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Vittorio Formentin
1.1. Preliminari.
Che la lingua cambi, nel tempo e nello spazio, è nozione comune, fondata sulla personale
esperienza di ognuno. Appunto da una geniale rielaborazione di tale esperienza individuale
muove, all’inizio della storia linguistico-letteraria italiana, la riflessione di Dante sulla natura
del volgare, dell’uso vivo e dell’uso letterario, consegnata a pagine famose del Convivio (I, V,
8-9) e del De vulgari eloquentia (I, IX, 4-10). In quest’opera Dante descrive dapprima la
mutabilità spaziale delle lingue, con una vertiginosa zumata che, partendo dalla lontana
prospettiva di un’Italia inquadrata dalle Alpi, porta via via sotto la lente dell’osservatore le
differenze linguistiche riscontrabili tra città di regioni vicine (Roma e Firenze), tra le contigue
comunità di una stessa regione (Ravennati e Faentini), infine («quod mirabilius est») tra i
diversi quartieri di una stessa città, dal momento che a Bologna gli abitanti di Borgo San
Felice parlano in modo diverso da quelli di Strada Maggiore, come Dante aveva sperimentato
durante il suo giovanile soggiorno bolognese: egli dunque ha fatto per primo un’osservazione
ripetuta poi chissà quante altre volte da parte d’improvvisati e inconsapevoli apologeti del
continuum dialettale italiano.
Non meno efficace, nel De vulgari, è la formulazione del principio della mutevolezza
linguistica nel tempo, concetto che a Dante doveva apparire meno evidente, nonostante le
precise indicazioni degli antichi in proposito (Orazio, Ars poet., vv. 60-62 e 70-73). Egli
ricorre in questo caso all’artificio retorico dell’adynaton, nella forma classica del periodo
ipotetico: «Quapropter audacter testamur quod si vetustissimi Papienses nunc resurgerent,
sermone vario vel diverso cum modernis Papiensibus loquerentur». E già nel Convivio:
«Onde vedemo ne le cittadi d’Italia […] da cinquanta anni in qua molti vocabuli essere spenti
e nati e variati; onde se ’l picciol tempo così transmuta, molto più transmuta lo maggiore. Sì
ch’io dico che, se coloro che partiron d’esta vita già sono mille anni tornassero a le loro
cittadi, crederebbero la loro cittade essere occupata da gente strana, per la lingua da loro
discordante». Molte cose meriterebbero di essere notate nell’argomentazione dantesca, come
la percezione, se non l’esplicita messa a fuoco, del rilievo non puramente lessicale del
cambiamento linguistico; o la riflessione sulla gradualità del mutamento, che lo rende quasi
impercettibile nel breve spazio della vita umana, e così via. Per il nostro discorso importa
però mettere in rilievo un altro punto del ragionamento di Dante: se vogliamo misurare
l’entità del mutamento, occorre fissare dei limiti alla nostra osservazione, indicando, lungo
l’asse del tempo, un punto di partenza e uno di arrivo (per es. gli ultimi cinquanta o mille
anni), e precisando, lungo l’asse dello spazio, la varietà che c’interessa (per es. il pavese).
