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Prima Unità

1 Linguistica e Linguaggio Letterario


Sito: Tor Vergata Advanced Learning Centre
Corso: L-FIL-LET/10 - Letteratura italiana
Libro: Prima Unità

Sommario
 1 LINGUISTICA E LINGUAGGIO LETTERARIO
o 1.1 ELEMENTI DI LINGUISTICA GENERALE
o 1.2 LA SPECIFICITÀ DEL LINGUAGGIO LETTERARIO

1 LINGUISTICA E LINGUAGGIO LETTERARIO


Il primo livello di lettura di un testo letterario è quello che prende le mosse dal linguaggio. La
lettura e la comprensione di un testo letterario richiedono infatti al lettore alcune competenze
indispensabili affinché la comunicazione tra autore e lettore abbia successo.

La prima di queste competenze è sicuramente la conoscenza del codice attraverso il quale


avviene la comunicazione, vale a dire la lingua nella quale quel determinato testo letterario è
scritto.

Quando, però, si parla di testo letterario, in realtà, si capisce subito che la lingua di cui si
devono riconoscere significati e significanti non è tanto la lingua italiana – nel caso ovvio di un
testo di letteratura italiana – quanto l’italiano letterario.

Il linguaggio letterario ha infatti una sua specificità, è un codice molto complesso che ha per
base il codice della lingua, ma al quale si sovrappongono altre leggi cui deve rispondere e che
dunque il lettore deve conoscere per poterne interpretare a pieno il senso.

In questa prima fase dunque si vedranno quali sono gli strumenti forniti dalla scienza che
studia la lingua, cioè la linguistica, e quali sono le specificità del linguaggio letterario.

1.1 ELEMENTI DI LINGUISTICA GENERALE

Per decifrare il sistema di segni attraverso il quale la letteratura si esprime, è necessario prima
di tutto possedere alcune nozioni di linguistica e conoscere la storia della formazione della
lingua italiana letteraria.

La linguistica (o glottologia) è la scienza che studia la storia, la struttura e il funzionamento


delle lingue quali codici capaci di organizzare diversi sistemi di segni. È una scienza nata nei
primi decenni del XIX secolo dall’esigenza di comparare la grammatica di diverse lingue e
rintracciare le regole di carattere fisico e meccanico (leggi fonetiche) che ne determinano le
diverse evoluzioni.
L’interesse ottocentesco per la linguistica, sicuramente incentivato dalla scoperta e dal
successivo studio del sanscrito, è di tipo comparatistico, vale a dire rivolto alla comparazione
delle lingue indoeuropee nell’intento di trovare analogie e differenze per comprendere la loro
diversa evoluzione storica. Non a caso, infatti si parla in questo senso di Linguistica storica,
intendendo una linguistica attenta ai mutamenti di una o più lingue nel tempo.

Alla base della moderna linguistica, però, è il testo di Ferdinand de Saussure (Vedi scheda
approfondimento), il Cours de linguistique générale, pubblicato nel 1916 per volere dei suoi
studenti. Le idee fondamentali del linguista ginevrino contenute nella raccolta delle sue lezioni
universitarie sono alla base dello strutturalismo, cioè di quel movimento intellettuale che ha
preso piede negli anni Sessanta – partendo dalla Francia, ma arrivando attraverso tutta l’Europa
fino in America – e che si proponeva di affrontare la lettura di un testo letterario attraverso
l’identificazione della struttura organizzativa e del rapporto tra gli elementi di un testo;
attraverso l’analisi delle omologie e delle differenze interne al testo letterario messe in
relazione con un sistema culturale esterno ben definito.

Linguistica strutturale è infatti definita la moderna linguistica che prende nome dalle teorie di
Saussure – nonostante il linguista ginevrino non abbia mai parlato di ‘struttura’ – ed è basata
proprio su una serie di dicotomie che definiscono il funzionamento stesso della lingua: langue
e parole; significato e significante; piano sintagmatico e piano paradigmatico; sincronia e
diacronia.

