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FILOLOGIA SLAVA

La disciplina della Filologia nasce agli inizi dell’800. La FILOLOGIA SLAVA è lo studio delle popolazioni slave
condotto fin da quando ne abbiamo notizia, dagli albori al XV secolo.

Lo spazio etnico slavo nell’Ottocento include:


*impero Asburgico
*impero russo
*impero ottomano
*alcune minoranze qua e là.
Al tempo, infatti, non esisteva ancora il concetto di “Stato-nazione,” e difatti troviamo grandi Stati
multinazionali, ossia Imperi che racchiudevano al proprio interno tanti popoli di culture diverse. Su di essi,
però, veniva comunque imposta una lingua ufficiale e nazionale, e ciò porta ciascuna di queste popolazioni
a rivendicare la propria identità. Proprio da questo sforzo nascono le filologie, intese come somma della
“questione lingua” e dello studio della cultura.

Si scopre che moltissime lingue europee sono “imparentate” fra loro: viene difatti definito il ceppo
indoeuropeo. I filologi si concentrano su alcune lingue, per capire come siano nate e come si siano poi
“distaccate” dalle altre. Ciò può essere fatto attraverso l’analisi dei testi antichi, che dunque dovevano
essere fruibili; molti studi, inoltre, riguardavano le dinamiche politico-belliche fra i paesi.
Le tecniche filologiche più antiquate studiavano senz’alcun spirito critico tutte le fonti, magari dando
credito anche ad alcuni materiali poco affidabili.
Dall’Ottocento in poi, invece, le fonti disponibili diventano aperte a tutti, e su di esse viene applicato il
metodo critico per individuare le info più autentiche. In tutti i casi si cercava di andare a ritroso nel tempo,
così da capire le correlazioni fra le lingue moderne e la “lingua primigenia” da cui sono derivate.
Il padre della filologia slava è Josef DOBROVSKY, già studioso della Bibbia. Fu lui a pubblicare nel 1822 la
prima grammatica della lingua slava in latino, così che diventasse accessibile a tutti gli studiosi. Quest’opera
fu possibile grazie all’analisi di molti manoscritti di una lingua fino a quel momento sconosciuta; questo
studio:
 Da un lato era mirato a capire le relazioni presenti e pregresse fra le lingue slave,
 Dall’altro voleva seguire a ritroso la storia di queste lingue.
L’approccio seguito nello studio delle lingue slave si concentrava sull’aspetto:
1. STORICO
2. LINGUISTICO
3. TESTUALE.
La sua opera offrì moltissimo materiale ai comparatisti, ossia i linguisti che, già nel 700, analizzavano le
coincidenze interlinguistiche e contemplavano la possibilità che tali linguaggi derivassero uno stesso ceppo.

Il vero punto di svolta fu il periodo del colonialismo verso l’Asia, in particolare verso il sub-continente
indiano, dove gli Europei scoprirono il sanscrito, linguaggio che presenta molte somiglianze con le lingue
europee. Con questa scoperta si intuì dunque un’arcana discendenza comune che coinvolgeva luoghi
geograficamente lontanissimi fra loro.
Già nel 1816 il tedesco BOPP aveva pubblicato un volume in cui teorizzava le interconnessioni fra i sistemi
verbali, analizzando latino, greco, sanscrito e avestico. Una volta appurata l’esistenza di una struttura
linguistica comune, Bopp intuisce quanto essa fosse radicata.
Definiamo innanzitutto:
LINGUA = CODICE stabilito da una comunità con un accordo implicito. Questo CODICE ha 4 livelli:
1. Fonetico 2. Morfologico 3. Sintassi 4. Comunicazione

DIALETTO = anche questo CODICE con 4 livelli. Nasce dall’allontanamento fra gruppi di persone. Inoltre:
 SENZA grammatica definita né stabilità (solitamente conferita da una grammatica precisa)
 SENZA ufficialità
 Molto più LOCALE.

Questa distinzione ci mostra come dalle interazioni di due livelli differenti possano nascere “codici”
diversi. Nell’arco di secoli e millenni, la MINIMA VARIAZIONE (di qualsiasi tipo: fonetico, sintattico, ecc.) va
a modificare la struttura stessa della lingua. In base al tipo di variazione distinguiamo:
 Con variazioni geografiche e sincroniche si identificano sottogruppi locali
 Con variazioni diacroniche si originano sottogruppi differenti nel tempo.
Proprio per questo si dice che la cosiddetta “lingua standard” corrisponda alla lingua SCRITTA; difatti, il
livello del parlato è molto più libero e suscettibile a cambiamenti.
Nei tempi passati, molte lingue non possedevano al proprio attivo grammatiche definite e scritte, perciò gli
studiosi di “grammatiche comparate” (l’attuale filologia) trovavano più difficile studiarle e analizzarle.
Bopp disponeva di fonti:
 greche del VIII secolo aC
 latine (VII-VI sec. aC)
 sanscrite (V sec aC)
 avèstiche (probabilmente V-VI sec aC)
dunque si trattava di fonti che andavano a coprire un periodo relativamente vicino al presente, perciò
risalire alle origini più arcaiche era molto arduo. Per questo, si dice che le “grammatiche comparate” non
sono discipline concluse.
Si delineavano dunque due problematiche:
1. ESPANSIONE CRONOLOGICA (già trattato)
2. FILIAZIONE e influenza DELLE LINGUE, ossia il riconoscimento incerto e indefinito del troncone principale
o di quelli periferici. Col tempo, si capì che queste “influenze” non fossero avvenute tramite lingue singole,
bensì attraverso vere famiglie linguistiche.

Negli anni successivi a Bopp, furono creati vari modelli, e tutti sostenevano che le lingue fossero partite da
un ceppo e, con le eventuali variazioni linguistiche e i riconoscimenti, fossero divenute ciò che conosciamo
ora. Fu a questo punto che giunse Dobrovsky, e la sua opera contribuì grandemente agli studi. Vene così
individuato il ceppo indogermanico, poi CEPPO INDOEUROPEO (così da accorpare il continente asiatico e
tutto il vecchio continente).
5 / 10 / 2017

L’Indoeuropeo NON è una vera lingua, perché non è scritta; ad ogni modo, è comunque formata da regole
precise.

Nel passato, le innovazioni linguistiche necessarie per la formazione e trasformazione di un canone


verificavano in un tempo molto lungo – questo a causa della lentezza dei mezzi di comunicazione di allora.
Parlare di una lingua/codice significa parlare di chi la parla; sotto un codice linguistico, infatti, si trova una
fitta rete di relazioni sociali e culturali. Il caso dell’indoeuropeo è particolare, poiché ci si va a riferire a
comunità molto estese e non compatte, vissute fra l’altro millenni prima di Cristo. Inoltre, queste comunità
mancavano di strutture sociali che altrimenti avrebbero contribuito a “consolidare” il codice (ruolo ora
svolto dalle scuole, ad esempio).
Non sappiamo con certezza dove si sia originato il codice indoeuropeo, ma con buone probabilità ha
iniziato a diffondersi dalla zona nord est del Mar Nero, a est degli Urali; sono state infatti rilevate le tracce
archeologiche di contatti fra le famiglie linguistiche indoeuropea, caucasica e semitica.

Bisogna ricordare che nella linguistica così come nella fisica nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si
trasforma. Da questo principio, gli studiosi hanno cercato di individuare la regolarità di questi mutamenti,
partendo dall’unità più piccola (o “primo luogo di mutamento”) del linguaggio: il SUONO e dunque i
MUTAMENTI FONETICI. Ciò è possibile tramite le ISOGLOSSE.

Metodi di rappresentazione delle relazioni linguistiche


Le isoglosse sono il metodo tutt’ora utilizzato. Sono linee sulle cartine che tracciano le zone
caratterizzate da una stessa peculiarità linguistica (come il mutamento di un fonema) e la
diffusione di quella stessa peculiarità.
Inizialmente, il metodo più semplice utilizzato per collocare e rappresentare le similarità e le
relazioni fra le lingue fu l’albero genealogico; tuttavia, questa modalità è troppo rigida per illustrare
i mutamenti linguistici.
Si fece dunque ricorso alla teoria delle onde: così come si riverberano le vibrazioni in onde
concentriche sempre maggiori quando lanciamo un sasso nell’acqua, così alla nascita di
un’innovazione linguistica essa si diffonde sempre più ampliamente e lentamente. Con questo
metodo più dinamico è possibile evidenziare anche i cambiamenti più inaspettati.

Alcuni di questi metodi sono stati introdotti nel Positivismo, epoca ci si proponeva di “leggere” il reale
tramite le leggi che lo governano, e così i linguisti del tempo si affidavano a principi troppo rigidi,
ridimensionando il decisivo “fattore arbitrio umano” del linguaggio. Da questo si evince quanto un
mutamento non sia mai una legge fissa.

Differenziazione delle sottofamiglie linguistiche indoeuropee


 Spesso l’archeologia ha apportato grandi contributi alle scienze linguistiche. Grazie a vari
rinvenimenti, si è fatto risalire (in modo approssimativo e orientativo) l’uso dell’indoeuropeo al VII
millennio aC. Si è inoltre definita, attraverso i caratteri cuneiformi rinvenuti su alcune tavolette, la
sottofamiglia linguistica anatolica. In questa famiglia, si sono distinti gli strati:
 Lùvio
 Ittita
Da cui si sono formati i dialetti:
o Ìdio
 Negli scavi del 900 al Palazzo di Cnosso sono stati rinvenuti alcuni reperti che rivelano la lingua
“Lineare B” e un altro tipo linguistico sviluppatosi fra 1300 e 1500 aC: il grecomiceneo.

 Rinvenuti i primi scritti ayurvedi, si riuscì a incasellare il sanscrito nell’avestico. Nel nord Afghanistan
vennero poi individuati tre gruppi grazie agli scritti epigrafici (per lo più incisioni tombali):
 Huristano
 Iranico
 Indiano
Questi gruppi sarebbero entrati in contatto con moltissime altre famiglie linguistiche, e ciò ci fa
capire perché l’influenza indoeuropea sull’Asia sia stata meno forte che in Europa.
 Una fonte di conoscenza sul ramo germanico è rappresentata dalla traduzione della Bibbia in
Gotico, risalente al IV secolo (ad ogni modo si tratta solo di alcuni stralci).
 La famiglia linguistica celtica viene invece fatta risalire all’VIII secolo. Essa è nota grazie agli storici
latini e alle comparazioni linguistiche effettuate. Questa famiglia è stata per così dire in larga parte
“bandita”, perché soppiantata dal latino; comunque, ha resistito nelle isole britanniche.
 Per quanto riguarda le lingue baltiche, sono state reperite fonti del XII secolo dC.
 Dell’albanese abbiamo fonti sporadiche di fine XIII secolo.
 Le attestazioni delle lingue balcaniche (tracio, macedone, frigio e illirico) sono addirittura troppo
sporadiche per definire un periodo temporale.
Nel momento in cui, in seguito a tutti i vari spostamenti e migrazioni si erano formati tutti questi dialetti e
isoglosse, le differenze dal ceppo originario erano ormai incolmabili, perciò in quel punto viene identificata
la NASCITA DI UNA LINGUA. In ognuna di queste evoluzioni ci sono comunque dei punti di riferimento.
Le lingue slave sono molto più simili fra loro (maggior grado di intelligibilità) che le lingue romanze.
Nell’indoeuropeo troviamo quattro classi di fonemi:
VOCALI (prodotte con la sola vibrazione delle corde vocali)
CONSONANTI, articolate muovendo varie parti dell’organo fonatorio e (non sempre) dalla
vibrazione delle corde vocali. Sono meno sonore delle vocali e si dividono in sorde e sonore.
OSTRUENTI, particolari consonanti che si dividono in:
o Sibilanti [ s , z ]
o Occlusive, indicate da “ T “ e distinguibili grazie a:
 Se CON fiato (SONORO), SENZA fiato (SORDO) o CON ASPIRAZIONE (SONORO
ASPIRATO), queste ultime perse quasi subito nell’evoluzione della lingua tramite
processo di semplificazione. Esempio: [b] sonora, [p] sorda, [bh] aspirata.
 Al punto di articolazione fra i cinque possibili:
1. Labbra → Labiali [b] , [p] , [bh]
2. Alveoli e denti → (Alveo)dentali [d] , [t] , [dh]
3. Palatali [g’] , [k’] , [gh] / [g˜] , [k˜] , [g˜h]
4. Velo palatino → Velàri [g] , [k] , [gh]
5. Base velàre, trascinamento labiale → Labiovelàre [gw] , [kw] , [gwh]

Col tempo, alcune lingue hanno semplificato il tutto accorpando palatali e velari e facendo prevalere
queste ultime ( [k’] + [k] = k ). Queste lingue seguono il modello Kentum (la parola latina centum
rappresenta un esempio di tale accorpamento). Questo modello è stato identificato grazie ad alcuni
rinvenimenti nel Turkmenistan, in Asia entrale.

Altre lingue come il sanscrito, invece, hanno creato il modello Satem (cento in sanscrito) accorpando
labiovelari e velari. Queste ultime si sono dapprima imposte, per poi sibilarizzarsi ( [k] + [kw] = k → s). A
questo modello appartengono tutte le lingue slave.
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Nella lingua indoeuropea sono state indentificate varie classi di fonemi: consonanti, vocali e ostruenti (a
loro volta divisibili in sibilanti e occlusive). Un primo discrimine è nato col mutamento Satem e Kentum; un
secondo cambiamento è avvenuto quando, nel corso dei millenni, è andato semplificandosi il sistema
triseriale di sorde, sonore e sonore aspirate, eliminando queste ultime (anche se sono ancora rintracciabili
in alcune lingue come il greco e il sanscrito). La lingua ha presentato, per un certo periodo, una situazione
piuttosto instabile, con uno squilibrio nella quantità di sibilanti e occlusive; addirittura, secondo alcuni
studiosi, l’indoeuropeo contava una sola sibilante, la /s/. Questo in un certo qual modo è andato ad
anticipare la perdita progressiva nei secoli delle sonore aspirate. La traccia lasciata da queste consonanti
ormai perdute si trova nel greco antico, nelle lingue luvie e nel sanscrito. Ad ogni modo, quest’ultima
variazione rimane sempre e comunque nell’ambito delle ipotesi, così come molte altre isoglosse delle
lingue indoeuropee che non riusciamo a spiegare completamente (altro esempio, la rotazione consonantica
germanica).
Per analizzare i gruppi di fonemi, siamo partiti da meno sonori. Salendo di grado in sonorità, troviamo le
LARINGALI (“ H “). Di questi fonemi non abbiamo alcuna traccia di significato fonetico (non sappiamo né
sapremo mai come fossero pronunciate). Le laringali costituiscono una classe di fonemi semi-vocalici, la
prima classe di fonemi a scomparire dall’indoeuropeo; la loro esistenza è stata individuata solo molto di
recente, per poter spiegare il fenomeno del vocalismo.
Per molto tempo, si è ritenuto che appartenesse a questa categoria solo la schwa, ma col tempo ci si è
accorti che in realtà esistevano suoni semi-vocalici analoghi. Prima si è utilizzata una ripartizione
matematica (“schwa primum” e “schwa secondum”), poi si è passati a definire un‘intera classe di fonemi
che, in certe stringhe di linguaggio, hanno prodotto delle trasformazioni. Non potendo sapere come queste
semi-vocali andassero pronunciate, vengono indicate così:

h1 h2 h3

Le laringali sono scomparse perché sono state soggette a trasformazioni talmente profonde da divenire
irrintracciabili nella storia della lingua.
 Le h1 sono cadute, ossia sono scomparse, facendo allungare per compensazione la vocale
precedente. Ne è derivato un profondo mutamento di tutte le vocali contenute nel sistema
linguistico.
 Le h2 e h3 sono invece andate incontro al fenomeno di colorazione. Con questo fenomeno, la
laringale viene assorbita, andando a modificare la vocale vicina. In particolare, se la laringale si
trovava vicino a una e, questa si modifica in a oppure o. Anche tutto questo ha una conseguenza
nell’ultimo periodo, comportando un fortissimo aumento delle a e delle o nel sistema linguistico.

Salendo ulteriormente di sonorità, troviamo le SONORANTI o SONANTI (“ R “). Posseggono uno status
intermedio fra suoni vocalici e suoni consonantici e possono essere chiamate anche semi-vocali o semi-
consonanti. Possono avere vari punti di articolazione:
/r/ , /l/ = ciò che chiamiamo consonanti molli
/m/ , /n/ = nasali
“jod” e “vav” [w] = furtive (la durata della loro pronuncia è estremamente rapida).
- Questi suoni possono trovarsi in una determinata stringa sia in qualità che di consonanti che di vocali.
- Inoltre, possono unirsi a vocali di timbro chiaro per formare dei dittonghi.
- Queste sonanti hanno gradualmente accettato al proprio fianco una vocale “d’appoggio” nella
pronuncia; dunque, nelle diverse lingue, troveremo varie vocali d’accompagnamento a queste sonanti.
Es: il serbocroato prst, poi perst
- Con le nasali, la questione è più complicata. Dalla /n/, scritta ci si appoggia sempre più al suono
vocalico /a/, fino alla creazione dell’attuale “a privativa” nel greco antico, tramandatasi fino ai giorni
nostri.
n > a-
> in-

In cima alla classificazione per sonorità troviamo le VOCALI (“ V “). Il sistema vocalico indoeuropeo parte da
una vocale mediana, la /a/, con la /e/ e la /o/ più dietro, e più in fondo le vocali alte /i/ e /u/. Questa
disposizione costituisce il triangolo vocale.
Inoltre, l’indoeuropeo è una lingua con opposizione di lunghezza; ciò
significa che fa distinzione di lunghezza vocalica. Una vocale è indicata
come breve con un cappelletto (es: ă), come lunga da una lineetta (es: a ̅).
Questa grande importanza riservata ai suoni vocalici, combinata alla
scomparsa delle laringali, causa un’abbondanza di fonemi a̅ e o̅. Questa
rappresentava una situazione molto instabile, e col tempo i parlanti hanno
cercato di “ribilanciare” il tutto, in cerca della simmetria originaria.
Si è originato così il rettangolo vocalico, formato da /a/, /e/, /i/ e /o/. La /u/ è andata così incontro a varie
trasformazioni, assumendo uno status particolare, tanto che in molte lingue viene e veniva scritta in vari
modi. Le vocali contenute nel rettangolo possono unirsi alle sonanti, per formare dittonghi, ossia coppie di
fonemi indivisibili (es: ar, al, am, an, aj, aw, er, el, em, en, ej, ew,…). Anche questi dittonghi subiscono in
seguito un’isoglossa: per processo di semplificazione, vengono monottongati, creando nuovi suoni singoli e
distinti dai singoli fonemi che formavano il dittongo originario.
Al fine di analizzare al meglio tutte queste variazioni, è di grande importanza stabilire quale sia stato il
centro di irradiazione della lingua indoeuropea: sicuramente lo spostamento dei parlanti ha causato delle
variazioni e alle varie lingue parlate tutt’oggi. Nonostante i vari sforzi effettuati per individuare il punto
d’origine, al giorno d’oggi non si è ancora arrivati a un dato concreto, a causa della mancanza di fonti e
testimonianze a tal proposito. Una delle ipotesi più verisimili si concentra sulla zona pianeggiante nord, fra
Mar Nero e Mar Caspio. Per poter risalire a questo luogo primigenio, si è originariamente fatto ricorso a un
metodo lessicalistico, vale a dire analizzare i lessemi, i termini della lingua per vedere ciò che vi è contenuto
(e dunque era conosciuto dai parlanti) e ciò che invece mancava. Nell’indoeuropeo troviamo molte radici
per indicare le acque interne, ma solo una per indicare le acque aperte; si è dunque ipotizzato a un
territorio ricco di laghi, fiumi, acquitrini, situato a distanza dal mare. Inoltre, scarseggiano i termini per
distinguere la pianura da terreni montuosi, e si è dunque immaginato un terreno poco coltivabile. Ad ogni
modo seguendo questo metodo, sono sorte inoltre la “questione del faggio” e la “questione del salmone”:
ricercando termini che indicassero la vegetazione e la fauna del territorio abitato dagli indoeuropei, ci si è
imbattuti in radici linguistiche dal dubbio significato, che hanno dato origine a termini con significati
differenti. Dunque questo metodo lessicalistico non sempre si rivela attendibile, anche perché è stata
rinvenuta anche la radice i.e. per il termine leone, e questo, seguendo il ragionamento, potrebbe indicare
che gli i.e. vivessero a contatto coi leoni. Un altro metodo da utilizzare può essere quello testuale: il
tentativo di collocare i materiali linguistici rinvenuti in fonti, in realtà, piuttosto tardive ed eterogenee.
Questo metodo ha prodotto grandi risultati fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, ed è collegato
al nome dello studioso GEORGE DUMEZIL. Le sue ricerche hanno tentato di ricostruire la struttura sociale
degli indoeuropei, intuendo che si dividesse in tre funzioni: sacra (ciò che non può essere governato e
viene attribuito alla sfera del sovrannaturale), guerriera, produttiva (legata all’agricoltura, la caccia,
eccetera). Dumezil arrivò a questa struttura tripartita grazie a vari elementi: i primi re di Roma, ad
esempio, simboleggiano la funzione produttiva (Romolo), quella sacrale (Numa) e quella guerriera (Tullio
Ostilio). Una volta riconosciuta questa nuova ottica, tanti altri fenomeni sono diventati spiegabili e
comprensibili.
Un movimento centrifugo ha fatto sì che, da una comunità linguistica unitaria, si siano originate varie
isoglosse. Col tempo, si è rilevato, per il tipo e la cronologia delle isoglosse, che il sottogruppo lùvio sia stato
forse il primo a distaccarsi dal ceppo i.e.. Inoltre, analizzando le varie rotte seguite e dunque le isoglosse
generatesi, si può intuire quali gruppi abbiano convissuto più a lungo.
12-10-17: LE ORIGINI DELLO SLAVO

(Spesso le fonti di cui ci si è avvalsi nel corso degli studi filologici sono relativamente o poco attendibili, e
perciò i dati, così come la terminologia impiegata, vengono ritrattati man mano che gli studi procedono.)
Sappiamo che gli studi dell’Indoeuropeo rimandano a una lingua usata e parlata migliaia di anni fa,
grossomodo intorno al VII millennio avanti Cristo. Questa lingua è stata a lungo utilizzata da una comunità
compatta, residente nello spazio alla zona fra gli Urali e i due mari (Nero e Caspio), finché questo gruppo,
per varie possibili ragioni (ricerca di nuovi territori, movimenti migratori di altri popoli), ha cominciato ad
allontanarsi e a spostarsi. Ci sono stati movimenti verso l’estremo oriente (India), verso l’Anatolia e verso il
territorio europeo, sino alle coste atlantiche.
Proprio di queste popolazioni che si sono spinte verso l’Europa abbiamo molte informazioni, grazie non a
fonti dirette (dei popoli stessi), ma di chi già risiedeva in quelle zone e subì gli effetti di tale migrazione. Fra
le fonti indirette abbiamo molti scrittori latini, fra cui Tacito, e forniscono dati solitamente piuttosto
attendibili.
Al giorno d’oggi, anche la linguistica slava è abbastanza progredita da fornirci un quadro cronologico;
tuttavia la datazione precisa dei fenomeni che la riguardano rimane molto difficile, a causa della mancanza
di prove scritte tramandateci.

VII millennio aC IV millennio a.C / GRUPPO


SLAVO-BALTICO

ZONA GRIGIA

Della “zona grigia” abbiamo poche notizie, ma molto probabilmente in quel lasso di tempo i gruppi slavi
hanno condiviso alcune isoglosse con gli altri popoli con cui sono entrati in contatto. In particolare, è stato
notato che gli Slavi condividono molte isoglosse antiche con i BALTICI. Sorgeva dunque un problema: se le
prime testimonianze scritte dello Slavo risalgono al IX secolo, il più antico esemplare di lingua baltica scritta
risale alla metà del XIV secolo. Ciononostante, la convergenza era comunque evidente, venne dunque
ipotizzata dagli studiosi una fase baltoslava, ossia un passaggio di evoluzione comune a entrambi i ceppi.
Dopo ulteriori analisi più circostanziate, si capì che questa teoria era troppo rigida per spiegare tutti i
passaggi intermedi, e l’idea di un baltoslavo iniziò a essere abbandonata. Con gli anni si sono create due
scuole di pensiero, una sostenitrice della teoria balto-slava, e una contraria. Nonostante all’apparenza si
tratti di eventi obsoleti, accaduti in epoche a noi remote, la loro interpretazione continua a suscitare
infuocati dibattiti, perché da questa o da quella teoria traiamo varie prospettive che spiegano alla lunga
anche il nostro presente. Queste dispute vanno sempre guardate con un occhio complessivo agli studi, e
con la scoperta e il perfezionamento della teoria delle laringali, è stato notato che si è effettivamente
verificato uno sviluppo comune delle stesse laringali fra Slavi e Baltici. Ammettendo dunque che queste due
famiglie linguistiche abbiano convissuto a lungo, possiamo capire a fondo sia le similarità che le differenze
insorte nel periodo successivo alla separazione.

Sono state indentificate, grosso modo, quattro fasi dello sviluppo della lingua slava.
1. I “futuri Slavi” prendono le mosse dal gruppo indoeuropeo
2. Condividono alcune isoglosse con altri gruppi, creando il Protoslavo
3. A pochi secoli dall’età volgare (dall’anno 0) si verifica un’innovazione fonetica estremamente
radicale, tanto da mutare lo sviluppo successivo della lingua. Questo cambiamento è lo stesso per
cui le lingue slave moderne si sono evolute come le conosciamo ai giorni nostri.
0 IX sec. dC.
fenomeno X
fase 1 / fase 2

4. Fase più recente, dal IX secolo dopo Cristo : Evoluzione delle forme scritte.

Queste quattro fasi possono essere anche accorpate a due a due così da ottenere due fasi principali:
 Epoca antica: Il “futuro Slavo” che si allontana dalla lingua indoeuropea
 Epoca più recente: Il Protoslavo che, dopo il punto di svolta, si avvia verso la creazione delle forme
scritte.
Gli studi più importanti per la ricostruzione della storia i.e. sono stati compiuti per lo più nel Novecento, in
Germania; da qui il largo impiego di terminologia tedesca nella branca indoeuropeista. Per questo, per
indicare i primi stadi evolutivi dello Slavo si parlava di Urslavisch, a cui si sono trovati un corrispettivo russo
(Праславянский) e due italiani (Protoslavo o Paleoslavo).
Fra il secolo II e I avanti Cristo, è seguita un’altra fase per così dire mediana della lingua, difficile da definirsi,
che potremmo etichettare come Slavo comune. Questo codice linguistico rappresenta l’evoluzione del
protoslavo e riunisce sia isoglosse comuni che cambiamenti diversi fra loro. Da questo Sl. Com. comincia a
nascere il germoglio di quel che sarà il “fenomeno x”.
Nel passaggio dall’i.e. al protoslavo sono avvenute alcune semplificazioni:
 Scomparsa delle occlusive sonore aspirate
 Accorpamento fra palatali e velari e dunque nascita del discrimine Kentum/Satem
 Mutamento Р.У.К.И. : [IV millennio a.C.] quando la sibilante /s/ si trova nella stringa adiacente a
Р/У/К/И, sviluppa l’allofono /ʃ/, che per fonologizzazione darà poi origine al fonema velare /x/ (ch).
 Colorazione delle due laringali h2 e h3, che produrranno una grande quantità di fonemi /a/.
 Caduta delle h1.
Fra questi fenomeni, alcuni sono comuni al Protoslavo e alle lingue Baltiche (da ciò è sorta la diatriba sulla
questione slavo-baltica): l’esito Satem e la scomparsa delle aspirate.
Nel passaggio da i.e. a protoslavo inoltre:
 si conservano le sonanti (/m/, /n/, jod e vav), e parallelamente si attua uno sviluppo delle vocali
d’appoggio, assumendo sempre più la forma di /ĭ/ e /ŭ/. Non ci è dato sapere in quali casi, né per
quali motivi si siano sviluppati questi due suoni.
 Sull’onda lunga della colorazione delle laringali, abbiamo uno sbilanciamento del triangolo vocale
sulla /a/.
 A causa di una marcata semplificazione delle desinenze, il modo verbale i.e. “ottativo” (usato per
esprimere ordini e desideri) scompare. Per sopperire a questa cancellazione, viene creata un’altra
serie di desinenze.
Alla fine di tutti questi cambiamenti è evidente che il protoslavo sia diventato estremamente diverso
dall’indoeuropeo. Questi mutamenti fonetici si sono avviati grazie a vari spostamenti; va anche considerato
però che le comunità paleoslave non si sono mai allontanate molto dal centro di diramazione i.e., e difatti si
è verificata una generale conservazione dell’impianto linguistico originale.
Col tempo, sono state sviluppate tre teorie sul luogo d’origine del protoslavo:
1º. Poco più a ovest della proto-patria indoeuropea, alla confluenza dei grandi fiumi, salendo a nord
dei Carpazi (fra le attuali Ucraina, Slovacchia e Polonia meridionale)
2º. Verso il litorale del Mar Nero
3º. Oltre il fiume Elba (che scorre nell’attuale Germania)
Siamo nel II millennio a.C. Nella penisola illirica sono sorte molte civiltà, come la minoica, la greca antica, la
macedone, mentre nella penisola italiana troviamo una realtà politica già molto forte, ossia l’Impero
Romano. Intanto, dall’Asia, si sta avviando un enorme movimento migratorio, che inevitabilmente sfocerà
in Europa e andrà a collidere con il territorio dell’Impero Romano: le invasioni barbariche. Una cosa
accomuna tutti questi popoli e civiltà: nessuno ha ormai più la consapevolezza di discendere da uno stesso
ceppo etnico-linguistico primigenio.
Per chi non presenta tratti somatici tipici o evidenti (come la pelle scura e gli occhi a mandorla), il
riconoscimento immediato passa attraverso la lingua. Già nella Bibbia (più precisamente nell’Antico
Testamento), ma anche in molti altri testi antichi, le idee di lingua e popolo sono interscambiabili e posti
sullo stesso livello. Nel corso dei secoli, la civiltà europea ha iniziato a deviare da questa concezione, finché
nell’Ottocento, con la nascita degli Imperi multinazionali, insorge il principio di autodeterminazione, e
dunque l’idea che fondamento della Nazione sia la lingua: gli “Stati-nazione” devono appartenere alle
singole comunità, distinguibili fra loro grazie alla lingua che parlano. Bisogna essere tuttavia consapevoli
che non sempre l’idea molto recente di coincidenza fra Stato e nazione può realizzarsi: una comunità cresce
e si definisce man mano che la lingua cambia, anche grazie al contatto e alla vicinanza con altri. Più spesso
si realizza il concetto di tribù [corrispondenza slava: плѐме]: situazione sociopolitica non marcata da confini
o sistemi burocratici tipici di uno Stato, e dunque un gruppo di persone che hanno deciso di obbedire a uno
stesso capo, spesso coadiuvato da consiglieri o anziani. Non sempre tutti i membri di una stessa tribù
parlano la stessa lingua.
18 / 10 / 2017

