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1. IL LINGUAGGIO VERBALE
1.1 LINGUISTICA, LINGUE, LINGUAGGIO, COMUNICAZIONE
La LINGUISTICA è il Ramo delle scienze umane che studia la lingua, si divide in due sottocampi principali: la
LINGUISTICA GENERALE (cosa sono, come sono fatte e come funzionano le lingue, nella tradizione italiana viene
spesso contrapposta a essa la GLOTTOLOGIA) e la LINGUISTICA STORICA (evoluzione delle lingue nel tempo e
dei rapporti fra loro e con la cultura). Della Linguistica Generale hanno un valore più o meno analogo 3 denominazioni:
LINGUISTICA TEORICA, SINCRONICA e DESCRITTIVA.
La Linguistica studia le lingue STORICO-NATURALI: lingue nate spontaneamente nel corso della civiltà e usate ora
o nel passato, e sono tutte possibili per noi grazie al LINGUAGGIO VERBALE UMANO: una facoltà innata del
Sapiens nonché il più raffinato metodo di comunicazione che abbiamo. Solo adesso possiamo distinguere le lingue dai
dialetti, perché è una distinzione basata solo su considerazioni sociali e storico-culturali, in funzione della distribuzione
negli usi linguistici della comunità e del prestigio dei singoli sistemi linguistici, con questo discorso si può iniziare a
parlare di SOCIOLINGUISTICA, che studia l’interazione fra lingua e società, la variazione dei comportamenti
linguistici e i modi in cui le lingue si articolano.
SEGNO: Qualcosa che sta per qualcos’altro, usata per comunicare quel qualcos’altro (comunicare= “mettere in
comune, rendere comune”).
Sulla comunicazione si può avere una concezione molto larga o molto stretta, la prima (diffusa presso gli studiosi di
semiotica o semiologia) presuppone che tutto comunichi, anche ciò che non è intenzionale, dai fatti culturali a quelli di
natura, in quanto filtrati dalla nostra esperienza. Il secondo invece, più utile, e considerare in ciò che viene comunicato
anche l’intenzionalità di voler far passare un’informazione attraverso il nostro comportamento.
Esistono tre categorie della comunicazione, in base al carattere dell’emittente e del ricevente/interpretante, e
dell’intenzionalità del loro comportamento:
B. PASSAGGIO DI INFORMAZIONE: Emittente non intenzionale, ricevente intenzionale (posture del corpo, orme
di animali sintomi di malattie ecc.)
C. FORMULAZIONE DI INFERENZE: Nessun emittente (bensì un “oggetto culturale” che per noi fornisce
un’info), interpretante (casa con tetto aguzzo e spiovente= qui nevica molto)
- INDICI (Sintomi): Motivati naturalmente/non intenzionali (basati su rapporto causa o condizione scatenante
es. “nuvole scure=pioverà”)
- SEGNALI: Motivati naturalmente/intenzionali (es. luci della bici accese= segnalo la mia presenza)
- ICONE: Motivati analogicamente/intenzionali (basati sulla similarità di forma o struttura riproducendo le
proprietà del qualcos’altro, es. una cartina geografica)
- SIMBOLI: Motivati culturalmente/intenzionali (es. rosso del semaforo= fermarsi)
- SEGNI: Non motivati, arbitrari, totalmente immotivati, basati su mera convenzione)/intenzionali (es. messaggi
linguistici, suono di una linea occupata)
La MOTIVAZIONE che lega nei segni il qualcosa e il qualcos’altro si fa via via più convenzionale, se non
immotivata/meno diretta, aumentando la specificità culturale dei segni, è solo per questo infatti che Simboli e Segni non
sono raggruppati assieme.
Per interpretare il segno dell’emittente, lui e il ricevente devono condividere lo stesso CODICE: l’insieme di
corrispondenze, fissatesi per convenzione, fra qualcosa (insieme manifestante) e qualcos’altro (insieme manifestato) che
fornisce le regole di interpretazione dei segni.
1.3 LE PROPRIETÀ DELLA LINGUA
BIPLANARITÀ: ci sono nel segno 2 facce (o piani) compresenti, il “qualcosa” e il “qualcos’altro”, da qui si
introducono i concetti di SIGNIFICANTE (espressione): il piano fisicamente percepibile del segno, che osserviamo
con i nostri sensi (la parola “gatto” pronunciata o scritta), e SIGNIFICATO (contenuto): l’informazione veicolata dal
significante (l’idea di gatto).
ARBITRARIETÀ: non c’è alcun legame naturalmente motivato connesso a significante e significato, il fatto che si
chiami gatto non implica qualcosa di particolare, potevamo chiamarlo anche “panfiro” volendo. Il legame che c’è tra
significante e significato è posto per CONVENZIONE, se così non fosse le parole sarebbero molto simili in tutte le
lingue, mentre in albanese gatto si dice “Mace”, e in tailandese “Mèo”. Alcune lingue hanno nomi simili (come
spagnolo e italiano) ma dipende dalla loro parentela genealogica (spagnolo e italiano derivano dal latino).
Hjelmslev ha individuato 4 tipi o livelli di arbitrarietà, ma prima bisogna considerare che in realtà nel funzionamento
dei segni le entità sono solo 3, e si presentano col TRIANGOLO SEMIOTICO: Ai vertici ci sono Significante
(“gatto”), Significato (mammifero col pelo e i baffi) e Referente (l’animale vero e proprio), i lati che li congiungono
sono i segni, quello tra Significante e Referente però è tratteggiato perché il loro rapporto è mediato dal Significato.
I QUATTRO TIPI DI ARBITRARIETÀ della lingua alla fine sono definiti così:
1) RAPPORTO TRA SEGNO E REFERENTE: A un primo livello non c’è alcun legame naturale e concreto,
di derivazione dell’uno dall’altro, fra un elemento della realtà esterna e il segno a cui questo è eventualmente
associato (es. fra l’oggetto sedia e il segno sedia)
2) RAPPORTO TRA SIGNIFICANTE E SIGNIFICATO: il significante sedia, come sequenza di lettere o
suoni, non ha in sé nulla a che vedere con il significato “oggetto d’arredamento che serve per sedersi”
3) RAPPORTO TRA FORMA E SOSTANZA DEL SIGNIFICATO: Ogni lingua ritaglia in modo proprio un
certo spazio di significato, distinguendo e rendendo pertinenti una o più entità (es. abbiamo
“bosco/legno/legna” in italiano, in francese “Bois” designa tutte e 3 le parole, in tedesco bosco è “eald” e
legno/legna sono solo “holz”)
4) RAPPORTO TRA FORMA E SOSTANZA DEL SIGNIFICANTE: Anche il 4 livello è arbitrario, ogni
lingua organizza a suo modo la scelta dei suoni pertinenti, distinguendo le entità che possiede la loro materia
fonica
Al principio dell’arbitrarietà radicale ci sono alcune eccezioni, come le ONOMATOPEE, che riproducono o
richiamano i caratteri fisici del referente nel significante: tintinnio, sussurrare, din don dan ecc. imitano il suono/rumore,
presentando un aspetto “iconico”: sono quindi più icone che simboli. Tuttavia nemmeno le onomatopee si possono
salvare dall’arbitrarietà, per es. “tintinnio” unisce il “tin tin” al suffisso arbitrario “-ìo”, in tedesco chicchirichì è
Kikeriki e così via.
Sembrano essere più iconici gli IDEOFONI: espressioni imitative o interiezioni descrittive di fenomeni naturali o
azioni, come i “Boom”, “Zac”, “gluglu” dei fumetti (non si sa se possono essere considerate vere e proprie parole).
Recenti concezioni hanno ridotto la crucialità dell’arbitrarietà, notando che anche nella grammatica delle lingue
esistono meccanismi chiaramente iconici e in qualche misura motivati. Per es. la formazione del plurale con l’aggiunta
di materiale linguistico al nome singolare è diffusa in molte lingue, fatto che obbedisce a un PRINCIPIO DI
ICONISMO: la pluralità implica più cose, ed è suggerita da più materiale fonico e linguistico (Ing. child e children,
Ted. Kind e Kinder), ma non è così in italiano (bambino e bambini, o addirittura in dialetto lombardo dòna “donna” e
don “donne”).
Un’altra prospettiva che tende a vedere nei segni linguistici più motivazione di quanto si creda è quella che sostiene
l’importanza del FONOSIMBOLISMO: certi suoni avrebbero, per loro natura, associati a sé certi significati (il suono
i, vocale chiusa e fonicamente “piccola” connessa quindi alle “cose” piccole, trasmettendo la proprietà alle parole che la
contengono, come “piccino”, “little” ecc.), ovviamente ci sono dei controesempi (come “big”), da dover considerare.
Un’altra proprietà del linguaggio è la DOPPIA ARTICOLAZIONE: Il significante di un segno linguistico è articolato
a due livelli nettamente diversi:
Al 1° il significante è organizzato e scomponibile in unità ancora portatrici di significato, riutilizzate con lo stesso
significato per formare altri segni (Prima Articolazione): gatto è scomponibile in “gatt-” e “-o” (col significato “felino
domestico” e “uno solo”), e possono comparire in altre parole col significato invariato (Gatt-ino, Gatt-accio ecc. e top-o,
libr-o, cucchiai-o), tali elementi sono i MORFEMI: unità minime di prima articolazione.
Al 2° livello (Seconda Articolazione) abbiamo i FONEMI: unità più piccole senza alcun significato scomposte da
unità più grandi, e che se combinate creano le entità di prima articolazione: “g”, “a”, “t” e “t” sono i Fonemi del
Morfema “Gatt-”. Alcuni Fonemi possono corrispondere a Morfemi, come “-o”.
La Doppia Articolazione è il cardine del linguaggio verbale, secondo cui si sviluppa la struttura generale del sistema
linguistico. Consente una grande ECONOMICITÀ di funzionamento: con un numero limitato di unità di seconda
articolazione si può costruire un numero teoricamente illimitato di unità dotate di significato.
Un’altra caratteristica importante è la COMBINARIETÀ: La lingua funziona combinando unità minori prive di
significato per formare un numero indefinito di unità maggiori (segni).
TRASPONIBILITÀ DI MEZZO: Il significante dei segni può essere trasmesso o realizzato tramite l’apparato fonico-
acustico, l’aria e le onde sonore che si propagano, ma possono essere anche visti attraverso la luce e il canale visivo-
grafico, come disegni e lettere scritte.
Il carattere orale rimarrà prioritario, anche perché si dice che il linguaggio umano possieda la proprietà della fonicità,
inoltre il parlato è prioritario antropologicamente allo scritto: lo scritto si forma sempre dopo e in base al parlato, e
alcune lingue lo scritto non ce l’hanno nemmeno (alcune lingue in Africa e Oceania per es.). Insomma, c’è una
PRIORITÀ ONTOGENETICA (relativa al singolo individuo) del parlato: tutti impariamo prima a parlare per via
naturale, poi con un addestramento guidato e specifico impariamo a scrivere.
C’è poi una PRIORITÀ FILOGENETICA (relativa alla specie umana) del parlato: la scrittura si è sviluppata molto
tempo dopo il parlato, le prime attestazioni risalgono a non più di 5 millenni prima di Cristo (pittografia), e i sistemi di
scrittura veri e propri si sono sviluppati dal 3500 a.C. con la cuneiforme, e la scrittura alfabetica nasce sottoforma di
scrittura consonantica che non registra le vocali presso i Fenici attorno al 1300 a.C., da essa derivano poi l’alfabeto
ebraico, aramaico, greco, cirillico e latino.
- LOGOGRFIA/MORFOGRAFIA: ogni morfema sta per un carattere (lo sono il cinese, l’egiziano geroglifico
ecc.), e il 90% dei caratteri combinano componenti logografiche e (parzialmente) fonografiche. Ogni carattere
denota un morfema e una sillaba, è quindi composto da un elemento di scrittura che indica lo spazio semantico
della parola, e un elemento che ne indica il suono
- SILLABOGRAFIA: Ogni carattere sta per una sillaba e rappresenta una combinazione di fonemi diversa,
senza poter distinguere gli elementi grafici di tali fonemi (lo sono il giapponese, il sillabario cipriota ecc.). Il
giapponese in particolare è un sistema misto con logogrammi cinesi e sillabogrammi (e qualche carattere
latino)
- ABJAD: Ogni carattere sta per una consonante, non segna le vocali ma molti si sono dotati nel tempo di segni
di vocalizzazione (elementi diacritici posti sopra o sotto i caratteri consonantici) per lo più opzionali (lo sono
l’ebraico, l’arabo, l’antico fenicio ecc.).
- ABUGIDA: Ogni carattere è una combinazione sillabica di consonante e vocale, e gli elementi grafici che
distinguono vocali e consonanti sono evidenti. In genere c’è un carattere di base che denota una consonante
accompagnata da una vocale non marcata a cui si aggiunge qualche elemento grafico per denotare altre vocali
o l’assenza di esse (lo sono il sanscrito, l’hindi, l’etiopico ecc.)
- ALFABETO: Ogni carattere sta per una consonante o una vocale e sono notate obbligatoriamente entrambe, il
primo è il greco, da cui discendono cirillico e latino
- GRAFIA DI TRATTI: Ogni carattere rappresenta e riproduce in parte anche nella forma, una certa
conformazione articolatoria, e sta per il fono prodotto dalla conformazione (lo è il coreano per esempio). La
forma di ciascuno di questi caratteri tende a riprodurre analogicamente una particolare conformazione
articolatoria e mostra come si pronunciano certi fonemi (per es. possono riprodurre l’innalzamento della parte
anteriore della lingua verso i denti superiori ecc.)
L’origine del linguaggio secondo la paleontologia risale molto indietro nel tempo, è ipotizzabile che qualche forma
embrionale di comunicazione orale con segni linguistici fosse usata dagli Homo habilis e herectus (oltre 2 milioni di
anni fa), ma sicuramente almeno i neanderthalensis utilizzavano il linguaggio verbale. L’evoluzione che ci ha portati ad
avere il canale fonico-acustico ci ha dato dei vantaggi biologici e funzionali:
- Basta un po’ d’aria per usare il linguaggio verbale, anche se gli interlocutori sono a relativa distanza tra di loro
- Può essere usato in concomitanza con altre attività senza ostacolarle
- Permettono di localizzare chi parla
- La produzione e la ricezione del messaggio sono contemporanee
- È più veloce parlare che scrivere
- Più persone possono ricevere il messaggio simultaneamente
- Il messaggio è evanescente e quindi non “ingombra” nessun canale
- Parlare richiede poca energia
Il parlare tuttavia non porta vantaggi funzionali, non rende l’alimentazione o la respirazione migliori.
Nelle società moderne lo scritto risulta molto importante e di prestigio nonché indispensabile, è il veicolo fondamentale
nell’istruzione, ha validità giuridica ecc.
Lo scritto e il parlato non sono l’uno la rappresentazione dell’altro, lo scritto è una raffigurazione più stabile
dell’evanescente parlato, per poi svilupparsi e specializzarsi, infatti è difficile rendere alcune cose del parlato in forma
scritta, soprattutto i TRATTI PARALINGUISTICI (tono di voce, modulazione), e viceversa non c’è sempre una
corrispondenza dello scritto che vada bene per il parlato (le maiuscole, la disposizione del testo nel foglio).
Un’altra proprietà dei segni linguistici è la LINEARITÀ: Il significante viene prodotto, si realizza e si sviluppa in
successione nel tempo e/o nello spazio, finché non abbiamo analizzato tutti gli elementi della frase non possiamo
decodificare il segno, inoltre l’ordine in cui si susseguono le parti del segno serve per codificarlo (Maria chiama Gianni
vs Gianni chiama Maria); molti segnali tuttavia vengono percepiti subito (i segnali stradali, il semaforo, i gesti ecc.). La
linearità implica anche la monodimensionalità del segno, proprietà connessa alla doppia articolazione.
Altra proprietà importante per i segni è la DISCRETEZZA: Le unità della lingua non costituiscono una materia
continua, senza limiti netti al proprio interno, ma c’è un confine ben preciso tra un elemento e l’altro, per es. le classi di
suoni sono tutte ben separate fra loro: pollo e bollo sono due parole distinte senza qualcosa in comune a livello di
significato. Una conseguenza della discretezza è che nella lingua non possiamo intensificare il significante per
intensificare anche il significato così come si fa con grida o interiezioni: un “Ahi!” detto piano indica un dolore minore
rispetto a un “AHI!!!”.
ONNIPOTENZA SEMANTICA: Un’altra proprietà del linguaggio, con la lingua si può dare un’espressione a ogni
contenuto, un messaggio formulato in qualunque altro codice o sistema di segni sarebbe sempre traducibile in lingua,
ma non viceversa. Con la lingua si può parlare di tutto insomma, poiché però risulta difficile provare questo e il fatto
che ogni messaggio in ogni modo di comunicazione si può tradurre in un messaggio linguistico (si pensi alle espressioni
artistiche o musicali), è meglio parlare di PLURIFUNZIONALITÀ: la lingua permette di adempiere a una lista molto
ampia di funzioni diverse, le funzioni a cui serve sono:
- Esprimere il pensiero
- Trasmettere informazioni
- Instaurare, mantenere, regolare ecc. attività e rapporti sociali
- Manifestare, esternare i propri sentimenti e stati d’animo
- Risolvere problemi
- Creare mondi possibili
A questo riguardo Jakobson ha creato lo SCHEMA DI JAKOBSON, che identifica 6 classi di funzioni in base a un
modello generale dell’evento comunicativo. L’instaurarsi della comunicazione implica a ben vedere la presenza di
almeno 6 fattori, a ciascuno può essere collegata una funzione:
- FUNZIONE EMOTIVA: o Espressiva, quando un messaggio è volto a esprimere sensazioni del parlante (che
bella sorpresa!)
- FUNZIONE METALINGUISTICA: quando un messaggio volto a specificare aspetti del codice o a calibrare
il messaggio sul codice (ho detto “pollo”, non “polo”)
- FUNZIONE REFERENZIALE: quando un messaggio fornisce informazioni sulla realtà esterna (il bus non è
ancora passato)
- FUNZIONE CONATIVA: quando un messaggio è volto a far agire il ricevente in un certo modo (mi passi il
sale?)
- FUNZIONE FATICA: quando un messaggio verifica e sottolinea il canale di comunicazione e/o il contatto
fisico o psicologico fra i parlanti (Pronto? Ciao Gianni!)
- FUNZIONE POETICA: quando un messaggio mette in rilievo e sfrutta le potenzialità insite nel messaggio e
i caratteri interni del significante e del significato (parti della Divina Commedia, filastrocche ecc.)
Ogni messaggio realizza in linea di principio tutte le funzioni, ma ce n’è una che prevale sulle altre, ed è quella che
qualifica il tipo di messaggio.
RIFLESSIVITÀ: La lingua può essere usata per parlare della lingua stessa (parlare della grammatica), ergo si può
usare come METALINGUA, la lingua di cui si parla si definisce LINGUA-OGGETTO, è una particolarità
caratterizzante della nostra lingua, ed è qualcosa che si impara tardi.
PRODUTTIVITÀ: con la lingua si possono creare messaggi sempre nuovi, e parlare di cose e esperienze nuove mai
sperimentate, nonché di cose inesistenti, combinando in modi nuovi significanti e significati e associando messaggi già
usati a situazioni nuove; è possibile anche grazie alla doppia articolazione, che con le sue caratteristiche permette
illimitate combinazioni di unità più piccole.
La produttività prende la forma della CREATIVITÀ REGOLARE: una produttività infinità basata su un numero di
principi e regole limitati e applicabili ricorsivamente.
La RICORSIVITÀ è infatti un’altra proprietà del linguaggio: Lo stesso procedimento è riapplicabile in modo illimitato
teoricamente, se le condizioni strutturali in cui si applica sono idonee (posso aggiungere o togliere suffissi a una parola,
una regola ricorsiva), il limite della ricorsività sta nell’utente, infatti oltre un certo grado di lunghezza e complessità il
segno non sarebbe più economicamente maneggiabile.
Un’altra proprietà del linguaggio è il DISTANZIAMENTO: la possibilità, insita nella lingua, di formulare messaggi
relativi a cose lontane, distanti nel tempo, nello spazio o entrambi, una proprietà che la fa coincidere con un altro
aspetto del linguaggio, la LIBERTÀ DA STIMOLI: I segni linguistici rimandano a, e presuppongono,
un’elaborazione concettuale anche della realtà esterna, non solo stati dell’emittente (le sue sensazioni); la lingua è
indipendente dalla situazione in cui ci si trova e dalle sue costrizioni/stimoli.
Ogni lingua è trasmessa per tradizione in una società e cultura, di generazione in generazione per
insegnamento/apprendimento spontaneo, non attraverso informazioni genetiche. Ognuno conosce almeno una lingua,
quella madre, della comunità sociale in cui è nato e cresciuto.
Questo non significa che il linguaggio sia un fatto unicamente culturale, bensì Culturale-ambientale (quale lingua
impariamo) e Innata (che fornisce FACOLTÀ DEL LINGUAGGIO: la predisposizione a comunicare con una lingua
e le strutture portanti del linguaggio verbale).
Anche la PREPUBERTÀ LINGUISTICA è un periodo fondamentale, se entro 11/12 anni d’età uno non è stato
esposto a stimoli linguistici lo sviluppo della lingua è bloccato, però entro tale età l’apprendimento è molto più rapido e
agevole rispetto al futuro, in cui è molto più difficile imparare una nuova lingua.
Esistono altre due proprietà, inerenti però alla natura e configurazione interna della lingua.
COMPLESSITÀ SINTATTICA: I messaggi linguistici possono presentare un alto grado di elaborazione strutturale,
con una ricca gerarchia di rapporti di concatenazione e funzionali fra gli elementi disposti linearmente; la disposizione
reciproca in un segno linguistico degli elementi che lo costituiscono non è mai indifferente, e i rapporti fra gli elementi
o parti del segno danno luogo a una fitta trama plurima, percepibile nella sintassi del linguaggio. Nella trama sintattica
hanno rilevanza:
- L’ordine degli elementi contigui (Gianni chiama Maria vs Maria chiama Gianni)
- Le relazioni strutturali e le dipendenze fra elementi non contigui, che rappresentano una seconda trama della
strutturazione sintattica, che si sovrappone alla successione lineare ed è indipendente da essa (in “Il libro di
Chomsky sulle struttura sintattiche” l’ultima parte è legata al “libro”, non a “Chomsky”)
- Le INCASSATURE: “Il cavallo che corre senza fantino sta vincendo”
- La Ricorsività combinata con la discontinuità dei rapporti sintattici, la prima conferisce un certo carattere di
complessità interna
- La presenza di parti del messaggio che danno informazioni sulla sua strutturazione sintattica (congiunzioni
coordinanti come “e, ma” e subordinanti come “che, perché”)
- La possibilità di discontinuità nella strutturazione sintattica, le costruzioni ammesse dalla lingua possono
ammettere, o richiedere, che elementi o parti strettamente unite dal punto di vista semantico e sintattico non
siano linearmente adiacenti.
La lingua è un codice tipicamente EQUIVOCO: pone corrispondenze plurivoche fra gli elementi di una lista e quelli
della lista a essa associata (se non lo fosse ogni elemento di un insieme A corrisponderebbe a un solo elemento
dell’insieme B), ergo entrano in gioco effetti di omonimia, polisemia, sinonimia. Questa caratteristica mostra
l’incredibile flessibilità della lingua.
Una domanda da farsi è se il linguaggio verbale è una caratteristica unica dell’uomo o se è la manifestazione della
nostra modalità comunicativa, diversa da quella degli altri animali, la maggior parte degli scienziati concorda con la
prima ipotesi in quanto possediamo le condizioni anatomiche e neurofisiologiche necessarie per elaborare la lingua
fisicamente e mentalmente (un certo volume del cervello e certe sue caratteristiche specifiche e il modo in cui è fatto il
nostro apparato fonatorio); con queste nostre caratteristiche possiamo memorizzare, elaborare e processare il
linguaggio, oltre che poter generare distinzioni articolatorie più o meno sottili. Sono stati condotti molti studi sui modi
di comunicare degli animali, dalla comunicazione chimica (con feromoni) ai canti degli uccelli, ma in nessuno si
trovano tutte le sfumature del nostro linguaggio, sono anche state eseguite delle prove su dei primati per provare a
insegnare loro la lingua dei segni ma i risultati hanno mostrato, nel migliore dei casi, una semplice forma di imitazione
limitata combinando 3/4 segni alla volta tra il centinaio che avevano imparato, che avveniva come risposta a uno
stimolo a cui erano stati addestrati, il tutto principalmente per ottenere una ricompensa.
LATERALIZZAZIONE: Le funzioni del linguaggio sono locate principalmente in uno o nell’altro emisfero cerebrale,
in particolare nell’AREA DI BROCA, una zona corticale nella terza circonvoluzione del lobo frontale dell’emisfero
sinistro.
Gli studiosi di evoluzionismo biologico e linguistico ritengono che caratteri salienti del linguaggio verbale umano non
siano il frutto di adattamenti bensì un TRANSADATTAMENTO/PREADATTAMENTO: un processo nel quale un
elemento assume una funzione non acquisita mediante la selezione naturale, diversa da quella che l’elemento svolgeva
prima.
Alla fine di tutto possiamo dire che una lingua è un codice che organizza un sistema di segni dal significante
primariamente fonico-acustico, arbitrari a ogni livello e doppiamente articolati, capaci di esprimere ogni esperienza
esprimibile, posseduti come conoscenza interiorizzata che permette di produrre infinite frasi a partire da un numero
finito di elementi.
Un’altra distinzione da attuare è quella tra sistema astratto e realizzazione concreta, fra LANGUE e PAROLE (termini
francesi), uno dei cardini del pensiero di Saussure.
LANGUE: l’insieme di conoscenze mentali, regole interiorizzate del codice lingua, che costituiscono le nostra capacità
di produrre messaggi in una certa lingua, sono possedute in egual misura come sapere astratto, e in genere inconscio, da
tutti i membri di una comunità linguistica omogenea.
PAROLE: l’atto linguistico individuale, la realizzazione concreta di un messaggio verbale in una certa lingua.
Tra questi due termini c’è l’opposizione fra “astratto, sociale e stabile/costante” per la prima, “concreto, individuale e
mutevole” per la seconda. Alcuni linguisti propongono una terza entità intermedia, la NORMA: un filtro tra l’uno e
l’altro, specifica quali sono le possibilità del sistema attualizzate nell’uso dei parlanti di una lingua in un certo periodo
storico, in italiano si ha, per es. la formazione di nomi a partire dai verbi (NOMI DEVERBALI) con il valore di
indicare l’azione, il processo o il risultato di quanto significato dal verbo mediante il suffisso -azion(-e) o -ament(-o)
applicato alla radice verbale, alcune combinazioni sono obbligatorie, come affidamento o cambiamento (non
affidazione o cambiazione), mentre in altri casi vanno entrambi bene ma hanno un significato diverso (Mutamento vs
Mutazione), in altri ancora non c’è nessuno dei due suffissi (lavaggio).
La terza distinzione è tra ASSE PARADIGMATICO e ASSE SINTAGMATICO, di cui si occupa la linguistica
strutturale. Il primo riguarda le relazioni a livello del sistema (segni in una certa posizione scelti da un insieme di
elementi selezionabili in quella posizione, detto anche “Asse delle scelte”. Es. scelgo “gatto”, “mangia” e “il”), il
secondo riguarda le relazioni a livello delle strutture che realizzano le potenzialità del sistema (i segni scelti prima
implicano la presenza di altri elementi precedenti e susseguenti a esso nello stesso messaggio, detto anche “Asse delle
combinazioni”. Es. dispongo i 3 segni cosi: “Il gatto mangia”).
Nella lingua esistono 4 tipi di analisi, in base alla biplanarità e alla doppia articolazione, che identificano 3 strati diversi
di segno linguistico: lo STRATO DEL SIGNIFICANTE come mero significante, come portatore di significato e lo
STRATO DEL SIGNIFICATO, 3 livelli sono relativi al piano del significante, uno per la seconda articolazione
(fonetica e fonologia), due per la prima articolazione, che riguardano entrambi l’organizzazione del significante in
quanto portatore di significato (morfologia e nella sintassi); un ulteriore livello è relativo al piano del significato
[SEMANTICA: parte della linguistica che studia il significato delle parole (semantica lessicale), degli insiemi delle
singole lettere (negli e degli alfabeti antichi) e delle frasi (semantica frasale) e dei testi].
Vi sono anche sottolivelli secondari di analisi, come la GRAFEMATICA (come la realtà fonica è tradotta nella
scrittura) e la PRAGMATICA E TESTUALITÀ (l’organizzazione dei testi in situazione).
Fonetica/fonologia, morfologia, sintassi, semantica e pragmatica sono termini che designano il livello di analisi
rispettivo e la parte o sottodisciplina della linguistica che lo studia. Di questi livelli, fonetica/fonologia e sintassi
rappresentano i livelli più esterni essendo le interfacce del sistema con la realtà esterna, con la sostanza materiale che fa
da supporto al veicolo fisico della comunicazione (fonetica) da un lato e dell’altro con la concettualizzazione e
categorizzazione cognitiva che l’uomo compie del mondo in cui vive (semantica). Morfologia e sintassi invece
rappresentano i livelli o componenti interni, in cui il sistema si organizza secondi i principi che governano la facoltà di
linguaggio in quanto competenza specifica dell’uomo.
