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La filologia è la disciplina che assomma linguistica e letteratura, che studia i fenomeni linguistici riscontrabili

nelle produzioni scritte e studia scientificamente i fenomeni letterari e tutti i problemi connessi alla loro
edizione.

L’ edizione critica è sempre, come afferma Contini, un’ ipotesi di lavoro, la migliore consentita dallo stato
degli studi e dalla capacità dell’ autore.

L’ ectodica è l’arte della critica del testo, l’ aspetto più tecnico della filologia, nel momento in cui essa
diventa igiene mentale contro la degenerazione di informazioni. E’ un insieme di procedura razionali che
permette di definire un’ ipotesi probabile di come si presentava il testo uscito dalle mani dell’ autore. Fra la
volontà dell’ autore e la pagina che si legge c’è una realtà intermedia in cui il testo è stato trasmesso
copiandolo, manomettendolo, restaurando in maniera quasi mai trasparente: noi non vediamo il testo
com’è stato pensato dall’ autore, ma com’è stato tramandato e allestito dall’ editore. E ciò porta a non
poche conseguenze: per esempio il canto del Purgatorio che si fa manifesto stesso del Dolce stilnovo, così
non sarebbe se invece dell’ edizione del Petroccchi adottassimo quella di Sanguinetti, che divide le parole
con un punto esclamativo, eliminando così il nome dello stile coniato da Dante.

Nel Medioevo, quindi prima della stampa, un’ opera poteva infatti essere trasmessa solo in due modi: o
scrivendola a mano o in forma orale attraverso la memoria (quest’ ultima riguarda solo i testi in lingua
“moderna” romanza, e non testi latini o atti notarili, tutti scritti). Quindi noi conosciamo i testi del Medioevo
in forma scritta, ma non possiamo sapere se questa sia stata la loro forma originale: può infatti essere l’
autografo (il manoscritto prodotto dall’ autore) o l’ idiografo (sotto la sua sorveglianza), ma in entrambi i
casi, riguardo i testi letterari medievali, rarissimo (l’ esempio più illustre è il Canzoniere di Petrarca) ! Ciò
che capita più spesso è che del testo rimangano più copie manoscritte, copie di altre copie che proporranno
lezioni (ciò che si legge in un manoscritto) diverse tra loro: nel passaggio dalla lettura alla scrittura della
copia, il segmento che si sta per scrivere è depositato nella memoria per un breve momento, durante il
quale è esposto a pericoli! Anche il copista più esperto può infatti commettere errori non ricordando ciò che
ha appena letto, cercando di correggere un errore, non accorgendosi del richiamo di un precedente copista,
saltando una stanza, che si sommano da una copia all’ altra; può capitare anche che ci siano errori “tecnici”:
macchie, perdite di pagine. I lcopista ha inoltre l’ horror vacui e riempie tutti gli spazzi bianchi, anche
erroneamente! Il manoscritto è la tradizione che non è MAI il testo, ma fornisce informazioni più o meno
attendibile su di esso.

Le chanson de geste furono indubbiamente trasmesse oralmente: la stragrande maggioranza di esse,


presenta infatti anosillabismo (oscillazione nella misura dei versi) e varie anomalie metriche. Questo non
per la memoria (quella richiesta non dovrà essere stata maggiore a quella di un odierno attore di teatro, e
comunque c’erano molto accorgimenti formali che aiutavano la memorizzazione, come la tecnica delle
coblas capfinidas, cioè strofe che iniziano riprendendo una parola dalla fine della precedente), ma perché il
cantore dovendo dettare lentamente, non più sorretto dalla musica, dal canto e dal ritmo dell’ esecuzione,
non riesce a mantenere la giusta misura dei versi né a ricordare esattamente le parole. In alcuni casi però
(ma, per esempio, nella Chanson de Guillame manca), era operata una revisione per regolarizzare lingua e
metrica, una sorta di”bella copia”!

Aspetto importante da considerare nella tradizione medievale è la variabilità linguistica del volgare: il latino
è autorevole, ha una grammatica che si insegna a scuola.. al contrario del volgare, che non ha leggi essendo
la lingua del parlato. La fedeltà al testo che si copia, per i copisti di testi romanzi, non è la stessa di chi copia
i testi latini: oggi non si confiderebbe fedele chi, copiando un testo dov’è scritto “faccio”, scrivesse la forma
toscana “fo”.. Per un copista di testi romanzi, ciò è invece perfettamente normale! Quando un copista adatta
il manoscritto alla propria varietà linguistica, si parla di patina linguistica.

Ma al di là della forma, i copisti di testi romanzi si sentono quasi mai vincolati a rispettare anche la sostanza
del testo, introducendo spesso variazioni sinonimiche che possono portare anche a far dire al testo cose
diverse. Un palese esempio di ciò è il Tresor di Brunetto Latini: “Ma a dire il vero, la Scrittura non testimonia
la sua morte, né per coltello né in altro modo, sebbene sia noto il suo sepolcro”. Il non è infatti integrato con
un intervento editoriale da un copista che rifacendosi a un manoscritto di Isidoro di Siviglia, fonte usata da
Brunetto, ha letto l’ incoerenza e ha ritenuto opportuno correggere e riparare con questa postilla, che è un’
innovazione.

Ma secondo l’ ectodica, ogni innovazione, in quanto modifica il testo tràdito, costituisce errore! Tuttavia, l’
idea non è condivisibile: è da considerare errore qualcosa che fa mal funzionare il testo. Infatti, se gli errori
si possono identificare esaminando il testo, le innovazioni si rivelano tali solo confrontando più manoscritti,
altrimenti non me ne accorgerei!

