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Gaetano Berruto
CAPITOLO 1
LA COLLOCAZIONE DELLA SOCIOLINGUISTICA FRA LE SCIENZE DEL LINGUAGGIO
La sociolinguistica (SL) si occupa di come parla la gente. Questa disciplina è molto praticata:
esistono molti studi e ricerche, numerosi manuali e trattati e ben 4 importanti riviste internazionali,
ma poco istituzionalizzata, essendoci ancora pochi insegnamenti universitari denominati
Sociolinguistica. La posizione della SL tra le scienze del linguaggio è ancora controversa.
Rischi: banalizzazione della SL per accumulo di descrittivismo grezzo e aneddotico (“mia nonna
dice così”)
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Le definizioni non sono univoche.
➢ Per Fishman (1975) la SL “concentra la sua attenzione sull’intera gamma degli argomenti
connessi all’organizzazione sociale del comportamento linguistico”.
➢ Per Hudson (1980) la SL è “lo studio della lingua in rapporto con la società”.
➢ Per Cardona (1988) la SL è un “ramo della linguistica che si propone lo studio in senso lato
dei rapporti tra società e attività linguistica”.
➢ Per Hymes (1980), Mioni (1983) e Giglioli (1973) la SL è un ambito multidisciplinare. Hymes
afferma che una SL a fondamento antropologico-etnografico ingloba come sua sottoparte la
linguistica.
➢ Per Labov (1972a/b), come per i variazionisti angloamericani, solo lo “study of language in
its social context” è la vera linguistica, e lo studio della variabilità linguistica è il focus della
linguistica in generale.
➢ Trudgill (1974a) non condivide l’assunto assolustistico che la SL sia tutta la linguistica, ma
caratterizza la peculiarità della disciplina sulla base degli obiettivi che si pongono i
ricercatori, distinguendo ricerche con obiettivi sociologici, richerche con obiettivi sia
sociologici che linguistici e ricerche con obiettivi completamente linguistici, attribuendo solo a
queste ultime l’etichetta di SL.
➢ Per Downes (1984) la SL è “that branch of linguistics which studies just those properties of
language and languages which require reference to social, including contextual factors in
their explanation”.
Tutte queste definizioni non si basano sugli obiettivi della disciplina.
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Fra questi due estremi si collocano diverse posizioni intermedie:
La SL da un lato presuppone la linguistica interna stessa, ma dall’altro va considerata una
parte della linguistica esterna con una propria autonomia e una propria validità, è una parte
della linguistica corrente che contribuisce alle conoscenze generali sul linguaggio. Una volta
d’accordo sulla pari dignità di linguistica generale o teorica e SL, è necessario chiarire
meglio le identità e le differenze reciproche di metodi, finalità e oggetti di ricerca. Ciò che
studia e cerca di spiegare la SL non è ciò che studia e cerca di spiegare la linguistica
generale o teorica (LG), nonostante perseguano il fine comune che è quello di spiegare e
interpretare i fatti linguistici:
LS: funzione comunicativa e sociale
LG: principi formali
➢ POSIZIONE ESTREMA LG: Secondo Labov (1992), la gran parte delle regole astratte e
delle strutture della lingua sarebbe insensibile ai fattori sociali. Secondo la linguistica
generativa non ci sarebbe addirittura alcun contatto, e quindi la struttura della lingua, tutto
ciò che è rilevante per il suo funzionamento, sarebbe indipendente alla funzione socio-
comunicativa.
➢ POSIZIONE ESTREMA LS: Secondo Hymes (scuole funzionaliste) invece, tutto nella
struttura della lingua sarebbe da vedere almeno in qualche misura connesso con la sua
funzione socio-comunicativa.
➢ POSIZIONE INTERMEDIA: Secondo Fasold, infine, alcuni fenomeni linguistici implicano
relazioni di struttura non assoggettabili al contesto comunicativi, mentre altri ha molto a che
fare con suddetto contesto.
Possiamo pensare che esistano tre parti o piani o tipi di elementi diversi nella struttura della lingua,
o meglio nella grammatica:
(A) una parte immune dal contesto extralinguistico, indipendente ad esso ed insensibile ad esso
nella sua organizzazione, dominio dei principi della grammatica puri;
(B) una parte condizionata dal contesto extralinguistico ma indipendente da quello sociale, in cui i
principi interni interagiscono con fatti di dominio della pragmatica;
(C) una parte condizionata dal contesto sociale propriamente detto, in sovrapposizione o non con la
dipendenza dal contesto extralinguistico non sociale.
Sembra che buona parte degli elementi, delle categorie e delle regole della struttura linguistica
appartenga al primo tipo (A): le reggenze e dipendenze della frase, i ruoli sintattici, le opposizioni
morfologiche e fonetiche, non paiono governati in nulla dal contesto extralinguistico, e nemmeno da
quello sociale. Altri aspetti della struttura paiono invece significativamente condizionati dal contesto
pragmatico (B): è il caso ad esempio delle manifestazioni della deissi. La presenza di tratti del terzo
tipo (C) è scarsa ma in stretta relazione a singole lingue e culture. A questo livello, le possibilità di
azione della SL sono evidentemente ridotte. Il discorso è diverso se ci spostiamo sul piano della
distribuzione negli usi delle strutture generati dalla grammatica: in linea di principio, tutte le strutture
effettive prodotte dalla grammatica sono suscettibili di assumere significato sociolinguistico.
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Riassumendo, ci sono due oggetti specifici della SL:
➢ da un lato, i tratti del sistema sensibili al contesto sociale (dove la parte spettante alla SL, in
confronto a quella della linguistica teorica, è scarsa; ma dove la linguistica teorica, o
autonoma, e la SL lavorano sullo stesso piano);
➢ dall’altro, l’uso sociale e il valore sociale (manifesto o latente) presso i parlanti di, in principio,
ogni elemento realizzato della lingua (dove la lingua parte di ambito della SL può consistere
in tutta la lingua; ma dove la SL lavora dopo la linguistica teorica, autonoma).
1. DATI. Il primo consiste nel fatto che sono radicalmente diversi i dati in cui operano la SL in
senso stretto e la SDL:
a. la SL in senso stretto lavora su items linguistici e i suoi dati sono produzioni linguistiche
concrete, realizzazioni del sistema linguistico prodotte dai parlanti
b. la SDL lavora su oggetti non direttamente prodotti dai parlanti come estrinsecazione del
sistema linguistico, e i suoi dati sono costituiti dai sistemi linguistici stessi nel loro
insieme e dalle loro varietà, dagli schemi comportamentali e da norme, atteggiamenti e
valori dei gruppi di parlanti.
3. SCALA
a. la SL in senso stretto tende a lavorare a livello micro-sociolinguistico (riguardante
singoli fenomeni linguistici, visti nei loro dettagli)
b. la SDL lavora a livello macro-sociolinguistico (studi a larga scala, rapporti tra ampie
strutture linguistiche e ampie strutture sociali). Sotto la denominazione di SDL andranno
tutti gli studi aventi come oggetto la composizione linguistica delle nazioni, la
costituzione e la tipologia dei repertori linguistici delle comunità, le manifestazioni sociali
del plurilinguismo, la politica e la pianificazione linguistiche, la sostituzione e la morte
delle lingue, ecc. La ricerca in SL presuppone spesso l’inquadramento generale fornito
dalla SDL.
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1.5 Due tipi di sociolinguistica: sociolinguistica correlazionale e sociolinguistica
interpretativa
Esistono due tipi fondamentali di approccio scientifico ai rapporti tra lingua e società:
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CAPITOLO 2
PROBLEMI E PRESUPPOSTI TEORICI DELLA SOCIOLINGUISTICA
RELATIVISMO CULTURALE → In SL, in quanto non esiste una cultura che sia la quintessenza
delle società esistenti, le generalizzazioni tendono a soffrire di una certa specificità locale.
I tentativi di creare teorie generali si ritrovano in zone di confine tra SL e linguistica strutturale-
funzionale (HALLIDAY) e tra SL e linguistica antropologica (HYMES):
1. Halliday: linguaggio come semiotica sociale (ma resta più nell’ambito della Ling generale)
Tenuto conto di queste difficoltà, gli obiettivi teorici che la sociolinguistiche deve porsi sono
essenzialmente due:
a) trovare e formulare principi generali della correlazione tra fatti linguistici e fatti sociali;
I requisiti minimi per una buona fondazione teorica della SL consistono nell’avere consapevolezza
dei problemi e nell’ottenere il massimo di rigore e precisione nelle definizioni, mentre un obiettivo
minimale è produrre una tassonomia valida.
La SL non ha necessariamente bisogno di fondarsi né su una teoria sociale determinata, né su una
teoria linguistica determinata, perché dovrebbe invece basarsi una teoria sociolinguistica, adatta ai
suoi scopi (no alla “interdisciplinarietà”!). Bisogna ridurre le ambizioni della SL, redendola più
incisiva e qualificata: la SL infatti presenta molti rischi (interpretativismo, relativismo...).
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2.2 Il carattere delle descrizioni e spiegazioni in sociolinguistica
Esistono nelle scienze due grandi classi di spiegazioni: causali, basate sul rapporto fisico di causa
ed effetto, dipendenti da leggi naturali e tipiche delle scienze naturali; e teleologiche, basate sulle
intenzioni, dipendenti dalla razionalità e dall’azione umana, tipiche delle scienze umane e sociali. La
linguistica comparteciperà di entrambe le classi di spiegazioni, dal momento che nel linguaggio
sono presenti allo stesso tempo aspetti naturali e aspetti culturali. La SL, invece, dato che il suo
oggetto va posto quasi esclusivamente nell’ambito dei fatti di cultura, deve cercare la propria
validità e identità tra le scienze umane e sociali.
→ dato X è più o meno plausibile che succeda Y secondo una probabilità non quantificabile
(qualitativa)
Queste 4 spiegazioni via via meno forti sono presenti e praticate nella linguistica e cercano cmq di
ricavare principi generali dai dati empirici. Le affermazioni esplicative caratteristiche della SL
collegano il particolare al generale in maniera probabilistica e non deterministica, e sono
fondamentalmente relativistiche.
A questi si contrappone un altro genere di procedimento esplicativo, tipico delle scienze umane più
molli (storia e critica letteraria) ricondotto al termine ermeneutica che dà conto in termini di
interpretazione dei fatti e che si basa sulla nozione di intenzionalità umana.
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Spiegazioni e descrizioni non vanno confuse:
Descrizioni: come è fatto un oggetto (importanti le buone descrizioni che però non spiegano)
Il reale statuto epistemologico dei procedimenti teorici delle scienze del linguaggio non è stato
ancora chiarito in maniera unanime.
RISCHIO: frammentazione e perdita di una teoria generale con troppa etnografia a discapito della
costruzione di una teoria come fondamento basilare.
La recente tendenza a privilegiare le componenti interazioniste e interpretative della SL, e quindi le
spiegazioni ermeneutiche del tipo teleologico, nasconde il pericolo di una delega dello specifico
sociolinguistico ad una generale scienza del mondo, con il rimando ad una congerie inesauribile di
singoli fatti inerenti all’individuo e al suo lavoro di costruzione continua della realtà, trasformando il
sociolinguista in uno scienziato sociale.
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2.3 “Excursus” sul funzionalismo in linguistica
Nella linguistica è sempre più chiara la contrapposizione fra 2 grandi orientamenti teorici diversi:
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Harris → il mutamento linguistico è la tendenza ad organizzare il materiale “sistemico” della
lingua nella maniera più economica e coerente possibile.
S. Kuno → a differenza degli autori finora citati, accetta il paradigma generativista. Secondo
lui la linguistica funzionale rappresenta un approccio all’analisi della struttura linguistica in cui
si sottolinea la funzione comunicativa degli elementi, in aggiunta alle loro relazioni strutturali.
La sintassi funzionale concepita da Kuno è una parte della linguistica funzionale, in cui le
strutture sintattiche vengono analizzate ponendo l’accento sulle loro funzioni comunicative,
con particolare attenzione al concetto di “empatia”, inteso come il punto di vista del parlante
posto in primo piano.
Le considerazioni di tipo funzionale sono predominanti nella linguistica diacronica dato che
la conoscienza storica alla base del mutamento linguistico per sua natura non può essere
risultato di leggi deduttive ma esige procedure interpretative (spiegazioni razionali che
cercano schemi coerenti tra i fatti li riportano a principi plausibili).
La SL non può non essere funzionalista. In SL la quantità e il peso dei fatti affrontabili solo
in termini funzionali è di gran lunga maggiore che in altri settori delle scienze del linguaggio.
Labov → critica il funzionalismo e sostiene che c’è una tendenza a sovrastimare la portata dei
fattori funzionali nella spiegazione della variazione e del mutamento linguistico.
Gli assiomi sono delle asserzioni che non richiedono dimostrazioni e su cui tutti coloro che fanno SL
possono trovarsi d’accordo, dotate di validità intrinseca ad un livello basilare.
