Storia delle lingue d’Europa: Gran parte delle lingue d’Europa (non tutte) provengono dalla
famiglia delle lingue indoeuropee. Il termine ‘’indoeuropeo’’ fa riferimento agli estremi geografici di
questo dominio linguistico: Europa ad ovest (con le Isole Azzorre) ed India ad est, dove ancora oggi tutta
l’area nord dell’India è dominata da lingue indoeuropee (neo-indoarie, come le lingue ‘’hindi’’ e ‘’urdu’’)
derivanti dal sanscrito, una delle lingue più orientali di questo dominio). Questo termine è puramente
convenzionale, perché se dovessimo essere precisi da un punto di vista geografico, l’estremo dominio
orientale delle lingue indoeuropee scade nella regione del Turkestan che oggi si trova in Cina, perché
all’inizio del ‘900 delle missioni archeologiche francesi scoprirono dei testi buddisti in due varietà
linguistiche: rispettivamente chiamate ‘’procario A’’ e ‘’procario B’’, in questa zona ben aldilà dell’India
(Turkestan cinese), lingue oggi scomparse e di cui rimangono solamente traduzioni di testi buddisti,
tradotti dal ‘’bali’’, una lingua dell’India medievale che contiene il primo canone buddista, in procario A e
B. Da un punto di vista storico, la parola ‘’indo’’ in ‘’indoeuropeo, ci dà un’indicazione puramente
geografica, ma non dice nulla sulla cultura e sulla storia di questi popoli. Fino alla Seconda Guerra
Mondiale questo complesso di lingue era noto col nome di ‘’arioeuropeo’’ perché gli antichi abitanti
dell’India europei si autodenominavano ‘’arii’’ (signori). Gli arii erano gli abitanti dell’India e dell’Iran
(termine che deriva da ‘’arijanam’’, ‘’terra dei signori’’) antichi. ‘’Arioeuropeo’’ divenuto poi
‘’indoeuropeo’’ grazie al linguista francese Antoine Meillet che disse che ‘’ario’’ era un aggettivo troppo
connotato ideologicamente per le note vicende razziste basate sulla razza ariana e legate al nazismo. Vi è
anche una terza denominazione per riferirsi alla parola ‘’indoeuropeo’’, ovvero ‘’indogermaniche’’
(indogermanico), termine usato in Germania, attribuendo la culla dell’indoeuropeo ad una zona
compresa tra le attuali Germania e Polonia (in cui cresceva il faggio, pianta presente nel vocabolario
indoeuropeo). L’indoeuropeo è una lingua ricostruita (nella forma e nell’ideologia, ma non si può
ricostruire il significato originario della lingua), non esistono testi scritti in indoeuropeo. La
classificazione genealogica nasce nei primi dell’800 perché questo problema prima di allora non veniva
posto perché la teoria più accreditata era quella della ‘’ monogenesi’’ (‘’teoria monogenetica’’): si
riteneva che tutte le lingue del mondo derivassero da un unico antenato (identificato nell’ebraico, in
quanto lingua del testo sacro e per quanto scritto nel libro della Genesi sulla Torre di Babele, cui deriva il
famoso mito della ‘’confutio linguarum’’ che divenne il fondamento scientifico per stabilire che tutte le
lingue del mondo derivassero in ultima analisi dall’ebraico. Questo è il motivo per cui il metodo storico-
comparativo è nato così tardi. Per riconoscere se due lingue sono imparentate, la prima base su cui
facciamo una comparazione è la somiglianza tra le parole ( somiglianza lessicale) che però non è
scientificamente attendibile: per esempio l’inglese da questo punto di vista sembrerebbe una lingua
romanza (circa il 60% del lessico inglese è di derivazione francese e di conseguenza di derivazione latina)
eppure è una lingua germanico-occidentale. Il lessico di una lingua è la parte della grammatica più
influenzabile da cause di tipo esterno (sociali, storiche, politiche ecc..), quindi non è attendibile per
decidere se due lingue sono imparentate. Un altro esempio di errore della classificazione genealogica
riguardava l’armeno (come tante altre lingue) che dai primi testi religiosi in avanti è documentatissimo
(con una letteratura religiosa e artistica notevole), ma per secoli è stato identificato come dialetto
iranico. Solamente attraverso un’analisi approfondita non del lessico ma della fonetica si è capito che
l’armeno era una lingua indoeuropea a sé stante, autonoma. A causa di contatti tra armeni e iranici
(l’Armenia faceva parte dell’antico regno persiano), gran parte del lessico armeno è di derivazione
iranica. Allo stesso modo si riteneva che il catalano fosse una speciale varietà di castigliano, il catalano
invece va classificato come una lingua autonoma a parte. Quindi come nel caso del catalano e
dell’armeno, una lingua può sembrare di una certa famiglia perché è piena di prestiti da un’altra lingua.
Nelle lingue del mondo l’apparato fonatorio produce circa 34-35 foni, a causa delle restrizioni
anatomiche dell’apparato fonatorio non possiamo combinare qualsiasi consonante con qualsiasi vocale,
quindi questo fa sì che le parole siano potenzialmente infinite, ma la combinazione della stringa fonica
limitata, può quindi succedere (seppur raramente) che per pura coincidenza una parola di una lingua
venga a coincidere nel significante (nella sua parte formale) con una parola di un’altra lingua: es. azteco
‘’teot’’ (Dio) ricorda il greco antico ‘’teos’’ (Dio). Tra greco e azteco non vi è mai stato alcun rapporto, non
può essere un prestito tra le due lingue, quindi la conclusione è che queste due parole siano venute a
coincidere nel significante, ma non c’è nessuna deviazione genetica tra l’azteco (lingua
mesoamericana/precolombiana) ed il greco (lingua indoeuropea). Due linguisti (indipendentemente
l’uno dall’altro), il danese Rasmus Christian Rask ed il tedesco Franz Bopp fondarono il metodo storico-
comparativo e l’indoeuropeistica come scienza, hanno scoperto che per decidere se due lingue fanno
parte della stessa famiglia o meno bisogna affidarsi non al lessico ma ai foni perché tra le sezioni in cui
si divide una lingua, i foni rappresentano la parte più affidabile, perché cambiano ma con una certa
sistematicità. Nella trasformazione di una lingua, i foni sono la parte della lingua che cambia con
maggiore costanza e quindi diventano affidabili/diagnostici per decidere o meno della parentela
linguistica: alla ‘’p’’ del greco antico ‘’patér’’ (padre), al lat. ‘’pater’’, all’antico indiano ‘’pitàr’’, all’avestico
(è stata una lingua iranica nord-orientale, lingua dell'Avestā, il libro sacro dello zoroatrismo), al gotico
