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Capitolo 1.

Storia della lingua italiana: nascita e sviluppo di una


disciplina.

1. La riflessione antica sulla formazione dell'italiano


1.1. De vulgari eloquentia

La storia della lingua italiana è stata introdotta nell’ordinamento universitario da poco più di
sessant’anni. Essa esisteva già da prima pur non avendo l’indipendenza di un settore autonomo,
ma essendo legata ad altri studi o collocata all’interno di altri ambiti, posta come punto di
congiunzione tra la letteratura e la linguistica.

La riflessone sulla storia dell'italiano è legata alle teorie che miravano a definire la natura e la
norma dell'italiano e passa sotto il nome di: questione della lingua. Il più antico trattato dove
vennero affrontati temi storico-lingusitici è: Il De vulgari eloquentia (‘300), il quale presenta le
seguenti caratteristiche:

a. fornisce una rassegna delle varietà di volgare parlate nella penisola italiana ed un esame della
tradizione poetica della nuova lingua.
b. Il suo punto di partenza sta nel racconto della Bibbia: narrazione dell'uomo e della confusione
babelica dei linguaggi. La punizione divina aveva cancellato la lingua edenica originaria.
c. Dante individua una parentela tra il francese, l'italiano e il provenzale.
d. Il latino è considerato come una lingua artificiale, una creazione dei dotti. I fondatori della
lingua grammaticale (il latino) per Dante si sono ispirati all’affermazione italiana si per coniare il
termine sic1.
e. Il De vulgari non influì direttamente sulle conoscenze degli uomini del Trecento e del
Quattrocento poiché cadde in oblio e fu riscoperto solo all'inizio del sec. XVI dal letterato
Trissino, che partecipò alla questione della lingua.

1.2. Le teorie degli umanisti


Una vera tradizione di studi sulla storia della nostra lingua ebbe inizio con gli umanisti nella prima
metà del Quattrocento, i quali però si posero non tanto il problema dell'origine dell'italiano, ma si
interrogarono sulla situazione linguistica al tempo della Roma antica. Gli umanisti ricercano le
cause che avevano portato alla fine della romanità, formulando degli interrogativi su come
parlavano gli antichi romani. Si riscontrano due ipotesi:

1 Noi sappiamo che in realtà è avvenuto il contrario.


1
1. Secondo Biondo Flavio (studioso dell’antichità romana) al tempo di Roma si parlava una
sola lingua, il latino, e questa si era corrotta per una causa esterna: invasione dei popoli
barbari. Da questa corruzione era nato l'italiano che risultava quindi il frutto di una mistura
tra il latino e la barbarie. Biondo definì in maniera più precisa questa fase storica, come
negativa e attribuì questa corruzione e contaminazione non tanto ai goti, quanto ai
longobardi (invasori del VI sec). L’Italiano dunque era frutto delle invasioni barbariche.
Potremmo definirla una maledizione laica, diversa da quella di Dante. Di fronte al fenomeno
della trasformazione delle lingue, si reagiva come di fronte ad una iattura.

2. Nel Quattrocento Leonardo Bruni era convinto che al tempo di Roma antica non si
parlasse un latino omogeneo ma che ci fossero due livelli di lingua: uno "alto", letterario,
l'altro "basso", popolare. Da quest'ultimo si sarebbe poi sviluppato l'italiano. Questa tesi
anticipa il concetto di latino volgare. La calata dei barbari non era stata decisiva per il
volgare, perché questo era nato da un’evoluzione autonoma del latino popolare.

La tesi più accreditata nel Rinascimento fu quella del Biondo, ripresa poi da Pietro Bembo che la
fece sua nelle Prose della volgar lingua. La tesi di Bruni si divulgò in modo errato rispetto alla
formulazione originale; fu interpretata come ipotesi di due lingue esistenti: il latino classico e
l’italiano.

1.3. Etrusco e Toscano


Successivamente non furono date spiegazioni radicalmente diverse, ma si arrivò piuttosto ad un
metodo sempre più rigoroso, trasferendo il discorso dell'origine dell'italiano dalle vaghe ipotesi a
una dimostrazione filologica precisa e documentata. Va ricordato l'unico scenario diverso elaborato
dalla cultura del Cinquecento per spiegare l'origine dell'italiano, staccandosi completamente dalle
due ipotesi umanistiche.
Nel 500, Giambullari sostenne che la lingua toscana era l'erede diretta dell'etrusco, il quale a sua
volta si identificava con l'arameo (antica lingua della Palestina). Le conoscenze sull'etrusco erano
assai vaghe e imprecise, ma si percepiva già la diversità di quell'antica civiltà rispetto a quella
romana. Il centro geografico della civiltà etrusca veniva identificato proprio in Toscana. La teoria
dell'etrusco come antenato del toscano rimase tuttavia marginale.

1.4. La teoria del latino volgare in Castelvetro


Ludovico Castelvetro usò la definizione di "lingua latina vulgare”. A Roma esisteva un latino
popolare il quale nella grammatica non differiva dal latino vero e proprio (conosceva quindi l'uso
dei casi, aveva le desinenze ecc.) il lessico però era differente da quello del latino nobile, vi era
presenza di parole che nel lat. classico non c'erano. Queste parole del latino popolare erano
sopravvissute nell'italiano. Castelvetro cercò anche di spiegare come il latino volgare riuscì a
soppiantare il latino classico. Attribuiva una funzione determinate agli imperatori di nascita
2
straniera, insediatisi prima delle invasioni barbariche. Tali imperatori non avevano imparato il latino
letterario puro, ma adottavano termini del latino popolare. Più tardi questa lingua bassa si modificò
ancora per influenza degli invasori barbari, goti e soprattutto longobardi.

1.5. La ricerca di documenti epigrafici e archivistici. Celso Cittadini e Ludovico Antonio Muratori

Cittadini tendeva ad escludere che le invasioni barbariche avessero avuto importanza per lo
sviluppo della lingua italiana. La sua importanza sta nel tentativo di verificare la tesi attraverso lo
studio degli antichi documenti epigrafici: attraverso lapidi, a suo giudizio, si potevano conoscere
meglio le fasi arcaiche della lingua latina piuttosto che nei testi letterari.
Nei documenti epigrafici poté individuare "errori" o devianze linguistiche rispetto alla norma del
latino classico. Tali errori li riscontriamo sia in testi successivi alle invasioni barbariche che in lapidi
arcaiche e di epoca imperiale. Ciò voleva dire che la lingua latina non andava vista come qualcosa
di omogeneo, ma in come in continuo mutamento. In Cittadini il concetto di "corruzione" applicato
largamente negli studi rinascimentali perdeva ogni connotazione negativa, diventando l'equivalente
di una semplice “alterazione".

Un'altra tappa importante si ebbe con Ludovico Antonio Muratori, nel sec. XVIII. Le sue opere
hanno permesso di conoscere in maniera seria e precisa la storia del Medioevo italiano. Egli fu
attento, oltre che a documenti archivistici, a quelle antiche carte che contenessero testimonianze
del volgare italiano, prova di un interesse linguistico. La sua attenzione era sollecitata dal desiderio
di trovare in area italiana qualcosa di paragonabile al primo documento di lingua francese: I
Giuramenti di Strasburgo, trasmesso dal cronachista Nitardo il quale affermò che il testo era in
lingua romana. Con questo termine gli studiosi del 500 e del 600 pensarono ad una sorta di idioma
intermedio tra il latino e le lingue moderne. I Giuramenti di Strasburgo sono collocati in un periodo
in cui il latino non è più una lingua viva ma non vi è ancora stata l'affermazione delle lingue
moderne; venne considerato come appartenente ad una "lingua intermedia". Tale lingua, però,
finiva per essere concepita come lingua vera e propria e non come una fase storica di trapasso. Si
pensò che la lingua intermedia fu usata alla stessa maniera in tutti i paesi d'Europa non germanica
e questo era indubbiamente falso. Muratori non sostenne mai questa ipotesi, convinto che dal
latino si fossero formate lingue diverse nelle varie zone dell’impero.

Egli era convinto che le lingue germaniche avessero avuto un forte peso nella trasformazione del
latino, che la lingua intermedia non fosse mai esistita e che nei documenti d'archivio risalenti al
Medioevo fosse possibile riconoscere tracce della lingua volgare del tempo. Alla sue epoca fu
pubblicata una raccolta di documenti dell'Abbazia di Montecassino nella quale era anche trascritto
il Placito Capuano (960) quello che oggi si usa definire come atto di nascita della lingua italiana,
ma Muratori non si accorse di questo.

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1.6. Dalla teoria della "lingua intermedia" alla storia linguistica nazionale.
La teoria della lingua intermedia la troviamo comunemente accettata all'inizio dell'Ottocento
quando fu ripresa da Giulio Perticari, collaboratore di Vincenzo Monti. Per quanto riguarda
Perticari, la sua interpretazione del passaggio dal latino all'italiano attraverso la lingua intermedia
ha un grande valore documentario e rappresenta la conoscenza più avanzata che si avesse
nell'Italia del primo 800 sulle questioni di linguistica storica. Merito di Perticari è l'interesse per i
testi letterari anteriori a Dante; da questa prospettiva nasceva un interesse filologico per i testi
antichi e andò consolidandosi l'idea che nei dialetti italiani vi fossero tracce interessanti delle fasi
antiche della lingua.
Nel frattempo la teoria della lingua intermedia era stata ripresa da François Raynouard che l'aveva
identificata nel provenzale. Lo studioso francese, pur seguendo la fallace teoria della lingua
intermedia, ebbe il merito di essere tra i fondatori degli studi romanzi.

Nei primi anni dell'ottocento il lessicografico Giuseppe Grassi progettava un libro di storia della
lingua italiana: si ritrova un sentimento legato all’ideologia nazional-risorgimentale che ispirò
l’autore. Egli vide nei barbari invasori dell’impero gli avversari eterni dell’Italia. L'opera è un
connubio tra sentimenti patriottici e studi linguistici. Nasceva l’idea che la storia linguistica fosse
una parte della storia della civiltà nazionale, oltre che la base della storia letteraria. Anche Pietro
Giordani pensò di scrivere una Storia dello spirito pubblico d'Italia per 600 anni considerato nelle
vicende della lingua. Il progetto non fu realizzato.
La storia linguistica italiana venne considerata come settore di studi di primaria importanza. Si
interessarono ad essi Giacomo Leopardi (si trovano appunti interessanti nello Zibaldone)e Ugo
Foscolo.

1.7. Dalla linguistica "prescientifica" alla linguistica “scientifica”


Per comprendere la svolta scientifica che si ebbe nella linguistica ottocentesca, occorre guardare
al di là dei confini nazionali. Agli Inizi del sec. XIX occupano un posto centrale due studiosi
tedeschi: Friedrich Schlegel e August Schlegel. Con i fratelli Schlegel ci troviamo davanti a studi
sull'origine della famiglia delle lingue indoeuropee. Friedrich pubblicò un saggio nel 1808 nel quale
mostra i rapporti esistenti tra lingue Europee e il Sanscrito. Si dice che con questo libro sia nato il
comparativismo2. Gli Schlegel seppero ricavare conseguenze di grande portata culturale,
conferendo alle lingue uno status universitari, nelle cattedre di glottologia.

La distinzione tra linguistica prescientifica e scientifica fu fissata dagli fratelli stessi. Fecero sì che
si affermasse l'opinione secondo la quale la linguistica, in quanto scienza, era disciplina appena
nata. Divenne normale dividere la storia della linguistica in due fasi:

2 Studio di lingue basato sul raffronto tra idiomi diversi, legati da una parentela.
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a. quella scientifica moderna, dagli Schlegel in poi
b. quella empirica o prescientifica, fino agli Schlegel.

La linguistica prescientifica fu considerata poco valida, ma non vi erano solo fantasie, infatti, nel
1600 venne elaborata una teoria in cui si ipotizzava la parentela tra lingue europee e persiano. Si
tratta della "teoria scitica" che anticipa il comparativismo moderno.

2. La riflessione "scientifica" sulla storia dell'italiano

2.1. August Wilhelm Schlegel

Toccò il tema della formazione dell'italiano in un saggio scritto in francese intitolato Osservazioni
sulla lingua e letteratura provenzale (recensione opera François R.) Veniva riesaminato tutto il
processo di formazione delle lingue romanze e veniva proposta una tipologia concepita proprio
attraverso l'osservazione della grammatica del sanscrito. Secondo gli S. le lingue potevano essere
di 3 tipi:

1. senza struttura grammaticale, come il cinese, erano quelle con parole che non potevano
essere modificate e definite ‘radici sterili’.

2. Ad affissi, lingue le quali permettevano la combinazione di composti ottenuti mediante


elementi dotati di un senso compiuto. August riteneva che a questa tipologia
appartenessero le lingue degli indigeni d’America.

3. Flessive, dotate di un sistema grammaticale strutturato (sanscrito, greco, latino, idiomi


europei) parole formate da radice + desinenza (elemento privo di significato).

Schlegel individua un'altra distinzione tipologica tra:

• lingue sintetiche

• lingue analitiche: la cui caratteristica è la presenza dell'articolo, dei pronomi davanti ai verbi,
degli ausiliari davanti ai verbi, e dalle preposizioni. Nate dalla scomposizione di quelle
sintetiche. Una trasformazione del genere era avvenuta nel passaggio dal latino alle lingue
romanze. La formazione della grammatica analitica al posto di quella sintetica era da
considerare la causa vera e profonda della trasformazione del latino. Per A.W.S. tale
sviluppo era spiegabile con l'influenza esercitata dai barbari e dai provinciali, incapaci di
usare in maniera corretta le desinenze e i casi del latino classico.

August muove una critica a Raynouard: quest'ultimo sosteneva che la lingua intermedia
romana era da considerarsi come lingua uniforme in tutto l'impero; S. obiettava questa
definizione che era da intendere, a suo parere, come una pluralità di lingue locali. Con questa
5
critica veniva fondata la prospettiva della moderna romanistica la disciplina che studia la
formazione e lo sviluppo delle lingue derivate dal latino.

2.2. Graziadio Isaia Ascoli (1829-1907)


Occupò la cattedra di grammatica comparata all'Accademia di Milano. Viene ricordato in
particolare modo per il suo contributo alla linguistica italiana dopo il 1870. Fu il primo a dare una
descrizione accurata e completa della distribuzione dei dialetti italiani in uno studio intitolato L'Italia
dialettale. Rielaborò la teoria del sostrato: teoria secondo la quale veniva stabilita l'importanza
dell'azione svolta dalle lingue vinte su quelle dei vincitori. La teoria del sostrato era argomento di
grande rilievo in un momento in cui la linguistica si interrogava sulle cause del mutamento fonetico
e sui rapporti tra lingua e nazione. Il sostrato era un vero e proprio condizionamento determinato
dalla struttura degli organi fonatori, definibile come ‘fattore etnico’, secondo l’espressione dello
stesso Ascoli. Ascoli attribuiva, ad esempio,all'influenza del sostrato Celtico prelatino la presenza
in alcuni dialetti italiani della vocale turbata ü (u francese) una u latina che le bocche celtiche non
erano riuscite a pronunciare.

Fondò la rivista Archivio glottologico italiano nel 1873. Nel giornale polemizzò contro la soluzione
manzoniana alla questione della lingua, ma soprattutto definì in maniera chiara come si dovesse
intendere il rapporto tra il toscano e la lingua italiana. Dimostrò che l'unificazione linguistica italiana
non era avvenuta secondo il modello proprio del latino e del francese. Quest'ultimo, infatti, è
caratterizzato da un forte centralismo, dovuto all'azione unificatrice di una capitale egemonica sia
essa Roma o Parigi. L'unificazione politica italiana avvenne solo nel XIX sec, e anche per questo
la storia d’Italia si era caratterizzata per il forte policentrismo, in cui era determinate l’azione di città
diverse da Firenze.

3. Nascita di una nuova disciplina


3.1. La "Storia della lingua italiana" di Bruno Migliorini e il "profilo" di Giacomo Devoto

Nel sec. XIX in tutta Europa furono istituite cattedre di glottologia e linguistica comparata.
All'interno delle diverse discipline linguistiche, ebbe la sua autonomia la filologia romanza,
specializzata nello studio delle lingue e delle letterature neolatine. Questa ebbe modo di occuparsi
anche della formazione dell'italiano dall'Unità in poi. Il contributo della filologia romanza fu
essenziale nel periodo tra la seconda metà dell'Ottocento e la prima guerra mondiale: furono
scoperti e pubblicati quasi tutti i più antichi testi della lingua italiana: la Carta Picena nel 1878, la
Confessione Umbra nel 1880, la testimonianza di Travale nel 1907, la Carta Osimana nel 1908, la
postilla amiatina nel 1909, la Carta Fabrianese nel 1912.

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La prima cattedra fu attivata nel 1938 nella Facoltà di Lettere di Firenze (grazie anche
all'interessamento di Bottai). Fu ricoperta da Bruno Migliorini. Nel 1939 venne fondata la rivista
Lingua nostra diretta da Giacomo Devoto e dallo stesso Migliorini; il periodico divenne punto di
riferimento fondamentale per questo genere di studi. Migliorini : "se la linguistica tiene conto in
primo luogo dello strato popolare del linguaggio, la storia della lingua deve tener conto di tutti gli
strati sociali”.
La prima sintesi di storia della lingua nazionale non fu portata a termine da M. ma da Giacomo
Devoto, glottologo all'Università di Firenze, studioso di linguistica indoeuropea. Pubblico nel 1940
una Storia della lingua di Roma e nel 1953 un sintetico Profilo di storia della lingua italiana. Questa
breve opera precedeva il lavoro di Migliorini.

Il periodo cronologico più studiato era stato in genere quello delle "origini", del passaggio dal latino
alle lingue romanze. Era mancata fino a quel momento una sintesi che fosse testimonianza di tutte
le fasi storiche della storia linguistica: Benedetto Croce affermò che la storia della lingua è
sostanzialmente identica a quella della letteratura.

I linguisti italiani erano nettamente in ritardo rispetto a quelli francesi. Il più rappresentativo dei
nuovi maestri della Linguistica francese, Antoine Millet, affermava che la lingua è un'istituzione
sociale, e che il solo elemento variabile a cui si possa far ricorso per rendere conto del
cambiamento linguistico è appunto il cambiamento sociale.

Migliorini volle che l'opera più importante della propria carriera uscisse in coincidenza del
"millenario" della lingua italiana: in quell'anno si festeggiava infatti la ricorrenza dell'atto di nascita
della nostra lingua (mille anni dal 960, Placito Capuano) . Nella breve prefazione dell'opera M. si
preoccupava di distinguere tra la storia della lingua, così come egli l'aveva intesa, e la storia
letteraria, o meglio una storia linguistico-stilistica incentrata sugli scrittori. Egli riconosceva che gli
scrittori hanno un'efficacia demiurgica, ma scontrandosi con l’idealismo crociano3 , riconosceva
l’importanza del popolo nella lingua. L’opera fu avvertita come una novità anche perché finalmente
essa riempiva di informazioni e notizie quell'ambito che M. aveva precedentemente individuato
come proprio della nuova disciplina.

3.2. Struttura della "Storia della lingua italiana" di B. Migliorini

L'opera di presenta come una raccolta eccezionale di dati e di informazioni, utile per ogni ricerca
relativa all'arco cronologico anteriore alla prima guerra mondiale. Allo schema per secoli si
sottraggono solo alcuni capitoli, tra cui quello delle Origini; fa eccezione anche il capitolo dedicato

3 Concepiva le lingue come fenomeno dello spirito, slegato dalla materialità, e quindi frutto di arte e
creazione individuale. Nella visione di Croce la storia della lingua poteva essere omologata alla letteratura.
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a Dante, isolato tra gli altri per il rilievo che viene dato a colui che viene definito il padre della
nostra lingua.

Caratteristica speciale è la sua natura volutamente non problematica, con la prevalenza del dato
concreto e positivo sulla discussione metodologica. La strutturazione dei capitoli è stata studiata
dall'autore in modo da proporre per ogni secolo una serie quasi identica di paragrafi, dedicata per
quanto possibile a una sequenza omogenea di temi:

1. la questione della lingua

2. la lessicografia

3. la grammatica

4. i rapporti tra latino e italiano

5. la consistenza del lessico

6. l'italiano fuori l'Italia.

Questa strutturazione rende agevole la consultazione dell'opera. La quantità di dati rende il libro
adatto sia alla lettura continuata che alla semplice consultazione, facilitata dall'indice finale dei
nomi e delle cose notevoli.

3.3. Migliorini e la lingua contemporanea

Migliorini fu tra i primi ad occuparsi dell'italiano contemporaneo. Nel 1938 apparve un suo
volumetto intitolato Lingua contemporanea che ebbe un notevole successo. Nel 1941 uscirono i
Saggi sulla lingua del Novecento. Nella prefazione al libro del '38 Migliorini osservava che la critica
letteraria aveva acquisito come fatto certo che fosse legittimo lo studio degli autori contemporanei,
superando il pregiudizio che solo gli antichi fossero degni di attenzione da parte degli studiosi
"accademici".

Migliorini si dedicò, anche per questo, allo studio della lingua moderna, ponendo la sua attenzione
ai neologismi, alla fortuna di prefissi "moderni", certi moduli sintattici che si andavano imponendo
(votate socialista, parlar chiaro). I saggi citati sono dunque una sorta di completamento della
"Storia della lingua italiana" la quale invece si arresta alla prima guerra mondiale.

3.4. La "Storia linguistica dell'Italia unita" di Tullio De Mauro

Opera uscita nel 1963, venne riproposta in edizione ampliata nel 1970. Libro esemplare, strutturato
in maniera nuova e originale, da notare l'uso rilevante di dati statistici ed economici. La storia della
lingua viene collegata più strettamente alla storia sociale (soprattutto le vicende delle classi
popolari).

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Caratteristiche:
1. si interroga sulle condizioni culturali e linguistiche delle masse; al momento dell'unità politica
del nostro paese solo il 2,5% dei cittadini era in grado di parlare italiano.
2. Presta attenzione ai fenomeni che hanno condotto all'unificazione linguistica italiana, come i
fattori istituzionali (es. scuola pubblica) ma anche stimoli diversi. L’unificazione linguistica
perciò è stata favorita dall’emigrazione, urbanesimo, diffusione della stampa, dalla nascita di
poli industriali, radio e televisione, dalla burocrazia e dal servizio di leva obbligatorio.

De Mauro ribadisce il suo favore per una linguistica attenta alle esigenze delle classi subalterne. la
linguistica non può chiudersi in se stessa, non può prescindere da fatti storici e sociali. De Mauro
vuole mettere in evidenza come l'italiano diffusosi nella penisola a partire dall'unità non era stato
uniforme. Non era un elegante toscano letterario ma un italiano “regionale". L'immissione della
sociolinguistica e delle statistiche socioeconomiche nel bagaglio degli insegnanti permetteva a
costoro di comprendere molto meglio le mutate condizioni sociali della scuola italiana, negli anni
della riforma della media dell'obbligo. La Storia della linguistica dell'Italia unita era divisa in due
parti:

A. la prima parte è una trattazione più sintetica e discorsiva.


B. la seconda parte (circa metà volume) è costituita da schede di approfondimento di singoli temi
e problemi.

3.5. Dopo la "Storia" di Migliorini : la lingua italiana nell’università


La disciplina linguistica negli anni 70/80 ha consolidato la sua posizione all'interno delle università
diventando uno dei passaggi obbligati nella formazione umanistica aggiornata e moderna. Gli
storici della lingua prestano attenzione ai problemi dell'italiano contemporaneo oltre che alla sua
storia.
Nel 1992 è stata fondata l'ASLI (Associazione per la storia della lingua italiana). Raggruppa
studiosi della disciplina italiani e stranieri, con il compito di “promuove gli studi di storia della lingua
italiana, ad ogni livello culturale, scientifico e didattico". Ha la sua sede a Firenze, presso
l’Accademia della Crusca. Il primo presidente,Baldelli a cui si sono succeduti: Sabatini, Bruni,
Beccaria. Le più note Sintesi hanno il compito di offrire un quadro aggiornato delle conoscenze:
1. Linguistica italiana
2. Grammatica italiana
3. Didattica della lingua italiana
4. Lessicografia e lessicologia italiana
5. Stilistica e metrica italiana

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A queste materie va aggiunta Dialettologia italiana (affine a Storia della lingua).

Il settore della Storia della lingua italiana, ormai chiamato Linguistica italiana è definito cosi:
(L-FIL-LET/12) LINGUISTICA ITALIANA
Comprende gli studi sulla lingua italiana e sui dialetti parlati in Italia, con riferimento alle strutture
fonetiche, fonologiche, morfologiche, sintattiche e lessicografiche, all'evoluzione di tali sistemi, alla
storia degli usi sociali e assetti geolinguistici, alle tradizioni testuali e stilistiche, alle problematiche
tematiche applicative, nonché alle problematiche e metodologie di didattica della lingua italiana per
italiani e stranieri.

3.6. Nuovi manuali generali di "storia della lingua italiana”


Molte di queste "sintesi" sono manuali universitari, ma risultano adatti anche ad un pubblico medio.
Da ricordare:
• Stussi 1972
• Montanari-Peirone 1975
• Simone 1980
• Coletti 1987
• Durante 1981
• Gensini 1985
• Bruni 1987
• Marazzini 1994
• Tesi 2001
• Serianni 2001: caratteristica insolita, è un libro scritto da diversi autori coordinati e diretti da uno
studioso di primo piano: Luca Serianni. L'opera si segnala per la sistematicità e per la discorsiva
chiarezza con cui propone materiale aggiornato: si rivolge ad un lettore non specialista. Accanto
alle storie generali, si collocano diverse sintesi relative alla storia dell'italiano letterario dedicate
alla lingua poetica e alla prosa artistica (non è corretto guardare solo alla scrittura di autori
importanti).

3.7. La "questione della lingua", storia delle idee e delle teorie linguistiche
Sotto il nome "questione della lingua" si raccolgono le discussioni relative alla lingua italiana, alla
sua definizione, alla sua origine e natura, alla sua regolamentazione normativa (discussioni
particolarmente vivaci in Italia). La questione della lingua nel nostro paese è stata determinante e
più duratura, da Dante fino alla nostra epoca. Questo dibattito è importante per : comprendere la
storia della grammatica, la lessicografia, le scelte degli scrittori e lo sviluppo della letteratura,
definire il rapporto tra classi intellettuali e la nazione, per intendere gli interventi nel campo della
scuola, prima e dopo l’unità.

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Il grande manuale di riferimento è quello di Vitale 1978 "Questione della lingua". Inizia con un
capitolo di Preliminari dedicato a Dante (al DVE) e al dibattito tra gli umanisti del Quattrocento .
Prosegue con capitoli dedicati al : Cinquecento, Seicento, Settecento; Ottocento (struttura che
ricorda la Storia di Migliorini). Il percorso storico chiude con un’ Appendice novecentesca (molto
breve). In chiusura del volume vi è un’Antologia della critica, una raccolta di testi per illustrare i
momenti determinanti della questione della lingua da Dante a Pasolini.

4. Grandi realizzazioni recenti: i nuovi manuali di riferimento


4.1. La "Storia della lingua italiana" diretta da F.Bruni per la società editrice il Mulino

1989: pubblicazione di una Storia della lingua italiana in molti volumi (concepita come manuale per
studenti universitari) coordinata da F.Bruni. Sono stati pubblicati:
• un volume sul Medioevo
• un volume sul ‘400
• un volume sulla prima metà del ‘500
• un volume che accoppia fine '500 e il ‘600
• un volume sul ‘770
• due volumi sull’'800
• un volume dedicato interamente a Manzoni
• un volume sul '900.

La storia dell'italiano è tutta coperta tranne che per la lacuna relativa al titolo ancora in
preparazione Trecento Toscano.

4.2. "L'italiano nelle Regioni "diretta da F.Bruni per la casa editrice UTET
Dopo la pubblicazione di Migliorini si cercò di realizzare una storia linguistica nella quale
trovassero spazio i diversi centri culturali dell'Italia la quale possiede una quantità di dialetti che
sono entrati in contatto con la lingua nazionale. Tra le principali sintesi ricordiamo quella di Stussi.
L'italiano nelle regioni di F.Bruni è un'opera concepita come una raccolta di monografie, ciascuna
delle quali è dedicata alla storia dell'italiano in una regione della penisola. Queste monografie sono
affidate ognuna ad uno specialista cosicché un'equipe ha collaborato alla ricostruzione sistematica
di questa storia policentrica. L'opera non si limita ai confini politici dell'Italia attuale, infatti contiene
monografie su Malta, sulla Dalmazia, Canton Ticino, Corsica. Un’opera del genere si propone
come alternativa all’impostazione toscanocentrica.

A breve distanza dal primo volume esce il secondo Italiano nelle regioni ideato sempre da Bruni. è
una raccolta di testi commentati e annotati (dovevano essere realizzate presso UTET libreria). Di

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queste monografie ne sono uscite solo alcune, successivamente la collana si è interrotta e il resto
dei volumi è stato pubblicato presso altri editori.

4.3. La "Storia della lingua italiana" diretta la L. Serianni e P.Trifone per l'editore Enaudi
Storia della lingua italiana (’93-’94) con sigla SLIE, in tre volumi. L'opera si inserisce nella
Letteratura italiana diretta da A. Asor.Rosa ma con una sua spiccata autonomia. E' la storia della
lingua italiana più completa e affidabile. Le monografie sono affidate a singoli specialisti,
raggruppate secondo analogie tematiche.

I volume: I luoghi della codificazione contiene studi che hanno per oggetto: storia della nostra
grammatica, storia della nostra grafia, storia delle teorie linguistiche, lingua letteraria. Il titolo del
volume richiama il concetto di codificazione: lo stabilirsi di una norma costante e salda, una
regolamentazione della lingua capace di frenare la varietà e le tendenze del mutamento. Questo
primo volume favorisce un'organizzazione della materia più libera e originale.

II volume: Scritto e parlato e comprende: saggi sull'italiano dei "semicolti" (gente del popolo con
basso grado di istruzione), sulla lingua del teatro, romanzo d’appendice, sull'italiano
contemporaneo, sul parlato del cinema e della televisione, sul linguaggio dei giovani, sui latinismi
nel lessico, sulla lingua della scienza, del diritto, della pubblicità, dell’informatica, dei giornali
dell'ottocento e del novecento, della politica.
Chiudono il volume i saggi sul gergo, sui nomi di persone (antroponimia o onomastica) sui nomi di
luogo (toponomastica).

III volume: Le altre lingue contiene il capitolo dedicato ai più antichi documenti dei volgari italiani, e
anche serie di profili dei volgari medievali. Il volume contiene uno studio sull'uso letterario dei
dialetti, sul dialetto nella scuola, nella giustizia, nella chiesa, sui dialettismi entrati nell'italiano, sugli
"italiani regionali" (diversi dai dialetti, nascono dall'incontro e dalla combinazione tra il dialetto e la
lingua toscana).Il volume parla inoltre dei movimenti migratori e dell'influsso esercitato sull'italiano
da altre lingue.

Si chiude con: un saggio sull'italiano all’estero e un saggio sulle minoranze linguistiche in Italia.
La scelta del titolo è dovuta al rapporto tra l'italiano e le lingue da esso diverse (forestiere e non
presenti sul territorio).

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Capitolo 2
Strumenti di lavoro

1. Manuali di discipline affini

1.1. La filologia romanza


La filologia romanza è anche chiamata “romanistica” e si occupa delle lingue derivate dalla lingua
di Roma, dette neolatine o romanze (portoghese, spagnolo, catalano, francese, provenzale,
italiano). In linea di massima si può dire che il taglio proprio della filologia romanza fa sì che essa
guardi alla storia della lingua italiana in maniera un po' diversa, perché il filologo romanzo è portato
ad una maggiore "competenza" europea e il suo interesse va dalla fase diacronica più antica. Lo
storico della lingua ricorre ai manuali di filologia romanza, come: Le origini delle lingue neolatine di
Tagliavini del 1947-49, ebbe poi nuove edizioni e nuovi rimaneggiamenti; proprio l'esistenza di
tante edizioni che si sono succedute nel corso del tempo va notata non solo perché è la prova
della fortuna dell'opera, ma anche perché esse garantiscono la vitalità di un libro che ha saputo
rinnovarsi ed arricchirsi, fino a diventare uno strumento di consultazione perfetto. Ha una struttura
adeguata alle esigenze didattiche. Si apre con:

• un capitolo sulla storia degli studi dal comparativismo degli Schlegel in poi, con alcuni riferimenti
alla linguistica precedente, a partire dal DVE di Dante.
• Segue un capitolo dedicato al "sostrato" preromano, così come si presente in aree molto diverse,
• Viene presa in considerazione prima di tutto l’Italia antica, prima dell’espansione romana, abitata
da popoli che parlavano lingue italiche (osco, sabellico, umbro), dagli etruschi, greci, sardi, liguri,
celti e genetici.
• Seguono capitoli che trattano le trasformazioni del latino dell’Impero Romano.
• Caratteristiche del latino volgare e esame degli elementi linguistici greci, germanici, arabi ecc.
che hanno influito sulle parlate dell'area romanizzata.
• Delineamento della formazione delle lingue romanze e vengono presentati i loro più antichi
documenti scritti.
• Storia delle varie lingue romanze.
• Informazioni sulle lingue sorelle dell’italiano per verificare analogie e differenze.

Manuale originale per il taglio e maneggevole è Introduzione alla filologia romanza di Lorenzo
Renzi. L'autore dichiarò di aver voluto scrivere un manuale meno noioso e più moderno di quelli in
uso. La modernità sta soprattutto nelle prospettive di linguistica e nell'attenzione per la storia delle
idee linguistiche del passato, dall'antica Grecia ad oggi. Ovviamente, essendo un manuale di
lettura scorrevole, offre alla consultazione meno materiale del Tagliavini.

13
1.2. La filologia italiana e la paleografica.
La filologia italiana è una disciplina specializzata nell’edizione di testi in area italiana e soprattutto
di testi antichi. L'analisi dello storico della lingua è resa impossibile dalla mancanza di edizioni
affidabili: in questo casa si rischia di costruire tesi su terreni franosi. Un esempio è dato dal
condizionamento esercitato dalle conoscenze filologiche sulle teorie linguistiche e sulle ipotesi
storiche può essere indicato nelle interpretazioni date nel corso dei secoli alla lingua della scuola
poetica siciliana: fino a che non ci si rese conto della manomissione subita, non fu possibile
ricostruire in maniera esatta il primo capitolo del nostro linguaggio letterario (furono elaborate
teorie infondate come quella di Perticari).

Bisogna avere familiarità con un buon manuale di filologia italiana. Strumenti utili:
1. Introduzione agli studi di filologia italiana, Stussi
2. Manuale di filologia italiana, Balduino
3. Come si legge un'edizione critica, Inglese.

Chi si occupa di testi antichi, dovrà per forza acquisire conoscenze nel campo della paleografia,
lo studio della scrittura, che non si limita al periodo più antico, poiché anche dopo la Stampa si
scriveva a mano. Per usare le parole di Petrucci: “la paleografia è la disciplina che studia la storia
della scrittura”. Il paleografo deve prima di tutto riconoscere e leggere le scritture antiche,
interpretare le loro abbreviazioni. Strumenti utili sono i manuali di Petrucci (1989) Cencetti (1987)
e Bartoli Langeli (2000).

Principali tipi di scrittura in Italia dal Medioevo al Rinascimento:


1. il nome “gotica”, diffusasi in Italia nel XII-XIII sec., è "un riflesso del disprezzo con cui questa
scrittura fu guardata dagli Umanisti, i quali, contrapponendola alla loro littera antiqua (scrittura
umanistica, che prendava a modello la scrittura carolina dell'epoca di Carlo Magno) la
consideravano barbara, e le dettero il nome di uno dei popoli nei quali riconoscevano i fattori
di caduta della civiltà antica" (Cencetti).
2. La scrittura gotica da Petrarca e Boccaccio ha in realtà un disegno meno rigido, quindi può
essere definita semigotica.
3. La scrittura gotica veniva usata per scrivere i libri, la scrittura comune corsiva del '200 e ‘300
è la minuscola cancelleresca, adatta ai documenti notarili.
4. La mercantesca di livello meno colto, si trova nei quaderni dei conti, nelle lettere di cambio
(documenti tipici dell'attività mercantile).
5. L’Italica del 400, elegante e raffinata, passata poi alla stampa (con il corsivo aldino, del
tipografo Aldo Manuzio) diventa il nostro corsivo tipografico.

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2. La dialettologia italiana
Prima della stabilizzazione del toscano le varie parlate italiane furono su di un piede di parità e
tutte poterono ambire al primato letterario. Poi il toscano affermò la sua supremazia ma i volgari
di altre regioni furono usati anche a livello colto, letterario o extraletterario. La diffusione
dell'italiano parlato non ha dato luogo ad una lingua omogenea e unitaria, ma ad una serie di
"italiani regionali” in cui l'elemento locale si è fatto sentire a livello fonetico, lessicale e sintattico.
Un manuale utile per lo studio dei dialetti regionali è Avviamento critico allo studio della
dialettologia italiana di M. Cortelazzo.

Nel manuale di avviamento alla dialettologia italiana Fondamenti di dialettologia italiana (di
Grassi, Sobero, Telmon) vi è:
1. la definizione del concetto di dialetto.
2. Un profilo di storia degli studi dialettologici in Italia.
3. La classificazione dei dialetti italiani, con la descrizione del loro uso nella società attuale.
4. Presentazione dei metodi e degli strumenti della moderna dialettologia.
Per informazioni specifiche sui dialetti: Profilo dei dialetti italiani" (Cortellazzo) e Carta dei dialetti
d'Italia" (Pellegrini).

La collana Profilo dei dialetti italiani comprende anche volumi eccentrici rispetto al tema
principale: la descrizione del giudeo-italiano (lingua impiegata dagli ebrei in Italia dal Medioevo
fino a Otto, Novecento) e dei dialetti zingari italiani.

Per lo studio dei dialetti sono fondamentali, inoltre, gli atlanti linguistici4 : rappresentazioni
cartografiche della distribuzione spaziale di parole, forme, costrutti, espressioni, fenomeni
fonetici. Per realizzarli:
1. si fissa una griglia, ossia una rete di punti di osservazione.
2. il dialettologo, scelta la località, interroga informatori che si ritiene conoscano il dialetto
autentico.
3. le informazioni poi vengono portate su carta atlantica.

3. La grammatica storica
3.1. Definizione e nascita della grammatica storica
La grammatica storica mette a confronto fasi diacroniche diverse, chiarisce lo sviluppo di fonetica,
morfologia, sintassi, a partire dalla formazione del latino e ne segue gli sviluppi. La formazione
della lingua, con speciale riferimento alle trasformazioni del latino, lingua madre dell’italiano, è
dunque primario oggetto di studio della grammatica storica.

4 Primo atlante: in Francia 1902-1922. In Italia si consulta l'AIS (atlante italo-svizzero) 1928-1940. Infine
l'ALI: atlante linguistico italiano (Bartoli) ideato prima della guerra.
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Si è sviluppata nel clima del Positivismo nella seconda metà dell'Ottocento nella grande stagione
della linguistica scientifica quando si è stati in grado di riconoscere le "regole" della trasformazione
linguistica: si è potuto così verificare che le lingue non cambiano a caso nel corso del tempo, ma
nel cambiamento si riconosce un ordine, una serie di vere e proprie "norme". Primi esempi di
grammatica storica : Italianische Grammatik dello svizzero Meyer-Lubke, 1890.

3.2. La "Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti" di Gerhard Rohlfs
E' la grammatica storica più comunemente usata dagli studiosi relativamente all'area italiana.
L'attenzione dell'autore non va al solo toscano, né alla sola lingua letteraria, ma si estende alle
viventi parlate popolari della penisola. Rohlfs iniziò la stesura nel 1940. Tra il 1940-1942 viene a
conoscenza approfondita di Toscana e Umbria. La grammatica è concepita in modo da trattare
dettagliatamente, a fianco della lingua letteraria e del toscano, anche i dialetti del Nord e del Sud,
seguendo la grammatica di Myer-Lubke. L’opera di Rohlfs è una sorta di conciliazione del metodo
storico e geografico.

L'edizione italiana del 1966-69 è preferibile, in quanto revisionata e aggiornata. Si presenta in tre
volumi, dedicati a: fonetica, morfologia, sintassi e formazione delle parole. Ognuno è corredato da
un indice analitico, che raccoglie tutte le parole citate nel testo, sia italiane, che dialettali, oltre ai
nomi geografici e ai nomi di persona.

3.3. Altre grammatiche storiche dell’italiano

• Grammatica storica di Tekavcic. Cerca di realizzare una trattazione aggiornata con le scoperte
della moderna linguistica. Alternanza di analisi sincronica e diacronica senza rivalità. Può dare
problemi al lettore alle prime armi, inoltre poco reperibile.
• Serianni o D'Achille : si caratterizza per la sua attenzione a un pubblico studentesco, nel quale
non vengono presupposte conoscenze specifiche. Il volumetto viene presentato come un
"compendio"; la sua attenzione è rivolta maggiormente alla fonetica e alla morfologia, seppur
siano presenti sintassi e lessico trattati in maniera più veloce. Il libro è chiaro e leggibile, molto
efficace.
• Introduzione alla lingua poetica italiana di Serianni : non è una vera grammatica storica, è un
profilo grammaticale dell’italiano poetico articolato nelle sezioni della Fonetica e della Morfologia
e microsintassi (fenomeni sintattici minimi).
• Grammatica storica di Castellani. Tratta la formazione dell'italiano, il latino volgare e il latino
classico, l'influsso gallo-romanzo e quello germanico sulla formazione della nostra lingua.

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4. La grammatica descrittiva e normativa
4.1. La storia della grammatica
La grammatica non nasce prima delle lingue e prima che le lingue stesse abbiamo espresso una
tradizione letteraria. I grammatici non fanno altro che formalizzare ciò che si è già affermato per
altra via. Ciò è accaduto in Italia, dove la teorizzazione grammaticale cinquecentesca ha
stabilizzato e ufficializzato il successo dei grandi 3 autori del Trecento: Dante, Petrarca e
Boccaccio. Si sono ufficializzate, più in là, tendenze grammaticali più favorevoli a riconoscere il
ruolo del parlato toscano e l'egemonia di Firenze.

La ‘Questione della lingua’ incorpora la ‘Questione grammaticale’. La storia della grammatica vede
succedersi una serie di proposte diverse, pur nella sostanziale affermazione del modello toscano-
letterario. Strumenti: Storia della lingua” (Serianni - Trifone) e Storia della grammatica
italiana" (Trabalza).

4.2. Grammatiche dell'italiano : Battaglia-Pernicone e Serianni

Serianni (1998)5: la collocazione originale è nella serie di volumi che si affiancano al dizionario di
Battaglia: equilibrata nei giudizi, molto ricca e autorevole. Si tratta di una grammatica di alto livello,
scritta da un linguista. Il compito del linguista è quello di descrivere , evitando di assumere
atteggiamento normativo. Il punto di vista del linguista non si concilia facilmente con quello della
grammatica normativa, la quale suggerisce all'utente scelte di lingua o stile.

4.3. La "grande grammatica italiana di consultazione"

E' un progetto di Renzi e Salvi risale al 1976, è stato realizzato con una gestione piuttosto lunga
(primo volume uscito nel 1988). Il progetto è la realizzazione del frutto del lavoro di una equipe di
specialisti. Questa opera si diversifica dalle normali opere descrittive e normative e si ispira a criteri
culturali innovatori e ambiziosi:
1. si traccia un panorama della produzione grammaticale in Italia nel Novecento, notando la
povertà di questo genere nel periodo tra le due guerre.
2. Si sottolinea il danno prodotto dalla condanna da parte di Benedetto Croce, per il quale la
grammatica non aveva dignità filosofica, ma era solo strumento didattico ed empirico. Tale
condanna distolse l'interesse sulla grammatica e la situazione venne trascinata fino alla
rinascita della linguistica (anni ’60).

La Grande Grammatica si differenzia da quelle tradizionali perché distingue tra ciò che è
grammaticale (e quindi accettabile) e ciò che non lo è. Le frasi vengono indicate con un (*) se
inaccettabili o agrammaticali.

5 Prima dell'opera di Serianni era considerata molto autorevole quella di Battaglia- Pericone (1951).
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Il punto di vista di questa grammatica è diverso da quello tradizionale, perché è ispirato
esclusivamente a criteri linguistici, mai a criteri normativi o puristici. Il grammatico tradizionalista
condanna le forme scorrette mentre il linguista prende in considerazione l'errore con grande
interesse e spiega l'uso della lingua segnalando anche l'esistenza di varianti regionali. Vengono
perciò registrate forme considerate "scorrette" ma effettivamente usate ( es: "a me mi”). L'opera di
Renzi è insostituibile se si è mossi da un interesse scientifico per l'applicazione della lingua
italiana, ma è un libro molto avanzato, non adatto ai principianti. Si definisce dunque come
grammatica specialistica.

5. Dizionari storici e concordanze


5.1. Il "Battaglia" e il LIZ
Lo studio della lingua italiana prevede un largo uso di strumenti di consultazione: i dizionari. I
cosiddetti Dizionari dell'uso (comunemente usati a scuola) non sono sufficienti per la ricerca e per
risolvere subbi di vario tipo. Lo storico della lingua usa strumenti più sofisticati e di mole più grande
i quali offrono documentazione più ampia. Stiamo parlando di dizionari storici i quali non vogliono
suggerire "il miglior uso" o l'"uso corrente" ma vogliono documentare l'uso di tutte le epoche. Il più
importante:

• Il Battaglia: il filologo volle riproporre, aggiornandolo, il più grande dizionario dell'Ottocento,


quello di Nicolò Tommaseo. L'opera è uscita a partire dal 1961: i primi tre volumi restano
strettamente collegati al modello ottocentesco nella struttura delle voci. Morto Battaglia la
direzione passa a Giorgio Barberi Squaratti e il Grande dizionario della lingua italiana, GDLI
assume la sua fisionomia definitiva. E' composto di 20 volumi (21 previsti), è il più grande
vocabolario italiano. La caratteristica è la sua impostazione fortemente letteraria costituita da una
vastissima raccolta di esempi di scrittori: sotto ogni voce sono poste le attestazioni degli autori
della letteratura italiana in ordine cronologico, dalle origini in poi e sono riportate le frasi in cui
ricorre la parola posta a lemma con rinvio in chiave all'opera da cui è tratta la citazione. Sono
equamente rappresentati gli scrittori di tutte le epoche. Lo spazio maggiore è forse quello
assegnato al Novecento; l'opera privilegia sostanzialmente l'uso letterario rispetto agli altri generi
di scrittura. Nel corso del tempo il suo corpus è cresciuto acquisendo anche testi non letterari. Le
abbreviazioni sono usate per rinvii delle singole voci.

Le caratteristiche poste nel vocabolario per un termine:


1. lemma: scritto in neretto seguito da specificazioni grammaticali (es SF: sostantivo femm).
2. Voce: divisa in due sezioni; una per ciascuno dei due significati del termine; è preceduta alla
fine dal segno = che sta per l'etimologia del termine.
3. Etimologie

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4. Il Corpo della voce è occupato in massima parte dalle citazioni testuali con i passi in cui ricorre
la parola, cronologicamente ordinati.
5. Rinvii alle opere dei vari autori sono abbreviati mediante un'apposita chiave. Il rinvio si
riferisce alla pagine dell'edizione citata (es p.534) della quale viene sommariamente indicato il
contenuto con le date delle singole poesie in essa comprese.
6. Concordanze strumento di ricerca lessicale molto importante oltre il vocabolario. Si tratta di
libri in cui sono riportate tutte le parole usate da un autore, ordinate in chiave alfabetica, quasi
sempre con il contesto in cui la parola stessa compare. Con le concordanze ci si può muovere
agevolmente nell'opera di un autore. Posso essere utilizzate per: ricerche di tipo linguistico e
ricerche di tipo stilistico-letterario. Oggi però l’idea di concordanza viene rivoluzionata
dall'informatica. Il computer permette di rintracciare una forma , una parola, una combinazione
di parola, una rima con rapidità eccezionale e senza errori.

La casa editrice Zanichelli nel 1993 ha realizzato la LIZ, (letteratura italiana Zanichelli) su cd- rom.
Il corpus è di eccezionale grandezza. La LIZ è arrivata alla sua quarta edizione e contiene bene
1000 testi della nostra letteratura, dal Medioevo al Novecento.

5.2. Strumenti di consultazione in Internet


1. Corpus messo in rete dal Ci-Bit, il consorzio interuniversitario per la Biblioteca Italiana
Telematica: raccolta di testi, spesso rari.
2. OVI, Opera del Vocabolario Italiano: opere dei primi maestri della letteratura italiana e anche
testi di poeti meno conosciuti.
3. TLIO, Tesoro della Lingua Italiana delle Origini: vocabolario storico di tutte le varietà
dell’italiano antico, fino al 1375, stampato anche su carta.

6. Grandi dizionari dell'uso

I dizionari dell'uso sono diversi da quelli storici. I primi informano sulla lingua moderna nel suo
stato attuale; anche questi però fanno spesso riferimento al passato e contengono molte parole
antiche. Sono obbligati a segnare il lessico antico letterario. Il dizionario dell'uso non è privo di
elementi relativi alla storia della lingua: non si limita a dare di esse un'immagine sincronica, anche
se sua funzione principale. I secondi documentano il passato della lingua, la sua storia e la sua
evoluzione.

Dizionari dell'uso più noti:


• Zingarelli ( Zingarelli editore)
• Devoto - Oli ( Le Monnier)
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• DISC di Sabatini e Coletti ( Giunti)
• Dàrdano Nuovissimo dizionario della lingua italiana di M. Dàrdano (Curcio e Thema)
• DIR Dizionario italiano regionato (D’Anna)
• Palazzi - Folena (Loescher)
• De - FeliceDuno (SEI)
• Vari dizionari di De Marco
• Il dizionario della lingua italiana Paravia-Mondadori
• Serianni

Ci sono due grandi dizionari dell'uso oggi:


1. Vocabolario della lingua italiana: diretto da Aldo Duro per la Treccani, è in 5 volumi 1986-1994
(I uscita)
2. Grande dizionario italiano dell'uso: diretto da Tullio De Mauro, noto con l'acronimo di GRADIT ,
sono 6 volumi (UTET) 1999 (I uscita).

Il Vocabolario De Mauro porta anche la data della prima attestazione delle parole, si caratterizza
per una notevole presenza di lessico tecnico-scientifico, mette in evidenza le espressioni
polirematiche6 . La caratteristica più importante del Vocabolario De mauro è l'utilizzo delle marche
d'uso: ogni parola è accompagnata da una sigla7 che individua le sue possibilità di impiego.

7. Dizionari etimologici
Il dizionario etimologico dà conto dell'origine delle parole di una lingua ed è la funzione primaria
svolta anche da dizionari di piccola mole come:
1. Avviamento alla etimologia italiana (Giacomo Devoto 1968)
2. Prontuario etimologico della lingua italiana (Migliorini e Duro 1974)

Per informazioni più dettagliate:

1. Battisti - Alessio (81950 - 57)

2. DELI (Dizionario etimologico della lingua italiana) 5 volumi, I ed. Zanichelli 1979 -1988. Le sue
caratteristiche principali sono: assegna una data di attestazione alle forme lemmatizzate, il
materiale documentato è molto ampio e vario, la trattazione etimologica è concepita in funzione
della storia della parola, per gli etimi controversi viene indicati una bibliografia.

6 Il significato dei singoli elementi non basta a spiegare direttamente il significato finale dell'espressione
stessa; es. vedere rosso non è vedere il colore rosso, ma irritarsi.

7 Sono 11 sigle: italiano fondamentale, alto uso, alta disponibilità, comune, uso tecnico, uso letterario,
regionale, dialettale, esotismo, basso uso, obsoleto.
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La prima attestazione di una parola non rappresenta necessariamente il suo atto di nascita. La
prima attestazione resta comunque rivelante. Naturalmente può accadere che tale prima
attestazione venga in seguito retrodatata, nel caso in cui si scopra un testo o documento più
antico. Serianni ricorda il caso di conscio, tecnicismo della psicoanalisi, datato al 1952 dal DELI
sulla base di un’attestazione di Cesare Pavese, ma questo può essere retrodatato al 1922 perché
il primo ad utilizzarlo fu Freud.

Le riflessioni suggerite da un vocabolario etimologico possono essere di due tipi:


A. se si guarda al rapporto tra la parola italiana e il suo etimo si possono fare osservazioni di
grammatica storica verificando ad esempio le trasformazioni fonetiche subite dal termine
originario.
B. Se si osserva l'evoluzione dei significati, si passa ad un'analisi di semantica storica, con la
possibilità di trasferire una parte delle considerazioni direttamente alla storia della cultura, del
costume, della tecnica, verificando i rifletti prodotti dalla lingua da mutamenti extralinguistici.

3. LEI: Lessico etimologico italiano. Vocabolario etimologico caratterizzato da un alto livello di


specializzazione e da una grande ricchezza di citazioni ed esempi. Le parole di cui si esamina
l'etimologia non sono classificate in ordine alfabetico dell'italiano moderno, ma secondo la base
etimologica.

8. Linguistica e terminologia linguistica

Gli interessi dello storico della lingua si indirizzano prevalentemente non alla linguistica, teorica e
generale, ma verso un campo di applicazione pratico ben definito. Peri informazioni chiare sui
diversi aspetti della linguistica generale è opportuno ricorrere al manuale di Simone (1990)
Fondamenti di linguistica, opera adatta ai principianti. La linguistica non è facile, ha uno status
particolare tra le discipline umanistiche in quanto per la sua metodologia e per i suoi concetti di
base si avvicina alle discipline scientifiche in senso stretto. Un ottimo taglio didattico è dato dal
manuale di Graffi-Scalise (2002). Molto chiara è l’ Enciclopedia Cambridge delle scienze del
linguaggio (Crystal - Bertinetto). Per comprendere i tecnicismi si può far riferimento al Dizionario di
linguistica (Zanichelli).

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Capitolo 3
Soggetti e oggetti della storia linguistica

1. Volgari,dialetti e spinte regionali


1.1 Centro e periferia nella storia della linguistica italiana
La storia della linguistica italiana si caratterizza per un profondo e costate rapporto tra il centro e la
periferia. Per centro si intende la Toscana da cui ha avuto origine l’idioma nazionale, irradiatosi
vero le altre regioni, cioè la periferia. Il confronto con le altre parlate regionali si è risolto in un
libero consenso da parte delle altre regioni che hanno adottato l’italiano come lingua di cultura. Ad
esempio Il Piemonte ha esteso all’Italia i suoi modelli giudici e amministrativi, scegliendo come
lingua il Toscano.
Altro caso anomalo per il paese, come ha osservato Alessandro Manzoni, era che la penisola
italiana era l’unica nazione in cui la capitale politica (Roma) era destinata a non coincidere con la
capitale linguistica (Firenze). A tale proposito Gioberti parlava di fochi dell’ellisse italiana, questo
dato ci permette di comprendere come la storia della linguistica non è unitaria e monolitica, ma
policentrica.

