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La lingua italiana - C Marazzini

LETTERATURA ITALIANA (Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli)

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CAPITOLO 1 : storia della lingua italiana: nascita e sviluppo di una disciplina


1. la riflessione antica sulla formazione dell’italiano.

IL DE VULGARI ELOQUENTIA DI DANTE


La lingua italiana è una disciplina accademicamente giovane; in realtà esisteva anche prima, ma era legata ad
altri studi o all’interno di altri ambiti di conoscenza: punto di congiunzione tra letteratura e linguistica.
La storia della lingua aiuta meglio a comprendere la storia nazionale e testimonia lo sviluppo dell’idea di
nazione.
La riflessione sulla storia dell’italiano si è legata alle teorie che miravano a definire la norma dell’italiano
stesso: “QUESTIONE DELLA LINGUA”.
Il più antico trattato in cui vennero affrontati temi storico-linguistici è il “De Vulgari Eloquentia” che risale
all’inizio del Trecento: qui si affrontano le varietà di volgare parlate nella penisola italiana e un esame della
tradizione poetica della nuova lingua.
Per Dante la parentela tra il provenzale, il francese e l’italiano è verificabile nella somiglianza di molte
parole; il latino non è una lingua naturale, ma una creazione dei dotti.

LE TEORIE DEGLI UMANISTI


Una reale tradizione di studi sulla storia della nostra lingua ebbe inizio con gli umanisti della prima metà del
Quattrocento che si interrogavano soprattutto sulla situazione linguistica al tempo di Roma Antica e
cercavano di definire le cause che avevano portato alla fine della romanità.
Secondo BIONDO FLAVIO al tempo di Roma si parlava una sola lingua, cioè il latino e questa lingua si era
corrotta per una causa esterna, ossia la venuta dei popoli barbari: da questa corruzione era nato l’italiano.
Per Dante, nel De Vulgari, la mutevolezza delle lingue deriva dalla maledizione babelica.
LEONARDO BRUNI era convinto che al tempo di Roma antica non si parlasse un latino omogeneo, che poi
si sarebbe corrotto con le barbarie, ma c’erano già due livelli di lingua:
 letterario, alto
 popolare, basso
Dalla lingua popolare si sarebbe sviluppato l’italiano.
La tesi più accreditata potrebbe essere quella che risale al Biondo.
La tesi del Bruni fu reinterpretata: ipotesi di due lingue diverse e coesistenti, ossia il latino e l’italiano.

ETRUSCO E TOSCANO
Italiano:
 originato dalle lingue barbare
 originato dal latini popolare
In Toscana, Giambullari sostenne che la lingua toscana era l’erede diretta dell’etrusco, infatti anche il centro
geografico della civiltà etrusca veniva identificato in Toscana.

LA TEORIA DEL LATINO VOLGARE IN CASTELVETRO


La teoria di Bruni fu ripresa e corretta da CASTELVETRO: egli usò la definizione di “lingua latina vulgare”,
per definire un’ipotesi sull’origine dell’italiano. Per lui al tempo di Roma esisteva un latino popolare che in
grammatica era identico al latino vero e proprio.
Le parole del latino erano sopravvissute in italiano e il volgare aveva soppiantato pian piano quello classico,
influenzato da imperatori stranieri e invasioni barbariche.

LA RICERCA DI DOCUMENTI EPIGRAFICI E ARCHIVISTICI: CELSO CITTADINI E LUDOVICO


ANTONIO MURATORI
CITTADINI fu autore del “Trattato della vera origine e del processo e nome della nostra lingua” nel 1601:
egli tendeva ad escludere che le invasioni barbariche avessero avuto importanza per lo sviluppo della lingua.
Intendeva verificare la tesi attraverso lo studio dei documenti epigrafici: con le lapidi si potevano conoscere
meglio le fasi arcaiche della lingua latina.
Il concetto di “corruzione” da parte delle invasioni barbariche perdeva la connotazione negativa.
MURATORI fu uno storico; le sue opere ci hanno permesso di conoscere la storia del Medioevo. Egli
desiderava trovare in Italia qualcosa di paragonabile al primo documento di lingua francese: “ IL
GIURAMENTO DI STRASBURGO”, realizzato dai successori di Carlo Magno nell’842.
Il Giuramento fu trasmesso da Nitardo che affermò che era scritto in lingua romana: lingua intermedia tra
latino e idiomi moderni, ma fu una concezione errata.

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Ma questa teoria della lingua intermedia condizionò per molto tempo gli studi romanzi.
Muratori credeva che le lingue germaniche avessero avuto un peso determinante nella trasformazione del
latino, che la lingua intermedia non esisteva e che nei documenti antichi fosse possibile rintracciare la lingua
volgare.

DALLA TEORIA DELLA LINGUA INTERMEDIA ALLA STORIA LINGUISTICA NAZIONALE


L’ipotetica lingua intermedia fu collocata tra il latino classico e il moderno francese, la teoria fu accolta
anche in Italia e accettata all’inizio dell’800 da PERTICARI, collaboratore di Monti.
I suoi saggi uscirono tra il 1828 e il 1820.
GRASSI, progettava un libro di storia della lingua italiana, rimasto incompiuto, legato all’ideologia
nazional-risorgimentale. Egli vide nei barbari invasori, gli avversari eterni dell’Italia e gli antenati degli
austriaci.
RAYNOUARD, negli stessi anni, riprese questa teoria identificandola nell’’antico idioma dei trovatori e fu
tra i fondatori degli studi romanzi.
La storia della linguistica italiana divenne uno dei settori più importanti: Leopardi, scrisse nello Zibaldone
spunti interessanti.

DALLA LINGUISTICA PRESCIENTIFICA ALLA LINGUISTICA SCIENTIFICA


Nella linguistica europea occuparono un posto rilevante i fratelli SCHLEGEL, che studiarono l’origine della
famiglia di lingue a cui l’italiano appartiene: gruppo indoeuropeo e le lingue bastate sul confronto tra idiomi
diversi.
Essi distinsero la linguistica scientifica e prescientifica: la linguistica, in quanto scienza, era una disciplina
appena nata e nata dal nulla.
Due fasi:
1. fase prescientifica o empirica, prima degli Schlegel
2. fase scientifica moderna, dagli Schlegel in poi
Nel Seicento, Saumaise e Boxkorn elaborarono la teoria scitica: si ipotizzava la parentela tra lingue europee
e persiano e lo scitico era la lingua capostipite.

LA RIFLESSIONE SCIENTIFICA SULLA STORIA DELL’ITALIANO


AUGUST WILHELM SCHLEGEL
La sua linguistica toccò anche la formazione dell’italiano.
Le lingue potevano essere di 3 tipi:
1. senza struttura grammaticale: parole che non potevano essere modificate
2. ad affissi: permettevano la combinazione di composti, ottenuti mediante elementi di senso compiuto
( lingue degli indigeni d’America)
3. flessive: dotate di un sistema grammaticale strutturato, tipico degli idiomi europei. In queste lingue
ogni parola è composta da una radice, modificata da un elemento privo di significato, ossia la desinenza.
Mediante la desinenza si segna il genere, il numero, l’alterazione, i tempi dei verbi.
Esiste un’altra distinzione, per distinguere le lingue antiche da quelle moderne:
 lingue sintetiche
 lingue analitiche: presenza dell’articolo, dei pronomi davanti ai verbi, degli ausiliari nei verbi, delle
preposizioni. Nate dalla decomposizione delle lingue sintetiche.
Trasformazione: il latino aveva i casi, ma non l’articolo e l’ausiliare ( coniugava i tempi in modo sintetico),
mentre le lingue romanze hanno articolo e preposizioni.
La formazione della grammatica analitica era la vera causa della trasformazione del latino, sviluppo
provocato dall’influenza dei barbari e dai provinciali, incapaci di usare le desinenze e i casi del latino
classico.
Raynouard era convinto che la lingua romanza fosse uniforme e che solo dopo erano nate le lingue italiana,
spagnole, portoghese e francese.
Schlegel obiettava ciò: il concetto di lingua romana andava inteso come una pluralità di lingue locali,
differenti a seconda del periodo e del luogo.

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GRAZIADIO ISAIA ASCOLI


Occupò molto giovane, nel 1861, la cattedra di grammatica comparata e lingue orientali all’Accademia
scientifico-letteraria di Milano. Grande conoscitore di lingue, si era affermatosi nello studio della linguistica
tedesca.
Fu il primo a dare una descrizione accurata della distribuzione dei dialetti italiani e delle loro caratteristiche,
in “Italia dialettale”.
Rielaborò la teoria del “sostrato”: importanza delle lingue vinte su quelle dei vincitori ( importanza del
sostrato celtico prelatino che condizionò la struttura degli organi fonatori.
Fondò una rivista nel 1873, l’”Archivio glottologico italiano”, nel cui Proemio polemizzò contro la soluzione
manzoniana della questione della lingua e definì come si doveva intendere il rapporto tra il toscano e la
lingua italiana: forte policentrismo, con l’azione di città diverse da quelle di Firenze.
La storia linguistica veniva utilizzata come strumento di comprensione della realtà e la storia dell’italiano
non sarebbe stata comprendibile, senza la considerazione dei dialetti, in cui c’era una traccia del latino
volgare.

NASCITA DI UNA NUOVA DISCIPLINA


LA “STORIA DELLA LINGUA ITALAINA” DI BRUNO MIGLIROINI E IL “PROFILO” DI GIACOMO
DEVOTO
NEL XIX secolo furono istituite cattedre di glottologia e di linguistica comparata.
Cominciò ad avere la sua autonomia la filologia romanza, specializzata nello studio delle lingue e delle
letterature neolatine, oltre che occuparsi della formazione dell’italiano dall’Unità in poi.
In quel periodo furono scoperti e pubblicati quasi tutti i più antichi documenti della lingua italiana:
 Carta Picena 1878
 Confessione Umbra 1880
 Testimonianza di Travale 1907
 Carta Osimana 1908
 Postilla amiatina 1909
Molto più recente è la definizione della storia della lingua italiana come disciplina universitaria autonoma: la
prima cattedra divenne attiva nel 1938 nella Facoltà di Lettere di Firenze, grazie al ministro Bottai e fu
riscoperta da bruno Migliorini.
Nel 1939 venne fondata la rivista “Lingua Nostra”, diretta da Devoto e Migliorini che sottolineava che
bisognava tener conto di tutti gli strati sociali per la storia della lingua.

DEVOTO fu glottologo all’Università di Firenze e fu studioso di linguistica indoeuropea e di culture


dell’Italia preromana.
Pubblicò nel 1940 “Storia della lingua di Roma” e “Profilo di storia della lingua italiana”.

Per Croce la storia della lingua era identica alla storia della letteratura.
Migliorini intanto lavorava al progetto della scrittura della storia della lingua nazionale: egli volle che l’opera
uscisse nel 1960, in coincidenza col millenario della lingua italiana, in quanto nel 960 fu reso pubblico il
PLACITO CAPUANO.
Nella prefazione dell’opera vi era la distinzione tra storia della lingua e storia letteraria, incentrata sugli
scrittori.
Per Migliorini l’interesse per la storia della lingua cominciava quando si commisurava il linguaggio
individuale di uno scrittore con l’uso dei contemporanei.

STRUTTURA DELLA “STORIA DELLA LINGUA ITALIANA” DI MIGLIORINI


L’opera si presenta come un’eccezionale raccolta di dati e di informazioni, utile per ogni ricerca relativa la
periodo cronologico anteriore alla prima guerra mondiale; tra i capitoli, secolo per secolo, sono inserite le
fasi di passaggio dal latino all’italiano e i primi documenti della nostra lingua, oltre che al capitolo dedicato a
Dante.
I capitoli sono strutturati in modo tale che per ogni secolo è dedicato un tema: questione della lingua,
lessicografia, grammatica, rapporti tra latino e italiano, italiano fuori d’Italia.

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Si possono paragonare anche gli eventi tra i vari secoli.

MIGLIORINI E LA LINGUA CONTEMPORANEA


Migliorini fu tra i primi a occuparsi dell’italiano contemporaneo. Nel 1938 scrive “Lingua contemporanea”,
nella cui prefazione osservava come fosse legittimo lo studio dei contemporanei all’interno della critica
letteraria, e nel 1941 “Saggi sulla lingua del Novecento”. Si dedicò inoltre ai neologismi e ai prefissi
moderni.

LA “STORIA LINGUISTICA DELL’ITALIA UNITA” DI TULLIO DE MAURO


DE MAURO scrisse “Storia linguistica dell’Italia unita”, del 1963, riproposta nel 1970; egli era filosofo del
linguaggio, ma nel suo libro la storia della lingua viene collegata maggiormente alla storia sociale.
De Mauro si è interrogato sulle condizioni culturali e linguistiche delle masse; per lui al momento
dell’unificazione politica, sarebbero stato in grado di parlare italiano solo il 2,55 dei cittadini.
Vengono, poi, presentati i fenomeni che hanno condotto all’unificazione linguistica: emigrazione,
urbanesimo, nascita dei poli industriali, diffusione della stampa, della radio e della televisione.
L’italiano diffusosi nella penisola dall’Unità non era uniforme, ma piuttosto un “italiano regionale”, con
tratti dei dialetti d’origine.
1.prima parte del volume appare più sintetica e discorsiva
2. la seconda( Documenti e questioni marginali), costituita da schede di approfondimento, dedicate al
rapporto lingua-nazione, al Purismo, al Manzoni, ai dialetti, all’italiano regionale ecc.
La linguistica, per De Mauro, doveva integrarsi con i fatti storici e sociali.

DOPO LA “STORIA” DI MIGLIORINI: LA LINGUA ITALIANA NELLE UNIVERSITA’


La linguistica ha consolidato la sua posizione all’interno delle università e nei curricula dei corsi di studio
delle facoltà di lettere, diventando un passaggio fondamentale nella formazione umanistica.
Gli storici della lingua hanno prestato attenzione ai problemi dell’italiano contemporaneo: nel 1992 è stata
fondata l’ASLI, l’ “Associazione per la Storia della lingua italiana”, che raggruppa studiosi della disciplina
italiani e stranieri e ha il compito di promuovere gli studi di storia della lingua italiana ad ogni livello
culturale, scientifico e didattico. Essa ha sede a Firenze, presso l’Accademia della Crusca.
Recentemente è stato dimostrato interesse verso i temi della comunicazione, con riferimento ai nuovi media
e Internet.
NUOVI MANUALI GENERALI DI STORIA DELLA LINGUA ITALIANA
Dopo la “Storia” di Migliorini, sono uscite molte sintesi generali; molti di questi libri sono manuali
universitari, ma risultano adatti anche al pubblico medio.
Il SERIANNI è un libro scritto da diversi giovani autori, coordinati e diretti da Luca Serianni, docente
all’Università di Roma “La Sapienza”. L’opera è sistematico e dispone di una ricchezza di materiali, oltre a
rivolgersi a un lettore non specialista. È provvisto di una cronologia, che confronta su 3 colonne gli eventi
relativi alla storia della lingua, i fatti salienti della vita letteraria e i principali eventi storico-politici.
La letteratura, in queste opere, ha sempre occupato uno spazio importante.

LA QUESTIONE DELLA LINGUA: STORIA DELLE IDEE E TEORIE LINGUISTICHE


Ci sono state e ci sono parecchie discussioni relative alla lingua italiana, alla sua definizione, alla sua origine
e natura, alla sua regolamentazione normativa. Nel nostro Paese, la questione della lingua, è partita da Dante,
fino alla nostra epoca.
Il grande manuale di riferimento per lo studio della questione della lingua, è quello di VITALE, del 1978,
che contiene una vastissima documentazione. Il libro inizia:
 con un capitolo di Preliminari, dedicato a Dante e al De vulgari Eloquentia e al dibattito tra gli
Umanisti del 400
 capitoli dedicati al 500, 600, 700, 800
 intervento di Dante, Bembo, Manzoni e dei minori
 ciascun capitolo ha delle note
 in chiusura volume vi è un’ “Antologia della critica”, con una raccolta di testi esemplari per illustrare
i momenti determinanti della questione della lingua

GRANDI REALIZZAZIONI RECENTI: I NUOVI MANUALI DI RIFERIMENTO


LA “STORIA DELLA LINGUA ITALAINA” DIRETTA DA F. BRUNI PER LA SOCIETA’ EDITRICE IL
MULINO

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Dal 1989 si è avviata la “Storia della lingua italiana”, strutturata per secoli e fino ad ora sono stati pubblicati
capitoli sul:
 Medioevo
 400
 Prima metà del ‘500
 Secondo ‘500 e ‘600
 ‘700
 2 dedicati all’800
 Uno interamente dedicato al Manzoni
 ‘900
 Lacuna dell’unico titolo ancora in preparazione, relativo al ‘300 toscano

“L’ITALIANO NELLE REGIONI” DIRETTO DA F. BRUNI PER LA CASA EDITRICE UTET


Gli studiosi si posero il problema di realizzare un’opera in cui trovassero adeguato spazio le caratteristiche di
una nazione come l’Italia, con la sua grande quantità di centri culturali e vivaci e con tanti dialetti entrati in
contatti con la lingua nazionale.
“L’italiano nelle Regioni” è stata concepita come una raccolta di monografie, ciascuna delle quali è dedicata
alla storia dell’italiano in una regione della Penisola.
È un volume voluminoso e con elegante veste grafica.
I capitoli parlano delle regioni, ma non mancano monografie su Malta, Dalmazia, Canton Ticino e Corsica.
Si è realizzato a un secondo volume dell’ “Italiano nelle regioni” e pensati una serie di volumi autonomi, ma
il progetto è stato interrotto.
L’opera ha portato al rifiorire degli studi a carattere regionale in maniera seria e scientifica.

LA “STORIA DELLA LINGUA ITALIANA”DIRETTA DA L. SERIANNI E P. TRIFONE PER


L’EDITORE EINAUDI
Serianni e Trifone hanno coordinato la “Storia della lingua italiana” in 3 volumi (SLIE), con un quadro
aggiornato e completo delle attuali conoscenze, una serie di monografie affidate a singoli specialisti,
raggruppate secondo analoghe tematiche.
1. PRIMO VOLUME: “I luoghi della codificazione”: studi che hanno per oggetto la storia della nostra
grammatica, lessicografia, grafia, teorie linguistiche, lingua letteraria. “Codificazione”, per la stabilizzazione
di una norma salda e la regolamentazione della lingua
2. SECONDO VOLUME: “Scritto e parlato”: saggi sull’italiano dei semicolti ( gente del popolo, con
basso grado d’istruzione), saggi sul gergo, nomi di persona, nomi di luogo( toponomastica), distinzione tra
lingua parlata e scritta
3. TERZO VOLUME: “Le altre lingue”, dedicato ai più antichi documenti dei volgari italiani e una
serie di profili dei volgari medievali. Vi è un’impostazione geografica regionale. È contenuto uno studio
sull’uso letterario dei dialetti, sul dialetto nella scuola, nella giustizia, nella Chiesa, sull’influsso sull’italiano
delle altre lingue e in ultimo sugli italiani regionali( diversi dai dialetti, perché nascono dall’incontro tra il
dialetto e la lingua toscana).
Si chiude con una saggio sull’italiano all’estero e uno sulle minoranze linguistiche in Italia.

CAPITOLO 2: strumenti di lavoro

MANUALE DI DISCIPLINE AFFINI


LA FILOLOGIA ROMANZA
La filologia romanza è anche chiamata “romanistica” e si occupa delle lingue derivate dalla lingua di Roma,
dette neolatine o romanze ( portoghese, spagnolo, catalano, francese, provenzale, italiano).
“Le origini delle lingue neolatine” di TAGLIAVINI del 1947-49, ebbe poi nuove edizioni e nuovi
rimaneggiamenti, aveva una struttura adeguata alle esigenze didattiche. Si apre con:
 un capitolo sulla storia degli studi dal comparativismo degli Schegel in poi, con alcuni riferimenti
alla linguistica precedente, a partire dal De Vulgari Eloquentia di Dante.
 Viene presa in considerazione l’Italia antica, prima dell’espansione romana, abitata da popoli che
parlavano lingue italiche
 Seguono capitoli che trattano le trasformazioni del latino dell’Impero Romano
 Caratteristiche del latino volgare e esame degli elementi linguistici che hanno influito sulle parlate
 Delineamento della formazione delle lingue romanze

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 Storia delle varie lingue romanze


 Informazioni sulle lingue sorelle dell’italiano per verificare analogie e differenze

LA FILOLOGIA ITALIANA E LA PALEOGRAFIA


La filologia italiana è una disciplina specializzata nell’edizione di testi in area italiana e soprattutto di testi
antichi, ponendo attenzione ai loro caratteri linguistici particolari.
Lo storico della lingua dev’essere almeno in grado di maneggiare le edizioni critiche e giudicare la qualità
della loro realizzazione.
Chi si occupa di testi antichi, soprattutto di quelli precedenti all’età della stampa, dovrà acquisire conoscenze
nel campo della “paleografia”: studio della scrittura. Paleografia è la disciplina che studia la storia della
scrittura nelle sue differenti fasi, le tecniche operate per scrivere, il processo di produzione.
 Scrittura GOTICA si diffuse in Italia nel XII-XIII sec. Il termine è un riflesso del disprezzo con cui
questa scrittura fu guardata dagli Umanisti, i quali la consideravano barbara. Fu usata dai primi umanisti,
come Petrarca e Boccaccio e ha un disegno meno rigido (semigotica)
 MINUSCOLA CANCELLERESCA: adatta per i documenti notarili
 MERCANTESCA: di livello meno colto, è la scrittura corsiva che si trova nei quaderni di conti e
nelle lettere di cambio
 ITALICA: comparsa nel ‘400, elegante e raffinata, passata poi alla stampa, con il corsivo aldino

LA DIALETTOLOGIA ITALIANA
I rapporti tra la storia della lingua e la storia dei dialetti sono strettissimi. Il toscano affermò la sua
supremazia, ma i volgari di altre regioni furono usati anche a livello colto, letterario o extraletterario.
In “Fondamenti di dialettologia italiana” vi è:
 la definizione del concetto di dialetto
 un profilo di storia degli studi dialettologici in Italia
 la classificazione dei dialetti italiani, con la descrizione del loro uso nella società attuale
 presentazione dei metodi e strumenti
Per lo studio dei dialetti sono fondamentali, inoltre, gli atlanti linguistici: rappresentazioni cartografiche della
distribuzione spaziale di parole, forme, costrutti, espressioni, fenomeni fonetici.

LA GRAMMATICA STORICA
DEFINIZIONE E NASCITA DELLA GRAMMATICA STORICA
La grammatica storica non dà le regole della lingua in atto, ma mettendo a confronto fasi diacroniche
diverse, chiarisce lo sviluppo della fonetica, morfologia e sintassi della lingua, a partire dalla sua formazione
dal latino e ne segue gli sviluppi.
La formazione della lingua è il primario oggetto di studio per la grammatica storica, che si è sviluppata nel
clima del Positivismo dalla seconda metà dell’800: nel cambiamento delle lingue si riconosce un ordine, una
serie di vere norme.

LA “GRAMMATICA STORICA DELLA LINGUA ITALIANA E DEI SUOI DIALETTI”DI GERHARD


ROHLFS
È l’opera di grammatica storica più utilizzata, del 1940: concilia il metodo storico e quello geografico. Si
presenta in tre volumi, dedicati a:
1. “Fonetica”
2. “Morfologia”
3. “Sintassi e formazione delle parole”
Ognuno è corredato da un indice analitico, che raccoglie tutte le parole citate nel testo, sia italiane, che
dialettali, oltre ai nomi geografici e ai nomi di persona.

ALTRE GRAMMATICHE STORICHE DELL’ITALIANO


 Libro di Tekavic: trattazione aggiornata con le scoperte della moderna linguistica.
 Libro di D’Achille: attenzione a un pubblico studentesco, in cui non vengono presupposte
conoscenze specifiche. Attenzione alla fonetica e alla morfologia, mentre il lessico e la sintassi sono trattati
in maniera più veloce
 “Introduzione alla lingua poetica italiana” di Serianni: non è una vera grammatica storica, è un
profilo grammaticale dell’italiano poetico e può essere utile a chi si occupa in maniera tecnica
dell’evoluzione delle forme dell’italiano

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 Libro di Castellani: uscito solo un volume, che tratta della formazione dell’italiano, del latino
classico e volgare, dell’influsso galloromanzo e germanico, delle varietà toscane nel Medioevo e soprattutto
della formazione della lingua poetica italiana delle origini.

LA GRAMMATICA DESCRITTIVA E NORMATIVA


LA STORIA DELLA GRAMMATICA
La teorizzazione grammaticale del ‘500 ha stabilizzato e ufficializzato il successo dei 3 grandi autori del
Trecento: Dante, Petrarca e Boccaccio.
In seguito si sono affermate tendenze grammaticali più favorevoli a riconoscere il ruolo del parlato toscano e
la sua egemonia.

LA “GRANDE GRAMMATICA ITALIANA DI CONSULTAZIONE”


Il progetto era di Renzi e Salvi e risale al 1976: prodotto di un lavoro di equipe con un notevole numero di
specialisti.
La Presentazione di Renzi spiega la differenza con le altre grammatiche, tracciando un panorama della
produzione grammaticale in Italia del Novecento, notando la povertà nella produzione di questo genere nel
periodo tra le due guerre; inoltre sottolinea il dannoso prodotto della condanna di Croce, per il quale la
grammatica non aveva nessuna dignità filosofica, ma era tuttavia solo uno strumento didattico ed empirico.
La trattazione comincia con la frase per poi estendersi a tutte le parti del discorso.
Quando viene enunciata una regola, vengono fornite due frasi, precedute da un asterisco, che indica la
inaccettabilità o agrammaticalità. L’errore è un elemento che il linguista prende in considerazione con grande
interesse.
Mentre il grammatico tradizionalista si limitava a condannare le forma ritenute scorrette, il linguista si
preoccupa di spiegare l’uso della lingua ai vari livelli, segnalando anche in molti casi l’esistenza di varianti
regionali.

DIZIONARI STORICI E CONCORDANZE


IL “BATTAGLIA” E LA LIZ
Lo studioso della lingua italiana fa largo uso dei dizionari, efficienti strumenti di consultazione.
I dizionari storici hanno una documentazione più ricca che riguarda l’uso di tutte le epoche.
Il più importante dizionario storico è il “Battaglia”. Battaglia, infatti, ebbe l’idea di riproporre,
aggiornandolo, il più grande dizionario dell’Ottocento: quello di Nicolò Tommaseo.
La nuova opera uscì nel 1961, in cui la struttura della voce rimane legata al modello ottocentesco.
Il progetto poi fu ampliato e divenne il “Grande dizionario della lingua italiana” in 20 volumi:
 Impostazione fortemente letteraria
 Vasta raccolta di esempi di scrittori: sotto ogni voce sono poste le attestazioni degli autori della
letteratura italiana in ordine cronologico
 Gli scrittori sono di tutte le epoche, compresi i minori
 Lo spazio maggiore è assegnato al ‘900
La LIZ consiste nella “Letteratura italiana Zanichelli” su cd-rom, realizzata nel 1993: testi della nostra
letteratura dal Medioevo al Novecento.

STRUMENTI DI CONSULTAZIONE IN INTERNET


1. Corpus messo in rete dal Ci-Bit, il consorzio interuniversitario per la Biblioteca Italiana Telematica:
raccolta di testi, spesso rari
2. OVI, Opera del Vocabolario Italiano: opere dei primi maestri della letteratura italiana e anche testi di
poeti meno conosciuti
3. Tesoro della Lingua Italiana delle Origini: vocabolario storico di tutte le varietà dell’italiano antico,
fino al 1375, stampato anche su carta

GRANDI DIZIONARI DELL’USO


I dizionari storici documentano il passato della lingua, la sua storia ed evoluzione.
I dizionari dell’uso fanno spesso riferimento al passato e contengono molte parole antiche, per registrare le
etimologie e segnalare il lessico antico e letterario. Questo comune dizionario non è privo di elementi relativi
alla storia della lingua.
 “Vocabolario della lingua italiana” di Duro del ’86-94
 “Grande dizionario Italiano dell’Uso” di De Mauro del 1999

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DIZIONARI ETIMOLOGICI
Il dizionario etimologico tiene conto dell’origine delle parole di una lingua. Suggerendo la loro etimologia.
“Dizionario etimologico della lingua italiana” del 1950-57, più noto come DELI: prima vengono citati gli
autori e le opere in cui ricorre la parola con le relative date, partendo da quella più antica, poi viene inserita
l’etimologia della parola.
Inoltre fornisce una breve storia della parola nella sua evoluzione, oltre a fare osservazione di grammatica
storica, verificando le trasformazione fonetiche subìte dal termine originario.

CAPITOLO 3: soggetti e oggetti della storia linguistica

VOLGARI, DIALETTI E SPINTE REGIONALI


CENTRO E PERIFERIA NELLA STORIA LINGUISTICA ITALIANA
La storia linguistica italiana si caratterizza per un profondo e costante rapporto tra centro e periferia; per
centro si intende la Toscana, da cui ha avuto origine l’idioma nazionale, per poi espandersi verso altre
regioni e nella cui espansione ha incontrato diverse parlate locali.
Il toscano è apprezzato come lingua della Commedia di Dante, del Decameron di Boccaccio e del
Canzoniere di Petrarca.
Come osservava Manzoni, l’Italia era l’unica nazione in cui la capitale politica, ossia Roma, non coincideva
con la capitale linguistica, Firenze.

VOLGARI E DIALETTI
C’è stata una fase iniziale in cui le varie lingue locali hanno potuto aspirare alla promozione di un alto livello
di cultura.
La prima scuola poetica italiana, infatti, è nata in Sicilia e ha usato il volgare siciliano, pur nobilita dolo per
un uso illustre. Si può parlare di dialetto, solo da quando si è affermata la lingua.

LETTERATURA DIALETTALE SPONTANEA E RIFLESSA


Tale distinzione è stata stabilita da una famoso saggio di Croce:
1. letteratura dialettale riflessa si oppone consciamente alla lingua
2. letteratura dialettale spontanea non è cosciente dell’opposizione alla lingua
Secondo Croce, l’uso cosciente del dialetto ebbe inizio dal Seicento, dopo la piena affermazione della
letteratura in lingua, anche se la data può essere posta nel ‘500.

POLICENTRISMO E VARIETA’ LINGUISTICA


L’esistenza dei dialetti è stato lo sfondo su cui si è sviluppata la letteratura in lingua, che ha potuto utilizzare
le lingua regionale o opporsi ad esse. Tre tipologie:
1. testo scritto propriamente in dialetto
2. testo che utilizza a volte il dialetto in un contesto non dialettale e a fini diversi
3. testo che rifiuta il dialetto
La storia linguistica italiana è per sua natura policentrica e si è sviluppata anche attraverso la collaborazione
del centro e periferia.

L’AZIONE DELLE LINGUE STRANIERE: I PRESTITI


TIPOLOGIA DEL PRESTITO
Gli scambi con l’estero sono frequenti: la lingua si trasmette attraverso i libri, il prestigio culturale,
scientifico e tecnologico, le invasioni militari, i viaggi e i commerci.
Sono le lingue dotate di maggior prestigio a influenzare il dialetto, esercitando un’azione che si manifesta nei
prestiti.
Il prestito può essere non adattato o adattato, a seconda che il termine venga accolto nella forma originale o
venga in qualche modo modificato. Quelli non adattati, risultano vistosamente differenti dalle parole italiane.
Il rapporto con una lingua diversa produce i calchi che possono essere di due tipi:
1. calco tradizionale, quando si traduce alla lettera la parola straniera( grattacielo traduce l’inglese
skycraper)
2. calco semantico, quando una parola assume un nuovo significato traendolo da una parola straniera (
autorizzare: prima significava rendere autorevole e per influsso francese ora permettere)

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 i prestiti di necessità si hanno quando la parola arriva assieme a un referente nuovo, privo di nome
nella lingua che lo riceve: parola nuova insieme alla cosa nuova ( patata, parola giunta dall’America Latina)
 i prestiti di lusso possono essere giudicati superflui, perché la lingua possiede già un’alternativa alla
parola forestiera, ma i loro uso prevale perché evoca una civiltà o una cultura prestigiosa, per un fine
stilistico ecc. ( baby sitter)

REAZIONI ESTEROFOBE E PURISTICHE


Il linguista si limita a prendere atto dell’esistenza di prestiti e cerca di individuare i loro canali di diffusione, i
motivi della loro fortuna.
L’osservazione dei forestierismi ha preso le mosse da reazioni puristiche: il Purismo implica una difesa della
lingua dai termini stranieri poiché la lingua viene sentita come segno di unità nazionale.
LE LINGUE ENTRATE IN RAPPORTO CON L’ITALIANO
Al primo posto ci sono quelle europee ( provenzale, francese, spagnolo, inglese), oltre ai contatti con il latino
e il greco.
Il latino fu una fonte a cui si attinse per potenziare il lessico del volgare, promuovendolo a un più elevato
livello culturale, mentre i rapporti con il greco furono favoriti dallo sviluppo della cultura umanistica, anche
se i principali termini riguardano la medicina.
 Tra le lingue moderne, il francese ha avuto maggiori rapporti: le letterature in lingua d’oc e d’oil si
svilupparono prima della nostra. Molti gallicismi con i suffissi – aggio ( coraggio, omaggio, vantaggio), -
ardo ( codardo), - iere( cameriere, cavaliere) sono entrati nell’uso comune.
La penetrazione di parole francesi continuò nel Seicento, nel settore militare ( maresciallo, avanguardia,
arruolare).
Tra ‘700 e ‘800 fu forte l’influenza del francese nella politica ( federalismo, rivoluzione), per la presenza dei
francesi in Italia, delle loro leggi e istituzioni.
Al tempo dell’Illuminismo era la lingua di cultura più prestigiosa e all’inizio dell’800 si sviluppò una
reazione contro i gallicismi.
 Anche le lingue iberiche hanno avuto influenza dalla seconda metà del ‘500 alla fine del’600:
attraverso lo spagnolo e il portoghese sono entrati in italiano diversi termini esotici indicanti frutti e prodotti
prima sconosciuti ( banana, cacao, mais).
 Gli anglismi o anglicismi costituiscono un settore in continua crescita: il periodo di forte
penetrazione comincia nell’800 e raggiunge il culmine nella nostra epoca
 L’influenza germanica si era fatta sentire in una fase più antica, durante il processo di formazione
della nostra lingua; parole portate dagli invasori che in certi casi soppiantarono la corrispondente parola
latina ( guerra-bellum)
 Nel Medioevo è stato importante il rapporto con l’arabo( tariffa, dogana)

GLI SCRITTORI E IL LINGUAGGIO LETTERARIO


IL RUOLO DEGLI SCRITTORI
Nel pensiero idealistico, la lingua viene concepita come atto creativo, espressività individuale e non come
fatto di comunicazione sociale. La creazione letteraria richiede uno sforzo di originalità.
Il linguaggio letterario ha spesso influito in maniera determinante sulla lingua comune.

GLI SCRITTORI COME MODELLO DI CODIFICAZIONE


Il linguaggio letterario può essere studiato dal punto di vista della critica stilistica che si occupa di definire i
caratteri della scrittura di singoli autori.
Nella situazione italiana sono stati proprio gli scrittori a incidere sullo sviluppo della lingua nazionale,
fornendo gli elementi su cui grammatici e teorici hanno poi stabilito la norma.
 FORNACIARI: uso moderno della lingua consiste in tutta quella parte che mentre si parla o è intesa,
ha anche a suo favore la maggioranza degli scrittori, antichi e recenti
 SALVIATI: l’uso degli scrittori è privilegiato rispetto all’uso comune dei toscani
 BUONMATTEI: il più importante grammatico italiano del Seicento, aveva ribadito che le regole
della lingua si ricavano degli scrittori e si deve ricorrere all’uso popolare, solo quando negli scrittori non c’è
chiarezza.
Gli scrittori sono stati considerati determinanti per la stabilizzazione della norma grammaticale.
In mancanza di una nazione politicamente unificata e una comunicazione affidata al dialetto, l’interesse per
la lingua si è sviluppato soprattutto nel settore della letteratura.

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La prima teorizzazione linguistica relativa alla lingua italiana è stata proposta da Dante nel De Vulgari
Eloquentia e ha avuto la possibilità di portare il volgare al livello sublime della poesia.

IL POPOLO
IL POPOLO PADRONE DELLE LINGUE
Il linguaggio è patrimonio di tutta la comunità dei parlanti: la lingua non può essere considerata esclusiva di
singoli individui o delle classi più colte, anche se solo queste ultime sono in grado di partecipare al dibattito
letterario.

POPOLO, PLEBE, SCRITTORI


Bembo, a cui si deve la teoria vincente nelle dispute cinquecentesche sul volgare, era fautore di un ideale
letterario aristocratico e non riconosceva i diritti della parlata popolare. Per popolo, si intende quello toscano,
l’unico che possedeva un idioma paragonabile a quello letterario. Il popolo di tutte le altre regioni era legato
al proprio dialetto e non poteva essere oggetto di attenzione da parte di grammatici e teorici.
Manzoni, nell’800, finì per adottare la lingua viva e vera di Firenze, staccandosi dalla tradizione letteraria
arcaizzante.
La plebe era sempre stata considerata di nessun valore o dannosa.

