Sei sulla pagina 1di 14

Introduzione.

Antonio Gramsci ha avuto un' intensa e fulminea vita, vissuta totalmente,


iniziata il 22 Gennaio 1891. Nonostante i gravi problemi di salute,tra cui la
tubercolosi ossea che ne deformò la struttura fisica, è stato un grande
combattente. Infatti ha passato gli ultimi 11 anni di vita in carcere, dove fu
confinato per volontà del regime fascista. Il suo cammino terreno terminerà il
27 Aprile 1937, dopo la scarcerazione e l'aggravarsi delle sue precarie
condizioni di salute. Non ben inquadrabile in una categoria , potremmo
parlare del Gramsci politico e parlamentare, ruolo per cui in Italia è ricordato,
ma sarebbe ingiusto non ricordare il Gramsci filosofo, critico letterario,
sociologo e soprattutto linguista. La parte più significativa della sua opera è
costituita dai“ Quaderni dal Carcere”, 33 quaderni contenenti appunti e
riflessioni , durante il suo confinamento carcerario, che si vanno ad un unire
alle “Lettere dal Carcere” e a vari articoli giovanili. Di difficile consultazione,
ordinati non cronologicamente da Tatiana Schucht, dopo la prima Edizione
del 1961 curata dal Partito Comunista, Valentino Gerratana ne compilerà una
magistrale edizione nel 1975, riuscendo a mostrare l’andamento “temporale”
della scrittura gramsciana, cioè, mettendo in evidenza i vari stadi di stesura
del testo nella prospettiva di interpretare le modalità in cui questo venne
concepito. La forma originale dei Quaderni crea numerosi problemi di lettura.
Gramsci, infatti, non scriveva progressivamente e per argomenti, ma lavorava
su più fronti tematici nello stesso insieme di pagine; inoltre lasciava spesso
degli spazi bianchi procedendo oltre, per poi ritornare in un secondo
momento a riempirli: vi sono numerose note cronologicamente più recenti che
precedono note cronologicamente anteriori e viceversa. In più si aggiunge il
fatto che il testo gramsciano è stratificato, o meglio, vi sono delle note che
vengono cancellate e successivamente fatte oggetto di ricopiatura o
rielaborazione, altre che sono rimaste nella loro originaria stesura e altre
ancora che rappresentano la seconda stesura della prima tipologia di note.
Gerratana nomina questi tre tipi di note rispettivamente A, B, C. Ma
sicuramente non è questo l'aspetto che vorrei prendere in considerazione in
questa sede, poiché si aprirebbero infinite discussioni. Il Gramsci che proverò
a capire è il Gramsci linguista, il Gramsci studente universitario torinese ,
allievo di Matteo Giulio Bartoli. Vorrei provare a mostrare il rapporto tra
Gramsci e Lingua, e come il politico sardo si inserisce nel dibattito sulla
lingua nazionale e sui dialetti.

Capitolo 1.
Gramsci: Lingua, Linguaggio e Grammatica.