Gli errori possono essere di varie tipologie. Uno di essi è la lacuna, presente nella canzone di Peire d’
Alvernhe “Al momento della separazione dal paese”, in cui nella 2° coblas che parla di un amore non
ricambiato, ai vv. 12-13 mancano 3 sillabe e la rima; altro esempio di lacuna è la versificazione castigliana
(presente anche nel Poema del Cid), tendenzialmente ansosillabica, ovvero con una struttura ritmica
regolare, ma con un numero di sillabe maggiori o minori, rispetto a quelle tradizionali, che determinano una
lunghezza variabile del verso. L’ errore può consistere anche in una trascrizione erronea che può togliere
senso al testo: nel Tresor, per esempio, a proposito della geometria, si dice che le proporzioni “il meglio
fanno”, ma in realtà, per un salto di sillaba, “merveiller” è diventato “meiller”, quindi la lezione plausibile è
“sono degne di meraviglia”. Molto più difficile è invece, individuare gli errori di sintassi, come quello della
canzone “Quando eu stava in le tu cathene” (la più antica poesia italiana), in cui “nullomu”, non è
accettabile! Stussi, che pubblica la pergamena, interpreta “null’ om non” (con u errore per n), ovvero “non
consiglio a nessun uomo”; Giunta ha però osservato che la doppia negazione e la prima persona rende tutto
inverosimile e propone quindi “null’ om cun cunsillo”. L’ errore si deve alla presenza del doppio “cun” e alla
conseguente caduta di uno dei due. Quindi ora, il verso era un novenario, ma dato che erano tutti
decasillabi, il copista ha pensato di dover riparare ad un errore di aplografia (eliminazione di una sillaba).
Quando si individua un errore, però, si deve indicarne anche la genesi, l’ eziologia. Le cause più tipiche
sono: l’ ambiguità di certe lettere ( C e T, MI e IM, NU e UN); la facilità con cui due stringhe identiche di
caratteri possono ridursi ad una; la facilità con cui si può saltare da una parola all’ altra simile o uguale che si
trova più avanti nel testo lasciando cadere ciò che si trova in mezzo; l’ interferenza della memoria. Un caso
particolare è l’ errore d’ anticipo, che si ha quando il copista, avendo letto un testo prima di copiarlo,
sostituisce un elemento con uno che si trova dopo, per errore di memoria. Esistono anche l’ errore d’
autore, per esempio presente nella traduzione del Tresor firmata da Raimondo Da Bergamo che comincia
con “Questo libro apelato tesoro”; è chiaro che manca la “è”, ma la traduzione dipende da un testo francese
in cui già essa mancava, e quindi l’ errore dev’ essere rispettato e commentato in nota. Al contrario degli
errori del testo, ovvero quelli di cui si può presumere che l’ autore li avrebbe corretti se se ne fosse accorto.
Tali sono per esempio, quelli della copia autografata del Decameron di Boccaccio nella biblioteca di Berlino,
con disegnini e note, studiato da Branca: in esso sono infatti presenti omissioni di una lettera o di una
sillaba,duplicazioni di sillabe, inserzioni casuali di una lettera abusiva; tutti errori da copista insomma, che
Branca corregge, sicuro che anche Boccaccio lo avrebbe fatto. Egli compie anche errori polari (per es. nell’
ambrogiolo), in cui si scrive l’ opposto di quello che si vorrebbe dire (es. “le anime dei giusti van all’
inferno”); errori che Branca non corregge in quanto se si correggesse un errore dell’ autore si rischierebbe
di far diventare il manoscritto un falso d’ autore! Errore d’ autore è anche quello della Nuova Cronica di
Giovanni Villani, mercante, scrittore e giornalista italiano del 1300, segnalato da Castellani: nell’ opera si
racconta di Pera Balducci, ma il mercante citato due volte (la prima con nome e cognome, la seconda solo
col nome) si chiamava in realtà Pela Gualducci! E Villani conosceva il personaggio, ma dev’ essersi confuso;
infatti lo corresse lui stesso nella vecchiaia, che gli impedì però di accorgersi di entrambi gli errori. Infatti all’
inizio è rimasto Pera e alla fine è diventato Pela!

Le varianti sono tutte le lezioni dei manoscritti che differiscono una dall’ altra e che non sono errori perché
di nessuna si può escludere che risalga all’ autore e, proprio per questo di dice adiàfora, cioè indifferente.
Mentre poi l’ errore può essere individuato anche in un manoscritto unico, la variante presuppone una
tradizione di almeno 2 manoscritti. Anche se le varianti sono adiafore però, è chiaro che una ha maggiori
veridicità delle altre, per esempio perché una è più difficile e l’ altra una banalizzazione.

Possediamo a volte, anche delle brutte copie, degli appunti o più edizioni di autori che hanno modificato il
testo, dando luogo a varianti d’ autore. Esemplare è a tal proposito la Vita Nuova di Dante, con cui è
possibile confrontare una prima versione precedente la composizione del libro e che ha avuto circolazione
propria (extravagante): il sonetto “Era venuta ne la mente mia”, ha due cominciamenti, cioè due versioni
della prima quartina. si parla di tradizione organica per il testo che studiamo oggi, il prosimetro; la
tradizione inorganica indica invece il testo extravagante, spicciolato, che precede l’ inserimento nel
prosimetro. Varianti d’ autore sono anche le tornadas, le strofe conclusive che dedicano la canzone a
qualcuno in particolare.

