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DIALETTI D'ABRUZZO

Author(s): Ernesto Giammarco


Source: Lares, Vol. 25 (1959), pp. 355-375
Published by: Casa Editrice Leo S. Olschki s.r.l.
Stable URL: https://www.jstor.org/stable/26239431
Accessed: 30-04-2020 16:55 UTC

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DIALETTI D'ABRUZZO

I- SITUAZIONE DEGLI STUDI DIALETTOLOGICI ABRUZZESI

Nel secolo scorso, sotto l'impulso delle correnti romantiche e posi


tivistiche, con un leggero anticipo rispetto alle altre regioni, nell'Abruzzo
e Molise si sviluppò un moto di ricerche di documenti dialettali. Le zone
più esplorate furono il chietino, il teramano, il molisano e il sulmontino.
L'intento dei raccoglitori fu quello di offrire un materiale prezioso per
successivi studi filosofici, ma essi non nascosero un secondo fine didat
tico, che nasceva dal desiderio di tendere all'unità linguistica della pe
nisola. Il Finamore così si manifestò nell'Avvertenza al suo Vocabola
rio: "L'aiutare a progredire dal dialetto alla buona lingua, — dal no
stro volgare a quell'ideale del perfetto eloquio, che è il toscano, — è
stato il primo movente di questo lavoro" (1). Nell'introduzione alla
raccolta delle novelle, l'illustre folklorista dava il seguente giudizio poco
lusinghiero sulla nostra produzione dialettale: "Era costante convinci
mento che il vernacolo abruzzese, troppo umile, non fosse adatto alla
poesia" (2). Più tardi anche il Croce, parlando di Di Giacomo, ripeterà
lo stesso giudizio, non facendo misteri del suo scetticismo nella bontà
della poesia dialettale. Il Finamore si spingeva oltre proponendo nelle
scuole elementari della regione maestri toscani. Operava in lui la teoria
manzoniana dei ben parlanti fiorentini. È però merito del Finamore aver
iniziato per primo la raccolta di un prezioso materiale con acutezza e
serietà filologica, da meritarsi il più vasto Consenso di studiosi tedeschi.
Consapevole della grande varietà dialettale, più che illustrare la
fonetica, egli si propose soltanto la raccolta del materiale, annotando
marginalmente sviluppi linguistici e semplici idiotismi. Centro del suo

(1) G. Finamore, Vocabolario dell'uso abruzzese, Lanciano, 1880, pag. VII.


(2) G. Finamore, Tradizioni popolari abruzzesi, vol. I, Novell^, Lanciano, 1882.

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lavoro furono Gessopalena e Lanciano; poche volte si spin


l'aquilano e il teramano.
Esplorò quasi contemporaneamente il teramano, G. Savini
volle dar rilievo alla fonetica. Abbozzò inoltre una grammatic
filo della letteratura dialettale teramana. Nella "cicalata" che
al suo studio rileva, al contrario del Finamore, che "noi (abr
volgo o classi civili, ci vergognamo del nostro dialetto"; "at
nità grandissima fra il nostro dialetto e l'italiano classico e
scano, a noi riesce facilissimo il parlare la lingua buona" (3)
D'Ovidio del resto era dello stesso parere: "Nel mezzodì, per
giore affinità di questi dialetti alla lingua colta, le persone p
mente istruite non si abbandonano quasi mai al pretto dialetto o
sporco, come lo chiamano" (4).
Col suo lavoro il Savini vuole studiare "l'intima natura del nostro
dialetto" e non già la sola somiglianza con la lingua generale d'Italia. Egli
pensa inoltre che "il dialetto che parlavano i nostri arcavoli ai tempi del
l'impero romano, era press'a poco questo che parliamo ora noi". Savini
del resto riecheggiava un'opinione del Diez, che fece notare la maggiore
affinità alla lingua latina dei dialetti'd'Italia, in paragone con la lingua
italiana aulica. L'affinità però è solo apparente, poiché l'abruzzese, e in
genere i dialetti del centro-meridione, presenta divergenze fonetiche,
morfologiche, lessicali e sintattiche tali da differenziarlo dalla lingua
aulica, la quale invece deriva da un latino più puro, importato in Toscana
prima ancora della conquista romana del meridione d'Italia.
Il Savini poi rileva le influenze esercitate dagli altri dialetti sul
teramano, tra cui il napoletano, il marchigiano e il romano. È suo co
stante convincimento che le parlate d'Abruzzo si differenzino profon
damente tra di loro. Il Fioravanti, recensendo la monografia del Savini,
definì l'autore "uomo profondo nella materia", ma il giudizio parve ad
altri per lo meno esagerato.
Anche F. Romani si accinse allo studio del dialetto abruzzese col
proposito di avviare gli abruzzesi alla retta parlata con la sua monogra
fia "Abruzzesismi" (5), nella quale vengono castigati e ripresi errori di
pronunzia e idiotismi, corretti secondo l'uso toscano. Il suo gusto filolo
gico e soprattutto poetico lo tenne lontano dalla pedanteria dei puristi.

(3) F. Savini, Grammatica e lessico del dialetto teramano. Torino, 1881.


(4) F. D'Ovidio, Arch. glott. it., vol. IV, p. II, pag. 145.
(5) F. Romani, Abruzzesismi, Firenze, 1907.

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DIALETTI DABRUZZO 357

La sua produzione poetica dialettale infatti segnerà una dat


gimento della poesia dialettale abruzzese.
G. Pansa ci dette pure un saggio sul dialetto abruzzese, in c
gli sviluppi del vocalismo e del consonantismo. La parte più
è quella relativa al lessico dialettale, che è esaminato nel t
ricercare gli etimi delle lingue classiche ( 6 ). Per lo studio dell
è fondamentale la monografia del D'Ovidio; la prima tratta
tica rigorosamente scientifica ( 7 ). Non meno importante è lo
De Lollis, che si estende a tutto il volgare abruzzese e specia
parlata chietina (8). Dietro il loro esempio cominciarono a
diosi, che limitarono la loro indagine filologica su un dialet
sentasse più curiosità linguistiche. Vasto ha avuto così un g
catore del suo dialetto in G. Rolin (9).
Il nostro secolo ebbe in C. De Titta non pur un poeta dia
finissimo gusto, sì anche uno studioso, anche se le ricerche
dotte si limitassero ad alcuni elementi grammaticali. De Tit
per primo il problema della trascrizione dialettale, proponendo
che fosse il più possibile etimologica, mentre il Finamore n
colte dovette di necessità usare la scrittura fonetica. Oltre al tentativo
di una grammatichetta dialettale, De Titta si accinse a scrivere un libro
per gli esercizi di traduzione dal dialetto, secondo le direttive dei pro
grammi del Gentile (10). Perdurava, anzi si rafforzava, il proposito dei
nostri studiosi di tendere ad avviare gli abruzzesi alla lingua nazionale.
Nella prefazione De Titta dice che ritiene utile che "gli alunni passino
dalla parlata goffa e sguaiata del loro villaggio, a una parlata ugual
mente dialettale, ma più evoluta, e da questa all'italiana". Siamo ben
lontani dal comprendere e rilevare una delle più importanti caratteristi
che e ricchezze dell'abruzzese: la sua fonetica, che a suo tempo fu rile
vata dal Pansa, il quale intuì che il nostro linguaggio è una "lunga scala
diatonica".
Primo a prendere le difese del nostro dialetto fu il poeta E. Cam
pana, autore della prima antologia di dialetti abruzzesi (11): "Perdura

(6) G. Pansa, Saggio di uno studio sul dialetto abruzzese, Lanciano, 1885.
(7) F. D'Ovidio, Fonetica del dialetto di Campobasso, in "Arch. glott.", IV,
pag. 145.
(8) C. De Lollis, Arch. glott. it., XII, 26 e in "Mise, ling.", 1901.
(9) G. Rolin, Die Mundart von Vasto, in "Prager deutsche Studien , Vili,
(1908).
(10) C. De Titta, F iure e ffrutte, Lanciano, 1923.
(11) E. Campana, Voci d'Abruzzo, Vasto, s. a. (1914?).