Quando Antonio Gramsci decise di diventare un militante politico a tempo


pieno, il professor Matteo Giulio Bartoli rimase molto contrariato dalla scelta
dell'allievo. L'accademico credeva fortemente nelle sue capacità e lo vedeva
come suo futuro erede presso l'Università di Torino. Da quel momento in poi,
che potremmo datare intorno al 1918, stando ai suoi due articoli relativi ad un
dibattito sull'opportunità da parte della classe operaia di imparare la lingua
esperanto, alla quale era contrario, Gramsci non avrebbe ripreso gli studi
linguistici fino al fatidico 1926, anno del suo arresto.
Infatti nel programma di studio ,inviato poi in una lettera nel 1927 alla
cognata Tania Schucht, tra i vari argomenti da trattare “für ewig”, in maniera
disinteressata, sarà proprio uno studio di linguistica comparata. Inoltre l'ultimo
quaderno, il quaderno 29, sarà dedicato allo studio di teorie linguistiche.
Come ho già dichiarato, escludendo questo esempio, Gramsci , per problemi
di salute, per la censura e per la dura condizione carceraria, non dedicherà
nei quaderni una sezione totalmente riferita alla “quistione della lingua” e alle
sue teorie linguistiche, ma saltuariamente la riprenderà di volta in volta e in
quaderni e paragrafi diversi.
Detto ciò, partiamo proprio dalla “Quistione della lingua.” La lingua , secondo
la teorizzazione gramsciana, diviene un qualcosa di reale, non legato
strettamente ad un' astratta teorizzazione, ma che ha vita e una sua
esistenza legata al tempo e allo spazio. La lingua è appunto una “concezione
del mondo integrale, e non solo un vestito che faccia indifferentemente forma
ad ogni contenuto”. La lingua diviene un prodotto sociale, l'espressione
culturale di un popolo, di una classe sociale, di ogni individuo. Come la lingua
dà forma alla concezione del mondo di ognuno, così lo studio del mondo e
della realtà permette di raggiungere nuove conoscenze sulle sfumature di
significato delle diverse parole. Lingua e realtà hanno un rapporto reciproco.
Ogni lingua è il contenitore della cultura del popolo che la parla. Ma al tempo
stesso è specchio delle varie differenza di classe che possiamo trovare
all'interno di un popolo e all'interno della stessa classe, tra individui. Quindi la
lingua non ha una natura statica, né omogenea. É diversa da persona a
persona, e ,al tempo stesso, cambia per lo stesso individuo nel progredire del
tempo. Come descrive nel Quaderno 29, ci sono molteplici fattori che
possono rinnovare la lingua: la scuola, la conquista di un paese straniero , i
mezzi di informazione come il cinema, la radio e dalla discussione e
condivisione tra gli individui. Quindi la lingua cambia continuamente, sia a
livello “molecolare”, quindi relativamente ad un classe o ad un gruppo di
individui, sia a livello di “massa”, quindi relativamente a tutto il sistema
culturale di un paese. La lingua come concezione del mondo, come
testimone della vita culturale di ogni parlante, di una classe sociale , di un
popolo, di una nazione.Alla nozione di lingua, è doveroso affiancare la
nozione di linguaggio, perchè ne specifica il significato. Infatti il linguaggio
non è riferibile ad una nozione più generale in Gramsci, come per esempio il
linguaggio degli uomini rispetto a quello degli animali, ma ha una valenza
specifica, riferendosi a un sottoinsieme della “lingua”. La lingua, alla luce del
linguaggio, diviene la lingua di una nazione, di un popolo, di un' intera cultura.
All'interno di essa dobbiamo distinguere i vari linguaggi, da quelli dei singoli
individui, a quelli dei vari gruppi politici fino ad arrivare alle classi sociali. Oltre
al riferimento al linguaggio umano, nei “Quaderni” troviamo anche il
linguaggio come il linguaggio di un' epoca, come il “linguaggio del Medioevo”
nei “Quaderni 5, 85 e 615, oppure come linguaggio delle arti figurative e della
musica. Come la lingua, il linguaggio è un prodotto sociale, non omogeneo,
non statico, anche esso sottoposto alle innovazione. Attraverso l'analisi del
linguaggio possiamo giudicare e capire la concezione del mondo di un
individuo e la relativa complessità.