Nella formazione della protolingua slava: 3 FASI


1) [III-IV millennio a.C.] Mutamento strutturale e distanziamento dall’i.e. (Protoslavo)
2) [II sec. a.C.] Inizio fase migratoria e formazione isoglosse locali (Slavo comune)
3) Esaurimento fase migratoria, insediamento su ampi territori e quindi differenziazione di vari dialetti.
A segnare da spartiacque fra le prime due fasi è l’avvio del processo di standardizzazione di una fra le
differenti varianti dialettali originatesi. Questo è probabilmente avvenuto a causa di dinamiche sociali
“accelerate”, e alla lunga sono sorte variazioni dialettali tali da assumere un certo peso nei modi
d’espressione dei parlanti.
Intorno al III-IV millennio a.C. è avvenuto il distacco dall’indoeuropeo del protoslavo. Questa nuova lingua si
è mantenuta piuttosto invariata per un periodo piuttosto lungo, fino a pochi secoli prima dell’era volgare, in
cui un moto migratorio con enormi ripercussioni a livello storico europeo si è scatenayo: le invasioni
barbariche. Come già detto, le cosiddette invasioni barbariche hanno avuto un grande impatto sulla lingua.
Le loro strutture politiche erano decisamente più effimere rispetto agli standard dell’Impero Romano,
formazione politica dello stesso periodo. Le cosiddette tribù slave erano organizzate sì politicamente, ma
con modalità estremamente particolari.
All’interno di queste tribù, non tutti dovevano necessariamente parlare la stessa lingua, anzi persino il capo
tribù poteva esprimersi in modo diverso da chi egli comandava. La popolazione parlava per lo più una o più
lingue slave, e basava il proprio gruppo su un accordo politico, con cui aveva concesso a un capo e a un
consiglio di anziani il potere. I vari popoli uniti si riconoscevano dunque alleati e uniti in una
confederazione; per comunicare utilizzavano una lingua comune (il Protoslavo). Questa lingua non si
avvaleva di un sistema di scrittura, ed era per questo molto suscettibile a cambiamenti. Inoltre, i parlanti
vivevano all’interno di una regione dai confini molto variabili, anche e soprattutto quando si verificavano
delle fasi migratorie, quando cioè la realtà linguistica preesistente (substrato) entrava in contatto con altre
realtà culturali e popolazioni (abstrato). Questi fattori hanno catalizzato il processo di trasformazione
linguistica. Ad un certo punto però, la migrazione rallenta tanto da fermarsi progressivamente.
Le fonti che abbiamo su questi eventi provengono dal mondo classico e latino, e spesso capitava di
imbattersi in testimonianze discordanti fra loro. Poteva verificarsi che, mentre uno storico stilava un elenco
di 10 popolazioni slave, un suo contemporaneo ne enumerasse invece 8. Ad esempio, è un mistero tutt’oggi
su quale sia stata la sorte degli Avari, improvvisamente scomparsi da ogni testimonianza. Non è detto che
queste tribù siano scomparse a causa di guerre o catastrofi; più verosimilmente, poteva accadere che, a
insaputa di qualche storico, alcune tribù avessero stipulato degli accordi, assimilandosi l’una con l’altra.
Si delinea ora una terza fase dello sviluppo della protolingua. Le popolazioni si sono ormai stanziate in un
territorio molto ampio, e il cosiddetto Slavo comune inizia a differenziarsi in tanti dialetti. Le nuove
formazioni politiche che si creano sono molto simili a quelle antecedenti: un capo, un consiglio, eccetera.
Tuttavia, entrando in contatto con una realtà altamente civilizzata come quella Romana, le popolazioni
appena arrivate realizzano quanto sia necessaria, per la costruzione di uno Stato efficiente e centralizzato,
la formazione della SCRITTURA.
Un altro elemento che distingueva i Romani dagli Slavi era l’adesione alla religione cristiana. Fra il VI e il VII
secolo d.C. il popolo Romano era ormai completamente cristianizzato, e anche fra le file delle tribù slave
erano presenti molti aderenti al cristianesimo. Una volta avvenuto dunque il passaggio alla religione
cristiana, i praticanti necessitavano di conoscere i dettami e la liturgia della nuova dottrina; s’imponeva
dunque l’obbligo di creare un codice scritto comune. Questa lingua andò formandosi man mano che i vari
testi liturgici vennero tradotti e fu in seguito ribattezzata Slavo Ecclesiastico.

Il cambiamento strutturale più profondo fra Protoslavo e Slavo Comune è la tendenza alla sillaba aperta.
 sillaba aperta o a sonorità crescente : termina per vocale, e dunque col massimo grado di sonorità.
[combinazione: CV (consonante + vocale)]
 sillabe chiuse : terminano per consonante [ VC ]
I parlanti del protoslavo iniziano a mostrare una generale preferenza per le sillabe aperte e per le parole
che finiscono in vocale. Questa variazione inizialmente si espresse unicamente a livello fonetico, ma in un
sistema linguistico che si avvale dei casi, togliere le desinenze significa inevitabilmente avere ripercussioni
su tutta la grammatica. La portata di tale tendenza fu radicale, tanto che i parlanti la applicarono anche per
le sillabe all’interno delle parole; il cambiamento, inoltre, fu molto lungo, e andò a coprire un periodo di
tempo molto esteso. Una volta stabilizzatesi tutte le sonorità, avvengono due fenomeni importanti.

Ci sono stati vari risvolti in base alla diversità della consonante.


1. Per “aprire” le sillabe finali, spesso veniva aggiunto una sillaba come suffisso. Nel momento in cui con
questo suffisso andavano a crearsi delle consonanti doppie o germinate, data la scarsa rilevanza fonologica
che possedevano presso il protoslavo, si attuava una semplificazione ( = scempio delle germinate).
2. Sono stati semplificati anche i nessi consonantici, attuando uno spostamento del confine di sillaba e
magari un agglutinamento di consonanti ( es.: bam/bi/no > ba/mbi/no ). Si cerca dunque di accostare
consonanti da pronunciare con la stessa parte dell’organo fonatorio. Questa tendenza di portare armonia
all’interno della sillaba crea SINARMONISMO SILLABICO.
Si crea dunque una distinzione netta fra vocali anteriori e
posteriori in base alla parte dell’organo fonatorio coinvolta
nella pronuncia. Questo fatto si può constatare in molte
lingue slave tutt’oggi.
I. Le due furtive jod [j] e vav [w], nella loro funzione
semivocalica, sono agli estremi del triangolo
vocalico.
II. [a] rappresenta il fonema mediano.

Oltre al sinarmonismo, si è verificata la prima rotazione


(“mutamento”) vocalica. Come visto in precedenza, il
protoslavo presentava la tendenza a trasformare
l’opposizione di lunghezza nelle vocali in un’opposizione di
timbro: su questa linea, tutti i fonemi lunghi /o̅/ e /a̅/ si trasformano in /a̅/. Parallelamente, la vocale /u̅/
subisce un avanzamento, diventando da posteriore a mediana (lunga). La risultante “i mediana” /ɨ/ (o /ɪː/)
rappresenta l’antenato di Ы.

Per quanto riguarda le consonanti, sappiamo che la maggior parte di esse, per essere pronunciate,
necessita di una vocale d’appoggio. Fanno eccezione le velari, che coinvolgono il velo palatino, alla chiusura
della cavità orale: [k, g, h].Un ulteriore fenomeno che si verifica a monte della prima rotazione è il
progressivo rilassamento delle vocali tese o alte (/ŭ/, /ĭ/), caratterizzate da una scarsa sonorità.

PRIMA ROT. VOCALICA: 1. /o̅/ , /a̅/ >(fusione)> /a̅/


2. /u ̅ / >(avanzamento)> /ɨ/
3. /ŭ/, /ĭ/ > (rilassamento)

Una volta conclusasi la prima rotazione, ha avuto modo di verificarsi uno scivolamento: la prima
palatalizzazione delle velari. Nelle sillabi in cui una velare precedeva una vocale anteriore (o jod), la
consonante viene fatta “scivolare”, pronunciandola nella stessa parte del cavo orale con cui si esplicita la
Vant.

Cvel + Vant [/e/, /i/, (/j/ in funzione semi-vocalica)] -----> K > Č


G > Ž
H > Š
Nascono tre nuove consonanti, con una certa variabilità da una lingua locale all’altra.
19 / 10 / 2017
La terza variazione da Protoslavo a Slavo Comune riguarda il sistema vocalico. Nel Protoslavo esistevano tre
tipi di dittonghi: vocale+nasale, vocale+sonante e vocale+jod/vav. Benché il loro secondo elemento fosse un
fonema di statuto intermedio, per i parlanti costituiva comunque una chiusura
V+N di sillaba. A monte della tendenza alla sillaba aperta, e del fatto che è
V+R impossibile separare i due elementi di un dittongo, si tentò di integrare le due
V + j/w parti della sillaba in un unico suono per via di una MONOTTONGAZIONE
(unificazione).

 I dittonghi con furtiva, in particolare quelli con vav, si sono dissolti più facilmente: il prolungamento
della “u” è stato assorbito dalla vocale. Questo si riflette anche nello statuto particolare che la u ha assunto
negli sviluppi successivi, venendo rappresentata con doppio grafema (segno doppio per la u: [ɡɠ] ; segno
per la ɨ: [ɡɕ]).

I dittonghi con jod (aj, oj, ej, …) invece sono stati soggetti a un destino
più complesso, e ha dato origine a più variazioni dialettali all’interno
della lingua standard, facendo pensare a un processo avvenuto con
modalità, tappe e luoghi differenti. Il risultato comune di questi
dittonghi sarà una vocale lunga, molto anteriore, con spostamento in
avanti dell’attacco in “jod” o iotizzato e suono vocalico molto aperto
e intermedio (monottongato) fra a ed e. Questa vocale lunga
risultante prende nome di “iàt” nell’alfabeto antico, e rappresenta
l’antenato di Ҍ.

aj
ej voc. lunga = jod anteposto + [ä]  jä (“Yàt”)  [Ҍ]
oj
II
Una volta stabilizzata questa nuova vocale, si determina una coesistenza fra la Yàt e le
consonanti velari, da cui si innesca una nuova trasformazione. La SECONDA K > C
PALATALIZZAZIONE va dunque a coinvolgere le velari, che dall’incontro con lo iàt dà origine G > Z
a tre nuove consonanti. H > S

V + Nasali 1^fase 2^ fase  Per quanto riguarda i dittonghi V+N, la monottongazione


am / an an ha portato alla fusione della coda nasale, dando origine
om / on on on a un elemento nasale non ben precisato né definito da
um / un un indicare con l’esponente n.
em / en en In una seconda fase, è avvenuto un accorpamento su base
en vocalica (una fusione fra le vocali) tale che fra le anteriori /a/,
im / in in
/o/ e /u/ ha prevalso /o/, mentre fra le posteriori ha prevalso
/e/.
Qualcuno ha ipotizzato che ci sia stata una fase “mediana”, in cui fra le anteriori erano prevalse sia la /a/
che la /o/ (anche qui la /u/ mostra una condizione speciale). Abbiamo testimonianza di questi cambiamenti
nell’alveo dello Slavo Comune grazie all’alfabeto slavo, creato nell’ 862-863 d.C.

Le due vocali così originatesi, /o n/ ed /en/ non costituiscono più dei dittonghi, bensì dei suoni vocalici a
risonanza nasale. Questi nuovi suoni non sono del tutto stabili e subiranno ulteriori cambiamenti nell’XI
secolo; la cronologia di questi mutamenti è molto nebulosa.

 Lo sviluppo dei dittonghi in liquida non è altrettanto uniforme, poiché molto dipendeva dalla
posizione che assumevano all’interno della parola: si distinguono dittonghi ORT (o OLT),
r̥ / rv / vr
all’inizio di parola, e TORT(/TOLT), in mezzo ad altre sillabe [O = vocale, R/L = liquida, T =
altre sillabe]. Questo tipo di dittonghi ha avuto vita più lunga degli altri perché R e L sono l ̥ / lv / v l
le consonanti più sonore di tutte, tanto che, come sappiamo, costituivano classe a sé stante e si avvalevano
di una vocale d’appoggio, posta prima o dopo.

Per risolvere il problema della chiusura della sillaba, si delineano due fasi distinte.
La prima fase rappresenta uno spostamento o metàtesi della liquida nella parola. È interessante che, per
tutta la durata del processo, le sonanti si siano mantenute sostanzialmente intatte e distinte, mentre le due
V+R 1^ fase (METATESI) vocali di base /o/ e /a/ si sono fuse, dando origine a tre distinti esiti
ORT ROT dialettali:
TORT TROT 1) convergenza nell’elemento dialettale /a/
ART RAT 2) conservazione della sola vocale /o/
TART TRAT 3) raddoppiamento della vocale /o/, prima e dopo la liquida; questo
fenomeno rappresenta una PLEOFONIA o rindondanza dell’elemento
ERT RET
vocalico. Questo ultimo esito è stato spiegato da Václav MAREŠ. Mareš
TERT TRET
ha ipotizzato che i parlanti, in seguito alla metatesi, hanno diviso in due
parti la vocale piena originaria, creando due suoni semi-vocalici (due vocali dal valore prosodico dimezzato)
per dare appoggio, sia prima che dopo alla liquida. Col tempo, i parlanti hanno iniziato ad allungare sempre
più queste mezze vocali, conferendo loro pieno valore prosodico.

TORT  TROT
1
 T0,5ORO0,5T  TOROT

Questa molteplicità di esiti si spiega in base alla natura del fonema consonantico: le sonanti, infatti, sono le
più vicine e simili alle vocali.

Al termine di queste trasformazioni, si verifica una TERZA PALATALIZZAZIONE. Questo scivolamento


coinvolge le velari, ma è differente perché le ha modificate nel momento in cui queste velari si trovavano
nella sillaba adiacente alle vocali anteriori (/e/, /i/). Gli esiti sono gli stessi della II Palatalizzazione: la
creazione di C, Z e S; le cause scatenanti, tuttavia, sono ben diverse.

La furtiva jod, in apertura di sillaba, è stata liquidata in modo diverso. In alcuni contesti è semplicemente
caduta, in altri è stata inglobata, in altri ancora ha causato una palatalizzazione delle dentali (/t/, /d/). Se
nella fase di apertura della sillaba potevamo avere sillabe con consonante dentale + jod [tj, dj], col tempo
questo accostamento ha portato appunto a un massiccio scivolamento delle stesse dentali nello Slavo
Comune.
25 / 10 / 2017
Lo Slavo Comune si configura come una lingua sì unica, ma non compatta, perché va a presentare varie
differenze a livello locale. Col tempo ha progressivamente assunto coesione interna e ciò ci fa intuire che
probabilmente le grandi comunità si erano frammentate in gruppi più piccoli, sviluppando esiti più locali. La
storiografia conferma che è effettivamente avvenuto un processo di allontanamento fra i parlanti che si
inserisce in un quadro migratorio amplissimo, detto comunemente tempo delle “invasioni barbariche”.
Una volta identificato a grandi linee il codice Protoslavo, i linguisti hanno tentato di delineare una zona
geografica in cui confinarne gli elementi lessicali, avvalendosi anche di reperti archeologici e di tracce fito-
zoologiche). Gli sforzi in tal senso erano semplificati dal processo di allontanamento che si era verificato, e
hanno portato alla formulazione di due teorie contrapposte, che identificano la “proto-patria” della lingua
slava rispettivamente:
 Sul fronte nord-orientale dei Carpazi, fra i grandi fiumi che sfociano nel Mar Nero, e i Carpazi (zona
più ristretta)
 Dal bacino del fiume Vistola al Dniezd (zona più ampia e occidentale).
Abbiamo una conoscenza piuttosto precisa di quanto accaduto in seguito, tuttavia si presenta sempre e
comunque il problema degli etnonimi, ossia la scarsa possibilità di conoscere approfonditamente i distinti
popoli coinvolti a causa dei diversi nomi loro dati nelle fonti storiche greche e latine. Inoltre, si è trattato di
un avvicendamento fra lingue molto tumultuoso e non sempre i cronisti sono stati in grado di ricostruirlo
fedelmente. Ad esempio, nell’epoca delle invasioni barbariche gli storici romani hanno identificato gli
invasori come “Germani”, non sapendo che in effetti si trattava di un gruppo molto eterogeneo. Gli studiosi
moderni hanno capito che le invasioni barbariche rappresentano solo gli ultimi passaggi di un’imponente
RIVOLUZIONE DEMOGRAFICA partita dall’Asia Centrale.
All’epoca, l’Asia Centrale era abitata da popoli organizzati come tribù che parlavano lingue completamente
diverse da quelle indoeuropee. A ridosso dell’era volgare queste lingue presentavano inoltre una
differenziazione molto più marcata rispetto alla famiglia indoeuropea; questo perché il ceppo URALO-
ALTAICO andava a coprire una zona geografica vastissima, andando a includere le attuali lingue turca,
ungherese e finnica.
L’enorme spostamento demografico partito dall’Asia ha dunque la sua onda lunga in Anatolia e nel centro-
Europa, ed è stata causata dall’invasione unna (III-IV secolo a.C.), che ha portato chi si trovava più a est a
spingersi sempre più verso occidente: Germanici e Celti erano stati sospinti dagli Slavi, a loro volta incalzati
a est dagli Unni. La “pressione” che va a crearsi in Europa si scarica in modo simmetrico nel centro del
continente, fino al Danubio. Per affrontare questo “smottamento”, i Romani adoperano vari cambiamenti
amministrativi: ridisegnano le province, attuano una ridistribuzione dei prefetti e conferiscono loro maggior
potere decisionale. Sotto l’imperatore Diocleziano, in particolare, tutta la parte orientale e occidentale
dell’impero viene riorganizzata in quattro grandi parti, e a ognuna di queste viene assegnato un prefetto
con grandi poteri decisionali, al fine di meglio proteggere i confini imperiali, sia sul versante europeo che sul
fronte orientale. Ma nessuno riuscì a prevedere la dirompenza con cui queste popolazioni si fecero strada
nel continente, e a un certo momento l’Impero, così com’era strutturato, non riusciva a gestire la
situazione. Questo punto ha portato alla scelta di una nuova capitale, un nuovo centro amministrativo più a
est di Roma, per poter meglio controllare i domini asiatici e il confine sul Mar Nero: Bisanthion, piccolo
villaggio greco sulle rive del Bosforo (stretto che divide l’Europa e la penisola balcanica dall’Anatolia). La
decisione era stata presa dall’imperatore Costantino, che rinominò la capitale Costantinopoli. I Romani
riuscirono dunque a sbarrare l’accesso al Mar Nero.
In quegli stessi anni, in Galizia, emergeva la figura di Gesù di Nazareth, che profetizzava quella che noi oggi
conosciamo come fede cristiana. Questo nuovo credo non si pone come antitesi del già esistente
giudaismo, bensì come sua continuazione (“Non sono venuto a cambiare la Legge di Mosè, ma a
perfezionarla.”); ciononostante ha suscitato comunque molto sdegno fra gli ebrei e gli invasori romani. La
Galizia ha sempre avuto un certo rilievo geopolitico, e i Romani erano più che interessati a mantenerne il
dominio da poco conquistata. Gli ebrei però mal soffrivano la supremazia latina. In questa situazione piena
di tensioni, la predicazione di Gesù crea molte opposizioni: gli ebrei, e in particolare i farisei (in base alla
profezia messianica dell’Antico Testamento) aspettavano un nuovo re-guerriero, che finalmente li avrebbe
liberati dagli oppressori, e non riuscivano a riconoscere l’autorità di un umile falegname che si professava
essere il figlio di dio. I Romani, invece, erano molto preoccupati dai violenti scontri che naturalmente
nacquero fra i farisei e i seguaci di Cristo, e per scacciare l’eventualità di una sommossa popolare si videro
costretti a condannarlo a morte, affibbiandogli la pena per i traditori dello Stato: la crocifissione. Secondo la
tradizione cristiana, Gesù dopo tre giorni è risorto, e i suoi apostoli hanno iniziato a predicare il suo
messaggio di fratellanza universale, facendo molti più proseliti fuori dalla Galilea che al suo interno. Questi
nuovi cristiani ascoltano e iniziano a credere con fervore a questo messaggio di uguaglianza e fratellanza, e
inevitabilmente iniziano a reclamare gli stessi diritti; a quel tempo, però, la situazione sociale è ben diversa.
Vigeva una divisione sociale netta e rigida, e dominava lo schiavismo: viene riconosciuto universalmente
che, le popolazioni sconfitte in guerra, così come chi non ha di che vivere, finisca per forza di cose nella
classe più bassa: quella degli schiavi. Dunque, nonostante il messaggio di Gesù fosse assolutamente
sconvolgente per quell’epoca, riesce a diffondersi in modo esponenziale perché suscitava attrazione presso
tutti i popoli, soprattutto fra i gentili (chi non professa la religione di Mosè), perlopiù di fede pagana. Si
trattava di popoli sottomessi dall’Impero Romano, a cui veniva imposto di riconoscere i numi tutelari delle
divinità di Roma, nonché la fedeltà al suo Stato e al suo esercito; anche alla luce di questo, gli apostoli
iniziano a diffondere il Verbo soprattutto al di fuori della Galilea. Abbracciando il messaggio cristiano però, i
neo-convertiti smettevano di accettare le condizioni di sottomissione a Roma (il riconoscimento delle sue
divinità nonché la sua rigida gerarchia sociale) e andavano così a creare notevoli tensioni interne. In una
situazione già molto instabile a causa della minaccia barbara ai confini dell’Impero, questa frattura sociale
non venne tollerata, portando a un moltiplicarsi delle condanne a morte e alle persecuzioni. Questa grave
ferita sociale indeboliva molto l’Impero, rendendolo più vulnerabile alle minacce esterne, e a sanarla
subentra l’imperatore Costantino. Nel 313 d.C., con l’Editto di Milano, annulla l’intervento romano nella
religione e riconosce l’uguaglianza fra religione pagana e cristiana, facendo cadere la clausola che imponeva
ai sottomessi di rinnegare il proprio dio per abbracciare le divinità romane. I Cristiani sono ora molto più
cooperativi nei confronti del dominatore romano, ma forse questo provvedimento fu tardivo, perché a
metà di quello stesso secolo gli Unni giunsero in Europa.
Gli Unni erano una confederazione di tribù diverse che parlavano la stessa lingua. Le fonti più antiche li
dividono in Unni Bianchi, Unni Neri, Eftalìti e altre diramazioni; questo conferma che le popolazioni con forti
tendenze migratorie sono quasi sempre compagini molto eterogenee, che non si riconoscono in confini
geografici ben definiti e preferiscono espandersi, dividendo poi i bottini di guerra. Gli Unni vivevano
basandosi sull’economia di guerra e di saccheggio e non conoscevano alcuna forma di apparato burocratico
o statale, tantomeno si avvalevano di una qualsiasi forma di scrittura (gli eventi storici venivano tramandati
oralmente). Ciononostante, gli Unni sono riusciti a compiere un percorso migratorio incredibilmente lungo:
dall’Asia centrale all’arco alpino e oltre. Nel loro passaggio hanno trascinato con sé una enorme serie di
popoli diversi, fra cui gli Slavi.
Una volta affievolitasi l’onda bellica unna, chi aveva avuto la fortuna di accedere agli studi ebbe l’opportunità di
entrare a far parte dell’apparato statale romano, creando i presupposti per i cosiddetti Regni romano-barbarici. Questi
regni, in cui sono ormai subentrati anche i Germani, dopo la ritirata degli Unni si dividono in due tronconi: regni
germanici più occidentali (Visigoti) e più orientali (Ostrogoti). Questi, in particolare, comprendono l’efficienza del
modello organizzativo romano (basato su istruzione, scrittura, burocrazia, eccetera) e accolgono una nuova mentalità,
utilizzando la scrittura, dando più possibilità di formazione per proseguire una struttura amministrativa preesistente.
Anziché tentare di abbattere la struttura imperiale, questi popoli tentano dunque di impossessarsene.
Le conquiste e i saccheggi sono il simbolo più cruento di come si sono verificati e conclusi questi sviluppi. Nulla poté
fare la compagine romana d’Oriente per evitarlo; la forza militare unna era inarrestabile. L’ultimo grande episodio in
tal senso è la guerra gotica, condotta da Giustiniano per mantenere un controllo sui Goti in Italia; il successo
conseguito sarà effimero, e dopo qualche anno Costantinopoli dovrà rassegnarsi all’idea della perdita dei territori
occidentali. Questa perdita sarà sempre più conclamata man mano che si susseguono una dinastia romanobarbarica
dopo l’altra, partendo dalla Franconia, coi Capetingi, quindi coi Merovingi e più in là con Carlo Magno.
Il prossimo impatto forte sarà con gli Avari. Nel IV secolo subentrerà un secondo popolo centroasiatico ugualmente
combattivo, che le fonti chiamano Avari. Anch’essi erano una confederazione tribale piuttosto imponente, di cui
abbiamo notizie a partire del 560 d.C. In questo intervallo di tempo, l’Impero Romano d’Occidente era crollato (476
d.C.). Anche se gli Unni sono stati gradualmente respinti, smantellando il confine centroeuropeo romano hanno creato
dei buchi nella linea difensiva romana, lasciando libero ingresso ai nemici. In questa seconda ondata emergono gli
Slavi, ben poco definiti invece nell’orda unna.
26 / 10 / 2017
Fra gli ultimi secoli prima dell’era volgare e il periodo fino al IX secolo circa, si accelera un processo
migratorio già avviatosi da tempo. Questa migrazione viene probabilmente innescata da movimenti bellici
di popoli dell’Asia centrale. In Europa, dal IV al IX secolo d.C., la maggior parte dei territori occidentali, già
dominio dei Romani, viene messa a dura prova dall’arrivo delle nuove popolazioni, particolarmente
combattive e bellicose. L’Imp. Rom. d’Occidente era dunque soggetto a notevoli pressioni sul versante
esterno, ma anche sul fronte interno (una crisi politica ed economica, oltre al fenomeno dilagante del
cristianesimo e alla conseguente crisi sociale); gli imperatori cercano di tamponare il tutto, riformando
l’esercito e snellendo la burocrazia. Costantino compie due passi avanti storici: concede libertà di
professione religiosa ai cristiani, liberandoli dalla persecuzioni, e istituisce una seconda capitale per
l’Impero, in una posizione strategicamente più a est per fronteggiare le nuove minacce. Questi sforzi si
rivelano però tardivi, perché nel 476 d.C. viene deposto l’ultimo imperatore romano d’Occidente, Romolo
Augustolo. Le popolazioni molto variegate che ricadono sotto il nome di Barbari creano i Regni Romano-
barbarici, che rappresentano la prosecuzione della civiltà romana.
Una volta designato Bisanthion, piccolo villaggio di pescatori, come capitale della “nuova Roma”, fu attuata
una vera e propria ricostruzione e fortificazione. Con Impero Bizantino indichiamo quel sistema politico,
sociale e amministrativo che riuscì a continuare armonicamente l’organo statale romano, tanto da restare il
baluardo della sua eredità. Tutti i suoi abitanti, siccome risiedeva nella pars orientis, continuavano a sentirsi
cittadini romani anche quando la “vecchia Roma” crollò. A cambiare è stata piuttosto la lingua: dato che la
maggioranza dei suoi abitanti lo parlava, il greco ha sostituito il latino come lingua franca.
Sul territorio europeo, anche il baluardo difensivo più forte, il confine segnato dal fiume Danubio, chiamato
limes danubiano, con la sua serie di fortezze e fortificazioni, venne sfondato dall’ondata migratoria. Nel
Centro-Europa subentrano dunque Unni e Germani; i primi si sono progressivamente ritirati, i secondi si
sono divisi in due tronconi. Da uno di questi tronconi si forma l’embrione del Sacro Romano Impero di Carlo
Magno.
A Nord del Mar Nero, nel quinto secolo, troviamo vare città di fondazione greca e romana che
intrattengono molti rapporti commerciali, rappresentando un “collegamento” dall’Asia al Mediterraneo. Il
litorale del Mar Nero è dunque obiettivo di conquista strategico per molte popolazioni che vivono aldilà
delle steppe meridionali russe. La lingua franca utilizzata da queste ricche città nelle transizioni commerciali
è il Greco. Dal 560 giungono gli Avari, lontani procugini degli Unni e di altri discendenti della famiglia Uralo-
altaica. Questi Avari hanno portato altro scompiglio laddove si era restaurata la stabilità, trascinando con sé
gli Slavi. Le tribù slave, fino a quel momento unitarie, si dividono; Jordanes descrive tre rotte: una verso
Ovest, una verso il meridione e una diretta a settentrione. Questa tripartizione ha un qualche riflesso nelle
principali isoglosse dialettali del tardo Slavo Comune.
Gli storici degli Slavi dovevano affrontare molteplici difficoltà: molti erano funzionari o addirittura segretari
imperiali, e detenevano pertanto un ruolo attivo negli apparati amministrativi che hanno fronteggiato i
Barbari (e perciò avevano a disposizione informazioni di prima mano). Tuttavia, il loro compito era
complicato dal fatto che si trattava di descrivere popolazioni a loro sconosciute, per di più in assenza di un
quadro preciso. Spesso, questi ostacoli hanno portato a una “dispersione” di informazioni, per cui non è
facile avere tutte le notizie del tempo su un dato popolo nello stesso momento. I due storici a fornirci le
informazioni più dettagliate sono il latino JORDÀNES e il greco PROCÒPIO.

