ETRUSCO E TOSCANO
Italiano:
originato dalle lingue barbare
originato dal latini popolare
In Toscana, Giambullari sostenne che la lingua toscana era l’erede diretta dell’etrusco, infatti anche il centro
geografico della civiltà etrusca veniva identificato in Toscana.
Ma questa teoria della lingua intermedia condizionò per molto tempo gli studi romanzi.
Muratori credeva che le lingue germaniche avessero avuto un peso determinante nella trasformazione del
latino, che la lingua intermedia non esisteva e che nei documenti antichi fosse possibile rintracciare la lingua
volgare.
Per Croce la storia della lingua era identica alla storia della letteratura.
Migliorini intanto lavorava al progetto della scrittura della storia della lingua nazionale: egli volle che l’opera
uscisse nel 1960, in coincidenza col millenario della lingua italiana, in quanto nel 960 fu reso pubblico il
PLACITO CAPUANO.
Nella prefazione dell’opera vi era la distinzione tra storia della lingua e storia letteraria, incentrata sugli
scrittori.
Per Migliorini l’interesse per la storia della lingua cominciava quando si commisurava il linguaggio
individuale di uno scrittore con l’uso dei contemporanei.
Dal 1989 si è avviata la “Storia della lingua italiana”, strutturata per secoli e fino ad ora sono stati pubblicati
capitoli sul:
Medioevo
400
Prima metà del ‘500
Secondo ‘500 e ‘600
‘700
2 dedicati all’800
Uno interamente dedicato al Manzoni
‘900
Lacuna dell’unico titolo ancora in preparazione, relativo al ‘300 toscano
LA DIALETTOLOGIA ITALIANA
I rapporti tra la storia della lingua e la storia dei dialetti sono strettissimi. Il toscano affermò la sua
supremazia, ma i volgari di altre regioni furono usati anche a livello colto, letterario o extraletterario.
In “Fondamenti di dialettologia italiana” vi è:
la definizione del concetto di dialetto
un profilo di storia degli studi dialettologici in Italia
la classificazione dei dialetti italiani, con la descrizione del loro uso nella società attuale
presentazione dei metodi e strumenti
Per lo studio dei dialetti sono fondamentali, inoltre, gli atlanti linguistici: rappresentazioni cartografiche della
distribuzione spaziale di parole, forme, costrutti, espressioni, fenomeni fonetici.
LA GRAMMATICA STORICA
DEFINIZIONE E NASCITA DELLA GRAMMATICA STORICA
La grammatica storica non dà le regole della lingua in atto, ma mettendo a confronto fasi diacroniche
diverse, chiarisce lo sviluppo della fonetica, morfologia e sintassi della lingua, a partire dalla sua formazione
dal latino e ne segue gli sviluppi.
La formazione della lingua è il primario oggetto di studio per la grammatica storica, che si è sviluppata nel
clima del Positivismo dalla seconda metà dell’800: nel cambiamento delle lingue si riconosce un ordine, una
serie di vere norme.
Libro di Castellani: uscito solo un volume, che tratta della formazione dell’italiano, del latino
classico e volgare, dell’influsso galloromanzo e germanico, delle varietà toscane nel Medioevo e soprattutto
della formazione della lingua poetica italiana delle origini.
DIZIONARI ETIMOLOGICI
Il dizionario etimologico tiene conto dell’origine delle parole di una lingua. Suggerendo la loro etimologia.
“Dizionario etimologico della lingua italiana” del 1950-57, più noto come DELI: prima vengono citati gli
autori e le opere in cui ricorre la parola con le relative date, partendo da quella più antica, poi viene inserita
l’etimologia della parola.
Inoltre fornisce una breve storia della parola nella sua evoluzione, oltre a fare osservazione di grammatica
storica, verificando le trasformazione fonetiche subìte dal termine originario.
VOLGARI E DIALETTI
C’è stata una fase iniziale in cui le varie lingue locali hanno potuto aspirare alla promozione di un alto livello
di cultura.
La prima scuola poetica italiana, infatti, è nata in Sicilia e ha usato il volgare siciliano, pur nobilita dolo per
un uso illustre. Si può parlare di dialetto, solo da quando si è affermata la lingua.
i prestiti di necessità si hanno quando la parola arriva assieme a un referente nuovo, privo di nome
nella lingua che lo riceve: parola nuova insieme alla cosa nuova ( patata, parola giunta dall’America Latina)
i prestiti di lusso possono essere giudicati superflui, perché la lingua possiede già un’alternativa alla
parola forestiera, ma i loro uso prevale perché evoca una civiltà o una cultura prestigiosa, per un fine
stilistico ecc. ( baby sitter)
La prima teorizzazione linguistica relativa alla lingua italiana è stata proposta da Dante nel De Vulgari
Eloquentia e ha avuto la possibilità di portare il volgare al livello sublime della poesia.
IL POPOLO
IL POPOLO PADRONE DELLE LINGUE
Il linguaggio è patrimonio di tutta la comunità dei parlanti: la lingua non può essere considerata esclusiva di
singoli individui o delle classi più colte, anche se solo queste ultime sono in grado di partecipare al dibattito
letterario.
L’ITALIANO POPOLARE
I primi documenti presi in esame furono quelli più recenti: ROSSI raccolse una serie di lettere, scritte da una
contadina del Salento, presentate in seguito in un saggio linguistico di DE MAURO.
La categoria di italiani popolare si è fissata all’inizio degli anni ’70 per indicare la parlata degli incolti di
aspirazione unitaria o di chi ha per madrelingua il dialetto.
La scoperta di una serie di documenti, come racconti autobiografici e diari, dimostra come anche tra gli
appartenenti ai ceti sociali più bassi, ci fosse la capacità di leggere e scrivere. Veniva adoperato un italiano
scorretto, saturo di dialettismo, ma comunque diverso dal mero dialetto.
Il dialetto può essere studiato come oggetto specifico e può essere messo in relazione con la lingua: i dialetti
si sono via via avvicinati all’italiano e questo ha acquisito elementi dei dialetti.
Anche le masse popolari hanno partecipato indirettamente all’evoluzione della lingua.
NOTAI E MERCANTI
IL NOTAIO
Il notaio è fra i protagonisti della fase iniziale della nostra storia linguistica: molti dei primi documenti in
volgare sono stati scritti da notai e proprio a costoro si deve la scelta di introdurre il volgare al posto del
latino: così accadde nel Placito Capuano, atto di nascita della nostra lingua.
I notati sono stati tra i primi cultori dell’antica poesia italiana, come dimostrano i Memoriali bolognesi,
registri di atti, dove troviamo versi di Cino da Pistoia, di Cavalcanti e di Dante.
Il notaio vive in una situazione di bilinguismo: per educazione è stato abituato ad usare il latino negli atti del
suo ufficio, anche se il volgare è adoperato da testimoni e dalle parti che si presentano di fronte a lui.
IL MERCANTE
Il mercante medievale era meno istruito del notaio, ance se poteva conoscere le lingue straniere: imparava a
leggere, scrivere e fare di conto, ma poi si dedicava alla sua attività pratica.
Il mercante leggeva per proprio divertimento, ma il rapporto con la scrittura era più importante, in quanto
aveva a che fare con la sua professione. La scrittura era al servizio di esigenze pratiche.
Un libro di conti del 1211 è la prima testimonianza di volgare fiorentino.
Di particolare interesse risulta l’area veneta: la più antica documentazione di Venezia è di origine
commerciale.
SCIENZIATI E TECNICI
L’EGEMONIA DEL LATINO
Lo strumento della lingua scientifica fu per lungo tempo solo il latino: questa situazione durò fino al
Rinascimento. Il latino adoperava in settori come la teologia, la matematica, la filosofia, l’astronomia ecc.
La base delle conoscenze della natura era costituita da autori classici e da autori come Aristotele.
Anche nel campo della medicina si usava il latino, lingua in cui erano tradotti in Europa, molti autori arabi.
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LESSICOGRAFI E ACCADEMICI
NASCITA DEL VOCABOLARIO ITALIANO
Il vocabolario dell’uso è considerato un testimone della lingua viva e necessita di continui aggiornamenti per
stare al passo con i tempi: le edizioni dei vocabolari di succedono abbastanza di frequente, tenendo conto dei
prestiti e dei neologismi che entrano in grande quantità nel patrimonio lessicale della nazione.
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LA POLITICA SCOLASTICA
Uno degli strumenti di politica linguistica è la scuola.
Fino al ‘700 però la scuola fu in lingua latina, il volgare era estraneo; solo in Toscana furono istituite già nel
‘500 cattedre di lingua toscana nelle università.
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Solo con le riforme del ‘700 il toscano entrò nella scuola superiore e nelle università, ci fu una promozione
dell’italiano che all’inizio occupò una posizione modesta, ancora marginale rispetto all’insegnamento della
lingua latina.
Aumentò l’importanza di scuole sotterranee, cioè non organizzate dallo Stato, né strutturate in maniera
omogenea, tenute da religiosi, presso le parrocchie.
Si faceva scuola anche in botteghe artigiane, per formare i figli dei mercanti. Così anche i ceti meno elevati
della città poterono imparare a leggere e scrivere in volgare.
Gli Stati fino al ‘700 si disinteressarono dell’educazione popolare, occupandosi solo dell’istruzione
universitaria e superiore.
Nella seconda metà dell’800 si realizzarono esperimenti di scolarizzazione di massa: le legislazioni più
avanzate si ebbero in Piemonte, Lombardo-Veneto, mentre quelle più arretrate nello Stato Pontificio e nel
Meridione.
Nel 1848 il Piemonte riordinò tutta la materia relativa all’istruzione pubblica mediante la legge
Boncompagni
Nel 1859 la legge Casati istituì la scuola elementare gratuita per quattro anni.
Molti maestri insegnavano spesso usando il dialetto, perché non erano in grado di parlare italiano.
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Nel ‘500 questa professione acquistò una fisionomia ben precisa, per la realizzazione di un testo corretto e
omogeneo. Si arrivò così alla regolarizzazione della grafia e dell’uso della punteggiatura.
SCRITTO E PARLATO
L’opposizione tra lingua scritta e parlata tende a essere riassorbita nella visione della lingua come un
continuum tra due poli.
Nell’oralità ci sono stati nuovi elementi che sono entrati nella comunicazione, assenti nella scrittura: i gesti,
le espressioni, il tono della voce.
La scrittura ha una maggiore durata del parlato: permette la correzione, il ripensamento, stesure diverse fino
al raggiungimento di un risultato soddisfacente e ordinato.
Il testo scritto permette un controllo maggiore delle connessioni testuali, del lessico, della sintassi.
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Per i linguisti, gli errori, sono fenomeni da interpretare e comprendere, indicandone la genesi e le
motivazioni. Essi parlano di varietà diastatiche per indicare differenze che si riscontrano nell’uso dei diversi
strati sociali.
Nello studio delle varie fasi diacroniche dell’italiano non esistono solo i ceti sociali acculturati e partecipi al
dibattito letterario, ma anche quelli più bassi che non sempre risultano estranei all’italiano.
VARIETA’ DIATOPICHE
DEFINZIONE DELLA VARIETA’ DIATOPICA
Le varietà diatopiche della lingua sono definibili anche come varietà geografiche.
DE MAURO ha mostrato che l’italiano parlato oggi nel nostro paese non è uniforme, ma varia da regione e
regione. Le differenze riguardano il livello fonetico e fonologico, ma anche quello morfologico e lessicale.
Ad esempio i parlanti settentrionali non distinguono tra le e/o rispettivamente aperte e chiuse.
L’italiano di Roma non è identico a quello toscano.
Le varietà diatopiche possono dividere una stessa regione.
Questa varietà si riconosce nel parlato e nelle scritture; quanto più è basso il livello di cultura dello scrivente,
tanto più non è in grado di aderire al modello del toscano letterario e più affiorano i tratti locali.
Il processo di eliminazione dei tratti locali fu confermato dal ‘300 dall’imitazione del linguaggio delle Tre
Corone.
I libri di maneggio nel ‘700 servivano a verificare la consistenza dei dialettismi con cui si indicano gli
oggetti domestici.
IL MISTILINGUISMO
Il parlante o scrivente italiano è stato attirato dal toscano, lingua conosciuta attraverso i modelli della
letteratura o ammirata nel parlato popolare di Firenze. È stato condizionato dal suo dialetto d’origine, spesso
diverso dal toscano.
Il parlante non toscano si trova a parlare un dialetto d’uso quotidiano, necessario e diffuso, collocato ad un
livello di prestigio inferiore rispetto alla lingua letteraria, considerata la sola nobile.
Il mistilinguismo era la mescolanza di elementi linguistici diversi, nello scritto e nel parlato e poteva
manifestarsi sia involontariamente, per errore, sia volontariamente per scelta stilistica.
VARIETA’ DIAFASICHE
Diafasico è il termine tecnico per indicare differenze linguistiche relative allo stile della comunicazione, che
può svolgersi a livelli diversi.
Si può parlare di:
livello molto elevato o aulico
colto
formale o ufficiale
medio
colloquiale
informale
popolare
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familiare
basso, plebeo
A ognuno di questi stili corrisponde una forma linguistica differente e scelte sintattiche e lessicali diverse.
La definizione dei registri e degli stili della comunicazione orale interessa i sociolinguisti.
Lo storico della lingua in diverse occasione terrà conto del livello o registro in cui si colloca il documento
che ha occasione di prendere in esame.
Molte tendenze innovative dell’italiano di oggi si manifestano ad un livello diafasico molto basso:
gli è usato al posto di a lei
uso del ci davanti al verbo avere
che polivalente
uso dell’imperfetto nell’ipotetica dell’irrealtà
uso dell’indicativo al posto del congiuntivo nelle dipendenti
1. Al livello della lingua scritta si situa il latino classico, con la sua continuità culturale, a cui si
avvicina il latino parlato dai ceti colti aristocratici dell’età repubblicana
2. latino popolare, identificato col latino volgare
3. il latino parlato dai ceti colti in età imperiale si avvicinò al livello popolare, dando origine al latino
volgare, da cui sono nate le lingua romanze.
In epoca tardo-imperiale, il latino parlato influenza solo marginalmente una lingua ormai cristallizzata e
regolata dalle norme dei grammatici. La frattura tra scritto e parlato diventa insanabile.
Dimensione geolinguistica dello sviluppo del latino, inquadrato in una prospettiva storica:
progressiva espansione geografica del latino nel corso dell’età repubblicana e imperiale, che
comportò la nascita di un “latino delle province”
nel latino delle varie regioni, si avviò un processo di differenziazione, su cui incisero le invasioni
barbariche e il processo si concluse con la nascita delle lingue romanze.
I due schemi illustrano lo stesso sviluppo, dal latino volgare alle lingue neolatine, considerandolo da due
punti di vista differenti.
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Uno dei mezzi per ricostruire gli elementi del latino volgare è la comparazione tra le lingue neolatine:
quando si importa una parola al suo etimo latino-volgare, si può individuare l’esistenza di una forma
lessicale non attestata nel latino scritto, indicata con un asterisco.
Il latino volgare conteneva molte parole presenti anche nel latino scritto, come FUMUM. Altre parole furono
innovazioni del latino parlato, non sono attestate nello scritto, come PUTIUM.
In altri casi si ebbe un cambiamento nel significato della parola latina letteraria, che assunse un senso diverso
nel latino volgare: TESTAM, in origine era un vaso di terracotta, ma poi sostituì CAPUT. Assunse
inizialmente un significato ironico, ma poi assunse in toto il nuovo significato, anche se capo sopravvive in
italiano come parola dotta.
Il confronto tra le lingue romanze e la ricostruzione etimologica dei derivati dal latino non sono gli unici
strumenti per la conoscenza del latino volgare: esistono una serie di testi che possono dare informazioni utili
per intravedere alcune caratteristiche del latino parlato di livello popolare o del latino tardo. Sono i trattati di
cucina, medicina, ma anche i testi teatrali contengono elementi del parlato.