Aggiornando la terminologia impiegata da Dante, possiamo dire che l’oggetto della
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riconducibili alla comune scaturigine indoeuropea. I linguisti romanzi hanno però, rispetto ai
loro colleghi indoeuropeisti, il grande vantaggio di conoscere benissimo il punto di partenza,
dato che il latino come lingua viva è documentato con abbondanza di testi scritti in un
lunghissimo arco temporale (dal III sec. a.C. fino alla caduta dell’impero romano) e in una
amplissima gamma di varietà espressive: accanto ai sommi modelli di lingua e stile letterari
abbiamo infatti esempi fededegni di latino ‘volgare’, come le iscrizioni pompeiane, e di latino
‘parlato’, come le commedie di Plauto e Terenzio, senza dimenticare le spesso illuminanti
considerazioni metalinguistiche di grammatici e filologi antichi. Possiamo dunque seguire
l’evoluzione di un suono qualsiasi dal latino alle lingue romanze, per es. della [e] del latino
volgare (< Ē, Ǐ del latino classico):
[TABELLA 1]
Da una tale sinossi risulta evidente un principio fondamentale della linguistica storica: la
regolarità del mutamento fonetico. Un certo suono della lingua madre è stato colpito, in un
dato momento e in una data regione, dallo stesso cambiamento in tutte le parole che lo
contenevano: ogni E tonica chiusa del latino volgare ha prodotto [e] in italiano e in
portoghese, [wa] in francese (con grafia oi), una e semiaperta in spagnolo. Accertata la
costanza dei rapporti, si può parlare di legge fonetica così come si parla di legge fisica; il
paragone con le scienze positive è appropriato anche in questo, che una legge fonetica è
enunciata correttamente solo se specifica le condizioni in cui si è verificato il mutamento
descritto («il volume di un gas aumenta linearmente all’innalzarsi della temperatura se la
pressione rimane costante» [prima legge di Gay-Lussac]): in questo senso, il precedente
enunciato che ogni [e] del latino volgare ha dato [wa] in francese è inesatto se non si precisa
che tale evoluzione è avvenuta in sillaba libera. Dunque, esempi come franc. è(s)che <
ĒSCAM, (il) met < MǏTTIT, vert < VǏR(I)DEM non sono eccezioni: semplicemente non rientrano
nell’ambito di applicazione della legge, perché in queste parole la vocale tonica si trovava in
sillaba implicata. La somiglianza con le leggi naturali, peraltro, finisce qui, perché le leggi
fonetiche non enunciano verità d’ordine generale, non hanno valore predittivo, non si
applicano a priori alla realtà linguistica: esse si limitano a registrare i fatti avvenuti nella
storia di una lingua, evidenziando a posteriori la regolarità del cambiamento.
In questo senso è lecito parlare di ineccepibilità delle leggi fonetiche, secondo la celebre
affermazione dei neogrammatici: «ogni mutamento fonetico, fino a dove procede
meccanicamente, si compie secondo leggi ineccepibili» (Osthoff e Brugmann 1878, p. 167).
Tale formula, nell’inciso, contempla la possibilità di eccezioni, da giudicarsi però, in questa
prospettiva, apparenti, cioè razionalizzabili, o perché effetto di altre ‘leggi’ più speciali (per
es. CĒRAM e PLACĒRE hanno dato in francese cire e plaisir, a causa del condizionamento
esercitato sulla tonica dalla palatale precedente) o per l’intervento di un diverso ordine di
fattori, come il ricorso a prestiti (che per le lingue romanze significa soprattutto latinismi, le
cosiddette ‘parole dotte’) o l’interferenza analogica, nelle sue varie manifestazioni: la
parificazione paradigmatica (per es. di(t)to di molti dialetti italiani su dire, dico), il
rifacimento di un lemma sul suo opposto semantico (*GRĔVIS su LĔVIS, *RENDERE su
PRE(HE)NDERE), l’etimologia popolare (it. nòzze invece di nózze < NŬPTIAE, per influenza di
NŎVUS: cfr. spagn. novio ‘fidanzato’), e così via.
Sarà opportuno infine richiamare, seppur brevemente, le due principali prospettive di
spiegazione dei mutamenti fonetici e più in generale linguistici, di cui vedremo nei successivi
paragrafi varie applicazioni. Assumendo una prospettiva interna, immanente alla struttura
linguistica, astraiamo dalla contingente realtà dei singoli mutamenti e dal modo in cui essi si
4 VITTORIO FORMENTIN
Napoli già nel sec. XIV, ed era stato probabilmente raggiunto molto tempo prima): il dittongo
compare dunque in voci dotte, prestiti e neologismi, dal Trecento (exiercito, iuorno < francese
e occitanico ant. jor(n)) ad oggi (tәljéfonә ‘(tu) telefoni’). La sopravvivenza del dittongo e
della correlata alternanza vocalica all’opacizzazione del contesto fonologico armonizzante è
certo in rapporto con le funzioni morfologiche associate alle vocali finali originarie
(indicazione del plurale, in coppie del tipo PĔDEM/*PĔDI; indicazione del maschile, in coppie
del tipo NŎVUM/NŎVAM; indicazione della persona verbale, in coppie del tipo
DŎRMĪS/DŎRMĬT): la trasvalutazione strutturale della metafonia l’ha così svincolata
dall’iniziale condizionamento fonetico.
