Andreose
1.1. Romanzo.
La filologia e la linguistica romanza abbracciano tutte le lingue derivate dal latino. L’aggettivo romanzo indica una
continuazione del latino, la lingua parlata anticamente a Roma, che si diffuse in gran parte dell’Impero Romano. Dal latino
derivano idiomi ai quali è stato riconosciuto in Età moderna lo status ufficiale di lingua nei relativi paesi:
nell’area ibero-romanza:
- portoghese
- galego
- spagnolo o castigliano
- catalano
nell’area gallo-romanza: francese
nell’area italo-romanza: italiano
nell’area romanza orientale: rumeno
Anche i dialetti costituiscono l’oggetto di studio della filologia romanza, poiché non sono qualitativamente inferiori
alle lingue. Possiedono una struttura grammaticale e ciò che le differenzia è di ordine sociale, non linguistico.
1.2. Linguistica.
La linguistica è la disciplina che studia il linguaggio umano. La manifestazione primaria della lingua è orale, e cioè
articolatorio-percettiva. L’oggetto primo della linguistica è la lingua parlata. Oggetto di studio della linguistica
romanza è il complesso degli idiomi romanzi. La linguistica romanza non si occupa solo delle lingue vive, ma anche
del loro sviluppo storico.
Filologia viene dal greco, e vuol dire amore della parola. Ma il significato attuale indica generalmente:
- la somma di 2 discipline, la linguistica (o glottologia) e la letteratura
- oppure la loro zona di sovrapposizione, e cioè lo studio linguistico dei documenti letterari e non letterari
- disciplina che studia la storia e i processi di trasmissione dei testi antichi, al fine di fornirne edizioni per il lettore
moderno
Fuori d’Italia, filologia romanza indica lo studio di tutte le lingue e letterature romanze, medievali e moderne.
In Italia viene usato per indicare la disciplina che si occupa, attraverso l’analisi di testi letterari e pratici, della
creazione delle lingue e dei dialetti romanzi a partire dal loro distaccarsi dal latino.
Uno dei più antichi testi scritti in volgare è costituito da una formula in un documento latino del 960, il Placito
capuano (placito, ossia sentenza scritta), che mira a risolvere una controversia relativa al possesso di alcune terre
vicine a Capua. I testimoni di volta in volta ripetono davanti al giudice questa formula per attestare che
l’appezzamento in discussione era stato per 30 anni di proprietà dell’Abbazia di Montecassino. Si tratta di dialetto
campano antico, il notaio ha elaborato una formula di deposizione per persone illitteratae. Ma la conoscenza della
scripta (complesso degli usi scrittori diffusi in un determinato contesto storico e geografico) campana medievale è
una competenza filologica. Da un lato la filologia richiede conoscenze di linguistica, ma non può fare a meno di
conoscere i tipi di scrittura tra 6° e 15° secolo; le tipologie dei materiali scrittori in uso nel Medioevo (pergamena,
carta; calamo, penna di volatile), le caratteristiche dell’oggetto libro (consistenza, fascicolazione, legatura,
decorazione), i caratteri del documento antico e le norme che ne regolano la trascrizione. Il filologo dovrà saper
leggere la scrittura dei territori longobardi dell’Italia meridionale fino al 12° secolo, la beneventana, dovrà poi
conoscere la situazione politica e la storia dei ducati longobardi nel sud, a contatto con zone alloglotte di lingua
greca. Dovrà valutare il ruolo culturale svolto dall’Abbazia di Montecassino, da cui proviene questo testo, nello
sviluppo di una scripta volgare. La linguistica studia invece soltanto la lingua di questo testo, la struttura fonologica,
simile all’italiano moderno: ci sono le consonanti lunghe, rappresentate da -ll- in kelle e da -rr- in terre, ancora oggi
presenti in italiano e in campano. Nel Placito le vocali sono tutte distinte: ko, kelle, fini, trenta presentano
rispettivamente -o, -e, -i e -a, che oggi si neutralizzano tutte in /ə/. La linguistica è una scienza volta a stabilire regole,
la filologia ad indagare fenomeni singoli.
I 3 paradigmi degli studi romanzi.
Nel rappresentare l’evoluzione degli studi romanzi, adotteremo uno schema che comprende 3 paradigmi.
1- classico, della cultura greco-romana, visione statica della cultura e della lingua, concepite in funzione di un
canone; la lingua non veniva studiata dal profilo storico, il cambiamento veniva considerato una corruzione perché si
allontana dalla perfezione originaria.
2- metodo storico-comparativo, portato dall’ambiente romantico, che ha segnato la scoperta della dimensione
storica della cultura, della letteratura e della lingua. Scardina il paradigma classico, la corruzione è un cambiamento,
un’evoluzione, non è negativo. La lingua appartiene al linguaggio e deve essere studiata nelle sue componenti
naturali.
3- strutturale, dalle teorie linguistiche innovatrici di de Saussure. Lo Strutturalismo studia i caratteri generali della
lingua, come un sistema complesso, che da allora viene più studiata anche nella sua dimensione interna e
contemporanea, privilegia gli aspetti fonologici, grammaticali, supponendo il continuo ricondursi di quegli aspetti ad
un sistema più generale. In genere si è occupato di questi meccanismi, sui fatti formali della lingua, la versificazione,
lo studio di determinate strutture sintattiche, isolando i fenomeni.
Il dominio romanzo
Il territorio in cui si parlano le lingue romanze è detto Romània. Le lingue romanze storiche, occupano un’area
europea che va dal Portogallo all’Italia e comprende le isole del Mediterraneo (Baleari, Corsica, Sardegna, Sicilia)
occidentale e centrale. Sull’Adriatico orientale, ora croato, il dalmatico che oggi è estinto. C’è poi una grande zona
isolata ad est, l’odierna Romanìa e Moldova, dove si parla il romeno. La zona continua comprende 4 grandi stati
nazionali: Portogallo, Spagna, Francia, Italia. A questi si aggiungono la parte francofona del Belgio, la Svizzera di
lingua francese, italiana e romancia, le piccole aree della Croazia e della Slovenia in cui si parla italiano. In Francia
sono parlati molti patois, cdialetti francesi rustici di ambito sociale ristretto, anche nell’area meridionale dell’antica
area occitanica e in quella franco-provenzale. In Corsica, il corso ha status ufficiale di lingua di minoranza, ma manca
di una scrittura standardizzata. Nell’ambito dello Stato italiano, il sardo, il ladino centrale (o dolomitico) e il friulano
hanno una spiccata individualità. Il romeno è parlato nella Repubblica ucraina ed è lingua ufficiale della Repubblica di
Moldova. Il romeno possiede dialetti parlati nei Balcani (in Albania, Macedonia e Grecia). Esistono zone in cui il latino
non ha avuto continuazione: l’Africa settentrionale, invasa da popolazioni bèrbere, e poi dagli arabi nell’8° secolo, i
territori dell’arco alpino italiano fino al Danubio e oltre il Reno, germanizzate o slavizzate e la parte meridionale della
Gran Bretagna, allora celtica. Queste aree sono dette Romània perduta.
L’unica lingua non-indoeuropea è il basco parlato nei Pirenei. Il bretone, della famiglia celtica, nella Bretagna è
risultato di una colonizzazione medievale a partire dalle isole britanniche. In Italia, la minoranza di lingua tedesca
dell’Alto Adige (Südtirol) dipende dall’annessione di questa all’Italia dopo la prima guerra mondiale. La popolazione
locale parla dialetto tirolese e impara nelle scuole il tedesco, accanto all’italiano. Ci sono poi varietà tedesche
arcaiche Gressoney in Piemonte, i 12 comuni veronesi, con centro Giazza (la cui lingua è detta cimbro; ci sono altre
lingue indoeuropee, albanese (soprattutto in Calabria e in Sicilia), in seguito ad antiche migrazioni; greco (in Puglia e
in Calabria). Nel territorio della Romanìa ci sono anche ungheresi, con circa 3 milioni di parlanti, prevalentemente in
Transilvania, la più grande minoranza linguistica d’Europa; poi il tedesco, l’ucraino, il serbo, il tartaro, il turco. La
Romània nuova comprende i territori dove una lingua romanza è stata importata più tardi. In Europa si limita alla
diffusione dello spagnolo portato dagli ebrei sefarditi, cacciati dai regni di Spagna e del Portogallo nel 15° secolo. La
più imponente espansione delle lingue romanze è conseguente alle colonizzazioni che, dalla fine del 15° secolo,
hanno portato lo spagnolo in gran parte dell’America centromeridionale e nelle Filippine, il portoghese in Brasile e, in
Asia, a Macao, Goa e Timor est, il francese nelle Antille, ad Haiti, in Guyana, in Canada.
Oggi i parlanti lingue romanze sono circa 640 milioni. Molti paesi dell’Africa usano come ufficiali le lingue degli
antichi colonizzatori: il francese in Niger, Ciad, Camerun, Repubblica Centroafricana, Senegal, Congo, Madagascar; il
portoghese in Angola, Mozambico; lo spagnolo in Guinea Equatoriale. Ci sono infine le lingue creole e i pidgins a
base portoghese o francese, oltre che inglese. I pidgins sono lingue formate in Africa e in Asia dal contatto di lingue
europee con lingue indigene, con un lessico limitato alla sfera commerciale, e da una grammatica semplificata.
Alcuni pidgins sono diventati le sole lingue materne delle popolazioni locali: dotate di un sistema linguistico più
complesso, prendono il nome di lingue creole. Si parlano lingue creole a base portoghese a Ceylon (Sri Lanka) e in
Malacca in Asia, a Capo Verde, São Tomé, Príncipe, e in Guinea Bissau in Africa; a base francese ad Haiti, nelle
Piccole Antille, in Guyana e nelle isole Mascarene; a base spagnola nell’isola di Curaçao e nelle Filippine. Hanno in
comune con le lingue madri solo la base lessicale, mentre la struttura grammaticale è diversa. In Italia la legge n. 482
del 1999, intitolata Norme in tutela delle minoranze linguistiche storiche, tutela alcune varietà non romanze
(albanese, greco, croato, tedesco) e romanze del nostro paese: sardo, franco-provenzale, friulano, ladino, oltre al
catalano e al francese e consentono, assieme alla facoltà di usare la lingua in alcuni atti ufficiali, anche
l’insegnamento a scuola.
Le lingue romanze della penisola iberica, portoghese, galego, spagnolo, catalano, hanno una storia in parte simile. Il
punto di partenza è la conquista della penisola da parte degli arabi, tra il 711 ed il 720. A questa altezza il latino si era
già trasformato in romanzo, e nella penisola iberica si parlavano diverse varietà a nord come a sud.
Conseguentemente all’invasione araba, partita dal sud, la penisola si divise in un piccolo, residuo nord cristiano, ed
un grande centro-sud musulmano. Sia il nord che il centro-sud restarono romanzi, a parte la presenza araba nel sud.
Questi organizzarono prima la resistenza, poi il lungo processo di Reconquista del territorio portò un po’ alla volta
all’eliminazione del dominio arabo (1492).
Gli stati cristiani erano, da ovest ad est: il regno di León, il regno di Navarra, il regno di Aragona e la contea di
Barcellona. Dal regno di León si stacca, già nel 10° secolo, la contea, poi regno, di Castiglia che diventerà il centro
politico e culturale più importante della Spagna cristiana e si riunificherà, nel 1230, con il regno di León, ma questa
volta sotto l’egemonia castigliana. Sempre dal regno di León si stacca, intorno al 1095, la contea, poi regno, di
Portogallo. C’erano i seguenti gruppi linguistici:
1) il galego-portoghese nella parte occidentale del regno di León; quando si formò la contea di Portogallo, il
territorio linguistico si divise a nord galego unito al León, e alla Spagna, e al centro-sud lingua ufficiale il portoghese
2) l’asturo-leonese, nella parte centrale del regno di León
3) il castigliano, nel regno di Castiglia
4) l’aragonese, nei regni di Navarra e Aragona
5) il catalano nella contea di Barcellona
La lingua di cultura era l’arabo. Il romanzo dei territori arabizzati è il mozarabico (lingua dei mozàrabi, suddito degli
arabi). La nostra conoscenza del mozarabico è alle ḫarǧāt, alcuni versi in romanzo in poesie in arabo e in ebraico
classico dei secoli 11°-12°. Con la Reconquista si ebbe l’occupazione progressiva e la ripopolazione del centro e del
sud della penisola dai cristiani del nord. Parallelamente, ci fu l’espansione verso sud delle varietà romanze del
settentrione, che sostituirono l’arabo eliminando i dialetti mozarabici.
Si affermò ad occidente il portoghese, ormai staccato dal galego; al centro il castigliano, la lingua egemone nel regno
di Castiglia e León e dopo l’unificazione col regno di Aragona nel 1479, nel regno di Spagna; ad oriente il catalano. Il
portoghese occupa tutta la parte centro-meridionale della fascia occidentale ed è la lingua ufficiale del Portogallo. Il
castigliano occupa tutta la parte centrale e meridionale ed è lingua ufficiale della Spagna, nonché l’unica varietà
iberica ad essere esportata in America e nelle altre colonie. Asturo-leonese e aragonese sono ridotti oggi a gruppi
dialettali. Il catalano occupa la parte orientale ed è lingua nazionale della regione autonoma della Catalogna. Il
galego, nel nord-est, ha ottenuto nel 1981 uno statuto di autonomia. L’attuale assetto è il frutto della reconquista e
dell’espansione dei dialetti settentrionali verso sud.
2.1.1. Il portoghese
Il portoghese era parlato nelle regioni nord-occidentali a contatto con la Galizia. Nel Medioevo costituivano il galego-
portoghese, lingua della lirica trobadorica nei secoli 13° e 14°. Dopo la separazione del Portogallo dal León, hanno
storia e sviluppo autonomi. Il portoghese è anche lingua di alcune ex colonie di cui la più importante è il Brasile. Il
portoghese è parlato da 180 milioni di persone ed è la seconda per diffusione dopo lo spagnolo. Il portoghese è la
lingua parlata nel nord del Portogallo poi diffusasi verso sud. Diversamente dal castigliano, anche il centro politico e
culturale del paese si è spostato verso sud, per cui la lingua ha assunto tratti linguistici nuovi. Distinguiamo dialetti
settentrionali e centromeridionali. Il portoghese parlato in Brasile si differenzia dall’ europeo nel parlato.
2.1.2. Il galego.
Il galego formava inizialmente un blocco con il portoghese. Nel 2-300 ci fu la stagione della lirica galego-portoghese.
Ridotto, dal 500, ad un raggruppamento di dialetti parlati, è stato oggetto dalla seconda metà dell’800 di una
rinascita letteraria. Come il catalano, durante gli anni 70, ha acquisito il rango di lingua ufficiale nelle province
galiziane. La Legge di normalizzazione linguistica è entrata in vigore nel 1983. Parlano oggi galego circa 2 milioni e
mezzo di persone. Il galego è evoluto meno del portoghese, ed è rimasto più vicino all’antica koinè medievale, anche
se ha subito un notevole influsso lessicale dal castigliano.
2.1.3. Lo spagnolo.
Lo spagnolo è la lingua romanza più parlata nel mondo, e la terza in assoluto dopo il cinese mandarino e l’inglese. Più
di 350 milioni di persone lo hanno come lingua materna o come seconda lingua; è lingua ufficiale in 21 stati dell’ONU.
Lo spagnolo letterario è originariamente un dialetto settentrionale, con il suo centro nella città di Burgos nella
Vecchia Castiglia. Grazie al ruolo dell’iniziativa castigliana nella Reconquista, si è imposto nella penisola iberica
centro-orientale cancellando altre varietà. Tutta la zona meridionale è castigliana e l’unica varietà è andalusa. La
diffusione dello spagnolo è dovuta alla cacciata degli ebrei dalla Spagna nel 1492 e alle ondate di colonizzatori che si
sono succedute per secoli. Oggi lo spagnolo è parlato in diverse regioni degli Stati Uniti per colonizzazione antica o
immigrazione recente, e, da nord a sud, in numerosi stati dell’America centrale e meridionale.
2.1.4. Il catalano.
Il catalano ha oggi più di 7 milioni di parlanti. Come lingua amministrativa, letteraria e di cultura, ha conosciuto un
periodo di splendore tra il 13° ed il 15° secolo, con centro nella corte di Aragona. Una volta avvenuta l’unificazione
con il regno di Castiglia (1479), il catalano fu sopraffatto dallo spagnolo. La rinascita catalana, iniziata nell’800, ha
promosso un uso della lingua in tutte le attività intellettuali e pratiche. Represso dal regime fascista, dopo la fine
della dittatura di Francisco Franco (1975) e la promulgazione della nuova costituzione democratica (1978), il
catalano è stato finalmente riconosciuto una delle lingue nazionali nella regione autonoma della Catalogna.
Nel catalano si distinguono 2 gruppi dialettali: l’orientale e l’occidentale. Il catalano si parla in Catalogna, Valencia,
nelle Baleari, fuori dalla Spagna in Roussillon (nei Pirenei francesi orientali), Andorra e Alghero. Il catalano antico
presentava una forte somiglianza con l’occitanico, contraddistinto dalla caduta delle vocali finali diverse da –a.
Questo fenomeno è largamente diffuso anche nell’Italia settentrionale e può essere definito un fenomeno gallo-
romanzo. Tuttavia mai catalano e provenzale sono stati confusi tra loro.
2.2. Il francese.
Circa 75 milioni di persone parlano il francese come lingua materna: 45 milioni risiedono in Francia, il resto nella
Svizzera romanza, in Belgio, in Lussemburgo, Principato di Monaco, Valle d’Aosta, Québec, Stati Uniti e nelle ex
colonie d’America, Africa e Oceania. In molti stati dell’ONU il francese è parlato come seconda lingua accanto agli
idiomi locali. Attualmente è la 13 a lingua più parlata al mondo. A partire dalla metà del 12° secolo, la lingua di Parigi
ha influenzato i testi letterari e non del Nord. È nell’800, in seguito all’industrializzazione, all’emigrazione e alla
scolarizzazione, che il francese è penetrato nell’uso orale di tutto il paese. I più importanti dialetti sono stati il
piccardo; il normanno; il vallone, lo champenois; il borgognone. Anglo-normanno è la varietà di francese impiegata
in Inghilterra a partire dall’invasione normanna (1066) dagli strati sociali più alti della popolazione.
Si distingue tra francese antico, dal 12° al 14° secolo, e francese moderno, interponendo la fase del francese medio
(metà 14° sec. fino a tutto il 16°). Il francese moderno mantiene un legame con il francese antico solo attraverso la
grafia, che non è fonetica, ma al contrario etimologizzante e conservatrice. Nel Rinascimento, si è operata una
latinizzazione del francese, che ha influito più di tutto sulla grafia, anche dal greco antico: il repertorio grafico
comprende segni presi come y e ph. A partire dal 600, il francese ha incominciato a diffondersi negli ambienti colti
europei, grazie alla letteratura, alla filosofia e cultura scientifica della Francia.
2.3. L’italiano
L’italiano ha circa 56 milioni di parlanti. La base dell’italiano moderno è nel fiorentino del 300, diffuso grazie alle
opere di Dante, Petrarca e Boccaccio, e che nel 500, si è affermato per opera di Pietro Bembo come lingua dei
letterati. A causa della frammentazione politica, solo élites molto ristrette ha parlato l’italiano. Dall’Unità d’Italia in
poi si è diffuso anche l’uso orale. Accanto all’italiano sono parlati dialetti che rappresentano le continuazioni locali
del latino, e devono essere considerati sullo stesso piano dell’italiano, che è l’evoluzione del latino parlato a
Firenze. Il fiorentino si presentava nel 300 come un dialetto conservativo a causa della situazione isolata di Firenze
e della Toscana rispetto alle principali vie di comunicazione nella tarda Antichità e nell’Alto Medioevo. Solo a Roma
l’uso della corte pontificia e poi il ripopolamento della città da parte di toscani dopo il sacco del 1527 hanno
influenzato la varietà locale. Per questo il romanesco è un tipo di toscano, mentre il dialetto della campagna
romana è, come quello originario di Roma, una parlata centromeridionale. Incerta è l’antichità dei fenomeni della
gorgia, cioè dell’aspirazione di consonanti occlusive intervocaliche. In una prospettiva moderna, il linguista Ascoli ha
stabilito che l’italiano è la continuazione diretta del fiorentino antico.