Esempio: SATYRICON di PETRONIO ARBITRO, nel I secolo d.C.: coesistono forme come pulcher,
formosus, bellus. Il primo aggettivo era destinato a sparire nelle lingue moderne, mentre gli ultimi due sono
all’origine delle lingue romanze:
1. spagnolo: hermoso
2. italiano: bello
3. francese: beau
Bellus si trovava anche nel poeta Catullo, nel I sec. a.C. e in Cicerone.
Le forme affettive e familiari presero molte volte il sopravvento, rimpiazzando il tipo lessicale dominante.
Esempio: in PETRONIO, si trova unus con funzione di indefinito anziché numerale, così come sarà nelle
lingue romanze.
Tra le fonti per la conoscenza del latin volgare si possono citare le iscrizioni delle lapidi, che a volte
contengono errori significativi.
Interessanti sono anche le scritture occasionali, come quelle che si trovano sulle pareti delle case di Pompei,
graffiti e scritte murali: queste scritte non sono posteriori alla data del 79 d.C. quando l’eruzione del Vesuvio
colpì la città.
Rilievo, tra i documenti del volgare, lo ha l’APPENDIX PROBI. Chiamata così perché il documento segue
gli Instituta artium di un grammatico tardo come Probo: è una lista di 227 parole non corrispondenti alla
buona norma, tramandate da un codice scritto a Bobbio intorno al 700 d.C. un maestro dell’epoca avrebbe
raccolto le forme errate in uso presso i suoi allievi e le avrebbe affiancate alle corrette, secondo il modello A
NON B:
speculum non speclum
vetulus non veclus
columna non colomna
frigida non fricda
turma non torma
Non sempre la forma attestata nell’Appendix Probi è quella che ha dato origine agli sviluppi romanzi:
SPECULUM ha dato origine a SPECCHIO, con passaggio di –CL a –kkj
VETULUM: vecchio
L’Appendix è l’occasione per riflettere sulla presenza nel latino volgare di una serie di tendenze aberranti
rispetto alla norma classica, avvertite come errori.
L’errore è una deviazione rispetto alla norma, ma nell’errore possono manifestarsi anche tendenze
innovative. Quando l’errore si generalizza, l’infrazione diventa norma per tutti i parlanti.
Gli studiosi fanno riferimento ai fenomeni di sostrato: il latino si impose su lingue preesistenti che
influenzarono l’apprendimento della lingua di Roma. Esse erano l’etrusco, l’osco-umbro.
Con superstrato, si intende, l’influenza esercitata da lingue che si sovrapposero al latino, come avvenne al
tempo delle invasioni barbariche.
Per adstrato si intende l’azione esercitata da una lingua confinante.
L’apporto lessicale all’italiano di queste lingue non è di grande rilevanza, anche se si possono individuare
diverse parole di origine germanica.
I goti entrarono in Italia nel 489, guidati da Teodorico. Il regno gotico finì con la guerra intrapresa dagli
eserciti di Gisutiniano, il dominio dei goti non fu perciò molto lungo. La lingua gotica ci è nota soprattutto
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grazie alla traduzione della Bibbia fatta nel IV secolo dal vescovo Ulfila: i termini goti entrati nell’italiano
sono meno di una settantina( astio, melma, nastro, stecca).
I longobardi invasero il Paese nel 568 e la loro fu un’invasione violenta e brutale: si creò così una vera e
propria frattura e il loro dominio durò fino alla venuta dei franchi, nel VIII secolo. Lasciarono anche una
traccia nella denominazione di gran parte dell’Italia settentrionale, chiamata Lombardia.
Le parole longobarde sono oltre 200, tra arcaiche e moderne, dialettali e di lingua( guancia, stamberga,
federa, gruccia, palla, faida).
L’insediamento dei franchi ebbe un carattere diverso: era un certo numero di nobili con i loro fedeli, un’elite
che si insediò ai vertici del potere civile e militare( bosco, guanto, dardo).
All’influsso franco, di tipo germanico, va collegato, quello gallo-romanzo.
L’influenza d’oltralpe si fece sentire nel secolo XI e XII, con la diffusione della letteratura provenzale e
francese, tanto che nel ‘200 vi furono trovatori settentrionali che poetarono i lingua d’oc.
Nel periodo carolingio entrarono parole come: conte, marca, cameriere, barone, dama, lignaggio, vassallo.
Le consonanti vengono pronunciate con un restringimento o con un’occlusione del flusso d’aria.
Quando avviene il restringimento sono dette FRICATIVE.
Quando avviene un’occlusione sono dette OCCLUSIVE.
La combinazione delle prime con le seconde produce le AFFRICATE.
Le consonanti possono essere sorde o sonore: nelle prime non si ha la vibrazione delle corde vocali, nelle
seconde sì.
OCCLUSIVE
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Sorde Sonore
Labiali: /p/ /b/
dentali: /t/ /d/
velari: / k/ /g/
Se l’occlusione della cavità orale si combina con il passaggio d’aria nel naso, si ottengono le consonanti
nasali:
NASALI
Labiale: /m/
Dentale: /n/
Palatale: /ɲ/
Velare: /ɳ/
Se la lingua occlude solo la parte centrale della cavità orale, lasciando libere le zone laterali, avremo le
consonanti laterali:
LATERALI:
dentale: /l/
palatale: /ʎ/ (figlio)
La /r/ è una consonante vibrante, perché la lingua produce una serie di ostruzione che si susseguono
rapidamente come vibrazioni.
Con le fricativa, si produce un restringimento nel flusso dell’aria fino a produrre una attrito:
FRICATIVE:
sorde sonore
alveolari: / s/( sano) /z/ ( rosa)
labio-dentali: /f/ /v/
palatali: / ʃ/ /ʒ/
AFFRICATE:
sorde sonore
dentali: /ʦ/ ( alzare) /ʣ/ ( zero)
palatali: /tʃ/ ( cena) /dʒ/ ( giallo)
Esistono notazioni codificate a livello internazionale, come l’alfabeto fonetico internazionale o IPA.
Nella descrizione dell’italiano e dei suoi dialetti spesso si fa riferimento alla simbologia adoperata da
G.Rohlfs nella sua grammatica storica.
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SARDO:
Ī, Ĭ: i
Ē, Ĕ: e
Ā, Ă: a
Ŏ, Ō: o
Ŭ, Ū: u
Il sistema è penta vocalico.
SICILIANO:
Ī, Ĭ, Ē: i
Ĕ: è
Ā, Ă: a
Ŏ: ò
Ō, Ŭ, Ŭ: u
IL DITTONGAMENTO
In italiano la è < Ĕ tonica, se in posizione di sillaba libera, ossia terminante per vocale, dà origine a un
dittongo:
PĔ – DE(M) > piede.
Anche la ò da Ŏ breve, dittonga, se tonica, in sillaba libera: BŎ-NU(M) > buono.
All’inizio del’800 il dittongo uo venne eliminato dopo suono palatale( gioco< giuoco, figliolo< figliuolo).
Il fiorentino popolare eliminò uo in tutte le posizioni: òmo al posto di uomo, bòna al posto di buona.
Il dittongo manca in parole di origine dotta, che sono stata introdotte in italiano sulla base del modello latino:
pòpolo< PŎPULU(M).
LA MONOTTONGAZIONE
I dittonghi latini AE e OE si trasformarono rispettivamente in Ĕ breve e Ē lunga ( LAETU(M) >lieto,
POENA(M) > pèna).
Il dittongo AU resistette più a lungo, anche se i primi casi di monottongazione del tipo CAUDA(M) >
CODA si verificarono già in epoca classica.
LA METAFONESI
È un fenomeno linguistico che non interessa il toscano, ma si trova in altre zone d’Italia.
Si può definire come una modificazione del timbro di una vocale per influenza di una vocale che segue.
Si ha quando le vocali finale estreme influenzano la tonica che precede, aumentandone la chiusura se è già
chiusa, facendola dittongare se è aperta.
In Italia settentrionale la metafonesi è limitata a è > i, ò > u davanti a –i finale.
In certi casi può interessare la a.
In Italia meridionale la metafonesi è di tutti i tipi:
Ò > u sia davanti a –i (cunti), sia davanti a –o < u ( tratteneniento)
Nel parlato in napoletano, si ha l’opposizione tra il maschile russë < RŬSSU(M) e il femminile rossa <
RŬSSA(M):
l’esito russë è condizionato dalla metafonesi, dovuta alla –U finale del maschile, poi trasformatasi in vocale
muta; nel femminile il fenomeno non agisce perché la vocale finale è una –A.
L’ANAFONESI
È un fenomeno tipico fiorentino e di una parte della Toscana, ma è assente nelle altre parlate italiane: è un
elemento distintivo in opposizione alla metafonesi.
È il fenomeno per cui una è tonica si trasforma in i davanti a nasale palatale ( ɲ ), davanti a laterale palatale
(ʎ), provenienti rispettivamente da NJ e LJ e davanti a nasale velare (ɳ); ò tonica si trasforma in u davanti a
nasale velare (ɳ).
Esempio: gramigna< GRAMĬNEA(M), famiglia< FAMĬLIA(M), giunco< IŬNCU(M).
VOCALISMO ATONO
il vocalismo atono italiano non distingue tra chiuse e aperte.
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Le vocali atone finali si indeboliscono giungendo a un suono indistinto in alcune zone del Meridione: questo
suono può essere rappresentato con il segno della e muta ë; nella grafia dei dialetti meridionali questa e viene
scritta come una e normale.
Nelle parlate settentrionali italiane le vocali finali tendono a cadere, anche se maggior resistenza dimostra la
–a. il toscano, ha una naturale tendenza a far finire le parole per vocale e a conservare le vocali finali.
Già nel latino parlato era caduta la vocale mediana di molte parole sdrucciole: DŎM(I)NA(M)> donna, si
tratta di una sincope della vocale postonica in penultima sillaba. BONITĀTE(M) >bontate > bontà è un
esempio di sincope della vocale intertonica, con caduta ulteriore del –te finale.
PASSAGGIO DI E PRETONICA A I
Nel toscano la e pretonica o protonica, tende a chiudersi in i, come NEPOTEM >nepote >nipote.
In diversi casi il fenomeno non si riscontra per diversi motivi, per esempio in vocaboli di origine straniera,
come il francesismo dettaglio o in parole in cui la e è stata ripristinata sul modello del latino(delicato-
dilicato)
CONSONANTI FINALI
Le consonanti latine –T, -S, -M in posizione finale subiscono nel passaggio all’italiano un indebolimento e
un dileguo.
CONSONANTI DOPPIE
Le doppie latine si conservano in italiano e nei dialetti meridionali, ma non nelle parlate settentrionali.
I gruppi consonantici latini CT e PT hanno dato origine: LACTE(M) >latte, SEPTE(M) > sette.
Un caso di raddoppiamento è quello che si produce in foto sintassi, cioè nel contatto tra due parole: AD
CASAM > akkasa.
La grafia italiana moderna registra il fenomeno solo quando si è prodotta l’univerbazione, cioè la riduzione
ad una sola parola.
PALATALIZZAZIONE DI K E G( ESITI C E G + E, I )
La pronuncia del latino classico CERA e GELU era con occlusiva velare sorda, così come in CANIS, ma le
vocali palatali e, i hanno finito per influenzare la pronuncia della consonante che precede. Si manifestò la
tendenza a pronunciare le velari k e g come palatali davanti a vocali palatali: cera e gelo.
Diversa la situazione in Italia settentrionale, dove l’evoluzione andò verso le affricate dentali sorde e sonore,
per poi passare alle corrispondenti sibilanti: CENTU(M) > sent cento.
La palatizzazione di C e G latine interessa la maggior parte delle lingue romanze.
ESITI CONSONANTE +J
Nel passaggio dal latino all’italiano le consonanti, tranne r e s , quando sono seguite da J si rafforzano:
FACIO > faccio, SEPIA(M) > seppia.
Il nesso latino –TJ diventa in italiano l’affricata dentale sorda intensa: VITIU(M) > vezzo.
In alcuni casi ci possono essere due esiti: PRETIU(M) > prezzo e pregio, RADIUM > razzo e raggio.
Il nesso latino –LJ dà laterale palatale intensa: FILIUM > figlio.
Il nesso –NJ dà in italiano la nasale palatale intensa: IUNIUM > giugno.
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ESITI DI CONSONANTE +L
I nessi latini di consonante +L passano in italiano a consonante +i: FLORE(M) > fiore, PLANU(M)> piano,
CLAMARE> chiamare.
In Italia meridionale il nesso latino –PL > ki: PLUS ( napoletano) chiù, (italiano) più.
In posizione intervocalica la consonante +L raddoppia: NEB(U)LA(M) > nebbia.
Il nesso latino –TL passa a –CL: VET(U)LU(M) > VECLU(M) > vecchio.
LA LABIOVELARE
Si chiama labiovelare il nesso kw o gw formato dalla velare k/g e dalla semiconsonante w.
Nel passaggio dal latino all’italiano, la labiovelare iniziale kw rimane intatta solo davanti ad a, mentre negli
altri casi si riduce all’occlusiva velare k.
QUID > che
PROSTESI
Si ha quando c’è l’aggiunta di una vocale non etimologica all’inzio di una parola, per rendere la pronuncia
più facile: in ispecie, per iscritto.
Il fenomeno inverso, con caduta di vocale è l’aferesi: Vangelo < EVANGELIUM.
EPITESI ED EPENTESI
L’epitesi consiste nell’aggiunta di un suono non etimologico alla fine di una parole, per facilitarne la
pronuncia: piùe, fue per più e fu.
L’epitesi di –ne esiste ancora oggi in alcune zone dell’Italia centrale: none per no.
L’epentesi è l’inserimento di un suono non etimologico all’interno di una parola.
ASSIMILAZIONE
Un suono diventa simile a un altro che gli si trova vicino.
È regressiva quando il suono che precede diventa simile a quello che segue( il secondo suono influisce sul
primo), è progressiva quando il primo suono influisce su quello che segue.
OCTO > otto, SEPTE(M) > sette. Anche la metafonesi è un fenomeno di assimilazione regressiva.
Un’assimilazione progressiva dei dialetti centro-meridionale è il passaggio –ND > -NN: QUANDO >
quanno.
DISSIMILAZIONE
È il fenomeno opposto all’assimilazione e si ha quando due suoni simili situati vicino nella stessa parola si
differenziano:
ARBORE(M) > ALBERO, con dissimilazione della prima r a causa della seconda.
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maschili, ma molti neutri plurali in –a sono diventati femminili singolari attraverso una fase in cui valevano
come nomi collettivi: FOLIA > foglia.
L’atto di nascita della lingua italiana è costituito dal PLACITO CAPUANO del 960 d.C.: formula connessa a
un giuramento.
Questo documento non si lega a un evento storico, ma nasce da una piccola controversia giudiziaria di
portata locale, ha dunque un tono minore rispetto a quello in lingua francese.
Non era facile, concordare un’interpretazione letterale dei documenti, in quanto non era chiaro il senso di
tutte le parole.
I GLOSSARI
Nel 1963 è stato pubblicato il GLOSSARIO DI MONZA, risalente forse ai primi decenni del X secolo: si
tratta di un glossario bilingue romanzo- romaico ( greco bizantino) e consiste nell’elenco di 60 lemmi in cui
accanto alla voce latino – romanza viene aggiunta la voce greco-bizantina.
la definizione di romanzo non si identifica nel latino, ma spesso si avvicina alle forme del dialetto dell’Italia
settentrionale.
Lo scrivente non affiancò al termine latino una parola volgare, poiché il suo interesse andava all’equivalente
greco ( registro intermedio).
EDITTO DI ROTARI, prima stesura delle leggi longobarde, GLOSSARIO DI REICHENAU, con glosse in
latino meno dotto.
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L’iscrizione della catacomba romana di Commodilla è un caso diverso, esso è un anonimo graffito tracciato
sul muro.
L’interesse deriva dal fatto che si tratta di un’antica testimonianza che conserva una spetto latineggiante, ma
rivela il suo reale carattere del parlato.
Il graffito non porta nessuna indicazione cronologica e si trova in una cappella sotterranea della catacomba,
la cripta dei santi Felice e Adautto, la cui scoperta avvenne nel 1720.