2. ogni individuo impara e mette in opera la lingua nelle interazioni con gli altri individui della
comunità di cui fa parte sfruttando un potenziale mentale individuale, e quindi la lingua è
proprietà sia individuale che collettiva. Risulta perciò necessario anche un approccio sociale al
linguaggio per capirlo nella sua totalità;
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3. ogni lingua è varia e conosce differenziazioni, e si articola quindi in tante varietà di lingua
(assioma della variabilità linguistica). Tale variabilità interna si inserisce nella variabilità delle
diverse lingue rispetto ai parametri tipologici generali, che le definiscono “lingue possibili”;
4. ogni parlante normale è capace di usare, e usa, più di una varietà di lingua. Nessun parlante
normale reale parla allo stesso modo in tutte le situazioni;
5. ogni persona parla in modo un po’ diverso da tutte le altre. La SL quindi deve presuppore come
“parlante ideale” un parlante che conosce e padroneggia più o meno bene più varietà di lingua
in una comunità parlante eterogenea;
6. le diverse varietà di lingua hanno diverso status e prestigio, non socialmente equipollenti;
9. non tutti i livelli di analisi del sistema linguistico sono suscettibili allo stesso modo di essere
toccati dall’influsso esterno. Una possibile scala che vada dal meno al più esposto potrebbe
essere: morfologia, sintassi, fonologia, lessico e semantica, pragmatica. La scala è
inversamente proporzionale al potere che il parlante ha su ogni livello.
10. non tutte le unità di tutti i livelli di analisi sono suscettibili di variare nella stessa misura: la
variabilità potenziale è massima per il lessico, ridotta per la sintassi e la morfologia. I lessico è
massimamente variabile a livello delle unità dell’inventario, mentre la fonetica lo è a livello delle
realizzazioni delle singole unità;
11. gli aspetti ling. possono avere valore/rilevanza/significato sociale ad ogni livello di analisi;
12. l’attività linguistica può costituire anche un atto d’identità, mediante il quale il parlante si
definisce/riconosce come appartenente ad un certo gruppo e si colloca in una qualche misura
in una precisa posizione all’interno della società. Attraverso il comportamento linguistico, ogni
individuo fornisce informazioni sulla propria collocazione in società;
13. lo spazio sociolinguistico in cui ogni parlante è collocato è pluridimensionale, sia socialmente
che linguisticamente: ruolo e status, caratteristiche demografiche ecc., e diversi tipi di varietà
dall’altra si incrociano e si sommano tra loro;
14. la SL per sua natura è molto legata ad uno/a specifico/a singolo/a paese/società/comunità e
alle differenze fra essi/e, quindi il contenuto anche dei concetti e delle unità d’analisi
fondamentali è sensibile alla specificazione;
15. oggetto di spiegazione in SL deve essere l’insieme dei fatti sociolinguistici, in cui lingua e
società si fondono; vale a dire, la lingua stessa e l’attività linguistica, il comportamento
linguistico degli individui;
16. è normale che un sistema linguistico coesista in una società con un altro sistema linguistico
dando luogo a repertori verbali plurilingui (assioma del plurilinguismo).
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CAPITOLO 3
NOZIONI FONDAMENTALI E UNITÀ DI ANALISI
La nozione di comunità linguistica o comunità parlante è una categoria di analisi basilare della SL.
Generalmente si intende per comunità linguistica una comunità sociale in quanto condivida
determinati tratti linguistici (“avere qualcosa in comune relativo alla lingua”). Resta da chiarire cosa
deve avere in comune una comunità linguistica. Le definizioni si basano su diversi criteri:
1. sulla lingua: comunità linguistica come insieme delle persone che condividono una
determinata lingua e le norme di uso (definizioni di questo tipo si riscontrano negli
strutturalisti americani, da Bloomfield in poi);
2. su base socio-geografica: implica una comunanza di lingua e di stanziamento: comunità
linguistica come gruppo di persone che appartengono ad una determinata entità geografico-
politica e condividono la stessa lingua (secondo Ferguson, una comunità linguistica sarebbe
formata da tutti quelli entro i confini di un paese che parlano la stessa lingua).
3. su modelli di interazione: più complessi, ma più pregnanti: secondo Gumperz, una
comunità linguistica è “ogni aggregato umano caratterizzato da un’interazione regolare e
frequente per mezzo di un insieme condiviso di segni verbali e distinto da altri aggregati
simili a causa di differenze significative nell’uso del linguaggio”. Questa è una definizione di
repertorio, nel senso che non implica il riferimento ad un’unica lingua, e si articola secondo
tre criteri:
- la presenza di interazioni effettive;
- la condivisione di varietà di lingua;
- una riconoscibile diversità nell’uso rispetto ad altri aggregati.
4. Labov basandosi sul criterio degli atteggiamenti sociali, definisce la comunità linguistica
come “un gruppo di parlanti che condivide un insieme di atteggiamenti sociali nei confronti
della lingua”, includendo la condivisione di norme, criterio messo a fuoco da Hymes per
cui la comunità linguistica è “una comunità che condivide la conoscenza di regole per
produrre ed interpretare il parlare”.
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Poiché la nozione è fondamentale, una definizione generale potrebbe essere: “un insieme di
persone, di estensione indeterminata, che condividano l’accesso a un insieme di varietà di lingua
che siano unite da una qualche forma di aggregazione socio-politica”. L’insieme di varietà di lingua
e l’estensione dell’aggregazione possono essere stabiliti di volta in volta → mantenendo
necesssariamente la distinzione fondamentale tra comunità linguistica (concetto sociolinguistico)
e gruppo (concetto sociale)
SL
Sdoppiamento in due entità dotate di un correlato sociale
Comunità linguistica Caratteristiche dei parlanti
Repertorio linguistico Varietà di lingua
Ogni membro riconoscibile di un repertorio linguistico è una varietà di lingua: concetto molto
generale e neutro che si basa su una duplice focalizzazione: su tratti linguistici e tratti sociali.
Le varietà di lingua sono la realizzazione del sistema linguistico presso classi di utenti e di usi. Ciò
che individua una varietà di lingua è il co-occorrere, il presentarsi insieme, di certi elementi,
forme e tratti di un sistema linguistico e di certe proprietà del contesto d’uso; rappresentano
un modello ricorrente di concretizzazione, attivato dal contesto socio-situazionale, di alcune
possibilità insite nel sistema.
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Berruto definisce una varietà di lingua come un insieme di tratti congruenti di un sistema linguistico
che co-occorrono con un certo insieme di tratti sociali, caratterizzanti i parlanti o le situazioni d’uso.
La quantità di tratti linguistici che caratterizzano una varietà non è predeterminata. Ci possono
essere molte o poche differenze e varietà diverse possono essere caratterizzate non dalla presenza
di tratti peculiari ma dalla diversità di frequenza di tali tratti (a volte è difficile delimitare e classificare
le varietà).
Come individuare una varietà linguistica:
1. Si fa una lista di tratti linguistici che si presentano assieme
2. Si verifica che questo insieme di tratti sia comune a parlanti o situazioni d’uso simili per
caratteristiche sociali
I tratti linguistici tipici di una varietà devono essere congruenti, vale a dire dotati di un certo grado di
omogeneità strutturale, che fa sì che obbediscano a specifiche regole di co-occorrenza. La scelta di
un elemento di una certa varietà implica la scelta di altri elementi della stessa varietà o compatibili
con essa → “Scusi, vieni qui!” è dunque incongruente sociolinguisticamente
La nozione di varietà di lingua è preliminare al riconoscimento di lingue diverse: due varietà con un
certo grado di distanza strutturale possono essere alternativamente ritenute varietà della stessa
lingua o varietà di due lingue diverse sulla base di fatti non linguistici, e non esiste una soglia al di
qua o al di là della quale due varietà diverse vadano considerate varietà della stessa lingua o di due
lingue diverse. La designazione di lingua dipende sostanzialmente da fattori extralinguistici (es:
olandese e tedesco possono essere considerate due lingue diverse anche se strutturalmente più
vicine tra loro che italiano e molti dialetti italiani, che sono varietà di una stessa lingua).
➔ “varietà” in SL è un concetto centrale, equivalente a “lingua” in linguistica.
Una lingua è vista da un sociolinguista come una somma logica di varietà, data dalla parte
comune a tutte le varietà (il nucleo invariabile del sistema linguistico) più le parti specifiche di
ogni singola varietà o gruppi di varietà. A questo costrutto si dà a volte il nome tecnico di
diasistema, mediante il quale si intende un sistema di livello superiore, costituito da un sottosistema
comune e da sottosistema parziali, che riunisce in un unico sistema sistemi più vicini, somiglianti,
aventi molte opposizioni in comune.
Varietà linguistica minima → minima entità sociale a cui può corrispondere una determinata
varietà, rappresentata dal singolo individuo in una singola classe omogenea di situazioni. Per
designare la varietà linguistica minima, l’insieme delle possibili realizzazioni linguistiche di un
singolo parlante nel servirsi in un determinato lasso temporale di una lingua è stato introdotto da
Bloch il termine di “idioletto”, che però è poco usato in SL perché può portare a 3 interpretazioni:
1. Varietà linguistica minima (Bloch): insieme delle possibili realizzazioni linguistiche di un
parlante nel servirsi di una lingua per interagire con un altro parlante in un det momento
(ciascun individuo può avere più idioletti);
2. l’intero complesso delle particolarità linguistiche di un parlante (coincidendo all’incirca con il
repertorio linguistico individuale),
3. il modo di realizzare la lingua tipico di un parlante in un insieme omogeneo di situazioni: in
questo senso un parlante avrebbe più idioletti, e l’idioletto coinciderebbe con registro o stile.
Per Cardona potrebbe essere utile considerare l’idioletto come “la somma delle variazioni personali
rispetto ad uno standard linguistico”, rappresentando un limite inferiore all’analisi SL, da ricondursi
quindi all’idiosincrasia del singolo e quindi non presentando aspetti di rilievo sociale.
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3.1.4 Competenza comunicativa
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3.2 Alcuni concetti sociali
Vi sono alcuni concetti molto impiegati in SL, ma dotati di altro statuto, in quanto colgono aspetti
della realtà sociale particolarmente pertinenti per l’analisi della dimensione sociale del
linguaggio. Si tratta quindi di costrutti sociologici spesso assunti come variabili indipendenti per
descrivere e spiegare la variabilità linguistica, in quanto più immediatamente correlabili con essi.
Sono quindi mediatori tra società e comportamento linguistico.
Il primo di questi concetti è la situazione, intesa come un insieme di circostanze in cui avviene un
evento di comunicazione linguistica, il luogo in cui l’attività linguistica si esplica, data da una
costellazioni di componenti che si realizzano in simoltaneità, suscettibili di influenzare in qualche
modo il comportamento linguistico dei parlanti.
Hymes ci offre la più nota tassonomia dei componenti della situazione comunicativa, che individua
ben 16 fattori: il contesto ambientale, la scena, il parlante, il mittente, l’ascoltatore, il destinatario, gli
scopi-risultati, gli scopi-fini, la forma del messaggio, il contenuto del messaggio, la chiave, i canali di
comunicazione, le forme di parlata, le norme di interazione, le norme di interpretazione ed i generi.
Ma le categorie sembrano moltiplicabili in maniera illimitata.
Hudson (1980) definisce l’attività linguistica come “lavoro specializzato”, che richiede uno sforzo e
la conoscenza del “saper fare”.
Berruto riassume tutti i diversi fattori sotto quattro esponenti fondamentali: mezzo, partecipanti,
intenzione comunicativa e argomento.
Halliday (1983) riconduce la “variazione diatipica” (attraverso le situazioni) a tre moduli di
selezione: campo (argomento, esperienza, attività), tenore (rapporti personali) e modo (mezzo).
Preston (1986) ha proposto una lista tassonomica di ben cinquanta fattori suscettibili di influire sulla
variazione linguistica, raccolto sotto le quattro macro-categoria di Partecipanti, Interazione, Codice
e Realizzazione.
Risultano comunque avere importanza gli elementi riconducibili agli interlocutori: il ruolo dei
partecipanti all’interazione (ruolo comunicativo e sociale) , cioè le aspettative relative al
comportamento di chi occupa una certa posizione sociale, le conoscenze attribuite agli
interlocutori, l’immagine che ne viene costruita → fattori rilevanti per il condizionamento
della varietà di lingua utilizzata e sull-interazione in sè, in quanto negoziazione costante tra
parlante e interlocutore.
Due nozioni importanti sono quelle di status e ruolo sociale, tra loro interdipendenti.
STATUS → posizione di una certa persona all’interno di una struttura/gerarchia sociale: l’insieme
delle proprietà attribuite ad una data posizione dall’organizzazione generale della società. Gli status
sociali sono stratificati in una gerarchia che corrisponde alla disuguaglianza sociale: si parla quindi
di status alti e status bassi, indicandone la posizione nella gerarchia. Il ruolo sociale è l’insieme di
ciò che ci si aspetta da un certo status, la configurazione di comportamenti esibiti o comunque
attesi da parte dei membri di una comunità in base al loro status.
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La psicologia sociale del linguaggio studia il tema dell’influenza dell’interlocutore attraverso la
teoria dell’accomodazione (o adeguamento) secondo cui i parlanti nell’interazione tenderebbero a
convergere in varie caratteristiche del comportamento verbale, e questo in base a due principi:
1. la tendenza a guadagnare l’approvazione del nostro interlocutore (cercando di rendersi
più simile o diversificandosi apposta)
2. il principio dell’interazione come cooperazione (i partecipanti negoziano il buon
andamento dell’interazione anche per vantaggi personali rendendosi linguisticamente +
vicini)
2 OBIEZIONI:
a. Un adeguamento a lungo termine è di dubbia efficacia perché dovrebbe portare
all’avvicinamento di differenze linguistiche tra individui e gruppi
b. L’adeguamento dovrebbe via via diminuire in proporzione all’avvicinamento risultante tra gli
interlocutori
Insomma si sopravvaluta la capacità dei parlanti di modificare le loro varietà linguistiche
Per Bell: c’è un adeguamento del parlante in base all’auditorio e all’immagine que esso si fa di lui:
“speakers design their style for their audience”
Al limite, ogni singola situazione si presenta come unica e irripetibile, con evidenti caratteri
idiosincratici (per questo più che “situazione” si usa “classe di situazioni”).
