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Prof. Luongo
a.a. 2017/2018
05/10
Se è vero che le lingue variano, dai livelli più formali a quelli più informali; non
si può non pensare che non sia vero anche per il latino. Il latino non era una
lingua monolitica e anche il latino aveva delle variazioni, non aveva una forma
unica. Si differenziava secondo le dimensioni dello spazio, del tempo, della
società e della situazione. Questo concetto è dato da una serie di esempi.
In realtà si conosce bene un livello di latino: il latino standard/classico. Perché
tutte le testimonianze del latino sono scritte, il latino scritto è molto omogeneo e
normato. Queste regole sono state fissate e sono state usate per secoli da coloro
i quali sapevano leggere e scrivere e avevano una formazione scolastica. Ma
quello è un livello del latino e l’unico che si conosce bene. È il latino usato da
Cicerone, Orazio, Ovidio. Sembra un latino immobile e monolitico. Ma questo
non significa che esista solo quel livello di latino. Il latino parlato non deriva
dalla versione standard o scritta.
potere
*POTĒRE poder
pouvoir
L’asterisco indica che si tratta di una forma ipotetica, ricostruita e ancora non
confermata.
Le forme latine a cui far riferimento per ricostruire sono quelle del latino
substandard (meno formale, volgare), perché la forma standard non è alla base
delle lingue romanze; ma questo non vuol dire che queste forme non potessero
coesistere.
09/10
Dobbiamo pensare che anche il latino avesse una differenziazione diatopica (nello
spazio). Quelli che per noi oggi sono gli accenti (è facile riconoscere se la persona
che ci parla è settentrionale o meridionale, per esempio), esisteva alla stessa maniera
in latino. Esistevano delle differenziazioni fonetiche (che noi chiamiamo volgarmente
‘accento’). A volte nelle opere latine si legge ‘da come parlava si capiva che era
ispanico’: il latino che parlava era comprensibile ma si avvertiva un accento che lo
connotava come proveniente da una determinata regione dell’impero. Di questo però
non abbiamo traccia, nessuna testimonianza diretta. Però per questa differenziazione
diatopica abbiamo a disposizione una serie di testimonianze che parlano di
regionalismi lessicali, come per esempio quelli caratteristici degli italiani regionali;
per cui il macellaio diventa ‘carniziere’ in Sicilia o ‘beccaio’ in Toscana. Erano forme
tra di loro conviventi, un’area sceglieva un termine, un’altra sceglieva un altro
termine equivalente.Il latino dovette conoscere più di una forma per l’azione/verbo di
svegliarsi. Esisteva infatti la forma EXPERGISCOR (svegliarsi). Quando questa
forma cade in disuso viene superata da termini concorrenti. Per cui, per esempio, la
Gallia settentrionale (quella in cui oggi si parla il francese) scelse l’espressione SE
EXPERIRE > francese antico S’ESPERIR (il francese antico è molto diverso da
quello del medioevo, ed è così diverso che un parlante francese attuale non ha la
possibilità di comprenderlo senza almeno uno studio preliminare). Invece in Italia (o
meglio nell’area italiana), si afferma la forma SE EXVIGILARE > italiano
SVEGLIARSI. Nella Penisola Iberica prevalse la forma DE EXPERTARE >
spagnolo DESPERTAR. Questi sono appunti dei regionalismi lessicali, cioè parole
diverse che indicano la stessa cosa che caratterizzano il latino di una regione diverso
dal latino di un’altra regione.
Questa differenziazione può essere ricercata anche su altri livelli. C’erano differenze
anche dovute (è ipotesi e tutte le ipotesi sono discutibili, non sono dimostrabili perché
non si ha una documentazione o testimonianza diretta) alla diversità intensità e
modalità di colonizzazione, e dunque di romanizzazione e dunque di latinizzazione.
Un conto è che alcune province venivano assimilate, anche dal punto di vista
linguistico, attraverso un massiccio fenomeno di immigrazione: province romane in
cui si trasferivano masse di coloni provenienti, per esempio dalla penisola italiana,
che latinizzavano dal BASSO (contatto tra indigeni e coloni, e indigeni apprendono il
latino dei coloni che potevano essere anche di bassa estrazione sociale). Invece altre
province romane sembravano essere latinizzate dall’ALTO: non c’erano grandi
immigrazioni di coloni ma arrivano soltanto le istituzione, cioè pochi conquistatori
che attraverso istituzioni e scuole diffondevano il latino. Secondo i sostenitori di
questa teoria, questa tipo di latinizzazione dall’alto e dal basso avrebbe comportato la
nascita dei diversi livelli di latino. È una tesi da dimostrare. Questo è un esempio di
latinizzazione di tipo diastratica, perché chi ha latinizzato una determinata zona o
area apparteneva a uno strato sociale basso, e quindi era un immigrato o colono,
oppure a un livello sociale più alto, e quindi ha latinizzato attraverso le istituzioni.
Ci sono anche altre fonti scritte a nostra disposizione che danno informazioni da
prendere con cautela, perché si tratta sempre di forme scritte (chi scrive ha ricevuto
un’educazione scolastica, conosce la norme, sia pure solo parzialmente). Non ci sono
registrazioni della realtà concreta. Questi fonti sono:
➔ le grammatiche latine → i grammatici latini a volte censurano gli errori. La
forma che viene censurata è quella che probabilmente tutti usano, e che dal
maestro è ritenuta erronea e quindi censura. Ma quello che interessa è proprio
l’errore
➔ iscrizioni → non tanto quelle pubbliche o ufficiali, ma quelle meno ufficiali.
Proprio perché quello ufficiali venivano scritte da professionisti, invece altre
iscrizioni ,come quelle di Pompei, non hanno carattere di ufficialità perché
sono scritte da individui che si muovono tra la lingua parlata e quella scritta,
sono semi-colti e non hanno un livello di lingua standard
➔ lettere → le lettere di Cicerone, per esempio, sono sempre da catalogare nel
latino standard (certo, hanno un livello parzialmente meno informale delle
orazioni per esempio, ma è pur sempre un latino standard). Se invece si
prendono in esame delle lettere scritte, per esempio, da un soldato (lettere
conservate su cocci fatti di argilla) che sono più informali → rilevano tracce di
latino sub-standard
➔ opere letterarie (ancora più cauti) → molti testi teatrali, come quelli di Plauto,
mettono in scena personaggi di bassa estrazione sociale. E Plauto fa parlare a
questi servi un latino molto diverso di quello dei loro padroni. Cerca di mimare
le caratteristiche del latino parlato, ma è sempre Plauto che lo scrive ed è
quindi filtrato attraverso una lente colta. Qualche informazione può essere
ottenuta, se l’opera viene analizzata con la cautela dovuta. Nel “Satirico” di
Petronio (databile al I sec. a.C.) c’è una lunga scena di una cena di
Trimalcione, che invita a cena una serie di personaggi che parlano un latino
diverso da quello che lo stesso Petronio usa nelle altre parti dell’opera, questo
perché sta cercando di imitare il modo di parlare dei liberti (ex schiavi
liberatisi e poi arricchitisi) che è un latino molto caratterizzato perché la
maggior parte di questi personaggi proviene dalle aree grecofone dell’impero.
Anche in questo caso qualche informazione può essere ricavata, anche se non
può essere equiparata a una registrazione fedele di latino parlato
➔ glosse → spiegazione di una parola che è ritenuta difficile (ilare sinonimo di
allegro). Esistono glosse anche per il latino, soprattutto nei manoscritti. Per
esempio PULCHRA (latino classico) lo si trova glossato con BELLA (latino
sub-standard). Queste due forme ad un certo punto sono entrate in concorrenza
e la forma BELLA ha prevalso, mentre l’altra è diventata sempre meno usata
ed è scomparsa.
Primo argomento: fenomeno che ancora non ci porta nell’ambito delle trasformazioni
che dal latino si sono poi trasmesse alle attuali lingue romanze. Fenomeno di cui si
parla adesso si ipotizza essere avvenuto ancor prima. La storia delle lingue romanze
dovrebbe cominciare dalla romanizzazione e dalla latinizzazione delle varie regioni
conquistate dei romani, però il latino si diffonde con la conquista dei romani, che
conquistano queste aree militarmente, politicamente e linguisticamente. Il latino è la
lingua dei conquistatori e ha una sua autorevolezza. Chi è conquistato deve imparare
il latino per avere contatti con i conquistatori. Questo latino però si diffonde su aree
in cui vivono popolazioni che non parlano latino. I romani conquistano la Gallia, ma
la Gallia, prima di diventare latina anche linguisticamente, è celtica. Si parlava il
celtico (Asterix). Queste popolazioni di lingua celtica devono avere rapporti con i
dominatori latini, quindi man mano apprenderanno il latino come seconda lingua. La
loro lingua materna è il celtico e magari continuano a parlarlo in certi ambiti
linguistici (con la madre, con il padre, ecc.), ma quando devono parlare con il colono
latino che si è stabilito nella fattoria accanto parla il latino che pian piano va
apprendendo. Le due lingue, celtico e latino, convivono per molto tempo.
Progressivamente però il celtico scompare (in realtà c’è un pezzettino della Francia
che parla una lingua celtica come dialetto, il bretone, che non è frutto di una
sopravvivenza del celtico ma che, invece, proviene dalla Britannia). Il latino
comincia a diventare lingua materna, e il celtico quindi scompare. Si hanno
testimonianze, però, del celtico fino al V sec.d.C. Vuol dire che celtico e latino hanno
convissuto per secoli. I linguisti si sono così chiesti se questo contatto così prolungato
non avesse visto fenomeni di interferenza in cui il celtico ha influenzato condizionato
o modificato a livello fonetico o morfologico (a livello lessicale è facile → prestiti
lessicali sono normali) il latino? La numerazione vigesimale del francese potrebbe
avere un retaggio celtico. Secondo queste ipotesi il latino inizia a modificarsi nel
momento in cui entra in contatto con le lingue prelatine. Questa lingua prelatina
agisce, nei confronti del latino, da sotto-strato, cioè da SOSTRATO.
FENOMENI DI SOSTRATO
Sono meccanismi che prevedono un lungo periodo di tempo in cui si parlano
entrambe le lingue. C’è una gerarchia, c’è più interesse nell’imparare la lingua dei
dominatori. Di fatti, la lingua prelatina scompare, lasciando però qualche particolarità
nel latino che si afferma in quell’area. E a partire da lì si formano le lingue romanze
di quelle determinate aree. Esempi: quando si va in Toscana ci accorgiamo di una
peculiarità fonetica: l’aspirazione delle consonanti quando si trovano in posizione
intervocalica (non necessariamente all’interno della stessa parola, ma anche quando
la posizione intervocalica avviene tra due parole distinte). Nel toscano le occlusive
vengano aspirate, diventando fricative (anziché chiudere il canale orale quando
vengono pronunciate, si apre invece uno spiraglio). Questa caratteristica è
volgarmente definita GORGIA TOSCANA. Si presume (anche se non è provabile)
che questa caratteristica linguistica sia dovuta a una lingua di sostrato. Quando
arrivano i romani e conquistano l’Etruria, dove si parlava etrusco. Si ipotizza dunque
che questa caratteristica si pensa sia dovuta al fatto che gli etruschi non erano in
grado di pronunciare le occlusive in posizione intervocalica, come facevano i latini.
Trasferiscono questa abitudine di aspirare al latino. Questa trasformazione che
attraversa il latino (non appena entra in contatto con l’estrusco) si modifica in questo
senso, poi da quel latino derivano le lingue romanze.
Caso più difficile: la TEORIA DEL SOSTRATO risale all’800. È una delle possibili
motivazioni alle trasformazioni che ha subito il latino. Uno dei suoi più celebri
sostenitori fu l’italiano GRAZIADIO ISAIA ASCOLI. Osservando che le lingue in
contatto interferiscono, se ne deduce che se interferiscono oggi l’avranno fatto anche
nel passato. Secondo questa teoria il latino sarebbe stato influenzato dalle lingue con
cui è entrato in contatto. La difficoltà di questa ipotesi è che si ha scarsissima
documentazione (le lingue prelatine non si conoscono quasi per niente), si ha scarsa
conoscenza delle lingue prelatine a cui si pensa di attribuire queste modifiche (che
attraverso il latino si sono poi tramutate nelle lingue romanze che conosciamo oggi).
Si ha scarsa conoscenza dei meccanismi linguistici del tempo (il contatto linguistico
di oggi non è detto che sia lo stesso del passato). La gorgia toscana è un fenomeno
fonetico, che quindi non ha testimonianza scritta precisa. Questi fenomeni spesso e
volentieri sono ritenuti volgari e per questo motivo non vengono messi per iscritto. Si
tratta di ricostruzioni molto ipotetiche. Così Ascoli, di fronte a queste difficoltà,
elabora un sistema indiziario. Come in un processo, se c’è un testimone oculare
questo dice quello che ha visto, se c’è una telecamera questa potrà confermare quanto
detto dal testimone. Ma spesso accade che i testimoni possano essere inattendibili o
anche assenti. In questo caso si procede per indizi. Si utilizza quello che si ha a
disposizione: testimonianze non necessariamente dirette che messe insieme possono
dare una prova (‘più indizi fanno una prova’). Non ho provo ma posso mettere
insieme degli indizi, non ho una prova vera e propria ma qualcosa di più concreto.
Ascoli elabora tre criteri che devono essere soddisfatti perché un’opera sostratista
abbia un minimo di probabilità. Dice Ascoli: per attribuire un fenomeno a una lingua
di sostrato (una lingua prelatina) si devono verificare almeno tre cose:
Perché si possa attribuire un fenomeno linguistico che oggi osserva una lingua
romanza a una lingua prelatina, cioè definire quel fenomeno ‘fenomeno di sostrato’
normalmente si procede per lisi. Ascoli aveva elaborato tre criteri per rendere
plausibile, se non provata, alcuni fenomeni di sostrato. Cosa mi induce a pensare che
un fenomeno possa essere di sostrato? Innanzitutto la constatazione che l’area in cui
si osserva quel fenomeno (come per esempio, per il fenomeno della gorgia toscana si
osserva l’area geografica della Toscana) coincide con l’area in cui anticamente si
parlava una lingua prelatina. Se questa coincidenza c’è (nel caso della gorgia toscana
la coincidenza è con l’area in cui oggi le consonanti sono aspirate nel dialetto toscano
e l’area in cui anticamente si parlava etrusco → ), posso cominciare a sospettare che
le due cose sono collegate. Tra l’altro dell’etrusco non si ha molta conoscenza per cui
non si sa con sicurezza se le consonanti erano effettivamente aspirate. Si ha qualche
indizio. Quindi è necessario, se possibile, aggiungere altri indizi. Nel caso
dell’etrusco ci si deve fermare qui. Però ci sono altri casi in cui gli altri due criteri
elaborati da Ascoli sono invece applicabili.
Secondo criterio → una volta che ho individuato un possibile responsabile di un
fenomeno in una lingua di sostrato (nel caso del latino si deve cercare la lingua che lo
precedeva, che gli faceva da sotto-strato), si devono fare una serie di considerazioni.
Capire se questa lingua si parla ancora, cioè se la lingua preromana non è
completamente scomparsa . Ascoli dice ‘sfuggita alla latinizzazione’, perché in quel
caso vuol dire che si sono salvate e quindi potrebbero essere ancora parlate. Nel caso
dell’etrusco questo non è possibile perché l’etrusco non è sopravvissuto, è stato
completamente latinizzato. Dopo un periodo di bilinguismo, chi parlava etrusco come
lingua 1 nel corso delle generazioni l’ha sostituito con il latino (che inizialmente era
appunto lingua 2). Il latino quindi sostituisce l’etrusco in tutto il territorio e da quel
latino si sono poi formati i vari dialetti e varietà toscani.
Terzo criterio → se per esempio si prende in esame il fenomeno del celtico, ci sono
aree in cui oggi si parla una lingua non romanza, che però era di sostrato celtico?
Dice Ascoli: ci sono aree in cui si parlava la lingua che io sospetto essere la
responsabile del fenomeno che sto osservando alla quale il latino, lingua di sostrato,
si è sovrapposta? O sostituito? Normalmente questo avviene o col germanico o con
qualche lingua slava.
In latino le vocali possono essere sia brevi che lunghe.
Fenomeno della Ū in francese → Ū (u palatale) > y (si pronuncia iu – fonema che è
simile alla i ma non si pronuncia come la i, è una vocale un po’ più arretrata).
Un’alternativa è Ü. Si chiama palatalizzazione della u in ‘iu’ in francese.
lat. CŪRA > fr. Cure [kyr] → pronuncia → qui la u in latino è velare
lat. DŪRU > fr. Dur [y]
lat. CRŪdu > fr. Cru [y]
La velare è diventata una palatale in francese, ma a dire la verità non solo in francese.
È un fenomeno diffuso anche in altre varietà romanze. Si verifica in tutta la Francia
(antica Gallia, il giallo romano), ma si trova anche in alcune parlate chiamate
‘romanze alpine’ → varietà romanze parlate nelle Alpi. Si verifica anche nella
Pianura Padana, escluso il Veneto. Sostanzialmente questa area coincide con un’area
che anticamente era occupata da popolazioni celtiche. Questo è il primo criterio di
Ascoli. Questa coincidenza dell’area non è così precisa perché l’isoglossa (confine)
moderna del fenomeno non coincide con l’area anticamente di lingue celtiche. È
molto relativa questa coincidenza. Dovrebbe verificarsi anche in alcune parlate che
erano sicuramente di sostrato celtico nell’Italia settentrionale, ma non si è verificato.
Non c’è coincidenza. Con le aree bisogna stare attenti perché i fenomeni linguistici
col tempo cambiano. L’area attuale non è affatto quella antica.
Il primo criterio è sostanzialmente (ma non assolutamente) verificato.
vocale palatale
Si può quindi presumere che quando il latino è entrato in contatto con il celtico, il
celtico stava già palatalizzando le u dell’indoeuropeo, poi è arrivato al grado
intermedio (y (iu) palatale) e ha continuato a progredire fino a diventare i.
Per cui, secondo Ascoli, quando il latino entra in contatto con il celtico, il celtico non
aveva la u velare, ma l’aveva già trasformata in u molto simile a quella del francese
(iu – u palatale). Quindi, quando i celti della Gallia apprendono il latino, non sanno
pronunciare parole come CURA perché nel loro sistema vocalico non c’è una u velare
e pertanto pronunciano una u palatalizzata (y).
Terzo criterio → si è sempre più certi che il celtico sia la lingua che è interferito con
il latino e abbia prodotto questo fenomeno. Adesso si deve trovare un’area in cui si è
sovrapposta una lingua diversa dal latino. E quest’area esiste. Si tratta dell’area in cui
oggi si parla l’olandese, una lingua germanica, che è un’area in cui originariamente si
parlava il celtico. Quindi si può andare a vedere cosa accade nella lingua germanica
che oggi si parla in quest’area. Ma cosa si deve cercare? Vado a cercare la U lunga
(dell’indoeuropeo) che è stata trasmessa anche alle lingue germaniche. Per cui vado
a cercare la u lunga nelle parole germaniche e vedo che fine hanno fatto queste u
lunghe. Scopro che anche qui si sono palatalizzate.
Essendo i tre criteri soddisfatti → secondo Ascoli questo fenomeno può essere
attribuito al sostrato celtico.
CŪRA > fr. cure → rappresenta una contraddizione a quanto detto fino adesso
Secondo Ascoli, quella u lunga diventa y (iu – cioè una vocale palatale). La regola è
che la C davanti a una vocale palatalizza, perché in questo caso no? Doveva essere
‘sciur’ prima, ‘siur’ dopo. Allora perché non si ha lo stesso risultato? Perché non è
mai stata una palatale. Significa che la U si è palatalizzata dopo la palatalizzazione.
Non può essere un fenomeno di sostrato (che è antichissimo), perché è più recente
(cioè avvenuto dopo la scomparsa del celtico). C’è stata prima la palatalizzazione
delle consonanti e poi quella delle vocali.
§ l’aria non passa dal canale orale aperto, ma passa in uno spazio molto piccolo
provocando frizione.
Davanti a vocale la F (latina §) oggi scompare, mentre fino al ‘500 la H era una
fricativa laringale, cioè era aspirata. Questo fenomeno (f che prima si aspira e poi
scompare) è stato proposto da un’ipotesi sostratista di Ramon Menendez Pidal. ♣
F- + voc. > Ø
Ma la F scompare sempre? No, in alcuni casi si conserva.
F- + wƐ > f-
dittongo (o O latina)
F- + consonante (L o R) > f-
♣ Pidal è colui il quale ha notato la presenza in un’area della penisola iberica di una
lingua completamente diversa da quella che si parlano lì. Si tratta di una lingua che
non ha neanche origini indoeuropee → il basco. Ha un sistema consonantico in cui la
F è assente. Il basco può essere a tutto diritto considerato una lingua di sostrato,
perché è sfuggito alla latinizzazione e anche all’indoeuropeizzazione.
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Sostrato → episodio concreto per il quale erano applicabili i tre criteri di Ascoli →
palatalizzazione della U lunga velare latina in francese che diventa y (iu).
F- + cons. (L o R) > f-
FLOREM > flor
FRATREM > fray
F- + wƐ > f-
FŎCUM > fuego
Area verde → basco (Pidal applica il 2° criterio di Ascoli perché controlla cosa è
successo nella lingua che pensa sia responsabile del fenomeno oggi)
Area gialla → castigliano
Area rosa → guascone
Area gialla rappresenta l’area in cui il castigliano si parlava originariamente (che poi
con la reconquista si diffonde in tutta la penisola) ed era confinante con l’area
bascofona. Tutti i documenti che contengono traccia antica del fenomeno provengono
da quest’area.
Pidal pensa che tutta l’area (quella colorata) fosse anticamente di lingua affine/ simile
a quella basca (area azzurra nell’immagine):
Area azzurra → area omogeneamente bascofona. Pidal ipotizza che quest’area fosse
omogeneamente bascofona → in maniera più complessa sta applicando il 1° criterio
di Ascoli(ragiona su coincidenza delle aree).
L’unico criterio che Pidal non può applicare è il terzo.
Questo è un fenomeno complicato perché la documentazione di cui si dispone
riguardo ad esso è molto tarda; si deve presumere che questo fenomeno sia avvenuto
quando la penisola iberica è stata conquistata dai romani. I documenti che possiamo
definire romanzi sono molto più tardi. Secondo Pidal, questo è un fenomeno che è
avvenuto al momento del contatto, ma che poi è registrato nei documenti a nostra
disposizione e nei testi letterari solo molto tardi, anche perché inizialmente è un
fenomeno ritenuto volgare. Nei testi antichi, per esempio il cantar de mio cid (che
Pidal data nel 1140, ma in realtà è più tardo) oppure Berceo (che sono manoscritti
ancora più tardi) → si trova un’alternanza tra F grafica e H → quindi qualche volta la
F c’è dove non dovrebbe esserci e questo accade perché normalmente chi scrive ha
avuto una formazione classica latina e sa che in una determinata parola c’è la F →
molte volte si tratta, pertanto, di CULTISMI grafici (perché non sappiamo se la
parola scritta FARINA si pronunciasse Harina con l’aspirata → ha conservato, per lo
meno, la grafia latina). Quindi documentazione oltre a essere tarda è anche oscillante,
perché quel tratto per molto tempo non è stato ritenuto degno di essere registrato,
perché volgare e appartenente agli strati linguistici più bassi. Solo quando prende il
sopravvento, allora le registrazioni diventano frequenti.
Pidal parla di STATO LATENTE DI UN FENOMENO. Latente vuol dire nascosto,
sotterraneo, non manifesto. Cioè, magari un fenomeno linguistico è avvenuto anche
molto tempo prima rispetto alla sua documentazione perché a lungo non viene
registrato perché ritenuto appunto volgarismo perché chi scrive è colto e quindi
riportare un fenomeno del volgo non è cosa comune. Questi fenomeni quindi
appaiono tardi ma questo non vuol dire che sono contemporanei alla loro
apparizione. Ma nulla vieta che questo fenomeno per secoli sia esistito vivendo per
lungo tempo un periodo di LATENZA.
Ragionamento della volta precedente basato su concetto di CRONOLOGIA
RELATIVA, cioè quando un fatto avviene prima di un altro fatto (un fatto avvenuto
prima relativamente a uno che è avvenuto dopo). Anche in questo caso c’è un
problema di cronologia relativa.
Se si sostiene che il fenomeno per cui F- > h > Ø (1) è di sostrato, questo fenomeno
si deve verificare nel momento in cui la lingua latina entra in contatto con quella
prelatina (quando la penisola iberica viene conquistata dai romani, e quindi un tempo
antichissimo).
Poi abbiamo casi in cui F iniziale si conserva. Non fanno difficoltà quelli in cui F
iniziale si conserva davanti a L o R (perché qui appoggio della consonante può essere
una spiegazione). Fa invece difficoltà questo → FŎCUS > fuego (2) (si tratta del
fenomeno di dittongazione)
(2) è in contraddizione con (1). Il fenomeno di dittongazione (2) non è tardissimo ma
neanche antichissimo, tra il V-VI sec d.C. → Ŏ > wƐ.
Quando il latino arriva nella zona bascofona ha FOCU, e in questo caso la F si trova
esattamente nella stessa posizione di FARINA, però in FARINA poi scompare,
mentre in FOCU si è conservata. Si tratta di un problema di cronologia relativa. Da
questo si deduce che (1) deve essere avvenuto dopo la dittongazione (2). Se è
avvenuto dopo la dittongazione non può essere un fenomeno di sostrato del I sec d.C.
i u
e o
i u
īĭ ūŭ
ēĕ ōŏ
āă
Il latino aveva le COPPIE MINIME → due parole che si distinguono solo per un
tratto (che è quello della quantità), ma identiche per tutto il resto, e che hanno
significato diverso.
PĀLUS ~ PĂLUS
palo palude
LĒGO ~ LĔGO
io lego io leggo
HĪC ~ HĬC
qui questo
PŌPULUS ~ PŎPULUS
pioppo popolo
FŪGIT ~ FŬGIT
fuggì fugge
Il tratto vocalico della quantità vocalica in latino viene sostituito da un altro tratto.
Il sistema vocalico tonico del latino si organizza sulla base di tre tratti distintivi:
localizzazione, grado di apertura e quantità. Quello che per noi è più complicato è il
terzo: non lo utilizziamo da un punto di vista fonematico, cioè non lo usiamo come
tratto distintivo. Non esistono nelle lingue romanze, a cominciare dall'italiano, delle
coppie minime che si distinguono soltanto perché in un caso la vocale è lunga e
nell'altro è breve. In latino funziona così:
Quando si divide in sillabe si possono avere due possibilità, la vocale tonica (che è la
base, il cuore della sillaba):
• si può trovare alla fine della sillaba → la vocale chiude la sillaba;
• la vocale è seguita nella stessa sillaba da una consonante.
In questi casi si parla di sillaba libera/bloccata o aperta/chiusa.
Esempi:
PANE → pa|ne → la vocale a si trova alla fine della sillaba e dopo di essa non
segue niente. In questo la sillaba è aperta o libera. La vocale a si trova in
sillaba aperta o libera.
PORTA → por|ta → la vocale o si trova in una sillaba che termina con una
consonante. La vocale è bloccata dalla consonante. Questo tipo di sillaba si
chiama chiusa o bloccata.
SETTE → set|te → la sillaba in cui si trova la e tonica è bloccata.
PALA → pa|la → la sillaba in cui si trova la a tonica è libera.
Il latino può, indipendentemente dalla struttura sintattica (la sillaba può essere sia
libera che bloccata), avere sia una vocale lunga che una vocale breve. Non è, cioè,
pertinente che la sillaba sia libera o chiusa per la quantità vocalica. La sillaba non è
determinate rispetto alla quantità vocalica. La struttura della sillaba non influenza la
possibilità che la vocale possa essere breve o lunga.
La trascrizione tra linee oblique è quella fonematica, cioè quella che tiene conto solo
di ciò che è rilevante a livello distintivo, che in latino è la lunghezza di un caso
rispetto alla brevità dell'altro.
La trascrizione tra parentesi quadre è quella fonetica. In essa, rispetto alla trascrizione
precedente, viene aggiunto un tratto che prima non compariva, cioè il tratto appena
pronunciato → le lunghe venivano realizzate come chiuse (puntino) e le brevi come
aperte (virgola). Però questo è solo dal punto di vista fonetico; mentre dal punto di
vista fonematico questa caratteristica non deve essere presa in considerazione perché
si tratta solamente di un tratto aggiuntivo, accessorio.
Quindi, per il latino la lunghezza e la brevità erano tratti fondamentali, mentre la
chiusura e l'apertura erano più una ridondanza. Probabilmente il parlante non si
rendeva neanche conto di realizzarla perché quella caratteristica non la utilizzava
fonematicamente.
Questa è la situazione del latino, adesso dobbiamo vedere cosa succede nelle lingue
romanze. Nessuna varietà romanza conserva la quantità vocalica come distintiva.
Tutte le lingue romanze hanno perso questo tratto. La cosa deve essere avvenuta
intorno al IV – V secolo, anche se probabilmente era cominciata molto prima se si
pensa che già nel 79 d.C. (e quindi dal primo secolo d.C.) nei graffiti pompeiani si
trovano molti errori di quantità vocalica. I semi-colti, cioè coloro che non
conoscevano la lingua latina come chi l'aveva studiata, non sapevano più come
costruire un verso su base quantitativa perché non sapevano più distinguere le lunghe
dalle brevi. Quindi è un processo molto lungo che si deve essere concluso molto
tardi. Ci sono testimonianze della fragilità della quantità vocalica, per esempio,
intorno al IV – V secolo, Sant'Agostino, parlando dei suoi conterranei (Sant'Agostino
è africano), dice che gli africani, che parlano latino, non distinguono più le lunghe
dalla brevi; e confondono ŌS (bocca) e ŎS (osso). Si tratta di una testimonianza
diretta che afferma che gli africani parlano un latino diverso da quello che si parla a
Roma. Sembrerebbe che in periferia, o almeno una parte dell'impero, la quantità
vocalica non funzioni più.
In questa tabella vi è non solo la quantità vocalica, ma anche quella consonantica. La
quantità consonantica non è difficile da individuare: quando scriviamo le doppie,
stiamo usando una consonante lunga. Quindi noi non distinguiamo più vocali da
lunghe da vocali brevi, ma invece continuiamo ad usare la quantità consonantica.
CANE e CANNE sono una coppia minima: l'unica differenza è che in caso la
consonante è breve (cane) e nell'altro la consonante è lunga (canne).
Per spiegare quello che può essere accaduto (il punto di partenza è il latino che
conosce la quantità vocalica; il punto di arrivo è costituito dalle lingue romanze che
non conoscono più la quantità vocalica), bisogna prendere in considerazione sia la
quantità vocalica che quella consonantica, perché quest'ultima è stata conservata dalle
lingue romanze.
Guarda la prima parte della tabella: in latino si possono avere tutte le combinazioni,
che in realtà sono quattro:
• nella parola STELLA sia la vocale che la consonante sono lunghe;
• nella parola PIRUS sia la vocale che la consonante sono brevi;
• nella parola MURUS la vocale è lunga e la consonante è breve;
• nella parola MITTO la vocale è breve e la consonante è lunga.
Osserviamo anche che la vocale può essere lunga o breve sia in sillaba libera che in
sillaba bloccata:
• nella parola STELLA la vocale è lunga in sillaba bloccata;
• nella parola MURUS la vocale è lunga in sillaba libera;
• nella parola PIRUS la vocale è breve in sillaba libera;
• nella parola MITTO la vocale è breve in sillaba bloccata.
La quantità vocalica è indipendente dalla struttura della sillaba.