Per langue Saussure intende il patrimonio linguistico collettivo di una determinata comunità
linguistica, una serie di convenzioni indispensabili alla riuscita della comunicazione. In
opposizione, la parole è l’espressione individuale di un singolo componente di quella stessa
comunità che attinge al repertorio comune attribuendogli però caratteristiche personali. L’una
non può esistere senza l’altra perché, se è vero che la parole attinge alla langue, è altresì vero
che non ci sarebbe una lingua collettiva senza l’espressione dei singoli individui che la parlano.

Altra fondamentale dicotomia – e indispensabile quando si parla di linguaggio poetico – è


quella che distingue tra significato e significante. Il primo è il senso, il concetto espresso da un
termine linguistico, mentre il secondo è la sua “immagine acustica”, il suono che corrisponde a
quello stesso segno linguistico. Questa dicotomia dimostra, in realtà, tutta l’arbitrarietà dei
linguaggi: l’associazione tra le parole e le cose, tra i segni linguistici e gli oggetti che essi
rappresentano, è infatti del tutto convenzionale e, cosa più importante per la linguistica, il
referente, cioè la realtà oggettiva a cui le parole si riferiscono, non rientra nel suo campo di
studi.

Appare evidente quanto questa teoria abbia influenzato non solo lo studio della lingua, ma
anche l’esegesi dei testi poetici, nei quali l’ambiguità dei significati e i suoni, la musicalità,
persino i colori, dei vocaboli, si associano nella formazione di una polisemia (molteplicità di
significato) delle parole stesse. Una molteplicità che aumenta quando le singole parole si
confrontano, compensano e attribuiscono reciproco significato in un sintagma (combinazione
di elementi linguistici).

La lingua, dunque, secondo Saussure, è un sistema che si struttura in relazioni tra i suoi
elementi. Queste relazioni possono essere di due tipi: il primo è la relazione che intercorre tra
un singolo elemento e quelli che lo precedono e lo seguono, ed è questo il piano o asse
sintagmatico; il secondo è quello che pone a confronto il singolo elemento con il codice
collettivo, la langue, su un piano associativo, per Saussure, che poi i linguisti hanno chiamato
asse paradigmatico.
Il funzionamento della lingua dipende dunque da queste due relazioni: l’acquisizione di un
significato da attribuire al segno linguistico dipende tanto dalla sua relazione con gli elementi
cui è legato nella catena parlata, quanto dalla sua relazione con il repertorio, il vocabolario
collettivo. Una simile distinzione, però, pone subito l’accento sulla peculiarità della linguistica
teorizzata da Saussure rispetto agli studi che lo avevano preceduto. Il linguista infatti si
concentra sulle relazioni intercorrenti tra i diversi elementi della comunicazione linguistica di
una data comunità in un dato momento storico, non si preoccupa cioè né della comparazione
con altre lingue, né con la lingua in altre epoche.

Per usare un’altra dicotomia saussuriana, si può dire dunque che lo studio della lingua debba
essere sincronico, cioè riferirsi a un preciso momento, fermo, dello sviluppo di quella lingua.
Questa la grande differenza con la linguistica ottocentesca, che invece si poneva in una
prospettiva storica, cercava di individuare i processi e le fasi dell’evoluzione della lingua, si
proponeva uno studio diacronico.

Non stupisce, allora, che convenzionalmente si faccia nascere la moderna linguistica proprio
sulle orme delle lezioni del linguista ginevrino. Ma Ferdinand de Saussure, seppure ha avuto il
merito di iniziare molti studiosi a questo tipo di studi sul segno linguistico, in realtà, proprio
perché considerava la lingua un sistema di segni la faceva rientrare nel campo d’azione di una
scienza più ampia della linguistica: la semiologia che è appunto la scienza che studia i segni.

