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Luigi Pirandello
Relazione narrativa-teatro: spesso i drammi derivano dalle novelle. Il passaggio comporta una normalizzazione
linguistica e un passaggio dal più al meno libresco.
La sua è una lingua fortemente problematizzata: no è estraneo l’interesse per il dialetto (e il suo utilizzo) e per
la questione della lingua, che, incrociato con la sua sensibilità viva di scrittore, gli farà proclamare l’inesistenza
di una prosa italiana moderna e viva.
Conflitto di opinioni sulla lingua pirandelliana: aspetto neutro (italiano medio-borghese scolorito, a secche
perdite di espressività, a una letterarietà inerte); incisività e originalità.
Eccesso di tratti aulici, latineggianti, toscani che disturbano il parlato.
Frequenti neologismi, spesso di tinta espressionistica (non sistema coerente).
Figure retoriche ricercate: metafore antropomorfiche o animalizzanti; parestesie; sinestesie.
Sicilianismi, quando non inconsci/adibiti a colore locale o a forme marcate della colloquialità, appaiono in
funzione dell’espressivo e del raro; anche a livello sintattico (presente indicativo per il futuro).
Ampio uso di colloquialismi generici e frequenti burocratismi/tecnicismi.
Nel suo tentativo di recupero del parlato, Pirandello ottiene risultati più nuovi nella sintassi: spostamento a
destra; sovrappiù di segmentazione; abbondanza di movimenti esclamativi e interrogativi; uso del presente
commentativo; frequenza di avverbi correttivi; abbondanza di elementi deittici e fatici; nomi propri-etichetta,
trasparenti o simbolici; ripetizioni, ricchezza di elementi inattesi e varietà del gioco allocutivo (nel teatro).
Componenti forti della poetica pirandelliana: stilemi espressionistici con il gusto del grottesco; tratti delibati per
ultimi anche con gli aspetti sofistici e avvocateschi; rotture sintattiche con l’umorismo, sentimento del contrario;
macaronico contaminatorio con l’umorismo; la “lingua del considerare” con gli aspetti pseudofilosofeggianti
dell’autore.
Monotonia del fraseggiare pirandelliano, speciosità verbali che disturbano con il loro sovraccarico il parlato.
Pirandello spesso maschera sotto un velame filosofico una struttura da teatro borghese: anche nella lingua pensa
di animare con le delicature e gli espressionismi i fondamentali grigiore e fungibilità della prosa, oscillando tra
una concezione puramente strumentale del linguaggio e sue accensioni locali.
Lessico poco o troppo marcato, eccesso di retorica ed espressività avvocatesca.
La giustificazione del grigiore linguistico pirandelliano sta nella reazione alla brillantezza dannunziana, con
relativa opposizione di una retorica avvocatesca a una retorica iperletteraria.
Federigo Tozzi
Esperienza linguistica che si avvicina a quella dei vociani: espressionismo. Lo differenziano però la densità di
senesismi e in genere toscanismi (dialettalismo, che è una voce interna più che colore locale, coincide con il
primitivo, categoria psicologica più che culturale).
Fonti: D’Annunzio (toscanismi rari).
È difficile dire fino a che punto distinguesse senesismi da toscanismi generici, ma la condizione ancora integrata
alla lingua, non staccata da questa come vernacolo, del fiorentino e toscano all’epoca di Tozzi favoriva la
coscienza della separatezza del senese dal fiorentino stesso. I prelievi non sono inconsci ma creativi e
direzionati.
Non mancano di contro aulicismi e arcaismi (a volte dannunzianesimi).
Interventi personali di Tozzi: note grafiche; segmentazione del discorso; formazione delle parole suffissale;
aggettivazione conduplicante; metaforizzare insistente (animalistico o animistico); sineddoche; verbi di parere
come portanti nella psicologia dei personaggi;
Sintassi: uso abnorme del punto e virgola che trasforma un possibile fluire narrativo in un cozzo di frammenti
(effetto simile hanno i dialettalismi); impiego più abbondante del consueto della stessa virgola; ellissi; forte
tendenza alla paratassi e allo stile nominale.
Elio Vittorini
Sovrapposizione di elementi rondeschi e solariani, elementi lessicali “selvaggi”, in seguito normalizzati.
Tendenza al gridato, agli aggettivi “semaforici”. Concomitanza di linguaggio giornalistico-politico e di
linguaggio narrativo.
Completa assenza di sicilianismi nelle opere di ambiente siciliano: lo stacca rispetto ai suoi colleghi conterranei.
La sua è una Sicilia simbolica e mitica, non realistica. Critica l’uso del dialetto in Gadda e Pasolini.
Il linguaggio è contaminazione di moduli squisitamente vittoriniani e di neorealismo, per la sua maggiore
semplificazione, o per qualche invenzione stilistica in più.
Conversazione in Sicilia. Assoluta normalità, medio-alta, del lessico, a volte quasi un gergo privato; allo stesso
tempo altissimo grado di espressività, che è affidata agli effetti del ritmo e dell’apparato sintattico retorico.
Viaggio iniziatico da un linguaggio vecchio e inautentico ad uno autentico, della verità, che è poi quello poetico.
Il lessico talvolta si rastrema e scarnifica per essenzialità comunicativa ma anche per riduzione alla quiddità
linguistica.
Vittorini è un lirico, non un narratore in senso stretto: costruttivismo lirico, che procede per addizione di blocchi
autonomi, quasi prefabbricati. Iterazioni, anafora, forme di ritornello, andamento melodico e cadenzato, tessuto
sintattico primitivo, messa in rilievo e creazione di parole-chiave, simulazione dell’oralità, che si risolve in toni
di predicazione laica, oracolari e profetici; circolarità e staticità del discorso complessivo. Questi procedimenti
sono innescati dal prevalere del blocco lirico sull’accidentalità del narrato, dalle strutture simbolicamente
dialogiche e corali che dominano il libro. L’eccesso di ripetizioni genera un eccesso del significante rispetto al
significato, e dunque uno slittamento di questo dalla razionalità all’emotività.