LA TRADIZIONE

La tradizione testuale (dal latino tradere:consegnare, trasmettere) è l’ insieme di tutti i manoscritti o


stampe (a partire dall’ invenzione della stampa da parte di Gutenberg nel 1455, assume particolare rilievo la
vulgata, cioè il testo diffuso e accettato a partire proprio dalla stampa) in cui possiamo leggere un testo, l’
insieme di tutti i testimoni che trasmettono l’ opera. Si dice testimone un manoscritto che ci riporta un’
opera letteraria per via diretta (si indica con le lettere maiuscole dell’ alfabeto latino). Un manoscritto di cui
si possieda l’ esemplare da cui è stato copiato, si dice un codex descriptus: il descriptus è importante
quanto un qualsiasi altro manoscritto soprattutto per le parti per le quali l’ esemplare conservato non è
utilizzabile; per queste parti, il descriptus non è più tale, ma diventa fonte primaria. Ma se dei documenti
ufficiali (atti notarili, inventari, registri, libri contabili) si possiede spesso l’ esemplare prodotto dall’ autore,
non è purtroppo così per i testi romanzi: a parte l’ Indovinello Veronese infatti, il più antico testo romanzi,
ovvero I giuramenti di Strasburgo (842) non è conservato in originale. I testi, sono per lo più conservati in
copie occasionali, in codici di altra destinazione, l’ esempio più lampante è il caso della Santa Eulalia, il più
antico testo letterario francese: alla fine di un codice contenente una traduzione latina dei Sermoni
teologici, si trova infatti, una trascrizione latina della sequenza dedicata a Santa Eulalia e sul retro quella
volgare.

La tradizione dei testi medievali è molto povera: per i castigliani, “Cantar de mio Cid” ci è pervenuto un solo
manoscritto, “I milagros de nuestra senora” in sei frammenti; per i galego-portoghesi un solo canzoniere;
per gli italiani, dai Siciliani (1200) al dolce stilnovo, 3 soli canzonieri (Vaticano Latino 3793, Laurenziano Redi
9, Palatino).

La distanza di un testimone dall’ origine della tradizione si può intendere sia in senso cronologico che come
numero di copie che intercorrono. La distanza cronologica si misura approssimativamente datando i
manoscritti tramite l’ esame della scrittura e di altre caratteristiche materiali. Riguardo Al Numero di copie,
si distingue fra codici antiquiores e recentiones: la critica del testo tende sempre a svalutare i recentiores,
ma Pasquali sottolinea come non necessariamente i codici recenti sono i peggiori (“recentiores non
deteriores”). In filologia romanza, la formula di Pasquali ha rilevanza nel senso di numero di copie, minore
attendibilità in senso cronologico.

Elemento abbastanza influente possono essere gli aspetti materiali: per esempio, le lettere iniziali di un
testo decorate o miniate (dipinte), sono eseguite solo in un secondo momento da uno specialista diverso dal
copista, il quale scrive solo una letterina come istruzione e da questo procedimento spesso nascono errori.
Esempio palese di ciò è una canzone di Bertrand de Born inizia in alcune edizioni con “Corz e guerras”
mentre in altre con “Torz e guerras” La diversa iniziale che in alcune versioni dà feste e in altre ingiustizie, è
causata dalla mal lettura del rubricatore (dal latino rubricare=colorare di rosso).

Se i manoscritti di un testo costituiscono la tradizione diretta, i rifacimenti, i riassunti o le traduzioni,


costituiscono la tradizione indiretta. Il Breviari d’Amore di Ermengau, ad esempio, per illustrare il tema dell’
amore fra uomini e donne, cita 20 testi trobadorici altrimenti non documentati: un caso particolare di
tradizione diretta e indiretta contemporaneamente!

Quando si hanno più manoscritti, ci si deve domandare se derivino tutti dall’ originale, se sono copie di una
copia, o di testi diversi singolarmente o a gruppi. Per esempio, la Chanson de Roland, la più famosa delle
chanson de geste antico-francesi, ha O (anglonormanno in strofe assonanzate), V4 (francoveneto in strofe
assonanzate), V7 e C (francoveneto in strofe rimate), P (franciano in strofe rimate) T ed L (oil il lasse rimate).

La tradizione conservata comprende manoscritti, stampe e testimonianze indirette che si possiedono; essa
è un sottoinsieme della tradizione reale, cioè l’ insieme di tutte le copie di un testo eseguite nella storia,
anche quelle perdute. Se la tradizione reale fosse a noi interamente nota, tutti i manoscritti tranne uno (l’
originale o l’ archetipo) sarebbero descripti!

Spesso, nella tradizione, avviene la contaminazione, ovvero il fatto che un manoscritto non derivi
esclusivamente dal suo esemplare (con eventuali errori e innovazioni introdotte dal copista), ma derivi
anche da altri manoscritti. Si indica con linee tratteggiate. La connotazione negativa del termine è dovuta al
fatto che la contaminazione rende difficile determinare i rapporti fra i manoscritti e formulare così ipotesi
sulle fasi precedenti al testo esaminato. Avveniva infatti che un copista avesse due o più esemplari davanti a
sé, ricorrendo a uno o a un altro, a proprio giudizio o nel momento in cui sia impossibilitato a continuare la
copia dello stesso esemplare; poteva anche accadere che in un centro di copia (scriptorium), per ottimizzare
la produzione e far lavorare più copisti contemporaneamente, venissero sfascicolati i testi rilegati e i copisti
potevano copiare da testi ogni volta appartenenti ad antecedenti diversi; ultimo caso, i fascicoli appena
copiati potevano essere rilegati senza badare a tenere insieme quelli copiati dallo stesso copista: la
tradizione risulta così intrecciata!

La revisione della copia era usuale: lo dimostrano aggiunte marginali o correzioni, molto frequenti che
“puliscono” il testo da eventuale contaminazione. Un manoscritto sul quale sono state annotate lezioni
alternative di altri manoscritti si dice una editio variorum o un collettore di varianti. Esempio di ciò è una
famiglia di codici del Tresor discendente da un esemplare nel quale mancano due sezioni del bestiario. In
compenso, questi codici presentano una versione aggiornata della parte storica: B ha la parte storica nuova,
ma le lacune nel bestiario; M3 e N, hanno il bestiario completo, ma avevano la parte storica vecchia, che
però è stata messa a norma e aggiornata. E’ chiaro che si deve pensare che un manoscritto può essere
corretto e ampliato grazie a un antecedente che aveva la parte mancante o errata piuttosto che pensare
inverosimilmente che quello con la sezione ampliata venga tagliato per confronto con quello che non l’
aveva. Anche quando in più manoscritti di unb testo in prosa si oppongo una lezione breve ed una lunga, è
preferibile pensare che quest’ ultima sia stata integrata per contaminazione, e non l’ inverso! Ancora il
Tresor (la versione tradotta da Raimondo da Bergamo) ci dà testimonianza su come avvenga materialmente
il passaggio: alcuni manoscritti contengono un capitolo in più sull’ invenzione della moneta e in Bergamo, il
finale del capitolo precedente al testo, che lo introduceva accennando alla moneta è stato espunto,
aggiungendo sulla rasura l’ aggiunta e trascrivendo sul margine il capitolo che è entrato quindi per
collazione.