L’ITALIANO POPOLARE
I primi documenti presi in esame furono quelli più recenti: ROSSI raccolse una serie di lettere, scritte da una
contadina del Salento, presentate in seguito in un saggio linguistico di DE MAURO.
La categoria di italiani popolare si è fissata all’inizio degli anni ’70 per indicare la parlata degli incolti di
aspirazione unitaria o di chi ha per madrelingua il dialetto.
La scoperta di una serie di documenti, come racconti autobiografici e diari, dimostra come anche tra gli
appartenenti ai ceti sociali più bassi, ci fosse la capacità di leggere e scrivere. Veniva adoperato un italiano
scorretto, saturo di dialettismo, ma comunque diverso dal mero dialetto.
Il dialetto può essere studiato come oggetto specifico e può essere messo in relazione con la lingua: i dialetti
si sono via via avvicinati all’italiano e questo ha acquisito elementi dei dialetti.
Anche le masse popolari hanno partecipato indirettamente all’evoluzione della lingua.

NOTAI E MERCANTI
IL NOTAIO
Il notaio è fra i protagonisti della fase iniziale della nostra storia linguistica: molti dei primi documenti in
volgare sono stati scritti da notai e proprio a costoro si deve la scelta di introdurre il volgare al posto del
latino: così accadde nel Placito Capuano, atto di nascita della nostra lingua.
I notati sono stati tra i primi cultori dell’antica poesia italiana, come dimostrano i Memoriali bolognesi,
registri di atti, dove troviamo versi di Cino da Pistoia, di Cavalcanti e di Dante.
Il notaio vive in una situazione di bilinguismo: per educazione è stato abituato ad usare il latino negli atti del
suo ufficio, anche se il volgare è adoperato da testimoni e dalle parti che si presentano di fronte a lui.

IL MERCANTE
Il mercante medievale era meno istruito del notaio, ance se poteva conoscere le lingue straniere: imparava a
leggere, scrivere e fare di conto, ma poi si dedicava alla sua attività pratica.
Il mercante leggeva per proprio divertimento, ma il rapporto con la scrittura era più importante, in quanto
aveva a che fare con la sua professione. La scrittura era al servizio di esigenze pratiche.
Un libro di conti del 1211 è la prima testimonianza di volgare fiorentino.
Di particolare interesse risulta l’area veneta: la più antica documentazione di Venezia è di origine
commerciale.

SCIENZIATI E TECNICI
L’EGEMONIA DEL LATINO
Lo strumento della lingua scientifica fu per lungo tempo solo il latino: questa situazione durò fino al
Rinascimento. Il latino adoperava in settori come la teologia, la matematica, la filosofia, l’astronomia ecc.
La base delle conoscenze della natura era costituita da autori classici e da autori come Aristotele.
Anche nel campo della medicina si usava il latino, lingua in cui erano tradotti in Europa, molti autori arabi.

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AFFERMAZIONE DI UN LINGUAGGIO SCIENTIFICO ITALIANO


il linguaggio scientifico moderno ha accentuato molto i suoi caratteri specifici.
Oggi molto spesso, chi scrive saggi scientifici, è tentato ad usare l’inglese e ciò evita problemi di traduzione,
assicurando una più facile diffusione all’estero.
Lo scienziato necessita di una terminologia priva di incertezza evocativa: deve definire rigorosamente i
termini che usa o deve attenersi al significato prefissato.

LA FORZA DELLA NORMA: I GRAMMATICI


PRIME GRAMMATICHE ITALIANE
La lingua esiste anche prima che i grammatici abbiano fissato le norme; l’italiano, vantava già un’eccellente
tradizione letteraria quando tra ‘400 e ‘500, si avviarono i primi esperimenti di stabilizzazione della norma.
La prima grammatica italiana è la GRAMMATICHETTA VATICANA, chiamata così perché tramandata da
un codice apografo ( copia dell’originale) della Biblioteca Vaticana (l’originale, oggi perduto, stava nella
Biblioteca di Lorenzo il Magnifico a Firenze). Questa grammatica è attribuita a LEON BATTISTA
ALBERTI e la data di composizione si colloca tra il 1434 e il 1454. Vi è un confronto tra italiano e latino,
mentre inizialmente si parla di come i latini e i greci fossero stati i primi che ricavarono delle regole per
scrivere in maniera corretta. Gli umanisti riconoscevano che il latino aveva una salda struttura grammaticale.
L’opera non ebbe né fortuna né diffusione.
Per la tradizione umanistica, abituata all’uso del latino, la promozione del volgare passava attraverso il
riconoscimento della sua capacità di avere delle regole: la grammatica era garanzia del valore della lingua.
“Regole grammaticali della volgar lingua”di Giovanni Francesco Fortunio, pubblicate ad Ancona nel 1516.
Nel 1525 uscirono le “Prose della volgar lingua” di BEMBO; nella terza e ultima parte si trova una vera e
propria grammatica dell’italiano, esposta in forma dialogica.
Le norme fissate dai grammatici del ‘500 erano ricavate dagli scrittori che avevano reso grande la lingua:
Dante, Petrarca e Boccaccio; le loro opere fornirono il modello a cui i grammatici si attennero. La
grammatica si sviluppò dopo che fu disponibile una ricca tradizione letteraria.
Fino a quel momento, chi usava la lingua, doveva ricavare autonomamente le regole, a partire dagli autori
letti e ammirati.
GRAMMATICHE TOSCANE
DALLA Toscana, nel Cinquecento, non giunsero delle opere normative capaci di competere con quelle
prodotte dall’editoria di Venezia.
Dalla seconda metà del ‘500 all’inizio del ‘600, si imposero opere di grammatici toscani, che riconoscevano
l’importanza della lingua fiorentina parlata, pur senza rinnegare il ruolo fondamentale della tradizione scritta.
La norma dell’italiano si era fissata sulla base di modelli letterari antichi.

LA GRAMMATICA COME STRUMENTO DIDATTICO


Le grammatiche del ‘500 furono strumento di consultazione per il letterati.
Dal ‘700, con lo sviluppo di pubbliche scuole superiori di lingua italiana, ai grammatici si offrì la
grammatica come manuale e divenne uno strumento fondamentale.

LESSICOGRAFI E ACCADEMICI
NASCITA DEL VOCABOLARIO ITALIANO
Il vocabolario dell’uso è considerato un testimone della lingua viva e necessita di continui aggiornamenti per
stare al passo con i tempi: le edizioni dei vocabolari di succedono abbastanza di frequente, tenendo conto dei
prestiti e dei neologismi che entrano in grande quantità nel patrimonio lessicale della nazione.

LESSICOGRAFIA TOSCANA E ACCADEMIA DELLA CRUSCA


I Più antichi vocabolari a stampa dell’italiano furono realizzati lontano dalla Toscana, soprattutto a Venezia,
ma anche al Sud, come a Napoli.
La cultura di Firenze intervenne attraverso l’Accademia della Crusca, fondata alla fine del ‘500. La Crusca
pubblicò nel 1612 un vocabolario, in cui furono inserite le parole ammissibili.
Il modello fu così forte che per secoli Accademia e Vocabolario si identificarono; furono pubblicate altre due
edizioni nel Seicento e una nel Settecento.

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I GRANDI VOCABOLARI SPECCHIO DELLA CULTURA


Alcuni vocabolari furono testimoni delle svolte culturali e di un atteggiamento linguistico disponibile ad
accogliere novità di rilievo.
Tra il 1797 e il 1805 fu pubblicato a Lucca il DIZIONARIO UNIVERSALE CRITICO ENCICLOPEDICO
DELLA LINGUA ITALIANA di Francesco d’Alberti di Villanova, che segnò un deciso rinnovamento,
anche per la disponibilità verso i francesismi, verso alcuni regionalismi e verso le voci tecniche.
Bellini e Tommaseo crearono il DIZIONARIO DELLA LIGNUA ITALIANA.
Manzoni progettò un vocabolario completamente diverso da quelli fatti fino ad allora, coerente con la scelta
del fiorentino vivo: il GIORGINI-BROGLIO.
Il dizionario divenne poi uno strumento della didattica scolastica, per combattere la corruzione delle parole
forestiere, dei barbarismi.

LA BUROCRAZIA E LA POLITICA LINGUISTICA DEGLI STATI


LA SITUAZIONE PARTICOLARE DELLA TOSCANA
La letteratura e la cultura furono i canali più importanti per la diffusione dell’italiano, lingua che non ha
raggiunto la sua stabilità attraverso la forza unificatrice di uno stato moderno dotato di organizzazione
burocratica.
In Toscana, la lingua parlata era vicina a quella scritta e letteraria, il potere politico quindi era disponibile
alla promozione della lingua volgare.
Il toscano ebbe un’importante promozione alla corte medicea, al tempo di Lorenzo il Magnifico, nel
Quattrocento e nel Cinquecento sotto Cosimo I.
Quest’ultimo seppe promuovere una vera e propria politica culturale, finanziando l’Accademia fiorentina e
chiedendole di interessarsi in particolare ai problemi della lingua e di fissare le regole del toscano.

LE CANCELLERIE DEGLI STATI COME CENTRO DI IRRADIAZIONE DELLA LINGUA


Nel resto d’Italia si ebbero casi di adozione del volgare toscano al posto el latino; nel campo giuridico-
amministrativo il latino deteneva un primato quasi assoluto.
Ma il volgare, già nel ‘400, fece la sua comparsa in alcune cancellerie signorili; la cancelleria è la segreteria
addetta allo svolgimento degli affari di Stato, in cui si conservano atti legislativi e giudiziari.
È nelle cancellerie che nel ‘400 si forma la lingua che si definisce come “comune”, “koinè”.
I cancellieri sono notai e hanno una cultura linguistica latino, legale, pragmatico, a cui si può accompagnare
una cultura umanistica.

MOTIVAZIONI PER LA SCELTA DEL VOLGARE


Il volgare viene utilizzato già nel ‘400, da alcune cancellerie italiane: a Mantova, a Milano e viene usato
inizialmente in bandi e gride rivolte al popolo, in funzione divulgativa, e successivamente nella
corrispondenza ufficiale e nelle procedure di giustizia.
Il popolo, incapace di intendere il latino, era in balia di notai e avvocati, in grado di ingannare gli ignoranti.
Quando la lingua viene sentita come valore nazionale e come difesa verso l’esterno, è vista come tangibile
segno di unità.

LA GUERRA AI DIALETTI E LA POLITICA LINGUISTICA


Anche i dialetti esprimono individualità e diversità regionale, concepiti come ostacolo sulla strada dell’ideale
nazionale.
Lo stesso Manzoni non fu favorevole ai dialetti.
La posizione antidialettale viene definita come “giacobinismo linguistico”.
L’unità linguistica si realizza quando la nazione è riuscita a raggiungere un livello accettabile
nell’omogeneità del sapere, nella circolazione di idee, nella scolarità.

LA POLITICA SCOLASTICA
Uno degli strumenti di politica linguistica è la scuola.
Fino al ‘700 però la scuola fu in lingua latina, il volgare era estraneo; solo in Toscana furono istituite già nel
‘500 cattedre di lingua toscana nelle università.

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Solo con le riforme del ‘700 il toscano entrò nella scuola superiore e nelle università, ci fu una promozione
dell’italiano che all’inizio occupò una posizione modesta, ancora marginale rispetto all’insegnamento della
lingua latina.
Aumentò l’importanza di scuole sotterranee, cioè non organizzate dallo Stato, né strutturate in maniera
omogenea, tenute da religiosi, presso le parrocchie.
Si faceva scuola anche in botteghe artigiane, per formare i figli dei mercanti. Così anche i ceti meno elevati
della città poterono imparare a leggere e scrivere in volgare.
Gli Stati fino al ‘700 si disinteressarono dell’educazione popolare, occupandosi solo dell’istruzione
universitaria e superiore.
Nella seconda metà dell’800 si realizzarono esperimenti di scolarizzazione di massa: le legislazioni più
avanzate si ebbero in Piemonte, Lombardo-Veneto, mentre quelle più arretrate nello Stato Pontificio e nel
Meridione.
 Nel 1848 il Piemonte riordinò tutta la materia relativa all’istruzione pubblica mediante la legge
Boncompagni
 Nel 1859 la legge Casati istituì la scuola elementare gratuita per quattro anni.
Molti maestri insegnavano spesso usando il dialetto, perché non erano in grado di parlare italiano.

GLI EDITORI E LA TIPOGRAFIA


LA RIVOLUZIONE DELLA STAMPA
L’invenzione della stampa a caratteri mobili fu una rivoluzione che incise profondamente sulla cultura
europea.
Tra le conseguenze ci fu:
 Una diminuzione del prezzo dei libri
 Aumento delle tirature
 ampia divulgazione
 fu influenzata anche l’evoluzione della lingua
La stampa produsse una crescente regolarizzazione della scrittura; l’editoria del Rinascimento si trovò a
convivere con il trionfo delle idee di Pietro Bembo.
La tipografia italiana favorì nel ‘500 la diffusione della norma bembiana e allo stesso tempo se ne
avvantaggiò.
La Bibbia di Gutenberg, primo libro composto a caratteri mobili, uscì a Magonza nel 1455. In poco tempo la
tipografia si diffuse anche in altre nazioni e con ottimi risultati in Italia.
I primi tipografi attivi in Italia furono tedeschi.
Nel ‘400 Venezia divenne la capitale della stampa italiana, la seguono Roma, Firenze, Milano e Bologna.

GLI INCUNABOLI IN LATINO


Il termine “incunabolo” definisce il libro quattrocentesco, dal latino “incunabula”, ossia fasce.
Il primo libro volgare italiano è un testo popolare: prima si faceva riferimento a un’edizione dei “Fioretti di
San Francesco”pubblicato a Roma nel 1469, ora si tiene conto di un frammento di un libro di preghiere, il
“Parson fragment” del 1462, anche se la data resta incerta.
Tra il 1470 e il 1471 uscirono gli autori massimi della letteratura volgare: si ebbero le prime stampe del
“Decameron” e del “Canzoniere” di Petrarca.
Ne 1472 uscirono diverse edizioni della “Commedia” dantesca.
I libri in volgare furono tutto in tutto il ‘400 una minoranza.
Il settore delle prose è il più rilevante, in cui entrano anche testi scientifici, oltre ai libri geografici.
Importante è la categoria dei volgarizzamenti dai classici greci e latini.

LA TIPOGRAFIA DEL CINQUECENTO, IL VOLGARE E LE CORREZIONI EDITORIALI


Nel ‘500 le percentuali dei libri in volgare aumentarono notevolmente.
Nella prima del ‘500 si segnala a Venezia l’editore ZOPPINO, che stampa quasi tutti i libri in italiano,
mettendo in catalogo autori come Petrarca, Dante, Boccaccio, Ariosto.
Il correttore tipografico acquistò sempre di più maggiore importanza: prima della normativa di Bembo,
poteva aversi un adeguamento alla norma toscana, ma ciò veniva interrotto. Solo nel libro post-bembiano il
problema della regolarizzazione del testo si pone in maniera definitiva; per questo gli editori utilizzarono dei
revisori ben preparati.

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Nel ‘500 questa professione acquistò una fisionomia ben precisa, per la realizzazione di un testo corretto e
omogeneo. Si arrivò così alla regolarizzazione della grafia e dell’uso della punteggiatura.

DALLA STAMPA AI MASS MEDIA


IL GIORNALE E LA SUA FUNZIONE LINGUISTICA
Il giornale, in quanto pubblicazione periodica, poteva essere rivolto allo stesso pubblico colto che acquistava
i libri.
Le maggiori riviste erano “Il Caffè”, la “Biblioteca italiana”, collocate a livello alto e per un pubblico
esperto, trattando questioni di attualità, il tema della lingua, entrando nel vivo di un dibattito molto vivace.
Questo favorì una crescita dell’alfabetismo e una maggiore scolarizzazione.
Il giornale fu motore del cambiamento e della promozione culturale, ma anche testimone del suo tempo; per
questo il giornalista si confronta con l’attualità, le novità tecnologiche, i mutamenti del mondo.
Il giornale è il primo luogo di scrittura in cui gli elementi della lingua approdano ed è il primo luogo in cui
arrivano le prime parole forestiere di moda.

RADIO, CINEMA E TELEVISIONE


TULLIO DE MAURO, in “Storia linguistica dell’Italia unita” attribuì grande peso all’influenza linguistica
dei media.
La radio era diventata un canale per raggiungere le massi popolari negli anni precedenti la seconda guerra
mondiale.
La televisione, nata nel dopoguerra, raggiunse anche il pubblico delle fasce più povere, non toccato dalla
circolazione della stampa.

Capitolo 4: situazioni della comunicazione, la varietà della lingua

LINGUA SCRITTA E LINGUA PARLATA


NON ESISTE L’OMOGENEITA’ LINGUISTICA ASSOLUTA
La lingua è per sua natura caratterizzata da varietà, tramite la quale si esprime la creatività del parlante.
Lo storico deve sempre chiedersi a quale livello e in quale situazione si collochino i testi che esamina.

SCRITTO E PARLATO
L’opposizione tra lingua scritta e parlata tende a essere riassorbita nella visione della lingua come un
continuum tra due poli.
Nell’oralità ci sono stati nuovi elementi che sono entrati nella comunicazione, assenti nella scrittura: i gesti,
le espressioni, il tono della voce.
La scrittura ha una maggiore durata del parlato: permette la correzione, il ripensamento, stesure diverse fino
al raggiungimento di un risultato soddisfacente e ordinato.
Il testo scritto permette un controllo maggiore delle connessioni testuali, del lessico, della sintassi.

DIFFICOLTA’ DEGLI STUDI SUL PARLATO


La registrazione della lingua parlata pone problemi di metodo, nella selezione dei canali e degli informatori.
La maggior parte della storia linguistica italiana va ricostruita sulla base di documenti e testi scritti, in cui
affiorano le tracce dell’orale.
Un caso particolare è costituito dal testo teatrale, che presenta un certo realismo e può essere considerato una
simulazione del parlato; non è un vero parlato, perché in realtà si tratta di un testo scritto da un autore per
essere messo in scena da attori che lo interpretano con la loro voce.
Il parlato viene anche inserito nella narrativa, ad esempio nelle novelle, in cui la voce del narratore lascia
spazio ai dialoghi tra i personaggi.
Entrambi sono comunque di creazione letteraria.

LA LINGUA DEI COLTI E QUELLA DEGLI INCOLTI: VARIETA’ DIASTRATICHE


DEFINIZIONE DELLA VARIETA’ DIASTRATICA
La lingua cambia in dipendenza del livello culturale e sociale di chi la usa.
L’italiano popolare è un concetto che definisce l’italiano di chi non riesce a staccarsi dal dialetto e contamina
i codici, dando luogo a degli errori.

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Per i linguisti, gli errori, sono fenomeni da interpretare e comprendere, indicandone la genesi e le
motivazioni. Essi parlano di varietà diastatiche per indicare differenze che si riscontrano nell’uso dei diversi
strati sociali.
Nello studio delle varie fasi diacroniche dell’italiano non esistono solo i ceti sociali acculturati e partecipi al
dibattito letterario, ma anche quelli più bassi che non sempre risultano estranei all’italiano.

DIFFERENZE SOCIALI DELL’USO LINGUISTICO NEI DOCUMENTI SCRITTI DEL PASSATO


L’esame dei testi classificabili come italiano popolare permette di approfondire il discorso relativo alle
differenze sociali della lingua.
Nel ‘500 la mancanza di una norma linguistica codificata e riconosciuta, rendeva normale il ricorso a forme
della lingua viva, filtrate attraverso la grafia latineggiante: sono le varietà diatopiche, ossia geografiche.
Con l’affermarsi della codificazione bembiana, chi si discosta dalla norma, scivola in una scrittura definibile
come semicolta o popolare.
Dal Cinquecento, l’italiano letterario divenne lingua della comunicazione scritta ai diversi livelli della
società; da allora quanto più è modesto il livello culturale dello scrivente, tanto più emergono vistosi gli
elementi legati al dialetto.

VARIETA’ DIATOPICHE
DEFINZIONE DELLA VARIETA’ DIATOPICA
Le varietà diatopiche della lingua sono definibili anche come varietà geografiche.
DE MAURO ha mostrato che l’italiano parlato oggi nel nostro paese non è uniforme, ma varia da regione e
regione. Le differenze riguardano il livello fonetico e fonologico, ma anche quello morfologico e lessicale.
Ad esempio i parlanti settentrionali non distinguono tra le e/o rispettivamente aperte e chiuse.
L’italiano di Roma non è identico a quello toscano.
Le varietà diatopiche possono dividere una stessa regione.
Questa varietà si riconosce nel parlato e nelle scritture; quanto più è basso il livello di cultura dello scrivente,
tanto più non è in grado di aderire al modello del toscano letterario e più affiorano i tratti locali.
Il processo di eliminazione dei tratti locali fu confermato dal ‘300 dall’imitazione del linguaggio delle Tre
Corone.
I libri di maneggio nel ‘700 servivano a verificare la consistenza dei dialettismi con cui si indicano gli
oggetti domestici.

LE ESIGENZE DELLA CHIESA


Prima dell’Unità. Gli esponenti della gerarchia ecclesiastica si erano dimostrati sensibili ai problemi della
varietà della lingua parlata e sapevano che i predicatori dovevano parlare al pubblico di regioni diverse senza
sfigurare.

IL MISTILINGUISMO
Il parlante o scrivente italiano è stato attirato dal toscano, lingua conosciuta attraverso i modelli della
letteratura o ammirata nel parlato popolare di Firenze. È stato condizionato dal suo dialetto d’origine, spesso
diverso dal toscano.
Il parlante non toscano si trova a parlare un dialetto d’uso quotidiano, necessario e diffuso, collocato ad un
livello di prestigio inferiore rispetto alla lingua letteraria, considerata la sola nobile.
Il mistilinguismo era la mescolanza di elementi linguistici diversi, nello scritto e nel parlato e poteva
manifestarsi sia involontariamente, per errore, sia volontariamente per scelta stilistica.

VARIETA’ DIAFASICHE
Diafasico è il termine tecnico per indicare differenze linguistiche relative allo stile della comunicazione, che
può svolgersi a livelli diversi.
Si può parlare di:
 livello molto elevato o aulico
 colto
 formale o ufficiale
 medio
 colloquiale
 informale
 popolare

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 familiare
 basso, plebeo
A ognuno di questi stili corrisponde una forma linguistica differente e scelte sintattiche e lessicali diverse.
La definizione dei registri e degli stili della comunicazione orale interessa i sociolinguisti.
Lo storico della lingua in diverse occasione terrà conto del livello o registro in cui si colloca il documento
che ha occasione di prendere in esame.
Molte tendenze innovative dell’italiano di oggi si manifestano ad un livello diafasico molto basso:
 gli è usato al posto di a lei
 uso del ci davanti al verbo avere
 che polivalente
 uso dell’imperfetto nell’ipotetica dell’irrealtà
 uso dell’indicativo al posto del congiuntivo nelle dipendenti

Capitolo 5: origini e primi documenti dell’italiano

DAL LATINO ALL’ITALIANO


L’italiano deriva dal latino: ha la stessa origine delle altre lingue romanze, derivando così dal latino volgare.
Gli esiti romanzi vengono paragonati tra loro e ricondotti alla parole originaria dalla quale derivano: questa
parola viene presupposta come propria del latino volgare, la lingua a cui gli studiosi fanno riferimento per
spiegare l’origine degli idiomi romanzi.
Il concetto di latino volgare, veniva usato per indicare i diversi livelli linguistici che esistevano nel latino e
queste distinzioni rinviavano a livelli sociolinguistici differenti.
Gli incolti, quindi, parlavano in modo diverso dalle persone colte e dai romani istruiti.
Il concetto poi, fa anche riferimento a una componente diacronica, a una componente sociolinguistica e
diacronica.
Esempio: PLUS, che sostituì MAGIS nel comparativo. Il tipo magis era presente nelle aree laterali
dell’Impero, mentre plus si era diffuso al centro. Essendosi già imposta la forma magis nei territori
conquistati, in una fase successiva si irradiò da Roma il tipo plus, che non fece in tempo a raggiungere i
territori laterali della Romania, che conservano tutt’oggi la forma più antica.
Il latino dunque non aveva un’unità linguistica assoluta e non si impose allo stesso modo ovunque. La
penetrazione fu forte in Iberia, Gallia, Rezia, Norico, Dalmazia, Dacia e nell’Africa settentrionale; nella parte
orientale dell’Impero prevalse l’uso del greco, l’unica lingua di cultura dell’antichità di fronte alla quale i
romani provassero rispetto.
L’atteggiamento dei romani nei confronti delle altre lingue dei popoli fu di disinteresse e di disprezzo: il
colonialismo romano impose il latino insieme alle leggi latine e alla cultura latina.
La Germania non fu latinizzata, a differenza della Gallia e il confine fu fissato sulla sponda del fiume Reno.
A partire dal IV secolo, entrarono nel latino dei germanismi:
 guerra, germanico occidentale *WERRA( alto tedesco werra, confusione) che prese il posto di
BELLUM

1. Al livello della lingua scritta si situa il latino classico, con la sua continuità culturale, a cui si
avvicina il latino parlato dai ceti colti aristocratici dell’età repubblicana
2. latino popolare, identificato col latino volgare
3. il latino parlato dai ceti colti in età imperiale si avvicinò al livello popolare, dando origine al latino
volgare, da cui sono nate le lingua romanze.

In epoca tardo-imperiale, il latino parlato influenza solo marginalmente una lingua ormai cristallizzata e
regolata dalle norme dei grammatici. La frattura tra scritto e parlato diventa insanabile.

Dimensione geolinguistica dello sviluppo del latino, inquadrato in una prospettiva storica:
 progressiva espansione geografica del latino nel corso dell’età repubblicana e imperiale, che
comportò la nascita di un “latino delle province”
 nel latino delle varie regioni, si avviò un processo di differenziazione, su cui incisero le invasioni
barbariche e il processo si concluse con la nascita delle lingue romanze.
I due schemi illustrano lo stesso sviluppo, dal latino volgare alle lingue neolatine, considerandolo da due
punti di vista differenti.

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Uno dei mezzi per ricostruire gli elementi del latino volgare è la comparazione tra le lingue neolatine:
quando si importa una parola al suo etimo latino-volgare, si può individuare l’esistenza di una forma
lessicale non attestata nel latino scritto, indicata con un asterisco.
Il latino volgare conteneva molte parole presenti anche nel latino scritto, come FUMUM. Altre parole furono
innovazioni del latino parlato, non sono attestate nello scritto, come PUTIUM.
In altri casi si ebbe un cambiamento nel significato della parola latina letteraria, che assunse un senso diverso
nel latino volgare: TESTAM, in origine era un vaso di terracotta, ma poi sostituì CAPUT. Assunse
inizialmente un significato ironico, ma poi assunse in toto il nuovo significato, anche se capo sopravvive in
italiano come parola dotta.
Il confronto tra le lingue romanze e la ricostruzione etimologica dei derivati dal latino non sono gli unici
strumenti per la conoscenza del latino volgare: esistono una serie di testi che possono dare informazioni utili
per intravedere alcune caratteristiche del latino parlato di livello popolare o del latino tardo. Sono i trattati di
cucina, medicina, ma anche i testi teatrali contengono elementi del parlato.
Esempio: SATYRICON di PETRONIO ARBITRO, nel I secolo d.C.: coesistono forme come pulcher,
formosus, bellus. Il primo aggettivo era destinato a sparire nelle lingue moderne, mentre gli ultimi due sono
all’origine delle lingue romanze:
1. spagnolo: hermoso
2. italiano: bello
3. francese: beau
Bellus si trovava anche nel poeta Catullo, nel I sec. a.C. e in Cicerone.
Le forme affettive e familiari presero molte volte il sopravvento, rimpiazzando il tipo lessicale dominante.
Esempio: in PETRONIO, si trova unus con funzione di indefinito anziché numerale, così come sarà nelle
lingue romanze.

Tra le fonti per la conoscenza del latin volgare si possono citare le iscrizioni delle lapidi, che a volte
contengono errori significativi.
Interessanti sono anche le scritture occasionali, come quelle che si trovano sulle pareti delle case di Pompei,
graffiti e scritte murali: queste scritte non sono posteriori alla data del 79 d.C. quando l’eruzione del Vesuvio
colpì la città.
Rilievo, tra i documenti del volgare, lo ha l’APPENDIX PROBI. Chiamata così perché il documento segue
gli Instituta artium di un grammatico tardo come Probo: è una lista di 227 parole non corrispondenti alla
buona norma, tramandate da un codice scritto a Bobbio intorno al 700 d.C. un maestro dell’epoca avrebbe
raccolto le forme errate in uso presso i suoi allievi e le avrebbe affiancate alle corrette, secondo il modello A
NON B:
 speculum non speclum
 vetulus non veclus
 columna non colomna
 frigida non fricda
 turma non torma
Non sempre la forma attestata nell’Appendix Probi è quella che ha dato origine agli sviluppi romanzi:
 SPECULUM ha dato origine a SPECCHIO, con passaggio di –CL a –kkj
 VETULUM: vecchio
L’Appendix è l’occasione per riflettere sulla presenza nel latino volgare di una serie di tendenze aberranti
rispetto alla norma classica, avvertite come errori.
L’errore è una deviazione rispetto alla norma, ma nell’errore possono manifestarsi anche tendenze
innovative. Quando l’errore si generalizza, l’infrazione diventa norma per tutti i parlanti.

Gli studiosi fanno riferimento ai fenomeni di sostrato: il latino si impose su lingue preesistenti che
influenzarono l’apprendimento della lingua di Roma. Esse erano l’etrusco, l’osco-umbro.
Con superstrato, si intende, l’influenza esercitata da lingue che si sovrapposero al latino, come avvenne al
tempo delle invasioni barbariche.
Per adstrato si intende l’azione esercitata da una lingua confinante.
L’apporto lessicale all’italiano di queste lingue non è di grande rilevanza, anche se si possono individuare
diverse parole di origine germanica.
I goti entrarono in Italia nel 489, guidati da Teodorico. Il regno gotico finì con la guerra intrapresa dagli
eserciti di Gisutiniano, il dominio dei goti non fu perciò molto lungo. La lingua gotica ci è nota soprattutto

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grazie alla traduzione della Bibbia fatta nel IV secolo dal vescovo Ulfila: i termini goti entrati nell’italiano
sono meno di una settantina( astio, melma, nastro, stecca).
I longobardi invasero il Paese nel 568 e la loro fu un’invasione violenta e brutale: si creò così una vera e
propria frattura e il loro dominio durò fino alla venuta dei franchi, nel VIII secolo. Lasciarono anche una
traccia nella denominazione di gran parte dell’Italia settentrionale, chiamata Lombardia.
Le parole longobarde sono oltre 200, tra arcaiche e moderne, dialettali e di lingua( guancia, stamberga,
federa, gruccia, palla, faida).
L’insediamento dei franchi ebbe un carattere diverso: era un certo numero di nobili con i loro fedeli, un’elite
che si insediò ai vertici del potere civile e militare( bosco, guanto, dardo).
All’influsso franco, di tipo germanico, va collegato, quello gallo-romanzo.
L’influenza d’oltralpe si fece sentire nel secolo XI e XII, con la diffusione della letteratura provenzale e
francese, tanto che nel ‘200 vi furono trovatori settentrionali che poetarono i lingua d’oc.
Nel periodo carolingio entrarono parole come: conte, marca, cameriere, barone, dama, lignaggio, vassallo.

NOZIONI DI GRAMMATICA STORICA


Le modificazioni subite dal latino non sono state casuali: si riscontra una regolarità. Queste regole possono
essere organizzate così sistematicamente, da fornire una descrizione metodica per ognuna delle lingue
romanze.
La grammatica storica si occupa dello sviluppo diacronico della lingua, mentre quella descrittiva e normativa
si occupano delle norme che governano una lingua nella sua fase più recente.
Le leggi della grammatica storica sono differenti da lingua a lingua e non sono prive di eccezioni e anomalie.

NOZIONI ELEMENTARI DI FONETICA


le vocali possono essere classificate in base al loro punto di articolazione.
La fonetica articolato ria è la disciplina che si occupa di questo settore della linguistica, che ha una precisa
relazione con lo studio dell’anatomia dell’apparato fonatorio.
 Vocale a, detta media
 Per la è la lingua si sposta in avanti e in alto verso il palato
 Per articolare la ó la lingua si sposta indietro, verso il velo palatino
 Per articolare la i si deve avere un’ulteriore avanzamento della lingua rispetto alla è
 Per pronunciare la u si deve giungere al limite del velo palatino

1. vocale centrale bassa: a


2. 3 vocali anteriori o palatali: i, è, é
3. 3 vocali posteriori o velari: u, ò, ó

La e e la o si distinguono in chiuse e aperte.


Vi sono lingue o dialetti in cui esistono le vocali “turbate”, la ö e la ü, assenti in italiano.
Esiste la vocale indistinta o muta: ë o ə( schwa).
Le vocali, inoltre, possono essere distinte a seconda della durata, in lunghe o brevi.
Quelle che portano l’accento, sono dette toniche, quelle senza sono atone.
Combinazioni particolari di suono sono i dittonghi, che possono essere:
 Ascendenti: piède, uòmo
 Discendenti: fài, càusa
A seconda che la sonorità diminuisca o aumenti nel passaggio dal primo al secondo elemento.
La i e la u ( iod e waw) che entrano nei dittonghi vengono pronunciate in maniera intermedia tra quella si una
vocale e di una consonante: semiconsonanti. Vengono rappresentate con un mezzo cerchio aperto verso il
basso.

Le consonanti vengono pronunciate con un restringimento o con un’occlusione del flusso d’aria.
Quando avviene il restringimento sono dette FRICATIVE.
Quando avviene un’occlusione sono dette OCCLUSIVE.
La combinazione delle prime con le seconde produce le AFFRICATE.
Le consonanti possono essere sorde o sonore: nelle prime non si ha la vibrazione delle corde vocali, nelle
seconde sì.

 OCCLUSIVE

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Sorde Sonore
Labiali: /p/ /b/
dentali: /t/ /d/
velari: / k/ /g/

Se l’occlusione della cavità orale si combina con il passaggio d’aria nel naso, si ottengono le consonanti
nasali:

 NASALI
Labiale: /m/
Dentale: /n/
Palatale: /ɲ/
Velare: /ɳ/

Se la lingua occlude solo la parte centrale della cavità orale, lasciando libere le zone laterali, avremo le
consonanti laterali:

 LATERALI:
dentale: /l/
palatale: /ʎ/ (figlio)

La /r/ è una consonante vibrante, perché la lingua produce una serie di ostruzione che si susseguono
rapidamente come vibrazioni.
Con le fricativa, si produce un restringimento nel flusso dell’aria fino a produrre una attrito:

 FRICATIVE:
sorde sonore
alveolari: / s/( sano) /z/ ( rosa)
labio-dentali: /f/ /v/
palatali: / ʃ/ /ʒ/

 AFFRICATE:
sorde sonore
dentali: /ʦ/ ( alzare) /ʣ/ ( zero)
palatali: /tʃ/ ( cena) /dʒ/ ( giallo)

Esistono notazioni codificate a livello internazionale, come l’alfabeto fonetico internazionale o IPA.
Nella descrizione dell’italiano e dei suoi dialetti spesso si fa riferimento alla simbologia adoperata da
G.Rohlfs nella sua grammatica storica.

IL SISTEMA VOCALICO TONICO DELL’ITALIANO


La lingua italiana ha un sistema di 7 vocali, perché è ed è costituiscono opposizione fonematica, cioè
possono distinguere due parole altrimenti identiche.
Il sistema dell’italiano si è formato dallo sviluppo del sistema vocalico latino: il latino aveva dieci vocali,
distinguibili in cinque lunghe e cinque brevi.
Poi la quantità vocalica latina cessò di avere rilevanza e si trasformò in qualità: i parlanti pronunciavano le
lunghe come strette e le brevi come aperte.
Ī: i
Ĭ, Ē: è
Ĕ: è
Ā, Ă: a
Ŏ: ò
Ō, Ŭ: ó
Ū: u

ALTRI TIPI DI VOCALISMO


Confronto con il sardo e il siciliano:

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SARDO:
Ī, Ĭ: i
Ē, Ĕ: e
Ā, Ă: a
Ŏ, Ō: o
Ŭ, Ū: u
Il sistema è penta vocalico.

SICILIANO:
Ī, Ĭ, Ē: i
Ĕ: è
Ā, Ă: a
Ŏ: ò
Ō, Ŭ, Ŭ: u

IL DITTONGAMENTO
In italiano la è < Ĕ tonica, se in posizione di sillaba libera, ossia terminante per vocale, dà origine a un
dittongo:
PĔ – DE(M) > piede.
Anche la ò da Ŏ breve, dittonga, se tonica, in sillaba libera: BŎ-NU(M) > buono.
All’inizio del’800 il dittongo uo venne eliminato dopo suono palatale( gioco< giuoco, figliolo< figliuolo).
Il fiorentino popolare eliminò uo in tutte le posizioni: òmo al posto di uomo, bòna al posto di buona.
Il dittongo manca in parole di origine dotta, che sono stata introdotte in italiano sulla base del modello latino:
pòpolo< PŎPULU(M).

