Sei sulla pagina 1di 26

SOCIOLINGUISTICA DELL’ITALIANO CONTEMPORANEO – Gaetano Berruto

CAPITOLO 1. L’ITALIANO COME GAMMA DI VARIETÀ


1. Le varietà dell’italiano
Pellegrini riconosce nel repertorio verbale di un parlante italiano medio 4 ‘registri espressivi’ fondamentali:
dialetto, koinè dialettale, it. regionale e it. standard (> schema sull’asse diafasico), ritenendo che un
italofono è in grado di utilizzarli tutti e quattro. Con la denominazione ‘italiano regionale’ vengono colti i
fenomeni compresi tra l’italiano letterario e il dialetto.
Partendo da tale quadripartizione, sono state proposte molte classificazioni delle varietà fondamentali
dell’italiano di oggi.
- Mioni: it. aulico, it. parlato formale e it. colloquiale-informale (> schema sull’asse diafasico).
Un borghese padroneggia tutte e tre le varietà, un piccolo borghese solo la 2nd e la 3rd (con
qualche puntata sull’it. aulico, con effetti comici causati da ipercorrettismo o insicurezza), e un
contadino padroneggia solo la 3nd.
Mioni introduce le dimensioni geografica e sociale e riconosce un repertorio massimo di: italiano
comune, it. comune regionale, it. regionale e it. regionale popolare, tenendo conto della variazione
diatopica, diastratica e diafasica.
- De Mauro: it. scientifico, it. standard, it. popolare unitario e it. regionale colloquiale > anche qui
sono presenti tutte e tre le gamme di variazione.
- Sanga individua otto varietà; ogni varietà è correlata con lo strato sociale che le è proprio. L’it.
anglicizzato (o anglo-italiano), sia orale sia scritto, è caratterizzato dalla presenza di anglicismi ed è
usato dall’alta borghesia con contatti internazionali, da managers, giornalisti, etc. Poi: it. letterario
(standard), it. regionale. L’it. colloquiale è la realizzazione orale e informale dell’it. regionale. L’it.
burocratico è usato in ambito amministrativo e si basa su un ideale scritto artificioso. Poi: it.
popolare (unitario). L’it. dialettale, principalmente orale, è la realizzazione dell’it. popolare da parte
di soggetti fortemente dialettofoni (usato dalle classi popolari). L’italiano-dialetto è caratterizzato
dal passaggio continuo dall’espressione italiana all’espressione dialettale e, anch’esso, è usato dalle
classi popolari.
Problemi di questo modello: 1. il tentativo di proiettare con precisione le varietà appare
problematico e destinato a risolversi nello schematismo; 2. oltre all’it. anglicizzato, appare poco
plausibile l’italiano-dialetto che non sarà una varietà a sé, ma un modo comunicativo con frequente
alternanza italiano-dialetto.
- Trumper e Maddalon New: distinzione fra uso orale e scritto. T. propone due sottorepertori: per lo
scritto: it. standard, it. sub-standard1, it. interferito sub-standard;
per l’orale: it. regionale formale, it. reg. informale, it. reg. trascurato fortemente interferito.
Innovazione: assenza dell’it. standard nel repertorio orale perché è difficile trovare, anche tra i
parlanti più colti, una pronuncia del tutto priva di coloriture regionali > presenza di standard solo
allo scritto: giustificato perché lo scritto è per definizione sempre più formale.
- Sabatini: il suo schema prevede: it. reg. delle classi istruite, it. reg. delle classi popolari +
it. standard e it. dell’uso medio (new): varietà nazionali che si distinguono in diafasia.
- Sobrero e Romanello: it. comune (alto e basso) e it. regionale (alto e basso).
2. L’architettura dell’italiano contemporaneo (dagli appunti)
Berruto rappresenta in uno schema la gamma di varietà dell’italiano contemporaneo, anche se si tratta di
un discorso non del tutto corretto e di piani concettuali astratti; si tratta di un intreccio di variabili come
degli assi (l’asse diatopico non c’è, perché considerato in un certo senso a priori):
- L’asse diamesico (sul piano orizzontale): dal polo scritto (sx) al polo del parlato (dx), con tutta una
serie di gamme intermedie.
- L’asse diastratico (sul piano verticale): dal polo alto (chi ha la massima competenza dal punto di
vista socio-culturale per l’italiano) fino al polo basso (basse competenze socio-culturali).

1
Sub-standard: al di sotto dello standard (standard è l’it. delle grammatiche). L’it. sub-standard è non corretto (it.
popolare, it. scorretto), è l’italiano che usiamo tutti e che permette l’uso del periodo ipotetico a doppio imperfetto.
1
- l’asse della diafasia (piano trasversale): da 1)
piano formale massimo (l’italiano usato dal
Presidente della Repubblica mentre fa un
discorso ai cittadini: è italiano formale, a tratti
anche aulico); 2) scendendo troviamo un italiano
corretto, formale ma che a volte scade
nell’informale (per esempio, il professore a
lezione che va anche nell’informale per cercare di
avere un contatto con gli studenti, però cerca di
essere un italiano corretto, formale e adeguato al
pubblico; inoltre, si occupa di contenuti alti); 3)
via via si può scadere sempre di più verso il polo
più basso/estremo, quello dell’informale (quello
che parliamo a casa o amici, dove ci possiamo
permettere il massimo della libertà) > quindi è
quell’informale trascurato (“trascurato” non nel
senso negativo, ma nel senso “non metto cura nel
mettere il congiuntivo al posto giusto, di usare
l’italiano invece che il dialetto, etc.”).
Nel modello si distingue tra:
- centro: raccoglie fatti unitari, standardizzanti,
normativi;
- periferia: raccoglie fatti non unitari, denormalizzanti devianti dalla norma accettata.
Il ‘centro’ non coincide con il centro geometrico dell’architettura, ma è spostato verso il quadrante scritto,
formale, alto, data la peculiare storia della lingua italiana, il cui standard si è modellato sull’uso scritto,
letterario, aulicizzante. Dal cento verso il basso aumenta il carattere sub-standard della varietà, mentre dal
centro verso l’alto aumenta il carattere non standard (ma non sub-standard).
Berruto dice che per ogni asse ci sono due poli, però le varietà del repertorio si pongono su ognuno di
questi assi non secondo il concetto del gradatum (cioè, io ho diverse varietà di italiano, ognuna inizia e poi
finisce, poi ne inizia un’altra, poi finisce, etc. > come i gradini di una scala: dove finisce un gradino inizia
l’altro gradino), ma secondo un sistema di continuum (concetto importante). Sobrero lo definisce
continuum dinamico, cioè in continua evoluzione, ed è un continuum di continua perché si ha un
continuum sull’asse diamesico (dello schema di Berruto delle variabili), un continuum sull’asse diastratico,
un continuum sull’asse diafasico > quindi, il continuum del repertorio è dato da tanti continua (pl. neutro di
continuum > continua). Berruto lo chiama continuum con addensamenti 2, e ci dice che è un continuum
pluridimensionale (ovvero, se il continuum avesse un’unica dimensione, sarebbe quello dell’asse diastratico
(dall’alto al basso) o dell’asse diamesico (da sinistra a destra) o dell’asse diafasico) > invece, giustamente
Berruto dice che questi assi devono essere messi insieme > quindi, ho un continuum che è
pluridimensionale (a più dimensioni: trasversale data dalla diafasia, orizzontale data dalla diamesia,
verticale data dalla diastratia). Ovviamente questo è un discorso astratto, ma ci fa capire che per parlare di
italiano bisogna parlare di insieme/combinazioni di dimensioni di variazione (diafasia, diamesica, etc.), il cui
risultato (ovvero, l’italiano) è dato dal comporre diversamente tutti questi insiemi di variazioni > questo
spiega la formula “continuum pluridimensionale” e “continuum di continua” e “continuum non lineare”
(Berruto, infatti, dice che è anche non lineare, proprio perché è dato da questo intreccio).
Per continuum si intende il fatto che una varietà sfuma in maniera graduale e impercettibile; il continuum
può essere paragonato all’arcobaleno: i colori dell’arcobaleno sfumano l’uno nella gradazione dell’altro
senza uno stacco. Il gradatum – in cui passa da una varietà all’altra – invece, potremmo paragonarlo