La cappella fu utilizzata come luogo di culto fino al IX secolo, quando i corpi dei due santi furono traslati
altrove.
Potrebbe risalire al VI-VII secolo.
“NON/ DICE/ RE IL / LE SE / CRITA/ A BBOCE”: “non dicere ille secrita a bboce” “ non dire quei segreti
a voce alta”.
Sono stati individuati i caratteri capitali romani e lettere onciali: la scrittura onciale, tipica della cultura
romana cristiana fu adoperata in tutto l’occidente latino dal IV al VIII-IX secolo, per tutto l’alto Medioevo
fino alla rinascenza carolingia.
IL FILONE NOTARILE-GIUDIZIARIO
IL VOLGARE NEI DOCUEMNTI NOTARILI
I notai erano la categoria sociale che aveva più frequentemente occasione di usare la scrittura ed erano
impegnati in un lavoro di transcodificazione dalla lingua quotidiana alla formalizzazione giuridica del latino.
Lasciavano, così, spazio al volgare, che finiva per affiorare anche nel loro modesto latino.
Occorreva una reale intenzionalità nello scrivente, nell’uso della nuova lingua, verificabile attraverso il
confronto diretto tra i due codici linguistici diversi e contrastanti.
LA POSTILLA AMIATINA
La postilla è una forma di testo aggiunto al rogito vero e proprio.
Per quanto riguarda la Postilla Amiatina, il notaio aggiunse commenti e osservazioni personali: nel 1087 due
coniugi donarono i loro beni all’abbazia di San Salvatore di Montamiata.
LA CARTA OSIMANA del 1151, LA CARTA FABRIANESE del 1186 e la CARTA PICENA del 1193
LE TESTIMONIANZE DI TRAVALE
Due pergamene del 1158 conservate nel’Archivio vescovile di Volterra.
Nella seconda parte di una di queste pergamene il giudice aveva raccolto le testimonianze di 6 uomini,
facendo affiorare il volgare nel bel mezzo del testo latino.
Latino e volgare si alternano, ma l’ultimo è preferito dove viene introdotto l’aneddoto.
DOCUMENTI SARDI
Dall’isola provengono diversi documenti risalenti al secolo XI e XII.
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Il più antico dei testi sardi volgari è la carta del giudice Torchitorio del 1070-1080, conservata nell’Archivio
Arcivescovile di Cagliari, trasmessa non in originale, ma in una tarda copia quattrocentesca. Databile tra il
1080 e il 1085 è un privilegio emesso da un giudice di Torres, a favore di mercanti pisani.
DOCUMENTI PISANI
Capitolo 6: Il Duecento
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Barbieri, studioso della poesia provenzale, aveva avuto tra le mani il LIBRO SICILIANO, poi perduto,
contenente alcuni testi poetici siciliani che si presentavano in una forma vistosamente siciliana.
Tra essi vi era la canzone di Stefano Protonotaro: “Pir meu cori alligrari”, oltre a un frammento del figlio di
Federico II, Re Enzo. La sicilianità è vistosa:
vocali finali – u e –i al posto delle –o ed –e toscane
la u al posto della o
Progressivamente si giunse alla sostituzione dei tratti siciliani con quelli toscani.
La lezione della poesia siciliana fu comunque decisiva per la nostra tradizione lirica: si stabilizzò la rima
siciliana e divennero normali in poesia i condizionali meridionali in –ìa.
DOCUMENTI CENTRO-SETTENTRIONALI
LA LINEA MAESTRA DELLA LIRICA ITALIANA: DAL SUD AL CENTRO-NORD
Con la morte di Federico II e il tramonto della casa Sveva, venne meno ovviamente la poesia siciliana.
La sua eredità passò in Toscana e a Bologna, con i cosiddetti poeti siculo-toscani e gli
stilnovisti:spostamento verso l’area centro-settentrionale.
LA POESIA RELIGIOSA
Il “Cantico di frate sole” di S. Francesco d’Assisi ha un lieve anticipo rispetto alla scuola siciliana, databile
intorno al 1223 e noto anche con il titolo latino di “Laudes creatura rum”; fu scritto in volgare, con elemento
umbri. Questo documento per molti secoli non fu preso in considerazione come documento letterario.
La tradizione della laudi religiose ebbe gran sviluppo non solo nel ‘200, ma anche nel ‘300 e nel ‘400,
quando i testi laudistici, dedicati a Gesù, alla Madonna, furono trascritti in appositi quaderni( i laudari) e
furono utilizzati dalle confraternite come preghiere cantate.
La maggior parte delle laudi erano componimenti anonimi, di modesta qualità letteraria, in lingua quotidiana
e poco ricercata.
Nel passaggio dall’area centrale al settentrione, le laudi subirono manomissioni linguistiche, accogliendo dei
settentrionalismi.
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Dante stabilì le sue tesi dalle origini: fra tutte le creature l’unico essere dotato di linguaggio è l’uomo e il
linguaggio stesso caratterizza l’essere umano in quanto tale. L’origine del linguaggio e delle lingue viene
ripercorsa attraverso il racconto biblico: episodio della Torre di babele.
La storia delle lingue naturali comincia e la loro caratteristica è mutare nello spazio, da luogo a luogo e nel
tempi: continua trasformazione.
La grammatica delle lingue letterarie, per Dante, è una creazione artificiale dei dotti.
La sua attenzione di concentrò sull’Europa:
nei Paesi del Nord e del Nord-Est( germanici e slavi) si parlano lingue in cui sì si dice iò
nei Paesi del centro Sud si parla la lingua d’oil( francese), la lingua d’oc( provenzale) e il volagre del
sì (italiano)
in Grecia e nelle zone orientali era diffuso il greco
Poi trattò del gruppo linguistico del francese, provenzale e italiano, restringendosi solo all’Italia, che
risultava diversificata all’interno con parlate locali.
Dante esaminò le parlate alla ricerca del volgare migliore, definito illustre, aulico, curiale, cardinale e tutte
sono indegne del volgare illustre. Tra le più severe condanne c’era quella per il toscano e per il fiorentino,
mentre migliori risultavano il siciliano e il bolognese.
La nobilitazione del volgare doveva avvenire attraverso la letteratura.
Non solo la lingua popolare toscana non interessava Dante, ma condannava poeti come Guittone d’Arezzo,
attribuendogli uno stile rozzo e plebeo, ben diverso da quello dei siciliani e degli stilnovisti.
DANTE LIRICO
Le prime esperienze poetiche di Dante appaiono radicate nella cultura e nella poesia volgare di Firenze, sia
per i temi, che per le strutture linguistiche, stilistiche, metriche. Prevedibile era la presenza di sicilianismi e
gallicismi.
Diminuirono gli apporti tradizionali, come le parole con suffissi in –anza ed –enza, mentre aumentano le
dittologie sinonimiche.
Nella Vita Nova, Dante, commentando in prosa una scelta delle proprie poesia, realizzò un connubio tra i
due generi.
LA PROSA
IL RITARDO DELLA PROSA
Il livello della prosa duecentesca appariva più modesta rispetto alla poesia.
Al tempo di Boccaccio, la prosa italiana era ancora alla ricerca dei sui modelli, mentre la poesia era già
organizzata in una solida tradizione.
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Traducendo in volgare un testo latino o francese, si realizzava una scrittura di alto valore sperimentale e si
stabilivano le strutture della prosa italiana.
L’influenza del francese sul volgare italiano si può verificare nel gran numero di prestiti lessicali.
Capitolo 7: Il Trecento
LA “COMMEDIA” DI DANTE
DANTE E IL SUCCESSO DEL TOSCANO
L’eccezionalità della Commedia, permette di isolare l’opera dalle altre; è scritta in una lingua diversa da
quella teorizzata nel De Vulgari Eloquentia. La sua ricchezza tematica e letteraria, favorì una promozione del
volgare, dimostrando che la lingua aveva potenzialità illimitate.
Mentre lo stilnovismo è il fenomeno legato all’esperienza di Dante nella sua patria, la Commedia è un’opera
compiuta in esilio, che si collega linguisticamente alla Toscana e a Firenze, ma che si proietta anche in Italia
settentrionale.
Il toscano iniziò così la sua espansione; nello stesso Trecento altri due autor toscani produssero opere scritte
in fiorentino: “Canzoniere” di Petrarca e il “Decameron” di Boccaccio.
I tre autori sono stati uniti nella denominazione delle “Tre Corone”, che indica la loro supremazia e la loro
elevazione sugli altri.
All’epoca la società fiorentina era vivacissima e aveva rapporti mercantili con il resto d’Italia; il fiorentino
occupava una posizione mediana tra le parlate italiane ed era abbastanza simile al latino, cosa che gli
permetteva di penetrare sia al Sud che al Nord del Paese.
La letteratura fu quindi determinante per le sorti della lingua, che non aveva unità politica.
Il plurilinguismo è una delle categorie che sono state utilizzate per definire la lingua poetica di Dante,
opposto al monolinguismo lirico: racchiude una scelta dettata dalla disponibilità ad accogliere elementi di
provenienza disparata, non solo latinismi, ma anche termini forestieri, plebei, parole toscane e non toscane.
Questo deriva dalla varietà del tono, in quanto le situazione nella Commedia, vanno dal profondo
dell’Inferno alla visione di Dio, passando così dal livello basso e dal turpiloquio al livello più alto e
teologico.
Si può parlare di una polimorfia della lingua di Dante nella Commedia, che riguarda l’alternanza di forma
dittongate e non dittongate:
core/cuore
foco/fuoco
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La libertà di Dante nei confronti della lingua, si può verificare anche nei neologismi.
Si tratta comunque di un linguaggio poetico, in cui rientrano elementi di natura ritmico-metrica e retorica.
La lingua selezionata e ridotta nelle scelte lessicali, accoglie un grande numero di varianti:
Deo/Dio
Degno/digno
Fuoco/foco
Petrarca fece uso di una dispositivo che mutava l’ordine delle parole, anticipando il determinante rispetto al
determinato o anticipando l’infinitiva dipendente rispetto alla principale.
Inoltre ricorrevano chiasmi, antitesi, enjambement, anafore, allitterazioni ecc. e il poeta scriveva in maniera
unita nomi come: sualuce, almio, la prima; venivano uniti al nome i possessivi, le preposizioni, gli articoli e
gli aggettivi, manca l’apostrofo introdotto nel ‘500.
Erano presenti molti latinismo grafici, come le h etimologiche in: huomo, humano, honore e per l’affricata
usava la ç( sença per senza).
Il Codice Vaticano latino 3196 raccoglie e tramanda le liriche del Petrarca.
LA PROSA DI BOCCACCIO
La prosa trecentesca non era ancora stabilizzata in una tradizione salda, anche se non mancavano esempi a
cui ispirarsi come la Vita Nova e il Convivio di Dante.
Nella tradizione italiana la prosa di Boccaccio assunse una funzione egemonica, quando nel ‘500, teorici e
grammatici, seguendo Bembo, indicarono in essa il modello a cui attenersi. Questo modello acquisì più
autorità grazie a Salviati e all’Accademia della Crusca, influenzando coloro che scrissero in italiano.
Il Decameron offriva modelli ben differenti, nella sua ricerca di realismo.
Compaiono voci che introducono elementi diversi dal fiorentino:
Il veneziano di monna Lisetta ( VI, 2) e di Chichibio ( VI, 4)
Il senese di Tingoccio ( VII, 10) e di Fortatarrigo ( IX, 4)
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Il toscano rustico nella novella del prete di Varlungo e di Madonna Belcolore ( VIII, 2)
Le novelle mostrano una disposizione a concedere spazio al dialogo, con moduli del parlato e vivaci scambi
di battute.
Lo stile era caratterizzato da una frequente ipotassi.
Uso di elementi ritmici, dal cursus agli artifici ritmico - musicali più ricercati, i parallelismi sintattici, le
simmetrie del periodo, le allitterazioni, l’uso delle figure retoriche.
Tuttavia alcuni tratti appaiono arcaicizzanti, come l’uso costante del numerale diece, anziché dieci.
Per verificare la grafia dell’autore, si può consultare l’autografo nel codice Hamilton 90 conservato a
Berlino, si notano:
Latinismi come le x (exempli)
Il nesso –ct ( decto)
Le h etimologiche( herba, habito)
L’affricata dentale è resa dalla ç, come in Petrarca
I VOLGARIZZAMENTI
Tra i volgarizzamenti si possono citare:
“Le vite dei santi padri” di Domenico Cavalca
“Fioretti di San Francesco”
È un volgarizzamento da una precedente redazione latina dello stesso autore, la “Cronica” dell’Anonimo
romano, contenente la Vita di Cola di Rienzo, del 1360: la lingua si presentava in forme meridionali. La
redazione romanesca nasceva da un intento divulgativo:
Esito in ie di g+ vocale palatale ( iente per gente)
Assimilazione di –nd
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Il soggiorno napoletano fu molto importante per la formazione di Boccaccio e per la sua conoscenza
dell’ambiente mercantile, dove nasce l’Epistola.
La lingua napoletana è marcata in senso comico, ricorrono ipercorrettismi, in quanto il dittongo napoletano
viene introdotto anche in parole che in napoletano non lo hanno: nuostra, nuome, fratiello.
L’esperimento di Boccaccio è importante dal punto di vista linguistico, perché mostra un uso volontario di
un volgare diverso dal proprio, identificato nelle caratteristiche fonetiche, lessicali e sintattiche.
Capitolo 8: Il Quattrocento
LATINO E VOLGARE
IL RIFIUTO UMANISTICO DEL VOLGARE E IL CONFRONTO CON IL LATINO
Petrarca, iniziatore dell’Umanesimo affidò la parte più solida del suo messaggio letterario a una lingua
diversa dal volgare: scrivendo in latino, si ispirava a Cicerone, Livio, Seneca, Virgilio, Orazio e misurava la
differenza tra quei modelli e il latino medievale. Avviò, quindi, un processo che fu determinante per gli
sviluppo della lingua; il confronto con il latino di quegli autori fu decisivo per la formazione di una mentalità
grammaticale.
Il nuovo gusto classicistico si orientò verso una concezione della lingua intesa come frutto di imitazione dei
grandi modelli letterari.
Si ebbe una conseguente crisi del volgare, che non arrestò l’uso del volgare stesso nella pratica, ma lo
screditò agli occhi della maggior parte dei dotti. Gli uomini di alta cultura disprezzarono la lingua moderna o
la ignorarono.
Vi furono umanisti della prima generazione che non usarono il volgare, come Coluccio Salutati, figura al
centro dell’Umanesimo fiorentino nei primi anni del ‘400. Diresse per alcuni anni la cancelleria fiorentina,
diffondendo il proprio stile latino, elaborato su modelli ciceroniani.
Salutati fu introdotto da Leonardo Bruni tra gli interlocutori del “Dialogus ad Petrum Paulum Histrum” e che
espresse il rammarico per il fatto che Dante, abile poeta, non avesse preferito usare il latino per realizzare la
Commedia, in quanto la lingua avrebbe coronato maggiormente la sua gloria letteraria.
Leonardo Bruni invece celebrava i meriti di Dante, a prescindere dalla lingua usata; scrisse una “Vita” del
peota in cui affermò che non c’era differenza tra lo scrivere in latino o in volgare o in latino e greco, poiché
ogni lingua ha la sua perfezione. Uno scrittore aveva il diritto di essere giudicato non per la lingua adottata,
ma per la qualità delle proprie opere.
Il disprezzo per il volgare nella seconda metà del secolo era ancora normale e la cultura letteraria era
dominata dal movimento umanistico, che si esprimeva in latino e nel latino riconosceva un vivo patrimonio,
in quanto strumento della conoscenza, della dottrina e della letteratura.
Il latino era preferito perché lingua più nobile, capace di garantire l’immortalità letteraria. L’uso del volgare
risultava accettabile solo nelle scritture pratiche e d’affari, senza pretese d’arte.
Gli studi sull’origine del volgare incominciarono nel momento in cui nacque una storiografia interessata a
definire precisamente il trapasso dall’antichità al Medioevo.