LA MONOTTONGAZIONE
I dittonghi latini AE e OE si trasformarono rispettivamente in Ĕ breve e Ē lunga ( LAETU(M) >lieto,
POENA(M) > pèna).
Il dittongo AU resistette più a lungo, anche se i primi casi di monottongazione del tipo CAUDA(M) >
CODA si verificarono già in epoca classica.

LA METAFONESI
È un fenomeno linguistico che non interessa il toscano, ma si trova in altre zone d’Italia.
Si può definire come una modificazione del timbro di una vocale per influenza di una vocale che segue.
Si ha quando le vocali finale estreme influenzano la tonica che precede, aumentandone la chiusura se è già
chiusa, facendola dittongare se è aperta.
In Italia settentrionale la metafonesi è limitata a è > i, ò > u davanti a –i finale.
In certi casi può interessare la a.
In Italia meridionale la metafonesi è di tutti i tipi:
 Ò > u sia davanti a –i (cunti), sia davanti a –o < u ( tratteneniento)
Nel parlato in napoletano, si ha l’opposizione tra il maschile russë < RŬSSU(M) e il femminile rossa <
RŬSSA(M):
l’esito russë è condizionato dalla metafonesi, dovuta alla –U finale del maschile, poi trasformatasi in vocale
muta; nel femminile il fenomeno non agisce perché la vocale finale è una –A.

L’ANAFONESI
È un fenomeno tipico fiorentino e di una parte della Toscana, ma è assente nelle altre parlate italiane: è un
elemento distintivo in opposizione alla metafonesi.
È il fenomeno per cui una è tonica si trasforma in i davanti a nasale palatale ( ɲ ), davanti a laterale palatale
(ʎ), provenienti rispettivamente da NJ e LJ e davanti a nasale velare (ɳ); ò tonica si trasforma in u davanti a
nasale velare (ɳ).
Esempio: gramigna< GRAMĬNEA(M), famiglia< FAMĬLIA(M), giunco< IŬNCU(M).

VOCALISMO ATONO
il vocalismo atono italiano non distingue tra chiuse e aperte.

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Le vocali atone finali si indeboliscono giungendo a un suono indistinto in alcune zone del Meridione: questo
suono può essere rappresentato con il segno della e muta ë; nella grafia dei dialetti meridionali questa e viene
scritta come una e normale.
Nelle parlate settentrionali italiane le vocali finali tendono a cadere, anche se maggior resistenza dimostra la
–a. il toscano, ha una naturale tendenza a far finire le parole per vocale e a conservare le vocali finali.
Già nel latino parlato era caduta la vocale mediana di molte parole sdrucciole: DŎM(I)NA(M)> donna, si
tratta di una sincope della vocale postonica in penultima sillaba. BONITĀTE(M) >bontate > bontà è un
esempio di sincope della vocale intertonica, con caduta ulteriore del –te finale.

PASSAGGIO DI E PRETONICA A I
Nel toscano la e pretonica o protonica, tende a chiudersi in i, come NEPOTEM >nepote >nipote.
In diversi casi il fenomeno non si riscontra per diversi motivi, per esempio in vocaboli di origine straniera,
come il francesismo dettaglio o in parole in cui la e è stata ripristinata sul modello del latino(delicato-
dilicato)

LABIALIZZAZIONE DELLA VOCALE PRETONICA


Una vocale pretonica palatale( e, i) che venga a trovarsi vicino a un suono labiale( p, b, m, f, v) o
labiovelare( kw, gw)può diventare labiale(u,o): DEBERE > devere> dovere o DEMANDARE > demandare
> domandare.

CONSONANTI FINALI
Le consonanti latine –T, -S, -M in posizione finale subiscono nel passaggio all’italiano un indebolimento e
un dileguo.

CONSONANTI DOPPIE
Le doppie latine si conservano in italiano e nei dialetti meridionali, ma non nelle parlate settentrionali.
I gruppi consonantici latini CT e PT hanno dato origine: LACTE(M) >latte, SEPTE(M) > sette.
Un caso di raddoppiamento è quello che si produce in foto sintassi, cioè nel contatto tra due parole: AD
CASAM > akkasa.
La grafia italiana moderna registra il fenomeno solo quando si è prodotta l’univerbazione, cioè la riduzione
ad una sola parola.

SONORIZZAZIONE DELLE OCCLUSIVE SORDE INTERVOCALICHE


IN Italia settentrionale le occlusive sorde intervocaliche k, p, t, passano alle corrispondenti sonore g, b, d,
subendo un indebolimento e una conseguente sonorizzazione e a volte si arriva alla caduta della consonante
sonorizzata.
In Toscano questo fenomeno avviene raramente.
Esempi: PATELLA(M) > padella, LOCU(M) > luogo.

PALATALIZZAZIONE DI K E G( ESITI C E G + E, I )
La pronuncia del latino classico CERA e GELU era con occlusiva velare sorda, così come in CANIS, ma le
vocali palatali e, i hanno finito per influenzare la pronuncia della consonante che precede. Si manifestò la
tendenza a pronunciare le velari k e g come palatali davanti a vocali palatali: cera e gelo.
Diversa la situazione in Italia settentrionale, dove l’evoluzione andò verso le affricate dentali sorde e sonore,
per poi passare alle corrispondenti sibilanti: CENTU(M) > sent cento.
La palatizzazione di C e G latine interessa la maggior parte delle lingue romanze.

ESITI CONSONANTE +J
Nel passaggio dal latino all’italiano le consonanti, tranne r e s , quando sono seguite da J si rafforzano:
FACIO > faccio, SEPIA(M) > seppia.
Il nesso latino –TJ diventa in italiano l’affricata dentale sorda intensa: VITIU(M) > vezzo.
In alcuni casi ci possono essere due esiti: PRETIU(M) > prezzo e pregio, RADIUM > razzo e raggio.
Il nesso latino –LJ dà laterale palatale intensa: FILIUM > figlio.
Il nesso –NJ dà in italiano la nasale palatale intensa: IUNIUM > giugno.

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ESITI DI CONSONANTE +L
I nessi latini di consonante +L passano in italiano a consonante +i: FLORE(M) > fiore, PLANU(M)> piano,
CLAMARE> chiamare.
In Italia meridionale il nesso latino –PL > ki: PLUS ( napoletano) chiù, (italiano) più.
In posizione intervocalica la consonante +L raddoppia: NEB(U)LA(M) > nebbia.
Il nesso latino –TL passa a –CL: VET(U)LU(M) > VECLU(M) > vecchio.

LA LABIOVELARE
Si chiama labiovelare il nesso kw o gw formato dalla velare k/g e dalla semiconsonante w.
Nel passaggio dal latino all’italiano, la labiovelare iniziale kw rimane intatta solo davanti ad a, mentre negli
altri casi si riduce all’occlusiva velare k.
QUID > che

PROSTESI
Si ha quando c’è l’aggiunta di una vocale non etimologica all’inzio di una parola, per rendere la pronuncia
più facile: in ispecie, per iscritto.
Il fenomeno inverso, con caduta di vocale è l’aferesi: Vangelo < EVANGELIUM.

EPITESI ED EPENTESI
L’epitesi consiste nell’aggiunta di un suono non etimologico alla fine di una parole, per facilitarne la
pronuncia: piùe, fue per più e fu.
L’epitesi di –ne esiste ancora oggi in alcune zone dell’Italia centrale: none per no.
L’epentesi è l’inserimento di un suono non etimologico all’interno di una parola.

ASSIMILAZIONE
Un suono diventa simile a un altro che gli si trova vicino.
È regressiva quando il suono che precede diventa simile a quello che segue( il secondo suono influisce sul
primo), è progressiva quando il primo suono influisce su quello che segue.
OCTO > otto, SEPTE(M) > sette. Anche la metafonesi è un fenomeno di assimilazione regressiva.
Un’assimilazione progressiva dei dialetti centro-meridionale è il passaggio –ND > -NN: QUANDO >
quanno.

DISSIMILAZIONE
È il fenomeno opposto all’assimilazione e si ha quando due suoni simili situati vicino nella stessa parola si
differenziano:
ARBORE(M) > ALBERO, con dissimilazione della prima r a causa della seconda.

SPIRANTIZZAZIONE DI –B- INTERVOCALICA


È il passaggio dall’occlusiva labiale sonora latina in posizione intervocalica a una fricativa labio-dentale:
HABERE > avere.

ELEMENTI DI MORFOLOGIA STORICA: ARTICOLI E PREPOSIZIONI


Nel passaggio dal latino alle lingue romanze si ebbe la perdita delle consonanti finali, ad esempio la –M
dell’accusativo o la predita dell’opposizione tra vocali brevi e lunghe.
Nella lingua latina si ebbe un collasso del sistema delle declinazioni; la scomparsa dei casi fu surrogata
dall’introduzione di una serie di forme e costruzioni analitiche.
Il latino è sintetico, mentre il passaggio dal latino classico a quello volgare implica l’introduzione di elementi
morfologici analitici, come articoli e proposizioni; queste ultime presero la funzione di specificazione che nel
latino classico era affidato ai casi.

ELEMENTO DI MORFOLOGIA STORICA: IL NOME


Le parole italiane derivano dall’accusativo delle parole latine, anche se nomi come uomo, sarto, moglie,
derivano da nominativi.
La derivazione dall’accusativo è evidente negli imparisillabi della terza declinazione latina: monte <
MONTE(M), nominativo MONS, amore < AMORE(M), nominativo AMOR.
Il latino aveva tre generi di nomi: il maschile, il femminile e il neutro; quest’ultimo è sparito nelle lingue
romanze, lasciando però qualche traccia: i nomi neutri latini si sono trasformati per la maggior parte in

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maschili, ma molti neutri plurali in –a sono diventati femminili singolari attraverso una fase in cui valevano
come nomi collettivi: FOLIA > foglia.

ELEMENTI DI MORFOLOGIA STORICA: IL VERBO


Il futuro nelle lingue romanze si è formato differenziandosi dal futuro latino.
Il futuro italiano deriva infatti dall’infinito del verbo + il presente di HABERE: CANTARE + HABEO >
cantarò > canterò.
Anche il passivo latino fu sostituito da forme analitiche, così come il passato prossimo: ho cantato < HABEO
CANTATUS.

ELEMENTI DI SINTASSI STORICA


Nel latino classico era normale la costruzione con il verbo posto alla fine della frase, dopo il complemento
indiretto e il complemento oggetto.
Il latino volgare preferì l’ordine soggetto-verbo-oggetto-complemento indiretto.
Il latino classico costruiva la frase oggettiva mediante accusativo più infinito, mentre quello volgare
introdusse una congiunzione subordinante quod o quia + verbo all’indicativo.
Il latino mostrava una propensione per le frasi subordinate, mentre l’italiano preferisce la coordinazione.

QUANDO NASCE UNA LINGUA: IL PROBLEMA DEI PRIMI DOCUMENTI


Nel passaggio dal latino alle lingue romanze, la trasformazione durò secoli e si svolse su piano dell’oralità, in
quanto il latino continuò a mantenere il ruolo di lingua della cultura e della scrittura.
Lo stesso latino, poi, cambiò per l’ignoranza degli scriventi, oltre che per nuove abitudini.
Si parla di latino medievale, come entità specifica a sé stante, diversa dal latino classico e dal latino volgare.
Vi fu una fase in cui la lingua volgare, proveniente dal latino volgare, esistette nei parlanti, ma non venne
ancora utilizzata per scrivere. In questa fase non furono prodotti documenti.
Perché si affermasse la dignità delle nuove parlate romanze, era necessario che si accettasse di metterle per
iscritto, ma non era semplice, in quanto non è facile scrivere una lingua che in precedenza era sempre stata
orale.
Solo verso il secolo XIII alcune scuole di scrittori scelsero la nuova lingua in maniera motivata, tenendo
presente il modello di altre letterature volgari, nate oltralpe, anche se vi è l’esistenza di documenti più
modesti prima di questo secolo.
Primo documento in lingua francese: GIURAMENTI DI STRASBURGO dell’84. Non si hanno dubbi
sull’intenzionalità di chi ha introdotto il volgare, la situazione è ufficiale, in quanto patto di alleanza fra i due
sovrani( Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo, nipoti di Carlo Magno).

L’atto di nascita della lingua italiana è costituito dal PLACITO CAPUANO del 960 d.C.: formula connessa a
un giuramento.
Questo documento non si lega a un evento storico, ma nasce da una piccola controversia giudiziaria di
portata locale, ha dunque un tono minore rispetto a quello in lingua francese.
Non era facile, concordare un’interpretazione letterale dei documenti, in quanto non era chiaro il senso di
tutte le parole.

I GLOSSARI
Nel 1963 è stato pubblicato il GLOSSARIO DI MONZA, risalente forse ai primi decenni del X secolo: si
tratta di un glossario bilingue romanzo- romaico ( greco bizantino) e consiste nell’elenco di 60 lemmi in cui
accanto alla voce latino – romanza viene aggiunta la voce greco-bizantina.
la definizione di romanzo non si identifica nel latino, ma spesso si avvicina alle forme del dialetto dell’Italia
settentrionale.
Lo scrivente non affiancò al termine latino una parola volgare, poiché il suo interesse andava all’equivalente
greco ( registro intermedio).
EDITTO DI ROTARI, prima stesura delle leggi longobarde, GLOSSARIO DI REICHENAU, con glosse in
latino meno dotto.

IL GRAFFITO DELLA CATACOMBA DI COMMODILLA A ROMA


Le più antiche testimonianze italiane di scritture volgari sono maggiormente carte notarili, documenti
processualu: documenti d’archivio.

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L’iscrizione della catacomba romana di Commodilla è un caso diverso, esso è un anonimo graffito tracciato
sul muro.
L’interesse deriva dal fatto che si tratta di un’antica testimonianza che conserva una spetto latineggiante, ma
rivela il suo reale carattere del parlato.
Il graffito non porta nessuna indicazione cronologica e si trova in una cappella sotterranea della catacomba,
la cripta dei santi Felice e Adautto, la cui scoperta avvenne nel 1720.
La cappella fu utilizzata come luogo di culto fino al IX secolo, quando i corpi dei due santi furono traslati
altrove.
Potrebbe risalire al VI-VII secolo.
“NON/ DICE/ RE IL / LE SE / CRITA/ A BBOCE”: “non dicere ille secrita a bboce” “ non dire quei segreti
a voce alta”.
Sono stati individuati i caratteri capitali romani e lettere onciali: la scrittura onciale, tipica della cultura
romana cristiana fu adoperata in tutto l’occidente latino dal IV al VIII-IX secolo, per tutto l’alto Medioevo
fino alla rinascenza carolingia.

L’ATTO DI NASCITA DELL’ITALIANO: IL PLACITO CAPUANO DEL 960


Già nel 1734 il benedettino, padre Gàttola, aveva messo in evidenza il carattere volgare della formula
ricorrente nel documento, testimonianza di quella che gli sembrava una barbarica lingua italiana.
Solamente nel ‘900 è stato studiato particolarmente e ha avuto il posto d’onore tra gli antichi testi notarili
della nostra lingua.
Chi lo ha scritto si è reso conto di utilizzare due lingue diverse: il latini notarile e il volgare parlato, quindi vi
è una cosciente distinzione tra i due codici linguistici, impiegati nello stesso testo con scopi e funzioni
differenti.
Il Placito è stato scritto su un foglio di pergamena, relativo a una causa discussa di fronte al giudice capuano
Arechisi.
Il contrasto tra italiano e latino è netto, anche se si tratta di un latino che risponde ai caratteri propri dell’uso
notarile, con le tipiche sgrammaticature.
La scelta di scrivere in volgare era un modo per rivolgersi a un pubblico diverso, più vasto ed estraneo alla
causa.
La formula del Placito Capuano del 960 non è isolata: si colloca nella serie di quelli che si è soliti definire i
Placiti Capuani, con riferimento alla regione Campania.

IL FILONE NOTARILE-GIUDIZIARIO
IL VOLGARE NEI DOCUEMNTI NOTARILI
I notai erano la categoria sociale che aveva più frequentemente occasione di usare la scrittura ed erano
impegnati in un lavoro di transcodificazione dalla lingua quotidiana alla formalizzazione giuridica del latino.
Lasciavano, così, spazio al volgare, che finiva per affiorare anche nel loro modesto latino.
Occorreva una reale intenzionalità nello scrivente, nell’uso della nuova lingua, verificabile attraverso il
confronto diretto tra i due codici linguistici diversi e contrastanti.

LA POSTILLA AMIATINA
La postilla è una forma di testo aggiunto al rogito vero e proprio.
Per quanto riguarda la Postilla Amiatina, il notaio aggiunse commenti e osservazioni personali: nel 1087 due
coniugi donarono i loro beni all’abbazia di San Salvatore di Montamiata.

LA CARTA OSIMANA del 1151, LA CARTA FABRIANESE del 1186 e la CARTA PICENA del 1193

LE TESTIMONIANZE DI TRAVALE
Due pergamene del 1158 conservate nel’Archivio vescovile di Volterra.
Nella seconda parte di una di queste pergamene il giudice aveva raccolto le testimonianze di 6 uomini,
facendo affiorare il volgare nel bel mezzo del testo latino.
Latino e volgare si alternano, ma l’ultimo è preferito dove viene introdotto l’aneddoto.

LA DICHIARAZIONE DI PAXIA, tra il 1178 e il 1782

DOCUMENTI SARDI
Dall’isola provengono diversi documenti risalenti al secolo XI e XII.

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Il più antico dei testi sardi volgari è la carta del giudice Torchitorio del 1070-1080, conservata nell’Archivio
Arcivescovile di Cagliari, trasmessa non in originale, ma in una tarda copia quattrocentesca. Databile tra il
1080 e il 1085 è un privilegio emesso da un giudice di Torres, a favore di mercanti pisani.

IL FILONE RELIGIOSO NEI PRIMI DOCUMENTI DELL’ITALIANO


Nel 1880 in un codice della biblioteca Vallicelliana di Roma, fu scoperta la Formula di confessione umbra: il
testo era una vera e propria formula confessione che il fedele poteva leggere o recitare.
I Sermoni Subalpini sono una raccolta di prediche in volgare piemontese: corpus di 22 testi ampi. Il
manoscritto si conserva in un codice pergamenaceo della Biblioteca Nazionale di Torino. I testi alternano
parti in latino al corpo vero del discorso che è in volgare locale, caratterizzato anche da esiti del piemontese
moderno e può essere collocato tra il XII e il XIII secolo.

DOCUMENTI PISANI

PRIMI DOCUMENTI LETTERARI


Un vero sviluppo della letteratura italiana si ebbe nel XIII secolo a partire dalla scuola poetica di Federico II,
la cosiddetta Scuola siciliana.

Capitolo 6: Il Duecento

DAI PROVENZALI AI POETI SICILIANI


La scelta del volgare vide impegnato non un singolo, ma un gruppo omogeneo di autori, socialmente
collocati in posizioni molto rilevanti.
La prima scuola poetica italiana nacque all’inizio del XIII secolo, nell’ambiente colto e raffinato della
Magna Curia di Federico II di Svevia, in Italia meridionale: la Scuola Siciliana.
Fino ad allora altre due letterature si erano affermate:
1. la letteratura francese in lingua d’oil
2. la letteratura provenzale in lingua d’oc: lingua della poesia, incentrata sulla tematica dell’amore,
intellettualizzato, che si era sviluppata nelle corti di Provenza, Aquitania e Delfinato.
I trovatori furono molto imitati dai poeti italiani che scrivevano in versi provenzali.
Anche i siciliani imitarono la poesia provenzale, ma essi ebbero l’idea di sostituire a quella lingua forestiera,
un volgare italiano, quello di Sicilia.

Lo stesso imperatore Federico poetò in siciliano, benché non lo fosse di nascita.


La corte federiciana era un ambiente internazionale, quindi si parlava anche il latino.
Alcuni dei poeti siciliani, non lo furono di nascita: Doria, Giacomino Pugliese, Rinaldo d’Aquino; la scelta
del siciliano ebbe un valore formale, raffinato.
Entrano nell’uso comune termini provenzali come:
 le forme in –agio( coraggio, ossia cuore)
 le forme in –anza( allegranza, speranza, rimostranza, credanza)

La presenza dei provenzalismi nella poesia siciliana si spiega con l’influenza della letteratura in lingua d’oc,
anche se in passato ci furono delle resistenze ad accogliere il primato cronologico della Poesia di Provenza.
Anche Dante, nel De Vulgari Eloquentia, aveva avuto coscienza della linea storica che partiva dai
provenzali, fino ai siciliani.
Il corpus della poesia delle origini è stato trasmesso da codici medievali scritti da copisti toscani: chi
copiava, spesso, si sentiva libero di intervenire nel testo, per migliorare ad esempio dei punti oscuri.
Intervennero così sulla forma linguistica della poesia siciliana, con una vera operazione di traduzione,
eliminando per quanto possibile i tratti siciliani che stridevano.
La sconfitta degli Svevi e l’avvento degli Angioini portarono con sé la distruzione fisica dei manoscritti di
origine siciliana.
Galvani osservò come nel Medioevo potesse accadere che un testo di origini toscane, passando per le mani di
copisti settentrionali venisse modificato tramite l’introduzione di tratti linguistici regionali, inesistenti
nell’originale; un processo del genere, ma inverso, sarebbe avvenuto nel caso della poesia siciliana, che si
sarebbe toscanizzata passando per meni toscane.

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Barbieri, studioso della poesia provenzale, aveva avuto tra le mani il LIBRO SICILIANO, poi perduto,
contenente alcuni testi poetici siciliani che si presentavano in una forma vistosamente siciliana.
Tra essi vi era la canzone di Stefano Protonotaro: “Pir meu cori alligrari”, oltre a un frammento del figlio di
Federico II, Re Enzo. La sicilianità è vistosa:
 vocali finali – u e –i al posto delle –o ed –e toscane
 la u al posto della o
Progressivamente si giunse alla sostituzione dei tratti siciliani con quelli toscani.
La lezione della poesia siciliana fu comunque decisiva per la nostra tradizione lirica: si stabilizzò la rima
siciliana e divennero normali in poesia i condizionali meridionali in –ìa.

DOCUMENTI CENTRO-SETTENTRIONALI
LA LINEA MAESTRA DELLA LIRICA ITALIANA: DAL SUD AL CENTRO-NORD
Con la morte di Federico II e il tramonto della casa Sveva, venne meno ovviamente la poesia siciliana.
La sua eredità passò in Toscana e a Bologna, con i cosiddetti poeti siculo-toscani e gli
stilnovisti:spostamento verso l’area centro-settentrionale.

LA POESIA RELIGIOSA
Il “Cantico di frate sole” di S. Francesco d’Assisi ha un lieve anticipo rispetto alla scuola siciliana, databile
intorno al 1223 e noto anche con il titolo latino di “Laudes creatura rum”; fu scritto in volgare, con elemento
umbri. Questo documento per molti secoli non fu preso in considerazione come documento letterario.
La tradizione della laudi religiose ebbe gran sviluppo non solo nel ‘200, ma anche nel ‘300 e nel ‘400,
quando i testi laudistici, dedicati a Gesù, alla Madonna, furono trascritti in appositi quaderni( i laudari) e
furono utilizzati dalle confraternite come preghiere cantate.
La maggior parte delle laudi erano componimenti anonimi, di modesta qualità letteraria, in lingua quotidiana
e poco ricercata.
Nel passaggio dall’area centrale al settentrione, le laudi subirono manomissioni linguistiche, accogliendo dei
settentrionalismi.

LA POESIA DIDATTICA E MORALEGGIANTE DEL NORD ITALIA


In Italia settentrionale nel ‘200 fiorì una letteratura in volgare, diversa da quella sviluppatasi alla corte di
Federico II.
Alcuni nomi sono da rintracciare in Ugaccione da Lodi, Giacomino da Verona, Bonvesin de la Riva: l’area
prevalente era quella lombarda.
Il volgare settentrionale del ‘200 tendeva a farsi illustre, anche se nel confronto con la letteratura toscana, il
successo di questa rimosse questi esperimenti.

I SICULO-TOSCANI E GLI STILNOVISTI


L’area toscana in cui si ebbe la prima notevole espansione dell’uso del volgare scritto è quello occidentale,
fra Pisa e Lucca.
In quest’area si sviluppò la poesia detta siculo-toscana, che ebbe i suoi centri a Pisa, Lucca, Arezzo( con
Guittone).
Firenze si affermò solo nella seconda metà del ‘200: tra il 1260 e il 1280, con Chiaro Davanzati, Rustico
Filippi. Lo stile di Rustico, però, era un fiorentino comico, differente dal linguaggio da quello cortese.
Dante attribuì a Guinizzelli la svolta stilistica che avrebbe portato alla nuova poesia d’amore, in cui
permanogono gallicismi, provenzalismi e sicilianismi:
 riviera: fiume
 rempaira: ritorna
 sclarisce
 enveggia: invidia
 serie in –anza
 saccio: so
 aggio: ho

DANTE TEORICO DEL VOLGARE


Le idee di Dante sul volgare si leggono nel Convivio e nel DE VUlgari Eloquentia.
Nel Convivio, il volgare viene celebrato come “sole nuovo” destinato a splendere al posto del latino, per un
pubblico che non è in grado di comprendere la lingua dei classici.

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Il volgare aveva una possibilità di divulgazione o comunicazione più efficace.


Nel Convivio il latino è reputato superiore in quanto utilizzato nell’arte; nel De Vulgari Eloquentia, la
superiorità del volgare viene riconosciuta in nome della sua naturalezza, ma la letterarietà della lingua latina
diventa uno stimolo per la regolarizzazione del volgare.
Il De Vulgari, composto nell’esilio,ma prima della Commedia, lasciato interrotto al II libro; è il primo
trattato sulla lingua e sulla poesia volgare ed è un saggio inserito nel quadro della cultura europea del
Medioevo. La fortuna del trattato non fu pacifica, in quanto le sue tesi furono usate in chiave polemica. Fu
riscoperto nella prima metà del XVI secolo.
Alcuni insinuarono il sospetto che il trattato non fosse di Dante, questo faceva comodo alla cultura fiorentina
che non tollerava le pagine in cui Dante aveva condannato il volgare toscano, preferendo il bolognese e il
siciliano illustre e negando che il toscano potesse identificarsi con la lingua degna della poesia volgare.
Manzoni affermò che il De Vulgari non aveva per oggetto la lingua in generale, né l’italiano in maniera
specifica, ma solo la poesia.

Dante stabilì le sue tesi dalle origini: fra tutte le creature l’unico essere dotato di linguaggio è l’uomo e il
linguaggio stesso caratterizza l’essere umano in quanto tale. L’origine del linguaggio e delle lingue viene
ripercorsa attraverso il racconto biblico: episodio della Torre di babele.
La storia delle lingue naturali comincia e la loro caratteristica è mutare nello spazio, da luogo a luogo e nel
tempi: continua trasformazione.
La grammatica delle lingue letterarie, per Dante, è una creazione artificiale dei dotti.
La sua attenzione di concentrò sull’Europa:
 nei Paesi del Nord e del Nord-Est( germanici e slavi) si parlano lingue in cui sì si dice iò
 nei Paesi del centro Sud si parla la lingua d’oil( francese), la lingua d’oc( provenzale) e il volagre del
sì (italiano)
 in Grecia e nelle zone orientali era diffuso il greco
Poi trattò del gruppo linguistico del francese, provenzale e italiano, restringendosi solo all’Italia, che
risultava diversificata all’interno con parlate locali.
Dante esaminò le parlate alla ricerca del volgare migliore, definito illustre, aulico, curiale, cardinale e tutte
sono indegne del volgare illustre. Tra le più severe condanne c’era quella per il toscano e per il fiorentino,
mentre migliori risultavano il siciliano e il bolognese.
La nobilitazione del volgare doveva avvenire attraverso la letteratura.
Non solo la lingua popolare toscana non interessava Dante, ma condannava poeti come Guittone d’Arezzo,
attribuendogli uno stile rozzo e plebeo, ben diverso da quello dei siciliani e degli stilnovisti.

DANTE LIRICO
Le prime esperienze poetiche di Dante appaiono radicate nella cultura e nella poesia volgare di Firenze, sia
per i temi, che per le strutture linguistiche, stilistiche, metriche. Prevedibile era la presenza di sicilianismi e
gallicismi.
Diminuirono gli apporti tradizionali, come le parole con suffissi in –anza ed –enza, mentre aumentano le
dittologie sinonimiche.
Nella Vita Nova, Dante, commentando in prosa una scelta delle proprie poesia, realizzò un connubio tra i
due generi.

LA PROSA
IL RITARDO DELLA PROSA
Il livello della prosa duecentesca appariva più modesta rispetto alla poesia.
Al tempo di Boccaccio, la prosa italiana era ancora alla ricerca dei sui modelli, mentre la poesia era già
organizzata in una solida tradizione.

IL PRIMATO DEL LATINO E I VOLGARIZZAMENTI


Il latino aveva il primato assoluto nel campo della prosa, come strumento di comunicazione scritta e di
cultura: spesso assumeva forme domestiche o affioravano tracce di un espressivo parlato in lingua volgare.
Il volgare per essere autonomo e per emergere, doveva essere influenzato dal latino: lo dimostrano i
volgarizzamenti, un genere costituito da traduzioni, rifacimenti e imitazioni di testi classici.

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Traducendo in volgare un testo latino o francese, si realizzava una scrittura di alto valore sperimentale e si
stabilivano le strutture della prosa italiana.
L’influenza del francese sul volgare italiano si può verificare nel gran numero di prestiti lessicali.

VARIETA’ LINGUSTICA DELLA PROSA DUECENTESCA


Alle due lingue di comune impiego nella prosa, il latino e il francese, nel ‘200, non si contrappose un tipo
unico di volgare, ma una varietà.
La posizione di prestigio si assegnava a Bologna, in cui c’era una prosa elevata.
Guido FABA: nei “Parlamenta et epistole” vi sono modelli d’oratoria e di lettere in lingua bolognese illustre,
esposta all’influenza del latino oppure i cursus, consistenti in clausole ritmiche, impiegate per terminare il
periodo.

Capitolo 7: Il Trecento

LA “COMMEDIA” DI DANTE
DANTE E IL SUCCESSO DEL TOSCANO
L’eccezionalità della Commedia, permette di isolare l’opera dalle altre; è scritta in una lingua diversa da
quella teorizzata nel De Vulgari Eloquentia. La sua ricchezza tematica e letteraria, favorì una promozione del
volgare, dimostrando che la lingua aveva potenzialità illimitate.
Mentre lo stilnovismo è il fenomeno legato all’esperienza di Dante nella sua patria, la Commedia è un’opera
compiuta in esilio, che si collega linguisticamente alla Toscana e a Firenze, ma che si proietta anche in Italia
settentrionale.
Il toscano iniziò così la sua espansione; nello stesso Trecento altri due autor toscani produssero opere scritte
in fiorentino: “Canzoniere” di Petrarca e il “Decameron” di Boccaccio.
I tre autori sono stati uniti nella denominazione delle “Tre Corone”, che indica la loro supremazia e la loro
elevazione sugli altri.
All’epoca la società fiorentina era vivacissima e aveva rapporti mercantili con il resto d’Italia; il fiorentino
occupava una posizione mediana tra le parlate italiane ed era abbastanza simile al latino, cosa che gli
permetteva di penetrare sia al Sud che al Nord del Paese.
La letteratura fu quindi determinante per le sorti della lingua, che non aveva unità politica.

VARIETA’ LINGUISTICA DELLA “COMMEDIA”


Bruno Migliorini, nella sua “Storia della lingua italiana” ha definito Dante il padre del nostro idioma
nazionale.
Realizzare un’opera, usando una lingua nuova, in grado di toccare tutti gli argomenti, faceva della
“Commedia”, un’opera universale, segnando lo sviluppo della letteratura.
Nel ‘500, furono sollevate polemiche sul realismo di certe parti del poema dantesco, investendo il giudizio
sulla lingua, anche se non venne meno una valutazione complessiva di ammirazione verso l’opera.
Il confronto va fatto con la lingua dei classici: la grande presenza di latinismi nella Commedia è uno degli
elementi che più differenzia la lingua della Commedia dalla lingua delle liriche dantesche nel loro
complesso.
Si cita ad esempio il VI canto del Paradiso, con il lungo discorso di Giustiniano, in cui molti termini sono
costruiti con l’ausilio della lingua classica:
 cirro negletto: capigliatura arruffata
 termini tecnici come emisperio, dilibra
 cenìt: zenit, parola ricavata dall’arabo, ben nota agli astronomi e ai naviganti medievali

Il plurilinguismo è una delle categorie che sono state utilizzate per definire la lingua poetica di Dante,
opposto al monolinguismo lirico: racchiude una scelta dettata dalla disponibilità ad accogliere elementi di
provenienza disparata, non solo latinismi, ma anche termini forestieri, plebei, parole toscane e non toscane.
Questo deriva dalla varietà del tono, in quanto le situazione nella Commedia, vanno dal profondo
dell’Inferno alla visione di Dio, passando così dal livello basso e dal turpiloquio al livello più alto e
teologico.
Si può parlare di una polimorfia della lingua di Dante nella Commedia, che riguarda l’alternanza di forma
dittongate e non dittongate:
 core/cuore
 foco/fuoco

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La libertà di Dante nei confronti della lingua, si può verificare anche nei neologismi.
Si tratta comunque di un linguaggio poetico, in cui rientrano elementi di natura ritmico-metrica e retorica.

STRUMENTI PER LO STUDIO DELLA LINGUA DI DANTE: LE “CONCORDANZE” E


L”ENCICLOPEDIA DANTESCA”
Anche per Dante sono state prestabilite delle concordanze che permettono una rapida consultazione e
l’immediato reperimento di forme, parole e costrutti.
Petrocchi: “Concordanze della Commedia di Dante Alighieri”.
La LIZ comprende la Commedia e permette immediati confronti con il linguaggio di tutta la tradizione
poetica.
Uno strumento di consultazione indispensabile è costituito dall”Enciclopedia dantesca” diretta da Umberto
Bosco, in 5 volumi, uscita a Roma tra il 1970 e il 1976. Le voci dell’Enciclopedia sono poste in rodine
alfabetico e toccano ogni problema relativo ai personaggi, ai movimenti politici e spirituali, ma molte sono di
interesse linguistico, con riferimento alla questione della lingua, e metrico.

IL LINGUAGGIO LIRICO DI PETRARCA


La caratteristica dominante del linguaggio poetico di Petrarca è la sua selettività, che esclude molte parole
usate da Dante nella Commedia.
La parte dell’opera petrarchesca scritta in volgare è ridotta rispetto a quella latina e il Canzoniere rappresenta
una sorta di elegante divertimento dello scrittore.
Il titolo stesso, è in latino: “Rerum vulgarium fragmenta”, ossia Frammenti di cose volgari.
In latino sono anche le postille inserite dallo stesso autore.
Petrarca aveva familiarità con il latino e lo usava come normale strumento per la comunicazione culturale e
per la riflessione; il volgare veniva usato come lingua di un raffinato gioco poetico, in omaggio alla
tradizione che partiva dai siciliani.
La lingua naturale e più spontanea dell’uomo, per l’autore, era proprio il latino, il volgare è strumento di
esercitazione letteraria.
 accolse solo una rima siciliana: voi, altrui.
 Consacrò la rima grafica e non fonica
 Eliminò alcuni gallicismi come fidanza, fallanza, dilettanza
 Conservò altri gallicismi come rimembranza e baldanza

La lingua selezionata e ridotta nelle scelte lessicali, accoglie un grande numero di varianti:
 Deo/Dio
 Degno/digno
 Fuoco/foco

Petrarca fece uso di una dispositivo che mutava l’ordine delle parole, anticipando il determinante rispetto al
determinato o anticipando l’infinitiva dipendente rispetto alla principale.
Inoltre ricorrevano chiasmi, antitesi, enjambement, anafore, allitterazioni ecc. e il poeta scriveva in maniera
unita nomi come: sualuce, almio, la prima; venivano uniti al nome i possessivi, le preposizioni, gli articoli e
gli aggettivi, manca l’apostrofo introdotto nel ‘500.
Erano presenti molti latinismo grafici, come le h etimologiche in: huomo, humano, honore e per l’affricata
usava la ç( sença per senza).
Il Codice Vaticano latino 3196 raccoglie e tramanda le liriche del Petrarca.