1.2. Volgari e dialetti


La prima scuola poetica italiana è nata in Sicilia, utilizzando il volgare siciliano seppur nobilitandolo
per un uso illustre. Non si può parlare ancora di dialetti, perché la nascita di questi prevede
l’affermazione di una lingua unitaria. Gli studiosi parlano di ‘volgari italiani’.

1.3 Letteratura dialettale ‘spontanea’ e ‘riflessa’


Stabilita da un saggio di Benedetto Croce.

Lett. dialettale spontanea Lett.dialettale riflessa

non è cosciente della sua opposizione alla lingua. si oppone coscientemente alla lingua.

Secondo Croce l’uso cosciente del dialetto ebbe inizio a partire dal 600’, ma in realtà possiamo
retrodatarla sicuramente fino al 500’.

1.4. Policentrismo e varietà linguistica


L’esistenza dei dialetti è stata lo sfondo sul quale si è sviluppata la letteratura in lingua.
Abbiamo tre tipologie fondamentali:
1. il testo scritto in dialetto (di qualità come nel caso del Belli, Ruzante o Porta)
2. il testo che utilizza il dialetto non sempre nella narrazione
3. il testo che rifiuta il dialetto e non scende a compromessi col parlato popolare

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2. L’azione delle lingue straniere: i prestiti
2.1. Tipologia del prestito
La lingua non vive isolata e perciò è soggetta al contatto con altre lingue nazionali, attraverso
scambi con l’estero. L’influenza della lingua può avvenire secondo canali diversi: libri, prestigio
culturale, scientifico e tecnologico, viaggi, invasioni militari, commerci, i confini (ad esempio il
Piemonte è stato condizionato dalla Francia). Le lingue dotate di maggior prestigio influenzano le
altre, esercitando un’azione che si manifesta nei ‘prestiti’.

Esiste una tipologia di prestito, il quale può essere non/adattato/integrato, a seconda che il termine
forestiero venga accolto nella forma originale, o venga modificato. Tram è stato accolto in forma
non adattata all’italiano, mentre lo è in toscano dove si usa tramme. I prestiti non adattati, risultano
vistosamente diversi dalle parole italiane autoctone (éqiuipe, computer). I prestiti integrati
diventano quasi indistinguibili. Ad esempio non risulta trasparente l’origine di bistecca, dall’inglese
beef-steak, ‘costola di bue’.

Il rapporto con un lingua diversa produce anche i ‘calchi’ che possono essere di due tipi:
1. ‘calco traduzione’: si traduce alla lettera la parola straniera. Es. skyscraper-grattacielo
2. ‘calco semantico’: una parola italiana assume un nuovo significato che viene dalla parola
straniera. Es autorizzare=permettere dal fr.

Vi sono poi:

Prestiti di necessità Prestiti di lusso

la parola arriva assieme ad un referente nuovo. Ad Fanno riferimento ad altre culture, ma possono
esempio caffè (turco), canoa(parola essere evitati perché la lingua già possiede
caraibica),patata(parola esotica) ecc. Designavano un’alternativa alla parola forestiera. Es. pesticida,
oggetti sconosciuti alla nostra tradizione. baby-sitter.

2.2. Reazioni esterofobe e puristiche


L’atteggiamento di alcuni osservatori nei confronti delle parole esotiche può trasformarsi in un
tentativo di censura. Soprattuto durante il fascismo queste reazioni caratterizzavano la ‘politica
statale ufficiale’. Queste posizioni non facevano che riprendere certe premesse della tradizione
puristica.
Il Purismo implica infatti una difesa della lingua dai termini stranieri, perché la lingua viene sentita
come un elemento nazionale che differenzia un popolo dall’altro (ad esempio vi sono state
battaglie per l’affermazione di nazionalità che si basavano su rivendicazioni linguistiche, basti
pensare alla Svizzera che ha quattro lingue nazionali). Molti prestiti testimoniano un effettiva
posizione di subalternità come sottolineano i puristi, non nella lingua ma nelle cose che essa
designa (es. la tecnologia).
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2.3. Le lingue entrate in rapporto con l’italiano
Al primo posto ovviamente le lingue europee, prima di tutto il provenzale e francese, poi lo
spagnolo e l’inglese. Quando si inserisce il latino tra le lingue straniere che hanno influenzato
l’italiano ci si riferisce all’introduzione di prestiti di matrice colta, filtrati attraverso il linguaggio
giuridico, filosofico, letterario. Chiunque sapesse leggere l’italiano, sapeva anche il latino. I rapporti
col greco invece furono favoriti dallo sviluppo di una cultura una umanistica (anche se la maggior
parte di termini greci entrati nell’italiano sono circoscritti all’uso medico-scientifico).

Il francese, cosi come il provenzale, ha avuto maggiori rapporti con l’italiano. Oltre che per le
letteratura d’oc e d’oil, il francese ha influenzato la lingua italiana anche per elementi non lessicali
come scrive Zolli, e perciò oltre che un alto numero di voci, il francese ha portato suffissi come -
aggio,-ardo,-iere (gallicismi: coraggio, carriaggio, lingaggio,omaggio,oltraggio,vantaggio,cancelliere
ecc.). La penetrazione di parole francesi continua nei secoli, soprattuto nel 5-600, nel settore
militare (maresciallo,avanguardia,batteria,trincea,carabina,arruolare ecc.) più tardi nella moda e
nella cucina.

Tra 7-800 fu forte l’influenza del francese anche nel linguaggio della politica (controrivoluzionario,
giacobino,rivoluzione,fanatismo,federalismo,terrorismo) e nel campo della pubblica
amministrazione (votazione, stato civile, timbro,codificare, corte d’assise8) per la presenza dei
francesi in Italia e per il prestigio delle leggi e istituzioni. Ovviamente con l’illuminismo, il francese
era la lingua più prestigiosa d’Europa, ma con il Purismo di inizio 800 si sviluppò una reazione
contro i gallicismi e contro l’infranciosamento dell’italiano.
Anche le lingue iberiche hanno avuto una certa influenza sull’italiano. Il periodo della più forte
influenza spagnola va dalla seconda metà del 500 alla fine del 600. Lo spagnolo era ovviamente
espressione di una potenza militare e coloniale. Attraverso lo spagnolo e portoghese sono entrati
alcuni termini esotici indicanti frutti e prodotti sconosciuti prima (ananas, banana, bambù, cacao,
cioccolata, mais) e diverse parole relative alla sfera del comportamento come creanza,sussiego,
brio,disinvoltura.

Gli anglicismi costruiscono oggi un settore in continua crescita. Il periodo di penetrazione inizia
nell’800 e raggiunge il culmine nella nostra epoca. Importante ricordare che alcune penetrazioni
inglesi sono state mediate dal francese. Quanto al rapporti con il tedesco, l’influenza germanica ha
avuto influenza soprattuto in una fase antica, durante il processo di formazione della nostra lingua.
I pochi germanismi derivano ovviamente dalle invasioni barbariche, dei goti, longobardi e franchi.
L’azione di altre lingue europee non ha nulla a che vedere con queste. Sono poche le voci

8Questa corte di giustizia penale fu creata in Francia nel 1810. Cour d’Assise viene da asseoir, ‘stabilire’. La
Corte di Cassazione è calco del fr. Cour de Cassation (dal lat. cassare ‘cancellare’).
24
ungheresi accolte dall’italiano, oltre quelle di prodotti tipici. Curioso è il caso di cocchio< ung. kocsi,
indicante un tipo di carrozza. Poche sono le parole di origine russa, in parte legate alla Rivoluzione
bolscevica. Importante è invece l’influenza dell’arabo (per la marineria, commercio,
medicina,matematica). Vengono dall’arabo concetti come zero9 e dogana10.
Il rapporto co la lingua ebraica è stato indiretto, attraverso il latino, per influenza della liturgia
cristiana (alleluia, amen, osanna ecc.) Occasionali rapporti con il turco (caffè, chiosco, sorbetto) e
di recente sono entrate parole giapponesi (bonsai, kamikaze).

3. Gli scrittori e il linguaggio letterario


3.1. Il ruolo degli scrittori
Un pregiudizio assegna al linguaggio letterario una posizione egemonica rispetto la lingua d'uso.
Nel pensiero idealistico, infatti, la lingua viene concepita come "atto creativo", come espressività
individuale, non come fatto di comunicazione sociale. La linguistica moderna, ha abbandonato ogni
pregiudizio, e ha posto particolare attenzione proprio alle forme di comunicazione quotidiana,
anche alle più umili arrivando ad interessarsi alla lingua dei semicolti.
Queste forme più basse non sono prive di una loro espressività. La linguistica moderna ci hai
insegnato che la lingua letteraria è governata da regole proprie, che esiste nel linguaggio una
"funzione poetica" autonoma. Ciò potrebbe far pensare che la separazione tra lingua comune e
linguaggio letterario sia necessaria. In realtà il linguaggio letterario ha influito spesso sulla lingua
comune.

3.2. Gli scrittori come modello della codificazione


Il linguaggio letterario può essere studiato dal punto di vista della cosiddetta "critica stilistica", che
si occupa di definire i caratteri della scrittura di singoli autori. Il compito che si pone questa
indagine è affine a quello della critica letteraria, da cui si differenzia per la tecnica di lettura, basta
in questo caso esclusivamente sull'analisi dello stile.

Il grammatico ottocentesco Raffaello Fornaciari nella sua Sintassi italiana dell’italiano moderno,
precisò cosa intendesse con l'indicazione di "uso moderno". Secondo lo studioso questo
linguaggio consiste in tutta quella parte della lingua che viene parlata e si intende dal popolo medio
ma che ha anche a favore la grande maggioranza degli scrittori. il fondamento dell'uso moderno
era da porre nel popolo toscano, ma la testimonianza definitiva, nell'accordo degli scrittori. E' un
criterio già fissato nel Cinquecento da un teorico come Salviati. Benedetto Buommattei il più

9 Deriva dall’arabo sifr., aggettivo che vuol dire vuoto. Dalla stessa parola araba deriva il termine di cifra.

10 Deriva dall’arabo diwan, libro ove si segnavano le merci in transito. Il termine era già presente nel latino
medioevale, e poi nell’italiano, sia per indicare l’ufficio dell’esercizio doganale, sia la gabella (<qaba-la) o
tassa. Diwan è anche all’origine dell’italiano divano.
25
importante grammatico del Seicento aveva ribadito che le regole della lingua si ricavano dagli
scrittori e che bisogno far appello all'uso popolare solo quando non v'è chiarezza nel linguaggio
degli scrittori. Gli scrittori sono dunque ritenuti determinanti per la stabilizzazione della norma
grammaticale.
La lingua italiana, rispetto alle altre, ha avuto uno sviluppo particolare: per lungo tempo è stata
caratterizzata da una grande aristocraticità. L’interesse per la lingua si è sviluppato soprattutto nel
settore della letteratura. La prima teorizzazione linguistica relativa alla lingua italiana è stata
proposta da Dante nel De vulgari eloquentia.

4. Il popolo
4.1. il popolo padrone delle lingue
Il linguaggio è patrimonio di tutta la comunità dei parlanti: la lingua non può essere considerata
esclusiva di singoli individui o delle classi più colte, anche se solo queste ultime sono in grado di
partecipare al dibattito letterario.

4.2. Popolo, plebe, scrittori


Nella tradizione italiana di riflessione sulla lingua, il ruolo del popolo è stato materia controversa.
La stabilizzazione normativa dell'italiano risale alla prima metà del '500. Pietro Bembo, a cui si
deve la teoria vincente nelle dispute cinquecentesche sul volgare, era fautore di un ideale letterario
aristocratico e non riconosceva i diritti della parlata popolare.

Per popolo, si intende quello toscano, l’unico che possedeva un idioma paragonabile a quello
letterario. Il popolo di tutte le altre regioni era legato al proprio dialetto e non poteva essere oggetto
di attenzione da parte di grammatici e teorici. Bisognava stabilire un principio di autorità,
scegliendo tra il prestigio della tradizione scritta e la vitalità della lingua viva e popolare. Su questo
tema si è dibattuto molto Manzoni, che finì per adottare la lingua viva e vera di Firenze,
staccandosi dalla tradizione letteraria arcaizzante.

Salviati (fine '500) sostenne che si posso ricavare le norme della lingua dall'uso del popolo solo
quando gli scrittori fanno difetto per qualche. Petrarca non entrò mai nel merito della questione.
Boccaccio nelle parti dialogate delle sue novelle aveva esibito un patrimonio ricco di forme
popolari. Ne '600 Buommattei ribadì il concetto già esplicato da Salviati. La plebe era sempre stata
considerata di nessun valore o dannosa.
Quando è nato l'interesse per il popolo inteso in maniera moderna? I linguisti hanno scoperto
questo interesse inizialmente con lo sviluppo delle scienze folcloriche e della dialettologia,
occupandosi del periodo storico successivo all'unità di Italia, ricercando gli effetti prodotti dalla
scuola dell'obbligo, dalla leva militare , dalla guerra mondiale ecc. Il popolo post-unitario è arrivato

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ad utilizzare, dopo questo periodo, una modesta lingua italiana piena di elementi dialettali e di
errori. Gramsci, in uno dei Quaderni del carcere, individuava alcuni poli di attrazione linguistica,
indicandoli come cause di un livellamento nell'uso dell'italiano tra il popolo: la scuola, la radio, la
televisione, il teatro, i giornali, in particolare le riunioni religiose. Era qui anticipata l'intuizione
relativa alla nascita dell'italiano popolare.

4.3. L'italiano popolare


La categoria di ‘italiano popolare’ si è fissata all’inizio degli anni ’70 per indicare la parlata degli
incolti di aspirazione unitaria o di chi ha per madrelingua il dialetto. La definizione si riferisce alla
lingua parlata. Pur ammettendo che il popolo non sia tra i protagonisti della linguistica italiana, le
masse popolari hanno partecipato indirettamente all’evoluzione della lingua. La scoperta di una
serie di documenti, come racconti autobiografici e diari, dimostra come anche tra gli appartenenti
ai ceti sociali più bassi, ci fosse la capacità di leggere e scrivere11.
La storia dei dialetti si è svolta in stretto rapporto con quella dell’italiano. Il processo è stato
duplice: i dialetti si sono via via avvicinati all’italiano, mentre quest’ultimo ha acquisito elementi dai
dialetti (basti pensare al Romanesco che fino al 500 era più vicino ai dialetti meridionali. Si avvicinò
al toscano per ragioni storiche, dato che ci fu il sacco di Roma nel 1527).

5. Notai e mercanti
5.1. Il notaio
Il notaio12 è fra i protagonisti della fase iniziale della nostra storia linguistica. Esso è fruitore della
lingua volgare e della letteratura volgare. I notati sono stati tra i primi cultori dell’antica poesia
italiana, come dimostrano i Memoriali bolognesi, registri di atti. Negli appositi registri, gli spazi
rimasi bianchi tra le varie trascrizioni venivano biffati per evitare la manomissione. Tali spazi, alle
volte, venivano annullati in maniera particolare, non solo con tratti di penna ma venivano riempiti
con versi, preghiere e proverbi. In questi memoriali troviamo versi di Cino da Pistoia, di Cavalcanti
e di Dante. Il notaio vive in una situazione di bilinguismo: per educazione è stato abituato ad usare
il latino negli atti del suo ufficio, anche se il volgare è adoperato da testimoni e dalle parti che si
presentano di fronte a lui.

5.2. Il mercante
Il mercante medievale era meno istruito del notaio, ance se poteva conoscere le lingue straniere:
imparava a leggere, scrivere e fare di conto, ma poi si dedicava alla sua attività pratica. Non

11 Petrucci ha scoperto un diario di Maddalena pizzicarola trasteverina della prima metà del 500. E’ giunto
alla conclusione che per le categorie di mestiere umile era utile la scrittura, e che le occasioni per imparare a
scrivere erano maggiori nella Roma del XVI sec, per la proliferazione di scuole familiari e religiose per i
meno abbienti.

12 Deriva anche dalla Scuola poetica siciliana; basti pensare a Stefano Protonotaro e a Lentini.
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conosceva generalmente il latino: era "ignorante di lettere” (dove lettere sta per la litteratura o
gramatica). La testimonianza del retore Boncompagno da Signa ci assicura che già alla fine del
XIII i mercanti usavano nella loro corrispondenza il volgare, o latino corrotto, confermato dalla
Cronica dell'anonimo romano.

La cultura dei mercanti è stata fondamentale per la fortuna del Decameron. In particolare di una
città come Firenze, dove del resto il ceto mercantile ebbe un’importanza grandissima. Non a caso
riporta all’ambiente mercantile anche la genesI di un codice fiorentino famoso come o Vat. 3793,
che contiene il patrimonio della nostra più antica poesia. Il mercante leggeva per proprio
divertimento, ma il rapporto con la scrittura era più importante, in quanto aveva a che fare con la
sua professione. Secondo Alberti, il mercante dovrebbe “sempre avere le mani tinte d’inchiostro”. Il
mercante utilizzò altre forme di scrittura oltre alle lettere missive. Con il nome di "pratiche di
mercatura" si indicano di solito quaderni miscellanei, vademecum di mercanti, in cui si trovano in
maniera abbastanza disorganica cose diverse (tariffe commerciali, problemi matematici, notizie di
cronaca ecc.). Infine ci sono i "libri di famiglia”, quaderni dove si ritrovano esperienze familiari e
cittadine.

Già nel '500 la cultura mercantile perse la sua importanza; continuavano ad esserci queste figure
ma non erano più importanti per sorti dell’italiano. Continuò la tradizione delle narrazioni di viaggio
scritte da mercanti, come il Milione di Marco Polo.

6. Scienziati e tecnici
6.1. Egemonia del latino
Lo strumento della lingua scientifica fu per lungo tempo solo il latino: questa situazione durò fino al
Rinascimento. Il latino adoperava in settori come la teologia, la matematica, la filosofia,
l’astronomia ecc. Ci volle tempo perché il volgare poté competere con il latino , strappandogli il
monopolio della cultura, e perché lo scienziato diventasse uno dei protagonisti della storia della
linguistica. Dante fu lungimirante scrivendo un’opera di filosofia in volgare, il Convivio.

6.2. Affermazione di un linguaggio scientifico italiano


Il volgare si affermò con maggior forza nei settori della scienza applicata. La scienza di livello più
elevato, di tipo universitario, rimase lungamente legata al latino secondo una tradizione che si
trascinò sicuramente fino al ‘700. Vittorio Alfieri ricorda nella sua autobiografia la noia della lezioni
in latino. Galileo è il protagonista della svolta culturale che promosse al più altro livello scientifico
l'uso del volgare. Prima di lui ci furono scienziati che usarono il volgare come Niccolò Fontana, il
Tartaglia.

28
6.3. Caratteri dell'italiano scientifico
Il linguaggio scientifico ha accentuato molto i caratteri specifici che lo distinguono dalla lingua
comune e letteraria. Il linguaggio scientifico fa uso della matematica, della formula e della
formalizzazione, usa procedimenti di suffissazione e composti (-paro= che genera sofferenza;
patìa= sofferenza), oltre alle sigle. Inizialmente l'italiano faceva ricorso al cultismo, coniando
vocaboli sulla base delle lingue classiche (Galileo non fu favorevole a questa tendenza). Il
tecnicismo costruito sul greco e il latino ha il vantaggio di essere europeismo (def. leopardiana).
Leopardi fu uno tra i più antichi teorizzatori della differenza tra parole (dimensione poetica) e
termini (dimensione tecnico-scientifica).

Ad un punto di incontro tra linguaggio letterario e scientifico si è collocata, in passato, la poesia


didascalica, nella metà '700 (nel 900 IL poemetto "le farfalle" di Gozzano). Già nella Commedia i
tecnicismI della scienza moderna entrano nell'onnivoro versificatore dantesco. Nel '600 Marino ha
usato nell'Adone il lessico moderno dell'ottica e dell'anatomia.

7. La forza della norma: i grammatici


7.1. Prime grammatiche italiane.
L'italiano vantava un'eccellente tradizione letteraria quando, tra '400 e '500, si avviarono i primi
esperimenti di stabilizzazione della norma. Prima grammatica italiana:
1. Grammatica vaticana: chiamata così perché tramandata da un codice apografo (copia
originale) della Biblioteca vaticana, l’originale stava nella biblioteca di Lorenzo il Magnifico,
Firenze. Questa grammatica è attribuita a Leon Battista Alberti, data di composizione si
colloca tra 1434-1454. L'opera ci mostra in che modo è stato determinante il confronto tra
italiano e latino. Nelle prime righe il pensiero va ai latini e ai greci che per primi ricavarono
delle regole adatte a far sì che si potesse scrivere in maniera corretta. Gli umanisti
riconoscevano che il latino aveva una salda struttura grammaticale, si trattava allora do
vedere se il volgare aveva anch'esso una regola o ne fosse privo. Nacque a questo
proposito la Grammatichetta che non deriva da un bisogno di regolamentazione dell'uso
scritto volgare, ma si tratta piuttosto di una verifica per dimostrare come anche per il
toscano fosse possibile realizzare uno strumento già esistente per il latino (l’opera non
ebbe né fortuna né diffusione).

Prima grammatica a stampa dell'italiano:


2. Regole grammaticali della volgar lingua (inizio 500) di Giovanni Francesco Fortunio.
3. Prose della volgar lingua escono nel 1525, scritte da Pietro Bembo. Quest'opera ebbe
enorme importanza nella tradizione italiana; nella terza e ultima parte delle prose si trova
una vera e propria grammatica dell'italiano, esposta in forma dialogica.

29
7.2. Grammatiche toscane
Il primato nel fissare norme grammaticali appartenne per un certo periodo a letterati che
operavano in zone diverse della Toscana. Nel '500 in Toscana non vi erano normative capaci di
competere con quelle prodotte dall'editoria di Venezia, leadership del settore (Bembo è veneto,
Fortunio probabilmente friulano). La grammatica italiana iniziò a diventare una sorta di freno alla
libertà della scrittura. E’ importante sottolineare come la lingua tende per natura al mutamento e
per questo la grammatica fissare dei punti fermi.

7.3. La grammatica come strumento didattico


Le grammatiche del '500 erano soprattutto uno strumento di consultazione per i letterati e non per
ragazzi. La lingua italiana non era oggetto di studio nelle scuole (le quali conoscevano solo il
latino). Nel '700 ci fu lo sviluppo di scuole pubbliche superiori della lingua italiana e la grammatica,
informa di ordinato manuale, divenne uno strumento fondamentale della pedagogia scolastica.

8. Lessicografici e accademici
8.1. Nascita del vocabolario italiano
Accanto alle grammatiche, l’altro grande presidio della norma linguistica è rappresentato dai
dizionari. Secondo la concezione moderna, il vocabolario è considerato testimone della lingua viva,
si ammette infatti un continuo aggiornamento per stare al passo con i tempi. I primi vocabolari a
stampa (prima metà '500) nacquero con un ideale linguistico non molto diverso da quello delle
prime grammatiche, furono più che altro al servizio della letteratura.

8.2. Lessicografia toscana e Accademia della Crusca


La cultura di Firenze seppe intervenire in questo settore con un'efficacia grandissima, attraverso
l'Accademia della Crusca, fondata a fine '500. Pubblicò nel 1612 un vocabolario molto più ampio di
tutti quelli realizzati fino ad ora, lo presentò con un'autorevolezza tale da farlo diventare il termine
di confronto obbligatorio in qualunque discussione sulla lingua italiana.
Non fu una semplice registrazione oggettiva delle parole presenti nella tradizione italiana: gli
accademici si assunsero la responsabilità di scelte molto azzardate ( come l’eliminazione di
Tasso, più grande autore del 1500). L'operazione lessicografica si presentava come la proposta
precisa di un modello linguistico, fiorentino e arcaizzante. Si pubblicarono nuove edizioni del
Vocabolario: oltre due nel Seicento (dopo la prima) un'altra nel Settecento.

8.3 I (grandi) Vocabolari specchio della cultura


Non ci furono molte realizzazioni lessicografiche che si staccarono dal quadro della Crusca. Ci
furono alcuni vocabolari che furono effettivamente i testimoni delle svolte culturali e di un
atteggiamento linguistico disponibile ad accogliere novità di rilievo:

30
1. Dizionario universale antico enciclopedico della lingua italiana di Francesco D'Alberti di
Villanova ( 1797- 1805) segnò un rinnovamento per: la disponibilità verso i francesismi, verso
alcuni regionalismi e voci tecniche.

Un'opera più nuova: Dizionario della lingua italiana di Niccolò Tommaseo e Berardo Bellini
(1861, in occasione proprio dell’Unità).

I lessicografici che lasciarono maggiormente il segno:


A. Accademici della Crusca: fecero del loro vocabolario una sorta di monopolio. Nel XIX entra in
crisi.
B. Tommaseo
C. Manzoni: progettò un vocabolario completamente diverso da quelli realizzati fin allora in Italia,
coerentemente detto "Giorgini-Broglio", portato a termine solo dopo la morte di Manzoni.

Nell’Ottocento uscirono diversi vocabolari. Il vocabolario divenne uno strumento della didattica
scolastica. Furono pubblicate diverse opere lessicografiche, come ad esempio i dizionari puristici.
Quest'ultimo tipo si presentava come un'arma da battaglia per combattere la corruzione delle
parole forestiere, dei barbarismi.

9. La burocrazia e la politica linguistica degli stati


9.1. La situazione particolare della Toscana
Se la politica linguistica ha un rilievo secondario per lo sviluppo dell’italiano, ciò non vuol dire che
gli stati preunitari non siano stati protagonisti di importanti scelte. Bisogna prima di tutto distinguere
tra la situazione linguistica della Toscana, dove vi era omogeneità tra lingua parlata e scritta e
quella delle altre regioni. In Toscana il potere politico fosse disponibile alla promozione della lingua
volgare. Questa promozione del toscano avvenne alla corte medicea, al tempo di Lorenzo il
Magnifico, nel '400 e nel '500, sotto Cosimo I. Cosimo seppe promuovere una vera e propria
politica culturale, finanziando l'Accademia fiorentina e chiedendole di interessarsi in modo speciale
ai problemi della lingua, e di fissare le regole del toscano.

9.2 Le cancellerie degli stati come centro di irradiazione della lingua


Il volgare, già nel ‘400, fece la sua comparsa in alcune cancellerie signorili; la cancelleria è la
segreteria addetta allo svolgimento degli affari di Stato, in cui si conservano atti legislativi e
giudiziari. È nelle cancellerie che nel ‘400 si forma la lingua che si definisce come “comune”,
koinè13. I cancellieri sono notai e hanno una cultura linguistica del latino, legale, pragmatico, a cui
si può accompagnare una cultura umanistica.

13 Il termine si ricollega ad una particolare fase della lingua greca, quella sotto Alessandro Magno.
31
9.3. Motivazioni per la scelta del volgare
Non sempre la scelta del volgare è indolore: quando Emanuele Filiberto introdusse l'uso
dell'italiano nei tribunali del Piemonte, notai e avvocati protestarono. La motivazione di questa
scelta era in primo luogo una questione di giustizia per il popolo che non comprendeva il latino. In
secondo luogo Francesco I, re di Francia, aveva accolto il francese al posto del latino nel 1539.

9.4. L'adozione di una lingua scelta di campo e come simbolo nazionale


La scelta di una lingua ufficiale piuttosto che di un'altra può significare una scelta di campo,
un’opzione di grande portata storica. Quando la lingua viene sentita come valore nazionale e
magari come difesa verso l'esterno, oltre che come tangibile segno di unità, si possono
manifestare degenerazioni. Tra queste, vi è il rischio di un sentimento di antipatia per quanto,
all'interno della nazione, si presenta come linguisticamente diverso e disomogeneo. Si è allora
tentati di eliminare a forza le differenze, mediante misure repressive ai danni delle minoranze
alloglotte. Dopo l’unità entrò in crisi il bilinguismo di Valle D’Aosta e Piemonte.

9.5. La guerra ai dialetti e la politica linguistica


Anche i dialetti esprimono individualità e diversità regionale, concepiti come ostacolo sulla strada
dell’ideale nazionale. Lo stesso Manzoni non fu favorevole ai dialetti. La posizione antidialettale
viene definita come “giacobinismo linguistico”. L’unità linguistica si realizza quando la nazione è
riuscita a raggiungere un livello accettabile nell’omogeneità del sapere, nella circolazione di idee,
nella scolarità.

9.6. La politica scolastica


Uno degli strumenti di politica linguistica è la scuola. Fino al ‘700 però la scuola fu in lingua latina, il
volgare era estraneo; solo in Toscana furono istituite già nel ‘500 cattedre di lingua toscana nelle
università. Ma solo con le riforme del ‘700 il toscano entrò nella scuola superiore e nelle università,
ci fu una promozione dell’italiano che all’inizio occupò una posizione modesta, ancora marginale
rispetto all’insegnamento della lingua latina. Aumentò l’importanza di scuole sotterranee, cioè non
organizzate dallo Stato, né strutturate in maniera omogenea, tenute da religiosi, presso le
parrocchie. Si faceva scuola anche in botteghe artigiane, per formare i figli dei mercanti. Gli Stati
fino al ‘700 si disinteressarono dell’educazione popolare, occupandosi solo dell’istruzione
universitaria e superiore. Con l’Illuminismo la diffusione più larga del sapere divenne un problema
avvertito; risalgono alla seconda metà del secolo i primi esperimenti pubblici di scuola popolare.
Nel 1848 il Piemonte riordinò tutta la materia relativa all’istruzione pubblica mediante la legge
Boncompagni e nel 1859 la legge Casati istituì la scuola elementare gratuita per quattro anni.

32
10. Gli editori e la tipografia
10.1. La rivoluzione della stampa
L’invenzione della stampa a caratteri mobili fu una rivoluzione che incise profondamente sulla
cultura europea. Tra le conseguenze ci fu: una diminuzione del prezzo dei libri, aumento delle
tirature, ampia divulgazione, fu influenzata anche l’evoluzione della lingua.

La stampa produsse una crescente regolarizzazione della scrittura; l’editoria del Rinascimento si
trovò a convivere con il trionfo delle idee di Pietro Bembo. La tipografia italiana favorì nel ‘500 la
diffusione della norma bembiana e allo stesso tempo se ne avvantaggiò. La Bibbia di Gutenberg,
primo libro composto a caratteri mobili, uscì a Magonza nel 1455. In poco tempo la tipografia si
diffuse anche in altre nazioni e con ottimi risultati in Italia con Aldo Manuzio.
Parliamo di incunabolo14 <lat. incunabula ‘fasce’ per indicare il libro quattrocentesco appartenente
al primo periodo dell'arte tipografica appena nata. Nel ‘400 Venezia divenne la capitale della
stampa italiana, la seguono Roma, Firenze, Milano e Bologna. La tipografia nacque prendendo a
modello il manoscritto, in seguito si distaccò da questo e introdusse elementi che prima non
esistevano, come il frontespizio, contenente il titolo, il nome dell'autore, la marca tipografica
dell'autore, l'indicazione della città e della stampa.

10.2. Gli incunaboli in italiano


Il primo libro volgare italiano è un testo popolare devoto: prima si faceva riferimento a un’edizione
dei Fioretti di San Francesco pubblicato a Roma nel 1469, ora si tiene conto di un frammento di un
libro di preghiere, il Parson fragment del 1462, anche se la data resta incerta. Tra il 1470 e il 1471
uscirono gli autori massimi della letteratura volgare: si ebbero le prime stampe del Decameron e
del Canzoniere di Petrarca. Ne 1472 uscirono diverse edizioni della Commedia dantesca.

10.3. La tipografia del Cinquecento, il volgare e le correzioni editoriali


Nel ‘500 le percentuali dei libri in volgare aumentarono notevolmente tanto che il libro italiano riuscì
a sorpassare il libro in latino. Gli editori dediti al libro volgare si trovano a Venezia con l’editore
Zoppino, che stampa quasi tutti i libri in italiano, mettendo in catalogo autori come Petrarca, Dante,
Boccaccio, Ariosto. Giolito de' Ferrarri, produzione esigua in latino, tutto il resto è in volgare.
Solo nel libro post-bembiano il problema della regolarizzazione del testo si pone in maniera
definitiva; per questo gli editori utilizzarono dei revisori ben preparati e la revisione della stampa
diventò un mestiere vero e proprio. Nel ‘500 questa professione acquistò una fisionomia ben
precisa, per la realizzazione di un testo corretto e omogeneo. Si arrivò così alla regolarizzazione
della grafia e dell’uso della punteggiatura. Si pensi che un segno grafico come l'apostrofo fu

14 IGI: Indice Generale degli Incunaboli italiani.


33
introdotto da Bembo per la prima volta in occasione della stampa, nel 1501, delle Cose volgari di
Petrarca.

11. Dalla stampa ai "mass-media"


11.1. Diffusione del libro e divulgazione della cultura
Con il termine "mass-media", parola inglese, si intendono i mezzi di comunicazione di massa, cioè
i giornali, la radio, il cinema, la televisione. Questo termine, come tecnicismo sociologico, è una
creazione del nostro secolo in riferimento alla cultura di massa.

11.2. Il giornale e la sua funzione linguistica


Con il Settecento, e in particolare modo con l'Ottocento, accanto al libro, acquistò una funzione
particolare di divulgazione del sapere il giornale. In quanto pubblicazione periodica poteva essere
rivolto ad un pubblico colto che acquistava i libri: riviste famose sono il Caffè, la Biblioteca italiana
e si collocano ad un livello "alto", per un pubblico esperto; questi periodici, trattando varie questioni
di attualità, non mancano di affrontare il tema della lingua. La diffusione del giornale fu favorita
dalla crescita dell'alfabetismo e dalla maggiore scolarizzazione.

La prosa giornalistica dell’Ottocento vede Milano come il "centro culturale più avanzato dell'Italia
napoleonica e risorgimentale". Questa prosa giornalistica (sempre ottocentesca) risulta essere un
genere non artistico e destinato a entrare in contatto con un pubblico relativamente ampio ed
eterogeneo. Il giornale, oltre che motore del cambiamento e della promozione culturale, è anche
ottimo testimone del suo tempo: sulle colonne dei giornali troviamo le prima attestazioni di molti
neologismi e forestierismi. Il giornale è il luogo in cui l'effimero lascia traccia di sé, accedendo per
la prima volta alla scrittura. Non sempre i neologismi che compaiono mettono radici nella lingua, a
volte scompaiono in breve tempo.

11.3. Radio, cinema e televisione


Tullio De Mauro, in Storia linguistica dell’Italia unita attribuì grande peso all’influenza linguistica dei
media. La radio era diventata un canale per raggiungere le massi popolari negli anni precedenti la
seconda guerra mondiale. La televisione, nata nel dopoguerra, raggiunse anche il pubblico delle
fasce più povere, fu un'occasione unica, per alcuni, di ascoltare una voce che parlava la lingua
italiana, portando nelle campagne, in zone arretrate e legate alla più arcaica cultura rurale,
un'immagine del mondo esterno. Va precisato che il linguaggio dei media resta un concetto
generico e astratto, perché in realtà sarebbe più corretto parlare, al plurale, dei linguaggi dei
media: nel giornale trovano infatti posto temi assai diversi. Non a caso il saggio di Dardano
distingue l'analisi del lessico giornalistico in campi che riconducono appunto ad una pluralità
linguistica.

34
Capitolo 4
Situazioni della comunicazione: le varietà della lingua

1. Lingua scritta e lingua parlata


1.1. Non esiste l'omogeneità linguistica assoluta
La lingua è per sua natura caratterizzata da varietà, tramite la quale si esprime la creatività del
parlante. Lo storico deve sempre chiedersi a quale livello e in quale situazione si collochino i testi
che esamina.

1.2. Scritto e parlato


Una prima grande differenza va stabilita tra lingua scritta e lingua parlata. Non si scrive come si
parla, né si parla come si scrive. In realtà è giusto contrappone non tanto lo scritto al parlato,
quanto il "parlato informale" al "parlato formale": nella tradizione letteraria italiana, in certi casi, il
parlato formale ha avuto funzioni proprie della lingua scritta. Nell'oralità ci sono molti elementi che
entrano nella comunicazioni, assenti nella scrittura (gesto, espressione, tono vocale ecc.). La
scrittura ha una maggiore "durata" del parlato. A differenza dell'oralità, permette un controllo
maggiore delle connessioni testuali, del lessico, della sintassi.

1.3. Difficoltà degli studi sul "parlato"


Un orizzonte di studio in cui l'attenzione all'oralità possa avere un posto di assoluto ed esclusivo
rilievo si ha dunque solo per in Novecento. L'utilizzazione di materiale orale presenta comunque
dei problemi e richiede un atteggiamento non ingenuamente disposto a ritenere che tutto quanto è
"voce" sia già per questo perfettamente adeguato a documentare la situazione reale. Lo sapevano
bene i dialettologi al tempo della redazione dei grandi atlanti linguistici quando si stabilirono norme
precise per selezionare gli informatori (scelti non a caso).
Anche per i fenomeni del parlato di oggi in italiano occorre pure sempre affrontare il problema dei
canali da cui attingono le informazioni. Còveri nota che negli anni passati ci si è accontentati di
studiare il linguaggio dei giovani attraverso fonti indirette, cioè a testi che in qualche modo
riproducevano questo linguaggio (es. tesi narrativi),quindi attraverso il filtro e l'interpretazione. Per
esempio la letteratura prende lo spunto dalla realtà, ma lo fa per i propri fini artistici, non a
semplice e oggettivo scopo documentario . Alcuni linguisti hanno cercato nuovi canali di
informazione, è stato preso in esame il linguaggio giovanile come si manifestava attraverso fonti
diverse, ad esempio quelle televisive. Si potrebbe pensare che fonti dell'oralità televisiva e
radiofonica garantiscano la massima autenticità. Per Còveri queste fonti sono fuorvianti.
Non è dunque facile cogliere la lingua viva nelle sue manifestazioni reali. La registrazione della
lingua parlata pone problemi di metodo, nella selezione dei canali e degli informatori. La maggior
parte della storia linguistica italiana va ricostruita sulla base di documenti e testi scritti, in cui
35
affiorano le tracce dell’orale. Un caso particolare è costituito dal testo teatrale, che presenta un
certo realismo e può essere considerato una simulazione del parlato; non è un vero parlato,
perché in realtà si tratta di un testo scritto da un autore per essere messo in scena da attori che lo
interpretano con la loro voce. Il parlato viene anche inserito nella narrativa, ad esempio nelle
novelle, in cui la voce del narratore lascia spazio ai dialoghi tra i personaggi. Entrambi sono
comunque di creazione letteraria.

2. La lingua dei colti e quella degli incolti: varietà diastratiche


2.1. Definizione della varietà "diastratica"
La lingua cambia in dipendenza del livello culturale e sociale di chi la usa. L’italiano popolare è un
concetto che definisce l’italiano di chi non riesce a staccarsi dal dialetto e contamina i codici,
dando luogo a degli errori. Per i linguisti, gli errori, sono fenomeni da interpretare e comprendere,
indicandone la genesi e le motivazioni. Essi parlano di varietà diastratiche per indicare differenze
che si riscontrano nell’uso dei diversi strati sociali, i quali non hanno lo stesso livello di cultura.

2.2. Differenze sociali dell'uso linguistico nei documenti scritti del passato.
I linguisti sono particolarmente interessati a scritture di tipo "basso", inoltre sono particolarmente
interessati a testi scritti su supporti non convenzionali, come i graffiti, i cartelli diffamatori ecc. Qui è
più facile trovare elementi del parlato popolare; alcuni dei più antichi documenti della lingua italiana
sono graffiti e scritti murali. Non è detto però che siano per questo il prodotto di scriventi
appartenenti ad un ceto sociale basso. A quest'epoca la mancanza di una norma linguistica
codificata e riconosciuta, rendeva normale il ricorso a forme della lingua viva, filtrate attraverso la
grafia latineggiante: sono le varietà diatopiche, ossia geografiche, varietà legate alla diversa
provenienza del parlante: dia-attraverso e topos-luogo.

3. Varietà diatopiche
3.1. Definizione della "varietà diatopica"
Le varietà diatopiche della lingua sono definibili anche come varietà geografiche. De Mauro ha
mostrato che l’italiano parlato oggi nel nostro paese non è uniforme, ma varia da regione a
regione. Le differenze riguardano il livello fonetico e fonologico, ma anche quello morfologico e
lessicale. Ad esempio i parlanti settentrionali non distinguono tra le e/o rispettivamente aperte e
chiuse. L’italiano di Roma non è identico a quello toscano. Le differenze riguardano anche il livello
lessicale e sintattico: forme come "tengo fame" per "ho fame" sono chiari segni di un italiano
regionale. Tutta la storia della lingua italiana, in quanto storia dell'affermazione di un modello
unitario, è stata appunto una battaglia per cancellare le differenze locali.

36
Il processo di eliminazione dei tratti locali fu confermato dal ‘300 dall’imitazione del linguaggio delle
Tre Corone e fu poi sancito da Bembo. La lingua poetica realizzò in maniera più completa
l'espunzione dei localismi, anche in virtù del suo carattere formalizzato e selettivo. La poesia lirica
divenne presto "maniera", e fu relativamente facile imparare a scrivere in una lingua poetica
omogenea, senza rivelare la propria provenienza dialettale. I problemi si posero in maniera diversa
nella prosa, specialmente in quella di tipo pratico, nella quale entravano la terminologia quotidiana
e il lessico tecnico dell'artigiano o delle arti.
‘I libri di maneggio’ nel ‘700 servivano a verificare la consistenza dei dialettismi con cui si indicano
gli oggetti domestici. Documenti del genere non erano però soggetti al controllo linguistico, che
veniva invece esercitato su testi letterari o ufficiali.

3.2. Spinte per il superamento delle differenze geografiche nel linguaggio comune e familiare
La toscanizzazione delle scritture familiari divenne un assillo degli scriventi solo a metà '800 e
dopo la diffusione delle idee linguistiche di Manzoni. Un libro come L’idioma gentile di De Amicis,
dedica molte pagine all’uso dell’italiano in famiglia.
In precedenza l'esistenza di varietà diatopiche non era considerata un grave ostacolo alla
comunicazione interregionale per la quale, al livello medio-basso, si ricorreva a quello che Foscolo
definiva "linguaggio itinerario”, cioè il linguaggio di coloro che per necessità viaggiavano e
adottavano una lingua che eliminava ciò che era regionale.
In tutta la storia linguistica italiana il problema dell'esistenza di varietà diatopiche è stato avvertito
come uno di quelli con cui era necessario fare i conti se si voleva ottenere un'omogeneità della
lingua sovraregionale. La spinta al livellamento ebbe due motori:
I. un principio estetico-letterario, delineatosi con chiarezza in teorici come Dante e Bembo
II. un principio pratico e sociale, divenuto più impellente con il formarsi della nazione italiana
come unità politica autonoma.

3.3. Le esigenze della Chiesa


Prima dell’Unità. Gli esponenti della gerarchia ecclesiastica si erano dimostrati sensibili ai problemi
della varietà della lingua parlata e sapevano che i predicatori dovevano parlare al pubblico di
regioni diverse senza sfigurare.

4. Il mistilinguismo
Il parlante o scrivente italiano si è trovato molto spesso al centro di una serie di campi di forza
divergenti: è stato attirato dal toscano, lingua conosciuta attraverso i modelli della letteratura o
ammirata nel parlato popolare di Firenze. È stato condizionato dal suo dialetto d’origine, spesso
diverso dal toscano. Il parlante non toscano si trova è vissuto una situazione di "diglossia" perché
si trovava a parlare un dialetto d’uso quotidiano, necessario e diffuso, collocato ad un livello di

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prestigio inferiore rispetto alla lingua letteraria, considerata la sola nobile. Questa condizione porta
a quello che viene chiamato: mistilinguismo. Era la mescolanza di elementi linguistici diversi, nello
scritto e nel parlato e poteva manifestarsi sia involontariamente, per errore, sia volontariamente
per scelta stilistica.

5. Varietà diafasiche
Diafasico15 è il termine tecnico per indicare differenze linguistiche relative allo stile della
comunicazione, che può svolgersi a livelli diversi. Si può parlare di:
- livello molto elevato o aulico
- colto
- formale o ufficiale
- medio
- colloquiale
- informale
- popolare
- familiare
- basso, plebeo

A ognuno di questi stili corrisponde una forma linguistica differente e scelte sintattiche e lessicali
diverse. La definizione dei registri e degli stili della comunicazione orale interessa i sociolinguisti.
Molte tendenze innovative dell’italiano di oggi si manifestano ad un livello diafasico medio- basso:
gli è usato al posto di "a lei”, uso del ci davanti al verbo avere (c’hai), uso del che polivalente, della
dislocazione a sinistra (Carlo l'ho visto), uso dell’imperfetto nell’ipotetica dell’irrealtà, uso
dell’indicativo al posto del congiuntivo nelle dipendenti.

15 Il termine deriva dalla composizione delle due parole greche dia, "attraverso, mediante", e phasis, "voce".
38
Capitolo 5
Origini e primi documenti dell’italiano

1. Dal latino all’italiano

L’italiano deriva dal latino: ha la stessa origine delle altre lingue romanze, che non derivano però
dal latino classico degli scrittori, bensì dal latino volgare. Gli esiti romanzi vengono paragonati tra
loro e ricondotti alla parole originaria dalla quale derivano: questa parola viene presupposta come
propria del latino volgare, la lingua a cui gli studiosi fanno riferimento per spiegare l’origine degli
idiomi romanzi. Si parla in questo caso di esame “comparativo”.

Il concetto di latino volgare, veniva usato per indicare i diversi livelli linguistici che esistevano nel
latino dove già le fonti classiche distinguono tra il latino letterario vero e proprio da una parte, e
dall’altra i vari sermo plebeius, sermo militaris, sermo rusticus, sermo provincialis; queste
distinzioni rinviavano a livelli sociolinguistici differenti e sottolineano il fatto che gli illetterati, gli
incolti, i rustici, i provinciali parlavano in modo diverso dalle persone colte e dai romani istruiti nella
capitale. Il concetto poi, fa anche riferimento a uno sviluppo diacronico, che vede emergere nella
tarda latinità usi linguistici spesso all’origine degli sviluppi romanzi. Il concetto di latino volgare
finisce dunque per mescolare due elementi di natura disomogenea:

• Una componente sociolinguistica (sincronica)

• Una componente diacronica

Il latino, come tutte le lingue mutò nel corso del tempo, tanto che i territori dell’impero conquistati in
epoca diversa ricevettero un latino in parte differente. Esempio: plus si sostituì a magis nel
comparativo. Il latino letterario aveva un comparativo organico, ad es. la forma ALTIOR da ALTUS.
Questa forma fu sostituta dalla costruzione analitica equivalente all’italiano più+aggettivo. Il tipo
magis era presente nelle aree laterali dell’Impero, mentre plus si era diffuso al centro. Essendosi
già imposta la forma magis nei territori conquistati, in una fase successiva si irradiò da Roma il tipo
plus, che non fece in tempo a raggiungere i territori laterali della Romania, che conservano
tutt’oggi la forma più antica.

Il latino dunque non aveva un’unità linguistica assoluta e non si impose allo stesso modo ovunque.
La penetrazione fu forte in Iberia, Gallia, Rezia, Norico, Dalmazia, Dacia e nell’Africa
settentrionale; nella parte orientale dell’Impero prevalse l’uso del greco, l’unica lingua di cultura
dell’antichità di fronte alla quale i romani provassero rispetto. L’atteggiamento dei romani nei
confronti delle altre lingue dei popoli fu di disinteresse e di disprezzo: il colonialismo romano
impose il latino insieme alle leggi latine e alla cultura latina.

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La forza del latino era tale da farsi sente ovunque, anche nelle aree du più difficile romanizzazione.
La Germania non fu latinizzata, a differenza della Gallia e il confine fu fissato sulla sponda del
fiume Reno: non vi è dubbio che l’uso del germanico rimanesse sempre vivo nella Germania
romana, anche se alcune parole latine entrarono, tramite i territori di confine, nelle lingue
germaniche occidentali.

A partire dal IV secolo, entrarono nel latino dei germanismi, cauterizzati dal prefisso gu: guerra,
germanico occidentale *WERRA (alto tedesco werra, confusione) che prese il posto di BELLUM
lat. Quest’ultimo non ha lasciato traccia nella Romania, se non in belligerante, bellicoso, che non
hanno a che fare con lo sviluppo popolare della lingua. Eccezioni: guaina< vagina e guado.

A questo bisogna aggiungere la variabilità sociale, che esiste in ogni lingua, e che era certo
presente nel latino. I ceti colti, infatti, come ci insegna la sociolinguistica, parlano sempre in modo
diverso dagli illetterati.

1. Al livello della lingua scritta si situa il latino classico, con la sua continuità culturale, a cui si
avvicina il latino parlato dai ceti colti aristocratici dell’età repubblicana.

2. Al di sotto di questo livella sta il latino popolare,che può essere in parte identificato col latino
volgare.

3. Il latino parlato dai ceti colti in età imperiale si avvicinò al livello popolare, dando origine al latino
volgare, da cui sono nate le lingua romanze.

Le quattro frecce verticali indicano i rapporti di reciproca influenza tra il livello letterario e il livello
popolare del latino, rapporti che mutano in epoca tardo-imperiale, quando il latino parlato influenza
solo marginalmente o occasionalmente una lingua ormai cristallizzata e regolata dalla normativa
dei grammatici. A quel punto la frattura tra scritto e parlato è forte e insanabile.

Castellani ha visualizzato una dimensione geolinguistica dello sviluppo del latino, inquadrato in
una prospettiva storica.

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Questo secondo schema mostra:

• la progressiva espansione geografica del latino nel corso dell’età repubblicana e imperiale, che
comportò la nascita di un “latino delle province”, la cui omogeneità fu garantita dalle forze
centripete attive durante il lungo periodo in cui l’impero poté esercitare la propria forza militare e
culturale sui territori occupati. Solo dopo i primi due secoli le forze centrifughe presero il
sopravvento (le linee dello schema iniziano ad essere divergenti).

• nel latino delle varie regioni, si avviò un processo di differenziazione, sul quale incisero le
invasioni barbariche, il processo si concluse con la nascita delle lingue romanze.

La Costituzione Antoniniana, la riforma di Diocleziano e l’Editto di Milano sono dei passaggi


fondamentali che trasformarono la società dell’impero e ovviamente la lingua:

• La prima risale al 212 d.C, si trasforma l’impero attraverso l’estensione della cittadinanza a tutti
gli abitanti dell’impero di Caracalla.

• La seconda risale al 293-305 d.C, l’impero viene diviso in quattro parti (tetrarchia).

• La terza risale al 313 d.C, concessione della libertà di culto nei terrori dell’impero.

I due schemi illustrano lo stesso sviluppo, dal latino volgare alle lingue neolatine, considerandolo
da due punti di vista differenti.

Schema fonti per la ricostruzione del latino volgare

1. Comparazione tra i continuatori romanzi e le lingue

2. Iscrizioni di carattere privato

3. Testimonianze di scriventi popolari

4. Testimonianze di autori letterari

5. Testimonianze dei grammatici

Uno dei mezzi per ricostruire gli elementi del latino volgare è la comparazione tra le lingue
neolatine: quando si importa una parola al suo etimo latino-volgare, si può individuare l’esistenza
di una forma lessicale non attestata nel latino scritto, indicata con un asterisco16. Il latino volgare
conteneva molte parole presenti anche nel latino scritto, come FUMUM. Altre parole furono
innovazioni del latino parlato, non sono attestate nello scritto, come PUTIUM.

16Una forma come *passare presenta l’asterisco perché non ha nessun retroterra lessicale. Passare è un
verbo denominale, cioè deriva dal sostantivo passus. Originariamente però in latino per indicare il
passaggio, si utilizzava transire, che oggi si presenta in alcuni dialetti italiani; come il siciliano, calabrese,
abruzzese e napoletano.
41
In altri casi si ebbe un cambiamento nel significato della parola latina letteraria, che assunse un
senso diverso nel latino volgare: TESTAM, in origine era un vaso di terracotta, ma poi sostituì
CAPUT. Assunse inizialmente un significato ironico, ma poi assunse in toto il nuovo significato,
anche se capo sopravvive in italiano come parola dotta.

Il confronto tra le lingue romanze e la ricostruzione etimologica dei derivati dal latino non sono gli
unici strumenti per la conoscenza del latino volgare: esistono una serie di testi che possono dare
informazioni utili per intravedere alcune caratteristiche del latino parlato di livello popolare o del
latino tardo. Alcuni autori classici hanno scritto a volte in maniera meno formale e sorvegliata. Si
sottraggono alle norme dell’uso classico alcuni libri dedicati a materie pratiche, come i trattati di
agricoltura, di cucina, di medicina ecc.

Lo stesso Cicerone è autore di lettere, in cui si trovano diverse concessioni a uno stile colorito,
familiare, idiomatico. Autori come Petronio, Plauto e Cicerone ci hanno tramandato
coscientemente testimonianze di latino non letterario. Bruni nota che in Petronio coesistono forme
come pulcher, formosus e bellus: il primo aggettivo era destinato a sparire nelle lingue moderne,
mentre gli ultimi due sono all’origine delle lingue romanze, lo spagnolo hermoso, italiano bello, il
francese beau.

Ad esempio il verbo italiano mangiare deriva dal francese manger, ricalcato sul lat. manducare,
cosi come lo spagnolo comer deriva dal lat. comedere. Questo per dire che non vi è nel latino una
espressione che possiamo ricondurre a mangiare. Tendenzialmente le forme legate alla vita
quotidiana hanno maggior forza di sopravvivenza.

Anche il latino degli autori cristiani, specialmente all’inizio, è deliberatamente umile e popolare.
Tale carattere si vede assai bene nella versione Vetus latina della Bibbia, prima della Vulgata di
San Gerolamo: anche quest’ultima è ricettiva nei confronti di alcuni elementi del latino popolare.
Tra le fonti per la conoscenza del latino volgare possiamo le iscrizioni dei lapicidi, che a volte
contengono degli “errori” significativi. Molto interessanti sono le scritture occasionali, come quelle
che si trovano sulle pareti delle case di Pompei, grafiti e scritte murali tracciate da gente comune.

Iscrizione pompeiana

Queste scritte non sono, ovviamente, posteriori al 79 d.C, quando l’eruzione del Vesuvio segnò la
fine della città. Citiamo una di esse, un graffito su di una pittura murale a cui fanno riferimento
Castellani e Del Popolo traendola dal CIL (corpus, inscriptionum latinarum) che dedica un intero
volume alla città campana:

QUISQVIS/ AMA VALIA/ PERIA QUI N/OSCI AMA[RE] / BIS[T]ANTI PE/RIA QISQUU/IS
AMARE VOTA17 .

Spiccati volgarissimi linguistici dovevano essere abituali anche per le persone colte. Si notano:

17 “Chi ama, viva; muoia chi non sa amare; e muoia due volte chi vuol vietare l’amore”.
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1. caduta delle consonanti, diverse da -S, come la dentale -T nei verbi AMA, PERIA, VOTA
2. Passaggio di E atona prevocalica a I in PERIA< PEREAT, VALIA< VALEAT
3. Ricostruzione di NESCIT in NO(N) SCIT. Processo di semplificazione, perdita di N e T, per
arrivare a NOSCI.
4. Uso di VOTARE per VETARE. Votare è un arcaismo.