Nelle lingue romanze è distintiva la quantità consonantica. Ma cosa accadde alla
quantità vocalica? In realtà noi continuiamo a realizzare vocali lunghe e brevi. La
quantità vocalica dal punto di vista fonetico esiste ancora. Quando pronuncio
CARNE e CANE le due vocali non sono uguali: la a di CANE è più lunga di quella
di CARNE. La differenza per noi è quasi impercettibile perché non la usiamo. Quella
che invece percepiamo subito è la quantità consonantica.
Proviamo a fare la commutazione che consiste nel cambiare una vocale o una
consonante all'interno di una parola. Se nella parola CUBO, commuto la C con la T, il
risultato è TUBO → il significato cambia. Se, invece, commuto una vocale lunga con
una breve il significato non cambia, vuol dire che la quantità vocalica non è
fonematicamente rilevante.
Nelle lingue romanze la regola è: se la consonante è lunga, la vocale è
automaticamente breve; se la consonante è breve, la vocale è automaticamente lunga.
È un automatismo: in sillaba bloccata la vocale è sempre breve; in sillaba libera la
vocale è sempre lunga. È una situazione completamente diversa dal latino dove si
possono avere vocali brevi e lunghe sia in sillabe libere che bloccate. Mentre in latino
si può scegliere, nelle lingue romanze il cambio è automatico (essendo automatico,
non può essere distintivo). Quello che in latino è un tratto libero, invece nelle lingue
romanze la lunghezza è automatica, dipende dalla consonante che segue.
Guarda la seconda parte della tabella: dalle quattro possibili combinazioni si passa a
due. Nelle lingue romanze è possibile soltanto la combinazione consonante
breve/vocale lunga oppure la combinazione consonante lunga/vocale breve.
Questo significa che in latino, nel corso del tempo, due delle quattro possibilità sono
scomparse, cioè consonante lunga/vocale lunga e consonante breve/vocale breve.
Torniamo al latino nel momento in cui il tratto della quantità comincia a barcollare.
Ci sono alcune parole che non sono più accettate nel sistema, per esempio LEGO e
POPULUS. Quando il sistema entra in crisi, due combinazioni non sono più
accettate. In queste coppie minime, quindi, ci sono due parole che non possono più
essere accettate.
Nel caso di LEGO a scomparire è quella con la breve (perché il sistema non accetta
più la combinazione tra consonante breve e vocale breve). Mentre resta la parola con
la vocale lunga e la consonante breve (perché il sistema accetta questo tipi di
combinazione).
Nel caso di POPULUS a scomparire è, ancora una volta, la parola breve.
Nel caso di STELLA, la parola non è accettabile nel sistema perché la sia la vocale
che la consonante sono lunghe. E così via.
Le forme che non sono più accettate si devono trasformare e adeguare al nuovo
sistema. Quindi o la vocale o la consonante si devono modificare: o si allunga la
vocale (e la combinazione sarà vocale lunga/consonante breve), oppure si allunga la
consonante (e la combinazione sarà vocale breve/consonante lunga).
Nelle lingue romanze gli interventi sono stati effettuati, nella stragrande maggioranza
dei casi tranne in rarissime eccezioni, sulle vocali.
Un'eccezione in italiano è la parola PILLOLA: PĬLA > PĬLLULA > PILLOLA.
Nella coppia minima con POPULUS, la forma che significa “pioppo” non ha
problemi. Mentre la forma che significa “popolo” non è accettata dal nuovo sistema
perché presenta una sequenza vocale breve/consonante breve. Bisogna intervenire
sulla vocale o sulla consonante. Abbiamo detto che le lingue romanze nella maggior
parte dei casi intervengono sulla vocale e questo è uno di quei casi. La vocale si deve
allungare. Ma, a questo punto, le due parola diventano uguali perché presentano
entrambe una sequenza vocale lunga/consonante breve. POPULUS1 è la forma che è
rimasta originale; POPULUS2 è quella la cui vocale si è allungata. Le due forme sono
perfettamente identiche: sono OMOFONE. Quindi come si fa a distinguerle?
Recuperando la distinzione che era secondaria fino a questo momento, cioè il tratto
per cui le lunghe venivano realizzate foneticamente come chiuse e le brevi come
aperte. Quando la o di POPULUS che si è allungata conserva il suo tratto di apertura
(proprio in virtù del fatto che originariamente era breve). Il tratto che era secondario
viene promosso a primario. Adesso la differenza tra i due POPULUS può essere
affidata alle caratteristiche di apertura e chiusura, le stesse caratteristiche che prima
erano irrilevanti, ma che adesso non lo sono più.
Si è perso il tratto della quantità e si esteso il tratto dell'apertura.
23/10
Grado di apertura → quando non fu più possibile la distinzione tra lunghe e brevi
ĪĬ ĒĔ ĀĂ ŌŎ ŪŬ
→ latino classico (quantità)
tutte le lunghe divennero brevi
ị ẹ ạ ọ ụ
tutte le brevi diventano lunghe → latino substandard (apertura)
į ę ą ǫ ų
Ī Ĭ Ē Ĕ ĀĂ Ŏ ŌŬ Ū
i e ε a ɔ o u
I 5 fenomeni:
ĪĬ ĒĔ ĀĂ ŌŎ ŪŬ
i e a o u
apertura apertura
intermedia intermedia
Sistema eptavocalico → 7
Sistema pentavocalico → 5 → è questo il caso del sistema vocalico sardo e della zona
situata tra Lucania e Calabria: area Lausberg (linguista), secondo il quale:
Maratea Cassano
C'è un altro sistema che riguarda l'area italiana: il sistema siciliano, ma è diffuso
anche nella Calabria meridionale (a sud dell'area Lausberg) e in Puglia (Salento):
Ī Ĭ Ē Ĕ ĀĂ Ŏ ŌŬŪ
i e a o u
intermedia intermedia
Esempi:
Ī Ĭ Ē Ĕ ĀĂ ŎŌ ŬŪ
i e ɛ a o u
La DITTONGAZIONE
E' un fenomeno che prevede che una vocale latina scinde in due elementi che chiamo
dittongo, non sono due vocali ma due cose differenti: c'è una vocale ma l'altro
elemento somiglia a (ma non è) una vocale, è una semivocale.
Ĕ > ɛ
Fenomeni coinvolti
Ŏ > o
Esempi:
N.B.:
MĔ/LE → sillaba libera o aperta
SĔP/TE → sillaba bloccata o chiusa
Regola:
[ > jwo
ŏ > ɔ
] > ɔ
Esempi:
*LĔTU (LAETU) > it. lieto (dittongo) > fr. lié (dittongo)
in francese, praticamente, funziona come in italiano
BŎ/VE > fr. Non c'è dittongo Boeuf → si trova in sillaba libera ma oggi non c'è
dittongo. Il francese antico era 'buef' quindi il dittongo c'era.
TĒ/LA > fr. Taile FĬDE > it. Fede > fr. Foi
ẹ wa wa (dittongo)
Ē > e [ > wa
O e A stessa cosa
MA/RE > mer
→ francese standard, f.a. stesse forme.
PAR/TE > part A > ae > ee > e [ɛ] aperta
30/10
GŬLA (è una parola che non ha un continuo nel francese moderno che è 'gorge' che
non viene da gula, però nell'antico francese c'era il continuatore di questa parola → )
> gueule (che si legge 'gheul', e quindi una u non si pronuncia per evitare che la u
venga pronunciata come una velare e non una palatale).
PE/TRA (sillaba aperta, infatti in italiano questa e dittonga) > sp. piedra (c'è dittongo)
VE/NIT > sp. viene
BE/NE > sp. bien
Esempi:
VEC/LU > o' viecchj
PE/DEM > o' per (assenza di dittongo)
VEC/LI > e' viecchj
PE/DI > e' pier
VE/CLA > a' vecchj
COR/PU > cuorp
BO/NUM > buon
BO/NA > bon
NO/VU > nuov
NO/VA > nov
RŬSSUM > it rosso > napoletano o' russ – RUBRA > napoletano a' ross
Qui c'è una differenza di genere (mentre in precedenza era di numero). Anche la o
chiusa latina può avere due esiti diversi a seconda di una condizione. O resta O
chiusa oppure si chiude ulteriormente in U.
FLOREM > napoletano o' cior - FLORI > napoletano e' ciur
Questo fenomeno si chiama chiusura metafonetica. Se si trova nella sillaba finale
della parola di base latina una U o una Ī, il fenomeno si verifica e la vocale si chiude.
Se invece nella sillaba finale è presenta una vocale diversa da U o Ī, il fenomeno non
si verifica. Quindi il meccanismo è lo stesso della dittongazione. Ma perché in un
caso c'è dittongazione e nell'altro chiusura? Mentre la dittongazione riguarda Ŏ
(aperta) e Ĕ (aperta), la chiusura riguarda O chiusa ed E chiusa. Le medio-basse
dittongano, le medio-alte si chiudono.
Dittongazione → vocale interessata è aperta.
Chiusura → vocale interessata è chiusa.
PĔTRA → la parola ha e breve*, alla fine non c'è U o Ī e quindi resta tale > pret
VĔCLU → la parola ha e breve* e alla fine c'è U quindi dittonga > viecchj
CŎRPU → la parola ha o breve* e alla fine c'è U quindi dittonga > cuorp
NŎVA → la parola ha o breve* ma alla fine ha una A quindi non dittonga > nov
* breve che diventa aperta.
FLŌREM → la parola ha o lunga§ ma alla fine ha una E quindi non si chiude > cior
FLŌRI → la parola ha una o lunga§ e alla fine ha una Ī quindi si chiude in u > ciur
MĒNSI → la parola ha una e lunga§ e alla fine c'è una Ī quindi si chiude in i > mis
§ lunga che diventa chiusa.
jɛ → U, Ī wo → U, Ī
ĕ>ɛ ŏ>o
ɛ → tutte le altre o → tutte le altre
ō u → U, Ī
o
ū o → tutte le altre
31/10
Queste varietà sono il romeno, il veglioto (lingua romanza parlata lungo le coste
della ex-Jugoslavia e più precisamente su un'isola situata nel mare Adriatico che si
chiama Veglia; oggi non esiste più anche se è sopravvissuta fino a un secolo e mezzo
fa), italiano, provenzale, catalano, spagnolo e portoghese (che sono stati messi
insieme perché funzionano allo stesso modo), francese e reto-romanzo (altra varietà
poco nota, ancora esistente, parlata nelle vallate antiche delle Alpi, un dialetto).
Romeno, veglioto e italiano sono quelle che si trovano a oriente, mentre tutte le altre
a occidente. Sono stati presi in considerazione tre esempi: due esempi lessicali (cioè
parole), RIPA e URTICA, e un suffisso, ATA. La presenza del suffisso insieme a due
parola si spiega con il fatto che è molto comune nelle lingue il prestito lessicale,
quindi prendere in considerazione solo il lessico può essere rischioso perché le parole
viaggiano e portano con sé la loro forma. Guardare solo il lessico potrebbe dare uno
sguardo un po' distorto, perché è malleabile. Si prende in considerazione la
grammatica, che è forse la parte meno esposta al mutamento e più stabile.
La prima cosa che ci interessa guardare è l'esito di tre consonanti: la occlusiva labiale
p, la occlusiva dentale t e la occlusiva velare k → sono tutte e tre sonore. La base di
partenza per queste parole, che è il latino, si chiama etimo.
• /p/ → in rumeno la p è rimasta inalterata, in veglioto anche si è conservata, in
italiano lo stesso con la parola 'ripa' che è una parola dialettale settentrionale;
anche se poi successivamente la parola si è fricativizzata in 'riva' = nella parte
orientale del dominio romanzo la /p/ non ha subito nessuna modifica. Nelle
lingue successive invece si è trasformata: nel provenzale, spagnolo e
portoghese l'esito è 'riba'. La consonante si è sonorizzata. /b/ è la corrispettiva
sonora di /p/. In francese la consonante si è ulteriormente sonorizzata, deve
esserci stato ovviamente il passaggio intermedio per /b/, che si è sonorizzata
nella fricativa labio-dentale /v/. Si inizia a vedere una distinzione tra le lingue
dell'area orientale e quelle dell'area occidentale, dove il fenomeno di
sonorizzazione si verifica.
• /t/ → per il suffisso -ata c'è la stessa situazione: nelle lingue della parte
orientale la consonante non ha subito nessuna modifica. Era occlusiva dentale
sorda in latina ed è rimasta occlusiva dentale sorda nelle lingue romanze
successive. Mentre nelle altre lingue le cose sono cambiate. In provenzale,
catalano, spagnolo e portoghese /t/ si è trasformata nella corrispettiva sonora
/d/. In francese è presente qualcosa di ancora più avanzato: in francese antico
in qualche caso era ancora /d/, invece nel francese moderno la consonante è
assente. Il processo in questo caso (francese una delle lingue romanze più
innovative) → consonante si è sonorizzata, ma il processo di indebolimento è
stato così forte che in qualche caso la consonante è addirittura scomparsa.
• /k/ → conferma la situazione: in lingue orientali la consonante si mantiene
uguale. A partire dal provenzale in poi c'è stata una sonorizzazione in /g/, per il
francese invece è avvenuta prima la sonorizzazione in /g/ che si è poi
fricativizzata fino a scomparire ( /k/ > /g/ > Ø ).
Questo semplice schema fa capire la diffusione del fenomeno. Il confine di esso passa
proprio per l'Italia → in toscano il fenomeno non si presenta, mentre nel reto-
romanzo, che è un dialetto settentrionale, si presenta. Questa fa capire che l'Italia è
divisa in due. Il confine del fenomeno stabilito dagli studiosi, in particolar3 dai
linguisti-geografi → coloro che studiano la geografia linguistica. Essi si occupano di
disegnare carte linguistiche.
Per disegnarne una, occorre individuare i luoghi in cui si volge un'indagine. Questi
luoghi sono indicati con dei numeri (vedi punti neri nella carta, non sono mosche ma
numeri!). I luoghi non sono scelti a casaccio, ma sono più ravvicinati (tra di essi non
intercorre un'ampia distanza). In questi luoghi si sceglie poi un campione di persone
alle quali vengono somministrati dei questionari. Anche il campione deve essere
scelto con intelligenza: se si sta indagando sul dialetto si vanno a intervistare persone
originarie del luogo e non “immigrati”, persone che non hanno una cultura elevata ma
nella media. L'intervistato non dovrà essere condizionato: un anziano o una persona
con un basso livello culturale può sentirsi messo “sotto pressione” e quindi non
rispondere con la verità. Si ottengono così delle risposte che vengono trascritte in
maniera fonetica. Ci saranno sicuramente delle differenze fonetiche tra un luogo e
l'altro che saranno necessarie per capire come si distribuiscono le forme nello spazio
e stabilire i confini, che non sono quasi mai confini etnici → per esempio, qua finisce
il napoletano e là inizia il calabrese. Ma ci sono delle transizioni graduali.
Quelli che invece si riescono a tracciare con più precisione sono i confini tra un
fenomeno e l'altro, determinando così le isoglosse (area geografica caratterizzata
dalla presenza di uno stesso fenomeno linguistico). Se si guarda la carta dell'AIS
(quella sopra → isoglossa del fenomeno della lenizione), l'atlante italo-svizzero, in
cui è stata mappata la situazione linguistica italiana e anche una parte della Svizzera
(la parte italiana dove si parlano varietà romanze).
In alcuni casi c'è ORTICA, in altri ORTIGA. In alcuni CAVEI, in altri CAPELLI.
Sono le cose che interessano a noi. Nel caso di ORTICA, posso vedere dove la
consonante resta uguale e dove si trasforma in ORTIGA.
C'è poi una linea che segna un confine che separa lo spazio in cui il fenomeno della
lenizione non si verifica da quello in cui si verifica. Al nord di questa linea il
fenomeno si verifica (per cui troviamo ORTIGA e CAVEI), a sud di questa linea no
(per cui troviamo ORTICA e CAPELLI). Questa linea si estende da un punto del Mar
Tirreno e un punto del Mar Adriatico. Le due località che convenzionalmente posso
essere prese come estremi sono La Spezia (sul Mar Adriatico) e Rimini (sul Mar
Tirreno). Quindi per provenzale, dialetti settentrionali (tra cui reto-romanzo) e
francese che si trovano a NORD e a NORD-EST di questa linea il fenomeno si
verifica, mentre per italiano (toscano compreso), romeno che si trovano a SUD e
SUD-EST di questa linea il fenomeno non si verifica.
Si può precisare che la Romania occidentale (quella in cui il fenomeno si verifica) si
divide in due sotto-aree:
● nell'area settentrionale (area francese) il fenomeno è più avanzato. La
consonante non solo si sonorizza, ma si fricativizza e in alcuni casi scompare;
● nell'area meridionale (area in cui si parla catalano, spagnolo, portoghese,
provenzale) il fenomeno è meno avanzato. La consonante si sonorizza, e al
massimo si fricativizza. Ma non si arriva alla sua scomparsa.
In questo schema ci sono una serie di parole latine scelte sempre in maniera oculata.
Schema nella cartina fa riferimento solamente alla occlusive brevi in posizione
intervocalica. Ma c'è anche un fenomeno più generale che riguarda tutte le occlusive.
Il latino non aveva soltanto /p/, /t/ e /k/. Ma conosceva anche la occlusiva dentale
lunga (TT), la occlusiva labiale lunga (PP), la occlusiva velare sorda lunga (KK).
Quindi non c'erano soltanto le occlusive semplici, ma anche quelle lunghe, quelle che
noi chiamiamo e scriviamo 'doppie'. Il sistema è quindi più complicato. C'erano tre
serie di occlusive: quelle che abbiamo visto prima (t,d,k), le loro corrispettive lunghe
e poi le occlusive sonore (G di braga, D di nudu, B → dove B è labiale, D è dentale,
G è velare). Quindi gli insiemi sono tre (guarda tabella): occlusive sorde lunghe,
occlusive sorde brevi, occlusive sonore brevi.
Guardiamo gli esiti (in ordine sono: sardo, rumeno, italiano, reto-romanzo, francese,
occitano, catalano, castigliano e portoghese):
• PP (lunga labiale) → in italiano la consonante lunga è rimasta inalterata. In
francese invece la consonante si è abbreviata (ha subito un fenomeno di
indebolimento, è sempre sorda ma non più lunga). La stessa cosa è successo
nell'occitano, nel catalano, nel castigliano e anche nel portoghese. Troviamo di
nuovo la situazione per cui le lingue occidentali mutano, mentre le lingue
orientali le conservano sia pure con qualche differenza.
• TT (lunga dentale) → in italiano si mantiene. Anche il francese la mantiene.
Mentre le altre lingue presentano la lenizione, con l'abbreviazione della lunga.
• CC → in italiano si conserva. Nelle altre no.
• B → si è quasi sempre fricativizzata.
• D → o è scomparsa oppure si è fricativizzata.
• G → fa lo stesso che la D.
Per semplificare, si può dire che inizialmente il processo sia stato questo:
Le occlusive lunghe sorde si sono abbreviate (nella Romania in cui c'è la lenizione),
mentre si sono conservate nella Romania in cui la lenizione non c'è.
Le occlusive brevi sorde si sono sonorizzate.
Le occlusive brevi sonore si sono fricativizzate (γ, δ, β → simboli usati in
trascrizione fonetica per indicare fricative) (questa rappresenterebbe la situazione del
castigliano, dove le sonore si sono fricativizzate).
L'unica lingua che non conosce affatto la lenizione è quella che si parla nell'Italia
centro-meridionale. Invece il rumeno presenta l'accorciamento delle lunghe, ma non
la sonorizzazione delle brevi. Quindi la situazione è un po' più complessa.
Una differenza è che le vocali sono sonore, mentre la consonante è sorda. Nel caso
delle vocali c'è la presenza di vibrazione delle corde vocali. Nel caso delle consonanti
c'è l'assenza di vibrazione delle corde vocali. Questo è il primo tratto che distingue
consonanti e vocali. Il secondo tratto distintivo è che per le vocali il canale orale è
sempre aperto, mentre per le consonanti no. La consonante è occlusiva, ma la vocale
no. E quindi quanto si pronuncia una occlusiva tra due vocali bisogna aprire e
chiudere il canale orale in rapida successione:
/a/ : 1 + 2 + ; → articolazione vocale: corde vibrano e canale orale aperto
/t/ : 1 – 2 – ; → articolazione consonante: corde non vibrano e canale orale chiuso
/a/ : 1 + 2 + . → articolazione vocale: corde vibrano e canale orale aperto
Questo è anti-economico. Ci sono due tratti di dissimiglianza che normalmente
tendono a diventare simili. Quindi chiamiamo 1 → tratto vibrazione/non-vibrazione.
Chiamiamo 2 → tratto canale aperto/canale chiuso.
Nella sequenza ATA:
• quando si pronuncia la /a/ le corde vocaliche vibrano? Sì, quindi accanto al
numero 1 ci metto il segno +. Quando si pronuncia la /a/ il vocale orale è
aperto? Sì, quindi accanto al due ci metto il segno +;
• quanto si pronuncia la /t/ le corde vocaliche vibrano? No, perché è sorda.
Quindi accanto al numero 1 ci metto il segno ̶ . Quando si pronuncia la /t/ il
vocale orale è aperto? No, perché è occlusiva. Quindi accanto al numero due ci
metto il segno ̶
• quando si pronuncia la /a/ le corde vocaliche vibrano? Sì, quindi accanto al
numero 1 ci metto il segno +. Quando si pronuncia la /a/ il vocale orale è
aperto? Sì, quindi accanto al due ci metto il segno +.
C'è una chiara opposizione di tratti. In questo cosa succede quindi? Che la consonante
si sonorizza → /t/ > /d/. Pertanto:
Qui la occlusiva diventa una fricativa: /d/ > /δ/. Dopo la sonorizzazione arriva quindi
la frivicatizzazione. È solamente a questo punto che si verifica l'assimilazione
completa.
Ma se ci si vuole spingere oltre (francese), si arriva ad un'assimilazione così radicale
che la consonante scompare:
Per riassumere:
TT → lunga sorda
T → breve sorda questo vale per tutte le
D → breve sonora consonanti del sistema occlusivo
Sfuggono alla regole le labiali, poiché sono molto avanzate e quindi palatalizzare per
le labiali significherebbe andare indietro:
*RABJA → in questo caso non c'è palatalizzazione che non ha funzionato in italiano
(in cui raddoppia), mentre in napoletano sì.
SEPJA → PJ > ʧ → in napoletano è 'seccj' e si è palatalizzato.
(Varvaro: schema con esempio di tutte le consonanti che sono coinvolte in questo
fenomeno).
AMIC|ORUM
CUM AMICO
SINE AMICO
Sia SINE che CUM vogliono l'ablativo. In questo la desinenza non ci dice niente. A
fare la differenza è la preposizione che precede. Il latino aveva già la tendenza a
scaricare il grosso dell'informazione sulla preposizione. Nel momento in cui arrivano
i cambiamenti fonematici, la preposizione, che in latino aveva già una grande
rilevanza, diventa indispensabile. Si assiste a una tendenza allo spostamento da un
sistema desinenziale a uno sempre più preposizionale (è una tendenza già interna alla
lingua latina).
Non fu solo una ragione a determinare il crollo della declinazione (sistema flessionale
latino), ma questo processo fu non solo lungo ma anche determinato da una serie di
cause (sia interne che esterne).
Il passaggio fu dunque lungo da un sistema che prevedeva 6 casi (nominativo,
genitivo, dativo, accusativo, vocativo, ablativo) a un sistema che, invece, non prevede
più i casi (la maggior parte delle lingue romanze non ha i casi, ma per esempio
tedesco e rumeno fanno eccezione).
I casi, in realtà, continuiamo a usarli soltanto in un settore: quello dei PRONOMI.
Infatti quando usiamo i pronomi usiamo i casi. Quando diciamo IO o ME, sono dei
casi (sono due forme diverse per indicare soggetto/nominativo e oggetto/accusativo).
GLI è la forma del dativo. Mentre nei nomi e negli aggettivi i casi sono
completamente scomparsi, nel settore pronominale si sono mantenuti → tutto questo
avvenuto nel corso dei secoli per cause diverse (fonetiche, crisi di alcune opposizioni
morfologiche, tendenza del latino a usare già le preposizioni, altro punto debole:
latino è troppo poco ridondante*).
Si tratta quindi di un processo che non fu radicale. Non si passò da un sistema a 6 casi
a un sistema nominale dell'aggettivo a 0 casi. Si passò attraverso un sistema
semplificato che viene chiamato BICASUALE perché appunto prevedeva solo due
casi (da 6 si passa a 2).
Questo sistema bicasuale è ampiamente documentate in due lingue romanze: francese
antico (oggi francese non ha più i casi) e provenzale o occitano (parlate di Francia
meridionale, che hanno avuto grande importanza in età medievale, perché in
provenzale scrivevano i poeti trovatori che hanno sostanzialmente fondato la lirica
romanza. È stata una lingua di grande prestigio). Ci sono quindi molte testimonianze
in queste due lingue che conservano la declinazione bicasuale, che a un certo punto è
sparita → verso il 13° secolo iniziano a comparire errori. I casi stanno scomparendo
e chi scrive sa che dovrebbe declinare ma non lo sa più fare perché quando parla non
lo fa e quindi commette errori. Da quello che si riesce a ricostruire (documentazione
sopratutto francese è abbondantissima: Chanson de Roland, Chanson de geste; così
come è abbondante anche la lirica provenzale dei trovatori), si può presumere che
tutte le lingue romanze abbiano conosciuto una fase analoga che non è documentata
(quando le lingue cominciano ad essere documentate e quindi scritte, ormai il
fenomeno è decaduto → per esempio in italiano antico si hanno solamente delle
tracce, così come per lo spagnolo antico). Ma ci sono delle tracce che fanno capire
che la declinazione bicasuale funzionava in tutte le lingue romanze. Probabilmente il
latino sub-standard tardo aveva semplificato i 6 casi in 2, che poi nelle lingue
romanze si sono conservati più o meno a lungo (nel caso del francese antico e
dell'occitano più a lungo, nel caso delle altre lingue meno a lungo).
Come funzionava la declinazione bicasuale nel latino tardo:
• caso nominativo → una forma per il singolare e una per il plurale
• caso accusativo → tutti gli altri casi
Il nominativo è definito CASO RETTO perché non ha bisogno di preposizioni.
L'accusativo è definito CASO OBLIQUO perché è più complicato racchiudendo in sé
tutti gli altri casi.
Esempio dalla seconda declinazione:
Sing. Plur.
C R MURUS MURI
C O MURU(M) MUROS
MURUS (forma del nominativo) si usava ogni volta che era soggetto.
MURU(M) (forma dell'accusativo) si usava ogni volta che era oggetto. Questa forma
viene usata anche per tutti gli altri casi. Ma per distinguerli dall'accusativo, si fa
precedere la forma da una preposizione (es. DE + MURU → genitivo).
MURI (forma del nominativo) → plurale.
MUROS (forma dell'accusativo) → plurale.
Questo sistema dovette funzionare in quello che noi chiamiamo il latino tardo, cioè
quando ormai il latino era andato in crisi (magari si scriveva ancora, ma non si
parlava più). E da questa base si parte per i sistemi romanzi, che in origine appunto
sono bicasuali → sistema che sparisce molto presto, mentre persiste in francese e in
occitano fino al XIII-XIV sec. (12° secolo funziona ancora perfettamente, 13° secolo
si iniziano a intravedere le prime avvisaglie di crisi).
Esempio dal francese antico, parola 'cavaliere':
Sing. Plur.
Caballarias Caballarii
(che in fr. ant. diventa) (che in fr. ant. diventa)
C R
Chevaliers Chevalier
Caballariu Caballarios
(che in fr. ant. diventa) (che in fr. ant. diventa)
C O
Chevalier Chevaliers
Nei sistemi romanzi la posizione è determinante (un conto è dire che 'il cane morde
l'uomo', un conto è dire che 'l'uomo morde il cane') nell'interpretazione del
significato. Quindi, la trasformazione non riguarda solo la declinazione ma anche la
posizione.
Il tempo verbale invece conserva una morfologia complessa come quella latina. Si
continua a distinguere, attraverso le desinenze, le persone ( in italiano AMO è diverso
da AMI). Questo non vuol dire che anche qui non ci siano stata trasformazioni, infatti
anche la morfologia verbale subisce profonde modifiche. In latino esistevano forme
verbali che ormai non esistono più, come il supino. Oppure si creano nuove forme
verbali, come il condizionale (che il latino non conosce). Ma ancora una volta il
senso della trasformazione è analitico.
Esempio dalla morfologia verbale, esempio del futuro (che in latino era sintetico e si
riconosceva dalla desinenza) nelle lingue romanze. Il futuro romanzo non è sintetico,
è infatti una costruzione analitica o PERFIFRASTICA (utilizza più elementi):
it. canterò
sp. canataré
fr. charterai
Si tratta di perifrasi, perché sono due gli elementi che costituiscono il futuro: infinito
del verbo + le desinenze del verbo avere presente.
Quindi si passa da forme che erano sintetiche a forme che sono analitiche (AMERO'
→ AMARE + HABEO). Solo che poi nelle lingue romanze i due elementi si sono
fusi, e quindi non li riconosciamo immediatamente come una perifrasi. In latino
esistevano molte perifrasi per indicare il futuro: per indicare il futuro più immediato
si usavano perifrasi del tipo infinito + habere. C'erano molte possibilità di costruire il
futuro immediato con forme perifrastiche: infinito + presente del verbo dovere
(DEBEO) oppure con il verbo volere (VOLO).
Molte di queste perifrasi si sono conservate anche nelle lingue romanze. In latino
esisteva la possibilità di indicare il futuro immediato con la perifrasi infinito + ad +
voce del verbo andare. Spagnolo: voy a cantar (che significa canterò). Francese: Je
vais chanter (che significa sto per cantare).
Altre perifrasi: HABEO + A; HABEO + DE.
Frutto di una perifrasi è anche il condizionale, formato da infinito + passato remoto o
perfetto del verbo avere. Spagnolo: cantaría → ma qui sono le desinenze
dell'imperfetto. Quindi il condizionale, a seconda delle lingue romanze, può essere
formato da infinito + HABUI (perfetto di habere) oppure da infinito + HABEBAM
(imperfetto di habere).
09/11
LETTERATURA
Non sarà la storia della letteratura romanza medievale, ma sarà una rapidissima rassegna di
quelle che sono le esperienze letterarie più importanti del Medioevo romanzo (esperienza
religiosa, lirica, epica, romanzesca).
Partiamo dall'esperienza religiosa per due motivi:
• proprio nell'ambito della produzione di testi religiosi per la prima volta si pone il
problema del divario ormai incolmabile tra le lingue romanze (quelle parlate) e il
latino (lingua scritta, sostanzialmente la lingua del clero). Tra la lingua che parlano i
fedeli e quella che parla il clero non c'è più comunicazione, possibilità di mutua
comprensione
• l'esperienza religiosa nel Medioevo è quella più diffusa perché gli aspetti religiosi
permeano la vita dei fedeli del Medioevo in maniera molto intensa. Lo confermano i
testi che ci sono rimasti (non soltanto l'enorme produzione religiosa in latino
medievale, ma anche vasta produzione in lingua romanza) e la grande diffusione che
ebbero (erano i più letti e i più ascoltati).
Ma, come già detto, uno dei motivi è che nell'ambito religioso viene per la prima volta
riconosciuta una distanza ormai non più colmabile tra lingua parlata (romanza, quella dei
fedeli) e lingua scritta (del clero, il latino).
Nell'anno 813 si tenne a Tours un concilio che riuniva vescovi di varia provenienza che
deliberò su una serie piuttosto cospicua di materie. Una di queste di deliberazione è molto
interessante: durante questo concilio una decisione impone all'episcopato di curare che la
predicazione sia fatta in LINGUA VOLGARE, e non in latino. E si motiva anche questa
decisione: in modo da rendere comprensibile e accessibile, in modo da garantire la
comprensione della predica a TUTTI i fedeli. Si tratta quindi di un riconoscimento che il
latino i fedeli ormai non lo capiscono più. Il clero parla una lingua che non è più comune. Il
concilio lo riconosce e impone la predica (cioè la parte variabile della messa: l'omelia, il
commento a una parte del vangelo, il sermone) in volgare. Le altre parti della messa, invece,
resteranno in latino per molto tempo (fino a pochi decenni fa).