2.4. Il romancio
Il romancio è una varietà del gruppo italo-romanzo divenuto dal 1938 una delle 3 lingue ufficiali del Cantone dei
Grigioni e una delle 4 lingue nazionali della Confederazione Elvetica. È parlato nella Sopraselva, Sottoselva ed
Engadina fino alla Val Monastero, da circa 50mila parlanti. Sino al 1996, le lingue ufficiali del Cantone erano
(insieme al tedesco e all’italiano) tutte e 5 le varietà locali di romancio. Nel 1982 il romanista svizzero Schmid ha
elaborato una lingua scritta unitaria, il Romancio grigionese, dal 1996 lingua ufficiale del Cantone dei Grigioni e
della Confederazione. Il romancio mostra somiglianze con il friulano e il ladino centrale tanto che è stato spesso
raggruppato con questi in un’unità linguistica, alla quale è stato dato il nome di ladino da Ascoli.
Il romeno
È parlato da circa 26 milioni di persone. Per romeno si intende la lingua letteraria e l’insieme delle parlate usate
nell’odierna Romanìa, nella Repubblica di Moldova e in parte della Bucovina, appartenente all’Ucraina. In Moldova,
dove vivono anche ucraini e russi, dalla fine della seconda guerra mondiale al 1989 il romeno è stato scritto in
caratteri cirillici, mentre i dialetti sono simili a quelli della Moldova. Nell’età zarista, quando la Moldova
apparteneva alla Russia, il romeno è stato sottoposto all’influenza del russo. La gran parte dei Moldavi sono oggi
bilingui. Il blocco delle parlate romene ha 2 varietà principali:
- il tipo munteno, a sud, che ha il centro a Bucarest, e che rappresenta ora il solo tipo letterario ammesso
- il tipo moldavo, ad est
A questi 2 tipi principali si riconduce anche la lingua delle rimanenti regioni, compresa la Transilvania. È una
situazione di grande uniformità, che contrasta con la maggiore varietà delle altre aree romanze, soprattutto
italiana, ma che trova dei paralleli nelle aree slave e ungheresi, geograficamente vicine. Accanto al romeno, detto
anche dacoromeno, ci sono 3 dialetti:
- aromeno: Gli aromeni sono stanziati nella Macedonia greca, in quella ex jugoslava, bulgara e albanese.
- meglenoromeno: un piccolo gruppo in Grecia al confine con la Macedonia ex jugoslava, e a nord-est di Salonicco.
- istroromeno: è un minuscolo gruppo di poche centinaia di parlanti a Montemaggiore e a Seiane, presso Fiume, in
Croazia. Dai tratti comuni di queste 4 varietà è possibile ricostruire un romeno comune. Il romeno si è sviluppato in
particolare nella morfologia e nella sintassi. Anche nel lessico si può constatare la continuazione di parole latine
altrove cadute, o resti di vocabolario pre-romano. La presenza slava nel lessico è imponente. Dal punto di vista
linguistico il romeno è caratterizzato:
- dall’appartenenza alla lega linguistica balcanica, per cui presenta fenomeni comuni al neo-greco, al bulgaro,
all’albanese e al serbo.
- dalla grande influenza francese a partire dall’800, che ha convogliato una quantità enorme di lessico
neologistico.
Dai 10 ai 14 milioni di persone parlano oggi un patois occitanico, la lingua romanza del Meridione della Francia che
per prima si è costituita in una koinè letteraria nel Medioevo (12° secolo). I più importanti centri provenzali in Italia
sono nella Val Pellice e a Guardia Piemontese in Calabria. Tra le varietà dialettali da est ad ovest: il guascone, il
languedocino, il provenzale alpino; a nord, l’occitanico settentrionale (tra cui il limosino-alverniate). La situazione
attuale è il risultato della decadenza politica del Meridione a partire dal 300 e della politica centralizzatrice di Parigi,
per cui il francese, si è imposto prima nelle città e poi nelle campagne del sud. Nel 1539 il re Francesco I aveva
emesso un editto che ordinava che nei tribunali di tutto il regno si usasse il francese e vietava il latino a favore del
volgare. Oggi è riconosciuto come lingua regionale, ma la mancanza di una norma scritta ne impedisce lo
sviluppo.
3.2. Il franco-provenzale
Un gruppo di parlate sud-orientali della Francia (Franche-Comté, Lionese, Savoia, la parte settentrionale del
Delfinato) unite alla Svizzera romanda e ad alcune valli a sud delle Alpi in Italia, forma un blocco quasi uniforme al
suo interno. Questa varietà è stata chiamata franco-provenzale, che costituiva nel Medioevo un’unità dialettale
nettamente distinta. Tale unità è dovuta all’antico stanziamento della popolazione germanica dei Burgundi (5°
secolo d.C.). Lione è stato il maggior centro letterario e linguistico del franco-provenzale. Anche Grenoble e Ginevra
sono passate al francese, e ora il franco-provenzale comprende solo dialetti rustici (patois). Tali vanno considerati i
dialetti della valle d’Aosta, Val Soana e valle di Lanzo in Italia.
3.3. Il sardo
Circa un milione e mezzo di persone parla il sardo, la varietà romanza più conservativa. Sono notevoli fatti di
conservatorismo fonetico a cui si aggiunge la tendenza nella morfologia verbale a conservare forme latine altrove
cadute. La Sardegna dal 5° secolo d.C. in poi ha avuto una vita separata dal resto dell’ex Impero romano, e ha
conosciuto forme di amministrazione politica autonome. A partire dall’11°-12° secolo i documenti giuridici sono
redatti in sardo. La penetrazione di Genovesi e Pisani (sec. 11°-12°), e la dominazione catalana (sec. 14°-15°), hanno
influenzato l’aspetto linguistico dell’isola. Le odierne varietà sono: il campidanese, a sud; il logudorese e il nuorese
nel centro-nord; il gallurese, a nord-est; il sassarese, a nord-ovest. Nella produzione lirica orale, i mutos, basato sul
logudorese, era considerato sardo illustre. Il sardo è tutelato dalla legge. La Sardegna comprende minoranze
linguistiche. Ad Alghero si parla catalano.
3.4. Il corso
Il corso è parlato nella Corsica, in territorio francese. Riconosciuto dalla Francia come lingua regionale, è insegnato
come seconda lingua. Non esiste una varietà standard. Le varietà corse presentavano affinità con il sardo, ma
hanno subito l’influenza toscana a causa della penetrazione pisana nel centro-nord. Si distinguono le varietà
ultramontane, parlate nella parte sud-occidentale, e quelle di nord-est cismontane. Le prime sono più conservative.
3.6. Il friulano
Il friulano è parlato da 700mila persone nel Friuli-Venezia Giulia, ad eccezione di isole alloglotte tedesche, slave e di
Trieste; Il friulano è classificato tra le varietà ladine e differenziato in gruppi dialettali. Gode della legge di tutela e in
vista di un uso scolastico e amministrativo è stata predisposta una koinè, che dovrebbe superare le differenze locali.
3.7. Il dalmatico
Il dalmatico, che si era formato lungo la costa della Dalmazia ha perso di importanza fino ad estinguersi. Il dalmatico
antico ci è noto a partire da una lettera del 1280. Già in questo periodo è soggetto alla pressione del veneziano, che
lo assorbirà del tutto. Il raguseo, cioè il dalmatico dell’odierna Dubrovnik, in Croazia, è la varietà più rappresentata
nei documenti antichi.
I dialetti sono continuazioni locali del latino, e non deviazioni dall’italiano di base toscana. Quasi tutti sono stati
scritti nel Medioevo, per scopi amministrativi, religiosi e artistici, cedendo il passo al toscano, detto presto italiano. I
dialetti italiani si dividono in 3 gruppi: settentrionali, toscani e centromeridionali.
I dialetti italiani settentrionali, del Piemonte, Liguria, Lombardia, Trentino, Veneto, nell’Emilia Romagna.
I dialetti centromeridionali hanno 3 varietà: marchigiano-umbro-laziale; abruzzese-molisano-pugliese
settentrionale-campano-lucana; salentino-calabro-sicula.
Il romanesco, si differenzia dai dialetti centromeridionali, in quanto influenzato dal toscano, per la presenza di
fiorentini a Roma dopo il ritorno dei papi da Avignone (1420) e dopo il sacco del 1527. I documenti medievali del
romanesco presentano i tratti tipici delle parlate centromeridionali, mentre il romanesco moderno è toscano. Tutte
le varietà mantengono dal latino l’opposizione tra consonanti lunghe e brevi, come in toscano e in sardo,
opposizione perduta nel resto d’Italia e in tutta la Romània. Sono innovative le assimilazioni nd > nn e mb > mm del
tipo monno per mondo, effetto del sostrato osco-umbro.
Il pensiero greco aveva un carattere ellenocentrico. I Greci chiamavano gli stranieri indiscriminatamente barbari, le
cui lingue non erano degne di considerazione. La scuola alessandrina si era dedicata allo studio delle grandi opere
letterarie per recuperare e commentare i testi antichi, in particolare Omero. La lingua scritta era giudicata superiore
a quella parlata e il cambiamento linguistico veniva giudicato una deviazione dalla lingua originaria. La grammatica
diventava la conoscenza della lingua pura, letteraria; l’espressione letteraria il fine della conoscenza linguistica. Oggi
non lo accettiamo, tanto che un linguista inglese, Lyons, l’ha definito fallacia classica.
I primi a vedere che le lingue romanze derivano dal latino sono stati, nel 400, due Umanisti italiani, il forlivese
Biondo Flavio che nella sua epistola “De verbis romanae elocutionis “a Leonardo Bruni, lancia l’idea rivoluzionaria
che nella Roma antica si parlasse una varietà popolare del latino, che si presentava in 3 varietà linguistiche
(poetica, oratoria, vulgaris). È dal registro parlato del latino che deriva, per Flavio, l’italiano. Bruni non accettava
l’idea di Flavio, ma immaginava che c’erano state un latino di uso letterario, e uno del volgo, immaginato come il
volgare dei suoi tempi, il dialetto di Roma.
L’idea di Flavio appariva un fatto di corruzione e messa in rapporto alle invasioni barbariche. Altri sostenevano che
il latino avesse cominciato a differenziarsi per l’influenza delle lingue che diversi popoli dell’Impero parlavano
prima di passare al latino. Queste le prime formulazioni che diventeranno le teorie 800sche del superstrato e del
sostrato, intesi come influenze esercitate su una lingua da quella di un popolo invasore. Benedetto Varchi, invece,
aveva già proposto di sostituire a corruzione il termine positivo di generazione, nel suo dialogo “L’Ercolano”. Il
merito di aver impostato il problema storico dell’origine delle lingue romanze spetta indubbiamente agli eruditi
italiani.
Ciononostante il risultato più alto della linguistica rinascimentale è l’opera dello spagnolo Aldrete “Origine e
principio della lingua castigliana romanza” (600). Anche in Francia nel 600, con Ménage, Origini della lingua
francese e delle Origini della lingua italiana, abbiamo repertori etimologici insuperati fino alla prima metà dell’800
quando Diez, appronterà il primo dizionario etimologico comparato delle lingue romanze. Con la sua seconda
opera, Ménage battè l’Accademia della Crusca di Firenze. Tra gli errori, la sopravvalutazione del greco. Una cosa è
che le lingue romanze contengano grecismi, altra è ritenere che il francese assomigli o derivi dal greco.
Il rinato interesse per la letteratura classica poneva agli Umanisti il recupero dei testi antichi, che circolavano
zeppi di modifiche ed errori di copiatura: bisognava correggerne il testo e gli Umanisti fecero ricorso a 2 tecniche:
- l’intervento congetturale (correzione attraverso l’ingegno, l’intuizione)
- la comparazione dei codici più autorevoli (correzione attraverso i codici)
È con l’Umanesimo che muove i primi passi la filologia testuale, che punta a ricostruire un testo nella sua forma
originale. In Età moderna saranno superati dal metodo di Lachmann, ma il contributo degli Umanisti italiani,
francesi, olandesi è fondamentale per lo studio delle opere dell’Antichità. La tecnica fu applicata anche alla
letteratura volgare per ragioni connesse alla Questione della lingua, dove prevalse la tesi di Bembo, che
prevedeva l’adozione della lingua degli autori del 300.
L’erudizione settecentesca.
Nel 700, in Francia, Sainte-Palaye compilò la Storia dei Trovatori, trascrivendo numerosi componimenti
contenuti nei canzonieri provenzali della Biblioteca Nazionale di Parigi. Du Cange, un immenso vocabolario con
termini appartenenti a fasi tarde della latinità, tratte da documenti giuridici, leggi, glossari, cronache, nonché il
confronto con forme arcaiche del francese e dell’italiano che permisero di diminuire la distanza tra il latino e le
lingue romanze moderne. In Italia, il più importante è Ludovico Antonio Muratori.
Capitolo 3. Il Romanticismo rompe con l’idea classica che vedeva nel cambiamento solo una
degenerazione
Ripercorriamo la Disputa degli Antichi e dei Moderni, svoltasi in Francia e in Inghilterra tra la fine del 600 e gli inizi
del 700. L’oggetto della disputa era se la grandezza degli Antichi potesse essere superata da quelle dei
contemporanei. Un tale dibattito era possibile facendo riferimento a parametri comuni, forniti dai generi, dagli
stili, e dai precetti della retorica classica, da sempre ritenuti entità invariabili. Nel momento in cui si giunge a
negarli, un tale confronto diviene impossibile e questo avviene in Germania alla fine del 700 dove Schiller e
Schlegel li ritenevano non confrontabili poiché ciascuna epoca va secondo criteri propri e non confrontabili.
La linguistica dell’800 è storica nel senso che prende in esame la lingua nel suo divenire, ne esamina l’evoluzione
attraverso il tempo. È comparativa perché, mediante il confronto, raggruppa le lingue affini in famiglie e definisce,
attraverso un diagramma ad albero, i rapporti tra esse. Il primo risultato è stato ipotizzare la derivazione di molte
lingue dell’Europa e di alcune dell’Asia dall’indoeruropeo.
Franz Bopp, padre dell’indoeuropeistica 800esca diede alle stampe lo studio che inaugurava il metodo storico-
comparativo. Il primo a scrivere una grammatica storica comparata in campo germanistico è stato Rasmus Rask.
Per la prima volta si elaborava una tecnica dello studio storico delle lingue, che ricostruiva le caratteristiche fono-
morfologiche di una lingua di cui non si possedevano attestazioni scritte. Grimm pubblica una grammatica
comparata delle lingue germaniche, la Deutsche Grammatik. Prima di Diez, il francese Raynouard ha applicato i
nuovi metodi allo studio delle lingue romanze. Si occupava da tempo dell’edizione dei Trovatori, la Scelta delle
poesie originali dei Trovatori. Alla grammatica provenzale del primo volume, ha aggiunto nel 6° volume un grande
schizzo di grammatica storica di diverse lingue romanze. Raynouard è un pioniere del metodo storico-comparativo
ma è incorso nell’equivoco di considerare il provenzale la fase intermedia tra latino e lingue romanze.
Friedrich Diez
Diez nella Grammatica delle lingue romanze, studia i meccanismi che regolano l’evoluzione del latino verso nuovi
sistemi linguistici. Nel Dizionario etimologico delle lingue romanze, rapporta al latino le 6 principali lingue
romanze: l’italiano, il romeno, il portoghese, lo spagnolo, il provenzale e il francese. Questi sono gli strumenti
fondamentali della filologia romanza fino alle rielaborazioni di Meyer-Lübke, il più importante esponente della
scuola dei Neogrammatici, che tra 800 e 900, ha ulteriormente disciplinato e codificato i principi del metodo
storico-comparativo e ha rifatto i grandi repertori di Diez, tra cui il Dizionario etimologico romanzo, che ancora
oggi è strumento di studio dell’etimologia nelle diverse lingue romanze.
L’approccio storico-comparativo è una tecnica che nel caso delle lingue romanze è facilitato dal fatto che si
conosce la lingua di partenza, il latino. L’idea che in una lingua gli stessi suoni si trasformino nello stesso modo in
tutte le parole, ci indica una regolarità nei cambiamenti fonetici. La regolarità permette la formulazione di leggi
fonetiche, che descrivono i cambiamenti e che dovevano essere senza eccezioni. Non volendo ammettere
l’esistenza di eccezioni, si sono trovate nuove leggi, capaci di trattare fenomeni che erano apparsi come eccezioni.
Una legge che dà ragione di numerose eccezioni è l’analogia: fonte di cambiamento linguistico meno prevedibile
di altre, ma che non è irregolare. I linguisti dell’800 hanno individuato le forme in cui non ci si doveva aspettare
l’applicazione delle leggi fonetiche nelle parole trasmesse per via popolare, in quanto provengono o dalla lingua
colta (i cultismi), più conservativa, o da altre lingue (i prestiti), regolate da leggi fonetiche diverse.
Le leggi fonetiche
Il punto di partenza è il latino volgare, quello di arrivo la forma romanza. Il primo esempio riguarda l’evoluzione
delle vocali toniche latine Ĭ e Ē che in italiano danno e chiusa. SĬTEM > it. sete e SĒTAM > it. seta. Del tutto simile è
il caso di Ō e Ŭ > o chiusa. Si dice aperta una sillaba che termina in vocale, chiusa, che termina in consonante: è
aperta la sillaba ca in ca-sa; sono chiuse le prime due sillabe di con-trat-to. Per secondo esempio l’evoluzione della
a tonica latina in francese. Nel latino volgare Ā e Ă erano confluite in una semplice A non contraddistinta per
lunghezza o per apertura. La regola generale vuole che in francese la a tonica latina diventi e: PATREM > père,
MARE > mer.
L’analogia
Abbiamo analogia quando una forma si assimila per attrazione ad un’altra che è ad essa affine nel suono o nel
senso, o che appartiene allo stesso paradigma. L’infinito presente it. essere non si può giustificare dal lat. ESSE:
non ci sono leggi fonetiche che aggiungano -re. Ma si spiega con l’analogia con altri infiniti della 3 a coniugazione
latina che erano tutti in -ĔRE: SCRIBĔRE, LEGĔRE.
Cultismi e prestiti
I cultismi sono parole, forme o costrutti di tradizione colta, cioè elementi rari o poco ricorrenti ripescati dai dotti,
ecclesiastici, dagli scienziati direttamente dal latino. (esempio calida calda) Talvolta nel vocabolario troviamo 2 tipi
di forme derivate dalla medesima parola latina: quella trasmessa per via popolare, evoluta secondo le leggi
fonetiche, e quella dotta, estranea al mutamento. Un’ultima fonte di irregolarità è data dai prestiti, parole che
non sono passate direttamente dal latino all’italiano, ma attraverso un’altra lingua. Così l’it. Mangiare non si
spiega come l’evoluzione fonetica dal lat. MANDUCARE, ma francese antico mangier, manger.
La metafonesi
Per metafonesi si intende il processo di assimilazione per il quale la vocale tonica subisce un cambiamento per
effetto della vocale finale. Nel napoletano, dove è provocata da -i, e da –u finali. Dal lat. PLENUM, abbiamo al
femminile singolare e plurale le forme napoletane non metafonetiche chiena, chiene, realizzate tutte e 2 con ə
finale; al maschile singolare e plurale, chinu, chini metafonetici, pure con ə finale.
Fenomeni generali.
1) Assimilazione: per il quale un segmento vocalivo o consonantico diviene simile ad un segmento
adiacente assumendone i tratti fonetici. d > r in AD-RIPĀRE > it. arrivare (fr. arriver). Opposta è la dissimilazione,
per il quale un segmento si differenzia da uno adiacente a cui è simile. QUAERERE > it. chiedere; ARMARIUM > it.
armadio.
2) Inserzione: l’aggiunta di una vocale o di una consonante, volta a facilitare la pronuncia di una sequenza
di suoni. Se l’inserzione avviene all’inizio della parola, abbiamo prostesi, se avviene alla fine, abbiamo epitesi, se
avviene all’interno, abbiamo epentesi. Prostesi. Gran parte delle lingue romanze introduce una vocale prostetica
davanti alla sequenza s + consonante: lat. SPATHA > sp. espada, cat. espasa, fr. épée. In italiano (cioè in fiorentino
antico) era frequente dopo consonante: per ischerzo, per iscritto, in istrada.