Altra iscrizione rinvenuta a Pomepei:

PUPA QUE BELA IS, TIBI ME MISIT QUI TUUS ES: VAL[E]18

Si nota:

1. Il termine PUPA (il latino classico ha il diminutivo PUPILLA), poi continuato nelle lingue
romanze, soprattutto nel senso di “bambola”, già attestato in Varrone.
2. In BELA ( a parte lo scempiamento che forse è solo errore grafico) notiamo il termine
alternativo al classico PULCHER; IS sta per ES “sei”; nell’ES (è) finale cade la –T, che si
conserva invece in MISIT.

Appendix probi
Chiamata così perché il documento segue gli Instituta artium di un grammatico tardo come Probo,
da non confondere con Marco Valerio Probo del I sec. L’ Appendix è una lista di 227 parole o forme
o grafie non corrispondenti alla buona norma, tramandate da un codice scritto a Bobbio intorno al
700 d.C. conservato nella Biblioteca Nazionale di Napoli. La lista di parole è tuttavia reputata di
solito più antica del codice: benché si sia discusso sulla sua datazione, la si è riferita al III-IV sec.,
e oggi gli studiosi collocano il suo antigrafo ancora più in la, nel V o VI sec. d.C. Un maestro
dell’epoca avrebbe raccolto le forme errate in uso presso i suoi allievi e le avrebbe affiancate alle
corrette, secondo il modello “A NON B”:
- speculum non speclum
- vetulus non veclus
- columna non colomna
- frigida non fricda
- turma non torma
- Calida non calda
- Oculus non oclus
- Viridis non virdis

18 “Ragazza che sei bella, a te mi mandò chi è tuo: salve”


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1. SPEC(U)LUM ha dato origine a specchio, con passaggio di –CL- a –kkj-

2. VET(U)LUM> VECLU(M)> vecchio

3. ORICLA > orecchia

4. OC(U)LUM > OCLU(M)> occhio

5. Evoluzioni delle vocali toniche in COLUMNA > COLOMNA (assimilazione regressiva> colonna)

6. Costante è la caduta della vocale postonica nei proparossitoni: VET(U)LUS , FRIG(I)DA>


FRICDA (fredda), VIR(I)DIS (che è all’origine del nostro verde).

7. Da Velio Longo sappiamo che Cicerone non pronunciava le N, diceva perciò ortesia anziché
ortensia, praticando già la caduta della nasale. Fenomeno presente nel latino arcaico:
MENSEM>MESE.

Betacismo
Altri elementi che si situano tra latino e volgare: problema di pronuncia tra B e V. Baculus e non
vaclus, vapulo e non baplo. Una delle testimonianze che a Roma vi era questo problema, ci arriva
da Consenzio, grammatico gallese, che nota tra i romani questo problema di pronuncia. Questo
tipo di confusione produce il fenomeno dell’ipercorrettismo.

Caduta della -M finale

La pronuncia latina indeboliva la M già in età classica. Se una parola terminava con una vocale ed
era essa stessa seguita da una parola cominciante per vocale, queste si fondevano
prosodicamente, dando origine ad una sinalefe. E’ notevole il fatto che se la prima parola
terminava per -M, questa consonante non impediva il fenomeno. Es:

NUMQUAM>NUMQUA

OLIUM>OLI

Dileguo della nasale nel nesso intervocalico -NS-

Es. ANSA>ASA. Nel Pantheon si legge COS, abbreviazione di CONSUL.

Livellamento in -IS desinenza della III declinazione

CAUTES non CAUTIS

VATES non VATIS.

Estensione dei diminutivi

MERGUS non MERGULUS

AURIS non ORICLA

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Perdita del neutro

TRISTUS e non TRISTIS19

L’Appendix Probi è l’occasione per riflettere sulla presenza nel latino volgare di una serie di
tendenze aberranti rispetto alla norma classica, avvertite come “errori” dall’insegnante nel rapporto
con i suoi allievi, e che tuttavia contenevano (almeno in parte) gli sviluppi della successiva
evoluzione verso la lingua nuova destinata a formarsi e affermasi nei secolo seguenti.

L’errore è, dunque, una deviazione rispetto alla norma, ma nell’errore medesimo possono
manifestarsi tendenze innovative importantissime. Il futuro della lingua non è necessariamente in
mano ai grammatici e alle persone colte, le quali esercitano piuttosto una funzione di freno,
rifacendosi a modelli conservativi. Finché questi modelli reggono, l’errore combattuto viene posto
in una posizione marginale, di minoranza. Ma quando l’errore si generalizza, l’infrazione diventa
essa stessa norma per tutti i parlanti.

Abbiamo visto come nel latino volgare serpeggiassero tendenze innovative, spinte endogene verso
la differenziazione dai modelli di lingua colta e letteraria. Gli studiosi fanno riferimento, di solito, a
fenomeni di “sostrato”: il latino si impose su lingue preesistenti, che non mancarono di influenzare
l’apprendimento della lingua di Roma. Per quanto riguarda l’area italiana pensiamo all’influenza
dell’etrusco (sparito senza lascare traccia), e dell’osco-umbro. Alcuni fenomeni linguistici,
specialmente in passato, sono stati riportati all’influenza del sostrato, cioè all’azione esercitata
dalla lingua vinta su quella dei vincitori: si è spiegata con il sostrato celtico la presenza delle vocali
turbate nel Settentrione d’Italia, con il sostrato osco-umbro si è spiegata la tendenza
all’assimilazione di -ND- > -nn- e –MB- > -mm- nei dialetti centro meridionali.

Il fatto che in quell’area il latino abbia subìto un’evoluzione in cui si è manifestata la tendenza a
esiti analoghi, ha condotto a pensare al riaffiorare di un fenomeno sommerso ma mai spento,
come fatti di “sostrato”, per l’appunto. Si tratta di una spiegazione la quale risulta affascinante,
perché riporta il presente a un retaggio antico, facendo rivivere nella lingua.

Un altro problema lungamente discusso sulla formazione dell’italiano è stato quello del ruolo del
“superstrato”: con questo termine si intende l’influenza esercitata da lingue che si sovrapposero al
latino, come avvenne al tempo delle invasioni barbariche.

Alle definizioni di sostrato e di superstrato possiamo aggiungere quella di “adstrato”, cioè l’azione
esercitata da una lingua confinante. Oggi, a differenza che nei secoli passati, si tende ad attribuire
un ruolo meno rilevante all’azione di superstato esercitata sul latino delle lingue germaniche degli
invasori.

19Fenomeno documentato in età arcaica in Plauto usa CORIUS e non CORIUM. Nel latino dell’età imperiale
Petronio usa LACTEM e non LACTIS.
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- I goti, più precisamente ostrogoti, entrano il Italia nel 489, guidati da Teodorico, con l’avvallo
dell’imperatore di Bisanzio, che voleva eliminare Odoacre, il qual aveva deposto Romolo
Augusto (476). Il regno gotico finì con la guerra intrapresa dagli eserciti di Giustiniano, guidati da
Belisario e Narsete. Il dominio goto sull’Italia non fu molto lungo. La lingua gotica ci è nota
soprattutto grazie alla traduzione della Bibbia nel IV sec. dal vescovo Ulfila. I termini goti entrati
nella lingua italiana sono meno di una settantina (astio, melma, bega, bronza, nastro, rebbio
ecc.)

- I longobardi, a differenza dei goti, non giunsero in Italia come rappresentanti dell’autorità
imperiale; la loro invasione, avvenuta nel 568, fu più brutale e violenta. L’invasione longobarda
ha dunque il carattere di una vera e propria frattura. Il loro dominio durò molto più a lungo, fino
alla venuta dei Franchi, nell’VIII sec. e lasciò una traccia persino nella denominazione di gran
parte dell’Italia settentrionale, chiamata Lombardia. Questo termine è di denominazione
bizantina: designava originariamente tutto il territorio occupato a questo popolo, in
contrapposizione alla Romània , la terra dei romani governata dai Bizantini. Le parole
longobarde entrate nell’italiano sono oltre 200 (guancia, stinco, nocca, stamberga, panca,
scaffale ecc.).

- L’insediamento dei franchi ebbe carattere diverso da quello dei goti e dei longobardi. Non si
trattò di una popolazione trasferitasi tutta quanta nella nuova sede, ma di un certo numero di
nobili con i loro fedeli, un’élite, che si insediò ai vertici del potere civile e militare. Quella gente
era in genere di stirpe franca, ma tra loro erano anche burgundi, bavari, alamanni. Una difficoltà
più grande, nel caso delle parole di cui si suppone la derivazione franca, è stabilire con certezza
che non si tratti di prestiti dell’antico francese, prestiti venuti in una fase successiva. Sono
probabilmente da considerare come francesismi i termini bosco, guanto, dardo, gonfalone,
usbergo, biondo. All’influsso franco, di tipo germanico, va collegato un influsso gallo-romanzo.
Infatti i nobili franchi che vennero in Italia dovevano essere bilingui, e il loro seguito non era
prevalentemente germanofono: non a caso le truppe di Carlo il Calvo, nell’842, risultano parlare
le “rustica romana lingua” , il francese antico. L’influenza d’oltralpe si fece sentire poi fortemente
nei sec. XI e XII, con la diffusione anche da noi della letteratura provenzale e di quella francese,
tanto che nel Duecento vi furono trovatori settentrionali che poetavano in lingua d’oc.

3. Quando nasce una lingua: il problema dei primi documenti


Nel passaggio dal latino alle lingue romanze, la trasformazione durò secoli e si svolse su piano
dell’oralità, in quanto il latino continuò a mantenere il ruolo di lingua della cultura e della scrittura.
Lo stesso latino, poi, cambiò per l’ignoranza degli scriventi, oltre che per nuove abitudini.
Si parla di latino medievale, come entità specifica a sé stante, diversa dal latino classico e dal
latino volgare. Vi fu una fase in cui la lingua volgare, proveniente dal latino volgare, esistette nei

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parlanti, ma non venne ancora utilizzata per scrivere. In questa fase non furono prodotti
documenti. Ad un certo punto, però, l'esistenza del volgare cominciò a farsi sentire, almeno in
maniera indiretta. La si avverte nel latino medievale, che lascia trapelare in modo a volte
evidentissimo i volgarismi, tanto che ci si accorgeva facilmente che chi scriveva quel latino in realtà
stava pensando in un'altra lingua.

Documento senese del 715 d.C: Breve de inquisitione

Si tratta di una verbalizzazione giudiziaria: il messo regio Gontrado viene inviato a Siena per
un'inchiesta, e stende un breve20 , un verbale . Nel breve trovano posto le deposizioni dei religiosi
interrogati. E' una situazione, questa dell'interrogatorio giudiziario con deposizione di testimoni,
che in seguito, in analoghe circostanze, darà luogo ad alcuni dei primo documenti volgare (Placiti
campani). Questo esempio di testo non va guardato come una serie di "errori", piuttosto come la
realizzazione di una serie di registri intermedi; è un latino che si ispira al volgare.

Il verbalizzatore resta fedele al suo latino notarile, che si presenta però molto libero rispetto la
norma grammaticale:

1. abolizione delle desinenze dell'accusativo in fecit presbitero uno infantulo, vespero, missa
cantare.

2. il numerale unuus usato ormai come articolo indeterminativo.

3. il lessico contiene parole nuove, tecnicismi giuridici o liturgici, come vespero, madodinos.
missa.

Giuramenti di Strasburgo

La caratteristica dei documenti antichi del volgare è comunque la casualità: sia nella loro
realizzazione sia nel loro ritrovamento. Sabatini, presentando il graffito di Commodilla, ha fatto
riferimento alla "rusticità" linguistica come elemento necessario per l'affermazione della coscienza
del volgare in quanto lingua autonoma, e ha invitato a tener conto anche della "disposizione
psicologica" da cui nascono i singoli documenti antichi del volgare. Se consideriamo i Giuramenti
di Strasburgo, primo documento della lingua francese, non possiamo avere dubbi sull'intenzionalità
di chi ha introdotto il volgare.

La situazione è, infatti, ufficiale e non lascia spazio a equivoci. Nella Storia dei figli di Ludovico il
Pio di Nitardo, scritta in latino, si legge che il 14 febbraio dell'842 Ludovico il Germanico e Carlo il
Calvo, di fronte ai loro eserciti, giurarono alleanza contro il fratello Lotario. Ludovico il Germanico
era sovrano di un territorio di lingua tedesca e Carlo era sovrano di un territorio galloromanzo.

20 Nel medioevo era un documento probativo redatto da un notaio per conservare il ricordo di un negozio
giuridico. Rimase nella curia pontificia per indicare una dichiarazione o decisone papale.
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Ognuno dei due giurò nella lingua dell'altro21. Lo storico Nitardo ci ha trasmesso le formule dei
giuramenti: il giuramento di Ludovico è il più antico documento del francese. L'intenzionalità
nell'uso del volgare è in questo caso evidente, perché è legata ad una situazione pubblica e
ufficiale come un patto di alleanza tra due sovrani.

Indovinello veronese
Uno dei problemi che si devono affrontare esaminando gli antichi documenti volgari, abbiamo
detto, è la loro intenzionalità, la quale sola può farci capire se ci troviamo di fronte ad un vero testo
della nuova lingua. A volte non è facile fissare una separazione tra il latino e il volgare, soprattutto
quando il latino è modellato sul volgare stesso. A questo proposito l'esame dell'Indovinello
veronese ci può aiutare a comprendere questo problema. E' un codice scritto in Spagna all'inizio
dell'VIII sec. e approdato già in epoca antica a Verona, reca nel margine superiore di un foglio due
note in scrittura corsiva, risalenti all'VIII sec. o all'inizio del IX.

La seconda di queste noticine è in latino corretto:

1. + gratias tibi amigus omnip(oten)s sempieterne d(eu)s

La prima, invece, si presente in forma diversa:

2. + se pareba boves alba pratalia araba & albo versorio teneba & negro semen seminaba

La notizia delle postille fu data nel 1924. Vincenzo De Bartholomaeis, filologo e storico della
letteratura, risolse il problema interpretativo grazie all'aiuto imprevisto di un'allieva del primo anno
dei suoi corsi, la quale si ricordò di un indovinello popolare che aveva una grande somiglianza con
quello che allora veniva chiamato "Ritmo di Verona". Il Ritmo era in realtà un indovinello che
alludeva all'atto di scrivere.

Si riscontrano diversi problemi perché non era chiaro il senso di tutte le parole:

A. se pareba interpretato come "spingeva innanzi" (in Veneto "parere per "spingere avanti" i buoi
aggiogati), interpretato anche come "somigliava" o "appariva" e persino leggendolo tutto unito
separeba come “appaiava”.

B. L'interpretazione del verbo se pareba condiziona la scelta del soggetto sottinteso dei quattro
verbi della frase; sono stati proposti i seguenti soggetti: " la mano", "le dita", "la penna" e "lo
scrittore". Il più probabile di questi è lo scrittore, il quale verrebbe paragonato a un aratore che
spinge avanti i buoi arando campi bianchi (il foglio), reggendo un aratro bianco (la penna d'oca)
e seminando un seme nero ( l’inchiostro).

21 Carlo il Calvo giurò in protogermanico; Ludovico il Germanico in protofrancese.


48
C. versor nel senso di aratro è tipico di molti dialetti settentrionali.

Il problema fondamentale è stabilire quale fosse la coscienza linguistica dello scrivente, anche
tenendo conto del fatto che l'indovinello si presenta appaiato a una postilla scritta in buon latino:
ciò sembrerebbe testimoniare che la postilla "volgare" si discosta appositamente dal codice
linguistico della prima annotazione. Non è provato che la mano che ha vergato le due postille sia la
medesima, anzi autori e interpreti lo escludono.

La postilla è stata giudicata variamente come: "italiano volgare", come "semi volgare", e come vero
e proprio "latino", seppur scorretto. E' comunque giusto prendere atto dei volgarismi: se invece di
sibi, pareba invece di paraba, negro invece di nigro. Una parola come versorio è volgare nel
significato, ma latina nella forma.
Per questo non si può attribuire assegnazione di ‘primo documento della lingua italiana’,
nonostante esso sia più antico dei Giuramenti.

4. I glossari
Nel 1963 è stato pubblicato il cosiddetto Glossario di Monza risalente, forse, ai primi decenni del X
sec. E' un glossarietto bilingue romanzo-romanico (greco bizantino) conservato nell'ultima carta di
un codice della Biblioteca Capitolare di Monza. Si tratta di un elenco di poco più di sessanta lemmi
in cui, accanto alla voce latino-romanza, viene data la voce greco bizantina, secondo questo
modello:

de capo: cefali

colo: trahilos

gula: garufas

marti: triti

mercor: tetras22

La lettura delle parole contenute nella colonna di sinistra spiega la definizione di "romanzo" che
abbiamo usato per questo tipo di rustica romana lingua, che non si identifica nel latino, ma molto
spesso si avvicina alle forme del dialetto dell'Italia settentrionale. Si noti che lo scrivente non ha
affiancato al termine al termine latino-romanzo una parola volgare, né ha voluto affiancare al
termine volgare una parola latina: il suo interesse andava all'equivalente greco, paragonato con
termini che dovevano riuscirgli familiari, termini a mezza strada tra il latino e la lingua parlata.
Anche qui ci avviciniamo al concetto di "registro intermedio".

Non potremo dunque considerare il Glossario di Monza come uno dei primi documenti del volgare
italiano, ma è ben ricordare la sua esistenza per individuare quello che si può definire un vero e

22 Successione non originale.


49
proprio filone, costituito dalle glosse bilingui, che accostano una parola nota ad una meno nota, la
quale necessita una spiegazione.

Nello stesso Editto di Rotari, la prima stesura delle leggi scritte longobarde, si trova la spiegazione
di certi termini mediante sinonimi popolari :"... novercam suam, idest matrinia...". Possiamo
ricordare l'esistenza del Glossario di Reichenau, redatto nella Francia settentrionale probabilmente
alla fine del XIII, che cerca di spiegare con perifrasi o con parole più popolari determinate
espressioni della Vulgata. Il termine galea ad esempio, che è del latino classico, viene spiegato
con belmus che ha ugualmente forma latina, ma è termine germanico entrato nelle lingue romanze
d'Occidente. Non si può dire che queste glosse siano state scritte in francese, ma certo sono
scritte in un latino meno dotto, in uso nella Francia settentrionale a quell'epoca e quindi
contengono elementi che si ritroveranno più tardi nella lingua francese.

5. Il graffito della catacomba di Comodilla

Caso curioso è quello dell'iscrizione della catacomba romana di Comodilla, la quale è un anonimo
graffito tracciato sul muro. L'interesse del graffito della Catacomba di Comodilla deriva dal fatto
che si tratta di un'antica testimonianza la quale, benché sembri a prima vista conservare un
aspetto latineggiante, vistosamente rivela il suo reale carattere di registrazione del "parlato".

L'analisi di un documento del genere ha dovuto affrontare una serie di difficili problemi, a
cominciare dall'esatta datazione. Il graffito, infatti, in quanto messaggio occasionale, non porta
alcuna indicazione cronologica. L'iscrizione si trova in una cappella sotterranea della catacomba
romana di Commodilla, la cripta dei santi Felice e Adàutto, la cui scoperta avvenne nel 1720.
Subito dopo una frana rese impossibile l'accesso al locale, e nessuno entrò più nella catacomba
fino all'inizio del 900 (1903). Secondo gli archeologi la cappella fu usata come luogo di culto fino al
IX sec., allorché i corpi dei due santi vennero traslati altrove. E' logico pensare che l'iscrizione,
vigorosamente incisa nello stucco della cornice di un affresco che risale al VI-VII sec., sia stata
fatta prima che la cappella fosse abbandonata. Abbiamo dunque due indicazioni cronologiche, un
termine ante quem e un termine post quem. Siamo ben prima del Placito Capuano del 960,
tradizionalmente indicato come il più antico documento del volgare italiano.

50
“NON DIRE (que) I SEGRETI A VOCE ALTA”.

L'interpretazione ci riporta ad un ambiente religioso in cui non ci si riferisce affatto a dei segreti
qualunque, ma a qualche cosa di molto tecnico e preciso: le orazioni segrete della messa.
L'iscrizione è da attribuire a un religioso, forse un prete che celebrava il rito sacro nella catacomba,
il quale voleva invitare i suoi colleghi a recitare a voce bassa il Canone della messa, secondo un
uso documentato a partire dal sec. VIII, e poi in misura maggiore in età carolingia.

Anche questa indicazione cronologica concorda dunque con le precedenti, e anzi restringe la
fascia cronologica già individuata. Inoltre i paleografi hanno osservato nel graffito la coesistenza di
caratteri capitali romani (MAIUSCOLE) e di lettere onciali:

I. caratteristici dell'onciale sono, ad esempio, i trattini ornamentali della L nella quarta riga. La
scrittura onciale, tipica della cultura romana cristiana, fu adoperata largamente in tutto
l'occidente latino dal IV al VIII-IX sec., cioè per tutto l'altro medioevo sino alla cosiddetta
rinascenza carolingia.

II. Dal punto di vista linguistico, il tratto più notevole si riscontra a partire dall'osservazione della
particolare grafia di A BBOCE, la seconda B, più piccola, è stata aggiunta successivamente nel
poco spazio rimasto. Tale grafia rende in maniera fedele la pronuncia con betacismo
(passaggio di V a B lat. Vocem > Boce) e raddoppiamento fonosintattico.

III. NON DICERE: sembra latino ma è compatibile con il volgare; forma di proibitivo espressa con
NON + infinito. Si trova in italiano, nei suoi dialetti e in altre lingue romanze. A Roma, per tutto il
medioevo, è la forma normale in volgare: es. dicerao = dirò.

IV. ILLE SECRITA grafia di /i/ per /é/ da E lunga latina; mancanza di sonorizzazione in secreta,
normale nel romanesco antico, ille ha qui funzione di articoloide (il latino non aveva articoli).

V. Inizialmente chi ha scritto il testo ha utilizzato una sola B per BOCE, l'altra è stata inserita
dopo. Per quale motivo? Nella scrittura (specialmente scrivendo con la lentezza richiesta
dall'incisione su un graffito) un fenomeno fonosintattico può sfuggire. Rileggendo, però, l'autore
dell'incisione, o qualcun altro per lui, si accorse che il testo non rendeva appieno il dettato
orale, e allora inserì la seconda B, un "volgarismo a tutto tondo”.

VI. A BBOCE: scritto in due tempi (lat cl. AD VOCEM), evidenzia il fenomeno del betacismo,
ovvero passaggio da -DV- a -bb- (Appendix Probi : baculus non vaclus). A BBOCE è un
esempio di raddoppiamento fonosintattico, in questo caso di tipo regressivo.

51
6. L’iscrizione della basilica romana di San Clemente

Anch’essa come la catacomba di Commodilla è romana e presenta natura murale. Tuttavia,


mentre il graffito della catacomba è frutto di una certa casualità, l'iscrizione della basilica di S.
Clemente rientra in un progetto grafico ben più complesso: si tratta di un affresco in cui parole in
latino e in volgare sono state dipinte fin dall'inizio accanto ai personaggi rappresentati, per
identificarli e per mostrare il loro ruolo nella storia narrata.

Il dipinto fu riportato alla luce nel 1861. Esso narra una storia miracolosa: il patrizio romano
Sisinnio, il quale ha ordinato ai suoi servi di catturare Clemente; i servi sono stati pronti ad
obbedire, ma si illudono di aver legato il sant'uomo; in realtà trascinano con grande fatica e scarso
successo una pesante colonna. Oltre a Sisinnio (posto sulla destra rispetto all'osservatore) sono
rappresentati i 3 servi, Albertello, Carboncello e Gosmari, che trascinano la colonna mezza
sollevata; il servo sulla sinistra solleva la colonna con un palo, gli altri due tirano facendo forza con
una corda. Il pittore ha aggiunto una serie di parole che hanno funzione di didascalia, o che
indicano le frasi pronunciate dai personaggi raffiugrati: queste frasi sono in un volgare vivace e
popolarescamente espressivo.

Problema di datazione: si sa che il muro di sostegno su cui è stato dipinto l'affresco risale al
restauro della basilica realizzato dopo il 1084. Si sa anche che la nuova basilica di San Clemente è
costruita sopra la chiesa più antica, che fu consacrata nel 1128. L'affresco si colloca dunque tra
queste due date, ma pare che sia stato dipinto negli anni immediatamente successivi alla
costruzione del muro, cioè alla fine del sec. XI.

A B C D E F;G

52
A: FALITE23 DERETO24/CO LO PALO/ CARVON/ CELLE Latino (B e C) e volgare ( A, D, G)
coesistono. Il latino è dunque adottato nelle
B: D/U/R/I/TIAM25 COR/DIS/V(EST)RIS26 parti più "elevate" del testo, per indicare
l'intenzione di chi ha fatto dipingere
C: S/A/X/ATRAERE/MEURI/S/TIS l'affresco o per esprimere il giudizio morale
sull'accaduto.
D: AKBERTEI/TRAI(TE)
A: “agliti dietro con il palo, Carboncello" cioè
"fai a lui tu dietro, spingilo dietro con il palo”.
E: GOS/MARI
B,C: “per la durezza dei vostri cuori, avete
F: SINSIN/IUM meritato di trascinare delle pietre”
G: “Figli di puttana, tirate" discende fino al
G: FILI/DELE/P/U/T/E/TRA/I/TE. turpiloquio.

Lo stato attuale di conservazione di questa preziosa testimonianza di volgare romanesco del sec.
XI è pessimo. Merita fiducia un acquerello pubblicato da Joseph Wilpert, che è stato utilizzato dagli
studiosi per l'esatta trascrizione del testo.

DICITURA D
Alcuni leggono il plurale tràite, altri per contro trai, singolare. La lettura di queste due alternative
condiziona l'attribuzione della battuta, collegandosi allo spinoso problema del nesso tra le parole in
volgare e i personaggi in scena. Ci sono varie interpretazioni:

a) alcuni ritengono che tutte le battute in volgare siano pronunciate da Sisinnio; in questo caso i
nomi di Albertello e Gosmari non sarebbero semplici didascalie per identificare il personaggio
dipinto, ma farebbero parte della battuta. La lettura andrebbe da destra a sinistra. Sisinnio
parla e dice: “Fili de le pute, tràite! Gosmari, Albertel, tràite! Fàlite dereto colo palo,
Carvoncelle!"

b) Altri ritengono che Sisinnio pronunci solo la battuta "ili de la pute, tràite" e che il resto sia detto
dai servi; ma vi è dissenso tra gli studiosi sull'attribuzione di queste o quelle parole a questo o
quel servo.

Sono state prese in considerazione tutte le combinazioni possibili. Altro problema è che non è
stabilito in maniera chiara dove debbano stare le parole rispetto al personaggio che le pronuncia.
Si osservi come la didascalia A sia stata dipinta presso Carboncello, che sicuramente non la

23 Successione dei pronomi in fàlite dal lat. FAC (IL) LI TE.

24Dietrodal lat. DE RETRO, la caduta della seconda R (nell'italiano dietro cade invece la prima) e il mancato
dittongamento della tonica.

25 L'accusativo duritiam ha il valore di un ablativo casuale.

26 Vestris è errato rispetto alla "norma" grammaticale latina.

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pronuncia. La posizione si giustifica con l'ottica inversa rispetto a quella del moderno fumetto: la
didascalia sta lì perché si riferisce a quel personaggio. La didascalia G, invece, adottando un altro
criterio, è stata posta dal pittore accanto a Sisinnio, cioè accanto al personaggio che pronuncia la
battuta.

Resta pur sempre il fondamentale contrasto tra il latino "nobile" e il volgare plebeo, un
atteggiamento consciamente ispirato ad una volontà stilistica.
Per quanto riguarda la lingua, si osserva il passaggio da rb a rv in Carvoncelle, passaggio attestato
nel romanesco antico tipo varva per barba, oggi non è più presente a Roma ma caratteristico
dell'Italia meridionale, attestato nella Cronica dell'anonimo innamorato.

7. L'atto di nascita dell'italiano: il Placito Capuano del 960

Tra il graffito e l'iscrizione dipinta intercorrono più di due secoli. In mezzo si colloca il Placito
Capuano, che gode il privilegio di essere comunemente considerato l'atto di nascita della nostra
lingua, anche perché si tratta di un documento ufficiale , in quanto verbale di un processo: proprio
in riferimento alla data di questo testo, il 960, si è celebrato nel 1960 il "millenario" della lingua
italiana e Bruno Migliorini volle pubblicare la sua Storia della lingua italiana.

Già nel 1734 il benedettino, padre Gàttola, aveva messo in evidenza il carattere volgare della
formula ricorrente nel documento, testimonianza di quella che gli sembrava una barbarica lingua
italiana. Solamente nel ‘900 è stato studiato nella maniera che merita e ha avuto il posto d’onore
tra gli antichi testi notarili della nostra lingua.

Nel Placito27, a differenza che nell'indovinello veronese, non vi può essere dubbio sulla chiara e
cosciente separazione tra latino e volgare. Chi lo ha scritto si è reso conto di utilizzare due lingue
diverse: il latino notarile e il volgare parlato, quindi vi è una cosciente distinzione tra i due codici
linguistici, impiegati nello stesso testo con scopi e funzioni differenti28 . Differentemente dai
Giuramenti, il Placito riguarda una situazione locale proveniente dalla cancelleria giudiziaria del
principato di Benevento e Capua.

Il Placito è stato scritto su un foglio di pergamena, relativo a una causa discussa di fronte al
giudice capuano Arechisi. Al suo cospetto si erano presentati l'abate del monastero di
Montecassino e un tal Rodelgrimo di Aguino. Rodelgrimo rivendicava in lite giudiziaria il possesso
di certe terre, a suo giudizio abusivamente occupate dal monastero. L'abate di Montecassino
invocava il diritto che oggi definiamo di usucapione, affermando che quelle terre erano utilizzate

27 Con placito si intende il parere di un giudice relativo ad una lite, una questione da dirimere in sede legale.

28 Questa consapevolezza in Italia arriva in ritardo, solo nei Giuramenti francesi la riscontriamo.
54
dal monastero ormai da 30 anni, ciò che per la legge longobarda costituiva titolo per il possesso
definitivo. Nel giorno prestabilito si presentarono tre testimoni di fronte al giudice, recitarono uno
alla volta una formula testimoniale con la quale davano ragione alla tesi dell'abate. Fu redatto un
verbale dal notaio Atenolfo.

Fu redatto un verbale. La verbalizzazione in latino, per motivi non chiari, arrivò in quell'occasione a
includere vere e proprie formule testimoniali volgari: non scritte in un latino che assume
andamento volgare, ma in volgare autonomo, in una lingua nuova che contrasta con il testo latino
del documento. Tali formule ricorrono ben 4 volte. La prima volta la formula "valida" viene fissata
dal giudice, prima della convocazione dei testimoni. Successivamente ogni testimone si presenta
di fronte al giudice e recita la formula, sempre uguale.
Testimoni:
-Mari, chierico e monaco
-Teodomondo, diacono e monaco
-Gariperto, chierico e notaio.

"Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte s(an)c(t)i
Benedicti"29 .

Il contrasto tra italiano e latino è netto, anche se si tratta di un latino che risponde ai caratteri propri
dell’uso notarile, con le tipiche sgrammaticature. La formula viene ripetuta sempre identica, dopo
essere stata fissata dal giudice nella precedente udienza. Non è quindi in tutto e per tutto un
frammento "naturale" di lingua parlata, ma è una formula già assoggettata a una certa
formalizzazione. La scelta di scrivere in volgare, piuttosto che in latino, era un modo per rivolgersi
a un pubblico diverso, più vasto ed estraneo alla causa.

Caratteristiche:
• Il K diffuso nelle scritture latine, legato al greco e quindi diffuso al sud. Viene utilizzato persino da
Boccaccio nel Decameron; karissime donne. Nella formula sono presenti latinismi, come il nesso
-ct- in Sancti Benedicti.

KO < QUO(D) Si evolvono dai suoi del latino perché il


suono U davanti ad una vocale diversa da
KELLE < (EC)CU(M) ILLAE
A, diventa un’occlusiva velare sorda>K.
KI < KUI < (EC) CU(M) HIC (vocale lunga quindi si mantiene tale) Quindi la U scompare e si arriva a
KELLE, diverso dal toscano quelle. Cosi
come KI è diverso dal qui toscano.

29 “So che quelle terre, entro quei confini, che qui si descrivono, 30 anni le ho tenute in possesso,
l’amministrazione patrimoniale di S. Benedetto”.
55
• Sao modernamente al sud sarebbe saccio<SAPIO lat. Si è ipotizzato che SAO sia in realtà un
fossile linguistico, elemento non estraneo alle antiche parlate, campane, forse comune sia
all'Italia settentrionale sia a quella meridionale. Comunque è una forma che sopravvive ma poi
esce dall'uso. Perché? Ha una giustificazione linguistica: al sud troviamo forme come sto>sto,
stas>stai, sas>sai. Sulla base di questo si è formato SAI<SAS e quindi SAO>SO. Il fenomeno è
dovuto alla sibilante che palatalizza la a al grado estremo (cosi come da NOS>NOI). Le forme
verbali doppie sono normali nelle parlate antiche: so/sappo, ho/abbo (fiorentino), sao/ faccio
(campano).
• Fini: usato al femminile rimanda alla definizione che si aveva di confine in campo rustico.
• Contene: va letta sonorizzando la dentale sorda -T- >D. Questo tipo di pronuncia 30 anni fa era
normale; se avessero posto direttamente la dentale sonora, avrebbero pronunciato la parola con
la nasale (es. monno ‘mondo’) quindi con assimilazione progressiva.
• Le: costrutto prolettico con ripresa pronominale (riferito a terre) si collegano due elementi a
distanza, tratto tipico del parlato.
• Possette: < * POSSEDUTI ( influsso di stette < *STETUIT)
• Parte: si collega a pars+gentivo usato senza preposizione (es. Piazza San Giovanni). Indica la
controparte, uso che troviamo anche in francese, che rimanda ad una formalità giuridica.

La formula del Placito Capuano del 960 non è isolata; si colloca nella serie di quelli che si è soliti
definire i Placiti Campani, con riferimento alla regione di provenienza della Campania:

1. Placito di sessa Aurunca, marzo 963 : “Sao cco kelle terre, p(er) kelle fini que tebe monstrai,
P(er)goaldi foro, que ki contene, et trenta anni le possette"

2. Memoratorium di teano, luglio 963 : “Kella terra, p(er) kelle fini q(ue) bobe monstrai, S(an)c(t)e
Marie è, et trenta anni le posset parte S(an)c(t)e Marie”.

3. Placito di Teano, ottobre 963: “Sao cco kelle terre, p(er) kelle fini que tebe monstrai, trenta
anni le possette parte S(an)c(t)e marie”.

4. Chronicom vulturnese (XI sec.): “Scio quia ille terre per illos fines et mensuras quas tibi
monstravi XXX annos possedit pers Sancti Vincercii”.

8. Il filone notarile-giudiziario
8.1 Il volgare nei documenti notarili
I notai erano la categoria sociale che aveva più frequentemente occasione di usare la scrittura ed
erano impegnati in un lavoro di transcodificazione dalla lingua quotidiana alla formalizzazione
giuridica del latino. Proprio gli appartenenti a questa categoria furono i primi a lasciare spazio, più
o meno volontariamente, al volgare, che per distrazione o ignoranza finiva per affiorare anche nel

56
loro modesto latino. Lo storico della lingua non può collocare i primi documenti dell’italiano, le
infiltrazioni di volgare in testi che aspirano ad essere latini, cioè che, nell'intenzione dello
scrivente, hanno abito latino. Occorre una reale intenzionalità nello scrivente, nell’uso della nuova
lingua, verificabile attraverso il confronto diretto tra i due codici linguistici diversi e contrastanti. I
documenti presi in esame da questo momento si caratterizzano per una sicura presenza di
elementi volgari, coesistenti in vario modo con la scrittura latina.

8.2. La postilla amiatina

Per postilla si intende una forma di testo aggiunto al rogito vero e proprio. Il notaio medievale
ebbe spesso l'abitudine di inserire nelle scritture della sua professione testi diversi, con una certa
libertà e fantasia: come i memoriali bolognesi. Altre volte il notaio aggiungeva commenti o
osservazioni personali. E' quanto accade nella cosiddetta Postilla amiatina 8. Nel gennaio del
1087 due coniugi donarono i loro beni all'abbazia di San Salvatore di Montamiata. Il notaio
estensore dell'atto in lingua latina aggiunse alla fine la seguente postilla:

“ista car/tula) est de caput coctu ille adiuvet de ill rebottu q(ui) mal co(n) siliu li mise in
corpu”.

Non è facile spiegare il significato della frase30 . Nel 1909 Pier Silverio Leicht suppose che caput
coctu fosse il soprannome di uno dei due donatori (oggi avremmo detto "testadura" o "capotosto")
e immaginò che il commento del notaio fosse da attribuire al fatto che Capocotto aveva dilapidato
le sue sostanze in rebottu, in una ribotta o crapula31 .

Il commento del notaio si riferirebbe a fatti precedenti, a noi ignoti, all'origine dell'atto di
donazione. Si può notare , inoltre, che la postila ha un andamento ritmico. Dal punto di vista
linguistico: vi è la presenza delle u finali al posto delle o in: coctu, rebottu, consiliu, corpu. Si tratta
di una caratteristica tutt'ora presente nel territorio del monte Amiata.

8.3 La Carta osimana


La carta osimana del 1151 è anch'essa un documento notarile, il volgare affiora all'interno del vero
e proprio testo latino. Si tratta del latino "lamentevole" (def. Castellani) con il quale è stato steso il
rogito mediante il quale Grimaldo vescovo di Osimo dona a Bernardo, abate di Chiaravalle di
Fiastra, la chiesa di Santa Maria in Selva presso Macerata.

30Iversi significherebbero: "questa carta è di Capocotto: essa lo aiuti da quel ribaldo che tal consiglio gli
mise in corpo".

31 In realtà ribotta è parola recente, del sec. XIX; rebottu va invece connesso con il francese ribaut “ribaldo”.
Più di recente è stata avanzata l'opinione che rebottu alluda al Maligno, al Diavolo. In questo caso
l'interpretazione cambia in: "Egli (Iddio) lo aiuti dal Maligno che gli mise in corpo il cattivo consiglio”.

57
Il documento, scritto a Osimo, è conservato a Roma, nell'Archivio di Stato. L'affiorare del volgare
avviene qui senza apparente motivazione, se non quella di uno slittamento nel codice di
comunicazione più spontaneo e familiare. Campione di slittamento:

...Bernardu abbas de monesterio de beata Santa Maria de Claravalle v(e)l a meisq(ue)


sucesorib(us) da mo (n)na(n)ti i(n) p(er)petuu(m)...

Il volgarismo è da mo nnati, "d'ota in avanti”. Mo’, usato al posto di ora, predomina ancora oggi
nell'Italia meridionale, in contrapposizione al toscano ora e al settentrionale adesso: questa risulta
essere la più antica attestazione del volgare mo'.

8.4. La Carta fabrianense e la Carta picena


L'area marchigiana si affaccia sulla scena del nascente italiano in maniera abbastanza vistosa: di
qui provengono altre due carte notarili, la Carta fabrianense del 1186 e la Carta picena del 1193.
La Carta fabrianense del 1186, la cui conoscenza risale al nostro secolo, è una pergamena che si
conserva nell'archivio comunale di Fabriano: si tratta di un atto originale con cui un nobile accorda
con il monastero di San Vittore delle Chiuse circa la ripartizione dei frutti di un loro consorzio, una
serie di possedimenti di cui sono dati i confini e alcune indicazioni di toponimi, tra i quali Castellani
ha identificato Colcinlu, Colcello. Anche in questo caso il documento alterna latino e volgare,
scivolando dall'uno all'altro codice.
La Carta picena, del 1193, fa parte del fondo dell'abazia di Chiarvalle di Fiastra conservato a
Roma. Si tratta di un rogito per una vendita di terre, che contiene però una parte in volgare, la
quale rende chiaro come la terra ceduta fosse in realtà un pegno per garantire la restituzione di un
prestito. E' stata avanzata l'ipotesi che il notaio abbia inserito nell'atto una nota non ufficiale
relativa alla convenzione ufficiosamente stipulata tra le due parti; ciò spiegherebbe, come mai
quella scritto fosse in volgare.

8.5. Le Testimonianze di Travale


Al gruppo delle carte giudiziarie appartengono due pergamene del 1158 conservate nell'Archivio
vescovile di Volterra. Nella seconda parte di una di queste pergamene, tal giudice Balduino ha
raccolto le testimonianze di sei "boni homines" di Travale (località in provincia di Grosseto) a
proposito dell'appartenenza di certi casali; proprio nella sintesi di quanto hanno detto i testimoni
affiora il volgare, nel bel mezzo del testo latino, specialmente là dove vengono riportate in maniera
più fedele le parole di alcuni dei "boni Homines", in forma di vera e propria citazione. Ricorrono
alcune frasi di senso compiuto: "De presi pane e vino p(er) li maccioni [secondo Castellani
parola germanica] a T(r)avale”32.

32 “Io presi di là pane e vino per i muratori a Travale”.


58
Il sesto testimone racconta di un certo Manfredo, che dovendo fare la guardia alla mura di
Travale, si comportò così: "SERO ASCENDIT MURUM ET DIXIT: Guaita, guaita male; non
mangiai ma mezo pane. ET OB ID REMISSUM FUIT SIBI SERVITIUM, ET AMPLIUS no(n) tornò
mai a far guaita33”.

Come si vede, latino e volgare si alternano senza una ragione apparente, ma il volgare è preferito
là dove viene introdotto l'aneddoto.

8.6. La Dichiarazione di Paxia

Tra le carte notarili si colloca un documento di provenienza completamente diversa, l'unico che ci
riconduca al settentrione d'Italia, alla Liguria. La Dichiarazione di Paxia è databile tra il 1178 e il
1182, conservata nell'Archivio di Stato di Savona. Una vedova, tale Paxia, dichiara la consistenza
dei beni del defunto marito e dei debiti che le restano da pagare. Il testi inizia in latino, poi scivola
nel volgare: è interessante per l'elenco di una serie di arredi domenstici, oggetti, vestiti. La x34 del
nome Paxia ha valore di fricativa palatale sonora (come nella j del francese journal o nella g della
pronuncia toscana di stagione). Il nome della donna potrebbe essere modernamente trascritto
come Pagia.

8.7. Documenti sardi

La Sardegna ha una specificità linguistica tale da renderla dal punto di vista glottologico una zona
autonoma. Dall'isola provengono diversi documenti risalenti al sec. XI e XII, con un'abbondanza
tale da stupire; nell'isola il latino era scarsamente conosciuto e ciò avrebbe reso inevitabile la
redazione in volgare dei documenti.

Il più antico dei testi sardi volgari è la carta del giudice Torchitorio del 1070-1080 conservata
nell'Archivio Arcivescovile di Cagliari, trasmesso però non in originale, ma da una tarda copia del
quattrocento.

Databile tra il 1080 e il 1085 è un privilegio emesso da un giudice di Torres Mariano di Laconi, a
favore di mercanti pisani, su richiesta del vescovo di Pisa, conservato nell'Archivio di Stato di
Pisa. Qui il volgare segue un breve e consueto incipit latino:
"In nomine D(o)m(ini) [am(en)]. Ego iudice Mariano de Lacon faço usta(m) carta ad onore de
om(ne)s homines de Pisas p(ro).ssu toloneu ufficio e banco dei gabellieri ci mipecterunt”35.

33“La sera salì sulle mure e disse: la guardia, fa male la guardia, perché non mangiai mai altro che mezzo
pane. E a causa di ciò gli fu condonato il servizio, e in seguito non tornò più a far la guardia”.

34 Tale x ricorre in diverse parole della Dichiarazione, come camixoto "camiciotto" e pixon "pigione".

35 “In nome di Dio amen. Io giudice Mariano di laconi faccio questa carta in onore di tutti i cittadini di Pisa per
il dazio [o meglio per l'esenzione dal dazio] che mi chiesero”.
59
In questa scrittura non mancano i latinismi, specialmente grafici, come l'h di hominis (ma non c'è
l'h in onore) e pecterunt è addirittura un ipercorrettismo in cui il nesso latino ct viene introdotto in
petterunt ( da PETERE “chiedere”).
Osserva Roncaglia che sarebbe sbagliato scambiare per latinismi gli elementi che sembrano tali,
ma sono in realtà tratti tipici del volgare logudorese, come: la conservazione delle consonanti -t
ed -s finali in pecterunt, omnes homines de Pisas.
Si noti che ssu (la grafia originale del ms. è xu) è l'articolo sardo su ,nella grafia moderna, da
IPSU(M) lat.

I caratteri del volgare sardo, sono molto diversi da quelli dei volgari italiani veri e proprio, ma il
legame tra l'isola e il continente è confermato anche dal soggetto di questa carta. I documenti
antichi dell'area sarda sono molti, sia in forma di fogli sciolti, sia in forma di condaghi (dal greco
medievale KONTAKION, usato per indicare il bastone si cui si avvolgevano le pergamene, ma il cui
significato era anche quello di breve o memoratorium): i condaghi erano inizialmente degli atti di
donazione a favore di chiese o monasteri, ma poi il termine passò ad indicare l'apposito registro in
cui questi atti venivano trascritti. Si conservano diversi condaghi del XII e XIII sec.

9. Il filone religioso nei primi documenti dell’italiano


Nel 1880 in un codice della biblioteca Vallicelliana di Roma, fu scoperta la Formula di confessione
umbra, non è né un graffito né dipinto sull'intonaco dei muri. Questo codice, contenente svariati
opuscoli, proveniva dal monastero di Sant'Eutizio presso Norcia. La data del documento umbro
può essere fissata tra il 1037 e il 1080, con una preferenza per il periodo più recente. Il testo è una
vera e propria formula di confessione che il fedele poteva leggere o recitare. E' interessante
osservare che Norcia, luogo di provenienza del testo, si trova nella zona metafonetica dell'Umbria:
e il documento mostra la presenza della metafonesi:
1. Dibbi < DEBUI.
2. nui < NOI < NOS
3. puseru < * POSERUNT
4. prisu < * PRESUM < PREHENSUM
5. Si conservano anche le -u finali da -UM e -UNT latini: battismu, puseru, meu ecc.

I Sermoni Subalpini sono una raccolta di prediche in volgare piemontese. L'importanza del
documento è grandissima, in quanto si tratta di una delle prime raccolte di prediche conosciute in
una lingua neolatina. Inoltre non si tratta di testo brevi o brevissimi ma di un corpus di 22 testi
ampi. Il manoscritto si conserva in un codice pergamenaceo della Biblioteca Nazionale di Torino.
La datazione dei Sermoni può essere collocata a cavallo tra il sec. XII e il XIII. I testi alternano parti
in latino al corpo vero del discorso che è in volgare locale, caratterizzato anche da esiti del

60
piemontese moderno: passaggio di a tonica ad e negli infiniti della prima coniugazione: doner
"donare", intrer “entrare"ecc. Richiama il francese la conservazione della -s finale per indicare il
plurale: veels "vitelli", lairuns "ladroni".

10. Documenti pisani


La Carta pisana si può collocare tra la metà del sec. XI e la metà del sec. XII. Questa ha avuto una
vicenda fortunosa: l'antico documento, ridotto al rango della nostra carta straccia, già nel XII fu
tagliato e parzialmente cancellato e riscritto , ed in seguito fu utilizzato per la costruzione della
rilegatura di un nuovo codice, fatto non insolito nel Medioevo. Ancora nelle legature del
Cinquecento è dato trovare rinforzi, incollati sul dorso, ricavati da pergamene medievali e ridotte in
lacerti ancora leggibili. Si noti che la scoperta della carta in questione non è avvenuta in Europa,
ma in America, perché il codice è oggi di proprietà della Free Library di Philadelphia.

Si tratta di un elenco di spese navali o più precisamente di un riepilogo delle spese sostenute per
l'armamento di una squadra navale. La localizzazione toscana e pisana del testo discende da
considerazioni di ordine linguistico. Caratteri tipicamente toscani:

- si riscontra il dittongamento di ie di E breve tonica in sillaba libera nella parola matieia, plurale di
* matieio < MATERIUM, it. moderno madiere, termine tecnico che indica un particolare pezzo di
legno conficcato nella carena della nave.

- esito in i del nesso latino -RJ- ad es. nel termine mannaia.


Propria dell'antico pisano è:

- conservazione di au davanti a l, nel testo abbiamo taule “tavole"


- matieia è un particolare tecnicismo.
Ancora a Pisa ci riporta un documento più tardo, ma pure sempre anteriore alla soglia del sec. XIII
edito e decritto da A. Stussi: si tratta di una iscrizione su di un sarcofago del Camposanto,
un'epigrafe che si inquadra nel ben noto tema del morto che parla al vivo. Si legge sul sarcofago
marmoreo:

"+H(OM)O KE VAI P(ER) VIA PREGA D(EO) DELL'ANIMA MIA, SI COME TU SE' EGO FUI,
SICUS EGO SU(M) TU DEI ESSERE".

11. Primi documenti letterari

Un vero sviluppo della letteratura italiana si ebbe solamente nel sec. XIII, a partire dalla scuola
poetica alla corte di Federico II. Non mancano tuttavia, anche in precedenza, alcuni documenti che
hanno carattere poetico, o che si presentano in versi, seppure sempre in forma frammentaria o
occasionale. Il carattere ritmico, con presenza di rime, si riscontra a partire da un testo antico:
61
1. l'indovinello veronese, il quale fu interpretato inizialmente (a torto) come un "canto" di bifolchi.

2. La Postilla amiatina sembrava avere una forma metrica.

3. L'iscrizione di Ferrara fu considerata nel settecento un piccolo campione di antichissima


poesia.

In realtà la produzione italiana non avrebbe potuto vantare qualche cosa di così antico come la
francese Sequenza di Santa Eulalia, del sec. IX o di valore alto come la Chanson de Roland, il
primo vero capolavoro della letteratura in Francia del sec. XI. Alla prima metà del sec. XI risale il
Poema di Boezio in provenzale, e forse un po' più antico è il ritornello romanzo di una celebre Alba
bilingue.

Se cerchiamo componimenti poetici italiani nel sec. XI, restiamo a mani vuote. E' riscontrabile
qualcosa dalla seconda metà del XII sec., nella forma che viene comunemente chiamata "ritmo"36 .
Il ritmo è un nome generico che indica un componimento in versi delle origini: il nome allude al
fatto che la sua metrica si accosta alla versificazione rhythmica medievale.

Si trovano 4 versi volgari in una memoria latina esaltante le vittorie delle milizie di Belluno e di
Feltre su quelle di Treviso nel 1193 e 1196, trasmessa però da copie cinquecentesche. Si tratta del
Ritmo bellunese.

«De Castel d'Ard av li nost bona part.


I lo getà tut intro lo flum d'Ard.
Sex cavaler de Tarvis li pui fer.
Con sé dusé li nostre cavaler. »

Altri versi in volgare italiano risalenti al sec XII sono usciti dalla penna di autori non italiani, ma che
in Italia ebbero occasione di soggiornare. Il trovatore provenzale Rambaldo di Vaqueiras ha scritto
le “prime strofe regolari che ci sono prevenute nella nostra lingua" [Roncaglia] in un celebre
Contrasto tra un giullare che parla provenzale e una donna genovese. Suo è anche un altro
singolare componimento, il Discordo37 plurilingue in cui compaiono cinque idiomi diversi:
provenzale, italiano, francese, guascone e il gallego-portoghese.

Io son quel que ben non aio


Ni jamai non l'averò,
Ni per april ni per maio,
Si per ma donna non l'o;

36Si tratta di un componimento composto da giullari. Il ritmo è costituito di lasse monorime di versi marcati
da anisosillabismo e avvicinabili alla versificazione ritmica mediolatina.

37Testo strofico nel quale le strofe sono diverse l’una dall’altra per numero di versi, rime ecc. Il discordo
plurilingue però, in cui compaiono lingue diverse tra loro discordanti, ha in realtà la stessa struttura strofica
regolare.
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Nelle corti dell'Italia settentrionale, in questo periodo, si usa ascoltare poesia provenzale, non
italiana. Per trovare versi italiani dobbiamo scavalcare la soglia del sec. XIII. A questa data viene
fatto risalire il Ritmo Laurenziano che inizia: “Salva lo vescovo senato, lo melio c'umque sia nato”.
Alla fine del XII sec. o poco dopo, si collocano : il Ritmo cassiere e Ritmo su Sant'Alessio
(marchigiano).

Nel sec. XIII i tempi sono maturi, con un poeta del valore di S. Francesco e con la nascita di una
vera scuola poetica in Sicilia.
Recentemente due nuovi componimenti poetici sono venuti ad arricchire il panorama della
letteratura italiana delle origini (scoperta di A. Stussi). Si tratta di un ritrovamento di importanza
davvero eccezionale, che pone molti problemi. La collocazione cronologica di questi due testi
sembra essere analoga a quella del Ritmo su Sant'Alessio e del Ritmo Laurenziano: la fine del XII
secolo o poco oltre.
1. Il primo testo è una canzone di decasillabi.
2. Il secondo testo si compone di cinque endecasillabi.

Sono le più antiche testimonianze di poesia lirica d'amore in volgare italiano, conservate sul verso
di una pergamena il cui recto contiene un contratto di vendita in latino, datato 1127. La pergamena
fu scritta e conservata a Ravenna. Le poesie di cui parliamo potrebbero essere di origine
settentrionale, ma potrebbero anche avere origine meridionale e aver acquisito i tratti settentrionali
in seguito. La scoperta fa nascere il dubbio che sia esistita una tradizione poetica in lingua italiana
anche prima della Scuola Siciliana.

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Capitolo 6
Il Duecento

3. Dai provenzali ai poeti siciliani


La scelta del volgare vide impegnato non un singolo, ma un gruppo omogeneo di autori,
socialmente collocati in posizioni molto rilevanti.
La prima scuola poetica italiana nacque all’inizio del XIII secolo, nell’ambiente colto e raffinato
della Magna Curia di Federico II di Svevia, in Italia meridionale: la Scuola Siciliana.


Prima di questa si erano affermate oltralpe due letterature:


1.la letteratura francese in lingua d’oil
2.la letteratura provenzale in lingua d’oc: lingua della poesia, incentrata sulla tematica dell’amore
intellettualizzato, che si era sviluppata nelle corti di Provenza, Aquitania e Delfinato.

I poeti siciliani imitarono la poesia provenzale, ma essi ebbero l’idea di sostituire a quella lingua
forestiera, un volgare italiano, quello di Sicilia. Bisogna però capire che l’adozione del siciliano non
era affatto dettata da un gusto per la popolarità naturale.

L’ambiente in cui fiorì quel movimento poetico è quanto di più raffinato si possa immaginare. La
corte federiciana era un ambiente internazionale, disponibile persino agli apporti della cultura
araba, cui il sovran apprezzava. Egli era in grado di usare il latino, come si vede dalla prosa del
suo trattato di falconeria De arte venandi cum avibus.

