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Geografia e storia dell'italiano regionale

Capitolo 1
L'italiano è parlato in modo diverso a seconda della provenienza dei parlanti. Ci accorgiamo di
queste variazioni anche soltanto con tv o internet, le differenze linguistiche si notano meglio quando
si hanno contatti e confronti tra due diversi modi di parlare.
Nel 1941 il problema linguistico è rilevante. Nella prospettiva di Toddi è evidente che la variazione
linguistica ha luogo in una dimensione regionale, secondo lui non è giusto aderire completamente
all'uso di Firenze perché in fondo una certa variazione è inevitabile.
Secondo le statistiche il 73% degli italiani dichiara di parlare in italiano con gli estranei, il 49%
parla in italiano con gli amici (ISTAT 2009); ciò però non dice come effettivamente viene parlata la
lingua italiana, queste percentuali derivano da autovalutazioni dei parlanti intervistati: nel valutare
l'italiano dovremmo valutare l'effettiva capacità di costruire testi elaborati e con appropriate scelte
lessicali. Per quanto connotato in senso regionale, ad oggi l'italiano è parlato da un'altissima
percentuale.
Nella pronuncia sono riscontrabili indizi che spesso permettono di individuare la provenienza
geografica di un parlante, l'aspetto della pronuncia che risalta nell'italiano regionale è l'intonazione,
cioè l'andamento musicale del discorso: cantilena, cadenza, calata.
È vero che l'italiano è parlato da quasi tutti gli italiani, ma con sfumature diverse. Quindi si pone il
problema dell'insegnamento di una pronuncia non connotata, ossia neutra.
La pronuncia può adeguarsi a situazioni di maggiore o minore formalità, ma è difficile discostarsi
dalla pronuncia informale se non si ha idea di come sia la pronuncia neutra. In ogni area geografica
tratti fonetici tipici: in area adriatica centrale e meridionale le vocali toniche in sillaba chiusa sono
aperte, e quelle in sillaba aperta sono chiuse; in area toscana c'è assimilazione regressiva
ammosfera; nelle regioni meridionali abbiamo l'epentesi, ossia l'inserimento di una vocale tra due
consonanti pissicologo.
L'italiano regionale varia su base geografica e si presenta in forme diverse per effetto di contatto
con i dialetti locali, dal momento che ogni dialetto è diverso dagli altri, la nozione di italiano
regionale contiene già un riferimento alla molteplice varietà di dialetti.
L'italiano regionale racchiude le specifiche della situazione linguistica italiana e della nostra storia
linguistica: combinazione tra unicità e molteplicità → quadro unitario, ma diversificato.
I parlanti che usano l'italiano regionale sono gli stessi che in altre circostanze possono parlare un
italiano non regionale.
Un esempio di come una stessa parola sia pronunciata in modi diversi è dato da scienza, che è
pronunciabile in diversi modi ( e tonica aperta o chiusa, africata dentale sorda o sonora…). Questo
perché molti parlanti sono in grado di attenuare nella pronuncia tratti fonetici condizionati dal
dialetto ma non sempre questo tentativo riesce fino in fondo. Gli italiani danno importanza alla
correttezza della grafia, ma poco si curano di quella della pronuncia; questo perché nelle scuole
viene data più importanza alla necessità di scrivere in maniera corretta.
Dopo l'Unità d'Italia gli scolari e i maestri erano sollecitati a evitare le mescolanze tra dialetto e
italiano.
La ricerca e l'osservazione dei tratti divergenti non deve far trascurare quelli convergenti:
l'osservazione delle differenze diventa produttiva anche nell'insegnamento quando può agevolare la
descrizione di specificità linguistiche che altrimenti non verrebbero notate.
La denominazione di italiano regionale è costruita sul modello di latino regionale, cioè il latino
parlato nella tarda antichità. Questo collegamento conferma che anche nel caso dell'italiano
l'aggettivo regionale è da intendere come sinonimo di areale/locale.
Infatti nella descrizione dell'italiano regionale si fa riferimento ad alcune grandi aree: De Mauro
descrive tratti della varietà settentrionale, della varietà toscana, della varietà romana e della varietà
meridionale.
La denominazione di italiano regionale è precedente all'istituzione delle regioni come entità
amministrative autonome (avviene nel 1970): proprio per questo regionale va inteso come locale.

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Anche per questo ci riferiamo all'italiano parlato in città.
L'italiano regionale si percepisce soprattutto nella comunicazione parlata, anche se talvolta si
presenta nella scritta; è anche vero che a volte scrittori e giornalisti adottano consapevolmente
forme italiane tipiche di una certa area.
Il possesso di un elevato livello di istruzione non comporta per forza il rifiuto di elementi regionali,
però comporta una maggiore capacità di esercitare un controllo consapevole sul proprio modo di
parlare.
Il primo studioso che dedica una riflessione specifica sull'italiano regionale, in epoca
contemporanea, è Giovan Battista Pellegrini: ho iniziato a svolgere in un settore periferico studi
sulla lingua, è il settore che definiamo mediano tra lingue e dialetto, mediano tra lingua letteraria
e dialetto schietto.
Questo lavoro precede di alcuni anni la storia linguistica dell'Italia unita di De Mauro (1963).
L'italiano regionale dopo Pellegrini occupa un posto di rilievo, quando invece Pellegrini svolgeva le
sue considerazioni era periferico nella prospettiva degli studiosi.
La rilevante novità metodologica di Pellegrini è quella di considerare italiano e dialetto in un'unica
visione d'insieme e non come ambiti separati e lontani, questo interesse nasce dalla sua
constatazione della crisi dei dialetti. Nel riferirsi al dialetto genuino aggiunge che esso sarebbe
sparito, e quindi da qui nasce la curiosità delle abitudini linguistiche relative.
Così si prospetta di poter tener conto della variabilità della lingua: la storia linguistica italiana
sembra prossima alla sparizione dei dialetti, quindi l'italiano regionale è non solo una varietà
presente in Italia ma anche una forma specifica in fase di transizione.
Pellegrini osserva la realtà effettiva della lingua puntando a descrivere il modo di parlare delle
persone, e non a suggerire come dovrebbero parlare.
Nell'area mediana Pellegrini individua una serie di koinai che mirano a un dialetto nobilitato
secondo i moduli di grossi centri urbani. Risalta così la distinzione tra un dialetto rustico e spesso
percepito in termini negativi e un dialetto cittadino utilizzato dai ceti borghesi come parlata civile.
Questi due fenomeni (italiano regionale e koinai) sono la conseguenza di una compenetrazione
secolare tra l'elemento locale e la lingua letteraria. È il processo per cui il dialetto tende
costantemente ad elevarsi a lingua e la lingua si abbassa invece al dialetto.
Secondo Pellegrini si distinguono 4 varietà: italiano letterario, italiano regionale, koinè dialettale
regionale, dialetto rustico.
La pronuncia dell'italiano subisce l'influenza diretta o indiretta del dialetto, che si palesa come
ipercorrettismo.
La lingua italiana cambia da una zona all'altra, un po' come la cucina: basta pensare ai diversi tipi di
pasta e di torte che appartengono alle diverse cucine tradizionali.
Da Manzoni in poi la preoccupazione di superare il lessico locale per giungere ad una forma unica è
stata molto avvertita. Spesso a questo proposito si ricorda che la molteplicità dei geosinonimi è stata
superata grazie alla denominazione imposta dai settori dell'industria o della gastronomia.
Lavandino- acquaio- versatoio- lavatore → lavello. Però sono presenti ancora anche le forme
corrispondenti (branzino-spigola).