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3.2.2 Dominio
Fishman ha introdotto un costrutto di livello superiore a “situazione”, quello di DOMINIO per definire
“a cluster in interaction situations (“classi di situazioni”), grouped around the same field of
experience, and tied together by a shared range of goals and obligations: e.g. family,
neighbourhood, religion, work, etc.”.
I domini tradizionalmente riconosciuti nelle analisi di sociologia del linguaggio sono identificati in
maniera molto empirica: famiglia, vicinato, lavoro, istruzione, religione, eventualmente
ufficialità, vita militare, ecc. L’elenco è aperto, anche perché i criteri in base a cui si individuano i
domini sono largamente intuitivi.
La nozione di dominio è poco rilevante in SL, ma si inserisce bene in una gerarchia di costrutti che
possono legare il livello macro-sociolinguistico a quello micro-sociolinguistico:
società (sistema sociale) > articolata in domini > costituiti da (classi di) situazioni ricorrenti >
coposti da eventi linguistici > costituiti da (una sequenza di) atti linguistici.
2. quelle DEMOGRAFICHE: relative a caratteristiche non filtrate dalla struttura della società ma
determinate dalla distribuzione naturale della popolazione.
a. Classe generazionale (d’età)
b. Provenienza geografica
c. Sesso
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Strato sociale (anche definito “classe”, “ceto”, “fascia”)
Prima variabile sociale di cui siano state studiate le correlazioni con differenze sistematiche nel
comportamento linguistico, negli anni Sessanta (rapporti tra linguaggio e società), ed è stata alla
base di tentativi anche ambiziosi di elaborazione teorica della SL. Il concetto vale ad indicare i
raggruppamenti gerarchici di individui in cui si articola qualunque società, e presenta una
serie di problemi sia sul versante sociologico che su quello dei rapporti tra lingua e società.
Gruppo sociale
Non implica gerarchia, ma si limita a designare compartimentazioni; è un concetto socialmente più
denso poiché presuppone una componente geografica, la condivisione dello stanziamento in un
dato territorio per lo più limitato, e quindi l’esistenza di collegamenti diretti tra i membri. Un
gruppo implica anche la comunanza di aspettative ed esperienze, ed è caratterizzato da
solidarietà e coesione al suo interno. L’affiliazione ad un gruppo costituisce un importante punto di
riferimento per gli individui nella società, ed è naturalmente un potente fattore di orientamento del
comportamento linguistico. La lingua è un importante simbolo dell’identità di gruppo, e nel
comportamento linguistico dei singoli si riflette volentieri sia la ricerca di approvazione sociale da
parte di altri gruppi, sia l’eventuale accettazione delle differenze rispetto agli altri.
Es di gruppi: famiglia, bande giovanili di NY, cerchia di amici, abitanti di un paesino...
Strati e gruppi sociali, nella struttura della società, si intersecano a vicenda: ad uno strato
corrispondono tipicamente più gruppi sociali, e in un gruppo possono essere compresi più strati. Un
gruppo è definito in maniera pertinente anche dal sentimento da parte dei suoi membri di costituire
un gruppo, ed è quindi in parte generato dall’interno, mentre lo strato è definito da caratteri esterni
agli individui).
Comunità linguistica
è formata, sul versante sociale, da più gruppi di parlanti, i quali possono costituire entità stabili
ma anche transeunti, che durano per il periodo in cui insiemi di individui si trovano a condividere un
certo insieme di attività ed esperienze.
All’età dei parlanti è riconosciuto un ruolo evidente della differenziazione linguistica e nella parziale
ristrutturazione (oltre che trasmissione) che la lingua può subire. L’appartenenza alla medesima
generazione è un fattore favorevole allo stabilirsi di gruppi sociali (lingua giovanile). Questa variabile
è costantemente tenuta presente nelle ricerche empiriche di SL, anche se il riconoscimento di
varietà generazionali di lingua è problematico.
Anche il sesso dei parlanti è tenuto spesso presente, nonostante il suo ruolo nelle correlazioni con
differenze linguistiche è tutt’altro che univoco (difficile parlare di caratteri maschili o femminili ma le
donne sono più conservative, standardizzate, cortesi e accomodanti con le posizioni
dell’interlocutore, con attenzione agli aspetti relazionali) – il sesso è comunque filtrato dalla
posizione sociale (status).
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3.2.4 Rete sociale.
Il concetto di rete sociale (social network) è stato mutuato dall’antropologia sociale, e rappresenta
uno sviluppo della nozione di gruppo sociale. Una rete sociale è un insieme di persone che si
conoscono e che hanno contatti, l’insieme con cui un ego di riferimento intrattiene rapporti
comunicativi. Esistono diverse interpretazioni di questa nozione, ciascuna delle quali accentua un
determinato aspetto: il carattere relazionale o la sua natura di gruppo di individui.
La rete sociale è costituita dalle relazioni tra i parlanti, e si pone a un livello intermedio tra analisi
macro-sociolinguistica e analisi micro-sociolinguistica (approccio interpretativo basato sulle
interazioni). Non è facile determinare in maniera netta l’estensione esatta di una rete sociale.
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3.2.5 Prestigio
Esistono due nozioni di natura sociale che non costituiscono variabili indipendenti ma solo fattori di
influenza del comportamento linguistico in un livello più astratto:
1. prestigio: valutazione sociale positiva, proprietà di essere degno di imitazione, in quanto
valutato positivamente sulla base di caratteri favorevoli che gli sono riconosciuti. Non è una
proprietà oggettiva, ma dipende dalla valutazione di certi tratti personali o sociali che i
membri di una comunità ritengono particolarmente desiderabili. Il prestigio è generalmente
attribuito ad uno status: gli status alti hanno un prestigio alto, mentre gli status bassi hanno
scarso prestigio, o non ne hanno. Il contrario del prestigio è lo stigma, il marchio sociale che
può colpire caratteristiche o proprietà sfavorevoli, non accettate socialmente e quindi
sottoposte a sanzione negativa. In SL il termine prestigio è inteso in maniera polisemica: può
essere usato in senso generico, per indicare la buona valutazione sociale complessiva di
una varietà di lingua, oppure può indicare un mezzo di avanzamento sociale dell’individuo.
Bourdieu usa la nozione di “mercato linguistico” (tra attività socio-eco e competenza
linguistica del parlante) ma è criticata da Berruto
Il prestigio di una (varietà di) lingua è un fatto complesso che comprende:
a) gli atteggiamenti linguistici favorevoli dei parlanti membri di una comunità;
b) il valore di simbolo della comunità attribuito alla (varietà di) lingua;
c) l’essere veicolo di ampia e apprezzata tradizione letteraria;
d) l’essere parlata dai gruppi sociali dominanti (prestigio sociale): ha particolare importanza
ed è dato dal riverberarsi sul codice linguistico delle caratteristiche socialmente appetibili,
reali o attribuite, del gruppo che tipicamente lo parla. La varietà del gruppo o dello strato
socio-culturalmente e politicamente egemone risulta quindi modello di imitazione per i
parlanti di altri gruppi e strati, anche se non bisogna credere varietà proprie di strati bassi
siano del tutto prive di prestigio. Le lingue standard e le varietà standard delle lingue godono
di regola di (alto) prestigio.
3.2.6 Atteggiamenti
Atteggiamento è uno stato mentale di predisposizione, organizzato attraverso l’esperienza, che
esercita un’influenza dinamica, polarizzata o in senso favorevole o in senso sfavorevole, sulla
risposta di un individuo agli oggetti e alle situazioni con cui ha a che fare Allport (1967).
Gli atteggiamenti non vanno confusi con le opinioni, poiché essi non sono direttamente accessibili
all’osservazione, ma stanno nel retroscena, ben sotto la superficie comportamentale; e sono
sempre relativi ad un oggetto di riferimento, per cui si potrebbero definire come l’insieme di posizioni
concettuali assunte da una persona circa un determinato “oggetto”.
In quanto posizioni concettuali, sono costituite da componente cognitive, razionali (credenze,
fondate sia sull’osservazione ed esperienza diretta che sull’inferenza che sull’autorità di altri) e da
componenti affettive, emozionali, le quali sono da considerare prevalenti se si esprimono
valutazioni. Le componenti cognitive e valutative determinerebbero un terzo aspetto degli
atteggiamenti, quello conativo, in cui credenze e valutazioni emotive sono trasformate in intenzioni
più o meno nette di comportamento e in disposizioni all’azione. Interessano alla SL in quanto
atteggiamenti linguistici, ovvero riguardanti le lingue, varietà di lingua e comportamenti linguistici, o
collegati alle comunità parlanti.
22
La natura degli atteggiamenti non è sempre chiara. L’atteggiamento è sempre in un certo senso una
sorta di stato di predisposizione ad agire in una certa direzione, ma è solo uno dei fattori che
intervengono a determinare il comportamento effettivo, accanto alle circostanze della situazione da
un lato e alle norme, ai valori e alle consuetudini della comunità sociale dall’altro. L’atteggiamento
arriva ad influenzare direttamente il comportamento solo se e quando la situazione lo consente.
Spesso gli atteggiamenti hanno una componente interazionale, in quanto riguardano
fondamentalmente gruppi o persone; e sono chiaramente acquisiti.
Gli atteggiamenti molteplici funzioni, di cui è possibile distinguerne quattro fondamentali (Deprez-
Persoons, 1987):
a. utilitaristica,
b. di orientamento cognitivo,
c. di manifestazione di valori e di difesa dell’ego
d. dell’identità personale
I pregiudizi sono gli atteggiamenti che ci formiamo prima di o indipendentemente dall’aver avuto
contatto e conoscenza diretta con un oggetto. Il pregiudizio è basato su delle categorie prestabilite
note come stereotipi, rigide, tendenzialmente irreversibili e perlopiù implicite attribuite ad un
oggetto in base ad un’infondata (o errata) generalizzazione → il pregiudizio è uno stato mentale che
fonde stereotipi in un atteggiamento generale per lo più negativo, che tende a restare stabile.
Gli atteggiamenti linguistici sono una componente fondamentale dell’identità linguistica dei parlanti
e costituiscono quindi un fattore molto importante per comprendere il comportamento linguistico
degli individui, la loro posizione nella stratificazione sociolinguistica, nella società e l’organizzazione
dei repertori linguistici di una comunità. Hanno anche un ruolo rilevante in molti concetti
sociolinguistici. La formazione degli atteggiamenti è collegata intimamente con numerose variabili
sociali e linguistiche, come l’età, il grado di istruzione, il retroterra culturale, l’abilità linguistica,
il sesso dei parlanti, ecc., e il modo di parlare di una persona determina fortemente gli
atteggiamenti e le reazioni di un interlocutore.
Lo studio degli atteggiamenti linguistici pone numerosi problemi metodologici, in quanto l’oggetto di
analisi sfugge all’osservazione e sperimentazione diretta. I metodi più comuni di rilevamento e
misurazione degli atteggiamenti linguistici sono:
a. l’inchiesta con questionario
b. l’intervista con domande dirette o indirette
c. la tecnica (usata soprattutto nelle indagini sul bilinguismo), di richiedere la valutazione delle
lingue in questione mediante una lista di aggettivi prestabiliti (utile, inutile, espressiva...).
Ma tali tecniche ofrrono per lo più opinioni e giudizi senza fornire risultati attendibili sugli
atteggiamenti dei parlanti.
Generalmente si preferiscono le tecniche indirette, come il “differenziale semantico”, che è usato
spesso in psicologia e consiste nel chiedere ai soggetti intervistati di collocare un oggetto di
valutazione in un punto di una serie di scale a sette valori compresi tra due aggettivi polari
(caldo/freddo, allegro/triste, bello/brutto, ecc.).
23
Il metodo indiretto per eccellenza, considerato + attendibile, che è usato per lo studio degli
atteggiamenti linguistici è la tecnica del matched guise o “travestimenti (di voci) a confronto”. Si
tratta di un test, ideato negli anni Sessanta dallo studioso canadese W. Lambert che consistente nel
far sentire, con delle registrazioni, diverse voci di letture di brani a dei valutatori e nel chiedere a
questi di esprimere la propria opinione sulle persone che parlano collocandole nella posizione che
sembra loro adatta secondo diverse categorie prestabilite (riguardanti tratti del carattere e della
personalità, status socio-economico, ceto sociale di appartenenza dei parlantiecc.). Questa tecnica
sembra particolarmente indicata a far emergere opinioi più spontanee e non filtrate in termini di
accettabilità sociale (rispetto a quelle date su un gruppo) e a far emergere gli stereotipi vigenti nella
comunità, ma presenta dei problemi metodologici.