Modellarsi della struttura e del linguaggio sul melodramma e sul teatro in genere.
Gusto per i nomi propri parlanti o di stampo colto, che conferiscono molto al tono epico-favolesco dell’insieme,
in un’allusività antirealistica.
Mutamento di funzione del dialogo, trasferito dal piano discorsivo o dell’azione a quello della liricità.
Forti tangenze con il linguaggio biblico e religioso in genere (“americanismo”).
Natura esclusivamente lirica e manieristica de linguaggio di Vittorini.
Cesare Pavese
Neorealismo e naturalismo, poi trasfigurato in simbolo e mito.
Effetti: reiterazione di determinati vocaboli in enunciati simbolici, “parola-sensazione”. La narrazione tende a
procedere attraverso lo strumento dell’immagine narrativa o immagine-racconto, a sua volta facilmente
convertibile in simbolo. La narrazione è sostenuta di norma da un traliccio di iterazioni prossime o a distanza,
che tendono a fissarla in blocchi statici ed è attraversata da una rete di metafore non di rado basate sulla cultura
etnologica dell’autore e facili a loro volta a trasfigurarsi in simboli o valori emotivo-concettuali.
Il dialogo tende a non essere mimetico, ma alonato, allusivo, sostenuto in ciò dall’uso del discorso indiretto
libero e del monologo interiore. La prosa assume programmaticamente un ritmo poetico, con parenesi che
creano spesso più piani nel racconto.
Come il racconto è spesso segmentato, così è il periodo, rude e volutamente sprezzato nel suo essere somma di
elementi microfrastici e iperparatattici.
Tecniche ragionative antinarrative; sentenza, arguzia linguistica, ripetizione.
Atteggiamento pavesiano verso il dialetto: è sottostoria. Grande ritegno verso il dialetto, o verso l’italiano
popolare. Il suo non è un dialetto mimato, ma alluso, passato attraverso un processo culturale.
Nell’esordio narrativo, la dominante è un plurilinguismo osservato con forte attenzione sociolinguistica
(dialetto). Il dosaggio di plurilinguismo e dialetto varia da opera a opera.
Elsa Morante
In ognuno dei suoi quattro romanzi adopera una chiave linguistica diversa.
In Menzogna e sortilegio la lingua è impostata, solenne e grave, senza espressionismo e soggettivismo.
Ricchissima intertestualità (melodramma). Abbondanza di troncamenti (nobiltà e densità del discorso),
inversioni fitte. Rari meridionalismi e vaga ambientazione siciliana. Linguaggio assolutamente antirealistico.
Ricche similitudini: atteggiamento epico che solleva in alto l’ambiguo labirinto della favola psicologica, ed è
anche capace di accogliere in sé senza stridori i linguaggi particolari dei personaggi. La costruzione non è
propriamente periodica, ma ama incatenare in complessi sintattici più ampi periodi, magari attraverso frequenti
incisi parentetici. Molto analitica la punteggiatura: abbondano le interrogative, le esclamative. Nel complesso
il narrato prevale sul dialogato e come lo assorbe in sé, a sottolineare la scarsa mobilità dei fatti di contro
all’ipertrofia magata e malsana dei sentimenti. L’autrice è formalmente assente.
L’isola di Arturo è caratterizzata da un calo notevole del tasso di letterarietà; cresce molto la coloritura dialettale,
che invade anche la narrazione stessa, specie nei paraggi dei personaggi più vernacolari. La coloritura
vernacolare non ha scopo realistico, ma allusivo e affettivo (contribuisce alla creazione dell’atmosfera esclusiva
della favola). La sintassi è più lineare, ariosa e agile: elegante semplicità, nessi asindetici puri; complicata da
una punteggiatura analitica e uno stile frequentemente a incastro, a segmentazioni. Tale composizione unisce
analiticità e pathos e produce un effetto di elegante arabesco e aumenta l’emotività ribollente del discorso. Le
similitudini sono più brevi, meno ricche (aggettivazione sfoltita).
Nella Storia, dato il suo intento cronachistico, didascalico e populistico, rinuncia allo stile superbo e
aristocratico di prima. È messa a partito l’esperienza poetica singolare, smodata e plurilingue: sintassi
semplificata al massimo, uso di dialetti nel parlato incrementato, forme familiari, errori. Il romanesco risente di
Pasolini e si infiltra anche nel narrato (voluta complicità dell’autrice): il senso del dialetto sta nella solidarietà
con i poveri, gli strambi e i malati. Didatticismo: forme burocratiche, appello al lettore e al personaggio,
collocazione della narratrice come testimone alla sua rinuncia all’onniscienza.
Con Aracoeli torna allo stile alto (qui tragico e quasi violento) dei due primi romanzi, con aggiunta di un
plurilinguismo prima impossibile (inserzione di spagnolismi e francesismi, continua commutazione di registri
e intreccio fra parole di alta letterarietà e parole basse). La sintassi non è particolarmente complessa, ma è
complicata decorativamente dalla copia degli aggettivi e delle similitudini. Entro il tema complessivo del
recupero memoriale, che spesso svaria nell’onirico, il nucleo fondamentale è forse quello della corruzione del
corpo o della corporeità come necessario disfacimento, a sua volta probabile allegoria di una più generale
decomposizione: campi semantici della bruttezza e della schifosità, oggettualizzazione del corpo nell’inanimato
e nel meccanico, attribuzioni ferine.
Italo Calvino
Eccellente creatività linguistica accompagnata da fasi di intensa riflessione sulla lingua, non solo individuale e
letteraria ma sociale: accusa ai dialetti, autocritica per averli usati a suo tempo.