Jordanes = Storico latino conosciuto soprattutto per le notizie che ci ha tramandato a proposito dei
Goti (una delle prime tribù germaniche con cui l’Impero si confronta). Si ipotizza avesse egli stesso
origini gotiche; è certo che ricopriva un ruolo pubblico nell’amministrazione di Roma. Per ricostruire la
storia dei Goti si è basato molto su testimonianze più antiche, che purtroppo non ci potranno mai
pervenire. Inoltre, spesso nomina anche i vari popoli con cui i Goti sono entrati in contatto, fra cui
appunto gli Slavi. Jordanes è dunque uno dei primi storici a descriverci i tre flussi migratori innescatisi
all’interno della comunità paleoslava. In realtà gli storici hanno avuto molto da discutere a tal proposito,
a causa della questione degli etnonimi. Le testimonianze sembrano ad ogni modo piuttosto accurate: vi
si narra di un gruppo, stanziato presso il fiume Vistola, chiamato Vìnidi o Vénedi; poche pagine dopo,
però, il nome cambia in Véneti. Fra i gli altri gruppi sospinti, invece, verso nord (“su tutto l’arco del Mar
Nero, dal Dnesd al Danubio”) troviamo gli Anti (poi fatti scomparire dagli Avari), e più a sud (“da
Civitanova verso la Vistola”) gli Sclavìni. Una conferma su tali etnonimi giunge da alcuni storici
dell’Impero Franco e da Procopio, il quale però utilizza l’etnonimo più greco Sclavèdoni. Sappiamo che lo
Slavo ha condiviso isoglosse antiche con la famiglia iranica; Jordanes nomina gli Scìiti, già descritti da
Erodoto.
Procopio = Storico greco che ha partecipato in prima persona alla guerra contro i Goti. I suoi scritti
confermano quanto documentato da Jordanes sugli Sclavìni. Dal suo lascito, quello che risulta davvero
interessante è la ricostruzione della storia degli Anti. Come già detto, questa popolazione viveva in una
regione molto estesa, in mezzo a due fiumi molto distanti fra loro, e in questa regione così grande
inevitabilmente di tanto in tanto avveniva il transito di altri popoli. Ad un certo punto, però, l’etnonimo
“Anti” scompare, lasciando il posto a “Rhos”. Gli storici si interrogano su questo nome, ipotizzando che
possa trattarsi della commistione degli Anti con altri popoli. A destare molti sospetti è l’evidente
somiglianza fra i due nomi “Rhos” e “Rus’”; queste idee rimangono però inconfutate, a causa della
scarsità di prove a riguardo.

Fra le altre cose, Jordanes ci ha confermato che questi 3 popoli si suddividevano a loro volta in varie tribù.
Queste tribù, sebbene fossero federate fra loro e pertanto si muovessero insieme, nei modi pattuiti, dal
punto di vista organizzativo operavano secondo modalità diverse. Nestor, nella sua Cronaca dei Tempi
passati, enumera 12 nomi tribali. Se col tempo i nomi tribali scompaiono, è perché la popolazione x ha
deciso di muoversi, oppure di unirsi a un altro gruppo; bisogna contestualizzare questa “scomparsa” nel
quadro storico (per quanto ci è noto), ricercando corrispondenze nei dati linguistici.
Da Procopio in poi, degli Sclavedoni sappiamo –più o meno precisamente– in quali momenti abbiano
attaccato sul confine danubiano, e in quali occasioni abbiano sfondato le linee di difesa. Ci sono dei
momenti in cui l’offensiva sclavedone è tanto forte da farli giungere fino all’isola di Creta.
Contemporaneamente, restando attorno alla metà del secolo VII:
- La bellicosità avara comincia a decrescere, andando a favorire piuttosto un tentativo di
“integrazione”. Buona parte degli avari si assimila con altre tribù.
- Alle spalle degli Avari stava giungendo un’ulteriore ondata migratoria, che nella seconda metà del
VII secolo si rivelerà una forza notevolmente compatta. Questa popolazione viene citata nelle fonti come
“bulgara” (chiamati dagli storici proto-bulgari). Paolo Diacono ci informa che il proprio popolo, i
Longobardi, prima di stanziarsi nell’Italia settentrionale, durante le sue peregrinazioni per l’Europa è
entrato in contatto con i bulgari. Questi sono una tribù affine agli Avari e agli Unni, tramite la comune
discendenza uralo-altaica, e provenivano anche loro dall’Asia Centrale; in quelle regioni si trovano una serie
di toponimi nella cui radice troviamo “bulgàr” (“uomo”). I loro capi sono chiamati khan, e la religione
praticata è il paganesimo. La loro fase migratoria è molto lunga, e conosce una sosta importante attorno al
bacino del Volga. Alla foce del Volga sul Mar Nero fondano un regno, dedicandosi con grande fortuna ai
commerci. Questo stazionamento dura parecchi secoli e ne troviamo una testimonianza diretta presso i
cronisti arabi. A un certo momento, dal gruppo bulgaro si distacca un numero di persone che continuano a
spostarsi verso ovest, seguendo il litorale del Mar Nero. Ingaggiano dunque una lotta con i Bizantini per
potersi trasferire nelle loro terre. Nel 681 sfondano le linee difensive sul Danubio.
- La regione che grossomodo corrisponde alle attuali Ungheria e Slovacchia è la Pannonia.
- L’Illìrico (l’attuale penisola balcanica) è un territorio gremitissimo e ambitissimo, delimitato a nord
dalla fortificazione danubiana. Questo territorio è messo a dura prova con l’arrivo di Proto-bulgari, Slavi e
Avari; la popolazione ha portato avanti una salda resistenza, crollata però con i Bulgari nel 681. La risposta
diplomatica è immediata, poiché la maggior parte delle truppe bizantine è impegnata con gli Arabi. Si
giunge a un accordo di non belligeranza e dunque a una convivenza e a una divisione equa di risorse. Fra i
vari imperatori che hanno contribuito a questa risoluzione troviamo Eràclio, che nei primi anni dell’VII
secolo destina ad alcune tribù slave, i Serbi e i Croati, dei territori in cui stabilirsi, concedendo loro una
certa libertà di auto-amministrazione. L’accordo consentiva a questi gruppi tribù lo stanziamento in regioni
geografiche delimitate e l’autonomia di governo e cultura, a patto di mantenere una dipendenza militare
con l’imperatore. Questi patti permisero una lunga convivenza (50-60 aa.), fino all’arrivo dei Proto-bulgari.
Di questi rapporti diplomatici è Costantino a darci notizia, nel X secolo col De administrando Imperio, in
modo piuttosto dettagliato. Veniamo dunque a sapere che i Croati si stabiliscono a ridosso dell’arco alpino;
i Serbi più a sud; i Proto-bulgari si dirigono a Sud, occupando la Mèsia, nei pressi del monte Èmio, dove
sottomettono gli Slavi, che già si erano stabiliti in quelle zone. Fra VIII e IX secolo, nella parte est dell’Illìria,
partendo dalla base nata nella Mèsia, si forma uno Stato proto-bulgaro, che ingloba al proprio interno
elementi proto-bulgari e slavi: il Regno Bulgaro. Qui avverrà la prima fioritura della letteratura slavofona.
Questo Regno impiega un lungo tempo di formazione, a causa della difficoltà nell’unire genti diverse fra
loro sotto un unico codice legislativo e un unico credo religioso; da qui sorgerà poi la questione del
Cristianesimo.

Intanto, alcuni gruppi slavi arrivano addirittura nel Sud dell’Illirico, fino a Salonicco (allora detta
Tessalonica), nella Grecia storica (corrispondente ora all’area macedone). Giunti in quei luoghi, i nuovi
arrivati non creano province o strutture autonome, ma cercano piuttosto di assimilarsi alle realtà statali già
lì esistenti. La loro presenza è fondamentale però dal punto di vista linguistico; i due uomini che riusciranno
a imbrigliare la lingua slava in un sistema scritto (862) saranno infatti greci. Questi due uomini erano nati e
cresciuti a Tessalonica e i contatti molto frequenti con la comunità slavofona permisero loro di apprendere
la lingua slava fin dalla giovane età, poi di approntare un sistema grafico che ben vi si adattasse. Prima che
ciò avvenisse, fino all’860, gli Slavi tentavano di trovare un assetto amministrativo e di convivenza con le
altre popolazioni.

Le fonti e le informazioni sugli avvenimenti in Pannonia tenutisi fra VI e VIII secolo sono più generiche, non
permettendoci di seguire passo-passo l’evoluzione. Di certo i Venedi avevano bisogno (per motivi
geografici) di instaurare un rapporto di convivenza con i Germani. La cosa non è però facile, e dei loro
rapporti sappiamo poco; si sa che la situazione era piuttosto analoga, per le tribù germaniche. Inoltre, per
certo quelle terre furono contese a lungo fra le due parti. In un secondo momento i Franchi emergono,
avendo la meglio sugli altri germanici, occupando la Turingia e spingendosi verso ovest e verso le terre del
fiume Elba, da sempre considerato confine simbolico e geografico fra Germani e Slavi. Vari principati slavi
piuttosto importanti si stavano formando in questa situazione conflittuale. Fra questi, nell’IX secolo, a Nord-
Est della Pannonia, era nata la Grande Moravia. Prima di questo principato, abbiamo notizie sporadiche
risalenti al VII secolo circa un regno creato da un certo Samo, forse lui stesso di origine franca, ma
comunque alleato di varie famiglie slave. Questa GM si proponeva come Stato-cuscinetto fra la grande
formazione statale franca che sta sorgendo e tutto ciò che si trovava dal Danubio in giù. Quando questo
Samo viene assassinato, dopo alcuni decenni di silenzio le fonti latine hanno ricominciato a parlare della
GM.
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Fra la fine dell’VIII secolo e gli inizi del X, l’unica traccia rimasta dei fasti dell’Impero romano è
rappresentata dalla sua parte orientale, in qualche modo sopravvissuta alle onde migratorie giunte,
alternando azioni belliche a operazioni diplomatiche.

Fra II e VIII secolo:


lo spostamento dei nuovi popoli ha fatto sì che le popolazioni celtiche fossero progressivamente
sospinti sul litorale europeo occidentale, fino alle isole britanniche
I Vandali, dopo le incursioni nella penisola italica, hanno iniziato a controllare la penisola iberica e
quindi il Nord Africa
I Franchi, tramite varie circostanze e mezzi, nel giro di un secolo danno vita al Sacro Romano
Impero. Questa struttura politica cerca di far rivivere quel che è stato dell’Impero Romano e
instaurerà molti rapporti con gli Slavi
Alcuni ipotizzano una tripartizione delle tribù slave del periodo
o Veneti  collocatisi presso il bacino della Vistola, fino all’Elba andando verso ovest
o Sclaveni  scesi verso la penisola illirica
o Anti  collocatisi in territori molto più ampi e orientali, di cui non abbiamo però
informazioni definite o precise. Vengono generalmente riconosciuti come “Slavi orientali”
ed entrano sicuramente in contatto con molti altri popoli, fra cui i Germani e i Variaghi.

In questo lasso di tempo, la lingua protoslava si è evoluta in ciò che chiamiamo Slavo Comune, grazie
all’allontanamento delle comunità dei parlanti e dunque alla nascita di nuove isoglosse con due tendenze:
alla sonorizzazione (preferenza per le sillabe aperte, terminanti in vocale) e all’armonizzazione della
pronuncia degli elementi interni alla sillaba (sinarmonismo sillabico). La trasformazione è stata radicale ed
evidente.
All’interno dello Slavo Comune, gli studiosi hanno isolato due fasi:
1^ fase = più lunga, in cui si innescano queste isoglosse. Dalle trasformazioni che si avviano nascono i
MONOTTONGHI
2^ fase = TARDO SLAVO COMUNE, in cui si manifestano isoglosse più localizzate, che precorrono le
variazioni dialettali da cui nasceranno le varie lingue slave.
Dal tardo VI-inizio VII secolo, con l’insediamento definitivo degli Slavi sui loro territori, troviamo una loro
presenza molto consistente e definita all’interno dei confini imperiali nella pen. illirica. I popoli lì giunti
(Sclavedoni) prendono dunque accordi con gli imperatori e tentano di darsi un’organizzazione politico-
amministrativa abbastanza diversa da quelle già preesistenti in zona. Dall’incontro con le strutture
precostituite, il T. Sl. Com. ne risente in modo notevole; dal punto di vista politico si assisterà invece al
formarsi di vari staterelli in circostanze diverse.
- KROVATES  nella zona N-O dell’illìrico
- SERBOI  Zona centro-ovest dell’Illirico, fino al litorale adriatico
 Questi popoli accettano di configurarsi come territori imperiali, Stati-satellite incasellati nell’Impero
bizantino, e viene loro concesso di coltivare la terra, di eleggere dei capi di comunità locali detti ‘acconti’,
eccetera. L’Acconte deve essere però legittimato dall’imperatore, giurandogli fedeltà. Con gli Acconti si
stabilisce dunque un’organizzazione monarchica presso Croati, Serbi e Bulgari.
 Spostandosi verso l’arco alpino, verso il centro Europa, si esce dai confini imperiali per trovare altre
tribù, quali Carantàni e Padoani, che si uniranno per dare origine agli SLOVENI. Il loro dialetto presenta
molte differenze dalle popolazioni vicine a causa dell’isolamento geografico creato dalle montagne.
 Largamente al di fuori dei confini imperiali troviamo la GM (attuale Rep Ceca e Slovacchia), Stato-
cuscinetto fra Franchi e Slavi, e un altro principato di cui non abbiamo alcun etnonimo situato presso il lago
Bàlaton, in Pannonia.
 In Oriente l’”elemento slavo” è diluito in tante altre popolazioni e non abbiamo informazioni
abbastanza precise per identificare tali popoli a causa del continuo passaggio di comunità linguistiche che la
regione ospita. Lo Slavo orientale rappresenta in questa fase un gruppo piuttosto compatto, entrato
frequentemente in contatto con altre popolazioni. Circa questo gruppo, molto molto lentamente, i linguisti
attingono interessanti notizie le quali permettono di capire che attorno a Novgorod inizia a definirsi un
dialetto derivante dallo Slavo Orientale.
 Dal Mar Nero al Baltico troviamo tanti popoli e altrettante isoglosse; queste innovazioni linguistiche
creano pluralità dall’unità, contribuendo alla formazione delle lingue slave di oggi, differenziate e spesso
collegate a degli Stati precisi

Slavia Occidentale
Slavia Questi territori hanno vissuto vicende politiche Slavia Meridionale
Orientale altalenanti, con varie dominanze imperiali (prima
latina, poi tedesca) e inevitabili ripercussioni
RUSSO (denomin. linguistiche. SLOVENO sull’arco alpino.
nata sotto Pietro I) Standardizzato solo nell’800 a
Lingua ufficiale del causa della lunga dominanza”
futuro Impero Russo SLOVACCO, CECO con assetti definiti germanofona
ma confini geografici meno netti

UCRAINO (vicende SERBO-CROATO o


più complesse) POLACCO caratt. da una serie di dialetti nella “SERBO o Croato” (vicende
zona fra Bielorussia e Ucraina (elementi di storiche alterne hanno portato a
trapasso: isoglosse di lingue che non indentificare con vari etnonimi lo
corrispondono alla z. geografica) e nelle zone stesso codice)
BIELORUSSO Più a settentrionali, questi ormai estinti (Pòlabo,
nord, condivide molte Càsciubo)
isoglosse con l'ucraino. BULGARO conserva alcune radici
Ha assunto lo status di proto-bulgare assieme a una
lingua standardizzata in SERBO-ULSAZIANO o SÒRABO predominante influenza slava
tempi piuttosto recenti (Superiore/Inferiore) non corrisponde a uno
e risulta perciò molto Stato politico proprio; rappresenta una minoranza
fluido all'interno della Repub. di Germania
MACEDONE standardizzatasi
sulla base di dialetti bulgari
occidentali. Lingua ufficiale
RUSSÌNO o RUTÉNO insieme di dialetti dell’attuale Rep. di Macedonia
parlati nei Carpazi, difficilmente standardizzabile a
causa delle tantissime sfaccettature esistenti

Grazie a Aleksandr Vostokov abbiamo un ottimo quadro sull’evoluzione pluralistica dello Slavo Comune. Ha
analizzato i manoscritti più vicini agli ultimi sviluppi dello Slavo Comune, confrontandoli con vari manoscritti
di epoca intermedia raccolti zona per zona. Per la prima metà dell’800, ossia nel periodo in cui Vostokov ha
condotto la maggior parte delle proprie ricerche, la lingua macedone ancora non esisteva e pertanto manca
negli studi. Inoltre, la lingua bulgara ha vissuto il passaggio dallo status di lingua morfetica a una sintetica,
con uno stravolgimento tale che, pur restando una lingua slava, il bulgaro presenta enormi differenze dal
resto del ceppo. Per sopperire alle inevitabili difficoltà che lo studioso ha incontrato, Vostokov ha osservato
l’evoluzione su vari manoscritti medievali. Per la fine dell’800, fu Oblak, dopo molte ricerche a tappeto in
un’area molto vasta, a definire per il macedone varianti dialettali in confini geografici molto più ampi di
quelli odierni. Sempre Vostokov, dopo molto tempo, ha individuato le isoglosse principali e i loro differenti
esiti. Una volta individuate i mutamenti strutturali più importanti, li cerca fra le fonti delle varie lingue slave,
definendo la struttura tripartita detta Ripartizione di Vostokov: Slavia Occidentale, Slavia Orientale, Slavia
Meridionale. Questi tre grandi gruppi rappresentano le prime evoluzioni e varianti locali dello Slavo
Comune, le principali direttrici del cambiamento.
Il primo mutamento studiato da Vostokov consiste in una palatalizzazione molto antica, alle origini dello
Slavo Comune, fra il XII e il XV secolo: quella delle dentali + jod. Questo mutamento è estremamente
rilevante, poiché si è verificato in qualsiasi parte del discorso vi fosse una dentale+jod.
Protoslavo : {dt ++jj
Slavo meridionale
Lo Slavo Meridionale si distingue sia dagli altri Slavo Orientale
Slavo Occidentale
{dt ++j>č
due ceppi che al proprio interno, a causa dei
¿ frequenti contatti con gli altri popoli della pen
illirica. La diversificazione interna che si crea fra j> ž
i dialetti è valida già dal Tardo Slavo Comune.

Dialetti SLOVENI Dialetti (PALEO)MACEDONI (PALEO)BULGARO


Dialetti SERBOCROATI
{dt++j>j>čj ¿ {kg '' {ždšt
ALTRE ISOGLOSSE ANALIZZATE da Vostokov
 Sonante (r̥ / l ̥) + vocale d’appoggio che oscilla fra /i/ e /u/ (esempio: ur / ir ). La differenziazione
degli esiti crea difficoltà nel tracciare un quadro cronologico dei mutamenti.
o Sl. Meridionale (Sloveno, Serbo-croato) & alcuni dialetti occidentali  nessuna variazione
o Slavi Orientali  le semi-vocali d’appoggio diventano vocali vere e proprie
o Resto della Slavia meridionale  anche loro creano una vocale “piena” dal tono incerto e
la utilizzano per pronunciare le liquide (da drvo a gʑрвo, dove ʑ è la vocale d’appoggio).
 Dalla variazione sui dittonghi in liquida emergono due tendenze:
metatesi (Sl. Occidentale) ORT > ROT / pleofonia (Slavia Orientale)  ORT > OROT
L’esito OROT è esclusivo dello Slavo Orientale.
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Tutti questi mutamenti sono avvenuti perché nel Protoslavo, la preistoria delle lingue slave, si sono
conservate molte strutture e radici dell’Indoeuropeo, fra cui vari dittonghi con semivocali liquide, furtive e
nasali. I dittonghi con nasali sono rimasti tutto sommato intatti. La tendenza alla sillaba aperta porta però a
eliminare qualsiasi sillaba che termina per consonante, e qui la cosa si complica: distaccando la
semiconsonante dalla semivocale, molte parole diverrebbero indistinguibili. Gli esiti dei dittonghi si
generano dunque per gradi: la nasalità viene progressivamente omessa, diventando quasi un accenno. Poi,
le vocali di base si raggruppano e si semplificano: le anteriori diventano e n, le posteriori on ed entrambi
questi suoni assumono un proprio grafema ( e Ǫ). Dopo un periodo di stabilità, anche questi fonemi
mutano, perdendo progressivamente la nasalità e assumendo sempre più un attacco iotizzato nell’XI
secolo.

Periodo fra IX e XII sec d.C.  Con la divisione politica si accentuano anche le differenze linguistiche, è
importante capire quali dialetti hanno fornito la base grammaticale e gli influssi per gli sviluppi successivi
della lingua comune, fino al XII secolo d.C.
Fin dall’inizio, i filologi si chiesero quali siano state le principali direttive su cui, dai dialetti dello Slavo
Comune, sarebbero poi nate le lingue di oggi. Nell’800, già Dobrovsky aveva stilato una grammatica
descrittiva dello Slavo Antico, ipotizzando una ripartizione fra dialetti orientali e dialetti occidentali grazie al
parametro della conservazione (o eliminazione) della dentale nei nessi “ dl / tl “. Il passo successivo verrà
fatto con l’analisi di Vostokov: egli classifica gli esiti dell’incontro di “t+j”/”d+j” e postula una tripartizione:
 EST  esiti compatti
 OVEST  esiti compatti
 SUD  quattro esiti diversi. Questo gruppo comprende i dialetti slavi della penisola illirica. In
questa zona geograficamente ristretta, ma densamente popolata da popoli diversi e stabili, si
verifica un fenomeno linguistico unico: trasmissione delle stesse isoglosse fra lingue non
imparentate fra loro, ma incasellate nello stesso contesto culturale.

Vostokov ha anche analizzato l’esito (comune a tutti) delle sonanti sillabiche. Per rispettare la tendenza alla
sillaba aperta, si è verificata una metatesi: inversione degli elementi nel dittongo.
TROT / ROT  TORT / ORT
TLOT / LOT  TOLT / OLT
Questo rappresenta un esito comune a tutti. Ciò che non si trasmette nello stesso modo è la qualità della
vocale:
 TROT  TORT  TORT  stabilizzazione della vocale O [esito dialetti occidentali]
 TROT  TORT  TART [esito dialetti meridionali]
 (raddoppio della vocale, prima e dopo la liquida) TORT  TOROT [esito dial. orientali]
Sulla base di questi risultati, Mareš ha ipotizzato molto tempo dopo che, nel tentativo di aprire le sillabe,
non solo si è creata la metatesi, ma è stata spostata una “mezza quantità” della stessa vocale davanti alla
liquida, tale che “TORT  TOROT”. Entrambe le mezze vocali sono state poi pleofonizzate.
TORT  TOROT  TOROT

Alcuni successori di Vostokov, entrando progressivamente in possesso di una quantità maggiore di dati, si
sono accorti che, all’interno del gruppo occidentale, vi erano alcuni dialetti che trasformavano la O in A. Si
nota che nella fascia occidentale si trova una zona di passaggio con lo stesso esito fra sud e nord. Allo
stesso modo, a nord-est si è sviluppata la doppia vocale. Con questa variazione dello schema tripartito, si
mostrata l’inefficacia del sistema triangolare di Vostokov. È a questo punto che Mareš ha creato un
SISTEMA QUADRANGOLARE, in cui è possibile inserire i dati del triangolo di Vostokov e al tempo stesso
capire meglio gli influssi da una zona all’altra.
Es: sistema quadrangolare della radice indoeuropea “gardh”(recinto). Questa radice sopravvive fino allo
Slavo Comune, con cui subisce una metatesi. Questo fenomeno accomuna tutta la fascia ovest, ma nel
quadrante N-O avremo vari esiti: se presso la maggior parte dei parlanti pronuncia una A, alcuni opteranno
per una O, che col tempo sarà chiusa fino a diventare una U. Altre comunanze sono la A in tutto il versante
Ovest, e la U finale in tutto il lato Est.
Un altro esempio di metatesi è costituito dal nome OVEST EST
del principe meridionale Rostislav. Nelle fonti
meridionali, questo stesso principe viene chiamato grad
“Rastislav”, a causa della metatesi e della de- NORD gorodŭ
( grod / grud )
labializzazione vocalica che contraddistingue l’esito
meridionale. Inoltre, nelle fonti slavio-orientali
troviamo lo stesso esito slavo-meridionale, e solo SUD grădŭ
occasionalmente l’esito in -o-. Questo potrebbe
spiegarsi ipotizzando che il nome originale fosse
Rastislav, e diffondendosi abbia portato con sé la vocale -a-. Un’altra contesa riguarda il nome del principe
Vladimir (Sud/Ovest) o Volodimir (Est). Con l’alternanza fra lingua scritta e orale e la creazione di una
scrittura, è stata usata una base linguistica slavo-meridionale. Questo nuovo standard a prevalenza
meridionale arriva nella Rus’ di Kiev nello stesso momento in cui il principato decide di convertirsi
ufficialmente al cristianesimo. A quel tempo, i Kieviani usavano l’esito con pleofonia (Volodimir); ma dopo
la ricezione di una forma scritta standard (usata per tradurre i libri di liturgia cristiana), i due dialetti si
‘sovrapposero’ fra loro. Fu così che la forma meridionale divenne ‘letteraria, dotta’, mentre quello orientale
(Vladimir) divenne ‘colloquiale, popolare’.
Altro fattore analizzato da Vostokov: dittonghi in nasale [am/an, om/on, em/en, im/in, um/un], che si scontrano
con la tendenza della sillaba aperta, portando a
1. Un confondersi dei due suoni nasali per creare una vocale aperta [ n]  deriva dal segno del nasale
antico [ ]
2. Una polarizzazione della vocale di base, tale che dalla varietà di vocali anteriori e posteriori ne
rimangono solo due: e (suoni anteriori) // o (suoni posteriori)
In conclusione, dalla riduzione nasale e dalla polarizzazione vocale deriva una monottongazione, in cui la
componente nasale è stata repressa [ VN  Vn ]. Un’attestazione deriva dall’alfabeto più antico, in cui
troviamo anche i grafemi [/en/, poi  ] e [/on/, poi  Ǫ]. Nel cirillico, questi fonemi verranno
trascritti con un unico fonema, rispettivamente Ѧ e Ѫ. Queste vocali nasali, seppur ridotte, vedranno
progressivamente sbiadire il valore nasale che includono; ai giorni nostri, l’unica lingua slava che conserva
vocali nasali è il polacco, in cui troviamo ad esempio Ą. Queste lettere non sono però discendenti delle
vocali nasali di cui sopra, ma derivano bensì da una riforma linguistica successiva alla scomparsa dei suoni
nasali più antichi.
Nelle lingue slave settentrionali e meridionali abbiamo esiti diversi per le vocali anteriori e posteriori.
VOCALI ANTERIORI
Slavia Nord  1) nasalità del tutto cancellata
2) la vocale anteriore si abbassa verso la metà della bocca Ovest Est
3) la vocale che ne risulta acquista un attacco iotizzato [ a > ]
Es. /ɇnzikù/ (lingua, popolo) > /(j)azikù/ N ę>e>a>
Slavia Sud  1) nasalità cancellata
2) la vocale immutata acquista un attacco iotizzato
S ę > (j)e
Es. /ɇnzikù/(lingua, popolo) > /ezikù/

VOCALE POSTERIORE
Slavia Nord + Serbo-croato  1) perdita della nasalità
Ovest Est
2) chiusura (labializzazione) della O in U
Slavia Sud  1) perdita della nasalità(denasalizzazione) N+ Ǫ>O>U
2) avanzamento della vocale verso la zona mediana della serbocroato
bocca, con un esito che oscilla fra una A e una A incerta
Es. l’antica radice ha esiti diversi. S Ǫ>O>A/Ă
Serbocroato: da /ronka/ a /ruka/
Sloveno: /’nroka/ con O chiusa // Bulgaro: /(s)răka/ con A incerta // Macedone: /(s)raka/
All’inizio dello Slavo Comune, per monottongare i dittonghi in furtiva, si verifica un inglobamento del suono
in un'unica, nuova vocale di base, lo Yàt Ѣ, vocale lunga fra la /e/ e la /a/ con un attacco iotizzato,
generalmente trascritta “ ě “. Anche questa vocale, dal XII secolo in poi, soggiace a una certa
variabilità, a causa del proprio timbro piuttosto aperto e instabile, “spostandosi” gradualmente
verso la /je/ o verso la /ja/ (Bulgaro e Macedone). Gli esiti dello Yat appaiono geograficamente
mescolati: in una prima evoluzione, presso alcuni dialetti la Yat scivola verso il suono /i/, o /e/,
mentre nelle lingue in cui troviamo l’esito /ja/ spesso quello stesso suono viene pronunciato /e/.

Es: aggettivo БЕЛЫЙ  (dialetti serbocroati) BJELI / BELI / BILI


(Bulgaro) [maschile singolare] BJALI / [plurale] BELI
(area orientale) sia esito /je/ che /i/
(area occidentale) /e/ che si alterna a una A incerta
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Nello Slavo Comune tutte le vocali hanno la stessa durata, tranne quei casi in cui l’origine stessa del suono vocalico ha
necessariamente portato a una durata lunga o breve: la lunga Yat, la lunga Ы (mediana derivata dall’abbassamento
della ū). Le vocali BREVI o ULTRABREVI derivate dal Protoslavo sono l’anteriore /ĭ/ e la posteriore /ŭ/, suoni vocalici
“dimezzati” che col tempo sono fisiologicamente diventati sempre più intermedi e indefiniti. Nella prima fase, queste
due vocali iniziano a essere confuse fra loro, fino a venir chiamati con lo stesso nome: Jer. Mareš ha ipotizzato che
questo nome fosse la pronuncia slava del termine greco per “aria”, e dunque il nome potrebbe indicare che nella
mente dei parlanti questi due suoni fossero considerati delle semplici emissioni di aria. ATTENZIONE: questi due
fonemi erano scritti come ___ e ___, tuttavia NON CORRISPONDONO agli attuali мягкий знак e твордый знак.
Stabilizzatasi l’ortografia russa usata ancora oggi, questi due grafemi furono “recuperati” per distinguere appunto i
suoni dolci e duri.

Dato il graduale confondersi e ridursi delle Jer, si correva il rischio di ottenere moltissime sillabe chiuse, ma con la
tendenza generale alla sillaba aperta, i parlanti adottarono uno stratagemma. Innanzitutto, si cercò di dare stabilità
alla vocale incerta, per darle un timbro più chiaro con uno slittamento di timbro.
Jer anteriore ĭ → vocalizzazione → e
Jer posteriore ŭ → vocalizzazione e perdita della labialità → a/o
In un secondo momento, si creò una distinzione fra sillabe forti, in cui lo Jer si vocalizza, e sillabe deboli, in cui lo Jer
cade. La Legge di Havlìk stabilisce il discrimine fra sillabe forti e deboli: una volta divisa in sillabe la parola contenente
uno Jer ed aver enumerato le singole sillabe partendo dall’ultima, risulterà che le DISPARI sono DEBOLI e le PARI sono
FORTI.
Es: → | → | → | → (vocalizzazione della sill. pari)
→ | | → | | → | | →

Jer anteriore Jer posteriore

O E O E

N Ĭ > e Ĭ > e
N ŭ>e ŭ>o

(Sloveno) Ĭ > e
S Ĭ > e ŭ>o
(Serbocroato) Ĭ > a S ŭ>a
ŭ > suono incerto*

*Questa vocale incerta, che si sviluppa nel Bulgaro parlato dal XII secolo in poi, si ritiene sia frutto dell’influsso
linguistico delle zone balcaniche. Questo suono incerto col tempo ha assorbito vari altri fonemi della lingua, come i
suoni nasali.