Federico e altri poeti della scuola non erano siciliani di nascita, ciò dimostra che la scelta del
siciliano ebbe un valore formale, finalizzato e raffinato.

Entrano nell’uso comune termini provenzali come:


1. le forme in –agio (coraggio, ossia cuore)
2. le forme in –anza (allegranza, speranza, rimostranza, credanza)
In certi casi la forma, apparentemente italiana, deriva in realtà da un calco semantico del
provenzale: ad esempio partenza e far partenza, per divisione e sperare, guardare per proteggere. 


In passato ci furono delle resistenze ad accogliere il primato cronologico della Poesia di Provenza.
ed ammettere la sua funzione di guida. I provenzalismi venivano spiegati non come prestiti diretti
ma come eredità dell’antica lingua intermedia che era stata comune a Italia e Provenza. Anche
Dante, nel De vulgari eloquentia, aveva avuto coscienza della linea storica che partiva dai
provenzali, fino ai siciliani. Però proprio in Dante stava la radice dell’opinione che ritroviamo a
distanza di secoli in Perticari: Dante credeva che i siciliani avessero poetato in una lingua illustre

64
sovraregionale. Sia Dante che Perticari leggevano i testi dei poeti siciliani in forma diversa da
quella autentica. In questo caso la tradizione del testo diventa fatto determinate.
Il corpus della poesia delle origini è stato trasmesso da codici medievali scritti da copisti toscani:
nel Medioevo copiare non era un operazione manuale, chi copiava si sentiva libero di intervenire
nel testo, per migliorare ad esempio dei punti oscuri. I toscani operarono una vera traduzione,
eliminando per quanto possibile i tratti siciliani che erano distanti dal toscano.

La sconfitta degli Svevi e l’avvento degli Angioini portarono con sé la distruzione fisica dei
manoscritti di origine siciliana. Perticari come Dante non capiva che era stato il toscano a
volgarizzare il siciliano.
Questo sospetto fu avanzato intorno alla metà dell’800 dal filologo Giovanni Galvani che osservò
come nel Medioevo potesse accadere che un testo di origini toscane, passando per le mani di
copisti settentrionali venisse settentrionalizzato tramite l’introduzione di tratti linguistici regionali,
inesistenti nell’originale; un processo del genere, ma inverso, sarebbe avvenuto nel caso della
poesia siciliana, che si sarebbe toscanizzata passando per mani toscane. 


Galvani seguiva l’indizio lasciato dal cinquecentista Giovanni Maria Barbieri, studioso della poesia
provenzale, aveva avuto tra le mani un codice, il Libro Siciliano, poi perduto, contenente alcuni
testi poetici siciliani che si presentavano in una forma vistosamente siciliana.
Tra essi vi era la canzone di Stefano Protonotaro: “Pir meu cori alligrari”, oltre a un frammento del
figlio di Federico II, Re Enzo. La sicilianità è vistosa:
1. vocali finali -u e -i al posto delle -o ed -e toscane
2. la -u al posto della -o in inamuranza
3. le -i al posto delle -e toscane, in posizione tonica, in placiri, muriri (qui anche nell’atona finale;
e la -u si discosta dal corrispondente toscano).

Se volessimo mettere a confronto il testo di Re Enzo, S’eo trovasse pietanza, con la


toscanizzazione di Barbieri e del Codice Vaticano 3793 vedremmo: le rime imperfette.
Conduce:croce, ora: pintura, uso:amoroso, avere: morire, le quali diventano perfette solo se
ricondotte all’originale siciliano: conduci: cruci, ura:pintura, usu: amurusu, aviri:muriri.
Il trigramma ngn della parola sdigni è grafia normale nel Medioevo per la nasale palatale cosi
come lgl per la palatale laterale.

I copisti procedettero allo stesso modo con alcuni versi di Lentini come si vede nel Codice Vat.
latino 3793. Ad esempio la rima perfetta preso-miso: Il copista ha facilmente corretto l’originale in
preso cosi come amuri in amore; ma quando si è trovato di fronte miso non ha voluto sostituirvi

65
messo, troppo distante dal modello, o un meso, che non esisteva in toscano. Questa è una spia di
travisamento dei toscani.
La lezione della poesia siciliana fu comunque decisiva per la nostra tradizione lirica: si stabilizzò la
rima siciliana38 e divennero normali in poesia i condizionali meridionali in -ìa (crederia). 


2. Documenti centro-settentrionali
2.1 La linea maestra della lirica italiana: dal sud al centro-nord.
Con la morte di Federico II e il tramonto della casa Sveva, venne meno la poesia siciliana. La sua
eredità passò in Toscana e a Bologna, con i cosiddetti poeti siculo-toscani e gli stilnovisti.

2.2. La poesia religiosa 



Il Cantico di frate sole di S. Francesco d’Assisi ha un lieve anticipo rispetto alla scuola siciliana,
databile intorno al 1223 e noto anche con il titolo latino di Laudes creaturarum. Fu scritto in
volgare, con elemento umbri. Questo documento per molti secoli non fu preso in considerazione
come documento letterario.

La tradizione della laudi religiose ebbe gran sviluppo non solo nel ‘200, ma anche nel ‘300 e nel
‘400, quando i testi laudistici, dedicati a Gesù, alla Madonna, furono trascritti in appositi quaderni (i
laudari) e furono utilizzati dalle confraternite come preghiere cantate.La maggior parte delle laudi
erano componimenti anonimi, di modesta qualità letteraria, in lingua quotidiana e poco ricercata.
Nel passaggio dall’area centrale al settentrione, le laudi subirono manomissioni linguistiche,
accogliendo dei settentrionalismi.

2.3 La poesia didattica e moraleggiante del nord Italia 

In Italia settentrionale nel ‘200 fiorì una letteratura in volgare, diversa da quella sviluppatasi alla
corte di Federico II. Tra gli autori di questa letteratura in versi di carattere educativo ricorderemo
Patecchio, Ugaccione da Lodi, Giacomino da Verona, Bonvesin de la Riva (tutti facenti parte
dell’area lombarda). Il volgare settentrionale del ‘200 tendeva a farsi illustre, anche se nel
confronto con la letteratura toscana, il successo di quest’ultima rimosse questi esperimenti. 


3. I siculo-toscani e gli stilnovisti


L’area toscana in cui si ebbe la prima notevole espansione dell’uso del volgare scritto è quello
occidentale, fra Pisa e Lucca. In quest’area si sviluppò la poesia detta siculo-toscana, che ebbe i
suoi centri a Pisa, Lucca (Bonagiunta), Arezzo( con Guittone).
Firenze si affermò solo nella seconda metà del ‘200: tra il 1260 e il 128039, come ad esempio con
Chiaro Davanzati e Rustico Filippi. Il loro stile riflette quello dei siciliani tranne che per Rustico,

38 Ancora utilizzata da Manzoni nel Cinque maggio con nui.

39 Importante ricordare che Dante nasce nel 1265.


66
che ha un’esperienza duplice in quanto usa un fiorentino più idiomatico nella poesia comica. Tra i
siciliani di questi poeti fiorentini si possono notare le -i finali al posto di -e, come ad esempio in
sostantivi singolari (siri) e in verbi alla terza persona singolare (ardi). In Toscana si stava
inglobando tutta la tradizione lirica disponibile.

Dante attribuì a Guinizzelli la svolta stilistica che avrebbe portato alla nuova poesia d’amore, in cui
permangono:
1. gallicismi come  riviera: fiume,  rempaira: ritorna, giano: giallo
2. provenzalismi come sclarisce, enveggia: invidia,  serie in –anza
3. sicilianismi come saccio: so, aggio: ho, feruto:ferito, miso: messo, sorpriso:sorpreso.
4. Entrano anche alcune forme che richiamano il bolognese come saver, donqua: dunque,
volgiando, siando (assibilazione di c davanti a vocale palatale).

In Cavalcanti troviamo: forme suffissali in -anza, meridionalismi (ave-feruta), rime siciliane ma


anche tratti toscani come il condizionale in ebbe, pronome personale io affianco di eo, i prostetica
(istar) e forme dittongate.

4. Dante teorico del volgare


Nel Convivio, il volgare viene celebrato come “sole nuovo” destinato a splendere al posto del
latino, per un pubblico che non è in grado di comprendere la lingua dei classici: il giudizio di Dante
nasce dunque, oltre che da una fiducia profonda nella possibilità della nuova lingua, da un’istanza
di divulgazione o comunicazione più larga ed efficace.
Nel Convivio il latino è reputato superiore in quanto utilizzato nell’arte; nel De vulgari eloquentia, la
superiorità del volgare viene riconosciuta in nome della sua naturalezza, ma la letterarietà della
lingua latina diventa uno stimolo per la regolarizzazione del volgare.


Nel medioevo si cristallizza la diglossia, cioè la convivenza tra diversi livelli di lingua.
Nel Convivio Dante dice che il latino è più nobile ma che userà il volgare, nel DV invece il volgare è
considerato più nobile, perché ha un valore che lo avvicina a Dio, proprio perché naturale. Dante
evidentemente cambia idea, seppur i due trattati siano contemporanei.

Il De vulgari eloquentia, composto nell’esilio (1304-1306), ma prima della Commedia, lasciato


interrotto al II libro, è il primo trattato in latino40 sulla lingua e sulla poesia volgare ed è un saggio
inserito nel quadro della cultura europea del Medioevo. Deve essere stato scritto a Bologna e si

40 Viene scritta in latino perché si vuole rivolgere agli intellettuali, a coloro che sono i destinatari di una
richiesta di cambiamento politico.
67
presenta come un trattato linguistico universale. Fu riscoperto nella prima metà del XVI secolo e
pubblicato in traduzione italiana dal letterato vicentino Trissino.

La fortuna del trattato non fu pacifica, in quanto le sue tesi furono usate in chiave polemica. Alcuni
insinuarono il sospetto che il trattato non fosse di Dante, questo faceva comodo alla cultura
fiorentina che non tollerava le pagine in cui Dante aveva condannato il volgare toscano, preferendo
il bolognese e il siciliano illustre e negando che il toscano potesse identificarsi con la lingua degna
della poesia volgare. Manzoni affermò che il De vulgari non aveva per oggetto la lingua in
generale, né l’italiano in maniera specifica, ma solo la poesia.
Dante si mosse dalle origini di Adamo: stabilisce che fra tutte le creature l’unico essere dotato di
linguaggio è l’uomo e il linguaggio stesso caratterizza l’essere umano in quanto tale,
diversificandosi dagli animali bruti posti in basso e dagli angeli posti in alto. L’origine del linguaggio
e delle lingue viene ripercorsa attraverso il racconto biblico: episodio della Torre di babele. La
storia delle lingue naturali comincia qui, e la loro caratteristica è mutare nello spazio, da luogo a
luogo e nel tempo: le lingue sono soggette di continua trasformazione.

Dante chiama il volgare ‘locutio vulgaris’ parlata del popolo e il latino ‘locutio secundari’.
Quest’ultima è una lingua secondaria perché si apprende per addestramento e non spontanea,
differentemente dal volgare che si impara nella socializzazione primaria, per simulazione. Utilizza
anche la parola di ‘gramatica’ perché sinonimo del latino nel medioevo, perché unica lingua
grammaticalizzata. La grammatica delle lingue letterarie, greco e latino, è una creazione artificiale
dei dotti, intesa a frenare la mutevolezza degli idiomi garantendo la stabilità senza la quale la
letteratura stessa non può esistere.

Stabilita la varietà diafasica, Dante segue una diversificazione geografico-spaziale delle lingue
naturali e concentra la sua attenzione su spazi geografici via via più ristretti. La sua attenzione si
concentrò sull’Europa:
1. nei Paesi del Nord e del Nord-Est( germanici e slavi) si parlano lingue in cui sì si dice iò
2. nei Paesi del centro Sud si parla la lingua d’oil (francese), la lingua d’oc (provenzale) e il
volgare del sì (italiano)
3. in Grecia e nelle zone orientali era diffuso il greco


Viene poi a trattare il secondo gruppo in maniera più ampia. Questi tre volgari hanno comune
origine, come dimostrano le concordanze lessicali di parole come Dio, amore, mare, terra, cielo. Si
restringe solo all’Italia, che risultava diversificata all’interno con parlate locali. Dante esaminò le

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parlate alla ricerca del volgare migliore, definito illustre41, aulico42, curiale43, cardinale44, tutte però
risultano indegne del volgare illustre.
La condanna colpisce non solo volgari impuri, di confine, come il piemontese, il giudizio è negativo
per il friulano, il sardo, il romanesco, il marchigiano ecc. Tra le più severe condanne c’era quella
per il toscano e per il fiorentino, mentre migliori risultavano il siciliano e il bolognese. Dante è alla
ricerca di un lingua illustre, ideale, priva di tratti locali e popolari, selezionata e formalizzata ad un
livello alto. Vuole individuare un modello linguistico unificante, adatto a usi civili e politici. Un
volgare che deve essere selezionato da parte di coloro che fanno letteratura.

La nobilitazione del volgare doveva avvenire attraverso la letteratura. Ecco, perché il toscano viene
condannato, al pari delle altre parlate: non solo la lingua popolare toscana non interessava Dante,
ma condannava poeti come Guittone d’Arezzo, attribuendogli uno stile rozzo e plebeo, ben diverso
da quello dei siciliani e degli stilnovisti.

5. Dante lirico
Le prime esperienze poetiche di Dante appaiono radicate nella cultura e nella poesia volgare di
Firenze, sia per i temi, che per le strutture linguistiche, stilistiche, metriche. Diminuirono gli apporti
tradizionali, come le parole con suffissi in –anza ed –enza, le dittologie sinonimiche, mentre il
lessico della poesia segna una crescita quantitativa, e le possibilità linguistiche sono affidate anche
ad una struttura della frase più variata. Nella Vita Nova, Dante, commentando in prosa una scelta
delle proprie poesie, realizzò un connubio tra i due generi. La priorità va comunque alla lirica, e la
prosa è qui posta al suo servizio, in funzione gerarchicamente inferiore.

6. La prosa

6.1 Il ritardo della prosa

Il livello della prosa duecentesca appariva più modesto rispetto alla poesia. Come ricorda Serianni
non solo vi è il ben noto ritardo per il quale vediamo sorgere la letteratura italiana solamente dopo
l’affermazione delle altre letterature d’oltralpe, ma inoltre vi è da noi uno sfasamento tra poesia e
prosa, a svantaggio della prosa. Al tempo di Boccaccio, la prosa italiana era ancora alla ricerca dei

41 In questo aggettivo la metafora della luce è fondamentale, perché illumina tutti gli altri volgari cosi da far
risiedere la componente migliore. I primi versi famosissimi del Paradiso sono proprio questo.

42 Rimanda ad un edificio, cioè il palazzo dove risiedeva il re o imperatore, luogo fisico e politico.

43Rimanda alla corte del re, soprattutto a quella di Federico II, dove i funzionari intorno a lui sono poeti, e
che per Dante si sono allontanati dalle loro parlate spontanee arrivando ad una lingua molto simile a quella
del toscano.

44Guida per tutte le altre parlate. Utilizza un’immagine, quella del cardine, una porta dove tutti gli altri volgari
possono orientare la loro trasformazione naturale. Serve una guida e proprio questo volgare guida, come
una grammatica, tutti gli altri.

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sui modelli, mentre la poesia era già organizzata in una solida tradizione. Se si prende il Novellino
si può osservare una vistosa semplicità sintattica.

6.2 Il primato dei volgarizzamenti


Il latino aveva il primato assoluto nel campo della prosa, come strumento di comunicazione scritta
e di cultura: spesso assumeva forme domestiche o affioravano tracce di un espressivo parlato in
lingua volgare.

Il volgare per essere autonomo e per emergere, doveva essere influenzato dal latino: lo
dimostrano i volgarizzamenti, un genere costituito da traduzioni, rifacimenti e imitazioni di testi
classici. Non equivale a quello che noi intendiamo per traduzione. Nel volgarizzare, cioè nel
trasporre in volgare partendo da un testo latino o francese, si realizzava di fatto una scrittura di alto
valore sperimentale e si stabilivano le strutture della prosa italiana: spesso il verbo si poneva in
clausola, alla latina cosi come la sequenza determinante-determinato veniva ripresa dalla lingua
latina. Per cui non si dirà erano desiderosi di lode ma erano di lode desiderosi. Minore risulta
l’influenza del francese anche se esso fu usato da alcun scriventi italiani come Brunetto Latini nel
Tresor.

L’influenza del francese sul volgare italiano si può verificare nel gran numero di prestiti lessicali,
che però non riuscirono a varcare la soglia del XIV sec. Attingendo all’opera di Latini ci sono
francesismi come: giadì (un tempo) argento (denaro) vile (città).

70
Capitolo 7
Il Trecento

1. La Commedia di Dante

1.1 Dante e il successo del toscano

L’eccezionalità della Commedia, permette di isolare l’opera dalle altre; è scritta in una lingua
diversa da quella teorizzata nel De vulgari ed il suo stile utilizza risorse ben più vaste di quelle
proprie della poesia lirica stilnovista. La sua ricchezza tematica e letteraria, favorì una promozione
del volgare, dimostrando che la lingua aveva potenzialità illimitate.

Mentre lo stilnovismo è un fenomeno legato all’esperienza di Dante nella sua patria, la Commedia
è un’opera compiuta in esilio, che si collega linguisticamente alla Toscana e a Firenze, ma che si
proietta anche in Italia settentrionale. Si profila dunque un connubio tra Nord e Centro.

Il toscano iniziò così la sua espansione. Il processo fu reso irreversibile anche dal fatto che nel
Trecento due autori toscani produssero opere scritte in fiorentino: il Canzoniere di Petrarca e il
Decameron di Boccaccio, formano con la Commedia una trade giustamente celebrata, tanto che i
tre autori sono stati uniti nella designazione di Tre Corone. 

All’epoca la società fiorentina era vivacissima e aveva rapporti mercantili con il resto d’Italia; il
fiorentino occupava una posizione mediana tra le parlate italiane ed era abbastanza simile al
latino, cosa che gli permetteva di penetrare sia al Sud che al Nord del Paese. Ma fu la letteratura il
fattore determinante per le sorti della lingua, in un paese come l’Italia che non aveva unità politica,
non era uno stato o una nazione, non poteva perciò contare sull’effetto unificante di una corte e di
una burocrazia centralizzata.

1.2 Varietà linguistica della Commedia


Bruno Migliorini, nella sua Storia della lingua italiana ha definito Dante il padre del nostro idioma
nazionale. La Commedia è un’opera universale di quelle che segnano in maniera indelebile lo
sviluppo della letteratura e della civiltà umana. 

Nel ‘500 furono sollevate polemiche sul realismo di certe parti del poema dantesco, investendo il
giudizio sulla lingua, comunque non venne meno una valutazione complessiva di ammirazione
verso l’opera.


Il confronto va fatto con la lingua dei classici: la grande presenza di latinismi nella Commedia è
uno degli elementi che più differenzia la lingua della Commedia dalla lingua delle liriche dantesche
nel loro complesso (Baldelli). Si tratta di un latinismo che viene a Dante da canali diversi: la
letteratura classica, le Sacre Scritture, la filosofia tomistica e la scienza medievale.

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Per quanto riguarda il latinismo si cita sempre il canto VI del Paradiso, con il lungo discorso di
Giustiniano, in cui molti termini sono costruiti con l’ausilio della lingua classica:
1. cirro-negletto: capigliatura arruffata
2. Tu labi. Il verbo è modulo poeticamente illustre che viene da Orazio, Ovidio e Virgilio.
3. Tolle: lo prende su di sé
4. si cuba: giacere.
5. baiulo, latra. Si riferisce all’imperatore Ottaviano Augusto, ma si note anche che è un termine
non classico, dove valeva ‘facchino’, ma del latino delle Scritture.
6. colubro: serpente.
7. subitana:improvvisa
8. litro rubo: Mare Rosso (citazione dell’Eneide)
9. tetragono, risale al latino tetragonus di Boezio.
10. termini tecnici come emisperio, dilibra, inlibra.
11.  cenìt: zenit, parola ricavata dall’arabo, ben nota agli astronomi e ai naviganti medievali. 


Il plurilinguismo è una delle categorie che sono state utilizzate per definire la lingua poetica di
Dante, opposto al monolinguismo lirico (Petrarca): racchiude una scelta dettata dalla disponibilità
ad accogliere elementi di provenienza disparata, non solo latinismi, ma anche termini forestieri,
plebei, parole toscane e non toscane. Questo deriva dalla varietà del tono, in quanto le situazioni
nella Commedia, vanno dal profondo dell’Inferno alla visione di Dio, passando così dal livello
basso e dal turpiloquio (il cul che fa trombetta, cloaca, puzza, rogna) al livello più alto e teologico. 


Il poema si presenta anche come un opera fiorentina, la più vistosamente fiorentina tra quelle
scritte dal sommo poeta. Troviamo alcuni toscanismi come: introcque (intanto) serocchia, in realtà
usato solo due volte in rima perché predilige il termine di suora o sorella, più agevole con
l’analogia di fratello.
Si può parlare di una polimorfia della lingua di Dante nella Commedia, che riguarda l’alternanza di
forma dittongate e non dittongate:
1. core/cuore
2. foco/fuoco
3. c’è solo buono e non bono.
4. la presenza di -i o -e in protonia virtù prevale su vertù
5. -a in protonia con danari e giovanetto presenti tanto quanto denari e giovinetto.
6. le forme verbali come ad esempio quelle del condizionale di tipo siciliano in -ia e quello
toscano in -ei.
La libertà di Dante nei confronti della lingua, si può verificare anche nei neologismi, come i verbi a
prefisso -in: intuassi, inmii.

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1.3 Strumenti per lo studio della lingua di Dante: le Concordanze e l’Enciclopedia dantesca
Anche per Dante sono state prestabilite delle concordanze che permettono una rapida
consultazione e l’immediato reperimento di forme, parole e costrutti. Tra tutte queste concordanze
conviene oggi far uso di quella che utilizza il testo critico fornito da G.Petrocchi45 : “Concordanze
della Commedia di Dante Alighieri”, a cura di L. Lovera, con la collaborazione di R. Bettarini e di A.
Mazzarello, 3 voll.,Torino, Einaudi, 1975. Va tenuto presente che anche la LIZ comprende la
Commedia e permette immediati confronti con il linguaggio di tutta la tradizione poetica, dai
siciliani all’Ottocento. 


Uno strumento di consultazione indispensabile è costituito dall’Enciclopedia dantesca diretta da


Umberto Bosco, in 5 volumi, uscita a Roma tra il 1970 e il 1976. Le voci dell’Enciclopedia sono
poste in ordine alfabetico e toccano ogni problema relativo ai personaggi, ai movimenti politici e
spirituali, toponimi, popoli ecc.; molte voci sono di interesse linguistico, con riferimento alla
questione della lingua, e metrico. Importantissimo per gli studi linguistici è il VI volume di
appendice che completa l’opera, intitolato Appendice. Biografia, lingua e stile, opere (1978).
Questo volume, non più alfabetico, ma composto di interventi monografici, comprende il saggio
Lingua e stile delle opere in volgare di Dante di I. Baldelli, e un saggio sulle Strutture del volgare di
Dante, impostato in chiave di linguistica storico-descrittiva, realizzato con il contributo di diversi
autori.

2. Il linguaggio lirico di Petrarca


La caratteristica dominante del linguaggio poetico di Petrarca è la sua selettività, che esclude
molte parole usate da Dante nella Commedia, inadatte al genere lirico. La parte dell’opera
petrarchesca scritta in volgare è ridotta rispetto a quella latina e il Canzoniere rappresenta una
sorta di elegante divertimento dello scrittore. Il titolo stesso, è in latino: Rerum vulgarium fragmenta
(RVF), ossia Frammenti di cose volgari. In latino sono anche le postille inserite dallo stesso autore,
al codice che si suole indicare come ‘degli Abbozzi’, il Vaticano Latino 319646 (di cui si ha l’edizione
eliotipica, l’edizione fototipica, l’edizione diplomatica, e infine, a cura di A. Romanò, l’edizione
interpretativa). 


Petrarca aveva familiarità con il latino e lo usava come normale strumento per la comunicazione
culturale e per la riflessione; il volgare non è qui una lingua naturale ma veniva usato come lingua
di un raffinato gioco poetico, in omaggio alla tradizione che partiva dai siciliani e arrivava a

45 A differenza di Petrarca e Boccaccio non abbiamo nessun autografo di Dante. Il più antico manoscritto
della Commedia a noi pervenuto è del 1336, il cosiddetto Landiano.

46 Il codice Vat. Lat.3196 raccoglie e tramanda minute liriche di Petrarca; possediamo anche la redazione
definitiva del Canzoniere (codice Vat. Lat. 3195).
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Petrarca attraverso Dante. 

La lingua naturale e più spontanea dell’uomo colto per l’autore era proprio il latino. Coletti osserva
come per Petrarca, il volgare è lo strumento di esercitazione letteraria, senza aver dietro un
ambizioso progetto culturale basato sulla promozione di nuovi ceti sociali e sulla divulgazione del
sapere mediante la nuova lingua, come in Dante.
1. Petrarca accoglie una sola rima siciliana: voi-altrui
2. Consacra la rima grafica e non fonica (ò:o’, è:é)
3. Elimina alcuni gallicismi come fidanza, fallanza, dilettanza ma ne mantiene altri come
baldanza,rimembranza.

Si delinea una tendenza del linguaggio lirico al ‘vago’ inteso nel senso di genericità antirealistica,
differentemente dal realismo della Commedia, testimoniato anche dalla polivalenza di certi termini
(ad esempio l’aggettivo dolce47 ) entrano in un numero molto grande di combinazioni diverse. 


La lingua selezionata e ridotta nelle scelte lessicali, accoglie un grande numero di varianti,
canonizzando cosi un polimorfismo in cui si allineano la forma toscana, quella latineggiante, sulla
siciliana o provenzale: Deo/Dio, Degno/digno, Fuoco/foco, Mondo/mundo, Oro/auro. 


Sul piano della sintassi, Petrarca fa largo uso di una dispositio che muta l’ordine regolare delle
parole, anticipando il determinante rispetto al determinato o anticipando l’infinitiva dipendente
rispetto alla principale (alla latina). Inoltre ricorrevano chiasmi, antitesi, enjambements, anafore,
allitterazioni e si ritrovano binomi di aggettivi48.

Il poeta scriveva in maniera unita nomi come: sualuce, almio, delbel, laprima, belliocchi. Venivano
uniti al nome i possessivi, le preposizioni, gli articoli e gli aggettivi. Manca l’apostrofo che fu
introdotto solo all’inizio del 500. Il sistema dei segni di interpunzione si riduce a pochi elementi, con
valore diverso da quello moderno, tra cui punto, sbarra obliqua e punto esclamativo. Sono presenti
molti latinismi grafici, come le /h/ etimologiche in: huomo, humano, honore (ma ora, erba), le /x/
(extremi, excellentia, dextro), i nessi /tj/ (gratia, letitia, pretioso). Per l’affricata Petrarca usava la ç
(sença per senza, ma corregge potençia in potentia alla latina.
Sono presenti anche comunissimi tratti di penna posti sopra la vocale per segnalare una
consonante nasale: lapa ‘lampa’, no ‘non’, cotra ‘contra’, o come l’altrettanto comune taglio nella
gamba della p per indicare l’abbreviazione di per. 


47 dolce pianto,loco, favella,riso, veneno, rapina, morte.

48 Solo e pensoso/tardi e lenti.


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3. La prosa di Boccaccio
L’importanza del Decameron per la prosa italiana è accentuata dal fatto che, a differenza di quanto
era accaduto nella poesia, la prosa trecentesca non era ancora stabilizzata in una tradizione salda.
Non mancavano esempi a cui ispirarsi come la Vita Nova e il Convivio di Dante, ma queste erano
opere rilegate alla poesia, e ciò non attribuiva autonomia alla prosa.
Un modello di prosa narrativa era nel Novellino ma non si trattava di una prosa adatta a tutti i
contesti, né esso offriva un campionario ampio e complesso di situazioni. Il salto di qualità che si
ha con l’opera di Boccaccio è davvero molto grande. 


Nella tradizione italiana la prosa di Boccaccio assunse una funzione egemonica, quando nel ‘500,
teorici e grammatici, seguendo Bembo, indicarono in essa il modello a cui attenersi. Questo
modello acquisì più autorità grazie a Salviati e all’Accademia della Crusca, influenzando coloro che
scrissero in italiano. Ancora nell’Ottocento i manzoniani, sostenendo i diritti della lingua viva,
dirigevano la loro polemica contro alcune caratteristiche del periodare boccacciano, diventate una
sorta di maniera attraverso l’imitazione di moduli sintattici ripetuti fino alla sazietà. 


Nelle novelle di Boccaccio ricorrono situazioni narrative molto variate, in contesti sociali diversi.
Tutte le classi si muovono sulla scena, dai regnanti alle prostitute, cosi come compaiono quadri
geografici e ambienti differenti. Lo scrittore non ha rinunciato a una caratterizzazione anche
linguistica che sapesse cogliere queste diversità. 

Compaiono voci che introducono elementi diversi dal fiorentino:
1. Il veneziano di monna Lisetta ( VI, 2) e di Chichibio ( VI, 4)
2. Il senese di Tingoccio ( VII, 10) e di Fortatarrigo ( IX, 4)
3. Il toscano rustico nella novella del prete di Varlungo e di Madonna Belcolore ( VIII, 2)
4. il gioco linguistico entra nella burla con Frate Cipolla (VI,10).

Come dice Serianni è eccessivo definire queste varietà linguistiche come “plurilingusimo
programmatico” visto che prevale uno stile nobile come costante di ricerca di regolarità. Sta di fatto
però che le novelle mostrano una disposizione a concedere spazio al dialogo, con moduli del
parlato e vivaci scambi di battute.


Lo stile era caratterizzato da una complessa ipotassi, che si ritrova soprattuto nella cornice delle
novelle, nelle parti più nobili ed elevate. E’ uno stile magniloquente, in cui le subordinate si
accumulano in gran numero, e la cui struttura è resa complessa dalle inversioni di sapore
latineggiante e dalle posposizioni dei verbi in clausola. Serianni ricorda che già nel corso del
Seicento, accanto ai modelli proposti dal vocabolario della Crusca, giudicarono questo stile
manierato e innaturale. Tra essi Paolo Beni, letterato padovano, il quale ricordava un passo del

75
Decameron (II,8) la cui citazione può servire ancora oggi per mettere in evidenza questo stile
particolare:

E avanti che a ciò procedessero, per non lasciare il regno senza governo, sentendo Gualtieri conte
d'Anguersa gentile e savio uomo e molto loro fedele amico e servidore, e ancora che assai
ammaestrato fosse nell'arte della guerra, per ciò che loro più alle dilicatezze atto che a quelle
fatiche parea, lui in luogo di loro sopra tutto il governo del reame di Francia general vicario
lasciarono, e andarono al lor cammino.

Questo potrebbe essere definito come sbilanciamento a sinistra, secondo il modello latino. La
principale arriva solo dopo una sequenza di ben cinque subordinate, ed è preceduta da lui
complemento oggetto anteposto; si nota la posizione del verbo lasciarono, in fine di frase e la
presenza del gerundio che abbonda in Boccaccio. 


Il fascino di questa prosa deriva da: uso di elementi ritmici, dal cursus agli artifici ritmico-musicali
più ricercati, gli omoteleuti, i parallelismi sintattici, le simmetrie del periodo, le allitterazioni, l’uso
delle figure retoriche. La prosa dell’autore è fiorentina di livello medio-alto. Tuttavia alcuni tratti
appaiono arcaicizzanti, come l’uso costante del numerale diece, anziché dieci. Boccaccio non usa
mai le forme popolari o innovative quali arò, arei, missi ecc. 


Per verificare la grafia dell’autore, si può consultare l’autografo nel codice Hamilton 90, esemplare
membranaceo, conservato a Berlino, si notano:
1. latinismi come le /x/ (exempli)
2. Il nesso /ct/ ( decto) usato anche per indicare il raddoppiamento.
3. Le /h/ etimologiche ( herba, habito, huomo ma non per il verbo avere)
4. l’affricata dentale è resa dalla /ç/, come in Petrarca ma anche dalla /z/, e queste consonanti
vengono sempre scritte scempie, indipendentemente dal loro valore fonetico sordo o sonoro
(es. mezano)
5. Come in Petrarca ricorrono abbreviazioni delle nasali e di per.
6. Il sistema dei segni di interpunzione è più ricco che nel Canzoniere: si trovano virgola, punto
virgola, due punti,punto, la sbarra obliqua, il punto interrogativo usato anche per le
interrogative indirette, degli appositi segni di ‘a capo’ e una coma, simile al punto esclamativo,
ma con valore di punto e virgola.

4. Prosa minore dell’aureo Trecento: la Toscana.

A fianco dei grandi del ‘300 furono collocati autori minori di un secolo reputato “aureo”, perché si
era realizzato un connubio tra scrittori e popolo: l’abate Cesari, vissuto nell’800 ed esponente del
Purismo (cfr. XII.1) era convinto che nel ‘300 tutti gli autori toscani, anche i minori, avessero avuto
la dote di scrivere bene e fossero degni modelli di prosa.


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Il purismo consisteva nell’identificazione di modelli linguistici ritenuti esenti da difetti. Si arrivò a
volte ad attribuire un valore sproporzionato ad autori trecenteschi minori di cui veniva esaltata la
freschezza e semplicità del linguaggio. Godettero di una fama del genere due scrittori religiosi:
Cavalca e Passavanti. 

Domenico Cavalca fu autore di volgarizzamenti; la sua opera più rinomata di traduttore è la
versione delle Vite dei santi padri49, con uno stile semplice, si rivolgeva a uomini semplici e non
letterati, cioè chi non conosceva il latino.
Iacopo Passavanti fu autore dello Specchio di vera penitenza, opera morale e dottrinale che
rielabora la materia della predicazione quaresimale a Firenze nel 1354. Ancora nell’800 queste
opere erano considerate determinanti per la formazione dei giovani, anche a scopo di educazione
linguistica.

5. Primi successi del Toscano



Riprendendo la frase del rimatore e metricologo Antonio da Tempo: magis apta est ad literam sive
litteraturam, la lingua toscana è la più adatta alla letteratura e inoltre è quella che era più diffusa e
più comprensibile. Questo consisteva in un aperto riconoscimento del primato del toscano sulle
altre lingue regionali.

Nel tardo ‘300 il petrarchista padovano Francesco di Vannozzo usò il dialetto in componimenti
satirici e polemici, in quanto il contesto della satira riconduceva a un linguaggio più realistico e
meno selezionato (si pensi a Cecco Angiolieri).
Un altro poeta settentrionale come Nicolò de Rossi ci permette di osservare un interessante
cammino verso i modelli centrali. Nella lingua poetica convivevano forme diverse, toscane e
settentrionali: egli si sforzava di eliminare le forme troppo locali e introdusse elementi toscani, fino
al punto di arrivare al fenomeno dell’ipercorrettismo (ad esempio introduce consonanti germinate in
parole scempie come schiera che diventa scierra, vomitto). 


L’influenza di Dante si fece sentire anche su autori che volevano prenderne le distanze, come
Cecco d’Ascoli, autore di L’Acerba e ancor di più l’influenza dantesca è presente in Fazio degli
Uberti, autore del poema in terza rima Dittamondo. Entrambi utilizzano la terzina dantesca ma
quella D’Ascoli era diversa dalla terza rima dantesca (Dante: ABA BCB CDC, Cecco: ABA CBC
DED). 


49 Dal francese Vie des anciens pères.


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6. I volgarizzamenti 

Tra i volgarizzamenti trecenteschi si possono citare:
1. Le vite dei santi padri di Domenico Cavalca
2. Fioretti di San Francesco
3. È un volgarizzamento da una precedente redazione latina dello stesso autore, la Cronica
dell’Anonimo romano, contenente la Vita di Cola di Rienzo, del 1360: la lingua era l’antico
romanesco, che si presentava in forme meridionali prima della toscanizzazione cinquecentesca
della parlata di Roma. La redazione romanesca nasceva da un intento divulgativo, di: vulgari
mercanti e aitra moita bona iente la quale per lettera (=latino) non intenne. Si possono
osservare alcune caratteristiche del romanesco arcaico, in cui ricorrono fenomeni tipicamente
meridionali, come:
4. esito in -ie di G+ vocale palatale ( iente per gente)
5. assimilazione di -ND- 


7. L’Epistola napoletana di Boccaccio



Uno dei più antichi testi in volgare napoletano è una lettera scritta dal toscano Boccaccio: l’epistola
è databile al 1339. Si potrebbe definire una letteratura dialettale riflessa, ossia cosciente di essere
tale, volontariamente distinta dal codice della lingua letteraria. È uno scritto di tono scherzoso,
rivolto all’amico Francesco de’ Bardi. Il soggiorno napoletano fu molto importante per la formazione
di Boccaccio e per la sua conoscenza dell’ambiente mercantile, dove nasce l’Epistola. La lingua
napoletana è marcata in senso comico, ricorrono ipercorrettismi, in quanto il dittongo napoletano
viene introdotto anche in parole che in napoletano non lo hanno: nuostra, nuome, fratiello50.
L’esperimento di Boccaccio è importante dal punto di vista linguistico, perché mostra un uso
volontario di un volgare diverso dal proprio, identificato nelle caratteristiche fonetiche, lessicali e
sintattiche. L’impiego di un volgare locale, di solito avveniva in modo diverso, come assunzione a
livello ‘illustre’ di una lingua locale depurata da quelli elementi ritenuti inadatti. Boccaccio porta più
in la la mimesi del parlato vivo, e lo fa con gli occhi di un forestiero che ha imparato ad utilizzare
una lingua locale.

50 L’esito napoletano sarebbe stato frate ma Boccaccio ha inserito un dittongo metafonetico nella forma
toscana di fratello.
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Capitolo 8

Il Quattrocento

1. Latino e volgare

1.1 Il rifiuto umanistico del volgare e il confronto con il latino

Petrarca, iniziatore dell’Umanesimo affidò la parte più solida del suo messaggio letterario a una
lingua diversa dal volgare: scrivendo in latino, si ispirava a Cicerone, Livio, Seneca, Virgilio, Orazio
e misurava la differenza tra quei modelli e il latino medievale. Avviò un processo che fu
determinante per gli sviluppo della lingua: il confronto con il latino di quegli autori fu decisivo per la
formazione di una mentalità grammaticale, applicata in seguito anche alla stabilizzazione
normativa dell’italiano.

Il nuovo gusto classicistico si orientò verso una concezione della lingua intesa come frutto di
imitazione dei grandi modelli letterari. Di fatto però la svolta umanistica che incominciò con
Petrarca ebbe una conseguente crisi del volgare, che non arrestò l’uso del volgare stesso nella
pratica, ma lo screditò agli occhi della maggior parte dei dotti. ‘Crisi del volgare’ vi fu dunque in
quei casi in cui gli uomini di alta cultura disprezzarono la lingua moderna o la ignorarono.

Vi furono umanisti della prima generazione che non usarono il volgare, come Coluccio Salutati,
figura al centro dell’Umanesimo fiorentino nei primi anni del ‘400. Diresse per alcuni anni la
cancelleria fiorentina, diffondendo il proprio stile latino, elaborato su modelli ciceroniani. E’
significativo che Salutati fu introdotto da Leonardo Bruni tra gli interlocutori del Dialogus ad Petrum
Paulum Histrum e che espresse il rammarico per il fatto che Dante, abile poeta, non avesse
preferito usare il latino per realizzare la Commedia, in quanto la lingua avrebbe coronato
maggiormente la sua gloria letteraria. L’umanista fiorentino Niccolò Niccoli dichiara ad esempio
che Dante avrebbe dovuto essere rimosso dalla schiera dei letterati e lasciato in compagnia di
lanaioli, fornai e altro genere: evidente è la squalificazione di ogni scelta linguistica non latina.

Tra i pochi che la pensavano in maniera diversa c’era Leonardo Bruni, che celebrava i meriti di
Dante, a prescindere dalla lingua usata, dimostrano quell’atteggiamento che troveremo con Leon
Battista Alberti, il cui ruolo è centrale per il decollo del cosiddetto ‘Umanesimo volgare fiorentino’
Bruni era un grande estimatore di Dante tanto che scrisse una Vita del poeta in cui affermò che
non c’era differenza tra lo scrivere in latino o in volgare o in latino e greco, poiché ogni lingua ha la
sua perfezione, quando chi scrive sappia essere elegante dicitore. Uno scrittore aveva il diritto di
essere giudicato non per la lingua adottata, ma per la qualità delle proprie opere.

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Il disprezzo per il volgare nella seconda metà del secolo XV era un fatto “umanisticamente
normale” per usare per le parole di Dionisotti. Un altro pregiudizio umanistico lo possiamo trovare
nella citazione di Giorgio Valla, il quale accennava con sufficienza alle cantiunculas, alle
canzoncine in italiano per il popolo degli indotti scritte da Dante e Petrarca, a cui avevano tenuto
dietro altri autori di nessun conto. La cultura letteraria era dominata dal movimento umanistico, che
si esprimeva in latino e nel latino riconosceva un vivo patrimonio, da perpetuare e arricchire, in
quanto strumento della conoscenza, della dottrina e della letteratura.
Il latino era preferito perché lingua più nobile, capace di garantire l’immortalità letteraria. L’uso del
volgare risultava accettabile solo nelle scritture pratiche e d’affari, senza pretese d’arte. La
posizione umanistica poteva dunque arrivare ad ignorare il volgare, Tavoni parla di una vera e
propria rimozione. Gli studi sull’origine del volgare incominciarono nel momento in cui nacque una
storiografia interessata a definire precisamente il trapasso dall’antichità al Medioevo.

1.2 Macaronico e polifilesco



La cultura umanistica produsse alcuni tipi di scrittura in cui il latino e il volgare entrarono in
simbiosi, a volte a scopo comico e più raramente con intento serio. Nel secolo dell’Umanesimo e
nel primo Cinquecento, gli esperimenti di mistilinguismo tra latino e volgare furono frequenti.
Esistono due forme di contaminazione colta tra volgare e latino: il macaronico e il polifilesco. Con
macaronico si indica un linguaggio nato a Padova a fine ‘400 e caratterizzato dalla latinizzazione
parodica di parole del volgare o dalla deformazione dialettale di parole latine, con forte tensione tra
le due componenti. Una delle componenti, quella dialettale, è bassa, corporea, plebea, mentre
l’altra, quella latina è aulica.

Il macaronico consiste nella formazione di “parole macedonia”: a una parola volgare può essere
applicata una desinenza latina: es. cercabat: cercava (cercare+ -abat imperfetto latino).
In altri casi parole esistenti sia in latino che in volgare vengono usate nel significato proprio del
volgare, come casa che in latino significa capanna; parole latine vengono legate in costrutti
sintattici tipicamente volgari: propter non perdere tempus ‘per non perdere tempo’. Il risultato è un
latino che sembra pieno di errori, anche se l’autore macaronico è un ottimo latinista perché la
scelta che fa è volontaria con fine comico, mediante una tecnica che può essere definita come
‘abbassamento del tono’.

La poesia macaronica (cui nome deriva dal cibo il macarone, un tipo di gnocco: si tratta di una
natura corporea rispetto alla natura eterea della peosia) è il risultato di un divertissement colto.
Iniziatore del genere è Tifi Odasi, ma il più illustre è Teofilo Folengo.


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Il polifilesco, detto anche pedantesco. Un linguaggio del genere è inserito nell’Hypnerotomachia
Poliphili (Guerra d’amore in sogno dell’amatore di Polia), romanzo anonimo pubblicato nel 1499 a
Venezia. È un’opera scritta in volgare.
Il pedantesco non è una scrittura comica e parodica, ma seria. Il volgare combinato con il latino
non è dialettale, ma toscano, boccaccesco, con una patina settentrionale. Il latino si ispira a
scrittori diversi da quelli della latinità aurea, rifacendosi ad Apuleio e Plinio. I latinismi sono
stupefacenti, come quando parla di achi crinali (forcine) o fronte di cincinni capreoli silvata (capelli
riccioluti).

1.3 Fenomeni di mescidanza nella predicazione


In Italia settentrionale nella seconda metà de’800 vi erano alcuni predicatori che si esprimevano
con un linguaggio in cui latino e volgare si mescolavano in modo tale da ricordare il macaronico.
La mescolanza non è una novità del ‘400, ma deriva dalla tradizione medievale. Le espressioni e
le frasi latine si trovavano a convivere con una robusta dialettalità, come in Bernardino da Feltre:

“(…) O povera galinetta, quottidie facit ovum et è scazata (…)”.

1.4 Altri casi di contaminazione tra latino e volgare


Vi sono anche scritture che hanno la compresenza del latino e del volgare, ma che non hanno
intenti d’arte: sono le epistole, le relazioni, i diari, i ricettari. Il latinismo nel contesto di un
documento volgare è legato alla consuetudine; in una lettera, ad esempio, possono essere in latino
le formule iniziali e finali.

Esempio: l’epistola di Esterolo Visconti al duce Francesco Sforza. In essa ci si rivolge col vocativo
latino allo Sforza, chiamandolo “Illustrissime Princeps et excellentissime Domine. Domine mi
singularissime ” in latino è anche l’indicazione della data e del luogo, oltre che alla firma del
mittente. Tutto il resto della missiva è in volgare. Cosi come si vede tra le lettere di Galeotto del
Carretto, letterato della corte dei Marchesi del Monferrato, si trovano sia intestazioni in latino che in
volgare. In una lettera indirizzata alla Marchesa Isabella usò: colendissima (latinismo).

In un testo di natura giuridica in volgare, saranno in latino molti termini tecnici e se il testo è in
latino, saranno in volgare alcune frasi o termini diversi dal contesto, soprattuto se si trovano come
citazioni del parlato, secondo quel procedimento antico che abbiamo riscontrato con i Placiti
cassinesi. Una cosa del genere si trova nel Liber visitationis di Calceopulo (verbale di una visita
pastorale). 


Nelle lettere 400esche, sono frequenti anche inserimenti occasionali di frasi e parole latine: cum,
maxime, non solum, ultra, autem, quondam, insuper ecc.

81
2. Leon Battista Alberti

2.1 Una nuova fiducia nel volgare



Mancava un autore che manifestasse piena fiducia nell’italiano, anche se questa operazione era
stata anticipata da Dante nel De vulgari eloquentia, ma il trattato non era conosciuto nel ‘400.
Leon Battista Alberti, versatile figura di intellettuale e uno dei più grandi architetti del secolo, iniziò il
movimento dell’Umanesimo volgare ed elaborò un programma di promozione della nuova lingua.
La posizione teorica espressa nel Proemio al III libro Della famiglia si ricollega ai temi affrontati
nelle discussioni sul passaggio dal latino all’italiano. L’Alberti riconosce la causa della perdita della
lingua latina alla calata dei barbari: così si sarebbero introdotti nel linguaggio i barbarismi.

Compito del volgare era quello di riscattare se stesso, facendosi “ornato” e “copioso” come il latino.
Alberti era convinto che bisognasse imitare i latini prima di tutto in questo: nel fatto che avevano
scritto in una lingua universalmente compresa, di uso generale; come il latino classico, anche il
volgare aveva il merito di essere lingua di tutti , ma occorreva mirare ad una sua promozione a
livello alto, da affidare ai ‘’dotti’.
La nobile prosa dell’Alberti era ricca di latinismi, soprattutto a livello sintattico, oltre che lessicale e
fonetico. L’imitazione del latino si unisce all’uso disinvolto di molti tratti popolari coevi della lingua
toscana, lingua dell’Alberti. L’influenza del latino dà esiti che si discostano dal modello ipotattico e
ritmico di Boccaccio: la prosa trecentesca non esercita alcun fascino su di lui, né viene considerata
un esempio da emulare.


2.2. La grammatica della lingua toscana


L’Alberti realizzò anche la prima grammatica della lingua italiana, prima grammatica umanistica di
una lingua volgare moderna. Questa è trasmessa tramite un codice apografo scritto per il Bembo,
conservato nella Biblioteca Vaticana (conosciuta anche come Grammatichetta vaticana, dove il
nome allude alla piccola dimensione dell’opera).Una premessa anteposta al testo chiarisce il
collegamento con le dispute umanistiche, polemizzando contro coloro che ritenevano che la lingua
latina fosse solamente dei dotti, mentre l’Alberti voleva dimostrare che anche il volgare aveva una
sua struttura grammaticale ordinata, per analogia con il latino.

La Grammatichetta vaticana si inserisce in un contesto di sfida: non ebbe però influenza, perché
non circolò e non fu data alle stampe (prima grammatica dell’italiano uscì nel 1516).
Una caratteristica della grammatica era l’attenzione per l’uso toscano del tempo, non per gli autori
antichi, per i quali non dimostra alcuna propensione. Nella grammatica dell’Alberti possiamo
analizzare alcune caratteristiche della morfologia:
1. scelta dell’articolo el invece di il’
2. preferenza per l’imperfetto in –o
82
L’articolo il era stata la forma prevalente a Firenze fino alla metà del ‘300. Analogamente, sempre a
Firenze, aveva preso il sopravvento la forma ‘io amavo’ su io amava.

2.3. Il Certame coronario


La promozione della lingua toscana da parte dell’Alberti culminò nell’iniziativa di: Il Certame
coronario risalente al 1441. Alberti organizzò una gara poetica in cui i concorrenti si affrontarono
con componimenti in volgare; la giuria era composta da umanisti e non assegnò il premio, così che
gli fu indirizzata un’anonima Protesta, in cui si lamentava che gli avversari del volgare ritenessero
indegno che una lingua come l’italiano pretendesse di gareggiare col latino.

3. L’Umanesimo volgare alla corte di Lorenzo il Magnifico


3.1. L’aspirazione al primato di Firenze
A Firenze all’età di Lorenzo il Magnifico, si ebbe un forte rilancio dell’iniziativa in favore del
toscano; i protagonisti di questa svolta furono Cristoforo Landino e il Poliziano.
Landino fu cultore della poesia di Dante e Petrarca, fino ad introdurre la lettura di questi autori
nella cittadella universitaria, sostanzialmente refrattaria al volgare. Qui tale esperienza, pur nuova
in parte, aveva buone radici: basti pensare alle Lecturae Dantis che risalivano già a Boccaccio.
Landino espose tesi che in parte ricordavano quelle dell’Alberti, riprese poi nel XVI secolo: negava
la naturale inferiorità del volgare rispetto al latino e invitava i concittadini di Firenze a darsi da fare
perché la città avesse ottenuto il “principato” della lingua.
Lorenzo il Magnifico, nel proemio al Comento per alcuni suoi sonetti, tra il 1482 e il 1484,
prospettava uno sviluppo del fiorentino. Lo sviluppo della lingua si legava ad una concezione
patriottica, intesa come patrimonio e potenzialità dello stato mediceo, collocato alla pari delle molte
risorse di arte e di cultura proprie di questa regione.

3.2. Landino traduttore di Plinio


Famoso è il suo commento a Dante e la sua traduzione in volgare della Naturalis historia di Plinio,
un testo difficile per la gran quantità di tecnicismi legati al contenuto scientifico-enciclopedico
dell’opera. Landino sosteneva la necessità che il fiorentino si arricchisse con un apporto delle
lingue latina e greca: la traduzione aveva una funzione importante. Nel tradurre, diede spazio a
voci toscane popolari, tanto più evidenziate se si confronta con la successiva di Brancati, che la
tradusse in polemica con l’esito toscano di Landino.

3.3. La raccolta aragonese


Nel 1447 Lorenzo il Magnifico inviò a Federico, figlio del re Ferdinando di Napoli, una raccolta di
poesie, note col nome di Silloge o Raccolta aragonese: raccolta antologica della tradizione
letteraria volgare che andava dai pre-danteschi e dallo Stilnovo fino a Lorenzo il Magnifico.

83
L’antologia era accompagnata da un’importante epistola, ancora oggi attribuita a Poliziano,
segretario privato di Lorenzo. Con Lorenzo il Magnifico e con la sua esaltazione del fiorentino, per
la prima volta la promozione del volgare, la rivendicazione delle sue possibilità si collegavano ad
un preciso intervento culturale e letterario, non disgiunto da un disegno ‘politico’ in senso lato, visto
che erano proprio i toscani a rivendicare il valore della loro lingua.

3.4. Realizzazioni di linguaggio poetico in Toscana


La vitalità dell’Umanesimo volgare fiorentino, aveva particolare interesse verso le realizzazioni
poetiche di Lorenzo e del suo entourage. Il volgare era soggetto di un esercizio letterario colto, in
ambiente d’élite, da parte di autori che erano in grado di apprezzare le bellezze della letteratura
classica. Significativo era l’esperimento della letteratura rusticale a cui appartiene la Nencia da
Barberino, poemetto di Lorenzo de’ Medici, di cui esistono quattro redazioni di diversa lunghezza.
Più complessa fu l’esperienza poetica di Poliziano, che fu in grado di usare tre lingue: il greco, il
latino e il toscano; interessanti sono le Stanze per la giostra di Giuliano de’ Medici, composte tra il
1475 e il 1478 e lasciate incompiute. Per quanto riguarda l’opera si pongono problemi di natura
filologica, poiché esistono 6 manoscritti che tramandano il testo, e l’editio princeps del 1494 non fu
curata dall’autore.

Nell’ambiente mediceo si assiste alla prima trasposizione su un piano colto di un genere popolare:
il cantare cavalleresco, formato da ottave e portato sulle piazze da cantastorie, per
l’intrattenimento del pubblico. Il Morgante di Pulci fu composto su richiesta di Lucrezia Tornabuoni,
madre di Lorenzo il Magnifico, fra il 1461 e il 1481, recuperando forme popolari. Per capire quanto
sia interessante dal punto di vista linguistico un attore come Pulci, basta pensare al fatto che
questo scrisse a Lorenzo una lettera in furbesco51 (uso del gergo) e compilò un Vocabolista, ossia
una raccolta ad uso privato, considerata un antecedente di un vocabolario italiano (oltre 700
vocaboli riuniti, tra cui latinismi tradotti con parole dell’uso comune). Molte delle voci si ritrovano
nel Morgante, in cui tra l’altro si riscontra una notevole varietà lessicale: viene definito un
‘esuberante ed eclettico mosaico’.

Un altro autore fiorentino, Il Burchiello (Domenico di Giovanni) è famoso per aver perseguito un
genere di poesia comica, fondata sul gioco dei doppi sensi e sull’invenzione verbale, ai limiti del
non senso e dell’incomprensibilità. Il linguaggio di questa poesia si ricollega al precedente della
letteratura realistico-giocosa, una tradizione comico-burlesca che risale a Cecco Angiolieri e
Rustico Filippi. Si trova l’imitazione della parlata altrui, in 3 sonetti, in cui fa la parodia del
veneziano, del senese e del romanesco.