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l'antico pregiudizio che la poesia dialettale — egli dice nella prefazion


abbia certi suoi limiti, come se il dialetto fosse alcunché di vario dalla
lingua, e lingua e dialetto non fossero per l'artista che la medesima
cosa". Anche L. Illuminati alcun tempo dopo si schiera in difesa del
l'abruzzese in una sua conferenza sul teatro dialettale: "Il dialetto non
deve essere concepito come un mezzo deteriore di espressione lingui
stica". Egli inoltre, risalendo acutamente alla natura dei dialetti greci,
esprime questa felicissima intuizione estetica dei dialetti: "Ogni dialetto
ha la sua fisionomia, che è caratterizzata principalmente dal ritmo non
solo musicale, ma prosastico" (12).
Intanto i lavori dei nostri studiosi fecero richiamare l'attenzione dei
filologi nazionali e tedeschi sul dialetto abruzzese. G. Bertoni, basan
dosi sui risultati acquisiti, dette una prima classificazione dell'abruzzese,
che egli stringe alla II zona dei dialetti del centro-meridione d'Italia (13).
W. Meyer-Lübke nella" sua "Grammatica italiana" per primo avanza la
ipotesi che l'aquilano formi parte di un gruppo umbro-romano (14),
mentre il Bertoni parla indistintamente di elementi linguistici che acco
muna l'abruzzese "da un lato al marchigiano e all'umbro, dall'altro alle
Puglie". Anche C. Merlo parla di un aquilano di tipo marchigiano-umbro
romanesco (15).
Le variazioni fonetiche delle nostre parlate sono pure esaminate,
nel quadro dei dialetti nazionali, da G. Rohlfs, nella sua opera, fonda
mentale per la dialettologia italiana (16).

II - ORIGINE DEI DIALETTI ABRUZZESI

La questione che ci poniamo sull'origine del nostro volgare no


intesa, secondo alcuni pregiudizi romantici e positivistici, come un
blema metafisico e naturalistico, ma come un problema storico e crit
Ciò comporta un esame di elementi linguistici, di ambienti e di m
menti di cultura nella loro svariata complessità di condizioni particola
per individuare tutti gli elementi che concorsero alla formazione

(12) L. Illuminati, Teatro Abruzzese, Pescara, 1954.


(13) G. Bertoni, Italia dialettale, Milano, 1916.
(14) W. Meyer-Lubke, Italienische Gramatik, Lipsia, 1890.
(15) C. Merlo, Italia meridionale, vol. I della guida T.C.I. 1926.
(16) G. Rohlfs, Historische Grammatik der Italienischen Sprache und ihr
Mundarten, Bern, 1949.

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divergenze delle varie parlate dell'Abruzzo. Allo stato attuale degli


studi dialettologici abruzzesi, ai quali pochi animosi ormai si dedicano, è
difficile rintracciare tutti gli elementi formativi del nostro volgare. A
ciò si aggiunge un'errata impostazione metodologica di ricerche e di
svolgimento, la quale si è orientata verso una geografia linguistica,
anziché verso una geografia storico-culturale (17).
Delle due stirpi di popoli indo-iranici (in cui gli etnologi dividono
gli antichi abitanti del tronco centro-meridionale della nostra penisola),
l'odierno Abruzzo segnava la linea di demarcazione fra le stirpi osco
sabelliche — le quali si estendevano dal Bruzzio alla Campania e al
Sannio, — i Sabini — affini ai Latini —, i quali nascevano di sotto
L'Aquila, diramandosi verso ovest, e gli Umbri, che avevano origine un
po' di sopra L'Aquila, estendendosi verso Nord. Nulla o quasi possiamo
conoscere del linguaggio delle genti mediterranee, che abitarono la no
stra regione prima che esse fossero sovrapposte dagli Italici: Frentani,
Peligni, Marsi, Marrucini, Equi, Vestini, del nucleo sannitico (Fren
tani), o sabellico o sabino gli altri. Se i popoli sabellici ci fossero più
noti forse potremmo arguire che tra essi intercorrevano, nella nostra re
gione, affinità etniche e linguistiche più strette di quelle che intercorre
vano tra ciascuna di esse e l'altra gente di stirpe indoeuropea. Note
remmo inoltre le differenze tra l'uno e l'altro linguaggio, le quali sono
certamente spiegabili in genti che abitano tra i monti, o in riva al mare,
o lungo i fiumi, in centri urbani o campestri. Dalle preziose, ma scarse
testimonianze, pare certo che fra i tre gruppi degli idiomi italici, il latino,
l'osco, l'umbro, le parlate abruzzesi si stringessero nella famiglia osco
umbra.
Queste popolazioni non ebbero mai coscienza della propria apparte
nenza ad un unico ceppo. Dopo la guerra che ebbero con i Romani i San
niti (343-283) furono assimilati dai vincitori per l'energia espansiva di
Roma, che si impose per la forza e per il prestigio del suo popolo; da
essi accettarono lingua, leggi e istituzioni. Anche ora non possiamo sa
pere fino a che punto e a che grado i Sabini e i Sabelli assimilarono la
civiltà romana, nè viceversa fino a che grado essi coadiuvarono con le
loro particolari tendenze alla diffusione della lingua latina, fissando in
dubbiamente alcune caratteristiche idiomatiche, le quali frazionarono in
molti atteggiamenti e flessioni fonetiche, grafiche e grammaticali, la
lingua di Roma.

(17) S. Pop, La dialectologie - Aperçu historique et methodes, Gembloux, Bel


gio, 1951.