Capitolo 2
L'uso dell'italiano in senso locale si è avviato dal '500, cioè da quando si comincia a diffondere la
preoccupazione per un uso più regolato della lingua. L'interesse per l'uso regionale era vivo nel
passato quasi esclusivamente presso grammatici e puristi, che suggerivano le forme corrispondenti
nella buona lingua.
Di italiano regionale già si parlava dal 1950.
Nel 1953 Devoto allude a un italiano usuale che nei decenni del fascismo era colorito di venature
regionali, ciò allude ad un quadro storico in movimento. In seguito, dopo la seconda guerra, negli
anni del boooom, vengono avvertiti cambiamenti linguistici e sociali. Grande cesura. Devoto lo

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chiama “sfasciarsi dei dialetti”, gli italiani regionali si trovano a metà tra la lingua borghese e quella
proletaria.
L'uso della formula italiano regionale non era nuova a Devoto che nella rivista Lingua nostra dice
di occuparsi di italiano regionale, ma ritiene che l'argomento non debba essere segnalato in maniera
esplicita, ma come argomento staccato.
Prima del 1960 vediamo da un lato la volontà di affermare la norma rispetto agli errori, dall'altro
l'intento di prenderne atto e documentare alcune caratteristiche.
Basti pensare a Pellegrini che da un lato sottolineava la necessità di raccogliere documentazione
degli usi regionali, dall'altro ricorda la validità necessaria di esigenza didattica e normativa.
Sollecitazione raccolta da Tullio De Mauro nella Storia linguistica dell'Italia unita, dove individua
4 tipi di italiano regionale: varietà settentrionale, varietà toscana, varietà romana, varietà
meridionale.
È probabile che si sia diffusa negli anni una maggiore tolleranza che ha fatto sì che si conservassero
caratteristiche che sembravano destinate a sparire.
Dopo la seconda guerra mondiale si diffonde il cinema neorealista, e vediamo una diffusione di
pronunce locali nel cinema che prima sarebbero state impensabili. Novità notata da Battisti,
protagonista di un film di De Sica, e glottologo, che sottolinea le esigenze di verosimiglianza alla
base.
Il neorealismo mette in crisi l'idea che il cinema debba orientarsi soltanto verso la buona pronuncia:
da un lato gli spettatori ascoltavano i dialoghi degli attori orientati verso l'uso corrente, dall'altro la
pronuncia impeccabile dei cinegiornali. Diffusione di una pronuncia professionale che sottolinea la
distanza di essa rispetto alla lingua dell'uso quotidiano. Sono proposte diverse accettabili in
rapporto alle diverse esigenze di formalità. Situazione simile di quella tra lingua scritta e parlata di
qualche secolo prima.
La scelta di verosimiglianza linguistica del cinema trova riferimento nella tradizione del teatro.
Eduardo De Filippo nelle sue lezioni di teatro precisa che non esiste un linguaggio unico per il
teatro e che l'autore deve individuare la soluzione adatta a personaggi e circostanze.
Già nell'800 Scarpetta porta in scena dialoghi in cui dialetto e italiano si mescolano, e di deve
difendere da chi lo critica per questo. Per lui le possibilità sono 3: l'italiano, il dialetto e il loro
miscuglio: per lui è importante dare idea dell'effettivo modo di parlare senza preoccuparsi di come
le persone debbano parlare.
L'esigenza di realismo determina anche le scelte di Pirandello, che nel 1917 riscrive liolà, il
rapporto al nuovo teatro siciliano.
Il miscuglio di Scarpetta viene definito da Pirandello ibrido linguaggio, ma entrambe le
denominazioni intendono la varietà intermedia della classe borghese: italiano parlato comunemente
= dialetto borghese arrotondato, dialetto borghese, dialetto puro vernacolo campestre. A questo
aggiungiamo l'italiano del tutto privo di goffaggini.
La scuola ha sempre prestato attenzione al modo di parlare degli scolare, ma ciò non vuol dire che lì
si parlasse un italiano impeccabile, De Mauro segnalava che a scuole è diffuso il dialetto e la lingua
è presentata attraverso i libri.
Si realizzava quindi un attrito costante tra l'effettivo modo di parlare degli studenti e un italiano
uniforme presentato come modello.
Importante è Romani, che conduce un discorso riferendosi a ciò che succede quando dialetto e
italiano si incontrano, si creano due varietà, il dialetto signorile e la lingua dialetteggiante.
Situazione descritta come dinamica.
Rueg per la sua tesi di dottorato vuole documentare la diversificazione degli usi lessicali italiana;
mette a punto un questionario relativo alle parole usate in Italia per esprimere 242 nozioni; le
domande furono proposte attraverso interviste in 54 provincie italiane (1956). Rueg indirizza gli
informatori a rispondere spontaneamente, perché vuole valutare i diversi modi di parlare in italiano,
non le differenze tra dialetti. La grande varietà delle risposte fa pensare che i parlanti abbiano
accolto di buon grado questo invito.
Distinguiamo quindi la lingua elevata e letteraria da quella parlata, strettamente legata alla persona