Un contributo notevole alla semiologia è stato apportato, dopo lo stesso Saussure, dai
formalisti russi e dagli strutturalisti praghesi. Sotto il nome di formalisti russi si è soliti
raccogliere due diversi circoli letterari, uno con intenti più strettamente linguistici, “Il Circolo
linguistico di Mosca” fondato nell’inverno tra il 1914 e il 1915 per opera di studiosi quali
Roman Jakobson (1896-1982), Boris Tomaševskij (1890-1957) e Opis Brik (1888-1945);
l’altro, nato con intenti più propriamente letterari, è l’OPOJAZ, la “Società per lo studio del
linguaggio poetico”, costituitasi a Pietroburgo due anni più tardi e i cui maggiori esponenti
furono Viktor Šklovskij (1893-1984), Boris Ejchenbaum (1886-1959) e Jurij N. Tynianov
(1894-1943). Due gruppi dalle prospettive diverse, ma che spesso agirono in stretta
collaborazione o, comunque, confrontandosi e influenzandosi reciprocamente.

Quando si parla invece di strutturalisti praghesi si fa riferimento al Circolo linguistico di


Praga, fondato da Vilem Mathesius nel 1926. In realtà, però, già dal momento della sua
fondazione al circolo aderirono molti studiosi noti come formalisti e, in seguito alla diaspora
politica dei membri dei circoli di Mosca e Pietroburgo, si può dire che il formalismo abbia
trovato un momento di rinascita nel circolo praghese, tra i cui maggiori esponenti si
annoverano Roman Jakobson, Jan Mukařovsky (1891-1975) e Nikolaj Sergeevic Trubečkoy.

Non è certo un caso che a cavallo di entrambi i movimenti si trovi un esponente come Roman
Jakobson (Vedi scheda approfondimento), per il quale l’approfondimento del problema
linguistico rimarrà sempre alla base di qualunque studio letterario.

A lui e ai suoi colleghi del circolo di Praga si devono le famose Tesi rese pubbliche nel 1929 in
occasione di un Congresso di filologi slavi e considerate il documento di nascita dello
strutturalismo. Le novità rispetto al primo formalismo non sono poche, a partire dalla centralità
del concetto di struttura senza la quale tutte le caratteristiche fonologiche, morfologiche e
sintattiche non possono essere comprese. Soprattutto però nasce l’esigenza – sulla spinta di
studi letterari e non meramente linguistici – di considerare il testo tanto da un punto di vista
sincronico che diacronico.
A Jakobson, però, tra le altre cose, si deve soprattutto lo studio sistematico del linguaggio come
strumento di comunicazione e la definizione delle sue funzioni in uno schema ideato per
chiarire i problemi sul rapporto tra Linguistica e poetica da lui esplicitati durante un convegno
interdisciplinare tenutosi nell’Università dell’Indiana nel 1958.

Questo studio Jakobson lo fa seguire a una domanda precisa, anzi, come lui stesso ammette,
alla richiesta di spiegare la relazione tra linguistica e poetica: «Mi è stato chiesto di tracciare
delle note riassuntive sulle relazioni fra poetica e linguistica. Il compito fondamentale della
poetica consiste nel rispondere a questa domanda: Che cosa è che fa di un messaggio verbale
un’opera d’arte? Poiché questo compito concerne la differenza specifica che contraddistingue
l’arte della parola in relazione alle altre arti e specie di comportamenti verbali [...]». (ROMAN
JAKOBSON, Linguistica e poetica, p. 181).

Gli elementi del linguaggio e le relazioni tra essi seguirebbero il seguente andamento:

Contesto
Messaggio
Mittente ................. Destinatario
Contatto
Codice

In un qualunque tipo di comunicazione sono sempre presenti i suddetti elementi: un mittente,


colui che comunica, un destinatario, colui che riceve, ascolta, e un messaggio della
comunicazione che passi dal mittente al destinatario. Perché ciò avvenga, però, è necessario
che ci sia un contesto nel quale entrambi sappiano di muoversi; un codice comune ai due
interlocutori altrimenti non ci sarebbe comprensione del messaggio e, infine un contatto, un
canale fisico che permetta di stabilire e mantenere la comunicazione.