(lingua germanica orientale, lingua ben documentata grazie ad un vescovo dell’Asia minore, Ulfila che
tradusse la Bibbia dal greco al gotico antico) ‘’atta’’, all’ingl. ‘’father’’, all’irlandese (che fa parte delle
lingue celtiche) ‘’athair’’: gran parte delle lingue indoeuropee hanno la ‘’p’’ iniziale di parola; il gotico e
l’inglese (entrambe germaniche hanno la ‘’f’’; la ‘’p’’ diventa ‘’f’’ nelle lingue germaniche a causa della
legge di Grimm; in irlandese questa consonante cade del tutto (dileguo zero, ultima tappa della
lenizione). Se queste corrispondenze di parole tra lingue sono costanti, di conseguenza queste sono tra
di loro imparentate e diventano diagnostiche per fare genealogia (decidere l’appartenenza di queste
lingue ad una famiglia). Questo procedimento non può essere fatto per tutte le famiglie linguistiche
perché per poter andare indietro nel tempo e scoprire l’origine di una determinata lingua servono i testi
scritti (perché molte di queste lingue sono morte o perché la forma di una parola, più si va indietro nel
tempo, più affidabilità dà per il metodo storico-comparativo), per esempio nel caso delle lingue
australiane, questo lavoro non può essere svolto, in quanto molte di queste lingue non avevano (o non
hanno ancora) un sistema scrittorio, di conseguenza decidere l’appartenenza di queste lingue ad una
famiglia risulta molto difficile (se non impossibile in alcuni casi). Dixon affermava nel suo libro sulle lingue
australiane che quest’ultime si dividessero in due gruppi: le lingue ‘’Pama–Nyungan’’ e le lingue ‘’non
Pama–Nyungan’’ (quest’ultima non può essere definita una vera classificazione genealogica, in quanto
non esiste una famiglia ‘’non indoeuropea’’ per esempio). Quindi il metodo storico-comparativo non è
applicabile a tutte le lingue del mondo, ma solo a quei gruppi di cui abbiamo testimonianze del passato:
il caso delle lingue europee da questo punto di vista è particolarmente fortunato, in quanto vi sono
testimonianze almeno dal II millennio a.C. fino ai nostri giorni , questa situazione vale allo stesso modo
per alcune lingue semitiche come l’ebraico ed in parte l’arabo, ma non vale per tantissime lingue come
parte di quelle africane ed australiane. Prima della conquista romana, tribù celtiche erano stanziate in
tutta l’Europa centrale, occupavano tutta l’Italia settentrionale formando una sorta di cuneo fino
all’Emilia-Romagna, in tutta la Francia ed in Gran Bretagna (in queste zone si trovano molti relitti di
sostrato celtico). Il celtico si divide in due grandi branche: il celtico continentale (oggi scomparso) ed il
celtico insulare (parlato ancora oggi in Irlanda ed in parte dell’Inghilterra settentrionale). I toponimi
(nomi di luogo) sono tendenzialmente molto conservativi e in questi si trovano, in Italia settentrionale,
alcune ‘’spie’’ celtiche: es. il nome di ‘’Milano’’ deriva dal lat. ‘’medio planum’’ (‘’pianura di mezzo’’ o ‘’in
mezzo alla pianura’’), dove la ‘’p’’ di ‘’planum’’ è caduta (cosa che in latino non accade), si suppone
quindi che quello fosse un latino regionale a forte sostrato celtico (‘’planum’’ > ‘’lanum’’); se la ‘’p’’ si
fosse mantenuta, si come il lat. ‘’pl’’ dà in it. ‘’pj’’, oggi avremmo qualcosa come ‘’Mediopiano’’ anziché
‘’Milano’’. Questi relitti del sostrato celtico, in particolare la perdita della ‘’p’’ si trovano in tutta l’Italia
settentrionale ed in tutta la Francia. Allo stesso modo in antico bergamasco/nelle lingue di alcune zone
della Valtellina si dice ‘’ascolare’’ (pascolare) e non ‘’pascolar’’ come in tutte le altre zone dell’Italia
settentrionale, perché il lat. ‘’pascum’’ è diventato ‘’ascum’’, ha perso la ‘’p’’ perché questo latino era
fortemente ‘’celtizzato’’. Sappiamo da fonti storiche e da una serie d’informazioni sui toponimi che i celti
sono passati dalla Francia alla Spagna attraverso i Pirenei, dove hanno lasciato degli stanziamenti
fortificati (ci sono una serie di località sui Pirenei che prendono il nome francese di ‘’Verdun’’, dove quel
‘’ver’’ è il relitto della preposizione lat. ‘’super’’ (sopra) dove la ‘’p’’ latina è andata perdendosi; ‘’dun’’
significa in celtico ‘’cittadella fortificata’’. Concludendo, la corrispondenza tra la ‘’p’’ delle lingue
indoeuropee ed il ‘’dileguo zero’’ (scomparsa della consonante) in celtico, non è casuale ma
sistematica (si verifica con regolarità). Se si riescono a trovare serie lessicali di questo tipo, si può dire (in
questo caso specifico) che il celtico è imparentata alle altre lingue di comparazione (appartiene alla
stessa famiglia). La corrispondenza fonetica è quindi l’unico metodo (attendibile) esistente per arrivare a
conclusioni di tipo genealogico. Per arrivare ad un ‘’albero genealogico’’, bisognava prima di tutto
estendere il più possibile la comparazione, ai tempi si conoscevano alcune corrispondenze per le lingue
d’Europa, ma erano escluse le lingue orientali, però nel tempo si era cominciato a diffondere la notizia
che vari viaggiatori (tra cui l’italiano Filippo Sassetti) che andavano in India soprattutto per ragioni
commerciali, avessero notato delle somiglianze particolarmente sorprendenti tra l’antica lingua dell’India
(sanscrito o antico indiano) e le lingue d’Europa. Filippo Sassetti aveva raccolto un certo numero di
parole antico-indiane che corrispondevano sorprendentemente a parole europee. La scoperta che anche
l’indiano antico e l’iranico antico facessero parte di questa famiglia si deve al funzionario inglese del
governo britannico a Calcutta (l’India è stato oggetto di politica coloniale dell’Inghilterra) William Jones,
filologo, orientalista e magistrato britannico, tra i primi studiosi di lingua sanscrita e precursore
dell'indoeuropeistica. In occasione della seduta inaugurale della Royal Society a Calcutta, Jones fece un
discorso inaugurale nel 1786 (divenuta la data simbolica che segna l’inizio degli studi sull’indoeuropeo)
in cui disse che ‘’la lingua sanscrita, qualunque sia la sua antichità, presenta una struttura meravigliosa,
migliore del greco, più abbondante del latino, più squisitamente raffinata di entrambi’’, per la prima volta
viene quindi paragonato l’antico indiano o sanscrito al greco ed al latino, in cui il nome del ‘’padre’’
(‘’pitàr’’) era sorprendentemente simile al nome del ‘’padre’’ in greco (‘’patèr’’) ed in latino (‘’pàter’’).