La corta ondata dialettale investe i romanzi degli “Antenati” (Barone rampante in primis). La coloritura
vernacola è più forte nei nomi propri. Il dialettalismo si sviluppa nella direzione dell’italiano popolare. Fin
dall’inizio la componente dialettale è controbilanciata da una aulica, magari destinata a raggrumarsi.
Nell’intrisione della lingua da parte del dialetto, si può vedere il gusto per la parodia linguistica e per il pastiche.
Diverso è l’analogismo immaginoso e infantile di Marcovaldo, dove Calvino coniuga realtà e favola; mentre
più tardi, in un momento particolarmente razionale, Calvino potrà esprimere dubbi sul valore dell’analogia in
sé.
La sintassi calviniana è sostanzialmente “leggera”, rapida, scorrevole: paratassi asindetica, sostituzioni della
coordinazione alla subordinazione (“americanismo” e mimesi del parlato). Di regola però controbatte e varia
questa linearità con una fitta serie di procedimenti: inversione e segmentazione, accumulazione ed
enumerazione, abbondanza dei sinonimi (gusto calviniano per l’esattezza puntuale della resa delle “cose”).
Aggettivazione procede per coppie o terne, per amore di precisazione, di autocorrezione continua.
La sintassi subisce due fasi di rotture: i periodi si gonfiano, si riempiono di subordinate, di incisi, asimmetrie.
Si infittiscono stilemi come le correzioni, le sinestesie, i giochi di parole, composti-derivati, prefissati,
ripetizioni di parole-tema.
Primo Levi
Beppe Fenoglio
Carattere epico, in una sorta di cortocircuito tra contemporaneità bruciante e arcanezza, tra nuovo ed eterno, tra
individuale e universalmente umano, che volge anche all’eroicomico-corale o alla polifonia contadina.
Fenoglio parla dialetto e italiano, che respinge in quanto lingua della propaganda fascista. Interviene l’inglese
(insulare), per lui lingua ideale ed esistenziale. Si crea una lingua acronica e malleabile, come forma interiore
dell’italiano, stimolandone espansione e innovazione. Nel lavoro di correzione tende a ridursi fortemente,
specializzandosi come lingua del protagonista (nonostante siano possibili varianti inverse verso l’inglese, al fine
di una maggiore espressività).
Fenoglio non è uno scrittore realista né mimetico, ma astratto, introverso e fortemente aggressivo, creatore di
un mondo senza elegia: riduce al minimo e quasi nasconde i dialettalismi, anche dove la materia li richiederebbe
fortemente.
Nella lingua oltre all’inglese è presente anche il francese, si punta al sublime con i latinismi e gli aulicismi,
costruzioni anastrofiche di risonanza epica, anglismi secchi e suggestivi, participio presente con valore verbale,
a + infinito, costruzioni ad anticipi (risentono della sintassi inglese), aggettivazione solenne e assolutizzante,
avverbi in mente molto fitti e spesso singolari, neologismi con suffissati, composti arditi.
Gusto per l’onomatopea, per le serie foneticamente legate, funzione straniante del passato remoto, campi
simbolici privilegiati delle metafore con figuranti che si concretizzano duramente.
Potere astrattivo di Fenoglio sulla lingua: ciò che appare ricerca dell’innovazione è invece ricerca della
primordialità, di una lingua bloccata, perentoria, iterantesi. È una lingua allo stato fluido. L’oltranza e l’anomalia
della lingua di Fenoglio rispondono, sottolineandola, all’oltranza dei sentimenti e destini che egli mette in scena;
ma per un certo aspetto la tensione linguistica sembra come andare al di là dei pur notevolissimi contenuti umani
che dovrebbe veicolare, e vivere come pura energia.
Paolo Volponi
La narrativa è profondamente penetrata di elementi lirici: linguaggio schiettamente, strutturalmente lirico e
antirealistico. Il lirismo della parola non ammorbidisce la realtà, anzi la disgrega.
Carattere visionario, allucinatorio del suo modo di guardare il mondo, supportato non di rado da personaggi
nevrotici o folli: il linguaggio lirico ha il doppio compito di esprimere l’ottica deviante di costoro, vittime della
società, e di porre un’esigenza di alterità utopistica rispetto al mondo stesso di oggi, nelle sue forme
neocapitalistiche. Volponi non intende rappresentare la realtà, ma romperla.
Conseguenze linguistiche: presenza di parole chiave come sortire; consentaneo varco dantesco e montaliano;
metafora fallica del vaso; presenza di verbi di vedere (i personaggi di Volponi guardano il non guardabile, lo
deformano allucinatoriamente).
Il lirismo visionario porta alla frequenza della visione, della tensione analogica, della metafora corposa e
deformante; similitudini alienanti e deformanti.
Notevoli le allitterazioni e la presenza di brani poetici nei romanzi, cui si sommano le filigrane poetiche
dantesche e leopardiane.
Nonostante il lirismo, il linguaggio di Volponi narratore è un linguaggio medio, anche burocratico, e può
giungere fino al dialetto: ma questo basso continuo di scarsa espressività oltre a trascrivere la fanghiglia del
mondo, permette l’alternanza dei registri e la messa in rilievo degli elementi lirici. Proprio al lirismo può essere
affidata la descrizione del marcio della vita.
Volponi narra attraverso scenografie: ricchezza di momenti figurativi e prevalere della descrizione (frequenza
del presente storico, sintassi nominale). Globalmente la sintassi è in apparenza normale, ma tende in modo
sottile ad essere asimmetrica, alternando periodi brevi e periodi lunghi. I dialoghi sono fitti, per il continuo
arrestarsi della narrazione. Ancora più significativa è la presenza di puntini sospensivi.
In ogni romanzo volponiano, dove la temperatura lirica si innalza, si accrescono accumulazioni, iterazioni,
parallelismi, rime: ma il risultato può essere la completa dissoluzione sarcastica.