3) Epitesi. Nel toscano antico, dopo parola ossitona (tronca) si aveva l’epitesi di -e: portòe "portò", uscìe
"uscì", hae "ha", Il fenomeno è dovuto alla necessità di rendere omogenea la struttura accentuale delle parole.
4) Epentesi. elimina l’incontro tra 2 suoni affini. L’inserzione di -v- nell’italiano manovale < MANŬALEM,
vedova < VIDŬA, è volta ad evitare lo iato, cioè l’incontro tra 2 vocali. L’inserzione di -d- nel francese joindre <
IUN(GĔ)RE mira invece ad evitare l’incontro tra le consonanti n e r causato dalla caduta della penultima sillaba -
ge-.
1) Cancellazione: l’eliminazione di uno o più segmenti vocalici o consonantici. Se i segmenti cancellati si
trovano all’inizio della parola abbiamo aferesi, se si trovano alla fine abbiamo apocope, se si trovano all’interno
sincope.
a) Aferesi. Sono casi di aferesi le forme italiane vangelo < EVANGELĬUM, storia < HISTORIA.
b) Apocope. In italiano moderno è sistematica l’apocope di -de- nelle forme derivate dai nomi della 3 a
declinazione latina uscenti in -ATEM, -UTEM: CIVITATEM > it.a. cittade > it.mod. città.
c) Sincope. Già nel latino volgare, e poi nelle lingue romanze, la vocale postonica tende a cadere lat.class.
solĭdus > lat. volg. soldus > it. soldo, fr.a. sol > fr.mod. sou, sp. sueldo, pg. soldo),
2) Metatesi: l’alterazione dell’ordine originario dei suoni. POP(Ŭ)LUM > it. pioppo, FAB(Ŭ)LA > it. Fiaba.
L’etimologia
Uno dei meriti maggiori del metodo storico-comparativo è quello di aver orientato la ricerca etimologica.
L’etimologia è la disciplina che studia l’origine di una parola (etimo), nonché il rapporto che sussiste tra la parola e
il suo precedente storico; il suo dominio si estende anche all’origine dei nomi propri di persona (onomastica) e dei
nomi di luogo (toponomastica).
Gli studi etimologici si sono affinati nell’Umanesimo e nel Rinascimento, sino ad abbracciare nel 600 e 700 anche
le lingue romanze. Da Diez, chi vuole stabilire l’origine di una parola, deve farlo nel rispetto delle leggi che
regolano l’evoluzione fonetica.
Un esempio è il dizionario etimologico romanzo REW di Meyer-Lübke, dove si osservano le derivazioni dal latino
volgare in un gran numero di varietà linguistiche romanze, compresi i dialetti. Per esempio al n.3306 abbiamo dal
lat. FĪLUM le continuazioni del rom. fir, dell’it. filo, del sardo filu, del friulano, fr., prov., cat. fil, dello sp. hilo. Un
caso così compatto può essere rappresentato come un piccolo albero genealogico. In questo caso, i mutamenti
fonetici sono assolutamente regolari.
La dialettologia: Ascoli
Lo studio scientifico dei dialetti è stato inaugurato da Graziadio Isaia Ascoli con i Saggi ladini (800), dove ha
esaminato quantità di fenomeni linguistici su tutta l’area dell’Italia settentrionale, osservando le affinità della
parlata di 3 zone subalpine e alpine separate (il Cantone dei Grigioni, romancio, alcune vallate dolomitiche, il
ladino centrale, il Friuli, friulano), identificando uno spazio linguistico che ha chiamato ladino. Si è fatta strada
nella linguistica l’idea che le lingue si differenzino in modo graduale, senza confini linguistici netti. Davanti a noi
c’è un continuum dialettale che si differenzia via via. In questa prospettiva, diviene arduo stabilire gli elementi di
distinzione tra le lingue. Se si può dire che un elemento che distingue l’italiano dal francese, è la conservazione
delle vocali finali diverse da -a, questo non è altrettanto vero per i dialetti italiani settentrionali. D’altro canto, i
dialetti italiani settentrionali adottano il medesimo procedimento morfologico dell’italiano per rendere il plurale
dei nomi (masch. -i, femm. -e), diversamente da quanto fanno il francese e le varietà iberiche che aggiungono -s.
La prospettiva di Diez, che aveva preso in esame solo le lingue principali, viene a fine secolo ampliata da Meyer-
Lübke, che considera anche il friulano, l’engadinese, il sardo, ecc.
Sviluppi e limiti del metodo storico: lingua e cultura, semantica e geografica linguistica.
All’inizio del 900, lo studio dei cambiamenti fonetici è perfezionato. Bréal rivolge la sua attenzione anche alla
semantica, lo studio del significato. L’opera del tedesco Vossler, La cultura della Francia come riflesso dello
sviluppo della sua lingua (inizio 900), afferma l’idea che una lingua sia uno specchio della mentalità di un popolo,
ma è sbagliata, perché esaspera le differenze tra le lingue e ne ignora gli aspetti comuni. Il Neoidealismo
linguistico ha provato a considerare lingua e letteratura come manifestazioni culturali. Ma la lingua è dotazione
primaria dell’uomo, ed è un errore metterla sullo stesso piano della letteratura, che è un’elaborazione ulteriore.
Lo studio dei fenomeni evolutivi di una lingua è accompagnato dall’illustrazione della storia di un paese. Questa
integrazione è risultata spesso felice e la storia della lingua si è imposta negli studi di tutti i paesi. Alcune di queste
opere sono ancora dei punti di riferimento, come per il latino “Storia della lingua di Roma (1944) di Giacomo
Devoto e per l’italiano, sempre di Devoto “il profilo di storia linguistica italiana” (1950); per il francese “Histoire de
la langue française dès origines à 1900” di Ferdinand Brunot ecc.
Lo sviluppo di una metodologia rigorosa nell’ambito dell’edizione dei testi antichi è contemporaneo all’affermarsi
del metodo storico-comparativo. A partire dall’Umanesimo si diffonde una pratica filologica che mirava a riportare
il testo alla forma originaria attraverso la correzione congetturale o la collazione dei codici più autorevoli.
- La correzione congetturale comportava una forte dose di soggettività da parte dell’editore.
- Il confronto tra i testimoni mancava di sistematicità, e la scelta della variante migliore era affidata al
giudizio del filologo. La consapevolezza dei difetti portò all’elaborazione di un metodo editoriale fondato nella
recensio, cioè nella classificazione dei testimoni in base agli errori comuni, e nella correzione del testo grazie a
criteri meccanici.
Il padre di tale metodo è il tedesco Karl Lachmann. Già nella sua edizione del Nuovo Testamento, è evidente il
rifiuto di una prassi che correggeva il testo mediante l’interpretazione congetturale o il ricorso non sistematico
alla tradizione. L’opera in cui delineò per la prima volta il metodo, fu l’edizione del De rerum Natura di Lucrezio. In
tale opera, troviamo espressi:
-la ricostruzione dei rapporti genealogici tra i manoscritti grazie agli errori comuni
-l’adozione di criteri che permettano di determinare quale, tra le varianti tramandate, risalga all’originale (legge
della maggioranza).
I primi studiosi ad applicare il metodo al dominio romanzo furono il tedesco Gröber e il francese Meyer, che
studiarono la tradizione testuale di 2 chansons de geste antico-francesi. La prima edizione critica di un testo
romanzo fu invece quella del francese Paris. All’inizio del 900, la critica testuale tocca il vertice più alto con Barbi,
editore critico de La vita nuova e delle Rime di Dante.
Numerosi sono i legami tra la prassi lachmanniana e il contemporaneo metodo storico-comparativo:
- l’idea di albero genealogico
- la volontà di ricostruire mediante la comparazione un elemento originario perduto
- la pretesa oggettività dei criteri che permettono la classificazione
- l’approccio quasi deterministico ai dati
- l’idea di legge
Anche il metodo lachmannino fu oggetto di critiche e di revisioni. Secondo Pasquali, l’obiettivo del filologo è
anche quello di ricostruire la storia della tradizione, cioè l’insieme delle vicende che ne hanno caratterizzato la
trasmissione attraverso i secoli.
Il francese Bédier metteva in dubbio la presunta oggettività su cui si fonda la recensio e la validità di ricostruire
meccanicamente il testo originario combinando lezioni tramandate da testimoni diversi. Sottolineava inoltre
come ogni testimone medievale avesse la sua propria fisionomia, grafica, linguistica, testuale: mettere assieme
lezioni di vari manoscritti significava creare un testo composito, artificiale. Per questo proponeva di riprodurre
fedelmente il testimone che al termine della classificazione risultasse più vicino all’originale, correggendone il
testo solo nei punti erronei.
I risultati del metodo storico-comparativo e i pilastri su cui si fonda la linguistica storica sono:
- La raccolta ordinata dei materiali
- l’esatta individuazione delle leggi fonetiche
- l’allestimento di repertori grammaticali e lessicali
Rimanevano esclusi temi di grande importanza come:
- l’analisi dei rapporti tra lingua, pensiero e mondo esterno
- l’individuazione precisa delle parti costitutive della lingua
- la definizione e lo studio approfondito dei vari livelli in cui essa si organizza
La fonetica era trattata a fondo, ma la sintassi compariva appena o mancava del tutto.
All’inizio del 900 queste carenze sono affrontate nel Corso di linguistica generale da de Saussure.
- Il merito del metodo storico è di aver affrontato il problema dell’evoluzione delle lingue, che il pensiero
classico aveva emarginato.
- Il suo limite più evidente è di aver concentrato tutto l’interesse su questo problema.
Capitolo 4. Il paradigma moderno: la lingua come struttura e la visione sincronica del linguaggio.
Le critiche al metodo storico-comparativo venivano dallo Strutturalismo, alla cui origine c’è Ferdinand de
Saussure, cresciuto alla scuola dei Neogrammatici. Studiosi russi e cechi presentano le loro Tesi al Congresso degli
Slavisti di Praga del 1929, noti come Circolo di Praga. Ai primi anni 30 risale la codificazione dello Strutturalismo
linguistico americano, con Bloomfield, Linguaggio. Lo Strutturalismo ha avuto sviluppi, tra cui il Funzionalismo di
Martinet, la Grammatica generativa, la Linguistica del testo e la Sociolinguistica.
Il segno linguistico è veicolo per esprimere un messaggio. Ogni segno è dotato di un significante e di un
significato, inscindibili. Il significante è il sostrato fisico che costituisce il segno (un cartello, un impulso elettrico), il
significato è il contenuto, il concetto che il segno comunica. Nella parola cane, l’emissione fonica di una
successione di suoni è il significante di un certo significato, che è di animale domestico a 4 zampe, della famiglia
dei Canidi. Il legame che unisce significante e significato, ricorda Saussure, è arbitrario. Non c’è nessun rapporto di
necessità che lega una sequenza di suoni ad un certo significato. In lingue diverse, gli stessi significati sono
espressi grazie a significanti diversi: l’idea di bue viene resa in italiano tramite la parola bue, in francese con bœuf.
Il segno linguistico è frutto di una convenzione in cui tutti gli appartenenti ad una comunità linguistica si
riconoscono.
Il punto di vista che descrive una lingua in un arco cronologico limitato, è definito da Saussure sincronico. L’analisi
sincronica considera i rapporti tra tutte le parti in un preciso momento. Per lo Strutturalismo il cambiamento,
detto diacronia, è l’altro punto di vista necessario per cogliere la natura del linguaggio. La differenza rispetto alla
linguistica storico-comparativa è che i rapporti gerarchici dei 2 punti di vista sono ora rovesciati. Nell’analisi del
linguaggio, il primo approccio è sincronico e descrive lo stato di una lingua. Lo studio del cambiamento,
diacronico, è il confronto di 2 stati sincronici di una lingua.
Un’altra delle distinzioni fondamentali di Saussure, è quella tra langue e parole (lingua e discorso). La lingua è un
insieme di emissioni sempre nuove e diverse dove distinguiamo un aspetto ritornante, fisso, regolare (la langue),
e un elemento irripetibile, individuale (la parole). Solo la langue, può essere oggetto di studio rigoroso, scientifico:
ecco perché l’oggetto della linguistica è la langue, non la parole. Jakobson ha paragonato la langue ad un codice, e
la parole ad un messaggio: il messaggio (parole) di un emittente è recepito da un ricevente perché entrambi
condividono lo stesso codice (langue) che ha 2 vantaggi:
- quello di mettere in rilievo il carattere di arbitrarietà e convenzionalità dell’intero complesso dei segni
usati
- quello di suggerire l’idea che la lingua è costituita secondo regole precise
Sul piano del significante, la parola cane può essere divisa in 4 unità minime: /k/ + /a/ + /n/ + /e/. Si dovrà
considerare inoltre l’accento che colpisce la prima sillaba /ka/. Cane e pane sono 2 parole che si differenziano per
un solo suono; diciamo che costituiscono una coppia minima. Possiamo dire dunque che /k/ e /p/ sono elementi
dotati di carattere distintivo, cioè di distinguere almeno 2 forme di significato diverso. Chiameremo questi
elementi fonemi. Il fonema è una rappresentazione astratta, mentale, del suono. Il suono è la manifestazione
fisica mediante la quale il fonema si realizza concretamente.
- Il suono viene rappresentato graficamente con un simbolo dell’alfabeto fonetico racchiuso tra parentesi
quadre ([k], [p])
- il fonema con un simbolo dell’alfabeto fonetico racchiuso tra sbarrette oblique (/k/, /p/)
L’italiano, come tutte le lingue, non è un sistema economico, ma ridondante. Questa ridondanza, garantisce
maggiore chiarezza alla lingua, in quanto le parole sono più differenziate tra loro. Due allofoni in una lingua
possono essere fonemi in un’altra. L’accento ha, in molte lingue, funzione fonologica; serve a distinguere una
coppia minima: áncora e ángora si distinguono per /k/ e /g/; áncora e ancóra per il diverso posto dell’accento. In
francese la posizione dell’accento è sempre predicibile e non costituisce elemento distintivo. In latino la
lunghezza delle vocali permetteva di distinguere coppie minime, mentre in italiano dipende dal contesto sillabico
e dall’accento. Anche il tono ha valore distintivo diverso nelle varie lingue.
L’interrogazione si realizza in italiano con un innalzamento del tono della parte finale della frase. In francese, dove
l’interrogazione è espressa dall’inversione del verbo e del soggetto, l’intonazione è un tratto ridondante.
Nella prospettiva di Jakobson sono i tratti distintivi in cui sono scomponibili i fonemi a costituire l’ultima
articolazione del sistema fonologico della lingua. Ogni sistema fonologico è un sistema di fonemi che si
oppongono per uno o più tratti distintivi. Per classificare i fonemi vocalici dell’italiano sono sufficienti 5 tratti:
- alto e basso (altezza della lingua rispetto al palato nella formazione del suono)
- arretrato (posizione del corpo della lingua rispetto alla posizione di riposo)
- arrotondato (modo di tenere le labbra durante l’emissione del suono)
- teso (forza con cui viene articolato il suono, e che si oppone a rilassato)
Un elemento fondamentale è l’idea che siano organizzati in modo binario: un fonema è caratterizzato da un tratto
(segno +) oppure non lo è (segno -): questo significa che, tra i numerosi tratti necessari per descrivere i sistemi
fonologici di tutte le lingue, solo 5 sono fonologicamente rilevanti per distinguere i 7 fonemi vocalici dell’italiano.
Per descrivere altri sistemi vocalici si dovrà usare un numero maggiore o minore di tratti distintivi, pur attingendo
sempre al medesimo insieme universale.
Chomsky e Halle hanno sviluppato la fonologia generativa, secondo la quale, il sistema fonologico va riferito ad un
sistema soggiacente di cui le concrete realizzati foniche costituiscono l’aspetto di superficie. Ad unire i 2 livelli
intervengono regole fonologiche che trasformano la rappresentazione fonologica in rappresentazione fonetica. Le
regole sono responsabili dunque delle differenze tra il livello fonologico e il livello fonetico.
Ad un fonema possono corrispondere 2 o più realizzazioni fonetiche diverse, dette varianti, come nel caso della n
di fungo ['fuŋgo], di tipo velare, diversa dalla n di fine ['fiːne], di tipo alveolare. A due realizzazioni superficiali
differenti ([n] e [ŋ]) corrisponde tuttavia in questo caso un unico fonema: /n/. Nella nuova prospettiva c’è una
regola fonologica responsabile del passaggio /fungo/ (rappresentazione fonologica) [fuŋgo] (rappresentazione
fonetica). Questa regola prevede precisamente che /n/ [ŋ] davanti a consonante velare. Il suono [ŋ] è un
allofono del fonema /n/, non un nuovo fonema, in quanto non permette di isolare coppie minime. È tuttavia
possibile che tra i 2 livelli intervenga un cambiamento più radicale. Le regole fonologiche che governano il
passaggio dalla rappresentazione soggiacente a quella di superficie, non si limitano a produrre degli allofoni, ma
possono alterare del tutto in alcuni contesti la corrispondenza tra fonema e relativa realizzazione fonetica.
Le regole della Grammatica generativa mirano a dare una rappresentazione formale della lingua. Diversamente
vanno le cose nella lingua scritta. È necessario riconoscere la priorità della lingua parlata su quella scritta, e dare la
giusta preminenza all’apprendimento linguistico naturale. Un altro aspetto originale della Grammatica generativa
è il presupposto che tutte le lingue umane si assomigliano. L’idea prevalente oggi è quella di una monogenesi del
linguaggio.
La Grammatica generativa sostiene la somiglianza tra le lingue, e avrebbe come spiegazione non solo il fatto che la
lingua procede da uno stesso sistema neurologico, ma anche che storicamente ci sarebbe una sola lingua
originaria, nostratico. Nonostante la novità della Grammatica generativa, non possiamo abbandonare alcuni temi
tradizionali della ricerca, come:
- la linguistica storica
- le famiglie linguistiche
- l’espressione letteraria della lingua
Scopo della Geografia linguistica è la rappresentazione dettagliata della varietà dialettale. L’opera che ha
fondato la Geografia linguistica è l’Atlante linguistico della Francia di Gilliéron, che contiene una grande quantità
di carte della Francia, su cui sono segnati 639 punti, centri abitati, come campione della varietà linguistica. Ogni
carta è dedicata ad un soggetto, un animale, un oggetto; la tavola dedicata al gallo riporta in ciascuno dei 639
punti la forma linguistica corrispondente. Gilliéron ha messo in evidenza come le carte linguistiche documentino
meccanismi di cambiamento linguistico che non sono spiegabili solo in base a leggi fonetiche, ma a sostituzione
lessicale. La Guascogna mostra per il concetto di gallo forme del tipo di vicaire, forma scherzosa nata da un
paragone del gallo con un prete. Considerando il passaggio -ll > -t, sappiamo che il latino GALLUS, dà in provenzale
gal e avremmo in guascone gat. che designa il gatto. Si era creata un’omofonia insostenibile. Quanto ai dialetti
italiani, l’Atlante Italo-Svizzero è il solo atlante completo disponibile, in cui i concetti sono riuniti per affinità in
sfere concettuali, fa posto ai nomi di attrezzi, piante, usanze, in modo da permettere un’osservazione anche
etnologica dell’Italia tradizionale. Un altro indizio risiede nel fatto che non esclude dai punti di osservazione le
città.
1. La sociolinguistica.
Per variazione sociale intendiamo la diversità che caratterizza una comunità di parlanti collegata alle diverse classi
sociali che la compongono:
- classe bassa (un tempo si parlava di popolo o di plebe)
- classe media (o borghesia, distinta in media e piccola borghesia)
- classe medio-alta (o alta borghesia, formata da professionisti, funzionari dello stato)
La classe alta era una volta la nobiltà, ma oggi è la classe medio-alta. La Sociolinguistica è nata in America.