2
‘Continuum con addensamenti’: i tratti variabili tendono a disporsi lungo un asse in modo distribuito, ma tuttavia con
addensamenti in punti corrispondenti alle varietà principali della gamma. Questi punti di addensamento sono
concepiti in termini di cooccorenza dei tratti sul continuum, quando più tratti non standard (marcati) occupano più o
meno lo stesso settore dello spazio di variazione. (cfr. Berruto, p. 33)
2
all’arcobaleno disegnato dai bambini (con colori netti); spesso, inoltre, i bambini marcano addirittura i
confini dei vari colori con il pennarello nero. Il gradatum non esiste nell’italiano, ma è individuabile in altre
lingue (in cui c’è una varietà e nettamente, staccata, un’altra varietà). Nell’italiano, invece, si passa da un
uso alto (per parlare con un professore) a un uso basso (in famiglia o con gli amici) senza poterne avere una
buona delimitazione, sia perché si passa da una varietà all’altra sia perché è la varietà stessa ad essere
composita e che sfuma.
Un tratto può essere compresente in più varietà (per questo noi italiani abbiamo più varietà che sono nel
continuum, che sfumano e che non sono un gradatum):
- Periodo ipotetico dell’irrealtà con congiuntivo imperfetto + condizionale: “se me lo avessi detto, te
lo avrei portato”: questo è l’italiano standard / è colto (quindi, è varietà delle persone colte a livello
diastratico) / è varietà medio-alta a livello diafasico /è varietà più usata nello scritto a livello
diamesico, ma anche nel parlato (perché non è strano usarla nel parlato informale).
- Periodo ipotetico dell’irrealtà a doppio imperfetto: “se me lo dicevi, te lo portavo”: questo è il
neostandard (come lo ha chiamato Berruto) o italiano dell’uso medio (come lo ha chiamato
Sabatini) > in entrambe le accezioni è intenso nel senso che si tratta di uno standard innovativo
perché i nostri nonni non lo avrebbero mai usato / è di un livello colto (perché lo usano anche le
persone colte) e non solo (perché viene usato anche, e soprattutto, nel parlato basso) / tutti gli usi
diafasici (perché sta in un parlato alto, medio e informale; tranne, magari, in un parlato ufficiale o di
altissima formalità > a un colloquio di lavoro o in contesti importanti, si cerca di usare la variante
più colta per vantare il mio italiano più ricercato) / si usa prevalentemente nel parlato, ma è usato
anche nello scritto (negli scritti di giornale o nel romanzo; non lo uso, però, negli scritti di massima
formalità, come ad esempio la tesi di laurea).
Se prendiamo questi due tratti/fenomeni (2 diverse costruzioni di periodo ipotetico dell’irrealtà) vediamo
che, appunto, in italiano c’è questo doppione, questa duplice possibilità (> l’italiano è una lingua ricca,
plurilingue e complicata) > per questo gli stranieri si trovano in difficoltà: perché sulla grammatica imparano
il primo caso, ma nel parlato incontrano quasi sempre il secondo caso. Quindi, per l’uso morfo-sintattico,
abbiamo delle scelte che individuano una varietà di un tipo e delle scelte che individuano una varietà di un
altro tipo, però entrambe le scelte hanno delle aree di sovrapposizione > questo è ciò che si intende
quando si dice che le varietà del repertorio hanno una cooccorrenza di tratti marcati, variabili e non
categorici > cioè, io ho queste varietà nel continuum, varietà che però non stanno una accanto all’altra ma
spesso si sovrappongono, si intrecciano, sfumano una nell’altra in modo impercettibile > marcatezza: è
quello che connota un fenomeno linguistico; ogni fenomeno linguistico è evidenziato/marcato perché ha
dei dati caratteristici > ‘ncoppa è un avverbio che ha una sua marcatezza di tipo di diatopico (perché è
campano), quindi è immediatamente riconoscibile per essere un tratto marcato a livello diatopico; casino
ha una sua marcatezza di tipo diafasico (perché è destinato a contesti situazionali informali). Ogni elemento
della lingua può avere una o più marcatezze; questa marcatezza può riguardare termini per più ambiti >
quindi, nelle varietà del repertorio posso avere la cooccorrenza: cioè io ho tratti marcati nelle varietà che
sono variabili. Le varietà del repertorio sono date non dalla presenza di un singolo fenomeno o tratto: se io
vedo la parola ‘ncoppa anziché sopra non è detto che io abbia individuato una varietà (per esempio, in
questo caso, varietà napoletana); io posso individuare una varietà di un repertorio solo quando vedo molti
tratti marcati (che sono variabili e non categorici > che non sono categorici significa che non deve esserci
per forza quello e non un altro, nessuno è indispensabile per definire una varietà) > se tanti tratti
cooccorrono, individuo quella varietà che, se poi viene tolto uno di quei tratti e se ne aggiunge un altro,
sfumano verso un’altra varietà.
Le varietà possono avere, però, anche alcuni tratti diagnostici > “diagnostici” parola tratta dal repertorio
settoriale medico; come si fa la diagnosi? Si vedono dei sintomi e si ricava la diagnosi > quindi, io ho degli
elementi che sono diagnostici (mi dicono qualcosa ai fini della diagnosi). Esempi:
- trovo scritto giugnio e posso pensare o che quella persona ha fatto un errore o che è una varietà di
italiano popolare/italiano dei semi-colti (che a livello diastratico corrisponde a una varietà precisa),
ma è un tratto.
- “Se me lo dicevi, te lo portavo”: non è un fenomeno basso, ma è medio; penso che può essere una
persona di media cultura che ha fatto un errore.
3
- Aqqua/cerchare: è il tentativo di rendere analogiche delle grafie che, invece, non sono così corrette
da un punto di vista convenzionale (perché si ha il grafema -c- senza -h- quando uso sia la velare sia
la palatale, ma a seconda del suono che ho dopo: nel senso che prima della - a- non metto -h-, ma
prima della -e- devo mettere -h-) > però questa è una decisione convenzionale della grafia, perché
non è logica; quindi, chi non ha una compiuta acquisizione grafica, non ha assimilato questa cosa >
gli studenti, infatti, in genere non fanno questi errori.
- Sensa/penzo: se trovo penzo o sensa, posso pensare che sia di uno studente che maneggia poco la
scrittura, ma non penso che sia un semi-colto.
- laveva detto (> scrizione unita, che nei semi-colti diventa un fenomeno macroscopico). Posso anche
trovare ete lavevo deto: deto in cui c’è scempiamento di -t- perché non lo scrivente non sa scrivere
le doppie; ete lavevo in cui lo scrivente segue il continuum fonico ma non la scrizione grafica.
- Tutto apposto: è un errore che lo studente non deve fare; è grave!
Cerchare: è tratto diagnostico perché, mentre sensa e penzo sono delle grafie dovute alla
trasferenza/sostrato del parlato, (la prof non termina la frase)
Secondo Serianni, bisogna insegnare lo standard soprattutto per quanto riguarda l’aspetto grafico perché è
fortemente rigido e convenzionale, quindi non è ammesso che un cittadino, dopo aver frequentato la
scuola, vada nel mondo e scriva in questo modo perché sarebbe esposto a un ostacolo nel trovare lavoro,
nel comunicare, nell’avere un certo tipo di autorevolezza o prestigio.
In una mail o in uno scritto importante, come faccio attenzione a quello che scrivo faccio attenzione anche a
come lo scrivo; se scrivo tutto apposto è sintomo di un messaggio scritto velocemente, però è anche
sintomo di una interiorizzazione di un’abitudine che è contro la norma che, del resto, è data anche dalla
scrittura digitale in cui sì questo succede perché c’è meno attenzione alla grafia; però, è anche sintomo di
una disabitudine alla scrittura e alla lettura perché in qualsiasi testo corretto si trova a posto > la grafia
conglobata (con la doppia) di a posto che diventa apposto è nata e nasce anche da una trasferenza di tipo
dialettale/locale. La stessa cosa accade quando invece di dire a terra diciamo atterra.
Facciamo finta che tutti questi esempi sono estrapolati da un unico testo: se nello stesso testo trovo tenevo
tanta fame, tenevo è tratto diagnostico. Inoltre, da questo testo unico da cui estrapolo questi termini,
posso fare una sorta di identikit dello scrittore e della varietà che usa: si tratta di una varietà che – con tutti
questi errori, su più livelli (quindi, più e meno gravi) e con uso informale – mi fa capire che ho davanti uno
scrivente poco acculturato/semi-colto, uno scrivente che non scrive bene, che non scrive molto e che non
ha avuto una buona formazione scolastica; poi, leggendo il testo, trovo teneva tanta fame e capisco che si
tratta di uno scrivente meridionale.
Abbiamo fatto tutti questi esempi per capire cosa si intende per cooccorrenza di tratti, per tratti non
categorici, per tratti diagnostici e per tratti marcati (che comunque non ho capito!).
Tratti non categorici: io per dire che il testo è scritto da un meridionale, non ho bisogno per forza di teneva
tanta fame; possiamo togliere teneva tanta fame e sostituirlo con ce lo dico, oppure trovare tutta una sfilza
di passati remoti (che nell’ambito dell’italiano contemporaneo sono in disuso, usati molto invece
nell’ambito dell’italiano meridionale; l’uso dei passati remoti era di tipo campano > la varietà campana si
espande poi in tutto il meridione continentale > quindi, ci sono delle larghe zone di convergenza tra
l’italiano regionale e il dialetto di tipo meridionale, quindi abruzzese, calabrese, in Basilicata, pugliese) > per
esempio: andai a fare la spesa/l’altra estate andai a Venezia noi non lo diremmo mai.
L’uso del voi invece che del lei: “io incontrai un mio vecchio professore e gli dissi: «da quanto tempo non vi
vedo, come state?», esempio in cui è implicito l’uso del voi come locutivo > questo ci fa capire che il
parlante è della Campania, della Sicilia, della Calabria, dell’Abruzzo, etc. > è tratto non categorico (perché
non è che se non c’è quel tratto io non posso dire che è campano/siciliano/calabrese, etc.), ma è tratto
diagnostico (perché capisco che è una varietà meridionale a livello diatopico).
La cooccorrenza mi fa capire che non si tratta di un refuso, ma è un tratto tipico della varietà, ad esempio,
meridionale; i tratti diagnostici individuano un problema più profondo.
Per gli studenti non si parla di semi-colti o di italiano popolare, ma si parla di analfabetismo di ritorno
(concetto coniato da De Mauro), concetto che individua quelle varietà di parlanti o scriventi che hanno
compiuto un’alfabetizzazione, ma per vari motivi – carenza della formazione attuale, cambiamenti di
prospettiva/interessi degli studenti, per il lato visivo che prevale sul lato grafico e sulla lettura, etc. – stanno
4
tornando indietro (per questo è di ritorno) > ovviamente non si torna indietro fino all’analfabetismo.
Inoltre, De Mauro aveva elaborato un coefficiente di calcolo che faceva capire in maniera automatica,
secondo delle proiezioni e delle ipotesi, a quale livello si ritornava, di quanto si regrediva e in base a quanto
si facevano determinati tipi di attività o non si facevano (se uno non legge mai, non va mai a teatro, non
sente mai nessuno parlare bene, quindi non pratica e non esercita più la lingua > torna automaticamente
indietro).
Le varietà del repertorio hanno tratti marcati, ma sono variabili e non categorici; la definizione della loro
varietà è data dalla loro cooccorrenza (più che dal fatto di trovare un singolo elemento). Alcuni, poi,
possono essere diagnostici, cioè dirci con più precisione dove ci stiamo collocando. Il continuum è
dinamico, è continuum di continua, è pluridimensionale e non lineare; inoltre, Berruto dice che il
continuum è con addensamenti > per spiegare l’espressione di Berruto richiamiamo lo schema dei tre assi
(diamesico, diastratico, diafasico): gli assi individuano le varietà che man mano sfumano, ma noi non
chiamiamo per nome e cognome tutte quelle varietà perché sono migliaia (è impossibile), noi invece
individuiamo delle varietà che sono date dalla compresenza di più tratti nell’uso che riusciamo a
identificare/isolare e a descrivere nelle loro caratteristiche essenziali > Berruto ha dato queste ipotesi (poi
ci sono altri linguisti, il nostro corso si sofferma sugli studi affrontati da Berruto): nei quattro quadranti ha
collocato le varietà (rappresentate dai numeri) > queste varietà si dispongono “con addensamenti” perché,
come si vede dallo schema di Berruto, ci sono delle zone con maggior addensamento delle varietà (le zone
di maggior addensamento che individuano delle varietà più utilizzate, perché sono quelle più insegante a
scuola o che fanno da riferimento nella nostra comunicazione) > vediamo:
(1) Italiano standard letterario
(2) Italiano neo-standard (italiano regionale colto medio) è l’altra grande varietà del repertorio perché è
quella che noi sentiamo in tv, al cinema, per strada, quella che parliamo a casa.
Berruto colloca le varietà (1) e (2) più o meno al centro (non proprio al centro), sono spostate più verso
l’asse della formalità e verso l’asse della diastratia (non altissima, ma comunque al di sopra del limite del
segmento basso della distratia) > lo standard e il neo-standard sono le due varietà che si collocano al centro
perché riguardano sull’asse diamesico sia lo scritto sia il parlato e sull’asse diastratico le persone da un
certo tipo di cultura in poi (ma tutte) e sull’asse diafasico tutti gli usi medio-alti.
(4) Italiano regionale popolare: Berruto ha inserito questa varietà negli usi medio-bassi dell’asso diafasico
(la prof non è d’accordo perché non è l’italiano popolare, o meglio: lui voleva identificare in questo
l’italiano popolare, però è anche vero che l’italiano popolare è sempre per forza marcato regionalmente
quindi, mettere questa marcatezza, crea una confusione rispetto a quello che poi è l’italiano regionale > è
vero che l’italiano marcato da un punto di vista diatopico può essere alto/formale e può essere più basso
(quindi, da un punto di vista diastratico, l’italiano regionale può essere l’italiano di una persona che sa
parlare bene l’italiano però si sente, ad esempio, l’accento romanesco; c’è, invece, un italiano regionale –
sia parlato sia scritto – che è di una persona che ha un difetto da un punto di vista diastratico di cultura e di
competenza linguistica).
(5) Italiano parlato colloquiale (sull’asse diamesico): è un’altra varietà che si sovrappone all’italiano
regionale, però il parlato ha dei tratti caratteristici rispetto allo scritto ovviamente > ecco perché Berruto ha
inserito questa varietà.
Poi ci sono altre varietà che sono più specifiche, ecco perché – secondo Berruto – ci sono delle zone di
addensamento; più specifiche sono, per esempio:
(5) e (6) Italiano informale trascurato e l’italiano gergale: sono i limiti più bassi della distratia, ma anche i più
bassi della diafasia (perché, anche a livello diafasico, una persona che è poco colta/poco alfabetizzata
tenderà a cercare di usare il suo italiano migliore > quindi, a innalzare il livello diafasico. Se, invece, non gli
interessa nulla - perché, magari, sta parlando con gli amici; oppure perché è veramente molto incolto e
scende molto sulla diastratia – allora tenderà a usare l’italiano informale trascurato. La prof dice che (6)
italiano gergale crea confusione con il gergo: l’italiano gergale non è inteso come quello triviale/popolare,
ma è inteso in termini linguistici > il gergo è una varietà molto specifica dell’asse diafasico, che poi vedremo
meglio.
Registri o sotto-codici sui piani alti della diafasia:

5
(9) italiano burocratico (considerato più sotto-codice che registro) che ha invaso grandi parti del nostro
parlare e scrivere quotidiano (es.: le email che noi studenti scriviamo ai professori > magari, non sapendo
gestire un italiano colto, tendiamo a scadere nell’italiano burocratico con espressioni come “la suddetta
mail”, “il sottoscritto Mario Rossi, “la succitata laurea” > tutti questi termini sono del lessico burocratico); è
una varietà specifica dell’ambito diafasico perché, in realtà, dovrebbe essere quella varietà che si usa solo
in ambito burocratico. L’italiano burocratico va bene solo nell’ambito burocratico/amministrativo > quindi,
per redigere un certificato, per scrivere una richiesta di liquidazione di una cifra per l’assicurazione del
motorino.
(8) italiano tecnico-scientifico: ha delle difformità a seconda degli ambiti perché è diverso a seconda del
settore disciplinare.
(7) italiano aulico: è la varietà iper-formale (la varietà usata dal Presidente della Repubblica nelle situazioni
ufficiali o da chi si rivolge a lui).
La freccia della sub-standardità: è l’area al di sotto dello standard, ovvero delle regole della lingua italiana.
Al di sopra c’è sia l’italiano standard (quello che si insegna a scuola, quindi è l’italiano della grammatica) sia
l’italiano neo-standard (l’italiano che ha ricontrattato allo standard, ma che è ormai considerato tollerato
nell’uso comune > l’italiano che usiamo tutti, l’italiano secondo cui possiamo usare il periodo ipotetico
dell’irrealtà a doppio imperfetto, basta che non sia in ambito troppo formale > tanto è vero che il neo-
standard sta sopra l’asse limite).
La prof ci ha fatto questo schema che riassume le varietà dell’italiano:

Natura dei continua (dagli appunti)


Due slide di Berruto in cui lui fa due esempi diversi di una ipotetica frase/comunicazione che ha come scopo
di dire a qualcuno il contenuto “io non so cosa hanno detto a loro” > questo ci fa capire come le varietà del
repertorio sono tante, sono su un continuum, sfumano e, come diceva Berruto, sono varietà con
addensamenti > quindi, sono gamme di varietà non ben identificabili, ma senza confini troppo netti in cui
ogni varietà è contrassegnata da alcuni fatti diagnostici ma anche e soprattutto da altri fatti che si
infittiscono e cooccorrono > infatti, le varietà, come abbiamo visto, hanno dei tratti che si infittiscono, però
non ci dicono che per forza sempre quella varietà è proprio quella varietà, ma ce lo dicono alcuni tratti che
abbiamo definito diagnostici oppure il fatto che sono tantissimi che cooccorrono, però alcuni di questi fatti
poi ricadono anche in altre varietà, ecco perché sono un continuum con varietà che presentano degli
addensamenti e che presentano delle aree di sovrapposizione tra ogni varietà per cui non si può ben
distinguere quando finisce l’una e quando inizia l’altra. Berruto ci mostra questa cosa con un paio di
esempi: io posso dire una stessa cosa in moltissimi modi, e questo ci fa capire che l’italiano non è unico;
ogni modo per dire una cosa individua una o più varietà possibili (non è così netta la categorizzazione), però
possiamo fare una sorta di diagnosi (>in
quale varietà è stata detta la frase 1, 2, 3, 4, 5 …?).
1. “non sono affatto a conoscenza di che cosa sia stato loro
detto”: questa è la varietà standard-scritto > lo vediamo dall’uso
del lessico: un lessico abbastanza ricercato, con questo tipico
ampliamento (nello standard-scritto si tende a non usare il verbo
semplice, perché lo standard-scritto italiano è di matrice
letteraria) > quindi invece di dire “non so” dico “non sono a
conoscenza di” che potrebbe risuonare anche con il tipo di varietà