Il concilio di Tours dell'813 sta sancendo ufficialmente l'esistenza delle lingue romanze e le
sta promuovendo ad un ambito che prima era appannaggio esclusivo del latino. È come una
promozione di rango, la necessità di instaurare una nuova tradizione in lingua volgare.
Quello che avviene per la predica ben presto accade anche per la vastissima letteratura
religiosa scritta in latino. Ma tutta questa produzione (letteraria e non) non era ovviamente
alla portata di tutti e aveva bisogno di una MEDIAZIONE anzitutto linguistica (poiché le
percentuali di chi conosceva il latino erano bassissime, in pratica solo il clero), ma anche
una mediazione culturale (i concetti spesso sono espressi in maniera difficile). Quindi una
traduzione linguistica, ma anche una traduzione di questi concetti in maniera tale che un
pubblico meno avveduto (privo di una formazione scolastica, quella che appunto avevano
solo i chierici) possa intenderli. Quindi si riconosce la necessita di usare il volgare nella
predicazione e questo apre le porte alla necessità di usare il volgare anche in altri ambiti
come quello letterario. C'è a disposizione un'enorme quantità di testi religiosi scritti in latino
medievale (letteratura medievale medio-latina) che deve essere tradotta. Non deve essere
solo una traduzione linguistica, ma anche una trascodifica (dei concetti, per un pubblico che
non ha conoscenze scolastiche). E quindi si comincia a tradurre. I primi testi romanzi sono
essenzialmente frutto di quest'operazione di mediazione linguistico-culturale. Alla loro base
c'è sempre un testo latino, che viene preso come riferimento, e che viene “tradotto”, reso
fruibile per un pubblico che il latino non lo conosce. Di qui a passare alla composizione e
alla redazione di testi originali non passa molto: non più frutto di traduzione ma testi scritti
direttamente in lingua volgare (dove non c'è neanche più alla base come fondamento un
testo medio-latino). Concetto di ORIGINALITÀ del Medioevo è molto diverso dal nostro.
Per esempio, studiando Gonzalo de Berceo sarà capitato di leggere un 'miraglo': si tratta di
un testo originale in un senso molto particolare perché in realtà Berceo si serve di una fonte
latina → ci sono cioè dei 'miracula' latini a cui fa riferimento che utilizza come base per il
suo testo → il suo testo è una rielaborazione molto profonda, che si allontana anche dal testo
latino; ed è ritenuto un testo del tutto originale. Per originalità infatti non si intende qualcosa
che è stato proposto per la prima volta, ma si intende il modo nuovo con cui si presentano
contenuti che la tradizione ha tramandato. Anzi, è proprio quello il compito: tramandare
presso un pubblico che non conosceva il latino questa composizione già esistente.
L'originalità nel Medioevo, quindi, non sta nell'inventare dal nulla, ma nel REINVENTARE
quello che già esiste. È la trasmissione del sapere quello che conta.
Iniziano così a comparire i primi testi in lingua romanza, che sono in francese antico [a parte
un primissimo esempio di testo su cui si discute molto su quanto sia definibile veramente
'romanzo' → I giuramenti di Strasburgo: formule giuridiche, giuramenti che fecero i generali
degli eserciti di due imperatori che si allearono tra di loro. Giurarono i due imperatori,
giurarono anche gli eserciti, e quindi sono due formule differenti. E sono però una
mescolanza tra lingua romanza e latino. Stabilire bene qual è il confine è molto complicato].
I primi testi che possiamo definire sicuramente 'romanzi' sono testi religiosi. Sono quelli che
normalmente si chiamano testi AGIOGRAFICI (agiografia: scrittura di cose sacre, dal greco
'agios' → santo e 'grafia' → scrittura). Sono testi che raccontano vite di santi.
Rapidissimo quadro di questa produzione:
• “La cantilena di Sant'Eulalia” → testo di una brevissima passione, cioè il racconto
della morte di questa santa.
• “Vie de Saint Alexis” → testo che ha avuto una grande fortuna fino a tempi anche
piuttosto recenti. Scritto in francese antico. È uno dei primi testi in lingua romanza.
Qualche informazione sulla produzione agiografica (all'interno della quale si collocano i
testi che analizzeremo): si trattava di testi che avevano una funzione EDIFICANTE. Si
racconta la vita di un santo per edificare i fedeli. Erano cioè testi che avevano anzitutto una
funzione pedagogica e ammonitrice. Si edificava il fedele in virtù dell'esemplarità del
comportamento del protagonista del racconto, che era un santo. La vita del santo viene
ritenuta esemplare, un modello a cui riferirsi, un modello degno di essere imitato.
L'esemplarità è un'altra caratteristica della letteratura medievale in generale e, ovviamente,
nei testi religiosi è un elemento fondamentale: non c'è storia che meriti di essere raccontata
se non può fungere da esempio di cui fare tesoro (tutto ciò che non ha questa funzione
interessa poco o nulla). Questo è uno dei motivi per cui nel Medioevo praticamente non
esiste la autobiografia o la biografia: raccontare quello che mi è accaduto o che è accaduto a
qualcuno non ha senso ammenoché questo racconto non abbia una funzione pedagogica). È
per questo che conosciamo pochissime biografie ed autobiografie, ne conosciamo una in
particolare. La più famosa autobiografia del Medioevo è “Le Confessioni” di Sant'Agostino.
Sant'Agostino scrive un'autobiografia che ha un senso perché non racconta qualcosa che non
è utile agli atri, racconta invece qualcosa che è esemplare. Le confessioni sono il racconto di
una conversione: come da pagano sia è convertito al cristianesimo e di come ha vissuto
questo momento. È interessante anche perché è il punto di vista di un ex-pagano che guarda
al paganesimo in un certo modo e che non ritiene che il paganesimo sia tutto negativo e che
vada completamente dimenticato, ma che anzi in qualche modo può essere utile alla
religione cristiana. È un'esperienza che merita di essere raccontata perché è esemplare.
Questa è una cosa che si prolunga nel tempo perché in Spagna viene pubblicato forse l'unico
romanzo picaresco che si distingue: il “Lazarillo de Tormes”. È un'autobiografia: Lazarillo
racconta la sua vita. Nonostante siamo molto più avanti nel tempo, è necessario che lui
giustifichi il motivo per il quale racconta la sua vita. Il protagonista nel prologo dell'opera fa
una premessa scrivendo una lettera a una “Vuestra Merced” in cui spiega perché è
necessario che lui racconti la sua vita: è stato coinvolto in un problema familiare, relativo a
ciò che avviene tra lui, sua moglie e una terza parte, cioè nel suo privato; questo privato
diventa pubblico e lui deve discolparsi e dunque deve chiedere una sorta di permesso a
raccontare. È ancora un retaggio del passato: ciò che mi è successo non è lecito ammenoché
quello che mi è accaduto non sia utile anche agli altri. Anche qui c'è dunque una funzione
esemplare, che arriva anche fino al “Don Chisciotte”, alle “Novelas Ejemplares” di
Cervantes.
Tornando ai testi religiosi, abbiamo detto che la loro prima funzione è quella pedagogica-
ammonitrice-esemplare. Questa esemplarità però era fondata a sua volta su un'altra
imitazione perché è vero che il fedele che ascolta la vita del santo (lettura privata e solitaria
è qualcosa di più 'moderno') era chiamato ad imitarne il comportamento, ma la vita del santo
era a sua volta un'imitazione di un'altra vita: la vita di Cristo. Buona parte dei testi
agiografici si fonda su un principio compositivo che viene chiamato IMITATIO CHRISTI.
Coloro che scrivono la vita di un santo cercano quanto più è possibile di farla assomigliare a
quella di Gesù. Ma l'Imitatio Christi non è una cosa poi così lontana dalla nostra sensibilità.
Per un ascoltatore del Medioevo era facile riconoscere parallelismi con la vita di Cristo, dato
l'altissima partecipazione alla vita religiosa di quel periodo. C'è quindi nel Medioevo una
riconoscibilità diretta. Però noi abbiamo a che fare continuamente con l'Imitatio Christi e
non sempre ce ne rendiamo conto:
Il film di Steven Spielberg “E.T.” è un film che ha avuto un enorme successo. Spesso e
volentieri le cose che hanno successo sono più o meno consciamente riconoscibili: ci piace
ciò che già conosciamo. ET è perfettamente in linea con un testo agiografico. Spielberg non
è cristiano però conosce bene il meccanismo, tant'è che scrive un esempio perfetto di
Imitatio Christi:
• ET non è di questo mondo, viene da un altro mondo, “scende dal cielo”
• ET ha dei poteri straordinari, fa miracoli, guarisce le ferite (dito che si illumina)
• ET ha un life index, cioè un simbolo di vita: un pianta che si appassisce o si riprende
a seconda se lui sta male o bene
• ET muore però risorge (la scena in cui risorge è chiaramente esemplata sul Vangelo:
ET è su un'ambulanza, esce con indosso un lenzuolo bianco che fa riferimento alla
sacra sindone, mentre le porte dell'ambulanza che si aprono sono un chiaro
riferimento a quelle del sepolcro)
• ET a un certo punto ascende al cielo in fascio di luce e attorniato dai suoi “apostoli”,
cioè i bambini
La storia di ET non è altro che un altro racconto della storia di Cristo, è la storia di Cristo in
salsa fantascientifica.
Tornando al Medioevo, la vita di Cristo è la definizione più completa di santità. Però come
si poteva svolgere l'imitatio Christi? Sono 2 i modi che la letteratura agiografica presenta:
il santo può imitare la morte di Cristo, cioè muore com'è morto Cristo → in questo
caso abbiamo quella che in latino si chiama una PASSIO (al plurale PASSIONES).
Sant'Eulalia viene martirizzata, per esempio, dai pagani ed è sostanzialmente come
Gesù Cristo è morto sulla croce per l'affermazione della fede. E quindi abbiamo a che
fare con una passio
il santo può imitare la vita di Cristo → in questo caso abbiamo una VITA del santo (o
al plurale VITAE SANTORUM)
Quindi una prima distinzione può essere fatta tra i racconti che imitano la vita di Cristo
oppure quelli che ne imitano la morte, con funzioni diverse:
➢ PASSIO → mette in scena un santo che muore per l'affermazione dei valori della
cristianità, quindi una sorta di eroe destinato a morire: un martire. La sua morte,
riscattata dalla salvezza, è la testimonianza che i valori per cui il santo è morto sono
quelli giusti e veri.
➢ VITA → funzione più esemplare basata sul comportamento in vita.
C'è anche un terzo filone che è quello dei MIRACOLI (segno della santità). Ci sono
miracoli che si accompagnano sia alla PASSIO (normalmente quando un santo muore si
verificano dei miracoli) sia alla VITA. Il miracolo nella passio assume la funzione di
dimostrare dove sta la verità (i santi incarnano la verità) e spesso i carnefici faticano a capire
(es. San Lorenzo che viene variamente tormentato dai suoi persecutori, quando viene steso
sulla brace ardente lui dice di stare perfettamente bene non sentendo il calore del cuore →
quello è un segno miracoloso che Dio è dalla parte di San Lorenzo). Il miracolo nella vita
assume la funzione di confermare l'eccezionalità del protagonista e di rafforzare la fede del
credente “normale”.
Quindi il filone dei MIRACOLI accompagna i due di PASSIO e VITA, e solo in un
secondo momento se ne separerà diventando materia, anche narrativa, indipendente.
Nei primi testi prima menzionati (La Sequenza di Sant'Eulalia e La vita di Sant'Alessio) in
francese antico, che sono testi degli inizi del X secolo o poco posteriori: già in questi primi
testi è riscontrabile un'opposizione PASSIO-VITA. Mentre la 'Sequenza di Sant'Eulalia' è
una passio (cioè racconta la morte di questa giovane cristiana che viene martirizzata dai
pagani), invece la 'Vita di Sant'Alessio' prende come modello la vita di Cristo.
I miracoli poi cominciano a diventare oggetto di racconti autonomi. Anziché raccontare la
vita o la passione di un solo santo, ne venivano raccontati solo i miracoli. Ad un certo punto
si crea il filone indipendente: RACCONTO MIRACOLISTICO. E diventa sempre più
indipendente, fino a che iniziano a comparire raccolte solo di miracoli.
Un esempio concreto è il Cammino di Santiago (che è stato ed è ancora uno dei grandi
pellegrinaggi del Medioevo): è un pellegrinaggio che prevede la raggiunta della meta di
Santiago dove si trova la tomba dell'apostolo Giacomo le cui spoglie sarebbero state
trasportate dall'Oriente fino in Spagna, e più precisamente a Campostela o Compostela
(provenienza di questo nome ha a che vedere con i due termini 'campo' e 'stella' → la
tradizione vuole che il luogo in cui l'apostolo Giacomo venne sepolto fosse indicato
dall'apparizione di un stella sul campo in cui il santo è stato sepolto). Esiste un testo, in
latino, che raccoglie una serie di materiali intorno alla vita di San Giacomo: Codex
Calixtinus (il 'codice di Callisto' → Callisto è il papa che commissionò questo codice –
codice significa sostanzialmente libro, manoscritto). Vengono quindi messi insieme una
serie di materiali: si dice come arrivare a Santiago, quali sono i luoghi in cui si può fermare,
cioè una sorta turistica del pellegrino. Ma prima ancora di presentare questi aspetti più
pratici, si racconta tutta la leggenda che ruota intorno a San Giacomo (compresa
l'apparizione della stella sul luogo in cui il santo è stato sepolto); ci sono poi una serie di
sermoni riguardanti Santiago, la sua vita, la sua santità: è quindi un testo agiografico. Una
sezione di questo codex è dedicata ai miracoli che San Giacomo ha prodotto, spesso e
volentieri sono miracoli che avvengono lungo il cammino (un pellegrino cade in tentazione
a causa del demonio, è in pericolo di vita e interviene Santiago che, compiendo un miracolo,
lo salva). I racconti dei miracoli operati da San Giacomo nel Codex Calixtinus sono in tutto
22.
Quindi si possono trovare o collezioni dedicate ad un unico santo o antologie più ampie
dedicate a più santi, che venivano spesso messe a disposizione dei predicatori del clero
perché appunto erano i serbatoi di storie edificanti da raccontare e da indicare come
esempio.
I miracoli così cominciano a diventare un genere a sé stante. E ne compaiono di vari, fino a
che a un certo punto cominciano a comparire (un po' in ritardo rispetto agli altri → il culto
della Vergine Maria ha avuto grandi difficoltà ad essere ufficialmente riconosciuto dalla
Chiesa. Lo era fin da tempi abbastanza antichi a livello popolare, non-ufficiale. La Chiesa
ha faticato perché è una donna, anche se vergine. La misoginia della Chiesa a quei tempi era
maggiore rispetto a oggi. Ma a livello popolare il culto della Vergine era diffusissimo e
quindi la Chiesa si è dovuta arrendere e riconoscerlo in maniera ufficiale) raccolte di
miracoli in cui protagonista del prodigio è la VERGINE MARIA. Erano raccolte o antologie
di racconti miracolisti mariani. (Un miracolo della Vergine scritto da Berceo si trova nel
libro di Varvaro) Leggendoli si capisce il problema: in qualche modo la Vergine prende il
posto di Gesù Cristo. La protagonista assoluta è la Vergine, sia pure come rappresentante di
suo figlio. Da qui deriva la difficoltà a riconoscere il suo culto ufficialmente.
Si cominciano a scrivere raccolte prima in latino (e ce ne sono molte), normalmente però i
testi in latino sono in prosa. Sono spesso molto schematici, brevi, sentitici, asciutti, con
un'assenza quasi totale di dialoghi, descrizioni minime e scarne. Sulla base di queste
antologie di miracula mariani, compaiono le prime testimonianze di racconti in lingua
romanza. Come al solito cominciano ad apparire in francese. Uno dei capolavori del genere
è scritto proprio in francese: i “Miracoli di Notre-Dame” di Gautier de Coincy (autore di cui
si sa poco: è un ecclesiastico). Si tratta di una sorta di cattedrale gotica della miracolistica
mariana: racconta decine e decine di miracoli con una struttura che richiama le strutture
gerarchiche di una costruzione gotica.
Vi è poi la raccolta dei miracoli di GONZALO BERCEO: raccolta di miracoli mariani in
lingua “spagnola”.
Fotocopia → introduzione dell'opera. Un elemento costituivo dei testi religiosi è la loro
pluralità dei sensi. Il senso non è solo quello letterale, ma ce ne sono altri che vanno cercati.
È un buon esempio per far capire come i testi religiosi non si limitino al testo (alla “littera”,
al senso letterale), ma hanno dei sensi nascosti e riposti, che possono essere di vario tipo:
allegorico, simbolico, ecc.
Abbiamo quindi a che fare con un testo che ha un suo significato letterale, però in maniera
più o meno nascosta ne ha anche altri. Su un secondo livello, quello del SENSUS (cioè
quello del significato, che si contrappone alla LITTERA, quello letterale). Il sensus è
plurimo: c'è un significato allegorico-simbolico che ci spiega lo stesso Berceo (fa come
Dante, e ci dice di fare attenzione poiché sotto la superficie, il velo dei versi c'è un
significato riposto). Berceo fa il mediatore culturale: non può pretendere da un pubblico di
fedeli impreparato e quindi gli dà la soluzione. Vi è poi un terzo livello a cui Berceo allude e
non lo spiega, probabilmente perché il pubblico a cui si sta rivolgendo non è più quello
indifferenziato dei fedeli, ma si sta rivolgendo sostanzialmente ai suoi pari: pubblico di
chierici che invece ha una preparazione adeguata per poter cogliere questo terzo livello.
Terzo livello che può essere definito FIGURALE o TIPOLOGICO. Si tratta di una
interpretazione particolare che si applica prevalentemente ai testi religiosi.
Questo testo è in versi, divisi in quartine. Ma che tipo di verso è? Non è un endecasillabo (in
più quello che noi chiamiamo endecasillabo non è detto che sia la stessa cosa per un
francese). Quando dobbiamo identificare un verso, di solito contiamo le sillabe. Ma questo
procedimento non è esatto, perché contiamo le sillabe fonetiche, cioè le sillabe della lingua
corrente, ma questi sono testi letterari. Per questo motivo si devono contare le sillabe
metriche (che non sempre coincidono con quelle fonetiche). Quella che foneticamente può
essere una sola sillaba, metricamente ne sono due e viceversa. Il termine più corretto per
definirle è 'posizione metrica'. Contando i versi, ci si rende conto che hanno un numero di
sillabe variabile: Berceo non sa scrivere in testi regolari?
Sono i versi che caratterizzano il cosiddetto Mester de Clerecía, quell'insieme di testi che
hanno tra le arte cose la stessa forma metrica. È il filone di testi più colti, che quindi come
caratteristica deve avere quella di versi regolari. Qui regolari vuol dire isosillabici, cioè tutti
quanti con lo stesso numero di sillabe. Invece qua questa cosa sembra non accadere, ma in
realtà accade eccome. Bisogna saper contare bene le posizioni. Il verso tipo del Mester de
Clerecía è l'alessandrino (raggruppati in quartine). L'alessandrino dovrebbe essere composto
da 14 sillabe.
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La metrica è una cosa complicata. Per indicare la sillaba in questo caso dobbiamo usare il
termine 'posizione metrica'. Vi è anche il concetto di accento: l'accento fonetico non sempre
corrisponde a quello metrico (il verso ha un ritmo). Poiché anche in questo caso non c'è una
corrispondenza biunivoca fra accento fonetico e accento metrico è bene chiamare l'accento
metrico in un altro modo, cioè ICTUS.
La posizione è l'unità minima del verso, l'unita di misura di un verso. Il problema è dato dal
fatto che a una posizione possono corrispondere, per esempio, due sillabe fonetiche. Cosa
regola metricamente gli incontri vocalici? Per capire questo, bisogna usare due figure
metriche. I problemi sono posti essenzialmente dalle vocali perché sono i nuclei delle
sillabe. Può accadere che due vocali che sono all'interno di una parola valgano una sola
posizione o viceversa. Le figure metriche che reggono questi incontri vocalici interni a una
parola sono la DIERESI e, il suo contrario, la SINERESI. La sineresi non si segna
graficamente, mentre la dieresi sì (due puntini su una vocale per indicare che deve essere
contata come un'unità a sé stante).
Prendiamo come esempio la parola VIENE. Foneticamente le sillabe sono due: VIE – NE.
Ma in una tradizione poetica (è questo un esempio astratto) potrebbero contarsi anche 3
posizioni: VI – Ë – NE. In questo caso sulla E si mettono i due punti puntini, che è la
dieresi. Se invece abbiamo la parola POETA → qui foneticamente le sillabe sono tre: PO –
E – TA. Però in una traduzione metrica, potrebbe accadere la O e la E valga una sola
posizione metrica. In questo caso, anziché di una dieresi, si avrebbe una sineresi.
Ma si possono avere problemi di conteggio anche quando due vocali si incontrano non
all'interno di una parola, ma fra l'inizio di una parola e l'inizio di quella successiva.
Prendiamo come esempio un verso di Dante: COME ALBERO IN NAVE. Qui l'incontro
vocalico è tra la E finale di 'come' e la A iniziale di 'albero'. In quest'incontro le due vocali
possono valere due sillabe, ma in metrica anche una sola posizione. Le figure metriche che
reggono gli incontri vocalici tra parole diverse sono DIALEFE e SINALEFE.
Spesso le etichette con cui indichiamo i versi sono ingannevoli, perché normalmente il
nome di un verso fa riferimento alla struttura generale della lingua. Quasi sempre in italiano
e spagnolo le parole hanno l'accento sulla penultima, sono cioè parole piane. Per questo
motivo, poiché quasi sempre dopo l'ultimo accento c'è una atona che segue, viene ideato il
nome del verso aggiungendo questa atona che in realtà non fa parte della struttura metrica.
Facciamo un esempio:
• Il verso Nel | mez|zo | del | cam|min | di | nos|tra | vi|ta è un endecasillabo. Questo
verso non pone nessun problema perché non ci sono incontri vocalici.
• Nel verso In | for|ma | dun|que | di | can|di|da | ro|sa ci sono 11 sillabe e come il
precedente non dà nessun problema.
• Nel verso Lu|ci|fe|ro | con | Giu|da | ci | spo|sò c'è qualcosa che non va: le sillabe
sono 10.
• Nel verso Di|nan|zi | a | me | sen | va | pian|gen|do | A|lì: le sillabe sono 12.
• Nel verso Non | mol|to | lun|gi | per | vo|ler|ne | pren|de|re: le sillabe sono di nuovo
12.
Tutti questi versi dovrebbero essere endecasillabi, ma facendo il conteggio non ci si trova
perché stiamo contando le sillabe fonetiche, invece dobbiamo contare le posizioni metriche.
Prima regola: si contano le posizioni metriche fino all'ultimo accento del verso, dopodiché
ci si deve fermare. Tutto ciò che segue l'ultimo accento del verso, se c'è qualcosa, dal punto
di vista metrico è come se non esistesse. Guardando questi versi, ce n'è uno che ci dice qual
è la base, la forma minima di un endecasillabo: il terzo verso → perché c'è l'accento alla
fine del verso, dopo non segue niente, oltre esso non si può contare. Da questo verso si
capisce che l'endecasillabo non conta 11 sillabe (come siamo abituati a pensare), ma conta
10 posizione metriche. Noi lo chiamiamo endecasillabo perché normalmente le parole
dell'italiano sono piane, cioè sono come la parola 'vita' dove dopo l'ultimo accento c'è una
sillaba atona che nel conteggio metrico non rientra perché si devono contare le sillabe fino
all'ultimo accento.
Quindi nel caso del primo verso arrivati alla sillaba VI- di 'vita' (che è l'ultima accentata del
verso) ci dobbiamo fermare, ritrovandoci così 10 posizioni metriche.
Nel secondo verso l'ultimo accento è posizionato sulla sillaba RO- di 'rosa' e anche in questo
caso fermandoci lì ci ritroveremo alla fine con 10 posizioni metriche.
Per cui la struttura dell'endecasillabo prevede 10 posizioni a cui può seguire una sillaba
fonetica atona.
Nel quinto verso l'ultimo accento cade sulla sillaba PREN-, contando fino a qui ci
troveremo con il conteggio di 10 posizioni. Questa volta la struttura del verso è 10 + 2.
Nel quarto verso c'è un problema perché l'accento è sull'ultima sillaba del verso e quindi ci
si deve fermare là. → Prendiamo il verso: E | co|me | al|be|ro | in | na|ve | si | le|vò : anche
qui l'ultimo ictus è sull'ultima sillaba. E le sillabe del verso sono 12. Come si possono
riportare questi due versi alla misura che ci interessa?
Nel caso del verso 'e come...' si deve supporre una sinalefe tra la a e la e (sinalefe: l'incontro
di una vocale finale di una parola e la vocale iniziale di un'altra parola che foneticamente
vale due, ma metricamente vale uno). È come se tra 'come' e 'albero', dal punto di vista
metrico, ci fosse un'elisione → E | co|me al|be|ro | in | na|ve | si | le|vò : c'è ancora una
posizione di troppo. Bisogna supporre un'altra sinalefe tra la o e la i. E' un endecasillabo con
10 posizioni metriche e due sinalefe.
La divisione finale è questa: E | co|me al|be|ro in | na|ve | si | le|vò (e com'alber'in nave si
levoò). Pertanto nel verso 'dinanzi...' → i due incontri vocalici producono sinalefe (dinaz'a
me se van piangend'Alì).
Nel terzo caso invece si ha bisogno di una sillaba in più e per questo si applicherà una
dialefe → in questo caso potrebbe essere applicata al dittongo IU con una dieresi sulla U in
modo da creare un'altra sillaba: Lu|ci|fe|ro | con | Gi|ü|da | ci | spo|sò.
Tornando all'alessandrino, si chiama così perché è il verso utilizzato in una famoso romanzo
francese medievale: il “Roman d'Alexandre”. Si tratta di un romanzo del XIII secolo in versi
sul personaggio di Alessandro il Grande. È un romanzo che ebbe molto successo e la sua
forma metrica fu imitata. E il verso utilizzato in esso si chiamò 'alessandrino'.
Tornando a Berceo, adesso si può dire che cos'è un alessandrino da un punto di vista
metrico. È un verso lungo: i versi a cominciare da 12 posizioni metriche in poi si possono
considerare lunghi , quando sono così lunghi, normalmente vengono divisi in due parti che
prendono il nome di EMISTICHI. L'alessandrino è, dunque, un verso formato da due
emistichi: uno deve avere 6 posizioni metriche e l'altro deve avere 6 posizioni metriche. Per
cui l'alessandrino in totale conterà 12 posizioni metriche. Dal punto di vista fonetico, invece,
le sillabe possono essere molte di più. Anche per l'emistichio vale la regola per cui ci si deve
fermare all'ultimo accento. Nell'emistichio quindi ci si deve fermare al sesto accento. Dopo
quella sesta posizione, teoricamente, si potrebbe avere anche una parola piana e questo
significa che dopo ci sarà una sillaba in più. Quindi sono 6 posizioni fonetiche, ma le sillabe
sono 7. Dal punto di vista fonetico, l'alessandrino può avere un massimo di 16 sillabe
(perché ne può avere due in più nel primo emistichio e due in più nel secondo, nel caso in
cui, per esempio, entrambi gli emistichi terminino con una parola sdrucciola → accento
sulla terzultima sillaba).
Nel caso di Berceo, è obbligatoria (si applica sempre) una figura metrica: la dialefe. In
Berceo non ci sono, se non in rarissimi casi (probabilmente dovuti ad errori di copisti), casi
di sinalefe. La dialefe è d'obbligo. [Quello che è considerato un endecasillabo italiano e
spagnolo, è chiamato in francese 'decasellabe', ma è la stessa cosa: 10 posizioni metriche]
Facciamo un esempio usando il primo verso dell'introduzione di Berceo:
A|mi|gos | e | va|sal||los → qui ci dobbiamo fermare alla sillaba SAL che è l'ultima
accentata ed è seguita da una sillaba atona → 6 + 1 (una sillaba numeraria che non entra nel
computo metrico).
de | Dios | om|ni|po|tent → questa volta il verso è tronco, cioè l'accento è sull'ultima; quindi
si conta fino alla fine e sono esattamente 6.
Secondo verso:
Si | vos | me | es|cu|chás||sedes → qui dopo l'ultimo accento (sillaba CHA) ci sono due
sillabe in più (cioè la parola è sdrucciola) → 6 + 2 (due sillabe numerarie che non entrano
nel computo metrico). È stata applicata una dialefe sistematica tra 'me' e 'escuchassedes':
l'incontro vocalico è stato contato due volte.
Il segreto per capire di fronte a che tipo di verso ci si trova è quello di trovare un verso più
semplice possibile, vale a dire un verso all'interno del quale non si verifichino incontri
vocalici, poiché in quel caso non è applicabile nessuna regola (es. verso 5b).
La pausa metrica tra due emistichi si chiama CESURA.
Avevamo già detto che il racconto miracolistico diventa un genere letterario a sé stante. La
maggior parte di esse sono in latino e Berceo utilizza proprio una collezione in latino. Sia
nella biblioteca di Copenaghen sia nella biblioteca nazionale di Madrid, vi è un manoscritto
che deve essere stato molto vicino alla collezione utilizzata da Berceo. Quindi abbiamo la
possibilità di confrontare il testo di Berceo con quella che è qualcosa di molto simile alla
sua fonte. Cioè una raccolta di miracoli che prende il nome di “Miracula Beatae Mariae
Virginis”, di cui fanno parte molti miracoli, divisa in sezioni. La prima sezione, che è quella
utilizzata da Berceo, conta 28 miracoli, tutti appunto mariani. E Berceo ne ha utilizzati 24,
mentre in tutto i suoi miracoli sono 25. Vuol dire che 24 miracoli li ha presi da questa fonte
ben nota, e un altro miracolo l'ha preso da un'altra fonte (che pure è individuata in un'altra
forma latina).
Il numero dei miracoli non è scelto a caso. Il numero 5 è il numero mariano per eccellenza,
a cominciare dal fatto che il suo nome (Maria) conta 5 lettere. Questo ha stabilito una
tradizione per cui il numero 5 è associato alla Vergine. Berceo non a caso raccoglie 25
miracoli, cioè la perfezione del 5. 25 è il quadrato del 5 e il quadrato di un numero è il suo
stato più perfetto.
Sulla scheda leggeremo solamente 24 strofe dell'introduzione, che in realtà ne conta 46.
Traduzione:
Amici e vassalli di Dio onnipotente, → topos tipico del mester de juglaría: appello al pubblico*
se voi mi ascolterete con il vostro consenso,
vorrei raccontarvi un buon avvenimento: → riferimento dotto alla 'buona novella': il Vangelo
alla fine lo riterrete veramente buono.
C'era una grande abbondanza di buoni alberi, → arboledas sono alberi da frutto; è un frutteto
melograni e fichi, peri e meli
e molti altri frutti di diversa specie;
ma non ce n'era nessuna putrida o acerba.
* in questo caso il pubblico è quello dei fedeli. Ma l'appello al pubblico è tipico delle opere
che vengono recitate al pubblico. Quindi dobbiamo presumere che questo tipo di testi
venisse letto ad alta voce davanti a pubblico che non sapeva leggere né scrivere.