2. FONETICA E FONOLOGIA
2.1 FONETICA
FONETICA: parte della linguistica che studia come sono fatti fisicamente i suoni usati per creare i segni delle lingue,
si divide in 3 campi principali:
- FONETICA ARTICOLATORIA: studia i suoni del linguaggio in base a come vengono articolati
- FONETICA ACUSTICA: studia i suoni del linguaggio in base alla loro consistenza fisica e modalità di
trasmissione (in quanto onde sonore che si propagano nello spazio)
- FONETICA UDITIVA: studia i suoni del linguaggio in base al modo in cui vengono ricevuti
I suoni vengono prodotti con l’espirazione tramite un flusso d’aria EGRESSIVO (l’aria muovendosi dai polmoni
attraverso i bronchi e la trachea raggiunge la laringe), alcuni di questi invece con l’inspirazione tramite un flusso d’aria
INGRESSIVO o senza la partecipazione dei polmoni, APNEUMONICI (prodotti indipendentemente dalla
respirazione, questi ultimi sono detti AVULSIVI e sono presenti in lingue dell’Africa centrale e meridionale).
Nella laringe l’aria incontra le corde vocali (o PLICHE LARINGEE, la parte della laringe dove si trovano è detta
GLOTTIDE), due pieghe di mucosa che durante la fonazione si contraggono e si tendono, avvicinandosi o
accostandosi l’un l’altra (altrimenti sarebbero rilassate e separate).
Lo spazio in mezzo (RIMA VOCALE) può essere completamente/parzialmente libero, o completamente ostruito. Cicli
rapidi di chiusure e aperture della rima, provocati dalla pressione dell’aria creano le vibrazioni delle corde vocali.
L’insieme di fenomeni si chiama MECCANISMO LARINGEO ed è il momento fondamentale della produzione dei
suoni del linguaggio perché dà luogo alla voce. I cicli di chiusura e apertura costituiscono la FREQUENZA
FONDAMENTALE (misurata in Hertz).
L’aria comunque passa nella faringe e poi nella cavità orale, la parte posteriore del palato (il velo) può lasciare aperto
oppure chiudere, spostandosi all’indietro, il passaggio fra faringe e la cavità nasale.
Nella cavità orale poi svolgono una funzione importante la lingua (divisa in radice, dorso e apice), il palato (da cui
separiamo il velo palatale o palato molle), gli alveoli (la zona immediatamente retrostante ai denti), i denti e le labbra.
Quando il velo e l’ugola sono a riposo l’aria passa anche nella cavità nasale, permettendoci di usarla per certi suoni.
In base alla configurazione degli organi tra glottide e labbra si ottengono i suoni del linguaggio, il punto preciso in cui
viene articolato un suono serve per identificarlo, infatti il primo parametro è il MODO DI ARTICOLAZIONE (la
conformazione degli organi fonatori e il restringimento relativo che in un certo punto si frappone o no al passaggio
dell’aria). Un altro parametro è dato dal contributo della mobilità di singoli organi all’articolazione dei suoni.
In base al modo di articolazione possiamo già distinguere alcuni tipi di suoni: le vocali e le consonanti, rispettivamente
senza e con ostacoli parziali o totali al passaggio d’aria. I suoni prodotti con la vibrazione delle corde vocali accostate e
tese sono detti “sonori”, se prodotti senza vibrazione delle corde sono “sordi”, se le vocali possono essere solo sonore,
le consonanti possono essere l’una o l’altra.
Il blocco d’aria per le consonanti può essere totale, mediante un’occlusione momentanea ma totale col contatto di parti
di organi, oppure parziale con un semplice restringimento, le prime sono consonanti OCCLUSIVE (p, b), le seconde
FRICATIVE (f, v). Da queste ultime vanno distinte le APPROSSIMANTI, in cui l’avvicinamento degli organi
articolatori non arriva a provocare una frizione così sensibile, lo sono le semiconsonanti e le semivocali.
Esistono anche suoni consonantici che partono come occlusive e terminano come fricative, sono consonanti “composte”
chiamate anche AFFRICATE (pf, ts).
CONSONANTI LATERALI: l’aria passa solo ai 2 lati della lingua (o uno solo) (l)
CONSONANTI VIBRANTI: si hanno rapidi contatti intermittenti tra lingua e un altro organo articolatorio (r), con le
laterali possono essere riunite sotto l’etichetta “LIQUIDE”
CONSONANTI NASALI: vi è passaggio dell’aria anche attraverso il naso (m, n)
L’energia articolatoria (tensione muscolare) con cui vengono prodotte le consonanti può dar luogo a consonanti più
forti, le occlusive SORDE, a quelle meno forti, le APPROSSIMANTI. Le occlusive sono in genere più forti delle
fricative, e le sorde sono più forti delle sonore. Un altro parametro utile per le occlusive e le affricate davanti a una
vocale è la presenza di ASPIRAZIONE: un intervallo di tempo fra il rilascio dell’occlusione o della tenuta della
consonante e l’inizio della vibrazione delle corde vocali, che produce una specie di soffio laringale, tali consonanti sono
dette ASPIRATE.
Anche il punto dell’apparato fonatorio in cui sono articolate è importante, ci sono le consonanti BILABIALI (prodotte
dalle o tra le labbra come p, b), LABIODENTALI (fra arcata dentaria superiore e labbro inferiore come f, v),
DENTALI (a livello dei denti come t, s), ALVEOLARI (dalla lingua contro gli alveoli come d, z), PALATALI (dalla
lingua contro il palato come k, g), VELARI (dalla lingua contro o vicino al velo come k, g), UVULARI (dalla lingua
contro o vicino all’ugola come q, x), FARINGALI (fra la base della radice della lingua e la parte posteriore della
faringe come I di Iraq), GLOTTIDALI/LARINGALI (nella glottide, a livello delle corde vocali come h di “have”).
Una classificazione più precisa in cui consideriamo anche la parte della lingua che usiamo ci farebbe distinguere anche
le consonanti CORONALI (con la parte anteriore della lingua, chiamata Corona), APICO-DENTALI (dall’apice della
lingua contro o vicino ai denti), APICO-ALVEOLARI (dall’apice contro o vicino al palato) o RADICO-VELARI
(dalla radice della lingua contro o vicino al velo). Poi ci sarebbero anche le consonanti RETROFLESSE (o
CACUMINALI o INVERTITE) che si articolano flettendo all’indietro la punta della lingua, o apice, verso la parte
anteriore del palato (com’è “tr” di tre).
Per le vocali la lingua è l’organo principale che modifica il modo in cui vengono articolate, considerandone i gradi di
AVANZAMENTO/ARRETRAMENTO e INNALZAMENTO/ABBASSAMENTO. In base al primo parametro
esistono vocali ANTERIORI o PALATALI (articolate con la lingua in posizione avanzata come i, e), CENTRALI
(come a) e POSTERIORI o VELARI (con la lingua in posizione arretrata come o, u); in base al secondo parametro
abbiamo vocali ALTE o CHIUSE (come i, u), MEDIE (con la distinzione fra MEDIO-ALTE come o SEMICHIUSE
come e, o, MEDIO-BASSE o SEMIAPERTE come e, o, SEMI-ALTE come i, e SEMI-BASSE come ae) e BASSE
come a, o APERTE.
C’è un punto della bocca in cui le vocali vengono articolate, ed è il TRAPEZIO VOCALICO.
Giocano un ruolo importante anche le labbra, perché distinguono le vocali ARROTONDATE (o labializzate,
solitamente le vocali anteriori, ma esistono delle eccezioni) e NON ARROTONDATE (o non labializzate, solitamente
le vocali posteriori, ma esistono delle eccezioni); e anche il naso, che distingue le vocali NASALI da quelle NON
NASALI.
A metà fra vocali e consonanti fricative ci sono le semivocali, o APPROSSIMANTI: suoni prodotti con un semplice
inizio di restringimento del canale orale, possono essere anch’esse anteriori o posteriori (palatali o velari), sono distinte
dalle semiconsonanti e assieme alla vocale a cui sono sempre contigue nella catena fonica costituiscono un dittongo (o
trittongo se più di una).
I sistemi di scrittura delle varie lingue, o meglio le GRAFIE ALFABETICHE, non sono univoche e coerenti tra di
loro, lo stesso suono in due grafie potrebbe scriversi in modo diverso e viceversa, una combinazione di consonanti o
vocali si legge in un modo mentre in determinate circostanze in un altro ecc. L’italiano è abbastanza fedele a livello
fonografico, in quanto abituati e pronunciare “come si scrive”. Altre lingue invece non sono così, come l’inglese che
non pronuncia certe consonanti o vocali (come in “knight”, in cui non si pronuncia la k). Ciò che interessa al linguista
tuttavia non è la grafia, ma la fonìa, ecco perché esiste l’ALFABETO FONETICO INTERNAZIONALE (o IPA), la
cui prima versione nacque nel 1888.
2.2 FONOLOGIA
FONO: Realizzazione concreta di ogni suono del linguaggio
Quando i foni si oppongono ad altri foni nel distinguere e formare le parole di una lingua, si dice che funzionano da
Fonemi, le unità minime in Fonologia
FONOLOGIA: studia l’organizzazione e il funzionamento dei suoni nel sistema linguistico.
“Mare” è costituito da 4 foni diversi, che si possono pronunciare diversamente (la a anteriorizzata invece che centrale)
ma la parola sarà sempre identificata come mare, tuttavia ogni fono distingue/oppone mare a pare, more, male, mari ecc.
Ciascuno dei 4 fonemi di Mare è identificato per opposizione, mediante la PROVA DI COMMUTAZIONE:
procedimento di scoperta che consiste nel confrontare un’unità in cui compaia il fono di cui vogliamo dimostrare se è o
no fonema con altre unità della lingua uguali in tutto tranne che nella posizione in cui si trova il fono in oggetto. Vocali
e consonanti (e semivocali) si oppongono fra loro. Vocali e consonanti quindi sono in opposizione sintagmatica, o
“contrasto”, mentre all’interno delle due classi, cioè fra consonanti e semivocali da un lato e vocali dall’altro, c’è
opposizione paradigmatica.
FONEMA: Unità minima di seconda articolazione del sistema linguistico, più precisamente una classe astratta di foni,
con un valore distintivo che oppone una parola a un’altra in una data lingua.
ALLOFONI: Foni diversi che creano realizzazioni foneticamente diverse di uno stesso fonema, ma prive di valore
distintivo (come la n di “dente” in base a dov’è pronunciato, se a nord o a sud)
VARIANTI COMBINATORIE: allofoni di un fonema condizionati dal contesto fonotattico del caso.
COPPIA MINIMA: Coppia di parole uguale in tutto e per tutto tranne che per un fonema (“mare” e “pare”).
Per dimostrare che un fono è un fonema in una data lingua bisogna trovare in essa delle coppie minime che lo
oppongano a un altro fonema. Il fonema in ogni caso non è un segno perché non ha significato.
I fonemi si analizzano in base alle loro caratteristiche articolatorie: se sono occlusive, dentali, sorde o altro, hanno
infatti un fascio di proprietà articolatorie che si realizzano simultaneamente, grazie ad esse si possono analizzare sul
piano della fonologia.
Due fonemi sono differenziati da almeno un tratto fonetico binario (o c’è o non c’è: o è sorda o è sonora), e grazie a
questa informazione si è sviluppata la TEORIA DEI TRATTI DISTINTIVI, per rappresentare i fonemi come un
fascio di alcuni tratti con un valore + o – in base a quali tratti hanno.
Importanti tratti distintivi sono rispettivamente:
- CORONALI: foni prodotti con la corona (la parte anteriore della lingua), sollevata rispetto alla posizione di
riposo (la “t”)
- SONORANTI: foni prodotti a canale vocale aperto e libero, senza variazione di pressione fra l’interno e
l’esterno della cavità orale, (vocali, approssimanti, consonanti liquide)
- SILLABICI: foni che costituiscono il nucleo della sillaba
- ATR (ADVACED TONGUE ROOT: Radice della lingua avanzata): contraddistingue i foni prodotti con la
radice della lingua in avanti (i, e, o, u)
Non esiste un singolo inventario fonematico per tutte le lingue, e non hanno lo stesso numero di fonemi: l’inglese ne ha
34 (44 se si contano i dittonghi), il francese 36, il tedesco 38, l’italiano 28/30 in base agli autori: neanche tra autori della
stessa lingua si è d’accordo sul numero, che varia in base ai criteri adottati. Il numero maggiore di fonemi in una lingua,
registrato in Africa meridionale, è di 140, e il minore, registrato nell’America meridionale, è di circa 10/20 in base alla
lingua.
Riguardo all’italiano, l’inventario presenta diversi problemi, ci si deve basare sulla pronuncia per trascrivere
foneticamente una parola, e spesso uno stesso simbolo può avere diverse interpretazioni (la zeta che può valere come
/dz/ o /ts/ nella grafia normale, ma il simbolo IPA è /z/).
Altro problema in italiano è l’uso delle consonanti lunghe (o doppie/geminate); se accettiamo che [‘kane] vs [‘kanne]
([‘kan:e]) costituisca una coppia minima, lo è se consideriamo [‘kanne] come formata da 4 fonemi anziché 5: /k/, /a/,
/n:/ (n lunga anziché /n/ + /n/), /e/ dobbiamo portare a 15 i fonemi italiani, essendo 15 le consonanti che possono dar
luogo a coppie minime basate sulla lunghezza (le affricate dentali, la fricativa palatale, la nasale e la laterale palatali
sono sempre lunghe se si trovano fra due vocali in italiano standard).
Problemi sono riscontrati anche tra regione e regione in cui cambia la pronuncia, e quindi troviamo opposizioni fra /s/
e /z/, /ts/ e /dz/, /j/ e /i/ e fra /w/ e /u/ (nel nord la fricativa dentale (o alveolare) è sempre sonora in posizione
intervocalica, quindi si dice Chiese [‘kjƐ:ze], mentre in meridione si dice [‘kjƐ:se]).
Vi è anche l’opposizione fra vocali medio-alte e medio-basse, questa solo in posizione tonica, ovvero quando le
rispettive vocali sono in sillaba accentata, tipica della varietà tosco-romana di italiano, ma è ignota o ha distribuzione
diversa e più ristretta in altre regioni (Quindi avremo /’peska/ “il pescare” e /’pƐska/ il frutto).
RADDOPPIAMENTO (FONO)SINTATTICO: allungamento della consonante iniziale di una parola quando è
preceduta da una delle parole di una serie che provoca il fenomeno (“Dove vai?” “A Roma”: [‘do:ve vvaj] [‘a
r’ro:oma])
Molto importanti sono anche le PROPRIETÀ FONOTATTICHE dei foni e le combinazioni in cui essi possono
occorrere, in base al contesto precedente e seguente viene condizionata la comparsa di un certo fono in una certa
posizione. Un ruolo decisivo nella costituzione di parole lo svolgono le SILLABE: minime combinazioni di fonemi che
funzionano come unità pronunciabili e possono essere utilizzate come “mattoni preconfezionati”, sono sempre costruite
attorno alle vocali, una consonante/approssimante deve sempre appoggiarsi a un nucleo fonico, in genere la vocale che
forma il NUCLEO o “testa” (in alcune lingue esiste il tratto /+ sillabico/ quando alcune consonanti fungono da apice,
come “r” e a volte “l” o “n”). La struttura fonica della parola comunque è data dall’alternanza di foni più tesi e “chiusi”
(le consonanti) e foni più rilassati e “aperti” (le vocali), ogni sillaba ha almeno una vocale e alcune sillabe sono formate
solo da una singola vocale, mentre le consonanti non possono combinarsi liberamente per via di restrizioni fonotattiche,
sulla distribuzione e combinabilità dei fonemi e sulle sequenze possibili nelle lingue.
In ogni lingua esistono strutture sillabiche canoniche preferenziali, in italiano sono V (a-pe), VC (al-to), CCV (sti-le),
CVC (can-to), CCCV (stra-no). Mentre altre strutture non sono concesse, la CC può presentarsi sia in italiano che in
inglese (come in “sport”) o derivate da sigle o abbreviazioni.
I CRITERI FONETICI E FONOLOGICI per produrre sillabe in italiano sono:
- 2 consonanti contigue in una parola sono assegnate alla sillaba con la vocale seguente come nucleo, se tale
combinazione compare anche a inizio parola (ma-gro o gre-co), altrimenti sono assegnate la prima alla sillaba
precedente e la seconda alla seguente (tan-to);
- Analizzando le consonanti doppie o lunghe, chiudono la sillaba che le precede “spezzandole” (gat-to)
La parte che precede la vocale è detta ATTACCO, la vocale è il NUCLEO e la parte che la segue è la CODA ed è
sempre una consonante o una semivocale (CVC, C’: Attacco, V: Nucleo, C”: Coda). Le sillabe con la coda sono
CHIUSE (o implicate), senza coda sono APERTE (o libere).
Nucleo e Coda assieme formano la RIMA, in tale prospettiva la sillaba possiede una struttura gerarchica a due livelli:
La sillaba è formata da Attacco a Rima, quest’ultima è formata da Nucleo e Coda.
DITTONGO: combinazione di un’approssimante e una vocale, quest’ultima è sempre l’apice sillabico, se è V+Appr il
dittongo è discendente (Auto [‘awto]à [aw] + [to]), al contrario invece è ascendente (Pieno [‘pjƐ:no]à [pjƐ] + [no]).
TRITTONGO: combinazione di due approssimanti e una vocale (Aiuola [a’jwס:la]à [a] + [jw ]ס+ [la])
TRATTI SOPRASEGMENTALI: Una serie di fenomeni fonetici e fonologici che riguarda principalmente la
successione lineare tra i foni delle parole della catena parlata, agiscono al di sopra del singolo segmento minimo,
riguardando le relazioni fra foni sull’asse sintagmatico
TRATTI PROSODICI: concernono l’aspetto melodico della catena parlata e determinano l’andamento ritmico. I
fondamentali sono accento, tono e intonazione, lunghezza e durata relativa, oltre che ritmo (e pause) e tempo (o velocità
di elocuzione).
ACCENTO: particolare forza o intensità di pronuncia di una sillaba, che presenta una prominenza fonica rispetto alle
altre (ovvero le sillabe atone). Non in tutte le lingue ha lo stesso rilievo o è ottenuto allo stesso modo, ma in genere è
dovuto a un aumento della pressione dell’aria nel canale orale.
Non va confuso con l’ACCENTO GRAFICO: un simbolo diacritico impiegato in italiano per indicare nella grafia la
posizione dell’accento fonico ossitone (il cui accento va sempre segnato, come in “città”), indicare la differenza fra
monosillabi omofoni (“da” preposizione vs “dà” verbo) o la differenza di timbro delle vocali intermedie, con cui
l’accento può essere usato quello GRAVE per indicare la vocale aperta o medio-bassa, e quello ACUTO per indicare la
vocale chiusa o medio-alta (è vs é, princìpi vs prìncipi). In italiano l’accento grafico si segna solo in parole
plurisillabiche tronche o su alcuni monosillabi. La posizione dell’accento può essere libera o fissa, in alcune lingue
come il francese è fissa (cade sempre sull’ultima sillaba o sillaba finale del gruppo, in finlandese o svedese sulla prima),
in altre invece è libera, e in questi casi si usa per distinguere due parole graficamente uguali (si parla quindi di
VALORE FONEMATICO dell’accento). In italiano è libero e si trova principalmente sull’ultima, penultima o
terzultima sillaba, più raramente sulla quartultima o addirittura quintultima (ma solo nelle parole composte con pronomi
CLITICI: elementi che nella catena fonica non possono rappresentare la sillaba prominente e recare accento proprio, e
devono “appoggiarsi” su un’altra parola, come articoli e pronomi personali atoni: me e lo.
Nelle parole con 4 o più sillabe esistono uno o più accenti secondari, emergenze relative di altre sillabe che fanno da
contrappeso alla sillaba fonica (“fabbricamelo” ha l’accento secondario su “-lo”).
Il susseguirsi di elementi forti e deboli, assieme ai fenomeni di durata, da luogo al “ritmo”, l’italiano è una lingua a
ISOCRONISMO SILLABICO: in una parola viene assegnata una durata analoga alle sillabe atone mentre l’inglese è
una lingua fondamentale a ISOCRONISMO ACCENTUALE: per mantenere costante la distanza fra gli accenti viene
assegnata durata via via minore alle sillabe atone quanto più sono numerose.
PIEDE: associazione di una sillaba forte (tonica) e una sillaba debole (atona). A seconda dell’ordine in cui i due
componenti del piede si pongono, ci sono 2 tipi di ritmi (Ritmo TROCAICO: sillaba forte precede la debole, il
contrario è il ritmo GIAMBICO).
TONO: l’altezza relativa di una pronuncia di una sillaba, dipende dalla tensione delle corde vocali e della laringe, e
quindi dalla velocità e frequenza delle vibrazioni delle corde vocali, queste determinano la FREQUENZA
FONDAMENTALE: il principale parametro dei fenomeni di tonalità (aumento di frequenza: tono alto, diminuzione
frequenza: tono basso, innalzamento relativo della frequenza: tono ascendente, abbassamento frequenza: discendente).
Nelle LINGUE TONALI (cinese, tailandese, svedese ecc.) il tono può distinguere da solo parole diverse ma
foneticamente uguali.
INTONAZIONE: l’andamento melodico con cui è pronunciato un GRUPPO TONALE/RITMICO (la parte di una
sequenza o catena parlata pronunciata con una sola emissione di voce) o un intero enunciato. In alcune lingue
l’intonazione permette di capire se si ha un’affermazione, un’esclamazione, un ordine, una domanda ecc.
LUNGHEZZA: riguarda l’estensione temporale relativa con cui i foni e le sillabe sono prodotti, vocali e consonanti
fricative possono essere tenute per un tempo teoricamente indeterminato, le consonanti occlusive no (in ogni caso
sarebbe più corretto parlare di foni più o meno lunghi).
La quantità di vocali o consonanti può avere VALORE DISTINTIVO, in italiano la quantità minima, o durata di
lunghezza, delle consonanti non ha funzione distintiva, se non supponiamo che le consonanti semplici o doppie nella
grafia realizzino un’opposizione di durata. È possibile infatti analizzare ogni consonante doppia con una corrispondente
semplice o come la ripetizione in contiguità dello stesso fonema, o invece come fonema a sé opposto alla
corrispondente scempia. In tal caso le consonanti doppie sono lunghe, e le semplici brevi.
Per le vocali, la durata in italiano non è pertinente, quella suscettibile di un allungamento enfatico (enfatizzo la a di
mano “maaaano” ma rimane comunque una mano) è soprattutto la tonica, già un po’ più lunga delle altre.
SPETTROGRAMMI: diagrammi ottenuti dalla fonetica sperimentale su base acustica analizzando il suono tramite
appositi apparecchi, per fornire rappresentazioni dei caratteri fisici della catena parlata prodotta. Sull’asse delle ascisse
viene rappresentato il tempo (durate), sull’asse delle ordinate le frequenze, l’intensità del suono si rappresenta dal grado
di annerimento del tracciato.
3. MORFOLOGIA
3.1 PAROLE E MORFEMI
MORFOLOGIA: studio delle unità minime di prima articolazione e del modo in cui si combinano per formare segni
che fungano da entità autonome della lingua, le parole. Il suo ambito d’azione è la struttura della parola.
PAROLA: la minima combinazione di elementi minori dotati di significato, i morfemi (costituita quindi da almeno un
morfema), costruita spesso attorno a una base lessicale (un morfema con significato referenziale), che funga come entità
autonoma della lingua e possa rappresentare isolatamente, da sola, un segno linguistico compiuto, o comparire come
unità separabile costituiva di un messaggio.
Fra i caratteri che ne permettono una definizione e individuazione più precisa ci sono:
- All’interno della parola l’ordine dei morfemi è rigido e fisso (“gatto”, non “ogatt”)
- I confini di parola sono punti di pausa potenziale nel discorso
- La parola è di solito separata/separabile nella scrittura (ma fino al 700 si trovavano frasi senza spazi fra le
parole)
- Foneticamente la sua pronuncia non è interrotta ed è caratterizzata da un unico accento primario
Scomponendo una parola ricaviamo i morfemi, pensiamo a “dentale”: dent- (organo della masticazione) -al- (aggettivo
relativo) -e (singolare). Tutti e 3 possono entrare in relazione con altre parole, dent- diventa dente, dentario, dentista
ecc. -al- invece è un morfema che ricava aggettivi partendo dai nomi, diventa mortale, stradale ecc. invece -e esprime il
numero, in tal caso singolare, e diventa gentile, verde, studente ecc. (nel caso di studente non si divide in stu-dent-e
perché “dent-“ non c’entra nulla, bensì “stud-ent-e”).
PROVA DI COMMUTAZIONE: Serve per scomporre una parola, e ha questi step; si prende una parola simile dalla
forma vicina, con presumibilmente i morfemi da individuare; per “dentale” troviamo “dentali”, quindi il primo morfema
è -e e il suo valore è singolare (essendo “dentali” plurale), poi possiamo confrontarlo con “stradale”, trovando -al- e
quindi anche dent-, confrontando dentale con “dente” ne avremo la prova.
MORFEMA: l’unità minima di prima articolazione, la minima associazione di un significante e un significato, il
secondo è dato dalla somma e combinazione di significati dei singoli morfemi che la compongono. Un suo sinonimo è
MONEMA, chi usa questo termine ne distingue due tipi: i SEMANTEMI se sono elementi lessicali, MORFEMI se
sono elementi grammaticali.
In Morfologia c’è la distinzione tra morfema, morfo e allomorfo, col suffisso -ema i linguisti si designano le unità
minime fondamentali di un livello di analisi viste come unità astratte, di langue, mentre il suffisso -o designa le
corrispondenti unità concrete di parole.
MORFO: morfema inteso come forma, il significante del morfema insomma (il morfema del singolare è realizzato dal
morfo -e) è la “lettera”
ALLOMORFO: le forme diverse in cui si può presentare un morfema che potrebbe comparire sotto forme
parzialmente diverse. Per stabilirli l’elemento individuato deve avere sempre lo stesso significato e deve trovarsi nella
medesima posizione nella struttura della parola. Il morfema lessicale che significa “spostarsi avvicinandosi verso un
luogo determinato” è quello nel verbo venire, che appare in diverse forme ven-, venn-, veng- vien- e ver-, sono tutti
allomorfi dello stesso morfema, cioè ven-. -abil-, -ibil-, -ubil- sono allomorfi dello stesso morfema, col valore
funzionale di formare aggettivi con un significato di potenzialità.
L’allomorfia può quindi riguardare sia i morfemi lessicali che grammaticali, le cause di tale fenomeno vanno ricercate
nella diacronia: bisogna riportare a trasformazioni avvenute nella forma delle parole e dei morfemi, spesso per ragioni
fonetiche, lungo l’asse del tempo: molti fenomeni di allomorfia sono dovuti a mutamenti fonetici e a diverse trafile con
cui le parole si sono trasmesse dal latino all’italiano. Se si parla di allomorfia serve una certa affinità fonetica tra i morfi
che realizzano lo stesso morfema, vicinanza dovuta alla stessa origine (punto di vista diacronico) o a modificazioni
fonetiche dovute all’incontro con altri foni (FENOMENI FONOSINTATTICI, punto di vista sincronico). in- e il- di
inutile e illecito sono allomorfi di in-, davanti a una vocale rimane invariato ma davanti a consonanti laterali, vibranti e
nasali la n si assimila alla consonante seguente.
SUPPLETIVISMO: Spesso un morfema può essere sostituito da un altro dalla forma totalmente diversa (e spesso lo è
anche l’origine etimologica), come acqu- e idr-, una proveniente dal latino e una dal greco.
Prendiamo “Dentale”: Dent- è un morfema lessicale sulla cui base è costituita la parola piena, -al- e -e danno un
significato interno alla grammatica della lingua (significato funzionale/grammaticale); -al- è un morfema
DERIVAZIONALE (che fa parte dei grammaticali): forma parole derivandole da altre già esistenti; -e è
FLESSIONALE (che fa parte dei grammaticali): attualizza una delle varie forme in cui compare una parola,
marcandola flessionalmente e indicando se è una forma singolare, senza modificare il significato della base.
Mentre i morfemi lessicali sono una classe aperta ancora espandibile, quelli grammaticali sono chiusi, non vengono
accolte nuove unità (a meno di fenomeni di mutamento linguistico drastici).
La distinzione fra queste due categorie non sempre è completamente chiara e applicabile, è il caso delle PAROLE
FUNZIONALI (o vuote) come articoli, pronomi personali, preposizioni, congiunzioni; classi non considerabili a pieno
titolo morfemi grammaticali (anche perché alcuni sono scomponibili, come “lo” l-o per commutazione con “la” e
“le”).
I morfemi possono essere anche chiamati LIBERI (LESSICALI) e LEGATI (GRAMMATICALI), i secondi
possono solo combinarsi con altri morfemi. Distinzione utile più in inglese che in italiano, dove anche i lessicali sono
legati, gli affissi invece sono di default morfemi legati.
DERIVAZIONE: da luogo a parole regolandone i processi di formazione
FLESSIONE: da luogo a forme di una parola regolandone il modo in cui si attualizzano nelle frasi, entrambi sono i due
grandi ambiti della morfologia.
A partire da certe radici o basi lessicali, la derivazione agisce prima della flessione: prima costruiamo la parola, poi le
applichiamo le dovute flessioni. Questo e la “non interrompibilità” delle parole han come conseguenza che di solito i
morfemi flessionali stanno più lontani dalla radice lessicale rispetto ai derivazionali, che invece tendono a disporsi
immediatamente contigui alla radice: can-e con l’ordine radice lessicale-morfema flessionale, e can-il-e con ordine
radice lessicale-morfema derivazionale-morfema flessionale.
Inoltre mentre la derivazione non è obbligatoria, la flessione lo è.
La classificazione dei morfemi grammaticali avviene in base alla sua posizione nella parola rispetto al morfema
lessicale/radice.