Ciò che Jones aveva intuito su base lessicale è poi stato dimostrato dal metodo storico-comparativo su
basi fonetiche. Allo stesso modo si scoprirono le lingue iraniche, che per la ricostruzione
dell’indoeuropeo sono fondamentali perché sono tra le lingue indoeuropee meglio
attestate/documentate; in seguito l’armeno; poi le lingue dell’Anatolia (dell’Asia minore). Nelle
rappresentazioni genealogiche, l’idea è quella di un albero con le foglie, il cui tronco è la lingua madre
cioè l’indoeuropeo ricostruito e dai vari rami si distaccano i gruppi, i sottogruppi e le singole lingue, fino
ad arrivare alle lingue moderne. L’ario (le lingue indiane e iraniche) e lo slavo partecipano ad
un’innovazione comune che riguarda un particolare sviluppo palatale della ‘’s’’ davanti ad un gruppo di
suoni (ma ciò non lo si può rappresentare nell’albero genealogico). Per quanto riguarda gli incroci
secondari tra le lingue, essi non si sviluppano solo in verticale/linea dritta, ma anche in orizzontale, cioè
vengono a contatto tra di loro, per ovviare a questo problema dell’albero genealogico, un allievo di
August Schleicher (creatore del modello ad albero genealogico) ovvero Johannes Schmidt, propose la
‘’teoria delle onde’’(‘’Wellentheorie’’), dove l’idea è quella di un sasso buttato nello stagno: le onde
generate dal sasso si allontanano dall’origine (l’indoeuropeo) e pian piano allontanandosi si intersecano
l’una con l’altra, queste intersecazioni tra un onda e l’altra rappresentano gli incroci secondari che una
lingua può avere con l’altra a prescindere dai loro sviluppi primari (due lingue differenti per la loro
origine possono incrociarsi/venire a contatto). L’albero genealogico (modello evoluzionista) rappresenta
quindi la dimensione verticale del mutamento, mentre la teoria delle onde (modello diffusionista)
rappresenta lo sviluppo orizzontale delle lingue (i loro incroci). Il secondo modello è più rappresentativo
della realtà linguistica e per questo tutt’ora ci si basa su questo. La differenza (o problema) tra i 2 modelli
riguarda esclusivamente la rappresentazione delle parentele linguistiche nello spazio.
L’italo-romanzo: Escluso il ladino centrale, in una linea sotto Bolzano (che però comprende tutta
l’Italia settentrionale) vi sono le parlate ‘’italo-romanze’’ che si dividono in 3 grandi blocchi: un blocco
settentrionale che comprende tutte le varietà sopra la linea ‘’La Spezia – Rimini’’, una sezione centrale
compresa tra la linea ‘’La Spezia – Rimini’’ e la linea ‘’Roma – Ancona’’ e sotto quest’ultima linea, vi sono
tutti i dialetti meridionali: all’interno di questi ultimi vanno classificati a parte 2 sottogruppi: dialetti
meridionali (o alto-meridionali) e dialetti meridionali estremi. Il secondo comprende tutta la Sicilia, la
Calabria centromeridionale (da Catanzaro in giù) ed il Salento, al di sotto di una linea ideale ‘’Taranto –
Brindisi’’ (antico tracciato della Via Appia), e che prende il nome di gruppo dei ‘’dialetti meridionali
estremi’’ (estremo è un riferimento geografico, ma vi sono anche fenomeni che negli altri dialetti
meridionali non sono presenti perché dipendono dall’influenza greca in queste aree, non solo nel lessico
ma anche nelle strutture morfologiche e sintattiche). L’italo-romanzo comprende l‘’italiano’’ ed il
‘’corso’’.
Il sardo: Un’altra lingua romanza è il ‘’sardo’’, che presenta una serie di sottovarietà molto diverse
l’una dall’altra che strutturalmente va classificato non tra le varietà italo-romanze, ma come una lingua
romanza a parte. Essendo un’isola, la Sardegna, come caratteristico delle isole, anche il sardo conserva
una serie di arcaismi che si sono persi in molte (o in quasi tutte) le lingue romanze: come il catalano
balearico, il sardo conserva per esempio l’articolo maschile ‘’su’’ (il), femminile ‘’sa’’ (la) che derivano
non dal lat. ‘’ille’’ ma dal lat. ‘’ipsu/ipsa. Inoltre il sardo conserva la ‘’s’’ finale dell’accusativo plurale es.
‘’rosas’’ in varie classi flessive che gran parte delle lingue romanze (se non tutte) hanno perso. Il sardo è
per le sue particolarità una varietà linguisticamente autonoma con una classificazione a parte tra le
lingue romanze.
Il dacoromanzo: Più ad est, vi è l’area della Romania, il cosiddetto ‘’dacoromanzo’’ (in quanto le
lingue romanze si erano insediate nell’antica regione della Dacia, che è stata anche provincia romana). Il
‘’rumeno’’, con i suoi 3 gruppi dialettali è l’unica lingua romanza sopravvissuta nell’est Europa, ma fino
all’inizio del ‘900, si parlavano varietà romanze anche lungo le coste della Dalmazia (dove si parlava il
‘’dalmatico’’), lungo l’Istria (dove si parlava ‘’istrioto’’) e più sotto nell’attuale Croazia. Istrioto e
dalmatico erano a tutti gli effetti lingue romanze, i territori in cui si parlavano queste 2 lingue sono stati
occupati linguisticamente dalle lingue slave meridionali (oggi sia il dalmatico che l’istrioto si sono estinti).
Mentre il blocco occidentale delle lingue romanze è compatto (tranne il basco e la lingua parlata
nell’area della Bretagna francese, rispettivamente una lingua isolata ed una lingua celtica), pur con tutte
le differenze dovute al sostrato, cioè dovute ai popoli che i romani hanno incontrato durante la loro
espansione verso l’occidente. Il rumeno è circondato da lingue della famiglia slava tranne l’ungherese, il
quale appartiene (insieme all’estone ed al finlandese) alle lingue ugrofinniche, non sono quindi lingue
indoeuropee. Mentre francese, spagnolo, italiano, portoghese sono tra di loro confinanti quindi gli
influssi possono essere tra una lingua romanza e l’altra, il rumeno ha avuto un contatto con lingue di un
altro gruppo (quello slavo), di conseguenza il rumeno ha moltissimi slavismi nel lessico (parole di origine
slava), ma anche una morfologia ed una sintassi che lo distaccano di molto dal blocco occidentale. Il
rumeno è l’unica lingua che rientra attualmente nel ‘’balcano-romanzo’’.
