europeo. Moravia continuerà a scrivere, nel vero senso della parola,
sino alla sua morte: la mattina in cui è morto, il 26 settembre 1990, sulla sua scrivania c'era l'ultima
stesura del libro, conservata con cura in un rigida cartellina blu. Vi aveva apposto la parola "fine"
da qualche giorno. La donna leopardo, l’ultimo romanzo scritto dall’autore romano, verrà
pubblicato postumo nel 1991.

Gli indifferenti: analisi dell’opera

Gli indifferenti è il titolo del romanzo d’esordio dello scrittore romano Alberto Moravia. L’opera
venne iniziata nel 1925 quando l’autore si trovava in giovanissima età a Bressanone, in una fase di
convalescenza dopo un ricovero di diversi anni a causa di una grave forma di tubercolosi ossea. La
pubblicazione dell’opera avvenne nel 1929 grazie all’aiuto del padre di Moravia che diede al figlio,
all’epoca ventiduenne, i soldi per pubblicarlo a proprie spese presso l’editore milanese Alpes.
Il romanzo de Gli indifferenti viene scritto in un periodo storico-culturale ben preciso e che
influenzerà le tematiche della suddetta opera. Sono anni in cui il regime fascista imprime sempre di
più la propria impronta nella vita culturale e sociale, nei costumi degli italiani. Con le leggi
fascistissime del 1925-1926 si pongono, tra le varie norme e istituzioni, anche le basi per quello che
sarà negli anni 30 il Minculpop, cioè il Ministero della cultura popolare. Un controllo sulla cultura
che si riflette anche chiaramente sulla letteratura e che vedrà anni di censure a cui anche le opere di
Moravia verranno costantemente sottoposte. Contestualizzando in maniera prettamente letteraria Gli
indifferenti si può notare come gli anni ’20 vedano una ripresa della forma romanzo molto forte
dopo anni di testi e opere basate invece sulla frammentazione lirica e narrativa. Questa ripresa delle
forme tradizionali del romanzo, ma non per questo nei contenuti che sono invece affini alla nuova
corrente del modernismo, si evince non solo dall’esordio di Moravia, ma anche da tutti gli altri
romanzi, caposaldi della letteratura italiana e non solo, che vengono pubblicati in quegli anni: da
“Con gli occhi chiusi” di Tozzi, a “Quaderni di Serafino Gubbio operatore” di Pirandello, a “La
coscienza di Zeno” di Svevo.
Gli indifferenti è un romanzo, come si diceva, con una struttura sostanzialmente tradizionale ed
una divisione in sedici capitoli segnalati dal numero progressivo in cifre romane. Sin dall’incipit ciò
che si nota subito è però una certa vicinanza dell’intera struttura del romanzo a quella dell’opera
teatrale, soprattutto negli esordi, nelle uscite di scena, nelle azioni e nei dialoghi dei personaggi e
anche nelle descrizioni degli ambienti. Lo stile così come il linguaggio utilizzato è essenziale,
scarno, senza picchi aulici o lirismi forzati. Il ritmo e lento ed il tono è serio, a volte diventa

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drammatico ma al tempo stesso la pateticità produce l’effetto di porre in ridicolo determinati
personaggi e azioni. Riprendendo la migliore tradizione del dramma borghese non solo nel tema
della crisi dell’istituzione familiare ma anche nelle frequenti scene dialogate, di ascendenza teatrale,
Moravia dà vita in questo romanzo a una serie di triangoli amorosi - tutti incistati nella medesima
famiglia “malata” e inautentica - che mettono a nudo il suo inesorabile sfacelo. Lo stesso Moravia
riconoscendo la fisonomia teatrale dell’opera lo definirà in seguito un “dramma travestito da
romanzo”.
Tempo e spazio
Il romanzo è ambientato a Roma negli anni ’20 del Novecento e la storia si svolge in appena due
giornate. Gli indifferenti si può definire un romanzo d’interni poiché la trama si sviluppa tutta
all’interno di abitazioni borghesi dell’epoca: dalla villa degli Ardengo, alla casa di Leo, a quella di
Lisa.
Trama
Il libro racconta le vicende di una famiglia borghese composta da madre, Mariagrazia, e due
figli, Carla e Michele Ardengo. Mariagrazia, la madre, è amante di un uomo, Leo Merumeci, che
però nutre sin dall’incipit un certo interesse per la figlia, Carla, ormai cresciuta. Fra i due inizia,
all’insaputa di tutti, una relazione nel giorno del compleanno della ragazza, poiché Carla allo
scoccare del proprio genetliaco sente il bisogno di cambiare, di iniziare una nuova vita. Lisa, cara
amica di Mariagrazia, si innamora di Michele, il fratello di Carla, ma il ragazzo non nutre
sentimenti sinceri verso la donna. Carla e Leo si incontrano di nascosto, ma una sera vengono
scoperti in flagrante da Lisa, la quale non si fa vedere e ne parla con Michele. Il ragazzo, che non ha
mai potuto sopportare Leo già dai tempi della relazione con la madre, preso dalla collera vuole
uccidere l’uomo. Tenta di farlo con una rivoltella, ma non ci riesce. Michele ne esce quindi umiliato
e perdente, poiché gli spara dimenticandosi di caricare l'arma. Per evitare che la villa sia venduta a
un miglior offerente, Leo, timoroso di vanificare quanto ha cercato di ottenere, chiede a Carla di
sposarlo. Carla, nonostante lo disprezzi e non lo ami, è attratta dall'idea di una nuova vita benestante
e borghese che assicuri il benessere a se stessa, alla madre ed al fratello. Con freddezza accetterà la
proposta di matrimonio, rinunciando al sentimento, ma forse non alla passione. Il romanzo si chiude
con un finale sospeso: Carla e Mariagrazia che si recano a un ballo in maschera, con la figlia che
ancora deve comunicare alla madre la sua decisione di sposare Leo.
Sistema dei personaggi
Carla: Figlia di Mariagrazia e sorella di Michele, sin dall’inizio del romanzo vverte che il
vecchio mondo puro e intatto dell’infanzia è ormai sepolto nella sua anima come una cosa lontana e
intoccabile. Un nuovo atteggiamento occorre per affrontare l’incerta dimensione del vivere

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quotidiano: in questo momento un atto di violenza è necessario a rompere le abitudini meschine di
una vita piena di noia e tuttavia le sembra «di recitare una parte falsa e ridicola». La ragazza resiste
a Leo e alle sue proposte interessate solo per un senso di vergogna, combattuta tra il desiderio di
rovinare tutto e un senso di paura per le conseguenze di quella violenza sconosciuta. Nonostante
ciò, le sembra che questa «avventura familiare» sia il solo epilogo degno di inaugurare la sua nuova
esistenza, una frattura che rompa e laceri per sempre il vecchio mondo, fatto di immobilità,
dominato da una meschina fatalità, pieno di atti e di gesti ripetuti fino alla nausea, in cui le stesse
parole, i discorsi e le scene di gelosia tra la madre e Leo appaiono angosciosi, previsti in anticipo,
già esperimentati nella loro falsità in mille modi e occasioni diverse. Carla rinuncia ad ogni
resistenza e si adatta ad un mondo borghese, fatto di ipocrisia e completamente privo di valori di
qualsiasi genere.
Michele: Figlio di Mariagrazia e fratello di Carla, si trova nella stessa condizione psicologica,
oscillante tra una vanità falsa e l’indifferenza, in cui sembra al contrario lasciarsi andare, senza
combattere. Michele a volte reagisce; sembra che voglia rompere con la finzione, strappare le
maschere a quei volti della sua vita duri, patetici, inespressivi, denudare i propri istinti. La
ribellione, però, quando avviene, è tiepida e mite: la noia, l’indifferenza svuotano ogni azione,
anche quella più vera come l’attentato alla vita di Leo, che Michele sente quanto mai necessario per
ridare un senso alla propria esistenza. Nell’epilogo della drammatica vicenda, prima di uscire di
scena, egli rivela la rinuncia della sua volontà: la pistola scarica, un atto mancato, mentre Leo,
impaurito, sovrasta per l’ultima volta la sua debole volontà. Quella di Michele è la storia di un
adattamento mancato in quanto questo personaggio rispecchia in sé la condizione dell’uomo
borghese nel momento in cui assume una sua coscienza critica, o meglio una coscienza di crisi. Si
mostra incapace di qualsiasi adattamento: l’impotenza della sua indifferenza gli impedisce di
ingannarsi così a fondo e così volgarmente come gli altri.
Mariagrazia: madre di Michele e Carla, il suo ruolo è quello di chi si accorge di andare alla
deriva, di affondare ogni giorno di più, ma non accenna ad alcuna reazione per impedire il
fallimento. Ella sogna, invece, soluzioni impossibili, ricchezze e agi che le permettano di
sopravvivere. Eccitata da false e ridicole ambizioni, non si accorge del mondo che frana intorno a
lei, dell’ira e del disgusto che provoca nei figli con le sue scenate di gelosia, delle intenzioni
ambigue di Leo, del suo tradimento con la figlia, delle cadute morali di Michele. Il carattere di
Mariagrazia è indice di decadenza, quasi volgare nella sua supponenza di prestigio, di superiorità
legata a doppio filo con l’idea del possesso materiale e della ricchezza. Per Mariagrazia Leo è il
mondo borghese del decoro sociale, della supremazia dei sentimenti superficiali sulle verità più
genuine: è Leo che conta sopra ogni cosa.

189
Leo: rappresenta la figura più negativa del romanzo, ma tuttavia ha un suo fascino interno, una
sua funzione narrativa ben precisa. Leo Merumeci è un personaggio soggiogato dalla sensualità, dal
gusto della predominanza, che tiene avvinti a sé i destini dei “suoi” pupazzi, li fa muovere e agire
secondo uno schema preordinato, pronto ad adattarsi a ogni situazione con la furbizia, felice di
colpire la propria vittima quando questa gli si inginocchia ai piedi, conquistata dal suo fascino o
vinta dalla sua perversità. Egli insidia Carla nello stesso modo subdolo in cui tenta di impossessarsi
della villa Ardengo, con la stessa fatalistica tenacia con cui mira al nuovo approccio con Lisa, con
la stessa sottile perfidia con cui abbandona Mariagrazia per una donna più giovane. Quando cerca di
sedurre Carla, Leo è cosciente del dramma intimo della giovane e nonostante ciò la domina come
un perfetto stratega. Leo ha un solo istinto, un solo impulso per volta, che segue fino in fondo
pienamente convinto della sua scelta, integrato mirabilmente alla sua vita borghese e ai suoi istituti.
In Leo si sublimano, quindi, l’ipocrisia, la falsa coscienza e la convenzionalità, aspetto saliente che
Carla e Michele tentano appunto di rovesciare, anche se con debole convinzione, ma del quale alla
fine restano vittime. Appartenente ad un mondo radicalmente corrotto, è uno dei tanti uomini
perfettamente integrati in esso, che vivono di nuda avidità e di cinica libidine, avendo ridotto la
propria esistenza al raggiungimento delle sole realtà irrinunciabili: il sesso e il denaro. Egli
rispecchia la mentalità del borghese, sicuro di sè, incurante delle esigenze altrui, bugiardo e
calcolatore, privo di qualsiasi spessore morale.
Lisa: amica della famiglia Ardengo, è innamorata del giovane Michele che non la contraccambia.
E’ la vecchia amante di Leo il quale in un momento di “bisogno” si reca da lei convinto che ella
provi ancora un forte sentimento per lui; ma in realtà non è così. Dopo aver scoperto della storia
clandestina tra Leo e la giovane Carla, Lisa racconta tutto a Michele.
Punto di vista narrativo e focalizzazione
Il narratore è onnisciente, perché conosce i pensieri dei personaggi. Moravia intende quindi
rappresentare l’universo borghese non con gli strumenti innovativi del romanzo sveviano o
pirandelliano, ma con una riflessione sulla apatia e sulla passività dei personaggi. Il narratore
assume via via il punto di vista dei suoi personaggi principali (focalizzazione interna). In altre
parole il narratore riportando i pensieri dei personaggi, ci consente di attuare un costante confronto
tra ciò che essi pensano e ciò che dicono.

Esistenzialismo e realismo si muovono insieme nello straordinario esordio moraviano, che riesce
a mostrarci con estrema capacità critica e narrativa la società di un tempo ritratta tramite i suoi
personaggi e le loro non azioni, la loro indifferenza. Un conflitto dell'individuo con la vita, ma
anche un conflitto dell'individuo con una determinata società, come dimostra Moravia, che, in tutto

190
l'arco della sua produzione narrativa, colpirà successivamente con la sua polemica ironica e fredda
la società conformista del ventennio fascista. I temi de Gli indifferenti si ripeteranno poi nei
romanzi successivi, i personaggi chiave presenteranno le stesse caratteristiche esistenziali, anche se
di volta in volta sono calati in ambienti e situazioni storiche diverse. L’influenza di quest’opera
nello scenario letterario e culturale italiano sarà di capitale importanza e ci ha mostrato sin
dall’inizio della sua lunga attività la grandezza di un autore nato con la vocazione per la scrittura.

Bibliografia delle opere dell’autore

Romanzi

Gli indifferenti, Milano, Alpes, 1929; Milano, Corbaccio, 1933; Milano, Bompiani, 1949.
Le ambizioni sbagliate, Milano, A. Mondadori, 1935.
La mascherata, Milano, Bompiani, 1941.
Agostino, Roma, Documento, 1943; Milano, Bompiani, 1945.
La romana, Milano, Bompiani, 1947.
La disubbidienza, Milano, Bompiani, 1948.
L'amore coniugale, Milano, Bompiani, 1949.
Il conformista, Milano, Bompiani, 1951.
Il disprezzo, Milano, Bompiani, 1954.
La ciociara, Milano, Bompiani, 1957.
La noia, Milano, Bompiani, 1960.
L'attenzione, Milano, Bompiani, 1965.
Io e lui, Milano, Bompiani, 1971.
La vita interiore, Milano, Bompiani, 1978.
1934, Milano, Bompiani, 1982.
L'uomo che guarda, Milano, Bompiani, 1985.
La donna leopardo, Milano, Bompiani, 1991

Racconti

La bella vita, Lanciano, Carabba, 1935;


L'imbroglio, Milano, Bompiani, 1937.
I sogni del pigro. Racconti, miti e allegorie, Milano, Bompiani, 1940.

191
L'epidemia, Roma, Documento, 1944.
L'amore coniugale e altri racconti, Milano, Bompiani, 1949.
I racconti, 2 voll., Milano, Bompiani, 1952; poi Racconti 1927-1951, Milano, Bompiani, 1953.
Racconti romani, Milano, Bompiani, 1954.
Nuovi racconti romani, Milano, Bompiani, 1959.
L'automa. Racconti, Milano, Bompiani, 1962.
Una cosa è una cosa, Milano, Bompiani, 1967.
Il paradiso, Milano, Bompiani, 1970.
Un'altra vita, Milano, Bompiani, 1973.
Boh, Milano, Bompiani, 1976.
Tre storie della preistoria, Milano, Emme edizioni, 1977.
Storie della preistoria, Collana Letteraria, Milano, Bompiani, 1982.
La cosa e altri racconti, Milano, Bompiani, 1983.
Il vassoio davanti alla porta, Milano, Bompiani, 1989.
La villa del venerdì e altri racconti, Milano, Bompiani, 1990

Bibliografia dei manuali utilizzati

R. LUPERINI, P. CATALDI, L. MARCHIANI, F. MARCHESE, La scrittura e


l’interpretazione, G.B. Palumbo editore, 2004

G. FERRONI, A. CORTELLESSA, I. PANTANI, S. TATTI, Storia e testi della letteratura


italiana, Mondadori, 2003

Sitografia

www.laletteraturaenoi.it/index.php/la-scrittura-e-noi/728-perché-leggere-gli-indifferenti-di-alberto-
moravia-–-morena-marsilio-3.html

https://www.treccani.it/enciclopedia/alberto-moravia/

https://it.wikipedia.org/wiki/Alberto_Moravia

https://lafrusta.homestead.com/rec_moravia.html

192
http://www.minimaetmoralia.it/wp/dentro-gli-indifferenti-moravia/

Antonio Gentile

ITALO CALVINO

Biografia vita e opere.

Italo Calvino è stato uno tra i maggiori scrittori del secondo Novecento. Le sue opere sono state
tradotte in tutto il mondo, infatti egli ha rappresentato lo scrittore italiano per antonomasia. La sua
opera si muove dai romanzi e i racconti in cui parla della guerra e la Resistenza, fino allo
sperimentalismo a cui lo scrittore approda negli ultimi decenni. Autore di racconti e romanzi,
Calvino si interessò anche al mondo del cinema, teatro, della musica del fumetto e dell’arte.
Italo Calvino nasce il 15 ottobre 1923 a Santiago de Las Vegas, presso l’Avana (Cuba);figlio
primogenito di Mario, agronomo, e di Giulia Luigia Evelina Mameli, botanica.
Nel 1925 rientrarono in Italia a Sanremo, dove Mario (il padre) fu nominato direttore della
Stazione sperimentale di floricultura, nel 1927 nacque l’unico fratello di Italo, Floriano.
La famiglia si stabilì presso Villa Meridiana, edificio in posizione dominante sulla città,
introducendo nel vasto giardino piante esotiche come l’avocado, la papaya,il pompelmo rosa e la
guayaba. Proprio a loro si dovette la trasformazione di Sanremo in città dei fiori. Italo era destinato
ad essere unico letterato in una famiglia di scienziati.
Il primo approccio di Italo con la letteratura avviene all’età di dodici anni, quando gli capita fra le
mani il primo ed il secondo “Libro della giungla” di Kipling. E’ un amore al primo colpo, è un
innamoramento per il modo esotico, per le avventure fantastiche. I pilastri della biblioteca giovanile
di Calvino sono quattro sostantivi -avventura, energia, esotismo,mistero – che descrivono una
formazione letteraria incarnata fra i 6 e i 23 annidi età fra Pinocchio e America di Kafka. Si diletta
anche a leggere riviste umoristiche, cosa che lo spinge a disegnare lui stesso vignette e fumetti; in
questo periodo nasce anche la passione per il cinema che lo accompagnerà per tutto il periodo
dell’adolescenza.
Intanto scoppia la guerra, un evento che segna il declino della sua giovinezza, e l’ascesa della
cosiddetta “belle epoque” in versione sanremese. La sua posizione ideologica è incerta, tra il
recupero di una identità locale ed un confuso anarchismo.
Tra i sedici e vent’anni scrive brevi racconti, opere teatrali ed anche poesie ispirandosi a Montale il
suo poeta amato.
Nel 1941, dopo la licenza liceale, si iscrive alla Facoltà di Agraria dell’università di Torino: ma lo
fa controvoglia, come volendo saldare un debito morale verso suo padre. E’ nei rapporti personali e
193
nell’amicizia con il compagno di liceo Eugenio Scalfari, che cominciarono a crescere in lui interessi
più specificatamente politici. Dopo la morte di un partigiano combattente, chiede ad un amico di
presentarlo al PCI e in seguito insieme al fratello si arruola e combatte per venti mesi uno dei più
aspri tra partigiani e nazifascisti. E’ opinione della critica che la sua scelta di aderire al partito
comunista non derivò da ideologie personali, ma dal fatto che in quel periodo era la forza più attiva
ed organizzata. Proprio in quel periodo i genitori vengono sequestrati dai tedeschi; nel 1946
terminata la guerra furono liberati.
Calvino fu attivista del PCI prima in provincia di Imperia e poi tra gli studenti di Torino: dove
abbandonata agraria si iscrisse al terzo anno di lettere avendo tra gli insegnanti Nicola Abbagnano
e Luigi Pareyson. Si laureò il 4 novembre 1947.
A Torino entrò in amicizia con Cesare Pavese ed Elio Vittorini, cominciando presto a collaborare al
Politecnico alla celebre rivista milanese diretta dal secondo.
Per un giovane esordiente, Torino significava soprattutto la casa editrice Einaudi, il quale entrò
dapprima come venditore di libri a rate, poi come redattore, infine nel 1949 come responsabile
dell’ufficio stampa.
Su incoraggiamento di Cesare Pavese e del critico Giansiro Ferrata, si dedica alla stesura di un
romanzo che conclude negli ultimi giorni di dicembre; è il suo primo libro, Il Sentiero dei nidi di
ragno, una ricognizione del periodo bellico e del mondo partigiano. Partecipò con questo romanzo
al Premio di Riccione nel 1946, vinse ex aequo ma non piacque né a Ferrata né a Vittorini e
neanche a Pavese; ma Giulio Einaudi se ne entusiasmò, stampandolo nell’autunno del 1947.
Calvino qui raccontò la Resistenza con gli occhi di Pin, una bambino di dieci anni, dunque sotto
forma di fiaba: ma una fiaba acre, crudele, distorta come la percezione di un ragazzino cresciuto nei
vicoli della vecchia Sanremo, tra uomini adulti e accanto a una sorella prostituta.
Calvino attraversò gli anni della guerra fredda da militante comunista, da eccellente editoriale in
una casa editrice di sinistra, da scrittore giovane il cui talento era molto apprezzato. Nel 1949 i 30
testi brevi che raccolse in Ultimo viene il corvo chiusero la sua prima stagione.
In queste epoca della sua vita creativa si trovò a scrivere racconti di città e di bosco, apologhi in
chiave politica, come il Bianco Veliero(1947) e il Giovane del Po 1950-51 romanzo di impianto
realistico sociale; in estate invece scrive di getto Il visconte dimezzato, una breve romanzo
fantastico ambientato nel Seicento, al tempo delle guerre con i Turchi: Il Visconte Dimezzato era
semplice, divertente. Gli anni successivi lo vedono come favolista, escono Le fiabe italiane. La sua
creatività è sempre feconda ed inarrestabile, tanto che non si contano le sue collaborazioni su
riviste, i suoi scritti e racconti, nonché la stesura di alcune canzoni o libretti per opere musicali

194
d’avanguardia come Allez-hop dell’amico Lucio Berio.Un ‘attività la sua artisticamente e
culturalmente a tutto campo.
Fu in seguito alla repressione staliniana delle rivolte in Ungheria e in Polonia e ad una crisi
profonda nel PCI, che alcuni mesi più tardi(1957) Calvino decise di abbandonare, si dimette dal
partito, sebbene le sue posizioni continueranno a essere di sinistra.
Questi furono gli anni del Il Barone Rampante e La Speculazione edilizia, opere che sembravano
disporsi l’uno agli antipodi dell’altro, accomunati soltando dal paesaggio della Riviera di Ponente di
cui il Barone narrava il passato immaginario e la Speculazione un oggi stravolto. In questi anni
scrisse Marcovaldo e Il Cavaliere Inesistente.
Riunì poi nel 1960 la cosiddetta Trilogia Araldica in un unico volume dal titolo I nostri Antenati
comprendente Il Visconte Dimezzato, il Barone Rampante, Il Cavaliere Inesistente.
Nel 1964 si sposa con un’argentina Ester Judith Singere si trasferisce a Parigi, pur continuando a
collaborare con Einaudi. L’anno dopo nasce la sua prima figlia, Giovannea.
Esce nel frattempo il volume Le Cosmicomiche, a cui segue nel 1967 Ti con zero, in cui si rileva la
sua passione giovanile per le teorie astronomiche e cosmologiche.
La predisposizione fantastica, costante in tutta la sua opera, rappresenta la parte più reale dello
scrittore. In molte delle sue opere, egli infrange una regola ferrea della vita che la vede reale da una
parte e fittizia dall’altra. Una delle sue caratteristiche è quella di avere nei confronti della materia
trattata, un approccio leggero, umoristico, riuscendo a smussare gli aspetti più sconcertanti con
atteggiamenti quasi di serena saggezza.
“Eleganza”, “leggerezza”, “misura”, “chiarezza”, “razionalità” sono i concetti a cui più usualmente
si fa ricordo per definire l’opera di Italo Calvino.
Si trasferisce a Roma nel 1980 in piazza Campo Marzio ad un passo dal Pantheon. Durante il 1984
in seguito alla crisi aziendale dell'Einaudi decide di passare alla Garzanti presso la quale appaiono
"Collezione di sabbia" e "Cosmicomiche vecchie e nuove".
Il 6 settembre viene colto da ictus a Castiglione della Pescaia.
Ricoverato all'ospedale Santa Maria della Scala di Siena, Italo Calvino muore il 19 settembre 1985,
all'età di 61 anni, colpito da un'emorragia celebrale.

IL VISCONTE DIMEZZATO
Analisi del testo narrativo.

1) COMPRENSIONE

195
1.1 Il visconte dimezzato (1952) è la prima opera della trilogia I nostri antenati, insieme di
racconti fantastici che comprende anche Il barone rampante (1957) e Il cavaliere inesistente (1959).
Tratta il tema della identità dell’uomo, sfigurata e smarrita ad un certo punto della vita, e del
cammino da compiere per ritrovarla nella pienezza e integrità di un tempo.

Il testo che si intende presentare appartiene al genere fantastico, e ha come protagonista un giovane
carico di entusiasmo e sicuro di sé, che il primo giorno in cui va in guerra viene raggiunto da una
palla di cannone e diviso, come dice il titolo, in due metà, che vivranno con caratteristiche e storie
diverse.

1.2 Significato letterale e il tema


Le parole che usa l’ autore sono perlopiù semplici anche se talvolta vengono utilizzati termini non
comuni ai giorni nostri, ad esempio: "famigli = domestici; "roncole" = falcetti ad unchi; zirli = versi
acuti e brevi caratteristici dei tordi.
Il tipo di registro linguistico è quello medio e il racconto è molto ricco di aggettivi utilizzati per
descrivere i personaggi, i luoghi e soprattutto le due metà del visconte Medardo di Terralba.
La lingua usata è l’ italiano moderno ed è stato facile da comprendere. Il linguaggio utilizzato da
Calvino è molto semplice e lineare.
Il racconto si può dividere in cinque sequenze:
1 Medardo (il nome del visconte) arriva all’accampamento e viene nominato tenete. Il giorno dopo
guida un esercito contro i turchi, ma a causa della sua inesperienza va contro un cannone che lo
centra in pieno. Alla fine dello scontro viene ritrovata solo una parte di Medardo, la parte destra,
perché era diviso verticalmente e i medici riuscirono a ridargli la vita.
2 Medardo torna alla sua conte Terralba, e rimane alcuni giorni nella sua stanza, solo alla morte del
padre comincia a uscire e divideva in due parti verticalmente tutto quello che trovava davanti, dalle
piante agl’animali. E manda la sua nutrice Sebastiana a Pratofungo dai lebbrosi. In questo modo
Medardo rivelò agli abitanti la sua indole malvagia.
3 Un giorno Medardo decise di innamorarsi di una giovane pastorella di nome Pamela, ma lei
terrorizzata da ciò che le può accadere e dalle insistenti minacce si nasconde in una grotta nel bosco
insieme a un’anatra e una capra.
4 Un giorno il nipote di Medardo incontra Medardo ma si accorge che è la parte sinistra ed è molto
gentile e comprensiva. Anche Pamela lo incontra nel bosco e gli racconta che dopo la cannonata
due eremiti lo avevano curato e come sopranome lo chiamarono “Il Buono” perché era l’esatto
contrario del “Gramo” la parte cattiva. Anche il Buono s’innamora di Pamela.
196
5 Sia il Gramo sia il Buono vogliono sposare Pamela e così entrambi escogitano un piano dicendo a
Pamela di sposare l’altra metà, e Pamela accetta i consigli di entrambi decidendo di sposare
entrambi lo stesso giorno all’insaputa di questi. Il primo che arriva al matrimonio è il Buono perché
il cavallo del Gramo si è azzoppato una zampa. Mentre si stava celebrando il matrimonio arrivò il
Gramo, entrambi decisero che il giorno dopo si sarebbero scontrati a duello e chi vinceva avrebbe
sposato Pamela. Il Gramo e il Buono combattendo riaprirono le ferite della cannonata e persero i
sensi. Il dottor Trelawney riuscì ad attaccarli e dopo alcuni giorni Medardo ritornò un uomo intero.

Lessico:

Scimitarra: arma da taglio con lama ricurva, slargantesi verso la punta, usata dai popoli orientali.
Broccato: tessuto di lusso, decorato con disegni prodotti da trame che sono aggiunte al tessuto di
fondo e appaiono soltanto sul diritto.
Piattola: persona noiosa e fastidiosa, o che di tutto ha paura.
Ramaglia: insieme di rami secchi, staccati nella ripulitura degli alberi o caduti.
Rabberciare: riparare, aggiustare alla meglio.
Mulattiera: strada costruita per il passaggio delle carovane di muli o di altre bestie da soma.
Averla: uccello insettivoro e predatore, di medie dimensioni, con becco uncinato, coda a ventaglio
e piumaggio cinerino, bruno o beige.
Boleto: genere di funghi dal cappello bruno-rossiccio, comprendente specie velenose e specie
commestibili come il porcino.
Lettiga: lettino utilizzato per trasportare ammalati e feriti.
Miasma: malsana esalazione nociva che emana la materia in stato di putrefazione o l'acqua
stagnante.
Gerbido: terreno arido e incolto per mancanza di sali di calcio.
Basto: grossa e rozza sella di legno che si pone sul dorso delle bestie da soma per collocarvi o
appendervi il carico.
Fio: pena, punizione, castigo.
Licenzioso: improntato a disprezzo delle norme del pudore e del ritegno.
Ruminare: masticare in modo lento, svogliato.

Il romanzo non segue uno schema sintattico ben preciso, bensì è libero; inoltre è presente il discorso
diretto in molte occasioni.

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Nel ritmo narrativo notiamo che le sequenze, che sono quasi del tutto assenti in questo romanzo,
sono quelle riflessive, mentre quelle più frequenti sono quelle narrative quando narrano la vita del
visconte, descrittive quando il narratore parla dei posti attorno alla contea di Terralba
e dialogate quando il protagonista parla con gli altri personaggi.

Trama riassunto: È la storia di un visconte che partecipa, assieme allo scudiero Curzio, a una guerra
di religione alla fine del Seicento in Boemia. Il protagonista viene tagliato in due parti speculari da
una palla di cannone. Prende il via così la vita parallela delle due metà di Medardo. Inizialmente
ritorna al paese solo il lato maligno, capace di terribili atrocità: provoca la morte del padre, tenta di
uccidere il nipote, condanna a morte decine di uomini solo per aumentare il numero dei fuochi fatui
al cimitero. Successivamente fa ritorno al paese natio anche l’altra metà del visconte che si
comporta in modo totalmente opposto: gentile, altruista, buono, o meglio “buonista”, caratteristiche
che però vengono esasperate. I “due” protagonisti si innamorano della stessa donna, la pastorella
Pamela e, dopo varie vicissitudini, giungono a un duello che finirà con una ferita contemporanea
proprio nel punto della precedente “divisione”. Il dottore riuscirà a ricongiungere le due metà e a
ripristinare il quieto vivere.

2) ANALISI
1.1 Rapporta Fabula/Intreccio.
Il rapporto tra fabula e intreccio è sfalsato: infatti anche se all’inizio sembra che coincida,
successivamente troviamo dei flash-back e vengono saltati dei pezzi meno importanti per aumentare
la tensione della narrazione e velocizzare così il ritmo.

1.2 Punto di vista narrativo e focalizzazione .


Il narratore ne “il visconte dimezzato” è interno, dunque, é presente nella storia come personaggio
che narra in prima persona riportando fatti visti e vissuti da lui stesso (io narrante:”…io non avevo
mai visto tanta gente” oppure il narratore é pronto a svelare d’improvviso la propria presenza
es.”quel bambino ero io”) Il narratore quindi sa solo quanto sanno i personaggi, ma quando vi sono
presenti le anticipazioni il narratore diventa onnisciente (il narratore ne sa più dei personaggi)

1.3 Tempo e spazio


Tempo della scrittura : 1951
Tempo della storia : 1663(guerre austro-turche)
198
Arco di tempo della narrazione: 3 o 4 anni.
In questo romanzo ci troviamo di fronte alcuni ellissi (…e il buono cominciava a descrivergli la
macchina che…) non mancano però digressioni,il tempo della narrazione é interrotto e nel ritmo
narrativo viene inserita una pausa (quando si descrivono i vari personaggi).
In “il visconte dimezzato”lo spazio assume una certa importanza. Il narratore, infatti,gli conferisce
un valore simbolico attribuendogli il compito di interpretare ed esprimere in immagini i
sentimenti,le emozioni e gli stati d’animo dei personaggi(“c’era l’alba verdastra;i due sottili
duellanti erano fermi con le spade sull’attenti ….Il lebbroso soffiò il corno: era il segnale, il cielo
vibrò come una membrana tesa , i ghiri nelle tane ,..e la bocca del lombrico mangiò la propria
coda….)
Il linguaggio è semplice e scorrevole, spesso ironico: le cattiverie compiute da Medardo maligno
non sono mai riportare con accenti crudeli o macabri, come del resto le buone azioni del Buono
sono registrate senza quella vera e propria “generosità”, con cui invece dovrebbe apparire. Non
sono state utilizzate parole dialettali o straniere per due principali motivi: facilitare la comprensione
del testo; non si adattavano al periodo in cui era ambientata la vicenda.

1.4 Sistema dei personaggi


Personaggi e protagonisti:
• Il Gramo, la parte destra del visconte, malvagia e crudele. L’unico scopo della sua vita sembra
essere quello di terrorizzare la gente, distruggere le cose buone ed uccidere sia gli innocenti che gli
ingiusti. Pertanto è il simbolo del male.
• Il Buono è la parte sinistra di Merardo, arriva a sorpresa a Terralba perché era stata data come
distrutta dalla palla di cannone. È buono, generoso, ma pedante in molte cose, per questo viene ben
presto riconosciuto come un seccatore, per molti aspetti. Al contrario di come ci si aspetta è
portatore anche lui del vizio e non della virtù.
• Il nipote di Merardo, cioè il narratore della storia. È figlio della sorella del visconte unitosi con
un bracconiere, che, rimasto orfano, viene ammesso a palazzo.

Personaggi secondari:

• Dottor Trelawney, è il compagno di esperienze del giovane nipote di Medardo, con cui trascorre
tutto il suo tempo libero. E’ inglese ed è stato medico sulle navi per tutta la sua vita, compiendo
viaggi lunghi e pericolosi tra i quali quelli con il famoso capitano Cook. Arriva a Terralba a seguito
di un naufragio e resta lì diventando medico della contea, anche se non si preoccupa dei malati,

199
bensì delle sue ricerche scientifiche tra cui quella sui fuochi fatui, durante le quali si fa spesso
accompagnare dal nipote del visconte. E’ un uomo di circa sessant’anni, dal viso rugoso come una
castagna secca, le sue gambe sono sproporzionate come quelle di un grillo e indossa una marsina
color tortora sopra la quale porta sempre una borraccia piena di vino “cancarone”. Alla fine del
romanzo sarà lui a ricucire insieme le due metà del visconte Medardo e dopo poco si imbarcherà
sulla nave del capitano Cook in cerca di altre avventure.
•Mastro Pietrochiodo, è un bastaio e un carpentiere che riceve dal “Gramo” l’ incarico di costruire
forche e complicati strumenti di tortura sempre più ingegnosi. E’ un lavoratore serio e d’ intelletto
che non esita ad obbedire ad ogni richiesta del visconte, nonostante sia dispiaciuto e allo stesso
tempo arrabbiato perché sa che i marchingegni che lui costruisce sono patiboli per gli innocenti.
Quando il visconte sarà riunito, comincerà a costruire mulini per aiutare gli abitanti di Terralba.
•Sebastiana, è la balia che da sempre vive al castello e che ha accudito sia il visconte che suo
nipote. Lei è l’ unica che ha il coraggio di rimproverare Medardo per le sue malefatte e, a causa di
questo “il Gramo” inizialmente cerca di ucciderla incendiando l’ ala del castello in cui vive e in
seguito, visto il fallimento del suo piano, la fa spedire a Pratofungo, il paese dei lebbrosi, con l’
accusa infondata di avere la lebbra.
•Pamela, è la graziosa contadinella di cui si innamorano sia il Gramo che il Buono. E’ una fanciulla
un po’ grassottella che va in giro per i campi scalza, in compagnia di capre e anatre. E’ semplice e
ingenua, ma trova il coraggio di ribellarsi ai genitori quando la offrono al visconte dimezzato in
cambio di soldi, anche se poi cede alla loro volontà. Per sfuggire al Medardo cattivo si rifugia nel
bosco, dove un bambino, il narratore, le porta da mangiare. Alla fine della storia sposerà il Medardo
intero con il quale sarà felice e avrà molti figli.
•Ugonotti, sono un gruppo di persone scappate dalla Francia perché perseguitate a causa della loro
religione che si sono stanziate a Col Gerbido, un paesino nei pressi di Terralba. Vivono
commerciando cereali e hanno dimenticato quasi tutto della loro religione durante il lungo viaggio,
tanto che intonano dei salmi senza neppure ricordare i testi. Sono uno dei bersagli preferiti del
“Gramo” e anche del “Buono” che chiede loro di abbassare il prezzo dei raccolti per agevolare i più
poveri, ma ciò li irrita notevolmente.

3. INTERPRETAZIONE E APPROFONDIMENTI

1.1 Storicizzazione e contestualizzazione

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Il testo si svolge nel seicento durante un periodo storico di guerra in Europa. Durante il seicento, dal
1618 al 1648 succedeva la guerra di trent’anni. L’epoca è storicamente definita attraverso l’uso
della guerra. Il romanzo è ambientato durante la guerra di trent’anni, anche conosciuto come una
delle guerre di religione. Dentro il testo non è mai esplicitamente detto in quale periodo storico il
romanzo è ambientato ma comincia dicendo, “C’era una guerra contro i turchi” e continua con la
battaglia dei cristiani contro i turchi. Il visconte è sul lato dei cristiani e a loro i turchi sono stranieri,
quasi bestiali. La guerra che trattaè di religione e potere tra i cristiani e i protestanti. Calvino ha
scelto un periodo di grande conflitto e instabilità per mostrare una maggior divisione tra gli stati e le
religioni che hanno effetti sul livello micro con gli esseri umani come il visconte che si sente e
veramente diventa dimezzato in due metà. La storia è importante in questo testo.
Il morale in questa storia tra la natura degli esseri umani di essere intrinsecamente buoni o cattivi è
direttamente collegata alla religione e i conflitti come le guerre che si svolgono fra gli esseri umani.
Al suo interno compaiono elementi filosofici, fiabeschi e storici. Ma senza dubbio il genere
prevalente è quello fantastico, anche se, le vicende e i luoghi di contorno sono realistici.
Il messaggio finale del romanzo invita a riflettere sul fatto che le due parti di ognuno, da sole sono
destinate ad essere infelici e ad arrecare dolore a sé e agli altri, infatti, solo quando si ricompone
nella sua interezza Medardo potrà essere utile alla socità e a se stesso. La vera sfida per l’uomo è
quella di riuscire a vivere in modo equilibrato, fermo restando che non sempre è facile o semplice
fare delle scelte condivise o in linea con ciò che la società ci impone o si aspetta da noi.Come
abbiamo detto sopra, tema principale che l’autore vuol fare emergere da questo racconto è
sicuramente il concetto di bene e male nell’uomo,che può essere equilibrato o talvolta presentare
la predominanza di una delle due parti, portando così anche un cambiamento psicologico nella
persona.

Quando il romanzo è stato pubblicato, ha suscitato per il suo tono fiabesco molte perplessità
soprattutto negli ambienti impegnati della Sinistra, perché Calvino aveva esordito come promettente
scrittore di opere realiste quali Il sentiero dei nidi di ragno del 1947 e Ultimo viene il corvo del
1949, con temi e situazioni legate alla guerra partigiana e alla Resistenza .

1.2 Attualizzazione
Questo libro è molto divertente, un po' irreale ma anche attuale. L'immagine di un uomo tagliato in
due è molto toccante, in fondo tutti ci sentiamo incompleti, talvolta conosciamo solamente metà di
ciò che siamo, alcune volte "l'altra metà" di noi ci spaventa,ci inquieta. Anche i nostri più cari amici
non ci conoscono del tutto, ignorano la metà di noi e questo ci rende impotenti, alcune volte ci
201
mettiamo contro noi stessi come succede nel libro ma alla fine, quando assumiamo la
consapevolezza di entrambe le metà ci rendiamo conto che vivono tutte in simbiosi tra loro e una
metà ha bisogno dell'altra, infatti nel libro la storia termina con la ricongiunzione delle due metà.

Il romanzo è pieno di messaggi universali con cui i lettori possono immedesimarsi. Il messaggio è
molto chiaro; è che tutti gli esseri umani hanno sia le parte buone che cattive nella natura dei se
stessi, ma per essere una buona persona si deve trovare un’equilibro tra i due estremi. Inoltre, il
messaggio che voleva raccontare Calvino con l’uso di un uomo dimezzato è che gli esseri umani
sono complessi e che possono sentirsi incompleti e persi tra il bene e il male, il reale e la fantasia.
Usando un linguaggio poco impegnativo ma una trama molto particolare e articolata, Calvino si
affaccia sul mondo della fantasia e la usa per dare al lettore la curiosità giusta che lo spinge a
sfogliare le pagine velocemente per conoscere la fine che attende il visconte.