È stato poi l’inventore dell’alfabeto a intuire che bisognava individuare fonemi stabili a cui assegnare un unico
grafema. Questo processo di stabilizzazione della lingua Slava Comune è iniziato nell’862-3 come naturale
conseguenza della conversione degli Slavi al Cristianesimo. Se le prime conversioni avvennero in una dimensione
privata e personale, in seguito i regnanti dei vari popoli valutarono i vantaggi di una conversione ufficiale, non ultimo
l’avvio di un processo di integrazione con le popolazioni circostanti. Nel VII secolo, il Cristianesimo è l’unica religione
ufficialmente riconosciuta e rappresenta il maggior lascito dell’Impero Romano, non per nulla l’organizzazione
amministrativa della stessa Chiesa seguiva il modello romano. Ogni qualvolta un popolo decideva di convertirsi, un
episcopos, depositario del messaggio dottrinario originale, veniva inviato nel Paese che ne faceva richiesta, affinché la
dottrina fosse ben percepita (e non nascessero equivoci o pensieri eretici). Fra un’ondata migratoria dei Barbari e
l’altra, quando i vertici e le autorità statali e militari venivano spazzati via, erano proprio i vescovi a prendere in mano
la situazione, coadiuvati dalla rete di sacerdoti. Quando le cose cominciarono a tornare alla normalità, coi regni
romano-barbarici, anche i sovrani finirono con l’affidarsi alla struttura ecclesiastica e alla rete di supporto che aveva
ormai creato. Inoltre, gran parte della cultura risalente a prima delle invasioni barbariche ci è pervenuta solo grazie
all’operosità e alla dedizione al lavoro e alla ricopiatura da parte degli ordini monastici delle opere.
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Tutti i cambiamenti sorti fino a questo punto nel tardo Slavo Comune sono avvenuti oralmente. Dopo gli
avvenimenti descritti, la scrittura assume un ruolo sociale. Avviene così un vero e proprio passaggio, da una
società basata sulla trasmissione orale, a una fase di cultura scritta. Quando gli Slavi giungono nelle sedi
storiche, chiudendo la fase migratoria, instaurano un modello politico basato sulla parola scritta. Un altro
fattore che ha contribuito all’imporsi della scrittura è stata la pressione religiosa; nel IX secolo l’Europa è
ormai quasi totalmente cristianizzata, portando a una trasformazione radicale della società stessa alla luce
di un’enorme pervasività della scrittura. Questo è accaduto anche perché lo stesso Cristianesimo, nato in
seno al giudaismo, si basa non solo sulla Torah o Antico Testamento, ma anche sul Nuovo Testamento,
formato dai testi che registrano le vicende e predicazioni di Gesù di Nazareth, ossia i Vangeli, nonché le
lettere e gli Atti degli Apostoli, che mostrano i primi stadi di evoluzione della Chiesa. I 4 Vangeli sono divisi
in 3 sinottici (Matteo, Marco e Luca parlavano più o meno delle stesse cose) più il Vangelo di Giovanni, che
segue un approccio più teologico. Quando gli apostoli ricevono lo Spirito Santo e iniziano le proprie
predicazioni presso i gentili, avviano degli scambi epistolari per fornire risposte pratiche a tutte le comunità
neofite, così da adattare i principi del Nuovo Testamento alla realtà. Questo adattamento richiederà secoli e
sarà piuttosto complicato, perché i dettami predicati derivavano da una mentalità ormai desueta. Si era
creata una contrapposizione fra mondo semitico, in cui era nata la legge mosaica, e sfera ellenistica, da cui
derivava il Nuovo Testamento: per gli appartenenti al mondo ellenistico (che fa riferimento alla cultura
greca) risulta difficile accettare per fede tutto ciò che era riportato nelle Scritture. Ciononostante, la
comunità greca partiva comunque avvantaggiata: se la religione cristiana era nata in un contesto ebraico, si
è diffusa prevalentemente nel mondo greco anche perché 200 anni prima di Gesù, un re egiziano, Tolomeo,
aveva incaricato 70 traduttori di tradurre l’Antico Testamento; l’evento è ricordato come Traduzione dei
70.
Come già detto, al momento delle invasioni barbariche l’unica autorità che riuscì a restare in piedi fu la
Chiesa, conservando la tradizione statuale romana e muovendosi così all’interno di una struttura urbana. La
Chiesa delle origini segue il modello romano delle province e delle diocesi; all’interno delle diocesi viene
riprodotta una struttura gerarchica in cui il vescovo è incaricato della dottrina, dell’educazione dei fedeli e
dell’ordine civile. In questo contesto però, alcuni si ispirano alle Scritture per isolarsi dalle passioni e dai
ritmi del mondo e dedicarsi in solitudine alla vita spirituale: dal IV secolo in poi, inizia a svilupparsi in Egitto
il monachesimo (monus, solo). Inizialmente, si trattò di un movimento di anacoreti, ossia individui che in
totale solitudine e autonomia si rifugiavano in luoghi sperduti per provvedere da sé al proprio
sostentamento e instaurare un rapporto più intimo con la propria fede. In una fase immediatamente
successiva, iniziano a formarsi piccoli gruppi di anacoreti, creando i cenòbi (koinós+bio, vita [in] comune)
nucleo originario delle istituzioni monastiche. Nel monachesimo antico non esistevano ancora ordini
monastici veri e propri; il primo fu fondato da S. Benedetto da Norcia, sulla base dell’”ora et labora”.
Laddove sorgevano conflitti molto profondi sulla dottrina, l’unico modo per risolverli era riunirsi nei concili,
riunione che coinvolge tutti i vescovi di diocesi. Il primo concilio si svolge durante il regno di Costantino, nel
325 a Nicea. Questo rappresenta il primo dei 7 concili ecumenici totali in cui sono stati stabiliti i cardini
della dottrina cristiana, consolidata in tutte le sue componenti, fino alla dottrina trinitaria, discussa
nell’ultimo concilio (fine VIII secolo). I popoli convertitisi dopo quella data trovano già rifinita la dottrina,
per cui il grande compito che si pone è quello di avere una traduzione precisa e breve della storia della
Chiesa, nonché dei testi Sacri, canonici e liturgici e del dogma trinitario (dibattuto fra il IV e il V secolo). Gli
Slavi non sono coinvolti in queste discussioni.
Fino all’epoca conciliare, la Chiesa si era basata sul presupposto della apostolicità, ossia sul continuare la
tradizione degli apostoli. A tale principio se ne ricollega uno pratico. Data la grande estensione del potere
della Chiesa, bisognava rendere più efficiente la struttura amministrativa; in virtù di questo venne creata la
Pentarchia. Con questa strategia, veniva conferito a 5 città il diritto di prendere decisioni in fatto di fede. In
questo “governo dei 5 [vescovi]” tutto ruota attorno alle sedi più antiche delle predicazioni apostoliche:
Roma (Pietro) / Alessandria (Marco) / Gerusalemme / Antiochia (Giacomo) / Costantinopoli (Andrea). Per
l’autorità conferita loro dal passaggio degli apostoli, queste città ricoprono un ruolo più autorevole delle
altre. Questo sistema pentarchico però nel tempo incontra molte difficoltà. Già nel VI secolo gli Avari
attuano una pressione tanto forte, sia in Medio Oriente che in Africa Settentrionale, che Gerusalemme,
Antiochia e Alessandria vengono conquistate, spostandole al di fuori dei confini dell’Impero Cristiano, in un
contesto politico e sociale prettamente musulmano. Gli Avari tenteranno di mantenere l’autorità religiosa
cristiana di queste tre città, ma queste ormai avevano perso tutto il loro potere. Fra le due città
sopravvissute, la Vecchia Roma e la Nuova Roma (Costantinopoli), troviamo situazioni geopolitiche
totalmente opposte e ad un certo punto il patriarca (o vescovo o papa) di Roma comincia a prendere
decisioni autonomamente, senza previo consulto col vescovo di Costantinopoli. Ne derivano due tendenze
politiche esattamente contrarie: da una parte, l’imperatore ha un controllo totale della Chiesa, dall’altro il
capo della Chiesa comincia a sostituirsi all’imperatore. Da lì parte la distinzione fra una Chiesa unitaria
cattolica occidentale e tante Chiese ortodosse orientali, due metà non speculari fra loro. Il principio
dell’apostolicità resta fondamentale perché conferisce autoencefalia, ossia dà potere di decisione totale al
capo ecclesiastico di una sede apostolica. Nel contesto delle invasioni, sempre più esponenti ecclesiastici si
pongono il problema di come comunicare e rapportarsi con le popolazioni che decidono di convertirsi, dato
che le due lingue predominanti nel mondo cristiano di allora erano de facto il greco e il latino. Inoltre,
iniziano a porsi sempre maggiori quesiti irrisolti sulla professione di fede Credo, istituita nel concilio di
Calcedonia. Un pomo della discordia frequente è stata la questione su quale fosse la natura prevalente in
Gesù di Nazareth, se quella umana o quella divina. Questo dilemma fu superato con molta difficoltà nella
formula del Credo appunto, in cui si afferma che: le due nature di Gesù (umana e divina) sono entrambe
presenti nello stesso grado, e non interferiscono l’una con l’altra; lo Spirito Santo è l’emanazione di Dio; Dio
Padre è onnipotente. Queste tre entità rappresentano le ipostasi, ossia le varie manifestazioni di una stessa
divinità e la formula del Credo viene fissata, con la promessa di non cambiarla per nulla al mondo. Nel VII
secolo però, in Spagna la situazione si evolve. In un manoscritto latino del Credo, al passaggio “…nello
Spirito Santo, che procede dal Padre…” un copista ha aggiunto a margine “…e dal Figlio”, dando origine alla
cosiddetta Questione del Filioque. Nonostante l’aggiunta non andasse a contraddire alcun principio
dottrinale di base, ha scatenato accesi litigi fra l’VII e il IX secolo. Nello stesso periodo, i Germani hanno
ormai conquistato le attuali Francia e Germania. Fra le varie tribù germaniche emergono i Franchi, che
creano un proprio regno e vanno a riempire il vuoto lasciato dalla ritirata dei Barbari. La tribù franca
intuisce che una conversione al Cristianesimo rappresenterebbe un mezzo di legittimazione del potere.
Decidono dunque di offrire la propria fedeltà al papa, che fu molto felice di trovare un alleato in ascesa in
cambio di un riconoscimento di legittimità. Questo accordo ha portato a una pacificazione dell’Europa
Occidentale, terra tormentata da vicende turbolente ormai da secoli. Fu così che nella notte di Natale
dell’800 Carlo Magno si fa incoronare imperatore da Papa Leone IX. Questa decisione di conferimento
imperiale (anche su Costantinopoli) destò molto malcontento nella Nuova Roma durante la reggenza di
Irene, che fra l’altro aveva già ricevuto e rifiutato una proposta di matrimonio da parte dell’imperatore
carolingio, il quale sperava di ottenere la successione a Costantinopoli. Fu evidente che in caso di conflitto,
la Nuova Roma sarebbe stata inevitabilmente sconfitta. La guerra perciò non si fa e la situazione resta
immutata: Carlo Magno detiene saldamente il titolo di imperatore. Il monarca carolingio decide inoltre di
consolidare la legittimità propria e dei propri domini intitolandoli “Sacro Romano Impero” e rimarcando
dunque l’autorità di successori ideali dell’Impero Romano e della tradizione cristiana.
Ad un certo punto la Questione del Filioque inizia a diffondersi anche nel Sacro Romano Impero, andando a
coinvolgere la questione sulla giurisdizione ecclesiastica. I dibattiti si risolsero col Canone 28, con cui fu
stabilito, con precisione geografica, quale patriarca dovesse manovrare i vescovi e i missionari che si
occupavano dei popoli neo-convertiti. Secondo questo Canone, il confine della giurisdizione fra Roma e
Costantinopoli passava trasversalmente lungo la penisola illirica. Una volta entrato in vigore questo confine,
si creò un fermento all’interno della penisola illirica per stabilire chi dovesse obbedire a chi, anche perché
per un certo periodo il vescovo di Roma esercitò giurisdizione su tutta la parte meridionale della Grecia,
fino a Tessalonica. La situazione mutò con le rivolte fra iconoclasti e iconografi e con la successiva decisione
dell’imperatore di Costantinopoli di destituire l’esarca posto a Tessalonica in vece del papa.
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All’inizio del IX secolo, il “pentarcato” è ormai dimezzato dalle invasioni degli Arabi. Fra le due città rimanenti, Roma e
Costantinopoli, inizia a mostrarsi e accentuarsi una discrepanza, come il diverso controllo dell’imperatore e, di riflesso,
i diversi poteri del pontefice. Si creano dunque i presupposti per un cambiamento radicale nella politica europea.
Presso i franchi, che ormai hanno creato un regno stabile che ha preso a modello l’Impero Romano e la tradizione
cristiana, si origina la cosiddetta Rinascenza Carolina. Nonostante si stessero espandendo e rafforzando, il Sacro
Romano Impero necessitava però di un riconoscimento formale, e a tal scopo l’imperatore carolingio si fece
incoronare dal pontefice imperatore, titolo che va a causare una cesura drammatica con Costantinopoli. Il titolo
conferito dal papa andava a scontrarsi violentemente con la concezione predominante del tempo che riteneva
esistesse un unico Impero e dunque un unico Imperatore (quello a Bisanzio). L’imperatore bizantino, dal canto suo,
non poté fare granché per cambiare la situazione, perciò Carlo Magno rimase sul trono e i contrasti fra i due
patriarcati non fecero che aumentare. In questo contesto, l’aggiunta quasi casuale e innocua del “filioque” nel
manoscritto del Credo ebbe un impatto notevole.
La giurisdizione canonica implica stabilire quale patriarca dei 5 abbia diritto di mandare missionari e vescovi presso le
popolazioni slave, giunte da poco in Europa, così da organizzarne la vita religiosa e cristiana. Già a Calcedonia, per
creare un equilibrio, era stato stabilito il cosiddetto Canone 28, ossia una linea di confine fra le giurisdizioni dei due
patriarcati che andava a tagliare in due l’Illirico. Fin dagli inizi della storia della Chiesa, la sede di Roma, grazie a tutti gli
avvenimenti straordinari lì avvenuti (la predicazione e il martirio di Pietro, ad esempio), aveva avuto un
riconoscimento formale maggiore: consultando i documenti dei concili ecumenici, negli elenchi il primo posto era
sempre occupato dal Consiglio di Roma. Inoltre, proprio in virtù di questo grande rispetto conferitole, la Vecchia Roma
aveva alle proprie dipendenze un esarca (emissario) stanziato a Tessalonica. La situazione si aggravò moltissimo con le
lotte iconoclaste, le lotte basate sulla legittimità o non legittimità delle icone (rappresentazioni in codice del divino).
L’arte del codice sacro e delle icone è ritenuta adatta a pochi, e difatti è considerata monopolio dei monaci.
Già nella chiesa antica, all’imperatore spettava un ruolo che ne definiva l’unicità: era difatti il “Vicario di Cristo”,
addetto a controllare i dogmi e l’ortodossia della professione di fede. Questo status è però sovvertito dal Concilio
Vaticano I, in cui si decide che il ruolo spetti piuttosto al Vescovo di Roma. Questa scelta mette a soqquadro i vertici di
Costantinopoli, poiché di fatto fu tolto all’imperatore il suo ruolo di capo della Chiesa, intaccandone gravemente
l’autorità. In risposta, sorge il fenomeno iconoclasta: da Costantinopoli furono imposte molte limitazioni su Roma per
quanto riguarda l’arte iconica le poche entità religiose rappresentabili vengono assai circoscritte, per mettere un freno
al commercio che si era creato attorno a queste opere. A causa delle perdite sempre più grandi, gli imperatori hanno
tentato, fra il VII e l’VIII secolo, di riservare un trattamento di favore al Papa di Roma, così che rendesse nuovamente
possibile rappresentare alcune entità religiose per poter poi trarne profitto. Il Vescovo di Roma però si rese conto della
pericolosità della manovra e preferì non interferire. Quando le acque si calmarono, questa mancata presa di parte del
pontefice indispettì molto i regnanti, che in tutta risposta gli tolsero l’esarca da Tessalonica.
Queste vicende si ripercossero anche sulle popolazioni slave. Nel IX secolo i Proto-bulgari, provenienti dal bacino del
Volga, erano ormai stabilmente insediati in Turchia (ad ovest del Canone 28), dove avevano formato con le altre
popolazioni slave un regno, appunto, slavofono. Una testimonianza è offerta dall’origine bulgara del titolo del capo:
khan (poi principe dopo il battesimo). Stando a quanto attesta Costantino Primogenito, “più a nord dei krovates, più a
sud dei serboi” si trovavano tutti quei popoli che invece ricadevano sotto la giurisdizione papale e più direttamente
dalla sede vescovile di Spàlato.
A nord del Danubio, ai confini dell’Impero, fra le popolazioni slave giunte più a ovest troviamo quasi al confine coi
Franchi il Principato di Grande Moravia. Le fonti descrivono un altro principato, senza precisarne un vero nome,
certamente meno esteso e situato presumibilmente in Pannonia, attorno al lago Balaton. I prìncipi di queste
formazioni intuirono i vantaggi politici derivabili da un’eventuale passaggio al Cristianesimo e le storie tribolate dei
loro battesimi ci sono giunti tramite fonti indirette e greche e latine nonché da due testi agiografici su personaggi di
primo piano in questi eventi: le Vitae su Costantino Cirillo e Metodio.
All’inizio del IX secolo, il regno dei Proto-bulgari risulta popolato soprattutto da slavi, tuttavia la classe dirigente è
ancora formata da proto-bulgari, dunque persone con una lingua e un credo religioso differenti. Dopo aver ricevuto il
riconoscimento in quanto Stato e l’alleanza dall’imperatore bizantino, il khan Borìs considera appieno la possibilità del
cristianesimo per rafforzare la coesione interna e la legittimazione dall’esterno del regno.
Il territorio su cui vivevano i Proto-bulgari (vedi Mesia, Tracia, Macedonia) era cristiano già da prima del loro
insediamento e già organizzatissimo dal punto di vista ecclesiastico; la mossa di Borìs ci fa capire che un minimo di vita
ecclesiastica fosse ancora sopravvissuta all’insediamento proto-bulgaro. Questo non facilitò comunque la scelta di
Borìs; passare al cristianesimo significava 1) adattare le strutture statali proto-bulgare ai princìpi del nuovo credo
2) cedere gran parte della giurisdizione della Chiesa che si sarebbe formata a ecclesiastici stranieri, in particolare ai
vescovi metropoliti di Costantinopoli.
Alla luce di tutte queste variabili, il Khan decise attorno all’860 di scrivere al patriarca di Costantinopoli Fozio.
Quest’uomo era stato nominato dall’imperatore ecclesiastico e patriarca nel giro di pochissimo tempo, già in avanzata
età, grazie alla carriera amministrativa che già aveva alle spalle. Nonostante la cosa non andasse contro ad alcuna
regola, la mossa era evidentemente motivata da convenienze politiche. In seguito, inoltre il divario fra Pontefice e
patriarca si accentuò con la scomunica da parte del primo e una serie di modifiche alla liturgia da parte del secondo. In
questo contesto sociopolitico turbolento, Borìs chiese a Fozio di poter scegliere il capo della propria Chiesa,
rivendicando il diritto di autocefalia. Nella lettera giunta fino a noi con cui Fozio rispose al khan, il patriarca bizantino
stila un compendio della pratica canonica di Costantinopoli, sottolineando che l’autocefalia era riservata alle sedi
apostoliche. Borìs si rivolge dunque a Roma, al soglio pontificio di Nicolò I. Il papa gli inviò due vescovi in ambasciata
per intrattenere dei negoziati. Iniziò così una situazione di stallo che si sarebbe protratta per alcuni anni.
Nel frattempo, più a nord, nella Grande Moravia del principe Rostislav risiedeva una comunità slava già cristiana la cui
conversione era stata gestita sì da Roma, ma in modo indiretto. La vita ecclesiastica del posto (e suoi tributi) erano
infatti gestiti da emissari dei vescovati più vicini, in questo caso provenienti dall’Impero dei Franchi. Si può dire che
Rostislav fosse soggetto ai desideri non solo del papa, a anche della nazione germanica ai confini del proprio regno;
inoltre, la liturgia veniva amministrata dai Franchi in latino. Conscio delle scarse possibilità di vincere un eventuale
scontro armato, avviò una strategia per liberarsi da questa doppia subordinazione: 1) alleggerì pressione sulla Chiesa
stabilendovi una gerarchia autonoma 2) facendo leva sulla scarsa accessibilità della liturgia ecclesiastica per il popolo,
iniziò a imporsi sulla questione della lingua. Il quadro si complica quando il regno franco iniziò a intavolare trattative
per un’alleanza con i Bulgari; questo possibile accordo avrebbe permesso di ‘prendere a tenaglia’ Rostislav e tutti gli
altri staterelli slavi lì presenti, nonché la possibilità di trovarsi con degli alleati già in terreno bizantino disposti a lottare
contro Costantinopoli. Intorno all’860-1, Rostislav richiese a Bisanzio l’invio di due funzionari: un vescovo per la
Moravia e un maestro per il popolo, affinché la religione diventasse più accessibile per tutti: “Noi slavi siamo gente
semplice, necessitiamo di qualcuno che ci insegni la fede nella nostra lingua.” Si è così delineato un gioco politico
fondamentale: accontentare Rostislav significava per Michele I sia un’opportunità di favorire un futuro alleato che un
rischio (non si poteva mandare un vescovo in una sede non adatta). La richiesta fu infine accolta, sebbene in parte:
Michele decise di inviare due maestri. Furono così convocati i due fratelli Cirillo e Metodio: “Siccome voi siete di
Tessalonica e conoscete la lingua slava potete compiere una traduzione dei testi religiosi per la Moravia.” Si sarebbero
così create le basi per una chiesa morava autonoma. C’era tuttavia un enorme ostacolo: ai moravi, così come agli Slavi
in generale, mancava un sistema scrittorio. Nella Vitae, quando il re informa Costantino di tutto ciò, afferma: “Se il
Signore te la rivelasse, nessuno di noi avrà obiezioni.” Non sappiamo quanto tempo servì a C&M per congegnare la
scrittura, né quante traduzioni fu necessario fare prima di partire nell’862-3 con un gruppo di discepoli. Rostislav li
accolse nel migliore dei modi, ponendoli nelle migliori condizioni per continuare l’opera cominciata. Anche il principe
di Pannonia mandò un buon numero di persone in Moravia affinché potessero apprendere la liturgia.
Nell’864, sul fronte bulgaro, Borìs si rende conto che non giungerà molto presto l’attesa risposta da Roma, per cui
anche la prospettiva di una conversione al Cristianesimo e di una conseguente alleanza coi Franchi inizia a vacillare. In
più, scoppia l’ennesimo incidente di frontiera coi Bizantini e Michele III manda la flotta nel Mar Nero, esattamente di
fronte alla costa bulgara; viene sfiorato lo scontro armato. In questo clima di tensione crescente Borìs decide di optare
per il compromesso e accetta le condizioni impostegli dal re di Costantinopoli: la conversione al Cristianesimo
ortodosso e l’accoglienza di un vescovo nel proprio regno. Il regno bulgaro viene battezzato nell’865. La prima sede
ecclesiastica fu forse nella città di Dolostòlon, mentre la capitale amministrativa era a quel tempo Plìska, nelle zone
nord-orientali. Questa prima fase di cristianizzazione avviene tutta in lingua greca. In questo contesto si svilupparono
varie traduzioni locali sul modello dell’ebraismo. Inoltre, si cerca di “concentrare” nel giorno dedicato alla divinità tutti
gli avvenimenti più importanti della fede cristiana: passione, morte e resurrezione, prestando grande attenzione a
bloccare la nascita di eventuali deviazioni dai concetti dogmatici ‘standard’. Sulle modalità di preghiera, invece, vi è
stata molta più elasticità: partendo da un modello sinagogale col tempo si verificano varie aggiunte. Dal IV secolo in
poi, con lo svilupparsi del monachesimo, si delinea la differenza fra due ordinamenti differenti: ordinamento
cattedrale (laici) e ordinamento monastico (monaci), con due corrispondenti prescrizioni liturgiche. Nascono vari tipi di
ordinamenti liturgici e di messe: celebrazioni, suppellettili, modalità di comunione (da cui una diatriba sulla lievitatura
del pane). Durante le trattative, per evitare il caos Borìs addirittura scrive a Niccolò, chiedendo se le pratiche liturgiche
adottate dai propri sudditi fossero corrette.
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All’inizio del IX secolo si sono ormai formate in Europa varie organizzazioni statali. Sorge in questa fase un
quesito che avrà risvolti importanti per lo sviluppo dei popoli slavi: il problema se accettare o meno il
Cristianesimo. Queste dinamiche religiose non sono mai isolate o fini a se stesse, ma avvengono sempre
all’interno di un quadro politico-internazionale molto complesso. Già molte popolazioni avevano optato per
il sì. In questo momento molti regnanti vengono sollecitati a prendere una posizione: 1) il regno
(proto-)bulgaro, in cui la componente slava aveva finito col prevalere, sebbene la classe dirigente
conservasse ancora un’altra lingua. Questa formazione, capeggiata dal khan e situata (come molti altri
principati slavi) al confine dell’Impero Romano d’Oriente sul Danubio, nella prima metà del IX secolo non è
ancora interessata dalla questione. Così come le altre formazioni statali slavofone situate nella giurisdizione
di Costantinopoli, erano autorizzate a decidere per sé in modo autonomo. 2) dagli inizi del IX secolo, a
Nord del Danubio (ovest del Canone 28, giurisdizione romana) troviamo il regno della Grande Moravia,
regno già cristiano guidato da Rostislav. La popolazione slava è maggioritaria rispetto ad altri gruppi. Qui
troviamo un vescovo con importanti mansioni, a volte in contrasto col principe. Sappiamo che in territorio
moravo erano per di più presenti vescovi provenienti dalle sedi metropolitane più vicine (ossia dalla franca
Ratisbona).
Nel caso specifico della Grande Moravia, date le grandi distanze da Roma, l’amministrazione delle diocesi
viene affidata dal pontefice al vescovo metropolita di Ratisbona, la sede metropolita più vicina. Bisogna
distinguere due tipi di sedi:
 Sede PATRIARCALE : configura aree molto grandi. Più importante nella gerarchia perché qui vi aveva
predicato un apostolo o un loro diretto discepolo (vedi Roma e Costantinopoli).
 Sede METROPOLITA: chiesa di rango inferiore rispetto alla patriarcale, con area più grande a capo di più
diocesi. Guidata da un arcivescovo fornito di poteri particolari (quale la nomina dei vescovi ordinari). Le
decisioni più importanti per quanto riguarda la fede e i dogmi sono affidate ai concili e al papa/patriarca.
Tutto ciò comportava degli svantaggi per gli Slavi: Rostislav era difatti costretto a confrontare il proprio
potere con quello di un capo di Chiesa franco. E i Franchi avevano tutte le ragioni per ostacolare il suo
potere, tanto da valutare in quello stesso periodo l’opportunità di un’alleanza politica con i Bulgari. I
motivi erano sostanzialmente due:
1) I principati di Moravia e Pannonia sarebbero rimasti “schiacciati” ai due lati
2) La vicinanza geografica dei Bulgari all’Impero d’Oriente sarebbe risultata molto vantaggiosa per
poterlo ostacolare.
L’unico modo che Rostislav ha per ridurre il potere dei clericali franchi in terra morava è ottenere il diritto di
parola nella nomina dei vescovi, per creare una gerarchia ecclesiastica autonoma. Questa procedura era
riservata unicamente alle Chiese autocefale (“che decidono per sé”), ma alla Moravia mancava un requisito
fondamentale per rivendicare tale statuto: il primato apostolico, ossia la prova che un apostolo (o un suo
diretto discepolo) avesse predicato su quei territori. Ovviamente Rostislav non può dimostrare nulla di tutto
ciò, ma richiede comunque al pontefice qualche grado di autonomia. Dopo aver ricevuto un rifiuto,
Rostislav decide di scavalcare la legge canonica e compie una scelta decisiva: nell’860 pone la stessa
richiesta all’imperatore bizantino. La situazione religiosa e politica a quel tempo era piuttosto precaria fra
lotte iconoclaste, conflitti di potere, eccetera, per cui l’imperatore valuta con molta attenzione come
rispondere al principe moravo.

I testi agiografici Siamo venuti a conoscenza di tutti questi sviluppi grazie a due fonti: la Vita Costantinii e
la Vita Methodii. Da questi testi, difatti, si possono estrapolare la maggior parte delle notizie che li
riguardano. Il genere agiografico [àigos santo + graphia scrittura] nasce con gli Acta Martirum, annotazioni
in cui venivano elencati i nomi di quanti vennero condannati fra il II e III secolo per aver praticato la propria
fede. I testi sui due fratelli sono stati per molto tempo guardati con sospetto, perché, come tutti gli scritti
agiografici, per raccontare le vite dei santi rispondono a tòpos e rigide convenzioni di genere, quali strutture
letterarie particolari e formule fisse in cui “inserire” le reali vicende biografiche. Va detto che di rado
l’autore dell’agiografia conosceva (o aveva conosciuto) il santo al centro della propria opera, visto che
magari costui aveva vissuto secoli prima. Spesso, per descrivere il ‘modello di santità’ del protagonista,
l’autore si avvale di alcune formule standard (“Fin da piccolo ha mostrato grande interesse per le Sacre
Scritture…”, “Era molto timido e riservato” / ”Era estroverso e gentile con tutti”, eccetera). Gli storici non
possono prendere tutto ciò che è scritto in un testo agiografico per verità sia alla luce di questo, che del
fatto che tali testi venivano tramandati (per secoli e secoli) tramite ricopiatura manuale. Comunque sia, i
testi agiografici svolgono una funzione oltre che storica liturgica, poiché sono entrati a far parte della
liturgia delle ore.