L’ ANALISI DELLA TRADIZIONE

Necessariamente importante è in censimento dei manoscrit, cioè la conoscenza di tutte le fonti, di cui
sono importanti caratteristiche paleografiche (tipo della scrittura) e codicologiche (fattura del libro
manoscritto), da cui si può ricavare la datazione.

I grandi canzonieri della lirica italiana sono oggi digitalizzati e parallelamente le biblioteche hanno via via
ristretto se non vietato l’ accesso diretto ai manoscritti. Tuttavia, certi particolari determinanti, richiedono l’
esame del manoscritto: qualche rasura, una differenza nel colore dell’ inchiostro che indica una correzione,
le parti rese illeggibili dall’ umidità ma visibili grazie alla luce ultravioletta.

In presenza di una tradizione di più manoscritti, le lezioni di questi devono essere confrontate fra loro:
questa operazione si dice collazione o collatio codicum (confronto fra i codici). Tradizionalmente si parte da
un’ edizione a stampa e si annotano le lezioni alternative sul margine. Il manoscritto di base dovrà essere
preferibilmente antico, completo e non con molte correzioni da fare. A questo punto, la quantità incide sul
metodo: in caso di testi brevi tramandati da un ragionevole numero di manoscritti, l’ uso di qualunque
programma permetterà di leggerli affiancati a due a due; nel confronto, contano solo le divergenze
sostanziose: inutile collazionare varianti grafiche come ll o lh, o varianti fonetiche rappresentate dalla grafia
come canso e chanso, sono lezioni alternative superflue. In caso di testi lunghi con tradizione abbondante,
invece, si procede per loci critici, cioè per luoghi o passi del testo significativi, i punti in cui si trovano errori
notevoli e sintomatici o varianti degne di attenzioni.

Successivamente si procede all’ esame della tradizione, la recensio, che ha lo scopo di accertare in che
modo il testo è stato tramandato: nel caso in cui si possieda un solo manoscritto, ci si domanderà se sia l’
autografo o una copia vicina all’ originale; nel caso i manoscritti siano 2, ci si chiederà se uno sia la copia
dell’ altro (un descriptus); se i manoscritti conservati sono invece 3 o più, e se nessuno deriva dagli altri, si
devono stabilire i rapporti di dipendenza. Il risultato della recensio è uno stemma o albero genealogico, cioè
una rappresentazione dei rapporti di dipendenza fra i manoscritti, espressi in termine di filiazione. Più
manoscritti che dipendono dallo stesso antecedente si dicono infatti famiglia. La teoria stemmatica di Maas,
va per ragioni storiche sotto il nome di “metodo di Lachmann”, strumento indispensabile ai fini della
pubblicazione di un’ edizione critica del testo. Tale metodo è razionalista, scientista, meccanico; si basa su
principi logico-formali e vuole passare da un dato conosciuto (il manoscritto) a uno sconosciuto (l originale).
Con l’ espressione recensere sine intepretatione si intende infatti che, tramite lo stemma codicum, si riesce
a raggiungere la purezza originaria del testo senza l’ ausilio dello iudicium, ma solo applicando principi
meccanici. L’ epoca di riferimento è quella prepositivi sta in cui c’è l’ idea che l’ applicazione dei principi
delle scienze esatte (chimica, fisica, biologia) possa portare a risultato anche in campi in cuinon eran mai
state utilizzate. Di solito da un originale O deriva una prima copia perduta x da cui deriva tutta la tradizione
(l’ archetipo); da x derivano copie conservate (lettera maiuscola) o copie perdute (subarchetipi ricostruiti,
lettera minuscola) e così via. Lo stemma esprime rapporti di dipendenza, ma non dice nulla sulle eventuali
copie intermedie (codices interpositi, manoscritti andati perduti di cui noi ipotizziamo l’ esistenza e che si
colloca tra i manoscritti posseduti e l’ originale, indicati con le lettere dell’ alfabeto greco) e non sappiamo
cosi se siano copie dirette. Secondo la teoria Maas, la cui caratteristica è procedere dal basso, lo schema
consente di ricostruire il testo dei manoscritti perduti, fino all’ archetipo (il metodo stemmatico teorizzato
da Maas punta proprio a questo per procedere all’ examinatio!), nei casi in cui si può applicare il criterio di
maggioranza: un accordo del maggior numero di famiglia, valido quando uno stemma sia almeno a 3 rami,
proprio per rendere possibile una maggioranza e non una parità; è una statistica delle varianti dei testimoni,
accettando quella che è attestata dal maggior numero di codici, senza studiare relazioni fra esse o tracciare
lo stemma. In base a questo principio, si segue la variante contenuta nel maggior numero di testimoni: è un
criterio non scientifico perché non può essere applicato se prima non sono stati chiariti i rapporti
genealogici fra i manoscritti.