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Risulta così errata l'ipotesi di coloro, come il Savini e il Finamore,


che pensano che l'abruzzese sia molto più affine al latino che non il
toscano. È vero invece l'opposto. Infatti, mentre il latino era più affine,
— s'intende non quello letterario o classico, ma quello volgare o prero
manzo, il latino parlato, quello appunto vivo vario mutevole, con vocaboli
e costruzioni soggetti a subire influssi e modificazioni —, alle parlate sa
belliche, non lo era certamente con l'etrusco, il quale, per essere un
linguaggio distinto dal latino, meno si prestava alle assimilazioni. Inol
tre bisogna tener presente anche questa circostanza storica: che la con
quista etrusca precede le conquiste di Roma nel meridione e la discesa
delle stirpi italiche nel Lazio, che "segnarono la parlata latina di vena
ture dialettali osche, umbre, sannite di cui non serba riflessi il toscano
così limpido e cristallino, come avviene invece nell'Italia centro-meridio
nale (quannu, quando; jamma, gamba; varva, barba) (18).
La causa del frazionamento linguistico deve essere ricercata nelle
condizioni di vita e principalmente nella difficoltà di accesso dei luoghi
di dimora, che non permetteva a queste genti facili contatti. Questa
difficoltà di accesso^sarà una prova della maggiore purezza della nostra
stirpe e del nostro linguaggio. Comunque bisogna ritenere che le popo
lazioni sabelliche costituissero l'epicentro del fenomeno linguistico, anche
se oggi l'Abruzzo risulti formato da gente di stirpi diverse,

III - FORMAZIONE DEI DIALETTI ABRUZZESI

È difficile poter stabilire se alcuni termini che persistono anc


nel nostro dialetto siano di origine mediterranea o italica. Indagi
tal senso non mi risultano che siano state condotte nella nostra regio
L. Mascetta (19) tentò un esame glottologico con speciale riferimen
l'Abruzzo, pubblicando i suoi risultati nella Rivista Abruzzese, d
do un saggio. Egli pensa che vrènna derivi dal celto bran pula, dia
crusca; hulia-vulia (lesina) dall'antico italico "agulia"; andt' affin
sanscrito ""antara", got. "anthar". È certamente italico il termine pès
pietra), di cui si trova traccia in molti nomi di paesi della re
( Pescocostanzo, Pescosansonesco ).
Di sicura ragione italica è il fenomeno assimilante dell'n: nd in
dell'm: mb (mv) in mm; mj in nn (véllènne, vennène: vendemia

(18) G. Bertoni, Profilo linguistico d'Italia, Modena, 1940, p. 16.


(19) L. Mascetta, Note glottologiche con speciale riferimento al dial. abr
"Riv. Abr.", a. VI, fase. IX-X, 1891.

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(br~) in v- (vr) (vracce, vokke); rb in tv (varve, barba); sv in sb; dv


in bb (abbellà - advelare); bj, vj, in g g o //'; pj in cc; ng, ngl in n; di pi
in kj (Kiù, Kiazza, piata).
Il lessico abruzzese, è naturale, risulta nella sua massima parte di
elementi latini. Siamo però propensi a credere che questi elementi ci
siano pervenuti, almeno allo stato attuale, non tanto dal latino della
colonizzazione romana, quanto dal latino ecclesiastico. Un'indagine in
tal senso potrebbe dare positivi risultati. Il dubbio ci sorge dal fatto che
le nostre genti abbiano dato alla lingua latina più di quello che non
abbiano ricevuto. I romani del resto reclutavano ben volentieri soldati
tra i Peligni e i Marsi principalmente.
Caduto l'Impero Romano nella nostra regione presero fisionomia le
diverse parlate, seguendo l'influsso delle regioni e dei popoli, verso i
quali si orientò la regione, la quale si è orientata sempre in direzione
sud-ovest-est. Soltanto così può spiegarsi la presenza di molti termini
di certa derivazione greca (20), araba, germanica, francese e spagnuola.
La costa adriatica in modo particolare fu spesso teatro di incursioni sa
racene e di contatti commerciali con albanesi, neolatini orientali, slavi e
greci. Albanesi di origine sono gli abitanti di Villa Badessa.

IV - PLURALITÀ E UNITA DEI DIALETTI ABRUZZESI

È opinione assai accreditata che i dialetti abruzzesi siano di


nici, ossia manchino di omogeneità, per cui sia molto azzardato
di un dialetto comune a tutti. Già N. Castagna (21) scorgeva ne
ralità un fondo comune: "In Abruzzo.... tanti dialetti, quanti son
ghi della sua regione, tutti però con la fisionomia comune abruz
riconoscersi ognuno come figlio legittimo della stessa madre pel seg
fronte della medesima famiglia" ..."Dentro a questo dialetto pa
tempo e le varie dominazioni hanno qua e là introdotto alcun c
loro aggravamenti, ma tutto è visibile e riconoscibile e vi rimane in
fine come data storica". Perciò il Castagna pensa che "ogni dial
insieme poetico, storico e archeologico".
Savini invece è convinto non della varietà, ma dell'assoluta diffe
renza dei vari vernacoli abruzzesi, poiché per lui è assurdo parlare di

(20) G. Pansa, op. cit.


(21) N. Castagna, II dialetto abruzzese nella Divina Commedia, in "Riv. Abr. »
a. VI, fase. XI, pagg. 510-515 e 574-587.

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un dialetto abruzzese che non esiste, tanta essendo la diversità tra pro
vincia e provincia". A questa conclusione egli è pervenuto dalla consta
tazione che "moltissime parole di un dialetto abruzzese non si intendono
affatto da un altro abruzzese abitante una regione poco distante da
quella" (22). La stessa tesi è condivisa da A. Cianciosi, il quale, recen
sendo i Proverbi vastesi di L. Anelli, afferma: "Per la fonetica, il dia
letto vastese è tanto diverso dal chietino, dal teramano e dall'aquilano,
ch'io mi ostino a ritenere che un vero ed unico dialetto abruzzese non
esista, a guisa del pugliese, del napoletano e del calabrese" (23). Anche
R. Petrilli è della medesima opinione: "Alcuni vorrebbero ridurre ad
unica dizione il dialetto abruzzese, lo che facendo si serve ad idee pre
concette, perchè il nostro dialetto varia da villaggio in villaggio" (24).
F .Masci infine parla anch'egli dell'impossibilità di affermare che esista
un unico dialetto, perchè "non ancora è un dialetto letterario nel vero
senso della parola. Manca un centro che lo imponga a tutta la regione,
come Torino, Napoli, ecc. (25).
Così scriveva il Masci nell'anno in cui C. De Titta dava alle stampe
il suo primo volume di "Canzoni abruzzesi" (1919), favorevolmente
recensito dalla stampa nazionale (26), e alcuni anni dopo la comparsa
delle poesie di E. Cirese (1910) e di A. Luciani (1913), così entusia
sticamente accolto quest'ultimo da d'Annunzio, e creatore di una Koiné
abruzzese.

Intanto i filologi si dedicavano a rilevare le differenze fonetiche,


per classificare l'abruzzese tra i gruppi dialettali italiani. Il Meyer-Lü
bke, citato dal Pullé (27) separò dal rimanente gruppo linguistico abruz
zese, che gli si presentò omogeneo, l'aquilano, che strinse in un gruppo
aquilano-umbro-romano: "Una posizione speciale tiene l'aquilano, che
geograficamente vedemmo assegnato fra i dialetti meridionali dell'A
bruzzo ulterione II, ma che linguisticamente il Meyer-Lübke stringe in
un gruppo aquilano-umbro-romano". G. Bertoni (28) assegna l'abruz
zese alla famiglia dei moderni dialetti del centro-meridione. Secondo
questa partizione, l'abruzzese occupa la zona centrale (II zona) , insieme

(22) G. Savini, in "Riv. Abr.", fase. IX-X, a. VIII, 1893.


(23) A. Cianciosi, in "Riv. Abr.", a. XIII, 1898, pag. 39.
(24) R. Petrilli, in "Riv. Abr.", a. XXV, 1910, pag. 143.
(25) F. Masci, in "La Fiaccola", Ortona, apr. 1919.
(26) "Corriere della Sera", 16 giugno 1919.
(27) Pullé, Italia: genti e [avelie, Torino, 1927.
(28) G. Bertoni, Italia dialettale cit.