Infine, il messaggio centrale è che nella vita, tutti hanno i momenti in cui si sentono non interi,
“dimezzati” in un modo o l’altro e che si sforzano di trovare un equilibrio tra il loro buono e il
gramo che è dentro di tutti.

Bibliografia

- Calvino, Italo. Il Visconte Dimezzato. Milano Mondadori, 2015. Print.


- Calvino italo. Il visconte Dimezzato. Oscar junior 2010
- Alberto Asor Rosa, Storia europea della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2009.
- Andrea Battistini (a cura di), Storia della letteratura italiana, Bologna, il Mulino, 2005.
- Giulio Ferroni , Storia delle letteratura italiana. Dall’Ottocento al Novecento(italiano),
Milano Mondadori, Dicembre 2012

•Risorse on line:
- Biografie on line.it
- E per tutti.com italiano

- Appunti di Università - Corso Letteratura Italiana- Seconda Università degli Studi di


Napoli Vanvitelli

202
Edvige Turco

BEPPE FENOGLIO

La vita

Beppe Fenoglio nasce ad Alba, capitale economica delle Langhe, il 1 marzo 1922 da Amilcare e
Margherita Faccenda. Malgrado le persistenti ristrettezze della famiglia (i genitori gestiscono una
macelleria nei pressi del Duomo), la madre iscrisse il figlio al Liceo Ginnasio "Govone" di Alba.
Al Liceo ha due illustri insegnanti, che sono per lui un grande riferimento di cultura e di vita: Pietro
Chiodi, docente di storia e filosofia, e Leonardo Cocito, antifascista, docente di italiano che aderì tra
i primi alla Resistenza come partigiano.
In seguito si iscrive alla Facoltà di Lettere di Torino, ma per la chiamata alle armi interrompe gli
studi universitari, senza mai più riuscire poi a conseguire la laurea. Nel 1943 frequenta un corso per
allievi ufficiali e viene trasferito prima a Ceva e poi a Roma, da dove, dopo l’armistizio dell’8
settembre, riesce a tornare ad Alba.
Si arruolò poi tra i partigiani, prima in un gruppo comunista, in seguito in formazioni monarchiche
(i cosiddetti “azzurri” o “badogliani”): negli ultimi mesi di guerra fu ufficiale di collegamento con
la missione inglese presente nel Monferrato. Dopo la liberazione risiedette sempre nelle Langhe,
impiegandosi come procuratore per la casa vinicola Marenco, lavoro che fino alla fine non vorrà
mai abbandonare. “Se andassi da un’altra parte (confessa a sua madre) non troverei più il tempo per
scrivere”. Infatti, è proprio all’indomani della guerra che Fenoglio inizia a dedicarsi alla narrativa.
Molti dei suoi manoscritti sono vergati sul retro delle carte commerciali della ditta.
La sua vita si svolge così, tra gli affetti familiari - nel 1960 sposa Luciana Bombardi e nel 1961
nasce la figlia Margherita - e il lavoro d’ufficio, la passione per lo sport e la dedizione alla scrittura.
Il suo esordio letterario, tuttavia, non è affatto facile. Nel 1949 l’editore Einaudi rifiuta la sua prima
raccolta Racconti della guerra civile; e l’anno successivo Elio Vittorini, sempre per Einaudi, gli
consiglia di sacrificare il romanzo La paga del sabato per ricavarne due racconti. Solamente nel
1952 Vittorini gli pubblica, nella collana di narrativa I gettoni, di Einaudi, la raccolta di racconti I
ventitre giorni della città di Alba. Poi, nel 1954, sempre nella stessa collana, esce La malora, un
romanzo breve centrato sul mondo delle Langhe, ma le riserve di Vittorini sul suo lavoro lo
delusero profondamente, dando luogo ad una frattura con l’editore Einaudi.
203
Nel 1959 pubblica allora, presso Garzanti, il romanzo Primavera di bellezza, per il quale nel ’60 gli
viene assegnato il Premio Prato. Nell'inverno tra il 1959 e il 1960, in seguito a un esame medico, gli
venne accertata un'infezione alle vie aeree, con complicazioni dovute alla forma di asma bronchiale
che lo affliggeva ormai da anni e che era degenerata in pleurite a causa dell'eccessivo vizio del
fumo (secondo la sorella minore Marisa, fumava anche sessanta sigarette al giorno, specie quando
scriveva).
Nel 1962, mentre si trovava in Versilia per ritirare il premio "Alpi Apuane" conferitogli per il
racconto Ma il mio amore è Paco, venne colpito da un attacco di emottisi. Rientrato
precipitosamente a Bra, gli venne diagnosticato un cancro ai polmoni. La morte lo colse, dopo due
giorni di coma, la notte del 18 febbraio 1963, a neppure 41 anni (li avrebbe compiuti due settimane
dopo).
Venne sepolto nel cimitero di Alba con rito civile, "senza fiori, soste né discorsi" (come chiese lui
in un biglietto al fratello).
Nello stesso 1963, Garzanti pubblica la raccolta Un giorno di fuoco, che comprende sei racconti già
selezionati dall’Autore, sei ritrovati da Lorenzo Mondo ed il romanzo Una questione privata.
Il suo romanzo più noto, Il partigiano Johnny, rimasto incompiuto, fu pubblicato postumo nel 1968,
vincendo il Premio Città di Prato. Nel 2001 è stato istituito a Mango il percorso letterario intitolato
"Il paese del partigiano Johnny".
Molto ben riuscite sono anche le traduzioni di Fenoglio, come quella della Ballata del vecchio
marinaio di Coleridge; da citare infine i testi per il teatro, fra cui una riduzione del romanzo Cime
tempestose (1847) dell’inglese Emily Bronte, sicuramente tenuto presente nella composizione di
Una questione privata assieme ad altri testi anglosassoni.
Il 10 marzo 2005, all'Università di Torino, allo scrittore è stata conferita la "Laurea ad honorem" in
Lettere alla memoria, alla presenza della moglie Luciana e della figlia Margherita, segno della
fortuna in gran parte postuma della sua opera letteraria.

Le opere

I ventitre giorni della città di Alba

I ventitré giorni della città di Alba segna l’esordio letterario di Fenoglio ed è una raccolta di 12
racconti pubblicata nel 1952 nei “Gettoni”. I primi sei racconti sono dedicati ad episodi della guerra
partigiana, gli altri sono descrizioni della vita nell'Italia contadina durante e dopo la seconda guerra
mondiale. Tra essi si distingue il racconto che dà il titolo al volume e che narra della conquista

204
partigiana di Alba, avvenuta il 10 ottobre 1944. Quel giorno infatti, i partigiani riescono ad
occupPrivi degli aiuti alleati, i partigiani resistono poche settimane prima di cedere nuovamente la
città all'esercito della Repubblica Sociale Italiana il 2 novembre successivo, dopo, appunto, 23
giorni. Così, mentre i nemici con arroganza suonano le campane per celebrare la vittoria, i
partigiani, dopo un ultimo sguardo alla città sofferente, risalgono sulle colline delle Langhe.
Il racconto di Fenoglio appare disincantato e privo della retorica che regnava in quegli anni attorno
alla Resistenza. I partigiani erano dipinti come giovani combattenti semplici, talvolta feroci, privi di
quell'alone di eroismo in cui molti, nei primi anni dalla fine della guerra, li avevano proiettati; per
questo l'opera fenogliana fu oggetto di molte critiche, soprattutto dai giornali di sinistra come
l'Unità. Solo più tardi il suo modo di "raccontare i partigiani" fu accolto più benevolmente e la sua
opera ebbe il riconoscimento che meritava anche dal punto di vista storico.

La malora

La malora è un breve romanzo di Beppe Fenoglio, pubblicato per la prima volta nel 1954 da
Einaudi nella collana dei "Gettoni", due anni dopo I ventitré giorni della città di Alba.
Il libro narra la storia de protagonista Agostino e, attraverso gli occhi dello stesso, la vicenda della
sua famiglia, i Braida, poveri contadini delle Langhe d'inizio secolo, la cui vita è segnata dalla
fame, dal duro lavoro sulla terra avara e dalla malora (la malasorte) che, come un’ombra funesta da
cui è impossibile liberarsi, guida il destino dei personaggi del romanzo fenogliano.
La narrazione si apre con l’immagine del cimitero di San Benedetto Belbo, dove è sepolto il padre
del ragazzo, e si dilata, nella memoria, agli avvenimenti che precedono e seguono il lutto.
La famiglia Braida vive nell’alta Langa, una zona collinare povera di vegetazione e di acqua: la
terra non è fertile ed il cibo è scarso. Agostino abbandona la casa per andare a lavorare, come
servitore, al Pavaglione, presso Tobia Rabino, mezzadro di un ricco farmacista di Alba; mentre il
fratello Emilio è costretto ad entrare in seminario, dove Agostino lo rivedrà depresso, affamato ed
ammalato di tisi.
Fenoglio descrive un mondo di sfruttati, braccianti e affittavoli, abbrutiti dal lavoro ed accomunati
dalla lotta per la sopravvivenza; difatti, anche i figli di Tobia non sfuggono alla dura realtà
quotidiana della fatica. Al Pavaglione infatti, i rapporti umani sono rari, condizionati dalla
necessità, spesso dominati dalla violenza. La rigida gerarchia sociale, fondata sul denaro, è accettata
fatalisticamente: tutti i personaggi subiscono il loro destino come una condanna alla quale nessuna
volontà può sottrarsi. Solo quando Agostino e Tobia scendono ad Alba, la città dove vive il padrone
del Pavaglione, appare il miraggio lontano di un mondo diverso ed irraggiungibile.

205
Ne La malora nessuno si salva dalla maledizione, neppure le donne, che sono sfruttate fino
all’esaurimento di ogni energia: esse trascorrono la loro esistenza nel lavoro e nella preghiera, che è
la religiosa ed istintiva accettazione della sofferenza, l’invocazione di un Dio lontano, inavvertibile.
Solo raramente, nel romanzo, si apre per i personaggi la possibilità di intravedere nella vita una
speranza o una corrispondenza di affetti. Quando Agostino incontra Fede, la ragazza assunta come
“servente” per aiutare la padrona malata, la sua monotona esistenza si anima di attese, di sguardi e
di momenti intensi, di emozioni quasi irreali. Il ragazzo ritrova in sé energie inaspettate: nonostante
il cibo insufficiente, il lavoro gli appare meno duro. La dolcezza di Fede gli restituisce un’allegria
ed una giovinezza che non ha mai conosciuto. Ma, proprio quando Agostino comincia ad
immaginare una vita diversa per entrambi, la ragazza è costretta dai parenti ad un matrimonio
d’interesse. Dopo la partenza di Fede, la vita al Pavaglione diviene insopportabile per Agostino; ma
la fortuna sembra, per una volta, volerlo aiutare: egli può tornare a casa, perché il fratello maggiore,
Stefano, è assunto dagli zii come primo garzone. Il ragazzo è finalmente libero, ma continua a
vivere di stenti, con la madre, nell’attesa del ritorno del fratello Emilio, gravemente ammalato.
Il romanzo si chiude con un’immagine di morte.
Il racconto in prima persona consente al lettore di immedesimarsi nell’ambiente e di percepire,
nell’espressiva spontaneità di una lingua regionale semplice e scabra, i sentimenti del protagonista.

Primavera di bellezza
Il romanzo Primavera di bellezza viene pubblicato nel 1959 e racconta la storia di Johnny, un
giovane studente cresciuto nel culto della letteratura e del mondo anglosassone, che dopo l'8
settembre decide di sfuggire al bando del generale Graziani e alle responsabilità civili, ritirandosi
lontano dalla città per concentrarsi unicamente sulla letteratura.
Ma ad Alba incontra i suoi ex professori Chiodi e Cocito (Monti e Corradi nel romanzo) che
organizzano le forze della resistenza antinazista. Così matura la decisione di diventare partigiano e
di ascendere sulle colline, intendendo però la lotta personale alla stregua di un’investitura
cavalleresca.
Si imbatterà infatti, in una quotidianità molto lontana dall'epica che sognava nella sua scelta priva
d’ogni ideologia politica. I problemi banali della sopravvivenza, i contrasti tra i diversi gruppi di
partigiani, lo scorrere spesso monotono dei giorni, la durezza della fame e della solitudine mettono
in crisi la sua decisione.
La cronaca resistenziale, nella quale è centrale la presa per pochi giorni della città di Alba,
scandisce i tempi di una disillusione che si trasforma nella scoperta di una più autentica solidarietà

206
umana, emersa da una vita aspra ma insperatamente ricca di valori, che non può essere più, come un
tempo, mitizzata.
Alla vigilia della Liberazione, con l’ultima vittoria fascista e l’ultima sconfitta partigiana, finisce il
libro. È in un empito di “puritana fedeltà” ai vecchi compagni, disobbedendo ai superiori, che
Johnny va incontro alla morte in una pericolosa e inutile imboscata.

Il partigiano Johnny

Il Partigiano Johnny è considerato uno dei più importanti romanzi della Resistenza e del Novecento
italiano. Tuttavia Fenoglio non riuscì mai a pubblicarlo in vita: lo stesso titolo non è autografo, ma
va attribuito ai curatori della prima edizione Einaudi (1968).
Gran parte delle vicende, pur romanzate, furono realmente vissute dall'autore in prima persona, ed è
quindi lecito riconoscere in Johnny una proiezione dell'autore.
Il Partigiano Johnny è la continuazione di Primavera di bellezza, il romanzo pubblicato da Garzanti
nel 1958 che aveva come protagonista un giovane studente di Alba, soprannominato Johnny dagli
amici a causa del suo amore per la letteratura inglese (anche questa è una chiara proiezione
autobiografica dello stesso Fenoglio). In primavera Johnny, giovane sottufficiale dell'Esercito
Italiano sbandato dopo l'8 settembre, tornava nelle sue Langhe per morire in una delle prime azioni
della guerra partigiana. In realtà questo finale era stato consigliato a Fenoglio dai suoi editori della
Garzanti. Il partigiano Johnny riprende la storia di Johnny a partire dal ritorno a casa dopo
l'armistizio: invece di aderire subito alla Resistenza, Johnny si rifugia presso la sua famiglia, che lo
imbosca in una villetta in collina.
Dopo aver vissuto, per qualche tempo, la monotona e angosciosa vita dell'imboscato, Johnny prende
parte ad una sommossa davanti alla caserma dei carabinieri per la liberazione di alcuni prigionieri.
In seguito all'episodio, Johnny, spinto anche dai suoi ex professori di liceo (Pietro Chiodi e
Leonarda Cocito), decide di lasciare Alba e la famiglia, e di unirsi al primo gruppo di partigiani che
incontra nelle Langhe.
All'inizio Johnny milita in una formazione comunista (la Stella Rossa o i "rossi"), comandata da
Tito e dal commissario Némega, anche se non ne apprpva l'ideologia e la disorganizzazione. Ma,
dopo le prime azioni di guerriglia, i partigiani commettono l'errore di fare prigioniero un ufficiale
tedesco catturato per caso durante un incidente stradale: la rappresaglia dei tedeschi è immediata, i

207
partigiani di Tito vengono massacrati e catturati e la formazione partigiana si sbanda. Johnny, che è
riuscito a sfuggire al rastrellamento, ne approfitta per ripassare da Alba e poi unirsi ai partigiani
badogliani, moderati e di estrazione borghese e militare. È la primavera del 1944. Johnny trova tra i
badogliani delle Langhe (detti anche gli "azzurri") del comandante Nord un'organizzazione più
consona al suo ideale militare: eppure anche qui non mancano errori di ingenuità.
In particolare, gli azzurri tendono ad operare come un esercito regolare che tiene le posizioni,
mentre Johnny preferirebbe partecipare a operazioni di guerriglia vera e propria. Johnny ritrova suo
cugino, Luciano, e viene assegnato come comandante in seconda al presidio di Mangi, comandato
da Pierre.
Durante un'incursione delle camicie nere ha modo di mettere in pratica le sue idee guidando
un'imboscata alla coda del convoglio fascista. In estate, mentre i tedeschi sono occupati con gli
angloamericani, i partigiani hanno praticamente il controllo delle Langhe, tanto che possono godersi
una vera e propria sagra di paese a Santo Stefano Belbo. Nell'ottobre del 1944 i fascisti della
Legione Mutie delle brigate nere abbandonano anche la loro base ad Alba, che viene così occupata
dalle formazioni partigiane delle Langhe, sia comunisti che badogliani. Anche Johnny, che aveva
esplicitamente manifestati a Nord i suoi dubbi sull'operazione, scende ad Alba. Ma, in cuor suo, sa
che i partigiani non hanno la possibilità di tenere la città durante l'inverno, e che la "presa di Alba"
rischia di esporre la cittadinanza alle rappresaglie dei nazifascisti.
Infatti, dopo una lunga tregua dovuta alla piena del fiume (i famosi "Ventitré giorni della città di
Alba"), all'inizio di novembre Alba viene attaccata duramente. Le poche centinaia di partigiani
rimasti a difenderla battono rapidamente in ritirata: Johnny è tra loro.
Gli alleati sono ancora lontani, e le cose iniziano a mettersi male per i partigiani delle Langhe. Gli
"azzurri" attendono con pazienza un lancio aereo di armi e rifornimenti, diretti ai badogliani, da
parte degli inglesi. Ma è proprio il fatidico lancio ad attirare l'attenzione dei nazifascisti, che
compiono una massiccia operazione di rastrellamento, mentre altri lanci vengono intercettati dai
comunisti.
Johe i suoi compagni devono fuggire ancora una volta. Riparatosi insieme agli amici Ettore e Pierre
jn una casa di contadini, Johnny ascolta alla radio il messaggio del generale Alessandro che chiede
ai partigiani di sbandarsi durante l'inverno per poter resistere in vista del colpo finale nella
primavera. In una riunione clandestina Nord conferma l'ordine. Di lì a poco Pierre, seriamente
malato, deciderà di rifugiarsi nella cittadina di Neve presso la famiglia della fidanzata. Johnny
comincia il suo inverno partigiano in solitaria. Alcuni partigiani vengono però trovati
misteriosamente uccisi:probabilmente in zona è attiva una spia.

208
Durante una spedizione nella nebbia per procurarsi un medicinale in farmacia, Johnny evita la
cattura da parte dei fascisti, che però al suo posto catturano Ettore (altro riferimento autobiografico,
che ricalca la vicenda vissuta dal suo amico fraterno Ettore Costa). L'indomani Johnny cattura un
fascista (in realtà un povero disertore) per scambiarlo con Ettore, ma probabilmente lo scambio,
affidato ad un prete, non va a buon fine poiché i nuovi comandanti non lo accettano.
Dopo questa e altre imboscate e rastrellamenti, Johnny rimane il solo partigiani sulla collina, ed è
ospitato da un'anziana donna vedova. Il racconto del lungo inverno termina quando Johnny scova e
uccide la soia, che celava la sua attività dietro la copertura di commerciante di pellami. Il 31
gennaio 1945 Johnny è tra i cento uomini "salvati, scoloriti, goccianti e rabbrividenti" che
partecipano al "reimbandamento" dei partigiani azzurri. Tra di loro c'è anche Pierre, guarito, che
riprende il comando del presidio di Mango. La ripresa delle ostilità sembra però molto deludente:
pochi e male armati, i partigiani non possono che abbandonare il paese di Mango all'arrivo dei
fascisti. A malincuore, Johnny e Pierre devono ritirarsi ancora una volta.
Nella prima stesura la loro fuga si interrompe però con l'arrivo del padre di Nord, un anziano
combattente che li rifornisce di munizioni e li sprona ad "agganciare la loro retroguardia".
Rincuorato dal discorso, i partigiani inseguono i fascisti e li coinvolgono in un conflitto al fuoco: il
padre di Nord viene colpito e muore poco dopo (l'episodio è reale e datato 24 febbraio 1945).
L'episodio conclude anche la prima stesura del romanzo, mentre nella seconda, i partigiani lasciano
Mango e Fenoglio lascia intendere che Johnny trovi la sua morte nel confido a fuoco, a due mesi
dalla liberazione, in un finale aperto e incompiuto.

Primavera di bellezza e Il partigiano Johnny: analisi e confronto.

Oltre alle diversità di materia e di contenuti narrativi, tra Primavera di bellezza e Il partigiano
Johnny c’è una essenziale differenza di tipo linguistico e stilistico. Nel primo romanzo si tende ad
un italiano levigato, dalla forma essenziale e dalla misura quasi “classica”; nel secondo c’è una
fortissima presenza della lingua inglese, con intere frasi, termini e battute che si inseriscono nella
narrazione e nei discorsi di Johnny , mentre la stessa lingua italiana assume cadenze originali, con
leggere deviazioni delle normali forme sintattiche e con non trascurabili invenzioni lessicali, così da
apparire più veloce e discorsiva.
Per quanto riguarda il rapporto tra i due romanzi, Primavera di bellezza appare più asciutto, dallo
stile più lineare ed essenziale, freddo ed incisivo: è come un romanzo di formazione del
personaggiio Johnny, storia della sua adolescenza e della sua giovinezza, cresciuta al contatto con la
confusa realtà dell’Italia fascista in sfacelo. Nella vicenda del giovane Johnny, pieno di passione

209
intelletuale, “sentimentale” e un po’ “snob”, costretto a prepararsi ad una guerra che si sta perdendo,
a vivere condizioni e rapporti assurdi e senza valore, si svuotano tutti i miti vitalistici e ottimistici
vissuti dalla cultura italiana (il titolo Primavera di bellezza allude del resto proprio alla definizione
della “giovinezza” data da un inno ufficiale fascista).
Il miscuglio linguistico, la tensione e la materia narrativa del Partigiano Johnny hanno caratteri più
ed assoluti. Questo romanzo, che l’autore non può sistemare definitivamente e che affascina per la
sua incompiutezza, presenta un singolare caso di plurilinguismo, lontano da ogni dimensione
realistica, giocosa o espressionistica. L’uso dell’inglese non tende qui a dare effetti di “parlato” e di
immediatezza narrativa, né a creare conflitti con la base linguistica italiana; si tratta del resto di un
inglese molto particolare, fatto spesso di forme desuete e antiquate, di citazioni e formule letterarie:
non una lingua che partecipa alla realtà, ma una lingua astratta e assoluta, legata a una passione
letteraria.
La realtà rappresentata dalla prosa di Fenoglio è tanto più concreta quanto più appare lontana e
incomprensibile: è una realtà che scatta inesorabilmente addosso a chi cerca dentro di essa la
propria strada. Il personaggio di Johnny, che in questo mondo si muove, è nello stesso tempo figura
autobiografica e figura astratta, che si rivolge "a un passato perduto, lontano, o a un futuro intaccato
a priori, illusorio". Egli partecipa fino in fondo alla violenza della guerra civile, come compiendo un
ineluttabile dovere tragico, una missione senza motivazioni: soffre e odia, partecipa alla sofferenza
e all'odio degli altri. La sua vocazione di combattente non può essere altro che assurda, come
assurdo appare ogni rapporto tra lo sguardo umano e il mondo. In questa situazione di estraneità si
svolgono azioni fulminee e incalzanti, con un eccezionale ritmo narrativo, che riproduce in sé
l'inesprabilità del destino. I drammi più tremendi si svolgono come in un baleno, senza nessuna
possibilità di indugio, di coscienza, di interpretazioje: sono nelle pause degli eventi, nelle lunghe
attese di chi fugge, si nasconde, si apposta in agguato, le cose rivelano il loro senso reale, che è
quello di una radicale insensatezza, dove il morire degli altri avvicina soltanto all'attesa della
propria morte; e Johnny sa in ogni momento che il suo destino sta soltanto nell'attesa della fine, che
in ogni azione che compie non è che un rinvio del momento in cui gli toccherà morire.

Una questione privata: trama e analisi

Una questione privata è un romanzo pubblicato postumo nell’aprile del 1963, due mesi dopo la
morte dell’autore. Al centro dell’opera, un tema caro a Fenoglio: la guerra partigiana negli anni
finali della seconda guerra mondiale. La vicenda prende, infatti, come sfondo la guerra di resistenza

210
nelle Langhe. Il protagonista è un giovane partigiano ventenne, militante nelle formazioni
badogliane, con un nome inglese, ma di origine letteraria, Milton.
Milton è innamorato di Fulvia, una bella e giovane ragazza torinese di buona famiglia, sfollata per
qualche tempo ad Alba, prima dell’armistizio del settembre 1943, dove Milton l’aveva conosciuta.
Diversi mesi dopo la sua partenza, con la guerra partigiana ancora in pieno svoglimento ma spinto
dalla nostalgia, Milton decide di fare ritorno nella villa dove erano soliti passare le loro serate.
Proprio in questa occasione viene a sapere dalla custode degli incontri tra Fulvia e il suo caro amico
Giorgio: Milton è preso da un’assurda volontà di sapere cosa sia effettivamente accaduto tra i due,
inizia quindi a cercare Giorgio, che fa parte di un’altra brigata partigiana. Venuto a sapere che è
stato fatto prigioniero dai fascisti, cerca di catturare un prigioniero nemico da scambiare con
Giorgio prima che questi venga giustiziato: ci riesce ma questo, impaurito, tenta la fuga in un
momento di distrazione e Milton è costretto ad ucciderlo.
Mentre tenta una nuova visita alla villa di Fulvia per cercare di scoprire la verità, viene mortalmente
ferito dai fascisti.
Tutti i movimenti di questo personaggio in mezzo alla guerra e alla violenza sono segnati dal
bisogno assoluto e assurdo di “sapere”, di guardare fino in fondo nell’evento traumatico che per
liuii rappresenta il rapporto tra Fulvia e Giorgio: la sua è una ricerca disperata per afferrare qualcosa
che è già accaduto, per “vedere” la rovina del suo amore, della sola forza che lo dovrebbe
mantenere ancora vivo nello scempio della guerra. Si annulla così qualsiasi altro scopo, qualsiasi
altro obiettivo del suo combattere: la sua ossessione è come una molla insensata che lo spinge a
muoversi in totale solitudine in un mondo già di per sé privo di senso. I suoi movimenti, in un
paesaggio immerso nella nebbia e nel gelo, hanno qualcosa di cieco, come se fossero regolati da una
forza invisibile e nemica; i compagni di lotta, i luoghi che egli tocca, gli eventi a cui partecipa gli
sono estranei; conta soltanto l’irriducibile ostinazione della sua ricerca, il voler sapere qualcosa che
dovrà dargli dolore e disperazione, ma che egli non potrà arrivare a sapere. Milton trova le sue
ragioni e la sua dannazione in se stesso, in questo legame assoluto con un amore già perduto, che
scava uno spazio tragico dentro la storia e contro la storia.
Come un antico cavaliere degradato nel presente, e come tanti grandi personaggi della letteratura
europea del Novecento, egli cerca se stesso e la propria sconfitta, in un mondo vuoto di senso, in
una realtà dominata dall’assurdo, un assurdo di cui la guerra civile costituisce l’immagine tragica,
micidiale, meschina: in questa ricerca può approdare soltanto al nulla e alla fine.

Il mondo dei suoi racconti e romanzi


La guerra partigiana
211
La scelta antifascista di Beppe Fenoglio risale all’adolescenza dello scrittore, ma assume un
fondamento teorico negli anni del liceo, attraverso le conversazioni con i maestri Leonardo Cocito e
Pietro Chiodi.
Nel 1943, Fenoglio, dopo aver frequentato il corso per allievi ufficiali a Ceva, viene inviato a
Roma, dove l’8 settembre, in seguito all’annuncio dell’armistizio con gli alleati, assiste al crollo
dell’organizzazione dell’esercito italiano ed al suo sbandamento.
Il 9 settembre, il re ed il maresciallo Badoglio, abbandonano Roma: la città è circondata
immediatamente dalle divisioni tedesche.
Fenoglio riesce a ritornare in Piemonte e, per qualche tempo, si rifugia in famiglia, ad Alba.
Nel gennaio 1944, si unisce ad una brigata di orientamento comunista, comandata dal tenente Rossi,
“il Biondo”, e partecipa al combattimento di Carrù.
Dopo lo sfortunato scontro con il nemico e lo sbandamento dei partigiani, lo scrittore ritorna a casa.

“Un giorno di guerra – precisamente il 22 settembre del 1944, un venerdì – poco


dopo il tocco dell’una al campanile del Duomo, qualcuno che, fuori di abitudine,
fosse rimasto in piazza a quell’ora, avrebbe potuto vedere la mia famiglia, scortata
da una pattuglia fascista, imboccare a passo sostenuto via Maestra, diretta alla
Caserma di corso Piave”.

Così, Marisa Fenoglio, sorella dello scrittore, racconta il dramma dell’arresto della sua famiglia.
Da quel giorno, ha inizio per Beppe ed il fratello Walter una nuova vita: la madre, per intercessione
della Curia Vescovile, riesce ad ottenere che siano scarcerati; ma i due giovani “presero
definitivamente la via delle colline”.
Fenoglio raggiunge le Formazioni Autonome di Enrico Martini Mauri (“Lampus”) e di Piero Balbo
(“Nord”), a Mango, sotto il comando di Piero Ghiacci (l’amico “Pierre”). Partecipa alla battaglia di
Alba, conquistata il 10 ottobre ’44 dai partigiani, e persa il 2 novembre dello stesso anno.
In seguito al proclama del generale britannico Alexander, che è di fatto un invito alla
smobilitazione, i combattenti antifascisti si disperdono: lo scrittore si rifugia nella Cascina della
Langa e, solo, trascorre il lungo inverno.
Nel febbraio del ’45, i partigiani riprendono l’azione militare: Fenoglio raggiunge di nuovo lo
schieramento degli Autonomi e partecipa alla battaglia di Valdivilla.
Successivamente, lo scrittore svolge le mansioni di ufficiale di collegamento con gli Alleati, nel
Monferrato, nel Vercellese e nella Lomellina.
Il 19 aprile 1945, combatte a Montemagno.

212
Alla fine di aprile, le truppe tedesche del fronte italiano si arrendono.
Secondo Italo Calvino, in Una questione privata di Beppe Fenoglio “c’è la Resistenza proprio
com’era, vera come mai era stata scritta, e con tutti i valori morali”.
Lo scrittore, pur ponendo l’accento sull’intima corrispondenza fra gli avvenimenti storici e la
passione esasperatamente individualistica che permea di sé il romanzo, non esita a definire Fenoglio
uno degli autori più autentici della Resistenza. Eppure, alcuni critici, soprattutto dopo la
pubblicazione del primo libro di Beppe Fenoglio, I ventitre giorni della città di Alba, non colgono,
nell’opera, la peculiare sintesi poetica dell’esperienza esistenziale e degli ideali storico – politici.
Le polemiche di qualche critico di sinistra risalgono agli anni Cinquanta: esprimono, soprattutto,
contrarietà e disagio per la descrizione anticonformistica, a volte anche burlesca, dei partigiani.
Solo più tardi, si capirà che proprio dal sentimento dello scrittore, e dalla ricerca di una verità che
non sia né fredda cronaca né evocazione di un “evento mitico”, emerge l’esigenza di cogliere
l’“umanità” dei combattenti, nei loro momenti di eroismo, ma anche di imperfezione.
Inoltre, non bisogna trascurare una componente fondamentale della cultura di Fenoglio: la civiltà e
la letteratura anglosassone.
Lo scrittore, attento studioso del Puritanesimo, si sente come un guerriero di Cromwell,
predestinato, cosciente del valore sacro della libertà, come scelta che supera gli eventi contingenti.
La decisione di partecipare alla lotta partigiana ha un significato morale e definitivo.
Anche se i compagni di battaglia sono, a volte, ragazzi deboli e spaventati, sono gli amici con i
quali si trema e si soffre, la Resistenza è, per Fenoglio, un’esperienza “assoluta”, che trascende il
tempo .
Il vero eroismo matura nella coscienza dello scrittore, nella ricerca coraggiosa del significato
autentico della sua vita, per cui essere uomo vuol dire esistere per la libertà, e divenire, quindi,
“partigiano in aeternum”.

Le Langhe

“Ora la strada sale in metà della vallata. Vento sì, ma ce la fa appèna a


spettinarmi. Non riesco a scorgere, lassù, dove il cielo s’attacca alla collina.
Queste cominciano ad essere le Langhe del mio cuore: quelle che da Ceva a Santo
Stefano Belbo, tra il Tanaro e la Bormida, nascondono e nutrono cinquemila
partigiani e gli offrono posti unici per battagliarci”.

213
Per Beppe Fenoglio, le dolci colline, il vento ed i fiumi, non sono soltanto la cornice naturale dei
suoi racconti, ma la sua stessa vita, la terra che non ha mai voluto abbandonare.
Davide Lajolo afferma che “le Langhe sono nelle sue vene, sono il sangue che erompe, sono eguali
a lui”.
La natura è la realtà che lo scrittore ama profondamente: proprio perché accetta la violenza delle sue
leggi, è attratto anche dalla morte.
Per Pavese, le Langhe sono il luogo della memoria, della nostalgia e del ritorno all’infanzia; per
Fenoglio, il distacco non avviene, neppure quando è lontano.
Il ritmo tragico delle vicende narrate dallo scrittore è sempre scandito dai suoni o dalle immagini
degli elementi naturali, che si animano dei sentimenti del racconto, proiettano ombre di angoscia o
segni di attesa.
Ne I ventitre giorni della città di Alba, al culmine del dramma, “piovve in montagna e piovve in
pianura, il fiume Tanaro parve rizzarsi in piedi tanto crebbe”.
A volte, le immagini della natura sono pause rasserenanti fra le azioni di guerra: “Tutto il mondo
collinare candeva di abbondantissima neve che esso reggeva come una piuma”; ma, in altri
momenti, la natura sembra colpevole, come gli uomini, degli eventi più crudeli.
In Una questione privata, si materializza, nella nebbia, la sofferenza morale di Milton: “Formava
spessori concreti, una vera e propria muratura di vapori, e ad ogni passo Milton aveva la sensazione
del cozzo e della contusione”.
Quando il suo amico Giorgio viene catturato, la nebbia, impenetrabile, “era un mare di latte”.
La pioggia sulle Langhe, all’inizio de La malora, esprime quel cupo dolore che Agostino vive come
una nuova condanna: “Pioveva su tutte le Langhe, lassù a San Benedetto mio padre si pigliava la
sua prima acqua sottoterra”.
Il paesaggio e la natura, secondo Eugenio Corsini, non sono soltanto sfondo o cornice delle vicende
umane, ma si configurano “nelle vesti di veri e autonomi protagonisti”.

Il mondo contadino
Il legame affettivo di Fenoglio con le Langhe accomuna lo scrittore ed i suoi personaggi.
Nei racconti di ambiente contadino, elaborati attraverso i ricordi dell’infanzia e le conversazioni con
parenti ed amici, emerge un rapporto “forte” con la terra, destinato a resistere all’alternarsi delle
vicende umane, condizionato dalle necessità economiche dei protagonisti, dal mito del benessere, o
dal bisogno di trovare, nonostante il mutare delle stagioni, le radici della propria esistenza.
Ne La malora, le Langhe “crude”, terra della sofferenza e dello sfruttamento di Agostino,
divengono il sogno della rinascita e della speranza, quando il ragazzo, alla fine del romanzo, ritorna

214
a casa: “Le prime mattine, avevo un bel chiodo, la prima cosa che facevo da alzato era guardare
dalla finestra se la mia terra c’era ancora, se nella notte una frana non me l’avesse mangiata”.
Fenoglio coglie, senza effetti sentimentali, la situazione economica, il destino ed il fatalismo di una
società contadina chiusa in una morsa irrazionale.
Nessuno riesce a trovare la forza necessaria per spezzare il legame affettivo che inchioda alla terra
d’origine: le uniche reazioni sono violente, anarchiche o distruttive.
L’incalzare delle necessità materiali e la fatica non giustamente remunerata sembrano aver spento in
molti personaggi qualsiasi sentimento o desiderio di vivere.
Le donne sono sfruttate fino all’esaurimento di ogni energia: esse consumano la loro esistenza nel
lavoro, fra la preghiera ed il pianto, senza attendere compenso o comprensione. Solo le feste
paesane interrompono la monotonia della fatica quotidiana.
I caratteri dell’ambiente contadino appaiono ancora più evidenti: il divertimento non si configura
solo come evasione spontanea del lavoro, ma assume dalla tradizione una complessità rituale ed una
dignità che non riscontriamo nella società industrializzata.

Bibliografia
Battistini A., Storia della letteratura italiana: dal Settecento ai giorni nostri, Bologna, Il Mulino,
2014.
Ferroni G., Storia della letteratura italiana: il Novecento e il nuovo millennio, Milano, Mondadori,
2017.

Sara Fattizzo

LEONARDO SCIASCIA

VITA:

Leonardo Sciascia nasce nel 1921 a Racalmuto, in provincia di Agrigento, da una famiglia della
borghesia siciliana. La madre viene da una famiglia di artigiani, il padre è impiegato in una delle
miniere di zolfo della zona.
Con l’inizio della scuola affiora la sua forte passione per la storia, unita all’amore per la scrittura.
Nel 1935 l’autore si trasferisce a Caltanissetta con la famiglia.

215
Nel 1941 supera l’esame per diventare maestro elementare. Nello stesso anno lo scrittore è assunto
all’ammasso del grano di Racalmuto dove resta fino al 1948: un’esperienza che gli permette di
conoscere il mondo contadino siciliano. Nel 1949 inizia ad insegnare nella scuola elementare nel
suo paese.

È del 1952 la pubblicazione di Favole della dittatura, ventisette testi brevi. Sempre nel 1952, esce
la raccolta di poesie La Sicilia, il suo cuore. Sciascia vince nel 1953 il Premio Pirandello per un suo
importante intervento critico sull’autore di Girgenti (Pirandello e il pirandellismo).

Dal 1954 si trova alla direzione di «Galleria» e di «I quaderni di Galleria», riviste antologiche
dedicate alla letteratura e agli studi etnologici. Nel 1956 esce il primo libro di rilievo Le parrocchie
di Ragalpetra, a cui seguono nell’autunno del ’58 i tre racconti della raccolta Gli zii di Sicilia: La
zia d’America, Il quarantotto e La morte di Stalin. Nel 1960 è pubblicata la seconda edizione de Gli
Zii di Sicilia, a cui è aggiunto un quarto racconto, L’antimonio. Del 1961 è invece Il giorno della
civetta, il romanzo sulla mafia che porta a Sciascia la maggior parte della sua celebrità.

Oltre a Il consiglio d’Egitto (1963), gli anni Sessanta vedono nascere alcuni dei romanzi più sentiti
dallo stesso autore: A ciascuno il suo (1966) e Morte dell’Inquisitore (1967).

Il 1970 è l’anno del pensionamento e dell’uscita de La corda pazza, una raccolta di saggi su cose
siciliane nella quale l’autore chiarisce la propria idea di "sicilitudine”. Il 1971 è l’anno de Il
contesto, libro destinato a destare una serie di polemiche, più politiche che estetiche, alle quali
Sciascia si rifiuta di partecipare ritirando la candidatura del romanzo al premio Campiello. Tuttavia
si fa sempre più forte la propensione ad includere la denuncia sociale nella narrazione di episodi
veri di cronaca nera: gli Atti relativi alla morte di Raymond Roussel (1971), I pugnalatori (1976) e
L’affaire Moro (1978) ne sono un esempio.

Nel 1974, nel clima del referendum sul divorzio e della sconfitta politica dei cattolici, nasce Todo
modo, un libro che parla «di cattolici che fanno politica» (Sciascia) e che viene naturalmente
stroncato dalle gerarchie ecclesiastiche.
Nel 1979 si candida sia al Parlamento europeo sia alla Camera. Eletto in entrambe le sedi
istituzionali opta per Montecitorio, dove rimarrà fino al 1983 occupandosi quasi esclusivamente dei
lavori della commissione d’inchiesta sul rapimento Moro. In seguito a nuovi contrasti con il PCI di
Berlinguer Sciascia abbandona l’attività politica.

216
Gli ultimi anni di vita dello scrittore sono segnati dalla malattia che lo costringe a frequenti
trasferimenti a Milano per curarsi. Carichi di dolenti inflessioni autobiografiche sono i brevi
racconti gialli Porte aperte (1987), Il cavaliere e la morte (1988) e Una storia semplice (in libreria
il giorno stesso della sua morte), in cui si scorgono tracce di una ricerca narrativa all'altezza della
difficile e confusa situazione italiana di quegli anni. Pochi mesi prima di morire pubblica Alfabeto
pirandelliano, A futura memoria (pubblicato postumo), e Fatti diversi di storia letteraria e civile;
opere nelle quali si ritrovano le principali tematiche della produzione sciasciana, dalla "sicilitudine"
a dell’impegno civile.
Sciascia muore a Palermo il 20 novembre 1989. Il suo corpo si trova all’ingresso del cimitero di
Racalmuto.

LA POETICA DI SCIASCIA

La poetica di Sciascia è caratterizzata da un grande impegno civile e politico. La sua narrativa è


distaccata e limpida, con una sorta di pessimismo razionalistico che affonda le sue radici
nell’Illuminismo settecentesco di cui Sciascia era appassionato.
Molti suoi romanzi intrecciano narrativa e saggistica chiamando in causa modelli del passato, ma
affrontano in modo diretto o metaforico vicende politiche e civili dell’Italia del suo tempo. Ciò che
lo guida è l’esigenza di verità e di giustizia di cui si fanno portavoce i protagonisti delle sue storie,
ad esempio il capitano Bellodi nel Giorno della civetta, o il professor Laurana di A ciascuno il suo.
L’architettura dei suoi libri è caratterizzata dalla scrittura classica, dall’impianto tipico
dell’inchiesta poliziesca e della ricostruzione storica.