L’osservatorio privilegiato erano le grandi città degli Stati Uniti, dove la variazione sociale risaltava su
un’uniformità dovuta all’assenza di dialetti. Una situazione che negli anni 60 del 900, contrastava con in Italia,
dove le grandi città erano caratterizzate da diglossia, che designa la coesistenza nella società di 2 varietà diverse
tra loro, cui la comunità attribuisce un differente grado di prestigio sociale. Il termine diglossia si oppone a
bilinguismo: quando un emigrato conosce e parla, in diverse occasioni e con diversi interlocutori, arabo e italiano,
diciamo che è bilingue, non diglossico. La fondazione della Sociolinguistica si deve all’americano Weinreich e alla
sua opera” Linguaggi in Contatto” (metà del 900). Il suo studio è stato proseguito da un altro americano, Labov,
che ha stabilito che alcuni fenomeni linguistici variano sistematicamente nelle diverse classi sociali; possono
essere, la presenza o meno di certi fonemi, o la loro realizzazione fonetica. Essere riconosciuti attraverso l’accento
come appartenenti ad una classe sociale alta è in genere un vantaggio. E il contrario è uno svantaggio. In francese
si può osservare la caduta delle consonanti liquide l e r in finale di parole e di frase. il n’aime pas prendre sa
voiture ". Soprattutto se si parla in fretta, la -re finale di prendre viene tralasciata. La d, perde la sonorità e passa a
t per assimilazione alla s che segue; i 2 suoni t ed s si fondono assieme, dando un suono unico [ts] . La realizzazione
del fenomeno dipende da 3 variabili: solo una è propriamente linguistica, la posizione della consonante nel
contesto fonetico. Ci sono poi la variabile dello stile o registro, e quella della classe sociale . Secondo Labov, il
rapporto tra lingua e classe sociale è mediato dai registri o stili, usati in contesti comunicativi differenti.
L’applicazione della regola fonologica che fa cadere le liquide finali viene applicata o meno a seconda delle
situazioni comunicative:
1) discorso casuale
2) discorso accurato
3) lettura di un testo
4) lettura di una lista di parole
Ogni classe sociale, si avvicina alla norma linguistica riconosciuta come alta negli ultimi 2 stili. Ma si avvicina alla
norma bassa nel discorso casuale, cioè quando parla con la massima spontaneità. Anche quella bassa è dotata di
un proprio sistema di regole: in quelle circostanze in cui la norma bassa è sentita come più espressiva, sincera,
non si può usare lo stile elevato.
La ricerca sociolinguistica ci dice che dietro il cambiamento c’è una concorrenza tra diverse forme, che si conclude
con l’eliminazione di una a favore dell’altra. Avremo conservazione quando una forma nuova emersa in un
gruppo sociale non riesce ad imporsi sulla forma tradizionale. Avremo innovazione, quando una forma nuova
sostituisce quella vecchia. In fiorentino antico, la sola forma soggetto del pronome maschile di 3 a persona
singolare era egli. Durante il 400 si è cominciato ad usare anche la forma obliqua lui. Nel corso del 500, Bembo
prescriveva egli come unica forma legittima.
3. Lingua e dialetto
Il termine dialetto è entrato in italiano solo nel 500. Per i Greci i dialetti erano varietà linguistiche coesistenti di
pari dignità, tutte usate nell’espressione scritta; in Italia la sola varietà fiorentina stava trionfando sulle altre. Si
cominciò ad opporre allora lingua a dialetto, interpretando lingua come varietà superiore, dialetto come inferiore,
esclusivamente sul piano letterario; il toscano era la lingua per antonomasia, rispetto alla quale i dialetti, si erano
dimostrati artisticamente inferiori. Dal Rinascimento in avanti si trasferisce sui dialetti la mancanza di struttura
grammaticale che predisponeva la lingua all’espressione scritta. Oggi si dice che tutte le lingue sono capaci di
esprimere qualsiasi concetto, ma non è vero che tutte si equivalgono. Se in una società coesistono 2 lingue è la
comunità dei parlanti che stabilisce una gerarchia sociolinguistica tra le varietà in uso contemporaneamente. Con
lo sviluppo nell’800 degli stati nazionali, la lingua è stata incorporata nel sistema dei valori etici della nazione,
diviene strumento primario per la creazione di una coscienza nazionale e per la partecipazione alla vita civile della
nazione. Il concetto di nazione va infatti distinto da quello di stato: ci sono stati plurinazionali, come la Russia, e
nazionalità suddivise tra vari stati (come era quella tedesca, divisa fra Germania Federale e Germania
Democratica). Ma ci sono molti stati nazionali che hanno una lingua unica che diviene la lingua ufficiale dello
stato-nazione, nella quale si identificano tutti i cittadini. Numerose comunità rivendicano lo status di lingua per la
varietà che parlano (Catalani e i Galeghi).
Il cambiamento sintattico deve consistere quindi in minuti spostamenti nella struttura della frase.
Nel dominio romanzo il problema è l’evoluzione del verbo latino hàbeo dal valore di possedere, tenere, al valore
di ausiliare che ha avere per esempio nell’italiano ho bevuto, in cui in realtà avere serve a formare il passato del
verbo bere. La forma romanza oltre alla differenza di significato, differisce nella struttura sintattica:
- avere è un verbo ausiliare che regge il participio
- il soggetto di avere e il soggetto del participio sono la stessa persona
- il participio ha funzione verbale e regge il complemento oggetto
Come si è passati dalla costruzione latina alla costruzione romanza? Il cambiamento è cominciato a livello
semantico:
I 2 fattori principali che sono alla base del cambiamento sono stati:
(a) lo svuotamento semantico di habeo, che da possesso ha assunto un significato di relazione generica
(Pietro ha fame);
(b) la frequente coincidenza tra il Soggetto di Habeo e il soggetto del participio: l’asse della predicazione si
sposta sul participio che perde il suo carattere aggettivale e assume valenza verbale (da “sono in possesso di una
cosa passata” a “ho compiuto un’azione nel passato”). Avvenuto il cambiamento semantico, la strada è aperta al
cambiamento sintattico, come si può dedurre dal fatto che in molte varietà romanze il participio continua ad
essere accordato con l’oggetto diretto. L’accordo del participio mostra che dal punto di vista sintattico continua a
sussistere lo stesso rapporto di predicazione che c’è nella costruzione latina, e non abbiamo tra participio e
oggetto diretto il rapporto di reggenza che caratterizza invece la costruzione moderna.
Il cambiamento sintattico è la conseguenza del cambiamento semantico: una volta avvenuto il cambiamento
semantico, il rapporto tra struttura sintattica e struttura semantica non è più diretto e si tende ad assegnare alla
costruzione una nuova struttura sintattica che corrisponda meglio alla struttura semantica e alla struttura
generale della lingua in cui il cambiamento avviene.
1. Il cambiamento morfologico
La morfologia studia la struttura interna della parola e i processi che ne determinano la formazione. Il morfema,
l’unità minima dotata di significato. I morfemi si combinano per formare le parole. La parola amministratore è
formata da 3 morfemi:
- amministra- radice del verbo amministrare
- -tor- suffisso nominale dal valore di colui che fa l’azione X (nel nostro caso colui che amministra)
- -e morfema del maschile singolare
La morfologia distingue tra processi flessivi (amic-o, amic-a) e derivativi (amich-etto, amich-evole).
La morfologia diacronica ha permesso di individuare 3 tipi principali di processi alla base del cambiamento
morfologico:
- l’analogia
- la rianalisi/risegmentazione
- la grammaticalizzazione
Gli elementi di un sistema morfologico all’interno dello stesso paradigma tendono ad influenzarsi reciprocamente.
L’analogia opera attraverso 2 processi:
- il quarto proporzionale
- il livellamento
Nel toscano 200-300esco, il morfema di 1 a persona singolare dell’imperfetto era -a (io amava), regolare
continuazione del latino -ABAM (amābam). Nel 300 a Firenze inizia a diffondersi la desinenza -o (io amav-o),
analogica sulla 1a singolare del presente (am-o), che poi si imporrà nell’italiano standard. Il processo che favorisce
l’introduzione del nuovo morfema viene detto del quarto proporzionale. Il livellamento analogico consiste nella
soppressione degli allomorfi, cioè delle differenti realizzazioni del medesimo morfema. Così abbiamo it.
siede/sediamo, tiene/teniamo; muore/moriamo. Tale alternanza è fonte di irregolarità nel paradigma, e in alcuni
verbi è stata livellata dall’analogia. Il livellamento è ottenuto con l’introduzione del dittongo anche nelle forme
arizotoniche, e sono stati creati chiediamo su chiede, muoviamo su muove, nuotiamo su nuota. 2 fenomeni
fonetici distinti sono intervenuti a differenziare le 2 forme:
- l’evoluzione -s- > -r- (rotacismo) in posizione intervocalica ha fatto sì che temposa diventasse tempora
- l’innalzamento di -os finale in -us ha provocato il passaggio tempos > tempus
Il processo di rianalisi è la reinterpretazione da parte del parlante di una parola o un costrutto complessi, con
formazione di nuovi morfemi.
In questo caso alla risegmentazione consegue un processo di grammaticalizzazione, in base al quale un elemento
semanticamente pieno si svuota del suo significato lessicale originario per diventare un morfema grammaticale
legato ad un’altra parola. Il modulo di formazione degli avverbi in italiano -mente (morfema) deriva da mens,
mentis (parola piena con significato proprio di "animo, intenzione, atteggiamento" e da un aggettivo ad esso
accordato. it., sardo lentamente, certamente; sp. lentamente, ciertamente; fr. lentement, certainement.
Un altro fenomeno di grammaticalizzazione è la formazione del futuro e del condizionale. Il futuro latino (amabo
"amerò", dicam "dirò") è stato ovunque sostituito da forme perifrastiche: infinito + HABEO (o HABEO + infinito),
DEBEO + infinito. La perifrasi più diffusa nel dominio romanzo è quella ottenuta dall’infinito e dal presente
dell’ausiliare HABĒRE: cantare habet "ha da cantare", "deve cantare", cioè "canterà"). Successivamente, è stata
percepita come un’unica forma e rianalizzata come la giustapposizione di infinito e presente di HABĒRE:
CANTAR(E) + (H)A(BET) > it. canterà, fr. chantera. Il verbo HABĒRE, che aveva originariamente il valore di avere da,
dovere, ha perso il suo significato modale. Lo stesso è avvenuto per il condizionale, che in molte lingue deriva
dalla fusione tra l’infinito e l’imperfetto o il passato remoto di HABĒRE: CANTARE HABEBAT > fr. chanterait; sp.,
pg., prov. e dialetti italiani cantaría e simili; oppure CANTARE + HEBUIT (= HABUIT) > ital. tosc. canterebbe.
Il cambiamento fonologico.
Il cambiamento semantico
La semantica è il ramo della linguistica che si occupa del significato delle parole. Il primo ad usare il termine
semantica è stato il francese Bréal, che ha mostrato come la linguistica storica si fosse proposta di considerare per
i suoi fini solo la forma (fonetica e morfologia), trascurandone il significato. Abbiamo cambiamento semantico
quando il significato di un lessema muta da uno stato all’altro di una lingua. Il lessico è una parte della lingua che
cambia più rapidamente della fonologia, della morfologia o della sintassi. Per rendersene conto è sufficiente
confrontare forme latine classiche con le corrispondenti romanze. Il latino, ad esempio, usava la forma bŭcca
(accanto al classico gena) per indicare la guancia, e os per la bocca. In italiano, e in gran parte delle lingue
romanze, la continuazione di bucca designa invece la bocca.
Le ragioni del cambiamento semantico sono di carattere socio-culturale, relativi ai mutamenti della società tra
tarda Antichità e Alto Medioevo. Ma più importanti sono i fattori linguistici, come la tendenza a:
- evitare casi di omofonia e a sostituire forme monosillabiche con altre di maggiore corposità
- eliminare le basi nominali e verbali irregolari
- rimpiazzare lessemi semanticamente neutri con altri espressivamente più marcati
Ogni cambiamento semantico è dettato dalla necessità di esprimere concetti in modo efficace e adeguato. Il
parlante quando deve esprimere un concetto nuovo per cui non ha a disposizione un segno linguistico, oppure
quando le forme che ha non gli sembrano più adeguate, ha 3 possibilità:
- creare una parola nuova sfruttando i processi morfologici della lingua (neoformazione o neologismo)
- avvalersi di una parola straniera (prestito)
- usare una parola vecchia in una nuova accezione (cambiamento semantico)
Ad esempio, nel latino di Petronio la forma bucca è già attestata con il significato di bocca. Da questa situazione di
polisemia, il termine ha perso uno dei suoi 2 significati, passando a designare solo la bocca. È l’associazione di 2
elementi distinti la molla che fa scattare il processo di cambio semantico. Le relazioni associative possono essere
di 3 tipi:
(1) di similarità (o, in termini retorici, metaforica)
(2) di contiguità (in termini retorici, metonimica)
(3) di contrasto (sempre in termini retorici, antifrastica).
L’associazione può avvenire a 3 livelli distinti:
- extralinguistico, cioè (a) a livello del concetto
- linguistico, ossia a livello (b) del significato
- (c) del significante
Solo l’associazione per similarità riguarda tutti e 3 i livelli. L’associazione per contiguità, infatti, è possibile soltanto
a livello del concetto e del significante, mentre quella per contrasto solo a livello del concetto.
(1) Associazione per similarità. Un cambiamento semantico come it. (e lat.) spina "escrescenza acuminata
delle piante" > e poi "dispositivo elettrico che si innesta in una presa") si spiega in virtù di una similarità tra i 2
concetti.
(2) Associazione per contiguità. Il tipo di cambiamento semantico più diffuso è quello derivante da
associazione per contiguità, o per metonimia. Si riportano a contiguità tra i concetti mutamenti del tipo lat. FOCUS
"focolare" > pg. fogo, sp. fuego, fr. feu, it. fuoco, rom, foc "fuoco": la contiguità consiste nel fatto che il focolare
contiene il fuoco.
(3) Associazione per contrasto. ha poco peso nel cambiamento semantico. Tipo di procedimento che per
ironia associa ad un concetto un termine dal significato opposto. In francese antico, oste "ospite" (hôte) designa
anche l’ostaggio.
Indoeuropeo viene dalla localizzazione geografica dei popoli stanziati in India ed Europa e si divide in
sottofamiglie:
1. germanico
2. slavo
3. baltico, rappresentato oggi dal lituano e dal lettone;
4. celtico, costituito dal gallico continentale, ora estinto, parlato un tempo in un’area latinizzata e poi
romanizzata (francese, dialetti gallo-italici), in parte germanizzata; parlato ancor oggi nel Galles, in Irlanda e in
Scozia
5. ellenico, composto dal greco, di cui conosciamo le fasi antiche e la sua continuazione nel greco moderno
o neogreco
6. albanese, che continua probabilmente l’antico tracico o, forse, l’illirico
7. armeno
8. iranico, con vari rami, tra cui il persiano
9. indiano, nelle varietà antiche (vedico e sanscrito) e moderne, costituite da diverse lingue, tra cui lo
zingaro
10. italico, comprendente diversi rami, tutti estinti e conosciuti solo in parte: l’umbro, il sannitico, l’osco, il
latino. Queste famiglie sono tutte continuate da rami vivi.
Nel territorio occupato da Roma e latinizzato, si parlavano originariamente diverse lingue indoeuropee. Così il
gallico, parlato tra l’Iberia, la Gallia transalpina e quella cisalpina; le lingue italiche diverse dal latino; il greco in
parte dell’Italia meridionale e della Sicilia; l’illirico verso l’Adriatico orientale; il traco-dacico, parlato della Dacia
poi romanizzata, che oggi parla il romeno. Tutte queste lingue, vengono dette di sostrato. Ma nell’Impero Romano
erano presenti anche lingue non-indoeuropee. Nella penisola iberica e Francia meridionale è rappresentata oggi
dalla lingua basca. Il ligure, diffuso nella Francia meridionale e nell’Italia nord-occidentale. Per la Sardegna un
paleo-sardo, non-indoeuropeo, precedente alla conquista da parte dei Fenici e dei Romani. Alcuni Umanisti
avevano pensato che lo sviluppo linguistico fosse condizionato dalla lingua parlata precedentemente da un
popolo.
Nell’800, Ascoli attribuì al sostrato il ruolo di motore delle leggi fonetiche. Ipotizzò che il fonema /y/ presente in
francese fosse una reazione delle popolazioni celtiche che avevano appreso il latino. I Celti vi avrebbero
trasportato le loro abitudine fonetiche, e questo avrebbe finito per influenzare lo stesso sviluppo del latino.
La consistenza del sostrato è provata solo nel dominio del lessico, e in particolare nella toponomia: i toponimi
Padova, Vicenza, Abano, Este sono di origine paleoveneta, Milano deriva dal celtico (l"pianura di mezzo”, Volterra
e Cortona dall’etrusco, Nocera dall’umbro, Avellino dall’osco, mentre Napoli è di origine greca Neàpolis "città
nuova").
Le lingue romanze derivano dal latino volgare. Tutte le forme romanze per il verbo potere risalgono ad una forma
latina non attestata *POTĒRE e non al lat.class. POSSE: it. potere, fr. pouvoir, sp. pg. poder.
Del latino non si può parlare della sola dimensione sincronica: il latino ha una storia. La sua fase documentata,
dalle prime iscrizioni del 4°-3° secolo a.C. (il latino arcaico) alla poesia cristiana del 5° secolo d.C. (latino tardo),
copre un periodo di ben 8 secoli. Dal 6° secolo in poi possiamo supporre che la scrittura del latino diventi in gran
parte artificiale, visto che in quell’età dovevano essere già nate le lingue romanze.
Tra le tecniche della filologia la principale consiste nell’interpretazione degli errori, che sono i principali rivelatori
dei cambiamenti linguistici. Il concetto di latino volgare non si riferisce solo alla dimensione diacronica, o storica,
ma anche a quella sincronica. Se lo studio del latino va suddiviso in senso orizzontale in periodi, dovrà poi esserlo
anche in strati verticali in registri (o stili). Quando Cicerone parla di sermo vulgaris, fa una distinzione di registro,
in quanto oppone la lingua d’uso quotidiano, alla varietà alta, usata nei contesti ufficiali (il latino classico). Il
termine di latino volgare, designa in questo caso il registro più basso della lingua, usato non solo dai ceti popolari,
ma da tutte le classi sociali, nella comunicazione quotidiana.
Il lavoro del filologo consiste nello stabilire le deviazioni dalla norma del latino classico che si possono inquadrare
nell’evoluzione dal latino alle lingue romanze. Alcuni testi latini sono considerati delle vere fonti del latino volgare,
perché contengono forme scorrette, dette volgarismi o romanismi, che anticipano quelle che saranno la norma
nelle lingue romanze. Per il lessico, ricaviamo molte indicazioni importanti dall’Appendix probi (5°-6° secolo d.C.):
un elenco di volgarismi, con a fianco la forma corretta. L’elenco è opera di un modesto insegnante, e si trova in un
codice conservato in appendice ad una copia della grammatica di Probo (di qui il nome di Appendice di Probo). La
forma delle annotazioni è del tipo: si dice calida non calda, vetulus non veclus. Ci vengono segnalati fenomeni
fonetici all’origine di molte forme romanze:
- nel primo caso, la caduta della vocale postonica (sincope), per cui da CALĬDA si ha appunto l’it. calda, e le
altre forme romanze corrispondenti
- nel secondo caso, il passaggio del gruppo consonantico -TL- a /kl/, che spiega l’it. vecchio a partire dal lat.
VET(Ŭ)LUS, diminutivo di VETUS. Dell’Appendix a noi interessano proprio le forme che il maestro raccomandava di
evitare, e la ragione è che quelle forme sono le stesse che sono poi diventate romanze, o che costituiscono il
primo stadio per questa evoluzione.
Iscrizioni
Roma ha coperto il territorio del suo Impero di marmo, e su questo ci sono iscrizioni ufficiali, commemorative,
celebrative, indicazioni stradali e iscrizioni funebri. Le iscrizioni pubbliche, eseguite da scalpellini professionisti,
sono generalmente scritte in un ottimo e solenne latino. Ma anche scritture più modeste e interessanti, perché
rivelano forme familiari prive della dignità necessaria alla scrittura. Un esempio sono i graffiti conservati a Pompei
e a Ercolano. Le 2 città furono sepolte dalle ceneri dell’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. Le scritte a graffito
riportano ingiurie ad un nemico, messaggi d’amore, conti dei venditori e qualche verso mal ricordato, insieme a
molte cose della vita quotidiana. Il latino di questi graffiti è presentato nella sua veste più dimessa, quotidiana,
quella che ci interessa di più.
A questa categoria appartengono alcune formule magiche impresse su lamine di piombo destinate a gettare il
malocchio su nemici e rivali (defixionum tabellae). Dall’Egitto provengono 300 lettere in latino, scritte da militari o
dettate a scribi professionisti, su faccende quotidiane, e riflettono un uso vivo e scorretto della lingua. Le
discipline scientifiche e tecniche, come medicina e veterinaria, agricoltura e geografia, erano ritenute
nell’Antichità classica inferiori a discipline come la retorica, la matematica e la geometria. Così i trattati dedicati a
queste materie si sottraggono alle norme dell’uso classico.