L’area balcanica e le leghe linguistiche: In tutta l’area dei Balcani ci sono state delle condizioni
storiche che hanno favorito lo scambio e l’incontro tra questi popoli che hanno avuto così una storia
comune. Dalla caduta di Costantinopoli (1453) in poi fino all’Impero austro-ungarico, tutti i Balcani (tutto
il territorio che va dall’Ungheria alla Romania, verso il sud, la Grecia) sono stati di dominazione turca,
cioè parte dell’Impero ottomano (infatti dall’albanese al greco moderno, al rumeno, tutte queste lingue
presentano molti turchismi nel lessico dovuti al secolare dominio della Turchia su questi territori). L’area
dei Balcani è stata un’area di forte migrazione interna (cioè esistono all’interno di quelli che oggi sono i
moderni stati dell’area balcanica, tutta una serie di ‘’enclave’’ di popolazioni di altri territori, per esempio
esistono comunità rumene in Albania e in Grecia, minoranze albanesi in Kosovo, molte comunità greche
in Macedonia). Queste lingue e questi popoli si sono tra di loro incontrati, mischiati, uniti per secoli:
quando le condizioni storiche sono del tipo ora descritto, le lingue confinanti possono dare vita ad una
lega linguistica (termine tecnico, basato sul terzo dei criteri di classificazione: 1) genealogico, 2)
tipologico, 3) areale. Per far sì che due o più lingue formino una lega linguistica, non basta che stiano
vicine (vicinanza geografica), ma fenomeni storici (migrazioni interne, un dominio comune, scambi di
popolazione tra un paese e l’altro) possono dare vita per tipologia ‘’areale’’ (per contatto) ad una lega
linguistica (un’area che condivide una serie di fenomeni a prescindere dalla genealogia). Negli anni ’90
Giovanni Ruffino, un dialettologo siciliano mostrò che il suo paese d’origine, Terrasini (in provincia di
Palermo) presentava (almeno fino ad una ventina di anni fa) una netta scissione tra un dialetto di pianura
ed un dialetto di mare (è un paesino tagliato in 2 da una fiumara): la comunità che si trovava verso il
mare (la comunità di pescatori ecc..), aveva delle regole fonetiche e diversità lessicali notevoli rispetto
alla comunità che si trovava più all’interno. Quindi a volte è necessario un semplice confine naturale per
distinguere due parlate attaccate/contigue l’una all’altra. I Pirenei per esempio hanno formato una
cesura, per cui l’iberoromanzo ha caratteristiche completamente diverse dal galloromanzo. La vicinanza
geografica non è un criterio che da solo è sufficiente per determinare una lega linguistica. Per quanto
riguarda i confini della lega balcanica, nel caso specifico c’è una sorta di confine naturale rappresentato
dall’Ungheria (mentre tutte quelle sotto l’Ungheria sono lingue indoeuropee, l’ungherese è una lingua
non indoeuropea, i confini della lega balcanica non vanno quindi più a nord dell’Ungheria stessa), mentre
verso est, secondo alcuni, il ‘’turco’’ (almeno nella sua sezione europea, presenta almeno un tratto che
ha prestato alle altre lingue della lega balcanica, quindi anche il turco in minima parte va compreso). Nei
Balcani, tranne il turco (che è una lingua altaica, non indoeuropea), queste lingue sono tutte
indoeuropee. Per stabilire i confini di una lega, è fondamentale capire quale sia il centro (il nucleo): ogni
lega ha un tot di fenomeni linguistici condivisi da tutte le lingue (non tutte condividono questi tratti), le
lingue che hanno il maggior numero di tratti in comune rappresentano il centro/nucleo della lega. Se per
esempio su 10 tratti totali di una lega, una lingua ne presenta 10, essa si posiziona al centro/nucleo della
lega, se ne presenta solo 2-3 si trova nella sua periferia. In base a ciò, si può porre il centro della lega
balcanica tra Bulgaria, la Macedonia e la Grecia, più si sale verso nord/nord-ovest (Bosnia, Croazia,
Slovenia) più il numero dei tratti diminuisce. Le lingue che fanno parte della lega sono, a cominciare dal
sud: il ‘’neogreco’’ (o ‘’greco moderno’’), l’’albanese’’ e parte delle lingue sotto l’Ungheria e la Romania
(cioè le lingue slave del gruppo meridionale) ed il ‘’rumeno’’.
Le lingue slave: si dividono in 3 gruppi: 1) le lingue che si trovano a nord dell’Ungheria (il ‘’polacco’’,
il ‘’ceco’’, lo ‘’slovacco’’ ed il ‘’sorabo’’ (parlato in Germania, nella regione della Lusazia), ‘’lingue slave
occidentali’’. 2) Il ‘’russo’, l’’ucraino’’ ed il ‘’russo bianco’’ (o ‘’bielorusso’’), ‘’lingue slave orientali’’,
queste 3 lingue formavano tra di loro un’unità che è stata spezzata dalle avanzate dei mongoli che hanno
spezzato l’unità linguistica formando 3 varietà che però ancora oggi sono fortemente e mutuamente
comprensibili (chi parla bielorusso capisce il russo e viceversa per esempio). 3) Le ‘’lingue slave
meridionali’’ (tutte le parlate sotto Ungheria e Romania), ovvero lo ‘’sloveno’’, il ‘’serbo’’, il ‘’croato’’, il
‘’bulgaro’’ ed il ‘’macedone’’. La culla dei popoli slavi è l’area del meridione (dei Balcani): le lingue di più
antica attestazione sono le lingue del gruppo meridionale, in particolare il bulgaro, perché la Chiesa
d’Oriente mandò per evangelizzare questi popoli 2 predicatori che erano di origine greca (venivano da
Salonicco), Cirillo e Metodio che per evangelizzare questi popoli tradussero in antico slavo (o antico
bulgaro) i vangeli, conservati in diversi codici e questa varietà (quella che rappresenta le traduzioni di
Cirillo e Metodio) prende il nome di antico bulgaro (o antico slavo ecclesiastico). Siccome non c’erano
attestazioni scritte di queste lingue, le traduzioni dei 2 predicatori rappresentano i più antichi testi slavi,
questi popoli non avevano neanche una scrittura, quindi Cirillo e Metodio inventarono di sana pianta un
alfabeto adattando le lettere dell’alfabeto greco all’antico bulgaro e quindi da loro (in particolare dal
nome di Cirillo) prende il nome l’alfabeto Cirillico che nella fase più antica è spesso indicato come
alfabeto glagolitico (dove le lettere dell’alfabeto sono tratte dall’alfabeto greco). Questa è la ragione per
cui chi sa leggere il greco, impara a leggere con relativa rapidità anche il cirillico. Quando si classifica una
lingua dal punto di vista genealogico, la scrittura non c’entra nulla in quanto prodotto storico-culturale
che può essere dovuta a molteplici ragioni (in questo caso i 2 evangelizzatori dei popoli slavi erano greci
e quindi hanno inventato un sistema alfabetico che prendeva spunto da quello greco, ciò non significa
però che greco e slavo siano imparentati).
L’albanese: è un’altra lingua indoeuropea che condivide gran parte delle caratteristiche (balcanismi, i
tratti comuni alla lega balcanica) e si divide in 2 varietà linguistiche: il ‘’tosco’’ (a sud) ed il ‘’ghego’’ (a
nord). La letteratura albanese e la lingua standard sono di tipo settentrionale (tosco), poi siccome
l’Albania (come molti stati dell’est) ha avuto una dittatura (da parte di Enver Hoxha in particolare).