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che parla e al suo livello culturale e caratterizzata da variazioni regionali, e i dialetti.
Solo per riferirsi al caffè consumato fuori casa gli italiani usano la parola espresso, in più anche la
concezione di espresso entra in crisi: caffè corto/ allungato/ alto/ americano..; come il caffè
macchiato con il cacao può essere marocchino/ espressino..
L'esempio del caffè dimostra che l'uniformità del lessico è sempre esposta a sfilacciamenti a raggera
non controllabili; quando ci sono due alternative non è detto che una delle due prevalga sull'altra: in
Sicilia si una orbo per ceco, villa per giardino pubblico. Ormai tutti dicono garage e camion, non
autorimessa o autocarro, che dominano nel lessico burocratico. Resta in voga la compresenza tra
cappuccino e cappuccio: Rueg negli anni '50 presenta cappuccio come tipico di Milano e del
settentrione ma oggi la sua diffusione è più vasta.
Priva di connotazioni regionali è la coppia albergo – hotel, locanda scompare, Rueg non registrava
pensione e soggiorno, b&b è novità anglicizzante.
Vettura è poco usato, diffuso macchina, recentemente anche automobile e auto.
La bambinaia diventa baby sitter.
Tra galleria, tunnel e traforo vince la prima.
Un problema a cui accenna Pellegrini è quello dei geosinonimi = parole diverse con cui in diverse
regioni si allude allo stesso concetto; geomonomi = parole uguali che designano concetti diversi.
Geomonimo è braciola, a Firenze designa una bistecca mentre altrove è una fetta di carne fatta a
involtino ripieno.
Geosinonimi sono le stringhe delle scarpe, aghi, legacci, lacci….
I geosinonimi rientrano tra i cosiddetti regionalismi lessicali, ossia circolazione limitata ad un'area.
Quando una forma locale esce dai confini ed entra stabilmente nell'italiano si parla di dialettalismo:
parola passata dal dialetto all'italiano, come il piemontese gianduiotto e grissino, e la siciliana
cassata.
Proprio in ricorso ad un toscanismo offre lo spunto a un dialogo presentato nel Prose della volgar
lingua di Bembo: la conversazione sulla lingua ha inizio perché Giuliano de' Medici avvicinandosi
al camino dice rovaio; Ercole d'Este dichiara di non conoscere la parola ma ci arriva dal contesto;
questa parola è nota al Bembo perché usata da Boccaccio nel Decameron, e significa vento.
L'attenzione a questa parola dà l'avvio all'opera di Bembo, che non presenta in maniera drammatica
le differenze di lessico tra le diverse aree, al centro della sua attenzione è la comunicazione da
realizzare per iscritto attraverso opere letterarie.
Nel secolo successivo le corrispondenze tra sinonimi sono ricordate da Buonmattei nel Della lingua
toscana del 1643: egli non vuole descrivere le differenze lessicali tra aree diverse, ma vuole solo
provare che gli oggetti non hanno gli stessi nomi in tutte le lingue.

Capitolo 3 + 4
➢ Piemonte
Nell'italiano del Piemonte si incontrano fenomeni fonetici presenti in tutta l'Italia settentrionale: lo
scempiamento delle consonanti (afettare invece di affettare), la z sonora all'inizio di parola, la
pronuncia sonora della s intervocalica.
• Dittongo iccipiente, ossia allungamento con iniziale dittongazione della vocale tonica,
percepita quasi come un semi dittongo
• Pronuncia di ss sibilante della z: assione per azione (tipico dei meno istruiti)
• Verbi con costruzione pronominale: aggiustarsi → cavarsela, osarsi → osare
• Uso della forma pronominale obliqua le: le ho detto significa anche gli ho detto
• Dimostrativo senza articolo: mio papà
• Forme essere al singolare precedute da ci anche con soggetti plurali: c'era tanti amici
Il lessico è condizionato da dialetto, tra le voci diffuse in italiano ci sono espressioni piemontesi
militari: battere la fiacca, piantare grane, questura, bocciare; e gastronomiche: bagna cauda,
agnolotti, fonduta, fontina…

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La principale preoccupazione di De Amicis è quella di ostacolare l'interferenza tra dialetto e
italiano, sconsiglia arrivare, che significa capitare, e chiamare, che significa domandare.

➢ Valle d'Aosta
Si riscontrano le caratteristiche del Piemonte, in una realtà linguistica più complessa, perché è
un'area gallo-romanza, la varietà linguistica si chiama patois, dialetto riconducibile al franco-
provenzale. Inoltre si parla anche il walser, dialetto germanico.
• Conservano i numeri septante, huitante, nonante
• Alper = portare le vacche all'alpeggio
• I cognomi terminano con la z

➢ Liguria
• La nasale tende a scomparire
• Vengono ridotti i nessi palatali: sogno diventa sonio
• Costruzione pronominale del verbo capire: non me ne capisco per non me ne intendo

➢ Lombardia
Per l'area milanese risalta in particolare la pronuncia delle e toniche tendenzialmente chiuse quando
si trovano all'interno della parola, aperte alla fine: è ben impressa la pronuncia “tre, perché” di Mike
Buongiorno.
• O toniche sono chiuse quando dovrebbero essere aperte, aperte invece quando dovrebbero
essere chiuse: bosco e doccia
• L'articolo davanti al nome femminile
• Possessivo non preceduto da articolo con nome di articolo: mia mamma
• Far su il letto, metter su il caffè, costruzione diretta di aver bisogno cit Jovanotti
• Dialettismi milanesi entrati in italiano: osso buco, mica male, schiappa, cribbio, terrina.

➢ Veneto
• La e tonica in sillaba aperta è chiusa, anche nel dittongo ie e prima di nasale (bene, tempo,
piede)
• Sono pronunciate come deboli le consonanti che in italiano sono rafforzate: canne diventa
cane, palle diventa pala. Idem nei nessi palatali: campania diventa campagna; anche
affricate dentali bellessa/ bellezza.
• Ricorso agli articoli il, i, un con parole che iniziano con z, gn, s: il zucchero, i gnocchi, i
scherzi.
• Aggiunta di che dopo congiunzioni: quando che vieni?
• Parole entrate in italiano: gondola, calle, doge, ghetto, lazzaretto, turamisù

➢ Trentino Alto Adige


• Domenega invece di domenica
• Articoli il, i, un come in veneto davanti a consonanti
• Uso di lui come pronome di terza persona anche anche riferito ad animali e come allocutivo:
lui, profesore, viene con noi?
• Il che rafforza le congiunzioni: quando che vieni? Appena che puoi
• Gli aggettivi che finiscono in e vengono fatti finire in a se femminili, in o se maschili: casa
granda, prato verdo
• Ricorso frequente alla s intensiva in verbi di movimento o di azione: slasagnare (= rendere
largo)

➢ Friuli Venezia Giulia


• Come nelle altre regioni sett, scompare il rafforzamento delle consonanti
• Sempre uso di il, i, un