La non staticità e la non omogeneità delle lingua e dei linguaggi, va a legarsi
ad un' opposta definizione , che può essere trovata nel Q.11, in cui il
linguaggio e la lingua vengono definiti come “museo di fossili della vita e delle
civiltà passate”.
In questa accezione, si riconferma ancora il ruolo della lingua di contenitore
della cultura di un popolo, nella sua dimensione storica.
Definite queste nozioni, non è possibile fermarsi a questo, ma inserire un'altra
nozione, quella di grammatica. Ci sono per gramsci molteplici grammatiche,
che generano e definiscono la lingua. La grammatica può essere immanente
e normativa. La grammatica immanente è legata al linguaggio di ogni
parlante. Ogni parlante ha la sua grammatica immanente. “Quante forme di
grammatica possono esistere? Parecchie, certamente. C'è quella immanente
nel linguaggio stesso, per cui uno parla secondo grammatica senza saperlo,
come il peronaggio di Moliére faceva della prosa senza saperlo” (Q.29). A
livello teorico dobbiamo ipotizzare l'esistenza di tante grammatiche
immanenti quanti sono i parlanti. Come afferma Lo Piparo, “ la tesi della
moltiplicazione indefinita delle grammatiche immanenti , che per la filosofia
idealistica del linguaggio è un assioma teorico centrale , in Gramsci è solo
una finzione teorica che serve a far risaltare meglio la complessità dei
processi di unificazione linguistica” ( Lingua, intellettuali, egemonia in
Gramsci , Lo Piparo, 1978 , Laterza).
In ogni comunità di parlanti quindi abbiamo una varietà di grammatiche
immanenti. Naturalmente ci sono parlanti in alcuni gruppi di parlanti , o gruppi
di parlanti stessi, che hanno un linguaggio più prestigioso, a cui coloro che
hanno un linguaggio meno prestigioso, si conformano. Così la grammatica
immanente dei gruppi più prestigiosi diviene la “grammatica normativa non
scritta o spontanea”. Questa grammatica , secondo Gramsci, “è costituita dal
controllo reciproco, dall'insegnamento reciproco, dalla censura reciproca,
(…).Tutto questo complesso di azioni e reazioni confluiscono a determinare
un conformismo grammaticale, cioè a stabilire norme o giudizi di correttezza
o di scorrettezza. Ma questo manifestarsi spontaneo di un conformismo
grammaticale è necessariamente sconnesso, discontinuo, limitato a starti
sociali locali o a centri locali” ( Q.29)
Questa differenziazione porta Gramsci a spiegare il meccanismo per cui si
passa dai linguaggi individuali, ai linguaggi di una classe, alla lingua di un
popolo. Passando quindi da una grammatica immanente, individuale, ad una
normativa non scritta, quella legata al linguaggio più prestigioso, fino alla
formulazione di una grammatica normativa scritta, che viene imposta
attraverso l'educazione scolastica e non spontanea.
Queste definizioni riescono inizialmente a delineare un primo abbozzo della
teoria linguistica gramsciana, andando soprattutto a mostrare quanto
Gramsci, nonostante sia stato un grande studioso di glottologia e linguistica ,
rimanga al tempo stesso un militante, un politico. Di conseguenza la lingua, il
linguaggio e la grammatica non sono fatti appartenenti a realtà metastoriche,
esistenti prima della storia e che vengono realizzate dal verificarsi degli eventi
storici. Sono, invece dei fatti storici reali, realizzati ed elaborati dagli uomini
stessi. Per cui, facendo riferimento alla questione relativa a quale fosse la
lingua degli italiani, Gramsci mostra quanto sia difficile giungere a questa
decisione. Infatti non ci si può appellare al fatto che l'Italia sia sempre esistita
dall'antica Roma ad oggi, perchè non è il passato che può determinare il
futuro. L'Italia e la lingua Italiana non esistono prima degli Italiani. É il popolo
a determinare, in un certo senso, l'esistenza di una nazione e di una lingua
nazionale. Gramsci si rende conto che la “quistione della lingua”, come lo
stesso Ascoli affermava, è un problema che non può essere deciso a tavolino
. L'unità linguistica non è un dato naturale, che viene rilevato, ma è il risultato
di un processo che vede un punto , socialmente o geograficamente centrale,
essere preso come modello.