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DIALETTI D'ABRUZZO 363

con il lucano, il pugliese settentrionale, il campano e il molisano, e si


viene a trovare tra il siciliano il calabrese e il pugliese meridionale (I
zona), e il laziale, l'umbro e il marchigiano (III zona). La nostra zona,
secondo il Bertoni, "ha come carattere saliente lo scadimento di tutte le
atone finali in una vocale indistinta, che può essere rappresentata da
shwa o e muta. In genere il vocalismo atono si affievolisce in diversa
misura anche in sillaba non finale ". L'aquilano invece è conservatore
ed ha le vocali protoniche e finali atone piene e non ammutolite. Altro
carattere distintivo dell'aquilano dalla II zona è il tipo diverso di meta
fonesi: napoletano e arpinate nell'Abruzzo in genere, ciociaresco nel
l'aquilano. Si attiene più o meno a questa classificazione anche il Merlo
(29) : "L'aquilano e, in genere, le varietà parlate nella provincia di
Aquila entro i confini dell'odierno Abruzzo, sono di tipo marchigiano
umbro-romanesco. Come ai dialetti delle Marche, dell'Umbria e della
Campagna romana, così all'Aquilano mancano vocali indistinte. Invece
nei dialetti delle province di Teramo e di Chieti le vocali fuori d'ac
cento hanno perduta ogni vivacità di colore.... Nell'Abruzzo il confine
tra la regione delle vocali distinte è definito nettamente in un solo
punto, là, dove si innalza la mole imponente del Gran Sasso: Paganica,
sulle pendici meridionali, è schiettamente aquilana; Castelli, Isola, Col
ledara, sulle settentrionali, sono schiettamente abruzzesi". Facciamo
notare che, quando si parla dell'aquilano, si suole comprendere anche
il territorio della Sabina, che venne a far parte nel 1926 della nuova
provincia di Rieti, passata poi nel Lazio, e si suole escludere il territo
rio peligno, subequo, marsicano e sangritano, che attualmente fa parte
della provincia dell'Aquila, ma che linguisticamente presenta caratteri
stiche più affini al rimanente Abruzzo e Molise.
Cade così la tesi di coloro che affermano la disorganicità dei dia
letti abruzzesi, i quali invece, pur nelle loro varietà fonetiche, sono ar
monici, cioè hanno un fondo comune e un'unica origine. Anche l'aqui
lano, d'altronde, nella massima parte del suo lessico, risulta degli stessi
elementi dialettali delle altre zone. Un tratto dell'aquilano p-fl che si
sviluppa in kj, es. Kiù da Plus e l'assimilazione di n e di m in nn e mm
sono di per sè elementi sufficienti per non distaccare l'aquilano dai
dialetti del centro-meridione e dalle zone dialettali abruzzesi. Anzi
l'Aquila, Teramo, Chieti e Soça possono costituire una linea linguistica
che segni il limite settentrionale dei dialetti del centro-meridione (30).

(29) C. Merlo, Italia meridionale, vol. I della Guida del T.C.I., Milano, 1926.
(30) G. Bertoni, Profilo, p. 58.

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364 ERNESTO GIAMMARCO

Questo fenomeno linguistico si attuò, attraverso i secoli, i


ritorio che si estende dal mare ai monti, seguendo il corso d'u
le cui vallate hanno sempre offerto benessere e ospitalità. Alla b
della diversità delle parlate si coglie un fondo comune, in c
rilevare il gusto della personalità e del carattere degli Abruz
Del resto gli studiosi affermano che un'altra prova della
origine dei nostri dialetti può essere data dalla possibilità d
zione delle grafie. Queste somigliano e documentano il comune
I dialetti abruzzesi quindi hanno un'origine linguistica comune, u
comune. La loro varietà, che poi risulta in atteggiamenti fon
una differente combinazione dei segni rappresentativi di queste,
gata e giustificata dalla diversità dell'ambiente e dall'influsso
citarono i contatti che la nostra gente ebbe con le regioni finitim
la zona del Sangro e del Vastese ha una venatura di napoleta
marsicana e amiternina di romanesco, che si spegne dinanzi a
montagnoso che immette nel versante adriatico, il quale ulti
nedetto e Vasto, si colora di albanese, e la fascia costiera del saraceno.
Vi è però una zona che, avendo creato un suo dialetto, l'ha con
servato e lo conserva tuttora integro e limpido, per la sua privilegiata
posizione quasi centrale dell'Abruzzo. Questo centro è la provincia di
Chieti, cui si aggiungono il circondario di Penne e qualche altra parte
della regione meno esposta o più refrattaria a subire infiltrazioni ete
rogenee.
Nel numero doppio della " Zeitschrift für Romanische Philologie",
pubblicato da G. Gröber (XXIII Band. 1.2 Helft. 1899) comparve un
notevole studio di V. De Batholomaeis intorno alla "Lingua di un rifa
cimento chietino della Fiorita d'Armannino da Bologna". Si tratta di
un documento assai prezioso dell'antico volgare chietino ed essendo
l'unico esistente e conosciuto esso assume un valore singolare per la
storia dei dialetti d'Abruzzo. Il rifacimento fu scritto nel 1418 "in civi
tate Thetis", da un chietino del sec. XV. Il linguaggio in cui è dettato
suggerisce che lo si adoperi con cautela, perchè esso non è costituito
dal solo volgare chietino, ma pure da altri elementi più antichi, sui quali
si è venuto a sovrapporre il dialetto del traduttore. Gli altri elementi,
di cui si fa cenno, sono l'italiano letterario e un dialetto dell'Italia supe
riore, che il De Bartholomaeis ravvisa nella sezione veneta. Le princi
pali parole in vernacolo chietino sono: issi, garzuni, porristi (potresti),
callara, mustrò, prêta, sblandore (splendore), loco (illoc), longo, adure
(odore), criatore, pajese, autro (altro), lemósene, pagura (paura), ado
nare (accorgersi).

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dialetti d'abruzzo

Chieti inoltre è stato un centro di manifestazioni folcloristiche e di


produzione dialettale. Infatti fin dal 1835 s'incontra in questa città un
periodico letterario scientifico, tra i primi della regione, se non proprio
di tutto il meridione, intitolato "Giornale Abruzzese", edito prima in
Chieti e dopo, trasferitosi a Napoli il suo direttore, ha continuato ivi con
il medesimo titolo per i tipi di V. Raimond. In tal periodico, nel 1844,
vol. XXIII n. 19, P. De Virgilii, suo direttore, pubblicò un "saggio di
dialetto abruzzese", dialogo tra un padrone e il suo servitore, in to
scano e abruzzese, lavoro che doveva far parte di una compilazione sui
"Dialetti d'Italia", ideata da A. Zaccagnini-Orlandini e da servire di
esemplare di dialetto abruzzese. Nella nota introduttiva l'autore così si
esprimeva: "Il dialetto nel quale abbiamo tradotto il dialogo toscano è
meramente chietino, innestato a qualche modo singolare de' suoi dintorni
e provincia, stimando esser questo il tipo del verissimo dialetto abruzzese
sì perchè originario, e sì perchè, essendo la chietina regione nel cuore
degli Abruzzi, non è stata sì facilmente corrotta o temperata nel suo
dialetto da straniere influenze, siccome è avvenuto dell'aquilana e della
teramana, confinanti con la romana e con la marchigiana" ( 31 ).