MACARONICO E POLIFILESCO
La cultura umanistica produsse alcuni tipi di scrittura in cui il latino e il volgare entrarono in simbiosi, a
volte a scopo comico e più raramente con intento serio.
Gli esperimenti di mistilinguismo tra latino e volgare furono frequenti.
Esistono due forme di contaminazione colta tra volgare e latino: il macaronico e il polifilesco.
Con macaronico si indica un linguaggio nato a Padova a fine ‘400 e caratterizzato dalla latinizzazione
parodica di parole del volgare o dalla deformazione dialettale di parole latine, con forte tensione tra le due
componenti.
Una delle componenti, dialettale, è bassa, plebea, mentre l’altra è aulica.
Il macaronico consiste nella formazione di “parole macedonia”: a una parola volgare può essere applicata
una desinenza latina:
Cercabat: cercava ( cercare+ -abat imperfetto latino)
In altri casi parole esistenti sia in latino che in volgare vengono usate nel significato proprio del volgare,
come casa che in latino significa capanna, e parole latine che vengono legate in costrutti sintattici
tipicamente volgari.
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Il risultato è un latino che sembra pieno di errori, anche se l’autore macaronico è un ottimo latinista: è la
scelta volontaria dello scrittore a scopo comico, mediante una tecnica che abbassa il tono.
Iniziatore del genere è Tifi Odasi, ma il più illustre è Teofilo Folengo.
Il polifilesco è detto anche pedantesco; un linguaggio del genere è inserito nell’Hypnerotomachia Poliphili(
Guerra d’amore in sogno dell’amatore di Polia), romanzo anonimo pubblicato nel 1499 a Venezia. È
un’opera scritta in volgare.
Il pedantesco non è una scrittura comica e parodica, ma seria. Il volgare combinato con il latino non è
dialettale, ma toscano, boccaccesco, con una patina settentrionale. Il latino si ispira a scrittori diversi da
quelli della latinità aurea, rifacendosi ad Apuleio e Plinio.
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IL CERTAME CORONARIO
Il Certame coronario risale al 1441: Alberti organizzò una gara poetica in cui i concorrenti si affrontarono
con componimenti in volgare; la giuria era composta da umanisti e non assegnò il premio, così che gli fu
indirizzata un’anonima protesta, in cui si lamentava che gli avversari del volgare ritenessero indegno cheuna
lingua come l’italiano pretendesse di gareggiare col latino.
LA “RACCOLTA ARAGONESE”
Nel 1447 Lorenzo il Magnifico inviòa Federico, figlio del re Ferdinando di Napoli, una raccolta di poesie,
note col nome di “Silloge” o “Racoolta aragonese”: raccolta antologica della tradizione letteraria volgare che
andava dai pre-danteschi e dallo Stilnovo fino a Lorenzo il Magnifico.
L’antologia era accompagnata da un’importante epistola, ancora oggi attribuita a Poliziano, segretario
privato di Lorenzo.
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LA PROSA TOSCANA
Il rapporto col parlato è avvertibile nella produzione novellistica toscana, soprattutto nelle parti dialogate,
dove emergono plebeismi, come nei “Motti e facezie del Piovani Arlotto” o nella “Novella del Grasso
legnaiolo”. Il genere delle novelle si colloca su un piano diverso rispetto alla prosa nobile.
Romanzi di Andrea da Barberino, soprattutto i “Reali di Francia: genere tipicamente popolare, che fece
circolare modelli di prosa italiana tra un pubblico avvezzo al dialetto. La lunga fortuna di questo testo è da
ricondurre alle vicende linguistiche del popolo nei secoli successivi al XV secolo. Il testo fu sottoposto a
revisione grafica e ad una “pulizia”linguistica, destinato al consumo popolare.
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La generazione successiva dei poeti meridionali, ebbe come rappresentanti Cariteo e Sannazzaro;
quest’ultimo è ricordato per l’ “Arcadia”, appartenente al genere bucolico, di cui esistono due redazioni e in
cui si alternano egloghe pastorali e parti in prosa. La prima redazione risale al 1484-1486 e la seconda fu
pubblicata nel 1504.
La prosa dell’Arcadia è importante, in quanto è la prima prosa d’arte composta fuori falla Toscana, in lingua
ex novo ed è il primo esempio di revisione linguistica in senso toscaneggiante ad opera di uno scrittore
periferico.
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Capitolo 9: Il Cinquecento
ITALIANO E LATINO
Nel ‘500 il volgare raggiunse piena maturità, ottenendo il riconoscimento unanime dei dotti; fioriscono autori
come Ariosto, tasso, Machiavelli, Guicciardini e inoltre il volgare scritto raggiunse un pubblico molto ampio
di lettori. Al latino fu tolto progressivamente spazio.
La maggior parte dei libri pubblicati era ancora in latino e la lingua resisteva al livello più alto della cultura,
ma gli intellettuali avevano fiducia nella nuova lingua: tale crescente fiducia derivava anche dal processo di
regolamentazione grammaticale.
Determinante furono le “Prose della volgare lingua”di Pietro Bembo.
Si ebbero le prime grammatiche a stampa dell’italiano e i primi lessici; la maggior parte dei lettori cercava
delle risposte pratiche, una guida per scrivere correttamente liberandosi dagli eccessivi latinismi e
dialettismi.
Verso la metà del secolo si assiste al tramonto della scrittura di koinè, tipica del ‘400, che era caratterizzata
da contaminazioni di parlate locali, latino e toscano.
Attraverso una regolamentazione normativa, l’italiano raggiunse uno status di lingua di cultura di alta
dignità, anche se il latino continuava ad avere una posizione rilevante.
Nella quotidianità, il volgare trovava spazio, più o meno ufficialmente.
Marazzini ha preso in esame i privilegi concessi all’edizione del Decameron di Salviati, del 1582: su 11
privilegi concessi da governanti di stati italiani, 7 sono integralmente in latino, 2 mescolati italiano e latino e
2 sono integralmente in italiano. Il latino risulta quindi maggioritario.
Il volgare veniva usato nella scienza quando si trattava di stampare opere di divulgazione, avendo uno spazio
rilevante nei testi di arti applicate. Quanto al settore umanistico - letterario, il volgare trionfò nella letteratura
e si affermò nella storiografia, grazie a Machiavelli e Guicciardini.
La percentuale più alta di libri stampati venne stampata dall’editoria i Venezia, seguita da quella di Firenze.
Nella Roma della seconda metà del ‘500 la produzione dei libri in volgare è al di sotto del 50% e a Torino e
Pavia accadde la stessa cosa, in quanto città periferiche rispetto al centro toscano e caratterizzate da una forte
presenza della cultura universitaria, legata alla lingua latina. A Roma il latino è egemonico perché lingua
della Chiesa.
Il dibattito teorico sulla lingua non fu mai così acceso come nel ‘500: l’esito delle discussioni fu la
stabilizzazione normativa dell’italiano.
La questione della lingua, sulla natura del volgare, va intesa come insieme di teorie estetico – letterarie che si
collegano a un progetto di sviluppo delle lettere.
Le “Prose della volgar lingua” furono pubblicate a Venezia nel 1525: è l’editio princeps ( così si usa
chiamare la prima edizione a stampa di un’opera classica, medievale o moderna) di cui abbiamo l’edizione
critica, con delle varianti rispetto al manoscritto e che è conservato nella Biblioteca vaticana di Roma.
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Le Prose sono divisibili in 3 libri, il terzo dei quali contiene una grammatica dell’italiano, che risulta però
poco sistematica e anche perché il trattato ha forma dialogica. Più che grammatica è una serie di norme e
regole esposte nella finzione di un dialogo, da cui emerge un profilo dell’italiano, che Bembo teorizzava.
Il dialogo è collocato nel 1502 e vi prendono parte 4 personaggi, ognuno dei quali è portavoce di una tesi
diversa:
1. Giuliano de’Medici, terzo figlio di Lorenzo il Magnifico, rappresenta la continuità con il pensiero
dell’Umanesimo volgare
2. Federico Fregoso espone molte tesi storiche
3. Ercole Strozzi, umanista e poeta in latino, espone le tesi degli avversari del volgare
4. Carlo Bembo, fratello dell’autore, è portavoce delle idee di Pietro
Nelle Prose viene fatta un’ampia analisi storico-linguistica, prendendo le distanze dalla tesi di Bruni,
secondo cui l’italiano era già esistito al tempo dell’antica Roma, come lingua popolare. Bembo non accettava
la ricostruzione storica e ne individuava i rischi, facendo osservare a Ercole Strozzi, sostenitore del primato
del latino, che non ci sarebbe stato nessun motivo di adottare una lingua scacciata dalle scritture classiche.
Secondo Biondo Flavio, il volgare era nato dalla contaminazione del latino ad opera degli invasori barbari e
il volgare stesso diventava un’entità nuova, da riscattare tramite gli scrittori e la letteratura.
L’italiano stava progressivamente migliorando, mentre il provenzale stava perdendo terreno; il discorso così
si spostava sul piano della letteratura, le cui sorti erano inscindibili da quelle della lingua. Il punto di vista
delle Prose è umanistico e si fonda sul primato della letteratura.
Quando Bembo parlava di lingua volgare, intendeva il toscano, quello letterario trecentesco dei grandi autori.
La lingua non si acquisisce dal popolo, secondo Bembo, ma dalla frequentazione dei modelli scritti, i grandi
trecentisti.
La sua teoria voleva coniugare la modernità della scelta del volgare, secondo un ideale classicistico: requisito
per la nobilitazione del volgare era un totale rifiuto della popolarità; ecco perché Bembo non apprezzava le
scelte di Dante nella Commedia di scendere verso il basso.
Bembo si preoccupava di precisare che le parti a cui faceva riferimento nel Decameron non erano quelle
dialogate, in cui emergeva il parlato, ma quelle dove era visibile lo stile dello scrittore, con la sua sintassi
latineggiante le inversioni e le frasi gerundive.
Era favorevole a una regolamentazione del latino aderente al periodo aureo della classicità, fondata sul
binomio Virgilio - Cicerone e a cui corrispondevano nel volgare Petrarca e Boccaccio.
La soluzione di Bembo formalizzava quanto era avvenuto nella prassi: il volgare si era diffuso in tutta Italia
come lingua della letteratura attraverso un’imitazione, più o meno cosciente, dei grandi trecentisti. La
grammatica dell’autore permetteva di portare a compimento quel processo, depurando il volgare dagli
elementi della koinè.
LA TEORIA CORTIGIANA
Per Calmeta il volgare migliore era quello usato nelle corti italiane e soprattutto nella corte d Roma; secondo
Castelvetro, egli faceva riferimento alla fiorentinità della lingua, che si doveva apprendere sui testi di dante e
Petrarca e doveva essere affinata attraverso l’uso della corte di Roma.
Nel ‘500 Roma era una città cosmopolita e la sua popolazione era molto esposta alla penetrazione di mode
linguistiche.
Equicola aveva parlato di una lingua capace di accogliere vocaboli di tutte le regioni italiane, mai plebea e
con una coloritura latineggiante e il cui modello risiedeva nella Corte di Roma.
Castiglione nel “Cortigiano”, uscito nel 1528 era un fautore della lingua cortigiana.
La differenza tra questo ideale e quello di Bembo sta nel fatto che i fautori della lingua cortigiana non
volevano limitarsi all’imitazione del toscano arcaico, ma preferivano far riferimento all’uso vivo di un
ambiente sociale determinato, come la corte.
Bembo obiettava che la lingua cortigiana era un’entità difficile da definire e non riconducibile
all’omogeneità.
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La sua tesi negava la fiorentinità della lingua letteraria e faceva appello alle pagine in cui Dante aveva
condannato la lingua fiorentina.
Trissino era convinto che la Commedia fosse stata scritta da Dante in omaggio ai principi esposti nel trattato
e ne rappresentasse la realizzazione; egli aveva proposto una riforma del’alfabeto italiano, con l’introduzione
di due segni del greco: epsilon e omega.
L’HERCOLANO DI VARCHI
Dal dibattito uscì vincente la tesi fiorentina arcaizzante di Bembo.
La situazione mutò nella seconda metà del secolo, quando uscì l’Hercolano di Benedetto Varchi, fiorentino,
che aveva maturato un’esperienza culturale al di fuori della sua città, essendo stato esule a causa di trascorsi
politici antimedicei.
A Padova aveva avuto modo di frequentare l’Accademia degli Infiammati, dov’era viva la lezione di Bembo
e lo aveva conosciuto di persona. Egli ebbe il merito di introdurre il bembismo nella città che più gli era
avversa, cioè Firenze, dove si rischiava di cadere in una posizione provinciale e marginale.
La rilettura di Bembo condotta da Varchi non fu fedele, anzi risultò un tradimento delle premesse del
classicismo volgare; ciò servì a rimettere in gioco il fiorentino vivo: fu una riscoperta del parlato.
Per Varchi la pluralità dei linguaggi non andava spiegata con la maledizione babelica, ma con la naturale
tendenza alla varietà propria della natura umana.
Inutile veniva reputata la ricerca del primo linguaggio umano, che secondo il De Vulgari, era l’ebraico.
Il concetto di lingua veniva discusso nell’ambito di una concezione sociale del linguaggio e veniva proposta
anche una classificazione delle lingue basata su alcuni elementi:
La loro provenienza dall’estero
La loror esistenza in un luogo
Il patrimonio di cultura e letteratura
La natura di idiomi vivi o morti
La comprensibilità
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3. verbo avverbio
Note sono dedicate all’aggettivo, alla congiunzione, alla preposizione e all’interiezione.
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rappresentate da un cortigiano e da Lazzaro Bonamico. Nel dialogo viene introdotto un altro dialogo narrato
da uno scolaro, che esprime una posizione originale: quella del filosofo aristotelico Pomponazzi.
Pomponazzi dichiarava che la filosofia avrebbe dovuto essere trasportata dalle lingue classiche, dal latino e
greco, alla lingua volgare, con traduzioni e conseguente modernizzazione della cultura.
Il latino e il greco gli sembravano un ostacolo alla diffusione del sapere. ( posizione controcorrente)
L’ACCADEMIA FIORENTINA
Le accademie svolsero nel ‘500 una funzione di primo piano, in quanto influenzarono gli intellettuali e
vennero dibattuti i problemi principali culturali.
L’accademia fu il luogo in cui vennero affrontate questioni linguistiche attuali: ad esempio come
nell’Accademia fiorentina nata nel 1541 dall’Accademia degli Umili e che nel 1542 divenne un organismo
ufficiale.
Nel 1532 fu stampato a Roma il trattato “De principatibus” di Machiavelli: il “Principe” è un esempio di
prosa, molto diverso da quello proposto da Bembo, in quanto Machiavelli scrisse in un fiorentino ricco di
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latinismi, inoltre in latino sono i titoli dei veri capitoli, nonostante l’autore non disdegnasse di accogliere
tratti bassi.
Nel 1540 fu stampata la “Storia d’Italia” di Guicciardini.
IL LINGUAGGIO SCIENTIFICO
Il volgare prevaleva nel settore della scienza applicata o diretta a fini pratici, non nella ricerca accademica.
Mattioli, che visse a lungo all’estero, medico alla corte imperiale, fu autore dei “Commentarii”, che ebbero
numerose ristampe e che serviva a identificare e classificare le piante utili a fini medicinali. Il libro
appartiene al campo delle scienze e della medicina, ma possiede anche valore pratico, per questo è scritto in
italiano.
La scelta del volgare acquista rilievo nel caso di Galileo, che appunto giungeva da un settore ostile del
volgare, quello della scienza universitaria. Rinunciando al latino, Galileo aveva lo svantaggio di limitare la
circolazione internazionale.
LA PROSA DI VIAGGIO
L’interesse linguistico della letteratura di viaggio consiste nella possibilità di reperire neologismi e
forestierismi, legati alla descrizione di nazioni e luoghi esotici. Questo tipo di letteratura, inoltre, può
esprimere interessi linguistici, quando accade che il viaggiatore si occupi degli idiomi parlati o scritti con cui
è entrato in contatto.