ELENCO DELLE OPERE DIVISO PER ARGOMENTI:

ESORDIO:
Opere poetiche: Favole della dittatura 1950; La Sicilia, 1952.
Le parrocchie di Regalpietra, 1956
Gli zii di Sicilia, 1958 (raccolta di racconti con al centro la Sicilia)

LOTTA ALLA MAFIA:


Il giorno della civetta (1961)

217
Il Consiglio d’Egitto, 1963 (ambientato a Palermo nella fine del ‘700)
A ciascuno il suo, 1966

LOTTA AL TERRORISMO:
Il contesto, 1971
Todo modo, 1974 (entrambe sono indagini poliziesche su episodi che coinvolgono figure politiche)

INCHIESTA STORICA E RACCONTI - INCHIESTA:


La morte dell’inquisitore, 1967
Atti relativi alla morte di Raymond Russel, 1971
La scomparsa di Mayorana, 1975
L’affaire Moro, 1978 (inchiesta sul sequestro e omicidio di Aldo Moro)
Dalle parti degli infedeli, 1979 ( inchiesta sulla connivenza tra Chiesa e Mafia)
Il teatro della memoria, 1981

ULTIME OPERE:
Una storia semplice, 1989 (insieme di racconti con un tono ancora più amaro e pessimistico)
CRITICA:
Pirandello e la Sicilia, 1961

ANALISI DI UN’OPERA:

LA SCOMPARSA DI MAJORANA36

Composizione:

L’opera è pubblicata inizialmente a puntate su La Stampa, poi in volume per Einaudi nel 1975.
Sciascia si imbatte per caso nella vicenda Majorana grazie al lavoro di un altro fisico, Erasmo
Recani, che aveva pubblicato dei documenti su di lui. Decide di indagare poi sul caso nel 1975,

36
Majorana è stato un fisico. Operò principalmente come teorico della fisica all'interno del gruppo di fisici noto come i
"ragazzi di via Panisperna": le sue opere più importanti hanno riguardato la fisica nucleare, con particolari applicazioni
nella teoria dei neutrini. La sua improvvisa e misteriosa scomparsa suscitò numerose speculazioni riguardo al
possibile suicidio o allontanamento volontario, e le sue reali motivazioni.
218
dopo aver partecipato a un programma per i 30 anni dalla bomba nucleare grazie alla “spinta
emotiva” datagli dalla visione di alcune immagini del disastro della bomba.

Analisi e procedura adottata dall’autore:

Il narratore è Sciascia, che avvia una vera e propria inchiesta storica. L’ipotesi da cui parte Sciascia
per la sua indagine è che Majorana non si sia suicidato, ma che abbia progettato la sua scomparsa
perché grazie alle sue capacità scientifiche aveva intuito la possibilità di costruire la bomba atomica
e non voleva essere complice di questo crimine. Sciascia riesce a rendere credibile la sua ipotesi
attenendosi al piano dei fatti, ma la forza persuasiva dell’opera è data dalla strategia romanzesca.
Majorana è costruito come un personaggio letterario credibile.

Il procedimento di Sciascia (usato in tutte le sue inchieste) prevede due linee narrative:

1) Aderenza ai dati che possiede


2) Interpretazione dei dati: l’autore utilizza gli scritti di Majorana, le sue dichiarazioni per far
scaturire il non detto, le verità nascoste.

Sciascia si autoriconosce in Majorana. Il profilo dello scienziato ha molti tratti in comune con
l’autore. L’opera è una chiara indagine che ricostruisce i fatti attraverso l’utilizzo di dati, di
documenti, di frasi dette da Majorana e dai suoi conoscenti che però sono inserite in modo da
convalidare l’ipotesi di Sciascia. Nel testo sono riportati stralci di documenti datati e spesso a piè
pagina l’autore inserisce delle note esplicative o delle precisazioni.

C’è peripezia nel libro?

No, l’unica cosa che Majorana fa è progettare la propria scomparsa. Sciascia costruisce un
personaggio che fa delle “non azioni”. Su tutto il libro aleggia il motivo della responsabilità.

Struttura del testo:

Il testo comincia con un documento di Giovanni Gentile in cui si chiede di riaprire il caso Majorana.
I primi due capitoli sono dedicati alla ricostruzione dell’indagine, di come la polizia non riesca a
trovare tracce di Majorana.
219
Nel terzo capitolo, l’autore costruisce una sorta di Curriculum Vitae del fisico, partendo da alcune
righe scritte dallo scienziato nel 1932. Dalla banalità delle notizie, Sciascia però vuol far emergere
l’eccezionalità e la genialità dello scienziato. Uno degli aggettivi che descrivono Majorana è
“strano”, dove la stranezza è collegata alle relazioni con le altre persone. Sciascia trasforma questo
aggettivo in “estraneo” sottintendendo che Majorana non riesca a stare in una cornice sociale.
L’altro elemento che viene sottolineato dall’autore è la genialità dello scienziato visibile fin dalla
sua infanzia. A questo proposito Sciascia apre una vera e propria parentesi di tipo saggistico in cui
scrive della coincidenza tra genio e morte precoce, facendo due esempi tra cui quello di Stendhal.

Nel genio precoce - quale appunto era Majorana la vita ha come una invalicabile misura: di
tempo, di opera. Una misura come assegnata, come imprescrittibile. Appena toccata,
nell’opera, una compiutezza, una perfezione; appena svelato compiutamente un segreto,
appena data perfetta forma, e cioè rivelazione, a un mistero - nell’ordine della conoscenza o,
per dirla approssimativamente della bellezza: nella scienza o nella letteratura o nell’arte -
appena dopo è la morte37.

Nel settimo capitolo Majorana torna a Roma dopo aver subito una metamorfosi a seguito di un
viaggio in Germania in cui ha conosciuto Heisenberg; da questo momento in poi esprime la volontà
di vivere in solitudine. Nel capitolo dieci Sciascia fa un vero e proprio paragone tra lo scienziato e
i personaggi di Pirandello, Mattia Pascale e Vitangelo Moscarda, che fuggono dalla propria identità
Anche la scelta della scomparsa in mare “ per acqua” secondo l’autore non è casuale. Scrive infatti
Sciascia:

La scelta - di apparenza o reale - della «morte per acqua», è indicativa e ripetitiva di un mito;
quello dell’Ulisse dantesco. E il non far ritrovare il corpo o il far credere che fosse in mare
sparito, era un ribadire l’indicazione mitica. Già lo scomparire ha di per sé, e in ogni caso, un
che di mitico. Il corpo che non si trova e la cui morte, non potendo essere celebrata, non è
«vera» morte; o la diversa identità e vita - non «vera» identità, non «vera» vita - che lo
scomparso altrove conduce, entrando nella sfera dell’invisibilità, che è essenza del mito,
obbligano a una memoria, oltre che burocratica e giudiziaria (la «morte presunta» viene
dichiarata a cinque anni dalla scomparsa), di pietà insoddisfatta, di implacati risentimenti38.

37
Sciascia, La scomparsa di Majorana, Adelphi, p. 13.
38
Ivi, p. 40.
220
Il capitolo finale del libro, l’undicesimo, si conclude con la visita ad un convento Certosino, tra i
boschi. Sciascia non offre soluzioni o risposte definitive al lettore. Non vi è la certezza che
Majorana, fingendo la morte, sia andato a vivere isolato e nascosto in quel convento. L’indagine è
lasciata in sospeso anche se la ricostruzione dei dati, delle lettere, sembra portare in questa
direzione.

BIBLIOGRAFIA:

- Tutto letteratura italiana, De Agostini, 2011;


- Leonardo Sciascia, La scomparsa di Majorana, Adelphi, 2004.
- Lea Ritter Santini, Uno strappo nel cielo di carta, postfazione de La scomparsa di
Majorana, Adelphi, pp. 48 – 61.
- Appunti universitari

Per lo studio della vita e delle opere si è fatto riferimento anche ai seguenti siti:

https://www.amicisciascia.it/leonardo-sciascia/la-vita.html
https://www.treccani.it/enciclopedia/leonardo-sciascia/

Cristina Palazzo

PIER PAOLO PASOLINI

1. La vita e i contesti

Pier Paolo Pasolini nacque a Bologna il 5 Marzo 1922 da Carlo Alberto, ufficiale di artiglieria, e
Susanna Colussi, maestra elementare di famiglia contadina a Casarsa, nel Friuli. A causa della
carriera del padre, Pasolini e la sua famiglia si spostarono più volte in diverse città, ma l’estate
tornavano sempre nella loro Casarsa, un mondo campestre e incontaminato.
221
Nel 1939, dopo aver terminato gli studi presso il Liceo galvani, Pasolini si iscrisse alla facoltà di
Lettere di Bologna e con Serra, Leonetti e Roversi, tentò di dar vita ad un rivista legata alla
tradizione poetica, <Eredi>.
Nel 1942 pubblicò un volumetto di poesie dialettali a proprie spese, Poesie a Casarsa, suscitando
l’interesse di Gianfranco Contini.
Sempre nel 1942, Pier Paolo, il fratello e la madre, si trasferiscono a Casarsa, ma lo scrittore
friulano continuerà spesso a spostarsi a Bologna per proseguire i suoi studi.
Il 1942 si concluse con la decisione della famiglia di sfollare in Friuli, a Casarsa, ritenuto un luogo
più tranquillo e sicuro per attendere la fine della guerra.
Alla vigilia dell'Armistizio, Pasolini fu chiamato alle armi. Costretto ad arruolarsi a Pisa il primo
settembre 1943, una settimana dopo, l'8 settembre, disobbedì all'ordine di consegnare le armi ai
tedeschi e riuscì a fuggire dalla deportazione travestito da contadino e a rifugiarsi a Casarsa.
Lì c'erano alcuni giovani appassionati di poesia (Cesare Bortotto, Riccardo Castellani, Ovidio
Colussi, Federico De Rocco e il cugino Domenico Naldini) con i quali fondò l'Academiuta di lenga
furlana che si proponeva di rivendicare l'uso letterario del friulano casarsese contro l'egemonia di
quello udinese.
Il primo numero della rivista uscì nel maggio del 1944 con il titolo "Stroligùt di cà da l'aga".
Nel frattempo, la tranquillità di Casarsa era compromessa dai bombardamenti e dai rastrellamenti di
fascisti per l'arruolamento forzato nel nuovo esercito della Repubblica di Salò e cominciavano a
formarsi i primi gruppi partigiani. Pier Paolo cercò di astrarsi il più possibile dedicandosi agli studi
e alla poesia e intanto tenne lezioni private per quegli studenti che a causa dei bombardamenti non
potevano raggiungere le scuole.
Nell'ottobre del 1944, Pier Paolo e la madre – il fratello Guido si era intanto unito alle formazioni
partigiane della Carnia – si trasferirono a Versuta, che sembrava essere un luogo più tranquillo e
lontano dagli obiettivi militari. Nel villaggio mancava la scuola e i ragazzi dovevano percorrere più
di tre chilometri per raggiungere la loro sede scolastica a Casarsa che era stata bombardata. Susanna
e Pier Paolo decisero così di aprire una scuola gratuita nella loro casa.
Pier Paolo visse il suo primo amore in quei momenti per un allievo tra i più grandi e, al contempo,
si innamorò di lui una giovane violinista slovena, Pina Kalc, che aveva raggiunto con la sua
famiglia il rifugio di Pasolini. La vicenda del ragazzo e l'amore di Pina per lui si intrecciarono
complicando dolorosamente quei lunghi mesi che mancavano alla fine della guerra.
Il 7 febbraio del 1945, Guido, il fratello diciannovenne di Pier Paolo, fu ucciso, insieme ad altri 16
partigiani da una milizia di partigiani comunisti in quello che fu ricordato come l'eccidio di Porzûs.
Questa notizia fu data a Pasolini il 2 maggio 1945 dal suo amico partigiano Cesare Bortotto,

222
gettando Pier Paolo e la madre in un terribile strazio. Proseguirono comunque le lezioni nella
piccola scuola di Versuta, dove Pier Paolo era considerato un vero maestro.
Nello stesso anno, Pasolini si laurea con una tesi su Pascoli, l’autore italiano che sente a lui più
vicino.
In agosto fu pubblicato il primo numero de Il Stroligut, con una numerazione nuova per distinguersi
dal precedente Stroligut di cà da l'aga e, nello stesso periodo, cominciò la serie dei "diarii" in versi
italiani pubblicati nel 1946 in un primo volumetto a spese dell'autore sulle "Edizioni
dell'Academiuta", e sulla rivista fiorentina <Il Mondo>, pubblicò due poesie tratte dalla raccolta e
scelte dallo stesso Montale.
Nel 1946 Pasolini lavorò a un romanzo autobiografico rimasto incompiuto intitolato dapprima
Quaderni rossi perché scritti a mano su cinque quaderni scolastici dalla copertina rossa, poi Pagine
involontarie e infine "Il romanzo di Narciso". In queste pagine l'autore descrive per la prima volta
le sue esperienze omosessuali.
Isolato a Versuta (la casa di Casarsa era stata danneggiata dai bombardamenti) Pasolini cercò di
ristabilire i rapporti con il mondo letterario e scrisse a Gianfranco Contini per presentargli il
progetto di trasformare lo Stroligùt da semplice foglio a rivista. In seguito alla visita fatta da Silvana
Mauri, sorella di un suo amico e innamorata di Pasolini, a Versuta, si recò in agosto a Macugnaga
dove risiedeva la famiglia Mauri, e approfittando dell'occasione si recò a Domodossola per
incontrare Contini.
Usciva nel frattempo a Lugano il bando del premio "Libera Stampa" e Contini, che era membro
della giuria, sollecitò il giovane amico a inviare il dattiloscritto che gli aveva mostrato, L'usignolo
della Chiesa Cattolica, con la seconda parte de Il pianto della rosa. L'operetta riceverà solamente
una segnalazione ma intanto Pasolini uscì dal suo isolamento e, grazie anche al clima più sereno del
dopoguerra, ricominciò a frequentare la compagnia dei ragazzi più grandi di Versuta.
Nell’ottobre 1947 Pasolini si recò a Roma dove fece la conoscenza di alcuni letterati che lo
invitarono a collaborare alla "Fiera Letteraria". Completò inoltre il dramma in italiano in tre atti
intitolato Il Cappellano e pubblicò la raccolta poetica, sempre in italiano, I Pianti. Nel corso del
1947 si iscrisse al PCI di San Giovanni di Casarsa, di cui divenne segretario nel 1949.
Dopo la guerra Pasolini, che era stato a lungo indeciso sul campo in cui scendere, osservò le nuove
esigenze di giustizia che erano nate nel rapporto tra il padrone e le varie categorie di diseredati e
non ebbe dubbi sulla parte da cui voleva schierarsi. Cercò così di consolidare una prima infarinatura
dottrinaria con la lettura di Karl Marx e soprattutto con i primi libri di Antonio Gramsci.
Ed è così che nacque la decisione importante di aderire al comunismo. Progettò intanto di allargare
la collaborazione della rivista dell'Academiuta alle altre letterature neolatine e fu messo in contatto,

223
da Contini, con il poeta catalano in esilio Carles Cardó. Sempre a Contini inviò la raccolta completa
delle sue poesie in friulano che per ora si intitolava Cjants di un muàrt, titolo che verrà cambiato in
seguito in La meglio gioventù. Non riuscì però a ottenere l'aiuto di nessun editore per pubblicare i
versi.
Alla fine dell'anno ottenne l'incarico di insegnare materie letterarie alla prima media della scuola di
Valvasone. Continuò con grande convinzione la sua adesione al PCI e in gennaio partecipò alla
manifestazione, che si tenne nel centro di San Vito, il 7 gennaio 1948, organizzata dalla Camera del
lavoro per ottenere l'applicazione del Lodo De Gasperi e fu in questa occasione che, osservando le
varie fasi degli scontri con la polizia e parlando con i giovani contadini, si delineò il progetto di
scrivere un romanzo su quel mondo in fermento, pubblicato solo nel 1962 con il titolo Il sogno di
una cosa.
Il 29 agosto del 1949 alla sagra di Santa Sabina a Ramuscello Pasolini pagò tre minori per dei
rapporti di masturbazione. La voce arrivò ai carabinieri della Stazione di Cordovado e l'indagine
proseguì, con l'imputazione di atti osceni in luogo pubblico e di corruzione di minore (uno dei
ragazzi era sotto i sedici anni). Il 28 dicembre venne stralciata l'accusa di corruzione di minori per
mancanza di denuncia e il dibattimento si concentrò sul fatto che gli eventi non si svolsero in un
luogo pubblico ma in un campo nascosto. La sentenza arrivò nel gennaio del 1950: Pier Paolo
Pasolini, e i due ragazzi sopra i sedici anni vennero giudicati colpevoli di atti osceni in luogo
pubblico e condannati a tre mesi di reclusione ciascuno e al pagamento delle spese processuali; la
pena venne interamente condonata per effetto dell'indulto. Il 28 dicembre 1950 venne prosciolto
dall'accusa di corruzione di minori ma condannato per atti osceni in luogo pubblico; Fu anche
sospeso dall'insegnamento, come previsto in simili casi.
Pasolini, nel gennaio del 1950, si rifugiò con la sola madre, che dovette prendere servizio come
cameriera, a Roma. I primi tempi a Roma furono difficili, a piazza Costaguti, dove viveva in una
stanza in affitto, per il giovane che sentiva il dovere di trovare un lavoro. Grazie all'intervento del
poeta dialettale abruzzese Vittorio Clemente, allora ispettore scolastico nella Capitale, Pasolini
ottenne un lavoro come insegnante in una scuola privata a Ciampino. Sempre per cercare di
sbarcare il lunario, si iscrisse al sindacato di Cinecittà, e si offrì come correttore di bozze presso un
giornale. Riuscì a pubblicare qualche articolo su alcuni quotidiani cattolici e continuò a scrivere i
romanzi che aveva cominciato in Friuli: Atti impuri, Amado mio e La meglio gioventù. Comincia a
scrivere Ragazzi di vita e alcune pagine romane, come Squarci di notti romane, Gas e Giubileo, che
saranno in seguito riprese in Alì dagli occhi azzurri. Dopo l'amicizia con Sandro Penna, che diventò
l'amico inseparabile delle passeggiate notturne sul lungotevere, conobbe nel '51 un giovane

224
imbianchino, Sergio Citti, che lo avrebbe aiutato ad apprendere il gergo romanesco, costituendo,
come ebbe a dire lo stesso Pasolini, il suo "dizionario vivente".
Compose in questo periodo le poesie che verranno raccolte in Roma 1950 – Diario pubblicate nel
1960 da Scheiwiller e finalmente riuscì a ottenere un posto di insegnante presso una scuola media di
Ciampino, dove insegnò dal 1951 al 1953, cosa che gli permise di far smettere la madre di lavorare
e di affittare una casa. Durante l'estate pubblicò sulla rivista Paragone il racconto Il Ferrobedò, che
diventerà in seguito un capitolo di Ragazzi di vita, scrisse il poemetto L'Appennino che farà da
apertura a Le ceneri di Gramsci e altri racconti romani. Partecipò al premio di poesia dialettale
Cattolica vincendo il secondo premio (50.000 lire) con Il testamento di Coran (ora compreso ne La
meglio Gioventù).
In questo periodo strinse amicizia con Giorgio Caproni, Carlo Emilio Gadda e Attilio Bertolucci
grazie al quale firmerà il primo contratto editoriale per una Antologia della poesia dialettale del
Novecento che uscirà nel dicembre del '52 con una recensione di Eugenio Montale. Nel 1953 prese
a lavorare a un'antologia della poesia popolare, per la collana dell'editore Guanda diretta dall'amico
Bertolucci, che uscirà con il titolo Canzoniere italiano nel 1955 e nel frattempo pubblicò il primo
volumetto di versi friulani Tal còur di un frut. Nell'ottobre dello stesso anno uscì su "Paragone"
un'altra anticipazione del futuro Ragazzi di vita e Bertolucci lo presentò a Livio Garzanti perché si
impegnasse a pubblicare il romanzo. Nel 1954, in situazione di ristrettezze economiche, riesce a far
pubblicare La meglio gioventù, presso l'editore Sansoni, una raccolta di poesie in friulano con una
dedica a Gianfranco Contini, con cui Pasolini vinse il Premio Giosuè Carducci.
Risale al marzo del 1954 il suo primo lavoro cinematografico che consisteva nella collaborazione
con l'amico Giorgio Bassani alla sceneggiatura del film di Mario Soldati La donna del fiume.
Il lavoro con il cinema gli permette di lasciare l'insegnamento. Intanto Vittorio Sereni gli propone di
pubblicare una raccolta di poesie nella collana per La Meridiana che curava insieme a Sergio Solmi
che uscirà nel gennaio del 1954 con il titolo Il canto popolare e che confluirà in seguito nell'opera
"Le ceneri di Gramsci".
Verso la fine del 1960 partì per l'India con Alberto Moravia e Elsa Morante e il viaggio gli fornirà il
materiale per scrivere una serie di articoli per Il Giorno che andranno a formare il volume L'odore
dell'India.
Dal 4 giugno 1960 fino al 30 settembre 1965 tenne, su invito di Antonello Trombadori, una rubrica
Dialogo con i lettori sul popolare settimanale comunista "Vie Nuove".
In quello stesso anno si dedicò al suo amore per il cinema scrivendo le sceneggiature dei suoi più
importanti film.

225
L'amico Bolognini gli trovò un produttore, Alfredo Bini (a cui si associò Cino del Duca), al quale
Pier Paolo spiegò come voleva fosse girato uno dei suoi film: molti primi piani, prevalenza dei
personaggi sul paesaggio e soprattutto grande semplicità. Protagonista sarà Franco Citti, il fratello
di Sergio e aiuto regista Bernardo Bertolucci al suo primo film. Le riprese del film Accattone furono
ultimate nel luglio del 1961, il film non ottenne il visto della censura per la proiezione nelle sale
italiane, ma verrà lo stesso presentato al Festival di Venezia del ’61.
Non particolarmente apprezzato dalla critica italiana, a Parigi, dove venne presto proiettato,
ricevette invece il giudizio entusiastico di Marcel Carné e di André Chamson.
Dopo la tempestosa accoglienza alla Mostra di Venezia Accattone divenne il primo film italiano a
ottenere il divieto ai minori di anni 18.
Nell'autunno del 1961 si recò al Circeo nella villa di un'amica per scrivere insieme a Sergio Citti la
sceneggiatura del film Mamma Roma la cui lavorazione verrà programmata per la primavera del
1962, annoverando fra gli interpreti Anna Magnani.
In questi anni scrisse una recensione molto critica su Nuovi Argomenti a "Satura" di Montale, che
gli rispose in versi nella Lettera a Malvolio e in aprile uscì la sua ultima raccolta di poesie
Trasumanar e organizzar accolta da lettori e critici distratti. All'inizio del 1971 realizzò un
documentario, dal titolo 12 dicembre sul tema della strage alla Banca dell'Agricoltura di Milano e a
marzo presta il suo nome come direttore responsabile dello stesso quotidiano.
Ad aprile venne denunciato per "istigazione a delinquere e apologia del reato" per un supplemento
sulle forze armate di Lotta Continua, Proletari in divisa.
Nella notte tra il 1º e il 2 novembre 1975 Pasolini fu ucciso in maniera brutale: percosso e travolto
dalla sua stessa auto sulla spiaggia dell'Idroscalo di Ostia, località del Comune di Roma. Il cadavere
massacrato venne ritrovato da una donna alle 6 e 30 circa; sarà l'amico Ninetto Davoli a
riconoscerlo. Dell'omicidio fu incolpato Pino Pelosi di Guidonia, di diciassette anni, già noto alla
polizia come ladro di auto e "ragazzo di vita", fermato la notte stessa alla guida dell'auto del
Pasolini. Pelosi affermò di essere stato avvicinato da Pasolini nelle vicinanze della Stazione Termini
e da questi invitato sulla sua vettura dietro la promessa di un compenso in denaro.

2. La poesia di Pasolini

2.1 Componimenti dialettali

226
L'esordio poetico di Pasolini è nel dialetto di Casarsa luogo amato dei suoi soggiorni estivi dove
egli scopre la vita e la natura. Il dialetto di questa zona occidentale del Friuli, sul lato destro del
Tagliamento, è un dialetto che il poeta usava nella vita quotidiana e senza alcuna tradizione
letteraria, era la lingua materna incontaminata ed estranea alle forme moderne che veniva usata in
quel piccolo idilliaco mondo. Pasolini individua nel dialetto la lingua intatta dalle contaminazioni
della letteratura e della vita borghese sulla quale può agire con una spontanea sperimentazione che,
a poco a poco, sarà sostenuta da idonei strumenti filologici-linguistici.

Poesie a Casarsa
Le Poesie a Casarsa vengono pubblicate a Bologna nel 1942 e riscritte nel friulano istituzionale per
la pubblicazione del volume La meglio gioventù nel quale verranno raccolte con la traduzione dello
stesso autore in italiano.
Consapevole della consunzione della lingua italiana del Novecento, Pasolini adotta la poesia
dialettale per recuperare il valore semantico e mitico della parola orale e non scritta rappresentativa
di una comunità che nel dialetto riconosce se stessa.
In questo rivendicare una poetica del friulano come anti-dialetto e quindi lingua, si avverte una
inconscia ragione politica e cioè il rifiuto al centralismo livellatore del regime fascista.
Utilizzando il friulano, il codice linguistico diventa stilisticamente libero condizionando i contenuti.
Semplici paesaggi friulani fanno da sfondo alle "Poesie a Casarsa" immersi in un'atmosfera
struggente che rende fragile la serenità di questo mondo arcaico sul quale incombe un presagio di
morte e corruzione. Si affiancano temi e simboli tipici della tradizione poetica decadente con la
figura centrale di Narciso come simbolo sospeso tra la serenità dell'infanzia, l'adolescenza e la
morte vista come l'unica possibilità per evitare la perdita nel mondo adulto dell'innocenza.

La meglio gioventù
La meglio gioventù, pubblicata a Firenze dalla casa editrice Sansoni nel 1954, raccoglie la maggior
parte delle Poesie a Casarsa e tutte le altre poesie friulane di Pasolini coprendo un arco di tempo
che va dal 1939 al 1940 fino al 1953. Non sono comprese in questo volume alcune poesie
pubblicate sui volumetti dell'"Academiuta di lenga furlana" e altre poesie disperse che saranno
raccolte in seguito dalla Società filologica friulana a Udine nel 1965 con il titolo Poesie dimenticate.
Nella valutazione delle poesie friulane dal 1942 in poi è necessario ricordare alcuni avvenimenti che
hanno segnato la poetica pasoliana in questo arco di tempo. Importante senza dubbio è la forte
spinta istituzionale che la poetica friulana in generale riceve dalla fondazione dell'Academiuta che
rende chiari lo scopo e la ragione del suo utilizzo. Si aggiunge a questo l'esperienza della resistenza

227
che porta a recuperare il tema storico e politico e soprattutto lo studio che Pasolini compie in quegli
anni della poesia popolare e dialettale in Italia. Da questo attento studio derivano all'autore gli
strumenti linguistici necessari che gli danno la possibilità di usare la lingua friulana sfruttando al
massimo tutte le sue potenzialità.

2.2 Componimenti in italiano

Tra il 1943 e il 1949, contemporaneamente alla poesia in lingua friulana, Pasolini affronta la poesia
in lingua italiana con una serie di scritti che verranno pubblicati solo nel 1958 in un volume dal
titolo L'Usignolo della Chiesa Cattolica.

L'Usignolo della Chiesa Cattolica


Attraverso la raccolta L'Usignolo della Chiesa Cattolica è possibile seguire il consolidarsi della
struttura psichica e ideologica di Pasolini. La raccolta presenta, come dice il Ferroni, una grande
varietà di forme e di modi stilistici "affermando un bisogno di offrire tutto se stesso a un contesto, a
un mondo di valori collettivi".
La religiosità particolare di Pasolini si manifesta nella raccolta attraverso un percorso ideologico
che va dalle suggestioni di una religione tradizionale, con i suoi valori e i suoi riti condivisi, alla
scoperta del marxismo che diventa esplicita nell'ultima poesia La scoperta di Marx.
Nei versi della raccolta si sente ancora l'influenza dell'ermetismo anche se presto il poeta si muove
in direzione di una poesia più attenta alle forme della realtà. Una poesia che si allontana sempre di
più dalla lirica novecentesca e si riallaccia al realismo dell'Ottocento e guarda più da vicino al ritmo
narrativo del Pascoli dei "Poemetti" per giungere, solo più tardi, a certe seduzioni di autori amati,
come Saba, Bertolucci, Caproni, lontano in ogni caso dalla linea novecentesca.

Le ceneri di Gramsci
Con Le ceneri di Gramsci, pubblicate nel 1957 da Garzanti, Pasolini presenta undici poemetti quasi
tutti scritti in terzine e sul modello di quelli del Pascoli pur nella grande libertà dei singoli versi.
I poemetti che formano la raccolta sono stati scritti tutti tra il 1951 e il 1956, molti dei quali già
pubblicati sparsi precedentemente.
Protagonista delle Ceneri è la nuova realtà storica del sottoproletariato romano che il poeta vuole
rappresentare così come è, perché la salvezza è quella di rimanere dentro a quell'inferno con la
volontà di capirlo. Pasolini sa che di quel popolo lo attrae non la sua millenaria lotta ma la sua
allegria e riconosce in se stesso una contraddizione, quella di amare un mondo che odia.

228
I poemetti del 1956 sono più ricchi di problematica storica e il tema centrale è l'alternarsi di
speranza e disperazione che alla fine, nel Pianto della scavatrice, diventa accettazione dolorosa delle
ferite provocate dai cambiamenti.

La poesia come diario intellettuale


Nelle raccolte successive il poeta non analizza più le sue interne contraddizioni ma si fa carico di
motivi ideologici e polemici più chiari. Il poeta mette in risalto il carattere negativo della storia con
il degrado sempre più evidente del mondo politico e intellettuale e di quello della stessa vita sociale
italiana. La poesia diventa in questo caso una specie di diario che, in una forma non ancora piana,
cerca di esprimere tutti i motivi che Pasolini sente nascere dentro di sé ma che non riesce ancora a
sviluppare in un'esposizione saggistica. In queste ultime raccolte l'impegno stilistico si allenta nella
foga di dire tutte le proprie ragioni e sembra trascurare la forma della propria poesia il cui uso è, in
questo caso, solo ideologico proprio nel momento in cui accusa, come dice il Berardinelli, "un
aggressivo e ricattatorio ideologismo poco attento al linguaggio"

La religione del mio tempo


Si può collocare La religione del mio tempo al confine tra il secondo e il terzo periodo, tra quello
che era il mito del sottoproletario e la sua crisi e il mito dei popoli del terzo mondo. L'opera che
esce nel 1961 da Garzanti comprende sei sezioni ed è organizzata in tre parti: La ricchezza, A un
ragazzo e La religione del mio tempo nella prima parte, Umiliato e offeso, composto da epigrammi
e Nuovi epigrammi nella seconda parte, mentre la sezione Poesie incivili costituisce da sola la terza
parte.
Si sente in questa opera la crisi che impedisce a Pasolini di continuare con l'organica costruttività
razionale e storica che lo aveva guidato nelle "Ceneri di Gramsci".
Netta si affaccia la polemica contro il presente privo ormai di ogni spirito religioso e il poemetto
lascia spesso il posto all'epigramma e alla canzone indirizzata per lo più a critici e dal taglio
moralistico. Il piano stilistico ha minore rilevanza e gli strumenti espressivi diventano più
funzionali. Si avverte da una parte la necessità di revisione, come ha detto Asor Rosa, e dall'altra
una forma di distacco dal mondo del sottoproletariato. Il poeta ha preso pienamente conoscenza del
mondo borghese e consapevolezza della diversità da esso, diversità che è anche rifiuto delle
istituzioni. Crolla anche la fiducia nel sottoproletariato e quindi anche l'identificazione politica che
Pasolini aveva con fatica raggiunto.

Poesia in forma di rosa

229
Poesia in forma di rosa, che esce, sempre da Garzanti, nel 1964 è composta da componimenti che
vanno dal '61 al '63, più un lungo poemetto in appendice intitolato Vittoria ed è la più ampia delle
raccolte di Pasolini.
In essa Pasolini afferma in modo ossessivo la delusione per gli sviluppi della vicenda politica e
intellettuale italiana e gli pare ormai inutile tutta la dialettica, piena di illusioni, degli anni
cinquanta. Il poeta, deluso e amareggiato, abiura quel mondo di ideali giovanili che ritiene perduto
per sempre.
Nasce con questa raccolta il mito della "Nuova Preistoria" "quando la Società ritornerà natura"
dovuto alla delusione stessa della storia e dalla presa di coscienza che "la Rivoluzione non è più che
un sentimento" e a fondarla saranno i barbari, cioè le plebi meridionali e del Terzo Mondo.
La raccolta si presenta con una grande differenziazione sia tecnica che linguistica nella metrica e
nello stile. I poemetti in terzine, nei quali il poeta esprime la volontà di costruire, si alternano alle
sequenze di endecasillabi e ai versi tra le dieci e le tredici sillabe senza divisioni strofiche ai quali si
accostano brani di prosa ritmati. Ultimo l'espediente della disposizione grafica che appare nella
Seconda poesia in forma di rosa, dove le parole sono disposte in modo da richiamare la forma di un
petalo di rosa.

Trasumanar e organizzar
Trasumanar e organizzar è l'ultima raccolta di versi di Pasolini. Uscita nel 1971 raccoglie le poesie
scritte durante la lavorazione di Medea e alcuni versi precedentemente pubblicati sulla rivista
"Nuovi Argomenti".
Come in "Poesia in forma di rosa" la raccolta accumula poesie di vario tipo non organizzate lungo
una linea tematica e stilistica.
Con "Transumanar e organizzar" si chiude un ciclo ben preciso; dalla certezza che è impossibile per
l'uomo adattarsi alla Società, alla convinzione che l'uomo non può vivere senza la Società.
Nei versi di questa raccolta Pasolini si lascia andare all'oratoria con una denuncia aggressiva che
riguarda la difficoltà di "trasumanar", cioè di uscire dalle condizioni umane date.

3. La narrativa pasoliniana

Se nella poesia Pasolini esprime il fondo più nascosto della propria presenza nel mondo, nella
narrativa egli entra nella realtà stessa per cogliere il senso concreto e le voci della vita collettiva.
Mentre narra, egli cerca di cogliere il nucleo primitivo delle cose e, appropriandosi del valore di

230
esse e delle persone, di entrare fisicamente in contatto con il mondo che ama e al quale partecipa
con infinita spontaneità.

3.1 I racconti autobiografici

Amado mio
Per questo motivo i due racconti autobiografici della giovinezza, pubblicati postumi nel 1982 sotto
il titolo Amado mio, sono tra le sue opere più sincere e vibranti. In esse si sente la partecipazione
commossa e completa di un mondo primigenio del quale egli scopre la bellezza.
Il primo racconto, Atti impuri, si presenta sotto forma di diario frammentario degli avvenimenti tra
il '46 e il '47 e in esso la diversità dell'autore, anche se velata da un lieve senso di colpa, è ancora
vissuta come trionfante innocenza. Il racconto Amado mio, il cui titolo è stato suggerito da una
canzone cantata dall'attrice Rita Hayworth nel film Gilda del 1946, è scritto in terza persona e si
svolge su uno sfondo più corale.

Il sogno di una cosa


Un'altra opera che contiene elementi autobiografici e che si collega al neorealismo, è il romanzo
scritto tra il 1948 e il 1949, che originariamente portava il titolo I giorni del lodo De Gasperi, ma
che fu pubblicato solamente nel 1962 con il titolo Il sogno di una cosa, titolo tratto da una citazione
di Marx. La tematica principale è quella dei contadini e della lotta. Nelle esili storie che
compongono il romanzo, viene rappresentata la vita dei giovani friulani con gli ideali, le aspirazioni
e le delusioni politiche provate alla fine della guerra. Il romanzo è scritto in un italiano uniforme ed
è articolato con concretezza, i dialoghi hanno una forte oggettività e le descrizioni del paesaggio
infondono una malinconica eleganza decadente.

3.2 I romanzi delle borgate romane

Con i romanzi che descrivono la vita delle borgate romane, la narrativa di Pasolini raggiunge i
risultati più originali. Tra questi vi è Alì dagli occhi azzurri, pubblicato nel 1965 e che comprende
tutti i bozzetti e i racconti che l'autore era andato raccogliendo durante gli anni cinquanta e i primi
anni del sessanta, che troveranno la loro sintesi nel romanzo Ragazzi di vita del 1955 e Una vita
violenta del 1959. Pasolini descrive affascinato il mondo che sta ai margini della vita cittadina
rappresentato da giovani vite che vivono tra piccole avventure, giochi, atti teppistici, semplici
occasioni di ogni giorno nel tentativo di soddisfare primari bisogni. L'autore riesce così a cogliere,

231
in quella umanità che possiede qualcosa di primitivo e animalesco, una sorta di autenticità e
bellezza.
I romanzi, dal punto di vista narrativo, sono assai semplici e costruiti attraverso un'attenta analisi
linguistica che riesce a superare il compromesso neorealistico tra lingua e dialetto. L'italiano di cui
si serve la voce narrante è schematico ed elementare, mentre il romanesco parlato dei personaggi è
ricco di deformazioni e stravolgimenti.

3.2.1 Ragazzi di vita – Focus sull’opera e appunti universitari

Nel 1955 esce Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini, romanzo di otto capitoli sul mondo delle
borgate e i quartieri periferici di Roma.
Pasolini inizia a lavorare al libro fin dal suo arrivo nella Capitale nel 1950: visita le borgate,
frequenta i ragazzi che le abitano e studia i loro comportamenti e abitudini. Lo scrittore si
appassiona a questo mondo periferico, che, a suo parere, conserva ancora l’autenticità del mondo
rurale, semplice e sotto certi aspetti primitivo, non ancora corrotto dal consumismo.
Ciò che emerge dal romanzo è una realtà degradata, allo stesso tempo vitale, in cui i personaggi
agiscono spinti dall’istinto e dalle passioni.
Protagonisti del racconto pasoliniano sono i ragazzi del titolo, abitanti delle borgate, abituati a
vivere di sotterfugi ed espedienti più o meno legali in questo mondo povero, caotico, in cui non
esistono punti di riferimento (come la famiglia o la scuola) e dove ogni giorno i protagonisti devono
confrontarsi con la noia, la miseria e la morte.
Le vicende, ambientate nell’immediato dopoguerra, ruotano soprattutto intorno a uno di questi
ragazzi, Riccetto, di cui l’autore segue la crescita e il suo tentativo di inserirsi e integrarsi nella
società. L’opera è costruita ad episodi in un arco narrativo che parte con il salvataggio da parte del
giovane Riccetto di una rondine che sta annegando e si conclude con l’annegamento di Genesio, un
bambino delle borgate, e con il mancato intervento del protagonista, ormai adulto e
responsabilizzato.
Pasolini evidenzia così l’evoluzione di questo personaggio da ragazzino delle borgate sensibile e
impulsivo a uomo integrato, ma intrappolato nel ruolo impostogli dalla società, ormai vuoto e privo
di passioni.
Pasolini rappresenta questo mondo con estremo realismo, i cui migliori esiti si riscontrano sul piano
linguistico. L’autore infatti sceglie di utilizzare nei dialoghi il lessico e il gergo delle borgate,
mentre la voce narrante mantiene l’italiano standard, caratterizzato da aggettivi volti ad evidenziare
l’ambiente degradato.

232
In fondo al romanzo Pasolini integra in tal senso un piccolo glossario del dialetto romanesco.
Questa scelta linguistica da un lato appare come la volontà dell’autore di creare un opera realistica e
quasi documentaria, ma dall’altro - come hanno notato diversi critici - può sembrare un gioco
linguistico di Pasolini, in cui mettere in campo i suoi interessi per i dialetti e i suoi studi sulla lingua
popolare
All’uscita del romanzo Pasolini viene accusato di oscenità e pornografia, a causa del tema trattato,
che infatti include anche la prostituzione minorile maschile.
Nel luglio del 1955 si tiene un processo contro Ragazzi di vita, che, tuttavia, si risolve con
un’assoluzione dell’autore, anche grazie al contributo di alcuni intellettuali, come Carlo Bo, uno dei
testimoni della difesa, e Giuseppe Ungaretti, che invierà una lettera ai giudici in favore di Pasolini.
Nel 1961 Pasolini realizza il suo primo film Accattone, che si presenta come una trasposizione
cinematografica dei temi trattati in Ragazzi di vita e in Una vita violenta. La storia, infatti, ruota
intorno a un giovane sottoproletario con i suoi espedienti per vivere senza dover lavorare. Altro
film, incentrato ancora una volta sulla condizione sociale delle borgate, è Mamma Roma del 1962,
in cui una madre tenta di far uscire il figlio dall’ambiente delle borgate.