51 Gergo della malavita e dei pitocchi.


84
3.5. La prosa toscana
Il rapporto col parlato è avvertibile nella produzione novellistica toscana, soprattutto nelle parti
dialogate, dove emergono plebeismi, come nei Motti e facezie del Piovani Arlotto o nella Novella
del Grasso legnaiolo. Il genere delle novelle si colloca su un piano diverso rispetto alla prosa
nobile, di ispirazione latineggiante, quale quella di Leon Battista Alberti.
Un ruolo particolare ebbero i romanzi di Andrea da Barberino, soprattutto i Reali di Francia: genere
tipicamente popolare, che fece circolare modelli di prosa italiana tra un pubblico avvezzo al
dialetto. La lunga fortuna di questo testo è da ricondurre alle vicende linguistiche del popolo nei
secoli successivi al XV secolo. Le storie raccontate sono sempre uguali a se stesse; si tratta di una
prosa con poche pretese, che ricorda il colorito popolare della narrativa preboccacciana. Il testo fu
sottoposto a revisione grafica e ad una “pulizia” linguistica, destinato al consumo popolare.

4. La letteratura religiosa e la sua influenza


La letteratura religiosa era fondamentale per la circolazione tra il popolo. Nel ‘400 si trovano i
laudari, in suo presso molte comunità dell’Italia settentrionale e in zone del Piemonte, i cui esiti si
avvicinavano in parte alla lingua francese. Nel dialetto piemontese, gli infiniti dei verbi latini in–ARE
hanno esito in –è (CANTARE > cantè).
Spesso si rima ad una toscanizzazione come nella Passione di Revello: lunga e sacra
rappresentazione del 1490 nel Piemonte occidentale; testo ricco di forme settentrionali e locali,
non senza esiti toscani (-are in verbi come pregare, avvisare, perdonare; il piemontese avrebbe la
forma in –è o –er). Le sacre rappresentazioni erano messe in scena per un pubblico popolare e gli
incolti potevano conoscere una lingua più nobile e toscanizzata. Più legato alla parlata locale è il
Judicio della fine del mondo, di cui abbiamo una stampa del 1510.

Anche la predicazione si rivolgeva al popolo e doveva servirsi del volgare. Il volgare della
predicazione era molto vicino al dialetto, o volgare locale. Nel ‘400 però la lingua toscana esercita
anche in questo campo un prestigio al di là dei suoi confini geografici.
I testi delle prediche di San Bernardino da Siena, non sono autografi e non sono affidabili per
quanto riguarda la fonetica e la morfologia, anche se sono utili per la sintassi, lo stile e il lessico e
riescono a trasmettere abbastanza bene i caratteri dell’oralità. San Bernardino voleva fare uso di
una lingua semplice e colloquiale, con esempi tratti dalla vita quotidiana, citando mestieri,
situazioni comuni, luoghi familiari. Diverso il caso di Savonarola, un non-toscano, proveniente
dall’Italia Settentrionale, che approdò a Firenze e vi dovette esercitare la sua missione, parlando ai
cittadini dal pulpito. Fu dunque costretto ad una sorta di ‘toscanizzazione’. 

La condizione dei predicatori, i quali si muovevano in lungo e largo, consentiva loro di raggiungere
un possesso del volgare che fosse in grado di comunicare al di là dei confini di una singola
regione.

85
5. La lingua di koinè e le cancellerie
La poesia volgare ebbe una maggiore uniformità rispetto alla prosa; quest’ultima non si poteva
limitare al solo uso novellistico - narrativo, ma aveva bisogno di estendersi a settori extraletterari,
all’impiego privato, familiare, cancelleresco. Ognuno di questi momenti necessitava un grado
diverso di formalizzazione, e quindi un diverso compromesso con i volgari regionali.
Si può parlare di una varietà di scriptae, ossia lingue scritte e attestate da documenti dell’epoca,
collocate in precisi spazi sociali e geografici. Nel ‘400, le scriptae mostrano una tendenza al
‘conguaglio’, cioè all’eliminazione di tratti più vistosamente locali. Dunque le scriptae si avviano
verso forme di koinè, termine tecnico per indicare una lingua comune superdialettale. La koinè
quattrocentesca consiste in una lingua scritta che mira all’eliminazione di una parte dei tratti locali,
accogliendo largamente latinismi e appoggiandosi al toscano.

L’uso del volgare fu avviato nelle cancellerie principesche, ad opera di funzionari, in genere notai;
ad esempio i documenti volgari nella cancelleria viscontea cominciano dal 1426. L’uso delle
cancellerie fu influenzato dai gusti linguistici e letterari della corte, di cui cancellieri e segretari
facevano parte. Le testimonianze più significative del processo di italianizzazione delle koinai
regionali furono le lettere di rappresentanti diplomatici dei vari principati.
L’azione dei modelli letterari toscani influì sul livellamento delle koinai, esercitandosi al di là
dell’ambito della scrittura d’arte: non si può negare che molti scriventi, i quali utilizzavano le koinai,
erano lettori attenti degli autori toscani, e potevano quindi più o meno trasportare nelle scritture di
uso pratico forme incontrati nei testi di letteratura.

Lo scarto tra scrittura pratica e scrittura letteraria rimaneva comunque ben marcato. Boiardo, le cui
lettere private sono a un livello di formalizzazione e toscanizzazione minore rispetto alle opere
poetiche, è un esempio. Nelle sue epistole non si trovano tratti dialettali emiliani, ma elementi
settentrionali e non manca qualche toscanismo di matrice letteraria, come l’articolo il al posto di el.
Il latinismo è una soluzione linguistica naturale, ma riempie una lacuna lessicale lasciata
dall’artificiale coscienza toscana dello scrivente e quindi adempie a una funzione non puramente
ornamentale e stilistica, ma strutturale. Quindi nell’incertezza di un uso non ancora codificato da
grammatiche e vocabolari, il latinismo era un punto di appoggio.

La koinè si sviluppò anche nell’uso tecnico-scientifico. (Summa de arithmetica di Pacioli)


Baldassar Castiglione, partito nelle sue lettere da un linguaggio cortigiano corrispondente alla
koinè cancelleresca mantovana, se ne staccò tramite piccole conversioni linguistiche, man mano
che veniva a contatto con le corti italiane. Eliminò le forme metafonetiche nui e vui.

86
6. Fortuna del toscano letterario
6.1. Modelli della lingua toscana nelle corti d’Italia
Il volgare toscano acquistò un prestigio crescente dalla seconda metà del ‘300, a partire dalla
presenza fuori dalla Toscana di autori come Dante e Petrarca, che si mossero in area
settentrionale: precoce fu la diffusione della Commedia e del Canzoniere. Il Decameron non fu da
meno, anche se in certe zone fu tradotto in francese. Si formarono le biblioteche di studio, di
impronta umanistica, in cui avevano spazio esclusivo gli autori latini. Il pubblico ideale, signorile,
era bilingue o trilingue: leggeva libri italiani, francesi e latini.

A Milano l’apertura verso la letteratura toscana fu avviata da Filippo Maria Visconti, che leggeva
Petrarca e Boccaccio e che fece compilare intorno al 1440 un commento all’Inferno dantesco, e
fece commentare Petrarca dal Filelfo. La tipografia milanese aveva concesso spazio alle opere dei
grandi trecentisti toscani; si diffuse la stampa di testi italiani prodotti in territorio lombardo: segno di
una richiesta del mercato, indirizzato in maniera positiva verso la letteratura volgare. Insieme a
Firenze e Milano, anche Venezia era una città di stampa: dal 1470 era uscito il Canzoniere di
Petrarca52 e nel 1471 il Decameron. A Mantova il mecenatismo dei Gonzaga si era esercitato nei
confronti di autori come Alberti e Poliziano, che proprio qui compose, per una festa di corte,
l’Orfeo.

6.2. Un caso di toscanizzazione nel Settentrione d’Italia: la lirica di Boiardo


Matteo Maria Boiardo arrivò alla poesia in volgare dopo un’esperienza poetica in lingua latina. Egli
operò in una dimensione acronica, dunque volontariamente sradicato dal proprio terreno linguistico
dialettale e assimilò librescamente il toscano, senza percepire questo linguaggio come lingua vera
e viva. Egli non era influenzato dalla letteratura medicea dell’Umanesimo volgare per ragioni
cronologiche, e il suo punto di riferimento era il Trecento, in particolare la poesia del Petrarca. Un
altro punto di riferimento era il latino: frequenti erano i latinismi che si riflettevano sul vocalismo
tonico, in cui ricorrevano i e u al posto di e ed o. Un tratto toscano è l’anaforesi in lingua, vermiglio,
anche se l’esito locale è presente in parole come gionto,ponto,longo.

Il confronto tra Boiardo e il suo Orlando innamorato è reso difficile dal fatto che non si possiede
l’originale e nemmeno le due edizioni principes quattrocentesche; le due più antiche edizioni del
poema sono del 1487 e del 1506 e sono giunte a noi in un’unica copia. Questa rarità si spiega con
il carattere popolare del testo, che comporta una vera e propria usura. Si ha anche un manoscritto,
che però è posteriore al 1495. 


52 Boiardo in ambiente emiliano, si dedicava all’imitazione petrarchesca negli Amorum libri, dove la
toscanizzazione è più forte.
87
Le due stampe presentano un colorito più dialettale, mentre il manoscritto è maggiormente
toscanizzato.

6.3. Il linguaggio della lirica nell’Italia meridionale


Quando si instaurò a Napoli la corte aragonese, fiorì una poesia cortigiana di cui sono esponenti
autori come Francesco Galeota, Caracciolo, Pietro Jacopo de Jennaro. La lingua di questi autori
può essere studiata confrontandola con la koinè meridionale, con il toscano letterario e il toscano
contemporaneo. I tratti linguistici più comuni emersi sono:
1. forme anafonetiche fiorentine e forme senza anafonesi.
2. Oscillazione tra ar protonica locale e er fiorentino nei futuri e condizionali dei verbi.
3. Oscillazione tra possessivi toa, soa e i toscani tua, sua.
4. Forme come iorno, iace ( passaggio DJ a j).
5. Articoli lo e lui.
6. Forme del futuro in –aio e –aggio

La generazione successiva dei poeti meridionali, ebbe come rappresentanti Cariteo e Sannazzaro;
quest’ultimo è ricordato per l’Arcadia, appartenente al genere bucolico, di cui esistono due
redazioni e in cui si alternano egloghe pastorali e parti in prosa. La prima redazione risale al
1484-1486 e la seconda fu pubblicata nel 1504. La prosa dell’Arcadia è importante, in quanto è la
prima prosa d’arte composta fuori dalla Toscana, in una lingua appresa ex novo, ed è il primo
esempio di revisione linguistica in senso toscaneggiante ad opera di uno scrittore periferico.


7. La prosa narrativa non toscana

Fuori di Toscana, la prosa narrativa rivela la presenza di idiotismi settentrionali, come nelle
Porretane del bolognese Sabatino degli Arienti. Molti meridionalismi si rintracciano nelle novelle di
Masuccio Salernitano, il quale imita Boccaccio.

88
Capitolo 9
Il Cinquecento

1. Italiano e latino
Nel ‘500 il volgare raggiunse piena maturità, ottenendo il riconoscimento unanime dei dotti. In
questo secolo assistiamo al trionfo della letteratura in volgare, con il fiorire di autori tra i massimi
della nostra tradizione, come Ariosto, Tasso, Machiavelli, Guicciardini e inoltre il volgare scritto
raggiunse un pubblico molto ampio di lettori. La storia della lingua italiana nel periodo dal
Cinquecento al settecento potrebbe essere vista come una lotta serrata con il latino, a cui venne
tolto progressivamente spazio.

Nel Rinascimento, la maggior parte dei libri pubblicati era ancora in latino e la lingua resisteva al
livello più alto della cultura, ma gli intellettuali avevano fiducia nella nuova lingua: tale crescente
fiducia derivava anche dal processo di regolamentazione grammaticale. Determinante fu la
pubblicazione delle Prose della volgare lingua di Pietro Bembo. Si ebbero le prime grammatiche a
stampa dell’italiano e i primi lessici; la maggior parte dei lettori cercava delle risposte pratiche, una
guida per scrivere correttamente liberandosi dagli eccessivi latinismi e dialettismi.


Verso la metà del secolo si assiste al tramonto della scrittura di koinè, tipica del ‘400, era
caratterizzata da contaminazioni di parlate locali, latino e toscano, rimase d’allora in poi
appannaggio degli scriventi meno colti. Attraverso una regolamentazione normativa, l’italiano
raggiunse uno status di lingua di cultura di altissima dignità, con un prestigio di rilievo anche
all’estero. Va comunque tenuto presente che, se pur il volgare nel sec. XVI si collocò nei confronti
del latino in una posizione di forza molto maggiore rispetto al secolo precedente, il latino
continuava ad avere una posizione rilevante, in molti settori ancora egemonica. Ad esempio nel
diritto e nell’amministrazione della giustizia, il latino aveva una netta prevalenza, specialmente nel
terreno dello ius inteso a livello superiore (tradizione del diritto romano).

Ma la giustizia non riguarda solo disquisizioni dei teorici. Nella pratica di tutti i giorni, nelle
verbalizzazioni delle inchieste, il volgare trovava spazio, più o meno ufficialmente. Migliorini ha
fornito dei campioni interessanti relativi ad interrogatori del secolo XVI, in questi si assiste alla
mescolanza di due codici, quello latino e quello italiano. Ad esempio l’inquisitore veneziano scrive il
verbale in latino e registra le risposte in italiano, l’inquisitore calabrese mescola latino e italiano in
maniera meno sistematica.

Le forme di coesistenza tra volgare e latino nelle carte giudiziarie possono essere meglio verificate
attraverso il vario corpus di documenti relativi al processo del Sant’Offizio contro Giordano Bruno e

89
al processo napoletano a Tommaso Campanella. Da questi emerge un variato intreccio tra latino e
italiano, tra scritto e parlato, tra formula giudiziaria e la registrazione della viva voce.

Marazzini ha preso in esame un campione che dà un’idea del rapporto intercorrente tra italiano e
latino nel campo del diritto civile, in riferimento all’uso di vari stati italiani. Si tratta dei ‘privilegi’
53concessi all’ed. del Decameron di Salviati. Ebbene, su undici privilegi concessi al Decameron da
governanti di stati italiani, ben sette sono in latino, due mescolano italiano e latino e due sono
integramente in italiano.

Un’idea del rapporto tra italiano e latino si può avere anche dal peso che le due lingue avevano
nella produzione dei libri. Seguendo Migliorini si può far riferimento ai vari generi, in cui lo spazio
occupato dalla lingua classica è differente : quasi esclusivamente in latino sono le opere di
filosofia, medicina, matematica. Il volgare veniva usato nella scienza quando si trattava di
stampare opere di divulgazione, avendo uno spazio rilevante nei testi di arti applicate. Quanto al
settore umanistico-letterario, il volgare trionfò nella letteratura e si affermò nella storiografia, grazie
a Machiavelli e Guicciardini.


La percentuale più alta di libri stampati venne stampata dall’editoria di Venezia, seguita da quella
di Firenze. Nella Roma della seconda metà del ‘500 la produzione dei libri in volgare è al di sotto
del 50% (quindi la maggior parte dei libri prodotti è in latino), a Torino e Pavia accadde la stessa
cosa in quanto città periferiche rispetto al centro toscano e caratterizzate da una forte presenza
della cultura universitaria, legata alla lingua latina. A Roma il latino è egemonico perché lingua
della Chiesa, la quale si mantiene piuttosto distante dalla letteratura profana volgare.

2.La quesitone della lingua 



2.1 Pietro Bembo: dalle edizioni del 1501-1502 alle Prose della volgare lingua

Nell’avvio dell’attività di Bembo è importante il sodalizio con l’editore veneziano Aldo Manuzio, uno
dei grandi maestri dell’arte tipografica italiana ed europea. Manuzio aveva stampato nel 1499
l’Hypnerotomachia Poliphili, libro saturo di latinismi. Il suo secondo libro stampato in volgare fu
l’edizione delle Lettere di Santa Caterina, nel 1500. Ma il volgare di Manuzio non ha nulla a che
vedere con la proposta di Bembo. 

Nel 1501 Manuzio stampò due classici, Virgilio e Orazio, scegliendo un formato editoriale di
piccole dimensioni, ossia il tascabile. Egli divenne famoso anche per il carattere tipografico
corsivo, detto aldino.

Concessioni con cui, in un’epoca che non conosceva ancora il moderno concetto giuridico di ‘diritto
d’autore’, veniva attribuita un’esclusiva sulla stampa ad un singolo tipografo, impedendo ai suoi concorrenti
di riprodurre e commerciare la stessa opera.
90
Nello stesso anno usciva il Petrarca volgare curato da Bembo. Lo stampatore Manuzio, nella
premessa a questa edizione del Petrarca, difendeva il testo dalle rimostranze di coloro che vi
avrebbero eventualmente potuto riconoscere un allontanamento dalle tradizionali grafie
latineggianti, eredità della koinè quattro-cinquecentesca. Tale allontanamento dalla consuetudine
era visibile fin dal titolo del libro, che era Le cose volgari di Messer Francesco Petrarca, e non le
cose vulgari.

Le innovazioni introdotte da Bembo erano anche di maggiore portata: la forma linguistica di quel
testo di Petrarca era quella su cui si sarebbero fondate in seguito le teorizzazioni delle Prose.
Compariva qui per la prima volta il segno dell’apostrofo, ispirato alla grafia greca, destinato a
diventare presto stabile in italiano. L’anno dopo nel 1502, Aldo pubblicò la Commedia curata da
Bembo. Negli stessi anni Bembo scriveva gli Asolani, stampati nel 1505, anch’essi presso il
Manuzio. In questa prosa trattatistica e filosofica era già in atto l’imitazione linguistica di Boccaccio,
quale poi sarebbe stata teorizzata nelle Prose. Bembo ricavava da Boccaccio una lezione di
lingua, prima che di stile, come ha notato Dionisotti: “Era una questione di grammatica”.

Il dibattito teorico sulla lingua non fu mai così acceso come nel ‘500: l’esito delle discussioni fu la
stabilizzazione normativa dell’italiano. La questione della lingua, sulla natura del volgare, non va
intesa come una diatriba tra letterati ma come un momento determinante in cui le teorie estetico-
letterarie si collegano ad un progetto di sviluppo delle lettere. Al centro di questo dibattito possiamo
collocare le Prose, pubblicate a Venezia nel 1525: è l’edito princeps54, conservato nella Biblioteca
Vaticana di Roma.

Le Prose sono divisibili in 3 libri, il terzo dei quali contiene una grammatica dell’italiano, che risulta
però poco sistematica e anche perché il trattato ha forma dialogica. Più che grammatica
schematica e metodica si tratta di una serie di norme e regole esposte nella finzione di un dialogo,
da cui emerge un profilo dell’italiano, che Bembo teorizzava.

Il dialogo è collocato nel 1502 e vi prendono parte 4 personaggi, ognuno dei quali è portavoce di
una tesi diversa:

1. Giuliano de’Medici, terzo figlio di Lorenzo il Magnifico, rappresenta la continuità con il pensiero
dell’Umanesimo volgare.

2. Federico Fregoso espone molte tesi storiche presenti nella trattazione.

3. Ercole Strozzi, umanista e poeta in latino, espone le tesi degli avversari del volgare. 


54 Così si usa chiamare la prima edizione a stampa di un’opera classica, medievale o moderna.
91
4. Carlo Bembo, fratello dell’autore, è portavoce delle idee di Pietro.

Nelle Prose viene fatta un’ampia analisi storico-linguistica, prendendo le distanze dalla tesi di
Bruni, secondo cui l’italiano era già esistito al tempo dell’antica Roma, come lingua popolare.
Bembo non accettava la ricostruzione storica e ne individuava i rischi, facendo osservare a Ercole
Strozzi, sostenitore del primato del latino, che non ci sarebbe stato nessun motivo di adottare una
lingua scacciata dalle scritture classiche. Secondo Biondo Flavio, il volgare era nato dalla
contaminazione del latino ad opera degli invasori barbari e il volgare stesso diventava un’entità
nuova, da riscattare tramite gli scrittori e la letteratura. Il principio adottato è quello di un possibile
mutamento delle qualità delle lingue, la cui eventuale barbarie originaria non risulta irreversibile.

L’italiano stava progressivamente migliorando, mentre il provenzale stava perdendo terreno. Il


discorso così si spostava sul piano della letteratura, le cui sorti erano inscindibili da quelle della
lingua. Quando Bembo parlava di lingua volgare, intendeva il toscano, ma non quello vivente ne
tantomeno quello parlato nella Firenze del XVI secolo, ma quello letterario trecentesco dei grandi
autori, di Petrarca e Boccaccio.
Tesi fondamentale delle Prose: non nega che i toscani siano avvantaggiati sugli altri italiani nella
conversazione, ma questo non è oggetto del trattato, che non si occupa del comune parlato, ma
della nobile lingua della letteratura. Il vantaggio dei toscani nella conversazione è visto addirittura
come un elemento di rischio: proprio la comunanza del fiorentino moderno con la lingua popolare
risulta dannosa, in quanto i letterati fiorentini possono essere portati più degli altri ad accogliere
parole popolari che macchiano la dignità della scrittura. La lingua non si acquisisce dal popolo,
secondo Bembo, ma dalla frequentazione di modelli scritti, i grandi trecentisti, appunto.

Bembo sapeva perfettamente che la scelta del modello costruito dalle Tre Corone riportava indietro
nel tempo, con un salto nel passato tale da far dubitare che egli volesse parlare “a’ morti più che a’
vivi”. La sua teoria voleva coniugare la modernità della scelta del volgare, secondo un ideale
classicistico.

Requisito per la nobilitazione del volgare era un totale rifiuto della popolarità; ecco perché Bembo
non apprezzava le scelte di Dante nella Commedia di scendere verso il basso. Da questo punto di
vista il Canzoniere non presentava difetti, per la sua assoluta selezione linguistico-lessicale. Un
problema invece poteva venire dalle parti del Decameron, in cui emergeva più vivace il parlato.
Bembo si preoccupava di precisare che le parti a cui faceva riferimento nel Decameron non erano
quelle dialogate, in cui emergeva il parlato, ma quelle dove era visibile lo stile dello scrittore, con la
sua sintassi latineggiante, le inversioni e le frasi gerundive. Bembo era favorevole a una
regolamentazione del latino aderente al periodo aureo della classicità, fondata sul binomio Virgilio-
Cicerone e a cui corrispondevano nel volgare Petrarca e Boccaccio.

92
La soluzione di Bembo era quella vincente. Essa formalizzava quanto era avvenuto nella prassi: il
volgare si era diffuso in tutta Italia come lingua della letteratura attraverso un’imitazione, più o
meno cosciente, dei grandi trecentisti. La grammatica dell’autore permetteva di portare a
compimento quel processo, depurando il volgare dagli elementi eterogenei della koinè primo-
cinquecentista.

2.2 La teoria cortigiana 



Per Calmeta il volgare migliore era quello usato nelle corti italiane e soprattutto nella corte di
Roma. Una formulazione più precisa è data da Ludovico Castelvetro: faceva riferimento a una
fiorentinità della lingua, che si doveva apprendere sui testi di Dante e Petrarca e doveva essere
affinata attraverso l’uso della corte di Roma, una corte che effettivamente era al di sopra del
particolarismo municipale. Nel ‘500 Roma era una città cosmopolita e la sua popolazione era molto
esposta alla penetrazione di mode linguistiche, determinate dalla corte papale, sempre più italiana,
che col Piccolomini prima e poi coi Medici, aveva visto crescere la presenza toscana. A Roma si
realizzava un fenomeno verificabile peraltro anche in altre corti: la circolazione di genti diverse
favoriva il diffondersi di una lingua di conversazione superregionale di qualità alta, di base toscana,
ma disponibile ad apporti diversi.

Mario Equicola aveva parlato di una lingua capace di accogliere vocaboli di tutte le regioni italiane,
mai plebea e con una coloritura latineggiante e il cui modello risiedeva nella Corte di Roma. Nel De
natura de amore dichiarava di aver usato una lingua “commune”, stesso aggettivo utilizzato da
Baldassar Castiglione nel Cortegiano, uscito nel 1528. I fautori della lingua cortigiana non volevano
limitarsi all’imitazione del toscano arcaico, ma preferivano far riferimento all’uso vivo di un
ambiente sociale determinato, quale era la corte. Bembo obiettava che la lingua cortigiana era
un’entità difficile da definire e non riconducibile all’omogeneità. Proprio per questo motivo non li
fece vincere nel dibattito cinquecentesco. La teoria arcaicizzante di Bembo aveva su di essa il
considerevole vantaggio di offrire modelli più precisi .

2.3 La teoria italiana di Trissino



Analogie con la teoria cortigiana presenta la tesi del letterato Giovan Giorgio Trissino, teoria legata
anche alla riscoperta del De vulgari eloquentia.

Nel 1529 Trissino fece stampare il trattato dantesco, in traduzione italiana e non latina e nello
stesso anno pubblicò il Castellano, un dialogo in cui sosteneva che la lingua poetica di Petrarca
fosse composta da vocaboli provenienti da ogni parte d’Italia e non era definibile come fiorentina,
bensì come italiana. La sua tesi negava la fiorentinità della lingua letteraria e faceva appello alle
pagine in cui Dante aveva condannato la lingua fiorentina. La sua teoria si sviluppava in funzione
della riscoperta e riproposta del trattato dantesco. 


93
Trissino era convinto che la Commedia fosse stata scritta da Dante in omaggio ai principi esposti
nel trattato e ne rappresentasse la realizzazione. Egli aveva proposto una riforma del’alfabeto
italiano, con l’introduzione di due segni del greco: epsilon e omega.

2.4 La cultura toscana di fronte a Trissino e a Bembo 



Alla cultura toscana non piacque la riproposta del De vulgari eloquentia, rimesso in circolazione da
Trissino, anche se esercitò influenza su Rucellai, Alamanni e Guidetti.

La più interessante reazione e Trissino fu il Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua attribuito a
Machiavelli: nel testo viene introdotto Dante che dialoga con Machiavelli, chiedendo scusa degli
errori commessi scrivendo il De vulgari, per aver scritto in fiorentino e non in lingua curiale. Trissino
non è menzionato espressamente, ma si parla di letterati non toscani che volevano indebitamente
farsi maestri di lingua. Viene rivendicato il primato linguistico di Firenze contro le pretese
settentrionali. Il Discorso rimase inedito fino al’700 e non influì sul dibattito della lingua. Si ebbe
una polemica sull’autenticità del De vulgari, favorita dal fatto che Trissino non rese mai pubblico il
testo originale latino dell’opera, stampato solo nel 1577 a Parigi da Jacopo Corbinelli. La
traduzione circolò più dell’originale latino, finché i due testi non furono uniti nel 1729. Il trattato
dantesco divenne riferimento per gli avversari delle teorie linguistiche fiorentine, mentre furono ad
esso avversi tutti coloro che ebbero fiducia nel primato naturale della lingua fiorentina vivente.

2.5 L’Hercolano di Varchi 



Dal dibattito uscì vincente la tesi fiorentinista arcaizzante di Bembo, ma la cultura pur respingendo
quest’ultima non riuscì a trovare un modello da contrapporvi in maniera convincente. La situazione
mutò nella seconda metà del secolo, quando uscì l’Hercolano di Benedetto Varchi, fiorentino, che
aveva maturato un’esperienza culturale al di fuori della sua città, essendo stato esule a causa di
trascorsi politici antimedicei. A Padova aveva avuto modo di frequentare l’Accademia degli
Infiammati, dov’era viva la lezione di Bembo, lo aveva conosciuto di persona, mostrando sempre
un atteggiamento di deferenza. Egli ebbe il merito di introdurre il bembismo nella città che più gli
era avversa, cioè Firenze, dove si rischiava di cadere in una posizione provinciale e marginale.


La rilettura di Bembo condotta da Varchi non fu fedele, anzi risultò un tradimento delle premesse
del classicismo volgare. Ciò servì a rimettere in gioco il fiorentino vivo: fu una riscoperta del
parlato. Per Varchi la pluralità dei linguaggi non andava spiegata con la maledizione babelica, ma
con la naturale tendenza alla varietà propria della natura umana. Inutile veniva reputata la ricerca
del primo linguaggio umano, che secondo il De vulgari, era l’ebraico.

Il concetto di lingua veniva discusso nell’ambito di una concezione sociale del linguaggio e veniva
proposta anche una classificazione delle lingue basata su alcuni elementi:
1. la loro provenienza dall’estero. 


94
2. La loro esistenza in un luogo.
3. Il patrimonio di cultura e letteratura.
4. La natura di idiomi vivi o morti
5. La comprensibilità 


Varchi affidava il modello alla lingua parlata di Firenze. Molte pagine dell’Hercolano contengono
liste di espressioni proverbiali fiorentine, allo scopo di semplificare la ricchezza e varietà della
lingua parlata. La revisione del bembismo vanificava l’austero rigore delle Prose, caratterizzate
dalla loro attenzione per il ruolo dei grandi scrittori e dall’affermazione che la città di Firenze non
poteva vantare nessun primato. L’Hercolano sanciva il principio che esisteva un’autorità popolare
da affiancare a quella dei grandi scrittori. 


3. La stabilizzazione della norma linguistica


3.1 La prima grammatica a stampa della lingua italiana 

Nel ‘500 si ebbero le prime grammatiche e i primi vocabolari, in cui si riflettevano le proposte
teoriche, come quella di Bembo. Si stabilizzò anche la terminologia linguistico-grammaticale. Il
terzo libro delle Prose è esso stesso una grammatica, seppur esposta in forma dialogica. Non fu
questa però la prima grammatica data alle stampe. Giovani Francesco Fortunio precedette Bembo,
con le Regole grammaticali della volgar lingua, opera che non ha la stessa teorizzazione
sistematica dell’opera, ma che non si discosta da quell’ideale bembiano. L’ordito di questa
grammatica è piuttosto scarno. Le parti del discorso di cui si dà conto sono ridotte a quattro: nome,
pronome, verbo e avverbio. Vi sono note dedicate all’aggettivo, alla congiunzione, alla
preposizione e all’interiezione.

3.2 Sviluppo della produzione grammaticale e dei primi lessici


Nella metà del ‘500 furono disponibili diverse grammatiche che illustravano la lingua teorizzata da
Bembo; esse no si proponevano obiettivi teorici, ma avevano uno scopo pratico. Nel 1550 uscirono
le Osservazioni nella volgar lingua di Ludovico Dolce, libretto di piccole dimensioni.
Nel 1562 l’editore Sansovino di Venezia pubblicò le Osservazioni della lingua volgare de diversi
uomini illustri, riunendo in un solo volume cinque opere grammaticali dalla prima metà del secolo,
di Fortunio, Bembo, Acarisio, Gabriele e Corso. Sulla linea del Bembo si collocano i Commentarii
della lingua italiana di Ruscelli, usciti postumi nel 1581.

Le grammatiche venivano pubblicate soprattutto dall’editoria veneta ed era pressoché assente in


Toscana, poiché non si sentiva il bisogno di consultare strumenti normativi di questo genere. A
Firenze si ebbe solo l’uscita della grammatica di Giambullari nel 1552, De la lingua che si parla e

95
scrive in Firenze, con cui si voleva riproporre la norma della lingua parlata a Firenze, rivolgendosi
ai non fiorentini e ai giovani, ma fu un fallimento.

Nacquero i primi lessici, antenati dei vocabolari, che contenevano un numero limitato di parole,
ricavate da spogli sugli scrittori, come Dante, Petrarca e Boccaccio in primis. Tra i più antichi libri
del genere si collocano Le tre fontane di Liburnio del 1526 fu un incrocio tra retorica, grammatica e
lessicografia; il titolo allude metaforicamente alle Tre Corone. Ancora alle Tre Corone si rifà il
napoletano Fabricio Luna, autore di un Vocabulario di cinquemila vocabuli toschi. Assomma in sé
tutti i desiderabili strumenti della regolamentazione normativa il Vocabolario, grammatica et
ortographia de la lingua volgare, stampato da Alberto Acarisio.
Più ampia è La fabrica del mondo di Francesco Alunno di Ferrara del 1548 è il più noto vocabolario
della prima metà del ‘500, strutturato in forma di dizionario metodico, con un indice alfabetico.

3.3 Gli scrittori di fronte alla grammatica di Bembo


L’effetto più noto della grammatica di Bembo si ebbe su un grande capolavoro come l’Orlando
furioso, perché Ariosto corresse la terza e definitiva edizione del poema seguendo le indicazioni
delle Prose.
1. I edizione: 1516, risente ancora del padano illustre, benché sia già notevolmente toscanizzata,
con uso delle consonanti doppie, nell’uso di c e z di fronte a vocale, si trovano forme come
giaccio, giotto per ghiaccio, ghiotto. Abbondano i latinismi lessicali, che già sappiamo essere
tipici della koinè padana.
2. II edizione: 1521, con correzioni come la sostituzione dell’articolo maschile el con il, le
desinenze del presente indicativo in prima persona plurale con –iamo, la prima persona
singolare dell’imperfetto in -a (andava e non andavo).
3. III edizione: 1532, con solo 3 casi di mancato dittongamento ie: prigionera, visera e destrero

4. L’italiano come lingua popolare e pratica


Nel ‘500 si assiste a una crescita dell’impiego della lingua italiana che si verifica nelle scritture e
nelle stampe. Aumentano le occasioni di scrivere, cresce l’uso della lingua, utilizzata anche da
persone di scarsa cultura. L’analfabetismo era diffuso, soprattutto nelle campagne, anche se nelle
città, in particolare a Roma, c’era chi non sapeva leggere e scrivere, come hanno dimostrato le
ricerche di Petrucci. Una delle scoperte più affascinanti di Petrucci è stato il quaderno di
Maddalena, pizzicarola trasteverina all’epoca del sacco di Roma (vedi capitolo III, punto 4.)

I carteggi dei cardinali Carlo e Federico Borromeo danno un’idea delle diverse forme di italiano non
letterario impiegate tra la fine del Cinquecento e inizio Seicento. Alcune lettere sono di chiara
matrice semicolta, e mostrano un approssimativo uso dell’italiano. Questi carteggiano presentano

96
una lingua satura di elementi dialettali. Il genere della lettera è uno dei primi in cui è dato trovare
l’italiano prodotto dai semicolti. Non sempre però il livello è cosi basso. Marazzini ha esaminato la
missiva di un capitano sabaudo che avvisa della diffusione della peste. Gli elementi locali sono
attenuati ma vi sono ipercorrettismi, scempiamenti, dialettismi lessicali, come codisella ‘bubbone’,
assibilazioni ecc.
Campioni dell’italiano dei semicolti si rintracciano nei diari, come la Cronaca tenuta da don Girgio
Franchi. Ma vi sono anche le dediche degli ex-voto come quello napoletano dove il dialetto affiora
nella fonetica (mancata palatalizzazione di /s/ in Sipione ecc) e nel lessico (manganiello, ‘machina
per sollevare i pesi’+ dittongo metafonetico).

5. Il ruolo delle accademie


5.1 L’accademia padovana degli infiammati e Sperone Speroni

I decisivi progressi per la crescita qualitativa del volgare vennero compiuti in ambienti di livello
molto più alto, là dove i dotti dibattevano di problemi teorici e normativi. Va sempre tenuta presente
questa stratificazione socioculturale, che si riflette direttamente nell’uso della lingua.
L’Accademia padovana degli Infiammati fu fondata nel 1540 ed era frequentata anche da Sperone
Speroni, autore del dialogo Delle lingue, pubblicato nel 1542. Tale dialogo è ambientato a Bologna
nel 1530: in esso viene introdotto Bembo che difende le proprie idee, mentre le altre posizioni nella
questione sono rappresentate da un ‘cortegiano' e da Lazzaro Bonamico, difensore del latino. Nel
dialogo viene introdotto un altro dialogo narrato da uno scolaro, che esprime una posizione
originale: quella del filosofo aristotelico Pomponazzi. Pomponazzi dichiarava che la filosofia
avrebbe dovuto essere trasportata dalle lingue classiche, dal latino e greco, alla lingua volgare,
con traduzioni e conseguente modernizzazione della cultura. Il latino e il greco gli sembravano un
ostacolo alla diffusione del sapere. Era una posizione controcorrente perché potesse avere
influenza in un secolo come il 500.

5.2 L’Accademia fiorentina 



Le accademie svolsero nel ‘500 una funzione di primo piano, in quanto influenzarono gli intellettuali
e vennero dibattuti i problemi principali culturali. L’accademia fu il luogo in cui vennero affrontate
questioni linguistiche attuali: ad esempio come nell’Accademia fiorentina nata nel 1541
dall’Accademia degli Umidi e che nel 1542 divenne un organismo ufficiale, finanziato da Cosimo
de’ Medici, ma che non fu in grado di realizzare una grammatica ufficiale della lingua toscana.

5.3 L’Accademia della Crusca e Salviati 



La più famosa accademia italiana che si occupò di lingua fu quella della Crusca. La fondazione
dell’Accademia della Crusca risale al 1582. Nel 1583 con l’ingresso di Lionardo Salviati
cominciarono ad affermarsi seri interessi filologici.


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La Crusca inizialmente si fece conoscere per la polemica, condotta soprattutto da Salviati, contro
la Gerusalemme Liberata di Tasso, a sostegno del primato dell’Ariosto. Salviati raggiunse la fama
come autore degli Avvertimenti della lingua sopra ‘l Decameron, un libro filologico e grammaticale,
inteso come intervento per renderlo ‘castigliato’, per spurgarlo dalle parti ritenute moralmente
censurabili. Tale celebre operazione di censura è nota come “rassettatura” del Decameron. Salviati
massacrò il lavoro boccacciano per togliere tutto quello che vi potesse apparire immorale e
antireligioso, come chiedeva il clima della Controriforma. Questo fu commissionato dal granduca
Francesco di Toscana per compiacere Sisto V e veniva dopo l’analoga effettuata dai “Deputati”
dell’Accademia fiorentina.

L’intervento di una censura moralistica fu dunque per paradosso, l’occasione per la nascita e lo
sviluppo di un’attenzione filologica per il testo del Decameron. Nell’opera più importante per la
prosa toscana, venivano distinti i contenuti dalla forma linguistica. Per salvare il libro di Boccaccio,
lo stile, si accettava di intervenire mutilando il testo.

Nel 1590 l’Accademia deliberò di rivedere e correggere il testo della Commedia di Dante e nel
1595 uscì a Firenze La Divina Commedia di Dante, ridotta dall’Accademia. Si trattò di un lavoro
“tanto dal punto di vista filologico vano e arbitrario, quanto significativo del rinato, pieno interesse
per la lingua di Dante” un autore che proprio la teoria bembiana aveva finito per collocare in
secondo piano rispetto a Petrarca.

6. La varietà della prosa


6.1 Le traduzioni, la saggistica e la prosa tecnica
L’architettura fu uno dei settori in cui l’italiano si impose, non solo nelle opere nuove, ma anche
traducendo ciò che si presentava in latino. In latino era ancora il quattrocentesco trattato De re
aedificatoria di Leon Battista Alberti, tradotto in volgare da Cosimo Bartoli, col titolo di
L’architettura. Fra le traduzioni, la più importante fu quella di Vitruvio, autore a cui Battista si era
ispirato; la prima traduzione italiana di Vitruvio c’era stata all’inizio del secolo XVI, da parte del
pittore Cesariano, traduzione con forme tipiche della koinè settentrionale. Il testo è vincolato dal
latino, non solo nelle scelte lessicali, ma anche nella costruzione della frase.


La trattatistica architettonica raggiunse nella seconda metà del ‘500 una maturità assoluta e una
perfezione terminologica notevole, tanto che molte parole italiane, relative all’architettura civile e
militare, entrarono anche nelle altre lingue europee: facciata, balcone, casamatta. Fra i grandi
trattati di architettura ricordiamo ad esempio quello di Andrea Palladio, I quattro libri
dell’architettura. Anche la trattatistica d’arte offrì molto materiale allo storico della lingua: dal 1550
al 1568 uscirono le Vite di Vasari. 


98
Le traduzioni dei classici costituiscono una parte importante per la storia dell’italiano; proprio nel
confronto col latino, gia avvenuta con i volgarizzamenti medievali, la lingua italiana affinò le proprie
capacità e potenzialità. Importanti furono le traduzioni di Aristotele, tra cui va ricordata la Retorica,
tradotta da Caro e poi da Piccolomini, che tradusse anche la Poetica, di cui vi è anche una celebre
traduzione di Castelvetro. Quanto a Platone, nel 1574 si ebbe la traduzione dei suoi Dialoghi.


Nel campo delle scienze naturali si continuò a tradurre la Storia naturale di Plinio, e vi furono
traduzioni anche di Plutarco e Polibio. L’abbondanza di traduzioni rispondeva a un desiderio di
divulgazione ed andava incontro ad un pubblico che non sempre era in grado di comprendere il
latino. Ne Il Brancatio della vera disciplina et arte militare, compendio dei Commentari di Cesare, si
legge che l’autore intende rivolgersi agli uomini d’arme sapendo che essi “sono poco amici di
legere cose gravi e di gran volume”.

La traduzione fu, come ho detto, il settore che meglio funzionò come banco di prova delle capacità
dell’italiano, e alcuni autori ne ebbero piena coscienza. La versione degli Annali di Tacito, tra il
1596 e il 1600, fu effettuata da Davanzati, che si sforzò di gareggiare con l’originale, per
dimostrare la brevità, la fierezza e l’arguzia dell’idioma fiorentino e per controbattere le censure
rivolte alla lingua italiana dall’umanista francese Henri Estienne, autore di un saggio sulla
Précellence du langage français55 . Estienne aveva condannato una precedente traduzione
tacitiana di Giorgio Dati per la sua incapacità di adeguarsi all’originale latino. Davanzati rinunciava
alla floridezza dello stile boccacciano e cercava semplicità nell’imitazione dello stile dei trecentisti
minori, usando anche elementi del parlato e popolari, seguendo il suo ideale di scrivere semplice.
Davanzati sottolinea come le parole italiane risultino più prestigiose delle francesi, perché più
sintetico dell’idioma d’oltralpe.

Nel 1532 fu stampato a Roma il trattato De principatibus di Machiavelli: il Principe è un esempio di


prosa, molto diverso da quello proposto da Bembo, in quanto Machiavelli scrisse in un fiorentino
ricco di latinismi, latinismi piuttosto crudi come tamen e etiam, i quali non hanno una funzione
nobilitante. Il fiorentino di Machiavelli accoglie tratti sociolingusiticamente bassi, non solo plebei,
tanto da far pensare ad un testo trascurato come osservò Ugo Foscolo. La sintassi di Machiavelli

55 In questo trattato, l’autore voleva dimostrare come la lingua francese non era inferiore a nessun’altra,
nemmeno all’italiano, il cui prestigio era allora grandissimo. L’italiano godette di grande prestigio
internazionale proprio quando l’Italia non aveva una posizione politica di rilievo, non essendo stato
nazionale. Il destino internazionale dell’Italia ha inizio nel Settecento con la progressiva crescita del ruolo del
francese.
99
mira ad una logica stringente, che non lascia alternative al lettore56 . 

Nella seconda metà del 500 fu stampata per la prima volta la Storia d’Italia di Guicciardini, che
però evita di scendere alle forme popolari come aveva fatto Machiavelli.

6.2 Il linguaggio scientifico 



Il volgare prevaleva nel settore della scienza applicata o diretta a fini pratici, non nella ricerca
accademica. Tra queste si possono ricordare le opere del senese Pierandrea Mattioli, che visse a
lungo all’estero, medico alla corte imperiale, fu autore dei Commentarii, che ebbero numerose
ristampe e che serviva a identificare e classificare le piante utili a fini medicinali. Il libro appartiene
al campo delle scienze e della medicina, ma possiede anche valore pratico, per questo è scritto in
italiano. Importante sottolineare il fatto che Mattioli era toscano, per ciò favorito nel possesso della
lingua.

La scelta del volgare acquista rilievo nel caso di Galileo. La voce di Galielo giungeva da un settore
refrattario al volgare, quello della scienza universitaria, non dal settore della meccanica applicata e
dell’artigianato. Rinunciando al latino, Galileo finiva per pagare un prezzo: il volgare, infatti, aveva
lo svantaggio di limitare la circolazione internazionale. Persino i libri di segreti si erano diffusi in
Europa non solo grazie alle traduzioni francesi, tedesche e inglesi, ma anche mediante quelle
latine, che potevano essere lette senza difficoltà dalle persone colte di tutte le nazioni.

6.3 La prosa di viaggio


L’interesse linguistico della letteratura di viaggio consiste nella possibilità di reperire neologismi e
forestierismi, legati alla descrizione di nazioni e luoghi esotici. Questo tipo di letteratura, inoltre,
può esprimere interessi linguistici, quando accade che il viaggiatore si occupi degli idiomi parlati o
scritti con cui è entrato in contatto. E’ rimasta famosa, un’annotazione del mercante fiorentino
Sassetti, segnalò curiose concordanze tra alcune parole indiane e italiane. Nella linguistica è
esista insomma quella che si potrebbe definire come una stagione dei viaggiatori. Anche la Chiesa
partecipò alla scoperta delle cilvità esotiche, attraverso i missionari. 

Tra gli ordini più attivi ci fu quello dei Gesuiti. Botero nelle Relazioni universali, del 1596, descrisse
tutte le parti del mondo conosciuto, attraverso i testi originali spagnoli di cui si servì come fonte; lo
spagnolo aveva una grande importanza come lingua internazionale. Infatti negli scritto di tutti i
viaggiatori ricorrono generalmente molti ispanismi, sia come prestiti di necessità, che come
citazioni: cosi la plata per ‘argento’, veraniglio per ‘estate di San Martino’ e tabardillo per ‘febbre
pestilenziale'. Lo spagnolo ed il portoghese erano considerati fondamentali cosi come oggi
l’inglese.

56 Serianni indica, tra le forme fiorentine usate dallo scrittore, il plurale maschile analogico in -e (nelle parti
più debole) il possessivo plurale mia, gnene per ‘gliene’, e il passaggio mediopalatale a dentale nel tipo
stiavo ‘schiavo’.
100
6.4 Il mistilingusimo della commedia
Dalla prima metà del ‘500 la commedia si rivelò genere ideale per la realizzazione di un
mistilinguismo o per la ricerca di elementi del parlato. Al parlato mirarono molti autori toscani,
come Machiavelli, che nel Discorso o Dialogo, se la prese con Ariosto, che avrebbe scritto
commedie in cui, non avendo voluto usare il dialetto e non conoscendo il toscano parlato, avrebbe
ottenuto un risultato scarso e poco credibile.

La ricerca del parlato propria del teatro toscano è esemplificata dal fiorentino Cecchi, che per
rendere saporito il dialogo delle sue commedie, le riempì di motti e proverbi (derivano espressioni
come pretelle per ‘non si fa in fretta’, beccafichi per ‘cibi prelibati’). Analoghe esibizioni di
linguaggio popolare toscano si trovano anche in testi senesi, come La pellegrina, di Bargagli.

La caratteristica più evidente della lingua della commedia è data dalla compresenza di diversi
codici per i diversi personaggi. Agli innamorati si addice il toscano, un italiano rarefatto e
stucchevole, ai vecchi il bolognese o veneziano ecc. 

Della Porta, ne La fantesca del 1592 impiegò diversi tipi tradizionali, tra cui la figura del pedante
che si esprime in forme auliche e latineggianti, rovesciate ad effetto comico. Il latino è volto a
scopo ridicolo, perché il pedante non dimentica mai di citare regole e formule didattiche della
grammatica. Uno dei personaggi più famosi del genere è nel Candelaio di Giordano Bruno, il
latino si mescola con il fidenziano e con il volgare e quest’ultimo è ridotto al minimo.

Quanto al dialetto alcuni autori come Andrea Calmo, nella Rodiana, sanno far uso di più parlate ,
approfitta dell’abilità polilinguistica di un servo che imita napoletano, francese, milanese, raguseo,
spagnolo, fiorentino, e di un vecchio che parla spagnolo, francese, napoletano, pugliese,
mantovano, genovese e arabo.

6.5 L’epistolografia

Nel XVI secolo le raccolte di lettere, anche di autori famosi, costituirono un genere tra i più fortunati
e diffusi. La maggior parte di questi libri fu stampata a Venezia, città che si conferma come la
capitale dell’editoria del Rinascimento. Il Secretario di Francesco Sansovino è un vero testo
chiave, come osserva Quondam. Il segretario risulta essere la figura emblematica del nuovo
genere epistolare moderno, del quale si fa quotidiana esperienza nelle cancellerie signorili.

101
7. Il linguaggio poetico 

7.1 Ariosto

Ariosto adeguò la propria lingua al modello toscano delle Tre Corone, eliminando i settentrionalismi
e accettando le regole della grammatica di Bembo. Machiavelli criticò il linguaggio teatrale di
Ariosto, giudicandolo innaturale. L’esito finale del bembismo di Ariosto è il segno della riuscita della
teorizzazione linguistica, che nell’Orlando furioso si traduce in una lingua chiara, elegante e
regolata. Vengono sostituti agli epiteti preziosi aggettivi più sobri: nettunio sostituito da canuto.

7.2 Il petrarchismo
È una caratteristica del linguaggio poetico del Cinquecento e consiste in una soluzione coerente
con il modello di Bembo e lui stesso nelle sue liriche, rappresentò questo gusto letterario. Il
petrarchismo nella cultura italiana ed europea significa in primo luogo la scelta di un vocabolario
lirico selezionato e di un repertorio di topoi.

7.3 Torquato Tasso e le polemiche con la Crusca



I rapporti tra Tasso e la Crusca furono essenziali nelle discussioni linguistico–letterarie della fine
del ‘500. L’attacco dell’Accademia della Crusca alla Gerusalemme liberata non fece allontanare
Tasso dalla lingua toscana, bensì egli non mise mai in discussione la toscanità della lingua italiana.
Prese le distanze dai dialetti, per celebrare il primato della lingua toscana. Semmai prese le
distanze dai dialetti, per celebrare il primato della lingua toscana. Tasso non riconobbe comunque
il primato fiorentino: la tradizione toscana (non dice mai fiorentina) era intesa come patrimonio
culturale comune e per questo proponeva una prosa in cui prevaleva la paratassi sull’ipotassi, con
una diminuzione delle clausole.La polemica con la Crusca, non riguardò lo stile di Tasso prosatore,
non la sua poesia lirica e neanche i versi dell’ Aminta.

Le accuse rivolte al Tasso epico ebbero per oggetto questioni di lingua e stile: Lombardelli, nel
Discorso intorno ai contrasti che si fanno sopra la Gerusalemme liberata, sintetizzò in 16 punti i
rimproveri che la Crusca aveva mosso all’opera, almeno cinque hanno a che fare con lo stile:
1. Lo stile di Tasso epico è oscuro
2. La sua favella è troppo culta.
3. Il suo linguaggio è una mistura di voci latine, pedantesche, straniere, lombarde, composte.
4. I suoi versi sono aspri.
5. Poteva avere una locuzione più chiara.

I cruscanti dicevano che Tasso si era discostato dal natural modo di favellare. Giudicavano che
Tasso, rispetto ad Ariosto, non fosse facile da intendere e questo costringeva il pubblico ad una
lettura silenziosa, a un esame visivo del testo, e questo era un modo per superare l’ostacolo della

102
legatura57 distorta. Si poneva quindi un problema di sintassi e disposizione delle frasi nella
struttura ritmica dell’ottava. Nel lessico della poesia epica, Tasso mostrò una predilezione per il
latinismo, che costituisce uno degli elementi usati per far conseguire alla poesia, il livello elevato. Il
latinismo era un’alternativa al fiorentinismo, e come tale non era gradito ai fiorentini58 . Tasso non
utilizzerà mai a mezzogiorno ma d’in verso l’austro, non solleva ma estolle, non tracce ma vestigia
ecc. 


Le critiche della Crusca mostrano uno scarso apprezzamento nei confronti del nuovo gusto
letterario, in quanto Tasso si era staccato dal modello di Ariosto, senza preoccuparsi delle norme
bembiane, ma l’autore ci teneva a dimostrare che le sue scelte lessicali non si erano discostate
così tanto dai grandi scrittori del passato, in particolare da Petrarca.

La violenza con cui Salviati attaccò Tasso ha un significato più profondo: egli era guidato dal
fastidio nei confronti di una stella nel mondo della letteratura volgare, che brillava lontano da
Firenze e sembrava non conoscerne il primato. L’imperio assoluto di Firenze sulla lingua era
un’ambizione a cui Salviati aspirò per tutta la vita. Nella sua Apologia, Tasso proponeva una
distinzione tra fiorentino antico e moderno, contestando che i fiorentini potessero ambire ad essere
giudici più di altri competenti di letteratura e affermava che la lingua volgare era qualcosa di
separato dal volgo, avendo acquisito una dimensione colta: come dire che Firenze non aveva più
diritti sul dominio naturale della propria lingua, non esisteva. Tasso osservava che la lingua di
Dante era stata più fiorentina di quella di Petrarca, ma meno poetica (alludendo alla
formalizzazione di una lingua non realistica, vaga, allusiva, utilizzabile e utilizzata come modello).
Petrarca era stato più poetico ma meno fiorentino. 


Le dispute tra Tasso e Salviati mostrarono il profilarsi di un divorzio: l’Accademia stava per
coronare il suo progetto istituzionale, per regolare la lingua italiana, mentre la letteratura prendeva
un’altra strada, opposta e in conflitto. Tale rottura sarebbe continuata nel 600. Da Firenze venne il
miglior vocabolario, non di certe la migliore letteratura. 


7.4 Teoria poetica e stile di Tasso



Una guida per cogliere le tendenze stilistiche presenti nella poesia di Tasso sono le sue pagine di
teorico, contenute nel quinto libro dei Discorsi del poema eroico, dedicato all’elocuzione59, intesa

57 Nella terminologia grammaticale del tempo, è appunto la costruzione sintattica.


58Salviati ad esempio cita un verso: “scende, ed ascende un suo destriero in fretta”, costruito sul latino
conscendere equum su, laddove i toscani avrebbero optato per il caso indiretto, “ascendere su di un
destriero”.
59 Nella retorica classica è l’atto di dare forma linguistica alle idee.
103
come problema che non riguarda solo l’oratore e l’attore, ma anche il poeta. Tasso spiegò come
poteva essere raggiunto l’ideale di magnificenza a cui aspirava e che costituiva il motivo di attrito
rispetto alla concezione della Crusca.
a. Il primo carattere di magnificenza sta nell’asprezza, termine con cui designa la presenza di forti
allitterazioni.
b. Un altro espediente sta nei versi spezzati, nell’uso degli enjambements, che spesso separa
l’aggettivo dal sostantivo e che permette di distanziare il verso dalla monotonia della
prevedibilità metrica, ed è la base per una serie di effetti di sospensione, rallentamento e
variazione del ritmo. Non è paragonabile a quello di Ariosto nelle Satire, esso non serve a far
scendere la poesia verso la prosa ma al contrario, vuole sublimare il verso in funzione lirica.
c. Accumuli di elementi congiunti da e, che accrescono la forza nel parlato. Può essere inteso
come l’espediente stilistico dell’enumerazione, che può essere ottenuta anche grazie a
dissoluzione, ovvero mediante asindeto, mediante l’accostamento di elementi e senza e. In
Tasso però l’enumerazione si avvale del polisindeto.
d. Emergere della ricerca di un lessico poetico capace di rendere il senso dell’indeterminato e del
vago. Noi moderni pensiamo subito a Leopardi, che ne fece uno dei suoi punti di forza.
Leopardi era un grande estimatore di Tasso, attraverso cui filtrò la tradizione del linguaggio
poetico petrarchesco.
e. Tasso sottolineava l’utilità di “duplicare le parole”, in forma di endiadi e anafora e consigliava di
“cominciare il verso con i casi obliqui”, posponendo il soggetto. 