AFFISSI: Morfema che si combina con una radice
PREFISSI: Affissi che stanno prima della radice. In italiano sono solamente derivazionali
SUFFISSI: Affissi che stanno dopo la radice
DESINENZE: Suffissi con valore flessionale (per es. se maschile o femminile), che in lingue come l’italiano stanno
sempre in ultima posizione della parola
INFISSI: Affissi inseriti dentro la radice (come -ic- di “Cuoricino”)
CIRCONFISSI: Affissi formati da due parti, una prima della radice e l’altra dopo, e che quindi contengono al loro
interno la radice (ge-t in tedesco, per esempio in “Gesagt”: detto)
Nella TRASCRIZIONE MORFEMATICA la forma dei morfemi si può scrivere tra graffe indicando sotto, con le
sigle e abbreviazioni (nel caso di morfemi grammaticali) significato e valore:
TRANSFISSI: o Confissi, affissi che si incastrano alternativamente dentro la radice, creando discontinuità dell’affisso
e della radice, la morfologia dell’arabo si basa su di essi
MORFEMI SOSTITUTIVI: Morfemi i cui morfi non sono isolabili segmentalmente, si manifestano con la
sostituzione di un fono ad un altro fono. Essi consistono in mutamenti fonici della radice e sono praticamente da essa
inseparabili (il plurale inglese di “foot” che diventa “feet”)
MORFEMA ZERO: o Morfo Zero, se ne parla quando nel significante la differenza grammaticale non viene
rappresentata (come in inglese “Sheep” che a plurale rimane identico). In italiano è diverso dato che il plurale non è
dato da un morfo da aggiungere ma dall’alternanza delle desinenze: i nominali in italiano non si presentano mai, tranne
l’eccezione di sostantivi invariabili.
MORFEMI SOPRASEGMENTALI: o Superfissi/Soprafissi, morfemi in cui un certo valore morfologico si manifesta
tramite un tratto soprasegmentale come l(a posizione dell)’ accento o il tono.
Certi valori morfologici in certe lingue vengono affidati a processi, uno di questi è la REDUPLICAZIONE: ripetere la
radice lessicale, o una sua parte (come “bambino” in indonesiano, che dal singolare al plurale si trasforma da “anak” a
“anak-anak”).
MORFEMI CUMULATIVI: Morfemi grammaticali con più di un significato o valore in sé, “Buone” per es. vale
insieme “femminile” e “plurale”
Il valore di indicare una classe flessionale ha uno statuto un po’ problematico nello stabilire la natura di un morfema, in
quanto indica una classe, o paradigma, formale di appartenenza di una parola; il problema è simile a quelle delle vocali
tematiche. Per ovviare a ciò è stata introdotta una nuova entità, anch’essa priva di forma fonologica concreta e con un
significato esclusivamente morfologico, senza controparte semantico-funzionale detta MORFOMA: con una regolarità
strutturale astratta, o schema, ricorrente all’interno di paradigmi morfologici, nozione che permette di dare conto di
cooccorrenze nella selezione della base che si trovano solitamente in forme flesse di verbi latini come “Scribo”
(scrivere), in cui la base è “scrib-“ nel presente e nell’imperfetto, “script-“ nel supino (scriptum) e nel participio passato
(scriptus) ecc.
Un caso particolare di morfema cumulativo può essere il cosiddetto AMALGAMA (o MORFEMA
AMALGAMATO): Morfemi cumulativi dati dalla fusione di due morfemi in modo tale che nel risultato non si
distinguano più i due originali, come la preposizione articolata francese Au “Al” (da “a” + le “il”), o l’articolo
determinativo plurale “i” in italiano, fusione tra il morfo dell’articolo determinativo l- e del maschile plurale -i.
“Abil”: ricava aggettivi con valore di potenzialità da una base verbale (socializzabile: “che può essere socializzato”).
In italiano nella maggioranza delle forme verbali e deverbali (parole derivate dai verbi) c’è il problema della VOCALE
TEMATICA: la vocale iniziale della desinenza dell’infinito dei verbi: Are, Ere, Ire. Poiché si ritiene abbia un
significato, seppur di natura speciale, del tutto esteriore, in quanto indica l’appartenenza della forma a una determinata
classe di forme della lingua (le coniugazioni sono classi flessionali), potremmo scomporre Abil in {a}-{bil} e
considerarlo un allomorfo del suffisso che crea aggettivi deverbali con valore potenziale, o analizzarlo ulteriormente
come formato da due morfemi, a cui la vocale tematica corrisponde un reale significato che modifichi la base.
Vi è anche la terza possibilità, considerare la vocale tematica come parte della radice lessicale, (cambia-ment-o), è
quella preferita dalla teoria morfologica recente (che spiega l’omofonia della radice con la 3 pers. sing. come risultato
della cancellazione di vocali in iato: cambia- + -a: cambia).
PREFISSOIDI: Morfemi che sono lessicali e derivazionali, radici e prefissi allo stesso tempo (socio- e soci- che stanno
per “società”, che si comportano e funzionano come prefissi, mettendosi davanti a un’altra radice lessicale per
modificarne il significato.
SUFFISSOIDI: morfemi con significato lessicale, come le radici, ma che si comportano come suffissi nella formazione
delle parole (-logi(-a), -metr(-o) in cronometro, quest’ultimo morfema va distinto da “metro” come unità di misura;
esiste anche metro- prefissoide, come in metronomo).
Entrambe le due categorie si trovano principalmente in parole delle lingue classiche, specie dal greco, e funzionano in
sincronia come affissi, morfemi derivazionali, ma con il significato tipico dei morfemi lessicali ereditato dalle parole
piene da cui sono tratti (sono chiamati anche “semiparole”).
Un Prefissoide interessante è auto- (autòs dal greco: (sé) stesso), si sono formate parole in cui esso vale come “da/di sé
stesso”: autonomia, autocritica ecc. e fra le altre “automobile” (che si muove da sé), che abbreviata diventa auto
(macchina) formando altre parole con uno statuto diverso rispetto all’originale: autocarro, autolavaggio ecc. (abbiamo
una “composizione”, non una prefissazione).
PAROLE COMPOSTE: parole formate dall’aggancio di due parole ancora riconoscibili (nazionalsocialismo,
portacenere, cassaforte), in tedesco è molto usato. In italiano la composizione segue l’ordine modificato-modificatore,
la seconda modifica la prima (la testa sintattica) (es. cassaforte è una cassa resistente). Possono essere
ENDOCENTRICI (Testa a sinistra che specifica categoria e trasmette genere e tratti sintattico-semantici alla parola),
ESOCENTRICI (entrambi i costituenti sono sullo stesso piano e quindi non c’è una testa), COORDINATIVI o
DVANDVA (entrambi i costituenti possono essere la testa)
Esse non vanno confuse con le UNITÀ LESSICALI
PLURILESSEMATICHE/POLILESSEMATICHE/PLURILESSICALI, costituite da sintagmi fissi che
rappresentano un’unica entità di significato (“gatto selvatico” non è un gatto che è selvatico, bensì una specie precisa di
felino, così come il gatto delle nevi non è un tipo di gatto ma un mezzo, ma anche fare il bucato, avviso di garanzia ecc.
lo sono), possono contenere nella categoria anche i verbi sintagmatici (andare via, portare fuori) o i binomi coordinati
(sale e pepe, bianco e nero), tutte unità non più di pertinenza della morfologia derivazionale.
Si trovano in posizione intermedia i BIMEMBRI: unità lessicali il cui rapporto tra le due parole costitutive non ha
raggiunto il grado di fusione tipico delle vere parole composte e i due elementi vengono rappresentati separatamente
nello scritto (sedia elettrica, parola chiave, scuola guida).
Altri meccanismi più marginali sono la lessicalizzazione di sigle e l’unione di parole diverse che si fondono con il loro
accorciamento. Se la sequenza di iniziali della sigla è compatibile con la struttura fonologica della parola in italiano,
diventa una parola autonoma (NATO North Atlantic Treaty Organization).
L’unione di parole di verse crea le “parole macedonia” (cantautore cantante+autore, ristobar ristorante+bar, smog
smoke+fog).
In italiano, suffissazione e prefissazione sono i procedimenti più importanti e produttivi, quest’ultima inoltre non muta
la classe di appartenenza dalla parola in molte lingue europee oltre l’italiano: aggiungendo un suffisso a “noia” potrebbe
uscire “noioso”.
Un altro procedimento utile in italiano è l’ALTERAZIONE: con i suffissi alterativi si creano parole che aggiungono al
significato della base lessicale un valore generalmente valutativo, e associato a particolari contesti pragmatici, che può
essere “diminutivo” (gattino), accrescitivo (donnone) o peggiorativo (robaccia).
Tra i morfemi, in italiano, possono esserci casi di omonimia, come in- che indica “negazione” (impossibile) ma anche
“avvicinamento, direzione, ingresso” (immigrato). Come suffisso può avere valore “diminutivo” (gattino) o di agente
(imbianchino), in questa parola poi c’è anche in- prefisso, con un significato connesso al secondo dei valori prefissali di
prima, imbianchino è un nome deverbale che viene da imbiancare “dare il bianco (a qualcosa)”.
Verbi così formati, con prefissazione e suffissazione come desinenza di una delle classi di coniugazione sono chiamati
VERBI PARASINTETICI (abbellire, inaridire ecc.)
Le parole derivate si possono definire in maniera da tener conto del procedimento di derivazione, della classe lessicale
della base da cui derivano e della classe lessicale a cui appartiene il risultato.
I morfemi flessionali operano sulle classi “variabili” di parole (nomi, verbi, aggettivi, articoli e in parte i pronomi),
suscettibili di accogliere la flessione. Essi realizzano valori delle categorie grammaticali: un certo morfema realizza un
valore di una certa categoria grammaticale: è la MARCA di quel valore. Le categorie grammaticali pertinentizzano e
danno espressione ad alcuni significati fondamentali, più comuni e frequenti, di portata generale, che diventano
categorici per una certa lingua e che devono essere per forza espressi, in quanto previsti dalla grammatica.
Fra le CATEGORIE GRAMMATICALI vi sono le FLESSIONALI, che riguardano il livello dei morfemi stessi
(ogni categoria è l’insieme dei valori che può assumere una certa dimensione semantica basilare elementare, ciascuno
rappresentato da un morfema).
Le categorie grammaticali flessionali si dividono in due grandi classi: quelle che operano sui nomi (o, almeno nelle
lingue a noi più familiari, in generale sui nominali: sostantivi, aggettivi, pronomi ecc.) e quelle sui verbi. In italiano la
morfologia nominale ha come categorie fondamentali il GENERE e il NUMERO, in altre lingue non esiste il genere, o
può essere marcato per più valori (per es. maschile, femminile e “neutro”), alcune lingue in Africa ne hanno una 15ina
di prefissi di genere, ovvero CLASSIFICATORI NOMINALI.
Per il numero ci sono due morfemi, singolare e plurale, certi nomi possono essere solo plurali (nozze), in altre lingue ci
sono più valori come il duale e il triale ecc.
Per il caso invece, che mette in reazione la forma della parola con la funzione sintattica che il sintagma ricopre nella
frase, in greco, in latino, in tedesco ecc. la flessione di caso è presente, in italiano ci sono “resti fossili” di flessione
casuale nel sistema dei pronomi personali (tu vs te: soggetto al caso “nominativo” vs soggetto al caso “accusativo”; lo
vs gli: “accusativo vs “dativo”).
REGGENZA: Processo col quale un verbo determina in quale caso debbano declinarsi gli elementi nominali che
costituiscono i complementi del verbo (il verbo latino “Utor”, usare/servirsi, regge l’ablativo: “clipeis uti”, usare gli
scudi). Nelle lingue che hanno anche le preposizioni possono assegnare il caso (in lat. la preposizione “Cum”, con,
regge l’ablativo: “Cum militibus”, con i soldati, dove -ibus è la desinenza dell’ablativo plurale della classe nominale a
cui appartiene miles “soldato”).
La nozione di reggenze si applica anche al rapporto fra verbi e preposizioni: pensare a, dipendere da, cambiare con ecc.
In molte lingue gli aggettivi possono essere marcati per GRADO: comparativo, superlativo, in italiano però affidiamo
alla flessione solo il superlativo, ammesso che accettiamo che bellissimo sia una delle forme della parola bello e non
una derivata (lo statuto flessionale del suffisso -issim- è opinabile).
- MODO: esprime la maniera in cui il parlante si pone nei confronti del contenuto di quanto vien detto e della
realtà della scena o evento rappresentati nella frase (indicativo mangio, che indica certezza, vs condizionale
mangerei, che indica incertezza). Ci sono vari tipi di modalità, quella assertiva (il treno parte), dubitativa (il
treno partirà?), epistemica (il treno dovrebbe essere partito), deontica (il treno deve assolutamente partire),
evidenziale (indica la natura della fonte d’informazione riferita: il treno è partito, l’ho visto io).
- TEMPO: colloca nel tempo assoluto e relativo quanto viene detto (presente vs futuro vs passato)
- ASPETTO: riguarda la maniera in cui vengono osservati e presentati in relazione al loro svolgimento l’azione
o l’evento o il processo espressi dal verbo (perfettivo vs imperfettivo, che oppongono l’azione vista come
compiuta all’azione vista come in svolgimento, in italiano ciò è reso da “passato prossimo vs imperfetto”)
- AZIONALITÀ: o “Carattere dell’azione”, riguarda il modo oggettivo in cui si svolge nello sviluppo
temporale l’azione o evento o processo espressi dal verbo, è importante qui distinguere fra VERBI TELICI
(che indicano un’azione o evento o processo con una fine; VERBI DI COMPIMENTO o “Processo
Indefinito” come invecchiare; VERBI DI REALIZZAZIONE o “Istantanei” come raggiungere;) e
ATLETICI (senza un momento finale conclusivo, VERBI DI STATO come sapere, VERBI DI ATTIVITÀ
o di “Processo indefinito” come camminare).
- DIATESI: Esprime il rapporto in cui viene rappresentata l’azione o l’evento rispetto ai partecipanti e in
particolare al soggetto (attivo vs passivo)
- PERSONA: chi compie l’azione, riferisce e collega la forma verbale al soggetto (e ad altri complementi
rilevanti in altre lingue) e si manifesta con morfemi deittici o di accordo. La marcatura di persona implica
anche quella di numero. Certe lingue inoltre marcano sul verbo, almeno in alcune persone, anche il genere
(come l’italiano col participio passato: partito vs partita)
PARTI DEL DISCORSO: Dette anche Categorie/Classi Lessicali, classificano le parole raggruppandole in classi in
base alla natura del significato, del loro comportamento nel discorso e delle loro caratteristiche flessionali e funzionali.
Nella grammatica tradizionale, ereditata da quella greca e latina con qualche modifica, sono nove le parti del discorso:
Nome/sostantivo, aggettivo, verbo, pronome, articolo, preposizione, congiunzione, avverbio e interiezione (ohibò,
uffa ecc.) a cui volendo si possono aggiungere gli ideofoni (zigzag), anche se sono espressioni che non appaiono
integrate al sistema linguistico. Alcune parole si pongono fra più classi.
Altre sovrapposizioni di categorie hanno origine nei PARTITIVI: le preposizioni articolate del, degli ecc. si possono
usare come tali o come articoli partitivi, indicanti quantità indefinita (del pane, degli studenti).
Passando all’asse sintagmatico troviamo altre categorie grammaticali che rientrano nel dominio della sintassi, le
FUNZIONI SINTATTICHE: nozioni tradizionalmente definite dall’analisi logica, come soggetto, predicato, oggetto,
complemento di termine, di specificazione, luogo, mezzo ecc. A tali funzioni corrispondono, nella marcatura a livello
dei morfemi, i casi.
La distinzione fra sintagmatico e paradigmatico serve per distinguere 2 modi di funzionamento della morfologia
flessionale: quella inerente e quella contestuale.
- FLESSIONE INERENTE: riguarda la marcatura a cui viene assoggettata una parola in isolamento, a seconda
della classe di appartenenza, perché selezionata nel lessico e comparsa in un messaggio: in italiano/inglese un
nome viene espresso come singolare o plurale, la forma sotto cui esso compare deve presentare uno dei
rispettivi morfemi flessionali, previsti dalle lingue.
- FLESSIONE CONTESTUALE: Dipende dal contesto: specifica una forma e seleziona i relativi morfemi
flessionali in base al contesto sintattico, dipendendo quindi dai rapporti gerarchici che si instaurano fra le
parole nella frase, marcando quindi rapporti di natura sintattica.
ACCORDO: meccanismo di molte lingue, prevede che tutti o alcuni degli elementi suscettibili di flessione prendano le
marche delle categorie flessionali per le quali è marcato l’elemento a cui si riferiscono o da cui dipendono. In italiano
per es. è d’obbligo l’accordo fra verbo e soggetto (gatto miagola, gatti miagolano) e fra i vari componenti di un
sintagma nominale.
Esso si può distinguere con la CONCORDANZA, mentre il primo termine è per i fenomeni di accordo fra elementi del
sintagma nominale, il secondo è per l’accordo delle forme verbali con elementi nominali, il soggetto in particolare.
4. SINTASSI
4.1 ANALISI IN COSTITUENTI
SINTASSI: livello di analisi che si occupa di come si combinano le parole, la struttura e l’organizzazione delle FRASI:
entità linguistiche che funzionano come unità comunicative, che costituiscono cioè un messaggio o blocco
comunicativo autosufficiente nella comunicazione verbale, nel discorso. Essendo difficile da definire, quanto la parola,
terremo questa definizione al momento.
PREDICAZIONE: affermazione riguardo qualcosa, attribuzione di una qualità o modo di essere (agire a un’entità; o
assegnazione di una proprietà a una variabile o di una relazione fra i più variabili: “Gianni è alto” è una predicazione
perché si attribuisce a Gianni la qualità dell’altezza)
FRASI NOMINALI: frasi senza verbo (buona, questa torta) che funzionano da messaggi autosufficienti e con una
predicazione (la torta è buona).
Individuare il numero di frasi in un discorso o testo è difficile, un metodo utilizzabile al momento, seppur impreciso e
ingenuo, è considerare che in ogni frase c’è una predicazione, e quindi anche ricordarsi di contare le forme verbali.
Le parole si combinano in frasi secondo rapporti e leggi strutturali a volte anche molto complessi, che la sintassi studia.
Dato che consideriamo frasi anche costrutti più estesi e complessi della norma, le frasi semplici con una sola
predicazione possono essere chiamate PROPOSIZIONI (o clausole).
Per analizzare la struttura delle frasi bisogna individuare il modo in cui si organizzano le parole, scomponendola e
segmentandola, a un livello elementare è usato un tipo di analisi che rappresenta le concatenazioni e in parte le
dipendenze, fra gli elementi della frase scomponendola in pezzi via via più piccoli: i COSTITUENTI della frase; tale
analisi è l’ANALISI IN COSTITUENTI IMMEDIATI: individua diversi sottolivelli di analisi, e i costituenti che si
isolano a ciascun sottolivello costituiscono senza altri passaggi il costituente del sottolivello di analisi superiore. Il
criterio per la scomposizione è la prova di commutazione.
Si confronta la frase con una più semplice ma con la stessa forma per individuare i costituenti immediati della frase
stessa: abbiamo “Mio cugino ha comprato una macchina nuova” e “Gianni legge”. “Mio cugino” e “Gianni” sono i
costituenti immediati, che svolgono lo stesso ruolo, così come “ha comprato una macchina nuova” e “legge”.
Ripetiamo lo stesso ragionamento trovando i costituenti del sottolivello “mio” e “cugino” dopo averlo confrontato con
“il gatto”, poi confrontiamo “ha comprato una macchina nuova” con “legge un libro”, trovando “ha comprato” e
“macchina nuova”.
Per rappresentare ciò il metodo più diffuso è quello degli ALBERI ETICHETTATI, l’indicatore sintagmatico della
frase.
SN SV
Dove F= Frase, SN= Sintagma nominale, SV= Sintagma verbale, N= Nome, V= Verbo, Art= Articolo. Ogni nodo
domina i nodi dei rami che da esso si dipartono, da F si dipartono SN (da cui si diparte N) e SV (da cui si dipartono V,
Art e N, considerabili COSTITUENTI FRATELLI perché dominati dallo stesso nodo).
A volte nei diagrammi può esserci un triangolo anziché una linea, indica che il ramo porta a un costituente che non
viene analizzato perché non pertinente per il fenomeno da illustrare.
4.2 SINTAGMI
I sottolivelli di analisi sintattica sono quindi quello delle frasi, dei sintagmi e delle singole entrate lessicali (parole), il
più importante per la sintassi è quello dei sintagmi (gruppi).
SINTAGMA: la minima combinazione di parole come unità di struttura frasale (o più genericamente della sintassi),
sono costruiti attorno alla “Testa” (obbligatoria), con cui vengono classificati e nominati.
TESTA: la classe di parole che rappresenta il minimo elemento che da solo possa costituire sintagma. Se si elimina, il
gruppo di parole considerato perde la natura di sintagma di quel tipo (“la copertina blu” se tolgo copertina rimane “la
blu”, che non è un SN, a meno che non si interpreti come sintagma ellittico “quella blu”, in cui “la” ha valore
pronominale e il nome è sottinteso).
SINTAGMA NOMINALE: sintagma costruito attorno a un nome N, che può essere sostituito dal pronome PRO, la
grandezza minima di un SN è un N (o PRO), ma può diventare assai complesso (le combinazioni però variano da lingua
a lingua), in italiano potrebbe essere: Tutti (Quant) quei (Det) miei (Poss) quattro (Num) bei (Agg) polli (N) grassi
(Agg), dove Quant: Quantificatore e Num: numerale. Di questo sintagma solo N è obbligatorio. L’ordine lineare in cui
gli elementi appaiono è questo, apparenti controesempi sono considerate trasformazioni stilisticamente marcate (tutti gli
amici gli amici tutti).
Anche se le teste di SV: V e SPrep: Prep, quest’ultima affermazione pone alcuni problemi; la preposizione, che nel
SPrep introduce e regge il SN, non condivide le proprietà delle altre teste per rappresentare da solo il sintagma (“Parto
per Parigi”, “Per Parigi”: SPrep, ma in “Parto per”, per non è SPrep, non è niente).
TEST DI COSTITUENZA: criteri per confermare se certi gruppi di parole costituiscono un sintagma
MOBILITÀ: Vi è un sintagma se le parole del gruppo si muovono assieme in una frase senza cambiarne il significato
(ho fatto questo l’altro mese= l’altro mese ho fatto questo, “l’altro mese” è un SN che va mosso in blocco, muovere solo
l’altro o mese renderebbe la frase agrammaticale)
SCISSIONE: Vi è un sintagma se il gruppo di parole può essere separato dalla proposizione costruendo una frase
scissa (per certi versi è un caso specifico del criterio di mobilità); possiamo isolare con la struttura “è…che” il gruppo
“mio cugino”, l’SN, ma non le singole parole che lo costituiscono (mio cugino ha comprato una macchina nuova è
mio che cugino ha comprato…; oppure “ho guardato dentro la scatola” ”è dentro la scatola che ho guardato”)
ENUNCIABILITÀ IN ISOLAMENTO: Vi è un sintagma se le parole del gruppo possono costituire un enunciato da
sole (“chi ha comprato una macchina nuova?” “mio cugino”)
COORDINABILITÀ: Serve per riconoscere quando 2 o + gruppi di parole rappresentano sintagmi dello stesso tipo
(“Pietro e un suo caro amico sono partiti per le vacanze” con 2 SN, ma possono coordinarsi anche gruppi con funzione
analoga ma di genere diverso “ho visto un uomo stanco e che non ha più speranza”, o con sintagmi uguali ma non
coordinabili “il custode e il vento aprirono la porta”).
SOTTOCOSTITUENTI DI SINTAGMI: elementi che possono attaccarsi alla testa e che quindi dipendono da questa,
possono dare luogo a sintagmi anche complessi.
Nella grammatica generativa è stato introdotto il SDet (sintagma (del) determinante), con Det come testa e con l’SN
all’interno, “un libro costoso” è più un SDet che un SN.
Sempre nella grammatica generativa, il tema della struttura interna dei sintagmi è stato approfondito dalla TEORIA X-
BARRA: individua i diversi ranghi di complessità di un sintagma (X) con indicazione di “apici” (X’, X”) che indicano
l’appartenenza a un certo sottolivello di complessità del sintagma. Per la teoria tutti i sintagmi hanno la struttura
sottostante generale comune, rappresentata sotto, dove X= testa, Compl (= complemento, non Comp=
complementatore) è il modificatore diretto della testa, Spec (=Specificatore) è il modificatore del sottolivello superiore
a quello della testa:
Ꞅ X” (=SX) ˥
Spec Ꞅ X’ (=SX) ˥
X Compl
Es. “il libro di Chomsky”, il Det “il” è nella posizione Spec, N “libro” è la testa e SPrep “di Chomsky” è nella posizione
Compl. In sintassi generativa “il libro” è concepito come SDet, con l’articolo o il dimostrativo come testa e il nome
(SN) nella posizione Compl.
Rispettando la successione lineare dei sintagmi nella struttura ad albero da conto dei rapporti sintattici fra essi, e a
questo proposito sono particolarmente importanti i sintagmi preposizionali, il cui contributo si pone a livelli diversi e
possono/devono essere agganciati all’opportuno nodo, anche indipendentemente dalla successione lineare: SPrep che
segue un Sn non deve essere per forza attaccato al nodo SN.
Ogni elemento sul ramo di destra di un nodo modifica (o va messo in relazione diretta con) l’elemento alla sua sinistra
sotto lo stesso nodo.
Quando una frase è ambigua si crea un albero per ogni interpretazione (per es. “il libro di favole di Fedro” in cui Fedro
è il proprietario del libro o lo scrittore).
1) FUNZIONI SINTATTICHE: riguardano il ruolo che i sintagmi hanno nella struttura sintattica, SN possono
avere valore di soggetto o (complemento) oggetto, SPrep di oggetto indiretto o complemento, SV di predicato.
2) SCHEMI VALENZIALI: o strutture argomentali, costituiscono l’embrione della strutturazione delle frasi e
ne configurano il quadro minimale, quando dobbiamo enunciare qualcosa sotto forma di frase, partiamo dalla
selezione di un verbo per rappresentare l’azione o evento o stato di cose o processo da descrivere, il quale è
associato a VALENZE (o argomenti), richieste dal tipo di significato del verbo: ogni predicato in base al
processo che rappresenta e codifica, configura un quadro di elementi chiamati in causa, le valenze. Ogni verbo
stabilisce il numero e la natura delle valenze o argomenti (“attanti” o “posti”) che richiede, rappresentate
linguisticamente da sintagmi nominali (o preposizionali) che li designano: ha quindi un certo schema
valenziale (o struttura argomentale). Da questo punto di vista i verbi sono nella maggioranza monovalenti,
bivalenti o trivalenti (con uno o più argomenti, “camminare” è monovalente perché l’argomento è solo chi
cammina, “interrogare” ne ha due: chi interroga e l’interrogato), ma esistono anche zerovalenti (piove, nevica)
e tetravalenti (con 4 argomenti, come tradurre, che ha come argomenti la frase, il traduttore e le due lingue in
gioco). Le valenze e il verbo sono il nucleo delle frasi, anche se non realizzate con materiale nella struttura
sintagmatica (“mangiare” è bivalente ma può esserci solo il soggetto senza intaccare il significato della frase:
“lui mangia” è chiaro quanto “lui mangia una mela”), inoltre in base al significato un verbo può essere
monovalente o polivalente (“attaccare” nel senso di “assaltare” è bivalente: qualcuno attacca
qualcuno/qualcosa; se il senso è “appendere” allora è trivalente: qualcuno attacca qualcosa a qualcos’altro).
Possiamo dire quindi che il soggetto è la prima valenza di ogni verbo, l’argomento verbale più saliente, e viene
definito “argomento esterno” in quanto esterno al sintagma verbale, essendone il costituente fratello).
La seconda valenza coincide con la funzione sintattica di (complemento) oggetto, nel caso dei verbi transitivi
(che ammettono la costruzione passiva), ma può esserci anche un complemento di luogo, predicativo,
dell’oggetto ecc.
In una frase si possono trovare anche costituenti che realizzano altri elementi, che non fanno parte dello
schema valenziale: i CIRCOSTANZIALI (o circostanti, in opposizione a “attanti”), o “avverbiali”, o
“aggiunti”. Essi non rientrano nelle configurazioni di valenza dei predicati verbali e non fanno parte delle
funzioni sintattiche fondamentale, ma appartenendo alla cornice degli eventi o specificando come si svolge,
aggiungono informazioni anche più salienti di quelle codificate dagli schemi valenziali. Negli indicatori
sintagmatici i circostanziali, che comunque godono di una certa libertà di posizione, fungono da modificatori a
livello della frase o del SV o del SN (“elisa cuoce con pazienza la torta nel forno per 3 ore” “con pazienza”,
“nel forno” e “per tre ore” sono i circostanziali.
3) RUOLI SEMANTICI: intervengono nella costruzione e interpretazione di una frase, dati dal modo in cui il
referente di ogni sintagma contribuisce e partecipa all’evento rappresentato. La frase in tal caso ora è vista
dalla prospettiva del significato e non del significante, per cui la frase si configura come una scienza (di un
evento o stato di cose) in cui le entità presenti interpretano delle parti. Le parti sono i ruoli semantici o
tematici, detti anche “funzioni semantiche” o, raramente “casi profondi”. Non ci sono procedimenti di
definizione e individuazione o una lista condivisibile dei ruoli semantici, c’è bensì un accordo sulle categorie
usate per designare i ruoli principali: l’”Agente”, l’entità animata che compie l’azione; il “Paziente”, chi la
subisce l’azione o si trova in una certa condizione; lo “Sperimentatore” (o Esperiente), che prova o è toccato
da un certo stato o processo psicologico (a Luisa piacciono i gelati); il “Beneficiario”, che trae beneficio
dall’azione (X regala qualcosa a Y); lo “Strumento”, l’entità inanimata mediante cui avviene l’azione e la
“Destinazione”, l’entità verso cui si dirige l’attività espressa dal predicato o che costituisce l’obiettivo/meta di
uno spostamento. Altre categorie chiamate in causa sono state: “Località”, l’entità in cui è situata
l’azione/stato/processo/; la “Provenienza”, l’entità da cui un’altra si muove in relazione all’azione espressa;
“Dimensione”, l’entità che indica una certa estensione nel tempo/spazio/massa; il “Comitativo”, l’entità che
partecipa all’attività svolta dall’agente.