Tre saggisti
Benedetto Croce
Lo stile non si immerge nella cosa trattata, ma la domina quasi sorvolandola, perché il fine è quello di elaborare
categorie filosofiche, non di perdersi nel particolare fattuale.
Croce agisce in una situazione linguistica assestata (affermazione della fine della questione della lingua,
concezione subalterna o collaborativa, non alternativa, dei dialetti). A differenza di Manzoni, Croce non fu
linguisticamente normativo.
Le sue idee hanno a che fare con la natura antiespressionistica del suo stile, che deriva tuttavia dalla messa tra
parentesi dello psicologismo.
L’unità è il periodo, che assorbe e smorza, senza permettere che si rilevino i singoli particolari, in opposizione
alla scrittura dei prosatori-artisti. Entro questo periodare unificante si muovono i vari elementi discreti o
“espressivi”: ricchezza analitica delle virgole, presenza di serie para-sinonimiche, copia di allusioni e citazioni
che hanno funzione di similitudini.
La lingua tende ad una sintesi tra aulico e colloquiale (equipresenza di perentorietà e democraticità nella
presentazione del pensiero): nono stante la fondamentale unità e costanza di questo linguaggio, esso ha quel
tanto di varietà che gli deriva, sincronicamente, dai molti generi che Croce ha frequentato; diacronicamente
dall’ampio arco del suo sviluppo.
All’interno di un lessico rilevato e personalissimo, ma nel complesso “normale”, si possono distinguere alcune
categorie: arcaismi, manzonismi, elementi idiosincratici o rari, innovazioni, apocopi, cognome preceduto da
articolo, aggettivi di stampo vichiano, latinismi, formazione delle parole. La creazione di formule filosofiche e
in genere il ragionamento filosofico passano volentieri attraverso forme linguistiche peculiare, come l’apertura
di un nuovo periodo con un pronome relativo che introduce una principale.
Roberto Longhi
Carriera stilistica suddivisibile in tre fasi: vociana (funzionale alla sua visione anticlassica della pittura),
rondesca e classica.
Conglomerato sostantivale e in genere nominale; uso oltranzoso del punto e virgola; aggettivi con motivazione
francese e dannunziana, derivati impressionistici, tendenza all’astrazione formulare ed elegante, parasintetici,
intransitivi fatti transitivi, uso della metafora dinamica, trivellante. Arcaismi non tecnici, dannunzianesimi,
francesismi, dialettalismi come preziosismi e fughe linguistiche. La parola rara gli serve spesso per evitare il
termine andate e tecnicizzare senza tecnicizzare, mentre l’arcaizzare spinto all’estremo conduce al pastiche.
Paratassi e sintassi nominale, indispensabili per le descrizioni, tempi del passato che subentrano al presente
astanziale, raffinato colorismo. Metafore che subiscono un processo di tecnicizzazione: si tratta di sfuggire,
innovando, alla terminologia corrente e al tecnicismo piatto, troppo concettuali per cose che concetti non sono
e perché Longhi intende affermare la natura mediata e provvisoria di qualunque linguaggio critico. I paragoni
stranianti, rinnovanti e il continuo ricorso alla terminologia di altre discipline (filologia e linguistica).
Ostile alla medietà del linguaggio degli storici del suo tempo, Longhi lo fugge non solo con le sue invenzioni
verbali, ma anche rifacendosi ai grandi critici d’arte dialettanti (Baudelaire) e all’antica trattatistica d’arte.
Gianfranco Contini
Non si ha un corpus omogeneo, ma costituito in primo luogo da applicazioni a diversi campi, che producono un
linguaggio differenziato.
Il linguaggio critico di Contini è espressionistico, ad alto tenore intellettuale, sollecitato dai passaggi metaforici
da altre scienze alle sue.
Sintassi eccezionale per economia, compressione ed ellitticità.
Utilizzazione metaforica di tecnicismi di altri settori: volontà di strappare la letteratura dal suo isolamento e
estraniarla per riaverla più vergine. Campo della tecnica e del lavoro, campo giuridico, medico-biologico,
scientifico, geologico (affermazione di tecnicità e scientificità nell’analisi letteraria); terminologia filosofica,
dell’economia, della filologia, della linguistica. Settori della geometria e dello spazio, a sottolineare la visione
concreta del testo come testo sulla pagina, corpo grafico.
Voci anticheggianti: grecismi, latinismi, aulicismi, francesismi.
Modelli: Gadda, Longhi, Debenedetti. Notevole influsso sui suoi successori.
Umberto Saba
È un poeta distante da gruppi e correnti della sua età: la diversità sta nella sua triestinità (l’italiano si presenta a
Saba nelle forme paludate dell’aulicità, che lascia una certa patinatura aulica iniziale) e quindi nella sua
formazione (Leopardi, Parini, Metastasio, Petrarca). Nessun contatto con futurismo, vocianesimo.
Avvicinamento con i crepuscolari (nel comune interesse per la quotidianità e il conseguente linguaggio, ma ne
fu diverso con la sua lingua, mai vissuta con ironia o contrasto). La quotidianità per Saba è il luogo del Sacro,
della Vita (non in senso polemico), nessuna gerarchia tra gli aspetti del reale (epicizzazione del quotidiano).
Raramente si trovano parole disfemiche. Sono frequenti diminutivi e vezzeggiativi (a sottolineare grazia e
gentilezza della vita comune). Perpetuo scambio tra esistenza comune, con i suoi oggetti-salvezza, e l’interiorità
anche più aggrovigliata (il paragone tratto dalla realtà trita dà concretezza a uno stato d’animo).
Una buona dose del linguaggio “rasoterra” è collegata alla forte componente narrativa della lirica sabiana,
nonché la frequente impostazione dialogica o gli appelli al lettore (anche espressioni gergali o dialettali, di
“italiano popolare” ipercorretto).