CAPITOLO 4
LINGUA E STRATIFICAZIONE SOCIALE
24
4.2 La stratificazione sociale nelle indagini sociolinguistiche
3 ordini di problemi per operare n sociologia con la stratificazione:
1. quali sono i fattori che stabiliscono la stratificazione?
2. Quanti e quali strati esistono in una società?
3. Come assegnare singoli individui a un determinato strato?
IN SOCIOLOGIA era frequente, tra gli anni 60 e 70, una divisione in 3 strati (ceto alto – medio –
basso) sulla base dei mezzi a disposizione, dell’influenza, del prestigio e dell’attività svolta.
In Italia la stratificazione sociale è stata studiata da P. Sylos Labini, che definisce la società
postindustriale moderna “economicamente e culturalmente sempre più differenziata, e tuttavia
sempre meno divisa da barriere di classe” e che “oramai le differenze fra le classi sociali dipendono
più da elementi culturali che da elementi obiettivi” e che “l’attribuzione delle persone alle diverse
classi e categorie sociali è un’operazione inevitabilmente in certa e, per alcune frange, molto
opinabile”.
Il parametro assunto da Sylos Labini, analisi macro-sociolinguistica per distinguere le diverse classi
sociali è il modo attraverso cui si ottiene un certo reddito. Su questa base viene proposta, per la
società italiana degli anni 80, una divisione in 5 classi sociali:
1. borghesia,
2. classi medie urbane,
3. coltivatori diretti,
4. classe operaia
5. sottoproletariato (persone con attività precarie o illecite e difficilmente quantificabile)
IN SOCIOLINGUISTICA il primo autore ad aver affrontato il problema della variabile strato sociale è
Labov (1966), il quale afferma che basarsi sulla produzione per stabilire il rango sociale è più
pertinente che basarsi sui consumi, e accetta come indici di classe sociale (strato) 3 fattori:
1. il reddito
2. il grado di istruzione
3. l’occupazione
Trudgill (1974b) aggiunge altri 3 indici:
4. il tipo di abitazione
5. il luogo di abitazione
6. il lavoro del padre
Raggruppando i valori ottenuti in base ai 6 criteri (per ciascuno dei quali è assegnato un punteggio
da zero a cinque), ottiene per un campione di sessanta parlanti 5 strati:
1. media classe media
2. classe media inferiore
3. classe operaia superiore
4. media classe operaia
5. bassa classe operaia
Questi 5 strati risultano collegarsi bene alle variazioni linguistiche (grafico p.105) e mostrano che la
posizione occupazionale nelle società occidentali è il miglior indicatore di classe.
25
J. Milroy (1992) si pronuncia invece contro l’utilità di indici che misurino l’appartenenza di classe
sociale e ritiene più appropriata una concezione qualitativa della stratificazione sociale, come quella
proposta dal sociologo danese Hoirup, che vede come risultato dell’organizzazione sociale la
divisione in tre raggruppamenti caratterizzati da modi di vita diversi:
1. dei lavoratori autonomi orientati sulla loro attività produttiva che si basa sulla solidarietà e
si esplica in reti sociali con legami forti e fitti.
2. dei salariati che non hanno controllo sul processo di produzione in cui sono inseriti, vede il
lavoro in funzione della famiglia e si esplica anch’esso in reti sociali a maglie dense.
3. dei professionisti e lavoratori dipendenti di alto livello, fa prevalere il lavoro sulla
famiglia e si esplica in reti sociali a trama larga e con legami deboli.
Nell’Europa continentale è raro che si adottino indici numerici come quelli utilizzati da Labov e
Trudgill, e ci si accontenta piuttosto di una categorizzazione basata essenzialmente su due fattori:
1. tipo di attività svolta
2. grado di istruzione
Altri studiosi rinunciano invece ad una diversificazione in strati come variabile unitaria.
Come variabile in SL è sufficiente una stratificazione sociale non molto dettagliata, poco fine in
termini analitici, comprendente pochi strati, in quanto essi per i sociolinguisti sono dei realia di
riferimento e non delle entità da studiare: la nozione di strato sociale ha per il sociolinguista un
valore prevalentemente pratico e descrittivo (anche se ci sono aspetti ardui da oggettivare come il
tenore e lo stile di vita o i modelli di comportamento, le aspirazioni, i modelli di riferimento, il
consumo...)
Sembra comunque che un incrocio tra il tipo di scuola frequentata e il genere di occupazione
svolta corrisponda meglio ai tratti che caratterizzano la posizione sociale di un parlante.
Semplificando al max, si potrebbe operare con 2 sole grandi classi: parlanti non istruiti (incolti) /
parlanti istruiti (colti) con al max una classe in più dei semi-colti.
Il comportamento linguistico non è però riducibile all’appartenenza di classe, ma solo correlabile:
non c’è rapporto uno-a-uno fra società e lingua: i condizionamenti sono sempre
probabilistici. I tagli della società e quelli della lingua non debbono necessariamente coincidere.
In sintesi la stratificazione sociale è una nozione descrittiva e un possibile costrutto teorico
nell’interpretazione dei rapporti tra lingua e società (specialmente per il mutamento
linguistico) con valore locale.
26
4.3 Modelli del rapporto fra lingua e stratificazione sociale
4.3.1 Un modello sociologico
Tra i tentativi di elaborare modelli teorici globali x relazionare l’appartenenza di classe sociale con
date varietà linguistiche il + noto è la teoria dei due codici elaborata dal sociologo dell’educazione
B. Bernstein, che nel 1970 è stata al centro del dibattito sociolinguistico → teoria tipicamente
sociologica, che ha conosciuto negli anni una notevole evoluzione in 3 fasi:
1. Negli anni 60 parte dal problema dell’insuccesso scolastico dei bambini provenienti dal basso ceto
operaio nell’Inghilterra e lo spiega in termini di linguaggio. I bambini provenienti dalle classi inferiori
avrebbero a disposizione un “codice ristretto”, non adeguato alle richieste della scuola nella
trasmissione dei codici educativi, mentre i bambini provenienti dalla classe media avrebbero a
disposizione anche un “codice elaborato”. L’accesso a questi due tipi di codici sarebbe mediato dai
ruoli all’interno della famiglia;
2. Negli anni 70 i due codici, detti ora “codici sociolinguistici”, sono definiti con criteri meno linguistici e
più interazionali-cognitivi, non più come modi di esprimersi, ma solo come modi di organizzazione e
formulazione verbale dell’esperienza (principio + nella divisione sociale del lavoro che
nell’appartenenza di classe;
3. Negli anni 80 la teoria diventa più complessa e astratta, allontanandosi dai fatti linguistici: partendo
dalla nozione della divisione del lavoro, introduce il concetto di “relazione con la base materiale”
come criterio centrale per stabilire il carattere del codice: quanto più complessa è la divisione del
lavoro e meno specifica e locale è la distinzione fra un agente e la sua base materiale, tanto più è
indiretto il rapporto tra significati e una base materiale specifica e maggiore la probabilità di un codice
elaborato. I codici sono ora caratterizzati da due fattori tra loro interdipendenti, chiamati
“classificazione” (classification, C) e “inquadramento” (framing, F).
– C: relazione (forte o debole) fra categorie referenziali di un contesto di riferimento: la relazione è
forte se le categorie sono isolate, ben separate, e debole se non lo sono. La classificazione è basata
sulla distribuzione del potere nella società e fornisce regole di riconoscimento → POTERE
– F: regolazione (forte o debole) delle pratiche comunicative fra emittente e ricevente: la regolazione
è forte se l’emittente regola esplicitamente i tratti del contesto comunicativo, è debole se il ricevente
ha largo margine per regolarli lui stesso. L’inquadramento riguarda il controllo della comunicazione
e fornisce regole di produzione → CONTROLLO
Caso empirico che illustra tali categorie (C+; C-; F+; F-) con 2 gruppi di bambini di 7 anni a cui viene
chiesto di raggruppare cibi e spiegare le ragioni dei raggruppamenti: il gruppo dei bimbi di Classe
Media dimostra un controllo simbolico maggiore (“sono verdure”: C+; F+) e il gruppo di bambini di
classe bassa interpreta in termini di (“le ho mangiate stamattina”: C-; F-). Si tratta di due capacità
diverse di orientare i significati con maggiore o minore controllo e potere.
Critiche al modello di Bernstein:
- non adatto a una teoria sociolinguistica dei rapporti tra stratificazione sociale e linguaggio. Pur essendoci
relazione tra estrazione sociale e prestazioni linguistiche, la constatazione è più banale: l’appartenenza ad
una classe sociale genera un input esperienziale diverso che si riflette su capacità diverse (se un aspetto di
stratificazione sociale è la diversità di accesso alle risorse intellettuali e culturali, e se la lingua è un’importante
risorsa intellettuale e culturale ne consegue banalmente una diversità di accesso e possesso della lingua) →
resta cmq un’interessante teoria sociologica del potere e controllo sociale in rapporto alla divisione di classe
- la nozione di codice resta oscillante e poco chiara (si applica ai caratteri comunicativi, all’organizzazione dei
significati, alla classificazione dei contesti o al comportamento sociale, ecc).
- manca un criterio oggettivabile e definito (opera generalizzazioni esagerate a partire da contesti specifici
britannici e riduce la differenza di classe a una dicotomia: classe media/classe operaia)
27
4.3.2 Un modello materialista della lingua
Materialismo ideologico di G. Sanga (linguista-antropologo culturale) → modello del rapporto fra
stratificazione e lingua elaborato in Italia negli anni 70, col presupposto che alla SL manca una
fondazione teorica, da cercare facendo ricorso alla teoria filosofica e sociologica del marxismo,
ovvero il materialismo storico.
Per Sanga, il legame tra lingua e stratificazione sociale è dato dal fatto che la lingua dipende dalla
classe sociale (nell’accezione masxista di gruppo distinto per il posto occupato e la funzione
assolta nei rapporti di produzione), poiché la lingua è parte della sovrastruttura (complesso di
atteggiamenti, istituzioni, idee prodotte dalla “struttura”, cioà i rapporti economici dati dal modo di
produzione) → è attraverso la mediazione della classe sociale che la lingua entra in rapporto con la
società.
La differenza di classe diventa differenza linguistica attraverso la diversità degli usi linguistici,
raggruppati in “registri”, prodotti dalle classi sociali. Il rapporto tra lingua e classe sociale non si situa
a livello dei sistemi linguistici in quanto tali, ma a livello dei registri sociolinguistici presenti in una
società. L’articolazione linguistica della società dipende in senso causale dalla divisione
della società in classi. La classi sociali, allora, oltre a modi di vita e culture proprie, hanno anche
una lingua propria, nel senso di un registro sociolinguistico in cui si riconoscono.
Sanga mette in relazione classi sociali determinate e registri/varietà di lingua in Italia,
distinguendo 6 classi e 6 corrispondenti registri sociolinguistici (italiano standard; i.
burocratico/borghesia; i. popolare/piccola borgh; dialetto urbano/operai; d. rustico/artigiani;
gergo/emarginati - tabella p.117). In tale schema il dialetto (formatosi in un modo di produzione
feudale, rurale, locale) è considerato un residuo di rapporti sociali ormai superati (pre-capitalistici)
nel sistema economico attuale.
Per Berruto il modello di Sanga, troppo influenzato da un dogmatismo ideologico aprioristico, non è
convincente per varie ragioni:
a) l’instaurazione di un rapporto meccanico e deterministico fra la stratificazione sociale e la
lingua, rapporto giudicato fittizio e privo di riscontro nei fatti;
b) la natura di sovrastruttura dei fenomeni linguistici, difficile da sostenere.
In conclusione: nessuno dei due modelli presentati si può ritenere soddisfacente per la SL.
Ad ogni posizione, verso l’alto o verso il basso, nella stratificazione sociale corrispondono certi tratti
linguistici variabili all’interno del sistema, una maggiore o minore “qualità” delle cose che si sanno
fare con la lingua e una maggiore o minore possibilità di accesso e padronanza delle varietà di
repertorio.
I rapporti di proiezione (linee spezzate a sx) tra i tratti variabili del sistema (asse orizzontale) e le
posizioni di stratificazione sociale (asse verticale doppio) non variano in sintonia: non ci sono
rapporti proporzionali di tratti alti e bassi (a, b, c, d, e) con gli strati alti e bassi, ma esiste una
proporzionalità diretta tra posizione nella stratificazione e qualità della competenza
comunicativa (+ bassa è la posizione di un parlante nella scala sociale e minori saranno la qualità
delle sue produzioni linguistiche e la quantità di varietà padroneggiate).
Un discriminante sociolinguistico centrale che si deduce dallo schema è la padronanza della
lingua standard che prevede tanto la qualità delle prestazione che l’accesso alle varietà e che è
minore o maggiore a seconda dello strato sociale.
I rapporti non sono mai deterministici, categorici, ma preferenziali e probabilistici (aspettative sul
parlante): un parlante può sempre situarsi sociolinguisticamente più in alto o più in basso rispetto
alla sua collocazione sulla scala sociale.
Una volta riconosciuto che ogni lingua ha la stessa dignità, bisogna riconoscere che c’è chi usa
meglio o peggio le varietà linguistiche di cui dispone e tale capacità è condizionata dall’istruzione,
dalle esperienze, dall’accesso alle risorse culturali: ovvero tutte cose mediate dallo strato sociale.