Nessuno di questi fattori può venire meno senza rendere impossibile la comunicazione e
ciascuno svolge una ben precisa funzione linguistica che si riassume in un altro schema:

Referenziale

Poetica

Emotiva …………………Conativa

Fatica

Metalinguistica

A seconda di quale funzione sia predominante nella comunicazione si ha un tipo di messaggio


verbale diverso. Lo stesso Jakobson, però, precisa: «La diversità dei messaggi non si fonda sul
monopolio dell’una e dell’altra funzione, ma sul diverso ordine gerarchico fra di esse. La
struttura verbale di un messaggio dipende prima di tutto dalla funzione predominante».

La maggior parte dei messaggi verbali comuni hanno un predominio della funzione
referenziale, vale a dire «l’orientamento rispetto al contesto». Quando invece l’attenzione si
orienta sull’espressione del mittente si ha una prevalenza della funzione emotiva, così come se
invece ci si orienta verso il destinatario la funzione sarà conativa. Ci sono messaggi verbali in
cui predomina la funzione fatica, quando ad esempio viene a mancare il contatto che
impedisce la comunicazione e si vuole verificare che il canale funzioni; oppure la funzione
metalinguistica quando si vuole verificare che il mittente e destinatario condividano il
medesimo codice (la distinzione è fra «il linguaggio-oggetto, che parla degli oggetti e il
“metalinguaggio” che parla del linguaggio stesso»).

Infine «quando l’accento [è] posto sul messaggio per se stesso, costituisce la funzione poetica
del linguaggio» (ANGELO MARCHESE, Dizionario di retorica e di stilistica, p.168).
Quest’ultima affermazione di Jakobson ha una valenza ben precisa, vale a dire non limita il
messaggio poetico alla poesia. E ciò lo porta a porsi un’altra domanda: «Quale è l’elemento la
cui presenza è indispensabile in ogni opera poetica?» (ROMAN JAKOBSON, Linguistica e
poetica, p. 194).

La risposta Jakobson la trova ancora una volta nel comportamento linguistico che avviene
secondo due diversi processi fondamentali di costruzione: la selezione e la combinazione. La
prima prevede una scelta dei termini da usare in una serie di termini sinonimi o simili, la
seconda procede nel combinare nella catena parlata i due o più termini prescelti. «La selezione
è operata sulla base dell’equivalenza [...] mentre la combinazione [...] si basa sulla contiguità»
(ROMAN JAKOBSON, Linguistica e poetica, p. 195).

La specificità del linguaggio letterario sarebbe dunque nello scardinare e sovrapporre questi
due processi di costruzione del linguaggio: «La funzione poetica proietta il principio di
equivalenza dall’asse della selezione all’asse della combinazione» (Ibidem) provocando un
aumento esponenziale dell’ambiguità del messaggio e facendo dell’ambiguità del messaggio
stesso un “carattere intrinseco inalienabile” della poesia.

Questa definizione rende ancora più palese la necessità di distinguere tra la lingua d’uso e la
lingua letteraria. Se, inoltre, si aggiunge, come si è già detto, che per una corretta
interpretazione del testo letterario è necessario analizzare un testo tanto da un punto di vista
sincronico che diacronico, si arriva facilmente alla conclusione che per leggere un testo poetico
è anche necessario conoscere la storia letteraria della lingua che quel testo veicola.

1.2 LA SPECIFICITÀ DEL LINGUAGGIO LETTERARIO

Il percorso tracciato attraverso le teorie generali della linguistica dovrebbe aver sottolineato la
necessità di riconoscere una specificità del linguaggio letterario, di un codice fatto di
stratificazioni storiche e linguistiche che, proprio nella sua complessità, deve essere
riconosciuto e decodificato dal suo fruitore.