V - PROFILO DI STORIA
DELLA LETTERATURA DIALETTALE

Una storia della letteratura dialettale abruzzese non può pre


dere dalla questione dell'omogeneità dei sottodialetti e da quella
origini. Il dialetto aquilano ha indubbi elementi che lo accost
gruppo umbro-marchigiano-romanesco, ma ad un tempo contie
menti di carattere italico che lo accostano ai dialetti del centro-meridione
e perciò ai dialetti d'Abruzzo. Inoltre su un piano rigidamente storio
grafico non si può ignorare che L'Aquila e il suo contado e tutta la
vallata del Velino, ossia la Sabina, hanno fatto parte dell'Abruzzo per
secoli, anche se oggi la Sabina, sia staccata dal territorio abruzzese ( 32 )
La storia dei dialetti inoltre deve necessariamente escludere quella
produzione volgare che fiorì prima del sec. XV, poiché il termine dia
letto anche se glottologicamente sia un linguaggio autonomo, che non
patisce limitazioni, nè qualificazioni, ha nei confronti della lingua nazio

(31) A. Zaccagnini-Orlandini, Raccolta di dialetti ital.. Tofani, Firenze, 1864;


ripubblicato in T. Marino, Francavilla nella storia e nell'arte.
(32) E. Giammarco, "Controvento", a. IX, n. 1, gen. 1957.

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366 ERNESTO GIAMMARCO

naie o eulta un rapporto storico. Ossia non si può concepire u


se non sussiste una lingua nazionale, per cui i volgari d'Italia
la qualifica di dialetti sol quando essi furono sopraffatti da
volgare che si impose come lingua ufficiale o letteraria. Qu
meno si verificò in Italia col toscano, che riuscì ad imporsi come
gio culto grosso modo nel '500 (33). Perciò la letteratura lau
sacre rappresentazioni abruzzesi non possono considerarsi le
dialettale.
Il primo documento di letteratura dialettale abruzzese che si conosca
è il* "Rifacimento" in dialetto chietino della "Fiorita" di Armannino da
Bologna. Il testo pare del sec. XIV secondo alcuni, del XVI secondo
altri. Il linguaggio dettato da un traduttore chietino non è costituito
dal solo chietino, il quale venne a sovrapporsi all'italiano letterario e
al veneto (34). Il "Rifacimento" non ha alcuna importanza letteraria,
come è ovvio, ma ne riveste una importantissima per la conoscenza del
volgare.
Il primo periodo della letteratura dialettale abruzzese, che chiame
remo delle origini, ha inizio con una produzione di tono realistico e ri
danciano e si modella sulla poesia italiana eulta dell'epoca, ' di cui rap
presenta la degradazione e la contraffazione. I poeti dialettali attribui
scono al volgare solo possibilità espressive ridotte al riso o alla carica
tura, una poesia insomma minore.
È possibile far coincidere le origini della poesia dialettale abruzzese
con l'attività poetica di Loreto Mattei (1622-1705), nato in Rieti e
morto a Roma. Poetò anche in lingua e il Tiraboschi, parlando di lui
nella sua letteratura, lo definisce uno dei primi arcadi. La sua fama però
è raccomandata ad una raccolta di 58 sonetti in vernacolo reatino, rima
sti inediti fino al 1827. Il suo poeta preferito fu il Berni dei "Capitoli",
che egli imita con una certa originalità e buon gusto. Il tono è quindi
bernesco e di un sapore piacevole, anche se non proprio salace.
Il secondo poeta, in ordine cronologico, è Romualdo Parente (1735
1831), anch'egli arcade, autore di canti sacri e di un poemetto in dia
letto scannese, diviso in due parti: "Zu matremonio azz'uso", in 57
stanze, e "La fijjènna de Marijèlla" in 16 stanze (Napoli 1780). La prima
parte del poemetto tratteggia con fine umorismo un matrimonio scannese
dalla levata della "zita", alla cerimonia in chiesa, al corteo nuziale e

(33) M. Sansoni, Questioni di letteratura italiana, Milano, vol. II, p. 262.


(34) V. De Bartholomaeis c.; "Riv. Abr." c.; "L'Abruzzo" c.

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DIALETTI D'ABRUZZO 367

ai due pranzi. Nella seconda parte invece il poeta ci fa assistere ad un


parto. La prima parte è veramente bella, poiché il poeta doveva posse
dere indubbie doti di squisito letterato e di discreto conoscitore dell'ani
ma popolare. Le ottave del Tasso sono state ben presenti allo scannese,
che tratta i suoi versi e il suo linguaggio con molta disinvoltura. È un
poemetto pertanto scherzoso, che, insieme con i sonetti del Mattei, do
cumenta la comune tendenza dei dialetti a modellarsi su la poesia nazio
nale, di cui rappresentano l'abbassamento.
Nell'ultimo cinquantennio dell'Ottocento, accanto alla raccolta dei
nostri folkloristi di documenti di poesia popolare, fiorisce una letteratura
personale, che ha tutta l'aria di assumere un tono dimesso, circoscritta
dall'angolo municipale; una poesia di occasione, che vive soltanto di un
momento e che si definisce in una breve macchietta. Questi poeti, non
ancora convinti delle possibilità del loro linguaggio, si limitano al col
loquio popolare, alla battuta spiritosa, e a volte anche ad un genere rea
listico. A sua volta la poesia popolare anonima dei canti offre una ric
ca tematica, che va dall'amore, che è gioia o pianto o più spesso sdegno,
al canto fanciullesco, allo scherzo salace e realistico, ai sentimenti reli
giosi. Il loro linguaggio accusa un'evidente origine eulta, su cui il vol
gare ha lasciato appena una velatura. Essi non sono distinti, nè per temi,
nè per ispirazione ai tanti canti popolari, comuni in tutti i dialetti della
penisola. La produzione migliore e più originale e più indicativa è quella
che prende a soggetto la Passione, la vita dei santi o qualunque altro
sentimento religioso, che rivela una nota caratteristica della letteratura
abruzzese, che influirà sui poeti posteriori.
A cavaliere tra l'ultimo cinquantennio del sec. XVIII e il primo del
XIX, poetò l'arciprete Mascetta di Colledimàcine. Uomo d'ingegno e
di cultura, ebbe facile vena dei motti arguti e dei versi faceti. Di lui si
legge con piacere "La lamènde de 'na véduve", vivace per brio e spon
taneità. Tito di Biasio di Civitella Casanova si fa apprezzare per una
sua lirica mossa e vivace, d'intonazione, s'intende, popolare: "La guelè
de je marète". Pietro Marcozzi fu il primo verseggiatore teramano e
uno dei primi dell'Abruzzo. Di lui, morto nel 1840, si ricorda un sonet
to (1816), scritto in occasione della comparsa d'una cometa di straordi
naria grandezza. Suo contemoraneo fu Nicola di Palma, anch'egli te
ramano, che compose uno scherzo sul Capitolo Aprutino ( 1820 ). Orazio
Delfico (1835) tentò la prima commedia dialettale abruzzese, "Il medico
sensale di matrimoni", priva di interesse artistico, ma prezioso documento
linguistico. Egual giudizio negativo si può formulare per Federico Pensa,
autore di un sonetto, "San Brà" (1855). Luigi Brigiotti ( 1859-1933)