Capitolo 2.
Dialetto e lingua nazionale.

L'unità linguistica è un tema fondamentale del Gramsci linguista. Tale


posizione è naturalmente legata alla posizione del Gramsci politico, che dona
tutta un'altra coloritura alle sue teorie. Come ho già detto, l'unità linguistica è
un risultato, non un punto di partenza. L'Italia, secondo Gramsci, non poteva
assolutamente, al tempo, vantare un' unità linguistica, per ragioni legate alla
caratteristica situazione linguistica. Il punto di questa riflessione parte
dall'identificazione di cosa sia il dialetto. Questa nozione non è precisamente
definita, soprattutto perchè gli esempi sono vari e discordanti. Il sardo, che
conosceva molto bene, veniva definito, in alcuni casi, una lingua, anche se
privo di grande letteratura, come nella lettera alla sorella Teresina, quando la
sollecitava a parlare in sardo al figlio, perchè “è bene che i bambini imparino
altre lingue”( LC- 26Marzo 1927). In altri scritti, sia carcerari che pre carcerari,
il sardo veniva definito un dialetto dell'italiano. Nonostante questa
discordanza, però ci sono delle regolarità in tutti i suoi scritti. Innanzitutto il
criterio distintivo: tra la lingua e il dialetto , non c'è differenza, in quanto il
dialetto è una lingua ( o un linguaggio se ci riferiamo ad un dialetto di un
gruppo in particolare, anche se Gramsci si riferisce ad un dialetto inteso
regionalmente), poichè anche esso è un recipiente di una concezione del
mondo di una determinata zona geografica piuttosto vasta. La differenza,
quindi, rispetto alla lingua nazionale è il fatto che il dialetto sia popolare, in
contrasto con una lingua dotta. Come afferma nella lettera a Tatiana del
Novembre del 1930: “ é dialettale , o popolare la lingua che si distingue da
quella dotta degli intellettuali e delle classi colte”.
All'opposizione lingua nazionale-dialetto dobbiamo aggiungere la coppia città-
campagna. Il dialetto vive in campagna, ma muore in città, perché a mancare
è la fondamentale caratteristica popolare e folclorica. Il dialetto, secondo
Gramsci è strettamente legato ad una dimensione folclorica, che si lega al
concetto di senso comune e concezione del mondo. Ogni realtà storica è
caratterizzata da una una classe politica e sociale egemone , che si lega ad
un determinato impianto culturale e filosofico. Questa classe egemone , che
naturalmente vede come suo luogo d'azione e di esistenza la città, lascia una
fortissima impronta su tutta la nazione , su tutto il popolo. Questa impronta è
la sua concezione del mondo. Quindi , in un certo senso , tutta la nazione
condivide la concezione del mondo della classe egemone. Nel momento in
cui una nuova classe politica prende il posto di quella vecchia, naturalmente
c'è anche la sostituzione della vecchia concezione del mondo con la nuova. Il
cambiamento a questo punto si irradia, dalla città alla campagna, dal centro
alla periferia. Così tutto ciò che riguarda la cultura di un popolo si modifica,
dagli usi e i modi di pensare , alla lingua. Prima che la periferia , la
campagna,venga raggiunta dal cambiamento , c'è bisogno di tempo. Durante
questo tempo, in cui le zone centrali sono in continuo cambiamento e i
cambiamenti si muovono verso l'esterno modificandosi , la periferia ha una
concezione sorpassata, quasi anacronistica . Come dice Gramsci “ Cio che è
diventato ferravecchio in città, è ancora utensile in provincia” ( Q.24).
Anche dal punto di vista linguistico quindi, possiamo trovare questa
situazione. Per cui, il centro è strettamente legato alla lingua nazionale, alla
cultura ufficiale. La periferia invece, legata al centro da un rapporto di
dipendenza e di ammirazione, è legata al dialetto e alla cultura del folclore o
del senso comune, cioè una concezione del mondo strettamente legata al
popolo , al popolo della campagna, ad una fase culturale arcaica. Il senso
comune è una via di mezzo tra il folclore vero e proprio, e la filosofia, la
scienza, e l'economia. Come dice Gramsci nel Quaderno 27, il folclore è “ un
agglomerato indigesto di frammenti di tutte le conoscenze del mondo e della
vita ,che si sono succedute nella storia”.
Definito questo , il dialetto diviene fortemente contrapposto alla lingua
ufficiale, perchè legato non alla cultura ufficiale, ,ma alla cultura del “senso
comune”, al folclore, al popolo delle campagna, della periferia.
Quindi alla coppia d'opposizione lingua nazionale- dialetto, centro- periferia,
città, campagna, aggiungiamo cultura ufficiale- folclore.
Inoltre, aggiungerei un ulteriore coppia oppositiva , quella che contrappone la
famiglia alla scuola. Infatti, nel Q.1, Gramsci afferma che il dialetto,
soprattutto in l'Italia, è legato anche alla classe colta e alla città, in quanto
esistente in una dimensione familiare. Infatti, per Gramsci, l'italiano che un
bambino poteva imparare in una famiglia del tempo che viveva in città, era un
italiano monco, povero, perchè fortemente legato al dialetto che i genitori
parlavano in casa.
Quindi il Gramsci linguista conferma la sua essenza di sociolinguista ante
litteram. Le sue teorizzazione hanno un fortissimo legame con la realtà. La
lingua e il dialetto sono un fatto sociale, legato ad altri fattori, come quello
culturale, politico, economico, secondo una visione totale della macchina
statale. Gramsci non lascia nulla al caso, ma ogni sua teorizzazione deve
essere letta attraverso il filtro del concetto di egemonia, che ho citato
precedentemente, e attraverso la figura dell'intellettuale, che, come vedremo
in seguito, danno un ordine e un significato ben preciso alla miriade di
appunti e di affermazioni sparse trai 29 quaderni del carcere.