A chi si appresta, dunque, alla lettura e all’analisi di un testo poetico, non deve sfuggire la
peculiarità di un linguaggio polisemico ed equivoco, innanzitutto, e stratificato, in secondo
luogo, come appunto è il linguaggio letterario. E, ai fini di una corretta decodificazione del
testo, è necessaria la conoscenza e la competenza nei singoli di costruzione, e quindi di
interpretazione, di questo particolare codice.

Il linguaggio letterario è definito un linguaggio equivoco perché, come in parte avviene nel
linguaggio comune, a un segno non corrisponde un solo significato. E ciò avviene in diversi
modi: una singola parola, con un medesimo significante, può avere valenze grammaticali
diverse, per esempio il lemma male che è sostantivo e aggettivo a seconda del suo utilizzo; uno
stesso sostantivo, pur mantenendo invece la funzione grammaticale, può comunque avere
diversi significati, ad esempio lingua, mantenendo anche il medesimo significante (non cambia
come pèsca o pésca), indica tanto l’organo della bocca destinato al gusto e alla parola, quanto
il linguaggio, o persino in senso traslato la nazionalità (il popolo di lingua tedesca); infine
tipiche del linguaggio letterario sono le espressioni metaforiche, traslate, appunto, che rendono
ancora più ambigua la lingua poetica, per esempio l’espressione “sciogliamo le vele” ha tanto
un significato letterale legato al linguaggio marinaresco, quanto il suo corrispettivo metaforico
per “iniziamo un cammino”, “cominciamo il nostro viaggio”, ecc.

L’equivocità tipica del linguaggio letterario non manca certo nel linguaggio comune, anch’esso
caratterizzato da espressioni metaforiche e figure retoriche. Si può aggiungere allora che se un
testo poetico non esiste senza una metaforica polisemia, non tutti i testi verbali polisemici sono
poetici.

La distinzione tra univocità ed equivocità dei linguaggi è più che altro costruita sulla differenza
con quei linguaggi che hanno un rapporto uno a uno, una equivalenza tra unico significante e
unico significato e che sono appunto detti linguaggi univoci. La matematica, la musica, i
linguaggi medico-scientifici che devono tendere allo studio della realtà e non possono veicolare
misinterpretazioni, o equivocità appunto, di alcun genere, devono obbligatoriamente essere
univoci.

La polisemia che caratterizza il linguaggio letterario deve dunque essere studiata nelle sue
diverse stratificazioni, un testo poetico deve essere smontato seguendo le diverse tecniche e
prospettive attraverso le quali è stato costruito, attraverso, cioè, quei diversi livelli di
significato che lo caratterizzano.

A voler ricondurre a un numero ben preciso i livelli testuali si possono distinguere nei seguenti:
fonologico, metrico-ritmico, sintattico e retorico, morfologico, semantico. Ma studiare un testo
poetico operando un’analisi settoriale secondo una lettura orizzontale di questi livelli può dare
risultati interessanti, ma non porterà mai a una corretta lettura del testo. I diversi livelli del testo
letterario contribuiscono, tutti contemporaneamente, alla sua polisemia e al suo messaggio
ultimo; per questa ragione, una lettura verticale e prospettica è assolutamente necessaria.

Il livello fonologico è il piano di lettura nel quale si analizzano i fonémi, cioè le unità minime
del linguaggio verbale sprovviste di significato, che convenzionalmente si contrappongono ai
monémi, le unità minime provviste di significato lessicale e grammaticale. Questo livello,
dunque, riguarda i suoni, gli accenti, la quantità delle sillabe, tutti quegli aspetti che vanno a
comporre il significante di una parola.