Vita Costantinii & Vita Methodii Cirillo e Metodio vengono citati nei lezionari (manuali sulla
celebrazione della liturgia dove ogni santo corrisponde a una giornata dell’anno) come santi già nel X
secolo, per cui doveva necessariamente già esistere un testo agiografico loro dedicato (così che potesse
esserne letto un passo durante la giornata loro dedicata); si presume che il loro culto fosse cominciato poco
dopo la missione in Moravia. I due testi agiografici loro dedicati presentano alcune differenze. I manoscritti
più tardivi della Vitae Constantinii risalgono alla fine del XIV secolo, ma non si sa precisamente quando fu
scritto il testo vero e proprio; inoltre, La V.C. risulta molto più lunga (almeno 3 volte tanto) della Vitae
Methodii, anche se M. fu più longevo. Ciò si potrebbe spiegare con la grande disponibilità di fonti per la VC,
che fu scritta quando M. era ancora in vita e poteva fornire testimonianze oculari degli accaduti. Le due
agiografie in passato sono state rinominate “leggende pannoniche” (seguendo la geografia romana, le due
opere narrano di vicende accadute nella regione pannonica) alla luce del clima di incertezze e dubbi
creatovisi attorno. Alcune informazioni tratte dai due testi:
 La loro famiglia era benestante e molto numerosa; Costantino era il figlio minore della famiglia,
mentre Metodio il figlio maggiore. Probabilmente fra i due vi era un certo numero di anni di differenza.
 Risiedevano a Tessalonica, allora città molto ricca e vivace. La lingua maggiormente parlata era di
origine slava. Alcuni storici hanno tratto delle speculazioni su una probabile origine slava dei due fratelli da
parte del ceppo materno, tutt’ora non verificate.
 Colui che conosciamo come Metodio in realtà non si chiamava così; questo fu solo un nome che
prese insieme ai voti monastici in giovanissima età. Prima di questo aveva intrapreso una promettente
carriera da funzionario a nord della Macedonia, al confine col regno bulgaro.
 Il fratello minore, Costantino, viene invece quasi sempre chiamato col suo nome di battesimo
perché cambiò nome in Cirillo solo poco prima di morire.
 Il padre morì quando loro erano ancora piccoli. Metodio intraprese dunque molto giovane la
carriera amministrativa. Il vivace piccolo Costantino invece, fu portato da un caro amico di famiglia,
Theóctisto, dirigente di corte, nella capitale bizantina per fargli avere buona istruzione, e il piccolo, col
tempo, sviluppò una grande cultura e una fervida passione per la filologia, tanto da ricevere il titolo di
filosofo (maestro di arti liberali). Cirillo tuttavia non sognava di avere una carriera come Metodio. Inoltre,
per ristabilire le finanze della famiglia, duramente colpite dalla morte del capofamiglia, Costantino era stato
anche destinato a un matrimonio combinato, ma il giovane rifiutò di sposarsi, rivelando la propria
vocazione monastica.
 Cirillo fu coinvolto assieme al fratello in varie missioni diplomatiche per conto dell’Impero
d’Oriente, ad esempio presso i Khazari, popolazione d’origine uralo-altaica insediata in un grande regno fra
il Mar Nero e il mar Caspio. La zona era strategica: controllavano tutte le vie commerciali che collegavano
oriente e occidente. Una volta posta la questione della religione di Stato, i Khazari valutarono la possibilità
di convertirsi all’islam (per favorire i rapporti con i vicini Arabi) o al cristianesimo (così da radicarsi nel
contesto europeo), ma alla fine valutando le logiche di potere optarono per l’ebraismo. Questa religione
era la più vantaggiosa perché implicava il minor controllo esterno possibile a causa della grande distanza
geografica e dell’instabilità politica della comunità giudaica. Costantino si impegnò per far capire ai capi
religiosi khazari che le loro fedi non fossero poi così opposte e ottenere dunque quanti più diritti e garanzie
per i cristiani e i bizantini che transitavano in territorio khazaro.
 Un’altra missione diplomatica di cui si legge è quella presso il califfato arabo, luogo non meno irto
di difficoltà per degli ambasciatori cristiani. L’ambasceria fu un successo: il califfo acconsentì alla liberazione
di alcuni prigionieri cristiani dopo un conflitto armato.
 Al ritorno dalla missione presso i Khazari, i due fratelli sbarcarono in Crimea, dove fecero una sosta.
Qui Costantino, basandosi sul testo agiografico del martire Clemente I, ricercò il punto in cui il santo fu fatto
annegare. Una volta individuato, scovò anche delle reliquie in mare che poi portò con sé in Moravia.
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Nonostante le fonti più importanti su C&M siano le loro agiografie, i padri fondatori della slavistica non erano molto
fiduciosi in una loro vera attendibilità: questo genere di testi va analizzato con cautela perché basato su strutture
testuali piuttosto rigide e standardizzate. Inoltre, queste fonti ci sono pervenute tardivamente: erano trascorsi molti
anni dall’epoca in cui hanno vissuto i due santi. I manoscritti più antichi che ci sono pervenuti risalgono per lo più a XII
secolo. Una delle poche eccezioni è il Vangelo di Assemani, lezionario (raccolta delle celebrazioni evangeliche per le
celebrazioni liturgiche) che rappresenta una vera rarità, in cui C&M vengono menzionati già come santi. Il testo
risalirebbe addirittura al X secolo. Un altro punto che ha perplesso molti studiosi è la disparità di lunghezza fra le due
agiografie: se la VC narra anche di avvenimenti antecedenti alla missione in Moravia, la VM risulta molto più stringata.
Qualche filologo ha ipotizzato che la VC sia stata scritta poco dopo la morte del santo, quando il fratello era ancora in
vita e ha potuto fornire molte testimonianze dirette e dettagliate.
Sappiamo che 860-870  inizio evangelizzazione delle regioni slave, mentre 862-3  partenza di C&M da
Costantinopoli; avvio missione in Moravia. Le date successive presentano una discrasia: la VC dice che “i due fratelli
si sono recati a Roma dopo 36 mesi di attività traduttoria [ca. 866]”, mentre la VM specifica che la missione è durata
“quaranta mesi”. Questo certamente ha contribuito ad addurre altri dubbi sull’attendibilità filologica dei due scritti. Si
narra che, dopo aver concluso la missione, C&M si siano recati a Roma; qui C muore nell’869, pochi giorni dopo aver
preso i voti monastici. I due fratelli erano stati trionfalmente accolti nella Città Vecchia, anche perché trasportavano
qualcosa di enorme valore: le reliquie di Clemente I papa. Le reliquie del santo, morto martire in Crimea, erano state
ritrovate da Costantino nella Tauride, durante il viaggio di ritorno da una delle loro missioni. Metodio è sopravvissuto
per più anni al fratello minore; dopo aver attraversato varie peripezie a causa dei giochi di potere fra i centri religiosi
principali in Europa, è morto nell’885.
Un altro avvenimento molto importante accaduto in Tauride e menzionato nella VC è l’incontro col Samaritano.
Nell’agiografia v’è scritto che Costantino conobbe appunto un Samaritano, che portava con sé “un Vangelo e un
salterio <<русскими писат написам>> [con lettere russe]”, letti in pochi giorni da Costantino. L’avvenimento è
singolare poiché nella narrazione precede di anni la missione morava e la creazione dell’alfabeto slavo. Inoltre, non è
chiaro chi siano i “Rus’” a cui si fa riferimento in questi passaggi; se serva a indicare gli Slavi, o i Russi, o una serie di
tribù sparse sul territorio e da noi poco conosciute. Alcuni filologi di inizio Novecento hanno preso per buona l’idea
che le sopracitate “lettere russe” fossero effettivamente ciò che comprendiamo oggi, ma tutti i loro tentativi di trovare
dei fondamenti a questa teoria sono stati vani poiché 1) l’inventario completo di tutti questi segni utilizzati dai “Rus’”
non va a costituire un sistema scrittorio coerente; 2) non è chiaro cosa abbia causato la scomparsa di queste
popolazioni e della loro scrittura; 3) inoltre, se nella Rus’ fosse davvero esistita una tradizione scrittoria così articolata
da disporre di una traduzione della Sacra Bibbia, la missione in Moravia di mezzo secolo dopo non avrebbe avuto
ragion d’essere. Una nuova chiave di lettura è stata proposta da Mareš: il famoso filologo ha notato che, in più fonti,
l’aggettivo “___________” (siriaco) viene confuso dai cronisti con “____________” (russo). Di conseguenza, si può
ipotizzare che il samaritano della Tauride fosse in possesso di testi in lingua siriaca, ma forse nel processo di
ricopiatura del manoscritto qualche copista ha inavvertitamente cambiato l’aggettivo.
Dopo la missione presso i Khazari (861-2), i due fratelli erano pronti a tornare in Grecia, quando è giunta la lettera di
Rostislav: “Qui in Moravia siamo già tutti cristiani da molto tempo, ma siamo anche gente semplice e non conosciamo
il latino. Ci spiegano e ci parlano di cose che non riusciamo a capire e che vorremmo apprendere nella nostra lingua.” Il
regnante richiedeva dunque un vescovo e un maestro, “affinché gli insegnasse nella loro lingua.” Rostislav stava
facendo leva sulla questione linguistica per dimostrare la necessità di una gerarchia ecclesiastica autonoma per il
proprio principato. Questo, ovviamente, implicava anche la richiesta di un lasciapassare alla traduzione dei testi sacri
nella propria lingua. Fin dagli albori del Cristianesimo e anche prima, la liturgia e i libri sacri erano sempre stati scritti
in greco o latino, lingue ‘classiche’ ritenute superiori, e dunque più adatte a trasmettere i dogmi da una lingua all’altra
senza incorrere nel rischio di errori o eresie. Per tutti questi motivi la richiesta di Rostislav evidentemente era già stata
rifiutata dal Papa. E Costantinopoli non prestava certo meno cautela nel maneggiare i testi sacri, ma così come
Rostislav, anche l’imperatore era intimorito dall’alleanza militare che si stava instaurando fra Franchi e Bulgari. Decise
dunque di concedere un compromesso: convoca C&M e li invia in Moravia in qualità di traduttori, non di vescovi.
Come sappiamo, i due fratelli vengono selezionati dall’imperatore per la loro origine bilingue e per le loro grandi
capacità. Per sottolineare l’enorme portata dell’operazione, l’agiografo fa chiedere da Costantino: “Queste popolazioni
slave possiedono una scrittura?” Michele risponde: “Già altri l’hanno cercata, invano. Ma se Dio te la concede, sei
autorizzato a crearne una.” Fu così che Bisanzio autorizzò la traduzione della Bibbia in lingua slava. La VC prosegue:
“Dopo questo colloquio, Costantino si ritirò in preghiera, e Dio gli rivelò la scrittura”; questo passaggio vuole farci
capire che l’invenzione della scrittura slava fu un’operazione portata avanti col beneplacito divino, in cui Dio è il vero
creatore dell’alfabeto, e Costantino un tramite. “Dopo che Dio gli rivelò le lettere, Costantino iniziò a scrivere la parola
evangelica: <<All’inizio era presso il Verbo, e il verbo era presso Dio, …>> [inizio Vangelo di Giovanni].” Questa
informazione è molto importante per una serie di ragioni, non ultimo il fatto che questi primi passaggi del Vangelo di
Giovanni siano le letture destinate all’inizio dell’anno liturgico; ciò significa che Costantino iniziò la propria opera di
traduzione con un lezionario. Questo dettaglio rimanda a un altro dubbio: il materiale liturgico tradotto dai due
fratelli era destinato solo alla lettura e all’apprendimento dei dogmi, o anche alla pratica liturgica? L’intenzione di
Costantino era quella di rendere il senso teologico-filosofico della parola di Dio, e (almeno agli inizi) si concentrava sui
testi usati più spesso. L’intera iniziativa rappresentò una novità senza precedenti per i principi slavi; il principe di
Pannonia Kocel, ad esempio, chiese a C&M di prendere con sé alcuni alunni, affinché insegnassero anche a loro la
liturgia. Dopo poco tempo si avviò dunque la missione in Moravia (non sappiamo precisamente dove) e C&M ricevono
un’accoglienza calorosa da Rostislav. Dopo di ché cominciò la monumentale opera di traduzione di un corpus
notevolmente ampio che si sarebbe conclusa dopo 3 anni (o poco più). Le agiografie poi recitano: “Passati 36 mesi in
Moravia, i due fratelli partirono alla volta di Roma”, senza però addurre alcun motivo. A tutt’oggi non ci è dato
sapere se i due fratelli si siano diretti verso Roma di propria spontanea volontà (il vescovo di Roma sarebbe stato
perfetto per dare i voti a Costantino e dare la legittimazione definitiva a tutta la missione) o in seguito a qualche
convocazione, magari del pontefice. Durante il viaggio verso la città capitolina, i due fratelli fanno tappa a Venezia,
città in ascesa e dominio di Costantinopoli. La VC dice: “Lì si radunarono i vescovi e i sacerdoti più importanti, e questi
cominciarono ad accusare Costantino di aver impavidamente compiuto una traduzione non autorizzata delle Sacre
Scritture.” Stava succedendo quello che Costantino aveva temuto fin dall’inizio: iniziavano a saltar fuori le accuse di
eresia, in questo caso l’”eresia trilinguista”. I clericali riuniti a Venezia sostenevano che fosse lecito glorificare il
Signore solo in tre lingue – ebraico, greco e latino. Questa tradizione derivava dal fatto che i capi di condanna di Gesù
di Nazareth furono appunto scritti in queste tre lingue.

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Già nel IX secolo, si stavano creando le fondamenta per la rivendicazione del principio di apostolicità prima, e
dell’autocefalia poi, da parte di Venezia. Per legittimarla, il doge puntava a sostenere che lì si fosse svolta la
predicazione di Marco, evangelista e discepolo di Pietro. In realtà, la sede ecclesiastica più autorevole della zona
(nonché sede apostolica) era Aquileia, per gli stessi motivi addotti dal doge. Questo ovviamente andava a complicare
la già difficile situazione di C&M; va tenuto a mente che la questione linguistica venne sfruttata da Rostislav per fini
politici e religiosi, con l’obiettivo ultimo dell’autocefalia.
I due fratelli, una volta giunti a Venezia, trovarono un incontro di vari uomini di Chiesa; viene raccontato che “I prelati
si riunirono come corvi contro di loro. <<Chi ti ha autorizzato a ‘fare le Lettere per gli Slavi’ se 1) gli Slavi non esistevano
agli albori del Cristianesimo; 2) non avevi il permesso dei padri della Chiesa; 3) non avevi il permesso del vescovo
apostolico [il Papa]?>>”. Un’ulteriore argomentazione addotta contro i fratelli di Tessalonica fu quella per cui al tempo
le lingue franche per la religione, fin dagli inizi, erano 3. I capisaldi delle obiezioni erano dunque: a) il timore di
eventuali errori nella traduzione; b) la traduzione non era stata prevista dai padri della Chiesa [argomentazione anti-
storica, perché ai tempi gli Slavi ancora non erano definiti come comunità]; c) non era stata commissionata dal Papa,
l’unico ad avere giurisdizione su queste terre; d) il riferimento alla questione trilinguista. Sebbene l’ebraico rientrasse
nella rosa delle lingue legittimate, in realtà non aveva mai avuto funzioni liturgiche. Il Cristianesimo nasce e si sviluppa
in ambito del greco, con un passaggio successivo al latino che avviene in Occidente nel IV secolo scavalcando una
situazione di bi-linguismo, dunque l’ebraico non fu mai preso in considerazione per questioni liturgiche. In realtà, la
stessa base della sua legittimità era debole, poiché la lingua parlata da Gesù e dai suoi contemporanei in realtà era
l’aramaico, ben diverso dall’ebraico della Torah. Alla luce di questo, la Traduzione dei 70 aveva uno scopo pratico:
mettere la Bibbia a disposizione dei tantissimi in Egitto che ormai non parlavano più la lingua ebraica. Dunque, il
riferimento all’ebraico nelle argomentazioni addotte dai monaci veneziani era più che altro simbolico. L’agiografo
concede poi la parola a Costantino, che abilmente risponde: “<<Ma allora voi siete così ciechi [rimando a S.Paolo, ndr]
da non volere che altri popoli si avvicinino al Cristianesimo? Siccome il buon Dio fa scendere la pioggia su tutti gli
esseri umani, buoni o cattivi che siano, permettendo loro di sopravvivere, ugualmente fa piovere la sua Parola su
ognuno di noi. Privare alcuni uomini della Stessa significherebbe andare contro al Suo volere.>> E così i malefici che
avevano sollevato l’eresia trilinguista furono taciuti.” La parola ‘eresia’ fu qui usata dall’agiografo per sottolineare
l’opposizione al piano politico di Rostislav e alla formazione di un corpus di traduzioni parallelo; etimologicamente
infatti, in greco erèsis significava “opinione, corrente di pensiero (differente).” Questo termine ha progressivamente
assunto la propria attuale connotazione negativa, con le sempre più frequenti condanne alle “correnti di pensiero”
divergenti nei vari Concili, e analogamente, gli slavisti che studiarono questi testi molti secoli più tardi hanno preso il
termine ‘eresia’ alla lettera. Un altro punto di difesa preso in considerazione da Costantino fu che “in Oriente già tanti
popoli lodavano Dio nella propria lingua,” procedendo poi con una loro enumerazione. Proprio questo elenco ha
causato scompiglio negli studi filologici, poiché in alcuni manoscritti compare l’etnonimo “Turzi”. Sebbene il rimando
più ovvio sia ai Turchi (e lo fu di fatto per molti copisti), in realtà, nel momento in cui parla Costantino (IX secolo)
questi non sono ancora giunti in Asia Minore e i contatti con i popoli europei erano ancora minimi. È più probabile
piuttosto che l’etnonimo sia un rimando a una popolazione di ceppo uralo-altaico ormai scomparsa, ossia gli Agatirsi.
Questo popolo abitava fuori dai confini dell’Impero, perciò forse Costantino si riferiva a popoli del tutto al di fuori della
giurisdizione romana e bizantina. Costantino voleva dunque far capire che non si poteva impedire alle popolazioni non
latinofone o grecofone di praticare la religione nella loro lingua.
Dopo questo acceso dibattito, i due fratelli ripartono alla volta di Roma, arrivando nel dicembre 867. Il papa con cui la
vicenda era cominciata, Nicolò I, è morto, perciò vengono accolti da Adriano II. Il nuovo papa benedice i libri slavi, poi
utilizzati in una funzione liturgica a Santa Maria Maggiore. Questo atteggiamento così disteso da parte del nuovo
pontefice era indotto da ciò che i due fratelli portavano con sé: le preziosissime reliquie di Clemente I papa, che
vennero poste nella basilica appositamente dedicata. Il soggiorno a Roma è lungo; Costantino vi muore nel febbraio
869. Metodio stava preparandosi per far ritorno nel proprio monastero sul Monte Olimpo, ma prima di scomparire
Costantino esorta il fratello maggiore a tornare in Moravia per finire ciò che avevano cominciato. Metodio domanda
dunque al papa di poter portare la salma del fratello con sé, per “riunirlo con la madre”, ma il papa si oppone, e lo fa
seppellire “assieme a Clemente”. Il monaco fa dunque ritorno in terre slave, stavolta con piena benedizione papale
stando a quanto detto dall’agiografo – non esiste alcuna documentazione ufficiale a riguardo. Una controprova
potrebbe essere rappresentata dai registri riassuntivi, che però non ci sono giunti integralmente. Adriano nomina
Metodio vescovo, dunque si sta realizzando il progetto prefigurato da Rostislav. Nella lettera diretta al principe della
Pannonia, il papa comunica di aver approvato le traduzioni dei testi sacri, incalzando poi: “Tu avevi chiesto un vescovo
e un maestro nel momento in cui non potevamo concederteli”; non è chiaro a quali impedimenti od ostacoli si stesse
riferendo in particolare. Un’altra fonte, di origine latina, è conosciuta col nome convenzionale di “Leggenda italica”
poiché attribuita a un vescovo italiano, dedito a studiare la storia della traslazione delle reliquie di San Clemente. La
VC riferisce che Metodio, ormai vescovo, viene inviato in Pannonia dal papa, con una lettera dove il pontefice scrive:
“Abbiamo trovato il nostro fratello pieno di fede; adesso lo rimandiamo alle genti della Pannonia su una delle sedi più
antiche della Cristianità”: Andronico, dove già aveva predicato un seguace degli apostoli. Dopo aver compiuto il
proprio dovere di vescovo torna in Moravia, per portare avanti il proprio apostolato e il lavoro di traduzione. Il
vescovo svolge il proprio operato in tranquillità, finché i vescovi delle sedi vicine non ricominciano a diffondere
malelingue sul suo conto. Il nuovo papa, Giovanni VIII, alla luce dei dubbi sulla legittimazione delle traduzioni e sulla
giurisdizione di Metodio, decide di convocarlo a Roma (879). L’incontro rincuora il pontefice sulla buona fede del
vescovo di Tessalonica, così il nuovo pontefice approva definitivamente la liturgia slava. Dopo l’incontro, M viene
imprigionato dal clero germanico, portato in Svevia e trattenuto con un fermo in un convento non ben precisato, con
l’accusa di devianza religiosa: gli si incolpava di non aggiungere il ‘filioque’ nella formula del Credo. Il vescovo non
poteva appellarsi al re moravo, perché nel frattempo in Moravia v’è stata una congiura e Rostislav era stato ucciso dal
nipote, Svjatopor. Questo nuovo principe, alla luce della propria alleanza con l’imperatore germanico, non può che
schierarsi assieme a Ratisbona, contro la liturgia slava. Subito dopo la situazione precipita: muore anche il principe
Kocel (le cause sono sconosciute) e il principato di Pannonia viene integrato nei confini dell’imperatore germanico.
Anche Michele III viene deposto con una congiura, da cui emerse Basilio I; costui cercò di ristabilire l’ordine vigente
prima dello scandalo di Fozio (imperatore tagliato fuori dalle decisioni ecclesiastiche) per sedare gli antagonismi fra
potere spirituale e temporale. Alcuni discepoli di Metodio riescono a informare il pontefice della situazione, e due
emissari romani partono per chiarire una questione non autorizzata dal papato. Metodio viene liberato, scagionato da
ogni capo di accusa e nominato Arcivescovo di Moravia e Pannonia (sottoscrivendo però che nelle celebrazioni
liturgiche la lettura delle Scritture avvenga prima in latino e poi nella lingua slava) [880]. L’arcivescovo è ormai in
avanzata età; convoca due scribi ai quali detta la traduzione di tutte le parti mancanti della Bibbia, escludendo del libro
dei Maccabei, solo nel giro di qualche mese. Metodio muore nell’aprile 885, poco dopo aver indicato come proprio
successore al vescovato Gòraszd. Questa sua ultima decisione viene giudicata da molti un abuso di potere, poiché in
questi casi i successori dovevano essere scelti dalla comunità di fedeli o dal papa. Qui si conclude la Vita Methodii; ciò
che conosciamo dei fatti successivi lo scopriamo dagli scritti agiografici sui suoi principali discepoli, quali Clemente da
Okhrid & Naum, quasi sicuramente greci (di Goraszd non abbiamo più alcuna notizia). Dopo la morte di Metodio,
scatta una forte repressione; nella Vita di Clemente leggiamo delle peripezie vissute dallo stesso e da altri sacerdoti:
alcuni riuscirono a fuggire di prigione grazie a un terremoto, altri furono venduti come schiavi. Il gruppo di Clemente
riesce a fuggire di prigione e a lasciare il paese prima che vengano scoperti; riescono dunque a sbarcare con una
zattera sull’altra sponda del Danubio, in Bulgaria (885). Dall’avvio della missione morava, la situazione religiosa della
Bulgaria non era stata meno turbolenta. Dopo vari tentativi, Borìs aveva capito che le richieste poste a Roma e a
Bisanzio per una conversione nazionale e un patriarcato bulgaro non sarebbero state accolte. Inoltre, Bisanzio tenta di
smuovere la situazione di stallo ponendo delle flotte vicino alla costa bulgara, portando Borìs a risolversi (864-5) per
un battesimo e una liturgia greca. Fu per questo che, al proprio arrivo sul suolo bulgaro, Clemente e gli altri furono
accolti a braccia aperte per “slavizzare” il clero bulgaro.

Quando C&M furono convocati dall’imperatore Michele per cominciare la missione in Moravia, Cirillo chiese subito se
gli Slavi si avvalessero già di un sistema di scrittura, ma Michele gli rispose che “già altri l’avevano cercata, ma invano.”
Ma se Dio fosse intervenuto a “rivelare la scrittura”, allora Costantino “aveva l’autorizzazione a introdurla.” Questa
assimilazione dell’invenzione dell’alfabeto a una creazione divina è un topos ricorrente anche in altre tradizioni scritte;
serve a legittimare un grande cambiamento, a rendere più accettabile un’importante creazione, rendendola opera di
Dio. Non è stato affatto facile capire esattamente di quale tipo di “ scrittura slava” si parlasse nella VC, perché i padri
fondatori della filologia slava conoscevano manoscritti in cirillico e in un’altra scrittura di forma totalmente diversa,
detta glagolitica. Inoltre, nessuno di questi manoscritti risale all’epoca di C&M, perché all’epoca, data la scarsità di
materiale su cui scrivere, ogni pergamena veniva riutilizzata fino allo sgretolamento. Nel primo 800, il numero di
manoscritti conosciuti era ancora molto ridottissimo e la tradizione aveva già consacrato un certo tipo di scrittura
come ‘cirillico’, mentre l’altro nome (di origine sconosciuta) sembrava un filone destinato a esaurirsi. La domanda
sorge spontanea: se il cirillico è stato creato da Costantino, chi ha congeniato la scrittura glagolitica? Furono
strumentalmente utilizzate ipotesi diverse con una certa verosimiglianza: dal punto di vista grafico, il cirillico conserva
e imita molto del greco maiuscolo, mentre il glagolitico “rotundo” (il più antico) non sembra rimandare ad alcun
modello precedente. Queste osservazioni hanno portato a pensare che forse il glagolitico fosse quel sistema di
scrittura a cui accenna uno scriba medievale: gli slavi, prima di essere evangelizzati non avevano le lettere; “usavano
linee e segni per far di conto e divinare”, ma “без утроения,” senza un sistema scrittorio organico. Qualche studioso
ha ipotizzato che tale sistema scrittorio fosse nato dai “segni” di cui ci parla lo scriba, il monaco Chrabr, poi diventati
lettere di un insieme alfabetico organico; un ostacolo a quest’ipotesi è rappresentato proprio dall’organicità del
glagolitico, troppo accurata per essersi creata spontaneamente in tempi pagani. Inoltre, non è chiaro in quale
momento il glagolitico sia stato creato: le parole di Michele nella VC attestano che la sua invenzione non sia avvenuta
prima della missione in Moravia; inoltre, sarebbe illogico pensare che sia avvenuta dopo che Costantino avesse già
introdotto un altro efficiente sistema di scrittura. Nel secondo dopoguerra questo approccio “storico” viene
abbandonato, e dal confronto linguistico e ortografico fra più fonti inizia a proporsi l’idea, tuttora dominante, che sia
stato Costantino Cirillo a inventare il glagolitico. La fonte principale sulla questione alfabetica è un trattato sulla
traduzione della Bibbia, attribuito al monaco Chrabr. Non è affatto chiara l’identità dell’autore e per di più l’opera ha
assunto vari titoli con gli anni, nella trasmissione del testo (Trattato sulle lettere, Trattato sulle lettere del monaco
Chrabr, Trattato sulle lettere fatte da Costantino Cirillo filosofo, Trattato sulle lettere di Costantino Cirillo filosofo,
ecc). Un altro mistero attorno a quest’opera è la datazione. Del Trattato ci sono giunti più di un centinaio di
manoscritti; questo può significare che fosse un’opera estremamente conosciuta e popolare, oppure che fosse usato
per l’insegnamento nelle scuole. Il manoscritto più antico riporta la data 1348, tuttavia il contenuto del testo ci fa
capire però che il testo di per sé è molto più antico. Lo scopo dell’opera era probabilmente spiegare e giustificare la
creazione della scrittura slava, mostrando quanto fosse valida e benedetta da Dio al pari di tutte le altre. In concreto il
testo non risponde a delle obiezioni precise, bensì c’è un riferimento costante ad “Alcuni”, perciò la genesi del testo è
necessariamente avvenuta in un periodo in cui la scrittura slava era molto avversata da chi non voleva nascesse
un’ulteriore liturgia (epoca cirillo-metodiana, o quantomeno al periodo immediatamente successivo alla morte di
Cirillo). Il testo è stato scritto prima che fossero usati due sistemi scrittori, poiché parla sempre e solo di una scrittura,
“creata da Costantino Cirillo e rivelatagli da Dio.” Chrabr riflette su come gli slavi si organizzassero prima
dell’invenzione di Costantino: “Prima gli Slavi non avevano libri, ma con linee e intagli contavano e divinavano. Poi,
essendosi cristianizzati, provarono a scrivere la propria lingua con le lettere greche e latine.” Queste affermazioni sono
riscontrabili in altre fonti: l’elenco dei khan bulgari è scritta in greco, così come esistono anche piccoli lacerti di testi
slavi, risalenti a epoche molto antiche, scritti con l’alfabeto latino. Quando si presentò la necessità di scrivere alcuni
fonemi assenti nella lingua greca e latina, “il buon Dio, che vuole che tutti gli uomini conoscano la fede, mandò un
santo: il filosofo Costantino.” Chrabr continua poi elencando queste nuove lettere, “dalla A fino a....” Su questa
seconda lettera sono sorti molti dubbi e dibattiti, poiché in un buon gruppo di manoscritti è sopravvissuto solo un
brandello che riportava “dalla A fino a …,” segnando la seconda lettera con uno spazio vuoto; dunque il copista non
era stato in grado di decifrare e ricopiare il secondo grafema. Inoltre, l’elenco delle lettere che seguiva è poco
attendibile, poiché è stato di volta in volta modificato dai copisti. Tutte le copie giunteci del Trattato sono in cirillico;
c’è stata però una costante rielaborazione e aggiornamento delle lettere perché, col passare dei secoli, il sistema
grafematico del cirillico si è progressivamente espanso, con l’evoluzione dello Slavo comune e delle abitudini scrittorie.
Molti copisti, per rimediare al mistero della seconda lettera, hanno iniziato ad apporvici la “H” (/en/), grafema di
risonanza nasale probabilmente posto alla fine dell’alfabeto. Chrabr illustra in modo chiaro che Costantino cominciò
dalla lettera “A,” sul modello della lettera greca alfa: “Fece l’alfabeto degli slavi seguendo il modello greco: 24 lettere
simili al greco più 14 grafemi per la parlata [i suoni] slava,” per un totale di 38 lettere. Le prime 24 lettere erano ‘simili
al greco’ non tanto nella forma, quanto nell’ordine; esaurite le lettere per i fonemi in comune fra le due lingue,
Costantino passò a inserire grafemi originali per i fonemi esclusivamente slavi (pensiero grammaticale greco nella
strutturazione dell’alfabeto). Molti studiosi hanno dimostrato che Costantino partì col distinguere i fonemi dalle
varianti fonologiche, per poi far corrispondere un unico grafema a ogni fonema principale. A quell’epoca, l’alfabeto
greco aveva tutt’altra impostazione, perché presentava più grafemi per esprimere lo stesso fonema ( Β > /v/ , μπ > /b/ ;
alf. Greco antico: η = ι = υ = /i/). Tutti i manoscritti che sono arrivati fino ai giorni nostri convergono sul numero delle
lettere e l’anno della creazione dell’alfabeto (“Сказаний декабрь”). Tutte e 38 queste lettere vennero usate anche
per contare – alcune addirittura hanno solo valore numerico e nessun valore fonetico.
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Il Trattato di Chrabr è una fonte a un tempo fondamentale e problematica: seppur chiarisce molti misteri
sulla creazione della scrittura slava, presenta molti punti oscuri, quali l’identità del proprio autore, le
circostanze in cui è stato scritto (probabilmente poco dopo l’invenzione dell’alfabeto slavo), e altri
particolari. Delle 115 copie giunteci del Trattato, soltanto in due, alla fine dello scritto, c’è la frase: “Sono
ancora vivi quelli che li hanno visti.” Nascono due ipotesi: 1) la frase è stata aggiunta dallo scriba di quel
testimone per qualche ragione a noi ignota; 2) la frase è forse molto antica; è stata omessa –
volontariamente o meno– dagli scribi e dunque, col tempo, è andata perdendosi. Finché non avremo un
terzo testimone per convalidare l’una o l’altra probabilità, possiamo solo fare delle ipotesi. Inoltre, se tutti i
manoscritti che sono sopravvissuti fino a oggi sono stati ricopiati dal glagolitico al cirillico, questo unico
testimone si distingue anche per la presenza di molti errori causati da tale passaggio alfabetico.
Differenze fra i testimoni a parte, questo scritto ci spiega molte cose su come fu impostato l’alfabeto slavo.
Chrabr ci dice che Costantino aveva analizzato tutti i fonemi del dialetto che conosceva, quindi aveva
assegnato un unico grafema a ogni fonema principale e infine aveva disposto le lettere prima seguendo un
ordine greco e dopo aggiungendo le lettere “tipicamente slave”. Già dagli anni 20 del Novecento è stata
rilevato un pensiero grammaticale greco nella strutturazione dell’alfabeto. Un fatto degno di nota è che
Costantino non si limitò a ricopiare nell’alfabeto slavo le prime 24 lettere greche così com’erano, ma anzi
riuscì a escludere tutte le lettere che non potevano esprimere fonemi slavi. Nei “posti” che si liberarono
posizionò dunque lettere che corrispondevano a grafemi posseduti una volta dal greco per esprimere
suoni presenti in slavo e non in greco. Ad esempio, partendo dal cambio di pronuncia della beta,
Costantino pensò di affiancare al secondo posto dell’alfabeto rispettivamente i grafemi per “/b/” e “/v/.”