Capitolo.3
La questione dell' “Egemonia linguistica” in Italia e la formazione
scolastica.

Le nozioni affrontate , figlie della lezione di Ascoli e di Bartoli, rendono solo


parzialmente testimonianza del lavoro di Gramsci. Infatti tutto ciò va
contestualizzato.
Come ho più volte ripetuto, Antonio Gramsci è stato un grande militante
politico ed un giornalista. Il legame con la realtà ed il sociale è forte. Così la
“quistione della lingua” deve essere affrontata secondo una dimensione,
storica, linguista e sociopolitica.
L'assenza di una lingua nazionale era un problema reale dell'Italia dei primi
anni del '900. Questo problema aveva le sue radici nel passato, e giungeva
nel presente. Nel epoca pre-risorgimentale vediamo la formazione di tre
unità linguistiche principali : 1) il volgare locale. 2) il latino 3) il volgare illustre.
Il volgare locale indicherebbe la categoria dei dialetti locali, legato alle realtà
municipali ; il latino sta ad indicare quel residuo di tempi antichi legato al
mondo cosmopolita europeo cattolico, la classe ecclesiastica; infine il volgare
illustre, con ripresa della terminologia dantesca, ma con accezione differente,
sta ad indicare una lingua nazionale determinata dalla centralizzazione dei
gruppi intellettuali di tutta la penisola.
Secondo l'analisi gramsciana, dopo la distruzione dell'Impero Romano
d'occidente, passando per il medioevo,durante il '300, l'Italia ha avuto una
sorta di lingua nazionale, appunto il volgare illustre: il fiorentino letterario di
Dante, Petrarca e Boccaccio. In quel periodo la classe borghese municipale
fiorentina, con il suo volgare conquista l'egemonia culturale che portò per un
periodo il fiorentino ad essere “la lingua nazionale”. Con la caduta
dell'egemonia fiorentina, e quindi della classe borghese, assistiamo con
l'umanesimo al ritorno del latino come mezzo di comunicazione nella
frammentarietà italica. Infatti il volgare illustre rimane relegato come fatto
puramente letterario, e la lingua degli intellettuali tornerà ad essere il latino,
che poi si tramuterà in francese tra il '700 e l'800. Il volgare locale, i dialetti,
rimangono relegati nelle varie realtà locali, senza nessuna guida. Quindi
l'Italia vive secoli e secoli di frammentazione linguistica, priva di una guida.
Nel 1861, con l'Unità, si profila la necessità di definire una lingua nazionale.
Memore del dibattito tra Manzoni e Ascoli, Gramsci analizza questa sfida
intellettuale come la contrapposizione tra chi sostiene una lingua storico
naturale e chi ne sostiene una artificiale. Gramsci definisce Manzoni come
esponente di un ideologia dittatoriale e di coercizione, non cosciente dei
meccanismi di formazione linguistica e delle reale condizione italiana. La
lingua non si impone. Manzoni vuole, in un certo senso, ristabilire l'egemonia
linguistica fiorentina del '300 attraverso la dittatura, l'imposizione di una lingua
nazionale.
Differente le posizione di Ascoli, sostenitore di una visione che rende conto
del legame tra i processi politico-economici e quelli culturali-linguistici. La
lingua ha una dimensione storico naturale e non può essere decisa dall'alto,
ma dal basso, dal popolo.
Dal 1861 ai primi del '900 non cambia molto la situazione italiana, che vede a
quel punto la presenza di tre unità linguistiche principali: 1) i dialetti, che
hanno sostituito i vecchi volgari locali. 2) la lingua nazionale cristallizzata, non
popolare, che sarebbe quell'italiano letterario legato al fiorentino del '300. 3)
Lingua nazionale -popolare, che ha preso il posto, nella teorizzazione
gramsciana del volgare illustre.
Questa tripartizione , però, vede naturalmente l'assenza o la debole presenza
di una lingua nazionale popolare. Questa assenza è appunto una
conseguenza del grande problema che, secondo Gramsci , ha afflitto l'Italia
da secoli: l'assenza di una classe sociale egemone che dirigesse tutte le altre
classi.
Ho preso in ballo più volte il termine egemonia, ma non ne ho mai dato una
precisa spiegazione. Questo concetto è centrale in tutta l'opera di Gramsci, è
viene applicato alla linguistica, all'economia, alla politica, alla psicologia e a
molti altri contesti. Uno Stato è “ il complesso di attività politiche e teoriche
con cui la classe dirigente giustifica e mantiene il suo dominio non solo ma
riesce a ottenere il consenso attivo dei governati” (Q.15), un “egemonia
corazzata di coercizione”. (Q.6).
Lo Stato si divide in:
1)Società Civile: l'insieme degli apparati privati in cui si esercita “l'egemonia”
e che producono consenso spontaneo.
2) Società politica: l'insieme degli apparati coercitivi con i quali si esercita