LA PROSA DI BOCCACCIO
La prosa trecentesca non era ancora stabilizzata in una tradizione salda, anche se non mancavano esempi a
cui ispirarsi come la Vita Nova e il Convivio di Dante.
Nella tradizione italiana la prosa di Boccaccio assunse una funzione egemonica, quando nel ‘500, teorici e
grammatici, seguendo Bembo, indicarono in essa il modello a cui attenersi. Questo modello acquisì più
autorità grazie a Salviati e all’Accademia della Crusca, influenzando coloro che scrissero in italiano.
Il Decameron offriva modelli ben differenti, nella sua ricerca di realismo.
Compaiono voci che introducono elementi diversi dal fiorentino:
 Il veneziano di monna Lisetta ( VI, 2) e di Chichibio ( VI, 4)
 Il senese di Tingoccio ( VII, 10) e di Fortatarrigo ( IX, 4)

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 Il toscano rustico nella novella del prete di Varlungo e di Madonna Belcolore ( VIII, 2)

Le novelle mostrano una disposizione a concedere spazio al dialogo, con moduli del parlato e vivaci scambi
di battute.
Lo stile era caratterizzato da una frequente ipotassi.
Uso di elementi ritmici, dal cursus agli artifici ritmico - musicali più ricercati, i parallelismi sintattici, le
simmetrie del periodo, le allitterazioni, l’uso delle figure retoriche.
Tuttavia alcuni tratti appaiono arcaicizzanti, come l’uso costante del numerale diece, anziché dieci.
Per verificare la grafia dell’autore, si può consultare l’autografo nel codice Hamilton 90 conservato a
Berlino, si notano:
 Latinismi come le x (exempli)
 Il nesso –ct ( decto)
 Le h etimologiche( herba, habito)
 L’affricata dentale è resa dalla ç, come in Petrarca

PROSA MINORE DELL’AUREO TRECENTO: LA TOSCANA


Non solo l’imitazione delle Tre Corone fu un dato di fatto, ma fu consigliata da teorici e grammatici.
A fianco dei grandi del ‘300 furono collocati autori minori di un secolo reputato “aureo”, perché si era
realizzato un connubio tra scrittori e il popolo: l’abate Cesari, vissuto nell’800 ed esponente del Purismo, era
convinto che nel ‘300 tutti gli autori toscani, anche i minori, avessero avuto la dote di scrivere bene e fossero
degni modelli di prosa.
Il purismo consisteva nell’identificazione di modelli linguistici ritenuti esenti da difetti.
Domenico Cavalca fu autore di volgarizzamenti; la sua opera più rinomata di traduttore è la versione delle
“Vite dei santi padri”, con uno stile semplice, si rivolgeva a uomini semplici e non letterati, cioè chi non
conosceva il latino.
Iacopo Passavanti fu autore dello “Specchio di vera penitenza”, opera morale e dottrinale che rielabora la
materia della predicazione quaresimale a Firenze nel 1354.
Queste opere erano considerate determinanti per la formazione dei giovani, anche a scopo di educazione
linguistica.

PRIMI SUCCESSI DEL TOSCANO


La lingua toscana è la più adatta alla letteratura e inoltre è quella che era più diffusa e più comprensibile.
Questo consisteva in un aperto riconoscimento del primato del toscano sulle altre lingue regionali.
Nel tardo ‘300 il petrarchista padovano Francesco di Vannozzo usò il dialetto in componimenti satirici e
polemici, in quanto il contesto della satira riconduceva a un linguaggio più realistico e meno selezionato.
Nella lingua poetica di Niccolò De Rossi convivevano forme diverse, toscane e settentrionali: egli si sforzava
di eliminare le forme troppo locali e introdusse elementi toscani, fino al punto di arrivare all’ipercorrettismo(
correzione di una forma giusta).
Cecco d’Ascoli, autore dell’”Acerba” utilizzò la terzina, anche se era diversa dalla terza rima dantesca(
Dante: ABA BCB CDC, Cecco: ABA CBC DED).

I VOLGARIZZAMENTI
Tra i volgarizzamenti si possono citare:
 “Le vite dei santi padri” di Domenico Cavalca
 “Fioretti di San Francesco”
È un volgarizzamento da una precedente redazione latina dello stesso autore, la “Cronica” dell’Anonimo
romano, contenente la Vita di Cola di Rienzo, del 1360: la lingua si presentava in forme meridionali. La
redazione romanesca nasceva da un intento divulgativo:
 Esito in ie di g+ vocale palatale ( iente per gente)
 Assimilazione di –nd

L’EPISTOLA NAPOLETANA DI BOCCACCIO


Uno dei più antichi testi in volgare napoletano è una lettera scritta dal toscano Boccaccio: l’epistola è
databile al 1339.
Si potrebbe definire una letteratura dialettale riflessa, ossia cosciente di essere tale, volontariamente distinta
dal codice della lingua letteraria.
È uno scritto di tono scherzoso, rivolto all’amico Francesco de’ Bardi.

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Il soggiorno napoletano fu molto importante per la formazione di Boccaccio e per la sua conoscenza
dell’ambiente mercantile, dove nasce l’Epistola.
La lingua napoletana è marcata in senso comico, ricorrono ipercorrettismi, in quanto il dittongo napoletano
viene introdotto anche in parole che in napoletano non lo hanno: nuostra, nuome, fratiello.
L’esperimento di Boccaccio è importante dal punto di vista linguistico, perché mostra un uso volontario di
un volgare diverso dal proprio, identificato nelle caratteristiche fonetiche, lessicali e sintattiche.

Capitolo 8: Il Quattrocento

LATINO E VOLGARE
IL RIFIUTO UMANISTICO DEL VOLGARE E IL CONFRONTO CON IL LATINO
Petrarca, iniziatore dell’Umanesimo affidò la parte più solida del suo messaggio letterario a una lingua
diversa dal volgare: scrivendo in latino, si ispirava a Cicerone, Livio, Seneca, Virgilio, Orazio e misurava la
differenza tra quei modelli e il latino medievale. Avviò, quindi, un processo che fu determinante per gli
sviluppo della lingua; il confronto con il latino di quegli autori fu decisivo per la formazione di una mentalità
grammaticale.
Il nuovo gusto classicistico si orientò verso una concezione della lingua intesa come frutto di imitazione dei
grandi modelli letterari.
Si ebbe una conseguente crisi del volgare, che non arrestò l’uso del volgare stesso nella pratica, ma lo
screditò agli occhi della maggior parte dei dotti. Gli uomini di alta cultura disprezzarono la lingua moderna o
la ignorarono.

Vi furono umanisti della prima generazione che non usarono il volgare, come Coluccio Salutati, figura al
centro dell’Umanesimo fiorentino nei primi anni del ‘400. Diresse per alcuni anni la cancelleria fiorentina,
diffondendo il proprio stile latino, elaborato su modelli ciceroniani.
Salutati fu introdotto da Leonardo Bruni tra gli interlocutori del “Dialogus ad Petrum Paulum Histrum” e che
espresse il rammarico per il fatto che Dante, abile poeta, non avesse preferito usare il latino per realizzare la
Commedia, in quanto la lingua avrebbe coronato maggiormente la sua gloria letteraria.
Leonardo Bruni invece celebrava i meriti di Dante, a prescindere dalla lingua usata; scrisse una “Vita” del
peota in cui affermò che non c’era differenza tra lo scrivere in latino o in volgare o in latino e greco, poiché
ogni lingua ha la sua perfezione. Uno scrittore aveva il diritto di essere giudicato non per la lingua adottata,
ma per la qualità delle proprie opere.
Il disprezzo per il volgare nella seconda metà del secolo era ancora normale e la cultura letteraria era
dominata dal movimento umanistico, che si esprimeva in latino e nel latino riconosceva un vivo patrimonio,
in quanto strumento della conoscenza, della dottrina e della letteratura.
Il latino era preferito perché lingua più nobile, capace di garantire l’immortalità letteraria. L’uso del volgare
risultava accettabile solo nelle scritture pratiche e d’affari, senza pretese d’arte.
Gli studi sull’origine del volgare incominciarono nel momento in cui nacque una storiografia interessata a
definire precisamente il trapasso dall’antichità al Medioevo.

MACARONICO E POLIFILESCO
La cultura umanistica produsse alcuni tipi di scrittura in cui il latino e il volgare entrarono in simbiosi, a
volte a scopo comico e più raramente con intento serio.
Gli esperimenti di mistilinguismo tra latino e volgare furono frequenti.
Esistono due forme di contaminazione colta tra volgare e latino: il macaronico e il polifilesco.
Con macaronico si indica un linguaggio nato a Padova a fine ‘400 e caratterizzato dalla latinizzazione
parodica di parole del volgare o dalla deformazione dialettale di parole latine, con forte tensione tra le due
componenti.
Una delle componenti, dialettale, è bassa, plebea, mentre l’altra è aulica.
Il macaronico consiste nella formazione di “parole macedonia”: a una parola volgare può essere applicata
una desinenza latina:
 Cercabat: cercava ( cercare+ -abat imperfetto latino)

In altri casi parole esistenti sia in latino che in volgare vengono usate nel significato proprio del volgare,
come casa che in latino significa capanna, e parole latine che vengono legate in costrutti sintattici
tipicamente volgari.

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Il risultato è un latino che sembra pieno di errori, anche se l’autore macaronico è un ottimo latinista: è la
scelta volontaria dello scrittore a scopo comico, mediante una tecnica che abbassa il tono.
Iniziatore del genere è Tifi Odasi, ma il più illustre è Teofilo Folengo.
Il polifilesco è detto anche pedantesco; un linguaggio del genere è inserito nell’Hypnerotomachia Poliphili(
Guerra d’amore in sogno dell’amatore di Polia), romanzo anonimo pubblicato nel 1499 a Venezia. È
un’opera scritta in volgare.
Il pedantesco non è una scrittura comica e parodica, ma seria. Il volgare combinato con il latino non è
dialettale, ma toscano, boccaccesco, con una patina settentrionale. Il latino si ispira a scrittori diversi da
quelli della latinità aurea, rifacendosi ad Apuleio e Plinio.

FENOMENI DI MESCOLANZA NELLA PREDICAZIONE


In Italia settentrionale nella seconda metà de’800 vi erano alcuni predicatori che si esprimevano con un
linguaggio in cui latino e volgare si mescolavano in modo tale da ricordare il macaronico.
La mescolanza non è una novità del ‘400, ma deriva dalla tradizione medievale.
Le espressioni e le frasi latine si trovavano a convivere con una robusta dialettalità, come in Bernardino da
Feltre.

ALTRI CASI DI CONTAMINAZIONE TRA LATINO E VOLGARE


Vi sono anche scritture che hanno la compresenza del latino e del volgare, ma che non hanno intenti d’arte:
sono le epistole, le relazioni, i diari, i ricettari.
Il latinismo nel contesto di un documento volgare è legato alla consuetudine; in una lettera, ad esempio,
possono essere in latino le formule iniziali e finali.
Esempio: epistola di Esterolo Visconti al duce Francesco Sforza; in essa ci si rivolge col vocativo latino allo
Sforza e in latino è anche l’indicazione della data e del luogo, oltre che alla firma del mittente. Tutto il resto
è in volgare.
In un testo di natura giuridica in volgare, saranno in latino molti termini tecnici e se il testo è in latino,
saranno in volgare alcune frasi o termini diversi dal contesto.
La mescolanza in varie occasioni di italiano e latino in uno stesso documento durerà anche nel secolo
seguente, quando l’italiano sarà più affermato.

LEON BATTISTA ALBERTI


UNA NUOVA FIDUCIA NEL VOLGARE
Lo sviluppo del volgare fu rallentato dalla preferenza degli umanisti della lingua dei classici.
Mancava un autore che manifestasse piena fiducia nell’italiano, anche se questa operazione era stata
anticipata da Dante nel De Vulgari Eloquentia, ma il trattato non era conosciuto nel ‘400.
Leon Battista Alberti, uno dei più grandi architetti del secolo, iniziò il movimento dell’Umanesimo volgare
ed elaborò un programma di promozione della nuova lingua.
Furono realizzate sia poesia che prose di tono alto, per trattare argomenti seri e importanti, come nel “De
pictura”, nella “Della famiglia”.
La posizione teorica espressa nel Proemio al III libro della “Famiglia” si ricollega Ai temi affrontati nelle
discussioni sul passaggio dal latino all’italiano. L’Alberti riconosce la causa della perdita della lingua latina
alla calata dei barbari, così si sarebbero introdotti nel linguaggio i barbarismi.
Compito del volgare era quello di riscattare se stesso, facendosi onore come il latino.
La nobile prosa dell’Alberti era ricca di latinismi, soprattutto a livello sintattico, oltre che lessicale e
fonetico, l’influenza del latino dà esiti che si discostano dal modello ipotattico e ritmico di Boccaccio.

LA “GRAMMATICA DELLA LINGUA TOSCANA”


L’Alberti realizzò anche la prima grammatica della ligua italiana, prima grammatica umanistica di una lingua
volgare moderna.
Questa è trasmessa tramite un codice apografo scritto per il Bembo, conservato nella Biblioteca vaticana.
Una premessa introduce una polemica contro coloro che ritenevano che la lingua latina fosse solamente dei
dotti, mentre l’Alberti voleva dimostrare che anche il volgare aveva una sua struttura grammaticale ordinata,
come il latino.
Una caratteristica della grammatica era l’attenzione per l’uso toscano del tempo, non per gli autori antichi.

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IL CERTAME CORONARIO
Il Certame coronario risale al 1441: Alberti organizzò una gara poetica in cui i concorrenti si affrontarono
con componimenti in volgare; la giuria era composta da umanisti e non assegnò il premio, così che gli fu
indirizzata un’anonima protesta, in cui si lamentava che gli avversari del volgare ritenessero indegno cheuna
lingua come l’italiano pretendesse di gareggiare col latino.

L’UMANESIMO VOLGARE ALLA CORTE DI LORENZO IL MAGNIFICO


L’ASPIRAZIONE AL PRIMATO DI FIRENZE
a Firenze all’età di >Lorenzo il Magnifico, si ebbe un forte rilancio dell’iniziativa in favore del toscano; i
protagonisti di questa svolta furono Cristoforo Landino e il Poliziano.
Landino fu cultore della poesia di Dante e Petrarca ed espose tesi che in parte ricordavano quelle
dell’Alberti, riprese poi nel XVI secolo: negava la naturale inferiorità del volgare rispetto al latino e invitava
i concittadini di Firenze a darsi da fare perché la città avesse ottenuto il primato della lingua.
Lorenzo il Magnifico, nel proemio al Comento per alcuni suoi sonetti, tra il 1482 e il 1484, prospettava uno
sviluppo del fiorentino.
Lo sviluppo della lingua si legava ad una concezione patriottica, intesa come patrimonio e potenzialità dello
stato mediceo.

LANDINO TRADUTTORE DI PLINIO


Famoso è il suo commento a Dante e la sua traduzione in volgare della “Naturalis historia”di Plinio, un testo
difficile per a gran quantità di tecnicismi legati al contenuto scientifico-enciclopedico dell’opera.
Landino sosteneva la necessità che il fiorentino si arricchisse con un apporto delle lingue latina e greca: la
traduzione aveva una funzione importante.

LA “RACCOLTA ARAGONESE”
Nel 1447 Lorenzo il Magnifico inviòa Federico, figlio del re Ferdinando di Napoli, una raccolta di poesie,
note col nome di “Silloge” o “Racoolta aragonese”: raccolta antologica della tradizione letteraria volgare che
andava dai pre-danteschi e dallo Stilnovo fino a Lorenzo il Magnifico.
L’antologia era accompagnata da un’importante epistola, ancora oggi attribuita a Poliziano, segretario
privato di Lorenzo.

REALIZZAZIONI DI LINGUAGGIO POETICO IN TOSCANA


La vitalità dell’Umanesimo volgare fiorentino, aveva particolare interesse verso le realizzazioni poetiche di
Lorenzo e del suo ambiente. Il volgare era soggetto di un esercizio letterario colto, in ambiente d’elite, da
parte di autori che erano in grado di apprezzare le bellezze della letteratura classica.
Significativo era l’esperimento della letteratura rusticale a cui appartiene la “Nencia da Barberino”, poemetto
di Lorenzo de’Medici, di cui esistono quattro redazioni di diversa lunghezza.
Più complessa fu l’esperienza poetica di Poliziano, che fu in grado di usare tre lingue: il greco, il latino e il
toscano; interessanti sono le “Stanze per la giostra di Giuliano de’Medici”, composte tra il 1475 e il 1478 e
lasciate incompiute.
Per quanto riguarda l’opera esistono problema di natura filologica, poiché esistono 6 manoscritti che
tramandano il testo.
Nell’ambiente mediceo si assiste alla prima trasposizione su un piano colto, di un genere popolare: il cantare
cavalleresco, formato da ottave e portato sulle piazze da cantastorie, per l’intrattenimento del pubblico.
“Il Morgante” di Pulci fu composto su richiesta di Lucrezia Tornabuoi, madre di Lorenzo il Magnifico, fra il
1461 e il 1481, recuperando forme popolari.
Pulci scrisse a Lorenzo una lettera in furbesco( uso del gergo) e compilò un Vocabolista, ossia una raccolta
ad uso privato, considerata un antecedente di un vocabolario italiano( oltre 700 vocaboli riuniti, tra cui
latinismi tradotti con parole dell’uso comune). Molte delle voci si ritrovano nel “Morgante”, in cui tra l’altro
si riscontra una notevole varietà lessicale.
Il Burchiello ( Domenico di Giovanni) è famoso per aver perseguito un genere di poesia comica, fondata sul
gioco dei doppi sensi e sull’invenzione verbale, ai limiti del non senso e dell’incomprensibilità. Si trova
l’imitazione della parlata altrui, in 3 sonetti, in cui fa la parodia del veneziano, del senese e del romanesco.

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LA PROSA TOSCANA
Il rapporto col parlato è avvertibile nella produzione novellistica toscana, soprattutto nelle parti dialogate,
dove emergono plebeismi, come nei “Motti e facezie del Piovani Arlotto” o nella “Novella del Grasso
legnaiolo”. Il genere delle novelle si colloca su un piano diverso rispetto alla prosa nobile.
Romanzi di Andrea da Barberino, soprattutto i “Reali di Francia: genere tipicamente popolare, che fece
circolare modelli di prosa italiana tra un pubblico avvezzo al dialetto. La lunga fortuna di questo testo è da
ricondurre alle vicende linguistiche del popolo nei secoli successivi al XV secolo. Il testo fu sottoposto a
revisione grafica e ad una “pulizia”linguistica, destinato al consumo popolare.

LA LETTERATURA RELIGIOSA E LA SUA INFLUENZA


Nel ‘400 si trovano i laudari, in suo presso molte comunità del’Italia settentrionale e in zone del Piemonte, i
cui esiti si avvicinavano in parte alla lingua francese.
“Passione di Revello”: lunga e sacra rappresentazione del 1490 nel Piemonte occidentale; testo ricco di
forme settentrionali e locali, non senza esiti toscani ( -are in verbi come pregare, avisare, perdonare, il
piemontese avrebbe la forma in –è o –er).
Le sacre rappresentazioni erano messe in scena per un pubblico popolare e gli incolti potevano conoscere
una lingua più nobile e toscanizzata.
Anche la predicazione si rivolgeva al popolo e doveva servirsi del volgare. Il volgare della predicazione era
molto vicino al dialetto o volgare locale. Nel ‘400 però la lingua toscana esercita anche in questo campo un
prestigio.
I testi delle prediche di San Bernardino da Siena, non sono autografi e non sono affidabili per quanto
riguarda la fonetica e la morfologia,anche se sono utili per la sintassi, lo stile e il lessico e riescono a
trasmettere abbastanza bene i caratteri dell’oralità. San Bernardino voleva fare uso di una lingua semplice e
colloquiale, con esempi tartti dalla vita quotidiana, citando mestieri, situazioni comuni, luoghi familiari.

LA LINGUA DI “KOINE’” E LE CANCELLERIE


La poesia volgare ebbe una maggiore uniformità rispetto alla prosa; quest’ultima non si poteva limitare al
solo uso novellistico - narrativo, ma aveva bisogno di estendersi a settori extraletterari.
Si può parlare di una varietà di scriptae, ossia lingue scritte e attestate da documenti dell’epoca, collocate in
precisi spazi sociali e geografici.
Nel ‘400 le scriptae si avviano verso forme di koinè, termine tecnico per indicare una lingua comune
superdialettale. La koinè quattrocentesca consiste in una lingua scritta che mira all’eliminazione di una parte
dei tratti locali, raggiungendo il risultato con latinismi e appoggiandosi al toscano.
L’uso del volgare fu avviato nelle cancellerie principesche, ad opera di funzionari, in genere notai; ad
esempio o documenti volgari nella cancelleria viscontea cominciano dal 1426. L’uso delle cancellerie fu
influenzato dai gusti linguistici e letterari della corte, di cui cancellieri e segretari facevano parte.
Le testimonianze più significative del processo di italianizzazione delle koinai regionali furono le lettere di
rappresentanti diplomatici dei vari principati.
L’azione dei modelli letterari toscani influì sul livello delle koinai, esercitandosi al di là dell’ambito della
scrittura d’arte.
Boiardo, le cui lettere private sono a un livello di formalizzazione e toscanizzazione minore rispetto alle
opere poetiche, è un esempio. Nelle sue epistole non si trovano tratti dialettali emiliani, ma elementi
settentrionali e non amnca qualche toscanismo di matrice letteraria, come l’articolo il al posto di el. Il
latinismo è una soluzione linguistica naturale, ma riempe una lacuna lessicale lasciata dall’artificiale
coscienza toscana dello scrivente e quindi adempie a una funzione non puramente ornamentale e stilistica,
ma strutturale. Quindi nell’incertezza di un uso non ancora codificato da grammatiche e vocabolari, il
latinismo era un punto di appoggio.
La koinè si sviluppò anche nell’uso tecnico-scientifico.
Castiglione, partito nelle sue lettere da un linguaggio cortigiano corrispondente alla koinè cancelleresca
mantovana, se ne staccò tramite piccole conversioni linguistiche, man mano che veniva a contatto con le
corti italiane.

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FORTUNA DEL TOSCANO LETTERARIO


MODELLI DELLA LINGUA TOSCANA NELLE CORTI D’ITALIA
Il volgare toscano acquistò un prestigio crescente dalla seconda metà del ‘300, a partire dalla presenza fuori
dalla Toscana, di autori come Dante e Petrarca, che si mossero in area settentrionale: precoce fu la diffusione
della Commedia e del Canzoniere. Il Decameron non fu da meno,anche se in certe zone fu tradotto in
francese.
Si formarono le biblioteche di studio, di impronta umanistica, in cui avevano spazio esclusivo gli autori
latini. Il pubblico ideale, signorile, era bilingue o trilingue: lettura di libri italiani, francesi e latini.
A Milano l’apertura verso la letteratura toscana fu avviata da Filippo Maria Visconti che leggeva Petrarca e
Boccaccio e che fece compilare intorno al 1440 un commento all’Inferno dantesco, fece commentare
Petrarca dal Filelfo.
Si diffuse la stampa di testi italiani prodotti in territorio lombardo: segno di una richiesta del mercato,
indirizzato in maniera positiva verso la letteratura volgare.
Insieme a Firenze e Milano, anche Venezia era una città di stampa: dal 1470 era uscito il Canzoniere di
Petrarca e nel 1471 il Deacmeron.
Boiardo in ambiente emiliano, si dedicava all’imitazione petrarchesca negli “Amorum libri”, dove la
toscanizzazione è più forte.

UN CASO DI TOSCANIZZAZIONE NEL SETTENTRIONE D’ITALIA: LA LIRICA DI BOIARDO


Matteo Maria Boiardo arrivò alla poesia in volgare dopo un’esperienza poetica in lingua latina. Egli operò in
una dimensione acronica, quindi volontariamente sradicato dal proprio terreno linguistico dialettale e
assimilò librescamente il toscano, senza percepire questo linguaggio come lingua vera.
Egli non era influenzato dalla letteratura medicea dell’Umanesimo volgare e il suo punto di riferimento era il
Trecento, in particolare la poesia del Petrarca.
Un altro punto di riferimento era il latino: frequenti erano i latinismi che si riflettevano sul vocalismo tonico,
in cui ricorrevano i e u al posto di e ed o.
Il confronto tra Boirardo e il suo “Orlando innamorato” è reso difficile dal fatto che non si possiede
l’originale; le due più antiche edizioni del poema sono del 1487 e del 1506 e sono giunte a noi in un’unica
copia. Questa rarità si spiega con il carattere popolare del testo, che comporta una vera e propria usura. Si ha
anche un manoscritto, che però è posteriore al 1495.

IL LINGUAGGIO DELLA LIRICA NELL’ITALIA MERIDIONALE


Quando si instaurò a Napoli la corte aragonese. Fiorì una poesia cortigiana di cui sono esponenti autori come
Francesco Galeota, Caracciolo, Pietro Jacopo de Jennaro. La lingua di questi autori può essere studiata
confrontandola con la koinè meridionale, con il toscano letterario e il toscano contemporaneo.
I tratti linguistici più comuni emersi sono:
 Forme anafonetiche fiorentine e forme senza anafonesi
 Oscillazione tra ar protonica locale e er fiorentino nei futuri e condizionali dei evrbi
 Oscillazione tra possessivi toa, soa e i toscani tua, sua
 Forme come iorno, iace ( passaggio dj a j)
 Articoli lo e lu
 Forme del futuro in –aio e –aggio

La generazione successiva dei poeti meridionali, ebbe come rappresentanti Cariteo e Sannazzaro;
quest’ultimo è ricordato per l’ “Arcadia”, appartenente al genere bucolico, di cui esistono due redazioni e in
cui si alternano egloghe pastorali e parti in prosa. La prima redazione risale al 1484-1486 e la seconda fu
pubblicata nel 1504.
La prosa dell’Arcadia è importante, in quanto è la prima prosa d’arte composta fuori falla Toscana, in lingua
ex novo ed è il primo esempio di revisione linguistica in senso toscaneggiante ad opera di uno scrittore
periferico.

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Capitolo 9: Il Cinquecento

ITALIANO E LATINO
Nel ‘500 il volgare raggiunse piena maturità, ottenendo il riconoscimento unanime dei dotti; fioriscono autori
come Ariosto, tasso, Machiavelli, Guicciardini e inoltre il volgare scritto raggiunse un pubblico molto ampio
di lettori. Al latino fu tolto progressivamente spazio.
La maggior parte dei libri pubblicati era ancora in latino e la lingua resisteva al livello più alto della cultura,
ma gli intellettuali avevano fiducia nella nuova lingua: tale crescente fiducia derivava anche dal processo di
regolamentazione grammaticale.
Determinante furono le “Prose della volgare lingua”di Pietro Bembo.
Si ebbero le prime grammatiche a stampa dell’italiano e i primi lessici; la maggior parte dei lettori cercava
delle risposte pratiche, una guida per scrivere correttamente liberandosi dagli eccessivi latinismi e
dialettismi.
Verso la metà del secolo si assiste al tramonto della scrittura di koinè, tipica del ‘400, che era caratterizzata
da contaminazioni di parlate locali, latino e toscano.
Attraverso una regolamentazione normativa, l’italiano raggiunse uno status di lingua di cultura di alta
dignità, anche se il latino continuava ad avere una posizione rilevante.
Nella quotidianità, il volgare trovava spazio, più o meno ufficialmente.
Marazzini ha preso in esame i privilegi concessi all’edizione del Decameron di Salviati, del 1582: su 11
privilegi concessi da governanti di stati italiani, 7 sono integralmente in latino, 2 mescolati italiano e latino e
2 sono integralmente in italiano. Il latino risulta quindi maggioritario.
Il volgare veniva usato nella scienza quando si trattava di stampare opere di divulgazione, avendo uno spazio
rilevante nei testi di arti applicate. Quanto al settore umanistico - letterario, il volgare trionfò nella letteratura
e si affermò nella storiografia, grazie a Machiavelli e Guicciardini.
La percentuale più alta di libri stampati venne stampata dall’editoria i Venezia, seguita da quella di Firenze.
Nella Roma della seconda metà del ‘500 la produzione dei libri in volgare è al di sotto del 50% e a Torino e
Pavia accadde la stessa cosa, in quanto città periferiche rispetto al centro toscano e caratterizzate da una forte
presenza della cultura universitaria, legata alla lingua latina. A Roma il latino è egemonico perché lingua
della Chiesa.

LA QUESTIONE DELLA LINGUA


PIETRO BEMBO: DALLE EDIZIONI ALDINE DEL 1501-1502 ALLE “PROSE DELLA VOLGAR
LINGUA”
Nell’avvio dell’attività di Bembo è importante il sodalizio con l’editore veneziano Aldo Manuzio, uno dei
grandi maestri dell’arte tipografica italiana ed europea.
Manuzio aveva stampato nel 1499 l’Hypnerotomachia Poliphili, libro saturo di latinismi. Il suo secondo libro
stampato in volgare fu l’edizione delle “Lettere” di Santa Caterina, nel 1500.
Nel 1501 Manuzio stampò due classici, Virgilio e Orazio, scegliendo un formato editoriale di piccole
dimensioni, ossia il tascabile. Egli divenne famoso anche per il carattere tipografico corsivo, detto aldino.
Nello stesso anno usciva “Le cose volgari di Messer Francesco Petrarca”, curato da Bembo.
Bembo portò delle innovazioni, come la forma linguistica del testo, che sarebbe stata la base delle teorie
delle Prose della volgar lingua ( compariva per la prima volta il segno dell’apostrofo, ispirato alla grafia
greca).
Nel 1502 Manuzio pubblicò la Commedia curata dal Bembo.
Bembo intanto scriveva gli “Asolani” stampati ne 1505; in questa prosa trattatistica e filosofica si imitava
linguisticamente il Boccaccio.

Il dibattito teorico sulla lingua non fu mai così acceso come nel ‘500: l’esito delle discussioni fu la
stabilizzazione normativa dell’italiano.
La questione della lingua, sulla natura del volgare, va intesa come insieme di teorie estetico – letterarie che si
collegano a un progetto di sviluppo delle lettere.
Le “Prose della volgar lingua” furono pubblicate a Venezia nel 1525: è l’editio princeps ( così si usa
chiamare la prima edizione a stampa di un’opera classica, medievale o moderna) di cui abbiamo l’edizione
critica, con delle varianti rispetto al manoscritto e che è conservato nella Biblioteca vaticana di Roma.

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Le Prose sono divisibili in 3 libri, il terzo dei quali contiene una grammatica dell’italiano, che risulta però
poco sistematica e anche perché il trattato ha forma dialogica. Più che grammatica è una serie di norme e
regole esposte nella finzione di un dialogo, da cui emerge un profilo dell’italiano, che Bembo teorizzava.
Il dialogo è collocato nel 1502 e vi prendono parte 4 personaggi, ognuno dei quali è portavoce di una tesi
diversa:
1. Giuliano de’Medici, terzo figlio di Lorenzo il Magnifico, rappresenta la continuità con il pensiero
dell’Umanesimo volgare
2. Federico Fregoso espone molte tesi storiche
3. Ercole Strozzi, umanista e poeta in latino, espone le tesi degli avversari del volgare
4. Carlo Bembo, fratello dell’autore, è portavoce delle idee di Pietro

Nelle Prose viene fatta un’ampia analisi storico-linguistica, prendendo le distanze dalla tesi di Bruni,
secondo cui l’italiano era già esistito al tempo dell’antica Roma, come lingua popolare. Bembo non accettava
la ricostruzione storica e ne individuava i rischi, facendo osservare a Ercole Strozzi, sostenitore del primato
del latino, che non ci sarebbe stato nessun motivo di adottare una lingua scacciata dalle scritture classiche.
Secondo Biondo Flavio, il volgare era nato dalla contaminazione del latino ad opera degli invasori barbari e
il volgare stesso diventava un’entità nuova, da riscattare tramite gli scrittori e la letteratura.
L’italiano stava progressivamente migliorando, mentre il provenzale stava perdendo terreno; il discorso così
si spostava sul piano della letteratura, le cui sorti erano inscindibili da quelle della lingua. Il punto di vista
delle Prose è umanistico e si fonda sul primato della letteratura.
Quando Bembo parlava di lingua volgare, intendeva il toscano, quello letterario trecentesco dei grandi autori.
La lingua non si acquisisce dal popolo, secondo Bembo, ma dalla frequentazione dei modelli scritti, i grandi
trecentisti.
La sua teoria voleva coniugare la modernità della scelta del volgare, secondo un ideale classicistico: requisito
per la nobilitazione del volgare era un totale rifiuto della popolarità; ecco perché Bembo non apprezzava le
scelte di Dante nella Commedia di scendere verso il basso.
Bembo si preoccupava di precisare che le parti a cui faceva riferimento nel Decameron non erano quelle
dialogate, in cui emergeva il parlato, ma quelle dove era visibile lo stile dello scrittore, con la sua sintassi
latineggiante le inversioni e le frasi gerundive.
Era favorevole a una regolamentazione del latino aderente al periodo aureo della classicità, fondata sul
binomio Virgilio - Cicerone e a cui corrispondevano nel volgare Petrarca e Boccaccio.
La soluzione di Bembo formalizzava quanto era avvenuto nella prassi: il volgare si era diffuso in tutta Italia
come lingua della letteratura attraverso un’imitazione, più o meno cosciente, dei grandi trecentisti. La
grammatica dell’autore permetteva di portare a compimento quel processo, depurando il volgare dagli
elementi della koinè.

LA TEORIA CORTIGIANA
Per Calmeta il volgare migliore era quello usato nelle corti italiane e soprattutto nella corte d Roma; secondo
Castelvetro, egli faceva riferimento alla fiorentinità della lingua, che si doveva apprendere sui testi di dante e
Petrarca e doveva essere affinata attraverso l’uso della corte di Roma.
Nel ‘500 Roma era una città cosmopolita e la sua popolazione era molto esposta alla penetrazione di mode
linguistiche.
Equicola aveva parlato di una lingua capace di accogliere vocaboli di tutte le regioni italiane, mai plebea e
con una coloritura latineggiante e il cui modello risiedeva nella Corte di Roma.
Castiglione nel “Cortigiano”, uscito nel 1528 era un fautore della lingua cortigiana.
La differenza tra questo ideale e quello di Bembo sta nel fatto che i fautori della lingua cortigiana non
volevano limitarsi all’imitazione del toscano arcaico, ma preferivano far riferimento all’uso vivo di un
ambiente sociale determinato, come la corte.
Bembo obiettava che la lingua cortigiana era un’entità difficile da definire e non riconducibile
all’omogeneità.

LA TEORIA ITALIANA DI TRISSINO


Analogie con la teoria cortigiana presenta la tesi del letterato Giovan Giorgio Trissino, legato anche alla
riscoperta del De Vulgari Eloquentia.
Nel 1529 Trissino fece stampare il trattato dantesco, in traduzione italiana e nello stesso anno pubblicò il
“Castellano”, un dialogo in cui sosteneva che la lingua poetica di Petrarca fosse composta da vocaboli
provenienti da ogni parte d’Italia e non era definibile come fiorentina, bensì come italiana.

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La sua tesi negava la fiorentinità della lingua letteraria e faceva appello alle pagine in cui Dante aveva
condannato la lingua fiorentina.
Trissino era convinto che la Commedia fosse stata scritta da Dante in omaggio ai principi esposti nel trattato
e ne rappresentasse la realizzazione; egli aveva proposto una riforma del’alfabeto italiano, con l’introduzione
di due segni del greco: epsilon e omega.

LA CULTURA TOSCANA DI FRONTE A TRISSINO E BEMBO


Alla cultura toscana non piacque la riproposta del De Vulgari Eloquentia, rimesso in circolazione da
Trissino, anche se esercitò influenza su Rucellai, Alamanni e Guidetti.
La più interessante reazione e Trissino fu il “Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua”attribuito a
Machiavelli: nel testo viene introdotto Dante che dialoga con Machiavelli, chiedendo scusa degli errori
commessi scrivendo il De Vulgari Eloquentia, errori per aver scritto in fiorentino e non in lingua curiale.
Trissino non è menzionato espressamente, ma si parla di letterati non toscani che volevano indebitamente
farsi maestri di lingua. Viene rivendicato il primato linguistico di Firenze contro le pretese settentrionali.
Il Discorso rimase inedito fino al’700 e non influì sul dibattito della lingua.
Si ebbe una polemica sull’autenticità del De Vulgari Eloquentia, favorita dal fatto che Trissino non rese mai
pubblico il testo originale latino dell’opera, stampato solo nel 1577 a Parigi. La traduzione circolò più
dell’originale, finché i due testi non furono uniti nel 1729.

L’HERCOLANO DI VARCHI
Dal dibattito uscì vincente la tesi fiorentina arcaizzante di Bembo.
La situazione mutò nella seconda metà del secolo, quando uscì l’Hercolano di Benedetto Varchi, fiorentino,
che aveva maturato un’esperienza culturale al di fuori della sua città, essendo stato esule a causa di trascorsi
politici antimedicei.
A Padova aveva avuto modo di frequentare l’Accademia degli Infiammati, dov’era viva la lezione di Bembo
e lo aveva conosciuto di persona. Egli ebbe il merito di introdurre il bembismo nella città che più gli era
avversa, cioè Firenze, dove si rischiava di cadere in una posizione provinciale e marginale.
La rilettura di Bembo condotta da Varchi non fu fedele, anzi risultò un tradimento delle premesse del
classicismo volgare; ciò servì a rimettere in gioco il fiorentino vivo: fu una riscoperta del parlato.
Per Varchi la pluralità dei linguaggi non andava spiegata con la maledizione babelica, ma con la naturale
tendenza alla varietà propria della natura umana.
Inutile veniva reputata la ricerca del primo linguaggio umano, che secondo il De Vulgari, era l’ebraico.
Il concetto di lingua veniva discusso nell’ambito di una concezione sociale del linguaggio e veniva proposta
anche una classificazione delle lingue basata su alcuni elementi:
 La loro provenienza dall’estero
 La loror esistenza in un luogo
 Il patrimonio di cultura e letteratura
 La natura di idiomi vivi o morti
 La comprensibilità

Varchi affidava il modello alla lingua parlata di Firenze.