Questo dittatore siccome veniva dal sud dell’Albania affermò che la lingua di base fosse il ghego e non il
tosco, di conseguenza impose la prima varietà secondo un’operazione di politica linguistica arbitraria,
rovesciando le sorti di queste due varietà dialettali. Intorno al 1400-500 per sfuggire alla dominazione
ottomana/turca, diverse comunità albanesi attraversarono l’Adriatico (arrivando dunque in Puglia) e si
insediarono nel sud Italia (in particolare in alcune comunità in Sicilia in provincia di Palermo, la ‘’piana
degli albanesi’’, ma soprattutto in provincia di Cosenza dove oggi c’è il numero maggiore di comunità
albanesi, le cosiddette ‘’comunità arbëreshë’’, l’’arbëreshë’’ è l’albanese parlato in Italia). L’albanese
rappresenta un ramo indipendente della famiglia delle lingue indoeuropee (è una lingua isolata)
Il greco e la diglossia: Molto più complessa è la storia del ‘’greco’’, una delle poche lingue
indoeuropee attestate dal II millennio a.C. (ha una storia secolare), per cui è una delle principali lingue di
riferimento in linguistica generale e teorica, in quanto varietà che permette una documentazione
plurisecolare. Il greco rappresenta un ramo indipendente della famiglia delle lingue indoeuropee (è una
lingua isolata). Fino al 1952, il greco era conosciuto dal VII secolo a.C., in particolare con alcuni reperti
archeologici (epigrafi ed incisioni) che provenivano dall’Italia meridionale, in particolare da Cuma, in
Campania, da cui proviene una delle più antiche iscrizioni. I poemi omerici sono giunti a noi tramite testo
scritto (messo per iscritto molto tardi) però sicuramente vi è tutta una serie di fenomeni linguistici che ci
fanno pensare che si tratti di un testo tramandato oralmente per secoli e che ha un aspetto linguistico
molto arcaico, però queste sono solo ricostruzioni (non è possibile dire con certezza da quando si parlava
greco). Varie missioni archeologiche avevano scoperto una serie di tavolette d’argilla in una serie di siti
greci (soprattutto dell’Egeo: in particolare a Creta, ma anche nel continente, nella antica regione greca
della Messenia, in particolare nelle città di Pilo di Messenia e Micene). Siccome in tutto il bacino
dell’Egeo erano venuti fuori documenti simili (in una scrittura chiamata convenzionalmente ‘’lineare A’’)
ed altri documenti che hanno una scrittura sillabica (cioè un segno rappresenta non un fonema ma una
sillaba, scrittura chiamata ‘’lineare B’’): nessuno dubitò fino al 1952 che questa scrittura coprisse una
varietà greca: tutti diedero infatti per scontato che fosse una scrittura sconosciuta, di una lingua
sconosciuta pre-greca, di una civiltà ‘’anellenica’’ (non greca), del bacino dell’Egeo prima dell’arrivo dei
greci. Invece nel 1952, il britannico Michael Ventris (che era stato un decifratore delle forze di aviazione
britanniche nella Seconda Guerra Mondiale e quindi aveva imparato il ‘’mestiere’’ di decifratore) con una
combinazione logica molto semplice, facendo poi girare questi primi fogli ai grecisti dell’epoca, scoprì in
maniera sorprendente che nonostante non fossero scritti in alfabeto greco, in questa scrittura in parte
sillabica ed in parte ideografica, questi testi in realtà nascondevano una lingua greca. I testi di Creta
risalgono al 1400 a.C. e quelli di Pilo di Messenia circa al 1200 a.C., mentre il greco si conosceva dal VII
secolo a.C., con questi testi si va molto più indietro (al secondo millennio a.C). Il motivo per cui questi
testi (in tavolette d’argilla) sono giunti ai giorni nostri e sono conservati ancora oggi nei vari musei greci è
perché sono stati ‘’cotti’’ dagli incendi di questi palazzi (erano tutti documenti amministrativi che
elencavano e registravano i prodotti in entrata ed uscita dal palazzo), attestando un dialetto ed una
varietà greca risalente a ben prima di quella che si conosceva fino ad allora, il ‘’miceneo’’ (dal nome di
Micene, uno dei siti greci più rappresentativi). Negli anni 90, mentre venivano aggiustate le condotte del
gas nella via principale di Tebe, è stato ritrovato un intero archivio di tavolette che vennero poi
pubblicate. Quella greca è quindi una delle documentazioni più preziose della storia delle lingue
indoeuropee. Il greco anticamente (‘’greco antico’’, 800-330 a.C.) era diviso in molti dialetti che hanno
avuto anche un prestigio da un punto di vista letterario, a partire dal III secolo a.C., grazie soprattutto alle
conquiste di Alessandro Magno che si spinse ad Oriente fino agli altipiani dell’Iran. Il greco cominciò ad
essere parlato in tutta l’Asia minore fino all’Iran (compreso), tra i tanti dialetti, ne emerse uno (per
prestigio), il dialetto ‘’attico’’ (del sud del Peloponneso) che diventò la lingua diffusa fuori dalla Grecia
che prende il nome di ‘’koinè dialektos’’ (lingua comune). Quando si parla di una lingua comune, ci si
riferisce genericamente alla ‘’koinè’’. Prima di Alessandro Magno c’erano molti dialetti con molte lingue
letterarie, ognuno dotato di un proprio prestigio; da Alessandro Magno in poi, si afferma tra tutti questi
dialetti, uno solo, che diventa la ‘’koinè’’ (la lingua comune). Dalla koinè, attraverso la fase medievale
(‘’greco medievale’’), nasce il ‘’greco moderno’’. Questa varietà ha avuto però 2 sorti differenti: quella
che si parla oggi in Grecia è l’evoluzione nei secoli della koinè di trafila popolare (da parlante a parlante,
di generazione in generazione) ed è quella che comunemente è conosciuta come ‘’dimotiki’’, cioè come
la lingua del ‘’demos’’ (del popolo). Accanto a questa lingua (soprattutto in età medievale e poi nei secoli
successivi), persone di una certa estrazione sociale (intellettuali ecc..) continuarono a coltivare la lingua
letteraria (una lingua che non c’entrava nulla con l’evoluzione popolare) che proprio per questo si chiama
‘’katharevousa’’ (la lingua epurata, privata di tutti gli elementi tipici del parlato, una lingua aulica) ed è
rimasta per secoli lingua ufficiale (dei documenti pubblici, degli atti amministrativi ecc..), si scriveva in
katharevousa, così la distanza tra la lingua parlata dal popolo e quella letteraria divenne talmente grande
che quella che era stata la culla della civiltà occidentale e della democrazia (la Grecia), divenne
un’oligarchia, in quanto chi conosceva la katharevousa, dominava la politica, ed il popolo non
comprendeva quindi più la lingua della politica, così a seguito vi furono cruente rivolte popolari, intorno
agli anni ’70 del ‘900. Il ‘’regime dei colonnelli’’ è stato l’ultimo tentativo di oligarchia in Grecia e, dopo la
fine di questa dittatura, è stata eletta come unica lingua ufficiale la dimotiki. Quando la distanza tra
varietà formale (in questo caso la katharevousa) ed informale (in questo caso la dimotiki) è troppo
grande, si parla di ‘’diglossia’’ (fenomeno che si ha quando all’interno di una comunità ci sono due
varietà della stessa lingua, una formale (o ‘’varietà A’’/’’varietà alta’’, ed è di solito la lingua ufficiale, degli
atti amministrativi, della politica ecc..) ed una informale (o ‘’varietà B’’/’’varietà bassa’’ che si parla
comunemente per strada, tra gli amici, in famiglia ecc..). In grecia fino agli anni ’70 vi era la diglossia,
oggi il ‘’neo-greco’’ (o ‘’greco moderno’’) ha promosso come lingua ufficiale la dimotiki. La storia del
greco riguarda sostanzialmente l’evoluzione della ‘’koinè dialektos’’ nata con le conquiste di Alessandro
Magno, si afferma attraverso il filtro del ‘’greco medievale’’ in tutta la Grecia (almeno quella
continentale, in quanto le isole presentano ancora nello Ionio e nell’Egeo delle variazioni dialettali molto
evidenti) dando vita al ‘’greco moderno’’.