6
dell’italiano burocratico che tende, invece a usare il verbo semplice, a utilizzare un giro di parole. Poi,
incontriamo “che cosa” che è il primo tratto significativo: è pronome interrogativo indiretto (indiretto
perché non è la classica domanda con il punto interrogativo) > il pronome interrogativo nell’italiano
standard è “che cosa” (infatti, se leggiamo le frasi 8, 9 e 10 vediamo che usa “cosa” e nella frase 11 usa
“cosa che” perché in questa tabella man mano si scala di registro e di diastratia) > quindi, a livello diatopico,
nell’italiano standard si dice “che cosa”, nell’italiano comune parlato si tende a dire “non so cosa hai detto”
o “non so che hai detto”: c’è una differenziazione diatopica perché “cosa” è più tipico dell’area
settentrionale, “che” è più tipico dell’italiano centrale e meridionale (se ci facciamo caso, sono i parlanti
settentrionali che tenderanno a dire “non so cosa mi hai detto”, “cosa vuoi?”; mentre, i parlanti centro-
meridionali che tenderanno a dire “non so che m’hai detto”, “non so che vuoi”, “ma che vuoi?”) > quindi, a
livello morfologico, il “che cosa”/“cosa”/”che” è un pronome interrogativo indiretto che ha una forma per
l’italiano standard (cioè l’italiano della grammatica) diamesicamente scritto, una forma per l’italiano parlato
(il neo-standard comune) che però, a sua volta, ha una distinzione a seconda della diatopia (cioè italiano
regionale settentrionale oppure italiano regionale centro-meridionale) > quindi, solo da un pronome come
questo, possiamo intuire qualcosa. Poi incontriamo “sia stato loro detto”: “sia stato” è l’uso del passivo, il
passivo c’è solo nell’italiano standard (perché il passivo è in decadenza, non nel senso che non si usa più e
che non si usa nei libri, ma noi stessi quando scriviamo una tesi di laurea – quindi, italiano più alto che
conosciamo – tendiamo a usarlo poco perché il passivo è una diatesi verbale/modalità del verbo che è più
difficile rispetto all’attivo perché presenta un salto logico (non si parte dal soggetto, ma si parte dall’oggetto
che ha subito un’azione da parte del soggetto), quindi da un punto di vista cognitivo presenta una difficoltà
maggiore; anche nel parlato si tende a usare una modalità chiara e immediata, quindi si usa di più la diatesi
attiva > ecco il motivo per il quale la diatesi passiva è andata nel dimenticatoio e si usa poco. Nell’italiano
formale, però, la diatesi passiva c’è, come anche l’uso del si passivante. “Loro detto”: loro è pronome
personale di terza persona indiretto (indiretto=dativo); nell’italiano parlato non si usa quasi mai (“io ho dato
loro le chiavi” non lo dico mai, direi “io gli ho dato le chiavi” > però, come vedremo nelle frasi successive,
“gli” è degli usi via via più informali o, anche popolari) > inoltre, “gli” per soggetti maschili è consentito, ma
“gli” per uno o più soggetti femminili è proprio sub-standard, quindi non corretto (italiano popolare,
italiano scorretto). Qui si tratta di un problema di natura morfologica (quindi, le cose non sono così semplici
e, quindi, apparentemente limitate solo alla veste lessicale es.: casino, confusione, etc., ma ci sono dei fatti
molto più importanti dietro queste varietà linguistiche).
2. “Non sono affatto a conoscenza di che cosa abbiano loro detto” > l’esercizio di Berruto è quello di creare
tutte le possibili formule con cui io posso esprimere lo stesso concetto, cambiando solo alcuni elementi da
un punto di vista morfologico, morfosintattico, lessicale, verbale, pronominale (io ne sposto uno e già ho un
altro modo di dire) > quindi, è impossibile dire che l’italiano è uno solo perché non ho solo una opzione, ma
ne posso avere tante e ognuna di questa mi intercetta una piccola sfumatura. Questa seconda frase è
ancora dell’italiano standard, lo capiamo dal pronome “loro”, dall’uso corretto del congiuntivo (abbiano;
che cosa + passivo o congiuntivo).
3. “Non so affatto che cosa abbiano loro detto”: cambia il verbo principale “non so” (“non sono a
conoscenza di” risulta più ampolloso, cerimonioso, ricercato) > “non so” è, comunque, un verbo corretto,
quindi siamo ancora nell’ambito dell’italiano standard. Le prime tre frasi possono essere classificate tutte
come italiano standard: nella 3) “che cosa” pronome standard, “abbiano” uso corretto del congiuntivo,
“loro” uso corretto del pronome > quindi, anch’essa è dell’italiano standard, e sono assolutamente corrette
grammaticalmente.
4. “Non so affatto che cosa abbian loro detto”: cominciamo un po’ a scendere; da un punto di vista delle
variabilità (diamesica, diafasica, diatopica, etc.), qual è la differenza tra “abbiano” e “abbian”? Sicuramente
ha anche una valenza diamesica perché magari nello scritto me lo aspetterei di meno, però il movente non
è diamesico, ma è diatopico perché quest’apocope della vocale finale (abbian) è tipica del nord > già
capiamo che Berruto, soprattutto nelle ultime frasi, ha giocato con le varietà diatopiche di tipo
settentrionale perché altrimenti questo schema non sarebbe dovuto essere così (infatti, inserendo tutte
varietà dell’italiano regionale, avremmo avuto tantissime possibili espressioni). Potremmo dire che c’è
anche una lieve interferenza dell’ambito diacronico perché questo tipo di apocope era sicuramente più
frequente nelle varietà dei nativi degli anni ‘20/’30 (parlato vecchio stile).
7
5. “Non so affatto che cosa hanno loro detto”: qui c’è il primo scardinamento perché, se la n°4 è un italiano
che non è standard (perché è regionale) ma è ancora corretto perché usa il congiuntivo (parlante colto), o ci
può essere una varietà che man mano scende o, comunque sia, un contesto diafasico che scende perché,
seppur io sia una persona colta, nel parlato (italiano neo-standard) tendo a usare l’indicativo al luogo del
congiuntivo (fenomeno tipico dell’italiano neo-standard e dell’italiano parlato) perché il congiuntivo è un
modo in regresso (ciò non vuol dire che sia scomparso né scomparirà > è sintomatico del fatto che non
scompare il fatto che molti non colti utilizzano un congiuntivo ipercorretto, cioè lo mettono laddove non ci
vorrebbe > ciò vuol dire che percepiscono ancora il fatto che per parlare bene devono usare quel
congiuntivo e quindi lo reputo ancora importante nel “comune sentimento della lingua” (cit. Luca Serianni)
che dice quello che è corretto, quello che non è corretto, quello che è l’uso più colto, magari senza saperlo
distribuire/utilizzare bene però ha dei campanellini che dicono in alcuni parlanti di usare il congiuntivo e
magari non lo usano in modo appropriato > però il congiuntivo è in regresso, quindi negli usi informali
diremmo “non so affatto che cosa hanno detto” (quindi, possiamo dire che questo è un neo-standard).
6. “Non so mica che cosa gli hanno detto”: qui iniziamo a scardinare il pronome “loro”; anche questo però è
neo-standard, perché ormai “gli” al posto di “loro” è tollerato, è comune nell’italiano parlato anche delle
persone colte, non è invece consentito nell’italiano scritto formale perché non è standard. “gli” è pronome
obliquo/dativo (nel senso che è complemento di termine) di terza persona plurale. Inoltre, è intervenuto
“mica” al posto di “affatto”: “mica” è variante regionale (non così bassa, però sicuramente parlata, perché
nello scritto non informale non si usa).
7. “Non so mica che cosa gli han detto”: qui c’è sia “mica” variante regionale sia “han” con apocope dovuta
al parlante regionale settentrionale.
8. “Non so mica cosa gli han detto”: qui, oltre a “mica” e “han”, troviamo anche “cosa” invece di “che cosa”
> “cosa” è altra variante”. Comunque, noi queste cose le potremmo mescolare: potremmo trovare una
frase con “non so mica cosa gli hanno detto”.
9. “ø so mica cosa gli han detto”: ø significa che è caduta la negazione > la negazione cade nell’area
settentrionale.
10. “ø so mica cosa ci han detto”: di nuovo la ø; inoltre, troviamo il “ci” al posto di “gli”: non siamo più
nell’italiano neo-standard, ma ci troviamo o in una varietà molto marcata regionalmente (molto informale)
oppure si scade nell’italiano popolare (quindi, per coloro che non sanno usare il pronome “gli” o non sa
soprattutto usare il pronome “loro”). Inoltre, “ci” è condiviso anche dal parlato meridionale (non è del
romano) ad es.: “cosa ci hai cucinato a tuo figlio?” “ci ho fatto una bella pasta al pomodoro”.
11. “ø so mica cosa che ci han det’o”: questo è un ampliamento dell’italiano popolare > “cosa che”: si tratta
del che polivalente che si intrufola quando non c’entra niente. Qui c’è un altro fatto – non c’è solo
l’ampliamento “cosa che” –, ma c’è anche un fattore fonetico (qui rappresentato con lo scempiamento
della -t-) > qui capisco che c’è una pronuncia regionalizzata della -t- scempia (quindi settentrionale).
Tutta questa spiegazione ci fa capire che siamo totalmente lontani da un italiano unico.
4. Varietà marginali e semplificazione linguistica
Le interlingue o varietà di apprendimento sono le varietà di lingue sviluppate ed usate da parlanti poco
competenti dell’italiano perché aventi come repertorio nativo un repertorio non italiano. Da qui, è
necessario introdurre la tematica della semplificazione linguistica: tali varietà sono infatti contrassegnate da
un grado più o meno spiccato di semplificazione rispetto all’italiano standard > tale semplificazione è un
rapporto tra due forme linguistiche definibile come il processo secondo cui a una forma X di una lingua si
contrappone/sostituisce una corrispondente forma Y della stessa lingua (o di un’altra lingua) più semplice.
Ferguson definisce i tratti che costituiscono la semplificazione:
- Lessico: vocabolario più ridotto, termini generici piuttosto che specifici;
- Sintassi: scarsità di subordinate e prevalenza di paratassi (coordinate, quindi più semplici); ordine
delle parole invariate, assenza di copula, pronomi e parole funzionali;
- Morfologia: mancanza di flessione.
- Fonologia: strutture monosillabiche e bisillabiche.
Schema p.48 distingue tre fasce di varietà, che vanno da un max di semplificazione a un max di
complicazione:

8
- 1° fascia: semplificazione ‘voluta’ > foreigner talk, usato per comunicare in modo rudimentale ma
basilare con stranieri che sanno poco l’italiano; teacher talk, la varietà usata da insegnanti che
insegnano la propria lingua a stranieri per interagire con gli allievi; baby talk ‘linguaggio
bambinesco’. All’estremo opposto (max complicazione): molte lingue speciali (sottocodici delle
scienze, arti, etc.).
- 2° fascia: semplificazione non voluta di parlanti nativi > qui rientrano le lingue in via di sparizione o
decadenza, ovvero le lingue parlate da parlanti terminali, quindi dalle ultime generazioni che
ancora hanno una competenza di quella lingua. Nella stessa fascia ci sono le varietà diastratiche e
diafasiche dell’italiano (alte e basse); inoltre, nella metà complicata, c’è lo standard.
- 3° fascia: semplificazione non voluta di parlati non nativi > qui rientrano le interlingue (lingue di chi
sta imparando l’italiano) distinte in tre fasi: iniziali (molto elementari), intermedie (si avvicinano a
varietà sub-standard della lingua obiettivo), avanzate (vicinanza con la varietà standard della
lingua).Alta semplificazione: ci sono le varietà pidginizzate di una lingua 3 > lo sviluppo delle varietà
pidgin è autonomo, e crea una propria grammatica che è indipendente dalla lingua con cui si è fatto
contatto.

CAPITOLO 2. TENDENZE DI RISTANDARDIZZAZIONE


1. Lo standard
Nell’ultimo quarto del 900 appare in atto un processo di ristandardizzazione dell’italiano: avviene un
avvicinamento fra scritto e parlato (lo scritto tende ad accogliere come normali tratti del parlato) > quindi,
anche tratti del sub-standard vengono attratti nella sfera dello standard, dando luogo all’it. neo-standard.
Ammon stabilisce i criteri per cui una lingua è riconosciuta come standard:
- l’essere usata dagli strati alti della società
- la tendenza all’invarianza e all’uniformità
- l’elaborazione, ovvero la capacità di essere impiegata in tutti gli usi scritti
- l’essere tipicamente lingua scritta.
Ma Ammon giunge alla conclusione che nessuna delle proprietà risulta veramente definitoria in senso
formale del termine; la nozione di standard pare costituita dal confluire di criteri che, pur non coincidendo
nessuno con il prius assoluto della nozione di standard, cumulandosi restringono il concetto. In Italia una
lingua standard dotata di tutte le proprietà suindicate è esistita a partire dal 500.
Dagli appunti: Sociolinguistica: il repertorio linguistico dell’italiano
Plurilinguismo: per plurilinguismo si intendono molte cose, ma a noi ne interessano due: 1) il plurilinguismo
come pluralità di norme (variazioni interne alla lingua che parlo) e 2) il plurilinguismo di lingua
(compresenza di più lingue differenti in un territorio) > nel caso dell’italiano c’è una situazione molto
complessa, anomala, è un unicum: il caso linguistico italiano è studiato da studiosi di altissimo profilo e da
studiosi tedeschi, americani, inglesi, e stranieri vari > studiano l’italiano e non la loro lingua perché il
dominio dell’italiano si presta a delle ricerche che altre lingue non hanno. L’italiano ha un’anomalia storica,
culturale e, quindi, linguistica. Quando viene uno straniero in Italia, capisce il nostro italiano e non di un
altro (la pronuncia romanesca è diversa da quella siciliana, e per uno straniero è difficile comprendere i vari
dialetti italiani; anche per noi italiani è difficile comprendere l’inglese degli indiani, però riusciamo poi a
capire il concetto > per lo straniero che viene in Italia ciò è più complicato).
Noi abbiamo delle lingue che tra loro possono risultare straniere tra loro (i vari dialetti); inoltre, noi
abbiamo tante norme: qual è il modello di lingua? Qual è il nostro modello? Ovvio, è la grammatica. Ma
come si fa a dire a uno straniero che deve seguire la grammatica, ma poi sente gli italiani parlare
diversamente e seguire i vari dialetti? Per noi, l’italiano comune è una marca regionale.
“che lingua fa?” (analogo a “che tempo fa?”) è una domanda che si è posta De Mauro; lui diceva che
nell’evoluzione di una lingua ci si può fare questa domanda, intendendo a che punto siamo della lingua.
Perché noi abbiamo vissuto delle fasi che hanno evoluto la lingua, ma nel quadro dell’italiano sono
cambiate anche le dinamiche tra lingua e dialetto (fino al 1960 il rapporto lingua-dialetto erano antitetici,