Appunti:
Pasolini con Ragazzi di vita ottiene notorietà non per la bellezza dell’opera ma a causa di uno
scandalo. Viene accusato di ave realizzato un’opera pornografica, non solo al processo, ma anche
da contemporanei come Asor Rosa, il quale ha denigrato pesantemente questa opera.
In una Deposizione di Pasolini del 4 luglio 56, lo scrittore dice:

“Io non ho inteso fare un romanzo nel senso classico della parola, ho voluto soltanto scrivere un
libro. Il libro è una testimonianza della vita da me vissuta per due anni in un rione a Roma. Ho
voluto fare un documentario. La parlata in dialetto romanesco riportata nel romanzo è stata
un'esigenza stilistica. … nel titolo “ragazzi di vita” intendevo ragazzi di malavita”.

Da questa deposizione si comprendono le varie accuse che sono state mosse a Pasolini: la prima era
quella di aver usato il dialetto romanesco per dipingere il quadro di un contesto popolare; la seconda
era quella di aver voluto creare un romanzo ‘pornografico’ e di aver commesso errori ‘scandalosi’
come quello di antropomorfizzare una cagna e di parlare di questa come fosse una donna (un
contenuto disdicevole e, appunto, pornografico).
Ma quello che non piacque di più all’Italia fu la scelta pasoliniana di mettere per iscritto la realtà
italiana di quei tempi, una realtà che metteva in cattiva luce una intera classe politica (quella

233
borghese) che si stava costruendo proprio in quegli anni. Dal ‘55 in poi si è cercato in più modi di
rappresentare il benessere italiano, soprattutto attraverso l’utilizzo della televisione, e proprio in
quel periodo Pasolini da alla luce un’opera che descrive un’Italia degradata, fatta di ragazzi che per
nutrirsi hanno bisogno di rubare, fatta di piaghe sociali nascoste nel tentativo di mettere in mostra
solo la rifioritura del paese.
Ungaretti, sulla base di queste scelte di Pasolini, decise di fare una dichiarazione sullo scrittore e
disse che si trattava dell’autore maggiormente dotato dell’Italia di quei tempi e che il processo sulla
sua opera non avrebbe potuto che portare ad esiti positivi immediati
L’idea centrale di Pasolini era quella di fare un DOCUMENTARIO e per capire il peso della sua
opera non ci posiamo limitare a prenderla in considerazione solo su un piano strettamente letterario,
non possiamo porci di fronte a lui con gli stessi strumenti con i quali analizzeremmo una poesia di
Montale o di altri di quei tempi. Bisognerebbe guardare l’opera di Pasolini in una prospettiva
diversa, poiché quel che a lui premeva non era fare bella poesia, non era fare dei bei versi, scrivere
un’opera elegante e ben fatta… tutto quello che a lui premeva era il motivo che faceva sorgere i
suoi versi, il momento, l’episodio, la vicenda che portavano alla nascita dei suoi scritti.
Ragazzi di vita racconta di ragazzi di malavita che vivono in una borgata romana e condividono
quotidianamente la delinquenza. Il motivo che spinge questi ragazzi a comportarsi da delinquenti è
l’esigenza di fare “la bella vita”, quella che si vedeva nelle Tv, nei varietà, nelle pubblicità di quei
tempi, tutte cose che Pasolini voleva combattere e cambiare.
Pasolini con questa opera sembra quasi voler dire che quelle rappresentazioni dell’Italia erano
farlocche, da combattere, facevano passare come grandi obiettivi cose futili e rovinavano il contesto
rurale, contadino e genuino del Paese. Pasolini vuole smascherare l’ipocrisia dell’Italia benestante.
Ma Ragazzi di Vita non venne osteggiato solo per questi motivi. Il romanzo venne fortemente
criticato perché lavorava sulla lingua e rompeva i cardini nella tradizione narrativa moderna ormai
improntata sulla lingua italiana più o meno normata.

Una vita violenta


Nel 1959 viene pubblicato il romanzo Una vita violenta che si basa invece sulle vicende di un
giovane che, dopo numerose gesta teppistiche, giunge ad una coscienza politica ma morirà per un
atto di eroismo. In questo romanzo si ha pertanto il ritorno dell'intreccio e del personaggio
protagonista che viene presentato come un eroe positivo.
L'intento di Pasolini è quello di far conoscere il percorso di vita di un ragazzo dall'inferno delle
borgate verso la salvezza di una coscienza politica, intento documentato da una dichiarazione da lui
fatta nel 1959 in seguito ad una inchiesta sul romanzo e pubblicata in "Nuovi Argomenti".

234
Alì dagli occhi azzurri
Alì dagli occhi azzurri esce nel 1965 e comprende tutti i lavori di Pasolini datati tra il 1950 e l'anno
della pubblicazione. In esso pertanto si possono individuare tutte le fasi precedenti, dal primo
incontro con Roma al nascere del mito del sottoproletario e alla sua crisi, fino alla formazione del
mito del Terzo Mondo e della Nuova Preistoria.
Nel volume sono raccolti venti brani di cui ben cinque appartengono al primo anno romano, il 1950,
tre compiuti o iniziati nel 1951 e cinque scritti dal 1961 in poi. Appartengono quindi all'opera i testi
letterari che corrispondono ai film omonimi di Accattone, Mamma Roma e La ricotta oltre al
progetto di un romanzo intitolato Il rio della grana, mai scritto, del quale rimangono poche pagine
costituite da appunti e schemi stilati tra il 1955 e il 1959. Dalla lettura dei cinque brani datati '50,
che sono più che altro degli studi di carattere sperimentale, si osserva inoltre come la scelta stilistica
non sia avvenuta con facilità ma come dietro ad essa ci sia stato uno studio profondo.

Teorema
Teorema viene pubblicato nel 1968 e può essere considerato (tralasciando Petrolio che, non
concluso, verrà pubblicato postumo) l'ultimo lavoro narrativo di Pasolini essendo l'unico testo
letterario presentato come opera a parte e non come sceneggiatura. I personaggi appartengono per la
prima volta alla borghesia e il testo ha una struttura particolare perché alterna capitoli in prosa a
versi che gli conferiscono, rispetto al film omonimo, una pienezza e validità maggiore.

4. Pasolini e il teatro

La produzione teatrale di Pasolini avviene contemporaneamente all'elaborazione di "Teorema".


Nel 1967 appare sul n. 7-8 di "Nuovi Argomenti" Piliade e nel 1969 sul n. 15 Affabulazione.
Sempre su questa rivista era apparso nel '68 il Manifesto per un nuovo teatro dove Pasolini
sosteneva la necessità di un teatro libero da formalismi e ricco di contenuti, un "teatro di parola" da
opporsi al "teatro della Chiacchiera e al teatro del Gesto e dell'Urlo, che sono ricondotti a una
sostanziale unità:
Questo teatro avrebbe dovuto rivolgersi alla classe operaia ed essendo "Teatro di Parola" doveva
scrivere testi nell'italiano scritto e letto ed essere un "rito culturale".
Il teatro, per Pasolini, doveva essere un teatro che, pur ponendosi dei problemi e dibattendo delle
idee, non doveva necessariamente proporre delle soluzioni.

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Tra le opere teatrali di Pasolini ci sono Pilade, un'opera di transizione dove i protagonisti
rispecchiano una forte componente autobiografica e nella quale il mito classico e il mito personale,
l'ideologia marxista e la psicanalisi s'intrecciano; poi Affabulazione, in cui vi è una forte esigenza di
razionalità e l'ambiente è interamente borghese; infine Calderòn, in cui vi è un chiaro riferimento a
La vita è sogno di Caldéron de la Barca ed infatti il testo, diviso in stasimi che nella tragedia greca
dividevano un episodio dall'altro, gioca sullo scambio tra il sogno e la realtà.
Il messaggio della tragedia è quello dell'impossibilità della rivoluzione, sia per gli studenti che per
gli operai, dal momento che la speranza di vederli liberi è solamente un sogno.

5. Pasolini e il cinema

Pasolini rappresenta un caso particolare e certamente il più emblematico del Novecento di come
cinema e letteratura possano essere il prodotto alto di un solo autore. Egli riesce a legare il ruolo di
scrittore a quello di regista in un rapporto perfettamente circolare.
Pasolini è stato principalmente un uomo di cultura e portatore di un pensiero-contro.
La sua visionarietà artistica si è espressa in egual maniera nel cinema e nella letteratura, in forma di
narrativa, saggistica e poesia.
Nel 1953 viene chiamato da Giorgio Bassani a collaborare alla sceneggiatura per La donna del
fiume (1954) di Mario Soldati. Negli anni cinquanta, era frequente la ricerca di collaborazioni
letterarie di un certo livello alla stesura di sceneggiature cinematografiche per tentare di rialzare il
livello medio e dopo la pubblicazione di Ragazzi di vita, Pasolini diviene piuttosto ricercato
soprattutto per progetti che hanno come argomento la vita nelle borgate; è da segnalare la
collaborazione di Pasolini con Cecilia Mangini che nel 1958 esordisce con il cortometraggio Ignoti
alla città ispirato proprio al romanzo Ragazzi di vita. Pasolini inizia con questo documentario la sua
collaborazione con Mangini che continuerà l'anno successivo quando scriverà anche il testo per
Stendalì. Suonano ancora e nel 1961 per La canta delle marane. I testi originali di questi tre film
sono stati scritti da Pasolini mentre la regista gli mostrava quanto girato alla moviola. Si può quindi
pensare che il futuro regista abbia capito il linguaggio cinematografico nella sua sede più idonea,
appunto stando alla moviola con Cecilia Mangini. Lo sceneggiatore Rodolfo Sonego, che ha
condiviso un film con Pasolini La ragazza in vetrina (di Luciano Emmer, 1961), ha lasciato questa
breve testimonianza: "Il lavoro alla moviola mi ha insegnato, in realtà, cos'è il cinema lontano dalla
letteratura. La moviola ce l'ha solo il cinema". Si può quindi dedurre che Cecilia Mangini abbia
contribuito a realizzare questo importante passaggio, dalla letteratura al cinema, della carriera di
Pasolini.

236
Ne Le notti di Cabiria (1957) di Federico Fellini si dedica in particolare alle sequenze dedicate alla
prostituzione; nel 1958 collabora ad Addio alle armi di King Vidor. Del 1959 la stesura del
soggetto, insieme a Giuseppe Berto di Morte di un amico diretto da Franco Rossi, in seguito
collabora spesso con Mauro Bolognini, in particolare per La notte brava in cui per la prima volta si
impegna con un contributo originale, da lui considerato al pari di un'opera letteraria. La commare
secca (1962) avrebbe dovuto costituire il suo esordio alla regia, che alla fine passerà a Bernardo
Bertolucci, anche lui alle prime armi.
Pasolini incomincia la sua attività di regista nel 1961 con il film Accattone che ambienta nelle
borgate romane riprendendo temi e personaggi del suo romanzo Ragazzi di vita.
Il film vuole essere un'accorata testimonianza e drammatica adesione alla violenza antiborghese
degli emarginati.
Nel 1962 produce il lungometraggio Mamma Roma nel quale riprendeva personaggi e ambienti del
film precedente con l'intento di arricchire in modo più articolato il proprio universo.
In Mamma Roma s'intravede una prospettiva di riscatto, anche se frustrata, attraverso il
raggiungimento di uno status socialmente riconosciuto e rispettato, oltre l'emergere del senso
protettivo materno che non riuscirà, comunque, a preservare la fragilità del figlio.
Nel 1963 con il mediometraggio La ricotta Pasolini giunge a uno dei più intensi risultati del suo
cinema. In esso viene presentata la tragica "Passione" di un sottoproletario, Stracci, del quale lo
schermo sottolinea la umiliazione e la sofferenza.
Nel 1964 Pasolini produce il lungometraggio Il Vangelo secondo Matteo che era stato preceduto dal
film di montaggio La rabbia, dal film d'inchiesta sul comportamento sessuale degli italiani dal titolo
Comizi d'amore e dal reportage Sopralluoghi in Palestina per il Vangelo secondo Matteo girato
nelle zone dove inizialmente si pensava di girare il "Vangelo".
Il Vangelo vuole essere una immensa metafora del sottoproletariato mondiale e anche momento di
verifica delle potenzialità liberatorie del Cristianesimo evangelico da contrapporre alla chiesa come
struttura.
Del 1966 è il film Uccellacci e uccellini che testimonia in modo assai umano la sfiducia nelle
possibilità guaritrici e modificatrici dell'ideologia. I protagonisti sono due spaesati sottoproletari e
un corvo la cui altisonante verbosità coincide con la sua sterilità politica.
Nello stesso anno Pasolini produce l'episodio de Le streghe (La Terra vista dalla Luna), che è una
specie di appendice al film precedente.
Nel 1967 viene realizzato Edipo re che contiene chiari riferimenti autobiografici e rappresentazione
dell'ennesima traumatica diversità che non ha nemmeno la fede nell'utopia storica. Edipo, cieco e

237
vagante attraverso gli aridi deserti della preistoria fino alle periferie delle attuali città, si dissolverà
alla fine nella dimensione naturale.
Sempre nel 1967 esce il film Che cosa sono le nuvole?, episodio di Capriccio all'italiana.
Nel 1968 esce Teorema che vuole rappresentare l'annullamento e la disgregazione dell'esistenza
borghese nel caso essa volesse vivere al di là della ritualità quotidiana.
Nel 1969 esce Porcile che è la parallela narrazione di due diversità: quella dell'antropofago
barbarico che verrà giustiziato dal potere, e quello del timido Julian, discendente da una ricca
dinastia di industriali, votato al suicidio, cosciente della sua estraneità tanto al progetto paterno
quanto alla contestazione giovanile, che verrà divorato dai porci allevati dalla famiglia. Il film porta
agli estremi la visione pasoliniana del terrorismo lucidamente autodistruttivo degli emarginati e si
avvale, sul piano espressivo, di elementi poetici, sarcastici ed epigrammatici.
Questo tema verrà ripreso in Medea (1969), che è preceduto dalla realizzazione de La sequenza del
fiore di carta, episodio del film Amore e rabbia. Il film, che non si arresta alla constatazione
dell'inferno contemporaneo, si articola nella dialettica tra la spontaneità primitiva e la tecnocratica
razionalità, mettendo in risalto che, dove non si arresta la prima, erompe la vendetta nella
sanguinaria ed equa necessità.
L'opera seguente sarà la cosiddetta "Trilogia della vita" composta dal Il Decameron del 1971, da I
racconti di Canterbury del 1972 e da Il fiore delle mille e una notte del 1974. In essi Pasolini
rappresenta il progetto di dipingere l'infanzia dell'umanità, l'innocenza dei popoli, il trionfo delle
istanze erotiche e naturali dell'uomo.

6. Pasolini saggista

Negli anni cinquanta la critica di Pasolini presta attenzione ai caratteri espressivi delle opere
letterarie con una lettura sempre "militante" dei testi, ma è solo negli ultimi anni che lo scrittore è
riuscito a trovare la giusta espressione negli interventi brevi della sua saggistica provocatoria, che
esprimono una condanna dei nuovi costumi della realtà contemporanea suscitando forti polemiche e
reazioni.

6.1 La critica letteraria

238
L'esercizio della critica letteraria si lega, soprattutto nel corso degli anni cinquanta, alla capacità
dell'autore di indicare programmi e definire tendenze con un uso molto libero dei metodi della
stilistica. Mentre in quegli anni la critica marxista prestava attenzione all'aspetto sociologico,
Pasolini rivolge la sua attenzione ai caratteri espressivi delle opere letterarie individuando il
carattere anti-ermetico della poesia del Novecento centrata su autori come Pascoli, Saba, Penna,
Bertolucci, Caproni e sugli autori dialettali.

Passione e ideologia
Nel volume che raccoglie i saggi scritti di Pasolini tra il 1948 e il 1958 e pubblicato nel 1960 con il
titolo di Passione e ideologia, si possono individuare le prospettive della ricerca di quegli anni.
Erano intanto apparsi su Officina altri significativi saggi su Pascoli e nel 1972 uscirà la raccolta
Empirismo eretico che, diviso in tre sezioni, quella della Lingua, della Letteratura e del Cinema,
raccoglieva tutti i saggi e gli interventi degli anni sessanta. Nel 1979, nel volume uscito postumo
con il titolo Descrizioni di descrizioni, vengono raccolte numerose recensioni ricche di acute
osservazioni e spunti polemici che erano state pubblicate sul settimanale Tempo tra il mese di
novembre 1972 e il gennaio 1974.

Empirismo eretico
Agli ultimi anni di Pasolini appartengono gli interventi fatti sui giornali di maggiore diffusione,
come il Corriere della Sera, nei quali, ricollegandosi con il suo lavoro di critico e con la sua poesia
maggiormente ideologica, denuncia la realtà contemporanea, mettendo in evidenza le modificazioni
della vita quotidiana con una condanna appassionata ai nuovi costumi consumistici. Questa
saggistica, che si riduce in interventi brevi e incisivi, è una denuncia provocatoria e nettamente in
contrasto con le tendenze che dominavano negli anni intorno al Sessantotto. I suoi interventi, con i
quali aggredisce come un "corsaro" il degrado che lo circonda e del quale fa parte, suscitano forti
reazioni e polemiche essendo essi strettamente legati alla sua persona e alla battaglia politico-
culturale del momento. Egli si allontana da ogni conformismo e dalle regole costituzionali della
cultura che erano nati proprio nel contesto dei movimenti del '68 e accettata da tutti gli intellettuali
appartenenti alla sinistra.

Le raccolte degli scritti giornalistici


Se nei testi tenuti dal 1960 al 1965 sulla rubrica di corrispondenza con i lettori sulla rivista Vie
nuove e pubblicati nel 1977 nel volume Le belle bandiere non vi sono ancora accenti polemici,

239
questi si faranno sentire negli interventi tenuti dall'agosto del '68 al gennaio '70 sulla rubrica "Il
caos" del settimanale Tempo, che verranno raccolti nel 1979 nel volume intitolato Il caos.
Il culmine di questo tipo di saggistica si può però vedere nei due volumi pubblicati nel 1975 con il
titolo Scritti corsari, che raccolgono gli interventi apparsi su vari giornali tra il gennaio 1973 e il
febbraio 1975, e nel volume Lettere luterane che, pubblicato postumo nel 1976 ma con il titolo
programmato in precedenza da Pasolini stesso, raccoglie gli articoli apparsi durante il 1975 sul
Corriere della Sera e su Il Mondo.
Le tematiche affrontate in questi scritti sono la critica dura verso le diverse forme della cultura di
massa. Pasolini si indigna per il consumismo che ha deturpato l'aspetto fisico dell'Italia e ha
modificato il carattere dei suoi abitanti. Egli osserva che gli antichi valori autoritari sono crollati per
lasciare il posto ad altri valori di carattere edonistico ed egoistico. Occupandosi di critica televisiva,
egli denuncia tra i responsabili di questo degrado la televisione e la scuola di massa, il Sessantotto e
il suo antiautoritarismo.

7. Opere post mortem

La divina mimesis, pubblicata subito dopo la sua morte, lasciata volutamente incompiuta,
frammentaria e piena di presagi. L’opera è la confessione di un immenso vuoto d'amore e dialogo
smarrito con sé stesso. Essa rivela una grande solitudine in un mondo dominato dalla forza del
male, del potere, della violenza e della degradazione. Ripercorrendo i primi gironi del viaggio
dantesco, nell'inferno del mondo moderno, giudica la società contemporanea e amplia le punizioni
per le nuove categorie di peccatori.
Ed infine c’è Petrolio, la sua ultima opera incompiuta che venne pubblicata solamente nel 1992
suscitando molto scalpore. Essa racchiude in sé tutti gli elementi della grande tradizione letteraria e
ritrova il suo legame con il grande romanzo del Settecento e dell'Ottocento. Vi è nell'opera la
descrizione impietosa di una società ostile e nemica che si mescola a una viva confessione
autobiografica piena di sensi di colpa, di sconforti, di desideri e di ribellioni. Il romanzo diventa
così sociale e oggettivo, specchio di una tragedia collettiva ma anche personale.
Di Petrolio sono rimaste 522 pagine scandite in "Appunti" con una numerazione progressiva, che si
configurano in un insieme di frammenti più o meno estesi e di soli titoli.
Protagonista del romanzo è Carlo, ingegnere della borghesia torinese nato nel 1932 e laureatosi a
Bologna nel 1956, che lavora all'ENI ed è un brillante cattocomunista. Il personaggio di Carlo è
però sdoppiato: esiste infatti un Carlo che è Carlo di Polis, angelico e sociale, e un Carlo di Tetis,
diabolico e sensuale. Apparentemente le due metà del personaggio sembrano possedere vite diverse,

240
ma in realtà si scambiano spesso i ruoli e risultano così come una stessa persona, simbolo della
contraddittorietà.
L'opera si apre con un "Appunto 1" che possiede solamente il titolo: Antefatti.
Segue l'"Appunto 2" dal sottotitolo La prima rosa dell'Estate dove Carlo si trova a Roma, nella casa
che ha affittato ai Parioli in attesa che il padre lo raggiunga. Sulla scena, che si svolge nel maggio
del 1960, si affaccia il neo-capitalismo.
Con l'"Appunto 7" la scena si sposta in una villa del Canavese. Carlo è rientrato a Torino, fa carriera
nell'ENI venendo a contatto con un mondo politico-economico sporco e losco, compie un viaggio in
Oriente e ha rapporti sessuali con la madre, le sorelle, la nonna, le serve.
Il momento cruciale del "poema" (come spesso lo definisce l'autore) si ha con l'"Appunto 51"
quando Carlo, guardandosi allo specchio, si accorge di essere diventato una donna.
Nel lungo "Appunto 55", intitolato "Il pratone della Casilina", Carlo, sullo sfondo della periferia
romana, consuma un rapporto orale con venti ragazzi con la ripetitività di un rito.
Ancora Carlo ha un'esperienza passiva con il cameriere Carmelo del quale è sottomesso in un
rapporto completo che fa della passività e dell'essere posseduto il massimo atto di realizzazione. In
questo modo la trasformazione in donna di Carlo fa da preludio alla scelta: l'eroe riceve nel proprio
corpo la "Grazia" (lo sperma) e risulta così l'eletto. Segue una visione che prende la forma di
"stazione" che è tra il teatrale e il cinematografico. Il protagonista è un giovane proletario, Merda, e
attraverso innumerevoli tappe viene illustrata in forma allegorica quella che è, secondo Pasolini, la
crisi italiana e in particolare la degradazione della gioventù con un andamento dantesco.
La prima parte del romanzo termina con un ricevimento ufficiale dove sono presenti tutti i notabili e
gli uomini politici del presente che raccontano storie allegoriche.
La seconda parte è molto frammentaria e i materiali sono pochi: una festa ispirata a Dostoevskij
intitolata I dèmoni, e una passeggiata del protagonista in campagna e poi nella periferia della città
che ha per titolo I Godoari, tratto dal nome di un popolo barbaro che è presente nel racconto La
villa romana di Anna Banti. Il motivo principale è quello dell'ultimo Pasolini e cioè la denuncia
della "trasformazione-involuzione" dell'Italia contemporanea.

BIBLIOGRAFIA e SITOGRAFIA

Battistini A., Storia della letteratura italiana: dal Settecento ai giorni nostri, Bologna, Il Mulino,
2014.

241
Ferroni G., Storia della letteratura italiana: il Novecento e il nuovo millennio, Milano, Mondadori,
2017.

https://www.treccani.it/enciclopedia/pier-paolo-pasolini/

https://www.treccani.it/enciclopedia/pier-paolo-pasolini_%28Dizionario-Biografico%29/

Giulia Di Rienzo

LUIGI MENEGHELLO

1.1 Vita dell’ autore

Luigi Meneghello nasce a Malo nel 1922, in provincia di Vicenza, frequenta i primi tre anni della
scuola “privata” della maestra Prospera Moretti e questo gli dà modo di anticipare di un anno
l'ingresso alla scuola elementare. Nel 1932 supera l'esame di ammissione allo storico ginnasio liceo
classico Pigafetta di Vicenza e lì frequenta i tre anni del “ginnasietto” (le attuali scuole medie) e i
due anni del ginnasio (i primi due anni dell'attuale liceo classico).
Nell'ottobre 1939 si iscrive alla facoltà di lettere e filosofia dell'Università di Padova. Nel maggio
1940 partecipa ai Littoriali nel campo della “dottrina fascista” e vince il suo concorso. Una sintesi
del suo testo viene pubblicato nel numero di Gerarchia del giugno 1940 con il titolo: La dottrina
del fascismo e la politica del Regime nel pensiero dei Littori. Razza e costume nella formazione
della coscienza fascista.
Nell'estate del 1940 incontra Antonio Giuriolo e prende contatto anche con altri antifascisti tra di
loro amici: Antonio Barolini e Neri Pozza. Attraverso questi ultimi conosce e frequenta altri
intellettuali antifascisti come Luigi Russo, Francesco Flora, Aldo Capitini, Carlo Ludovico
Ragghianti, Licisco Magagnato e altri tra i quali il fratello Bruno Meneghello, Renato Ghiotto e altri
ancora. Tra l'autunno del 1942 e il gennaio 1943 da questo gruppo nasce a Vicenza il Partito
d'Azione.

Nel 1947 si trasferisce in Inghilterra, dove insegna Letteratura italiana all’ Università di Reading,
dove insegna fino al 1980 e crea e dirige il locale dipartimento di Studi italiani. Il 23 settembre

242
1948 Meneghello sposa, con rito civile a Milano, Katia Bleier (è la K. citata in tutti i libri
dell'autore), un'ebrea jugoslava di lingua ungherese. Negli anni successivi al 1980 e fino al 2004,
anno della morte di sua moglie Katia, Meneghello vive tra l'Inghilterra e Thiene - città che lo aveva
insignito nel 1989 della cittadinanza onoraria - per trasferirsi infine nella città berica in via Nino
Bixio in modo definitivo.

Morì, sembra d'infarto, nella sua casa di Thiene il 27 giugno 2007, soli sette giorni dopo avere
ricevuto l'ultima laurea honoris causa dall'Università di Palermo e in attesa di ricevere il premio
Feltrinelli per la narrativa dell'Accademia dei Lincei.

1.2. L’ opera principale: Libera nos a Malo

Il panorama della narrativa di fine ‘900 si presenta assai variegato, in quanto espressione di
tendenze e finalità diversissime. Luigi Meneghello è tra i narratori del dopoguerra che propongono
una sperimentazione linguistica nuova affiancando ed intrecciando la propria ricerca memoriale a
quella grammaticale e linguistica; con soluzioni che mescolano l’italiano e il dialetto Meneghello
punta ad una personalissima indagine culturale e antropologica di un mondo rurale e popolare in via
di estinzione.
L’ opera che lo fa conoscere e apprezzare subito dal pubblico è Libera nos a Malo, un romanzo
autobiografico che racconta, in modi ora teneri, ora malinconicamente nostalgici, ora ironici e
talvolta comici, l’ infanzia vissuta dall’ autore a Malo.
Il racconto è interamente ambientato a Malo; al paese sono dedicati vividi e affettuosi ricordi e qui i
protagonisti della narrazione sono gli abitanti, la folta cerchia familiare di Meneghello, i compagni e
le compagne d’infanzia, i personaggi e i luoghi caratteristici che hanno connotato in modo
significativo la sua vita a cominciare dagli anni trenta.
Le vicende sono raccontate in prima persona: Meneghello è contemporaneamente narratore e
personaggio. Sotto un’apparenza dispersiva, come se l’autore avesse annotato qua e là i suoi appunti
di vita, il libro presenta invece un’organizzazione calibrata fondata sull’alternanza di capitoli di
differente argomento memoriale.
L’opera si compone di una prima parte piuttosto composita, in cui prevale la tematica dell’infanzia:
l’autore unisce i ricordi del periodo infantile alla ricostruzione lucida e ironica di quel mondo
popolare in cui viveva. Nella seconda parte invece prevale il rapporto del protagonista con il paese:
il racconto è qui anche un’occasione per riattraversare l’epoca storica tra le due guerre mondiali,
concentrando lo sguardo sulla vita di un paese di montagna.

243
Il titolo ironico allude a un desiderio di liberazione dalla memoria del paese - con l’ identificazione
di Malo col male - che è poi smentito dalla narrazione, tutta tesa invece al recupero minuzioso degli
eventi, dei paesaggi e dei personaggi del passato. Allo scopo di rendere più viva e persuasiva questa
rappresentazione del mondo e dell’ infanzia, Meneghello si serve di un linguaggio originalissimo
che mescola italiano e dialetto veneto, avvicinandosi così in un certo modo alle sperimentazioni
formali che proprio nei primi anni ’60 stanno tentando gli scrittori della Neoavanguardia. In realtà
la riscoperta e la ricostruzione del dialetto non sono legate, in Meneghello, soltanto ad un’ esigenza
di astratta sperimentazione letteraria, ma ad un bisogno, anche morale, di ritrovare le proprie radici
più vere.

A prima vista i trentuno capitoletti di ineguale lunghezza che compongono il testo appaiono come il
flusso ininterrotto della memoria riversato in forma scritta, senza apparente ordine e logicità; ma se
analizzati più da vicino, questi capitoli possono essere suddivisi in tre parti. La prima parte
raggruppa i capitoli dall’1 al 12 che puo’ essere intitolata alla “memoria caleidoscopica” poiché
riguarda episodi relativi all’infanzia di Meneghello: i primi innamoramenti, le esperienze
scolastiche, i giochi e le lotte con i compagni. Per questa sezione Pellegrini parla di “poema
eroicomico dell’infanzia”. La seconda parte riguarda i capitoli 13–15 e si configura come
un’indagine storico-sociologica della società e della vita paesana; infatti sono trattati i temi della
cultura, della lingua, dei costumi. Nella terza parte, che comprende i capitoli dal 16 al 31, la
componente autobiografica e quella storico-sociologica si fondono: tornano con maggiore
sistematicità i temi e i personaggi delle prime due parti, con l’aggiunta di riflessioni e
considerazioni sulle trasformazioni del vivere quotidiano.

Libera nos a Malo è un ritorno alle origini: come tale, ricerca le radici dell’identità (individuale,
sociale, storica e culturale) dell’autore e del suo paese; lo fa però senza ansie particolari, col
distacco di una gioiosa serenità. Memorie intense convivono con ricordi divertiti, affetto e
benevolenza con lucidità di analisi e giudizio, anche grazie all’ effettiva lontananza dell’ autore
rispetto all’ oggetto della narrazione: sia sul piano fisico (Meneghello vive in Inghilterra dal 1947),
sia in termini cronologici (l’opera è dei primi anni ’60, con edizione riveduta del ’75, ma riguarda il
periodo tra le due guerre, con puntate anche tra fine ‘800 e primo ‘900), sia soprattutto per la
costante disposizione alla valutazione critica e all’ ironia, come dimostrano i brani antologizzati. Il
mezzo letterario, con cui si realizza il viaggio alle origini di Libera nos a malo, è un genere ibrido,
anzi un vero pastiche di generi, che in qualche modo sono chiamati a cooperare al progetto
narrativo: dal romanzo al saggio sociologico e antropologico, dalla pagina diaristica al taccuino di

244
appunti, dall’ autobiografia privata e familiare al documento etnografico-linguistico, con il corredo
ovviamente dei rispettivi stili e registri.
Dominante è comunque l’intonazione ironica (già evidente nel gioco di parole del titolo, dove il
“liberaci dal male” del Padre nostro è anche un “liberaci da Malo”, paese natale di Meneghello), che
impedisce alla serietà della ricerca di trasformarsi in seriosità, alla critica di assumere l’amarezza
del sarcasmo, al dato personale di colorarsi di sentimentalismo.
Un passo tratto dal capitolo XII del romanzo rievoca con taglio ironico e divertito, la passione per il
calcio dei ragazzi di Malo. Tutto il brano è in chiave ironica, a cominciare dal gioco di
contaminazione linguistica tra dialetto e inglese:

- Giocando al pallone s’ imparavano anche gli elementi dell’inglese, Au, Ossei, Cros, Còrne,
Tràine, Gol: s’ imparava a rispettare le regole e gli uomini in cui esse s’ incarnano,
Massimino per esempio.

Si tratta di forme dialettizzate di termini inglesi relativi al gioco del calcio: Au da out (palla in fallo
laterale o di fondo campo), Ossei da off-side (fuorigioco), Cros da cross (traversone), Còrne da
corner (calcio d’ angolo), Tràine da trainer (allenatore), Gol da goal (rete).

- Accoglievamo e rigettavamo le istanze con sussieguo, io reggendo in mano il simbolo del


potere, il pallone, e Piareto col cipiglio del senior executive (dirigente d’ azienda; inglese).
- Il bid colossale ci fece perdere la testa:la commissione tecnica si mise a fare salti di gioia e
accolse con abbracci la facoltosa ala sinistra (bid: somma offerta; inglese).

L’ elemento più evidente, dal punto di vista formale, è il pastiche linguistico, con continue
contaminazioni fra italiano letterario e italiano popolare, inglese e dialetto (singole parole ed
espressioni o anche citazioni di detti, filastrocche, canzoni ecc.). Le inserzioni in inglese hanno in
genere un effetto straniante e di ulteriore sottolineatura ironica, in quanto rimarcano la lontananza
dalla voce narrante dall’ oggetto della narrazione. L’ uso del dialetto non è dettato da ragioni
folcloriche o di recupero e salvaguardia in senso stretto, ma da un’esigenza più profonda: il mondo
di Malo, ripercorso dal romanzo ed ormai scomparso, cancellato dall’ invasione della modernità,
può esprimersi pienamente solo nel dialetto, la lingua propria ed esclusiva che è tutt’ uno con la
realtà delle cose.

1.3. Le altre opere

245
Più legato a modalità narrative tradizionali e vicine al Neorealismo è invece il romanzo I piccoli
maestri, pubblicato nel 1964 e poi, in una versione riveduta nel 1976. L’ opera che si inserisce nell’
ampio filone resistenziale che tanta fortuna aveva avuto negli anni ’40 e ’50, racconta le vicende di
un gruppo di giovani partigiani che nel 1945 combattono contro i nazisti sull’ altopiano di Asiago.
Il romanzo, tuttavia, non ha alcun intento celebrativo, in quanto mira a proporre una
rappresentazione della Resistenza in chiave anti-retorica e anti-eroica. Nelle opere successive
Meneghello - da Pomo pero. Paralipomeni di un libro di famiglia (1974) a Fiori italiani (1976) e
a Bau-sète (1988) - continua la rievocazione di un passato che si identifica con il mondo della
campagna veneta, mediante un amoroso recupero delle forme dialettali che a quel mondo sono
intimamente legate, ora in chiave sperimentale, ora in chiave ironica e comica, ora in chiave
realistica.
Nel più recente Il dispatrio (1993) lo scrittore parla del suo distacco-espatrio dall’ Italia e dal
mondo dell’infanzia, e insieme da quelle lingua pre-logica che ne era stata l’espressione più viva e
compiuta.
Meneghello è autore di saggi , fra cui l’ autobiografico Jura.Ricerca sulla natura delle forme scritte
(1987) e Maredè, Maredè… Sondaggi nel campo della volgare eloquenza vicentina (1990).

BIBLIOGRAFIA

G. Barberi Squarotti- G. Amoretti- G. Balbis- V. Boggione, Storia e Antologia della letteratura,


2012, Edizioni Atlas.

Maria Rosa Petrella

Natalia Levi

Vita

Natalia Levi nasce a Palermo il 14 luglio del 1916 in una famiglia ebraica. Il padre, Giuseppe Levi,
è un noto scienziato triestino che, una volta che il fascismo ha assunto la guida dell’Italia, assume
posizioni fortemente antifasciste, motivo per cui, insieme ai fratelli di Natalia, viene imprigionato
dal regime. La famiglia Levi si trasferisce a Torino quando Natalia è ancora bambina e frequenta le
scuole, dove viene emarginata per il suo essere ebrea e figlia di un antifascista, ma già
nell’adolescenza trova conforto nella scrittura. Narratrice dalla vocazione precoce, a diciassette
246
anni le sue primissime prove letterarie risalgono all’inizio degli anni Trenta, quando sulla rivista
Solaria vengono pubblicati i suoi primi racconti. Nel 1938 sposa Leone Ginzburg, grande letterato
italiano, anch’egli ebreo, figlio di una famiglia di immigrati russi; Natalia prende il nome del
marito, con il quale firma tutte le sue opere e diventa nota presso il grande pubblico. Grazie al
marito stringe i contatti con i maggiori intellettuali antifascisti torinesi che, all’epoca, orbitavano
attorno alla casa editrice Einaudi con la quale Leone collabora. Con l’inizio della Seconda Guerra
Mondiale la situazione si fa ulteriormente difficile perNatalia e la sua famiglia, nel 1940 vengono
mandati al confino in Abruzzo per motivi razziali e politici. Nonostante la situazione nel 1942 la
Ginzburg dà alle stampe il suo primo romanzo, pubblicato dapprima con uno pseudonimo e poi, nel
1945, con il vero nome dell’autrice. Nel 1944 Leone Ginzburg viene torturato e ucciso dai fascisti
nel carcere romano di Regina Cieli. Pochi mesi più tardi, quando la Capitale viene liberata dalle
truppe anglo-americane, la Ginzburg vi si trasferisce e inizia a collaborare con al sede romana
dell’Einaudi. Nel 1945 si trasferisce definitivamente a Torino dove si riunisce con i suoi figli. Nel
1950 si sposa con il professore di letteratura inglese Gabriele Baldini e comincia il periodo più
prolifico per la sua produzione letteraria. Nel 1952 pubblica il suo terzo romanzo, Tutti i nostri ieri,
cui fa seguito una raccolta di racconti nel 1957; nel 1963 vince il Premio Strega per Lessico
famigliare. Alla fine degli anni ‘60 la Ginzburg affianca alla normale attività letteraria quella di
collaboratrice sulle pagine culturali del Corriere della Sera, con un riscontro tale da farla diventare
un punto di riferimento nel panorama culturale e letterario italiano. Nel 1969, anno in cui muore
anche il secondo marito, comincia anche il periodo del suo impegno politico più attivo: nell’Italia
della Strategia della tensione, la scrittrice chiede verità sulla Strage di Piazza Fontana e sulla morte
misteriosa dell’anarchico Giuseppe Pinelli e, in generale, si schiera a favore degli esponenti della
sinistra radicale. L’universo che interessa la Ginzburg si circoscrive entro il microrganismo della
famigli, delineato con acuta precisione nelle sue dinamiche interne e con una viva attenzione ai
particolari quotidiani, agli eventi minimi, alle sfumature psicologiche, ai gesti usuali. Pur dotata di
sicura sensibilità storica e sociale privilegia nella scrittura inventiva dimensione privata,
soffermandosi su piccole storie di esistenze oscure, scandite da quei fatti elementari(nascita, amore,
matrimonio, maternità, morte).

Le piccole virtù: trama e analisi

Si tratta di una raccolta divisa in due parti contenente in totale undici testi tra memorie,brevi
racconti e riflessioni scritti tra il 1944 ed il 1960, che viene pubblicato per la prima volta nel 1962.
Il testo che dà il nome alla raccolta, Le piccole virtù, appunto, contiene le riflessioni della Ginzburg
sull’essere genitori, e su quale debba essere l’educazione etica migliore da impartire ai figli;
contrariamente a quello che farebbe pensare il titolo, sono le grandi virtù ad essere individuate come
quelle meritevoli di essere insegnate: come la generosità contrapposta all’avidità e alla ricerca del
denaro, il coraggio invece della paura o la ricerca del sapere invece della ricerca della fama. Da
questi racconti emerge come ogni momento, ogni avvenimento della vita della Ginzburg ha saputo
suscitare in lei osservazioni penetranti e riflessioni, ne è testimonianza l’Elogio e compianto
dell’Inghilterra, un testo in cui l’acume della giornalista si concentra sul Paese in cui, per un breve
periodo, si è trasferita insieme al secondo marito Gabriele Baldini, individuandone i pregi e le
differenze rispetto all’Italia. In Ritratto di un amico possiamo invece leggere il ricordo scritto per
Cesare Pavese, piemontese anche lui e grande esponente della letteratura italiana del secondo
dopoguerra morto suicida nel 1950. Pesante è anche la memoria della guerra, che si presenta sia nel
247
racconto di stampo neorealista Le scarpe rotte, scritto a Roma nel 1945 e pubblicato in un primo
momento sulle pagine de Il Politecnico diretto da Elio Vittorini che nel breve saggio dal titolo Il
figlio dell’uomo, in cui la Ginzburg riflette sul trauma che il fasci Lessico famigliare: trama e
analisi

Lessico famigliare:

Nonostante desideri evitare “il sacro orrore dell’autobiografia”, per non cadere in facili
sentimentalismi, resta convinta d’altronde che “non si può raccontare soltanto quello che si
conosce..dal dentro”. In lessico famigliare si decide ad affrontare esplicitamente con briosa ironia,
la varia pittoresca e intricata storia della sua famiglia.Lessico famigliare: romanzo autobiografico.
Pubblicato per la prima volta nel 1963, anno in cui le viene assegnato il Premio Strega, Lessico
famigliare è un romanzo di stampo autobiografico che racconta l’infanzia dell’autrice e le vicende
della famiglia Levi. Ginzburg racconta aneddoti e abitudini della sua famiglia Attraverso episodi
della sua infanzia, dalle vacanze estive passate in montagna, dove soffre il peso delle scarpe
chiodate, alle abitudini che il padre porta avanti con meticolosità, come quella di preparare il
“mezzorado” un particolare tipo di yogurt sardo, all’affetto della madre che vorrebbe passare più
tempo con i suoi figli ormai diventati adulti e sposati, la Ginzburg ricostruisce e descrive il carattere
dei suoi famigliari facendone un ritratto tenero e ironico. La storia di una famiglia ebraica e
antifascista. Naturalmente, a questo racconto non sono estranei gli avvenimenti storici, e il peso che
questi hanno avuto su una famiglia dichiaratamente antifascista: dalle perquisizioni alla prigionia
subita sia dal padre che dai tre fratelli, tuttavia il romanzo non segue una linea temporale definita,
né ha una qualche pretesa cronachistica, al contrario gli eventi vengono narrati in maniera libera e
senza legami predefiniti tra loro. Il padre di Natalia Ginzburg.Non bisogna dimenticare che il padre
della scrittrice è un professore universitario di fama nazionale, in diretto contatto con i personaggi
più importanti ed attivi della comunità culturale e scientifica italiana, cosa che diventa anche un
modo per l’autrice per far conoscere da vicino, e con un occhio più attento al lato umano che a
quello pubblico, personaggi comeFelice Casorati, Giulio Einaudi, Elio Vittorini e Leone Ginzburg,
il suo primo marito. Ricerca linguistica. L’attenzione che la Ginzburg dedica alla descrizione
emotiva dei diversi membri della sua famiglia si lega ad un altro elemento, di tipo diverso, che è
appunto una particolare ricerca linguistica, lessicale, che richiama alla ragione del titolo stesso e
cioè quella di rendere l’unità e la complicità emotiva interna della famiglia Levi, in modo da
ricavarne un ritratto intimo efficace. La narrazione si ferma nel 1950 con la tragica scomparsa di
Cesare Pavese.