La lega balcanica: Il greco (una lingua isolata, fa parte del gruppo indoeuropeo senza essere
imparentata con altre lingue di questa famiglia), le lingue slave meridionali (serbo, croato, sloveno,
bulgaro e macedone), l’albanese (lingua isolata) ed il rumeno (lingua romanza) con 3 sottovarietà,
condividono una serie di caratteristiche in comune e costituiscono una lega linguistica (o
‘’sprachbund’’). Balcanismi:
1. Molte di queste lingue hanno 5 vocali (sistema ‘’pentavocalico’’ come nel vocalismo siciliano, in
quanto tutti i fenomeni che si riscontrano nei dialetti meridionali estremi si trovano molto simili
nell’area balcanica, chiaramente dovuti all’azione del greco). Nei balcani, il greco (soprattutto di
fase medievale, cioè il greco bizantino) ha avuto un impatto sulla cultura, sulla formazione
religiosa ecc.. enorme su tutta l’area dei Balcani centro-meridionali, quindi è abbastanza normale
che gran parte di questi fenomeni, i ‘’balcanismi’’, derivino dall’azione del greco. Il sistema
vocalico a 5 vocali, per esempio è sicuramente di derivazione greca.
2. Il fenomeno del ‘’sincretismo’’ tra genitivo (che esprime il compl. di specificazione) e dativo
(che esprime il compl. di termine): in molte di queste lingue (in rumeno, in bulgaro, in greco
moderno), le funzioni del dativo sono espresse dal genitivo. Es. ‘’Ho dato il libro a Gianni’’ lo si
dice in queste lingue attraverso ‘’Ho dato il libro di Gianni’’. In greco per esempio ci sono ancora i
casi e quindi questo fenomeno è espresso con quest’ultimi. Esistono alcuni (pochi) dialetti
calabresi dell’Aspromonte (dell’area ionica) in cui si dice esattamente così (viene usato il
cosiddetto ‘’dativo alla greca’’, il dativo/compl. di termine espresso attraverso il genitivo/compl.
di specificazione). Nell’Italia meridionale, c’è stata a lungo (fino in età medievale) la dominazione
bizantina (greca), motivo per cui questo fenomeno/balcanismo si trova in alcuni di questi dialetti
ed allo stesso tempo nell’area balcanica.
4. Molte di queste lingue balcaniche hanno un futuro perifrastico (mentre le lingue romanze
occidentali hanno il futuro sintetico, es. ‘’mangerò’’, che attraverso la grammaticalizzazione ha
delle desinenze proprie) per pressione del greco bizantino hanno un futuro che si fa ‘’alla greca’’
(secondo il tipo ‘’voglio scrivere’’ col significato italiano di ‘’scriverò’’). In neogreco si fa il futuro
con il verbo ‘’fero’’ (voglio) seguito dall’infinito (la stesso vale per il bulgaro); l’albanese lo fa in
una maniera simile con il tipo ‘’vuole che/affinchè’’ (verbo servile) seguito dal congiuntivo ‘’io
scriva’’ (per esempio).
5. Quello dei numeri ‘’locativali’’ è uno dei pochissimi tratti che deriva con certezza dallo slavo
meridionale: i numeri compresi tra 11 e 19 si fanno con l’unità che precede la decina, es. per dire
‘’12’’ si fa ‘’2 su 10’’.
6. La ‘’perdita dell’infinito’’ è un balcanismo fisso in bulgaro, macedone, greco (da cui deriva
questo tratto) ed albanese, più ci si spinge verso nord-ovest (verso serbo, croato e sloveno)
meno sono frequenti questi tratti. L’infinito non esiste ed è sostituito da un complementatore
(equivalente all’italiano ‘’che’’) + il presente indicativo o congiuntivo, es. it. ‘’voglio mangiare’’ >
‘’voglio che mangio’’/’’voglio che io mangi’’. Il croato tra le lingue slave è quello che meglio di
tutte conserva l’infinito (in quanto non si è più nell’epicentro dell’area balcanica, ma molto più a
nord, più si va fuori dai confini dell’area balcanica o di qualunque lega linguistica, meno frequenti
sono i balcanismi o qualsiasi tratto della lega linguistica stessa). Es. di perdita dell’infinito nelle
lingue balcaniche: gr. ‘’fero na po’’ (voglio che io dica) ovvero l’it. ‘’voglio dire’’ dove ‘’dire’’
(infinito) è sostituito da un presente preceduto da un complementatore. Questo balcanismo si
ritrova frequentissimamente in molti dialetti calabresi sotto Catanzaro, in cui nel dialetto
‘’genuino’’ (nella forma più antica) compare un complementatore che assume le forme di
‘’mu/mi/ma/i/u’’ seguite dal presente dell’indicativo, es. ‘’credo ca’’/’’voglio mi’’. Molto
probabilmente il doppio sistema di complementazione (2 complementatori) nasce nel greco
medievale (e quella greca è stata nei balcani la lingua egemone, ritenuta il modello da imitare,
tutte le altre lingue hanno ‘’imitato’’ il greco medievale, riproducendo con la loro fonetica ed i
loro mezzi questo sistema, detto anche di ‘’complementazione scissa’’, proprio perché c’è una
scissione tra dichiarative e volitive). Questi sono i principali tratti dei Balcani, condivisi da quasi
tutte le lingue di quest’area.