Tra gli ordini più attivi ci fu quello dei Gesuiti; Botero nelle “Relazioni universali”, del 1596, descrisse tutte
le parti del mondo conosciuto, attraverso i testi originali spagnoli di cui si servì come fonte; lo spagnolo
aveva una grande importanza come lingua internazionale.
Infatti negli scritto di tutti i viaggiatori ricorrono generalmente molti ispanismi, sia come prestiti di necessità,
che come citazioni.
L’EPISTOLOGRAFIA
Nel XVI secolo le raccolte di lettere, anche di autori famosi, costituirono un genere tra i più fortunati e
diffusi.
La maggior parte di questi libri fu stampata a Venezia.
IL LINGUAGGIO POETICO
ARIOSTO
Ariosto adeguò la propria lingua al modello toscano delle Tre Corone, eliminando i settentrionalismi e
accettando le regole della grammatica di Bembo.
Machiavelli criticò il linguaggio teatrale di Ariosto, giudicandolo innaturale.
L’esito finale del bembismo di Ariosto è il segno della riuscita della teorizzazione linguistica, che
nell’Orlando furioso si traduce in una lingua chiara, elegante e regolata.
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Il tono medio viene ottenuto anche con l’eliminazione di epiteti preziosi, sostituiti da termini prosaici e
quotidiana, da aggettivi più sobri e indeterminati.
IL PETRARCHISMO
È una caratteristica del linguaggio poetico del Cinquecento e consiste in una soluzione coerente con il
modello di Bembo e lui stesso nelle sue liriche, rappresentò questo gusto letterario. Il petrarchismo significa
la scelta di un vocabolario lirico selezionato e di un repertorio di topoi.
I cruscanti giudicavano che Tasso, rispetto ad Ariosto, non fosse facile da intendere e questo costringeva il
pubblico ad una lettura silenziosa.
Si poneva quindi un problema di sintassi e disposizione delle frasi nella struttura ritmica dell’ottava.
Nel lessico della poesia epica, Tasso mostrò una predilezione per il latinismo, che costituisce uno degli
elementi usati per far conseguire alla poesia, il livello elevato.
Le critiche della Crusca mostrano uno scarso apprezzamento nei confronti del nuovo gusto letterario, in
quanto Tasso si era staccato dal modello di Ariosto, senza preoccuparsi delle norme bembiane, ma l’autore ci
teneva a dimostrare che le sue scelte lessicali non si erano discostate così tanto dai grandi scrittori del
passato.
La violenza con cui Salviati attaccò Tasso ha un significato più profondo: egli era guidato dal fastidio nei
confronti di una stella nel mondo della letteratura volgare, che brillava lontano da Firenze e sembrava non
conoscerne il primato.
Il primato assoluto di Firenze sulla lingua era un’ambizione a cui Salviati aspirò per tutta la vita.
Nella sua Apologia, Tasso proponeva una distinzione tra fiorentino antico e moderno, contestando che i
fiorentini potessero ambire ad essere giudici più di altri competenti di letteratura e affermava che la lingua
volgare era qualcosa di separato dal volgo,avendo acquisito una dimensione colta.
Tasso osservava che la lingua di Dante era stata più fiorentina di quella di Petrarca, ma meno poetica (
alludendo alla formalizzazione di una lingua non realistica, vaga, allusiva, utilizzabile e utilizzata come
modello).
Le dispute tra Tasso e Salviati mostrarono una rottura: l’Accademia stava per coronare il suo progetto
istituzionale, per regolare la lingua italiana, mentre la letteratura prendeva un’altra strada, opposta e in
conflitto.
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LA CHIESA E IL VOLGARE
LA TRADUZIONE DELLA BIBBIA E LA LINGUA DELLA MESSA
La Chiesa fu tra i protagonisti della storia linguistica nel periodo dal Concilio di Trento alla fine del
Seicento.
La lingua ufficiale della Chiesa restò il latino, ma il problema del volgare emerse nella catechesi e nella
predicazione.
Il rapporto tra la Chiesa e la lingua volgare fu affrontato anche nel dibattito al Concilio di Trento: si discusse
la legittimità delle traduzioni della Bibbia, ma i padri non arrivarono a una decisione radicale.
Nel 1559 Paolo IV riservava una menzione alle Bibbie volgari, di cui era vietato il possesso senza licenza del
Santo Uffizio; la proibizione fu ribadita nel ‘500 e nel ‘600.
Al Concilio di Trento si affrontò il problema della traduzione della Sacra Scrittura, discusso nel 1546, in cui
fu fondamentale l’azione di Lutero con la famosa versione in tedesco.
Alcuni dei partecipanti del Concilio vedevano nella Bibbia una rischiosa fonte di errori e di eresie, altri erano
fautori della traduzione della Bibbia. Prevalse la posizione di chi preferì far cadere ogni riferimento alla
questione, lasciando decidere ai pontefici.
Per quanto riguarda il tema della Messa, era necessario contrapporsi alla tendenza manifestata dal mondo
protestante: veniva sottolineata la funzione di lingua sacra del latino. Inoltre al latino era riconosciuto il
carattere di lingua universale, che garantiva un’omogeneità internazionale nel messaggio della Chiesa.
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Vi era inoltre il problema del finanziamento, in quanto per stampare il Vocabolario occorrevano molti soldi e
questo costrinse gli accademici ad autofinanziarsi.
La situazione politica stessa dell’Italia era sfavorevole, perché la frammentazione politico-amministrativa
aumentava il rischio delle edizioni pirata.
Bastiano de’Rossi era incaricato di stendere la lettera dedicatoria da premettere al Vocabolario.
Il “Vocabolario degli Accademici della Crusca” uscì nel 1612, presso le tipografia veneziana di Giovanni
Alberti; sul frontespizio portava l’immagine del frullone, uno strumento che si usava per separare la farine
dalla crusca ( emblema) e con il motto: “Il più bel fior ne coglie”.
La lezione delle Prose sopravviveva, ma filtrata attraverso l’interpretazione fiorentinista di Varchi e Salviati;
il Vocabolario abbondava nel presentare termini e forme dialettali fiorentine e toscane:
assempro per esempio
calonaca per canonica
caro per carestia
manicare per mangiare
Per la scelta della grafia, il Vocabolario si collocò sulla linea dell’innovazione, distaccandosi in parte dalle
convenzioni ispirate al latino ( le h etimologiche e i nessi del tipo ct); notevoli erano anche la coerenza e
l’omogeneità delle scelte ortografiche.
Il Vocabolario assunse un prestigio sovra regionale; il Tesauro non fu mai d’accordo con il fiorentinismo
cruscante e diede una serie di indicazioni per sfruttare appieno le potenzialità della Crusca, facendo uso
anche della tavola lessicale latino-italiana. Il lessico latino poteva servire da guida per la ricerca del lessico
italiano.
ALESSANDRO TASSONI
Critico nei confronti della Crusca, preparò un elenco di osservazioni, utilizzate dagli accademici per la
seconda edizione del Vocabolario nel 1623.
La polemica contro la Crusca si caratterizzò per una sostanziale asistematicità .
Il pensiero di Tassoni esprimeva la protesta contro la dittatura fiorentina sulla lingua e proponeva di adottare
nel Vocabolario espedienti grafici per contrassegnare le voci antiche e le parole da evitare.
Tema fondamentale della riflessione era l’improbabilità dell’arcaismo linguistico, coerente con il disprezzo
per l’uso e l’abuso del latino negli scritti tecnici di materia medica e legale: Tassoni si mostrava ostile a ogni
culto della tradizione che ostacolava la modernità e la semplicità della comunicazione. Molte volte nelle sue
annotazioni vi era il riferimento all’uso linguistico di Roma, contrapposto a quello di Firenze.
Coerentemente con la sua posizione antibembiana, antifiorentina e anti arcaizzante, nel poema eroicomico
“La secchia rapita” utilizzò voci e frasi di vari dialetti centro-settentrionali ( bolognese, bresciano, modenese,
padovano, romanesco), seconda una forma di gioco linguistico che si addice allo stile comico.
DANIELLO BARTOLI
Noto per la sua elegante prosa, autore de “Il torto e il diritto del Non si può”, del 1655, libro che uscì sotto lo
pseudonimo di Ferrante Longobardi.
Non si tratta di una polemica diretta nei confronti del Vocabolario, né di affermazioni teoriche destinate a
controbattere a priori il metodo seguito dall’Accademia.
Bartoli usava una pungente ironia nei confronti di ogni forma di rigorismo grammaticale, volendo mettere a
fuoco che il grammatico deve usare con cautela il suo diritto di condanna e di divieto.
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L’opera principale di Bartoli è “Istoria della compagnia di Gesù”, pubblicata dal 1650 al 1673, in cui
descrisse anche i quadri geografici esotici in cui si erano svolte e si svolgevano le attività missionarie dei
suoi confratelli gesuiti. Bartoli che non viaggiava mia, usò per il suo lavoro gli scritti di coloro che erano
stati effettivamente in missione.
LE EDIZIONI DEL 1623 E DEL 1691 DEL VOCABOLARIO: SVILUPPO DELLA CRUSCA E DELLA
CULTURA LINGUISTICA TOSCANA
La fortuna del Vocabolario della Crusca è confermata dalle due edizioni che uscirono in seguito:
1. la seconda edizione uscì nel 1623, analoga alla prima, tranne per alcuni aggiunte e correzioni
2. la terza edizioni, stampata a Firenze e non più a Venezia, è del 1691 e si presenta diversa già
dall’esterno: tre tomi al posto di uno, con il formato in folio e un aumento del materiale, sia per la quantità
dei lemmi, che per gli esempi e la definizione delle voci
Anche dal punto di vista qualitativo i cambiamenti erano sensibili; i lavori per la riedizione durarono per 30
anni e furono importanti i contributi di Dati, Segni, Redi, Magalotti, Salvini.
Il binomio Redi-Magalotti era costituito da due letterati scienziati molto rinomati e ciò spiega la cura con cui
la Nuova Crusca diede conto del linguaggio scientifico, includendo Galileo fra gli autori.
Nella terza edizione si fece riscorso all’indicazione V.A., ossia Voce Antica, per segnalare le voci introdotte
nel vocabolario, non per proporle all’uso dei moderni, ma a scopo storico-documentario: era uno strumento
per facilitare la lettura degli scrittori antichi.
Sul versante della modernità venne dato uno spazio maggiore a voci non documentate nell’epoca d’oro della
lingua italiana, ossia il ‘300 e che risultavano dall’uso degli autori moderni. Inoltre furono inserite una serie
di voci attestate da scrittori di scienza del ‘600, queste e altre voci furono scelte sull’autorità di scrittori
contemporanei e dando la preferenza ai toscani.
Tra gli “Autori moderni” citati in difetto, vi sono diverse presenze non toscane, sia appartenenti al passato
che ai contemporanei, come Iacopo Sannazzaro, Baldassar Castiglione, Chiabrera, Pallavicino.
Annibal Caro era già stato inserito nella seconda Crusca, così come il Guarini, autore de “Il pastor fido”.
Ma l’autore più significativo, inserito nella Terza Crusca è Torquato Tasso; vistosa è l’assenza di Marino, in
quanto l’ambiente fiorentino era ostile agli eccessi del Barocco.
Nella terza Crusca, inoltre, furono dedicate delle pagine alla spiegazione dei criteri generali seguiti per
realizzare l’opera.
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epistolare. Egli divideva la propria attività tra il settore scientifico e quello umanistico. Frequente era da
parte sua la citazione di versi anche nel bel mezzo di una descrizione di un’esperienza, come i versi di Dante.
La poesia è utilizzata come vera e propria divulgazione.
Il termine popolare toscano poteva essere proposto accanto a quello colto.
Redi aveva il gusto per la denominazione d’uso, per la freschezza della lingua parlata e per l’impiego del
francesismo corrente.
IL MELODRAMMA
Nato a cavallo tra ‘500 e ‘600 e destinato a un grande successo nel secolo XVII.
L’Italia assunse una posizione egemonica per ciò che riguarda la produzione di opere liriche e il
melodramma permetteva di affrontare la questione del rapporto tra parola e musica.
Il melodramma del primo ‘600 fu un tentativo di ricreare la tragedia antica, che si immaginava fosse stata
eseguita dai greci con l’accompagnamento del canto e nacque dalla volontà di non sacrificare il testo del
libretto alle esigenze della melodia.
Nel Rinascimento assunse importanza la forma del madrigale: Tasso scrisse molte poesie dedicate alla
musica e al canto e altre volte i versi furono impiegati per la musica.
Il rapporto tra parola e melodia fu affrontato in maniera profonda e sistematica: così nel “Dialogo della
musica antica” del 1581 di Vincenzo Galilei.
Il teatro del ‘500 era stato recitato e non cantato, fino a quel momento e la musica era rimasta confinata.
La nascita del melodramma avvenne nel 1600 con la rappresentazione dell’ “Euridice”, in occasione delle
nozze di Maria De’ Medici. Il melodramma si caratterizzava come un tipo di spettacolo d’elite, come forma
di divertimento che richiede scenografie e allestimenti.
Il linguaggio del melodramma si inseriva nella linea della lirica petrarchesca, rivisitata attraverso Tasso, in
particolare nell’ “Aminta”.
La poesia barocca estese il repertorio dei temi e delle situazioni, assunte come oggetto di poesia e il
rinnovamento tematico ne portò uno lessicale.
La prosa scientifica, frutto dello spirito di osservazione e del gusto sperimentale e quindi frutto del metodo di
Galileo, aveva descritto con interesse il regno animale. I poeti barocchi non furono da meno e arrivarono a
utilizzare gli stessi strumenti della scienza.
L’ “ADONE” DI MARINO
Nell’Adone vi sono famose ottave in cui lo scrittore, in una complessa allegoria, introdusse l’anatomia del
corpo umano e adoperò termini anatomici per tentare una descrizione delle diverse parti del corpo. Il lessico
dell’anatomia venne introdotto per celebrare i sensi il corpo umano.
Altre ottave utilizzavano la descrizione della luna fatta da Galileo, per ribadire la disponibilità della
letteratura verso le scoperte della scienza.
Un filone della poesia barocca cha fa capo a Marino, impiegò il lessico scientifico, insieme alla tematica e
agli oggetti della scienza. La scienza così viene riconosciuta dalla letteratura.
La presenza del lessico scientifico confermò la tendenza al rinnovamento, verificabile nell’inserimento di
forestierismi e di parole provenienti dalla tradizione comica.
Inoltre nell’Adone fu inserita l’attualità: vengono adoperati i cultismi, grecismi, latinismi, non di rado di
provenienza scientifica.
Vengono impiegate le parole composte e non poco comuni, oltre a quelle inventate, che sono simili a quelle
comuni, ma non uguali e che hanno un significato comico.
Quello dei marinisti fu uno stile ricco di metafore, oltre che di bisticci. La donna venne ritratta non in
sembianze petrarchesche.
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C’è una polemica contro il dogmatismo grammaticale e contro l’autorità pedantesca e che si traduce in una
concezione della lingua intesa come qualcosa di libero, destinato a mutare nel corso del tempo.
Secondo Tesauro, la lingua è un sistema aperto e mutevole e lo scrittore è libero di sottrarsi alle convenzioni
grammaticali; viene così legittimata la violazione della norma, purché sia fatta consciamente, da parte di chi
conosce l’esistenza.
Egli contrappose la cacofonia alla cacozelia:
1. la cacofonia, cioè il cattivo suono, è un vizio di forma
2. la cacozelia è il difetto di quelli che errano per essere rispettosi nei confronti delle norme
grammaticali
Anche le parole straniere, definite barbarismi, possono diventare eleganti; anzi proprio perché inusitate nella
nostra lingua, hanno un effetto migliore di quello che si riscontra nell’idioma da cui provengono, perché
diventano pellegrine.
La polemica di Tesauro contro gli arcaismi lessicali ritorna in “Della’arte delle lettere missive”, un trattatello
di stile epistolare: a suo giudizio la maturità della lingua italiana, cominciata nel secolo XVI andava
crescendo e la lingua moderna risultava migliore di quella antica.