Lo stemma si ottiene con il “metodo degli errori comuni” tramite errori congiuntivi e separativi: si parlerà di
errore congiuntivo se due manoscritti contengono uno stesso errore significativo (e quindi non un errore
poligenetico, ovvero uno che i copisti compiono con facilità come la declinazione), e allora uno deriva dall’
altro o entrambi da uno stesso antecedente che conteneva quell’ errore; si parlerà di errore separativo nel
caso di una lezione innovativa non condivisa, cioè se un manoscritto contiene un errore e un altro una
buona lezione e si può quindi stabilire che uno non deriva dall’ altro, solo se però, si può sostenere che non
sia avvenuta contaminazione o il testo sia stato emendato. In caso contrario, la buona lezione sarà quindi
una lezione separativa. L’ individuazione degli errori precede la costruzione dello stemma e servono
appunto a ricostruirlo! Solo l’ errore, cioè una lezione di cui si può sostenere che non risale all’ originale, è
un’ innovazione sicura, e solo la concordanza in errore può essere usata per dimostrare relazioni fra
manoscritti. Esempio lampante di errore separativo è la canzone “Signore, poiché non v’ importa di me” di
Bertrand de Born, in cui il trovatore chiede ad ogni cobla una cosa diversa ad una donna diversa: al v. 27
alcuni manoscritti propongono “Aelis” (Alice), altri “als” (altro) e ciò ha valore separativo; questo non vale
per il v. 32 in cui cambia una rima, ma in essa la correzione è facile e immediata. Altro tipo d’ errore è l’
errore d’ archetipo, opposto a quello poligenetico. Ce ne fornisce un esempio la canzone “Se non fosse per
il mio soprattutto” di Giraut de Borneil: al v . 56, “deblui” non vuol dire niente e si suppone che la lezione
originaria fosse “doblui”, ovvero “raddoppiare oggi”; una E per una O toglie senso al verso ed ha quindi la
probabilità di esser stato commesso una sola volta e poi copiato dai copisti senza porsi troppe domande:
non avevano certo il compito di interpretare il testo! Ovviamente non è stato introdotto per
contaminazione, non ce ne sarebbe stato motivo e si capisce che è un errore di lettura, probabilmente per
una O pronunciata troppo apertamente e presa per una E. E’ quindi esistita una copia scritta dalla quale
derivano tutti i manoscritti, che conteneva la lezione errata: un errore d’ archetipo. Altri tipi di errori sono l’
interpolazione e la lacuna, nel caso in cui ci sia la presenza o l’ assenza di una frase: è impossibile dire con
certezza se c’è una lacuna in un testo o un’ interpolazione nell’ altro e quindi non possono essere usai come
errori congiuntivi. Un tipo di lacuna è presente nel Chevalier de la Charrete di Chretien de Troys: quando
Lancillotto e il figlio del re d’ Irlanda si battono, i cavalieri si slanciano a favore dell’ uno o dell’ altro; i primi
scendono dalla sella e aiutano i loro signori e poi si passa a parlare di Galvano che non partecipa allo
scontro, senza accennare degli altri cavalieri: mancano almeno 4 versi. Le lezioni a cui si applica il criterio di
maggioranza sono quelle adiafore, ovvero quelle di cui non si può negare che appartengano all’ autore.

Il metodo Lachmanniano viene messo in discussione da Bèdier e da Pasquali, che mettono in luce alcuni casi
in cui esso non funziona. Tali casi riguardano le lezioni che rimangono indecidibili in base al criterio della
maggioranza poiché c’è parità stemmatica, devono essere oggetto di scelta (selectio) in base ad altri criteri
(il rapporto con le fonti, lectio difficilior, usus scribendi, plausibilità linguistica, ecc..) o emandate (corrette)
per divinatio. Il rapporto con le fonti è importante soprattutto nelle traduzioni dal latino all’ italiano e nei
volgarizzamenti da una lingua romanza ad un’ altra. Gli esempi sono tanti: “ammonisco” risultato di
“admoneo” invece che “adomoveo” per una confusione fra U e N nella traduzione dei “Rimedi d’ amore” di
Ovidio; “achatade” risultato di “accattate” invece di “achetees, ottenute” nel volgarizzamento del “Tristano
Veneto”. Quando ci troviamo davanti a due lezioni equipollenti, si può usare anche il criterio secondo cui i
copisti, se modificano un testo, lo fanno per renderlo più comprensibile e (secondo loro) ragionevole e
tendono ad intervenire su una lezione che non comprendono o che pare a loro incongrua, una lectio
difficilior, sostituendola con quella facilior. La lectio difficilior è quindi una lezione difficile da capirsi, ma più
genuina, che i copisti possono prendere per errore, mentre la lectio facilior è quella più comprensibile e
spesso banale: ma sempre, la lezione che banalizza non è affidabile e bisogna privilegiare la lectio difficilior.
Esempi lampanti sono in Dante: Inferno, canti II al v. 48, a proposito del leone, “sembrava che l’ aria
temesse” (l. facilior) vs. “sembrava che l’ aria tremesse” (l. difficilior), in cui Petrocchi sceglie quest’ ultima;
Infinito, canto XVIII vv. 59-61 “Sipa” vs “Suppa”: in bolognese antico sipa è sia, ma un altro manoscritto
riporta suppa perché il copista (evidentemente non bolognese) non riconosce il termine e lo corregge con
uno a lui più familiare: cerca di rimediare all’ errore, ma invece lo produce! Altro esempio da citare è al . 101
dell’ edizione Langlois del “Roman de la Rose”, in cui si dice che gli uccellini “s’angoissient”, cioè si
sforzavano di cantare con tutta la loro energia; ma un altro manoscritto riporta “s’esjoissoient”, cioè giovano
nel cantare, che sembrerebbe più plausibile. Tuttavia, proprio per questo, è una banalizzazione: la prima è
una lezione stilisticamente più marcata e quindi più probabilmente risalente all’ autore. Non sempre, però,
questo criterio è esatto: bisogna stare attenti a non tralasciare una lezione plausibile per sforzarci di dare un
senso all’ alternativa. E’ quello che è successo proprio nel “Vers del lavador” di Marcabruno, dove si legge
che molti, invece di impegnarsi nella crociata di Spagna, “rimarranno nel puzzo terribile del peccato”, cioè
nel “fera pudor”; tutti gli editori tranne Milone hanno scelto però la lezione in cui si dice “felpidor”, che non
si è mai spiegato cosa significhi! E’ possibile, infine, anche che una lezione in sé non sia erronea, ma sia
opposta ad altre lezioni altrettanto non erronee (bellissimo vs magnifico): in tal caso, si parla di lezioni
caratteristiche.