dittatura o dominio su quei gruppi che non consentono.
Un classe politica al potere è egemone , cioè dirigente dei propri alleati ,e
dominante dei propri avversari. “(...) Quel momento che in politica si chiama
dell'egemonia del consenso, della direzione culturale, per distinguerlo dal
momento della forza, della costrizione, dell'intervento legislativo e statale o
poliziesco” (LC).
Secondo l'analisi Gramsciana della storia d'Italia dall'Unità in poi , non è
esistita mai una classe politica egemone, che guidasse il popolo, la società
civile.
Infatti all'origine dello stato italiano, il partito liberale di Cavour concepì “l'unità
nazionale come allargamento dello Stato piemontese e del patrimonio della
dinastia, non come movimento nazionale dal basso, ma come conquista
regia». Il partito d'azione di Mazzini non reagì con una rivoluzione “
giacobina”, cioè coinvolgendo le masse popolari, ma solo come una
rivoluzione borghese, senza forza. Da ciò la classe dirigente italiana divenne
il partito liberale di Cavour, legato al settentrione ,che come unico alleato
meridionale ebbe una classe politica non dirigente, non egemone, ma
dominante, cioè quella dei latifondisti. Questo comportò una frattura tra Sud e
Nord, e tra il popolo e la propria classe dirigente. Infatti sia al nord che al sud
il partito liberale era lontano dalle esigenze del popolo, e non dirigeva la
classe popolare, ma la dominava. A ciò si aggiunge il fatto che il popolo del
meridione in particolare, molto più del settentrione, era ancora meno
coinvolto nelle gestione della Società civile e questo ha determinato un
distacco totale dallo Stato.
Questa frattura rispecchia la frattura esistente a livello linguistico, quella tra
dialetto e lingua nazionale, praticamente inesistente. In Italia ci sono
molteplici realtà linguistiche dialettali legate alla massa popolare, una lingua
letteraria parlata dalla classe dirigente, ma nessuna lingua nazionale
popolare.
Una classe politica egemone, attraverso la figura dell'intellettuale organico,
mezzo di raccordo con la massa popolare, avrebbe determinato un'unità
nazionale e linguistica.
La lingua è una questione sociale e culturale e come tale deve interessare
tutta la popolazione, tutte le classe, partendo da quelle inferiori , fino a quelle
superiori.
Infine , vorrei menzionare anche la questione legata all'insegnamento
linguistico.
Gramsci, nel Quaderno 29 alla nota “Focolai di irradiazione linguistiche nella
tradizione e di un conformismo nazionale linguistico nelle grandi masse”
compila un elenco di tutti gli strumenti utili alla diffusione di una lingua
unitaria: “1) La scuola; 2) i giornali; 3) gli scrittori d’arte e quelli popolari; 4) il
teatro e il cinematografo sonoro; 5) la radio; 6) le riunioni pubbliche di ogni
genere, comprese quelle religiose; 7) i rapporti di conversazione tra i vari
strati della popolazione più colti e meno colti [...]; 8) i dialetti locali, intesi in
sensi diversi (dai dialetti più localizzati a quelli che abbracciano complessi
regionali più o meno vasti: così il napoletano per l'Italia meridionale, il
palermitano o il catanese per la Sicilia ecc.)”.
La scuola assume il primo posto, e probabilmente si può partire proprio dalla
riforma scolastica per cercare di risanare la grande frattura tra popolo e
classe dirigente. Ma nel 1923 Gentile si rese autore della famosa riforma
scolastica, che fu giudicata da Gramsci come classista, poiché Gentile ,per
l'apprendimento della lingua nazionale nelle classi elementari , decise che ci
si dovesse basare sull'espressione viva o parlata e non sulla grammatica,
considerata una disciplina astratta e meccanica. Nell'ottica gramsciana
questo metodo dà la possibilità agli scolari appartenenti alle classi sociali più
alte di essere avvantaggiati dal fatto che apprendono l'italiano anche in
famiglia, mentre gli scolari del basso popolo possono contare su una
comunicazione familiare realizzata esclusivamente in dialetto. In questo
senso lo studio della grammatica si presenta come uno strumento in grado di
livellare le differenze sociali degli scolari permettendo a tutti la conoscenza
della lingua nazionale. Questa posizione può esser rincarata dal fatto che,
come abbiamo visto nel Cap.2, la nozione di grammatica normativa
gramsciana, prende forma sempre da una grammatica normativa spontanea
che prende forma da una grammatica immanente spontanea. Quindi Gramsci
non si rifugia in un arida normativa lontana dalla realtà, perchè la sua teoria
grammaticale vede la norma prendere forma da qualcosa di spontaneo e
legato alla realtà quotidiana.