3
Pidgin: lingua semplificata nata dall’incontro tra lingue diverse > mix di lingue di popolazioni diverse venute a
contatto (per colonizzazioni, migrazioni, commercio, etc.).
9
non c’era italiano ma più che altro dialetti). De Mauro fa questa domanda per capire a che punto sta la
lingua: se il dialetto è regredito e dove (nei piccoli centri o nelle città); come sono messi i giovani con lingua-
dialetto (quando usano la lingua e quanto il dialetto), etc.
Breve excursus della storia della lingua italiana: di lingua italiana si parla dal 500; prima del 500 c’erano i
Volgari italiani, ovvero gli antenati dei dialetti; si chiamano “volgari” perché l’italiano, prima del 500, ancora
non era stato decodificato, esistevano tante lingue volgari romanze che continuavano, in area italo-
romanza, il latino volgare. Il latino classico ha un rapporto di condivisione con il latino volgare, ma il latino
classico era la lingua scritta prevalentemente letteraria ed era la lingua dei due secoli a cavallo dell’anno 0
(primo secolo a.C. e primo secolo d.C.); il latino classico è la lingua dei grandi autori della letteratura, la
lingua resa perfettamente sotto l’ambito stilistico, quindi era di nicchia. Il latino di Plauto e di Petronio non
è certamente latino classico. Anche il latino non aveva un monolinguismo: anche in quell’epoca c’era una
variazione diatopica, diacronica, diafasica, diamesico 4. Cicerone stesso diceva di sé, in una lettera ad un
amico, “ma non ti sembra che io ti stia scrivendo sermone plebeio?” (sermone plebeio, cioè in un sermone
di tipo plebeo, quindi come parlano le persone del popolo); perché Cicerone scrive questa cosa? Non
perché stava scrivendo male, ma perché, nello scrivere ad un amico, si rende conto di non stare usando
quello che chiamiamo latino classico (usato nelle opere letterarie), ma che invece stava usando un latino
molto più vicino alla comunicazione parlata ovviamente. Questo è il latino volgare: era quello parlato da
tutti, con differenze ovviamente (il latino parlato da Cicerone sarà stato sicuramente diverso da quello
parlato dal proprio servo; anche se poi i servi di grandi oratori, sentendo i loro capi parlare, sicuramente
avranno imparato molto a livello di linguaggio rispetto agli schiavi di strada) > il latino volgare è, quindi,
quello parlato e che evolve nei Volgari. I Volgari rappresentano l’evoluzione della lingua di comunicazione,
non della lingua letteraria. Quindi, la comunicazione parlata, nella frammentazione dell’Impero e dopo il 3°
secolo d.C., saltano i meccanismi di unità dell’Impero anche a livello linguistico e segue un’esplosione,
esplosione che era già in nuce anche prima, in quanto già c’era una certa variazione geografica e per la
presenza dei sostrati in Italia prima del latino (quindi, il latino parlato aveva delle pronunce diverse). Con la
frammentazione dell’Impero si creano tutti volgari romanzi, quindi ognuno si sente libero di parlare una
lingua che si stava già parlando: nascono i volgari italo-romanzi che, all’inizio, sono tanti (il primo testo in
volgare italo-romanzo è l’iscrizione della catacomba di Commodilla, in romano; e il secondo, considerato
spesso come primo perché ha più valore dal punto di vista ufficiale, è i Placiti campani). Questo per dire che
i primi testi erano in volgare, e che non c’era un italiano unico, ma che c’è stata una nascita frammentata
della lingua italiana, una nascita plurilingue > ecco perché la natura del nostro plurilinguismo è così
complicata, proprio perché è stratificata, una stratificazione che è avvenuta già dalle origini.
I testi siciliani saranno conosciuti in Toscana solo grazie ai copisti toscani, quindi sono testi rimaneggiati; ma
perché in Toscana sfiorisce questa letteratura? Perché, laddove fiorisce un terreno economico adatto e,
quindi, una lungimiranza e un interesse di un ceto emergente intellettuale, si fa letteratura > senza pane
non si fa letteratura. Quindi, poi, la Toscana diventa un luogo privilegiato; la Toscana diviene l’esplosione
del commercio, della borghesia mercantile, che inizia ad avere i soldi da impegnare per istruirsi. Della
Toscana abbiamo dati del 1300 che ci dicono che il livello numerico in percentuale di alfabetizzati era di
gran lunga il più alto di tutte le altre aree italiane, in particolare a Firenze > perché? Nel 1300 Dante ancora
non era nato, quindi questo dato non è attribuibile a lui; questa grande alfabetizzazione è stata possibile
grazie al ceto mercantile borghese emergente che per lavorare aveva bisogno anche di saper scrivere
(iniziavano a tenere i conti, i registri per fare ordini, etc.); quindi, i mercanti che non avevano mai studiato il
latino vanno a scuola di volgare scritto nella scuola dei notai o dei chierici > il fiorentino ha avuto vita facile
per quest’humus sociale e per la nascita di grandi personaggi letterari: in questo modo il fiorentino ha avuto
modo di arrivare a un massimo di perfezione stilistica, di essere una lingua letterariamente scritta molto
bene, distante dall’uso comune e che, quindi, vince la gara con il latino, per questo motivo gli autori delle
Tre Corone e Bembo e Manzoni si sono diffusi velocemente.
Nel 500 avviene la grande esplosione della stampa in Italia con Aldo Manuzio, primo editore importante,
che è in consonanza con Bembo (Le prose della volgar lingue); si tratta di un sodalizio umano, intellettuale.
L’idea di Bembo del 1525 è quella di riprendere il fiorentino delle di quelle che lui chiama Due Corone
4
Diatopica, ovvero a livello geografico; diacronica, a seconda del tempo; diafasica, a livello di registro (alto, medio,
colloquiale, basso, letterario e no, etc.); diamesico, ovvero scritto e parlato
10
(Bembo fa fuori Dante perché per lui era plurilingue e Bembo ha un’impronta di tipo classicista); subito
Manuzio scrive le prime edizioni a stampa di Boccaccio e Petrarca (successivamente anche di Dante) che,
guarda caso, escono con editore Manuzio > quindi, tutto quello che Bembo fa come filologo viene stampato
da Manuzio, il più grande stampatore > si diche nei primi decenni del 500 in cui emerge la stamperia di
Manuzio il 70% dei testi editi in Italia siano usciti dalla stamperia di Manuzio, quindi c’era un monopolio da
un punto di vista linguistico, perché si tratta di testi che escono sempre con quel modello, per questo il
fiorentino ha vita facile.
Quindi, col fiorentino del 300, col modello di Bembo nel 500 e i cambiamenti di Manzoni nell’800, siamo poi
arrivati all’italiano contemporaneo.
Ma torniamo indietro: come dicevamo prima, di lingua italiana si può parlare dal 500, prima non c’era
italiano, che nasce con Bembo e col fatto che la stampa certifica e sdogana la sua certificazione dell’italiano.
La lingua italiana è, sostanzialmente, il fiorentino (“il fiorentino è un dialetto che ha fatto carriera”,
Francesco Bruni). Il fiorentino è uno dei tanti volgari che, a un certo punto, ha innalzato il proprio rango.
Prima del 500, dato che non si parla di lingua italiana, non si può parlare neanche di dialetti, in quanto i
dialetti esistono perché si rapportano a una lingua che fa da riferimento; quindi, prima del 500 si parla di
volgari italiani.
Uno studio fatto da De Mauro dice che: il 95% della popolazione usa la lingua italiana, mentre i dialetti sono
parlati in modo monolingue solo dal 5%; inoltre, afferma che il 44% parla in modo esclusivo o prevalente
l’italiano e il 51% parla alternativamente italiano o uno dei dialetti. Quindi, c’è un vero e proprio
bilinguismo in questo caso, o una diglossia. La diglossia è la presenza di due codici in una società: varietà
alta e varietà bassa; ci sono due tipi di diglossia: 1) diglossia con bilinguismo, quindi le persone hanno a
disposizione tutti e due i codici; 2) diglossia senza bilinguismo, quindi le persone non hanno a disposizione
entrambi i codici, ma solo uno di questi.
Tullio De Mauro scrive L’Italia delle Italie.
Un altro saggio di Tullio De Mauro presente su Treccani Multilinguismo e regionalità dell’Italia linguistica
contemporanea: da leggere; si tratta di un contributo importante per la Treccani scritto da questo
autorevole studioso. Questo saggio rielabora il concetto dell’Italia delle Italie, di plurilinguismo. Lui dice che
“la conquista dell’uso dell’italiano non ha comportato la cancellazione degli idiomi locali e delle varietà
idiomatiche” perché negli anni ‘60/’70 (anni in cui è esploso il boom dell’italiano) qualcuno aveva predetto
che i dialetti sarebbero morti, perché ci si rendeva conto che aumentando gli utenti dell’italiano, il dialetto
stava perdendo forza. Invece, De Mauro dice che “l’uso dei dialetti si è ristretto, ma è tutt’altro che
svanito”: sicuramente si è perso il dialetto inteso in termini di coefficiente di intensità (ovvero, il dialetto
vero è quello degli ultraottantenni, che non c’è quasi più); ma ciò non vuol dire che il dialetto sia svanito: il
dialetto è lingua viva perché ci sono sintomi di vitalità (questo accade nei i giovani sia nella comunicazione
interpersonale sia nella musica, pensiamo a tutti i rapper > quindi, questo ci fa pensare che il dialetto è
vivissimo). Altra cosa vivissima è la regionalità, ma anche il dialetto, dal punto di vista espressivo del cinema
e della tv (discorso che affronteremo in modo più approfondito più avanti con le fiction, serie tv, teatro,
etc., in cui c’è stato uno spazio sempre più ampio dato alla regionalità localistica, quindi italiano regionale
marcato e forte). Continua de Mauro “Si può far ascendere al 60% la percentuale di popolazione che, pur
sapendo ormai usare l’italiano, conserva l’uso del dialetto, specialmente tra le mura di casa, ma anche nelle
relazioni con estranei, soprattutto in Veneto e nelle regioni del Sud”: queste sono le due aree di maggior
resistenza; il Veneto, tra l’altro, contraddice anche tutte le ipotesi di sradicamento di immigrati stranieri >
infatti, il Veneto ha una grande percentuale di immigrazione straniera, ma non sta perdendo il suo
radicamento dialettale neanche tra i giovani, anzi tra i giovani ha una vitalità del dialetto marcatamente
accentuata.
Resta il fatto che ci sono larghe fasce di popolazione che non hanno il dialetto (magari non lo hanno mai
parlato a casa, magari perché vivono in una metropoli dove c’è generale depauperamento del dialetto, in
quanto c’è una commistione di lingue, e quindi ognuno tende a cedere un po’ della propria lingua negli anni
per parlare e per comprendersi meglio); e poi ci sono zone, come Roma, che sono orfane di dialetto (il
romanesco non esiste, è considerato come varietà regionale non come dialetto) > questo non vuol dire che
tutti gli italiani possono parlare dialetto (la prof., per esempio, dice che lei avrà mai il dialetto).
L’”italiano” nei secoli: dal 1525 > schema del prof. Vignucci che rappresenta l’evoluzione dell’italiano.
11
Si tratta di fasce concentriche che corrispondono ognuna a un secolo, partendo dal centro. Il centro
“l’italiano è lingua scritta letteraria” corrisponde al 1525. La seconda fascia “l’italiano è lingua scritta di
cultura” corrisponde al passaggio del 600 ma soprattutto al 700: l’italiano è lingua scritta sì, ma nel 700
inizia ad essere anche lingua di cultura > quindi, una lingua che non è solo letteraria, ma anche di cultura (si
pensi all’enciclopedismo, al Caffè di Verri, ai giornali, alla pubblicità, etc.); nel 700 l’italiano esplode e
diviene la lingua di tutta la cultura; infatti, è a metà del 700 con i Gesuiti che nascono le scuole in cui si
insegna per la prima volta l’italiano (prima si insegnava il latino). Successivamente, nello schema, c’è una
marcatura più netta perché lì c’è proprio uno stacco perché nell’800 (penultima fascia) l’italiano è “lingua
scritta (e parlata) nazionale” > perché “e parlata” è tra parentesi? Perché l’italiano nei suoi usi regionali
comincia ad essere una lingua che permette la comunicazione tra parlanti, quindi si inizia a sviluppare
questo uso di parlare non solo in dialetto ma anche con varietà regionali che si avvicinino all’italiano e che
consentano la comunicazione tra persone di diverse aree e regioni. Inoltre, in basso, c’è “nazionale” perché
durante tutto l’800 c’è tutto il grande problema nazionale: l’Unità d’Italia è stata una gestazione lunga e
l’800 l’ha vissuta sin dai suoi primi anni; a un certo punto questa Unità si raggiunge, ma ne è preceduto
tutto un percorso > quindi c’era una tensione verso l’Unità nazionale e, anche, popolare che ha sdoganato
quest’uso più popolare/parlato dell’italiano (non è detto che il popolo parlava l’italiano, ma magari iniziava
a capirlo e prenderci dimestichezza). Infine, c’è l’ultima fascia, il 900 in cui l’italiano è “lingua parlata e
scritta di massa” > da notare che “parlata” non è più tra parentesi perché ora l’italiano è diventata davvero
lingua parlata (l’italiano ha guadagnato territori, tra cui il territorio del parlato); inoltre, ora è lingua di
massa (prima era di élite): mentre nell’800 era una lingua nazionale ma non tutti la possedevano, nel 900
inoltrato (precisamente nel 1960) l’italiano diventa una lingua di massa, cioè di tutti.
Una trasformazione che dipende da fattori sociali, storici, politici, geografici (perché le Alpi hanno
rappresentato un confine, come anche il mare).
Fattori storici e socio-economici che hanno favorito l’italianizzazione nell’800 e nel 900 (cfr. lezione 18/03):
- Diffusione della stampa periodica e della letteratura popolare;
- Burocrazia dello stato nazionale: con l’Unità, la burocrazia andrà anche con i funzionari in loco > i
funzionari piemontesi erano detestati perché andavano nelle singole aree del territorio nazionale a
imporre la loro legge e la loro lingua. Questo, naturalmente, favorisce la diffusione dell’italiano.
- Servizio militare obbligatorio (I e II guerra mondiale): la leva obbligatoria portava tutti i nostri
connazionali dell’epoca (dopo il 1861) a partire per un anno e mezzo/due fuori dal proprio paese; lì
erano tutti mescolati e parlavano lingue diverse, mentre gli ufficiali parlavano l’italiano > fenomeno
che si esaspera e diventa ancora più prorompente con la Prima e la Seconda guerra mondiale, che
sono grandi occasioni di alfabetizzazione e italofonia: si cominciano a capire le altre lingue, a
imparare l’italiano e imparare a scrivere;
- Emigrazione (interna e esterna);
- Industrializzazione e urbanizzazione: fenomeni di natura demografica che portano spostamenti di
popolazione, per cui la popolazione dialettofona va a urbanizzarsi o ad acquisire un altro tipo di
lavoro o, addirittura, si sposta di molto (dal sud al nord), perdendo così il monolinguismo dialettale
che avrebbe avuto se fosse rimasto nel proprio paese a fare il contadino o a lavorare nella
botteguccia del paese;

12
- Stampa + radio, cinema, televisione: importante la stampa come abbiamo già detto; anche la radio
è stata un mezzo potentissimo per la diffusione dell’italiano colto, anche perché emetta sia parlato
italiano sia musica italiana > la lirica e la letteratura si ascoltavano dalla radio; anche il cinema e la
tv naturalmente > la tv ha compiuto l’ultimo segmento determinante nell’italiano come lingua di
massa.
Percentuali di italofonia:
Nell’asse orizzontale ci sono i secoli e nell’asse verticale
ci sono le percentuali. Dal raso terra del 16°-17° secolo,
nel 18° secolo questa percentuale comincia a salire. In
un convegno De Mauro ha detto che c’erano dei dati
che avevano dato una percentuale del 5‰ (5 per mille)
di italofoni nel 700 > dallo schema si vede che la curva
sale fino al 10% nel 19° secolo e, poi, sale con una curva
esponenziale. Curva esponenziale, ovvero che a un certo
punto scatta qualcosa, di negativo o positivo che sia, per
cui questa curva non si controlla più > con l’Unità d’Italia
e con i suddetti fattori è scattato un qualcosa per cui
questo meccanismo non si poteva più fermare ed è
esploso al 95% in poco meno di un secolo.