** Gonzalo è il nome, Berceo è il paese di provenienza (piccolo paese a 3-4 km di distanza
da San Millán de la Cogolla)
*** tutta la prima parte è costruita intorno a questo topos
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Quartina 17:
Tutti quanti viviamo che in piedi andiamo, → cioè tutti gli uomini e le donne
sia quelli che sono in prigione che quelli che giacciono a letto,
tutti siamo pellegrini che percorrono il proprio cammino.
San Pietro dice questo e che sia vero noi ve lo garantiamo. → riferimento alle scritture
Sta parlando del fatto che gli uomini sono pellegrini sulla terra e l'immagine frequentemente
utilizzata è quelle dell'uomo viaggiatore, dell'uomo pellegrino. Gli esseri umani nella concezione
cristiana sulla terra sono di passaggio. La vera vita non è quella terrena, ma quella ultraterrena. E si
vivrà una vita ultraterrena da beati se ci si sarà meritati la ricompensa, oppure da dannati se ci si
sarà invece meritati il castigo.
Quartina 18:
Per il tempo che noi qui viviamo, in terra straniera dimoriamo; → uomo è straniero al mondo*
la dimora duratura in cielo la aspettiamo,
il nostro pellegrinaggio allora lì terminiamo
quando in paradiso le anime inviamo.
*PEREGRINUS etimologicamente significa straniero.
Quartina 19:
Elenca gli elementi chiave della descrizione e ne dà il significato vero. Sta facendo una
comparazione tra un elemento della descrizione (il prato) e il suo vero significato. Prado non
significa 'prato' (→ questo è il suo significato letterale), ma significa Vergine Maria (→ che è il
significato allegorico).
Quartina 20:
Il prato è stato descritto come intatto perché intatta è la Vergine Maria, è immacolata. Il prato è
integro perché rappresenta la verginità di Maria. Anche gli attributi del prato sono stati spiegati dal
punto di vista allegorico.
Quartina 21:
Passa a spiegare cosa rappresentano dal punto di vista allegorico le 4 fonti: i 4 vangeli. Le fonti gli
evangelisti e l'acqua che sgorga il loro racconto.
*→ lei è la Vergine Maria. Qui Berceo fa riferimento ad una credenza molto diffusa nel Medioevo,
che tentava anche di razionalizzare cose di questo genere. Come facevano gli evangelisti a
conoscere dettagli della nascita di Cristo? Oppure della sua infanzia? Oppure di una parte della sua
vita? Una delle ipotesi della tradizione voleva che a raccontare queste cose fosse stata la Vergine
Maria.
Quartina 22:
Quanto essi scrivevano, ella lo correggeva, → Vergine Maria come editor dei Vangeli*
ciò era ben fissato, quello che lei approvava: → Vergine ci mette il suo sigillo di autenticità
sembra che l'ispirazione tutta da lei sgorgava,
mentre senza di lei nulla si realizzava.
* → modo per Berceo di porre al centro la figura di Maria. Anche i Vangeli che parlano della vita di
Gesù hanno a che vedere con la Vergine. Sono il risultato di una collaborazione con la Vergine
Maria perché ella, per Berceo, è collaboratrice nella redenzione dell'umanità. Dunque si comincia
già a sottolinearne, celebrarne e esaltarne il ruolo. Infatti è anche informatrice e correttrice degli
evangelisti.
Quartina 23:
Questa è solo una parte dell'introduzione perché Berceo poi continua a spiegare il
significato dei fiori, dei frutti, del canto degli uccelli.
Riassunto dei significati allegorici:
A sinistra ci sono gli elementi della descrizione (compreso il protagonista che è anche lui
allegorico); a destra c'è la loro spiegazione allegorica.
Alla fine dell'introduzione Berceo, offrendo una transizione tra appunto l'introduzione e i 25
miracoli che compongono l'opera, dirà che a questo punto lui si arrampicherà sugli alberi e
raccoglierà alcuni frutti, che sono simbolicamente i miracoli e ne narrerà 25. Terminata,
cioè, la spiegazione dei simboli in un'ultima sezione dell'introduzione come al solito
introdotta dall'invocazione formulare all'uditorio 'Señores y amigos', Bereo annuncia la sua
intenzione:
Fa riferimento anche Mosè, quindi di nuovo all'Antico Testamento. E a un certo punto sta
parlando di Aronne (altro personaggio biblico) e del suo bastone e dice:
Nota 1: altro episodio biblico in cui si parla del popolo di Israele e della varie tribù in cui esso è
diviso. Bisogna decidere a chi dare la guida e allora arriva un'indicazione da Dio. Aronne ha un
bastone che improvvisamente e miracolosamente fiorisce. Questo è il segno che il prescelto è
Aronne. Secondo Berceo il bastone che fiorisce significa la Gloriosa. Di cosa sta parlando? →
Gesù ha fatto una tipologia: ha collegato la sua vicenda con quella di un personaggio della
Bibbia. Ha detto sostanzialmente che 'tra un po' (perché lui sa che morirà) si avvererà la
profezia contenuta nell'episodio biblico di Giona'. Così, come Giona che ha trascorso tre
giorni e tre notti nel ventre della balena per poi essere sputato fuori vivo, lo stesso accadrà a
Gesù che per tre giorni e tre notti sarà nel ventre della terra: morirà e dopo tre giorni
risusciterà. Sta istituendo un parallelismo tra sé stesso e Giona. Giona = Cristo. Questa è una
tipologia: Giona è diventato annuncio, profezia – come dicono i testi dei padri della Chiesa
– , tipo (o tipus) o figura di Cristo (figura Christi). Per questo il discorso può essere anche
chiamato tipologico-figurale.
Prendendo spunto da questa frase evangelica, Sant'Agostino pensò che tutto il Vecchio
Testamento potesse essere recuperato al cristianesimo se lo si considerava come un
annuncio, profezia, tipo o figura del Nuovo Testamento. Cioè si connette tutto il Vecchio
Testamento alla luce del Nuovo: ogni avvenimento, personaggio, e anche oggetto (es.
bastone di Aronne) può essere interpretato come un annuncio o una profezia del Nuovo
Testamento.
La tipologia consiste nel mettere in relazione un episodio, un personaggio, un oggetto del
Vecchio Testamento con il Nuovo. Il rapporto è di annuncio, profezia e realizzazione di
questa profezia (relazione di antecedenza/conseguenza). In questo modo il VT non è altro
che una grande profezia di quelle che si racconterà e si avvererà nel Vangelo. Il VT viene
così recuperato alla religione cristiana, perché ogni personaggio può diventare annuncio di
qualcosa che narrerà poi il Nuovo Testamento. A questo punto tutto quello che viene
raccontato nel VT viene interpretato in questa chiave. I teologi medievali erano sistematici.
Si legge, dunque, un questa chiava a cominciare da Adamo ed Eva. La tipologia, però, può
essere o positiva (Giona → Cristo) o oppositiva (personaggio/episodio è il contrario di ciò
che si verifica nel Nuovo Testamento): quindi si ha o equivalenza o
capovolgimento/opposizione. Prendiamo ad esempio Adamo ed Eva: Adamo, istigato da
Eva, precipita l'umanità nel peccato disobbedendo all'addetto di Dio di non toccare i frutti
dell'albero della conoscenza. Le conseguenze sono fatali. Infatti, prima che Adamo ed Eva
peccassero l'uomo non soffriva di nessuna pena corporale, forse era immortale ed
eternamente giovane. Invece la punizione del peccato originale è quella di soffrire dolori, di
invecchiare e morire. Tipologicamente cosa possono annunciare? Tenendo presente che la
tipologia può essere anche oppositiva, (nella trattatistica teologica medievale spesso Gesù
viene chiamato il 'novello Adamo' o il 'nuovo Adamo') → come Adamo fece cadere l'uomo
nel peccato diventando il responsabile del peccato originale, Cristo venne a liberare poiché
la liberazione non è altro che la redenzione dal peccato originale. Quindi abbiamo una
tipologia di tipo oppositivo: Gesù è l'anti-Adamo. Ma sono legati tra di loro in maniera
tipologica. Adamo preannuncia la venuta di Cristo sia pure con un ribaltamento da negativo
a positivo.
Una volta che si è stabilito che Gesù è in rapporto con Adamo, il passaggio successivo è fare
di Eva il preannuncio di qualcosa. Eva non può essere nessun altro che la Vergine Maria.
Colei la quale fece cadere gli uomini nel peccato, anzi secondo il racconto biblico la
principale artefice, trova la sua corrispondente ma rovesciata nella Vergine Maria, la quale,
così come Cristo ha redento l'uomo, ha collaborato alla redenzione dell'uomo. Ha obbedito
all'ordine di Dio di mettere al mondo suo Figlio (l'arcangelo Gabriele si presenta da lei e
glielo annuncia). È un collaboratrice e l'anti-Eva per eccellenza. I giochi che si facevano nel
Medioevo su questa corrispondenza arrivavano fino al punto di giocare con le parole → la
prima parola della preghiera che si dedica alla Vergine è AVE, cioè Eva detta al contrario.
Ave è colei che si oppone ad Eva.
Riflettiamo su immagini che abbiamo avuto spessissimo sotto gli occhi, come per esempio
la crocifissione. La croce viene conficcata sulla cima di una collina che si chiama Calvario,
che significa teschio, e alla base della croce si trova proprio un teschio. Molte volte, accanto
a questo teschio, nelle figurazioni cattoliche c'è scritto 'Adam'. Ma cosa c'entra Adamo? É
nata anche una tradizione secondo cui il luogo in cui fu crocifisso Cristo è lo stesso luogo in
cui fu sepolto Adamo. Ma in realtà la cosa è ancora più significativa: è una tipologia. Ci
sono Gesù Cristo e Adamo, cioè la vita e la morte, l'alto e il basso, il positivo e il negativo.
Altro esempio: nelle raffigurazioni della Vergine Maria, essa viene rappresentata mentre
calpesta un serpente. Questo perché il serpente rappresenta il diavolo, il male. Anche questa
rappresentazione ha a che fare con la tipologia. La Vergine Maria è venuta a calpestare quel
serpente da cui, invece, Eva si fece tentare. La Vergine sconfigge laddove invece Eva ne
esce sconfitta.
Altra immagine: nell'annunciazione di solito la Vergine Maria è rappresentata con in mano
un libro e quasi sempre accanto a lei ce n'è un altro. Uno è aperto (quello che lei ha in
mano), l'altro è generalmente chiuso. La Vergine Maria consente la redenzione, è colei che
sostanzialmente ha collaborato alla stesura del libro che ha in mano. I due libri del VT e del
NT sono compresenti e collegati tra di loro dalla presenza della Vergine.
In alcune rappresentazioni della Vergine Maria nell'annunciazione, normalmente la Vergine
è in luogo chiuso, una stanza che si apre sull'esterno, arriva l'arcangelo Gabriele, e quasi
sempre questo esterno è rappresentato da un giardino. In alcune annunciazioni, in questo
giardino sono rappresentati anche Adamo ed Eva. È una tipologia → l'annunciazione, cioè
la redenzione che tra un po' sarà possibile, è messa tipologicamente in collegamento con la
cacciata dal paradiso terrestre di Adamo ed Eva. La redenzione è il capovolgimento di
quello che è accaduto nell'Eden. La cacciata dal paradiso terrestre è messa in relazione con
la possibilità di ritornare nel paradiso terrestre, attraverso la redenzione di cui la Vergine è
strumento.
20/11
E così via. Si potrebbero trovare significati tipologici anche nei minimi dettagli
dell'introduzione.
È ovvio che questa introduzione offra anche una chiave di lettura dei 25 racconti che
seguono, perché i miracoli che seguono sono altrettanti, in forma ridotta, racconti tipologici.
In essi si parla di un rappresentante dell'umanità, un peccatore, che cade nel peccato. Poi la
sua devozione per la Vergine propizia l'intervento di quest'ultima che lo salva dalla morte
fisica e dell'anima (in alcuni casi questi peccatori muoiono, quindi per la morte fisica non c'è
più nulla da fare, ma la loro anima viene comunque salvata; in altri casi muoiono ma
vengono resuscitati, quindi viene salvato sia il loro fisico che la loro anima). Sono 25
lineature che rappresentano lo stesso modello tipologico: caduta nel peccato → perdita della
possibilità di salvezza → redenzione dal peccato → grazie alla Vergine Maria. Berceo
sposta l'asse della redenzione dal figlio alla madre, da Cristo alla Vergine. La Vergine
diventa protagonista, ovviamente in nome di suo figlio, e diventa una CO-REDENTRICE.
L'introduzione rende l'opera un libro organico con una sua struttura precisa (anche
attenzione numerica) che è tutta interpretabile in una stessa chiave, cioè quella della
possibilità di salvezza che, in questo caso, è stata resa possibile insistendo sull'opera di co-
redenzione della Vergine. L'introduzione è quindi una sorta di prologo, proemio. E
un'introduzione che si rispetti deve fare proprio questo: fornire gli elementi adeguati per la
lettura di quello che poi segue.
Fino a questo momento abbiamo incontrato due procedimenti fondamentali: Imitatio Christi
e Profezia. Essi fanno parte di una complessa concezione della storia universale, che è stata
elaborata dal cristianesimo. È una storia rappresentata che è ha un senso, è orientata. Per il
credente cristiano la storia ha un senso (non è, come per il laico, qualcosa di caotico). La
storia, riassunta nei minimi termini, dell'umanità si può descrivere facendo riferimento a tre
momenti principali:
Questo schema della storia dell'umanità funzione proprio in base a quei due procedimenti.
Tutti gli avvenimenti che precedono la redenzione sono interpretati come profezia/annuncio
della nascita/redenzione (es. Aronne). Qualunque momento della storia è sostanzialmente
connessa alla tipologia. In maniera tale che sia una storia che ha un senso. Tutto ciò che
avviene ha un significato: è l'annuncio/profezia di ciò che verrà realizzato nel momento
centrale della storia che è quello della redenzione. Tutto ciò che segue dalla redenzione in
poi non è altro che una ripetizione di quello che già è accaduto, attraverso il procedimento
della Imitatio Christi. È una concezione della storia straordinariamente affascinante perché
ogni cosa ha un suo senso.
Varvaro si sofferma sul fatto che spesso i miracoli di Berceo presentano come due piani:
• un piano razionale, umano, dove si segue la logica degli uomini
• un piano sovrumano, sovrannaturale, che sfugge alla logica degli uomini e ne segue
un'altra che per gli uomini è incomprensibile
Nel miracolo spiegato da Varvaro si racconta di un ladro che, secondo le leggi del tempo,
viene condannato a morte. Provano a impiccarlo, ma siccome lui è devoto alla Vergine
Maria, quest'ultima interviene in suo soccorso: gli mette le mani sotto i piedi e lo mantiene
sulla forca. Per tre giorni rimane sulla forca ma non muore perché non viene strozzato dalla
corda. I carnefici non si rendono conto di quella che sta accadendo. Ragionano secondo la
logica umana: se non è morto è perché hanno sbagliato a fare il nodo alla corda. Non si
rendo conto, invece, che c'è un piano irrazionale, cioè quello della provvidenza, del
soccorso divino, della grazia, di cui ladro beneficia perché è devoto. Provano così a
decapitarlo, ma la Vergine mette le mani sul suo collo: le sua mani sono sovrumane e quindi
fermano il colpo d'ascia. A questo punto i carnefici comprendono che hanno a che fare con
una realtà diversa dalla loro, cioè la realtà del miracolo. Quindi si piegano alle ragioni, a noi
sconosciute e incomprensibili, del miracolo e delle grazia, e liberano il ladrone. Ovviamente
il ladrone non torna a rubare: la sua esperienza è qualificante. Cambia vita. Da quel
momento in poi si comporta giustamente e rettamente, e muore pronto per salvarsi. Quello
che conta è l'esemplarità del racconto: se quel ladrone che era colpevole si è salvato, anch'io
che sono peccatore come tutti gli uomini posso sperare di salvarmi se ho una devozione per
la Vergine.
Sulla miracolista, in generale, si può dire che tutti i racconti sono costruiti sostanzialmente
alla stessa maniera, seguono tutti uno stessa schema generale.
• Un racconto miracolistico mette sempre in scena un peccatore, cioè qualcuno che è
destinato alla dannazione (perché si deve motivare l'intervento salvifico di
redenzione della Vergine Maria). Il peccatore commette sempre uno o più peccati
(quello del IX racconto è un peccato particolarissimo – quello dell'ignoranza - che
per noi forse non sarebbe neanche un peccato). I peccati possono essere furti,
possono essere monastici (es. rottura del voto di castità), ecc... E sulla colpevolezza
del peccatore non ci sono dubbi.
• La seconda sequenza di questi racconti: il momento in cui il peccatore sta per
soccombere alle forze del male, sta per dannarsi (in alcuni casi muore, arrivano i
diavoli che prendono la sua anima e iniziano a trasportala verso l'inferno) o sta per
essere punito, interviene in modo inaspettato (o meglio parzialmente aspetto perché
si menziona sempre il fatto che quel peccatore è devoto alla Vergine Maria) la
Vergine, il cui intervento è propiziato proprio dalla devozione del protagonista nei
suoi confronti.
• Infine, questi racconti prevedono (terza sequenza) un riconoscimento ufficiale della
realtà del miracolo e una celebrazione di questo riconoscimento con lo scopo di
celebrare il fine edificante del miracolo e di rafforzare la fede.
IX MIRACOLO → come si evince dal titolo, il peccato di cui si macchio il protagonista del
racconto – un chierico – è l'ignoranza. E l'ignoranza che lo segue è particolarmente grave
perché si presuppone che un chierico debba educare, formare, edificare, condurre sulla via
della rettitudine i suoi fedeli. Se è ignorante, corre il rischio di non essere all'altezza del suo
compito. Quindi l'ignoranza del chierico ha gravissime conseguenze, perché è in gioco il
destino delle anime dei suoi fedeli. Un chierico ignorante può diventare anche un chierico
eretico, e quindi indurre al peccato piuttosto che insegnare a evitarlo.
Quartina 220:
Quartina 222:
Quartina 223:
Le descrizioni del chierico e del vescovo non sono neutre. Il chierico è descritto come
umile, invece il vescovo come arrogante. Questo ha un senso per il racconto.
Quartina 224:
Quartina 225:
Quartina 226:
Quartina 227:
Quartina 228:
Quartina 229:
Quartina 230:
Quartina 231:
La minaccia è reale, concreta. Questo serve a ridurre enormemente le distanze tra il fedele e
l'intermediario con Dio.
Quartina 232:
Quartina 233:
Quartina 234:
Quartina 235:
Il racconto del miracolo di Berceo delinea due piani su cui si collocano i personaggi umani.
Il chierico e il vescovo si collocano su piani diversi che sono in un rapporto di superiorità
(vescovo) – inferiorità (chierico). E questo viene confermato anche dalla seconda sezione
del racconto, quando i due sono messi uno di fronte all'altro: il monopolio della parola è
detenuto dal vescovo la cui autorità è rappresentata quindi non solo dal fatto di essere
superiore ma anche dal fatto di avere la capacità di parola. Il vescovo parla, sentenzia; il
chierico si limita ad ammettere la sua colpa.
Le strofe 226-227 costituiscono la terza sezione della prima parte del racconto. Qui il
chierico triste e afflitto invoca l'aiuto della Vergine, di cui è devoto visto che a lei dedica la
sua messa tutti i giorni. Dalla sua posizione bassa si rivolge a una posizione alta, quella
occupata dalla Vergine, che è la posizione più alta di tutta la rappresentazione: la Vergine
occupa una posizione che fino ad ora non avevamo mai incontrato, che è a un livello
superiore rispetto a quello occupato dal vescovo. È un terzo piano.
SCHEMA: ci sono raffigurati tre piani sui quali sono disposti gli attori. La posizione del
chierico è sempre in basso; il vescovo si trova in una posizione intermedia; la Vergine, come
ci si aspetta, occupa la posizione più alta. La terza sezione conclude la prima metà del
racconto (indicata nello schema dalla doppia linea verticale). Il racconto conta 64
alessandrini e la prima metà si chiude al verso 32. In questa metà esatta compare la Vergine
Maria che è al centro della narrazione: è alla fine della prima parte e all'inizio della seconda,
cioè esattamente al centro della narrazione (la sua centralità è anche rappresentata). La
Vergine quindi occupa il posto più altro e più centrale; fa da tipo strutturale del racconto. E
l'intervento della Vergine è, appunto, tipologico. Ciò che è avvenuto prima viene rovesciato
e quello che accadrà d'ora in avanti sarà il capovolgimento di quello che è stato raccontato.
Le strofe 228-231 costituiscono la quarta sezione (o la prima sezione della seconda parte).
In questa sezione non c'è più il chierico che scompare. Vi è invece ancora la Vergine e
troviamo l'altro attore umano, cioè il vescovo. Guardando lo schema, possiamo notare che la
Vergine si trova sempre nella posizione che le compete, cioè quella più alta; mentre la
posizione del vescovo è radicalmente cambiata: non è più in una posizione intermedia, ma
questa volta è nella stessa posizione che nella prima parte del racconto occupava il chierico,
cioè nella posizione dell'accusato. Il vescovo è sceso nei confronti della Vergine al piano
inferiore su cui si era mosso finora il chierico semplice. È stato sostanzialmente equiparato
al chierico semplice perché appunto in questo momento la Vergine è gerarchicamente
superiore e il vescovo si trova nella posizione di chi viene accusato e minacciato. Ancora
una volta il monopolio della parola spetta a chi occupa la posizione più alta: chi parla in
queste quartine è esclusivamente la Vergine, che fa una lunga arringa di difesa del suo
cappellano e accusa il vescovo di averla privata del suo servo e lo minaccia di morte se
entro 30 giorni non restituirà al chierico semplice il suo ufficio. Di nuovo la parola
sottolinea la posizione di potere. Il vescovo, come prima il chierico, non parla. Questa volta
neanche per ammettere la sua colpa: non dice proprio nulla. È assolutamente silenzioso.
La strofa 235 (generalmente i racconti miracolistici si chiudono con una strofa in cui si
addita l'esemplarità del miracolo) ha un chiaro senso di ammaestramento, di morale finale.
Ha una funzione di generalizzare ciò che è invece finora particolare. Ciò che è accaduto al
singolo, in questo caso il chierico, può accadere a chiunque. Berceo dice che i miracoli di
Maria sono così tanti che è impossibile raccontarne anche la decima parte, quindi come è
intervenuta in soccorso di quel peccatore, interviene in soccorso di tutti i peccatori che la
invocano. In questa strofa finale compare anche il narratore il quale dice, rivolto al suo
uditorio, che vorrebbe avere la stessa sorte del chierico semplice che, dopo aver ricevuto il
miracolo della Vergine, muore beatamente e va in Paradiso. Quindi in questa strofa non
compaiono più gli attori diegetici, cioè i personaggi, ma solo il narratore/Berceo e compare
anche l'uditorio, cioè tutti noi che in questo momento stiamo leggendo il miracolo.
Sostanzialmente Berceo ci sta additando il chierico come un modello.
La struttura del testo dovrebbe aiutare anche a ricavare il contenuto dottrinale, il significato
religioso-morale. Abbiamo a che fare con un personaggio che prima si trova in una
posizione bassa e poi in una posizione superiore contro un altro personaggio che prima si
trova in una posizione alta e poi in una posizione inferiore. Non solo, nella descrizione dei
personaggi Berceo insiste sull'umiltà (è una virtù) dell'uno e sull'arroganza (potrebbe anche
essere definita con il nome dei uno dei vizi, cioè la superbia) dell'altro. Abbiamo umiltà
contro superbia. Il significato sostanziale è che quindi gli umili vengono innalzati e i superbi
vengono abbassati, grazie all'intervento della Vergine Maria. Il significato dottrinale di
questo racconto può essere sintetizzato in una formuletta che abbiamo sentito spesso: “Chi è
umile sarà alzato, chi è superbo sarà abbattuto”. Che è quello che è avvenuto nel racconto.
Questa formula è strettamente legata alla Vergine la quale nel Vangelo fa un lungo discorso
(l'unico lungo discorso attribuito a Maria nei Vangeli) quando dopo l'annunciazione va a
trovare sua cugina Elisabetta (la quale metterà al mondo un altro personaggio significativo
del Vangelo: Giovanni Battista, colui il quale battezzerà Gesù). Durante questo incontro la
Vergine Maria fa il suo più lungo discorso dei Vangeli canonici (perché poi ci sono quelli
apocrifi in cui Maria avrà una presenza considerevole). Il discorso ha un nome che prende
spunto dalla prima parola latina pronunciata dalla Vergine: MAGNIFICA. Il discorso quindi
viene definito “Il Magnificat”.
Si trova nel Vangelo di Luca, capitolo 1, versetti 46 e seguenti:
Il Magnificat
[46] Allora Maria disse
“L'anima mia magnifica il Signore
[47] e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
[48] perché ha guardato l'umiltà della sua serva. → la Vergine è simbolo di umiltà1
D'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
[49] Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente
e Santo è il suo nome:
[50] di generazione in generazione la sua misericordia
si stende su quelli che lo temono.2
[51] Ha spiegato la potenze del suo braccio,
ha dispero i superbi nei pensieri del loro cuore; → umiltà vs. superbia = superbia3 condannata
[52] ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
[53] ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato a mani vuote i ricchi.
[54] Ha soccorso Israele, suo servo,
ricordandosi della sua misericordia,
[55] come aveva promesso ai nostri padri,
ad Abramo e alla sua discendenza,
per sempre”.
[56] Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua.
1
Ha umilmente accettato il comando di Dio attraverso l'arcangelo Gabriele.
2
Io sono uno strumento di Dio e attraverso di me Dio ha fatto e farà grandi cose.
3
Superbia fortemente connessa al peccato originale. Adamo ed Eva sono superbi nel pensare
che possano essere all'altezza di Dio.
Traduzione (il testo è difficile, dice cose non immediatamente comprensibili, perché si
rivolge ad un pubblico esperto che questi concetti li conosce già)
Strofa 1:
È una strofa composta da versi di diversa lunghezza. Il verso da cui è composta in italiano si
chiamerebbe novenario, mentre in francese si chiamerebbe octosillabe: conta 8 posizioni
metriche. I primi tre versi hanno 8 posizioni, il quarto verso ne conta 4, il quinto ne conta di
nuovo 8, il sesto ne conta 4.
Nella strofa 1 c'è un luogo comune che già conosciamo, è un classico locus amoenus: si sta
parlando della natura che si risveglia in primavera. Ma si dice anche qualcosa in più rispetto
all'io che ci sta parlando: poiché la natura si risveglia, lo devo fare anche io; siccome la
natura è felice, lo devo essere anche io. Si fa riferimento alla gioia della natura di cui, in
qualche modo, devo godere anche io.
Le strofe successive sono più ostiche, qualcuna proprio incomprensibile.
Strofa 2:
Strofa 3:
Sempre mi è accaduto così → non è una condizione occasionale (concezione d'amore diversa da nostra)
di non gioire mai di ciò che amavo,
né lo farò, né mai lo feci;
perché in fede mia
faccio molte cose per cui il cuore mi dice:
«Tutto o niente.»4
4
: è una citazione biblica che celebra la vanità del tutto, l'assenza di senso.
Strofa 4:
Per questo ne ho meno piacere → sorta di spiegazione della situazione che è stata prospettata
Perché voglio ciò che non posso avere. → oggetto desiderato è troppo distante, superiore5
E tuttavia il proverbio mi dice il vero
sicuramente:
«A buon animo buon potere,
se si sa ben soffrire.»6
5
: per poter raggiungere questo oggetto e per poterlo meritare, si deve fare di più, ci si deve
migliorare per esserne all'altezza. È un'esperienza giudicata positiva, benché sia
un'esperienza di sofferenza, però è formativa (serve a migliorare l'io).
6
: qui l'oscurità per noi moderni contemporanei è totale. Però sta facendo riferimento a un
proverbio (cosa che ha a che fare con la sapienza, il conoscere): la buona volontà premia chi
sa sopportare. La reazione normale quando si ama e non si è riamati è andarsene. Qui invece
si dice che si deve persistere, perché la buona volontà premia si soffre. C'è la possibilità che
la situazione possa cambiare.
In queste poesie sono generalmente articolati sempre tre temi: un passato negativo (amato
senza essere corrisposto), un presente di sofferenza assoluta e un futuro di speranza.
Strofa 5:
Questo è un passaggio un po' difficile perché si fa riferimento a una componente che per noi
è complicata. Per noi l'amore è un fatto individuale, soggettivo. Invece qui si sta dicendo
che quest'esperienza può avere delle ricadute positive sull'individuo (perché lo migliora in
modo tale da poter meritare ciò che ora gli è negato), ma anche ricadute sociali → l'amore
migliore l'individuo e le sue relazioni con il resto della società. La cerchia a cui fa
riferimento la strofa significa fonte, il gruppo sociale. Quindi chi sa ben osservare le regole
ottiene dei benefici sia con i vicini che con gli estranei, cioè il resto della società.
Si insiste sull'obbedienza alle regole d'amore anche nella strofa successiva.
Strofa 6:
Qui si fa di nuovo riferimento degli effetti positivi dell'esperienza che si sta raccontando,
che inducono il soggetto che la vive a migliorare se stesso, i suoi rapporti con i gruppi
sociali e a compiere “belle imprese” (cioè azioni e parole eticamente valide) non villane. C'è
la coppia cortesia-villania: tutto ciò che è cortese è positivo; tutto ciò che non è cortese è
negativo e dunque villano. È un'opposizione che si trova spessissimo nei testi medievali
cortesi. Villano non significa necessariamente contadino, ma semplicemente qualcuno che
non è dotato di qualità e virtù cortesi.
È importante capire in che momento ci troviamo. La società medievale, rispetto alla nostra,
è molto più crudele, violenta. Tutto questo discorso è una sorta di discorso civilizzatore: la
cortesia fa proprio riferimento a questo. È cortese colui il quale si comporta secondo le
norme della civiltà. La cortesia è una civilizzazione dei modi di vivere. In una società
brutale in cui la vita non valeva niente (la morte arrivava presto, si moriva per le malattie
più assurde, bastava poco per morire), si usa il pretesto dell'amore per portare avanti questo
discorso civilizzatore. Nella poesia cortese c'è un'idealizzazione della realtà (realtà
trasportata su piano ideale) che è sostanzialmente una grande operazione di civilizzazione.
Strofa 7:
Qui si dice che questi sono componimenti i cui contenuti devono essere ben capiti per essere
apprezzati e dunque lodati, e le cui forme sono sia verbali che melodiche (parole e suoni →
“moltz e son”).
Ci sono poi le due tornadas in cui il poeta invia la sua composizione a due destinatari: uno è
un'intera città che fa parte dei suoi possedimenti (Guglielmo era un grande signore feudale),
l'altro è un misterioso Mio Esteve.
Strofa 8:
Guglielmo IX è il primo poeta di cui abbiamo testi. Egli è attivo a partire dagli ultimi anni
del XI secolo e gli inizi del secolo successivo. La produzione dei trovatori quindi comincia
abbastanza presto e si sviluppa per alcuni secoli: attestata dagli ultimi anni del XI secolo con
Guglielmo IX, questa produzione conobbe il suo massimo sviluppo nei secoli XII e XIII.
Poi con la data (simbolica) del 1292, quando un trovatore che si chiamava Giraut Riquet
scrive le sue ultime poesie (qualcuno lo ha definito l'ultimo dei trovatori), l'esperienza
trobadorica si può considerare conclusa.
I trovatori possono essere divisi sostanzialmente in tre fasi:
• la prima fase è quella dei trovatori delle origini, a cui appartiene Guglielmo IX;
• la seconda fase è quella di pieno sviluppo, di maturità dell'esperienza;
• la terza fase è quella della fine dell'esperienza (con la data simbolica 1292).
Volendo periodizzare:
1. Fase di formazione (che va dalle origini fino al 1140 circa) sia dal punto di vista
concettuale sia dal punto di vista formale
2. Fase di massimo sviluppo (che può essere grosso modo collocata tra il 1140 e il
1250): poesia dei trovatori si afferma anche al di fuori dei paesi di lingua
occitanica/provenzale. Scrivono poesie anche i poeti che non sono occitani, per
esempio i catalani che scrivono in provenzale.