Alfab. Greco  α / β [prima “b”, poi “v”] / γ / δ / ε / [X] / [X] ; Glagol.  / / / / / / /

Costantino riempì i due posti vuoti lasciati dai fonemi greci con due fonemi slavi il più possibile simili,
ristabilendo l’equilibrio numerico. In corrispondenza della /i/ abbiamo tre grafemi slavi: / / .
Questo ‘squilibrio’ si può spiegare ipotizzando che agli inizi probabilmente esistessero solo due grafemi e il
terzo (la i sul piede) fosse una semplificazione della “i su triangolo”. Inoltre, forse la /i/ morava presentava
una peculiarità dalla /i/ che conosceva Costantino, dunque il santo ritenne opportuno creare un secondo
grafema per rappresentare una /i/ con attacco iotizzato (/ji/), assegnandole lo stesso valore del grafema già
esistente e perciò evitando di rompere l’equilibrio numerico originale. A questo problema avevano già
prestato molta attenzione i greci, conservando fra l’altro tre segni con valore unicamente numerico: Ϛ
(stigma,6); Ϙ (oppa,90); ϡ (sandì,900).
Immediatamente dopo le tre /i/ vi è la dĕrv’ (Ћ), fonema che, così come gli jer e gli esiti della
palatalizzazione /t+j/ e /d+j/, non poteva trovarsi all’inizio di parola. Ai tempi, gli esiti di quelle
palatalizzazioni sono stati ricostruiti da Vostokov come “t+j = k̒” (che andava a corrispondere al suono
palatalizzato che risultava dalle combinazioni “γγ” o gamma+gamma e “gamma+suono nasale“) e “d+j = g̒ .”
Nel creare l’alfabeto, Costantino ebbe un ulteriore accorgimento: si preoccupò anche del modo in cui i
futuri allievi avrebbero dovuto imparare la sequenza di grafemi. Per facilitare loro il compito, concepì un
principio mnemotecnico per aiutare la memoria: fece in modo che, unendo i nomi delle singole lettere, si
potesse ottenere una filastrocca, facendo corrispondere a ogni lettera una parola slava di senso compiuto.
La cosa non fu semplice: a causa della particolarità di posizionamento di alcuni fonemi (vedi k̒), formare
questi acrostici fu molto complicato. Proprio la k̒ fu posizionata nella “parte slava” della sequenza alfabetica
e tutt’ora non conosciamo il nome che Costantino gli abbia dato.
La “ot” fa caso a sé: deriva direttamente dalla Ω (omega) greca e ne vuole ereditare il ruolo religiosamente
simbolico. Poi /џи/, /št/, /č/, /ša/, i due jer e gli /y/ << non conosciamo il nome di queste lettere. Seguono
le nasali e il segno della nasalità (quest’ultimo probabilmente non ha mai avuto un nome).
È la trattazione di Chrabr a fornirci questa sequenza, comprovata da altre opere come le preghiere
alfabetiche, testi con contenuto religioso in versi realizzati col principio acrostico. Spesso, a causa di quei
grafemi che non potevano essere poste a inizio di parola, queste preghiere non ci davano una soluzione
soddisfacente. L’acrostico che possiamo trovare nella tabella è già di per sé una preghiera, in cui la maggior
parte delle triadi ha preservato un senso e magari contengono delle verità di fede. Un’altra fonte, del tutto
inaspettata, che ha molto aiutato a ricostruire la sequenza alfabetica, sono stati gli scarabocchi fatti dagli
scribi a bordo pagina, tuttavia solo la minor parte di questi ghirigori sono completi e risalgono comunque a
un’epoca relativamente tarda. In una di queste sequenze addirittura troviamo lettere non ritrovate in
nessun’altra stringa di testo. Potremmo dunque dire che questi scarabocchi, più che guidarci nella
ricostruzione dell’alfabeto, ci informano sugli atteggiamenti degli scribi nei confronti dei testi; vanno
studiati nell’intero contesto. Si ipotizza che il nome dell’alfabeto “glagolitico” derivi da “глаголица,” ma
l’etimologia di questo nome ci è oscura; per quanto riguarda il cirillico invece, “кириллица” è forse stato
dato in un’epoca molto più tardiva rispetto all’invenzione dell’alfabeto in sé in omaggio a San Cirillo.
Bisogna però ricordarsi che, persino nell’Antico Medioevo, quando i due sistemi alfabetici convivevano,
questi non avevano un vero nome: gli scribi fanno sempre e solo riferimento a “lettere, libri slavi”
(“славьянские книги, писмена”). La prima parte del Trattato di Chrabr è tutta dedicata alle lettere
dell’alfabeto, mentre la seconda parte fornisce delle risposte alle obiezioni che venivano sollevate ai tempi
dell’autore. Questa seconda parte è molto difficile da seguire da un punto di vista retorico: l’autore gioca
molto sull’ambivalenza dei termini книги, писмена per far riferimenti ai timori su una probabile traduzione
errata delle Scritture. Non è dunque chiaro se Chrabr fosse più concentrato a difendere le “lettere” in sé
per sé o le “lettere” intese come testi (tradotti). Nel passaggio in cui scriveva che gli antichi slavi scrivevano
usando i caratteri greci, oppure usando vari “segni, senza un sistema”, Chrabr continua chiedendosi: “ma
come facevano a scrivere parole come бог, село, церковь,.. e così via?” per sottolineare come in questo
устроение greco mancassero le lettere corrispondenti ad alcuni fonemi slavi. “Ma in seguito, Dio, che non
ci lascia senza conoscenza, avendo avuto pietà della stirpe slava mandò loro San Costantino, filosofo, detto
Cirillo. E fece per loro 38 lettere, alcune secondo l’ordine delle lettere greche, altre secondo la parlata slava.
Cominciando dalla prima come il greco; quelli [i greci] chiamandola alfa, Costantino chiamandola <<az>>. E
come quelli lo hanno fatto imitando le lettere ebraiche, così Costantino imitò le lettere greche.” Con questa
argomentazione Chrabr risponde alle obiezioni a proposito della cosiddetta “eresia trilinguista”, mostrando
come lo slavo non fosse meno sacro dell’ebraico o del greco. Poi si legge: “Gli ebrei, infatti, come prima
lettera hanno aleph, esortando gli allievi a imparare; i greci, imitando quelli, hanno detto alfa; sicché
imitandoli, San Cirillo fece la <<az>>, prima lettera concessa da Dio alla stirpe slava da pronunciare con una
grande apertura della bocca, mentre le altre lettere sono da leggere con una piccola apertura, da A fino a
… .” Quindi segue un elenco delle lettere. Comincia poi la seconda parte, esordendo con: “Alcuni si
chiedono perché [Costantino] abbia creato 38 lettere, se è possibile scrivere con meno grafemi. Questi non
sanno con quante lettere scrivono i greci; con le loro 24 lettere il loro sistema non è completo, difatti vi
hanno aggiunto molti dittonghi e 3 segni a valore puramente numerico [giungendo effettivamente a 38
lettere]. Alcuni altri si chiedono a cosa serva la scrittura slava, se non è stata creata da Dio né dagli angeli,
né tantomeno è esistita fin dall’inizio; altri ancora pensano che sia lecito celebrare Dio solo in tre scritture. A
questi diremo che non tutto ciò che esiste è stato creato da Dio nello stesso momento; inoltre, l’unica lingua
utilizzata da Dio era la siriaca [l’aramaico usato ai tempi di Gesù]. Essendosi confuse le lingue e poi
separate, così poi varie istituzioni e nazioni in seguito si sono divise.”
5 / 12
La preghiera alfabetica più rinomata appartiene a Gregorio di Nazanisa, autore molto amato da Costantino. Gli allievi
di C&M, dopo la loro morte, hanno continuato il loro lavoro di traduzione, arricchendo la letteratura slava più antica.
Questa nasce difatti come letteratura di traduzione; i testi originali, come il Trattato, sono giunti solo successivamente.
Anche se Chrabr non lo dice esplicitamente, capiamo che: fu il glagolitico l’alfabeto inventato da Cirillo; vi era
un’ambivalenza semantica (in slavo, latino e greco) per quanto riguarda la radice che indica allo stesso tempo la
singola lettera e l’insieme delle lettere: Книгы = 1) singola lettera dell’alfabeto; 2) [pluralia tantum] le lettere che
vanno a formare un libro. Anche i termini писмена / буквы tavolette per scrivere vengono usati allo stesso modo, come
sinonimi. Dopo aver descritto la “scrittura”, il Trattato introduce anche il problema della legittimazione dell’invenzione
dell’alfabeto e della traduzione delle Scritture, dimostrando la validità di un alfabeto di 38 grafemi: citando varie fonti,
Chrabr sostiene che greci usassero 24 lettere + 3 grafemi numerici + 11 dittonghi (24+11+3=38), dunque Costantino
era riuscito a creare un alfabeto con esattamente lo stesso numero di grafemi.
Chrabr passa poi ad affrontare la seconda argomentazione dei critici, ossia il fatto che “la lingua slava non esistesse fin
dagli inizi”; l’autore risponde che, in realtà, leggendo la Bibbia si può constatare che “la lingua del primo uomo” non
sia né greco, né il latino, né l’ebraico, bensì il siriaco. Indirizzandosi alla terza argomentazione, sulle tre lingue
postesull’iscrizione della croce, l’autore spiega che tali tre lingue erano state usate in quel frangente per motivi
unicamente giuridici e istituzionali; Dio non avrebbe mai espresso alcuna preferenza per questo o quell’altro
linguaggio. Tutte queste argomentazioni menzionate da Chrabr non furono inventate da lui, difatti sono state ritrovate
in altre fonti. La terza obiezione affrontata dal monaco riguarda i dubbi sulla correttezza della traduzione delle
Scritture e lo fa con un elenco delle varie traduzioni attuate nel passato: 1) Traduzione dei 70 dell’Antico Testamento,
voluta da Tolomeo per i credenti greci; 2) [I-II secolo dC] 3-4 correzioni della Traduzione dei 70, attuate da alcuni
filologi cristiani, come Luciano; 3) Vetus Latina, primo tentativo di traduzione in latino; 4) [III-IV s] su commissione di
Papa Danazo, San Girolamo confronta Traduzione dei 70 e Vetus Latina e crea una propria traduzione, ormai ben
diversa dalla Vetus. Per questo, tradizionalmente S. Girolamo viene ricordato come vir treviminis (uomo che controllò
le tre lingue). Qualche studioso, una manciata di anni fa, ha teorizzato che poco dopo l’arrivo in Bulgaria di alcuni
discepoli di Metodio, alcune parti della Bibbia già tradotte furono rimaneggiate e corrette, ma non abbiamo prova di
tutto questo. Chrabr conclude il Trattato con un’ultima argomentazione a sostegno della scrittura slava: “se chiedete ai
greci da chi è stata tradotta la Bibbia o quando è stato creato il loro alfabeto, questo menzionerà le tante traduzioni di
cui sopra, andando a ritroso di 15 secoli ; se invece lo chiedete a uno slavo, questo risponderà semplicemente
nominando Costantino Cirillo, detto il filosofo, colui che ha creato l’alfabeto nell’anno 6363 dalla creazione del mondo
[; calcolo degli anni basato su un versetto della Genesi; corrisponde a 862-3].”
L’unico problema che Chrabr non risolve è il come si è giunti alla creazione del cirillico. La grande differenza fra
protoslavo e Slavo Comune è che il secondo avvia due nuove tendenze, alterando tutta una serie di fonemi in
concomitanza con una fase migratoria e dunque dando origine a una serie di dialetti locali. Questa differenziazione
dialettale aumenterà mano mano col tempo. Abbiamo ipotizzato che C&M conoscessero il dialetto macedone, anche
questo poi differenziatosi progressivamente dagli altri; ciò causò non poche difficoltà a Costantino nel momento in cui
si accinse a inventare la scrittura: per poter fare l’equivalenza “1 fonema : 1 grafema”, bisognava esser certi di aver
individuato tutti i fonemi, ossia tutti i suoni che si presentassero uguali a se stessi in ogni stringa. Di certo era difficile
formulare alcuni concetti nelle parole che la lingua in cui tradurre offriva; bisognava stare attenti a come dire ciò che
doveva dire e a come potrebbe essere recepito dai lettori. La traduzione della Bibbia comportava (e comporta
tutt’oggi) dover trasferire e spiegare ai lettori slavi molti concetti estranei alla loro cultura, come “faraone” o “arca
dell’alleanza” o “battesimo”. Per riuscire nell’impresa, gli addetti ai lavori dovettero non solo tradurre la Bibbia, ma
anche unirvi una predicazione di catechesi, così da “impartire” tutti quei valori e quei simboli che altrimenti un
membro della cultura slava non sarebbe stato in grado di recepire a pieno. In testi risalenti agli anni successivi
all’epoca cirillometodiana, troviamo l’espressione Слово буквенное (parola fatta di lettere, parola che salva, Sacra
Scrittura).

La parola “battesimo” e le varie modalità in cui è stata tradotta esemplifica 3 possibili scelte: in latino, dato che non fu
trovato un termine che racchiudesse in sé tutto l’atto, è stato fatto un prestito del greco “bàptisma”immersione; nelle
lingue slave si optò per un altro calco di un altro passaggio fondamentale del sacramento: “крешение” (la croce o
crisma posto sulla fronte del battezzato); in un terzo gruppo, più a oriente, il concetto di ‘battesimo’ fu sostituito con il
concetto di “illuminazione”.
6 / 12
Inizialmente la lingua Slava era solo parlata. Costantino ne fu il primo codificatore: prese questo dialetto
conferendogli un apparato grafematico e una norma, standardizzando a tutti gli effetti la lingua. Riuscì a desumere
la regola da come i parlanti utilizzavano il codice e a fissarla, per farla rispettare  passaggio da Slavo Comune a
“Lingua standard”. Una volta si usava l’espressione “lingua letteraria,” tuttavia non è il caso di associare la letteratura
come la intendiamo oggi rispetto a quella che era nel medioevo. Meglio usare il neutro ed efficace nome
convenzionale di “lingua standard”, per indicare la lingua, usata solitamente per scrivere, col suo corredo normativo.
Oggi, questa denominazione è quella di Slavo Ecclesiastico.
Quando ancora non v’era un pieno accordo sulla terminologia in campo filologico, è nato un equivoco. I primi filologi
sapevano che i manoscritti più antichi provenissero dal Regno di Bulgaria, dove si trovavano le prime scuole scrittorie.
Non era difficile immaginare che tale standard linguistico fosse l’antenato del Bulgaro moderno, tanto che nacque la
tendenza a chiamare la lingua di quei manoscritti “antico-/vetero-/paleo-bulgaro”. Queste tendenze nacquero in un
periodo non immune da spiriti nazionalistici e perciò crebbe il timore che tale denominazioni potessero essere
strumentalizzate a fini politici, portando qualcuno a proporre addirittura di eliminarli. Gli umanisti dalmatici distinsero
la lingua slava letterale dallo slavo parlato, per cui per molto tempo non vi fu molta specificità nelle denominazioni.
Emersero dunque due tendenze: da un lato la denominazione “antico-/vetero-/paleo-slava” per la lingua dei testi
scritti, dall’altro l’espressione “Slavo ecclesiastico” (o “Kirschenslavische Sprache”). Quest’ultima denominazione
nacque dall’accresciuta consapevolezza che quella lingua caratterizzava la stragrande maggioranza dei testi
appartenenti alla sfera religiosa; per quanto riguarda i secoli XIV, XV, XVI eccetera le testimonianze pervenuteci sono
molto più ridotte nell’ambito laico che in quello religioso.

CRONOLOGIA DELLO SLAVO ECCLESIASTICO


1) Fase ANTICA che risale alla missione in Moravia, fino al XII secolo compreso  molte caratteristiche, anche
ortografiche, rimangono indifferenziate
2) Dal XIII secolo in poi  interferenza del parlato nella lingua scritta tramite vari errori di ortografia. Pur essendo una
lingua standardizzata, lo Slavo Ecclesiastico ha subito dei cambiamenti nel corso dei secoli. Quando divenne lingua
riservata all’ambito ecclesiastico, lo Sl. Eccl. rimase isolato nei testi di Chiesa, e ogni popolo ha finito col leggerlo con le
proprie regole (“nazionalizzazione”). Ciononostante la variabilità interna alla lingua è stata minima, perciò forse si
dovrebbe attribuire tutta la sua letteratura collaterale a una tradizione comune Slavo ecclesiastica, ma è meglio non
farlo, o si incorrerebbe nel rischio di “riscrivere la slavità”.
DIFF FRA SLAVO ECCLESIASTICO E SLAVO COMUNE = quasi nessuna; una è standardizzata, l’altra no.

Nelle Vite si racconta che quando C&M giunsero a Roma, poco dopo la morte di Nicolò I, trovarono il nuovo papa,
Adriano II, molto bendisposto nei loro confronti. Mancano tuttavia le prove di questo, e qualcuno vi legge una
versione “romanzata” dei fatti. Nella Vita Costantinii, v’è scritto che alla morte di Cirillo, il fratello Metodio viene
nominato vescovo, ma nel “Mandato Missionario di Metodio”, Peri analizza alcune contraddizioni: innanzitutto
mancano le prove a supporto di queste affermazioni. Inoltre, secondo l’agiografo, quando le calunnie contro Metodio
giunsero a Roma, il papa Giovanni VIII gli inviò due lettere a distanza di pochi anni, la prima più amichevole, la seconda
più neutrale. Alla scomparsa di Giovanni VIII, il successore Stefano V, sentendo di altre calunnie diffusesi sulla liturgia
in lingua slava, decise di inviare un’altra missiva in cui con toni molto accesi proibiva a Metodio di praticare la fede
nella sua lingua: questo dato va analizzato con molta cautela, perché molta della corrispondenza di Stefano V è stata
vittima di processi di falsificazione nel corso dei secoli; per di più, è insolito che un pontefice arrivi a rinnegare quanto
detto da un proprio predecessore così arbitrariamente. Peri dice che probabilmente, nella spedizione verso la
Pannonia, Metodio svolgesse ruolo di aepiscopus ad gentem, un tipo particolare di carica vescovile limitata nel tempo,
slegata da una sede ma bensì collegata a un popolo, in questo caso il popolo di migranti neofiti che necessitava di una
guida spirituale. Rappresentava dunque un sorta di “vescovo di supporto” in una regione molto estesa quale era la
Pannonia. Detenendo questa carica, ovviamente il papa concesse a Metodio la facoltà di indottrinare questi nuovi
cristiani usando lo Slavo. Peri ritiene che le cose siano cambiate non presso la Santa Sede, ma nelle modalità con cui
tal processo è stato mandato avanti. Dando per buona le teorie di Peri, il ruolo di vescovo di genti deve aver garantito
certamente grande popolarità presso i fedeli e dunque grande invidia e gelosia da parte dei Franchi, che temevano
un’eventuale ascesa ecclesiastica di Metodio. Per evitarlo, il clero di Ratisbona decide di creare del clamore attorno
alla sua figura e perciò diffonde calunnie sul suo conto. A seguito di tutti questi rumori, il papa si vede costretto a
riconvocare Metodio, per poi riconoscere la piena conformità della sua dottrina e rispedirlo in Moravia in qualità di
arcivescovo di Moravia (secondo alcune fonti di Pannonia e Moravia), così da garantirgli un maggior margine di
autonomia nella liturgia. Fu in seguito a tutto questo che Metodio fu imprigionato da Ratisbona in un monastero in
Svevia e quindi liberato dal papa. Il pontefice non mancò di inviare un nuovo provvedimento, con cui ricordò a
Metodio di far precedere la lettura dei Vangeli e delle Epistole in lingua latina durante le celebrazioni liturgiche.
7.12
Metodio muore nell’aprile 885, poco dopo aver dato indicazione sul vescovo da eleggere per la sua successione:
Gòraszd, uomo di fede slavo. La pratica non era insolita ai tempi, tuttavia i Franchi non vedono di buon occhio questa
scelta di Metodio, accusandolo di aver compiuto un abuso di potere; molti suoi discepoli, ormai sprovvisti di appoggio
politico, vengono imprigionati, altri messi in schiavitù, altri ancora espatriati. Grazie alle fonti agiografiche su questi
fedeli (Vita di Clemente e Vita di Naum, scritte dai greci Demetrio Comanziàno e Teofilatto) siamo venuti a conoscenza
delle varie peripezie vissute durante la loro fuga.
865 : Michele Menso, da Costantinopoli, ordina un attacco contro Regno Bulgaro, dove il khan Borìs era intenzionato a
stringere un’alleanza coi Franchi. Borìs desiste e capisce che gli è più vantaggioso accettare la cristianizzazione di
Costantinopoli; i Bulgari vengono dunque battezzati e accolsero un vescovo greco. L’idea di autocefalia non fu però del
tutto accantonata, tanto che quando il gruppo di fuggiaschi formato da Clemente e Naum attraversò il confine
naturale sul Danubio, Borìs riservò loro un’accoglienza calorosa a corte. Durante il regno di Borìs la capitale bulgara
era Plìska, città situata a sud del Danubio; qualche anno più tardi lo status di capoluogo fu spostato nella più centrale
Preslàf.
All’arrivo di Clemente e Naum alla corte del khanato, Borìs gli chiese di restare e il gruppo accettò. Ripresero dunque i
lavori di indottrinamento dei giovani (in greco) e di trascrizione dei libri, alleggeriti dalle risorse offerte dal khan. Di
Gòraszd non abbiamo più notizie; di Clemente e Naum sappiamo che riuscirono a soddisfare le aspettative del
principe. L’obiettivo del khan era la nazionalizzazione della Chiesa bulgara, con la totale esclusione del clero greco.
Clemente da Ohrid è stato, assieme a Chrabr, il primo a scrivere testi originali in lingua slava: tradusse un numero
enorme di omelie dei padri della Chiesa, molte delle quali scritte ex novo di suo pugno in lingua slava.
La situazione politica bulgara intanto cambiò. Borìs decise di abdicare per lasciare il trono al figlio e ritirarsi in
monastero. Il suo successore, Vladimir (o Vladimir-Rasate, in alcune fonti) cambiò totalmente la rotta della politica
paterna e ordinò di far tornare il regno al paganesimo. Prese avvio uno scontro molto feroce fra Vladimir e il padre;
alcune fonti parlano di una congiura che l’ex-khan organizzò ai danni del figlio, che fu alla fine deposto. Questa vera e
propria guerra civile sconvolse il regno e si concluse con la condanna a morte di Vladimir e di tutti i suoi fedelissimi. Il
re successivo fu scelto da Borìs in persona: l’altro figlio Simeòn, molto istruito e sapiente, soprattutto sulla dottrina
greca. Con lui comincia il primo periodo aureo del Regno Bulgaro. Pur seguendo la linea politica del padre, Simeòn
prese anche alcune decisione autonome: *elegge definitivamente Preslaf capitale; *in virtù della grande stima che
nutriva nei confronti di Clemente, instette per farlo nominare arcivescovo di Vèrica (città ormai scomparsa) prima e
poi di Ohrid, situata nel centro sud dell’Illirico, sul lago Litmìdon; non molto vicina alla capitale. Come città episcopale,
Ohrid era già molto rinomata. *Un’altra decisione presa da Simeon fu quella di adottare una scrittura diversa (molti
slavisti pensano perché il cirillico risultasse ai tempi più semplice da apprendere del glagolitico); la cosa pose il khan in
conflitto con Clemente, il quale volle invece difendere la scrittura inventata da Costantino a spada tratta. A quanto
pare, il cirillico è stato creato su ordine preciso di Simeon, e nel momento in cui Clemente espresse la propria
opposizione, Simeon pensò di confinarlo nella lontana Ohrid. Una teoria completamente opposta è sorta attorno agli
scritti di Teofilatto; alcuni hanno interpretato una sua frase come “E ha creato lettere più chiare”. Questa frase
potrebbe semplicemente indicare che Clemente avesse escogitato (questa la traduzione letterale del verbo nella
frase) un metodo per rendere le lettere già esistenti più assimilabili per i propri studenti. Inoltre, considerato lo stile
usualmente più approfondito di Teofilatto, questa frase risulta troppo superficiale e casuale per annunciare un evento
straordinario come l’invenzione di una nuova scrittura, e nessuno fra i suoi successori ne parla. L’evento non fu vissuto
come un cambiamento radicale poiché il glagolitico non scomparì, bensì perdurò e si espanse fino alla Dalmazia. Se
davvero di fosse trattato di uno scontro come quello apparentemente descritto nella Vita di Clemente, allora il
glagolitico non sarebbe sopravvissuto.
Cirillo aveva basato la propria analisi fonematica sul dialetto macedone, dove “t+j= k̒” e “d+j= ģ”. Poi inventò un
grafema per ogni fonema e fissò regole grammaticali precise. Ci si accorse tuttavia che il dialetto bulgaro mostrava
caratteristiche leggermente diverse, perciò si cercò di “avvicinare” la lingua standard alla parlata popolare così da
renderla più semplice. In questo processo di definizione dello standard, si è dunque aggiunto l’antico esito macedone
con l’esito locale del dialetto bulgaro; si richiedeva perciò la creazione di una scrittura diversa graficamente dal
glagolitico, il più vicina possibile al greco e che rispettasse la struttura fonetica del glagolitico. Anche perché, se
Simeon voleva vedere realizzato il proprio piano di aggregazione a Costantinopoli, questa unione doveva avvenire
anche culturalmente. Fatto degno di nota è che nel cirillico del periodo bulgaro manca la lettera dĕrv’; il grafema Ћ
risale solo alla Dalmazia del XIV secolo. Quella palatalizzazione veniva necessariamente pronunciata in modo diverso
(/žd/ e /št/), e avendo già i grafemi per rappresentare le singole componenti del suono non sembrò urgente crearne
un nuovo segno grafico. divenne prima , magari unione di  altra prova che questo alfabeto corrisponde
a un dialetto con realizzazioni differenti. Rimane tutt’oggi un mistero sull’identità dell’uomo (o degli uomini) che
crearono il cirillico. Costoro modificarono di poco la già esistente realtà scrittoria, rendendo più quadrati i tondeggianti
segni glagolitici e assegnando poi gli stessi valori numerici stabiliti da Costantino Cirillo solo con le lettere già esistenti
in greco.
12.12 – COS’È LO SLAVO ECCLESIASTICO?
Nonostante lo stravolgimento che si verifica in Bulgaria con Vladimir-Rasate, Borìs riesce a ristabilire lo
status quo deponendo il figlio maggiore e ponendo sul trono Simeon, che ricalca la linea politica seguita dal
padre. Dieci anni dopo, il nuovo khan ha richiesto che venga creata un nuovo sistema di scrittura,
probabilmente in cerca di semplicità e di vicinanza al greco, ma dinnanzi alle resistenze di Clemente, si è
creato un contrasto fra il vescovo e il khan. Ad ogni modo, l’introduzione di questa nuova lingua non
puntava a sopprimere del tutto il già esistente glagolitico. Nell’893-4 si sarebbe tenuta un’Assemblea
generale a Preslaf, in cui tra i vari argomenti di discussione si sarebbe parlato di “предложение книгы”; il
sostantivo предложение significa sia passaggio che traduzione e molti filologi si sono concentrati sulla
doppia accezione della parola. Si ipotizza che questa assemblea avrebbe dovuto eventualmente sancire una
nuova traduzione della Bibbia, ma se questa tesi fosse vera, ci sarebbero dovute giungere tracce cospicue di
queste operazioni. Invece, non è chiaro se a Preslaf fu effettuata una traduzione integrale, più selettiva o
addirittura ristretta ad alcuni testi più particolari (quelli esclusi da Metodio durante i propri lavori). Jagić,
analizzando il capitolo della VC sull’invenzione della scrittura, teorizzò che forse la supposizione comune a
proposito dei primi materiali tradotti da Costantino era sbagliata; passò al vaglio anche il passaggio “E man
mano facevano traduzione di tutto quello che serviva”. Sulla base di questo, Jagić ipotizzò che i primi testi
tradotti furono le parti liturgiche dei Vangeli e le parti mancanti ai Tetravangeli furono aggiunte durante il
soggiorno in Moravia. Il filologo cercò dei riscontri a livello linguistico e trovò alcune forme di parole con
palatalizzazioni differenti dagli esiti macedoni. Quando si giunse a discutere dell’eventualità che nella
Bulgaria dell’età post-cirillometodiana fossero fatte molte traduzioni, la questione divenne spinosa. Era
necessario trovare elementi linguistici che provassero effettivamente che il testo era stato rimaneggiato
nella Seconda Traduzione. Nacque la cosiddetta “Teoria dei Preslafismi”; una prova a supporto è il termine
“радитого”. Il grande ostacolo è che per distinguere due termini con lo stesso significato ma utilizzati in
zone differenti bisogna avere molte prove a supporto. L’interpretazione del “предложение книгы” come
“traduzione” è andata avanti per molto tempo e gode tutt’oggi di molta fama. Ponendo che invece si
trattasse di un “passaggio”, e che dunque il Sinodo fosse stato chiamato a sancire una nuova scrittura, la
situazione risulterebbe meno complicata. Inizialmente, i due alfabeti non avevano un nome specifico,
perciò non stupisce che i fatti non siano descritti in modo chiaro per noi posteri. Sta di fatto che avremmo
certamente avuto notizia di un’eventuale passaggio violento di scrittura, anzi per un certo periodo di
tempo le due lingue hanno convissuto, finché il glagolitico non è progressivamente scomparso a partire dal
secolo successivo. Senza dubbio, ciò che ha favorito la maggior diffusione del cirillico è stato la maggiore
attrattiva che esercitava per via della sua “tendenza greca” e internazionale. Molti degli scritti in glagolitico
pervenutici, fra l’altro, fanno intuire un’origine da Ohrid (Bulgaria Occidentale) e Dalmazia; troviamo scritti
in glagolitico anche risalenti a XIV e XV secolo. Il cosiddetto “glagolitico angolare” venne usato anche in
occasione del Concilio Vaticano II da alcune diocesi dalmatiche e croate.
Nel 1047, nella Rus’, uno scriba copiò per il proprio principe l’insieme delle letture tratte dai libri dei
Nicofeti e aggiunge la nota: “Ho trascritto questo libro in cirillico (Увирлики писем куриловицe)”, sebbene
il testo fosse in un alfabeto “misto” (compaiono porzioni di testo in glagolitico che inframezzano paragrafi e
parole in cirillico). Alcuni filologi ipotizzano che, agli inizi, probabilmente fosse quell’alfabeto che oggi
chiamiamo “glagolitico” a essere associato al nome di Cirillo.