Conclusioni.
Affrontare lo studio di Gramsci, soprattutto per la natura dei suoi scritti non è
molto semplice. La sua poliedricità è tanto varia quanto complessa. La sua
teoria linguistica non si rifugia nei meandri dell'accademia, ma scende per le
strade italiane contadine del primo novecento, dove avviene l'incontro con la
pratica. La lingua nazionale è una necessità , tanto quanto il mantenimento
dei dialetti. I dialetti , a contatto con la lingua nazionale, saranno il primo
passo verso la formazione di un identità nazionale, l'emancipazione del
popolo italiano.
Bibliografia.

– A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Torino,


Einaudi, 1975.
– F. Lo Piparo , Lingua , Intellettuali Egemonia in Gramsci, Bari, Laterza,
1979.
– A. Gramsci, Pensare la democrazia- Antologia dei “Quaderni del
carcere”, a cura di Marcello Montanari, Torino, Einaudi, 1997.
– Gramsci, le sue idee nel nostro tempo, a cura di C.Ricchini, Editrice
l'Unità, 1987.
– T.De Mauro, S.Gensini, Lingua e dialetti nella cultura italiana da Dante
a Gramsci,Firenze, G.D'Anna editrice,1980.
– Dizionario Gramsciano, a cura di G.Liguori e P.Voza, Roma, Carrocci
editore, 2009.

Potrebbero piacerti anche