Con termini importati da Contini prendendoli a prestito dai fenomeni studiati dalla fisica ottica per cui la
luce riflessa si dirama, si parla invece di diffrazione quando, davanti a una lezione particolarmente difficile
più copisti reagiscono trascrivendo ognuno una parola diversa. Se almeno uno dei testimoni ha conservato il
testo originale, e l’ esame delle diverse lezioni permette di identificare la lezione dalla quale derivano tutte
le altre, si parla di "diffrazione in presenza"; il caso contrario, quello cioè in cui nessun testimone ha
conservato il testo originale e la lezione originale dev’ essere ricostruita invece per congettura, viene invece
definito "diffrazione in assenza".

Frequenti sono gli stemmi a due rami, detti anche bipartiti o bifidi (silva portentosa), situazione tipica di
recensio aperta, in cui non si può applicare il metodo di Lachmann: classico è quello della Chanson de
Roland. Joseph Bèdier, allievo Lachmanniano, ha osservato criticamente che la maggior parte degli stemmi
di testi romanzi lo sono. Questa bipartizione, sarebbe a suo giudizio più o meno consapevolmente cercata
dall’ autore: l’ aspirazione ad un’ edizione spogliata dalla soggettività è alla base della ricerca di Bèdier! L’
unica soluzione sarebbe quella del bon manuscrit, non frutto del lavoro combinatorio degli editori. La critica
di Bèdier è radicale perché è una critica al metoso, un metodo che si pretende scientista e razionale e invece
non lo è. Anche Pasquali critica il metodo Lachmanniano, illustrando problemi che esso non può risolvere:
recensio aperta,contaminatio, rimaneggiamento del copista, varianti d’ autore

Riassumendo:
METODO LACHMANNIANO:

1. Individuazione delle fonti

2. Recensio, raccolta di testimoni, di tutta la tradizione

3. Collatio, confronto fra i testimoni per capire i rapporti genealogici che li legano per loci critici o per
tutta l’ opera: attenzione alla contaminazione, recentiores non deteriores, eliminatio codicum
descriptorum, ovvero all’ eliminazione delle copie (descripti) e al fatto che la conservazione della
buona lezione, non dimostra nulla sulla struttura della tradizione.

4. Determinazione delle relazioni fra testimoni tramite errori guida e non di forma, riguardante cioè l’
aspetto grafico, ma di sostanza: congiuntivi e separativi

5. Compilazione di uno stemma codicum, la costruzione schematica dell’ albero genealogico dei
manoscritti: ciò che aiuta a definire i rapporti genealogici fra i testimoni non è la concordanza in
lezione esatta, ma l ‘innovazione, l’ errore.

6. Examinatio dell’ archetipo

7. Emandatio o divinatio: eventuali correzioni

 Se…

La ricostruzione dello stemma non permette un’ adeguata selezione fra le lezioni: ci si trova davanti
una recensio aperta o orizzontale, c’è parità stemmatica e di usa la selectio: si ricorre a criteri
interni: usus scribendi (abitudine stilistica) dell’ autore, lectio difficilior, ecc..

Gli stemmi contengono quindi un archetipo, ovvero un manoscritto perduto x che dipende dall’ originale O
e da cui discende tutta la tradizione. Una delle ragioni per cui, infatti, il metodo stemmatico è associato al
nome di Lachmann, nonostante Maas, è il successo che egli conseguì con la ricostruzione delle
caratteristiche fisiche (per es. il numero di versi per pagina) dell’ archetipo del “De Rerum natura” di
Lucrezio: è il 1° testo non biblico a cui viene applicato il metodo Lachmann. Ma questa concezione dell’
archetipo è superata da Pasquali in poi: adesso l’ archetipo è visto come astratto, un testo virtuale che
contiene gli errori che si sono tramandati lungo tutta la tradizione e che sono comuni a tutti i manoscritti: se
si dimostra che è esistito, gli errori non risalgono quindi all’ autore, ma sono innovazioni d’ archetipo! Lo
stemma permette quindi di ricostruire meccanicamente il testo tràdito, cioè il testo della copia da cui
discende tutta la tradizione, che sia l’ archetipo o l’ originale. Meccanicamente vuol dire senza ricorso al
giudizio personale dell’ editore come nella selectio. La ricostruzione meccanica si basa su un principio
probabilistico: è improbabile che due manoscritti commettano indipendentemente lo stesso errore! E si
basa inoltre, sul presupposto che la tradizione sia a sua volta meccanica, cioè che i copisti non intervengano.
Ma ricostruire il testo tràdito meccanicamente è un’ operazione illusoria.

L’ EDIZIONE

Ci sono diversi tipi di edizione:


L’ edizione diplomatica (ovvero l’ edizione tradizionalmente usata per i diplomi, cioè i documenti ufficiali
delle cancellerie) riproduce le caratteristiche del manoscritto: versi scritti di seguito con solo un punto che
segna la fine del verso; iniziale maiuscola a capo alla fine di ogni strofa alternata a blu e rossa; grande
iniziale ornata all’ inizio del testo; nessun intervento sul testo; divisione delle parola così com’è nel
manoscritto; rubrica attributiva (nome dell’ autore secondo il compilatore del manoscritto). Si devono
interpretare quindi i tituli (che valgono per m o n) e i compendi (con la letterina sopra), la divisione delle
parole, (si segnala con un puntino in alto l’ unione di una particella enclitica alla parola che la precede) che è
sempre un punto delicato, l’ unico segno grafico (v) che indica sia U che V, ecc.. tutte cose che saranno
corrette poi nell’ esame del testo. Oppure si pone la lacuna fra parentesi quadre, o la si marca e se ne dà
una nota nell’ apparato: l’ editore deve sempre spiegare quello che fa, mai passare il problema sotto
silenzio. Il lettore deve essere in grado di ricostruire la lezione del manoscritto. Nell’ edizione dei testi critici
è ormai d’ uso che l’ editore dia una traduzione integrale interpretativa, assolta dal commento e dall’
eventuale parafrasi.