Non mancano le citazioni di canzonette d’epoca: il brano non è un corpo estraneo (come in Montale), la sua
lingua è tendenzialmente quella del poeta stesso. Per Saba la canzone faceva parte di quel patrimonio di
espressività “popolare” italiana che era eminentemente rappresentato dal melodramma.
Il nucleo del vocabolario sabiano, diversamente che nei vociani, in Ungaretti e in Montale, è probabilmente
formato da uno spezzone di quello che si chiama lessico basico, a più alta frequenza e più vasta estensione
semantica, della lingua comune. La ricorrenza di questi termini non ha soltanto la funzione di sottolineare che
il poeta vuole muoversi al livello della vita e dei sentimenti comuni, ma anche quella di costituire delle coppie
o costellazioni che veicolano temi ricorrenti (tematizzandosi fortemente perdono qualsiasi residuo di banalità o
corrività): antico e nuovo, sapere (saggezza antica dell’uomo).
L’aulicità lessicale di Saba non è un’aulicità esposta, ma media, naturale, “colloquiale”: assolve comunque alla
funzione di controbilanciare il lessico umile e prosastico. È come se si incontrassero a mezza strada.
La sintassi da un lato tende alla normalità prosastica sul filo del narrativo, dall’altro è ricca di inversioni e
iperbati (innalzamento di tono del lessico prosaico). Le modifiche nell’ordine normale delle parole non hanno
soltanto valore di nobilitazione retorica, ma anche un preciso valore iconico di creazione di un’immagine per
pura via sintattica. Saba ottiene gli stessi effetti di dislocazione e serpentinità con mezzi di per sé non letterari.
Il rapporto sintassi-metro è molto spesso asincronico, dando luogo all’enjambement: fraseggiare continuo,
legato che scivola sopra i confini del verso, mentre suggella le conclusioni con frasi coincidenti col verso,
staccate quasi interpunzioni forti.
Il Futurismo
Il futurismo non fu solo un movimento letterario, ma anche figurativo e musicale: molti suoi aspetti non si
comprendono senza tenere conto di questa rivoluzione contemporanea in varie arti.
Movimento che vuole essere internazionale, e di fatto lo fu, finì per pensare l’italiano stesso come lingua
internazionale, una sorta di esperanto reso tabula rasa per ogni sperimentazione stilistica (la lingua usata è
indifferente: debolezza dei testi).
Manifesto tecnico della letteratura futurista: posizione “antimetrica” (fallimento del verso libero e avvento delle
“parole in libertà”); distruzione della sintassi con disposizione dei sostantivi a caso; uso del verbo all’infinito
perché più elastico; abolizione dell’aggettivo per il suo carattere contemplativo che snatura la bellezza del nudo
sostantivo; abolizione dell’avverbio, perché conserva fastidiosa unità di tono; ogni sostantivo va legato con
lineetta al suo doppio analogico; eliminazione delle vecchie similitudini per le analogie immediate (non ci sono
gerarchie di immagini: l’importante è che gli accostamenti sorprendano, collegando tra loro intuitivamente
aspetti distanti della realtà); la punteggiatura va eliminata per rispetto della continuità di uno stile vivo che si
crea da sé (eventualmente segni matematici e musicali, diversi caratteri tipografici; è necessario che la lettura
esprima anche rumori, pesi, odori degli oggetti: uso delle onomatopee, anche le più cacofoniche.
Per molti fenomeni le predicazioni dei futuristi hanno avuto un’irradiazione. L’azione futurista è stata però
soprattutto in negativo: l’unico seguace di Marinetti fu egli stesso.
In un poeta come Ardengo Soffici l’unico elemento macrostrutturale di stampo futurista è il simultaneismo:
l’unica scelta grammaticale che risponde ai dettami marinettiani è l’assenza di punteggiatura e certa arditezza
di analogie, nonché la sintassi nominale. Non manca però l’aggettivazione e le similitudini e i verbi coniugati.
Palazzeschi sua l’onomatopea futurista ironicamente, per indicare che la sua è spazzatura della poesia.
La pratica dei futuristi più “ortodossi”, per quanto risulti pesante e monotona, va inserita in un aspetto generale
del rapporto tra oralità e graficità del testo. Il futurismo estremizza contemporaneamente sia l’oralità che la
graficità del testo poetico:
o Oralità: il testo futurista è fatto per essere recitato in pubblico in pubbliche serate. L’abbondanza di
onomatopee solo nella recitazione acquisisce il sui pieno rilievo, anche l’assenza di punteggiatura prede
diverso colore per la libertà di pause e intonazioni. Lo stesso asintattismo è reso meno provocatorio
nella libertà della declamazione.
o Graficità: la valorizzazione degli spazi bianchi è importante in assenza di punteggiatura e partizioni
strofiche; la movimentazione ottenuta con la varietà di caratteri ha rilievo sulla pagina, ma non sarebbe
concepibile senza la sua funzione di sistema di segni che indica l gradazione dell’enfasi e
dell’impressività nella declamazione del testo.
I “vociani”
Accomunati da atteggiamenti comuni di tipo psicologico, ideologico e tematico, lo furono soprattutto dal punto
di vista stilistico (espressionistico), da cui si discostano alcune tendenze di Sbarbaro e di Campana.
Pianissimo di Sbarbaro: indifferente all’urgenza di una qualsiasi modernità e violenza del linguaggio. Più che
prosastico appare afono, ad onta di tutti gli elementi aulici che si tira dietro. È una lingua che si mette a completo
servizio del contenuto, uno psicologismo doloroso e masochistico.
Alcuni espressionisti vociani ereditano stilemi futuristi, ma nel complesso la loro operazione linguistica consiste
nella dilatazione a scopi emotivi, impressivi, parenetici del codice, che fondamentalmente viene teso al massimo
delle sue possibilità, ma restando dentro queste, senza negarle. L’aspetto forse più nuovo della stilizzazione
vociana sta nella formazione delle parole e dintorni, mediante un’attivazione massima di paradigmi esistenti
nella lingua, a cavallo tra grammatica e lessico.