È da comprendere bene il dato del 10% del 19° secolo: molti hanno studiato la percentuale di italofoni al
momento dell’Unità. Intanto, italofonia significa saper parlare l’italiano ma anche comprendere
(comprendere è competenza di tipo passivo); il dato della comprensione spesso è messo in coincidenza con
quello dell’alfabetizzazione per un motivo teorico molto semplice, ovvero che chi era dialettofono, se
andava a scuola, automaticamente diventava almeno un po’ italofono (quindi, se non poteva andare a
scuola, quindi era analfabeta, non poteva che rimanere dialettofono); in genere è sempre stato così, anche
se con eccezioni di vari autodidatti che, alfabetizzandosi, acquisivano un po’ anche la capacità di scrivere in
italiano, quindi in qualche modo diventavano un po’ anche italofoni. Quindi, alfabetizzazione e italofonia
coincidono e vanno di pari passi, sono direttamente proporzionali l’uno con l’altro.
Studiando questi dati, si sono ricavate varie percentuali; uno dei
primi a soffermarsi su questo studio è stato De Mauro,
sociolinguista doc, che ha fatto della sociolinguista la sua chiave di
interpretazione di ricerca della realtà linguistica (non poteva fare
una ricerca sulla lingua senza partire dai dati sociali). De Mauro, in
uno studio del 1963, afferma che nel 1861 (Unità) erano italofoni
il 2,5% degli italiani; invece, Castellani, che entrò in discussione
con De Mauro (ci furono anche dei botta e risposta anche in una
sede di convegno e, poi, per le pagine), fece questo studio nel 1982 rivedendo i parametri e disse che nel
1861 gli italiani che erano italofoni erano del 10% > una battaglia tra due percentuali molto scoraggianti
perché, prendendo per buono il 10%, è assurdo comunque pensare che il 90% della popolazione dell’Italia
unita non parlava la lingua nazionale, non la comprendeva etc.
Importante, quindi, il rapporto tra italiano e dialetto: oggi il dialetto sembra una lingua di serie B.
In questo arco cronologico di 150 anni ormai, si è compiuto un miracolo dal punto di vista linguistico.
16 marzo 2021
Come abbiamo detto, De Mauro è stato uno dei primi a introdurre i numeri nella linguistica; testo
importante di Tullio de Mauro è Storia linguistica dell’Italia unita edito da Laterza: prima edizione del 1963,
ma ormai è nota a tutti con l’edizione ampliata del 1970, ma ancora meglio è la quinta e ultima edizione del
2011. Si tratta di un libro non solo di linguistica, ma anche culturale: traccia la cultura dell’Italia unita,
inquadra come siamo arrivati all’Unità, qual era la situazione dell’italiano e cosa è successo dopo > tutto il
percorso che dall’Unità ha portato agli anni ’60 e poi nel ’70. De Mauro pubblica nel 2016 La storia
linguistica dell’Italia repubblicana dal 1946 ai nostri giorni: è un po’ la seconda puntata del precedente; De
13
Mauro ci ha pensato molto a scriverla (cfr. date delle varie edizioni di Storia linguistica dell’Italia unita):
pubblica questo libro quasi parallelamente all’ultima edizione del primo; inoltre, fa passare tempo perché,
credendo che l’Italia unita a livello linguistico era stata fatta arrivando agli anni ’70, serviva un altro capitolo
che spiegasse cosa è successo dopo, ovvero nel momento in cui gli italiani hanno avuto in mano questo
italiano: quindi, spiega cosa ne è stato della storia linguistica dell’Italia, a questo punto, repubblicana
(quindi dopo la 2° guerra mondiale) fino ai nostri giorni. Si tratta di una nuova storia. Centra subito nel
focus tematico del titolo l’aspetto storico e sociale (sia nel primo libro sia nel secondo: l’Italia unita e l’Italia
repubblicana, fatti non solo storico-politici, ma anche sociale ovviamente) > ne esce, da entrambe, un’Italia
diversa; mette il centro non tanto sui limiti cronologici, ma sullo sfondo del quadro storico-sociale in cui si
cala la lingua e la sua storia > ecco cosa è la sociolinguistica.
Riprendiamo dalla lezione scorsa: De Mauro aveva ipotizzato che nel 1861 (Unità) erano italofoni (quindi
alfabetizzati) il 2,5% degli italiani > alfabetizzazione e italofonia vanno di pari passo, perché il primo e unico
contatto per un cittadino fino al 1861 era quello che accadeva nella scuola, perché in famiglia si nasceva
tutti come madrelingua dialettofoni, ognuno aveva il proprio dialetto che poteva essere più o meno colto
(un conto era avere il dialetto di Manzoni, un conto era avere il dialetto di un contadino). Inoltre, non
esisteva il nido né la scuola materna, esisteva la scuola elementare per chi ci poteva andare; quindi, fino ai
6 anni non c’era un contatto duraturo e continuo con l’italiano. L’italiano si imparava solo a scuola, e a
scuola ci andavano in pochissimi, in quanto la scuola non era neanche normata; le prime leggi sulla scuola
sono importanti nella didattica e per la storia della lingua italiana:
- Legge Casati (1859) ha stabilito che l’istruzione elementare fosse pubblica e gratuita > prima
l’istruzione elementare era in scuole private, quindi a pagamento; lo Stato e il Comune non
avevano l’obbligo di fornire servizi essenziali al cittadino, quindi di pagare dei maestri affinché
insegnassero ai bambini a leggere, a scrivere e a fare i conti > questo avviene per la prima volta con
la Legge Casati. Non c’è errore: sì la legge è del 1859, mentre nel 1961 c’è l’Unità > questa legge era
originariamente una legge del Regno sabaudo, che era in linea con la grande tradizione illuminista
del Regno austro-ungarico (che era molto avanti con la legislazione sull’istruzione), quindi Torino
aveva molto preso da questa tendenza avanzata verso l’istruzione “allargata”; inoltre, il sorgere
dello Stato italiano venne criticato perché per alcuni era ampliare lo Stato sabaudo a tutta Italia > la
grande questione meridionale si è creata quando il meridione si vedeva schiacciato da uno stato
che doveva essere nazionale, ma che in realtà era l’applicazione del Regno sabaudo a tutta Italia,
quindi sembrava più una dominazione che un avanzamento. Molte leggi e molte organizzazioni
burocratiche del Regno sabaudo, il più avanzato, vennero trasferite al resto d’Italia > la Legge Casati
è una di queste.
- Legge Coppino (1877) sancisce un obbligo da parte della famiglia, cioè tutti i bambini devono
frequentare il primo biennio delle elementari; moltissimi, fino ai primi del 900, avranno la prima e
la seconda elementare. Solo negli anni ’60 arrivò l’obbligo della scuola media*; e poi, più in là
ancora, si innalza l’obbligo ai 16 anni (il biennio delle superiori).
Quando si fa una legge, però, è chiaro che non si mette subito in atto perché dietro c’è un problema
culturale: quando c’è stato l’obbligo della frequenza al primo biennio, non tutti i genitori hanno dovuto
mandare i figli a scuola perché in quegli anni ancora c’erano i contadini, i braccianti, gli operai, comincia la
questione dello spostamento delle grandi masse (dal sud al nord); spostamenti che portavano a una
maggiore consapevolezza; però, finché l’Italia rimane Italia rurale (con un assetto statico), al primo biennio
di scuola ci andavano pochi bambini. Quindi, il censimento del 1861 dà il 75% di analfabeti (attenzione: tra
questi erano considerati anche coloro che non sapevano scrivere neanche la propria firma e che firmava
con la X) > quindi, ecco la disparità tra questo dato e quello di De Mauro (25% di alfabetizzati contro i 2,5%
di De Mauro): ma, quando capiamo che alfabetizzazione, secondo il censimento, voleva dire anche solo
saper mettere la firma, capiamo questa disparità (anche se poi magari, queste persone che sapevano
mettere la firma, non sapevano parlare l’italiano). Il censimento del 1911 dà il 40% di analfabeti: in 40 anni
cambiano le sorti dell’analfabetismo.
* La legge della scuola media unica è del 1962; cominciava appena il problema dell’evasione, infatti vi era
molta attenzione alle assenze dei ragazzi. Il 62 è anno topico: negli anni ’60 si muove un fermento che
rivoluziona la didattica, e la spiegazione è di tipo sociolinguistico e storico: da didattica tradizionale a
14
didattica moderna (ne parleremo più in là; le 10 tesi Giscel per l’educazione democratica, e altro > non a
caso De Mauro scrive Storia linguistica dell’Italia unita nel 1963 in cui si pone tutte quelle questioni);
mentre con la scuola elementare si era abituati ad avere tanti bambini in classe anche di ceti e origini
diversi, la scuola media era abituata ad avere un élite (quindi, insegnare a coloro a cui non c’era neanche
bisogno di insegnare). Quindi c’è una specie di invasione nelle aule: Don Milani, con Lettere a una
professoressa, si pone il problema di questi giovani ragazzi che vanno a scuola ma che non capiscono
l’italiano e gli argomenti trattati perché non hanno il tipo di istruzione adatta. Quindi, con l’invasione di
questi studenti che entrano nelle medie per obbligo (diversi dalle élite) e che hanno bisogno di un tipo di
istruzione diversa, ci si rende conto che si devono mettere a punto delle strategie (una cosa è insegnare a
chi a casa ha un ambiente proficuo all’istruzione, una cosa è insegnare a chi a casa parla il dialetto) >
proprio negli anni ’60 c’è l’esplosione della teoria dei maestri che fanno cambiare il modo di insegnare e,
quindi, c’è tutto il fiorire della nuova didattica.
C.M. Cipolla scrive nel 2002 Istruzione e sviluppo, Il declino dell’alfabetismo nel mondo occidentale > allarga
lo sguardo oltre l’Italia e verso il mondo occidentale: dal punto di vista dell’alfabetizzazione, in Francia, in
Spagna o in Germania erano molto più avanti dell’Italia, perché l’Italia era arretrata dal punto di vista
nazionale e perché l’Italia è stata una lingua nata a tavolino da un punto di vista letterario (non è nata
nell’uso, ma era una lingua a cui accedevano solo coloro che avevano accesso ai testi alti, etc.). Per
l’alfabetizzazione, in Italia siamo stati molto bravi (vedi schema delle percentuali di italofonia): le altre
nazioni, intorno all’800, non avevano una situazione disastrosa come la nostra (la nostra era così disastrosa
per motivi legati alla nostra frammentazione nazionale, al fatto che l’italiano era una lingua letteraria, al
fatto che siamo stati dominati da varie popolazioni che si sono succedute), però il percorso fatto in 100
dall’Italia non lo ha fatto nessun altro in Europa (infatti, in soli 100 anni, il fenomeno di italofonia è esploso
in modo esponenziale).
Cipolla ci fa vedere i dati per regione: la Basilicata è, tutt’oggi, una di quelle regioni più problematiche dal
punto di vista socio-economico per i servizi e le infrastrutture > chi pendola dalla Basilicata sa bene che se
deve prendere un prendere un treno per Roma, è meglio
prendere la macchina.
Schema di Cipolla sull’analfabetismo tra la popolazione
adulta italiana (dai 6 anni) per regioni in %, per avere
un’idea; M e F stanno per maschio e femmina.
Per De Mauro i dati erano quelli del 2,5% e Castellani
aggiusta la percentuale al 10%.

In questo schema possiamo vedere una differenza


riguardo all’uso del codice italiano-dialetto tra scritto
e parlato negli ambiti cronologi indicati a sinistra. I
termini di bilinguismo e diglossia vanno presi con le
pinze, in quanto su di essi c’è un grande dibattito
teorico. Bilinguismo è quando due lingue sono
utilizzate nello stesso paese e da uno stesso parlante;
diglossia è una situazione linguistica in cui, all’interno
di un repertorio linguistico, due lingue convivono ma
hanno una distribuzione d’uso (ovvero coprono degli
ambiti diversi, quindi hanno una specializzazione > es.: il latino era usato per lo scritto e il volgare per il
parlato; il dialetto per la comunicazione privata, l’italiano per la comunicazione pubblica tra cittadini) > ma
gli studi teorici interpretano spesso in modo differente questi due termini. Analizziamo lo schema:
- Fino all’Unità c’era una situazione di bilinguismo: un bilinguismo che è proprio bilinguismo > chi
parlava il dialetto praticava solo il dialetto; chi utilizzava l’italiano sapeva e utilizzava sicuramente il
dialetto nell’ambito privato > ma, comunque, era una situazione di bilinguismo perché erano due

15
lingue diverse, due lingue che non comunicano e che non hanno una ripartizione di ambiti perché,
possiamo dire, stanno in due contenitori diversi.
- 1860-1960: c’è una situazione di bilinguismo con diglossia, ovvero quando in Italia si comincia a
muovere una situazione per cui non è più vero che l’italiano è usato solo per lo scritto e il dialetto
solo per il parlato, ma a livello del parlato comincia ad essere usato anche l’italiano come L2. In
linguistica, per L1 si intende la lingua madre, è a matrice materna (può essere paterna, nonnesca,
etc. in base a chi si occupa del bambino > è quella la lingua che impara); questo spiega che spesso
noi ci portiamo più imprinting linguistico dal soggetto materno che da quello paterno (non sempre
vero): se una mamma è siciliana e un padre che non ha accenti, è molto probabile che ci porteremo
quel vocalismo di tipo siciliano, viceversa è meno sempre perché contano i primissimi mesi e non lo
spirito di imitazione che magari può sorgere nel soggetto maschio nei confronti del papà. Un altro
momento centrale è quello dell’adolescenza, in cui si instaura il meccanismo della dinamica del
gruppo, in cui si tende ad assimilare la propria lingua al gruppo. Dopo aver acquisito la propria
lingua L1, L2 è una seconda lingua che si impara, che si può imparare da molto presto o più tardi; in
alcuni casi, quando ci sono i bilingui (perché a volte ci sono genitori di lingue diverse), ci possono
essere quei bilingui che sono bilingui da subito apparentemente (attenzione! è difficile che un
bambino sia bilingue da subito > è vero che, intorno a 1 anno e mezzo/2, gli si comincia a parlare in
entrambe le lingue ma, generalmente, la mamma ha maggiore influenza linguistica > quando la
mamma allatta, per esempio, parla la propria lingua e sarà quello il canale linguistico prioritario).
Chiunque apprenda una L2 ha una marcatura in L2 dovuta a L1: il bilinguismo è sempre un risultato
successivo, cioè la L2 è sempre acquisita come lingua secondaria. LS è un’altra cosa ancora: è la
lingua per stranieri, ovvero quella che insegniamo a uno straniero, che è diversa come modalità (ad
esempio, io da adulta voglio imparare il tedesco; lo imparo come LS e non come L2; lo acquisirò
come L2 se, imparatolo, vivo per molti anni in Germania e diventerò bilingue). Quindi, leggendo lo
schema, dal 1860 al 1960 si è iniziato a usare l’italiano come lingua del parlato, ma come L2, quindi
come lingua che era comunque stata appresa dopo; quindi, la L1 era sempre il dialetto.
- Dopo il 1960: c’è una situazione di diglossia, quindi: nello scritto c’è sempre l’italiano, che a quel
punto non sarà più L2, ma potrà anche essere un L1 (infatti la linea è tratteggiata); nel parlato,
però, c’è perfetta diglossia (senza diglossia) in quanto potrò avere sia il dialetto (che ormai tenderà
ad essere imparato dopo o insieme all’italiano) sia l’italiano L1, perché la scolarizzazione dopo il
1960 è molto precoce e, mentre prima non c’era, ora si ha sia la materna sia il nido (quindi, i
bambini spesso vanno al nido addirittura a 3 mesi). Comunque, l’italiano è ormai una lingua
acquisita dai nostri genitori, quindi si sente circolare a casa anche se si hanno dei genitori
dialettofoni > quindi, ormai nel parlato, l’italiano è L1 quasi per tutti, il dialetto è L2 quasi per tutti
(quindi, il dialetto si apprende come lingua secondaria all’italiano, che invece è lingua di tutti); nello
scritto, si ha, per la prima volta, l’italiano come L1, non più come lingua della scrittura, bensì come
vera lingua che ho sia nello scritto sia nel parlato.
18 marzo 2021
Analfabetismo e italofonia sono strettamente legati. L’analfabetismo è sintomo di una società arretrata, in
cui la democrazia non si può sviluppare, in cui i diritti iniziano ad affermarsi (anche se siamo lontani dalla
Repubblica, perché siamo ancora nel 1861 > abbiamo il socialismo, i movimenti femministi, le nascite dei
sindacati), diritti che non possono essere affermati senza il diritto primario, ovvero quello dell’istruzione.
Non solo i nostri connazionali erano analfabeti, ma ancora di più: essere analfabeti significa non saper
scrivere né leggere, ma loro non erano italofoni, ovvero non parlavano tutti la stessa lingua e non si
capivano > nella Grande guerra del 15-18, uno dei grandi problemi narrati dai soldati è quella della
comprensione degli ufficiali: soldati in guerra che, per anni lontani da casa, condividevano lo spazio con
persone nate altrove e con dialetti diversi e incomprensibili > non si capivano. Questa problematica era
evidente sia in ambito pratico, ma soprattutto in quello psicologico (per la condizione di isolamento che
dovevano vivere). Questi stessi soldati spesso lamentano di non capire gli ordini degli ufficiali (gli ufficiali
erano gli unici che parlavano italiano): questo comportava varie implicazioni. Questo è un piccolo esempio
per capire che la dialettofonia era, come unica lingua, un problema ancora più grave dell’analfabetismo.