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• Ripetizione delle forme pronominali con dislocazione: a Giovanni non dirgli niente
• Gli, le inappropriati
• Lui osato come pronome di cortesia al posto del lei
• Espressioni special: taglio (=bicchiere di vino), spazzatempo (=passatempo), fare il fisco
(=fare il diavolo a quattro)
• Parole passate in italiano: bora, foibe

➢ Emilia Romagna
• Indebolimento consonanti intense: ehi belo!, ma geminazione delle occlusive dopo o tonica:
doppo invece di dopo
• Sibilante intervocalica sonora e riduzione nesso palatale: sonio invece di sogno
• Articoli il, i, un
• Aggettivo con funzione avverbiale: parlare difficile, guardare storto, andare pesante
• Questione della fiorentina, della milanese e della pizza napoletana

➢ Marche
Dialetti simili a quelli di tipo settentrionale ma più prossimi a quelli centro meridionali. Non si
profila un italiano regionale uniforme perché manca un centro che proponga al resto della regione
un modello di pronuncia.
• Maja per maglia
• Te come soggetto

➢ Toscana
Ai parlanti toscani è stato riconosciuto il primato della lingua, perciò l'italiano parlato in toscana è
sempre stato ritenuto un punto di riferimento e un modello per tutti. Dopo l'unità il quadro diventa
più problematico.
• Il pronome te viene usato come soggetto al posto di tu
• Icché per che nelle interrogative
• Le forme omo, bono senza dittongo
• Rafforzamento fonosintattico dopo la preposizione da: daccas, dammatti
• Prostesi di i prima di s iniziale, che però esce dall'uso nel corso del '900
• Aggiunta di una sillaba finale a parole che terminano in consonanti: ananaso, coppe
• Gorgia: aspiramento della c della hoha hola hon la hannuccia horta horta
• Solo i toscani sanno davvero distinguere tra pesca frutto-azione, e botte percosse-recipiente
• Pronuncia come affricata dentale della s dopo l, r: penzo, il zole, inzalata, zalza
• Anticipazione del pronome nelle interrogative: o che tu fai?!, riduzione del possessivo: la
mi' gatta, e anche del numerale 2, l'uso di bello come rafforzativo: bell'e visto, e di punto
come rafforzativo negativo: non mi piace punto la piega che stai prendendo (cit. mamma
olga, quando torna mezza nuda con solo la chanel)
• Parole regionali: balocco, cacio, principiare, diacere, desinare
• Si è diffuso grazie al cinema e alla comicità Benigni-Pieraccioni-Virzì

➢ Lazio
Si pone il problema del rapporto tra ruolo centrale di Roma e resto della regione, non c'è quindi
un'unica varietà di italiano regionale. L'italiano locale di Roma è un continuuuuum tra italiano
standard e dialetto.
• Dittongo ie accentuato
• Pronuncia sonora delle occlusive sorde: ipodega, rafforzamento di b, g: subbbito, sibilante
dopo l, n,r, pronunciata come affricata dentale: borza, falzo
• Degeminazione di rr: fero, tera
• Sequenza sintattica stare + a + infinito : sto a studiare, e “a fare”: che lo dici a fare (entrata
però stabilmente nell'italiano)

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• In italiano passano le parole: bidone, burino, fico, pomiciare, sampietrino

➢ Umbria
Zona di policentrismo, è un crocevia linguistico.
• In Perugino manca il rafforzamento fonosintattico e si usa l'articolo davanti a nomi
femminili
• Nell'area meridionale rafforzamento fonosintattico: sabbato

➢ Abruzzo
Il tratto più tipico relativo al vocalismo è ricordato da D'Annunzio, deriso perché a Prato declinava
rosa, rosae con la o chiusa. In Abruzzo la vocale in sillaba aperta è pronunciata chiusa, mentre è
aperta la vocale tonica in sillaba chiusa.
• Rafforzamento di bb, gg e sonorizzazione dopo nasale: ambliare, cambagna
• Usano il voi al posto del lei
• Locuzione inversa: mangia, papà
• Costruzione sto a fare: sto a fare la pasta, ne vuoi un po?
• Entra in italiano: spaghetti con la chitarra, arrosticini

➢ Molise
Le caratteristiche sono comuni a altre regioni centro-meridionali.
• Rafforzamento b, g intervocalico: sabbato

➢ Campania
L'italiano parlato dai napoletani è già stato studiato da Carlo Mele nel 1835.
• Suono chiuso delle toniche nei dittonghi, rafforzamento b, g intervocaliche
• Palatalizzazione della s davanti a labiale e velare: scusa, spesso
• Rafforzamento della consonante: dissoccupato
• Assimilazione della vibrante: abbitro, gemmania
• Uso dell'imperfetto congiuntivo al posto del condizionale: dicessi per direi
• Suffissi illo, ella: bellillo, pizzella
• Avverbi superlativi: benissimamente
• Ricorso preposizione a: è bello a mangiare, va all'america, fratello a pasquale, spaghetti a
vongole
• Va buono/ fa bello
• Entrano in italiano: pizza, camorra

➢ Puglia
Ci sono 2 grani aree dialettali: quella settentrionale e quella meridionale, che corrisponde al salento,
e ha un sistema vocalico siciliano con 5 vocali toniche
• Area settentrionale, b, g rafforzate, costruzione preposizionale del complemento oggetto: ho
visto a paolo, e costruzione diretta del complemento di termine: l'ho telefonata
• Area salentina, rafforzamento b/g, pronuncia sorda delle occlusive intervocaliche: pacare
per pagare
• Costruzione stare + gerundio: sta mangia per sta mangiando

➢ Basilicata
Composito, si avvertono effetti di immigrazione settentrionale. Il capoluogo ha dialetto gallo italico
e non si è diffuso nel resto della regione. È caratterizzato dalla caduta della sillaba finale in participi
passati e parole tronche: venu' uaglio'.
• Stare al posto di essere
• Annà al posto di dovere: annà venì

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• In italiano: cavatelli, fusilli, taralli

➢ Calabria
Vocalismo di tipo siciliano, la variazione si presenta in prospettiva diatopica e diastratica.
• Le vocali toniche sono pronunciate sempre aperte
• La vibrante iniziale può essere rafforzata: rruota
• Tendenza ad evitare l'infinito nelle dipendenti: ero contento che andavo