L’ edizione semidiplomatica risente di alcuni interventi per facilitarne la lettura, come lo scioglimento delle
abbreviazioni, l’ eliminazione delle varianti dei grafemi (es. S semplice e non allungata). Sia l’ edizione
diplomatica che quella semidiplomatica hanno avuto importanza quando non erano ancora disponibili
buone riproduzioni fotografiche dei manoscritti. Quindi si può pensare che oggi siano inutili, ma spesso
possono essere l’ unica fonte per sapere cosa si leggesse in un manoscritto prima di qualche danno causato
spesso anche dagli stessi editori che, in altri tempi, per leggere sotto le rasure usavano acidi che in breve
tempo rendevano illeggibile quegli stessi luoghi. Ma trascrivere un testo così com’è, comporta anche
interpretarlo. Ce lo sottolinea Robinson che parla della trascrizione dei Canterbury Tales di Chaucer: una riga
perfettamente leggibile inizia infatti con “ffair”; ora, una copia pura lo rappresenterebbe con ff, ma
sbaglierebbe perché il raddoppiamento di f rappresenta una forma di messa in rilievo, che funge da lettera
maiuscola iniziale e perciò, dev’ essere trascritto con F!

L' edizione interpretativa si basa su un solo manoscritto e riproduce il testo secondo le norme della grafia
moderna, cercando di dargli u nsenso per il lettore moderno: riproduce il testo in caratteri a stampa, ma, a
differenza della precedente, lo adatta all'uso e quindi interpreta i segni grafici per dar loro coerenza
linguistica: unisce o separa le parole, scioglie le abbreviazioni, rivede la paragrafatura, distingue fra i grafemi
(V da U, I da J, ecc..), normalizza le maiuscole, introduce i diacritici (apostrofi e altri segni grafici che
modificano il grafema) e la punteggiatura.

L'edizione critica ricostruisce il testo presumibilmente voluto dall'autore, confrontando tra loro tutti i codici
che trasmettono quel testo e tentando di stabilire la lezione autentica. Anche nel caso di una tradizione
unitestimoniale (dove a tramandare il testo sia sopravvissuto un solo codice), l'edizione non si limita a
essere puramente interpretativa ma tenta di correggere gli errori e di avvicinarsi all'originale. Questo tipo di
edizione in senso moderno si basa sul confronto dei testimoni mediante il metodo di Lachmann. L’ edizione
critica, per essere tale, deve avere una nota introduttiva che spiega i criteri di costruzione dello stemma; un
apparato che elenca le varianti rigettate e i testimoni che le contengono; un commento esegetico che
spiega il testo; un’ analisi linguistica; una concordanza dei lemmi. L’ apparato può essere positivo, quando
indica sia la variante che c’è a testo, sia quelle rigettate con i relativi testimoni, o negativo, quando non dà
nessuna indicazione sui testimoni che hanno la lezione corretta. Questo tipo di edizione nasce con il
progetto delle “Concordanze della Lingua Poetica Italiana delle Origini” di d’ Arco Silvio Avalle, un' impresa
scientifica avviata fin dagli anni '70, che ha prodotto la costituzione ex novo del corpus di testi oggetto
d'indagine, con la nuova edizione critica, fondata di volta in volta su ciascun manoscritto, di tutta la poesia
italiana trascritta in codici grosso modo anteriori alla soglia del 1300 (dalle origini al 1375, anno della morte
di Boccaccio). Il corpus così ottenuto, che già di per sé rappresenta un contributo importante alla filologia
italiana delle origini, risponde a: completezza delle testimonianze entro un determinato spazio temporale,
rispetto tendenzialmente assoluto della 'verità' testuale di ogni singolo manoscritto, rigore
nell'impostazione grafica (anche ai fini del trattamento informatico). L’ edizione delle CLPIO mette i versi in
colonna, introduce la punteggiatura e le maiuscole secondo uso moderno, segnala con parentesi quadre le
integrazioni, interviene con espunzioni (eliminazioni) in parentesi acute e segnala in apparato. L'imponente
Introduzione, pone le nuove basi per lo studio della lingua poetica delle origini. Su queste basi, dal 1993 è
partito il lavoro di lemmatizzazione integrale del corpus, presso l'Accademia della Crusca.

L’ edizione orientata al testo tende a ricostruire, non nel senso che mira all’ originale, ma nel senso che
esprime il risultato dell’ interpretazione delle testimonianze.

L’ edizione secondo il bon manuscrit, in presenza di più manoscritti plausibili, viene fatta scegliendone uno
solo di questi ritenuto il migliore, il codex optimum. Nella filologia classica è considerato un metodo errato,
perché si rinunciano alle informazioni del resto della tradizione, mentre nella filologia romanza, è un
principio metodologico di molti editori che si ispirano a Bèdier, convinti che sia controproducente unire
nello stesso testo lezioni che appartengono a rielaborazioni diverse e più sensato dar conto dei diversi
assestamenti in apparato, producendo delle edizioni sinottiche! Secondo il Bon manuscrit, si ritiene che:

 Gli stadi della tradizione precedenti non siano ricostruibili se non con un uso smodato del giudizio
dell’ editore (giudizio ha in questa classe di pensiero una connotazione fortemente negativa).