Anche per i verbi ci sono diversi ruoli semantici, come processo, azione e stato, i ruoli semantici agiscono al di
sotto della struttura sintattica, un ruolo come “la porta” rimane invariato anche se in diverse frasi la sua
funzione nell’SN potrebbe essere di complemento oggetto o soggetto.
Anche se non c’è corrispondenza biunivoca tra ruoli semantici e funzioni sintattiche (perché operano su piani
diversi), possono esserci rapporti preferenziali: l’agente della struttura semantica tende a comparire come
soggetto in struttura sintattica, ciò che ha il ruolo di paziente tende a comparire come complemento oggetto
ecc. In una frase passiva (X è picchiato da Y), nella controparte attiva (Y picchia X) è diversa la distribuzione
del rapporto fra ruoli semantici e funzioni sintattiche. Per distinguere classi diverse di verbi in base al loro
comportamento sintattico un criterio importante è il poter reggere un oggetto e quindi ammettere una
trasformazione passiva. Solo i verbi transitivi sono passivizzabili, quelli intransitivi (camminare, lavorare,
arrivare ecc.) no. All’interno degli intransitivi ci sono due sottoclassi, i verbi “inaccusativi”, che richiedono
l’ausiliare “essere”, e “inergativi”, che richiedono l’ausiliare “avere”.
Per generare una frase si parte dal verbo con uno schema valenziale, a cui il verbo (con l’aggiunta, nel caso, di
circostanziali) fornisce un’interpretazione semantica assegnando ruoli semantici ai diversi elementi che esso contiene.
Dopo di che i ruoli vengono tradotti in funzioni sintattiche, ciò viene infine espresso, realizzato in una struttura in
costituenti, un indicatore sintagmatico con i principi della “teoria x-barra”, quest’ultima parte è l’unica fase a non essere
astratta e avviene a un livello più “superficiale”, da qui la distinzione fra “struttura profonda” e “struttura superficiale”.
- FRASI DICHIARATIVE: fanno un’affermazione generica con più valori specifici (Luisa va a Milano)
- FRASI INTERROGATIVE: pongono una domanda, marcate in italiano dall’intonazione e/o parole
particolari come “chi, che, cosa” ecc. (chi va a Milano?). Si distinguono in interrogative TOTALI o POLARI
con risposta Sì/No, e PARZIALI o APERTE, a risposta libera (dette anche “interrogative WH-“ per le lettere
iniziali inglesi che le introducono: Who, Why, What ecc.)
- FRASI ESCLAMATIVE: esprimono un’esclamazione marcata dall’intonazione (Luisa verrà qui a Milano!)
- FRASI IUSSIVE (O IMPERATIVE): esprimono un ordine, un’istruzione marcata da forme verbali
particolari come l’imperativo, il congiuntivo, l’infinito preceduto da negazione (Luisa, va a Milano/che Luisa
vada a Milano/Luisa, non andare a Milano)
- FRASI OTTATIVE (O DESIDERATIVE): esprimono un desiderio o un auspicio, marcate dalla posizione
iniziale del verbo al congiuntivo, da fatti intonativi o da eventuali elementi introduttivi, come un “che”
generico o un “se” (se Luisa andasse a Milano/che Luisa vada a Milano)
TEMA: dal greco “ciò che è posto”, ciò su cui si fa l’affermazione, l’entità attorno a cui si predica qualcosa, indica e
isola il dominio per cui vale la predicazione. Non ha nulla a che fare col “tema” della morfologia e della linguistica
generativa
REMA: dal greco “verbo, parola, discorso detto”, è la predicazione fatta, l’informazione fornita a proposito del tema
Vengono spesso usati, come sinonimi di Tema e Rema, il topic e il comment (“Luisa va a Milano”, “Luisa” è il topic e
“va a Milano” è il comment.
Un’altra opposizione fra i due è quella fra Dato e Nuovo, DATO è l’elemento della frase da considerare noto o perché
introdotto nel discorso prima o perché fa parte delle conoscenze condivise; NUOVO è l’elemento portato come
informazione non nota. Coincidono rispettivamente con Tema e Rema ma non è sempre così (“un gatto grigio sta
giocando nel tuo giardino”, “un gatto grigio” anche se è il tema è nuovo, “nel tuo giardino” è dato anche se è rema).
Nelle frasi “normali”, non marcate, soggetto, agente e tema tendono spesso a coincidere sullo stesso costituente frasale:
in “un gatto insegue il topo” il gatto è soggetto, agente e tema, il topo è oggetto, paziente e parte del rema. In italiano,
per separare le 3 funzioni e mutare o invertire l’ordine non marcato dei costituenti esiste la DISLOCAZIONE A
SINISTRA: spostano davanti alla frase (quindi alla sinistra) uno degli elementi che la costituiscono, quindi si può
cambiare l’ordine SVO della frase in OVS: “il topo lo insegue un gatto”, che anticipa all’inizio della frase un
costituente, riprendendolo con un pronome clitico sul verbo, che ne rappresenta la funzione sintattica. La dislocazione è
utile per rendere tematico l’oggetto, anche perché non muta la correlazione fra ruoli semantici e funzioni sintattiche
come la costruzione passiva.
DISLOCAZIONE A DESTRA: isola sulla destra un costituente, riprendendolo con un clitico sul verbo (lo vuole un
caffè) e facendo un’inversione dell’ordine naturale tema + rema.
Bisogna ricordarsi che l’unico costituente a non poter essere dislocato è il soggetto.
FRASE SCISSA: spezzare una frase in due parti, portando all’inizio della frase, introdotto dal verbo essere, un
costituente, e facendolo seguire da una frase (pseudo)relativa (è il gatto che insegue il topo). Se l’elemento mandato nel
primo membro è il soggetto, possiamo avere nel secondo membro di una frase scissa una frase infinitiva introdotta da a:
“è Gianni ad aver rubato la marmellata”. Lo scopo della frase scissa è evidenziare un elemento della frase come dotato
del maggior carico informativo, tale elemento prende il nome di FOCUS: il punto di maggior salienza comunicativa
della frase, l’elemento su cui si concentra di più l’interesse del parlante e che fornisce la massima quantità di
informazione nuova. In genere il focus fa parte del rema ed è contrassegnato da una particolare curva intonativa
enfatica: “Carla al mattino prende il caffè” ha “caffè” come focus, il quale può anche essere contrastato “il caffè, non la
cioccolata”. Per evidenziarlo, oltre alla frase scissa esistono i FOCALIZZATORI: avverbi o particelle deputati a
introdurre il focus.
In conclusione, possiamo analizzare una frase secondo 4 diverse prospettive che interagiscono fra loro e ci permettono
di comprendere appieno gli aspetti della struttura delle frasi:
Il linguaggio verbale è un sistema cognitivo specifico del genere umano, con caratteristiche che gli animali non
possiedono quali discretezza, distanziamento, ricorsività, dipendenza dalla struttura ecc. ed è costituito da conoscenze
mentali interiorizzate che consentono al parlante nativo ideale (senza limitazioni e disturbi che si hanno durante la
produzione linguistica) di produrre messaggi verbali nella sua lingua. L’insieme di tali conoscenze è la
COMPETENZA: entità interna alla mente umana, in larga misura inconscia (o implicita, ovvero che un parlante nativo
può giudicare se una certa frase o produzione linguistica è accettabile o meno nella sua lingua basandosi solo su
intuizioni), è individuale: va intesa come l’insieme delle conoscenze linguistiche interiorizzate dal parlante, quindi
l’intercomprensione è possibile se si hanno competenze individuali abbastanza simili. Infine è anche innata, in quanto
appartiene al corredo genetico della specie umana; l’acquisizione del linguaggio ha luogo tramite procedimenti induttivi
generali di analisi dell’esperienza e di una capacità linguistica innata trasmessa per via biologica; si ritiene quindi che la
mente umana sia geneticamente predisposta all’acquisizione del linguaggio.
TEORIA DEI PRINCIPI E DEI PARAMETRI: le lingue del mondo condividono alcuni principi universali mentre
differiscono tra loro su alcuni parametri.
Nella grammatica è fondamentale il LESSICO (: parole col loro significato e proprietà, compresi gli intorni sintattici in
cui possono comparire) e le REGOLE (: istruzioni da applicare alla generazione di un certo prodotto), queste ultime
sono di solito REGOLE DI RISCRITTURA a struttura sintagmatica, cioè hanno la forma generale “X Y+Z” dove
X, Y e Z sono simboli di categoria (o elementi singoli appartenenti a una categoria), Y e Z sono i costituenti immediati
di X in un indicatore sintagmatico, la vale “è da riscrivere come” Quindi X Y+Z= costruendo un indicatore
sintagmatico nei suoi sviluppi progressivi a partire dal nodo iniziale, scindere una categoria X nelle due di sottolivello
successivo Y e Z. se si leggesse dal basso sarebbe “unire le due categorie Y e Z in una categoria di livello superiore X.
REGOLE RICORSIVE: nell’uscita della regola (a destra di ) è contenuto di nuovo il simbolo di categoria che
rappresenta l’entrata della regola (SN SN + SPrep).
REGOLE CONTESTUALI: regole che contengono una barra obliqua, si possono applicare solo nei contesti
specificati da quanto viene formalizzato dopo la barra: la linea orizzontale indica il contesto locale, la posizione in cui
sta la categoria interessata, le specificazioni contenute prima e/o dopo della linea indicano le caratteristiche o proprietà
che gli elementi prima e/o dopo la posizione devono avere perché la regola sia applicabile (V legge/[+Um.]____ che
si legge: Riscrivere V come legge nel contesto in cui V è preceduto da un elemento con la proprietà [+Umano] e quindi
denoti un essere umano). I tratti come [+Um] sono SOTTOCATEGORIZZAZIONI che creano “restrizioni di
selezione”.
INTERPRETAZIONE: indicatore sintagmatico che rappresenta la struttura e determina il significato globale di una
frase, ovviamente non mancano i problemi, come una frase con più interpretazioni (“l’interpretazione di Gramsci era
sbagliata” nel senso dell’interpretazione di qualcun altro su Gramsci o di Gramsci su qualcun altro) e frasi diverse con
la stessa interpretazione (come attiva vs passiva). Per ovviare al problema è stata introdotta la distinzione fra
STRUTTURA SUPERFICIALE (la forma sintattica della frase come appare) e STRUTTURA PROFONDA (la
struttura che la frase ha a un livello più profondo, retrostante la forma di superficie e non riflesso direttamente in essa).
Precisamente la Struttura Profonda è l’organizzazione strutturale astratta dietro a ogni frase possibile prodotta con una
certa struttura superficiale e rappresenta gli effettivi rapporti semantici e sintattici che danno conto della sua
interpretazione: è il luogo astratto in cui vi sono gli elementi per l’assegnazione del corretto significato delle frasi.
Quindi per la frase su Gramsci avremo due Strutture Profonde in base al significato corretto.
Per rappresentare la struttura delle frasi in g.g. si sono venuti a usare alberi sempre più complessi con nuove categorie
come testa di sintagma: le “Teste funzionali”, rispetto alle “teste lessicali” quali V, N, Prep, Agg, Avv e Det. Sono teste
funzionali Flessione e Complementatore, che danno luogo a SFless (Sintagma della Flessione; anche IP dall’inglese) e a
SComp (Sintagma del Complementatore, anche CP dall’inglese). Per SFLESS uno dei fatti chiamati in causa è la
differenza strutturale fra “Luisa mangia sempre mele” e “Luisa ha sempre mangiato mele”: in entrambe l’avverbio
“sempre” sta dopo la forma verbale flessa e quindi col tempo verbale semplice “mangia” sta fra V e SN oggetto, mentre
col tempo verbale composto “ha mangiato” sta fra l’ausiliare e il participio passato: questo significa che la flessione
deve dominare il rapporto fra SV e SN, e giustifica l’introduzione di un nodo SFless con la funzione di attualizzazione
flessiva del predicato verbale. Tale nodo (chiamato anche ST, Sintagma del Tempo, o Temporalizzato) contiene al suo
interno SV. L’albero di “Luisa ha sempre mangiato mele” sarà
SFless’
SN SFless
“Luisa” Fless SV
“ha” Avv SV”
“sempre” SN SV’
[Luisa] V SN
“mangiato” “mele”
Nella g.g. attuale la struttura astratta di una frase è composta da 3 campi/zone, ognuno con diversi sottolivelli e deputato
a esprimere valori e aspetti diversi nel processo di generazione della frase e della sua interpretazione semantica: SV,
SFless e SComp.
SV: Ha una testa lessicale (o categoriale) ed è il campo dove vanno a collocarsi le entrate lessicali selezionate per la
frase (è l’interfaccia fra sintassi e semantica)
SFLESS: con testa funzionale, è il campo dove si collocano gli elementi che attualizzano la frase con le necessarie
marcature (è l’interfaccia fra sintassi e morfologia)
SCOMP: con testa funzionale, è il campo dove vanno a collocarsi gli elementi che segnalano come la frase vada intesa,
quale modalità abbia, la sua forza illocutiva, se è un’affermazione, una domanda ecc. (è l’interfaccia fra sintassi e
pragmatica)
La sintassi generativa nella sua attuale configurazione (detta MINIMALISMO) ha lasciato spazio alla formalizzazione
di elementi inerenti al valore pragmatico delle frasi, ma è comunque una sintassi frasale, basata sulle entità “frase” e
“sintagma”, autonome della realtà esterna e indipendenti dal parlante e dall’uso.
Assunto centrale della LINGUISTICA COGNITIVA: non c’è nulla di particolare e specifico nella capacità
linguistica, nella lingua e nella produzione verbale agiscono gli stessi principi e gli stessi meccanismi generali della
mente umana in azione negli altri comportamenti e capacità dell’homo sapiens sapiens. La lingua traduce in maniera
simbolica le concettualizzazioni fondamentali dell’agire dell’uomo e va descritta e spiegata come parte integrante di una
struttura psicologica comprensiva unitaria. Pertanto le strutture grammaticali sono innanzitutto strutture semantiche
basate sull’esperienza umana. È una concezione opposta a quella di Chomsky, che vede il linguaggio come una
caratteristica innata e altamente specifica dell’uomo, come un organo mentale.
In un quadro del genere è stata sviluppata l’idea che l’unità primaria della grammatica sia anziché il sintagma la
COSTRUZIONE: ogni schema sintattico costituito da un’aggregazione o combinazione di parole, dotata di una
strutturazione interna, che compare frequentemente nell’uso e reca un particolare valore semantico pragmatico. È una
combinazione di elementi, depositata come tale nella memoria dell’utente, a cui spesso viene assegnata una funzione
convenzionale non strettamente ricavabile dalla composizione degli aspetti formali e semantici dei suoi componenti (per
poco non cadevo).
1) FRASI AVVERBIALI: o circostanziali (perché svolgono la funzione analoga a quella che nella sintassi
hanno sintagmi preposizionali, o anche nominali, che non facciano parte dello schema valenziale dei predicati),
frasi che modificano l’intera frase da cui dipendono (esco, benché piova), lo sono le subordinate causali,
temporali, concessive, ipotetiche e finali
2) FRASI COMPLETIVE: sostituiscono un costituente nominale maggiore (il soggetto o l’oggetto, o anche il
predicato nominale o l’oggetto indiretto) della frase, o meglio, che riempiono la valenza o argomento del
predicato verbale (chiamate anche “argomentali” per questo). Lo sono le subordinate soggettive e oggettive e
interrogative indirette (sembra che faccia bel tempo, penso a come risolvere il problema).
3) FRASI RELATIVE: modificano un costituente nominale della frase, hanno sempre un pronome o un nome
come testa (non ho più visto lo studente a cui ho dato il libro).
La subordinazione è in parte considerevole un prodotto della ricorsività della lingua, in quanto nei casi delle completive
e relative abbiamo un nodo F sotto le ramificazioni di un altro nodo F più alto, o al posto di un SN o all’interno di un
SN.
L’unione di una frase principale con una subordinata da luogo a una frase complessa.
Al di sopra della frase c’è un altro livello di analisi della sintassi, il livello dei testi. un TESTO: dal punto di vista
linguistico, combinazione di frasi più il contesto in cui esso funziona da unità comunicativa.
CONTESTO: si intende sia linguistico (la parte di comunicazione verbale che precede e che eventualmente segue il
testo in ogni oggetto) che extralinguistco (la situazione specifica in cui la combinazione di frasi è prodotta). È chiamato
più tecnicamente cotesto.
PRONOMINALIZZAZIONE: impiego e comportamento dei pronomi, in particolare quelli personali, un caso in cui
vi sono elementi e fenomeni della struttura sintattica di una frase il cui comportamento non è spiegabile né descrivibile
se non uscendo dalla sintassi della frase e facendo riferimento al contesto situazionale o al cotesto. Prendiamo un
esempio:
“Il cane abbaia. Maria si affaccia alla finestra. Lo vede tutto infuriato”
ANAFORE: Per spiegare l’interpretazione di “Lo” occorre riferirsi per forza al contesto precedente, per capire che esso
riprende la parola “cane” di due frasi prima
CATAFORE: Fenomeno simmetrico e contrario
Le prime individuano elementi “coreferenti”, ovvero che rimandano a un’identica entità designata, per indicare le
coreferenze si possono utilizzare alcuni indici: “Il cane abbaia(i). Maria(j) si(j) affaccia alla finestra. Lo(i) vede(j) tutto
infuriato”
I pronomi possono anche avere VALORE DEITTICO: per la loro interpretazione occorre far riferimento al contesto
situazionale.
DEISSI: la proprietà di una parte di segni linguistici di indicare, o riferirsi a, cose o elementi presenti nella situazione
extralinguistica e in particolare nello spazio o nel tempo in cui essa si situa, in modo che l’interpretazione specifica di
ciò a cui il segno si riferisce dipende solo dalla situazione di enunciazione: se non mi riferisco al contesto situazionale
non saprò mai chi è “tu”, quando è “ieri” e che luogo sia “la” per es.
Ci sono 3 tipi di deissi:
- DEISSI PERSONALE: codifica il riferimento al parlante, all’interlocutore e alle terze persone e ha come
centro il parlante, la esprimono i pronomi personali (io, tu, lui), le persone verbali e i possessivi (mio, tuo,
suo).
- DEISSI SPAZIALE: codifica le posizioni delle entità in causa rispetto a dove si trovano chi interagisce, la
esprimono i dimostrativi (questo, quello), gli avverbi di luogo (qui, la), i verbi come “andare” e “venire”,
espressioni come “a destra, a sinistra, in alto”. Ci sono due tipi di deittici spaziali, quelli PROSSIMALI, che
indicano vicinanza, e quelli DISTALI, che indicano lontananza
- DEISSI TEMPORALE: codifica e specifica la localizzazione degli eventi nel tempo rispetto al momento
dell’enunciazione, è espressa da avverbi come oggi, ieri, subito, da tempi verbali e da sintagmi come fra dieci
anni, due mesi fa ecc. Molti di questi elementi, in particolare pronomi personali e dimostrativi, possono anche
essere anaforici/cataforici e possono switchare da una forma all’altra (ieri il giorno prima)
Esiste anche la DEISSI SOCIALE: designa gli elementi allocutivi usati per codificare le relazioni sociali dei
partecipanti all’interazione, come in italiano i pronomi tu e lei, in francese tu e vous ecc. La deissi quindi àncora nel
complesso i messaggi enunciati ed è molto rilevante nel parlato.
Un altro fenomeno tipicamente spiegato solo superando i confini delle singole frasi è l’ELLISSI: mancanza od
omissione, in una frase, di elementi indispensabili per creare una struttura frasale completa, e che sono appunto
recuperabili per l’interpretazione della frase dal contesto linguistico (coppie domanda-risposta in cui la risposta è
solitamente ellittica, data l’immediata recuperabilità degli elementi omessi: “Dove vai?” “A casa/vado a casa”, risposte
ellittiche rispetto a “io vado a casa”, anche se l’ultima è più una caratteristica sintattica dato che in italiano il soggetto
può essere omesso, essendo una LINGUA A SOGGETTO NULLO o LINGUA PRO-DROP).
SEGNALI DISCORSIVI: o “Marcatori di discorso”, elementi estranei alla strutturazione sintattica che esplicitano
l’articolazione interna del discorso “allora, senti, no?, insomma, basta, anzitutto, diciamo” ecc.
Definire il significato è difficile, ma esistono 2 modi fondamentali di concepirlo, una concezione REFERENZIALE o
CONCETTUALE (ideazionale, denotazionale): il significato è visto come un concetto, un’immagine mentale, un’idea
o operazione creata dalla nostra mente, corrispondente a qualcosa che esiste al di fuori della lingua (vedere triangolo
semiotico); e una concezione OPERAZIONALE o CONTESTUALE, in fondo comportamentista del significato: esso
è funzione dell’uso che si fa dei segni/ciò che accomuna i contesti d’impiego di un segno e ne permette l’uso
appropriato/la totalità dei contesti in cui esso può comparire.
Infine è importante tenere il significato vero e proprio distinto dall’ENCICLOPEDIA (o Conoscenza Enciclopedica):
la conoscenza del mondo esterno (sia reale che mentalmente concepito) che abbiamo come esseri viventi in un dato
ambiente e cultura; mentre il significato fa parte del sapere linguistico, l‘enciclopedia fa parte del sapere in senso
generale, difatti non ha confini delimitabili, è importante tuttavia mantenere i confini tra essi in modo da evitare che la
semantica debba descrivere il mondo e si occupi di tutto. Un’altra distinzione è quella fra significato e SENSO: il
significato contestuale, la specificazione e concretizzazione che il contenuto di un termine assume ogni volta che viene
usato in una produzione linguistica in un certo contesto (Finestra: “apertura in una parete”, ma viene usato a seconda dei
contesti, per designare le finestre fisiche o quelle del pc).
Oltre alle opposizioni “Referenziale/Sociale” e “Lessicale/Grammaticale” abbiamo altre distinzioni importanti da fare:
- Astratto/Concreto
- Relazionale/Non relazionale
- Oggetto/Evento
- Cosa (entità inanimata)/Essere animato
- Artefatto/Specie Naturale
- Valutativo/Non valutativo
- Classe/Individuo
- Intensione/Estensione
- Nome Comune/Nome Proprio
Facciamo alcuni esempi: “Ciao” è Sociale, “Di” e “Perché” hanno significato Grammaticale, ma “Perché” può essere
inteso anche come veicolo di un rapporto fra due eventi, mentre “Di” veicola prettamente parti del segno linguistico
complessivo.
“Buono” è Astratto e Valutativo mentre “Pazienza” è solo Astratto, “Vedere” è Astratto e rappresenta un evento, non un
oggetto, ma è anche Relazionale (“X vede Y”), “Moglie” è Relazionale e rappresenta un Essere animato ecc.
NOMI PROPRI: termini a referente unico con cui si designa un luogo o una persona specifica, non un gruppo di
persone o di città (con “Milano” si designa una città specifica, ma fa parte del gruppo di capoluoghi d’Italia), hanno
solo estensione.
Quando mi riferisco a Antonio”, che designa un essere animato (ANTROPONIMO: nome proprio di una persona),
ammette più referenti ma tutti unici, nel senso che se parlo di Antonio mi riferisco a uno in particolare. Lo stesso
discorso vale per “Milano” (TOPONIMO: nome proprio di un luogo)
5.2 IL LESSICO
LESSEMA: una parola considerata dal punto di vista del significato: studiarne uno significa studiare i loro significati
linguistici; nell’analisi del significato, non hanno pertinenza i valori codificati nella morfologia flessionale
LESSICO: l’insieme dei lessemi di una lingua nonché uno dei due componenti vitali per la sua esistenza, lo studio dei
suoi vari aspetti è compito della LESSICOLOGIA, a cavallo fra semantica e morfologia derivazionale.
LESSICOGRAFIA: studio dei metodi e della tecnica di composizione dei vocabolari e dizionari, le opere che
raccolgono e documentano il lessico di una lingua
Riguardo al Lessico: è lo strato più esterno e superficiale della lingua, più esposta alle circostanze extralinguistiche e
più condizionata da fattori esterni alla lingua. È il livello di analisi meno “linguistico” nonché lo strato della lingua più
ampio, riflette la realtà esterna e incamera codificandole tutte le conoscenze che abbiamo del mondo reale e di quelli
virtuali. Escludendo i termini classificatori delle tassonomie scientifiche si stima che il lessico di italiano, inglese,
francese ecc. abbiano alcune centinaia di migliaia di lessemi, i dizionari comuni ne contengono fra i 90k e i 130k
lessemi (o meglio LEMMI: le entrate del dizionario, molti lemmatizzano anche prefissi e prefissoidi, locuzioni ecc.).
Dato che la maggior parte dei lessemi viene usata pochissime volte, associando la disponibilità alla frequenza si
individua il nucleo centrale (o VOCABOLARIO DI BASE), costituito in italiano da meno di 7000 unità, di cui 2000
lessemi di altissima frequenza d’uso e altri di frequenza/disponibilità pratica relativamente alta.
OMONIMIA: lessemi hanno lo stesso significante ma diverso significato, si può trattare di termini Omografi (pésca e
pèsca, distinti dal significato e dalla “e” aperta o chiusa) oppure Omofoni (riso “l’atto nel passato di ridere” e riso “il
cereale”).
POLISEMIA: lessemi con lo stesso significante ma con diverso significato e imparentati tra loro e derivati, o
derivabili, l’uno dall’altro (corno come strumento musicale, come protuberanza ossea sulla testa di alcuni animali e
cima aguzza di una montagna); in questo caso si tratta di un unico lessema con più significati.
Un caso speciali di polisemia è dato dall’ENANTIOSEMIA: significati diversi tra loro con un rapporto di opposizione
(“Tirare” può avere due sensi fra loro inversi, “lanciare” per es. in tirare la palla, e “attrarre a sé” per es. in tirare la
barca a riva).
IPONIMIA: relazione di inclusione semantica in cui il significato di un lessema rientra in un significato più ampio e
generico di un altro (tutti gli X sono Y ma non viceversa), alcuni esempi sono armadio/mobile, mela/frutto,
moto/veicolo. Se tutti gli X sono Y e viceversa si tratta di iponimia bilaterale).
CATENE IPONIMICHE: serie di iponimi legati ai loro iperonimi fino a formare una gerarchia
(siamese/gatto/felino/mammifero/animale/essere animato/essere vivente) espandibile a destra e a sinistra, entrando nel
particolare o andando verso il più generale.
MERONIMIA: rapporto fra termini che designano una parte specifica di un tutto unico e il termine che lo designa (le
parti del corpo umano sono meronimi del corpo umano).
Sinonimia e iponimia sono rapporti di carattere paradigmatico, ma ci sono anche rapporti di compatibilità semantica
nell’asse sintagmatico, come la SOLIDARIETÀ SEMANTICA, basata sulla cooccorrenza obbligatoria, o fortemente
preferenziale, di un lessema a un altro (la selezione del termine è dipendente dall’altro, e la possibilità di essere usato in
combinazione con altri lessemi è fortemente ridotta, se non assente, come pane/raffermo o gatto/miagolare). Alcuni
rapporti di solidarietà riflettono convenzioni e idiosincrasie tipiche dell’uso di una lingua e del “costume linguistico” di
una certa comunità piuttosto che le proprietà e restrizioni semantiche previste dal sistema linguistico, e sono le
COLLOCAZIONI (come porta/scorrevole, ringraziare/caldamente, spegnere/luce ecc.). Tra questi rapporti particolari,
oltre alla solidarietà semantica e alla collocazione, ci sono unità lessicali plurilessematiche (macchina da scrivere),
espressioni idiomatiche (tirare le cuoia, calma e gesso), formule convenzionali più o meno fisse (grazie mille) e anche
detti e proverbi (il tempo è denaro).
ANTONIMIA: due lessemi hanno un significato contrario, ai poli opposti (caldo/freddo, alto/basso), X è antonimo di
Y se X implica non-Y, ma non-Y non implica X
COMPLEMENTARIETÀ: un lessema è la negazione dell’altro, perché spartiscono uno stesso spazio semantico in
due sezioni opposte, X implica non-Y e non-Y implica X (vivo/morto, maschio/femmina)
INVERSIONE: due lessemi hanno significato relazionale ed esprimono la stessa relazione semantica vista da due
direzioni opposte, secondo la prospettiva dell’una o dell’altra parte (marito/moglie, sopra/sotto, dare/ricevere), se X da
Z a Y, è anche Y che riceve Z da X
INSIEMI/SOTTOINSIEMI LESSICALI: complessi organizzati, formati da gruppi di lessemi uniti l’uno all’altro da
rapporti di significato.
Il concetto più noto e usato in questo ambito è il CAMPO SEMANTICO (o LESSICALE), un termine polisemico
usato a volte con valori diversi rispetto a quello più tecnico, si può ritrovare ad es. per indicare l’insieme di significati
che un lessema può assumere (che è preferibile chiamare AREA SEMANTICA), è comunque l’insieme di lessemi che
coprono le sezioni di un certo spazio semantico, ogni termine corrisponde a una sezione, ma con maggior precisione
tecnica va definito come: l’insieme dei lessemi con uno stesso iperonimo immediato. Lo sono gli aggettivi di età
(giovane, vecchio, anziano, nuovo, antico), i termini di colori, parentela ecc.