Anche le commedie di Plauto e di Terenzio si servono di una lingua meno elaborata e più affine al parlato. Nella
tragedia, invece è sempre adottato uno stile alto, come nelle tragedie di Seneca. Il principale modello del latino
classico, Cicerone, appare anche tra i testimoni del latino volgare, perché nelle sue Epistole, ci ha tramandato
testimonianze di un latino familiare. Le sue lettere venivano diffuse per il loro valore letterario tra il pubblico e
contengono uno stile colorito, idiomatico.
Petronio nel suo Satyricon, nella cena di Trimalcione, ha tracciato un vivace e caricaturale dipinto del latino che
veniva usato dai liberti arricchiti. Si tratta del solo testo deliberatamente latino volgare della letteratura latina. Il
latino degli autori cristiani è all’inizio umile e popolare. La più antica versione latina della Bibbia, detta Vetus
latina, anteriore a quella di san Girolamo, mostra molto bene questo carattere, oltre alla stretta dipendenza dal
testo greco. La versione della Bibbia di san Girolamo, Vulgata, riprende le versioni precedenti rivedendole
sull’originale greco, e mantiene lo stesso carattere popolare. Un episodio nella storia dei testi latini cristiani è
l’Itinerarium Egeriae ad loca sancta, resoconto del viaggio di una nobile monaca di nome Egeria nei luoghi
dell’Antico e Nuovo Testamento. In essa compaiono l’uso di ille e ipse con funzioni che corrispondono a quelle più
elementari dell’articolo romanzo.
Intorno al 5° secolo, abbiamo testi i cui romanismi e volgarismi ci rivelano il romanzo che è già nato, ma che non
verrà scritto se non alcuni secoli dopo. La tecnica di interpretazione resta basata sull’interpretazione degli errori.
Il latino merovingico, scritto nella Gallia che sta ormai diventando Francia tra 6° e 8° secolo, il leonese, scritto in
Spagna nei secoli 10°-11°, e quello longobardo, scritto in Italia tra 7° e 8° secolo, sono spesso scorretti, lontani dai
modelli classici, non di rado infarciti di termini lessicali locali. Si tratta per lo più di registri dei monasteri,
donazioni e atti notarili. Dal 6° secolo in poi, in Gallia, abbiamo anche la Historia Francorum del vescovo Gregorio
di Tours, considerata una fonte del latino tardo, alla stregua di altre opere composte nella Gallia merovingica
come il Fredegario, particolarmente ricca di volgarismi.
Glosse
Sotto il nome di glosse elenchiamo testimonianze del latino tardo, o del primo romanzo che precedono i primi
testi interamente volgari. Sono spiegazioni, parafrasi o vere e proprie traduzioni, di parole o gruppi di parole. Le
glosse di Reichenau contengono traduzioni di parole ed espressioni della Bibbia diventate difficili e un piccolo
lessico alfabetico: pulchra è spiegata con bella, concidit con tagliavit, minas con manaces. Le glosse, ora custodite
in territorio tedesco, provengono dal nord della Francia, e sono state scritte tra la fine dell’8° e l’inizio del 9°
secolo. Le Glosse di Kassel (9° secolo) sono un manualetto romanzo-tedesco ad uso dei bavaresi diretti in Francia;
della seconda metà del 10° o degli inizi dell’11° sono le Glosse emilianensi e le Glosse silensi in zona iberica,
navarro-aragonese. Sono brevi traduzioni a margine di parole latine che dovevano sembrare difficili, inserite in
testi latini, anch’essi non immuni da errori. Pure del 10° secolo è il Glossario di Monza, dove delle parole latino-
romanze sono spiegate in greco volgare.
Ipercorrettismo: caso di interferenza tra la varietà parlata e quella scritta e codificata. In molte iscrizioni troviamo
grafie come Ostis per Hostis "nemico", segno che la h- non si pronunciava più, Octime per Optime "benissimo",
tanto -pt- quanto -ct- erano passati a -tt-Nei versi pompeiani, si trovano frequenti errori di metrica. Nei versi
pompeiani non si distingue tra vocali lunghe e brevi. Poiché tale distinzione non esiste nelle lingue romanze,
possiamo pensare che fosse già venuta meno nel latino volgare del I secolo d.C., almeno quello parlato a Pompei.
In latino la comprensione era facilitata dall’esistenza dei casi, che nelle lingue romanze non esistono più.
In latino la posizione del verbo era alla fine della frase, e seguiva il soggetto e il complemento oggetto.
In tutte le lingue romanze, il verbo segue il soggetto ma precede l’oggetto: parliamo di ordine verbo-oggetto (VO),
mentre il latino aveva l’ordine oggetto-verbo (OV). Lo stesso genere di rapporti vige nei nomi composti che
contengono in sé un verbo e un oggetto. In latino vexillifer "bandiera-porta", in it., portabandiera. In latino
l’aggettivo precedeva normalmente il nome: per esempio pinguis vir. Nelle lingue romanze è il contrario: it. uomo
grasso. In latino l’avverbio precedeva il verbo: arte astringere. Nelle lingue romanze è il contrario: it. legare
strettamente. Lo stesso vale nell’ordine verbo principale-verbo ausiliare: lat. profectus est, it. è partito, fr. il est
parti. In latino il sintagma proposizionale al genitivo precede il sintagma nominale che modifica: patris manus.
Nelle lingue romanze è il contrario: it. la mano del padre.
Questi cambiamenti rivelano la tendenza di invertire l’ordine latino modificatore-modificato nell’ordine inverso. Si
tratta di un cambiamento importante perché in base a tale rapporto si possono distribuire le lingue in tipi diversi,
contraddistinti da caratteristiche comuni. Le lingue romanze si sono allontanate, solidali tra di loro, dal tipo latino
per costituire un altro tipo. Il cambiamento nella direzione inversa, modificato-modificatore, ha coinvolto il latino
volgare (e dal latino volgare si è esteso a tutte le lingue romanze). È possibile che questo grande cambiamento
tipologico abbia avuto un’influenza anche sulla riduzione e caduta dei casi. In latino infatti forme come can-IS,
can-I, can-E, presentavano il modificato sotto forma di desinenza dopo la radice della parola, che costituiva il
modificatore, anche se non è evidente che si possa parlare di desinenza come modificato e di radice come
modificatore. Nelle lingue romanze questo ruolo è assunto dalle preposizioni: it. DI cane, A cane, DA cane, anche
qui l’ordine è speculare.
Condizionale e futuro
In latino il significato del condizionale era sempre espresso con un congiuntivo. Il condizionale si sviluppa da
forme perifrastiche ottenute dall’infinito e dall’ausiliare HABĒRE: CANTARE + HABEBAT (indicativo imperfetto 3 a
persona singolare) > fr. chanterait, CANTARE HEBUIT (per HABUIT, indicativo perfetto 3 a persona singolare) > it.
canterebbe. Del tutto analogo è il caso del futuro dove a differenza del condizionale, non si crea una categoria
nuova, ma si innova la formazione morfologica che esisteva già in latino. Anche qui vengono utilizzati l’infinito e
l’ausiliare HABĒRE: CANTARE + HABEO (indicativo presente) > it. canter-ò, fr. chanter-ai.
Tutte le lingue romanze presentano una doppia serie di pronomi personali obliqui (cioè con funzione di
complemento):
- una tonica (o libera)
- una atona, o clitica
Per pronome libero intendiamo, per esempio, me nella frase vedi me; per pronome clitico, invece, mi in mi vedi.
Clitico vuol dire unito e parliamo di pronomi clitici perché sono sempre uniti al verbo. La serie di pronomi liberi si
serve in romanzo delle preposizioni: in italiano abbiamo all’accusativo me come in lat. me, ma al dativo a me dove
il latino aveva mihi. La serie dei pronomi clitici ha conservato invece i casi, e continua direttamente il latino: come
dativo della 1a singolare abbiamo l’it. mi corrispondente al lat. mihi (da cui deriva), per esempio mi dai qualcosa;
come accusativo della 1a singolare l’it. mi che corrisponde al lat. me (da cui deriva), per esempio mi vedi. Le 2
forme sono uguali. Ma alla 3a singolare le forme sono distinte: gli < ILLI, gli dico; lo < ILLUM, per esempio lo vedo. I
pronomi clitici sono presenti già dai primi documenti del volgare romanzo. Data la loro presenza in tutte le lingue
romanze, si può pensare che fossero formati già nel latino volgare. La frequenza in certi testi latini volgari non può
essere casuale.
In italiano moderno, si può dire: (1) spero di trovare Carlo presto e anche (2) spero di trovare presto Carlo
E la stessa cosa vale se a Carlo sostituiamo il pronome libero lui. Ma se a Carlo si sostituisce il pronome lo, è
ammessa solo la prima possibilità (3) spero di trovarlo presto (4) *spero di trovare prestolo
Mentre il pronome libero (lui, a lui) gode di una certa possibilità di spostamento, il pronome clitico (lo, gli) ha un
posto fisso. Nel caso in questione il carattere proprio del clitico è l’adiacenza al verbo, mentre è esclusa
l’adiacenza all’avverbio. Ci sono 2 tipi di adiacenza al verbo, giacchè il clitico può trovarsi prima (proclisi del
pronome) oppure dopo (enclisi).
Oggi la posizione preverbale o postverbale del clitico dipende dalla distinzione tra forma finita e forma infinita del
verbo:
- forma infinita: posizione postverbale del pronome = enclisi (esempi: trovarlo, trovandolo)
- forma finita: posizione preverbale del pronome = proclisi (esempio: lo trovo)
Tra le forme finite, fa accezione l’imperativo, che richiede l’enclisi: imperativo trovalo! indicativo lo trovi.
Il francese ha la posizione preverbale anche all’infinito: le trouver, le trouvant "trovarlo, trovandolo". In italiano
antico c’era una regolarità nell’alternare queste forme. Tale regolarità è detta legge Tobler-Mussafia:
Le declinazioni nominali
Le coniugazioni verbali
In latino i verbi erano divisi in 4 coniugazioni cui si devono aggiungere i verbi irregolari. Nelle lingue romanze le
coniugazioni sono molto meglio conservate delle declinazioni. Sono frequenti tuttavia i passaggi di coniugazione
(metaplasmi) di singoli verbi, come it. ammonire < ADMONĒRE, capire < CAPĔRE. I verbi irregolari sono soggetti a
regolarizzazioni per analogia, per esempio posse e velle passano a potēre, volēre.
Nella formazione del passivo, il latino usava per certi tempi verbali delle forme semplici, chiamate sintetiche,
come amor, "sono amato", e per altri forme composte, o analitiche, come amatus sum, "sono amato". Nel
momento in cui le forme sintetiche caddero in disuso, le forme analitiche del tipo amatus sum, passarono a quello
di "sono stato amato". Il romanzo sfrutta le forme analitiche e non quelle sintetiche.
I casi latini sono un’eredità indoeuropea. I morfemi di caso servono ad esprimere il numero e a volte il genere. -ă,
in amică, indica:
1. caso: nominativo
2. numero: singolare
3. genere: femminile
Nelle lingue romanze più conservative le desinenze dei nomi hanno perduto la funzione casuale, ma mantenuto
quelle di genere e numero. Il funzionamento del latino era garantito anche delle preposizioni. Per esempio nel
sintagma latino cum sodalibus "con (gli) amici", il rapporto di compagnia era espresso sia da cum che dal caso
ablativo rappresentato dalla desinenza -ibus. In questo modo il ruolo del morfema di caso diventa ridondante.
Certo non è stato questo a provocare l’automatica scomparsa dei casi, ma il fatto che un elemento prima
indispensabile fosse divenuto ridondante ha dato il via libera a processi di indebolimento. I primi errori, rivelatori
di cambiamento linguistico che ci vengono incontro sono: cum + accusativo. Nei graffiti di Pompei troviamo
proprio quel cum sodales "con gli amici" e anche cum discentes "con gli allievi". Il caso del francese antico
conservava un sistema a 2 casi (bicasuale), poi perduto nelle fasi successive. Nelle lingue romanze la gran parte
dei nomi deriva dall’accusativo, ma qualche volta dal nominativo.
Verso l’articolo romanzo
Il latino non aveva articolo, mentre tutte le lingue romanze hanno sviluppato sia l’articolo definito che indefinito
nell’Alto Medioevo. Alcuni testi latini mostrano come ille venga già usato per indicare un elemento noto. E sono
proprio questi tipi che sono stati segnalati per primi già nel latino tardo con ille. In italiano la traduzione può
avvalersi tanto dell’articolo il quanto dell’aggettivo dimostrativo quello. La forma latina è l’elemento da cui è
derivato l’articolo nella gran parte delle lingue romanze. Il sardo e parte del catalano hanno infatti continuato
ipse, che aveva a quel tempo un significato diverso da quello del latino classico. Aveva preso infatti il posto di
idem, e pertanto poteva indicare il già detto. Si può dire che la prima insorgenza in latino dell’articolo definito è
legata ad un uso testuale. All’apparire dei primi testi, nei secoli 9°-10° l’articolo definito aveva già acquisito tutta
la gamma degli usi che ha nelle lingue romanze moderne. Unus, ha preso già presto il posto di quidam. Tra le
prime opere in cui è molto frequente unus articolo indefinito c’è Gregorio di Tours. Tra i primi documenti romanzi
non c’era l’articolo, nei Giuramenti di Strasburgo (dell’842, primo testo francese) e nei Placiti campani (960 e 963,
primi testi di area italiana) perché sono testi giuridici, e ricalcano le formule del linguaggio giuridico latino. A
partire dalla Sant’Eulalia e dalle Glosse emiliansensi, l’uso dell’articolo si farà costante, e simile a quello moderno.
Un’importante innovazione rispetto al latino è la creazione di forme verbali perifrastiche per l’espressione
dell’anteriorità. Il tipo più diffuso è quello in cui il participio passato del verbo è accompagnato dall’ausiliare
avere, come nel passato prossimo italiano: Paolo ha letto il libro.
Il sistema fonologico del latino possedeva una doppia serie di vocali e consonanti, lunghe e brevi. Mentre le
consonanti lunghe venivano segnate nella grafia, le vocali non venivano generalmente distinte. In latino erano
possibili tutte le combinazioni di vocali lunghe e brevi con consonanti lunghe e brevi. In questo si mostra
differente dall’italiano, dove è distintiva la lunghezza consonantica, mentre le vocali hanno delle semplici varianti
posizionali, dipendenti dal contesto. L’italiano conserva almeno una parte della distinzione del latino, mentre le
altre lingue romanze non hanno opposizione né di vocali né di consonanti lunghe e brevi.
Alcune iscrizioni pompeiane dimostrano che già nel I secolo d.C. il sistema fonologico del latino volgare si era
semplificato: l’opposizione tra vocali lunghe e brevi era diventata predicibile in base al contesto sillabico. Si è
raggiunta la complementarietà di vocale e consonante: se la consonante è lunga, la vocale è breve, e viceversa. In
latino la posizione dell’accento cadeva sulla penultima sillaba se questa era lunga, mentre passava sulla terzultima
se la penultima sillaba era breve.
L’accento non aveva carattere distintivo, ma era predicibile in base alla lunghezza delle sillabe nella parola. La
perdita del carattere distintivo della lunghezza vocalica ha avuto delle conseguenze sull’accento, perché in questo
modo la legge della penultima è venuta a perdere il fondamento su cui si appoggiava. Nelle lingue romanze
l’accento si è fissato sulla sillaba che occupava prima che venisse meno l’opposizione tra vocali lunghe e brevi. Il
suo ruolo cessa di essere accessorio, e diventa distintivo: si ha una fonologizzazione dell’accento.
Vocali toniche
La caduta della distinzione tra vocali lunghe e brevi è connessa ad una riorganizzazione dell’intero sistema
vocalico latino. Nella gran parte della Romània Ĭ è passato ad E, e simmetricamente, Ŭ ha dato O. Com’è avvenuto
questo passaggio? A causa di tali livellamenti, abbiamo per esempio in italiano NĬGRUM > nero. In spagnolo si ha
dittongo anche in sillaba chiusa: viene e anche diente; bueno e anche hueso.
Dittonghi
La riduzione del dittongo latino ae ad ε è stata molto precoce, come attestano ipercorrettismi del tipo di aegisse
per egisse "aver fatto", presenti nei graffiti pompeiani. Nel latino volgare lo sviluppo di ae è venuto a coincidere
con quello di ĕ, e ne ha seguito poi lo stesso sviluppo, evolvendo in gran parte delle lingue romanze nel dittongo
/je/: CAELUM > it. sp. cielo, fr. Ciel. Nel latino volgare si conserva il dittongo au, che si è monottongato in o
nell’italiano, nel francese e nello spagnolo: AURUM > it. sp. oro, fr. Or.
Nel latino volgare, e poi nelle lingue romanze è frequente la sincope di vocali postoniche in parole proparossitone
(sdrucciole). Tali forme sono presenti nell’Appendix Probi: oculus non oclus (> it. occhio, fr. œil, sp. ojo, pg. olho,
rom. ochiu).
Vocali in iato
Nel latino volgare si assiste ad una semplificazione della struttura sillabica volto ad eliminare gli iati formati da ĭ, ĕ
+ vocale. Nell’Appendix Probi, numerose sono le indicazioni: vinea non vinia, cavea non cavia, lancea non lancia,
calceus non calcius.
Consonantismo.Semivocali j e w
In latino erano presenti 2 semivocali, w (velare) e j (palatale). Il latino non possedeva la consonante fricativa
labiodentale sonora /v/. È solo nella grafia moderna, a partire dal 500, che si distingue tra u e v: VINUM/vinum
anziché VINVM/uinum. Già nel I secolo d.C., tuttavia, la w passa da semivocale a consonante: grafie come Berus
per Vērus, baliat per ualiat nei graffiti pompeiani. Questo suono è passato alla labiodentale /v/ in gran parte delle
lingue romanze: lat.class. VĪNUM [winum] > lat.volg. [βinu] > it. vino, fr. rom. vin. La j era normalmente indicata
dai segni I/i, usati anche per la corrispondente vocale: IAM/iam ['jam] "già". Nel latino volgare di età imperiale si
era rafforzata, passando alle consonanti. In gran parte della Romània, infatti, tale suono è evoluto nelle affricate
dʒ e dz, seguendo così le sorti del nesso dj: IŎCUM > it. gioco, fr.a. jeu, geu con dʒ (passata a ʒ nel fr.mod).
Spirantizzazione di -b-
Già nel latino volgare del I secolo d.C., /b/ intervocalica era passata alla fricativa bilabiale β, venendo così a
coincidere con l’esito di /w/. Ne è prova la frequente confusione nelle iscrizioni tra B e V: donavit per donabit,
aveo per habeo, e, all’opposto, convibio per convivio, collocabi per collocavi, In gran parte delle lingue romanze, β
evolve nella fricativa labiodentale /v/: lat.class. HABĒRE > lat. volg. [aβere] > it. avere, fr. avoir. In spagnolo,
catalano e alcune zone dell’Italia meridionale invece β si conserva: sp. haber [aβer], caballo [kaβaʎo].
Caduta di h- iniziale
Il latino possedeva una consonante aspirata iniziale, indicata con h-. L’ipercorrettismo hire per ire a Pompei prova
come nel latino volgare del I secolo d.C. la h- non si pronunciasse già più. Tutte le lingue romanze infatti l’hanno
perduta.
Caduta di -m finale
La m finale era articolata debolmente già nel latino classico. Tale tendenza di -m a cadere è documentata nelle
iscrizioni pompeiane: cu per cum, ia per iam, pane per panem. Diversamente da -s, la -m è stata eliminata in tutto
il dominio romanzo
Semplificazione del gruppo -NS- La N davanti a S in latino volgare cade, come dimostrano diverse scritture e gli
esiti romanzi. Così il latino MENSEM diventa italiano MESE, in francese antico MEIS, poi MOIS in francese
moderno, in occitano, catalano e spagnolo MES.