29
CAPITOLO 5
L’ANALISI DELLA VARIAZIONE INTERNA ALLA LINGUA
30
5.2 La nozione di “continuum”
Con il termine continuum ci si riferisce alla continuità dei fenomeni, opponendosi a una concezione
“discreta” aristotelica che pone criteri e confini netti fra le categorie, che invece sono continue e
costituite da punti focali con una vasta periferia che sfuma nelle categorie vicine senza limiti precisi,
in modo chei casi vanno definiti per maggiore o minore condivisione di proprietà e non su assenze o
presenze dicotomiche: passaggi graduali e non tagli netti tra le posizioni e la materia della SL → da
trattare in maniera probabilistica e quantitativa e non attraverso opposizioni binarie sì/no → La SL
porta alla linguistica più discreta un approccio nuovo che non dà per scontate le categorie ma studia
il processo di fromazione dei confini e delle possibili categorie.
In primo luogo continuum si collega al carattere dello spazio di variazione di una lingua o di un
repertorio linguistico, che appare costituito da una serie senza interruzioni di elementi varianti e,
conseguentemente, al fatto che le varietà di una lingua sono in sovrapposizione e si sciolgono l’una
nell’altra, senza che sia possibile stabilire limiti rigorosi. I confini fra entità diverse della stessa
famiglia risultano sfumati di modo che un’applicazione esplicita di tale concetto è già nota per i
dialetti (che formano catene spazialmente contigue (A capisce B che capisce C...) e va ricercata
nella creolistica, in quanto spazio linguistico che va da una varietà alta ad una bassa attraverso
varietà intermedie che sfumano tra gli estremi in un continuum → il modello della creolistica dispone
però le variabili in una dimensione lineare e unidirezionale in cui ogni parlante è situato in un punto
dell’asse che unisce le due varietà estreme alta-bassa.
Invece, un continuum di varietà è da considerarsi pluridimensionale, con l’incrociarsi e combinarsi di
più assi di variazione e più opposizioni sociali e la possibilità di situare i parlanti o le produzioni
linguistiche lungo più dimensioni contemporaneamente.
Berruto esemplifica un frammento concreto di continuum, proponendo undici possibili frasi grosso
modo referenzialmente equivalenti, versioni di uno stesso messaggio in diverse varietà di italiano:
1. non sono affatto a conoscenza di che cosa sia stato loro detto
2. non sono affatto a conoscenza di che cosa abbiano loro detto
3. non so affatto che cosa abbiano loro detto
4. non so affatto che cosa abbian loro detto
5. non so affatto che cosa hanno loro detto
6. non so mica che cosa gli hanno detto
7. non so mica che cosa gli han detto
8. non so mica cosa gli han detto
9. so mica cosa gli han detto
10. so mica cosa ci han detto
11. so mica cosa che ci han detto
Le prime 4 frasi appartengono allo standard, e le ultime 3 al substandard. Non è chiaro quando
avviene il salto: lo sfumare da una varietà all’altra è quasi impercettibile. La distinzione è nettissima
tra i due estremi, 1 e 11, mentre è minima tra due versioni vicine. L’orientamento del continuum è
ordinato chiaramente fra un estremo sociolinguisticamente alto e uno basso. Le varietà non si
possono collocare in un’unica dimensione lineare di variazione, ma vanno assegnate alla
dimensione diastratica (popolare/neo-standard), a quella diafasica (aulica/colloquiale), o ad una
combinazione delle due (pluridimensionalità). I continua sociolinguistici hanno, paradossalmente,
una componente di discretezza: i punti focali prototipici (continuum con addensamenti: discontinuità
riconoscibili come entità distinte nel continuum).
31
5.3 Variabili sociolinguistiche
5.3.1 La nozione di varabile sociolinguistica
Il concetto di variabile sociolinguistica, di Labov, è centrale nello studio quantitativo della lingua.
Variabile sociolinguistica → insieme di modi diversi di dire la stessa cosa; realizzazioni diverse di
un’unità del sistema linguistico che hanno pertinenza e significato
sociale; qualunque variabile linguistica che vari in concomitanza con
variabili sociali, relative al contesto extralinguistico; ogni valore che
può assumere la variabile, ognuna delle realizzazioni alternative di
quell’unità del sistema.
Per trattare le variabili troviamo 2 casi: le variabili possono essere indipendenti dal contesto (caso
raro: si ha allora la vera variazione libera) oppure essere sensibili al contesto linguistico o a
quello sociale o a tutti e due → queste ultime sono le variabili sociolinguistiche in senso stretto.
Dopo averle individuate, è necessario contare e trattare statisticamente le variabili e le loro
realizzazioni (le varianti). Il modo laboviano classico di analizzare le variabili sociolinguistiche è la
costruzione di strutture sociolinguistiche che rappresentano il comportamento di una variabile
sociolinguistica in un certo corpus. Un esempio di struttura sociolinguistica è il diagramma 8 (p.134),
che riguarda la pronuncia della [r] (liquida polivibrante) intervocalica cosiddetta doppia o geminata
dallo standard nell’italiano dei giovani romani.
Il diagramma 9 (p.135) è relativo alla pronuncia della fricativa interdentale sorda [θ] iniziale di parola
dello standard nell’inglese di NY (la variabile “th”). La quantità di realizzazioni non standard della
variabile th dipende sia dallo strato sociale sia dallo stile contestuale. Variabili di questo tipo, con
variazione congiunta per stile e strato, sono dette da Labov “contrassegni” o “differenziatori”. Nelle
classi sociali + alte è + frequente la variante standard mentre con lo scendere nella scala sociale e
di registri aumentano le varianti non standard in una “distribuzione di prestigio”. Tale
conformazione si chiama variabile laboviana, come rappresentata nel diagramma 10 (p.135) che
rappresenta la conformazione tipica di una struttura sociolinguistica, in cui mediamente c’è
a) uno stacco netto tra le due classi superiori (vicine tra loro) e le due basse (vicine tra loro);
b) le classi alte presentano meno variabilità linguistica e hanno un cmportamento diafasico +
omogeneo, tipico di una comunità di parlanti con forte senso della norma
Il diagramma 11 rappresenta una diversa configurazione con variazione sociale ma invariabilità
stilistica, nel senso che i diversi strati sociali si comportano in maniera diversa tra loro, ma
ciascuno in maniera più o meno uguale nei diversi stili contestuali: la variabile sociale ma invariabile
stilistica è per Labov un indicatore.
Invece il diagramma 12 rappresenta una conformazione corrispondente variazione stilistica ma
invariabilità sociale, nel senso che i diversi strati sono poco differenziati tra di loro, ma tutti
cambiano parecchio passando da uno stile all’altro. Labov definisce “stereotipo” questa variabile.
Nella configurazione del diagramma 13 l’accavallamento fra le linee delle due classi sociali più alte
mostra quella che Labov chiama l’ipercorrezione della classe media inferiore, cioè la tendenza di
questo strato ad essere più corretto (più attento alla pronuncia standard) del suo stesso modello là
dove c’è maggior controllo conscio della produzione linguistica.
Un problema metodologico rilevante per l’analisi delle variabili sociolinguistiche è costituito del
numero delle varianti che è necessario prendere in considerazione e dell’eventuale punteggio da
assegnare loro in sede di calcolo delle percentuali o delle frequenze relative.
32
5.3.2 Variabili sociolinguistiche e livelli di analisi.
La nozione di variabile sociolinguistica si basa sul mantenimento dell’uguaglianza di significato
(principio dell’equivalenza semantica), cioè implica che i diversi valori assunti da una variabile
non tocchino il significato o la funzione dell’unità interessata: diventerebbe quindi problematico
parlare di varianti se l’una o l’altra delle forme alternative facesse mutare in qualche misura il
significato o più genericamente la funzione dell’unità di cui quelle forme sono diverse realizzazioni.
La cosa non pone problemi a livello fonologico (allofoni) e morfologico (allomorfi), non provocando
mutamenti di significato referenziale del messaggio, ma salendo di livello di analisi le cose si
complicano. Nella sintassi e nel lessico (e in testualità e pragmatica) da un lato le singole varianti
sono già esse stesse dotate di significato e dall’altro la loro alternanza può rendere molto difficile
stabilire se si tratta di forme che abbiano sempre lo stesso significato o funzione: come possono
allora esser trattate con lo stesso metodo delle varianti fonologiche?
Es di variabile sociolinguistica morfologica: la realizzazione del pronome clitico obliquo di 3P, che
può variare da gli/le, con mantenimento dell’opposizione di genere tra maschile e femminile, a gli
generalizzato con neutralizzazione dell’opposizione, a ci sovraesteso → indubbia equivalenza
semantica e contestuale
Es di variabile sociolinguistica sintattica: la costruzione della frase relativa, nella quale si possono
alternare costrutti con il pronome relativo a cui e costrutti con il che polivalente e un pronome clitico
di ripresa (esempio: il ragazzo a cui ho dato il libro opposto a il ragazzo che gli ho dato un libro).
Alcuni autori sono per l’estensione della nozione di variabile sociolinguistica (laboviana) anche a
livello sintattico, semantico e pragmatico, mentre lavori più moderati sottolineano che non si può
passare dal dominio della fonologia a quello della sintassi poiché la disomogeneità degli ambiti
rende inapplicabile l’estensione dello stesso metodo. Una terza posizione intermedia ammette
l’importanza di analizzare la variabile sintattica purché il problema venga impostato in modo
diverso: da un lato è comune che varianti sintattiche vengano utilizzate dai parlanti con un
significato stilistico particolare, mostrando di operare a livello di consapevolezza, ma è necessario
anche inquadrare la variazione sintattica nella cornice pragmatica del discorso (natura pragmatica
del significato) prendendo in considerazione l’intenzione comunicativa del parlante → resta però
una teoria vaga e confonde variazione stilistica con variabilità sociolinguistica.
Altro ordine di problema (non metodologico ma sostanziale): stabilire quali tipi di unità o elementi
del sistema linguistico, e a quali livelli di analisi, siano suscettibili di variazione e si prestino a
funzionare da variabili sociolinguistiche (indicatori sociali). Perché aolo alcuni elementi variano e
non altri? C’è un rapporto tra queste variabili e il significato sociale che assumono? Allo stato
attuale delle conoscenze, sembra che i tratti linguistici suscettibili di recare significato sociale, di
svolgere funzione socio-simbolica e di funzionare da variabili socio-linguistiche siano largamente
casuali e arbitrari, e non sia possibile prevedere quali elementi di una data lingua siano deputati ad
essere variabili sociolinguistiche. Questo perché la marcatezza sociale non è una proprietà inerente
alle manifestazioni del sistema linguistico, bensì è mediata dal gruppo sociale che realizza tali
manifestazioni. La marcatezza sociale di un dato elemento dipende dalle persone che lo usano e
dalle connotazioni che nella comunità vi si sono associate.
Però possiamo sapere quali varianti di det variabili tendano a essere marcate socialmente: quando
fra le varianti di una variabile ce n’è una che si può ritenere più naturale, meno linguisticamente
marcata, questa tenterà ad essere socialmente sfavorita, a caratterizzare varietà basse, sub-
standard di lingua; mentre la variante meno semplice, più linguisticamente marcata, tenderà ad
essere socialmente favorita, a far parte dello standard.
33
5.4 Modelli di descrizione e analisi della variabilità
5.4.1 Regole variabili e sociolinguistica quantitativa
Nel modello di analisi di Labov (sviluppato dalla variazionistica nordamericana), dalle strutture
sociolinguistiche è possibile ricavare, con un esame minuzioso dei dati linguistici, analisi più
sofisticate, espresse sotto forma di regole variabili. La metodologia delle regole variabili si propone
l’obiettivo di elaborare grammatiche (“descrizioni formali della lingua”) che incorporino la variabilità.
Tale filone di ricerca è stato centrale per la teoria della SL degli anni 70.
La regola variabile è una regola, che formalmente vorrebbe essere della stessa natura delle regole
usate in grammatica generativa, nella cui formulazione si tiene conto non solo dei tratti linguistici,
ma anche dei fattori che influiscono sulla sua applicazione → la forma generale di una regola
variabile è: X → <Y>/Z, che vale “riscrivere variabilmente X come Y nel contesto Z”, dove Z indica
specificazione sia del contesto linguistico sia della quantificazione dei fattori extralinguistici che
correlano con l’uscita della regola. La formulazione di regole variabili è diventata un espediente
molto utilizzato nelle descrizioni sociolinguistiche per esprimere in maniera formalizzata l’influsso
del contesto sulla realizzazione di det varianti.
Un esempio famoso è quello di Labov, sulla contrazione della copula inglese dei neri americani
(Black English Vernacular) per cui “is” si riduce e assume forma di vocale centrale indistinta. Il
problema è come dar conto della cancellazione della vocale della copula secondo i fattori
contestuali linguistici ed extralinguistici (sociali) → la maggior parte dei variazionisti americani
studiano la variazione tout court + che la variazione SL con un approccio matematico e statistico
che calcola occorrenze e probabilità dei fattori contestuali nell’influenzare la cancellazione della
vocale, attraverso programmi informatici che ricavano i valori probabilistici che prevedono un indice
di probabilità. Col modello VARBRUL che dà il valore della probabilità di non apparizione della
regola si ottiene statisticamente la regola variabile, ovvero la probabilità di comparsa della
contrazione della copula in relazione a diversi contesti (che però vonoper lo + linguistici poiché
raramente vengono presi in considerazione da questi studi quelli sociali).