Alcune pagine del “Cannocchiale aristotelico” discutono della metafora, la figura retorica più caratteristica
della poesia barocca. Aristotele nella “Reotrica” aveva accennato alla metafora come strumento di effettiva
conoscenza della realtà, capace di cogliere l’analogia tra cose differenti.
La trattatistica barocca poté considerare la metafora come fulcro dell’attività poetica, frutto di un ingegno,
che è la facoltà creativa, distinta dalla capacità razionale dell’uomo.
Si tendeva verso la metafora e la ridondanza lessicale, spesso in forma di climax e di gioco verbale.
Le “Dicerie sacre” di Marino si collegano alla predicazione religiosa: Marino, pur essendo un laico, imitò lo
stile e il genere della predica.
Già nella seconda metà del ‘500 le raccolte di prediche avevano affiancato le raccolte dei discorsi laici, le
orazioni politico- giudiziarie o celebrative.
Nel ‘600 le raccolte di prediche furono pubblicate sotto il titolo di “Panegirici”, “Quaresimali”.
I titoli costruiti secondo l’artificio della sorpresa furono comuni nel ‘600, così come l’uso di formule
sorprendenti nel contenuto della predica.
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La soluzione proposta era quella dell’italiano comune che si staccava dal parlato popolare ed evitava di
avvicinarsi al fiorentino, in quanto sarebbe risultato falso e avrebbe dato un tono di eccessivo artificio alla
predica.
A vantaggio del francese giocava la vicinanza della prosa e della poesia, indice di razionalità e Bouhours
voleva promuovere il francese come lingua universale, il “nuovo latino”.
La lingua italiana veniva giudicata come incapace di esprimere in modo ordinato il pensiero umano e veniva
confinata come strumento della lirica amorosa e del melodramma.
Solo nel ‘700 autori come Orsi, Muratori si preoccupavano di difendere la lingua italiana dalle accuse nei
suoi confronti.
LA LETTERATURA DIALETTALE
LETTERATURA DIALETTALE RIFLESSA
Nacque una letteratura dialettale cosciente di essere tale e volontariamente opposta alla letteratura in toscano:
letteratura dialettale riflessa.
La tradizione letteraria italiana fu caratterizzata dalla grande vitalità della letteratura in dialetto, che assunse
un ruolo non secondario.
Alcuni nomi di autori possono essere ricondotti a Cortese, Peresio, Berneri, che apportò una serie di postille
linguistiche destinate a spiegare le espressioni dialettali o gergali.
Anche nel teatro ci furono autori dialettali di rilievo, come Tana, nobile piemontese.
Per Maggi, milanese, il dialetto era una lingua degna di elogio e strumento di moralità; la sua satira morale si
inserisce nella linea lombarda che conduce a Porta e Parini, con un impegno letterario di alto livello.
Uno dei settori in cui si applicò il dialetto fu quello del travestimento comico o parodico dei grandi poemi,
come la “Gersulamme liberata”, che fu realizzata in veneziano, bolognese e napoletano.
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Cesarotti nel “Saggio sulla filosofia delle lingue”, prima edizione del 1785 con il titolo “Saggio sulla lingua
italiana”, seconda edizione del 1788: conteneva un sistema valido, fondato su una concezione generale del
linguaggio, elaborata sulla base di idee diffuse nel ‘700 dalla cultura francese. Il saggio si apre con una serie
di teorie:
tutte le lingue nascono e derivano, all’inizio della loro storia sono barbare, ma il concetto di barbarie
non ha senso se lo si utilizza nel confronto fra le lingue, perché tutte servono ugualmente all’uso della
nazione che le parla
nessuna lingua è pura: tutte nascono dalla composizione di elementi vari
tutte le lingue nascono da una combinazione casuale, non da un progetto razionale
nessuna lingua nasce da un ordine prestabilito
nessuna lingua è perfetta, ma tutte possono migliorare
nessuna lingua è tanto ricca da non aver bisogno di nuove ricchezza
nessuna lingua è inalterabile
nessuna lingua è parlata in maniera uniforme nella nazione
Cesarotti poi affronta il problema della distinzione tra lingua orale e lingua scritta; quest’ultima ha una
dignità superiore, in quanto momento di riflessione e strumento con cui operano i dotti.
La lingua scritta per l’autore non dipende dal popolo e nemmeno dagli scrittori, non può essere fissata in
modelli.
La polemica si caratterizza per il suo antipurismo.
La III parte del saggio è più pratica: Cesarotti indica la strada per una normativa illuminata, da contrapporre
a quella troppo rigida della Crusca. A differenza degli illuministi radicale del “Caffè” egli non vuole una
libertà da ogni regole e riconosce il valore dell’uso, quando accomuna scrittori e popoli.
Chi scrive non deve guardare a un passato morto e sepolto: gli scrittori sono liberi di introdurre termini nuovi
o di ampliare il senso dei vecchi. I termini nuovi possono essere introdotti per analogia con i termini già
esistenti.
Un’altra fonte di parole possono essere i dialetti italiani e Cesarotti ammette che possono essere adottate
anche parole straniere, ma questa scelta dev’essere fatta con cautela.
Egli inizia il suo discorso sui prestiti trattando la questione delle parole latine e dei grecismi; in nome della
chiarezza egli pensa che sarebbe auspicabile una diminuzione del loro numero nel linguaggio scientifico.
Questa posizione diffidente nei confronti dei grecismi, anticipa quella di Pietro Giordani, che propose
termini composti italiani invece di quelli greci.
Toccare il problema significava affrontare il tema più spinoso dei forestierismi provenienti dalle lingue
moderne e soprattutto dal francese. Ma per Cesarotti i forestierismi e i neologismi, una volta entrati in
italiano, possono produrre nuove derivazioni.
Il “genio della lingua”, inteso come carattere originario tipico di un idioma e di un popolo, era utilizzato
dagli avversari dei forestierismi per dimostrare l’estraneità e l’improponibilità del termine esotico.
Cesarotti propone un duplice concetto di genio grammaticale e retorico per distinguere meglio nella lingua
ciò che deve essere difeso come inalterabile da ciò che invece può mutare in relazione ai tempi e al
progresso.
La struttura grammaticale delle lingue è infatti inalterabile, il lessico invece dipende dal genio retorico e
riguarda l’espressività della lingua stessa; è in quest’ultimo settore che tutto è alterabile come i prestiti e le
derivazioni. Quindi ha torto chi afferma che i forestierismi guastano la lingua, in quanto le strutture
grammaticali non sono investite dal cambiamento.
La IV parte del saggio, a conclusione, è dedicata all’esaminazione della situazione italiana e propone delle
soluzioni positive alle polemiche della questione della lingua. Proprio nelle ultime pagine si affronta il tema
del rinnovamento della lessicografia legata all’attualità della politica.
Poiché la lingua è della nazione, Cesarotti, proponeva di istituire un Consiglio nazionale della lingua, al
posto della Crusca e la sede avrebbe dovuto essere ancora Firenze; la nuova istituzione si sarebbe occupata
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di studi etimologici e filologico - linguistici, ma soprattutto con attenzione al lessico tecnico delle arti, dei
mestieri e delle scienze. La schedatura avrebbe superato la selettività letteraria e avrebbe permesso di
arrivare alle parole di uso regionale e poi si sarebbe arrivati ad una scelta; il patrimonio lessicale ottenuto
sarebbe stato confrontato con quello ,presente nei vocabolari di altre nazioni.
Compito finale del Consiglio era la compilazione di un vocabolario, realizzato in due forme:
1. un’edizione ampia, scientifica rivolta agli specialisti e con carattere etimologico, storico, filologico e
comparativo
2. un’edizione di uso comune, pratica e divulgativa.
Il saggio si chiude con un appello alle attività intellettuali, chiamando Firenze a farsi guida culturale d’Italia,
con il consenso delle altre regioni, ma fu inascoltato.
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IL LOMBARDO-VENETO
Alla fine del XVIII secolo furono avviate delle riforme nelle scuole del Lombardo - Veneto, grazie alla
politica scolastica di Maria Teresa d’Austria.
Fu ideato a Berlino e giunse in Italia attraverso l’Austria un nuovo metodo didattico, detto normale, in cui
per la prima volta prendeva forma l’unita della classe concepita in maniera moderna, come un gruppo a cui
venivano dati insegnamenti per obbiettivi didattici unitari.
Tra il 1786 e 1788, il padre Soave pubblicò una serie di manuali per l’insegnamento dell’italiano che ebbero
grande fortuna.
Nel 1783 era stato pubblicato a Rovereto un abc, ovvero “Il libretto dei nomi” e poi modificata dal Soave per
realizzare il nuovo “Abbeccedario”, che consentiva un percorso graduale dalla lettera alla sillaba, alla parola,
alla frase, al testo in prosa, al testo in versi.
Per Soave il dialetto poteva essere utilizzato come punto di accesso alla lingua italiana, fornendo frasi
dialettali da tradurre in italiano. L’obbiettivo era la conoscenza dell’italiano finito e per Soave finito
significava accurato ed elegante, cioè il toscano.
Dalla riforma austriaca nacque un’idea di una scuola comunale con il compito di insegnare a leggere e a
scrivere; scuola istituita nell’‘800 negli stati dell’Italia settentrionale. La scuola comunale si collega anche
alla pedagogia popolare del Romanticismo.
SCRITTURE POPOLARI
Anche nel ‘700, si reperiscono scritture popolari, di semicolti, in cui si ha modo di osservare un uso difettoso
della lingua scritta.
Questo tipo di situazione comunicativa dava luogo a interferenze del codice dialettale con quello
dell’italiano.
Un italiano di tipo regionale e popolare si rintraccia negli annunci commerciali sulle gazzette, come negli
articoli di cronaca giornalistica, con un italiano assai modesto e con tratti popolari.
LINGUAGGIO TEATRALE E DEL MELODRAMMA
L’OPERA IN MUSICA
Il successo dell’opera italiana è nel ‘700 molto grande anche all’estero. Il successo della lingua italiana
nell’opera per musica contribuì a fissare lo stereotipo dell’italiano come lingua della dolcezza, della
cantabilità, della poesia, dell’istinto, della piacevolezza, in contrapposizione al francese, lingua della
razionalità e della chiarezza.
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Il giudizio sul linguaggio del melodramma portava anche alle’stero una valutazione favorevole delle opere
italiane; una delle più fortunate fu la “Serva padrone” di Pergolesi, rappresentata a Napoli nel 1733. Il
successo di quest’opera all’estero fu grande e lo stile musicale italiano trovò paladini in Voltaire, Rousseau e
Diderot. Il linguaggio dell’opera influenzò anche l’italiano imparato da alcuni stranieri.
Nei paesi di lingua tedesca, ebbe un nuovo successo con il trionfo dell’opera italiana a Vienna, con
Metastasio; anche Mozart conosceva l’italiano e lo adoperò in forme curiose e vivaci e il compositore
utilizzò libretti scritti dall’italiano Da Ponte.
IL LINGUAGGIO DI GOLDONI
La rappresentazione scenica richiedeva uno sforzo notevole di approssimazione; non esistendo in Italia una
vera lingua comune di conversazione, un autore teatrale che volesse simulare il parlato, senza imparare la
lingua toscana viva, era costretto o a ricorrere al dialetto o a impiegare una lingua mista, in cui entrassero
elementi diversi, come francesismi ecc..
Goldoni optò per l’una e l’altra soluzione: scrisse opere in dialetto veneziano, in italiano e anche in francese.
Il suo francese era stata una lingua formalmente imperfetta, ma assai vivace e adatta alla scena.
L’uso del dialetto, che in scena non è un problema, richiede qualche temperamento in occasione della
trasposizione scritta, a stampa:
sparisce il tradizione bolognese del dottore avvocato
il dialetto veneziano resta, ma corredato da una serie di chiose per far intendere anche ai non veneti
particolarità che andrebbero perdute
sono spiegati in nota gli elementi di un ipotetico italiano settentrionale, in cui le careghe stanno al
posto delle sedie e barba sta per zio
vengono commentati i proverbi, le parole del dialetto meno trasparenti.
Dialetto e lingua non sono da considerare in opposizione, ma si alternano e si confondono in una stessa
battuta.
L’italiano teatrale di Goldoni è estraneo alle preoccupazioni di purezza. Egli rivendicava il valore pratico
delle sue scelte, al di fuori di ogni teoria.
Lingua non elegante, ma viva, innovativa, specialmente sul piano sintattico. In Goldoni domina una sintassi
di tipo paratattico, in cui affiorano caratteri propri del parlato e del registro informale, rimasti ai margini
della norma grammaticale.
LINGUAGGIO POETICO
L’ARCADIA
Risale al 1690 la fondazione a Roma dell’Arcadia, movimento che con le sue diffuse colonie organizzate in
ogni centro italiano, anche nelle località di provincia, fu un esercizio poetico di grandissime dimensioni.
Questa stagione poetica così florida ebbe come strumento una lingua tradizionale, ispirata al modello del
Petrarca e intesa a liberarsi degli eccessi formali del Barocco.
La poesia didascalica ebbe una grande fortuna, in quanto incarnava ideali di divulgazione e di progresso e
celebrava i successi della ricerca scientifica, come nell’ “Invito a Lesbia Cidonia” di Mascheroni, dove
Lesbia Cidonia venne guidata a visitare i laboratori dell’Università di Pavia.
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LA PROSA LETTERARIA
SEMPLIFICAZIONE E LINEARITA’ SINTATTICA
Nella categoria della prosa letteraria è da includere la prosa saggistica del ‘700; è questo tipo di prosa che
attraverso l’influenza delle lingue straniere, si avvia verso una semplificazione sintattica.
Molti scrittori confrontavano la tradizione francese con quella inglese: lo fa Beretti nella “Frusta letteraria”,
Verri in un intervento sul “Caffè”, dove dichiara la propria ammirazione per l’ordine della scrittura francese
e per la brevità della scrittura inglese e lamentando la penosa trasposizione dello stile italiano.
“Le notti romane” di Verri, sono un esempio di proda che si propone come nobile modello neoclassico,
ispirandosi all’antico, con latinismi e con una sostenutezza oratoria.
Serianni propone un confronto fra l’incipit dell’originaria redazione autografa de “Dei delitti e delle pene” di
Beccaria e quello dell’edizione a stampa:
tra i due testi intercorre una sostanziale revisione stilistica, che ha per oggetto una semplificazione
del periodo
la stesura originale passò per le mani di Verri che ebbe parte in questa semplificazione delle strutture
sintattiche
L’obiettivo della chiarezza veniva perseguito dagli Illuministi e non sempre con successo.
LA PROSA DI VICO
Giambattista Vico aveva aderito al capuismo, cioè al movimento arcaizzante del filosofo e scienziato
napoletano Leonardo Di Capua, che imitava i modelli toscani antichi.
Nella “Scienza nuova” si riconoscono arcaismi e latinismo, in una sintassi diversa dall’armonica struttura
classicistica ricca di equilibrio.
Nella prosa di Vico si possono trovare vere e proprie cascate di subordinate.
ALFIERI
L’autore non perse occasione per parlare male della lingua francese e per descrivere il proprio
apprendimento del toscano classico.
La Firenze di Alfieri era diversa da quella che affascinerà i cacciatori di lingua viva e parlata dell’età
romantica ed era una sorta di mito letterario- archeologico.
Ci restano dei suoi appunti, in cui le parole toscane erano affiancate agli equivalenti francesi o piemontesi; lo
stesso Alfieri iniziò nel 1774-75 in lingua francese il suo diario personale, per passare all’italiano nel 1777.
Nelle tragedie di Alfieri lo stile dell’autore si caratterizzò per un volontario allontanamento dalla normalità
ordinaria e dal cantabile, allontanamento ottenuto attraverso ogni sorta di artificio retorico, in particolare
attraverso la trasposizione sintattica e la spezzatura delle frasi.
La lettura della “Vita” risulta più agevole, perché è un’avventura linguistica e perché descrive il cammino
verso la lingua toscana di un giovane aristocratico piemontese, nato in una regione in cui l’italiano non era di
casa e si parlava il francese.
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L’efficacia pratica del Purismo, nella sua durata temporale molto lunga, si realizzò anche in seguito, dopo
l’Unità italiana, quando l’insegnamento di molte scuole fu improntato a metodi che discendevano dalle idee
di Puoti e di Cesari.