8. La Chiesa e il volgare
8.1 La traduzione della Bibbia e la lingua della messa
La Chiesa fu tra i protagonisti della storia linguistica nel periodo dal Concilio di Trento alla fine del
Seicento. La lingua ufficiale della Chiesa restò il latino, ma il problema del volgare emerse nella
catechesi e nella predicazione: settori in cui l’azione del clero per la diffusione dell’italiano si fece
sentire. Il rapporto tra la Chiesa e la lingua volgare fu affrontato anche nel dibattito al Concilio di
Trento: si discusse la legittimità delle traduzioni della Bibbia, ma i padri non arrivarono a una
decisione radicale, affidandola quindi ai pontefici.

I pontefici intervennero con le liste dell’Indice dei libri proibiti. Nel 1559 Paolo IV riservava
un’apposita licenzia al Santo Uffizio. La proibizione fu ribadita più volte in seguito, nel Cinquecento
e Seicento, e si attenuò solo a partire dal sec. XVIII. Non deve stupire l’atteggiamento di
intransigenza del papato, che si allineò in pratica alle posizioni più rigide già emerse nel Concilio.
La questione in gioco era quella della libera interpretazione della Scrittura. La diffusione del solo
testo latino avrebbe reso il libro più sacro, distante dagli interpreti meno colti, garantendo la
funzione di controllo della gerarchia ecclesiastica.

104
8.2 La Chiesa, la questione della lingua e la predicazione
Il volgare respinto dai piani alti della Chiesa, confermava il suo ruolo nel settore che più risentiva
del confronto con i fedeli: la predica. Il Concilio sottolineava come i parroci non dovevano sottrarsi
al momento della predica in volgare. Essa era una sorta di oasi del volgare, unico momento in cui
la comunicazione diretta con il fedele richiedeva l’uso di una lingua largamente comprensibile. La
Chiesa dovette affrontare una vera e propria questione della lingua, non limitata solo al confronto
tra latino e italiano. Restava da stabilire comunque quale forma e quale qualità il volgare dovesse
possedere. Il bembismo influì fortemente anche nel campo della predicazione, riconoscibile in
Cornelio Musso, che era stato allievo a Padova di Bembo.

Il predicatore di Panigarola, uscì postumo nel 1609 e fu il trattato più importante per il
rinnovamento della prosa della predicazione, per renderla adeguata ai dettami della retorica, con
l’intento di compiere un’applicazione della cultura alla fede. Questo è forse il primo caso in cui un
esponente della gerarchia cattolica interviene nella disputa normativa dell’itliano. All’interno, oltre
che un’adesione alle teorie bembiane, vi era un’adesione alla teorizzazione del primato della lingua
fiorentina parlata, giudicata come la più adatta al pulpito. Panigarola consigliava di imparare il buon
italiano sulle grammatiche, ed esortava a soggiornare a Firenze per qualche tempo. Egli trovò un
corrispondente in Federico Borromeo che sottopose le sue prediche a un processo di revisione
linguistica, partendo dal principio che anche l’oratoria sacra doveva diventare uno strumento di
letteratura profana. Nella seconda metà del XVI secolo quindi, la Chiesa cercava di stabilire le
norme per una predicazione colta, di alto livello e che voleva dimostrare l’esistenza di un pubblico
di religiosi pronti ad aggiornarsi e desiderosi di imparare.

105
Capitolo 10
Il Seicento

1. Il Vocabolario dell’Accademia della Crusca


L’Accademia della Crusca ebbe un’importanza eccezionale. La Crusca fu un’associazione privata,
senza sostegno pubblico, in un’Italia divisa in stati diversi, ciascuno con la propria tradizione e
quindi un Paese poco adatto a sottomettersi a un’unica autorità normativa; eppure l’Accademia
portò a termine il disegno di restituire il magistero della lingua a Firenze. L’attività della Crusca non
fu certo esente da critiche, ma nessuno poté permettersi di ignorarla.

Il suo contributo più grande si ebbe quando si indirizzò alla lessicografia, dal 1591; in quest’anno
gli accademici discussero sul modo di fare il Vocabolario, attraverso un procedimento razionale di
schedatura. Salviati aveva accennato tempo prima all’idea di un vocabolario in lingua toscana. Da
Salviati proveniva l’impostazione (di fatto antibembiana) per cui gli autori minori erano giudicati
degni, per meriti di lingua, di stare a fianco dei grandi della letteratura. A suo parere, i problemi ‘del
contenuto’ e ‘della forma’ dovevano essere letti in due piani differenti: i meriti linguistici potevano
accoppiarsi ad una grande modestia nella sostanza.

Al momento della realizzazione del Vocabolario, Salviati era già morto; dopo di lui non ci fu in
Accademia una figura di spicco che potesse esserne l’erede, in quanto nessuno aveva una precisa
competenza lessicografica o linguistica. Erano piuttosto dei veri e propri dilettanti, ma tale
‘dilettantismo’ non deve essere letto con una lente propriamente negativa, soprattutto alla luce del
risultato raggiunto. Il Vocabolario della Crusca dunque si formò attenendosi alle regole fissate
all’interno dell’Accademia. Il lavoro fu relativamente breve.

Vi era inoltre il problema spinoso del finanziamento. La Crusca, alla fine del Cinquecento, non era
affatto nella situazione favorevole che era stata propria dell’Accademia fiorentina di Cosimo I. Per
stampare il Vocabolario occorrevano denari e questo costrinse gli accademici ad autofinanziarsi.
La necessità di trovare autonomamente un finanziamento giustifica appieno la loro tendenza a
realizzare l’opera come una sorta di impresa commerciale, essendo peraltro svincolati dalle
autorità, almeno fino alla seconda metà del Seicento. Nonostante la novità dell’opera, non si
poteva essere certi del suo successo di mercato. L’Accademico Riccardi, mercante fiorentino, non
avrebbe voluto arrischiare i propri soldi nell’impresa. Non si dimentichi che la situazione politica
stessa dell’Italia era sfavorevole, perché la frammentazione politico-amministrativa aumentava il
rischio delle edizioni pirata. Ciò spiega come mai risultasse molto più conveniente per la Crusca
ottenere ‘il privilegio’ di una nazione come la Francia; probabilmente si spiega con lo stesso
ragionamento di natura economica la scelta di far stampare l’opera a Venezia piuttosto che a
106
Firenze. Bastiano de’Rossi, incaricato di controllare da vicino il procedere della stampa, non
andava ad intaccare la collegialità della Crusca, in quanto essa garantiva che egli non potesse
abusare della sua posizione di privilegio; de’ Rossi era inoltre incaricato di stendere la lettera
dedicatoria da premettere al Vocabolario, ma anche in questo caso era tenuto a mandarla
all’Accademia, per avere il suo placet.

Il Vocabolario degli Accademici della Crusca uscì nel 1612, presso le tipografia veneziana di
Giovanni Alberti; sul frontespizio portava l’immagine del frullone, uno strumento che si usava per
separare la farine dalla crusca (emblema dell’Accademia) e con il motto: Il più bel fior ne coglie,
allusivo alla selezione nel lessico, per analogia alla selezione tra la farina (il fiore) e la crusca (lo
scarto). Il Vocabolario non fu affatto ispirato a criteri bembiani. La lezione delle Prose della volgar
lingua sopravviveva, ma filtrata attraverso l’interpretazione fiorentinista di Varchi e Salviati; gli
schedatori avevano cercato di evidenziare la continuità tra la lingua toscana contemporanea e
l’antica, trecentesca: lo sforzo massimo era stato compiuto per scovare fonti manoscritte
semiprivate. Era stato dato l’avvio alla pratica discutibile di citare ‘’testi a penna’’, ovvero
manoscritti fiorentini inediti. Tale pratica avrebbe irritato in seguito gli avversari della Crusca. 


Il Vocabolario abbondava nel presentare termini e forme dialettali fiorentine e toscane:


1. assempro per esempio
2. calonaca per canonica
3. danaio per denaro (d’uso comune fin dal Novellino)
4. caro per carestia
5. manicare per mangiare

I lemmi identici si moltiplicavano per la presenza di varianti proprie della lingua antica non ancora
normalizzata (Befana/Epifania; brobbio/obbrobrio). Per la scelta della grafia, il Vocabolario si
collocò sulla linea dell’innovazione, distaccandosi in parte dalle convenzioni ispirate al latino (le h
etimologiche e i nessi del tipo ct); notevoli erano anche la coerenza e l’omogeneità delle scelte
ortografiche, tanto che si può dire che il Vocabolario ‘’costituisce una tappa importante nella storia
della grafia italiana’’. Il Vocabolario assunse un prestigio sovraregionale; il Tesauro non fu mai
d’accordo con il fiorentinismo cruscante e diede una serie di indicazioni per sfruttare appieno le
potenzialità della Crusca, facendo uso anche della tavola lessicale latino-italiana, in cui il latino
fungeva da guida. E’ innegabile che anche gli avversi al Vocabolario ne raccomandassero l’uso
riconoscendone la ricchezza. L’Accademia legò definitivamente la propria autorità alla lingua e si
accollò un compito di aggiornamento che durò per secoli.


107
2. L’opposizione alla Crusca
2.1. Paolo Beni
L’opposizione al Vocabolario si manifestò già dal 1612, anno della sua pubblicazione. Il primo
avversario fu Beni, professore di umanità all’Università di Padova, autore di un’ Anticrusca in cui
venivano contrapposti al canone di Salviati gli scrittori del ‘500 e Tasso in particolare. Per lui la
lingua esisteva come patrimonio comune secondo i dettami della teoria cortigiana, che si
estendeva al di là dell’italiano scritto e arrivava a interessare il parlato: le pronunce di Campania,
Umbria, Marche e di Roma, potevano essere messe a confronto con quelle di Firenze. Ci fu una
polemica contro le lingua usata da Boccaccio, indicandone le irregolarità e i termini plebei.
Intendeva dimostrare come l’antica lingua del 1300 era incolta e rozza e la moderna era regolata e
gentile.

2.2. Alessandro Tassoni
Critico nei confronti della Crusca, preparò un elenco di osservazioni, utilizzate dagli accademici per
la seconda edizione del Vocabolario nel 1623. La polemica contro la Crusca si caratterizzò per una
sostanziale asistematicità. L’opposizione di Tassoni si tratta di una serie di note e postille
polemiche, le quali sembrano anticipare per il loro radicalismo alcuni degli argomenti antifiorentini
che saranno consueti nel secolo XVIII.
Il pensiero di Tassoni esprimeva la protesta contro la dittatura fiorentina sulla lingua e proponeva di
adottare nel Vocabolario espedienti grafici per contrassegnare le voci antiche e le parole da
evitare. Tassoni spesso cede all’ironia, che non è altro che un espediente per combattere la
pedissequa imitazione dei poeti trecenteschi.

Tema fondamentale della riflessione era l’improbabilità dell’arcaismo linguistico, coerente con il
disprezzo per l’uso e l’abuso del latino negli scritti tecnici di materia medica e legale: Tassoni si
mostrava ostile a ogni culto della tradizione che ostacolava la modernità e la semplicità della
comunicazione. Molte volte nelle sue annotazioni vi era il riferimento all’uso linguistico di Roma,
(dato anche dal fatto che visse a Roma molto tempo) contrapposto a quello di Firenze.

Coerentemente con la sua posizione antibembiana, antifiorentina e antiarcaizzante, nel poema


eroicomico La secchia rapita utilizzò voci e frasi di vari dialetti centro-settentrionali (bolognese,
bresciano, modenese, padovano, romanesco), seconda una forma di gioco linguistico che si
addice allo stile comico.

2.3. Daniello Bartoli


Noto per la sua elegante prosa, autore di Il torto e il diritto del Non si può, del 1655, libro che uscì
sotto lo pseudonimo di Ferrante Longobardi. Non si tratta di una polemica diretta nei confronti del

108
Vocabolario, né di affermazioni teoriche destinate a controbattere a priori il metodo seguito
dall’Accademia. Egli riesaminava i testi del Trecento sui quali si fonda il canone Salviati,
dimostrando che proprio lì si trovano oscillazioni tali da far dubitare della perfetta coerenza di quel
canone grammaticale. Bartoli usava una pungente ironia nei confronti di ogni forma di rigorismo
grammaticale, volendo mettere a fuoco che il grammatico deve usare con cautela il suo diritto di
condanna e di divieto.
L’opera principale di Bartoli è Istoria della compagnia di Gesù, pubblicata dal 1650 al 1673, in cui
descrisse anche i quadri geografici esotici in cui si erano svolte e si svolgevano le attività
missionarie dei suoi confratelli gesuiti. Bartoli che non viaggiava mai, usò per il suo lavoro gli scritti
di coloro che erano stati effettivamente in missione. 


2.4. Le edizioni 1623 e ’91 del Vocabolario: sviluppo della Crusca e della cultura linguistica toscana
La fortuna del Vocabolario della Crusca (prima edizione 1612) è confermata dalle due edizioni che
uscirono in seguito:
A. la seconda edizione uscì nel 1623, analoga alla prima, tranne per alcuni aggiunte e correzioni.
B. La terza edizione, stampata a Firenze e non più a Venezia, è del 1691 e si presenta diversa già
dall’esterno: tre tomi al posto di uno, con il formato in folio e un aumento del materiale, sia per
la quantità dei lemmi, che per gli esempi e la definizione delle voci. La terza Crusca insomma,
fece un salto quantitativo notevole, consolidando il primato dell’Accademia di Firenze nel
campo della lessicografia.

Anche dal punto di vista qualitativo i cambiamenti erano sensibili; i lavori per la riedizione durarono
per 30 anni e furono importanti i contributi di Dati, Segni, Redi, Magalotti, Salvini. Il binomio Redi-
Magalotti era costituito da due letterati scienziati molto rinomati e ciò spiega la cura con cui la
Nuova Crusca diede conto del linguaggio scientifico, includendo Galileo fra gli autori.
Nella terza edizione si fece riscorso all’indicazione V.A., ossia Voce Antica, per segnalare le voci
introdotte nel vocabolario, non per proporle all’uso dei moderni, ma a scopo storico-documentario:
era uno strumento per facilitare la lettura degli scrittori antichi.
Sul versante della modernità venne dato uno spazio maggiore a voci non documentate nell’epoca
d’oro della lingua italiana, ossia il ‘300 e che risultavano dall’uso degli autori moderni60. Inoltre
furono inserite una serie di voci attestate da scrittori di scienza del ‘600, queste e altre voci furono
scelte sull’autorità di scrittori contemporanei e dando la preferenza ai toscani. (es. microscopio,
occhiale per cannocchiale, edizione).

60Mentre tra gli autori moderni citati in difetto, vi sono diverse presenze non toscane, sia appartenenti al
passato che ai contemporanei, come Iacopo Sannazzaro, Baldassar Castiglione, Chiabrera, Pallavicino.
Annibal Caro era già stato inserito nella seconda Crusca, così come il Guarini, autore de Il pastor fido.

109
Ma l’autore più significativo, inserito nella Terza Crusca è Torquato Tasso; vistosa è l’assenza di
Marino, in quanto l’ambiente fiorentino era ostile agli eccessi del Barocco. Nella terza Crusca,
inoltre, furono dedicate delle pagine alla spiegazione dei criteri generali seguiti per realizzare
l’opera.

3. Il lignaggio della scienza


3.1. Galileo e il linguaggio della scienza
La prosa del ‘600 deve molto allo sviluppo del linguaggio scientifico, prima di tutto per merito di
Galileo. Galileo aveva cominciato a scrivere in italiano molto giovane, con La bilancetta, definendo
una precisa preferenza per la lingua moderna, ma il suo insegnamento universitario a Padova fu in
latino. La scelta fra le due lingue era dettata dalla fiducia a priori nel volgare, in quanto Galileo
aveva affermato di usarlo per raggiungere coloro che avessero più interesse per la milizia che per
la lingua latina; è quindi visibile un intento divulgativo. A Galileo non mancò mai la fierezza della
propria lingua toscana, in quanto figlio di quella regione.

Scelse il toscano, anche se all’inizio gli capitò di usare comunque il latino, come nel Sidereus
nuncius. Il latino via via assunse la funzione di termine di confronto negativo, a cui rivolgersi
polemicamente: ciò è evidente nel Saggiatore del 1623, dove sono riportate le tesi dell’avversario
scritte in latino e confutate in italiano, dando vita così a un continuo dialogo tra le due lingue. Una
volta compiuta la scelta del volgare, Galileo dovette far sì che la lingua italiana si adattasse
perfettamente ai compiti nuovi che le venivano assegnati. Pur scegliendo il volgare, non si collocò
mai al livello basso-popolare; favorito dall’origine toscana, e temperato dal suo soggiorno lontano
dalla patria (periodo padovano), seppe raggiungere un tono elegante e medio, con una chiarezza
terminologica e sintattica, che lo differenzia da altri autori come Bruno e Campanella e non
rinunciò a mostrare alcuni difetti della lingua toscana viva e parlata, così come non rinunciò al
sarcasmo, alla boutade scherzosa e al paradosso. Una contrapposizione stilistica di un metodo
moderno che non ha nulla a che vedere con il vecchio paradigma aristotelico-tolemaico.

Non ci può essere discorso scientifico, senza il rigore logico e dimostrativo e la chiarezza
linguistico-terminologica; anche quando non si trattava di testi scientifici, ricorreva sempre il
richiamo a un oggetto particolare. Galileo quando nominava e definiva un concetto o una cosa
nuova, preferiva attenersi ai precedenti comuni ed evitare di introdurre una terminologia inusitata o
troppo colta. Preferì parole semplici e italiane, pur senza respingere gli eventuali tecnicismi greci e
latini già esistenti e affermati. Quando toccò a lui stesso la responsabilità di scegliere, si comportò

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diversamente: si pensi allo strumento che egli nominò inizialmente come cannone61 o occhiale, e
che poi prese il nome di cannocchiale. Presto l’oggetto assunse la denominazione di telescopio;
ma il nome greco non fu coniato da Galileo. La scelta di assoluta semplicità di Galileo è ben
illustrata dall’adozione di un’espressione come ‘macchie solari’, per indicare quelle chiazze che il
cannocchiale gli aveva permesso di individuare sul sole. Migliorini ha mostrato come nel lessico di
Galileo ritornino con frequenza alcune parole-chiave che rispecchiano concetti fondamentali del
suo pensiero, come esperienze chiare, osservazione esquisita, le confusioni naturali, necessarie
ed eterne. La sua sintassi si snoda evitando le inversioni tipiche dello stile letterario boccacciano,
di moda ai suoi tempi. Si trova frequentemente il calcolo nei suoi scritti, anche nel Dialogo sopra i
due massimi sistemi.

Galileo dimostra notevoli doti letterarie. Possiede anche un’eccezionale capacità descrittiva, che gli
permettere di passare disinvoltamente dalle minuzie del mondo degli insetti alle regole generali
della fisica e dell’astronomia. Galileo si rivolge a tutti gli uomini in grado di intendere, non solo ai
tecnici o scienziati. Si potrebbe definire una divulgazione di livello altissimo.

3.2. La scienza piacevole: Redi e Magalotti


Redi, scienziato, è tra i fondatori della biologia moderna e le sue prose consistevano in descrizioni
di esperimenti, ricavate da appunti presi in laboratorio e svolte come relazione, che prende in
genere la forma epistolare. Egli divideva la propria attività tra il settore scientifico e quello
umanistico. Frequente era da parte sua la citazione di versi anche nel bel mezzo di una
descrizione di un’esperienza, come i versi di Dante. La poesia è utilizzata come vera e propria
divagazione, un gioco ‘umanistico’. Redi portò al massimo sviluppo la tendenza alla discorsività
narrativa propria anche di certe pagine di Galileo. Il termine popolare toscano poteva essere
proposto accanto a quello colto. Redi aveva il gusto per la denominazione d’uso, per la freschezza
della lingua parlata e per l’impiego del francesismo corrente.

4. Il melodramma
Nato a cavallo tra ‘500 e ‘600 e destinato a un grande successo nel secolo XVII. L’Italia assunse
una posizione egemonica per ciò che riguarda la produzione di opere liriche e il melodramma
permetteva di affrontare la questione del rapporto tra parola e musica. Il melodramma del primo
‘600 fu un tentativo di ricreare la tragedia antica, che si immaginava fosse stata eseguita dai greci
con l’accompagnamento del canto e nacque dalla volontà di non sacrificare il testo del libretto alle
esigenze della melodia. Il rapporto tra poesia e musica non era affatto una novità, in quanto già nel

61 Cannone esisteva nel comune uso tecnico, anche prima di Galileo, nel significato di ‘tubo’, sia esso che
fosse di legno, sia di metallo. Galileo prese quindi la parola più semplice per indicare una delle componenti
utilizzate nello strumento che aveva costruito. L’altra componente era l’occhiale. Galileo unì le due parole.
111
Medioevo molte poesie di Dante erano state cantate. Nel Rinascimento assunse importanza la
forma del madrigale: Tasso scrisse molte poesie dedicate alla musica e al canto e altre volte i versi
furono impiegati per la musica. Monteverdi musicò l’episodio tassiano di Tancredi e Clorinda. Il
rapporto tra parola e melodia fu affrontato in maniera profonda e sistematica: così nel Dialogo della
musica antica del 1581 di Vincenzo Galilei (padre di Galileo).

Il teatro del ‘500 era stato recitato e non cantato, fino a quel momento e la musica era rimasta
confinata. La nascita del melodramma avvenne nel 1600 con la rappresentazione dell’Euridice, in
occasione delle nozze di Maria De’ Medici. Il melodramma si caratterizzava come un tipo di
spettacolo d’élite, come forma di divertimento che richiede scenografie e allestimenti. La
produzione di libretti, a partire dal Seicento, ebbe dimensioni quantitative strepitose. Il linguaggio
del melodramma si inseriva nella linea della lirica petrarchesca, rivisitata attraverso Tasso, in
particolare nell’Aminta. Vi è, in genere, un larghissimo uso di reduplicazioni aggettivali e
sostantivali, le concatenazioni di e, e i giochi di opposizione (il ghiaccio’ divenne il mio bel ‘foco).
Questo linguaggio poetico già tipico della lirica tassiana, si diffuse ulteriormente attraverso il
melodramma.

5. Il linguaggio poetico barocco


5.1. Elementi innovativi
Con Marino e il marinismo a partire dal ‘600, le innovazioni si fecero più accentuate che nel Tasso:
il catalogo degli oggetti poetici si allargò rispetto alla tradizione, anche se gli schemi metrici e le
cadenze ritmiche rimanevano quelle petrarchesche. Nel settore del lessico agiscono spinte
innovative che allargano la possibilità di scelta.
La poesia barocca estese il repertorio dei temi e delle situazioni, assunte come oggetto di poesia e
il rinnovamento tematico ne portò uno lessicale; si considerino i riferimenti botanici. Proprio Marino
pone accanto alla rosa, una serie di piante diverse, corredate con il loro epiteto: amaranto, il vago
acanto, la pallida ed esangue violetta, il papavero vermiglio o greve ecc. La prosa scientifica, frutto
dello spirito di osservazione e del gusto sperimentale e quindi frutto del metodo di Galileo, aveva
descritto con interesse il regno animale (pardo leggiadro, il fiero leone, la leonza invitta ecc). I poeti
barocchi non furono da meno e arrivarono a utilizzare gli stessi strumenti della scienza.

5.2. L’Adone di Marino


Nell’Adone vi sono famose ottave in cui lo scrittore, in una complessa allegoria, introdusse
l’anatomia del corpo umano e adoperò termini anatomici per tentare una descrizione delle diverse
parti del corpo. Il lessico dell’anatomia venne introdotto per celebrare i sensi e la macchina umana.
Altre ottave utilizzavano la descrizione della luna fatta da Galileo, per ribadire la disponibilità della
letteratura verso le scoperte della scienza.

112
Un filone della poesia barocca cha fa capo a Marino, impiegò il lessico scientifico, insieme alla
tematica e agli oggetti della scienza. La scienza così viene riconosciuta dalla letteratura. La
presenza del lessico scientifico, in Marino si trovano ad esempio parole come nervi, pupilla62 ,
orbicolare, albume ecc., confermò la tendenza al rinnovamento, verificabile nell’inserimento di
forestierismi e di parole provenienti dalla tradizione comica, dal Il Morgante di Pulci ad esempio.
Inoltre nell’Adone fu inserita l’attualità: vengono adoperati i cultismi, grecismi, latinismi, non di rado
di provenienza scientifica. Vengono impiegate le parole composte e non poco comuni, oltre a
quelle inventate, che sono simili a quelle comuni, ma non uguali e che hanno un significato comico
(tavolini e gabinetti, nel senso del cabinet francese).


5.3.Varietà di situazioni poetiche e di metafore 

L’innovazione delle immagini della poesia barocca può essere ben esemplificata dalle descrizioni
del seno femminile. Nella tradizione poetica sen era analogo a petto, cuore, ma esso diventa
sempre più spesso la celebrazione anatomica della mammella, acquistando una carnalità, evocata
in Tasso. Anche sul pidocchio si esercita il gusto metaforico, per cui il piccolo essere diventa, con
notevole iperbole, ‘una belva d’amor’. Mentre lo stile di Petrarca era caratterizzato dalle similitudini,
quello dei marinisti è ricco di metafore, di figure retoriche come il bisticcio e la paronomasia.

Per quanto riguarda le nuove situazioni, basti pensare alla figura principale della lirica, alla bella
donna. La donna è ora ritratta in sembianze inusitate, assolutamente non petrarchesche; si
possono catalogare veri topos. L’immagine ideale della donna lascia il posto a fantasie erotico-
sadiche: ecco la bella frustata, l’immagine stessa della donna si deforma, o si caratterizza
attraverso le imperfezioni: ecco la bella nana, la bella con gli occhiali ecc.

6. Il Cannocchiale aristotelico di Tesauro


E’ definito il trattato più significativo per intendere la poetica del Barocco. Molte parti del libro
offrono una serie di riflessioni di carattere letterario e toccano problemi di natura linguistica. C’è
una polemica contro il dogmatismo grammaticale e contro l’autorità pedantesca e che si traduce in
una concezione della lingua intesa come qualcosa di libero, destinato a mutare nel corso del
tempo.
Secondo Tesauro, la lingua è un sistema aperto e mutevole e lo scrittore è libero di sottrarsi alle
convenzioni grammaticali; viene così legittimata la violazione della norma, purché sia fatta
consciamente, da parte di chi conosce l’esistenza. Egli contrappose la cacofonia63 alla cacozelia64 .

62 Precedente in Dante nel Paradiso II e XX.


63 La cacofonia, cioè il cattivo suono, è un vizio di forma.

64 La cacozelia è il difetto di quelli che errano per essere rispettosi nei confronti delle norme grammaticali.

113
Anche le parole straniere, definite barbarismi, possono diventare eleganti; anzi proprio perché
“inusitate” nella nostra lingua, hanno un effetto migliore di quello che si riscontra nell’idioma da cui
provengono, perché diventano ‘pellegrine’. Già Tasso aveva utilizzato questo termine per
designare parole inusitate. La polemica di Tesauro contro gli arcaismi lessicali ritorna in Dell’arte
delle lettere missive, un trattatello di stile epistolare: a suo giudizio la maturità della lingua italiana,
cominciata nel secolo XVI andava crescendo e la lingua moderna risultava migliore di quella antica
(del 300).

Alcune pagine del Cannocchiale aristotelico discutono della metafora, la figura retorica più
caratteristica della poesia barocca. Aristotele nella Retorica aveva accennato alla metafora come
strumento di effettiva conoscenza della realtà, capace di cogliere l’analogia tra cose differenti. La
trattatistica barocca poté considerare la metafora come fulcro dell’attività poetica, frutto di un
ingegno, che è la facoltà creativa, distinta dalla capacità razionale dell’uomo. Infatti l’ingegno è la
facoltà creativa, non razionalità, tant’è vero che la poesia, secondo Tesauro, consiste in qualcosa
di simile alla follia: anche i matti sono eccezionali fabbricatori di metafore e di simboli, come i poeti;
anche i matti (come i poeti) sono dunque di bellissimo ingegno.

7. Sviluppo letterario della predicazione religiosa nel XVII


7.1. La predicazione barocca
La predicazione barocca presentava una serie di costanti: forte uso di esclamazioni, presenza di
interrogazioni, di invocazioni, di elencazioni, giochi di rima, allitterazioni, assonanze, anafore. Si
tendeva verso la metafora e la ridondanza lessicale, spesso in forma di climax e di gioco verbale.
Le Dicerie sacre di Marino si collegano alla predicazione religiosa: Marino, pur essendo un laico,
imitò lo stile e il genere della predica. Già nella seconda metà del ‘500 le raccolte di prediche
avevano affiancato le raccolte dei discorsi laici, le orazioni politico-giudiziarie o celebrative. Nel
‘600 le raccolte di prediche furono pubblicate sotto il titolo di Panegirici, Quaresimali. I titoli costruiti
secondo l’artificio della sorpresa furono comuni nel ‘600, così come l’uso di formule sorprendenti
nel contenuto della predica.

7.2. Padre Paolo Ségneri e le missioni rurali


A Ségneri fu riconosciuta l’autorità linguistica dai compilatori della III edizione del Vocabolario della
Crusca; egli fu il più famoso predicatore del XVII secolo e prese le mosse da una riforma dello stile
barocco. Nella forma linguistica e nella struttura del sermone, Ségneri sembrava legato alla
tradizione precedente, anche se fu rivoluzionario rivolgersi alle masse rurali. Il suo vero pubblico fu
quello popolare, certamente predicò anche nelle città, di fronte a personaggi di alto rango. Egli
intendeva raggiungere un pubblico solitamente trascurato, costituito dalla gente di campagna, che

114
abitava in località sperdute, isolate, mai visitate dai predicatori più famosi. La grande affluenza
popolare alle sue prediche ci obbliga a considerare la sua predicazione anche dal punto di vista
dell’efficacia per la diffusione dell’italiano, se non altro per l’influenza sulla conoscenza passiva
della lingua: per molti suoi uditori questa doveva essere un’occasione unica ed eccezionale per
sentir parlare un oratore di qualità elevata. Di fronte a questo pubblico incolto, Ségneri non
abbassò il livello linguistico della propria oratoria. Il predicatore usò strategie gestuali, coreografie
orchestrate.

7.3. L’antifiorentinsmo di Paolo Aresi


L’ Arte di predicar bene fu l’opera principale dell’autore, difensore della dignità del volgare. A suo
giudizio il volgare era uno strumento degno di trattare problemi di retorica ecclesiastica. Aresi non
ignorava l’esistenza della predica pronunciata in dialetto, ma esso non era accettabile per due
motivi: perché faceva venire meno l’obbligo della nobiltà del dettato, perché sarebbe stato
impossibile per un predicatore itinerante far uso di parlate diverse. La soluzione proposta era
quella dell’italiano comune che si staccava dal parlato popolare ed evitava di avvicinarsi al
fiorentino, in quanto sarebbe risultato falso e avrebbe dato un tono di eccessivo artificio alla
predica.

8. Le reazioni alla poetica del Barocco


Già alla fine del ‘600, con la fondazione dell’Arcadia, si ebbe una reazione alle concezioni poetiche
del Barocco, in nome di un rinnovato classicismo e della razionalità in poesia. I modelli del
linguaggio letterario non furono più gli autori di maggior successo. A partire dal ‘600 si sviluppò il
giudizio sul cattivo gusto del Barocco e tale giudizio fu ripetuto dagli Illuministi del ‘700. La
reazione antibarocca si ebbe in Francia, prima che in Italia e condannava la letteratura del nostro
paese e quella della Spagna e la polemica letteraria sul Barocco, finì per coinvolgere il giudizio
stesso sulla nostra lingua. Padre Bouhours, gesuita francese che godeva di grande autorità come
grammatico, svolse la seguente tesi: solo ai francesi poteva essere riconosciuta l’effettiva capacità
di parlare, gli spagnoli declamavano, gli italiani sospiravano.

Questo giudizio voleva smascherare i difetti delle due lingue, spagnola e italiana, l’una era
accusata di magniloquenza retorica, l’altra di eccessiva tendenza alla sdolcinatezza poetica. Solo il
francese aveva il diritto di ambire allo ‘statuto di lingua della nuova comunità politico-intellettuale
europea’. A vantaggio del francese giocava la vicinanza della prosa e della poesia, indice di
razionalità e Bouhours voleva promuovere il francese come lingua universale, il “nuovo latino”. La
lingua italiana veniva giudicata come incapace di esprimere in modo ordinato il pensiero umano e
veniva confinata come strumento della lirica amorosa e del melodramma. Emergeva qui per la
prima volta una questione, di cui si sarebbe dibattuto a lungo nel Settecento: ci si avviava ad

115
attribuire insomma a ogni idioma un carattere fisso, considerato arbitrariamente come ‘strutturale’.
Solo nel ‘700 autori come Orsi, Muratori si preoccupavano di difendere la lingua italiana dalle
accuse nei suoi confronti.

9. La letteratura dialettale
9.1. Letteratura dialettale riflessa 

Nacque una letteratura dialettale cosciente di essere tale e volontariamente opposta alla
letteratura in toscano: la letteratura dialettale riflessa. La tradizione letteraria italiana fu
caratterizzata dalla grande vitalità della letteratura in dialetto, che assunse un ruolo non
secondario.
Alcuni nomi di autori possono essere ricondotti a Cortese, Peresio, Berneri, che apportò una serie
di postille linguistiche destinate a spiegare le espressioni dialettali o gergali. Anche nel teatro ci
furono autori dialettali di rilievo, come Tana, nobile piemontese. Per Maggi, milanese, il dialetto era
una lingua degna di elogio e strumento di moralità; la sua satira morale si inserisce nella linea
lombarda che conduce a Porta e Parini, con un impegno letterario di alto livello. Uno dei settori in
cui si applicò il dialetto fu quello del travestimento comico o parodico dei grandi poemi, come la
Gerusalemme Liberata, che fu realizzata in veneziano, bolognese e napoletano.

9.2. Toscanità popolare e dialettale


Una forma di dialettalità è riconducibile alla manifestazione del gusto per la lingua toscana
popolare. In Michelangelo Buonarroti, il Giovane, accademico della Crusca e collaboratore del
Vocabolario, il gusto della popolarità si trasformava in un’esasperata ricerca del ribobolo (parola di
grande efficacia espressiva). Famose sono le sue opere teatrali in versi Tancia del 1611 e Fiera del
1619. La Tancia fu studiata nel ‘900 e questa farsa rusticale presenta varietà linguistiche rustiche e
popolari, in parte attinte dai contadini toscani e in parte inventate dall’autore. L’autore poneva in
bocca ai contadini parole loro e con deformazioni fonetiche, usava fraintendimenti che
evidenziavano la loro ignoranza.

116
Capitolo 11
Il Settecento

1. Italiano e francese nel quadro europeo


1.1. Prestigio e ruolo delle lingue d’Europa
Le lingue di cultura che potevano ambire a un primato internazionale erano tre: francese, italiano e
spagnolo, anche se quest’ultimo era in una fase calante, in concomitanza con la crescita di
prestigio del francese.
Nel ‘700 non ha nessun rilievo il portoghese, che era stato strumento di comunicazione nel
Cinquecento per mercanti e viaggiatori in terre esotiche; le lingue slave non erano conosciute né
apprezzate. Il tedesco e l’inglese avevano una posizione marginale e la cultura inglese si diffuse
attraverso le traduzioni francesi. Leibniz aveva lamentato il ritardo del tedesco dal punto di vista
del vocabolario intellettuale e della capacità di veicolare il pensiero filosofico e scientifico e inoltre
la lingua aveva uno status culturale insufficiente; solo con il Romanticismo all’inizio del XIX secolo,
ottenne un riconoscimento. Nel Settecento prevaleva un cosmopolitismo che privilegiava il
francese. L’italiano era lingua di corte a Vienna e Metastasio nel suo lungo soggiorno viennese non
sentì la necessità di imparare il tedesco, così come Da Ponte, il librettista di Mozart. Anche a Parigi
l’italiano era abbastanza conosciuto, come lingua da salotto e per le dame.

Secondo i dati presentati da Dardi, almeno 150.000 intellettuali italiani nel 1788 conoscevano il
francese, che aveva assunto una posizione che lo rendeva erede dell’antico latino. Goldoni scrisse
nella lingua d’oltralpe non solo due commedie, ma anche le sue memorie. Non fu l’unico
intellettuale italiano a impiegare il francese, anzi era una scelta obbligata per chi si trasferiva
all’estero (le memorie di Casanova o i saggi di Denina). Il francese veniva usato da scrittori
dell’Italia settentrionale per appunti privati, per annotazioni, lettere, diari. Questo fatto è assai
interessante, poiché non trova alcuna giustificazione in uno stato di necessità: era una semplice
scelta di gusto e costume. E’ giusto ricordare l’Encyclopédie di Diderot e D’Alambert, che ebbe due
ristampe in Italia: a Lucca 1758-1771 e a Livorno 1770-1776. Entrambe queste ristampe furono in
francese e non in traduzione italiana. La lingua originale non fu affatto un ostacolo alla diffusione di
queste opere, rivolte ovviamente ad un pubblico d’élite. La penetrazione del francese avveniva
attraverso molti canali: danza, moda, teatro, prediche.

1.2. Il francese lingua-modello


La diffusione della lingua, della moda e della cultura di Francia aveva avuto conseguenze sul piano
linguistico. Nel 1784 l’Accademia di Berlino premiò un saggio di Rivarol, che riprese il tema per cui
il francese poteva rappresentare il latino dei tempi moderni. Rivarol pretendeva di attribuire il
successo internazionale del francese non solo a cause storiche contingenti, ma ad una virtù
117
strutturale della lingua, chiara, logica e razionale, contrapposta ad esempio all’italiano, lingua
caratterizzata da inversioni sintattiche.

La lingua francese fu esportata nei paesi conquistati dall’Impero e messa in atto attraverso una
politica di ‘francesizzazione’; mentre il francese era la lingua della chiarezza, l’italiano era la lingua
della passione emotiva, della poesia e della musicalità e quindi scarsamente razionale. L’ordine
degli elementi veniva identificato nella sequenza soggetto-verbo-complemento, mentre l’italiano
era caratterizzato da una grande libertà nella posizione degli elementi del periodo: questo veniva
interpretato da alcuni come un ‘difetto strutturale’, dovuto all’eccessiva imitazione dello stile
latineggiante di Boccaccio. I difetti di razionalità propri dell’italiano non erano in realtà dovuti a
motivi ‘naturali’, ma a cause storiche, dipendenti da mode letterarie che avevano favorito la
conservazione ad oltranza di un gusto arcaicizzante.

Alla fine del secolo, Denina, confutò la tesi di Rivarol, sostenendo che non esiste una superiorità
assoluta di una lingua sulle altre e che tutte le lingue ci sembrano naturali quando siamo abituati
ad esse. Inoltre spiegava che l’ordine libero delle parole si spiegava con la presenza di una diversa
organizzazione, come l’esistenza di elementi morfologici che segnalano la funzione delle parole,
indipendentemente dalla loro posizione. 


Tutta l’Europa prendeva atto della forza del francese e dei suoi caratteri tipologici, che risultavano
essere ‘’la sincronia, l’unità nei registri prosastico e poetico, l’assetto ordinato e razionale.’’La
diffusione del francese e la sua egemonia permisero di guardare in maniera più critica alla
tradizionale cultura italiana: la Francia aveva una lingua adatta alla conversazione e alla
divulgazione, rispetto all’italiano. Alcuni intellettuali erano profondamente ostili all’egemonia del
francese, i quali ne combattevano caparbiamente la diffusione, come il piemontese Galeani
Napione di Cocconato, autore del trattato Dell’uso e dei pregi della lingua italiana.

2. L’influenza della lingua francese


Entrarono nella lingua italiana un gran numero di francesismi, rintracciabili nei settori come la
moda, la politica, la diplomazia, la burocrazia, le belle arti, il commercio, la filosofia ecc. Il termine
moda è stesso un gallicismo.
In questo secolo, poi, si può notare il rapporto stretto tra lingua e cultura. In campo scientifico una
rivoluzione nacque dalla diffusione della terminologia chimica, la quale arriva dalla Francia nella
seconda metà del secolo XVIII attraverso gli studi di Lavoisier.
Due principi di Lavoisier:
1. meglio un nome nuovo chiaro e trasparente, che un nome tradizionale opaco e fuorviante.

118
2. Creando nuovi termini è opportuno servirsi delle lingue morte e in particolare del greco65. 

Nella terminologia chimica scientifica, i suffissi assumono un valore classificatorio: -ique (italiano:
ico) gli acidi ossigenati. -Eux (italiano: -oso) gli acidi deboli.


3. Il pensiero di Cesarotti nel dibattito linguistico settecentesco


Fin dall’inizio del ‘700 si era avuta una riproposta delle posizioni relative al primato di Firenze e
della lingua toscana; un esempio sono le Annotazioni di Anton Maria Salvini alla Perfetta poesia
italiana di Muratori. Salvini polemizzava contro il concetto di lingua comune e ribadiva i due
vantaggi dei fiorentini, possessori della lingua per diritto e per studio. I fiorentini continuavano a
rivendicare il primato della loro città. Per quanto conservatori, essi non rappresentavano tuttavia
l’ala più reazionaria del pensiero linguistico italiano.

Giulio Cesare Becelli esortava all’imitazione delle Tre Corone, proponendo un canone rigidissimo.
Dopo la pubblicazione della quarta Crusca (1729-1738), si manifestarono reazioni decisamente
polemiche. Celebre è la Rinunzia avanti notaio al Vocabolario della Crusca scritta da Alessandro
Verri a nome dei redattori della rivista milanese Il Caffè: questo intervento mostra una grande
insofferenza nei confronti dell’autoritarismo fiorentino e consiste in un pamphlet, caratterizzato dal
tono sarcastico, in cui si denuncia lo spazio eccessivo che le questioni retoriche e formali (le
parole) hanno avuto nella cultura italiana, a danno del progresso concreto. Il radicalismo del
pamphlet di Verri ci aiuta a capire meglio il senso della ‘rinunzia’ alla lingua italiana, proposta da
Denina ai piemontesi durante l’età napoleonica: una ‘rinunzia’ la quale non aveva solo l’intento di
assecondare la volontà degli occupanti francesi, ma voleva anche tagliare i ponti con la cultura
italiana, inguaribilmente malata di retorica e di formalismo.

Cesarotti nel Saggio sulla filosofia delle lingue, prima edizione del 1785 con il titolo Saggio sulla
lingua italiana; seconda edizione del 1788; ed. definitiva 1800, conteneva un sistema valido,
fondato su una concezione generale del linguaggio, elaborata sulla base di idee diffuse nel ‘700
dalla cultura francese. Il trattato è nitido d’impianto, mentre per esempio è necessario uno sforzo
per comprendere il pensiero linguistico di Bembo.

Il saggio si apre con una serie di teorie:


1. tutte le lingue nascono e derivano, all’inizio della loro storia sono barbare, ma il concetto di
barbarie non ha senso se lo si utilizza nel confronto fra le lingue, perché tutte servono
ugualmente all’uso della nazione che le parla.
2. Nessuna lingua è pura: tutte nascono dalla composizione di elementi vari.

65 Alcuni grecismi arrivano all’italiano attraverso la lingua francese, come ellenista, energico, erotico,
pederasta.
119
3. Tutte le lingue nascono da una combinazione casuale, non da un progetto razionale.
4. Nessuna lingua nasce da un ordine prestabilito.
5. Nessuna lingua è perfetta, ma tutte possono migliorare.
6. Nessuna lingua è tanto ricca da non aver bisogno di nuove ricchezze.
7. Nessuna lingua è inalterabile.
8. Nessuna lingua è parlata in maniera uniforme nella nazione.

Cesarotti poi affronta il problema della distinzione tra lingua orale e lingua scritta; quest’ultima ha
una dignità superiore, in quanto momento di riflessione e strumento con cui operano i dotti. La
lingua scritta per l’autore non dipende dal popolo e nemmeno dagli scrittori, non può essere fissata
in modelli e non dipende ‘dal tribunal dei grammatici’. La polemica si caratterizza per il suo
antipurismo, condotta sulla base di un lucido razionalismo.

La III parte del saggio è più pratica: Cesarotti indica la strada per una normativa illuminata, da
contrapporre a quella troppo rigida della Crusca. A differenza degli illuministi radicale del “Caffè”
egli non vuole una libertà da ogni regola. Chi scrive non deve guardare a un passato morto e
sepolto: gli scrittori sono liberi di introdurre termini nuovi o di ampliare il senso dei vecchi. I termini
nuovi possono essere introdotti per analogia con i termini già esistenti.

Un’altra fonte di parole possono essere i dialetti italiani e Cesarotti ammette che possono essere
adottate anche parole straniere, ma questa scelta dev’essere fatta con cautela. Egli inizia il suo
discorso sui prestiti trattando la questione delle parole latine e dei grecismi; in nome della
chiarezza egli pensa che sarebbe auspicabile una diminuzione del loro numero nel linguaggio
scientifico66. Questa posizione diffidente nei confronti dei grecismi, anticipa quella di Pietro
Giordani, che propose termini composti italiani invece di quelli greci.

Toccare il problema significava affrontare il tema più spinoso dei forestierismi provenienti dalle
lingue moderne e soprattutto dal francese. Ma per Cesarotti i forestierismi e i neologismi, una volta
entrati in italiano, possono produrre nuove derivazioni. Il “genio della lingua”, inteso come carattere
originario tipico di un idioma e di un popolo, era utilizzato dagli avversari dei forestierismi per
dimostrare l’estraneità e l’improponibilità del termine esotico, il quale di per sé straniero, doveva
ripugnare al genio nazionale.

Cesarotti propone un duplice concetto di genio: grammaticale e retorico, per distinguere meglio
nella lingua ciò che deve essere difeso come inalterabile da ciò che invece può mutare in relazione
ai tempi e al progresso.

66 Meglio sonnifero che narcotico, accidente piuttosto che sintoma.


120
La struttura grammaticale delle lingue è infatti inalterabile, il lessico invece dipende dal genio
retorico e riguarda l’espressività della lingua stessa; è in quest’ultimo settore che tutto è alterabile
come i prestiti e le derivazioni. Quindi ha torto chi afferma che i forestierismi guastano la lingua, in
quanto le strutture grammaticali non sono investite dal cambiamento.
La IV parte del saggio, a conclusione, è dedicata all’esaminazione della situazione italiana e
propone delle soluzioni positive alle polemiche della ‘questione della lingua’. Proprio nelle ultime
pagine si affronta il tema del rinnovamento della lessicografia legata all’attualità della politica.

Poiché la lingua è della nazione, Cesarotti proponeva di istituire un Consiglio nazionale della
lingua, al posto della Crusca e la sede avrebbe dovuto essere ancora Firenze; la nuova istituzione
si sarebbe occupata di studi etimologici e filologico-linguistici, ma soprattutto con attenzione al
lessico tecnico delle arti, dei mestieri e delle scienze. La schedatura avrebbe superato la selettività
letteraria e avrebbe permesso di arrivare alle parole di uso regionale e poi si sarebbe arrivati ad
una scelta: il patrimonio lessicale ottenuto sarebbe stato confrontato con quello presente nei
vocabolari di altre nazioni.
Compito finale del Consiglio era la compilazione di un vocabolario, realizzato in due forme:
1. un’edizione ampia, scientifica rivolta agli specialisti e con carattere etimologico, storico,
filologico e comparativo.
2. Un’edizione di uso comune, pratica e divulgativa. Avrebbe contenuto i termini delle arti e delle
scienze, purgato dagli arcaismi, avrebbe suggerito la traduzione dei grecismi.

Il saggio si chiude con un appello alle attività intellettuali, chiamando Firenze a farsi guida culturale
d’Italia, con il consenso delle altre regioni, ma fu inascoltato.

4. Le riforme scolastiche e gli ideali di divulgazione


4.1.1 Gli ideali di divulgazione del sapere
Vi è un nesso tra gli ideali di divulgazione culturale, di svecchiamento e rinnovamento del pensiero
e la diffusione nel Settecento di un sentimento democratico.
Le condizioni del popolo divennero un forma di interesse per gli illuministi e si cominciò a pensare
che la conoscenza della lingua italiana doveva entrare nel bagaglio di ogni uomo per poter
assumere un ruolo nella società produttiva.
Il recente volume dedicato alla storia linguistica del ‘700 scritto da Matarrese, si apre con un
capitolo dedicato a Scuola ed educazione linguistica: l’organizzazione razionale di una scuola è
uno degli obiettivi che caratterizzano positivamente l’Illuminismo riformatore. L’insegnamento della
lingua implicò delle strategie e degli obiettivi di politica culturale.
È in questo secolo che l’italiano entra in forma ufficiale, poiché sono le organizzazioni statali a
darsi da fare, sotto lo stimolo di intellettuali intelligenti, per far si che l’insegnamento non fosse

121
svolto solo in riferimento alla lingua latina. Nasce così una sensibilità nuova per i temi della
divulgazione e della diffusione della cultura nei ceti medie moderne sono anche le ribellioni
antipedantesche e antiaccademiche.
In prima fila non sono solo i letterati, ma un’ampia categoria di intellettuali, studiosi che si
dedicavano a diverse branche del sapere. Questi specialisti indicarono la strada per le necessarie
riforme sulla via del progresso, anche se la situazione italiana rimase assai difficile, per la
mancanza di uno stato unitario nazionale che doveva applicare un disegno di riforma omogeneo
per un territorio così ampio. La situazione delle riforme scolastiche italiane è dunque in realtà
disuguale, diversa da stato a stato.

4.2. Riforme scolastiche nel Piemonte


Per natura il Piemonte era esposta all’influenza della lingua francese.
Nel 1729 Vittorio Amedeo II di Savoia emanò dei provvedimenti per la riforma dell’università; un
intellettuale di grido come Scipione Maffei suggerì l’introduzione dell’insegnamento delle lettere
toscane ma non fu messo in atto.
I Regolamenti scolastici Piemontesi del 1729 introducevano, d’altro canto, l’insegnamento della
grammatica latina mediante manuali scritti in italiano. Sempre in Piemonte nel 1733-34 divenne
obbligatorio per la prima volta, nella scuola superiore d’élite, lo studio dell’italiano, stabilito solo una
volta alla settimana, il sabato. Nel 1734 venne definitivamente a Torino una cattedra universitaria di
italiano e greco, cattedra che divenne punto di avvio di una politica di sviluppo della scuola
d’italiano.
Nel 1772 furono emanate nuove costituzioni della scuola, in cui la posizione dell’italiano si fece più
solida, in quanto venne istituita una classe iniziale, propedeutica a quelle già esistenti e dedicata a
fornire i rudimenti della lingua italiana.
Naturalmente lo sviluppo dell’insegnamento dell’italiano è stato graduale e sempre in un contesto
finalizzato allo studio del latino.

4.3. Modena, Napoli, Parma


Modena, in seguito a nuove costituzioni degli studi emanate nel 1772, si prescriveva per i primi
anni di corso l’uso di libri esclusivamente italiani e non latini. Si ebbero riforme scolastiche dopo la
cacciata dei Gesuiti anche a Napoli e a Parma.
A Parma nel 1768, si prevedeva per le classi infime, destinate a coloro che non avrebbero
proseguito gli studi, l’insegnamento del solo italiano.
A Napoli fu avanzato un progetto di Genovesi del 1767, che proponeva a livello di istruzione
primaria per i meno abbienti, l’istituzione di insegnamenti di leggere, scrivere ed abaco pratico; il
regno di Napoli si trovava in uno stato d’inferiorità a causa dell’inesistenza dell’istruzione primaria.
Le aspirazioni alla divulgazione si coniugavano in questo caso al sogno di una classe di dotti che

122
sapesse promuovere il progresso tecnico della società, per la quale serviva un’alfabetizzazione
generalizzata.

4.4. La polemica contro il latino


Nel ‘700 si levarono polemiche contro l’abuso del latino nell’educazione dei fanciulli; ai giovani
delle classi medie popolari serviva una cultura più legata alle esigenze dei commerci e delle attività
pratiche. Una preparazione tutta moderna e ‘italiana’ avrebbe giovato al generale progresso
sociale. Il latino veniva accusato di essere il freno di questo progresso; fu cosa nuova dello spirito
illuminista, solo in piccola parte anticipata da alcuni intellettuali moderni e anticonformisti del XVII,
come Tassoni e Sarpi.

4.5. Il Lombardo-Veneto
Alla fine del XVIII secolo furono avviate delle riforme nelle scuole del Lombardo - Veneto, grazie
alla politica scolastica di Maria Teresa d’Austria. Fu ideato a Berlino e giunse in Italia attraverso
l’Austria un nuovo metodo didattico, detto “normale”, in cui per la prima volta prendeva forma
l’unita della classe concepita in maniera moderna, come un gruppo a cui venivano dati
insegnamenti per obiettivi didattici unitari. Tra il 1786 e 1788, il padre Soave pubblicò una serie di
manuali per l’insegnamento dell’italiano che ebbero grande fortuna.

Nel 1783 era stato pubblicato a Rovereto un A B C ovvero Il libretto dei nomi e poi modificata dal
Soave per realizzare il nuovo Abbeccedario, che consentiva un percorso graduale dalla lettera alla
sillaba, alla parola, alla frase, al testo in prosa, al testo in versi. Per Soave il dialetto poteva essere
utilizzato come punto di accesso alla lingua italiana, fornendo frasi dialettali da tradurre in italiano.
L’obiettivo era la conoscenza dell’italiano finito e per Soave finito significava accurato ed elegante,
cioè il toscano.
Dalla riforma austriaca nacque un’idea di una scuola comunale con il compito di insegnare a
leggere e a scrivere; scuola istituita nell’ottocento negli stati dell’Italia settentrionale. La scuola
comunale si collega anche alla pedagogia popolare del Romanticismo, da cui uscì, attraverso gli
ordinamenti piemontesi, poi estesi all’Italia unita, la scuola elementare obbligatoria italiana.

5. Lingua di conversazione e scritture popolari


5.1. Una lingua d’occasione
L’interesse dei riformatori per l’insegnamento scolastico dell’italiano non produsse risultati
immediati al livello della popolazione di ceto più basso; l’uso della lingua italiana continuò ad
essere un fatto d’élite. Il toscano era adatto alle situazioni ufficiali e ai libri, ma meno adatto alle
situazione familiari, ai rapporti confidenziali, occupato dai dialetti.