16
Fattori storico e socio-economici > come si è arrivati ad avere quella percentuale di dialettofoni e di
analfabeti nell’800 e poi quella del 900? Ha sicuramente agito la scuola: l’istruzione > citata con le leggi
Casati e Coppino, ma importante anche l’azione degli intellettuali tra cui Manzoni con la sua relazione del
1868 sull’unità della lingua e sui mezzi per diffonderla. Il ministro Broglio della Pubblica istruzione chiedeva
a Manzoni un consiglio: come possiamo fare a scuola per diffondere l’italiano? Diffondere non voleva dire
solo alfabetizzare > la natura del problema non era l’analfabetismo di per sé (perché sarebbe bastata la
scuola), ma era il problema del doppio codice (dialetto e italiano). Questo problema era chiaro a tutti: ai
nostri governanti, agli intellettuali e a Isaia Ascoli (Ascoli ha instaurato una polemica con Manzoni su questo
punto; approfondire). Manzoni ha steso un utile documento che ha segato l’origine e l’impronta della
scuola italiana, perché ha dato indicazioni concrete: abecedari, tutti uniformati alla veste toscana della
lingua, i dizionaretti bilingui o repertori lessicali bilingue (c’erano in varie forme: in forma di fascicoli,
elenchi di parole, in forma di cartelloni da appendere in aula con liste di parole con il corrispettivo termine
dell’altra lingua, libricini/dizionaretti per i ragazzi) > Manzoni consigliò agli insegnanti di fornire questi
strumenti ai ragazzi: per passare dal dialetto alla lingua era necessario avere questi glossari con la parola
dialettale (dello specifico dialetto, quindi questo lavoro è stato fatto per molte varietà dialettali) con il
corrispettivo termine in toscano (il toscano di stampo manzoniano era l’italiano). Questo andava a colmare
le lacune che riguardavano le parole di uso quotidiano: Manzoni si rese conto che, per dare una lingua a
tutti, non bastava la lingua letteraria, ma bisognava colmare la lacuna nella lingua d’uso (di tutti i giorni). 5 Le
parole dell’uso comune erano diverse in tutte le aree dialettali, e solo su alcuni termini c’era convergenza.
Manzoni si sofferma su questa lingua, quella dell’uso e non su quella letteraria: quindi, per “diffondere
l’italiano” (richiesta di Broglio), secondo Manzoni è importante:
1) che tutti i manuali siano nella stessa lingua, ovvero il toscano adeguato agli usi contemporanei;
2) che ci siano dei repertori lessicali > di modo tale che se il bambino a casa sente parlare in un modo,
a scuola impara come si parla veramente in italiano;
3) Manzoni si rese conto che serviva un dizionario dell’uso: la lingua italiana aveva un dizionario che
era letterario (quello della Crusca, che aveva avuto varie edizioni, ma era di stampo purista, quindi
rigidamente legato al modello toscano letterario, avvalendosi dei grandi autori trecentisti > una
lingua di tipo bembiano) > ma, per un’Italia unita (siamo nel 1968), questo dizionario non basta più,
perché una grande nazione ha bisogno di un dizionario in cui sono comprese sia parole letterarie sia
parole quotidiane e d’uso > nasce il famoso dizionario Giorgini-Broglio Nuovo vocabolario della
lingua italiana: per la prima volta ha un’impronta diversa > rispecchia non solo tutto ciò che è
scritto in letteratura, ma documenta le parole di uso comune.
Manzoni arrivò anche a consigliare al ministro che i maestri, per poter insegnare, dovessero fare un periodo
di formazione in Toscana, perché aveva intuito il problema dei maestri dialettofoni (il dialetto dei maestri
era, poi, trasferito sui bambini) > infatti, sono state fatte molte relazioni sulla scuola dell’epoca, relazioni
che andavano al Governo per capire lo stato della scuola; una delle denunce era proprio quella che i
maestri spesso non erano formati abbastanza, spesso avevano come livello di alfabetizzazione una
competenza pari agli alunni a cui insegnavano: in mancanza di docenti che avevano il patentino per
insegnare alle elementari, ci si avvaleva del principio che bastava avere almeno la 3° elementare per
insegnare in 3° elementare, la 5° elementare per insegnare alla 5° elementare, etc. Oltre a questo problema
della formazione, c’era il problema dei codici: molti di questi maestri parlavano il dialetto nell’uso
quotidiano e, quindi, rivolgendosi ai bambini, si rivolgevano in dialetto > Manzoni mette il coltello anche in
questa piaga: bisogna che questi maestri parlino in italiano ai bambini, e bisogna fare in modo che questi
maestri facciano almeno un viaggio di studio di formazione a Firenze per sentire e capire qual è il fiorentino
toscano colto e parlato.
Manzoni dice anche che i libri di lettura devono essere informati allo stesso modello di lingua: i libri di
lettura non possono seguire vari codici linguistici, ma devono seguire il fiorentino colto e parlato che lui ha
dato come modello nella Quarantana > ecco il motivo per cui si diffonde l’utilizzo a scuola de I promessi
sposi che diventano il vangelo della nostra formazione scolastica: dà una forma linguistica unitaria che fosse
5
Nell’italiano di tutti i giorni: vari attrezzi da cucina = sgommarello (a Roma); formaggio = cacio (in Toscana); cassetto =
tiretto (in area campana); fazzoletto = moccaturo (in area campana) > e così tutti i corrispettivi settentrionali, siciliani,
etc.
17
uguale in tutta Italia. Un altro testo utile in questo ambito è Pinocchio che fino a anni fa era letto da tutte le
generazioni, perché Collodi scrive nel toscano di tipo manzoniano, anche se è più vernacolare (c’è un papà
che parla al bambino, quindi è un toscano più popolare). Altro libro è Cuore, il libro base della scuola
elementare, anch’esso scritto in un toscano di tipo manzoniano. Questi testi propongono un modello di
lingua omogeneo e unitario, in modo tale che le generazioni, via via, si abituassero a usare una lingua unica.
L’impronta manzoniana della scuola sarà indelebile e ha favorito il passaggio dei dialettofoni all’italiano.
Altri fattori determinanti nel favorire l’azione dal dialetto all’italiano auspicabile per una nazione unita, e
che i ministri stavano cercando di attuare anche attraverso la scuola; sono tutti fattori che convergono nello
stabilire questa direzione che la lingua prenderà dal dialetto all’italiano (cfr. lezione 11/03):
- Diffusione della stampa periodica e della letteratura popolare: i giornali sul fine 700 e poi nell’800
sono molto diffusi > nel primo 800 i giornali sono ancora un prodotto d’élite, ma nella prima metà
dell’800 le tirature dei giornali aumentano tantissimo. È un aumento notevole per l’epoca: la
Gazzetta del Popolo di Torino nel 1852 ha 10 mila abbonati > comincia il fenomeno
dell’abbonamento a un giornale, a un periodico; “avere un giornale” voleva dire leggere una lingua
italiana dell’uso, colto ma non letterario, infatti nei periodici di quest’epoca ci sono spie dell’italiano
regionali (giornali scritti in Sicilia, a Roma, etc.) > quella dei giornali è una scrittura svincolata dai
canoni del testo letterario ed è, soprattutto, una scrittura che scrive della contingente, dell’attualità
(non scrive di concetti astratti, come può succedere nella letteratura) > per questo risente molto
della lingua d’uso. Nella seconda metà dell’800, i giornali cominciano a diventare un fenomeno di
massa: al posto degli abbonamenti, nasce la vendita nelle edicole. Se pensiamo alla diffusione della
stampa periodica, dobbiamo pensare che i giornali c’erano da prima, ma che l’800 è stato il secolo
in cui c’è stato un impulso crescente, diffusione che continua nel corso del 900, fino al fenomeno
dei giornali online. Chi era analfabeta è ovvio che non leggeva il giornale; però, la letteratura
popolare e i periodici finiscono nelle mani anche di coloro che non sono del tutto analfabeti (magari
hanno la 1° e la 2° elementare) > il giornale non è più bene di consumo elitario, ma inizia a circolare
anche nella massa. Questo è un fattore di italianizzazione. Caso del 900: uno scrivente semi-
acculturato, Domenico Marcovecchio, anonimo personaggio, contadino di Agnone (Molise), che nei
primi del 900 è andato emigrante negli USA, poi è tornato, ha fatto la Seconda guerra mondiale, ha
fatto tutta l’epoca fascista, è morto negli anni ’70 > ha vissuto un arco temporale molto ampio. Era
un agnonese, assolutamente dialettofono, un pochino sapeva scrivere: scrive due libri di memorie
per i figli; scrive vari testamenti perché a volte ampliava i propri terreni o perché gli nasceva un
nuovo nipote e, quindi, faceva un nuovo testamento; scrive lettere ai vari parenti (i figli emigrano in
Belgio); scrive delle agendine (aveva delle piccole agendine, in cui ogni giorno annotava delle cose)
Soffermiamoci sulle agendine: qui scrive cose che riguardano il lavoro, magari appuntandosi
quando spende e quanto gli rimane di soldi (tra l’altro, quando sta in America, c’è l’interferenza con
l’inglese perché lì impara anche questa lingua > quindi, scrive “ho comprato un coat”, e altre);
quando sta in Italia scrive “piantato vite americana”, “una grantinata” (eventi atmosferici), ma
scrive anche “cacciato il re dalla Pagna” (Pagna = Spagna), scrive del grande compromesso storico,
della legge truffa di Damalfa(?) > quindi, scrive di eventi che riguardano la politica nazionale e
internazionale (per far capire che questi emigranti se la devono cavare > escono dal loro guscio e si
aprono al mondo, dovendo imparare una lingua straniera, e soprattutto dovranno abbandonare il
loro dialetto per parlare l’italiano > spesso lo acquisiranno anche nell’uso scritto perché era
necessario per scrivere lettere ai parenti; spesso, essendo persone curiose, leggono anche, e questo
si collega alla diffusione della stampa periodica (a casa di Marcovecchio hanno trovato pacchi e
pacchi de L’Unità, infatti nelle memorie che scrive ci sono delle parole, dei sintagmi, delle formule
fisse che, si capisce, sono di derivazione giornalistica). Domenico Marcovecchio era una persona
semplice, ma era geniale e con grande curiosità intellettuale. Caso simile è Vincenzo Rabito,
pubblicato da Einaudi in Terramatta: questo uomo, seppur con cultura poco approfondita, scrive la
propria vita con una macchina da scrivere > però è una tipologia diversa di scrittura, perché scrive a
ritroso della sua vita, però la tipologia dell’italiano popolare è sempre quella. Questo per spiegare
l’urgenza di scrivere di queste persone nonostante non sappiano scrivere e lo fanno in modo
incerto, ma lo fanno!
18
Letteratura popolare: si intende la paraletteratura (letteratura di serie B, secondaria, di consumo) >
è stata una letteratura di massa, quella che interessava il popolo che non era così colto (ma che
sapeva leggere); in questa letteratura rientrano i generi d’avventura, il giallo e il romanzo rosa.
Sono di facile lettura. Sono tutti generi che, negli ultimi decenni, sono stati rivalutati; poi, ci sono
state diramazioni: dall’unione giallo + avventura si crea la fantascienza e poi il fantasy (pensiamo a
Le straordinarie avventure di Jules Verne, con cui si era creata la deriva verso la
fantasia/fantascienza). Si tratta di generi che, mentre in altre parti d’Europa erano ben considerati,
in Italia (proprio perché la nostra cultura scrittura è caratterizzata dall’élite) sono stati relegati ai
margini; nell’800 muovono i loro primi passi (nascevano spesso come traduzioni dei corrispettivi
stranieri > come è avvenuto per i romanzi di avventura, di fantascienza, e i gialli che, appunto,
nascevano come traduzioni di corrispettivi stranieri); poi si è diffusa una ricca produzione italiana
che, però, veniva ancora considerata con un accento di snobbismo, fino a quando lo snobbismo è
stato superato. Negli anni ’70/’80, ci furono dei dibattiti nei premi letterari tra Luce D’Eramo e
Alberto Moravia perché la letteratura veniva considerata “letteratura di serie B”; i gialli erano
considerati come letteratura da viaggi (quando si era in treno, autobus, etc.); la stessa cosa si
diceva della letteratura rosa: già il termine “rosa” ci fa capire che è qualcosa di femminile,
stucchevole, di superfluo > romanzi d’amore che potevano essere più o meno ben scritti; oggi è
stata rivalutata molto perché le scrittrice dell’epoca erano Scrittrici con la S maiuscola. Il termine
preferito dai linguisti per definire questa letteratura è quello di paraletteratura, perché non è un
giudizio di genere (letteratura popolare è ghettizzante, e di consumo fa pensare a qualcosa non di
qualità), paraletteratura rende bene questo canale parallelo > una letteratura para, che stava a
fianco alla cultura ufficiale alta, che guardava solo a certi generi letterari e non a tutti (fenomeno
tipico dell’ambito italiano). Questo discorso prelude al successo enorme di questa paraletteratura
che avviene dagli anni ‘80 in poi in Italia; soprattutto, il successo del genere giallo è uscito
totalmente dai confini ghettizzanti con Andrea Camilleri (per gli addetti ai lavori già molto prima: ci
sono gialli di alto livello a partire dal 900 e, ancor prima, già nell’800 Mastriani, autore napoletano,
comincia con un genere popolare noir, che è di confine col giallo). La letteratura popolare ha avuto
molta importanza: è rivolta alla fascia di utenti che sapeva leggere ma che non era così
intellettuale/colta, e che muoveva i primi passi nella lettura (che non leggeva Foscolo o Alfieri, etc.),
ma cercava prodotti adatti a un gusto contemporaneo e inerenti ai suoi gusti di lettore > la
letteratura bassa ha permesso l’alfabetizzazione: quindi, anche i gialli e i rosa, scarsi come livello,
sono stati rivalutati dalla linguistica italiana perché sono stati la palestra su cui gli italiani, non colti,
hanno acquisito l’italiano (palestra di esercizio alla lettura e di assimilazione della lingua nazionale,
che magari loro non conoscevano perché parlavano il dialetto). Questi testi possono essere stati
scritti alcuni meglio e altri peggio a seconda dell’autore, ma tutti erano scritti in un italiano standard
di tipo toscano > questo può sembrare ridicolo, perché a volte questa lingua non è molto
pertinente al tema (romanzo d’amore, o di avventura, o di indagine poliziesca) > quindi, un tema
che riguarda la realtà, e sarebbe stata più pertinente una lingua vicina alla realtà; ma, dato che una
lingua italiana così vicina alla realtà nello scritto ancora non c’era (perché l’italiano non era una
lingua di comunicazione, ma era una lingua alta/letteraria), questi testi si servono di questo italiano
“impettito”/”in giacca e cravatta”/”troppo normativo”, perché non esisteva un italiano dell’uso che,
invece, oggi noi leggiamo nella letteratura contemporanea. Quindi, questa paraletteratura ha avuto
il pregio di alfabetizzare generazioni e generazioni di italiani.
- Lo stesso meccanismo avviene nel servizio militare obbligatorio (I e II guerra mondiale): si tratta di
un’altra situazione in cui il contatto è necessario; queste persone, a lungo fuori di casa, dovranno
fare del proprio meglio per capire il connazionale che non parla lo stesso dialetto, per capire
l’ufficiale, e dovranno fare del proprio meglio anche per farsi capire > questo comporterà un
parziale abbandono del dialetto, per avvicinarsi all’italiano. È la stessa cosa che facciamo noi
quando parliamo con uno straniero: parliamo più lentamente, spicchiamo di più i suoni oppure, ad
esempio, parlando con uno spagnolo, diciamo la parola italiana ma resa in modo spagnoleggiante >
sono dei meccanismi di avvicinamento della lingua. La Prima guerra mondiale ha favorito tantissimo
l’alfabetizzazione sia dal punto di vista parlato sia da quello scritto, perché fiorirono milioni di
19
lettere e di diari (l’esercito dava dei taccuini ai soldati per aiutarli a livello psicologico > i taccuini
erano piccolissimi, e venivano dati ai soldati per poter scrivere perché la scrittura è una necessità
primaria; molti di questi scriventi sono persone semplici, che sanno appena tenere in mano una
penna infatti scrivono in modo illeggibile, però hanno bisogno di scrivere ciò che stanno vivendo
(sensazioni, come memoriale, etc.) > spesso, venivano istituite delle scuole di campo per
permettere ai soldati di acquisire o migliorare le loro capacità di scrittura per comunicare con i loro
familiari. Quindi, anche il servizio militare e la I e II guerra mondiale sono occasioni di
italianizzazione. Persone che, una volta tornate in patria, avevano compreso l’importanza del
sapere leggere e scrivere, importanza che riverseranno nei loro figli: quindi, spesso manderanno i
figli a scuola.
- Burocrazia dello stato nazionale: l’Unità permette all’Italia di avere un unico esercito, di essere
Stato unico, e quindi di avere una burocrazia unica > quindi, ci sono tanti uffici centralizzati con
burocrati, funzionari; i funzionari sono persone che l’italiano un po’ lo parlano > quindi, il rapporto
del cittadino con la burocrazia avrà risultati positivi, perché costringerà i cittadini ad avere contatti
con l’italiano.
- Industrializzazione e urbanizzazione: l’industrializzazione poterà con sé l’inurbarsi della
popolazione, e l’urbanizzazione porta delle conseguenze: innanzitutto lo spostamento, e la mobilità
crea la necessità di dover comunicare; poi, l’urbanizzazione ha un riflesso importante perché,
laddove ci sono grandi centri urbani, c’è una perdita di dialetto (elemento locale), c’è un mix di
culture e di lingue (quindi, ogni comunità tende ad attutire le proprie caratteristiche locali per
parlare una lingua di tutti) > la città rappresenta un agglomerato in cui è più presente l’italiano e
meno il dialetto.
- Stampa + radio, cinema, televisione: i mezzi di comunicazione daranno l’impronta definitiva, ma
sono già importanti innanzitutto con la stampa, poi con la radio. Della radio si parla sempre poco
per concentrarsi più sulla diffusione avvenuta grazie alla televisione, ma in realtà la televisione però
è del 1954 e non da subito c’erano tutte le trasmissioni di oggi (prima era solo nei bar, poi nelle
case ma con pochi programmi, quindi per la tv come la immaginiamo oggi dobbiamo aspettare
almeno gli anni ’70) > la televisione, però, agli inizi parlava con una pronuncia toscana, quindi era
formativa (formava all’italiano). Prima delle tv, però, importante era il cinema: le generazioni della
Seconda guerra mondiale (quindi, prima della nascita della tv) andavano molto al cinema, e il
cinema aveva l’appendice iniziale e finale del varietà, l’appendice del cine-giornale nelle quali si
parlava italiano. Prima ancora, però, c’è la radio che, per tutta l’epoca della guerra, permetteva a
tutti di ascoltare l’italiano > erano programmi radiofonici intrattenuti da personaggi che parlavano
italiano-toscano perfetto (l’italiano vero). [fine appunti]
CAPITOLO 3. L’ITALIANO POPOLARE
L’italiano popolare, insieme all’it. colloquiale, fa parte del nucleo dell’italiano sub-standard.
1. Problemi di definizione
Vi è confusione, o sovrapposizione, fra il concetto di it. popolare e quello di it. parlato colloquiale. La
nozione di it. popolare trova una sua prima definizione concettuale con Tullio De Mauro e con Cortellazzo:
- per il primo, si configura come il modo di esprimersi di un incolto;
- per il secondo, è il tipo di italiano imperfettamente acquisito da chi ha per madre lingua il dialetto.
Al filone demauriano si collegano altre proposte:
- per Foresti, è l’italiano riformulato, reinterpretato e rielaborato dalle classi
subalterne/svantaggiate;
- per Sanga, è la realizzazione imperfetta dell’it. regionale dovuta a motivi espressivi di semplicità di
parlanti che non padroneggiano la lingua.
Prospettiva diversa è quella di Vanelli, per cui l’it. popolare è il nostro italiano di ogni giorno, concludendo
poi che “è forse più giusto reinterpretarlo come la lingua colloquiale di uso comune opposta a quella
formale. Tale carattere dell’it. popolare come registro basso, informale è ripreso da De Mauro, che afferma
che l’it. popolare è una bassa varietà della lingua italiana che può essere usata anche dalle classi più istruite
e che è profondamente radicata nella società.