La contiguità geografica porta sempre con sé degli elementi di affinità, soprattutto nel lessico. Per lessico
ereditario intendiamo quel patrimonio di parole che risalgono al latino volgare presso una determinata regione
dell’Impero romano e alle relative lingue di sostrato e di superstrato. Ancora più interessanti, sono gli
accoppiamenti tra varietà che si trovano agli estremi della Romània: già Gilliéron aveva osservato che forme un
tempo comuni a tutto il dominio romanzo, sono conservate nelle aree più periferiche, dette laterali. Lo studioso
italiano Bartoli ha elaborato una serie di norme per interpretare queste anomalie nella distribuzione spaziale dei
fenomeni osservati da Gilliéron. La teoria di Bartoli prende il nome di linguistica spaziale. Le diverse varietà
romanze potranno essere caratterizzate o per la mancata partecipazione a innovazioni (conservatorismo
linguistico), o per le innovazioni, che potranno interessare una o più lingue. Il dominio romanzo apparirà anzitutto
diviso in:
- una Romània geograficamente continua, che rappresenta la massa maggiore delle lingue romanze
- 2 grossi spezzoni separati: romeno (conservativo, ma con certe novità) e francese (estremamente
innovativo)
Il romeno presenta caratteristiche comuni ai dialetti dell’Italia centromeridionale e alla Sardegna: questa
comunanza è di carattere negativo perché non prendono parte a fenomeni innovatori che hanno interessato il
dominio romanzo.
I casi
Le lingue romanze hanno operato una radicale riduzione del numero dei casi dei nomi e degli aggettivi del latino
che si è conclusa con la perdita totale dei casi. Il romeno possiede ancora oggi, unica tra le lingue romanze, un
sistema casuale basato sulla distinzione tra nominativo-accusativo da un lato e genitivo-dativo dall’altro. Il
sistema del romeno è una preziosa sopravvivenza del sistema latino. Distinzioni casuali si trovano, in tutte le
lingue romanze, nei pronomi clitici personali. Qui ci sono forme distinte per nominativo, dativo e accusativo: in
francese, al maschile singolare si distingue tra nom. il, dat. lui, acc. le.
L’articolo
Tutte le lingue romanze hanno l’articolo definito e indefinito, che il latino non possedeva. Si può dire allora che la
formazione dell’articolo è un tratto innovativo romanzo. L’articolo dev’essersi formato verso il 6° secolo, ma in
uno strato non documentabile del latino volgare. Anche il romeno possiede i 2 articoli, ma mentre quello
indefinito, come nelle altre lingue, è derivato da UNUS, quello definito, derivato nella gran parte delle lingue
romanze da ILLE, è generalmente posposto al nome (o all’aggettivo) e fuso con questo (enclitico). Questo articolo
posposto è un tratto che si trova esclusivamente nel romeno.
Il neutro
Il passaggio dal latino alle lingue romanze ha portato alla perdita di uno dei 3 generi del latino, il neutro e le
parole che in latino erano di questo genere sono state riclassificate tra maschile e femminile. Per esempio mare,
neutro in latino, diventa femminile in francese (la mer), maschile in italiano (il mare). Dal plurale delle parole
latine neutre in -a sono derivate nelle lingue romanze forme femminili singolari: dal lat. FOLIA (plurale di FOLIUM)
"foglie" > it. Foglia. Anche il romeno partecipa a questi fenomeni, ma non ha perduto del tutto il neutro.
L’avverbio
In latino gli avverbi si distinguono dagli aggettivi in vari modi, con una formazione autonoma, come bene rispetto
a bonus, o con suffissi come in pariter "parimenti" da par "pari", o optime "ottimamente" da optimus "ottimo".
Facile "facilmente", invece, è un aggettivo neutro singolare usato come avverbio. Nelle lingue romanze ci sono
continuazioni dirette del latino: per esempio bene è continuato in quasi tutte le lingue romanze. In romeno la
forma più comune degli avverbi è la stessa dell’aggettivo: încet "lento e lentamente". Così viene esteso il modello
del latino facile che voleva dire sia facile che facilmente. Dunque il romeno, si stacca dal panorama innovativo
romanzo per l’assenza del tipo d’avverbio in -mente.
Il condizionale
Tra le innovazioni panromanze c’è quella del condizionale. Il latino esprimeva tale significato con il congiuntivo e
in parte con l’indicativo. Il condizionale romanzo è formato (in modo analogo al futuro) con l’infinito e l’ausiliare
HABĒRE: CANTARE HABEBAT > fr. chanterait; oppure CANTARE HEBUIT (= HABUIT) > it., tosc. canterebbe. Le 2
parti che costituiscono il condizionale (e il futuro) erano ancora distinte in spagnolo e portoghese antico. In
romeno il materiale è lo stesso che nella maggioranza delle lingue romanze, ma l’ordine è inverso: HABĒRE +
infinito: am cînta "canteremmo".
Il futuro
Le lingue romanze hanno perduto il futuro latino nella sua forma originaria (del tipo: amabo "amerò") e lo hanno
sostituito, come per il condizionale, con una perifrasi ottenuta dall’infinito e dal presente dell’ausiliare HABĒRE: it.
canterà, fr. chantera < lat. CANTARE HABET. Le lingue che non lo hanno accolto sono ancora il romeno, il
dalmatico e il sardo. Il romeno ha 3 forme di futuro:
- uno utlizza il lat. *VOLĒRE (per VELLE) + infinito: *VOLEO (per VOLO) CANTARE > voi cânta lett. "voglio
cantare" (forma nota anche ad alcuni dialetti italiani settentrionali)
- un secondo modo usa HABĒRE + congiuntivo: am să cânt lett. "ho che io canti"
- la terza forma parte da *VOLĒRE + congiuntivo, ma tutte le persone dell’ausiliare *VOLĒRE sono
neutralizzate nel solo o: si ha perciò un paradigma in cui la persona è distinta dalla desinenza del verbo al
congiuntivo: o să cânt, o să cânţi, lett. "voglio + che (io) canti", "voglio + che (tu) canti". I fenomeni fin qui
esaminati hanno messo in rilievo l’originalità del romeno, fatta di conservazioni e di innovazioni proprie, rispetto
al panorama generale romanzo.
Nella gran parte delle lingue romanze, come già in latino, non è necessario che il soggetto sia sempre espresso. In
italiano si può dire: è venuto Pietro. sta bene; Lo stesso era in latino: venit Petrus. valet. In questi casi, certo, si
può usare il pronome soggetto di 3 a singolare, ma la sua presenza non è obbligatoria. Lo diventa solo se c’è un
contrasto con un altro soggetto: sua moglie è malata, ma LUI sta bene. In alcune lingue romanze però la
pronominalizzazione è obbligatoria.
In francese si deve dire: Pierre est venu. IL se porte bien. Rientra in questa tipologia anche il fenomeno del
soggetto espletivo, usato in molte lingue a pronominalizzazione obbligatoria con verbi impersonali (per esempio il
fr. IL faut contro l’it. bisogna) e metereologici (fr. IL pleut, contro l’it. piove).
La negazione
Il latino e in generale le lingue romanze riservano alla negazione il posto precedente al verbo: lat. non intellegit, it.
non capisce, sp. no comprende. Mentre in francese antico c’era la forma negativa panromanza (per esempio in: il
n’a en vous lëauté "non c’è in voi lealtà"), in francese moderno è obbligatoria la presenza, assieme alla negazione
preverbale ne, di pas, je ne sais pas "non so".
Il francese parlato contemporaneo, ha eliminato il ne ed esprime solo il secondo elemento: je sais pas lett. "so
mica.
L’interrogazione
Il latino esprimeva il senso interrogativo grazie a degli avverbi (-ne, num, nonne) inseriti nella frase: per esempio
vĕnit Petrus "Pietro viene", vĕnit-ne Petrus? "Pietro viene??". Per formulare l’interrogazione, le lingue romanze
medievali conoscevano tutte l’anteposizione del verbo al sintagma nominale soggetto, detta inversione. Oggi solo
il francese e alcune varietà dell’Italia settentrionale hanno conservato l’inversione interrogativa. L’innovazione
consiste nel fatto che dopo il verbo deve sempre trovarsi un pronome personale, non un nome, come era
possibile nella fase medievale. Alcuni esempi dal francese: était-il malade??; les enfants seront-ils satisfaits?
letteralmente "era-egli malato? Questa struttura è condizionata nelle lingue romanze dall’esistenza di pronomi
soggetto clitici. Nella fase medievale, quando i pronomi erano ancora liberi, anche i nomi potevano essere
posposti al verbo nell’interrogazione.
L’articolo partitivo
Un’altra innovazione che interessa la zona gallo-romanza e le varietà italiane settentrionali, ma che si estende
anche al toscano, e quindi all’italiano letterario, riguarda l’uso del DI partitivo accompagnato dall’articolo definito.
Questa forma vale come forma plurale dell’articolo indefinito: fr. des garçons jouaient, j’ai vu des garçons jouer
("dei ragazzi giocavano, ho visto dei ragazzi giocare"); it. sono arrivati degli ospiti, ho comprato delle zucchine.
Anticamente il partitivo era in genere senza articolo, e il francese moderno conserva ancora questa forma in
contesto negativo: je n’ai pas vu de garçons lett. "non ho visto ragazzi". Più frequente del plurale è l’uso della
preposizione di seguita dall’articolo singolare, con nomi che indicano materia, e qualche volta con nomi astratti,
come in it. mangiare del pesce, avere della riconoscenza. Non c’è in romeno. Diacronicamente, si tratta
dell’estensione di un uso del partitivo testimoniata già nell’Alto Medioevo in Gregorio di Tours: de sancta cera
super eam posui lett. "di santa cera sopra lei posi", cioè "posi della cera santa sopra lei. Solo in francese, in
provenzale e in italiano l’uso del partitivo si è esteso al plurale.
In latino e nelle lingue romanze ci sono molte possibilità nella collocazione dei sintagmi nella frase. Per quanto in
latino l’ordine delle parole nella frase presenti un’estrema varietà, ciò non significa che questo fosse
assolutamente libero e svincolato da regole. In latino in una frase che comprenda soggetto, verbo, oggetto,
l’ordine ordinario, che chiamiamo non-marcato, era: soggetto-oggetto-verbo. Quello romanzo è invece: soggetto-
verbo-oggetto. In sigle: latino SOV, romanzo SVO. Nelle lingue romanze medievali esistono anche frasi in cui la
posizione X non è occupata da nessun elemento, come avviene soprattutto, nelle frasi interrogative. Le frasi
subordinate presentano invece generalmente lo stesso ordine che nelle lingue moderne dove l’ordine
fondamentale dei sintagmi è SVO.
Tutte le lingue possiedono, accanto ad un ordine non-marcato, altri ordini, detti marcati. Un’altra possibilità delle
lingue romanze è quella per cui un verbo intransitivo può precedere il soggetto, senza che ci sia questa volta
un’intonazione speciale. Si considerino frasi come it. arriva Carlo; è passato l’autobus. Il francese, unica tra le
lingue romanze, ammette solo l’ordine diretto. Il francese, dopo aver condiviso il passaggio da SOV a SVO, è
andato più in là delle altre lingue nell’irrigidire il nuovo ordine. Nell’interrogazione il francese cambia
quest’ordine, e che c’è ancora qualche eccezione all’uso esclusivo dell’ordine diretto, dopo gli avverbi e i
complementi di tempo: soudain retentit un glas rauque "improvvisamente risuonò un rintocco rauco";
La diminutivizzazione
Tra le possibilità di derivazione nominale c’è quella di formare dei diminutivi con dei suffissi, detta
diminutivizzazione.
Il latino esprimeva il diminutivo con suffissi come -ulus e -illus. E così le diverse lingue romanze: lo sp. ha -ito
(sombrerito da sombrero "cappellino"), -illo (chiquillo "bambinetto"). Il francese moderno non possiede più un
processo produttivo di diminutivizzazione. Lo possedeva nel Medioevo e ancora nel Rinascimento, ma poi questa
possibilità è venuta meno. Sono rimasti solo alcuni diminutivi fissati dall’uso, come statuette "statuetta", baguette
"bacchetta", chaton "gattino". Il francese è la sola lingua romanza a non avere processi diminutivali: mentre
l’italiano ha Pierino, lo spagnolo Pedrito, il francese dice Petit Pierre.
Consideriamo la consistenza della parola sul piano del significante, cioè come unità formale segnalata dalla
presenza di almeno un accento e di pause sintattiche all’inizio e alla fine: it.: #viene # Carlo #; sp.: #viene # Carlos
# Il posto dell’accento nelle lingue romanze non è completamente predicibile, benché in alcune di esse, come
l’italiano, ci sia un tipo nettamente dominante, quello parossitono (o piano): dove l’accento si colloca nella
penultima sillaba ci sono più parole del tipo di càne e abbàia (parossitone o piane) che del tipo di àlbero
(proparossitone o sdrucciole), teléfonano (bisdrucciole, rarissime), città e abbaiò (ossitone o tronche).
Il posto dell’accento nelle lingue romanze è fonologicamente rilevante, ha carattere distintivo: it. àncora: ancóra,
sp. ánimo: animo: animò. Così è in tutte le altre lingue romanze, tranne, di nuovo, in francese. In francese, prese
isolatamente, le parole sono ossitone, cioè hanno un accento fisso sull’ultima sillaba: per esempio coquelicot
"papavero" [kɔkɘli'ko]; confetti "coriandolo" [kɔfe'ti]. Nella parola isolata il ruolo dell’accento (essendo fisso
sull’ultima sillaba) non è pertinente, non serve cioè a stabilire opposizioni. L’innovazione è un fatto relativamente
recente, giacchè il francese antico era ancora solidale con le altre lingue romanze: l’accento era ancora
pertinente, e poteva stare non solo sull’ultima sillaba, ma anche sulla penultima. Ci sono dei fatti innovativi
individuali che conferiscono al francese moderno un carattere speciale nella Romània, staccandolo da quella che
abbiamo chiamato Romània continua.
Un’innovazione che interessa la penisola iberica e una larga parte dell’Italia meridionale (esclusa la Sicilia) è quella
per cui all’it. essere o al fr. être corrispondono sp. ser e estar, pg. ser e estar, cat. esser e estar, ad avere sp. haber
e tener, pg. haver e ter, cat. aver e tenir. Questa innovazione non si riduce ad un semplice fatto lessicale. Nelle
lingue iberiche ci sono anche delle differenze di significato associate all’uso dei verbi essere o stare, come per
esempio in sp. soy malo "sono cattivo" e estoy malo "sto male". Sempre in spagnolo, una relazione di
appartenenza richiede ser (per esempio: somos italianos "siamo italiani"), una relazione di luogo richiede estar
(estamos en casa "siamo in casa"). Tener occupa tutto lo spazio di avere non-ausiliare: tengo familia "ho famiglia",
tienes frío "hai freddo". A parte sta l’uso spagnolo di haber impersonale: hay una novedad "c’è una novità".
Un’ulteriore innovazione è l’uso sempre in spagnolo di tener come una specie di ausiliare enfatico: se lo tengo
dicho "gliel’ho ben detto".
In portoghese tener ha assunto tutte le funzioni di avere, diventando il solo ausiliare possibile (tinha bebido
"avevo/-a bevuto", terás comido "avrai mangiato"), mentre haver è ormai limitato al registro arcaizzante della
lingua scritta.
Tra le innovazioni indipendenti c’è l’eliminazione del passato remoto, a vantaggio del passato prossimo. Il passato
prossimo esprime il perdurare di un evento passato anche al momento dell’enunciazione. Il passato remoto,
invece, indica un’azione passata in sé conclusa, i cui effetti non perdurano al momento dell’enunciazione.
L’eliminazione della forma sintetica ha avuto luogo indipendentemente in diverse varietà romanze. Ma il passato
remoto è usato nella lingua letteraria, in francese e in romeno.
Anche in catalano, il passato remoto è caduto, ma si è formato un nuovo tempo perifrastico, con il verbo modale
anar "andare" che ha reintrodotto l’opposizione aspettuale: va cantar = "cantò", e ha cantat "ha cantato". Ne
sono comunque immuni il portoghese, lo spagnolo, l’occitanico, l’italiano centromeridionale, il toscano e anche
l’italiano letterario e standard. In siciliano, viceversa, è il passato prossimo che è caduto, e il passato remoto ne ha
occupato lo spazio.
L’infinito personale
Un tratto caratteristico del portoghese e del galego è il fenomeno per cui l’infinito ammette desinenze personali,
costituite da morfemi verbali spesso ridotti nella forma, posposti al verbo. In portoghese l’infinito flessivo o
personale dà origine a forme come cantarmos lett "cantar-noi" o cantarem lett. "cantar-loro" dove l’infinito
cantar porta la desinenza -mos di 1 a persona plurale o -em di 3 a persona plurale. In questo modo l’infinito può
essere usato in costruzioni in cui le altre lingue romanze possono usare solo una forma finita del verbo. In
portoghese infatti si può dire: antes de sairmos, o João telefonou à polícia, con l’infinito sairmos (1 a plurale),
mentre in italiano si dovrebbe dire: prima che uscissimo, Giovanni telefonò alla polizia, con il congiuntivo
uscissimo. Se usassimo l’infinito, avremmo un senso diverso: prima di uscire Giovanni telefonò alla polizia, dove è
Giovanni che esce; lo stesso accade in portoghese se usiamo l’infinito senza desinenze personali: antes de sair, o
João telefonou à polícia. Nelle lingue romanze, l’infinito personale si trova anche in sardo nuorese. Esisteva un
tempo anche in napoletano, tanto che nell’italiano di Napoli del 400 si può leggere: potere-no "poter-loro",
possere-mo "poter-noi", avendo-no "avendo-loro".
C’è un secondo fenomeno che divide la Romània in 2 parti:la lenizione delle consonanti occlusive intervocaliche.
La lenizione (indebolimento) delle consonanti occlusive intervocaliche interessa tutta l’area ibero-romanza e
gallo-romanza, i dialetti italiani settentrionali, le varietà retoromanze (romancio, ladino e friulano). Ne sono
esclusi i dialetti italiani centromeridionali, il sardo, il dalmatico e il romeno (varietà conservative), ma anche
l’italiano (toscano). Si tratta di un normale fenomeno di riduzione per cui le consonanti occlusive intervocaliche
/p, t, k/ si sonorizzano, e passando attraverso una fase fricativa dileguano: *SAPĒRE > sp. pg. saber < -B- e V, passa
alla fricativa [β]), fr. Savoir.
Le cause che hanno permesso il passaggio dal latino alle lingue romanze sono di ordine storico, sociale, linguistico.
Il perdurare dell’uso del latino impedisce che tra 5° e 8° secolo il romanzo venga scritto. I primi testi romanzi
compaiono nel 9° secolo, in seguito alle riforme culturali di Carlo Magno. I primi documenti romanzi sono
principalmente di 4 tipi: documentari, religiosi, pratici, letterari. L’uso di scrivere il volgare si afferma
precocemente in Provenza e Francia, un po’ più tardi in Italia e Spagna. Le prime attestazioni scritte del romeno
risalgono al 500.
Le prime attestazioni scritte delle lingue romanze risalgono al 9° secolo quando si registrarono 2 formule di
giuramento in antico francese (i Giuramenti di Strasburgo 842). Meno di 30 anni prima i vescovi francesi riuniti a
Tours, avevano constatato l’incapacità della popolazione di comprendere le omelie in latino e avevano per questo
sollecitato nella predicazione l’uso della rustica romana lingua, la lingua romanza del popolo. Perché si
cominciasse a scrivere il romanzo, dunque, era necessario che ci si rendesse conto che ormai esso costituiva
lingua a sé, del tutto distinta dal latino. Questa presa d’atto, che avvenne soltanto nel corso del 9° secolo, è il
momento conclusivo di un processo di evoluzione linguistica che era iniziato molti secoli prima. Ma è possibile
stabilire quando è avvenuto il passaggio dal latino al romanzo? È impossibile stabilire esattamente quando si è
passati dal sistema del latino a quello romanzo poiché il mutamento linguistico è sempre graduale.