Lessico famigliare è, probabilmente, il libro più importante scritto dalla Ginzburg che, non solo le è
valso la vittoria del Premio Strega, ma si è rivelato un buon successo editoriale tradotto anche in
ebraico, giapponese e cinese.

Bibliografia

Testi nella storia, Cesare Segre,C. Martignoni-Vol.4

Storia della letteratura italiana.: Dall'Ottocento al Novecento.Giulio Ferroni- Vol. 3

http://www.italialibri.net/autori/ginzburgn.html

248
Maria Grazia Salomone

249
250
PARTE III

1
PARTE III -LETTERATURA ITALIANA

I - Sezione generale

1. Guida all'analisi di un testo (poesia - narrativa - prosa) - ​G. Abbondo

2. Le figure retoriche – elaborato non pervenuto

3. L’intertestualità e la relazione fra temi e generi letterari -​ C. Cassiani

II - Critica letteraria

1. F. De Sanctis - elaborato non pervenuto

2. B. Croce - ​V. Vinci

3. A. Gramsci - elaborato non pervenuto

4. E. Auerbach - elaborato non pervenuto

5. M. Bachtin - elaborato non pervenuto

6. G. Debenedetti - elaborato non pervenuto

7. M. Corti - ​C. Benassi

8. F. Orlando - ​A. Racalbuto

9 . C. Segre - ​A. Racalbuto

2
III- Letteratura Straniera

1.Shakespeare - ​M. Tafuni

2. Cervantes - elaborato non pervenuto

3. Goethe - ​B. Basile

4. Baudelaire . ​A. Campitiello

5. Joyce - elaborato non pervenuto

6. Proust - ​F. Innocenzi

7. Kafka - ​I. Caramazza

3
1. GUIDA ALL’ANALISI DI UN TESTO

a) TESTO IN VERSI

1. COMPRENSIONE

1.1​ Dare informazioni su periodo di ​composizione​, ​storia​, ​collocazione del testo​.


- quando è stato scritto?
- in quale occasione o in quale momento della storia dell’autore?
- è un testo autonomo e fa parte di un’opera più ampia?

1.2​ ​Parafrasi​ : comprensione del significato letterale del testo

2. ANALISI

1.1​ Livello ​ritmico, metrico, fonico


- tipo di componimento, versi, rime
- rapporto tra sintassi e struttura metrica

1.2​ Livello ​retorico e linguistico


- tipo di lingua usata (innovativa, stilizzata, sublime, realistica, ecc)
- stile con periodi brevi/lunghi, struttura ipotattica o paratattica, ordine degli elementi
logici o inversione
- analisi figure retoriche per ricognizione delle scelte stilistiche

3. INTERPRETAZIONE E APPROFONDIMENTI

Dare un significato e valore agli elementi emersi in sede di analisi.

1.1​ ​Storicizzazione​ e ​contestualizzazione


- attraverso l’analisi degli aspetti formali del testo agganciarsi all’ideologia e alla
poetica dell’autore, evidenziando i temi principali
- il valore delle scelte poetiche e del processo creativo dell’opera letteraria

4
1.2​ ​Attualizzazione
- confronto tra il mondo del testo e il proprio
- parallelismi tra passato e presente, con differenze e somiglianze.
- il “conflitto” delle interpretazioni critiche

b) TESTO NARRATIVO

1. COMPRENSIONE

1.1​ Dare informazioni su periodo di ​composizione​, ​storia​, ​collocazione del testo​.


- quando è stato scritto?
- in quale occasione o in quale momento della storia dell’autore?
- è una narrazione breve, come racconto o novella, di quale libro fa parte e a che punto
si colloca. Se è un romanzo, fa parte di un ciclo?
-

1.2 ​Significato letterale e il tema : per arrivare a una completa comprensione letterale, le
operazioni necessarie da compiere sono:
- lettera delle note, se presenti
- ricerca delle parole difficile sul vocabolario e svolgimento dei periodi più complessi
- suddivisione del testo in sezioni o parti caratterizzate da un’autonoma ragione
narrativa o da uno specifico motivo conduttore
- individuazione del tema del racconto
- riassunto del testo in modo conciso

2. ANALISI

1.1​ ​Fabula e intreccio


Es: impianto narrativo/ordine cronologico/flashback, ecc.

1.2 Punto di vista narrativo e focalizzazione


tipologia di narratore, focalizzazione interna o esterna, ecc.

1.3​ ​Tempo e spazio

5
1.4 Sistema dei personaggi

3. INTERPRETAZIONE E APPROFONDIMENTI

Dare un significato e valore agli elementi emersi in sede di analisi.

1.1​ ​Storicizzazione​ e ​contestualizzazione


Il testo va contestualizzato in rapporto:
- all’autore (vita, poetica, ideologia, opera complessiva)
- alla tradizione letteraria precedente e coeva (confronto tra temi e di generi con testi di
altri autori)
- al quadro storico, sociale, culturale

1.2​ ​Attualizzazione
- confronto tra il mondo del testo e il proprio
- parallelismi tra passato e presente, con differenze e somiglianze.
- il “conflitto” delle interpretazioni critiche
c) TESTO TEATRALE

1. COMPRENSIONE

1.1​ Dare informazioni su periodo di ​composizione​, ​storia​, ​collocazione del testo​.


- quando è stato scritto?
- in quale occasione o in quale momento della storia dell’autore?
- è un testo autonomo o fa parte di un’opera più ampia

1.2 ​Significato letterale e il tema : per arrivare a una completa comprensione letterale, le
operazioni necessarie da compiere sono:
- suddivisione del testo in sezioni o parti caratterizzate da un’autonoma ragione
narrativa o da uno specifico motivo conduttore
- individuazione del tema
- riassunto del testo in modo conciso

6
2. ANALISI

1.1​ ​Le battute e le didascalie


Interrogazioni, esclamazioni, sospensioni per mettere in risalto la situazione emotiva. Analisi
delle didascalie che arricchiscono il contenuto dei dialoghi e precisano il carattere e il ruolo
dei personaggi.

1.2 Sistema dei personaggi

3. INTERPRETAZIONE E APPROFONDIMENTI

Dare un significato e valore agli elementi emersi in sede di analisi.

1.1​ ​Storicizzazione​ e ​contestualizzazione


Il testo va contestualizzato in rapporto:
- all’autore (vita, poetica, ideologia, opera complessiva)
- prassi scenica del periodo (uso e specializzazione di attori, tipo di recitazione,
scrittura completa del copione o improvvisazione)
- alla tradizione letteraria precedente e coeva (confronto tra temi e di generi con testi di
altri autori)

1.2​ ​Attualizzazione
- confronto tra il mondo del testo e il proprio
- parallelismi tra passato e presente, con differenze e somiglianze.
- il “conflitto” delle interpretazioni critiche

Interamente tratto da Catardi, Angioloni, Panichi, ​La letteratura al presente. L’esame con
successo,​ Palumbo editore, Palermo 2015.

7
3. L’INTERTESTUALITÀ - a cura di C. Cassiani

Ci sono parecchie classificazioni per spiegare i diversi tipi d'intertestualità. ​Gérard Genette​,
nell'introduzione a "Palinsesti. La letteratura al secondo grado" utilizza il termine
transtestualità e lo propone come la possibilità di trascendenza testuale del testo, “ciò che lo
mette in relazione, manifesta o segreta, con altri testi”. Questa transtestualità può avere
differenti forme:

● Intertestualità, presenza effettiva di un testo in un altro (citazione, plagio, allusione,


parodia).
● Metatestualità, rapporto critico o riflessivo che un testo ha con un altro.
● Architestualità, rapporto tra testi che possiedono caratteristiche generali comuni
(generi letterari, sottogeneri, ecc).
● Paratestualità, rapporto d'un testo con altri della propria periferia testuali o grafici di
contorno (titoli, opinioni di altri autori, colore della copertina, ecc).
● Ipertestualità, rapporto che inserisce un testo (ipotesto) in un altro (ipertesto), ma non
a modo di commento, per poter essere funzionale all'ipotesto (citazioni nei saggi, ecc).

FIABA

I Ruoli Dei Personaggi

Il grande antropologo russo Wladimir Propp nel suo saggio ​Morfologia della fiaba​, ha
suddiviso per primo i ruoli dei personaggi in un testo narrativo a seconda della funzione che
essi svolgono in rapporto alle vicende narrate ed è giunto alla conclusione che, ​a prescindere
dalla loro condizione sociale e dalla loro psicologia, i personaggi rivestono alcuni ruoli
fissi.
● Il protagonista ​è il personaggio attorno a cui si sviluppa l’azione, dà inizio alla storia
e ne è il centro; deve raggiungere un obiettivo o risolvere un problema e in genere è
dotato di qualità positive. Il protagonista svolge anche la funzione
di ​destinatario​ perché è lui che agisce per ottenere l’oggetto del desiderio.
● L’antagonista è il personaggio che si oppone al protagonista creando ostacoli per il
raggiungimento del suo obiettivo; la sua presenza nella storia determina una
situazione conflittuale e per questo in genere è rappresentato con caratteristiche
negative.

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● L’aiutante ​detto anche aiutante ​positivo​, è il personaggio che aiuta il protagonista a
portare a termine la missione, spesso dopo averlo messo alla prova; in una storia ci
può essere più di un aiutante.
● L’oppositore ​è il personaggio che aiuta l’antagonista a ostacolare il protagonista; si
tratta quindi di un aiutante ​negativo​. Anche in questo caso in una storia ci può essere
più di un oppositore. A volte può esserci uno scambio di ruoli per cui l’oppositore può
trasformarsi in aiutante e viceversa.
● L’oggetto ​è l’obiettivo che il protagonista si prefigge di raggiungere e può trattarsi di
un bene materiale, di un concetto astratto (la libertà, la verità, l’amore, ecc.) o di una
persona.
● Il mandante ​detto anche ​destinatore​, è il personaggio che affida al protagonista la
missione da compiere. In genere svolge la funzione di arbitro della vicenda, volgendo
l’azione a favore ora del protagonista ora dell’antagonista.
La Gerarchia Tra Personaggi

Il sistema dei ruoli crea anche una gerarchia tra personaggi, a seconda del grado di
importanza della loro presenza nella storia.

Sotto questo punto di vista i personaggi si dividono in tre categorie:

1) I personaggi principali
svolgono ruoli di primo piano nella vicenda. Sono personaggi principali il protagonista e
l’antagonista e i loro comprimari. Un protagonista, infatti, può essere affiancato da un
personaggio che ha un ruolo pari al suo e così pure l’antagonista. Pensa per esempio a storie
in cui i protagonisti sono due persone (due amici, due sorelle, due fidanzati, ecc.). I due
personaggi principali possono poi essere legati tra loro da un rapporto di collaborazione, se si
aiutano reciprocamente nel raggiungimento dell’obiettivo, oppure da un rapporto di
competizione, quando puntano allo stesso obiettivo ma ciascuno per sé.
2) I personaggi secondari
rappresentano nella vicenda una parte marginale e di contorno, ma sono funzionali allo
svolgimento dell’azione e condizionano lo sviluppo dell’intreccio. Sono per esempio
personaggi secondari l’aiutante e l’oppositore.
3) Le comparse
sono tutti quei personaggi che hanno un ruolo marginale e poco significativo, stanno sullo
sfondo del racconto per caratterizzare l’ambiente, ma non hanno influenza sullo sviluppo

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dell’intreccio. Le comparse possono anche essere trattate come personaggio collettivo (gli
amici del bar, le donne che chiacchierano al mercato, ecc.) che fa da sfondo alle azioni dei
personaggi principali, come il “coro” nella drammaturgia classica.
La Caratterizzazione Dei Personaggi

Dopo aver stabilito i ruoli e le funzioni che i tuoi personaggi ricopriranno nella storia che stai
per raccontare, devi assicurarti di avere tutti gli elementi per poterli caratterizzare.

Abbiamo già detto in altre occasioni, infatti, che ​caratterizzare un personaggio significa
stabilire a quale archetipo si riferisce​ all’inizio della storia e come poi lo declina nel
corso degli eventi.
Il lavoro di caratterizzazione si basa dunque su schede di lavoro ​(che io ti consigli di fare
per iscritto) in cui l’autore definisce tutte le caratteristiche fisiche e psicologiche di un
personaggio.
Per ogni personaggio dovresti stabilire:

● le caratteristiche fisiche​: età, aspetto fisico, corporatura, nome, nazionalità;


● le caratteristiche ​sociali​: status sociale, livello culturale, posizione economica, stile di
vita, abitudini, modo di vestire;
● le caratteristiche ​ideologiche​: concezione del mondo, visione politica, fede religiosa,
valori esistenziali;
● le caratteristiche ​psicologiche​: carattere, comportamenti, pregi caratteriali, difetti,
speranze, obiettivi, paure.
L’evoluzione Dei Personaggi

Dal punto di vista psicologico i personaggi possono essere:

● personaggi a tutto tondo​, detti anche multidimensionali o ​round characters​, secondo


la classificazione fatta dallo scrittore britannico Forster nel suo saggio ​Aspetti del
romanzo​: si tratta di personaggi dal carattere sfaccettato e complesso, a volte
contraddittorio e imprevedibile (in positivo o in negativo), tanto da stupire il lettore
con le loro mosse. In genere sono personaggi a tutto tondo i personaggi principali di
una storia, perché occupano la scena più a lungo e l’autore può arricchirli di dettagli e
sfumature.
● o personaggi piatti​, detti anche unidimensionali o ​flat characters:​ sono personaggi
dai comportamenti prevedibili e standardizzati, privi di spessore psicologico e di

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contraddizioni. In genere sono personaggi piatti i personaggi secondari, che
compaiono meno di frequente sulla scena e la cui evoluzione non è significativa per
dare consistenza alla storia.
I personaggi, infatti, soprattutto quelli principali, non dovrebbero mai essere monolitici e ​non
dovrebbero rimanere sempre uguali dall’inizio alla fine​.
Se si tratta di un testo breve, come un racconto, in genere il protagonista è rappresentato con
caratteristiche precise che vengono confermate fino alla fine della vicenda, ma in una
scrittura più lunga come quella di un romanzo, è indispensabile che egli evolva: le
vicissitudini che attraversa non possono lasciarlo indifferente.

Un personaggio riuscito è quello che cresce durante la storia e in questo percorso porta
con sé il lettore.

Per questo i personaggi si distinguono in:

● personaggi cinetici
sono i personaggi che nel corso della vicenda subiscono una evoluzione (in positivo o
in negativo) e subiscono quindi una trasformazione comportamentale anche radicale;
● e personaggi statici
sono invece i personaggi che nel corso della vicenda non subiscono mutamenti e le
cui caratteristiche rimangono immutate dall’inizio alla fine.

2. FAVOLA

Spesso erroneamente il termine ​favola​ è associato a quello di fiaba: entrambi derivano dal
termine latino ​fabula​ (dal verbo ​far, faris​ = dire, raccontare) ed entrambi sono generi della
narrazione breve di contenuto fantastico, ma hanno caratteristiche diverse.

La lepre e la tartaruga,​ ​La pecora paziente​, ​La cicala e la formica,​ ​Il gatto e i topi e​ molte
altre fanno parte del patrimonio di favole ​tramandate a voce​ da molti popoli.

Tale genere è facile da studiare e sono convinta che vi piacerà la lettura di questi racconti da
cui trarrete degli insegnamenti, dei suggerimenti su come ci si deve comportare nella vita.

Ecco le ​caratteristiche​ della favola da ricordare:

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1. È un ​racconto breve​, narrato in modo semplice;
2. È scritta in ​prosa​ o in ​versi​;
3. Ha ​pochi personaggi​ che spesso sono animali “​umanizzati​” e tradizionalmente sono
il simbolo di alcune caratteristiche del comportamento umano;
4. Non ha indicazioni specifiche di tempo e di luogo​;
5. Contiene una ​morale​, implicita (non espressa dall’autore) o esplicita ( chiaramente
espressa);
6. Lo stile è ​semplice​, caratterizzato dall’uso di dialoghi.

GENERE FANTASTICO

Il ​racconto fantastico​ è un ​genere letterario​ caratterizzato dalla narrazione di una vicenda


che per alcuni suoi aspetti si colloca al di fuori della normalità, con episodi misteriosi e
inspiegabili ambientati nel mondo reale oppure in luoghi fantastici o inventati.

Ha precedenti nella tradizione ​classica​ e ​medioevale​ e si sviluppò soprattutto nell'​Ottocento​.


Il racconto fantastico è caratterizzato da una situazione iniziale normale che tuttavia viene
sconvolta da un fatto inaspettato, strano. Nella situazione intermedia il protagonista si trova
improvvisamente proiettato in un mondo assurdo e/o paradossale.

BIOGRAFIA E AUTOBIOGRAFIA

Si tratta di generi in cui il nucleo del romanzo è rappresentato dalla vita del protagonista, nel
primo caso raccontata da una terza persona, nel secondo dal protagonista stesso. In questo
genere non c’è spazio per la fantasia, e l’estro creativo dello scrittore si deve limitare allo
stile di scrittura.

ROMANZO STORICO

Nel romanzo storico, invece, le vicende sono inserite in un contesto storico ben preciso e
dettagliato, a cui ci si deve attenere rigorosamente, ma i personaggi e la trama che li muove
possono essere liberamente creati dallo scrittore (stando però attento che risultino verosimili
rispetto al contesto).

IL GIALLO E I SUOI FRATELLI (NOIR E HARD BOILED)

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Il termine “giallo” usato per definire questo genere è diffuso solo in Italia e deriva dal colore
giallo delle copertine della fortunata collana di polizieschi lanciata da Mondadori nel
1929. La trama ruota intorno a un crimine e alle indagini che portano alla soluzione del caso.

THRILLER

I libri che appartengono a questo genere sono quelli che tengono sempre il lettore con il fiato
sospeso, in uno stato costante di tensione, creata appositamente tramite i procedimenti
narrativi del climax e della suspense.

AVVENTURA E AZIONE

Come dice già il nome, l’elemento centrale di questo genere è l’azione. La trama si sviluppa
intorno a una missione da compiere, spesso in località esotiche o lontane, che mette alla
prova le capacità di sopravvivenza del protagonista.

FANTASCIENZA

I romanzi che appartengono a questo genere hanno come elemento centrale una tecnologia,
reale o fittizia, con un forte impatto sulla vita dell’uomo. Spesso l’ambientazione è
futuristica, ma può anche rappresentare un presente alternativo.

DISTOPIA

Il genere distopico è la rappresentazione di una realtà alternativa rispetto a quella attuale,


dalla quale però prende spunto per portare all’estremo alcune tendenze politiche o sociali
considerate negativamente. La distopia è il contrario dell’utopia.

FANTASY

In questo genere letterario a prevalere sono gli elementi fantastici, non spiegabili
razionalmente. L’ambientazione è anch’essa frutto della più fervida immaginazione
dell’autore e spesso rappresenta dei paesaggi naturali popolati da figure mitologiche o
fantastiche, come elfi, fate, streghe, o addirittura inventate dall’autore, come gli hobbit.

HORROR

I romanzi horror sfruttano le paure innate dei lettori per creare una trama terrifica, macabra e
coinvolgente. L’ambientazione è necessariamente tenebrosa, buia e claustrofobica.

YOUNG ADULT

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Si tratta di un genere piuttosto nuovo, o almeno lo è la sua definizione. È dedicato a un
pubblico giovane e tratta tematiche come l’amicizia, le relazioni affettive e familiari.

ROMANZO DI FORMAZIONE

I romanzi di questo genere raccontano la maturazione del protagonista verso l’età adulta.
Oggi molto spesso la narrazione è incentrata sugli stati d’animo del ragazzo o della ragazza,
prediligendo una narrazione più psicologico-intimistica.

ROSA O ROMANCE

L’elemento centrale della trama è una storia d’amore, rigorosamente a lieto fine. È un genere
spesso bistrattato, ma è forse quello che più spesso “presta” alcuni dei suoi elementi agli altri:
una bella storia d’amore è sempre gradita al lettore, qualunque libro stia leggendo!

UMORISTICO

In testi di questo genere lo scrittore ha come scopo quello di far ridere il lettore, spesso
attraverso la parodia della realtà o la sua enfasi.

BIBLIOGRAFIA

Wladimir Propp, ​Morfologia della fiaba


● Seymour Chatman, ​Storia e discorso. La struttura narrativa nel romanzo e nel film
● Edward Morgan Forster, ​Aspetti del romanzo
● Dara Marks, ​L’arco di trasformazione del personaggio
● Enrico Testa, ​Eroi e figuranti. Il personaggio nel romanzo

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II - Critica letteraria

2. ​B. Croce - a cura di V. Vinci


Benedetto Croce
Biografia:
Abruzzese, nato nel 1866, vissuto a Napoli per tutta la vita, ministro dell’istruzione
dell’ultimo goversno Giolitti (1920-1921). Morì a Napoli nel 1952. Le sue opere principali:
Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale (1902), Problemi di estetica
(1910), Breviario di estetica (1912), Nuovi saggi di estetica (1920), Aestetica in nuce (1928).

Concezione critico-estetica:

Per Croce l’attività estetica è costituita da una dialettica dei distinti e consta di quattro
momenti: estetico e logico, economico ed etico.
L’arte per Croce è intuizione pura e contemplazione. L’intuizione è anteriore alla
percezione ma non può essere distinta dall’espressione, per cui coincide con il linguaggio.
Il filosofo abruzzese porta, dunque, alle estreme conseguenze la concezione
desanctiana dell​’autonomia dell’arte.​ Di De Sanctis contesta però l’idea dei rapporti rigidi tra
vita sociale e produzione artistica. L’opera d’arte per Croce è metastorica va al di là delle
misere contingenze storiche e sociali. Se giudica severamente il “sociologismo” desactiano,
Croce non apprezza neppure la scuola storica di impostazione positivistica e soprattutto la
critica carducciana, volta a immagini di tipo filologico, biografico-erudito.
Secondo Croce la funzione del critico è quella di distinguere tra poesia e non poesia
(allotria). Il critico arriva alla distinzione tra poesia e non poesia tramite un’operazione
definita ​frangimento​, separazione tra parti giudicate poetiche e parti giudicate non poetiche,
le allotrie appunto. Un esempio celebre di questa procedura è quello relativo al giudizio su
Leopardi: per Croce tutte le riflessioni filosofiche del poeta recanatese sono allotrie e rari
sono i momenti di poesia pura. Il lavoro del critico consta di due momenti: il primo è
l’accertamento della presenza di poesia/non poesia; il secondo è l’individuazione del motivo
generatore della stessa ispirazione poetica del testo.
Questo procedimento porta all’individuazione della struttura non poetica. In Dante, per
esempio, Croce distingue tra la struttura (romanzo teologico) e la poesia.
Per ciascun autore, inoltre, il filosofo individua il motivo generatore della poesia, sintetizzato
in un’unica formula: Ariosto è il poeta dell’armonia, Carducci della storia ecc…

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La scrittura crociana è di grande levatura – quella di De Sanctis era più “colloquiale” – quasi
arcaica. Contini la definisce “classica” sotto certi aspetti.

Bibliografia

Carlo Antoni, Commento a Croce, 2ª ed., Venezia, Neri Pozza, 1964 [1955], ISBN non
esistente

Alfredo Parente, Il pensiero politico di Benedetto Croce e il nuovo liberalismo, 1944.

Marziano Guglielminetti, Giuseppe Zaccaria, La critica letteraria dallo storicismo alla


semiologia, Brescia, La Scuola 1980

Sitografia ​www.senato.it​ il pensiero di croce

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7. M. Corti - ​C. Benassi

1. Note biografiche
2. Maggiori ambiti di ricerca e approfondimento
3. L’approccio critico: la semiologia e lo strutturalismo -
4. Un esempio di analisi critica: La codificazione bucolica in I metodi attuali della
critica in Italia.
5 Bibliografia e Sitografia

1. Note biografiche

Rimasta orfana di madre all’età di 10 anni, Corti frequenta come educanda la scuola delle
suore Marcelline a Milano. Consegue presso l’Università Statale la laurea in Lettere,
discutendo con Benvenuto Terracini una tesi sul latino medievale (poi a stampa, ​Studi sulla
latinità merovingia in testi agiografici minori)​ .

Gli anni universitari sono fondamentali nella formazione di Corti in quanto è proprio in
questo periodo che stringe e rafforza il rapporto di amicizia con Terracini, Cesare Segre, Gian
Luigi Beccaria e Bice Mortara Garavelli.

Dal 1939 al 1950 insegna al ginnasio di Chiari, in provincia di Brescia e nel frattempo
elabora la sua seconda tesi, in estetica, con Antonio Banfi. Ciò le permette di entrare in
contatto con l’ambiente milanese antifascista e di rafforzare le sue idee progressiste.

A seguito del ritorno di Terracini dall’esilio in Argentina, nel 1947 Conti riprende l’attività di
ricerca scrivendo, in contemporanea, il romanzo ​Il treno della pazienza,​ pubblicato solo nel
1991 con il titolo ​Cantare nel buio​.

Nel 1950 comincia ad insegnare al liceo Alessandro Volta di Como e dal 1956 al Beccaria di
Milano. Già dal 1955 inizia a collaborare con l’Università di Pavia pur non lasciando
l’incarico a scuola a causa di incertezze economiche. Nel 1962 vince la cattedra di Storia
della lingua italiana all’Università di Lecce un incarico che ebbe tuttavia breve durata in
quanto, solo due anni più tardi, Corti tornerà come professoressa ordinaria all’Università di
Pavia.

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Nel 1966 fonda con D’Arco Silvio Avalle, Dante Isella e Cesare Segre, la rivista ​Strumenti
critici​. Nel 1979 entra a far parte di ​Alfabeta​ e nel 1984 di ​Autografo​.

Fu accademica della Crusca e dei Lincei.

2. Maggiori ambiti di ricerca e approfondimento

Maria Corti inizia il suo percorso di ricerca con la precoce pubblicazione sulla rivista ​Albero
di un intervento dedicato a Guido Cavalcanti, destinato a restare una delle sue grandi
passioni. Dopo il ritorno di Terracini, i suoi studi si concentrarono sulla storia della lingua
(​Studi di sintassi della lingua poetica avanti lo Stilnovo)​ , l’edizione di De Jennaro ​Rime e
​ uesti primi studi dedicati al Duecento, Quattrocento e
lettere e la ​Vita di s. Petronio. Q
Novecento saranno alla base della prima raccolta di saggi: ​Metodi e fantasmi ​(​Nuovi metodi e
fantasmi 2​ 001), una raccolta che si distinse subito per il rigore metodologico e per
l’attenzione, come richiamata dalla seconda metà del titolo, per autori minori e quasi
evanescenti. All’interno della raccolta di saggi, da segnalare ​Partigiano Johnny ​di Beppe
Fenoglio e le ricerche sull’​Arcadia d​ i Sannazaro.

Con la diffusione dei primi testi russi sulla semiotica, Corti si avvicina a questo nuovo campo
di indagine, accolto e approfondito in ​Strumenti critici,​ prima rivista in Italia a far proprio
l’approccio critico del nascente strutturalismo italiano. L’attenzione alla semiologia viene
ripresa anche nel successivo ​I metodi attuali della critica in Italia ​e il ​Viaggio testuale.

Nel 1969 inizia a raccogliere le prime carte del futuro ​Fondo manoscritti di autori moderni e
contemporanei:​ inizialmente si tratta di un semplice faldone con manoscritti di Eugenio
Montale e Romano Bilenchi; in seguito, si aggiungono gli autografi di Carlo Emilio Gadda
fino ad arrivare, assieme al Centro di ricerca sulla tradizione manoscritta di autori moderni e
contemporanei, a costituire il principale punto di riferimento per lo studio dei manoscritti
novecenteschi. L’attenzione alla conservazione delle carte autografe di autori contemporanei,
la porta a raccogliere un ingente patrimonio documentario tutt’oggi conservato presso
l’Università degli Studi di Pavia. La nascita del Fondo fu accompagnata al crescente interesse
per la letteratura novecentesca (Elio Vittorini, Beppe Fenoglio, Ennio Flaiano e Gesualdo
Bufalino).

Un posto a parte fu riservato a Dante (​Dante a un nuovo crocevia, La felicità mentale. Nuove
prospettive per Cavalcanti e Dante, Percorsi dell’invenzione. Il linguaggio poetico e Dante​),

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letto e commentato secondo la nuova prospettiva semiologica che imponeva lo studio del
testo e dell’autore a partire dal suo contesto storico-letterario di riferimento.

3. L’approccio critico: la semiologia e lo strutturalismo

La semiologia è una disciplina che studia tutti i fenomeni di cultura come sistemi di segni. Se
la semiologia adotta questo punto di vista è perché assume l’ipotesi che la cultura sia
essenzialmente un fatto di comunicazione; ogni simbolo assume dunque valore solo nella
misura in cui è calato entro uno specifico contesto sociale. Ciascun atto comunicativo
costituisce un messaggio che si elabora sulla falsariga del repertorio di segni, e delle regole di
combinazione, prescritti da un codice. La semiologia scopre le radici convenzionali dei nostri
atti di comunicazione; ne studia i modi in cui essi si adeguano al codice e quelli che se ne
discostano (messaggi ad alta ridondanza o ad alta originalità).

Spesso la critica semiologica viene accostata a quella strutturalistica: al pari della prima
infatti, lo strutturalismo impone l’applicazione di un’ottica unitaria e un vasto orizzonte di
ricerca. In entrambi i casi il compito della ricerca pare non tanto quello di individuare dei
fenomeni singoli quanto di individuare dei sistemi, delle strutture e quindi dei codici. Quanto
più un messaggio si struttura in modo originale rispetto al codice, tanto più la semiologia è
interessata a questo scatto di originalità in quanto è nella differenza dal canone che emerge la
peculiarità specifica del testo.

La critica commisura l’opera singola a un contesto-codice che non è la lingua comune e non è
nemmeno la lingua letteraria di un periodo ma è il contesto generale della lingua di un
determinato autore sul cui sfondo il critico esamina i comportamenti verbali e gli esiti
organici individuali dell’opera singola.

«Bando quindi a ogni astrattismo, causa del tono dogmatico. Ogni posizione teorica o
metodologica deve girare attorno al testo letterario, ispezionarlo, tentarne approcci,
inquadrarlo nel contetso, raggiungere esiti che naturalmente non sono definitivi né hanno
valore assoluto»
Dialogo in pubblico

Lo studio di un’opera critica implica l’esame di un’opera in sé, di un’opera in rapporto


all’intera produzione del suo autore e di un’opera in rapporto al sistema letterario e ai suoi
sottosistemi. Ogni opera deve dunque essere considerata nella sua unicità ma, al tempo

19
stesso, essere posta in relazione al sistema linguistico-letterario di riferimento e al percorso
poetico dell’autore. Il tratto linguistico-poetico acquista pregnanza e valore storico solo nel
momento in cui è posto in rapporto al complessivo sistema di valori. Corti pone in relazione
tre livelli di linguaggio: la langue poetica, la scrittura propria del genere di riferimento e le
varianti dei singoli scrittori. L’analisi di un’opera non può prescindere da nessuno di questi.
L’interpretazione del testo passa attraverso l’interpretazione del tutto al quale il singolo segno
fa riferimento. Senza tale legame, la parola perde del suo valore e della sua carica simbolica.
Leggiamo infatti:

«La poesia è un suono che dà conoscenza; la parola poetica ha una densità di significazione,
cioè una connaturata polisemia che non le spetta se non entro il contesto poetico; questa
densità si collega a processi pre-testuali».
Principi della comunicazione letteraria

«Il discorso sulla lingua in questa raccolta investe solo problemi di lingua letteraria, di
codificazioni formali all’interno dei generi letterari e dei rapporti che si istituiscono fra esse e
il messaggio dei singoli artisti. Il linguaggio dello scrittore, infatti, mirabilmente ambiguo
germoglio, oltre e più che con la langue si pone in dialettica di relazioni (accettazione e
scarto, adeguamento e rifiuto) con la lingua letteraria della sua epoca, la quale è già di per sé
una lingua seconda, con suoi speciali rapporti fra elementi denotativi e connotativi (...)
Poiché ogni nuova funzione chiede una nuova forma, lo studio dell’evolversi dei sistemi
simbolici si rivela in stretta connessione con la problematica del mutarsi delle forme
letterarie. In tal modo l’opera verrà inserita al punto che le spetta nell’evoluzione di un
istituto letterario, cui già pertengono principi organizzativi di contenuti e forme, cioè
codificazioni a diverso livello. Chi scrive qui, per esempio, ha sperimentato la funzionalità di
tale tipo di ricerche applicandolo al rapporto fra l​’Arcadia di Jacopo Sannazaro e il codice
bucolico quattrocentesco, la cui tematica pastorale assume una simbologia del tutto diversa
rispetto a quella delle epoche precedenti. Il che naturalmente si verifica per il subentrare di
particolari condizioni sociali e culturali».
Metodi e fantasmi

4. Un esempio di analisi critica: La codificazione bucolica in ​I metodi attuali della critica in


Italia.
Il saggio incentrato sull’​Arcadia ​di Jacopo Sannazaro si apre con una domanda chiave nei
termini della critica semiologica-strutturalista: a quali funzioni risponde nel Quattrocento la

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tematica pastorale? Il commento critico mira a porre in relazione le specificità del genere
bucolico con le caratteristiche proprie dell’opera al fine di porre in risalto tanto gli elementi
di continuità quanto i tratti di unicità.

Nell’​Arcadia d​ i Sannazaro, la realtà arcadica rappresenta una realtà più immaginata che
vissuta, un contesto bucolico ma anche stereotipato. Il richiamo all’ambito bucolico è
funzionale per porre in risalto le differenze rispetto alla realtà sociale e civile quattrocentesca.

In Italia nel decennio 1460-70, si sviluppa un filone bucolico che riprende la codificazione di
genere sia sul piano dei contenuti sia su quello delle forme. Sannazzaro richiama e allude ai
tratti bucolici ma, al tempo stesso, se ne distanzia, o meglio, declina nei termini specifici del
contesto storico sociale coevo (ambiente cortigiano quattrocentesco) le caratteristiche di
genere.

Il genere muta nelle funzioni (frequenti i richiami simbolici e allusivi a dinamiche politiche
sociali contemporanee) e negli aspetti formali: secondo la prospettiva
semiologica-strutturalista adottata dalla critica dunque, la comprensione del testo dovrà
prendere le mosse tanto dalle caratteristiche del genere quanto dall’analisi dei particolari che
lo contraddistinguono.

Bibliografia e Sitografia
M. Corti e C. Segre, a cura di, ​I metodi attuali della critica in Italia,​ Eri Edizioni, 1970,
Torino.

M. Corti, ​La felicità mentale,​ Einaudi, 1983, Torino.

​ ulzoni Editore, 2005, Roma.


A. Dolfi, ​Testimonianza per Maria Corti, B

M. Corti, ​Metodi e fantasmi,​ Feltrinelli Editore, 1969, Milano.

Treccani.it

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8. F. Orlando - ​A. Racalbuto

FRANCESCO ORLANDO

1. Biografia e opere
2. Temi dell’opera orlandiana
3. Bibliografia

1. BIOGRAFIA E OPERE

Francesco Orlando nacque a Palermo nel 1934 da una famiglia di antica borghesia. La sua
vocazione letteraria emerse quando lo scrittore era ancora giovanissimo, infatti all'età di
tredici anni tredici aveva già tradotto alcune opere teatrali di Victor Hugo.Studiò
Giurisprudenza, non distogliendo mai l'attenzione dalla letteratura .Cruciale fu l'incontro con
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, del quale divenne allievo che lo elesse suo allievo e segnò
in maniera indelebile la personalità di studioso di Orlando.
Lasciò il capoluogo siciliano per trasferirsi a Pisa, dove rimarrà fino alla morte. A Pisa, dove
ebbe inizio ufficialmente la sua carriera di studioso di letteratura francese, entrò in contatto
con Arnaldo Pizzorusso. E' a questo periodo che risale un lavoro di tesi su Ramond de
Carbonnieres, scrittore rousseauiano di paesaggi alpestri:
Continuò a coltivare i suoi interessi per il teatro del '600, emblematico è in tal senso il libro
dedicato a Rotrou (1963), dove è evidente l’influsso dei lavori di Jean Rousset sul barocco
che combinano analisi tematica e prospettiva storiografica. Nel 1966 scrive il saggio ​Infanzia,
memoria e storia da Rousseau ai romantici ​(ristampato nel 2007) in cui, attraverso il tema del
ricordo d’infanzia, in vari autori di fine Sette e inizi Ottocento, vengono ricostruiti i termini
di una svolta capitale nella sensibilità e nella letteratura francese.
Modello e punto di riferimento del nostro scrittore sono gli studi Erich Auerbach, alla cui
lezione resterà sempre fedele.
Nel 1969 vince la cattedra di Letteratura francese presso la Facoltà di Lingue e Letterature
Straniere di Pisa.
Orlando si lascia coinvolgere dalla rivolta studentesca del Sessantotto, interpretata dallo
stesso scrittore come possibilità di rinnovamento della cultura italiana e di liberazione dei
costumi da pregiudizi e condizionamenti autoritari.

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A causa di tale coinvolgimento, perde l’incarico alla Scuola Normale di Pisa e trasferendosi
prima a Napoli e poi a Venezia. Continuò ad insegnare e ad affascinare aule piene di giovani
coltivando in questi la passione per la letteratura.
Solo nel nel 1982, tornerà a Pisa prima come docente alla Facoltà di Lingue,
successivamente a quella di Lettere.
I saggi raccolti nei volumi ​Le costanti e le varianti (​ il Mulino, 1983), l' ​Illuminismo, Barocco
e retorica freudiana (​ 1982 e 1997) testimoniano il suo costante interesse nei confronti della
letteratura francese.
A partire dalla fine degli anni Sessanta,anni in cui la critica italiana stava profondamente
innovandosi sotto la corrente dello strutturalismo d’oltralpe. Orlando, pur seguendo le lezioni
della linguistica strutturale di Saussure e Hjelmslev e soprattutto della psicanalisi. Nel 1971
viene pubblicato il volume ​Lettura freudiana della “Phedre”​,primo di una tetralogia vasta e
originale in cui si raccolgono analisi relative a capolavori come ​Fedra,​ ​Misantropo, Lettere
persiane, c​ on il fine di costruire una vera e propria proposta organica di teoria della
letteratura​. .​ Una proposta teorica, basata sulla nozione freudiana di formazione di
compromesso, che rende possibile riconoscere sia sul piano formale che su quello
contenutistico del testo letterario un sistema di tensioni fra istanze diverse e spesso
contraddittorie. Orlando era pronto ad accogliere nella sua teoria contributi diversi, con uno
spirito sempre aperto al nuovo, da esploratore, ma allo stesso tempo restava scettico nei
confronti di qualsiasi tipo di eclettismo che derogasse dalla coerenza più rigorosa, mostrando
una sovrana indifferenza nei confronti delle mode.
I suoi volumi teorici hanno conosciuto una grande fortuna italiana, testimoniata dalle
numerose ristampe e traduzioni nella lingua inglese
Tuttavia, solo nel 1993, vede la luce il suo capolavoro: ​Gli oggetti desueti nelle immagini
​ pera grandiosa in cui confluiscono letture sterminate degne di uno
della letteratura. O
studioso d’altra epoca che la nostra, dalla Bibbia a Garcia Marquez passando per l’intera
letteratura occidentale. Ordina questo immenso materiale in dodici categorie dalla rilevanza
analitica e storica sorprendente..
Durante l'ultima fase della sua attività Francesco Orlando si riavvicina alle origini della sua
carriera ed è nel 1998 che pubblica ​L’Intimità e la Storia,​ una lettura illuminante del
Gattopardo i​ n cui pone in evidenza il carattere europeo dell'opera del suo primo maestro.
Nel 2010 pubblica il romanzo ​La doppia seduzione​, scritto all'età di venti anni e rivisto
quando era già settantenne. Il libro narra la storia di un’educazione sentimentale fallita di due
giovani legati da un rapporto sado-masochistico, in una città del sud, che si conclude

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tragicamente. A caratterizzare il romanzo è un'attenta ricerca stilistica e un intento militante:
ribadire la concezione freudiana della fondamentale bisessualità umana contro ogni
reificazione dell’omosessualità come terzo sesso.
Nel 2010, ormai in pensione, mentre correggeva la bozza di uno dei suoi scritti fu colto di
sorpresa dalla morte.
Tuttavia la sua gentilezza, il suo senso di giustizia e del merito hanno continuato a rendere a
Francesco Orlandoun punto di riferimento scientifico ed esistenziale dei suoi numerosi allievi
che sono tutti orgogliosi di essere stati alla sua scuola. E, soprattutto, era ancora circondato,
come durante tutta la sua vita, dalla dedizione di giovani che trovavano in lui un maestro
entusiasta, attento, paziente.