Tipica dei vociani è la coltivazione estensiva del poemetto in prosa, solo o alternato alla lirica: non viene però
abolito il confine tra poesia e lirica, ma partire dalle strutture altamente formalizzate e chiuse della poesia
trasferendole alla proda, con l’intesa che i due livelli restano distinti.
Rebora: metafore e analogie sintetiche; scontro e compenetrazione tra concreto e astratto nell’accostamento tra
sostantivi astratti e aggettivi concreti; cortocircuiti analogici retti da di; sinestesie; accumuli; frequenza delle
coppie aggettivali asindetiche per gusto della densità; ossimoro (massimo di sinteticità e paradosso logico);
transitivizzazione dei verbi intransitivi; verbi parasintetici; ricerca dei suoni aspri. Modello: Dante.
Deverbali a suffisso zero; formazioni nominali attraverso suffissi inediti o rari; uso dell’infinito in costrutti
scorciati che raggrumano l’azione verbale in etichetta concettuale; aggettivazione rara e stramba; voci dialettali
in funzione non realistica ma espressiva; anacoluti.
Boine: coppie nominali unite da lineetta (intenzione di esprimere una compresenza di cose nella brevità
dell’attimo). Onofri: nominalizzazione del verbo, avverbializzazione dei sostantivi, cancellamento della basilare
opposizione nome-verbo (anestesia della grammatica, funzionale alla staticità mistico-contemplativa).
Lo stile è genericamente eloquente: iterazione (Campana).
Giuseppe Ungaretti
Prolunga elementi avanguardistici (futuristici e vociani), anche se è necessario distinguere tra Allegria e
Sentimento del tempo.
All’inizio subisce l’influenza di Apollinaire, Palazzeschi e Soffici: elementarità ritmica, dimensione ridotta dei
versi divenuti versicoli e pausati intensamente da spazi bianchi (isolamento della parola), mancanza di
punteggiatura, violenza espressiva deformante (espressionismo). Densità semantica, quasi iperbolica di nome e
verbo, insistenza egocentrica sulla prima persona dell’indicativo. Frequenza di analogie preposizionali, di
origine simbolistica. Pseudo-complementi di materia sintetici. L’espressionismo è dato soprattutto
dall’immediatezza scorciata delle varie parti del discorso: conformazione elementare della frase poetica, che
poggia su un enunciato verbale esplicito, arricchito dagli attualizzatori, specie i possessivi. Il procedere per
molecole frastiche brevi porta con sé giustapposizione, stile asubordinativo: apposizioni analogiche abbrevianti,
compenetranti, identificazione analogica.
L’Allegria persegue i suoi scopi di confessione lirica non in una continuità ma a strappi e attraverso un
linguaggio non prosastico ma fulmineo, violentemente estrovertito, aggressivo.
Il Sentimento del tempo presenta caratteri molto diversi (maggior tradizionalismo), a cominciare dalla gabbia
metrica: versi e non versicoli, con maggiore complessità metrica, ritorno della punteggiatura, prevalenza del
legato, ruolo semantico fondamentale affidato all’aggettivo, maggiore varietà di tempi verbali, giustapposizioni
analogiche, continui parallelismi anaforici, aulicismi (modelli leopardiani, petrarcheschi, dannunziani e
pascoliani). La frammentazione lirica diventa frammentazione epica.
Fenomeni peculiari del Sentimento (e poi ermetici): assenza dell’articolo; uso “vago” del plurale per il singolare;
impiego personale, con semantismo nuovo e concentrante, delle preposizioni; inversione tra determinante e
determinato; presenza frequente dell’astratto, tra concettualizzazione e indeterminazione; vocaboli impiegati in
senso etimologico, latineggiante; accostamenti inconsueti di sostantivo e aggettivo; accostamento di frasi
nominali e verbali; forme di modulazione ellittica (anacoluti, gusto per le trasposizioni sintattiche).
Eugenio Montale
A differenza di ermetici e vociani, va verso la concretezza e l’esattezza anziché verso l’astrazione e la vaghezza.
Ma la sua è anche una lingua tutta contesta di elementi preziosi e rari: caratteristica tipica del poeta è di
perseguire l’esattezza e concretezza dell’oggetto, attraverso il termine raro.
Benché non manchino in lui elementi restaurativi, i legami con l’esperienza vociana sono fitti e permanenti. Lo
stile poetico montaliano dagli Ossi alla Bufera non si può definire altrimenti che espressionistico: verbi e
sostantivi di movimento, violenza e strappo; sostantivi che esprimono sensazioni uditive aspre, stridenti; avverbi
che indicano istantaneità, velocità fenomenica; tempo presente, diretto rapporto con l’io.
Il lessico montaliano è particolarmente ricco e inventivo: parasintetici; verbi prefissati e suffissati; sostantivi
suffissati e prefissati.
La sua è una poesia plurilinguistica, con enorme varietà di toni e registri: ricerca della parola rara; ricerca della
parola espressiva o espressionistica; ricerca della parola non “dolce” ma aspra; caccia nel territorio antiletterario,
che può arrivare al prelievo di dialettalismi (liguri essenzialmente, ma anche qualche toscanismo, lombardismo);
esigenza del termine preciso e univoco, al limite adozione dei tecnicismi (precisione e differenziazione nei
tecnicismi faunistici, nel lessico marinaresco e nella terminologia musicale); apertura ai forestierismi
(francesismi, anglismi, spagnolismi e germanismi, con effetto straniante o ironico); utilizzazione massiccia,
fondata su una straordinaria memoria verbale e formale, del linguaggio della tradizione poetica italiana antica e
recente.