SFERA SEMANTICA: nozione più generica e ampia di campo semantico, insieme dei lessemi con in comune il
riferimento a un certo ambito semantico, un’area di oggetti o concetti, un insieme di attività fra loro collegate (le parole
della moda, della musica, riferite all’abitazione ecc.). Per loro natura sono in sovrapposizione parziale e contengono
numerosissimi termini (e comprendono più campi semantici in esse).
FAMIGLIA SEMANTICA: o “lessicale”, insieme di lessemi imparentati nel significato e nel significante, sono
derivate da una stessa radice lessicale e quindi dalla stessa base etimologica
GERARCHIA SEMANTICA: insieme in cui ogni termine è una parte determinata di un altro che, nell’insieme, lo
segue (e gli è superiore) in una data scala di misura, per es. del tempo (secondo-minuto-ora-giorno-mese…-millennio).
I rapporti presi in considerazione valgono per il significato linguistico denotativo proprio, primario, dei termini. Molti
lessemi possono assumere altri significati (o meglio, sensi) traslati, che si allontanano più o meno dal significato
primario, i processi su cui si basano questi spostamenti di significato sono le METAFORE, fondate sulla somiglianza
concettuale (sei un coniglio: un fifone) e la METONIMIA, fondata sulla “contiguità” concettuale (bottiglie: liquido
contenuto in una bottiglia: “mi bevo due bottiglie di vino”)
Uomo + + +
Donna + + -
Bambino + - +
Bambina + - -
I Componenti semantici (o Tratti semantici) dovrebbero rappresentare sufficientemente tutto ciò di pertinente nel
sistema linguistico, per definire il significato denotativo di un lessema.
Fra i tratti semantici possono esserci rapporti implicativi: /+UMANO/ implica /+ANIMALE/, che implica
/+ANIMATO/, che implica /+ENUMERABILE/ e /+CONCRETO/.
/+ENUMERABILE/ è il tratto che accomuna tutti i lessemi indicanti entità che si possono enumerare (gatto, sedia ecc.
ma non acqua, sabbia ecc.). I nomi con tratto /-ENUMERABILE/ sono i “nomi massa” (uncountable in inglese)
/+CONCRETO/ accomuna tutti i lessemi che indicano cose dotate di realtà fisica, materiale, percepibili attraverso i
cinque sensi (i sentimenti per es. sono /-CONCRETO/)
I tratti semantici di solito sono BINARI ma non sempre: PENETRABILE può avere 3 valori di penetrabilità
corrispondenti agli stati della materia (da solido a gassoso, dal più al meno penetrabile, /+SOLIDO/ = /1
PENETRABILE/), e possono aumentare se si distinguono materie solide dure e morbide.
Estendendo l’analisi anche ad altri lessemi, tipo i verbi, abbiamo: “Uccidere” = /(X Causa) ((Y Diventa) (-VIVENTE))/
(Qualcuno fa sì che qualcun altro diventi non vivente). L’unico tratto binario è /-Vivente/, X è Agente e Y Paziente,
bisogna infine dire che l’ordine per “Uccidere” non è invertibile (non può essere /(Y Diventa)(X Causa)…/). Un
problema dell’analisi è il problema di analizzare termini astratti.
Per la semantica componenziale il significato di un lessema è composto da tratti semantici categorici necessari e
sufficienti a descriverlo. Ciò presuppone che una data categoria si intenda come un’entità con proprietà necessarie e
sufficienti, delimitata da confini rigidi e composta da membri ugualmente rappresentativi della categoria.
In linguistica si è affermata anche una concezione in contrapposizione con l’ultima, che concepisce le categorie
fondandosi su presupposti diversi. Secondo questi una categoria è un’entità definita da un nucleo di proprietà di
carattere categorico, necessarie e sufficienti, sia da proprietà di carattere graduale, non essenziali, delimitata da confini
sfumati in sovrapposizione con quelli di altre categorie e costituita sia da membri più che meno rappresentativi. A
questa concezione, ovvero la TEORIA DEI PROTOTIPI, fa riferimento la Semantica Prototipica, in cui il significato
è concepito come un PROTOTIPO: l’immagine mentale immediata che per i parlanti di una certa cultura e società
corrisponde a un dato concetto, ciò a cui si pensa subito se non si hanno altre indicazioni per l’identificazione, esso
occupa il PUNTO FOCALE di quel concetto.
Un “uccello” ha i tratti /+ ANIMALE – MAMMIFERO + ALATO + CON PIUME/, in un’analisi prototipica si nota che
l’idea di uccello può cambiare da una cultura all’altra, noi pensiamo subito al passero o al piccione per esempio, e
aggiungiamo anche i tratti /+ CHE VOLA/ e /+ DI PICCOLE DIMENSIONI/. Alcuni membri non sono prototipici i
membri senza alcuni tratti costitutivi, come per es. pollo (/- CHE VOLA/) o aquila (/- DI PICCOLE DIMENSIONI/). I
tratti hanno quindi importanza e potere identificativo diversi (Dal più al meno importante abbiamo per es. Si muove –
Alato – Con piume – Vola – Canta – Piccole dimensioni ecc. Le prime 3 sono la base per chiunque, il resto può variare
della propria cultura e società). In questa prospettiva i concetti hanno diverse GRADUALITÀ.
Altrettando graduali sono i membri di una data categoria, che vengono in mente più o meno velocemente rispetto agli
altri (della categoria “Frutta/o” è più facile che qualcuno pensi a una mela piuttosto che all’ananas o a un fico), e questo
si chiama GRADO DI ESEMPLARITÀ.
Per alcuni esemplari il concetto “frutto” potrebbe iniziare a sovrapporsi al concetto “verdura”, come per l’oliva, infatti
la semantica prototipica ha come conseguenza il rendere sfumati e in sovrapposizione i confini di più categorie, si pensi
anche al pipistrello, che è /+ ANIMALE + ALATO/ come gli uccelli ma con, a differenza loro, /+ MAMMIFERO –
CON PIUME/, rendendolo per alcuni un membro marginale della categoria (anche perché ha anche i tratti /+ CHE
VOLA/ e /+ DI PICCOLE DIMENSIONI/).
Il problema dell’analisi prototipica si presenta quando si parla di valutazioni o processi psicologici, e in genere a
concetti astratti (quali sono i prototipi di buono, amore, pazienza ecc.?), ma risulta comunque più corrispondente alla
realtà dei fatti quando si vogliano definire concetti raggruppanti elementi molto eterogenei, e in quanto tale ha avuto
successo anche nel determinare le categorie della stessa metalingua della linguistica, facendo riconsiderare in termini
prototipici unità di analisi (es. fonemi), classi di morfemi (es. affisso e clitico), classi di parole (es. nome e verbo) e
funzioni sintattiche (tra cui il soggetto), e anche concetti più generali come morfema e parole risultano avere una
struttura prototipica.
Il significato di una frase è la somma e combinazione dei significati dei lessemi che la compongono. Questo non
esaurisce però il senso globale, l’informazione veicolata e il valore comunicativo con cui viene impiegata. Dobbiamo
quindi distinguere la frase dall’ENUNCIATO: una frase considerata dal punto di vista del suo impiego in una
situazione comunicativa, come segmento di discorso in atto; è quindi il corrispettivo, nel quadro dell’uso della lingua,
della frase, unità del sistema linguistico.
Elementi cruciali per interpretare gli enunciati sono i CONNETTIVI (o Connettori), come molte congiunzioni
coordinanti e subordinanti (e, ma, o, se, benché), con spesso valore di operatori logici (“e” è operatore di congiunzione,
“o” di disgiunzione ecc.). Funzionano così da operatori logici i QUANTIFICATORI (tutti, nessuno, qualche) e la
NEGAZIONE (non).
COMPOSIZIONALITÀ DEL SIGNIFICATO: L’importanza dell’interazione fra i significati e le proprietà
semantiche dei singoli lessemi negli enunciati. Nel calcolo sintagmatico del significato (come i parlanti costruiscono e
intendono il significato effettivo di una frase) agiscono principi diversi che sfruttano in diversi modi le proprietà
semantiche dei lessemi. Pustejovsky ha esaminato il significato lessicale secondo prospettiva generativista, per
prevedere in maniera dinamica le modifiche che un significato di base del lessema può assumere in un contesto
linguistico, ha individuato 4 principi:
- COMPOSIZIONE: il significato della frase è la somma dei significati di base di ogni elemento
- CO-COMPOSIZIONE: il significato degli argomenti di un verbo contribuisce a definire il significato del
verbo (“cuocere” cambia in base a cosa si cuoce, se una torta o della pasta)
- COERCIZIONE: o forzatura, conversione, il significato del verbo condiziona il significato di un suo
argomento (il libro comprato/iniziato è rispettivamente un libro/testo scritto dato che iniziare non può unirsi a
un oggetto fisico)
- LEGAMENTO SELETTIVO: un nome seleziona e determina il valore di un aggettivo dal significato non
specifico (treno “veloce” indica che si muove velocemente, un lavoro “veloce” è un lavoro che si esegue
rapidamente).
Un aspetto altresì importante è quello PRAGMATICO: che cosa si fa con la produzione di un enunciato in un dato
contesto e chiama direttamente in causa l’intenzionalità del parlante. In questa visuale la lingua è studiata come “modo
d’agire”, il criterio di analisi è circa: “che cosa si fa, che azione si compie quando si dice qualcosa?”.
ATTO LINGUISTICO: unità di base dell’analisi pragmatica, consta di 3 livelli o componenti distinti. Produrre un
enunciato equivale a fare 3 cose assieme:
VERBI PERFORMATIVI: verbi che se usati in prima persona del presente indicativo annullano la distinzione fra
contenuto referenziale e atto illocutivo compiuto (condannare, promettere, proibire ecc.). Se usati non in prima persona
o al presente descrivono la situazione in cui viene compiuto un atto di proibizione.
SIGNIFICATO IMPLICITO: ciò che non fa parte del significato letterale, espresso degli enunciati, ma che è ricavato
(o ricavabile) da ciò che viene detto e da come lo si dice (“Andiamo al cinema” “ho mal di testa”, la risposta implica un
no).
MASSIME DI GRICE: “regole della conversazione” con cui dar conto dei meccanismi con cui i parlanti attuano
significati impliciti del genere, importanti nell’andamento dell’interazione verbale. Si basano sul fatto che tra i
partecipanti deve esserci un “principio di cooperazione”, e sono riunibili in 4 categorie, DELLA QUANTITÀ (“dare
un contributo tanto informativo quanto richiesto”, che non rechi troppa o troppo poca informazione), DELLA
QUALITÀ (“dare un contributo che sia vero” o il più verificabile possibile), DELLA RELAZIONE (“essere
pertinenti”), e DEL MODO (“esprimersi chiaramente” evitando oscurità, ambiguità ecc.).
PRESUPPOSIZIONE: parte d
el significato di una frase che rimane vera, o valida, negando la frase (e resiste alla prova di negazione): “Gianni legge”
presuppone che Gianni esista. Un enunciato A presuppone un altro enunciato B quando, affinché il primo abbia un
valore di verità, il secondo deve essere vero.
“Il gatto insegue un topo” implica che esiste un gatto che parlante e ascoltatore conoscono e un topo qualunque, la
presupposizione di esistenza del topo è più problematica da stabilire, in quanto dipende dal dominio su cui agisce la
Negazione (o FOCUS DELLA NEGAZIONE): “Il gatto non insegue il topo” può indicare o che il gatto fa
qualcos’altro (dorme, mangia ecc.) o che gli sta facendo altro (ci gioca, lo ghermisce ecc.). Tutto ciò fa notare quanto
l’articolo sia importante e tutto cambi se è determinativo o indeterminativo, “Il” introduce un referente specifico, “un”
invece un referente nuovo e solitamente non specificato.
Una frase può presupporre sia una preposizione con vari impliciti (inferenze), la differenza è che la prima è ancorata
nella forma linguistica, ha un aggancio preciso nella proposizione che viene formulata, mentre le inferenze sono fondate
perlopiù sulla nostra conoscenza del mondo.
VERBI FATTIVI:
(“sapevo che eri partito” e “non sapevo che eri partito” lasciano entrambe come valido che “tu eri partito”).
La presupposizione in conclusione si configura come ciò che in un enunciato il parlante assume come vero o noto
all’ascoltatore, e quindi assodato, indiscutibile, al momento di produrre tale enunciato.
L’italiano è imparentato con tutte le lingue latine o romanze, come francese, spagnolo, romeno e portoghese, altre
lingue minori come il catalano, e diversi dialetti (come quelli italiani, o italo-romanzi). Il ramo romanzo ha una
parentela meno evidente con le lingue germaniche (tedesco, inglese, svedese ecc.), slave (russo, polacco, sloveno ecc.),
baltiche (lituano, lettone), celtiche (bretone, gallese), indoarie (hindi, nepali), iraniche (persiano, curdo) e 3 lingue
isolate ( (neo)greco, albanese e armeno), e tutte formano la famiglia delle lingue indoeuropee, il livello più alto di
parentela ricostruibile, che individua le somiglianze fra le lingue (specialmente nel lessico e nello sviluppo fonetico).
STOCK (o PHYLUM): un grado di parentela meno netto e quindi superiore alla “famiglia”.
Nelle famiglie si possono notare rami dalla parentela più o meno stretta, che si dividono in gruppi e sottogruppi;
l’italiano (e i dialetti) è tra le lingue italo romanze del gruppo occidentale del ramo neolatino della famiglia
indoeuropea.
La linguistica comparativa riconosce massimo 18 famiglie linguistiche senza rapporti di parentela più alti e alcune (min.
4 o 5 in base agli autori) lingue singole isolate senza una parentela rilevata.
LINGUE PIDGIN E CREOLE: Lingue semplificate nate dalla mescolanza in situazioni particolari di più lingue tra
loro diverse e distanti e sviluppatesi secondo tratti peculiari, sono difficili da collocare con precisione in una famiglia
linguistica (ma vengono inserite nella famiglia della lingua che ha dato un contributo maggiore col lessico, la “lingua
lessicalizzatrice”). Quando diventa la lingua materna di una comunità si sviluppa in un CREOLO; fra i pidgin più noti
ci sono il WAPE (West African Pidgin English parlato in Nigeria, Camerun e Ghana), il giamaicano, il seicellese e altri.
Tra tutte le lingue solo alcune decine sono considerabili GRANDI LINGUE, nel 2003 si stima che 64 lingue siano
parlate da oltre 10 milioni di parlanti nativi (che la considerano lingua materna), e 125 con più di 3 milioni, ma si
calcola che nel terzo millennio il 20% delle lingue si estinguerà.
Oltre al numero di parlanti un dato forse più importante è il numero dei paesi in cui una data lingua è ufficiale o
semplicemente parlata, l’impiego nei rapporti internazionali, nella scienza, nel commercio ecc., l’importanza politica, il
peso economico di quei paesi, il prestigio della lingua, il suo insegnamento o meno a scuola come lingua straniera ma
anche il numero di parlanti non nativi. Nel 2003 la top 3 è composta da Cinese mandarino, Hindi-Urdu e inglese, fino
all’italiano al 22° posto.
All’inizio del 3 millennio si calcola che il 60% delle lingue note verrà parlato solo dal 4% della popolazione.
In Europa ci sono 5 famiglie linguistiche: le lingue indoeuropee, quelle uraliche del ramo ugrofinnico (ungherese,
finlandese ecc.), altaiche (turco, tataro), caucasiche (georgiano, ceceno) e semitiche (ramo della famiglia afro-asiatica: il
maltese, con grammatica semitica ma con parte del lessico di provenienza italo-siciliana) oltre al Basco, lingua isolata.
Per individuare tipi linguistici diversi e classificare tipologicamente le lingue ci si basa sulla morfologia, più
precisamente sulla struttura della parola, ci sono 4 tipi morfologici in base al rapporto fra parole e morfemi e del tipo e
natura dei morfemi che costituiscono le parole: Lingue isolanti, agglutinanti, flessive e polisintetiche.
LINGUE ISOLANTI: lingue in cui la struttura della parola è la più semplice possibile, ogni parola è tendenzialmente
formata da un solo morfema, hanno un basso INDICE DI SINTESI (si ottiene dividendo in un testo il numero di
morfemi per il numero di parole, più quello dei morfemi è basso più coincide con quello delle parole, e più la lingua è
detta “analitica”, altrimenti sarebbe “sintetica”), generalmente 1:1. Oltre a essere monomorfematiche sono anche
monosillabiche.
“Isolanti” perché isolano le parole in blocchi unitari indivisibili ed esprimono spesso significati complessi scindendoli
in lessemi semplici giustapposti, tali lingue non presentano infatti morfologia flessionale, e hanno poca o nulla
morfologia derivazionale. Sono affidati al lessico e ad altri mezzi come la sintassi i significati e valori di varia natura
codificati nelle lingue di un altro tipo dalla morfologia. Esempi di lingue isolanti sono il vietnamita (che è anche una
lingua a toni), il cinese, il tailandese ecc. e anche l’inglese presenta alcuni tratti isolanti, grazie soprattutto alla
morfologia flessionale ridotta che possiede (meno di 10 morfemi flessionali).
LINGUE AGGLUTINANTI: Lingua in cui le parole hanno una struttura complessa, formate dalla giustapposizione di
più morfemi, che danno luogo a una catena di morfemi anche lunga. Hanno un alto indice di sintesi, spesso superiore a
3:1, i morfemi hanno di solito valore univoco e una sola funzione: ogni affisso marca biunivocamente solo una
categoria grammaticale. All’interno della parola i morfemi sono facilmente individuabili, ben separabili l’un l’altro, e
sono relativamente rari fenomeni di allomorfia e omonimia fra morfemi. Le parole sono stringhe compatte di morfemi
che possono essere anche molto lunghe e costituite da una radice lessicale, ciascuno ben riconoscibile. Lo sono il turco
(agglutinante per eccellenza), l’ungherese, il giapponese ecc.
LINGUE FLESSIVE: O Fusive, Lingue che presentano parole internamente abbastanza complesse, con di solito una
base lessicale semplice (radice) o derivata e uno o più affissi flessionali (spesso morfemi cumulativi), veicolando più
valori grammaticali assieme e sommando più funzioni, rispetto alle agglutinanti hanno un indice di sintesi minore (2:1 o
fra 2:1 e 3:1), le parole hanno quindi una struttura meno complessa e sono composte da una catena più corta di morfemi,
tuttavia ci sono molti fenomeni di allomorfia e fusione, che mischiano spesso i singoli morfemi e li rendono separabili e
identificabili con qualche difficoltà, l’articolazione in morfemi delle parole è quindi meno trasparente e la
scomposizione non sempre evidente. L’analisi morfemica di queste lingue è resa ardua dai fenomeni di omonimia,
sinonimia e polisemia di morfemi, presentando molte irregolarità e idiosincrasie nella morfologia. Fusive si usa perché
riunire più significati su un solo morfema flessionale e fondere morfemi fra loro rende poco trasparente la struttura
interna della parola, Flessive invece per la presenza in esse di molta morfologia flessionale che da luogo a più forme
flesse della stessa parola; lo sono in genere le lingue indoeuropee, greco, latino e russo. Anche l’italiano è considerata
flessiva.
In esse c’è il sottotipo INTROFLESSIVO: i fenomeni di flessione avvengono anche dentro la radice lessicale.
Esempio tipico di lingua introflessiva è l’arabo, in cui partendo dalla radice lessicale triconsonantica k-t-b
“scrittura/scrivere” possiamo avere kataba (lui scrisse), katabtu (scrissi), kitab (libro) ecc.
LINGUE POLISINTETICHE: Lingue con la struttura più complessa, la parola è formata da più morfemi attaccati
assieme come le agglutinanti ma in essa compaiono due o più radici lessicali, morfemi pieni. Le parole qui
corrispondono spesso a ciò che in altre lingue sarebbero frasi intere, inoltre realizzano nella morfologia valori semantici
di solito affidati al lessico. L’indice di sintesi è 4:1 o più e presentano fenomeni di fusione che rendono a volte poco
trasparente la struttura della parola, come nelle flessive, sono polisintetiche le lingue amerindiane (tipo del gruppo
eschimese), molte lingue australiane ecc. A volte le polisintetiche vengono chiamate anche INCORPORANTI: in una
parola ci sono radice verbale e nominale che in una proposizione rappresenterebbe il complemento oggetto o un
complemento diretto di questa, sono caratterizzate dalla sistematicità con cui il complemento diretto è incorporato dalle
radici verbali
LINGUE ANALITICHE: lingue che spezzano il contenuto da codificare e trasmettere in blocchi unitari semplici (lo
sono le isolanti)
LINGUE SINTETICHE: lingue che sintetizzano, “impacchettano” assieme più blocchi di contenuto, ottenendo entità
complesse (lo sono le agglutinanti e soprattutto le polisintetiche)
In ordine dal più al meno sintetico abbiamo le lingue polisintetiche, agglutinanti, flessivo-fusive e infine isolanti.
I termini analitico e sintetico si usano anche per indicare tipi di costrutti o procedimenti presenti nelle lingue: “Mangiai”
è una forma verbale sintetica, “ho mangiato” analitica. Quindi le strutture che per il tipo flessivo sono parole
corrispondono nel tipo isolante ideale componenti minimali del contenuto delle parole, nel tipo agglutinante ideale dei
sintagmi e nel tipo polisintetico ideale delle frasi.
L’italiano è una lingua flessiva dal punto di vista morfologico, ma troviamo nella formazione di alcune parole la
presenza di fenomeni o meccanismi degli altri tipi.
Un altro criterio importante per classificare le lingue è dato dall’ORDINE BASICO dei costituenti principali della
frase, quello che si ha nelle frasi dichiarative canoniche, è diventato sempre più importante e oggi è il cardine della
tipologia linguistica. I costituenti sono S (soggetto), V (verbo o predicato verbale) e O (oggetto o complemento diretto).
Le combinazioni possibil sono: SVO, SOV, VSO, VOS, OVS e OSV; SOV è l’ordine più frequente (da 1/3 - 2/3 delle
lingue), SVO è poco meno attestato ma comunque al secondo posto (da 1/3 a quasi metà lingue), VSO è in terza
posizione (11/15% delle lingue), VOS in quarta (5/10%), poi abbiamo OVS (1/5%) e il più raro OSV (max 1%), si noti
che oltre 2/3 delle lingue hanno il soggetto prima dell’oggetto. Le lingue romanze, l’inglese e altre lingue germaniche,
le slave, il greco, il finlandese ecc. sono SVO (per il tedesco ci sono divergenze in quanto può essere SVO o SOV
perché l’ordine delle frasi principali è diverso dalle subordinanti, ma comunque è una lingua “verb-second”). Sono SOV
turco, giapponese, coreano e ungherese, sono VSO arabo, ebraico, gallese, maori ecc.
Meno morfologia flessionale (in particolare di caso) hanno le lingue più tendono ad avere un ordine fisso, che consente
l’identificazione delle funzioni sintattiche altrimenti ottenuta con mezzi morfologici. SOV e SVO sono i più usati
perché il soggetto della frase coincide col tema, che sta in prima posizione solitamente, ma non solo, ci sono due
principi importanti da conoscere, il primo più forte e il secondo più debole:
- PRINCIPIO DI PRECEDENZA: fra i costituenti nominali il soggetto, data la sua prominenza e priorità
logica, deve precedere l’oggetto
- PRINCIPIO DI ADIACENZA: verbo e oggetto devono essere contigui per la loro stretta relazione sintattico-
semantica e della dipendenza diretta del secondo dal primo
Le prime hanno tendenzialmente anche NA (aggettivo dopo il nome), NG (genitivo dopo il nome), NPoss (possessivo
dopo il nome), NRel (frase relativa dopo il nome), VAvv (avverbio dopo il verbo), AAvv (avverbio dopo l’aggettivo),
AusV (forma verbale piena dopo l’ausiliare, che implica considerare Aus la testa nelle forme verbali composte), la
presenza di preposizioni ecc.
Nelle seconde hanno all’inverso anche AN, GN, PossN, RelN, AvvV, AvvA, VAus, la presenza di POSPOSIZIONI
(l’esatto simmetrico delle preposizioni, elementi funzionalmente analoghi alle preposizioni ma che stanno dopo il
sintagma che reggono, come “un anno FA” confrontato con “DOPO un anno”) ecc.
È difficile trovare lingue del tutto congruenti tipologicamente, con ordini dei vari elementi nei diversi costituenti, tutti
tra loro in armonia. In ogni lingua c’è sempre, per motivi storici e di variabilità, una certa incongruenza tipologica.
L’italiano per es. lingua SVO, ha molti tratti tipici delle lingue VO, come NG (il libro di Mario), NRel (il libro che ho
letto), NA (libri difficili, ma anche NA: enormi difficoltà) ecc. e quindi è considerabile una lingua postdeterminante, ma
ha anche un certo numero di tratti tipici delle lingue OV come AvvA (abbastanza difficile), PossN (i miei libri), ecc.
Tuttavia il determinante per certe prospettive è la testa del costrutto che lo contiene, quindi l’italiano non sarebbe
tipologicamente incoerente per questo punto.
ERGATIVITÀ: Riguarda l’organizzazione dei sistemi di casi che traducono in superficie i ruoli semantici connessi al
verbo, esistono lingue che, a differenza di quelle con sistemi di caso più comunemente conosciute (latino, greco,
tedesco ecc.) assegnano una marcatura diversa di caso al soggetto a seconda che esso sia soggetto di un verbo transitivo
o intransitivo. Queste lingue si chiamano ERGATIVE perché attribuiscono una rilevanza particolare alla funzione o
ruolo semantico di “agente”. Esse pongono allo stesso caso il complemento oggetto (normalmente= paziente, in
struttura profonda) di frasi transitive e il soggetto delle intransitive, e a un caso diverso il soggetto delle transitive
(normalmente= agente). I primi vanno al caso “assolutivo”, il secondo all’”ergativo”; contrappongono quindi un sistema
di casi “assolutivo-ergativo” a uno più diffuso “nominativo-accusativo”. Il problema è chiaro vedendo le seguenti frasi:
Frase intransitiva con verbo inaccusativo: La nave affonda
Frase Transitiva: I pirati affondano la nave
La nave è sempre il “paziente”, la relazione tra essa e l’evento “affondare” è la medesima, e verrebbe quindi reso in
superficie l’assolutivo, “i pirati”, che compaiono come soggetto nella frase transitiva col ruolo di “agente”.
Sono lingue ergative il basco, le lingue caucasiche, molte lingue indigene d’Australia, l’eschimese ecc.
In linguistica storica la linguistica di fine 800 si è basata, per ricostruire nei dettagli le parentele fra le lingue e la
classificazione in famiglie, rami e gruppi, le LEGGI FONETICHE: mutamenti fonetici regolari che nell’evoluzione
delle lingue coinvolgono intere serie di parole, in cui un fono si trasforma sistematicamente in un altro.
L’individuazione di corrispondenze fonetiche ricorrenti fra parole operanti in un gruppo di lingue imparentate ha
permesso di classificare i rapporti fra esse, come le rotazioni consonanti. Una di queste, parte dell’insieme delle
LEGGI DI GRIMM, riguarda il passaggio dal fono dentale sonoro [d] (ricostruito) indoeuropeo originario al sordo [t]
delle lingue germaniche, queste leggi fonetiche ammettono numerose eccezioni dovute a meccanismi di analogia e
fenomeni di contatto linguistico.
Alcuni fenomeni ricorrenti a livello fonologico sono:
L’insieme di questi e altri fenomeni può portare al mutamento dell’inventario fonematico di una lingua, l’italiano
rispetto al latino per es. riguardo alle consonanti, ha una serie di fenomeni palatali nuova: la fricativa sorda, affricate,
laterale e nasale.
I mutamenti fonetici-fonologici possono anche consistere in spostamenti a catena di intere serie di foni o fonemi, come
nelle ROTAZIONI CONSONANTICHE, la prima di queste (la LEGGE DI GRIMM, o prima rotazione
consonantica è la legge fonetica che regola la modifica delle consonanti dall'indoeuropeo al proto-germanico) riguarda
il passaggio delle occlusive sorde e sonore aspirate a occlusive o fricative sonore, e caratterizza il ramo germanico delle
lingue indoeuropee rispetto agli altri rami. La seconda rotazione consonantica caratterizza invece l’evoluzione del
tedesco fra le lingue germaniche: le occlusive sorde p, t, k diventano affricate a inizio parola e in posizione
postconsonantica, ma fricative in posizione postvocalica (le fricative sonore prima occlusive diventano sorde e la
fricativa dentale sorda diventa occlusiva sonora).
Anche i morfemi possono cambiare le loro regole, e le categorie e distinzioni morfologiche possono nascere e cadere: la
categoria flessionale del caso nel latino si perde nell’italiano; in latino per es. lupus è nominativo (caso del soggetto) e
lupum è accusativo (complemento oggetto), si perde anche il genere neutro lasciando solo maschile e femminile.
ANALOGIA: estensione di forme a contesti in cui esse non sono appropriate, sul modello dei contesti più frequenti e
normali. In italiano per es. un infinito come volere non può venire dall’infinito “velle” del corrispondente latino
(irregolare). L’analogia è solitamente un fatto regolarizzante che crea simmetria eliminando le eccezioni, ed è basata su
un rapporto proporzionale fra elementi coinvolti, per cui in A:B = a:c la casella “fuori posto” (c) viene resa simmetrica
mediante la sostituzione di b con essa (se habui “ebbi”) corrisponde a habere infinito, a volui (“volli”) viene fatto
corrispondere l’infinito volere al posto del corretto “velle”.
Un esempio di RIANALISI è la formazione delle lingue romanze nel passato prossimo (o passato composto),
inesistente in latino. La sua nascita implica una diversa analisi e interpretazione del valore semantico e del
comportamento sintattico di habere, che in latino ha solo valore di verbo pieno (possedere, tenere, significato che ha
anche in italiano).