➢ Sicilia
• E tonica, o tonica sono sempre aperte, un suono tendente a i è inserito nei nessi consonantici
pissicologo
• Rafforzamebto b, g in posizione intervocalica, b,d,g in inizio di parola: dddoccia
• Assimilazione della vibrante prima di consonante: cotto invece di corto
• Cambi di genere: gli analisi, lo scatolo
• Uso del passato remoto per eventi vicini nel tempo: stamattina non t'incontrai
• Suffisso -ina senza valore diminuitivo: ammazzatina
• Verbo collocato alla fine della frase
• Uso transitivo di uscire
• Il lei di cortesia: s'accomodasse
• Parole identiche a quelle italiane ma con significato dialettale: mollica (=pangrattato),
saggio (=tranquillo), giardino (=agrumeto)
• Scarrozzo per passo carrabile
• Totò per Salvatore

➢ Sardegna
Nella pronuncia è notevole la distinzione tra le vocali e/o aperte e chiuse che seguono l'opposizione
metafonetica.
• Vengono pronunciate chiuse le e/o della sillaba precedente, quindi in dottore sono chiuse
entrambe le o
• Le semi-consonanti si trasformano in semi-vocali, quindi invece di buo-no si dice bu-o-no
• Uno della vocale prostetica come un tempo in italiano
• Uso più esteso della preposizione a: parto a Cagliari
• Tutto come rafforzativo
• Separazione tra ausiliare e verbo: comprato il latte hanno?
• La giornata è divisa in mattina (fino al pranzo), sera (il pomeriggio), notte (le ore dopo
cena): seguono ancora la scansione della giornata che risponde alla percezione tradizionale
del tempo dove la notte coincide con il tramonto

Capitolo 5
La distanza che c'è tra il modo di parlare spontaneo e una lingua appresa attraverso lo studio è
sottolineata nella Prose della volgar lingua di Bembo. Lo svantaggio dei fiorentini sarebbe secondo
lui il fatto di ritenersi spontaneamente padroni della lingua, trascurando quello studio necessario; in
ciò si coglie la differenza tra l'adesione al popolaresco uso e il passare più avanti verso una lingua
più curata. Bembo è promotore della seconda strada.
Bembo parlava con semplicità naturale ed era capace di modulare il suo modo di parlare tra toscano
e lingua cortigiana.
Nel dibattito della questione della lingua si vuole uscire dal proprio volgare per adottarne uno di
portata più ampia. È molto interessante il dialogo il castellano di Trissino, che vuole una lingua
generale che sia il risultato di una serie di sottrazioni dell'elemento locale apportate alle varie lingue
regionali.

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Secondo Trissino la lingua di più ampia diffusione è quella italiana, sotto abbiamo quella regionale,
poi la cittadina fino ai singoli idioletti. Il passaggio verso l'italiano si compie attraverso la rimozione
di pronunce da ciascun livello e mescidazione delle lingue; diversamente Bembo proponeva
l'adozione di un modello. Le due diverse soluzioni potevano integrarsi, ed erano adeguate a diverse
esigenze comunicative.
Benedetto di Faclo, autore di un rimario in volgare e di opere di latino, ribadisce l'insofferenza
verso le affettazioni arcaizzanti. Parla di forme da evitare e sostiene che la preferenza debba essere
accordata alla forma romana, perché a Roma parlare è più generale, infatti usa volemo invece di
vogliamo, e con generale intende comune, come Trissino: genere = Italia; specie = toscana;
individuo = Firenze.
La lingua romana essendo più generale secondo lui è più italiana.

Secondo Benedetto Vrachi il modo di parlare di un determinato luogo si divide in tre parti, ma le
categorie di parlanti sarebbero in realtà quattro, ma l'autore decide di non considerare l'infima plebe:
abbiamo i letterati -che conoscono lingua natia e latino, e talvolta greco-, gli idioti -che non
conoscono altre lingue e non sanno parlare bene nemmeno la natia-, e il livello intermedio dei non
idioti -che parlano solo la natia ma correttamente-.
Giovan Battista del Tufo invece divide la goffa gente da le nobil persone e individua il parlar
gentile napoletano come simile al toscano e superiore al milanese.

Sul finire del 500 abbiamo Ascanio Persio che diceva che era necessario conservare nell'uso le
forme locali, ma migliorandole ed eliminando le caratteristiche spiccatamente locali. La difesa delle
parole locali si fonda sulla capacità etimologica di Persio, che individua la abse greca di varie voci
meridionali, e fornisce un esempio precocissimo di interesse scientifico per i dialetti parlati:
panaiere vuol dire fiera, viene da panegyris che significa solennità, e si facevano mercati per feste
pubbliche.
Già dal 200 -DE vulgari eloquentia- i poeti usavano un alingua letteraria che si discostava dal
parlato. E anche i teorici del 500 volevano adottarne una che si staccasse dal aprlato spontaneo.
Bembo dice al proposito: altro non è lo scrivere che un parlare pensatamenteI.
Anche che era in disaccordo con Bembo sentiva l'esigenza di parlare regolatamente, senza elementi
locali o marcati, non tutti però avevano la cultura necessaria per scegliere le parole e forme più
adeguate.
Bruni sottolinea che nei testi scritti nel corso della nostra storia linguistica si riconoscono tre
categorie di scriventi:
1- Coloro che riescono a scrivere con padronanza e consapevolezza in una lingua letteraria
funzionale per la comunicazione a distanza e destinazione ai posteri.
2- scriventi meno esperti, incertezze nella costruzione dei testi e nella stesura sintattica.
3- chi scrive più o meno come parla, semicolti.
I testi delle ultime due categorie sono riconducibili all'incontro tra dialetto e italiano letterario e
potrebbere essere visti come una sorta di documentazione indiretta di italiano regionale del passato.
Tra i diversi esempi di Bruni si considera un passo di Casali, falegname milanese di fine 500: nei
suoi scritti notiamo metatesi in drieto -dietro-, assenza di anafonesi in giongesse, disnare, serai per
sarai. L'autore aveva imparato a leggere e scrivere nelle scuole della dottrina cristiana, risente del
toscano appreso attraverso i libri di devozione e le guide burocratiche.

Il percorso di De Falco è un movimento orientato a sostituire la forma più spontanea con quella più
accurata e filtrata. Si realizza un percorso attraverso cui l'italiano nasce dal dialetto, con un accorta
opera di selezione, parogonabile alla michelangiolesca arte del levare dello scultore.
Di Falco si concentra anche sul modo di parlare natio, spontaneo e naturale, → nel 500 si osserva il
dialetto. Gli intellettuali sapeva giungere per sottrazione a una lingua regolata da scrivere e da
parlare, ma riescono ad avere a disposizione materiali linguistici pronti per un eventuale impiego
scritto e letterario del dialetto.