E se alcuni poeti non usano il provenzale, che è la lingua della lirica, si rifanno ad
essa. Per esempio i siciliani la cui poesia è debitrice alla lirica provenzale. La lingua
è diversa perché i siciliani usano il cosiddetto etrusco, ma temi, motivi e concezioni
sono gli stessi.
Ma vi è anche la poesia gallego-portoghese (varietà romanza che si parla in Galizia,
simile ma non identica al portoghese): le 'cantigas de amor' (le canzoni d'amore) non
sono scritte in provenzale, ma devono moltissimo ai trovatori. I motivi di ispirazione
sono quelli della poesia trobadorica, così come i temi, i concetti e le forme.
In Spagna ci arrivò molto probabilmente grazie al Camino de Santiago de
Compostela.
Anche la Francia del Nord prende spunto dai temi e dalle forme della poesia dei
trovatori, utilizzando non il provenzale ma il francese antico. Uno dei grandi nomi
della lirica francese è Chrétien de Troyes, noto soprattutto come autore di romanzi, in
particolare del romanzo arturiano. Ci sono pervenute però solamente due sue liriche
che sono improntate, anche da un punto di vista formale, sulla lirica trobadorica. C'è
poi tutta una lunga serie di poeti francesi che si rifanno all'esperienza dei trovatori.
Inoltre la lirica occitanica influenza anche la lirica che si sviluppa in Germania. Qui
nasce la “minnesang”, cioè la poesia d'amore dei trovatori tedeschi che scrivono in
lingua tedesca ma, ancora una volta, prendono spunto dall'esperienza occitanica.
Ma arriva anche in Inghilterra che ha una sua produzione lirica prima in anglo-
normanno (varietà romanza) ma poi anche in inglese che si rifà molto alla poesia dei
trovatori.
3. Fase del declino (che va dal 1250 fino alla data simbolica del 1292): graduale
standardizzazione della lirica provenzale. L'esperienza ha esaurito la sua portata
innovativa.
Abbiamo a disposizione un corpus (insieme di testi) che può essere definito 'poesie dei
trovati'. È un corpus molto consistente che contiene più di 2500 composizioni (numero che
va crescendo quando vengono scoperti nuovi manoscritti). Questa è solo una parte minima
di quelle che sono state realmente scritte. Queste poesie vengono attribuite, dai manoscritti
che le hanno tramandate, a molti poeti. Se ne contano quasi 500. Spesso sono solo nomi,
poiché dei poeti non si sa niente. Molte restano addirittura senza attribuzione. La diffusione
di questi testi è (non si vuole usare il termine 'orale' perché richiama all'oralità e
all'improvvisazione) AURALE, che richiama all'auralità che significa 'diffusione orale' →
non vuol dire che il testo viene composto oralmente, ma solamente diffuso oralmente. Sono
testi destinati al canto, ed è difficile pensare che un testo così metricamente complesso,
come per esempio la poesia di Guglielmo IX, sia stato composto oralmente. Vengono
affidati a dei professionisti che le fonti medievali chiamano 'giullari,' i quali li diffondono
presso il pubblico. Ci sono stati tramandati da un centinaio circa di manoscritti: non sempre
manoscritti completi, ma solo alcune parti che si sono salvati in maniera fortuita. Infatti i
manoscritti principali, cioè quelli più completi, sono circa una quarantina.
Tutti questi manoscritti o codici sono tardi; nessuno di essi è precedente alla metà del XIII
secolo. Questo vuol dire che le testimonianze scritte della poesia trobadorica sono molo più
tarde rispetto al loro sviluppo. Inoltre, queste testimonianze scritte risalgono allo stesso
periodo in cui inizia il declino della lirica trobadorica: quando essa sta per scomparire ci si
preoccupa di recuperarla e di raccoglierla in ampie raccolte che prendono il nome di
'canzonieri'.
La ragione della scomparsa di questa tradizione precedente forse sono proprio i grandi
codici allestiti nel XIII secolo, perché l'esperienza, anche recente, ci dice che quando un
supporto sostituisce un altro, tutto ciò che viene prima viene abbandonato. Un esempio
concreto: oggi non vediamo più cassette VH oppure nastri perché sono stati sostituiti dai
nuovi supporti di CD, di mp3 → tutto ciò che è venuto prima è stato abbandonato. Le grandi
antologie del XIII secolo hanno sostanzialmente sostituito la produzione frammentaria
precedente che è andata perduta.
I canzonieri vengono realizzati come raccolte ragionate, non erano casuali. Si hanno almeno
due grandi tipologie di ordinamento:
• una è quella per autore: se si conosce l'autore, si sa di chi è una determinata poesia.
Spesso erano in ordine alfabetico. Vi era anche una sezione dedicata agli anonimi;
• l'altra è quella per generi: i trovatori non scrivono solo poesie d'amore (che è il
genere più illustre), ma anche poesie sirventesi (componimenti dal contenuto
propagandistico, politico; si chiamavano sirventesi perché usavano la melodia e la
musica di una canzone esistente e quindi se ne servivano, da qui 'sirventese'). C'è
anche il genere del dibattito: i poeti sviluppano dialoghi, anche a distanza, per
discutere su un tema (per esempio: è meglio che la dama abbia per amante un
chierico o un laico?) → un poeta sostiene un argomento e sfida l'altro a sostenere
l'altro argomento (ancora oggi noi usiamo un'espressione che si rifà a questo
procedimento: 'rispondere per le rime' → chi lanciava la sfida costruiva lo schema
metrico e l'altro non solo doveva rispondere controbattendo all'argomento che gli
veniva proposto, ma doveva farlo lo schema metrico ideato dall'altro).
I canzonieri organizzati per genere sono strutturati così: in primis, cioè in apertura, si
trovano sempre le canzoni d'amore (genere più degno e quindi con una posizione di
precedenza) e poi ci sono gli altri generi.
In più, questi canzonieri potevano essere accompagnati da quello che oggi
chiamiamo PARATESTO, cioè informazioni aggiuntive ai testi. Spesso, ma non
sempre, c'è la trascrizione/annotazione musicale.
Possono essere accompagnati anche da altri due tipi di generi (il tutto sempre scritto
in provenzale):
* le VIDAS (vite) → quando l'organizzazione è per autore, prima dei componimenti
di ogni autore c'è un testo in prosa in occitanico che ne offre le biografia. Siccome
questi canzonieri sono stati realizzati nel XIII secolo, spesso e volentieri le vidas
sono immaginarie. Non sono delle vere e proprie biografie. A volte sono anche dei
testi bellissimi poiché ricavano informazioni dalle poesie stesse dei trovatori. Per
esempio, esiste un poeta molto interessante che si chiama Jaufré Rudel. Il suo
canzoniere, o meglio quello che è rimasto del suo canzoniere, spesso fa riferimento
all'amore di lontano (l'amore a distanza). Sente di parlare della bellezza di una dama
che non ha mai visto e se ne innamora. L'amante è sempre in una posizione inferiore
all'amata che occupa una posizione lontana e quindi irraggiungibile. L'autore della
sua vita inventa una storia banalizzando quello che è un concetto astratto del
trovatore e facendolo diventare una narrazione concreta. La storia inventata è che
Jaufré Rudel si innamora di una saracena, la ama a distanza; ma la vuole vedere e
quindi si fa crociato. Così riesce a recarsi in Terra Santa che è nei pressi del luogo in
cui vive questa principessa. Tuttavia durante il viaggio si ammala e arriva morente a
Tripoli: finalmente vede l'amata e muore. È una storia inventata, però qualche dato di
realtà lo contiene. Infatti, Jaufré Rudel era principe di Blaia e la sua vida conferma
questa notizia.
* le RAZOS (dal latino RAGIONEM, ragione che significava anche 'argomento')
sono dei commenti. Sono commenti particolari. Magari una razò può spiegare le
circostanze in cui un poeta avrebbe composto una poesia, ma è ovvio che è
un'invenzione del compositore dalla razò. Ma a volte sono commenti interessanti
perché ci fanno vedere qual era la modalità di fruizione di questi testi nel XIII secolo.
Sono paratesti che danno informazioni su una tradizione molto antica ad un pubblico
che è molto diverso da quello originario (buona parte di questi canzonieri sono stati
realizzati in Italia) delle corti francesi, perché appunto è il pubblico delle corti
dell'Italia settentrionale.
La lingua che usano questi poeti è impropriamente chiamata provenzale che è solamente una
delle varietà parlate in quella che si chiama, da Dante in poi, la lingua d'Oc. Dante la
teorizza in una sorta di trattato di linguistica, il 'De Vulgari Eloquentia'. In questa opera
Dante afferma che si possono distinguere le lingue in tre grandi gruppi:
Il provenzale è sola una varietà, ci sono anche altri dialetti. Quindi sarebbe più corretto dire
occitanico.
Nessuno dei trovatori componeva nella sua parlata materna. Essi utilizzano una lingua
letteraria: adottano una lingua che non è basata su un'unica varietà dialettale, ma è composta
da elementi di diversa provenienza, quella che si chiama tecnicamente una 'coiné', cioè una
lingua che è un insieme elementi di altre lingue. In essa convivono fenomeni di diversa
provenienza. È una lingua un po' artificiale destinata a produrre testi letterari. Anche se pare
che le fondamenta di questa coiné siano state fornite dal dialetto limosino. È una lingua
sovraregionale, in cui raramente c'è qualche dialettalismo regionale. Non ci sono tratti che
possono essere individualizzati e localizzati.
Guglielmo IX è il primo poeta di rilievo che compare sulla scena, di rilievo non solo sul
piano letterario (primo trovatore di cui si conosce la produzione) ma anche sul piano storico
(non è un personaggio qualunque, non è un nome e basta).
Oltre ad essere il primo poeta occitano è anche un grande signore feudale. È il nono duca di
Aquitania e il settimo conte di Poitiers, normalmente lo di indica con la carica più
importante, cioè quella di duca. Fu uno dei maggiori signori feudali del suo tempo, il più
potente per l'estensione dei suoi domini (potere economico e militare). Più potente
addirittura del re di Francia, il quale governava poco più dell'area intorno a Parigi, la
cosiddetta Île-de-France. Mentre Guglielmo ha a disposizione un enorme feudo che governa
in nome del re di Francia ma sostanzialmente anche in maniera molto indipendente.
Su di lui ci sono pervenute parecchie notizie. È vissuto tra il 1071 e il 1126. Ha partecipato a
due spedizioni crociate. In una battaglia fu gravemente ferito ad una gamba. Abbiamo molte
notizie anche sulla sua vita “privata”. Egli è spesso presente nelle cronache del tempo che
sono opere storiografiche e sono quasi sempre clericali, scritte in latino, cioè in ambienti
clericali che parlano di Guglielmo e ne parlano male. Quindi nelle cronache si parla di lui
come di un nemico. Si capisce che non è uno stinco di santo. La Chiesa l'ha anche
scomunicato (la scomunica nel Medioevo non è cosa da poco, per un personaggio pubblico
significa grossi problemi di legittimità: il suo potere e e la sua autorità sono delegittimati.
Viene dipinto come un uomo che conduce una vita depravata. Quello che ci interessa è che
viene dipinto anche come un eretico. Una di queste cronache lo descrive come un “furioso
amatore di donne” e che “si avvolse a tal punto nel fango dei vizi come se credesse che ogni
cosa sia mossa dal caso e non dalla Divina Provvidenza”. Un'affermazione del genere nel
Medioevo era gravissima: Guglielmo è un eretico, sembrerebbe ateo. È un'accusa di eresia,
vera o falsa non si sa perché si tratta di una cronaca di parte.
In effetti qualcosa di vero doveva esserci perché lo si evince anche dalle sue poesie. La sua
produzione poetica non è molto ricca. Ci sono pervenute, attribuite a lui con una certa
sicurezza, 10 poesie (più un' 11cesima che è di dubbia attribuzione). Sono poche ma di tipo
molto inverso tra di loro. Tradizionalmente si possono distinguere tre gruppi:
• 6 di queste poesie sono rivolti a quelli che Guglielmo chiama 'compagnos', una
parola che indica nel Medioevo gli appartenenti alla stessa cerchia, allo stesso gruppo
sociale. La parola compagno viene da CUMPAGNIS > colui che mangia lo stesso
pane. Questa parola indica nel Medioevo l'appartenenza alla masnada, cioè un gruppo
di fedeli, vassalli del signore feudale, che mangia alla sua stessa tavola.
Queste poesie sono dunque rivolte ai suoi vassalli. Sono caratterizzate da un tono che
qualcuno ha definito 'giocoso', ma a dire la verità può essere anche definiti 'osceno'
(sono poco cortesi). Riassumiamone una: la poesia del gatto rosso. È una poesia in
parte narrativa, c'è una sorta di racconto. È il racconto di un io, chiamiamolo
Guglielmo per comodità, che sta andando in pellegrinaggio in una località che fa
parte dei suoi territori e lungo il percorso incontra due dame, mogli di due dei suoi
vassalli. L'incontro finisce in un incontro erotico perché le due donne sono coloro che
fanno il primo passo. Lui, per approfittare della situazione, capisce che c'è
un'occasione a disposizione e finge di essere muto. Le due donne intanto pensano che
possono fare quello che vogliono poiché lo sconosciuto, essendo muto, non potrà mai
denunciarle. Lo portano in un castello vicino e si fanno ospitare lì per giacere con lui.
Per provare che sia muto, prendono un gatto rosso (nel Medioevo è la
rappresentazione di qualcosa di violento) e glielo buttano sulla schiena, in modo tale
che il gatto lo graffi e gli faccia male. Ma lui rimane muto. Superata questa prova del
mutismo, giace con loro per una settimana quasi 300 volte.
Sono queste le poesie che hanno fatto di lui la figura mitica di cui parlano le
cronache. Le cronache dicono che Guglielmo, per esempio, andava sempre in
battaglia con la sua amante. E la portava dipinta nuda sul retro dello scudo. Oppure in
un'altra poesia si racconterebbe che lui ha fondato un convento fatto di prostitute.
• 3 di queste poesie (più una quarta di dubbia attribuzione) possono essere definite
'cortesi'. In esse si celebra l'amore cortese. Di questa categoria fa parta la poesia che
abbiamo letto.
• Vi è poi un componimento che fa parte di un altro genere: le canzoni di pentenza. È
un genere con una propria codificazione in cui l'io lirico lamenta l'addio dal mondo )
la morte è vicina) e si pente di ciò che ha fatto. È un canto di penitenza. Per quello
che sappiamo l'ha scritta a metà della sua vita, quindi potrebbe essere anche una
parodia (questo genere è molto diffuso).
È una produzione molto variegata. Fin dal primo trovatore troviamo una distinzione di vari
generi che poi si codificheranno sempre meglio.
Analisi poesia:
• Nella strofa 7 Guglielmo dice che il suo componimento riceverà più lode se lo si
intende bene: egli si rivolge a coloro che condividono la concezione dell'amore di cui
sta parlando (potrebbe anche essere definita ideologia cortese) perché sono quelli che
la possono capire. Invece tutti quelli che non condividono questa concezione (ideali
non cortesi) sono esclusi dalla comprensione. Il componimento è indirizzato al
pubblico cortese che riconosce e apprezza i valori di cui abbiamo parlato fino ad ora.
Il pubblico a cui ci si rivolge ha una competenza concettuale: capisce bene i
contenuti. Quindi il primo criterio può essere definito concettuale o ideologico.
• L'altro criterio è rappresentato dell'affermazione di Guglielmo secondo cui il suo
componimento può essere apprezzato anche da chi ne sa apprezzare la forma (le
parole sono uguali, hanno la stessa rima). Parla dell'aspetto metrico e di quello
verbale, fa riferimento anche ai suoni, alla melodia, alla musica. La seconda
competenza è di tipo formale. Il pubblico deve essere in grado di apprezzare la
forma, la bellezza del componimento. Però la forma in questo caso è duplice: non è
solo verbale, ma anche musicale. Quindi la seconda competenza è, a sua volta,
doppia.
È una novità perché Guglielmo inaugura una tradizione che sarà osservata a lungo dai
trovatori: quella di vantare la loro capacità artistica. I trovatori sono molto consapevoli del
fatto che fare poesia è un'arte e che per praticarla bisogna essere in possesso di certi
strumenti e bisogna saperli usare (gli strumenti della metrica, della retorica, ecc.). I trovatori
inventano compimenti o melodie sempre più difficili sfidandosi uno con l'altro. Sono
consapevoli della loro funzione artistica. La perfezione artistica è una qualità irrinunciabile,
così come lo è l'originalità artistica (che nel Medioevo significa ripetere sempre gli stessi
temi però in maniera originale).
Un'altra novità è che la divisione del pubblico avviene in maniera completamente diversa
rispetto al passato. Prima il pubblico veniva selezionato in base alla lingua: la distinzione
era tra quelli che le fonti latine chiamano “litterati”, cioè coloro che hanno ricevuto una
formazione scolastica e conoscono il latino, e “illitterati”, cioè coloro che non avevano
alcun tipo di formazione. La maggior parte del pubblico era illitterato, mentre i litterati
erano una percentuale bassissima. È questo che rende necessario la volgarizzazione
dell'opera religiosa. Adesso invece la distinzione è innovativa. Teoricamente Guglielmo si
rivolge a tutti coloro che conoscono il provenzale anche se non sanno leggere e scrivere
perché il testo viene cantato, quindi basta semplicemente ascoltarlo. Non c'è più la
distinzione tra litterato e illitterato: chiunque è un possibile destinatario. Si tratta pur sempre
di un pubblico selezionato all'interno del quale però la distinzione non avviene più in base
alla lingua, ma alle competenze (il destinatario deve essere in grado di comprendere il
messaggio del componimento). È una novità assoluta perché la lingua utilizzata non è più il
latino, ma una lingua romanza.
Le tornadas, le ultime due strofe del componimento, sono diverse dalla precedenti perché
sono destinate a chiudere il componimento e per destinarlo a qualcuno.
La prima delle due tornadas è trasparente, è neutra: si invia la poesia a una città e ai suoi
abitanti. Il che non stupisce perché un tempo Narbona faceva parte dei possedimenti di
Guglielmo IX. È un omaggio a uno dei suoi possedimenti. E dedica la poesia ai narbonesi
perché questi la possano lodare.
La seconda tornada è invece più complicata: è la dedica della poesia a un personaggio, un
certo Mon Esteve. Questo espediente si trova spesso in questi tipi di componimento, cioè la
dedica ad un personaggio il cui nome non è trasparente. Non è quasi mai facile identificare
il personaggio. Spesso e volentieri si tratta di pseudonimi. In provenzale questa tecnica
prende il nome di SENHAL (si legge 'segnal'), tradotto alla lettera significa “segnale”: un
segno che nasconde un significato. Questi senhales si trovano spesso nelle tornadas e grazie
ad essi il trovatore può celare l'identità del destinatario. Mon Esteve potrebbe essere un
vassallo, ma non è detto. Potrebbe anche un senhal maschile per celare un'identità
femminile: Mon Esteve potrebbe essere una donna. In parte questo si spiega con il fatto che
si tratta di una poesia adultera (è probabile che la donna a cui il componimento è dedicato
sia sposata). Una delle virtù cortesi è il CELAR (si legge “selar”), che in italiano significa
'nascondere': una delle virtù cortesi è la segretezza d'amore.
BERNART DE VENTADORN
La poesia di Bernart de Ventadorn è più difficile. Essa fa parte della fase più matura.
Attraverso informazioni indirette sappiamo che non è un trovatore e che è stato attivo tra il
1150 e il 1170 (piena maturità). Di lui non si sa nulla se non quello che si dice nella sua vida
(che come sappiamo sono inaffidabili perché sono scritte tradissimo rispetto ai poeti di cui
parlano). Secondo la sua vida, Bernart sarebbe di umili origini, figlio di un servo e della
fornaia del castello di Ventadorn (non è una corte importante).
Il componimento si identifica con il primo verso, quindi prende il nome di “Can vei la
lauzeta mover”. La LAUZETA è un uccello, l'allodola; in realtà si tratta di un vezzeggiativo
perché in provenzale la 'lauza' è l'allodola.
Strofa 1:
Strofa 2:
Strofa 3:
Strofa 4:
Strofa 5:
Strofa 7:
Strofa 8:
Dal punto di vista metrico, i versi contano 8 posizioni metriche e quindi sono novenari (i
provenzali li chiamano octosillabi). Lo schema lirico è ABAB (rima alternata) per i primi
quattro versi della stanza, mentre per gli ultimi quattro versi della stanza lo schema è CDCD
(altra rima alternata). La stanza è divisa in due: nella prima parte si alternano le rime A e B,
mentre nella seconda si alternano le rime C e D. E' la struttura classica della stanza, che
quasi sempre è bipartita.
Inoltre le rime sono sempre le stesse in tutte le stanze: questo rende il componimento ancora
più difficile. Queste strofe così sono chiamate in un trattato in provenzale “unnisunanz”,
cioè ONNISONANTI: presentano gli stessi suoni.
La tornada come al solito deve contare un numero di versi inferiore rispetto alle strofe che la
precedono. In questo caso le strofe precedenti contano tutte 8 versi e la tornada (che poteva
essere di massimo 7 versi) qui ne conta 4. La misura e le rime sono costruite in base agli
ultimi 4 versi della strofa precedente.
30/11
1ª STANZA
Le canzoni dei trovatori si aprono sempre con un esordio naturale e questa canzone non fa
differenza. Ma c'è qualcosa che la distingue, per esempio, dall'esordio naturale che abbiamo
incontrato in Guglielmo IX. Innanzitutto questa è una descrizione dinamica, c'è qualcosa in
movimento (mentre nel caso di Guglielmo IX c'è una descrizione statica della natura):
dinamismo vs staticità. Inoltre mentre Guglielmo rappresenta la natura nel suo complesso (è
un vero e proprio locus amoenus con tutti i suoi elementi essenziali), qui invece Bernart
seleziona un elemento della natura, cioè quello dell'uccello e lo mette in movimento: c'è la
selezione di un solo elemento del locus amoenus a rappresentare l'intero locus amoenus.
Dopodiché c'è un'altra differenza (che è quella che ci interessa di più) → abbiamo detto che
l'esordio naturale serve a mettere in rapporto l'io lirico con la natura e il rapporto può essere
di due tipi:
• se la natura è felice lo sono anche io (Guglielmo IX)
• a differenza della natura che è felice, io non lo sono.
In questo caso abbiamo un contrasto perché si parla di invidia verso la gioia dell'uccello che
vola in cielo verso il sole e poi si lascia cadere planando. L'io lirico prova invidia per la
felicità dell'allodola. Questo serve a dare il tono della poesia: nel caso di Guglielmo essa è
positiva, nel caso di Bernart è negativa. L'esordio naturale è coerente con la canzone che
introduce: ci dobbiamo aspettare un componimento pessimista.
Si può anche aggiungere che l'allodola vola verso l'alto e si allontana da chi la osserva, ma
noi abbiamo detto (anche in relazione a Guglielmo) che la concezione dell'amore dei
trovatori è sostanzialmente fondata sul desiderio per qualcosa che è irraggiungibile, lontana.
Non si può escludere che l'allodoletta abbia un valore simbolico: potrebbe simboleggiare
qualcosa che non può essere raggiunto, che si desidera ma non si riesce ad ottenere, nei cui
confronti si può provare solo desiderio e invidia per non essere in grado di partecipare alla
sua gioia; potrebbe essere un simbolo di lontananza, dell'oggetto del desiderio. Bernart con
una semplice immagine sta obbedendo alla tradizione che vuole che la canzone si apra con
un esordio naturale, ma sta anche fornendo una simbologia di quello che è l'amore cortese
(desiderio per qualcosa che è lontano ed irraggiungibile → amore destinato al fallimento).
2ª STANZA
Viene messo in scena il vero oggetto del desiderio (non quello simbolico dell'allodola).
Questa volta, a differenza di Guglielmo IX, la dama è molto presente.
Anche in questa stanza si ritrova il termine “desiderio” che è una parola chiave del discorso
dei trovatori.
Qui viene precisata la posizione dell'amante rispetto all'amata, la quale viene messa in
scena. Il tema principale della strofa è quello che i trovatori chiamano amar desamatz, che
letteralmente significa “amare disamati”, cioè l'amore non corrisposto, non ricambiato. Vi è
quindi un soggetto che ama e un soggetto che è amato ma non ricambia; questa è la
concezione fondamentale dell'amore cortese, quello spazio lirico cortese che si chiama
paradosso amoroso (amare senza la possibilità di essere ricambiati).
Compaiono anche altri temi tipici della poesia dei trovatori, come per esempio il motivo
dell'inutilità della conoscenza teorica delle cose d'amore: “credevo di sapere dell'amore e,
invece, poco ne so”. La conoscenza dell'amore è solo teorica, nella pratica non serve.
Quello che ci interessa di più (e che non troviamo in Guglielmo) sono gli effetti dell'amore.
Vi è una descrizione degli effetti dell'amore non corrisposto, in cui è centrale un altro
motivo che si trova spesso nei trovatori (e che da loro si è diffuso nel tempo fino a
diventare, ai giorni nostri, un luogo comune) che è il motivo del cuore rubato. Chi ama,
secondo questa concezione, perde se stesso: l'amante viene privato di tutto, anche della sua
stessa identità, non gli rimane altro che il desiderio. Nel Medioevo il cuore è il centro di
tutte le sensazioni, i sentimenti, delle emozioni. Questa è un'immagine tipica della
letteratura cortese e che si ritrova anche nella letteratura successiva (Dante, Petrarca, ecc..).
Però gli effetti dell'amore che si stanno descrivendo potrebbero essere definiti un processo
di alienazione: alienarsi significa perdere la propria identità. La letteratura cortese è
ricchissima di riferimenti di questo tipo. Nel romanzo quando si parla di un eroe o di una
eroina che si innamora spesso vengono raccontati gli effetti che l'amore produce che sono
quasi sempre effetti di perdita del sé. E sono accompagnati anche da conseguenze esteriori:
perdita dell'appetito, sudori durante la notte: ci sono tutta una serie di sintomi che fanno
dell'amore una malattia (motivo della malattia d'amore). Il meccanismo di questa
alienazione viene precisato nella terza stanza, che è quella più complicata dell'intero
componimento.
3ª STANZA
Questa stanza fa riferimento a conoscenze che per noi non sono immediate. Il poeta guarda
la dama indirettamente attraverso uno specchio (MIRALH, si legge 'miragl'). Il meccanismo
di alienazione è sostanzialmente innescato dal guardare l'oggetto amato in questo specchio
che fa sì che l'io si perda come si è perso Narciso nella fonte. Il riferimento allo specchio e il
riferimento mitologico alla figura di Narciso fanno parte di un discorso che affonda le sue
radici in una serie di convinzioni che il Medioevo aveva rispetto al funzionamento del corpo
umano, cioè ha a che vedere con la concezione dell'amore strettamente legata al
funzionamento del corpo umano (l'amore come malattia). I riferimenti allo specchio e a
Narciso ci consentono di soffermarci sulla particolare concezione dell'amore: il Medioevo
concepisce l'amore in maniera molto peculiare. Per parlare di questa concezione dell'amore
si può partire da una famosa definizione dell'amore. Che cos'è l'amore per mentalità
medievale? Si ha la possibilità di avere questa informazione: esistono molti trattati dedicati
all'amore oppure ne esistono altri che non sono specificamente dedicati all'amore, come per
esempio alla medicina, in cui trattato l'amore che è concepito appunto come una malattia. Vi
è una definizione dell'amore in particolare, quella di Andrea Cappellano che scrive un
trattato sull'amore in latino, il De amore, composto negli ultimi 20-25 anni del XII secolo
(ca. 1175-1780 → datazione non è certa), non lontani dagli anni in cui è attivo Bernart de
Ventadorn. Questo trattato viene, tra l'altro, considerato la teorizzazione esemplare della
concezione dell'amore elaborata nel Medioevo; è un testo di riferimento particolarmente
importante.
Da buon trattatista, Cappellano dà la definizione dell'oggetto del suo studio e nel primo
capitolo del trattato Cappellano definisce l'amore come segue:
“Amor est passio quaedam innata procedens ex visione et immoderata cogitatione formae alterius
sexus;
sed ex sola cogitatione quam concipit animus ex eo quod vidit passio illa procedit.”
“ L'amore è una passione (o movimento dell'animo) innata procedente dalla visione e dalla
immoderata cogitazione (o pensiero ossessivo) della forma dell'altro sesso;
questa passione nasce unicamente dal vagheggiamento dell'anima a partire da ciò che vede.”
4ª STROFA
Questa è una strofa misogina in cui si parla delle donne in maniera molto critica. Spesso e
volentieri vi sono delle considerazioni che possono essere definite moralistiche,
didascaliche; e questa è una di quelle strofe. È un intervento moralistico-didascalico di
ispirazione marcatamente misogina. Qui la ragione è dovuta al fatto che la donna amata non
ricambia l'amante e le altre donne non la convincono a fare ciò che dovrebbe fare perché
sono tutte uguali e si comportano alla stessa maniera.
5 ª STANZA
Ha descritto (in precedenza) quali sono le caratteristiche generali della donna, conferma che
le donne così. E la “sua” donna si conferma tale perché si comporta come ha detto prima.
In questa stanza vengono presentate le cause del fallimento dell'amante e dell'esperienza
amorosa. La prima causa è di carattere generale: il rapporto amoroso fallisce perché le
donne sono tutte uguali (non amano quando sono riamate), in particolare fanno il contrario
di ciò che la natura vorrebbe si facesse (questa donna in particolare non vuole che dovrebbe
volere e non fa quello che dovrebbe fare). La seconda causa torna sulla questione della
distanza che separa amante e amata: “ho mirato troppo in alto”. Ripete un concetto già
presente in Guglielmo IX, il quale, quando parlava della sua condizione di amante non
riamato, diceva che aveva voluto ciò che non si può avere. È questa un'immagine gerarchica
della superiorità dell'oggetto desiderato, dell'amata rispetto all'oggetto desiderante. Questa
gerarchizzazione introduce il tema della strofa successiva: la metafora feudale. Abbiamo già
assistito alla feudalizzazione di un discorso. La feudalizzazione avviene quando i rapporti
giuridici dell'ambito feudali si trasferiscono in ambiti diversi da quello feudale, che possono
essere sia superiori che inferiori. In questo frangente si pensa subito al rapporto tra vassallo
e signore. La metafora feudale è l'equiparazione del rapporto tra amante e amata al rapporto
tra un vassallo e il suo signore (rapporto fatto di serivizi, prestazioni al signore il quale deve
in cambio una ricompensa al vassallo; è un vincolo che prevede diritti e doveri. Il dovere
del vassallo è quello di servire il signore; mentre il dovere del signore (e il diritto del
vassallo) è quello di dare in cambio una ricompensa). La feudalizzazione è abbastanza
comune e l'abbiamo incontrata nel caso di Berceo (rapporto tra fedele e Vergine Maria è
costruito sulla base di quello del vassallo e del suo signore). In questo caso però la
feudalizzazione è di un discorso amoroso.
07/12
6ª-7ª STANZA
I contenuti di questa stanza (6ª) sono tipici delle metafora feudale. Il discorso amoroso che
fanno i trovatori spesso è assimilato al rapporto tra signore e vassallo. Vi è un'equiparazione
del rapporto amante-amata al rapporto vassallo-signore.
In questa stanza si dice l'amante attenderebbe, in cambio dei servizi d'amore resi alla dama,
una ricompensa. Ma non gli viene data perché la distanza che lo separa dalla donna è troppo
grande e incolmabile.