GRAMMATICALIZZAZIONE: mutamento per cui un elemento del lessico diventa un elemento della grammatica:
un lessema perde il suo valore semantico lessicale e viene assorbito dalla grammatica, come parola funzionale o
morfema, è un esempio il modulo di formazione degli avverbi in italiano: il suffisso derivazionale -mente è un
sostantivo latino mens, mentis (mente, spirito, disposizione intellettuale), al caso ablativo, che si trovava
frequentemente in complementi di modo, come “sana mente” (con spirito sano), “lenta mente” (in maniera lenta).
Nel mutamento sintattico i fenomeni più rilevanti concernono l’ordine dei costituenti. Il mutamento sintattico coincide
quindi spesso con un mutamento tipologico. Il latino, anche se ritenuto una lingua con molta libertà nell’ordine dei
costituenti, ha comunque un ordine non marcato basico tipo SOV, o comunque OV, predeterminante.
Nella semantica lessicale il mutamento si manifesta in primo luogo come arricchimento del lessico, vale a dire con
l’aggiunta di neologismi nell’insieme di lessemi di una lingua, che può avvenire con meccanismi di formazione di
parole interni alla lingua (derivazione, composizione ecc.) da lessemi preesistenti (con -ism-, .ist- da buono, che hanno
coniato “buonismo” e “buonista”) o tramite altre lingue, con forme prese in prestito (computer, yogurt), adattamenti
morfologici (chattare) o calchi (fine settimana < week end). Anche la perdita di lessemi è un fenomeno che avviene nel
tempo, molte parole latine si sono perse, come “cunctus” (tutto intero), ma anche vecchie parole italiane come
“donzello” o “mantenenza” (difesa).
I cambiamenti avvengono anche tra significanti e significati, quando un significante nuovo viene attribuito a un
significato esistente o viceversa tramite rapporti di SOMIGLIANZA (metafora): in lat testa “vaso di terracotta” > testa
“capo”, da gentile “nobile” > gentile “cortese”; e CONTIGUITÀ (metonimia), come volumen “rotolo di pergamena” >
volume “libro/tomo”, penna “piuma d’uccello” > penna “strumento per scrivere”.
PARETIMOLOGIA (o ETIMOLOGIA POPOLARE): risemantizzazione di una parola mediante la rimotivazione
del suo significato, che la rende più trasparente apparentandola a una parola nuova (cubare “giacere” > covare “stare
accovacciato sulle uova”, ricollegato a òvum “uovo”).
Spesso quello che cambia è l’area semantica coperta da una parole (e il suo impiego), e ciò crea
ESTENSIONI/GENERALIZZAZIONI (domina “signora, padrona di casa” > donna) o
RESTRINGIMENTI/SPECIALIZZAZIONI (domus “casa” > duomo “casa del Signore” > “cattedrale”). Tali
spostamenti riguardano anche aspetti connotativi e valutativi del significato, in senso migliorativo (minister “servo,
aiutante” > ministro) o peggiorativo (villanus “abitante della fattoria, di campagna” > villano in ital. antico > zotico,
maleducato).
In questo fenomeno c’è anche la TABUIZZAZIONE (dalla parola polinesiana “tabu” che indica “separato, proibito
perché sacro”) riguardo le interdizioni di parole relative a determinate sfere semantiche e ai suoi concetti attinenti,
sostituite da altre parole dal significato non diretto (dette anche EUFENISMI, parola formata da termini greci che
valgono “parlar bene”). Nella civiltà contadina per es. la donnola (animale) era un nemico da scongiurare per
salvaguardare i pollai, di qui un proliferare in varie lingue di denominazioni “accattivanti”: ital. donnola (piccola
donna), franc. belette ( belle “bella”), spag. comadreja (“comare”) ecc.
I mutamenti possono coinvolgere anche i CAMPI SEMANTICI: in latino il campo sem. dei colori era strutturato
secondo una distinzione di brillantezza e intensità luminosa (Ater “nero cromatico”, niger “nero brillante”, albus
“bianco cromatico”, candidus “bianco brillante”); ma possono coinvolgere anche la PRAGMATICA (l’allocuzione, nel
modo in cui si interagisce con chi parliamo, è passato dal lat. “tu” sing. e “vos” “voi” plur. alla bipartizione italiana
prima fra tu allocutivo confidenziale e voi, sempre con referenza singolare, allocutivo di rispetto; poi fra 500 e 600 a
una tripartizione tra tu di confidenza, voi di cortesia e lei di formalità, fino ad abbandonare il voi singolare in italiano).
Le varianti possono correlare con vari fattori sociali, extralinguistici, della società nel suo insieme o del contesto
situazionale e pragmatico, e le varietà di lingua si caratterizzano corrispondentemente secondo varie dimensioni di
variazione in base al tipo generale di fattore sociale correlato.
- DIATOPIA: riguarda la variazione nello spazio fisico tramite luoghi in cui i parlanti di una lingua arrivano o
vivono (come gli italiani regionali), sono interessate a essa anche morfologia e sintassi (-aro è di Roma e
Centro, -aio è toscano, “benzinaro/aio”, al Sud, in particolare Campania, Sicilia e Sardegna c’è l’accusativo
preposizionale a per il complemento oggetto rappresentato da un essere animato: “hai visto a Maria?”). La
stessa cosa vale anche quando si parla la stessa lingua in diverse nazioni (in Svizzera la nota è il voto
scolastico)
- DIASTRATIA: riguarda la variazione nello spazio sociale tramite classi o strati sociali e gruppi di parlanti e
reti sociali in una società. Emerge a vari livelli d’analisi (FONETICA: pronunce italiane influenzate dal
dialetto usate da parlanti con scarso livello di istruzione, come “copia” e “coppia” in Veneto pronunciate allo
stesso modo). MORFOLOGIA: generalizzazioni di forme e regolarizzazioni analogiche di paradigmi
complessi come nell’articolo, “i” amici, “un” sbaglio ecc. o paradigmi verbali, dissimo per dicemmo, potiamo
per possiamo ecc. comparativi, più bene per meglio ecc. SINTASSI: tema libero, o sospeso, con un elemento
isolato a inizio enunciato senza elementi di coesione sintattica con la frase dopo “io la mia città è Napoli”,
l’uso del doppio condizionale “se potrei, fare questo” o doppio congiuntivo imperfetto “se potessi, facessi”) e
con fenomeni di semplificazione della pronuncia (Assimilazioni: arimmetica per aritmetica, Epentesi:
pisicologia per psicologia, Metatesi: spicologia/piscologia per psicologia). Tutti sti aspetti fan parte
dell’ITALIANO POPOLARE usato dagli incolti
- DIAFASIA: riguarda la variazione nelle varie situazioni comunicative. Ha due sottodimensioni parallele ma
indipendenti in linea di principio: gli assi dei registri (varietà diafasiche dipendenti dal carattere formale o
informale dell’interazione comunicativa e dal ruolo reciproco di parlanti e interlocutori) e dei sottocodici (o
linguaggi settoriali, varietà diafasiche dipendenti dall’argomento di cui si parla o scrive e della sfera di
contenuti e attività a cui ci si riferisce). I registri hanno una scala che va da un estremo all’altro, delle
situazioni formali e informali (a livello morfologico bici, tele, cine ecc. con aferesi sillabica “ ‘sto” sono
informali, a livello morfosintattico l’uso degli allocutivi e di forme con cui ci si rivolge agli interlocutori come
il “tu” e il “lei” oltre alla differenza fra termini che possono sembrare volgari come culo per fortuna, sfiga per
sfortuna, casino per confusione ecc. e termini aulici letterali come quantunque, abbisognare ecc.). Sono inclusi
anche i sottocodici usati dai lavoratori (come termini chimici che i non chimici non usano)
- DIAMESIA: considerabile per certi aspetti una sottodimensione della diafasia, riguarda la variazione
attraverso il nesso o canale di comunicazione (opponendo scritto e parlato). Anche qui abbiamo due
sottodimensioni incrociate, una connessa al carattere fisico del mezzo, l’altra alla strutturazione interna del
messaggio (c’è un modo “fonico” opposto a un modo “grafico” il supporto fisico del messaggio, e un modo
“parlato” opposto a un modo “scritto”, riguardanti l’organizzazione linguistica interna del messaggio. Con le
nuove tecnologie però si stanno questi aspetti si fondono dando vita a “xkè”, “3menda” ecc.)
GEOSINONIMI: termini diversi di diverse regioni per indicare lo stesso oggetto o concetto (la tovaglia in Sicilia che
indica il telo da mare, l’anguria del Nord che al Centro e in Toscana è cocomero e al Sud è mel(l)one (d’acqua) ).
REGIONALISMI SEMANTICI: significati particolari assunti da un lessema in una determinata area (“salire” in
Campania: portare su, “uscire”: portare fuori).
REPERTORIO LINGUISTICO: insieme di varietà di lingua di una comunità sociale, possono essere monolingui o
plurilingui (bilingui o multilingui), i primi sono però l’eccezione.
LINGUA STANDARD: la lingua ufficiale usata anche per l’insegnamento scolastico, di uso orale e scritto
DIALETTI: varietà di lingua ad uso prevalentemente orale, di estensione areale e diffusione demografica inferiore
rispetto alla lingua standard, ce ne sono di due tipi: sistemi linguistici strettamente imparentai con la standard ma con
una loro struttura e autonomia, e i dialetti italiani (o italo-romanzi), considerabili “lingue sorelle” dell’italiano (come i
volgari romanzi derivati dal latino).
I dialetti non vanno confusi con le MINORANZE LINGUISTICHE: le minoranze che parlano una lingua diversa
dalla standard in un dato territorio, come chi parla tedesco in Alto Adige o francese in Valle d’Aosta), o con le
ESOLINGUE, come le lingue europee coloniali in Africa accanto a quelle nazionali locali.
Nei REPERTORI PLURILINGUI è raro che i sistemi linguistici siano sullo stesso piano in usi e atteggiamenti della
comunità parlante e svolgano le stesse funzioni.
DIGLOSSIA: dal greco “duplicità di lingua”, situazione di bilinguismo in cui le due lingue coprono ambiti e ruoli
socialmente differenziati e con una netta compartimentazione degli ambiti (una per lo scritto e negli usi formali e
ufficiali, insegnata a scuola ma non parlata in famiglia, detta VARIETÀ H o A: high, alta; e una impiegata nella
comunicazione quotidiana e negli usi informali, detta VARIETÀ L o B: low, bassa; un esempio è la Svizzera, col
tedesco standard come varietà H e quello svizzero come varietà L)
DILALIA: dal greco “duplicità nel parlare”, presenza di due lingue ma in cui la varietà H è usata anche nel parlato e in
situazioni informali, come in Italia con l’italiano e i dialetti.
INTERFERENZA: riguarda l’influenza e l’azione che un sistema linguistico può avere su un altro, termine usato
spesso per coprire tutta la gamma di fenomeni che avvengono in tal caso e che consistono essenzialmente nel trasporto
di elementi, parole, regole, tratti, costrutti, categorie ecc. di una lingua verso un’altra. Può riguardare tutti i livelli di
analisi ed è particolarmente evidente nei parlati bilingui che possiedono due lingue, spesso si manifesta sotto forma di
superficie linguistica: il materiale linguistico di superficie si trova in una lingua ma il modo in cui è organizzato risente
dell’influsso dell’altra (come un parlante immigrato italiano in Svizzera tedesca che dice “venerdì su sabato” in italiano
ma con la struttura grammaticale tedesca, anziché “la notte tra venerdì e sabato”).
PRESTITI: elementi del lessico presi da un’altra lingua (per es. albicocca e caraffa dall’arabo, dama ed escursione dal
francese, albergo e fiasco dal tedesco), che non implicano per forza il bilinguismo dei parlanti, sono particolarmente
numerosi i prestiti dall’inglese. Subiscono quasi sempre un adattamento alla struttura dell’italiano, in questo caso, come
jogging detto in modo italianizzato.
CALCO: ciò che passa da una lingua all’altra non è una parola ma il significato o struttura interna, resi con mezzi della
lingua ricevente (ferrovia dal tedesco: strada di ferro, grattacielo dall’inglese: raschiatore del cielo).
COMMUTAZIONE DI CODICE: fenomeni sul piano del discorso, tipico dei parlanti bilingui, è un uso alternato di
due lingue nella stessa interazione, che avviene in concomitanza con aspetti pragmatici e contestuali rilevanti
dell’interazione verbale, o anche
senza, quando il parlante fa lo switch in un momento qualsiasi del discorso, senza correlazione con un mutamento di
situazione e un cambio di funzione pragmatica. La commutazione può anche avvenire fra con lingua e dialetto, caso
frequente in Italia.
I tipi devono avere VALORE PREDITTIVI: devono consentire di prevedere la natura degli elementi collocati in essi
(se suonassimo il campanello di una casa, sentissimo un cane abbaiare senza vederlo ma il padrone dicesse che è da
compagnia, saremmo più tranquilli, se invece ci dicesse che è da difesa no. Se classificassimo i cani in base al colore
del pelo non potremmo prevedere nulla, ergo tale classificazione non sarebbe una tipologia), allo stesso modo sapere il
tipo di cui una lingua fa parte ci permetterebbe di prevedere le caratteristiche anche senza indagare sulla sua
grammatica. L’assegnazione a un tipo non è però categorica (un cane da compagnia potrebbe comunque manifestare
comportamenti aggressivi). Un parametro utile per le lingue potrebbe essere l’ordine dei costituenti delle strutture
sintattiche, come sintagma verbale, nominale, frase relativa ecc.
La tipologia è una disciplina tendenzialmente predittiva, ergo serve un’accurata selezione dei parametri di riferimento,
basata su correlazioni possibili tra essi, deve quindi esplicitare l’insieme di proprietà che fanno parte del tipo e il
principio soggiacente che le pone in correlazione. In alcune lingue storico-naturali ci sono condizioni favorevoli per la
comparsa di certe caratteristiche, ma non è certo che ci saranno, esse sono soggette a molti condizionamenti che
potrebbero creare bruschi cambiamenti, e la tipologia non può trascurarne l’esistenza.
I tipi sono entità astratte che si configurano come semplificazione della realtà osservabile ma non sono riprodotti
fedelmente da alcuna lingua storico-naturale, sono quindi modelli di descrizione, attraverso cui i linguisti filtrano la
realtà.
L’indagine tipologica inizia circoscrivendo l’oggetto dell’indagine individuando i segmenti del sistema di lingua su cui
fondare la ricerca tipologica, poi si selezionano i parametri pertinenti in base alla loro potenzialità predittiva, dopodiché
si valutano a quali tipi si possono ricondurre le lingue storico-naturali rispetto ai tratti linguistici oggetto dell’indagine.
Così facendo ogni lingua sarà ascritta a un certo tipo se la sua configurazione strutturale risulterà compatibile con la
porzione statisticamente rilevante dei parametri correlati o se registrerà una prevalenza statisticamente significativa dei
tratti riconducibili a un tipo.
Alla fine si osserverà che non tutti i tipi possibili hanno la stessa diffusione fra le lingue storico-naturali, ma comunque
non dovrebbero esistere nelle lingue storico-naturali dei tipi che, sul piano teorico, risultino impossibili tra i parametri
pertinenti. Le combinazioni strutturali tra i parametri in uso dalle lingue dovrebbero essere un sottoinsieme di quelle
logicamente possibili, adesso la tipologia deve capire quali fattori possano giustificare la distribuzione interlinguistica
dei tipi, abbandonando il livello descrittivo e spostandosi prima su quello esplicativo e poi sul predittivo.
Ma dove cercare la logica interna alla distribuzione interlinguistica dei tipi? Gli studiosi hanno posizioni diverse ma la
più plausibile è rintracciare la spiegazione profonda delle classificazioni tipologiche in fattori di natura essenzialmente
semantica o pragmatica: visto che la lingua è un fatto sociale e la sua funzione primaria è permettere alle comunità di
comunicare, nulla vieta che la ratio profonda delle correlazioni trovate, almeno in prospettiva tipologica, possa essere
spiegata in ottica funzionale, tenendo quindi presente la funzione cui la lingua deve assolvere. In questo quadro si può
dire che le configurazioni tipologiche delle lingue sono il loro modo di risolvere i problemi legati alla comunicazione.
Ciò non significa che una descrizione in termini linguistici dei fatti osservati sia da escludere a priori.
Il repertorio dei tipi individuati a livello teorico dovrebbe coprire l’intera gamma di quelli rappresentati nella concreta
realtà linguistica, quindi non dovremmo rintracciare tra le lingue storico-naturali configurazioni tipologiche
imprevedibili o che contraddicono l’inventario dei tipi di riferimento: potremmo trovarci di fronte a lingue che possono
essere assegnate a più di un tipo o verificare la totale assenza empirica di tipi teoricamente possibili.
La tipologia linguistica studia la variazione interlinguistica con l’obiettivo di stabilire se sia soggetta a limiti e
restrizioni e, in caso di riscontro positivo, capire quale sia la natura di tali limiti e restrizioni. Studiare quindi le
occorrenze sistematiche di specifiche affinità (o divergenze) strutturali tra le lingue dovrebbe condurre il tipologo a
svelare le ragioni dell’esistenza di configurazioni strutturali, cioè tipi possibili e impossibili (o probabili e improbabili).
Nonostante la tipologia cerchi di esplicitare i principi generali della variazione interlinguistica, individuando i tipi
attestati e quelli non attestati ma teoricamente possibili tra le lingue del mondo, ciò è umanamente impossibile, dato che
dovremmo aggiungere anche le lingue estinte, e non tutte sono ugualmente documentate (alcune potrebbero essere usate
solo per parlare senza che ci sia una scrittura per es.). La soluzione al problema è cruciale, e la tipologia procede in tal
senso con una strategia simile a quella adottata dagli istituti che elaborano lo spettro di una comunità sociale mediante
sondaggi d’opinione. Facciamo un esempio:
Nell’imminenza delle elezioni politiche gli organi di stampa pullulano di sondaggi che dovrebbero prevedere gli esiti, la
loro credibilità è proporzionale alla cura con cui sono stati condotti e alla selezione del campione rappresentativo. Così
come in tali sondaggi si selezionano gli intervistati in base a criteri piuttosto accurati e pertinenti (età, istruzione,
occupazione, regione di residenza ecc.), una procedura simile viene usata dalla tipologia linguistica, che sceglie lingue
che rappresentino la loro enorme varietà nel mondo evitando le cosiddette “distorsioni”:
- DISTORSIONI GENETICHE: Non bisogna dare eccessiva rappresentazione ad alcune famiglie di lingue a
scapito di altre, l’assenza di un legame di parentela tra le lingue indagate rafforza la possibile caratterizzazione
tipologica delle affinità trovate
- DISTORSIONI AREALI: Bisogna ricordare che le lingue non imparentate ma parlate nello stesso contesto
geografico possono sviluppare tratti comuni in base ai contatti dei gruppi di parlanti, non deve esserci quindi
“interferenza linguistica”. Investigare, per es., sulla morfologia nominale del neogreco (famiglia indoeuropea),
del bulgaro (gruppo slavo meridionale) e del rumeno (lingue romanze) troveremmo la tendenza a semplificare
l’inventario delle terminazioni di caso con la fusione di desinenza del genitivo e del dativo. Non essendo
strettamente imparentate potremmo identificare il fenomeno come una tendenza tipologica, ma queste 3 lingue
hanno avuto uno stretto e secolare contatto tra loro, quindi tale fenomeno non potrebbe essere considerato
- DISTORSIONI TIPOLOGICHE: Non devono esserci sbilanciamenti a favore di certe configurazioni
tipologiche a scapito di altre, se gli studi tipologici hanno individuato almeno 4 tipi morfologici di riferimento
(isolante, agglutinante, fusivo e polisintetico) allora il campione deve riprodurre fedelmente tale varietà
- DISTORSIONI LEGATE ALLA CONSISTENZA NUMERICA DELLE COMUNITÀ PARLANTI: Il
rischio di incappare in esse è elevato, infatti di 6000 lingue solo 100 sono parlate dall’80% della popolazione
umana, ma non bisogna considerarlo dato che ciò è dovuto alle vicende storiche delle comunità di parlanti.
L’esperienza insegna che molto spesso, almeno in una prima fase d’indagine, la scelta cade quasi
inevitabilmente su lingue la cui documentazione è maggiormente accessibile e per cui ci sono parlanti nativi
disponibili a cui sottoporre questionari, cosa che dimostro uno dei padri degli studi tipologici: Joseph H.
Greenberg, che negli anni 60 utilizzò nei suoi studi un campione scelto per convenienza e con cui avesse
quindi una certa familiarità o per le quali disponesse di una grammatica adeguata, ma affermando sempre che
arrivò a conclusioni provvisorie.
Oggi si hanno strumenti che ai tempi sembravano inimmaginabili, come il WORLD ATLAS OF LANGUAGE
STRUCTURES, un progetto in cui svariati linguisti operano per tracciare un quadro attendibile su vasta scala della
variabilità interlinguistica rispetto a molteplici parametri d’indagine in base ai livelli di analisi principali della lingua
(inventari consonantici e vocalici, struttura della sillaba, posizione dell’accento ecc.), creando un campione di 100
lingue che rappresentino oltre 50 famiglie linguistiche (con anche alcune lingue isolate). I risultati delle indagini poi
vengono verificati secondo un campione di altre 100 lingue.
LA POSIZIONE DEL SOGGETTO: partiamo dal fatto che V, S e O non sono una classe del tutto omogenea: V è
una categoria sintattica, S e O rappresentano funzioni che possono essere svolte da più categorie sintattiche, inoltre non
è scontato che i costituenti in questione siano formati da una sola parola (Luca ama Teresa = Il ragazzo che da poco si è
trasferito ama la figlia dei farmacisti).
I tipi SOV (turco, coreano, giapponese ecc.) e SVO (gruppo romanzo, germanico, slavo ecc.) sono i più frequenti, il
45% corrisponde al primo tipo e il 42% al secondo, poco meno del 10% è VSO (lingue celtiche, arabo classico,
aramaico ecc.) e ciò non può essere un caso, ci deve essere un principio organizzativo riguardante tali ordini e ciò che
accomuna questi 3 tipi è il soggetto che precede sempre l’oggetto (tendenza formulata da Greenberg nei termini di un
universale linguistico). Il motivo può derivare da condizionamenti avvenuti nel tempo di natura extralinguistica, il
soggetto di norma è l’entità che esegue l’azione espressa dal verbo e ha controllo su di essa, potendo scegliere se e
quando interromperla, ciò assegna al soggetto una preminenza cognitiva rispetto all’oggetto, che invece subisce
l’azione. Tale disparità viene riprodotta anche nella lingua.
Una seconda possibile concausa può essere il fatto che la disposizione del materiale linguistico rifletta l’organizzazione
mentale dell’informazione da veicolare, il soggetto corrisponde solitamente all’informazione data (TEMA o TOPIC) e
il resto è l’informazione nuova (il REMA o COMMENT, ciò che si dice nel tema).
ORDINE DEI COSTITUENTI E SISTEMA DI CASI: la posizione dei costituenti della frase non ha rilevanza in
tutte le lingue e non ha sempre la funzione di marcare i ruoli sintattici: “il ragazzo ama la ragazza” ha come sintagma
nominale iniziale il soggetto e come finale l’oggetto, ma se venissero invertiti con “la ragazza ama il ragazzo” la frase
cambierebbe radicalmente; se invece consideriamo la frase latina “puer puellam amat” (pure=soggetto, oggetto
“puellam” rilevabile tramite la desinenza -am) l’inversione di puer e puellam “puellam puer amat” non cambia il
significato della frase, dato che in latino l’ordine dei costituenti è meno rigido che nell’italiano.
ORDINE NATURALE E ORDINE MARCATO: in base a quali criteri si determina l’ordine dei costituenti di una
struttura sintattica? Nell’ungherese per esempio possono andare bene tutti gli ordini, ma non tutti possono essere usati
nello stesso contesto: mentre SOV è “neutra”, le altre richiedono situazioni particolari e trasmettono le specifiche
sfumature soprattutto di ordine pragmatico. La tipologia di norma basa le sue generalizzazioni sull’ordine naturale, ma
quando un ordine può dirsi marcato? Quando, dati due o più costrutti linguistici, in uno di essi compare un elemento in
più: la MARCA: se consideriamo la coppia di occlusivi bilabiali /p/ e /b/ il secondo elemento è marcato in quanto
contraddistinto dal tratto di sonorità che il primo non ha. Sul piano sintattico l’ordine non marcato o naturale è quello in
cui sono disposti i costituenti in un contesto comunicativo “pragmaticamente neutro”, quando cioè si intende
trasmettere esclusivamente l’informazione che deriva dalla somma dei significati parziali degli stessi costituenti.
Consideriamo l’italiano, il cui ordine può essere piuttosto flessibile: la sequenza SVO è quella naturale (il bimbo
mangia la mela), ma anche OVS può risultare accettabile (la mela, mangia il bambino) ma non può essere usata sempre,
di solito si usa per contraddire un’affermazione precedente (“il bimbo mangia una pera” “no, una mela, mangia il
bimbo”), inoltre dopo il primo costituente vi è una pausa piuttosto forte rappresentata dalla virgola (e non essendoci
nell’ordine SVO, tale pausa è una marca, e veicola un valore avversativo come info aggiuntiva).
TESTA E MODIFICATORI: Dato che basarci solo sull’ordine dei costituenti non avrebbe successo, in quanto
porterebbe a collocare oltre il 97% delle lingue nello stesso tipo, concentriamoci solo su O e V nella frase dichiarativa. I
principali parametri di correlazione sono la presenza di preposizioni o posposizioni, la struttura del sintagma nominale
(la posizione reciproca di nome e modificatori), la posizione degli ausiliari, della negazione degli avverbi rispetto al
verbo, la posizione della congiunzione subordinante rispetto alla frase subordinata, la collocazione dei pronomi
interrogativi e la struttura delle costruzioni comparative. In base alla loro combinazione si possono trovare 2 tipi di
riferimento:
Questi due tipi esibiscono il massimo indice di coerenza e trovano piena e ideale rappresentazione in berbero e azpoteco
(VO), birmano e hindi (OV) ma ovviamente non coprono l’intera gamma della variabilità interlinguistica: se ci
concentriamo solo sull’ordine di V e O, la presenza di preposizioni o posposizioni e la posizione di genitivo e aggettivo
rispetto al nome osserviamo che le lingue del mondo si distribuiscono in circa 15 tipi, di cui 7 si caratterizzano per una
diffusione interlinguistica davvero significativa [A(ggettivo), G(enitivo), N(ome), O(ggetto), Po(sposizione),
Pr(eposizione), S(oggetto), V(erbo)]:
1) V(S)O, Pr, NG, NA: lingue celtiche e polinesiane, ebraico, aramaico, arabo ecc.
2) (S)VO, Pr, NG, NA: lingue romanze e afroasiatiche, albanese, neogreco, vietnamita ecc.
3) (S)VO, Pr, NG, NA: tedesco, nederlandese, islandese, lingue slave ecc.
4) (S)VO, Pr, GN, AN: norvegese, svedese, danese
5) (S)VO, Po, GN, NA: finnico, estone
6) (S)OV, Po, GN, AN: lingue turche, hindi, bengalese, coreano, giapponese ecc.
7) (S)OV, Po, GN, NA: basco, birmano, tibetano classico, maggior parte delle lingue australiane
Riprendendo i due tipi più coerenti possiamo focalizzare la disposizione dei costituenti nei sintagmi verbale, nominale e
adposizionale:
TIPO VO
- Sintagma verbale:
- Sintagma nominale:
- Sintagma adposizionale:
TIPO OV
- Sintagma verbale:
- Sintagma nominale:
- Sintagma adposizionale:
Scomponendo il primo tipo (VO) pezzo per pezzo osserviamo che per quanto riguarda il sintagma verbale, il verbo,
tecnicamente definito “testa”, (che dà il nome all’intero sintagma e stabilisce se un oggetto diretto debba esserci o
meno, e che deve essere sempre specificato a differenza dell’oggetto) precede l’oggetto, ovvero il complemento. A
questo punto possiamo chiederci cosa succeda nel sintagma nominale, la cui testa è il nome (che innesca i meccanismi
di accordo: gli aggettivi, i dimostrativi e gli articoli concordano con il nome ma non viceversa, inoltre come il verbo
deve essere sempre specificato, al contrario dei modificatori). Anche i complementi e i modificatori del nome (genitivo,
aggettivo o frase relativa) si collocano alla sua destra, quindi anche nel sintagma nominale la testa precede i
complementi e i modificatori.
Se esaminiamo il terzo costrutto (sintagma adposizionale), notiamo che è introdotto da una preposizione: la adposizione
quindi è a sinistra dei complementi (c’è però un grosso disaccordo tra gli studiosi sul fatto che una adposizione possa
essere testa; per semplificare diamo per scontato che le proposizioni e le posposizioni siano testa).
Il tipo OV usa la strategia opposta: la testa segue sempre i suoi complementi/modificatori. La generalizzazione “VO:
testa iniziale” e “OV: testa finale” ha conseguenze rilevanti sui piani teorico ed empirico. A livello teorico alcuni
costrutti differenti e reciprocamente indipendenti adottano il medesimo principio organizzativo: posizionano sempre la
testa o prima o dopo i complementi/modificatori; dal lato empirico ciò consente ai parlanti un grande risparmio di
energie quando acquisiscono e usano la lingua, potendo apprendere un unico principio generale (le sequenze testa-
complemento o il contrario) e in base a esso costruire e interpretare molte strutture complesse di natura diversa.