Molte pagine dell’Hercolano contengono liste di espressioni proverbiali fiorentine, allo scopo di semplificare
la ricchezza e varietà della lingua parlata.
La revisione del bembismo vanificava l’austero rigore delle Prose, caratterizzate dalla loro attenzione per il
ruolo dei grandi scrittori e dall’affermazione che la città di Firenze non poteva vantare nessun primato.
L’Hercolano sanciva il principio che esisteva un’autorità popolare da affiancare a quella dei grandi scrittori.

LA STABILIZZAZIONE DELLA NORMA LINGUISTICA


LA PRIMA GRAMMATICA A STAMPA DELLA LINGUA ITALIANA
Nel ‘500 si ebbero le prime grammatiche e i primi vocabolari, in cui si riflettevano le proposte teoriche,
come quella di Bembo. Si stabilizzò anche la terminologia linguistico-grammaticale.
Il III libro delle Prose è esso stesso una grammatica, seppur esposta in forma dialogica.
Fortunio precedette Bembo, con le “Regole grammaticali della volgar lingua”, opera che non ha la stessa
teorizzazione sistematica dell’opera, ma che non si discosta da quegli ideali. Le parti del discorso di cui si dà
conto sono ridotte a quattro:
1. nome
2. pronome

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3. verbo avverbio
Note sono dedicate all’aggettivo, alla congiunzione, alla preposizione e all’interiezione.

SVILUPPO DELLA PRODUZIONE GRAMMATICALE E DEI PRIMI LESSICI


Nella metà del ‘500 furono disponibili diverse grammatiche che illustravano la lingua teorizzata da Bembo;
esse no si proponevano obiettivi teorici, ma avevano uno scopo pratico.
Nel 1550 uscirono le “Osservazioni nella volgar lingua” di Ludovico Dolce, libretto di piccole dimensioni.
Nel 1562 l’editore Sansovino di Venezia pubblicò le “Osservazioni della lingua volgare de diversi uomini
illustri”, riunendo in un solo volume 5 opere grammaticali dalla prima metà del secolo, di Fortunio, Bembo,
Acarisio, Gabriele e Corso.
Sulla linea del Bembo si collocano i “Commentarii della lingua italiana” di Ruscelli, usciti postumi nel 1581.
Le grammatiche venivano pubblicate soprattutto dall’editoria veneta ed era pressoché assente in Toscana,
poiché si sentiva meno il bisogno di consultare strumenti normativi di questo genere. A Firenze si ebbe solo
l’uscita della grammatica di Giambullari nel 1552, con cui si voleva riproporre la norma della lingua parlata
a Firenze, rivolgendosi ai non fiorentini e ai giovani, ma fu un fallimento.
Nacquero i primi lessici, antenati dei vocabolari, che contenevano un numero limitato di parole, ricavate da
spogli sugli scrittori, come Dante, Petrarca e Boccaccio in primis.
“Le tre fontane” di Liburnio del 1526 fu un incrocio tra retorica, grammatica e lessicografia; il titolo allude
metaforicamente alle Tre Corone.
“La fabrica del mondo” di Francesco Alunno di Ferrara del 1548 è il più noto vocabolario della prima metà
del ‘500.

GLI SCRITTORI DI FRONTE ALLA GRAMMATCA DI BEMBO


L’effetto più noto della grammatice di Bembo si ebbe su un grande capolavoro come l’ “Orlando
innamorato”, perché Ariosto corresse la terza e definitiva edizione del poema seguendo le indicazioni delle
Prose.
Edizioni del:
 1516, notevolmente toscanizzata, con uso delle consonanti doppie, nell’uso di c e z di fronte a
vocale, forme come giaccio, giotto per ghiaccio, ghiotto
 1521, con correzioni come la sostiruzione dell’articolo maschile el con il, le desinenze del presente
indicativo in prima persona plurale con –iamo
 1532, con solo 3 casi di mancato dittonga mento ie: prigioniera, visera e destrero

L’ITALIANO COME LINGUA POPOLARE E PRATICA


Nel ‘500 si assiste a una crescita dell’impiego della lingua italiana, che si verifica nelle scritture e nelle
stampe.
Aumentano le occasioni di scrivere, cresce l’uso della lingua, utilizzata anche da persone di scarsa cultura.
L’analfabetismo era diffuso, soprattutto nelle campagne, anche se nelle città c’era chi non sapeva leggere e
scrivere.
Le scritture popolari e semipopolari erano caratterizzate da regionalismi e dialettismi; il modello omogeneo
di lingua toscana diffuso con il successo delle teorie di Bembo e con la produzione grammaticale agì sugli
scriventi colti.
La varietà dei diversi usi erano legati alle diverse condizioni sociali degli scriventi.
Campioni dell’italiano dei semicolti si rintracciano nei diari che mostrano l’italiano con vistosi tratti
regionali.
Anche alcuni libri a stampa offrono materiale per un italiano extraletterario ricco di termini quotidiani, così
come le raccolte di ricette medico-alchemiche, culinarie: sono opere in cui si trova una terminologia tecnica
e settoriale estranea alle problematiche dell’italiano poetico e letterario, legata alla vita quotidiana e alle
necessità pratiche comunicative.

IL RUOLO DELLE ACCADEMIE


L’ACCADEMIA PADOVANA DEGLI INFIAMMATI E SPERONE SPERONI
Vi erano stati tanti progressi per la crescita quantitativa del volgare, ma il dibattito giunse i dotti che
discutevano problemi teorici e normativi.
L’Accademia padovana degli Infiammati fu fondata nel 1540 ed era frequentata anche da Sperone Speroni,
autore del dialogo “Delle lingue”, pubblicato nel 1542. tale dialogo è ambientato a Bologna nel 1530: in esso
viene introdotto Bembo che difende le proprie idee, mentre le altre posizioni nella questione sono

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rappresentate da un cortigiano e da Lazzaro Bonamico. Nel dialogo viene introdotto un altro dialogo narrato
da uno scolaro, che esprime una posizione originale: quella del filosofo aristotelico Pomponazzi.
Pomponazzi dichiarava che la filosofia avrebbe dovuto essere trasportata dalle lingue classiche, dal latino e
greco, alla lingua volgare, con traduzioni e conseguente modernizzazione della cultura.
Il latino e il greco gli sembravano un ostacolo alla diffusione del sapere. ( posizione controcorrente)

L’ACCADEMIA FIORENTINA
Le accademie svolsero nel ‘500 una funzione di primo piano, in quanto influenzarono gli intellettuali e
vennero dibattuti i problemi principali culturali.
L’accademia fu il luogo in cui vennero affrontate questioni linguistiche attuali: ad esempio come
nell’Accademia fiorentina nata nel 1541 dall’Accademia degli Umili e che nel 1542 divenne un organismo
ufficiale.

L’ACCADEMIA DELLA CRUSCA E SALVIATI


La fondazione dell’Accademia della Crusca risale al 1582.
Nel 1583 l’ingresso di Lionardo Salviati coincise con l’affermazione di seri interessi filologici.
La Crusca inizialmente si fece conoscere per la polemica, condotta soprattutto da Salviati, contro la
Gerusalemme Libertata si Tasso, a sostegno dell’Ariosto.
Salviati raggiunse la fama come autore degli “Avvertimenti della lingua sopra ‘l Decameron”, un libro
filologico e grammaticale, un intervento per spurgare l’opera delle parti ritenute moralmente censurabili.
Questo fu commissionato dal granduca Francesco di Toscana per compiacere Sisto V e veniva dopo
l’analoga effettuata dai “Deputati” dell’Accademia fiorentina.
La censura fu un’occasione per la nascita e lo sviluppo di un’attenzione filologica per il testo del Decameron:
per tramandarne lo stile, giudicato ammirevole, si accettava di intervenire mutilando il testo.
Nel 1590 l’Accademia deliberò di rivedere e correggere il testo della Commedia di Dante e nel 1595 uscì a
Firenze “La Divina Commedia” di Dante, ridotta dall’Accademia.

LA VARIETA’ DELLA PROSA


LE TRADUZIONI, LA SAGGISTICA E LA PROSA TECNICA
L’architettura fu uno dei settori in cui l’italiano si impose, non solo nelle opere nuove, ma anche traducendo
ciò che si presentava in latino.
In latino era ancora il quattrocentesco trattato “De re edificatoria” di Leon Battista Alberti, tradotto in
volgare da Cosimo Bartoli, col titolo “L’architettura”.
Fra le traduzioni determinanti la più importante fu quella di Vitruvio, autore a cui Battista si era ispirato; la
prima traduzione italiana di Vitruvio c’era stata all’inizio del secolo XVI, da parte del pittore Cesariano,
traduzione con forme tipiche della koinè settentrionale. Il testo è vincolato dal latino, non solo nelle scelte
lessicali, ma anche nella costruzione della frase.
La trattatistica architettonica raggiunse nella seconda metà del ‘500 una maturità assoluta e una perfezione
terminologica notevole, tanto che molte parole italiane, relative all’architettura civile e militare, entrarono
anche nelle altre lingue europee.
Anche la trattatistica d’arte offrì molto materiale allo storico della lingua: dal 1550 al 1568 uscirono le
“Vite”di Vasari.
Le traduzione dei classici costituiscono una parte importante per la storia dell’italiano; proprio nel confronto
col latino la lingua italiana affinò le proprie capacità e potenzialità.
Importanti furono le traduzioni di Aristotele, tra cui va ricordata la Retorica, tradotta da Caro e la Poetica, da
Piccolomini. Platone fu tradotto nei suoi Dialoghi nel 1574.
L’abbondanza di traduzioni rispondeva a un desiderio di divulgazione.
La versione degli Annali di Tacito, tra il 1596 e il 1600, fu effettuata da Davanzati, che si sforzò di
gareggiare con l’originale, per dimostrare la brevità e l’arguzia dell’idioma fiorentino e per controbattere le
censure rivolte alla lingua italiana dall’umanista francese Estienne. Estienne aveva condannato una
precedente traduzione tacitiana di Dati per la sua incapacità di adeguarsi all’originale latino. Davanzati
rinunciava alla floridezza dello stile boccacciano e cercava semplicità nell’imitazione dello stile dei
trecentisti minori, usando anche elementi del parlato e popolari, seguendo il suo ideale di scrivere semplice.

Nel 1532 fu stampato a Roma il trattato “De principatibus” di Machiavelli: il “Principe” è un esempio di
prosa, molto diverso da quello proposto da Bembo, in quanto Machiavelli scrisse in un fiorentino ricco di

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latinismi, inoltre in latino sono i titoli dei veri capitoli, nonostante l’autore non disdegnasse di accogliere
tratti bassi.
Nel 1540 fu stampata la “Storia d’Italia” di Guicciardini.

IL LINGUAGGIO SCIENTIFICO
Il volgare prevaleva nel settore della scienza applicata o diretta a fini pratici, non nella ricerca accademica.
Mattioli, che visse a lungo all’estero, medico alla corte imperiale, fu autore dei “Commentarii”, che ebbero
numerose ristampe e che serviva a identificare e classificare le piante utili a fini medicinali. Il libro
appartiene al campo delle scienze e della medicina, ma possiede anche valore pratico, per questo è scritto in
italiano.
La scelta del volgare acquista rilievo nel caso di Galileo, che appunto giungeva da un settore ostile del
volgare, quello della scienza universitaria. Rinunciando al latino, Galileo aveva lo svantaggio di limitare la
circolazione internazionale.

LA PROSA DI VIAGGIO
L’interesse linguistico della letteratura di viaggio consiste nella possibilità di reperire neologismi e
forestierismi, legati alla descrizione di nazioni e luoghi esotici. Questo tipo di letteratura, inoltre, può
esprimere interessi linguistici, quando accade che il viaggiatore si occupi degli idiomi parlati o scritti con cui
è entrato in contatto.
Tra gli ordini più attivi ci fu quello dei Gesuiti; Botero nelle “Relazioni universali”, del 1596, descrisse tutte
le parti del mondo conosciuto, attraverso i testi originali spagnoli di cui si servì come fonte; lo spagnolo
aveva una grande importanza come lingua internazionale.
Infatti negli scritto di tutti i viaggiatori ricorrono generalmente molti ispanismi, sia come prestiti di necessità,
che come citazioni.

IL MISTILINGUISMO DELLA COMMEDIA


Dalla prima metà del ‘500 la commedia si rivelò genere ideale per la realizzazione di un mistilinguismo o per
la ricerca di elementi del parlato.
La caratteristica più evidente della lingua della commedia è data dalla compresenza di diversi codici per i
diversi personaggi.
Al parlato mirarono molti autori toscani, come Machiavelli, che nel Discorso o Dialogo, se la prese con
Ariosto, che avrebbe scritto commedie in cui, non avendo voluto usare il dialetto e non conoscendo il
toscano parlato, avrebbe ottenuto un risultato scarso e poco credibile.
 Cecchi per rendere colorito il dialogo delle proprie commedie, le riempì di motti e proverbi.
 Analoghe esibizioni di linguaggio popolare toscano si trovano anche in testi senesi, come “La
pellegrina”, di Bargagli.
 Della Porta, ne “La fantesca” del 1592 impiegò diversi tipi tradizionali, tra cui la figura del pedante
che si esprime in forme auliche e latineggianti, rovesciate ad effetto comico.
 Nel “Candelaio” di Giordano Bruno, il latino si mescola con il fidenziano e con il volgare e
quest’ultimo è ridotto al minimo.
 Calmo nella “Rodiana” approfitta dell’abilità polilinguistica di un servo che imita napoletano,
francese, milanese, raguseo, spagnolo, fiorentino, e di un vecchio che parla spagnolo, francese, napoletano,
pugliese, mantovano, genovese e arabo.

L’EPISTOLOGRAFIA
Nel XVI secolo le raccolte di lettere, anche di autori famosi, costituirono un genere tra i più fortunati e
diffusi.
La maggior parte di questi libri fu stampata a Venezia.

IL LINGUAGGIO POETICO
ARIOSTO
Ariosto adeguò la propria lingua al modello toscano delle Tre Corone, eliminando i settentrionalismi e
accettando le regole della grammatica di Bembo.
Machiavelli criticò il linguaggio teatrale di Ariosto, giudicandolo innaturale.
L’esito finale del bembismo di Ariosto è il segno della riuscita della teorizzazione linguistica, che
nell’Orlando furioso si traduce in una lingua chiara, elegante e regolata.

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Il tono medio viene ottenuto anche con l’eliminazione di epiteti preziosi, sostituiti da termini prosaici e
quotidiana, da aggettivi più sobri e indeterminati.

IL PETRARCHISMO
È una caratteristica del linguaggio poetico del Cinquecento e consiste in una soluzione coerente con il
modello di Bembo e lui stesso nelle sue liriche, rappresentò questo gusto letterario. Il petrarchismo significa
la scelta di un vocabolario lirico selezionato e di un repertorio di topoi.

TORQUATO TASSO E LE POLEMICHE CON LA CRUSCA


I rapporti tra Tasso e la Crusca furono essenziali nelle discussioni linguistico – letterarie della fine del ‘500.
L’attacco dell’Accademia della Crusca alla “Gerusalemme liberata” non fece allontanare Tasso dalla lingua
toscana, bensì egli non mise mai in discussione la toscanità della lingua italiana. Prese le distanze dai dialetti,
per celebrare il primato della lingua toscana.
Tasso non riconobbe comunque il primato fiorentino: la tradizione toscana era intesa come patrimonio
culturale comune e per questo proponeva una prosa in cui prevaleva la paratassi sull’ipotassi, con una
diminuzione delle clausole.
La polemica con la Crusca, non riguardò lo stile di Tasso prosatore, non la sua poesia lirica e neanche i versi
dell’ “Aminta”; le accuse rivolte al Tasso epico ebbero per oggetto questioni di lingua e stile:
 Lo stile di Tasso epico è oscuro
 Il suo linguaggio è una mistura di voci latine, pedantesche, straniere, lombarde, composte
 I suoi versi sono aspri
 Poteva avere una locuzione più chiara

I cruscanti giudicavano che Tasso, rispetto ad Ariosto, non fosse facile da intendere e questo costringeva il
pubblico ad una lettura silenziosa.
Si poneva quindi un problema di sintassi e disposizione delle frasi nella struttura ritmica dell’ottava.
Nel lessico della poesia epica, Tasso mostrò una predilezione per il latinismo, che costituisce uno degli
elementi usati per far conseguire alla poesia, il livello elevato.
Le critiche della Crusca mostrano uno scarso apprezzamento nei confronti del nuovo gusto letterario, in
quanto Tasso si era staccato dal modello di Ariosto, senza preoccuparsi delle norme bembiane, ma l’autore ci
teneva a dimostrare che le sue scelte lessicali non si erano discostate così tanto dai grandi scrittori del
passato.
La violenza con cui Salviati attaccò Tasso ha un significato più profondo: egli era guidato dal fastidio nei
confronti di una stella nel mondo della letteratura volgare, che brillava lontano da Firenze e sembrava non
conoscerne il primato.
Il primato assoluto di Firenze sulla lingua era un’ambizione a cui Salviati aspirò per tutta la vita.
Nella sua Apologia, Tasso proponeva una distinzione tra fiorentino antico e moderno, contestando che i
fiorentini potessero ambire ad essere giudici più di altri competenti di letteratura e affermava che la lingua
volgare era qualcosa di separato dal volgo,avendo acquisito una dimensione colta.
Tasso osservava che la lingua di Dante era stata più fiorentina di quella di Petrarca, ma meno poetica (
alludendo alla formalizzazione di una lingua non realistica, vaga, allusiva, utilizzabile e utilizzata come
modello).
Le dispute tra Tasso e Salviati mostrarono una rottura: l’Accademia stava per coronare il suo progetto
istituzionale, per regolare la lingua italiana, mentre la letteratura prendeva un’altra strada, opposta e in
conflitto.

TEORIA POETICA E STILE DI TASSO


Una guida per cogliere lo stile della poesia di tasso sono le sue pagine di teorico, contenute nel quinto libro
dei “Discorsi del poema eroico”, dedicato all’elocuzione, intesa come problema che non riguarda solo
l’oratore e l’attore, ma anche il poeta.
Tasso spiegò come poteva essere raggiunto l’ideale di magnificenza a cui aspirava e che costituiva il motivo
di attrito rispetto alla concezione della Crusca.
1. Il primo carattere di magnificenza sta nell’asprezza, termine con cui designa la presenza di forti
allitterazioni
2. un altro espediente sta nei versi spezzati, nell’uso degli enambement, che spesso separa l’aggettivo
dal sostantivo e che permette di distanziare il verso dalla monotonia della prevedibilità metrica

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3. accumuli di elementi congiunti da e, che accrescono la forza nel parlato


4. enumerazione: ottenuta con l’accostamento di elementi senza l’uso della congiunzione e; viene
realizzata soprattutto in polisindeto, quando vi è un crescendo o climax
5. ricerca dell’indeterminato e del vago
6. duplicazione della parole in forme di anafora

LA CHIESA E IL VOLGARE
LA TRADUZIONE DELLA BIBBIA E LA LINGUA DELLA MESSA
La Chiesa fu tra i protagonisti della storia linguistica nel periodo dal Concilio di Trento alla fine del
Seicento.
La lingua ufficiale della Chiesa restò il latino, ma il problema del volgare emerse nella catechesi e nella
predicazione.
Il rapporto tra la Chiesa e la lingua volgare fu affrontato anche nel dibattito al Concilio di Trento: si discusse
la legittimità delle traduzioni della Bibbia, ma i padri non arrivarono a una decisione radicale.
Nel 1559 Paolo IV riservava una menzione alle Bibbie volgari, di cui era vietato il possesso senza licenza del
Santo Uffizio; la proibizione fu ribadita nel ‘500 e nel ‘600.
Al Concilio di Trento si affrontò il problema della traduzione della Sacra Scrittura, discusso nel 1546, in cui
fu fondamentale l’azione di Lutero con la famosa versione in tedesco.
Alcuni dei partecipanti del Concilio vedevano nella Bibbia una rischiosa fonte di errori e di eresie, altri erano
fautori della traduzione della Bibbia. Prevalse la posizione di chi preferì far cadere ogni riferimento alla
questione, lasciando decidere ai pontefici.
Per quanto riguarda il tema della Messa, era necessario contrapporsi alla tendenza manifestata dal mondo
protestante: veniva sottolineata la funzione di lingua sacra del latino. Inoltre al latino era riconosciuto il
carattere di lingua universale, che garantiva un’omogeneità internazionale nel messaggio della Chiesa.

LA CHIESA, LA QUESTIONE DELLA LINGUA E LA PREDICAZIONE


Il volgare respinto dai piani alti della Chiesa, confermava il suo ruolo nel settore che più risentiva del
confronto con i fedeli: la predica.
La predicazione in lingua volgare era uno dei compiti a cui i parroci non dovevano sottrarsi e questa
pubblicazione doveva svolgersi durante la Messa, entro il rito pronunciato in latino.
Il bembismo influì fortemente anche nel campo della predicazione, riconoscibile in Musso, che era stato
allievo a Padova di Bembo.
“Il predicatore” di Panigarola, uscì postumo nel 1609 e fu il trattato più importante per il rinnovamento della
prosa della predicazione, per renderla adeguata ai dettami della retorica, con l’intento di compiere
un’applicazione della cultura alla fede. All’interno vi era un’adesione alla teorizzazione del primato della
lingua fiorentina parlata, giudicata come la più adatta al pulpito. Panigarola consigliava di imparare il buon
italiano sulle grammatiche, ma esortava a soggiornare a Firenze per qualche tempo.
Egli trovò un corrispondente in Federico Borromeo che sottopose le sue prediche a un processo di revisione
linguistica, partendo dal principio che anche l’oratoria sacra doveva diventare uno strumento di letteratura
profana.
Nella seconda metà del XVI secolo vennero alla luce molte opere retoriche, che dimostrano che la Chiesa
cercava di stabilire le norme per una predicazione colta, di alto livello e che voleva dimostrare l’esistenza di
un pubblico di religiosi pronti ad aggiornarsi e desideroso di imparare.

Capitolo 10: Il Seicento

IL VOCABOLARIO DELL’ACCADEMIA DELLA CRUSCA


La Crusca fu un’associazione provata in un’Italia divisa in stati diversi, ciascuno con la propria tradizione e
quindi un Paese poco adatto a sottomettersi a un’unica autorità normativa; eppure l’Accademia portò a
termine il disegno di restituire il primato della lingua a Firenze.
Il suo contributo più grande si ebbe quando si indirizzò alla lessicografia, dal 1591; in quest’anno gli
accademici discussero sul modo di fare il Vocabolario, attraverso un procedimento razionale di schedatura.
Da Salviati proveniva l’impostazione per cui gli autori minori erano giudicati degni, per meriti di lingua, di
stare a fianco dei grandi della letteratura.
Al momento della realizzazione del Vocabolario, Salviati era già morto; dopo di lui non ci fu in Accademia
una figura di spicco che potesse esserne l’erede, in quanto nessuno aveva una precisa competenza
lessicografica o linguistica.

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Vi era inoltre il problema del finanziamento, in quanto per stampare il Vocabolario occorrevano molti soldi e
questo costrinse gli accademici ad autofinanziarsi.
La situazione politica stessa dell’Italia era sfavorevole, perché la frammentazione politico-amministrativa
aumentava il rischio delle edizioni pirata.
Bastiano de’Rossi era incaricato di stendere la lettera dedicatoria da premettere al Vocabolario.
Il “Vocabolario degli Accademici della Crusca” uscì nel 1612, presso le tipografia veneziana di Giovanni
Alberti; sul frontespizio portava l’immagine del frullone, uno strumento che si usava per separare la farine
dalla crusca ( emblema) e con il motto: “Il più bel fior ne coglie”.
La lezione delle Prose sopravviveva, ma filtrata attraverso l’interpretazione fiorentinista di Varchi e Salviati;
il Vocabolario abbondava nel presentare termini e forme dialettali fiorentine e toscane:
 assempro per esempio
 calonaca per canonica
 caro per carestia
 manicare per mangiare

Per la scelta della grafia, il Vocabolario si collocò sulla linea dell’innovazione, distaccandosi in parte dalle
convenzioni ispirate al latino ( le h etimologiche e i nessi del tipo ct); notevoli erano anche la coerenza e
l’omogeneità delle scelte ortografiche.
Il Vocabolario assunse un prestigio sovra regionale; il Tesauro non fu mai d’accordo con il fiorentinismo
cruscante e diede una serie di indicazioni per sfruttare appieno le potenzialità della Crusca, facendo uso
anche della tavola lessicale latino-italiana. Il lessico latino poteva servire da guida per la ricerca del lessico
italiano.

L’OPPOSIZIONE ALLA CRUSCA


PAOLO BENI
L’opposizione al Vocabolario e ai criteri che lo avevano ispirato si manifestò già dal 1612, anno della sua
pubblicazione.
Il primo avversario fu Beni, professore di umanità all’Università di Padova, autore di un’”Anticrusca” in cui
venivano contrapposti al canone di Salviati, gli scrittori del ‘500 e Tasso in particolare. Per lui la lingua
esisteva come patrimonio comune che si estendeva al di là dell’italiano scritto e arrivava a interessare il
parlato: le pronunce di Campania, Umbria, Marche e di Roma, potevano essere messe a confronto con quelle
di Firenze.
Ci fu una polemica contro le lingua usata da Boccaccio, indicandone le irregolarità e i termini plebei.
Intendeva dimostrare come l’antica lingua era incolta e rozza del ‘300 e la moderna regolata e gentile,
giudicando negativamente il ‘300.

ALESSANDRO TASSONI
Critico nei confronti della Crusca, preparò un elenco di osservazioni, utilizzate dagli accademici per la
seconda edizione del Vocabolario nel 1623.
La polemica contro la Crusca si caratterizzò per una sostanziale asistematicità .
Il pensiero di Tassoni esprimeva la protesta contro la dittatura fiorentina sulla lingua e proponeva di adottare
nel Vocabolario espedienti grafici per contrassegnare le voci antiche e le parole da evitare.
Tema fondamentale della riflessione era l’improbabilità dell’arcaismo linguistico, coerente con il disprezzo
per l’uso e l’abuso del latino negli scritti tecnici di materia medica e legale: Tassoni si mostrava ostile a ogni
culto della tradizione che ostacolava la modernità e la semplicità della comunicazione. Molte volte nelle sue
annotazioni vi era il riferimento all’uso linguistico di Roma, contrapposto a quello di Firenze.
Coerentemente con la sua posizione antibembiana, antifiorentina e anti arcaizzante, nel poema eroicomico
“La secchia rapita” utilizzò voci e frasi di vari dialetti centro-settentrionali ( bolognese, bresciano, modenese,
padovano, romanesco), seconda una forma di gioco linguistico che si addice allo stile comico.

DANIELLO BARTOLI
Noto per la sua elegante prosa, autore de “Il torto e il diritto del Non si può”, del 1655, libro che uscì sotto lo
pseudonimo di Ferrante Longobardi.
Non si tratta di una polemica diretta nei confronti del Vocabolario, né di affermazioni teoriche destinate a
controbattere a priori il metodo seguito dall’Accademia.
Bartoli usava una pungente ironia nei confronti di ogni forma di rigorismo grammaticale, volendo mettere a
fuoco che il grammatico deve usare con cautela il suo diritto di condanna e di divieto.

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L’opera principale di Bartoli è “Istoria della compagnia di Gesù”, pubblicata dal 1650 al 1673, in cui
descrisse anche i quadri geografici esotici in cui si erano svolte e si svolgevano le attività missionarie dei
suoi confratelli gesuiti. Bartoli che non viaggiava mia, usò per il suo lavoro gli scritti di coloro che erano
stati effettivamente in missione.

LE EDIZIONI DEL 1623 E DEL 1691 DEL VOCABOLARIO: SVILUPPO DELLA CRUSCA E DELLA
CULTURA LINGUISTICA TOSCANA
La fortuna del Vocabolario della Crusca è confermata dalle due edizioni che uscirono in seguito:
1. la seconda edizione uscì nel 1623, analoga alla prima, tranne per alcuni aggiunte e correzioni
2. la terza edizioni, stampata a Firenze e non più a Venezia, è del 1691 e si presenta diversa già
dall’esterno: tre tomi al posto di uno, con il formato in folio e un aumento del materiale, sia per la quantità
dei lemmi, che per gli esempi e la definizione delle voci

Anche dal punto di vista qualitativo i cambiamenti erano sensibili; i lavori per la riedizione durarono per 30
anni e furono importanti i contributi di Dati, Segni, Redi, Magalotti, Salvini.
Il binomio Redi-Magalotti era costituito da due letterati scienziati molto rinomati e ciò spiega la cura con cui
la Nuova Crusca diede conto del linguaggio scientifico, includendo Galileo fra gli autori.
Nella terza edizione si fece riscorso all’indicazione V.A., ossia Voce Antica, per segnalare le voci introdotte
nel vocabolario, non per proporle all’uso dei moderni, ma a scopo storico-documentario: era uno strumento
per facilitare la lettura degli scrittori antichi.
Sul versante della modernità venne dato uno spazio maggiore a voci non documentate nell’epoca d’oro della
lingua italiana, ossia il ‘300 e che risultavano dall’uso degli autori moderni. Inoltre furono inserite una serie
di voci attestate da scrittori di scienza del ‘600, queste e altre voci furono scelte sull’autorità di scrittori
contemporanei e dando la preferenza ai toscani.
Tra gli “Autori moderni” citati in difetto, vi sono diverse presenze non toscane, sia appartenenti al passato
che ai contemporanei, come Iacopo Sannazzaro, Baldassar Castiglione, Chiabrera, Pallavicino.
Annibal Caro era già stato inserito nella seconda Crusca, così come il Guarini, autore de “Il pastor fido”.
Ma l’autore più significativo, inserito nella Terza Crusca è Torquato Tasso; vistosa è l’assenza di Marino, in
quanto l’ambiente fiorentino era ostile agli eccessi del Barocco.
Nella terza Crusca, inoltre, furono dedicate delle pagine alla spiegazione dei criteri generali seguiti per
realizzare l’opera.

IL LINGUAGGIO DELLA SCIENZA


GALILEO E IL LINGUAGGIO DELLA SCIENZA
La prosa del ‘600 deve molto allo sviluppo del linguaggio scientifico, prima di tutto per merito di Galileo.
Galileo aveva cominciato a scrivere in italiano molto giovane, con “La bilancetta”, definendo una precisa
preferenza per la lingua moderna, ma il suo insegnamento universitario a Padova fu in latino.
La scelta fra le due lingue era dettata dalla fiducia a priori nel volgare, in quanto Galileo aveva affermato di
usarlo per raggiungere coloro che avessero più interesse per la milizia che per la lingua latina: intento
divulgativo.
Scelse il toscano, anche se all’inizio gli capitò di usare comunque il latino, che aveva caratteristiche
innovative.
Il latino via via assunse la funzione di termine di confronto negativo,a cui rivolgersi polemicamente: ciò è
evidente nel “Saggiatore” del 1623, dove sono riportate le tesi dell’avversario scritte in latino e confutate in
italiano, dando vita così a un continuo dialogo tra le due lingue.
Pur scegliendo il volgare, non si collocò mai al livello basso-popolare; favorito dall’origine toscana, seppe
raggiungere un tono elegante e medio, con una chiarezza terminologica e sintattica e non rinunciò a mostrare
alcuni difetti della lingua toscana viva e parlata, così come non rinunciò al sarcasmo e al paradosso.
Non ci può essere discorso scientifico, senza il rigore logico e dimostrativo e la chiarezza linguistico –
terminologica; anche quando non si trattava di testi scientifici, ricorreva sempre il richiamo a un oggetto
particolare.
Galileo quando nominava e definiva un concetto o una cosa nuova, preferiva attenersi ai precedenti comuni
ed evitare di introdurre una terminologia inusitata o troppo colta.

LA SCIENZA PIACEVOLE: REDI E MAGALOTTI


Redi, scienziato, è tra i fondatori della biologia moderna e le sue prose consistevano in descrizioni i
esperimenti, ricavate da appunti presi in laboratorio e svolte come relazione, che prende in genere la forma

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epistolare. Egli divideva la propria attività tra il settore scientifico e quello umanistico. Frequente era da
parte sua la citazione di versi anche nel bel mezzo di una descrizione di un’esperienza, come i versi di Dante.
La poesia è utilizzata come vera e propria divulgazione.
Il termine popolare toscano poteva essere proposto accanto a quello colto.
Redi aveva il gusto per la denominazione d’uso, per la freschezza della lingua parlata e per l’impiego del
francesismo corrente.

IL MELODRAMMA
Nato a cavallo tra ‘500 e ‘600 e destinato a un grande successo nel secolo XVII.
L’Italia assunse una posizione egemonica per ciò che riguarda la produzione di opere liriche e il
melodramma permetteva di affrontare la questione del rapporto tra parola e musica.
Il melodramma del primo ‘600 fu un tentativo di ricreare la tragedia antica, che si immaginava fosse stata
eseguita dai greci con l’accompagnamento del canto e nacque dalla volontà di non sacrificare il testo del
libretto alle esigenze della melodia.
Nel Rinascimento assunse importanza la forma del madrigale: Tasso scrisse molte poesie dedicate alla
musica e al canto e altre volte i versi furono impiegati per la musica.
Il rapporto tra parola e melodia fu affrontato in maniera profonda e sistematica: così nel “Dialogo della
musica antica” del 1581 di Vincenzo Galilei.
Il teatro del ‘500 era stato recitato e non cantato, fino a quel momento e la musica era rimasta confinata.
La nascita del melodramma avvenne nel 1600 con la rappresentazione dell’ “Euridice”, in occasione delle
nozze di Maria De’ Medici. Il melodramma si caratterizzava come un tipo di spettacolo d’elite, come forma
di divertimento che richiede scenografie e allestimenti.
Il linguaggio del melodramma si inseriva nella linea della lirica petrarchesca, rivisitata attraverso Tasso, in
particolare nell’ “Aminta”.

IL LINGUAGGIO POETICO BAROCCO


ELEMENTI INNOVATIVI
Con Marino e il marinismo a partire dal ‘600, le innovazioni si fecero più accentuate che nel Tasso:
 il catalogo degli oggetti poetici si allargò rispetto alla tradizione, anche se gli schemi metrici e le
cadenze ritmiche rimanevano quelle petrarchesche.

La poesia barocca estese il repertorio dei temi e delle situazioni, assunte come oggetto di poesia e il
rinnovamento tematico ne portò uno lessicale.
La prosa scientifica, frutto dello spirito di osservazione e del gusto sperimentale e quindi frutto del metodo di
Galileo, aveva descritto con interesse il regno animale. I poeti barocchi non furono da meno e arrivarono a
utilizzare gli stessi strumenti della scienza.

L’ “ADONE” DI MARINO
Nell’Adone vi sono famose ottave in cui lo scrittore, in una complessa allegoria, introdusse l’anatomia del
corpo umano e adoperò termini anatomici per tentare una descrizione delle diverse parti del corpo. Il lessico
dell’anatomia venne introdotto per celebrare i sensi il corpo umano.
Altre ottave utilizzavano la descrizione della luna fatta da Galileo, per ribadire la disponibilità della
letteratura verso le scoperte della scienza.
Un filone della poesia barocca cha fa capo a Marino, impiegò il lessico scientifico, insieme alla tematica e
agli oggetti della scienza. La scienza così viene riconosciuta dalla letteratura.
La presenza del lessico scientifico confermò la tendenza al rinnovamento, verificabile nell’inserimento di
forestierismi e di parole provenienti dalla tradizione comica.
Inoltre nell’Adone fu inserita l’attualità: vengono adoperati i cultismi, grecismi, latinismi, non di rado di
provenienza scientifica.
Vengono impiegate le parole composte e non poco comuni, oltre a quelle inventate, che sono simili a quelle
comuni, ma non uguali e che hanno un significato comico.
Quello dei marinisti fu uno stile ricco di metafore, oltre che di bisticci. La donna venne ritratta non in
sembianze petrarchesche.

IL “CANNOCCHIALE ARISTOTELICO” DI TESAURO


Definito il trattato più significativo per intendere la poetica del Barocco. Molte parti del libro offrono una
serie di riflessioni di carattere letterario e toccano problemi di natura linguistica.