2. TEMI DELL'OPERA ORLANDIANA

Nel 1971 Orlando diede inizio ad una serie di pubblicazioni che successivamente vennero
associate e raggruppate sotto la denominazione di ciclo freudiano: ​Lettura freudiana della
«Phèdre», Lettura freudiana del «Misanthrope» e​ due scritti teorici ​Illuminismo e ​retorica
freudiana.​ Al centro di tali opere critica sta l’applicazione alla letteratura delle scoperte di
Freud attuata in senso non biografico né psicologico, bensì retorico e linguistico; il rigetto del
contenutismo psicoanalitico più banale e la riduzione del modello freudiano a modello vuoto
a priori di contenuti determinati. Combinando strumenti di derivazione freudiana con concetti
desunti dalla linguistica strutturale e dalla semiotica, Orlando operò un tentativo organico di
comprendere il funzionamento del testo letterario quale risultato d’una serie di formazioni di
compromesso linguistiche che ne organizzano il senso e lo realizzano tramite ‘figure’ che
travalicano la specificazione in tropi della retorica tradizionale. Tutto ciò all’interno d’una
concezione della letteratura (di derivazione solo lontanamente marcusiana) quale espressione
di irriducibile resistenza all’ordine sociale e morale dominante, sede istituzionale d’un
processo di ‘ritorno del represso’ le cui manifestazioni, lungi dal rivelarsi junghianamente
atemporali, si definiscono di volta in volta in rapporto a un contesto storico determinato.
In coincidenza con la crisi legata all'influenza strutturalista che si registrò negli studi
umanistici, Orlando concrentrò la sua ricerca su questioni incentrate sul piano dell’inventio
letteraria ponendo l'attenzione sulla creazione artistica in prospettiva freudiana e
matteblanchiana. Nella sua opera dal titolo ​Gli oggetti desueti nelle immagini della
letteratura, ​Orlando fa ricorso all’antica lezione del suo primo maestro siciliano integrandola
con la lezione di Auerbach e Freud. Il libro parte dall’idea di un rapporto ambivalente tra le

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cose e il tempo che allo stesso tempo «logora o nobilita, logora e nobilita le cose» (p. 15).
Ora, tale ambivalenza, assimilabile a una costante antropologica di cui Orlando ritrova
freudianamente le radici nel rapporto del bambino con gli escrementi, risulta singolarmente
valorizzata dalla letteratura, la quale può indugiare con grande frequenza nella
rappresentazione di oggetti logori, inutili, repellenti riscattando in piacere estetico il
raccappricciante o lo sgradevole. Sul piano storico, peraltro, tale indugio si intensifica, e si
specifica ideologicamente, in coincidenza con l’avvento della rivoluzione industriale in
Europa. Da allora, osserva Orlando, la proliferazione letteraria di immagini di oggetti
‘non-funzionali’ costituisce una contestazione virtuale dell’ordine imposto dai criteri
dell’efficienza e della funzionalità borghese, un’esibizione di ‘anti-merce’ che rinvia ad altri
modi pensabili della relazione fra gli uomini, le cose e il tempo.
Dal 2006, Orlando dedicò i suoi studi a due argomenti già presi in esame in precedenza la
tematica del soprannaturale e il tema del marito tradito nella cultura occidentale.
Pochi mesi prima della morte uscì ​La doppia seduzione.​ Tema tema centrale del romanzo è
l’omosessualità, affrontato attraverso il racconto dall'epilogo tragico d’una relazione fra due
giovani,

Bibliografia

Rivista quadrimestrale fondata da Franco Simone. 163 (LV | I) | 2011. Varia. In memoria di
Francesco Orlando. Francesco Fiorentino. Edizione digitale.

Ricordo di F. O., a cura di D. Ragone, Pisa 2012

L. Pellegrini, per cura dell’Associazione S. Malatesta, in Sei lezioni per F. O., Pisa 2012.

Enciclopedia Treccani

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9 . C. Segre - ​A. Racalbuto

CESARE SEGRE

1. Biografia
2. Pensiero
3. Opere
4. Bibliografia

BIOGRAFIA

Cesare Segre fu un filologo, saggista e semiologo romanzo, noto a livello internazionale per
la sua attività di critico letterario. Nacque a Verzuolo (Cuneo) il 4 aprile 1928 da padre
saluzzese, Franchino, e da madre milanese, Vittorina Cases, dove frequentò la scuola
elementare ebraica. Le persecuzioni antiebraiche costringono lo studioso, ancora bambino, a
sfollare ad Acqui Terme e poi a Giaveno. Visse dove vive anche un suo prozio, il grande
filologo Santorre Debenedetti, pioniere dello studio delle varianti d’autore applicato
soprattutto su Ariosto. Dopo la guerra affianca lo zio, schedando varianti su varianti,
collazionando manoscritti e facendo spogli linguistici. A Torino, dove ormai risiedeva con la
famiglia, conosce lo storico della lingua Benvenuto Terracini, suo secondo maestro, con il
quale si laurea nel 1950 con una tesi sulla sintassi dei primi prosatori italiani.. Quando si
trasferì a Milano con la famiglia, conobbe personaggi illustri come Montale, Mattioli, Isella e
Maria Corti, con la quale avrà un legame sentimentale per quasi due decenni. Milano diventò
la sua città, ma la sua casa editrice era a Torino, infatti, di Einaudi fu assiduo frequentatore e
consulente. Collaborò a numerose riviste come Studi di filologia italiana, Cultura neolatina,
L'Approdo letterario; fu redattore di Paragone; direttore, con Maria Corti, D'Arco Silvio
Avalle e Dante Isella, di Strumenti critici; condirettore di Medioevo romanzo e della collana
Critica e filologia dell'editore Feltrinelli. Ha fatto inoltre parte del consiglio direttivo di
Esperienze Letterarie. Collaborò con Carlo Ossola alla stesura di un'antologia della poesia
italiana presso l'editore Einaudi e con Clelia Martignoni a un'ampia antologia scolastica per
Bruno Mondadori. Fu inoltre redattore della pagina culturale del Corriere della Sera. Morì
nel 2014 a Milano, città in cui adesso riposano le sue ceneri.

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PENSIERO

La cura delle edizioni critiche testimonia non solo la formazione filologica e linguistica di
Segre ma anche gli interessi nutriti dal filologo per le letterature romanze, dal Duecento al
Novecento. Nell' opera di Segre è costante il confronto fra i testi letterari e il contesto
culturale, storico, sociale in cui sorgevano, stabilendo un rapporto preciso tra modelli
narrativi e schemi generali caratteristici di una data epoca. Come dichiara il filologo nel suo
primo importante lavoro, ​Lingua, stile e società​:

Il titolo del volume […] può sintetizzare […] il successivo emergere, nel corso di un’attività
sostanzialmente unitaria, di interessi prima linguistici […] poi stilistici, infine sociologici. I
tre sostantivi che compongono il titolo alludono dunque alla cronologia di stesura dei lavori
[…]. Ma l’unione di questi sostantivi vorrebbe pure costituire una proposta metodologica
(Segre Lingua, stile e società,1963, pp. 7-8).

Proprio in questa sua prima opera, il linguista chiarisce i suoi interesse e gli aspetti ai quali
presterà attenzione durante i suoi studi.
L' incontro con Benvenuto Terracini, presso l'Università di Torino, fu cruciale per la nasciata
degli interessi di Segre sullo nei confronti dello strutturalismo:

Mi avviò a letture che risultarono poi determinanti […] le opere di Saussure, di Trubeckoj, di
Brøndal mi misero a contatto con la ‘vera’ corrente strutturalistica, quella dei linguisti,
attrezzandomi nel modo migliore per il mio allora imprevedibile futuro di teorico dello
strutturalismo […]. Io penso […] che Terracini abbia elaborato da solo una specie di
strutturalismo dialettico, fondato sulle coppie innovazione-conservazione, individuo-società,
prestigio-soggezione (Segre 1999, pp. 108-109).

Lo strutturalismo fu una teoria e metodologia affermatesi in varie scienze dal primo


Novecento, fondate sul presupposto che ogni oggetto di studio costituisce una struttura,
costituisce cioè un insieme organico e globale i cui elementi non hanno valore funzionale
autonomo ma lo assumono nelle relazioni oppositive e distintive di ciascun elemento rispetto
a tutti gli altri dell’insieme. U.R.S.S., Francia e Italia. erano, infatti, i paesi in cui questa
corrente aveva influenzato maggiormente la critica letteraria (punto di partenza della critica
letteraria strutturalistica sono gli scritti dello svizzero J. Rousset e del francese J.-P. Richard e
degli americani W. K. Wimsatt e C. Brooks). In contrasto con altre posizioni della critica
moderna (sociologiche, storicistiche, o anche genericamente retoriche e grammaticali) si

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esaltava l'importanza del testo letterario nella sua individualità autonoma, raggiunta secondo
le leggi stesse del linguaggio creativo, e se ne indaga la natura in tutte le componenti. Ogni
elemento dell'opera d'arte era valido solo messo in relazione con tutti gli altri.
Nell'opera di Segre si riscontra una grande attività pubblicistica e organizzativa in favore
dello strutturalismo letterario. In particolare è possibile notare una tendenza dallo
strutturalismo alla semiologia per correggere il formalismo radicale dello strutturalismo:.

La coppia ‘rigore filologico’ e ‘senso della storia’ potrebbe essere indicatacome chiave di
lettura di fondo dell’intera esperienza di «Strumenti critici», e in genere dello strutturalismo
italiano, che in questo modo rivela i suoi ampi debiti nei confronti di un precursore come
Gianfranco Contini (​ Le strutture e la storia. La critica italiana dallo strutturalismo alla
semiotica, A. Mirabile, 2006,pag. 153)

Dunque, nello studio di un testo, oltre agli elementi formali, non dovevano essere trascurati
quelli legati al contesto pragmatico, esterni al dato testuale. L'opera d'arte viene definita nella
sua poliedricità, non solo nei suoi aspetti formali ma legata al tempo e al contesto sociale in
cui nasce.

Tuttavia, secondo Segre:

La semiologia completa […] l’analisi strutturalistica […]. Se la semiologia può conciliarsi


con la critica strutturalistica, è indubbio però che ne allarga in modo notevole le possibilità.
Nelle sue applicazioni più rigide, la critica strutturalistica finiva per considerare ogni
singolo testo come un assoluto, praticamente irrelazionabile sia con altri testi in qualche
modo affini, sia, al limite, con le altre opere dello stesso autore studiato. La complicata
orchestrazione degli strumenti d’analisi rischiava di esaurirsi nella rassegna delle
particolarità di un solo testo, per lo più breve; e quanto più doviziosi erano i risultati, tanto
più difficile risultava l’individuazione di elementi di raffronto con altre opere […]. Le
possibilità d’indagine critica aprono, dopo la iniziale e necessaria ascesi strutturalistica,
spazi di luce e di vita. La conclusione […] è che le strutture semiologiche, individuate,
secondo il procedimento che dà più garanzie, attraverso un’analisi del linguaggio, sono a
contatto con le strutture delle ‘serie’ affini, per dirla con Tynjanov: delle idealità, della
cultura, della società. È questo un problema fondamentale, forse il principale dello studio
letterario​ (​Segre, I Segni e la critica, p. 87​,).

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In ​Semiotica, storia e cultura ​(1977), il filologo torna alla problematica legata all'integrazione
fra metodologie semiotiche e contestualizzazione storicizzante.
In questa occasione, Segre giunge all'elaborazione di uno schema narrativo che prevede
quattro diversi livelli del testo:
1. 1)Discorso (aspetto verbale - linguistico, stilistico, metrico, ecc. - del testo);
2. 2)Intrigo (insieme delle azioni narrate, nell'ordine in cui sono presentate nel testo in
rapporto a montaggio e punto di vista);
3. 3)fabula (insieme di azioni in ordine logico e cronologico);
4. 4)modello narrativo (struttura riconducibile a invarianti presenti in un corpus di testi).
Questi quattro livelli possono essere messi in relazione con un contesto storico-culturale e,
rispettivamente:
1. 1) lingua (e stilistica, metrica, retorica,…);
2. 2) tecniche di esposizione (prospettive temporali, rapporti tra autore, narratore,
narrazione);
3. 3) materiali antropologici (temi, miti, motivi);
4. 4) concetti-chiave e logica delle azioni.

Questo modello permette analisi sincroniche e diacroniche dei testi: confronti tra testi e
contesti, fra due o più testi in relazione ad un contesto, analisi di cambiamento di un sistema
entro la dialettica innovazione/cambiamento, confronto tra testi di epoca diversa in relazioni a
contesti culturali corrispondenti. Segre precisa, inoltre, che la periodizzazione e la tipologia
letteraria presentano tre modalità di accesso: la diacronia del contesto culturale; i
cambiamenti del sistema dei generi letterari; le innovazioni introdotte dai testi.

OPERE

Fu presidente della International Association for Semiotic Studies. Con le sue ricerche ha
contribuito a introdurre le teorie formaliste e strutturaliste nella critica italiana. Da un punto
di vista teorico e metodologico, sono centrali studi come: Lingua, stile e società (1963), I
segni e la critica (1969),I metodi attuali della critica in Italia (1970), in collaborazione con
Maria Corti,Le strutture e il tempo (1973),Avviamento all'analisi del testo letterario (1985)
(che riprende anche gli articoli scritti per l'«Enciclopedia Einaudi»),Notizie dalla crisi
(1993).Si ricordano anche le sue fondamentali edizioni critiche delle Satire di Ludovico
Ariosto, della Chanson de Roland, del Libro dei vizi e delle virtù di Bono Giamboni e, in

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collaborazione con Santorre Debenedetti, dell'Orlando furioso; scrisse inoltre molte
prefazioni a testi di linguisti e autori classici della letteratura non solo italiana. Inoltre
raccontò il proprio percorso intellettuale in Per curiosità. Una specie di autobiografia (1999).

BIBLIOGRAFIA

Daniele Trucco, Cesare Segre, filologo per sempre, in «Cuneo Provincia Granda», Anno LI,
n. 3, 2004, pp. 51–55.

Paolo Di Stefano, Segre, genio timido della filologia, Il precoce apprendistato, lo sguardo da
pioniere, Corriere della Sera Cultura,

Le strutture e la storia. La critica italiana dallo strutturalismo alla semiotica, A. Mirabile,


2006

C. SEGRE,

Semiotica filologica, Torino, Einaudi, 1979.

Le strutture e il tempo, Torino, Einaudi, 1974.

Semiotica, storia e cultura, Padova, Liviana, 1977.

Avviamento all'analisi del testo letterario, Torino, Einaudi, 1999.

Enciclopedia Treccani

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III- Letteratura Straniera

1.Shakespeare - ​M. Tafuni

William Shakespeare

1. Vita
2. Opere e produzione
3. Analisi letteraria: ​Amleto
4. Bibliografia

1. V​ITA

William Shakespeare è considerato il più grande drammaturgo della cultura occidentale.


Tuttavia, le informazioni riguardo la sua vita e la sua formazione sono poche conosciute,
avvolte nel mistero. Di lui è noto che nacque a Stratford-upon- Avon, il 23 aprile 1564 (la
data di nascita è convenzionalmente accettata sulla base del documento di battesimo, datato
26 aprile 1564, per cui la sua nascita si colloca tre giorni prima). Circa la sua istruzione, non
ci pervengono notizie sicure: è certo, tuttavia, che egli abbia potuto apprendere il latino, un
po’ di greco e studiare i grandi classici, in una scuola locale. Molto probabilmente, fu anche
apprendista presso la bottega del padre, John Shakespeare, un guantaio del posto; numerosi,
infatti, sono i riferimenti specifici ai tipi di pelle presenti nelle opere, che testimoniano
un’esperienza nel settore. All’età di diciotto anni, nel 1582, sposò Anne Hathaway, da cui
ebbe tre figli. Gli anni immediatamente successivi, che segnarono il progressivo
avvicinamento al teatro e alla poesia (per necessità economiche) sono definiti ​“lost years”,​
poiché si tratta di “anni perduti”, dei quali non abbiamo nessuna notizia. Le fonti ci parlano
nuovamente di Shakespeare a partire dal 1592, quando era già affermato a Londra, sia come
drammaturgo, sia come poeta. Inoltre, divenne in breve tempo comproprietario, nonché attore
e poeta, della ​Compagnia del Lord Ciambellano,​ una compagnia teatrale che il re Giacomo I
(successore di Elisabetta I) volle personalmente tutelare una volta asceso al trono. I membri
furono elevati al rango di ​King’s men e gestirono i più importanti e raffinati teatri
d’Inghilterra, tra cui il Blackfriars, un teatro molto significativo per la sua produzione
teatrale. Nel 1610, Shakespeare si ritirò a vita privata a Stratford, continuando comunque a

31
collaborare con la sua Compagnia. Morì nell’aprile del 1616 e fu sepolto nella chiesa della
sua città natale. Sulla sua lapide si legge: «Buon amico, per amor di Cristo, non cavar fuori la
polvere qui racchiusa! Benedetto chi rispetta queste pietre e maledetto colui che rimuove le
mie ossa».

2.O​PERE​ ​E​ ​PRODUZIONE

2.1 ​O​PERE PI​Ù​ IMPORTANTI

TRAGEDIE COMMEDIE DRAMMI STORICI SONETTI

TITO ANDRONICO I DUE GENTILUOMINI ENRICO VI 154


DI VERONA

ROMEO E LA COMMEDIA RICCARDO III


GIULIETTA DEGLI ERRORI

GIULIO CESARE LA BISBETICA RICCARDO II


DOMATA

AMLETO IL MERCANTE DI ENRICO IV


VENEZIA

OTELLO SOGNO DI UNA ENRICO V


NOTTE DI MEZZA
ESTATE

RE LIAR MOLTO RUMORE PER ENRICO VIII


NULLA

MACBETH COME VI PIACE RE GIOVANNI

ANTONIO E PERICLE, PRINCIPE DI


CLEOPATRA TIRO

LA TEMPESTA

IL RACCONTO
D’INVERNO

32
2.2 L​E​ ​FASI​ ​DELLA​ ​PRODUZIONE​ ​SHAKESPEARIANA

La filologia critica che studia le numerose opere shakespeariane, è solita distinguere la


produzione del drammaturgo inglese in 4 fasi:

- Affermazione sulle scene (1588-1594) ​questi sono gli anni degli esordi, di cui
abbiamo poche e incomplete notizie. È certo che la fama di Shakespeare crebbe
rapidamente: questo gli permise di affermarsi a Londra e di iniziare la sua attività di
scrittore presso la Compagnia del Lord Ciambellano.
- La Compagnia del Lord Ciambellano (1594- 1603) ​nel biennio 94-96, Shakespeare
fu impiegato come coautore e attore nella Compagnia del Lord Ciambellano, alla quale
restò legato per tutta la vita. In quegli stessi anni, Londra fu colpita dalla peste: tutti i
teatri furono chiusi e Shakespeare fu costretto per un po’ ad abbandonare l’attività
teatrale; ebbe il tempo necessario, comunque, per dedicarsi alla composizione delle
Liriche e dei ​Poemetti (la maggior parte dei 154 sonetti a noi noti sono stati composti
proprio in questo periodo) e affinare le tecniche drammaturgiche. Sperimentò nuove
forme e modelli desunti dalla tradizione, nuove soluzioni per descrivere la realtà a lui
contemporanea; questo intenso lavoro portò ad un massimo sviluppo creativo da cui
nacquero le sue più grandi opere, opere dal gusto e dal contenuto che il pubblico non
aveva mai conosciuto. Appartengono a questa fase opere come ​Giulio Cesare, Enrico V,
Amleto​, le quali che segnano lo spartiacque tra il teatro post moderno e il teatro della
modernità.
- King’s men (1603-1608) ​Quando Giacomo I salì al trono nel 1603, scelse sin da
subito di offrire il suo benestare e la sua diretta protezione alla Compagnia; i membri,
quindi, furono elevati al rango di King’s men. Questa fase è determinante per la
produzione shakespeariana, perché segna una definitiva maturazione in chiave moderna
della tragedia: opere come ​Otello, Re Lear e ​Macbeth,​ nate in questa fase, si emancipano
da tutta la tradizione drammaturgica precedente, dando vita a un’innovativa e
straordinaria fase del teatro occidentale. Attraverso le tragedie del drammaturgo inglese,
si definisce un nuovo “universo tragico”, dove la realtà è dominata da passioni funeste,
atroci follie, sconvolgimenti dei rapporti familiari, epiloghi tragici e nefasti. Una
rappresentazione scenica che è in realtà proiezione del reale e allo stesso tempo

33
dell’interiorità umana: attraverso questo universo teatrale, Shakespeare vuole parlarci di
un teatro che è metafora della vita, la quale ‹‹​non è che un’ombra che cammina […] una
storia raccontata da un idiota, pieno di rumore e di furore, che non significa nulla›​ ›​1​.
- Periodo del Blackfriars (1608-1616) ​Nel 1608, ai King’s men venne affidata la sala
del refettorio del convento dei frati domenicani, un teatro che accoglieva un pubblico
abbiente, più sofisticato, che necessitava di opere altrettanto sofisticate. Il risultato di tale
necessità fu un’opera la cui paternità non è esclusiva di Shakespeare, ​Timone di Atene​,
una sorta di opera morale d’ispirazione medievale, in cui si espone allegoricamente un
messaggio di moralità. Timone è cittadino ateniese di grande virtù a cui tocca scontrarsi
con la meschinità di una comunità incapace di vivere il bene comune e che ne sfrutta la
munificenza senza riconoscerne la saggezza, se non quando è troppo tardi e Timone è
ormai eremita, distaccato da quel mondo in cui non si riconosce e che anzi maledice.
Appartengono a questa fase, anche le cosiddette “tragicommedie”, opere ibride (che non
si inscrivono in unico genere) più tipicamente definite “romances”: si tratta di opere (ad
esempio: ​Pericle, principe di Tiro, La tempesta, Il racconto di inverno)​ i​ n cui coesistono
la consapevolezza della malvagità che permea il mondo e una relativa rassegnazione alle
peripezie della vita, spesso affrontate con saggezza e distacco.

2.2 C​ARATTERI​ ​GENERALI​ ​DELLE​ ​OPERE​ ​SHAKESPEARIANE

Nonostante lo zelo con cui Shakespeare compose le sue opere, egli non si curò mai delle
edizioni a stampa e della loro produzione, cosicché cominciarono a circolare delle edizioni
pirata, che molto spesso erano una trascrizione diretta delle rappresentazioni e di
conseguenza piene di errori, abbreviazioni, salti, omissioni, aggiunte. Circa sette anni dopo la
morte di Shakespeare, due sue amici e collaboratori, Isaac Jaggard e Edward Blount decisero
di curare una raccolta completa, che si avvicinasse quanto più possibile alle originali. Fu un
lavoro duro e complesso, poiché nessuno disponeva delle opere autografe; ma dopo un lungo
confronto tra edizioni pirata e edizioni più “autentiche”, Jaggard e Blount riuscirono a
pubblicare una raccolta di trentasei opere contenenti commedie, tragedie e drammi storici,
con il titolo sotto il titolo di ​Commedie, drammi storici e tragedie del Signor William
Shakespeare.

1
Macbeth, Atto V, Scena V.

34
Come già specificato, i contenuti e i temi presenti nelle opere, segnarono (e segnano ancora
oggi) la fortuna del nostro drammaturgo, poiché egli diede vita a una nuova visione delle
realtà, ​una visione dialettica​, che cioè non riduceva la complessità del reale ad un’unica
immutabile prospettiva. Perciò, alla luce di questa nuova visione, le tematiche presenti sono
intrise di un significato innovativo e originale:

- Tema della dualità: ​in ogni tragedia, commedia o dramma storico, il tema della dualità
è onnipresente; Shakespeare ci parla della contraddittorietà del mondo attraverso
elementi duali e altrettanto contraddittori, contrapponendo alla presenza di una profonda
spiritualità, il disincanto di una visione cupamente terrena; a elementi magici e
meravigliosi, delle narrazioni radicate nella storia inglese; a passioni violente, una parola
poetica.
- Tema della morte: il tema della morte è il fulcro di ogni tragedia Shakespeariana. La
rappresentazione della morte in scena, generata da sacrifici, passioni amorose, fine
gloriosa, punizione dei colpevoli, è utile per indagare sulle passioni umane, nella
sofferenza, nell’interiorità. È molto importante considerare che Shakespeare evita di
“eroicizzare” la morte come atto di estremo coraggio e nobiltà d’animo, superando un
concetto tipicamente medievale.
- Tema dell’amore: il tema dell’amore è presentato attraverso molteplici sfaccettature.
Shakespeare ci parla dell’amore come sacrificio, come oggetto salvifico, come
maledizione, come beatificazione; ancora descrive la follia che scaturisce da un amore
geloso, attraverso una visione misogina che domina in tutte le sue opere.
- Tema politico: ​la presenza di un tema politico, legato al concetto di “ragion di Stato”,
non si identifica con una presa di posizione ideologica da parte dell’autore, che invece
focalizza la sua attenzione sull’eterna diatriba tra pubblico e privato, per indagare ancora
una volta sulla natura umana. Titoli come ​Antonio e Cleopatra, Giulio Cesare
confermano che il mondo politico a cui Shakespeare guarda, è soprattutto quello
dell’antica Roma repubblicana.
- Tema della follia e del sogno: l’indagine umana che Shakespeare compie dà vita a una
nuova conformazione dei protagonisti, i quali rifiuta la realtà sfuggente in cui vive, una
realtà che non riesce a comprendere, nemmeno servendosi di quegli antichi valori
cardinali, che ormai non riescono più a ristabilire un ordine delle cose. Nasce così il
nuovo eroe\antieroe moderno, che per sfuggire da questa realtà ha due alternative,

35
rifugiarsi nella follia o nel sogno, poiché con essi la realtà indecifrabile può
paradossalmente tornare a dischiudersi a una possibile comprensione.

2.3 T​RAME

Enrico VI: ​Enrico VI, dramma storico in cinque atti, teatro elisabettiano, ambientato in
Inghilterra e in Francia, composto nel 1558-1590. Con quest’opera si apre la lunga e
complessa produzione shakespeariana. È il dramma del potere che comporta fatalità e
maledizione su chi si trova a gestirlo senza averlo cercato, ma anche su coloro che vogliono
raggiungerlo a qualsiasi costo, anche attraverso alleanze e tradimenti e le conseguenti
discordie, odi, meschine rivalità tra le fazioni degli York e dei Lancaster, che dureranno
trent’anni e cresceranno come un tumore negli animi della nobiltà inglese e da qui nel popolo.
Con la battaglia di Azincourt, il re Enrico V piega a sé la Francia e conquista la Normandia,
ma per la vittoriosa Inghilterra incomincia un periodo di incertezze e di torbidi politici,
rappresentati dalla famosa Guerra delle due rose. Compare sulla scena la pulzella d’Orleans
Giovanna d’Arco alla guida delle forze francesi. A seguito della morte prematura di Enrico
V, il trono viene trasmesso a Enrico VI di appena nove mesi e proclamato re a nove anni,
dopo un periodo di reggenza. È giovane e non ama la guerra credendo nella buona fede di
quelli che lo circondano, sicuro che tutti vogliano il bene e rifiutino il male. Ma il mondo non
funziona così.

Riccardo III: Riccardo III è una drammatizzazione degli eventi storici dopo la guerra tra le
due famiglie dei Lancaster e degli York e la presa di potere definitiva dei Tudor. Il monarca
Riccardo III è un personaggio negativo, colmo di invidia e ambizione nei confronti di suo
fratello Edoardo che regna sul paese con successo. Riccardo è un orrendo gobbo, che descrive
sé stesso come «plasmato da rozzi stampi" e "deforme, monco", privo della minima attrattiva
per "far lo sdilinquito bellimbusto davanti all'ancheggiar ninfa"». È terzo nella dinastia per
l’accesso al trono e per riuscire nel suo intento, corrompe un indovino e fa rinchiudere il
legittimo erede al trono, il fratello Giorgio, nella torre di Londra come sospettato di
assassinio. Entra nelle grazie di Lady Anna, vedova del principe del Galles della fazione
Lancaster, determinato a prenderla in moglie a qualsiasi costo «Prenderò per moglie la figlia
più giovane di Warwick. Sì, le ho ucciso marito e padre, ma che importa?» Lady Anna cede
al suo corteggiamento e lo sposa. Riccardo III trama per la successione al trono e assassina

36
chiunque si frapponga alla sua scalata al potere, compresi sua moglie e i figli. I fantasmi delle
persone che ha ucciso gli fanno visita per dirgli «Dispera e muori!». Implora Gesù di aiutarlo,
e lentamente comprende di essere rimasto solo nel mondo che egli stesso odia. Sconsolato
urla "Un cavallo, un cavallo, il mio regno per un cavallo!". Quando viene sconfitto in seguito
ad un combattimento corpo a corpo con Richmond drammaticamente realizza che «Io mi
sono ingannato fino ad oggi sopra la mia figura; S'ella mi trova, al contrario di me, un uomo
di straordinario fascino. M'accollerò, costi quel che costi, la spesa d'uno specchio».

Tito Andronico: ​Tito Andronico è la prima tragedia di Shakespeare, fosca e cruenta. Narra la
storia di un generale romano ritornato vittorioso da una campagna militare contro i nemici
dell’Impero che porta come ostaggi Tamora, la regina dei Goti, i suoi figli e Aronne il Moro.
Saturnino, il nuovo imperatore, si invaghisce della regina dei Goti e la sposa ripudiando
Lavinia, figlia di Tito. Ne scaturisce una sequela di sangue e vendette ordite da Tamora e il
suo servo-amante, Aronne il Moro. I figli di Tamora violentano Lavinia e le tagliano la lingua
e le mani. Tito viene a saperlo e scopre che altri due suoi figli sono stati uccisi. Allora si finge
pazzo, mentre il figlio Lucio si allea con i Goti per dichiarare guerra all’imperatore romano.
Molte sanguinose e violente vicende si alternano fino all’epilogo cruento in cui Tito vendica i
suoi dando in pasto a Tamora la carne dei suoi stessi figli, prima di ucciderla, ucciso a sua
volta da Saturnino che viene vendicato da Lucio, che diverrà imperatore. La tragedia si
conclude con Aronne che, per difendere la vita del figlio illegittimo, accetta di rivelare gli
inganni orditi, ma rifiuta il pentimento per ogni azione. L’ambiente della tragedia è Roma,
luogo del sangue e delle vendette, della politica che non rispetta i vinti e della giustizia che
non premia i saggi.

La commedia degli errori​: La commedia degli errori o ​Commedia degli equivoci, è una
delle prime commedie di Shakespeare e si basa sullo scambio di identità. Viene raccontata la
storia di due coppie di gemelli identici separati dalla nascita. Antifolo di Siracusa ed il suo
servo, Dromio di Siracusa, arrivano ad Efeso, la città in cui vivono i loro fratelli gemelli,
Antifolo di Efeso ed il suo servo, Dromio di Efeso. Quando i siracusani incontrano gli amici e
i familiari dei loro gemelli, inizia una serie di incidenti basati sullo scambio d'identità che
portano a baruffe, seduzioni quasi incestuose, l'arresto di Antifolo di Efeso, e le accuse di
infedeltà, furto, pazzia e possessione diabolica.

La bisbetica domata: La bisbetica domata è incentrata sul personaggio di Petruccio, che si


reca a Padova per cercare moglie. Appena sente parlare della figlia di Battista, Caterina, una

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bella e ricca giovane, decide che quella donna diventerà sua moglie, nonostante il carattere
rude e scontroso di lei. Alla vicenda principale si sovrappone quella della sorella di Caterina,
Bianca, corteggiata da tanti pretendenti che in una serie di travestimenti, inganni e situazioni
esilaranti, tenteranno di vincere l'amore di lei. Petruccio è un uomo esperto e navigato, e non
solo riuscirà a conquistare Caterina ma, alla fine dell'opera, i ruoli verranno sovvertiti, e
Caterina darà una lezione di matrimonio alle donne presenti, col celebre discorso finale. Il
giorno del matrimonio, Petruccio arriva dalla cerimonia vestito molto squallidamente e rifiuta
di restare al banchetto, con grande rammarico di Caterina, che parte con il suo sposo.
Conducono una vita molto modesta, in cui la povera ragazza è costretta dal marito ad una
serie di privazioni e di umiliazioni che piegano a poco a poco il suo ostinato carattere e la
rendono sempre più accondiscendente. In questa commedia, Shakespeare critica il ruolo della
donna del suo tempo ed analizza la psicologia femminile. Egli si oppone ai matrimoni
combinati per interesse o prestigio delle famiglie e, nella figura di Caterina, ci mostra con
ironia i conflitti interiori di una moglie domata dal matrimonio. Caterina, al contempo, si
mostra intelligente e con coraggio e ostinazione, affronta il difficile rapporto con Petruccio.
Shakespeare non ha una considerazione positiva della natura femminile; egli sottolinea in
particolare la civetteria e la superficialità della donna, attratta dal lusso e dall'apparenza
esteriore. Per esempio, egli dice che il solo fatto che la donna ami truccarsi è un segno delle
sue false intenzioni nei confronti dell'uomo. Shakespeare consiglia il pubblico di stare in
guardia sulle false apparenze. È comunque dalla parte della donna che si oppone al padre
mercante dell’epoca elisabettiana che dispone delle figlie come merce, dandole al migliore
offerente.

I due gentiluomini di Verona: I due protagonisti sono Valentino e Proteo. Il primo parte da
Verona per stabilirsi a Milano, dove scopre di essersi innamorato di Silvia, una ricca dama,
che ricambia. Proteo si reca in visita da Valentino e, nonostante sia fidanzato con Giulia, a
Verona si innamora anch'egli di Silvia. Giulia, in sembianze maschili, arriva a Milano. In un
indecifrabile finale i due si affrontano nella foresta, dove Proteo aveva cercato di rapire
Silvia. Valentino la salva, ma poi rinuncia a lei in nome dell'amicizia con Proteo che, tuttavia
a sua volta rinuncia a Silvia, in nome della loro amicizia, e torna da Giulia.

Sogno di una notte di mezz’estate: ​Sogno di una notte di mezza estate racconta delle
imminenti nozze tra Teseo, duca d’Atene, e Ippolita, regina delle Amazzoni, da lui sconfitta e
suo bottino di guerra. È una commedia divertente, ma anche ricca di poesia e delicatezza,
apparentemente legante e cortese, impregnata di spunti noir e a volte inquietanti. Parla di

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amore, ma anche del “nonsense” della vita degli uomini che si rincorrono e si affannano per
amarsi, si innamorano e si desiderano senza spiegazioni, si incontrano per una serie di
casualità di cui non son padroni.

Romeo e Giulietta: ​Romeo e Giulietta è tra le più famose e rappresentate tragedie di


Shakespeare. È la storia d’amore di due ragazzi, Romeo e Giulietta, appartenenti a due
famiglie in contrasto tra di loro, i Montecchi e i Capuleti. Romeo sente una dichiarazione
d’amore di Giulietta verso di lui e allora le propone un matrimonio segreto. Il giorno del
matrimonio, Romeo si trova coinvolto in una rissa e, furibondo per l’uccisione di un suo
amico, uccide Tebaldo, cugino di Giulietta. Scoperto, è costretto a fuggire a Mantova.
Giulietta è costretta a sposare un gentiluomo, ma beve un narcotico che la fa sembrare morta
per 40 ore e prega Frate Lorenzo di darne comunicazione a Romeo per poter fuggire insieme.
La notizia non arriva a Romeo, il quale crede che la sua amata sia veramente morta; il
giovane, quindi, si uccide per giacere per sempre accanto alla sua amata, che una volta
risvegliata, capisce l’equivoco; devastata dal dolore, si uccide.

Riccardo II: ​La trama si apre con un evento già compiuto che si presuppone come antefatto
(cosa che ha lasciato molte perplessità nella critica) cioè la misteriosa morte di Thomas
Woodstock, duca di Gloucester, dietro la quale, secondo alcune illazioni malcelate, ci sarebbe
la mano del re Riccardo II. Questo episodio è propedeutico al contrasto tra Bolingbroke e
Mowbray, due Pari del regno che si imputano a vicenda la morte di Gloucester. Ne sorge una
contesa che si realizza in una giostra il cui giudice e garante è proprio Riccardo. La contesa
viene interrotta dal re, il quale decreta l’esilio a vita per Mowbray e un esilio di 10 anni (poi
ridotti a 6) per Bolingbroke. Le scene successive mostrano in che modo Bolingbroke, assetato
di rivalsa, sfruttando come scusa la confisca non prevista dei suoi beni, ritorna in patria dalla
Francia (luogo dell’esilio), pianificando una sommossa con l’appoggio del popolo per
rovesciare il trono di Riccardo. Questi, tradito da molti suoi nobili fidati, inizia a vivere il suo
cammino tragico e sofferto che lo porterà, non prima di avergli dato più volte la vana
illusione di riuscire a conservare il potere, ad abdicare in favore di Bolingbroke, a dover
leggere le sue accuse pubblicamente dinnanzi alla Camera dei Comuni (costrizione da cui
viene poi sgravato per grazia dello stesso Bolingbroke), all’arresto con conseguente
carcerazione nella Torre di Londra e, infine, alla morte, anch’essa avvenuta in circostanze
misteriose.

39
Il mercante di Venezia: ​Il Mercante di Venezia è una delle opere più attuali di Shakespeare,
ambientata nella Venezia a cavallo tra il 1600 e il 1700; narra le vicende del nobile veneziano
Bassiano, amico di Antonio, ricco mercante di Venezia, al quale chiede un prestito per
corteggiare degnamente la ricca Porzia. Antonio si fa prestare il denaro dall’usuraio ebreo
Shylock che presta la somma a condizione che, nel caso non venga restituita entro tre mesi,
venga prelevata un’oncia di carne di Antonio. Bassiano partecipa alla scelta dello scrigno tra i
tre di oro, argento e bronzo, che il padre di Porzia ha stabilito per i suoi corteggiatori, e
sceglie lo scrigno giusto, quello contenente la massima «tu che non scegli dall’apparenza hai
sorte benigna e scegli bene perché ti è arrivata la fortuna, sii contento e non cercarne
un’altra». Intanto, Antonio è in difficoltà nella restituzione del prestito alla scadenza in
quanto le sue tre navi cariche di beni non arrivano a causa di un naufragio e Shylock pretende
la libbra di carne pattuita. Con l’aiuto di Nerissa, sua cameriera, Porzia architetta un piano a
difesa di Antonio: si traveste da avvocato e riesce a ribaltare la situazione accusando Shylock
di aver tramato al fine di uccidere un suo rivale e cittadino veneziano.

Giulio Cesare: L'azione si svolge a Roma e nel finale in Grecia (Sardi e Filippi). Bruto, i cui
antenati sono celebri per aver cacciato da Roma Tarquinio il Superbo, è il figlio adottivo di
Cesare, ma nonostante tale legame si lascia convincere a prendere parte ad una cospirazione,
ordita da alcuni senatori romani tra cui Cassio, per impedire a Cesare, uccidendolo, di
trasformare la Repubblica romana in una monarchia. Cesare, tornato a Roma dopo la
campagna d'Egitto, incontra un indovino che gli suggerisce di guardarsi dalle idi di marzo,
ma ignora l'avvertimento e si vedrà assassinare proprio in tale giorno. Al suo funerale Marco
Antonio, amico di Cesare, con un'orazione divenuta celebre, muove l'opinione pubblica
contro i cospiratori. Bruto attacca Cassio, accusandolo di regicidio in cambio di denaro; i due
in seguito si riconciliano, ma mentre entrambi si preparano alla guerra contro Marco Antonio
e Ottaviano, lo spettro di Cesare appare in sogno a Bruto, annunciandogli la sua prossima
sconfitta: la battaglia che si svolge a Filippi si conclude infatti con una sconfitta dei
cospiratori e sia Bruto che Cassio decidono di suicidarsi piuttosto che essere fatti prigionieri.
Nel finale si accenna alla futura frattura dei rapporti tra Marco Antonio e Ottaviano nonché
all'ascesa al potere di quest'ultimo dopo la vittoria nella battaglia di Azio nel 31 a.C.; la
tragedia termina con Marco Antonio dinanzi alla salma di Bruto lodandone l'onestà
discolpandolo perché non uccise per odio, ma per amor di patria.