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-es giornata tipo Machiavelli nella lettera e Francesco Vettori: quando a fine giornata cambiano
abitudini, abiti e ambienti, cambia anche il linguaggio non mi vergogno a parlare con loro…-

Colocci osserva la variazione linguistica dialettale in prospettiva diatopica. Esamina forme


valutando le differenze tra italiano comune, romano, lombardo. Es: uso del ti tra i lombardi invece
del tu. Lingua comune è considerata tale perché comporta il ricorso a forme che sono in uso in
diverse aree.

Quindi se dal punto di vista del singolo letterato l'italiano nasce a partire dal dialetto, è l'uso
letterario del dialetto che diventa possibile solo a partire da un consapevole approdo all'italiano
letterario. Pertanto dialetto ed italiano non vivono in due mondi separati, ma convivono nella realtà
comunicativa e nell'esperienza dei letterati, che con l'italiano conoscono appunto almeno il proprio
dialetto, quindi è vero che l'italiana è l'unica letteratura nazionale in cui la produzione dialettale fa
corpo col restante patrimonio, è inscindibile.
Trissino, Valeriano, Bembo, Di Falco, vogliono raggiungere una lingua d'arte e comune, e non
hanno l'atteggiamento di chi subisce, né di chi effettua un sopruso, isolano forme italiane da un lato
e dialettali dall'altro.

Capitolo 6
Una riflessione sull'italiano corrente parlato da persone di zone diverse è condotta da Ugo Foscolo
nel discorso storico sopra il decamerone, dove egli osserva che difficilmente un dialetto locale
potrebbe essere usato nella scrittura da parte dei parlanti di un'intera nazione. In italia poi, 12
persone non potrebbero capirsi se parlassero 12 dialetti diversi. L'incomprensione reciproca è
presentata da Foscolo come un paradosso, apparentemente potrebbe sembrare che stia affermando la
solita questione della difficile comprensione tra persone di aree italiane diverse, ma è vero che
Foscolo ammette che l'italiano sia parlato almeno da coloro che adottano un linguaggio itinerario.
Inoltre parla di una lingua diffusa ovunque in Italia, di consumo, presentata come scorretta, non
identificabile con i dialetti, che conserva le qualità di tutti i dialetti e di fatto è assimilabile
all'italiano regionale. Essa da secoli è vitale come lingua franca lungo le coste del Mediterraneo.
Tra coloro che hanno messo in circolazione la lingua comune itineraria abbiamo i predicatori:
francescani e domenicani, riferendosi a loro Foscolo ipotizza che già nel medioevo esistesse una
lingua comune, che veniva proposta nelle chiese e nelle piazze di ogni parte d'Italia.
Sicuramente comunque i predicatori si sono trovati a fare i conti con questioni di lingua e
comunicazione, soprattutto dopo il dibattito linguistico 500esco, come dimostra Panigarola nel Il
predicatore: prospettava per il predicatore la necessità di attenersi al fiorentino e raccomandava ai
francescani un soggiorno a Firenze: quindi da un lato si uniformava all'autorità di Bembo, dall'altro
si apriva all'influenza del fiorentino contemporaneo.
Nella comunicazione della predica, l'italiano entrava nell'orizzonte di chi ascoltava e riusciva a
seguire i discorsi di persone di cultura elevata. Questo aspetto è messo in risalto da Manzoni, nel
XXIV dei Promessi Sposi, quando il sarto che ospita Lucia, ripensa alla predica del cardinale
Borromeo, estremamente colpito da come un uomo così sapiente sapesse adattare la sua parola in
modo corretto ma comprensibile a tutti, e da come lui non sarebbe stato in grado di ripetere
nemmeno una delle parole da lui usate, seppur avesse capito tutto.
Secondo Panigarola il predicatore deve mantenere il suo eloquio lontano dai modi eccessivamente
popolari e erustici, e le lingue potevano essere completamente altre o diverse solamente.
Inoltre raccomandava di evitare parole arcaiche e letterarie, e la sua opera non chiude il problema
della predicazione, ma lo apre.
Aresi segue da vicino le argomentazioni di Panigarola, ma da un lato se ne allontana. Al
fiorentinismo di P, oppone una predilezione per la lingua cortigiana, ed evidenzia quanto sia
difficile trasferire un modello letterario nella prassi comunicativa -è bellissimo il fiorentino, ma per

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favellar bene devi essere fiorentino, per chi non lo è ha dell'impossibile-.
La componente più originale del suo pensiero riguarda l'indicazione di modelli, afferma la validità
di autori contemporanei, che non sono a suo parere meno rispettabili di un Petrarca o Boccaccio.
A proposito del soggiorno a Fi suggerito da P, sostiene che per un predicatore è sempre utile
soggiornare in luoghi altri, perché l'incontro con parlanti di altre zone favorisce modi di parlare che
possono migliorarsi a vicenda. Diventa sostenitore di una sprovincializzazione linguistica.