La metafonesi, da regola foneticamente motivata, è dunque diventata assai per tempo una
regola determinata morfologicamente: con una leggera forzatura, potremmo dire che si è
passati da un processo di Umlaut, o metafonia (= assimilazione, o armonizzazione, della
vocale tonica all’atona finale), ad un processo di Ablaut, o apofonia, cioè ad un’alternanza
della vocale radicale che serve a scopi morfologici, come nei gradi apofonici del verbo greco
(λειπ-/λοιπ-/λιπ- ‘lasciare’), latino (făciō/fēcī) o inglese (sing/sang/sung ‘cantare’), con
riscontri anche nella classe nominale (ingl. song; lat. těgō ‘copro’ e tǒga ‘veste’ ecc.).
Viceversa, il dittongamento toscano (fenomeno che non si prestava alla rianalisi morfologica,
perché indipendente dalla qualità delle vocali finali, dotate di funzione morfemica), non era
più attivo, come abbiamo visto, già alla fine del sec. VII: sicché il dittongo, in parole italiane
come pietra e ruota, si può considerare un vero e proprio fossile fonetico.
Il vocalismo tonico del fiorentino antico – la varietà che costituisce, come si diceva, il
fondamento dell’italiano – si è sviluppato a partire dal suddetto sistema romanzo comune, di
cui riproduce fedelmente lo schema qualitativo a sette vocali: Ī > /i/ (VĪTAM > v[i:]ta), Ĭ ed Ē >
/e/ (PĬLUM > p[e:]lo, TĒLAM > t[e:]la), Ĕ > /ε/ (TĔRRAM > t[ε]rra), A > /a/ (CANEM > cane), Ŏ >
/ɔ/ (ŎCTO > [ɔ]tto), Ō ed Ŭ > /o/ (FLŌREM > fi[o:]re, CRŬCEM > cr[o:]ce), Ū > /u/ (LŪNAM >
l[u:]na). Per completare il quadro occorre precisare che /ε/ e /ɔ/ in sillaba libera si sono
dittongate (PĔDEM > piede, BŎNUM > buono) e che /e/ si è innalzata a /i/ innanzi a [ɲ:] da -NJ-
e [ʎ:] da -LJ- (gramigna < gramégna < GRAMĬNEAM, famiglia < faméglia < FAMĬLIAM) e
innanzi a n + velare etimologica (lingua < léngua < LĬNGUAM, vince < vénce < VĬNCIT);
anche /o/ è passata a /u/ davanti a -NG- (fungo < FŬNGUM, giungo < IŬNGO, unghia <
ŬNG(U)LAM ecc.), mentre innanzi a -NC- di regola si è conservata (giunco < IŬNCUM, però
spelonca < SPELŬNCAM, tronco < TRŬNCUM, oncia < ŬNCIAM ecc.): l’innalzamento in tali
condizioni di /e/ e /o/ toniche del latino volgare si suole denominare anafonesi, secondo la
proposta terminologica di Castellani (1980) [1961], I, pp. 73 segg.