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C’è una polemica contro il dogmatismo grammaticale e contro l’autorità pedantesca e che si traduce in una
concezione della lingua intesa come qualcosa di libero, destinato a mutare nel corso del tempo.
Secondo Tesauro, la lingua è un sistema aperto e mutevole e lo scrittore è libero di sottrarsi alle convenzioni
grammaticali; viene così legittimata la violazione della norma, purché sia fatta consciamente, da parte di chi
conosce l’esistenza.
Egli contrappose la cacofonia alla cacozelia:
1. la cacofonia, cioè il cattivo suono, è un vizio di forma
2. la cacozelia è il difetto di quelli che errano per essere rispettosi nei confronti delle norme
grammaticali

Anche le parole straniere, definite barbarismi, possono diventare eleganti; anzi proprio perché inusitate nella
nostra lingua, hanno un effetto migliore di quello che si riscontra nell’idioma da cui provengono, perché
diventano pellegrine.
La polemica di Tesauro contro gli arcaismi lessicali ritorna in “Della’arte delle lettere missive”, un trattatello
di stile epistolare: a suo giudizio la maturità della lingua italiana, cominciata nel secolo XVI andava
crescendo e la lingua moderna risultava migliore di quella antica.
Alcune pagine del “Cannocchiale aristotelico” discutono della metafora, la figura retorica più caratteristica
della poesia barocca. Aristotele nella “Reotrica” aveva accennato alla metafora come strumento di effettiva
conoscenza della realtà, capace di cogliere l’analogia tra cose differenti.
La trattatistica barocca poté considerare la metafora come fulcro dell’attività poetica, frutto di un ingegno,
che è la facoltà creativa, distinta dalla capacità razionale dell’uomo.

SVILUPPO LETTERARIO DELLA PREDICAZIONE RELIGIOSA NEL XVII


LA PREDICAZIONE BAROCCA
La predicazione barocca presentava una serie di costanti:
 forte uso di esclamazioni
 presenza di interrogazioni, di invocazioni, di elencazioni
 giochi di rima, allitterazioni, assonanze, anafore.

Si tendeva verso la metafora e la ridondanza lessicale, spesso in forma di climax e di gioco verbale.
Le “Dicerie sacre” di Marino si collegano alla predicazione religiosa: Marino, pur essendo un laico, imitò lo
stile e il genere della predica.
Già nella seconda metà del ‘500 le raccolte di prediche avevano affiancato le raccolte dei discorsi laici, le
orazioni politico- giudiziarie o celebrative.
Nel ‘600 le raccolte di prediche furono pubblicate sotto il titolo di “Panegirici”, “Quaresimali”.
I titoli costruiti secondo l’artificio della sorpresa furono comuni nel ‘600, così come l’uso di formule
sorprendenti nel contenuto della predica.

PADRE PAOLO SEGNERI E LE MISSIONI RURALI


A Sègneri fu riconosciuta l’autorità linguistica dai compilatori della III edizione del Vocabolario della
Crusca; egli fu il più famoso predicatore del XVII secolo e prese le mosse da una riforma dello stile barocco.
Nella forma linguistica e nella struttura del sermone, Sègneri sembrava legato alla tradizione precedente,
anche se fu rivoluzionario rivolgersi alle masse rurali. Il suo vero pubblico fu quello popolare.
Egli intendeva raggiungere un pubblico solitamente trascurato, costituito dalla gente di campagna, che
abitava in località sperdute, isolate, mai visitate dai predicatori più famosi. Per molti suoi uditori doveva
essere un’occasione unica sentir parlare un oratore di qualità elevata e di fronte a questo pubblico incolto,
Sègneri non abbassò il livello linguistico della propria oratoria.
Il predicatore usò strategie gestuali, coreografie orchestrate.

L’ANTIFIORENTINISMO DI PAOLO ARESI


L’ “Arte di predicar bene” fu l’opera principale dell’autore, difensore della dignità del volgare. A suo
giudizio il volgare era uno strumento degno di trattare problemi di retorica ecclesiastica.
Aresi non ignorava l’esistenza della predica pronunciata in dialetto, ma esso non era accettabile per due
motivi:
1. perché faceva venire meno l’obbligo della nobiltà del dettato
2. perché sarebbe stato impossibile per un predicatore itinerante far uso di parlate diverse.

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La soluzione proposta era quella dell’italiano comune che si staccava dal parlato popolare ed evitava di
avvicinarsi al fiorentino, in quanto sarebbe risultato falso e avrebbe dato un tono di eccessivo artificio alla
predica.

LE REAZIONI ALLA POETICA DEL BAROCCO


Già alla fine del ‘600 si ebbe una reazione alle concezioni poetiche del Barocco, in nome di un rinnovato
classicismo e della razionalità in poesia.
I modelli del linguaggio letterario non furono più gli autori di maggior successo.
A partire dal ‘600 si sviluppò il giudizio sul cattivo gusto del barocco e tale giudizio fu ripetuto dagli
Illuministi del ‘700.
La reazione antibarocca si ebbe in Francia, prima che in Italia e condannava la letteratura del nostro Paese e
quella della Spagna e la polemica letteraria sul Barocco, finì per coinvolgere il giudizio stesso sulla nostra
lingua.
Bouhours svolse la seguente tesi:
 solo ai francesi poteva essere riconosciuta l’effettiva capacità di parlare
 gli spagnoli declamavano
 gli italiani sospiravano.

A vantaggio del francese giocava la vicinanza della prosa e della poesia, indice di razionalità e Bouhours
voleva promuovere il francese come lingua universale, il “nuovo latino”.
La lingua italiana veniva giudicata come incapace di esprimere in modo ordinato il pensiero umano e veniva
confinata come strumento della lirica amorosa e del melodramma.
Solo nel ‘700 autori come Orsi, Muratori si preoccupavano di difendere la lingua italiana dalle accuse nei
suoi confronti.

LA LETTERATURA DIALETTALE
LETTERATURA DIALETTALE RIFLESSA
Nacque una letteratura dialettale cosciente di essere tale e volontariamente opposta alla letteratura in toscano:
letteratura dialettale riflessa.
La tradizione letteraria italiana fu caratterizzata dalla grande vitalità della letteratura in dialetto, che assunse
un ruolo non secondario.
Alcuni nomi di autori possono essere ricondotti a Cortese, Peresio, Berneri, che apportò una serie di postille
linguistiche destinate a spiegare le espressioni dialettali o gergali.
Anche nel teatro ci furono autori dialettali di rilievo, come Tana, nobile piemontese.
Per Maggi, milanese, il dialetto era una lingua degna di elogio e strumento di moralità; la sua satira morale si
inserisce nella linea lombarda che conduce a Porta e Parini, con un impegno letterario di alto livello.
Uno dei settori in cui si applicò il dialetto fu quello del travestimento comico o parodico dei grandi poemi,
come la “Gersulamme liberata”, che fu realizzata in veneziano, bolognese e napoletano.

TOSCANITA’ POPOLARE E DIALETTALE


Una forma di dialettalità è riconducibile alla manifestazione del gusto per la lingua toscana popolare.
In Michelangelo Buonarroti, il Giovane, accademico della Crusca e collaboratore del Vocabolario, il gusto
della popolarità si trasformava in un’esasperata ricerca del ribobolo. Famose sono le sue opere teatrali in
versi “Tancia” del 1611 e “Fiera” del 1619.
La Tancia fu studiata nel ‘900 e questa farsa rusticale presenta varietà linguistiche rustiche e popolari, in
parte atttinte dai contadini toscani e in parte inventate dall’autore. L’autore poneva in bocca ai contadini
parole loro e con deformazioni fonetiche, usava fraintendimenti che evidenziavano la loro ignoranza.

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Capitolo 11: Il Settecento

ITALIANO E FRANCESE NEL QUADRO EUROPEO


PRESTIGIO E RUOLO DELLE LINGUE D’EUROPA
le lingue di cultura che potevano ambire a un primato internazionale erano tre: francese, italiano e spagnolo,
anche se quest’ultimo era in una fase calante, in concomitanza con la crescita di prestigio del francese.
Nel ‘700 non ha nessun rilievo il portoghese; le lingue slave non erano conosciute né apprezzate. Il tedesco e
l’inglese avevano una posizione marginale e la cultura inglese si diffuse attraverso le traduzioni francesi.
Leibniz aveva lamentato il ritardo del tedesco dal punto di vista del vocabolario intellettuale e della capacità
di veicolare il pensiero filosofico e scientifico e inoltre la lingua aveva uno status culturale insufficiente; solo
con il Romanticismo all’inizio del XIX secolo, ottenne un riconoscimento.
L’italiano era lingua di corte a Vienna e Metastasio nel suo lungo soggiorno viennese non sentì la necessità
di imparare il tedesco, così come Da Ponte, il librettista di Mozart. Anche a Parigi l’italiano era abbastanza
conosciuto.
Il francese aveva assunto una posizione che lo rendeva erede del’antico latino.
Goldoni scrisse nella lingua d’oltralpe non solo due commedie, ma anche le sue memorie. Non fu l’unico
intellettuale italiano a impiegare il francese, anzi era una scelta obbligata per chi si trasferiva all’estero ( le
memorie di Casanova o i saggi di Denina).
Il francese veniva usato da scrittori dell’Italia settentrionale per appunti privati, per annotazioni, lettere, diari.
La sua penetrazione avveniva attraverso molti canali: danza, moda, teatro, prediche ecc..

IL FRANCESE LINGUA MODELLO


La diffusione della lingua, della moda e della cultura di Francia aveva avuto conseguenze sul piano
linguistico.
Nel 1784 l’Accademia di Berlino premiò un saggio di Rivarol, che riprese il tema per cui il francese poteva
rappresentare il latino dei tempi moderni.
Rivarol pretendeva di attribuire il successo internazionale del francese non solo a cause storiche contingenti,
ma ad una virtù strutturale della lingua, chiara, logica e razionale.
La lingua francese fu esportata nei paesi conquistati dall’Impero e messa in atto attraverso una politica di
francesizzazione; mentre il francese era la lingua della chiarezza, l’italiano era la lingua della passione
emotiva, della poesia e della musicalità e quindi scarsamente razionale.
L’ordine degli elementi veniva identificato nella sequenza soggetto-verbo-complemento, mentre l’italiano
era caratterizzato da una grande libertà nella posizione degli elementi del periodo.
Alla fine del secolo, Denina, confutò la tesi di Rivarol, sostenendo che non esiste una superiorità assoluta di
una lingua sulle altre e che tutte le lingue ci sembrano naturali. Inoltre spiegava che l’ordine libero delle
parole si spiegava con la presenza di una diversa organizzazione, come l’esistenza di elementi morfologici
che segnalano la funzione delle parole,indipendentemente dalla loro posizione.
La diffusione del francese e la sua egemonia permisero di guardare in maniera più critica alla tradizionale
cultura italiana: la Francia aveva una lingua adatta alla conversazione e alla divulgazione, rispetto
all’italiano.

L’INFLUENZA DELLA LINGUA FRANCESE


Entrarono nella lingua italiana un gran numero di francesismi, rintracciabili nei settori come la moda, la
politica, la diplomazia, la burocrazia, le belle arti, il commercio, la filosofia ecc..il termine moda è stesso un
gallicismo.
In questo secolo, poi, si può notare il rapporto stretto tra lingua e cultura. In campo scientifico una
rivoluzione nacque dalla diffusione della terminologia chimica.
Due principi di Lavoisier:
1. meglio un nome nuovo chiaro e trasparente, che un nome tradizionale opaco e fuorviante
2. creando nuovi termini è opportuno servirsi delle lingue morte e in particolare del greco.

IL PENSIERO DI CESAROTTI NEL DIBATTITO LINGUISTICO SETTECENTESCO


Fin dall’inizio del ‘700 si era avuta una riproposta delle posizioni relative al primato di Firenze e della lingua
toscana; un esempio sono le “Annotazioni” di Anton Maria Salvini alla “Perfetta poesia italiana” di
Muratori. Salvini polemizzava contro il concetto di lingua comune e ribadiva i due vantaggi dei fiorentini,
possessori della lingua per diritto e per studio.

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I fiorentini continuavano a rivendicare il primato della loro città.


Becelli esortava all’imitazione delle Tre Corone, proponendo un canone rigido.
Celebre è la “Rinunzia avanti notaio al Vocabolario della Crusca” scritta da Verri a nome dei redattori della
rivista milanese “Il Caffè”: l0intervento mostra una grande insofferenza nei confronti dell’autoritarismo
fiorentino e consiste in un pamphlet, caratterizzato dal tono sarcastico, in cui si denuncia lo spazio eccessivo
che le questioni retoriche e formali (le parole) hanno avuto nella cultura italiana a svantaggio delle cose, a
danno del progresso concreto.

Cesarotti nel “Saggio sulla filosofia delle lingue”, prima edizione del 1785 con il titolo “Saggio sulla lingua
italiana”, seconda edizione del 1788: conteneva un sistema valido, fondato su una concezione generale del
linguaggio, elaborata sulla base di idee diffuse nel ‘700 dalla cultura francese. Il saggio si apre con una serie
di teorie:
 tutte le lingue nascono e derivano, all’inizio della loro storia sono barbare, ma il concetto di barbarie
non ha senso se lo si utilizza nel confronto fra le lingue, perché tutte servono ugualmente all’uso della
nazione che le parla
 nessuna lingua è pura: tutte nascono dalla composizione di elementi vari
 tutte le lingue nascono da una combinazione casuale, non da un progetto razionale
 nessuna lingua nasce da un ordine prestabilito
 nessuna lingua è perfetta, ma tutte possono migliorare
 nessuna lingua è tanto ricca da non aver bisogno di nuove ricchezza
 nessuna lingua è inalterabile
 nessuna lingua è parlata in maniera uniforme nella nazione

Cesarotti poi affronta il problema della distinzione tra lingua orale e lingua scritta; quest’ultima ha una
dignità superiore, in quanto momento di riflessione e strumento con cui operano i dotti.
La lingua scritta per l’autore non dipende dal popolo e nemmeno dagli scrittori, non può essere fissata in
modelli.
La polemica si caratterizza per il suo antipurismo.
La III parte del saggio è più pratica: Cesarotti indica la strada per una normativa illuminata, da contrapporre
a quella troppo rigida della Crusca. A differenza degli illuministi radicale del “Caffè” egli non vuole una
libertà da ogni regole e riconosce il valore dell’uso, quando accomuna scrittori e popoli.
Chi scrive non deve guardare a un passato morto e sepolto: gli scrittori sono liberi di introdurre termini nuovi
o di ampliare il senso dei vecchi. I termini nuovi possono essere introdotti per analogia con i termini già
esistenti.
Un’altra fonte di parole possono essere i dialetti italiani e Cesarotti ammette che possono essere adottate
anche parole straniere, ma questa scelta dev’essere fatta con cautela.
Egli inizia il suo discorso sui prestiti trattando la questione delle parole latine e dei grecismi; in nome della
chiarezza egli pensa che sarebbe auspicabile una diminuzione del loro numero nel linguaggio scientifico.
Questa posizione diffidente nei confronti dei grecismi, anticipa quella di Pietro Giordani, che propose
termini composti italiani invece di quelli greci.
Toccare il problema significava affrontare il tema più spinoso dei forestierismi provenienti dalle lingue
moderne e soprattutto dal francese. Ma per Cesarotti i forestierismi e i neologismi, una volta entrati in
italiano, possono produrre nuove derivazioni.
Il “genio della lingua”, inteso come carattere originario tipico di un idioma e di un popolo, era utilizzato
dagli avversari dei forestierismi per dimostrare l’estraneità e l’improponibilità del termine esotico.
Cesarotti propone un duplice concetto di genio grammaticale e retorico per distinguere meglio nella lingua
ciò che deve essere difeso come inalterabile da ciò che invece può mutare in relazione ai tempi e al
progresso.
La struttura grammaticale delle lingue è infatti inalterabile, il lessico invece dipende dal genio retorico e
riguarda l’espressività della lingua stessa; è in quest’ultimo settore che tutto è alterabile come i prestiti e le
derivazioni. Quindi ha torto chi afferma che i forestierismi guastano la lingua, in quanto le strutture
grammaticali non sono investite dal cambiamento.
La IV parte del saggio, a conclusione, è dedicata all’esaminazione della situazione italiana e propone delle
soluzioni positive alle polemiche della questione della lingua. Proprio nelle ultime pagine si affronta il tema
del rinnovamento della lessicografia legata all’attualità della politica.
Poiché la lingua è della nazione, Cesarotti, proponeva di istituire un Consiglio nazionale della lingua, al
posto della Crusca e la sede avrebbe dovuto essere ancora Firenze; la nuova istituzione si sarebbe occupata

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di studi etimologici e filologico - linguistici, ma soprattutto con attenzione al lessico tecnico delle arti, dei
mestieri e delle scienze. La schedatura avrebbe superato la selettività letteraria e avrebbe permesso di
arrivare alle parole di uso regionale e poi si sarebbe arrivati ad una scelta; il patrimonio lessicale ottenuto
sarebbe stato confrontato con quello ,presente nei vocabolari di altre nazioni.
Compito finale del Consiglio era la compilazione di un vocabolario, realizzato in due forme:
1. un’edizione ampia, scientifica rivolta agli specialisti e con carattere etimologico, storico, filologico e
comparativo
2. un’edizione di uso comune, pratica e divulgativa.
Il saggio si chiude con un appello alle attività intellettuali, chiamando Firenze a farsi guida culturale d’Italia,
con il consenso delle altre regioni, ma fu inascoltato.

LE RIFORME SCOLASTICHE E GLI IDEALI DI DIVULGAZIONE


GLI IDEALI DI DIVULGAZIONE DEL SAPERE
Vi è un nesso tra gli ideali di divulgazione culturale, di svecchiamento e rinnovamento del pensiero e la
diffusione nel Settecento di un sentimento democratico.
Le condizioni del popolo divennero un forma di interesse per gli illuministi e si cominciò a pensare che la
conoscenza della lingua italiana doveva entrare nel bagaglio di ogni uomo per poter assumere un ruolo nella
società produttiva.
Il recente volume dedicato alla storia linguistica del ‘700 scritto da Matarrese, si apre con un capitolo
dedicato a “Scuola ed educazione linguistica”: l’organizzazione razionale di una scuola è uno degli obiettivi
che caratterizzano positivamente l’Illuminismo riformatore. L’insegnamento della lingua implicò delle
strategie e degli obiettivi di politica culturale.
È in questo secolo che l’italiano entra in forma ufficiale, poiché sono le organizzazioni statali a darsi da fare,
sotto lo stimolo di intellettuali intelligenti, per far si che l’insegnamento non fosse svolto solo in riferimento
alla lingua latina. Nasce così una sensibilità nuova per i temi della divulgazione e della diffusione della
cultura nei ceti medie moderne sono anche le ribellioni antipedantesche e antiaccademiche.
Gli specialisti indicarono la strada per le necessarie riforme sulla via del progresso, anche se la situazione
italiana rimase assai difficile, per la mancanza di uno stato unitario nazionale che doveva applicare un
disegno di riforma omogeneo per un territorio così ampio.

RIFORME SCOLASTICHE NEL PIEMONTE


Nel 1729 Vittorio Amedeo II di Savoia emanò dei provvedimenti per la riforma dell’università; un
intellettuale di grido come Scipione Maffei suggerì l’introduzione dell’insegnamento delle lettere toscane ma
non fu messo in atto.
I Regolamenti scolastici Piemontesi del 1729 introducevano, d’altro canto, l’insegnamento della grammatica
latina mediante manuali scritti in italiano.
Sempre in Piemonte nel 1733-34 divenne obbligatorio per la prima volta, nella scuola superiore d’elite, lo
studio dell’italiano, stabilito solo una volta alla settimana, il sabato.
Nel 1734 venne definitivamente a Torino una cattedra universitaria di italiano e greco, cattedra che divenne
punto di avvio di una politica di sviluppo della scuola d’italiano. L’italiano così si fece più solido, in quanto
venne istituita una classe iniziale, propedeutica a quelle già esistenti e dedicata a fornire i rudimenti della
lingua italiana.
Naturalmente lo sviluppo dell’insegnamento dell’italiano è stato graduale e sempre in un contesto finalizzato
allo studio del latino.

MODENA, NAPOLI, PARMA


Modena, in seguito a nuove costituzioni degli studi emanate nel 1772, si prescriveva per i primi anni di corso
l’uso di libri esclusivamente italiani e non latini.
Si ebbero riforme scolastiche dopo la cacciata dei Gesuiti anche a Napoli e a Parma.
A Parma nel 1768, si prevedeva per le classi infime, destinate a coloro che non avrebbero proseguito gli
studi, l’insegnamento del solo italiano.
A Napoli fu avanzato un progetto di Genovesi del 1777, che proponeva a livello di istruzione primaria per i
meno abbienti, l’istituzione di insegnamenti di leggere, scrivere ed abaco pratico; il regno di Napoli si
trovava in uno stato d’inferiorità a causa dell’inesistenza dell’istruzione primaria.

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LA POLEMICA CONTRO IL LATINO


Nel ‘700 si levarono polemiche contro l’abuso del latino nell’educazione dei fanciulli; ai giovani delle classi
medie popolari serviva una cultura più legata alle esigenze dei commerci e delle attività pratiche e il latino
veniva accusato di essere il freno di questo progresso.

IL LOMBARDO-VENETO
Alla fine del XVIII secolo furono avviate delle riforme nelle scuole del Lombardo - Veneto, grazie alla
politica scolastica di Maria Teresa d’Austria.
Fu ideato a Berlino e giunse in Italia attraverso l’Austria un nuovo metodo didattico, detto normale, in cui
per la prima volta prendeva forma l’unita della classe concepita in maniera moderna, come un gruppo a cui
venivano dati insegnamenti per obbiettivi didattici unitari.
Tra il 1786 e 1788, il padre Soave pubblicò una serie di manuali per l’insegnamento dell’italiano che ebbero
grande fortuna.
Nel 1783 era stato pubblicato a Rovereto un abc, ovvero “Il libretto dei nomi” e poi modificata dal Soave per
realizzare il nuovo “Abbeccedario”, che consentiva un percorso graduale dalla lettera alla sillaba, alla parola,
alla frase, al testo in prosa, al testo in versi.
Per Soave il dialetto poteva essere utilizzato come punto di accesso alla lingua italiana, fornendo frasi
dialettali da tradurre in italiano. L’obbiettivo era la conoscenza dell’italiano finito e per Soave finito
significava accurato ed elegante, cioè il toscano.
Dalla riforma austriaca nacque un’idea di una scuola comunale con il compito di insegnare a leggere e a
scrivere; scuola istituita nell’‘800 negli stati dell’Italia settentrionale. La scuola comunale si collega anche
alla pedagogia popolare del Romanticismo.

LINGUA DI CONVERSAZIONE E SCRITTURE POPOLARI


UNA LINGUA D’OCCASIONE
L’interesse dei riformatori per l’insegnamento scolastico dell’italiano non produsse risultati immediati al
livello della popolazione di ceto più basso;l’uso della lingua italiana continuò ad essere un fatto d’elite.
Il toscano era adatto alle situazioni ufficiali e ai libri, ma meno adatto alle situazione familiari, ai rapporti
confidenziali, occupato dai dialetti.

LINGUAGGIO INTINERIARIO E PARLAR FINITO


L’opinione di Baretti andava d’accordo con altre, ad esempio quella di Foscolo, che parlava di linguaggio
mercantile e itinerario, usato da coloro che erano abituati a muoversi nella varie regioni italiane. Foscolo
osservava che l’uso di una lingua non dialettale nella propria patria avrebbe rischiato di creare problemi di
comprensione.
Manzoni descrisse i caratteri del “parlar finito”, la lingua ritenuta elegante e che consisteva nell’utilizzo di
parole che si supponevano italiane e nell’aggiunta di finali italiane alle parole dialettali terminanti per
consonante.
La lingua italiana si prestava poco alla conversazione naturale, perché era scritta, ma poco parlata.
Solo i Toscani si trovavano in posizione di vantaggio, perché nella loro regione, lingua scritta e parlata
coincidevano quasi perfettamente.

SCRITTURE POPOLARI
Anche nel ‘700, si reperiscono scritture popolari, di semicolti, in cui si ha modo di osservare un uso difettoso
della lingua scritta.
Questo tipo di situazione comunicativa dava luogo a interferenze del codice dialettale con quello
dell’italiano.
Un italiano di tipo regionale e popolare si rintraccia negli annunci commerciali sulle gazzette, come negli
articoli di cronaca giornalistica, con un italiano assai modesto e con tratti popolari.
LINGUAGGIO TEATRALE E DEL MELODRAMMA
L’OPERA IN MUSICA
Il successo dell’opera italiana è nel ‘700 molto grande anche all’estero. Il successo della lingua italiana
nell’opera per musica contribuì a fissare lo stereotipo dell’italiano come lingua della dolcezza, della
cantabilità, della poesia, dell’istinto, della piacevolezza, in contrapposizione al francese, lingua della
razionalità e della chiarezza.

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Il giudizio sul linguaggio del melodramma portava anche alle’stero una valutazione favorevole delle opere
italiane; una delle più fortunate fu la “Serva padrone” di Pergolesi, rappresentata a Napoli nel 1733. Il
successo di quest’opera all’estero fu grande e lo stile musicale italiano trovò paladini in Voltaire, Rousseau e
Diderot. Il linguaggio dell’opera influenzò anche l’italiano imparato da alcuni stranieri.
Nei paesi di lingua tedesca, ebbe un nuovo successo con il trionfo dell’opera italiana a Vienna, con
Metastasio; anche Mozart conosceva l’italiano e lo adoperò in forme curiose e vivaci e il compositore
utilizzò libretti scritti dall’italiano Da Ponte.

IL LINGUAGGIO DI GOLDONI
La rappresentazione scenica richiedeva uno sforzo notevole di approssimazione; non esistendo in Italia una
vera lingua comune di conversazione, un autore teatrale che volesse simulare il parlato, senza imparare la
lingua toscana viva, era costretto o a ricorrere al dialetto o a impiegare una lingua mista, in cui entrassero
elementi diversi, come francesismi ecc..
Goldoni optò per l’una e l’altra soluzione: scrisse opere in dialetto veneziano, in italiano e anche in francese.
Il suo francese era stata una lingua formalmente imperfetta, ma assai vivace e adatta alla scena.
L’uso del dialetto, che in scena non è un problema, richiede qualche temperamento in occasione della
trasposizione scritta, a stampa:
 sparisce il tradizione bolognese del dottore avvocato
 il dialetto veneziano resta, ma corredato da una serie di chiose per far intendere anche ai non veneti
particolarità che andrebbero perdute
 sono spiegati in nota gli elementi di un ipotetico italiano settentrionale, in cui le careghe stanno al
posto delle sedie e barba sta per zio
 vengono commentati i proverbi, le parole del dialetto meno trasparenti.
Dialetto e lingua non sono da considerare in opposizione, ma si alternano e si confondono in una stessa
battuta.
L’italiano teatrale di Goldoni è estraneo alle preoccupazioni di purezza. Egli rivendicava il valore pratico
delle sue scelte, al di fuori di ogni teoria.
Lingua non elegante, ma viva, innovativa, specialmente sul piano sintattico. In Goldoni domina una sintassi
di tipo paratattico, in cui affiorano caratteri propri del parlato e del registro informale, rimasti ai margini
della norma grammaticale.

LINGUAGGIO POETICO
L’ARCADIA
Risale al 1690 la fondazione a Roma dell’Arcadia, movimento che con le sue diffuse colonie organizzate in
ogni centro italiano, anche nelle località di provincia, fu un esercizio poetico di grandissime dimensioni.
Questa stagione poetica così florida ebbe come strumento una lingua tradizionale, ispirata al modello del
Petrarca e intesa a liberarsi degli eccessi formali del Barocco.

ADESIONE AL PASSATO NEL LINGUAGGIO POETICO: LA DIFFICOLTA’ DEL RINNOVAMENTO


Vi è nel linguaggio della poesia del ‘700 una sostanziale adesione al passato, visibile nell’impiego della
toponomastica e onomastica classica, della mitologia, con largo uso di latinismi e arcaismi.
Quando veniva introdotta una parola esotica, che non aveva tradizione poetica, se ne addolciva il suono
mediante l’aggiunta di epiteti.
Altri procedimenti vistosi nella poesia, a cominciare da quella di Metastasio, furono i troncamenti,
specialmente quelli del verbo all’infinito ( arrossir, parlar): soluzione obbligata.
In Metastasio il cantabile fu spinto nella forma dell’arietta, in cui trovano posto anche massime e proverbi,
alcuni dei quali passati nel patrimonio mnemonico comune.
I troncamenti hanno lo scopo di distinguere la poesia dalla prosa e di salvare i versi dal rischio dello
scivolamento del prosastico, rischio per chi usa abitualmente un lessico ridotto e una sintassi elementare,
come Metastasio. Tra due termini si tende a scegliere quello più raro e letterario, piuttosto che quello banale:
 duolo al posto di dolore
 brando invece di spada
 talamo invece di letto

La poesia didascalica ebbe una grande fortuna, in quanto incarnava ideali di divulgazione e di progresso e
celebrava i successi della ricerca scientifica, come nell’ “Invito a Lesbia Cidonia” di Mascheroni, dove
Lesbia Cidonia venne guidata a visitare i laboratori dell’Università di Pavia.

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LA PROSA LETTERARIA
SEMPLIFICAZIONE E LINEARITA’ SINTATTICA
Nella categoria della prosa letteraria è da includere la prosa saggistica del ‘700; è questo tipo di prosa che
attraverso l’influenza delle lingue straniere, si avvia verso una semplificazione sintattica.
Molti scrittori confrontavano la tradizione francese con quella inglese: lo fa Beretti nella “Frusta letteraria”,
Verri in un intervento sul “Caffè”, dove dichiara la propria ammirazione per l’ordine della scrittura francese
e per la brevità della scrittura inglese e lamentando la penosa trasposizione dello stile italiano.
“Le notti romane” di Verri, sono un esempio di proda che si propone come nobile modello neoclassico,
ispirandosi all’antico, con latinismi e con una sostenutezza oratoria.
Serianni propone un confronto fra l’incipit dell’originaria redazione autografa de “Dei delitti e delle pene” di
Beccaria e quello dell’edizione a stampa:
 tra i due testi intercorre una sostanziale revisione stilistica, che ha per oggetto una semplificazione
del periodo
 la stesura originale passò per le mani di Verri che ebbe parte in questa semplificazione delle strutture
sintattiche
L’obiettivo della chiarezza veniva perseguito dagli Illuministi e non sempre con successo.

LA PROSA DI VICO
Giambattista Vico aveva aderito al capuismo, cioè al movimento arcaizzante del filosofo e scienziato
napoletano Leonardo Di Capua, che imitava i modelli toscani antichi.
Nella “Scienza nuova” si riconoscono arcaismi e latinismo, in una sintassi diversa dall’armonica struttura
classicistica ricca di equilibrio.
Nella prosa di Vico si possono trovare vere e proprie cascate di subordinate.

ALFIERI
L’autore non perse occasione per parlare male della lingua francese e per descrivere il proprio
apprendimento del toscano classico.
La Firenze di Alfieri era diversa da quella che affascinerà i cacciatori di lingua viva e parlata dell’età
romantica ed era una sorta di mito letterario- archeologico.
Ci restano dei suoi appunti, in cui le parole toscane erano affiancate agli equivalenti francesi o piemontesi; lo
stesso Alfieri iniziò nel 1774-75 in lingua francese il suo diario personale, per passare all’italiano nel 1777.
Nelle tragedie di Alfieri lo stile dell’autore si caratterizzò per un volontario allontanamento dalla normalità
ordinaria e dal cantabile, allontanamento ottenuto attraverso ogni sorta di artificio retorico, in particolare
attraverso la trasposizione sintattica e la spezzatura delle frasi.
La lettura della “Vita” risulta più agevole, perché è un’avventura linguistica e perché descrive il cammino
verso la lingua toscana di un giovane aristocratico piemontese, nato in una regione in cui l’italiano non era di
casa e si parlava il francese.

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Capitolo 12: L’Ottocento

PURISMO: IL CULTO DEL PASSATO


All’inizio del’800, anche per reazione contro l’egemonia della cultura francese e contro l’invadenza della
lingua d’oltralpe, imposta durante l’Impero napoleonico, si sviluppò un movimento chiamato Purismo.
Il termine, inizialmente nato per polemica, indicava un’avversione e un’intolleranza per ogni innovazione,
influsso straniero, tecnicismo, neologismo.
Un atteggiamento del genere ebbe per conseguenza un forte antimodernismo, ne derivava un
vagheggiamento dell’antico, epoca felice per la lingua e un disprezzo per i tempi presenti e una teoria della
storia linguistica, intesa come progressiva caduta.
Il capofila del Purismo italiano può essere definito Antonio Cesari, veronese, autore di libri religiosi, di
novelle, studi danteschi, ma soprattutto celebre per la sua attività di lessicografo; la “Dissertazione sopra lo
stato presente della lingua italiana” è da considerare il vero manifesto del purismo.
Secondo Cesari tutti in quel tempo del 1300 parlavano e scrivevano bene, il canone della perfezione
linguistica veniva esteso al di là delle opere degli autori, massimi o minori che fossero. Si apprezzava non
solo la letteratura, ma anche le umilissime scritture quotidiane, le note contabili ecc.. Arrivò presto a
riproporre l’inautenticità del De vulgari Eloquentia, secondo i vecchi argomenti dibattuti, ma superati e
improponibili.
Il marchese Puoti, napoletano, tenne una scuola libera e provata, dedicata all’insegnamento della lingua
italiana, intesa come concezione puristica, ma meno rigida di quella di Cesari, più disponibile verso gli autori
del ‘500; fu il maestro di De Sanctis e Settembrini. Quest’ultimo, pur lontano dal Purismo, ne giustificava
l’esistenza come forma di sentimento nazionale.
De Sanctis nello scritto autobiografico “La giovinezza” ricorda i contenuti della scuola di Puoti, che spiegò
che la base della scuola era la buona e ordinata lettura dei trecentisti e cinquecentisti.
Lo scrittore Carlo Botta fu solidale con il Cesari, fu autore della “Storia della guerra della indipendenza degli
Stati Uniti d’America” del 1809, in cui la lingua di arcaismi cozza con il contenuto moderno. L’autore oltre a
parole obsolete come civanza per guadagno, misfare per far male, usi i nomi antichi dei venti al posto delle
designazioni dei punti cardinali.

L’efficacia pratica del Purismo, nella sua durata temporale molto lunga, si realizzò anche in seguito, dopo
l’Unità italiana, quando l’insegnamento di molte scuole fu improntato a metodi che discendevano dalle idee
di Puoti e di Cesari.
I “Fatti di Enea”, il “Novellino”, le prediche del Cavalca restano tra i libri fondamentali per l’educazione dei
giovani.

LA “PROPOSTA” DI MONTI E LE REAZIONI ANTIPURISTICHE


Vincenzo Monti, all’apice della sua attività letteraria, pose un freno alle esagerazioni del Purismo.
Fin dal 1813 dimostrò di non andare d’accordo col Cesari e dalle colonne del “Poligrafo” di Milano, Monti
gli rinfacciò di aver dato una versione del Vocabolario della Crusca apparentemente più ampia.
La critica antipurista di Monti arrivò a colpire lo stesso Vocabolario della Crusca; le sue polemiche
linguistiche compongono la serie di volumi intitolata “Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al
Vocabolario della Crusca”, uscita dal 1817 al 1824. Gran parte della Proposta era costituita dalla ricerca di
errori compiuti dai vocabolari fiorentini, errori dovuti anche alla scarsa preparazione filologica.
Il Vocabolario della Crusca veniva giudicato inadeguato, caratterizzato da una visione angusta della lingua.
Tra i romantici milanesi circolò uno scritto di Stendhal ( I pericoli della lingua italiana), ispirato al sensismo:
lo scritto condannava il Purismo e metteva a fuoco la situazione linguistica dell’Italia, caratterizzato dalla
vitalità dei dialetti e dall’artificiosità della lingua letteraria.

LA SOLUZIONE MANZONIANA ALLA QUESTIONE DELLA LINGUA


GLI SCRITTI EDITI E INEDITI DI MANZONI SULLA LINGUA ITALIANA
I romantici milanesi si dibattevano attorno al problema dell’italiano in tutto o in parte simile a una lingua
morta, che si imparava dai libri, che si impiegava nella letteratura e per le occasioni ufficiali, ma inadatta ai
rapporti quotidiani e familiari, per i quali era più facile e funzionale il dialetto.
Manzoni affrontò la questione e inserì le sue idee nella stesura de “I promessi sposi”, divenute una teoria
linguistica di alto valore sociale che influirono profondamente, collaborando a cambiare la situazione
dell’italiano e rendendo la nostra lingua più viva e meno letteraria.

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La sua teoria linguistica dev’essere giudicata alla luce dei suoi scritti postumi.
Nel 1974 sono state pubblicate le cinque redazioni del trattato “Della lingua italiana”, su cui Manzoni lavorò
per circa trent’anni e questo h portato gli studiosi a riesaminare la teoria manzoniana.
Manzoni, negli interventi pubblici, non esibì il lavoro teorico che aveva perseguito negli anni; in vita curò la
pubblicazione di interventi brevi e occasionali, come la “Lettera al Carena”, del 1847 e stampata nel 1850, la
“Lettera intorno al libro “De vulgari eloquio” di Dante Alighieri” del 1868 ecc…
Nel 1932 fu pubblicato il “Sentir Messa”, un libro della lingua d’Italia, anch’esso lasciato incompiuto.