CRONOLOGIA DELLO SLAVO ECCLESIASTICO (lingua parlata e normata)


1) Slavo Ecclesiastico ANTICO: fino al XII secolo compreso  molte caratteristiche rimangono
indifferenziate
2) Slavo Ecclesiastico (con redazioni): dal XIII secolo in poi  Tramite vari errori di ortografia molte
influenze fonetiche sono state ormai incorporate nella norma, creando anche variabilità fra una zona
geografica e l’altra.
Bisogna fare una distinzione: le recensioni sono innovazioni tratte dalla lingua parlata in modo involontario;
le redazioni sono un lavoro sistematico che comincia dal XIII secolo in poi, ossia uno scriba che accetta in
modo consapevole nel proprio stile scritto alcune forme del parlato. Ciò sul lungo periodo comporta un
progressivo allontanamento della lingua scritta dal parlato; a ciò si può intervenire in due modi. Prima
soluzione: si interviene sulla lingua scritta, svecchiando le regole e modificando l’ortografia. La seconda
alternativa è più drastica: escludere progressivamente la lingua scritta da ogni ambito, fino alla sua
scomparsa (ciò che è accaduto per il latino). Nel lungo corso della propria storia, lo Slavo Ecclesiastico ha
vissuto entrambi questi tipi di esperienze. In particolare, più di un rinnovamento normativo è stato creato
per “svecchiare” la lingua: alla fine del regno Bulgaro (XIV secolo), il patriarca e traduttore Eutimio era ben
conscio della pluralità che stava nascendo nella lingua e guardava con sospetto all’elasticità della norma
linguistica, reputandola una sorta di “corruzione” della purezza del linguaggio. Decide perciò di scrivere un
trattato (“Сказание славенноио о письмене”, richiamo allo “Сказание о письмене” di Chrabr) in cui,
oltre alla parte critica sulle devianze dalla norma, troviamo una parte propositiva in cui l’autore suggerisce
delle alternative. Al nome di Eutimio è dunque collegata una vera e propria riforma ortografica mirata a
ripristinare la purezza della lingua, cosa ovviamente impossibile. Sia Eutimio che l’allievo, Kostantin,
reputavano che la forma più pura della propria lingua fosse quella della Rus’. Il progetto si arena sia perché
il fatto che la lingua “torni indietro” è chiaramente impossibile, sia a causa della caduta della capitale
bulgara, avvenuta di lì a poco (1393) per mano degli Ottomani; in tale contesto storico-politico lo Slavo
Ecclesiastico rimase relegato ai libri di liturgia. Nel resto del mondo slavo, là dove i Turchi non arrivano,
l’aderenza della riforma di Eutimio agli inizi fu problematica perché si poneva il problema dell’applicabilità
agli utenti in una società dove mancavano delle istituzioni apposite. Ai tempi non esisteva qualcosa come le
scuole pubbliche, perciò se anche la riforma poteva essere accettata, molto dipendeva dalla differente
capillarità degli istituti educativi presenti da zona a zona; tutto questo andò paradossalmente a creare
ulteriore variabilità territoriale nella lingua.

Un’altra riforma che tentò di irreggimentare lo sviluppo della lingua fu quella emanata durante il XVII
secolo nelle terre slavo-orientali. In una delle tante accademie teologiche situate nelle grandi città dei
principati della zona, emerge un nuovo riformatore, Meletij Smotrìckij. Nel 1619 Meletij scrive una
Grammatica della lingua slava, poi stampata e tradotta in latino e nei vari dialetti. Qui l’autore proponeva
di semplificare l’ortografia, per far corrispondere a ogni fonema un solo grafema, e una riformulazione delle
regole grammaticali. Smotrickij sapeva che ritornare al passato era impossibile, ma voleva cercare
comunque di controllare e irreggimentare il più possibile la lingua per farla tornare al suo stato antico;
ciò è difficile anche alla luce del fatto che è impossibile stabilire cosa fosse corretto e cosa fosse sbagliato
nella lingua usata tot secoli prima di noi. La grammatica venne ristampata con alcune correzioni nel 1621 e
nel 1648 a Mosca; fra le tre edizioni, l’ultima un forte impatto dell’influenza moscovita.
13.12
Quando nel IX secolo gli Slavi, che parlano una lingua comune - ma non ugualissima dappertutto –, si cristianizzano;
tale processo esula dall’ambito puramente religioso per estendersi a tutti i campi della società, portando alla
creazione di un codice scritto. Tale lingua scritta viene convenzionalmente Slavo Ecclesiastico. Pian piano la lingua
parlata dà origine a vari dialetti locali; la lingua scritta, invece, soprattutto se viene utilizzata per testi sacri, deve
mantenersi sempre uguale a se stessa, senza però escludere che i suoi livelli non possano variare nel tempo.
Quali testi vennero dunque prodotti e tradotti da C&M dopo il passaggio al Cristianesimo? (Nella VC si riporta che, una
volta creato l’alfabeto, Costantino passò a tradurre quelli che erano i primi versetti del Vangelo di Giovanni.) Questa
domanda ha a che fare con l’intera questione storico-giurisdizionale. La liturgia cristiana d’oggi è fatta di rituali decisi e
stabiliti nel corso dei secoli dagli stessi fedeli. Col passaggio al Cristianesimo è avvenuto un cambiamento profondo
nella religione dal punto di vista liturgico. Prima, nel paganesimo, non esisteva il concetto di preghiera, bensì vigeva un
rapporto utilitaristico, un do ut des fra divinità e fedeli che avveniva tramite i sacrifici; Gesù di Nazareth rivoluziona
tutto questo, invitando i propri seguaci ad appellarsi al proprio Padre, per mezzo della preghiera individuale o
collettiva, in virtù di un rapporto più diretto con la divinità. Mentre la nuova religione si diffonde e viene incrementata
da una serie di nuovi scritti (opere di commento e spiegazione della Bibbia) attribuiti ai cosiddetti “Padri della Chiesa”,
il corredo di informazioni comincia ad allargarsi: *Sacre Scritture, scritte per diretta ispirazione divina;
*Commenti dei padri sulla Bibbia, che tendono a spiegare il testo sacro nei punti più oscuri o astratti e i collegamenti
fra l’Antico e il Nuovo Testamento; *le cose che è opportuno dire per ricordare, celebrare e pregare la divinità –
dunque le formule liturgiche (dal greco liturgìa, “cosa fare [in senso sacrale]” – nel cristianesimo indica la
strutturazione del culto) da utilizzare negli incontri della comunità. Nella prima fase, quando i cristiani venivano
perseguitati, tutto questo lavoro comunitario andava tenuto il più segreto possibile, quindi progressivamente il modo
di organizzare la preghiera si è differenziato. Di riflesso, col passare del tempo si sono cercate formule standard per
uniformare le pratiche liturgiche. Questa fu una delle tante annose questioni affrontate, fra cui anche la scelta del
giorno sacro della settimana (il sabato come gli ebrei? O la domenica?) e la creazione dell’”orbo liturgico” (le modalità
di preghiera da adottare in quelle giornate). Dal IV secolo in poi, la strutturazione dell’orbo richiese un poco di tempo,
con fisiologiche differenze da una repubblica all’altra. Man mano che le comunità cristiane diventarono sempre più
numerose, si intuì che i modi in cui pregano i monaci e i laici sono diversi; cresce la differenza fra la liturgia
“monastica” e la liturgia “laica” con l’ampliamento della “liturgia delle ore”.
I testi liturgici corredati ai tempi della missione in Moravia per non introdurre confusione nelle abitudini che il popolo
già aveva non ci sono giunti nelle loro copie originali. Se dobbiamo farci un’idea basandoci sui manoscritti che sono
sopravvissuti (risalenti a non prima dell’XI secolo), ci dobbiamo chiedere: ciò che rinveniamo in questi testimoni è
fedele all’epoca di C&M? O le cose avevano già subito dei cambiamenti? Conoscendo tutti gli avvenimenti
rocamboleschi verificatisi in seguito la risposta sembra ovviamente sì. Il problema di capire quale testi liturgici furono
tradotti è legato dunque a questa mancanza di fonti dirette. Nella seconda metà del IX secolo, fra l’altro, la liturgia
greca era ben diversa da quella romana, perciò viene anche da chiedersi quale dei due modelli fu adottato dai fratelli
nelle loro traduzioni. Una speranza di risolvere questi quesiti fiorì con la scoperta del formulario “Liturgia di San
Pietro”, che univa formule di entrambe le liturgie. Venne ipotizzato che questo reperto potesse reperire ai tempi della
missione cirillometodiana, ma Mareš capì che risaliva a tempi più recenti, da zone (penisola italica??) dove l’autorità di
Bisanzio e la potestà religiosa di Roma convissero molto a lungo. Questo formulario appare dunque più un
compromesso fra due tradizioni che un testo “archetipico” da cui poi le due liturgie si sarebbero separate. Non si sa
perciò bene come precisare quale formulario sia stato tradotto, ma la struttura dell’anno liturgico probabilmente
rispecchiava quella di Costantinopoli, che comincia appunto con i versetti del Vangelo di Giovanni. Non tutte le
traduzioni di cui disponiamo risalgono alla stessa epoca, perciò tradiscono archetipi dei modelli da cui derivano. Una
prima differenza che potremmo constatare è quella fra i libri liturgici utilizzati nei monasteri e nelle grandi
congregazioni, come se ne trovano sul Monte Athos (poco più a nord di Tessalonica) o sul Monte Sinai (Egitto nord-
est). Notiamo che, anche nella stessa tradizione liturgica greca, sussistono delle differenze, perché alcuni di questi testi
erano destinati alla comunità monastica perché portatori di tradizioni di questo o quel monastero, mentre altri
provengono certamente da città e comunità laiche. Di volta in volta si cercò di mettere insieme formulari diversi,
quindi il modo in cui noi vediamo la storia della liturgia oggi è ben diversa dalla realtà che sussisteva a quei tempi. Nel
difficile contesto storico-politico della dominazione ottomana, poteva capitare che qualche monaco si recasse “in
trasferta” in un altro monastero e qui poteva decidere di ricopiare o tradurre (creando variabilità nella liturgia) le
formule di un monastero per portarne testimonianza nel proprio. Un libro liturgico è un libro dalla struttura piuttosto
standardizzata, formato da una parte riservata a preghiere e formule, e una parte dedicata alle Sacre Scritture. Il
Lezionario, ad esempio, racchiude in sé tutte le citazioni bibliche; i Tetravangeli, invece, includono tutti i Vangeli più
varie note marginali. Fra gli altri libri assolutamente necessari alla celebrazione liturgica troviamo anche il Triòdion,
una raccolta di “cicli innografici” (inni, preghiere cantate) legati alla liturgia del giorno, e l’Oktò ìkos (o Libro degli 8
toni), dove le melodie sono scritte appunto in 8 tonalità. Quando questo testo fu tradotto in slavo, bisognava scegliere
se optare per un prestito o un calco; entrambe le strade sono state intraprese. Questi libri venivano ricopiati con la
massima cura, innanzitutto perché contenevano la parola sacra, e anche perché erano destinati a lettura frequente,
dunque dovevano essere molto chiari e leggibili. Ci sono arrivati frammenti di libri liturgici dell’XI secolo, con la
compresenza di scrittura glagolitica e cirillica. Fra questi frammenti, uno degli scritti più antichi va a costituire i
“Frammenti/Fogli di Kiev” (nome convenzionale), una dozzina di fogli molto antichi ritrovati nella seconda metà
dell’800 a Kiev (da qui il nome); non ne conosciamo il formato liturgico, ma lo si può far risalire all’XI secolo circa.
Siamo più fortunati con l’”Eucològio Sinaitico” (anche questo nome convenzionale), manoscritto quasi completo
ritrovato sul Monte Sinai, scritto in glagolitico e risalente all’incirca alla seconda metà dell’XI secolo. Tra i lezionari più
antichi troviamo il “Manoscritto/Evangelario di Assemani” (chiamato così dal nome dell’uomo che lo scoprì nel 700 a
Gerusalemme); racchiude tutti gli estratti del Vangelo utili per l’anno liturgico, più una seconda parte dedicata al
calendario. Dello stesso periodo abbiamo anche scritti in cirillico, fra cui l’”Evangeliario di Saba”, dal nome di uno
scriba. Questo manoscritto fu confezionato in Macedonia, nella regione di Ohrid, ed è conservato a San Pietroburgo.
Un'altra opera assolutamente fondamentale è il Salterio, tratto dal libro dei Salmi e tradotto dai due fratelli di
Tessalonica, stando a quanto scritto nelle Vite. La varie composizioni innografiche, oltre a svolgere la funzione di canti
liturgici, erano più facili da comprendere e memorizzare, tanto che spesso il Salterio veniva imparato a memoria per
imparare a leggere e scrivere. Nella traduzione latina della Bibbia troviamo 150 canti, in quella slava 150+1. La
versatilità dell’opera ne ha decretato il largo uso e dunque il grande numero di copie che sono sopravvissute fino ai
giorni nostri, fra cui un manoscritto proveniente al Monte Sinai e scritto in glagolitico.
Fra i tetravangeli (contengono i tre Vangeli sinottici più il Vangelo di Giovanni) abbiamo pochi esemplari; perlopiù
rinvenuti sul Monte Athos, scritti in glagolitico, non siamo in grado di datarli: *Vangelo di Zògraf; *Evangelo Mariano.
Si aggiungono varie opere che contengono le epistole, gli Atti degli Apostoli e il Profetologio (l’antologia delle parti
dell’Antico testamento da usare durante la messa). Il più delle volte non abbiamo info su dove e quando questi testi
siano stati scritti, ma destano grande interesse anche dal punto linguistico, perché ci restituiscono un’idea dello
standard dello Slavo Ecclesiastico Antico. All’insieme di questi manoscritti è stato dato il nome di “Canone
paleoslavo”, dove troviamo la lingua più antica e simile al canone imposto da C&M, escludendo però i testi
provenienti dalla Rus’. La questione è controversa, perché nessuno delle opere che rientrano nel Canone riportano
una data; la datazione fra l’XI e XII secolo è stata calcolata su una serie di fatti accessori. Abbiamo tuttavia una serie di
scritti proveniente dalla Slavia orientale su cui è impressa una data, come l’“Evangelario di Ostròmij”, ricopiato da
Gregorij per il principe di Novgorod nel 1056-7. Questo manoscritto non rientra nel Canone perché, secondo i padri
della slavistica, lo strato più antico dello Sl. Eccl. si sviluppa nella Slavia meridionale, mentre nella Slavia orientale
troviamo solitamente gli esiti linguistici più difformi e innovativi. Di recente, alcuni studiosi si sono presi la briga di
sottolineare che l’Evangelario di Ostromij, così come altri manoscritti provenienti dalla Rus’, sono copie fedelissime di
modelli importati dalla Bulgaria, regione della Slavia meridionale, e ciò conferirebbe loro lo status giusto per
appartenere al Canone, ma rispetto alla certezza dogmatica che si aveva tempo fa sull’esclusione della Rus’ dal
Canone, oggi ci troviamo in un momento di discussione fra opinioni molto contrastanti.
I testi guida per lo Slavo Ecclesiastico rappresentano il primo corredo letterario e sono per lo più di tipo liturgico. Col
passare degli anni il numero delle traduzioni aumenta, insieme ai testi omiletici (destinati a spiegare la liturgia del
giorno e non sempre destinati a essere pronunziate ad alta voce), diversi dai testi omeliari (raccolte di soli sermoni).
Nel corpus di omelie tradotte da Clemente iniziano a comparire anche alcune opere originali: così inizia ad avviarsi in
Bulgaria una produzione letteraria slava originale. Comparirono anche opere anonime e “ibride”, con input tradotto e
continuazione originale; ciò avviene perché, nella concezione medievale dello scrivere, si prestava pochissima
attenzione all’identità dell’autore rispetto piuttosto alla trasmissione della dottrina, una vera e propria missione a cui
l’autore si dedicava. Questo spiega anche perché ci sono pervenute così poche informazioni sul conto del monaco
Chrabr, o di Giovanni Esarca. Questi era un personaggio vissuto nella Bulgaria di Simeon, ma non sappiamo se il titolo
di “Esarca” rappresentasse una carica ecclesiastica e vescovile o amministrativa (capo-distretto); fra le opere
pervenuteci a suo nome v’è l’”Esamerone” (“I sei giorni”), commento e spiegazione dei sei giorni della Creazione.
Giovanni adopera un procedimento comune all’epoca: parte da due opere già esistenti in greco, due Esameroni scritti
da Basilio il Grande e Severiano di Gabala; ne associa pezzi diversi traducendoli e inframezzandoli con dei propri
commenti. Nasce da qui il dibattito sul genere di catalogazione, di quest’opera e di tante altre in una condizione
“ibrida”, fra lo status di scritti originali e di traduzioni libere.
Lo zoccolo duro della letteratura delle origini, esclusi i libri liturgici, include: il genere della patristica, le cui omelie
miravano a spiegare la dottrina cristiana; l’innografia (anche qui troviamo molte opere ibride) spesso legata al genere
agiografico; le agiografie; i testi apocrifi.
14.12 – Letteratura apocrifa
Le letterature cristiane ruotano attorno alla Sacra Scrittura, ma data la sua poca chiarezza, molti padri della Chiesa si
sono dedicati allo spiegarla con la letteratura patristica. La parte più ricca della letteratura liturgica è senza dubbio
quella degli inni, grazie al loro doppio vantaggio: la facilità di memorizzazione per il fedele e la funzione educativa per
la fede.
Nel filone di commento e di spiegazione alla Bibbia troviamo anche la letteratura apocrifa (“che rivela”); questa si
proponeva di spiegare e semplificare i passaggi biblici più complessi e più difficili da comprendere in una veste molto
colloquiale. Agli inizi, si tendeva a credere che la maggior parte di questi testi contenesse delle difformità rispetto alla
dottrina, e il genere fu quasi bollato come letteratura eretica. Probabilmente alcuni testi apocrifi del Cristianesimo
sono nati in seno all’Ebraismo, nella fase di passaggio in cui vi furono molti scambi e influssi fra le due fedi (“Giudeo-
cristianesimo” del I-II sec. d.C.). In questo ambiente, dai confini molto permeabili, sono state scritte molte opere
appartenenti al genere, poi erroneamente bollate come eretiche.
La letteratura apocrifa presenta una serie di problemi: la scarsa rilevanza del concetto di autorialità nella letteratura
cristiana, che va a generare per chi scrive molta “libertà” nell’estrapolare e “prendere in prestito” elementi presenti
già in altre opere. Questa tecnica compositiva è particolarmente evidente negli scritti apocrifi, che nella
1° fase si propongono lo scopo didattico di spiegare meglio i punti principali della dottrina cristiana di I-II secolo con
esempi più concreti e quotidiani. In una fase successiva, questa funzione didattica si somma alla naturale curiosità dei
fedeli per i mille risvolti di personaggi ed eventi citati nelle Sacre Scritture, le cui storie vengono approfondite in modo
romanzato e narrativo. Anche i Vangeli si prestano a questo tipo di curiosità. Ci sono voluti molto tempo (fra gli inizi
del Cristianesimo e l’VIII secolo avanzato) e molti sforzi per discernere le scritture bibliche dalle opere di commento
più apocrife; spesso di questo se ne sono occupati i Padri e i Concili. Un passaggio molto discusso, ad esempio, è la
frase contenuta nella Vita Methodi “Tradusse tutto, a eccezione del libro dei Maccabei”. Sono sorti molti dibattiti a
riguardo e una delle opinioni più popolari in merito sostiene che probabilmente Metodio decise di saltare quel
particolare libro perché, alla luce dell’istruzione che aveva ricevuto, non lo riteneva un libro canonico.
Un altro tema molto trattato nella letteratura apocrifa è l’Apocalisse (“scoprire, svelare”), al centro di opere che vanno
a costituire un vero e proprio genere a sé stante. I cristiani erano profondamente convinti che la venuta finale di Dio
sulla terra fosse molto vicina e un genere di commento nacque per spiegare come, quando e perché questi eventi si
sarebbero realizzati e cosa sarebbe successo dopo. Questo genere esisteva già nel Giudaismo e tramite di esso arrivò
anche alla sensibilità dei cristiani. In genere la struttura letteraria di questo genere di testi presenta un personaggio
autorevole che, accompagnato da un autorevolissimo personaggio dell’Antico Testamento, viene istruito su cosa
succederà dopo il Giorno del Giudizio. Ad esempio, anche il libro “I segreti di Enoch” appartiene al genere apocalittico:
Enoch viene preso dagli Angeli del Signori, gli viene mostrato come funziona il sistema solare e la volta celeste,
eccetera. Vari testi di questo genere tendono a spiegare anche il “mentre” dell’evento apocalittico: in molte opere del
genere troviamo una serie di allusioni al fatto che la fine del mondo avverrà in un periodo piuttosto lungo, e non
simultaneamente come si pensa di solito, durante il quale ognuno di noi sarà messo a dura prova da molte tentazioni
prima del giudizio universale.
Molte di queste opere vengono scritte in lingua greca per rivolgersi a un pubblico di “gentili”. Presto però vengono
tradotte in più lingue con un atteggiamento piuttosto elastico: un certo numero di traduzioni contiene margini molto
ampi di una nuova elaborazione del testo. La tradizione apocrifa è presente in manoscritti già per noi molto antichi e la
cui diffusione è diventata sempre più ampia. Fra IX, X e XI secolo la situazione della diffusione libraia è piuttosto
ostica a causa dei grandi costi dei volumi e quindi anche coloro che beneficiano dei vantaggi di una cultura scritta
rappresentano un numero molto esiguo. Ciò determina la storia e la sorte di alcuni testi che coinvolgono un certo tipo
di mercato: i testi più richiesti e popolari, ad esempio, dovevano trovare un modo per rendersi più economici e
accessibili; nelle officine si comincia dunque a fare a monte una selezione dei testi più immediati per inserirli in
raccolte apposite dai costi più contenuti, dette Silloge. Il loro pregio principale è la possibilità di personalizzarne il
contenuto (il cliente interessato si rivolgeva allo scriba per chiedergli un certo numero di testi su un determinato
argomento e il copista provvedeva a unire gli scritti più pertinenti in un riassunto più accessibile), tale che quasi
ognuno di questi manoscritti rappresentava un mondo a sé, unico nel suo genere. Questo è uno degli esempi per cui la
letteratura medievale è tanto diversa da quella moderna; presuppone una conoscenza dei contenuti, delle tecniche di
traduzione e delle modalità di diffusione delle opere.
In epoca medievale, perché un libro venisse ricopiato e riuscisse ad arrivare a più persone era richiesta una enorme
quantità di risorse e nemmeno i supporti di rilegatura erano facilmente reperibili o pratici. Il mondo antico vi ha
fatto largo ricorso per lo più per la dimensione ecclesiastica o pubblica, dunque per libri che non necessitavano di
essere molto trasportati. Per quanto riguarda la sfera di lettura privata, molti tentativi sono stati fatti per cercare dei
supporti più pratici e facilmente reperibili: qualcuno pensò a cercare dei tipi di fogliame abbastanza grandi da scriverci
sopra, ma la cosa non è possibile in tutte le zone geografiche e climatiche. In località dove crescevano alberi
sufficientemente morbidi (come la betulla), alcuni pensarono di sfruttarne la corteccia. Col tempo si iniziò a usare il
papiro, perché più flessibile e maneggevole; chi riusciva a coltivarlo, come le popolazioni in Egitto e Sicilia, iniziò a
esercitare una specie monopolio sul mercato. Il fusto della pianta, che può arrivare a 5-6 metri, si può srotolare per
ottenere delle strisce; dopo un leggero essiccamento, queste strisce venivano accostate l’una accanto all’altra,
facendole sovrapporre di un centimetro l’una sull’altra su un telaio, dove veniva applicato una sorta di “collante” con
acqua e farina. Dopo aver applicato questa colla e un sottile strato di vernice trasparente, il foglio di papiro era pronto.
I fogli di papiro erano abbastanza morbidi e resistenti da poterci scrivere con calami di inchiostro, tuttavia si
presentavano degli inconvenienti quando si trattava di doverci scrivere e rilegare un libro. Il papiro non si poteva
piegare ma arrotolare, creando dei volumi (appunto ‘arrotolati’ dal latino); era compito dello scriba prendere il papiro
svolto e prendere le misure per disporre il testo in colonne. Di preferenza, questa operazione si faceva su un solo lato
del papiro, così da poter infilare un bastoncino (o due, a seconda della lunghezza del foglio) detto “onfalo”
all’estremità, da usare come perno per arrotolare il manoscritto. Il papiro presentava però alcuni inconvenienti:
srotolandolo ci si trovava sempre alla fine del testo, e la stessa operazione di aprire un’intera pergamena era piuttosto
complicata. Inoltre, il processo di essicazione, rilegatura e verniciatura di un singolo foglio di papiro è molto lungo e
costoso, senza contare che utilizzare il papiro significava in un certo senso “dipendere” dall’Egitto, e in situazioni
politicamente tumultuose come ce ne sono state a dozzine nel passato non si poteva correre il rischio di rimanere
sprovvisti di materiale su cui scrivere. Si ricercò un materiale che si potesse reperire più facilmente, giungendo alla
membrana o pergamena o cartapecora, nome legato alla città dell’Asia Minore dove il re prese l’iniziativa di crearla.
La pelle di un animale (bue, cinghiale ma preferibilmente pecora) veniva immersa in un bagno di calce viva, così da
rimuovere peli e carne, poi posta su un telaio per stenderla e porvi un rasoio con cui rimuovere i residui di pelle e peli.
Quindi la pelle viene immersa in un altro bagno di calce spenta per 30-40 giorni, per ammorbidire la materia, poi tolta
e ulteriormente ammorbidita. La pergamena che se ne ricava è molto grande e ha la forma dell’animale; vengono
rimosse le parti corrispondenti alle zampe (riutilizzate per altri scopi) e il rettangolo ottenuto può essere usato per
scrivere (dal lato dove stava la carne). La pergamena a questo punto si presenterà più o meno uniforme e liscia,
morbida soprattutto dal lato dove c’era la carne. Nella pelle di molti animali (capra/cinghiale/bue) la parte esterna è
troppo scura per poterci scrivere, e la pelle ideale allo scopo è quella di pecora. La pergamena ha il pregio di poter
essere cucita e piegata per formare dei codici (e assumere la forma dei libri di oggi, con due fogli uniti da anelli). La
grande fortuna per i filologi è stato che molti papiri si sono conservati in modo ottimale perché posti in particolari
condizioni di umidità (Kumuran, Ercolano, Pompei). Il codice si realizzava partendo dal foglio doppio o “bifoglio” della
pergamena, che veniva piegato e rigato (o a secco, con un telaio di legno detto “mastar”, oppure con un righello e una
punta di inchiostro). Esisteva una tecnica per assemblare fra loro i fogli scritti ed evitare così che, sfogliando le pagine,
ci sia un’alternanza di pagine più chiare e morbide sui cui era stato scritto e altre più dure e scure. Gregorij intuì che i
bifogli venivano stesi, appoggiati gli uni sugli altri facendo combaciare di volta in volta le facciate più chiare e più
scure, quindi piegati tutti insieme e cuciti. Con questa scoperta, capiamo che l’unità fondamentale del manoscritto è il
fascicolo. Questo tipo di lavoro era di bottega e veniva compiuto per lo più nei monasteri, dove si concentravano
risorse umane (i monaci), la materia prima (le pecore) nonché gli spazi e i tempi adatti. In ogni caso, acquistare un
volume o un codice restava cosa che pochi potevano permettersi.
19.12 - La redazione dei manoscritti, la carta e l’ecdotica
Dato l’alto costo di produzione dei vari supporti su cui scrivere, spesso i manoscritti venivano riutilizzati o riciclati
almeno in parte. Questo avveniva soprattutto per i manoscritti di pergamena o di carta, supporti più
resistenti all’utilizzo e all’usura. Una caratteristica del doppio foglio è che porta lo scriba a dover calcolare la
misura dello spazio e quindi la progettazione del lavoro scrittorio. Inoltre, i doppi fogli non venivano mai
numerati perché non sempre era stabilito a monte di quanti fogli dovesse essere composto il fascicolo e
lavorando sui fogli sciolti non aveva senso numerare i bifogli. A essere numerati erano piuttosto i fascicoli,
in più possibili modi: 1)nell’angolo in basso a destra; 2)in alto a destra; 3)in basso al centro; 4)numerare i
bifogli come “foglio 1 verso” o “foglio 1 verso”, eccetera. Questo poteva avvenire con una lettera
dell’alfabeto oppure con un sistema acrostico che andava a formare una litania, o un inizio di preghiera. In
epoca più tarda viene creato dai copisti un sistema di controllo, detto “rèclame/richiamo”: l’ultima parola
di un manoscritto veniva ricopiata all’inizio del manoscritto successivo, fungendo da collegamento o
richiamo, appunto. Una volta assemblati i fogli, i fascicoli vengono cuciti fra loro con una catenella detta
grecaggio e incollati su un supporto rigido (una pergamena più dura o una rilegatura di cuoio o legno). Un
altro sistema sostituisce il grecaggio a un tendine di animale. Queste rilegature potevano essere
ingombranti, difficili da usare e al contempo fragili. Dopo alcuni anni è subentrato l’utilizzo della “carta”:
alcuni stracci venivano fatti macerare e la poltiglia creata veniva posta fra due telai su cui correvano fili
metallici sottilissimi (“vermicelli”); qui la pasta si scolava e si appiattiva, così che potesse poi essere
asciugata e passata su un collante che la uniformasse. Da quella poltiglia si otteneva un supporto molto più
consistente e pratico, ma la sua produzione comportava una quantità enorme di acqua e di forza lavoro.
Man mano che la produzione diventava più “industriale”, alcune officine preposte introducono nei telai un
disegno, così da imprimere una filigrana con un simbolo rappresentativo: poteva essere un disegno, come il
“trimonium”, o un fiore, o una lettera dell’alfabeto. Grazie a queste filigrane, possiamo circoscrivere un
determinato marchio di fabbrica a una certa officina o comunque a un periodo temporale di produzione più
o meno definito. L’invenzione della carta era probabilmente giunta dall’Estremo Oriente grazie ai commerci
con gli Arabi e si è diffusa in concomitanza con la pergamena, sebbene agli inizi fosse guardata con sospetto
a causa della sua maggiore fragilità.
Perché la tradizione dei testi medievali è così complicata. 1) Se al giorno d’oggi abbiamo un’idea
astratta del testo, nell’età di mezzo altrettanto astratta era l’idea di autorialità: il testo non apparteneva
all’autore, bensì alla comunità degli utenti; 2) A quei tempi c’era una difficoltà materiale nel produrre i
manoscritti, cosa che portava ognuno di questi fascicoli ad avere una storia a sé stante; 3) Molti di quei testi
sono anonimi e spesso contengono “interpolazioni” di passaggi presi da altri scritti o una grande libertà di
ispirazione da determinati “archetipi” letterari. Tutto questo ci costringe a fare conti con il meccanismo di
produzione del testo e di trascrizione. 4) Si aggiunge che, se nella nostra mente i concetti di “libro”, “testo”
e “supporto” coincidono, allora non era così, anzi un fascicolo poteva contenere opere diverse, su
tematiche differenti, organizzate e strutturate in modo diverso all’interno della rilegatura. Alla luce di
questo, il paleologo Petrucci ha fatto una distinzione fra “corpo”, il manoscritto (abbreviato:
ms)/pergamena/carta, ossia il corpo fisico, e le idee contenutevi, dette “corpus”. Da qui i due tipi di
fascicoli: 1) manoscritto mononucleare, creato per ospitare un unico, determinato testo. Si trattava per lo
più di libri liturgici 2) manoscritto miscellaneo: contiene varie realtà letterarie, composte, scomposte e
ricomposte. Rappresentano la stragrande maggioranza dei casi. Dall’assemblaggio e la combinazione dei
testi fra loro coi manoscritti oggi possiamo indagare sui gusti dei lettori dell’epoca. Alcuni testi li troveremo
sempre assieme ad altri e talvolta un fascicolo poteva essere “smontato” per togliere o aggiungere uno o
più testi al suo interno; questo ovviamente complica il processo di datazione e di individuazione dei singoli
testi nei fascicoli. Del Trattato di Chrabr, ad esempio, sono state rinvenute 115 copie, situate in fascicoli
assieme a testi molto diversi. Sempre per questi motivi, si è generato molto scetticismo attorno alle
agiografie di C&M: il corpus dei libri (ossia gli eventi descritti) risale a IX secolo, mentre i manoscritti
rinvenuti non sono più antichi del XIV secolo; probabilmente, il testo è stato “rifatto” nel XIV partendo da
fonti più antiche ormai perse.
A complicare ulteriormente le operazioni di verifica di autenticità di un testo concorrono più variabili: 1. la
mancanza di fogliazione o numerazione, che in caso di incidenti vari e fortuiti (quali la perdita di alcuni fogli
o la confusione del loro ordine) complica la situazione; 2. inevitabili errori degli scribi, anche alla luce della
caratteristica “libertà” che dominava nei confronti della proprietà intellettuale dei testi; 3. manoscritti
usurati da tempo e altri fattori esterni (umidità, roditori). Ad affrontare queste difficoltà interviene
l’ecdotica o critica del testo, branca che mira a recuperare il testo nella sua forma originale, così com’era
stato concepito dall’autore, tramite una serie di indagini collaterali sugli errori. Se possediamo l’originale di
un’opera, allora sarà semplice individuare la difformità in una variante; ma quando siamo in presenza di un
testo che non conosciamo, sorge una serie di difficoltà. L’ecdotica ha sviluppato una serie di tecniche, che
però non sempre ci fanno arrivare ai risultati sperati.
 sistema glagoliano: risale all’epoca positivista ed è legato al nome di Karl Lackmann, filologo
classico. Questo metodo fu criticato perché andò a produrre nuovi testi, senza riuscire a ricostruire gli
originali. Consiste nel 1. fare un esame di tutti i manoscritti disponibili, recandosi nelle regioni dove può
trovarsi il testo che ci interessa; 2. ricavare errori reciproci; 3. discutere le parentele fra le varianti partendo
dagli errori per risalire al testo originale. Utilizzando il metodo Lackmann, lo stesso concetto di “ricostruire
un originale” è stato messo in discussione; si può parlare piuttosto di restituire le volontà dell’autore. Al
termine “originale” è spesso preferito il più verisimile “archetipo” – e “subarchetipo” per indicare l’opera
consegnata. Il corpo fisico da cui recuperiamo sarà l’antigrafo, mentre ciò che vogliamo recuperare è
l’archetipo. Spesso un errore commesso in un “antigrafo z” e non in un “antigrafo y” c fa comprendere
quanto facilmente nascano variazioni in un testo-archetipo.
Seguendo il metodo glagoliano, una volta che il filologo ha reperito un numero sufficiente di esemplari e
varianti, bisogna dare un nome convenzionale a ciascuna copia o testimone. Ognuno di questi testimoni
avrà le sue peculiarità e le sue evidentissime differenze – o errori – rispetto agli altri, ossia ciò che in latino
vengono chiamate varia lectio. Ne esistono vari tipi: magari un testimone dice la stessa cosa degli altri, ma
con termini diversi, oppure presenta tempi verbali diversi, o variazioni ortografiche. Queste variazioni
possono anche essere indizi sul luogo di provenienza dello scriba a cui risale l’antigrafo.
Come ricostruire uno stemma codicum Una volta reperiti i vari testimoni e averne analizzato le varia
lectio, bisogna fare collazione, cioè comprendere le parentele fra i testimoni, analizzando differenze e
analogie linguistiche. Potrebbe accadere che due (o più copie) risultino molto simili fra loro, così da poterli
contare come un unico testimone (fase detta eliminatio codicum descriptorum). Dunque, bisogna indagare
se fra i testimoni alcuni derivino da un antigrafo comune che non corrisponde all’archetipo (se siano
testimoni indiretti), per poi dividerli in famiglie (indicate con le lettere minuscole greche: alfa, beta, gamma,
ecc). Esistono due tipi di errori:
 congiuntivo: condiviso da più testimoni e non arbitrario; deriva dalla consultazione di un altro
antigrafo.
 disgiuntivo o separativo: presentata da più testimoni in modo del tutto autonomo, così da creare
due versioni inconciliabili. Questo errore fa risalire a un sub-archetipo/fonte comune ed è estremamente
difficile da identificare. Presuppone un’enorme conoscenza della lingua e delle circostanze in cui la copia è
stata prodotta. Ci può portare a due antigrafi diversi, poiché è da imputare a uno scriba che ha
volontariamente posto delle variazioni e ha perciò creato delle rielaborazioni.
20.12
La trasmissione dei testi nel medioevo ha conosciuto vicissitudini completamente diverse da quelle odierne. Se oggi
volessimo comprare un libro, quale che sia la città in cui si trova il negozio dove ci rechiamo il libro da noi voluto si
presenterà sempre allo stesso modo e con gli stessi contenuti. Nel medioevo non funzionava così: ogni utente poteva
commissionare a un’officina scrittoria la realizzazione di un testo manoscritto che includesse i libri che gli servivano.
Nel medioevo i libri, o per meglio dire i libri manoscritti, erano confezionati manualmente uno a uno, e ciò rendeva
ogni esemplare estremamente costoso e diverso da qualsiasi altra copia (facendo eccezione per i libri con patrimonio
precostituito). Inoltre, ogni libro manoscritto veniva utilizzato e riutilizzato più volte, per sfruttare al massimo i
materiali quali carta e rilegatura. Dalla grande personalizzazione possibile ne è nata una grande varietà libraria, perciò
Armando Petrucci distingueva il corpo fisico (il supporto) e il corpus (il contenuto del libro). Questo ha una rilevanza
sul modo in cui i testi sono giunti fino ai giorni nostri. Con l’invenzione della stampa, seppur con tempi molto lenti, la
produzione tipografica è poi subentrata anche nei paesi slavi.
Successivamente, nell’800, c’è stata la nascita della filologia slava, scienza basata appunto sullo studio dei testi
medievali. Fra i testi che servono, molti (che magari non godevano di grande popolarità) sono rimasti isolati e
dimenticati in fondazioni monastiche, centri della cultura nel medioevo. La ricerca compiuta dai padri della filologia è
stato soprattutto un lavoro di scavo e descrizione di questi manoscritti, così da fare un inventario delle opere che
hanno circolato nei paesi slavi dall’862-3 fino al XVII secolo (invenzione della stampa). In una seconda fase, c’è stato
uno scavo più profondo ed è stato scoperto che le modalità di trascrizione di questi libri ha per forza di cose introdotto
delle difformità nei testi, dette varia lectio. Ci sono tre possibili livelli di intervento: Queste variazioni possono essere
incidentali, causati da stanchezza o distrazione; se invece si va a “emendare” volontariamente lo scritto, si può
compiere una contaminazione (ossia una correzione basata sulla consultazione di un’altra copia dello stesso testo) che
va a “unire” due manoscritti. Un’altra possibilità è che lo scriba, dopo aver letto l’antigrafo, abbia deciso di non
ricopiare alcuni segmenti del testo, di integrare porzioni di altri testi o di rielaborarle in modo soggettivo (com’è
successo al Trattato sulle lettere di Chrabr). Questi ultimi 2 tipi di interventi sono chiamati errori, e gli ultimi nella
fattispecie sono detti errori congiuntivi e errori separativi, detti così perché le “rielaborazioni testuali” non vanno
accorpate alle altre versioni del testo, bensì trattate separatamente, perché compiuto in maniera autonoma e
indipendente. Individuare gli errori separativi è ben più difficile e molto più importante che individuarne uno
congiuntivo, perché ci permette di definire i vari gruppi in cui ascrivere le versioni di uno stesso testo. Lachmann
proponeva allo scopo un approccio matematico, sostenendo che la versione originale è quella rispecchiata da più
gruppi; per fare ciò è comunque necessario avere un termine di paragone, senza il quale non si può far nulla.
Tutto questo lavoro di recensio, eliminatio eccetera per arrivare a costruire la tradizione di un testo viene raccolto
nelle edizioni critiche. Qui abbiamo il testo che l’editore ritiene essere più fedele all’originale, e sotto, fra le note, tutte
le varianti appartenenti ai casi in cui l’editore non ha materiale sufficiente per stabilire quale sia la versione più fedele,
oltre le varie fonti, le contaminazioni e le plurime traversie filologiche subite dal testo. Un altro tipo di testo è
l’edizione diplomatica: la trascrizione del testo proveniente da un’unica fonte in cui l’editore chiarisce la relativa
fedeltà all’originale e fornisce dunque una delle varianti più convincenti, per dare al lettore un’idea del contenuto
dell’opera. Nel caso del Trattato, abbiamo 115 manoscritti, di cui alcune varianti che uniscono delle copie, altre
versioni che le separano. Questi manoscritti risalgono a un periodo che spazia dal XIV al XVIII secolo. Sono stati
individuati tre gruppi:
 nel gruppo alfa viene circoscritto un sottogruppo di 6 manoscritti da un errore congiuntivo
 il gruppo gamma conta 105 esemplari con errore congiuntivo
 né alfa né gamma presentano errori separativi; a distinguerli è stata l’individuazione del sottogruppo.
 L’unico errore separativo rinvenuto è stato quello che ha definito il gruppo beta, formato da un unico
manoscritto (il “Sinodale Moscovita” del XIV secolo) + l’esemplare “Hilandar” (chiamato così dal monastero in cui è
stato rinvenuto); entrambi contengono la frase <<Sono ancora lì quelli che li hanno visti.>> Il manoscritto Hilandar è
inoltre contaminato, perché il suo scriba ha consultato degli antigrafi del gruppo alfa e perciò non viene ascritto ad
alcun gruppo.
 Il gruppo alfa contiene il manoscritto più antico fra quelli conosciuti: fu ricopiato dall’amanuense Laurenzi per
il re di Bulgaria nel 1348.
 Il ramo alfa non è compatto, perché privo di un errore congiuntivo che unisca tutti i suoi manoscritti.
Lachmann e i suoi allievi hanno largamente applicato il metodo glagoliano ai testi antichi e medievali; la generazione
successiva si rese però conto che questo metodo non va applicato così meccanicamente. Nel frattempo, ci si è resi
conto che tentare di “ricostruire l’originale” licenziato dall’autore è cosa impossibile, perciò ci si è concentrati sul
restituire un archetipo che sia il più vicino possibile all’originale. Uno dei maggiori esponenti di questa nuova
mentalità è Paul MAAS, autore di “Princìpi di critica testuale”, libro dove pone i pro e i contro sul metodo di
Lachmann, giungendo alla conclusione che bisogna accantonare l’obiettivo di “ricostruire l’originale”.
Il dibattito è ancora aperto. Negli anni 70 c’è stato un confronto scientifico fra due rappresentanti della scuola
testuale, l’italiano Angelo DANTI e il russo LICHAČËV; se il primo riteneva che la critica testuale (solitamente applicata
ai testi latini e greci) potesse essere ampliata agli scritti slavi (con molto lavoro di scavo nella traduzione manoscritta e
con un lavoro di perfezionamento sui vari registri linguistici), Lichačëv sosteneva che la tradizione dei testi antico-slavi
sia al 100% aperta, perciò non esiste alcun archetipo o sub-archetipo, e le varie varianti vanno analizzate col concetto
più elastico della тексталогия (testologìa). Il nodo della questione è proprio capire cosa intendere per “tradizione
aperta” e “chiusa”; Maas definisce la prima (aperta) quella laddove il testo è stato modificato con molta leggerezza, la
seconda (chiusa) quella in cui le varianti sono state create in modo accidentale o comunque piuttosto superficiale e
non alterano in modo importante l’assetto del testo. Esiste dunque un punto di incontro fra due tradizioni che va
ancora analizzato e studiato.