Il livello metrico-ritmico è il piano sul quale si sviluppano due convenzioni, strettamente


connesse tra loro, che caratterizzano il codice linguistico della poesia: il metro e il ritmo. La
metrica è lo studio degli elementi e dei fenomeni che qualificano la versificazione. Dal
termine greco métron, che significa “misura”, il metro è in sostanza, e in senso generale, la
regola che organizza le singole unità di misura che compongono un verso. Il metro costituisce
una struttura ideale entro la quale si realizza il ritmo del verso stesso. Altra componente
indispensabile e inscindibile della versificazione è infatti il ritmo (dal greco rhytmòs,
“successione), che si può in altre parole definire la cadenza dell’esecuzione (lettura reale o
mentale del testo) determinata dalla successione delle pause (segni d’interpunzione), della
quantità delle sillabe e degli accenti (concatenazione di sillabe atone o toniche).
Metro e ritmo sono dunque palesemente inscindibili, si potrebbe dire che il ritmo è l’andatura
musicale di un verso e il metro la regola ideale entro la quale il ritmo deve muoversi, per
ragioni di tradizione letteraria e specificità dei generi letterari (vedi avanti). Naturalmente,
però, anche il metro è una regola che la poesia può infrangere e che molti altri elementi
contribuiscono alla formazione di un verso, che non si può confinare in una struttura rigida
definita dalla combinazione di metro e ritmo.

Un altro elemento determinante del linguaggio poetico, che influenza la versificazione, è il


rapporto, l’equilibrio, tra il metro, il ritmo e la sintassi. Qui però è necessario fare una
distinzione prima di procedere. Quando si parla di linguaggio poetico, si fa riferimento
contemporaneamente alla poesia e alla prosa, ma le rispettive costruzioni verbali sono molto
differenti e una prima e molto evidente distinzione è proprio nel metro. La prosa, infatti, a
differenza della poesia è libera da uno schema metrico, ma ciò non significa che sia priva di
ritmo, tutt’altro. Proprio gli elementi che qualificano il ritmo – la punteggiatura, la quantità e
qualità delle sillabe – insieme alle iterazioni, allitterazioni o altro tipo di figure retoriche,
imprimono alla prosa un’andatura ritmica ben precisa. Si tratta del cursus che è determinato
dalla collocazione di un accento sulle due ultime parole della frase. A seconda della posizione
di questi accenti si può avere un cursus planus, se le due ultime parole sono piane (accentate
sulla penultima sillaba), che è il cursus preferito da Dante; oppure si può avere il cursus velox
se le parole sono una sdrucciola (accentata sulla terzultima sillaba) seguita da una piana, e
questo è il cursus preferito da Boccaccio nel Decameron.

Si capisce, contemporaneamente, però, che lo stretto rapporto tra ritmo e sintassi che
caratterizza un’espressione verbale in prosa, non propone le stesse difficoltà del medesimo
rapporto in poesia, dove la costrizione nel metro ne altera, per forza di cose, l’andamento. Si
pensi, per fare un esempio, alla figura retorica dell’enjambement per la quale si prolunga il
periodo logico-sintattico oltre la misura metrica del verso. Conosciuta anche con il nome di
“inarcatura”, la figura retorica rompe in sostanza il parallelismo tra metro e sintassi con un
risultato espressivo che coinvolge contemporaneamente tutti i livelli fin qui analizzati,
compreso anche quello semantico (vedi avanti).

Ancora una volta l’attenzione si ferma sul concatenarsi di questi livelli e si capisce quanto il
livello metrico-ritmico sia estremamente compromesso con il livello sintattico e retorico. Su
questo piano, infatti, si definisce l’organizzazione stessa della struttura del periodo che, per far
giungere il più chiaramente possibile il suo messaggio al destinatario, deve essere il più
possibile coeso e coerente. La sintassi del periodo è l’elemento della costruzione che,
garantendo questo risultato, cela anche la volontà stilistica del suo autore. Dall’unione dei
termini greci sỳn e tássein, che significano “disporre insieme”, la sintassi è infatti proprio la
disposizione delle parole nel periodo che può essere, al suo interno, distinta tra paratattica
(paratassi) che coordina più proposizioni di un enunciato e ipotattica (ipotassi) che subordina
un enunciato all’altro.