Gli attori di teatro svolgono il proprio lavoro viaggiando da un luogo all'altro e rivolgendosi ad un
pubblico aterogeneo, sia geograficamente che culturalmente. Aresi, quando deve chiarire gli errori
da evitare, stabilisce un parallelo con glia attori. Suggerisce ai predicatori di allontanarsi dal proprio
dialetto natio perché se ognuno predicasse nella propria lingua la predica finirebbe col trasformarsi
in una commedia.
Quindi il dialetto è sconsigliabile per i predicatori, ma abituale per gli attori, che lo propongono
sulla scena. Ciò permette di smentire l'incomprensibilità tra dialetti e la comprensibilità si collega
alla situazione teatrale. Inoltre probabilmente gli attori attenuavano la componente dialettale, il
dialetto in scena, da Pirandello ad Eduardo DE Filippo era in realtà un dialetto italianizzante.
Nella trattazione sul teatro Perrucci accenna a forme locali specifiche...abbiamo il Dottore a cui è
attribuita la parte del bolognese, dal quale si può dedurre che il bolognese parlato dalla plebe è
stringato, mentre quello della nobiltà si accosta al toscano. L'allontanamento del bolognese stringato
rende meglio l'idea del tipo del dottore, che è un personaggio non plebeo.
L'esperienza di viaggiatore e attore permette a Perrucci di osservare le diverse caratteristiche locali,
partendo dal presupposto che in nessun luogo la lingua è parlata in modo perfetto, ognuno parla
l'italiano a modo suo. Anche il fiorentino secondo lui non è perfetto, soprattutto per via della gorgia,
i settentrionali hanno il difetto dello scempiamento delle doppie, i napoletani chiuse-aperte, parla
anche di ipercorrettismi, affettazioni, arcaismi. I siciliani, palermitani, pronunciano frasi affermative
con intonazione interrogativa.
Molto acuta è l'osservazione che fa notare come ogni parlante noti le specificità fonetiche degli altri
molto meglio delle proprie.
Secondo Perrucci la lingua migliore per recitare è il senese parlato però solo a Roma -privo della
gorgia-, ma valuta positivamente anche il napoletano, viene così confermato il nesso tra il ben
parlare e il viaggiare.
Dopo aver descritto le diverse pronunce locali Perrucci fa un accenno al ruolo di chi scrive i
vocaboli sta a trovarli il poeta.
È imprudente però considerare la scrittura e la comunicazione come due mondi separati, in molti
testi teatrali notiamo l'attenzione a diverse modalità di comunicazione. Nei testi teatrali c'è
multiforme testimonianza linguistica che riguarda anche dialetti non presenti nella lingua
dell'autore.
Nel prologo di Verucci di i diversi linguaggi sono evocate tre diverse varietà: la lingua comune
parlata a Roma, la lingua comune con accenti e pronunce dei paesi d'origine, il dialetto giusto → vi
riconosciamo l'italiano comune, l'italiano regionale e il dialetto arcaico. Quindi anche Verucci nota
l'esistenza di una varietà intermedia tra italiano e dialetti e apprezza il romano. Questa valutazione
del romano torna in un'opera del milanese Maggi: nella commedia i consigli di Meneghino
incontriamo italiano, milanese e il modo di parlare di donna Quinzia, un mix tra le due. Lei si
muove tra dialetto e lingua più moderata, in una dimensione verticale di stratificazione linguistica in
rapporto agli interlocutori, all'argomento e al grado di formalità.
Tra la comunicazione parlata e la lingua scritta si colloca anche il ceto forense. Interessante la
testimonianza dell'avvocato Francesco d'Andrea che sottolinea l'importanza di un italiano
pronunciato senza vistose caratteristiche locali.
A Napoli abbiamo Di Capua che suscita una corrente purista orientata all'imitazione della lingua del
'300, uno dei suoi allievi scrisse un trattato che riguardava non solo la scrittura ma anche il modo di
parlare. Amenta cerca di prospettare le diverse soluzioni valutando la lingua letteraria e l'uso
corrente delle persone civili; chiarisce che la qualifica di lingua cortigiana non è adeguata perché i

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cortigiani parlano male. Distingue la lingua generale dalle lingue speciali e particolari, e gli risulta
chiaro che le lingue delle provincie non è uniforme.
Per lui c'è un modo di parlare diverso da luogo a luogo, il modo di parlare delle persone civili
orientato verso la lingua scritta, e un terzo modo che è quello della scrittura. Punta a diffondere il
terzo tipo, critica Bembo e altri che parlano di lingua volgare, è frequente il riferimento alla
pronuncia corrente, e dice che in alcuni casi deve essere evitato l'uso della crusca se è troppo vicino
a quello plebeo.
La preoccupazione per la buona pronuncia si avvertiva anche in contesti didattici; prendiamo ad
esempio i gesuiti e anche il fatto che dal 1696 chi voleva fare il maestro a Roma doveva avere la
pronuncia romana e toscana.

Capitolo 7
Francesco De Sanctis, illustro studioso della letteratura e ministro dell'istruzione, grazie all'incontro
con l'amico Costabile si convince a seguire i corsi di lingua del purista Basilio Puoti, in quanto
quell'italiano lì è un'altra cosa rispetto a quello che un giovane istruito già conosce e parla. Puoti
seguiva il modello 300esco.
Spesso gli studenti intraprendevano gli studi allontanandosi dal luogo di origine per integrare la
conoscenza dell'italiano; a scuola di Puoti per De Sanctis non si realizzò il passaggio dal dialetto
all'italiano, ma prese forma un confronto dialettico tra italiano abituale e italiano modellato sui
classici.
Secondo Baretti una pronuncia che risente dell'interferenza del dialetto è peggiore di una
integralmente dialettale, perché impura e bislacca, varietà intermedia che va valutata in maniera
sprezzante. Per quanto bislacca tuttavia esiste e accomuna le genti civili di ogni parte d'Italia: la
protesta di Baretti anticipa la preoccupazione di quanti oggi lamentano gli influssi negativi di una
certa lingua televisiva; però al riguardo della lingua di diffusione della predicazione e del teatro, che
però ampliava quella di partenza.
L'analisi di Baretti è valida ancora oggi, non attribuisce la capacità di raggiungere una lingua
comune a coloro che viaggiano, però precisa che i parlanti in presenza di uno straniero adottano una
lingua intermedia.
È importante che sottolineando differenze e precisazioni era facile acquisire consapevolezza delle
specificità dei dialetti e delle possibili gradazioni intermedie dell'italiano regionale.
Nel parlare di lingua letteraria si giunge spesso ad affermare che è una lingua morta, tuttavia in ciò
non dobbiamo vedere una svalutazione.
Anche Manzoni etichetta come morta la lingua scritta, idem Parini; però Bruni osserva che per
molti autori era identificato come dialetto tutto ciò che si allontanava da questa lingua letterari
ideale → idealizzavano fin troppo la lingua e quindi ogni risultato appariva diverso.
La lingua usata per comunicare tra persone di diverse città mal si sarebbe prestata ad una struttura
narrativa, ma non era certo insistente.
Anche per Manzoni c'era la terza possibilità di un italiano parlato diverso da una zona all'altra che
corrisponde all'italiano regionale → a questo proposito Manzoni inserisce la nozione di parlar
finito. L'aggettivo finito si riferisce proprio a questa tendenza a completare le parole in maniera
dialettale, tuttavia è anche possibile che l'aggettivo avesse il valore di corretto/ritoccato.
Soave pone un'equivalenza tra italiano finito e toscano; i maestri sono invitati a far parlare gli
studenti in un italiano alla loro portata, che verrà poi corretto. Se il parlar finito si intende come un
italiano tipico di chi sia allontana dal dialetto, un suo corrispondente è il parlar civile, che
Gioachino Belli presenta come la varietà di chi vuole staccarsi dal dialetto romano.
Il parlar civile è la lingua della gente civile, borghese, professionale e imprenditoriale, ed è
l'obiettivo di chi puntava ad una promozione sociale, per questo si esponeva ai rischi
dell'ipercorrettismo. Belli scrive una parodia che esemplifica le acrobazie dei suddetti e cade
nell'eccesso opposto (magliale per maiale).