LA SCOPERTA DEL FIORENTINO VIVO


Manzoni iniziò ad occuparsi della questione della lingua e del problema della prosa italiana dal 1821, con la
stesura del “Fermo e Lucia”, redazione iniziale dei Promessi Sposi.
La prima fase, che si rimanda in una lettera al Fauriel nel novembre 1821, viene definita come eclettica, in
quanto Manzoni cercava di raggiungere uno stile duttile e moderno, utilizzando il linguaggio letterario, ma
senza vincolarsi ad esso alla maniera dei puristi, anzi accettando francesismi e milanesismi.
La descrizione della propria lingua letteraria fu data da Manzoni nella seconda introduzione al “Fermo e
Lucia” del 1823, dove prendeva le distanze dallo stile composito e lamentava la propria naturale tendenza al
dialettismo. Nel “Fermo e Lucia” il toscano affiora come termine di confronto.
La seconda fase che Manzoni chiamò toscano – milanese, corrisponde alla stesura dei Promessi Sposi per
l’edizione 1825-27: lo scrittore cercava di usare una lingua toscana, ma ottenuta tramite libri, attraverso
vocabolari, secondo il metodo delle postille presenti nella copia del Vocabolario della Crusca nell’edizione
veronese di Cesari. Queste postille mostravano il fastidio dello scrittore, che dopo aver consultato testi e
vocabolario, non era in grado di sapere se le forme linguistiche che lo interessavano fossero vive o obsolete.
In Manzoni matura un diverso concetto di uso, legato non più ad un eventuale impiego letterario, ma alla vita
della parola in una comunità di parlanti. In diverse postille mostrava di essere attirato dalle concordanze tra
dialetto milanese e linguaggio fiorentino.
Non manca il confronto con l’equivalente francese: Manzoni utilizza gli strumenti familiari come il dialetto e
il francese per approfondire la conoscenza del toscano.
Nel 1827 Manzoni fu a Firenze e il contatto diretto con la lingua toscana suscitò una reazione decisiva: in
una lettera del 1828 a Leopoldo II di Toscana, parlava della delizia di vivere in quella lingua.
Dal 1830 la riflessione linguistica di Manzoni si sviluppò con maggior impegno; l’esito fu la nuova edizione
dei Promessi Sposi del 1840-42, corretta per adeguarla all’ideale di una lingua d’uso, resa scorrevole,
purificata da latinismi, dialettismi ed espressioni letterarie di uso arcaico.
Nel 1847 Manzoni in una lettera a Carena, espresse la propria posizione definitiva, auspicando che la lingua
fiorentina completasse l’opera di unificazione.

LA “RELAZIONE” DEL 1868


Nel 1868 lo scrittore rese pubbliche in una Relazione al ministro Broglio le ragioni per cui gli sembrava che
il fiorentino dovesse essere diffuso attraverso una politica linguistica, messa in atto nella scuola, ad opera
degli insegnanti.
Proponeva anche che si realizzasse un vocabolario della lingua italiana concepito su basi nuove, affiancato
da agili vocabolari bilingui, capaci di suggerire le parole toscane corrispondenti a quelle delle varie parlate
d’Italia.
La Relazione nasceva da una richiesta ufficiale, fatta dal ministro dell’Istruzione che aveva invitati a
proporre le più efficaci strategie per diffondere l’italiano tra il popolo. La questione della lingua si collegava
per la prima volta ad una questione sociale.
Intellettuali come Tommaseo e Lambruschini presero le distanze da Manzoni, rivendicando la funzione degli
scrittori nella regolamentazione della lingua, sollevando dubbi di varia natura sul primato assoluto dell’uso
vivo di Firenze, così Settembrini e Fanfani.

INFLUENZA DELLA TEORIA MANZONIANA


La teoria ebbe effetti rilevanti e ciò si spiega con a forza di penetrazione dei Promessi Sposi, modello di
prosa elegante e colloquiale al tempo stesso e che sembrava di liberare la prosa italiana dall’impaccio della
retorica.
Bonghi scrisse il saggio “Perché la letteratura italiana non sia popolare in Italia” nel 1855 a puntate su un
giornale di Firenze, in seguito in volume che riprendeva anche temi della trattatistica settecentesca, che
lamentava l’inferiorità dell’italiano rispetto al francese nelle letture piacevoli e divulgative. Bonghi

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analizzava lo stile di diversi autori, da Boccaccio, Machiavelli, Bartoli a Giordani e individuava i difetti di
costruzione e le inversioni che ne rendevano faticosa la lettura. In alternativa proponeva uno stile piano,
adatto a una piacevole conversazione.
L’esempio di Manzoni favorì la cosiddetta “risciacquatura in Arno”, il soggiorno culturale a Firenze, con lo
scopo di acquisire familiarità con la lingua parlata della città.
Manzoni influenzò doversi intellettuali; anche Morandi, precettore di Vittorio Emanuele III fu manzoniano.
L’unico freno alla diffusione della teoria manzoniana nel mondo della scuola fu il prestigio di Carducci come
poeta-professore, avversario del toscano popolareggiante.

ALCUNE IDEE-GUIDA DELLA LINGUISTICA MANZONIANA NEGLI SCRITTI POSTUMI


La teoria linguistica manzoniana va giudicata alla luce degli scritti postumi, soprattutto del trattato “Della
lingua italiana”.
Manzoni si oppose al Purismo di cesari, da cui lo divideva la coscienza netta che la naturalezza della lingua
non poteva essere cercata in modelli scritti, in un corpus filologico eterogeneo e arcaico.
Manzoni era inoltre avverso alle teorizzazioni dei classicisti, che affidavano le sorti della lingua alla
responsabilità degli scrittori e non al potere dell’uso.
Una buona parte del saggio Della lingua italiana era dedicata a combattere le teorie di Condillac sull’origine
del linguaggio: Manzoni accettò la tesi della lingua come dono divino, ribadendo la sua piena fiducia nella
narrazione della Bibbia.
Rifiutava l’idea che il linguaggio fosse nato dalle onomatopee e dalle interiezioni e restò legato a una
polemica contro la filosofia del ‘700, contro gli Ideologues, che aveva frequentato a Parigi nella giovinezza,
prima della conversione.
Elaborò il principio dell’adeguatezza: una lingua viva è quella che basta a dire tutto quanto si dice nella
società che si serve della lingua, concepita quindi come interezza, al di là dell’uso individuale. Non era
accettabile il concetto di lingua modello, perché la forma della lingua non esiste se non nella lingua in atto.
Le lingue sono mutabili.
Il pensiero linguistico di Manzoni, basato sulla mutabilità, rifiutava il concetto di legge, così come
contestava il valore delle categorie grammaticali; nella lingua l’eccezione e l’irregolarità valgono quanto la
regola.

REALIZZAZIONI LESSICOGRAFICHE
GRANDI DIZIONARI NELLA PRIMA META’ DEL’800
L’800 è stato il secolo dei dizionari ed è stata una stagione florida sia per la produzione che per la qualità,
oltre che per la varietà di realizzazioni.
In questo secolo il dibattito sul lessico prese le mosse dalla Crusca, sia in riferimento alle idee linguistiche
dell’Accademia, sia per la rivisitazione extratoscana del Vocabolario degli Accademici, realizzata nel 1806-
11 dal padre Antonio Cesari di Verona, capofila del Purismo ( Crusca veronese).
Cesari aveva riproposto il Vocabolario della Crusca con delle aggiunte, allo scopo di esplorare il repertorio
della lingua antica, quella trecentesca, dei grandi autori, ma anche di quelli minori.
Tra il 1833 e il 1842 fu pubblicato il Vocabolario della lingua italiana di Manuzzi, anch’esso nato da una
revisione della Crusca; quest’autore fu un purista e il vocabolario attestava la tendenza di una parte della
cultura italiana di adattarsi nel passato.
Altre riproposte sono:
 il “Dizionario della lingua italiana” in 6 volumi di Cardinali, Oriolo e Costa, pubblicato a Bologna
nel 1819
 il “Dizionario della lingua italiana” in 7 volumi di Carrer e Federici, uscito a Padova fra il 1827 e il
1830

Entrambi i vocabolari dichiararono di aver integrato la Crusca con voci riprese dall’Alberti di Villanova,
dalla Proposta di Monti e dalla Crusca veronese di Cesari.

La somma delle aggiunte avveniva in maniera piuttosto meccanica e queste opere potevano peccare di
originalità; la forma grafica si poteva così riscontrare: l’asterisco era il segno scelto per contrassegnare tutte
le voci non presenti nella Crusca e che risultavano poco riconoscibili. La soluzione era comoda per
identificare più rapidamente le novità introdotte.
Tra i 1829 e il 1840 si stampò il “Vocabolario universale italiano”, la cui base era sempre la Crusca, però
rivisitata: l’opera aveva un taglio prettamente enciclopedico, con attenzione alle voci tecniche. Fu detto

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“Tramater”, dal nome della società tipografica napoletana che lo stampò e superò le definizioni tradizionali,
in quanto nei vocabolari precedenti i lettori avevano fatto riferimento a conoscenze presupposte nel lettore (
cane, come animal noto o cavolo, come erba nota); nel Tramater la definizione zoologica e botanica
poggiava sulla precisa classificazione scientifica.

IL “DIZIONARIO” DI TOMMASEO
Nessun vocabolario eguagli la qualità di questo, terminato poi da Bellini.
Il progresso appariva sostanziale; Tommaseo era già noto come lessicografo, soprattutto per i “Sinonimi”.
Il vocabolario si presentava sotto l’auspicio dell’unità politica appena raggiunta.
L’autore si preoccupò di illustrare attraverso il dizionario, le idee morali, civili, letterarie ed in effetti molti
termini politici e civili entrano per la prima volta in una vocabolario italiano.
Uno dei punti di forza consisteva, oltre che nella mole e abbondanza dei lemmi, nella strutturazione delle
voci: il criterio più seguito stava nel:
 dichiarare l’ordine delle idee, seguendo un criterio logico, a partire dal significato più comune e
universale
 ordinare gli eventuali significati diversi, individuati da numeri progressivi
 privilegiare l’uso moderno, pur documentando quello passato.
Risultò così il primo vocabolario storico della nostra lingua.

IL VOCABOLARIO MANZONIANO
La relazione “Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla” del 1868 si chiuse con la proposta di un
vocabolario.
Per Manzoni bisognava scindere le due funzioni confuse neo vocabolari italiani: mostrare l’uso vivente, per
indicare l’uso vivo di Firenze, e documentare gli esempi degli scrittori del passato. Quest’ultimo fine doveva
essere rinviato a lessici appostiti, di tipo storico. L’obiettivo di Manzoni consisteva nella realizzazione di una
serie di vocaboli dialettali che suggerissero l’esatto equivalente fiorentino.
Il vocabolario veniva utilizzato come strumento primario di intervento linguistico.
Manzoni non vide il compimento del suo vocabolario e alla sua morte, nel 1873, si era appena avviata la
pubblicazione del “Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze”, il cosiddetto “Giorgini-
Broglio” ( uno era il genero, l’altro era il ministro dell’Istruzione). L’opera si concluse nel 1897 e non arrivò
mai ad un largo pubblico, anche per la concorrenza di altre iniziative, come:
1. il “Vocabolario della lingua parlata” di Rigutini-Fanfani, del 1875
2. il “Novo dizionario universale della lingua parlata” di Policarpo Petrocchi, del 1887-91.

Il Giorgini-Broglio scomparve quasi del tutto dalla circolazione. Al posto delle citazioni tratte dagli scrittori,
presentava una serie di frasi anonime, testimonianza del’uso generale e allo stesso tempo venivano eliminate
le voci arcaiche.

DIZIONARI PURISTICI, DIZIONARI DI SINONIMI E DIZIONARI METODICI


All’inizio del XIX secolo si manifestò la tendenza a raccogliere voci da espellere, realizzando uno strumento
di consultazione con uno scopo opposto a quello del comune vocabolario.
Il vocabolario raccoglie e definisce le parole degne di essere usate o adoperate dagli scrittori del passato.
Nel 1812 il primo vero dizionario puristico fu compilato da Bernardoni a cui replicò Gherardini, dando un
elenco di “Voci italiane ammissibili benché proscritte dall’Elenco del sig.Bernardoni”, mostrando che molte
voci avevano in realtà esempi d’autore e che altre erano state ricavate per derivazione o analogia.
Il più famoso è il “Lessico della corrotta italianità” di Fanfani e Arlia del 1877, che nel 1881 divenne il
“Lessico dell’infime e corrotta italianità”.
Comune a tutti i vocabolari puristici è la lotta contro dialettismi e francesismi, che il più delle volte sono di
fatto entrati nella nostra lingua. I francesismi in particolare costituivano la fonte di imbarbarimento della
lingua italiana.
Parallelamente ai dizionari puristici, continuò la tradizione di coloro che compilarono difese delle parole
sotto accusa e nel 1858-60 uscì il “Dizionario di pretesi francesismi e di pretese voci e forme erronee della
lingua italiana” di Viani.
Tommaseo realizzò nel 1830 il “Dizionario dei sinonimi”, opera ristampata nel nostro secolo. Alla base delle
ricerche sui sinonimi, c’era la coscienza che la perfetta sinonimia non esiste e che tra vocabolo e vocabolo,
passa sempre una differenza, anche sottile.

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Negli anni in cui maturava l’Unità, fu maggiormente avvertita la necessità di lessico tecnico: la nostra era
una lingua che possedeva le parole per la poesia, per il poema e per il melodramma e risultava debole o poco
utilizzabile, proprio nel settore tecnico-pratico e familiare.
Carena nella sua opera si preoccupò di verificare l’uso vivo toscano<. Egli era convinto che i vocaboli non
usati dagli artigiani di Firenze, ma documentati da ottimi libri, potessero essere accolti come vivi e italiani.

DIZIONARI DIALETTALI
L’800 fu anche il secolo della lessicografia dialettale. L’esigenza di queste opere fu determinata
dall’interesse romantico per il popolo e la cultura popolare, a cui seguì la curiosità della linguistica per il
dialetto, considerato una parlata con la sua dignità, i suoi documenti, la storia parallela a quella della lingua
nazionale.
Lo studio dei dialetti si accompagnò a una profonda curiosità per le tradizioni popolari e anche per le forme
letterarie della cultura orale.
La casa editrice Pomba nel 1859 aveva stampato il “Gran dizionario piemontese-italiano” di Vittorio di
Sant’Albino; nella presentazione già si spiegava come il vocabolario dialettale fosse al servizio di quello
nazionale e dovesse servire all’apprendimento della lingua della patria.
Ponza, autore di diversi vocabolari dialettali, aveva proposto di usare il dialetto come via d’accesso
all’italiano, in modo da accostare il noto all’ignoto.
Altri dizionari:
 “Vocabolario domestico napoletano e toscano” di Puoti del 1841
 “Vocabolario milanese-italiano” di Cherubini, usato da Manzoni
 “Dizionario del dialetto veneziano” di Boerio
 “Nuovo dizionario siciliano-italiano” di Mortillaro

EFFETTI LINGUISTICI DELL’UNITA’ POLITICA


IL NUMERO DEGLI ITALOFONI
I territori degli ex stati nazionali che entrarono nel nuovo organismo erano caratterizzati da profonde
differenze, relative a tradizioni, abitudini, modi di vivere, livello di sviluppo economico e sociale.
Le differenze linguistiche erano la conseguenza della storia e della tradizione dei popoli.
In comune tra gli Stati c’era solo un modello di italiano letterario, elaborato dalle elites e mancava una lingua
comune della conversazione.
Il numero degli italofoni, cioè chi era in grado di parlare italiano, era allora molto basso. Non ci sono
documenti certi di quanti fossero effettivamente quelli che lasciavano da parte il dialetto e conversavano in
lingua.
De Mauro ha tentato di rispondere a questo e partì dalla constatazione che al momento della fondazione del
Regno d’Italia quasi l’80% degli abitanti era analfabeta, come risulta dai dati del primo censimento e non
tutto il restante 20% sapeva usare l’italiano. Egli aveva supposto che per raggiungere una padronanza
accettabile della lingua occorresse almeno la frequenza della scuola superiore post elementare ( 160.000
individui) a cui aggiunse 400.000 toscani che avevano un possesso naturale della lingua, per la vicinanza tra
il toscano parlato e l’italiano letterario e 70.000 romani, cittadini della città papale che parlavano un dialetto
molto toscanizzato.
Castellani pose il problema dell’esistenza di una fascia geografica mediana( Marche, Umbria, Lazio) in cui la
natura delle parlate locali era tale da far ritenere che un grado d’istruzione anche elementare fosse sufficiente
per arrivare al possesso del’italiano; inoltre rivendicò l’identità tra toscano parlato e lingua italiana,
sostenendo che tutta o quasi la popolazione toscana degli anni attorno al 1861 andava calcolata tra gli
italofoni, indipendentemente dal grado d’istruzione. ( gli italofoni erano quindi il 10% della popolazione).
Il quadro non cambiava: una minoranza ridotta al momento dell’Unità sapeva parlare italiano e tutti gli altri
erano confinati nel dialetto.

LA SCUOLA
Con la formazione dell’Unità, per la prima volta la scuola elementare divenne gratuita e obbligatoria,
secondo l’ordinamento dello stato sabaudo dalla legge Casati del 1859, che fu estesa al territorio nazionale.
La legge Coppino del 1877 rese effettiva la frequenza, almeno per il primo biennio.
De Mauro dimostrò che questa scuola però non fu efficace, per le difficoltà che aveva questo servizio in un
paese dalle condizioni estremamente arretrate.
Nel 1861 almeno la metà della popolazione infantile evadeva l’obbligo scolastico. Le regioni in cui c’erano
meno analfabeti erano il Piemonte, la Lombardia e la Liguria, oltre al miglior tasso di scolarità e con

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un’istruzione diffusa tra il popolo, ma erano svantaggiate nella conversazione italiana, per la notevole
distanza tra i dialetti gallo-italici e il toscano.
In Toscana ed Emilia Romagna gli analfabeti erano nel 1861 tra il 70% e l’80% e oltre l’80% erano in
Abruzzo, Sardegna, Campania, Puglia, Sicilia ecc..
Esistevano condizioni di grave disagio e in certi casi i maestri usavano il dialetto per tenere lezione.
Nella scuola, poi, soprattutto in quella superiore si confrontarono posizioni teoriche diverse: erano presenti
insegnanti puristi, insegnanti manzoniani e classicisti, che proponevano ai loro allievi modelli diversi
d’italiano.
Nelle province napoletane era viva la lezione di Puoti, mentre i manzoniani erano aperti verso il toscano vivo
e cercavano di ottenere uno svecchiamento delle letture scolastiche, tra questi vi era Luigi Morandi,
precettore di Vittorio Emanuele III.
Tra coloro che si occuparono di scuola ci fu anche Carducci, avverso a ogni atteggiamento manzoniano filo
fiorentino e non fu concorde con le posizioni retrograde dei cultori del ‘300; il suo percorso era basato su un
sentimento classico della lingua letteraria.
L’ “Idioma gentile” di De Amicis ebbe una certa influenza sugli insegnanti e vi si trovavano elenchi di
parole toscane e l’invito ad abbandonare il dialetto e le forme dell’italiano regionale.
ALTRE CAUSE DELL’UNIFICAZIONE LINGUISTICA
Le cause che avevano portato all’unificazione linguistica per De Mauro erano:
1. azione unificante della burocrazia ed esercito: la Grande Guerra del ’15-’18 fece convivere migliaia
di soldati, provenienti da diverse regioni, a contatto con ufficiali istruito e questo ebbe effetti linguistici
rilevanti
2. azione della stampa periodica e quotidiana
3. effetti di fenomeni demografici come l’emigrazione: gli emigranti italiani erano in gran parte
analfabeti e dialettofoni e il loro allontanamento fece diminuire il numero di coloro che erano in condizioni
svantaggiate rispetto alla lingua e alla scuola. L’emigrante di ritorno, però, fu un elemento di effettivo
progresso, perché l’esperienza lontano dalla zona d’origine gli aveva insegnato ad essere diverso ed
apprezzare il valore dell’istruzione e dell’alfabetismo
4. aggregazione attorno a poli urbani e moderna industrializzazione: l’industrializzazione fece crescere
la popolazione di alcune grandi città e attirò manodopera proveniente da altre regioni o zone rurali della
stessa regione. Ebbe come effetto uno spostamento degli abitanti e un’integrazione nel nuovo luogo di
residenza, con un abbandono del dialetto di origine.

IL RUOLO DELLA TOSCANA E LE TEORIE DI ASCOLI


Nel 1873 le idee e le proposte manzoniane furono contestate da Graziadio Isaia Ascoli, il fondatore della
linguistica e della dialettologia italiana.
L’intervento di Ascoli fu pubblicato come Proemio nel primo fascicolo dell’ “Archivio Glottologico
Italiano”, rivista scientifica: la polemica prendeva le mosse dal titolo “Novo vocabolario della lingua italiana
secondo l’uso di Firenze” di Giorgini-Broglio, titolo in cui era stato usato nòvo alla maniera fiorentina
moderna, con il monottonga mento in ò di –uò-, contro il tipo nuovo, accolto nella lingua letteraria e
comune. Ascoli escludeva che si potesse identificare l’italiano nel fiorentino vivente e affermava che era
inutile quanto dannoso aspirare ad un’unità della lingua. Questa sarebbe stata una conquista reale e duratura
solo quando lo scambio culturale nella società italiana si fosse realizzato e il Paese fosse diventato moderno
ed efficiente.
Il linguista vedeva che la lingua non esisteva di per sé, ma era una conseguenza di fattori extralinguistici.
Ascoli contestava l’applicazione del modello francese, a cui si era ispirato Manzoni; la situazione italiana gli
sembrava più simile a quella della Germania, tradizionalmente divisa in Stati diversi.
Inoltre vi era la mancanza di intermedi tra i pochi dotti e l’ignoranza delle masse.
Lo scritto di Ascoli fu noto soprattutto agli specialisti e fu rivalutato dai moderni:
 Dionisotti dichiarò il Proemio come uno dei capolavori in senso assoluto della letteratura italiana
 Grassi ripubblicò il Proemio nel 1967, con altre edizioni integrali e antologiche
 Maria Corti parlò di valore profetico del Proemio
La soluzione ascoliana richiedeva tempi molto lunghi.
Egli inoltre era severo con la Toscana, giudicata una terra fertile di analfabeti, con una cultura stagnante e
incapace di guidare il progresso del nuovo stato italiano. Egli guardava a Roma, neocapitale del Regno e
sperava che questa città avrebbe avuto una glorioso destino.

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Castellani difese la Toscana, insistendo sull’importanza del manzonismo e di autori toscani per la diffusione
della prosa italiana media; tra i canali di diffusione del toscano c’erano opere del Collodi, di De Amicis,
romanzi per ragazzi ecc..

IL LINGUAGGIO GIORNALISTICO
Nel XIX secolo il linguaggio giornalistico acquistò un’importanza nuova; il giornalismo, sotto l’influenza di
quello francese, inglese e tedeschi, presentava una notevole apertura a innovazioni sia nel lessico che nella
tecnica espositiva.
I periodici volevano raggiungere un pubblico nuovo e necessitavano di un linguaggio più semplice, anche se
il giornale primo - ottocentesco restava un prodotto d’elite.
Nella seconda metà del’800 il giornalismo diventò un fenomeno di massa e le edicole furono il punto di
vendita della stampa periodica. Nel giornale si alternavano voci colte e libresche e popolari, oltre che a forme
regionali come camorra e picciotto. La sintassi giornalistica sviluppò la tendenza al periodo breve e alla frase
nominale.
La lingua giornalistica era molto esposta al nuovo: si registrano neologismi e forestierismi presenti nella
lingua viva e parlata e compaiono per la prima volta termini come attrezzatura, confisca, delibera, importo.
Il giornale è interessante perché composto da parti diverse: la lingua della cronaca, degli articoli politici o
letterari, economici, pubblicitari; questi ultimi contenevano termini nuovi o parole regionali, censurate dai
puristi.

LA PROSA LETTERARIA
CONSERVATORISMO LINGUISTICO
Gli sviluppi della prosa nell’800 erano importanti, in quanto era l’epoca in cui si fondava la moderna
letteratura narrativa, attraverso due svolte fondamentali, legate a Manzoni e Verga.
Manzoni ebbe il merito di rinnovare il linguaggio non solo del romanzo, ma anche della saggistica,
avvicinando lo scritto al parlato.
La prosa letteraria della prima metà del’800 era ancora condizionata dal modello puristico e classicistico.
I puristi, coerenti con l’Abate Cesari, imitavano la letteratura antica e scrivevano alla maniera del Boccaccio
e alcuni di essi erano influenzati dal fiorentino vivo: la maggio parte non prendeva neanche in
considerazione il popolo. La loro prosa era ricca di arcaismi.

LA PROSA DI GUSTO CLASSICO


I classicisti in genere si ispiravano alla grande tradizione del Rinascimento. La prosa di autori come Monti e
Leopardi rappresentava uno dei migliori risultati qualitativi a cui giunse il classicismo.
Monti fu maestro nella prosa di tipo polemico e satirico, rivolta ai puristi e all’Accademia della Crusca e
adoperò il genere del dialogo.
Leopardi vedeva in Annibal Caro, un esempio di scrittore che era stato in grado di esibire una naturalezza
elegante.
Bartolie espresse la sua ammirazione verso le pagine dello “Zibaldone”, definendolo il “Dante della prosa
italiana” e avversava gli arcaismi e lo stile di Boccaccio.

IL MODELLO MANZONIANO E LA PRASSI CORRETTORIA DEI PROMESSI SPOSI


“Fermo e Lucia”, giudicato come un composto di voci non bene amalgamato, con lombardismi, francesismi,
toscanismi e latinismi, uscì in prima edizione nel 1825-27 ( edizione ventisettana), già indirizzata verso la
lingua media e comune.
Nello stesso 1827 lo scrittore, compì un viaggio in Toscana e avviò la risciacquatura dei panni in Arno, cioè
la correzione della lingua che egli voleva adeguata al fiorentino delle persone colte.
Il nuovo testo fu pubblicato dal 1840-42 e fu accolto con giudizi contrastanti: alcuni preferivano la
ventisettana, come Giusti, Cantù, De Sanctis, Cattaneo, altri approvarono la revisione, riconoscendo che lo
scrittore aveva tentato la difficile e importante operazione di avvicinare la lingua scritta a quella parlata.
Oggi è possibile confrontare tutte le differenze fra la ventisettana e la quarantana:
 taglio ampio delle forme lombardo - milanesi, coincidenti con forme toscane attestate nella
letteratura di genere comico dei secoli passati. Le forme lombardo - milanesi erano state accolte nella
ventisettana, orientata già in direzione della lingua toscana, ma in modo libresco, usando modelli scritti.
Esempio: eliminazione del termine marrone per sproposito: ho fatto un marrone > ho sbagliato, abbia fatto
ben grosso il marrone > l’abbia fatta bella, manifestare un marrone > palesare uno sproposito.

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 Eliminazione di forme eleganti, auliche, affettate, arcaicizzanti o letterarie rare: al loro posto forme
comuni e usuali.
 Assunzione di forma tipicamente fiorentine, come i monottonga menti in –uo- ( spagnuolo >
spagnolo ), uso di lui e lei come soggetti al posto di egli ed ella.
 Eliminazione di doppioni di forme e voci ( eguaglianza > uguaglianza, pel e col > per il, con il)

L’uso manzoniano ha influenzato il destino della lingua italiana: altre innovazioni stanno nel:
 Quasi generale eliminazione della d eufonica dai monosillabi ad/ed tranne davanti a vocale
corrispondente
 Larghezza di elisioni ( di alloggiare > d’alloggiare) e di apocopi ( viene, quasi a un tratto > vien,
quasi a un tratto), ma meno frequenti

La risciacquatura dei panni in Arno determinò l’adozione di uno stile più naturale, sciolto dalla tradizione
aulica-
La posizione di Manzoni era centrale nella prosa ottocentesca, anche per l’influenza che esercitò su molti
scrittori: Grossi, Cantù, Carcano, D’Azeglio furono legati a Manzoni e tentarono la via del romanzo, senza
arrivare alla sensibilità manzoniana dell’omogeneità linguistica.

ALTRI MODELLI DI PROSA


Collodi ebbe una grande influenza sul pubblico giovanile, con “Le avventure di Pinocchio” del 1883: lo stile
del libro, diverso da quello di Manzoni, collaborò con il manzonismo a diffondere la lingua toscana in
tutt’Italia.
Seguirono la linea del mistilinguismo autori che anticiparono le tendenze del ‘900: il lombardo Dossi, il
piemontese Faldella e il meridionale Imbriani; lo stile di questi autori si caratterizzava per l’uso di forme
linguistiche attinte a forme diverse, come il toscano arcaico, il toscano moderno, il dialetto.
Faldella nel suo Zibaldone, una sorta di vocabolario personale, registrava le parole interessanti che scovava
nella sue letture, orientate ad autori comici del ‘500 e verso un autore toscano del’800 come Giusti. Faldella
non fu sempre cosciente della portata stilistica di elite del suo stile ricercato, gli sembrava che la sua prosa
fosse composta da un italiano semplice e popolare, adatto a una letteratura carica di significato morale ed
educativo.

VERGA, IL DIALETTO E IL RINNOVAMENTO DELLA SINTASSI


Fu inaugurata una svolta da Verga, soprattutto con i “Malavoglia”, con un modesto tasso di sicilianità
linguistica che si accompagnava ad un utilizzo dell’elemento locale onnipresente.
Si adattava la lingua italiana come uno strumento di comunicazione per alcuni personaggi siciliani
appartenenti al ceto popolare; Verga adottò alcune parole siciliane note in tutt’Italia e poi ricorreva a innesti
fraseologici, come quando usava espressioni, come: pagare col violino ( pagare a rate), pigliarsela in
criminale (pigliarsela a male).

 Dei tratti popolari si possono riconoscere nei soprannomi dei personaggi


 Viene utilizzato il che polivalente ricalcato sul ca siciliano
 Ridondanza pronominale
 Ci attualizzante ( averci)
 Utilizzo di gli per loro

Questi tratti servivano a simulare un’oralità viva, suggerita anche da raddoppiamenti e ripetizioni.
Nuova risulta la sintassi verghiana, in particolare per il discorso indiretto libero, che consiste, secondo la
definizione di Herczeg, in un miscuglio del discorso diretto e indiretto.
Due sono le possibilità che si offrono a uno scrittore che deve far parlare i suoi personaggi, nei dialoghi o nel
monologo interiore:
1. apertura delle virgolette e riportare in forma diretta le loro battute
2. introduzione di un discorso indiretto, in cui lo scrittore riferisce le parole del personaggio

Il discorso indiretto libero rappresenta una terza soluzione, intermedia fra le due, ma più libera: non vengono
aperte le virgolette,è lo scrittore che riferisce le parole o i pensieri del suo personaggio, ma nella voce dello
scrittore affiorano modi e forme proprie del discorso diretto. Il lettore quindi ascolta la voce del personaggio
con il suo carattere e il livello di espressione.

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La sintassi dove è inserito il discorso indiretto libero segna un mutamento: predomina l’uso dell’imperfetto
narrativo.
Nei Malavoglia la voce dello scrittore diventa espressione della coralità popolare, che fa da filtro alla
narrazione.
L’innovazione stilistica permetteva di snellire il periodo, eliminando le frasi subordinate e dava voce a nuovi
personaggi, popolari, appartenenti al mondo degli umili e dei vinti.
Il cammino della lingua scritta verso il parlato non prende solo la forma del toscano, ma anche dell’italiano
popolare e regionale.

LA POESIA
LINGUAGGIO POETICO NEOCLASSICO
Il linguaggio poetico dell’800 si caratterizzava per una fedeltà alla tradizione aulica e illustre, in coincidenza
con l’affermazione del Neoclassicismo.
Vincenzo Monti era il restauratore di un linguaggio classico sontuoso e Foscolo non era da meno, come
dimostra la solennità dei “Seplocri”.
La tendenza all’aulico, proprio della poesia neoclassica, era verificabile a livello sintattico, perché frequenti
erano le inversioni prolettiche, congiunti con vocativi posti al fondo del periodo, come nel sonetto “Alla
sera”: forse perché della fatal quiete tu sei l’imago a me si cara vieni, o Sera!. La disposizione sintattica s
discosta da quella propria della prosa e della lingua comune.
Il lessico veniva selezionato come parole nobili e proprie della quotidianità: la doppia serie lessicale, fatta di
cultismi e latinismi, distingue le parole della poesia da quelle della prosa e questa sarà una caratteristica del
linguaggio letterario italiano almeno fino al ‘900 con Pascoli.
Nel caso di parole che non sono diverse in prosa e poesia, si ricorreva alla sincope ( spirto per spirito, pria
per prima) o al troncamento ( cor, mar, dolor, amor) ed erano tronchi anche gli infiniti dei verbi in tutte e tre
le coniugazioni.

Leopardi nel suo Zibadone scrisse che una parola o una frase difficilmente è elegante se non si isola dall’uso
del volgare: gli arcaismi si addicevano alla poesia, in cui il linguaggio si riallacciava alla tradizione
petrarchesca e tassiana. Attraverso tasso, Leopardi acquisì il prinicipio del carattere vago del linguaggio
poetico, in cui non ci dovrebbero essere termini che definiscono in maniera precisa e univoca, ma parole che
dovrebbero evocare qualcosa di indefinito e quindi di poetico.

UN DISSONANTE CONTRASTO TRA TONI ALTI E TONI BASSI


Il linguaggio poetico dell’800 si mantenne immune da vistose novità formali e le parole nuove, quotidiane
vennero introdotte solo nella poesia giocosa, come quella di Giusti. Lo stesso Manzoni si attenne alla forma
tradizionale, senza abuso di arcaismi e parole colte, nonostante il tono sia sempre stato alto, sublime.
Le parole quotidiane ebbero difficoltà ad entrare in poesia, eppure premevano sul linguaggio poetico.
Quando i romantici vollero introdurre in poesia contenuti realistici, il linguaggio poetico non permetteva
l’inserimento di parole quotidiane.
Qualche segno di innovazione si ebbe nella seconda metà del secolo, nei poeti della cosiddetta
“scapigliatura”, come Praga e Tarchetti, che introdussero elementi realistici.

LA POESIA IN DIALETTO E LE POLEMICHE ANTIDIALETTALI


L’800 fu un secolo in cui ebbe un eccezionale sviluppo qualitativo, la poesia in dialetto.
Il milanese Porta e il romano Belli rappresentavano i più alti esponenti di questa letteratura.
Belli commentò i propri sonetti con note esplicative, che illustravano anche alcune parole poi passate alla
lingua nazionale, come fregarsene (fregammene), cazzata (sciocchezza), fesso (sciocco).
La poesia di Porta si legava, invece, a una polemica sul ruolo del dialetto e della letteratura dialettale.
Pietro Giordani, classicista, con un articolo sulla “Biblioteca italiana” del 1816, condannò l’iniziativa di
Francesco Cherubini di stampare una collezione di opere letterarie in dialetto milanese. Era prevista l’uscita
in 12 tomi, che avrebbero riunito in un unico corpus, a partire dai cinquecentisti per giungere ai
contemporanei e l’ultimo tomo doveva essere riservato a Porta.

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Giordani contestava l’uso dei dialetti come nocivo per la nazione e riteneva che la poesia dialettale dovesse
essere collocata su un piano basso e non avesse alcuna funzione di progresso. Sentiva inoltre la mancanza di
una lingua comune diffusa largamente. Porta scrisse in polemica contro Giordani, una serie di 12 sonetti
satirici.
I romantici milanesi, invece, erano favorevoli alla tradizione in dialetto, in cui vedevano un modo di
avvicinarsi alla lingua popolare, riallacciandosi anche alla posizione del Parini.

Capitolo 13: Il Novecento

IL LINGUAGGIO LETTERARIO E SCIENTIFICO NELLA PRIMA META’ DEL SECOLO


DURATA DEL LINGUAGGIO CLASSICO
Gli autori vissuti a cavallo tra i due secoli, come D’Annunzio e Pascoli, testimoniarono nelle loro opere le
trasformazioni in atto.
La lingua italiana si presentava nel ‘900 con tante novità.
Carducci fu l’ultimo scrittore che incarnò il ruolo tradizionale del vate e la lingua della sua poesia aderì alla
nobilitazione dei versi, al di fuori del genere satirico - polemico.
Serianni ricorda che in “Giambi ed epodi” entrarono termini moderni e impoetici come questura, tartufi,
listino, con la funzione di sottolineare il registro comico-satirico, ma nei momenti di maggior impeto lirico,
la nobilitazione restava molto forte.
Il linguaggio poetico fino a Carducci si mantenne immune da vistose novità formali: furono mantenute le
forme tradizionali, i vocaboli arcaici, latineggianti, le forme del verbo anticheggianti; quindi le parole e i
modi comuni e quotidiani furono evitati.
Anche la poesia d D’Annunzio non rinunciò alla nobilitazione attraverso la selezione lessicale:
 ippopotamo divenne pachidermo fiumale
 le cameriere divennero fanti, cameristi
 gli operari divennero uomini operatori
Quanto a latinismi, D’annunzio non è da meno di Carducci. La poesia dannunziana si presentava come
innovativa per la capacità di sperimentare forme diverse e per il gusto di citare e utilizzare lingua, esempi,
stilemi antichi.
D’annunzio era un consumatore onnivoro di parole, disseminando arcaismi, tecnicismi, preziosismi, oltre a
lessici specialistici. Egli fu prima di tutto uno straordinario artefice della parola, della ripresa della frase
altrui da cui prendeva spunto per la propria creazione, con grande abilità.
Gli si devono alcuni neologismi, come velivolo per aeroplano, il nome da lui suggerito per la Rinascente e
inoltre collaborò con la nascente cinematografia del muto, fornendo le didascalie e i nomi di persona latini e
punici per il colossal del 1914, “Cabiria”, che narrava la guerra tra Roma e Cartagine.