123
5.2. Linguaggio itinerario e parlar finito
L’opinione di Baretti andava d’accordo con altre, ad esempio quella di Foscolo, che parlava di
“linguaggio mercantile e itinerario”, usato da coloro che erano abituati a muoversi nella varie
regioni italiane. Foscolo osservava che l’uso di una lingua non dialettale nella propria patria
avrebbe rischiato di creare problemi di comprensione.
Manzoni descrisse i caratteri del “parlar finito”, la lingua ritenuta “elegante” e che consisteva
nell’utilizzo di parole che si supponevano italiane e nell’aggiunta di finali italiane alle parole
dialettali terminanti per consonante. La lingua italiana si prestava poco alla conversazione
‘naturale’, perché era scritta, ma poco parlata.
Solo i Toscani si trovavano in posizione di vantaggio, perché nella loro regione, lingua scritta e
parlata coincidevano quasi perfettamente. Come si legge in Migliorini, ‘solo eccezionalmente la
lingua della conversazione è l’italiano venato di dialetto, nelle occasioni più solenni predomina
l’italiano quale si scriverebbe’. Questa situazione era tale da far nascere il topos secondo il quale
la lingua italiana era classificata tra le lingue morte, come scriveva Manzoni nel 1806.

5.3. Dialetto illustre italianizzato


Non mancano interessanti eccezioni alla marginalità culturale del dialetto: nei tribunali veneti le
arringhe si fanno in veneto illustre o anche in un italiano misto di veneto, di cui Goldoni ci ha
lasciato un interessantissimo esempio nella commedia L’avvocato veneziano.

5.4. Scritture popolari


Anche nel ‘700, si reperiscono scritture popolari, di semicolti, in cui si ha modo di osservare un uso
difettoso della lingua scritta. Questo tipo di situazione comunicativa dava luogo a interferenze del
codice dialettale con quello dell’italiano. Un italiano di tipo regionale e popolare si rintraccia negli
annunci commerciali sulle gazzette, come negli articoli di cronaca giornalistica, con un italiano
assai modesto e con tratti popolari.

6. Linguaggio teatrale del melodramma


6.1. L’opera in musica
Il successo dell’opera italiana è nel ‘700 molto grande anche all’estero. Il successo della lingua
italiana nell’opera per musica contribuì a fissare lo stereotipo dell’italiano come lingua della
dolcezza, della cantabilità, della poesia, dell’istinto, della piacevolezza, in contrapposizione al
francese, lingua della razionalità e della chiarezza. Il giudizio sul linguaggio del melodramma
portava anche all’estero una valutazione favorevole delle opere italiane; una delle più fortunate fu
la Serva padrone di Pergolesi, rappresentata a Napoli nel 1733, il cui linguaggio è per noi moderni
‘perfettamente comprensibile’. Il successo di quest’opera all’estero fu grande e lo stile musicale
italiano trovò paladini in Voltaire, Rousseau e Diderot. Il linguaggio dell’opera influenzò anche

124
l’italiano imparato da alcuni stranieri: celebre è il caso di Voltaire, che scrive lettere in cui entra
lessico melodrammatico e aulico.
Nei paesi di lingua tedesca, l’italiano ebbe un nuovo successo con il trionfo dell’opera italiana a
Vienna, con Metastasio; anche Mozart conosceva l’italiano e lo adoperò in forme curiose e vivaci e
il compositore utilizzò libretti scritti dall’italiano Da Ponte.

6.2. Il linguaggio di Goldoni


Benché si ritrovino nell’opera di Goldoni alcuni accenni al problema della lingua, non si può certo
dire che egli ne fosse assillato. La rappresentazione scenica, eppure, richiedeva uno sforzo
notevole di approssimazione; non esistendo in Italia una vera lingua comune di conversazione, un
autore teatrale che volesse simulare il parlato, senza imparare la lingua toscana viva, era costretto
o a ricorrere al dialetto o a impiegare una lingua mista, in cui entrassero elementi diversi, come
francesismi e modi colloquiali di vario tipo.

Goldoni optò per l’una e l’altra soluzione: scrisse opere in dialetto veneziano, in italiano e anche in
francese. Il suo francese era stata una lingua formalmente imperfetta, ma assai vivace e adatta
alla scena. L’uso del dialetto, che in scena non è un problema, richiede qualche temperamento in
occasione della trasposizione scritta, a stampa: sparisce il tradizione bolognese del dottore
avvocato, il dialetto veneziano resta, ma corredato da una serie di chiose per far intendere anche
ai non veneti particolarità che andrebbero perdute. Sono spiegati in nota gli elementi di un ipotetico
italiano settentrionale, in cui le careghe stanno al posto delle sedie e barba sta per zio e vengono
commentati i proverbi, le parole del dialetto meno trasparenti.

Dialetto e lingua non sono da considerare in opposizione, ma si alternano e si confondono in una


stessa battuta. L’italiano teatrale di Goldoni è estraneo alle preoccupazioni di purezza. Egli
rivendicava il valore pratico delle sue scelte, al di fuori di ogni teoria. Lingua non elegante, ma viva,
innovativa, specialmente sul piano sintattico. In Goldoni domina una sintassi di tipo paratattico, in
cui affiorano caratteri propri del parlato e del registro informale, rimasti ai margini della norma
grammaticale.

7. Linguaggio poetico
7.1. L’Arcadia
Risale al 1690 la fondazione a Roma dell’Arcadia, movimento che con le sue diffuse colonie
organizzate in ogni centro italiano, anche nelle località di provincia, fu un esercizio poetico di
grandissime dimensioni. Questa stagione poetica così florida ebbe come strumento una lingua
tradizionale, ispirata al modello del Petrarca e intesa a liberarsi degli eccessi formali del Barocco.

125
7.2. Adesione al passato nel linguaggio poetico: la difficoltà del rinnovamento
Vi è nel linguaggio della poesia del ‘700 una sostanziale adesione al passato, visibile nell’impiego
della toponomastica e onomastica classica, della mitologia, con largo uso di latinismi e arcaismi.
Quando veniva introdotta una parola esotica, che non aveva tradizione poetica, se ne addolciva il
suono mediante l’aggiunta di epiteti67. Effetti di una tendenza alla nobilitazione sono, per esempio,
la proclisi nell’imperativo (es: t’arresta, m’ascolta) o l’enclisi (es: vadasi, parmi). Altri procedimenti
vistosi nella poesia, a cominciare da quella di Metastasio, furono i troncamenti, specialmente quelli
del verbo all’infinito (arrossir, parlar), praticamente una soluzione obbligata, in cui si rinuncia solo in
casi particolari.

In Metastasio il cantabile fu spinto nella forma dell’arietta, in cui trovano posto anche massime e
proverbi, alcuni dei quali passati nel patrimonio mnemonico comune.
I troncamenti hanno lo scopo di distinguere la poesia dalla prosa e di salvare i versi dal rischio
dello scivolamento del prosastico, rischio per chi usa abitualmente un lessico ridotto e una sintassi
elementare, come Metastasio. Tra due termini si tende a scegliere quello più raro e letterario,
piuttosto che quello banale: duolo al posto di dolore, brando invece di spada, talamo invece di
letto.

Il Settecento è probabilmente il secolo in cui questo linguaggio si stabilizza e si collega a un


orizzonte tematico non necessariamente di tipo elevato e sublime, anche perché la poesia del
Settecento affronta temi nuovi: basti pensare alla fortuna della poesia didascalica (Mascheroni) e
di quella morale, alla maniera del Parini. 


7.3. La poesia didascalica


La poesia didascalica ebbe una grande fortuna, in quanto incarnava ideali di divulgazione e di
progresso e celebrava i successi della ricerca scientifica, come nell’ Invito a Lesbia Cidonia di
Mascheroni, dove Lesbia Cidonia venne guidata a visitare i laboratori dell’Università di Pavia.

8. La prosa letteraria
8.1. Semplificazione e linearità sintattica
Nella categoria della prosa letteraria è da includere la prosa saggistica del ‘700; è questo tipo di
prosa che attraverso l’influenza delle lingue straniere, si avvia verso una semplificazione sintattica.
Molti scrittori confrontavano la tradizione francese con quella inglese: lo fa Beretti nella Frusta
letteraria, Verri in un intervento sul Caffè, dove dichiara la propria ammirazione per l’ordine della
scrittura francese e per la brevità della scrittura inglese e lamentando la penosa trasposizione dello
stile italiano.

67 Il sino urango, il ricinto armadillo, il lurido pipa ecc. Li troviamo in Mascheroni.


126
Le Notti romane di Verri, sono un esempio di prosa che si propone come nobile modello
neoclassico, ispirandosi all’antico, con latinismi e con una sostenutezza oratoria. Non vi è dubbio
che la tradizione italiana rendeva difficile lo scrivere piano: quasi tutti invidiano inglesi o francesi
per la loro lingua agile e priva di inversioni sintattiche.

Serianni propone un confronto fra l’incipit dell’originaria redazione autografa de Dei delitti e delle
pene di Beccaria e quello dell’edizione a stampa: tra i due testi intercorre una sostanziale revisione
stilistica, che ha per oggetto una semplificazione del periodo; la stesura originale passò per le mani
di Verri che ebbe parte in questa semplificazione delle strutture sintattiche. L’obiettivo della
chiarezza veniva perseguito dagli Illuministi e non sempre con successo.

8.2. La prosa di Vico


Giambattista Vico aveva aderito al capuismo, cioè al movimento arcaizzante del filosofo e
scienziato napoletano Leonardo Di Capua, che imitava i modelli toscani antichi. Nella Scienza
nuova si riconoscono arcaismi e latinismi, in una sintassi diversa dall’armonica struttura
classicistica ricca di equilibrio. Nella prosa di Vico si possono trovare vere e proprie cascate di
subordinate.

8.3. Alfieri
L’autore non perse occasione per parlare male della lingua francese e per descrivere il proprio
apprendimento del toscano classico. La Firenze di Alfieri era diversa da quella che affascinerà i
cacciatori di lingua viva e parlata dell’età romantica ed era una sorta di mito letterario-
archeologico. Ci restano dei suoi appunti, in cui le parole toscane erano affiancate agli equivalenti
francesi o piemontesi; lo stesso Alfieri iniziò nel 1774-75 in lingua francese il suo diario personale,
per passare all’italiano nel 1777.
Nelle tragedie di Alfieri lo stile dell’autore si caratterizzò per un volontario allontanamento dalla
normalità ordinaria e dal cantabile, allontanamento ottenuto attraverso ogni sorta di artificio
retorico, in particolare attraverso la trasposizione sintattica e la spezzatura delle frasi. La lettura
della Vita risulta più agevole, perché è un’avventura linguistica e perché descrive il cammino verso
la lingua toscana di un giovane aristocratico piemontese, nato in una regione in cui l’italiano non
era di casa e si parlava il francese.

127
Capitolo 12
L’Ottocento

1. Purismo: il culto del passato


All’inizio del’800, anche per reazione contro l’egemonia della cultura francese e contro l’invadenza
della lingua d’oltralpe, imposta durante l’Impero napoleonico, si sviluppò un movimento chiamato
Purismo. Il termine, inizialmente nato per polemica, indicava un’avversione e un’intolleranza per
ogni innovazione, influsso straniero, tecnicismo, neologismo.
Un atteggiamento del genere ebbe per conseguenza un forte antimodernismo, ne derivava un
vagheggiamento dell’antico, epoca felice per la lingua e un disprezzo per i tempi presenti e una
teoria della storia linguistica, intesa come progressiva caduta.

Il capofila del Purismo italiano può essere definito Antonio Cesari, veronese, autore di libri religiosi,
di novelle, studi danteschi, ma soprattutto celebre per la sua attività di lessicografo; la
Dissertazione sopra lo stato presente della lingua italiana è da considerare il vero manifesto del
Purismo. Secondo Cesari, tutti in quel tempo del 1300 parlavano e scrivevano bene, il canone
della perfezione linguistica veniva esteso al di là delle opere degli autori, massimi o minori che
fossero. Si apprezzava non solo la letteratura, ma anche le umilissime scritture quotidiane, le note
contabili ecc. A parte il discutibile mito puristico delle origini, vagheggiato come età della perduta
perfezione, poco offriva Cesari. Arrivò presto a riproporre l’inautenticità del De vulgari eloquentia,
secondo i vecchi argomenti dibattuti, ma superati e improponibili.

Se Cesari è il capofila del Purismo, molte sono le figure che si muovono nell’ambito di questo
movimento. Il marchese Puoti, napoletano, tenne una scuola libera e provata, dedicata
all’insegnamento della lingua italiana, intesa come concezione puristica, ma meno rigida di quella
di Cesari, più disponibile verso gli autori del ‘500; fu il maestro di De Sanctis e Settembrini.
Quest’ultimo, pur lontano dal Purismo, ne giustificava l’esistenza come un’embrionale forma di
sentimento nazionale, manifestatasi nel momento in cui gli italiani non avevano una vera patria,
ma solo una lingua che teneva ‘il luogo di patria’.
De Sanctis nello scritto autobiografico La giovinezza ricorda i contenuti della scuola di Puoti, che
spiegò che la base della scuola era la buona e ordinata lettura dei trecentisti e cinquecentisti. Lo
scrittore Carlo Botta fu solidale con il Cesari, fu autore della Storia della guerra della indipendenza
degli Stati Uniti d’America del 1809, in cui la lingua di arcaismi cozza con il contenuto moderno.
L’autore oltre a parole obsolete come civanza per guadagno, misfare per far male, usa i nomi
antichi dei venti al posto delle designazioni dei punti cardinali.

128
L’efficacia pratica del Purismo, nella sua durata temporale molto lunga, si realizzò anche in
seguito, dopo l’Unità italiana, quando l’insegnamento di molte scuole fu improntato a metodi che
discendevano dalle idee di Puoti e di Cesari. I Fatti di Enea, il Novellino, le prediche del Cavalca
restano tra i libri fondamentali per l’educazione dei giovani.

2. La proposta di Monti e le reazioni antipuristiche


Vincenzo Monti, all’apice della sua attività letteraria, pose un freno alle esagerazioni del Purismo.
Fin dal 1813 dimostrò di non andare d’accordo col Cesari e dalle colonne del Poligrafo di Milano,
Monti gli rinfacciò di aver dato una versione del Vocabolario della Crusca apparentemente più
ampia. La critica antipurista di Monti arrivò a colpire lo stesso Vocabolario della Crusca; le sue
polemiche linguistiche compongono la serie di volumi intitolata Proposta di alcune correzioni ed
aggiunte al Vocabolario della Crusca, uscita dal 1817 al 1824. Gran parte della Proposta era
costituita dalla ricerca di errori compiuti dai vocabolari fiorentini, errori dovuti anche alla scarsa
preparazione filologica.

Il Vocabolario della Crusca veniva giudicato inadeguato, caratterizzato da una visione angusta
della lingua. Alla stessa tradizione si riallacciava Ludovico di Breme, intellettuale piemontese attivo
nel gruppo romantico milanese, il quale appoggiava la polemica di Monti contro il Vocabolario della
Crusca e contro ogni forma di Purismo, invocando però anche un atteggiamento di critica ancora
più drastica nei confronti della tradizione italiana.
Tra i romantici milanesi circolò uno scritto di Stendhal, I pericoli della lingua italiana, ispirato al
sensismo: lo scritto condannava il Purismo e metteva a fuoco la situazione linguistica dell’Italia,
caratterizzato dalla vitalità dei dialetti e dall’artificiosità della lingua letteraria.

3. La soluzione manzoniana alla questione della lingua


3.1.Gli scritti editi e inediti di Manzoni sulla lingua italiana
I romantici milanesi si dibattevano attorno al problema dell’italiano in tutto o in parte simile a una
lingua morta, che si imparava dai libri, che si impiegava nella letteratura e per le occasioni ufficiali,
ma inadatta ai rapporti quotidiani e familiari, per i quali era più facile e funzionale il dialetto, o
addirittura una lingua straniera come il francese.

Manzoni affrontò la questione e inserì le sue idee nella stesura de I Promessi Sposi, divenute una
teoria linguistica di alto valore sociale che influirono profondamente, collaborando a cambiare la
situazione dell’italiano e rendendo la nostra lingua più viva e meno letteraria. La sua teoria
linguistica dev’essere giudicata alla luce dei suoi scritti postumi.

129
Nel 1974 sono state pubblicate le cinque redazioni del trattato Della lingua italiana, su cui Manzoni
lavorò per circa trent’anni e questo ha portato gli studiosi a riesaminare la teoria manzoniana.
Manzoni, negli interventi pubblici, non esibì il lavoro teorico che aveva perseguito negli anni; in vita
curò la pubblicazione di interventi brevi e occasionali, come la Lettera al Carena, del 1847 e
stampata nel 1850, la Lettera intorno al libro De ‘vulgari eloquio’ di Dante Alighieri del 1868. Nel
1932 fu pubblicato il Sentir Messa, un libro della lingua d’Italia, anch’esso lasciato incompiuto. La
mole e la complessità degli scritti postumi e inediti sulla tematica linguistica supera largamente
quella degli scritti editi.

3.2. La scoperta del fiorentino vivo


Manzoni iniziò ad occuparsi della questione della lingua e del problema della prosa italiana dal
1821, con la stesura del Fermo e Lucia, redazione iniziale dei Promessi Sposi.
• La prima fase, che si rimanda in una lettera al Fauriel nel novembre 1821, viene definita come
eclettica, in quanto Manzoni cercava di raggiungere uno stile duttile e moderno, utilizzando il
linguaggio letterario, ma senza vincolarsi ad esso alla maniera dei puristi, anzi accettando
francesismi e milanesismi.

La descrizione della propria lingua letteraria fu data da Manzoni nella seconda introduzione al
Fermo e Lucia del 1823, dove prendeva le distanze dallo stile composito e lamentava la propria
naturale tendenza al dialettismo. Nel Fermo e Lucia il toscano affiora come termine di confronto.
Un esempio si coglie dall’espressione toscana di Fermo: non veder lume. Questa è ricalcata
direttamente sul dialetto lombardo.

• La seconda fase che Manzoni chiamò toscano–milanese, corrisponde alla stesura dei Promessi
Sposi per l’edizione 1825-27: lo scrittore cercava di usare una lingua toscana, ma ottenuta
tramite libri, attraverso vocabolari, secondo il metodo delle postille presenti nella copia del
Vocabolario della Crusca nell’edizione veronese di Cesari. Queste postille mostravano il fastidio
dello scrittore, che dopo aver consultato testi e vocabolario non era in grado di sapere se le
forme linguistiche che lo interessavano fossero vive o obsolete.

In Manzoni matura un diverso concetto di uso, legato non più ad un eventuale impiego letterario,
ma alla vita della parola in una comunità di parlanti. In diverse postille mostrava di essere attirato
dalle concordanze tra dialetto milanese e linguaggio fiorentino. Non manca il confronto con
l’equivalente francese: Manzoni utilizza gli strumenti familiari come il dialetto e il francese per
approfondire la conoscenza del toscano.

130
Nel 1827 Manzoni fu a Firenze e il contatto diretto con la lingua toscana suscitò una reazione
decisiva: in una lettera del 1828 a Leopoldo II di Toscana, parlava della delizia di vivere in quella
lingua.
Dal 1830 la riflessione linguistica di Manzoni si sviluppò con maggior impegno; l’esito fu la nuova
edizione dei Promessi Sposi del 1840-42, corretta per adeguarla all’ideale di una lingua d’uso,
resa scorrevole, purificata da latinismi, dialettismi ed espressioni letterarie di uso arcaico. Nel 1847
Manzoni in una lettera a Carena, espresse la propria posizione definitiva, auspicando che la lingua
fiorentina completasse l’opera di unificazione.

3.3 La Relazione del 1868


Nel 1868 lo scrittore rese pubbliche in una Relazione al ministro Broglio le ragioni per cui gli
sembrava che il fiorentino dovesse essere diffuso attraverso una politica linguistica, messa in atto
nella scuola, ad opera degli insegnanti.
Proponeva anche che si realizzasse un vocabolario della lingua italiana concepito su basi nuove,
affiancato da agili vocabolari bilingui, capaci di suggerire le parole toscane corrispondenti a quelle
delle varie parlate d’Italia.
La Relazione nasceva da una richiesta ufficiale, fatta dal ministro dell’Istruzione che aveva invitati
a proporre le più efficaci strategie per diffondere l’italiano tra il popolo. La questione della lingua si
collegava per la prima volta ad una questione sociale. Intellettuali come Tommaseo e Lambruschini
presero le distanze da Manzoni, rivendicando la funzione degli scrittori nella regolamentazione
della lingua, sollevando dubbi di varia natura sul primato assoluto dell’uso vivo di Firenze, così
Settembrini e Fanfani.

3.4. Influenza della teoria manzoniana


La teoria ebbe effetti rilevanti e ciò si spiega con a forza di penetrazione dei Promessi Sposi,
modello di prosa elegante e colloquiale al tempo stesso e che sembrava di liberare la prosa
italiana dall’impaccio della retorica. Bonghi scrisse il saggio Perché la letteratura italiana non sia
popolare in Italia nel 1855 a puntate su un giornale di Firenze, in seguito in volume che riprendeva
anche temi della trattatistica settecentesca, che lamentava l’inferiorità dell’italiano rispetto al
francese nelle letture piacevoli e divulgative. Bonghi analizzava lo stile di diversi autori, da
Boccaccio, Machiavelli, da Bartoli a Giordani e individuava i difetti di costruzione e le inversioni che
ne rendevano faticosa la lettura. In alternativa proponeva uno stile piano, adatto a una piacevole
conversazione.

L’esempio di Manzoni favorì la cosiddetta “risciacquatura in Arno”, il soggiorno culturale a Firenze,


con lo scopo di acquisire familiarità con la lingua parlata della città. Manzoni influenzò doversi
intellettuali; anche Morandi, precettore di Vittorio Emanuele III, fu manzoniano. La borghesia

131
italiana, nella babele linguistica della nazione appena unificata, aveva bisogno di libri facili e
concreti, come L’idioma gentile di De Amicis, che influì profondamente sugli insegnanti. L’unico
freno alla diffusione della teoria manzoniana nel mondo della scuola fu il prestigio di Carducci
come poeta-professore, avversario del toscano popolareggiante, pronto a sferzarlo con la sua
satira.

3.5. Alcune idee-guida della linguistica manzoniana negli scritti postumi


La teoria linguistica manzoniana va giudicata alla luce degli scritti postumi, soprattutto del trattato
Della lingua italiana. Manzoni si oppose al Purismo di Cesari, da cui lo divideva la coscienza netta
che la naturalezza della lingua non poteva essere cercata in modelli scritti, in un corpus filologico
eterogeneo e arcaico. Manzoni era inoltre avverso alle teorizzazioni dei classicisti, che affidavano
le sorti della lingua alla responsabilità degli scrittori e non al potere dell’uso.

Una buona parte del saggio Della lingua italiana era dedicata a combattere le teorie di Condillac
sull’origine del linguaggio: Manzoni accettò la tesi della lingua come dono divino, ribadendo la sua
piena fiducia nella narrazione della Bibbia; negò che potesse mai essere esistita una società senza
lingua, o un uomo senza linguaggio. Rifiutava l’idea che il linguaggio fosse nato dalle onomatopee
e dalle interiezioni e restò legato a una polemica contro la filosofia del ‘700, contro gli Idéologues,
che aveva frequentato a Parigi nella giovinezza, prima della conversione. Elaborò il principio
dell’adeguatezza: una lingua viva è quella che basta a dire tutto quanto si dice nella società che si
serve della lingua, concepita quindi come interezza, al di là dell’uso individuale. Non era
accettabile il concetto di lingua modello (puristico o classicistico), perché la forma della lingua non
esiste se non nella lingua in atto. Le lingue sono mutabili, come abitazioni che ripariamo mentre
continuiamo a risiedervi.

Il pensiero linguistico di Manzoni, basato sulla mutabilità, rifiutava il concetto di ‘legge’, così come
contestava il valore delle categorie grammaticali; nella lingua l’eccezione e l’irregolarità valgono
quanto la regola.

4. Realizzazioni lessicografiche
4.1. Grandi dizionari nella prima metà dell’Ottocento
L’800 è stato il secolo dei dizionari ed è stata una stagione florida sia per la produzione che per la
qualità, oltre che per la varietà di realizzazioni. In questo secolo il dibattito sul lessico prese le
mosse dalla Crusca, sia in riferimento alle idee linguistiche dell’Accademia, sia per la rivisitazione
extratoscana del Vocabolario degli Accademici, realizzata nel 1806-11 dal padre Antonio Cesari di
Verona, capofila del Purismo (Crusca veronese).

132
Cesari aveva riproposto il Vocabolario della Crusca con delle aggiunte, allo scopo di esplorare il
repertorio della lingua antica, quella trecentesca, dei grandi autori, ma anche di quelli minori. Tra il
1833 e il 1842 fu pubblicato il Vocabolario della lingua italiana di Manuzzi, anch’esso nato da una
revisione della Crusca; quest’autore fu un purista e il vocabolario attestava la tendenza di una
parte della cultura italiana ad assestarsi nel solco del passato, a radicarsi in esso.

Altre riproposte sono:


Dizionario della lingua italiana in 6 volumi di Cardinali, Oriolo e Costa, pubblicato a Bologna nel
1819. Dizionario della lingua italiana in 7 volumi di Carrer e Federici, uscito a Padova fra il 1827 e il
1830.
Entrambi i vocabolari dichiararono di aver integrato la Crusca con voci riprese dall’Alberti di
Villanova, dalla Proposta di Monti e dalla Crusca veronese di Cesari. La somma delle aggiunte
avveniva in maniera piuttosto meccanica e queste opere potevano peccare di originalità; la forma
grafica si poteva così riscontrare: l’asterisco era il segno scelto per contrassegnare tutte le voci
non presenti nella Crusca le quali risultano riconoscibili a colpo d’occhio. La soluzione era comoda
per identificare più rapidamente le novità introdotte, ma allo stesso tempo è anche prova di una
difficoltà nell’amalgamare l’insieme.

Tra il 1829 e il 1840 si stampò il Vocabolario universale italiano, la cui base era sempre la Crusca,
però rivisitata: l’opera aveva un taglio prettamente enciclopedico, con attenzione alle voci tecniche.
Fu detto Tramater, dal nome della società tipografica napoletana che lo stampò e superò le
definizioni tradizionali, in quanto nei vocabolari precedenti i lettori avevano fatto riferimento a
conoscenze presupposte nel lettore (cane, come animal noto o cavolo, come erba nota); nel
Tramater la definizione zoologica e botanica poggiava sulla precisa classificazione scientifica.

4.2. Il dizionario di Tommaseo


Nessun vocabolario eguagli la qualità di questo, terminato poi da Bellini. Il progresso appariva
sostanziale; Tommaseo era già noto come lessicografo, soprattutto per i Sinonimi. Il vocabolario si
presentava sotto l’auspicio dell’unità politica appena raggiunta. L’autore si preoccupò di illustrare
attraverso il dizionario, le idee morali, civili, letterarie ed in effetti molti termini politici e civili entrano
per la prima volta in una vocabolario italiano.

In questo settore sono abbondantemente presenti le <[T]>, con cui Tommaseo firmò le voci. Tra
queste, comunismo (bollato con doppia croce: le croci, convenzioni lessicografiche,
contrassegnano le parole morte o da evitare) o positivismo. Entrambe le voci sono accompagnare
da una definizione umorale, per nulla oggettiva. Uno dei punti di forza consisteva, oltre che nella
mole e abbondanza dei lemmi, nella strutturazione delle voci. Il criterio più seguito stava nel:

133
- dichiarare l’ordine delle idee, seguendo un criterio logico, a partire dal significato più comune e
universale.
- Ordinare gli eventuali significati diversi, individuati da numeri progressivi.
- Privilegiare l’uso moderno, pur documentando quello passato.

Risultò così il primo vocabolario storico della nostra lingua. Tommaseo però, oltre agli umori e ai
giudizi soggettivi, riversa nel suo vocabolario anche un eccezionale senso della lingua. Il suo
vocabolario è quello che meglio conciliò la dimensione del tempo presente e quello della durata.

4.3. Il vocabolario manzoniano


La relazione Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla del 1868 si chiuse con la proposta di
un vocabolario. Per Manzoni bisognava scindere le due funzioni confuse nei vocabolari italiani:
mostrare l’uso vivente, per indicare l’uso vivo di Firenze, e documentare gli esempi degli scrittori
del passato. Quest’ultimo fine doveva essere rinviato a lessici appostiti, di tipo storico. L’obiettivo di
Manzoni consisteva nella realizzazione di una serie di vocaboli dialettali che suggerissero l’esatto
equivalente fiorentino. Il vocabolario veniva utilizzato come strumento primario di intervento
linguistico.

Manzoni non vide il compimento del suo vocabolario e alla sua morte, nel 1873, si era appena
avviata la pubblicazione del Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze, il
cosiddetto Giorgini-Broglio (uno era il genero, l’altro era il ministro dell’Istruzione). L’opera si
concluse nel 1897 e non arrivò mai ad un largo pubblico, anche per la concorrenza di altre
iniziative, come: il Vocabolario della lingua parlata di Rigutini-Fanfani, del 1875 e il Novo dizionario
universale della lingua parlata di Policarpo Petrocchi, del 1887-91.

Manzoni si ispirò al Dizionario dell’Accademia francese, introducendo così una novità tipica del
Dizionario francese: erano aboliti gli esempi d’autore (presenti nella Crusca). Il Giorgini-Broglio
scomparve al posto delle citazioni tratte dagli scrittori, presentava una serie di frasi anonime,
testimonianza dell’uso generale e allo stesso tempo venivano eliminate le voci arcaiche.

4.4. Dizionari puristici, di sinonimi, e metodici


All’inizio del XIX secolo si manifestò la tendenza a raccogliere voci da espellere, realizzando uno
strumento di consultazione con uno scopo opposto a quello del comune vocabolario. Il vocabolario
raccoglie e definisce le parole degne di essere usate o adoperate dagli scrittori del passato. Nel
1812 il primo vero dizionario puristico fu compilato da Bernardoni a cui replicò Gherardini, dando
un elenco di Voci italiane ammissibili benché proscritte dall’Elenco del sig.Bernardoni, mostrando

134
che molte voci avevano in realtà esempi d’autore e che altre erano state ricavate per derivazione o
analogia.

Il più famoso è il Lessico della corrotta italianità di Fanfani e Arlia del 1877, che nel 1881 divenne il
Lessico dell’infime e corrotta italianità. Comune a tutti i vocabolari puristici è la lotta contro
dialettismi e francesismi, che il più delle volte sono di fatto entrati nella nostra lingua. I francesismi
in particolare costituivano la fonte di imbarbarimento della lingua italiana. Parallelamente ai
dizionari puristici, continuò la tradizione di coloro che compilarono difese delle parole sotto accusa
e nel 1858-60 uscì il Dizionario di pretesi francesismi e di pretese voci e forme erronee della lingua
italiana di Viani.

Tommaseo realizzò nel 1830 il Dizionario dei sinonimi, opera ristampata nel nostro secolo. Alla
base delle ricerche sui sinonimi, c’era la coscienza che la perfetta sinonimia non esiste e che tra
vocabolo e vocabolo, passa sempre una differenza, anche sottile.
Negli anni in cui maturava l’Unità, fu maggiormente avvertita la necessità di lessico tecnico: la
nostra era una lingua che possedeva le parole per la poesia, per il poema e per il melodramma e
risultava debole o poco utilizzabile, proprio nel settore tecnico-pratico e familiare.
Carena nella sua opera si preoccupò di verificare l’uso vivo toscano, a Firenze e altrove. Egli era
convinto che i vocaboli non usati dagli artigiani di Firenze, ma documentati da ottimi libri, potessero
essere accolti come vivi e italiani.

4.5. Dizionari dialettali


L’800 fu anche il secolo della lessicografia dialettale. L’esigenza di queste opere fu determinata
dall’interesse romantico per il popolo e la cultura popolare, a cui seguì la curiosità della linguistica
per il dialetto, considerato una parlata con la sua dignità, i suoi documenti, la storia parallela a
quella della lingua nazionale.
Lo studio dei dialetti si accompagnò a una profonda curiosità per le tradizioni popolari e anche per
le forme letterarie della cultura orale. La casa editrice Pomba nel 1859 aveva stampato il Gran
dizionario piemontese-italiano di Vittorio di Sant’Albino; nella presentazione già si spiegava come il
vocabolario dialettale fosse al servizio di quello nazionale e dovesse servire all’apprendimento
della lingua della patria. Ponza, autore di diversi vocabolari dialettali, aveva proposto di usare il
dialetto come via d’accesso all’italiano, in modo da accostare il noto all’ignoto.
Altri dizionari:
• Vocabolario domestico napoletano e toscano di Puoti del 1841
• Vocabolario milanese-italiano di Cherubini, usato da Manzoni
• Dizionario del dialetto veneziano di Boerio
• Nuovo dizionario siciliano-italiano di Mortillaro

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5. Effetti linguistici dell’unità politica
5.1. Il numero degli italofoni
I territori degli ex stati nazionali che entrarono nel nuovo organismo erano caratterizzati da
profonde differenze, relative a tradizioni, abitudini, modi di vivere, livello di sviluppo economico e
sociale. Le differenze linguistiche erano la conseguenza della storia e della tradizione dei popoli. In
comune tra gli Stati c’era solo un modello di italiano letterario, elaborato dalle élite e mancava una
lingua comune della conversazione.

Il numero degli italofoni, cioè chi era in grado di parlare italiano, era allora molto basso. Non ci
sono documenti certi di quanti fossero effettivamente quelli che lasciavano da parte il dialetto e
conversavano in lingua. De Mauro ha tentato di rispondere a questo e partì dalla constatazione
che al momento della fondazione del Regno d’Italia quasi l’80% degli abitanti era analfabeta, come
risulta dai dati del primo censimento e non tutto il restante 20% sapeva usare l’italiano. La qualifica
di “alfabeti” veniva attribuita a quelli che, lunghi dallo scrivere decentemente, non sarebbero stati in
realtà capaci di stendere due righe in italiano corretto.
Egli aveva supposto che per raggiungere una padronanza accettabile della lingua occorresse
almeno la frequenza della scuola superiore post elementare (160.000 individui) a cui aggiunse
400.000 toscani che avevano un possesso naturale della lingua, per la vicinanza tra il toscano
parlato e l’italiano letterario e 70.000 romani, cittadini della città papale che parlavano un dialetto
molto toscanizzato. Sommando tutti questi presunti italofoni, si arriva a poco più di seicentomila
italiani capaci di parlare italiano, su un totale di 25 milioni.

Castellani ha proposto un diverso percorso da seguire: pose il problema dell’esistenza di una


fascia geografica mediana (Marche, Umbria, Lazio) in cui la natura delle parlate locali era tale da
far ritenere che un grado d’istruzione anche elementare fosse sufficiente per arrivare al possesso
dell’italiano; inoltre rivendicò l’identità tra toscano parlato e lingua italiana, sostenendo che tutta o
quasi la popolazione toscana degli anni attorno al 1861 andava calcolata tra gli italofoni,
indipendentemente dal grado d’istruzione (gli italofoni erano quindi il 10% della popolazione). Il
quadro non cambiava: una minoranza ridotta al momento dell’Unità sapeva parlare italiano e tutti
gli altri erano confinati nel dialetto.

5.2. La scuola
Con la formazione dell’Unità, per la prima volta la scuola elementare divenne gratuita e
obbligatoria, secondo l’ordinamento dello stato sabaudo dalla legge Casati del 1859, che fu estesa
al territorio nazionale. La legge Coppino del 1877 rese effettiva la frequenza, almeno per il primo
biennio.

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De Mauro dimostrò che questa scuola però non fu efficace, per le difficoltà che aveva questo
servizio in un paese dalle condizioni estremamente arretrate; le condizioni della scuola erano
migliori nelle città, peggiori nelle zone agricole. Nel 1861 almeno la metà della popolazione
infantile evadeva l’obbligo scolastico. Le regioni in cui c’erano meno analfabeti erano il Piemonte,
la Lombardia e la Liguria, oltre al miglior tasso di scolarità e con un’istruzione diffusa tra il popolo,
ma erano svantaggiate nella conversazione italiana, per la notevole distanza tra i dialetti gallo-
italici e il toscano. In Toscana ed Emilia Romagna gli analfabeti erano nel 1861 tra il 70% e l’80% e
oltre l’80% erano in Abruzzo, Sardegna, Campania, Puglia, Sicilia ecc.Esistevano condizioni di
grave disagio e in certi casi i maestri usavano il dialetto per tenere lezione.

Nella scuola, poi, soprattutto in quella superiore si confrontarono posizioni teoriche diverse: erano
presenti insegnanti puristi, insegnanti manzoniani e classicisti, che proponevano ai loro allievi
modelli diversi d’italiano. Nelle province napoletane era viva la lezione di Puoti, mentre i
manzoniani erano aperti verso il toscano vivo e cercavano di ottenere uno svecchiamento delle
letture scolastiche, tra questi vi era Luigi Morandi, precettore di Vittorio Emanuele III.

Tra coloro che si occuparono di scuola ci fu anche Carducci, avverso a ogni atteggiamento
manzoniano filo fiorentino e non fu concorde con le posizioni retrograde dei cultori del ‘300;
progettò un percorso diverso rispetto a quello dei puristi e dei manzoniani: il suo percorso era
basato su un sentimento classico della lingua letteraria. L’Idioma gentile di De Amicis ebbe una
certa influenza sugli insegnanti e vi si trovavano elenchi di parole toscane e l’invito ad
abbandonare il dialetto e le forme dell’italiano regionale.

5.3. Altre cause dell’unificazione linguistica


Le cause che avevano portato all’unificazione linguistica per De Mauro erano:
1. azione unificante della burocrazia ed esercito. La Grande Guerra del 15-18 fece convivere
migliaia di soldati, provenienti da diverse regioni, a contatto con ufficiali istruito e questo ebbe
effetti linguistici rilevanti.
2. Azione della stampa periodica e quotidiana: De Mauro è partito dalla constatazione che tra il
1871 e il 1951 sette milioni di italiani si sono trasferiti definitivamente in altre nazioni , ma circa
il 14.000.000 sono rientrati in patria dopo aver lavorato per un certo periodo all’estero.
3. Effetti di fenomeni demografici come l’emigrazione: gli emigranti italiani erano in gran parte
analfabeti e dialettofoni e il loro allontanamento fece diminuire il numero di coloro che erano in
condizioni svantaggiate rispetto alla lingua e alla scuola. L’emigrante di ritorno, però, fu un
elemento di effettivo progresso, perché l’esperienza lontano dalla zona d’origine gli aveva
insegnato ad essere diverso ed apprezzare il valore dell’istruzione e dell’alfabetismo.

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4. Aggregazione attorno a poli urbani e moderna industrializzazione: l’industrializzazione fece
crescere la popolazione di alcune grandi città e attirò manodopera proveniente da altre regioni o
zone rurali della stessa regione. Ebbe come effetto uno spostamento degli abitanti e
un’integrazione nel nuovo luogo di residenza, con un abbandono del dialetto di origine.

5.4. Il ruolo della Toscana e le teorie di Ascoli


Nel 1873 le idee e le proposte manzoniane furono contestate da Graziadio Isaia Ascoli, il fondatore
della linguistica e della dialettologia italiana. L’intervento di Ascoli fu pubblicato come Proemio nel
primo fascicolo dell’Archivio Glottologico Italiano, rivista scientifica: la polemica prendeva le mosse
dal titolo Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze di Giorgini-Broglio, titolo in
cui era stato usato nòvo alla maniera fiorentina moderna, con il monottongamento in ò di –uò-,
contro il tipo nuovo, accolto nella lingua letteraria e comune. Ascoli escludeva che si potesse
identificare l’italiano nel fiorentino vivente e affermava che era inutile quanto dannoso aspirare ad
un’unità della lingua. Questa sarebbe stata una conquista reale e duratura solo quando lo scambio
culturale nella società italiana si fosse realizzato e il Paese fosse diventato moderno ed efficiente.

Il linguista vedeva che la lingua non esisteva di per sé, ma era una conseguenza di fattori
extralinguistici; aspirare a una lingua rigorosamente uniforme (quando non ci sono le condizioni
che favoriscono tale uniformità) significa mettere il carro davanti ai buoi. Ascoli contestava
l’applicazione del modello francese, a cui si era ispirato Manzoni; la situazione italiana gli
sembrava più simile a quella della Germania, tradizionalmente divisa in Stati diversi. L’Italia
andava considerata come un paese policentrico, in cui le tradizioni delle diverse regioni dovevano
diventare omogenee attraverso un naturale livellamento. Inoltre vi era la mancanza di intermedi tra
i pochi dotti e l’ignoranza delle masse.
Lo scritto di Ascoli fu noto soprattutto agli specialisti e fu rivalutato dai moderni: Dionisotti dichiarò il
Proemio come uno dei capolavori in senso assoluto della letteratura italiana, Grassi ripubblicò il
Proemio nel 1967, con altre edizioni integrali e antologiche, e Maria Corti parlò di valore profetico
del Proemio.

La soluzione ascoliana richiedeva tempi molto lunghi. Egli inoltre era severo con la Toscana,
giudicata una terra fertile di analfabeti, con una cultura stagnante e incapace di guidare il
progresso del nuovo stato italiano. Egli guardava a Roma, neo capitale del Regno e sperava che
questa città avrebbe avuto una glorioso destino. Castellani difese la Toscana, insistendo
sull’importanza del manzonismo e di autori toscani per la diffusione della prosa italiana media; tra i
canali di diffusione del toscano c’erano le opere del Collodi, di De Amicis, romanzi per ragazzi.

138
6. Il linguaggio giornalistico
Nel XIX secolo il linguaggio giornalistico acquistò un’importanza nuova; il giornalismo, sotto
l’influenza di quello francese, inglese e tedesco, presentava una notevole apertura a innovazioni
sia nel lessico che nella tecnica espositiva. I periodici volevano raggiungere un pubblico nuovo e
necessitavano di un linguaggio più semplice, anche se il giornale primo - ottocentesco restava un
prodotto d’élite. Nella seconda metà del’800 il giornalismo diventò un fenomeno di massa e le
edicole furono il punto di vendita della stampa periodica. Nel giornale si alternavano voci colte e
libresche e popolari, oltre che a forme regionali come camorra e picciotto. La sintassi giornalistica
sviluppò la tendenza al periodo breve e alla frase nominale.

La lingua giornalistica era molto esposta al nuovo: si registrano neologismi e forestierismi presenti
nella lingua viva e parlata e compaiono per la prima volta termini come attrezzatura, confisca,
delibera, importo. Il giornale è interessante perché composto da parti diverse: la lingua della
cronaca, degli articoli politici o letterari, economici, pubblicitari; questi ultimi contenevano termini
nuovi o parole regionali, censurate dai puristi.

7. La prosa letteraria
7.1 Conservatorismo linguistico
Gli sviluppi della prosa nell’800 erano importanti, in quanto era l’epoca in cui si fondava la moderna
letteratura narrativa, attraverso due svolte fondamentali, legate a Manzoni e Verga. Manzoni ebbe
il merito di rinnovare il linguaggio non solo del romanzo, ma anche della saggistica, avvicinando lo
scritto al parlato. La prosa letteraria della prima metà del’800 era ancora condizionata dal modello
puristico e classicistico.
I puristi, coerenti con l’Abate Cesari, imitavano la letteratura antica e scrivevano alla maniera del
Boccaccio e alcuni di essi erano influenzati dal fiorentino vivo. Il popolo era considerato alla
stregua di un prolungamento del vocabolario, da ‘consultare’ con devozione. La maggior parte dei
puristi non lo prendeva neanche in considerazione. La loro prosa era ricca di arcaismi.

7.2. La prosa di gusto classico


I classicisti in genere si ispiravano alla grande tradizione del Rinascimento. La prosa di autori
come Monti e Leopardi rappresentava uno dei migliori risultati qualitativi a cui giunse il classicismo.
Non a caso, si tratta di due autori che non ebbero alcuna simpatia per i puristi, anzi: scrissero
pagine importanti contro le teorie di costoro. Monti fu maestro nella prosa di tipo polemico e
satirico, rivolta ai puristi e all’Accademia della Crusca e adoperò il genere del dialogo. La prosa del
Cinquecento offriva molte proposte di satira e polemica, come gli scritti di Annibal Caro, molto
amato da Leopardi.

139
Leopardi vedeva in Annibal Caro un esempio di scrittore che era stato in grado di esibire una
naturalezza elegante. Tale naturalezza Leopardi la riconosceva anche in un autore secentesco,
Bartoli, per il quale espresse la sua ammirazione in diverse pagine dello Zibaldone, definendolo il
“Dante della prosa italiana” e avversava gli arcaismi e lo stile di Boccaccio. Un ottimo esempio
della prosa elevata e ‘naturale’ di Leopardi sono le Operette Morali.

7.3. Il modello manzoniano e la prassi correttoria dei promessi sposi


Fermo e Lucia, giudicato come un composto di voci non bene amalgamato, con lombardismi,
francesismi, toscanismi e latinismi, uscì in prima edizione nel 1825-27 (edizione ventisettana dei
Promessi Sposi), già indirizzata verso la lingua media e comune. Nello stesso 1827 lo scrittore,
compì un viaggio in Toscana e avviò la risciacquatura dei panni in Arno, cioè la correzione della
lingua che egli voleva adeguata al fiorentino delle persone colte.

Il nuovo testo fu pubblicato dal 1840-42 e fu accolto con giudizi contrastanti: alcuni preferivano la
ventisettana, come Giusti, Cantù, De Sanctis, Cattaneo, altri approvarono la revisione,
riconoscendo che lo scrittore aveva tentato la difficile e importante operazione di avvicinare la
lingua scritta a quella parlata. Oggi è possibile confrontare tutte le differenze fra la ventisettana e la
quarantana: taglio ampio delle forme lombardo-milanesi, spesso coincidenti con forme toscane
attestate nella letteratura di genere comico dei secoli passati. Le forme lombardo-milanesi erano
state accolte nella ventisettana, orientata già in direzione della lingua toscana, ma in modo
libresco, usando modelli scritti.

Esempio:
1. eliminazione del termine marrone per ‘sproposito’: ho fatto un marrone > ho sbagliato, abbiamo
fatto ben grosso il marrone > l’abbia fatta bella, manifestare un marrone > palesare uno
sproposito.
2. Eliminazione di forme eleganti, auliche, affettate, arcaicizzanti o letterarie rare: al loro posto
forme comuni e usuali.
3. Assunzione di forma tipicamente fiorentine, come i monottongamenti in –uo- (spagnuolo>
spagnolo ), uso di lui e lei come soggetti al posto di egli ed ella.
4. Eliminazione di doppioni di forme e voci (eguaglianza > uguaglianza, pel e col > per il, con il).

L’uso manzoniano ha influenzato il destino della lingua italiana.


Altre innovazioni stanno:
1. generale eliminazione della d eufonica dai monosillabi ad/ed tranne davanti a vocale
corrispondente.

140
2. Larghezza di elisioni (di alloggiare > d’alloggiare) e di apocopi (viene, quasi a un tratto > vien,
quasi a un tratto), ma meno frequenti.

La risciacquatura dei panni in Arno determinò l’adozione di uno stile più naturale, sciolto dalla
tradizione aulica. La posizione di Manzoni era centrale nella prosa ottocentesca, anche per
l’influenza che esercitò su molti scrittori: Grossi, Cantù, Carcano, D’Azeglio furono legati a Manzoni
e tentarono la via del romanzo, senza arrivare alla sensibilità manzoniana dell’omogeneità
linguistica.

7.4. Altri modelli di prosa


Collodi ebbe una grande influenza sul pubblico giovanile, con Le avventure di Pinocchio del 1883:
lo stile del libro, diverso da quello di Manzoni, collaborò con il manzonismo a diffondere la lingua
toscana in tutt’Italia. Seguirono la linea del mistilinguismo autori che anticiparono le tendenze del
‘900: il lombardo Dossi, il piemontese Faldella e il meridionale Imbriani; lo stile di questi autori si
caratterizzava per l’uso di forme linguistiche attinte a forme diverse, come il toscano arcaico, il
toscano moderno, il dialetto.
Faldella nel suo Zibaldone, una sorta di vocabolario personale, registrava le parole interessanti
che scovava nella sue letture, orientate ad autori comici del ‘500, e verso un autore toscano
del’800 come Giusti. Faldella non fu sempre cosciente della portata stilistica di élite del suo stile
ricercato, gli sembrava che la sua prosa fosse composta da un italiano semplice e popolare, adatto
a una letteratura carica di significato morale ed educativo.

7.5. Verga, il dialetto e il rinnovamento della sintassi


Fu inaugurata una svolta da Verga, soprattutto con i Malavoglia, con un modesto tasso di sicilianità
linguistica che si accompagnava ad un utilizzo dell’elemento locale onnipresente. Si adattava la
lingua italiana come uno strumento di comunicazione per alcuni personaggi siciliani appartenenti al
ceto popolare; Verga adottò alcune parole siciliane note in tutt’Italia e poi ricorreva a innesti
fraseologici, come quando usava espressioni, come: pagare col violino (pagare a rate), pigliarsela
in criminale (pigliarsela a male).
Caratteristiche: i tratti popolari si possono riconoscere nei soprannomi dei personaggi, viene
utilizzato il che polivalente ricalcato sul ca siciliano, ridondanza pronominale, ci attualizzante
(averci), utilizzo di gli per loro.

Questi tratti servivano a simulare un’oralità viva, suggerita anche da raddoppiamenti e ripetizioni.
Nuova risulta la sintassi verghiana, in particolare per il discorso indiretto libero, che consiste,
secondo la definizione di Herczeg, in un miscuglio del discorso diretto e indiretto. Due sono le

141
possibilità che si offrono a uno scrittore che deve far parlare i suoi personaggi, nei dialoghi o nel
monologo interiore:
1. apertura delle virgolette e riportare in forma diretta le loro battute
2. introduzione di un discorso indiretto, in cui lo scrittore riferisce le parole del personaggio.

Il discorso indiretto libero rappresenta una terza soluzione, intermedia fra le due, ma più libera: non
vengono aperte le virgolette, è lo scrittore che riferisce le parole o i pensieri del suo personaggio,
ma nella voce dello scrittore affiorano modi e forme proprie del discorso diretto. Il lettore quindi
ascolta la voce del personaggio con il suo carattere e il livello di espressione. La sintassi dove è
inserito il discorso indiretto libero segna un mutamento: predomina l’uso dell’imperfetto narrativo.

Nei Malavoglia la voce dello scrittore diventa espressione della coralità popolare, che fa da filtro
alla narrazione. L’innovazione stilistica permetteva di snellire il periodo, eliminando le frasi
subordinate e dava voce a nuovi personaggi, popolari, appartenenti al mondo degli umili e dei vinti.
Il cammino della lingua scritta verso il parlato non prende solo la forma del toscano, ma anche
dell’italiano popolare e regionale.

8. La poesia
8.1. Linguaggio neoclassico
Il linguaggio poetico dell’800 si caratterizzava per una fedeltà alla tradizione aulica e illustre, in
coincidenza con l’affermazione del Neoclassicismo. Vincenzo Monti era il restauratore di un
linguaggio classico sontuoso e Foscolo non era da meno, come dimostra la solennità dei Sepolcri.

La tendenza all’aulico, proprio della poesia neoclassica, era verificabile a livello sintattico, perché
frequenti erano le inversioni prolettiche, congiunti con vocativi posti al fondo del periodo, come nel
sonetto Alla sera: forse perché della fatal quiete tu sei l’imago a me si cara vieni, o Sera!. La
disposizione sintattica si discosta da quella propria della prosa e della lingua comune.

Il lessico veniva selezionato come parole nobili e proprie della quotidianità: la doppia serie
lessicale, fatta di cultismi (bronchi cioè rami) e latinismi (cure cioè affanni), distingue le parole della
poesia da quelle della prosa e questa sarà una caratteristica del linguaggio letterario italiano
almeno fino al ‘900 con Pascoli. Nel caso di parole che non sono diverse in prosa e poesia, si
ricorreva alla sincope (spirto per spirito, pria per prima) o al troncamento (cor, mar, dolor, amor) ed
erano tronchi anche gli infiniti dei verbi in tutte e tre le coniugazioni.

Leopardi nel suo Zibadone scrisse che una parola o una frase difficilmente è elegante se non si
isola dall’uso del volgare: gli arcaismi si addicevano alla poesia, in cui il linguaggio si riallacciava

142
alla tradizione petrarchesca e tassiana. Attraverso tasso, Leopardi acquisì il principio del carattere
vago del linguaggio poetico, in cui non ci dovrebbero essere termini che definiscono in maniera
precisa e univoca, ma parole che dovrebbero evocare qualcosa di indefinito e quindi di poetico.

8.2. Un dissonante contrasto tra toni alti e toni bassi


Il linguaggio poetico dell’800 si mantenne immune da vistose novità formali e le parole nuove,
quotidiane vennero introdotte solo nella poesia giocosa, come quella di Giusti. Lo stesso Manzoni
si attenne alla forma tradizionale, senza abuso di arcaismi e parole colte, nonostante il tono sia
sempre stato alto, sublime. Le parole quotidiane ebbero difficoltà ad entrare in poesia, eppure
premevano sul linguaggio poetico.
Quando i romantici vollero introdurre in poesia contenuti realistici, il linguaggio poetico non
permetteva l’inserimento di parole quotidiane. Qualche segno di innovazione si ebbe nella seconda
metà del secolo, nei poeti della cosiddetta Scapigliatura, come Praga e Tarchetti, che introdussero
elementi realistici nel tessuto della poesia tradizionale, creando un particolare effetto di stridore.

8.3. La poesia in dialetto e le polemiche antidialettali


L’800 fu un secolo in cui ebbe un eccezionale sviluppo qualitativo la poesia in dialetto. Il milanese
Porta e il romano Belli rappresentavano i più alti esponenti di questa letteratura. Belli commentò i
propri sonetti con note esplicative, che illustravano anche alcune parole poi passate alla lingua
nazionale, come fregarsene (fregammene), cazzata (sciocchezza), fesso (sciocco). La poesia di
Porta si legava, invece, a una polemica sul ruolo del dialetto e della letteratura dialettale.

Pietro Giordani, classicista, con un articolo sulla Biblioteca italiana del 1816, condannò l’iniziativa
di Francesco Cherubini di stampare una collezione di opere letterarie in dialetto milanese. Era
prevista l’uscita in 12 tomi, che avrebbero riunito in un unico corpus, a partire dai cinquecentisti per
giungere ai contemporanei e l’ultimo tomo doveva essere riservato a Porta. Giordani contestava
l’uso dei dialetti come nocivo per la nazione e riteneva che la poesia dialettale dovesse essere
collocata su un piano basso e non avesse alcuna funzione di progresso. Non andava incoraggiata
perché manifestazione di una chiusura provinciale, di regionalismo angusto, tendendo a confinare
il popolo in un piano di cultura inferiore. Sentiva inoltre la mancanza di una lingua comune diffusa
largamente. Porta scrisse in polemica contro Giordani, una serie di 12 sonetti satirici.

I romantici milanesi, invece, erano favorevoli alla tradizione in dialetto, in cui vedevano un modo di
avvicinarsi alla lingua popolare, riallacciandosi anche alla posizione del Parini.