20
L’it. popolare è una varietà di lingua e, per essere riconosciuta tale, esige la cooccorrenza di determinati
tratti linguistici con determinati tratti sociali > quindi, l’it. popolare è una varietà sociale dell’italiano, una
varietà diastratica bassa (tipica di strati sociali bassi, incolti e semicolti), con tratti linguistici non standard.
2. Problemi di sostanza
1. Argomento dibattuto è la caratteristica di ‘unitarietà’ attribuita all’it. pop. (‘it. pop. unitario’). Se è vero
che i tratti dell’it. pop. sono diffusi indipendentemente dalla provenienza dei parlanti/scriventi, è anche
vero che, se ci si basa solo sull’it. pop. parlato, un’it. pop. veramente unitario non esiste. Infatti, in Italia la
marcatezza diatopica conferma la non-unitarietà > questo è poi anche confermato dai fatti linguistici stessi:
spesso forme/regole/strutture comuni a vari dialetti italiani sono sconosciute nella lingua standard.
Tuttavia, alcuni linguisti hanno colto le ragioni dell’unitarietà sull’extralinguistico:
- Sanga afferma che l’it. pop. è unitario perché l’industrializzazione ha sormontato le barriere dei
mercati locali e ha adottato una struttura nazionale;
- per Foresti, l’unitarietà dell’it. pop. è dovuta alla sua caratterizzazione sociale;
- per Vanelli, il fatto che il processo di trasformazione sociale abbia interessato tutta la penisola,
giustifica il motivo per cui si hanno tratti in comune nell’it. pop.
Pur non essendo convincenti le visioni di Sanga e Foresti, si può concludere che l’it. pop. è unitario solo
perché è pur sempre italiano e si focalizza sui tratti linguistici non standard e sub-standard. Si può affermare
l’unitarietà, se mai, per quanto riguarda i contenuti espressi con questa lingua; ma questo non è certo un
motivo pertinente per attribuire unitarietà dal punto di vista linguistico.
2. Secondo punto critico è il rapporto problematico con l’it. parlato colloquiale e con l’it. regionale.
- L’italiano colloquiale è un registro 6: ma se riteniamo che l’it. pop. sia una varietà diastratica (come si è
visto), è chiaro che non lo si può considerare anche un registro (‘basso, informale) > designare l’it. pop.
come registro dell’italiano implicherebbe che esso coesista negli stessi parlanti con altri registri dell’italiano,
mentre esso presso i parlanti per i quali è tipico è l’unica varietà di italiano a disposizione.
- La marcatezza regionale e quella sociale si sommano nel dare luogo a tanti italiani regionali popolari. Un it.
popolare specifico sarà sempre anche un italiano regionale.
3. Altra questione: ci si chiede se l’it. pop. sia di uso scritto o parlato. Il fatto che campioni concreti di it.
pop. sono studiati nella scrittura di illetterati ha indotto a concepirlo come ‘lingua scritta di persone non
istruite’, ma in realtà è prima lingua parlata e poi, successivamente, scritta > si manifesta negli scritti di
parlanti che raramente si cimentarsi con la scrittura e che, quindi, tendono a ‘scrivere come si parla’.
4. Datare la nascita dell’it. pop.: De Mauro lo colloca nei primi decenni del 900, in particolare in occasione
della Grande Guerra (in seguito a mutamenti culturali, sociali ed economici, e alla prima
industrializzazione). Ma ci sono studi che mostrano la presenza dei tratti dell’it. pop. già nella seconda metà
del Cinquecento. Del resto, sarebbe strano sociolinguisticamente se una qualche modalità d’uso
socialmente bassa non avesse cominciato a delinearsi sin dal momento in cui si è diffuso l’italiano come
lingua letteraria nazionale.
4. Tratti dell’italiano popolare e tratti del parlato colloquiale
Berruto schematizza una lista di tratti morfosintattici, assegnando ad ognuno di essi un valore di ricorrenza
nell’it. pop. e nell’it. colloquiale (scambi di ausiliari, che polivalente, periodo ipotetico a doppio
condizionale/doppio congiuntivo, etc.; cfr. tab. p. 140). Dei 16 tratti presi ad esempio, l’it. coll. pare sì
condividerne 10, ma con modalità diverse rispetto all’it. pop. Appare dunque che l’it. coll. sia un
sottoinsieme dell’it. pop., cioè che tutti i tratti che si ritrovano nel colloquiale si ritrovino, e sovente con
maggiore spessore, nel popolare, ma che il colloquiale non abbia tratti suoi esclusivi.
5. La frase relativa nell’italiano popolare (no)
6. Il continuum della frase relativa in italiano
Partendo dal paragrafo precedente, si può schizzare uno schema del continuum della frase relativa,
tenendo conto solo (da sx verso dx) l’it. scritto standard, l’it. parlato colloquiale e l’it. pop. Fra it. scritto

6
Nozione di ‘registro’: non nel valore generico di ‘livello di lingua’, quanto piuttosto col senso di varietà diafasica di
lingua in relazione con la formalità della situazione.
21
standard e it. pop. si colloca l’it. parlato colloquiale che è in sovrapposizione da una parte con l’uno e
dall’altra con l’altro. Lo schema è suddiviso in 5 paradigmi:
1. il quale Sogg. – che Ogg. – il quale/cui Obl.
2. che Sogg. e Ogg. – cui Obl.
3. che Sogg. Ogg. – che + clitico Obl.
4. che Sogg. – che + clitico Ogg. Obl.
5. che in tutti i casi.
L’it. scritto standard si colloca sotto il paradigma 1, il più ‘sostenuto’ e formale.
L’it. parl. coll. si situa a cavallo dei paradigmi 2, 3 e 4 (il paradigma 2 è ritenuto tipico dell’it. ‘dell’uso
comune’). L’it. pop. si distribuisce sui paradigmi 3, 4 e 5 (il paradigma 5 è considerato il più economico).
7. Altri tratti dell’italiano popolare
- suo al posto di loro;
- accusativo preposizionale tipico nell’italiano meridionale > es. il padrone picchia al contadino;
- ‘malapropismi’ e ricostruzioni per analogia con altri termini più familiari per cercare di assimilare al noto
ciò che è difficile o ignoto > es. covalicenza ‘convalescenza’, febbrite ‘flebite’, etc.
- popolarismi espressivi: macello ‘distruzione’; spesso con l’uso di alterati: vitaccia, pranzone;
- generalismi semantici: lavoro ‘pasticcio’, le carte ‘i documenti’, etc.;
- aggiunta di morfemi: tranquillizzanti ‘tranquillanti’.
A livello fonologico notiamo la semplificazione di nessi consonanti difficili: pisicologico, etc.
A livello grafico:
- Itaglia e gniente con una pronuncia palatalizzata della l e della n nei nessi [lj] e [nj];
- senpre e banbini con una pronuncia labiodentale o velare della nasale;
- subbito con raddoppiamento della b intervocalica nel Meridione;
- a ‘ha’, anno ‘hanno’; o con ipercorrettismi come habbiamo;
- conglutinazioni e deglutinazioni dell’articolo: linverno, l’aradio, in cinta, in fermeria, etc.
Alcuni autori hanno ritenuto che l’insieme dei tratti linguistici che contrassegnano l’it. pop. prefigurino i
futuri sviluppi del sistema linguistico italiano.
CAPITOLO 4. LA DIMENSIONE DIAFASICA
1. L’italiano colloquiale
L’italiano colloquiale, insieme all’it. popolare, fa parte del nucleo dell’italiano sub-standard e, condividendo
in parte gli stessi o analoghi tratti, le due varietà risultano parzialmente in sovrapposizione, il che ha spesso
portato a confonderle. Il tratto discriminante tra le due varietà è tuttavia chiaro, e consiste nella
correlazione o meno con la provenienza sociale dei parlanti: l’it. coll. può essere adoperato in modo
indipendente dalla classe sociale di appartenenza; mentre parlanti culturalmente sfavoriti hanno accetto
solo all’it. pop.
La sua manifestazione tipica è nel canale orale (la specificazione ‘parlato’ è ridondante), ma non è esclusivo
dell’uso parlato, potendo emergere anche in usi scritti non formali (corrispondenze familiari, diari,
appunti…). L’it. coll. pare caratterizzarsi come varietà intermedia fra l’it. neo-standard e l’it. pop.: oltre ai
già detti tratti tipici anche dell’it. pop., l’it. coll. presenta tratti che manifestano le tendenze di
ristandardizzazione.
• Rapporto fra la nozione di varietà colloquiale e la nozione, nota nella linguistica tedesca, di
Umgangssprache > quest’ultima nozione non è univocamente definita, e nel corso della storia ha
conosciuto accezioni diverse:
- da ‘lingua della comunicazione orale’
- è passata a designare una realtà linguistica intermedia tra lingua e dialetto o ‘lingua orale dei colti’.
Anche Spitzer ne sottolinea il carattere di oralità: “linguaggio orale dell’italiano che parla correttamente”.
Cinquant’anni dopo Stammerjohann: “uso linguistico orale quotidiano”.
Non sembra che la nozione di it. coll. corrisponda a ciò che intendono i linguisti tedeschi con
Umgangssprache, che – nello schema di Berruto – potrebbe equivalere a qualcosa a cavallo tra l’it. neo-
standard (regionale colto) e l’it. colloquiale.