Il punto critico della metodologia delle regole variabili si ha quando, una volta stabilita la regola con i
suoi coefficienti di probabilità, ad essa è fatto assumere valore predittivo che permette alle regole
variabili di farsi parte integrante della grammatica, intesa in senso forte come descrizione della
competenza. Questo ed altri problemi sono stati al centro di un dibattito tra gli anni 70 e 80. Per
Labov, le regole variabili rappresentano un’estensione della grammatica generativa. Tale posizione
è stata molto criticata soprattutto perché la grammatica generativa si occupa di strutture astratte,
genera classi di frasi e non frasi effettivamente occorrenti; il suo oggetto è la competenza, non l’uso
della lingua. Le regole variabili e il loro apparato statistico non sarebbero dunque affatto compatibili
non solo con l’impianto formale ma con le stesse assunzioni teoriche del modello generativo.
Applicando metodi delle scienze esatte al comportamento umano, la metodologia delle regole
variabili corre il rischio di “riduzionismo”. Inoltre è discutitbile la reale natura SL delle regole variabili
che offrono spiegazioni senza integrare realmente fattori sociali e fattori linguistici. Inoltre, i numeri
quantificano ma non spiegano la natura dei fenomeni e i rapporti tra i diversi fattori contestuali. Oggi
le regole variabili non sono più centrali, ma possono essere usate per esprimere in maniera
formalizzata variabili sociolinguistiche presenti in situazioni come quelle prese in esame.
Concludendo, d’accordo con Fasold, l’idea di una regola variabile come parte di una teoria
fonologica o sintattica contribuisce poco alla comprensione dell’uso della lingua nel contesto
sociale, ma che al contempo le analisi dei dati su cui le regole variabili sono basate hanno portato a
sostanziali progressi nello studio della variazione e del mutamento linguistici.
34
5.4.2 Grammatica di varietà
Un modello alternativo x descrivere la variazione linguistica (in contrapposizione alle regole variabili)
è quello noto come grammatica di varietà (Varietӓtengrammatik), proposto attorno alla metà degli
anni 70 dai linguisti tedeschi Klein e Dittmar, impiegato principalmente nello studiare la sintassi del
tedesco appreso dai lavoratori stranieri immigrati in Germania. La grammatica di varietà non ha
avuto la stessa fortuna del modello delle regole variabili, ma resta un tentativo interessante di
elaborare un modello descrittivo che tenga conto della variabilità e che sia all’altezza degli
standard richiesti ad un modello grammaticale dalla moderna linguistica.
Si tratta di una grammatica a struttura sintagmatica, indipendente dal contesto, costituita da una
lista ordinaria di regole di riscrittura che descrivono le derivazioni possibili delle diverse unità
linguistiche: ogni regola appare come un blocco di regole aventi la medesima entrata e uscite
plurime, ciascuna con un diverso indice di probabilità di occorrenza. Anche in questo caso l’indice di
probabilità è calcolato partendo da un corpus di dati empirici nel quale le diverse uscite attestate
della regola compaiono con una determinata frequenza. I blocchi di regole si riferiscono sempre ad
uno spazio di varietà prestabilito.
Il blocco di regole è costituito da cinque regole alternative, che rappresentano le forme che può
assumere il sintagma nominale nel corpus delle produzioni linguistiche degli informatori. Tab
17(p.154): le colonne indicano gruppi di parlanti (o meglio le relative varietà di lingua), i valori
numerici rappresentano la frequenza percentuale, tra 0 e 1, di ciascuna regola presso quel
determinato gruppo di parlanti, e valgono quindi come indici della probabilità di trovare quella
determinata struttura in quella varietà. La varietà IV è quella che più si avvicina alla varietà locale,
mentre la I presenta i valori più distanti. Un blocco di regole assomiglia ad una regola variabile,
poiché si tratta sempre di un dispositivo che consente di assegnare motivatamente probabilità di
occorrenza alle diverse varianti. Nella grammatica di varietà, però, le regole sono acontestuali,
insensibili ai contesti e quindi senza poter inglobare le restrizioni relative ai fattori sociali influenzanti
la regola. Perciò la grammatica di varietà postula la separatezza di tutti i fattori che possono
intervenire a influenzare le uscite dei blocchi di regole: per ciascuno di essi bisognerebbe semmai
costruire blocchi di regole separati.
In compenso, la grammatica di varietà si può applicare senza problemi a qualunque livello di analisi;
non è orientata su nessuna varietà; e può facilmente dar conto di variabili non binarie, ma a più
valori. Ma il maggiore vantaggio della grammatica di varietà sta forse nel fatto che si tratta di un
metodo di descrizione molto semplice, chiaro e anche facile da impiegare, anche se risulta poco
impiegato anche a causa delle poche ambizioni teoriche e del presentarsi come una
rappresentazione riassuntiva dei dati descrittivi. Non in grado di maneggiare le relazioni con il
contesto, all’interno delle regole, ma dedicandosi solo alla formulazione di fatti linguistici, la
grammatica di varietà ha bisogno di essere impiegata in concomitanza con altre tecniche.
35
La tecnica delle scale di implicazione (o scalogrammi) è un procedimento che consiste nel partire
da una certa distribuzione di tratti e vedere se la scelta o attuazione di un determinato tratto implica
la scelta o attuazione di uno o più altri tratti → il risultato è la costruzione di una matrice a doppia
entrata (tratti linguisti – parlanti/varietà di lingua) tale che un valore + (o 1) in una casella dello
schema abbia sopra di sé e a sinistra solo valori + (o 1) e dalla parte opposta valori – (o 0) abbiano
sotto di sé e a destra solo valori – (o 0). La forma ideale di una scala di implicazione è quindi quella
della tabella 18 (p.157): distribuzione di tutti i + sopra e a sx e di tutti i – sotto a dx.
Tratti
T1 T2 T3 T4 T5 T6
+ + + + + + V1
+ + + + + - V2
Varietà o
+ + + + - - V3
(gruppi di) parlanti
+ + + - - - V4
+ + - - - - V5
+ - - - - - V6
- - - - - - V7
Una scala di implicazione presuppone un margine di errore del 10% e che esistano coppie di tratti
che ammettono solo tre delle quattro combinazioni teoricamente possibili. Oltre che mettere ordine
nella variabilità, l’analisi implicazionale pone quindi significative restrizioni alla gamma di possibile
variazione, riducendo drasticamente il numero delle combinazioni effettive delle diverse variabili
presenti.
Un ulteriore problema è costituito da tratti non binari, a più valori invece che a due; il problema si
sposa con quello della possibilità di esprimere in una scala di implicazione anche variabili
sociolinguistiche e relative regole variabili, che danno luogo a tratti a tre valori invece che a due,
implicando eventualmente l’integrazione dei 2 modelli (quantitativo e implicativo). Ma come è
possibile recuperare regole variabili all’interno di rapporti implicativi? Una soluzione è ammettere
scale a 3 valori.
Le scale di implicazione rappresentano nel complesso uno strumento euristico duttile e potente,
anche se non permettono di incorporare nella descrizioni fattori propriamente sociali. Fra i loro
principali vantaggi, oltre al notevole guadagno informativo che si ha dallo stesso scoprire una
gerarchia di implicazione fra più tratti, sta il fatto che si possono applicare indifferentemente e
fenomeni di tutti i livelli di analisi, alti e bassi. Permettendo di descrivere comunità ben distinte
sociolinguisticamente con un’unica grammatica, la tecnica di analisi delle scale di implicazione è
stata particolarmente sviluppata negli anni 70 per la descrizione dei continua creoli; ed è stata
contrapposta dagli stessi autori in quanto paradigma dinamico al paradigma statico delle regole
variabili. Si è poi dimostrata molto adatta allo studio dell’apprendimento spontaneo delle L2.
Si tratta certamente di un’analisi + linguistica che sociale: le variabili linguistiche essendo trattate
come variabili indipendenti e le correlazioni sociali dei parlanti come subordinate in modo che la
stratificazione SL dei parlanti è stabilita in un secondo momento su base dei tratti linguistici.
36
5.4.4 Altri modelli
I modelli finora considerati appaiono non del tutto adeguati se ci riferiamo alle caratteristiche dell’
Europa continentale dove prevalgono situazioni più complesse di lingua con dialetti e dove spesso
la variazione interna ad una lingua è associata con la presenza di due sistemi linguistici,
abbastanza diversi da essere giudicati come sistemi a sé che interagiscono e sono usati dallo
stesso parlante. Una soluzione per una grammatica sociolinguistica che tenga conto di questi
aspetti può consistere nel non inserire in una stessa descrizione la varietà presente in una comunità
linguistica e costruire grammatiche parallele con parti comuni e diramazioni.
Un modello del genere è quello di analisi di sistemi coesistenti usato da Thelander nello studio del
livellamento dialettale in Svezioa e Danimarca (unito al calcolo delle curve di distribuzione delle
variabili e delle combinazioni delle varianti nel comportamento dei parlanti) che introduce un livello
intermedio tra la lingua standard e il dialetto, chiamato interlanguage, che raccoglie le forme che
adattano allo standard i tratti dialettali più marcati e quelli dialettali non troppo marcati.
In riferimento alla situazione italiana – compresenza di lingua nazionale e dialetti – Mioni-Trumper
hanno elaborato una grammatica di variazione che fornisce una descrizione comune del repertorio
italiano-dialetto e della competenza attiva-passiva che i parlanti regionali hanno, in un’analisi che
usa sia regole variabili che scale d’implicazione, trattando sistemi coesisteni e l’interferenza tra i
subcontinua (o gradata) del repertorio → nella grammatica di variazione di Mioni-Trumper vi sono
sia regole (corredate di scale di implicazione) relative a fenomeni equivalenti nelle diverse varietà,
sia regole che trattano differenze nelle restrizioni contestuali di una stessa regola comune a +
varietà, incorporando l’eventuale differenziazione quantitativa nell’applicazione di una data regola.
Le varietà vengono distinte x diversa frequenza di applicazione della regola variabile: inoperante in
A; categorica in D; variabile in B e C → questa differenziazione tra varietà è sviluppato col concetto
di “linee di isonomia” (dalla nozione di SL classica di “isoglossia”): definisce linee che congiungono
punti che manifestano la stessa regola o la stessa sua realizzazione variabile o stessa percentuale
di variabilità → questo apparato serve a descrivere l’articolazione di un sistema in varietà e la
sua variabilità interna ed è valido per ciascuno dei 2 subcontinua di una situazione lingua
con dialetti come quella italiana: per dar conto dei rapporti tra di essi, la grammatica di variazione
prevede filtri di interferenza costituiti da dispositivi principali, cioè:
- regole di traffico (linee di interferenza dell’italiano sul dialetto e del dialetto sull’italiano)
- regole di corrispondenza (che permettono di passare da una forma dialettale alla corrispondente
italiana o viceversa)
Nel complesso, la grammatica di variazione di Meoni-Trumper è un utilizzino tentativo di innovare e
riutilizzare, integrandoli e adeguandoli ad una situazione SL diversa rispetto a quella per cui sono
stati collaudati, i metodi analitici della SL americana (senza però ottenere una convalida sul campo
di una descrizione empirica a larga scala).
L’elaborazione dei metodi di descrizione e modelli di analisi della variazione linguistica è piuttosto
stagnante nella SL recente, a causa dello spostamento degli interessi focali della SL verso la
pragmatica e l’analisi interpretativa: il passaggio dall’analisi dei dati linguistici (positivistici) all’azione
e all’interpretazione del soggetto parlante ha messo in secondo piano l’analisi del materiale
linguistico e dell’individuzione di modelli specifici di descrizione linguistica della variazione SL.
37
CAPITOLO 6
LA DIFFERENZIAZIONE NEL REPERTORIO: APPUNTI DI SOCIOLOGIA DEL LINGUAGGIO
39
6.2.2 Dimensioni socio-demografiche
Fra le componenti di natura socio-demografica dello status delle lingue e varietà di lingue, possiamo
stabilire altri 3 raggruppamenti basilari.
A) numero e tipo di parlanti utenti del sistema linguistico. Per quanto riguarda il numero dei
parlanti, la distinzione tra lingua di maggioranza e lingua di minoranza fa riferimento alla
quantità relativa dei parlanti, intesa come percentuale dei parlanti sulla popolazione totale,
senza però trascurare la quantità assoluta. Una definizione ricca di lingua minoritaria non può
basarsi solo sul numero relativo di parlanti ma all’incrocio con area di diffusione, parentela
linguistica con la lingua maggioritaria, e collocazione dei gruppi di parlanti nella comunità. Sul
numero assoluto sono basate invece le distinzioni tra lingue grandi, medie e piccole, in base al
numero di parlanti nel mondo. Mackey (1976) impiega il numero dei parlanti come uno dei fattori
del concetto di potenza linguistica di una lingua (oltre a: mobilità dei parlanti, PIL,
pubblicazioni...). Quanto al tipo di parlanti, la distinzione più comune è quella tra parlanti nativi e
non, cioè a seconda che essi l’abbiano appresa nella socializzazione primaria come lingua
materna, o che l’abbiano imparata come lingua seconda o straniera (questo ne determina anche
lo status: vedi l’inglese).
B) caratteristiche socio-culturali degli utenti: rappresentano una componente rilevante dello
status di una lingua o varietà di lingua (classe, etnia, religione, cittadinanza, professione...).