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368 ERNESTO GIAMMARCO

passa per il "poeta teramano" per antonomasia, accolto nell'antolo


Tosti, per la sua lirica scherzosa "La Torre de lu Ddome" (1906)
presenta una certa disinvoltura. Si fanno ammirare per immedia
incisività espressiva Giuseppe Paparella (1835-1895) di Tocco
sauria per il suo "Brindese de nu cafuène" (1855), ricco di tinte,
vernacolo festoso e musicale, tra le più belle espressioni dell'ani
popolano, Ermindo Campana di Palena per la popolarissima
lenda", gaia e festosa, Vincenzo Ranalli, compreso dal Tosti nel
raccolta, di Città S. Angelo (1870-1931) per un originale tono am
e Luigi Renzetti di Lanciano, poeta qualche volta romanticamente isp
Un più ampio discorso meriterebbe Luigi Anelli (1860-19
Vasto, tipografo, archeologo, storico e poeta del suo paese. La
colta "Fujj ammèsche" di 40 sonetti (1892), che ebbe una segnal
d'onore dall'allora ministro Boselli, trae ispirazione da figure e
popolani e popolane, di scene e figure tipiche. Il suo orizzonte non s
oltre la cerchia municipale, anche se egli dimostri una certa felic
Fece rappresentare due commedie in un atto: "Créste gna vàite
pruvàite" (1894) e "A ch'attocch'attocche" (1896). Nella schi
così numerosi poeti non ci è dato cogliere una figura rappresen
Essi sono stati citati più per un documento letterario, che per u
intrinseco valore artistico. Non si sono avuti tra noi nè un Porta, nè
un Belli. La nostra poesia vernacola ottocentesca è assai povera di temi
e manca di vasto respiro.
Una prima prova positiva ci è offerta da Fedele Romani, nato a
Colledara (Teramo), nel 1855 e morto a Firenze nel 1910, spirito origi
nalissimo, oltre che professore e critico insigne. Scrisse in dialetto col
ledarese "Li sunètte" (Ancona 1883) e in quello teramano "Ddu ottàve
e ttre ssunètte" (Teramo 1883) .11 suo vernacolo è il puro e primitivo
linguaggio dei contadini, immune di italianismi e di traspirazioni lettera
rie. È poesia gentile e affettuosa, che svolge temi di sentimento familiare
e di galante amore. L'asprezza rude e quasi montanara di suoni e di
forme è indice di sincerità e d'ispirazione. Con la sua produzione, ispi
rata esclusivamente per un esercizio filologico, egli addita nuove possi
bilità poetiche del nostro dialetto. La novità decisiva consiste appunto
nell'equilibrio stilistico, che si sviluppa e si traduce nella evocazione mu
sicale di limpidezza spaziale e di limpido candore.
La seconda stagione dialettale abruzzese è caratterizzata dalla com
parsa di tre poeti: Eugenio Cirese (Fossalto 1884 - Rieti 1955), Alfredo
Luciani (1887) e Cesare De Titta (1861-1933). La loro produzione si
aggira tra il '10 e il '29, pur non escludendo un periodo successivo,

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DIALETTI D'ABRUZZO 369

specialmente per i due primi. La prima opera, del Cirese è del '10, "Sciure
de fratta", quella del Luciani, "Stelle lucende", del 13 e "Canzoni abruz
zessi" del De Titta del '19.
I tre poeti si muovono, con diversa indole, ma con eguale impegno
di interessi poetici, nel quadro di una poesia dialettale che presuppone
un fondo di popolarità. Il linguaggio non costituisce per essi, come per
F. Romani, uno strumento espressivo da usarsi con criteri filologici e
fonetici, ma un mezzo di raggiungere l'arte, I tre poeti infatti hanno co
scienza della validità artistica del dialetto. È per essi un linguaggio auto
nomo che non patisce limitazioni espressive. Essi però giungono al dia
letto attraverso la poesia classica e letteraria, non per un richiamo spon
taneo, anche se sincero, di una lingua e di un mondo al loro stato primi
tivo. I versi di Luciani e di De Titta possono essere tradotti con la me
desima sintassi verbale e fonetica italiana. Perciò la loro arte si sviluppa
in una zona intermedia tra il dialetto e la lingua, tra l'immagine e l'ac
cento dialettale. Soltanto in Cirese per effetto di una sempre più stu
diata aderenza al mondo e alla mentalità primitiva del popolano, il dia
letto, in alcune delle sue migliori liriche, si fa diretto e assorto.
L'Abruzzo e il Molise non compaiono topograficamente determinati
e definiti, nella loro geografia ed etnografia. È un Abruzzo visto e can
tato da letterati, che presumono di elevare nella sfera del mito una re
gione, immaginata ancor primitiva, con il nobile intento di pervenire ad
una specie di mistica, la quale esalti lo spirito di rassegnazione, lo stato
di indigenza, l'attaccamento alla terra, la religione paganeggiante e su
perstiziosa, ma sincera, il costume atavico. Il popolano abruzzese è col
locato fuori della società e della realtà contingente o storica. Perciò il
loro canto non può essere corale, ma monodico, non collettivo, ma sog
gettivo, non immediato, ma riflesso.
I tre poeti hanno un precedente schema di poesia: Di Giacomo per
Cirese, D'Annunzio minore per Luciani, Pascoli per De Titta. Il Di
Giacomo detta ai dialettali il suo canto monodico, D'Annunzio crea
l'immagine di un Abruzzo sensuale e primitivo, Pascoli forgia lo stru
mento espressivo più conveniente ad una supposta immediatezza d'arte
propria dei volgari.
In Cirese coesiste fin dalle prime prove un interesse per la regione,
non avendo ancor egli superato il concetto che la poesia dialettale debba
essere necessariamente popolareggiante. Il mondo è quello della sua
gente, ma visto con l'occhio del letterato. Il dialetto rimane come sustrato
idiomatico. Il Cirese raggiunge la sua perfezione stilistica con una felice
vena melica, la quale, negli ultimi anni, si spegne per dar luogo ad una