Modelli della letterarietà rara e preziosa di Montale: Dante (grande espressionismo e plurilinguismo della
Commedia, latinismi che puntano al sublime, combinazione, contaminazione, variatio), Pascoli (precisione e
varietà della nominazione pascoliana, tema del ritorno dei morti) e D’Annunzio (convergenze metriche e
tematiche, nell’area del prezioso).
L’ultimo Montale è diverso: incremento di forestierismi; ripetizione delle proprie “situazioni” poetiche e dei
propri ingredienti linguistici (minore concisione, più discorsività e manierismo); termini che avevano un’intensa
connotazione lirico-metafisica tornano abbassati di tono e banalizzati; continua ad attingere nei pozzi del raro e
del prezioso, ma contemporaneamente entra in scena tutto un vocabolario prosaico e disfemico in massa; termini
del linguaggio intellettuale ma non in uso tecnico, bensì come mimesi della conversazione intellettuale, esibita
per ironizzarla.
Nella sintassi possono alternarsi polarmente due tipi di strutture: parallelismo (poesie brevi); apertura (nelle
poesie lunghe). È una sintassi fortemente intellettualistica, dove abbonda la subordinazione, intrecciandosi in
modo complesso con la linearità dei versi. Alcune strutture sono in rapporto con altrettanti elementi tematici,
sottolineandoli: ipotetiche rispondono in modo esatto al probabilismo e all’incertezza esistenziali che marcano
la concezione del mondo del poeta.
L’ermetismo e dintorni
Aspetti principali del linguaggio dell’ermetismo: ellissi dell’articolo determinativo; plurali indeterminati per
singolari; uso anomalo e polifunzionale della preposizione a; generale libertà nell’uso delle preposizioni;
inversioni di determinante-determinato; apposizioni analogiche immediate; impiego spinto della sintassi
nominale; marcata propensione per gli astratti, non concettuali ma lirici; latinismi spinti; uso etimologico dei
vocaboli; verbi intransitivi fatti transitivi; accostamenti arditi di aggettivo e sostantivo;.
Precedenti di questo linguaggio: “secondo” Ungaretti, i simbolisti francesi (innovazioni sintattiche), surrealismo
francese.
Il linguaggio ermetico si presenta come un tipico linguaggio di koinè (Quasimodo, Gatto, Luzi), anche se Luzi
spicca per iniziativa linguistica.
Non tutti i poeti normalmente classificati dalla critica come “ermetici” condividono le caratteristiche
linguistiche della “scuola”: Bertocchi (lingua che oscilla tra tradizionalismi piatti e preziosismi); Sinisgalli (usi
ermetizzanti delle preposizioni, staccati nominali, astratti, qualche intransitivo transitivizzato); Sereni (brevi
frasi nominali tra pause forti, ma la ricerca linguistica rimane al di sotto dello sperimentalismo manieristico);
Bertolucci (estraneo alle forme del modernismo, la scelta linguistica deve essere compatibile con l’asse
prevalente della narrazione); Caproni (analogismo narrativo-antropomorfico).
Sandro Penna, con la sua marcata dipendenza da Saba, è il più lontano dall’ermetismo: punte realistiche del
contenuto, linguaggio adeguato e non evasivo; forme della ripetizione invece che della variatio; linguaggio
nobilmente naturale che fonde letterarietà e popolarità, vuole essere semplice; sintassi quasi sempre diretta e
senza contorsioni; stile nominale ma per amorosa visione del reale percepito come favoloso e naturale.
La poesia dialettale
Uso del dialetto come reazione esplicita alla coeva poesia in lingua, con la tendenza correlativa a proseguire la
lezione della poesia a questa precedente (Pascoli e crepuscolari).
Uso del dialetto che lo purifichi dai suoi tratti vernacolari, i quali, se permangono, permangono a fini
espressionistici.
Nella biografia dei dialettali, appare spesso essenziale la distanza dal dialetto e dalla patria, che consente queste
operazioni.
L’uso poetico del dialetto significa di norma regresso alla madre e anche talvolta polemica culturale.
I maggiori poeti della prima metà del secolo scrivono in un dialetto metropolitano di lunga e solida tradizione
letteraria e di ancor vivo uso borghese. Hanno come interlocutore un pubblico borghese linguisticamente
omogeneo e simpatetico. Questo poi viene a mancare, convertendosi all’italiano regionale o dell’uso medio. I
più recenti poeti dialettali aprono alla vita della poesia dialetti isolati e senza tradizione culturale. Ciò significa
che mentre i poeti del primo periodo agiscono in una situazione di parlato dialettale rassicurante, in quelli del
secondo si accentuano la protesta contro la centralizzazione che mira a distruggere ogni dialetto e la conversione
in liricità.
Tessa: espressionismo, che si spinge spesso ad un uso surrealistico ed onirico del dialetto. Marin: il dialetto può
consentire il minimo di tensione agonistica verso il linguaggio e di sperimentalismo, anzi uno scorrere del
dialetto dolce e sereno; il suo dialetto è limpido, uguale, di lessico limitatissimo proprio perché caccia da esso
il suoi io empirico e vi posa solo il suo io assoluto. Giotti: usa il triestino con un misto irripetibile, ineffabile, di
lirismo e intellettualismo, di mediazione delle forme (assolutizzazione del dialetto); ricchezza lessicale;
Noventa: aristocraticità del veneziano; regresso verso le sfere del materno e di una cultura passata e “altra”, ma
magistrale, in polemica con la presente.
Pasolini: massimo possibile di introiezione del decadentismo in testi dialettali, ma il sapore acerbo del dialetto
nuovo ringiovanisce i miti culturali. Guerra e Baldini: massimo di allusione alla popolarità e al chiuso della
piccola patria, attraverso l’uso ossessivo del monologo interiore, risolto attraverso l’allargamento del quadro
narrativo. Pierro: massimo possibile di introversione e endofasia; egli ricrea nel suo lucano il monolinguismo
della tradizione lirica; la sua lingua è la più lontana dalla lingua nazionale. Loi: capace di narrare la storia; il
suo milanese è personalissimo, gli consente un eccezionale timbro lirico; la vena rammemorativa fa tutt’uno
con l’uso di altri dialetti. Zanzotto: ha sempre represso la dialettalità che era in lui, per lasciarla scorrere solo di
recente in forme “popolari” (autoliberazione in toni “neoclassici”); polarità, non complementarità.