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La diffusione di un buon italiano è un obiettivo didattico che si delinea molto prima dell'unità
d'Italia.
È emblematico elementi di pronuncia e ortografia italiana per le scuole di Soave, che segnala il
difetto della U francese in Lombardia e l'errore di eliminarla passando a O chiusa invece di U
toscana. Vengono trattati anche i difetti dei tedeschi, che invece di BE pronunciano PE, invece di
VE dicono FE. Viene criticata anche l'aspirazione toscana.
A questo testo si ispira il purista Carlo Mele, che sostiene la necessità di segnare anche nella grafia
il grado di apertura delle vocali, e offre i più frequenti errori di pronuncia diffusi in area napoletana;
è un documento storico-linguistico che fa capire che era frequente la pronuncia fricativa di S
preconsonantica, la sonorizzazione dopo nasale per le consonanti labiali, l'assimilazione stile
amanno invece di amando, la pronuncia chiusa di E tonica nel dittongo IE.
Per il fiorentino, Mele tende a minimizzare la portata della gorgia e dice che il modello del
fiorentino è da preferire alla lingua cortigiana.

Capitolo 8
Nuzzo presenta il nesso tra una didattica linguistica di taglio regionale e una prospettiva unitaria:
correggendo gli errori delle singole regioni, si giunge all'unità di lingua, che sarebbe, dopo l'unità
nazionale, opera veramente patriotica.
Le reali preoccupazioni manifestate dalla scuola italiana dopo l'unità sono di aver condotto una lotta
senza quartiere contro i dialetti, il bersaglio è sempre l'italiano collocato a metà tra lingua e dialetto,
e la disinvoltura con cui sono inserite nei romanzi frasi in dialetto.
De Amicis ne l'idioma gentile censura gli usi dell'italiano locale ma intravede un futuro
superamento delle rigide prescrizioni didattiche. Egli intuisce che il partimonio linguistico italiano
ha un fondo comune e che gli scrittori condividono con tutti gli altri parlanti un contatto con la
realtà quotidiana e con il lessico vicino ai dialetti.
Il dialetto è al centro della didattica linguistica e ciò aiuta a distinguere gli elementi dialettali da
quelli italiani. Pasquali Villari segnala che di fatto lingua e dialetto sono stati paragonati,
incoraggiando a non usare il secondo e a correggere. Solo di recente a qualcuno è venuto in mente
che a scuola si debba insegnare il dialetto.
50 anni dopo l'unità d'Italia Villari scriveva che non era riuscito a tradurre un romanzo di Dickens
perché non era in grado di individuare parole corrispondenti comprensibili a tutti gli italiani; a volte
gli veniva la parola nel suo dialetto, oppure nel volgare vernacolo fiorentino, ma non nell'italiano
degli scrittori. Questo perché l'italiano unitario pareva essere privo di interi settori del lessico della
realtà quotidiana; in realtà ciò è dovuto al fatto che raramente gli scrittori si sono soffermati su
oggetti della comune realtà quotidiana. Il paradosso connesso all'uso spontaneo di parole del giusto
italiano, ma sconosciute, è: come si può raggiungere la naturalezza e la spontaneità nello scrivere
usando parole sconosciute ai più?
Nella prefazione della seconda edizione dell'idioma gentile De Amicis dice che cercando la perfetta
parola fiorentina trova una situazione complessa di varie parole per indicare la stessa cosa.
In quel periodo era diffusa la certezza che il soggiorno in toscana garantisse il possesso del vero
nome di ogni cosa, e che tutti i toscani fossero maestri di lingua. Il ruolo di Firenze è di riferimento
per dirimere in certezze terminologiche.
Agli occhi del Romani però il fiorentino appare provinciale e non facilmente esportabile, perché si
deve ammettere che alcune parole sono in uso solo a Firenze.
Non è l'etimologia a rendere accettabile un provincialismo, ma solo l'uso dei parlanti. Romani
risalta una visione dinamica dei fatti linguistici: la lingua non cambia improvvisamente.
Nella scuola post unitaria l'interesse si rivolge anche alla pronuncia, importanti le indicazioni che si
leggono nei programmi elementari del 1867 → derivano forse da quelle date a fine '700 da Soave,
sono orientate ad evitare riflessi negativi sull'ortografia, vengono inseriti gli accenti gravi e acuti
che segnalano rispettivamente l'apertura e la chiusura delle O ed E toniche (Petrocchi).

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Romani propone la pronuncia di tipo fiorentino, ma pensa che la gorgia sia da evitare come anche
il monottongamento di UO. Sottolinea che la tendenza al napoletanismo va evitata.
Salani sottolinea che proprio l'insegnamento ha permesso a coloro che studiavano di acquisire
consapevolezza degli usi da evitare.
Il verbo toscaneggiare, come ricorda Benedetto Croce recensendo l'idioma gentile, è usato per
prendere in giro, bisognava fare attenzione al rischio dell'affettazione. Critica l'artificio eccessivo.
Sarebbe da smentire il luogo comune secondo cui sarebbe stata la televisione ad insegnare l'italiano
agli italiani.
Fino a metà '900 le pronunce regionali erano valutate negativamente, negli ultimi decenni la
situazione cambia, come si vede da Bruni.
La novità più rilevante è data dalle regioni: previste nella costituzione dal 1948, ma istituite nel
1970; accanto alle funzioni amministrative hanno acquisto importanza e un ruolo politico.
Nel periodo post unitario la scuola italiana ha un orizzonte nazionale, basta pensare ai vari
trasferimenti come insegnante di Pascoli, e dello stesso Romani.
Un altro fattore che ha favorito lo scambio comunicativo è stato il servizio militare obbligatorio,
importante sul versante di contatto linguistico → Ntoni dei Malavoglia impara a leggere durante il
servizio militare.
Tornando alla televisione, la sua importanza non può essere negata ma non va neanche esagerata,
perché nei primi decenni di diffusione la programmazione era limitata a poche ore e non
raggiungeva la totalità della popolazione, in parte è vero che ha veicolato l'italiano nelle case, ma è
anche vero che tale italiano è stato spesso regionale, per quanto non ostentato.
Nel 1979 è nata la RAI, e l'arco delle trasmissioni si è esteso fino ad occupare giorno e notte.
Anche attraverso la lingua dei testi letterari si diffonde l'italiano e la rivalutazione del dialetto →
con il neorealismo e l'esperienza di Moravia, Gadda e Verga vediamo un distaccarsi dalla lingua
uniforme e controllata tradizionale.
Le scritture su internet offrono un abbondante campionario di usi linguistici ricchi di italiano
regionale, si osservano sottolineature ironiche delle differenze regionali.

Fine

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