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370 ERNESTO GIAMMARCO

mistica, in cui il poeta tende alla immediatezza espressiva con una n


poetica: il senso dell'immobile e dell'eterno (Niente, 'N eterne).
Luciani inizia la sua attività con il proposito di creare la ling
teraria dialettale: "Sintesi ideale e istintiva, fatta di saporosità p
sima e di una certa aristocrazia verbale di elezione". Infatti in
elevazione del dialetto a letteratura con alessandrina raffinate
colloca la sua arte. Molto ha operato in Luciani la produzione re
dannunziana. Il poeta si scopre già per un meridionale fin dai v
"Stelle Lucende": passionale .espansivo, gioioso e malinconico. Il
idiomatico e folkloristico costituisce anche per lui un pretesto di po
che egli svolge su un piano di finezza formale e letteraria. Il suo son
modella sull'onda petrarchesca, anziché sull'assorta condizione de
della Vita Nuova. Dopo la morte del figlio Minguccio (1924) al
accostatosi ad un più vivo sentimento religioso, parve dare un
avvio alla sua produzione, ma svolgimento non vi fu, poiché n
pravvenne una evoluzione poetica. Dalla poesia paganeggiante a
religiosa non si avverte che un mutamento di materia, non cert
guaggio. Permane la visione di un Abruzzo indistinto e indeterm
non si creano definite figure umane, ma soltanto tipi ispirati più o
dal reale, senza il soffio dell'ispirazione. Il poemetto Tatone M
documenta le capacità poetiche del Luciani, ma ne segna anche i
Il meglio della sua produzione si scopre in quei componimenti
felice ispirazione, la quale stilisticamente è sempre felice.
Quel sensualismo del poeta meridionale, già scoperto nei com
menti giovanili, pervade, nè si attenua, le liriche d'intonazione reli
così che la poesia potrebbe definirsi un atto di donazione e di o
la quale mai assurge nella sfera della fantasia, del sogno e d
canto. L'accademismo letterario accentua quel vizio di italianit
porta la poesia dialettale a non più distinguersi da quella in ling
Anche De Titta credette con le sue "Canzoni Abruzzesi" che la
poesia vernacola consistesse nella rielaborazione di canti popolari. Le
sue due prime raccolte contengono la stessa materia e la medesima in
tonazione, già viziate dalla cultura e dallo stilismo.
Da De Titta il folklore e il dialetto furono assunti come elementi
estetici, per cui la visione dell'Abruzzo ci appare fasciata di una luce
mistica, più che mitica, nel desiderio di esaltare un popolo che, nella sua
indigenza e povertà e spirito di rassegnazione, fosse riscattato per virtù
di poesia. Nel secondo gruppo di poesie "Gente d'Abruzzo" del '23 e
"Terra d'oro" del '25, la materia s'innalza per cogliere figure e tipi
rappresentativi di un popolo. Migliore indubbiamente è "Terra d'oro",

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DIALETTI D'ABRUZZO 371

dove pare si esaurisca tutto il po'eta, poiché nella successiva raccolta


"Acqua, foco e vento", il tentativo di trarre da un supposto mito o
da immaginate leggende e credenze materia di poesia, che desse della
vita una visione cosmica, non è sostenuto nè dalla fantasia, nè dal
linguaggio.
De Titta indubbiamente intuì le capacità espressive del dialetto,
spontaneo e immediato, e il candore della poesia popolare. Su di lui
influì Pascoli, che, respinto dalla critica ufficiale di Croce, della Ronda
e della Voce, trovava larga simpatia tra i dialettali, dove sembrò meglio
inteso il nuovo linguaggio nomenclatore che il poeta romagnolo attin
geva dal linguaggio popolare.
Quel sensualismo, di cui è pervasa la poesia di Luciani, in De Titta
si attenua, mercè quel candore e quella ingenuità, di cui il poeta ha
voluto rivestire i suoi canti. Forse il filone migliore della vena poetica
di De Titta sarà da rinvenirsi nei momenti in cui, dimentico del suo pro
posito manifesto di esaltare un supposto paesaggio regionale, il poeta si
abbandona nel ricordo di fatti personali, rivissuti attraverso il filtro della
fantasia e del sentimento. Altre volte ci accadrà di imbatterci in stupendi
paesaggi, fasciati di una luce dorata, in delicate descrizioni di nature
morte, in fervide figure di donne, animate dalla forza giovanile della
loro femminilità.
All'ombra di questo primo grande frutto della poesia abruzzese, fio
riva la tradizionale poesia popolare o di derivazione popolare. Umberto
Postiglione di Raiano (L'Aquila), morto nel 1924, spirito solitario e
melanconico, tentò una specie di poesia leopardiana in tono minore nelle
sue otto liriche, le quali però rimangono nel tentativo di elevare il sen
timento nella superiore sfera del patetico. Modesto Della Porta invece
è divenuto il più popolare dei nostri dialettali. Nato a Guardiagrele,
esercitò la professione di sarto, ma ebbe ingegno acuto e squisito buon
senso. Nella sua prima raccolta "Tapù" egli sa immedesimarsi non pur
in un popolano parlante, ma intuisce la fenomenologia popolare. Non
è quindi la sua poesia una "satira conoscitiva", come da qualche parte
si giudica, alla maniera di Giusti, ma è la più genuina espressione di
sentimenti e di psicologia del popolano e non oltrepassa i limiti di un
più profondo e universale dolore. Il suo tono poi è declamatorio; infatti
le sue poesie hanno bisogno della dizione per avere e ricevere il loro più
significativo valore. Nella seconda raccolta "Poesie inedite" qualche li
rica, per es. "La novena di Natale", annuncia una nuova poetica, che
però non ebbe seguito per l'immatura morte del poeta (1938).
Altro poeta popolare, ma di più elevato tono letterario, è Luigi

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372 ERNESTO GIAMMARCO

Dommarco (1876), noto autore di "Vola Vola" e delle più belle c


delle Maggiolate Abruzzesi, di cui egli e De Titta furono i gran
matori fin dal 1920, Difficilmente Dommarco s'impegna in prob
teriori, anche se di elementare psicologia. Una soffusa e squisi
melanconica ed elegiaca, svolta sempre su un piano melodico, è
nota caratteristica, che, unita ad un'assoluta padronanza degli el
tecnici e stilistici, conferisce al dialetto una sorprendente pos
espressiva. Dommarco può dirsi inauguri una poesia narrativa, ch
affidata in parte all'onda melodica e ravvivata a tratti da sprazz
gestiva fantasia. Nel dramma sacro "Lu S. Andonie" egli rinnov
nere che fu già del nostro Medioevo letterario. È un dramma di
fattura stilistica e di immediato effetto scenico, in cui la figura de
si umanizza e si intona a quel senso gioioso della vita, quale è a
nella mentalità del popolano. "S. Andonie" è un vero gioiello d'a
cosa migliore del poeta ortonese .
Di ben altra tempra è Giulio Sigismondi di S. Vito Chietino
certo non si allontana dalla macchietta paesana e dalla scena po
Va ricordato per una squisita nota di sorriso gioioso, che eleva
genere, cui si volle legare l'arte dialettale. La sua poesia non è
libresca; ma mimetica, poiché ha bisogno della spiegata voce del dici
Cesare Fagiani di Lanciano nelle sue raccolte "Stamm'a sentì" e
nuova" merita una citazione per aver dato ad alcune liriche un
sentimento di ingenuità e di candore. Evandro Marcolongo (18
Atessa non si distacca dal modulo melico, pur dando prova di eq
stilistico e di calda fantasia (Na favulette — Lu ruscignole). Lu
minati di Atri ha una poesia che si lega in parte alla tradizion
tiana, forse per affinità culturale, più che per influsso diretto
figure vivono nella evanescente scena agreste.
La grande poesia abruzzese meglio si continua con Vittor
mente (1895) di Bugnara (L'Aquila) con le due raccolte "Ac
magge" (1952) e "Tiempe de sole e fiure" (1955). Clemente si co
decisamente tra i nostri poeti più rappresentativi per un certo suo
di rimanere legato alla regione, pur derivando da un'educazione
Come Cirese e De Titta, egli rimane nell'esperienza stupita
dell'infanzia che tende verso un mondo sensibile, meglio signific
l'ingenuità e nel candore. Coesiste in Clemente l'interesse per la reg
per il paese natio, per la famiglia, ed è questo un modo buono
poesia dialettale, già espresso dal Romani. Una venatura decaden
sul piano del D'Annunzio e del Luciani, permea nella prima part
sua raccolta e si definisce in termini d'arte nella meravigliosa