Le eccezioni al dittongamento che troviamo in alcune parole sdrucciole come pecora, opera,
rimprovera si spiegano con il fatto, di rilievo fonetico generale, che in sillaba libera una
vocale tonica è più breve in un proparossitono che in un parossitono e perciò [ε] e [ɔ], in uno
sdrucciolo, sono meno soggette a dittongarsi (il che non ha del resto impedito che il dittongo
si producesse secondo la regola generale in lievito, suocero ecc.). Per le eccezioni presenti tra
i parossitoni (pochissime, se si prescinde dai latinismi come rosa) sono state proposte
spiegazioni ad hoc: per nove < NŎVEM si è pensato a un influsso del latino; bene < BĔNE
potrebbe aver risentito dell’uso prevalentemente proclitico dell’avverbio (ben detto); lei <
ILLAEI (e colei, costei) potrebbe spiegarsi col passaggio a iod della -i di lei e conseguente
chiusura della sillaba (in alternativa, si potrebbe pensare a un’attrazione analogica esercitata
da lui < ILLUI, all’interno di una coppia di opposti sintatticamente connessa, come è avvenuto
in su e giù, spagn. a diestro y siniestro ‘a casaccio’ [§ 1.1]: dunque lui e lei, con i due
pronomi parificati nella struttura fonologica /lVi/, dove V = vocale). Sono invece casi di
antica monottongazione: uo > o dopo un suono palatale (figliuolo > figliolo: XIII sec.); iera,
ierano > era, erano (inizio del sec. XIV); in forme verbali rizotoniche del tipo leva < lieva,
copre < cuopre la riduzione è dovuta a un conguaglio radicale (sulle forme rizoatone del tipo
levare, coprire); per ie > e, uo > o dopo consonante + r si veda il § 2.2. Sappiamo, infine, che
AU latino si è monottongato in [ɔ] quando si era già chiusa la dittongazione delle mediobasse
(§ 1.2).
Le vocali toniche, a contatto con un’altra vocale che non sia -i, tendono a chiudersi: io, mio,
mia, tuo, tua ecc., ma miei, tuoi, suoi, con regolare dittongazione di Ĕ ed Ŏ (nomi come
Matteo, Andrea, Bartolomeo, romeo sono latinismi).
Fenomeno caratteristico del vocalismo atono è l’elevazione di e (non finale) a i, anche in
fonosintassi (dicembre, di maggio, femmina). Se prescindiamo anche qui dai latinismi (felice,
negozio, sereno ecc.), tra le ‘eccezioni’ alla ‘legge’ vanno segnalati i casi di parificazione
paradigmatica (questa volta sulle forme rizotoniche: vedere su vede, fedele su fede); e le
poche parole senz’altro popolari in cui una e protonica primaria si è conservata a lungo, fino
alla metà del XIV o all’inizio del XV sec. (Castellani 1952, I, pp. 118-120): megliore, nepote,
pregione ‘prigioniero’ e ‘prigione’, segnore, per la cui e si è pure pensato (Formentin 2002, p.
301) alla traccia residua di un’antica solidarietà paradigmatica con forme nominativali
accentate sulla radice (MĔLIOR > meglio [in frasi come ital. popolare «la meglio mela va
sempre al peggio porco»: e cfr. peggio - peggiore, ital. ant. maggio < MAIOR - maggiore],
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NĔPOS > *niepo [cfr. veneto ant. nievo - nevodo], PRĔHĒ(N)SIO > *pregio, SĔNIOR > *segno).
Tipicamente fiorentina è l’evoluzione di ar a er sia prima sia dopo l’accento (amerò, amerei,
Margherita, Lazzero; suffissi -erìa, -erello ecc.); -ER- resta saldo nei proparossitoni (lettera,
leggere, dissero).
Passando al consonantismo, le occlusive sorde intervocaliche e tra vocale e r di regola si
conservano, com’è indicato con evidenza dalla toponomastica, che costituisce lo strato
fonetico locale più genuino (/k/ Dicomano < DECUMANUM; /p/ Ripoli < RĪPAM; /t/ Roveta <
RŬBĒTA; /tr/ Bàlatro < BARAT(H)RUM ecc.). Si noti che la cosiddetta ‘gorgia’, ossia la
spirantizzazione delle occlusive sorde intervocaliche (['fɔ:ho], ['ra:φa], ['pra:θo]), non è
testimoniata con sicurezza prima del XVI sec. (nel Polito di Claudio Tolomei, 1525). D’altro
canto, i vari casi di sonorizzazione del fiorentino antico ereditati dalla lingua nazionale (lago,
luogo, riva, padre, madre, strada ecc.) sono stati spiegati plausibilmente come il risultato di
un’influenza, d’età molto antica (V-VI sec.), del tipo linguistico settentrionale, ritenuto allora
prestigioso e dunque imitabile. La stessa origine andrà riconosciuta alla sonorizzazione della s
intervocalica (['mu:zo], [pa'e:ze], ['vi:zo] ecc., di contro a ['ka:sa], ['na:so], suffisso -oso [-
'o:so] ecc.), con la differenza che, in questo caso, la «variante sonora è penetrata più
profondamente nel tessuto linguistico toscano, e compare in buona parte dei nomi di luogo»
(Castellani 2000, p. 136), forse perché (Formentin 2002, p. 299) nel caso della sibilante,
supposta la sorda come originariamente esclusiva (come nel Sud), non vi era l’argine di una
correlazione di sonorità da tutelare, come invece per le occlusive (/k ~ g/ ecc.).