Sin dal I secolo a.C. era presente nel latino una differenziazione tra un registro alto e uno più semplice, il sermo
familiaris (o vulgaris), corrispondente alla lingua d’uso quotidiano. Dall’età imperiale in avanti, il registro basso
appare differenziato a tal punto dal latino classico che si può parlare di diglossia, cioè della coesistenza nella
società di 2 norme linguistiche (una alta e una bassa) ben differenziate dal punto di vista grammaticale, lessicale e
funzionale: solo la prima veniva scritta e serviva alla comunicazione orale ufficiale; l’altra era limitata allo scambio
orale quotidiano, che costituisce la grandissima parte dell’attività linguistica di una comunità. Le ragioni del
crescente allontanamento della norma bassa dalla norma alta sono da ricercare nelle evoluzioni della società
romana tra il I ed il III secolo d.C. è un periodo caratterizzato da un’accresciuta mobilità sociale, da un maggiore
scambio tra i diversi ceti, dall’accesso alla vita pubblica di personalità di estrazione popolare come i liberti (ex
schiavi arricchiti). È il momento in cui la civiltà romana (e il latino) si diffondono in ampia parte dell’Impero:
l’editto di Caracalla del 212 d.C., estendendo la cittadinanza romana a tutti gli abitanti liberi dell’orbis Romanus,
non farà che sancire l’avvenuta equiparazione tra il centro (Roma) e la periferia (le province). Il latino classico era
stato l’espressione di una classe socialmente e geograficamente compatta (l’aristocrazia italica) e
tendenzialmente conservatrice. L’uso del latino da parte di un numero sempre maggiore di parlanti accelerò quei
fenomeni evolutivi che sino ad allora erano stati contenuti dal prestigio della norma alta.
Tale sviluppo avvenne in modo sotterraneo, in quanto riguardò quasi esclusivamente la lingua d’uso (il latino
volgare): anche nei secoli critici per l’evoluzione della lingua, infatti, si continuò ad usare la norma alta del latino
nella vita pubblica e, con poche eccezioni, nell’espressione scritta. Il passaggio dal latino al romanzo non è una
semplificazione o una degradazione del sistema originario, ma una sua generale ristrutturazione che segue
tendenze evolutive in atto da secoli, in alcuni casi già dall’età arcaica o da fasi ancora più antiche.
Possiamo dire che tra il 5° ed il 6° secolo d.C. cominciano ad apparire in alcuni testi latini fenomeni che sono
indice di un mutamento profondo del sistema:
- il cambiamento dell’ordine dei costituenti da SOV a SVO
- l’evoluzione del sistema dei casi
- lo sviluppo di elementi nuovi come l’articolo e i pronomi clitici
In una prospettiva sociolinguistica, datare il passaggio dal latino al romanzo significa stabilire quando si è passati
da una diglossia in cui i parlanti padroneggiavano sia la variante alta (il latino classico) che la variante bassa (il
latino volgare), ad una situazione in cui il latino era solo una lingua scritta che pochi conoscevano, mentre la sola
lingua universalmente parlata era il romanzo. In genere, in un sistema diglossico, i ceti più elevati possiedono la
competenza sia della norma alta che di quella bassa. I ceti inferiori, invece, hanno solo una conoscenza
superficiale o passiva della norma alta. Tra 4° e 6° secolo questo sistema è in evoluzione. Con la progressiva
divaricazione tra le 2 varietà, i primi a perdere la capacità di parlare e capire il latino classico sono stati gli
analfabeti, che erano la maggioranza, seguiti dagli strati intermedi della popolazione dotati di un’alfabetizzazione
elementare, infine dalla classe dirigente. Ma con la fine dell’Impero Romano la classe dirigente è in dissolvimento,
mentre resistono solo le istituzioni ecclesiastiche. Attorno al 6° secolo, il latino classico era ormai divenuto una
lingua esclusivamente scritta, che solo la ristretta fascia della popolazione che aveva accesso all’istruzione poteva
capire. Possiamo dire che il latino era morto, cioè non era più una lingua viva. Ciò che si parlava era la sua
continuazione: il romanzo. Questo doveva contenere al suo interno, per ogni singola area, delle varietà che
costituiranno poi le diverse lingue e i diversi dialetti romanzi.
Nel periodo che va dal 6° all’8° secolo, si ha una situazione di diglossia latino (scritto)/romanzo (parlato), ma della
netta distinzione tra latino e lingue romanze si comincerà ad avere coscienza soltanto nel 9° secolo. Nei secoli
precedenti, il romanzo esisteva già, ma non veniva scritto. È questa la fase sommersa del romanzo.
Nei secoli 6° e 7°, la disgregazione dell’unità imperiale e la creazione di regni romano-barbarici politicamente e
amministrativamente autonomi, accelerarono la frammentazione linguistica tra le varie regioni dell’Impero. Ad
accrescere la divisione del panorama linguistico si aggiunse l’influsso delle lingue di superstrato degli invasori che
tuttavia fu limitato quasi esclusivamente al lessico.
Il generale declino dell’organizzazione urbana, fulcro del sistema amministrativo ed economico imperiale, fu
parallelo a quello della classe dirigente romana che nelle città aveva la sua sede privilegiata. La crisi degli spazi
civili, scolastici e culturali, nei quali si era usata la norma alta della lingua fece sì che il latino classico (ora limitato
all’espressione scritta e alla pratica della lettura) diventasse patrimonio esclusivo di clerici colti. I pochi laici
alfabetizzati (giudici, notai, scribi, funzionari di corte), mostrano una conoscenza della norma grammaticale molto
limitata. Il generale abbassamento del livello culturale dei ceti alfabetizzati tra 6° e 8° secolo si traduce in un
peggioramento della lingua scritta. Accanto ad una tradizione alta (sempre più rara), che fa uso di un latino
elegante e artificioso, si moltiplicano le scritture ricche di errori. Particolarmente scorrette sono le scriptae latine
usate in Francia durante il periodo merovingico e in Italia durante la dominazione longobarda. Anche il latino
scritto nella Spagna del Nord dopo la conquista araba del 711, detto leonese. La lingua di tali testi risente delle
forme del parlato e costituisce una fonte importante per la conoscenza del romanzo in questi secoli carenti di
documentazione. La separazione netta tra il romanzo usato dalla massa analfabeta, e la lingua scritta, patrimonio
di ecclesiastici e uomini di legge, spingeva questi ultimi a cercare un codice intermedio, soprattutto in quegli
ambiti in cui il contatto tra le 2 era inevitabile.
Questo contatto poteva avvenire secondo 2 direzioni:
(a) dal parlante (romanzo) allo scrivente (latino), nel caso della registrazione scritta di un discorso orale
(b) dallo scrivente (latino) (attraverso la mediazione di un lettore) all’ascoltatore (ignaro di latino), nel caso
della presentazione orale di un testo scritto. Attraverso il latino modesto in uso in questi secoli, tale contatto era
facilitato; quello che si scriveva era latino, quello che si parlava o si leggeva era volgare. A questo codice
intermedio tra latino e romanzo gli studiosi hanno dato il nome di latino circa romançum e di scripta latina rustica.
Al primo canale di comunicazione (a) corrisponde una tipologia di testi documentari, quali deposizioni, verbali,
inventari di beni, oppure le registrazioni di brevi testi orali di carattere rituale o letterario, come, il celebre
Indovinello veronese (fine 8°-inizio 9° secolo).
Il significato generale dell’indovinello è chiaro: l’atto dello scrivere viene paragonato all’aratura e alla semina.
Alcuni studiosi hanno voluto vedere nell’Indovinello il primo documento del volgare italiano, di una varietà
italiana settentrionale nascente. Tuttavia il testo presenta una patina volgare solo a livello fonetico. Dal punto di
vista morfo-sintattico, appare legato al latino:
- l’ordine dei costituenti è ancora quello latino OV in 3 casi su 4
- il pronome clitico se (sempre che sia pronome e non avverbio sì) non è posposto al verbo, come nelle
lingue romanze medievali quando è all’inizio di frase (legge Tobler-Mussafia)
- mancano completamente gli articoli
- il morfema del nomin. Masch. plurale della III declinazione latina è conservato in boves (i dialetti italiani e
il toscano hanno -i)
- il nome pratalia è ancora neutro plurale, mentre in tutte le varietà italiane il neutro è scomparso,
assimilato alla declinazione maschile (it. i prati) o a quella femminile (it.a. le prata)
Nel secondo canale (b) possiamo classificare i testi didattico-prescrittivi, come le leggi, le scritture religiose (vite di
santi), le glosse. Di ambiente italiano settentrionale sono le Glosse di Monza, (inizi del 10° secolo), che traducono
espressioni neogreche in un latino ricco di elementi romanzi. Proprio in questa tradizione scritta intermedia tra
latino e volgare vanno cercate le prime spie di una presa di coscienza dell’alterità del romanzo rispetto al latino, e
le premesse per la formazione delle prime scriptae volgari che si affermeranno a partire dal 9°-10° sec.
Le più antiche attestazioni delle lingue romanze risalgono al 9° e al 10° secolo. Tali testi, mostrano una chiara
consapevolezza della differenza tra latino e romanzo. Un distacco netto separa, l’Indovinello veronese dai Placiti
campani, le cui parti in volgare sono del tutto distinte da quelle in latino. La differenza tra lingua scritta e parlata
era sempre più ampia, ma le ragioni decisive sono da ricercare in quei mutamenti storici, politici e culturali che
sconvolsero l’Europa alto-medievale tra 8° e 9° secolo. Sul finire dell’8° secolo, Carlo Magno, re dei Franchi, riuscì
a unificare parte dell’Europa centrale e occidentale. Il suo impero comprendeva regioni romanze come Francia,
Italia centrosettentrionale, Catalogna settentrionale, ma anche Olanda, Austria e Germania, Svizzera tedesca. Il
sogno di Carlo Magno era quello di riedificare l’Impero Romano, per questo avviò una serie di riforme
economiche, amministrative, religiose, che riuscirono a risollevare l’Europa dallo stato di anarchia in cui era
caduta nei secoli 6°-8°.
Si parla perciò di Rinascita carolingia. Vari fattori favorirono il definitivo affioramento delle lingue romanze:
- il miglioramento della qualità del latino e il suo allontanamento dalla lingua parlata, che facilitarono la
percezione della distanza tra i 2 codici
- l’adozione di una pronuncia scolastica più aderente alla grafia, che impediva di leggere il latino secondo la
fonetica romanza
- l’attenzione dell’autorità politica e religiosa per tutte le forme di comunicazione, comprese quelle che
permettevano di raggiungere la massa non alfabetizzata (es. graffito nella catacomba di Commodilla scritto a
Roma). Il riconoscimento della specificità del romanzo fu facilitato dalle province germaniche, in cui il latino usato
nella vita religiosa e civile doveva essere tradotto nell’idioma volgare.
Non stupisce dunque che romanzo e tedesco si trovino affiancati nella prima legittimazione ufficiale delle lingue
romanze, la 17a disposizione del Concilio di Tours (813), che invitata i vescovi a tradurre le proprie omelie nella
lingua romanza del popolo o nella tedesca, perché tutti potessero capire. Che la scrittura del tedesco abbia
incoraggiato quella del romanzo si deduce anche dai primi monumenti del francese, i Giuramenti di Strasburgo e
la Sequenza di Sant’Eulalia. Proprio in un contesto storico carolingio vede la luce il primo documento a noi giunto
redatto intenzionalmente in volgare. Nell’842, presso Strasbrugo, Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo
rinnovarono la loro alleanza contro il fratello Lotario.
L’imperatore Ludovico il Pio (padre dei 3 e diretto successore di Carlo Magno) aveva suddiviso l’impero tra i figli:
- a Carlo era andata la parte occidentale
- a Ludovico (da cui l’epiteto di Germanico) la parte orientale
- a Lotario le regioni intermedie (la Lothringia, da cui il fr. Lorraine "Lorena")
Le accese lotte terminarono nell’843, quando Lotario verrà costretto da Carlo e Ludovico alla pace di Verdun. A
Strasburgo, Carlo giurò in antico tedesco per farsi capire dai soldati del fratello, che provenivano dalla parte
orientale (attuali Germania e Austria); lo stesso, ma in lingua romanza, fece Ludovico, davanti alle truppe del
fratello. Il giuramento degli eserciti, in un secondo momento, avvenne invece nelle rispettive lingue.
Particolarmente dibattuta risulta la questione della localizzazione del documento. Secondo alcuni studiosi, la
compresenza nel testo di tratti settentrionali e meridionali autorizza a localizzarlo in una zona di transizione tra il
dominio d’oc e il dominio d’oïl. Secondo altri, sarebbe da imputare alla volontà dell’estensore del documento di
plasmare una lingua di koinè (cioè una lingua comune che si sovrappone alle altre) che fosse comprensibile tanto
ai soldati del Nord che a quelli del Sud. Benché si tratti di un testo romanzo e non latino, non solo la sua lingua è
molto diversa dal francese moderno, ma anche dal francese antico di testi di poco successivi.
Il suo aspetto conservativo e non riflette uno stadio iniziale del francese, ma dipende dal ricorso a grafie e
forme della scripta latina merovingica, che, in mancanza di una norma nella nuova lingua, costituiva l’unico
punto di riferimento:
- l’uso di i per /e/ in savir, podir, di u per /o/ in amur e dunat
- l’impiego di espressioni latine come pro, quid, numquam,
Una 40ina di anni dopo i Giuramenti, venne trascritto il più antico documento letterario francese, la Sequenza di
Sant’Eulalia, un breve componimento, che narra del martirio della santa. Si tratta di un testo di uso liturgico (nello
specifico di una sequenza), che veniva cantato. La resa grafica del volgare si mostra qui più matura.
In Italia abbiamo un graffito scritto nel volgare antico di Roma, conservato nella catacomba di Commodilla,
della prima metà del 9° secolo. Il breve testo recita: "non dicere ille secrita a bboce" cioè "non pronunciare le
segrete a voce alta". Le segrete sono preghiere che il nuovo uso liturgico francese imponeva si recitassero
sottovoce. L’iscrizione è rivolta a quei religiosi che esitavano ad adeguarsi alla nuova prassi. Il testo presenta dei
caratteri nettamente volgari:
- la forma negativa dell’imperativo, che come nell’italiano moderno è formata da non + infinito
- il passaggio /w/ > /b/ (betacismo) in bboce, un fenomeno molto diffuso in Italia centromeridionale
- l’assimilazione del neutro plurale in -a alla declinazione femminile (le secrita come le braccia)
- la presenza dell’articolo (ille "le")
Ma l’elemento più vistoso è il raddoppiamento fonosintattico, tipico ancora oggi delle varietà centromeridionali
(a bboce), oltre che toscane. Il graffito è una prova di quella nuova attenzione per le forme comunicative degli
illitterati, che si diffonde contestualmente alle riforme politiche, religiose e culturali di Carlo Magno.
Nonostante i Giuramenti di Strasburgo, il francese comincia ad essere impiegato nei documenti con un certo
ritardo rispetto al provenzale. L’uso del volgare in ambito giuridico si diffonderà nel corso del 200. In campo
giuridico-legislativo è precoce nell’Inghilterra normanna: risalgono alla metà del 12° secolo le Leggi di Guglielmo [il
Conquistatore]. Della seconda metà del 12° secolo le prime attestazioni del volgare in testi di carattere pratico
(liste, elenchi, inventari). I documenti più antichi del francese (secoli 10°-11°) sono di argomento religioso. Su un
pezzo di pergamena si legge la brutta copia autografa di una predica intorno al profeta Giona. Il frammento è noto
come Sermone di Valenciennes. L’alternanza del latino e del romanzo va letta alla luce della disposizione del
Concilio di Tours, che invitava i vescovi a tradurre le loro prediche in volgare dal latino nella lingua romanza del
popolo. Il più antico testo in versi di ambito liturgico è la Sequenza di Sant’Eulalia, composta verso la fine del 9°
secolo. Della seconda metà del 10° secolo sono la Vie Saint Lethgier (Vita di S. Lodegario) e la Passione di Cristo, 2
poemetti in octosyllabes, dotati anche di notazione musicale. La Vita di sant’Alessio fu composta intorno all’ultimo
quarto dell’11° secolo in Normandia. Come la Sequenza di Sant’Eulalia e il Saint Lethgier, è un poema agiografico,
completamente svincolato dall’uso liturgico. La più antica versione della Chanson de Roland è databile fine 11°
secolo, con la quale inizia la poesia profana, e il francese diviene strumento di una nuova cultura volgare. Attorno
alla metà del 12° secolo, sempre in Francia viene creato il romanzo cortese in versi che contribuirà alla diffusione
della letteratura e della lingua francese in tutta l’Europa occidentale.
Occitano o Provenzale
La più antica testimonianza dell’occitano sono le Benedizioni di Clermont-Ferrand, 2 formule di incantesimo volte
ad invocare la guarigione da determinati mali. Sono trascritte sui margini di un codice latino conservato a
Clermont-Ferrand, e sono databili alla metà del 10° secolo. Il provenzale è attestato in ambito documentario già
alla fine del 10° secolo all’interno di documenti latini in forma di citazione (Giuramenti di Lautrec). Il primo
documento interamente in volgare è il testamento di Ademar Odo del 1102. In Provenza risale ai primi decenni
del 12° secolo la traduzione di alcuni brani del Vangelo di Giovanni. Più precoce è l’impiego del volgare in testi
paraliturgici in versi, come:
- la Passione di Augsburg, breve poemetto che descrive in 6 versi episodi della Passione di Cristo, seconda
metà del 10° sec.
- l’Alba bilingue di Fleury, un canto pasquale latino, in cui è inserito un ritornello latino-volgare del 10° sec.
Alternanza latino-volgare anche in 2 componimenti nel manoscritto latino 1139 della Biblioteca Nazionale di
Parigi, di fine 11° sec:
- lo Sponsus, un dramma liturgico che mette in scena la parabola delle vergini sagge e delle vergini stolte
- l’inno natalizio In hoc anni circulo
Nel medesimo manoscritto sono conservati anche 2 testi para-liturgici interamente in volgare: il tropo Tu autem
Deus e il Versus Sancte Marie. Sempre di argomento religioso, sono altri 2 poemi dell’11° secolo: la Canzone di
sancta Fides e il Boeci. Il primo è dedicato alla vita di santa Fede, composto in ambito giullaresco. Il Boeci proviene
invece da un ambiente culturale più raffinato, clericale. Si tratta di un frammento di una traduzione in
décasyllabes del De consolatione philosophiae di Boezio. La definitiva liberazione dalle tematiche religiose è
segnata alla fine dell’11° secolo, dalle prime liriche volgari di argomento profano. Si tratta di 2 strofette di
soggetto amoroso che testimoniano di una poesia d’amore nella Francia del sud anche prima dell’attività di
Guglielmo IX d’Aquitania (1070-1126), considerato il primo Trovatore. Con la fioritura nel 12° e nel 13° secolo
della lirica trovadorica, il provenzale si libera definitivamente dal latino e diviene una delle grandi lingue di cultura
del Medioevo.
In Italia l’uso scritto del volgare si afferma solo nel 200 e la maggior parte delle attestazioni anteriori al 12° secolo
è di carattere documentario e pratico. La prima registrazione di un volgare italiano in un documento latino è
quella contenuta nel Placito (sentenza) di Capua, una formula testimoniale che il giudice elabora per la
deposizione di testimoni ignari di latino. Formule affini sono: i placiti di Sessa Aurunca e di Teano e il
memoratorium di Teano (963), designati come Placiti campani. Per trovare una registrazione fedele da comparare
ai Placiti Campani, bisogna arrivare alle Testimonianze di Travale un documento giuridico del 1158. Sempre in un
documento giuridico, la Postilla Amiatina (1087), si colloca tra i Placiti campani e le Testimonianze di Travale. Si
tratta di 3 versi assonanzati in calce ad un atto di donazione.
Nei Placiti e nelle Testimonianze, le formule in romanzo erano parte costitutiva del testo, mentre la Postilla viene
aggiunta alla fine del documento e non ha nessun rapporto con esso. I 3 versi hanno scopo scaramantico,
vogliono allontanare gli influssi maligni dal donatore. Per quanto nel testo siano presenti tratti linguistici volgari
(l’articolo e i pronomi clitici), i debiti nei confronti del latino sono ancora notevoli (ista, cartula, caput, adiuvet). La
Dichiarazione di Paxia è uno dei primi testi in italiano settentrionale conosciuti. Tra i testi di natura pratica in
volgare, il Conto Navale Pisano, fine 11°sec. in cui sono registrate le spese per la costruzione di una nave. Solo alla
fine del 12° secolo troviamo la Recordacione del veneziano Corner, una garanzia privata rilasciata per il trasporto
di formaggio. Il primo libro a noi pervenuto che raccoglie un numero consistente di annotazioni private in volgare
è dell’inizio del 200 ed è noto come Conti di banchieri fiorentini. L’uso del volgare in ambito religioso è meno
diffuso in Italia. È dei primi decenni del 12°secolo la Formula di confessione umbra, un atto di penitenza in volgare
e l’altro è uno dei più antichi testi dell’Italia settentrionale: una raccolta di 22 prediche in piemontese antico nota
come Sermoni Subalpini.