C) domini d’impiego: oppongono lingue di uso generalizzato a lingue impiegate solo in uno o più
domini particolari (o in settori di un dominio: funzioni culturale, educativa, commerciale,
religiosa, ufficiale...)
Il livello min si ha quando una lingua soddisfa solo il primo gradino di entrambe le
sottodimensioni, essendo usata x pubblicare testi a livello di scuola elementare su temi di
comunità sociale (1 x 1). Si ha il livello max (raggiunto da poche lingue al mondo) quando una
lingua soddisfa tutti i gradini di entrambe le sottodimensioni, avendo testi a livello universitario di
filosofia, scienze e tecnologia (3 x 3). Le possibilità intermedie danno luogo a diversi gradi
intermedi di elaborazione.
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Per stabilire il livello di elaborazione Kloss dà + importanza ai testi pragmatici e tecnici (non
letterari). Al di sotto dei livelli di elaborazione ci sono gradini di incipiente o bassa elaborazione,
che Kloss pone nella seguente gerarchia:
1. presenza di traduzione di testi chiave (es: Bibbia);
2. presenza di pubblicazioni di poesia e narrativa ;
3. presenza di testi non poetici nei media orali.
Kloss classifica 6 tipi funzionali di lingua sulla base del grado di elaborazione: dalla lingua
standard (pienamente sviluppata, soddisfa tutti i bisogni di una società avanzata) ad una lingua
standard giovane (nata recentemente x scopi scolastici) ad una lingua preletterata orale.
2. Di importanza cruciale per lo status di una lingua è il grado di standardizzazione. Una lingua
è standardizzata quando: a) si basa su un “codice linguistico” di riferimento, esistendo manuali,
grammatiche, dizionari contententi norme e prescrizioni sull’uso corretto della lingua e testi
modelli con autorità; b) contiene almeno una varietà standard. Nel processo di
standardizzazione ha importanza anche l’ideologizzazione di quella tale varietà a simbolo di
identità nazionale. Lingue con più varietà standard sono lingue policentriche o pluricentriche.
Un concetto connesso alla standardizzazione che viene spesso trattato in sociologia del
linguaggio è quello di autonomia vs. eteronomia del sistema linguistico, con cui si intende il
fatto che le norme per il buon uso, le tendenze verso cui esso evolve, la formazione del lessico
tecnico-scientifico e dei neologismi siano interne al sistema stesso ovvero siano governate o
guidate da altri sistemi linguistici, eterodipendenti. Una lingua A è autonoma rispetto a B (e B è
corrispondentemente eteronoma), quando parlanti/scriventi di B vengono corretti in direzione
ad A, e/o B evolve verso A e/o i neologismi di B provengono da A.
3. L’ultima dimensione che concorre allo status funzionale è quella della vitalità, intesa come
continuità della tradizione e trasmissione della lingua da una generazione all’altra presso gruppi
di parlanti. Sarà molto vitale un sistema linguistico che continui ad essere lingua materna di
gruppi consistenti e socio-culturalmente influenti di parlanti e sia ampiamente usato nello scritto
e nel parlato. Sarà poco vitale o non vitale un sistema linguistico che sia trasmesso come lingua
materna solo in piccoli gruppi isolati e marginali dal punto di vista sociale e/o sia usato
limitatamente nel parlato e nello scritto. Una lingua muore quando perde la sua vitalità, non
avendo più parlanti nativi e non essendo più usata neppure in qualche limitato impiego parlato.
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Per cogliere unitariamente tali differenti prospettive, Kloss ha introdotto due nozioni:
a) lingua per distanziazione (Abstandsprache): riconosciuta automaticamente come lingua a sé,
diversa dalle altre, in base a caratteristiche strutturali a tutti i livelli che la differenziano (fattore
linguistico);
b) lingua per elaborazione (Ausbausprache): lingua socialmente evoluta, che soddisfa tutte le
funzioni richieste dalla società, come gli usi scritti formali e tecnologici, e può valere come
mezzo di espressione di tutti gli aspetti della cultura e della vita moderna. Il criterio principale
per affermare che si tratti di Ausbausprache consiste nella presenza di manuali e trattati di
scienza e tecnica e di attività letteraria (fattore extra-linguistico).
Più difficile differenziare le lingue per distanziamento che per elaborazione (quanto devono esser
distanti due lingue per essere due lingue diverse e non due varietà della stessa lingua?). Per
misurare la dissimilarità fra sistemi linguistici è possibile ricorrere a 5 criteri seppur poco affidabili
per i loro limiti intrinsechi:
1. la parentela genealogica: a parte casi eccezionali di forte influenza del contatto linguistico e
della contiguità areale, è ovvio che lingue di famiglie diverse saranno più distanti fra loro
(questa distanza è netta tra lingue di famiglie diverse ma non tra lingue della stessa famiglia);
2. la reciproca comprensibilità fra i parlanti delle varietà linguistiche in causa, anche se spesso
l’intercomprensibilità risulta asimmetrica, essendo soggetta non solo alla mera diversità della
struttura linguistica, ma anche agli atteggiamenti e alla motivazione dei parlanti (tra due lingue,
la più prestigiosa (A) sarà capita meglio dai parlanti dell’altra lingua (B) e non viceversa per il
suo status);
3. la coscienza linguistica dei parlanti che riconoscono in base alla loro conoscenza culturale,
in quanto membri di una comunità parlante, un certo sistema linguistico come lingua a sé,
oppure come facente parte di un altro sistema linguistico che la contiene (valutazione sociale
dell’esistenza di una certa varietà linguistica, quindi poco oggettiva);
Gli ultimi due criteri sono più interni alla struttura e alla forma stessa della lingua:
4. la “lessicostatistica”: basato sul lessico, consiste nel determinare quanta parte del lessico
fondamentale, non culturale, due lingue abbiano in comune.
5. la differenza strutturale vera e propria, stabilita prendendo in esame non solo il lessico, ma
tutti i livelli di analisi del sistema linguistico, in particolare la morfologia, e comparandoli per
vedere cosa c’è di uguale e che cosa di diverso (metodo complicato e quasi impraticabile e
resta il problema di quale soglia fissare per determinare la differenza tra 2 lingue).
Solo la combinazione di questi 5 criteri consente nella pratica di operare con un certa affidabilità.
Privilegiando il criterio linguistico a quello SL, Ammon definisce la nozione di lingua usando i due
criteri di copertura (standardizzazione della varietà tetto e eteronomia delle varietà coperte) e
distanza: una lingua X è un insieme di varietà linguistiche, in cui una varietà standard copre tutte le
altre e nessuna delle varietà coperte ha un grado più che medio di dissimilarità dalla varietà tetto.
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È chiaro però che fattori linguistici e fattori extralinguistici si sommano dando luogo a
classificazioni di carattere graduale e non esclusivo. Berruto fa una classificazione dei diversi
tipi di sistemi linguistici basata su un continuum tra le due dimensioni di Ausbau e Abstand:
- lingue con max carattere di elaborazione e di distanziazione (italiano, tedesco, giapponese);
- lingue con max carattere di elaborazione ma con min carattere di distanziazione (olandese);
- lingue con max carattere di distanziazione ma min carattere di elaborazione (lingue africane);
- lingue con discreto carattere di distanziazione ma con min carattere di elaborazione (sardo);
- lingue con min carattere di distanziazione e min carattere di elaborazione (dialetti italiani locali).
La nozione di Ausbausprache (lingua per elaborazione) ha molto in comune con quella di lingua
standard: le funzioni tipiche di una lingua per elaborazione implicano molti attributi della lingua
standard (essere sovraregionale, parlata da ceti alti-medi, esser scritta e codificata
grammaticlamente e letterariamente). Tale nozione di lingua standard si sovrappone alla lingua
standard, che in SL indica l’insieme dei tratti non socialmente marcati della lingua che
rappresentano l’uso medio dei parlanti colti.
Garvin e Mathiot definiscono lingua standard per le seguenti proprietà:
1. stabilità flessibile
2. intellettualizzazione
3. funzione di modello codificato
4. funzione di prestigio
5. funzione unificatrice (all’interno di una unità nazionale)
6. funzione separatrice (risp ad altre unità nazionali)
Le lingue nazionali tendono ad essere lingue standard e in ogni caso la varietà standard di una
lingua coincide con una varietà socio-geograficamente localizzabile, essa è sempre parlata e
sostenuta da una élite dominante attraverso la scuola, i mass media e l’ideologia prevalente.
Alla lingua standard alla quale si oppone il dialetto. Ma una nozione di dialetto è molto spinosa,
poiché ciò a cui il termine si riferisce varia da comunità a comunità. Si può dire però che i dialetti
sono le varietà linguistiche definite nella dimensione diatopica (geografica), tipiche e
tradizionali di una carta regione, area o località. I dialetti sono sempre subordinati ad una lingua
standard (lingua-tetto) composta da varietà tra loro strettamente imparentate.
Distinzione necessaria è quella tra dialetti primari (varietà geografiche sorelle e coetanee del
dialetto da cui si è formata la varietà di lingua standard, come i dialetti italo-romanzi che sarebbero
dialetti italiani e non dialetti dell’italiano x distanza strutturale), secondari o terziari (varietà
geografiche formatesi per differenziazione diatopica della lingua comune o della lingua standard,
come gli italiani regionali, cioè le forme parlate dell’italiano nelle diverse regioni).
Ne risultano 2 principi-base:
1. Non è possibile una distinzione unicamente linguistica (pertinente alla struttura del sistema)
tra lingua e dialetto (anzi, la questione dal punto di vista linguistico non ha senso);
2. La distinzione deve essere fondata su criteri sociali (o sociolinguistici).
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Non è possibile a prima vista definire linguisticamente un dialetto o una lingua poiché non vi è
alcuna differenza di natura: entrambi condividono in egual misura le proprietà semiologiche
costitutive e qualificanti di ogni sistema linguistico. La differenza è di raggio funzionale, sociale e
comunicativo (“una lingua è un dialetto che ha fatto carriera”). I dialetti sono SL subordinati nel
repertorio linguistico di cui sono membri, ad una lingua (ma non necessariamente parlati da strati
sociali subordinati). Tuttavia la definizione non è univoca poiché i valori che un dialetto assume di
nei diversi repertori linguistici, in rapporto alle varietà che vi coesistono, sono multiformi e variegati.
La compresenza a lungo termine nel repertorio di più sistemi linguistici diversi si manifesta in
un’interessante serie di fenomeni che toccano non solo il discorso in atto, ma anche la struttura
stessa dei sistemi in causa, dei repertori lingua cum dialectis (primari e secondari). Un fenomeno di
interesse linguistico e SL è l’avvicinamento strutturale dei dialetti alla lingua standard in una sorta di
convergenza. Altro fenomeno è la riduzione delle differenze strutturali tra diversi dialetti detto
livellamento dialettale che può dar forma a koinè (varietà linguistica risultante da un compromesso
tra diverse varietà locali, eliminandone i tratti più marcati).
La nozione di diglossia data da Ferguson è molto specifica - es: ad Haiti il francese è varietà alta
(A) e il creolo è varietà bassa (B) - e non coincide con la compresenza di una lingua standard coi
suoi dialetti: la differenza sta nel fatto che nella situazione di diglossia nessun segmento della
comunità parlante usa A (lingua standard) per la normale conversazione quotidiana.
44
una in-diglossia, quando i codici A e B appartengono allo stesso (dia)sistema, e una out-diglossia,
quando i codici A e B sono due lingue chiaramente diverse.
2. la distribuzione complementare nelle funzioni e negli usi dal momento che resta difficile stabilire
una separzione netta tra gli ambiti d’uso e le funzioni delle lingue A e B (non sempre SL
obbligatoria, a volte complementare in alcuni settori, spesso semplificata in: lingua A usata in ambiti
formali e ufiiciali e lingua B in ambiti familiari e popolari)
3. il grado di diffusione delle varietà A e B nella comunità parlante: devono essere possedute
entrambe parzialmente (quale minimo varrebbe?) o totalmente, dai gruppi che formano la comunità
o possono esserlo da gruppi separati? Ma Ferguson si riferisce a “comunità di parlanti in cui 2 o più
varietà della stessa lingua sono usate dai parlanti in diverse condizioni”. Per Berruto un criterio
definitorio può essere che almeno un segmento sociale non minimo padroneggi e usi sia A che B.