143
Capitolo 13
Il Novecento

1. Il linguaggio letterario e scientifico nella prima metà del secolo


1.1 Durata del linguaggio classico
Gli autori vissuti a cavallo tra i due secoli, come D’Annunzio e Pascoli, testimoniarono nelle loro
opere le trasformazioni in atto. La lingua italiana si presentava nel ‘900 con un ribollire di
novità.Carducci fu l’ultimo scrittore che incarnò il ruolo tradizionale del vate e la lingua della sua
poesia aderì alla nobilitazione dei versi, al di fuori del genere satirico-polemico.

Serianni ricorda che in Giambi ed epodi entrarono termini moderni e impoetici come questura,
tartufi, listino, con la funzione di sottolineare il registro comico-satirico, ma nei momenti di maggior
impeto lirico, la nobilitazione restava molto forte. Il linguaggio poetico fino a Carducci si mantenne
immune da vistose novità formali: furono mantenute le forme tradizionali, i vocaboli arcaici,
latineggianti, le forme del verbo anticheggianti; quindi le parole e i modi comuni e quotidiani furono
evitati.
Anche la poesia d D’Annunzio non rinunciò alla nobilitazione attraverso la selezione lessicale:
▪ ippopotamo divenne pachidermo fiumale
▪ le cameriere divennero fanti, cameristi
▪ gli operari divennero uomini operatori
▪ Il tram, forestierismo troppo quotidiano e banale, viene sublimato in forma di carro che non ha
timone, né giogo, e non corsieri splendenti di sangue e di schiume.

Quanto a latinismi, D’annunzio non è da meno di Carducci: basti pensare ai gaudii letiferi68 : cioè le
gioie apportatrici di morte.

La poesia dannunziana si presentava come innovativa per la capacità di sperimentare forme


diverse e per il gusto di citare e utilizzare lingua, esempi, stilemi antichi, sicché si può arrivare a
dire che egli ricostruisca il linguaggio poetico italiano. D’annunzio era un consumatore onnivoro di
parole, disseminando arcaismi, tecnicismi, preziosismi, oltre a lessici specialistici; è un
compulsatore di vocabolari e lessici specialistici. Egli fu prima di tutto uno straordinario artefice
della parola, della ripresa della frase altrui da cui prendeva spunto per la propria creazione, con
grande abilità. Gli si devono alcuni neologismi, come velivolo per aeroplano, il nome da lui
suggerito per la Rinascente (il grande emporio milanese distrutto da un incendio nel 1918 e ‘rinato’
quindi dalle proprie ceneri) e inoltre collaborò con la nascente cinematografia del muto, fornendo le

68 letifero < LETUM = morte; FERO> portare


144
didascalie e i nomi di persona latini e punici per il colossal del 1914, Cabiria, che narrava la guerra
tra Roma e Cartagine.

1.2. Crisi del linguaggio classico


Una prima rottura con il linguaggio poetico tradizionale si ha con Pascoli, con i Crepuscolari e le
avanguardie. Benché Pascoli abbia utilizzato parole colte e latinismi e abbia saputo maneggiare
perfettamente la forma antica, con lui cade la distinzione tra parole poetiche e parole non poetiche.
Le parole a quel punto utilizzate erano sublimi, arcaiche, attuali, quotidiane, fino a includere
dialettismi, regionalismi e un po’ di italo-americano in Italy dei Primi poemetti.

Una lettura più ampia avrebbe messo in luce come questa materia coesista con un linguaggio
letterario nobile, tuttavia pronto a scendere verso oggetti comuni e quotidiani, come ad esempio le
parti del telaio. Lo stile di Pascoli, poi, includeva il periodare franto, l’inserimento di domande,
esclamazioni, risposte brevi, l’uso di pause, elementi che ricordavano il parlato; inoltre era notevole
la sua precisione botanica e ornitologica (fu il primo a notare come Leopardi faceva
irrealisticamente fiorire nella stessa stagione rose e viole).

La poesia crepuscolare accentuò nel verso la tendenza verso la prosasticità e rovesciò il tono
sublime, e attuò una programmatica compressione dell’eloquenza. A volte, come in Gozzano, il
rovesciamento di toni rispetto alla tradizione aulica, vive ancora nei versi di D’Annunzio, fu attutato
mediante una dissacrante ironia.

L’avanguardia in Italia si identificò con il Futurismo, il quale fece appello ad un provocatorio


rinnovamento della forma, attraverso: l’uso di parole miste ad immagini, l’uso di caratteri tipografici
di dimensioni diverse per rendere intensità e volume fonico con effetti paragonabili a quelli del
collage, abolizione della punteggiatura, largo uso dell’onomatopea. Il futurismo incise
notevolmente sui modi del linguaggio poetico del primo ‘900, con la poetica del frammento, del
balenio analogico, dell’autonomia del segno. La poesia si impadronì del lessico delle automobili,
della guerra, dei motori, così’ come in Zang Tumb Tumb di Marinetti del 1914.
Palazzeschi nella Passeggiata integrò elementi impoetici tratti dalle insegne commerciali e degli
avvisi pubblicitari. Ovviamente testi di questo genere hanno un limite nella loro natura di ‘trovata’: il
loro impeto si esaurisce tanto velocemente quanto ha contribuito a dar loro vita.

1.3. Prosa poetica, lingua media e mistilinguismo


“I debiti che la poesia del Novecento ha contratto con la lirica dannunziana sono in gran parte
accertati; mancano lavori dello stesso impegno per la prosa che, pure, potrebbero dirci molto sulla
presenza di quel modello”. Così scrive Serianni, facendo riferimento alla tendenza dello scrittore a

145
fare a meno della virgola, con un certo “ribellismo interpuntorio’’. La lirica dannunziana era
caratterizzata dalla tendenza dello scrittore a far meno della virgola, ma le innovazioni più
importanti potevano trovarsi nel Notturno e nel Libro segreto. Notturno fu scritto nel 1916 durante
un periodo di temporanea cecità e si caratterizza per:
▪ i periodi brevi e brevissimi
▪ la sintassi nominale
▪ i frequenti a capo
▪ presenza di elementi fonici e ritmici nella frase di andamento lirico. Ad esempio, in un passo,
D’Annunzio si identifica nella fugace apparizione di una rondine che sorvola rapida la città
lagunare.

Siamo qui molto distanti dal periodare ampio e magniloquente della tradizione italiana, e viene
proposto un modello che sarà tra i più seguiti nel Novecento, coerente con la prosa ‘visionaria’ del
simbolismo europeo (come sarà con Rimbaud). D’Annunzio inserisce tutto il suo gusto per lo
sperimentalismo: è una sorta di Giano bifronte; si pone a chiusura di un ciclo storico e al tempo
stesso inaugura nuove tendenze. La prosa linguistica di un ‘ribelle’ come Dino Campana, almeno
quanto a esiti linguistici, non va certo molto più in là del ‘vate’ D’Annunzio.

Un riflesso del parlato si ha nella prosa di Pirandello, soprattutto nelle opere teatrali; la
riproduzione dell’oralità è attestabile nelle frequenti interiezioni e connettivi come è vero, si sa,
figurarsi, oltre che in rapide opposizioni che rendono sfuggente la comunicazione. La prosa di
Pirandello era opposta a quella di D’Annunzio: quest’ultimo attingeva ad un ‘libero vocabolario in
sintassi sovrana’. Di contro, Pirandello “sta ben attento a non uscire dai moduli della lingua
quotidiana”, il suo era un uso medio e inoltre lui era stato sempre diffidente verso il dialetto come
strumento letterario, anche se non rinunciava a dare alle sue opere una lieve patina di colore
locale.

Svevo fu famoso per il rapporto complesso con la lingua italiana, determinato dalla provenienza da
Trieste, oltre che dall’esperienza culturale lontana dalla letteratura classica. Fu accusato di
scrivere male. Coletti osserva come la lingua de La coscienza di Zeno non rispondeva ai canoni
puristici e questo si poteva notare da:
▪ uso dell’ausiliare avere con i verbi servili
▪ incertezze dei tempi verbali
▪ vistosa formalità grammaticale
▪ elementi arcaici
▪ i prostetica: in Isvizzera, per ischerzo
▪ contiguità dei pronomi personali mi vi: mi vi accingo, mi vi sarei adattato

146
▪ uso anomalo del di: pronto di dividere
La lingua di Svevo nacque come forma quasi privata e va inserita nel contesto storico in cui è nata,
e non va banalmente giudicata in base a modelli letterari della tradizione. La lingua della
Coscienza è anche il risultato di un progetto stilistico, di cui l’approssimazione grammaticale è
l’elemento costitutivo. Questo significa che monologo interiore, analisi della coscienza e flusso
verbale autoironico richiedono come strumento di una particolare visione del mondo, una lingua
‘imperfetta’. La mancata adesione ai modelli del bello scrivere poteva essere persino una forza,
una verginità. Si badi: ciò non significa che Svevo ‘sia facile’.

Uno dei punti di riferimento per gli scrittori, dopo che Verga aveva mostrato la via per una scrittura
vicino al mondo popolare, era il dialetto. Nel Novecento, anche il toscano può essere considerato
alla stregua di un dialetto: Tozzi introduce senesismi nei suoi romanzi.
Un uso particolare del dialetto si ha negli scrittori mistilingue, come Gadda; egli passò attraverso
alcuni esperimenti della scapigliatura ottocentesca, come Dossi, Faldella, Cagna. Non utilizzava
solo un dialetto, bensì il lombardo, il romanesco, il molisano. Il libro più fortunato di Gadda fu Quer
pasticciaccio brutto de via Merulana uscito in parte su una rivista nel 1946 e divenne volume nel
1947. Si pone dunque sullo spartiacque di metà secolo.

L’effetto di deformazione del narrato in Gadda si attuò attraverso l’uso del dialetto, da cui si stacca
di colpo con il linguaggio alto e retorico. Il ‘multilinguismo’ o pastiche gaddiano è da intendersi
come un processo di straniamento, in cui materiali eterogenei convergono nella pagina dello
scrittore con esiti espressionistici.
Il Novecento è stato un secolo pieno di connotazioni satiriche ed ironiche, oltre che con stereotipi
del linguaggio ufficiale, aulico-poetico, con l’impiego di tecnicismi, esotismi o inserti di lingua
straniera.

1.4. Oratoria e prosa d’azione


Forse oggi è più difficile comprendere l’importanza dell’oratoria di tipo tradizionale, oratoria di
piazza. Gran parte della funzione di convincimento di penetrazione della retorica è affidata oggi
agli strumenti della comunicazione televisiva. L’oratoria del primo ‘900 richiama il tema dei discorsi
rivolti alle masse da Mussolini. Questi discorsi erano trasmessi in tutta Italia dalle radio ed erano
filmati nei documentari cinematografici: gran parte del loro fascino stava nel rapporto diretto con la
folla (tipico dell’oratoria tradizionale).
Per indicare una tendenza a un’oratoria letteraria magniloquente, coltissima ed efficace
bisognerebbe puntare ancora a D’Annunzio: i suoi discorsi rivelarono una notevole abilità nella
scelta del periodo breve e incisivo, con riprese frequenti, accostandolo a un ideale parlato con
sapore teatrale.

147
Vanno ricordati i proclami e i messaggi dannunziani, specialmente quelli in relazione con la
questione di Dalmazia e di Fiume. Il suo modello influì ampiamente sulla retorica del fascismo.
Nella lingua del Fascismo e di Mussolini sono stati individuati i seguenti caratteri:
▪ abbondanza di metafore religiose (martire, asceta), militari (falangi), equestri (redini del proprio
destino)
▪ tecnicismi di sapore romano, da Duce a centurione
▪ ossessione dei numeri

Mussolini fu tra i primi a fare dell’oratoria una tecnica di persuasione di massa: certo vi è differenza
tra i suoi discorsi di piazza e l’oratoria ‘in doppiopetto’ come quella parlamentare. L’oratoria
mussoliniana rivolta al popolo si distingue per un particolare tipo di dialogo con la folla, la quale
risponde con l’ovazione collettiva. Poiché il fascismo fu forse il primo movimento politico a
interessarsi alla sorte delle masse popolari e alle loro aspirazioni, è interessante chiedersi che
effetti abbia avuto questa continua lezione linguistica impartita al popolo, fatta giungere ovunque
dalla radio, dallo scuola, dalla propaganda.

Qualche interessante riscontro si può avere ad esempio nelle lettere che giungevano in enorme
quantità al Duce, inviate da ogni parte d’Italia e che, anche quando sono prodotte da semicolti,
mostrano un buon assorbimento dei moduli linguistico-retorici dominanti. La retorica dell’aggettivo
perdura e si ritrova anche oltre i confini cronologici del ventennio fascista.
Tra i vari discorsi sono da ricordare De Amicis, Turati colto e spiritoso, Gramsci, fondatore del
Partito Comunista Italiano, che riteneva l’oratoria socialista macchiata del grave difetto della vuota
retorica e proponeva uno stile lucido e razionale.
Per Gramsci era inaccettabile che ci fossero due lingue e due stili diversi: uno per parlare ad
operai e contadini e uno per parlare a tutti gli altri. Fu anche maestro di giornalismo e resta una
sua lettera in cui spiega come si ottiene uno stile chiaro e comunicativo. Nei suoi scritti non
mancano artifici retorici, soprattutto di tipo sintattico, per esercitare quella che si definisce la
funzione conativa del linguaggio politico, che deve convincere e muovere l’uditorio69.

1.5. L’italiano della saggistica: verso l’uso medio


Il discorso su un simile tema è davvero troppo ampio: il tema deve per forza di cose essere
sacrificato in poche pagine anche perché la crescita nell’Italia unita di una struttura universitaria
moderna comportò un’abbondante letteratura saggistica nei vari settori disciplinari, con
circolazione del sapere, anche in forma divulgativa.
Per esempio l’editore Hoepli realizzò una famosa collana che ebbe molto successo, attraverso una
serie di volumetti tascabili, finalizzata all’applicazione pratica del sapere, manuali dedicati alle più

69 Quaderni del carcere.


148
diverse tecniche e discipline. I manuali fornirono una terminologia scientifico-tecnica che si stava
molto diffondendo. Tali libri venivano offerti a una larghissima utenza. Se studiati anche dal punto
di vista della lingua, i manuali Hoepli forbirebbero probabilmente molti spunti per individuare la
terminologia tecnico-scientifica che allora andava diffondendosi, e spesso entrava nella lingua
comune.

L’800 si era chiuso con una bipolarità nel linguaggio saggistico-argomentativo: da una parte la
tendenza all’aulicità (Ascoli) e dall’altra la tendenza al parlato, assai evidente dei manzoniani. Il
linguaggio di costoro era caratterizzato da quello che si può definire un ‘eccesso di facilità’, una
discorsività quasi petulante, alla lunga fastidiosa e stucchevole. Se l’obiettivo del linguaggio
saggistico umanistico è una lingua media, compassata e oggettiva, non ipertecnicizzata, allora la
lezione più importante venne da Benedetto Croce, maestro della cultura italiana nella prima metà
del secolo: la sua fu una scrittura chiara, moderna, limpida e sobria, dove però non mancarono
elementi arcaici.

In Giovanni Gentile la prosa argomentativa fu meno razionale, con elementi mistico-religiosi e


suggestivi. Le forme suggestive ed evocatorie, ma di taglio poetico, si possono trovare anche nella
saggistica di Pascoli, che nel Fanciullino inserisce un tono discorsivo. Luigi Einaudi si colloca tra i
migliori prosatori di questo secolo, così come Contini.

2. Politica lingustica nell’Italia fascista


2.1. Autarchia e xenofobia
Il Fascismo ebbe una chiara politica linguistica, che si manifestò in modo autoritario; gli aspetti più
rilevanti furono: la battaglia contro i forestierismi in nome dell’autarchia culturale e la repressione
delle minoranze etniche, che fu senz’altro più grave, anche per le conseguenze negative che si
proiettarono sulla Repubblica, la quale ereditò problemi incancreniti dall’intolleranza del
precedente regine: l’imposizione dell’italiano in Valle d’Aosta ebbe come effetto una pericolosa
reazione separatista e atteggiamenti di ribellione.

Per quanto riguarda la lotta contro i forestierismi, tra il 1924 e il 1926 si ebbero delle prese di
posizione di singoli individui come Tittoni, membro del Partito fascista, autore di una Difesa della
lingua. Nel 1930 si ordinò la soppressione nei film di scene parlate in lingua straniera. Nel 1940
l’Accademia d’Italia fu incaricata di esercitare una sorveglianza sulle parole forestiere e di indicare
delle alternative, anche perché le parole straniere furono vietate nelle attività professionali.
L’interesse per la lingua assunse anche una valenza positiva: venne fondata la rivista Lingua
nostra.

149
La concezione avversa ai forestierismi fu definita neopurismo, da non identificare con la politica
xenofoba del Fascismo, da cui si distinse sia per un atteggiamento più morbido sia per il rifiuto di
mescolare questione della lingua e questione della razza. A Migliorini si deve l’intervento di
sostituzione di regista per regisseur. Tuttavia oggi, quasi nessuno ha il coraggio di imboccare
questa strada: probabilmente è meglio così, anche se il tabù su tale materia è forse proprio un
effetto dei rozzi interventi xenofobi del Ventennio. Con l’avvento della Repubblica non solo è stata
subito abrogata la normativa linguistica esterofoba, ma non ci sono stati interventi di alcun genere,
salvo quelli recentissimi contro il cosiddetto ‘uso sessista della lingua italiana’.

Tornando alla battaglia fascista contro i forestierismi, furono accettati diversi termini stranieri
uscenti in consonante come sport, film, tennis, tram. Ci fu anche una campagna per abolire
l’allocutivo lei per sostituirlo con il tu (considerato più ‘romano’) e con il voi, ossequioso. La
campagna non ebbe molto successo:
• Il lei era ormai radicato nella lingua italiana
• Il voi consuona con l’uso corrente meridionale, ed era sentito da molti dialettale, quindi evitato.

2.2 La lessicografia del fascismo e l’asse linguistico Roma-Firenze


All’inizio del ‘900 la Crusca tentava di concludere una nuova versione del vocabolario, avviata nel
1863. Il primo volume era stato dedicato a Vittorio Emanuele II, re d’Italia. La mole dell’opera era
notevole e la realizzazione si trascinò per molto tempo e poi la sua funzione non era quella di un
tempo. Le idee di Croce, il più autorevole pensatore del tempo, erano avverse alla lingua modello
e al toscanismo in generale.

Quando nel 1923 divenne ministro della Pubblica Istruzione Giovanni Gentile, filosofo fascista, fu
tolto alla Crusca il compito di preparare il vocabolario. Il Ventennio Fascista si inaugurava, dal
punto di vista lessicografico, con la soppressione dell’antico vocabolario dell’Accademia di Firenze;
ma il nuovo e moderno vocabolario del Fascismo, prodotto dall’Accademia d’Italia, non ebbe esito
felice, arrivò solo al primo volume nel 1941. Quest’opera è stata sostanzialmente dimenticata, ma
si tratta di un testo presentante delle interessanti innovazioni. Il vocabolario dell’Accademia d’Italia
procedette, rispetto al Tommaseo, all’eliminazione di molte voci antiche. Anche nei confronti dei
neologismi dimostrò un atteggiamento equilibrato, che non concorda con le esagerazioni della
politica linguistica del Fascismo.

I forestierismi erano registrati nel nuovo vocabolario, anche nella forma di prestiti non adattato,
come boxe, bull-dog, camion, posti tra parentesi quadra, per segnalare la loro estraneità alla
sostanza della lingua. Un aspetto tra i più interessanti e innovativi del nuovo vocabolario è
costituito dal criterio di citazione degli esempi, che rappresenta una sorta di compromesso tra la

150
forma tradizionale della Crusca e di Tommaseo. Nel Vocabolario dell’Accademia d’Italia sono citati
gli scrittori, ma solo come documentazione di uso comune, senza riferimento preciso all’opera sa
cui è tratto l’esempio.
Questo vocabolario, pur caratterizzato da un’innegabile modernità, non ebbe tuttavia influenza.
Troppo ridotta risultò la parte realizzata rispetto al progetto, interrottosi con la caduta del Fascismo.

Nel 1939 Bertoni e Ugolini pubblicarono per l’EIAR, ente radiofonico di Stato, il Prontuario di
pronunzia e di ortografia in cui si affrontava la questione della pronuncia romana e quanto
divergeva dalla fiorentina, oltre a fornire la pronuncia esatta della radio. L’introduzione di Bertoni e
Ugolini al Prontuario lanciava la formula dell’Asse Roma-Firenze, per analogia con la terminologia
politica del tempo (Asse Roma-Berlino). Veniva rivendicato il ruolo di Roma nella questione della
lingua, visto che la capitale era ormai ‘’la maggior parte della fucina della lingua attuale’’. Venivano
proposte, dunque, le pronunce romane: sarebbero dovute essere accettate in casi di divergenza
con la pronuncia toscana.

Veniva rivendicato il ruolo di Roma nella questione della lingua: tale tema era stato ripreso fin dal
Risorgimento; Gioberti aveva parlato dei “due fuochi dell’ellisse italiana”.
Manzoni si era preoccupato della divergenza che ci sarebbe stata tra capitale linguistica e capitale
politica, una volta che Roma fosse stata italiana. Capitale linguistica e capitale politica per forza di
cose sarebbero state diverse, ciò che Manzoni giudicava essere caso anomalo e pericoloso per la
propria teoria filofiorentina. Ascoli, nel Proemio, aveva dedicato un accenno pieno di speranza alla
funzione rinnovata di Roma, neocapitale del Regno. L’intervento di Bertoni e Ugolini si inseriva
dunque in questa tradizione, che aveva un precedente nella cinquecentesca teoria cortigiana.

3. Il dopoguerra
3.1. Il neo-italiano tecnologico: Pasolini e la nuova questione della lingua
A Pasolini si deve l’ultimo importante intervento nella questione della lingua. Nato come
conferenza, questo intervento fu pubblicato su Rinascita del 16 dicembre 1964 con il titolo Nuove
questioni linguistiche: le sue tesi non avevano affatto un carattere normativo, anzi la sua era una
vera e propria analisi sociolinguistica della situazione presente.

Pasolini partì da premesse marxiste e gramsciane, sostenendo che era nato un nuovo italiano, i
cui centri irradiatori stavano al nord del Paese, dove avevano sede le grandi fabbriche e dove si
era diffusa e sviluppata la moderna cultura industriale. Egli annunciò che era nato l’italiano come
lingua nazionale e che per la prima volta una borghesia egemone era in grado di imporre i suoi
modelli, superando una tradizionale estraneità tra ceti alti e bassi.

151
Delineò alcune caratteristica del nuovo italiano:
▪ semplificazione sintattica, con una caduta delle forme metaforiche, non usate da torinesi e
milanesi, veri padroni della nuova lingua.
▪ Drastica diminuzione dei latinismi.
▪ Prevalenza dell’influenza della tecnica rispetto a quella della letteratura.

L’autore analizzò la tipologia stilistica degli scrittori italiani, collocandoli al di sotto o al di sopra di
un’ipotetica linea dell’italiano medio. Vi erano 3 linee:
1. italiano medio, anonimo, a-letterario, caratteristico di opere di banale intrattenimento e
d’evasione.
2. Linea ‘bassa’, della prosa dialettale.
3. Linea ‘alta’, che a sua volta poteva essere divisa in vari gradi, che accoglievano tutti coloro che
si erano allontanati dal livello medio.

Sul gradino più alto stava il linguaggio iperletterario degli ermetici, che avevano usato una lingua
speciale adatta solo alla poesia.Pasolini collocava se stesso su una linea a forma di serpentina
che attraversava tutti i livelli, passando dal piano alto a quello basso; su questa linea c’era anche
Gadda, con il suo mistilinguismo, da cui Pasolini era influenzato. Un coro di fischi accolse queste
idee di Pasolini. Non si badò alle preziose indicazioni relative al linguaggio letterario che stavano in
apertura del saggio, e che valevano almeno come dichiarazione di poetica.

L’attenzione di tutti si concentrò sull’annuncio della nascita del nuovo italiano tecnologico,
annuncio che Pasolini, come suo costume, aveva radicalizzato in maniera tale che non era difficile
dargli torto. Diversi anni dopo questa discussione, Pasolini, sensibile e provocatorio testimone del
suo tempo, intervenne su temi linguistici, in un contesto diverso, per rivendicare la funzione
rivoluzionaria dei dialetti e per lamentare l’imbarbarimento del linguaggio dei giovani.

3.2. Tendenze del linguaggio letterario


Pasolini sembrava privilegiare gli esperimenti di plurilinguismi, alla maniera di Gadda o alla
maniera dei propri romanzi ambientati nelle borgate di Roma, a cui attribuiva una funzione stilistica
e una funzione documentaria e rivendicando quindi due filoni: quello verista-verghiano e quello
espressionistico gaddiano. Non vi è dubbio che l’attenzione di Pasolini per il mistilinguismo era
determinata da una moda diffusa in quegli anni, legata al prestigio di un grande critico, Gianfranco
Contini. Contini aveva utilizzato il mistilinguismo come esemplare categoria critica, oltre che
linguistica.

152
Coletti parlando di narratori come Calvino, Bassani, Cassola, osserva che la scelta da essi
compiuta in favore della lingua media e comune, dopo gli abbassamenti del neorealismo e le
infrazioni espressionistiche e d’avanguardia, è scelta di lingua più ricca e in parte ancora più
complessa di quella ammessa dal romanzo dell’immediato dopoguerra. Come già aveva fatto
Pasolini, anche Coletti dunque ha usato la categoria dell’italiano medio per classificare il
comportamento linguistico degli scrittori, per distinguere coloro che accettano di correre il rischio di
una ‘’amputazione di ogni originalità stilistica’’. Il Gruppo ’63, formato da personalità come D’Arrigo,
Testori, Busi, preferì soluzioni di rottura, personali e scarsamente comunicative. Infatti gli scrittori
della normalità stilistica (Cassola, Bassani, Moravia, Primo Levi) sono gli autori oggi più letti dal
grande pubblico, quelli più frequentemente consigliati dagli insegnanti ai loro allievi.

Lo scrittore di oggi gode di una libertà grandissima e può arrivare alle soglie di una lingua
semidistrutta e massificata, detta ironicamente standa anziché standard. Per molti autori del ‘900, il
dialetto è stato una fonte di arricchimento linguistico, sulla scia del Verismo ottocentesco, ma
anche bel al di là di esso (si pensi a Pavese, a Pasolini). Non sempre l’invenzione linguistica e lo
sperimentalismo rendono difficile il rapporto con il pubblico. Il Partigiano Johnny di Fenoglio,
rimasto incompiuto, era stato composto con una miscela d’italiano e inglese e poi arrivò al meritato
successo, nonostante le condanne ideologiche le incomprensioni iniziali.

Sulla strada del rinnovamento poetico si collocano autori di eccezionale statura come Ungaretti,
Saba, Montale che sperimentavano una serie di soluzioni stilistiche, dal linguaggio comune e
quotidiano di Saba, alla lingua impoetica di Pasolini e Sanguineti.
Esemplare è il percorso di Montale: ‘attraversato’ D’Annunzio e dopo aver selezionato ciò che la
koinè primo novecentesca offriva, arrivò in Satura del 1971 a una lingua spesso ironica, distaccata,
prosastica, piena di citazioni di elementi quotidiano, tuttavia calcolata con eleganza e letteriarità. In
realtà nella semplicità dell’ultimo Montale si nascondono procedimenti linguistici complessi; basti
pensare alla lirica Per finire , una sorta di disincantato testamento che chiude la raccolta del Diario
’71 e del ’72. I modi quotidiani e i modi alti e poetici (questi ultimi meno appariscenti dei primi)
convivono.


3.3. Verso l’unificazione: lingua, dialetti e immigrazione


Pasolini prospettava una rivoluzione nella storia dell’italiano e la annunciava usando il suo stile, da
poeta dilettante di linguistica e sociologia, più che da saggista scientifico; e non è detto che un
poeta non intraveda la verità meglio di un uomo di scienza, seppur in modo diverso.
Era indubbiamente troppo annunciare la nascita di un ‘nuovo italiano tecnologico’, poiché le lingue
non cambiano improvvisamente, e inoltre l’espressività del parlante riesce sempre a ritagliarsi uno
spazio.

153
Nel corso del ‘900 ci fu una perdita progressiva dei dialetti dell’espressività gergale ‘borgatara’,
così cara a Pasolini romanziere. C’era stato un cambiamento al livello di scolarizzazione, prima di
tutto. Se si paragonano i dati relativi all’analfabetismo, è facile constatare il grande progresso
compiuto. Nel 1961 gli analfabeti si erano ridotti all’ 8,3% e nel 1971 all’ 5,2%. (rispetto al 75% di
analfabeti del 1861: una diminuzione colossale).

Da altri dati, secondo una ricerca degli anni ’50, se ne deduce che l’italiano era in progresso, ma il
dialetto non era morto, visto che nel 1988, quasi il 66% degli italiani lo usava più o meno
costantemente nella vita familiare e il 23% ne faceva un uso totale. L’uso del dialetto risultava
maggiore presso i vecchi, piuttosto che presso i giovani, più nel Sud che nel Nord, nelle
campagne, nei ceti inferiori. Si aggiunga che i dialetti hanno subito un processo di avvicinamento
alla lingua comune: anch’essi, come ogni idioma di qualunque comunità umana, mutano nel
tempo.

E’ chiaro che una valutazione dei rapporti tra lingua e dialetto deve tener conto delle motivazioni
psicologiche che determinano i comportamenti sociolinguistici. Non sempre si assiste a un lineare
passaggio dall’uno all’altro codice. Il fenomeno può essere assai complesso: l’adozione di un
diverso codice di comunicazione avviene, solitamente, quando il parlante è spinto da motivazioni
profonde. Basti pensare agli effetti dell’urbanizzazione, così come sono stati discussi da De Mauro
e Grassi.
De Mauro vide nella crescita dei poli urbani industrializzati una diretta causa dell’indebolimento dei
dialetti. Grassi ha sostenuto che l’immigrazione non significò subito crisi del dialetto. Coloro che si
integravano nella città trovavano un’occasione di ‘promozione’ nell’adottare la varietà urbana del
dialetto, staccandosi dalle varietà rustiche.

3.4. Una lingua proletaria


Negli anni ’60 e ’70 anche la fabbrica svolse la funzione di scuola, promuovendo e integrando nella
realtà cittadina e industriale masse di origine contadina, con uno speciale linguaggio della politica
ispirato alla cultura marxista. Era compito del delegato imparare a parlare con i compagni,
organizzare le assemblee e trattare con i capi.

In quegli anni maturava un rinnovamento nel linguaggio delle lotte politiche operaie, che si
staccava dai moduli della retorica alta ereditati dalla tradizione oratoria d’anteguerra e con discese
verso il basso-quotidiano. Il linguaggio dei nuovi gruppi di sinistra cercava la trasgressività verbale,
palesando una mancanza di inibizioni; il linguaggio della protesta è stato ripreso da Nanni
Balestrini nel romanzo Vogliamo tutto del 1971, che racconta la storia di un operaio salernitano
sbarcato alla Fiat nel 1969.

154
I volantini del gruppo terroristico Brigate Rosse, arrivarono a una grande celebrità: questi furono
uno strumento di comunicazione molto importante e diffusissimo in quegli anni ed erano
caratterizzati da una serie di slogan, di formule fisse, cariche di emotività evocatrice, molto adatte
alla demonizzazione degli avversari. Abbondava la terminologia guerresca: portare l’attacco fino al
cuore dello Stato (parola d’ordine), del resto il linguaggio militaresco è tipico della comunicazione
politica, ma di solito in forma metaforica. Ovviamente vi erano anche quelli di derivazione marxista:
classe, movimento rivoluzionario, egemonia della borghesia ecc.

In opposizione al linguaggio politico aggressivo e militaresco, si sviluppava un linguaggio politico


della tradizione moderata (detto ‘politichese’ opposto al sinistrese) attraverso una serie di
espedienti, come l’eufemismo, l’evasività, l’abuso di tecnicismi giuridico-burocratici. Inoltre, ne
facevano parte anche i giochi di parole e l’ossimoro (cauto entusiasmo, attesa precipitosa). Quanto
al resto, nel linguaggio politico entrava in abbondanza il linguaggio burocratico, economico e
giornalistico.

3.5. Funzione dei media: radio e televisione


La radio italiana nacque nel 1924 e la televisione cominciò a trasmettere nel gennaio 1954. La sua
funzione linguistica si è affiancata a quella dei media che già esistevano come i giornali, il cinema.
De Mauro mise in evidenza gli effetti di questo nuovo media: le trasmissioni televisive e
radiofoniche erano giunte anche nelle zone geografiche e nelle classi sociali a basso reddito e ciò
fu importante ai fini della diffusione della lingua.

I media e la tv in primis sono diffusori di tecnicismi, neologismi e di luoghi comuni verbali della
cronaca e della politica, come mani pulite, malasanità, anni di piombo. Sono stati perfino diffusori
di nuovi nomi di persona, al punto che tra 1976 e 1985 si è attuata la ‘’radicale rivoluzione del
repertorio nominale italiano’’. Altro problema è stabilire quanto abbia contato la Tv per la diffusione
di forme della varietà regionale romana, poiché a Roma sono i maggiori centri di produzione dei
programmi.

3.6. I giornali
Il linguaggio giornalistico ebbe sempre un importante funzione e poteva costituire un argine contro
la bassa qualità di quello televisivo, trattandosi di un modello scritto contrapposto a uno parlato. Il
quotidiano è il tramite fondamentale tra l’uso colto e letterario dell’italiano e la lingua parlata e il
giornale può essere assunto come indicatore di lingua media, in cui trovare una pluralità di
sottocodici (politico, burocratico, economico, scientifico) e di registri (aulico, parlato, informale,
brillante). Il luogo di maggiore originalità del linguaggio si riscontra nei titoli: il titolo, come lo
slogan, deve essere costruito in modo da colpire il lettore, e nello stesso tempo deve fare

155
economia di spazio. In esso domina prevalentemente la farse nominale, con espedienti di messa
in rilievo.

3.7. La pubblicità
Il linguaggio pubblicitario è fondato sullo slogan e sulla trovata. Attraverso questo canale si
diffondono termini tecnici e forestierismi. Lo slogan deve colpire il lettore e favorire un
comportamento nel potenziale acquirente, deve suggestionare e convincere, ad esempio
attraverso l’uso marcato dei superlativi, sia con desinenza –issimo ( occasionissima, superissimo)
sia con i prefissi extra, iper, maxi, super.
Nell’analisi del linguaggio pubblicitario ci si trova i fronte a due atteggiamenti:
1. ammirazione per la capacità del linguaggio di sfruttare e accentuare le possibilità espressive
dell’italiano.
2. fastidio per la creazione della parola-merce (denominata da Corti l’anemia della lingua).

Il linguaggio favorisce:
▪ la formazione dei composti o parole macedonia, come ammazzasete, granturismo
▪ l’uso dei sostantivi giustapposti, ad esempio determinato-determinante: esperienza Gillette,
profumo-donna
▪ Neologismi e giochi di parole
▪ Uso della retorica
Non dimentichiamo di citare anche espedienti simili a quelli del linguaggio poetico, da cui il
messaggio pubblicitario si distingue, tuttavia, oltre che per la qualità anche per la funzione,
brutalmente strumentale: convincere nell’acquisto.

3.8. Italiano standard, dell’uso medio e cambiamento linguistico.


L’italiano dell’uso medio è il nome di una categoria, definita da Sabatini, sulla base di fenomeni
grammaticali. La differenza rispetto all’italiano standard (Castellani lo ha chiamato italiano normale,
cioè secondo la norma), sta nel fatto che l’italiano dell’uso medio, comune e colloquiale, accoglie
fenomeni del parlato, presenti da tempo nello scritto, ma tenuti a freno dalla norma grammaticale
che ha sempre tentato di respingerli ed emarginarli.
Lo standard rappresenta un italiano ufficiale e astratto, mentre quello dell’uso medio rappresenta
una realtà, di cui tutti abbiamo esperienza. Alcuni tratti caratteristici sono:
▪ Lui, lei, loro usati come soggetti
▪ Gli generalizzato anche se con il valore di le e loro
▪ Diffusione delle forme ‘sto; ‘sta
▪ A me mi
▪ Costrutti preposizionali con il partitivo, alla maniera francese (con degli amici)
156
▪ Ci attualizzante con il verbo avere e altri verbi (che c’hai?)
▪ Anacoluti nel parlato (Giorgio, non gli ho detto nulla)
▪ Dislocazione a dx o sx con ripresa del pronome atono
▪ Che polivalente, con valore temporale, finale e consecutivo
▪ Cosa interrogativo al posto di che cosa (già nei Promessi sposi)
▪ Imperfetto al posto del congiuntivo e condizionale nel periodo ipotetico dell’irrealtà (se sapevo,
venivo).

Anche Renzi ha elencato le caratteristiche innovatrice dell’italiano contemporaneo:


▪ Costrutto “è che…non è che…”
▪ Diffusione dell’indicativo al posto del congiuntivo nella frase subordinata (mi dispiace che Maria è
partita)
▪ Uso di lui anche per l’inanimato
▪ Uso avverbiale di tipo (lui pensa tipo che…)
▪ Participio passato al superlativo (sono stato delusissimo)
▪ Dai! Come espressione di meraviglia
▪ Il dimostrativo “questo” al posto dell’indefinito “uno”
▪ Possibili anglicismi sintattici, come giorno dopo giorno (day after day).

3.9. Scuola e lingua selvaggia


Tappa importante per l’omologazione di tutti gli italiani fu l’introduzione della scuola media unica,
uguale per tutti, nel 1962, con obbligo scolastico fino ai 14 anni. Essa veniva istituita al posto del
doppio canale di formazione, ereditato dalla riforma scolastica di Gentile, che aveva proposto
scuola media e avviamento professionale in alternativa.
La diffusione delle nuove idee linguistiche fu caratterizzata da una forte presenza ideologica della
Sinistra. Anche la cultura cattolica intervenne nel dibattito: Don Milani mise a nudo le condizioni di
miseria linguistica in cui si trovavano i ragazzi delle classi povere. Egli proponeva una serie di
interventi per adattare la scuola e l’insegnamento alle presunte necessità degli allievi. Don Milani
arrivò a mettere in discussione l’esistenza e la legittimità di qualunque norma linguistica o di
qualunque forma alta di comunicazione. Gli specialisti mossero critiche contro le tecniche
tradizionali di insegnamento della grammatica, contro l’uso del tema come una forma di esercizio
di scrittura; ciò provocò una revisione dei metodi e degli obiettivi dell’insegnamento, rinnovandolo
in parte. Oggi si riscontrano carenza linguistiche di base non solo negli studenti della scuola
dell’obbligo, ma anche in allievi assai avanzati, che giungono all’università senza rispettare le
norme più elementari della grammatica e della sintassi: Bruni ha parlato di italiano selvaggio. Vi
sono non solo errori banali, ma frasi preconfezionate, interferenze con il dialetto.

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Capitolo 14
Quadro linguistico dell’Italia attuale

1. Composizione del lessico italiano


Le principali componenti del lessico italiano, risultato della storia millenaria della nostra lingua, si
dividono in otto categorie:
1. latinismi
2. Grecismi
3. Francesismi
4. Anglismi
5. Germanismi
6. Arabismi
7. Spagnolismi
8. Categoria eterogenea.


La stragrande maggioranza delle parole italiane è di origine latina: alcune di queste parole sono
entrate nel latino dal greco e dal punto di vista etimologico sono definibili come grecismi (tragedia,
metro). Esistono poi grecismi artificiali, costruiti a tavolino, giunti a noi dalle lingue europee
moderne (calcografia e microbo). Parole come queste sono state poste tra i francesismi. Tra le
lingua moderne il francese ha maggior spazio.
Poi entra nel conto solamente il ‘lessico comune’, ovvero parole usuali, note alla maggior parte dei
parlanti. Si noti come la percentuale di lingua greca si abbassa di circa il 5%, in quanto
diminuiscono i cultismi e i tecnicismi (che discendono dal greco) poiché estranei alla lingua di tutti i
giorni.

2. Scrittura e pronuncia dell’italiano


2.1. Il sistema grafico dell’italiano
La lingua ideale sarebbe quella in cui ad ogni segno grafico corrisponde un solo suono e ad ogni
suono un solo segno grafico, con rapporto biunivoco. Nel sistema italiano esistono innegabili
ridondanze, ma l’insieme è funzionale; molto più forte è lo scarto tra grafia e pronuncia che si
riscontra nel francese o nell’inglese. In italiano non sopravvivono molti elementi dotati solamente di
valore etimologico: ciò accade per l’h di hanno; in altri casi, h ha valore diacritico, come nel
digramma ch, in cui sta a indicare che c va pronunciata come occlusiva velare. Per indicare
l’occlusiva velare sorda usiamo dunque in certe condizioni c, ch in altre. Identico problema per
l’occlusiva sonora g. 


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Il sistema grafico italiano non è perfettamente univoco: usiamo gli stessi segni E ed O per indicare
le e/o aperte e chiuse senza distinzione. Il segno s si usa per la sorda e la sonora, stessa cosa per
z. Dunque, a volte l’imprecisione della grafia si lega ad effettive oscillazioni nell’uso reale della
lingua.

2.2. I fonemi dell’italiano


In riferimento alle vocali, l’italiano ha un sistema di 7 elementi, resi da soli 5 segni grafici, ma
questo sistema non è nella coscienza linguistica di tutti i parlanti nazionali. Le coppie e/ aperta o
chiusa è poco utilizzata, a parte nei romani e nei toscani, con divergenze tra gli uni e gli altri. Oltre
ai sette fenomeni vocalici, l’italiano ha i fonemi consonantici: anche in questo caso, la realizzazione
non è identica in tutto il territorio nazionale.

2.3. Il raddoppiamento fonosintattico


La moderna grafia registra il fenomeno quando si è prodotta una parola unica: fra + tanto ha dato
origine a frattanto, con raddoppiamento della t. Il raddoppiamento non è praticato nelle parlate
regionali dell’Italia settentrionale. Nell’italiano standard il raddoppiamento è prodotto:
▪ Da tutte le parole polisillabiche con accento sull’ultima vocale (perché mai si pronuncia
perchemmai)
▪ Da tutti i monosillabi con accento grafico ( più su si pronuncia piùssù)
▪ Da monosillabi forti: a, da, su, tra, fra, ho, ha, do, fa, fu, va, sto, sta, che, qui, qua, se
(congiunzione), ma, e, o, tu, te, me.

3. Dove si parla italiano


L’italiano è parlato in tutto il territorio della Repubblica italiana, di cui è la lingua ufficiale, anche se
la Costituzione non gli assegna esplicitamente questa funzione. L’affermazione che l’italiano è la
lingua ufficiale di ritrova nel primo articolo della legge sulla protezione delle minoranze linguistiche
del 1999. L’italiano poi è parlato nello stato del Vaticano, nella Repubblica di San Marino, in alcuni
Cantoni della Svizzera, nel principato di Monaco, in Istria, in Dalmazia. Vanno considerate le
comunità di emigrati italiani, sparse in tutto il mondo, e Malta, dove l’italiano fu di casa per secoli,
prima di essere soppiantato dall’inglese. È parlato da circa 58 milioni di persone in Italia e da oltre
300.000 persone in Svizzera.

4. Alloglotti nell’area italiana


4.1. Tipologie di classificazione degli alloglotti
Entro i confini della Repubblica italiana sono presenti alcuni gruppi alloglotti, di origine romanze e
non romanza; si parla generalmente di minoranze linguistiche. Si parla di alloglotti quando aree
linguistiche più grandi, situate al di fuori del nostro territorio nazionale, si estendono anche

159
all’interno dei nostri confini. Si usa il concetto di penisole linguistiche o propaggini per indicare
zone linguistiche più grandi, situate al di fuori del nostro territorio nazionale, si estendono in parte
anche all’interno dei nostri confini (provenzali, franco-provenzali, tedescofoni). Usiamo il concetto
di isole linguistiche per indicare comunità di alloglotti molto piccole e isolate (greche, albanesi ecc.)
Oggi la legge numero 482 del 1999 tutela le minoranze albanesi, catalane, germaniche, greche,
slovene, croate, francesi, franco-provenzali, friulane, ladine, occitane e sarde.

4.2. Provenzali e franco-provenzali


Questi sono alloglotti che parlano lingue del gruppo romanzo; in molte valli alpine del Piemonte
occidentale si parla provenzale, così come in alta Valle di Susa. La Valle d’Aosta è un’area franco-
provenzale e il francese è per tradizione la lingua di cultura, al di sopra del patois locale, ed ha lo
status di lingua ufficiale accanto all’italiano.

4.3. Ladini
Nelle valli alpine delle Dolomiti ci sono le parlate appartenenti al ladino, introdotto in alcune scuole
dal 1948, come prevede lo statuto di autonomia del Trentino Alto Adige. Dal punto di vista
glottologico, infatti, è visto come qualcosa di più di un semplice dialetto. Nella maggior parte del
Friuli e della Carnia ci sono le parlate ladino-orientali, meglio indicate con il nome di ‘friulane’.
Parlate ladine ci sono anche in territorio svizzero, e il ladino (ma si preferisce qui con il nome di
‘romancio’) in base alla Costituzione svizzera è lingua nazionale, accanto al tedesco, francese e
italiano. Tuttavia la continuità del romancio è minata dalla forte frammentazione linguistica e dal
predominio del tedesco.

4.4. Sardi
Anche il sardo può essere considerato una lingua per le sue particolari caratteristiche all’interno
del gruppo romanzo, anche se non si è mai giunti alla creazione di una koinè sarda. Il sardo si
distingue in 4 varietà: gallurese, sassarese, logudorese (con il nuorese) e il campidanese, che ha il
suo centro nella zona di Cagliari. Tipico del sardo logudorese è un sistema di cinque vocali, con
lunghe e brevi latine in un unico esito.

4.5. Isole linguistiche: Alghero e Guardia Piemontese


Si parla di isole linguistiche quando ci si trova in presenza di comunità caratterizzate da una loro
diversità, ma molto ridotte, isolate e geograficamente circoscritte a un territorio molto piccolo. Ad
Alghero la popolazione è catalana in seguito alla conquista militare della città da parte di Pietro IV
d’Aragona. A Guardia Piemontese, a Cosenza, invece ci sono i resti di una vecchia colonia
valdese di lingua provenzale. A Faeto e Celle (Foggia) sopravvivono due colonie valdesi di lingua
franco-provenzale.

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4.6. Minoranze e isole tedesche
Accanto ai gruppi alloglotti romanzi, vi sono quelli non romanzi, come le diramazioni tedesche che
hanno importanza, perché la loro presenza ha dato luogo a problemi di natura politica e
amministrativa; la più numerosa comunità di tedeschi occupa l’alta Valle dell’Adige. Questa
minoranza etnica ha uno statuto speciale, che interessa la provincia di Bolzano. Il tedesco ha lo
status di lingua ufficiale accanto all’italiano e viene insegnato a scuola come prima lingua, che
imparano l’italiano come seconda.
Il dialetto si usa nella comunicazione familiare, la lingua tedesche risponde a situazioni formali
elevate, come l’insegnamento, la burocrazia, la cultura, la religione e la letteratura. Vi sono diverse
altre isole tedesche in territorio italiano, alcune vitali, altre in via di disfacimento, come i cosiddetti
Tredici Comuni del Veronese e i Sette Comuni del Vicentino.

4.7. Isole greche


Vi sono colonie greche presenti nel territorio italiano: una è in Calabria e l’altra nel Salento. Si è
discusso sull’origine di queste colonie e due tesi si sono contrapposte:
1. una vede nelle isole greche d’Italia l’eredità dell’Antica Magna Grecia, il residuo delle antiche
colonie anteriori alla dominazione romana.
2. L’altra vede in esse una conseguenza dell’occupazione bizantina nell’Italia meridionale. La tesi
dell’origine greca classica è stata sostenuta dal grande linguista Rohlfs: “nei dialetti greci che
sopravvivono nell’Italia meridionale troviamo un tale numero di elementi arcaici come in nessun
altro dialetto della Grecia moderna”.

4.8. Minoranze slave


Le propaggini slave erano molto importanti prima dell’ultima guerra, ma si sono ridotte
notevolmente quando l’Istria passò a quella che era allora la Jugoslavia. Rimangono in territorio
italiani alcuni gruppi sloveni nelle province di Udine, Gorizia e Trieste, oltre ad alcune colonie slave
nel Molise.


4.9. Isole albanesi
Vi sono in Italia numerose antiche colonie di albanesi, originate da immigrati giunti da noi a partire
dal secolo XV. Sono distribuite tra la provincia di Campobasso e l’estremità settentrionale della
provincia di Foggia. Alcuni gruppi isolati di albanesi di trovano a Pescara, Taranto, Potenza, oltre
che in Calabria e in Sicilia. Negli ultimi vent’anni del secolo XX ha preso vigore una nuova
emigrazione dall’Albania verso l’Italia, che non ha nessuna relazione con quella storica del secolo
XV. 


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4.10. Minoranze recenti e di altra origine
Negli ultimi 20 anni il fenomeno dell’immigrazione del Terzo Mondo povero, in particolare dall’Africa
e dall’Asia e dai Paesi Slavi è aumentato notevolmente.
Questi nuovi gruppi etnolinguistici stanno soppiantando le vecchie minoranze storiche per
importanza e peso sociale e a costoro bisogna aggiungere i “clandestini.” La nuova immigrazione
ha creato un sottoproletariato urbano con scarse possibilità di integrazione e con una tendenza a
creare gruppi etnici isolati e conflittuali, portatori di tradizioni che si scontrano con quelle locali e
con le leggi italiane. Queste comunità eterogenee non sempre parlano italiano, oppure lo parlano
in maniera imperfetta.

5. Aree dialettali e classificazione dei dialetti


5.1. Le linee La Spezia-Rimini e Roma-Ancona
Si possono distinguere in Italia tre aree diverse:
1. Settentrionale
2. Centrale
3. Meridionale
Queste sono separate da due grandi linee di confine: la linea La Spezia - Rimini divide i dialetti
settentrionali da quelli centro-meridionali e la linea Roma - Ancona divide i dialetti meridionali da
quelli centrali. La linea La Spezia - Rimini è definita da Rohlfs con il termine di frontiera linguistica
per la sua importanza e per le premesse storiche che spiegano l’esistenza del confine. Il confine
linguistico che corre sulla linea è identificato dai linguisti prendendo in considerazione diversi
fenomeni.
Nelle parlate dialettali a nord di questa linea si ha70 :
▪ Indebolimento (sonorizzazione o caduta) delle occlusive sorde in posizione intervocalica ( fradel
invece di fratelli, formiga invece di formica)
▪ Scempiamento delle consonanti geminate (spala per spalla, gata per gatta, bela per bella)
▪ Caduta delle vocali finali (an per anno), eccetto la a che resiste
▪ Contrazione delle sillabe atone (slar per sellaio, tlar per telaio)

I confini dei fenomeni elencati non coincidono fra loro; se si tracciano sulla carta geografica le varie
isoglosse (le linee di confine dei singoli fenomeni linguistici) si nota che esse hanno lo stesso
percorso tra Emilia e Toscana, ma nella zona collinare alle spalle di Rimini divergono. Il confine
linguistico tra Nord e Centro è individuabile in maniera meno netta.

70 Sono caratteristiche proprie dei dialetti gallo-italici (piemontese, lombardo, ligure, emiliano, romagnolo).
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Per quanto riguarda la linea Roma - Ancona, al di sotto di essa si ha:
▪ Sonorizzazione delle consonanti sorde in posizione postnasale (mondone per montone, angora
per ancora)
▪ Metafonesi delle vocali toniche e ed o per influsso di –i e –u finali (acitu per aceto, dienti per
denti)
▪ Uso di tenere per avere
▪ Uso del possessivo in posizione proclitica (figliomo per mio figlio)
▪ Un po’ più a nord della linea Roma – Ancona corre il confine dell’assimilazione di –nd > nn e mb>
mm. 


5.3. Classificazione storiche dei dialetti


Forte è la variabilità dei dialetti, che mutano da luogo a luogo, anche all’interno di una stessa
regione o città. La prima descrizione sistematica e scientifica dell’Italia dialettale fu data da Ascoli
nell’VIII volume dell’Archivio glottologico italiano, rivista da lui fondata.

Elenco dei dialetti proposto nella Grammatica storica della lingua e dei dialetti italiani di D’Ovidio-
Meyer-Lubke,secondo il quadro del linguista tedesco Grober:

6. Gli italiani regionali


L’italiano non è parlato in modo uniforme in Italia: vi sono marcate differenze che interessano il
livello fonetico e poi anche quello lessicale e sintattico e più raramente quello morfologico. Le
varietà d’italiano dipendono dalla distribuzione geografica, dall’influenza esercitata dai dialetti locali
e prendono il nome tecnico di varietà diatopiche dell’italiano o italiani regionali. La
caratterizzazione più evidente dei vari italiani regionali si ha a livello di pronuncia.

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De Mauro distingue il diverso prestigio delle 4 principali varietà di pronuncia:
▪ Minimo è il prestigio della varietà meridionale
▪ Maggiore sarebbe il prestigio della varietà settentrionale
▪ Uno spazio particolare meritano la varietà toscana e romana. Quest’ultima ha una funzione
speciale perché Roma oltre che una metropoli è la capitale della politica e dello spettacolo.

L’italiano è una lingua che per tradizione è ricca di termini ufficiali, elevati, letterari, ma quando si
passa a un contesto familiare e domestico le differenze regionali si fanno marcate. Cortelazzo cita
come esempio la forma interrogativa nuorese, che comporta l’inversione del posto del verbo
rispetto al complemento o l’inversione della posizione dell’ausiliare (olio comprate?/ venuti siete?).

7. Italiano, fiorentino e toscano


Il toscano è la parlata regionale che più si avvicina alla lingua letteraria, poiché la lingua letteraria
deriva dal toscano trecentesco. Il toscano ha avuto una posizione privilegiata: Firenze è stata
considerata la città in cui si poteva imparare a conversare nella lingua migliore. Fra le altre parlate
toscane, ha goduto di un certo prestigio culturale quella senese.

Cosa il fiorentino ha in comune con l’italiano e in cosa si distingue da esso?


Cose in comune:
▪ Anafonesi
▪ Dittongazione di Ĕ ed Ŏ del latino
▪ Il passaggio di e atona protonica ad i
▪ Passaggio di –ar atono a –er nel futuro della prima coniugazione (amarò > amerò)
▪ Passaggio di –rj intervocalico a –j ( gennaio contro gennaro<JANUARIUS)
▪ Italiano non conosce metafonesi, presente nel settentrione e meridione

Differenze:
▪ Gorgia, ovvero spirantizzazione delle occlusive sorde intervocaliche, per cui amico è pronunciato
amiho
▪ Tendenza alla monottongazione di –uò-: buono e nuovo in Toscana bòno e nòvo ma tende ad
applicare per analogia il dittongo anche in posizione non tonica: nuovissimo, buonissimo.

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