Questa spiegazione ha però dei problemi: non spiega che l’aggettivo raramente si conforma ai due principi in questione,
stessa cosa per l’articolo, che nelle lingue VO precede la propria testa (il nome) e nelle OV la segue. Date queste
situazioni “anomale” è nata negli anni un’ipotesi chiamata BRANCHING DIRECTION THEORY (“Teoria della
Direzione della Ramificazione” in italiano): prevede che la coerenza tipologica nei costrutti di OV e VO siano rispettati
solo dai costituenti con una struttura (micro)sintattica interna, da quelli che, in una rappresentazione ad albero,
esibiscano una ramificazione. Al contrario i costituenti di tipo lessicale sarebbero meno propensi a occupare
rigidamente una specifica posizione.
L’inglese per es. è VO ma l’aggettivo e l’articolo non seguono il principio “testa a sinistra” (black dog, the table); il
genitivo (con l’eccezione del genitivo sassone ‘s) e la frase relativa invece seguono il nome e si mostrano coerenti
rispetto al criterio di fondo che regola la struttura dei costituenti del tipo VO [(the) book that I read].
La BRANCHING DIRECTION THEORY prevede quindi che in una lingua storico-naturale vi sia una tendenza
piuttosto forte a collocare i costrutti di natura sintattica, come “of the party” o “that I read” sempre prima o dopo la
testa. La teoria spiega presunte anomalie dell’italiano, l’aggettivo per es. può spostarsi in posizione prenominale
acquisendo spesso un significato traslato (es. alto ufficiale) o modificando il suo aspetto (un libro bello/un bel libro), ma
se l’aggettivo assume struttura sintattica la posizione postnominale diventa più rigida (un libro molto bello V /un molto
bello libro X), tale teoria ha comunque dei lati oscuri nonostante abbia riscosso un certo successo.
Un altro aspetto importante è la corrispondenza biunivoca tra morfemi e unità semantiche: ogni morfema/parole
esprime uno e un solo significato, sia esso lessicale o grammaticale. La combinazione delle due categorie semantiche
[PRONOME DI PRIMA PERSONA] e [PLURALE], che l’italiano concentra in “noi” e l’inglese in “We”, in
vietnamita viene espressa dall’accostamento di due parole distinte, chùng [PLURALE] e tòi [PRONOME DI PRIMA
PERSONA], ciascuna delle quali esprime una sola funzione; all’opposto abbiamo le lingue polisintetiche, in cui
l’indice di sintesi assume il valore massimo: concentrano nella stessa unità lessicale un numero piuttosto elevato di
morfemi, giungendo a condensare in una sola parola informazioni che in italiano normalmente richiederebbero la
costruzione di un’intera frase, come nell’eschimese siberiano:
La sequenza di prima (senza – in mezzo alle parole) è sia una parola che una frase di senso compiuto. In questo caso
l’indice di fusione si colloca di norma su valori intermedi: data la complessità della struttura interna, è normale
prevedere casi in cui due morfemi adiacenti possano fondersi l’uno nell’altro. All’interno del tipo polisintetico viene in
genere individuato il sottotipo incorporante, cui vengono ascritte le lingue che tendono a giustapporre in una sola parola
numerosi morfemi essenzialmente lessicali.
I due tipi che esemplificano i valori estremi dell’indice di fusione sono quello agglutinante e quello fusivo, le lingue
agglutinanti hanno il minor indice di fusione. In esse la parola consta generalmente di più morfemi e di norma la
segmentazione non presenta particolari difficoltà dato che c’è una forte tendenza a disporre i morfemi in sequenza senza
che i confini si confondano. Anche nei sistemi agglutinanti quindi viene mantenuta una corrispondenza biunivoca tra il
livello della forma e quello del contenuto: ogni morfema adempie a una sola ben definita funzione. Hanno una
fisionomia agglutinante il turco e il nahuatl.
Per le lingue fusive invece il valore dell’indice di fusione è massimo, i confini tra i morfemi perdono visibilità e ciò
determina una serie di reazioni a catena: la segmentazione è particolarmente ostica, i casi speciali (le eccezioni)
aumentano e l’ideale corrispondenza biunivoca tra piano della forma e piano del contenuto svanisce, in quanto più
categorie semantico-funzionali si concentrano in un unico morfema. Le lingue indoeuropee hanno carattere
prevalentemente fusivo.
Es. “Agli uomini” in turco è “Adam (uomo) – lar (plurale) – a (agli)” e in latino è “Homin – ibus”; la desinenza -ibus
non può essere scissa ulteriormente perché non contiene né un morfema che veicoli la funzione grammaticale
(DATIVO) né uno che trasmetta l’informazione sul numero (PLURALE); in “Adamlara” -lar è la marca del plurale e -a
è quella del dativo. Inoltre le lingue fusive hanno morfemi con spesso una forma variabile: -es del nominativo plurale
homines (terza declinazione) non può essere estesa né ai nomi maschili della seconda declinazione (la cui stessa
funzione è realizzata da -i, lupi: (i) lupi), né ai nomi neutri (in cui il nominativo plurale esce in -a, corpora: (i) corpi), né
a quelli femminili della prima declinazione (rosae: (le) rose). Inoltre, nel tipo in esame la violazione della
corrispondenza biunivoca tra unità del piano dell’espressione e unità del piano del contenuto avviene in entrambe le
direzioni possibili. Oltre alla situazione “più forme > una funzione” è molto attestata anche la situazione opposta “una
forma > più funzioni”: hominibus può essere interpretata come dativo plurale, ma anche come ablativo plurale. Il
rapporto tra i diversi valori semantico-funzionali di -ibus è paradigmatico per ciò che riguarda le due informazioni
relative al caso (una stessa forma non può essere dativa e ablativa nella stessa occorrenza: i due valori si escludono l’un
l’altro), ma è sintagmatico se si considera il caso da una parte e il numero plurale (-ibus è sia dativo o ablativo sia
plurale) dall’altra.
Nelle lingue fusive l’indice di sintesi si caratterizza per valori medio-bassi: la possibilità di far convergere più unità
semantiche su un singolo morfema consente di ridurre il numero di morfemi in una parole.
All’interno del sottotipo in questione si può individuare il SOTTOTIPO INTROFLESSIVO, in cui ci sono le lingue il
cui rapporto tra unità del contenuto e unità dell’espressione ricalca lo schema appena delineato, senza però che i
morfemi siano disposti in ordine lineare. Si tratta principalmente delle lingue a morfologia non concatenativa, che
prevedono una collocazione “a pettine” dei morfemi.
L’arabo per es. per costruire le sue parole intreccia una radice (tri)consonantica con una lettura semantica generica
senza specificazioni rispetto alle categorie di genere, numero, tempo ecc. e particolari sequenze vocaliche tra
consonante e radice (per esprimere altre specificazioni lessicali e grammaticali). La radice ktb ricopre l’area semantica
connessa alla scrittura, e col prefisso m- forma nomi di luogo e di strumento).
Un’altra classificazione di buon successo riguarda le strategie morfologiche che le lingue storico-naturali adottano per
codificare la relazione di dipendenza, può essere espressa con dispositivi di natura sintattica (l’ordine reciproco dei
costituenti in questione o l’uso di adposizioni) o con gli affissi. Tale classificazione coinvolge le lingue che prediligono
questa seconda opzione. Il tratto in questione ha una triplice articolazione e consente di prevedere l’esistenza di 3 tipi di
riferimento: le lingue con strategie morfologiche che codificano la relazione sintattica in esame possono marcare la
relazione di dipendenza sulla testa, sugli elementi dipendenti o su entrambi.
Lingue come il cinese sono dette “a toni” o “tonali”, in un’indagine tipologica sui sistemi di tono, il primo passo è
l’identificazione di due macrotipi, le lingue tonali (su cui si concentra l’indagine) vs le lingue non tonali.
Dato che le lingue tonali sono piuttosto disomogenee non si può creare un profilo tipologico unitario e omogeneo ma si
può riorganizzare in base a vari parametri, due di questi sono prevalenti tra le varie proposte: l’unità a cui è associato e
la funzione cui il tono deve assolvere. Per il primo la distinzione più frequente è fra toni associati a vocali (presenti nel
somalo) e a sillabe (come nel cinese mandarino), per l’altra la distinzione riguarda toni che distinguono morfemi
lessicali (come nel cinese mandarino) e quelli con valore specificamente grammaticale (come in Aghem, na lingua
parlata in Camerun, in cui la à “con” si differenzia solo per il tono da â ”a/per”).
I toni possono svolgere anche funzione derivazionale. In Lendu (parlata tra Congo e Uganda) trasformano un verbo in
nome: dhύ “insultare” diventa dhù “insulto”. Altri tratti salienti riguardano la consistenza degli apparati consonantici e
vocalici; per le vocali un parametro è la nasalizzazione, che ha ragion d’essere solo se ha valore fonologico e quindi se
il contrasto tra vocali orali e nasali è distintivo. Infatti ci sono alcune tendenze abbastanza ricorrenti come il rapporto
che lega vocali orali e nasali (la presenza delle ultime implica la presenza delle prime dato che non ci sono lingue con
solo vocali nasali).
Partendo dal vertice (a sinistra), il primo tipo prevede solo due termini (il bianco indica tutti i colori chiari e il nero tutti
gli scuri), nel secondo compare necessariamente il rosso, poi si va verso il giallo e/o verde, poi blu, marrone ecc.
La struttura implicazionale della gerarchia impone che non si possa accedere a un livello senza essere passati per quelli
precedenti: una lingua non può avere un termine per “blu” senza bianco e/o nero, rosso e giallo e/o verde. Ovviamente
alcune lingue coprono ben più termini per i colori ma essi rientrano solo dalla 12° posizione, inoltre non è necessaria la
corrispondenza biunivoca fra classi cromatiche e unità lessicali, uno stesso colore può essere espresso da 2 o più termini
distinti (candidus e albus in latino, che indicano rispettivamente un bianco splendente e uno opaco), in fondo i tipi
attestati sono 22 ma quelli possibili in base alle combinazioni tra le undici sono oltre 2000.
Se l’obiettivo della tipologia è studiare i limiti della variazione interlinguistica (censendo i tipi attestati e non) e definire
la nozione di lingua umana possibile (individuando schemi di variazione ricorrenti e i principi che li determinano),
nessuna teoria generale del linguaggio umano può prescindere da un approccio tipologico.
Per trovare la spiegazione di fatti linguistici la tipologia controlla all’esterno del singolo sistema di lingua. Le principali
teorie del linguaggio invece privilegiano condizionamenti intrasistemici. In chiave tipologica è naturale attendersi che
ogni segmento del sistema lingua obbedisca a un proprio principio organizzativo, anzi talvolta nello stesso segmento
emergono chiari segni di una competizione di più principi distinti. La storia degli studi tipologici pone di fronte agli
occhi il fallimento di ogni tentativo di elaborare tipologie “olistiche” (che riconducono ogni articolazione della lingua a
un solo principio organizzativo). Se ogni manifestazione della lingua obbedisse a un unico principio organizzativo e se
esso fosse condiviso da tutte le lingue la tipologia sarebbe solo una teoria generale del linguaggio.
UNIVERSALI ASSOLUTI: sanciscono la presenza (o assenza) di una certa proprietà senza far riferimento a parametri
o stabilite correlazioni fra tratti differenti; un esempio è quello secondo cui tutte le lingue hanno vocali orali (mentre
non tutte hanno vocali nasali). Stabiliscono requisiti imprescindibili e forniscono informazioni sulla natura profonda del
linguaggio, seppur indirettamente; molti casi inoltre rimandano a condizionamenti dovuti a com’è fatto il nostro
apparato fonatorio e alle nostre costrizioni neurologiche e psicologiche che intervengono.
UNIVERSALI IMPLICAZIONALI: affermano che, in una lingua, un tratto linguistico può realizzarsi solo se c’è
anche un altro tratto (nelle lingue con preposizioni, il genitivo segue di norma il nome reggente, mentre nelle lingue con
posposizioni lo precede; le lingue che costruiscono la frase dichiarativa indipendente assertiva sullo schema VSO sono
sempre preposizionali). Per la tipologia essi hanno un rilievo ben maggiore dato che lasciano alle lingue un buon
margine di reciproca differenziazione e, quindi, offre parametri affidabili e attendibili per lo studio della variabilità
interlinguistica. Nell’universale “VSO Ͻ (implica) preposizioni” (se c’è l’ordine VSO ci sono per forza le preposizioni)
entrano in gioco 2 parametri teoricamente indipendenti; dalla loro correlazione emergono 4 combinazioni:
Attribuendo a ciò un carattere implicazionale dobbiamo escludere l’esistenza di uno di questi tipi, ovvero il 2 dato che
le lingue possono essere VSO solo se hanno anche preposizioni, una premessa indispensabile e imprescindibile, ma non
è detto che tutte le lingue preposizionali debbano per forza sviluppare l’ordine VSO (l’italiano per es. che è SVO); può
quindi esserci l’ordine VSO senza preposizioni (rendendo il tipo 2 impossibile) ma anche preposizioni con ordini
diversi da VSO (come l’ormai ampiamente attestato tipo 3); dei 4 tipi l’1, il 3 e il 4 hanno una certa diffusione
intrerlinguistica.
Il Gallese ha il tipo 1, l’inglese e l’italiano il tipo 3, il turco il 4.
Gli universali implicazionali costruiscono il recinto in cui si collocano le lingue storico-naturali, la tipologia studia i
movimenti di queste lingue all’interno del recinto.
Gli studi tipologici hanno identificato dei principi che giustificano la presenza o meno di strutture linguistiche
particolari, tre delle quali particolarmente cruciali:
- ECONOMIA: tendenza a snellire il più possibile l’apparato formale di un sistema linguistico, pur preservando
le potenzialità comunicative. È un ottenere il massimo risultato comunicativo col minimo sforzo, e si manifesta
a vari livelli: nel contenimento entro i limiti compatibili per la memoria umana dell’inventario delle unità di
base della lingua, nella limitazione delle strutture ridondanti (in cui un’informazione viene esplicitata anche se
superflua o viene marcata più volte). Essa può essere spiegata ricorrendo al principio universale secondo cui
quando l’aggettivo segue il nome, esso esprime tutte le categorie flessive del nome e in tali casi il nome può
lasciare inespressa una di queste categorie o tutte; l’eventuale omissione da parte del nome di alcune categorie
flessive indica che tali categorie vengono già espresse dall’aggettivo posposto. Essendo il legame tra nome e
aggettivo naturale, è automatico proiettare sul primo le info grammaticali codificate sul secondo.
- ICONICITÀ: tendenza a riprodurre, sul piano della struttura linguistica, le sequenze in base a cui viene
organizzata, a livello mentale, l’info da trasmettere, il discorso si articola per riflettere fedelmente la
concettualizzazione dell’esperienza nella mente del parlante. Può essere così spiegata la propensione delle
lingue a collocare, nelle enunciazioni condizionali, la proposizione condizionale prima della conclusione.
- MOTIVAZIONE COMUNICATIVA: se la lingua ha come traguardo essenziale la comunicazione, essa fa
convergere le proprie risorse su tale obiettivo. La struttura complessiva della lingua e i continui adattamenti, in
sincronia e diacronia, hanno come fine ultimo l’adeguare il sistema alle esigenze comunicative della comunità
parlante. Nessuna lingua dovrebbe porre limiti alle proprie potenzialità comunicative privando determinate
categorie di un’efficace espressione formale, al contrario eventuali carenze in questo senso dovrebbero sempre
innescare un mutamento volto proprio al loro annullamento. È proprio la motivazione comunicativa a offrire
una spiegazione dell’universale secondo cui tutte le lingue hanno categorie pronominali implicanti almeno 3
persone e due numeri. Infatti la presenza di 3 persone (prima, seconda, terza) e di due numeri (singolare,
plurale) sembra essere la dotazione minima per poter imbastire un sistema pronominale in grado di svolgere le
funzioni cui è preposto.
Parliamo dell’universale 38 individuato da Greenberg, in presenza di un sistema di casi l’unico che può essere espresso
mediante un affisso zero (privo di una desinenza specifica) è quello che include tra le sue funzioni quella di soggetto del
verbo intransitivo.
Semplificando la situazione immaginiamo che le uniche funzioni sintattiche in una lingua siano il soggetto di un verbo
intransitivo (Sint), di uno transitivo (Str) e un oggetto diretto (Odir), solo il caso usato per la funzione sintattica Sint può
essere espresso da una desinenza zero. L’universale in questione, comunque, afferma che l’assenza di una specifica
desinenza può caratterizzare il caso che incluse tra le sue funzioni (lo stesso caso, a marca 0, può svolgere altre funzioni
ovvero anche Str e Odir, in questo caso semplificato) quella di Sint.
Prendiamo i sistemi di caso nominativo-accusativo e ergativo-assolutivo (i più diffusi): il primo è quello con cui un
parlante occidentale ha più dimestichezza, si usa in tedesco, in russo, in turco, in neogreco, in latino e in greco antico; il
soggetto in questo caso viene marcato sempre dal caso nominativo; l’oggetto diretto, invece, assume il caso accusativo.
Dunque, il caso nominativo assolve le funzioni di Str e Sint, quello accusativo corrisponde alla funzione Odir.
Dovremmo comunque attenderci l’eventualità che il nominativo possa essere privo di desinenze specifiche. In latino
questa eventualità trova conferma: in “puer currit” (il ragazzo corre) “puer” (Sint) compare privo di una determinazione
di caso.
Nelle lingue di tipo ergativo-assolutivo la marcatura di S è invece vincolata alla valenza verbale. Se il verbo è trans, S
assume il caso ergativo, se è int viene contrassegnato dalla desinenza del caso assolutivo, che contraddistingue anche
Odir. Quindi, Caso assolutivo: Sint e Odir, Ergativo: Str, e il basco, l’unica lingua europea che adotta tale sistema, da
piena conferma a ciò. In “gizona ethorri da” (l’uomo è arrivato) il verbo è int e S (gizona) appare al caso assolutivo, la
cui marca è zero; la -a finale è l’articolo posposto. I dati esaminati suggeriscono 2 generalizzazioni: il dettato
dell’universale pare pienamente rispettato (il caso che svolge anche la funzione Sint può apparire senza desinenza in
entrambi i sistemi); e i due sistemi paiono obbedire a due principi organizzativi diversi (nel sistema nominativo-
accusativo c’è una convergenza fra Str e Sint, nell’altro tra Sint e Odir).
I due sistemi raggiungono con la stessa efficacia l’obiettivo di incisività comunicativa e non sono né ridondanti ne
lacunosi: passando in rassegna le occorrenze possibili tra le funzioni sintattiche precedenti in un ipotetico contesto
frasale, le uniche due funzioni che possono realizzarsi assieme sono Str e Odir. Per le loro proprietà inerenti, i due S
non possono trovarsi al fianco del medesimo verbo, che è o transitivo o intransitivo, analoga è la situazione tra Sin e
Odir nella stessa struttura frasale. Un’eventuale confusione tra Str e Odir pregiudicherebbe irrimediabilmente la corretta
comprensione del messaggio trasmesso.
Entrambi i sistemi rispettano questo requisito imprescindibile ma con due approcci diversi: il nominativo-accusativo
distingue Str da Odir ma non i due S, l’altro differenzia formalmente Str e Odir ma non Sint e Odir.
I due sistemi è chiaro siano i meno ridondanti e lacunosi, in questo quadro possiamo logicamente attenderci che l’unico
caso a marca zero realizzabile sia quello che corrisponde (anche) a Sint, che è l’unico argomento possibile di un verbo
int e perciò non è necessario che sia distinto da altri argomenti. Non richiede una desinenza particolare perché non può
avere rivali. Tali considerazioni inducono a pensare che sia l’economia il fattore più influente nella spiegazione
dell’universale 38 e della distribuzione interlinguistica dei sistemi di caso. Le conclusioni raggiunte sono rilevanti anche
per l’universale 41: se in una lingua l’ordine non marcato dei costituenti e SOV, tale lingua avrà quasi certamente un
sistema di casi. Mentre in una lingua SVO i due gruppi nominali S e O (Str e Odir) sono reciprocamente ben distanziati
e la presenza del verbo in mezzo agevola l’identificazione, in una lingua SOV lo “scheletro” della frase prevede che essi
si collochino in due “caselle” adiacenti. Tale contiguità può ostacolare l’individuazione dell’uno e dell’alto o
l’identificazione del confine tra essi, il ricorso a un sistema di desinenze casuali per marcare formalmente S e/o O
appare una scelta obbligata. Solo così si possono prevenire i problemi derivanti dalla stretta vicinanza di S e O, Ciò
spiega perché la quasi totalità delle lingue con ordine SOV abbia una declinazione più o meno articolata, e perché la
maggior parte delle altre lingue SVO non preveda sistemi di casi.
Mentre gli universali hanno una validità evidente, perché mai studiare le tendenze, che prevedono comunque eccezioni
e controesempi? Esse dimostrano comunque, inequivocabilmente, che la distribuzione dei tratti linguistici e delle
correlazioni fra essi non è casuale ma obbedisce a una ratio rigorosa. La presenza di casi “anomali” dipende spesso dal
fatto che la lingua subisce il forte condizionamento di fattori storici e sociali legati alle vicende delle comunità parlanti e
dunque esterni al sistema lingua, che possono incanalarla su binari tipologicamente bizzarri.
EUROPA CENTRO-OCCIDENTALE (L’AREA DI CARLO MAGNO): Dal punto di vista geografico, sono
assenti barriere davvero invalicabili: tanto le Alpi quanto i Pirenei non hanno mai impedito il contatto tra le popolazioni
stanziate ai lati opposti; l’assenza di mari interni ha favorito lo sviluppo di una rete viaria fitta e frequentata. Ci furono
molti rapporti, continui e non sempre pacifici, tra i popoli che si sono alternati sul suo territorio, inoltre dall’espansione
di Roma fino alle conquiste di Carlo Magno non sono mancati, in Europa, i propositi di globalizzazione delle dinamiche
culturali, anche attraverso tentativi di uniformazione linguistica. L’analisi accurata e rigorosa di questi tratti è stata al
centro del progetto EUROTYP, che ha attuato una ricognizione “a tappeto” delle lingue europee, individuando alcuni
tratti che paiono caratterizzare in modo quasi esclusivo il tipo linguistico europeo: lo STANDARD AVERAGE
EUROPEAN (SAE) con i seguenti tratti:
1. Somiglianze Lessicali, che si articolano su 2 livelli, la presenza di un comune lessico colto di matrice greca e/o
latina, la presenza di comuni strategie nella formazione delle parole (con l’immissione nella varietà standard
delle lingue europee di formanti dotti tipo filo, antropo, logo, biblio, grafo, bio ecc. che costituiscono una delle
strategie più impiegate per al coniazione di neologismi o attraverso calchi sul modello di formazioni greche o
latine)
2. Ordine dei costituenti maggiori della frase indipendente assertiva relativamente rigido e di tipo SVO
3. Presenza di preposizioni e di genitivi postnominali
4. Uso di “avere” ed “essere” come ausiliari nella formazione di alcuni tempi verbali complessi
5. Presenza simultanea di articoli definiti e indefiniti
6. Carattere non pro-drop: le lingue pro-drop (dall’inglese pronoun “pronome” e to drop “lasciar cadere”) o “a
soggetto nullo” tollerano l’omissione del pronome personale in posizione di soggetto nella frase dichiarativa,
senza pregiudicarne la grammaticalità e la comprensibilità (in Europa inglese e francese non lo sono), si noti
che le lingue pro-drop possiedono termini differenti per le sei persone del paradigma verbale (io tu egli noi voi
essi)
7. Agente e soggetto possono divergere (la porta si aprì: la porta non ha controllo su tale azione)
8. La forma passiva consente l’espressione dell’agente
9. Accordo delle forme finite del verbo con il soggetto: nella maggior parte delle lingue europee il verbo, nelle
sue forme finite, concorda solo con il soggetto, ma alcune lingue uraliche e il basco hanno meccanismi di
accordo secondo cui vi è un’anticipazione da parte del verbo di tratti dell’oggetto (in ungherese il suffisso
verbale -lak anticipa che il soggetto è “io”)
10. Paradigmi di caso fortemente semplificati e di tipo nominativo-accusativo: nelle lingue che mantengono una
declinazione si stabilizza un sistema tendenzialmente bicasuale: in una forma convergono gli antichi casi
nominativo e accusativo, nell’altra si fondono genitivo e dativo. Sistemi di caso alternativi a quello
nominativo-accusativo sono rarissimi in ambito europeo: solo il basco adotta il sistema del cosiddetto
“ergativo-assolutivo”
La correlazione di questi tratti caratterizza peculiarmente le lingue d’Europa, e una loro mappatura dimostra una
diffusione tutt’altro che omogenea: in alcune lingue si realizzano quasi tutti i tratti (tedesco, francese e nederlandese),
altre in cui solo un numero esiguo di essi ha un effettivo riscontro empirico (il basco, le lingue uraliche e il turco), altre
ancora in una posizione intermedia (in ordine crescente di “europeismo” l’inglese, l’italiano, che possiede i tratti 1, 3, 4,
5, 7, 8 e 9, le lingue slave, le altre lingue germaniche e romanze, il neogreco e l’albanese, le lingue baltiche, celtiche e il
maltese). Il maggior numero di tratti si collocano nella zona centrale del Vecchio Continente, e infatti un’area
linguistica non copre uno spazio omogeneo, al suo interno possono essere individuate almeno 3 sottoaree, un centro di
irradiazione, una zona di transizione e una zona “relitto” marginalmente toccata dai fenomeni di interferenza (il fatto
che la propagazione dei tratti si sia sviluppata nelle zone che corrispondono all’impero del re dei Franchi non significa
che abbia incentivato deliberatamente la formazione di tale area linguistica ma perché al suo tempo si collocano le fasi
salienti del processo di convergenza e per indicare che Carlo Magno è stato il motore di alcuni eventi sociali e storici
che hanno creato i presupposti per la formazione dell’area linguistica).
Nel mediterraneo si registrano analogie significative nella genesi dei suffissi accrescitivi (in portoghese, spagnolo,
italiano, neogreco, bulgaro, macedone, maltese e arabo marocchino), nella diffusione dell’articolo definito dal Vicino
Oriente al cuore dell’Europa (con i dialetti arabi del nord Africa, le lingue romanze e parte di quelle slave meridionali),
nella struttura del sintagma nominale (qui paiono tratti tipicamente mediterranei la presenza di teste nominali flesse per
due generi, maschile vs femminile, la marcatura della definitezza tramite articoli preposti, l’ordine testa-modificatori,
l’uso di costruzioni genitivali analitiche, una copiosa attestazione di pronomi clitici).
Per il baltico invece van menzionati l’uso del caso nominativo per marcare l’oggetto di alcune specifiche costruzioni
sintattiche come gli imperativi o gli infiniti dipendenti da verbi impersonali (per finnico, le varietà settentrionali del
russo, le lingue baltiche), la compresenza di preposizioni e posposizioni (finnico e lettone), il sincretismo dei casi
strumentale e comitativo (estone, lettone, sami e alcune lingue germaniche), gli ordini SVO e GN (lingue baltiche,
finnico, komi, mordvino).
- che i tipi più coerenti superino la selezione della storia e si affermino stabilmente, a scapito dei tipi meno
coerenti
- che una lingua passi sempre da uno stadio tipologicamente meno coerente a uno più coerente (smentito a 1.6)
- che le proprietà e le correlazioni universali siano più forti degli eventi e che resistano a ogni pressione,
sopravvivendo al mutamento
La realtà è molto più complessa e solo il terzo assunto regge alla prova dei fatti, mentre il secondo si impone solo
adottando una prospettiva d’indagine molto ampia in termini cronologici. Alla lunga la tendenza largamente ricorrente
in ottica interlinguistica è quella di non abbandonare uno stato tipologico coerente per uno incoerente. Poiché però il
mutamento è lento e senza sbalzi, ci sono stadi intermedi in cui la congruenza tipologica pare trascurata. Le vicende
storico-sociali della comunità parlante possono condizionare pesantemente la durata di tale stadio, prolungandolo
oltremodo o indirizzandolo rapidamente verso il suo naturale compimento. In casi estremi la transizione può arrestarsi
“a metà del guado”. Questo spiega in parte l’esistenza delle lingue tipologicamente miste, la cui incoerenza va cercata
anche nella storia delle loro comunità.
Mentre si suppone che i tipi stabili vengano mantenuti a lungo da una lingua e che possano superare i mutamenti
linguistici indenni trasmettendosi dalla lingua madre alle figlie, i tipi frequenti mostrano una diffusione areale più
uniforme ma non necessariamente coincidente con le scansioni individuate in base a parametri genealogici. La loro
combinazione dovrebbe giustificare la diffusione di tutti i tipi linguistici, comprendendo l’intera gamma delle possibilità
logiche, secondo lo schema seguente:
Le vocali anteriori non arrotondate (/i/, /e/ ecc.) sono praticamente universali, quindi stabili e frequenti. L’ARMONIA
VOCALICA, un processo di assimilazione “a distanza” in cui i tratti della vocale della sillaba iniziale si estendono alle
vocali delle sillabe seguenti, indipendentemente dalla loro collocazione nel morfema o nei suffissi è stabile ma
infrequente. La nasalizzazione vocalica è instabile ma frequente e compare nelle lingue parlate in contesti areali
omogenei, per es. in ambito europeo. Le consonanti che prendono il nome di click (il suono che corrisponde al bacio è
indicato come click bilabiale) sono instabili e infrequenti.
I concetti di stabilità e frequenza sono utili anche per prevedere le strategie in gioco nei mutamenti linguistici:
I tipi molto stabili sono geograficamente molto diffusi, attestandosi in (quasi) tutti i membri di una o più famiglie
linguistiche. Il massimo grado di stabilità coincide con l’universalità, come il caso delle vocali orali. Essendo la lingua
orientata all’economia possiamo presupporre che un tipo molto stabile abbia seguito sempre le stesse tappe, quindi
l’azione di matrici tipologiche collaudate nei tipi più stabili dovrebbe essere prevalente.