Di carattere paraliturgico è il Pianto di Maria, un breve componimento in versi in volgare mediano posto alla fine
di un dramma liturgico latino sulla Passione di Cristo (seconda metà del 12° secolo). Il Ritmo cassinese invece (fine
del 12° secolo) pur rimandando all’ambiente culturale benedettino, presenta movenze giullaresche. L’Italia si
mostra unica nel panorama romanzo per le scritture esposte, cioè le iscrizioni parietali scolpite sul marmo
(epigrafiche), oppure eseguite a mosaico o a pennello. Sono testi dai contenuti edificanti o pratici, in cui l’uso del
volgare era necessario perché rivolti a quelle persone dotate di una minima alfabetizzazione. L’iscrizione di San
Clemente nell’affresco di una basilica a Roma (fine 11° sec.), riporta 3 frasi in volgare che il persecutore di san
Clemente rivolge ai suoi servi per trascinare via il santo, che secondo il miracolo è stato sostituito da una colonna.
Anteriore all’anno 1000 è l’iscrizione di Sant’Evasio di Casale Monferrato (il più antico dell’Italia settentrionale),
che attirava l’attenzione dei fedeli sulla cassa per le elemosine al santo. A Pisa l’iscrizione sulla tomba di Giratto,
ove il defunto invita a pensare alla caducità della vita. Le più antiche testimonianze letterarie sono della fine del
12° secolo, fortemente influenzate dalle letterature d’Oltralpe. Di genere epico è il frammento di 4 versi del Ritmo
bellunese, che celebra una vittoria degli abitanti di Belluno sui trevigiani. Opera di un giullare è il Ritmo
laurenziano. Alla tradizione trobadorica provenzale andrà ricondotto il primo testo lirico italiano (fine 12° - inizio
13° secolo), la canzone Quando eu stava in le tu’ cathene. Il testo è di difficile localizzazione, in quanto presenta
sia tratti linguistici settentrionali che centromeridionali.
Sardo
In Sardegna i documenti giuridici sono redatti in volgare già alla fine dell’11° secolo. Il latino si era indebolito per
l’isolamento politico-culturale dell’isola sotto dominazione bizantina (6°-9°) e nel periodo saraceno (10°). I primi
documenti giuridici sono redatti nelle cancellerie di giudici, sin dall’inizio interamente in volgare. Il sardo era usato
in documenti a circolazione interna, il latino per i rapporti con il continente. Il più antico di questi è il Privilegio
logudorese, con cui il giudice di Torres concede ai mercanti di Pisa un’esenzione dai tributi. Al giudicato di Cagliari
ci riporta la Carta volgare del giudice Torchitorio.
Atre testimonianze sono i condaghi, registri in cui venivano trascritti gli atti giuridici di comunità religiose. L’uso
scritto del sardo rimarrà confinato alla sfera giuridica almeno sino al 400.
Romancio
La prima testimonianza scritta del romancio è la “Prova di Penna di Würzburg”, una breve frase scritta verso la
fine del X o l’inizio dell’11° sec. sulla prima carta di un manoscritto latino, oggi conservato nell’omonima città
tedesca. Posteriore di quasi un secolo è la versione interlineare di una predica attribuita falsamente a
Sant’Agostino (sermone pseudo-agostiniano) proveniente da Grigioni che oggi si trova nell’abbazia benedettina di
Einsielden, nella Svizzera tedesca.
Le prime testimonianze volgari nella penisola iberica. Castigliano
Il più antico documento del castigliano è la Nodicia de kesos, un elenco dei formaggi trascritto sul recto di un
documento del 959. Ricordiamo le Glosse silensi e le Glosse emilianensi. Nella seconda metà del 12° secolo 2
componimenti religiosi in versi: l’Auto de los Reyes Magos e il Debate del alma y el cuerpo, un dramma liturgico
che narra la storia dei 3 Magi, in forma frammentaria. Il primo testo volgare di argomento profano è il Cantar de
mio Cid, il più antico poema epico spagnolo, composto nel 1207 da Per Abbat. A partire dalla metà dell’11° secolo,
si incominciano a trovare le ḫarğāt mozarabiche nella parte finale dell’ultima strofa di poesie in arabo o ebraico
classico che provano l’esistenza di una lirica tradizionale iberica di origine popolare.
Galego-portoghese
I primi testi lirici in galego-portoghese appaiono inizi del 200 e si presentano raffinati e stilisticamente maturi.
Nella diffusione della tradizione trobadorica in Galizia svolse un ruolo fondamentale il centro di Santiago de
Compostela, meta di pellegrini provenienti da tutta Europa. In seguito i centri di produzione furono le corti del
Portogallo e di Castiglia. Nel 200-300, il galego-portoghese fu, in tutta la penisola iberica (tranne in Catalogna), la
lingua della lirica amorosa e religiosa. Ne è un esempio La Cantiga de Amor del trovatore galego-portoghese, Don
Denis re di Portogallo.
Catalano
Volgare precoce in ambito documentario con il Giuramento feudale latino-catalano del 1035-55 e giuridico-
legislativo intorno al 1180 del Libre jutje, traduzione catalana di un’antica compilazione di leggi visigotiche. Nel
300 il catalano è lingua ufficiale dell’amministrazione presso la corte di Giacomo I d’Aragona, destinato a
decadere dopo la fusione dei regni d’Aragona e Castiglia (400). Risalgono alla fine del 12° secolo le Omelie di
Organyà, prediche in latino con traduzioni in volgare. Il prestigio della lirica trobadorica e l’affinità con la lingua
provenzale ritardano l’affrancamento del catalano letterario. Sarà il grande scrittore Llull, che, con Dante, usò per
primo nel Medioevo il proprio volgare in opere religiose e scientifiche. Ne è un esempio il Libre d’Evast i d’Aloma
e Blaquerna son fill, romanzo didascalico di argomento religioso composto da Llull nel 1283.
Il prestigio dello slavo sia in ambito religioso che amministrativo, fece sì che il romeno rimanesse confinato
all’espressione orale. Anche dopo la sua definitiva liberazione, il romeno verrà scritto in caratteri cirillici, fino
all’800. Il primo documento del romeno in assoluto è una lettera dell’inizio del 500. Il romeno comincerà a
diffondersi nell’uso giuridico solo attorno alla metà del 600. I primi testi religiosi in romeno sono databili alla metà
del 500: il Codice di Voroneţ; il Salterio di Voroneţ, il Salterio Scheiano e il Salterio Hurmuzaki, contenenti
traduzioni dei salmi. Questa letteratura religiosa dipende dai movimenti della Riforma protestante, luterani e
calvinisti, che si erano estesi dai paesi tedeschi e ungheresi. Alla metà del 600 risale la prima opera storica in
romeno: la Cronaca della Moldavia. Solo dal 600 apparvero i libri popolari, compilazioni romanzesche, tradotte
dal neogreco o dal serbo. Le origini della scrittura in romeno mostrano che la vita culturale era nettamente
separata da quella dei popoli romanzi occidentali, ma simile a quella dei paesi vicini di religione ortodossa.
Capitolo 10. L’edizione dei testi. Filologia romanza e critica del testo.
La critica del testo è la disciplina che si occupa dell’edizione dei testi. L’interesse del linguista storico non può
limitarsi ad opere letterarie ma anche testi documentari (bolle, atti notarili), pratici (lettere, diari), scientifici,
religiosi, qualunque documento linguistico del passato sia giunto sino ai nostri giorni. È necessario possedere
nozioni di paleografia, che studia la storia della scrittura e di codicologia, che si occupa dei materiali scrittori e
della struttura del libro medievale. Se il testo è di carattere documentario, si dovranno conoscere i caratteri del
documento medievale, oggetto di studio della diplomatica. Per rendere accessibile un documento antico è
necessario trascriverlo, interpretarlo, e infine pubblicarlo secondo criteri grafici ed editoriali moderni: in ciò
consiste il lavoro del filologo testuale. Può succedere che di un determinato testo non si conservi l’originale, ma
una o più copie in cui sono presenti degli errori di trascrizione. Il compito del filologo testuale è quello di
ripristinare le caratteristiche originali del testo, correggendo tali errori mediante lo studio della tradizione e, ove
non sia possibile, mediante la congettura. La critica del testo mira a fornire di un testo antico un’edizione
accessibile al lettore moderno e conforme alla volontà del suo autore.
1. Materiali e scritture nel Medioevo. Il testo medievale è un testo manoscritto. Bisogna aspettare la metà
del 400 perché incomincino a diffondersi i primi libri a stampa. Per scrivere si intingeva il calamo o la penna di
volatile nell’inchiostro. Si scriveva su 2 tipi di supporti scrittori:
- la pergamena (pelle bovina, ovina o caprina resa liscia), diffusasi nella tarda Antichità e usata per tutto il
Medioevo
- la carta, che, proveniente dal mondo arabo, cominciò ad essere diffusa in Europa a partire dalla fine del
200
I testi potevano essere scritti su fogli volanti, o su fascicoli rilegati per formare veri e propri libri, detti manoscritti,
o codici. Manoscritti e fogli pergamenacei che tramandano un testo vengono detti testimoni di quel testo.
L’insieme dei testimoni costituisce la tradizione. La caduta dell’Impero romano significò anche la frantumazione di
una tradizione grafica unitaria che durava da secoli. Nei regni romano-barbarici (5°-8°) vennero usate delle
scritture che differiscono notevolmente le une dalle altre. In Francia, durante il regno dei Merovingi, si usò la
scrittura merovingica. In Spagna la visigotica. Nei ducati longobardi dell’Italia meridionale la scrittura beneventana
(dall'VIII secolo fino al XIII secolo). Le riforme culturali avviate da Carlo Magno introdussero la minuscola carolina
(9°-13°) che si diffuse in Europa, con l’eccezione della Spagna del nord e dell’Italia del sud. Tra il 200 e il 400, in
area italiana, si usarono almeno 3 tipi principali di scrittura in caratteri latini:
- la gotica, destinata soprattutto all’uso librario
- la minuscola cancelleresca, usata nei documenti da notai, giuristi, uomini politici
- la mercantesca, scrittura professionale impiegata dal 300 dalla borghesia mercantile toscana e poi
esportata
Solo nel 400 si diffonderà la limpida scrittura umanistica, da cui deriveranno i nostri caratteri a stampa.
Nella scrittura medievale (come già in quella latina):
- non si distingue u da v
- si fa un uso molto limitato di segni di interpunzione e di lettere capitali (maiuscole)
- non esistono segni diacritici (apostrofi, accenti)
- le parole a volte non sono separate le une dalle altre, o non lo sono secondo l’uso moderno
Fino all’avvento della stampa, l’unico sistema per diffondere un testo era di trascrivelo a mano. Questo sistema
riguardava opere letterarie in primo luogo, ma anche di argomento religioso, filosofico, scientifico. La tradizione di
un testo è l’insieme delle copiature a cui esso è stato sottoposto.
Se un’opera destava qualche interesse, l’originale, scritto di pugno dall’autore o da uno scriba professionista per
suo conto, veniva copiato da altre mani (spesso di semplici amatori), una o più volte. Se il successo dell’opera
perdurava, da ogni copia venivano fatte nuove copie e cresceva anche il numero degli errori e delle innovazioni.
Poteva succedere che il copista cercasse di correggere gli errori che trovava, ma capitava che ne introducesse di
nuovi, senza riuscire a tornare alla lezione originale. Ogni copia contiene gli errori del suo esemplare (antigrafo),
più una quantità (variabile a seconda dell’abilità del copista) di errori propri.
Un esempio di edizione critica di un testo medievale trasmesso in testimonianza plurima, è una lirica di Guido
Cavalcanti. Lo studioso deve prendere in considerazione tutti i testimoni antichi: libri manoscritti, pergamene o
registri notarili (come i celebri Memoriali bolognesi), edizioni a stampa 4 o 500sche (rispettivamente chiamate
incunaboli e cinquecentine). Dovrà tenere conto delle testimonianze indirette, cioè citazioni presenti in altre
opere, traduzioni, rifacimenti, riassunti. Una volta individuati i testimoni del testo in questione, l’editore critico
fornisce al lettore tutti i dati fondamentali che permettano di identificarli con esattezza. La ballata Fresca rosa
novella di Cavalcanti, è tramandata da 4 manoscritti:
(1) Bologna, Biblioteca Universitaria (B)
(2) Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Chigi L. (Ch)
(3) Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vaticano latino (V)
(4) Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Banco Rari (già Palatino) (P)
Ogni manoscritto è individuato da una serie di dati: la città dove si trova, la biblioteca in cui è conservato,
l’eventuale fondo di cui fa parte (Chigiano, Vaticano latino, Banco Rari), la segnatura. Nella descrizione si indica
anche in quale parte del manoscritto si trova il testo: il numero del foglio, o, della carta (indicata con c.) e la
facciata (recto "anteriore" o verso "posteriore") su cui esso è trascritto.
Si attribuisce una sigla: (rispettivamente B, Ch, V, P). Informazioni relative alla descrizione esterna: materiale
(carta o pergamena), consistenza (numero di carte), datazione (esatta o approssimativa), numerazione (antica o
moderna, a penna o a matita), fascicolazione, rigatura, filigrane (per i codici cartacei), decorazione, note di
possesso. Importante è anche la descrizione del contenuto completo del manoscritto, che può far luce sui gusti,
sulla cultura, sull’estrazione sociale del suo compilatore o del suo destinatario. Assieme ai 4 manoscritti
sopraindicati, la ballata è tramandata anche da un’importante stampa 500sca:
(5) Sonetti e Canzoni di diversi autori toscani in dieci libri raccolte, Firenze, Eredi di Filippo Giunta (detta
Giuntina) (Giunt)
Un ultimo testimone risulta particolarmente interessante perché costituisce un esempio di quanto a volte
possano essere complessi i meccanismi di trasmissione dei testi antichi:
(6) Milano, Biblioteca Trivulziana, Giuntina di rime antiche, con postille di Lorenzo Bartolini (Bt)
I testimoni sono dunque 6. Dopo aver individuato e descritto i testimoni, è necessario trascrivere secondo criteri
moderni il testo come è trasmesso dai differenti testimoni. Forniamo un’esemplificazione dal manoscritto P, un
esempio delle abitudini grafiche in uso in Toscana e in Italia nel Medioevo. Accanto abbiamo l’edizione
diplomatica, cioè una fedele trascrizione in caratteri tipografici moderni del testo manoscritto, in cui, oltre
all’impaginazione originale, si sono riprodotti i segni abbreviativi. Servendoci della relativa edizione interpretativa
proviamo a mettere in risalto le principali caratteristiche del testo manoscritto così come si trova in P.
Distribuzione del testo. Dal punto di vista metrico, Fresca rosa novella è una ballata, costituita da una
ripresa (un ritornello) di 5 versi, e da 3 stanze (3 strofe) uguali. Ogni stanza si articola in 2 mutazioni di 4 versi e in
una volta di 5 versi. Le rime cambiano di stanza in stanza (fatta eccezione per l’ultimo verso della ripresa e delle
stanze in -ura), ma lo schema rimane uguale: abba baab. I versi sono tutti di 7 sillabe (settenari), fuorchè il verso
conclusivo della ripresa e delle stanze che è di 11 sillabe (endecasillabo). Nel manoscritto, il modo di
rappresentare la struttura metrica differisce in parte dall’uso moderno. La distribuzione del testo sulla pagina
(mise en page) mira a distinguere le strofe, non i versi. La suddivisione interna tra la ripresa e le 3 stanze è segnata
dalla presenza di uno spazio bianco. I versi non sono incolonnati come nella prassi moderna. All’interno di
ciascuna stanza si va a capo solo alla fine delle 2 mutazioni, mentre all’interno della ripresa, delle mutazioni e
delle volte, i versi sono trascritti di seguito, separati a volte da uno o 2 punti. L’inizio della stanza e quello della
volta sono evidenziati dal segno di paragrafo (che abbiamo riprodotto nella trascrizione con ¢), in rosso e in blu.
L’inizio della volta è segnato dalla presenza di una piccola v rossa con la prima asta tagliata posta all’interno del
segno di paragrafo.
Elementi paratestuali. Il testo è preceduto, come di norma nei manoscritti medievali, da una rubrica
(scritta in rosso nell’originale, in corsivo nella trascrizione diplomatica), che ne attribuisce erroneamente la
paternità a Dante Alighieri. L’inizio della lirica è indicato da una iniziale maiuscola miniata (decorata).
Scrittura. Il testo è scritto in una scrittura gotica di piccolo formato, di uso librario e forma allungata della
s, simile ad una f.
Grafia. Non si distingue u da v. Non compare il diagramma moderno ch. Mancava una norma univoca e
riconosciuta nella scrittura del volgare. Questo comporta un elevato grado di variabilità anche all’interno dello
stesso testo.
Separazione delle parole. Alcune forme, sono regolarmente unite alla parola seguente: la congiunzione e;
le preposizioni.
Si trovano spesso ma non costantemente uniti alla forma successiva: l’articolo; il pronome clitico.
Maiuscole. Il testo è introdotto da una grande iniziale miniata, seguita da una r maiuscola (FResca). Nel
resto del testo sono rare e si trovano dopo il segno di paragrafo. Sono minuscole anche le iniziali di forme che
nell’uso moderno andrebbero maiuscole come dio e amor.
Abbreviazioni. Nel testo compare un numero contenuto di segni abbreviativi:
- il titulus che indica la nasale in nō, da sciogliersi in no(n)
- la p con l’asta discendente tagliata da un tratto orizzontale (p̠ ), da sciogliersi in p(er)
- la l tagliata da un tratto obliquo (l̸), indica la mancanza di una vocale prima o dopo la l, in questo caso e
(angl̸icata = ang(e)licata)
Punteggiatura. La punteggiatura, manca completamente. Il punto e i 2 punti presenti nel testo hanno una
funzione metrica, non sintattica, in quanto segnano la fine di un verso.
Segni diacritici. Mancano l’accento e l’apostrofo, introdotti solo nel 500 da Bembo. Nell’opera di
trascrizione l’editore non può limitarsi a riprodurre meccanicamente il testo. È necessario realizzare una
trascrizione che, proponendo un’interpretazione del testo, si conformi alla prassi grafica editoriale moderna. Tale
edizione, detta interpretativa, comporta nel nostro caso:
- la distinzione di u da v
- lo scioglimento delle abbreviazioni (normalmente indicato dalle parentesi tonde)
- la regolarizzazione della divisione delle parole e dell’uso delle maiuscole, l’inserimento della
punteggiatura e dei diacritici secondo l’uso moderno
- l’uso di segni diacritici particolari per indicare fenomeni fonetici assenti o non rilevati graficamente
nell’italiano standard
- l’ordinamento e la numerazione dei versi, la disposizione delle strofe del componimento secondo l’uso
moderno
Il testimone P non è l’unico che tramanda Fresca rosa novella. Non possiamo accontentarci di questa edizione,
che è solo una tappa provvisoria, perché gli altri potrebbero presentare un testo in parte differente. L’edizione
critica comporta sempre la collazione (confronto) tra tutti i testimoni superstiti di un determinato testo. È poi
necessario distinguere tra gli errori originati indipendentemente (poligenetici), e gli errori che devono risalire ad
una fonte comune (errori congiuntivi). È solo la presenza di errori congiuntivi in 2 o più testimoni che permette di
stabilire che discendono dallo stesso capostipite. Quando si presentano 2 o più varianti, quella linguisticamente
più rara ha maggiore probabilità di essere originale, perché nel processo di copia lo scriba tende a banalizzare le
forme che gli appaiono difficili. Di origine indipendente è anche, l’omissione del nome di Cavalcanti nella rubrica.
Sappiamo che Cavalcanti era fiorentino e che, nato attorno alla metà del 200.Il risultato finale del lungo lavoro
preparatorio è il testo critico. Le lezioni scartate vengono sistemate nell’apparato critico, a piè di pagina o in
fondo al testo. L’apparato offre un quadro complessivo della varia lectio, e dà al lettore la possibilità di valutare le
scelte operate dall’editore critico, e di rifare l’edizione secondo criteri diversi.