Qui l'amore viene visto nei termini di un rapporto feudale. Il poeta si rivolge alla sua dama
come il vassallo si rivolge al suo signore e ha nei suoi confronti un rapporto di
sottomissione (inferiore vs. superiore). Tra l'altro la tematica viene introdotta dall'ultimo
verso della 5ª stanza: “ho mirato troppo in alto”. I termini della posizione inferiore
dell'amante espressi da questa metafora vengono meglio precisati proprio nelle stanze 6 e 7.
Qui troviamo una serie di termini tecnici, propri del campo semantico tecnico-giuridico
feudale che vengono presi in prestito per essere utilizzati in un campo diverso, quello
amoroso. Il primo termine importante è quello che inaugura la 6ª stanza: Merces ( → è una
parola provenzale che corrisponde all'italiano antico “mercede” e all'italiano attuale
“grazia”). Nella 7ª stanza i termini importanti sono: midons, precs, merces, dreihz.
In questo versi si delinea chiaramente la metafora feudale. Sopratutto nella 7ª stanza
troviamo la designazione della dama con il termine midons, noi l'abbiamo tradotto con “mia
signora”, ma in realtà è sbagliato. Infatti, la traduzione corretta è “mio signore” (mentre il
termine corretto per “mia signora” sarebbe madona). Il termine midons proviene dal latino
MEUS DOMINUS. Viene utilizzata quindi la forma maschile, cioè il termine tecnico-
giuridico feudale con cui il vassallo si rivolgeva al suo signore. Questo uso del maschile per
rivolgersi alla dama spiega i senhals maschili che celano nomi femminili (Mon Esteve di
Guglielmo IX).
Vi è poi il termine merces, che è un'altra parola tecnica (che deriva dal latino MERCEDEM
e significa “pietà”) con un'accezione precisa. Nel codice linguistico feudale questo termine
significa anche “grazia” o “ricompensa”: la grazia del signore verso il suo vassallo o la
ricompensa che il signore dà al suo vassallo. Si gioca sull'ambiguità del linguaggio: si usa
un termine tecnico per parlare della ricompensa amorosa che la donna dovrebbe all'amante
che la ama.
Anche il termine precs è un termine tecnico feudale. Prec è la supplica, la richiesta che il
vassallo fa al suo signore.
Infine dreihz è un altro termine tecnico che significa “diritto” e che nelle fonti medievali
indica il diritto che ha il vassallo di ottenere una ricompensa dal suo signore. Il rapporto
signore- vassallo era regolato da una serie di diritti e doveri. Il vassallo aveva il dovere di
servire il proprio signore in due modi:
• con l'AUSILIUM, l'ausilio, l'aiuto → dovere del vassallo di soccorrere, aiutare il
proprio signore per esempio in guerre oppure sostenendolo economicamente
• con il CONSILIUM → il signore deve essere ben consigliato dal suo vassallo, in
modo tale che la signoria possa essere salvaguardata.
Di fronte a questi doveri del vassallo, ci sono i suoi diritti. Il vassallo il diritto di ricevere
una “mercé”, una ricompensa.
Quindi, usando un termino tecnico-giuridico, si fa riferimento in ambito amoroso al diritto
dell'amante di ricevere in cambio del suo SERVITIUM una ricompensa. La dama è come un
signore feudale inadempiente.
Questo discorso ci offre l'occasione di chiarire meglio una tesi interpretativa, già citata, sulla
poesia dei trovatori. Questa poesia è stata interpretata in diversi modi, in chiave religiosa o
psicoanalitica per esempio. C'è però una tesi interpretativa sociologica che si basa
sull'affioramento continuo del discorso feudale. Questa tesi è stata formulata da uno
studioso tedesco di letteratura medievale (tesi di chiara impostazione marxista, in cui cioè le
strutture economiche sono quelle che contano per capire le sovrastrutture culturali) che si
chiama Erick Köhler. Si tratta di una interpretazione complessiva della lirica trobadorica
(cerca di spiegarla tutta), proprio per questa sua pretesa di globalità può lasciare qualche
dubbio e qualche incertezza. Secondo Köhler sia il paradosso amoroso (cioè l'amare senza
essere ricambiati, l'impossibilità di realizzare il desiderio amoroso) sia la metafora feudale
possono essere spiegati se si colloca la poesia dei trovatori nel suo contesto sociale ed
economico. La scena sociale di questa poesia è la corte. La corte era un ambiente
complesso, composito, non omogeneo, in cui convivevano nobili appartenenti a nobiltà di
categorie diverse. La nobiltà non era monolitica: c'erano i grandi signori, i feudatari; c'erano
altre gerarchie abbastanza elevate e poi c'era un'altra categoria di cavalieri quantitativamente
più ampia ma meno nobili. Per esempio non possedevano un feudo, non avevano un proprio
territorio da governare e quindi non avevano neanche una propria base economica, per
questo dipendevano completamente dal signore: erano cavalieri senza terra che quasi
sempre non erano mai spostati. Il termine medievale per questo tipo di cavalieri è “casatus”
(da cui deriva il nostro 'accasato') che significa essenzialmente “sposato, capo di una
famiglia”. Dunque la maggior parte della corte era costituita da questo tipo di cavalieri:
senza feudo, senza risorse economiche e non “casati” che venivano chiamati, nelle fonti che
abbiamo a disposizioni, “iuvenes” (cioè giovani). Non è un termine che si riferisce all'età
anagrafica: non è giovane chi è giovane di età, ma è giovane chi ha una certa condizione
sociale. È giovane chi non è provvisto di un feudo, di un sostegno economico indipendente e
non è sposato. Per cui la gioventù poteva durare anche una vita intera. Essi vivevano
nell'attesa di una guerra (che dava la possibilità di una scalata sociale: venivano conquistati
territori che poi venivano distribuiti come ricompensa) oppure di un rivolgimento politico
che li stabilizzasse socialmente. Osserva Köhler che si trattava di una classe sociale che oggi
potremmo definire di emarginati, destinati in buona parte al fallimento sociale poiché le
occasioni di mobilità sociali non erano frequenti. Loro erano numerosi e le occasioni erano
poche. Secondo Köhler, nel microcosmo della corte (in cui convivono il signore feudale,
nobiliti di alto rango e tutta questa “piccola nobiltà) la moglie del signore feudale (la
castellana) finiva per essere il polo principale di attrazione. La donna di cui i poeti parlano
potrebbe essere questa. La donna dei poeti infatti spesso e volentieri è sposata.
Generalmente la donna era più giovane del signore. Questa giovane donna spesso sostituiva
suo marito nelle sue funzioni quando questi si assentava (accadeva spesso per motivi
militari), e quindi la signora era la “vice-signore”. Alla signora era poi affidata l'educazione
dei giovani: il sistema educativo feudale prevedeva di mandare ad educare i propri figli
presso signori più potenti perché avessero migliori opportunità. In questo modo si creavano
legami più forti tra l'allievo e il signore che un domani si poteva trasformare in una
ricompensa e quindi si creavano anche migliori occasioni di mobilità sociale. La signora era
quindi circondata da giovani senza feudo. Secondo Köhler, entrare nelle grazie della
castellana, ottenerne la protezione e l'amore costituiva una delle poche forme di ascesa
sociale. I cavalieri senza feudo vengono citati dalle fonti provenzali come “paubres
cavalers”, cioè 'poveri cavalieri'. Essi vedevano nella dama un punto di riferimento.
Secondo Köhler, è in quest'ambiente così costituito che avrebbe preso forma la poesia dei
trovatori. Inoltre, secondo questa teoria, i primi trovatori o erano degli iuvenes o erano ad
essi affini. Con la classe degli iuvenes i trovatori avrebbero avuto in comune lo stile di vita,
la dipendenza economica da un signore, l'origine. Così, secondo Köhler, i trovatori
diventerebbero i rappresentanti ufficiali, gli ideologi, del gruppo degli iuvenes. La metafora
dell'amore, secondo Köhler, esprimerebbe il desiderio di questa classe di superare le barriere
sociali che la divide dall'alta nobiltà attraverso l'elaborazione di una serie di concetti, di
valori, di ideali nuovi (cioè l'ideologia cortese). Parlano di una serie di valori e ideali che
sono indipendenti dall'origine sociale, che non hanno nulla a che vedere con la casta. Sono
che valori che non si hanno dalla nascita, ma che si acquisiscono attraverso il processo di
miglioramento e nobilitazione dell'esperienza amorosa. Dalla nobiltà di nascita si
passerebbe alla nobiltà d'animo.
Dunque l'idea è che la celebrazione della metafora cortese sia il mezzo attraverso il quale la
piccola nobiltà (gli iuvenes) tenta di colmare la distanza che la separa dall'alta nobiltà
sostituendo valori che sono legati alla nascita con valori nuovi, sostituendo una nobiltà di
nascita con una d'animo. Tutto questo funzionerebbe se non avessimo come primo trovatore
a noi noto Guglielmo IX, il quale appartiene all'altissima nobiltà. Ma Köhler questo lo sa e a
questa facile obiezione risponde che l'ideologia cortese viene elaborata dagli iuvenes o dai
loro portavoce, i trovatori; a un certo punto però questa ideologia viene fatta propria dalla
grande nobiltà. Non sappiamo cosa c'è stato prima di Guglielmo, quindi Guglielmo è il
primo dei grandi nobili che fa sua questo nuovo sistema di valori. La grande nobiltà, quindi,
fa sua questa ideologia, sia pure con correzioni, e la favorisce. Fare questa operazione era
utile anche per la grande nobiltà perché questa ideologia è un principio di ordine sociale che
serve a mantenere l'ordine sociale. Le distanze non vengono colmate realmente, ma solo
idealmente. Alla grande nobiltà fa anche comodo adottare questa ideologia, in modo tale da
superare la conflittualità con la piccola nobiltà. Quindi a un certo punto l'ideologia cortese
diventa un ideale valido per l'intero stato nobiliare; la differenza non è più tra un nobile e
l'altro, ma tra nobiltà e non-nobiltà, tra cortesia e villania. L'accettazione dei valori cortesi
da parte dell'alta nobiltà, secondo Köhler, non avvenne senza travisamenti,
strumentalizzazioni, modifiche anche piuttosto profonde. Per cui ci sono componimenti di
trovatori appartenenti all'aristocrazia che un po' tradiscono i principi dell'amore cortese.
Quelli che gli stessi poeti provenzali chiamano “maulheratz”, cioè gli ammogliati, gli
accasati, l'aristocrazia alta (quella che è a capo di famiglie nobili), quelli che erano titolari di
un feudo → essi invece di sostenere gli ideali della cortese, li avrebbero spesso traditi. Per
esempio, anziché celebrare il paradosso amoroso, invece celebrano esplicitamente il
soddisfacimento del desiderio amoroso, del rapporto sessuale, dell'adulterio.
È questa un teoria che non è completamente convincente, però una buona parte delle cose si
comincia a capire.
La produzione dei trovatori però non è omogenea; ci sono posizioni molto diverse tra un
poeta e l'altro. Esiste per esempio un trovatore, che è uno dei più interessanti e affascinanti,
che si chiama Marcabru (tradotto sarebbe Marcabruno). Egli è un poeta della II generazione,
della maturità, attivo intorno alla metà del XII secolo (1140-1150). E' un poeta che sembra
dar ragione a Köhler perché nei suoi componimenti si fa spesso riferimenti a quelli che lui
chiama “rics”, cioè i ricchi, la grande aristocrazia feudale, che Marcabru critica, dicendo che
avevano tradito l'ideale cortese. Invece guarda di buon occhio e incita a riprendere i principi
originali della cortesia quelli che lui chiama “soudadiers”, cioè gli iuvenes, i soldati (coloro
che vivono al soldo). In Marcabru il conflitto tra iuvenes e rics è molto evidente. Nelle sue
poesie, inoltre, si celebrano in particolare due concetti:
• la “largueza” (generosità → chi è largo è generoso); fa continuamente riferimento al
fatto che i ricchi sono avari e non ricompensano adeguatamente i giovani cavalieri al
loro servizio (dà ragione a Köhler secondo cui i giovani cavalieri lamento in fatto di
non ricevere la giusta ricompensa e di non avere possibilità di ascesa sociale dai
signori: lamentalo l'assenza di largueza);
• la “jovèn” (gioventù; viene dal latino 'juventus'). È il termine che si usa per indicare
la categoria che secondo Köhler sarebbe alla base di tutto il sistema cortese. Viene
messo in relazione con gli iuvenes. Si dice che solo costoro posseggono e possono
conservare “jovèn”. Quando Marcabru nelle sue poesia dice che jovèn ormai è
perduta, fa riferimento al fatto che gli iuvenes stanno perdendo la partita, ma li incita
a continuare riprendendo i valori originali della poesia.
Köhler propone anche una lettura in chiave sociologica proprio della poesia di Bernart de
Ventadorn. Secondo alcune fonti BdV sarebbe di umili origini, un membro della piccola
nobiltà. Per Köhler è un classico rappresentante del gruppo degli iuvenes.
Köhler legge quindi la poesia di BdV in chiave sociologica, la commenta secondo la sua
teoria. Fa una sorta di commento strofa per strofa:
8ª STANZA
L'amante, visto che la dama non lo ricompensa, rinuncia all'amore. Rompe il patto che lo
lega alla dama. La posizione di BdV è molto diversa da quello di Guglielmo.
Guglielmo, benché si trovi nella stessa condizione, afferma che proprio l'insistenza è il
vantaggio di quell'esperienza, non bisogna abbandonarla. Invece BdV esce dallo spazio
lirico cortese, lo rompe (non sono capace di amari e quindi smetto).
Molti trovatori collegano amore e poesia: è possibile fare poesia solo se ci sia amore; se non
si ha più amore, non si ha neanche più la poesia; se si smette di amare, si smette anche di
poetare. Dall'altro lato Guglielmo predica la perseveranza, l'obbedienza.
Vi è quindi:
• la posizione ortodossa di Guglielmo IX → rispetto dello spazio lirico cortese:
l'amante sa di non poter soddisfare il suo desiderio amoroso, ma vede in ciò qualcosa
di positivo perché rende possibile l'acquisizione di una serie di valori cortesi;
• il rifiuto di questa posizione di Bernart de Ventadorn → l'amante ama, non è
ricambiato e quindi smette di amare. Spezza lo spazio lirico cortese. Secondo
Guglielmo IX interrompe anche il circolo virtuoso che consentiva il miglioramento e
l'acquisizione di valori che l'esperienza amorosa invece nutriva;
• la terza posizione è quella di Tristan (citato nella stanza).
Tristan è uno pseudonimo utilizzato dal trovatore per celare la vera identità del personaggio
a cui ci si rivolge.
Questa poesia di BdV fa parte di un gruppo di componimenti in cui dialogano tre poeti
diversi: uno è BdV, uno si cela dietro allo pseudonimo di Tristan e il terzo, che qui non
compare, è un nome notissimo perché è Chrétien de Troyes (un grande romanziere
francese). Sostanzialmente essi sostengono tre posizioni diverse. Mentre CdT difende la
posizione che abbiamo visto essere di Guglielmo IX (l'amante cortese deve limitarsi al
desiderio, deve rassegnarsi alla non soddisfazione di questo desiderio perché questo
comporta il vantaggio di nobilitare e migliorare il proprio animo); BdV spezza invece
questo cerchio occupando una posizione completamente opposta. Ma c'è una terza
possibilità: se l'amata non ama l'amante, quest'ultimo trova un'altra dama da amare. Tristan è
colui che sostiene questa terza possibilità. Individuare Tristan non è stato difficile perché c'è
un poeta coetaneo di BdV che si chiama Raimbaut d'Aurenga, del quale invece sappiamo
tante cose poiché è un grande signore feudale. Quest'ultimo scrive una composizione che si
intitola “No chant ni per auzel ni per flor” (non canto né per uccelli né per fiori). È l'anti-
topos dell'esordio naturale, va controcorrente. In questa poesia il poeta difende (si tratta di
una sorta di dibattito in cui ognuno difende una concezione) la posizione eterodossa (si
potrebbe dire eretica) della consumazione del rapporto amoroso. È la posizione per cui se
l'amante ama qualcuno vuole possederlo/a fisicamente. Riflettendoci questo è uno di quei
maulheratz che tradiscono l'ideale cortese.
Viene scelto lo pseudonimo Tristan perché nella sua poesia si paragona a Tristano. La
situazione che viene descritta nella prima parte del componimento è la stessa in cui si
trovano l'io-lirico di Guglielmo IX e l'io-lirico di BdV prima della rinuncia (amanti di donne
che non ricambiano); nel caso di Guglielmo si persegue in questa situazione, nel caso di
BdV si rinuncia, invece nel caso di Raimbaut il poeta trova un'altra donna che lo ricambia
fisicamente. “Io dunque faccio come Tristano e lei si comporta come Isotta” → BdV lo
chiama Tristan proprio per questo paragone che l'altro poeta fa.
La storia di Tristano e Isotta è abbastanza complicata da ricostruire, tanto che si può parlare
di leggenda. I testi che raccontano questa storia sono diversi tra di loro, sono frammentari
(non esiste un testo completo). Però grossomodo la storia che se ne ricava è la seguente:
Tristano è incaricato di andare a prendere in Cornovaglia la futura moglie di suo zio (il re
Marco), scortarla a corte perché appunto i due si devono sposare. Durante il viaggio di
ritorno Tristano e Isotta bevono per errore (secondo alcune versioni) un filtro d'amore che in
realtà non era destinato a Tristano, ma alla sola Isotta che bevendo questo filtro si sarebbe
innamorata di Marco. E il matrimonio, che era combinato, sarebbe diventato anche d'amore.
Così Isotta e Tristano si innamorano di un amore fatale e quindi il nipote ruba la donna allo
zio. Isotta si trova nella condizione di una donna che è innamorata perdutamente di Tristano,
al quale concede sia l'amore che il corpo → la donna di Raimbaut si comporta come Isotta,
cioè come un'adultera perché sposa re Marco al quale concede solo il corpo, ma non la sua
anima. Raimbaut quindi è come Tristano perché pratica un amore adultero. Raimbaut dice
che la sua donna si è comportata proprio come Isotta, cioè fa credere al marito che lei gli è
fedele. E cita un episodio particolare della leggenda: quando arrivano a destinazione
Tristano e Isotta hanno già consumato e quando re Marco sposa Isotta egli credi che Isotta
sia illibata. Per cui devono ingannare re Marco e durante la prima notte di nozze a Isotta si
sostituisce la sua serva che invece è vergine. Al buio il re Marco non si accorge dello
scambio e quindi crede di aver deflorato Isotta, che invece nel frattempo è al letto con il suo
amante. Nella sua poesia Raimbaut fa riferimento proprio a questo episodio e alla camicia di
Isotta perché la camicia macchiata del sangue della deflorazione era la prova dell'illibatezza.
Quindi al marito viene mostrato la camicia macchiata e indossata realmente dalla serva.
Predica da parte della donna il tradimento e da parte dell'amante la soddisfazione del
tradimento costi quel che costi.
Raimbaut chiama BdV carestia d'amore, mentre lui pratica l'abbondanza d'amore.
11/12
La poesia epica
Jean Bodel propone una tripartizione della produzione narrativa antico-francese, non parla
solo dell'epica ma di tutta la narrativa. Fa riferimento a tre filoni diversi:
• romanzo arturiano o matiere de Bretaigne;
• romanzo antico o matiere de Rome (romanzi di fonte classica, per esempio il
Romance de Eneas è una rivisitazione medievale della leggenda raccontata da
Virgilio nell'Eneide → non si tratta di una traduzione diretta della fonte latina, ma di
materiali che sono arrivati al Medioevo in varie forme, già rielaborati, e che un
autore decide di usare come fonte di un romanzo; ma rileggendolo completamente
alla maniera medievale. Enea non è più un eroe classico, ma un cavaliere medievale.
L'amore che viene raccontato è un tipico amore cortese completamente diverso
dall'amore raccontato originariamente da Virgilio);
• canzoni di gesta o matiere de France (poemi che raccontano della Francia, della sua
storia, delle sue opere, delle guerre che sono state combattute, dei suoi sovrani).
A ciascuno di questi filoni/generi letterari Jean Bodel fa seguire una breve definizione:
• i racconti di Bretagna sono divertenti, cioè raccontano cose inventate. Sono scritti per
lo svago. È letteratura di evasione;
• la materia di Roma è istruttiva perché veicola nel Medioevo la conoscenza degli
antichi. Il suo contenuto colto è destinato a istruire;
• i testi della materia di Francia sono veri.
La materia di Francia si distingue dalle altre due materie per il contenuto che Bodel
definisce veritiero, si potrebbe dire storico. Infatti fra i tratti distintivi che caratterizzano il
genere epico la storicità è fondamentale.
Ma cosa significa storico? Per un ascoltatore medievale di un poema epico tutto quello che
veniva raccontato era realmente accaduto. Ovviamente noi abbiamo i mezzi e gli strumenti
per stabilire se questa verità è confermata o meno. La storicità per noi spesso non c'è. Si
tratta, cioè, di testi che inventano. È una storicità in senso più ampio, presunta. Quando si
parla di contenuto storico si può distinguere tra quello che è veramente accaduto, quello che
è stato alterato dallo scrittore per uno suo scopo, oppure quello che è stato
simulato/inventato.
Il genere epico, in generale, è definito da tutta una serie di altri tratti distintivi. L'epica mette
sempre in scena uno scontro tra parti contrapposte; uno scontro che però è sempre
rappresentato come decisivo per un'intera comunità e per i suoi ideali. Le parti contrapposte
sono frequentemente cristianità e quella che i testi epici chiamano impropriamente paganità
(musulmani, saraceni, è un islam molto filtrato). Lo scontro è quasi sempre tra francesi e
musulmani. Oppure ci può lo scontro interno della comunità francese, cioè lo scontro tra
traditori degli ideali e sostenitori degli ideali. La lotta, quindi, è ritenuta vitale.
Altro tratto caratteristico è la presenza dell'eroe in cui la comunità che lotta per la difesa dei
propri ideali si riconosce. L'eroe è sempre l'incarnazione della comunità e dei suoi ideali (es.
Rolando è il paladino della cristianità e per gli ideali cristiani muore).
Un'altra caratteristica è il tipo di diffusione, come vengono fruiti: sono testi destinati alla
recitazione pubblica ad opera di professionisti, che le fonti medievali chiamano giullari, i
quali memorizzano – da quello che riusciamo a capire – il testo, lo imparano a memoria e
poi realizzano la loro recitazione servendosi appunto di questa loro abilità mnemonica. Da
quello che sappiamo non venivano proprio recitati, ma cantilenati su una melodia molto
semplice con l'ausilio di uno strumento musicale. E tutto questo avveniva in un luogo
pubblico. Il luogo della recitazione poteva essere diverso, e forse era anche diverso il tipo di
testo che veniva recitato e la modalità con cui veniva recitato. Venivano per lo più recitati in
piazze pubbliche, durante fiere o mercati, lungo i cammini dei pellegrinaggi, ma anche nelle
sale di castelli. La loro diffusione è prettamente orale.
Infine, il genere epico è caratterizzato anche da una serie di aspetti formali. Spesso i testi
ricorrono a strutture di carattere topico, standardizzato, quelle che tecnicamente vengono
chiamate 'formule'. Se si deve raccontare un'azione, per esempio di un eroe che piange
(Cantar de mio Cid), l'eroe piange secondo una formula, cioè in maniera abbondante. Le
formule messe insieme costituiscono dei motivi. Per esempio il racconto di un cavaliere che
attacca un altro cavaliere con una lancia è standardizzato, è un motivo, cioè prevede una
serie di elementi: cavaliere sprona il cavallo per lanciarsi all'attacco, il cavaliere abbassa la
lancia, colpisce e sfonda lo scudo dell'avversario; se è un cavaliere che vince il duello, la
lancia arriva alla corazza dell'avversario e la trapassa, e così via fino a che il cavaliere
avversario non cade morto dal cavallo. Tutti gli scontri con la lancia sono così, tutti uguali.
Il tasso di formularità, di stereotipizzazione di questi testi è molto elevato. Questo modo di
raccontare è anche legato alla loro diffusione. L'autore di una chanson de geste sa che quel
componimento è destinato alla recitazione e allora usa una serie di stereotipi che rendono ai
giullari più facile la memorizzazione del testo. È come se il giullare avesse a disposizione
una serie di moduli con cui costruire il racconto, e quindi anche se in un determinato
momento la sua memoria non era freschissima, è comunque in grado di ricostruire una
scena.
Queste sono le caratteristiche di tutta l'epica, che si trovano già anche nell'epica omerica.
La produzione epica francese antica è vastissima rispetto a quella spagnola. I testi epici
medievali comprendono essenzialmente El cantar de mio Cid e poco altro, ma tutto il resto
è andato perduto.
Si calcola che la produzione francese antica comprenda almeno un centinaio di poemi. Di
questi poemi molti ci sono arrivati in forme diverse: qualcuno componeva un testo che
aveva fortuna e di cui venivano fatte versioni nuove e diverse. A un certo punto qualcuno
pensò di rimarli e quindi trasformò questi testi – ormai la rima era di moda – da assonanzati
a rimati. Ci sono quindi versioni assonanzate e rimate dello stesso testo. Oppure ci sono
versioni che arricchiscono il testo di nuovi episodi. Per esempio nella Chanson de Roland,
nella sua versione O (chiamata così perché il manoscritto è conservato a Oxford) che è la
più antica; ci sono diverse versioni della Chanson de Roland successiva alla versione O che
hanno avuto anch'esse grande fortuna e l'hanno resa fruibile a un pubblico più nuovo con
enormi cambiamenti. Per esempio, quantitativamente la versione più antica della Chanson
de Roland conta circa 4.000 versi, mentre le versioni successive ne contano anche 12-
13.000. In generale si è calcolato che la produzione epica antico-francese consta di circa un
milione di versi. Si tratta di dunque di una produzione enorme che si estende su un arco
cronologico molto ampio di circa tre secoli. E si deve presumere che, per quello che si è
conservato, una percentuale piuttosto elevata sia andata perduta. Di alcuni dei testi perduti si
fa riferimento in canzoni che ci sono pervenute.
Nonostante ciò il corpus che ci è arrivato è abbastanza ampio e anche composito, cioè tratta
argomenti diversi e quindi pone non pochi problemi di classificazione. A dire il vero la
preoccupazione di mettere ordine nella produzione è già medievale. Ci furono autori
contemporanei che tentarono di individuare i filoni principali: è in questo frangente che si
colloca una citazione di Girart de Vienne, una canzone epica del XIII secolo scritta da
Bertand de Bar-sur-Aube. Egli conosce l'epica del suo tempo e cerca di darne una
classificazione. Nei primi versi della sua canzone Bertand de Bar-sur-Aube afferma quanto
segue:
Bertrand propone una classificazione interna al genere epico che manifesta il desiderio di
ordinare tutta la produzione epica in precise categorie o genealogie (perché in realtà fa
riferimento a personaggi) secondo la logica del cosiddetto ciclo epico, cioè un insieme più o
meno organizzato di testi intorno a un determinato argomento. Propone quindi una
tripartizione:
• la prima è la geste del re di Francia. Bertrand fa riferimento a tutti quelle canzoni che
ruotano intorno al personaggio di Carlo Magno, che è ritenuto il re per eccellenza,
l'esempio più nobile. Fa parte di questo tipo di testi, per esempio, la Chanson de
Roland (Rolando agisce in nome e per conto di Carlo Magno). In questo ciclo
rientrano però anche tantissime altre canzoni. Un altro esempio è la Chanson
d'Aspremont (Aspromonte è una località montuosa che si trova tra la Calabria e la
Basilicata). La canzone racconta di una battaglia lunga e sanguinosa tra i francesi
guidati da Carlo Magno e i musulmani che cercano di risalire verso nord per
conquistare l'Italia; e Carlo Magno accorre a difesa dell'impero. Tra questa canzone e
la Chanson de Roland c'è un collegamento (un rapporto non diretto ma allusivo)
perché racconta del giovane Rolando, che nella Chanson de Roland troviamo già
adulto e in grado di comandare la retroguardia di Carlo Magno: è un cavaliere
esperto che ha tra le mani la sua famosa spada. Ma come ha fatto Rolando a
conquistare la sua spada? Nella Chanson d'Aspremont si racconta di come la
conquista: era una spada che apparteneva a un re saraceno che Rolando uccide
durante la battaglia di Aspromonte e se ne impossessa. La canzone di Aspromonte
finisce per essere così una sorta di prequel della Chanson de Roland.
• Il secondo ciclo è quello di Doon 'dalla barba bianca', noto anche come Doon di
Magonza. Nella Chanson de Roland c'è un nemico esterno da combattere, i
musulmani. Essi distruggono la retroguardia e Rolando prima di morire riesce a
suonare il corno per avvertire di quello che sta succedendo. Carlo Magno poi torna
indietro e c'è una battaglia durante la quale si verifica l'inseguimento degli assalitori,
e poi avviene un battaglia ancora più importante contro il capo supremo dei
musulmani.
Nella Chanson de Roland, però, c'è anche un conflitto interno al campo francese, che
è quello tra Rolando e il suo patrigno, Gano. Gano è colui che vende Rolando al
nemico: svela ai musulmani il modo con cui fare breccia nella retroguardia francese
per cogliere di sorpresa Rolando, isolarlo dal resto dell'esercito, attaccarlo e
ucciderlo. Secondo Gano Rolando è colui che incentiva la guerra, per cui se viene
ammazzato, Carlo Magno se ne sta tranquillo. Gano si chiama Gano di Magonza. I
Magonzesi sono la stirpe dei traditori.
La geste di Doon 'dalla barba bianca' è l'insieme delle canzoni dei cosiddetti “baroni
ribelli”. Cioè vassalli di Carlo Magno, o anche di altri re a lui successivi, che si
ribellano al re e lo tradiscono. Questo insieme di testi, che spesso raccontano storie
molto tragiche perché la lotta è intestina, saranno poi raccolte in un unico ciclo che
prende il nome di “ciclo dei traditori”. Non si tratta sempre di traditori. Alcuni,
infatti, hanno subito un torto dal re e quindi hanno ragione nel combatterlo.
• Il terzo ciclo è quello di Garin de Monglann 'il fiero'. È il ciclo che oggi chiamiamo
di Guglielmo d'Orange, che è il suo protagonista principale. Bernart lo chiama così
perché fa riferimento al capostipite della famiglia di Guglielmo, fa di nuovo un
ragionamento di tipo genealogico. Tutti gli eroi di queste canzoni discendono da
Garin che è l'antenato più illustre della famiglia. Anche se il personaggio centrale è
Guglielmo, Garin de Monglanne in realtà è il capostipite della famiglia, è il bisnonno
di Guglielmo. La famiglia di Guglielmo è una famiglia di eroi.
Si tratta del ciclo più compatto e meglio organizzato che ci è pervenuto. Qualcuno si
è preoccupato di omogeneizzare una serie di testi che nascono più o meno
indipendenti. Hanno come argomento questa famiglia, ma sono indipendenti. Sono
dunque state tagliate ripetizioni, sono state inseriti episodi che cronologicamente non
erano ordine. Il risultato è un testo abbastanza lineare che però è il risultato di una
lunga fatica. In realtà il ciclo nasce già come ciclo secondo un meccanismo che a noi
non è estraneo. Per esempio di Indiana Jones, che ha molte caratteristiche in comune
con gli eroi epici, viene raccontata la prima storia. Essenzialmente Indiana Jones è un
archeologo attivo che fa in modo che i nazisti non si impossessino di un'arma
potenzialmente letale. La storia sarebbe potuta finire lì. E invece il film riscuote
molto successo e viene così raccontata un'altra storia, ambientata sempre nello stesso
periodo. Nella seconda storia Indiana Jones è accompagnato da suo padre (iniziamo a
vederne le genealogia): il film inizia con la storia di Indiana Jones (all'inizio del film
lui è giovane) e vengono spiegate una serie di cose (perché a paura dei serpenti,
ecc..). Si apre così un ciclo. L'idea di ciclizzazione quindi a noi non è estranea. Con
l'epica accade lo stesso: evidentemente ci furono alcune canzoni che avevano al
centro questi eroi e che ebbero molto successo. Allora il pubblico voleva altre storie
che riguardassero Guglielmo. E conveniva agli autori scrivere queste storie e ai
giullari raccontarle perché avevano successo. Dunque si scrivono altre storie che
riguardano Guglielmo. Con esattezza, le canzoni che compongono il ciclo sono 24. Si
tratta solamente di un quarto dell'intera produzione che ci è pervenuta, poiché
originariamente il ciclo era composta da un centinaio di poemi.