 Unire nello stesso testo lezioni provenienti da più manoscritti produrrebbe un testo composito, cioè
falso: il peggiore insulto che si possa fare a un’ edizione.

 Si debba scegliere un manoscritto tentando sempre di giustificarlo e, al limite, emendando gli errori
solo se non giustifabili.

 Si debba considerare il bon manuscrit il portatore del testo reale.

Qualunque sia il canone editoriale scelto, l’ editore può trovarsi davanti a lezioni erronee. In tal caso può:
intervenire ma solo su ciò che anche l’ autore avrebbe aggiustato e che la tradizione, per svariato mortivi,
ha rovinato; introdurre nel testo una congettura, un’ ipotesi; segnalare la lacuna; lasciare ciò che è attestato
dalla tradizione marcandolo con una crux desperationis. Tutte le operazioni devono essere comunque
esplicitate e giustificate; le lezioni rifiutate o alternative devono essere riportate nell’ apparato.

EDIZIONE E INTERPRETAZIONE

Il concetto di originale, che è sempre stato etichettato come inattingibile o addirittura inesistente, è sempre
più complesso e sfuggente. Oggi, si intende come originale, l’ obiettivo al quale l’ edizione mira il più
possibile ad avvicinarsi. Ma se da una parte c’è chi vuole migliorare il testo con emendamenti e congettura,
e dall’ altra c’è chi ammonisce di non toccare niente e non rovinare il testo facendolo diventare un falso..
allora si capisce che l’ originale è il testo interiore dell’ autore, quello che rispecchia esattamente cos voleva
scrivere: ed è quindi, un testo immateriale! L’ emendamento migliore è perciò quello che meglio si accorda
con il contesto, con la lingua, lo stile, la metrica e non quello che modifica meno il testo, anche se il principio
dell’ emendamento minimo è utile come forma di autocontrollo dell’ editore di esercitare l’ arte necessaria,
ma sempre rischiosa della congettura. Quando si parla di congetture, non si considerano ovviamente
regolarizzazioni grammaticali e affini.

Si definisce marcatura o codifica ogni mezzo che renda esplicita l’ interpretazione di un testo: i due aspetti
principali dell’ interpretazione nell’ allestimento del testo sono la distinctio e la punteggiatura:

La distinctio è la divisione delle parola, in quanto nei manoscritti a volte c’è la scripto continua, cioè l’
unione grafica dell’ articolo con la parola che lo segue. Sembra strano, ma già trascrivendo il testo con una
certa divisione delle parole, lo si interpreta. Un esempio palese è in una tenzone diGiraut de Borneil in cui si
deve scegliere fra “amans” amanti e “a mans” a molti. Tutti gli editori scelgono amans, ma secondo Milone,
Giraut parla del trobar clus, ovvero una forma di poesia assunta da alcuni trovatori del XII secolo aspra,
dura, oscura, in contrapposizione al trobar leu (lieve), di cui furono eredi gli stilnovisti.. quindi cosa
c’entrano gli amanti? Il punto è che la scelta fra amans ed a mans è strettamente correlata ad un’
interpretazione: la distinctio può far nascere o sparire parole!

Altro aspetto è la punteggiatura: i manoscritti medievali presentano forme di punteggiatura che non hanno
niente a che fare con quella moderna. Sia le divisioni sintattiche che l’ accento infatti, nascono solo nel
1300. La punteggiatura del testo critico non può essere quindi che dell’ editore e, anch’ essa, dipene dall’
interpretazione.

L’ apparato è il necessario complemento del testo critico: elenca le varianti rigettate e i testimoni che lo
contengono; il suo scopo è di rappresentare le lezioni presenti nella tradizione manoscritta alternative a
quelle messe a testo o gli errori individuati, consentendo così al lettore di riflettere sul lavoro dell’ editore e
condividere o non. In esso si devono lezioni rifiutate e conseguente congettura, varianti alle quali si è
preferita la lectio difficilior. Insomma tutto tranne che le normalizzazioni grafiche e formali, che non
incidono sul senso. Ma l’ apparato non può essere esaustivo: è materialmente improponibile, diventerebbe
di proporzioni mostruose con costi elevati per la stampa, tempi lunghissimi per l’ editore e selva oscura per
il lettore che vi si smarrirebbe! Dev’ essere al contrario selettivo, gerarchizzato.

Nell’ Elogio della minuzia, Stussi nota che la S allungata è stata trascritta da molti editori ignoranti spesso
come una f! A parte questo, non c’è motivo per cui, al di fuori di un’ edizione diplomatica, si debbano
riprodurre fedelmente particolari grafici come la v per U/V: si indurrebbe il lettore ad una pronuncia errata.

Riguardo la lingua, si può distinguere la patina del copista, proprio come ha fatto Leonardi, nel “Canzoniere”
di Guittone, in cui rimuove quei tratti che con sicurezza possono ascriversi al copista pisano. Petrarca scrive
“facto, affecto, doctrina” per u pubblico che legge “fatto, affetto, dottrina”; se le edizioni moderne
ripropongono le stesse grafia ad un pubblico per il quale il nesso –ct vuol dire c + t, ne usce un Petrarca
foneticamente falso! Il filologo Barbi, si batte per questo. Per questo, gli editori che seguono la sua filosofia,
normalizzano il testi graficamente. Gli errori di forma non sono veri e propri errori, perché nel Medioevo
non esistono norme ortografiche precise, in particolare per suoni che in latino non esistevano (es. gli)

In conclusione, l’ editore, al di là di tutte le tecniche e i principi, deve capire il più possibile il testo e la
tradizione che lo testimonia e dare un testo coerente con quello che ha capito. Un testo senza edizione,
senza interpretazione, è pura virtualità: è sempre, inevitabilmente, sotto il punto di vista, il filtro di
qualcuno. Quindi, accanto all’ autore o al titolo di un testo, bisogna sapere anche l’ edizione per sapere di
cosa si stia leggendo.

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