7. Per capire bene la differenza tra centro e periferia di una lega, il fenomeno che probabilmente è
più chiaro tra tutti è quello della ‘’doppia complementazione’’, ovvero: tutte le lingue
dell’epicentro balcanico hanno 2 complementatori, mentre il portoghese, il francese, lo
spagnolo, l’italiano (tutto il blocco occidentale) ha un solo complementatore, un solo elemento
che introduce una frase completiva, ovvero il ‘’che’’ es. ‘’penso/credo che domani piova’’, invece
per esempio il rumeno ne ha 2 che variano a seconda del significato del verbo principale, se
quest’ultimo è un verbo dichiarativo o epistemico (pensare, credere, sapere, ritenere ecc..), ha
un solo complementatore, chiamato complementatore ‘’reale’’, se invece il verbo della frase
principale è volitivo (volere e simili) allora ha un altro complementatore, chiamato
complementatore ‘’irreale’’. Anche il latino aveva 2 complementatori, come il bulgaro,
l’albanese ed il greco moderno (‘’ti’’ con i verbi dichiarativi o epistemici e ‘’na’’ con i verbi volitivi,
es. it. ‘’credo che domani piova’’ diventa in gr. ‘’credo (ti) domani piova’’ oppure it. ‘’vorrei che
domani piovesse’’ diventa in gr. ‘’vorrei (na) domani piovesse’’). Non si è ancora sicuri se i 2
complementatori del rumeno siano di derivazione greca o latina. Lo sloveno, il serbo ed il croato
hanno un solo complementatore, il complementatore ‘’indifferenziato’’ che si usa in tutte le
lingue slave, il ‘’da’’. Il tratto del doppio complementatore nato tra Bulgaria, Grecia, Macedonia e
Albania non ha quindi raggiunto il nord-ovest della lega balcanica (perché la periferia di una lega
non prende tutti i tratti del centro).
8. Un altro tratto riguarda il possessivo espresso attraverso il genitivo del pronome: invece di dire
‘’la mia casa’’/’’la tua casa’’/’’la sua casa’’ si dice ‘’la casa di me’’/’’la casa di te’’/’’la casa di lui’’,
come in neogreco, rumeno, bulgaro ed in albanese dove questo pronome possessivo è anche
‘’enclitico’’ (non ha un proprio accento, ma si appoggia alla parola che precede).
Come si forma una lega linguistica e influsso del greco nel sud Italia: Riassumendo,
esistono nel mondo, molte leghe linguistiche tra lingue che non hanno nulla in comune da un punto di
vista genealogico, per esempio esiste una lega linguistica tra cinese e giapponese nonostante queste 2
lingue appartengano a famiglie diverse. Il fatto che le lingue dei Balcani (turco escluso) siano tutte
indoeuropee, non è diagnostico per decidere se si ha a che fare con una lega. Esistono in tutte le leghe
linguistiche delle aree e delle lingue in cui tutti i fenomeni della lega sono presenti, ed esistono invece
aree periferiche dove solo alcuni di questi fenomeni sono presenti: nel caso della lega linguistica
balcanica, lingue come serbo, croato e sloveno (più vicine all’Italia) partecipano solo in parte ai tratti
della lega, mentre bulgaro, macedone, albanese e greco (la maggioranza dei tratti che caratterizzano la
lega balcanica è di derivazione greco-medievale) condividono tutti i tratti. La ragione per cui sia in Grecia,
che nei Balcani, sia nei dialetti meridionali estremi italiani esistano dei tratti molto simili (i balcanismi)
dipende dalla presenza del greco nell’Italia meridionale: gran parte degli studiosi erano convinti che
l’azione da parte del greco su queste regioni del sud Italia si fosse esercitata dal medioevo (a partire dal
greco bizantino). I bizantini arrivarono in Sicilia sia nel medioevo che (ancora prima) nel III secolo d.C. Nel
1924 (edizione tedesca) e poi nel 1933 (edizione italiana), un grande romanista dell’epoca, Gerhard
Rohlfs, scrisse il celebre libro ‘’Scavi linguistici nella Magna Grecia’’ e si era convinto che il greco presente
nel lessico e nella sintassi di questi dialetti non risalisse al greco bizantino (greco medievale), m5a fosse
la continuazione ininterrotta sul suolo italiano meridionale del greco antico (greco della prima
colonizzazione, della Magna Grecia, la prima colonizzazione risale all’VIII-VII secolo a.C.). Questa tesi
ebbe molti sostenitori, ma anche molti avversari, gli italiani in particolare si schierarono contro la tesi di
Rohlfs, perché affermare che questi territori fossero greci, voleva dire negare la romanizzazione dai
tempi antichi dell’Italia meridionale, mentre gli studiosi greci ed i grandi indoeuropeisti dell’epoca si
schierarono a suo favore. Oggi, la tesi più accreditata è intermedia, e ammette la presenza nei dialetti
romanzi del sud Italia di elementi che si possano ricondurre al greco antico, accanto ad elementi di epoca
medievale (greco bizantino). Del greco, fanno parte ancora oggi due piccole ‘’enclave’’ dell’Italia
meridionale: la Grecìa Salentina (in Puglia) e la Bovesia (in Calabria) dove si parla ‘’grecanico’’ (che
rientra nel filone linguistico greco, è una lingua oggi quasi del tutto estinta, ma comunque molto meglio
conservata in Salento che in Calabria meridionale).
Lingue baltiche: ‘’Lettone’’ e ‘’lituano’’ fanno parte del gruppo delle ‘’lingue baltiche’’ insieme ad
una terza lingua, l’’antico prussiano’’ (oggi completamente estinta). Queste lingue (come tutte le lingue
dell’ex blocco sovietico), avevano un ruolo subalterno rispetto al russo (lingua slava) che è stata la lingua
dell’educazione scolastica in tutta l’Europa dell’est fino al crollo del regime. Mentre in Romania per
esempio si parlava correntemente il rumeno, queste lingue (baltiche) sono state completamente
‘’soffocate’’ dall’egemonia del russo. Con il crollo del regime sovietico e la costituzione delle Repubbliche
di Lettonia e di Lituania, queste lingue sono tornate in auge (hanno anche un’importante letteratura
documentata dal 1500 circa). La lingua dell’altra Repubblica baltica, l’Estonia, insieme a quelle di
Ungheria, Finlandia, Lapponia, Siberia ed altri dialetti fa parte della famiglia linguistica ugro-finnica.