Il secondo dopoguerra
Tre filoni: poeti formatisi all’epoca dell’ermetismo che si sviluppano in modi molto lontani da esso; poeti nuovi;
neo-avanguardia.
Attilio Bertolucci: poetica impressionistica e necessità di “narrare in versi”. Perviene a un linguaggio
fondamentalmente quotidiano ma sempre dignitoso, inquadrato in una metrica irregolare ed elastica
(autobiografismo poetico). Pathos dà luogo a forme di lirismo intenso e ardito. In seguito tenta il “romanzo in
versi”: il poema accoglie termini dei linguaggi speciali, forestierismi, dialettalismi, composti epici, il tutto entro
una metrica irregolarissima, priva di cadenze.
Giorgio Caproni: uso splendidamente manieristico delle strutture tradizionali (sonetto). Da esiti aspramente
idillici a personalmente narrativi, a un accordo spontaneo di “fine” e “popolare”. Elementi realistici con
naturalezza restano sempre in lui, ma accompagnati da punte epigrammatiche. Racconto come monologo, dove
il realismo verbale diventa parola viva di un “personaggio” e si smorza nel fluire del monologo stesso (vena che
viene successivamente meno, in forme neo-ungarettiane).
Vittorio Sereni: si estrania dall’ermetismo. Lessico estremamente vario, grande invenzione stilistica (uso della
ripetizione), in rapporto con la narratività. Successivamente essa si contrae, prevalgono le forme dell’epigramma
intellettuale e della poesia sulla poesia.
Franco Fortini: antiermetico, avvicinamento al neorealismo. Classicismo: arte del mimetismo manieristico e di
contenimento di possibili scivolate di una poesia “ideologica”. Il registro di una poesia può differire da quello
di un’altra, ma al suo interno è unitario; la relativa estensione della gamma lessicale, con forte componente di
lessico intellettuale, è comunque imbrogliata dalla sintassi, complessa e straniante, perché in Fortini, poeta
intellettuale, l’elemento decisivo è la sintassi.
Andrea Zanzotto: prosegue l’esperienza ermetica (con le cifre stilistiche), con successiva maggiore energia
verbale e affacciarsi di un polistilismo di marca intellettuale. La lingua è sentita come qualcosa di transitivo, di
moribondo. Sperimentalismo con risultati affini a taluni della neo-avanguardia: la lingua continua ad essere in
lui espressione. Pastiche dominato dal latino, lingua cerimoniale/mortuaria, tecnicismi, giochi di parole,
accostamenti etimologici, ossimori, balbettii, ardite formazioni delle parole; la grammatica impazzisce. Lo
sperimentalismo si apre ai dialetti e sprofondamento nella lingua infantile, classicizzazione del manierismo,
acuirsi della modernità e di una discorsività più aperta.
Pier Paolo Pasolini: dopo la poesia dialettale e neo-decadente, perviene a fissare la sua maniera più tipica,
tramite l’immissione nel linguaggio poetico di tutti i possibili linguaggi particolari e la nobilitazione di un
discorso “civile”, oratorio e ideologico, per mezzo della forma poetica. Tendenza al plurilinguismo, assunzione
della terzina incatenata (Pascoli) però sfrangiata nelle misure e nell’imperfezione delle rime. Presenza di
elementi a forte caratura letteraria: aggettivazione quantitativamente e qualitativamente cospicua. Nelle ultime
raccolte l’equilibrio viene meno e si afferma la tendenza alla poesia come mero discorso autobiografico o
ideologico, con scarda attenzione formale.
Giovanni Giudici: riaggancio a Saba e al crepuscolarismo (ironia). Lavora per accumulo dei mezzi linguistici,
d’apparenza tradizionale o subpoetica. Ne nasce una sovrassaturazione che produce nel lettore lo stesso effetto
del procedere inverso, cioè un senso di non comunicazione. Manovra con disinvoltura elementi del linguaggio
colloquiale-basso e lavora l’epigramma e il racconto in versi, la filastrocca e la litania.
Neo-avanguardia: Edoardo Sanguineti, Antonio Porta, Elio Pagliarini. Elio Pagliarini: perviene dalla notevole
esperienza intimistico-realistica e poi di realismo sociale, col rilancio del racconto in versi e con la critica dei
generi letterari, notevole la sprezzatura realistica della lingua. Tale sperimentalismo non ha valore espressivo,
ma attraverso l’uso arbitrario della lingua nei suoi vari registri, mimi e distrugga l’uso sociale della medesima
mettendone in evidenza la funzione mistificatoria e alienante, il che comporta una parallela eversione dalle
precedenti tendenze letterarie e della loro pretesa purezza. Questo aspetto si esprime nella poesia aleatoria, nella
divaricazione tra significati e significanti, nell’intralcio alla comunicazione, nei procedimenti di pastiche e
collage. Stratificazione caotica di piani linguistici diversi, sospensione delle convenzioni metriche, sintassi
alogica che spesso si apre in periodi virtuali o macedonia, glossolalia, automatismo procurato, ecolalismo,
iterazione asemantica e tautologia, esaltazione dell’elemento grafico, interruzione o complicazione dei circuiti
informativi e tendenza a scivolare nel ludismo verbale. Istanza poetica del disordine e del caos. Sanguineti tende
ad approfondire gli elementi autobiografico-diaristici; Antonio Porta sviluppa tendenze espressive; Pagliarini
trasforma i collage in pensose modulazioni di parole insigni del passato (conversare nobile).