I “Fatti di Enea”, il “Novellino”, le prediche del Cavalca restano tra i libri fondamentali per l’educazione dei
giovani.
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La sua teoria linguistica dev’essere giudicata alla luce dei suoi scritti postumi.
Nel 1974 sono state pubblicate le cinque redazioni del trattato “Della lingua italiana”, su cui Manzoni lavorò
per circa trent’anni e questo h portato gli studiosi a riesaminare la teoria manzoniana.
Manzoni, negli interventi pubblici, non esibì il lavoro teorico che aveva perseguito negli anni; in vita curò la
pubblicazione di interventi brevi e occasionali, come la “Lettera al Carena”, del 1847 e stampata nel 1850, la
“Lettera intorno al libro “De vulgari eloquio” di Dante Alighieri” del 1868 ecc…
Nel 1932 fu pubblicato il “Sentir Messa”, un libro della lingua d’Italia, anch’esso lasciato incompiuto.
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analizzava lo stile di diversi autori, da Boccaccio, Machiavelli, Bartoli a Giordani e individuava i difetti di
costruzione e le inversioni che ne rendevano faticosa la lettura. In alternativa proponeva uno stile piano,
adatto a una piacevole conversazione.
L’esempio di Manzoni favorì la cosiddetta “risciacquatura in Arno”, il soggiorno culturale a Firenze, con lo
scopo di acquisire familiarità con la lingua parlata della città.
Manzoni influenzò doversi intellettuali; anche Morandi, precettore di Vittorio Emanuele III fu manzoniano.
L’unico freno alla diffusione della teoria manzoniana nel mondo della scuola fu il prestigio di Carducci come
poeta-professore, avversario del toscano popolareggiante.
REALIZZAZIONI LESSICOGRAFICHE
GRANDI DIZIONARI NELLA PRIMA META’ DEL’800
L’800 è stato il secolo dei dizionari ed è stata una stagione florida sia per la produzione che per la qualità,
oltre che per la varietà di realizzazioni.
In questo secolo il dibattito sul lessico prese le mosse dalla Crusca, sia in riferimento alle idee linguistiche
dell’Accademia, sia per la rivisitazione extratoscana del Vocabolario degli Accademici, realizzata nel 1806-
11 dal padre Antonio Cesari di Verona, capofila del Purismo ( Crusca veronese).
Cesari aveva riproposto il Vocabolario della Crusca con delle aggiunte, allo scopo di esplorare il repertorio
della lingua antica, quella trecentesca, dei grandi autori, ma anche di quelli minori.
Tra il 1833 e il 1842 fu pubblicato il Vocabolario della lingua italiana di Manuzzi, anch’esso nato da una
revisione della Crusca; quest’autore fu un purista e il vocabolario attestava la tendenza di una parte della
cultura italiana di adattarsi nel passato.
Altre riproposte sono:
il “Dizionario della lingua italiana” in 6 volumi di Cardinali, Oriolo e Costa, pubblicato a Bologna
nel 1819
il “Dizionario della lingua italiana” in 7 volumi di Carrer e Federici, uscito a Padova fra il 1827 e il
1830
Entrambi i vocabolari dichiararono di aver integrato la Crusca con voci riprese dall’Alberti di Villanova,
dalla Proposta di Monti e dalla Crusca veronese di Cesari.
La somma delle aggiunte avveniva in maniera piuttosto meccanica e queste opere potevano peccare di
originalità; la forma grafica si poteva così riscontrare: l’asterisco era il segno scelto per contrassegnare tutte
le voci non presenti nella Crusca e che risultavano poco riconoscibili. La soluzione era comoda per
identificare più rapidamente le novità introdotte.
Tra i 1829 e il 1840 si stampò il “Vocabolario universale italiano”, la cui base era sempre la Crusca, però
rivisitata: l’opera aveva un taglio prettamente enciclopedico, con attenzione alle voci tecniche. Fu detto
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“Tramater”, dal nome della società tipografica napoletana che lo stampò e superò le definizioni tradizionali,
in quanto nei vocabolari precedenti i lettori avevano fatto riferimento a conoscenze presupposte nel lettore (
cane, come animal noto o cavolo, come erba nota); nel Tramater la definizione zoologica e botanica
poggiava sulla precisa classificazione scientifica.
IL “DIZIONARIO” DI TOMMASEO
Nessun vocabolario eguagli la qualità di questo, terminato poi da Bellini.
Il progresso appariva sostanziale; Tommaseo era già noto come lessicografo, soprattutto per i “Sinonimi”.
Il vocabolario si presentava sotto l’auspicio dell’unità politica appena raggiunta.
L’autore si preoccupò di illustrare attraverso il dizionario, le idee morali, civili, letterarie ed in effetti molti
termini politici e civili entrano per la prima volta in una vocabolario italiano.
Uno dei punti di forza consisteva, oltre che nella mole e abbondanza dei lemmi, nella strutturazione delle
voci: il criterio più seguito stava nel:
dichiarare l’ordine delle idee, seguendo un criterio logico, a partire dal significato più comune e
universale
ordinare gli eventuali significati diversi, individuati da numeri progressivi
privilegiare l’uso moderno, pur documentando quello passato.
Risultò così il primo vocabolario storico della nostra lingua.
IL VOCABOLARIO MANZONIANO
La relazione “Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla” del 1868 si chiuse con la proposta di un
vocabolario.
Per Manzoni bisognava scindere le due funzioni confuse neo vocabolari italiani: mostrare l’uso vivente, per
indicare l’uso vivo di Firenze, e documentare gli esempi degli scrittori del passato. Quest’ultimo fine doveva
essere rinviato a lessici appostiti, di tipo storico. L’obiettivo di Manzoni consisteva nella realizzazione di una
serie di vocaboli dialettali che suggerissero l’esatto equivalente fiorentino.
Il vocabolario veniva utilizzato come strumento primario di intervento linguistico.
Manzoni non vide il compimento del suo vocabolario e alla sua morte, nel 1873, si era appena avviata la
pubblicazione del “Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze”, il cosiddetto “Giorgini-
Broglio” ( uno era il genero, l’altro era il ministro dell’Istruzione). L’opera si concluse nel 1897 e non arrivò
mai ad un largo pubblico, anche per la concorrenza di altre iniziative, come:
1. il “Vocabolario della lingua parlata” di Rigutini-Fanfani, del 1875
2. il “Novo dizionario universale della lingua parlata” di Policarpo Petrocchi, del 1887-91.
Il Giorgini-Broglio scomparve quasi del tutto dalla circolazione. Al posto delle citazioni tratte dagli scrittori,
presentava una serie di frasi anonime, testimonianza del’uso generale e allo stesso tempo venivano eliminate
le voci arcaiche.
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Negli anni in cui maturava l’Unità, fu maggiormente avvertita la necessità di lessico tecnico: la nostra era
una lingua che possedeva le parole per la poesia, per il poema e per il melodramma e risultava debole o poco
utilizzabile, proprio nel settore tecnico-pratico e familiare.
Carena nella sua opera si preoccupò di verificare l’uso vivo toscano<. Egli era convinto che i vocaboli non
usati dagli artigiani di Firenze, ma documentati da ottimi libri, potessero essere accolti come vivi e italiani.
DIZIONARI DIALETTALI
L’800 fu anche il secolo della lessicografia dialettale. L’esigenza di queste opere fu determinata
dall’interesse romantico per il popolo e la cultura popolare, a cui seguì la curiosità della linguistica per il
dialetto, considerato una parlata con la sua dignità, i suoi documenti, la storia parallela a quella della lingua
nazionale.
Lo studio dei dialetti si accompagnò a una profonda curiosità per le tradizioni popolari e anche per le forme
letterarie della cultura orale.
La casa editrice Pomba nel 1859 aveva stampato il “Gran dizionario piemontese-italiano” di Vittorio di
Sant’Albino; nella presentazione già si spiegava come il vocabolario dialettale fosse al servizio di quello
nazionale e dovesse servire all’apprendimento della lingua della patria.
Ponza, autore di diversi vocabolari dialettali, aveva proposto di usare il dialetto come via d’accesso
all’italiano, in modo da accostare il noto all’ignoto.
Altri dizionari:
“Vocabolario domestico napoletano e toscano” di Puoti del 1841
“Vocabolario milanese-italiano” di Cherubini, usato da Manzoni
“Dizionario del dialetto veneziano” di Boerio
“Nuovo dizionario siciliano-italiano” di Mortillaro
LA SCUOLA
Con la formazione dell’Unità, per la prima volta la scuola elementare divenne gratuita e obbligatoria,
secondo l’ordinamento dello stato sabaudo dalla legge Casati del 1859, che fu estesa al territorio nazionale.
La legge Coppino del 1877 rese effettiva la frequenza, almeno per il primo biennio.
De Mauro dimostrò che questa scuola però non fu efficace, per le difficoltà che aveva questo servizio in un
paese dalle condizioni estremamente arretrate.
Nel 1861 almeno la metà della popolazione infantile evadeva l’obbligo scolastico. Le regioni in cui c’erano
meno analfabeti erano il Piemonte, la Lombardia e la Liguria, oltre al miglior tasso di scolarità e con
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un’istruzione diffusa tra il popolo, ma erano svantaggiate nella conversazione italiana, per la notevole
distanza tra i dialetti gallo-italici e il toscano.
In Toscana ed Emilia Romagna gli analfabeti erano nel 1861 tra il 70% e l’80% e oltre l’80% erano in
Abruzzo, Sardegna, Campania, Puglia, Sicilia ecc..
Esistevano condizioni di grave disagio e in certi casi i maestri usavano il dialetto per tenere lezione.
Nella scuola, poi, soprattutto in quella superiore si confrontarono posizioni teoriche diverse: erano presenti
insegnanti puristi, insegnanti manzoniani e classicisti, che proponevano ai loro allievi modelli diversi
d’italiano.
Nelle province napoletane era viva la lezione di Puoti, mentre i manzoniani erano aperti verso il toscano vivo
e cercavano di ottenere uno svecchiamento delle letture scolastiche, tra questi vi era Luigi Morandi,
precettore di Vittorio Emanuele III.
Tra coloro che si occuparono di scuola ci fu anche Carducci, avverso a ogni atteggiamento manzoniano filo
fiorentino e non fu concorde con le posizioni retrograde dei cultori del ‘300; il suo percorso era basato su un
sentimento classico della lingua letteraria.
L’ “Idioma gentile” di De Amicis ebbe una certa influenza sugli insegnanti e vi si trovavano elenchi di
parole toscane e l’invito ad abbandonare il dialetto e le forme dell’italiano regionale.
ALTRE CAUSE DELL’UNIFICAZIONE LINGUISTICA
Le cause che avevano portato all’unificazione linguistica per De Mauro erano:
1. azione unificante della burocrazia ed esercito: la Grande Guerra del ’15-’18 fece convivere migliaia
di soldati, provenienti da diverse regioni, a contatto con ufficiali istruito e questo ebbe effetti linguistici
rilevanti
2. azione della stampa periodica e quotidiana
3. effetti di fenomeni demografici come l’emigrazione: gli emigranti italiani erano in gran parte
analfabeti e dialettofoni e il loro allontanamento fece diminuire il numero di coloro che erano in condizioni
svantaggiate rispetto alla lingua e alla scuola. L’emigrante di ritorno, però, fu un elemento di effettivo
progresso, perché l’esperienza lontano dalla zona d’origine gli aveva insegnato ad essere diverso ed
apprezzare il valore dell’istruzione e dell’alfabetismo
4. aggregazione attorno a poli urbani e moderna industrializzazione: l’industrializzazione fece crescere
la popolazione di alcune grandi città e attirò manodopera proveniente da altre regioni o zone rurali della
stessa regione. Ebbe come effetto uno spostamento degli abitanti e un’integrazione nel nuovo luogo di
residenza, con un abbandono del dialetto di origine.
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Castellani difese la Toscana, insistendo sull’importanza del manzonismo e di autori toscani per la diffusione
della prosa italiana media; tra i canali di diffusione del toscano c’erano opere del Collodi, di De Amicis,
romanzi per ragazzi ecc..
IL LINGUAGGIO GIORNALISTICO
Nel XIX secolo il linguaggio giornalistico acquistò un’importanza nuova; il giornalismo, sotto l’influenza di
quello francese, inglese e tedeschi, presentava una notevole apertura a innovazioni sia nel lessico che nella
tecnica espositiva.
I periodici volevano raggiungere un pubblico nuovo e necessitavano di un linguaggio più semplice, anche se
il giornale primo - ottocentesco restava un prodotto d’elite.
Nella seconda metà del’800 il giornalismo diventò un fenomeno di massa e le edicole furono il punto di
vendita della stampa periodica. Nel giornale si alternavano voci colte e libresche e popolari, oltre che a forme
regionali come camorra e picciotto. La sintassi giornalistica sviluppò la tendenza al periodo breve e alla frase
nominale.
La lingua giornalistica era molto esposta al nuovo: si registrano neologismi e forestierismi presenti nella
lingua viva e parlata e compaiono per la prima volta termini come attrezzatura, confisca, delibera, importo.
Il giornale è interessante perché composto da parti diverse: la lingua della cronaca, degli articoli politici o
letterari, economici, pubblicitari; questi ultimi contenevano termini nuovi o parole regionali, censurate dai
puristi.
LA PROSA LETTERARIA
CONSERVATORISMO LINGUISTICO
Gli sviluppi della prosa nell’800 erano importanti, in quanto era l’epoca in cui si fondava la moderna
letteratura narrativa, attraverso due svolte fondamentali, legate a Manzoni e Verga.
Manzoni ebbe il merito di rinnovare il linguaggio non solo del romanzo, ma anche della saggistica,
avvicinando lo scritto al parlato.
La prosa letteraria della prima metà del’800 era ancora condizionata dal modello puristico e classicistico.
I puristi, coerenti con l’Abate Cesari, imitavano la letteratura antica e scrivevano alla maniera del Boccaccio
e alcuni di essi erano influenzati dal fiorentino vivo: la maggio parte non prendeva neanche in
considerazione il popolo. La loro prosa era ricca di arcaismi.
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Eliminazione di forme eleganti, auliche, affettate, arcaicizzanti o letterarie rare: al loro posto forme
comuni e usuali.
Assunzione di forma tipicamente fiorentine, come i monottonga menti in –uo- ( spagnuolo >
spagnolo ), uso di lui e lei come soggetti al posto di egli ed ella.
Eliminazione di doppioni di forme e voci ( eguaglianza > uguaglianza, pel e col > per il, con il)
L’uso manzoniano ha influenzato il destino della lingua italiana: altre innovazioni stanno nel:
Quasi generale eliminazione della d eufonica dai monosillabi ad/ed tranne davanti a vocale
corrispondente
Larghezza di elisioni ( di alloggiare > d’alloggiare) e di apocopi ( viene, quasi a un tratto > vien,
quasi a un tratto), ma meno frequenti
La risciacquatura dei panni in Arno determinò l’adozione di uno stile più naturale, sciolto dalla tradizione
aulica-
La posizione di Manzoni era centrale nella prosa ottocentesca, anche per l’influenza che esercitò su molti
scrittori: Grossi, Cantù, Carcano, D’Azeglio furono legati a Manzoni e tentarono la via del romanzo, senza
arrivare alla sensibilità manzoniana dell’omogeneità linguistica.
Questi tratti servivano a simulare un’oralità viva, suggerita anche da raddoppiamenti e ripetizioni.
Nuova risulta la sintassi verghiana, in particolare per il discorso indiretto libero, che consiste, secondo la
definizione di Herczeg, in un miscuglio del discorso diretto e indiretto.
Due sono le possibilità che si offrono a uno scrittore che deve far parlare i suoi personaggi, nei dialoghi o nel
monologo interiore:
1. apertura delle virgolette e riportare in forma diretta le loro battute
2. introduzione di un discorso indiretto, in cui lo scrittore riferisce le parole del personaggio
Il discorso indiretto libero rappresenta una terza soluzione, intermedia fra le due, ma più libera: non vengono
aperte le virgolette,è lo scrittore che riferisce le parole o i pensieri del suo personaggio, ma nella voce dello
scrittore affiorano modi e forme proprie del discorso diretto. Il lettore quindi ascolta la voce del personaggio
con il suo carattere e il livello di espressione.