Di Guglielmo si parla come protagonista solamente in 10 delle 24 canzoni. Però ce
ne sono altre in cui si parla del padre, del nonno e del bisnonno. Ma il pubblico vuole
saperne ancora e allora, dato che Guglielmo non ha figli, si parla dei nipoti.
Questi testi vengono poi organizzati cronologicamente: si tratta sostanzialmente di
una sorta di biografia poetica di questa famiglia che parte dal suo rappresentante più
antico, Garin de Monglanne, e arriva ai nipoti di Guglielmo. In realtà però la storia
non è nata in maniera così ordinata perché prima si è parlato di Guglielmo, poi di uno
dei suoi nipoti, e solamente più tardi si è parlato del padre e del nonno. E noi li
conosciamo solo in questa forma: non abbiamo i testi di quando erano indipendenti
dal ciclo.
Di queste 24 ne leggeremo solo una. È una delle canzoni nucleari del ciclo. Il ciclo, che è
composto da 24 canzoni, non ha un punto di partenza preciso; non sappiamo qual è la
canzone dalla quale nasce tutto. Ci deve essere stata una prima canzone che ha avuto così
tanto successo tanto da spingere autori diversi in epoche diverse (il ciclo si sviluppa in un
paio di secoli) a continuare a raccontare storie con protagonisti questi personaggi.
La canzone che leggeremo fa sicuramente parte del nucleo originario, essa si chiama
Couronnement de Louis (Coronamento di Luigi) ed è seguita da un'altra canzone che si
chiama “Il carriaggio di Nîmes” (il carriaggio è una carovana di carri) e racconta di come
Guglielmo conquista Nîmes utilizzando un vecchio trucco che risale alla guerra di Troia: il
cavallo di Troia di Guglielmo sono i carri. Guglielmo e i suoi uomini si travestono da
mercanti, fanno finta di avere una carovana di carri che trasportavano botti (che al tempo
erano i contenitori con cui si trasportavano le mercanzie); si presenta a Nîmes facendo finta
di voler commerciare i suoi prodotti in quella città; i musulmani gli aprono le porte, entra il
carriaggio e dalle botti escono i guerrieri di Guglielmo (proprio come uscirono i greci dal
cavallo di legno). “Il carriaggio di Nîmes” è quindi la seconda canzone del nucleo originario
che segue subito Couronnement de Louis, e sono legate tra di loro.
Il Couronnement de Louis racconta di come Guglielmo serve il suo re, Ludovico il Pio
(figlio di Carlo Magno), e non viene ricompensato. Ha, dunque, due possibilità: o si ribella
al suo re che è stato ingiusto nei suoi confronti (perché nonostante i servizi prestati non ha
ricevuto nulla), oppure si va a conquistare un feudo ai danni dei musulmani. La scelta che fa
Guglielmo è scaricare quelle che potrebbe essere un conflitto interno verso l'esterno. Infatti
si va a conquistare la città di Nîmes e la canzone “Il carriaggio di Nîmes” è il seguito. Visto
che nel Couronnement de Louis Guglielmo rimane senza ricompensa, chiede di andare a
combattere i musulmani e di andare a conquistarsi, in nome del re, la città di Nîmes. A
questa seconda canzone segue una terza che si chiama Prise d'Orange (Conquista
d'Orange), in essa si racconta di come Guglielmo conquisti questa città importante della
Francia meridionale, che era in mano musulmana, e diventi conte di questa città. E sposa la
regina saracena di Orange dopo aver ucciso il re, cioè diventa un signore feudale a tutti gli
effetti (da iuvene diventa casatus).
Queste tre canzoni nell'ordine sono la biografia poetica dell'eroe, che da giovane è al
servizio del re, ma poi riesce a creare un suo dominio conquistando dapprima una piccola
città (Nîmes) e poi una grande città (Orange) di cui diventa conte. Da giovane cavaliere si
converte in cavaliere sposato capo di una casata. Da quello che si riesce a intuire la prima
canzone dovrebbe proprio essere la “Conquista d'Orange”, forse, cronologicamente, fu
composta prima delle altre.
Il testo del Couronnement de Louis ci è pervenuto in più redazioni, che prendono il nome di
A,B,C e D. Le versioni A e B sono molto vicine tra loro. Ma, in particolare, il testo che
leggiamo è quello tramandato da uno dei manoscritti a nostra disposizione. I manoscritti
sono 6: 4 per la versione A e 2 per la versione B (A1, A2, A3, A4, B1, B2). Il testo che qui
viene preso come riferimento proviene dal manoscritto A2.
Il verso è lungo e composto da due emistichi, i quali non sono difficili da riconoscere perché
spesso coincidono con una unità frastica, cioè una frase, una cesura sintattica. Dobbiamo
ricordare che alla fine dell'emistichio vale la regola del fine-verso (cioè si deve contare fino
all'ultimo accento, mentre ciò che viene dopo non conta). Ma che tipo di verso é?
La struttura del Couronnement de Louis è aperta, lineare e addizionale, cioè alla catena si
aggiungono degli anelli che, teoricamente, possono essere infiniti. La canzone si ferma lì ma
la sua struttura avrebbe consentito di continuare la storia se, dopo il quarto episodio, si fosse
verificata un'altra crisi che Guglielmo sarebbe stato chiamato a risolvere. Questo tipo di
struttura è tipica del genere epico e si differenzia dalla struttura romanzesca che è circolare,
all'interno della quale la vicenda deve avere un punto di partenza e un punto di arrivo. Non
si tratta solamente di una struttura addizionale e lineare, ma chiaramente caratterizzata
anche da ripetitività. Basta guardare come gli episodi si ripetano alternandosi. Il primo
episodio mette in scena una crisi che riguarda il re (il re Luigi corre il pericolo di perdere la
corona), ma nel terzo episodio Guglielmo accorre in Francia perché di nuovo un traditore sta
tentando di usurpare la corona del re. Gli episodi 1 e 3 sono sostanzialmente identici dal
punto di vista strutturale, viene messa in scena la stessa situazione. Ma anche gli altri due
episodi sono ripetitivi e non a caso si svolgono anche nello stesso ambiente, a Roma (lo
stesso accade anche per gli episodi 1 e 3 che sono entrambi ambientati in Francia). Gli
episodi 2 e 4 mettono in scena un aggressore di Roma: Roma e la cristianità sono
minacciate. Il secondo episodio mette in scena il pericolo rappresentato dai saraceni;
interviene Guglielmo e risolve la crisi. Nel quarto episodio Roma è minacciata da un
tedesco, Guido d'Alemagna; e di nuovo Guglielmo deve intervenire a salvare Roma.
Episodi 1 e 3 → lotta di Guglielmo contro un traditore della dinastia che governa la Francia.
(pericolo interno) sono le due possibili
Episodi 2 e 4 → lotta di Guglielmo contro un assalitore di Roma. minacce che mettono a
(pericolo esterno) rischio la collettività
Nel caso degli episodi 2 e 4 la ripetizione è ancora maggiore perché si concludono alla
stessa maniera: con un duello giudiziario. Nel caso dello scontro con i saraceni, Guglielmo
si batte in duello contro il gigante Corsolt e lo vince. Avviene lo stesso con Guido
d'Alemagna; di nuovo un duello giudiziario, cioè la soluzione della crisi è affidato allo
stesso meccanismo che scioglie la situazione. È una doppia ripetizione sia di situazione sia
di conclusione della crisi.
Tra questi episodi non c'è una vera e propria necessaria continuità. Essi appaiono autonomi
e indipendenti. Tra di essi non esiste una concatenazione, non c'è uno sviluppo narrativo che
deriva da un principio unitario senza il quale la storia non è più comprensibile. Per capire a
pieno il secondo episodio non bisogna aver letto il primo. Ci sono soltanto delle rapide
transizioni.
Questa particolare struttura differenzia l'epica dal genere del romanzo, che invece prevede
una concatenazione di episodi, un piano unitario e uno sviluppo circolare degli eventi. Si è
tanto di spiegare questo tipo di struttura rispetto alla sua destinazione. Questi testi erano
destinati ad essere cantilenati pubblicamente e gli autori li avrebbero pensati proprio in base
a questo elemento. Si è pensato anche che questi testi siano il risultato di un assemblamento
a posteriori di pezzi che prima erano autonomi. Però è abbastanza singolare che quasi tutta
l'epica funziona così, anche quella più antica. La struttura addizionale è tipica dell'epica in
generale. È quindi possibile che ci sia una ragione più profonda, meno legata alla diffusione
che questi testi avevano o alla loro genesi, e questa ragione potrebbe essere: in realtà l'epica
mette quasi sempre in scena una collettività in pericolo (si pensi ai poemi omerici che si
aprono con sciagure, così come l'Eneide che si apre con Enea reduce dalla sconfitta di
Troia), poi l'eroe durante il corso della narrazione ristabilisce l'ordine. Il nostro testo si apre
con una crisi importante per quanto riguarda il Medioevo, quella che riguarda la successione
al trono che è la forma politica più importante e l'unica che si conosce, e l'eroe è chiamato a
intervenire e a risolverla. Oppure Roma e la cristianità sono minacciate.
Questi testi quindi mettono in scena sempre una crisi dalla quale, attraverso sofferenze e
patimenti, si esce vincitori. Il problema è che una volta che viene ristabilito l'ordine, i valori
che sono stati ripristinati vengono di nuovo messi in crisi da qualcun altro. Alla fine della
Chanson de Roland l'ordine viene ripristinato e il traditore interno, Gano, dopo un processo,
viene punito e condannato ad essere squartato (la sua morte è esemplare); ma viene
ripristinato anche l'ordine esterno: i saraceni sono stati combattuti e vinti. Eppure la
Chanson de Roland termina con un sogno di Carlo Magno che appunto sogna un animale
che attacca un altro animale: l'aggredito simboleggia il gruppo a cui apparteniamo (per
Carlo Magno è la cristianità) e invece l'aggressore è il pericolo esterno. Quando si sveglia
Carlo Magno è inquieto e, essendo i sogni nell'epica premonitori, arrivano dei messaggeri
che portano che la notizia che adesso che le cose sono opposte a ovest, adesso i nemici
vengono dall'est. Tutto sembrava salvo, ma tutto viene messo di nuovo in discussione. Tutto
questo può insegnare che l'epica è fatta così perché il suo scopo è quello di celebrare certi
valori come validi e giusti. Ma come si fa a stabilire che un valore sia valido? Mettendolo
alla prova. E come lo si mette alla prova? Facendolo minacciare da qualcuno, esponendolo
al pericolo della minaccia. Se esce vincitore dalla crisi, vuol dire che quel sistema di valori è
giusto perché si riafferma ogni volta. Però il pericolo è sempre in agguato, non c'è mai pace.
I valori della collettività sono sempre esposti alla minaccia esterna o interna, e dunque
bisogna ritornare a combattere. Bisogna continuare a riaffermare la loro validità. Allora
forse questa struttura risponde a questa esigenza, cioè che il sistema di valori di una
collettività, rappresentata da un eroe che li incarna, è sempre in pericolo. Non basta vincere
una volta, questo pericolo è sempre presente. Il fatto che i valori giusti vengano minacciati
continuamente e che ne escano sempre vincitori li conferma come valori validi, degni di
essere difesi. Il meccanismo è anche culturale, è una struttura narrativa che serve a mettere
in discussione i propri valori continuamente per metterli alla prova; superare la prova vuol
dire che i valori reggono all'urto, però le prove sono infinite. Tutto ciò potrebbe spiegare
anche la linearità del genere epico.
Le prime quattro lasse sono introduttive. È un testo che viene diffuso auralmente, cioè
attraverso la voce di un recitatore, e lo si capisce anche dall'appello al pubblico. Spesso
questi testi si aprono così.
1ª LASSA
2ª LASSA
3ª LASSA
Abbiamo quindi visto un appello al pubblico: sono testi rivolti alla dizione pubblica e
destinati ad un pubblico indifferenziato. È ovvio che i primi interlocutori sono coloro che
appartengono alla classe nobiliare, perché si parla di loro. Però i valori di cui si discute
appartengono a un pubblico indifferenziato.
La canzone si apre con tre lasse di introduzione in cui la narrazione non è ancora cominciata
e in cui l'espositore del racconto espone il tema. Viene innanzitutto presentato il
protagonista, cioè Guglielmo, e lo si fa seguire dall'epiteto epico. Il protagonista-eroe
assume subito una dimensione sovrumana, superlativa. Le qualità impersonate da questo
eroe nel corso della canzone sono, per la collettività intera, esemplari. Anche qui
l'esemplarità è fondamentale e Guglielmo viene additato come modello comportamentale.
Le sue qualità sono altissime, tutte superlative, anche la sua forza fisica, anche la sua fame
(non si sazia mai). La biografia poetica di Guglielmo prevede anche la fine della sua vita:
egli finisce la sua vita in un monastero dove cerca di fare penitenza dei peccati commessi e
di salvarsi l'anima. E uno dei problemi fondamentali per gli altri monaci è che Guglielmo
mangia tutto. Non c'è modo di saziarlo e loro che predicano il contenimento e il digiuno si
ritrovano la cantina svuotata delle sue risorse in pochi giorni: Guglielmo ha una fame da
eroe epico.
Nel primo verso della seconda lassa la canzone intera viene chiamata “example”: la canzone
di gesta è il racconto di imprese eroiche esemplari. Le straordinarie qualità dell'eroe
vengono subito relegate ad una funzione pedagogica, didattica. Guglielmo è un esempio da
seguire e rappresenta un insegnamento per i cavalieri come lui. I comuni ascoltatori si
riconoscono in Guglielmo in quanto portatore di quei valori che rendono la collettività unita,
ne garantiscono il benessere e la pace. Quindi, le imprese di Guglielmo sono fin dall'inizio
del testo presentate come schemi di comportamento degni di essere imitati.
Inoltre, vengono anche definite le coordinate spaziali e temporali in cui si svolge l'azione
che sta per essere narrata. L'azione viene subito inserita (2ª lassa) in una situazione storico-
politica molto ben definita. Si tratta del regno di Carlo Magno. È un'azione che rispetto al
presente in cui il testo è stato composto e recitato è distante, si sta parlando del passato. Il
testo è del 1130-1160, Carlo Magno visse nel IX secolo (fu incoronato la notte di natale
dell'anno 800). L'azione narrata rispetto al presente della narrazione è passata. Si sta
parlando nella canzone con precisione dell'anno 812. Sono passati circa tre secoli e mezzo: è
questa la distanza che separa il momento del racconto (la composizione del testo)
dall'ambientazione storica.
La situazione politica definita nella canzone è molto precisa: si tratta del regno di Carlo
Magno. Qui ci si potrebbe interrogare su come il pubblico medievale avesse cognizione del
tempo e della cronologia perché non è detto che ce l'avessero. Avevano però sicuramente la
consapevolezza che quello di cui si stava parlando era un passato glorioso, che diventa esso
stesso un esempio: un passato che insegna, un passato modello, ideale, mitico.
Il regno di Carlo Magno è anch'esso caratterizzato dai superlativi. L'eroe è sovrumano e
superlativo e la collocazione storica in cui agisce è anch'essa superlativa: il regno di Carlo
Magno è l'eletto fra i regni (tra i 99 regni che Dio creò quello è il migliore) e lui è il
migliore re di tutti i regni. La Francia è la terra (non possiamo parlare ancora di “nazione”
che è un concetto 800esco) che per decreto divino governa le altre. Non è una cosa
secondaria quella di legare la figura del re a Dio perché il re non governa per mandato degli
uomini, ma per mandato di Dio. Il sovrano superlativo di una terra superlativa ha una
missione che gli ha dato Dio: per decreto divino e per merito di questo sovrano il regno si
deve espandere. Il dovere della Francia è quello di espandersi ai danni del nemico di allora:
il mondo musulmano si prestava come terra di conquista per i cristiani.
Questo spazio e questo tempo vengono trasfigurati perché è vero che i testi epici hanno un
rapporto con la storia e con la realtà concreta piuttosto stretto, però allo stesso tempo la
trasformano, la narrano. Per esempio la rappresentazione dei saraceni è del tutto alterata.
Essi vengono definiti pagani, ma già da allora erano assolutamente monoteisti. E invece in
questi testi vengono rappresentati come politeisti: si rappresenta l'altro come un me stesso
rovesciato. Secondo i cristiani anche loro hanno tre divinità: Maometto, Apollion e
Tarvagant. Il cristianesimo conosce il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo; allo stesso modo i
pagani devono essere “me stesso” allo specchio, devono avere anch'essi una trinità. Rispetto
a quella del cristianesimo, è ovviamente una trinità negativa. Mentre le divinità del
cristianesimo sono giuste e valide, gli dei dei musulmani sono falsi e bugiardi. Il gigante
Corsolt che si scontra con Guglielmo è rappresentato come una specie di demonio (creatura
con occhi ardenti, dotata di artigli): l'altro, il nemico per eccellenza, in questo caso il
musulmano, viene rappresentato con le fattezze di un diavolo. Il nemico della cristianità è il
diavolo e come il diavolo è rappresentato il saraceno.
Nella 3ª lassa viene delineata, infine, una problematica politica molto concreta e precisa che
è centrale in tutta la canzone: la monarchia. Il re di Francia rappresenta la monarchia e si
comincia a delineare un ritratto ideale del sovrano francese. Il re di Francia deve essere
preudom e vaillant. Questi sono due aggettivi importanti per il lessico medievale e feudale.
In italiano questi due aggettivi potrebbero essere resi quasi con lo stesso termine, cioè
valoroso. Ma non è esattamente la stessa cosa. Preudom alla lettera significa “uomo prode,
prod uomo”; in realtà fa riferimento a qualità morali, interiori. Invece vaillant de son cors
potrebbe essere reso con “fisicamente valoroso” e fa riferimento a qualità esteriori. Però per
il Medioevo le une e le altre non sono indipendenti: è vaillant chi è preudom. Se si hanno
qualità interiori, allora si ha anche valore fisico, altrimenti no. Per essere un buon sovrano,
quindi, bisogna avere sia le qualità interiori che quelle esteriori (che sono sostanzialmente
la manifestazione esterna, concreta delle qualità interiori). Mentre un termine è riferito
all'ambito morale, l'altro è riferito più all'ambito militare. Ma non si tratta di qualità distinte,
sono tra loro complementari.
Rispetto a quest'ideale il re di Francia che qui viene messo in scena, Luigi o Ludovico il Pio,
è invece raffigurato come non all'altezza del compito. Nel primo episodio si fa rubare la
corona perché ha paura del compito che lo aspetta e deve accorrere in suo aiuto Guglielmo.
Nell'episodio romano in cui Guglielmo se lo porta dietro per insegnarli il mestiere di re,
scappa dal nemico come un codardo. Abbiamo a che fare con un re che non è all'altezza di
questo ideale, non è una buona incarnazione. Tuttavia Guglielmo non gli fa mai mancare il
suo appoggio, il suo aiuto. Questo testo, qui, fa riferimento implicitamente a un'altra
concezione del re medievale (ma che vale anche per il re moderno): la teoria dei due corpi
del re. È un teoria elaborata proprio nel Medioevo. È come se il re avesse due corpi:
➔ uno è il corpo istituzionale che rappresenta l'istituzione, la monarchia, la dinastia, la
collettività, i suoi valori, ne è garante e l'amministratore della legge;
➔ ma il re ha anche un corpo fisico che può non essere all'altezza del compito e del
corpo istituzionale.
Non sempre i due corpi coincidono. Ma al corpo istituzionale si deve lealtà, per cui anche se
in quel momento il re di Francia non è incarnato fisicamente da un re all'altezza dell'ideale
(Luigi è un po' vile, deve crescere e imparare), però Guglielmo è fedele al suo corpo
istituzionale, a ciò che rappresenta, cioè la monarchia francese. Per cui anche se il re non è
all'altezza del compito gli si deve ugualmente obbedienza e lealtà, lo si deve sostenere.
Proprio dalla complementarietà della monarchia e della nobiltà, che si devono sostenere l'un
l'altra, il benessere collettivo può essere garantito. Ed è quello che sostanzialmente nel corso
del racconto verrà messo in scena: un re non all'altezza dell'ideale che ha bisogno del
sostegno della nobiltà e come la collaborazione tra monarchia e nobiltà può garantire il
benessere del regno (ma non la grande nobiltà, bensì la piccola nobiltà di cui Guglielmo
sembrerebbe essere il rappresentante).
Il prologo chiarisce la tavola dei valori. Confrontando il comportamento dei personaggi con
questi valori, possiamo giudicarli.
18/12
La tavola dei valori, rispetto alla quale valutare ciò che viene narrato, delinea due ideali:
• uno è quello dell'eroe → Guglielmo è rappresento come dotato di qualità fuori dal
comune;
• l'altro è quello del sovrano.
Mentre il primo ideale viene pienamente realizzato (Guglielmo è l'eroe che ci aspettiamo),
non è così per il re che solo molto faticosamente acquisisce il suo incarico, è un
giovanissimo re che non è all'altezza del compito, il che rende ancor più necessario il
sostegno da parte dell'eroe.
4ª LASSA
5ª LASSA
Il destinatario delle offerte è Carlo Magno il quale sta per associare al trono suo figlio
(perché ancora vivo, non è una successione post mortem del sovrano).
6ª LASSA
7ª LASSA
8ª LASSA
Così termina il primo episodio a cui seguono dei versi di transizione in cui Guglielmo
promette a Carlo Magno di proteggere suo figlio, però prima di farlo deve sciogliere un voto
e quindi gli chiede il permesso di andare in pellegrinaggio a Roma. Da qui inizia il secondo
episodio con l'avventura romana.
I temi della canzone sono politici e attuali per l'epoca in cui il testo è stato composto, temi
cari per gli ascoltatori. Il valore fondamentale che viene messo in discussione è la
monarchia, l'istituzione per eccellenza. Assistiamo, infatti, a un'incoronazione contrastata.
Abbiamo la possibilità di fare due tipi di riflessioni: la prima sui contenuti politici, la
seconda sul rapporto fra passato (in cui la narrazione raccontata si svolge) e presente (in cui
l'autore scrive e si rivolge agli ascoltatori).
Il tema politico: all'inizio dell'episodio si dice che ormai Carlo Magno è vecchio, non più in
grado di governare con l'energia necessaria che un sovrano deve avere per governare un
regno come quello di Francia. Carlo Magno quindi convoca ad Aquisgrana una solenne
riunione, un'assemblea annunciando ai vassalli e ai notabili del regno (c'è anche il papa) di
voler incoronare suo figlio Luigi. Prima di procedere all'incoronazione, Carlo Magno
tratteggia una sorta di “programma di governo” molto rigoroso, cioè cosa un buon sovrano
deve e non deve fare. È un programma di governo che prevede una serie di condizioni, di
impegni cui il giovane erede deve attenersi. Non è difficile distinguere nel discorso di CM
due tipi di doveri. Alcune di queste raccomandazioni riguardano la morale individuale (si
dice che il sovrano non deve commettere lussuria e più in generale non deve fare peccato).
Le altre raccomandazioni, o meglio la maggior parte di esse, sono invece più squisitamente
di ordine pubblico, sociale (non fare torto a chi ti è stato fedele, non tradire, non diseredare
gli orfani, non spogliare le vedove dei loro averi, non farti corrompere dai giudizi, non farti
consigliare da gente moralmente inadeguata e così via). È una specie di riferimento indiretto
ai due corpi del re.
A questi consigli espressi in maniera negativa, CM ne aggiunge degli altri espressi questa
volta in maniera positiva: il buon re deve fare guerra contro i pagani, deve cioè espandere i
confini della cristianità; deve avere cari quanti sono stati a lui fedeli e quindi ricompensarli
adeguatamente; deve combattere contro gli orgogliosi (come Hernault d'Orleans); deve
garantire la giustizia e così via.
Il modello di questo discorso è un vero e proprio piccolo speculum principis, che significa
letteralmente “specchio del principe”. È un genere letterario in senso ampio, quello degli
specula principum. Si tratta di trattati sui doveri dei governanti, essi indicano a chi deve
governare una serie di compiti. Per esempio Il Principe di Machiavelli è uno speculum
principis. È un discorso che illustra in positivo e in negativo i doveri del re ideale. Però il
programma di governo illustrato in questa forma è talmente alto e impegnativo che Luigi,
ancora troppo giovane e debole, non osa avanzare verso l'altare, non prende la corona come
avrebbe dovuto fare perché non è necessario che lui dica “mi impegno”, è il gesto quello che
conta. Il gesto di prendere la corona avrebbe simboleggiato l'assenso ad assolvere a questi
obblighi. Il che uscita lo sdegno di CM e il dolore della maggioranza dei presenti, c'è infatti
una parte che se ne rallegra perché appoggia Hernault d'Orleans. Quest'ultimo approfitta
della situazione e propone all'imperatore di sostituirsi a Luigi. Questo tentativo, che viene
descritto come un tentativo illegittimo e che tecnicamente prende il nome di usurpazione,
non va importo perché interviene Guglielmo il quale uccide “involontariamente” quello che
è chiaramente un traditore. Guglielmo poi si affretta ad incoronare Luigi perché lo ritiene
l'unico legittimo erede. L'eroe incarna i valori positivi e il suo comportamento è esemplare.
Guglielmo rappresenta l'orientamento ideologico del testo.
Per quanto riguarda il meccanismo di successione al trono esistono due principi
fondamentali:
• il primo principio è quello elettivo → si può diventare perché un'assemblea di potenti
di un regno eleggono il sovrano;
• il secondo principio, che contrasta con il primo e che prevale nel testo, è quello
ereditario.
Il primo principio nel testo viene condannato, lo ritiene del tutto illegittimo, però è presente
nel testo e non viene escluso. È ritenuto negativo ma non è del tutto assente come
possibilità. Il principio elettivo è esplicitato nel momento in cui, appresa la designazione di
Luigi come successore e che quindi ci sarà una successione ereditaria, i presenti, o almeno
buona parte di essi, lodano il cielo per non aver avuto in sorte un re straniero. Il che
significa che il principio elettivo è ammissibile (si ammette la possibilità che possa non
essere il figlio di CM). Teoricamente i due principi coincidono, però all'interno del testo
sono giudicati uno positivamente e l'altro negativamente. Il principio elettivo è esplicito
anche nella pretesa di Hernault d'Orleans di diventare re. Egli non solo chiede al sovrano di
poter sedersi sul trono, ma chiede anche il consenso dell'assemblea di francesi e di
legittimare la sua elezione. E alla fine ottiene il consenso di tutti: la votazione è unanime.
Il principio ereditario è l'unico ammesso nel testo e viene sostenuto in maniera esplicita. È
affermato dalla volontà di CM il quale propone all'assemblea di associare al trono suo figlio
Luigi. La legittimità del principio ereditario è resa ancora più esplicita dal comportamento
dell'eroe: Guglielmo non ammette altre soluzioni. È l'affermazione del principio ereditario.
Inoltre il modo in cui agisce Guglielmo mette in chiaro anche che fine fanno coloro i quali
vogliono infrangere questo principio. La morte di Hernault d'Orleans è ignobile; egli non
muore come un cavaliere (Guglielmo sfodera la spada e poi la rimette a posto), ma con un
animale, una bestia perché non merita morte migliore: questo è il trattamento riservato a chi
infrange le norme vigenti. Chi infrange la norma vigente dell'ereditarietà commette un
peccato molto simile al tradimento.
L'ereditarietà si basa su un principio che nel Medioevo è molto radicato, cioè l'assoluto
rispetto per i valori di sangue: la funzione del sangue come tramite di virtù morali e sociali.
Nel Medioevo si credeva che con il sangue si trasmettono anche le qualità, il che
giustificava la rigida divisione in categorie sociale che non ammetteva mobilità se non
all'interno della stessa categoria (chi nasceva contadino non poteva pretendere di diventare
cavaliere perché appunto non aveva ereditato nel sangue le qualità per essere “bellato”).
Questo spiega perché quando CM vede che Luigi esita a prendere la corona dice di essere
stato ingannato e che sua moglie l'ha tradito e che ha generato suo figlio con un vigliacco
perché lui non è un codardo. Se Luigi lo è, vuol dire che CM non è suo padre.
Che da questa legge del sangue derivi il diritto di ereditarietà è ribadito diverse volte nella
canzone: nel terzo episodio viene messo in scena un altro tentativo di usurpazione, quello di
Acelin. E nel terzo episodio questo principio viene ribadito e reso più chiaro:
Il rapporto con la storia: il rapporto con la storia non è così apparentemente semplice come
potrebbe sembrare. Perché un autore della metà del XII secolo ritiene attuale una questione
del genere? La questione dell'ereditarietà riguarda solo l'epoca di Carlo Magno o riguarda
anche più da vicino l'autore e i suoi ascoltatori? Nel testo esiste una parte storica e una parte
non storica.
Sono personaggi storici Carlo Magno, suo figlio Ludovico il Pio il quale venne
effettivamente associato al trono prima della morte di Carlo Magno nell'anno 813 ad
Aquisgrana (è un'operazione che serve ad evitare fratture nella dinastia, in maniera tale che
quando Carlo Magno morirà il suo successore sarà ben saldo sul trono) e fin qua la storia
non trova alterazioni.
Non è un personaggio storico Hernault d'Orleans: non esiste nessun riscontro di un
personaggio simile e soprattutto di un tentativo di usurpazione da lui compiuto. Non ci
nessuna difficoltà ad associare al trono Luigi.
Qualche problema lo presenta la figura di Guglielmo. Guglielmo d'Orange è identificabile in
un personaggio storico che ha subito molte trasformazioni perché un eroe non può essere
reale al 100%. Gli si attribuiscono una serie di attributi e di capacità sovrumane: la sua
vicinanza con la realtà è molto relativa. Però il personaggio di riferimento che avrebbe
ispirato il personaggio poetico parrebbe essere Guglielmo di Tolosa che era un cugino di
primo grado di Carlo Magno e che era stato posto alla contea di Tolosa nell'anno 790 e nello
stesso tempo fu anche nominato consigliere e tutore dell'allora giovanissimo (aveva appena
12 anni) Ludovico il Pio. Il rapporto tra Guglielmo di Tolosa e Ludovico il Pio è molto
stretto, esattamente come il rapporto tra Guglielmo d'Orange poetico e Luigi poetico. Ci
sono anche altri elementi perché Guglielmo di Tolosa fu uno dei massimi protagonisti della
guerra contro i saraceni in Spagna (storia medievale: a un certo punto venne fondata la
Marca Ispanica che è una regione al confine tra la Francia e la Spagna che serviva da
barriera contro i musulmani di Spagna; e Guglielmo di Tolosa fu uno dei protagonisti della
difesa del regno cristiano carolingio contro i saraceni che tentarono più volte di espandersi
verso la Francia → ) e Guglielmo di Tolosa nelle canzoni del ciclo combatte continuamente
contro i saraceni: questo è un altro collegamento tra il Guglielmo poetico e quello storico. O
ancora: la biografia poetica di Guglielmo d'Orange che prevede le sue imprese più mature
(Nimes, Orange) e una serie di avventure quando è più giovane e, infine, una serie di
imprese successive fino alla sua monacazione. È una biografia poetica completa che va dalla
nascita fino alla morte e che si conclude in monastero. Guglielmo di Tolosa effettivamente
nell'anno 804 si ritirò in un convento che si trovava vicino Montpellier e poco dopo si
trasferì in un convento che si trovava a Gellona dove morì qualche anno dopo. E diventò un
beato, un santo. Nella canzone, effettivamente, si parla di Guglielmo come un candidato alla
santità. I rapporti tra Guglielmo di Tolosa e Guglielmo d'Orange sono parecchi.