Le lingue celtiche: Nell’area dov’è parlata la lingua inglese (lingua germanica occidentale), si trova
l’ultimo relitto di parlate che in realtà prima dell’espansione romana dominavano gran parte dell’Europa
insulare e continentale, le cosiddette ‘’parlate celtiche’’. Oggi le lingue celtiche si parlano soprattutto
sulle coste, in particolare dell’Irlanda e di alcune zone dell’Inghilterra. Un primo gruppo di ‘’lingue
celtiche insulari’’, comprende: l’’irlandese’’ (un tempo parlato in tutta l’Irlanda), il ‘’manx’’ (o
‘’mannese’’/’’mancio’’) dialetto parlato nell’Isola di Man (isola tra l’Irlanda e l’Inghilterra), e lo
‘’scozzese’’ (o ‘’gaelico’’ scozzese. Quando parliamo di ‘’scottish’’ (lingua germanica occidentale) ci
riferiamo ad una varietà d’inglese parlato in Scozia con una pronuncia fortemente regionale. Un secondo
gruppo (sempre di ‘’lingue celtiche insulari’’), le ‘’lingue britanniche’’, riguarda il ‘’cornico’’, parlato in
Cornovaglia (a sud dell’Inghilterra), il ‘’gallese’’ (parlato in Galles) ed il ‘’bretone". Del celtico
continentale, oggi non rimane traccia (sono estinte), perché tutte le parlate celtiche sono di fatto
scomparse con la conquista romana, lasciando però tracce di sostrato nelle lingue romanze (come la
caduta della ‘’p’’) e nella toponomastica (nomi di luogo). Vi furono tribù celtiche nell’Italia settentrionale
(fino all’Emilia Romagna), in tutta la Gallia (attuale Francia). I celti, prima dell’espansione di Roma, erano
talmente diffusi in Europa che arrivavano all’Asia minore (ci sono le famose lettere che San Paolo scrisse
ai Galati, una tribù celtica stanziata nell’Asia minore). Anche l’area danubiana e tutta l’Europa centrale ed
insulare erano popolate da tribù celtiche. Il germanico occidentale è stato per secoli celtico, in
particolare in Irlanda ed in Gran Bretagna, la scomparsa del celtico si deve ad una forte politica
repressiva operata dal governo britannico contro le minoranze linguistiche celtiche, anche
nell’educazione scolastica (vi era una sorta di collana di legno che portavano i celtofoni ed ogni volta che
questi parlavano celtico in classe, il maestro/a segnava una tacca e quando la collana era piena di tacche,
veniva eseguita una punizione esemplare contro l’uso delle varietà celtiche nel Regno Unito (quasi una
‘’celtofobia’’) che quindi sono andate progressivamente riducendosi in numero di parlanti. Oggi esistono
tentativi di rivitalizzazione (soprattutto in Scozia, dove c’è anche un raduno annuale del costume e del
folklore celtico) e di recupero della lingua celtica.
Lingue neoindoarie: sono lingue indoeuropee dell’India moderna. Tutta l’India del nord è
indoeuropea (se si applica il metodo storico-comparativo per confrontare l’hindi con il francese si può
rintracciare conoscendo la fonetica storica di queste lingue, l’antenato comune). Come le lingue romanze
derivano dal latino parlato, così le lingue dell’India moderna (del nord) derivano dal cosiddetto ‘’indiano
antico’’ o ‘’sanscrito’’. Nella fase antica, il sanscrito è rappresentato da una primissima fase, il ‘’vedico’’
(lingua dei Veda, testi sacri religiosi dell’Induismo) e da una seconda fase, il ‘’sanscrito classico’’. Il
rapporto tra vedico/sanscrito classico e le lingue/dialetti dell’India moderna è pressappoco come il
rapporto che c’è tra latino e lingue romanze (entrambe antenate delle lingue attualmente presenti).
Ancora oggi, sulle rive del Gange, i bramini indiani (i sacerdoti dell’induismo), recitano i Veda
riproducendo le strofe di questi testi sacri. Questi dialetti sono passati (nel medioevo indiano, dal
sanscrito classico) attraverso una fase di dialetti medievali chiamati ‘’pracriti’’ (lingue dell’India
medievale). Il percorso diacronico è quindi: vedico > sanscrito classico > pracriti > dialetti neoindoari. In
uno dei pracriti, il ‘’pali’’ è stato composto il primo canone buddista, da cui tutte le altre lingue (per
esempio quelle del sud-est asiatico) che hanno traduzioni dei testi buddisti, derivano da questo canone.
Sorprendentemente nonostante queste lingue siano tutte indoarie (indoeuropee), oggi (tranne i
sacerdoti bramini indiani ed i linguisti) gran parte di questi territori sono islamizzati (paradossalmente il
buddismo è nato qua, spostandosi poi altrove). Rientrano nella famiglia delle lingue indoarie: le ‘’lingue
zingariche’’ (o ‘’romaní’’), una lingua indoeuropea parlata soltanto da alcuni rom e sinti. Invece parte
delle lingue a sud fanno parte di un’altra famiglia linguistica, delle ‘’lingue dravidiche’’, che non è
indoeuropea, il cui rappresentante più importante (la lingua più diffusa per numero di parlanti) è il
‘’tamil’’.
Lingue iraniche: Nell’area che va dal Kurdistan fino all’estremo confine est dell’Iran (ma comprende
anche il Pakistan e l’Afganistan) si parlano ‘’lingue iraniche’’ (anche queste indoeuropee). Indiani ed
iranici formavano un’unità linguistica e culturale (probabilmente l’ondata più antica di indoeuropei che si
è spostata verso est, e dal nome ‘’signori’’ con il quale si autodenominavano, deriva il nome dell’Iran). Tra
queste lingue, quella la cui storia è meglio documentata è il ‘’persiano’’, parlato ancora oggi come lingua
ufficiale dell’Iran, nella varietà chiamata ‘’farsi’’ (‘’persiano moderno’’, che ha vissuto 3 fasi, quella
antica, medievale e moderna). La fase antica è dell’’antico persiano’’ (lingua delle grandi istituzioni
dell’Impero achemenide). Lungo la via della seta vi sono ancora immense iscrizioni su pietra in questa
lingua dove i sovrani della Persia antica si autoglorificavano. Dalla fase medievale derivano tutte le lingue
iraniche moderne.
Da dove nascono le lingue romanze?: La ragione per cui oggi le lingue romanze sono diverse
tra loro, dipende in gran parte dai popoli che i romani hanno trovato in queste regioni durante la loro
espansione. Alla base delle ‘’lingue romanze’’ vi è il ‘’latino volgare’’ (il latino parlato). I testi latini
classici dicono poco e nulla sul latino parlato in queste regioni (il latino scritto come per ogni lingua è
differente dal latino parlato), però accanto alla ricostruzione che si può fare col metodo storico-
comparativo, vi sono delle fonti (come quelle ritrovate a Pompei, con l’eruzione del Vesuvio che ha
‘’conservato’’ questi documenti storici antichi) e ritrovamenti archeologici (sono stati ritrovati ad
esempio molti graffiti) che riflettono il parlato (in questo caso il latino volgare). Vi sono anche generi
letterari che volutamente imitano la lingua parlata, come nel caso delle commedie (come quelle di
Plauto e Terenzio per quanto riguarda il latino di fase antica) che imitando il parlato, ci hanno dato
un’idea di come fosse il latino volgare. Esistono (soprattutto per la tarda latinità) dei testi scolastici in cui
il maestro ‘’rimprovera’’ gli errori degli studenti (il più importante è l’’Appendix Probi’’ attribuito al
filologo e grammatico Marco Valerio Probo, ed è una lista di 227 parole latine), es. ‘’columna’’ non
‘’colomna’’. In questi errori commessi dagli studenti è possibile intravedere gli sviluppi fonetici che
portarono dal latino alle attuali lingue neolatine.