La cronologia medievale Quando analizziamo dei manoscritti, bisogna essere consci del funzionamento della
cronologia medievale. Nel Medioevo il tempo era scandito con un calcolo basato sulla distinzione mattina/sera e
giorno/notte descritto nella Genesi (vedi i passaggi “E fu sera”, “E fu mattina”). Dato che nelle Scritture in più punti si
allude al fatto che Dio sarebbe tornato per la Parosìa (“seconda venuta in gloria”) al settimo millennio, e da lì è
scaturito il modello dei “7 giorni”. Un altro evento da collocare nel tempo era la prima venuta, la passione e la
resurrezione del Messia, per poterla ricordare e celebrare sempre nello stesso momento dell’anno; sulla descrizione
dell’Arca dell’Alleanza fu calcolato che Gesù si sarebbe incarnato nel 5500, calcolo perfezionato dall’alessandrino
Giulio Africano. La cronologia degli eventi vissuti da Gesù di Nazareth durante la propria vita viene fatta tramite la
cronologia ebraica: in un passaggio in cui si fa riferimento alla Pasqua, gli evangelisti la datano al “14 del mese mìssan”.
Va tuttavia considerato che gli Ebrei si avvalevano dell’anno lunare, basato sulla rotazione della luna e fatto da 354
giorni (28 giorni al mese), mentre i Romani usavano l’anno civile o solare (365 gg); questa differenza di 11 giorni (“fase
della luna”) negli anni ha portato a uno sfasamento nelle ricorrenze, risolto con un dato astronomico. Sapendo che la
Pasqua degli Ebrei avveniva in concomitanza con il plenilunio di primavera, i Cristiani stabilirono che, nel proprio
calendario solare, la data della Pasqua fosse nella domenica successiva all’equinozio primaverile.
Nella cronologia cristiana, la datazione si avvia con la creazione del mondo; noi identifichiamo l’anno 0 con la nascita
di Gesù di Nazareth in base a un calcolo di Dionigi il Piccolo, difatti la nostra epoca viene chiamata “era dionisiana”.
Questi calcoli vengono utilizzati tutt’oggi. Anche con questo, però, dato che gli antichi non erano consci del fenomeno
di recessione degli equinozi, hanno comunque impostato tutta la loro cronologia su questo principio. Tale calcolo fu
applicato con papa Gregorio, il quale si consultò molti astronomi e, per risolvere lo ‘sfasamento’ creato dalla
recessione degli equinozi, tramite un editto fece entrare in vigore quello che noi oggi chiamiamo “calendario
gregoriano”: “chiunque si sarebbe addormentato la sera del 4 ottobre, si sarebbe svegliato il 15”. Ai quei tempi
l’Europa era pullulata da miriadi di riforme temporali differenti, e quando papa Gregorio introdusse la propria, molti
regnanti ne negarono la validità, magari per motivi che esulavano totalmente la questione e quindi più politici o
religiosi; in particolare, la riforma gregoriana fu rifiutata da tutte le Chiese ortodosse, da qui i calendari lunari tuttora
utilizzati dalle chiese slave. Nei testi slavi medievali, le indicazioni delle date saranno in riferimento agli anni del
mondo, con un calcolo fatto dalla creazione del mondo o di Adamo; Chrabr data la creazione dell’alfabeto all’anno
6363, per calcolare l’anno secondo il nostro sistema basta sottrarre il coefficiente 5500 (6363-5500=863). In seguito,
dato che nel calendario civile romano l’anno cominciava nel mese di settembre, qualcuno propose di usare il
coefficiente 5509 per i primi 8 mesi dell’anno e 5508 per gli ultimi 4. Un ulteriore dato è l’indizione, ossia un
numeretto riscontrato in molti manoscritti bizantini, che poteva andare da 1 a 15 e indica l’intervallo di tempo annuale
in cui andava pagata l’indizione appunto, una tassa imposta dal governo di Costantinopoli.
21.12
Le pergamene e i manoscritti rinvenuti sono ordinati per “fondi”. Ci sono tre criteri per rinominare una pergamena: 1)
in base alla biblioteca e alla città dov’è stata ritrovata; 2) il nome del fondo assegnato dalla biblioteca, detto appunto
“fondo.” Quando un fondo è molto grande, i manoscritti che vi appartengono si possono suddividere in categorie per
lingua; 3) con un ordine numerico.
I manoscritti slavi appartenenti alla Biblioteca Apostolica Vaticana vi sono giunti tramite varie vie, appartenendo a
epoche, fondi (per lo più di “fondo Vaticano”) e luoghi diversi. Alcuni sono stati acquistati in tempi molto remoti (cfr: il
Vangelo di Assemani), altri sono stati donati, altri sono stati acquistati in tempi recenti, in virtù del loro status di
reperti archeologici e di collezione. Acquistarli non è ovviamente semplice, anche perché sul mercato girano molti
falsi.
 Il cosiddetto “fondo Borgiano” è formato da manoscritti dell’epoca in cui il cardinale Borgia era capo della
congregazione che si occupava della diffusione del Cristianesimo. Molti di questi esemplari gli sono stati donati, altri
acquistati, altri portatigli da studiosi che si erano recati nei Balcani per studi filologici. In questa collezione si trova il
Vangeliario di Assemani. La rilegatura attuale è recente: risale all’ultimo restauro del manoscritto. La pergamena fu
acquistata a Gerusalemme da Assemani, e proviene probabilmente dalla Macedonia; con la nascita della branca
filologica, uno fra i padri della disciplina, Bodrovski, lo ha analizzato e studiato. Il manoscritto comincia col Vangelo di
Giovanni e la prima pagina appare “annerita”, così come le pagine più consultate durante la liturgia; la patina nera è
stata causata dalla cera delle candele usate per consultare i volumi durante le messe. Alcune lettere sono più grandi e
precedute da alcune cornicette: è un sistema artistico e pratico per rendere evidente il punto in cui comincia la
perìcope del giorno. Alcune di questi disegni presentano la stessa lettera magari ingrandita o dai tratti allungati, in cui
è stato fatto un disegno che spesso richiama il contenuto della stessa perìcope evangelica. Molte pericopi cominciano
con la frase “Disse il Signore”. Il manoscritto dell’Evangeliario è uno dei più antichi esemplari in glagolitico e anche nei
secoli successivi alla sua scrittura è stato assiduamente utilizzato, tanto che fra le pagine troviamo varie impronte di
mani e annotazioni ai margini; verso la fine un certo “Bogsdan” ha segnato delle ricorrenze ad esempio. La cosa molto
interessante è che alcune note sono in alfabeto cirillico: ulteriore dimostrazione che il passaggio da una scrittura
all’altra è stato graduale. Tanti manoscritti presentano addirittura un’alternanza di scrittura glagolitica e cirillica nello
stesso testo, come l’“Apostolo di Ohrid”, del XIII secolo circa.
Nella pericope evangelica che narra dell’incontro di Gesù con la samaritana, il miniatore ha pensato di inserire nel
disegno della gamma iniziale non solo dei ritratti di entrambi i personaggi, ma addirittura i loro nomi in piccolo attorno
alla loro testa. Anche nella pericope dei santi Cosmo e Damiano troviamo un ritratto dei due protagonisti, con il nome
scritto in greco attorno ai loro capi.
Alle pagine [92v (verso)-93r (recto)] troviamo il Menologio, ossia un calendario delle feste dei santi, con le pericopi
corrispondenti da leggere giorno per giorno. Proprio in questa parte C&M vengono citati come santi.
 Il manoscritto della “Cronaca di Costantino Manasse” è molto interessante perché contiene una cronaca
universale, ossia un testo cronachistico, in questo caso di origine greca, con protagonista appunto Costantino
Manasse. È stata una delle prime cronache a essere tradotta in lingua slava. Nelle note marginali (negli spazi bianchi o
attorno alle immagini), troviamo delle integrazioni al testo con testimonianze sulle vicende storiche dei Bulgari, una
vera e propria mini-cronaca sul popolo bulgaro. Il manoscritto è formato da più libri: a un certo punto, troviamo anche
delle preghiere e delle figure umane (fra cui probabilmente un autoritratto dello scriba). Verso la fine, fra le note
aggiunte in epoche successive, compare un Padre Nostro in una versione quadrata del glagolitico (versione tipica della
penisola dalmatica), con l’uso di djer (inizialmente variante delle palatalizzazioni ḱ e ģ nell’area serbo-croata, qui
“riciclata” per esprimere un altro fonema). Il testo si interrompe in bianco, qualcuno ci ha aggiunto dei disegni e dei
ghirigori fatti a bordo pagina per provare le penne (come sequenze parziali di alfabeto). Da tutto questo capiamo il
valore del manoscritto: esso rappresenta uno scrigno di informazioni, non solo per quanto riguarda i testi, ma anche
spunti per capire come si svolgevano la creazione e l’uso di un libro.
 La terza pergamena è un salterio. L’opera appare incompleta e probabilmente l’ordine di alcuni fascicoli è stato
confuso. Troviamo note marginali con una scrittura più larga appartenenti ai possessori del manoscritto. Grande uso
degli spazi marginali è stato fatto per aggiunte e interventi vari.
 Palinsesto= manoscritto con fogli “lavati” e per cancellare il testo e poter riutilizzare tutto; pratica insolita e poco
diffusa. Rotolo= testo scritto su foglio di pergamena arrotolato attorno a uno (o due) onfali.
COMMENTI SULL’ARTICOLO DI STANTCHEV
Il nostro autore discute la questione dei nomi per rifarsi alla questione dei metodi e dei concetti. Il vero problema è
come definire la lingua dei testi scritti laddove sappiamo che questa lingua scritta comincia con C&M e arriva fino al
XVIII secolo, quando i vari dialetti slavi iniziano a porsi come lingue autonome. È possibile denominare questa lingua in
un unico modo che si adatti a tutte le fasi del suo sviluppo? Gli utenti, in particolare, non hanno mai battezzato tale
lingua in modo specifico; per tutte queste ragioni nacque la definizione di Slavo Ecclesiastico. Stantchev argomenta
che però, forse, utilizzare questa denominazione significa fare riferimento al contenuto dei testi a causa dei vari
aspetti socio-culturali. Ogni manuale pone una propria descrizione della lingua, vedi le differenti definizioni che danno
la Marcialis e la Venturini: il manuale della Marcialis cerca di far comprendere come funziona la relazione all’interno
della comunità degli utenti. L’autrice intende lo Slavo Ecclesiastico (antico) non solo da un punto di vista linguistico,
ma anche come una caratteristica storico-culturale; la Venturini la cataloga invece come lingua di opere a carattere
religioso a partire dall’età cirillometodiana fino al X-XI secolo. La Marcialis definisce il paleoslavo come la lingua
utilizzata per introdurre testi sacri fra la popolazione slava subito dopo la sua cristianizzazione. Il concetto di “Slavo
Ecclesiastico” con l’aggiunta di “antico” (e non), e in particolare l’uso di questa lingua, ha un suo senso solo se in
relazione con altre lingue slave e non in ambito puramente ecclesiastico e liturgico. Stantchev sostiene difatti che
quella lingua era utilizzata anche in ambiti ben diversi, quali l’amministrazione, dunque probabilmente l’aggettivo
“ecclesiastico” non ha ragion d’essere. È legittimo definire in toto “ecclesiastica” una lingua utilizzata per ogni aspetto della
cultura scritta? Stantchev si dichiara contrario. A un certo punto, nella storia dei nostri studi, si è acceso un dibattito fra Picchio e
Lichačëv: il primo ipotizzava esistesse una differenza di contenuti letterali e culturali in senso ampio dalla “Slavia ortodossa” alla
“Slavia latina”. Questa teoria non è stata mai accettata dagli altri studiosi, poiché queste etichette vengono generalmente ritenute
troppo ‘generiche’, ma ha vissuto una grande rivalutazione nel 1990.
Viene affrontata un’altra questione. Durante l’epoca cirillometodiana, nella Rus’ kieviana è stata compiuta una
massiccia importazione di testi scritti in una forma standardizzata del macedone, dunque una lingua della Slavia Sud;
ciò ha dato origine alla convivenza di lingue, lo Slavo Ecclesiastico e lo Slavo Comune. La Marcialis è indecisa se tale
situazione vada definita come una diglossia o un bilinguismo. Secondo la definizione di Ferguson, la diglossia
rappresenta una lingua formata da due registri differenti (con parole, formule e strutture diverse), mentre il
bilinguismo indica la presenza di due standard linguistici differenti, come accade con l’italiano e dialetti quali il sardo, il
napoletano, eccetera. La questione che si pone è: per gli abitanti della Rus’, il rapporto tra la lingua dei libri e la lingua
parlata, rappresenta una diglossia o un rapporto di bilinguismo? Rispondere a questa domanda è molto arduo, sia
perché non possediamo attestazioni della lingua reale, sia per la grande estensione del territorio linguistico a cui
facciamo riferimento. Il problema consiste nel tracciare un confine fra il concetto di “Russo Antico” (ciò che riflette la
lingua parlata) e la redazione dello Slavo Ecclesiastico; ciò è molto importante alla luce del fatto che, per molti
studiosi, fra i due registri non esista una vera differenza, e anzi i termini siano intercambiabili. Ancora oggi ragioniamo a
grandi linee sulla questione, ma la verità è che il materiale a nostra disposizione non è stato analizzato in modo sufficientemente approfondito. Un
altro fattore facilmente riscontrabile è la variabilità lessicale, ma anche quest’ultima caratteristica risulta difficile da verificare. La situazione è
complicata soprattutto nei paesi balcanici, laddove è sopraggiunta l’invasione ottomana che ha relegato la lingua slava nei testi.
La teoria di Picchio è stata rivalutata in un’epoca in cui c’era un’attenzione forse eccessiva nell’individuare una tradizione nazionale e singola,
Gli studiosi hanno iniziato a considerare il
piuttosto che una globale e comune  ciò rappresenta un problema più politico che scientifico.
Medioevo Slavo come un’epoca che presenta allo stesso tempo caratteristiche comune e differenze locali; nonostante
nella comunità slava la religione sia la stessa, le tradizioni variavano molto da una zona all’altra e fra le comunità
monastiche. Inoltre, a causa delle varie dominazioni subite dalle popolazioni slave (mongola, latina, greca, tedesca,
eccetera), ogni situazione va esaminata singolarmente e nel dettaglio. Durante la dominazione mongola, nella
fattispecie, avvengono due grandi cambiamenti. A livello linguistico, il registro parlato si evolve in due registri dialettali
in base all’esito della ģ – palatale nei dialetti settentrionali, fricativa nei meridionali. Questa innovazione avviene
esclusivamente nella lingua parlata. Cambia anche l’organizzazione ecclesiastica: con l’arrivo dei Mongoli, la sede
metropolitana di Kiev (il luogo principale di utilizzo del Protoslavo) viene distrutta, perciò la metropoli viene di volta in
volta spostata, portando alla gemmazione di due centri ecclesiastici con altrettanti orientamenti: uno per la Slavia
orientale, verso la Moscovia, dove verrà utilizzato ancora il Paleoslavo, e uno per la Rus’ sud-ovest, dove avremo 1) lo
Slavo Ecclesiastico per i testi religiosi 2) la lingua parlata e 3) la lingua per l’amministrazione (codice “ibrido” calibrato
per l’uso specialistico), con più centri politici e religiosi e una maggior variabilità linguistica. A cambiare da zona a zona
è l’uso socio-culturale che si fa dei vari registri.

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