C'è però un problema perché Guglielmo di Tolosa muore nel monastero che ha fondato a
Gellona nell'anno 812, mentre l'incoronazione di Luigi avviene nel 813, e quindi non vi
partecipò. Questo vuol dire che da questo punto di vista la canzone non sta rispettando la
storia.
Ma esiste anche un'altra incongruenza storica, cioè quella per cui si mette in scena un
tentativo di usurpazione che non ha nessun riscontro nella realtà storico. Oltretutto Ludovico
il Pio non fu un re debole come viene dipinto nella canzone. È quindi evidente che
l'aderenza alla storia non è assoluta e totale.
L'episodio di Henrault d'Orleans è completamente inventato. Lo sappiamo perché abbiamo a
disposizione delle testimonianze; il Medioevo, infatti, ci ha trasmesso moltissimi testi
storiografici in latino e in volgare che ci danno informazioni abbastanza attendibili. E
riguardo a questo particolare episodio, abbiamo a disposizione una cronaca che si chiama
Vita Hludovici, che significa “vita di Ludovico” e che è la biografia storica di Ludovico il
Pio. Fu scritta da un certo Teghan che doveva essere un cronista reale appartenente alla corte
imperiale e, dunque, un testimone oculare dei fatti. È stata composta tra l'anno 835-838 (lo
sappiamo perché fa riferimento ad avvenimenti accaduti di quest'epoca), un po' di anni dopo
l'incoronazione di Luigi che avvenne nel 813. In essa si racconta la storia del regno di
Ludovico il Pio e si parla anche degli avvenimenti della sua incoronazione (l'organizzazione
dei fatti è fatta anno per anno). Qui si dice che quando Ludovico il Pio fu associato al trono
dal padre (assolutamente secondo le modalità descritte dalla canzone), non parla affatto di
un Luigi che non prende la corona e di un tentativo di un partito di opposizione di
impossessarsi della corona. CM era talmente potente che non ebbe alcuna difficoltà ad
imporre la sua volontà ai presenti; l'assemblea riunita approvò senza nessuna discussione la
proposta di CM. Non ci fu nessun tentativo di usurpazione. Tutto quanto dice il poema è
frutto di invenzione. Riguardo a ciò possono essere formulate alcune ipotesi. La prima
ipotesi è che l'autore anonimo della canzone di gesta, a distanza di più di 300 anni, non
ricordi esattamente quello che accaduto: il suo ricordo è alterato e il tempo trascorso
potrebbe aver contribuito ad una ricostruzione storica inesatta. Sarebbe quindi il risultato di
un errore involontario, di cattiva memoria. Ma mentre noi possiamo permetterci di perdere
la memoria, l'età contemporanea ha una memoria meno tenace perché se la può ricostruire
quando vuole; invece il Medioevo ha una memoria molto tenace, soprattutto riguardo di fatti
importanti, proprio perché l'unico mezzo per ricordare il passato nel Medioevo è la
memoria. La memoria medievale, dunque, non è così degradabile nel tempo come la nostra.
Questa ipotesi potrebbe potenzialmente chiudere il discorso, ma deve essere esclusa perché
l'autore ha inventato la storia di Hernault d'Orleans con intento e consapevolezza. Ma come
facciamo a dirlo? E perché lo fa? Ha un fine il suo intervento sulla verità storica che viene
così chiaramente alterata? Siamo certi che l'autore del poema conoscesse la verità perché
conosceva la Vita Hludovici. Egli utilizza una fonte per ricostruire questo episodio, non si
affida semplicemente alla memoria. Esiste tra i due testi un rapporto intertestuale che può
essere verificato mettendoli a confronto. Mettendo a confronto questo episodio e il capitolo
della cronaca che parla dell'incoronazione di Luigi si può osservare che esistono rapporti
testuali. A parte l'ambientazione e la presenza del papa, il discorso che fa Carlo Magno a suo
figlio, articolato proprio in quella maniera (doveri, obblighi, in chiave positiva e negativa) e
con quella precisa impostazione retorica, è preso pari pari dalla Vita Hludovici. L'autore del
poema lo traduce quasi dal testo latino che era in prosa trasformandolo in francese e in versi.
Questo significa che il nostro autore o non conosce i fatti perché li ha dimenticati e che sta
scrivendo con una documentazione sul tavolo di lavoro e questa documentazione comprende
la Vita Hludovici. Quindi sa che non ci fu nessun tentativo di usurpazione perché lo legge
nella cronaca che sta traducendo per ricostruire il discorso di Carlo Magno. Se inserisce
l'episodio di Hernault d'Orleans, lo fa volontariamente, anche sapendo che in realtà non ci
fu. Lo inventa di proposito. Ma perché? L'epica è un racconto storico che ambienta le sue
azioni e i suoi personaggi nel passato, ma lo fa per parlare del presente. Per esempio,
quando Manzoni scrive i Promessi Sposi, lo ambienta nel '600. Ma in realtà quando parla di
Renzo e Lucia, sta parlando dell'Italia risorgimentale o pre-risorgimentale sotto la
dominazione straniera, così come lo era l'Italia del '600 sotto la dominazione della Spagna.
Il passato non viene mai ricostruito in maniera oggettiva, è sempre visto con gli occhi del
presente, o per affrontare tematiche che sono del presente. È probabile che negli anni in cui
l'autore ha scritto il suo testo sia accaduto qualcosa che abbia reso necessario sostenere
quello che era successo. Forse quest'autore era vicino a una dinastia in difficoltà e quindi
scrive questo testo che è un sostegno di propaganda politica: l'unico principio giusto è
quello ereditario e chi lo vuole mettere in discussione “oggi” commette un reato.
08/01
Come mai l'autore che sa come si sono svolti in realtà, invece li altera introducendo una
crisi? La risposta generale è che i testi epici mettono in crisi i valori affinché questi ne
escano rafforzati. L'autore del testo ha bisogno che si creino momenti di tensione che
culmino con la prevalsa del bene sul male. Ma esiste anche una risposta più particolare e per
capirla non dobbiamo guardare alla storia del passato, ma all'attualità dell'autore, alla storia
a lui contemporanea. Infatti è più che probabile che negli anni in cui questo autore vive e
scrive il suo testo sia accaduto qualcosa che abbia avuto a che fare con una crisi dinastica. E
allora, sulla spinta della sua attualità, l'autore ha scritto questa canzone a sostegno di un
ideale che lui riteneva giusto da difendere: si schiera apertamente dalla parte della
successione ereditaria e critica in maniera feroce ogni altra possibilità.
Ma cos'era accaduto? Sappiamo che il testo in questione è stato scritto tra il 1130 e il 1160.
Forse in quegli anni è avvenuto qualcosa che ha influenzato il testo. Qualunque testo
letterario che ha a che vedere con la storia parla del passato perché in realtà vuole parlare
del presente, quindi è al presente dell'autore che dobbiamo prestare attenzione, quella che
Varvaro nel suo libro chiama la “contemporaneità dell'epica” → è vero che l'epica ambienta
le sue storie nel passato mitico di Carlo Magno, ma queste storie sono state scritte molto
tempo dopo l'epoca di Carlo Magno, nel nostro caso tre secolo dopo. È ovvio quindi che
esse contengano dell'attualità, la loro contemporaneità.
Che cosa è accaduto negli anni tra il '30 e il '60? Ci fu una crisi dinastica che riguardò la
dinastia in carica, cioè la dinastia capetingia. Questa fu la crisi più difficile che dovette
affrontare e, dopo averla superata, resistette fino alla rivoluzione francese (il re che viene
decapitato durante la rivoluzione francese è un re capetingio). Nel 1131 era sul trono un
altro Luigi (il nome Luigi è stato molto utilizzato dai re francesi), questo era Luigi VI detto
il Grosso. Egli era sul trono abbastanza saldamente e, come avevano fatto tutti i suoi
predecessori fino ad allora, associò al trono suo figlio in tempo utile in maniera tale da
evitare ogni soluzione di continuità: quando lui sarebbe morto, il successore sarebbe già
stato pronto. Il primogenito maschio di Luigi VI si chiama Filippo. Le cronache del tempo
raccontano che Luigi VI associa al trono suo figlio il Filippo il quale, poco dopo, si ammala
e muore. Quindi il problema si propone di nuovo perché Luigi non ha più un successore
pronto nel caso dovesse morire. Deve pertanto trovare una nuova soluzione: per fortuna ha
un secondogenito maschio, soltanto che è un bambino, è giovanissimo. La cronaca che parla
di Luigi VI il Grosso racconta questi avvenimenti in maniera molto drammatica: si fa il
funerale di Filippo e, a pochi giorni di distanza, nella stessa chiesa si celebra l'associazione
al trono del secondogenito, che si chiama Luigi anch'egli (destinato a diventare re con il
nome di Luigi VII). Il fatto che la cronaca narri questi avvenimenti in maniera drammatica
suggerisce che esistesse un pericolo per la dinastia, che i nemici della corona tentarono di
approfittare di questa difficoltà e quindi tutto fu fatto in maniera frettolosa per evitare che si
creasse un vuoto di potere che avrebbe interrotto la catena ereditaria della dinastia
capetingia; per cui si procede all'associazione celere del secondogenito di Luigi VI ed era
una fortuna che lo avesse, perché senza altri figli la dinastia sarebbe finita. E invece c'era
questo bambino a disposizione, il quale somiglia molto al giovanissimo Ludovico il Pio
rappresentato nella canzone. È vero che l'autore parla di Ludovico il Pio, figlio di CM, ma
lo descrive con tratti che non gli sono mai appartenuti. Ludovico il Pio, infatti, è stato un
sovrano di polso, gestì il potere in maniera energica, non è il re debole descritto nella
canzone. La rappresentazione che viene fatta assomiglia molto, invece, a quella di Luigi
VII, cioè questo re bambino che nel 1131 si trova ad avere la responsabilità del trono
improvvisamente e, dunque, è debole. Egli ebbe molto difficoltà a gestire la situazione
innanzitutto perché era un bambino e quindi ebbe bisogno di un tutore → un po' come
avviene nella canzone in cui Ludovico il Pio ha bisogno dell'appoggio di Guglielmo. Fino al
compimento della sua maggiore età ebbe quindi molta difficoltà e, quando morì il padre,
ancor di più. Quando Luigi VI muore, Luigi VII si ritrova da solo sul trono contro un partito
di opposizione che tentò più volte di usurpare la corona. Il regno di Luigi VII fu molto
travagliato perché, raggiunta la maggiore età intorno al 1137 e superata la sua fragilità e i
pericoli posti dall'opposizione, cerca di rafforzare la sua posizione. Così si sposa, come
avveniva spesso all'epoca nell'alta aristocrazia o nelle famiglie regnanti: il matrimonio
rappresentava uno strumento politico. Così Luigi VII nel 1137, finita la sua minorità, decide
di sposarsi e deve scegliere una moglie che gli porti in dote terre e dunque potere. Bisogna
ricordare che i possedimenti del re si limitavano allora alla sole Ile de France, cioè l'area che
attualmente è occupata dalla città di Parigi, mentre il resto del regno è nelle mani dei grandi
feudatari. Il pericolo è costituito dall'alta aristocrazia il cui potere economico, politico e
militare è molto più vasto di quello dello stesso re. Quindi il re di Francia cerca, attraverso il
matrimonio, di dominare un pezzo di Francia più ampio e di avere più potere. Luigi VII
sposa quella che oggi definiremmo una ricca ereditaria, Eleonora d'Aquitania. Ella era la
nipote di Guglielmo IX d'Aquitania (era suo nonno), un ricco signore feudale che possedeva
tutta la Francia meridionale. Con questo matrimonio, dunque, la posizione di Luigi VII si
rafforzò enormemente perché in questo modo il re governava direttamente l'Ile de France (la
regione di Parigi), ma indirettamente, attraverso sua moglie, governa anche su tutta la
Francia del Sud. Resta la Francia del Nord, la Normandia, ed è da lì che provengono i
pericoli maggiori per la corona, almeno secondo il nostro testo (episodio del tentativo di
usurpazione da parte di Acelin, figlio del conte di Normandia).
Ma il matrimonio tra Luigi ed Eleonora, dopo due anni, fallisce e i due divorziano (la chiesa
sciolse il matrimonio). Questo fu un grande danno per Luigi VII perché quella posizione di
forza che aveva raggiunto attraverso il matrimonio la perse ed Eleonora rientrò in possesso
di tutti i suoi domini. Ma la cosa peggiore è che poco dopo il divorzio Eleonora si risposa
con Enrico Plantageneto. Egli era duca di Normandia, cioè proprio l'area da cui, secondo il
testo, vengono i pericoli. Egli era potentissimo ed era anche un feroce avversario della
dinastia capetingia. Era il “capo” del partito di opposizione alla dinastia ed aveva già tentato
di salire al trono, ma non c'era riuscito. Così quando il re divorzia da Eleonora, Enrico fa di
tutto per sposarla con il chiaro intento di diventare il signore assoluto della Francia: già
governa la Francia del Nord in quanto duca di Normandia e poi, attraverso il matrimonio
con Eleonora, arriva a governare tutta la Francia meridionale. E Luigi VII resta circondato
nell'Ile de France da un signore che in teoria è un suo vassallo. Inoltre, a ciò si aggiunge il
fatto che, dopo due anni dal matrimonio con Eleonora, Enrico Plantageneto diventa anche re
di Inghilterra. A questo punto il re di Francia si trova in una posizione debolissima. Enrico
vuole usurpare il trono di Luigi VII per unire la corona francese e quella inglese. Ma Luigi
VII benché debole, riesce a resistere. I tentativi di usurpazione non vanno a buon fine, e
dopo di Enrico, il pericolo sostanzialmente cesserà di esistere. A Luigi VII, infatti, succede
un sovrano che sarà uno dei più potenti che la Francia ha conosciuto. Si tratta del figlio di
Luigi VII che si chiama Filippo Augusto. Luigi VII associa suo figlio al trono (proprio come
aveva fatto suo padre con lui). Filippo Augusto sarà un sovrano di ben altra tempra: riuscirà
a conservare la corona subito dopo la successione e diventerà uno dei primi esempi di
monarca assoluto. E riesce a fare tutto ciò grazie a un'intelligente politica di alleanza tra la
corona e la media-piccola nobiltà, contro le ambizioni dell'alta nobiltà. E da quel momento
in poi la dinastia capetingia non attraverserà più momenti critici (fino alla rivoluzione
francese che poi ne decreterà la fine). Questi avvenimenti (dallo scioglimento del
matrimonio in poi) si collocano introno al 1152, quindi tra il 1130 e il 1152 c'è un succedersi
di momenti di crisi per la dinastia capetingia. Tutti questi avvenimenti sembrerebbero aver
influito sul nostro testo. È possibile che l'autore anonimo del nostro testo facesse parte e
fosse molto vicino all'entourage di Luigi VII e che con la sua letteratura sostenesse la
dinastia capetingia e la legittimità del principio di ereditarietà. Alla fine si potrebbe fare una
sorta di operazione di equivalenza:
• Ludovico il Pio = Luigi VII
• Hernault d'Orleans = gli oppositori (probabilmente i Pantagenesi).
Come dice Varvaro nel suo manuale, qualcosa del genere accade anche per il Cantar de mio
Cid. L'opera racconta la storia di un eroe realmente esistito, Rodrigo Diaz de Vivar, e in
buona parte la racconta con fedeltà al dato storico. Anzi, dice Varvaro, che in alcuni casi il
testo è molto preciso, ricorda esattamente i particolati che la memoria storica dimentica
facilmente. Però, poi, allo stesso tempo commette quelli che a nostro giudizio sembrano
degli errori. Varvaro fa un esempio particolare: il rapporto tra il Cid e suo nipote. Il poema
metta in scena un rapporto privilegiato tra l'eroe e suo nipote Alvar Fañez, il quale è
definito, dallo stesso poema, “el bracio diestro” del Cid. È il coprotagonista del Cid, una
sorta di controfigura, è un personaggio fondamentale. Il Cid affida al nipote i compiti più
importanti: se bisogna andare in ambasciata dal re con cui il Cid è in conflitto, il Cid ci
manda il nipote; se c'è da fare un'operazione militare delicata e pericolosa, il Cid la affida al
nipote. Se andiamo a verificare la storia, però, scopriamo che tutto ciò è falso. Il Cantar dà
per certo che il nipote del Cid abbia seguito Rodrigo Diaz in esilio; nella realtà storica,
invece, il nipote del Cid non andò in esilio, anzi rimase al servizio del re che aveva esiliato
lo zio e fece anche una buona carriera a corte diventando un personaggio importante della
corte di Alfonso VI. Come si spiega una cosa del genere? Come mai un autore che in alcuni
casi è così fedele, anche nei minimi dettagli, alla realtà storica poi sbaglia clamorosamente
sul rapporto con il nipote che non è mai esistito? La spiegazione che offre Varvaro è diversa
da quella che abbiamo visto fino ad ora con il nostro testo. Ci sono anche altri fattori che
intervengono e nel caso del Cid la spiegazione è abbastanza suggestiva. Si è osservato che
spessissimo i testi epici mettono in scena un rapporto zio-nipote. Nella Chanson de Roland,
che è un modello epico sia per i francesi quanto per gli spagnoli, Carlo Magno è lo zio di
Rolando, tra di essi esiste un rapporto avunculare (dal latino avunculus, cioè “zio”), cioè il
rapporto tra zio e nipote. Allo stesso modo, nel ciclo di Guglielmo quest'ultimo è circondato
da una serie di nipoti con cui ha un rapporto molto stretto, privilegiato. La scena mette
spesso in scena il rapporto avunculare, è come se fosse uno degli elementi costitutivi
fondamentali del racconto epico: un rapporto tra due personaggi importanti che sono zio e
nipote. In questo caso l'alterazione è dovuta più a motivazioni letterarie che storiche, è una
questione di fedeltà nei confronti del modello narrativo dell'epica.
Ma perché nell'epica c'è un rapporto privilegiato tra zio e nipote? Nella società medievale
aristocratica, in cui il matrimonio era visto come un mezzo di promozione sociale,
normalmente accadeva che la donna che veniva sposata era di rango superiore, quindi
l'uomo che si sposava mirava ad una moglie che appartenesse alla famiglia più potente e
ricca che portasse più dote. C'era una sorta di disparità di grado: quasi sempre il marito era
di rango inferiore. Quando costoro si univano in matrimonio ed avevano dei figli, la
famiglia di origine della moglie tentava di avere il controllo dei figli, i quali sarebbero
diventati poi gli eredi dei domini che la donna aveva portato in dote. Questo controllo
venivano esercitato facendo educare i figli della coppia dalla famiglia di origine della
donna, normalmente dal fratello della donna, cioè lo zio materno. In questo modo si creava
un rapporto tra questi giovani e lo zio più forte di quello che li legava al loro padre e,
quando si trattava di succedere, il patrimonio restava sotto il controllo della famiglia che
aveva portato in dote il maggiore peso economico, militare e politico. Anche nell'epica il
rapporto avunculare è tra lo zio materno e il nipote. Esso è essenzialmente un riflesso della
strategia matrimoniale e delle strategie che questo tipo di matrimoni comportavano. Questa
regola, sociale prima e letteraria poi, viene confermata centinaia e centinaia di volte in
questi testi, anche quando il rapporto è negativo → nella leggenda dei sette infanti di Lara, il
rapporto zio-nipote è negativo perché lo zio entra in conflitto con i nipoti e li fa uccidere. In
questo caso la violazione della regola conferma l'esistenza della regola, anzi lo zio poi viene
condannato proprio perché normalmente il rapporto è positivo.
L'episodio continua con Calogrenant che continua il suo racconto ai cavalieri: riferisce di
aver incontrato questa mandria di buoi e il suo mandriano, il quale controlla i tori e viene
descritto come un gigante orribile (viene rappresentato come un villano, un non-cortese,
l'altro-da-me, colui che non è cavaliere è diverso da me; e viene rappresentato
grottescamente: ha orecchie enormi come quelle degli elefanti, è pieno di peli, ha occhi
enormi; ha tratti animaleschi). Calogrenant chiede al mandriano dov'è possibile trovare
avventura e questi gli risponde che non sa che cosa sia avventura, però gli può dire che lì
vicino c'è, se gli interessa, una sorgente incantata. Questa fontana sgorga sotto un albero
magnifico al quale è appeso un catino d'oro. Il bovaro gli spiega che se con questo catino si
versa dell'acqua presa dalla fonte su una lastra di smeraldo si scatena una tempesta
pericolosa. Si tratta di una descrizione meravigliosa. Il bovaro poi gli dice che mai nessun
cavaliere è riuscito a salvarsi da questa tempesta. Calogrenant, incuriosito, prosegue per
tentare l'avventura. Fa quello che gli è stato detto: sopravvive alla tempesta e gode per poco
tempo del successivo rassenerarsi del tempo. Quando all'improvviso gli si para davanti un
cavaliere, il quale lo rimprovera dei danni che con il suo gesto ha arrecato al suo dominio.
Così lo sfida a duello. Il cavaliere della fontana vince, ma non uccide Calogrenant. Questo
fa di Calogrenant il primo cavaliere che sopravvive allo scontro con il difensore della
fontana. E, dunque, può ritornare dal signore del fortino, come aveva promesso di fare.
Torna a piedi e senza armi: è la figura di un cavaliere sconfitto che ha perso i simboli del
suo status. Viene accolto dal signore e dalla bella fanciulla cordialmente e gli viene
confermato che lui è il primo di una serie di cavalieri che si sono presentati lì e hanno
compiuto la stessa strada ad uscire vivo, anche se sconfitto, da questa avventura. È questo il
motivo per il quale Calogrenant la sta raccontando: si sta vantando del fatto che è
sopravvissuto, ma in realtà lui non ha sconfitto il cavaliere della fontana e non sa cosa
sarebbe successo se avesse superato la prova. Il suo racconto dell'avventura fallita serve a
che il vero eroe del romanzo, che è tra gli ascoltatori, venga a conoscenza dell'esistenza
della fonte meravigliosa: Ivano, sentendo il racconto, è incuriosito e vuole provare. Quindi
parte e fa lo stesso percorso che sette anni prima aveva fatto Calogrenant. Laddove
Calogrannt ha fallito, Ivano invece riesce (e la cosa ha un seguito).
11/01
Innanzitutto bisogna specificare cosa significa aventure. Mentre il termine usato nell'epica
per indicare l'azione dell'eroe epico è geste, nel romanzo invece l'azione dell'eroe
romanzesco è etichettata con il termine aventure. È un termine che viene dal latino advenire
e significa “quello che dovrò accadere” (dà già un'idea di predestinazione). L'aventure
romanzesca è un'esperienza qualificante: attraverso di essa, l'eroe romanzesco esce
dall'anonimato. Nel caso di Ivano, egli è solamente uno dei cavalieri alla corte di Artù, non
ha una particolare visibilità. Invece, grazie all'avventura, si stacca dagli altri, si mette in
primo piano e diventa protagonista. Inoltre, attraverso l'avventura, conferma il proprio
valore individuale: l'avventura gli fa mettere alla prova le sue qualità. Se l'avventura è
superata, vuol dire che si è in possesso di queste qualità. L'eroe vede poi riconosciuto
socialmente il proprio valore (scena del festeggiamento). Proprio perché la prova è
qualificane, l'avventura non può che essere individuale: riguarda un individuo che deve
affrontarla da solo. Il testo in questo caso è esplicito: quando Calogrenant fa il suo racconto,
tutti i cavalieri sono incuriositi ma uno solo, Ivano, si stacca da solo e precede re Artù
nell'impresa. Il fatto che la prova sia qualificane ed individuale fa sì che l'avventura non sia
neanche casuale, non capita indiscriminatamente a chiunque: l'avventura è predestinata a un
singolo e preciso individuo che, per ragioni a noi ignote, ha le qualità sia esteriori sia
interiori per poter affrontarla. Diversamente dall'impresa epica, in cui l'eroe agisce in nome
di tutta una collettività, l'aventure è un esperienza del tutto personale e non partecipabile
tanto che è addirittura predestinata a un singolo. Il superamento della prova è la
dimostrazione dell'adeguatezza dell'eroe a quanto gli ha preparato il destino. Il destino però
non ci spiega mai perché viene scelto un determinato individuo; è un mistero che avvolge
l'eroe romanzesco. Il fallimento della prova di Calogrenant è segno evidente che l'avventura
non era a lui destinata, non era lui l'eroe a cui quell'avventura spettava. Calogrenant ha solo
una funzione: quella di far conoscere all'eroe predestinato l'esistenza di quell'impresa.
Dall'altro lato il successo di Ivano dimostra non solo che ha le capacità per affrontarla, ma
anche che quell'avventura è sua. Un imprecisato e personalissimo destino gliel'ha preparata.
Altrettanto esplicito, nel caso del nostro testo, è il significato dell'avventura come prova
qualificante: è un'esperienza che qualifica l'eroe. Dopo che ha superato l'avventura, il
personaggio diventa qualcosa di diverso. Prima dell'avventura Ivano è un semplice cavaliere
al servizio di re Artù, sprovvisto di un proprio dominio (vive come vassallo, non ha un
proprio domino territoriale), ed un giovane cavaliere (non è spostato e a capo di una
famiglia). Superata l'avventura, la quale comporta il matrimonio, lo status di Ivano è
completamente cambiato. L'avventura l'ha promosso da un punto di vista sociale. Da
giovane cavaliere dipendente del suo sovrano Ivano si trasforma in un signore feudale,
provvisto di un proprio domino, casato (sposato), indipendente economicamente. Questo
dominio è governato da Ivano in nome del sovrano di cui resta un vassallo: Ivano ha esteso i
domini di Artù. Ma la cosa più importante è la trasformazione del personaggio. Con una sola
impresa Ivano si procura un territorio, una donna e l'indipendenza.
L'avventura è un mezzo attraverso il quale l'eroe acquisisce della qualità (anche nel caso di
Perceval l'avventura è qualificante): ogni impresa è una sorta di gradino che l'eroe sale in
una scala di qualità fino a raggiungere la maturità, una formazione completa. È vero che
l'avventura è individuale e predestinata, però, a un certo punto il cavaliere raggiunge la sua
formazione. Per fare cosa? Per mettersi al servizio della collettività. Anche l'eroe si ferma a
svolgere una funzione sociale. La differenza è che, mentre l'eroe epico è già pronto, quello
romanzesco deve diventare pronto.
Le avventure dell'eroe romanzesco che si susseguono in un ordine ascendente (ogni
avventura è sempre più difficile) procurano qualità sempre maggiori e, alla fine, vi è la
messa a disposizione delle virtù acquisite dal cavaliere verso la società. La funzione sociale
e la formazione sociale non sono in contraddizione tra di loro, ma in corrispondenza. Per lo
meno nei romanzi di Chrétien, non è sempre così perché a volte viene messo in scena lo
scontro tra l'individuo e la società come nel romanzo di Tristano e Isotta (è un storia più
tragica perché non ci sarà la risoluzione del momento critico → entrambi gli amanti sono
destinati alla morte; non si riuscirà a trovare un equilibrio tra amore e armi come avviene
nel Erec et Enide).
Il romanzo di Chrétien de Troyes Erec et Enide è particolarmente esemplificativo del
rapporto tra individuo e società, almeno nella visione del mondo che ha Chrétien. Si tratta
del primo romanzo che Chrétien de Troyes compose. Il romanzo racconta che, dopo una
serie di eventi preliminari che servono a mettere in luce le doti e il valore del cavaliere Erec,
Erec si innamora e sposa l'altro personaggio principale del romanzo, la bella, gentile e
cortese Enide. I due vivono la felicità dell'amore e del loro matrimonio (Chrétien non
celebra quasi mai l'amore adultero, e, quando lo fa, è perché gli è stato chiesto). Si amano
così tanto da isolarsi dalla società. Si crea una condizione per cui la felicità della coppia, in
particolare di Erec, entra in conflitto con il benessere della comunità. Erec è un cavaliere
con dei doveri, a cui, per amor di Enide, non assolve più. Viene accusato di venir meno ai
suoi doveri. A corte iniziano a parlare male di lui e la cosa giunge alle orecchie di Enide.
Così di notte, sentendosi colpevole, piange. Quando Erec le chiede perché piange, lei glielo
spiega. Amore e armi entrano in conflitto perché l'amore sottrae il cavaliere all'esercizio
delle armi. Allora Erec si rende conto della situazione e che le critiche sono vere, e dunque
decide (è questo il momento di crisi) di affrontare una serie di avventura. Porterà giustizia
dove c'è ingiustizia, aiuterà i deboli, insomma farà quello che un buon cavaliere deve fare,
in maniera tale da riscattarsi dall'omissione dei doveri di cui si era macchiato. In qualche
modo anche Enide deve espiare la colpa, così Erec decide che lo deve seguire e deve
assistere alla sua riabilitazione; ma a patto che non intervenga mai, anche se lo vede nel
pericolo più grave. I due cominciano quindi un cammino di penitenza. Tutta la seconda
parte del romanzo, dunque, racconta una serie di imprese in cui Erec si cimenta e Enide lo
segue, correndo insieme a lui rischi e pericoli. Si arriva così all'ultima avventura che
sancisce il ritrovato ruolo sociale di Erec. Erec si trova dinanzi a un caso analogo al suo: è
come se vedesse se stesso allo specchio. Arriva con Enide in un regno in cui c'è un
maleficio: un cavaliere si è isolato all'interno di un giardino più o meno incantato insieme a
una donna e chiunque cerca di entrarvi viene ucciso. Sostanzialmente è la rappresentazione
dell'amore tra due persone che si traduce in danno per la società, cioè la morte di tutti coloro
che entrano nel giardino. E allora Erec decide di affrontare quest'uomo. Entra nel giardino e
vede una serie di pali avulsi su cui sono piantate le testi dei cavalieri che fino ad allora
avevano tentato di entrare. L'ultimo palo è libero in attesa della testa del prossimo sfidante.
Erec affronta il cavaliere e lo uccide. Il cavaliere è contento di essere stato sconfitto, di
essere stato liberato dal maleficio. Erec gli chiede perché avesse fatto tutto ciò e lui gli
racconta che aveva promesso alla sua dama che per amor suo avrebbe ucciso tutti coloro che
avessero cercato di turbare la loro felicità. Aveva fatto un patto con la donna, che era
diventato un patto di morte e un pericolo per la collettività. Erec si trova dinanzi a quello
che era lui in passato: questo cavaliere per amore della sua dama non solo ha trascurato i
suoi doveri, ma ha anche arrecato un danno alla collettività.
È l'avventura che chiude il racconto ed ha un significato chiaramente sociale, cioè di un
cavaliere, Erec, che è al servizio della società e che libera la comunità dai suoi mali. Il male
questa volta è rappresentato da qualcuno che era caduto nel suo stesso male: per eccesso di
amore aveva danneggiato la collettività. Si riesce, così, a trovare il giusto equilibrio tra
amore e armi, cioè tra il benessere individuale e il benessere collettivo: tra individuo e
società ci deve essere il giusto equilibrio. È questo il messaggio che vuole trasmettere
Chrétien, messaggio che, invece, in Tristano e Isotta non c'è.
Il romanzo quasi sempre mette in scena questa doppia funzione: l'avventura da un lato è
individuale e formativa, ma poi, una volta terminata, il cavaliere si deve mettere al servizio
della società. La società deve beneficiare delle sue capacità. È quello che probabilmente
sarebbe accaduto se Chrétien de Troyes fosse stato in grado ci completare il Perceval.