L’organizzazione sintattica di un verso interagisce di continuo con il suo aspetto metrico-


ritmico, ma contribuisce anche a definire lo stile di un autore o risaltare il significato del
messaggio che con quel verso, o periodo, l’autore vuole esprimere. Soprattutto però la
costruzione sintattica non può prescindere dall’uso che quello stesso autore fa della retorica
(vedi Appendice 1 Retorica). Sia che le figure retoriche usate siano, secondo la distinzione
classica, figure di pensiero (che coinvolgono l’idea stessa di un enunciato), figure di
significazione (che riguardano il cambiamento di senso delle parole usate), figure di dizione
(che modificano la forma delle parole), figure di elocuzione (che riguardano la selezione delle
parole), figure di costruzione (che stabiliscono l’ordine delle parole nella frase) o, infine, figure
di ritmo (che mirano all’effetto sonoro dei vocaboli), esse intervengono sulla stessa sintassi del
periodo e contribuiscono ad una aggiunta di significato, ma non solo a livello semantico, ma
anche fonologico, morfologico e metrico-ritmico.

Tutte le figure retoriche infatti, facendo uso degli stessi elementi della sintassi e della
morfologia, stravolgendo spesso il loro ordine, imprimono al discorso poetico un particolare
andamento sintattico (che diviene anche stilistico) e contribuiscono a definire il livello
morfologico.

Per livello morfologico della costruzione di un testo, infatti, si intende l’uso e la costruzione
che si fa degli elementi morfologici della lingua, vale a dire le parti del discorso nella loro
flessione, ovvero nelle diverse variazioni cui vanno soggette secondo le funzioni grammaticali
(aggettivi, avverbi, pronomi, tempi e modi verbali, ecc.). L’analisi dell’uso che un autore fa di
tutti questi elementi è indispensabile alla comprensione del testo poetico perché essi
definiscono sempre meglio tutte le sfumature semantiche del messaggio che vuole porgere al
destinatario (es. l’uso dei pronomi tu e io in una lirica amorosa sottolinea il contatto, il rapporto
tra il poeta e la persona amata; oppure l’alternanza dei tempi verbali, passato-presente,
sottolinea la condizione di cambiamento della voce narrante, ecc.).

Tutti i livelli sopra indicati, in un modo o nell’altro, dunque, contribuisco alla definizione e alla
qualità del livello semantico. Si è detto che il segno linguistico letterario è polisemico, o
polisemantico, vale a dire che il più delle volte a uno stesso segno corrisponde più di un
significato. Se poi i segni verbali si combinano tra loro contribuiscono ad attribuirsi
reciprocamente un’aggiunta di significato, una connotazione. Un approccio interpretativo che
tenga conto soprattutto del livello semantico, e quindi prima del significato delle singole
parole, poi del significato dei sintagmi, infine del periodo allo scopo di sondare tutte le
sfumature del messaggio poetico, deve innanzi tutto però tenere conto, da un punto di vista
storico, linguistico e filologico del significato della singola parola. Proprio per l’evoluzione
storica della lingua, ad esempio, molte parole hanno assunto un significato diverso da quello
originario (es. l’aggettivo gentile in Dante); oppure per una stratificazione della tradizione
letteraria molti termini veicolano significati fino ad assumersi il ruolo di citazione, o ancora
una stessa parola analizzata nel contesto poetico del suo autore, a un esame intertestuale, può
assumere il ruolo di parola chiave o autoreferenziale e per questo si carica di un altro elemento
connotativo. Tutto contribuisce a definire il messaggio di un testo poetico che non è mai da
ridursi al livello semantico, piuttosto è la risultante di tutti questi fattori messi insieme che
devono essere armonizzati tra loro per confondersi nell’unicità dell’opera d’arte.

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