Molto rumore per nulla: ​Molto rumore per nulla​, commedia ambientata a Messina,
racconta una storia di passione, di lussuria, di finzioni, di trovate, di colpi di scena, intrighi,

40
equivoci, travestimenti, dove nulla è preso sul serio. Ogni protagonista pare indossare una
maschera e atteggiarsi in modo da poter essere credibile, ma in realtà non lo è affatto. Tutti i
personaggi sembrano scherzare e divertirsi alle spalle degli altri consapevoli che ognuno
burlerà e verrà burlato.

Amleto: ​Amleto è un dramma ambientato a Elsinore nella Danimarca. Ad Amleto, principe


di Danimarca, appare il fantasma del padre defunto, ucciso dal fratello Claudio che ne ha
usurpato il trono e sposato la moglie, e gli chiede di vendicarlo. Mille dubbi si insinuano in
Amleto che cerca di scoprire la verità, fingendosi pazzo. La pazzia di Amleto causa
preoccupazione alla madre e allo zio, re usurpatore, mentre il ciambellano Polonio crede che
sia causata dall’amore per Ofelia, sua figlia, che Amleto invece respinge. I sovrani cercano di
sollevare il morale di Amleto invitando a corte una compagnia di attori. Il giovane si mette
d’accordo con gli attori e fa mettere in scena un dramma di omicidio simile a quello
architettato dallo zio. L’interpretazione rende furioso il re, che interrompe la recita. Amleto
sembra convincersi che quella interruzione sia la prova della colpevolezza del re e della
madre e mette in atto una strategia per uccidere lo zio. Per errore invece uccide Polonio.
Preoccupato, il re decide di allontanare dal regno Amleto e lo invia in Inghilterra con due
amici, ordinando loro di ucciderlo all’arrivo. Sulla nave Amleto scopre la verità e ritorna
indietro in Danimarca. Scopre che Ofelia si è suicidata a causa della perdita del padre e per il
rifiuto d’amore di Amleto. Il re Claudio organizza un duello tra Amleto e Laerte, fratello di
Ofelia e figlio di Polonio come stratagemma per uccidere Amleto. Fa avvelenare la punta
delle spade e mettere del veleno in una coppa di vino che verrà bevuta invece dalla regina. I
duellanti si feriscono a vicenda, ma prima di morire, Amleto riesce a compiere la sua
vendetta, uccidendo sua madre e suo zio.

Otello: ​Otello è un generale moro al comando delle truppe della Repubblica di Venezia, che
ha sposato in gran segreto Desdemona, figlia del senatore Brabantio. Un nobile veneziano
che ama Desdemona, Roderigo, viene però a sapere del matrimonio della donna da Jago, un
soldato che prova risentimento nei confronti di Otello poiché ha preferito promuovere di
grado l’amico Cassio al posto suo e poiché sospetta che Otello abbia giaciuto con sua moglie
Emilia. Iago quindi induce Roderigo a svelare tutto al senatore Brabantio. Il Doge sente la
versione di Otello, il quale sostiene che il suo amore per Desdemona è sincero e ricambiato.
Otello parte verso Cipro con Desdemona, il luogotenente Cassio, il perfido Iago e sua moglie
Emilia. A Cipro, Iago architetta un piano, che inizialmente prevede di screditare Cassio agli
occhi di Otello e ci riesce tanto che Cassio viene privato del suo grado militare. Iago,

41
subdolamente, convince Cassio a chiedere a Desdemona di intercedere presso Otello per
fargli riavere il grado che gli spetta; contemporaneamente, egli lascia intendere a Otello che
ci sia una relazione amorosa tra Cassio e Desdemona. Così, quando Desdemona supplica il
marito di reintegrare Cassio, Otello si insospettisce. Iago entra in possesso di un fazzoletto di
Desdemona, primo regalo fattole da Otello, e quindi sentimentalmente assai importante, lo
nasconde nella stanza di Cassio, al fine di comprometterlo definitivamente e poi organizza
una trappola per Otello facendogli credere che Cassio abbia sedotto Desdemona. Distrutto dal
dolore e dalla gelosia, Otello è determinato ad uccidere la moglie e chiede a Iago di eliminare
Cassio. In preda a una cieca gelosia, Otello accusa la moglie di tradimento con Cassio e la
inganna dicendole che il suo presunto amante è morto nell’agguato. Desdemona scoppia in
lacrime e Otello la soffoca sul letto matrimoniale.

Re Lear: Re Lear è un vecchio sovrano che, sentendosi non più capace di governare, decide
di dividere il suo regno tra le sue tre figlie. Goneril, Regan e Cordelia, facendosi prima
promettere del loro amore nei suoi confronti. Commette un grave errore: Goneril e Regan,
avide ed egoiste, esprimono il loro affetto con frasi affettuose, ma false che incantano il
vecchio re. Cordelia, invece, gli dice di amarlo come si ama un padre. Il padre non avverte in
Cordelia lo stesso affetto espresso dalle altre due figlie e la diseredita. Cordelia, anche senza
dote, viene scelta in sposa dal re di Francia e si schiera con il duca di Kent, cacciato dal regno
perché accusato ingiustamente di essere un traditore. Il duca di Kent capisce che le scelte del
re Lear sono sconsiderate e dettate dalla pazzia e, sotto mentite spoglie, segue il re nelle sue
disavventure. Goneril sposa il duca di Albanyy e Regan il duca di Cornovaglia, ma ambedue
rivelano un animo malvagio appena raggiunto il potere, venendo meno alla parola data al
padre e si rifiutano di ospitarlo nelle loro dimore, a turno, per un mese. Il re si vede costretto
ad errare in aperta campagna con il suo fedele “matto” durante una tempesta. Il conte di
Gloucester mostra pietà per il vecchio re, ma viene accusato di complicità con i francesi dal
figlio illegittimo Edmund e viene fatto accecare dal perfido marito di Regan. Cieco e
disperato, viene sottratto al suicidio e accompagnato da Edgar, suo figlio legittimo, anch’egli
calunniato dal fratellastro, sotto mentite spoglie di mendicante e folle. Lear, intanto, toccato
dal dolore, impazzisce. Sarà il duca di Kent a condurlo in salvo a Dover, dove la figlia
Cordelia lo accoglie affettuosamente. Le due avide sorelle, entrambe innamorate di Edmund,
si uccidono a vicenda. Prima di morire, Edmund ordina di impiccare Cordelia e il padre. La
revoca dell’ordine arriva troppo tardi per Cordelia, mentre Lear muore di crepacuore. Sul
regno di Bretannia sale il buon duca di Albany.

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Macbeth: ​Macbeth,​ è una tragedia ambientata nella Scozia medievale, in un’atmosfera fatta
di lampi e tuoni. Macbeth e Banquo meritano la gratitudine del re di Scozia Duncan per aver
combattuto con valore e coraggio i ribelli di Norvegia e Irlanda. Incontrano tre streghe che
preannunciano a Macbeth un futuro da re. Macbeth è stupefatto e incomincia a nutrire
ambizioni di potere. Comunica alla moglie la profezia delle streghe e quando il re Duncan
decide di soggiornare al castello di Macbeth, lady Macbeth escogita un piano per ucciderlo e
assicurare il trono di Scozia al marito. Macbeth uccide Duncan ma rimane molto scosso e
lady Macbeth assume il comando di tutto. Per non farsi scoprire, dirotta i sospetti sulle tre
guardie addormentate sulla porta del re, facendo trovare i pugnali insanguinati nelle loro
mani, dopo averle uccise per impedire loro di parlare. Temendo per le loro vite, i figli di
Duncan fuggono e su di loro cade il sospetto dell’uccisione del re. Macbeth, essendo
congiunto del re assassinato, sale al trono ma non si sente a suo agio circa la profezia delle
streghe che avevano salutato Banquo come futuro re. Presto il sogno del regno si trasforma in
incubo. Banquo viene ucciso, ma la sua ombra perseguita Macbeth. Preda del rimorso
interroga le streghe che gli annunciano che sarà sconfitto quando la foresta di Birman
avanzerà contro di lui. Lady Macbeth impazzisce e si uccide. Il figlio di Duncan, Malcom e
Macduff, signore di Fife, marciano contro Macbeth proteggendosi con i rami della foresta di
Birman. Macbeth viene sconfitto e Malcom diventa re di Scozia.

Antonio e Cleopatra: ​Antonio e Cleopatra racconta le gesta di Marco Antonio, un membro


del triunviro che governa Roma dopo la morte di Giulio Cesare (insieme ad Emilio Lepido ed
a Cesare Ottaviano). Antonio trascura colpevolmente i suoi doveri dopo essere stato
ammaliato dalla regina d'Egitto Cleopatra. Ignora le faccende politiche di Roma, i doveri
inerenti il suo matrimonio con la moglie Fulvia, che finisce per ribellarsi contro Ottaviano ed
essere uccisa. Questo dramma storico è il confronto tra due mondi, quello pragmatico
occidentale e quello voluttuoso orientale. Alla fine, Antonio e Cleopatra moriranno entrambi
togliendosi la vita, e proprio questo gesto estremo sarà quello che renderà eterni i due
personaggi e il loro amore, talvolta vacillante, ma sempre vero. La morte nobile, quindi, espia
parte delle colpe di Enobarbo, di Antonio, ed in seguito di Cleopatra (ma ricordiamo anche
Bruto nel Giulio Cesare): quelle che erano state vite al limite tra il vizio e la virtù, vengono
pienamente riscattate dalla morte dignitosa.

Timone d’Atene: ​Il messaggio principale che Shakespeare vuole trasmetterci con il ​Timone
d'Atene è che con i soldi non si può comprare l'amicizia. Il motore principale della generosità
di Timone è quello di guadagnare e conservare l'amicizia delle persone che lo circondano.

43
Tuttavia quando i soldi finiscono, gli amici spariscono, tutti, giacché non amano Timone ma
solo i suoi soldi. Come spesso succede nel teatro di Shakespeare l'amore tradito si trasforma
in odio e, sebbene non si conosce la causa della morte di Timone, possiamo facilmente intuire
che l'odio ne hanno bruciato il corpo e l'anima. La ricchezza e la buona natura di Timone gli
fanno avere molti falsi amici, mentre la vasta sala della sua elegante casa è luogo di una
processione di personaggi che predano la sua generosità. Musica ad alto volume, maschere,
fantastici banchetti e il conferimento di doni sontuosi di Timone agli ospiti sono consueti.
Scopo dell'opera è svelare gli espedienti e i comportamenti che le persone false e adulatrici
mettono in atto per sfruttare la generosità e l'ingenuità di Timone. L'opera solleva problemi
senza tempo, applicabili in tutti i luoghi e periodi della storia in cui il materialismo e la
corruzione sopraffanno i valori sociali e umani. Timone D'Atene raffigura una società
corrotta dall'avidità. Molti dei suoi cittadini sono indebitati e il consumismo sfrenato portano
Timone al fallimento. La sua naturale inclinazione a intrattenere generosamente e dispensare
liberamente ciò che pensa sia una fortuna senza limiti, lo lascia in balia dei suoi creditori.

Il racconto d’inverno: La vicenda narrata è quella di Polissene e Leonte, re di Boemia e di


Sicilia, nonché' amici fin da bambini. Alla fine di un soggiorno di Polissene in Sicilia, Leonte
cerca di trattenere ancora l'amico in partenza, e chiede anche alla moglie Ermione esercitare
pressione affinché questo accada. In un secondo momento però Leonte diventa
inspiegabilmente geloso dell'amico e della moglie, arrivando a sospettare che il figlio in
arrivo non sia suo, ma frutto del tradimento, e di avvelenare l'amico che tuttavia, avvisato,
fugge. La sua fuga è interpretata come prova di colpa e così Leonte fa arrestare sua moglie,
che in carcere partorisce la piccola Perdita. Il piccolo Mamilio, figlio di Leonte, non regge al
dolore per l'accusa di sua madre e muore. Intanto l'oracolo di Delfi decreta Ermione
innocente, lasciando così il rimorso per l'accaduto a Leonte, che crede morti anche l'altro
figlio e sua moglie. Perdita, abbandonata, viene adottata da un contadino ed un pastore, e
divenuta una bellissima ragazza si innamora del figlio di Polissene, Florize che non svela a
Perdita la sua origine regale. Polissene, scoperta la trama amorosa del figlio si infuria, e ai
due non rimane altro che fuggire. Il finale è tutto a lieto fine, Leonte infatti riconoscerà la sua
somiglianza con sua figlia, avendo una ulteriore prova che i sospetti erano infondati; Florizell
e Perdita convoglieranno a felici nozze.

La tempesta: Il racconto della commedia inglese inizia quando gran parte degli eventi sono
già accaduti. Il mago Prospero, legittimo Duca di Milano, insieme alla figlia Miranda, è
esiliato da circa dodici anni in un'isola abitata da spiriti, dopo che il geloso fratello di

44
Prospero, Antonio, aiutato dal re di Napoli, lo ha deposto e costretto all'esilio con la
figlioletta dell'età di tre anni. In possesso di arti magiche dovute alla sua grande conoscenza e
alla sua prodigiosa biblioteca, Prospero è servito controvoglia da uno spirito, Ariel, che egli
ha liberato dall'albero dentro il quale era stato intrappolato dalla strega africana Sicorace,
esiliata nell'isola anni prima e morta prima dell'arrivo di Prospero. Il figlio della strega, un
mostro deforme di nome Calibano, è l'unico abitante mortale dell'isola prima dell'arrivo di
Prospero: inizialmente amichevole nei confronti di Prospero e Miranda, propone a
quest'ultima di unirsi a lui per creare una nuova razza che popoli l'isola; al suo rifiuto tenta di
violentarla, cosa che induce Prospero a soggiogarlo con la magia e a renderlo suo schiavo. A
questo punto inizia la commedia. Prospero, avendo previsto che il fratello Antonio sarebbe
passato nei pressi dell'isola con una nave (di ritorno dalle nozze della figlia di Alonso,
Clarabella, con un re cartaginese), scatena una tempesta che causerà il naufragio della nave.
Sulla nave viaggia anche il re Alonso, amico di Antonio e compagno nella cospirazione, il
figlio di Alonso, Ferdinando, e il fratello Sebastiano, assieme al fidato consigliere Gonzalo
che aiutò Prospero a fuggire. Prospero, con i suoi incantesimi, riesce a separare tutti i
superstiti del naufragio cosicché Alonso e Ferdinando credano entrambi che l'altro sia morto.
La commedia ha quindi una struttura divergente e, poi, convergente allorquando i percorsi dei
naufraghi si ricongiungono presso la grotta di Prospero. I viaggiatori sono così separati:
Ferdinando, approdato sulla spiaggia, viene condotto alla grotta di Prospero; Antonio,
Alonso, Sebastiano e Gonzalo finiscono in un'oscura foresta dall'altra parte dell'isola; Stefano
e Trinculo, due marinai ubriaconi, esplorano l'isola alla ricerca di vino. Il resto della ciurma
dorme all'interno della nave, che a dispetto di quanto Prospero ha fatto credere non è
affondata ma è ancorata al largo dell'isola. Ferdinando e Miranda si innamorano a prima
vista, ma Prospero finge con entrambi di voler rendere il ragazzo suo schiavo per vendicarsi
di Alonso: in realtà il suo piano è quello di incoraggiare la relazione tra i due. Intanto
Gonzalo cerca di consolare Alonso, addolorato per la presunta morte di suo figlio;
approfittando di un sonno magico fatto calare sui due da Ariel, Antonio cerca di convincere
Sebastiano a uccidere il fratello per impadronirsi del regno, ma proprio in quel momento lo
spirito li fa svegliare, smascherando la loro cospirazione. Dall'altra parte dell'isola Calibano
incontra Stefano e Trinculo e li scambia per creature divine discese dalla luna: insieme
cercano di ordire una ribellione contro Prospero che però, sempre grazie all'intervento di
Ariel, fallisce. L'amore di Ferdinando e Miranda resiste alle molte prove cui Prospero li
sottopone, così l'uomo decide di abbandonare le resistenze e benedire la loro unione con una
mascherata cui intervengono molti spiriti travestiti da dèi greci. Tutti i piani di Prospero

45
hanno funzionato: Ferdinando e Miranda si sono innamorati, Alonso è devastato dal dolore,
Antonio è stato smascherato e Calibano punito assieme ai due marinai furfanti: a questo
punto il Duca rinuncia alle arti magiche e riunisce tutti i personaggi nella sua grotta. Nella
gioia e contentezza generale, ciascuno ha ciò che si merita: Prospero torna a essere Duca di
Milano, e il suo ducato sarà unito al Regno di Napoli col matrimonio di Ferdinando e
Miranda; dando la sua benedizione alla coppia, Alonso si guadagna il perdono. Anche
Sebastiano e Antonio sono perdonati, ma sotto minaccia di esilio se dovessero nuovamente
cospirare contro i legittimi sovrani. Stefano e Trinculo sono messi in ridicolo dalle loro stesse
azioni, mentre Calibano, deluso da come i due lo hanno maltrattato e avendo compreso
quanto Prospero sia nobile d'animo a loro confronto, si redime e gli giura fedeltà. Prospero
chiede un ultimo favore ad Ariel, quello di assicurare mare calmo e vento propizio alla nave
che l'indomani lascerà l'isola, dopodiché lo spirito sarà liberato dalla sua prigionia. A questo
punto Prospero si rivolge al pubblico e, in un celebre monologo, chiede che anche gli attori
siano lasciati liberi con un applauso.

Enrico VIII: ​L’azione inizia col ripudio della regina Caterina d'Aragona da parte di Enrico
VIII, che l’allontana dalla corte sia perché non gli dà il tanto sospirato erede, sia per gli
intrighi del cardinale-ministro Thomas Wolsey che si vuol vendicare della donna per non
aver ottenuto l’Arcidiocesi di Toledo, non essendo Caterina intervenuta in suo favore presso
l’imperatore del Sacro Romano Impero, Carlo V d'Asburgo. Segue l’incoronazione di Anna
Bolena a regina d’Inghilterra, e poi, numerosi avvenimenti tragici: i drammi del Duca di
Buckingham, condannato a morte per gli intrighi del cardinale Wolsey, e del cardinale
Wolsey stesso, privato di tutti gli incarichi e tutti i beni, e sostituito da Tommaso Moro nella
carica di ministro, per aver scritto a Papa Clemente VII di bloccare l’istanza di divorzio di
Enrico VIII. Alla fine, la nascita della figlia di Enrico, Elisabetta, e il suo battesimo
concludono l’opera con un’atmosfera di serenità e di speranza, come profezia d'una futura era
di pace e grandezza.

3. A​NALISI​ ​LETTERARIA​: AMLETO

Scritto tra 1600 e 1601, la composizione dell’​Amleto ​riflette appieno il clima umanistico che
ancora in questi anni domina la cultura inglese; mentre nel resto d’Europa, la cultura e l’arte
sono già intrise di un gusto barocco. ​L’Amleto, ​dunque, affonda le sue radici nella cultura
umanistica, ma sotto certi aspetti rappresenta un superamento dell’Umanesimo stesso, poiché

46
è l’opera che maggiormente rispecchia la coscienza di una crisi del mondo antico. Essa
conosce quattro diverse edizioni, poiché le prime messe in circolazione sono edizioni pirata,
completamente menomate e stravolte rispetto all’originale, scritta molto probabilmente per
un pubblico più colto e raffinato.

Il contenuto dell’opera può essere riassunto attraverso un estratto-chiave, ovvero il


celeberrimo monologo di Amleto, che dopo aver scoperto la verità circa la morte di suo padre
e la natura malvagia di suo zio, pronuncia queste parole:

AMLETO ​Essere o non essere; questo è il problema: se sia più nobile all’animo​ ​sopportare

gli oltraggi, i sassi e i dardi dell’iniqua fortuna, o prender l’armi contro un mare di

triboli​ ​e combattendo disperderli. Morire: dormire; nulla più: – e con un sonno dirsi

che poniamo fine al cordoglio e alle infinite miserie naturale retaggio della carne, è

soluzione da accogliere a mani giunte. Morire – dormire – sognare, forse: ma qui è

l’ostacolo: perché, quali sogni possano assalirci in quel sonno di morte – quando siamo

già sdipanati dal groviglio mortale​ ​– ci trattiene: è la remora, questa, che di tanto prolunga

la vita ai nostri tormenti. Chi vorrebbe, se no, sopportar le frustate e gl’insulti del

tempo, le angherie del tiranno, il disprezzo dell’uomo borioso, le angosce del respinto

amore, gli indugi​1 ​della legge, l’oltracotanza dei grandi​,​ i calci in faccia che il merito

paziente riceve dai mediocri, quando di mano propria potrebbe saldare il suo conto

con due dita di pugnale? Chi vorrebbe caricarsi di grossi fardelli imprecando e sudando

sotto il peso di tutta una vita stracca, se non fosse il timore di qualche cosa, dopo la

morte – la terra inesplorata donde​ ​mai non tornò alcun viaggiatore – a sgomentare la

nostra volontà e a persuaderci di sopportare i nostri mali piuttosto che correre in cerca

d’altri​ ​che non conosciamo?

Così ci fa vigliacchi la coscienza; così l’incarnato naturale​ ​della determinazione si

scolora al cospetto del pallido pensiero. E così imprese di grande importanza e rilievo

sono distratte dal loro naturale corso: e dell’azione perdono anche il nome […]​2

2
W. Shakespeare, ​Amleto,​ Atto III, scena I.

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Questo estratto, tratto dalla scena I dell’Atto III, contiene i versi più celebri scritti da William
Shakespeare, e forse anche i più significativi: essi racchiudono una nuova visione della
modernità, che da qui in poi dominerà gli eroi\antieroi letterari successivi, fino ai giorni
nostri. Amleto, infatti, attraverso lo spettro di suo padre, il defunto re di Danimarca, viene a
conoscenza di un’atroce verità: suo padre è stato avvelenato da suo zio Claudio, che ha quindi
usurpato il suo trono, spodestandolo, e prendendo in moglie Gertrude, la mamma del giovane
principe. Il tradimento è triplice e dà vita ad un sentimento di vendetta da parte di Amleto,
che è ormai disincantato dagli antichi valori del mondo, vuoti, insulsi e incapaci di donare un
senso di tranquillità e di ordine al mondo. Per la prima volta si parla dell’interiorità dei
personaggi: Claudio, con la sua sete di potere e il suo essere corruttibile, mette in scena
proprio l’inesistenza dei valori, la frammentazione degli atti eroici e delle grandi virtù;
Amleto, invece, incarna il disincanto dinnanzi a una realtà che non si può più decifrare sulla
base degli antichi valori; prende coscienza di ciò, ma allo stesso tempo non può fare nulla per
cambiare la situazione. Proprio in questa contradditoria dualità coscienza-impotenza (​essere o
non essere)​ del nuovo eroe-antieroe moderno, è racchiuso il tragico dell’opera, nonché
dell’esistenza umana. Nemmeno la vendetta compiuta riesce a donargli pace, così come
nemmeno la morte, che in Shakespeare non rappresenta più l’ultimo atto eroico, poiché ogni
azione è completamente svuotata del significato che il pubblico aveva finora attribuito al
mondo. Ed è forse questo il merito più grande del drammaturgo inglese: quello di aver offerto
all’uomo, attraverso la sua produzione letteraria e soprattutto teatrale, una nuova lente di
ingrandimento per indagare la realtà e l’interiorità umana, abbattendo certezze fino ai suoi
tempi incontrastate e creando nuove prospettive d’interpretazione che influenzano tutt’oggi la
cultura mondiale.

Bibliografia:

Baldi, Giusso, Razetti, Zaccaria, ​Il piacere dei testi, ​Milano- Torino, Paravia, 2012

W. Shakespeare, ​Antonio e Cleopatra,​ Milano, Feltrinelli, 2011.

​ ilano, Feltrinelli, 2014.


W. Shakespeare, ​Re Lear, M

Per le trame delle opere: ​https://it.wikipedia.org/wiki/William_Shakespeare

https://www.william-shakespeare.it/

https://www.shakespeareinitaly.it/index.html

48
3. Goethe - ​B. Basile
​GOETHE

1. LA VITA E L'OPERA FINO AL VIAGGIO IN ITALIA


2. IL PERIODO INTERMEDIO
3. GLI ULTIMI ANNI
4. ANALISI DELL' INNO "PROMETEO"
5. BIBLIOGRAFIA
6. SITOGRAFIA

1. LA VITA E L'OPERA FINO AL VIAGGIO IN ITALIA

L'edizione completa degli scritti di Goethe (la "Weimarer Ausgabe") consta di 150 volumi,
senza contare i "Gespräche" (Colloqui) con Eckermann; ad essa corrispondono gli 83 anni di
vita dell'autore, con un' intensa attività letteraria iniziata a diciotto anni e proseguita fino alla
morte. Uno fra i pochi scrittori di ogni tempo e paese, Goethe, ad essere così fecondo, d'altra
parte a pochi fu concesso di vivere in modo altrettanto pieno, intenso e ricco. Nella
prospettiva storica giganteggia come un inimitabile esempio di equilibrio superiore, di totale
vittoria.
Johann Wolfgang Goethe nacque a Francoforte sul Meno il 28 agosto del 1749.
Giovanissimo, già dal 1756 è allievo in una scuola pubblica e prende lezioni private di latino,
greco, italiano, francese. Impara a cavalcare, a giocare a scherma, a disegnare, a suonare il
violoncello ed il pianoforte. Nel 1765 è a Lipsia per studiare giurisprudenza per volere del
padre, ma si dedica invece allo studio dell'arte e inizia la sua carriera letteraria. Nel 1768 si
ammala, forse di tubercolosi. Interrompe gli studi e torna a Francoforte, dove scrive la sua
prima commedia: "I Corresponsabili". Guarito, si reca a Strasburgo per completare gli studi
giuridici. Nella città francese si innamora di Friederike Brion, figlia di un pastore evangelico.
Il triennio 1772-1775 rappresenta nella vita dell'autore, il periodo dello "Sturm und Drang" ,
ricco di opere create con grande impeto, due delle quali gli assicurano vasta fama: il dramma
cavalleresco "Goetz von Berlichingen" e il romanzo in forma epistolare "Die Leiden des
jungen Werther". Nel dramma, ricavato da un' autobiografia del cavaliere francone che morì
nel 1562, è svolto il contrasto tra il tramontante medioevo e i nuovi ordinamenti sociali: Götz,
ribelle generoso, difensore di ideali e privilegi ormai superati, finisce la vita in carcere, con la
coscienza di aver salvato il proprio onore ma con la dolorosa certezza che la potenza della

49
Cavalleria è finita. Nel 1774 scrive - nell'arco di quattro settimane - e poi pubblica "I dolori
del giovane Werther", definito dall'autore una "confessione generale". Il "Werther" esprime,
in forma narrativa, la fase giovanile di Goethe: la sua poetica della passione, della libertà
sentimentale oltre il limite della disperazione e del suicidio, la sua nostalgia di un'arte libera e
selvaggia (Omero, Ossian, Shakespeare), la sua laicità orgogliosa ma non immemore di
ricordi biblici e religiosi, la sua modernissima introspezione psicologica. Il successo fu
travolgente, arrivò in ogni parte del mondo, toccò i cuori anche più restii (Napoleone
confessò di averlo letto sette volte), accese all'imitazione anche gli artisti più grandi e
indipendenti (Ugo Foscolo ne rivela continuamente il ricordo nelle "Ultime lettere di Jacopo
Ortis"), non cessò di prolungare nel tempo il suo molteplice influsso (dall'opera "Werther" di
Massenet al recente romanzo di un giovane autore della Germania orientale, Ulrich
Plenzdorf, "I nuovi dolori del giovane Werther"). Seguono alcuni inni, vari testi teatrali brevi
e due drammi di maggior respiro: "Stella" e "Calvigo". Nel 1775 a Francoforte, Goethe si
innamora e si fidanza con la sedicenne Lili Elisabeth Schöneman, figlia di un banchiere, ma
non riesce a superare l'avversione per il matrimonio e -dopo una lunga lotta con sé stesso-
spezza il legame e parte per Weimar, accettando l'invito del giovane duca Carlo Augusto. A
Weimar, Goethe trova una società intellettuale già piena di ammirazione per lui ed un'amica
devota, Charlotte von Stein, che gli facilita la comprensione del nuovo ambiente e trasforma
l'ex "Stürmer und Dränger" in un uomo di mondo da signorile riserbo; trova anche lavoro di
altra natura e per circa un decennio si dedica all'amministrazione del piccolo stato,
acquistando vasta esperienza degli uomini e dei problemi politici e sociali. Organizza
costruzioni di strade, dimezza numericamente l'esercito del ducato, si adopera per alleviare le
condizioni dei contadini ma approva anche provvedimenti limitativi della libertà di parola e il
reclutamento forzato di giovani destinati all'esercito di Prussia. Vota a favore della condanna
a morte di una giovane nubile che aveva soppresso il suo bambino. È nominato "consigliere
segreto" e gli sarà conferito (nel 1782) un titolo nobiliare che gli consentirà di arricchire con
un "von" il suo cognome. In questo periodo, grazie anche al benefico influsso di Charlotte, di
cui si innamora, vedono la luce una quarantina di liriche e la prima stesura di drammi come
"Ifigenia" e "il Tasso".

2. IL PERIODO INTERMEDIO

Nel 1786 Goethe, stanco delle cure politiche, della vita di corte, degli studi scientifici con i
quali cercava di placare la sua irrequietudine, chiese ed ottenne un congedo del quale

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approfittò per un viaggio in Italia. I tesori artistici di Venezia e di Roma, le bellezze naturali
di Napoli e della Sicilia lo guidarono a una nuova concezione della vita e del mondo,
significarono per lui una rinascita. La sua nuova concezione fu che, scopo dell'arte, è la
natura idealizzata. In Italia scrive la versione definitiva dell' "Iphigenie", in parametri
giambici, e rimaneggia lo "Egmont", in prosa. Il 18 giugno 1788 è di nuovo a Weimar, dove
chiede, ed ottiene, di essere sgravato di quasi tutti gli incarichi pubblici; inizia a lavorare al
"Faust" (il risultato, il cosiddetto "Ur-Faust" sarà ritrovato solo nel 1887) e alla tragedia
"Torquato Tasso". Nel contrasto di caratteri fra l'orgoglioso autore della "Gerusalemme" e il
positivo, rude ma onesto segretario Antonio che, da ultimo, risulta l'unico amico del malato
sfuggito da tutti, Goethe ha voluto riprodurre il conflitto che in lui si agitava fra il poeta e
l'uomo politico, il tormento per giungere ad un giusto equilibrio tra realismo e idealismo. Nel
1790 compie un secondo viaggio in Italia ma non si ripete l'esperienza rigenerante del primo
soggiorno. L'anno 1794 segna l'inizio di rapporti intensi fra il quarantacinquenne Goethe e
Schiller; secondo Goethe essi stipularono "un patto di mutuo completamento" grazie al quale
per lui comincia una nuova primavera, una seconda giovinezza.

3. GLI ULTIMI ANNI

Nel 1805 con la morte di Schiller si conclude la stagione del classicismo di Weimar. Nel
1806 Goethe completa quella che diverrà la prima parte del "Faust". Nel 1807 termina il
romanzo "Le affinità elettive" e scrive il dramma "Pandora". Si può considerare in blocco
l'ultimo venticinquennio della vita di Goethe: via via lo precedono, chiamate alla morte, le
persone più care (la madre, la compagna, il fedele protettore Carlo Augusto, il figlio), quanto
a mole e varietà di lavoro, questo periodo supera tutti i precedenti. Nel campo degli studi
scientifici ed estetici Goethe pubblica la "Farbenlehre" e varie dissertazioni. Pensa alla storia
di sé stesso, e con le prime quattro parti della vasta autobiografia "Dalla mia vita, poesia e
verità" arriva solo fino al 1775, ma la completano altre fonti autobiografiche come lo
"Italianische Reise" e i "Tag- und Jahreshefte". Si consacra allo studio dell'arabo e del
persiano e raduna parafrasi ed imitazioni di poeti orientali nel "West-östilicher Diwan. A
settantadue anni egli s'innamora a Marienbad della diciottenne Ulrike von Lewetzow e ne
chiede la mano senza risultato. Le ardenti speranze, le ebbrezze della nuova ed ultima
passione, la mestizia della rinuncia, si fondono nella incomparabile "Trilogie der
Leidenschaft". Nella produzione lirica di questo periodo ha notevole importanza anche

51
l'elemento filosofico e gnomico: al 1818 appartengono le "Orphische Urworte", per una
decina d'anni si scaglionano le "Zahme Xenien", ripartite in nove libri.
Goethe morì il 22 marzo del 1832. L'anno prima aveva dato l'ultima mano al "Faust", l'opera
che abbraccia sessant'anni della sua vita. Ne aveva avuta la prima idea da studente a
Strasburgo, era partito per Weimar con il manoscritto dello "Urfaust", aveva aggiunto
qualche scena nel giardino di villa borghese e poi pubblicato un semplice frammento. Schiller
lo incitò a proseguire, a finire, e nel 1801 fu pronta la prima parte nella sua forma definitiva,
nonché il piano generale ed alcuni brani della seconda, di questa si interessò Eckermann, con
successo non minore, poiché Goethe si mise con impegno a lavoro alla fine del 1824. Sono
pertanto scaturiti da un settuagenario la freschezza degli amori tra Faust ed Elena, la
figura-simbolo del loro figlio Euforione, il concetto del finale riscatto del peccatore che, dopo
aver cercato la scienza e il piacere, si salva operando per il bene degli altri e scopre che né la
bellezza né l'arte, ma soltanto l'azione, dà un significato alla vita.
La definizione poco benevola di alcuni critici che scorgono nella versatilità dell'opera di
Goethe una "Gesinnungslosigkeit" (mancanza di principî saldi), non tiene conto del fatto che
vivere fu per Goethe evolversi continuamente.

ANALISI DEL TESTO​:

PROMETEO

Copri il tuo cielo, Giove,


col vapor delle nubi!
E la tua forza esercita,
come il fanciullo che svetta i cardi,
sulle querce e sui monti!
Ché nulla puoi tu
contro la mia terra,
contro questa capanna,
che non costruisti,
contro il mio focolare,
per la cui fiamma tu
mi porti invidia.

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Io non conosco al mondo
nulla di più meschino di voi, o dèi.
Miseramente nutrite
d’oboli e preci
la vostra maestà
ed a stento vivreste,
se bimbi e mendichi
non fossero pieni
di stolta speranza.

Quando ero fanciullo


e mi sentivo perduto,
volgevo al sole gli occhi smarriti,
quasi vi fosse lassù
un orecchio che udisse il mio pianto,
un cuore come il mio
che avesse pietà dell’oppresso

Chi mi aiutò
contro la tracotanza dei Titani?
Chi mi salvò da morte,
da schiavitù?
Non hai tutto compiuto tu,
sacro ardente cuore?
E giovane e buono, ingannato,
il tuo fervore di gratitudine
rivolgevi a colui
che dormiva lassù?

Io renderti onore? E perché?


Hai mai lenito i dolori di me ch’ero afflitto?
Hai mai calmato le lacrime
di me ch’ero in angoscia?

53
Non mi fecero uomo
il tempo onnipotente
e l’eterno destino,
i miei e i tuoi padroni?

Credevi tu forse
che avrei odiato la vita,
che sarei fuggito nei deserti
perché non tutti i sogni
fiorirono della mia infanzia?

Io sto qui e creo uomini


a mia immagine e somiglianza,
una stirpe simile a me,
fatta per soffrire e per piangere,
per godere e gioire
e non curarsi di te,
come me [2].

[1] In tal senso si ricordi l’Operetta​ ​di Leopardi ​La scommessa di Prometeo,​ che sancisce il
fallimento dell’invenzione del titano.

[2] Traduzione di Giuliano Baioni, in J. W. v. Goethe, ​Inni,​ Einaudi, Torino 1967.

A quasi trent’anni, fra il 1773 e il 1774, un giovane e appassionato Goethe, compone un inno
destinato a illustrare anche in seguito la lotta senza fine tra il poeta/genio e una divinità
creatrice suprema. L' inno è concepito da Goethe nella sua fervida fase sturmeriana;
il ​Prometeo​ avrebbe dovuto aprire il terzo atto dell’omonimo dramma, opera mai completata
dall’autore, della quale non ci restano che due atti.
La scelta del titolo e della voce narrante non è casuale in quanto Prometeo risulta essere una
delle figure principali dello ​Sturm und Drang.​ Egli incarna il coraggio dei sentimenti,
la​ ​determinazione, la forza delle passioni: infatti secondo il mito, il suo amore per l’umanità
l’ha condotto, contro il volere divino, a rubare il fuoco e a donarlo agli uomini.

54
In questo componimento Goethe affronta anche un altro tema, il difficile​ ​rapporto
dell’intellettuale con la religione.
L’autore, attraverso le due figure mitiche di Prometeo e Giove, affronta temi differenti e allo
stesso tempo profondamente sentiti, in particolar modo nel periodo che precede
il trasferimento a Weimar. Ciò che in primo luogo si nota è il fatto che questo inno non si
ponga in nessun modo come un’ode a Giove, anzi, rappresenti un atto di ribellione nei
confronti di quest’ultimo.
Prometeo insorge non solo contro la divinità suprema, ma anche contro tutto ciò che questa
rappresenta ai suoi occhi: inganno, falsità, menzogna.
Goethe, che si rivede e si rispecchia nella figura dell’eroe della mitologia greca, sfida
apertamente Giove, ponendosi al suo stesso livello e rivelando contemporaneamente la sua
forte tendenza all’autodeterminazione e all’indipendenza nei confronti della divinità.
Quindi, Goethe/Prometeo si oppone a colui che il filosofo inglese Shaftesbury​ ​– che nella sua
opera del 1710 ​Advise to an Author,​ letta e commentata da Goethe, riprende la figura di
Prometeo – definisce un creatore supremo che vuole imporre la sua volontà al poeta. Già
dalla prima strofa si può leggere dell’atto di insubordinazione e di ribellione del giovane
Goethe/Prometeo nei confronti di Giove, invidioso della forza creatrice del suo
“subordinato”.
È importante notare il ricorrere nel componimento della parola “fiamma” e di tutte quelle
che si riferiscono al suo campo semantico. Ciò non avviene per puro caso: il riferimento al
fuoco, a ciò che brucia, è tipico dei componimenti degli autori dello ​Sturm und Drang​ che,
più di tanti altri intellettuali e scrittori, sentono divampare dentro di loro la scintilla della
creazione poetica​.
Abbandonati i sogni che “​fiorirono della mia infanzia”​ e placate quelle angosce e quegli
affanni tipici della giovinezza (basti pensare, ad esempio, al contemporaneo​ I dolori del
giovane Werther​), quasi successivamente a una sorta di presa di coscienza, Prometeo decide
di ribellarsi a Giove creando un​ ​nuovo genere umano che non viva più nella paura della
“​tracotanza dei Titani​”, della “​morte​” e della “​schiavitù”​ e che si affidi solo al “​sacro ardente
cuore”​ .
Solo questa fiamma renderà possibile la nuova stirpe creata “​a mia immagine e somiglianza​”
e “​fatta per soffrire e per piangere, / per godere e gioire​”. Un vero e proprio inno alla vita,
dunque, che Prometeo contrappone alla sterilità e all’aridità delle divinità.
Nonostante ciò, Prometeo è consapevole del fatto che lui e tutte le divinità sono legate e
sottomesse ad una forza ancora più potente, ossia​ ​all’azione del tempo onnipotente e

55
dell’eterno destino. Ed è a quel carattere divino che Prometeo (e con lui Goethe) si sente
legato.

BIBLIOGRAFIA

Giacomo Prampolini, ​Storia Universale della Letteratura,​ IV, 1950.

Johann W. Goethe, ​Le affinità elettive, (​introduzione a cura di Italo Alighiero Chiusano), I
Classici Feltrinelli, 2019.

SITOGRAFIA

https://imalpensanti.it/2018/05/johann-wolfgang-von-goethe-prometeo/

https://www.lacooltura.com/2017/02/linno-prometeo-goethe-contro-giove/

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Baudelaire . ​A. Campitiello
Charles Baudelaire
1. Vita
2. Opera letteraria
3. I fiori del male
4.