Quanto agli esiti dei nessi di consonante + J, le consonanti diverse da R e S si sono
raddoppiate innanzi a iod nel II sec. d.C. (Castellani 1980 [1965], I, pp. 95-103). Questo
stadio arcaico, con geminazione della consonante e conservazione di [j], è riflesso dalle
labiali: SĒPIAM > seppia, (H)ABEAT > abbia, CAVEAM > gabbia, VINDEMIAM > vendemmia; in
altri casi al raddoppiamento si accompagnano l’assorbimento di iod e una modificazione
articolatoria della consonante, che ha subito affricazione (FACIAT > faccia, CORRĬGIAM >
correggia), assibilazione (PŬTEUM > pozzo) o palatalizzazione (VĪNEAM > vigna ['viɲ:a],
FŎLIUM > foglio ['fɔʎ:o]). Al nesso -DJ- corrisponde una duplice serie di esiti: 1. [d:ʒ], come in
raggio < RADIUM, poggio < PODIUM; 2. [d:z], come in mezzo < MEDIUM, rozzo < *RUDIUS; la
prima serie muove da una pronuncia popolare, che si diffuse nel latino del I sec. d.C., di -DJ-
come semplice -J- (e infatti [d:ʒ] è il riflesso anche di -J- primario: MAIOREM > maggiore); la
seconda comprende invece i lemmi in cui il nesso si è formato più tardi (*RUDIUS) o è stato
preservato da una pronuncia più sorvegliata fino al momento, appunto nel II sec. d.C., in cui
si verificò la geminazione consonantica davanti a J, sicché il nesso *-DDJ- si assibilò, proprio
come avvenne per *-TTJ- (Castellani 1980, I, pp. 113-118).
Caratteristica della Toscana e di alcune zone contigue dell’Italia centrale (Umbria, Urbino,
Lazio settentrionale) è la riduzione di -RJ- al solo iod: AREAM > aia, CŎRIUM > cuoio, -ARIUM
> -aio (fornaio ecc.). Doppio è l’esito di -SJ- (Castellani 1980 [1960], I, pp. 222-244): da un
lato la sibilante palatale sorda [ʃ] (BASIUM > bascio), dall’altro la sibilante palatale sonora [ʒ]
(OCCASIONEM > cascione o casgione); a questo proposito sarà opportuno ricordare che in
queste parole in cui si continua -SJ- la pronuncia fiorentina è ed è sempre stata [ʃ] o [ʒ],
adeguatamente rappresentata appunto dalle grafie antiche del tipo bascio, casgione,
divergente dunque dalla pronuncia ufficiale dell’italiano, che impiega un’affricata palatale,
rispettivamente sorda e sonora (si veda il § 2.2).
Quanto alla fonologia di giuntura, la prostesi di i davanti a s + consonante ricorre
regolarmente dopo consonante e dopo pausa (per ispesa, Ispesi dr. xx), cioè nelle condizioni
FONETICA STORICA 9
[TABELLA 1]
BIBLIOGRAFIA
PELLEGRINI, Giovan Battista (1977), Carta dei dialetti d’Italia, Pisa, Pacini.
ROHLFS, Gerhard (1966-69), Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, 3
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SALVIONI, Carlo (2008), Scritti linguistici, a cura di M. Loporcaro et al., 5 voll., Bellinzona,
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SERIANNI, Luca (2001), Introduzione alla lingua poetica italiana, Roma, Carocci.
VÀRVARO, Alberto (1979), Capitoli per la storia linguistica dell’Italia meridionale e della
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