CRISI DEL LINGUAGGIO CLASSICO


Una prima rottura con il linguaggio poetico tradizionale si ha con pascoli, con i crepuscolari e le
avanguardia.
Benché Pascoli abbia utilizzato parole colte e latinismi e abbia saputo maneggiare perfettamente la forma
antica, con lui cadde la distinzione tra parole poetiche e parole non poetiche.
Le parole a quel punto utilizzate erano sublimi, arcaiche, attuali, quotidiane, fino ad includere dialettismi,
regionalismi e un po’ di italo-americano in “Italy” dei “Primi poemetti”.
Lo stile di Pascoli, poi, includeva l’inserimento di domande, esclamazioni, risposte brevi, l’uso di pause,
elementi che ricordavano il parlato; inoltre era notevole la sua precisione botanica e ornitologica.
La poesia crepuscolare accentò la tendenza verso la prosasticità e rovesciò il tono sublime.
L’avanguardia in Italia si identificò con il Futurismi, facendo un provocatorio rinnovamento della forma,
attraverso:
 l’uso di parole miste ad immagini
 l’uso di caratteri tipografici di dimensioni diverse, con effetti paragonabili a quelli del collage
 abolizione della punteggiatura
 largo uso dell’onomatopea
Il futurismo incise notevolmente sui modi del linguaggio poetico del primo ‘900, con la poetica del
frammento, del balenio analogico ecc… La poesia si impadronì del lessico delle automobili, della guerra, dei
motori, così’ come in “Zang Tumb Tumb” di Marinetti del 1914.
Palazzeschi nella “Passeggiata” integrò elementi impoetici tratti dalle insegne commerciali e degli avvisi
pubblicitari.

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PROSA POETICA, LINGUA MEDIA, MISTILINGUISMO


La lirica dannunziana era caratterizzata dalla tendenza dello scrittore a far meno della virgola, ma le
innovazioni più importanti potevano trovarsi nel “ Notturno” e nel “Libro segreto”.
“Notturno” fu scritto nel 1916 durante un periodo di temporanea cecità e si caratterizza per:
 i periodi brevi e brevissimi
 la sintassi nominale
 i frequenti a capo
 presenza di elementi fonici e ritmici nella frase di andamento lirico
Questo sarà uno dei modelli più seguiti nel ‘900; modello in cui D’Annunzio inserisce tutto il suo gusto per
lo sperimentalismo.

Un riflesso del parlato si ha nella prosa di Pirandello, soprattutto nelle opere teatrali; la riproduzione
dell’oralità è attestabile nelle frequenti interiezioni e connettivi come è vero, si sa, figurarsi ecc.., oltre che in
rapide opposizioni che rendono sfuggente la comunicazione. La prosa di Pirandello era opposta a quella di
D’Annunzio.
Pirandello stava attento a non uscire dai moduli della lingua quotidiana, il suo era un uso medio e inoltre lui
era stato sempre diffidente verso il dialetto come strumento letterario, anche se non rinunciava a dare alle sue
opere quel colore locale.

Svevo fu famoso per il rapporto complesso con la lingua italiana, determinato dalla provenienza da Trieste,
oltre che dall’esperienza culturale lontana dalla letteratura classica. Fu accusato di scrivere male.
Coletti osserva come la lingua de “La coscienza di Zeno” non rispondeva ai canoni puristici e questo si
poteva notare da:
 uso dell’ausiliare avere con i verbo servili
 incertezze dei tempi verbali
 vistosa formalità grammaticale
 elementi arcaici
 i prostetica: in Isvizzera, per ischerzo
 contiguità dei pronomi personali mi vi: mi vi accingo, mi vi sarei adattato
 uso anomalo del di: pronto di dividere
La lingua di Svevo nacque come forma quasi privata e va inserita nel contesto storico in cui è nata.
La lingua della Coscienza è anche il risultato di un progetto stilistico, di cui l’approssimazione grammaticale
è l’elemento costitutivo ( monologo interiore e analisi di coscienza richiedevano una lingua imperfetta?).
Uno dei punti di riferimento per gli scrittori, dopo che Verga aveva mostrato la via per una scrittura vicino al
mondo popolare, era il dialetto.
Un uso particolare del dialetto si ha negli scrittori mistilingue, come Gadda; egli passò attraverso alcuni
esperimenti della scapigliatura ottocentesca, come Dossi, Faldella, Cagna. Non utilizzava solo un dialetto,
bensì il lombardo, il romanesco, il molisano. Il libro più fortunato di Gadda fu “Quel pasticciaccio brutto de
via Merulana” uscito in parte su una rivista nel 1946 e divenne volume nel 1947.
L’effetto di deformazione del narrato in Gadda si attuò attraverso l’uso del dialetto, da cui si stacca di colpo
con il linguaggio alto e retorico.
Il Novecento è stato un secolo pieno di connotazioni satiriche ed ironiche, oltre che con stereotipi del
linguaggio ufficiale, aulico-poetico, con l’impiego di tecnicismi, esotismi o inserti di lingua straniera.

ORATORIA E PROSA D’AZIONE


L’oratoria del primo ‘900 richiama il tema dei discorsi rivolti alle masse da Mussolini. Questi discorsi erano
trasmessi in tutta Italia dalle radio ed erano filmati nei documentari cinematografici: gran parte del loro
fascino stava nel rapporto diretto con la folla ( tipico dell’oratoria tradizionale).
Per indicare una tendenza a un’oratoria letteraria magniloquente, coltissima ed efficace bisognerebbe puntare
ancora a D’Annunzio: i suoi discorsi rivelarono una notevole abilità nella scelta del periodo breve e incisivo,
con riprese frequenti, accostandolo a un ideale parlato con sapore teatrale.
Vanno ricordati i proclami e i messaggi dannunziani, specialmente quelli in relazione con la questione di
Dalmazia e di Fiume. Il suo modello influì ampiamente sulla retorica del fascismo.
Nella lingua del Fascismo e di Mussolini sono stati individuati i seguenti caratteri:
 abbondanza di metafore religiose ( martire, asceta), militari ( falangi), equestri ( redini del proprio
destino)
 tecnicismi di sapore romano, da Duce a centurione

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 ossessione dei numeri

Mussolini fu tra i primi a fare dell’oratoria una tecnica di persuasione di massa.


Tra gli effetti su queste lezioni giunte attraverso la radio, la scuola, la propaganda, si può inserire
l’assorbimento dei moduli linguistico - retorici dominanti.
Tra i vari discorsi sono da ricordare De Amicis, Turati colto e spiritoso, Gramsci, fondatore del Partito
Comunista Italiano, che riteneva l’oratoria socialista macchiata del grave difetto della vuota retorica e
proponeva uno stile lucido e razionale.
Per Gramsci era inaccettabile che ci fossero due lingue e due stili diversi: uno per parlare ad operai e
contadini e uno per parlare a tutti gli altri. Fu anche maestro di giornalismo e resta una sua lettera in cui
spiega come si ottiene uno stile chiaro e comunicativo. Nei suoi scritti non mancano artifici retorici,
soprattutto di tipo sintattico, per esercitare quella che si definisce la funzione conativa del linguaggio
politico, che deve convincere e muovere l’uditorio.

L’ITALIANO DELLA SAGGISTICA: VERSO L’USO MEDIO


La crescita nell’Italia unita di una struttura universitaria moderna comportò un’abbondante letteratura
saggistica nei vari settori disciplinari, con circolazione del sapere,anche in forma divulgativa.
Per esempio l’editore Hoepli realizzò una famosa collana che ebbe molto successo, attraverso una serie di
volumetti tascabili, finalizzata all’applicazione pratica del sapere, manuali dedicati alle più diverse tecniche e
discipline. I manuali fornirono una terminologia scientifico-tecnica che si stava molto diffondendo.
L’800 si era chiuso con una bipolarità nel linguaggio saggistico - argomentativo: da una parte la tendenza
all’aulicità e dall’altra la tendenza al parlato.
L’obiettivo del linguaggio saggistico umanistico era una lingua media e oggettiva e fu raggiunto da Croce,
maestro della cultura italiana nella prima metà del secolo: la sua fu una scrittura chiara, moderna, limpida e
sobria, dove però non mancarono elementi arcaici.
In Giovanni Gentile la prosa argomentativa fu meno razionale, con elementi mistico-religiosi e suggestivi.
Le forme suggestive ed evocatorie, ma di taglio poetico, si possono trovare anche nella saggistica di Pascoli,
che nel “Fanciullino” inserisce un tono discorsivo.
Luigi Einaudi si colloca tra i migliori prosatori di questo secolo, così come Contini.

POLITICA LINGUSITICA NELL’ITALIA FASCISTA


AUTARCHIA E XENOFOBIA
Il Fascismo ebbe una chiara politica linguistica, che si manifestò in modo autoritario; gli aspetti più rilevanti
furono:
1. la battaglia contro i forestierismi in nome dell’autarchia culturale
2. la repressione delle minoranze etniche
L’imposizione dell’italiano in Valle d’Aosta ebbe come effetto una pericolosa reazione separatista e
atteggiamenti di ribellione.
Per quanto riguarda la lotta contro i forestierismi, tra il 1924 e il 1926 si ebbero delle prese di posizione di
singoli individui come Tittoni, membro del Partito fascista, autore di una “Difesa della lingua”.
Nel 1930 si ordinò la soppressione nei film di scene parlate in lingua straniera.
Nel 1940 l’Accademia d’Italia fu incaricata di esercitare una sorveglianza sulle parole forestiere e di indicare
delle alternative, anche perché le parole straniere furono vietate nelle attività professionali.
L’interesse per la lingua assunse anche una valenza positiva: venne fondata la rivista “Lingua nuova”.
La concezione avversa ai forestierismi fu definita neopurismo, da non identificare con la politica xenofoba
del Fascismo che non rifiutava di mescolare la lingua e la razza,
furono però accettati diversi termini stranieri uscenti in consonante come sport, film, tennis, tram.
Ci fu anche una campagna per abolire l’allocutivo lei e sostituirlo con il tu, considerato più romano e con il
voi, ma non ebbe successo sia perché il lei era radicato nella lingua italiana e perché il voi era sentito da
molti dialettale e quindi da evitare.

LA LESSICOGRAFIA DEL FASCISMO E L’ASSE LINGUISTICO ROMA-FIRENZE


All’inizio del ‘900 la Crusca tentava di concludere una nuova versione del vocabolario, avviata nel 1863. Il
primo volume era stato dedicato a Vittorio Emanuele II, re d’Italia.
La mole dell’opera era notevole e la realizzazione si trascinò per molto tempo e poi la sua funzione non era
quella di un tempo.

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Le idee di Croce, il più autorevole pensatore del tempo, erano avverse alla lingua modello e al toscanismo in
generale.
Quando nel 1923 divenne ministro della Pubblica Istruzione Giovanni Gentile, filosofo fascista, fu tolto alla
Crusca il compito di preparare il vocabolario, ma il nuovo e moderno vocabolario del Fascismo, prodotto
dall’Accademia d’Italia non ebbe esito felice, arrivò solo al primo volume nel 1941. questo procedette
all’eliminazione di molte voci antiche e i vocaboli nuovi furono accettati per designare idee e cose nuove.
I forestierismi erano registrati nel nuovo vocabolario, anche nella forma di prestiti non adattato, come boxe,
bull-dog, camion, posti tra parentesi quadra, per segnalare la loro estraneità alla sostanza della lingua. Inoltre
sono citati gli scrittori, ma solo come documentazione di uso comune, senza riferimento preciso all’opera sa
cui è tratto l’esempio.
Nel 1939 Bertoni e Ugolini pubblicarono per l’EIAR, ente radiofonico di Stato, il “Prontuario di pronunzia e
di ortografia” in cui si affrontava la questione della pronuncia romana e quanto divergeva dalla fiorentina,
oltre a fornire la pronuncia esatta della radio.
Veniva rivendicato il ruolo di Roma nella questione della lingua.

IL DOPOGUERRA
IL NEO-ITALIANO TECNOLOGICO: PASOLINI E LA NUOVA QUESTIONE DELLA LINGUA
A Pasolini si deve l’ultimo importante intervento nella questione della lingua.
Nato come conferenza, questo intervento fu pubblicato su “Rinascita” del 16 dicembre 1964 con il titolo
“Nuove questioni linguistiche”: le sue tesi non avevano affatto un carattere normativo, anzi la sua era una
vera e propria analisi sociolinguistica della situazione presente.
Pasolini partì da premesse marxiste e gramsciane, sostenendo che era nato un nuovo italiano, i cui centri
stavano al nord del Paese, dove avevano sede le grandi fabbriche e dove si era diffusa e sviluppata la
moderna cultura industriale.
Egli annunciò che era nato l’italiano come lingua nazionale e che per la prima volta una borghesia egemone
era in grado di imporre i suoi modelli, superando una tradizionale estraneità tra ceti alti e bassi.
Delineò alcune caratteristica del nuovo italiano:
 semplificazione sintattica, con una caduta delle forme metaforiche, non usate da torinesi e milanesi,
veri padroni della nuova lingua
 drastica diminuzione dei latinismi
 prevalenza dell’influenza della tecnica rispetto a quella della letteratura

L’autore analizzò la tipologia stilistica degli scrittori italiani, collocandoli al di sotto o al di sopra di
un’ipotetica linea dell’italiano medio. Vi erano 3 linee:
1. italiano medio, anonimo, a-letterario, caratteristico di opere di banale intrattenimento e d’evasione
2. linea bassa, della prosa dialettale
3. linea alta, che a sua volta poteva essere divisa in vari gradi, che accoglievano tutti coloro che si erano
allontanati dal livello medio.
Sul gradino più alto stava il linguaggio iperletterario degli ermetici, che avevano usato una lingua speciale
adatta solo alla poesia.

Pasolini collocava se stesso su una linea a forma di serpentina che attraversava tutti i livelli, passando dal
piano alto a quello basso e su questa linea c’era anche Gadda, con il suo mistilinguismo, da cui Pasolini era
influenzato.
L’attenzione di tutti si concentrò sull’annuncio della nascita del nuovo italiano tecnologico e inoltre Pasolini
intervenne su temi linguistici, in un contesto diverso, per rivendicare la funzione rivoluzionaria dei dialetti e
per lamentare l’imbarbarimento del linguaggio dei giovani.

TENDENZE DEL LINGUAGGIO LETTERARIO


Pasolini sembrava privilegiare gli esperimenti di plurilinguismi, alla maniera di Gadda o alla maniera dei
propri romanzi ambientati nelle borgate di Roma, a cui attribuiva una funzione stilistica e una funzione
documentaria e rivendicando quindi due filoni: quello verista - verghiano e quello espressionistico gaddiano.
Contini aveva utilizzato il mistilinguismo come esemplare categoria critica, oltre che linguistica.

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Il Gruppo ’63, formato da personalità come D’Arrigo, Testori, Busi, preferì soluzioni di rottura, personali e
scarsamente comunicative.
Lo scrittore di oggi gode di una libertà grandissima e può arrivare alle soglie di una lingua semidistrutta,
detta ironicamente standard.
Per molti autori del ‘900 il dialetto è stato una fonte di arricchimento linguistico.
Non sempre l’invenzione linguistica e lo sperimentalismo rendono difficile il rapporto con il pubblico.
Il “Partigiano Johnny” di Fenoglio, rimasto incompiuto, era stato composto con una miscela d’italiano e
inglese e poi arrivò al meritato successo, nonostante le condanne ideologiche le incomprensioni iniziali.
Sulla strada del rinnovamento poetico si collocano autori di eccezionale statura come Ungaretti, Saba,
Montale che sperimentavano una serie di soluzioni stilistiche, dal linguaggio comune e quotidiano di Sava,
alla lingua impoetica di Pasolini e Sanguineti.
Montale, attraversato D’Annunzio e dopo aver selezionato ciò che la koinè primo novecentesca offriva,
arrivò in “Satura” del 1971 a una lingua spesso ironica, distaccata, prosastica, piena di citazioni di elementi
quotidiani e calcolata con eleganze. In realtà nella semplicità dell’ultimo Montale si nascondono
procedimenti linguistici complessi.

VERSO L’UNIFICAZIONE: LINGUA, DIALETTI, IMMIGRAZIONE


Pasolini prospettava una rivoluzione nella storia dell’italiano e lo annunciava usando il suo stile, da poeta
dilettante di linguistica e sociologia, più che da saggista scientifico.
Le lingue non cambiano improvvisamente e nel corso del ‘900 ci fu una perdita progressiva dei dialetti, a
vantaggio della lingua italiana.
Nel 1961 gli analfabeti si erano ridotti all’ 8,3% e nel 1971 all’ 5,2%.
Da altri dati, secondo una ricerca degli anni ’50, se ne deduce che l’italiano era in progresso, ma il dialetto
non era morto, visto che nel 1988, quasi il 66% degli italiani lo usava più o meno costantemente nella vita
familiare e il 23% ne faceva un uso totale.
L’uso del dialetto risultava maggiore presso i vecchi, piuttosto che presso i giovani, più nel Sud che nel
Nord, nelle campagne, nei ceti inferiori.
L’adozione di un diverso codice di comunicazione avviene, solitamente, quando il parlante è spinto da
motivazioni profonde e De Mauro vide nella crescita dei poli urbani industrializzati una diretta causa
dell’indebolimento dei dialetti.

UNA LINGUA PROLETARIA


Negli anni ’60 e ’70 anche la fabbrica svolse la funzione di scuola, promuovendo e integrando nella realtà
cittadina e industriale, masse di origine contadina, con uno speciale linguaggio della politica ispirato alla
cultura marxista.
Era compito del delegato imparare a parlare con i compagni, organizzare le assemblee e trattare con i capi.
In quegli anni maturava un rinnovamento nel linguaggio delle lotte politiche operaie, che si staccava dai
moduli della retorica alta ereditati dalla tradizione oratoria d’anteguerra e con discese verso il basso-
quotidiano.
Il linguaggio dei nuovi gruppi di sinistra cercava la trasgressività verbale, palesando una mancanza di
inibizioni; il linguaggio della protesta è stato ripreso da Nanni Balestrini nel romanzo “Vogliamo tutto” del
1971, che racconta la storia di un operaio salernitano sbarcato alla Fiat nel 1969.
I volantini del gruppo terroristico Brigate Rosse, arrivarono a una grande celebrità: questi furono uno
strumento di comunicazione molto importante e diffusissimo in quegli anni ed erano caratterizzati da una
serie di slogan,di formule fisse, cariche di emotività evocatrice.
In opposizione al linguaggio politico aggressivo e militaresco, si sviluppava attraverso una serie di espedienti
come l’eufemismo, l’evasività, l’abuso di tecnicismi giuridico - burocratici, un linguaggio politico della
tradizione moderata, oltre a farne parte i giochi di parole, l’ossimoro come cauto entusiasmi, attesa
precipitosa ecc…

FUNZIONE DEI MEDIA: RADIO E TELEVISIONE


La radio italiana nacque nel 1924 e la televisione cominciò a trasmettere nel gennaio 1954. La sua funzione
linguistica si è affiancata a quella dei media che già esistevano come i giornali, il cinema.
De Mauro mise in evidenza gli effetti di questo nuovo media: le trasmissioni televisive e radiofoniche erano
giunte anche nelle zone geografiche e nelle classi sociali a basso reddito e ciò fu importante ai fini della
diffusione della lingua.

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I media e la tv in primis sono diffusori di tecnicismi, neologismi e di luoghi comuni verbali della cronaca e
della politica, come mani pulite, malasanità ecc... e perfino diffusori di nuovi nomi di persona.

I GIORNALI
Il linguaggio giornalistico ebbe sempre un importante funzione e poteva costituire un argine contro la bassa
qualità di quello televisivo, trattandosi di un modello scritto contrapposto a uno parlato.
Il quotidiano è il tramite fondamentale tra l’uso colto e letterario dell’italiano e la lingua parlata e il giornale
può essere assunto come indicatore di lingua media, in cui trovare una pluralità di sottocodici ( politico,
burocratico, economico, scientifico) e di registri ( aulico, parlato, informale, brillante).
Il luogo di maggiore originalità del linguaggio si riscontra nei titoli: il titolo deve essere pensato per colpire il
lettore e in esso domina prevalentemente la farse nominale, con espedienti di messa in rilievo.

LA PUBBLICITA’
Il linguaggio pubblicitario è fondato sullo slogan e sulla trovata attraverso questo canale si diffondono
termini tecnici e forestierismi.
Lo slogan deve colpire il lettore e favorire un comportamento nel potenziale acquirente, deve suggestionare e
convincere , ad esempio attraverso l’uso marcato dei superlativi, sia con desinenza –issimo ( occasionissima,
superissimo) sia con i prefissi extra, iper, maxi, super.
Nell’analisi del linguaggio pubblicitario ci si trova i fronte a due atteggiamenti:
1. ammirazione per la capacità del linguaggio di sfruttare e accentuare le possibilità espressive
dell’italiano
2. fastidio per la creazione della parola-merce

Il linguaggio favorisce:
 la formazione dei composti o parole macedonia, come ammazzasete, granturismo
 l’uso dei sostantivi giustapposti, ad esempio determinato-determinante come esperienza Gillette,
profumo-donna
 Neologismi e giochi di parole
 Uso della retorica

ITALIANO STANDARD, ITALIANO DELL’USO MEDIO E CAMBIAMENTO LINGUISTICO


L’italiano dell’uso medio è il nome di una categoria, definita da Sabatini, sulla base di fenomeni
grammaticali. La differenza rispetto all’italiano standard ( Castellani lo ha chiamato italiano normale, cioè
secondo la norma), sta nel fatto che l’italiano dell’uso medio, comune e colloquiale, accoglie fenomeni del
parlato, presenti da tempo nello scritto, ma tenuti a freno dalla norma grammaticale che ha sempre tentato di
respingerli ed emarginarli.
Lo standard rappresenta un italiano ufficiale e astratto, mentre quello dell’uso medio rappresenta una realtà,
di cui tutto abbiamo esperienza, alcune caratteristiche sono:
 Lui, lei, loro usati come soggetti
 Gli generalizzato anche se con il valore di le e loro
 Diffusione delle forme ‘sto ‘sta
 A me mi
 Costrutti preposizionali con il partitivo, alla manier farncese ( con degli amici(
 Ci attualizzante con il verbo avere a altri verbi ( che c’hai?)
 Anacoluti nel parlato ( Giorgio, non gli ho detto nulla)
 Che polivalente, con valore temporale, finale e consecutivo
 Cosa interrogativo al posto di che cosa
 Imperfetto al psoto del congiuntivo e condizionale nel periodo ipotetico dell’irrealtà( se sapevo,
venivo)

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Queste caratteristiche interessano anche i parlanti istruiti.


Anche Renzi ha elencato le caratteristiche innovatrice dell’italiano contemporaneo:
 Costrutto “è che…non è che…”
 Diffusione dell’indicativo al psoto del congiuntivo nella frase subordinata ( mi dispiace ce Maria è
partita)
 Uso di lui anche per l’inanimato
 Uso avverbiale di tipi ( lui pensa tipo che…)
 Participo passato al superlativo ( sono stato delusissimo)
 Dai! Come espressione di meraviglia
 Il dimostrativo “questo” al posto dell’indefinito “uno”
 Possibili anglicismi sintattici, come giorno dopo giorno ( day after day).

SCUOLA E LINGUA SELVAGGIA


Tappa importante per l’omologazione di tutti gli italiani fu l’introduzione della scuola media unica, uguale
per tutti, nel 1962, con obbligo scolastico fino ai 14. Essa veniva istituita al posto del doppio canale di
formazione, ereditato dalla riforma scolastica di Gentile, che aveva proposto scuola media e avviamento
professionale in alternativa.
La scuola era diventato l’obiettivo privilegiato degli interventi.
La diffusione delle nuove idee linguistiche fu caratterizzata da una forte presenza ideologica della Sinistra.
Anche la cultura cattolica intervenne nel dibattito: Don Milani mise a nudo le condizioni di miseria
linguistica in cui si trovavano i ragazzi delle classi povere. Egli proponeva una serie di interventi per adattare
la scuola e l’insegnamento alle presunte necessità degli allievi; erano tecniche in gran parte provocatorie.
Don Milani arrivò a mettere in discussione l’esistenza e la legittimità di qualunque norma linguistica o di
qualunque forma alta di comunicazione.
Gli specialisti mossero critiche contro le tecniche tradizionali di insegnamento della grammatica, contro
l’uso del tema come una forma di esercizio di scrittura; ciò provocò una revisione dei metodi e degli obiettivi
dell’insegnamento, rinnovandolo in parte.
Oggi si riscontrano carenza linguistiche di base non solo negli studenti della scuola dell’obbligo, ma anche in
allievi assai avanzati, che giungono all’università senza rispettare le norme più elementari della grammatica e
della sintassi: italiano selvaggio. Vi sono non solo errori banali, ma frasi preconfezionate, interferenze con il
dialetto.

Capitolo 14: Quadro linguistico dell’Italia attuale

COMPOSIZIONE DEL LESSICO ITALIANO


La stragrande maggioranza delle parole italiane è di origine latina: alcune di queste parole sono entrate nel
latino dal greco e dal punto di vista etimologico sono definibili come grecismi ( tragedia, metro). Quindi vi è
anche una forte componente greca.
Tra le lingua moderne il francese ha maggior spazio.

SCRITTURA E PRONUNCIA DELL’ITALIANO


IL SISTEMA GRAFICO DELL’ITALIANO
Il sistema grafico dell’italiano non è univoco: usiamo gli stessi segni “E” ed “O” per indicare le e/o aperte e
chiuse senza distinzione. A volte l’imprecisione della grafia si lega ad effettive oscillazioni nell’uso reale
della lingua.

I FONEMI DELL’ITALIANO
In riferimento alle vocali, l’italiano ha un sistema di 7 elementi, resi da soli 5 segni grafici, ma questo
sistema non è nella coscienza linguistica di tutti i parlanti nazionali.
Le coppie e/ aperta o chiusa è poco utilizzata, a parte nei romani e nei toscani, con divergenze tra gli uni e gli
altri.
Anche nel caso di fonemi consonantici, la realizzazione non è identica in tutto il territorio nazionale.

IL RADDOPPIAMENTO FONOSINTATTICO
La moderna grafia registra il fenomeno quando si è prodotta una parola unica: fra + tanto ha dato origine a
frattanto, con raddoppiamento della t.

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Nell’italiano standard il raddoppiamento è prodotto:


 Da tutte le parole polisillabiche con accento sull’ultima vocale ( perché mai si pronuncia
perchemmai)
 Da tutti i monosillabi con accento grafico ( più su si pronuncia piùssù)
 Da monosillabi forti: a, da, su, tra, fra, ho, ha, do, fa, fu, va, sto, sta, che, qui, qua, se (congiunzione),
ma, e, o, tu, te, me
Il raddoppiamento non è praticato nelle parlate regionali dell’Italia settentrionale.

DOVE SI PARLA ITALIANO


L’italiano è parlato in tutto il territorio della Repubblica italiana, di cui è la lingua ufficiale, anche se la
Costituzione non gli assegna esplicitamente questa funzione.
L’affermazione che l’italiano è la lingua ufficiale di ritrova nel primo articolo della legge sulla protezione
delle minoranze linguistiche del 1999.
L’italiano poi è parlato nello stato del Vaticano, nella Repubblica di San Marino, in alcuni Cantoni della
Svizzera, nel principato di Monaco, in Istria, in Dalmazia.
Vanno considerate le comunità di emigrati italiani.
È parlato da circa 58 milioni di persone in Italia.

ALLOGLOTTI NELL’AREA ITALIANA


TIPOLOGIE DI CLASSIFICAZIONE DI ALLOGLOTTI
Entro i confini della Repubblica italiana sono presenti alcuni gruppi alloglotti, di origine romanze e non
romanza; si parla generalmente di minoranze linguistiche.
Si parla di alloglotti quando aree linguistiche più grandi, situate al di fuori del nostro territorio nazionale, si
estendono anche all’interno dei nostri confini.
Si usa il concetto di isole linguistiche per indicare una comunità di alloglotti molto piccole e isolate ( greche,
albanesi…)
Oggi la legge numero 482 del 1999 tutela le minoranze albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene,
croate, francesi, franco-provenzali, friulane, ladine, occitane e sarde.

PROVENZALI E FRANCO-PROVENZALI
Parlano lingue del gruppo romanzo; in molte valli alpine del Piemonte occidentale si parla provenzale, così
come in alta Valle di Susa.
La Valle d’Aosta è un’area franco-provenzale e il francese è per tradizione la lingua di cultura.

LADINI
Nelle valli alpine delle Dolomiti ci sono le parlate appartenenti al ladino, introdotto in alcune scuole dal
1948, come prevede lo statuto di autonomia del Trentino Alto Adige.
Nella maggior parte del Friuli e della Carnia ci sono le parlate ladino-orientali.
Parlate ladine ci sono anche in territorio svizzero e il ladino in base alla Costituzione svizzera è lingua
nazionale, con il tedesco, francese e italiano.

SARDI
Anche il sardo può essere considerato una lingua per le sue particolari caratteristiche all’interno del gruppo
romanzo, anche se non si è mai giunti alla creazione di una koinè sarda.
Il sardo si distingue in 4 varietà: gallurese, sassarese, logudorese ( e nuorese) e il campi danese, che ha il suo
centro nella zona di Cagliari.

ISOLE LINGUISTICHE: ALGHERO E GUARDIA PIEMONTESE


Si parla di isole linguistiche quando ci si trova in presenza di comunità caratterizzate da una loro diversità,
ma molto ridotte, isolate e geograficamente circoscritte a un territorio molto piccolo.
Ad Alghero la popolazione è catalana in seguito alla conquista militare della città da parte di Pietro IV
d’Aragona.
A Guardia Piemontese, a Cosenza, invece ci sono i resti di una vecchia colonia valdese di lingua provenzale.

MINORANZE E ISOLE TEDESCHE


Accanto ai gruppi alloglotti romanzi, vi sono quelli non romanzi, come le diramazioni tedesche che hanno
importanza, perché la loro presenza ha dato luogo a problemi di natura politica e amministrativa; la più

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numerosa comunità di tedeschi occupa l’alta Valle dell’Adige. Questa minoranza etnica ha uno statuto
speciale, che interessa la provincia di Bolzano. Il tedesco ha lo status di lingua ufficiale accanto all’italiano e
viene insegnato a scuola come prima lingua, che imparano l’italiano come seconda.
Il dialetto si usa nella comunicazione familiare, la lingua tedesche risponde a situazioni formali elevate,
come l’insegnamento, la burocrazia, la cultura, la religione e la letteratura.

ISOLE GRECHE
Vi sono colonie greche presenti nel territorio italiano: una è in Calabria e l’altra nel Salento.
Si è discusso sull’origine di queste colonie e due tesi si sono contrapposte:
1. una vede nelle isole greche d’Italia l’eredità dell’Antica Magna Grecia. Il residuo delle antiche
colonie anteriori alla dominazione romana
2. l’altra vede in esse una conseguenza dell’occupazione bizantina nell’Italia meridionale

MINORANZE RECENTI E DI ALTRA ORIGINE


Negli ultimi 20 anni il fenomeno dell’immigrazione del Terzo Mondo povero, in particolare dall’Africa e
dall’Asia e dai Paesi Slavi è aumentato notevolmente.
Questi nuovi gruppi etnolingusitici stanno soppiantando le vecchie minoranze storiche per importanza e peso
sociale e a costoro bisogna aggiungere i clandestini.
La nuova immigrazione ha creato un sottoproletariato urbano con scarse possibilità di integrazione e con una
tendenza a creare gruppi etnici isolatri e conflittuali, portatori di tradizioni che si scontrano con quelle locali
e con le leggi italiane.

AREE DIALETTALI E CLASSIFICAZIONE DEI DIALETTI


LE LINEE LA SPEZIA- RIMINI E ROMA-ANCONA
Si possono distinguere in Italia tre aree diverse:
1. Settentrionale
2. Centrale
3. Meridionale
Queste sono separate da due grandi linee di confine: la linea La Spezia - Rimini divide i dialetti settentrionali
da quelli centro-meridionali e la linea Roma - Ancona divide i dialetti meridionali da quelli centrali.
La linea La Spezia - Rimini è definita da Rohlfs con il termine di frontiera linguistica per la sua importanza e
per le premesse storiche che spiegano l’esistenza del confine. Il confine linguistico è identificato dai
linguisti, prendendo in considerazione diversi fenomeni. Nelle parlate dialettali a nord di questa linea si ha:
 Indebolimento( sonorizzazione o caduta) delle occlusive sorde in posizione intervocalica ( fradel
invece di fratelli, formiga invece di formica)
 Scempiamento delle consonanti geminate ( spala per spalla, gata per gatta, bela per bella)
 Caduta delle vocali finali ( an per anno), eccetto la a che resiste
 Contrazione delle sillabe atone ( slar per sellaio, tlar per telaio)

Sono caratteristiche proprie dei dialetti gallo-italici.


I confini dei fenomeni elencati non coincidono fra loro; se si tracciano sulla carta geografica le varie
isoglosse ( le linee di confine dei singoli fenomeni linguistici) si nota che esse hanno lo stesso percorso tra
Emilia e Toscana, ma nella zona collinare alle spalle di Rimini divergono. Il confine linguistico tra Nord e
Centro è individuabile in maniera meno netta.

Per quanto riguarda la linea Roma - Ancona, al di sotto di essa si ha:


 Sonorizzazione delle consonanti sorde in posizione postnasale ( mondone per montone, angora per
ancora)
 Metafonesi delle vocali toniche e ed o per influsso di –i e –u finali ( acitu per aceto, dienti per denti)
 Uso di tenere per avere
 Uso del possessivo in posizione proclitica ( figliomo per mio figlio)
Un po’ più a nord della linea Roma – Ancona corre il confine dell’assimilazione di –nd > nn e mb> mm.

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CLASSIFICAZIONE STORICHE DEI DIALETTI


Forte è la variabilità dei dialetti,che mutano da luogo a luogo, anche all’interno di una stessa regione o città.
La prima descrizione sistematica e scientifica dell’Italia dialettale fu data da Ascoli nell’VIII volume dell’
“Archivio glottologico italiano”, rivista da lui fondata.

GLI ITALIANI REGIONALI


L’italiano non è parlato in modo uniforme in Italia: vi sono marcate differenze che interessano il livello
fonetico e poi anche quello lessicale e sintattico e più raramente quello morfologico.
Le varietà d’italiano dipendono dalla distribuzione geografica, dall’influenza esercitata dai dialetti locali e
prendono il nome tecnico di varietà diatopiche dell’italiano o italiani regionali.
La caratterizzazione più evidente dei vari italiani regionali si ha a livello di pronuncia.
De Mauro distingue il diverso prestigio delle 4 principali varietà di pronuncia:
 Minimo è il prestigio della varietà meridionale
 Maggiore sarebbe il prestigio della varietà settentrionale
 Uno spazio particolare meritano la varietà toscana e romana. Quest’ultima ha una funzione speciale
perché Roma oltre che una metropoli è la capitale della politica e dello spettacolo.

L’italiano è una lingua che per tradizione è ricca di termini ufficiali, elevati, letterari, ma quando si passa a
un contesto familiare e domestico le differenze regionali si fanno marcate.
Cortelazzo cita come esempio la forma interrogativa nuorese, che comporta l’inversione del posto del verbo
rispetto al complemento o l’inversione della posizione dell’ausiliare (olio comprate?).

ITALIANO, FIORENTINO E TOSCANO


Il toscano è la parlata regionale che più si avvicina alla lingua letteraria, poiché la lingua letteraria deriva dal
toscano trecentesco.
Il toscano ha avuto una posizione privilegiata: Firenze è stata considerata la città in cui si poteva imparare a
conversare nella lingua migliore. Fra le altre parlate toscane, ha goduto di un certo prestigio culturale quella
senese.
Cosa il fiorentino ha in comune con l’italiano e in cosa si distingue da esso.
Cose in comune:
 Anafonesi
 Dittongazione di Ĕ ed Ŏ del latino
 Il passaggio di e atona protonica ad i
 Passaggio di –ar atono a –er nel futuro della prima coniugazione (amarò > amerò)
 Passaggio di –rj intervocalico a –j ( gennaio contro gennaro)
 Italiano non conosce metafonesi, presente nel settentrione e meridione

Differenze:
 Gorgia, spirantizzazione delle occlusive sorde intervocaliche, per cui amico è pronunciato amiho
 Tendenza alla monottoganzione di –uò-: buono e nuovo in Toscana bòno e nòvo

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