22
L’aspetto più evidente che l’it. coll. ha in comune con Umgangssprache è quello di essere usato nella
conversazione non impegnata, come varietà del parlato dialogico quotidiano.
• L’it. coll. è caratterizzato dal lessico: esiste una serie di termini o espressioni largamente usate nel parlato
quotidiano, in genere di orgine regionale o gergale. Molti di questi termini/espressioni sono riportati dai
vocabolari correnti, in cui sono segnalati da indicazioni quali ‘volgare’, ‘familiare’, ‘popolare’, ‘dialettale’,
etc. È un lessico i cui elementi coesistono con almeno un termine sinonimico standard > coppie di parole
sinonimiche: una è il termine standard, l’altra è il termine colloquiale: automobile/macchina o auto,
entrambi/tutt’e due, prendere/pigliare, etc.
• Nell’it. coll. trovano manifestazione primaria 2 esigenze di uso della lingua (in altre lingue, sono
secondarie):
1. banalità quotidiana, il parlare dei fatti spesso insignificanti della vita, l’«usualità»;
2. espressività, la partecipazione colorita a eventi e fatti, l’esagerazione ipocoristica o disfemistica.
Quindi, il parlato colloquiale sarà costantemente caratterizzato da genericismo e espressività.
• Elenco di colloquialismi (da una visuale prevalentemente settentrionale):
- aggiustare ‘conciare per le feste’ (ti aggiusto io!)
- attaccare (una malattia) ‘contagiare’
- balla ‘bugia’
- cotta ‘innamoramento’
- culo ‘colpo di fortuna’
- far fuori ‘ rompere’ (ho fatto fuori la macchina)
- farsi ‘drogarsi’
- partire ‘rompere’ (è partita la lampadina ‘si è fulminata…’)
- pizza ‘cosa noiosa’
- verbi con il prefisso s-: sbolognare ‘liberarsi di qualcosa’; scassare ‘rompere’; sfottere ‘prendere in giro’
- zucca ‘testa’
- genericismi riferiti a persone: uno, tipo, elemento (che elemento! ‘che razza di persona!’)
- costrutti intensificativi con: forte+aggettivo: sei acida/bello forte tutto+aggettivo: sei tutto elegante!
• L’it. coll. è caratterizzato dal parlato spontaneo con conseguente alta ricorrenza di frasi segmentate e
scisse > l’assenza di pianificazione in anticipo si manifesta con frequenti anacoluti 7, etc. Inoltre, viene usata
un’ampia gamma di segnali demarcativi (allora, guarda, senti, dico, cioè, vero?, no?, etc.) e particelle
(proprio, appunto, praticamente, insomma, un po’ e un po’) che, seppur considerate standard, nel parlato
colloquiale spiccheranno per la quantità.
2. Registri
La prima classe di varietà lungo la dimensione diafasica è rappresentata dai registri.
I tratti regionali possono dar luogo a variazione di registro: il caso più emblematico è quello della resa di
fonemi o nessi fonematici che, sulla base dell’influenza del sostrato 8 dialettale, risultano ‘difficili’ per i
parlanti di un dato italiano regionale: è allora normale che anche il parlante colto o mediamente colto
cerchi di adeguare la sua pronuncia allo standard nei registri formali o sorvegliati > a questo proposito si
hanno ipercorrettismi presso la classe media (piccola borghesia), che esagera nell’imitare quello che ritiene
essere il comportamento linguistico del ceto superiore. Questa possibilità di scelta, conscia e inconscia,
circa la pronuncia e il lessico è alla base dei caratteri che differenziano i registri.
7
Anacoluto: il primo elemento appare campato in aria e messo in rilievo rispetto al secondo (io, purtroppo, mi sembra
che non ci sia nulla da fare).
8
Un sostrato è una lingua preesistente ad un’altra su un territorio che poi è dominato e, quindi, la lingua originaria
viene a scomparire; per quanto riguarda l’Italia i sostrati erano quelle lingue che esistevano sul territorio prima del
latino, tra questi il ligure, gallico, retico, etrusco, osco, sicano/siculo, sardo, punico > tutte lingue che hanno influito
nell’apprendimento del latino da parte dei popoli italici che, via via che poi i latini sono arrivati nel II millennio, hanno
cancellato lentamente tutte le altre lingue e culture). Uno dei primi indici di sostrato prelatino nei dialetti italiani è, per
esempio, la gorgia toscana, ovvero l’aspirazione delle occlusive sorde (c, p, t) portata dal sostrato etrusco; l’area fino
alla Sicilia presenta un altro tratto macroareale è -nd- assimilato in -nn-, -mb- assimilato in -mm- (monno o munno a
seconda del vocalismo; a Roma piommo per piombo, chiummo a Napoli).

23
I registri bassi sono solamente orali e si usano in genere per il parlare improvvisato, con assenza totale o
grado minimo di pianificazione e una dipendenza minima dagli schemi sintattici e strutturali della lingua. Le
occasioni che vedono l’emergere dei registri bassi sono di due generi opposti:
- da un lato il parlare disattento, svogliato, con scarso interesse per l’enunciazione e i suoi contenuti;
- dall’altro il parlare con un fortissimo coinvolgimento emotivo, in situazioni di alta partecipazione
emozionale, o di particolare stanchezza, ira, paura, etc.
Tratti linguistici dei registri bassi:
- Lessico: alto tasso di ripetitività; termini generici; epiteti e imprecazioni scatologici (merda, cazzo >
anche se il ‘parlare volgare’ non va confuso con i registri bassi); parole abbreviate (bici per
bicicletta).
- Morfosintassi: frasi brevi danno luogo a una sintassi spezzettata; discorso incentrato sull’io
parlante.
- Testualità: scarsissimo ricorso all’argomentazione distesa.
Causa: aumento della velocità normale del parlato, unito alla poca attenzione posta nell’elocuzione.
Caratteri opposti si trovano nei registri alti:
- Lessico: ampia variazione lessicale e uso di molti lessemi non appartenenti al vocabolario di base;
termini ed espressioni specifici; alta frequenza di significati astratti; scelte lessicali auliche o
tecnicizzanti (ove, affinché, qualora, giacché); scelte di varianti arcaizzanti (dicesi, debbo ‘devo’).
- Morfosintassi e testualità: sintassi elaborata, subordinate implicite (gerundi), sviluppo
argomentativo del discorso.
- Fonologia: accuratezza nella pronuncia dei fonemi.
3. Lingue speciali
La seconda classe di varietà lungo la dimensione diafasica è costituita dai sottocodici. I sottocodici sono
varietà diafasiche caratterizzate da un lessico speciale, in relazione a particolari domini extralinguistici e alle
corrispondenti sfere di significati. Hanno la funzione di mettere a disposizione un inventario di segni per la
comunicazione circa determinati argomenti/ambiti di attività, affinché sia più univoca, precisa ed
economica. Proprietà principale dei sottocodici: lessico specialistico, estraneo al tronco comune della
lingua > il vocabolario tecnico dei sottocodici è una nomenclatura, ossia una terminologia la cui struttura è
determinata dai campi extralinguistici di riferimento. Es: il sottocodice lingua della medicina: suffisso -ite
per infiammazioni; suffisso -osi per designare una condizione morbosa cronica di un organo o apparato.
Nel repertorio delle varietà di una lingua, i sottocodici coincidono con le lingue speciali: si tratta di un
settore molto vasto di variazione linguistica; si possono distinguere:
1. le lingue speciali in senso stretto, cioè i sottocodici veri e propri, contrassegnati da un proprio
lessico particolare e da morfosintassi e testualità caratteristica;
2. le lingue speciali in senso lato, che non hanno propriamente un lessico specialistico, ma sono
comunque legate a determinate aree di impiego;
3. i gerghi, che hanno un lessico particolare con propri meccanismi semantici e di formazione (e
deformazione) delle parole ma senza il carattere di nomenclatura; legati non a sfere di argomenti,
ma a gruppi o cerchie di utenti.
(mancano pagine 179-196 che ho ritenuto poco importanti ai fini dell’esame).
CAPITOLO 5. AI MARGINI DELL’ITALIANO
1. Italiano e dialetti
Il contatto fra l’italiano e il dialetto si manifesta:
1. nell’alternanza di una varietà di it. e una varietà dialettale all’interno del discorso del parlante (che
può cambiare lingua passando da una frase ad un’altra o anche dentro una singola frase, dando
luogo a commutazioni di codici, enunciazioni mistilingui, etc.);
2. nella formazione di ibridismi derivanti dalla parziale fusione dell’italiano e del dialetto.
La presenza di questo contatto tra italiano e dialetto è difficile da analizzare in tutti i suoi aspetti > Sanga
cita le due varietà ‘italiano dialettale’ e ‘italiano-dialetto’.

24
Gli ibridismi9 si ritrovano facilmente nel discorso di parlanti che padroneggiano l’italiano e il dialetto;
inoltre, possono essere ricondotti a un italiano fortemente interferito, ma sempre riconoscibile come
italiano > questo vale anche sul versante del dialetto, dove la presenza di materiali e regole dell’italiano non
impedisce la riconoscibilità di una parola come dialettale. Il problema si complica quando ci sono ibridismi
che non possono essere assegnati all’uno o all’altro sistema: in questo caso, regole e materiali del dialetto e
dell’italiano si mescolano e danno luogo alla parola > non possiamo però parlare di nascita di varietà
ibridate: quindi, la compenetrazione tra italiano e dialetto non porta al formarsi di una lingua mista italiano-
dialetto > si tratterebbe piuttosto di un tessuto linguistico italiano, con inserzioni dialettali ed enunciazioni
mistilingui italiano-dialetto. Ciò non toglie che presso certi parlanti il continuo frammischiarsi di it. pop. e
dialetto dia l’impressione di trovarsi di fronte a produzioni linguistiche che non sono né dialetto né italiano.
2. Varietà di apprendimento
Importanti fra le varietà marginali sono le varietà di apprendimento o ‘interlingue’, che non si configurano
come varietà intermedie fra la lingua materna e una lingua seconda, risultato di interferenze fra le due,
bensì come grammatiche semplificate e rielaborate sulla base di tendenze, principi e processi naturali,
andanti da un mini a un massimo di avvicinamento alla varietà obiettivo.
Andersen considera come sottocasi un unico processo generale, la ‘nativizzazione’:
1. l’acquisizione della prima lingua;
2. la formazione di interlingue nell’apprendimento spontaneo 10 di lingue seconde;
3. la pidginizzazione (nascita di lingue di contatto essenziali in contesti multilingui di grande distanza
sociale, linguistica e culturale).
‘Nativizzazione’, ossia la creazione di un sistema autonomo individuale sulla base di un certo input di
partenza, con la differenza che:
- Nell’acquisizione della lingua materna le pressioni dell’ambiente indirizzano l’evoluzione del
sistema verso il modello preciso della lingua della comunità, e il sistema individuale viene
uniformato a una norma esterna;
- nella pidginizzazione e, in misura minore, nell’apprendimento di lingue seconde la creazione
continua di sistemi provvisori rimane almeno parzialmente indipendente dall’input utilizzato per
costruirli.
• Lingue degli immigrati: spiccano negli italiani degli immigrati fatti di semplificazione e (ri)costruzione di
una grammatica basilare > vediamone alcune caratteristiche:
- omissione dell’articolo o generalizzazione su un’unica forma: il orario, il lingua;
- aggettivi di ogni classe invariabili: metiamo tuti a posto ‘mettiamo tutto a posto’;
- scambi di preposizioni;
- sistema verbale ridotto ad alcune forme basilari;
- costrutti frasali brevi, con ellissi degli ausiliari: non cabito ‘non ho capito’;
- Lessico ridotto;
- Fonologia: neutralizzazione di /p/ in /b/ (cabito, imberno).
3. L’italiano all’esterno
Rispetto all’italiano degli immigrati, ancora più importante è l’italiano degli emigrati > due aspetti:
1. l’influenza dell’emigrazione sul repertorio linguistico dei parlanti italofoni;
2. i processi di decadenza/abbandono dell’it. presso le seconde, terze ecc. generazioni degli emigrati.
Una conseguenza generale dei fenomeni di emigrazione è spesso il rinforzo dell’italiano negli emigrati di 1°
generazione: parlanti dialettofoni trovano nell’emigrazioni le condizioni per passare a un uso più frequente
dell’italiano, in quanto si riducono nettamente gli ambiti e le occasioni d’impiego del dialetto.
Caso emblematico: l’italiano della Svizzera > l’it. è lingua nativa nazionale e ufficiale della Svizzera italiana,
ma mostra tratti di conservativismo e relativa arcaicità rispetto all’italiano d’Italia, pur condividendone gran
parte degli sviluppi.
Si è proposto un continuum della lingua degli emigrati che comprende quattro stadi:
9
Ibridismi: parole formate da elementi proveniente da sistemi diversi.
10
‘Apprendimento spontaneo’, ossia i sistemi transitori propri di stranieri che apprendono l’italiano prevalentemente
dall’ambiente in cui vivono, attraverso il contatto con i parlanti nativi, senza apposita istruzione scolastica o guidata.
25
1. lo standard, proprio della prima generazione e lingua prima;
2. il fading, proprio ancora della prima generazione;
3. il pidgin, proprio della seconda generazione;
4. il fragment, proprio della terza generazione.
Rispetto allo standard, il fading presenta:
- riduzione nel lessico con perdita di unità e lacune per i neologismi
- affievolimento della morfologia flessionale
- indebolimento delle conoscenze normative
- tendenza alla semplificazione
- la fonologia rimane grosso modo quella del punto di partenza.
Lo stadio successivo, il pidgin mostra:
- riduzione nel lessico, nella morfologia flessionale e nelle funzioni
- generalizzazione a livello morfologico
- sintassi tendente alla convergenza con la lingua dominante nell’ambiente
L’ultimo stadio, la frammentazione (precede la scomparsa della lingua) mostra:
- lessico, sintassi e morfologia frammentati
- impiego solo occasionale
- debolissima capacità di controllo normativo
- fortissima interferenza con la lingua dominante nell’ambiente.
Dunque, è chiara l’involuzione dell’italiano in situazioni di emigrazione.

26

Potrebbero piacerti anche