1 VITA

Charles Baudelaire nasce il 9 aprile del 1821 a Parigi e muore a Parigi il 31 agosto 1867.
Oggi è considerato uno dei più grandi poeti francesi ed uno dei maggiori esponenti del
simbolismo della sua Nazione, precursore del cosiddetto Decadentismo e della poesia
moderna. Boudelaire incarna la figura del “poeta maledetto”, ovvero quella tragica figura che
si spinge agli estremi e che sprofonda nella demenza.
I poeti maledetti, nati in Francia, costituiscono l’apice del pensiero Romantico. Charles
Boudelaire, incompreso dai suoi contemporanei, non ancora pronti ad apprezzare una poesia
diversa, innovativa e provocatoria espressa attraverso violenti contrasti e temi scabrosi,
incarna la modernità letteraria.
Noto per la sua vita dissoluta, tra prostitute, alcol e droghe, le sue opere sono legate alla sua
breve e tormentata vita, segnata dal dolore per la perdita prematura del padre, a soli 6 anni, e
dal secondo matrimonio della madre con un generale, un uomo superficiale, freddo e rigido
che non comprese la fragilità emotiva del bambino.
Il trauma della scelta della mamma di iniziare una nuova vita avrà conseguenze decisive sulla
personalità dell’artista e viene tutto manifestato nelle sue poesie e nel suo temperamento.
Nonostante le scelte materne, rimase sempre molto legato a lei e nel nodo doloroso dei
rapporti con la famiglia, si gioca gran parte dell'infelicità e del disagio esistenziale che
accompagnerà Baudelaire per tutta la vita. Nei suoi componimenti egli chiederà sempre aiuto
e amore alla madre, quell'amore che crederà mai ricambiati, perlomeno rispetto all'intensità
della domanda.
Dopo un periodo di ribellione e rifiuto delle scelte familiari decide ben presto di seguire la
sua passione per la letteratura.
Passata la giovinezza tra ribellioni e intrighi amorosi, a partire dal 1845 il poeta inizia a

57
pubblicare le prime poesie e critiche d’arte.
Diventerà il più grande teorico e critico d’arte del XIX secolo.
Nel 1847 pubblica ​“La Farfarlo”​, una novella autobiografica in cui il poeta descrive se
stesso, un uomo pieno di spirito e bellezza, ma con una personalità sprezzante e cinica. Il
1848 è un anno decisivo, scoppia la rivoluzione e lott in prima linea sulle barricate e affianca
alcuni giovani rivoluzionari spinto dall’odio verso il patrigno che guidava le truppe
repressive.I suoi sentimenti in questo caso si dissolvono dopo il colpo di stato di Luigi
Napoleone, il 2 dicembre del 1851 e il poeta riprende la sua carriera letteraria.
Il fallimento dei moti rivoluzionari determina in lui una delusione fortissima che lo portò ad
allontanarsi dalla vita politica.
Nonostante l'allontanamento da una vita rivoluzionaria, rimane un ragazzo irascibile e
collerico, proseguendo la sua autodistruzione con alcol e droghe che lo allontanano sempre
più da un mondo borghese che rifiuta e disprezza.
Nel 1857 pubblica la raccolta di poesie ​I Fiori del Male​, bandito dalla vendita dopo un mese.
Insieme al suo editore, Baudelaire subisce un processo e una condanna per oltraggio alla
morale pubblica e il buon costume e la conseguenza di eliminare dalla raccolta sei
componimenti considerati osceni per l’epoca, pagando una multa di 300 franchi.
Solo nel ‘900 la Corte di Cassazione decide di riabilitare l’opera e la memoria di questo
straordinario poeta.
Profondamente critico nei confronti della società borghese industriale, cui contrappose uno
stile di vita all'insegna della sregolatezza, ​Baudelaire ​non fu solo poeta, ma anche un grande
critico e un geniale studioso di problemi estetici. Egli contribuisce all'elaborazione del
concetto di ​poesia pura​, libera da ogni preoccupazione di contenuto ed intenti civili o morali,
nella quale la suggestione delle parole e dei simboli può essere oggetto di ispirazione,
aprendo così la strada al ​simbolismo​. Fu il primo a definire la specificità della poesia,
separandola da tutti gli altri campi con i quali fino ad allora si era confusa. Come si può
ricavare dalla sua principale raccolta poetica “​I fiori del male” ​per i quali fu processato
insieme all'editore con l'accusa di pubblicazione oscena, ​Baudelaire ​introdusse nel registro
lirico il tema della grande metropoli moderna e le forme del quotidiano, del sordido,
dell'abietto e del vizioso.

2. OPERA LETTERARIA
I Fiori del Male, ​capolavoro letterario di questo grande poeta messo alla gogna, rappresenta

58
la concezione della vita di un uomo la cui voce coraggiosa afferma l’inadeguatezza della
società, della realtà e della natura, che conduce quei ​poeti maledetti a​ d una poetica ardua e
importare nella lucida consapevolezza della fine del Romanticismo e la ricerca di un oltre,
uno spazio e un tempo in cui
essere liberi da quella realtà noiosa.
Poco dopo la sua morte viene pubblicata un'edizione completa delle sue opere e scritta la sua
prima biografia. Inizia così la leggenda di Baudelaire: un poeta dannato, maledetto, che il XX
secolo consacra come il primo poeta della modernità e uno dei suoi massimi pensatori.

3 I FIORI DEL MALE

COMPRENSIONE

I Fiori del Male è una raccolta di poesie che raccoglie più di 100 liriche, scritte a partire dagli
anni ‘40 dell’800 e pubblicate su riviste.
Nella seconda edizione del 1861 il poeta aggiunse nuovi testi e divise l’opera in sei
sezioni: -noia e ideale
-quadri parigini
-il vino
-i fiori del maledetti
-la rivolta
-la morte
Il poeta ha voluto realizzare un percorso che va dalla consapevolezza della propria diversità
rispetto al mondo esterno, alle varie esperienze nella vita degradata della metropoli, al
desiderio di fuga nell'alcol, nei paradisi artificiali della droga, negli amori distruttivi; il poeta
approda da qui nella ribellione contro Dio e al rifiuto totale del mondo attraverso la morte.
Il titolo allude con la parola ​fiori,​ alla bellezza che solo l'arte sa realizzare; la parola ​male,​ al
degrado e alla volgarità della società contemporanea.
Nella corruzione del mondo contemporaneo solo l'arte è in grado di produrre la
bellezza​. Egli intuisce che al di là delle apparenze, c'è una realtà più profonda e autentica alla
quale può giungere solo con la poesia. Per rivelare queste zone egli ricorre a un linguaggio
nuovo e allusivo, capace di intravedere le misteriose corrispondenze e analogie che legano
tra loro le cose più diverse.

59
2
Allora le parole perdono valore convenzionale e vengono riscoperte nel loro significato
allusivo e fonico. Diventano simboli che rimandano a un’altra realtà.

Corrispondenze
È un tempio la ​Natura o​ ve viventi
pilastri a volte confuse parole
mandano fuori; la attraversa l'uomo
tra ​foreste di simboli d​ agli occhi
familiari. I profumi e i colori
e i suoni si rispondono come ​echi
lunghi. che di lontano si confondono
in unità profonda e tenebrosa,
vasta come la notte ed il chiarore.
Esistono ​profumi freschi ​come
carni di bimbo, dolci come gli oboi,
e verdi come praterie; e degli altri
corrotti, ricchi e trionfanti, che hanno
l'espansione propria alle ​infinite
cose,​ come l'incenso, l'ambra, il muschio,
il benzoino, e cantano dei sensi
e dell'anima i lunghi rapimenti.

PARAFRASI DELLA POESIA


La natura è tempio le cui colonne sono vive e parlano, anche se in maniera confusa e non
chiara l'uomo passa attraverso luoghi densi di simboli che osservano con sguardi familiari. Le
sensazioni olfattive, visive, uditive, sono in relazione tra loro e si uniscono in un insieme
profondo e oscuro.
Esso ha le caratteristiche opposte dell'oscurità e della luce.
Esistono alcuni profumi (sensazione olfattiva) che hanno la freschezza della pelle dei
bambini(sensazione tattile) la dolcezza del suono dell'oboe (sensazione auditiva) e il colore
delle praterie (sensazione visiva) e degli altri corrotti, ricchi trionfanti, che hanno

60
un'espansione propria, come l’incenso, l’ambra, il muschio e il benzoino (resina orientale),
profumi che esprimono l'estasi dei sensi e dell'anima.
ANALISI DELL’OPERA
Corrispondenze ​è il titolo di uno dei componimenti poetici più noti di Charles Baudelaire ed
è considerato uno dei manifesti della poetica simbolista. Fa parte della sezione Spleen e
ideale, la prima delle sei che compongono I fiori del male (1857). La natura è vista come un
tempio vivente, una foresta di simboli che solo il poeta, grazie alla sua sensibilità e veggenza,
può decifrare. Corrispondenze ha la struttura di un sonetto in versi alessandrini con rime
ABBA CDDC EFE FGG. Secondo Baudelaire, la realtà che vediamo ne nasconde una più
profonda, in cui ogni elemento è legato reciprocamente. Nella prima quartina di
Corrispondenze vengono utilizzate due metafore: quella del tempio, luogo del sacro e del
divino, e quella della foresta, luogo in cui ci si può smarrire. Baudelaire presenta la Natura
come un tempio vivente formato da pilastri parlanti che l’uomo dotato di chiaroveggenza,
cioè il poeta, attraversa e ne coglie messaggi e legami. I colori, i suoni, i profumi del mondo
sono legati tra loro in una sorta di dialogo: nella seconda quartina queste manifestazioni sono
paragonate a echi prolungati che partono da lontano e convergono verso lo stesso centro. Il
poeta può percepire, grazie alla propria intuizione, i legami tra gli elementi della Natura, ma
non conoscerli nel profondo: essi sono infatti fusi in una «unità profonda e oscura / vasta
come le tenebre o la luce» (vv. 6-7). Nelle due terzine il poeta si concentra sulle sensazioni
olfattive: da una parte profumi che trasmettono purezza e innocenza (vv. 9-10), dall’altra
profumi intensi e invasivi (l’ambra e il muschio sono associati a profumi femminili; il
benzoino è una resina esotica da cui si estrae un’essenza pregiata; l’incenso è utilizzato in
campo religioso). Centrale è in questo procedimento il ricorso alla sinestesia, che associa due
sfere sensoriali differenti. I temi presenti all’interno della poesia sono due: la natura e la
possibilità di trovare corrispondenze tra realtà percepite attraverso i sensi. ​Corrispondenze è​
una riflessione sulla condizione dell'uomo nella natura e sulla funzione del poeta. La natura vi
era presentata come un tempio, luogo del sacro e del mistero, da cui emanano confuse parole
che l'uomo può sentire ma non comprendere. L'uomo vive nella natura, è partecipe del suo
mistero, avverte però che tra i profumi, i colori, i suoni, esistono corrispondenze che si
perdono lontano come echi. Sta a lui decifrare mediante un'intuizione e l'immaginazione,
l'universale analogia che i sensi e la razionalità non permettono di cogliere. Ma può
raccontarlo solo ricorrendo a sua volta a ​un linguaggio simbolico​, a una magia verbale. Se ​la
natura è sacra e la realtà e simbolica​, anche la poesia è sacra, perché rivela il linguaggio
segreto dell'universo. ​Manca la bibliografia!

61
Proust - ​F. Innocenzi
MARCEL PROUST
VITA

POETICA

​ EL​ T​ ESTO
ANALISI​ D

VITA

Marcel Proust nasce a Parigi, nella capitale di Francia, nel 1871 da una colta famiglia dell'alta
borghesia. Nel 1894 si laurea in lettere alla Sorbona, dove aveva seguito i corsi di Henri
Bergson; intanto pubblica articoli di cronaca mondana su giornali e riviste e comincia a
frequentare gli ambienti aristocratici dell'alta borghesia che gli avrebbero fornito poi i
modelli di tanti suoi personaggi.
Il suo primo libro, ​I piaceri e i giorni​, fu una raccolta di prose e occasioni che uscì nel 1896;
seguì il romanzo ​Jean Santeuil​, ma la morte del padre, nel 1902, e la morte della madre, nel
1906, acuirono quello stato emotivo già fortemente compromesso, che lo portò a un netto
peggioramento sia emotivo che fisico. Difatti negli ultimi anni della sua vita si relegò nella
sua stanza, sempre più lontano dalla vita mondana, dedicandosi totalmente alla stesura del
suo grande capolavoro, ​Alla ricerca del tempo perduto​.

POETICA

La strada di Swann​, ​All'ombra delle Fanciulle in Fiore,​ ​I Guermantes,​ Sodoma e Gomorra​,


La prigioniera​, ​Albertine scomparsa​, ​Il tempo ritrovato,​ sono i sette romanzi che vanno a
formare il testo unico noto come ​Alla ricerca del tempo perduto.​ I primi quattro romanzi
furono pubblicati prima della morte dell'autore, mentre gli ultimi tre postumi. Quello che fa
da sfondo all’intera narrazione è l'alta società francese agli inizi del secolo e la trama resta
impossibile da riassumere in breve poiché si presenta come un macro-racconto
autobiografico, accompagnato da una serie di affreschi sui costumi dell'epoca.
Il protagonista dei romanzi racconta in prima persona, lungo il filo della memoria, eventi del
suo passato, dall'infanzia sino all'età adulta. Tuttavia i racconti vanno intrecciandosi
continuamente con riflessioni e interferenze del presente, dove lo stesso protagonista-
narratore scopre se stesso, insieme, però, alla inautenticità dell'esistenza quotidiana, in cui il
flusso degli eventi è inghiottito dal tempo.

62
L’unico riscatto che rimane all'uomo è dunque quello dell'arte, che agisce al di sopra del
tempo, fissa per sempre incontri, sensazioni, ed emozioni che continuano a vivere nel ricordo.
Se dunque ​Alla ricerca del tempo perduto è un romanzo che invita il lettore a ritrovare il
tempo perduto​, appunto, attraverso le capacità evocative dell'arte e della letteratura, per
realizzare un così alto intento, lo scrittore - che certo non può fare a meno delle tecniche
tradizionali della narrativa ottocentesca, oramai cristallizzate - deve assecondare il flusso
spontaneo dei pensieri e dei ricordi, restituendo una temperatura emotiva che oscilla tra
presente e passato, lungo percorsi labirintici e divaganti. Tale andamento è giustificato da un
principio basilare: se il tesoro da scovare è il ​tempo,​ e il nascondiglio ove esso si rifugia è il
passato, il protagonista non può affidarsi alla memoria volontaria e cosciente; deve esso
affidarsi alla memoria involontaria, scaturita da occasioni apparentemente insignificanti, da
sensazioni inattese. La psiche diviene allora un immenso edificio del ricordo ove possibile
ritrovare il passato attraverso echi e associazioni.
Trova posto, dunque, l'introspezione e l'attenzione a ciò che apparentemente sembra
insignificante, il che, date le abitudini letterarie del tempo, risultò essere una radicale
innovazione. Se sono le sequenze descrittive a dominare, la sproposizione tra descrizione e
narrazione assume, nella scrittura, un ruolo fondamentale: il tempo è una categoria
inafferrabile, incapace di piegarsi in modo pacifico alla penna dello scrittore. Il lettore è
pertanto trascinato nel turbinio delle immagini descritte, e il mancato controllo della ragione e
della consapevolezza, la mancata linearità del percorso, crea un incessante ​andirivieni tale
che l'esperienza interiore sulla realtà vissuta, diventa essa stessa il ricordo concreto della vita.
In contrasto con la narrativa realista e naturalista - che puntava a dare una descrizione
oggettiva della realtà, ben definita attraverso una narrazione ordinata e lineare -
Proust descrive situazioni, ambienti, personaggi, attraverso una eco soggettiva che, grazie alla
tecnica delle libere associazioni, sconvolge l'ordine cronologico, tanto amato dal romanzo
tradizionale.
Ipotizzando dunque un confronto con il romanzo ottocentesco, diverrebbe evidente lo scarto
dato dal rapporto quantitativo tra narrazione e riflessione/descrizione, nonché descrizione e
interpretazione di eventi o fatti. Spingendoci ancora oltre, inevitabile diverrebbe il confronto
con i simbolisti e con la baudelairiana poetica delle ​Corrispondenze​. La concezione
proustiana del tempo e della memoria potrebbe, poi, essere accostata ad alcuni aspetti del
pensiero di Bergson - di cui Proust seguì le lezioni universitarie presso la Sorbona, come
detto in apertura - la cui filosofia muove dall'analisi interiore e profonda della coscienza,
superando la scienza positivistica che riduceva la coscienza a un meccanismo di parti in

63
successione l’una dopo l’altra. Non a caso il tema della memoria sarà poi tanto caro a
Montale (che Contini definirà come un un Proust alla rovescia​3​), e a Svevo, che con il suo
Zeno ingannerà il lettore attingendo dalla memoria volontaria.
Appassionato conoscitore e intenditore delle opere d’arte, Proust è stato poi autore di svariati
saggi critici: il commento della traduzione di ​Sesamo e gigli d​ i John Ruskin; ​Imitazioni e
miscellanee ​(​Pastiches et mélanges​, 1919); le pagine dedicate a Baudelaire e a Flaubert (1920
e 1922); i volumi postumi ​Cronache ​(​Chroniques​, 1927) e ​Contro Sainte-Beuve ​(​Contre
Sainte-Beuve​, 1954).

​ EL​ T​ ESTO
ANALISI​ D

Segue l’incipit de ​La strada di Swann​, parte I, cap. I, nella traduzione di N. Ginzburg,
Einaudi, Torino, 1978.

«Per molto tempo, mi sono coricato presto la sera. A volte, non appena spenta la candela, mi
si chiudevan gli occhi così subito che neppure potevo dire a me stesso: "M'addormento". E,
una mezz'ora dopo, il pensiero che dovevo ormai cercar sonno mi ridestava; volevo posare il
libro, sembrandomi averlo ancora fra le mani, e soffiare sul lume; dormendo avevo seguitato
le mie riflessioni su quel che avevo appena letto, ma queste riflessioni avevan preso una
forma un po' speciale; mi sembrava d'essere io stesso l'argomento del libro: una chiesa, un
quartetto, la rivalità tra Francesco primo e Carlo V. La convinzione sopravviveva per qualche
attimo al mio risveglio, e non offendeva la mia ragione, ma mi pesava sugli occhi come
scaglie, ed impediva loro di rendersi conto che la candela non era più accesa. Poi cominciava
a farmisi inintelligibile, come i ricordi di un'esistenza anteriore dopo la metempsicosi; il
contenuto del libro si staccava da me, ero libero di pensarci o non pensarci; subito ricuperavo
la vista ed ero assai stupito di trovare intorno a me un'oscurità dolce e riposante per i miei
occhi, ma forse più ancora per l'animo mio, al quale essa appariva come una cosa senza
causa, incomprensibile, come una cosa veramente oscura. Mi domandavo che ora potesse
essere; sentivo il fischio dei treni, che, più o meno lontano, come il canto di un uccello in una
foresta, segnando le distanze, mi descriveva la distesa della campagna deserta, dove il
viaggiatore s'affretta verso la stazione vicina; e il viottolo ch'egli percorre gli resterà impresso
nel ricordo dall'eccitazione che gli dànno dei luoghi nuovi, degli atti insoliti, i recenti discorsi

3
C​ONTINI​ G​IANFRANCO​, Una lunga fedeltà: scritti su Eugenio Montale, Torino, Einaudi, 1974.

64
e l'addio sotto una lampada estranea che lo seguono ancora nel silenzio della notte, la
prossima dolcezza del ritorno. Appoggiavo teneramente le gote alle belle gote del guanciale,
piene e fresche come quelli della nostra infanzia. Accendevo un fiammifero per guardar
l'orologio. Mezzanotte fra poco. È il momento in cui il malato che abbia dovuto mettersi in
viaggio e dormire in un albergo sconosciuto svegliato da una crisi, si rallegra al vedere sotto
la porta una riga di sole. Che gioia, è già mattina! Tra un minuto i servi si alzano, potrà
suonare il campanello, verranno a dargli aiuto. La speranza del conforto gli dà coraggio nella
sofferenza. Ecco, proprio gli è parso di sentire un rumore di passi: i passi s'avvicinano, poi
s'allontanano. E la riga di sole sotto la sua porta è scomparsa. È mezzanotte; hanno appena
spento il gas; l'ultimo cameriere se n'è andato e bisognerà passare la notte a soffrire senza
rimedio. Mi addormentavo e talvolta non avevo più che brevi risvegli di un attimo, il tempo
di sentire gli scricchiolii organici del legno, d’aprir gli occhi a fissare il caleidoscopio del
buio, di godere, grazie ad un momentaneo barlume di coscienza, del sonno in cui erano
immersi i mobili, la camera, quel tutto di cui ero solo una piccola parte, e all’insensibilità del
quale presto mi univo di nuovo, o anche, dormendo, avevo raggiunto senza sforzo un’età
superata per sempre dalla mia vita primitiva, avevo ritrovato qualcuno dei miei terrori
infantili, come quello che il io prozio mi tirasse i riccioli, dissipato il giorno – data di un’èra
nuova per me – che me li avevano tagliati. Nel sonno avevo dimenticato questo avvenimento,
ne ritrovavo memoria non appena ero riuscito a risvegliarmi per sfuggire alle mani del prozio,
ma per per precauzione mi circondavo completamente il capo col guanciale prima di tornare
nel mondo dei sogni».

Nel testo narrativo proposto, in realtà, non è presente nessun atto, nessun evento; questo
accade poiché la narrazione può dirsi tale solo quando l’​Io incontra quell’elemento che lo
porterà alla rievocazione di diverse camere da letto della sua vita, dei luoghi della sua
infanzia e, scorrendo ancora le pagine del romanzo, si arriverà a una serata con un evento
particolarmente significativo per il protagonista. Il tutto è proposto come un ininterrotto
monologo interiore del protagonista, il quale ricostruisce le vicende attraverso una prospettiva
del tutto soggettiva, secondo il processo delle «intermittenze del cuore», sintetizzato da
Glauco Natoli come l’incontro fortuito del soggetto con un oggetto che suscita la resurrezione
del passato​4​. All’interno del testo, dove il protagonista ci restituisce delle immagini di un
viaggiatore notturno, che ​s’affretta verso la stazione vicina​, lungo una deserta campagna, o di

4
N​ATOLI​ G​LAUCO​, ​Marcel Proust e altri saggi​, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1968.

65
un malato che ​svegliato da una crisi​, ​si rallegra nel vedere sotto la porta una riga di sole​,
queste sarebbero state proposte al lettore come semplici similitudini; qui, invece, godono di
una propria autonomia narrativa, come se elementi così marginali divenissero spunti per una
profonda introspezione. Solo verso la chiusura del brano, attraverso l’esperienza del sonno, e
del risveglio, vi è un primo vero evento: la ricordanza della propria infanzia, addirittura dei
primordi dell’umanità​. Il percorso si svolge evidentemente in maniera non lineare, ma come
un sovrapporsi continuo di passato e presente e, dunque, di irreale e reale, che fornisce alla
scrittura quel carattere divagante, quel grumo di subordinate che sembra non soddisfare mai il
lettore.

L’innovazione stilistica e tematica passa dunque attraverso un lungo percorso che punta a una
nuova concezione filosofica ed estetica che deve avere il romanzo per Proust; superati i
moduli “oggettivi” ed impersonali di realisti e naturalisti, i personaggi, gli ambienti e le cose
vivono tutti nella prospettiva personale della voce narrante. La ​Ricerca è​ quindi un’opera
radicalmente innovatrice per lo stile, per l’importanza che in essa assume il tema del tempo,
dell’introspezione, a cavallo tra Decadentismo e modernità (Compagnon)​5​.

Bibliografia

C​OMPAGNON A​NTOINE​, ​Proust tra due secoli [​Proust entre deux siècles​], traduzione di
Francesca Malvani, con la collaborazione di Pierfranco Minsenti, Torino, Einaudi, 1992.
C​ONTINI​ G​IANFRANCO​, Una lunga fedeltà: scritti su Eugenio Montale, Torino, Einaudi, 1974.
N​ATOLI​ G​LAUCO​, ​Marcel Proust e altri saggi,​ Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1968.

5
C​OMPAGNON A​NTOINE​, ​Proust tra due secoli [​Proust entre deux siècles]​ , traduzione di Francesca
Malvani, con la collaborazione di Pierfranco Minsenti, Torino, Einaudi, 1992.

66
Kafka - ​I. Caramazza

1. LA VITA
2. CONTESTO
3. ANALISI DEL BRANO TRATTO DA LE METAMORFOSI

LA VITA

Franz Kafka nasce a Praga il 3 luglio 1883, primogenito di sei figli, da una famiglia ebraica
aschenazita. Il padre era un agiato commerciante ebreo e un macellaio rituale molto religioso,
figura autoritaria con la quale Kafka ebbe un rapporto tormentato, come testimoniato dalla
Lettera al padre dove si configura la complessa personalità dello scrittore in contrasto con
quella del padre, insieme al rapporto non tanto felice con la madre e le sorelle.

Kafka crebbe a Praga come ebreo di lingua tedesca ma, nonostante l’educazione ricevuta in
famiglia, si dichiarò spesso ateo o comunque non molto interessato alle questioni religiosi.

Nel 1906 si laurea controvoglia (dietro pressione del padre) alla facoltà di Giurisprudenza.
Già negli anni universitari è legato agli ambienti letterari, in particolare grazie all’amicizia
con Max Brod il quale curò e pubblicò molte opere postume di Kafka, non tenendo conto
delle disposizioni testamentarie dell'amico, secondo le quali avrebbe dovuto distruggere tutti
gli scritti da lui lasciati.

Dopo la laurea in Legge trova impego in una compagnia di assicurazioni, che nel 1915 riesce
ad ottenere un rinvio per la partecipazione di Kafka alla Prima Guerra Mondiale poiché il suo
lavoro era considerato essenziale per lo Stato. Due anni più tardi lo scrittore stesso tenta di
entrare nell’esercito e partecipare alla Guerra, ma la sua richiesta viene respinta a seguito
della diagnosi di una tubercolosi. A causa di questa malattia, al tempo incurabile, viene
mandato in pensione anticipata nel 1918: ogni tentativo di porre rimedio al male nei sanatori
fallisce, e la tubercolosi degenera fino ad ucciderlo nel 1924.

L’amico Brod ricorda Kafka come tormentato anche dalla sfera sessuale: egli frequentò
bordelli ed era interessato alla pornografia, nonostante l’ossessione del sesso era
accompagnata ad un senso di forte ribrezzo per il proprio corpo. Inoltre Kafka intrattenne
diverse relazioni con molte donne, relazioni che però non arriveranno mai ad una stabilità
sentimentale. Una delle relazioni più significative è quella con Felice Bauer, una giovane
parente di Brod, avviando con lei una corrispondenza dallo stile e dall'immaginazione pari se

67
non superiore alla sua più famosa produzione letteraria. Le lettere gli permettono di aprire il
suo animo ai sentimenti più segreti e nello stesso tempo di non impegnarsi in un rapporto
materiale che lo spaventa. Si dibatte tra il desiderio di sposarla, il che gli permetterebbe di
assolvere ai suoi doveri di ebreo e di figlio, di assestare la sua vita, e la convinzione che
questa unione sarà la sua rovina e un ostacolo alla sua libertà di scrivere. L'incontro con
Felice libera la forza creatrice di Kafka.

Nel 1914 si verifica la rottura definitiva con Felice Bauer, che lascia il posto alla relazione
con Milena Jesenka, altrettanto tormentata, così anche la relazione con Dora Dyamant, con
cui convisse dal 1923.

Nei romanzi ​America, Il processo, Il castello il protagonista deve espiare una colpa spesso a
lui stesso ignota (come ne ​Il processo)​ , in una società incomprensibile e assurda che lo
perseguita e a cui deve sottomettersi: in ​Il castello la legge dei signori del castello appare
come arbitraria e incomprensibile all’agrimensore K., mentre in ​Il processo il sistema dei
giudici e del tribunale che condanna a morte l’impiegato Joseph K., agisce secondo
meccanismi misteriosi, in un’atmosfera onirica da incubo. La punizione, la repressione, il
senso di colpa diventano condizione assoluta dell’uomo e insieme allegoria dell’insensatezza
della vita della società moderna.

Le metamorfosi è un racconto scritto nel 1912. Si tratta della storia di Gregor Samsa, un
commesso viaggiatore che, addormentatosi, si risveglia al mattino trasformato in un orrendo,
enorme insetto. Il paradossale racconto continua con l’inutile tentativo di Gregor di recarsi al
lavoro e spiegare la nuova, assurda, situazione al suo capufficio e alla famiglia che, con la
sola eccezione della sorella Grete che decide di prendersene cura, non riesce a sopportare
nemmeno la vista del figlio. In questo racconto emergono tutti quelli che sono i punti nodali
della narrativa kafkiana: dal rapporto conflittuale con sé stesso (il corpo percepito come
qualcosa di orrendo) al conseguente senso di straniamento e di angoscia, al rapporto
problematico con la famiglia che diventa conflittuale con il padre, al punto che questi ferisce
gravemente Gregor quando questi entra in cucina. Un rapporto conflittuale che culmina alla
fine del racconto quado la morte di Gregor viene vissuta con sollievo dai membri della
famiglia, la cui situazione economica ricomincia finalmente a migliorare dopo essere rovinata
a seguito della metamorfosi del figlio.

68
CONTESTO

Nelle sue scritture private Kafka compie una spietata autoanalisi, mentre il suo pensiero si
avvicina alle teorie socialiste, al darwinismo, alla filosofia di Kierkgaard. Secondo il biografo
Brod, Kafka è un parlatore generoso e incantevole, tormentato da un continuo senso di colpa
che lo accompagnerà fino alla morte. La sua vita è funestata dall'insonnia e dalla tubercolosi,
dall'odio per i parenti e dal presentimento della catastrofe che di lì a poco si abbatterà
sull’Europa.

Lo scavo kafkiano, insieme agli esiti di tutta la letteratura novecentesca e in specie


mitteleuropea, aggrava ulteriormente quella crisi di certezze che si era già manifestata alla
fine del 1800. In quel secolo avevano dominato gli ideali tipici della scienza e del progresso,
condensati e diffusi nella filosofia e nella mentalità del positivismo. Già alla fine del 1800, e
poi con sempre maggior forza agli inizi del 1900, invece, si viene infatti manifestando nella
cultura europea un movimento di reazione al positivismo, movimento che influenza la
filosofia, la letteratura e i vari campi artistici. Si rimprovera al positivismo di coltivare troppa
fiducia nel progresso, di essere ingenuamente meccanicista nel coniugare fiducia nella
trasformazione intima dell'uomo, progresso morale e mero progresso materiale, economico o
tecnologico che fosse. Questi smottamenti "ideologici" portarono alla ricerca di nuove forme
espressive, insieme alla presa di coscienza da parte degli scrittori, di nuove funzioni. Essi
capiscono che possono più limitarsi alla semplice descrizione della realtà, ma cercare le
ragioni più profonde dell'agire umano. In questo clima acceso si sviluppa una forte polemica
antiborghese, manifestata anche con l'adozione di nuove forme di vita originali e sregolate,
con le provocazioni lanciate contro il pubblico e la società dei "benpensanti" . La rivolta
contro la mediocrità e l'ipocrisia della vita borghese è un tema ricorrente in tutta la cultura
europea di questo periodo, a cui Kafka si inscrive a pieno diritto. Vengono alla ribalta,
insomma, nuovi temi letterari: lo scavo nell'interiorità dell'individuo, la valorizzazione degli
aspetti inconsci della personalità, la riflessione sulla condizione esistenziale del singolo, in
cui dominano l'inquietudine, lo smarrimento, l'angoscia.

ANALISI TESTO

Brano tratto dalle pagine iniziali di: ​Le metamorfosi

69
Gregor Samsa, svegliandosi un mattino da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in
un enorme insetto immondo. Giaceva sulla schiena, dura come una corazza e, sollevando un
po’ la testa, vide un addome arcuato, scuro, attraversato da numerose nervature. La coperta,
in equilibrio sulla sua punta, minacciava di cadere da un momento all’altro; mentre le
numerose zampe, pietosamente sottili rispetto alla sua mole, gli ondeggiavano confusamente
davanti agli occhi. “Che mi è successo?” pensò.

Non era un sogno. La sua camera, una vera camera per esseri umani, anche se un po’ piccola,
stava ben ferma e tranquilla tra le sue quattro note pareti. Sopra il tavolo, su cui era sparso un
campionario di tessuti – Samsa era commesso viaggiatore – era appesa un’immagine
ritagliata, non molto tempo prima, da una rivista illustrata e collocata in una graziosa cornice
dorata. Raffigurava una donna che, in boa e berretto di pelle, sedeva ben dritta con il busto,
alzando verso l’osservatore un pesante manicotto di pelliccia in cui scompariva tutto
l’avambraccio. Lo sguardo di Gregor passò allora alla finestra e il cielo coperto – si sentivano
gocce di pioggia picchiettare sulla lamiera del davanzale – finì d’immalinconirlo. “Se
dormissi ancora un po’, e dimenticassi tutte queste stupidaggini?” pensò; ma la cosa era
impossibile, perché abituato a dormire sul fianco destro, e nello stato in cui si trovava, non
era in grado di assumere quella posizione.

Per quanta forza impiegasse nel cercare di buttarsi sulla destra, ricadeva sempre sul dorso.
Provò cento volte, chiuse gli occhi per non vedere le sue zampine annaspanti e smise solo
quando cominciò a sentire sul fianco un dolore leggero, sordo, mai provato prima. “Dio
mio!” pensò, “che professione faticosa mi sono scelta! Tutti i santi giorni in viaggio. Le
preoccupazioni sono maggiori di quando lavoravamo in proprio, in più c’è il tormento del
viaggiare: l’affanno delle coincidenze, i pasti irregolari, cattivi, i rapporti con gli uomini
sempre mutevoli, instabili, che non arrivano mai a diventare duraturi, cordiali. Vada tutto al
diavolo!” Sentì un lieve prurito sul ventre; restando supino si tirò adagio verso il capezzale,
per poter alzare meglio la testa, e trovò il punto che prudeva coperto da macchioline bianche
che lo lasciarono perplesso; provò a sfiorare il punto con una zampa, ma la ritirò subito,
perché il contatto gli provocò un brivido.

Scivolò di nuovo nella posizione di prima. “Queste alzatacce”, pensò, “finiscono col
rimbecillire. L’uomo deve avere il suo sonno. Certi colleghi vivono come le donne di un
harem. Se una mattina mi succede, per esempio, di rientrare in albergo per trascrivere le
commissioni ricevute, quei signori si sono appena seduti per la prima colazione. Ci provassi

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io, col mio principale: che volo farei! D’altra parte, chi sa se non sarebbe una fortuna. Non
fosse per i genitori, mi sarei licenziato da un pezzo, sarei andato dal principale e gli avrei
detto quello che penso, dalla a alla zeta! Sarebbe dovuto cadere dallo scrittoio! Che strano
modo, poi, di sedere sullo scrittoio e parlare da lì agli impiegati, specie se si considera che,
sordo com’è, quelli devono andargli proprio sotto il naso. Ma non è detta l’ultima parola:
appena avrò messo da parte tanto denaro da pagargli il debito dei miei genitori, – forse
occorrono ancora cinque o sei anni, – lo farò senz’altro. Allora ci sarà il grande distacco. Ma
intanto mi devo alzare, il treno parte alle cinque”. Diede un’occhiata alla sveglia, che
ticchettava sul cassettone. “Dio del cielo!” pensò. Erano le sei e mezzo, e le lancette
proseguivano tranquillamente il loro cammino, anzi la mezza era già passata, erano ormai i
tre quarti.

Che la sveglia non avesse suonato? Dal letto si vedeva che era stata messa regolarmente sulle
quattro; aveva senza dubbio suonato: possibile che avesse continuato a dormire con quel
suono che scuoteva i mobili? Non aveva avuto un sonno tranquillo, ma forse per questo aveva
dormito più pesantemente. Che avrebbe fatto? Il treno successivo partiva alle sette; per
riuscire a prenderlo, avrebbe dovuto correre come un matto, e il campionario non era ancora
pronto, mentre lui, poi, non si sentiva troppo fresco e in forze. E anche se fosse riuscito a
prendere il treno, un rimprovero del principale era ormai inevitabile: il fattorino lo aveva
aspettato al treno delle cinque e da un pezzo doveva aver riferito sulla sua assenza. Era una
creatura del principale, senza volontà né cervello. E se si fosse dato malato? Sarebbe stato
molto penoso e sospetto, perché in cinque anni di servizio non era ancora stato malato
nemmeno una volta. Il principale sarebbe venuto con il medico della mutua, avrebbe
rimproverato ai genitori la pigrizia del figlio e tagliato corto a tutte le obiezioni, rimettendosi
al medico, per il quale, come si sa, esistono solo individui sanissimi, ma poltroni. E nel suo
caso avrebbe poi avuto tutti i torti? Non fosse stato per una certa sonnolenza, inspiegabile
dopo un riposo così lungo, Gregor si sentiva proprio bene, provava perfino un ottimo
appetito. Mentre pensava rapidamente a tutto questo, senza potersi decidere a lasciare il letto,
la sveglia suonò le sei e tre quarti. Nello stesso tempo, qualcuno picchiò con cautela alla porta
vicino al capezzale. “Gregor!” chiamava una voce, quella della mamma. “Sono le sei e tre
quarti. Non volevi partire?”

La voce soave! Gregor si spaventò quando sentì la propria risposta. La voce, senza dubbio,
era la sua di prima: ma ad essa si mischiava un pigolio lamentoso, incontenibile, che lasciava
capire le parole solo in un primo momento, ma subito ne alterava i suoni a un punto tale, da

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far dubitare di aver inteso bene. Gregor avrebbe voluto dare una lunga risposta e spiegare
tutto, ma, in quelle condizioni, si limitò a dire: “Sì, sì, grazie, mamma, sto già alzandomi”.
Attraverso la porta, la voce non dové sembrare diversa dal solito, perché la mamma fu
tranquillizzata dalla spiegazione e si allontanò ciabattando. Ma quel breve dialogo aveva
rivelato anche agli altri membri della famiglia che Gregor, fatto insolito, era ancora in casa.
Infatti ecco il padre picchiare piano, ma col pugno, a una delle porte laterali. “Gregor,
Gregor!” gridò. “Che c’è?”. E dopo un po’ ripeté ancora, con voce più bassa: “Gregor,
Gregor!”. Attraverso l’altra porta laterale, la sorella chiese piano: “Gregor, non ti senti bene?
Hai bisogno di qualche cosa?”. Gregor rispose a entrambi: “Sono già pronto!” sforzandosi di
rendere la sua voce normale con un’attenta pronuncia e lunghe pause tra una parola e l’altra.
Il padre tornò alla sua colazione, ma la sorella sussurrò: “Gregor, apri, ti scongiuro!”.

Ma Gregor non ci pensò nemmeno, ad aprire, e si rallegrò anzi dell’abitudine, presa durante i
suoi viaggi, di chiudersi, la notte, in camera, anche a casa.

ANALISI E INTERPRETAZIONE DEL BRANO

Rispetto alle metamorfosi delle favole, in Kafka si assiste al capovolgimento delle


trasformazioni: non più animali che possiedono caratteri e pensieri umani, ma l’uomo, a sua
insaputa, acquista aspetto e comportamenti animaleschi, ma conserva inalterati atteggiamenti,
affetti e desideri umani. Nel racconto di Kafka l’insensatezza è calata all’interno del mondo
reale. Si possono individuare due metamorfosi: la prima, da uomo a insetto, che è data come
certa e non modificabile; la seconda è quella causata dallo sguardo diverso che Gregor
rivolge alla realtà circostante e che si sviluppa lentamente: il protagonista deve cercare di
dare un senso a un mondo che improvvisamente gli si rivela oppressivo e inspiegabile.

Buona parte delle prime impressioni del Gregor insetto riguardano il lavoro. Il giovane
distingue una sorta di doppio tempo: quello del sonno, quando si trova nella camera-rifugio, e
quello del lavoro, quando è sottoposto a ritmi ossessivi e orari inflessibili. Il ticchettio della
sveglia diventa il pendolo dell’inquietudine tra dovere e piacere, tra volontà di rispettare le
regole imposte dai superiori e la volontà di infrangerle per recuperare la propria dimensione
temporale. Il tempo del commesso viaggiatore, infatti, è quello di un ingranaggio produttivo
che non può interrompersi: ogni alterazione genera sospetti di malafede e accresce l’odio
reciproco dei dipendenti. Il tempo-lavoro può essere sospeso solo nel carcere volontario della
propria stanza chiusa a chiave.

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La grande novità introdotta da Kafka nelle Metamorfosi è la sovrapposizione tra realtà e
allegoria. L’allegoria, cioè, non è uno strumento di indagine della realtà, ma un modo
“naturale” col quale si manifesta l’assurdità quotidiana. Per questo la metamorfosi di Gregor
non appartiene al mondo della fantasia, ma è calata nell’universo reale, a testimonianza della
“reificazione” dell’uomo, cioè della sua regressione a cosa, a oggetto inutile e insignificante
nel vuoto sociale e affettivo di ogni vita piccolo-borghese. Si può dire che la realtà dello
scarafaggio è una metafora dell’uomo reificato, ma proprio questa verità, che non può
dissolversi in una fantasia onirica o in gioco surreale, le viene deliberatamente evitata dai vari
componenti della famiglia e da Gregor stesso. Tuttavia la dinamica risulta essere
perfettamente inserita nella quotidianità della realtà borghese , anche se viene censurata dalla
coscienza, rimossa in un “luogo” riservato all’inconfessabile. Il seppellimento del giovane
commesso viaggiatore Gregor sotto la corazza di un mostruoso insetto è quindi ritenuto
“normale” per un individuo che ha sempre vissuto entro un orizzonte ristretto di desideri e di
possibilità, come quello piccolo-borghese.

BIBLIOGRAFIA

G. Baldi, ​Il piacere dei testi

Appunti personali

GLI AUTORI NON PRESTANO CONSENSO ALLA DIFFUSIONE E/O


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