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Trumper mantiene un concetto allargati di diglossia e introduce sottocategorie definite, attraverso i
termini “macrodiglossia” (o vera diglossia) e “microdiglossia” (o pseudo-diglossia) per designare
due tipi diversi di situazione diglottiche, come illustrato nella tabella sulla situazione italo-romanza:
macrodiglossia microdiglossia
- Entrambi i codici distribuiti su ampio numero di domini - Un codice usato in pochi domini
- Formazione di una koiné dialettale - Assenza di koiné dialettale
- Sovrapposizione tra codici in contesti funzionalmente - Separazione funzionale tra i 2 codici
ambigui
- Enunciati mistilingui comuni nell’interazione quotidiana - Varietà che non si mescolano
- Dialetti socialmente stratificati - Dialetti socialmente indifferenziati
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Lüdi individua le seguenti dimensioni:
- distanza linguistica: può andare, in termini genealogici, da varietà sociali di una lingua (grado
min) a lingue senza alcun legame di parentela (grado max), attraverso stadi intermedi (dialetti e
lingue della stessa famiglia);
- tipo ed estensione della comunità: suddiviso in 3 assi; territoriale (da grado min/locale a grado
max/sopranaz), intersezione fra i gruppi parlanti dei due codici (da assenza di bilinguismo a
bilinguismo generalizzato), ambito di esistenza della diglossia (dall’individuo alla comunità);
- complementarità funzionale: divisa in 3 assi: sovrapposizione min, media o max delle funzioni;
rigidità minima, media o massima; stabilità minima, media o massima, della ripartizione funzionale;
- standardizzazione: divisa in tre assi: sviluppo di una scrittura, elaborazione e istituzione di una
norma prescrittiva (tutti vanno da un grado min a un max);
- tipo di acquisizione dei codici: che può andare da un min ad un max sui due assi
dell’apprendimento istituzionale guidato, e dell’acquisizione spontanea in contesto naturale;
- differenza di prestigio tra le due varietà: da minima a massima.
La trattazione di Lüdi è interessate (duttile e feconda, basata su molteplici criteri) ma ha problemi:
uno teorico nella configurazione prototipica della nozione (dove si colloca il valore focale del
concetto? a quale grado da min a max?) e la mancanza di una gerarchia delle diverse proprietà: ci
sono proprietà più rilevanti per definire la diglossia? Inoltre non è adattabile a situazioni reali con
valori troppo distanti da quelli prototipici. E se facciamo rientrare anche tali situazioni, anche questo
approccio estende eccessivamente la nozione di diglossia che resta vaga e applicabile ovunque.
6.4.3 Dilalia
Come tentativo di risolvere l’eccessivo annacquamento della nozione di diglossia, per mantenerlo
come concetto specifico “fergusoniano” (e non sovraordinato) Berruto ha proposto l’introduzione di
una categoria nuova, detta dilalia, da opporre direttamente alla diglossia, in uno schema che cerca
di categorizzare quattro tipi di organizzazione dei repertori linguistici (lo spunto nasce dal
riconoscimento della cattiva applicabilità del concetto di diglossia al rapporto fra italiano e dialetti,
situazione diversa rispetto alle comunità classicamente diglottiche, cioè in cui A è assente dall’uso
parlato quotidiano): bilinguismo sociale o comunitario; diglossia; dilalia; bidialettismo (o
polidialettismo, o dialettia sociale). Per analizzarli, Berruto propone una lista di fattori che combinati
tra loro determinano le quattro categorie (vedi tabella 31 – p. 206):
1) coesistenza di due lingue diverse;
2) sensibile diversità fra la varietà (o codice) A e la varietà (o codice) B;
3) uso di entrambi i codici nella comunicazione ordinaria;
4) chiara differenziazione funzionale fra i due codici (che determina il loro carattere A e B);
5) sovrapposizione di domini fra i due codici;
6) standardizzazione della varietà (o codice) B;
7) varietà (o codice) B socialmente marcato e/o stratificato;
8) esistenza di un continuum di sottovarietà fra A e B;
9) alto prestigio della varietà (o codice) A;
10) presenza di entrambe le varietà nella socializzazione primaria;
11) possibilità di promozione della varietà (o codice) B a codice A alternativo;
12) frequenza della commutazione di codice e di enunciazione mistilingue;
13) presenza di una tradizione di impiego letterario della varietà (o codice) B.
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1. bilinguismo sociale o comunitario corrisponde alla situazione in cui due lingue chiaramente
diverse ed entrambe elaborate (due lingue di cultura) sono paritetiche, ovvero compresenti presso
la comunità sociale ed entrambe vengono usate, o possono venir usate senza subordinazione sia
negli impieghi scritti formali che nella conversazione informale e i cui domini sono dunque in
sovrapposizione. Esempi tipici: la comunità parlante di Montrèal (Canada), con bilinguismo sociale
francese-inglese; la Valle d’Aosta, con bilinguismo sociale italiano-francese. Il bilinguismo è il più
netto e facile da distinguere ripetto agli altri 3 tipi basati su distribuzione gerarchica dei codici.
2. diglossia prevede due codici compresenti che possono essere sia varietà chiaramente
divergenti e autonome che lingue diverse. Esempio è la Svizzera tedesca (specializzazione varietà
A per lo scritto e B per il parlato) e italiano/dialetti nell’800 (italiano/lingua colta e dialetti/lingua
parlata).
3. dilalia si differenzia dalla diglossia perché il codice A è usato, almeno da una parte della
comunità, anche nel parlato conversazionale usuale, e perché vi sono impieghi e domini in cui è
normale usare le varietà A e B alternativamente o congiuntamente. Tale situazione è tipica della
maggior parte dell’area italo-romanza.
CASO ITALIANO (escluse Roma e Toscana): compresenza tra italiano e dialetto che, nonostante siano
varietà imparentate hanno una differenza strutturale sensibile e sono entrambe impiegate nel parlato
quotidiano; svolgono funzioni diverse (alte/basse); condividono situazioni di sovrapposizione
funzionale; il dialetto è poco standardizzato, è socialmente marcato e stratificato; esiste un continuum
di sottovarietà tra italiano e dialetto; l’italiano ha alto prestigio; entrambe sono usate nella
socializzazione primaria; esiste la possibilità di promuovere il dialetto a codice alto; è frequente
l’alternanza nell’uso nel parlato quotidiano; i dialetti hanno anche una tradizione e uso letterari.
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È importante anche distinguere tra:
- bilinguismo monocomunitario: la (quasi) totalità dei parlanti dell’entità presa in considerazione
(Stato, regione, ecc.) è bilingue e costituisce una comunità unica (es: Alsazia con francese e
tedesco);
- bilinguismo bicomunitario: pochi parlanti sono bilingui e la comunità è divisa in due sotto-
comunità tendenzialmente separate, ciascuna con l’uso quasi esclusivo di una delle due lingue al
suo interno (es: Alto Adige).
Lo schema 32 (p.213) mostra quattro modi diversi di sovrapposizione e giustapposizione di
collettività di lingua diversa, X e Y, in una data entità territoriale.
È possibile anche una distinzione tra il bilinguismo endogeno (o endocomunitario), quando la
compresenza di lingue fa parte del retaggio tradizionale della comunità; e il bilinguismo esogeno
(o esocomunitario), quando nuovi contatti e immigrazioni (relativamente) recenti portano “da fuori”
lingue nella comunità indigena. Il contatto di lingue che si ha nel bilinguismo provoca una vasta
serie di fenomeni, tutti interessanti dal punto di vista sociolinguistico (rapporti tra lingue, politica e
potere, conflitti, sostituzioni, influssi).
Un’attenzione particolare va data all’alternanza (scelta, selezione) di diverse lingue di un repertorio
plurilingue nell’uso quotidiano nelle diverse situazioni comunicative e la commutazione di codice
(code switching) che avviene nello stesso evento comunicativo: è normale che lingue diverse in una
comunità lìplutilingue siano usate a seconda dei diversi domini. Nel parlante una delle due lingue
però è sempre dominante (che si riflette nel maggior dominio). La distribuzione delle lingue nei
diversi domini dà luogo alla configurazione di dominanza.
L’esame delle configurazioni di dominanza consente di diagnosticare lo stato della situazione di
bilinguismo: mutamenti nella distribuzione delle lingue nei diversi domini sono sintomaticci
dell’instaurarsi di un processo di sostituzione di lingua in cui una lingua soppianta l’altra in una serie
sempre maggiore di usi. Alcuni domini, come la scuola, sono cruciali per mantenere le lingue
sfavorite da tali processi di dominanza.
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Gumperz propone un inventario di funzioni della commutazione, notando come il passaggio da una
varietà linguistica all’altra possa coincidere con, e quindi segnalare:
a) citazione (il parlante riporta un discorso diretto nella lingua in cui questo è stato prodotto);
b) specificazione del destinatario (cambio di codice a seconda della persona a cui ci si rivolge);
c) interiezione (esclamazione o riempitivo del discorso);
d) ripetizione (il parlante ripete il messaggio o una parte nell’altra lingua, per chiarire o per enfasi);
e) qualificazione del messaggio (è prodotto nell’altra lingua un segmento che qualifica o specifica o
commenta quanto detto in una lingua);
f) personalizzazione vs. oggettivazione (i passaggi commutati determinano coinvolgimento o
distanziamento del parlante rispetto a quanto detto o ai gruppi/valori sociali di riferimento)
Ma esistono altri valori comunicativi e altre circostanze pragmatiche – potenzialmente infinite – della
commutazione di codice. Per es. Pizzolotto lo analizza negli immigrati italiani in Svizzera tedesca e
trova queste funzioni nel passaggio tra le due lingue: riempire lacune lessicali; scopo ludico;
sfruttamento di potenziali evocativi della propria lingua rispetto alla LS; enfasi alla propria identità
culturale.
Dal punto di vista sociologico, la commutazione di codice può essere anche considerata un mezzo
per superare i conflitti fra le due entità culturali connesse alle due lingue, in quanto tali
comportamenti permetterebbero di non scegliere e di regolare continuativamente la negoziazione
dello sviluppo dell’interazione.
Dal punto di vista socio-antropologico, è stato poi sviluppato, per spiegare la ricorrenza del code-
switching, il modello delle “arene sociali” secondo cui grosso modo ogni varietà linguistica o codice
in una comunità plurilingue è legato ad una certa configurazione di rapporti sociali caratterizzati da
distanze diverse fra i partecipanti all’interazione e fra questi e le cose di cui si parla (una certa arena
sociale o sfera sociale). Quando arene sociali diverse vengono a sovrapporsi, si ha il code-
switching. Nell’esempio precedente, il frequente code-switching dei giovani italiani in Svizzera
tedesca rappresenterebbe il continuo passaggio da un’arena sociale italiana a una svizzera,
consacrando magari la formazione di un’arena italo-svizzera, riflettendo/creando una nuova sfera
identitaria.
In una visuale socio-interazionale, Scotton ha elaborato un modello di scelta marcata e non
marcata, secondo cui l’occorrenza di code-switching è non marcata quando segnala che il parlante
in quella relazione interpersonale si attiene alle norme prevalenti e alla rispettiva allocazione di diritti
e doveri socio-comunicativi, mentre è marcata quando il parlante intende attivare un’allocazione
diversa da quella che ci si aspetta da quel genere di situazione.
Non sempre il passaggio da una lingua all’altra o l’uso del discorso mistilingue sembra recare
significato, avere una qualche funzione. Si deve qui distinguere tra commutazione di codice vera e
propria (code-switching) e enunciazione mistilingue (code-mixing). Il code-mixing è quando il
passaggio avviene all’interno di un singolo atto linguistico e una singola frase, e consiste nella
formulazione di uno o più costituenti della frase in una lingua diversa da quella in cui la frase è stata
iniziata. Il risultato sarà una frase i cui costituenti appartengono a diversi sistemi linguistici. Tale
passaggio pare dovuto semplicemente all’equiparabilità funzionale dei 2 diversi codici e la
combinabilità sintattico-grammaticale che permette il passaggio (nei punti in cui la struttura lineare
delle frasi nelle due lingue si rispecchia).
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Altri autori hanno formulato varie ipotesi di restrizione sulla commutazione di codice in termini di
government: sarebbero barriere al code-switching che sarebbe possibile solo tra elementi non in
relazione di governo, in base ad una “lingua base” che stabilisce le restrizioni sintattiche operanti.
Scotton propone un modello di struttura grammaticale del code-switching in cui è questa “lingua
matrice”, istaurata per fattori sociali e socio-psicologici, a determinare la morfosintassi del discorso
commutato → cornice sintattica da riempire con materiale morfologico e lessicale in base a 3
principi:
1. il principio dell’ordine dei morfemi (che deve seguire quello della lingua matrice);
2. il principio dei morfemi sistematici, che devono appartenere alla lingua matrice;
3. filtro che blocca i morfemi incongruenti della lingua innestata
C’è sempre in queste teorie, il problema tra pretese teoriche generalizzanti (deduttiviste) e
dipendenza dalle descrizioni empiriche (induttiviste).
Poplack e Sankoff-Poplack propongono una distinzione tra smooth switching (la normale
commutazione fluente, sottoposta a restrizioni sintattiche) e il flagged switching (o commutazione
segnalata, che non sottostà ad alcuna restrizione, potendo avvenire in qualsiasi punto del discorso,
segnalata da pause, esitazioni, cambi di tono, commenti metalinguistici, ecc, e assolvendo funzioni
pragmatiche diverse dal normale).
In ogni caso, il code-switching in senso lato ammette grande sitanza tipologica e strutturale tra i
sistemi linguistici, mentre la “restrizione di equivalenza di struttura” renderebbe frequente il code-
switching nel caso di lingue imparentate o vicine.
Un tema è costituito dal problema dell’organizzazione della competenza linguistica e comunicativa
del parlante che mescola le lingue e del rapporto fra le rispettive grammatiche, creando lingue
apparentemente “ibride”, soprattutto dal punto di vista lessicale, ma che implicano l’uso di
grammatiche parzialmente sovrapposte e interagenti mediante dispositivi-filtro. La fenomenologia
del code-switching è una delle più complesse e delicate tra quelle che si pongono all’attenzione del
linguista. Molti suoi aspetti esigono, per essere chiariti, abbondante ricerca ulteriore.
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