Nei tipi più frequenti, diffuse in singole e specifiche aree e distribuite “a macchie di leopardo” e trasversalmente rispetto
ai gruppi individuati su base genealogica, se un tipo è attestato in diversi gruppi di lingue non per forza imparentate e
concentrate in vari contesti regionali reciprocamente non adiacenti, si può supporre che, stante l’assenza di ogni
possibile forma di contatto fra i gruppi, il tipo in questione si sia sviluppato secondo un’autonoma e specifica linea
direttrice in ciascuno di essi.
L’azione di questi due criteri nella diffusione dei tipi linguistici e la loro efficacia nel prevedere le strategie di
mutamento possono essere esemplificate chiaramente analizzando la distribuzione sincronica e l’evoluzione di
diminutivi e accrescitivi. I primi si trovano nella quasi totalità delle lingue (stabili e frequenti) e i secondi appaiono in
modo più sporadico (le lingue afroasiatiche ne sono prive per es., sono instabili ma frequenti). Inoltre i diminutivi
paiono molto resistenti al mutamento e di norma si tramandano dalla lingua madre alle figlie, così come ha fatto il latino
con le lingue romanze con buona parte dei suoi, ereditati a sua volta dal protoindoeuropeo assieme al greco antico e allo
slavo comune, del protogermanico ecc.
Gli accrescitivi sono invece abbastanza recenti, si trovano in alcune lingue romanze, nel neogreco, nella maggior parte
delle lingue slave ma non in latino, greco antico, slavo comune e nemmeno in protoindoeuropeo. Quindi se le ipotesi
sono corrette dovremmo attenderci:
- Che i diminutivi si sono formati seguendo quasi sempre lo stesso percorso evolutivo
- Gli accrescitivi hanno seguito processi di formazione diversi in rapporto ai contesti areali in cui si sono
affermati
I diminutivi paiono essere l’effetto della trasformazione di un affisso precedentemente utilizzato per esprimere una
relazione parentale (figlio/cucciolo di...) quasi ovunque, tipo in ambito indoeuropeo; per es. il suffisso latino -īnus (-a,
-um), che tra i suoi valori semantici ha anche quello rappresentato da “figlio di…", ha dato origine ai suffissi diminutivi
“-ino” in italiano, “-in” in spagnolo e “-inho” in portoghese.
Anche oltre in confini d’Europa si attesta tale strategia, come nelle lingue bantu, dove il suffisso diminutivo -ana (in
zulu umafnyana: “ragazzino” con valore affettivo), usato inizialmente per esprimere proprio una relazione parentale, ma
anche nelle lingue austroasiatiche, austronesiane ecc.
Degli accrescitivi invece non si registra alcuna uniformità visti i diversi percorsi evolutivi: in greco e nelle lingue
romanze possono derivare da antiche forme peggiorative quanto da collettivi (accrescitivi in -a come buca da buco in
italiano). Nelle lingue slave i suffissi bulgaro e macedone -ište, russo -išče, polacco e ceco -isko, serbocroato -īšte
hanno origine da un suffisso precedentemente usato con valore locativo (antico slavo ecclesiastico grobište “cimitero”,
lett. “luogo delle tombe” da grobŭ “tomba”).
Nella maggior parte delle lingue in Africa Subsahariana invece, gli accrescitivi si formano col suffisso -kati/-hadi, che
deriva dalla parola protobantu *kádį “donna”, usato inizialmente per designare l’esemplare femminile di una specie.
In numerose lingue dell’Asia sudorientale non imparentate, gli affissi accrescitivi derivano da “madre” (in vietnamita
cài “madre”, con hòn cài “isola grande”). In questi casi è la l’interferenza con i sistemi adiacenti geograficamente a
indirizzare il processo evolutivo; un tipo linguistico frequente, diffuso cioè “a macchie di leopardo”, tende a svilupparsi
secondo tendenze specifiche e peculiari delle aree in cui si manifesta; al contrario uno stabile si afferma in virtù di
matrici tipologiche molto generali.
Il latino di Pompei può considerarsi una lingua di passaggio per un altro motivo: il latino è ascritto al tipo SOV, tende
dunque a conformarsi al principio “complementi-testa” o a privilegiare una ramificazione a sinistra; le lingue romanze
impiegano, con pochissime eccezioni, la strategia opposta (“testa-complementi” con ramificazione a destra) mentre il
latino pompeiano si trova in una posizione intermedia, segno che la transizione tipologica che ha portato alla
formazione dei primi volgari romanzi era già avviata nel 1° secolo d.C.
La tipologia fonda le proprie generalizzazioni sulle lingue “ufficiali” in quanto il materiale da cui trarre informazioni
(grammatiche, dizionari) è più consistente e accessibile di quello dei dialetti, nonostante questi ultimi costituiscano una
miniera inesauribile di dati, e il loro essere per la quasi totalità inesplorati inducono a prevedere interessanti sviluppi
anche in chiave tipologica. Se ci fosse la possibilità di scandagliare a fondo le varietà dialettali delle lingue storico-
naturali, molte delle più note generalizzazioni tipologiche andrebbero riviste. Facciamo un esempio sulla struttura della
frase negativa;
Rispetto alla collocazione reciproca del verbo e della negazione, si possono identificare almeno 3 tipi:
- La negazione precede il verbo (portoghese nāo vi nenhum hominem “non ho visto nessun uomo”)
- La negazione segue il verbo (nederlandese Mòoi is het nìet “non è bello” lett. “bello è egli non”)
- La negazione precede e segue il verbo (francese jean ne mange pas de poisson “jean non mangia il pesce”)
Gli italiani direbbero che la nostra lingua si trova nel primo tipo (non voglio, non vedo ecc.) ma in alcuni dialetti
troviamo anche gli altri due tipi, come nell’emiliano che appartiene al 3° (“sta dona ki, le nem pyaz miga” quella donna
lì, non mi pace mica), o il piemontese che appartiene al 2° (sa fumna m pyaz nen “questa donna non mi piace”), una
questione cruciale dato che in tipologia le lingue “ufficiali” e i dialetti hanno la stessa legittimità.
Riguardo alla distribuzione dei 3 tipi citati prima, la negazione discontinua e post verbale si concentrano soprattutto
nell’Europa centrale, coprendo l’area francofona e l’ambito di estensione delle lingue germaniche, oltre che nell’Italia
settentrionale (ma per usi linguistici “non ufficiali”).
Alla “lingua standard” ci si avvicina in un contesto scolastico, dopo le prime produzioni linguistiche della nostra vita,
che avvengono in ambiente familiare e paiono perciò diafasicamente orientate verso la non formalità.
Ciò evidenzia un limite dell’approccio tipologico alla lingua: tende ad astrarre la lingua dal contesto sociale, da cui
invece trae linfa vitale.
DIASISTEMA: un sistema di insiemi.
Gli studi degli ultimi anni hanno evidenziato una serie di tratti linguistici comuni a tutte le interlingue, motivo per cui
nel processo di apprendimento ci sono fasi intermedie ricorrenti e talvolta universali, indipendentemente dal punto di
partenza e di arrivo del percorso, inducono perciò a ritenere che le interlingue siano sistemi linguistici naturali,
autonomi e internamente coerenti. Si potrebbe quasi dire, anche se è estremo, che anche le interlingue vanno inserite
nell’inventario delle lingue S-N. Inoltre se gli universali implicazionali indicano, anche se entro certi limiti, la direzione
di alcuni mutamenti individuando procedimenti più o meno marcati, si può supporre che gli stessi universali indichino
percorsi di apprendimento più o meno naturali, trovando sequenze acquisizionali più o meno probabili.
Una delle proprietà ricorrenti nelle interlingue riguarda la conformazione morfologica dell’interlingua stessa, si suppone
solitamente che le varietà di apprendimento iniziali abbiano una fisionomia tendenzialmente isolante, a prescindere
dalla caratterizzazione morfologica di L1 e L2. In effetti le interlingue iniziali paiono caratterizzate da un’ampia
occorrenza di formule fisse e di parole non analizzate, prive dunque di struttura morfologica e categoria sintattica.
Esibiscono minima o nulla flessione morfologica: genere, numero, tempo ecc. paiono prive di specifica espressione
formale, per i verbi viene usata un’unica forma (forma basica) per l’intero paradigma. Le parole che caratterizzano le
prime produzioni di parlato spontaneo di un apprendente sono invariabili e hanno valore essenzialmente lessicale
piuttosto che grammaticale, tutte caratteristiche che paiono riprodurre almeno in parte quelle del tipo isolante (1.3).
Come si manifesta nell’interlingua il contatto tra due tipologicamente distanti? Il rapporto tra l’uso di una strategia di
natura formale e il suo valore semantico-funzionale è la prima coordinata da considerare; la padronanza di un processo
formale (in questo caso a livello morfologico) non può prescindere dalla piena padronanza delle categorie cognitive
corrispondenti. Con tale premessa si suppone che un apprendente mostri più dimestichezza con le operazioni semantico
funzionali della L2 che in L1 possono contare su una specifica espressione formale, ed è lecito aspettarsi che, una volta
assimilate le necessarie categorie cognitive, sia più facile acquisire l’uso di strategie linguistiche con principi
organizzativi non troppo distanti da quelli di L1: se L1 è agglutinante-fusiva, sarà più facile apprendere le strategie
linguistiche di altre lingue agglutinanti-fusive.
Bisogna ricordare però che elaborare un piano didattico efficace per l’integrazione linguistica di soggetti alloglotti non
può prescindere da una valutazione approfondita di tutte le dinamiche linguistiche in gioco, non può quindi esistere un
percorso didattico per l’insegnamento della lingua straniera bensì tanti percorsi didattici in base agli apprendenti o le
loro L1, dato che un insegnamento proiettato esclusivamente su L2 senza riferimenti a L1 trascurerebbe il chiarire cosa
l’apprendente è pronto a capire e imparare.
- ARBITRARIETÀ: l’assenza di correlazione tra una sequenza di suoni e il significato (se ci fosse le lingue
sarebbero molto simili, pensiamo alla differenza tra mela, apple e pomme)
- SEMANTICITÀ: la capacità di “significare” delle sequenze di suoni
- SISTEMATICITÀ: esiste un sistema di “regole” grammaticali (o combinatorie) socialmente condiviso (una
frase con le stesse parole ma in ordine diverso non ha lo stesso significato: “il gatto insegue il topo” e “il topo
insegue il gatto” non sono uguali)
- PRODUTTIVITÀ O CREATIVITÀ: con un numero finito di suoni e parole si possono creare infinite frasi e
veicolare qualunque concetto
La BIOACUSTICA, che studia la comunicazione acustica animale, ha notato per es. che molte specie di uccelli canori,
in cui il maschio produce un canto di corteggiamento, hanno un repertorio variabile da individuo a individuo, in cui le
unità sono apprese e combinate per comporlo: il passero dalla corona bianca e lo storno compongono il canto in modo
creativo e produttivo, stessa cosa per i lunghi canti delle balene, che però mostrano differenze da popolazione a
popolazione e quindi anche sistematicità e una grammatica di fondo. Per i mammiferi di specie che non usano
normalmente codici verbali, come cani e ratti bruni, mostrano come alcune capacità cognitive sottese all’uso del parlato
non coincidano con quelle espressive, per loro quindi non serve comprendere una lingua perché se addestrati possono
discriminare i vocaboli di diverse lingue e associare etichette verbali a un gran numero di oggetti, che nei cani superano
il centinaio.
Scimpanzé, Bonobo e gorilla possono produrre parole del linguaggio dei segni, costruendo semplici frasi per rispondere
a domande sulle proprietà degli oggetti, relazioni sociali e stati emotivi personali; qui si parla di arbitrarietà e
semanticità anche se non si ha una grammatica vera e propria. Sull’incapacità di parlare i pappagalli ci mettono a dura
prova, in quanto è stato studiato che due cacatua australiani di diversa specie possono imparare e usare entrambi i codici
comunicativi. Infatti i cacatua di Leadbeter, grossi e aggressivi, e i piccoli cacatua galah hanno bisogno delle cavità dei
tronchi di eucalipto per costruire il nido e deporre le uova, ma per la covatura il Leadbeter monopolizza il nido, finendo
per allevare anche i piccoli non loro. I richiami per richiedere il cibo agli adulti sono diversi tra le due specie, ma
crescendo i richiami di contatto dei giovani galah con cui indicano ai genitori la posizione quando abbandonano il nido,
i richiami di allarme e di corteggiamento sono identici a quelli dei Leadbeter. Vi fu uno studio anche sui pappagalli
cenerini, che dimostrò che erano in grado di associare più di 200 parole al loro corretto significato e di descrivere le
caratteristiche fisiche degli oggetti. Formulare richieste agli addestratori, esprimere stati d’animo e descrivere
situazioni.
- DIFFICOLTÀ DI APPRENDIMENTO: dando per scontato che sono tutte apprendibili con la stessa
difficoltà come lingue madri, ciò che conta è lo sforzo di impararle in età adulta, ma dipende: lo spagnolo può
essere più facile da imparare per un parlante nativo di italiano o portoghese, ma un cinese faranno ben più
fatica perché dovrà interiorizzare delle regole che nel cinese non esistono, come i tempi verbali e altre
informazioni che devono essere indicate nel verbo, cosa che però potrebbe rendere più facile l’apprendimento
del cinese a uno spagnolo (che dovrà ricordarsi solo che “qù”, per es. corrisponde ad andare, vado, andremo
ecc.)
- LA DIFFICOLTÀ DELLE LINGUE IN SÉ: è una cosa molto dibattuta dagli specialisti, la visione
eurocentrica tipica delle riflessioni linguistiche pre ‘900, che ritenevano le lingue europee “superiori” perché
più complesse mentre le varietà africane, amerindie ecc. erano considerate “inferiori”, è stata scartata nel 20°
secolo affermando che la complessità delle lingue fosse uguale ma differenziata da aspetti più complessi in una
e meno in un’altra, insomma paragonare i verbi in spagnolo con la pronuncia dei termini cinesi ha senso come
paragonare il peso di un sacco di patate con l’altezza di un albero.
VARIAZIONE DIAFASICA: la variazione dovuta al tipo di attività svolta nella situazione e quindi all’argomento del
discorso (gli usi settoriali di una lingua possono comportare l’adozione di un lessico speciale). Può comprendere anche
la VARIAZIONE DIAMESICA: il variare della lingua in relazione all’uso scritto o parlato
La variazione interna a una lingua rappresenta, in particolare, uno dei grandi campi di azione della
SOCIOLINGUISTICA: il settore della linguistica che studia i rapporti fra lingua e società.
Non esiste una varietà linguistica senza una GRAMMATICA: l’insieme di regole e convenzioni che permettono a una
varietà di servire come mezzo di comunicazione, che deve avere regole fisse, funziona allo stesso modo sia per i dialetti
che per le lingue.
I molti dialetti italiani sono vere e proprie lingue diverse rispetto all’italiano, ovvero evoluzioni autonome del latino nei
diversi luoghi dove sono parlati, allo stesso modo del dialetto fiorentino, base dell’italiano moderno.
Ci sono lingue parlate da pochissime persone e dialetti usati da milioni di parlanti. Il dialetto hakka del sud della Cina
ha circa 30 milioni di parlanti, il siciliano circa 5 milioni, il lettone invece, una lingua ufficiale nemmeno 2 milioni.
Come se non bastasse alcune lingue possono essere più comprensibili di alcuni dialetti, lo spagnolo per un italiano è più
comprensibile del bergamasco. La differenza quindi, fra dialetto e lingua, è di tipo sociolinguistico, le lingue
semplicemente hanno raggiunto una posizione ufficiale all’interno di una compagine statale e quindi accedono a una
serie di funzioni che ai dialetti sono precluse: pubblica amministrazione, giustizia, scuole, spesso la liturgia ecc.
14. #SCRITTUREBREVI
Con l’avvento degli sms è nata l’interazione sottoforma di scrittura veloce e a distanza per comunicazioni informali e
private, un processo che ha trasformato la nostra lingua e la scrittura oltre a modificare le abitudini collettive e culturali
proprie alla società dall’informazione. Grazie alle nuove tecnologie la scrittura ha guadagnato nuova vitalità e nuovi
spazi, anche riservati all’oralità e guadagnando tratti del parlato integrando neologismi, forme irregolari e usi arbitrari.
Il coinvolgimento delle giovani generazioni ha attirato giudizi negativi per il timore di un imbarbarimento della lingua.
La “lingua dell’sms” appare ricca di nuove parole, voci a statuto gergale, prese dal parlato ma poi acquisite dal
vocabolario standard: sms (short message service), messaggiare, messaggino, telefonino, cellulare ecc. La scrittura ha
sviluppato strategie di sintesi che rispettano il vecchio limite imposto dei 160 caratteri che non onorano la norma
linguistica. Questo assieme alle ridotte dimensioni dell’apparecchio e al momento in cui solitamente si usa (in
movimento) creano le dimensioni per la nascita di speciali forme della scrittura abbreviata e veloce nota come
TEXTING: grafie consonantiche (nn, grz, xk), sigle (LOL), resa fonetica anziché ortografica (ke) e l’uso di diacritici e
numerali con effetti di struttura “a rebus” (c 6?, + o - ecc.).
La lingua dell’SMS ha continuato a evolversi con la tecnologia, si è ritornati a usare meno abbreviazioni grazie al t9,
che prevedeva le possibili parole da usare, la creazione di tastiere QWERTY con un tasto per ogni lettera, i sistemi di
scrittura touch screen, che hanno velocizzato il processo di scrittura rispetto al vecchio e difficoltoso “lettera per
lettera”. Col passare del tempo le chat sono diventate “conversazioni”, i messaggi si visualizzano singolarmente, in
successione, come piccole porzioni di testo a struttura frammentata che riproducono l’andamento veloce del dialogo.
Sono state introdotte altre funzionalità ormai rilevanti nella comunicazione digitale, come le emoticon per far capire
meglio il tono di chi scrive per non creare fraintendimenti, arrivando alle emoji, anche più complesse e in grado di
esprimere sempre più concetti senza l’uso della parola, i mi piace trasmessi dal classico pollice in su e da nuove faccine
(Wow, Haha, Sigh Angry, Love su Facebook) fino a @ per designare il parlante, # per indicare l’argomento ecc.
15. CHE LINGUA PARLANO I COMPUTER?
Oggi possiamo tradurre automaticamente un documento da una lingua all’altra, chiedere il tempo che ci sarà domani in
una città distante, di impostare il navigatore satellitare per scegliere il percorso da prendere ecc. Tuttavia si tratta di una
conversazione ancora imperfetta, il computer spesso fraintende o traduce male, è come parlare con uno straniero con
una conoscenza limitata della lingua. Come abbiamo fatto però a insegnare le basi della nostra lingua ai computer e
perché nonostante ciò parlano ancora così male? I computer parlano la “lingua dei numeri”, le nostre parole vengono
tradotte in programmi che li manipolano, i computer con cui facciamo semplici conversazioni sono il frutto della ricerca
in “intelligenza artificiale” (che dota i computer di capacità tipiche degli esseri intelligenti: riconoscere un volto,
risolvere un problema, guidare un’auto ecc.) e “linguistica computazionale” (in particolare il “trattamento automatico
della lingua”, che rende i computer capaci di usare il linguaggio naturale come noi).
Quest’ultimo è un ambito che impegna linguisti e informatici, i primi sanno come funziona il linguaggio e i secondi
traducono tali conoscenze in istruzioni numeriche, ha iniziato le sue ricerche negli anni 50, ma solo di recente è entrata
a far parte della vita quotidiana; il motivo di questo progresso, oltre alla rinnovata potenza dei computer, è il modo
stesso di insegnare la nostra lingua a loro. Sono nati infatti dei nuovi algoritmi, i MACHINE LEARNING o
“apprendimento automatico”; mentre prima i linguisti computazionali insegnavano un compito fornendo direttamente le
regole per realizzarlo (come insegnare una lingua dando solo la grammatica e un dizionario, complesso e che produce
un sacco di errori), oggi si danno ai pc grandi quantità di frasi insieme alla loro traduzione in un’altra lingua e i machine
learning usano la statistica per individuare come le strutture linguistiche vanno tradotte, permettendo loro di tradurre
anche frasi mai lette prima. La linguistica computazionale quindi insegna ad imparare da sé queste regole analizzando il
modo in cui il linguaggio viene usato, metodo vicino a ciò che si fa con i bambini, che imparano osservando gli adulti
parlare prima che qualcuno gli insegni le regole grammaticali. La primitività dell’uso del linguaggio è dovuta alla mole
di informazioni, non solo linguistiche, necessarie, sentirsi dire “ho preso in prestito Guerra e Pace dalla biblioteca” ci
farebbe rispondere “quando devi restituirlo?” perché sappiamo entrambi come funziona il possesso di libri della
biblioteca, è una conversazione basata sulle nostre comuni conoscenze delle differenze tra il significato di “prendere in
prestito, comprare, affittare” ecc. conoscenze particolari che i computer non hanno.
Un altro problema è il modo di imparare una lingua completamente diverso degli algoritmi, se per imparare un’altra
lingua dobbiamo usarla per comunicare, gli algoritmi estraggono le regolarità statistiche dai testi e basta.
- Quelle che enfatizzano l’apprendimento come risultato di un’attività individuale, interna alla mente, che si
realizza immagazzinando le strutture linguistiche, assimilando il nuovo sistema di forme e significati
- Quelle che accentuano l’apprendimento linguistico come un’attività sociale fortemente influenzata dalla
partecipazione negli scambi verbali con gli altri
Ovviamente anche il confronto con un altro parlante è fondamentale, ci si coordina e si accordano assieme le azioni
comunicative per controllarle assieme alle forme linguistiche usate.
Tali fenomeni dipendono da molteplici fattori, come il grado di somiglianza fra le lingue coinvolte, la facilità di
trasferimento di suoni e strutture, il prestigio percepito della lingua di contatto, l’atteggiamento del parlante nei
confronti di questa lingua, il desiderio di proteggere la propria identità linguistica ecc. insomma è impossibile predire
come andrà a finire.
Se una lingua di contatto è ritenuta prestigiosa i parlanti potrebbero cercare di usarla di più, pensiamo all’inglese che ha
preso piede con parole come briefing, selfie, manager, top, fashion ecc. col dispiacere dei sostenitori di #dilloinitaliano.
In questo caso dobbiamo distinguere tra la scelta di usare parole inglesi nonostante esista il corrispettivo in italiano
(direttore/manager) e gli ANGLISMI come bar, sport ecc. che non hanno una forma italiana equivalente.
I linguisti Sarah Thomason e Terrence Kaufman nel 1988 hanno proposto una gerarchia del prestito, mettendo in
relazione la complessità del materiale preso in prestito con il grado di intensità del contatto: più forte è il contatto più
profondo e complesso è ciò che si prende in prestito. Se il contatto è sporadico si prenderanno in prestito solo delle
parole, adattandole al sistema grammaticale della lingua, se è prolungato e intenso passeranno anche le strutture.
In francese per es. il soggetto è sempre obbligatorio, e alcuni pensano che ciò sia dovuto al contatto prolungato con le
lingue germaniche; l’italiano ha preso in prestito moltissime parole inglesi adattando la pronuncia al sistema, e creando
manàggement e internèt o anche skillato, briffare ecc. oltre a questi abbiamo preso in prestito tantissime altre parole da
altre lingue, di cui non dubiteremmo mai l’italianità (chimica e cotone dall’arabo, manovra e rotta dal francese,
scialuppa dall’olandese ecc.). Il motivo per cui non si è sostituita direttamente la lingua è dovuto a ragioni socio-
politiche.
Anche i dialetti locali prendono molto dall’italiano, per esempio in alcune varietà meridionali alcuni verbi intransitivi
possono essere usati come transitivi, ovvero prendere un complemento oggetto (scendi il cane che lo piscio!). Nel nord
invece, per es. in Veneto, la doppia negazione non esiste (non ho visto nessuno = ho visto nessuno).
Se invece due lingue totalmente diverse entrano in contatto e nessuna capisce l’altra allora si crea un Pidgin (cap. 30)
Per costruire i significati possiamo usare una spiegazione che chiameremo MODELLO IKEA: costruire il significato
di una frase è come montare un mobile Ikea. La scatola contiene tutti i pezzi del mobile e le istruzioni che vi dicono
come combinarli. Ciascun elemento può incastrarsi solo con altri particolari pezzi. Per avere senso una frase deve essere
formata da parti i cui significati si “incastrano” opportunamente, secondo regole di montaggio chiamate
PREFERENZE DI SELEZIONE. “Leggere” per es. esprime un evento con due personaggi e può “incastrarsi” solo
con un complemento oggetto che contiene informazione scritta e un soggetto umano (papiro e acrobata).
Questo modello nasce fra 1800 e 1900 e deriva dall’ipotesi che la costruzione del significato delle espressioni
linguistiche sia simile al modo in cui costruiamo l’interpretazione delle espressioni matematiche. Se capiamo a cosa
serve il + in matematica, dopo possiamo sommare qualsiasi numero, inoltre anche la matematica ha regole di montaggio
invariabili (la somma si applica a due numeri, nessun numero si può dividere per 0 ecc.)
Tuttavia non è così semplice, la questione è molto più complessa e il modello Ikea in realtà non funziona: “bere” in
teoria richiede un oggetto animato e un liquido, ma le frasi “la mia auto beve troppo” e “Gianni ha bevuto una bottiglia”
(quest’ultima frase è una METONIMIA) hanno comunque perfettamente senso. Il linguaggio naturale non sarà perfetto
e preciso come la matematica, ma forse è questa sua imperfezione la fonte di infinite possibilità espressive e creative
che ci offre.
42. CINQUE COSE DA SAPERE SULLA LINGUA CHE PARLIAMO OGNI GIORNO
1) Da un recente sondaggio radiofonico è emerso che gli italiani sono più preoccupati del deterioramento della lingua
che da quello del paesaggio, tutti temono per le sorti del congiuntivo, anche se spesso sbagliarlo espone a una grave
sanzione (si pensi ai personaggi pubblici che lo sbagliano o usano al suo posto il condizionale), e la sostituzione con
l’indicativo nelle altre frasi subordinate è bollata come mancanza di stile, tuttavia ne è tollerato l’aggiramento tramite la
semplificazione del periodo (lo dico perché tu lo sappia …per fartelo sapere) o la sua manipolazione (chi sa, parli
lo sai? Parla).
2) L’altro (presunto) errore è l’uso di “a me mi”, bandito come “ridondanza pronominale” o “pleonasmo”, fenomeno
presentato come esempio di “frase segmentata con spostamento a sinistra e ripresa pronominale”: da “mi piace” a “a me
mi piace”, da “ho già parlato del congiuntivo” a “del congiuntivo ne ho già parlato”. La ripetizione del pronome è in
realtà funzionale a sottolineare il centro di interesse della frase, non va bandito totalmente bensì spiegato e tollerato nei
contesti appropriati, come nel parlato informale. Nei romanzi ogni tanto troviamo dialoghi informali in cui si usa, e
addirittura in spagnolo è diventato una regola (a mi me gusta).
3) SNOBISMO: innovazione venuta “dall’alto”, congiunzione “piuttosto che” usata con valore disgiuntivo inclusivo
(l’uno o l’altro) anziché esclusivo, che in alcuni contesti può essere ripetuto per esprimere più alternative. È quindi
usato diversamente da come vuole la norma.
4) Ultimamente si è riaccesa la polemica sulla femminilizzazione dei nomi delle cariche, tipicamente ricoperte dagli
uomini fino al secolo scorso, e delle professioni. Nonostante siano perfettamente grammaticali però a molti “suonano
male”, tali resistenze sono legate a stereotipi culturali introiettato dalle donne stesse, che spesso rifiutano le forme al
femminile per timore di autodiscriminarsi o di vedere diminuito il proprio prestigio. La questione è comune a tutte le
lingue che distinguono forme maschili e femminili nei nomi di persona. In italiano poi assume connotati particolari sia
per il nostro conservatorismo culturale sia per le ricadute che l’uso di un linguaggio non discriminatorio ha sulla
comunicazione. L’uso “politicamente corretto” delle forme con sdoppiamento integrale o parziale (colleghe e colleghi,
colleghi/e o collegh*) si estende ad articoli, aggettivi, participi e pronomi creando un effetto di appesantimento e
“burocratese”. Tali scelte inoltre, poiché percepito come ideologicamente connotate, possono diventare bersaglio di hate
speech.
5) Nell’ultimo decennio c’è stata una crescita significativa di anglismi che ha preoccupato linguisti e parlanti, sia perché
sono sempre meno prestiti “di necessità” e sempre più “di lusso”; cioè più prestigiose rispetto a parole italiane esistenti
(leader per capo, web per rete).
ALFABETO FONETICO:
ɲ (nasale palatale)= gn di “agnello”
FRASE DICHIARATIVA ASSERTIVA= trasmette informazioni, opinioni, credenze e fatti, dichiarano o asseriscono
qualcosa. I principali parametri di correlazione sono la presenza di preposizioni o posposizioni, la struttura del sintagma
nominale (la posizione reciproca di nome e modificatori), la posizione degli ausiliari, della negazione degli avverbi
rispetto al verbo, la posizione della congiunzione subordinante rispetto alla frase subordinata, la collocazione dei
pronomi interrogativi e la struttura delle costruzioni comparative. In base alla loro combinazione si possono trovare 2
tipi di riferimento:
SINTAGMA ADPOSIZIONALE: è introdotto da una preposizione: la adposizione quindi è a sinistra dei complementi
(c’è però un grosso disaccordo tra gli studiosi sul fatto che una adposizione possa essere testa; per semplificare diamo
per scontato che le proposizioni e le posposizioni siano testa).
Fonemi: le lettere
Morfemi: la combinazione di fonemi con un certo significato (Gatt: felino domestico)
Fono: i suoni del linguaggio raggruppati nell’IPA