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DIALETTI D'ABRUZZO 373

gnata lirica omonima: "Acqua de magge


sentimento religioso, una stupefatta contem
spaziale sono elementi sufficienti a caratt
in quest'ultimi anni sta accostandosi ad u
mobile e dell'eterno. La sua tecnica conosce la musica del recitativo e
una forma stilistica classicamente atteggiata alla maniera petrarchesca.
Giuseppe Rosato (1932) di Lanciano in "Cajola d'ore" (1956) ci
offre una buona prova delle sue possibilità stilistiche ed espressive.
Egli esce per consapevole poetica fuori dall'angolo della vita di provincia
e dal momento folkloristico. La sua tematica non è ricca, anzi la raccolta
pare insistere su un'unica ispirazione: un delicato sentimento per una
creatura fatta di sogno. La sua unità è nello stile che sa cogliere bene
l'onda musicale che gli offre il nostro dialetto, così ricco di toni. In lui
modi e vocaboli del dialetto hanno conservato appena certe cadenze ver
nacole per svolgere una suggestiva frase musicale.
Guido Giuliante di Chieti si presenta invece con una ben definita
personalità e con una consapevole poetica. La sua prima raccolta "Ro-zì"
(1957) enuncia tutti i temi che poi confuiranno in "L'addore de lu
nide" (1957). La novità del Giuliante consiste in una molteplice varietà
di temi e in un linguaggio dialettale tra i più puri. Egli raggiunge l'unità
poetica nel modo di vedere e contemplare la natura, alla quale si accosta
come ad un rito o ad un mito. Per questa via si accosta al Pascoli, che
il dialettale abruzzese interpreta soltanto per affinità elettiva, non per
influsso diretto, nè per sollecita derivazione. Nel Giuliante il sentimento
religioso, che ha la sua radice in una ben determinata dottrina, mai si
risolve sul piano di una esortazione umanitaria o di una predicazione mo
rale. Alcune sue liriche sono perfette nella loro unità d'ispirazione, nella
purezza della musica, nella inventiva poetica e nella bellezza delle imma
gini. Sono tra le cose perfette della produzione dialettale abruzzese e tra
le più belle cose scritte in questi ultimi anni.
Nonostante una così larga messe di canti, l'Abruzzo non ancora pro
duce un poeta che sappia trarre alimento dalla sua umanità ingenua e ap
passionata, dal suo spirito ricco di saggezza e di fantasia, dalla sua reli
gione profondamente sentita perchè più umana, dalla sua contemplazione
pacata e mistica della vita. Un'umanità ancora ignota, perchè inespressa.
Poeti di grande respiro, che immettano questo alimento nello spirito
della nazione e dell'umanità, non ancora sorgono e quelli che ne ebbero
le capacità, finirono per contraffare, e perciò tradire, un volto sincero
che la ragione e la nostra gente offrono come materia di canto più
elevato.
Ernesto Giammarco

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374 ERNESTO GIAMMARCO

BIBLIOGRAFIA

Una specifica ed esauriente bibliografia letteraria dei poeti dialettali abruzzesi e


dei suoi dialetti non ancora è stata compilata. Sparse notizie si raccolgono nel "Di
zionario bibliografico della Gente d'Abruzzo", che R. Aurini continua a pubblicare
in dispense, e nel "Contributo alla bibliografia Abruzzese" di M. Zuccarini, limitato
alle opere esistenti nella Biblioteca Provinciale di Chieti. Saggi bibliografici sono
offerti dal Guerrieri-Crocetti nell'Enciclopedia Italiana alla voce Abruzzo, vol. I e dal
Bertoni nell'"Italia dialettale" e nel "Profilo". La bibliografia che segue vorrebbe es
sere più esauriente, ma comunque non definitiva, poiché gravi sono le difficoltà della
raccolta di notizie.

I. - DIALETTI D'ABRUZZO

F. D'Ovidio, Fonetica del dialetto di Campobasso, in "Arch. gl.", IV„ pp


G. Savini, Il dialetto di Teramo, Firenze, 1982.
Id., I dialetti della provincia di Teramo, estratto dalla Monograf. della provincia
di Teramo, vol. II, cap. XIII, Teramo, Fabbri, 1896.
C. De Lollis, in "Arch. Gl. It.", XII, p. 26 segg. e in "Mise. ling. in onore di G. I.
Ascoli", 1901, pag. 275
G. Rolin, Die Mundart von Vasto, in "Prager deutsche Studien", VIII (1908),
p. 47.
P. G. Goidanich, in "Mise. ling. in onore di G. I. Ascoli", p. 403 e segg.
C. Merlo, in "Rend. Ist. Lomb.", S. 2, XLVIII, p. 280; in "Mem. della R. Acc.
di Sc. di Torino", LVIII, p. 135; in "Bull, di Soc. fil. rom.", IV, p, 26; in
"Rev. de dialec. rom.", I, pp. 240 segg. e 413 segg.; in "Guida T.C.I. .
A. Fin amore, Voc. dell'uso abr., 1* ed., Lanciano, 1880; 2* ed.. Città di Castello,
1893; Id., Trad. pop. abr., Lanciano, 1882.
G. Ziccardi, Il dialetto di Agnone, in "Zeit. Ph. rom. Ph.", XXXIV, p. 405.
G. Bertoni, Italia Dialettale, Milano, 1916.
Id., Profilo ling. d'Italia, Modena, 1940, p. 69 e segg.
Id., Enc. Ital., vol. I alla voce Abruzzo.
G. Pansa, Saggio di uno studio sul dialetto abr.. Lanciano, 1885.
A. De Nino, Antico dialetto peligno, in "Riv. Abr.", 1907.
T. Radica, I dialetti abruzzesi secondo gli studi degli ultimi decenni, in "Rend." dell'Ist
Lomb. di Se. e lett, vol. LXXVII, S. III, f. 1, pp. 107-150.

2. - VOCABOLARI

G Finamore, op. cit.


L. Anelli, Vocab. Vastese, Vasto 1891.
D. Bielli, Vocabolario Abruzzese, Casalbordino, 1930.

3. - RACCOLTE POPOLARI

G. Finamore, Trad. popol. abruzzesi, vol. I: Novelle; vol. II: Canti, Lanciano,
L. Molinaro del Chiaro, Canti popol. del popolo teramano, Napoli, 1882.

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DIALETTI D'ABRUZZO 375

T. Bruni, Canti popol. del Molise, Rieti, vol. I, 195


D. Lupinetti-E. Giammarco, Noveltistica sacra, Pesc

4. - LETTERATURA DIALETTALE ABRUZZESE

G. Crocetti, Enc. Ital. alla voce Abruzzo, vol. I.


G. Pischedda, in "Il Belli", a. V, n. 2 (1956).
E. Giammarco, in "Attraverso l'Abruzzo", a. V (1957).
F. Basile, in "Attraverso l'Abruzzo", a. III (1955).
Per una più esauriente bibliografia dei singoli poeti vedi E. Giammarco, Antologia
di Poeti dialettali abruzzesi, in corso di stampa.

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