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La sintassi dove è inserito il discorso indiretto libero segna un mutamento: predomina l’uso dell’imperfetto
narrativo.
Nei Malavoglia la voce dello scrittore diventa espressione della coralità popolare, che fa da filtro alla
narrazione.
L’innovazione stilistica permetteva di snellire il periodo, eliminando le frasi subordinate e dava voce a nuovi
personaggi, popolari, appartenenti al mondo degli umili e dei vinti.
Il cammino della lingua scritta verso il parlato non prende solo la forma del toscano, ma anche dell’italiano
popolare e regionale.
LA POESIA
LINGUAGGIO POETICO NEOCLASSICO
Il linguaggio poetico dell’800 si caratterizzava per una fedeltà alla tradizione aulica e illustre, in coincidenza
con l’affermazione del Neoclassicismo.
Vincenzo Monti era il restauratore di un linguaggio classico sontuoso e Foscolo non era da meno, come
dimostra la solennità dei “Seplocri”.
La tendenza all’aulico, proprio della poesia neoclassica, era verificabile a livello sintattico, perché frequenti
erano le inversioni prolettiche, congiunti con vocativi posti al fondo del periodo, come nel sonetto “Alla
sera”: forse perché della fatal quiete tu sei l’imago a me si cara vieni, o Sera!. La disposizione sintattica s
discosta da quella propria della prosa e della lingua comune.
Il lessico veniva selezionato come parole nobili e proprie della quotidianità: la doppia serie lessicale, fatta di
cultismi e latinismi, distingue le parole della poesia da quelle della prosa e questa sarà una caratteristica del
linguaggio letterario italiano almeno fino al ‘900 con Pascoli.
Nel caso di parole che non sono diverse in prosa e poesia, si ricorreva alla sincope ( spirto per spirito, pria
per prima) o al troncamento ( cor, mar, dolor, amor) ed erano tronchi anche gli infiniti dei verbi in tutte e tre
le coniugazioni.
Leopardi nel suo Zibadone scrisse che una parola o una frase difficilmente è elegante se non si isola dall’uso
del volgare: gli arcaismi si addicevano alla poesia, in cui il linguaggio si riallacciava alla tradizione
petrarchesca e tassiana. Attraverso tasso, Leopardi acquisì il prinicipio del carattere vago del linguaggio
poetico, in cui non ci dovrebbero essere termini che definiscono in maniera precisa e univoca, ma parole che
dovrebbero evocare qualcosa di indefinito e quindi di poetico.
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Giordani contestava l’uso dei dialetti come nocivo per la nazione e riteneva che la poesia dialettale dovesse
essere collocata su un piano basso e non avesse alcuna funzione di progresso. Sentiva inoltre la mancanza di
una lingua comune diffusa largamente. Porta scrisse in polemica contro Giordani, una serie di 12 sonetti
satirici.
I romantici milanesi, invece, erano favorevoli alla tradizione in dialetto, in cui vedevano un modo di
avvicinarsi alla lingua popolare, riallacciandosi anche alla posizione del Parini.
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Un riflesso del parlato si ha nella prosa di Pirandello, soprattutto nelle opere teatrali; la riproduzione
dell’oralità è attestabile nelle frequenti interiezioni e connettivi come è vero, si sa, figurarsi ecc.., oltre che in
rapide opposizioni che rendono sfuggente la comunicazione. La prosa di Pirandello era opposta a quella di
D’Annunzio.
Pirandello stava attento a non uscire dai moduli della lingua quotidiana, il suo era un uso medio e inoltre lui
era stato sempre diffidente verso il dialetto come strumento letterario, anche se non rinunciava a dare alle sue
opere quel colore locale.
Svevo fu famoso per il rapporto complesso con la lingua italiana, determinato dalla provenienza da Trieste,
oltre che dall’esperienza culturale lontana dalla letteratura classica. Fu accusato di scrivere male.
Coletti osserva come la lingua de “La coscienza di Zeno” non rispondeva ai canoni puristici e questo si
poteva notare da:
uso dell’ausiliare avere con i verbo servili
incertezze dei tempi verbali
vistosa formalità grammaticale
elementi arcaici
i prostetica: in Isvizzera, per ischerzo
contiguità dei pronomi personali mi vi: mi vi accingo, mi vi sarei adattato
uso anomalo del di: pronto di dividere
La lingua di Svevo nacque come forma quasi privata e va inserita nel contesto storico in cui è nata.
La lingua della Coscienza è anche il risultato di un progetto stilistico, di cui l’approssimazione grammaticale
è l’elemento costitutivo ( monologo interiore e analisi di coscienza richiedevano una lingua imperfetta?).
Uno dei punti di riferimento per gli scrittori, dopo che Verga aveva mostrato la via per una scrittura vicino al
mondo popolare, era il dialetto.
Un uso particolare del dialetto si ha negli scrittori mistilingue, come Gadda; egli passò attraverso alcuni
esperimenti della scapigliatura ottocentesca, come Dossi, Faldella, Cagna. Non utilizzava solo un dialetto,
bensì il lombardo, il romanesco, il molisano. Il libro più fortunato di Gadda fu “Quel pasticciaccio brutto de
via Merulana” uscito in parte su una rivista nel 1946 e divenne volume nel 1947.
L’effetto di deformazione del narrato in Gadda si attuò attraverso l’uso del dialetto, da cui si stacca di colpo
con il linguaggio alto e retorico.
Il Novecento è stato un secolo pieno di connotazioni satiriche ed ironiche, oltre che con stereotipi del
linguaggio ufficiale, aulico-poetico, con l’impiego di tecnicismi, esotismi o inserti di lingua straniera.
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Le idee di Croce, il più autorevole pensatore del tempo, erano avverse alla lingua modello e al toscanismo in
generale.
Quando nel 1923 divenne ministro della Pubblica Istruzione Giovanni Gentile, filosofo fascista, fu tolto alla
Crusca il compito di preparare il vocabolario, ma il nuovo e moderno vocabolario del Fascismo, prodotto
dall’Accademia d’Italia non ebbe esito felice, arrivò solo al primo volume nel 1941. questo procedette
all’eliminazione di molte voci antiche e i vocaboli nuovi furono accettati per designare idee e cose nuove.
I forestierismi erano registrati nel nuovo vocabolario, anche nella forma di prestiti non adattato, come boxe,
bull-dog, camion, posti tra parentesi quadra, per segnalare la loro estraneità alla sostanza della lingua. Inoltre
sono citati gli scrittori, ma solo come documentazione di uso comune, senza riferimento preciso all’opera sa
cui è tratto l’esempio.
Nel 1939 Bertoni e Ugolini pubblicarono per l’EIAR, ente radiofonico di Stato, il “Prontuario di pronunzia e
di ortografia” in cui si affrontava la questione della pronuncia romana e quanto divergeva dalla fiorentina,
oltre a fornire la pronuncia esatta della radio.
Veniva rivendicato il ruolo di Roma nella questione della lingua.
IL DOPOGUERRA
IL NEO-ITALIANO TECNOLOGICO: PASOLINI E LA NUOVA QUESTIONE DELLA LINGUA
A Pasolini si deve l’ultimo importante intervento nella questione della lingua.
Nato come conferenza, questo intervento fu pubblicato su “Rinascita” del 16 dicembre 1964 con il titolo
“Nuove questioni linguistiche”: le sue tesi non avevano affatto un carattere normativo, anzi la sua era una
vera e propria analisi sociolinguistica della situazione presente.
Pasolini partì da premesse marxiste e gramsciane, sostenendo che era nato un nuovo italiano, i cui centri
stavano al nord del Paese, dove avevano sede le grandi fabbriche e dove si era diffusa e sviluppata la
moderna cultura industriale.
Egli annunciò che era nato l’italiano come lingua nazionale e che per la prima volta una borghesia egemone
era in grado di imporre i suoi modelli, superando una tradizionale estraneità tra ceti alti e bassi.
Delineò alcune caratteristica del nuovo italiano:
semplificazione sintattica, con una caduta delle forme metaforiche, non usate da torinesi e milanesi,
veri padroni della nuova lingua
drastica diminuzione dei latinismi
prevalenza dell’influenza della tecnica rispetto a quella della letteratura
L’autore analizzò la tipologia stilistica degli scrittori italiani, collocandoli al di sotto o al di sopra di
un’ipotetica linea dell’italiano medio. Vi erano 3 linee:
1. italiano medio, anonimo, a-letterario, caratteristico di opere di banale intrattenimento e d’evasione
2. linea bassa, della prosa dialettale
3. linea alta, che a sua volta poteva essere divisa in vari gradi, che accoglievano tutti coloro che si erano
allontanati dal livello medio.
Sul gradino più alto stava il linguaggio iperletterario degli ermetici, che avevano usato una lingua speciale
adatta solo alla poesia.
Pasolini collocava se stesso su una linea a forma di serpentina che attraversava tutti i livelli, passando dal
piano alto a quello basso e su questa linea c’era anche Gadda, con il suo mistilinguismo, da cui Pasolini era
influenzato.
L’attenzione di tutti si concentrò sull’annuncio della nascita del nuovo italiano tecnologico e inoltre Pasolini
intervenne su temi linguistici, in un contesto diverso, per rivendicare la funzione rivoluzionaria dei dialetti e
per lamentare l’imbarbarimento del linguaggio dei giovani.
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Il Gruppo ’63, formato da personalità come D’Arrigo, Testori, Busi, preferì soluzioni di rottura, personali e
scarsamente comunicative.
Lo scrittore di oggi gode di una libertà grandissima e può arrivare alle soglie di una lingua semidistrutta,
detta ironicamente standard.
Per molti autori del ‘900 il dialetto è stato una fonte di arricchimento linguistico.
Non sempre l’invenzione linguistica e lo sperimentalismo rendono difficile il rapporto con il pubblico.
Il “Partigiano Johnny” di Fenoglio, rimasto incompiuto, era stato composto con una miscela d’italiano e
inglese e poi arrivò al meritato successo, nonostante le condanne ideologiche le incomprensioni iniziali.
Sulla strada del rinnovamento poetico si collocano autori di eccezionale statura come Ungaretti, Saba,
Montale che sperimentavano una serie di soluzioni stilistiche, dal linguaggio comune e quotidiano di Sava,
alla lingua impoetica di Pasolini e Sanguineti.
Montale, attraversato D’Annunzio e dopo aver selezionato ciò che la koinè primo novecentesca offriva,
arrivò in “Satura” del 1971 a una lingua spesso ironica, distaccata, prosastica, piena di citazioni di elementi
quotidiani e calcolata con eleganze. In realtà nella semplicità dell’ultimo Montale si nascondono
procedimenti linguistici complessi.
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I media e la tv in primis sono diffusori di tecnicismi, neologismi e di luoghi comuni verbali della cronaca e
della politica, come mani pulite, malasanità ecc... e perfino diffusori di nuovi nomi di persona.
I GIORNALI
Il linguaggio giornalistico ebbe sempre un importante funzione e poteva costituire un argine contro la bassa
qualità di quello televisivo, trattandosi di un modello scritto contrapposto a uno parlato.
Il quotidiano è il tramite fondamentale tra l’uso colto e letterario dell’italiano e la lingua parlata e il giornale
può essere assunto come indicatore di lingua media, in cui trovare una pluralità di sottocodici ( politico,
burocratico, economico, scientifico) e di registri ( aulico, parlato, informale, brillante).
Il luogo di maggiore originalità del linguaggio si riscontra nei titoli: il titolo deve essere pensato per colpire il
lettore e in esso domina prevalentemente la farse nominale, con espedienti di messa in rilievo.
LA PUBBLICITA’
Il linguaggio pubblicitario è fondato sullo slogan e sulla trovata attraverso questo canale si diffondono
termini tecnici e forestierismi.
Lo slogan deve colpire il lettore e favorire un comportamento nel potenziale acquirente, deve suggestionare e
convincere , ad esempio attraverso l’uso marcato dei superlativi, sia con desinenza –issimo ( occasionissima,
superissimo) sia con i prefissi extra, iper, maxi, super.
Nell’analisi del linguaggio pubblicitario ci si trova i fronte a due atteggiamenti:
1. ammirazione per la capacità del linguaggio di sfruttare e accentuare le possibilità espressive
dell’italiano
2. fastidio per la creazione della parola-merce
Il linguaggio favorisce:
la formazione dei composti o parole macedonia, come ammazzasete, granturismo
l’uso dei sostantivi giustapposti, ad esempio determinato-determinante come esperienza Gillette,
profumo-donna
Neologismi e giochi di parole
Uso della retorica
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I FONEMI DELL’ITALIANO
In riferimento alle vocali, l’italiano ha un sistema di 7 elementi, resi da soli 5 segni grafici, ma questo
sistema non è nella coscienza linguistica di tutti i parlanti nazionali.
Le coppie e/ aperta o chiusa è poco utilizzata, a parte nei romani e nei toscani, con divergenze tra gli uni e gli
altri.
Anche nel caso di fonemi consonantici, la realizzazione non è identica in tutto il territorio nazionale.
IL RADDOPPIAMENTO FONOSINTATTICO
La moderna grafia registra il fenomeno quando si è prodotta una parola unica: fra + tanto ha dato origine a
frattanto, con raddoppiamento della t.
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PROVENZALI E FRANCO-PROVENZALI
Parlano lingue del gruppo romanzo; in molte valli alpine del Piemonte occidentale si parla provenzale, così
come in alta Valle di Susa.
La Valle d’Aosta è un’area franco-provenzale e il francese è per tradizione la lingua di cultura.
LADINI
Nelle valli alpine delle Dolomiti ci sono le parlate appartenenti al ladino, introdotto in alcune scuole dal
1948, come prevede lo statuto di autonomia del Trentino Alto Adige.
Nella maggior parte del Friuli e della Carnia ci sono le parlate ladino-orientali.
Parlate ladine ci sono anche in territorio svizzero e il ladino in base alla Costituzione svizzera è lingua
nazionale, con il tedesco, francese e italiano.
SARDI
Anche il sardo può essere considerato una lingua per le sue particolari caratteristiche all’interno del gruppo
romanzo, anche se non si è mai giunti alla creazione di una koinè sarda.
Il sardo si distingue in 4 varietà: gallurese, sassarese, logudorese ( e nuorese) e il campi danese, che ha il suo
centro nella zona di Cagliari.
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numerosa comunità di tedeschi occupa l’alta Valle dell’Adige. Questa minoranza etnica ha uno statuto
speciale, che interessa la provincia di Bolzano. Il tedesco ha lo status di lingua ufficiale accanto all’italiano e
viene insegnato a scuola come prima lingua, che imparano l’italiano come seconda.
Il dialetto si usa nella comunicazione familiare, la lingua tedesche risponde a situazioni formali elevate,
come l’insegnamento, la burocrazia, la cultura, la religione e la letteratura.
ISOLE GRECHE
Vi sono colonie greche presenti nel territorio italiano: una è in Calabria e l’altra nel Salento.
Si è discusso sull’origine di queste colonie e due tesi si sono contrapposte:
1. una vede nelle isole greche d’Italia l’eredità dell’Antica Magna Grecia. Il residuo delle antiche
colonie anteriori alla dominazione romana
2. l’altra vede in esse una conseguenza dell’occupazione bizantina nell’Italia meridionale
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L’italiano è una lingua che per tradizione è ricca di termini ufficiali, elevati, letterari, ma quando si passa a
un contesto familiare e domestico le differenze regionali si fanno marcate.
Cortelazzo cita come esempio la forma interrogativa nuorese, che comporta l’inversione del posto del verbo
rispetto al complemento o l’inversione della posizione dell’ausiliare (olio comprate?).
Differenze:
Gorgia, spirantizzazione delle occlusive sorde intervocaliche, per cui amico è pronunciato amiho
Tendenza alla monottoganzione di –uò-: buono e nuovo in Toscana bòno e nòvo
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